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leggi in pdf - Cultura Commestibile
[email protected] [email protected]
www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile
direttore
simone siliani
redazione
gianni biagi, sara chiarello, aldo
frangioni, rosaclelia ganzerli,
michele morrocchi, barbara setti
progetto grafico
emiliano bacci
Con la cultura
non si mangia
5
N° 10
editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze
Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012
Nous
sommes
Charlie
10
gennaio
2015
pag. 2
Simone Siliani
[email protected]
di
A
ll’indomani del massacro
fondamentalista a Parigi,
nella sede del settimanale
satirico “Charlie Hebdo”, abbiamo incontrato Izzedin Elzir, imam
della comunità islamica di Firenze
e presidente dell’Ucoi, l’Unione
delle Comunità Islamiche d’Italia.
Un tuo commento sulla strage di
Parigi e sulle conseguenze che essa
potrà avere.
Prima di tutto vorrei esprimere la
mia assoluta condanna, senza se e
senza ma, questo atto criminale.
Dobbiamo essere tutti uniti: non
possiamo parlare di “Islam moderato” contro un “Islam cattivo”.
Noi siamo cittadini italiani, noi
siamo cittadini europei: dobbiamo
essere tutti quanti insieme, perché
siamo sulla stessa barca. L’obiettivo di questi terroristi è di creare
barriere fra di noi: così raggiungerebbero il loro obiettivo. Loro
hanno diversi obiettivi: creare la
paura fra noi, la psicosi. Ma io
credo che per superare questo
difficile momento dobbiamo stare
uniti e non seguire le parole di
qualche politico irresponsabile che
sta cercando di sfruttare questa
situazione per prendersi un po’ di
voti. Ma io penso che la popolazione europea sia più intelligente
di questi politici. Mi sono arrivati
tantissimi messaggi di solidarietà
con la comunità islamica: non
dobbiamo dimenticare che la
maggior parte delle vittime di
questi terroristi sono appunto
musulmani. La prima vittima di
questo terrorismo è l’Islam stesso
Uccidere in nome di Dio o uccidere
inneggiando a Dio: contrariamente
a quanto si va dicendo e scrivendo,
questa è per il Corano una enorme
bestemmia che pone gli autori
della strage di Parigi fuori dal vero
Islam. Infatti la Sura V del Corano,
Al-Mâ’ida (La Tavola Imbandita),
al versetto 32 afferma: Per questo
abbiamo prescritto ai Figli di Israele
che chiunque uccida un uomo, che
non abbia ucciso a sua volta o che
non abbia sparso la corruzione sulla
terra, sarà come se avesse ucciso
l’umanità intera. E chi ne abbia
salvato uno, sarà come se avesse
salvato tutta l’umanità. I Nostri
Messaggeri sono venuti a loro con le
prove! Eppure molti di loro commisero eccessi sulla terra.. E’ corretta
“Uccidere in nome
di Dio è una bestemmia”
questa interpretazione?
Proprio questo versetto della Tavolata dice in modo molto chiaro
che chi uccide una persona è come
se avesse ucciso tutta l’umanità
Tra l’altro, se andiamo a leggere
la Bibbia, il Vecchio Testamento, troviamo lo stesso concetto.
Perché siamo un’unica famiglia
umana. Non si può uccidere in
nessun modo in nome di Dio.
Anzi, è una bestemmia. Certamente, purtroppo ci sono persone
che danno una interpretazione errata del Corano che non combacia
con il pensiero dell’Islam, in senso
opposto. Basta leggere l’inizio di
ogni capitolo del Corano che è
sempre “Dio infinitamente misericordioso”. Questo è il messaggio
dell’Islam. Se qualcuno utilizza
la religione per un messaggio di
violenza, dobbiamo rifiutarla
nettamente.
Possiamo dire che è un destino storico di tutte le religioni monoteiste,
avere un contenuto “pacifista” ma
di avere una storia che invece segna
tante contraddizioni.
Questo mi porta a dire che
dobbiamo fare attenzione: non
attribuiamo all’Islam, all’Ebraismo, al Cristianesimo o a
qualsiasi pensiero cose che non
appartengono a loro. Parliamo di
“noi uomini, noi donne” (ma in
questo caso possiamo parlare in
particolare di maschi): dobbiamo
assumere le nostre responsabilità;
dire chiaramente che se facciamo
uno sbaglio, compiamo un crimine, siamo noi responsabili, non la
nostra religione o la nostra filosofia. In simili casi usiamo la nostra
religione o la nostra filosofia per
fare ciò che interessa a noi.
Il genio dell’Islam è stato quello
delle grandi mediazioni tra culture
separate fra loro: l’India, l’Iran, la
Grecia, l’Egitto e più di recente fra
l’Europa, l’Asia e l’Africa. Questo
ha permesso all’Islam di assorbire e
dilatarsi venendo a contatto con le
diverse culture e cambiando e contagiando quelle stesse culture. Oggi vi
è una parte dell’Islam che predica il
ritorno alla purezza, a rinchiudersi
in se stesso. Come si può contrastare
questa tendenza e tornare al genio
originario dell’Islam?
Uno dei problemi che affrontano
tutti gli uomini e donne che si
affidano ad una fede religiosa è
quello di non conoscere bene la
Bobo
loro fede religiosa. Talvolta ci si
chiama musulmani come una
etichetta. Stessa cosa vale per i
Cristiani e per gli Ebrei. Lo stesso
Stato di Israele non è uno Stato
religioso, anzi è nato come uno
Stato laico; il sionismo è un movimento laico, non certo religioso;
ma sfrutta la religione. Perciò
realmente l’Islam in pochi anni
si è espanso, arrivando ovunque,
e non con la spada: ha condiviso
con le popolazioni la loro cultura
e le loro usanze. Noi, oggi, diciamo che questo è possibile. Quelli
che cercano questa falsa purezza,
purtroppo è anche il risultato di
una realtà politica, sociale, economica, religiosa che si è fondata
sulla mancanza della libertà. Non
dobbiamo dimenticare che nei
Cavezzali
paesi dell’Islam negli ultimi 100
anni non c’è stato uno spazio di
libertà e quando manca la libertà,
c’è l’estremismo. La ricerca della
purezza assoluta può essere pericolosa: Hitler ricercava la purezza
razziale e questi cercano la purezza
della dottrina. Quando si persegue
la purezza dottrinaria, l’altro, il diverso diventa il nemico. Invece se
si comprendono gli obiettivi della
religione (vivere in pace, mantenere la salute psico-fisica e della
società), il resto è complementare.
Invece, talvolta si fa diventare la
religione un simbolismo esasperato. Nell’Islam non ci sono simboli,
bensì ideali che devo cercare di
vivere e che non hanno bisogno di
essere difesi dall’esterno.
L’Islam condivide con le grandi
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Charlie
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religioni monoteiste del Libro non
solo lo stesso Dio, ma anche alcuni
principi di fondo che, peraltro, anticipano di diversi secoli alcuni valori
della modernità. Penso al principio
di uguaglianza di tutti gli uomini.
Dice lo Hadīth: “tutti gli uomini
sono uguali come i denti del pettine
di un tessitore, nessuna differenza
fra il bianco e il nero, tra l’arabo e
il non-arabo, se non quella del loro
grado di timor di Dio”.
Infatti chi non vuole aprirsi al
confronto e al dialogo, chi non
vuole usare il dono dell’intelletto,
è certamente contro la modernità.
Ma la religione di per sé è modernità. Se noi guardiamo ai momenti bui della storia dell’Islam,
questi coincidono con quando
i musulmani non hanno voluto
capire che l’Islam è modernismo:
hanno dichiarato che per loro era
sufficiente quello che era scritto
nel Corano, quello che ha detto
il Profeta e che non era necessario
andare oltre. Nonostante che lo
stesso Profeta Mohammed avesse
detto che all’inizio di ogni secolo,
verrà una persona o un gruppo
a “rinnovare” la vostra fede e,
attorno ad essa, anche il modo di
vivere e di stare insieme. Quando
le religioni si aprono alla modernità, fanno il bene proprio e quello
dell’umanità. Se una religione segue effettivamente la fede, questo
è un bene non solo per lei, ma per
tutta l’umanità. Papa Francesco,
infatti, è una benedizione non
solo per i cristiani, ma per tutta
l’umanità.
Viene colpita una delle più sacre
libertà che derivano dalla Rivoluzione Francese e dall’Illuminismo:
la libertà di pensiero e di stampa.
Anche nella forma, per certi aspetti,
più estrema della satira che tocca
anche il fondamentalismo religioso.
Qual è l’atteggiamento dell’Islam
verso questa forma di espressione del
libero pensiero occidentale e in generale verso i valori democratici insiti
in questa tradizione politica?
Basta ricorrere al Corano, in
particolare per quelli che aspirano
alla purezza: Dio ha dialogato
con Satana, ha chiesto a Satana
di sottomettersi a Adamo e lui ha
rifiutato. Ma Dio ha dialogato con
lui. Poi Satana ha chiesto a Dio
del tempo per tentare di dimostrare a Dio che questo uomo,
questo Adamo non era una buona
Intervista a Izzedin Elzir
presidente dell’Ucoi
persona, e Dio ha dato a lui la
possibilità di farlo. Oggi, la libertà
è la base della modernità e dello
sviluppo. Accanto a questa libertà
– e so che è un discorso difficile in
questo momento – c’è la responsabilità: noi dobbiamo avere come
obiettivo la coesione sociale. E’
facile, talvolta, offendere qualcuno: se questo qualcuno è saggio,
supera tranquillamente l’offesa
con la dialettica; ma purtroppo vi
sono persone meno sagge e allora
si crea la divisione, la discordia.
E allora, dobbiamo essere saggi e
responsabili. Non è per la satira
che dico questo, ma in generale.
Dobbiamo essere costruttori di
pace. Che non è facile, perché si
tratta di creare un equilibrio fra la
libertà di pensiero e di espressione
e il senso della responsabilità. Lo
stesso Charlie Hebdo nel 2008
pubblicò una vignetta di un disegnatore contro lo Stato di Israele
e fu conseguentemente licenziato. E allora, attenzione a questo
equilibrio. Il mondo islamico non
sta dormendo; è in continua ebollizione. L’Italia, la Francia sono
piccoli paesi, ma tutto quello che
succede qui è purtroppo seguito
con attenzione da questi gruppi
fondamentalisti ovunque nel
mondo. Nel mondo ci sono 1,7
miliardi di musulmani e fra questi
vi sono piccoli gruppi di estremisti
disposti a compiere atti criminali:
quindi dobbiamo avere il senso
di responsabilità di non diventare
ostaggi di questo estremismo.
Come si combatte questo estremismo?
Dialogando, aprendoci l’uno con
l’altro. Nel dialogo cominciamo
ad apprezzare le diversità. Non
più il nemico, ma una diversità che crea una nuova cultura,
che diventa ricchezza. Questo
non può avvenire da un giorno
all’altro, ma dobbiamo costruirla
insieme. Nell’era della globalizzazione non possiamo permetterci il
lusso di fare da soli. I musulmani,
in Andalusia 1400 anni fa, hanno
potuto costruire una grande civiltà quando hanno collaborato con
gli altri: c’era il medico ebreo, lo
scienziato cristiano, il musulmano
che governava, tutti insieme. Oggi
abbiamo bisogno di aggiungere
un nuovo mattone alla nostra
civiltà, ma dobbiamo farlo tutti
insieme.
