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Segnaliamo - Margine, Soglia, Confine, Limite
Recensioni di Valentina Lusini Ugo Fabietti, Etnografia della frontiera. Antropologia e storia in Baluchistan, Meltemi, Roma, 1997. Partendo dalla sua esperienza di ricerca sul campo in Baluchistan, la regione pakistana di passaggio strategico tra il Medio Oriente e l’India, Fabietti tematizza un discorso di “etnografia della frontiera” – contestuale e metaforica – che parte dalle suggestioni dell’antropologia interpretativa per approfondire alcuni concetti-chiave: contemporaneità, complessità, interconnessione, mutamento, discontinuità. Il Baluchistan, come luogo «dove si incontrano tradizione e modernità, le leggi del mercato globale e quelle della vita tribale, un luogo dove due mondi, due logiche, e svariate culture, interagiscono prefigurando le forme sociali delle periferie mondiali all’alba del terzo millennio» (p. 12), diventa per l’autore un universo ideale per esplorare il modo in cui quelle che Arjun Appadurai avrebbe chiamato le “pressioni globali” si condensano in aree storicamente stratificate producendo nuove rappresentazioni della località. Trasferito sul piano metodologico, questo contesto di complessità si traduce nell’adozione di un punto di vista critico e situato, che intende il lavoro sul campo come situazione di “reciproca interpretazione”, come “simulazione ontologica”, come occasione di “negoziazione”, come operazione di “reciproca invenzione”; tutti concetti che Fabietti, riprendendo da autori quali James Clifford, Clifford Geertz e Pierre Bourdieu, utilizza per teorizzare una “antropologia come frontiera”, intesa cioè sia come esperienza dell’incontro tra soggetti politicamente e culturalmente intenzionati, sia come sapere critico che “vive alla frontiera di altri saperi, spesso traendo da questi ultimi spunti e suggestioni” (p. 21). L’intento è quello di tracciare una sorta di “grammatica di appartenenze” che tenga conto, in primo luogo, della trasformazione esperienziale delle soggettività in gioco. E ciò, naturalmente, comporta l’uso di una prospettiva attenta ai “discorsi”, alle “rappresentazioni”, alle “immagini” incostanti che definiscono gli spazi geografici e simbolici dell’azione sociale. Si tratta innanzitutto di spazi che Fabietti, descrivendo il contesto produttivo e abitativo del Pakistan sud-occidentale, configura come “spazi abitati”, privati e “introversi”, e come “spazi lavorati”, cioè come proprietà soggette ad una serie complessa di prestazioni e contro-prestazioni che tracciano reti di reciproche dipendenze, strutture di interazione, sistemi di ripartizione di diritti e di obblighi che si delineano a partire dalla natura composita delle classi sociali e dalla storia di dispersione dei diversi gruppi. Un contesto complesso e stratificato, in cui la gestione delle risorse è regolata da fattori interrelati che comprendono le norme residenziali, i modelli di alleanza matrimoniale e le regole di discendenza. Un contesto, caratterizzato dalla contemporanea presenza di gruppi nomadi e sedentari, in cui i rapporti tra le élites dominanti a livello locale e le potenze straniere hanno delineato modalità di occupazione competitiva del territorio. Un contesto “instabile” che Fabietti, ispirandosi al Machiavelli de Il Principe, interpreta focalizzandosi su un fattore storico decisivo, vale a dire l’uso politico della violenza sistematica esercitata sia dai potentati interni che dai conquistatori esterni. Un contesto, infine, essenzialmente “immaginato” che, per essere vivibile, è “pensato” nella fusione tra pratiche, rappresentazioni sociali e narrazioni della storia e dell’appartenenza. 1 Michele Colafato, Emozioni e confini. Per una sociologia delle relazioni etniche, Meltemi, Roma, 1998. «Il motivo conduttore di questo libro», spiega Michele Colafato, ricercatore presso la Facoltà di Sociologia di Roma La Sapienza, «è l’osservazione dei condizionamenti esercitati dai confini geopolitici e simbolici sugli schemi di identificazione» (p. 7). Partendo dall’assunto che la costruzione dell’identità personale e collettiva si fonda sulla definizione di confini interni (status, genere, età, professione, ecc.) e di confini esterni (razza, etnia, religione, lingua, ecc.) al gruppo sociale, l’autore analizza l’opera e la biografia di tre scrittori, Flannery O’Connor, Ivo Andrić e Ismail