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leggi in pdf - Cultura Commestibile
[email protected] [email protected] www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile direttore simone siliani redazione gianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli, michele morrocchi, barbara setti progetto grafico emiliano bacci Con la cultura non si mangia 5 N° 10 editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012 Nous sommes Charlie 10 gennaio 2015 pag. 2 Simone Siliani [email protected] di A ll’indomani del massacro fondamentalista a Parigi, nella sede del settimanale satirico “Charlie Hebdo”, abbiamo incontrato Izzedin Elzir, imam della comunità islamica di Firenze e presidente dell’Ucoi, l’Unione delle Comunità Islamiche d’Italia. Un tuo commento sulla strage di Parigi e sulle conseguenze che essa potrà avere. Prima di tutto vorrei esprimere la mia assoluta condanna, senza se e senza ma, questo atto criminale. Dobbiamo essere tutti uniti: non possiamo parlare di “Islam moderato” contro un “Islam cattivo”. Noi siamo cittadini italiani, noi siamo cittadini europei: dobbiamo essere tutti quanti insieme, perché siamo sulla stessa barca. L’obiettivo di questi terroristi è di creare barriere fra di noi: così raggiungerebbero il loro obiettivo. Loro hanno diversi obiettivi: creare la paura fra noi, la psicosi. Ma io credo che per superare questo difficile momento dobbiamo stare uniti e non seguire le parole di qualche politico irresponsabile che sta cercando di sfruttare questa situazione per prendersi un po’ di voti. Ma io penso che la popolazione europea sia più intelligente di questi politici. Mi sono arrivati tantissimi messaggi di solidarietà con la comunità islamica: non dobbiamo dimenticare che la maggior parte delle vittime di questi terroristi sono appunto musulmani. La prima vittima di questo terrorismo è l’Islam stesso Uccidere in nome di Dio o uccidere inneggiando a Dio: contrariamente a quanto si va dicendo e scrivendo, questa è per il Corano una enorme bestemmia che pone gli autori della strage di Parigi fuori dal vero Islam. Infatti la Sura V del Corano, Al-Mâ’ida (La Tavola Imbandita), al versetto 32 afferma: Per questo abbiamo prescritto ai Figli di Israele che chiunque uccida un uomo, che non abbia ucciso a sua volta o che non abbia sparso la corruzione sulla terra, sarà come se avesse ucciso l’umanità intera. E chi ne abbia salvato uno, sarà come se avesse salvato tutta l’umanità. I Nostri Messaggeri sono venuti a loro con le prove! Eppure molti di loro commisero eccessi sulla terra.. E’ corretta “Uccidere in nome di Dio è una bestemmia” questa interpretazione? Proprio questo versetto della Tavolata dice in modo molto chiaro che chi uccide una persona è come se avesse ucciso tutta l’umanità Tra l’altro, se andiamo a leggere la Bibbia, il Vecchio Testamento, troviamo lo stesso concetto. Perché siamo un’unica famiglia umana. Non si può uccidere in nessun modo in nome di Dio. Anzi, è una bestemmia. Certamente, purtroppo ci sono persone che danno una interpretazione errata del Corano che non combacia con il pensiero dell’Islam, in senso opposto. Basta leggere l’inizio di ogni capitolo del Corano che è sempre “Dio infinitamente misericordioso”. Questo è il messaggio dell’Islam. Se qualcuno utilizza la religione per un messaggio di violenza, dobbiamo rifiutarla nettamente. Possiamo dire che è un destino storico di tutte le religioni monoteiste, avere un contenuto “pacifista” ma di avere una storia che invece segna tante contraddizioni. Questo mi porta a dire che dobbiamo fare attenzione: non attribuiamo all’Islam, all’Ebraismo, al Cristianesimo o a qualsiasi pensiero cose che non appartengono a loro. Parliamo di “noi uomini, noi donne” (ma in questo caso possiamo parlare in particolare di maschi): dobbiamo assumere le nostre responsabilità; dire chiaramente che se facciamo uno sbaglio, compiamo un crimine, siamo noi responsabili, non la nostra religione o la nostra filosofia. In simili casi usiamo la nostra religione o la nostra filosofia per fare ciò che interessa a noi. Il genio dell’Islam è stato quello delle grandi mediazioni tra culture separate fra loro: l’India, l’Iran, la Grecia, l’Egitto e più di recente fra l’Europa, l’Asia e l’Africa. Questo ha permesso all’Islam di assorbire e dilatarsi venendo a contatto con le diverse culture e cambiando e contagiando quelle stesse culture. Oggi vi è una parte dell’Islam che predica il ritorno alla purezza, a rinchiudersi in se stesso. Come si può contrastare questa tendenza e tornare al genio originario dell’Islam? Uno dei problemi che affrontano tutti gli uomini e donne che si affidano ad una fede religiosa è quello di non conoscere bene la Bobo loro fede religiosa. Talvolta ci si chiama musulmani come una etichetta. Stessa cosa vale per i Cristiani e per gli Ebrei. Lo stesso Stato di Israele non è uno Stato religioso, anzi è nato come uno Stato laico; il sionismo è un movimento laico, non certo religioso; ma sfrutta la religione. Perciò realmente l’Islam in pochi anni si è espanso, arrivando ovunque, e non con la spada: ha condiviso con le popolazioni la loro cultura e le loro usanze. Noi, oggi, diciamo che questo è possibile. Quelli che cercano questa falsa purezza, purtroppo è anche il risultato di una realtà politica, sociale, economica, religiosa che si è fondata sulla mancanza della libertà. Non dobbiamo dimenticare che nei Cavezzali paesi dell’Islam negli ultimi 100 anni non c’è stato uno spazio di libertà e quando manca la libertà, c’è l’estremismo. La ricerca della purezza assoluta può essere pericolosa: Hitler ricercava la purezza razziale e questi cercano la purezza della dottrina. Quando si persegue la purezza dottrinaria, l’altro, il diverso diventa il nemico. Invece se si comprendono gli obiettivi della religione (vivere in pace, mantenere la salute psico-fisica e della società), il resto è complementare. Invece, talvolta si fa diventare la religione un simbolismo esasperato. Nell’Islam non ci sono simboli, bensì ideali che devo cercare di vivere e che non hanno bisogno di essere difesi dall’esterno. L’Islam condivide con le grandi Nous sommes Charlie 10 gennaio 2015 pag. 3 religioni monoteiste del Libro non solo lo stesso Dio, ma anche alcuni principi di fondo che, peraltro, anticipano di diversi secoli alcuni valori della modernità. Penso al principio di uguaglianza di tutti gli uomini. Dice lo Hadīth: “tutti gli uomini sono uguali come i denti del pettine di un tessitore, nessuna differenza fra il bianco e il nero, tra l’arabo e il non-arabo, se non quella del loro grado di timor di Dio”. Infatti chi non vuole aprirsi al confronto e al dialogo, chi non vuole usare il dono dell’intelletto, è certamente contro la modernità. Ma la religione di per sé è modernità. Se noi guardiamo ai momenti bui della storia dell’Islam, questi coincidono con quando i musulmani non hanno voluto capire che l’Islam è modernismo: hanno dichiarato che per loro era sufficiente quello che era scritto nel Corano, quello che ha detto il Profeta e che non era necessario andare oltre. Nonostante che lo stesso Profeta Mohammed avesse detto che all’inizio di ogni secolo, verrà una persona o un gruppo a “rinnovare” la vostra fede e, attorno ad essa, anche il modo di vivere e di stare insieme. Quando le religioni si aprono alla modernità, fanno il bene proprio e quello dell’umanità. Se una religione segue effettivamente la fede, questo è un bene non solo per lei, ma per tutta l’umanità. Papa Francesco, infatti, è una benedizione non solo per i cristiani, ma per tutta l’umanità. Viene colpita una delle più sacre libertà che derivano dalla Rivoluzione Francese e dall’Illuminismo: la libertà di pensiero e di stampa. Anche nella forma, per certi aspetti, più estrema della satira che tocca anche il fondamentalismo religioso. Qual è l’atteggiamento dell’Islam verso questa forma di espressione del libero pensiero occidentale e in generale verso i valori democratici insiti in questa tradizione politica? Basta ricorrere al Corano, in particolare per quelli che aspirano alla purezza: Dio ha dialogato con Satana, ha chiesto a Satana di sottomettersi a Adamo e lui ha rifiutato. Ma Dio ha dialogato con lui. Poi Satana ha chiesto a Dio del tempo per tentare di dimostrare a Dio che questo uomo, questo Adamo non era una buona Intervista a Izzedin Elzir presidente dell’Ucoi persona, e Dio ha dato a lui la possibilità di farlo. Oggi, la libertà è la base della modernità e dello sviluppo. Accanto a questa libertà – e so che è un discorso difficile in questo momento – c’è la responsabilità: noi dobbiamo avere come obiettivo la coesione sociale. E’ facile, talvolta, offendere qualcuno: se questo qualcuno è saggio, supera tranquillamente l’offesa con la dialettica; ma purtroppo vi sono persone meno sagge e allora si crea la divisione, la discordia. E allora, dobbiamo essere saggi e responsabili. Non è per la satira che dico questo, ma in generale. Dobbiamo essere costruttori di pace. Che non è facile, perché si tratta di creare un equilibrio fra la libertà di pensiero e di espressione e il senso della responsabilità. Lo stesso Charlie Hebdo nel 2008 pubblicò una vignetta di un disegnatore contro lo Stato di Israele e fu conseguentemente licenziato. E allora, attenzione a questo equilibrio. Il mondo islamico non sta dormendo; è in continua ebollizione. L’Italia, la Francia sono piccoli paesi, ma tutto quello che succede qui è purtroppo seguito con attenzione da questi gruppi fondamentalisti ovunque nel mondo. Nel mondo ci sono 1,7 miliardi di musulmani e fra questi vi sono piccoli gruppi di estremisti disposti a compiere atti criminali: quindi dobbiamo avere il senso di responsabilità di non diventare ostaggi di questo estremismo. Come si combatte questo estremismo? Dialogando, aprendoci l’uno con l’altro. Nel dialogo cominciamo ad apprezzare le diversità. Non più il nemico, ma una diversità che crea una nuova cultura, che diventa ricchezza. Questo non può avvenire da un giorno all’altro, ma dobbiamo costruirla insieme. Nell’era della globalizzazione non possiamo permetterci