Della Bella
Contemori
riunione
di
famiglia
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Le Sorelle Marx
Non poteva iniziare meglio di così
il 2015 per il nostro eroe senza
macchia e senza paura: Eugenio
Giani conquista la sua settima
(o ottava) carica diventando
presidente della Consulta per la
toponomastica delle opere pubbliche toscane. C’è voluta nientepopodimenoche una legge, ma al fine
ce l’ha fatta! A chi altri se non a
colui che ha fatto della toponomastica una ragione di vita e la chiave della scalata politica, poteva
toccare questa prestigiosa carica?
Si ricordano ancora le mitiche
gesta del Giani assessore alla toponomastica di Firenze: s’inventava
piazze e strade, slarghi e canti pur
di assegnare nomi e topoi ad ogni
piè sospinto. E la prima impresa
da presidente della Consulta per
la toponomastica regionale sarà
il nuovo nome della superstrada
Fi-Pi-Li, che così “avrà finalmente
un nome all’altezza della storia e
del ruolo della Toscana”. “Vespucci”? No, troppo fiorentino. “Galilei”? Troppo pisano. “Medicea”?
Troppo colonialista verso Pisa e
Livorno. “Renziana”? Sarebbe sì
all’altezza, ma forse si noterebbe
un po’ la captatio benevolentiae.
Lodevole superstrada
“Allegri”? In odio a pisani e fiorentini. “Bocelli”? Pisano e famoso
nel mondo, ma per una strada
non proprio indicato. “Vinciana”?
Non originale, ma contenterebbe
gli empolesi. “Leopolda”? Moder-
na, ma sarebbe spesso invasa da
fan esaltati del premier. Impresa
ardua, ma niente è impossibile
per Super-Eugenio! E dopo aver
messo d’accordo pisani, livornesi
e fiorentini, Super-Eugenio sarà
probabilmente insignito della
presidenza dell’Agenzia per la toponomastica delle Nazioni Unite
con il compito di intitolare strade
a Gaza ad eroi sionisti e a Be’er
Sheva ad esponenti dell’OLP.
I Cugini Engels
La Stilista di Lenin
Il bando
e la rivoluzione
Cammello a capodanno,
cammello tutto l’anno
La rivoluzione, così sobriamente,
la definisce il Ministro della cultura Franceschini. Un cambiamento epocale nella gestione dei
musei, così ce l’hanno annunciata per mesi. Poi giovedì è uscito
il famoso e atteso bando per i
direttori dei principali musei
italiani che, pensate un po’, verrà
persino tradotto in inglese e pubblicato sull’Economist. Dunque
vediamoli questi provvedimenti
rivoluzionari, questi germogli di
renzismo per parafrasare Lenin.
Intanto chi può accedere alle
selezioni. Più o meno qualche
milione di individui. Bisogna
avere una laurea, e vabbé, esperienza professionale in qualunque ambito lavorativo a livello
dirigenziale per 5 anni o “essere
in possesso di una particolare
specializzazione professionale,
culturale e scientifica desumibile
dalla formazione universitaria
Essendo lui di origine partenopea, pensavo che il Sindaco
Nardella conoscesse la regola
che le cose brutte si buttano allo
scoccare della mezzanotte e non
si indossano la mattina del primo
gennaio. Perché, diciamocelo, la
giacca color marroncino cammello sfoggiata al concerto di
capodanno della scuola musicale
di Fiesole bella non era. In più
questo tentativo che qualche consulente gli ha imposto di uscire
dal look da funzionario triste
attraverso un abbigliamento
casual elegante, proprio non funziona. Tolti gli occhiali, sparito
il pizzetto, indossati maglioncini
pari collo o giacche sportive, il
Nardella non riesce però ad esser
trendy come colui che ha sostituito, Matteo Renzi, rigenerato
nel look e nel vestiario dai tempi
della Provincia. Si vede che non
è il suo, non so se gli manca il
e post universitaria, da pubblicazioni scientifiche e da concrete
esperienze lavorative maturate,
per almeno un quinquennio,
anche presso amministrazioni
pubbliche in Italia o all’estero”
oppure, infine, essere docenti
universitari. Come si può capire
una platea talmente ampia e con
qualificazioni talmente nebulose
da permettere una discrezionalità amplissima nella selezione
dei candidati. Parliamo poi della
commissione, 5 membri di chiara fama, scelti con decreto dal
Ministro. Questi 5 luogotenenti
ministeriali decideranno quindi
sulla base dei curricola presentati
e, attenzione attenzione, sulla
base della lettera d’intenti che i
candidati allegheranno alla domanda. Insomma per dirla come
la direbbe un inglese che legge
l’Economist cooptation is the new
revolution.
quorum come disse Berlusconi
di Alfano, di sicuro gli manca lo
standing. In questo forse cambiare consulenti potrebbe aiutare, si
scelga qualcuno che gli consigli
di essere quello che è magari con
un vestiario al passo coi tempi e
che, soprattutto, non gli dica di
ridere sempre ogni volta che c’è
un obiettivo fotografico. Plauso
speciale invece al tacco vertiginoso sfoggiato dall’onorevole Bonafé
sempre al succitato concerto, due
spilli da 12 centimetri, nessun
plateau, e uno stile di camminata da far impallidire la Moretti.
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Da macello a università
di John
S
Stammer
ervivano alloggi per i nuovi
studenti universitari che
avevano iniziato a iscriversi,
sempre più numerosi, ai corsi
dell’Istituto Italiano di Scienze
Umane (SUM) costituito nel
2002 a Firenze. Il SUM è una
scuola superiore universitaria
formata da una rete di università
italiane, fra le quali quella di Firenze, la Federico II di Napoli e
La Sapienza di Roma, e dal 2013
è entrato a far parte della Scuola
Normale Superiore di Pisa.
Ma non era facile reperire gli
spazi per la costruzione e soprattutto le risorse per cofinanziare
l’opera. La legge che finanziava le
residenze universitarie prevedeva
infatti che una quota parte del
costo fosse assunto dalla stessa
amministrazione universitaria.
Ma un accordo con il Comune
di Firenze risolse la situazione.
Il Comune avrebbe messo a disposizione in comodato gratuito
alcuni spazi nell’area degli ex macelli in viale Corsica e con questo
piccolo “tesoretto” l’Università
avrebbe potuto fare la domanda
per il finanziamento. Il percorso procedurale, molto lungo e
complesso, iniziò nei primi mesi
del 2004 con l’atto di comodato ma solo a luglio del 2009 il
progetto definitivo dell’opera fu
presentato per le approvazioni
necessarie, avendo nel frattempo
ottenuto i finanziamenti. L’opera
è stata completata nell’ottobre
del 2014, dopo oltre 10 anni da
quel primo piccolo passo.
Il progetto, redatto da Alberto
Breschi, riprende i temi, già
utilizzati dallo stesso progettista,
per la costruzione della limitrofa
scuola Ottone Rosai. Breschi si
muove con facilità negli ampi
spazi delle ex stalle dei macelli
ottocenteschi. E lo fa non solo
con la consueta discrezione e sobrietà, ma anche con alcuni gesti
importanti, come la costruzione
del solaio di copertura dell’ingresso che consente di reperire
al primo piano uno spazio di
grande suggestione che ospita la
sala di lettura e di conversazione
dello studentato. La tipologia degli alloggi è un duplex a ballatoio
dove al piano terra sono sistema-
ti gli spazi giorno, compreso il
bagno, e nel primo piano, aperto
sullo spazio giorno, trovano
sistemazione i letti e gli armadi,
nonchè due piccole scrivanie. Gli
alloggi sono ricavati nella parte
delle stalle che erano adibite alla
sosta dei bovini (difatti sono
state lasciate in vista le mangiatoie, a ricordo visivo della storia
del manufatto), e si “sporgono”
nella parte centrale del corridoio
delle stalle, formando un gioco
di pieni e vuoti che già i due progettisti avevano “inventato” per
le aule della scuola. Lo spazio che
rimane costituisce una grande
“strada interna” che distribuisce
così l’accesso agli alloggi e agli
spazi comuni. L’intervento ha
dotato la città di 24 alloggi di
circa 50 mq ciascuno, ognuno
con due posti letti, per un totale
di 48 posti letto, di cui 3 per
disabili. La struttura è dotata di
uno spazio per la palestra e di
ampi spazi comuni, oltre che
di una sala per la cottura e il
riscaldamento dei cibi, che funge
anche da spazio per la consumazione dei pasti.
Il progetto ha mantenuto integre
le strutture portanti del vecchio
complesso realizzato fra il 1892,
anno in cui l’ing Francesco
Capei presentava il progetto per
le stalle - costituite da quattro
edifici identici da un punto di
vista strutturale, anche se di
dimensioni diverse - “capaci di
contenere 750 buoi e 100 vitelle
lattanti”, e il 1907 anno in cui
furono terminati i lavori. La
struttura dell’edificio oggetto
dell’intervento (il più grande)
è costituita da 15 suddivisioni
realizzate attraverso la iterazione
delle strutture portanti con archi
a tutto sesto poggianti su pilastri
in muratura,con interasse di
metri 5,45, che suddividono lo
spazio interno in sedici moduli.
Dodici di questi sono utilizzati
per la realizzazione degli alloggi
(due per ogni modulo, situati
sui lati opposti della “strada
centrale”) mentre gli altri quattro
sono destinati all’ingresso e agli
spazi comuni. In questo modo la
struttura originaria dell’edificio
rimane completamente leggibile anche dopo l’intervento,
contribuendo a garantire una
efficace caratterizzazione formale
all’intervento stesso, che tende
a valorizzare i grandi archi in
laterizio come elemento di
riconoscibilità architettonica del
complesso residenziale.
Un intervento che sarebbe
facilmente ripetibile negli edifici
adiacenti, oggi ancora inutilizzati, contribuendo così a dotare la
città di ulteriori nuovi alloggi per
gli studenti.
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Laura Monaldi
[email protected]
di
– come energia vitale che continuamente si trasforma e mette
in luce l’elemento emozionale
dell’esecuzione. La tela diviene
quindi il luogo dell’evento e
della creazione, il luogo in cui
il colore e la forma trovano una
nuova espressione e il soggetto
rappresentato attua un transito
referenziale dalla realtà al quadro,
rivitalizzandosi e riscoprendo per
sé un valore temporale illimitato.
La prassi artistica di Massimo
Barzagli non è mai fine a se stessa, ma si qualifica come una vera
e propria ricerca sperimentale e
interdisciplinare, tesa a contaminare concettualmente e concretamente la pittura con ogni forma
possibile di espressione, generando uno scarto fra l’immagine, la
temporalità e la percezione. Allo
stesso modo le performances,
le impronte fotografiche e le
installazioni mettono in tensione
lo spazio rappresentato, ponendo
l’accento sul rapporto fisico che
l’Arte e l’artista devono avere nei
confronti di una realtà sfuggente
da rappresentare e interpretare con i linguaggi dell’estetica
contemporanea, nella consapevolezza che nel modo di formare
si cela il più alto valore artistico.
