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Nícholas Sparks
Nícholas Sparks LE PAGINE DELLA NOSTRA VITA Traduzione di Lisa Morpurgo FRASSINELLI EDITORE The Notebook Copyright 1996 by Nicholas Sparks This edition published by arrangement with Warner Books, Inc., New York, New York USA All rights reserved Copyright 1996 Edizioni Frassinelli ISBN 88-7684-415-5 86-1-96 Nicholas Sparks, autore americano della nuova generazione, vive nel South Carolina con la moglie e due figli. Questo suo primo romanzo, tradotto in venti lingue, è già diventato un caso editoriale. Questo romanzo è un'opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell'immaginazione dell'autore e sono usati in chiave fittizia. Ogni somiglianza con persone esistenti o esistite, fatti o località è puramente casuale. Le poesie di Walt Whitman citate nel testo, appartengono tutte alla raccolta Foglie d'erba. Questo libro è dedicato con amore a Cathy, mia moglie e mia amica. INDICE. Ringraziamenti Miracoli Fantasmi Riunione Telefonate Kayak e sogni dimenticati Acqua di fiume Cigni e temporali Tribunali Una visita inaspettata Il bivio Una lettera dal passato Un inverno per due Ringraziamenti. Vorrei ringraziare due persone molto speciali che mi hanno aiutato a scrivere questa storia così come la leggerete ora. Theresa Park, l'agente che mi ha strappato all'oscurità. Grazie per la tua gentilezza, per la tua pazienza, per le molte ore di lavoro che mi hai dedicato. Ti serberò eterna riconoscenza per tutto ciò che hai fatto. E Jamie Raab, il mio editor. Grazie per la tua saggezza, per il tuo umorismo, per il tuo buon carattere. Mi hai fatto vivere una splendida esperienza e sono felice di esserti amico. Miracoli. Chi sono io? E come finirà, mi chiedo, questa storia? Il sole è sorto e siedo accanto al vetro della finestra appannato dal fiato di una vita scivolata via. Sono un vero spettacolo stamattina: due camicie, calzoni di panno pesante, una sciarpa avvolta a doppio giro attorno al collo e infilata nel maglione fatto a mano da mia figlia trenta compleanni fa. Il termostato in camera mia è regolato sul livello massimo e ho una piccola stufa piazzata proprio alle spalle. Sibila e geme e sputa aria calda come il drago di una favola, e tuttavia il mio corpo trema di freddo, un freddo di cui non riuscirò mai a liberarmi, un freddo che ha impiegato ottant'anni per consolidarsi. Ottant'anni, a volte ci penso, e sebbene abbia accettata la mia età, mi stupisce ancora questo gelo nelle ossa che non mi abbandona più da quando George Bush era presidente. Chissà se capita la stessa cosa a tutti gli ottantenni. La mia vita? Difficile definirla. Non è stata il trionfo spettacolare che avevo immaginato, ma non sono nemmeno rimasto sepolto in un buco come una talpa. Potrei fare un paragone con un portafoglio di Bluechips: titoli di Borsa solidi, tendenti più al rialzo che al ribasso e che si valorizzano gradualmente nel corso degli anni. Un buon investimento, un investimento fortunato, e ho imparato che non tutti possono dire altrettanto della loro vita. Ma non fraintendetemi. Non sono nulla di speciale, su questo punto non ho dubbi, un uomo come tanti che la pensa come tanti e ha vissuto come tanti. Non mi hanno dedicato monumenti e il mio nome sarà presto dimenticato, ma ho amato qualcuno con tutto il mio cuore e con tutta la mia anima, e lo considero un dono che mi ha colmato. Per i romantici questa è una storia d'amore; i cinici la definirebbero una tragedia. Nella mia mente è un po' tutt'e due le cose, e comunque si voglia interpretarne la fine, non cambia il fatto che ha coinvolto una grande parte della mia esistenza determinando la via da seguire. Non rimpiango tale scelta e i luoghi dove mi ha condotto; esistono altri rimpianti, quanto basta per riempire una tenda da circo; ma la via prescelta era quella giusta, non avrei potuto accettarne una diversa. Il tempo, purtroppo, non agevola il cammino. Il sentiero si allunga davanti a me diritto come sempre, ma ingombro di massi e di terriccio franoso accumulatosi nel corso di una vita. Fino a tre anni fa potevo ignorarli, ma ora mi è impossibile. Un malessere percorre rullando tutto il mio corpo, mi mancano forza e salute e trascorro i giorni come un pallone dimenticato in un canto dopo una festa: inerte, grinzoso e sempre più sgonfio. Tossisco, e con un'occhiata un po' strabica controllo l'orologio. É tempo di andare. Mi alzo dalla poltrona accanto alla finestra, attraverso la stanza strascinando i piedi e mi fermo accanto alla scrivania per prendere il taccuino che ho letto centinaia di volte. Non lo sfoglio nemmeno e me lo infilo sotto un braccio per proseguire il mio cammino verso il luogo dove devo andare. I miei piedi si posano su un pavimento di piastrelle bianche chiazzate di grigio. Come i miei capelli e quelli di quasi tutti gli ospiti qui, sebbene stamattina io sia l'unico a percorrere il corridoio. Sono tutti nelle loro stanze, soli, con la televisione. Ma, come me, ci sono abituati. Una persona si abitua a tutto, se le si dà tempo a sufficienza. Odo l'eco soffocata di singhiozzi in distanza e so esattamente chi sta singhiozzando. Poi le infermiere mi vedono e ci sorridiamo scambiandoci saluti. Sono amiche mie e parliamo spesso, ma di certo si pongono domande su di me e su ciò che sopporto volontariamente ogni giorno. Le sento sussurrare mentre passo: «Eccolo che ci va ancora... speriamo che finisca bene». Ma con me non affrontano direttamente l'argomento, forse pensano che mi ferirebbe parlarne così presto al mattino e, da come mi conosco, credo abbiano probabilmente ragione. Un minuto dopo raggiungo la camera. La porta è rimasta spalancata per me, come sempre. Dentro ci sono altre due infermiere e anche loro sorridono quando mi vedono. «Buongiorno», dicono con voci allegre, e io chiedo notizie dei loro bambini, dei voti a scuola e delle imminenti vacanze. Le nostre voci si incrociano al di sopra dei singhiozzi. Sembra che le infermiere non ci facciano caso, forse non li sentono più. Ma capita anche a me, se è per questo. Poi siedo nella poltrona che ha ormai assunto la mia forma. Le infermiere stanno completando il loro lavoro, lei ormai è vestita, ma continua a piangere. Si calmerà un po' quando quelle due se ne saranno andate, lo so. L'eccitazione del mattino la sconvolge sempre e oggi non fa eccezione. Finalmente la tapparella è rialzata e le infermiere escono, sorridendomi di nuovo e sfiorandomi una spalla. Mi chiedo che cosa significhi. Mi siedo e la fisso per un secondo, ma non risponde al mio sguardo. Comprensibile, perché non sa chi io sia. Uno sconosciuto, per lei. Poi, voltandomi, piego il capo e prego in silenzio per ottenere la forza di cui avrò bisogno. Ho sempre creduto fermamente in Dio e nel potere della preghiera, anche se, per essere sincero, la fede mi ha suggerito una serie di domande per le quali esigo assolutamente una risposta quando me ne sarò andato. Ci siamo. Via gli occhiali, la lente di ingrandimento sfilata dalla tasca. La poso sul tavolo mentre apro il taccuino. Devo leccare due volte il mio dito nocchiuto per aprirlo alla prima pagina. Poi metto a fuoco la lente. C'è sempre un attimo, prima che io cominci a leggere, in cui il mio cervello turbina e mi chiedo: Accadrà oggi? Non lo so, non so mai nulla in anticipo, e nel più profondo di me so che non importa. É la possibilità, non la garanzia, quella che mi fa andare avanti. Una specie di scommessa da parte mia. E chiamatemi pure pazzo o sognatore o quel che vi pare, io credo che tutto sia possibile. Mi rendo conto che il calcolo delle probabilità e la scienza sono contro di me. Ma la scienza non è la risposta totale, lo so perché ho avuto una vita per capirlo. E ciò mi lascia la fede nei miracoli. Per quanto inspiegabili e incredibili, i miracoli sono autentici e possono verificarsi a dispetto dell'ordine naturale delle cose. Perciò anche oggi, come tutti i giorni, comincio a leggere il taccuino a voce alta in modo che lei senta, sperando che il miracolo in grado di cambiare la mia vita si ripeta. E forse, solo forse, si ripeterà. Fantasmi. Era l'inizio di ottobre del 1946, e Noah Calhoun fissava il lento affondare di un pallido sole oltre la linea del parapetto del portico, nella sua casa in stile coloniale. Gli piaceva sedere lì al tramonto, specie dopo una giornata di duro lavoro, lasciando che i suoi pensieri vagassero senza una direzione precisa. Era un modo perfetto per rilassarsi, secondo una tecnica imparata da suo padre. In modo particolare gli piaceva posare lo sguardo sugli alberi e sul loro riflesso nel fiume. Gli alberi del North Carolina sono splendidi in autunno: verdi, gialli, rossi, arancione e di tutte le sfumature intermedie. Quei colori smaglianti si esaltano alla luce del sole e, per la centesima volta, Noah Calhoun si chiese se gli antichi proprietari della dimora avessero trascorso le serate pensando le stesse cose. La casa era stata costruita nel 1772 ed era dunque una delle più vecchie, nonché delle più vaste, di New Bern. In origine era la dimora padronale di una piantagione in piena attività, e Noah l'aveva comprata subito dopo la fine della guerra. Aveva poi impiegato undici mesi di lavoro, e una notevole somma, per restaurarla. Il cronista del giornale locale aveva scritto un articolo poche settimane prima dicendo che era la più bella opera di restauro che avesse mai vista. Di sicuro la casa era bellissima. Il resto della proprietà era un'altra storia, e lì Noah aveva trascorso la sua giornata. La casa sorgeva al centro di dodici acri di terra delimitati su un lato dal Brices Creek, e Noah si era occupato dello steccato che delimitava gli altri tre lati, controllando se le termiti si erano annidate nei vecchi legni e sostituendo i paletti quando era necessario. Rimaneva molto da fare, specialmente sul lato ovest, e mentre riponeva gli attrezzi aveva preso mentalmente nota di farsi consegnare altro legname. Poi entrò in casa, bevve un bicchiere di tè zuccherato e fece la doccia. Faceva sempre la doccia al termine della giornata, l'acqua spazzava via contemporaneamente il sudore e la fatica. Si era ravviato i capelli all'indietro, aveva indossato dei jeans stinti e una camicia azzurra a maniche lunghe, e con un secondo bicchiere di tè era uscito sul portico dove ora sedeva, dove sedeva ogni giorno a quell'ora. Allungò le braccia sopra il capo e poi orizzontalmente, roteando le spalle per completare l'esercizio. Si sentiva bene, pulito, fresco. I suoi muscoli erano stanchi e prevedeva che l'indomani si sarebbe svegliato indolenzito, ma era soddisfatto per aver portato a termine tutto ciò che si era prefisso di fare. Noah allungò la mano verso la chitarra, ricordò suo padre mentre compiva quel gesto e pensò a quanto gli mancava. Fece scorrere le dita sulle corde, ne aggiustò la tensione, controllò di nuovo e poi, soddisfatto, cominciò a suonare. Musica soft, musica tranquilla. Fischiettò per qualche secondo e infine cantò mentre la notte gli calava attorno. Suonò e cantò finché il sole non scomparve del tutto e il cielo divenne nero. Erano passate da poco le sette quando smise e si appoggiò allo schienale della poltrona per dondolarsi. Alzò lo sguardo, come sempre, e vide Orione e l'Orsa Maggiore e Castore e Polluce e la stella polare che palpitavano nel cielo autunnale. Cominciò mentalmente a fare calcoli e poi si interruppe. Sapeva di aver speso quasi tutti i suoi risparmi per restaurare la casa e avrebbe dovuto trovarsi un nuovo lavoro al più presto, ma scacciò quel pensiero e decise di godersi gli ultimi mesi della ristrutturazione senza porsi problemi. Una soluzione l'avrebbe trovata, ne era certo. La trovava sempre. E poi, pensare alle questioni economiche lo annoiava. Fin dall'infanzia aveva imparato ad apprezzare le cose semplici, che non sono in vendita, e faticava a capire chi la pensava diversamente. Era un'altra caratteristica ereditata da suo padre. Clem, il suo cane da caccia, si avvicinò sfregandogli il muso contro la mano prima di accucciarsi ai suoi piedi. «Ehi, bella, come va? » chiese Noah accarezzandole la testa, e Clem uggiolò piano, fissandolo con gli occhi rotondi. Aveva perso una zampa in un incidente d'auto, ma riusciva ancora a muoversi con disinvoltura e gli teneva compagnia nelle dolci serate come quella. Noah aveva trentun anni, non troppo vecchio, ma quanto basta per avvertire il peso della solitudine. Non era più uscito con una ragazza da quando era tornato lì, non ne aveva mai incontrata una che destasse in lui il minimo interesse. Colpa sua, e lo sapeva. Qualcosa di indefinibile creava una barriera tra lui e qualsiasi donna tentasse di avvicinarlo, qualcosa che forse non sarebbe riuscito a superare anche provandoci. E a volte, negli attimi che precedevano il sonno, si chiedeva se era destinato a rimanere solo per sempre. La temperatura non cambiò con l'avanzare della notte, rimase tiepida e piacevole. Noah ascoltava i grilli e il frusciare delle foglie, pensando che i suoni della natura erano più autentici e destavano più emozioni dei rumori delle auto o degli aerei. La natura dava in cambio molto di più di quanto avesse ricevuto, e quei suoni gli facevano pensare a ciò che l'uomo avrebbe potuto essere. C'erano stati momenti durante la guerra, specie dopo due battaglie, in cui aveva spesso pensato ai grilli e al fruscio delle foglie. «Ti impedirono di impazzire», gli aveva detto suo padre il giorno in cui si era imbarcato. «Sono la musica di Dio e ti riporteranno a casa.» Vuotò il bicchiere di tè, entrò in casa, prese un libro e uscì di nuovo accendendo la luce sotto il portico. Sedette con il libro tra le mani: era un volume consunto, le pagine macchiate di fango e di umidità. Foglie d'erba di Walt Whitman, che aveva portato con sé durante tutta la guerra. L'aveva persino salvato da una pallottola. Accarezzò la sovracoperta, liberandola dalla polvere, poi aprì il libro a caso e lesse le parole che aveva sotto gli occhi: Questa è la tua ora; o Anima, il libero volo nell'assenza di parole, lontano dai libri, lontano dall'arte,cancellato il giorno, la lezione conclusa. Tu emergi nella tua pienezza, silente, assorta, meditando i temi prediletti, la notte, il sonno, la morte e le stelle. Sorrise tra sé. Whitman, per qualche ragione, gli ricordava sempre New Bern, ed era felice di esserci tornato. Nonostante un'assenza di quattordici anni, quella era pur sempre casa sua e conosceva un sacco di gente, quasi tutti amici di gioventù. Niente di strano. Come in molte città del Sud, la gente che ci viveva non cambiava mai, si limitava a invecchiare a poco a poco. Il suo migliore amico in quei giorni era Gus, un settantenne nero con una casa più giù lungo la strada. L'aveva conosciuto poche settimane dopo aver comprato la vecchia dimora, quando Gus si era presentato con un liquore fatto in casa e uno stufato alla Brunswick, e avevano trascorso la prima serata in compagnia ubriacandosi e raccontandosi storie. Ora Gus si faceva vedere un paio di sere la settimana, di solito verso le otto. Con quattro figli e undici nipotini in casa, aveva bisogno di prendere il largo di quando in quando e Noah non poteva biasimarlo. Gus portava con sé l'armonica e dopo aver chiacchierato per un po' cantavano qualche canzone insieme. A volte per ore. Noah si era abituato a considerare Gus come uno di famiglia. Non aveva più parenti, da quando suo padre era morto l'anno precedente. Era figlio unico, aveva perso sua madre, uccisa dall'influenza, quando aveva due anni, e sebbene un tempo l'avesse desiderato, non si era mai sposato. Eppure si era innamorato una volta, e lo sapeva. Una volta sola e tanto tempo addietro, e quell'esperienza l'aveva cambiato per sempre. Il perfetto amore può agire così su una persona, ed era stato un amore perfetto. Le nubi che venivano dalla costa cominciarono a navigare lentamente nel cielo notturno, brillando a tratti di luce argentea al riflesso della luna. Noah appoggiò il capo sullo schienale della poltrona a dondolo. Muoveva le gambe automaticamente, con ritmo sempre uguale, e la sua mente scivolò indietro verso una tiepida sera come quella di quattordici anni prima. Fu subito dopo la laurea, nel 1932, durante il Neuse River Festival. La città si era riversata tutta in strada, godendosi il barbecue e i giochi a premi. Una notte umida, Noah lo ricordava perfettamente. Era arrivato da solo, e mentre girovagava tra la folla in cerca di conoscenti, vide Fin e Sarah, due amici d'infanzia, che parlavano con una ragazza mai vista prima. Molto graziosa, rammentò di aver pensato, e quando finalmente li raggiunse, lei lo guardò con due grandi occhi velati che si facevano sempre più vicini. «Salve», disse semplicemente porgendogli la mano, «Finley mi ha parlato molto di te.» Un incontro banale, facile da dimenticare nel caso di qualsiasi altra ragazza. Ma mentre le stringeva la mano e fissava quegli smaglianti occhi di smeraldo, Noah non ebbe nemmeno il tempo di respirare una seconda volta. Capì subito che una donna così avrebbe potuto cercarla per tutta la sua vita senza trovarne una uguale. La vide incomparabile, perfetta, mentre il vento frusciava tra le foglie. Da quel momento in poi, il vento diventò un tornado. Fin gli disse che la ragazza trascorreva l'estate a New Bern con la famiglia perché suo padre lavorava per R.J. Reynolds, e sebbene lui si limitasse ad annuire, il modo in cui lei lo guardò rese eloquente il suo silenzio. Allora Fin rise perché capì che cosa stava accadendo, e Sarah propose di bere delle Coche alla ciliegia e tutti e quattro si godettero la festa finché la folla cominciò ad assottigliarsi e anche il fuoco del barbecue si spense nella notte. Si incontrarono di nuovo l'indomani e anche il giorno seguente e ben presto divennero inseparabili. Ogni mattina salvo la domenica, quando doveva andare in chiesa, Noah sbrigava i suoi compiti il più in fretta possibile e filava al Fort Totten Park, dove lei lo aspettava. Poiché non conosceva il posto e non era mai vissuta prima in una cittadina di provincia, trascorreva i giorni facendo cose per lei del tutto nuove. Noah le insegnava a innescare un amo e a pescare il pesce persico nelle acque basse e insieme si addentravano nella Croatan Forest. Pagaiavano felici sulle canoe e contemplavano il cielo guizzante di lampi dei temporali estivi, e a Noah pareva che si fossero conosciuti da sempre. Ma anche lui imparò delle cose. Al ballo nel deposito di tabacco, fu lei che gli insegnò i passi del valzer e del charleston, e sebbene all'inizio Noah incespicasse parecchio, la sua pazienza fu premiata e danzarono finché l'orchestra smise di suonare. Dopo la riaccompagnò a casa, e quando indugiarono sotto il portico dopo essersi augurati la buona notte, Noah la baciò per la prima volta e si chiese perché mai avesse aspettato tanto per farlo. In seguito le mostrò quella casa, ne sottolineò la decadenza, ma disse che un giorno l'avrebbe comprata e sistemata. Trascorsero ore parlando dei loro sogni - lui avrebbe fatto il giro del mondo, lei sarebbe diventata pittrice e in un'umida notte di agosto persero entrambi la loro verginità. Quando la ragazza se ne andò tre settimane dopo, portò con sé una parte di Noah e tutta la loro estate in comune. Noah la vide partire col primo treno del mattino, la seguì con gli occhi che quella notte non avevano dormito, poi andò a casa e fece la valigia. Trascorse la settimana seguente sull'isola di Harkers. Noah si passò le mani tra i capelli e guardò l'orologio. Le otto e venti. Si alzò e girò attorno alla casa per scrutare la strada. Gus non si vedeva e probabilmente non sarebbe venuto. Noah tornò alla sua poltrona. Rammentò quando aveva parlato a Gus della ragazza. La prima volta che vi aveva fatto cenno, Gus aveva cominciato a scrollare il capo ridendo. «Allora è questo il fantasma da cui fuggisti.» Pregato di spiegarsi, Gus disse: «Sai, il fantasma della memoria. Ti ho osservato mentre lavoravi giorno e notte, con tanto accanimento che avevi appena il tempo di riprendere fiato. Stroncarsi la schiena così, lo si fa per tre ragioni: o uno è pazzo, o è stupido, o cerca di dimenticare. Nel tuo caso non avevo dubbi: cercavi di dimenticare. Ma non sapevo cosa». Ripensò a quelle parole. Gus aveva ragione, naturalmente. New Bern era infestato dal fantasma del ricordo di lei. La rivedeva al Fort Totten Park, il loro luogo di incontro, ogni volta che ci passava accanto. La vedeva seduta su una panchina oppure ritta accanto al cancello, sempre sorridente, con i biondi capelli che le sfioravano le spalle e gli occhi color smeraldo. Quando si dondolava sotto il portico la sera, o suonava la chitarra, avvertiva accanto a sé la presenza di lei, che ascoltava in silenzio le canzoni della sua infanzia. Provava qualcosa di analogo quando andava all'emporio di Gaston o al teatro massonico o persino quando passeggiava per le strade del centro. Ovunque guardasse, c'era sempre qualcosa che faceva rivivere l'immagine di lei. Un fenomeno davvero strano, e lui lo sapeva. Era cresciuto a New Bern, ci aveva trascorso i primi diciassette anni della sua vita, eppure, quando pensava a quella cittadina, ricordava solo l'ultima estate, l'estate in cui lei gli era accanto. Gli altri ricordi erano semplici frammenti, episodi sconnessi della sua infanzia e adolescenza, e ben pochi, forse nessuno, suscitavano in lui una qualsiasi emozione. Ne aveva parlato con Gus una sera, e non solo Gus aveva capito, ma era stato anche il primo a fornirgli una spiegazione. Si espresse con parole semplici: «Mio papà mi diceva che quando ti innamori per la prima volta, la tua vita cambia per sempre, e per quanto tu ti sforzi di liberartene, quella sensazione non ti lascia più. La ragazza di cui mi parli è stata il tuo primo amore, e qualunque cosa tu faccia l'avrai sempre accanto». Noah scrollò il capo, e quando quel fantasma cominciò a impallidire, riprese tra le mani il volume di Whitman. Lesse per un'ora, alzando lo sguardo di quando in quando per seguire le rapide corsette degli opossum e dei procioni lungo la riva del fiume. Alle nove e mezzo chiuse il libro, salì in camera da letto e scrisse nel suo diario riflessioni personali e commenti sul lavoro compiuto per il restauro della casa. Quaranta minuti dopo, dormiva profondamente. Clem zoppicò su per le scale, fiutò l'odore di Noah immerso nel sonno e infine girò più volte su se stessa prima di acciambellarsi ai piedi del letto. Quella stessa sera, alcune ore prima e a un centinaio di miglia di distanza, lei sedeva da sola sul dondolo del portico, nella casa dei suoi genitori. I cuscini erano un po' umidi perché durante il pomeriggio era caduta una pioggia dura e pungente, ma ora le nuvole si diradavano e lei fissava lo sguardo in alto, sugli squarci di cielo dove apparivano lucide stelle. Si chiedeva se avesse preso la decisione giusta. Aveva lottato con se stessa per giorni, e in parte anche quella sera, ma infine aveva capito che lasciarsi sfuggire una simile occasione sarebbe stato imperdonabile. Lon ignorava la vera ragione della sua partenza l'indomani mattina. La settimana prima, gli aveva parlato vagamente di una visita ai negozi di antiquariato della costa che le interessavano. «Solo un paio di giorni», aveva detto. «E inoltre, ho bisogno di concedermi una pausa in questi preparativi per il matrimonio.» La bugia le costava parecchio, ma sapeva che non c'era modo di dirgli la verità. Quel breve viaggio non aveva nulla a che fare con Lon, e sarebbe stato ingiusto chiedergli di capirla. Partì al mattino da Raleigh e guidò lungo una strada praticamente sgombra per poco più di due ore. Arrivò a destinazione prima delle undici. Scese in un alberghetto del centro, salì in camera, disfece le valigie sistemando con cura i vestiti nell'armadio e la biancheria nei cassetti. Dopo un rapido pranzo, chiese alla cameriera dove si trovassero i migliori negozi di antiquariato e dedicò le ore seguenti agli acquisti. Per le quattro e mezzo era di ritorno in albergo. Seduta sul bordo del letto, prese il telefono e chiamò Lon. Lui non poté parlare a lungo, doveva precipitarsi in tribunale, ma prima di riattaccare lei gli diede il suo numero, l'indirizzo dell'albergo, e promise di richiamarlo l'indomani. Bene, pensò soddisfatta, una conversazione di routine, niente di insolito, niente che possa destare sospetti. L'aveva conosciuto quattro anni prima, nel 1942: il mondo in fiamme e l'America in guerra da un anno. Tutti facevano la loro parte e lei lavorava come infermiera in un ospedale cittadino. Avevano bisogno di lei e la apprezzavano, ma il compito era più difficile di quanto avesse immaginato. Le prime ondate di giovani soldati feriti stavano rimpatriando, trascorreva le sue giornate tra uomini distrutti e corpi lacerati. Quando Lon, con tutto il suo fascino suadente, si presentò durante una cena di Natale, vide in lui esattamente ciò che desiderava: una persona fiduciosa nel futuro e con un senso dell'umorismo che spazzava via ogni paura. Era bello, intelligente, motivato, un avvocato di successo di otto anni maggiore di lei, che si dedicava al suo lavoro con passione e non solo vinceva le cause, ma stava costruendosi una solida reputazione. Lei apprezzava quella sua sete di successo, perché anche suo padre e la maggior parte degli uomini del suo ambiente sociale la pensavano allo stesso modo. Nel sistema di caste del Sud, il nome della famiglia e i risultati professionali erano spesso le qualità più importanti prese in considerazione per un matrimonio. In certi casi erano addirittura le uniche di cui si tenesse conto. Sebbene si fosse silenziosamente ribellata a queste convenzioni durante l'infanzia, e avesse frequentato alcuni ragazzi che si potevano definire a dir poco turbolenti, si sentì attratta dalla disinvoltura di Lon e a poco a poco finì con l'amarlo. Era gentile con lei, pur dedicando moltissime ore ai suoi impegni. Un vero signore, maturo e responsabile, e in quei durissimi anni di guerra, quando aveva bisogno di qualcuno che la confortasse, non la deluse mai. Si sentiva protetta, al sicuro accanto a lui, e sapeva che anche Lon la amava, ecco perché aveva accettato la sua proposta di matrimonio. Mentre pensava a quelle cose provò un senso di colpa per essere venuta lì, e si rese conto che avrebbe dovuto rifare la valigia e partire subito, prima di cambiare idea. L'aveva già fatto una volta, molto tempo addietro, ed era sicura che non avrebbe mai più trovato la forza per tornare di nuovo. Prese la borsetta tra le mani, esitò, stava quasi per varcare la porta. Ma una coincidenza l'aveva condotta in quel luogo, e di nuovo si rese conto che se fosse ripartita non avrebbe mai cessato di chiedersi che cosa sarebbe potuto accadere. Non poteva vivere con quel tarlo nella mente. Andò in bagno e riempì la vasca. Dopo aver controllato la temperatura dell'acqua, si avvicinò allo specchio, si tolse gli orecchini, aprì la borsa del trucco, prese un rasoio e una saponetta e si spogliò. L'avevano definita bellissima fin da quando era ragazzina, e ora si contemplò nuda allo specchio. Il suo corpo era sodo e ben proporzionato, i morbidi seni tondi, lo stomaco piatto, le gambe slanciate. Aveva ereditato dalla madre gli zigomi alti, la pelle luminosa, i capelli biondi, ma la parte migliore del viso era del tutto sua. Aveva «occhi simili alle onde dell'oceano», come Lon le ripeteva spesso. Col rasoio e il sapone in una mano, si avvicinò alla vasca, chiuse il rubinetto, sistemò un accappatoio lì accanto ed entrò nell'acqua. Il bagno la rilassava sempre, le piaceva quella sensazione di benessere e si lasciò affondare fino al mento. La giornata era stata faticosa e la schiena le doleva, ma si rallegrò per aver completato i suoi acquisti in così poco tempo. Doveva tornare a Raleigh con qualcosa di tangibile, e gli oggetti che aveva scelto le sembravano perfetti. Pensò di prender nota del nome di altri antiquari nella zona di Beaufort, ma subito si rese conto che non sarebbe stato necessario. Lon non era tipo da controllare le sue mosse. Si insaponò le gambe e cominciò a raderle. Nel frattempo pensava ai suoi genitori e a come avrebbero giudicato il suo comportamento. Senza dubbio avrebbero disapprovato, specialmente la mamma che non aveva mai accettato quanto era accaduto durante l'estate trascorsa lì, e tanto meno l'avrebbe accettato adesso, quali che fossero le sue giustificazioni. Indugiò ancora a lungo nella vasca prima di decidersi a uscirne per asciugarsi. Aprì l'armadio ed esaminò i suoi vestiti, scegliendone uno giallo e lungo, con una scollatura a punta, un modello apprezzato nel Sud. Lo infilò e si guardò allo specchio, di fronte e di profilo. Le stava d'incanto e accentuava la sua femminilità, ma dopo una breve esitazione decise per il no e riappese l'abito sulla stampella. Trovò qualcosa di più semplice, un vestitino blu con guarnizioni di pizzo, abbottonato fino al collo. Molto meno seducente dell'altro, suggeriva però un'immagine di lei che la ragazza giudicò più adeguata alle circostanze. Si truccò pochissimo, solo un po' di ombretto e di mascara per valorizzare