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Gli avvenimenti alla frontiera nord

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Gli avvenimenti alla frontiera nord
Gli avvenimenti alla frontiera nord-orientale:
l'Alpenvorland e l'Adriatisches
Küstenland (1943-45)
di Luciano Luciani
1. Premessa - 2. Le zone di operazioni Alpenvorland e Adriatisches Küstenland
- 3. L'Alpenvorland - 4. Le forze contrapposte nell'Adriatisches Küstenland 5. Le operazioni militari nel Litorale Adriatico - 6. Struttura amministrativa
ed attività politica nell'Adriatisches Küstenland - 7. I rapporti intertedeschi 8. Rapporti tra i supremi commissari e le autorità italiane - 9. L'agonia di Zara
italiana - 10. Tentativi di Mussolini per salvaguardare l'italianità della Venezia
Giulia e di Zara - 11. La Guardia di Finanza nelle zone di operazioni - 12. Epilogo
1. Premessa
Lo sgombero delle forze dell'Asse dall'Africa Settentrionale e
dall'ultimo baluardo in Tunisia (12 maggio 1943) fece comprendere
anche ai fascisti più intransigenti che la guerra era irrimediabilmente
perduta. Ormai anche Mussolini iniziava a pensare alla possibilità di
uscire in qualche modo dall'avventura in cui si era cacciato tre anni
prima.
I sentimenti unanimi dei vertici istituzionali e della popolazione
italiana sulla necessità di scindere i destini nazionali da quelli
dell'ingombrante alleato dell'Asse erano peraltro già noti ad Hitler che fin
da metà maggio 1943 aveva dato ordine di pianificare l'invasione della
penisola in caso di ormai più che prevedibile defezione italiana.
Il dittatore tedesco non si faceva più illusioni al riguardo: riteneva
che in caso di attacco alleato della penisola le forze armate italiane non
avrebbero combattuto contro il comune nemico; naturalmente esisteva
la possibilità che essi non si limitassero a smettere di combattere ma
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cambiassero schieramento passando a collaborare con il nemico ai
danni della Germania.
Sulla base di queste premesse e nella convinzione che presto
gli anglo-americani avrebbero organizzato uno sbarco in Italia o nella
penisola balcanica, l'OKW (1) predispose due piani: il primo, denominato
"operazione Alarico" prevedeva l'invio in Italia di consistenti forze
tedesche per sostenere e se del caso sostituire l'esercito italiano nel
contrasto di un'invasione degli alleati (2). In tale quadro, il 22 maggio,
Hitler firmò gli ordini per inviare nel Nord-Italia, subito, con pretesti
vari, quattro divisioni tedesche, oltre alle due operanti già in Sicilia, che
in caso di necessità sarebbero state seguite da altre sedici. Le unità
germaniche sarebbero state poste al comando del feldmaresciallo
Rommel, sarebbero state introdotte in Italia con la massima cautela
diplomatica ed avrebbero dovuto fermare l'invasione nemica quanto più
a sud possibile.
Per rispettare le apparenze i tedeschi posero la massima cura
a non fornire pretesti al governo italiano di protestare per una palese
intrusione non richiesta all'interno dei propri confini.
Il secondo piano, denominato "operazione Achse", anch'esso
affidato alla responsabilità di Rommel, era basato sull'ipotesi di
un abbandono dell'alleanza da parte dell'Italia. Aveva l'obiettivo di
disarmare immediatamente le forze armate italiane, di impadronirsi delle
loro armi ed equipaggiamenti e, se necessario, di trattare i militari come
prigionieri di guerra.
I due piani erano complementari, in quanto l'attuazione del
primo avrebbe senz'altro preceduto quelli del secondo, mentre
contemporaneamente si sarebbe dovuto contrastare l'invasione angloamericana.
Il 10 luglio gli alleati sbarcavano in Sicilia, conquistando l'isola in
39 giorni, malgrado ne avessero previsti molti di meno.
(1) OBERKOMANDO WEHRMACHT: Comando supremo delle forze armate.
(2) FRASER D., ROMMEL, L'ambiguità di un soldato, A. Mondadori Ed., p. 420.
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Nel frattempo il 25 luglio Mussolini veniva deposto dal Gran
Consiglio del Fascismo ed il giorno dopo arrestato all'uscita dall'udienza
con il Re. Il Governo venne affidato al maresciallo Badoglio ed
Hitler, furibondo per la defenestrazione del suo amico, diede il via
all'operazione Alarico. La questione più delicata era rappresentata dai
valichi alpini (Resia, Brennero, Dobbiaco) che dovevano essere occupati
unitamente al corridoio dell'Adige fino a Verona, presentando tutto ciò
come un aiuto agli italiani che invece protestavano per l'intrusione.
La vicenda venne gestita, da una parte e dall'altra in perfetta
malafede. I tedeschi ritenevano che l'Italia a breve termine sarebbe
uscita dalla guerra ed agivano di conseguenza, assicurando però in ogni
circostanza che avevano piena fiducia dell'alleato e volevano continuare
la guerra in pieno accordo. Gli italiani sostenevano la stessa cosa,
mentre invece era già stata assunta - molto confusamente - la decisione
di trattare con gli anglo-americani per l'uscita dalla guerra.
Dopo la caduta del fascismo furono tenuti due convegni italotedeschi: il primo a Tarvisio (6 agosto) tra i ministri degli esteri Von
Ribbentrop e Caviglia ed i capi di S.M., il secondo a Bologna tra
Rommel, comandante designato dal gruppo di Armata B che stava
attuando l'operazione Alarico e Roatta, capo di S.M. dell'Esercito
Italiano. Gli incontri, svoltisi in un'atmosfera gelida e densa di reciproci
sospetti, si conclusero senza alcun risultato, ma confermarono da
un lato i tedeschi nella loro intenzione di intensificare la penetrazione
in forze nella penisola e dall'altro l'Italia a concludere al più presto le
trattative per uscire dalla guerra, anche tenuto conto dell'impossibilità di
opporsi alle 8 efficienti divisioni tedesche già in loco.
Nel corso del mese di agosto il comando supremo della
Wehrmacht aveva perfezionato il piano Achse per l'assunzione dei poteri
in Italia in caso di defezione dell'alleato.
Vi era previsto il disarmo dell'Esercito italiano, l'occupazione
delle posizioni sensibili (valichi montani, porti, ferrovie, strade statali)
e la definizione del territorio del Regno come zona di operazioni con
conseguente trasferimento dell'esercizio dei poteri civili ai comandanti
tedeschi.
L'annuncio dell'armistizio dell'8 settembre non trovò impreparato il
governo tedesco, mentre gettò nel caos quello di Badoglio.
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Fin dalle 20,30 dell'8 settembre (l'armistizio era stato annunciato
in Italia alle 18) Rommel ordinò l'immediata occupazione del Brennero
e successivamente dell'intera Italia settentrionale. Due giorni dopo il
disarmo delle truppe italiane della pianura padana era concluso (3),
soprattutto per mancanza di precisi ordini del Comando Supremo.
Anche al centro-sud le forze armate italiane vennero disarmate
in breve tempo. Più laborioso fu invece il disarmo e la cattura delle
divisioni italiane fuori dei confini nazionali, specie nei Balcani, ma entro il
mese di settembre ogni forma di resistenza organizzata era cessata e la
Wehrmacht aveva ovunque il completo controllo della situazione.
La flotta ed i pochi velivoli della Regia Aeronautica ancora
efficienti raggiunsero invece, in attuazione delle clausole di armistizio,
rispettivamente la base di Malta e gli aeroporti sotto il controllo alleato.
2. Le zone di operazioni Alpenvorland e Adriatisches Küstenland
Intanto, il 10 settembre il führer aveva emanato un'ordinanza,
integrata poi il 10 ottobre, con cui veniva ristrutturato il territorio italiano
occupato (4).
Il territorio occupato era diviso in "zone di operazioni" ed in
"restante territorio occupato".
Le zone di operazioni erano:
- il territorio a sud della provincia di Roma, L'Aquila e Teramo, sul quale
il potere esecutivo era esercitato dall'Alto comandante (OB) sud,
Kesserling;
- il territorio alpino, dal confine croato a quello svizzero, che fu suddiviso
nella zona di operazioni Adriatiches Küstenland (litorale adriatico), con
le province di Trieste, Gorizia, Udine, Pola, Fiume e Lubiana, e nella
(3) Profilo della situazione in Italia, 10 settembre 1943, delineato da GROTA, Uff. de Segr. Di
St. C.C. vol. 16, pp. 136 e seg.
(4) Entrambe le ordinanze sono integralmente riportate quali appendici 1 e 2 in STUHLPFARRER K.,
"Le zone di operazioni prealpi e litorale adriatico 1943-45", Ed. libreria Adamo, Gorizia, 1969.
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zona operativa Alpenvorland (Prealpi), con le province di Bolzano,
Trento e Belluno. I poteri civili sulle due zone erano affidati ai gauleiter,
rispettivamente della Carinzia Friedrich Rainer (5) e del Tirolo Franz Hofer;
- era poi prevista un'ulteriore zona di operazioni comprendente
le province costiere dell'Adriatico e del Tirreno, che rifletteva la
preoccupazione dell'A.O.K. (6) di possibili sbarchi degli alleati lungo la
penisola, ma lo stabilizzarsi del fronte di combattimento a sud di Roma
portò a non attuare questo disegno.
(5) Friedrich Rainer nacque nel 1903 nei pressi di Klagenfurt. Si laureò in giurisprudenza
a Graz in un clima di acceso nazionalismo che lo portò ad aderire giovanissimo al partito
nazionalsocialista. Fu un fervido sostenitore dell'anschluss dell'Austria alla Germania e percorse
rapidamente i gradi della gerarchia del partito. Fu nominato gauleiter di Salisburgo nel 1940 e della
Carinzia nel 1941. Catturato al termine della guerra dagli inglesi, fu poi consegnato agli jugoslavi
che nel 1947 lo condannarono a morte per crimini di guerra e lo giustiziarono a Lubiana.
(6) Armée Oberkomando: Comando Supremo dell'Esercito tedesco.
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Nelle ordinanze del Führer non veniva indicata la sorte della
provincia di Zara, che comprendeva, oltre al capoluogo, il comune di
Lagosta, perché Hitler aveva divisato di cederla alla repubblica croata di
Ante Pavelic.
Mentre nella zona operativa del sud Italia i poteri civili e militari
erano riuniti nelle mani dell'Alto comandante militare Kesserling, nelle
due zone operative Prealpi e Litorale Adriatico i poteri militari erano
esercitati dal Comandante del gruppo di esercito B, Ervin Rommel,
mentre quelli civili facevano capo ai due gauleiter, Rainer ed Hofer.
La personalità piuttosto forte di questi due gerarchi nazisti, che
rispondevano del loro operato soltanto ad Hitler, creò frizioni con i
comandanti militari, specie nel litorale Adriatico ove le formazioni
partigiane tenevano testa validamente alle unità germaniche; i gauleiter,
infatti, interferivano attraverso le forze di polizia che a loro facevano
capo, con la Wehrmacht, che invece pretendeva mano libera nella
lotta alla guerriglia, dato che in questo tipo di operazioni il confine tra
operazioni di polizia e operazioni militari è piuttosto labile.
L'autonomia di Hofer e Rainer aveva modo di esplicarsi, in tutta
la sua estensione, in campo politico e nell'amministrazione civile.
Scopo dichiarato della costituzione delle zone di operazioni era quello
di assicurare il successo della guerra in corso. I territori in questione
controllavano le vie di comunicazione del Brennero - Verona e di Tarvisio
- Trieste - Fiume, molto vulnerabili ad attacchi della resistenza, ma
indispensabili per l'alimentazione delle truppe tedesche che operavano
sui fronti di combattimento in Italia meridionale e nei Balcani.
Sulla sistemazione dei territori a guerra conclusa, Hitler non si
era ancora pronunciato e non si pronuncerà mai, e ciò per riguardo
a Mussolini, di cui continuava a subire il fascino. Tuttavia, pochi a
Berlino pensavano che, in caso di vittoria, i confini nord orientali
dell'Italia sarebbero stati quelli fissati al termine della 1^ guerra
mondiale. Goebbels, il potente ministro della propaganda, si era spinto
a dichiarare, in conversazioni private, che la Germania avrebbe dovuto
avere con l'Italia i confini dell'Austria del 1850, e cioè fino al Mincio ed al
Po, impadronendosi quindi del Triveneto.
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Rainer ed Hofer, avevano avuto ordini espliciti di non fare mai, in
nessun caso, affermazioni relative alla futura sistemazione dei confini,
e ciò per non creare frizioni con Mussolini, che tra l'altro aveva preso
il potere nel 1922, sulla base di programmi di acceso nazionalismo,
nell'ambito dei quali lo slogan della "vittoria mutilata" per la rinuncia dei
governi democratici all'annessione della Dalmazia aveva avuto notevole
peso, ma agirono sempre in modo che al termine della guerra, che loro
ritenevano vittoriosa per la Germania, l'inserimento nel grande Reich dei
territori da loro amministrati non avrebbe procurato problemi.
La prima mossa dei due supremi commissari, appena insediati,
fu quella di escludere nei territori da loro amministrati, ogni influenza
del governo della Repubblica Sociale Italiana. Essi rimossero i prefetti
titolari o impedirono l'insediamento di quelli nominati dal Ministro degli
Interni della R.S.I., insediando nel contempo alla carica personaggi di
nazionalità italiana, ma di loro fiducia.
Hofer e Rainer, infatti, avevano una pienezza di poteri che
consentiva loro una autonoma agibilità totale nei confronti della R.S.I.
e molto ampia anche di fronte allo stesso plenipotenziario del Reich
presso il governo dell'Italia fascista, Rudolf Rahn (7), una sorta di
commissario politico affiancato a Mussolini.
Il Duce fece molti tentativi, come si vedrà in seguito, direttamente
presso Hitler, per recuperare l'effettivo esercizio della sovranità sulle due
zone. In particolare egli fu molto rincresciuto per la nomina di prefetti
nelle zone di operazioni dai due supremi commissari invece che dal
governo della R.S.I.
(7) Secondo una nota del Ministero degli Esteri dei Reich, "il delegato del Reich è il centro
verso il quale devono affluire le questioni importanti di politica estera nell'ambito di tutto il territorio
sottoposto alla dominazione tedesca in Italia. Pur non avendo il diritto decisionale, egli può far
valere il suo influsso sulle trattative concernenti queste questioni, in quanto gli uffici ai quali esse
affluiscono dovranno rivolgersi ed accordarsi con lui. Non viene specificato quali questioni possono
essere definite di politica estera. Ma si può presumere che vi appartengano almeno quei problemi
per i quali è necessario trattare con il governo nazionale fascista", cfr. STUHLPFARRER K., "Le zone di
operazioni", op. cit., p. 63.
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Il prefetto, infatti, nell'ordinamento giuridico amministrativo italiano
era nel 1943, come oggi, la massima autorità periferica dello Stato. E lo
era ancor di più nel sistema centralistico fascista in quanto figura cardine
della struttura di governo e di amministrazione sul territorio dello Stato e
concreta presenza del potere unitario. Dopo il 25 luglio 1943, Badoglio
aveva iniziato subito a sostituire ai prefetti di nomina fascista, funzionari
fedeli allo Stato e non al regime. Mussolini, dopo essere ritornato al
potere, fece anch'egli la stessa operazione, nominando ed insediando
i capi delle province. Ma non lo poté fare nelle due zone di operazioni.
E questa limitazione fu, e fu intesa così anche da Mussolini, la prova più
concreta ed evidente che la R.S.I. aveva dovuto rinunciare alla sovranità
nelle due zone di operazioni (8).
3. L'Alpenvorland
La istituzione dell'Alpenvorland rispondeva all'esigenza immediata
di un saldo controllo militare della linea di comunicazione che dal
Brennero adduce a Verona, per assicurare i rifornimenti delle armate
tedesche che combattevano contro gli alleati in Italia.
A questa motivazione si aggiunsero, come per l'Adriatisches
Küstenland, le aspirazioni annessionistiche dei circoli nazionalisti
di Berlino e Vienna, i quali non avevano dimenticato che Hitler era
stato costretto ad assicurare nel 1938 l'intangibilità "per sempre"
della frontiera del Brennero, per ottenere l'approvazione di Mussolini
all'Anschluss dell'Austria.