Un modo inedito di concepire
le categorie della percezione e di
donare allo spettatore la traccia
muta, invisibile e irreale di un’alterità che si perde nel ricordo
e nello spazio del Tempo e del
Visibile.
L
’Arte nasce nell’istante in
cui il fare estetico dà vita a
un modo formante, intenzionale e prevalente, il cui fine
è la creazione di un’espressione
oggettuale e dinamica, tesa ad
acquisire un carattere determinato e distinto, all’interno di
quell’universalità specifica che la
concerne. Un’unicità armoniosa
attraverso la quale l’opera d’arte
appare come un organismo
vivente, dotato di una propria
specificazione e un’insopprimibile autonomia: una totalità
inedita che racchiude in sé la
perfezione delle leggi di coerenza
e dell’adeguazione reciproca fra
le parti ed il tutto.
Nell’opera di Massimo Barzagli
si assiste all’esaltazione dell’alterità e della simulazione, grazie
a una personalissima e inedita
modalità estetica che permette ai
segni e al linguaggio artistico di
relazionarsi vicendevolmente e di
dar luogo a una visione, privata
del proprio referente, che vive di
vita propria. L’impatto pittorico
dell’impronta riscopre l’anatomia delle cose, che da oggetti
fruiti divengono soggetti fruibili,
mediante una riduzione artistica
che rivoluziona il Sistema della
rappresentazione e permette il
cambiamento di prospettiva,
generando forme sempre nuove e
vertendo nell’analisi di più punti
di vista. Grazie all’impronta,
concepita come forma totalizzante, l’artista condivide con
il pubblico le tautologie della
percezione e le infinite possibilità degli approcci al visibile: un
modo di interrogare il reale, in
quanto condizione d’esistenza
estetica che si muove verso aperture in continua evoluzione e
sempre diverse da sé, poiché nel
modo formante dell’impronta
si racchiudono tutti i linguaggi – dal disegno alla struttura
pittorica, dal movimento al gesto
Dall’alto
Fiorile, 1995
Olio su tela
cm 160x140;
Birdwatching, 1996
Olio su tela – trittico
cm. 235x855;
La casa assente, 2001
Olio su tela emulsionata
cm 200x195,5
Tutte Courtesy Collezione
Carlo Palli, Prato
L’esaltazione
dell’alterità
Massimo
Barzagli
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pag. 7
Paolo Marini
[email protected]
di
M
ario Sironi (1885-1961)
mi pare un esempio non
comune di artista – ancora, ed anzi di più, oggi - non
a partire da ciò che ha fatto ma
anzitutto dall’uomo che (desumo) è stato, pieno di pulsione
creativa e di sofferenza (evidentemente le due cose spesso vanno a braccetto), un ‘credente’
che non ha mollato la propria
fede nei momenti difficili.
Fino al prossimo 8 febbraio
il Complesso del Vittoriano
ospita una mostra delle opere
di questo artista ‘romano’, nel
senso di fascistissimo, che pure
non dovette mai confondere
le ragioni dell’arte con quelle
dell’ideologia, l’espressione
artistica con la propaganda;
forse per questo, non sempre,
non necessariamente la sua
arte suscitò gli apprezzamenti
dei potenti di turno. Questo è/
sarebbe un primo grande merito, di cui non tutti gli artisti
possono fregiarsi, soprattutto
(ma non solo) quando la loro
vicenda artistica ed esistenziale
si lega ad un regime perlomeno
autoritario. Dunque un’adesione profonda, forse perché
vissuta con l’anima dell’artista
più che con passione politica, al
punto che la fine del fascismo
dovette coincidere con il crollo
di un mondo, con la perdita
della fiducia nella capacità stessa
dell’uomo di plasmare il proprio destino. E, probabilmente,
una scelta limpida e degna di
rispetto (peraltro mai avendo
approvato le leggi razziali), se
è vero che meritò la considerazione del partigiano Gianni
Rodari, che gli salvò la vita una
volta che fu catturato. In più il
suo mai rinnegato ideale negli
anni del dopo-guerra gli costò
una dolorosa solitudine, perché
tutto ha un prezzo, soprattutto
per chi decide di non cambiare
le carte in tavola.
C’è un secondo ed anche più
ampio merito, che ha a che
fare con quel suo essere magister artium – come scrive
Elena Pontiggia, curatrice della
mostra – artista a tutto tondo
e cioè pittore, sì, ma anche
scultore, architetto, decoratore, scenografo, come forse un
uomo di altri tempi. Vorrei
inoltre considerare che l’esperienza artistica di Sironi ha po-
Mario Sironi
al Vittoriano
tuto spaziare e crescere tra varie
scuole e sensibilità. Da giovane
si lascia catturare dalla grandezza/bellezza monumentale di
Roma, poi scopre la modernità
di Parigi, quindi le brutture e
l’operosità di Milano, dove si
trasferisce dal 1919. La città
moderna, con i paesaggi urbani,
le architetture degli edifici, sarà
motivo ricorrente nella sua opera. Gli esordi di Sironi frugano
nell’arte classica, una sensibilità,
una predilezione classica (o classicista) attraversano d’altronde
le fasi simbolista, futurista,
espressionista e metafisica della
sua esperienza.
L’autoritratto trasmette una
concezione dolorosa, travagliata dell’esistenza, il volto è
un manifesto della sua arte:
‘leggendolo’ si capisce perché la
leggerezza non è mai, in alcun
modo, cifra/essenza della sua
ispirazione. I personaggi delle
tele sono figure scultoree, dai
contorni forti – talora si potrebbero dire esasperati - parlano di
volumi più che di linee; sono
materia ingombrante ma non
per questo difettano di spirito,
solenni, universali come appaiono nella loro ieraticità, spesso
esprimono una solitudine
che non ha rimedio. Uomini,
protagonisti anonimi e silenziosi che nella fase più matura
dell’arte sironiana diventano
oppressi, votati alla sconfitta un po’ come l’artista – perché,
come spiega efficacemente la
curatrice, la libertà dell’uomo
riguarda le scelte morali “ma
non può nulla contro lo spirito
del tempo”.
Sul numero 100 di Cultura Commestibile avevamo posto un interrogativo
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pag. 8
Cosa è cultura?
Ecco un’altra risposta.
Simone Siliani
“Cosa è cultura?” è stato il titolo
del testo-manifesto che abbiamo
pubblicato sul nostro n°100,
attorno al quale abbiamo voluto
promuovere un dibattito. Non è
un tema da poco. Né limitabile
alle nostre latitudini. Il 26 dicembre scorso Joshua Rothman
si è posto la stessa domanda sul
“New Yorker”, The meaning
of “Culture”. Rothman prende
le mosse dalla dichiarazione di
“cultura” quale parola dell’anno
2014 da parte di Merriam-Webster, il più antico e autorevole
dizionario americano della lingua inglese, che dal 1996 ha un
sito web a libero accesso (www.
merriam-webster.com).
Parola difficili in America, di
cui non sono affatto chiari
i confini. Ma perché è stata
scelta parola dell’anno? Quelli
di Merriam-Webster rispondono
semplicemente che è la parola
che ha avuto il maggior numero
di richieste sul loro dizionario
online. Cosa significa? Che un
gran numero di persone vuole
sapere cosa vuol dire “cultura”?
E perché? In effetti, “cultura”
è parola ambigua (non solo in
America) e spiazzante. “Cultura”
in America ha avuto per diverso
tempo un significato polemico,
in opposizione a “Civilization”.
Questo termine indica un sistema omogeneo, efficiente e razionale di norme concepite per
promuovere il “progresso”. “Cultura” era l’opposto: espressione
delle imprevedibili potenzialità
umane per il proprio interesse.
Beh, oggi in America si una un
po’ meno “Civilization” (forse
per la minore tensione ideologica che caratterizza questi anni)
e un po’ di più “Cultura”. Ma
non per questo il tema è meno
controverso. Il fatto è che oggi,
in America, il termine “cultura”
ha assunto un’accezione negativa, inquietante ed è per questo,
secondo Rothman, che un
maggior numero di persone ne
ha chiesto il significato sul sito
di Merriam-Webster. Mentre
fino agli anni ‘90 “cultura” era
fonte di orgoglio, oggi assume
un aspetto quasi denigratorio.
Merriam-Webster chiarisce che
“Cultura appariva molto sul sito
all’inizio dell’anno scolastico,
ma quest’anno la sua presenza
si è estesa ben oltre il calendario
accademico. Il termine trasmette
un tipo di attenzione accademica a comportamenti sistematici
e ci autorizza ad identificare e
isolare una idea, un tema, o un
gruppo: parliamo di “cultura
della trasparenza” o di “cultura
del consumo”. Cultura può
nelle analisi di un ampio spettro
di tematiche”.
Rothman, opportunamente,
stigmatizza questo uso del termine che può variare da quello
più banale e innocuo (es. “cultura del caffè”) ad altri decisamente più inquietanti. Come la
avere tanto un significato molto
ampio (come “cultura vincente”)
o molto specifico. Quest’anno,
l’uso della parola cultura per
definire idee in questo senso, si è
spostato da un sillabo scolastico
a quello della più ampia conversazione, apparendo sui titoli e
fortuna che ha avuto il termine
“cultura dello stupro”. Coniato
nel 1975 per un omonimo film
documentario e assurto alla cronaca da Ariel Levy in un articolo
sul “New Yorker”, definito come
“un sistema di valori in cui le
donne sono denaro e il sesso
qualcosa che gli uomini prendono da loro”. Ma, commenta
Rothman, la diffusione del termine “cultura dello stupro” non
ha soltanto cambiato la nostra
idea dello stupro; ha cambiato
anche il modo in cui pensiamo
la cultura. Che, in questo caso,
esce evidentemente da una delle
accezioni più diffuse del termine
che è quello di costituire un
processo di individuale arricchimento (l’acculturarsi di cui
scriveva nel 1605 Francis Bacon
in “the culture and manurance of minds”), per avvicinarsi
piuttosto all’altra definizione di
“cultura” come particolare modo
di vita (ancorché abominevole,
in questo caso). Tuttavia, nota
Rothman, quest’anno il nostro
senso della parola “cultura” è
diventato più cupo, sferzante,
scettico; la parola è servita a
pensare a parti della società che
funzionano peggio. Ma questo
significa un allargamento della
cultura sulla parola “cultura”: una crescente confusione
sull’evoluzione del significato
della parola è fatto di grande
interesse. Tanto che Rothman si
chiede, non retoricamente, se ha
ancora un senso usare una sola
parola, “cultura”, per significati così divergenti. Altri (ad
esempio Raymond Williams, lo
scrittore e sociologo britannico,
figura influente della Nuova
Sinistra e autore del famoso
saggio “Cultura e rivoluzione
industriale”, Einaudi, 1968) si
sono interrogati su un sistema
di relazioni fra significato e
significante più stretto in cui un
termine si riferisse alle attività
artistiche e alla vita intellettuale,
un altro alle identità sociali e un
terzo alle norme implicite nei
diversi stili di vita. Ma, non vi
è dubbio che sarebbero termini
più accurati ma meno significativi. Dice Rothman, la parola
“cultura” esprime un desiderio.