il lusso di fare da soli. I musulmani, in Andalusia 1400 anni fa, hanno potuto costruire una grande civiltà quando hanno collaborato con gli altri: c’era il medico ebreo, lo scienziato cristiano, il musulmano che governava, tutti insieme. Oggi abbiamo bisogno di aggiungere un nuovo mattone alla nostra civiltà, ma dobbiamo farlo tutti insieme. Della Bella Contemori riunione di famiglia 10 gennaio 2015 pag. 4 Le Sorelle Marx Non poteva iniziare meglio di così il 2015 per il nostro eroe senza macchia e senza paura: Eugenio Giani conquista la sua settima (o ottava) carica diventando presidente della Consulta per la toponomastica delle opere pubbliche toscane. C’è voluta nientepopodimenoche una legge, ma al fine ce l’ha fatta! A chi altri se non a colui che ha fatto della toponomastica una ragione di vita e la chiave della scalata politica, poteva toccare questa prestigiosa carica? Si ricordano ancora le mitiche gesta del Giani assessore alla toponomastica di Firenze: s’inventava piazze e strade, slarghi e canti pur di assegnare nomi e topoi ad ogni piè sospinto. E la prima impresa da presidente della Consulta per la toponomastica regionale sarà il nuovo nome della superstrada Fi-Pi-Li, che così “avrà finalmente un nome all’altezza della storia e del ruolo della Toscana”. “Vespucci”? No, troppo fiorentino. “Galilei”? Troppo pisano. “Medicea”? Troppo colonialista verso Pisa e Livorno. “Renziana”? Sarebbe sì all’altezza, ma forse si noterebbe un po’ la captatio benevolentiae. Lodevole superstrada “Allegri”? In odio a pisani e fiorentini. “Bocelli”? Pisano e famoso nel mondo, ma per una strada non proprio indicato. “Vinciana”? Non originale, ma contenterebbe gli empolesi. “Leopolda”? Moder- na, ma sarebbe spesso invasa da fan esaltati del premier. Impresa ardua, ma niente è impossibile per Super-Eugenio! E dopo aver messo d’accordo pisani, livornesi e fiorentini, Super-Eugenio sarà probabilmente insignito della presidenza dell’Agenzia per la toponomastica delle Nazioni Unite con il compito di intitolare strade a Gaza ad eroi sionisti e a Be’er Sheva ad esponenti dell’OLP. I Cugini Engels La Stilista di Lenin Il bando e la rivoluzione Cammello a capodanno, cammello tutto l’anno La rivoluzione, così sobriamente, la definisce il Ministro della cultura Franceschini. Un cambiamento epocale nella gestione dei musei, così ce l’hanno annunciata per mesi. Poi giovedì è uscito il famoso e atteso bando per i direttori dei principali musei italiani che, pensate un po’, verrà persino tradotto in inglese e pubblicato sull’Economist. Dunque vediamoli questi provvedimenti rivoluzionari, questi germogli di renzismo per parafrasare Lenin. Intanto chi può accedere alle selezioni. Più o meno qualche milione di individui. Bisogna avere una laurea, e vabbé, esperienza professionale in qualunque ambito lavorativo a livello dirigenziale per 5 anni o “essere in possesso di una particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria Essendo lui di origine partenopea, pensavo che il Sindaco Nardella conoscesse la regola che le cose brutte si buttano allo scoccare della mezzanotte e non si indossano la mattina del primo gennaio. Perché, diciamocelo, la giacca color marroncino cammello sfoggiata al concerto di capodanno della scuola musicale di Fiesole bella non era. In più questo tentativo che qualche consulente gli ha imposto di uscire dal look da funzionario triste attraverso un abbigliamento casual elegante, proprio non funziona. Tolti gli occhiali, sparito il pizzetto, indossati maglioncini pari collo o giacche sportive, il Nardella non riesce però ad esser trendy come colui che ha sostituito, Matteo Renzi, rigenerato nel look e nel vestiario dai tempi della Provincia. Si vede che non è il suo, non so se gli manca il e post universitaria, da pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze lavorative maturate, per almeno un quinquennio, anche presso amministrazioni pubbliche in Italia o all’estero” oppure, infine, essere docenti universitari. Come si può capire una platea talmente ampia e con qualificazioni talmente nebulose da permettere una discrezionalità amplissima nella selezione dei candidati. Parliamo poi della commissione, 5 membri di chiara fama, scelti con decreto dal Ministro. Questi 5 luogotenenti ministeriali decideranno quindi sulla base dei curricola presentati e, attenzione attenzione, sulla base della lettera d’intenti che i candidati allegheranno alla domanda. Insomma per dirla come la direbbe un inglese che legge l’Economist cooptation is the new revolution. quorum come disse Berlusconi di Alfano, di sicuro gli manca lo standing. In questo forse cambiare consulenti potrebbe aiutare, si scelga qualcuno che gli consigli di essere quello che è magari con un vestiario al passo coi tempi e che, soprattutto, non gli dica di ridere sempre ogni volta che c’è un obiettivo fotografico. Plauso speciale invece al tacco vertiginoso sfoggiato dall’onorevole Bonafé sempre al succitato concerto, due spilli da 12 centimetri, nessun plateau, e uno stile di camminata da far impallidire la Moretti. 10 gennaio 2015 pag. 5 Da macello a università di John S Stammer ervivano alloggi per i nuovi studenti universitari che avevano iniziato a iscriversi, sempre più numerosi, ai corsi dell’Istituto Italiano di Scienze Umane (SUM) costituito nel 2002 a Firenze. Il SUM è una scuola superiore universitaria formata da una rete di università italiane, fra le quali quella di Firenze, la Federico II di Napoli e La Sapienza di Roma, e dal 2013 è entrato a far parte della Scuola Normale Superiore di Pisa. Ma non era facile reperire gli spazi per la costruzione e soprattutto le risorse per cofinanziare l’opera. La legge che finanziava le residenze universitarie prevedeva infatti che una quota parte del costo fosse assunto dalla stessa amministrazione universitaria. Ma un accordo con il Comune di Firenze risolse la situazione. Il Comune avrebbe messo a disposizione in comodato gratuito alcuni spazi nell’area degli ex macelli in viale Corsica e con questo piccolo “tesoretto” l’Università avrebbe potuto fare la domanda per il finanziamento. Il percorso procedurale, molto lungo e complesso, iniziò nei primi mesi del 2004 con l’atto di comodato ma solo a luglio del 2009 il progetto definitivo dell’opera fu presentato per le approvazioni necessarie, avendo nel frattempo ottenuto i finanziamenti. L’opera è stata completata nell’ottobre del 2014, dopo oltre 10 anni da quel primo piccolo passo. Il progetto, redatto da Alberto Breschi, riprende i temi, già utilizzati dallo stesso progettista, per la costruzione della limitrofa scuola Ottone Rosai. Breschi si muove con facilità negli ampi spazi delle ex stalle dei macelli ottocenteschi. E lo fa non solo con la consueta discrezione e sobrietà, ma anche con alcuni gesti importanti, come la costruzione del solaio di copertura dell’ingresso che consente di reperire al primo piano uno spazio di grande suggestione che ospita la sala di lettura e di conversazione dello studentato. La tipologia degli alloggi è un duplex a ballatoio dove al piano terra sono sistema- ti gli spazi giorno, compreso il bagno, e nel primo piano, aperto sullo spazio giorno, trovano sistemazione i letti e gli armadi, nonchè due piccole scrivanie. Gli alloggi sono ricavati nella parte delle stalle che erano adibite alla sosta dei bovini (difatti sono state lasciate in vista le mangiatoie, a ricordo visivo della storia del manufatto), e si “sporgono” nella parte centrale del corridoio delle stalle, formando un gioco di pieni e vuoti che già i due progettisti avevano “inventato” per le aule della scuola. Lo spazio che rimane costituisce una grande “strada interna” che distribuisce così l’accesso agli alloggi e agli spazi comuni. L’intervento ha dotato la città di 24 alloggi di circa 50 mq ciascuno, ognuno con due posti letti, per un totale di 48 posti letto, di cui 3 per disabili. La struttura è dotata di uno spazio per la palestra e di ampi spazi comuni, oltre che di una sala per la cottura e il riscaldamento dei cibi, che funge anche da spazio per la consumazione dei pasti. Il progetto ha mantenuto integre le strutture portanti del vecchio complesso realizzato fra il 1892, anno in cui l’ing Francesco Capei presentava il progetto per le stalle - costituite da quattro edifici identici da un punto di vista strutturale, anche se di dimensioni diverse - “capaci di contenere 750 buoi e 100 vitelle lattanti”, e il 1907 anno in cui furono terminati i lavori. La struttura dell’edificio oggetto dell’intervento (il più grande) è costituita da 15 suddivisioni realizzate attraverso la iterazione delle strutture portanti con archi a tutto sesto poggianti su pilastri in muratura,con interasse di metri 5,45, che suddividono lo spazio interno in sedici moduli. Dodici di questi sono utilizzati per la realizzazione degli alloggi (due per ogni modulo, situati sui lati opposti della “strada centrale”) mentre gli altri quattro sono destinati all’ingresso e agli spazi comuni. In questo modo la struttura originaria dell’edificio rimane completamente leggibile anche dopo l’intervento, contribuendo a garantire una efficace caratterizzazione formale all’intervento stesso, che tende a valorizzare i grandi archi in laterizio come elemento di riconoscibilità architettonica del complesso residenziale. Un intervento che sarebbe facilmente ripetibile negli edifici adiacenti, oggi ancora inutilizzati, contribuendo così a dotare la città di ulteriori nuovi alloggi per gli studenti. 