Oltretutto la situazione politica dell'area consentiva un'occupazione
nazista non problematica. Delle 3 province costituenti la zona di
operazioni, quella di Bolzano era abitata in gran parte da popolazioni
etnicamente tedesche e politicamente molto vicine al nazismo, in quella
di Trento esistevano molti simpatizzanti per la Germania e solo quella di
Belluno era pienamente di sentimenti italiani.
(8) Vedi CORSINI U., "L'Alpenvorland, necessità militare o disegno politico?", in "Tedeschi,
partigiani e popolazioni nell'Alpenvorland (1943-45)" . Atti del convegno di Belluno 21-23 aprile
1983, Marsilio editore, p. 42.
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Il supremo commissario Hofer, appena insediato, si premurò di
recidere ogni legame con la R.S.I., destituendo i prefetti nominati dal
governo repubblicano e nominando al loro posto uomini di sua fiducia.
A Trento venne insediato l'Avv. De Bertolinis, già deputato trentino al
parlamento di Vienna nel periodo precedente la prima guerra mondiale, a
Belluno il vice prefetto Comm. Salvetti ed a Bolzano il dirigente del gruppo
etnico tedesco Peter Hofer, soltanto omonimo del supremo commissario.
Il secondo atto del gauleiter fu la modifica delle circoscrizioni delle
province di Trento e Belluno, per annettere alla provincia di Bolzano
alcuni comuni, i più importanti dei quali erano Cortina d'Ampezzo e
Pieve di Livinallongo (Belluno).
Successivamente Hofer vietò la riorganizzazione del Partito
Nazionale Fascista e l'ingresso nella zona di operazioni di funzionari del
governo di Mussolini.
Sul piano militare l'Alpenvorland godette di una certa tranquillità.
Episodi di resistenza armata ai tedeschi si verificarono con una certa
intensità soltanto nelle aree meridionali delle province di Belluno e Trento
e vennero represse senza particolare difficoltà dalle forze di polizia
germaniche, nelle quali si erano affrettati ad arruolare numerosi elementi
del gruppo etnico tedesco dell'Alto Adige.
Per contro la linea di comunicazioni stradale e ferroviaria tra
il Brennero e Verona venne sottoposta fino al termine della guerra a
metodici bombardamenti aerei che provocarono notevoli danni e quindi
intralci alla circolazione di treni e automezzi.
Alla fine delle ostilità, la zona di operazioni Prealpi fu l'ultimo lembo
del territorio italiano in cui si svolsero combattimenti, addirittura oltre il 2
maggio 1945, data ufficiale del termine della guerra in Italia.
L'Alpenvorland era stato incluso nella "Fortezza Alpina" che
comprendeva le regioni alpine del nord-est d'Italia, del sud della
Germania, dell'Austria e della Slovenia. Qui si sarebbe dovuta condurre
l'ultima difesa del III Reich e vi si sarebbero dovute concentrare tutte le
truppe ritiratesi dagli altri fronti.
Il progetto non fu potuto realizzare per lo sfacelo della Wehrmacht
a seguito delle disastrose sconfitte subite nei primi mesi del 1945.
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Comunque quest'area era la naturale linea di ritirata dei reparti tedeschi
dopo che gli alleati erano dilagati nella pianura padana. Alla fine di aprile
e nei primi giorni di maggio 1945 piccoli reparti che avevano perso i
collegamenti con i comandi superiori cercavano di raggiungere il Tirolo
lungo le valli alpine delle province di Trento e Belluno. Qui subirono
gli agguati dei partigiani che provocarono loro perdite consistenti. Fu
in queste circostanze che i tedeschi si abbandonarono ad eccessi
rivalendosi sulle popolazioni inermi con massacri di innocenti e incendi
di paesi e villaggi.
4. Le forze contrapposte nell'Adriatisches Küstenland
Nel mese di settembre 1943, la Venezia Giulia, la Slovenia e la
Croazia del Nord erano presidiate dalla 2^ e dall'8^ armata, comandate
rispettivamente dai generali Robotti e Gariboldi.
La 2^ armata, con sede a Fiume, era articolata su tre corpi: l'XI, il
V ed il XVIII.
L'XI corpo occupava la provincia di Lubiana, in Slovenia e la
regione di Karlovac in Croazia ed aveva alle dipendenze 3 divisioni di
fanteria (Lombardia, Treviso e Cacciatori delle Alpi).
Il V Corpo, su due divisioni di fanteria (Macerata e Murge) e
una brigata costiera (XIV) era stanziato nella Dalmazia settentrionale
comprese le isole di Veglia, Cherso, Lussino, Arbe e Pago.
Infine, il XVIII Corpo aveva giurisdizione su Zara e la Dalmazia
centrale, e le rispettive isole e disponeva di due divisioni di fanteria (Zara
e Bergamo) e di due reggimenti bersaglieri.
L'8^ armata, con sede a Padova, disponeva anch'essa di 3 corpi
d'armata. In particolare, il XXIII corpo era ubicato a Trieste e nell'Istria
ed aveva alle dipendenze la divisione Sforzesca e tre reggimenti costieri,
oltre le truppe dei presidi di Monfalcone, Trieste e Pola.
Il XXXV corpo, invece, con sede ad Udine presidiava la parte
settentrionale della Venezia Giulia, da Postumia a Tarvisio ed aveva delle
dipendenze la divisione alpina Julia e la divisione di frontiera Torino.
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Infine il XXXV corpo aveva competenza sull'Alto Adige, Trentino
e pianura padana e disponeva di due divisioni alpine (Cuneense e
Tridentina) ed un reggimento bersaglieri.
Le due armate erano assai poco efficienti perché disponevano
di organici largamente incompleti, ed erano ancorate a compiti statici
di controllo del territorio e del presidio di obiettivi fisici. Le unità, in
gran parte reduci dalla disastrosa campagna di Russia erano in lento
riordinamento, prive di armamento pesante e di automezzi e con morale,
tranne che per le unità alpine, alquanto depresso.
Accanto ai reparti dell'Esercito, nelle basi, nei porti e lungo i litorali
erano stazionate numerose unità della Marina. Limitatissimi sia per
uomini sia per mezzi, erano i reparti dell'Aeronautica.
Dopo l'8 settembre, mentre le forze armate italiane si dissolvevano,
il XCVII Corpo d'Armata germanico assumeva rapidamente il controllo
del territorio ad est del Tagliamento, costituendo successivamente
l'ossatura del sistema di occupazione. Il comando delle operazioni fu
assunto dal generale delle truppe da montagna Ludwig Kübler, con
sede prima ad Abbazia e poi, dal dicembre 1943, a Cormons. Le forze
operative erano costituite dalla 71^ divisione di fanteria, dalla 188^
divisione alpina e dalla 162ˆ divisione costituita da truppe ucraine,
turchestane e azerbagiane.
Verso la metà del 1944 la 71^ divisione fu sostituita dalla 278^
divisione di fanteria ricostituita con i resti della 332^ e 333^ divisione
in parte annientate sul fronte orientale. Nell'estate del 1944 la 162^ e
la 278^ divisione furono sostituite dalla 237^. Nel 1944 numerose unità
tedesche reduci dal fronte orientale furono inviate nella Venezia Giulia
per alcune settimane di riposo e per essere riorganizzate.
Verso la fine della guerra furono stanziate nella regione reparti
della costituenda 24^ divisione da montagna "Cacciatori del Carso",
che avrebbe dovuto essere formata da volontari altoatesini e da
collaborazionisti italiani, sloveni e croati. Il numero degli arruolati non
raggiunse però il numero sufficiente per costituire soltanto una brigata.
Nel Litorale operarono anche unità organiche della Repubblica di
Salò.
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All'indomani dell'8 settembre 1943, dopo la costituzione della zona
di operazioni Litorale Adriatico, i tedeschi accettarono a malincuore la
costituzione di reparti che in qualche modo facevano capo ad autorità
fasciste.
Tutti i reparti italiani vennero posti alla dipendenza, che allo stato
dei fatti risultò puramente nominale, perché essi difatti ricevevano ordini
solo dai comandi locali tedeschi, del CCIV Comando Militare Regionale
di Trieste, affidato al generale Giovanni Esposito.
Dal C.M.R. dipendevano (soltanto nominalmente) i Comandi
provinciali di Trieste (31°), Pola (34°) e Fiume (35°).
Il CMP di Trieste era strutturato su reparti della consistenza
complessiva di 7 battaglioni.
I Comandanti di Pola e Fiume disponevano di forze di varie Armi e
servizi e della Marina ammontanti a circa 6 battaglioni ciascuno.
Il reparto della RSI più efficiente operante nell'area era la X Mas
che comprendeva il reggimento San Marco, il reggimento San Giusto
ed il battaglione Folgore. La X Mas era alle dipendenze del Comandante
Junio Valerio Borghese che rivestiva anche la carica di Sottosegretario
alla Marina del Governo di Salò. Borghese riuscì ad operare con una
certa autonomia dai tedeschi, cercando sempre di far valere l'italianità
della Venezia Giulia. Ciò costituiva disturbo alla politica di Rainer che
cercò da subito di ottenere l'allontanamento della X Mas dal Litorale,
riuscendovi, soltanto parzialmente, alla fine del 1944.
Alcuni ufficiali della X MAS furono protagonisti di contatti
trasversali con colleghi che militavano nella Marina del sud, ove
l'Ammiraglio De Courten, ministro della Marina del governo Badoglio,
aveva predisposto un piano, che prese il suo nome, per uno sbarco di
unità di élite delle FF.AA. nella zona di Trieste, trasportate da navi della
Marina militare italiana, con l'appoggio di gruppi di artiglieria della X
MAS che avrebbero dovuto proteggere l'operazione da terra.
Il piano sarebbe divenuto operativo al momento del crollo tedesco
per prevenire l'occupazione dell'Istria da parte Jugoslava.
Il progetto fu preventivamente presentato agli anglo-americani, che
però, per non compromettere i rapporti con Tito, loro alleato nei Balcani,
avrebbero dovuto fingere di ignorare la missione.
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In tale quadro, emissari dello S.M. della Marina del sud si
infiltrarono nel nord ed ebbero colloqui con il ministro della Marina
repubblicana, Ammiraglio Sparzani e con il comandante Borghese.
Entrambi si dichiararono disposti a collaborare, ma misero in evidenza
l'estrema difficoltà di operare all'insaputa dei tedeschi, che per prevenire
evenienze del genere avevano ufficiali di collegamento ovunque, anche
nei minori reparti. Altri contatti furono presi con le autorità del nord nei
primi mesi del 1945, ma in tali occasioni emerse anche la contrarietà
al piano del C.L.N. della Venezia Giulia, ufficialmente perché la X Mas
veniva ritenuta inefficiente e comunque invisa alla popolazione.
Col passare del tempo, l'atteggiamento degli Alleati, inizialmente
favorevoli al piano De Courten, mutò, perché essi avevano scelto di
appoggiare con decisione Tito e non erano più disposti a correre il
rischio che un'operazione, sia pur condotta da soli reparti italiani, ma
con avallo e copertura alleata, pregiudicasse i difficili equilibri balcanici
che intendevano costruire.
Il piano De Courten, così come era stato concepito, risultò sin
dall'inizio irrealizzabile e quindi velleitario, perché le decisioni non
tenevano conto delle connesse implicazioni politiche (9).
I tedeschi, con l'aiuto marginale delle milizie non solo italiane,
ma anche slovene (domobranci) e croate (ustascia) erano impegnati a
fronteggiare le forze della guerriglia che erano incentrate sul IX Corpus
sloveno stanziato nelle provincie di Gorizia e Trieste ed in parte di quella
di Pola, dell'VIII Corpus operante nella provincia di Lubiana e della
13^ Divisione croata dell'XI Corpus dislocata nella restante parte della
provincia di Pola ed in quella di Fiume.
I primi due reparti facevano capo all'E.P.L. (Esercito Popolare di
Liberazione) sloveno ed il terzo all'E.P.L. croato.
(9) Sull'argomento cfr. DE FELICE S., "La Decima flottiglia MAS e la Venezia Giulia 1943-45",
Edizioni Settimo Sigillo, 2000, pp. 108-127; ROMANO P., "La questione giuliana 1943-47", Lint Ed.
1997, pp. 104-116; DE COURTEN R., "Le memorie dell'ammiraglio De Courten 1943-46", U.S.M.M.,
Roma 1993, pp. 545-555; ANDRIOLA F., "1944-45: la strana alleanza tra marinai del sud e della R.S.I.
per difendere Trieste e le terre dell'Est", in bollettino d'archivio dell'Ufficio Storico della Marina
Militare, Roma, anno XII, marzo 1988, pp. 119-142.
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Subito dopo l'armistizio, si costituirono ed operarono, in un primo
momento autonomamente, diverse formazioni partigiane, espressione
della resistenza del gruppo etnico italiano.
La prima fu la brigata proletaria triestina con base di operazione
nel Carso tra Gorizia e Monfalcone.
La brigata combatté contro i Tedeschi con alterne fortune, sempre
assillata da difficoltà logistiche che la costrinsero a chiedere appoggio
al IX Corpus con la conseguenza di perdere progressivamente la sua
autonomia anche operativa, finché, nell'autunno del 1944 la brigata
che nel frattempo aveva assunto la denominazione di "14^ Brigata
d'assalto Garibaldi-Trieste" non venne prima smembrata cedendo i suoi
battaglioni ad altre formazioni slovene e poi trasferita fuori dai confini
nazionali, alle dipendenze dell'VIII Corpus della Slovenia.
Tale strategia dell'E.P.L. della Slovenia era stata attuata in quanto la
brigata Garibaldi - Trieste, con l'afflusso di un numero notevole di italiani
(oltre 2000) che avevano deciso di partecipare alla guerra partigiana,
aveva assunto una consistenza tale da preoccupare le autorità slave che
vedevano l'eccessiva presenza di combattenti italiani nei territori oggetto
di rivendicazione, pregiudizievole degli interessi nazionalisti del proprio
gruppo etnico.
La seconda, fu la divisione partigiana Osoppo, definita anche
brigata bianca, sorta da preesistenti reparti alpini i cui componenti
dopo l'8 settembre si erano data alla macchia, e che operava nell'area
compresa tra Isonzo e Tagliamento.
La Osoppo mantenne sempre, ed a qualunque costo, la sua
connotazione di italianità e ciò la costrinse a combattere i nazifascisti
guardandosi sempre le spalle dalle formazioni slave dell'E.P.L. Che i
timori dei partigiani italiani non fossero infondati lo dimostrò, il 7 febbraio
1945, l'episodio di malga Porzus allorquando il comandante e lo stato
maggiore della Osoppo furono sterminati con l'inganno da emissari del
IX Corpus sloveno (10).
(10) Nell'area di competenza della Osoppo operava anche la brigata comunista Garibaldi
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GLI AVVENIMENTI ALLA FRONTIERA NORD-ORIENTALE: L'ALPENVORLAND E L'ADRIATISCHES KÜSTENLAND
Altre formazioni partigiane che subirono sorte analoga alla
brigata proletaria triestina, furono la brigata Istria, il battaglione italiano
antifascista, il battaglione italiano d'Istria, il battaglione Budicin. I reparti
furono sciolti ed i patrioti inquadrati in unità slave. Solo il Budicin poté
godere di una certa autonomia, in quanto inquadrato con comandante e
commissari politici croati o italiani che militavano nel partito comunista
croato.
Verso la fine della guerra i pochi combattenti italiani della
Resistenza rimasti nella Venezia Giulia furono trasferiti nelle zone più
remote della Slovenia e della Croazia. Solo dopo il 20 maggio 1945,
alle brigate Trieste e Fontanot, che avevano combattuto nella Slovenia
interna, fu concesso di raggiungere Trieste.
5. Le operazioni militari nel Litorale Adriatico
All'indomani dell'8 settembre 1943, a seguito della dissoluzione
delle Forze Armate italiane, il controllo del territorio della Venezia Giulia,
ad eccezione dei capoluoghi di provincia, passò agli esponenti politici
della popolazione slava e croata, con il determinante aiuto degli elementi
della resistenza.