“E il desiderio è che un gruppo
di persone possa scoprire, insieme, un buon modo di vivere;
che il loro stile di vita possa
rappresentarli nel loro ambiente,
nelle istituzioni e nelle attività;
e che queste possano aiutare gli
individui a crescere nel proprio
specifico modo. La migliore cultura sarà quella che non metterà
in contrasto questi tre significati”. E’ anche questo il nostro
auspicio e desiderio.
10
gennaio
2015
pag. 9
Annamaria Manetti Piccinini
[email protected]
di
Se vi affrettate, forse fate ancora
in tempo a vedere, a Firenze in
via Foscolo, alla galleria C2, la
mostra di Caroline Le Méhauté
(Toulouse, 1982), “Cose invisibili” (catalogo francese/inglese,
Edizioni Muntaner, Marseille).
Comunque, anche se la mostra
fosse in chiusura, teniamo presente
che la Le Mehauté è una giovane
artista da seguire, sia che esponga
a Bruxelles, dove attualmente vive,
o altrove, perché, nonostante la
giovane età, è un’artista ormai ben
conosciuta.
Sintetizzando la sua personalità,
un critico ha detto del suo lavoro :
“monumental par son ampleur, discret par ses moyens, chic par son
silence”( M. Godfrin-Guidicelli).
Con queste qualità non proprio
italiche, Caroline ha allestito a
Firenze la sua esposizione, con un
numero considerevole di opere,
molte delle quali portano il titolo
di “Négociation”, che tradurrei in
“trattativa”. Trattativa fra materia
morta e materia viva; fra il dentro
e il fuori; lo stabile e l’instabile e il
doppio di ogni cosa. Per esempio,
le spugne, uno dei materiali preferiti dall’artista, è una scelta emblematica. Inerte, di ere geologiche,
l’artista lo impregna di colore, che
viene assorbito: dunque vive. C’è
una trattativa, una mediazione fra
la morte e la vita.
Altro materiale inattivo e immobile, se abbandonato, è la terra.
Ma se agenti esterni cominciano
ad investirla, si muove, respira,
come suggerisce una installazione
della mostra. Così per altre realtà
–ostacolo, come un muro, una
Cose invisibili
barriera nel mezzo di uno spazio
che permette, tuttavia, a ben guardare, di essere superato. Niente
è, in assoluto, impossibile. Sono
confini, impedimenti mentali,
orizzonti troncati, ma l’infinito,
“di là da quello”, permane.
Il cuore di tutto questo, aldilà
dei materiali utilizzati, metallici
o morbidi, addirittura piumosi, è la consapevolezza di non
potere accedere alla realtà nella
sua ipotizzata oggettività : non
esiste questa oggettività della
materia e quindi di ogni cosa. Si
può imbastire una trattativa, una
negotiacion - appunto - fra quello
che noi possiamo comprendere
del mondo e l’universo stesso delle
cose : una parte, un aspetto o il
suo contrario.
Il Dubbio aleggia leggero, unica
divinità - né pessimista né ottimista - negli spazi delle creazioni
della giovane Caroline anche dense
di materiali pesanti, rivestiti di
fibre di cocco sfilcciati, ma spesso
sospesi a un filo o appoggiati con
leggerezza. L’artista non fa affermazioni: chi guarda è interprete e
soggetto. Il titolo stesso della mostra è di difficile resa in italiano,
impossibile con un’unica parola:
l’impronta, il diritto e rovescio di
ogni cosa. Forse, come dice Oscar
Wilde, citato molto a proposito
per questa artista: “Do not look
at things or people.You must only
look in mirrors, for mirrors only
show us masks”.
10
gennaio
2015
pag. 10
Danilo Cecchi
[email protected]
di
M
ichel Du Cille (19562014) nasce a Kingston
in Giamaica, e negli
anni Settanta si trasferisce con
la famiglia negli USA, dove
comincia a lavorare come
fotoreporter. Viene assunto
nel 1981 dal Miami Herald
e si distingue per l’incisività
delle proprie opere. Nel 1985
vince un premio Pulitzer con
un reportage sull’eruzione del
vulcano Nevado del Ruiz in
Colombia, che distrugge nel
settembre di quell’anno la città
di Armero provocando oltre
ventitremila morti, fra cui la
giovanissima fotografa Omayra
Sanchez. Due anni più tardi
Michel vince un secondo Pulitzer con un reportage realizzato
questa volta non lontano dalla
sua città di residenza, in una
comunità di tossicodipendenti di Miami. Dopo questi
riconoscimenti, entra nel 1988
a far parte della redazione del
prestigioso quotidiano Washington Post, secondo per
importanza negli USA solo al
New York Times, e vi lavora
come caposervizio della sezione
fotografica per diventare fotografo a tempo pieno. Per conto
del quotidiano di Washington
copre negli anni Novanta avvenimenti come le guerre civili
in Liberia ed in Sierra Leone,
ma opera anche in Sudan ed in
Afghanistan. Nel 2008 riceve
il suo terzo premio Pulitzer per
un reportage su di un centro
di recupero americano per
veterani di guerra. Abituato
a rappresentare il dolore più
estremo, recandosi in prima
persona nei luoghi colpiti da
calamità naturali, povertà e
conflitti, per dare voce alle popolazioni che in questo clima
di estrema difficoltà riescono
comunque a conservare la propria dignità, Michel decide di
partire per l’Africa occidentale
per un servizio sul virus Ebola,
che da febbraio fino ad oggi
ha già provocato quasi 6.400
morti e quasi diciottomila casi
sospetti, e dove le organizzazioni sanitarie internazionali
sono impegnate per contenere
il contagio, diffuso fra Guinea,
Nigeria, Sierra Leone e Liberia.
In Liberia, a pochi giorni dal
suo arrivo, mentre rientra a
Michel Du Cille
Vita e morte
fotoreporter
di un
piedi da un villaggio, Michel
viene colpito da un infarto e
viene trasportato all’ospedale
più vicino, distante un paio di
ore, dove arriva ormai privo di
vita. La morte, con cui aveva
convissuto fino dai suoi primi
reportage, decide di prendere
con sé l’uomo che la aveva
tante volte effigiata. Rimpianto
da tutti i colleghi, viene ricordato come uno dei migliori
fotoreporter del mondo. “Si
stava dedicando all’Ebola con
dedizione ed era convinto di
voler continuare a indagare su
quest’emergenza nonostante
i rischi, con lo stesso coraggio e la stessa passione che ha
mostrato durante tutta la sua
carriera”. Le sue parole sulla
catastrofe umanitaria che stava
documentando spiegano in
maniera estremamente chiara il
suo pensiero e la sua filosofia di
vita e professionale.
“Nei miei oltre quaranta anni
di carriera come fotogiornalista,
sono stato sempre orgoglioso
di offrire dignità ai soggetti che
fotografo, specialmente quelli
che sono malati o in difficoltà
di fronte a una fotocamera. Il
mio recente lavoro in Liberia è
stata una sfida per me. Il rispetto è una delle ultime ed uniche
cose che il mondo può offrire
ad un persona che è morta o
sta per morire. Ma la fotocamera stessa a volte sembra un
tradimento di quella dignità
che si spera di offrire. Come si
può dare dignità all’immagine
di una donna morta che giace
a terra, ignorata, non coperta
e sola, mentre la gente passa,
o solo guarda da lontano?
Credo tuttavia che il mondo
debba vedere gli effetti orribili
e disumani dell’Ebola. La storia
va raccontata, così noi andiamo
in giro con dolcezza e evitando
intrusioni estreme. Raccontare
Ebola vuol dire essere vicini,
a distanza di scatto, con la
devastazione del virus. Questo
lavoro mi ha portato faccia
a faccia con un altro aspetto
disumanizzante del virus, la
paura. Sapendo che un pericolo
silenzioso si nasconde in una
persona infetta da Ebola, e che
un semplice tocco può farci
ammalare. In Monrovia, dove il
virus passato da due settimane,
la paura è sempre presente. Tra
la gente, come tra i fotografi”
10
gennaio
2015
pag. 11
Alessandro Michelucci
[email protected]
di
L
a musica del messicano
Jorge Reyes (1952-2009)
è lontana anni luce dagli
stereotipi che vengono associati al
suo paese. Insomma, niente a che
vedere con le chitarre, le trombe e
le grida gioiose dei mariachi.
Il suo percorso artistico, frutto
di lunghi studi, è caratterizzato
invece dal costante riferimento
al mondo precolombiano. In
altre parole, a quelle culture che
i conquistadores cercarono di cancellare bruciando i codici scritti
e gli strumenti dei Maya e degli
Aztechi.
Nato a Uruapan nel 1952, il musicista compie gli studi musicali
(flauto) all’Escuela Nacional de
Música della capitale. Successivamente suona in gruppi rock
locali come Chac Mool e Nuevo
México. Nel 1976 comincia a
viaggiare e visita varie parti del
mondo: dalla Germania al Pakistan, dalla Turchia a Sri Lanka.
Durante questi soggiorni impara
a suonare molti strumenti e si
avvicina a tradizioni musicali antichissime. Negli stessi anni sviluppa un forte interesse per la musica
precolombiana. Lo confermano
il suo primo LP da solista, Ek
Tunkul (Opción Sonica, 1985),
e il successivo A la izquierda del
colibri (Exilio, 1986), al quale
collabora l’etnomusicologo messicano Antonio Zepeda.
Quello di Reyes, però, non è
un interesse archeologico, ma il
punto di partenza per costruire
una complessa architettura sonora
dove le culture mesoamericane
si intrecciano con le opportunità
offerte dall’elettronica. A questo
scopo utilizza una grande varietà
di strumenti: conchiglie, didgeridoo, flauti, ocarine, percussioni,
sintetizzatori, vasi di terracotta e
altri ancora.
Nel suo percorso artistico l’artista
collabora con musicisti americani ed europei. Una simbiosi
particolarmente intensa è quella
che lo lega a Steve Roach, statunitense influenzato dall’elettronica
“cosmica” dei Tangerine Dream.
A prima vista i due musicisti
sembrerebbero molto diversi:
le elaborate costruzioni elettroniche di Roach paiono lontanissime
dal
mondo precolombiano di Reyes.
Eppure qualcosa di profondo li
unisce:
Futuro
antico
di
Burchiello 2000
La batracomiomachia
imposte rigide norme sulle
dei dehors fossero
modalità creative? Siamo ormai a
Non è finita. Si continua a non voler
riconoscere l’errore di aver concesso
i dehors in piazza San Giovanni a pochi metri dal Battistero e
dalla Colonna di San Zanobi; a
non ritirare quella concessione ,
palese frutto di superficialità o di
disinformazione. Cosa c’è di male
nel riconoscere un errore? “Errare
humanum est” ma perseverare... Si è
imposto di sostituire le dignitosissime
tende di Gilli, Paszkowsky e delle
Giubbe Rosse, lì da tempo e quasi
storicizzate. Ma che si deve fare per
riportarci ad una ragionevole capacità di giudizio, invocare un giurì
internazionale d’onore per farci dire
ciò che è già assolutamente evidente?