10 gennaio 2015 pag. 6 Laura Monaldi [email protected] di – come energia vitale che continuamente si trasforma e mette in luce l’elemento emozionale dell’esecuzione. La tela diviene quindi il luogo dell’evento e della creazione, il luogo in cui il colore e la forma trovano una nuova espressione e il soggetto rappresentato attua un transito referenziale dalla realtà al quadro, rivitalizzandosi e riscoprendo per sé un valore temporale illimitato. La prassi artistica di Massimo Barzagli non è mai fine a se stessa, ma si qualifica come una vera e propria ricerca sperimentale e interdisciplinare, tesa a contaminare concettualmente e concretamente la pittura con ogni forma possibile di espressione, generando uno scarto fra l’immagine, la temporalità e la percezione. Allo stesso modo le performances, le impronte fotografiche e le installazioni mettono in tensione lo spazio rappresentato, ponendo l’accento sul rapporto fisico che l’Arte e l’artista devono avere nei confronti di una realtà sfuggente da rappresentare e interpretare con i linguaggi dell’estetica contemporanea, nella consapevolezza che nel modo di formare si cela il più alto valore artistico. Un modo inedito di concepire le categorie della percezione e di donare allo spettatore la traccia muta, invisibile e irreale di un’alterità che si perde nel ricordo e nello spazio del Tempo e del Visibile. L ’Arte nasce nell’istante in cui il fare estetico dà vita a un modo formante, intenzionale e prevalente, il cui fine è la creazione di un’espressione oggettuale e dinamica, tesa ad acquisire un carattere determinato e distinto, all’interno di quell’universalità specifica che la concerne. Un’unicità armoniosa attraverso la quale l’opera d’arte appare come un organismo vivente, dotato di una propria specificazione e un’insopprimibile autonomia: una totalità inedita che racchiude in sé la perfezione delle leggi di coerenza e dell’adeguazione reciproca fra le parti ed il tutto. Nell’opera di Massimo Barzagli si assiste all’esaltazione dell’alterità e della simulazione, grazie a una personalissima e inedita modalità estetica che permette ai segni e al linguaggio artistico di relazionarsi vicendevolmente e di dar luogo a una visione, privata del proprio referente, che vive di vita propria. L’impatto pittorico dell’impronta riscopre l’anatomia delle cose, che da oggetti fruiti divengono soggetti fruibili, mediante una riduzione artistica che rivoluziona il Sistema della rappresentazione e permette il cambiamento di prospettiva, generando forme sempre nuove e vertendo nell’analisi di più punti di vista. Grazie all’impronta, concepita come forma totalizzante, l’artista condivide con il pubblico le tautologie della percezione e le infinite possibilità degli approcci al visibile: un modo di interrogare il reale, in quanto condizione d’esistenza estetica che si muove verso aperture in continua evoluzione e sempre diverse da sé, poiché nel modo formante dell’impronta si racchiudono tutti i linguaggi – dal disegno alla struttura pittorica, dal movimento al gesto Dall’alto Fiorile, 1995 Olio su tela cm 160x140; Birdwatching, 1996 Olio su tela – trittico cm. 235x855; La casa assente, 2001 Olio su tela emulsionata cm 200x195,5 Tutte Courtesy Collezione Carlo Palli, Prato L’esaltazione dell’alterità Massimo Barzagli 10 gennaio 2015 pag. 7 Paolo Marini [email protected] di M ario Sironi (1885-1961) mi pare un esempio non comune di artista – ancora, ed anzi di più, oggi - non a partire da ciò che ha fatto ma anzitutto dall’uomo che (desumo) è stato, pieno di pulsione creativa e di sofferenza (evidentemente le due cose spesso vanno a braccetto), un ‘credente’ che non ha mollato la propria fede nei momenti difficili. Fino al prossimo 8 febbraio il Complesso del Vittoriano ospita una mostra delle opere di questo artista ‘romano’, nel senso di fascistissimo, che pure non dovette mai confondere le ragioni dell’arte con quelle dell’ideologia, l’espressione artistica con la propaganda; forse per questo, non sempre, non necessariamente la sua arte suscitò gli apprezzamenti dei potenti di turno. Questo è/ sarebbe un primo grande merito, di cui non tutti gli artisti possono fregiarsi, soprattutto (ma non solo) quando la loro vicenda artistica ed esistenziale si lega ad un regime perlomeno autoritario. Dunque un’adesione profonda, forse perché vissuta con l’anima dell’artista più che con passione politica, al punto che la fine del fascismo dovette coincidere con il crollo di un mondo, con la perdita della fiducia nella capacità stessa dell’uomo di plasmare il proprio destino. E, probabilmente, una scelta limpida e degna di rispetto (peraltro mai avendo approvato le leggi razziali), se è vero che meritò la considerazione del partigiano Gianni Rodari, che gli salvò la vita una volta che fu catturato. In più il suo mai rinnegato ideale negli anni del dopo-guerra gli costò una dolorosa solitudine, perché tutto ha un prezzo, soprattutto per chi decide di non cambiare le carte in tavola. C’è un secondo ed anche più ampio merito, che ha a che fare con quel suo essere magister artium – come scrive Elena Pontiggia, curatrice della mostra – artista a tutto tondo e cioè pittore, sì, ma anche scultore, architetto, decoratore, scenografo, come forse un uomo di altri tempi. Vorrei inoltre considerare che l’esperienza artistica di Sironi ha po- Mario Sironi al Vittoriano tuto spaziare e crescere tra varie scuole e sensibilità. Da giovane si lascia catturare dalla grandezza/bellezza monumentale di Roma, poi scopre la modernità di Parigi, quindi le brutture e l’operosità di Milano, dove si trasferisce dal 1919. La città moderna, con i paesaggi urbani, le architetture degli edifici, sarà motivo ricorrente nella sua opera. Gli esordi di Sironi frugano nell’arte classica, una sensibilità, una predilezione classica (o classicista) attraversano d’altronde le fasi simbolista, futurista, espressionista e metafisica della sua esperienza. L’autoritratto trasmette una concezione dolorosa, travagliata dell’esistenza, il volto è un manifesto della sua arte: ‘leggendolo’ si capisce perché la leggerezza non è mai, in alcun modo, cifra/essenza della sua ispirazione. I personaggi delle tele sono figure scultoree, dai contorni forti – talora si potrebbero dire esasperati - parlano di volumi più che di linee; sono materia ingombrante ma non per questo difettano di spirito, solenni, universali come appaiono nella loro ieraticità, spesso esprimono una solitudine che non ha rimedio. Uomini, protagonisti anonimi e silenziosi che nella fase più matura dell’arte sironiana diventano oppressi, votati alla sconfitta un po’ come l’artista – perché, come spiega efficacemente la curatrice, la libertà dell’uomo riguarda le scelte morali “ma non può nulla contro lo spirito del tempo”. Sul numero 100 di Cultura Commestibile avevamo posto un interrogativo 10 gennaio 2015 pag. 8 Cosa è cultura? Ecco un’altra risposta. Simone Siliani “Cosa è cultura?” è stato il titolo del testo-manifesto che abbiamo pubblicato sul nostro n°100, attorno al quale abbiamo voluto promuovere un dibattito. Non è un tema da poco. Né limitabile alle nostre latitudini. Il 26 dicembre scorso Joshua Rothman si è posto la stessa domanda sul “New Yorker”, The meaning of “Culture”. Rothman prende le mosse dalla dichiarazione di “cultura” quale parola dell’anno 2014 da parte di Merriam-Webster, il più antico e autorevole dizionario americano della lingua inglese, che dal 1996 ha un sito web a libero accesso (www. merriam-webster.com). Parola difficili in America, di cui non sono affatto chiari i confini. Ma perché è stata scelta parola dell’anno? Quelli di Merriam-Webster rispondono semplicemente che è la parola che ha avuto il maggior numero di richieste sul loro dizionario online. Cosa significa? Che un gran numero di persone vuole sapere cosa vuol dire “cultura”? E perché? In effetti, “cultura” è parola ambigua (non solo in America) e spiazzante. “Cultura” in America ha avuto per diverso tempo un significato polemico, in opposizione a “Civilization”. Questo termine indica un sistema omogeneo, efficiente e razionale di norme concepite per promuovere il “progresso”. “Cultura” era l’opposto: espressione delle imprevedibili potenzialità umane per il proprio interesse. Beh, oggi in America si una un po’ meno “Civilization” (forse per la minore tensione ideologica che caratterizza questi anni) e un po’ di più “Cultura”. Ma non per questo il tema è meno controverso. Il fatto è che oggi, in America, il termine “cultura” ha assunto un’accezione negativa, inquietante ed è per questo, secondo Rothman, che un maggior numero di persone ne ha chiesto il significato sul sito di Merriam-Webster. Mentre fino agli anni ‘90 “cultura” era fonte di orgoglio, oggi assume un aspetto quasi denigratorio. Merriam-Webster chiarisce che “Cultura appariva molto sul sito all’inizio dell’anno scolastico, ma quest’anno la sua presenza si è estesa ben oltre il calendario accademico. Il termine trasmette un tipo di attenzione accademica a comportamenti sistematici e ci autorizza ad identificare e isolare una idea, un tema, o un gruppo: parliamo di “cultura della trasparenza” o di “cultura del consumo”. Cultura può nelle analisi di un ampio spettro di tematiche”. Rothman, opportunamente, stigmatizza questo uso del termine che può variare da quello più banale e innocuo (es. “cultura del caffè”) ad altri decisamente più inquietanti. Come la avere tanto un significato molto ampio (come “cultura vincente”) o molto specifico. Quest’anno, l’uso della parola cultura per definire idee in questo senso, si è spostato da un sillabo scolastico a quello della più ampia conversazione, apparendo sui titoli e fortuna che ha avuto il termine “cultura dello stupro”. Coniato nel 1975 per un omonimo film documentario e assurto alla cronaca da Ariel Levy in un articolo sul “New Yorker”, definito come “un sistema di valori in cui le donne sono denaro e il sesso qualcosa che gli uomini prendono da loro”. Ma, commenta Rothman, la diffusione del termine “cultura dello stupro” non ha soltanto cambiato la nostra idea dello stupro; ha cambiato anche il modo in cui pensiamo la cultura. Che, in questo caso, esce evidentemente da una delle accezioni più diffuse del termine che è quello di costituire un processo di individuale arricchimento (l’acculturarsi di cui scriveva nel 1605 Francis Bacon in “the culture and manurance of minds”), per avvicinarsi piuttosto all’altra definizione di “cultura” come particolare modo di vita (ancorché abominevole, in questo caso). Tuttavia, nota Rothman, quest’anno il nostro senso della parola “cultura” è diventato più cupo, sferzante, scettico; la parola è servita a pensare a parti della società che funzionano peggio. Ma questo significa un allargamento della cultura sulla parola “cultura”: una crescente confusione sull’evoluzione del significato della parola è fatto di grande interesse. Tanto che Rothman si chiede, non retoricamente, se ha ancora un senso usare una sola parola, “cultura”, per significati così divergenti. Altri (ad esempio Raymond Williams, lo scrittore e sociologo britannico, figura influente della Nuova Sinistra e autore del famoso saggio “Cultura e rivoluzione industriale”, Einaudi, 1968) si sono interrogati su un sistema di relazioni fra significato e significante più stretto in cui un termine si riferisse alle attività artistiche e alla vita intellettuale, un altro alle identità sociali e un terzo alle norme implicite nei diversi stili di vita. Ma, non vi è dubbio che sarebbero termini più accurati ma meno significativi. Dice Rothman, la parola “cultura” esprime un desiderio. “E il desiderio è che un gruppo di persone possa scoprire, insieme, un buon modo di vivere; che il loro stile di vita possa rappresentarli nel loro ambiente, nelle istituzioni e nelle attività; e che queste possano aiutare gli individui a crescere nel proprio specifico modo. La migliore cultura sarà quella che non metterà in contrasto questi tre significati”. E’ anche questo il nostro auspicio e desiderio. 