(segue nota)
(diversa dalla Garibaldi Trieste) dipendente direttamente dal IX Corpus, che ostacolava l'azione
della Osoppo stessa fino quasi ad annullarne l'efficienza. Lo scontro tra le due formazioni italiane,
inizialmente ideologico, ebbe un drammatico epilogo con l'eccidio del 7 febbraio 1945 a Malga
Porzus. Nel novembre 1944 Togliatti aveva ordinato che i reparti partigiani dell'area del Natisone
passassero alle dipendenze del IX Corpus. La Garibaldi accolse entusiasticamente l'ordine, che
invece fu sdegnosamente respinto dalla Osoppo. Ed allora fu decisa l'eliminazione fisica dei
ribelli, affidandone l'esecuzione a Mario Toffanin, detto Giacca. Questi preparò un tranello nel
quale caddero il comandante della Osoppo, capitano Francesco De Gregari, Gastone Valente,
Giovanni Comin ed Elda Turchetti; nei giorni successivi i garibaldini trucidarono altri 17 osovani, tra
i quali Guido Pasolini, fratello di Pier Paolo ed il sottobrigadiere della Guardia di Finanza Pasquale
Mazzeo, vice intendente della stessa unità. Dopo la fine della guerra Toffanin fu fatto espatriare dal
partito comunista di Udine, su sollecitazione di Togliatti, per sottrarlo alla condanna all'ergastolo
inflittagli dalla Corte d'Assise di Lucca per i fatti di Porzus. Successivamente fu graziato dal
Presidente della Repubblica Sandro Pertini, ma rimase in Yugoslavia, ove comunque continuò a
percepire la pensione di ex combattente elargitagli dallo Stato italiano.
2/2004 Rivista della Guardia di Finanza
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STORIA
LUCIANO LUCIANI
La presa del potere nelle singole località avvenne senza
spargimento di sangue, in quanto i rivoltosi furono agevolati dal
disorientamento delle autorità e della popolazione italiana dovuto
all'armistizio.
Dopo qualche giorno, però, iniziarono le vendette e le ritorsioni non
solo nei confronti dei fascisti, ma anche di coloro che avevano l'unico
torto di essere italiani. Le fucilazioni, gli infoibamenti, l'affondamento di
persone vive in mare divennero abituali e tutto ciò con le tecniche della
pulizia etnica, che verrà nuovamente messa in atto negli anni 90 durante
la guerra conseguente alla dissoluzione della ex Jugoslavia.
Le città capoluogo di provincia, furono, invece, risparmiate da
tali orrori, in quanto in esse era preponderante l'elemento italiano. La
presenza di forze armate italiane, molto consistente, consentì inoltre di
mantenere saldo l'ordine pubblico fino alla presa del potere da parte dei
tedeschi, che disponevano nella regione di forze esigue, ma concentrate
nelle città. Successivamente, per garantire la sicurezza delle linee di
comunicazione con la penisola balcanica, l'O.K.W. ed il gruppo di eserciti
B del generale Rommel, ordinarono una operazione contro le forze
partigiane con l'obiettivo di riaffermare il controllo tedesco nella Venezia
Giulia e particolarmente nell'Istria. L'offensiva, denominata operazione
Wolkenbruch (nubifragio), ebbe inizio nella notte sul 2 ottobre 1943 (11) e
fu condotta sotto il comando del generale delle SS Paul Hausser che aveva
alle dipendenze le divisioni corazzate delle SS Prinz Eugen e Leibstandtarte
Adolf Hitler, unità della 162^ divisione turkmena, la 24^ e la 44^ divisione
di fanteria corazzata, la 71^ divisione di fanteria, ed infine, poco consistenti
unità fasciste repubblicane da poco ricostituite.
Il comando operativo dell'E.P.L. dell'Istria, invece, poteva contare
su non più di 10.000 partigiani bensì imbaldanziti dalla resa italiana ed
equipaggiati con le armi predate ai nostri militari sbandati, ma che non
potevano sperare di tener testa con qualche possibilità di successo alle
ben più potenti forze tedesche, ammontanti ad oltre 36.000 uomini (12).
(11) LA PERNA G., Pola - Istria - Fiume, Mursia, 1993, p. 198 e ss.
(12) RUMICI G., Infoibati (1943-45), Mursia 2002, p. 101.
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GLI AVVENIMENTI ALLA FRONTIERA NORD-ORIENTALE: L'ALPENVORLAND E L'ADRIATISCHES KÜSTENLAND
L'operazione Wolkenbruch ebbe un'attuazione rapida ed incisiva
che consentì di rioccupare il territorio ed annientare la resistenza slava,
con l'impiego massiccio dell'aviazione e di unità corazzate.
I tedeschi penetrarono nell'Istria con tre colonne, precedute da
intensi bombardamenti aerei, e in pochi giorni raggiunsero tutte le
principali località sulla costa e nell'interno e annientarono e costrinsero
alla fuga verso località di montagna impervie i reparti partigiani. Nuclei
della resistenza cercarono in qualche modo di rallentare l'avanzata
nazista impegnando gli avversari con imboscate, colpi di mano e agguati
alle colonne avanzanti, che, per reazione si rifecero sulla popolazione
civile, anche di etnia italiana, con fucilazioni indiscriminate, violenze,
incendi di villaggi e saccheggi.
L'operazione Wolkenbruch si concluse il 9 ottobre con la conquista
di Rovigno, ultima roccaforte della Resistenza.
Il rastrellamento dell'Istria proseguì per tutto il mese di ottobre con
una tale brutalità nei confronti non solo del movimento partigiano ma
anche verso i civili innocenti di tutte le etnie, che fece salire le perdite
tra insorti, partigiani, fiancheggiatori e soprattutto estranei al movimento
partigiano a circa 2.500 persone.
A novembre la situazione militare poteva dirsi normalizzata a favore
dei tedeschi e per quasi un anno e mezzo l'Istria, Fiume ed il territorio
della provincia di Gorizia ad ovest dell'Isonzo venne tenuto sotto
controllo, sia pure con qualche difficoltà, dalle autorità dell'Adriatische
Küstenland del gauleiter Rainer e del Comandante della Polizia, generale
delle SS Globocnik.
Le forze partigiane slave e italiane entrarono nella clandestinità e si
limitarono ad attività di indottrinamento politico e di operazioni di guerriglia
contro i presidi di occupazione isolati, in gran parte costituiti da piccole
unità italiane aderenti alla R.S.I. e di preparazione all'insurrezione generale.
Rimasero invece saldamente in mano all'E.P.L. le Alpi Giulie da
Tarvisio al golfo del Quarnaro e qualche area rurale interna lontana dalle
rotabili principali.
In questa fase di riorganizzazione gli appartenenti alle unità
partigiane di ispirazione italiana furono brutalmente poste avanti ad un
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STORIA
LUCIANO LUCIANI
bivio: o perdere la connotazione di nazionalità mediante la dispersione
dei singoli elementi nelle formazioni slave ad ovest e soprattutto ad est
del vecchio confine italo-jugoslavo, oppure essere passati per le armi.
È questa la sorte che toccò al capitano dell'Arma Filippo Casini,
Comandante del gruppo di Pola, che passò alla Resistenza nell'estate
del 1944 con oltre 100 carabinieri con l'intento di costituire un polo di
riferimento dei partigiani di etnia italiana. I rapporti con gli slavi si fecero
subito molto tesi, quando apparve chiaro che essi combattevano i nazisti
per annettere alla Jugoslavia tutta la Venezia Giulia. Il capitano Casini
venne ben presto isolato dai suoi uomini che furono dispersi nei reparti a
preponderanza slava e fucilato, il 14 agosto 1944 assieme alla moglie (13).
Nella seconda metà del 1944 la zona di operazioni del litorale
Adriatico vide accentuarsi la sua importanza perché l'inarrestabile avanzata
dell'Armata Rossa verso il centro dell'Europa aveva indotto Hitler a
vagheggiare la costituzione della "fortezza alpina" che nel suo lato sud
avrebbe dovuto incentrarsi sulle due zone di operazioni Alpenvorland
(province di Bolzano, Trento e Belluno) e Adriatisches Küstenland.
Il tale quadro l'O.K.W. decise di fortificare le coste dell'alto Adriatico
fino a Fiume e di ripristinare le vecchie fortificazioni italiane a protezione del
confine orientale. Quest'ultima linea, con caposaldo la città di Fiume era
denominata "Ingrid" e controllava l'accesso dai Balcani.
Verso la fine della guerra la Venezia Giulia divenne un grande
cantiere di lavoro affidato all'organizzazione Todt che impiegò mano
d'opera reclutata coattivamente, ammontante fino a 10.000 uomini dai
14 a 60 anni.
L'aumentata importanza strategica della regione richiese un
potenziamento della attività antiguerriglia, condotta con vaste azioni di
(13) Cfr. "Il Carabiniere", n.11/1960 - La reazione nazifascista alla defezione del Capitano
Casini fu drastica. Tutti i carabinieri in servizio nell'Adriatisches Küstenland furono disarmati e posti
di fronte all'alternativa di arruolarsi nelle SS tedesche, alla MTD italiana o di essere internati in
Germania. Solo un terzo scelse la prima possibilità mentre i rimanenti presero la via della prigionia.
Nel successivo mese di agosto i nazifascisti disarmarono anche i carabinieri in servizio nel territorio
italiano, formalmente appartenenti alla RSI, deportando la stragrande maggioranza in Germania, e
ciò a causa della scarsa fiducia che i tedeschi nutrivano nei confronti dell'Arma.
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GLI AVVENIMENTI ALLA FRONTIERA NORD-ORIENTALE: L'ALPENVORLAND E L'ADRIATISCHES KÜSTENLAND
rastrellamento a largo raggio a cui presero parte anche numerosi reparti
della R.S.I.
Lo spiegamento di consistenti forze nazifasciste costrinse l'E.P.L.
ad ordinare il ritiro delle unità partigiane dall'Istria e paralizzò ogni attività
politica e militare della Resistenza (14). Tra l'autunno del 1944 e la
primavera del 1945 i nazifascisti divennero padroni assoluti della situazione
nella penisola, completamente sgombra da significative forze slave.
Nella provincia di Gorizia, invece, i partigiani delle zone collinari e
montane mantennero fermamente le posizioni essendo risultate le azioni
di controguerriglia di tedeschi ed italiani inefficaci. Qui ebbe un ruolo
importante nella repressione la X Mas che con 4 battaglioni impegnò gli
insorti nel territorio di Tarnova subendo perdite pesantissime senza poter
raggiungere gli obiettivi prefissati.
Nella zona quindi il controllo del territorio rimase nelle mani del IX
Corpus sloveno.
Il flusso e riflusso delle battaglie ai confini esterni della Venezia
Giulia aveva creato due schieramenti contrapposti peraltro non molto
omogenei al loro interno. Da una parte, a lato dei tedeschi operavano le
forze della R.S.I., degli ustascia croati, dei domobranci sloveni e croati, dei
cetnici serbi e la divisione cosacca in Carnia. Nella Resistenza militavano,
oltre ai partigiani dell'E.P.L. di Tito, i combattenti italiani del C.L.N., i
partigiani italiani aderenti ai partiti comunisti croato e sloveno, nonché un
battaglione sovietico composto da ex prigionieri di guerra caucasici.
Nel mese di marzo 1945, appalesatosi il declino irreversibile
della potenza militare tedesca, Tito costituì la 4^ armata jugoslava,
al comando del generale Peter Draspin, e le affidò la missione di
attaccare le forze germaniche lungo la costa dalmata a sud di Fiume
e successivamente, superato il confine orientale italiano, di puntare
direttamente su Trieste (15).
(14) GIURICIN L., Istria, teatro di guerra e di contrasti internazionali, Quaderni, C.R.S. Rovino
2001, vol. XIII, pp. 211-212.
(15) La 4^ armata fu costituita con ordinanza del 2 marzo 1945 ed inizialmente dispose
del IV Corpus (7^ ed 8^ divisione d'assalto), ciascuna su tre brigate e XI Corpus (13^ divisione
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STORIA
LUCIANO LUCIANI
Il Comando jugoslavo subordinò all'esecuzione dell'"operazione
Trieste" ogni altra attività della 1^, 2^ e 3^ armata, perché obiettivo
di Tito era di impadronirsi della Venezia Giulia e di Trieste prima che vi
giungessero gli alleati, in modo da porre un'ipoteca territoriale da far
valere sul tavolo della pace ai danni dell'Italia.
Per raggiungere prima possibile Trieste, gli jugoslavi rinunciarono
ad occupare Zagabria e Lubiana, le capitali delle future repubbliche di
Croazia e Slovenia, che vennero infatti liberate ben dopo il 7 maggio
1945, giorno della fine della guerra in Europa.
La difesa tedesca era impostata su potenti capisaldi collegati
tra loro da forze mobili. La posizione difensiva dal Vallone di Buccari
sviluppandosi con direzione nord-sud raggiungeva M.Nevoso. La linea
proseguiva poi per S.Pietro del Carso e Postumia.
Il generale Kübler schierò il nerbo delle sue forze, costituito dalla
237^ divisione a sud, a protezione di Fiume, ritenendo che la 4^ armata
avrebbe cercato di sfondare proprio in corrispondenza del Quarnaro.
Egli stesso pose il suo quartier generale a Villa del Nevoso, in posizione
molto avanzata e affidò la restante linea a reparti di collaborazionisti
serbi e croati. Più a nord, a protezione di Trieste schierò la 188^
divisione e affidò la difesa costiera e la difesa delle isole di Veglia,
Cherso e Lussino a reparti italiani e battaglioni presidiari tedeschi (16).
La battaglia iniziò il 17 aprile con il violento attacco della 4^ armata
sulla direttrice Dolnice-Fiume sbarrata dalla 237^ divisione tedesca. Nei
quattro giorni successivi gli slavi riuscirono a conquistare le posizioni
avanzate tedesche, ed a infiltrarsi in qualche punto, ma la difesa principale
impostata sulla linea Ingrid, non venne sostanzialmente intaccata.
(segue nota)
dalmatica e 43^ divisione istriana anch'esse su tre brigate). Il 14 aprile le vennero assegnati in
rinforzo il VII Corpus (15^ e 18^ divisione slovena), il IX Corpus (30^ e 31^ divisione slovena), le
divisioni 9^, 19^, 20^, 26^ dalmatiche, le divisioni 34^ e 35^ slovene, una brigata carri, una brigata
genio ed una brigata di artiglieria.
(16) LA PERNA G., Pola, Istria, Fiume (1943-45), cit. p. 317
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GLI AVVENIMENTI ALLA FRONTIERA NORD-ORIENTALE: L'ALPENVORLAND E L'ADRIATISCHES KÜSTENLAND
Contemporaneamente, però, la 26^ divisione dalmatica aveva
attaccato l'isola di Veglia, riuscendo in breve tempo ad annientare il
presidio nazifascista. Nei giorni seguenti quest'operazione diversiva
proseguì con l'occupazione delle isole di Cherso e Lussino, blandamente
difese. Veniva così acquisita dall'EPL una importante base di partenza
per aggirare, attraverso sbarchi sulle vicine coste meridionali istriane, le
difese tedesche della linea Ingrid.
Il 24 aprile la situazione era la seguente: al centro, sulla direttrice
Trieste-Fiume i tedeschi resistevano agli attacchi ed anzi avevano in
corso una controffensiva, che però veniva bloccata dall'accorrere delle
riserve della 4^ armata. Ad ovest, invece, cominciava a pronunciarsi un
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aggiramento attraverso sbarchi di unità partigiane provenienti dalle isole,
sulla costa tra Pola e Fiume che tendevano ad attaccare il fianco destro
del XCVII C.A. tedesco. Era in corso anche un attacco sussidiario slavo
contro il fianco est, nel settore subito a nord di M.Nevoso, difeso da
unità cetniche e ustascia.
Nei giorni successivi la situazione per i tedeschi si deteriorò perché
il fianco est cedette all'irruzione di forze partigiane in corrispondenza di
Villa del Nevoso. La 4^ armata sfruttò immediatamente la circostanza
favorevole: variò la gravitazione degli sforzi dal settore centrale, sulla
direttrice Fiume - Trieste, al settore orientale sulla direttrice Villa del
Nevoso-Trieste e diede ulteriore impulso all'infiltrazione verso est e poi
verso nord delle unità sbarcate sulle coste istriane.