gli occhi. Poi il profumo, pochissimo anche di quello. Si infilò due orecchini a cerchio nei lobi delle orecchie e i sandali bassi di cuoio grezzo ai piedi. Spazzolò i biondi capelli, li fissò in una crocchia in cima al capo e si guardò allo specchio. No, troppo sofisticato, pensò, e li sciolse di nuovo lasciandoli ricadere sulle spalle. Molto meglio. Alla fine fece un passo indietro per valutare il risultato complessivo. Soddisfacente. Non troppo elegante, non troppo casual. Inutile strafare. Dopo tutto, non sapeva che cosa la aspettava. Era passato tanto tempo - tantissimo - e molte cose potevano essere accadute, anche se non se la sentiva di prenderle in considerazione. Abbassò lo sguardo, vide che le tremavano le mani e rise di se stessa. Strano, di solito non era così nervosa. Come Lon, era sempre stata fiduciosa, anche da bambina. Rammentò che ciò aveva fatto sorgere problemi, specie quando usciva per un appuntamento, perché finiva con l'intimidire quasi tutti i ragazzi della sua età. Prese la sua borsetta e le chiavi della macchina, poi la chiave della camera. Se la rigirò tra le dita un paio di volte pensando: Sei arrivata fin qui, non rinunciare proprio adesso, e fu sul punto di uscire, invece sedette di nuovo sul bordo del letto. Guardò l'orologio. Quasi le sei. Doveva sbrigarsi per non arrivare da lui quando fosse già buio, ma le occorreva ancora un po' di tempo per riflettere. «Maledizione», sussurrò, «che cosa sto facendo? Non dovrei essere qui. Non ce n'è ragione.» Ma appena pronunciate quelle parole capì che non era vero. Una ragione c'era. Se non altro, avrebbe trovato la sua risposta. Aprì la borsa e vi frugò fino a trovare il ritaglio di giornale ripiegato. Lo estrasse lentamente, quasi con cautela, e lo fissò in silenzio. «Ecco la ragione», disse infine tra sé, «ecco di che cosa si tratta.» Noah si alzò alle cinque e pagaiò per un'ora sul suo kayak risalendo il Brices Creek, come faceva di solito. Poi si cambiò indossando abiti da lavoro, riscaldò dei biscotti del giorno prima, mangiò un paio di mele e concluse la colazione con due tazze di caffè. Si occupò di nuovo dello steccato, riparando quasi tutti i paletti che ne avevano bisogno. Era l'estate indiana, la temperatura quasi calda, e all'ora di pranzo si sentì stanco, sudato e felice di fare una pausa. Mangiò sulla riva del fiume perché i muggini stavano saltando e gli piaceva vederli balzare due o tre volte in aria con i loro corpi argentei prima di rituffarsi nella corrente. Per una qualche ragione si rallegrava all'idea che l'istinto di quei pesci non fosse cambiato nel corso di migliaia, forse di decine di migliaia di anni. A volte si chiedeva se gli istinti dell'uomo fossero invece mutati nello stesso periodo di tempo, e concludeva di no. Per lo meno gli istinti basilari, primordiali. Da quanto ne sapeva, l'uomo era sempre stato aggressivo, prevaricatore, aveva cercato di dominare il mondo e tutto ciò che vi stava sopra. La guerra in Europa e in Giappone ne era la prova. Smise di lavorare dopo le tre e raggiunse un capanno che sorgeva presso la sua darsena. Entrò, trovò la canna da pesca e delle esche, dei grilli vivi che teneva a portata di mano, poi si sedette all'estremità del piccolo molo, innescò l'amo e gettò la lenza. Pescare lo induceva sempre a riflessioni sulla propria vita e gli capitò anche allora. Dopo la morte di sua madre rammentava di aver trascorso i suoi giorni in molte case diverse e, per una ragione o per l'altra, balbettava terribilmente e tutti si burlavano di lui. Cominciò a parlare sempre più raramente e a cinque anni smise del tutto. In prima elementare, le sue insegnanti pensarono che fosse mentalmente ritardato e consigliarono che non frequentasse più la scuola. Suo padre, invece, non si perse d'animo. Continuò a mandarlo a scuola, ma nei pomeriggi lo portava con sé alla segheria, dove selezionava e accatastava la legna. «Mi piace stare un po' di tempo con te», diceva mentre lavoravano a fianco a fianco, «proprio come facevamo mio padre e io.» E nel corso di quelle ore, suo padre gli parlava degli uccelli e di altri animali e gli raccontava storie o leggende del North Carolina. Nel giro di pochi mesi Noah parlava di nuovo, sebbene non perfettamente, e suo padre decise di insegnargli a leggere cominciando da libri di poesia. «Leggili ad alta voce e sarai in grado di dire tutto quello che vuoi.» Aveva di nuovo ragione, e l'anno seguente Noah non balbettava più. Però continuò a recarsi ogni giorno alla segheria perché suo padre era lì, e alla sera leggeva ad alta voce le opere di Whitman e di Tennyson mentre suo padre lo ascoltava sulla sedia a dondolo. Non aveva più smesso di leggere poesia da quei tempi. Quando fu un po' più grande, trascorreva i fine settimana e le vacanze da solo. Esplorò la Croatan Forest con la sua prima canoa, risalendo il Brices Creek per venti miglia fino al punto in cui non poteva spingersi più oltre, e percorse altre miglia a piedi per raggiungere la costa. Spostarsi dormendo all'aperto divenne la sua passione, trascorreva ore nei boschi, sedeva sotto le querce fischiettando o suonando la chitarra per i castori, le oche selvatiche e gli aironi azzurri. I poeti sanno che isolarsi nella natura, lontano dagli uomini e dalle cose artefatte, giova all'anima, e Noah si era sempre identificato con i poeti. Sebbene non fosse competitivo per temperamento, gli anni trascorsi sollevando tronchi l'avevano aiutato a eccellere negli sport, e i suoi successi atletici gli procurarono una certa popolarità. Gli piaceva anche giocare a football, ma sebbene i suoi compagni di squadra trascorressero insieme anche il tempo libero, raramente si univa a loro. Qualcuno lo giudicava arrogante, altri pensavano che fosse cresciuto troppo in fretta e fosse più maturo dei coetanei. Aveva poche amiche tra le compagne di scuola, e nessuna che lo avesse particolarmente impressionato. Con una sola eccezione. Che si presentò dopo la laurea. Allie. La sua Allie. Rammentò di averne parlato con Fin dopo il loro incontro la sera della festa, e Fin scoppiò in una gran risata. Aveva previsto due cose: la prima, che si sarebbero innamorati, la seconda, che non avrebbe funzionato. Ci fu un leggero strappo alla sua lenza e Noah sperò che avesse abboccato un bel pesce persico, ma gli strappi cessarono e dopo aver riavvolto la lenza e controllato l'esca, lanciò di nuovo. Le previsioni di Fin si avverarono puntualmente. Per gran parte dell'estate Allie fu costretta a raccontare bugie ai suoi genitori per incontrare Noah di nascosto. Non perché Noah a loro non piacesse, ma apparteneva a una diversa classe sociale, troppo povera, e non avrebbero mai permesso che la loro figlia avesse con lui un rapporto serio. «Non mi importa di quel che pensano i miei genitori», diceva Allie, «io ti amo e ti amerò sempre. Troveremo il modo per stare insieme. » Ma alla fine non ci riuscirono. Ai primi di settembre il tabacco era stato raccolto e Allie non poté far altro che ritornare con la famiglia a Winston-Salem. «É finita l'estate, Allie, ma non è finito il nostro amore», disse Noah la mattina in cui lei partì. «Non finirà mai.» E invece, per delle ragioni che non gli riuscì di capire, le sue lettere rimasero senza risposta. Dopo qualche tempo decise di lasciare New Bern, non solo per togliersi il ricordo di Allie dalla mente, ma anche perché la Depressione aveva reso difficile, se non addirittura impossibile, guadagnarsi da vivere in quella cittadina. Dapprima si recò a Norfolk e lavorò in un cantiere per sei mesi, finché fu licenziato. Poi si spostò nel New Jersey perché aveva sentito dire che lassù le condizioni economiche erano un po' meno disastrose. Infine trovò un lavoro in un deposito di rifiuti industriali dove aveva il compito di separare frammenti di metallo da tutto il resto. Il proprietario, un ebreo di nome Morris Goldman, si era impegnato con fervore nella raccolta dei rottami perché era convinto che la guerra sarebbe scoppiata molto presto in Europa e che l'America vi sarebbe stata coinvolta. Noah, tuttavia, non si interessava a quei ragionamenti. Era solo felice di intascare la paga. Gli anni in segheria l'avevano allenato alle fatiche e lavorava di lena. Non soltanto perché ciò gli impediva di pensare ad Allie durante il giorno, ma anche perché sentiva di doverlo fare. Suo padre gli diceva sempre: «Dai un giorno del tuo lavoro in cambio di un giorno di paga. Diversamente sarebbe un furto». La sua solerzia piaceva al padrone. «Peccato che tu non sia ebreo», diceva Goldman, «sei quasi perfetto per tutto il resto.» Era il miglior complimento che potesse uscire dalla sua bocca. Noah continuava a pensare ad Allie, specialmente la notte. Una volta al mese le scriveva una lettera, senza mai ottenere risposta. Alla fine spedì una lettera d'addio e si costrinse ad accettare il fatto che l'estate trascorsa insieme era stata l'unico dono concesso loro dal destino. Eppure, il ricordo non lo lasciava. Tre anni dopo quell'ultima lettera, andò a Winston-Salem con la speranza di ritrovarla. Scoprì che non abitava più nella vecchia casa, parlò con i vicini, e infine chiamò la R.J. La ragazza che rispose al telefono era una nuova che non riconobbe il nome ma acconsentì a consultare le schede del personale. Scoprì che il padre di Allie aveva lasciato la compagnia senza notificare il suo nuovo indirizzo. Quello fu il primo e l'ultimo viaggio che Noah fece per rintracciare Allie. Negli otto anni seguenti continuò a lavorare per Goldman. Dapprima come uno qualsiasi dei dodici impiegati, ma col passar del tempo l'azienda si ingrandì e Noah fu promosso. Nel 1940 la sua conoscenza del ramo era perfetta e dirigeva tutte le operazioni, dalla stipulazione dei contratti alla gestione del personale, salito a trenta dipendenti. Il vecchio magazzino era diventato il più importante centro di smistamento di rottami della costa orientale. Durante quel periodo, Noah frequentò diverse donne. Con una di loro, una cameriera del ristorante locale con profondi occhi azzurri e lisci capelli neri, stabilì un rapporto abbastanza serio. Ma sebbene il loro legame durasse due anni, con momenti molto piacevoli, Noah non riuscì mai a provare nei suoi confronti ciò che aveva provato per Allie. Anche la sua amante, tuttavia, divenne a suo modo indimenticabile. Di poco maggiore di lui, gli insegnò come soddisfare una donna, dove accarezzarla e baciarla, dove indugiare, quali parole sussurrarle. A volte trascorrevano l'intera giornata a letto, stretti l'una all'altro e facendo l'amore in modo entusiasmante per entrambi. Lei sapeva che non sarebbe durato per sempre. Verso la fine del loro rapporto, un giorno gli disse: «Vorrei darti quel che cerchi, ma non so che cosa sia. C'è una parte di te dove ti rinchiudi escludendo tutti gli altri, me compresa. Come se io non fossi la donna che ti sta accanto. La tua mente è altrove». Noah cercò di negarlo, ma lei non gli credette. «Sono una donna e queste cose le so. A volte, quando mi guardi, è come se tu vedessi qualcuno che da un momento all'altro potrebbe materializzarsi nello spazio per portarti via con sé...» Un mese dopo andò a trovarlo in ufficio e gli disse che aveva conosciuto qualcun altro. Noah capì. Si separarono da buoni amici e l'anno seguente una cartolina gli annunciò che lei si era sposata. Da quel giorno non ne seppe più nulla. Mentre viveva nel New Jersey, andava a trovare suo padre per pescare e chiacchierare insieme e a volte si spingevano fino alla costa accampandosi sulle Outer Banks nei pressi di Ocracoke. Nel dicembre del 1941 l'America entrò in guerra, come Goldman aveva previsto. Noah aveva ventisei anni. Il mese seguente si presentò nell'ufficio di Goldman e lo informò che aveva deciso di arruolarsi, poi ritornò a New Bern per salutare suo padre. Cinque settimane dopo, mentre era in un campo di addestramento, ricevette una lettera di Goldman che lo ringraziava per il suo lavoro e accludeva un atto notarile in base al quale Noah avrebbe incassato una piccola percentuale semmai il deposito di rottami fosse stato venduto. «Non sarei mai arrivato a tanto successo senza la tua collaborazione», diceva la lettera. «Sei il giovanotto più in gamba che abbia mai lavorato per me, anche se non sei ebreo.» Trascorse i tre anni seguenti con la Terza Armata di Patton, marciando nel deserto del Nord Africa e nelle foreste europee con venti chili sulle spalle, e la sua unità sempre vicina alla linea del fuoco. Vide morire gli amici attorno a sé, li vide seppellire a migliaia di miglia da casa. Un giorno, accucciato in una trincea in prossimità del Reno, ebbe l'impressione che Allie lo osservasse dall'alto. Rammentava la fine della guerra in Europa e pochi mesi dopo in Giappone. Poco prima di essere congedato, ricevette una lettera da un avvocato del New Jersey che rappresentava Morris Goldman. Il vecchio era morto l'anno precedente e i suoi beni erano stati liquidati. Quando Noah si recò nello studio del legale, gli fu consegnato un assegno di quasi settantamila dollari. Per qualche strana ragione, la cosa non lo eccitò più di tanto. La settimana seguente tornò a New Bern e comprò la casa. Rammentava di averci portato suo padre per mostrargli tutto quello che intendeva fare, la ristrutturazione, i cambiamenti. Suo padre sembrava molto debole mentre si aggirava per le stanze, tossiva e starnutiva. Noah se ne preoccupò, ma il vecchio lo rassicurò dicendogli che aveva solo un po' di influenza. Il mese seguente suo padre morì di polmonite e fu sepolto accanto alla moglie nel cimitero locale. Noah portava regolarmente dei fiori sulla tomba, a volte ci lasciava anche un biglietto. E ogni sera recitava una breve preghiera in ricordo dell'uomo che gli aveva insegnato tutto ciò che conta veramente. Dopo aver riavvolto la lenza, ripose la canna da pesca e tornò a casa. La sua vicina, Martha Shaw, era venuta per ringraziarlo portandogli tre sfilatini di pane e dei biscotti fatti in casa in segno di riconoscenza. Suo marito era morto in guerra, lasciandola con tre bambini da allevare in una casupola cadente. L'inverno si avvicinava, e la settimana precedente Noah aveva dedicato tre giorni di lavoro alla povera donna, riparandole il tetto, sostituendo i vetri rotti delle finestre e sistemando la stufa a legna. Forse sarebbe stato sufficiente per combattere il freddo. Quando Martha se ne fu andata, Noah salì sul vecchio camioncino Dodge per recarsi all'emporio e strada facendo si fermò da Gus, perché quella famiglia non aveva mezzi di trasporto. Una delle ragazze sedette accanto a lui nella cabina e insieme fecero compere al Capers General Store. Tornato a casa, Noah lasciò le provviste sul tavolo di cucina e prima di sistemarle prese una birra, un libro di Dylan Thomas e sedette sotto al portico. Stentava ancora a crederlo, sebbene ne avesse la prova tra le mani. Tre domeniche prima aveva letto quell'articolo sul giornale che i suoi genitori ricevevano regolarmente. Era andata in cucina per bere una tazza di caffè, e mentre si sedeva al tavolo suo padre aveva sorriso mostrandole una piccola fotografia. «Te lo ricordi?» Le aveva allungato il giornale, e dopo una prima occhiata distratta, qualcosa in quella foto attirò la sua attenzione e la osservò più attentamente. «Non è possibile», mormorò, poi lesse l'articolo in silenzio, ignorando lo sguardo incuriosito di suo padre. Ricordava vagamente che era arrivata anche sua madre e si era seduta davanti a lei, e dopo qualche minuto aveva cominciato a fissarla con la stessa espressione di suo padre. «Ti senti bene?» le aveva chiesto. «Mi sembri un po' pallida.» Allie non rispose subito, non poteva, e si accorse che le sue mani tremavano. Fu allora che tutto cominciò. «Ed è qui che finirà, in un modo o nell'altro», mormorò di nuovo Allie. Ripiegò il foglio e rammentò che era uscita di casa col giornale, quella domenica, per poter ritagliare segretamente l'articolo. Lo lesse ancora prima di coricarsi, cercando di afferrare il significato di quella coincidenza, e lo rilesse la mattina seguente per assicurarsi che non fosse un sogno. E ora, dopo tre settimane di passeggiate solitarie, dopo tre settimane di turbamenti, quell'articolo l'aveva portata fin lì. A chi si stupiva del suo strano comportamento, Allie spiegava che era colpa dello stress. Era una scusa perfetta e tutti la accettavano, incluso Lon; ecco perché non aveva sollevato obiezioni al suo desiderio di assentarsi per un paio di giorni. I preparativi per le nozze avrebbero stressato chiunque. Quasi cinquecento invitati, compreso il governatore, un senatore e l'ambasciatore statunitense in Perù. Un'esagerazione, secondo Allie, ma il loro fidanzamento aveva fatto notizia e le cronache dei giornali continuavano a occuparsene da quando lo avevano annunciato, sei mesi prima. A volte Allie era tentata di fuggire con Lon per sposarlo in segreto senza pompa, ma sapeva che lui non avrebbe accettato. Come tutti gli aspiranti a entrare in politica, adorava sentirsi al centro dell'attenzione. Si alzò respirando a fondo. «Adesso o mai più», sussurrò, e si diresse verso la porta. Esitò solo un attimo prima di aprirla e scendere le scale. Il direttore dell'albergo sorrise vedendola passare, e lei avvertì su di sé il suo sguardo mentre usciva e saliva in macchina. Controllò un'ultima volta il suo viso nello specchietto retrovisore, poi innestò la marcia e svoltò a destra imboccando Front Street. Non fu sorpresa nel constatare che si orizzontava benissimo. Sebbene non venisse più lì da anni, la città era piccola e facile da percorrere. Dopo aver varcato il fiume Trent sul suo ponte antiquato, percorse la strada sterrata che l'avrebbe condotta a destinazione. Il paesaggio era bellissimo, come sempre. A differenza della zona pedemontana dove Allie era cresciuta, qui una fertile pianura garantiva le condizioni ideali per la coltivazione del cotone e del tabacco. Due raccolti che, unitamente al legname, mantenevano prospere le città in quella parte dello Stato. Mentre guidava, Allie avvertì il fascino della regione che aveva attirato lì i primi coloni. Per Allie nulla era cambiato. Chiazze di sole filtravano tra i rami delle querce e dei noci alti trenta metri, smaglianti di colori autunnali. Alla sua sinistra, un torrente lucido come l'acciaio virava verso la strada, poi se ne allontanava di nuovo per immettersi in un fiume più importante a un miglio di distanza. La strada si snodava attorno a vecchie fattorie prebelliche e Allie sapeva che alcuni dei proprietari vivevano esattamente come i loro nonni. Quel paesaggio immobile nel tempo risvegliava in lei un fiotto di ricordi, e avvertì un nodo alla bocca dello stomaco via via che riconosceva punti di riferimento dimenticati. Il sole sembrava sospeso sugli alberi alla sua sinistra e, superata una curva, passò davanti a un'antica chiesa abbandonata da anni ma non ancora diroccata. L'aveva visitata in quella estate remota, in cerca di cimeli della guerra di Secessione, e altri ricordi l'assalirono, vividi come se tutto fosse accaduto il giorno prima. Dopo un'altra curva vide una quercia maestosa sulla riva del fiume, coi rami grossi e solidi che si allargavano orizzontalmente, avvolti dal muschio spagnolo che ricadeva come un drappeggio. Rammentò di essersi seduta sotto quell'albero in un pomeriggio di luglio, accanto a qualcuno che la fissava con un desiderio così intenso da cancellare ogni altra cosa. E fu in quel momento che si innamorò. Aveva due anni più di lei, e mentre percorreva quella strada a ritroso nel tempo Allie riuscì a mettere a fuoco il suo viso. Rammentò che dimostrava più della sua età e il suo aspetto sembrava un po' consunto dalla vita all'aria aperta, come quello di un contadino che rincasa dopo una giornata nei campi. Aveva le mani callose e le spalle larghe tipiche di chi ha fatto lavori pesanti, e rughe leggere cominciavano a formarsi attorno agli occhi scuri, pronti a leggere tutti i pensieri di lei. Alto e robusto, aveva capelli castano chiari e a suo modo era un bell'uomo, ma era la sua voce che Allie ricordava soprattutto. Le aveva letto poesie quel giorno, mentre giacevano nell'erba sotto il grande albero, e il suo accento era morbido e fluente, con qualcosa di musicale. Il tipo di voce perfetta per la radio, e che sembrava indugiare sospesa nell'aria. Rammentò di aver chiuso gli occhi per ascoltarlo meglio, per lasciare che le parole che leggeva raggiungessero il suo cuore: Suadente mi attira tra i vapori del crepuscolo mi abbandono nell'aria, scuoto le ciocche grigie verso il sole fuggente... Le dita di Noah scorrevano tra le pagine consunte di vecchi libri che aveva già letto centinaia di volte. Allie gli raccontava ciò che si aspettava dalla vita, speranze e sogni per il futuro, e lui l'ascoltava attento, le prometteva che tutto si sarebbe avverato. E il modo in cui lo diceva ispirava totale fiducia, Allie gli credeva e sapeva quanto ormai lui contasse per lei. Di quando in quando, se lei glielo chiedeva, Noah parlava di sé, oppure spiegava perché avesse scelto una certa poesia e che cosa ne pensasse. O ancora si limitava a fissarla con quella sua particolare intensità. Il loro sguardo seguiva il tramonto del sole mentre mangiavano qualcosa sotto le stelle. Era tardi ormai, e Allie sapeva che i suoi genitori si sarebbero infuriati se avessero scoperto con chi lei si trovava in quel momento. Ma in realtà non gliene importava nulla. Riusciva a pensare solo a quella giornata così speciale, all'uomo così speciale che le stava accanto, e quando, pochi minuti dopo, si avviarono verso la casa di lei, Noah le strinse una mano nella sua e Allie avvertì un calore che la invadeva tutta. Un'altra svolta e finalmente vide la casa in lontananza. Era cambiata in modo vistoso da come la ricordava. Rallentò mentre si avvicinava, imboccando il viale polveroso fiancheggiato d'alberi che la portava al faro la cui luce ammiccante l'aveva richiamata da Raleigh. Ormai procedeva a passo d'uomo, gli occhi fissi sulla casa, e respirò profondamente quando sotto il portico vide lui che osservava la sua auto. Vestiva in modo semplice. Da lontano, non pareva affatto cambiato. Per un attimo, quando la luce del sole lo investì di lato, sembrò svanire tra le pareti del portico. Allie si fermò accanto alla quercia che sorgeva davanti alla casa. Girò la chiave dell'accensione, gli occhi sempre fissi su Noah, e il motore si spense ronzando. Noah cominciò ad avanzare verso di lei con il suo passo sciolto, ma si immobilizzò di colpo quando Allie scese dalla macchina. Per lunghi minuti non poterono far altro che fissarsi in silenzio. Allison Nelson, ragazza ventinovenne della buona società, fidanzata, in cerca di risposte essenziali, e Noah Calhoun, il sognatore, visitato dal fantasma che avrebbe dominato la sua vita. Riunione. Rimasero immobili, l'uno di fronte all'altra. Noah non aveva detto nulla, i suoi muscoli sembravano congelati e per un attimo lei pensò che non l'avesse riconosciuta. Provò un senso di colpa per essersi presentata così, senza preavviso, e ciò rendeva tutto più arduo. Aveva immaginato che l'incontro si svolgesse in modo diverso e che lei avrebbe trovato le parole giuste da dire. E invece le frasi che le venivano in mente erano monche e inappropriate. Riaffiorarono in lei ricordi dell'estate trascorsa assieme e mentre fissava Noah si accorse di quanto poco fosse cambiato dall'ultima volta che l'aveva visto. Aveva un bell'aspetto, con la camicia infilata nei jeans scoloriti, le spalle larghe, i fianchi stretti e lo stomaco piatto. Era anche abbronzato, come se avesse lavorato all'aria aperta per tutta l'estate, e sebbene i suoi capelli fossero un po' più radi e un po' più chiari, era ancora il Noah che lei aveva conosciuto. Respirò a fondo per farsi coraggio e sorrise. «Salve, Noah. Sono felice di rivederti.» Quelle parole lo colsero di sorpresa e la fissò quasi intontito prima di cominciare a sorridere. «Sono felice anch'io...» balbettò. Si portò una mano al mento e Allie notò che non si era rasato. «Sei proprio tu, vero? Non riesco a crederlo...» Dal suono della sua voce capì che era sconvolto e tutte le emozioni si condensarono in un'unica realtà: era lì, di fronte a lui. Qualcosa palpitò dentro di lei, qualcosa di antico e profondo, qualcosa che per un attimo le fece girare la testa. Lottò per recuperare il controllo. Non si era aspettata che ciò accadesse e non voleva che accadesse. Era fidanzata, ormai. Non era venuta a New Bern per questo... eppure... Eppure... Eppure quella sensazione continuò a lievitare nonostante i suoi sforzi e nello spazio di un secondo ebbe l'impressione di avere quindici anni e ne fu felice, come se tutti i suoi sogni potessero di nuovo realizzarsi. Come se fosse finalmente tornata a casa. Senza dire altre parole avanzarono l'uno verso l'altra e con totale spontaneità Noah la cinse con le braccia, tirandosela vicina. Si abbracciarono stretti e la realtà di quell'abbraccio fece dissolvere quattordici anni di separazione nella luce sempre più tenue del crepuscolo. Rimasero così a lungo e Allie fu la prima che si scostò per fissare il suo sguardo su Noah. Da quella breve distanza poté vedere i cambiamenti che non aveva notato prima. Era un uomo fatto, ormai, e il suo viso aveva perduto la morbida freschezza della gioventù. Piccole rughe segnavano gli angoli degli occhi e sul mento c'era una cicatrice recente. Anche la sua espressione appariva diversa, meno innocente, più cauta, eppure, tra le sue braccia, Allie si rese conto di quanto lui le fosse mancato. Aveva gli occhi lucidi quando infine si staccarono l'uno dall'altra e Allie rise nervosamente asciugandosi le lacrime. «Qualcosa non va?» chiese lui, mentre cento altre domande gli si leggevano in viso. «Scusami, non dovrei piangere...» «Non devi scusarti», sorrise. «Non riesco ancora a credere che tu sia qui. Come mi hai trovato?» Allie fece un passo indietro, cercando subito di ricomporsi. «Due settimane fa ho letto un articolo sulla tua casa in un giornale di Raleigh e ho sentito il bisogno di rivederti.» Il sorriso di Noah si dilatò. «É stata un'ottima idea.» Anche lui arretrò un poco. «Dio, sei fantastica. Sei ancora più bella di allora.» Allie si sentì immediatamente arrossire come quattordici anni prima. «Grazie. Anche tu stai benissimo.» Ed era vero, il tempo aveva lasciato poche tracce. «Che cosa hai combinato? Come mai sei qui?» Quelle domande la riportarono al presente, alla consapevolezza di ciò che sarebbe potuto accadere se non fosse stata cauta. La situazione non deve sfuggirmi di mano, si disse, e potrebbe diventare durissima se ci addentriamo su un terreno minato. Ma quegli occhi, Dio santo, quei dolci occhi neri di Noah. Voltò leggermente il capo e respirò a fondo per decidere quel che doveva dire, e quando finalmente parlò la sua voce era ferma. «Noah, è vero che volevo rivederti, ma prima che tu ti metta in testa delle idee sbagliate, c'è un'altra ragione che mi ha spinto a venire qui. Devo confessarti qualcosa.» « Che cosa? » Allie distolse lo sguardo e non rispose subito, sorpresa dalla sua stessa, invincibile esitazione. In quel silenzio Noah avvertì un vuoto allo stomaco. Di qualunque cosa si trattasse, era una brutta notizia. «Non so come dirtelo. Pensavo di avere le idee così chiare ma adesso non ne sono più tanto sicura.» L'aria fu improvvisamente lacerata dal grido di un procione e Clem scese dal portico abbaiando. Quel baccano interruppe la conversazione e Allie fu ben felice di approfittarne. «É tuo quel cane?» Noah annuì, lottando contro il nodo allo stomaco. «A dire il vero è una cagna. Si chiama Clementina ed è proprio mia.» Seguirono le mosse di Clem che si scrollò e poi partì in direzione di quegli strani rumori. Allie inarcò leggermente le sopracciglia quando la vide zoppicare. «Ha perso una gamba?» chiese, cercando di guadagnar tempo. «Travolta da un'auto qualche mese fa. Il dottor Harrison, il veterinario, mi ha chiesto se ero disposto a prenderla con me perché il proprietario non ne voleva più sapere. Dopo averla vista, non ho avuto il coraggio di lasciarla abbattere.» «Hai sempre avuto un animo gentile», disse Allie mentre cercava di recuperare la calma. Si interruppe e guardò verso la casa. «Hai fatto una meravigliosa opera di restauro. Adesso sembra perfetta, come ho sempre immaginato che dovesse essere.» Noah voltò il capo nella stessa direzione, conscio che Allie aveva fatto scivolare la conversazione su argomenti banali perché voleva nascondergli qualcosa. «Grazie, sei molto gentile. É stata davvero una grossa impresa e non so se lo rifarei una seconda volta. » «Certo che lo rifaresti», disse lei. Sapeva esattamente quali sentimenti provasse per quella casa, anzi, sapeva esattamente quali sentimenti provasse per qualsiasi cosa, o almeno l'aveva saputo molto tempo prima. A quel punto si rese conto di quante cose fossero cambiate da allora. Erano diventati praticamente due estranei, lo capiva guardandolo. Quattordici anni sono tanti. Troppi. «Che c'è, Allie?» Si voltò cercando di catturare il suo sguardo, ma lei continuava a fissare la casa. «Mi sto