10 gennaio 2015 pag. 9 Annamaria Manetti Piccinini [email protected] di Se vi affrettate, forse fate ancora in tempo a vedere, a Firenze in via Foscolo, alla galleria C2, la mostra di Caroline Le Méhauté (Toulouse, 1982), “Cose invisibili” (catalogo francese/inglese, Edizioni Muntaner, Marseille). Comunque, anche se la mostra fosse in chiusura, teniamo presente che la Le Mehauté è una giovane artista da seguire, sia che esponga a Bruxelles, dove attualmente vive, o altrove, perché, nonostante la giovane età, è un’artista ormai ben conosciuta. Sintetizzando la sua personalità, un critico ha detto del suo lavoro : “monumental par son ampleur, discret par ses moyens, chic par son silence”( M. Godfrin-Guidicelli). Con queste qualità non proprio italiche, Caroline ha allestito a Firenze la sua esposizione, con un numero considerevole di opere, molte delle quali portano il titolo di “Négociation”, che tradurrei in “trattativa”. Trattativa fra materia morta e materia viva; fra il dentro e il fuori; lo stabile e l’instabile e il doppio di ogni cosa. Per esempio, le spugne, uno dei materiali preferiti dall’artista, è una scelta emblematica. Inerte, di ere geologiche, l’artista lo impregna di colore, che viene assorbito: dunque vive. C’è una trattativa, una mediazione fra la morte e la vita. Altro materiale inattivo e immobile, se abbandonato, è la terra. Ma se agenti esterni cominciano ad investirla, si muove, respira, come suggerisce una installazione della mostra. Così per altre realtà –ostacolo, come un muro, una Cose invisibili barriera nel mezzo di uno spazio che permette, tuttavia, a ben guardare, di essere superato. Niente è, in assoluto, impossibile. Sono confini, impedimenti mentali, orizzonti troncati, ma l’infinito, “di là da quello”, permane. Il cuore di tutto questo, aldilà dei materiali utilizzati, metallici o morbidi, addirittura piumosi, è la consapevolezza di non potere accedere alla realtà nella sua ipotizzata oggettività : non esiste questa oggettività della materia e quindi di ogni cosa. Si può imbastire una trattativa, una negotiacion - appunto - fra quello che noi possiamo comprendere del mondo e l’universo stesso delle cose : una parte, un aspetto o il suo contrario. Il Dubbio aleggia leggero, unica divinità - né pessimista né ottimista - negli spazi delle creazioni della giovane Caroline anche dense di materiali pesanti, rivestiti di fibre di cocco sfilcciati, ma spesso sospesi a un filo o appoggiati con leggerezza. L’artista non fa affermazioni: chi guarda è interprete e soggetto. Il titolo stesso della mostra è di difficile resa in italiano, impossibile con un’unica parola: l’impronta, il diritto e rovescio di ogni cosa. Forse, come dice Oscar Wilde, citato molto a proposito per questa artista: “Do not look at things or people.You must only look in mirrors, for mirrors only show us masks”. 10 gennaio 2015 pag. 10 Danilo Cecchi [email protected] di M ichel Du Cille (19562014) nasce a Kingston in Giamaica, e negli anni Settanta si trasferisce con la famiglia negli USA, dove comincia a lavorare come fotoreporter. Viene assunto nel 1981 dal Miami Herald e si distingue per l’incisività delle proprie opere. Nel 1985 vince un premio Pulitzer con un reportage sull’eruzione del vulcano Nevado del Ruiz in Colombia, che distrugge nel settembre di quell’anno la città di Armero provocando oltre ventitremila morti, fra cui la giovanissima fotografa Omayra Sanchez. Due anni più tardi Michel vince un secondo Pulitzer con un reportage realizzato questa volta non lontano dalla sua città di residenza, in una comunità di tossicodipendenti di Miami. Dopo questi riconoscimenti, entra nel 1988 a far parte della redazione del prestigioso quotidiano Washington Post, secondo per importanza negli USA solo al New York Times, e vi lavora come caposervizio della sezione fotografica per diventare fotografo a tempo pieno. Per conto del quotidiano di Washington copre negli anni Novanta avvenimenti come le guerre civili in Liberia ed in Sierra Leone, ma opera anche in Sudan ed in Afghanistan. Nel 2008 riceve il suo terzo premio Pulitzer per un reportage su di un centro di recupero americano per veterani di guerra. Abituato a rappresentare il dolore più estremo, recandosi in prima persona nei luoghi colpiti da calamità naturali, povertà e conflitti, per dare voce alle popolazioni che in questo clima di estrema difficoltà riescono comunque a conservare la propria dignità, Michel decide di partire per l’Africa occidentale per un servizio sul virus Ebola, che da febbraio fino ad oggi ha già provocato quasi 6.400 morti e quasi diciottomila casi sospetti, e dove le organizzazioni sanitarie internazionali sono impegnate per contenere il contagio, diffuso fra Guinea, Nigeria, Sierra Leone e Liberia. In Liberia, a pochi giorni dal suo arrivo, mentre rientra a Michel Du Cille Vita e morte fotoreporter di un piedi da un villaggio, Michel viene colpito da un infarto e viene trasportato all’ospedale più vicino, distante un paio di ore, dove arriva ormai privo di vita. La morte, con cui aveva convissuto fino dai suoi primi reportage, decide di prendere con sé l’uomo che la aveva tante volte effigiata. Rimpianto da tutti i colleghi, viene ricordato come uno dei migliori fotoreporter del mondo. “Si stava dedicando all’Ebola con dedizione ed era convinto di voler continuare a indagare su quest’emergenza nonostante i rischi, con lo stesso coraggio e la stessa passione che ha mostrato durante tutta la sua carriera”. Le sue parole sulla catastrofe umanitaria che stava documentando spiegano in maniera estremamente chiara il suo pensiero e la sua filosofia di vita e professionale. “Nei miei oltre quaranta anni di carriera come fotogiornalista, sono stato sempre orgoglioso di offrire dignità ai soggetti che fotografo, specialmente quelli che sono malati o in difficoltà di fronte a una fotocamera. Il mio recente lavoro in Liberia è stata una sfida per me. Il rispetto è una delle ultime ed uniche cose che il mondo può offrire ad un persona che è morta o sta per morire. Ma la fotocamera stessa a volte sembra un tradimento di quella dignità che si spera di offrire. Come si può dare dignità all’immagine di una donna morta che giace a terra, ignorata, non coperta e sola, mentre la gente passa, o solo guarda da lontano? Credo tuttavia che il mondo debba vedere gli effetti orribili e disumani dell’Ebola. La storia va raccontata, così noi andiamo in giro con dolcezza e evitando intrusioni estreme. Raccontare Ebola vuol dire essere vicini, a distanza di scatto, con la devastazione del virus. Questo lavoro mi ha portato faccia a faccia con un altro aspetto disumanizzante del virus, la paura. Sapendo che un pericolo silenzioso si nasconde in una persona infetta da Ebola, e che un semplice tocco può farci ammalare. In Monrovia, dove il virus passato da due settimane, la paura è sempre presente. Tra la gente, come tra i fotografi” 10 gennaio 2015 pag. 11 Alessandro Michelucci [email protected] di L a musica del messicano Jorge Reyes (1952-2009) è lontana anni luce dagli stereotipi che vengono associati al suo paese. Insomma, niente a che vedere con le chitarre, le trombe e le grida gioiose dei mariachi. Il suo percorso artistico, frutto di lunghi studi, è caratterizzato invece dal costante riferimento al mondo precolombiano. In altre parole, a quelle culture che i conquistadores cercarono di cancellare bruciando i codici scritti e gli strumenti dei Maya e degli Aztechi. Nato a Uruapan nel 1952, il musicista compie gli studi musicali (flauto) all’Escuela Nacional de Música della capitale. Successivamente suona in gruppi rock locali come Chac Mool e Nuevo México. Nel 1976 comincia a viaggiare e visita varie parti del mondo: dalla Germania al Pakistan, dalla Turchia a Sri Lanka. Durante questi soggiorni impara a suonare molti strumenti e si avvicina a tradizioni musicali antichissime. Negli stessi anni sviluppa un forte interesse per la musica precolombiana. Lo confermano il suo primo LP da solista, Ek Tunkul (Opción Sonica, 1985), e il successivo A la izquierda del colibri (Exilio, 1986), al quale collabora l’etnomusicologo messicano Antonio Zepeda. Quello di Reyes, però, non è un interesse archeologico, ma il punto di partenza per costruire una complessa architettura sonora dove le culture mesoamericane si intrecciano con le opportunità offerte dall’elettronica. A questo scopo utilizza una grande varietà di strumenti: conchiglie, didgeridoo, flauti, ocarine, percussioni, sintetizzatori, vasi di terracotta e altri ancora. Nel suo percorso artistico l’artista collabora con musicisti americani ed europei. Una simbiosi particolarmente intensa è quella che lo lega a Steve Roach, statunitense influenzato dall’elettronica “cosmica” dei Tangerine Dream. A prima vista i due musicisti sembrerebbero