Il 29 aprile fu la giornata cruciale: la 4^ armata irruppe con la sua
divisione da est e da sud verso Trieste, aggirando ed accerchiando il
grosso delle forze del XCVII C.A. che era concentrato al centro ed al sud
della penisola istriana. Mentre a Trieste iniziava l'insurrezione del CLN
locale muovevano verso il capoluogo giuliano la divisione Hercegovina,
da poco assegnata alla 4^ armata, che sopraffatto il presidio nazifascista
di S.Pietro del Carso il 30 aprile raggiungeva Villa Opicina, il IX Corpus
sloveno che dalla selva di Tarnova, a nord, attraverso Monfalcone
raggiungeva anch'esso i sobborghi di Trieste ed infine la 20^ divisione
dalmatica, che marciava verso il suo obiettivo provenendo da sud, dopo
essere sbarcata sulla costa ad ovest di Pola.
Il grosso del XCVII C.A. tedesco si trovò così assediato tra Fiume
e Pisino ed attaccato furiosamente da ogni parte. La battaglia, in questo
settore infuriò dal 29 aprile al 1° maggio, quando il generale Kübler decise
di tentare lo sfondamento verso la direttrice Postumia-Lubiana, per
mettere in salvo il grosso delle sue forze. Un deciso attacco dei tedeschi
su Villa del Nevoso riuscì a sfondare il 3 maggio l'accerchiamento della
4^ armata. Attraverso il varco i reparti iniziarono a ripiegare, ma vennero
attaccati da tutti i lati dalle forze partigiane richiamate con urgenza in
zona. Nei due giorni successivi i combattimenti si svolsero furiosi ed
incessanti e la manovra tedesca venne arrestata. Il generale Kübler, il 6
maggio, vista l'impossibilità di svincolarsi, decise di capitolare ed ordinò
alle sue truppe di deporre le armi.
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GLI AVVENIMENTI ALLA FRONTIERA NORD-ORIENTALE: L'ALPENVORLAND E L'ADRIATISCHES KÜSTENLAND
Alle prime ore del 1° maggio l'accerchiamento di Trieste era
completato. In città intanto il C.N.L. aveva ordinato l'insurrezione ed
i reparti del C.V.L. affiancati da molti militari della Guardia di Finanza,
dell'Arma e della Guardia Civica costrinsero i tedeschi ad asserragliarsi
in pochi edifici protetti ed in alcune caserme di Villa Opicina (17).
I tedeschi qui cedettero le armi il 3 maggio quando la 2^ divisione
neozelandese, avanguardia dell'8^ armata inglese che aveva occupato
l'Italia nord-orientale, inviò una colonna a Trieste per accogliere la resa
delle ultime unità germaniche.
Nel frattempo, i militi slavi della 4^ armata erano dilagati in città e
dopo una brevissima convivenza pacifica con le forze della resistenza
triestina, avevano iniziato a praticare una brutale pulizia etnica preliminare
ad una slavizzazione della popolazione che avrebbe dovuto consentire
al maresciallo Tito di rivendicare Trieste alla Jugoslavia. Per prima cosa
furono rastrellati i fondi della Banca d'Italia, poi furono trucidati molti
carabinieri e finanzieri, che pur avevano partecipato con il CLN alla
liberazione della città ed infine furono saccheggiati gli archivi politici
della Questura a fini di futuri ricatti. Contemporaneamente, sotto la labile
giustificazione del collaborazionismo con i tedeschi, furono prelevati per
essere infoibati comuni cittadini colpevoli soltanto di essere italiani.
La piazzaforte di Pola capitolò il 6 maggio, mentre Fiume fu
abbandonata dai tedeschi il 2 maggio. In tutta l'Istria per gli sconfitti
non vi fu pietà. I più fortunati poterono dirsi quelli che ebbero in sorte la
prigionia nei famigerati lager jugoslavi che nulla avevano da invidiare a
quelli nazisti ed ai gulag sovietici (18).
Per gli altri vi fu un unico destino: l'uccisione o l'infoibamento (19).
(17) LA PERNA G., Pola, Istria, Fiume (1943-45), cit. p. 325.
(18) Il più tristemente celebre fu quello di Goli Otok, nel quale trovarono la morte per fame e
per sevizie migliaia di italiani e di jugoslavi oppositori del regime di Tito.
(19) La stima delle vittime della repressione jugoslava nella primavera del 1945, ancor oggi
non è univoca. In attesa di quantificazioni più certe, la stima di circa diecimila persone eliminate
nelle foibe o nei campi di concentramento può essere ritenuta attualmente il riferimento più valido,
tale comunque da inquadrare il fenomeno entro le reali dimensioni di genocidio che esso ha
assunto e da spiegare il suo profondo radicamento nella coscienza della popolazione giuliana. Al
riguardo cfr. OLIVA G., "La resa dei conti", Mondadori editore, Milano 1999, pp. 172-178.
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6. Struttura amministrativa ed attività politica nell'Adriatisches
Küstenland
Ogni attività politica ed amministrativa nella zona di operazione
ruota attorno alla figura del supremo commissario Friedrich Rainer.
Egli con il crollo del fascismo in Italia non solo intuì la possibilità di far
ritornare la Venezia Giulia nell'ambito dell'Austria e quindi del grande
Reich, ma anche la possibilità di ritagliarsi un'area di potere personale,
imitando il comportamento di altri gauleiter, specie quelli delle regioni
confinarie della Germania (20).
Nell'organizzazione amministrativa della regione, prima cura del
gauleiter fu la scelta dei collaboratori che dovevano costituire una nuova
struttura amministrativa in parte sostitutiva di quella italiana preesistente
ed in parte sovrapponentesi ad essa. Poiché gli uomini da destinare
ai singoli uffici, tutti di estrazione austriaca, erano limitati nel numero,
perché le risorse umane del Reich erano impiegate in altre prioritarie
esigenze belliche e amministrative in madrepatria, Rainer dovette far
ricorso a funzionari italiani che dessero affidamento di efficienza ma
soprattutto di fedeltà alla Germania ed al nazismo.
L'esercizio del potere amministrativo del supremo commissario nel
litorale Adriatico non fu uniforme nelle varie province. Rainer esplicò in
modo pieno ed indiscusso la sua prerogativa di gauleiter nella regione ex
absburgica di Gorizia, Trieste, Pola e Fiume. In quest'area il controllo sugli
organismi amministrativi italiani fu ferreo e venne affidato al governatore
reggente, barone Wolsegger ed ai consiglieri tedeschi (deutsches
beraters) affiancati con potere di veto ai singoli prefetti. L'obiettivo era qui
di recidere ogni legame con l'Italia di Mussolini per preparare al meglio
l'annessione della Venezia Giulia al grande Reich a guerra finita. La
provincia di Udine ebbe invece sorte diversa: qui Rainer consentì che le
autorità italiane corrispondessero con la RSI e che quest'ultima potesse
svolgere, pur sotto tutela tedesca, limitata attività autonoma nei settori
(20) APIH E., introduzione alla traduzione italiana di "Le zone di operazioni prealpi e litorale
adriatico", cit., p. 23.
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politici, economici e militari (21). In ogni caso fu esclusa la sovranità
italiana nella Carnia, a favore dei cosacchi dell'Atamano principe Krasnov
e nel tarvisiano, di fatto annesso alla Carinzia.
La decisione di inviare i cosacchi in Carnia, fu assunta dal governo
tedesco nel giugno 1944. Si trattava di truppe russe composte in
maggioranza da ex prigionieri di guerra sovietici d'origine in gran parte
cosacca che avevano deciso di ribellarsi al regime staliniano. Loro
comandante era il gen. Andrei Vlassov, già comandante della XX Armata
Sovietica ed eroe della difesa di Mosca nell'autunno 1941, catturato
dai tedeschi nel 1942. Le divisioni cosacche calate in Italia erano, però,
agli ordini diretti di ex generali zaristi, che mantenevano nei confronti
di Vlassov una dipendenza solo formale, in quanto riconoscevano
l'autorità del gen. Piotr Krasnow, celebre per essere stato un capo della
rivoluzione antibolscevica degli anni venti. Per invogliare i cosacchi
trasferirsi in Friuli, l'alto comando delle SS non aveva esitato a dichiarare
che la Carnia sarebbe divenuta la loro seconda patria con il nome di
"Kosakenland in Nord Italien".
Nel luglio 1944 decine di treni scaricarono migliaia di uomini,
donne, bambini, accompagnati da un numero altissimo di cavalli,
dromedari, mucche, carrette, armi e bagagli. Complessivamente 30.000
uomini armati, di cui 10.000 cosacchi del Don, del Kuban e del Terek e
8.000 musulmani del Caucaso.
Essi si installarono in Carnia, sommergendo e annientando i reparti
della Resistenza, che nell'alto Tagliamento avevano creato una zona
liberata. La convivenza con le popolazioni locali, inizialmente difficile,
migliorò in seguito, tanto che si giunse ad un soddisfacente modus vivendi.
I cosacchi, sul piano militare, riuscirono in breve tempo, grazie
al numero rilevante ed alla spietatezza dei metodi operativi, a relegare
(21) Al riguardo, veggasi presso l'Archivio Storico, custodito presso il Museo della Guardia
di Finanza, la corrispondenza tra il Comando Generale del Corpo di Brescia e le legioni dipendenti:
tra esse figura sempre la legione di Udine, ma non la legione di Trieste, i cui legami con le autorità
centrali erano stati espressamente rescissi da Rainer.
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la guerriglia in aree marginali e assicurando così ai tedeschi un sicuro
transito tra Austria e Friuli, attraverso i valichi alpini.
A fine aprile 1945, sotto la pressione degli alleati, i cosacchi si
trasferirono in Carinzia, dove furono fatti prigionieri dagli inglesi e dopo
la richiesta di rimpatrio da parte di Stalin furono consegnati ai sovietici.
Molti di loro si suicidarono gettandosi nella Drava, mentre per gli
altri la sorte fu terribile: la deportazione nei gulag della Siberia, da cui
ben pochi uscirono vivi. Krasnov, Vlassov e gli altri generali cosacchi,
dopo un sommario processo, furono giustiziati a Mosca il 16 gennaio
1947 (22).
L'ultima provincia della zona di operazioni, Lubiana, ebbe
anch'essa una diversa sistemazione. Rainer, dando un'interpretazione
molto personale alle direttive ricevute da Hitler e pretenziosamente
ritenendo di essere investito di poteri assoluti, aveva divisato di
ripristinare l'antico ducato della Carniola, nei confini dell'attuale
Slovenia, che alla fine della guerra sarebbe dovuto divenire uno Stato
vassallo della Germania con funzioni di cuscinetto verso le pressioni
provenienti dai Balcani (23).
In quest'ottica delirante, egli insediò a Lubiana quale governatore
provinciale il generale sloveno Rupnik, già ufficiale dell'esercito austroungarico, dal quale dipendevano oltre 10.000 domobranci che costituivano
una milizia anticomunista che collaborava con i tedeschi (24).
Due furono i settori dove il supremo commissario rivolse la sua
attenzione: il primo si riferiva all'ordine pubblico ed era di cruciale
importanza per la sopravvivenza della zona di operazioni nella quale
la resistenza antinazista, almeno in un primo tempo aveva preso il
sopravvento.
(22) PISANÒ G., "Storia della Guerra Civile in Italia - 1943-45", vol. III, Centro Editoriale
Nazionale, Roma, 1981, pp. 1287-1298.
(23) Deposizione di Rainer al giudice istruttore del tribunale militare della 4^ Armata
Jugoslava. Fascicolo 924 dell'Istituto per la Storia del movimento operaio - Lubiana, 1947.
(24) LA PERNA G., op.cit., p. 77.
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Per queste esigenze Rainer disponeva di un personaggio adatto
al ruolo: si trattava del generale delle SS Odilo Lotario Globocnick (25).
Uomo di una ferocia leggendaria, egli si distinse subito nelle repressioni
dell'ottobre 1943. Tenne poi saldo, fino alla fine della guerra l'ordine
pubblico (in senso nazista) corrispondendo appieno alle aspettative del
suo capo.
Il secondo settore era quello amministrativo. La direzione del
litorale adriatico, alla quale era preposto il rappresentante permanente
del supremo commissario, governatore Wolsegger, si articolava in
dieci sezioni tra le quali le più importanti erano gli interni, le finanze, la
giustizia e l'economia.
L'ordinamento giuridico era impostato sulle ordinanze del supremo
commissario: le preesistenti norme italiane avevano vigenza solo se non
in contrasto con quelle emanate da Rainer.
L'azione del commissario si trovò ben presto a interferire con altre
autorità in tre settori: il settore delle operazioni militari ove i comandi
della Wehrmacht rivendicavano una completa autonomia; i rapporti
con le autorità di governo italiane della R.S.I. che non si rassegnavano
ad essere completamente escluse dall'amministrazione della regione;
le complesse relazioni con i dirigenti pubblici italiani della Venezia
Giulia che avevano accettato di collaborare con i nazisti con la riserva
mentale di fare il doppio gioco a favore del governo di Salò al fine di
salvaguardare l'italianità della Venezia Giulia, e con i rappresentanti dei
gruppi etnici croato e sloveno che trovavano un ambiente favorevole
presso le autorità del Litorale.
(25) Globocnick, figlio di un funzionario asburgico, nacque a Trieste e vi risiedette fino
al 1923, anno nel quale si trasferì in Carinzia ove conobbe e frequentò il futuro gauleiter Rainer.
Nazista della prima ora, fu nel 1939 vice gauleiter a Vienna, ma venne allontanato dalla carica
perché coinvolto in una vicenda di speculazione di valuta. Allo scoppio della guerra fu riabilitato
ed inviato a comandare la polizia del distretto di Lublino, nella Polonia occupata ove ebbe modo
di dimostrare la sua ferocia nella repressione del dissenso politico. Anche qui inciampò in un affare
di tangenti e fu momentaneamente allontanato dalle SS. Il suo amico Rainer brigò perché fosse
nuovamente riabilitato e lo fece divenire il suo braccio destro a Trieste con l'incarico di capo delle
SS dell'Adriatisches Künstenland. Morì suicida nel maggio 1945 per non cadere prigioniero degli
alleati.
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LUCIANO LUCIANI
7. I rapporti intertedeschi
Come si è visto l'istituzione delle zone di operazioni rispondeva
ad esigenze essenzialmente di natura militare e quindi a rigor di
logica avrebbero dovuto far capo ad un comandante militare, come in
effetti avvenne nella zona di operazioni sud affidata al feldmaresciallo
Kesselring. La nomina di due alti gerarchi del partito nazista quali
supremi commissari dell'Alpenvorland e dell'Adriatiches Küstenland era
invece frutto di intromissioni politiche dell'entourage di Hitler tendenti a
porre le basi ad una futura annessione delle due regioni al grande Reich.
Anche se il Führer mai si espresse in questo senso, i due gauleiter Hofer
e Rainer interpretarono la loro nomina come missione a governare la
transizione delle due regioni dall'Italia alla Germania e si comportarono
sempre di conseguenza.
Fin da subito essi intesero il loro ruolo simile a quello di un
governatore di una colonia o di un paese sottomesso ed in tale veste
pretesero di disporre anche delle forze militari tedesche stanziate
nel territorio per condurre, specie nella Venezia Giulia, operazioni
antiguerriglia. A ciò si oppose, molto fermamente, la Wehrmacht che
considerava la guerra contro i partigiani non già semplici operazioni di
polizia, di competenza delle autorità civili, ma giustamente vere e proprie
operazioni belliche da condurre sotto l'esclusiva dipendenza delle
autorità militari.
Comandante militare delle truppe operanti sul Litorale era il
generale Ludwig Kübler che dipendeva dal Comandante militare
dell'Italia settentrionale (gruppo di armate B) generale Rommel fino al 21
novembre 1943 e poi generale Witthof.
Un altro punto di frizione era costituito dai rapporti dei due
gauleiter con l'ambasciatore Rahn (26), nominato da Hitler "delegato
plenipotenziario del grande Reich" presso Mussolini (27). Secondo le
(26) Rudolf von Rahn, entrato al ministero degli esteri nel 1928, percorse i vari gradi della
carriera diplomatica sino a quello di addetto d'ambasciata a Parigi (1940). Poco dopo l'occupazione
della Francia divenne rappresentante della Germania a Vichy e poi a Tunisi (1942). Nell'agosto 1943
fu nominato ambasciatore a Roma e plenipotenziario presso la R.S.I.
(27) Comma VII dell'ordinanza del Führer del 10 settembre 1943.