comportando come una sciocca, vero?» disse, cercando di sorridere. «In che senso?» «In tutti i sensi. Piombo qui all'improvviso e non riesco nemmeno a trovare le parole per dirti quello che vorrei. Penserai che sono pazza.» «Tu non sei pazza», disse Noah con dolcezza. Le prese una mano e lei lasciò che gliela stringesse mentre restavano a fianco a fianco. Lui continuò: «Sebbene ne ignori le ragioni, vedo che stai affrontando una prova assai difficile. Vuoi che andiamo a fare una passeggiata? » «Come ai vecchi tempi?» «Perché no? Penso che ne abbiamo bisogno tutti e due.» Allie esitò e guardò verso la casa. «Devi avvertire qualcuno? » Noah scosse il capo. «No. Non c'è nessuno qui. Solo io e Clem.» Allie l'aveva immaginato ancor prima di porre quella domanda e aveva dei sentimenti confusi in proposito. Se ci fosse stata una donna, dietro quella porta, le sarebbe stato più facile dire ciò che adesso, invece, diventava sempre più difficile. Si diressero verso il fiume e imboccarono il sentiero che costeggiava la riva. Allie si staccò dalla mano di Noah che rimase un po' stupito, e camminò in modo da lasciare una leggera distanza fra loro, quasi volesse evitare qualsiasi contatto. Noah la guardava con grande intensità, lasciandosi trasportare dalle sue intime considerazioni. Era sempre bella, con i folti capelli e i morbidi occhi, e camminava con tanta grazia che sembrava si librasse nell'aria. Aveva visto molte donne anche più belle, donne che agganciavano il suo sguardo ma non la sua mente perché mancavano di certe doti per lui essenziali. Come l'intelligenza, la sicurezza di sé, la forza dello spirito, la passione. Doti che incitavano gli altri a grandi cose, doti che avrebbe voluto possedere lui stesso. Allie le aveva tutte, le sentiva palpitare in lei mentre la vedeva camminare. «É una poesia vivente», ecco le parole che gli affioravano sempre alle labbra quando cercava di descriverla agli amici. «Da quanto tempo sei tornato qui? » chiese lei mentre il sentiero si perdeva tra l'erba di una collinetta. «Dallo scorso dicembre. Ho lavorato al Nord per un certo periodo e ho trascorso gli ultimi tre anni in Europa. » Lo fissò con uno sguardo interrogativo. «La guerra?» Noah annuì e lei continuò: «Immaginavo che ti fossi arruolato. Sono felice che tu sia tornato a casa sano e salvo». «Anch'io. » «Sei contento di essere di nuovo a casa?» «Sì. Qui ho ritrovato le mie radici. É qui che devo vivere.» Si interruppe. «Ma che mi dici di te?» Pose quella domanda quasi a bassa voce, aspettandosi il peggio. Allie esitò a lungo prima di rispondere. «Sono fidanzata.» Noah abbassò lo sguardo e si sentì all'improvviso più debole. Dunque così stavano le cose. E Allie era venuta per dirglielo. «Congratulazioni», riuscì a mormorare con un tono che temeva fosse ben poco convincente. «A quando il gran giorno?» «Fra tre settimane, il sabato. Lon vuole sposarsi a novembre.» «Lon? » «Lon Hammond Junior, il mio fidanzato.» Noah non ne fu sorpreso. Gli Hammond erano una delle famiglie più potenti e influenti dello Stato. Ricchezza che veniva dal cotone. Contrariamente a quanto era avvenuto per suo padre, la notizia della morte di Lon Hammond Senior era stata pubblicata sulle prime pagine dei giornali. «Ne ho sentito parlare. Suo padre ha costruito un impero finanziario. É Lon che se ne occupa adesso?» Lei scrollò il capo. «No, è avvocato. Ha un importante studio legale.» «Con quel suo nome, di certo non gli mancheranno i clienti.» «Infatti, lavora moltissimo.» Noah colse qualcosa di particolare nel tono della sua voce e passò automaticamente a una seconda domanda: «É gentile con te?» Allie non diede subito una risposta, come se stesse riflettendo sul problema per la prima volta. Poi disse: «Sì. É una cara persona. Credo proprio che ti piacerebbe, Noah». Ma mentre pronunciava quelle parole la sua voce suonò un po' smarrita, o almeno così parve a Noah che pensò: Forse mi illudo. «Come sta tuo padre?» chiese lei. Noah avanzò di due passi prima di rispondere. «É morto all'inizio di quest'anno, poco dopo il mio ritorno . » «Mi dispiace», disse lei, ricordando quanto il vecchio fosse stato importante per Noah. Lui annuì, e continuarono a camminare a fianco a fianco in silenzio. Giunsero alla sommità della collina e si fermarono. In distanza si vedeva la vecchia quercia avvolta dalla luce del sole. Mentre guardava in quella direzione, Allie avvertì gli occhi di Noah fissi su di lei. «Quanti ricordi legati a quell'albero, Allie.» Sorrise. «Lo so. É la prima cosa che ho visto arrivando qui. Rammenti il giorno che abbiamo trascorso sotto quella quercia?» «Sì», rispose, non osando aggiungere altro. «Ti capita mai di ripensarci?» «A volte. Di solito quando vado a lavorare da quelle parti. Il terreno è di mia proprietà, adesso.» «L'hai comprato?» «Non potevo tollerare che abbattessero quella quercia per farne dei mobiletti da cucina.» Allie rise con una strana sensazione di gioia. «Leggi sempre poesie?» Annuì. «Non ho mai smesso. Penso di averlo nel sangue. » «Sai, sei l'unico poeta che io abbia mai conosciuto. » «Non sono un poeta. Leggo i versi, ma non so scriverne nemmeno uno. Ci ho provato.» «Ciò non toglie che tu sia un poeta, Noah Taylor Calhoun», la sua voce si addolcì, «io penso spesso a quel giorno. Nessuno mi aveva mai letto poesie prima. In effetti, fu l'unica volta.» Quel commento fece scivolare entrambi sulla corrente della memoria mentre tornavano verso casa seguendo un diverso sentiero che passava accanto alla darsena. Il sole si abbassava all'orizzonte e il cielo si tingeva di giallo e Noah chiese: «Per quanto tempo intendi rimanere qui?» «Non lo so. Non molto. Forse fino a domani o a dopodomani. » «Il tuo fidanzato è venuto per affari?» Lei scrollò il capo e rispose a voce bassa: «No, è rimasto a Raleigh». Noah inarcò le sopracciglia. «Lo sa che sei qui?» Di nuovo un cenno di diniego e parole sussurrate. «No. Gli ho detto che venivo a far compere dagli antiquari. Non avrebbe capito certamente i miei veri motivi. » Noah era sempre più sorpreso. Che Allie avesse avuto voglia di rivederlo era abbastanza normale, ma il fatto che avesse mentito al suo fidanzato dava a quella visita un carattere ben diverso. «Non c'era bisogno che tu venissi qui per dirmi che eri fidanzata. Potevi scrivermi una lettera. O telefonarmi. » «Lo so. Ma sentivo che dovevo dirtelo di persona.» «Perché? » Esitò. «Non riesco a spiegarmelo», mormorò, e per il modo in cui pronunciò quelle parole Noah le credette. La ghiaia scricchiolava sotto i loro passi mentre avanzavano in silenzio. Poi Noah chiese: «Allie, tu lo ami?» Rispose quasi automaticamente: «Sì, lo amo»... Una pugnalata. Ma di nuovo Noah avvertì qualcosa di particolare nel suo tono, come se parlasse per convincere se stessa. Si fermò e dolcemente le posò le mani sulle spalle, costringendola a guardarlo in faccia. La luce morente del sole si rifletteva negli occhi di lei. « Se tu sei felice, Allie, e se lo ami, io non farò nulla per impedirti di tornare da lui. Ma se una parte di te è ancora in dubbio, allora fermati e rifletti. Il matrimonio non è un impegno che si può assumere a metà.» La sua risposta giunse fin troppo rapida. «Ho preso la decisione giusta, Noah.» Lui la fissò per un attimo, chiedendosi se doveva crederle. Poi ricominciarono a camminare. Noah ruppe il silenzio con una nuova domanda. «Non ti sto facilitando le cose, vero?» Sulle labbra di Allie affiorò un piccolo sorriso. «Non ti posso biasimare.» «Mi scuso comunque.» «Ti prego, non ce n'è ragione. Semmai sono io quella che dovrebbe scusarsi. Forse sarebbe stato meglio scriverti una lettera.» Noah scrollò il capo. «Per essere sincero, sono felice che tu sia venuta. Nonostante tutto. É una gioia rivederti. » «Grazie, Noah.» «Credi che sia possibile ricominciare da zero?» Lo fissò perplessa. «Sei stata la mia migliore amica, Allie. Vorrei che tu lo fossi ancora, anche se sei fidanzata, anche se per soli due giorni. Potremmo raccontarci quel che ci è accaduto in questi anni.» Lei rifletté su quel dilemma, rimanere o partire, e decise che poiché ormai Noah la sapeva fidanzata, era giusto rimanere. O almeno non era del tutto sbagliato. Sorrise e annuì. «D'accordo. » «Bene. Che ne diresti di una cena? Conosco un posto davvero speciale dove cucinano i migliori granchi della città.» «Splendido, e dov'è?» «A casa mia. Ho sistemato le nasse nel fiume da una settimana e ieri ho visto che ci si erano infilati dei begli esemplari. Ti dispiace se vado a prenderli?» «Nient'affatto. » Noah sorrise e indicò col pollice un punto dietro la sua schiena. «Sono giù alla darsena. Mi ci vorranno un paio di minuti.» Allie lo seguì con lo sguardo e si accorse come la tensione che si era accumulata in lei quando gli aveva parlato del suo fidanzamento si stesse allentando. Chiuse gli occhi e si passò le dita tra i capelli mentre una brezza leggera le accarezzava le guance. Inspirò a fondo e trattenne il fiato, espirando poi lentamente mentre i muscoli delle spalle e della schiena si scioglievano completamente. Quando riaprì gli occhi, fu colpita dalla bellezza che la circondava. Le erano sempre piaciute sere come quella, quando il pungente aroma delle foglie autunnali cavalca sulla groppa dei morbidi venti del sud. Le piacevano gli alberi e il fruscio delle fronde. Ascoltando quei suoni ritrovava la pace. Poco dopo, voltandosi, guardò Noah con occhi diversi. Dio, che bell'uomo. Anche dopo tutto quel tempo. Lo osservò mentre afferrava la cima immersa nell'acqua e cominciava a tirarla a sé. Nonostante la semioscurità, vide guizzare i suoi muscoli mentre sollevava la nassa e la teneva sospesa scuotendola perché si svuotasse dell'acqua. Poi la sistemò sul pontile, la aprì e ne estrasse i granchi a uno a uno, lasciandoli ricadere in un secchio. Allie gli andò incontro, i grilli cominciarono a cantare e lei rammentò quello che le dicevano da bambina: Conta quanti cricrì senti in un minuto, aggiungi dieci e otterrai i gradi della temperatura esterna. Forse la risposta non era mai esatta, ma era un gioco divertente. Mentre camminava, si rese conto di aver dimenticato quanto fossero belli e puri quei luoghi. Voltando leggermente il capo vide la casa in distanza. Noah aveva lasciato un paio di luci accese e sembrava l'unica dimora lì attorno. O almeno l'unica dotata di elettricità. Oltre i limiti della città, nelle campagne, molte fattorie non erano ancora collegate alla rete. Avanzò sul piccolo molo di legno e le assi scricchiolarono sotto i suoi passi come una vecchia fisarmonica sfiatata. Noah alzò lo sguardo e le sorrise ammiccando, poi si chinò di nuovo sui granchi scegliendo i migliori. Allie raggiunse la vecchia poltrona a dondolo all'estremità del molo e la accarezzò facendo scorrere le mani sullo schienale. Immaginò Noah che sedeva lì per pescare, leggere, meditare. Si chiese quanto tempo trascorresse da solo, e a che cosa pensasse in quei momenti. «Era la poltrona di papà», disse lui senza nemmeno guardarla, e Allie annuì. Vide volare i pipistrelli, le rane si erano unite ai grilli nel coro serale. Allie raggiunse l'altra estremità del pontile e avvertì un senso di disagio. L'impulso che da tre settimane le premeva dentro perché venisse lì si era improvvisamente spento. Voleva che Noah sapesse del suo fidanzamento, che capisse, che accettasse , non aveva dubbi in proposito, ma ora pensava solo a lui e a quell'estate lontana. A testa china, si guardò attorno attentamente finché trovò quel che cercava, l'incisione. Noah ama Allie chiusa in un cuore. Incisa nel legno pochi giorni prima della sua partenza. Un vento pungente si alzò improvviso e Allie incrociò le braccia sul petto per proteggersi. Rimase così, guardando ora l'incisione e ora il fiume, finché Noah la raggiunse. Avvertì la sua vicinanza, il tepore del suo corpo e disse: «C'è tanta pace qui». «Lo so. Ci vengo spesso perché mi piace stare accanto all'acqua. Mi fa sentire bene.» «Farei lo stesso, se fossi in te.» «Adesso andiamo. Le zanzare si stanno scatenando e io muoio di fame.» Il cielo era ormai nero quando Noah si avviò verso casa. Allie al suo fianco si sentiva confusa, e avanzava lungo il sentiero con passi quasi incerti. Si chiedeva che cosa pensasse Noah di quella sua visita, e non era sicura di avere lei stessa le idee chiare in proposito. Quando raggiunsero la casa, Clem li accolse sfregando il suo naso umido nei punti sbagliati. Noah le ordinò di andarsene e la cagnolina si allontanò con la coda tra le gambe. «Hai lasciato in macchina qualcosa che ti occorre? Vuoi che vada a prenderla?» chiese lui. «No. Ho già disfatto la valigia nella mia camera d'albergo.» La sua voce ora aveva un suono diverso, come se gli anni trascorsi si fossero dissolti. «Benissimo», disse Noah mentre saliva i gradini del portico. Lasciò il secchio accanto alla porta e guidò Allie all'interno, dirigendosi verso la cucina che si trovava subito sulla destra ed era grande, odorosa di legno. Sia i mobili sia il pavimento erano di quercia e le grandi finestre guardavano a est, pronte ad accogliere il primo sole mattutino. Tutto era stato fatto con gusto e sobrietà, cosa rara a vedersi nelle vecchie case ristrutturate. «Ti dispiace se faccio un giro per la casa?» «Ma figurati. Vai pure. Ho fatto la spesa, prima, e non ho ancora sistemato le provviste.» I loro sguardi si incrociarono per un attimo e Allie sentì che lui continuava a osservarla mentre lasciava la stanza. Qualcosa vibrò di nuovo in lei. Passò da una stanza all'altra ammirando tutto ciò che vedeva, un vero prodigio se si pensava allo stato di degrado in cui era caduta la vecchia dimora. Scese le scale e tornò in cucina, vide Noah di profilo e per un attimo le sembrò il ragazzo diciassettenne di un tempo. Maledizione, si disse, cerca di controllarti. Ricordati che sei fidanzata. Noah era in piedi davanti a un armadio aperto e fischiettava piano. Sorrise ad Allie mentre riponeva lo scatolame nelle scansie. Allie si fermò a pochi passi da lui e si appoggiò a uno scaffale, incrociando una caviglia sull'altra. «Hai fatto un lavoro meraviglioso in questa casa, Noah. Quanto tempo ti ci è voluto?» Lui accartocciò l'ultimo sacchetto vuoto. «Quasi un anno. » «Tutto da solo?» Rise. «No. Quand'ero ragazzo pensavo che sarebbero bastate le mie sole braccia, e ho cominciato così. Ma era una fatica enorme che sarebbe durata anni. Ho assunto degli operai... a dire il vero parecchi. Ma anche con il loro aiuto il lavoro è stato massacrante. A volte smettevo solo a mezzanotte.» «Perché l'hai fatto?» Fantasmi, avrebbe voluto dire, ma scelse una risposta diversa. «Non lo so. Mi ero assunto un compito e volevo portarlo a termine, immagino. Ti va di bere qualcosa prima di cena?» «Che cos'hai da offrirmi?» «Non molto, a dire la verità. Birra, tè, caffè.» «Il tè va benissimo.» Noah si sbarazzò delle cartacce, poi passò in una piccola dispensa accanto alla cucina e ne riemerse con una scatola di tè. Posò due bustine accanto al fornello e riempì d'acqua il bollitore. Poi accese il gas con un fiammifero e Allie udì il sibilo delle fiammelle. «Ci vorrà poco, questi fornelli sono ottimi.» «Perfetto.» Quando il bollitore cominciò a sibilare, Noah versò l'acqua nelle tazze che contenevano le bustine e ne porse una ad Allie. Lei l'accettò sorridendo e si avvicinò alla finestra. «Immagino che questa cucina sia bellissima al mattino, illuminata dal sole.» Lui annuì. «É vero. Ho voluto delle finestre molto grandi su questo lato della casa proprio per quella ragione. Anche nella camera da letto di sopra.» «Immagino che i tuoi ospiti la apprezzino, a meno che non vogliano dormire fino a tardi.» «A dire la verità, non ho mai avuto ospiti. Da quando è morto mio padre, non saprei chi invitare.» Dal suo tono, Allie capì che cercava solo di mantenere viva la conversazione e all'improvviso provò un senso di abbandono. Come se Noah indovinasse il corso dei suoi pensieri, ma le impedisse di esprimerli cambiando argomento. «Farò marinare i granchi, prima di cuocerli», disse posando la sua tazza sul tavolo. Poi prese una grossa pentola con il suo coperchio, la riempì d'acqua sotto il rubinetto del lavandino e infine la posò sul fornello. «Posso darti una mano?» Noah le rispose senza voltarsi. «Certo. Puoi affettare le verdure da friggere. Ne troverai una quantità nel cassetto del frigorifero. Mettile in quella ciotola.» Allie bevve un ultimo sorso di tè prima di mettersi al lavoro. Con la ciotola in mano aprì il frigorifero e nello scomparto inferiore trovò carote, cipolle e zucchini. Noah si avvicinò e Allie si spostò per lasciargli spazio. Sentì l'odore di lui, così pulito e noto e caratteristico, e fu sfiorata dal suo braccio che si allungava all'interno del frigo per prendere una bottiglia di birra e una di salsa piccante. Poi tornò ai fornelli, stappò la birra e la versò nell'acqua della pentola, aggiunse un po' di salsa e delle spezie, e dopo aver mescolato il tutto andò a prendere i granchi. Prima di entrare in cucina si fermò un attimo sulla soglia per osservare Allie che stava affettando le carote. Si chiese di nuovo perché fosse venuta lì, pur essendo fidanzata. La cosa non aveva senso per lui. D'altronde, Allie era sempre stata una specialista in fatto di sorprese. Sorrise tra sé, rammentando la ragazzina di un tempo. Ardente, spontanea, appassionata - così immaginava fossero gli artisti. Poiché Allie lo era senza dubbio, il suo talento era un dono naturale. Noah aveva visto parecchi quadri nei musei di New York e gli sembrava che le opere di Allie fossero altrettanto valide. Quell'estate, prima di partire, gli aveva regalato un suo dipinto che ora era appeso sopra il camino nel soggiorno. L'aveva intitolato il quadro dei suoi sogni e a Noah sembrava estremamente sensuale. Quando lo guardava, il che gli capitava spesso a tarda sera, leggeva il desiderio tra le linee e i colori, e riusciva a immaginare ciò che Allie aveva pensato a ogni tocco di pennello. Un cane abbaiò nella notte: Noah si rese conto che era rimasto lì immobile da un pezzo e avvicinandosi rapidamente ad Allie si chiese se lei se ne fosse accorta. «Come va?» domandò vedendo che aveva quasi finito. «Benissimo. C'è qualcos'altro per cena?» «Ho del pane cotto in casa.» «Cotto in casa?» «Da una vicina», disse Noah piazzando nel lavandino il secchio con i granchi. Li sciacquò a uno a uno sotto l'acqua corrente, lasciando poi che scorrazzassero nella bacinella. Allie si avvicinò per osservarlo meglio. «Non hai paura che ti pinzino quando li prendi in mano? » «No, basta afferrarli nel modo giusto.» E glielo dimostrò, sorridendo. «Dimenticavo che lo fai da tutta una vita.» «New Bern è piccola, ma ti insegna le cose che contano. » Allie si appoggiò a uno scaffale accanto a lui e vuotò la sua tazza di tè. Quando i granchi furono tutti lavati, Noah li mise nella pentola sul fornello. Poi si lavò le mani e si rivolse ad Allie. «Li lascerò macerare per mezz'ora. Vuoi che andiamo a sederci sotto il portico?» «Volentieri», disse lei. Quando uscirono Noah accese la luce esterna e sedette sulla vecchia sedia a dondolo offrendo ad Allie quella nuova. Vide che la sua tazza era vuota e tornò in casa per prendere altro tè per lei e una birra per sé. Allie bevve un paio di sorsi prima di posare la tazza sul tavolino tra le due sedie. «Tu eri qui quando sono arrivata, vero?» Noah si appoggiò allo schienale cercando la posizione più comoda. «Sì. Mi siedo qui tutte le sere. Ormai è un'abitudine.» «Capisco perché», disse lei guardandosi attorno. «E che cosa fai di bello in questo periodo?» «A dire la verità non faccio nulla; mi occupo solo della casa, che soddisfa le mie necessità creative.» «Ma allora come puoi... voglio dire...» «Morris Goldman.» «Non ho capito.» Lui sorrise. «Il mio vecchio boss, su al Nord. Si chiamava Morris Goldman. Mi offrì una compartecipazione nella ditta quando mi arruolai e morì prima che tornassi in patria. Quando arrivai negli States, i suoi avvocati mi consegnarono un sostanzioso assegno che mi permise di comprare questa casa e di ristrutturarla.» Allie si lasciò sfuggire una risatina. «Mi hai sempre detto che avresti trovato il modo di cavartela in ogni caso.» Rimasero in silenzio per alcuni minuti, ripensando al passato. Allie bevve un altro sorso di tè. «Ricordi come riuscii a raggiungerti qui di soppiatto la sera in cui mi parlasti di questo posto per la prima volta?» Noah annuì e lei continuò: «Rincasai tardi e trovai i miei genitori furibondi. Vedo ancora mio padre in piedi nel soggiorno che fumava una sigaretta e mia madre seduta sul divano, lo sguardo fisso davanti a sé. Giuro, avevano l'aria di chi ha appena ricevuto la notizia della morte di un parente. Fu allora che i miei genitori capirono per la prima volta quanto io tenessi a te, e mia madre mi parlò a lungo quella stessa sera. Mi disse: 'Sono sicura che tu credi che io non capisca ciò che stai provando, ma lo capisco benissimo. Il fatto è che a volte il nostro futuro ci è imposto da ciò che siamo, in contrasto con ciò che vorremmo'. Rammento che le sue parole mi ferirono profondamente». «Ferirono anche me, quando me ne parlasti, il giorno dopo. I tuoi genitori mi piacevano, e non avevo idea di non piacere a loro.» «Non è proprio così. Pensavano soltanto che tu non fossi alla mia altezza.» «Non c'è molta differenza.» C'era un velo di tristezza nelle sue parole e Allie capì che aveva ragione di risentirsi. Alzò gli occhi verso il cielo stellato mentre si ravviava con le dita una ciocca ribelle. «So quello che provi. L'ho sempre saputo. Infatti da allora si è creata una certa distanza tra me e mia madre. » «E adesso qual è la tua opinione in proposito?» «Sempre la stessa. Che non era giusto. Per una ragazzina, è un'esperienza terribile scoprire che la posizione sociale conta più dei sentimenti.» Noah sorrise senza fare commenti. «Ho spesso pensato a te dopo quell'estate», disse Allie. «Davvero? » «Perché non dovresti credermi?» Sembrava sinceramente sorpresa. «Non hai mai risposto alle mie lettere.» «Mi hai scritto?» «Dozzine di volte. Ti ho scritto per due anni senza mai ricevere una risposta.» Lei scrollò il capo lentamente prima di abbassare gli occhi. «Come mai...» disse infine, e Noah capì che doveva essere stata la madre a controllare la posta eliminando le lettere all'insaputa di Allie. L'aveva sempre sospettato, e guardando Allie lesse sul suo viso che era giunta alla stessa conclusione. «Mia madre ha avuto torto, ha fatto una cosa molto ingiusta. Ma cerca di capirla. Quando partimmo da qui, probabilmente pensò che per me sarebbe stato più facile dimenticarti del tutto. Non ha mai capito quanto tu contassi per me, e a dire il vero non so nemmeno se ha amato mio padre come io ho amato te. Nella sua testa, ha pensato di fare il mio bene nascondendomi le tue lettere.» «Non spettava a lei prendere una decisione simile», disse Noah. «Lo so.» «Le cose sarebbero andate diversamente se tu le avessi lette?» «Certamente. Mi sono sempre chiesta dove tu fossi finito.» «No, volevo dire: credi che avremmo potuto continuare ad amarci?» Esitò prima di rispondere. «Non lo so, Noah. Davvero non lo so e non lo sai nemmeno tu. Ormai siamo delle persone diverse. Adulte. Mature. Tutt'e due.» Allie si interruppe lasciando vagare lo sguardo verso il fiume. E poiché Noah non parlava, continuò: «O forse sì, Noah. Forse ci saremmo amati. O almeno mi piace immaginare che sarebbe stato così». Lui annuì, ma non osò guardarla in faccia. «Che tipo è Lon?» Allie esitò perché non si aspettava quella domanda. Il nome di Lon riportava a galla i sensi di colpa e lì per lì non seppe che cosa rispondere. Allungò la mano verso la sua tazza, bevve un sorso, ascoltò un picchio che martellava un tronco chissà dove. Poi parlò a voce bassa. «Lon è un bell'uomo, affascinante, di successo, e quasi tutte le mie amiche sono pazze di invidia. Pensano che sia perfetto, e per molti versi lo è. Con me si dimostra molto gentile, mi fa ridere e so che, a suo modo, mi ama.» Si interruppe, come se volesse mettere ordine nei suoi pensieri. «Ma c'è sempre qualcosa che manca nei nostri rapporti.» Fu sorpresa dalle sue stesse parole, pur essendo costretta ad ammettere che corrispondevano alla verità. E guardando Noah capì che aveva già presagito quella risposta. «Come mai?» chiese lui. Allie sorrise debolmente e scrollò le spalle, la sua voce era poco più di un sussurro. «Forse sto ancora cercando un amore come quello che ci fu tra noi.» Noah rifletté a lungo su quelle parole e pensò alle donne che aveva conosciuto dopo aver visto Allie per l'ultima volta. «E tu?» chiese lei. «Hai mai pensato a noi?» «Sempre. Ci penso ancora.» «Frequenti delle donne?» «No», rispose scrollando il capo. Tutti e due sembravano agganciati a quel pensiero e non riuscivano a toglierselo di testa. Noah finì la sua birra, sorpreso di aver vuotato il bicchiere tanto in fretta. «Vado a iniziare la cottura. Hai bisogno di qualcosa?» Lei negò con un cenno del capo e Noah andò in cucina, accese il fuoco sotto la pentola dei granchi e mise il pane nel forno. Infarinò le verdure e fece sciogliere un po' di grasso nel tegame per i fritti. Dopo aver abbassato la fiamma al minimo, prese un'altra birra dal frigorifero prima di tornare sotto il portico. Nel frattempo aveva sempre pensato ad Allie e all'amore che era stato sottratto alle loro vite. Anche Allie stava pensando. A Noah, a se stessa, I a una quantità di cose. Per un attimo si augurò di non essere fidanzata e subito fu sopraffatta da un senso di colpa. Non era Noah l'uomo che amava: amava il suo ricordo. Il che poteva risultare un fatto abbastanza normale. Il suo primo vero amore, l'unico uomo cui si era unita, come avrebbe potuto dimenticarlo? Ma era normale che il suo corpo vibrasse ogni volta che lui si avvicinava? Era normale confessargli cose che non aveva mai rivelato a nessun altro? Era normale venire lì tre settimane prima del giorno del suo matrimonio? «No», sussurrò a se stessa contemplando il cielo stellato. «Non c'è nulla di normale in tutto questo.» Noah ritornò proprio in quel momento e Allie gli sorrise, felice che la sua presenza le impedisse di continuare a pensare. «La cena sarà pronta tra pochi minuti», disse lui sedendosi sul dondolo. «Ottimo. Ho fame, ma posso ancora aspettare.» Lui la guardò con un'infinita dolcezza negli occhi. «Sono felice che tu sia qui, Allie», disse. «Anch'io. Sebbene abbia rischiato di rinunciare alla mia decisione.» «Perché sei venuta?» Perché non potevo farne a meno, avrebbe voluto dire, ma non lo disse. «Sono venuta per vederti. Per scoprire che cosa avevi fatto in tutti questi anni, e com'eri adesso.» Noah dubitava che quelle fossero le uniche ragioni della sua visita, ma non le pose domande. Invece cambiò argomento. «C'è una cosa che volevo chiederti: dipingi ancora? » Lei scrollò il capo. «No, non più.» Noah la fissò stupefatto. «Perché no? Avevi un grande talento.» «Non lo so.» «Certamente che lo sai. Ci deve pur essere una ragione. » «É una lunga storia.» «Ho tutto il tempo per ascoltarla», insistette lui. «Sei davvero convinto che io avessi del talento?» chiese Allie a bassa voce. «Vieni», disse lui prendendola per mano. «Ti voglio mostrare una cosa.» Allie si alzò e lo seguì fino al soggiorno. Noah si fermò di fronte al camino e indicò il quadro che era appeso lì sopra. Allie sobbalzò, stupita di non averlo notato prima e ancor più stupita di vederlo lì. «L'hai conservato?» «Naturalmente. É bellissimo.» Lei gli lanciò un'occhiata scettica e Noah spiegò: «Mi fa sentire vivo quando lo guardo. A volte devo alzarmi per andare a toccarlo. É così autentico, le forme, le ombre, i colori. Lo sogno persino di notte. É incredibile, Allie. Posso contemplarlo per ore.» «Dici seriamente?» chiese lei, turbata. «Mai stato più serio.» Allie non fece commenti e Noah continuò: «Vuoi farmi credere che nessuno ti ha mai detto queste cose prima d'ora?» «Il mio professore sì», ammise Allie, «ma non pensavo che fosse del tutto sincero.» Noah era convinto che ci fosse dell'altro. Allie distolse lo sguardo prima di continuare: «Disegnavo e dipingevo fin da quando ero bambina. Poi, crescendo, cominciai a pensare di essere dotata. E dipingere mi piaceva immensamente. Ricordo come lavorai a questo quadro durante quell'estate, ogni giorno aggiungevo qualcosa, piccoli cambiamenti che riflettevano l'evolversi del nostro rapporto. Non so che cosa avessi in mente quando lo incominciai, ma a poco a poco giunsi a questo risultato.» «Rammento che non riuscivo a smettere di dipingere quando tornai a casa quell'anno. Probabilmente era un modo per soffocare il dolore. Comunque mi diplomai in arti figurative perché non avevo altri interessi. Trascorrevo ore chiusa nel mio studio, felice per la sensazione di libertà che provavo mentre creavo, e sapevo di produrre qualcosa di bello. Il mio professore, che era anche critico d'arte del giornale locale, mi disse che avevo molto talento e che dovevo proseguire su quella strada. Ma non gli diedi retta». Si interruppe, come se dovesse riordinare le idee. «I miei genitori erano convinti che una ragazza del mio rango non potesse guadagnarsi