Kadaré, che sul tema del confine hanno elaborato una riflessione di innegabile valore sociologico. Flannery O’Connor, nata nel 1925 in Georgia, nel Sud degli Stati Uniti che aveva perso la guerra civile, riflette sull’impronta gerarchica della propria terra d’origine da una posizione particolare, quella di donna cattolica cresciuta in un paese a maggioranza protestante. La questione dell’appartenenza religiosa si intreccia con una riflessione sulla tolleranza che denuncia ogni radicalismo etnico e razziale. Le sue convinzioni maturano negli anni delle campagne per i diritti civili e l’integrazione razziale che culminano nell’assassinio di John Kennedy. Non è un caso, in effetti, che uno dei suoi racconti più significativi, Everything that rises must converge, venga pubblicato nel 1961, pochi anni prima della morte della scrittrice. La scena del racconto, che si svolge su un autobus affollato di personaggi e storie diverse e ciononostante omologhe, diventa strumento per smascherare l’ottimismo della prospettiva dell’integrazione multiculturale con lo svelamento progressivo delle reazioni razziste dei protagonisti, che manifestano nei gesti, nei dialoghi, nei monologhi interiori l’insicurezza della condizione di indistinzione che conduce, quasi ineluttabilmente, al conflitto e all’incomunicabilità. Come commenta Colafato parlando dell’opera della O’Connor, la scrittrice parla di «un mondo nuovo», in cui «l’abolizione dei vecchi confini porta allo scoperto emozioni nascoste. Quell’invalicabile frontiera tra bianco e nero, all’ombra della quale il bianco si riparava dal sole accecante dell’esistenza, lo espone adesso agli stati d’animo propri di chi ha perso protezioni e sicurezze» (p. 32). Più oltre, parlando dell’ultimo racconto della scrittrice, intitolato significativamente Judgement Day, Colafato precisa: «il confinamento del nero in una etichetta o cliché […], in “commodity”, caricatura e “genere di arredamento”, è per O’Connor “territorio del diavolo” e simbolo della caduta del sud. Il male sta nella parodia dell’altro, e nella parodia è inclusa anche l’annessione a sé e la colonizzazione del nero. Il bianco incarna nel nero il suo bisogno di possesso e la sua propria attitudine clownesca» (pp. 39-40). Ismail Kadaré, da parte sua, indaga il concetto di confine a partire da una riflessione sulla dittatura albanese. In uno dei suoi più celebri romanzi, intitolato Chi ha riportato Doruntina?, lo scrittore, nato ad Argirocastro ed oggi residente in Francia, ripropone ed aggiorna un’antica leggenda del suo paese, che ruota attorno al tema del ritorno in vita della figura di un giovane morto in battaglia, per delineare i confini di una terra isolata, dominata dal controllo di un regime che organizza il tempo sociale giungendo a funzionalizzare a un qualche disegno politico perfino la morte: «la biografia individuale e di famiglia, schedata, archiviata e aggiornata, è lo strumento di base della vigilanza del partito sulla vita degli albanesi, una vigilanza che prevede anche lo scrutinio della morte» (p. 67). In questo contesto, e quasi paradossalmente, lo spazio del lutto, quando non amministrato dal potere ma vissuto nella dimensione familiare e affettiva, diventa uno spazio di libertà, di espressione di una “presenza” che può “s-confinare”, sottrarsi alle regole. La resurrezione del protagonista, che nel romanzo appare come evocazione che si accompagna al racconto dei funerali della madre e della figlia, rappresenta un passato alternativo al presente, in cui i vincoli 2 degli affetti ristabiliscono la continuità emotiva che si è persa nelle pieghe delle procedure e dei rapporti destinati agli archivi dell’autoritarismo di regime. Infine l’opera di Ivo Andrić, scrittore bosniaco, che interpreta la vicenda jugoslava insistendo sul tema della perdita, della separazione, del distacco e della frattura che trovano nell’immagine del ponte una risoluzione politica ed esistenziale. In testi come Il ponte sulla Drina o Cronaca di Travnik, lo scrittore interpreta la storia del suo paese insistendo sulla corrispondenza tra paesaggi e personaggi per spiegare l’esperienza del confine materiale e spirituale tra mondi uniti e ciononostante separati: «noi siamo la linea che separa il mare dalla terra, condannata ad essere eternamente flagellata e manomessa; noi siamo il terzo mondo, in cui si sono accumulate tutte le maledizioni per colpa della divisione del mondo in due mondi» (p. 120). 