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intenzioni del Ministro degli Esteri Von Ribbentrop, il plenipotenziario
doveva essere il centro verso il quale dovevano affluire le questioni
importanti di politica nell'ambito di tutto il territorio sottoposto alla
dominazione tedesca in Italia.
In relazione all'evolversi della situazione politica ed alla
ricostituzione del partito fascista, il 10 ottobre fu emanata un'ulteriore
ordinanza del Führer che conferiva maggiori poteri al Comandante
militare, talché egli veniva a sostituire il delegato plenipotenziario del
Reich nella funzione di terminale della direzione amministrativa in Italia.
Di conseguenza anche nel Litorale il Comandante militare avrebbe
dovuto avere la preminenza sul supremo commissario, ma data l'alta
valenza politica di quest'ultimo, gli fu riconosciuta la supremazia sugli
affari civili e politici.
Il sistema di equilibrio dei poteri dava però luogo a frizioni, per
cui a Berlino si sentì la necessità di costituire una "Commissione
interministeriale per le questioni italiane" (I.M.A.) composta da
rappresentanti dell'O.K.W., dei dicasteri interessati, e quando necessario
dei due alti commissari Hofer e Rainer, nell'ambito della quale discutere
le difficoltà emergenti dalla delimitazione dei poteri dei singoli uffici
tedeschi nel territorio italiano occupato e ciò allo scopo di dare da
Berlino una direzione unitaria a tutti i problemi italiani (28).
Questo obiettivo, nonostante le dichiarazioni d'intenti, non fu
raggiunto mai: gli interessi politici in gioco erano troppo importanti
e coloro che erano investiti di alte responsabilità politiche o militari
in Italia non si rassegnavano a vedersi limitare la propria autonomia.
Fu raggiunto, comunque, un compromesso di fatto che trasferiva la
risoluzione dei problemi che di volta in volta sorgevano allo spirito di
collaborazione delle persone interessate che, con comprensione e
fiducia reciproca, mettevano in atto di volta in volta il provvedimento più
adatto alla situazione.
(28) Vedi STUHLPFARRER K., "Le zone di operazioni prealpi e litorale adriatico", op. cit., p. 85.
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8. Rapporti tra i supremi commissari e le autorità italiane
Non era sfuggito alle autorità fasciste della R.S.I. che le zone di
operazioni Prealpi e soprattutto Litorale adriatico erano state costituite
anche con l'intento di anticipare una possibile annessione dei territori
al grande Reich al termine della guerra, ma la sudditanza in cui versava
la Repubblica Sociale nei confronti dei tedeschi impediva a Mussolini
di opporsi in modo diretto alle mire dei nazisti. Egli quindi doveva
limitarsi ad interferire nell'amministrazione dei territori quando gli se
ne presentava l'opportunità. Diversi erano i punti di frizione. Il primo
riguardava la nomina dei capi delle province, come erano denominati
nel nuovo ordine fascista i prefetti, che i supremi commissari si erano
attribuite. Poiché, però, la scelta delle persone da insediare nella carica
era dovuta per forza ricadere su personaggi vicini al partito fascista,
dato che non era stato possibile convincere nessun altro a collaborare
con i nazisti, erano gli stessi capi delle province a mantenere un legame
informale con Salò, tenendo al corrente le autorità del governo sugli
avvenimenti nelle singole province e ricevendo suggerimenti per resistere
a tutte le attività di denazionalizzazione che i tedeschi mettevano via via
in opera.
Il Ministro degli Interni della R.S.I. nominò i capi di quindici
province, aggiungendovi anche quelli delle province di Lubiana, Trieste,
Trento e Belluno. I due alti commissari ignorarono l'ordine del ministro,
impedirono ai neo nominati funzionari di entrare in carica e nominarono
al loro posto personaggi di loro fiducia. Tra essi vi fu Bruno Coceani,
membro del consiglio nazionale del partito fascista, e vice presidente
dell'unione industriali, nominato prefetto di Trieste. Il personaggio
proveniva dal mondo economico-finanziario triestino e fu scelto da
Rainer proprio per tenere legati a se, in qualche modo, gli industriali
della città, in modo che non vi fossero resistenze al funzionamento
degli stabilimenti della zona, che in buona parte producevano materiali
di diretta utilizzazione bellica. Coceani assunse la carica nell'intento,
poi coerentemente perseguito, di fare il possibile, dall'interno
dell'amministrazione germanica, per conservare l'italianità di Trieste e
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GLI AVVENIMENTI ALLA FRONTIERA NORD-ORIENTALE: L'ALPENVORLAND E L'ADRIATISCHES KÜSTENLAND
della Venezia Giulia e di mantenere integri i diritti del governo nazionale
nell'area orientale (29).
Egli tenne quindi al corrente Mussolini sull'attività
dell'amministrazione tedesca e prese le difese del gruppo etnico italiano
ogni qualvolta Rainer, per ingraziarsi sloveni e croati assumeva decisioni
contrarie agli interessi nazionali.
In tale quadro, il supremo commissario emanava disposizioni tutte
intese a dissolvere gradualmente, nel tempo la presenza ed i segni della
comunità italiana, motivando ufficialmente i provvedimenti con l'esigenza
di pacificare un territorio dove i conflitti nazionali tra popoli di diverse etnie
erano sempre stati causa di perturbamenti dell'ordine pubblico (30).
Di conseguenza, i tedeschi riconobbero i diritti linguistici di tutti
i gruppi presenti sul territorio, ispirandosi alle tradizioni sovranazionali
dell'impero austro-ungarico, realizzando così due obiettivi: conquistare le
simpatie di tutti coloro che guardavano con nostalgia al mito asburgico
ed indebolire le posizioni della popolazione di sentimenti italiani.
Mostrando di voler attenuare ogni antagonismo nazionalista, i
tedeschi si proponevano alle genti giuliane come gli unici in grado di
esercitare un'efficace potere di arbitrato.
In tale quadro, Rainer promosse l'apertura di scuole, giornali, enti
culturali in lingua slovena e croata nella speranza di cogliere le simpatie
dei rispettivi gruppi etnici, anche per togliere valore ad alcune delle
rivendicazioni sul movimento partigiano.
Nell'attuazione della politica del divide et impera, propria del
regime austro-ungarico, Rainer dette particolare importanza anche
a piccoli gruppi locali quali i Cicci ed i Morlacchi dell'Istria orientale
e meridionale. In Carnia, invece, i nazisti fecero immigrare gruppi di
(29) Coceani si adoperò anche per migliorare, nel limite del possibile, la situazione della
provincia di Zara ed in particolare la tragica situazione della città, isolata completamente dalla
madrepatria e sottoposta a disastrosi bombardamenti aerei.
(30) Vedi RUMICI G., "Infoibati", Mursia 2002, p. 151.
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LUCIANO LUCIANI
cosacchi e caucasici collaborazionisti che l'avanzata dell'armata rossa
aveva fatto fuggire dalle regioni di origine, promettendo loro una nuova
patria, il Kosakenland, a danno dei friulani.
Un'altra delle iniziative anti-italiane fu il progetto di creare nel Friuli
uno Stato cuscinetto (Pfufferstaates Friaul) allo scopo di interporre tra
i territori italiani ad occidente ed i territori slavi ad oriente, un'entità
territoriale che fondando la sua ragion d'essere sulle secolari tradizioni
culturali e folkloristiche della friulanità, togliesse spazio in quelle terre di
confine ai problemi nazionalisti ed alla propaganda irredentistica degli
uni e degli altri (31).
Di queste iniziative, Coceani informava puntualmente il governo di
Salò.
Il secondo punto di frizione concerneva l'attività delle Forze Armate
della R.S.I. nelle zone di operazioni. I supremi commissari fecero in
modo di impedire che formazioni militari fasciste si formassero o fossero
trasferite nelle aree di rispettiva competenza. Graziani, Ministro della
Difesa nazionale e Capo di SM generale del governo Mussolini, dovette
così rinunciare ad avere giurisdizione su due dei suoi sette Comandi
militari regionali. A completare il quadro negativo sopraggiunse il divieto
da parte dei tedeschi di arruolare sia coscritti sia volontari della zona di
operazioni. I reparti italiani stanziati nelle zone di operazioni dovevano
operare alle esclusive dipendenze dei comandi tedeschi, venendo così
sottratti dalla dipendenza dello SM generale della R.S.I.
Il generale Graziani stesso, in una conferenza con Rahn del 20
gennaio 1945 (32), si lamentava che per visitare reparti armati nella
zona di operazioni egli doveva richiedere l'autorizzazione ai tedeschi,
ottenendo però una risposta rassicurante: non si trattava di chiedere
consenso o permesso, ma soltanto di preavvertire. Sta di fatto che
Graziani ritenendo questa procedura poco dignitosa non si recherà mai
nel Litorale Adriatico.
(31) LA PERNA G., "Pola, Istria, Fiume (…)", op.cit., p. 78.
(32) Archivio Centrale dello Stato Roma, Atti della Segreteria Particolare del Duce, R.S.I.,
carteggio riservato, busta n.13.
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GLI AVVENIMENTI ALLA FRONTIERA NORD-ORIENTALE: L'ALPENVORLAND E L'ADRIATISCHES KÜSTENLAND
Come si è già annotato, Rainer ed i comandi della Wehrmacht
della Venezia Giulia osteggiarono in ogni modo l'insediamento nella
regione di reparti delle FF.AA. della R.S.I. e cercarono ogni pretesto per
impedire la loro dislocazione in territorio per il quale i nazisti avevano
progetti annessionistici. Nonostante ciò reparti fascisti vennero via via
a costituirsi nella Venezia Giulia ed a Fiume a partire dal 1943 ed altri
ne vennero trasferiti dalle altre regioni dell'Italia settentrionale, nei mesi
successivi. Anche a Zara si costituì la compagnia universitari Vukassina
e qualche reparto poi trasferito dai tedeschi in Penisola (33).
I tedeschi cercarono in ogni modo di opporsi a questo
spiegamento di forze per limitare le conseguenze di ordine politico
che potevano derivarne, con bandi che vietavano l'arruolamento
del personale, la costituzione della Guardia Nazionale Repubblicana
nell'ambito delle SS tedesche, ed imponendo presso ciascun reparto
la presenza di ufficiali di collegamento germanici dai quali in pratica i
reparti dipendevano essendo questi ultimi gli unici a disporre di mezzi di
comunicazione e di sostegno logistico.
Pur tra le tante incomprensioni, diffidenze e difficoltà nei rapporti
con l'alleato, i reparti italiani seppero sempre assolvere con onore
i compiti affidati, giungendo spesso fino all'estremo sacrificio della
vita nel disperato tentativo di difendere il suolo italiano dall'invasione
panslava (34).
Nel quadro delle misure anti italiane assunte da Rainer, va inclusa
l'ordinanza di polizia (35) con la quale si vietava a tutti i reparti militari
non tedeschi operanti nella regione l'uso di bandiere e gagliardetti dai
colori nazionali.
(33) Per una elencazione completa dei reparti italiani impiegati nel Litorale, cfr. LA PERNA G.,
"Pola, Istria, Fiume", op.cit., pp. 235 e ss.
(34) LA PERNA G., "Pola, Istria, Fiume 1943-45", op.cit., p. 235.
(35) Ordinanza in data 22 giugno 1944 dello S.S. Sturmbannführer und Mayor der Sch.
Mundhenke - facente funzioni del comandante della Polizia nella zona di operazioni Adriatisches
Küstenland.
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LUCIANO LUCIANI
La disposizione era motivata con la necessità di tutelare i diritti di
tutte le nazionalità al fine di evitare l'acuirsi di pericolosi antagonismi e di
garantire il normale svolgimento della vita sociale nel rispetto delle leggi.
L'ordinanza, in effetti, si rivolgeva anche ai reparti collaborazionisti di
nazionalità slovena e croata, ma era evidente che il provvedimento era
indirizzato di fatto alle unità italiane, numericamente preponderanti.
L'ordine fu accolto con indignazione dalla totalità dei comandi
che non solo inviarono ferme proteste per iscritto a tutte le autorità
italiane della Venezia Giulia ed ai comandi superiori, ma praticamente
lo ignorarono. Per di più i reparti che non disponevano del tricolore
ne furono subito dotati ed il vessillo nazionale fu esposto con grande
ostentazione e con maggior frequenza rispetto a prima. I reparti
continuarono ad esporre la bandiera italiana fino alla fine della guerra,
senza che i tedeschi insistessero oltre nelle loro pretese.
Un terzo aspetto da esaminare concerne i rapporti tra autorità
germaniche di occupazione e le organizzazioni fasciste repubblicane.
Indubbiamente questo aspetto è un riflesso della diffidenza con cui i
tedeschi consideravano gli atteggiamenti della Repubblica Sociale. Per
buona parte degli ambienti governativi del Reich l'insediamento del
regime fascista repubblicano veniva considerato più un impaccio che un
fattore favorevole alla comune causa della lotta alle potenze alleate. Più
d'uno a Berlino avrebbe preferito un'Italia sotto un'occupazione militare
tedesca, senza dover mediare con un governo formalmente alleato
ma non in grado di fornire un decisivo aiuto allo sforzo militare che la
Germania andava conducendo.
Soltanto Hitler, che subiva ancora il fascino di Mussolini, valutava
che l'alleanza con l'Italia aveva ancora un'alta valenza politica e che
pertanto andava perseguita anche a costo di subire limitazioni, peraltro
solo formali, nella condotta della guerra nella penisola.
Questo stato di cose induceva le autorità tedesche che operavano
in Italia quali rappresentante del Reich a comportarsi in modo da
ignorare la presenza del governo italiano avendo quale unico limite da
un lato il timore di innescare lamentele troppo vivaci di Mussolini presso
Hitler e dall'altro la personale predisposizione favorevole all'alleato
fascista. Sotto questo punto di vista si erano create due correnti di
pensiero che da un lato facevano capo a Kesselring, comandante
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GLI AVVENIMENTI ALLA FRONTIERA NORD-ORIENTALE: L'ALPENVORLAND E L'ADRIATISCHES KÜSTENLAND
militare del fronte sud che nei limiti del possibile (ed il possibile era
molto ridotto) veniva incontro alle esigenze italiane e dall'altro ai
supremi commissari Hofer e Rainer che già erano anti italiani prima
dell'8 settembre 1943 e che successivamente lo erano divenuti ancor di
più, sentendosi investiti della missione storica di pilotare il rientro nella
grande Germania delle terre perdute al termine della 1^ guerra mondiale.
Nel perseguire i loro intenti di snazionalizzare l'etnia italiana dalle
due zone di operazioni Hofer e Rainer non facevano distinzione tra
fascisti e non fascisti: anzi i primi erano più invisi perché più nazionalisti
e decisi assertori, fin dalla nascita del partito, dell'italianità degli abitanti
delle regioni nord-orientali.
Sotto questo punto di vista, appare spiegabile perché Hofer abbia
vietato non solo la ricostituzione del partito fascista repubblicano nella
zona di operazioni Alpenvorland (36), ma anche l'accesso al territorio
degli esponenti della R.S.I.
La motivazione del provvedimento era dichiaratamente la
preservazione dell'ordine pubblico che poteva essere turbato
dall'esercizio anche di limitate attività di partito, ma era ovvio che l'atto
rispondeva all'esigenza di non trovare intralci in tutte quelle attività che
tendevano a preparare un passaggio senza traumi della regione sotto il
dominio tedesco, a guerra finita.
Nell'Adriatisches Küstenland, invece, Rainer fu costretto a
consentire la creazione della nuova organizzazione fascista a somiglianza
di quanto avveniva nelle altre regioni italiane soggette all'autorità della
R.S.I. e ciò non perché non esistessero le motivazioni che avevano
indotto Hofer ad una decisione contraria, ma perché nella regione
Giulia era in corso una dura e feroce guerra tra partigiani e tedeschi
cui partecipavano aliquote non secondarie delle forze armate italiane
costituite dal governo repubblicano. Anche se il supremo commissario
avrebbe volentieri fatto a meno delle unità militari italiane, in questo
caso dovette soccombere alle pressioni dei comandi della Wehrmacht
che giudicavano indispensabile il coinvolgimento delle FF.AA. italiane
(36) Ovviamente soltanto nelle province di Trento e Belluno, perché la provincia di Bolzano
era completamente in mano tedesca.