da vivere dipingendo. Era indecoroso. Dopo qualche tempo smisi. E non tocco più un pennello da anni.» Fissò gli occhi sul quadro. «Pensi che potresti ricominciare?» «Non ne sono sicura. É passato tanto tempo... forse troppo tempo.» «Tu puoi farcela, Allie. Ne sono sicuro. Hai un talento che viene dall'interno di te, dal tuo cuore, non dalle tue mani. Un talento simile non si cancella. Tu sei ciò che migliaia di persone sognano di essere. Un'artista, Allie.» Pronunciò quella frase con tale sincerità da far capire ad Allie che non si trattava di un banale complimento. Noah credeva davvero nel suo talento e per una qualche ragione ciò assunse per lei un significato più importante di quanto avesse immaginato. Ma accadde anche qualcosa d'altro, qualcosa che aveva in sé una straordinaria potenza. Allie non riuscì a identificare il momento preciso in cui si verificò quel miracolo, ma capì che il crepaccio scavato nella sua vita per separare il dolore dal piacere si stava chiudendo. E allora intuì, sebbene in modo confuso, che quella sua visita a New Bern implicava molto di più di quanto lei volesse ammettere. Tuttavia non ne era ancora sicura e si voltò verso Noah, allungò la sua mano verso quella di lui e la sfiorò esitando, con dolcezza, stupita che dopo tanti anni Noah avesse pronunciato esattamente le parole che lei voleva sentirsi dire. Quando i loro sguardi si intercettarono, si rese conto una volta di più che era un uomo davvero speciale. E in un attimo fuggente, in una frazione di tempo sospesa nell'aria come una lucciola nel cielo estivo, si chiese se fosse ancora innamorata di lui. Il timer squillò in cucina con una serie di ding e Noah si alzò rompendo l'incanto, ma molto turbato da ciò che era accaduto tra loro. Gli occhi di Allie gli avevano inviato un messaggio a lungo agognato, e tuttavia non riusciva a soffocare la voce che gli ronzava in testa. La voce di Allie che gli parlava del suo amore per un altro uomo. Maledì in silenzio il timer mentre entrava in cucina e toglieva il pane dal forno. Si scottò le dita, lasciò ricadere la pagnotta sul tavolo e vide che il tegame per i fritti era pronto. Ci gettò le verdure e le sentì sfrigolare. Poi, borbottando tra sé, prese il burro nel frigorifero, ne spalmò un poco sul pane e fece sciogliere il resto per i granchi. Allie l'aveva seguito e segnalò la sua presenza schiarendosi la gola. «Posso preparare la tavola?» Noah usò la punta del coltello come un indice. «Certo, i piatti sono lì. La tovaglia e le posate là. E di posate ce ne vorranno parecchie, sgusciare i granchi è un bel lavoro.» Non la guardò mentre parlava. Temeva di rompere l'incanto. O peggio, temeva di constatare che tutto era stato frutto della sua immaginazione. E non voleva accettarlo. Anche Allie stava pensando a quel momento magico che la riscaldava dentro. Le parole di Noah continuavano a risuonare nella sua testa mentre sistemava i piatti, le posate, il sale e il pepe. Noah le porse il pane e le loro dita si sfiorarono per un attimo. Poi Noah dedicò la sua attenzione ai fornelli, rimescolò le verdure, sollevò il coperchio della pentola e constatò che i granchi richiedevano ancora un minuto di cottura. Aveva recuperato il controllo di sé e riprese una conversazione facile, senza problemi. «Hai già mangiato i granchi?» «Un paio di volte. Ma solo in insalata.» «Allora preparati a un'avventura. Aspetta un momento.» Volò su per le scale e ritornò con un camicione azzurro. Lo porse ad Allie. «Indossa questo. Ne avrai bisogno per non macchiarti il vestito.» Allie se lo infilò e fiutò la fragranza racchiusa nella stoffa, l'odore di lui, intenso e naturale. «Non ti preoccupare», disse Noah interpretando male la sua espressione, «è pulita.» Lei rise. «Lo so. Ma mi è venuto in mente il nostro primo vero appuntamento. Tu mi prestasti la tua giacca, quella sera, ricordi?» Annuì. «Sì, lo ricordo. Fin e Sarah erano con noi. Fin continuava a darmi gomitate mentre ti riaccompagnavo a casa, perché voleva che io ti stringessi la mano. » «Però non l'hai fatto.» «No», rispose lui scrollando il capo. «Perché? » «Timidezza forse. Paura. Non lo so. Non mi sembrava la cosa giusta da fare in quel momento.» «Se ci ripenso, eri davvero timido, sai?» «Preferirei la definizione 'moderatamente fiducioso'», disse lui ammiccando, e sorrise. Le verdure e i granchi giunsero contemporaneamente al punto di perfetta cottura. «Stai attenta, sono caldissimi», disse Noah servendoli in tavola, e sedettero l'uno di fronte all'altra. Dopo aver scodellato le verdure nei piatti Noah vi aggiunse un granchio e Allie lo fissò perplessa. «Sembra un'enorme cimice.» «Ma una cimice ottima. Guarda che cosa devi fare.» Glielo dimostrò con gesti rapidi e apparentemente facili, sgusciando la polpa e mettendogliela sul piatto. Ma quando Allie provò a fare da sola spezzò le chele con troppa forza e fu costretta a usare le dita per liberare la polpa. Si sentiva impacciata, preoccupata di sbagliare, ma ben presto riuscì a superare la propria insicurezza. Noah non si curava affatto di simili bazzecole, non se n'era mai curato. «Dov'è ora Fin?» chiese. Noah esitò prima di rispondere. «Fin è morto in guerra. La sua corazzata fu silurata nel quarantatré.» «Mi dispiace. So che era un tuo ottimo amico.» La sua voce cambiò, prese un tono più profondo. «Lo era, infatti. Penso molto a lui in questi giorni. Ricordo soprattutto l'ultima volta che lo vidi. Ero tornato a casa per salutare tutti prima di arruolarmi e ci incontrammo. Lavorava in banca, come suo padre, e trascorremmo il fine settimana assieme. A volte mi rimprovero di averlo indotto ad arruolarsi. Forse non l'avrebbe fatto, senza il mio esempio.» «Non devi fartene una colpa», disse Allie, rammaricandosi di aver affrontato quell'argomento. «Lo so, ma mi manca molto.» «Anche a me piaceva. Mi faceva ridere.» «Era la sua specialità.» Allie gli lanciò un'occhiata. «Si era preso una cotta per me, sai?» «Lo so. Me l'aveva confessato.» «Davvero? E che cosa ti ha detto?» Noah scrollò le spalle. «Te lo puoi immaginare. Che eri pazza di lui e che doveva scappare perché lo inseguivi dappertutto. Le sue solite balle.» Lei rise. «E tu gli hai creduto?» «Naturalmente. Perché non avrei dovuto credergli?» «Voi uomini vi spalleggiate sempre a vicenda.» Allungò una mano sul tavolo e gli stuzzicò il braccio con la punta delle dita. «E adesso raccontami tutto quello che hai fatto da quando ci siamo visti l'ultima volta. » Con una fitta conversazione recuperarono il tempo perduto. Noah le raccontò di come aveva lasciato New Bern, del suo lavoro al Nord prima nel cantiere e poi nel deposito di rottami. Parlò con affetto di Morris Goldman e accennò alla guerra senza dilungarsi in dettagli. Poi le disse di suo padre e di quanto soffrisse per la sua scomparsa. Allie a sua volta parlò del college, della pittura, delle ore di volontariato all'ospedale, della sua famiglia, dei suoi amici e delle varie opere di carità cui si dedicava. Nessuno dei due accennò a possibili coinvolgimenti sentimentali. Persino Lon fu ignorato, sebbene entrambi si rendessero conto di quella importante omissione. Poi Allie cercò di ricordare, tra sé, in quale occasione lei e Lon avessero chiacchierato così. Sebbene fosse un buon ascoltatore, e nemico delle discussioni, Lon faticava a esprimersi. Come il padre di Allie, l'idea di comunicare ad altri i suoi pensieri e i suoi sentimenti lo faceva sentire a disagio. Allie aveva cercato di spiegargli che voleva essergli più vicina, ma senza risultato. E ora, seduta in quella cucina, capiva quante cose le fossero mancate. Nel cielo sempre più buio galleggiava una limpida luna, e senza rendersene conto cominciarono a ricreare tra loro l'intimità, la familiarità che aveva costituito un tempo un legame fortissimo. Quando finirono di cenare, soddisfatti per l'ottimo cibo, Noah guardò l'orologio e vide che si stava facendo tardi. Le stelle erano più brillanti nel cielo, il canto dei grilli più sommesso. Noah era felice per quella lunga conversazione, ma temeva di aver parlato troppo, si chiedeva come Allie avrebbe giudicato il suo modo di vivere. Si alzò per riempire il bollitore, poi ammucchiarono i piatti nel lavandino e sparecchiarono la tavola. Quando l'acqua cominciò a bollire, Noah preparò dell'altro tè. «Torniamo sotto il portico?» chiese porgendole una tazza. Allie acconsentì e uscì per prima, Noah la seguì portando con sé una coperta da mettere sulle gambe di Allie, semmai avesse avuto freddo. Poco dopo si dondolavano tranquillamente sulle loro poltrone. Dio, quanto è bella, pensò Noah guardando Allie con la coda dell'occhio. E dentro di sé soffriva. Perché qualcosa era accaduto durante la cena. Molto semplicemente, si era innamorato per la seconda volta. Ne era certo, mentre sedevano l'uno accanto all'altra. Si era innamorato della nuova Allie, e non soltanto del suo ricordo. O forse non aveva mai smesso di amarla perché quello era il suo destino. «É stata una bella serata», disse con voce dolce. «Sì», disse lei, «una serata meravigliosa.» Noah alzò lo sguardo verso il cielo. Le stelle, palpitando, gli rammentavano che presto Allie se ne sarebbe andata lasciandogli un gran vuoto nel cuore. Avrebbe voluto che quella sera non finisse così. Ma come dirglielo? Come chiederle di restare? Non lo sapeva, perciò decise di non dire nulla e accettò il proprio fallimento. Le poltrone dondolavano ritmicamente. Altri pipistrelli lungo il fiume. Lo sfrigolio delle zanzare sulle lampade del portico. Lì attorno, Noah ne era sicuro, qualcuno stava facendo l'amore. «Dimmi qualcosa», mormorò infine Allie, e c'era sensualità nella sua voce. Oppure l'immaginazione di Noah gli giocava uno scherzo? «Che cosa devo dirti?» «Parlami come quella sera sotto la quercia.» E lui lo fece, celebrando la notte con brani di poesie. Whitman e Thomas, perché gli piacevano le loro descrizioni intense, Tennyson e Browning, perché cantavano argomenti a lui cari. A occhi chiusi, col capo appoggiato allo schienale della poltrona, Allie sentiva crescere dentro di sé uno strano calore, suggerito non solo dai versi dei poeti o dalla voce di Noah, ma da un insieme che superava la somma delle parti. Non cercò di approfondire quella sensazione perché avrebbe rotto l'incanto di un ascolto perfetto. La poesia, pensò, non è stata scritta per essere analizzata. Deve ispirarci al di là della ragione, deve commuoverci al di là della comprensione. Ricordando Noah, aveva assistito a qualche lettura di poesie organizzata dal professore di letteratura inglese all'università. Aveva ascoltato oratori diversi e opere diverse, ma ben presto aveva desistito, scoraggiata dal fatto che nessuno sembrava veramente ispirato da un autentico amore per la poesia. Continuò a dondolarsi immersa nei suoi pensieri, bevendo piccoli sorsi di tè. L'impulso che l'aveva portata fin lì si era placato - e ne ringraziava il cielo - ma era preoccupata per la sensazione che l'aveva sostituito: quel palpito che le saliva a fior di pelle colmando i suoi pori come la sabbia aurifera nei setacci dei cercatori d'oro. Cercava di soffocarlo, di negarlo, ma ormai si rendeva conto che non ci sarebbe riuscita. Da anni non provava più niente del genere. Lon era incapace di suscitare emozioni. Forse per questo non era mai andata a letto con lui. Lon glielo aveva chiesto molte volte, inviandole mazzi di fiori o cercando di suscitare in lei sensi di colpa, ma Allie si era sempre aggrappata alla scusa che voleva aspettare fin dopo le nozze. Lon aveva finito per rassegnarsi con il solito garbo, ma a volte Allie si chiedeva quanto sarebbe rimasto ferito se avesse scoperto quel che era accaduto tra lei e Noah. Le ragioni del suo rifiuto erano legate soprattutto al comportamento di Lon. Era sempre immerso nel suo lavoro che aveva per lui la priorità assoluta. Non gli restava tempo da dedicare alla poesia, non avrebbe mai sprecato le sue serate dondolandosi sotto un portico. Ovviamente questa era la ragione del suo successo e una parte di Allie lo apprezzava. Ma si rendeva anche conto che non le bastava. Voleva qualcosa d'altro, qualcosa di diverso, qualcosa di più. La passione romantica, forse, oppure una tranquilla conversazione a lume di candela, o magari il non sentirsi relegata sempre in secondo piano. Anche Noah era immerso nei suoi pensieri. Avrebbe ricordato quella sera come uno dei momenti più speciali della sua vita. Ne rievocò ogni dettaglio, più volte, dondolandosi sulla poltrona. Tutto ciò che Allie aveva fatto sembrava carico di un'elettricità che si comunicava a lui. Ora, vedendola davanti a sé, si chiedeva se anche lei aveva sognato le stesse cose durante gli anni della loro separazione, se aveva sognato di loro due che si abbracciavano e si baciavano alla luce della luna. O se si era spinta più oltre, sognando i loro corpi nudi, uniti e poi divisi per troppo tempo... Guardò le stelle e rammentò le mille notti vuote e solitarie trascorse dall'ultima volta che si erano visti. Ritrovarla aveva portato in superficie tutte quelle sensazioni e gli sembrava impossibile soffocarle di nuovo. Voleva amarla ed essere amato, voleva fare l'amore con lei. Ne aveva un disperato bisogno. Ma al tempo stesso si rese conto che non sarebbe mai accaduto, perché ora Allie era fidanzata. Allie capì da quel lungo silenzio che Noah stava pensando a lei e ciò la riempì di una sconfinata gioia. Ignorava quali fossero esattamente i suoi pensieri e in fondo non se ne curava, le bastava la certezza di esserne al centro. Rievocò la loro conversazione durante la cena e si interrogò sulla solitudine di Noah. Per una qualche ragione non riusciva a immaginarlo intento a leggere poesie a qualcun altro. E non lo credeva nemmeno capace di dividere i suoi sogni con un'altra donna. Non era il tipo. E questa era la verità, oppure lei voleva credere che lo fosse. Posò la tazza sul tavolo e si passò le dita nei capelli chiudendo gli occhi. «Sei stanca?» chiese lui strappandosi finalmente ai propri pensieri. «Un po'. E dovrei proprio andarmene tra un paio di minuti.» «Lo so», disse Noah con voce spenta. Ma Allie non si alzò subito. Bevve invece un ultimo sorso di tè che le scaldò la gola e abbracciò con lo sguardo lo spettacolo della sera: la luna alta nel cielo, il fruscio del vento tra gli alberi, la temperatura più fresca. Poi si voltò verso Noah. La cicatrice era ben visibile sul suo viso e Allie si chiese se era stato ferito in guerra, o se si trattava di un incidente. Non ne aveva mai parlato e lei non glielo aveva chiesto, soprattutto perché l'idea della sua sofferenza fisica la turbava. «Devo andare», disse infine, liberandosi dalla trapunta. Noah annuì e si alzò in piedi senza pronunciare una sola parola. Prese la trapunta, se la ripiegò su un braccio e insieme si avviarono verso la macchina. Le foglie secche scricchiolavano sotto i loro piedi. Quando Noah aprì la portiera Allie cominciò a sfilarsi la camicia che le aveva prestato, ma Noah la fermò. «Tienila», disse. «Mi fa piacere che l'abbia tu.» Non gli chiese perché, poiché anche lei voleva tenersela. Se la sistemò addosso e incrociò le braccia sul petto per proteggersi dall'aria pungente. Per una qualche ragione, quel gesto le rammentò un giorno lontano quando, dopo un ballo al liceo, si era fermata sognante davanti alla porta di casa sua in attesa di un bacio. «Questa serata è stata bellissima per me», disse Noah. «Ti ringrazio per essere venuta fin qui a scovarmi. » «Anche per me è stato tutto davvero stupendo», rispose Allie. Lui fece appello al suo coraggio. «Ti rivedrò domani? » Una domanda semplicissima. Allie sapeva che cosa avrebbe dovuto rispondere per mantenere la sua vita su binari sicuri. Le bastava dire «Penso di no» e tutto sarebbe finito lì e subito. Ma per qualche attimo non disse nulla. Il demone della scelta la stuzzicava, la provocava. Perché non pronunciava quelle tre parole? Non riusciva a capirlo. Ma quando guardò negli occhi di Noah per trovare la risposta che cercava, vide l'uomo di cui si era innamorata un tempo e all'improvviso tutto fu chiaro. «Mi farebbe molto piacere», disse. Noah fu sorpreso da quella risposta che non si aspettava. In quel momento avrebbe voluto toccarla, prenderla tra le sue braccia, ma non lo fece. «Puoi venire verso mezzogiorno?» «Certamente. Che programmi hai?» «Lo vedrai. Faremo una gita in un certo posto.» «Ci siamo già stati?» «No. Ma è un posto speciale.» «Dov'è? » «Sarà una sorpresa.» «Mi piacerà?» «Pazzamente.» Allie si voltò prima che lui cercasse di baciarla. Non sapeva se ci avrebbe provato, ma era certa che, se l'avesse fatto, per lei sarebbe stato difficile resistergli. Non poteva controllare la situazione in quel momento, con tutte le emozioni che le turbinavano dentro. Si mise al volante con un sospiro di sollievo e avviò il motore mentre Noah chiudeva la portiera. Prima di innestare la marcia, Allie abbassò il finestrino. «A domani», disse, e la luna si rifletteva nei suoi occhi. Noah salutò con un cenno della mano mentre la macchina, dopo una breve manovra a marcia indietro, imboccava il viale diretta verso la città. La seguì con lo sguardo finché le luci posteriori sparirono dietro un boschetto di querce e il ronzio del motore si spense. Clem gli girava attorno e lui si accovacciò per accarezzarla, grattandola sul collo nel punto che la bestiola zoppa non poteva più raggiungere. Dopo un'ultima occhiata alla strada, tornarono sotto il portico assieme. Sedette di nuovo sulla poltrona a dondolo, questa volta solo, per ricostruire la serata appena trascorsa. La analizzava. La visualizzava rivivendola scena per scena, riascoltando ogni frase. E ricominciava daccapo con più calma, come se girasse un film al rallentatore. Non se la sentiva di suonare la chitarra o di leggere poesie. Aveva la mente confusa. «É fidanzata», mormorò infine tra sé. Poi per ore rimase avvolto in un silenzio rotto solo dal cigolio del dondolo. La notte era tranquilla, di quando in quando Clem si avvicinava a lui quasi per chiedergli: «Va tutto bene?» Ma in un momento imprecisato attorno alla mezzanotte, sotto il limpido cielo d'ottobre, Noah fu travolto da un'onda immensa di passione e di nostalgia. Se ci fosse stato un osservatore casuale, avrebbe visto un uomo distrutto, invecchiato di colpo nel giro di due ore. Chino in avanti sulla sua poltrona, col viso tra le mani e le lacrime negli occhi. Non riusciva a frenarle, quelle lacrime. Telefonate. Lon non riusciva a staccarsi dal telefono. Aveva chiamato alle sette, poi alle otto e trenta, e adesso controllò di nuovo l'orologio: le nove e quarantacinque. Dov'era finita Allie? Lon sapeva che non aveva mentito sulla sua destinazione perché il direttore dell'albergo aveva confermato il suo arrivo. Sì, era salita in camera, poi era uscita verso le sei. Probabilmente per cenare in città. No, non l'aveva più vista. Lon scrollò il capo e si appoggiò allo schienale della poltrona. Era rimasto solo, come al solito, nell'ufficio silenzioso. Gli capitava spesso quando c'era un importante processo in corso, anche se tutto stava andando per il meglio. La legge era la sua passione, e le ore serali gli offrivano la possibilità di mettersi in pari con il lavoro senza interruzioni. Era certo di vincere la causa perché sfruttava a meraviglia tutti i cavilli legali e sapeva affascinare le giurie. Ci riusciva sempre, e le sue sconfitte si facevano sempre più rare. Buona parte dei suoi successi venivano dal fatto che era abilissimo nello scegliere le cause più adatte alle sue capacità dialettiche. Aveva raggiunto quel livello con l'esperienza. Solo pochi eletti in città godevano di una simile reputazione, e i suoi lauti guadagni ne erano la prova. Ma la base fondamentale della sua carriera era il lavoro indefesso. Aveva sempre dedicato la massima attenzione ai dettagli, specialmente all'inizio della professione; conosceva l'importanza delle piccole cose, magari apparentemente insignificanti. Prima di presentarsi in aula si documentava con estrema cura e ciò gli aveva già permesso, anni addietro, di vincere cause che sembravano perdute. E adesso era proprio un dettaglio che lo angustiava. Non riguardava la causa in corso, che non presentava problemi, ma qualcos'altro. Qualcosa che aveva a che fare con Allie. Maledizione, quel dettaglio gli sfuggiva. Al mattino, quando Allie era partita, tutto andava a meraviglia. O almeno così pareva. Ma in seguito alla sua telefonata, dopo un'ora circa, qualcosa era scattato nella sua mente. Un piccolo dettaglio. Un dettaglio. Insignificante? O importante? Pensa... rifletti... di che si tratta? Un nuovo scatto mentale. Qualcosa... qualcosa... che aveva detto? Sì, senza dubbio. Lon ora ne era certo. Una frase, una parola che Allie aveva pronunciata al telefono. Ricostruì la loro conversazione. Del tutto normale. Eppure il dettaglio si celava lì. Che cosa aveva detto? Aveva fatto un buon viaggio, era scesa in albergo, stava per uscire a far compere. Gli aveva lasciato il suo numero. Nient'altro. I suoi pensieri si concentrarono su Allie. Lui l'amava, ne era sicuro. Non soltanto per la sua bellezza e per il suo fascino, ma anche perché era diventata un'ottima amica e la base della sua stabilità. Dopo una giornata di duro lavoro, era la prima persona cui telefonava e lei sapeva ascoltarlo, rideva al momento giusto, aveva un sesto senso per intuire quali parole gli piacesse sentirsi dire. Ma soprattutto, ammirava la sua sincerità nell'esprimersi. Rammentò che dopo essere uscito con lei alcune volte, le aveva detto ciò che diceva a tutte le ragazze che corteggiava: non si sentiva ancora pronto per iniziare una relazione seria. Contrariamente alle altre, Allie si era limitata ad annuire dicendo «Benissimo». Però, quando giunsero davanti alla porta di casa sua, si voltò e aggiunse: «Guarda che il tuo problema non sono io, o il tuo lavoro, o la tua libertà, o qualsiasi cosa tu immagini. Il tuo problema è che sei solo. Tuo padre ha reso famoso il nome degli Hammond e probabilmente sei sempre stato messo a confronto con lui, senza riuscire a essere te stesso. Una vita simile ti svuota dentro e stai cercando qualcuno che possa colmare quel vuoto come per magia. Ma soltanto tu puoi farlo». Quelle parole echeggiarono nella sua mente per tutta la sera, e il mattino dopo Lon si rese conto che Allie aveva ragione. Le telefonò, le chiese di concedergli un'altra opportunità, e dopo essersi fatta un po' pregare lei accettò. Nei quattro anni seguenti, Allie diventò tutto ciò che lui aveva sempre desiderato, e si rendeva conto che avrebbe dovuto dedicarle più tempo, ma lo studio legale divorava una grande quantità di ore, e sebbene Allie si dimostrasse sempre comprensiva, Lon aveva l'impressione di trascurarla. Pensò che, se si fosse sposato, avrebbe abbreviato gli orari di lavoro, pregando la sua segretaria di avvertirlo nel caso si fosse attardato senza accorgersene. Con questo tipo di controllo... Controllo? Un altro scatto nella sua mente. Guardò il soffitto. Che cosa doveva controllare? L'albergo. Chiuse gli occhi per un attimo. No, non si trattava dell'albergo. E di che cosa, allora? Rifletti, maledizione. Rifletti. New Bern. Gli parve di vedere quel nome scritto sulla parete di fronte. New Bern. Eccolo, il dettaglio, o almeno una parte di esso. Che altro, se no? New Bern, pensò di nuovo, e collegò il nome a una cittadina dove aveva discusso un paio di cause. Ci si era anche fermato viaggiando verso la costa. Un posto qualsiasi. Lui e Allie non vi erano mai andati insieme. Ma Allie da sola sì. La successione dei suoi pensieri si fece più rapida, un disegno cominciò a comporsi. C'era dell'altro... Allie... New Bern... e qualcosa che riguardava una festa. Un rapido accenno della madre di Allie. Lui non ci aveva quasi fatto caso. Che cosa aveva detto, esattamente? E Lon impallidì rammentando ciò che era stato detto molto tempo prima. Ciò che aveva detto la madre di Allie. Qualcosa a proposito di Allie che si era innamorata di un giovanotto di New Bern. Un'infatuazione da ragazzina. E con ciò? Lon, noncurante, aveva sorriso rivolgendosi ad Allie. Ma Allie non sorrideva. Anzi, sembrava furibonda, e allora Lon immaginò che avesse amato quel giovane più di quanto sua madre sospettasse. Adesso era andata là. Interessante. Lon congiunse le mani, come se pregasse, e se le portò alle labbra. Una coincidenza? Forse sì. Forse le cose stavano esattamente come Allie aveva detto: la necessità di prendersi due giorni di vacanza e di comprare oggetti di antiquariato. Possibile. Anzi, molto probabile. Eppure... eppure... Lon considerò un'altra eventualità, e per la prima volta dopo tanto tempo ebbe paura. E se in quel momento Allie fosse stata con lui? Maledì il processo, rimpianse di non aver accompagnato Allie, si chiese se gli aveva detto la verità, sperò che gliela avesse detta. Decise che non voleva perdere Allie, avrebbe fatto qualunque cosa per tenerla accanto a sé. Era la donna ideale che aveva sempre desiderato e non ne avrebbe più trovata un'altra come lei. Con mano tremante, compose per la quarta e ultima volta quel numero di telefono. E nessuno rispose. Kayak e sogni dimenticati. Allie si svegliò presto, il mattino seguente, strappata al sonno dal cinguettio incessante degli storni, e si massaggiò le palpebre, notando che il suo corpo era intorpidito. Aveva dormito male, destandosi dopo ogni sogno. Rammentava di aver controllato le lancette dell'orologio quasi volesse verificare il trascorrere del tempo. Indossava la morbida camicia che Noah le aveva prestato e fiutò l'odore di lui mentre ripensava alla sera che avevano trascorso assieme. Le tornarono alla mente le risate e la conversazione, specialmente i commenti di Noah ai suoi dipinti. Inattesi ma esaltanti, e via via che ripercorreva le sue parole, si rese conto di quanto lo avrebbe rimpianto se avesse deciso di non rivederlo. Si avvicinò alla finestra e osservò gli uccelli ciarlieri in cerca di cibo alla luce dell'alba. Rammentò che Noah era sempre stato mattiniero e salutava il nuovo giorno a modo suo. Gli piaceva pagaiare nel kayak o nella canoa, e in una lontana mattina lei l'aveva raggiunto per assistere al sorgere del sole. Si era calata dalla finestra perché i genitori le avrebbero impedito di uscire, ma nessuno si accorse della sua fuga, e quando fu nella canoa Noah le passò un braccio attorno alla vita e la strinse a sé mentre l'alba si dilatava nel cielo. «Guarda laggiù», le disse, e Allie vide per la prima volta il sorgere del sole con la testa sulla spalla di lui, in un momento magico di totale felicità. Mentre passava nella stanza da bagno, i piedi nudi sulle fresche piastrelle del pavimento, si chiese se anche quella mattina Noah stesse pagaiando sul fiume per salutare il nuovo giorno, e pensò che probabilmente era così. Non si sbagliava. Noah si era alzato prestissimo e si era vestito in fretta, gli stessi jeans della sera precedente, la canottiera, una camicia di flanella pulita, una giacca azzurra, gli stivali. Si lavò i denti prima di scendere a pianterreno, bevve un bicchiere di latte e afferrò due biscotti mentre si avviava verso la porta. Accettò il saluto di Clem, due leccatine morbide, e scese verso il pontile dove lo aspettava il kayak. Gli piaceva abbandonarsi alla magia del fiume che gli scioglieva i muscoli, gli riscaldava il corpo, gli schiariva le idee. Il vecchio kayak, striato dalle correnti ma in ottimo stato di manutenzione, era appeso a due ganci fissati all'imbarcadero che lo mantenevano sopra il pelo dell'acqua, al riparo dall'assalto dei molluschi. Noah lo sganciò e lo posò a terra, ai suoi piedi, per una rapida ispezione di controllo. Poi lo portò sulla riva. Con un paio di movimenti efficaci e perfezionati dall'esperienza, lo spinse nel fiume e cominciò a risalire la corrente, pilota e motore di se stesso. L'aria scivolava fresca, quasi pungente, sulla sua pelle, e il cielo era ancora nero sopra di lui, poi blu fino alla linea dell'orizzonte dove impallidiva in un tenero grigio. Noah respirò a fondo - profumo di pini e di erbe acquatiche - e poi cominciò a riflettere. Ciò che più gli era mancato, lassù al Nord, erano momenti come quelli. Gli orari di lavoro non gli permettevano di raggiungere un fiume per campeggiare sulle sue rive, o nei boschi vicini. Il suo tempo libero era così limitato che doveva sempre rinunciare a qualcosa. Era riuscito a fare lunghe passeggiate nella campagna del New Jersey, ma in quattordici anni non aveva più ripreso in mano una pagaia. Fu la prima cosa che fece ritornando a New Bern. C'era qualcosa di speciale, quasi di mistico nelle luci dell'alba viste dall'acqua, e si concedeva quella gioia quasi ogni giorno. Non gli importava che il cielo fosse limpido o cupo mentre pagaiava sul fiume color acciaio al ritmo di una musica che vibrava nel suo cervello. Vide un gruppo di testuggini immobili su un tronco semisommerso, e un airone che si alzava in volo sfiorando l'acqua prima di sparire nell'argenteo crepuscolo mattutino. Avanzò finché vide un riflesso dorato allargarsi sul fiume. Allora si mantenne in posizione con brevi colpi di pagaia mentre la luce