Che cioè l’idea di base, di omologare
le terrazze degli spazi pubblici, visti
i risultati, era e resta oggi ancor più
discutibile? Ma Firenze non è la città dei bravi artigiani? Ve lo immaginate se agli artigiani dell’Oltrarno
livelli surreali di ragionamento e di
conduzione di questo problema: ora,
sembrerebbe, ci aspettano le “sedie e i
tavoli in libertà”! Del resto, il decoro
e la cultura della città non sono certo
materia dell’assessore allo sviluppo
economico, che ha altro profilo e
altre finalità. Siamo immersi in una
delle stagioni esistenziali di maggior
incertezza, della logica imperante
lasciataci dal “pensiero debole” della
postmodernità, ove il populismo
sembra vincere sulla ragione, anche
se già si intravedono gli anticorpi di
un “realismo” oppositivo. Insomma,
il quesito concreto è il seguente:
è valsa la pena di far demolire il
“design” (pacato ed europeo) dei
dehors di piazza della Repubblica
per adeguarli a quelli nuovi standardizzati? Ed ancora: l’operazione
“dehors omogeneizzati” ha un senso?
Coraggio, la batracomiomachia dei
dehors è ancora in corso!
entrambi, seppur in modi diversi,
guardano a un futuro antico
dove le culture indigene giocano
un ruolo centrale.
Nella discografia di Roach trovano infatti spazio lavori realizzati
insieme a David Hudson, virtuoso di didgeridoo (Australia: Sound
of the Earth, Fortuna, 1990), e al
monaco tibetano Thupten Pema
Lama (Prayers to the Protector,
Fortuna, 2000).
Reyes e Roach cominciano a
collaborare formando il trio Suspended Memories col chitarrista
spagnolo Suso Sáiz, che ha realizzato insieme a Reyes in Crónica de
castas (NO-CD Rekords, 1990).
Il trio incide due lavori molto interessanti, Forgotten Gods (Hearts
of Space, 1992) ed Earth Island
(Hearts of Space, 1994).
Poco dopo il trio si scioglie, ma il
legame artistico e umano che unisce Reyes e Roach rimane vivo: i
due si esibiscono insieme in vari
concerti e registrano nuovo materiale. Una parte viene raccolta in
Vine ~ Bark & Spore (Timeroom,
2000).
Musicista curioso e viaggiatore instancabile, Reyes entra in contatto
con Piet Jan Blauw, un pittore-musicista olandese che inventa
nuovi strumenti e li inserisce nelle
proprie installazioni. Da questa
unione nasce Pluma de piedra
(Geometrik, 2002).
La morte improvvisa di Reyes,
avvenuta il 7 febbraio 2009, gli
impedisce di realizzare nuovi
progetti insieme all’amico statunitense. Ma
questo ha conservato del materiale inedito, che pubblica negli
anni successivi. Nel 2013 esce
Live in Tucson 2000 (Timeroom),
registrato dal vivo, mentre l’anno
dopo è la volta di The Ancestor
Circle (Projekt, 2014), ricavato
da nastri che risalgono allo stesso
periodo. Questo è l’ultimo frutto
della collaborazione fra i due
musicisti.
Lontano anni luce dai toni zuccherosi della New Age, il nuovo
CD offre 72 minuti di musica
vera, dove i ritmi tribali di Reyes
e le architetture elettroniche di
Roach si intrecciano e si fecondano magistralmente. Brani lunghi
e articolati come “Memories
Unsuspended” ed “Espacio Escultorico” racchiudono l’essenza di
una comunione umana che trova
nella musica il modo migliore per
esprimersi.
10
gennaio
2015
pag. 12
Francesco Cusa
[email protected]
di
A
doro David Fincher. Uno
dei miei registi preferiti.
Ho amato quasi tutti
i suoi film, e in particolare
“Seven” e Fight Club”. Anche in “Gone Girl” Fincher
non delude, anzi; questa volta
siamo di fronte ad un intreccio
hitchcockiano, con la Amy/
Rosamund Pike nei panni della
donna spietata e fatale. Il tema
del doppio, dell’incantamento
che sconcerta e attrae nella trappola della seduzione il maschio
ricettivo fin dalla notte dei tempi, è il fulcro su cui ruota tutta
la storia, grazie alla complessità
della trama che si dipana lungo
le due ore e mezza. Finalmente
una “femme fatale”, o meglio
una “dark lady” che pare la
sintesi tra Salomé e Lulù; finalmente il tema della schiavitù,
della sottomissione dell’uomo
al potere ancestrale del femminino, alla vulva pulsante di Shakti; finalmente una “vamp” in
aperto contrasto con l’imperante retorica vetero-femminista e
con tutta la paccottiglia isterica
che pare dominare l’informazione attuale di un Occidente alla
disperata ricerca di coordinate.
Fincher punta direttamente il
dito contro la visione stereotipata del sesso “debole” (in realtà
il film è tratto dall’omonimo
libro di Gillian Flynn, che qui
firma anche la sceneggiatura),
Foto Locchi annuncia l’improvvisa scomparsa di Giampaolo
Ghilardi, titolare dell’azienda e
stimato fotoreporter, avvenuta
venerdì 2 gennaio.
Nato a Livorno nel 1941, aveva
dedicato la sua vita alla fotografia
e da oltre trent’anni era a capo
della storica azienda contribuendone attivamente al successo e
alla costituzione del prestigioso
Archivio.
Aveva iniziato la propria attività
di fotografo a metà degli anni
Sessanta, nella sua lunga carriera
aveva avuto l’opportunità di
confrontarsi con le più variegate
esperienze: dal fotogiornalismo
attraverso la lunga collaborazione con l’agenzia ANSA, alla
moda, prestando il suo obiettivo
ai più prestigiosi atelier quali
Gucci, Ferragamo, Hermès, alla
fotografia industriale nella lunga
collaborazione con la Nuova
Un intreccio
hitchcockiano
restituendo valore all’irrazionale
uterino, credibilità alla fredda e
chirurgica crudeltà della donna
vendicativa. Beh, lasciatecelo dire: ce ne eravamo quasi
dimenticati, fatta eccezione per
l’ultimo Polanski de “La Venere
in Pelliccia” (parliamo però di
rivisitazione di un classico). Gli
eventi sono marcati dal costante, oppressivo controllo dei media, con le scatenate faine-conduttrici dei vari talk show
pronte a scagliarsi contro il presunto colpevole - lo sprovveduto
Nick/Ben Affleck,- per farne
brandelli da consegnare in pasto
Addio
Giampaolo
Ghilardi
Pignone, al teatro collaborando per vari anni
con il Teatro Comunale
di Firenze.
a un pubblico passivo e inerte
(pensiamo alla nostra Barbara
D’Urso e moltiplichiamo il
tutto per dieci). Questo coro
mediatico è il centro nevralgico
dell’opera, l’altare celebrativo
dell’Io collettivo che si genuflette alla fascinazione dell’orrore,
che brama il sacrificio d’un
capro espiatorio. Fincher,
memore della lezione impartita con “The Social Network”,
orchestra un thriller anomalo
e spiazzante, analizza l’ossessione borghese del suo eterno
perpetuarsi, la fine dei sogni e
il naufragio dei valori ritualisti-
ci. Amy, che è una sociopatica
prigioniera di un mondo dorato
fantastico e per nulla disposta
a rinunciare alla cornice ideale
di coppia, è la regista meticolosa e spietata di un tranello,
di un ordito concepito per
ristabilire una qualche forma
di ordine, di gerarchia tra reale
e fantastico, o meglio tra Reale
e Ideale. Per dirla con Freud,
è la forma stessa del sogno a
rappresentare il suo contenuto
latente, e dunque è nella stessa
struttura di “Gone Girl” (nel
“corpo dell’opera”) che vanno
collocate le azioni e le schizofrenie di Amy, nel suo universo
olografico privo di tempo e di
spazio, nel suo mondo fatato
di scrittrice fantasy di successo.
Dapprima la sua assenza, poi la
sua presenza: ciò che terrorizza
il maschio è questa immanenza uterina, generatrice di vita
e dispensatrice di morte, nel
silenzio dell’ovvio, nella banale
routine della vita di coppia. Ben
Affleck è il candidato ideale, ed
in questo senso, la scelta di Fincher è perfetta. E’ come vedere
due film contemporaneamente:
la virata a circa metà dell’opera
è da manuale del cinema. Forse
un po’ scadenti i dialoghi (ma
pare che ci sia stata una assoluta
fedeltà al testo, dunque di ciò
semmai imputiamo carenze al
libro). Da vedere assolutamente
per trascorrere un Natale sereno
e gioioso in coppia.
rebus
ispanico
10
gennaio
2015
pag. 13
Valentina Monaca
twitter @valentinamonc
di
Quando ho messo il primo piede
in ufficio, il primo giorno di lavoro
dell’anno, mi si è congelato. Con il
secondo piede mi sono trascinata
fino alla caldaia che, dopo aver
sbuffato e sputacchiato un po’
d’acqua, si è ritirata silenziosamente. Era solo il 2 gennaio e non aveva
voglia di lavorare, è evidente, e non
era la sola. Anch’io allora ho battuto
in ritirata, destinazione bar all’angolo, dove mi vedevo già a passare ore
di deprimente solitudine lavorativa
in una postazione sì precaria, ma
almeno al rifugio dal freddo. E
invece…
Il bar all’angolo alle 9.45 è stranamente pieno di gente, non ci sarà
per caso un black out di caldaie in
tutta la città? Aspetto il mio turno
e nel frattempo, dal portatile, inizio
ad aprire e/o cancellare email, tra
cui quelle natalizie, messaggi di
pace e amore per un anno migliore,
biglietti di auguri in 3d, video di Re
Magi in processione...
Alcuni blog che seguo mi avvisano
via email, qualora non me ne fossi
accorta, che è arrivato l’anno nuovo
e con lui anche il momento di fare
la lista dei buoni propositi.
Una rivista di cultura e società mi
spiega, invece, i 5 buoni motivi
per i quali è importantisismo fare
una lista di buoni propositi a inizio
anno.
Twitter mi consiglia di seguire l’app
XY che mi aiuterà a stilare la lista
Fabrizio Pettinelli
[email protected]
di
Nei giorni dell’occupazione alleata
(dal settembre del 1944 a metà del
1946) Firenze diventò un grande accampamento militare degli
uomini della V armata americana,
alloggiati in un’immensa tendopoli
alle Cascine. In libera uscita i militari tendevano a convergere verso
Piazza Stazione, soprattutto perché
la zona pullulava di “segnorine”.
E’ necessaria, prima di proseguire,
una doverosa premessa. A Firenze
il fenomeno delle segnorine, pur
massicciamente presente, non creò
di per sé particolari problemi, come
in altre città. Caso eclatante fu
quello di Livorno, collegato peraltro
a Firenze perchè il relativo processo
si svolse proprio qui, per legittima
suspicione, nel gennaio 1949.