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nelle operazioni militari. Fu così che a Trieste, Pola, Fiume, Gorizia e
Udine furono istituite le federazioni del partito fascista repubblicano,
a cui aderirono soltanto i fascisti, e non tutti, che avevano svolto
attività politica nel vecchio partito. Rainer intrattenne con il fascismo
ufficiale rapporti molto diradati. Prevalsero in lui ed in tutto l'apparato
politico-amministrativo del Litorale atteggiamenti di indifferenza se
non proprio di aperta ostilità per tutto ciò che riguardava i fascisti, né
mancarono situazioni nelle quali venne volutamente ignorata l'esistenza
della R.S.I. Il primo affronto fu subito dai fascisti quando, come si è
visto, furono nominati i prefetti e le altre cariche civili della regione,
facendo così mancare alla Repubblica di Salò gli elementi più importanti
per esercitare la sovranità nella Venezia Giulia. Molte altre disposizioni
ferirono l'orgoglio fascista, come ad esempio il ricordato divieto per
i reparti militari di esporre la bandiera nazionale e la proibizione ed
estendere al territorio giuliano di bandi di arruolamento emessi dal
governo repubblicano.
Ben più grave per il carattere apertamente antinazionale, fu la
decisione tedesca di abbattere il monumento eretto a Capodistria alla
memoria del martire istriano Nazario Sauro.
Nel clima particolarmente ostile a tutto ciò che era italiano, il
monumento non era gradito anche perché opere architettoniche del
genere, erette per perpetuare nel tempo il ricordo di avvenimenti storici
di grande rilievo o per onorare la memoria di personaggi legati alla storia
patria, assai poco si conciliavano con i propositi espansionistici del
Reich germanico.
Nel maggio 1944, infatti, i tedeschi procederanno alla demolizione
del monumento con la risibile giustificazione che il complesso, situato in
posizione molto aperta vicino al mare, costituiva un punto di riferimento
per i bombardieri alleati diretti verso l'Austria e la Germania (37).
L'avvenimento ebbe vasta eco negli ambienti italiani di Trieste e
Capodistria e provocò aspre proteste presso le autorità tedesche, che
caddero tutte nel vuoto.
(37) LA PERNA G., "Pola, Istria, Fiume - 1943-45", op.cit., p. 243.
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I fascisti giuliani erano disprezzati, umiliati ed angariati proprio
per mano di quell'alleato al cui fianco essi furono costretti per amor di
patria a battersi fino all'ultimo. Emblematico è il caso del federale di
Gorizia Franco Frattarelli (38). Per avere sempre svolto attività a favore
dell'italianità della Venezia Giulia, anche in contrasto con il prefetto conte
Pace, nominato da Rainer perché nostalgico dell'impero asburgico,
venne sequestrato dalle SS, incarcerato a Klagenfurt per 40 giorni,
trasferito a Trieste ove permase in carcere qualche giorno ancora per
essere poi liberato senza alcuna spiegazione e reinsediato a Gorizia con
l'obbligo di avallare la versione di non essere stato detenuto, ma ospite
di Rainer in Austria.
Un'ultima testimonianza sull'ostilità tedesca al fascismo
repubblicano fu l'ostracismo alla visita nel Litorale di Alessandro
Pavolini, accompagnato dal Ministro della Giustizia Pisenti (39).
Dopo aver ispezionato gli uffici facenti capo al regime a Udine e
Gorizia, egli giunse la sera del 25 gennaio 1944 a Trieste e chiese un
colloquio al Gauleiter per rappresentargli la insoddisfazione del governo
della RSI su come il supremo commissario gestiva i rapporti con le
autorità italiane.
Rainer non solo non acconsentì all'incontro, ma delegò un
suo sottoposto a ricevere Pavolini non come ministro ma solo come
"camerata fascista".
Quest'ultimo, indispettito, nel programmato discorso al teatro
Verdi, si lasciò trascinare ad espressioni esaltate sull'italianità della
Venezia Giulia ed a velate insinuazioni sul modo di agire dei tedeschi, che
suscitarono vibranti applausi e grida dal pubblico contro l'amministrazione
del litorale Adriatico. Per di più i fascisti locali distribuirono volantini
in cui il supremo commissario veniva definito "austriaco traditore del
nazionalsocialismo". Rainer ne fu indignato e lo fece sapere a Pavolini.
Impedì poi la partecipazione di funzionari tedeschi al pranzo offerto dal
presidente del partito e gli vietò di recarsi a Pola.
(38) GANAPINI L., "La Repubblica delle camicie nere", Collezione Storica Garzanti, 1999,
p. 334.
(39) PIRINA M., D'ANTONIO A., "Adriatisches Künstenland 1943-45", Centro Studi Silentes
Loquimur, 1992, pp. 84-85.
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LUCIANO LUCIANI
Pavolini invece si portò a Fiume, ove tenne a rapporto i federali
della Venezia Giulia, sostenendo la tesi che la zona di operazioni doveva
essere inserita nella RSI, suscitando così ancora una volta l'ira di Rainer
che si sentì molto sollevato quando Pavolini finalmente ritornò a Brescia.
L'avversione del Gauleiter alla Repubblica Sociale si manifestò
infine con l'emanazione di norme intese a controllare il confine
dell'Adriatisches Küstenland ed a impedire movimenti di merci e di
persone tra l'Italia repubblicana e le province dell'Istria.
Questo controllo sembrò importante al supremo commissario a
causa delle differenze via via emergenti tra la zona di operazioni ed il
resto dell'Italia, che allora veniva definita con l'espressione, rapidamente
diffusasi di "Italia del Duce", nel settore dei salari e dei prezzi, nonché
delle diverse modalità usate per il richiamo al servizio militare.
La sorveglianza dei confini, in un primo tempo, veniva effettuata
da un piccolo numero di guardie confinarie tedesche che operava
principalmente con pattugliamento e sondaggi sulle vie di maggior traffico.
A tale procedura, però, si oppose il delegato del Reich, ambasciatore
Rahn, facendo notare che per il governo italiano ciò equivaleva ad un
ulteriore passo sulla via dell'annessione dei territori alla Germania.
Rainer dovette parzialmente cedere alle obiezioni del delegato e il
1° marzo 1944 deferì i controlli non alle guardie confinarie tedesche ma
ad una sezione del supremo commissariato, la VII, deputata al controllo
dell'economia. Per la parte operativa, la VII sezione si avvaleva di un
organismo creato ad hoc, la "Wirtschaft Polizei" (WiPo) cioè la polizia
economica (40) che dipendeva dal capo della polizia e comandante
delle SS Globocnik, che aveva il compito di controllare l'osservanza
delle norme sul controllo dei prezzi, sul movimento delle merci ed il
controllo dei confini sia verso la Croazia e soprattutto verso il territorio
amministrato dal governo della RSI.
La polizia economica fu costituita con ufficiali e militari della
Guardia di Finanza che in ottemperanza degli ordini emanati dal governo
(40) MECCARIELLO P., "La Guardia di Finanza sul confine orientale, 1918-1954", Gribaudo
Editore, 1997, p. 221.
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Badoglio avevano continuato nel servizio d'istituto nelle loro sedi
stanziali. Nel nuovo organismo furono anche sistemati alcune centinaia
di carabinieri che furono così sottratti all'alternativa tra arruolamento
nelle FF.AA. collaborazioniste o deportazione in Germania (41).
Il controllo dei movimenti di persone da e per l'Italia del Duce,
fu affidato ad un battaglione della polizia economica che presidiava
i passaggi sul Tagliamento ed effettuava controlli lungo le rotabili di
accesso. Tutti coloro che intendevano accedere al litorale Adriatico
dovevano essere autorizzati dal supremo commissariato previa
domanda al prefetto della provincia in cui intendevano recarsi, nella
quale dovevano essere indicati lo scopo dell'ingresso e la prevista
durata del soggiorno. L'autorità adita poteva non concedere il permesso
se la presenza non fosse stata giustificata da urgenti motivi bellici (42).
In questo modo, con la regolamentazione delle entrate, il supremo
commissario ebbe un mezzo molto efficace per impedire l'ingresso e la
permanenza di personaggi sgraditi.
9. L'agonia di Zara italiana
La provincia di Zara, composta dal comune capoluogo e da quello
di Lagosta, ubicato in un'isola dell'arcipelago dalmata, non venne
menzionata tra i territori italiani orientali che secondo il decreto di Hitler
del 10 settembre 1943 dovevano far parte del Litorale adriatico, perché il
Führer aveva deciso di cedere il capoluogo dalmata allo stato di Croazia
allora in potere di Ante Pavelic. Questi, fin dalla notte sul 9 settembre
aveva annunciato che Hitler gli aveva concesso di annettere alla Croazia
tutta la Dalmazia, Zara compresa (43).
(41) MECCARIELLO P., "La Guardia di Finanza nella 2^ guerra mondiale", Museo Storico della
Guardia di Finanza, Roma 1992, p. 470.
(42) STUHLPFARRER K., op.cit., p. 166.
(43) Le notizie che seguono sulle vicende di Zara durante la seconda guerra mondiale sono
tratte dalla monumentale opera di ODDONE T., "Dalmazia, una cronaca per la storia", edito in tre
volumi dall'Ufficio Storico dello SME negli anni 1987-1994 ed in particolare dal volume II che tratta
il periodo 1943-44, capitolo VI, pp. 1331-1445.
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STORIA
LUCIANO LUCIANI
Subito dopo, il plenipotenziario militare tedesco a Zagabria,
d'intesa con il ministro del Reich a Zagabria, invitava le truppe croate ad
entrare, assieme ai tedeschi, nella città. Fortunatamente erano stanziate
a Zara consistenti truppe italiane (e la città stessa era abitata nella
totalità da italiani), e ciò impedì un'invasione slava, com'era avvenuto in
gran parte nell'Istria.
Il 10 settembre un battaglione della Wehrmacht occupava la città
accolto molto favorevolmente dalla cittadinanza che temeva invece
l'ingresso degli ustascia.
Le autorità italiane, presero contatti con il comandante tedesco
che le riconfermò nella carica. Ai carabinieri restava affidata la tutela
dell'ordine pubblico. Dei sedicimila soldati italiani presenti circa
cinquemila inquadrati dai propri ufficiali (due battaglioni di fanteria,
un battaglione bersaglieri, un battaglione della Guardia di Finanza,
un gruppo di artiglieria da campagna ed uno contraereo) avrebbero
conservato le armi per la difesa della città. Questi reparti, anche se nei
mesi seguenti progressivamente si ridussero di numero, si sarebbero
rivelati determinanti nel contrasto che insorse sulla sorte di Zara fra
i comandi operanti della Wehrmacht ed i rappresentanti diplomatici
tedeschi a Zagabria che sostenevano le aspirazioni croate.
Il 14 settembre giunse a Zara una delegazione ustascia per
insediare la nuova amministrazione del comune ed il "gran zupano"
(governatore) della Dalmazia, che fu ricevuto dal comandante tedesco,
il quale ascoltò le richieste dei delegati, ma manifestò loro l'intenzione di
non modificare, per il momento, lo status quo. Il comandante tedesco,
nel riferire ai superiori l'esito dei colloqui motivava la sua decisione
con il pericolo di sommovimenti dell'ordine pubblico nella popolazione
interamente di etnia italiana. Sia il comandante della divisione che
il comandante dell'armata corazzata aventi giurisdizione su Zara
supportarono il loro sottoposto invitando la missione diplomatica
tedesca a Zagabria a non consentire di intraprendere alcuna attività
amministrativa slava fino alla completa evacuazione degli italiani.
Alle difficoltà del momento si univa anche il silenzio delle autorità
di Roma. Il subbuglio ed il caos intervenuto a seguito della dichiarazione
dell'armistizio e poi dall'insediamento del nuovo governo fascista
repubblicano, aveva fatto perdere di vista quella lontana provincia
orientale d'Italia.
STORIA
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GLI AVVENIMENTI ALLA FRONTIERA NORD-ORIENTALE: L'ALPENVORLAND E L'ADRIATISCHES KÜSTENLAND
Da Zara si cercava in ogni modo di far conoscere la reale
situazione al governo e soprattutto si sollecitava la nomina di un
prefetto che potesse avere l'autorità di porsi come interlocutore ufficiale
davanti ai tedeschi ed ai croati. L'interruzione delle comunicazioni
radio e telefoniche imponeva di ricorrere a improvvisati corrieri che non
sempre erano in grado di giungere a destinazione, lasciando quindi la
cittadinanza nell'incertezza circa la sorte dei messaggi inviati.
Solo il 12 ottobre Mussolini veniva informato sulla situazione di
Zara e disponeva la nomina di un prefetto. Il funzionario designato si
rese irreperibile e quindi l'italianità della città in quel periodo fu difesa
soltanto dalla Wehrmacht che non poteva rinunciare alla collaborazione
dei militari italiani per combattere la guerriglia delle varie formazioni slave
che dilagava nei territori extraurbani.
Soltanto il 2 novembre una delegazione riuscì a raggiungere Trieste
ed a prendere contatto con il prefetto Coceani, che compresa la gravità
della situazione cercò in tutti i modi di collegarsi con il Ministero degli
Interni, per provocare un immediato decreto di nomina di un nuovo capo
della provincia, senza risultato. Riuscì soltanto a parlare con il capo della
polizia che convenne sulla gravità della situazione ma che si dichiarò
incompetente a rendere operativa la nomina.
Di fronte a tutte le incertezze Coceani tagliò corto e fece partire per
Zara un telegramma con cui, con la forma "d'ordine del Ministero degli
Interni" nominava prefetto di Zara Vincenzo Serrentino, che si trovava
già in città con l'incarico di comandante dell'artiglieria contraerea.
Contemporaneamente da Roma il capo della polizia faceva diffondere
con il notiziario della notte un analogo comunicato. Nel mese di ottobre,
intanto, si erano moltiplicate le iniziative del governo di Zagabria per
prendere possesso della città, che era stata dichiarata dal consiglio dei
ministri croato capitale del nuovo zupanato della Dalmazia.
I tedeschi erano rimasti sorpresi da questa mossa. Fu per questo
motivo che il rappresentante militare della missione diplomatica tedesca
convocò a rapporto gli alti comandanti interessati. Nella riunione, dopo
aver preso atto che la decisione di Hitler sulla sorte definitiva della
Dalmazia non doveva essere in alcun modo posta in discussione, e per
contro che l'aiuto delle unità dell'Esercito Italiano era indispensabile
per la difesa antipartigiana nella città e nei dintorni, fu assunta una
decisione che apparve un capolavoro di diplomazia, e cioè che
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STORIA
LUCIANO LUCIANI
"l'amministrazione di Zara sarebbe stata assunta dai croati solamente
con la contemporanea sostituzione delle forze armate ivi esistenti" (44).
In tale modo la decisione sul passaggio dei poteri veniva attribuita
alla Werhmacht.
In ogni caso agli occhi della cittadinanza, la sorte di Zara e dei suoi
abitanti era definitivamente segnata. Se la guerra, come tutto lasciava
prevedere, si fosse conclusa a favore degli alleati, la città sarebbe stata
annessa alla repubblica Jugoslava. Se invece la vittoria avesse arriso ad
Hitler, Zara sarebbe entrata a far parte dello Stato croato di Ante Pavelic.
Dal 3 novembre, comunque, il neo prefetto Serrentino (45) fu
subito impegnato nella soluzione dei vari problemi del capoluogo che
non aveva più, ne ebbe in seguito, alcun contatto con la madrepatria.
Il capo della provincia, per prima cosa, doveva fronteggiare
l'invadenza dei croati che volevano impadronirsi della città. Le difficoltà
poi erano acuite dal fatto che le trattative si svolgevano tra i comandi
tedeschi e gli ustascia, con esclusione di ogni intervento italiano.
Unica chance di Serrentino era quella di tenersi a stretto contatto
con i tedeschi, presso cui faceva valere la collaborazione di reparti
militari italiani contro i partigiani slavi. In questo egli fu molto abile e
quindi tutti i tentativi ustascia di farsi consegnare Zara furono elusi.
Il secondo grave evento che Serrentino doveva fronteggiare
era rappresentato dai bombardamenti aerei. Per motivi ancora oggi
incomprensibili Zara fu sottoposta a 54 incursioni (46) durante le quali
(44) TALPO O., "Il martirio di Zara e di Vincenzo Serrentino", ed. Libero Comune di Zara in
esilio, 1997, p. 5.