molto diversi: le elaborate costruzioni elettroniche di Roach paiono lontanissime dal mondo precolombiano di Reyes. Eppure qualcosa di profondo li unisce: Futuro antico di Burchiello 2000 La batracomiomachia imposte rigide norme sulle dei dehors fossero modalità creative? Siamo ormai a Non è finita. Si continua a non voler riconoscere l’errore di aver concesso i dehors in piazza San Giovanni a pochi metri dal Battistero e dalla Colonna di San Zanobi; a non ritirare quella concessione , palese frutto di superficialità o di disinformazione. Cosa c’è di male nel riconoscere un errore? “Errare humanum est” ma perseverare... Si è imposto di sostituire le dignitosissime tende di Gilli, Paszkowsky e delle Giubbe Rosse, lì da tempo e quasi storicizzate. Ma che si deve fare per riportarci ad una ragionevole capacità di giudizio, invocare un giurì internazionale d’onore per farci dire ciò che è già assolutamente evidente? Che cioè l’idea di base, di omologare le terrazze degli spazi pubblici, visti i risultati, era e resta oggi ancor più discutibile? Ma Firenze non è la città dei bravi artigiani? Ve lo immaginate se agli artigiani dell’Oltrarno livelli surreali di ragionamento e di conduzione di questo problema: ora, sembrerebbe, ci aspettano le “sedie e i tavoli in libertà”! Del resto, il decoro e la cultura della città non sono certo materia dell’assessore allo sviluppo economico, che ha altro profilo e altre finalità. Siamo immersi in una delle stagioni esistenziali di maggior incertezza, della logica imperante lasciataci dal “pensiero debole” della postmodernità, ove il populismo sembra vincere sulla ragione, anche se già si intravedono gli anticorpi di un “realismo” oppositivo. Insomma, il quesito concreto è il seguente: è valsa la pena di far demolire il “design” (pacato ed europeo) dei dehors di piazza della Repubblica per adeguarli a quelli nuovi standardizzati? Ed ancora: l’operazione “dehors omogeneizzati” ha un senso? Coraggio, la batracomiomachia dei dehors è ancora in corso! entrambi, seppur in modi diversi, guardano a un futuro antico dove le culture indigene giocano un ruolo centrale. Nella discografia di Roach trovano infatti spazio lavori realizzati insieme a David Hudson, virtuoso di didgeridoo (Australia: Sound of the Earth, Fortuna, 1990), e al monaco tibetano Thupten Pema Lama (Prayers to the Protector, Fortuna, 2000). Reyes e Roach cominciano a collaborare formando il trio Suspended Memories col chitarrista spagnolo Suso Sáiz, che ha realizzato insieme a Reyes in Crónica de castas (NO-CD Rekords, 1990). Il trio incide due lavori molto interessanti, Forgotten Gods (Hearts of Space, 1992) ed Earth Island (Hearts of Space, 1994). Poco dopo il trio si scioglie, ma il legame artistico e umano che unisce Reyes e Roach rimane vivo: i due si esibiscono insieme in vari concerti e registrano nuovo materiale. Una parte viene raccolta in Vine ~ Bark & Spore (Timeroom, 2000). Musicista curioso e viaggiatore instancabile, Reyes entra in contatto con Piet Jan Blauw, un pittore-musicista olandese che inventa nuovi strumenti e li inserisce nelle proprie installazioni. Da questa unione nasce Pluma de piedra (Geometrik, 2002). La morte improvvisa di Reyes, avvenuta il 7 febbraio 2009, gli impedisce di realizzare nuovi progetti insieme all’amico statunitense. Ma questo ha conservato del materiale inedito, che pubblica negli anni successivi. Nel 2013 esce Live in Tucson 2000 (Timeroom), registrato dal vivo, mentre l’anno dopo è la volta di The Ancestor Circle (Projekt, 2014), ricavato da nastri che risalgono allo stesso periodo. Questo è l’ultimo frutto della collaborazione fra i due musicisti. Lontano anni luce dai toni zuccherosi della New Age, il nuovo CD offre 72 minuti di musica vera, dove i ritmi tribali di Reyes e le architetture elettroniche di Roach si intrecciano e si fecondano magistralmente. Brani lunghi e articolati come “Memories Unsuspended” ed “Espacio Escultorico” racchiudono l’essenza di una comunione umana che trova nella musica il modo migliore per esprimersi. 10 gennaio 2015 pag. 12 Francesco Cusa [email protected] di A doro David Fincher. Uno dei miei registi preferiti. Ho amato quasi tutti i suoi film, e in particolare “Seven” e Fight Club”. Anche in “Gone Girl” Fincher non delude, anzi; questa volta siamo di fronte ad un intreccio hitchcockiano, con la Amy/ Rosamund Pike nei panni della donna spietata e fatale. Il tema del doppio, dell’incantamento che sconcerta e attrae nella trappola della seduzione il maschio ricettivo fin dalla notte dei tempi, è il fulcro su cui ruota tutta la storia, grazie alla complessità della trama che si dipana lungo le due ore e mezza. Finalmente una “femme fatale”, o meglio una “dark lady” che pare la sintesi tra Salomé e Lulù; finalmente il tema della schiavitù, della sottomissione dell’uomo al potere ancestrale del femminino, alla vulva pulsante di Shakti; finalmente una “vamp” in aperto contrasto con l’imperante retorica vetero-femminista e con tutta la paccottiglia isterica che pare dominare l’informazione attuale di un Occidente alla disperata ricerca di coordinate. Fincher punta direttamente il dito contro la visione stereotipata del sesso “debole” (in realtà il film è tratto dall’omonimo libro di Gillian Flynn, che qui firma anche la sceneggiatura), Foto Locchi annuncia l’improvvisa scomparsa di Giampaolo Ghilardi, titolare dell’azienda e stimato fotoreporter, avvenuta venerdì 2 gennaio. Nato a Livorno nel 1941, aveva dedicato la sua vita alla fotografia e da oltre trent’anni era a capo della storica azienda contribuendone attivamente al successo e alla costituzione del prestigioso Archivio. Aveva iniziato la propria attività di fotografo a metà degli anni Sessanta, nella sua lunga carriera aveva avuto l’opportunità di confrontarsi con le più variegate esperienze: dal fotogiornalismo attraverso la lunga collaborazione con l’agenzia ANSA, alla moda, prestando il suo obiettivo ai più prestigiosi atelier quali Gucci, Ferragamo, Hermès, alla fotografia industriale nella lunga collaborazione con la Nuova Un intreccio hitchcockiano restituendo valore all’irrazionale uterino, credibilità alla fredda e chirurgica crudeltà della donna vendicativa. Beh, lasciatecelo dire: ce ne eravamo quasi dimenticati, fatta eccezione per l’ultimo Polanski de “La Venere in Pelliccia” (parliamo però di rivisitazione di un classico). Gli eventi sono marcati dal costante, oppressivo controllo dei media, con le scatenate faine-conduttrici dei vari talk show pronte a scagliarsi contro il presunto colpevole - lo sprovveduto Nick/Ben Affleck,- per farne brandelli da consegnare in pasto Addio Giampaolo Ghilardi Pignone, al teatro collaborando per vari anni con il Teatro Comunale di Firenze. a un pubblico passivo e inerte (pensiamo alla nostra Barbara D’Urso e moltiplichiamo il tutto per dieci). Questo coro mediatico è il centro nevralgico dell’opera, l’altare celebrativo dell’Io collettivo che si genuflette alla fascinazione dell’orrore, che brama il sacrificio d’un capro espiatorio. Fincher, memore della lezione impartita con “The Social Network”, orchestra un thriller anomalo e spiazzante, analizza l’ossessione borghese del suo eterno perpetuarsi, la fine dei sogni e il naufragio dei valori ritualisti- ci. Amy, che è una sociopatica prigioniera di un mondo dorato fantastico e per nulla disposta a rinunciare alla cornice ideale di coppia, è la regista meticolosa e spietata di un tranello, di un ordito concepito per ristabilire una qualche forma di ordine, di gerarchia tra reale e fantastico, o meglio tra Reale e Ideale. Per dirla con Freud, è la forma stessa del sogno a rappresentare il suo contenuto latente, e dunque è nella stessa struttura di “Gone Girl” (nel “corpo dell’opera”) che vanno collocate le azioni e le schizofrenie di Amy, nel suo universo olografico privo di tempo e di spazio, nel suo mondo fatato di scrittrice fantasy di successo. Dapprima la sua assenza, poi la sua presenza: ciò che terrorizza il maschio è questa immanenza uterina, generatrice di vita e dispensatrice di morte, nel silenzio dell’ovvio, nella banale routine della vita di coppia. Ben Affleck è il candidato ideale, ed in questo senso, la scelta di Fincher è perfetta. E’ come vedere due film contemporaneamente: la virata a circa metà dell’opera è da manuale del cinema. Forse un po’ scadenti i dialoghi (ma pare che ci sia stata una assoluta fedeltà al testo, dunque di ciò semmai imputiamo carenze al libro). Da vedere assolutamente per trascorrere un Natale sereno e gioioso in coppia. rebus ispanico 10 gennaio 2015 pag. 13 Valentina Monaca twitter @valentinamonc di Quando ho messo il primo piede in ufficio, il primo giorno di lavoro dell’anno, mi si è congelato. Con il secondo piede mi sono trascinata fino alla caldaia che, dopo aver sbuffato e sputacchiato un po’ d’acqua, si è ritirata silenziosamente. Era solo il 2 gennaio e non aveva voglia di lavorare, è evidente, e non era la sola. Anch’io allora ho battuto in ritirata, destinazione bar all’angolo, dove mi vedevo già a passare ore di deprimente solitudine lavorativa in una postazione sì precaria, ma almeno al rifugio dal freddo. E invece… Il bar all’angolo alle 9.45 è stranamente pieno di gente, non ci sarà per caso un black out di caldaie in tutta la città? Aspetto il mio turno e nel frattempo, dal portatile, inizio ad aprire e/o cancellare email, tra cui quelle natalizie, messaggi di pace e amore per un anno migliore, biglietti di auguri in 3d, video di Re Magi in processione... Alcuni blog che seguo mi avvisano via email, qualora non me ne fossi accorta, che è arrivato l’anno nuovo e con lui anche il momento di fare la lista dei buoni propositi. Una rivista di cultura e società mi spiega, invece, i 5 buoni motivi per i quali è importantisismo fare una lista di buoni propositi a inizio anno. Twitter mi consiglia di seguire l’app XY che mi aiuterà a stilare la lista Fabrizio Pettinelli [email protected] di Nei giorni dell’occupazione alleata (dal settembre del 1944 a metà del 1946) Firenze diventò un grande accampamento militare degli uomini della V armata