I fatti, che si svolsero a Livorno
nella notte fra il 3 e il 4 agosto
1947. Da tempo, al seguito delle
truppe d’occupazione, erano calate
Buoni
propositi
dei miei buoni propositi.
Una palestra mi invita a partecipare a una lezione gratis di yoga
vinyasa se fra i miei propositi per
l’anno nuovo c’è quello di “ritrovare
equilibrio ed elasticità nel corpo e
nella mente”.
La mia banca mi comunica che, se
fra i propositi dell’anno nuovo c’è
quello di risparmiare, hanno un
nuovo deposito al 4% che fa al caso
mio. La catena più diffusa di negozi
di prodotti per il dimagrimento
in Spagna mi manda uno sconto
del 30% perché “se ho strafatto a
natale, il mio primo proposito per
l’anno nuovo non può che essere
perdere quei kg di troppo”.
Ma che mania questa dei buoni
propositi! E se quest’anno decidessi
di non propormi nulla? Nessuna
crescita, né arricchimento personale
o professionale, bando al risparmio,
nessuno stiramento muscolare, né
rinunce a fritture e insaccati!
Tra un sospiro e una sbuffata
verso il cameriere - al quale fra i
buoni propositi per l’anno nuovo
suggerirei un corso in accelerazione
dei movimenti degli arti superiori
- riesco finalmente a chiedere un
caffè. Attorno a me intanto sono
tutti chiacchieroni stamattina! E
ci credo! Dopo essersi sorbiti figli,
suoceri e cognati per giorni e giorni,
sono tornati tutti al lavoro/postazione-bar desiderosi di confrontarsi,
confessarsi, lamentarsi...
A destra si parla di look. Lei non ne
può più del suo e ha deciso che il
primo proposito dell’anno è curarsi
di più e poi trovare un compagno
stabile, quindi svuoterà l’armadio
delle cose che non usa da anni e
smetterà di incontrare uomini sui
siti per incontri on-line. L’amica che
davanti a lei sbriciola churros - le
super caloriche frittelle spagnole
di forma tubolare - è decisa invece
a fare, in quest’ordine, un taglio
radicale -cosa che farà mercoledì 8
gennaio quando riaprirà Consuelo,
la fidata parrucchiera argentina - e
a iscriversi a un corso di flamenco
“perché si possono perdere fino a
700 calorie in un’ora”.
Dall’altra parte del bancone, alla
mia sinistra, la cosa si fa più interessante... C’è lui che da almeno 6
anni non tocca un libro “Ah, ma
quest’anno... vita nuova. Domenica,
cos’è il 12? La prima cosa che faccio
appena mi alzo è cominciare Guerra
e Pace...” Le strade dell’inferno, si
sa, sono lastricate di buoni propositi… ma anche di certi mattoncini
di Tolstoj…
I 3 pesi massimi che lo accompagnano, invece, lunedì andranno alla
prima lezione di Padel - una specie
di tennis a 4 che da un paio di anni
almeno è diventato lo sport nazionale per eccellenza - “perché non
c’è niente come stare all’aria aperta,
fare un po’ di movimento, poi una
sigarettina, un vinello alla fine...” Nel frattempo ricevo un paio di
nuove email da qualche ufficio in
cui evidentemente la caldaia sì che
funziona. Tra queste c’è quella di
un’amica che mi chiede se voglio
andare con lei alla presentazione di
un Master in marketing per aziende
high-tech. Ma che me ne frega a
me delle aziende di alta tecnologia?
E a lei che lavora in banca? “È che
quest’anno mi sono ripromessa
di riprendere gli studi e di fare un
Master...”
Mentre in due sorsi finivo il mio
caffè non ho potuto evitare di
formulare anch’io il primo buon
proposito per l’anno nuovo: fare la
lista di tutti quei buoni propositi
che non hanno mai visto la luce e
che probabilmente mai la vedranno.
Eccola: aprire un blog, mai fatto;
imparare il francese, mai fatto;
finire tutta la filmografia di Luis
Buñuel, mai fatto; correre una volta
a settimana al parco del Retiro, mai
fatto. E ancora... salvare in un disco
esterno le foto dei miei viaggi dal
2005 in poi, rifoderare i cuscini
del divano, vendere quella inutile
testata del letto, comprare una
scarpiera nuova, fare il Cammino
di Santiago, imparare la lingua dei
segni... Adesso che ho preso il ritmo
e ho già portato a termine brillantemente il mio primo buon proposito
dell’anno non mi resta altro che
continuare con il piede giusto, e
caldo…
risposto la ragazza indicando con la
mano la schiena verso il fondo - A
calci, e fossero stati soltanto calci...”.
A Firenze il problema, di carattere
sociale, fu quello dei bambini. Subito dopo la guerra, come in tante
città d’Italia, i bambini si inventarono il mestiere di lustrascarpe, gli
sciuscià (shoe-shine) dell’omonimo
film di De Sica. Solo che gli sciuscià
fiorentini, che operavano intorno
alla Stazione di Santa Maria Novella, svolgevano un’attività ben meglio
remunerata di quella “istituzionale”: nella loro cassettina, insieme
alle spazzole e al lucido da scarpe,
tenevano anche un campionario fotografico di segnorine che sottopo-
nevano ai potenziali clienti; l’indirizzo era a pagamento e pare
che un bambino di 12 anni,
con questo sistema, in poco
tempo mettesse insieme 60.000
lire, pari a un anno e mezzo di
stipendio di un impiegato.
In consiglio comunale si parlò
del problema già dal novembre
1944 e Giacomo Devoto, allora
addetto agli Affari Generali nella
prima giunta comunale dopo la
Liberazione, scrisse ai responsabili
delle forze di occupazione, pregandole di interessarsi del problema.
Non risulta che i responsabili delle
forze di occupazione, che avevano
tutto l’interesse a non creare malumori fra i soldati, si preoccupassero
più di tanto del problema, che si
risolse solo con la partenza delle
truppe alleate dopo che, fra l’altro,
il sindaco Pieraccini aveva ricevuto
una delegazione di sciuscià che protestavano per i controlli della Polizia
Municipale.
Piazza della Stazione
Sciuscià
e segnorine
a Livorno decine di segnorine che
concedevano i loro favori ai militari
americani e ostentavano un tenore
di vita incompatibile con la miseria
di gran parte della popolazione.
Quella notte centinaia (!) di livornesi, al grido di “Spogliamole, spogliamole!”, agguantarono una trentina
di segnorine, le denudarono sulla
pubblica via, le depredarono di tutto e, almeno in alcuni casi, ne abusarono sessualmente. La sentenza fu
relativamente mite e furono mirabili
le acrobazie dei cronisti per non
scadere nel triviale; un esempio (da
“La Stampa” del 30.1.1949): “Voi
(chiede il Presidente a una segnorina) siete parte lesa? Oh, tanto - ha
10
gennaio
2015
pag. 14
Cristina Pucci
[email protected]
di
P
onte della Madonna,
viaggetto mini verso il
Sud e verso Matera, tappa
a Latina e Sabaudia per curiosare le architetture fascistissime
del bonificato Agro Pontino.
Latina è una città triste, a nulla
valgono gli edifici, anche belli,
di relativa antica memoria,
si sperdono nel grigio e nella
tristezza cittadina. Amara delusione. Sabaudia invece molto
meglio, anche grazie alla sua
natura circostante, intanto per
arrivarci si costeggia il Parco del
Ciceo da una parte e dall’altra
campi piani e accuditi. La città
è ricca di bellissimi pini marittimi che hanno come lei più di
80 anni, era infatti l’agosto del
1933 quando il Duce, in gran
spolvero di personalià, poneva
la prima pietra. Nella grande e
bella piazza edifici “razionalisti”
fra cui svetta il Palazzo Comunale con la sua altissima torre,
sui muri grandi e verbose lapidi,
una inneggiante la vittoria
nella prima Guerra Mondiale,
a firma Diaz, l’altra che esalta
l’arduo lavoro di bonifica che
strappò alla mortifera e malsana palude migliaia di ettari
coltivabili, opera questa fallita
da Imperatori, Papi e conquistatori, leggi Napoleone. Dietro la
piazza uno splendido giardino
da cui si arriva a una terrazza
sul mare e da dove si vedono le
famose dune, la strada che lo
costeggia ha sempre davanti a
sè il promontorio del Circeo e,
a lato, la macchia mediterranea
e i pini nel cui folto si immaginano ville fantastiche, prima fra
tutti quella che fu di Pasolini e
Moravia. Bertolucci, Bernardo,
racconta di essere stato con il
padre e Moravia a cercare una
casa sulle dune del lungomare di
Sabaudia, ricorda le suggestioni
del luogo e le risate di dileggio
per quelle che sembrarono loro
orribili architetture fasciste.
Nel ‘78, vent’anni dopo cioè,
vi ritornò per girare il suo film
“La luna” e gli apparvero forme
e strutture bellissime. Il gusto si
era liberato dall’impregnazione
negativa del lontano ventennio. Si va a cercare la vecchia
“Ricevitoria postale”, scopriamo
un bell’edificio coloratissimo e veniamo scoperti dalla
responsabile della Biblioteca
Fascistissima
Sabaudia
Comunale che ora vi si trova,
ci invita alla presentazione del
libro che ne racconta il restauro,
ce ne regala una copia e ci fa
entrare. Progettato dall’archi-
tetto Angiolo Mazzoni, è una
bassa costruzione con una parte
piastrellata a tessere di mosaico
blu, colore di Casa Savoia, con
ampi finestroni in due ordini, il
primo in realtà non ha vetri, ma
retine antizanzara... malgrado
la bonifica la zanzara, forse non
più anofele, era ancora di casa!
Le finestre sono profilate in
marmo rosso di Siena, l’intonaco che contorna è di color
giallo “canarino”. Un insieme
molto chic al quale l’ampio
scalone sul retro, sempre in
marmo rosso e rifinito in rame,
conferisce una certa imponenza.
Dentro si visiona un delizioso
terrazzino attiguo alla stanza che
fu dei telegrammi, una enorme
cassaforte con una possente
porta, tipo Banca vecchio western, appese ovunque stampe
e disegni dell’epoca, fra cui
una collezione di copertine di
una rivista, foto dei Savoia, Re
e Regina di allora, principi e
principini vari e, udite udite,
una testa in marmo del “capoccione”, Mussolini in persona,
non consueta davvero da trovare, come se il tempo si fosse
fermato. La signora si dice mai
fascista, ma grata a colui per la
costruzione delle città dell’agro
e per Sabaudia in ispecie, la
vecchia ricevitoria postale è ora
un centro culturale oltre che
biblioteca e cerca di promuovere
conoscenza e turismo. Si va e si
attraversano stradine periferiche
che si intitolano al Fringuello,
all’Usignolo, alle Capinere,
al Cardellino, arrivare poi a
Salerno, la prossima puntata, un
viaggio nel buio e nelle curve,
per chilometri e chilometri!