(45) SERRENTINO V., siciliano di nascita, frequentò l'accademia militare di Modena uscendone
sottotenente nel 1916. Prese parte con valore alla 1^ guerra mondiale e fu legionario fiumano con
D'Annunzio. Dopo la guerra, congedatosi, fu sindacalista fascista a Zara fino al 1939, quando fu
nominato comandante della milizia artiglieria contraerea. Dal 2 novembre 1943 al 30 ottobre 1944
fu capo della provincia di Zara e dal 2 novembre successivo al 1° maggio 1945 fu l'animatore del
Comitato per l'assistenza dei profughi dalmati di Trieste. Il 5 maggio fu catturato dai partigiani slavi
che lo condannarono a morte per aver fatto parte del Tribunale straordinario istituito nel 1942 dal
Governatorato della Dalmazia per reprimere i crimini dei partigiani slavi. Fu fucilato a Sebenico il 15
maggio 1947 e fu seppellito in località ignota.
(46) TALPO O., BRCIC S., "(…) Vennero dal cielo", Libero comune di Zara in esilio, 2000, p. 46.
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GLI AVVENIMENTI ALLA FRONTIERA NORD-ORIENTALE: L'ALPENVORLAND E L'ADRIATISCHES KÜSTENLAND
furono sganciate 900 tonnellate di bombe che uccisero 2000 persone e
ne ferirono circa il doppio.
Le abitazioni rase al suolo furono l'85% del totale procurando così
a Zara il non invidiabile primato di città italiana più bombardata della 2^
guerra mondiale.
La ricerca storica non ha consentito di chiarire il motivo di tanto
accanimento contro una città sostanzialmente indifesa ed assolutamente
priva di obiettivi militari. Si è così accreditata l'ipotesi, non infondata,
che la distruzione del capoluogo dalmata fosse stata richiesta dal
maresciallo Tito per cancellare ogni segno di italianità e poter quindi
procedere all'annessione senza che sorgessero in seguito problemi di
natura etnica (47).
Le autorità cercavano di fronteggiare le enormi emergenze
sanitarie, alimentari, di controllo dell'ordine pubblico che minacciavano
la città, pur con scarsissimi mezzi disponibili.
A fine dicembre 1943 però la maggior parte della popolazione era
sfollata nelle campagne circostanti e viveva negli stenti alimentandosi
con quanto riusciva a reperire in loco.
Il prefetto, da un lato cercava di far funzionare al meglio le residue
strutture amministrative e dall'altro cercava di agevolare l'esodo, con
mezzi di fortuna, dei cittadini verso l'Istria e Trieste.
Verso la fine dell'estate 1944 la situazione si aggravò ancora di
più. Agli incessanti bombardamenti, che peraltro non preoccupavano
più perché colpivano una città completamente in rovina e sgombra degli
abitanti che vivevano, anzi sopravvivevano, nelle campagne circostanti,
si era aggiunto l'affondamento dei piccoli natanti (48) che trasportavano
(47) Zara, nella sua bimillenaria storia, non era mai stata soggetta a dominazione slava. Fu
colonia romana dal 78 a.C., appartenne all'impero romano d'occidente e poi d'oriente, nel 1000
fu assoggettata al dominio veneziano, nel XIX secolo fece parte dell'impero austro-ungarico e dal
1918 al 1947 del Regno d'Italia.
(48) L'unico piroscafo di una certa stazza che assicurava con una certa regolarità i
collegamenti con Trieste era il Sansegò che però fu affondato a Lussino il 27 maggio 1944.
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STORIA
LUCIANO LUCIANI
derrate dall'Istria e nel viaggio di ritorno caricavano i profughi che
sfollavano a Trieste. Ormai i pochi rimasti percepivano che la guerra,
almeno in quella martoriata città era al termine.
Il 30 ottobre 1944 i tedeschi abbandonarono Zara via mare e per
ferrovia da Selenico e ad essi si univano il prefetto Serrentino con le
ultime autorità italiane ed i pochi cittadini che riuscirono a trovar posti
sul convoglio.
Il 1° novembre entrarono in Zara le truppe jugoslave, che per
colmo di ironia furono sottoposte ad un violento bombardamento aereo
degli alleati, cui non era ancora giunta la notizia che i tedeschi si erano
ritirati. Subito iniziò il saccheggio della città e le fucilazioni di coloro che
erano invisi ai nuovi occupanti, ad iniziare dai carabinieri, dai finanzieri e
dagli agenti di Pubblica Sicurezza cui i tedeschi avevano consegnato il
controllo della città (49).
Anche nel resto della Dalmazia, mano a mano che i tedeschi si
ritiravano, le minoranze italiane di Sebenico, Spalato, Curzola e Ragusa
erano costrette all'esilio per sottrarsi alle vendette dei partigiani slavi.
La situazione dei Dalmati era particolarmente difficile: abbandonati
a se stessi, vittime della insistente e penetrante propaganda slava, che
trovava ascolto anche in Italia, coscienti che non sarebbe mai stato
concesso loro di tornare nelle proprie case, vivevano nella più assoluta
incertezza e preoccupazione per la sorte che li attendeva.
10. Tentativi di Mussolini per salvaguardare l'italianità della Venezia
Giulia e di Zara
Il governo fascista repubblicano tentò in vari modi e con una
insistenza degna di miglior risultato, di modificare a suo favore la
situazione delle zone di operazioni.
(49) Il primo ad essere fucilato fu il tenente dell'Arma Ignazio Terranova colpevole di aver
fatto issare la bandiera italiana sul campanile più alto di Zara, alla partenza delle truppe tedesche di
occupazione.
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GLI AVVENIMENTI ALLA FRONTIERA NORD-ORIENTALE: L'ALPENVORLAND E L'ADRIATISCHES KÜSTENLAND
Fin dall'ottobre 1943, Mussolini inviò al Führer, per il tramite del
generale Graziani che si recava al Quartier Generale della Wehrmacht, una
lettera con cui segnalava la situazione insostenibile nella quale era venuto
a trovarsi il suo governo a causa della istituzione delle zone di operazioni e
la perdita di prestigio del nuovo regime di fronte alla popolazione italiana.
Anche il figlio del Duce, Vittorio e poi Pavolini, in occasione di visite in
Germania, enfatizzarono gli aspetti del problema ponendo l'accento sui
riflessi negativi all'estero, ove si parlava apertamente di annessione al
Reich dell'Alpenvorland e dell'Adriatisches Küstenland.
Le risposte delle autorità tedesche - non è noto il riscontro di Hitler
alle lettere di Mussolini - battevano tutte sullo stesso tasto: sebbene i
tedeschi intendessero aver riguardo per Mussolini in tutti i provvedimenti
e volessero non lasciare dubbi, nemmeno all'estero, sul fatto che le zone
di operazioni fossero territorio italiano, era tuttavia necessario per ragioni
esclusivamente militari, che la situazione in quelle zone si mantenesse
invariata (50).
Nell'ottobre 1943, l'agenzia inglese Reuter aveva diffuso un
comunicato nel quale dava notizia dell'annessione al Reich delle
provincie italiane dell'Alpenvorland. Il comunicato non parlava dell'altra
zona di operazioni del Litorale, ma era a tutti chiaro che il destino futuro
dei due territori era comune.
Poiché da poco Mussolini era stato reinsediato a capo del governo,
l'opinione pubblica poteva essere indotta a ritenere che il Duce avesse
barattato con l'alleato che lo aveva rimesso al potere, terre italiane.
La reazione del governo italiano fu molto decisa, tanto che pochi
giorni dopo l'agenzia giornalistica ufficiale tedesca smentì la Reuter,
ma il relativo comunicato fu trasmesso solo all'esterno della Germania.
Il governo della RSI più volte protestò per l'esclusione dalle due zone
di operazioni di gran parte delle sue potestà, ma dovette agire solo
attraverso l'ambasciatore a Berlino Anfuso, che segnalò le lamentele
italiane più volte, e particolarmente nell'ottobre 1943, nell'agosto e nel
settembre 1944 ed infine nel febbraio 1945.
(50) STUHLPFARRER K., op.cit., p.148.
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LUCIANO LUCIANI
Particolarmente vibrata fu la presa di posizione dell'agosto 1944:
su sollecitazione di Mussolini l'ambasciatore presentò al Ministro degli
Esteri tedesco un memorandum nel quale si rappresentava che i supremi
commissari nelle zone di operazione boicottavano apertamente ogni
azione tendente ad organizzare il partito fascista e che essi tendevano
alla "reintroduzione del sistema asburgico" con la conseguenza che,
intenzionalmente o meno, l'appartenenza allo Stato italiano delle
provincie sottoposte alla loro amministrazione veniva sempre più
cancellata (51). Il memorandum si concludeva con la richiesta di
richiamare tutti quei funzionari tedeschi (ed i primi non potevano che
essere Hofer e Rainer) che avevano preso provvedimenti lesivi della
dignità e dell'autorità della RSI e di impartire istruzioni a tutti gli uffici
militari e civili delle zone di operazione e di prendere contatto immediato
col governo fascista per regolare tutti i problemi pendenti.
Tutte le proteste di Anfuso, però, si scontrarono con un muro di
gomma. Invariabilmente il ministro Ribentrop rispondeva che le questioni
rappresentategli esulavano dalle competenze del Ministero degli esteri,
in quanto rientranti nella sfera militare.
Mussolini ebbe l'occasione di sollevare nuovamente la questione
il 22 e 23 aprile 1944, questa volta direttamente con Hitler, nella
conferenza di Kleissheim.
Il Duce chiese al Führer di consentirgli di riconquistare, anche
parzialmente, la sovranità amministrativa nelle zone di operazioni, o
almeno di conservare la potestà di nominare o destituire i funzionari, e di
poter liberamente organizzare le federazioni fasciste. Hitler, però, eluse
ogni contrasto su questo punto facendo capire che non desiderava, per
ragioni di necessità militare, un mutamento dello status quo.
Il governo dalla RSI continuò ad avanzare lamentele a tutti i livelli,
finché il governo tedesco, nel febbraio 1945, con una nota del Ministro
degli Esteri del Reich respinse energicamente il rimprovero avanzato
all'amministrazione tedesca di svolgere una politica "slavofila, austrofila
ed antitaliana".
(51) STUHLPFARRER K., op.cit., p. 150.
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GLI AVVENIMENTI ALLA FRONTIERA NORD-ORIENTALE: L'ALPENVORLAND E L'ADRIATISCHES KÜSTENLAND
Nel litorale Adriatico invece, secondo la nota ministeriale, veniva
attuata una politica intesa unicamente a mantenere la pace e l'ordine
pubblico, nonostante l'opposizione di alcuni "circoli ultrafascisti", per cui
era da respingere ogni conclusione volta a far credere che i provvedimenti
delle autorità sottintendevano una politica filo slava e filo austriaca (52).
Retrospettivamente, è stata posta la questione se, sotto il profilo
giuridico, i territori delle zone di operazioni abbiano fatto parte, dal
10 settembre 1943 al 1° maggio 1945 dello Stato italiano oppure
debbano essere considerati a tutti gli effetti annessi al grande Reich (53).
Effettivamente, nel Litorale Adriatico, come nell'Alpenvorland, venne
del tutto esclusa la sovranità della RSI, venne eluso il diritto di nomina sia
dei prefetti, che nell'ordinamento giuridico amministrativo italiano erano le
massime autorità periferiche dello Stato, sia dei questori, massime autorità
deputate al mantenimento dell'ordine pubblico, fu vietato il reclutamento
militare e furono poste forti limitazioni alla dipendenza dal governo italiano
delle forze armate operanti nel territorio, furono modificate numerose
norme penali, processuali, amministrative.
La giurisdizione penale, civile e amministrativa fu sottoposta
al supremo commissario, il quale interferì anche pesantemente nei
programmi scolastici e nei libri di testo, cercando di far prevalere ove
possibile, la lingua e la cultura tedesca o slava.
Tuttavia le discussioni su questo punto devono essere ritenute
definite dalle note sentenze della Corte di Cassazione (54), le quali
riferendosi all'Alpenvorland, ma con effetti anche per il litorale Adriatico,
affermano che il governo germanico non volle escludere, ne escluse nel
territorio ogni potestà della RSI, tenuto conto che la RSI stessa traeva
origine ed efficacia dall'autorità militare tedesca.
(52) STUHLPFARRER K., op.cit., p. 151.
(53) Un'analisi completa del problema è stata effettuata da Umberto Corsini ("Alpenvorland,
necessità militare o disegno politico?", in atti del convegno di Belluno 21-23 aprile 1983, op.
cit.) riferita alla zona di operazioni Prealpi, ma che è pienamente valida anche per l'Adriatisches
Küstenland.
(54) Sentenza della Corte di Cassazione a sezioni riunite del 18 giugno 1953, n.1829, della
II sezione civile del 24 gennaio 1953, n. 211 e del 20 aprile 1955. Il foro italiano 1953 e Repertorio
generale della giurisprudenza italiana 1955.
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Conclusivamente, si può affermare che Mussolini ed il suo governo
si trovarono, quando furono insediati, di fronte al fatto compiuto: non
poterono modificarlo in alcun modo e dovettero tollerarlo sino al crollo
finale, tentando ripetutamente ed inutilmente di ottenere qualche ritocco
al piano nazista di precostituire le condizioni di annessione della zona,
ormai deciso nei disegni politici del Reich.
11. La Guardia di Finanza nelle zone di operazioni
L'8 settembre 1943 i reparti del Corpo stanziati nella Venezia
Giulia erano inquadrati nella legione di Trieste, comandata dal colonnello
Persirio Marini, che dipendeva dal locale comando di Zona di cui era
titolare il generale di brigata Giuseppe Bagordo, poi sostituito dal
parigrado Filippo Fiocca. Dalla zona di Trieste dipendeva anche la
legione di Udine.
I reparti della Guardia di Finanza rimasero ai loro posti, in applicazione
della nota circolare 28 agosto 1943, n. 827 - R.C. (55), ma quelli ubicati
nelle aree rurali furono sommersi dalla sollevazione dei partigiani slavi che
insanguinò la penisola istriana nel mese di settembre 1943.
Ripristinato il controllo da parte dei tedeschi nella zona operativa
del litorale, la Guardia di Finanza continuò a funzionare soltanto nei
maggiori centri urbani, in quanto i reparti minori, situati per lo più lungo
la linea di confine tra Italia e Jugoslavia, vennero soppressi dal supremo
commissario Reiner e sostituiti da doganieri tedeschi.
Intanto la legione di Trieste aveva assorbito una buona parte dei
militari dei battaglioni mobilitati della Croazia e della Slovenia che l'8
settembre si erano sbandati ed i cui componenti, che non erano caduti
vittime dei partigiani slavi o non erano stati deportati in Germania, erano
riusciti a defluire alla spicciolata nella Venezia Giulia. Il colonnello Marini
si era così trovato alle dipendenze circa 5.000 uomini, forza decisamente
eccedente le modeste esigenze del servizio d'istituto.
(55) La circolare è esposta nel museo storico del Corpo.
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Poiché gli occupanti tedeschi, a somiglianza di quanto
attuato nel rimanente territorio della R.S.I., vollero creare reparti di
"Polizia Economica" (Wirtscaft Polizei - Wi.Po.) il generale Fiocca
colse l'occasione per trovare un impiego al personale del Corpo in
esubero, che altrimenti sarebbe stato inesorabilmente adibito alla lotta
antipartigiana nella quale i finanzieri, in grandissima parte di sentimenti
antitedeschi, non volevano farsi coinvolgere.
La Wi.Po. della Venezia Giulia disponeva di un comando a Trieste,
di cui era titolare il Ten. Col. Corradino Giummo, dal quale dipendevano
uffici provinciali ed uffici locali denominati "sotto uffici" (56).
La Polizia economica era deputata a combattere la borsa nera, a
frenare l'ascesa dei prezzi ed a impedire l'esportazione dei beni verso il
resto d'Italia.
Per quest'ultima esigenza, fu costituito, nell'ambito della Wi.Po. un
apposito reparto, di circa 600 uomini, denominato Polizia economica di
frontiera (57).
Spesso, però, gli uffici della Polizia Economica si trasformavano in reti
informative a favore della resistenza, come a Pordenone, dove il capitano
Rosito, evitato fortunosamente l'arresto, si diede alla macchia (58).
L'impiego della Polizia economica, tuttavia, risolse solo in parte
l'esubero di personale del Corpo in forza alla legione di Trieste ed Udine.