americana, alloggiati in un’immensa tendopoli alle Cascine. In libera uscita i militari tendevano a convergere verso Piazza Stazione, soprattutto perché la zona pullulava di “segnorine”. E’ necessaria, prima di proseguire, una doverosa premessa. A Firenze il fenomeno delle segnorine, pur massicciamente presente, non creò di per sé particolari problemi, come in altre città. Caso eclatante fu quello di Livorno, collegato peraltro a Firenze perchè il relativo processo si svolse proprio qui, per legittima suspicione, nel gennaio 1949. I fatti, che si svolsero a Livorno nella notte fra il 3 e il 4 agosto 1947. Da tempo, al seguito delle truppe d’occupazione, erano calate Buoni propositi dei miei buoni propositi. Una palestra mi invita a partecipare a una lezione gratis di yoga vinyasa se fra i miei propositi per l’anno nuovo c’è quello di “ritrovare equilibrio ed elasticità nel corpo e nella mente”. La mia banca mi comunica che, se fra i propositi dell’anno nuovo c’è quello di risparmiare, hanno un nuovo deposito al 4% che fa al caso mio. La catena più diffusa di negozi di prodotti per il dimagrimento in Spagna mi manda uno sconto del 30% perché “se ho strafatto a natale, il mio primo proposito per l’anno nuovo non può che essere perdere quei kg di troppo”. Ma che mania questa dei buoni propositi! E se quest’anno decidessi di non propormi nulla? Nessuna crescita, né arricchimento personale o professionale, bando al risparmio, nessuno stiramento muscolare, né rinunce a fritture e insaccati! Tra un sospiro e una sbuffata verso il cameriere - al quale fra i buoni propositi per l’anno nuovo suggerirei un corso in accelerazione dei movimenti degli arti superiori - riesco finalmente a chiedere un caffè. Attorno a me intanto sono tutti chiacchieroni stamattina! E ci credo! Dopo essersi sorbiti figli, suoceri e cognati per giorni e giorni, sono tornati tutti al lavoro/postazione-bar desiderosi di confrontarsi, confessarsi, lamentarsi... A destra si parla di look. Lei non ne può più del suo e ha deciso che il primo proposito dell’anno è curarsi di più e poi trovare un compagno stabile, quindi svuoterà l’armadio delle cose che non usa da anni e smetterà di incontrare uomini sui siti per incontri on-line. L’amica che davanti a lei sbriciola churros - le super caloriche frittelle spagnole di forma tubolare - è decisa invece a fare, in quest’ordine, un taglio radicale -cosa che farà mercoledì 8 gennaio quando riaprirà Consuelo, la fidata parrucchiera argentina - e a iscriversi a un corso di flamenco “perché si possono perdere fino a 700 calorie in un’ora”. Dall’altra parte del bancone, alla mia sinistra, la cosa si fa più interessante... C’è lui che da almeno 6 anni non tocca un libro “Ah, ma quest’anno... vita nuova. Domenica, cos’è il 12? La prima cosa che faccio appena mi alzo è cominciare Guerra e Pace...” Le strade dell’inferno, si sa, sono lastricate di buoni propositi… ma anche di certi mattoncini di Tolstoj… I 3 pesi massimi che lo accompagnano, invece, lunedì andranno alla prima lezione di Padel - una specie di tennis a 4 che da un paio di anni almeno è diventato lo sport nazionale per eccellenza - “perché non c’è niente come stare all’aria aperta, fare un po’ di movimento, poi una sigarettina, un vinello alla fine...” Nel frattempo ricevo un paio di nuove email da qualche ufficio in cui evidentemente la caldaia sì che funziona. Tra queste c’è quella di un’amica che mi chiede se voglio andare con lei alla presentazione di un Master in marketing per aziende high-tech. Ma che me ne frega a me delle aziende di alta tecnologia? E a lei che lavora in banca? “È che quest’anno mi sono ripromessa di riprendere gli studi e di fare un Master...” Mentre in due sorsi finivo il mio caffè non ho potuto evitare di formulare anch’io il primo buon proposito per l’anno nuovo: fare la lista di tutti quei buoni propositi che non hanno mai visto la luce e che probabilmente mai la vedranno. Eccola: aprire un blog, mai fatto; imparare il francese, mai fatto; finire tutta la filmografia di Luis Buñuel, mai fatto; correre una volta a settimana al parco del Retiro, mai fatto. E ancora... salvare in un disco esterno le foto dei miei viaggi dal 2005 in poi, rifoderare i cuscini del divano, vendere quella inutile testata del letto, comprare una scarpiera nuova, fare il Cammino di Santiago, imparare la lingua dei segni... Adesso che ho preso il ritmo e ho già portato a termine brillantemente il mio primo buon proposito dell’anno non mi resta altro che continuare con il piede giusto, e caldo… risposto la ragazza indicando con la mano la schiena verso il fondo - A calci, e fossero stati soltanto calci...”. A Firenze il problema, di carattere sociale, fu quello dei bambini. Subito dopo la guerra, come in tante città d’Italia, i bambini si inventarono il mestiere di lustrascarpe, gli sciuscià (shoe-shine) dell’omonimo film di De Sica. Solo che gli sciuscià fiorentini, che operavano intorno alla Stazione di Santa Maria Novella, svolgevano un’attività ben meglio remunerata di quella “istituzionale”: nella loro cassettina, insieme alle spazzole e al lucido da scarpe, tenevano anche un campionario fotografico di segnorine che sottopo- nevano ai potenziali clienti; l’indirizzo era a pagamento e pare che un bambino di 12 anni, con questo sistema, in poco tempo mettesse insieme 60.000 lire, pari a un anno e mezzo di stipendio di un impiegato. In consiglio comunale si parlò del problema già dal novembre 1944 e Giacomo Devoto, allora addetto agli Affari Generali nella prima giunta comunale dopo la Liberazione, scrisse ai responsabili delle forze di occupazione, pregandole di interessarsi del problema. Non risulta che i responsabili delle forze di occupazione, che avevano tutto l’interesse a non creare malumori fra i soldati, si preoccupassero più di tanto del problema, che si risolse solo con la partenza delle truppe alleate dopo che, fra l’altro, il sindaco Pieraccini aveva ricevuto una delegazione di sciuscià che protestavano per i controlli della Polizia Municipale. Piazza della Stazione Sciuscià e segnorine a Livorno decine di segnorine che concedevano i loro favori ai militari americani e ostentavano un tenore di vita incompatibile con la miseria di gran parte della popolazione. Quella notte centinaia (!) di livornesi, al grido di “Spogliamole, spogliamole!”, agguantarono una trentina di segnorine, le denudarono sulla pubblica via, le depredarono di tutto e, almeno in alcuni casi, ne abusarono sessualmente. La sentenza fu relativamente mite e furono mirabili le acrobazie dei cronisti per non scadere nel triviale; un esempio (da “La Stampa” del 30.1.1949): “Voi (chiede il Presidente a una segnorina) siete parte lesa? Oh, tanto - ha 10 gennaio 2015 pag. 14 Cristina Pucci [email protected] di P onte della Madonna, viaggetto mini verso il Sud e verso Matera, tappa a Latina e Sabaudia per curiosare le architetture fascistissime del bonificato Agro Pontino. Latina è una città triste, a nulla valgono gli edifici, anche belli, di relativa antica memoria, si sperdono nel grigio e nella tristezza cittadina. Amara delusione. Sabaudia invece molto meglio, anche grazie alla sua natura circostante, intanto per arrivarci si costeggia il Parco del Ciceo da una parte e dall’altra campi piani e accuditi. La città è ricca di bellissimi pini marittimi che hanno come lei più di 80 anni, era infatti l’agosto del 1933 quando il Duce, in gran spolvero di personalià, poneva la prima pietra. Nella grande e bella piazza edifici “razionalisti” fra cui svetta il Palazzo Comunale con la sua altissima torre, sui muri grandi e verbose lapidi, una inneggiante la vittoria nella prima Guerra Mondiale, a firma Diaz, l’altra che esalta l’arduo lavoro di bonifica che strappò alla mortifera e malsana palude migliaia di ettari coltivabili, opera questa fallita da Imperatori, Papi e conquistatori, leggi Napoleone. Dietro la piazza uno splendido giardino da cui si arriva a una terrazza sul mare e da dove si vedono le famose dune, la strada che lo costeggia ha sempre davanti a sè il promontorio del Circeo e, a lato, la macchia mediterranea e i pini nel cui folto si immaginano ville fantastiche, prima fra tutti quella che fu di Pasolini e Moravia. Bertolucci, Bernardo, racconta di essere stato con il padre e Moravia a cercare una casa sulle dune del lungomare di Sabaudia, ricorda le suggestioni del luogo e le risate di dileggio per quelle che sembrarono loro orribili architetture fasciste. Nel ‘78, vent’anni dopo cioè, vi ritornò per girare il suo film “La luna” e gli apparvero forme e strutture bellissime. Il gusto si era liberato dall’impregnazione negativa del lontano ventennio. Si va a cercare la vecchia “Ricevitoria postale”, scopriamo un bell’edificio coloratissimo e veniamo scoperti dalla responsabile della Biblioteca Fascistissima Sabaudia Comunale che ora vi si trova, ci invita alla presentazione del libro che ne racconta il restauro, ce ne regala una copia e ci fa entrare. Progettato dall’archi- tetto Angiolo Mazzoni, è una bassa costruzione con una parte piastrellata a tessere di mosaico blu, colore di Casa Savoia, con ampi finestroni in due ordini, il primo in realtà non ha vetri, ma retine antizanzara... malgrado la bonifica la zanzara, forse non più anofele, era ancora di casa! Le finestre sono profilate in marmo rosso di Siena, l’intonaco che contorna è di color giallo “canarino”. Un insieme molto chic al quale l’ampio scalone sul retro, sempre in marmo rosso e rifinito in rame, conferisce una certa imponenza. Dentro si visiona un delizioso terrazzino attiguo alla stanza che fu dei telegrammi, una enorme cassaforte con una possente porta, tipo Banca vecchio western, appese ovunque stampe e disegni dell’epoca, fra cui una collezione di copertine di una rivista, foto dei Savoia, Re e Regina di allora, principi e principini vari e, udite udite, una testa in marmo del “capoccione”, Mussolini in persona, non consueta davvero da trovare, come se il tempo si fosse fermato. La signora si dice mai fascista, ma grata a colui per la costruzione delle città dell’agro e per Sabaudia in ispecie, la vecchia ricevitoria postale è ora un centro culturale oltre che biblioteca e cerca di promuovere conoscenza e turismo. Si va e si attraversano stradine periferiche che si intitolano al Fringuello, all’Usignolo, alle Capinere, al Cardellino, arrivare poi a Salerno, la prossima puntata, un viaggio nel buio e nelle curve, per chilometri e chilometri! 