si apriva un varco tra gli alberi. Gli piaceva concedersi una pausa al sorgere del sole, in quegli attimi lo spettacolo era straordinario, come se il mondo nascesse di nuovo. Poi ricominciò a pagaiare con forza, per allentare la tensione e prepararsi a vivere quel giorno. Le domande guizzavano nella sua mente come gocce d'acqua cadute in un tegame rovente. Si chiese che tipo d'uomo fosse Lon, e quali fossero i suoi rapporti con Allie. Soprattutto avrebbe voluto capire meglio Allie, e perché era venuta lì. Quando tornò alla darsena si sentiva rinvigorito. Controllando l'orologio, fu sorpreso nel constatare che aveva pagaiato per due ore. Sul fiume si perdeva il senso del tempo, e da mesi Noah non tentava più di chiarire quel mistero. Appese il kayak ai ganci, fece un paio di piegamenti, poi andò al capanno dove parcheggiava la canoa. La portò sul greto, a mezzo metro dall'acqua, e mentre si avviava verso casa notò che le sue gambe erano ancora un po' rigide. La foschia mattutina non si era completamente dissolta e Noah sapeva che quella rigidità delle gambe di solito prediceva pioggia. Guardò il cielo a occidente e vide un grappolo di nuvole dense e pesanti, ancora lontane ma incombenti. Il vento le stava spingendo avanti. Meglio non trovarsi all'aperto quando si fosse scatenato il diluvio. Maledizione, quanto tempo gli rimaneva? Un paio d'ore, forse di più, forse di meno. Fece la doccia, indossò dei nuovi jeans, una camicia rossa e stivali neri da cow-boy, si spazzolò i capelli e scese in cucina. Lavò i piatti della sera precedente, bevve un caffè e andò sotto il portico. Il cielo era più cupo adesso. Noah controllò il barometro: indicava tempo variabile, ma ben presto l'ago avrebbe cominciato ad abbassarsi rapidamente. L'esperienza gli aveva insegnato a non sottovalutare mai le condizioni atmosferiche e si chiese se valesse la pena di uscire. Della pioggia gli importava poco, ma i fulmini erano un'altra faccenda. Specialmente sull'acqua. La canoa non era un rifugio ideale quando l'aria umida captava le scariche elettriche. Bevve gli ultimi sorsi di caffè rimandando la decisione a più tardi. Andò al capanno degli attrezzi e prese un'ascia, controllandone il filo col polpastrello del pollice, e l'arrotò su una pietra finché ne fu soddisfatto. «Una lama spuntata è più pericolosa di una lama affilata», diceva sempre suo padre. Trascorse i venti minuti seguenti tagliando legna e accatastandola. Lavorava in scioltezza, con colpi efficaci e senza nemmeno sudare. Alla fine prese una bracciata di ceppi e li sistemò in casa accanto al camino. Osservò di nuovo il dipinto di Allie e lo sfiorò con le dita mentre risorgeva in lui una sensazione di incredulità. Averla rivista era un miracolo. Dio santo, che cosa c'era in lei capace di sconvolgerlo tanto e dopo tanti anni? Quale sorta di potere esercitava su di lui? Alla fine si allontanò scrollando il capo e tornò sotto il portico. Controllò il barometro, poi l'orologio. Allie sarebbe arrivata di lì a poco. Allie era uscita dal bagno e aveva quasi terminato di vestirsi. Prima aveva aperto la finestra per rendersi conto della temperatura esterna. Non faceva freddo e decise di indossare un abito primaverile color crema, con maniche lunghe e a giro collo. Era morbido e comodo, forse un po' attillato, ma le stava bene e si accordava perfettamente con i suoi sandali bianchi. Trascorse la mattinata passeggiando in città. La Depressione aveva lasciato le sue tracce anche lì, ma qualche segno di prosperità cominciava a riemergere. Il teatro massonico, il più antico della zona, era un po' malandato ma ancora in attività, e annunciava la proiezione di due film recenti. Il Fort Totten Park non sembrava affatto cambiato in quattordici anni, e anche i bambini che si dondolavano sulle altalene uscendo da scuola erano simili a quelli che li avevano preceduti. Allie sorrise ripensando ai tempi in cui tutto era più semplice. O almeno così pareva. Ora, invece, la situazione era complicata. In un modo apparentemente improbabile, gli eventi si erano concatenati con una sequenza logica e Allie si chiese che cosa avrebbe fatto in quel preciso momento, se non avesse letto l'articolo sul giornale. Non era difficile immaginarlo, perché la sua vita seguiva una precisa routine. Era mercoledì, il che significava un bridge al Circolo del Golf, poi una riunione al centro femminile dove si sarebbe discusso di una raccolta di fondi da destinare a una scuola privata o a un ospedale. A fine pomeriggio una visita con sua madre e poi a casa in attesa della cena con Lon, che il mercoledì staccava dal lavoro alle sette in punto. Era l'unico giorno della settimana in cui poteva essere sicura di vederlo. Nel ripensarci, Allie provò una sensazione di tristezza che cercò di superare: in futuro tutto sarebbe cambiato. Lon glielo aveva promesso e di solito rispettava le promesse per un paio di settimane prima di lasciarsi inghiottire di nuovo dai gorghi del lavoro. «Stasera davvero non posso, tesoro», le diceva, convinto di darle una spiegazione. «Mi dispiace tanto, ma non posso. Ci rifaremo domani.» Allie rinunciava a discutere, anche perché sapeva che Lon diceva la verità. I processi esigevano un lavoro enorme, sia durante la frase preparatoria sia durante la discussione in aula; tuttavia si chiedeva come mai Lon avesse perso tanto del suo tempo per corteggiarla se ora non ne aveva più per restare accanto a lei. Assorta nei suoi pensieri, passò davanti a una galleria d'arte quasi senza notarla, poi si fermò di colpo e tornò indietro. Esitò sulla soglia per un secondo, rendendosi conto che non visitava più una mostra da molto tempo. Almeno tre anni, o forse più. Come mai? Entrò - era una galleria nuova, inaugurata contemporaneamente ad altri negozi di Front Street- e si aggirò tra i dipinti. Molti artisti erano locali, con un forte sapore di mare nelle loro tele. Molte vedute dell'oceano, spiagge sabbiose, pellicani, vecchi velieri, rimorchiatori, moli d'attracco, gabbiani. Onde di ogni forma, dimensione e colore immaginabili, e alla fine parevano tutti uguali. Frutto di una mancanza di ispirazione o di pigrizia, pensò Allie. Su una parete, tuttavia, spiccavano alcune tele che attirarono la sua attenzione. Erano firmate da un pittore che lei non conosceva, Elayn, e rappresentavano paesaggi delle isole greche. Nel dipinto che le piaceva di più, l'artista aveva enfatizzato la scena rimpicciolendo le figure umane accanto alle linee decise di lunghe pennellate, come se fossero un po' sfuocate. Ma i colori vividi e avvolgenti costringevano l'occhio a seguire una certa direzione che portava sempre più lontano. Una composizione dinamica, drammatica. Più la osservava più la ammirava, e pensò di acquistarla prima di rendersi conto che le piaceva perché somigliava alle sue opere. Forse Noah aveva ragione. Forse avrebbe dovuto ricominciare a dipingere. Alle nove e mezzo lasciò la galleria e si diresse verso l'emporio Hoffman-Lane, solitamente molto ben fornito. Le ci vollero alcuni minuti per trovare ciò che cercava nel reparto cartoleria. Carta, gessetti e matite colorate, non di prima qualità ma discreti quanto bastava per disegnare. Quando rientrò nella camera d'albergo era eccitatissima. Sedette alla scrivania e cominciò a lavorare. Non aveva in mente un soggetto in particolare, le bastava provare di nuovo lo slancio creativo, lasciando che forme e colori emergessero dalla memoria della sua giovinezza. Dopo alcuni minuti di incertezza, ritrasse in uno schizzo ciò che vedeva dalla sua finestra, stupita dalla scioltezza con cui usava le matite. Come se non avesse mai smesso. Soddisfatta del risultato, si chiese quale altro soggetto affrontare e le ci vollero pochi minuti per decidere. Poiché non aveva il modello davanti a sé, lo visualizzò mentalmente e, sia pure con un certo sforzo, cominciò a dargli forma. Il tempo volava. Allie lavorava con accanimento ma controllava spesso l'orologio per non arrivare in ritardo. Terminò poco prima di mezzogiorno. Le ci erano volute due ore, ma il ritratto era sorprendente. Allie arrotolò il foglio, lo infilò nella borsa e prima di uscire dalla stanza si guardò allo specchio. Si sentiva stranamente rilassata e non ne capiva il perché. Scese le scale e mentre attraversava l'atrio sentì una voce alle sue spalle. «Signorina? » Si voltò per vedere chi la chiamava: il portiere dell'albergo, lo stesso del giorno precedente, che la fissava con un'espressione incuriosita. «Sì?» «Ci sono state delle telefonate per lei, ieri sera.» Sobbalzò. «Delle telefonate?» «Tutte del signor Hammond.» Oh, Dio. «Quante volte ha chiamato?» «Quattro volte. Abbiamo scambiato qualche parola. Era molto preoccupato per lei. Ha detto di essere il suo fidanzato.» Allie sorrise debolmente, cercando di nascondere la sua perplessità. Quattro telefonate? Quattro? Come mai? E se fosse accaduto qualcosa a casa? «Ha detto se si trattava di una cosa urgente?» Il portiere si affrettò a negare scuotendo il capo. «Non ha detto nulla di preciso, signorina. Sembrava solo preoccupato perché non riusciva a mettersi in contatto con lei.» Nessuna disgrazia, dunque. Meglio così. Ma subito un tuffo al cuore. Perché tanta urgenza? Perché tante telefonate? Si era tradita in qualche modo, il giorno prima? Perché aveva richiamato con tanta insistenza? Non era da lui. E se avesse scoperto qualcosa? No, impossibile. A meno che qualcuno l'avesse vista, telefonando poi a Lon... Ma avrebbero dovuto seguirla fino alla casa di Noah, e nessuno l'aveva fatto. Ora doveva richiamare Lon, non c'era modo di evitarlo. Eppure non ne aveva alcuna voglia. Quella era la sua vacanza che aveva deciso di trascorrere in piena libertà. Aveva previsto una telefonata a Lon più tardi, e per qualche strana ragione era convinta che parlando con lui subito avrebbe rovinato la giornata. Inoltre, che cosa gli avrebbe detto? Come spiegargli perché era rientrata così tardi? Una cena e poi una passeggiata? Oppure era andata al cinema? Oppure... «Signorina?» Quasi mezzogiorno, pensò. Dov'era Lon? In ufficio, probabilmente... No, in tribunale. Non appena se ne rese conto provò una sensazione di sollievo. Non c'era modo di comunicare con lui in tribunale, anche se l'avesse voluto. Fu vagamente sorpresa dalla propria reazione, ma in fondo non le importava più di tanto. Ora doveva passare all'azione. Guardò il suo orologio. «É già mezzogiorno?» «Mezzogiorno meno dieci», disse il portiere dopo un'occhiata al pendolo appeso alla parete. «Purtroppo il signor Hammond in questo momento è in tribunale e non posso disturbarlo. Se telefonasse, gli dica che sono uscita a far spese e lo richiamerò più tardi.» «Senz'altro», rispose il portiere, ossequioso, ma Allie lesse una domanda nei suoi occhi: Dov'eri ieri sera? L'aveva immaginato da sé vedendola rientrare: troppo tardi perché una donna sola avesse trovato svaghi legittimi in una città così piccola. «Grazie», disse sorridendo. «Lei è davvero gentile.» Due minuti dopo stava correndo in auto verso la casa di Noah, anticipando con la fantasia le sorprese di quella giornata e senza più curarsi delle telefonate. Il giorno prima avrebbe reagito diversamente, ma tutto stava cambiando. Dopo altri due minuti, mentre Allie stava attraversando il vecchio ponte, Lon la chiamò dal tribunale. Acqua di fiume. Noah la aspettava, seduto sul dondolo e sorseggiando del tè. Quando finalmente udì il motore dell'auto che risaliva il viale, uscì dal portico e osservò Allie che parcheggiava presso la vecchia quercia. Esattamente come il giorno prima. Clem abbaiava festosa, agitando la coda, davanti alla portiera della macchina, e attraverso il finestrino Noah vide Allie che salutava con un cenno della mano. Poi scese, accarezzò Clem sempre gongolante e si voltò per sorridere a Noah che avanzava verso di lei. Sembrava più rilassata, più fiduciosa, e al vederla lui avvertì di nuovo un'emozione profonda. Diversa da quella del giorno precedente, però. Nuove sensazioni si sostituivano ai semplici ricordi. L'attrazione che Allie esercitava su di lui era diventata ancora più forte, ancora più intensa nel giro di poche ore, e lo rendeva un po' nervoso di fronte a lei. Allie portava con sé una piccola borsa, e colse Noah di sorpresa baciandolo su una guancia e posandogli la mano sulla vita. «Salve», gli disse con gli occhi radiosi, «dov'è la sorpresa?» Noah avvertì che la tensione si allentava un poco e ne ringraziò il cielo. «Non mi dici nemmeno 'Buongiorno' o 'Come hai dormito stanotte?'» Lei sorrise. La pazienza non era mai stata la sua principale virtù. «D'accordo. Buon giorno. Come hai dormito stanotte? E dov'è la sorpresa?» Noah sorrise, poi parve esitare. «Allie, ci sono brutte notizie.» «Cosa?» «Volevo portarti in un certo posto, ma con quelle nubi minacciose in cielo temo proprio che dovremo rinunciare.» «Perché?» «Se scoppia un temporale, ci inzupperemo di pioggia. E poi c'è il rischio dei fulmini.» «Adesso non piove. Si va molto lontano?» «Un miglio a monte del fiume.» «Ci sono mai stata in quel posto?» «Non come lo vedrai adesso.» Allie rifletté un attimo guardandosi attorno. Poi parlò con tono deciso. «Allora andiamo pure. Non mi importa nulla della pioggia.» «Ne sei sicura?» «Assolutamente. » Noah scrutò di nuovo il cielo dove le nubi si addensavano sempre di più. «Allora è meglio partire subito.» Guardò la borsa di Allie. «Vuoi che la porti in casa?» Allie annuì e gliela porse, Noah raggiunse la porta d'ingresso a passo di corsa, depositò la borsa su una sedia, andò in cucina e infilò una grossa pagnotta in una sacca che portò con sé. Raggiunsero la canoa camminando a fianco a fianco, un po' più vicini del giorno precedente. «Che cos'è esattamente questo posto?» «Lo vedrai.» «Non vuoi darmi nemmeno un indizio?» «Be'», disse Noah, «ricordi quando andammo in canoa per veder sorgere il sole?» « Ci pensavo proprio stamattina. Rammento che piansi per l'emozione.» «Ti sembrerà una cosa banale in confronto a ciò che vedrai oggi.» «Immagino che sia una visione straordinaria.» Noah avanzò di pochi passi prima di rispondere. «Tu sei straordinaria», disse infine. Dal tono della sua voce, Allie intuì che avrebbe voluto aggiungere qualcos'altro. Ma non lo fece, e Allie sorrise prima di distogliere lo sguardo dal suo viso. Mentre si voltava, fu sferzata dal vento che rinforzava sempre di più. Poco dopo raggiunsero il pontile, Noah gettò la borsa nella canoa, e dopo aver controllato che tutto fosse a posto spinse l'imbarcazione nell'acqua. «Posso aiutarti?» «No. Sali a bordo.» Mentre Allie obbediva, Noah spinse più avanti la canoa, mantenendola parallela al pontile, e poi ci balzò sopra con un movimento agile e perfetto, a piedi pari per evitare che quel piccolo guscio si capovolgesse. Allie ammirò l'armonia di quei movimenti ben sapendo che, sebbene eseguiti con tanta disinvoltura, richiedevano grande esperienza e abilità. Allie sedette a prua, voltata verso la poppa. Noah disse che quella posizione le avrebbe impedito di godersi tutte le bellezze del paesaggio, ma Allie scrollò il capo, affermando che stava benissimo così. Era vero. Poteva cogliere a tratti le bellezze del fiume voltando la testa, ma quel che le interessava era tenere gli occhi fissi su Noah. Era venuta per vedere lui e nient'altro. Aveva la camicia mezza sbottonata e i muscoli del suo petto guizzavano a ogni colpo di pagaia. Aveva rimboccato le maniche e anche i muscoli delle braccia si gonfiavano ritmicamente. Con quella ginnastica quotidiana il suo fisico aveva raggiunto una forma perfetta. Artistica, pensò Allie. C'era qualcosa di plastico nei suoi movimenti così sciolti, come se pagaiare sul fiume fosse completamente naturale, al di là di ogni controllo, il suggerimento di un gene giunto fino a lui da una remota fonte ereditaria. , Mentre lo osservava, pensò che non dovevano essere molto diversi da lui i primi esploratori arrivati in quella zona. Ma, nel mondo moderno, Allie non riusciva a immaginare qualcuno che gli somigliasse anche vagamente. Era un uomo complicato, addirittura contraddittorio sotto certi aspetti, e tuttavia semplice. Un miscuglio straordinariamente erotico. In superficie sembrava un ragazzo di provincia, reduce dalla guerra, e forse era così che lui vedeva se stesso. E invece c'era molto di più. Forse la lettura della poesia l'aveva reso diverso, o forse il merito doveva essere attribuito ai valori che suo padre gli aveva insegnato a rispettare. In ogni modo, sembrava che Noah assaporasse la vita più di chiunque altro, e Allie ne era stata attratta fin dal primo momento. «Che cosa stai pensando?» Avvertì un nodo allo stomaco mentre la voce di Noah la riportava al presente. Si rese conto che non aveva quasi aperto bocca da quando erano partiti, e apprezzò il silenzio che lui le aveva concesso. Un dono della sua sensibilità. «Penso a delle belle cose», rispose, e dallo sguardo di Noah capì che lui sapeva di essere l'oggetto di quei pensieri. Si augurò che a sua volta Noah pensasse a lei. Qualcosa le si stava muovendo dentro, come molti anni prima. Una sensazione risvegliata dal suo viso, dal suo corpo maschile in movimento. Mentre lo fissava, avvertì una vampata di calore salirle al collo e al petto e arrossì, distogliendo lo sguardo prima che Noah se ne accorgesse. «Siamo ancora lontani?» «Mezzo miglio circa. Non di più.» Una pausa. Poi Allie disse: «É molto bello qui. Così pulito. Così tranquillo. Sembra di tornare indietro nel tempo.» «In un certo senso è vero. Il fiume scorre in una foresta. Non c'è nemmeno una fattoria dalla sorgente fino a questo punto, e l'acqua è pura come la pioggia. Forse come lo è stata da sempre.» Allie si chinò verso di lui. «Dimmi, Noah, qual è il tuo ricordo più vivo dell'estate che abbiamo trascorso insieme?» «Ricordo quell'estate interamente.» «Niente in particolare?» «No. » «Oppure l'hai dimenticato?» Rifletté un minuto prima di rispondere e poi parlò con voce bassa, seria. «No davvero. Ti sbagli. Tutti i momenti passati insieme mi si sono stampati nella memoria, e sono stati tutti meravigliosi. Non riesco davvero a isolare un episodio più significativo degli altri. Un'estate perfetta, che dovrebbe toccare in sorte a tutti.» «I poeti spesso descrivono l'amore come un'emozione incontrollabile, che cancella la logica e il buon senso. É accaduto anche a me. Non avevo previsto di innamorarmi di te, e immagino che nemmeno tu avessi previsto di innamorarti di me. Ma quando ci incontrammo, fu subito evidente che nessuno di noi due avrebbe potuto controllare quanto ci stava accadendo. Ci innamorammo nonostante le nostre differenze, e nacque tra noi qualcosa di raro e di stupendo. Secondo me, un amore così è unico nella vita, ecco perché ogni minuto passato assieme è sigillato nella mia memoria. Non me ne dimenticherò mai.» Allie lo fissava con gli occhi sbarrati. Nessuno le aveva mai parlato così prima d'ora. Mai. Non sapeva che cosa dire e rimase in silenzio, il viso in fiamme. «Perdonami se ti ho messo in imbarazzo, Allie. Non intendevo farlo. Ma quell'estate è diventata parte della mia vita e lo sarà sempre. So che tra noi le cose sono ormai diverse, ma ciò non cambia i sentimenti che provai per te allora.» Allie parlò con voce quasi sussurrante. «Non mi hai messo in imbarazzo, Noah... è solo che non ho mai sentito parole come queste. Ciò che hai detto è bellissimo. Ci vuole un poeta per parlare così, e tu sei l'unico poeta che io abbia mai incontrato. » Un dolce silenzio scese su di loro. Un falco pescatore lanciò il suo grido in distanza, un muggine balzò sul pelo dell'acqua. La pagaia si muoveva ritmicamente, sollevando piccole onde che correvano via lungo i fianchi dell'imbarcazione. Il vento si era calmato, ma le nuvole si addensavano sempre più nere mentre la canoa procedeva verso la sua ignota destinazione. Allie avvertiva tutto, ogni suono, ogni pensiero. I suoi sensi si erano destati infondendole un'insolita energia, e ripercorse con la mente le ultime settimane. Rammentò l'angoscia che aveva preceduto il suo viaggio a New Bern. Lo choc provocato dall'articolo del giornale, le notti insonni, il suo cattivo umore durante il giorno. Anche la sera prima aveva avuto paura e sarebbe voluta fuggire. Ora la tensione era svanita, completamente, sostituita da qualcos'altro che le suggeriva allegria mentre avanzava lungo il fiume sulla vecchia canoa rossa. Provava una profonda soddisfazione per essere venuta lì, era felice che Noah si fosse rivelato esattamente il tipo d'uomo che aveva immaginato, felice di poterlo sempre pensare così, per tutta la sua vita. Nel corso degli ultimi anni aveva conosciuto troppi uomini distrutti dalla guerra, o dall'età, o persino dal denaro. Ci voleva una grande forza per alimentare un'intima passione, e Noah l'aveva avuta... Chi mai, a Raleigh, trovava il tempo per ristrutturare una casa? O per leggere Whitman ed Eliot alimentando la propria mente con nuovi pensieri e immagini? O per contemplare l'alba da una canoa? Attività del genere non entusiasmavano certo la buona società di Raleigh, ma Allie avrebbe voluto che non le disprezzassero, perché rendevano la vita degna di essere vissuta. L'arte rappresentava per lei qualcosa del genere, sebbene se ne fosse resa conto solo arrivando lì. O meglio, aveva risvegliato un ricordo. Aveva già provato quell'emozione e si maledì per aver dimenticato quanto fosse importante creare la bellezza. D'ora in poi si sarebbe dedicata alla pittura, non ne aveva dubbio. Le sensazioni di quella mattina la confortavano e sapeva che, a dispetto delle circostanze, ci avrebbe riprovato, ignorando qualsiasi commento. Lon l'avrebbe incoraggiata a dipingere? Rammentò di avergli mostrato una delle sue opere pochi mesi dopo l'inizio della loro relazione. Era un dipinto astratto e suggestivo, somigliava un poco a quello appeso sopra il camino di Noah e che Noah aveva capito perfettamente, sia pure con un po' troppa passione. Lon invece aveva osservato la tela, quasi scrutandola, e poi le aveva chiesto che cosa avrebbe dovuto rappresentare. Allie non si era curata di rispondergli. In quel momento scrollò il capo, rimproverandosi di essere ingiusta. Amava Lon, l'aveva sempre amato, per altre ragioni. Seppure tanto diverso da Noah, Lon era una cara persona, il tipo d'uomo che lei aveva sempre pensato di sposare. Con Lon non ci sarebbero mai state sorprese, ed è confortante sapere ciò che il futuro ci riserva. Sarebbe stato un marito gentile, e lei una buona moglie. Avrebbero avuto una casa piena di bambini e di amici e una posizione rispettabile nella società. Insomma il tipo di vita che aveva sempre programmato di vivere, e che voleva vivere. E sebbene non potesse definire «appassionato» il suo rapporto con Lon, si era convinta che la passione non è indispensabile per formare una coppia felice. Col tempo la passione si attenua, sostituita da valori come la comprensione e la capacità di adattamento. Lei e Lon possedevano queste doti, e presumeva di non aver bisogno d'altro. Ma ora non ne era più tanto sicura, mentre fissava lo sguardo su Noah che remava ed emanava un'onda di sensualità da ogni suo gesto. Si accorse che stava pensando a lui in modo illecito per una donna fidanzata. Cercò di distrarsi contemplando il paesaggio, ma Noah era sempre lì davanti a lei con i suoi splendidi muscoli guizzanti, ed era difficile staccargli gli occhi di dosso. «Eccoci arrivati», disse Noah dirigendo la canoa verso un gruppo d'alberi presso la riva. Allie si guardò attorno e non vide nulla di particolarmente speciale. «Dov'è la sorpresa?» chiese. «Qui», riprese Noah pagaiando verso un vecchio albero che si era inclinato bloccando il varco di un'insenatura invisibile. Noah manovrò in modo da passare sotto il tronco, e tutti e due abbassarono il capo per evitare di urtarlo. «Chiudi gli occhi», sussurrò lui, e Allie obbedì coprendosi il volto con le mani. Sentì il risucchio dell'acqua e capì che la canoa aveva abbandonato la corrente del fiume. «Okay», disse finalmente Noah dopo aver smesso di pagaiare. «Adesso puoi aprirli.» Cigni e temporali. La canoa galleggiava al centro di un piccolo lago alimentato dalle acque del Brices Creek e - Allie lo notò con sorpresa - del tutto invisibile per chi navigasse lungo il fiume. La scena era spettacolare. Cigni della tundra e oche canadesi circondavano l'imbarcazione. A migliaia. Gli uccelli galleggiavano così vicini l'uno all'altro che in certi punti coprivano lo specchio d'acqua come un tappeto. Da lontano, i gruppi di cigni sembravano iceberg. «Oh, Noah!» Allie trovò finalmente la forza di parlare. «Che meraviglia.» Rimasero a lungo in silenzio, osservando gli uccelli. Noah le indicò un gruppo di pulcini, certo appena usciti dal guscio, che zampettavano freneticamente lungo la riva per seguire le loro madri oche. Quando Noah riprese a pagaiare l'aria si riempì di richiami starnazzanti e di pigolii. Ma per lo più i pennuti ignoravano la loro presenza. Gli unici che se ne curavano erano quelli costretti a spostarsi all'avvicinarsi della canoa. Allie allungò la mano per toccare i più vicini e sentì le loro penne che si arruffavano sotto le sue dita. Noah prese il pane dalla sacca e lo porse ad Allie che lo sbriciolò lanciandolo nell'acqua, cercando di favorire i più piccoli, ridendo nel vederli girare in tondo in attesa del cibo. Rimasero lì finché si udì lontano il rombo di un tuono, attutito ma violento, e ambedue capirono che era tempo di rincasare. Noah pilotò la canoa fino al centro del fiume pagaiando con colpi sempre più energici. Allie era ancora sopraffatta dalla bellezza di ciò che aveva visto. «Noah, ma che fanno qui tanti uccelli?» «É un mistero. So che i cigni, d'inverno, emigrano dal Nord fino al lago Matamuskeet, e adesso sono capitati in questa zona. Ne ignoro il motivo. Forse una precoce tempesta di neve li ha spinti a sud e hanno perso l'orientamento. Ma penso che ritroveranno la strada giusta per raggiungere la loro destinazione abituale. » «Non rimarranno qui?» «Ne dubito. Sono guidati dall'istinto e questo non è il loro rifugio invernale. Forse le oche sì, sverneranno nel laghetto, ma i cigni raggiungeranno di certo il Matamuskeet.» Noah pagaiava vigorosamente mentre le nubi nere si addensavano sulle loro teste. La pioggia cominciò a cadere. Gocce rade dapprima, e poi sempre più fitte. Un lampo... una pausa... e il rombo di un nuovo tuono. Più forte del precedente e dunque più vicino, forse sei o sette miglia di distanza. I muscoli di Noah guizzavano sotto lo sforzo dei colpi di pagaia progressivamente accelerati, e la pioggia aumentava. Gocce pesanti. Gocce che cadevano spinte dalla bufera... Gocce dure e violente... Noah che remava... in gara con le intemperie... maledicendo se stesso... impotente di fronte a Madre Natura... Allie vide che le lame di pioggia cadevano diagonalmente, sfruttando i venti dell'ovest per combattere la forza di gravità. Il cielo divenne ancora più nero e la furia della tempesta sibilava tra le chiome degli alberi. Allie godeva di quei momenti e rovesciò il capo all'indietro perché la pioggia le bagnasse il viso. Sapeva che in pochi minuti il suo vestito sarebbe stato inzuppato, ma non se ne curava. Si chiese se Noah l'avrebbe notato, e immaginò di sì. Si passò le dita tra i capelli, si sentiva meravigliosamente bene, tutto era stupendo. Pur tra il fragore degli scrosci sentiva il respiro duro di Noah e quel suono la eccitò sessualmente come non le capitava da anni. Una nuvola passò sul fiume scaricando un rovescio sulle loro teste, ma Allie rise, rinunciando a ogni tentativo di ripararsi, e Noah si sentì sollevato. Non sapeva come Allie avrebbe reagito, e sebbene la decisione di uscire in canoa fosse stata sua, forse non si aspettava un temporale tanto violento. Raggiunsero la darsena pochi minuti dopo e Noah aiutò Allie a salire sul pontile. Poi salì anche lui e trascinò la canoa a riva, legandola a un palo per maggiore sicurezza. Quando rialzò lo sguardo su Allie, gli si mozzò il respiro. Era bellissima, serena e immobile, del tutto incurante della pioggia. Noah poteva vedere la forma dei suoi seni sotto la stoffa del vestito che le si era incollato al corpo, i capezzoli eretti e duri come due piccoli sassi. Sentì muoversi in lui un'onda di desiderio e subito si voltò, imbarazzato, e borbottò qualcosa mentre controllava la cima della canoa. Quando si rialzò, Allie lo sorprese prendendolo per mano. Nonostante la pioggia battente, avanzarono lentamente verso la casa e Noah immaginò come sarebbe stata una notte trascorsa con lei. Anche la mente di Allie vibrava sulle stesse corde. Sentiva il calore della mano di lui e avrebbe voluto che le accarezzasse il corpo, scorrendo leggera sulla sua pelle. A quel solo pensiero sentì i capezzoli che le si indurivano di nuovo e un intenso calore tra le gambe. Si rese conto che qualcosa era cambiato da quando era arrivata lì. E sebbene non potesse identificare il momento esatto in cui ciò si era verificato - la sera prima, o quel pomeriggio in canoa, o tra i cigni del laghetto - sapeva di essersi innamorata di nuovo di Noah Taylor Calhoun, e forse, solo forse, non aveva mai