Non fu possibile nascondere tale stato di fatto ai tedeschi, che se ne
accorsero. La polizia germanica iniziò a pretendere che reparti della
Guardia di Finanza partecipassero alla lotta contro i partigiani ed il gen.
Fiocca si trovò impossibilitato ad eccepire che tutti i finanzieri erano
impiegati nel servizio d'istituto, come avevano fatto con successo i suoi
colleghi comandanti di zona nelle altre parti d'Italia. Egli, oltre tutto, aveva
(56) MECCARIELLO P., La Guardia di Finanza sul confine orientale, Gribaudo Torino, 1977,
p. 222.
(57) Ibidem, p. 222.
(58) Ibidem, p. 223.
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come interlocutore il gen. Globocnick, che era alieno dall'accettare che i
suoi ordini non venissero eseguiti e reagiva spesso alle resistenze che gli
venivano opposte con l'internamento in Germania dei recalcitranti.
Fu così che il gen. Fiocca fu costretto ad accettare la costituzione
di reparti da adibire al concorso al mantenimento dell'ordine pubblico
(che significava combattere il movimento partigiano) (59).
Furono costituite tre compagnie autonome. La prima a Trieste,
con il compito di assicurare la completa agibilità della strada statale
Trieste - Fiume. Una parte dei finanzieri si rifiutò di partecipare a queste
incombenze, ma i renitenti furono subito rastrellati dai tedeschi e
deportati a Dachau. I rimanenti si dislocarono lungo la rotabile, divisi in
piccoli presidi, e cercarono subito di concordare un "modus vivendi" con
i partigiani slavi, ma la proposta fu rifiutata. Ne seguì una serie di azioni
e reazioni, che portarono il reparto a farsi coinvolgere nella repressione
antipartigiana. Ciò fu anche agevolato dal comportamento del tenente
comandante, che si era strettamente legato ai tedeschi, che lo avevano
anche proposto per una promozione per meriti di guerra, peraltro
rigettata dal Comando Generale di Brescia (60).
La seconda compagnia fu costituita a Udine, all'indomani
dell'armistizio, e le fu affidato il compito di controllare il collegamento
stradale tra Cividale e Caporetto. Gran parte della compagnia, però,
compreso lo stesso comandante, cap. Mario Giannone, passò dopo
pochi mesi alla Resistenza (61).
L'ultima compagnia, costituita per i servizi straordinari di sicurezza,
fu quella di Gemona. Il reparto fu affidato al tenente Mario Osana che,
grazie alla sua conoscenza del tedesco, riuscì a captare la benevolenza
del comandante delle SS di quella località.
Osana, però, era in contatto con la Resistenza per conto della
quale aveva creato, presso la Guardia di Finanza, una vasta rete
informativa e di sostegno logistico.
(59) Ibidem, p. 224.
(60) Ibidem, p. 225.
(61) Ibidem, p. 225.
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La incessante attività del tenente a favore dei partigiani iniziò,
verso luglio 1944, a destare sospetti nei tedeschi, per cui Osana e molti
dei suoi dipendenti disertarono per passare senza ulteriori indugi nei
reparti della Resistenza (62).
Verso la fine della guerra il CLN di Trieste, che tra l'altro agiva
in armonia ma in concorrenza con l'omologo comitato esecutivo
antifascista italo-sloveno (C.E.A.I.S.), e che disponeva di forze piuttosto
esigue, per poter organizzare l'insurrezione generale dovette rivolgersi
alla Guardia di Finanza, da tempo in contatto con i partigiani, come
d'altra parte in molte città dell'alta Italia, soprattutto a Milano.
La legione di Trieste predispose per l'occasione un battaglione di
circa 600 uomini con 22 ufficiali, al comando del ten.col. Giummo, che
costituì per la sua forza e per la sua efficienza, la punta di diamante del
CLN Triestino.
Le operazioni iniziarono il 28 aprile 1945 e si conclusero due giorni
dopo. Gli insorti con alla testa i finanzieri occuparono via via la stazione
radio, la centrale telefonica, la stazione ferroviaria, la centrale elettrica,
la sede della Banca d'Italia i principali uffici pubblici, l'area portuale e le
principali caserme dell'esercito della R.S.I.. Nei combattimenti trovarono
la morte 16 tra sottufficiali e finanzieri.
Ai reparti della Guardia di Finanza si consegnarono diverse unità
tedesche che intendevano arrendersi soltanto alle Forze Armate regolari.
Il 1° maggio 1945, quando la città era completamente nelle mani
del CLN, entrarono in Trieste le avanguardie dell'esercito popolare di
liberazione di Tito che si sostituirono subito ai partigiani del CLN nel
controllo delle città.
Nei giorni successivi gli Jugoslavi, dopo aver lodato la Guardia
di Finanza per il contributo alla liberazione, iniziarono a circondare le
caserme ed a deportare i finanzieri nei campi di concentramento, prima
nei dintorni di Trieste e poi in Slovenia ed in Croazia. Particolarmente
(62) Ibidem, p. 226
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tragica fu la sorte di 96 militari di cui 3 ufficiali, rastrellati nella caserma di
Campo Marzio e poi spariti nel nulla (63). Secondo alcune testimonianze
tutti i finanzieri furono trucidati e gettati nelle foibe di Bassovizza.
Ventura analoga ebbero i finanzieri di Gorizia, Pola e Fiume e dei
distaccamenti della penisola istriana.
Il destino dei finanzieri di Udine fu diverso, Parteciparono anch'essi
all'insurrezione generale, subendo perdite anche per mano dei partigiani
sloveni, ma al termine delle operazioni militari poterono riprendere senza
problemi il loro servizio istituzionale essendo il Friuli occupato dalle forze
anglo-americane.
La Guardia di Finanza, che aveva cessato di operare a Trieste il
2 maggio perché soppressa dalle autorità Jugoslave, riapparve nella città
il 1° settembre inquadrata nella "Venezia-Giulia Police Force" organizzata
dall'Amministrazione militare alleata (A.M.G.). I finanzieri, arruolati con
apposito concorso aperto a tutti coloro che risiedevano nella VeneziaGiulia, furono apertamente appoggiati dal Comando Generale che riuscì
a tenere sempre aperto un canale di collegamento con gli alleati ed in
particolare con la "Finance Guard Brauch" nell'ambito della quale veniva
svolta l'attività d'istituto.
Si trattava di circa 750 uomini al comando del ten.col. Domenico
Veca, che il 26 ottobre 1954, con la cessazione dell'Amministrazione militare
alleata, rientrarono, anche formalmente, nei ranghi del Corpo (64).
I finanzieri stanziati in Alto Adige e nel Trentino, che erano
inquadrati nella legione di Trento, invece, all'indomani dell'8 settembre
vennero tutti rastrellati dai tedeschi. Il personale dei circoli di Merano,
Bolzano e Brunico venne internato nei lager tedeschi, unitamente al
comandante della legione, col. Giacomo Bortone.
(63) Nel museo storico del Corpo è esposta una fotografia dei 96 finanzieri ancora ignari
della loro sorte (a loro era stato detto che venivano trasferiti in un'altra caserma) in partenza verso
l'ignoto.
(64) MECCARIELLO P., La Guardia di Finanza sul confine orientale, cit., pp. 313-322.
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GLI AVVENIMENTI ALLA FRONTIERA NORD-ORIENTALE: L'ALPENVORLAND E L'ADRIATISCHES KÜSTENLAND
Agli altri fu consentito di restare in servizio, limitatamente alle
provincie di Trento e Belluno, ma ai militari furono sequestrate tutte le
armi, comprese quelle individuali.
Particolarmente drammatici per i finanzieri furono gli avvenimenti
dell'8 e 9 settembre 1943 in Alto Adige.
L'annuncio dell'armistizio sorprese i comandanti dei reparti ai loro
posti di servizio.
Fin dalle ore 20,30 (l'armistizio era stato reso pubblico alle ore
19,30 dell'8 settembre) i tedeschi piombarono nelle caserme dei reparti
di frontiera catturando tutti gli appartenenti al Corpo e trasferendoli nei
giorni successivi in Germania, senza tener conto delle loro proteste
basate sull'applicazione della legge di guerra che dispone la permanenza
in servizio delle forze di polizia anche in territorio controllato dal nemico.
A Bolzano, il Comandante del Circolo, magg. Emilio Jacoboni,
ricevette notizia della cattura degli ufficiali e dei militari delle brigate e
delle tenenze di confine, e dopo aver dato ordine agli altri comandanti
di caserma di opporsi con le armi ad eventuali tentativi di intrusione da
parte dei tedeschi, si mise in contatto con il comandante di legione, col.
Bortone, per avere direttive.
Il colonnello non ritenne che la Guardia di Finanza dovesse
comportarsi differentemente dagli altri reparti dell'Esercito e non
ritenne neppure che il Corpo potesse rimanere a svolgere i suoi compiti
d'istituto in territorio occupato dal nemico per cui impose al magg.
Jacoboni di recarsi presso la sede del Corpo d'Armata di Bolzano e di
seguire gli ordini del generale Gloria comandante del Corpo d'Armata.
Il maggiore fu quindi testimone degli avvenimenti in quella
importante sede militare: verso le 03,00 del mattino del 9 settembre
truppe tedesche attaccarono la caserma, ma furono respinte dai
carabinieri di guardia, a cui si erano aggiunti 3 finanzieri di scorta al loro
comandante di circolo.
I tedeschi si ritirarono, ma poco dopo si ripresentarono con un
carro armato che giunto ad 80 metri sparò una cannonata sul portone
d'ingresso, mandandolo in frantumi. I tedeschi poi invasero il palazzo
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sparando e lanciando bombe a mano nelle stanze e catturarono il
personale presente nella sede. In seguito catturarono anche tutti gli
ufficiali ed i militari del presidio compreso il Magg. Jacoboni ed il
comandante della compagnia Cap. Fausto Musto, deportandoli prima
ad Insbruck e poi in Germania (65).
12. Epilogo
Alla firma dell'armistizio fra Italia ed alleati, il 3 settembre 1943, la
Gran Bretagna e gli Stati Uniti si erano impegnati ad occupare tutto il
territorio italiano entro i confini prebellici ed a dare un'equa soluzione al
problema della frontiera orientale con le trattative che avrebbero portato
al trattato di pace.
Questa posizione nei mesi successivi venne via via attenuata a
favore del maresciallo Tito che fece abilmente valere i suoi successi
militari contro i tedeschi negli incontri di Bolsena con il maresciallo
Alexander, supremo comandante alleato in Italia, nel luglio 1944 ed a
Belgrado nel febbraio 1945.
In quest'ultimo convegno fu convenuto che Tito avrebbe permesso
la costituzione di un governo militare alleato nella penisola istriana, a
condizione che le autorità jugoslave ne assumessero l'autorità civile (66).
Gli angloamericani volevano infatti mantenere il controllo della costa
occidentale, dal momento che era di loro vitale interesse mantenere il
controllo dei porti e delle vie di comunicazione che adducevano al nord,
verso l'Austria e la Germania, in vista di una possibile continuazione
della guerra in quella direzione.
Verso la fine di aprile 1945, mentre i tedeschi deponevano le armi,
Alexander ordinò alla 2^ divisione neozelandese di occupare l'Istria
e di crearvi un governo militare alleato (GMA) che avrebbe dovuto
amministrare la regione fino alla stipula del trattato di pace.
(65) Relazione del Magg. Emilio Jacoboni, conservata all'archivio del Museo Storico del
Corpo.
(66) LAMB R., "La guerra in Italia 1943-46", Milano, Corbaccio, 1996, pp. 123 e ss.
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GLI AVVENIMENTI ALLA FRONTIERA NORD-ORIENTALE: L'ALPENVORLAND E L'ADRIATISCHES KÜSTENLAND
Tito, però, non tenendo fede ai patti, invase tutta la Venezia Giulia
fino all'Isonzo ed impedì ai neozelandesi di assolvere il loro compito (67).
Per appianare le divergenze, Alexander inviò il 9 maggio una
delegazione alleata, sotto la guida del generale Morgan, che propose agli
slavi di dividere la regione in due zone di occupazione, la A e la B. Una
linea di demarcazione, indicata in seguito come linea Morgan, doveva
dividere con direzione nord-sud la Venezia Giulia in due parti e gli alleati
avrebbero controllato quella ad occidente, al fine di disporre dei porti di
Trieste e di Pola e di tutti gli ancoraggi della costa tra le due città.
Tito, però, respinse il piano, irritando i governi alleati che, in
risposta presentarono il 15 maggio un'ultimatum basato sull'applicazione
del piano Morgan. Tito lo respinse, ma il 21 maggio improvvisamente
cambiò atteggiamento, forse su consiglio di Stalin, dimostrandosi
disponibile alle trattative.
Queste si conclusero il 9 giugno a Belgrado con la firma di un
accordo (68) che prevedeva per la zona A, amministrata dagli alleati, la
città di Gorizia, di Trieste e per la zona B, il restante territorio istriano e
giulio.
(67) Il maresciallo Alexander intendeva occupare la Venezia Giulia oppure almeno le coste
occidentali dell'Istria al solo scopo di controllare i porti di Trieste e Pola e gli ancoraggi intermedi
per utilizzarli come base di alimentazione delle forze alleate destinate ad operare nelle future zone
di operazione in Austria. In un telegramma inviato al primo ministro britannico Winston Churchill il 5
maggio 1945, riferendosi a Tito propone che se consentirà agli angloamericani libertà di movimento
in Istria, "gli si potrà assicurare che quando io non avrò più bisogno di Trieste come base per le mie
forze in Austria egli avrà il permesso di incorporarla nella sua nuova Jugoslavia" (W.Churchill, "La
seconda guerra mondiale", Arnoldo Mondadori Editore, 1967, parte sesta, p.1242). Il primo ministro
colse subito la pericolosità di questa affermazione, ed il giorno dopo telegrafò ad Alexander per un
richiamo a non esorbitare dalla sue competenze. In tale circostanza precisò che "non c'è questione
alcuna di nostri accordi con lui (Tito) circa l'incorporazione dell'Istria o di qualsiasi parte dell'Italia
pre bellica nella sua nuova Jugoslavia. Il destino di questa parte del mondo è riservato al tavolo
della pace, e voi dovreste certo farglielo capire" (ibidem, p.1242). Successivamente Churchill
contattò Truman per concordare una linea di condotta che comprendesse anche l'uso delle armi
da parte degli alleati per stabilire sull'Istria il governo militare previsto dagli accordi Alexander - Tito
precedenti la conclusione della guerra.
(68) Il testo è riportato integralmente nella citata opera di LA PERNA G., "Pola, Istria, Fiume
1943-45", p. 339.
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In applicazione degli accordi, gli slavi abbandonavano la zona A,
rafforzando però la loro presenza nella zona B.
La sorte dei territori dell'Istria, della Venezia Giulia, di Fiume e di
Zara era così segnata e Tito aveva mano libera per iniziare il processo di
profonda snazionalizzazione che troverà una copertura giuridica con la
definitiva cessione di quelle terre alla Jugoslavia, sancita dal trattato di pace
del 1947, e confermata dagli accordi di Osimo del 10 novembre 1975.
Del territorio che comprendeva le province di Gorizia e Trieste,
l'Istria, il Carnaro e Zara, di 9952,38 Kmq., dopo il trattato di pace sono
rimasti alla madrepatria solo le città di Gorizia e Trieste con un minimo
di retroterra, in totale 695,70 Kmq.. All'Italia è stato sottratto un territorio
di 8257 Kmq. che geograficamente le apparteneva per storia, cultura
e popolazione autoctona, anche se nel 1945 e ancor più nel 1947 alla
firma del trattato di pace, popolato in maggior parte da sloveni e croati,
a causa dell'esodo che senza soluzioni di continuità aveva interessato la
Venezia Giulia fin dal periodo bellico. La partenza di oltre 300.000 italiani
su una popolazione di circa 500.000 abitanti trasformò radicalmente
l'immagine e l'essenza di una regione ed in pochi anni le principali città
della costa istriana si svuotarono dall'elemento italiano che era sempre
stato percentualmente maggioritario (69).
(69) Per una bibliografia completa sull'argomento cfr. R UMICI G., "Infoibati" , op.cit.,
pp.465-483 e LA PERNA G., "Pola, Istria, Fiume 1943-45", op. cit., pp. 401-417.
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