10 gennaio 2015 pag. 15 Matteo Rimi [email protected] di O norare il passaggio al nuovo anno è una convenzione alla quale è difficile sfuggire. Lusinga il cambiamento di numero sul calendario e suggerisce una flebile speranza che tutto questo possa essere un qualche nuovo inizio, prima che essa si infranga pochi giorni dopo con il ritorno alla vecchia routine. Ma non di solo raziocinio siamo fatti e la possibilità di poter coltivare piccoli sogni del genere traina la nostra tartassata umanità ancora un po’ più in là. Del resto, pure la poesia si nutre di questo. Perciò anch’io non mi sottraggo all’illusione e pongo a pochi giorni dopo l’inizio di un 2015 nuovo di zecca il primo passo dell’evoluzione annunciata su queste pagine mesi fa. Lo faccio però rievocando da un mio relativamente lontano passato una figura per me fondamentale: come a dire che il nuovo corso lo voglio iniziare con vecchi amici, perché tutto è ciclico ed i numeri restano sul calendario. L’amico in questione è Antonio Bertoli, conosciuto quando entrai per raccogliere materiale per la mia tesi nella ormai mitica City Lights Italia, il ponte che egli, conoscitore ed appassionato di poesia e letteratura d’oltreoceano, eresse tra Firenze e S. Francisco. Ed era come ritrovarsi in un luogo dove persi ormai erano i confini geografici e storici. Chiusa con mio sommo spaesamento quell’esperienza, Antonio si è potuto dedicare a poesia ed arte ed alla loro interazione con la società, la conoscenza, la psicologia del profondo e la guarigione. Lavora da più di vent’anni con Alejandro Jodorowsky ed ha collaborato con Lawrence Ferlighetti (entrambi a me presentati a Genova nel 2002 durante la profetica Rivoluzione poetica), Arrabal, Ed Sanders, Baudrillard, Dumas e vari esponenti della cultura, della psicogenealogia e dell’arte. Lo riscopro esperto anche di nuova medicina, che Antonio ha fuso con la psicoanalisi transgenerazionale all’insegna di quella che ha chiamato “Psico-bio-genealogia”, organizzatore di stages intensivi sia in Italia che all’estero ed insegnante a Roma (IPOD – Istituto di Psicoplay a Orientamento Dinamico) e a Torino (Centro Tomatis). Lo trovo autore di tre libri In nome del padre e della madre editi da Macro Edizioni dove ha cercato di spiegarci le Vere origini del male: è a partire dalla rete di intrecci, relazioni e influenze che collegano un individuo alla sua famiglia, alla società in cui nasce e alla cultura di cui fa parte e, infine, alla specie biologica cui appartiene, che spesso hanno inizio i disagi di tante persone. Questa trama, ci spiega, va portata a livello di coscienza per uscire dal circolo vizioso del malessere e per educare l’inconscio affinché non torni a ripetere e radicalizzare ciò che ha imparato nel corso delle generazioni precedenti e della sua stessa biografia. Questo è l’obiettivo della Psico-Bio-Genealogia che fonde, all’interno di un percorso organico, la Psicogenealogia e la Nuova Medicina di R.G.Hamer, partendo dalla convinzione che proprio l’albero genealogico e la tipizzazione degli archetipi primari maschile e femminile costituiscano la base di nevrosi, ossessioni e di molte malattie. In sostanza, prosegue, tutti ereditiamo un’impronta psichica, una vera e propria prigione, ed è da qui che nascono quei contrasti che si traducono in disagio. L’approccio terapeutico della Psico-Bio-Genealogia, conclude, parte proprio dalla presa di coscienza del conflitto e, contemporaneamente, dalla necessità di far emergere l’origine vera, profonda e genealogica del disagio. Antonio Bertoli è quindi la figura perfetta per inaugurare lo stato indiano della poesia, il prossimo venerdì 16 gennaio presso il Ristorante India a Fiesole: il punto di partenza dal quale iniziare l’imprevedibile viaggio che dalla poesia ci porterà ad esplorare le ombre intorno e dentro di noi, sicuri che proprio con essa potremo accendere una seppur labile fiammella. Questa la innescheremo insieme, altre si illumineranno per tutta Fiesole sperando di rendere un po’ meno oscuro il nostro cammino. La S.V. è invitata alla presentazione del fascicolo “In rete” della rivista l’area di Broca Sabato 10 gennaio 2015, ore 17 Biblioteca delle Oblate, Sala Conferenze – piano terra Via dell’Oriuolo, 26, Firenze Intervengono: Massimo Acciai, Silvia Batisti, Mariella Bettarini, Michele Brancale, Maria Grazia Cabras, Tommaso Cecconi, Graziano Dei, Arnaldo Di Ienno, Alessandro Franci, Gabriella Maleti, Maria Pia Moschini, Roberto Mosi, Paolo Pettinari, Aldo Roda, Luciano Valentini A world of CuCo 10 gennaio 2015 pag. 16 Caterina Liccioli [email protected] di L uoghi comuni e verità. Cioè a dire: dietro ad un luogo comune c’è sempre una verità, perché è a partire dai fatti che si generano modi di dire, proverbi, cose risapute. Per esempio mia nonna, quando dall’alto dei suoi quasi 95 anni lascia cadere qualcosa in terra, si rassicura dicendo: “più giù di lì, ‘un va”. Oppure, davanti alla forma ironica con cui le racconto vita vissuta, mi punta gli occhi addosso con un ”guarda, che Arlecchino si confessò burlando: a me non le contare le bugie”. Saggezza familiare a parte, tutti sappiamo che gli uomini italiani sono mammoni, i tedeschi portano i sandali coi calzini, i brasiliani sono campioni di calcio dalla nascita e gli argentini ballano il tango. Una mezza verità, quest’ultima. Se una cosa è certa della società argentina, è che tutto ruota intorno al mate. Che, come la gran parte delle “cose buone” del sud America, non è un’importazione coloniale ma un’eredità delle popolazioni native. Era il sedicesimo secolo quando i soldati spagnoli, aggirandosi per gli insediamenti gesuiti nell’attuale stato di Paranà (Brasile), videro gli indigeni consumare questa bevanda a base di erba Mate in acqua fredda, separando le foglie con le labbra superiori. Nostalgici del tè, posero le foglie essiccate e sminuzzate in acqua calda, inserirono la bombilla (cannuccia) nella zucca vuota che adibirono a contenitore ed ecco che nasceva il mate. In seguito i mandriani andini, conosciuti come i Gauchos argentini e gli Huasos cileni, abbracciarono l’uso di questa infusione per scaldare animo e corpo nei giorni di duro lavoro all’aria aperta. Dall’epoca della conquista, quando si pensava che con l’argento estratto dal Potosí era possibile costruire un ponte tra le due coste dell’Atlantico, fino ad oggi, il mate invece di estinguersi, si è affermato come rito quotidiano in gran parte del Sud America, dall’interno del Paese fino alle città principali, dove la tradizionale zucca fornita di bombilla convive e contrasta con gli schermi piatti dei computer: la si vede negli uffici come Tutti matti per il mate: l’arte della condivisione nelle case della gente, a prescindere dal momento del giorno e dalla formalità della situazione. Con la cannuccia si consuma tutta l’infusione contenuta nella zucca che si restituisce all’incaricato della mescita, il quale provvede a ricaricarla per offrirla a qualcun altro della compagnia; così il mate genera un filo invisibile di socialità, non tanto per il sapore amarognolo della bevanda ma per il gesto antico di offrire e ricevere, cinetica implicita nei rapporti affettivi ma anche emblema di semplice benvenuto. La dinamica di questo rituale ha anche un altro merito: il versare acqua molto calda in contenitori scoperti implica una certa calma dell’azione, freno obbligatorio che smorza la frenesia e la tensione tipiche dei nostri tempi. E l’interruzione è sempre benvenuta: in quasi due anni di permanenza in Argentina non ho mai visto nessuno rinunciare ad un mate per correre a fare qualcos’altro. In più, il mate ”fa bene”. Aiuta a contrastare il malessere generato dalle grandi altitudini, ha proprietà drenanti, è un’eccitante naturale e smorza la fame ed il mal di testa. Ora Con questo testo di Caterina Liccioli iniziamo una rubrica di corrispondenze dall’estero da parte di vari collaboratori di Cultura Commestibile in diversi angoli della terra. Si tratta di giovani che stanno studiando o lavorando all’estero e che entrano in contatto con le culture di vari paesi. Abbiamo chiesto loro di scrivere su Cultura Commestibile di questa loro esperienza di globalizzazione o anche di ciò che, nelle città dove vivono, avviene nel panorama culturale. Cateria Liccioli si trova in Argentina per perfezionare il suo curriculum di studi: sta seguendo un dottorato in geologia, in particolare studia la geochimi- che ne scrivo, sarebbe il toccasana ideale per diluire i piatti pieni ed i bicchieri colmi che coprono le tavole di tutto il mondo nel periodo natalizio. Ma qua in Australia, dove sono volata per raggiungere il resto della famiglia per un’insolita vacanza, il perno della socialità non è più il mate: difficile trovarne uno dato il mosaico culturale che si vede in giro. Nel dubbio, tra poche ore alzerò il flute pieno di un delizioso sparkling per brindare, con un gesto universale, al nuovo anno. Che vi porti il meglio, ovunque vi troviate. ca dei fluidi vulcanici, gas e acque insomma. Il suo lavoro è quello di andare sui vulcani andini nella stagione estiva e raccogliere campioni dalle fumarole, dalle sorgenti calde ed altre manifestazioni del sottosuolo, come geyser e pozze gorgoglianti, portare tutto in laboratorio e dall’analisi studiare il contesto geodinamico e lo stato di attività di tali sistemi. Per questo Caterina ha vissuto un anno e mezzo ai confini della Pampa secca, dove inizia la zona pede-andina, in un piccolo paese, per poi spostarsi nella capitale da pochi mesi: due mondi assai diversi, Buenos Aires e la provincia di Rio Negro. 