10
gennaio
2015
pag. 15
Matteo Rimi
[email protected]
di
O
norare il passaggio al
nuovo anno è una convenzione alla quale è difficile
sfuggire. Lusinga il cambiamento
di numero sul calendario e suggerisce una flebile speranza che
tutto questo possa essere un qualche nuovo inizio, prima che essa
si infranga pochi giorni dopo con
il ritorno alla vecchia routine. Ma
non di solo raziocinio siamo fatti
e la possibilità di poter coltivare
piccoli sogni del genere traina la
nostra tartassata umanità ancora
un po’ più in là. Del resto, pure
la poesia si nutre di questo.
Perciò anch’io non mi sottraggo
all’illusione e pongo a pochi
giorni dopo l’inizio di un 2015
nuovo di zecca il primo passo
dell’evoluzione annunciata su
queste pagine mesi fa. Lo faccio
però rievocando da un mio
relativamente lontano passato
una figura per me fondamentale:
come a dire che il nuovo corso lo
voglio iniziare con vecchi amici,
perché tutto è ciclico ed i numeri
restano sul calendario.
L’amico in questione è Antonio
Bertoli, conosciuto quando
entrai per raccogliere materiale
per la mia tesi nella ormai mitica
City Lights Italia, il ponte che
egli, conoscitore ed appassionato
di poesia e letteratura d’oltreoceano, eresse tra Firenze e S. Francisco. Ed era come ritrovarsi in
un luogo dove persi ormai erano
i confini geografici e storici.
Chiusa con mio sommo spaesamento quell’esperienza, Antonio
si è potuto dedicare a poesia ed
arte ed alla loro interazione con
la società, la conoscenza, la psicologia del profondo e la guarigione. Lavora da più di vent’anni
con Alejandro Jodorowsky ed ha
collaborato con Lawrence Ferlighetti (entrambi a me presentati
a Genova nel 2002 durante la
profetica Rivoluzione poetica),
Arrabal, Ed Sanders, Baudrillard,
Dumas e vari esponenti della
cultura, della psicogenealogia
e dell’arte. Lo riscopro esperto
anche di nuova medicina, che
Antonio ha fuso con la psicoanalisi transgenerazionale all’insegna
di quella che ha chiamato “Psico-bio-genealogia”, organizzatore
di stages intensivi sia in Italia che
all’estero ed insegnante a Roma
(IPOD – Istituto di Psicoplay
a Orientamento Dinamico) e a
Torino (Centro Tomatis).
Lo trovo autore di tre libri In
nome del padre e della madre
editi da Macro Edizioni dove ha
cercato di spiegarci le Vere origini
del male: è a partire dalla rete di
intrecci, relazioni e influenze che
collegano un individuo alla sua
famiglia, alla società in cui nasce
e alla cultura di cui fa parte e,
infine, alla specie biologica cui
appartiene, che spesso hanno
inizio i disagi di tante persone.
Questa trama, ci spiega, va portata a livello di coscienza per uscire
dal circolo vizioso del malessere
e per educare l’inconscio affinché
non torni a ripetere e radicalizzare ciò che ha imparato nel corso
delle generazioni precedenti e
della sua stessa biografia. Questo
è l’obiettivo della Psico-Bio-Genealogia che fonde, all’interno di
un percorso organico, la Psicogenealogia e la Nuova Medicina
di R.G.Hamer, partendo dalla
convinzione che proprio l’albero
genealogico e la tipizzazione
degli archetipi primari maschile
e femminile costituiscano la base
di nevrosi, ossessioni e di molte
malattie. In sostanza, prosegue,
tutti ereditiamo un’impronta
psichica, una vera e propria
prigione, ed è da qui che nascono
quei contrasti che si traducono
in disagio. L’approccio terapeutico della Psico-Bio-Genealogia,
conclude, parte proprio dalla
presa di coscienza del conflitto
e, contemporaneamente, dalla
necessità di far emergere l’origine
vera, profonda e genealogica del
disagio.
Antonio Bertoli è quindi la figura
perfetta per inaugurare lo stato
indiano della poesia, il prossimo
venerdì 16 gennaio presso il Ristorante India a Fiesole: il punto
di partenza dal quale iniziare
l’imprevedibile viaggio che dalla
poesia ci porterà ad esplorare le
ombre intorno e dentro di noi,
sicuri che proprio con essa potremo accendere una seppur labile
fiammella.
Questa la innescheremo insieme, altre si illumineranno per
tutta Fiesole sperando di rendere
un po’ meno oscuro il nostro
cammino.
La S.V. è invitata alla presentazione del fascicolo
“In
rete”
della rivista
l’area di Broca
Sabato 10 gennaio 2015, ore 17
Biblioteca delle Oblate, Sala Conferenze – piano terra
Via dell’Oriuolo, 26, Firenze
Intervengono:
Massimo Acciai, Silvia Batisti, Mariella Bettarini,
Michele Brancale, Maria Grazia Cabras, Tommaso Cecconi,
Graziano Dei, Arnaldo Di Ienno, Alessandro Franci,
Gabriella Maleti, Maria Pia Moschini, Roberto Mosi,
Paolo Pettinari, Aldo Roda, Luciano Valentini
A world
of CuCo
10
gennaio
2015
pag. 16
Caterina Liccioli
[email protected]
di
L
uoghi comuni e verità.
Cioè a dire: dietro ad un
luogo comune c’è sempre
una verità, perché è a partire
dai fatti che si generano modi
di dire, proverbi, cose risapute.
Per esempio mia nonna, quando
dall’alto dei suoi quasi 95 anni
lascia cadere qualcosa in terra,
si rassicura dicendo: “più giù
di lì, ‘un va”. Oppure, davanti
alla forma ironica con cui le
racconto vita vissuta, mi punta
gli occhi addosso con un ”guarda, che Arlecchino si confessò
burlando: a me non le contare
le bugie”. Saggezza familiare a
parte, tutti sappiamo che gli
uomini italiani sono mammoni,
i tedeschi portano i sandali coi
calzini, i brasiliani sono campioni di calcio dalla nascita e gli
argentini ballano il tango. Una
mezza verità, quest’ultima. Se
una cosa è certa della società
argentina, è che tutto ruota
intorno al mate. Che, come la
gran parte delle “cose buone” del
sud America, non è un’importazione coloniale ma un’eredità
delle popolazioni native. Era
il sedicesimo secolo quando i
soldati spagnoli, aggirandosi per
gli insediamenti gesuiti nell’attuale stato di Paranà (Brasile),
videro gli indigeni consumare
questa bevanda a base di erba
Mate in acqua fredda, separando
le foglie con le labbra superiori.
Nostalgici del tè, posero le foglie
essiccate e sminuzzate in acqua
calda, inserirono la bombilla
(cannuccia) nella zucca vuota
che adibirono a contenitore ed
ecco che nasceva il mate. In seguito i mandriani andini, conosciuti come i Gauchos argentini
e gli Huasos cileni, abbracciarono l’uso di questa infusione
per scaldare animo e corpo nei
giorni di duro lavoro all’aria
aperta. Dall’epoca della conquista, quando si pensava che
con l’argento estratto dal Potosí
era possibile costruire un ponte
tra le due coste dell’Atlantico,
fino ad oggi, il mate invece di
estinguersi, si è affermato come
rito quotidiano in gran parte del
Sud America, dall’interno del
Paese fino alle città principali,
dove la tradizionale zucca fornita
di bombilla convive e contrasta
con gli schermi piatti dei computer: la si vede negli uffici come
Tutti matti per il mate:
l’arte della condivisione
nelle case della gente, a prescindere dal momento del giorno e
dalla formalità della situazione.
Con la cannuccia si consuma
tutta l’infusione contenuta nella
zucca che si restituisce all’incaricato della mescita, il quale
provvede a ricaricarla per offrirla
a qualcun altro della compagnia;
così il mate genera un filo invisibile di socialità, non tanto per il
sapore amarognolo della bevanda
ma per il gesto antico di offrire
e ricevere, cinetica implicita
nei rapporti affettivi ma anche
emblema di semplice benvenuto.
La dinamica di questo rituale ha
anche un altro merito: il versare
acqua molto calda in contenitori scoperti implica una certa
calma dell’azione, freno obbligatorio che smorza la frenesia
e la tensione tipiche dei nostri
tempi. E l’interruzione è sempre
benvenuta: in quasi due anni di
permanenza in Argentina non
ho mai visto nessuno rinunciare
ad un mate per correre a fare
qualcos’altro. In più, il mate
”fa bene”. Aiuta a contrastare il
malessere generato dalle grandi
altitudini, ha proprietà drenanti,
è un’eccitante naturale e smorza
la fame ed il mal di testa. Ora
Con questo testo di Caterina Liccioli
iniziamo una rubrica di corrispondenze
dall’estero da parte di vari collaboratori
di Cultura Commestibile in diversi angoli della terra. Si tratta di giovani che
stanno studiando o lavorando all’estero e
che entrano in contatto con le culture di
vari paesi. Abbiamo chiesto loro di scrivere su Cultura Commestibile di questa
loro esperienza di globalizzazione o
anche di ciò che, nelle città dove vivono,
avviene nel panorama culturale.
Cateria Liccioli si trova in Argentina
per perfezionare il suo curriculum di
studi: sta seguendo un dottorato in geologia, in particolare studia la geochimi-
che ne scrivo, sarebbe il toccasana ideale per diluire i piatti pieni
ed i bicchieri colmi che coprono
le tavole di tutto il mondo nel
periodo natalizio. Ma qua in
Australia, dove sono volata per
raggiungere il resto della famiglia
per un’insolita vacanza, il perno
della socialità non è più il mate:
difficile trovarne uno dato il
mosaico culturale che si vede in
giro. Nel dubbio, tra poche ore
alzerò il flute pieno di un delizioso sparkling per brindare, con un
gesto universale, al nuovo anno.
Che vi porti il meglio, ovunque
vi troviate.
ca dei fluidi vulcanici, gas e acque insomma. Il suo lavoro è quello di andare
sui vulcani andini nella stagione estiva
e raccogliere campioni dalle fumarole,
dalle sorgenti calde ed altre manifestazioni del sottosuolo, come geyser e pozze
gorgoglianti, portare tutto in laboratorio e dall’analisi studiare il contesto
geodinamico e lo stato di attività di tali
sistemi. Per questo Caterina ha vissuto
un anno e mezzo ai confini della Pampa
secca, dove inizia la zona pede-andina,
in un piccolo paese, per poi spostarsi
nella capitale da pochi mesi: due mondi
assai diversi, Buenos Aires e la provincia
di Rio Negro.
10
gennaio
2015
pag. 17
Morire per amore
di
Daniele Gardenti
I
n occasione dei 150 anni
dalla prima rappresentazione del Tristano e Isotta,
avvenuta nel 1865 a Monaco,
il coreografo Giorgio Mancini ha creato un balletto sulla
bellissima musica di Wagner
e precisamente il preludio e la
morte di Isotta. L’amore passionale ma impossibile tra i due
giovani viene portato in scena
da Dorothée Gilbert e Mathieu
Ganio, due étoiles dell’Opéra
di Parigi, che esprimono con
grande talento ed espressività passi di danza eleganti e
figure di una unione sensuale e
tenera. Mancini arriva a questo
spettacolo dopo averlo offerto in prove aperte nel cortile
di palazzo Strozzi nell’estate
del 2011, un pas de deux che
nasceva sotto gli occhi di turisti
e passanti, un esperimento
diverso che portava la danza al
livello della gente comune che
poteva apprezzarne da vicino
non solo la bellezza, ma anche
lo stimolante lavoro preparatorio.