smesso di amarlo. Un velo di imbarazzo calò tra loro quando varcarono la soglia e si fermarono, gocciolanti, nell'atrio d'ingresso. «Hai portato dei vestiti per cambiarti?» Allie scrollò il capo, un'onda di emozione le impediva di parlare e si chiese se il suo viso rivelasse ciò che provava. «Ti troverò qualcosa. Forse ti andrà un po' largo, ma almeno ti terrà caldo.» «Benissimo», disse lei. «Torno tra un minuto.» Noah si sfilò gli stivali, salì le scale di corsa e riapparve quasi subito con dei calzoni di cotone e una camicia bianca su un braccio, e dei jeans con una camicia azzurra sull'altro. «Ecco», disse, porgendole i pantaloni e la camicia bianca, «puoi cambiarti nella camera di sopra. In bagno troverai un asciugamano se vuoi fare una doccia.» Allie lo ringraziò e salì le scale sentendo su di sé lo sguardo di lui che la seguiva. Entrò nella camera e chiuse la porta, posò gli indumenti asciutti sul letto e si spogliò completamente. Poi aprì l'armadio, trovò una gruccia, vi appese il suo vestito, reggiseno e mutandine, e li portò in bagno perché non sgocciolassero sul pavimento di legno lucido. Provò un brivido di piacere al sentirsi lì, nuda, nella stanza dove lui dormiva. Non aveva bisogno di una doccia dopo tanta pioggia e mentre si asciugava le parve che la sua pelle fosse più morbida, quasi rinvigorita. Pensò a come la gente viveva un tempo. All'unisono con la natura. Come Noah. Si infilò gli indumenti di lui e si guardò allo specchio. I calzoni erano grandi per lei, ma rimediò infilando la camicia nella cintura e arrotolando i risvolti per accorciarli. La camicia tendeva a scivolarle giù dalle spalle, ma le stava benissimo anche così. Trovò un paio di calzini nel cassettone, se li infilò e tornò in bagno per spazzolarsi i capelli. Li ravviò con lunghi colpi decisi per lisciare i punti arruffati e li lasciò ricadere sulle spalle. Guardandosi allo specchio rimpianse di non aver portato con sé un nastro o un paio di forcine. E un po' di mascara. Ma chi l'avrebbe immaginato? Sulle sue ciglia era rimasta una traccia di trucco e Allie lo corresse con un fazzolettino di carta. Dopo un ultimo controllo allo specchio, si trovò carina nonostante tutto e tornò a pianterreno. Noah era nel soggiorno, accucciato davanti al camino mentre alimentava il fuoco appena acceso. Non la sentì arrivare e Allie lo osservò in silenzio. Si era cambiato anche lui e stava benissimo con la camicia ben tesa sulle spalle, i capelli che gli sfioravano il collo, i jeans attillati. Spostò un ceppo e aggiunse altri trucioli. Allie si appoggiò allo stipite della porta, incrociò una gamba sull'altra e continuò a guardarlo. Dopo pochi minuti le fiamme cominciarono a divampare allegramente. Noah si voltò per sistemare la legna non ancora usata e vide Allie con la coda dell'occhio. Si rialzò di scatto per ammirarla. Anche con quei larghi calzoni addosso era bellissima. Dopo un attimo distolse imbarazzato lo sguardo per occuparsi di nuovo della legna. «Non ti ho sentita arrivare», disse con tono forzatamente disinvolto. «Lo so. L'ho fatto apposta.» Sapeva ciò che Noah stava pensando e la intenerì quel suo atteggiamento da ragazzo. «Da quanto tempo sei lì?» «Un paio di minuti.» Noah si pulì le mani sui calzoni e indicò la cucina. «Posso portarti un tè? Ho messo l'acqua a bollire quando sei salita per cambiarti.» Frasi banali, per tenere la sua emozione sotto controllo; ma perdio, vedersela davanti così... Allie esitò un secondo, vide come lui la fissava e si abbandonò all'istinto. «Non hai qualcosa di più forte, o ti sembra troppo presto per bere?» Noah sorrise. «Devo avere del bourbon da qualche parte. Ti va?» «Perfetto. » Allie lo osservò mentre spariva oltre la soglia della cucina, passandosi le dita nei capelli umidi. Un tuono esplose fortissimo e la pioggia riprese violenta. Allie la sentiva scrosciare sul tetto, era quasi una musica di sottofondo per l'allegro scoppiettare della legna sul fuoco. Si voltò verso la finestra e vide il cielo nero lacerato da un lampo. Pochi istanti dopo un secondo tuono, vicinissimo. Prese una trapunta sul sofà e sedette sul tappeto davanti al camino a gambe incrociate, fissando le fiamme. Noah la trovò così quando rientrò dalla cucina. Sedette accanto a lei e versò il bourbon in due bicchieri. Fuori, l'oscurità aumentava. Il temporale aveva raggiunto l'apice della sua furia e il vento faceva vorticare la pioggia. «Una vera tempesta», disse Noah. Volse per un attimo lo sguardo verso i vetri delle finestre flagellati dall'acqua, poi lo posò di nuovo su Allie. Vide il suo petto sollevarsi leggermente a ogni respiro e lottò contro la tentazione di toccarla. «Mi sono sempre piaciuti i temporali», disse lei bevendo un sorso di bourbon, «anche quand'ero bambina. » «Come mai?» Doveva continuare a parlare. La conversazione lo aiutava a controllarsi. «Non lo so. Mi sembravano qualcosa di romantico.» Tacque per un momento, il riflesso delle fiamme brillava nei suoi occhi color smeraldo. Poi disse. «Ricordi il temporale che scoppiò poche sere prima che io partissi? Io e te seduti vicini...» «Certo che lo ricordo.» «Non ho mai smesso di pensarci quando sono tornata a casa. Ti rivedevo com'eri in quei momenti. Ti ho sempre ricordato così.» «Sono cambiato molto?» Allie bevve un altro sorso di bourbon che la riempì di calore. Sfiorò una mano di Noah e rispose: «No, in realtà no. Non nelle cose essenziali. Sei un po' più vecchio, naturalmente, con più esperienza alle tue spalle, ma c'è sempre la stessa luce nei tuoi occhi. Leggi ancora poesie e navighi sui fiumi. E hai in te quella gentilezza d'animo che nemmeno la guerra è riuscita a distruggere.» Noah rifletté su quanto lei aveva detto e avvertì la carezza della sua mano, il pollice che si muoveva in piccoli cerchi. «Allie, prima mi hai chiesto qual'era il mio ricordo più vivo di quell'estate. E il tuo, qual è?» «Ricordo quando abbiamo fatto l'amore. Eri il mio primo uomo, ed è stato più meraviglioso di quanto avrei mai potuto immaginare.» Noah bevve un sorso di bourbon, travolto dai ricordi, dalle antiche emozioni, e poi scrollò il capo. Tutto stava diventando troppo difficile. Allie continuò: «Rammento che tremavo per la paura, e al tempo stesso ero così eccitata. Sono felice che tu sia stato il primo. Sono felice di questa nostra esperienza comune». «Anch'io. » «Pure tu avevi paura?» Noah annuì in silenzio e Allie sorrise per quella confessione implicita. «Ne ero sicura. Sei sempre stato timido, specialmente agli inizi. Un giorno mi hai chiesto se avevo un ragazzo, e quando ti ho risposto di sì, non mi hai più parlato.» «Non volevo intromettermi tra voi due.» «Ma alla fine lo hai fatto lo stesso, nonostante le tue buone intenzioni. E ne sono stata felice.» Allie sorrideva. «Quando gli hai detto di noi?» «Dopo il mio ritorno a casa.» «É stato difficile?» «Nient'affatto. Ero troppo innamorata di te.» Allie fece scivolare una mano nell'incavo del suo braccio, lo avvolse con dolcezza, posò la testa sulla sua spalla. Mentre ricominciava a parlare Noah sentì il suo profumo, dolce e particolare come quello della pioggia. «Rammenti quando mi hai riaccompagnato a casa dopo la festa? Ti ho chiesto se volevi rivedermi e hai annuito senza dire una parola. Poco convincente.» «Non potevo farci nulla. Non avevo mai incontrato una ragazza come te, prima, e non sapevo che cosa dire.» «Lo so. Ma non sei mai riuscito a nascondere i tuoi pensieri. Ti si legge tutto negli occhi. Hai i più begli occhi che io abbia mai visto.» Si interruppe, rialzò il capo e lo fissò. Quando parlò, la sua voce era poco più di un sussurro. «Credo che in quella estate io ti abbia amato più di quanto abbia mai amato chiunque altro.» Ancora la luce accecante di un lampo. Nei brevi attimi che precedevano il tuono i loro occhi si incontrarono e cercarono di tornare indietro nel tempo, cancellando quei quattordici anni perché qualcosa di nuovo era accaduto il giorno prima. Quando il tuono finalmente esplose, Noah sospirò e si voltò guardando verso le finestre. «Vorrei che tu avessi letto le lettere che ti ho scritto», disse. Allie tacque per un lungo minuto. «Ho anch'io delle responsabilità», disse infine. «Non te l'ho mai detto, ma ti scrissi una dozzina di lettere quando tornai a Raleigh. Però non le ho mai spedite.» «Perché?» Noah era stupito. «Forse perché avevo troppa paura.» «Di che cosa?» « Che questo amore non fosse profondo come lo immaginavo. Che tu mi avessi dimenticato.» «Mai. Non avrei mai potuto dimenticarti.» «Adesso lo so. Lo leggo nei tuoi occhi. Ma allora era diverso. C'erano tante cose che non capivo, tante cose che una ragazzina non riesce a chiarire.» «E cioè?» Allie rifletté un attimo per riordinare le idee. «Quando vidi che le tue lettere non arrivavano, non sapevo che cosa pensare. Rammento che parlai con la mia migliore amica di quello che era accaduto tra noi durante l'estate, e lei mi disse che avevi già ottenuto quel che volevi e non c'era da meravigliarsi se non ti interessava scrivermi.» «Non volevo credere che tu fossi un uomo così, ma le parole dell'amica mi hanno costretta a riflettere su quanto eravamo diversi noi due, forse tu contavi per me molto più di quanto io contassi per te... E poi, mentre tutti questi dubbi mi rodevano, Sarah mi scrisse che te n'eri andato da New Bern. » «Fin e Sarah hanno sempre avuto il mio recapito a loro disposizione...» Allie lo bloccò con un gesto della mano. «Lo so, ma non gliel'ho mai chiesto. Presumevo che tu avessi lasciato New Bern per iniziare una nuova vita senza di me. Altrimenti, perché non avresti scritto? O telefonato? Potevi anche venire a Raleigh per rivedermi.» Noah distolse lo sguardo senza rispondere, e Allie continuò: «Non sapevo più nulla di te e col tempo il dolore si attutì, pensai che avrei potuto dimenticarti. Ma negli anni seguenti, ogni volta che incontravo un ragazzo cercavo in lui qualcosa di te, e quando la nostalgia diventava troppo forte ti scrivevo un'altra lettera. Non le ho mai spedite per evitare una delusione peggiore. Forse avrei scoperto che amavi un'altra donna, e io invece mi aggrappavo al ricordo di come eravamo quell'estate, non volevo assolutamente perderlo. » Pronunciò quelle parole con tanta dolcezza, con tanta innocenza, che Noah avrebbe voluto baciarla subito. Ma non lo fece. Lottò invece contro il desiderio, convinto che Allie volesse da lui qualcos'altro. Eppure era tanto affettuosa, e quella mano che lo toccava. . . «La mia ultima lettera è di un paio d'anni fa. Dopo aver conosciuto Lon, scrissi a tuo padre per sapere dov'eri. Ma era passato tanto tempo, non sapevo nemmeno se tuo papà vivesse ancora qui, e poi la guerra. . . » S'interruppe su quelle parole e tacquero entrambi, immersi nei propri pensieri. Poi, alla luce di un nuovo lampo, Noah ruppe il silenzio. «Vorrei che tu l'avessi spedita.» «Perché?» «Almeno per avere tue notizie. Per sapere che cosa era accaduto nella tua vita.» «Ne saresti stato deluso. La mia vita non ha nulla di eccitante. Inoltre, forse non sono più quella che tu ricordi.» «Sei molto meglio, Allie.» «Grazie per il complimento.» Noah non avrebbe voluto aggiungere altro, ben sapendo che solo sigillando le parole dentro di sé avrebbe potuto mantenere il controllo, lo stesso controllo esercitato per quattordici anni. Ma un'emozione nuova lo costrinse a cedere con la speranza che, in qualche modo, fosse possibile recuperare il miracolo di tanto tempo prima. «Non era un complimento. Ho detto quel che penso perché ti amo e ti ho sempre amata. Più di quanto tu immagini.» Il fuoco scoppiettò lanciando scintille verso la cappa del camino, ed entrambi fissarono i resti semicarbonizzati dei ceppi sulle braci roventi. Ci voleva altra legna, ma nessuno dei due si mosse. Allie bevve un po' di bourbon e cominciò a sentirne gli effetti. Ma non era soltanto l'alcol che la induceva a stringersi a Noah e al calore del suo corpo. Guardò verso le finestre, le nuvole erano sempre più nere. «Devo alimentare il fuoco», disse Noah, e Allie gli permise di alzarsi. Lui si avvicinò al camino, spostò lo schermo parascintille e gettò sulla brace due pezzi di legna, sistemandoli con l'attizzatoio perché bruciassero meglio. Le fiamme divamparono di nuovo e Noah tornò accanto ad Allie che si raggomitolò posandogli la testa sulla spalla, come prima, e accarezzandogli il petto con mano leggera, senza parlare. Noah si chinò per sussurrarle all'orecchio: «Mi sembra che siamo tornati indietro nel tempo, quando eravamo giovani». Allie sorrise poiché pensava la stessa cosa, e per qualche minuto fissarono il fuoco in silenzio, stretti l'uno all'altra. «Noah, tu non me l'hai mai chiesto, ma devo dirti una cosa.» «E sarebbe?» La sua voce era tenera. «Non c'è mai stato un altro uomo. Non solo tu sei stato il primo. Sei stato anche l'unico. Non mi aspetto che tu mi dica la stessa cosa, ma volevo tu lo sapessi. » Noah rimase in silenzio. Allie si godeva il calore del fuoco. Accarezzò i muscoli di lui sotto la camicia, solidi e compatti. Rammentò come si erano stretti così l'uno all'altra durante quello che pensavano fosse il loro ultimo incontro. Allora sedevano accanto a una diga che doveva imbrigliare le acque del fiume Neuse. Allie piangeva perché forse non si sarebbero mai più rivisti, e forse lei non sarebbe stata mai più felice. Anziché parlarle, Noah le fece scivolare in mano un biglietto che Allie lesse tornando a casa. L'aveva conservato, e di quando in quando lo rileggeva tutto o in parte. C'era un brano in particolare, il più toccante, che le riaffiorò alla memoria in quel momento. Diceva così: Questa separazione ci fa tanto male perché le nostre anime sono legate l'una all'altra. Forse lo sono sempre state e lo saranno sempre. Forse abbiamo vissuto mille vite prima di questa e in ciascuna ci siamo incontrati. E forse, ogni volta, siamo stati costretti a separarci per le stesse ragioni. Perciò questo è un addio che dura da diecimila anni e prelude a quelli a venire. Quando ti guardo, vedo la tua bellezza e la tua grazia e so che sono andate via via crescendo in ciascuna delle tue vite. So anche che in ciascuna delle mie vite sono andato alla tua ricerca. E cercavo proprio te, non qualcuna che ti somigli, perché la tua anima e la mia devono sempre riunirsi. E poi, per ragioni che nessuno di noi capisce, siamo costretti a dirci addio. Vorrei dirti che tutto andrà benissimo, e giuro che farò il possibile perché ciò accada. Ma se non ci incontrassimo più e questo fosse un vero addio, so che ci rivedremo in un'altra vita. Ci incontreremo di nuovo, e forse il volere delle stelle sarà cambiato e potremo amarci tanto da compensare tutte le separazioni precedenti. E se avesse ragione? si chiedeva Allie. Se fosse davvero così? Non aveva mai completamente cancellato quel sogno per aggrapparsi al giuramento di Noah semmai si fosse avverato. Quella speranza l'aveva aiutata a superare molti momenti duri. E ora, seduta accanto a lui, stava mettendo in dubbio la teoria che fossero sempre destinati a separarsi. A meno che il volere delle stelle non fosse già cambiato dopo il loro ultimo incontro. Forse era davvero così perché sentiva il calore diffondersi nei loro corpi mentre le braccia di Noah la stringevano sempre più forte, e il tremito che la scuoteva era lo stesso che aveva anticipato il loro primo amplesso. Tutto era perfetto. Il fuoco nel camino, il bourbon, il temporale non si poteva desiderare di più. Come per incanto, gli anni di separazione non contavano nulla. Un lampo lacerò il cielo, le fiamme danzavano diffondendo tepore, la pioggia d'ottobre batteva contro i vetri soffocando ogni altro suono. Crollò allora il muro di resistenza edificato nel corso di quattordici anni. Allie sollevò il capo dalla sua spalla, lo fissò con occhi annebbiati e Noah le posò un bacio leggero sulle labbra. Allie avvicinò la mano al volto di lui e gli accarezzò la guancia con la punta delle dita. Noah la baciò di nuovo, sempre con immensa tenerezza, e Allie lo ricambiò, mentre la lunga separazione si dissolveva nella passione. Allie socchiuse le labbra mentre Noah le accarezzava le braccia lentamente, con tocco leggero. Poi la baciò sul collo, sulle guance, sulle palpebre, lasciandovi la traccia umida della sua bocca. Allie gli prese una mano e la guidò verso i suoi seni, le sfuggì un gemito quando sentì il tocco di lui attraverso la stoffa. Poi, muovendosi come in un sogno, il viso illuminato dal riflesso delle fiamme, si staccò da lui e in silenzio cominciò a sbottonargli la camicia. Noah ascoltava ogni suo respiro mentre le sue dita scendevano sempre più in basso, gli sfioravano la pelle ogni volta che slacciavano un bottone. E quando la camicia fu completamente aperta le mani di Allie scivolarono dentro, con carezze leggere esplorarono il suo corpo, indugiarono sui peli del suo petto. Poi gli baciò il collo mentre faceva scivolare la camicia giù dalle spalle e rialzò il capo per consentire che lui la baciasse. Noah si liberò completamente della propria camicia, poi con un gesto sicuro sollevò la camicia di lei e dopo averle accarezzato dolcemente il ventre gliela sfilò facendole alzare le braccia. Allie si sentì mozzare il fiato quando Noah la baciò nell'incavo dei seni e fece correre lentamente la lingua fino al suo collo. Le mani di lui le accarezzavano la schiena, le spalle, le braccia e i loro corpi caldi si avvinghiarono, pelle contro pelle. Allie sollevò il bacino perché Noah le sfilasse i calzoni, e allungò la mano per aprire la lampo dei jeans di lui, che si liberò di quell'ultimo indumento. I loro corpi finalmente nudi si riavvicinarono piano, quasi muovendosi al rallentatore, e quando si unirono tremavano entrambi nel ricordo di ciò che era accaduto un tempo. La lingua di Noah indugiava sul suo collo mentre le mani di lui le accarezzavano il corpo, dai seni al ventre, e più sotto dell'ombelico e di nuovo verso l'alto. La bellezza di Allie lo ammaliava. I suoi capelli umidi attiravano i bagliori del fuoco e sembravano sprizzare scintille. La sua pelle era morbida e luminosa. Sentì le mani di lei premere sulla sua schiena, quasi per sollecitarlo. Giacevano accanto al camino e il calore addensava l'aria. Allie arcuò la schiena mentre Noah rotolava su di lei con un unico movimento fluido e le stringeva i fianchi tra le sue ginocchia. Lei sollevò il capo per baciargli il mento e il collo, respirando con affanno, poi leccò le sue spalle e il suo sudore salmastro, gli passò le mani nei capelli per attirarlo verso di sé, lottando contro la tensione dei suoi muscoli. Ma Noah opponeva resistenza. Si limitò ad abbassare il proprio petto su quello di lei, soffregandolo piano, ancora e ancora, poi baciò ogni parte del suo corpo mentre Allie vibrava di desiderio nell'attesa e si lasciava sfuggire brevi gemiti di piacere. Continuò così finché capì che Allie non avrebbe più retto, e quando finalmente si unirono lei lanciò un grido e gli affondò le dita nella schiena. Poi nascose il viso sulla sua spalla mentre lo sentiva penetrare a fondo dentro di lei, forte e gentile, carne e anima. Cominciò a muoversi ritmicamente lasciando che Noah la guidasse dove voleva, nel luogo tanto atteso e sognato. Poi aprì gli occhi e alla luce del fuoco contemplò la bellezza di quel corpo che si muoveva su di lei. Vide il sudore condensarsi sul suo petto in gocce di cristallo che a volte cadevano su di lei come la pioggia, là fuori. E a ogni goccia, a ogni respiro, Allie sentiva che ogni sua responsabilità, ogni sfumatura della sua vita scivolava via nel nulla. I loro corpi vibravano per l'interscambio di tutto ciò che ciascuno di loro prendeva e donava e Allie fu colmata dalla pienezza di una sensazione che non avrebbe mai creduta possibile, e sembrava prolungarsi all'infinito finché si spense lasciandola tremante tra le braccia di lui. Ma subito dopo qualcosa si risvegliò di nuovo, Allie fu sommersa da lunghe onde che si succedevano sempre più rapide. Quando la pioggia cessò e un pallido sole al tramonto apparve tra le nubi, il corpo di Allie era esausto, ma restio a concludere quel meraviglioso amplesso. Trascorsero le ore seguenti l'uno nelle braccia dell'altra, a volte facendo l'amore e a volte immobili, fissando le fiamme. Noah le recitò qualcuna delle sue poesie predilette e Allie lo ascoltava a occhi chiusi, quasi sfiorando ogni parola con la mente. Quando si sentivano pronti, e si univano di nuovo, Noah le sussurrava brevi frasi d'amore. Continuarono così per tutta la sera, recuperando il tempo perduto in tanti anni di separazione, e dormirono avvinghiati. Di quando in quando Noah si svegliava, contemplava il corpo di lei esausto e radioso, e aveva l'impressione di vivere in un mondo perfetto. Mentre la stava osservando così, alle prime luci dell'alba, Allie socchiuse gli occhi, sorrise e alzò una mano per accarezzargli il viso, ma Noah le pose un dito sulle labbra per impedirle di parlare e rimasero a lungo in silenzio. Quando il nodo che gli stringeva la gola finalmente si sciolse, Noah le sussurrò: «Sei l'esaudimento di ogni mia preghiera. Sei un sogno, una musica, e non so come mi sia stato possibile vivere tanto a lungo senza di te. Ti amo, Allie, più di quanto tu immagini. Ti ho sempre amato. Ti amerò sempre». «Oh, Noah», disse Allie attirandolo su di sé. Lo voleva, aveva bisogno di lui più che mai e più di qualunque cosa avesse mai desiderato. Tribunali. Più tardi, quella stessa mattina, tre uomini - due avvocati e un giudice - sedevano in una stanza e aspettavano che Lon finisse di parlare. Il giudice lasciò trascorrere un lungo minuto prima di rispondere. «É una richiesta inusuale», disse, meditando sulla situazione. «Mi sembra che il processo potrebbe concludersi oggi stesso. E lei afferma che questo suo impegno tanto urgente non può aspettare fino a stasera o domani?», «No, Vostro Onore. É impossibile.» Le parole quasi si accavallarono uscendogli di bocca troppo in fretta. Calma, disse Lon a se stesso, rilassati. Respira a fondo. «É un impegno che non ha nulla a che vedere con la causa in corso?» «No, Vostro Onore. Si tratta di una faccenda del tutto personale e devo occuparmene subito, anche se la cosa può sembrarle insolita.» Bene, molto meglio. Il giudice si appoggiò allo schienale della poltrona per riflettere. «Signor Bates, lei che ne pensa?» Bates si schiarì la voce. «Il signor Hammond mi ha telefonato stamattina e ho già conferito con i miei clienti. Sono disposti ad accettare un rinvio a lunedì.» «Capisco», disse il giudice, «e lei pensa così di agire nell'interesse dei suoi clienti?» «In effetti sì. Il signor Hammond ha accettato di riaprire il dibattito su un certo punto che non era stato preso in considerazione precedentemente.» Il giudice fissò su entrambi uno sguardo severo. «Non mi piace», disse infine, «non mi piace affatto. Ma il signor Hammond non ha mai avanzato richieste del genere prima d'ora e presumo che la faccenda sia davvero importante per lui.» Fece una pausa a effetto, poi consultò alcune carte sulla sua scrivania. «Accetto di aggiornare l'udienza a lunedì. Alle nove del mattino esatte.» «Grazie, Vostro Onore», disse Lon. Due minuti dopo usciva dal palazzo di giustizia. Salì sull'auto che aveva parcheggiato al di là della strada e partì per New Bern, stringendo il volante tra le mani tremanti. Una visita inaspettata. Noah preparò la prima colazione mentre Allie dormiva ancora nel soggiorno. Bacon, pane tostato e caffè, niente di spettacolare. Posò il vassoio accanto a lei al momento del suo risveglio, e subito dopo aver mangiato fecero l'amore di nuovo. Un amplesso violento, la conferma di quanto avevano sperimentato la sera prima. Allie arcuò la schiena e lanciò un grido nel momento finale del piacere, poi cinse Noah con le braccia e ricaddero ansimando, esausti. Fecero la doccia assieme e Allie indossò i suoi vestiti che si erano asciugati durante la notte. Diedero da mangiare a Clem e controllarono se le finestre fossero state danneggiate dal temporale. Fuori, due pini si erano spezzati e alcune tegole erano volate via dal capanno per gli attrezzi, ma nell'insieme la proprietà non aveva subito gravi conseguenze. Rimasero per quasi tutta la mattina con la mano nella mano, chiacchierando, ma a volte Noah si interrompeva e fissava Allie in silenzio. In quei momenti lei aveva l'impressione di dover dire qualcosa, ma nulla di importante le affiorava nella mente. Smarrita nelle sue emozioni, di solito si limitava a baciarlo. Poco prima di mezzogiorno andarono in cucina per preparare il pranzo. Erano affamati perché non avevano quasi mangiato il giorno precedente. Noah attinse alle sue provviste e cucinarono un pollo che divorarono sotto il portico, al canto di un tordo. Poi tornarono in casa e mentre stavano lavando i piatti udirono bussare alla porta. Noah lasciò Allie in cucina. Bussarono di nuovo. «Vengo», disse Noah. Toc toc. Più forte. Si avvicinò all'uscio. Toc, toc. «Eccomi», disse, e spalancò la porta. «Oh, mio Dio.» Noah fissò per un attimo quella bella signora sulla cinquantina, una donna che avrebbe riconosciuto ovunque. Non riusciva a parlare. «Salve, Noah», disse lei. E Noah sempre zitto. «Posso entrare?» Una voce ferma, che non lasciava trapelare nulla. Noah balbettò qualcosa e la donna gli passò davanti, fermandosi ai piedi delle scale. «Chi è?» gridò Allie dalla cucina, e la visitatrice si voltò al suono di quella voce. «É tua madre», rispose infine Noah, e non appena ebbe pronunciato quelle parole udì un rumore di vetri infranti. «Lo sapevo che ti avrei trovata qui», disse Anne Nelson a sua figlia mentre sedevano tutti e tre attorno al tavolino del soggiorno. «Come potevi esserne sicura?» «Sei mia figlia. Un giorno, quando avrai dei bambini anche tu, capirai.» Sorrideva, ma i suoi modi erano un po' rigidi e Noah immaginò quanto fosse difficile quella conversazione per lei. «Anch'io ho letto quell'articolo», continuò, «e ho visto la tua reazione e quanto tu fossi nervosa durante le due ultime settimane. Quando poi hai detto che volevi fare acquisti sulla costa, ho capito immediatamente dove volevi andare.» «E papà?» Anne Nelson scrollò il capo. «Non ho detto nulla a tuo padre né a chiunque altro. E nessuno sa che sono venuta qui.» Calò il silenzio mentre Noah e Allie si chiedevano che cosa stesse per accadere, ma Anne pareva aver esaurito i suoi argomenti. «Perché sei venuta?» chiese infine Allie. Sua madre inarcò un sopracciglio. «Penso che questa domanda dovrei porla io a te.» Allie impallidì. «Sono venuta perché dovevo venire», continuò Anne, «e sono sicura che tu sei tornata a New Bern per la stessa ragione. Non è vero?» Allie annuì. Anne si rivolse a Noah. «Questi due ultimi giorni devono essere stati pieni di sorprese.» «Sì», rispose lui con semplicità, e Anne gli sorrise. «So che non mi crederà, ma lei mi è sempre piaciuto, Noah. Però sono convinta che non sia l'uomo adatto per mia figlia. Riesce a capirmi?» Noah negò con un gesto del capo e rispose lentamente, quasi soppesando le parole: «No, non la capisco. É ingiusta nei miei confronti e nei confronti di Allie. Se non fosse così, Allie non sarebbe qui, adesso». La signora Nelson lo scrutò mentre parlava e Allie, intuendo l'eventualità di una discussione, intervenne: «Che cosa significa che dovevi venire? Non ti fidi di me?» Anne si rivolse a sua figlia. «La fiducia non c'entra. Si tratta di Lon. Ha telefonato ieri sera per parlarmi di Noah e adesso sta venendo qui. Sembrava sconvolto. Ho pensato che fosse bene avvertirti.» Ad Allie si mozzò il respiro. «Sta venendo qui?» «In questo preciso momento. É riuscito a rimandare alla settimana prossima l'ultima discussione in aula, e se non è ancora arrivato a New Bern, gli mancheranno solo pochi chilometri.» «Tu che cosa gli hai detto?» «Non molto. Ma lo sapeva. Aveva indovinato tutto. Ricordava che gli avevi parlato di Noah molto tempo fa.» Allie inghiottì a fatica. «Gli hai detto che ero qui?» «No, e non glielo dirò. Questa faccenda riguarda solo voi due. Ma poiché lo conosco, so che Lon ti troverà se non te ne andrai subito. Non ci vorrà molto, basteranno due o tre telefonate alle persone giuste. Ci sono riuscita anch'io.» Allie, nonostante la sua angoscia, sorrise a sua madre. «Grazie», le disse, e allungò una mano verso di lei. «So che abbiamo avuto dei contrasti, Allie, e non la pensiamo allo stesso modo su molte cose. Non sono perfetta, però ho fatto del mio meglio per educarti. Sono tua madre e lo sarò sempre. Ciò significa che ti vorrò sempre bene.» Allie tacque per un momento, poi chiese: «Che cosa devo fare?» «Non lo so, Allie. Dipende da te. Ma ci rifletterei sopra. Cerca di capire che cosa vuoi veramente.» Allie distolse il capo, con gli occhi arrossati, e poco dopo una lacrima le correva lungo la guancia. «Anch'io non lo so...» mormorò, mentre sua madre le stringeva affettuosamente una mano. Anne lanciò un'occhiata a Noah che sedeva ascoltandole a testa bassa, e Noah intuì il significato di quello sguardo, annuì e uscì dalla stanza. Quando le due donne rimasero sole, Anne sussurrò: «Lo ami?» «Sì», rispose Allie, sempre a bassa voce, «moltissimo.» «E non ami Lon?» «Amo