3 Enrica Rigo, Europa di confine. Trasformazioni della cittadinanza nell’Unione allargata, Meltemi, Roma, 2007. L’impegnativo e denso libro di Enrica Rigo, che si apre con una prefazione di Étienne Balibar (noto al pubblico italiano per testi come Razza Nazione classe e La paura delle masse), nasce con l’intenzione di rileggere il concetto di “cittadinanza” a partire dal dibattito sulla nozione di confine così com’è presentato nella discussione pubblica sulla costituzione dell’Europa: «l’ipotesi di ricerca di questo libro parte da una domanda semplice, che interroga il nesso costitutivo che da sempre la nozione di cittadinanza intrattiene con quella di confine» (p. 27). Il contesto nel quale la Rigo sceglie di parlare di questo nesso di valore politico, filosofico e antropologico, è quello della cosiddetta “Europa allargata” ai paesi dell’Est. La scelta impone un’analisi storica e giuridica del dibattito che ha accompagnato i processi di destatualizzazione che hanno trasformato lo spazio politico dell’Unione europea. In questo dibattito, una nozione come quella di “allargamento delle frontiere” diventa parte sostanziale della discussione sulla questione dei “diritti degli extra-comunitari” e dell’immigrazione, che induce a considerare il concetto di cittadinanza non solo e non tanto come dato, come stato o come luogo esclusivo del divenire politico della “persona”, quanto come campo disomogeneo, aperto alla contestazione e costruito socialmente prima che giuridicamente: «parlare di migrazioni e cittadinanza descrivendo le trasformazioni dello spazio giuridico europeo, e ricollocando i migranti tra gli attori di queste trasformazioni, risponde, in questa prospettiva, a una scelta metodologica precisa. Quello che si propone non è un modello alternativo di cittadinanza, ma un criterio che consenta di rappresentare la particolare relazione che intercorre tra la mobilità agita dai migranti, le trasformazioni dei confini europei e quelle della cittadinanza: in altre parole, di rappresentare la stessa cittadinanza europea nella sua complessità» (p. 30). Partendo dalla celebre definizione di “cittadinanza come status giuridico” discussa da Thomas Humphrey Marshall nel saggio intitolato Cittadinanza e classe sociale (1950), la Rigo procede con un’analisi della nozione di territorio inteso come istituzione e come spazio confinato, evidenziando le ambiguità connesse all’applicazione del diritto alla libera circolazione transnazionale, di fatto sottoposto a costrizioni che ne condizionano l’esercizio all’effettiva disponibilità di risorse e alle politiche di gestione delle migrazioni. In questo senso, l’appartenenza ad una comunità politica situata all’interno di un dominio territoriale, che si costruisce attorno alla dicotomia binaria tra inclusione ed esclusione, si configura essa stessa come risorsa limitata, come bene da ridistribuire secondo criteri di integrazione che comprendono, ad esempio, il lavoro, che in questo caso presenta caratteri diversi per migranti e cittadini: «i meccanismi di controllo della mobilità transnazionale fanno si che la relazione tra i migranti e il territorio divenga, allo stesso tempo, condizione e corrispettivo della prestazione lavorativa, integrandola, di fatto, in una sorta di rapporto contrattuale […]. Così facendo, però, i lavoratori migranti vengono “integrati” come “esternalità” […] del sistema produttivo e sono assegnati a una sorta di sottosistema giuridico differente rispetto a quello dei cittadini, che rimane tale fino a quando persistono forme di controllo sulla loro mobilità» (p. 67). Parlare di cittadinanza in questi termini comporta anche, di conseguenza, un discorso generale non solo sul concetto, spesso abusato, di nazione, ma anche sulla differenza tra un nazionalismo “civico”, legato all’esercizio dei diritti su un territorio inteso come spazio di circolazione utile, e di un nazionalismo “etnico”, legato invece alla discendenza. In effetti, a ben vedere, «affermare che la cittadinanza europea, svincolandosi dalla nazionalità, si sia emancipata dalla definizione di un rapporto di appartenenza esclusivo alla comunità significa riconoscere che questo non si esaurisce nell’iniziale determinazione di una relazione originaria […] ma viene continuamente riprodotto attraverso la gestione territorialmente e spazialmente organizzata dell’esercizio del diritto» (p. 88). 