10 gennaio 2015 pag. 17 Morire per amore di Daniele Gardenti I n occasione dei 150 anni dalla prima rappresentazione del Tristano e Isotta, avvenuta nel 1865 a Monaco, il coreografo Giorgio Mancini ha creato un balletto sulla bellissima musica di Wagner e precisamente il preludio e la morte di Isotta. L’amore passionale ma impossibile tra i due giovani viene portato in scena da Dorothée Gilbert e Mathieu Ganio, due étoiles dell’Opéra di Parigi, che esprimono con grande talento ed espressività passi di danza eleganti e figure di una unione sensuale e tenera. Mancini arriva a questo spettacolo dopo averlo offerto in prove aperte nel cortile di palazzo Strozzi nell’estate del 2011, un pas de deux che nasceva sotto gli occhi di turisti e passanti, un esperimento diverso che portava la danza al livello della gente comune che poteva apprezzarne da vicino non solo la bellezza, ma anche lo stimolante lavoro preparatorio. La prima al Teatro dell’Opera di Firenze è stata funestata dal suono continuo di un allarme che dava veramente noia e non si è spento per almeno cinque interminabili minuti dell’inizio del balletto. Il pubblico ha rumoreggiato chiedendo l’interruzione della rappresentazione, ma davanti alla diligente professionalità dei ballerini si è alfine zittito. Sulle note del preludio i due protagonisti si inseguono in un gioco sensuale in costumi diafani che farebbero pensare ad un Tristano ormai morto evocato dalla tristissima Isotta. Finito il brano cala un velario bianco che funge da schermo e vi si proietta un video dove appaiono i due personaggi in una situazione più intima dove vengono esaltati dettagli del corpo in tensione e movimento con allusione all’elemento acqua già presente tramite la vela posta in fondo alla scena. È l’acqua del mare che li unisce sul mare e che doveva portare Isotta di nuovo tra le braccia di Tristano, ma lui ferito e avvelenato muore tra le sue braccia. Il video è realizzato con grande tecnica e professionalità e ricorda la perfezione formale delle pubblicità degli stilisti, di cui spesso il regista James Bort si è occupato, e sospende l’attenzione dalla vicenda e la arricchisce di dettagli del movimento che tende ad esaltare i corpi in tensione dei giovani ballerini. È il momento più sensuale dove i corpi nudi si sfiorano e si uniscono. Inoltre l’inserto video spezza la difficoltà di seguire per un’intera ora un balletto eseguito da solo due interpreti. Nella parte finale si assiste alla morte di Isotta con il cantato Wagneriano riprodotto meccanicamente, non c’era l’orchestra ad accompagnare questo balletto. Il Tristano era preceduto da una ripresta del secondo tempo della Giselle, il balletto classico per eccellenza, balletto romantico musicato a Parigi nel 1841 da Adolphe-Charle Adam e con la coreografia di Jean Coralli e Jules Perrot. La storia, resa in formadrammaturgica da Théophile Gautier e Saint George, è quella della popolana Giselle, in epoca all’incirca medievale, che viene sedotta da un principe che si finge popolano. Quando scopre la verità muore di crepacuore. Nel secondo atto la storia vira al fantastico e Giselle è entrata nel gruppo delle Villi, creature fantasmatiche della notte che puniscono gli uomini violenti facendoli ballare fino allo sfi- nimento e alla morte. Quando vedono il principe pentito sulla tomba della ragazza cercano di farlo fuori, ma Giselle si oppone al gruppo e alla regina delle Villi e riece a salvarlo. Nel novecento somma interprete di questo personaggio è stata la nostra Carla Fracci. In tempo di crisi Mancini riesce a mettere in scena una coreografia, che richiederebbe un nutrito corpo di ballo, usando quello che il teatro offre e con la buona idea di usare anche i ballerini uomini nel ruolo delle Villi. La creazione di Mancini procede leggera con citazioni dal balletto originale, per esempio mettendo in punta la regina delle Villi e la protagonista. La scelta tematica della serata dunque era la morte per amore, mito romantico e duraturo, in grado di appassionare pure l’uomo moderno. L’amore contrastato sembra esprimere il massimo grado di drammatica vitalità. Si pensi a film melodrammatici come gli adattamenti del Romeo e Giulietta o il celebre Titanic, stupisce come il tema riesca ancora a commuovere un pubblico che sa, come canta Battisti, “che non si muore per amore”. 10 gennaio 2015 pag. 18 Scottex Aldo Frangioni presenta L’arte del riciclo di Paolo della Bella Guardando l’opera Scottex n°4 , di Paolo della Bella, “annegata” in un cubo di plexiglas, non ci si può sottrarre di metterla in relazione con una delle sculture più famose del Futurismo: le “Forme uniche della continuità nello spazio” di Umberto Boccioni. Prendete una moneta da 20 centesimi di Euro e vedrete, anche voi, quanto richiamo ci sia fra le due sculture. Ma è in rinvio apparente perché, mentre le “Forme uniche...vogliono esaltare il movimento del corpo secondo il linguaggio futurista, Scottex N° 4 ci dà l’illusione dell’immagine di un oggetto in corsa, ma immobilizza “in eterno” quel salto nel blocco gelato di plexiglas come i Mammuth siberiani che dopo millenni si ritrovano intatti in blocco di ghiaccio. 4 Scultura leggera Ars@labor Il pane del teatro Sara Chiarello [email protected] di “ Ci siamo abituati a una crisi che stenta a risolversi. Credo che noi che ci occupiamo di teatro dobbiamo porci il problema, e che i giovani debbano iniziare seriamente a inventarsi il lavoro. Noi cerchiamo solo di indicare alcune strade possibili”. A parlare è Giancarlo Cauteruccio, direttore artistico della Compagnia Krypton, che, anche quest’anno, al Teatro Studio di Scandicci, propone dal 13 gennaio al 30 aprile una stagione forte, innovativa, varia, panoramica del meglio del teatro contemporaneo. S’intitola Ars@labor, attualizazione del celebre slogan Pane e lavoro, riferendosi - ha spiegato Cauteruccio – “alla misura in cui per noi l’arte rappresenta il pane, e ancor più nell’anno dell’Expo all’insegna del cibo”. In programma 12 allestimenti teatrali e 7 eventi collaterali, che si apriranno il 13 gennaio con lo spettacolo Le amanti del Teatrino Giullare di Bologna. Tratto dal romanzo di Elfriede Jelinek (premio Nobel per la letteratura nel 2004), per la prima volta in versione teatrale, vede protagonista l’amore con le sue angosce, al centro di soluzioni sceniche che sorprendono, come bambole a grandezza umana, paesaggi grotteschi, visioni in scatole di cartone. L’omaggio a Napoli della prima nazionale di Napolisciosciammoca di Giancarlo Cauteruccio andrà invece in scena dal 30 gennaio al 15 febbraio, “ricorderemo anche Pino Daniele che ha saputo cantare la contemporaneità della città partenopea fatta di sentimenti e di criticità”. Una Napoli che è quella dei letterati, raccontata da Eduardo De Filippo, da Leo De Berardinis e Antonio Neiweller, e che va oltre, in una visione dissonante e reale, in bilico sulla terra dei fuochi. Tra gli eventi, da segnalare L’ultimo viaggio, liberamente ispirato all’opera e alla vita di Enrico Filippini, scrittore, giornalista e germanista (17 e 18 febbraio); Riccardo III, classico di Shakespeare condensato in un monologo, e Alla Luce, partita a carte tra quattro ciechi, entrambi di Michele Santeramo (rispettiva- mente il 13 e 14 marzo e il 20 e 21 marzo). Lo spettacolo 15/45, tre studi sulle guerre (dal 10 al 18 aprile) è invece un omaggio alle vicende storiche della prima e seconda guerra mondiale, diviso in tre atti, il secondo dei quali è la storia di Bruno Neri il calciatore partigiano, asso della Fiorentina, della Nazionale e del Torino che decise di prendere il fucile contro i nazifascisti e morì sui monti dell’Appennino. Tra gli eventi speciali l’omaggio ai dieci anni del Teatro Sotterraneo, che rappresenteranno il famoso e glorioso Post-it del 2007 e il recente Be normal! (27 e 28 marzo), e chiusura con Cappuccetto Osso, prodotto da Gogmagog e dalla videomaker e fotografa Marcella Vanzo, in cui i fratelli Grimm sposano l’immaginario vivido dell’artista. “Nonostante tutto, il teatro. Nonostante le solite regole e le vecchie beffe. Nonostante tutto, ricreare l’arte e il lavoro, con la pazienza e con tutte le altre virtù che ci appartengono e che non abbiamo mai sprecato. Questo è il sipario che si apre nel 2015 al Teatro Studio, e questa sarà la scena di una società mai vinta, di una società che recita se stessa e le sue passioni, capace di cantarsi e narrarsi, di tacere e pretendere, di vivere”, chiude Cauteruccio. Per ulteriori informazioni www.teatrostudiokrypton.it. in giro 10 gennaio 2015 pag. 19 Inaugurazione della mostra LA FIRENZE DEL PRIMO NOVECENTO NELL’OPERA DI GUIDO SPADOLINI giovedì 15 gennaio 2015 - ore 17,00 Archivio Storico Comunale di Firenze Via dell’Oriuolo, 33-35 La mostra rimarrà aperta fino al 12 marzo 2015 orario: lunedì e venerdì ore 10-14 martedì, mercoledì e giovedì ore 10-17,30 FONDAZIONE SPADOLINI NUOVA ANTOLOGIA FONDAZIONE IL BISONTE PER LO STUDIO DELL’ARTE GRAFICA horror vacui Escudo de Granada, leoni, torrioni, il re, la regina, e una melagrana: i suoi fiori e i succulenti semi vermigli sono l’omaggio ad Al-Hamrā (La Rossa), splendida fortezza con le sue trecento torri, distesa voluttuosamente fra piante di agrumi e attraversata da canali di acqua cristallina. 10 gennaio 2015 pag. 20 Disegni di Pam Testi di Aldo Frangioni L immagine ultima 10 gennaio 2015 pag. 21 Dall’archivio di Maurizio Berlincioni [email protected] E sterni ed interni! Com’è stridente il contrasto fra queste due immagini. In una cornice assolata e nell’improbabile accostamento tra spazi vitali, pur se di infima categoria come una roulotte e una tenda, con tutta un’altra serie di masserizie pietosamente coperte per proteggerle da un sole implacabile, vediamo due chicanos, due capi famiglia che si muovono con l’aria sicura di chi sta controllando la situazione. Sullo sfondo, immanenti, i tralicci dell’alta tensione, pericolosamente troppo vicini. L’altra immagine, scattata pochi minuti dopo, ci mostra invece un momento di maggiore intimità, se così vogliamo chiamare la scena che coglie queste due giovani donne all’interno di un spazio reso quasi surreale dalla presenza di un “comò” decisamente fuori luogo in una situazione di questa natura ma che comunque ci fa subito pensare a qualche residuo di una certa intimità. Gilroy, California, 1972