anche lui, lo amo teneramente, ma in un modo diverso. Non provo per lui ciò che provo per Noah. » «Lo credo», disse la signora Nelson, e staccò la sua mano da quella di sua figlia. «Non posso decidere io al posto tuo, Allie. La responsabilità è tutta tua. Voglio però che tu sappia che ti voglio bene. Te ne vorrò sempre. Non è un grande aiuto, ma è il solo che ti possa offrire.» Prese dalla borsetta delle lettere legate assieme da un nastro, vecchie buste ingiallite. «Sono le lettere che ti scrisse Noah. Non le ho mai distrutte e non le ho mai aperte. Avrei dovuto consegnartele e mi dispiace di non averlo fatto. Pensavo di proteggerti e non mi resi conto...» Allie prese il piccolo pacco e ci posò sopra una mano, attonita. «É ora che me ne vada, Allie. Tu hai delle decisioni da prendere e ti rimane poco tempo. Vuoi che mi fermi in città?» Allie scrollò il capo. «No, devo cavarmela da sola.» Anne annuì e fissò sua figlia a lungo, perplessa. Infine si alzò, girò attorno al tavolo, si chinò e baciò Allie su una guancia. Le lesse una domanda negli occhi mentre Allie si alzava per abbracciarla. «Che cosa farai?» chiese sua madre, staccandosi da lei. Seguì una lunga pausa. «Non lo so», rispose infine Allie, e si fissarono per un altro minuto in silenzio. «Grazie per essere venuta», disse Allie. «Ti voglio bene. » «Anch'io ti voglio bene.» Mentre sua madre si dirigeva verso la porta, Allie credette di averla sentita mormorare «Obbedisci al tuo cuore», ma non poteva esserne sicura. Il bivio. Con un silenzioso gesto di cortesia, Noah tenne aperta la porta mentre Anne Nelson usciva. «Addio Noah», lei mormorò con voce incolore. Noah annuì senza parlare. Non c'era più nulla da dire e ambedue lo sapevano. Noah la seguì con lo sguardo mentre proseguiva dritta verso la sua auto, saliva e partiva senza mai voltarsi indietro. Una donna forte, e Noah capì da dove veniva il carattere di Allie. Tornò in casa e lanciò un'occhiata nel soggiorno, vide Allie seduta con la testa tra le mani e proseguì verso il portico perché immaginò che volesse restare sola. Si sistemò sulla poltrona a dondolo e guardò l'acqua del fiume che di minuto in minuto scivolava via. Dopo quella che gli parve un'eternità udì aprirsi l'uscio alle sue spalle ma non si voltò - per un'ignota ragione gli fu impossibile muoversi- e attese che Allie si sedesse accanto a lui. «Mi dispiace», disse Allie, «non avrei mai pensato che potesse accadere.» Noah scrollò il capo. «Non deve dispiacerti. In fondo lo sapevamo tutti e due che in un modo o nell'altro sarebbe accaduto.» «É tutto così difficile.» «Lo so.» Finalmente si voltò verso di lei e le strinse una mano. «Posso fare qualcosa per aiutarti?» Negò con un gesto del capo. «No. No, davvero. Devo agire da sola. E non sono nemmeno sicura di quel che dirò a Lon.» Abbassò lo sguardo e la sua voce si fece sussurrante e un po' lontana, come se stesse parlando tra sé. «Credo dipenda anche da lui, da quanto sa. Se mia mamma non si sbaglia, forse ha solo dei sospetti, ma nessuna certezza.» Noah sentì un nodo alla bocca dello stomaco. Quando finalmente riuscì a parlare, la sua voce era ferma, ma Allie vi colse un'intensa vibrazione di dolore. «Non gli dirai di noi, vero?» «Non lo so. Mentre ero di là, nel soggiorno, continuavo a chiedermi che cosa volessi veramente dalla vita.» Strinse la mano di lui. «E sai qual è stata la risposta? La risposta è stata che voglio due cose. Prima di tutto te. E noi due insieme. Ti amo e ti ho sempre amato.» Respirò a fondo prima di continuare. «Ma voglio anche un lieto fine che non procuri dolore a nessuno. E so che se rimango molte persone soffriranno. Soprattutto Lon. Non mentivo quando ti ho detto che lo amavo. Non come amo te, ma gli voglio bene e sarei sleale nei suoi confronti. E se non torno a casa, darò un grande dolore anche alla mia famiglia e ai miei amici. Tradirei tutti quelli che conosco... Non so se avrò la forza di farlo.» «Non puoi vivere la tua vita in funzione degli altri. Devi fare quel che conta per te, anche se ciò rischia di ferire le persone cui vuoi bene.» «Lo so», disse lei, «ma qualunque sia la mia scelta dovrò sopportarne le conseguenze per tutta la vita. Sarò costretta ad avanzare senza mai voltarmi indietro. Riesci a capirmi?» Noah negò con un cenno del capo e cercò di controllare la propria voce. «No. Se ciò significa perderti, non lo capisco. Questo miracolo non potrà ripetersi. » Allie chinò il capo senza dir nulla e Noah proseguì: «Saresti davvero capace di lasciarmi senza nemmeno voltarti?» Lei si morse il labbro prima di rispondere. La sua voce cominciava a incrinarsi. «Non lo so. Probabilmente no.» «E ti sembrerebbe un comportamento leale nei confronti di Lon?» Anziché rispondere subito Allie si alzò, si asciugò le lacrime dal viso e raggiunse l'estremità del portico appoggiandosi alla balaustra. Da lì contemplò l'acqua del fiume prima di mormorare: «No». «Le cose non possono andare così, Allie. Siamo adulti, adesso, e ci si offre un'opportunità di scelta che non avevamo allora. Siamo fatti per vivere assieme. L'abbiamo sempre saputo.» Si avvicinò a lei e le posò le mani sulle spalle. «Non posso trascorrere il resto della mia vita pensando a te e immaginando quanto avremmo potuto essere felici. Rimani con me, Allie.» «Non so se posso», balbettò lei, gli occhi ormai gonfi di lacrime. «Certo che puoi, Allie... La mia vita sarebbe distrutta se ti sapessi accanto a un altro. Uccideresti una parte di me. Tra di noi è nato qualcosa di unico, troppo meraviglioso per gettarlo via.» Allie non reagì. Dopo qualche minuto lui la voltò gentilmente verso di sé, le prese le mani tra le sue e cercò di indurla a guardarlo negli occhi. Alla fine lei rialzò il viso bagnato di pianto. In silenzio, Noah le asciugò le guance con la punta delle dita e la fissò con infinita tenerezza. La sua voce tremò quando lesse nello sguardo di Allie ciò che lei cercava di dirgli. «Tu non rimarrai con me, vero?» tentò di sorridere debolmente. «Vorresti rimanere, ma non puoi.» «Oh, Noah...» disse lei, mentre le lacrime ricominciavano a sgorgarle dagli occhi, «ti prego, cerca di capire...» Lui scrollò il capo per interromperla. «So che cosa stai cercando di dirmi, te lo leggo negli occhi. Ma non chiedermi di capire, Allie. Non voglio che finisca così, non voglio che finisca e basta. E se tu mi lasci, sappiamo tutti e due che non ci rivedremo mai più.» Si rannicchiò contro di lui e singhiozzò sempre più forte mentre Noah la cingeva con le braccia. «Allie, non posso costringerti a rimanere. Ma qualunque cosa accada poi nella mia vita, non dimenticherò mai questi due ultimi giorni trascorsi con te. Li sognavo da anni.» La baciò e l'abbracciò teneramente, come aveva fatto quando Allie era scesa dall'auto due giorni prima. Infine Allie si staccò da lui e si asciugò gli occhi. «Vado a prendere la mia roba», disse. Noah non la seguì. Rimase accasciato sulla poltrona a dondolo e la seguì con lo sguardo mentre entrava in casa, ascoltò l'eco dei suoi passi che si spegnevano nel nulla. Allie riapparve poco dopo con la sua borsa e si avvicinò a Noah a testa bassa. Gli porse lo schizzo che aveva disegnato il mattino precedente. «Questo è per te.» Noah notò che Allie aveva smesso di piangere. Prese il foglio tra le mani e lo srotolò con cautela, perché non si lacerasse. Vide due immagini che si sovrapponevano. Quella in primo piano, e che occupava la maggior parte del foglio, era un ritratto di Noah come appariva adesso, e non quattordici anni prima. Allie aveva riprodotto le sue fattezze nei minimi particolari, compresa la cicatrice. Come se avesse copiato da una fotografia recente. La seconda immagine era la facciata della casa e anche qui la cura dei dettagli era straordinaria, quasi Allie avesse disegnato dal vero, seduta sotto la grande quercia. «É splendido, Allie. Grazie.» Cercò di sorridere. «Ti ho detto che sei una grande artista.» Lei annuì a testa bassa, serrando le labbra. Era tempo di andare. Si avvicinarono lentamente alla macchina, senza parlare. Quando la raggiunsero Noah abbracciò di nuovo Allie finché sentì le lacrime gonfiargli gli occhi. La baciò sulle labbra e sulle guance, poi accarezzò con le dita i punti che aveva baciato. «Ti amo, Allie.» «Anch'io ti amo.» Noah aprì la portiera e dopo un ultimo bacio Allie scivolò al volante, senza mai staccare gli occhi da lui. Infilò nella borsa il pacco di lettere e girò le chiavi dell'accensione. Il motore si avviò ronzando quasi con impazienza. Bisognava partire. Noah chiuse la portiera spingendola con tutt'e due le mani e Allie abbassò il finestrino. Poteva vedere i muscoli delle sue braccia, il suo sorriso, il suo volto abbronzato. Allungò una mano e Noah la strinse per un attimo, accarezzandola coi polpastrelli. «Rimani», dissero le sue labbra senza emettere suoni, e quell'ultimo appello silenzioso ferì Allie più di qualsiasi cosa. Pianse in silenzio. E infine, con grande sforzo, distolse lo sguardo e strappò la sua mano da quella di lui. Innestò la marcia. Se non partiva ora, non sarebbe partita mai più. Noah arretrò di qualche passo mentre la macchina si metteva in moto. Non riusciva ad afferrare la realtà della situazione e gli parve di cadere in trance. Seguì con lo sguardo l'auto che ridiscendeva lungo il viale, udì lo scricchiolio della ghiaia sotto le ruote. Tra poco avrebbe imboccato la strada che portava in città. Allie se ne andava - se ne andava - e Noah sentì un velo calargli davanti agli occhi. Lontana... sempre più lontana... Allie lo salutò con un gesto della mano prima di accelerare e lui rispose con lo stesso gesto, debolmente. «Rimani», avrebbe voluto gridare, ma non disse nulla e pochi istanti dopo la macchina spariva. Tutto ciò che gli rimaneva di Allie erano le tracce dei pneumatici sul viale. Rimase a lungo immobile. Allie era arrivata e ripartita con la stessa rapidità. E ora non sarebbe mai più tornata. Mai più. Chiuse gli occhi per rivedere quell'ultima scena, la macchina che si allontanava e Allie che si portava via il suo cuore. Si rese conto, con tristezza, che, come sua madre, Allie non aveva più guardato indietro. Una lettera dal passato. Guidare con gli occhi velati dalle lacrime non era facile, ma Allie proseguì con la speranza che l'istinto la riportasse all'albergo. Teneva il finestrino abbassato affinché l'aria fresca l'aiutasse a chiarire le idee, ma non servì a nulla poiché nulla poteva aiutarla. Era stanca, forse non avrebbe avuto l'energia necessaria per parlare con Lon. E comunque, che cosa doveva dirgli? Non riusciva a immaginarlo e si augurava che le venisse qualche idea all'ultimo, prima di incontrarlo. Era indispensabile. Quando imboccò il ponte che portava a Front Street aveva recuperato un po' di controllo. Non molto, ma forse quanto bastava per affrontare Lon. Almeno lo sperava. Il traffico era leggero e Allie cercò di distrarsi osservando le persone a lei sconosciute che incrociava nelle strade di New Bern. A una stazione di servizio, un meccanico aveva sollevato il cofano di una macchina e scrutava all'interno mentre un uomo elegante, probabilmente il proprietario dell'auto, lo osservava impaziente. Due donne uscirono dall'emporio Hoffman-Lane spingendo dei passeggini e chiacchierando tra loro. Un uomo snello con una borsa portadocumenti passò rapidamente davanti alla vetrina del gioielliere Hearns. Allie svoltò in una strada semibloccata da un camioncino di alimentari. Il giovanotto che scaricava le casse, con il suo portamento e con i suoi gesti, le ricordò Noah alla pesca di granchi. Individuò l'albergo a poca distanza mentre era ferma a un semaforo rosso. Respirò a fondo quando scattò il verde e guidò lentamente fino al parcheggio. Vide subito la macchina di Lon, e sebbene ci fosse uno spazio libero proprio lì accanto, andò a fermarsi più lontano. Girò la chiave e spense il motore. Allungò una mano e aprì il cassetto del cruscotto. Trovò uno specchietto e una spazzola posati su una carta topografica del North Carolina. I suoi occhi erano ancora rossi e gonfi. Come il giorno prima, dopo la pioggia, mentre esaminava il riflesso del proprio volto rimpianse di non avere il necessario per il trucco a portata di mano, sebbene dubitasse di poter rimediare a quel disastro. Cercò di spazzolarsi i capelli all'indietro su un lato, poi sull'altro, e alla fine rinunciò. Prese dalla borsetta l'articolo che l'aveva condotta fin lì e lo rilesse ancora una volta. Sembrava impossibile che tante cose fossero accadute in sole tre settimane. Ed era difficile credere che solo due giorni prima lei fosse arrivata a New Bern. Forse una vita intera era trascorsa dopo la sua cena con Noah. Gli storni schiamazzavano sugli alberi vicini. Le nubi cominciavano a diradarsi e qua e là un lembo di azzurro si stagliava tra cumuli bianchi. Il sole non brillava ancora, ma Allie sapeva che era solo questione di tempo. Sarebbe stata una bella giornata. Una giornata che avrebbe voluto trascorrere con Noah, e mentre pensava a lui rammentò le lettere che sua madre le aveva consegnato e le ripescò dalla borsa. Sciolse il nodo del nastrino che legava il pacchetto e fu sul punto di aprire una busta, ma dal timbro postale si accorse che doveva essere la prima che Noah le aveva scritto, e senza dubbio il contenuto era molto semplice: notizie sulle sue attività, ricordi dell'estate, forse qualche domanda. Dopo tutto, Noah allora si aspettava una sua risposta. Scelse invece l'ultima lettera del pacco, che era anche l'ultima inviatale da Noah. La lettera d'addio. La interessava più di tutte le altre. Come si era espresso? E quali parole avrebbe usato lei nelle medesime circostanze? La busta era sottile, conteneva al massimo una o due pagine. Qualunque cosa avesse scritto, Noah si era limitato all'essenziale. Allie guardò il retro della busta. Non c'era nome, solo un indirizzo nel New Jersey. Trattenne il fiato mentre scollava la busta con la punta dell'unghia. Quando spiegò i fogli, vide una data del marzo 1935. Due anni e mezzo senza risposte. Immaginò Noah seduto alla sua vecchia scrivania, intento a scrivere con la certezza che quella fosse la fine, e le parve di vedere tracce di lacrime sul foglio. Ma probabilmente era solo una sua fantasia. Cominciò a leggere alla morbida luce del sole che entrava dal finestrino. Mia carissima Allie, non so più che altro dirti salvo il fatto che non ho potuto dormire stanotte perché so che è finita tra noi. Per me è una sensazione strana, che non avrei mai immaginato di provare, ma ripensandoci capisco che non poteva andare altrimenti. Tu e io siamo diversi, veniamo da mondi diversi, eppure tu mi hai insegnato che cosa significhi amare e dedicarsi interamente a un'altra persona. Ora io sono molto migliore di quanto fossi prima. Vorrei che tu non lo dimenticassi mai. Non sono amareggiato per quanto è accaduto. Anzi, mi conforta l'idea che tra noi c'è stato qualcosa di autentico, e sono felice che ci sia stato possibile stare insieme anche se per un così breve periodo di tempo. E se, in qualche luogo remoto e in un futuro lontano, potremo mai rivederci, ciascuno con una sua nuova vita, ti sorriderò con gioia e rammenterò l'estate trascorsa sotto gli alberi, l'estate in cui abbiamo costruito il nostro amore. E forse, per un breve attimo anche tu avrai la stessa sensazione e mi sorriderai e rivivrai i ricordi che abbiamo in comune. Ti amo, Allie Noah Allie lesse la lettera più lentamente una seconda volta, e infine una terza prima di richiuderla nella busta. Immaginò di nuovo Noah intento a scriverla e per un attimo fu tentata di aprire anche le altre buste, ma capì che non poteva indugiare oltre. Lon la stava aspettando. Scese dall'auto con le gambe molli, respirò a fondo, e mentre attraversava il parcheggio si rese conto che non sapeva ancora che cosa avrebbe detto. Trovò la risposta solo quando finalmente raggiunse la porta, l'aprì e vide Lon davanti a sé. Un inverno per due. La storia termina qui e io richiudo il taccuino, mi tolgo gli occhiali, mi asciugo gli occhi che sono stanchi e arrossati ma per il momento mi servono ancora. Non so per quanto tempo. Come me, non possono resistere in eterno. Ora la guardo, ma lei sta fissando la finestra e, più oltre, il cortile dove si riuniscono amici e parenti. Sposto i miei occhi nella direzione dei suoi e contempliamo la stessa scena. In tutti questi anni, il programma della giornata non è mai cambiato. Ogni mattina, un'ora dopo la prima colazione, cominciano ad arrivare. Adulti sulla quarantina o anche più giovani, soli o accompagnati dai famigliari, vengono a visitare chi vive qui. Portano doni e fotografie e si siedono sulle panche oppure passeggiano lentamente lungo i viali fiancheggiati d'alberi che dovrebbero ricordarci la libertà della natura. Alcuni si fermano per l'intera giornata ma altri, la maggioranza, se ne vanno dopo poche ore, e quando li vedo sciamare oltre i cancelli provo una sensazione di tristezza per coloro che restano. Mi chiedo se anche i miei amici provano la stessa cosa al momento del distacco dai loro cari, ma so che non sono affari miei. Non pongo mai domande perché ho imparato che ciascuno ha diritto ai propri segreti. Ma ben presto vi confiderò alcuni dei miei. Poso il taccuino e la lente di ingrandimento su un tavolino accanto a me, e di nuovo avverto quell'eterna sensazione di freddo nelle mie ossa dolenti. Persino il sole mattutino che ha accompagnato la mia lunga lettura non mi ha giovato. La cosa non mi sorprende perché ormai è il mio corpo che detta legge. Tuttavia non mi considero completamente sventurato. Le persone che lavorano qui conoscono bene me e le mie magagne e fanno il possibile per rendermi la vita più confortevole. Mi hanno lasciato del tè caldo sul tavolino e stringo la teiera tra le due mani. Riempire una tazza mi costa fatica, ma ho bisogno di quella bevanda che mi riscalda e penso che quel piccolo sforzo mi impedirà di arrugginire del tutto. Che io sia già arrugginito è fuori dubbio. Arrugginito come una vecchia automobile abbandonata da vent'anni alle intemperie. Le ho letto il mio taccuino questa mattina, come ogni mattina, perché è una cosa che devo fare. Non per obbligo - sebbene penso si possa disquisire su questo punto - ma per un motivo romantico. Vorrei spiegarlo subito con chiarezza, ma è difficile parlare di un argomento così delicato prima di pranzo, almeno per me. Non ho idea di come andrà a finire e, per esser sincero, preferisco non alimentare troppe speranze. Trascorriamo tutte le giornate insieme, adesso, ma di notte ci separiamo. I medici dicono che non mi è permesso vederla dopo il calar del sole, e sebbene io sia d'accordo con loro, a volte infrango le regole. Nel cuore della notte, se il mio stato d'animo me lo consente, esco di soppiatto dalla mia camera e raggiungo la sua e la guardo mentre dorme. Lei non si accorge di nulla. Io ascolto il suo respiro e so che, se non fosse stato per lei, non mi sarei mai sposato. E quando osservo il suo viso, un viso che conosco meglio del mio, so che anche per lei io ho contato altrettanto e forse più. E ciò assume un significato così intenso che mai riuscirò a spiegarlo. A volte, quando sono lì in piedi accanto al letto, penso al nostro matrimonio e mi dico che sono stato molto fortunato. Un matrimonio che dura da quasi quarantanove anni. L'anniversario cade il mese venturo. Durante i primi quarantacinque anni lei mi ha sentito russare, poi abbiamo dormito in camere separate. Senza di lei dormo male, mi giro e mi rigiro e rimpiango il calore del suo corpo e rimango lì a occhi aperti e fisso le ombre che danzano sul soffitto come ciuffi di rovi nel deserto. Se conquisto due ore di sonno posso dirmi fortunato e mi sveglio sempre prima dell'alba. Non riesco a capire perché. Ben presto sarà tutto finito. Io lo so. Lei no. Gli appunti sulle pagine del mio diario sono sempre più brevi e mi ci vuole poco tempo per scriverli. Annotazioni banali, perché ormai le mie giornate sono sempre le stesse. Ma stasera copierò una poesia che mi ha portato una delle infermiere pensando che mi piacesse. Dice così: Mai prima d'ora mi colpì amore così dolce e improvviso, come un bel fiore sbocciò il suo viso e senza scampo mi rubò il cuore. Poiché la sera possiamo disporre del nostro tempo, mi è stato chiesto di visitare anche altri pazienti. Di solito lo faccio perché le mie qualità di lettore sono apprezzate, o almeno così mi dicono. Percorro i corridoi e scelgo a caso una porta - sono troppo vecchio per stabilire un programma in anticipo ma in fondo riconosco per istinto chi ha davvero bisogno di me. Sono tutti miei amici e quando entro vedo delle camere uguali alla mia, immerse in una semioscurità dove brillano solo le luci della Ruota della Fortuna e i denti smaglianti della conduttrice. L'arredamento è sempre lo stesso e la TV urla perché siamo tutti duri d'orecchio. Uomini o donne, mi sorridono tutti quando entro, e spengono l'audio per parlare sussurrando. «Sono felice che tu sia venuto», dicono, e poi mi chiedono notizie di mia moglie. A volte rispondo. Vorrei parlare della sua dolcezza e del suo fascino, e di come mi insegnò a vedere il mondo come un luogo bellissimo. Oppure potrei descrivere i nostri primi anni trascorsi assieme e spiegare la sensazione di pienezza che ci colmava quando ci stringevamo l'una all'altro sotto il cielo meridionale lucente di stelle. In certe occasioni speciali narro sussurrando le nostre avventure comuni, le mostre d'arte a New York o a Parigi e i commenti dei critici scritti in lingue a me ignote. Ma per lo più mi limito a sorridere e dico che le sue condizioni sono stazionarie e loro distolgono lo sguardo perché non vogliono che io veda i loro volti. Quel termine, condizioni stazionarie, li fa pensare alla loro mortalità. Allora comincio a leggere per placare le loro paure. Rassicurati, io ti sono accanto... e finché il sole non ti esclude nemmeno io ti escluderò e finché l'acqua brillerà per te e per te frusceranno le foglie anche le mie parole per te brilleranno frusciando. E ancora leggo, perché sappiano chi sono io: Inseguo nella notte la mia visione... chinandomi con gli occhi aperti sugli occhi chiusi dei dormienti, vagolando confuso, smarrito, inconcludente e contraddittorio, esito, scruto e mi fermo. Se lo potesse, mia moglie mi accompagnerebbe in queste mie escursioni serali perché una delle sue molte passioni fu la poesia. Thomas, Whitman, Eliot, Shakespeare e il re Davide dei Salmi. Maghi delle parole, artefici del linguaggio. Se ripenso al passato, mi meraviglio di questa mia infatuazione e a volte la rimpiango. Perché la poesia porta bellezza alla vita, ma anche profonda tristezza, e non sono sicuro che il bilancio sia favorevole per un uomo della mia età. Un uomo così dovrebbe godere delle piccole cose e trascorrere i suoi ultimi giorni al sole. Io trascorrerò i miei leggendo alla luce di una lampada. Attraverso la camera strascicando i piedi e mi siedo accanto al suo letto. Mi duole la schiena. Devo procurarmi un cuscino nuovo per questa sedia, ci ho già pensato un centinaio di volte. Allungo la mano per stringere quella di lei, ossuta e fragile. É una sensazione così dolce. Reagisce con una piccola contrazione e poi a poco a poco le sue dita cominciano ad accarezzarmi piano. Non parlo finché lo fa, l'ho imparato con l'esperienza. Il più delle volte siedo in silenzio fino al calar del sole e non riesco a sapere nulla di lei. Oggi è un giorno diverso. Dopo lunghi minuti si volta verso di me. Sta piangendo. Le sorrido, prendo un fazzoletto dalla tasca e asciugo le sue lacrime. Lei mi guarda e mi chiedo a che cosa stia pensando. «Era una bellissima storia.» Una pioggia leggera ha cominciato a cadere e piccole gocce battono contro i vetri della finestra. Le accarezzo di nuovo la mano. Questo sarà un bel giorno. Un giorno stupendo. Un giorno magico. Sorrido, non posso farne a meno. «Sì, è vero», dico. «L'hai scritta tu?» chiede. La sua voce è un sussurro, come una brezza che scivoli tra le foglie. «Sì», rispondo. Si volta verso il tavolino da notte. Le sue medicine stanno in un vassoietto. Le mie pure. Pillole colorate, un arcobaleno che ci aiuta a non dimenticare quali dobbiamo prendere. Adesso portano anche le mie in camera sua, ignorando le regole. «L'ho già sentita, vero?» «Sì», dico di nuovo, come faccio sempre nei giorni come questo. Ho imparato a essere paziente. Lei scruta il mio volto, i suoi occhi verdi come le onde dell'oceano. «Quando l'ascolto ho meno paura.» «Lo so», annuisco, muovendo appena il capo. Distoglie lo sguardo e aspetto. Abbandona la mia mano e prende il bicchiere d'acqua che sta sul tavolino da notte accanto alle medicine. Beve un sorso. «É una storia vera?» Si è rizzata sui guanciali per bere meglio. Il suo corpo è ancora forte. «Voglio dire, tu conosci quelle persone?» «Sì.» Potrei dire qualcosa di più, ma di solito non lo faccio. Lei è sempre bellissima. Mi fa una domanda ovvia: «Ebbene, chi ha sposato alla fine?» Rispondo: «L'uomo giusto per lei». «E qual era dei due?» Sorrido. «Lo saprai prima di sera», mormoro, «lo saprai. » La risposta non la convince ma non insiste. Leggo la perplessità sul suo viso, sta pensando a come pormi un'altra domanda e non trova il modo giusto, preferisce accantonare il problema per il momento e allunga la mano verso uno dei minuscoli bicchierini di carta che contengono le pillole. «É il mio?» «No, il tuo è questo.» Lo spingo verso di lei perché non posso afferrarlo con le dita. Lei lo prende e guarda le pillole. Sono sicuro che non ha idea di che cosa siano. Usando entrambe le mani prendo il mio bicchierino e mi lascio cadere le pillole in bocca. Lei fa lo stesso. Oggi non oppone resistenza, grazie al cielo. Alzo il bicchierino in una sorta di brindisi scherzoso e mi sciacquo via dalla bocca quel sapore metallico con un sorso di tè ormai tiepido. Lei ingoia le sue pillole con l'acqua. Un uccello comincia a cantare, fuori, e tutti e due voltiamo il capo verso la finestra. Restiamo li tranquilli, godendoci un momento bellissimo. Poi il canto si spegne e lei sospira. «Devo chiederti un'altra cosa», dice. «Qualunque cosa sia, cercherò di risponderti con tutta sincerità.» «É difficile, però.» Non guarda verso di me e non riesco a vedere i suoi occhi. É li che nasconde i suoi pensieri. Certe cose non sono cambiate. «Fai con calma», le dico. Già so che cosa mi chiederà. «Non voglio offenderti perché sei stato sempre tanto gentile con me, ma...» Aspetto. Le sue parole mi feriranno. Mi lacereranno il cuore lasciandovi una cicatrice. «Chi sei tu?» Viviamo nella Casa di Cura di Creekside da ormai tre anni. Ha deciso lei di venire qui, sia perché non siamo troppo lontani da New Bern, sia perché pensava di facilitarmi le cose. Abbiamo affittato la nostra casa perché nessuno di noi aveva il coraggio di venderla. Dopo aver firmato alcune carte, abbiamo ottenuto un posto dove vivere rinunciando a parte della libertà costruita durante un'intera esistenza. Aveva ragione, naturalmente. Non sarei mai riuscito a lottare da solo contro la malattia che ha travolto entrambi. Siamo agli ultimi minuti del giorno delle nostre vite e il ticchettio dell'orologio li scandisce in maniera sempre più forte. Mi chiedo se sono il solo, a sentirlo. Un dolore sordo mi trafigge le dita e mi ricorda che non abbiamo più intrecciato le mani da quando siamo qui. É una cosa che mi rattrista, ma la colpa è mia. Soffro della peggior forma di artrite reumatoide e in uno stadio avanzato. Le mie mani sono deformate e grottesche a vedersi, e pulsano sempre dolorosamente quando sono sveglio. Quando le guardo vorrei liberarmene, amputarle, ma allora non potrei più fare il poco che faccio. Le uso come artigli, così le chiamo, e ogni giorno prendo una sua mano nella mia nonostante la sofferenza, perché so che lei desidera che lo faccia. La Bibbia dice che l'uomo può vivere fino a centoventi anni ma io non me lo auguro, e il mio corpo non mi asseconderebbe anche se lo desiderassi. Si sta disfacendo, questo corpo, muore un pezzo per volta, cede all'erosione che dall'interno mi distrugge. Le mie mani non mi servono più, i miei reni funzionano male e il mio cuore si indebolisce costantemente, un mese dopo l'altro. Peggio ancora, ho di nuovo un cancro, questa volta alla prostata. É il mio terzo incontro col nemico invisibile che probabilmente mi ucciderà, ma solo quando glielo consentirò. I medici si preoccupano per me, io no. Non ho tempo per angosciarmi in questo crepuscolo della mia vita. Dei nostri cinque figli, quattro vivono ancora e sebbene le visite siano dolorose per loro vengono spesso a trovarci e gliene sono grato. Ma anche quando sono lontani, ciascuno di loro è presente nella mia mente e porta con sé i sorrisi e le lacrime che accompagnano l'esistenza di una famiglia. Ho appeso una dozzina di ritratti alle pareti della mia camera. Sono la mia eredità, il mio contributo al mondo. Ne vado fiero. A volte mi chiedo che cosa ne pensa mia moglie quando sogna, o se non ci pensa affatto, anche quando sogna. Ci sono molte cose di lei che non capisco più. «Mi chiamo Duke», le dico. John Wayne è sempre