La prima al Teatro dell’Opera
di Firenze è stata funestata dal
suono continuo di un allarme
che dava veramente noia e non
si è spento per almeno cinque
interminabili minuti dell’inizio del balletto. Il pubblico ha
rumoreggiato chiedendo l’interruzione della rappresentazione, ma davanti alla diligente
professionalità dei ballerini si è
alfine zittito.
Sulle note del preludio i due
protagonisti si inseguono in
un gioco sensuale in costumi
diafani che farebbero pensare
ad un Tristano ormai morto
evocato dalla tristissima Isotta.
Finito il brano cala un velario
bianco che funge da schermo
e vi si proietta un video dove
appaiono i due personaggi in
una situazione più intima dove
vengono esaltati dettagli del
corpo in tensione e movimento con allusione all’elemento
acqua già presente tramite la
vela posta in fondo alla scena.
È l’acqua del mare che li unisce
sul mare e che doveva portare
Isotta di nuovo tra le braccia di
Tristano, ma lui ferito e avvelenato muore tra le sue braccia.
Il video è realizzato con grande
tecnica e professionalità e
ricorda la perfezione formale
delle pubblicità degli stilisti,
di cui spesso il regista James
Bort si è occupato, e sospende l’attenzione dalla vicenda
e la arricchisce di dettagli
del movimento che tende ad
esaltare i corpi in tensione dei
giovani ballerini. È il momento più sensuale dove i corpi
nudi si sfiorano e si uniscono.
Inoltre l’inserto video spezza la
difficoltà di seguire per un’intera ora un balletto eseguito da
solo due interpreti. Nella parte
finale si assiste alla morte di
Isotta con il cantato Wagneriano riprodotto meccanicamente,
non c’era l’orchestra ad accompagnare questo balletto.
Il Tristano era preceduto da
una ripresta del secondo tempo
della Giselle, il balletto classico per eccellenza, balletto
romantico musicato a Parigi
nel 1841 da Adolphe-Charle
Adam e con la coreografia di
Jean Coralli e Jules Perrot. La
storia, resa in formadrammaturgica da Théophile Gautier
e Saint George, è quella della
popolana Giselle, in epoca
all’incirca medievale, che viene
sedotta da un principe che si
finge popolano. Quando scopre
la verità muore di crepacuore.
Nel secondo atto la storia vira
al fantastico e Giselle è entrata
nel gruppo delle Villi, creature
fantasmatiche della notte che
puniscono gli uomini violenti
facendoli ballare fino allo sfi-
nimento e alla morte. Quando
vedono il principe pentito sulla
tomba della ragazza cercano
di farlo fuori, ma Giselle si
oppone al gruppo e alla regina
delle Villi e riece a salvarlo. Nel
novecento somma interprete
di questo personaggio è stata la
nostra Carla Fracci. In tempo
di crisi Mancini riesce a mettere in scena una coreografia, che
richiederebbe un nutrito corpo
di ballo, usando quello che
il teatro offre e con la buona
idea di usare anche i ballerini
uomini nel ruolo delle Villi. La
creazione di Mancini procede leggera con citazioni dal
balletto originale, per esempio
mettendo in punta la regina
delle Villi e la protagonista.
La scelta tematica della serata
dunque era la morte per amore,
mito romantico e duraturo,
in grado di appassionare pure
l’uomo moderno. L’amore
contrastato sembra esprimere il
massimo grado di drammatica
vitalità. Si pensi a film melodrammatici come gli adattamenti del Romeo e Giulietta
o il celebre Titanic, stupisce
come il tema riesca ancora a
commuovere un pubblico che
sa, come canta Battisti, “che
non si muore per amore”.
10
gennaio
2015
pag. 18
Scottex
Aldo Frangioni presenta
L’arte del riciclo di Paolo della Bella
Guardando l’opera Scottex n°4 , di Paolo della Bella,
“annegata” in un cubo di plexiglas, non ci si può sottrarre di metterla in relazione con una delle sculture più
famose del Futurismo: le “Forme uniche della continuità nello spazio” di Umberto Boccioni. Prendete una
moneta da 20 centesimi di Euro e vedrete, anche voi,
quanto richiamo ci sia fra le due sculture. Ma è in rinvio
apparente perché, mentre le “Forme uniche...vogliono
esaltare il movimento del corpo secondo il linguaggio
futurista, Scottex N° 4 ci dà l’illusione dell’immagine di
un oggetto in corsa, ma immobilizza “in eterno” quel
salto nel blocco gelato di plexiglas come i Mammuth
siberiani che dopo millenni si ritrovano intatti in blocco
di ghiaccio.
4
Scultura
leggera
Ars@labor Il pane del teatro
Sara Chiarello
[email protected]
di
“
Ci siamo abituati a una crisi
che stenta a risolversi. Credo
che noi che ci occupiamo di
teatro dobbiamo porci il problema, e che i giovani debbano
iniziare seriamente a inventarsi
il lavoro. Noi cerchiamo solo di
indicare alcune strade possibili”.
A parlare è Giancarlo Cauteruccio, direttore artistico della
Compagnia Krypton, che, anche
quest’anno, al Teatro Studio di
Scandicci, propone dal 13 gennaio al 30 aprile una stagione forte,
innovativa, varia, panoramica del
meglio del teatro contemporaneo. S’intitola Ars@labor, attualizazione del celebre slogan Pane
e lavoro, riferendosi - ha spiegato
Cauteruccio – “alla misura in cui
per noi l’arte rappresenta il pane,
e ancor più nell’anno dell’Expo
all’insegna del cibo”. In programma 12 allestimenti teatrali e 7
eventi collaterali, che si apriranno
il 13 gennaio con lo spettacolo
Le amanti del Teatrino Giullare
di Bologna. Tratto dal romanzo
di Elfriede Jelinek (premio Nobel
per la letteratura nel 2004), per la
prima volta in versione teatrale,
vede protagonista l’amore con le
sue angosce, al centro di soluzioni sceniche che sorprendono,
come bambole a grandezza umana, paesaggi grotteschi, visioni in
scatole di cartone. L’omaggio a
Napoli della prima nazionale di
Napolisciosciammoca di Giancarlo Cauteruccio andrà invece in
scena dal 30 gennaio al 15 febbraio, “ricorderemo anche Pino
Daniele che ha saputo cantare
la contemporaneità della città
partenopea fatta di sentimenti
e di criticità”. Una Napoli che è
quella dei letterati, raccontata da
Eduardo De Filippo, da Leo De
Berardinis e Antonio Neiweller,
e che va oltre, in una visione
dissonante e reale, in bilico sulla
terra dei fuochi. Tra gli eventi, da
segnalare L’ultimo viaggio, liberamente ispirato all’opera e alla
vita di Enrico Filippini, scrittore,
giornalista e germanista (17 e 18
febbraio); Riccardo III, classico
di Shakespeare condensato in un
monologo, e Alla Luce, partita a
carte tra quattro ciechi, entrambi
di Michele Santeramo (rispettiva-
mente il 13 e 14 marzo e il 20 e
21 marzo). Lo spettacolo 15/45,
tre studi sulle guerre (dal 10 al
18 aprile) è invece un omaggio
alle vicende storiche della prima
e seconda guerra mondiale,
diviso in tre atti, il secondo dei
quali è la storia di Bruno Neri il
calciatore partigiano, asso della
Fiorentina, della Nazionale e del
Torino che decise di prendere il
fucile contro i nazifascisti e morì
sui monti dell’Appennino. Tra gli
eventi speciali l’omaggio ai dieci
anni del Teatro Sotterraneo, che
rappresenteranno il famoso e glorioso Post-it del 2007 e il recente
Be normal! (27 e 28 marzo), e
chiusura con Cappuccetto Osso,
prodotto da Gogmagog e dalla
videomaker e fotografa Marcella
Vanzo, in cui i fratelli Grimm
sposano l’immaginario vivido
dell’artista. “Nonostante tutto, il
teatro. Nonostante le solite regole
e le vecchie beffe. Nonostante
tutto, ricreare l’arte e il lavoro,
con la pazienza e con tutte le
altre virtù che ci appartengono e
che non abbiamo mai sprecato.
Questo è il sipario che si apre nel
2015 al Teatro Studio, e questa
sarà la scena di una società mai
vinta, di una società che recita se
stessa e le sue passioni, capace di
cantarsi e narrarsi, di tacere e pretendere, di vivere”, chiude Cauteruccio. Per ulteriori informazioni
www.teatrostudiokrypton.it.
in
giro
10
gennaio
2015
pag. 19
Inaugurazione della mostra
LA FIRENZE DEL PRIMO NOVECENTO
NELL’OPERA DI GUIDO SPADOLINI
giovedì 15 gennaio 2015 - ore 17,00
Archivio Storico Comunale di Firenze
Via dell’Oriuolo, 33-35
La mostra rimarrà aperta fino al 12 marzo 2015
orario: lunedì e venerdì ore 10-14
martedì, mercoledì e giovedì ore 10-17,30
FONDAZIONE SPADOLINI
NUOVA ANTOLOGIA
FONDAZIONE IL BISONTE
PER LO STUDIO
DELL’ARTE GRAFICA
horror
vacui
Escudo de
Granada,
leoni, torrioni, il re,
la regina, e
una melagrana: i
suoi fiori e
i succulenti
semi vermigli sono l’omaggio ad
Al-Hamrā
(La Rossa),
splendida
fortezza
con le sue
trecento
torri, distesa
voluttuosamente fra
piante di
agrumi e
attraversata
da canali
di acqua
cristallina.
10
gennaio
2015
pag. 20
Disegni di Pam
Testi di Aldo Frangioni
L
immagine
ultima
10
gennaio
2015
pag. 21
Dall’archivio
di Maurizio Berlincioni
[email protected]
E
sterni ed interni! Com’è stridente il contrasto fra queste due immagini. In una cornice assolata e nell’improbabile accostamento tra spazi
vitali, pur se di infima categoria come una roulotte e una tenda, con tutta un’altra serie di masserizie pietosamente coperte per proteggerle
da un sole implacabile, vediamo due chicanos, due capi famiglia che si muovono con l’aria sicura di chi sta controllando la situazione.
Sullo sfondo, immanenti, i tralicci dell’alta tensione, pericolosamente troppo vicini. L’altra immagine, scattata pochi minuti dopo, ci mostra
invece un momento di maggiore intimità, se così vogliamo chiamare la scena che coglie queste due giovani donne all’interno di un spazio reso
quasi surreale dalla presenza di un “comò” decisamente fuori luogo in una situazione di questa natura ma che comunque ci fa subito pensare
a qualche residuo di una certa intimità.
Gilroy, California, 1972
Fly UP