4 Ciò significa, evidentemente che la peculiarità dei confini europei non sta solo nella mancanza di limiti definiti alla loro potenzialità di espansione, ma nel fatto che l’Europa implica e porta con sé i confini degli Stati nella sua espansione. Così, come chiaramente evidenziato nella prefazione di Balibar, bisognerà necessariamente tenere conto di due nozioni di confine: «gli uni detti “interni”, che sono le vecchie frontiere nazionali degli Stati membri, gli altri detti “esterni”, che sono le “frontiere comuni” dell’Unione con il “resto del mondo”» (p. 9). Di conseguenza, «ben lungi dall’abolire o relativizzare il principio nazionale […] [gli Stati membri] lo perpetuano e gli offrono nuovi campi di applicazione» (p. 10). 5 Giovanna Donini, Margini della mobilità, Meltemi, Roma, 2008. In questo testo l’autrice, architetto e dottore di ricerca in Composizione architettonica, propone una riflessione sul tema del confine inteso come margine, come luogo dismesso, come spazio attraversato «sospeso tra sacche di indeterminazione e aree di residualità» (p. 8). Il libro, che riassume lo stato dell’arte della progettistica delle attuali infrastrutture nel quale paesaggi e strade si contaminano, insiste sul concetto di mobilità, che assume un diverso significato nel passaggio dall’era moderna a quella contemporanea, per ripensare le lacerazioni prodotte sul territorio attraverso la presentazione di una serie di principi progettuali, quali quelli della sovrapposizione, dell’accumulazione, dell’ibridazione e dell’inglobamento, che si fondano su due concezioni della velocità: quella fluida, scorrevole e rapida del traffico, e quella più lenta e controllata legata agli aspetti della sosta, del riposo e della passeggiata. Partendo dalle città utopiche disegnate dagli architetti futuristi, che immaginavano edifici costruiti su inquadrature che intendevano demolire la vecchia geometria euclidea, Donini presenta l’opera di Le Corbusier, che ipotizza la propria visione di città funzionale a partire da un principio rinascimentale, giungendo alla cosiddetta “architettura parlante” teorizzata da Natalini, al concetto di “monumento continuo” progettato dal gruppo fiorentino dei Superstudio e al realismo architettonico di Robert Venturi, John Rauch e Denise Scott Brown, che celebrano la banalità dell’antimonumentale offrendo talvolta l’architettura al linguaggio popolare delle icone pubblicitarie. Il concetto di mobilità si sostanzia nel tema del viaggio, della strada che, percorsa e agita, attraversa territori, supera frontiere e mette in comunicazione: «la visione del paesaggio attraversato rappresenta una superficie infrastrutturale nella quale strade, autostrade, svincoli, viadotti, strade ferrate e acquedotti sono i segni stratigrafici di una antica e contemporanea realtà delle comunicazioni che, disseminandosi nel tessuto urbano e non, ne rendono la superficie permeabile, porosa e continua» (pp. 33-34). In effetti, è proprio questa nozione di infrastruttura a legare l’arte elettronica alla Land Art, alle opere pittoriche dei Futuristi e agli allestimenti degli anni Trenta. Si tratta di una infrastruttura intesa come spazio agito, che diventa monumentale per il fatto di essere attraversato, valorizzato dal passaggio, dalla comunicazione che diventa arte. Si pensi all’opera di Claes Oldenburg, che negli anni Sessanta ha realizzato, per qualificare un punto nodale centrale quale Piazzale Cadorna a Milano, la celebre scultura intitolata Ago, filo e nodo. Questo è solo uno dei molti esempi che Donini riporta per presentare un’arte legata alla città, che introduce, accentua e patrimonializza passaggi, piazze, siti che passano dalla dimensione generica di vuoti non-luoghi a quella integrata, vivibile e vissuta di ambienti. Il libro si chiude quindi con uno sguardo ad alcune “opere del margine”, che concretamente mettono in sintonia, saldandoli tra loro, paesaggi infrastrutturali e spazi residuali: si parla del sottoviadotto Carrasco Square (Amsterdam), del McCormick Tribune campus center (Chicago), del Marginal do Douro (Oporto), del centro commerciale The Village (Voorburg), del Parque de la Solidaritat (Barcellona), dell’area di sosta Nîmes-Caissargues, della stazione degli autobus The Amazing Whale Jaw (Hoofddorp) e, infine, del parcheggio-scambiatore Impruneta (Firenze). 6