stato il mio attore preferito. «Duke», sussurra tra sé. «Duke.» Ci pensa per un momento, la fronte aggrottata, gli occhi seri. «Si», dico, «sono qui per te.» E lo sarò sempre, penso tra me. La mia risposta la fa arrossire. Dai suoi occhi improvvisamente umidi e infiammati cominciano a sgorgare le lacrime. Mi si spezza il cuore e per la millesima volta mi chiedo se ci sia un modo per aiutarla, Lei dice: «Mi dispiace. Non capisco nulla di quello che mi sta capitando. E anche tu. Quando ti ascolto ho l'impressione che dovrei conoscerti, ma non ti conosco. Non so nemmeno più qual è il mio nome». Si asciuga gli occhi e continua: «Aiutami, Duke. Aiutami a ricordare chi sono. O almeno chi ero. Mi sento così smarrita». La risposta mi sale dal cuore, ma le mento sul suo nome, come sul mio. Ho le mie buone ragioni. «Tu sei Hannah, amante della vita, una vera forza per chi ha goduto della tua amicizia. Sei un sogno, una dispensatrice di felicità, un'artista che ha commosso centinaia di cuori. La tua esistenza è stata colma di soddisfazioni perché le tue necessità sono spirituali e ti basta guardare in te stessa. Sei generosa e leale e riesci a vedere la bellezza anche là dove gli altri non la notano. Hai saputo impartire meravigliose lezioni e hai sempre sognato cose migliori.» Mi fermo per riprender fiato, poi aggiungo: «Hannah, non devi sentirti smarrita perché: Nulla è smarrito, né lo sarà mai non la nascita, l'identità, la forma, nessun oggetto al mondo, non la vita, la forza e le cose visibili... il corpo pigro e vecchio e freddo - brace rimasta di un antico fuoco, Riflette per qualche minuto su ciò che ho detto.» Guardo verso la finestra e vedo che non piove più, la luce del sole sta filtrando nella stanza. Lei chiede: «L'hai scritta tu?» «No, Walt Whitman.» «Chi è?» «Un mago delle parole che danno forma ai pensieri. » Non risponde subito, ma mi fissa a lungo finché respiriamo all'unisono. Dentro. Fuori. Dentro. Fuori. Respiri profondi. Mi chiedo se lei sa che la vedo così bella. «Resterai ancora un po' con me?» chiede infine. Annuisco sorridendo. Mi sorride a sua volta. Prende una mia mano, con dolcezza, e la posa sulla sua vita. Fissa i nodi che deformano le mie dita e li accarezza piano. Il suo tocco è come quello di un angelo. «Vieni», dico mentre mi alzo con un grande sforzo, «andiamo a fare una passeggiata. L'aria è limpida e frizzante. E una bellissima giornata.» La fisso mentre pronuncio quelle parole e la vedo arrossire. Mi sento di nuovo giovane. Diventò famosa, naturalmente. Qualcuno la definì la più grande pittrice del Sud del ventesimo secolo e io ero, e sono, fiero di lei. Al contrario di me, che faticavo tanto per scrivere anche i versi più semplici, mia moglie sapeva creare la bellezza con la stessa facilità con cui Dio creò il mondo. I suoi dipinti sono esposti nei musei in vari Paesi, ma io ne ho conservati solo due per me. Il primo e l'ultimo che mi donò. Sono appesi nella mia camera, a volte di notte siedo sul letto, li contemplo e spesso piango, non so bene perché. Così passarono gli anni. Trascorremmo le nostre vite lavorando, dipingendo, allevando i bambini, amandoci tanto. Vedo fotografie delle feste di Natale, viaggi di tutta la famiglia, feste di laurea e feste di nozze. Vedo i volti lieti dei nipotini. E vedo fotografie di noi due, con i capelli sempre più bianchi e il volto sempre più segnato dalle rughe. Un'esistenza normale, come tante altre. Non potevamo prevedere il futuro, e chi lo può. Non mi aspettavo di trascorrere così i miei ultimi anni, ma che cosa mi aspettavo? Il pensionamento. Visite ai nipotini, forse altri viaggi. Le è sempre piaciuto viaggiare. Forse mi sarei trovato un hobby, magari la costruzioni di navi nelle bottiglie. Un lavoro di infinita precisione ormai impossibile con le mie mani. Ma non provo amarezza. Non dobbiamo valutare le nostre vite sulla base di questi ultimi anni, ne sono sicuro. E avrei potuto prevedere con maggiore anticipo ciò che stava per capitarci. Col senno di poi la cosa sembra ovvia, ma sulle prime pensai che le sue smemoratezze fossero comprensibili e nient'affatto eccezionali. Dimenticava dove aveva messo le chiavi, ma capita a tutti. Dimenticava il nome di qualche conoscente, ma non degli amici e delle persone a noi più vicine. A volte sbagliava la data sugli assegni, ma non vi davo peso, semplici errori che si commettono quando si pensa ad altro. Fu solo quando si manifestarono episodi più allarmanti che cominciai a sospettare il peggio. Un ferro da stiro nel freezer, la biancheria nella lavapiatti, dei libri nel forno. Il giorno in cui la trovai nella sua auto a tre isolati di distanza, china in singhiozzi sul volante perché non trovava la via di casa, mi spaventai davvero. E si spaventò anche lei perché quando bussai al finestrino si voltò e disse: «O Dio, che cosa mi succede? Per favore aiutami». Mi si annodò lo stomaco ma non osai pensare al peggio. La settimana seguente il nostro medico la sottopose a una serie di esami. Non ci capivo nulla e non ci capisco nulla nemmeno adesso, probabilmente perché non voglio capire. Poi il dottor Barnwell la visitò a lungo e le disse di ritornare il giorno seguente. La accompagnai. Fu l'attesa più lunga della mia vita. Sfogliai giornali senza leggerli e cercai di risolvere quiz che non mi interessavano. Alla fine il medico fece entrare anche me nel suo studio e mi invitò a sedere posandomi una mano rassicurante sulla spalla. Ma rammento chiaramente che tremavo. «Mi spiace dovervelo dire», cominciò Barnwell, «ma sembra che la signora sia al primo stadio dell'Alzheimer. .. » Il mio cervello si svuotò di colpo e riuscivo solo a vedere la luce della lampada sopra le nostre teste, mentre rimbombava l'eco di quelle parole: il primo stadio dell'Alzheimer. É una malattia desolata, vuota e arida come il deserto. Un ladro di cuori e di anime e di memorie. Non sapevo che dirle mentre lei singhiozzava sul mio petto e la strinsi a me cullandola. Il medico ci fissava angosciato. Era dura per lui, una brava persona, più giovane del mio figlio minore, e davanti a lui sentii il peso della mia età. La mia mente era annebbiata, la mia amata tremava, e l'unica cosa cui riuscii a pensare fu: Nessun uomo annegando saprà mai quale goccia d'acqua porrà fine al suo ultimo respiro. Parole di un poeta saggio che però non mi diedero conforto. Non so quale significato avessero per me in quel momento. Continuai a cullare Allie, il mio sogno, la mia bellezza senza fine, le chiesi di perdonarmi, anche se non c'era nulla da perdonare, le sussurrai in un orecchio: «Andrà tutto bene», ma avevo paura. Ero un uomo svuotato dentro come un vecchio tronco e non avevo nulla da offrire. Ricordo solo frammenti delle lunghe spiegazioni del dottor Barnwell: «É una degenerazione dei tessuti cerebrali che colpisce la memoria e la personalità... non esistono cure o terapie... non c'è modo di prevedere se il processo sarà rapido o lento... dipende da persona a persona... vorrei saperne di più... certi giorni saranno migliori di altri... il peggioramento si accentua con il passare del tempo... sono desolato che tocchi a me dirvelo...» Sono desolato... Sono desolato... Sono desolato... Tutti erano desolati. I miei figli avevano il cuore spezzato, i miei amici vedevano sorgere davanti a sé lo spettro di una condanna identica. Non ricordo di essere uscito dallo studio del dottore, non ricordo di aver guidato fino a casa. La mia memoria di quel giorno è cancellata, e su questo punto tra me e Allie non c'è differenza. Sono passati quattro anni. Da allora abbiamo cercato di affrontare la malattia nel miglior modo possibile. Allie si è organizzata, come vuole il suo temperamento. Ha dato disposizioni per lasciare la casa e trasferirsi qui. Ha riscritto il suo testamento e l'ha sigillato. Ha espresso le sue volontà per i funerali su un foglio che giace nell'ultimo cassetto della mia scrivania e che non ho mai letto. E infine ha cominciato a scrivere. Lettere ai suoi amici e ai suoi figli. Lettere ai suoi fratelli e sorelle e cugini. Lettere ai nipoti e ai vicini di casa. E una lettera a me. La rileggo a volte quando sono nello stato d'animo giusto e allora mi ricordo di Allie nelle fredde sere d'inverno, seduta davanti al fuoco scoppiettante e con un bicchiere di vino accanto, immersa nella lettura delle lettere che io le ho scritto nel corso degli anni. Le ha sempre conservate e ora ha pregato me di fare altrettanto perché avrei saputo come usarle. Aveva ragione. Mi piace rileggerne dei brani, e mi stimolano, quelle lettere, poiché mentre i miei occhi scorrono sulle loro pagine mi rendo conto che la passione romantica può manifestarsi a qualsiasi età. Quando vedo Allie, ora, penso di non averla mai amata con tanta intensità, ma rileggendo le lettere capisco che è sempre stato così. Mi sono dedicato a questa lettura nelle ultime tre sere, a notte fonda, quando avrei dovuto dormire da un pezzo. Erano quasi le due quando presi dalla scrivania un pacco di buste ingiallite dal tempo. Slegai il nastrino, anch'esso vecchio di cinquant'anni, e trovai le lettere che la madre di Allie aveva nascosto tanto tempo fa. E accanto a esse molte altre. Una vita di lettere che gridavano il mio amore, che partivano dal mio cuore. Le sfogliai cogliendo una frase qua e là, e infine scelsi la lettera del nostro primo anniversario. Ne leggo un estratto: Mentre ti osservo in questi giorni - ti muovi lentamente con una vita che cresce dentro di te- spero che tu sappia quanta importanza tu abbia per me, e come è stato speciale questo anno. Mi sento il più fortunato degli uomini e ti amo con tutto il cuore. Depongo il foglio, frugo nel mucchio, trovo un'altra lettera che risale a una fredda sera di trentanove anni prima. Seduto accanto a te, mentre la nostra bambina più piccola cantava stonando nel coro di Natale, ti guardavo e vedevo l'orgoglio materno che nasce solo da una grande profondità di sentimenti. Per me tu sei una vera benedizione. E dopo la morte di nostro figlio, quello che somigliava a sua madre... fu il periodo più duro che dovemmo affrontare e leggo parole che ancora oggi suonano strazianti: Nel tempo del dolore ti stringo a me e ti cullo e faccio mia la tua pena. Piango quando tu piangi e mi ribello quando ti ribelli. Insieme cerchiamo di arginare i fiumi di lacrime e le onde di disperazione per proseguire insieme nella strada accidentata della vita. Mi interrompo per pensare al bambino. Aveva quattro anni appena e io ho vissuto venti volte più di lui, ma se me l'avessero chiesto, sarei voluto morire al posto suo. Sopravvivere a uno dei propri figli è una cosa terribile, una tragedia che non auguro a nessuno. Mi sforzo di trattenere le lacrime, sfoglio altre lettere per distrarre la mia mente, e trovo quella scritta in occasione del nostro secondo anniversario, propiziatrice di più dolci memorie: Tesoro, quando ti vedo al mattino prima di fare la doccia, o nel tuo studio con le mani macchiate di pittura e i capelli arruffati e gli occhi stanchi, so che sei la donna più bella del mondo. Continuava così, questa corrispondenza di vita e d'amore, con pagine a volte tristi ma per lo più confortanti e piene di calore. Alle tre, esausto, ero arrivato all'ultima lettera della pila, l'ultima che le avevo scritto, e sapevo che avrei dovuto continuare. Sfilai dalla busta due fogli, presi il primo e lo sistemai sotto il fascio di luce della lampada per leggerlo meglio: Carissima Allie, nel portico silenzioso giungono solo vaghi suoni che emergono dalle ombre, e per la prima volta non ho più parole per esprimermi. É una strana esperienza per me, poiché quando penso a te e alla nostra vita in comune ho tante cose da ricordare, nella mia memoria si affollano mille episodi, ma non so se sarò capace di ricatturarli. Non sono un poeta, purtroppo, mentre solo con una poesia riuscirei a dirti che cosa provo per te. Allora la mia mente divaga, si riaggancia al presente, a questa mattina quando preparavo il caffè in cucina. C'erano Kate e Jane che tacquero quando mi videro entrare. Vidi che avevano pianto, mi sedetti accanto a loro in silenzio e strinsi le loro mani. E sai che cosa vidi guardandole? Vidi te com'eri tanto tempo fa, il giorno del nostro addio. Le ragazze somigliavano a te in quel momento, bellissima e sensibile e ferita dalla pena che ci coglie quando perdiamo qualcosa di molto caro. E per una ragione che non saprei definire provai l'impulso di raccontare loro una storia. Chiamai Jeff e David, poiché anche loro sono qui in casa, e quando furono tutti e quattro attorno al tavolo cominciai a parlare. Raccontai come tu eri tornata da me tanto tempo fa. Descrissi la nostra passeggiata, e la cena con i granchi, e loro ascoltavano, sorridendo della gita in canoa e della serata trascorsa davanti al camino acceso col temporale che imperversava fuori. La visita di tua madre, giunta ad avvertirci dell'arrivo di Lon, li sorprese come aveva sorpreso noi allora - e sì, cara, narrai anche ciò che accadde quello stesso giorno, quando tu tornasti in città. Questa parte della storia è sempre viva nel mio ricordo, anche se tanto tempo è passato. Sebbene io non fossi presente, e tu mi abbia descritto la scena una sola volta, non cesso di stupirmi per la forza di cui hai dato prova quel giorno. Non riesco a immaginare che cosa avevi in mente quando sei entrata nell'albergo e hai visto Lon, e nemmeno il tuo stato d'animo durante la vostra conversazione. Mi hai detto che lasciaste l'albergo per sedervi su una panchina presso la vecchia chiesa metodista e che lui ti stringeva la mano, anche se già gli avevi spiegato che saresti rimasta con me. So che gli volevi bene, e la sua reazione dimostra che te ne voleva anche lui, sebbene non potesse accettare di perderti. E come avrebbe potuto? Persino mentre gli dicevi che mi avevi sempre amato e volevi comportarti lealmente, lui continuava a stringerti la mano. Era ferito e furibondo, e per quasi un'ora cercò di farti cambiar parere, ma quando ti alzasti per dirgli con voce ferma: «Non posso tornare da te, perdonami», capì che avevi presa la tua decisione. Mi hai detto che si limitò ad annuire e rimaneste a lungo seduti l'uno accanto all'altra senza parlare. Mi sono sempre chiesto che cosa provasse Lon in quei momenti, e sono sicuro che soffriva come avevo sofferto io poche ore prima. E quando finalmente ti accompagnò alla macchina, ti disse che io ero un uomo fortunato. Si comportò come un vero signore, e capii perché la tua scelta era stata difficile. Quando terminai il mio racconto, nella stanza regnò un lungo silenzio finché Kate si alzò e mi abbracciò. «Oh, papà», disse con le lacrime agli occhi, e sebbene mi aspettassi di rispondere alle loro domande, nessuno me le pose. Mi offrirono invece qualcosa di molto speciale. Nelle quattro ore seguenti, mi hanno spiegato quanto siamo stati importanti noi due perché li abbiamo aiutati a crescere nel modo migliore. Ciascuno di loro ha rievocato episodi che aveva dimenticato da tempo e alla fine io piangevo perché mi rendevo conto che tu e io siamo stati davvero dei bravi genitori. Sono fiero dei miei figli, fiero di te, e felice per la vita che abbiamo vissuto. Nulla riuscirà a sottrarcela. Mai. Rimpiango solo che tu non fossi lì con noi a condividere le nostre emozioni. Ora se ne sono andati e io mi dondolo in silenzio sotto il portico, ripercorrendo gli anni trascorsi assieme. Non so che cosa sarebbe accaduto se tu non fossi tornata da me quel giorno, ma ho la certezza che sarei vissuto e morto con dei rimpianti che grazie al cielo ignorerò per sempre. Ti amo, Allie, perché grazie a te sono l'uomo che sono. In te si concentrano tutte le mie ragioni di vita, tutte le mie speranze, tutti i miei sogni, e qualunque cosa ci accada in futuro, ogni giorno trascorso assieme sarà il più bello della mia esistenza. Io sarò tuo per sempre. E tu, tesoro, sarai sempre mia. Noah Ricordo che anche Allie sedeva sotto al portico accanto a me quando lesse questa lettera per la prima volta. Era il tardo pomeriggio, nubi rosa si sfrangiavano nel cielo estivo mentre moriva la luce del giorno. Seguivo con lo sguardo l'evolversi del tramonto con i suoi mille colori cangianti, e pensavo al breve, decisivo momento in cui il giorno cede improvvisamente alla notte. Il crepuscolo, pensai allora, è solo un'illusione, perché il sole è sempre o sopra o sotto la linea dell'orizzonte. Ciò significa che il giorno e la notte sono legati come poche altre cose al mondo, non possono esistere l'uno senza l'altro e tuttavia non possono esistere insieme. Come ci si può sentire, pensai, quando si è sempre uniti e sempre divisi? Ripensandoci, mi sembra ironico il fatto che Allie decidesse di leggere la lettera proprio mentre quel pensiero mi passava per la mente. Ho detto ironico perché adesso conosco la risposta. So che cosa significhi l'alternarsi del giorno e della notte, sempre uniti, sempre divisi. Nei pomeriggi in cui sediamo all'aperto, Allie e io, siamo circondati dalla bellezza e io sfioro le vette della felicità. Ci sono gli uccelli e il ruscello dove nuotano le anatre galleggiando sull'acqua fredda che riflette i colori del loro piumaggio e i loro corpi sembrano dilatarsi. Anche Allie è presa da questo incanto e a poco a poco cominciamo a conoscerci di nuovo. «Mi piace parlare con te, e mi manchi, anche se le tue assenze sono brevi.» Sono sincero e lei lo sa, ma è ancora cauta, sono un estraneo. Chiede: «Sedere qui e guardare le anatre è qualcosa che facciamo spesso? Voglio dire, ci conosciamo bene?» «Sì e no. Penso che ciascuno ha i suoi segreti, ma ci frequentiamo da anni.» Guarda le sue mani e poi le mie. Riflette per un momento, il viso inclinato secondo un'angolatura che la fa sembrare ancora giovane. Non portiamo gli anelli nuziali, e anche questo ha una sua ragione. Chiede: «Siamo mai stati sposati?» Annuisco. «Sì.» «E com'era tua moglie?» Le dico la verità. «Era il mio sogno. Ha fatto di me l'uomo che sono, e stringerla tra le braccia era una cosa più naturale che respirare. Penso sempre a lei. Anche adesso, mentre siedo qui, sto pensando a lei. Non avrei mai potuto amare un'altra donna.» Ascolta e non so che cosa ne pensi. Quando finalmente parla la sua voce è morbida, angelica, sensuale, e mi chiedo che cosa l'abbia provocata. «É morta?» Che cos'è la morte? Non trovo risposta e dico: «Mia moglie è viva nel mio cuore e lo sarà sempre». «La ami ancora, vero?» «Naturalmente. Ma amo anche molte altre cose. Mi piace sedere qui con te. Mi piace ammirare la bellezza di questo luogo accanto a una persona che mi sta a cuore. Mi piace vedere il falco pescatore che piomba sul fiume in cerca di cibo.» Tace di nuovo e volta il capo in modo che non possa vederla in faccia. É una sua vecchia abitudine. «Perché lo fai?» Nessuna paura, solo curiosità. Ottimo. So perfettamente quel che vuol dire, ma chiedo lo stesso: «Cosa?» «Perché trascorri le giornate con me?» Sorrido. «Sono qui perché questo è il posto dove devo essere. Non c'e nulla di complicato. Tu e io stiamo bene insieme. Il tempo che trascorro con te non è sprecato e non te ne devi crucciare.» Sediamo in silenzio guardandoci attorno. Ci è voluta una vita per impararlo. Sembra che solo i vecchi siano capaci di esser felici anche quando stanno l'uno accanto all'altro senza dir nulla. I giovani invece, vivaci e impazienti, devono sempre rompere il silenzio. Uno spreco, perché il silenzio è puro. Il silenzio è sacro Unisce le persone perché solo chi si sente a proprio agio in compagnia di un altro può fare a meno di parlare. Questo è il grande paradosso. Il tempo scorre e a poco a poco respiriamo all'unisono, come è accaduto al mattino. Respiri profondi e rilassati, e a un certo punto lei si appisola, proprio come accade a chi si sente a suo agio. Mi chiedo se un giovane sarebbe capace di apprezzarlo. Finalmente si sveglia, un miracolo. «Vedi quell'uccello?» Me lo indica e aguzzando lo sguardo riesco a vederlo anch'io, alla piena luce del sole. «É uno storno del Caspio», dico a bassa voce, e gli dedichiamo la nostra attenzione mentre vola sopra il Brices Creek. Poi, quasi riscoprendo una vecchia abitudine, poso una mano sul suo ginocchio e lei non fa neppure un gesto per allontanarla. Ha ragione dicendo che sono evasivo. In una giornata come questa, quando solo la sua memoria è svanita, le do risposte vaghe perché molte volte negli ultimi anni ho ferito involontariamente mia moglie con dei lapsus e sono ben deciso a evitare che ciò si ripeta. Perciò mi limito a dire lo stretto necessario che le sue domande richiedono e non mi azzardo a spingermi più in là. Questa decisione è a doppio taglio, metà buona e metà cattiva, ma necessaria perché per lei conoscere significa soffrire. Per non farla soffrire limito le mie risposte. Non le dico più che ha dei figli e che siamo sposati Anche se ciò mi dà pena, non cambio idea. Forse mi comporto come un impostore, ma l'ho vista schiacciata dal diluvio di informazioni che compongono la sua vita. Potrei forse guardarmi allo specchio con i miei occhi arrossati e il mento tremolante, sapendo che ho dimenticato tutto ciò che per me era importante? Non potrei e nemmeno lei lo può. Eppure all'inizio di questa odissea cominciai proprio da lì. La sua vita, il suo matrimonio, i suoi figli. I suoi amici e il suo lavoro. Domande e risposte in un incessante quiz a premi. Quei giorni furono duri per entrambi. Mi trasformai in una enciclopedia, in un oggetto insensibile colmo dei chi, dove e quando della sua vita, mentre in realtà solo le cose che ignoravo e le domande cui non potevo rispondere si rivelavano utili. Lei fissava fotografie di nipotini dimenticati, vecchi pennelli che non le suggerivano nulla, o leggeva lettere d'amore che non le procuravano gioia alcuna. Si indeboliva nel corso di quelle sedute, diventava più pallida, più amara, e terminava la giornata peggio di come l'aveva cominciata. Tempo perduto per il mio egoismo. Allora cambiai. Divenni Magellano o Colombo, un esploratore dei misteri della mente. E imparai. Con umiltà e fatica, ma imparai quello che dovevo fare, e che sarebbe stato ovvio per un bambino: la vita non è altro che un susseguirsi di tante piccole vite, vissute un giorno alla volta. Si dovrebbe trascorrere ogni giorno cercando la bellezza nei fiori e nella poesia e parlando con gli animali. E nulla può essere migliore di un giorno colmo di sogni e di tramonti e di brezze leggere. Imparai soprattutto che la vita è sedere su una panchina sulla riva di un fiume antico con la mia mano posata sul suo ginocchio e a volte, nei momenti più dolci, innamorarmi di nuovo. «A che cosa stai pensando?» chiede. É ormai il crepuscolo. Abbiamo lasciato la panchina e camminiamo a piccoli passi lungo i viali illuminati che si snodano attorno al complesso. Lei si appoggia al mio braccio e io sono il suo cavaliere. É stata una sua idea. Forse perché si sente un po' sedotta da me. Forse per impedirmi di cadere. Qualunque sia la ragione, sorrido rapito. «Sto pensando a te.» Non risponde, ma preme le sue dita sul mio braccio e capisco che quel che ho detto le piace. La nostra vita in comune mi ha insegnato a cogliere gli indizi, anche se lei non sa di fornirmeli. Continuo: «So che tu non puoi ricordare chi sei, ma io sì, e quando ti guardo mi sento felice». Mi dà un colpetto al braccio e sorride: «Sei un uomo gentile con un cuore generoso. Spero di aver goduto anche prima della tua compagnia quanto ne godo adesso». Continuiamo a camminare. Poi lei dice: «Devo dirti una cosa». «Sentiamo.» «Credo di avere un ammiratore.» «Un ammiratore?» «Sì.» « Capisco. » «Non mi credi?» «Ti credo.» «Dovresti proprio credermi.» «Perché?» «Perché penso che quell'ammiratore sei tu.» Mi ripeto quelle parole mentre avanziamo a braccetto, oltre il cortile, fino al giardino interno ricco di fiori selvatici, e lì la fermo. Raccolgo un mazzetto rosso, rosa, giallo, violetto - glielo porgo e lei lo avvicina al naso. Fiuta a occhi chiusi e mormora: «Sono bellissimi». Riprendiamo la passeggiata, lei ha il mio braccio in una mano, i fiori nell'altra. La gente ci guarda perché siamo un miracolo ambulante, così ci hanno definito. In un certo senso è vero, ma a volte non mi sento poi tanto fortunato. «Credi che sia io?» chiedo infine. «Sì.» «Perché?» «Perché ho trovato quello che avevi nascosto.» « Che cosa?» «Questo», dice, e mi porge un foglietto di carta. «L'ho trovato sotto il mio guanciale.» Lo leggo, e dice: Lento è il mio corpo per mali senili, ma la mia promessa salda rimane sul chiudersi dei nostri giorni. Una carezza che scivola in un bacio risveglierà gioioso l'amore. «Ce ne sono altre?» chiedo. «Ho trovato questa nella tasca della mia giacca.» Le nostre anime sono una cosa sola e se lo vuoi sapere mai si separeranno. Nell'alba splendida sul tuo viso raggiante trovo il mio cuore. Dico: «Capisco», e non aggiungo altro. Mentre camminiamo il sole affonda oltre l'orizzonte, un crepuscolo argenteo è tutto ciò che rimane del giorno, ma continuiamo a parlare di quelle poesie. Lei è affascinata dall'idea di una storia romantica. Quando arriviamo alla porta d'ingresso io sono stanco. Lei lo sa e si ferma, con un tocco della mano mi induce a voltarmi e siamo uno di fronte all'altra. Mi rendo conto di quanto io mi sia ingobbito. Adesso siamo alti uguali. A volte mi rallegro pensando che lei non si rende conto di come io sia cambiato. Mi fissa a lungo. «Che cosa fai?» le chiedo. «Non voglio dimenticare te. Non voglio dimenticare questo giorno. Cerco di tenervi vivi nella mia memoria.» Funzionerà questa volta? mi chiedo, e subito mi rispondo di no. É impossibile. Però le nascondo quel che penso e invece sorrido, perché ha detto parole così dolci. «Grazie», mormoro. «É la verità. Non voglio dimenticarti di nuovo. Sei molto importante per me. Non so che cosa avrei fatto oggi senza di te.» Un nodo mi stringe la gola. C'è dell'emozione nella sua voce, la stessa emozione che provo quando penso a lei. É per questo che vivo, e in quel momento la amo teneramente. Vorrei avere la forza di sollevarla con le mie braccia fino al paradiso. «Non sforzarti di parlare», mi dice, «godiamoci questo momento.» É quello che faccio, estasiato. La sua malattia è peggiorata in questi anni, eppure Allie è un'eccezione. Qui ci sono altre tre persone colpite dall'Alzheimer e rappresentano la somma delle mie esperienze pratiche. A differenza di Allie, sono in uno stato avanzato e completamente smarriti. Si svegliano con delle allucinazioni in uno stato confusionale. Continuano a ripetere le stesse frasi all'infinito. Due di loro non riescono più a mangiare e moriranno presto. La terza ha la tendenza a svignarsela e cammina vagolando senza più sapere dov'è. Una volta la trovarono sull'auto di uno sconosciuto a mezzo miglio di distanza. Da quel giorno la tengono legata al letto. Tutte e tre possono essere molto aggressive in certi momenti e in altri tristi e sole come bambini orfani. Raramente riconoscono gli infermieri che si occupano di loro o i famigliari. É una malattia che mette tutti a dura prova, ecco perché le visite dei loro figli, e dei miei, sono tanto penose. Anche Allie, ovviamente, ha i suoi problemi, che probabilmente peggioreranno col passare del tempo. La mattina si sveglia terrorizzata e piange a dirotto. Vede dei mostriciattoli, delle specie di gnomi, e urla per cacciarli via. Fa il bagno volentieri, ma mangia in modo irregolare. Ora è magra, troppo magra secondo me, e nei giorni buoni faccio del mio meglio per darle qualcosa di nutriente. Ma qui le analogie si fermano. Ecco perché Allie viene considerata un miracolo: perché a volte, solo a volte, dopo che io le ho letto le mie note, le sue condizioni migliorano. Non esiste spiegazione. «É impossibile», dicono i medici, «oppure non ha l'Alzheimer.» Ma ce l'ha. Nella maggior parte dei giorni e ogni mattina non vi sono dubbi in proposito. E su questo punto sono tutti d'accordo. Ma allora, perché le sue condizioni sono diverse? Perché a volte cambia dopo la mia lettura? Esprimo ai medici la mia ipotesi (per il mio cuore è una certezza) ma non mi credono. Credono nella scienza, invece. Quattro specialisti hanno fatto il viaggio fino a Chapel Hill per trovare una risposta. Quattro volte se ne sono andati senza aver capito nulla. Io dico: «Non potete capire se vi basate solo sulla vostra esperienza e sui vostri libri», ma loro scuotono la testa e insistono. «L'Alzheimer non si sviluppa così. Nelle sue condizioni, non è possibile sostenere una conversazione o migliorare via via che passano le ore del giorno. Fuori questione.» Però a lei succede. Non tutti i giorni, e con minore frequenza di un tempo. Ma a volte, l'unica cosa che le manca è la memoria, come se soffrisse di amnesia. Le sue emozioni sono normali, i suoi pensieri sono normali. E quelli sono i giorni in cui so che sto facendo le cose giuste. Quando rientriamo, c'è la cena che ci aspetta in camera sua. Ci lasciano mangiare lì, nei giorni buoni, e non potrei chiedere di più agli infermieri che si sono occupati di tutto con tanta gentilezza. Gliene sono molto grato. Le luci sono abbassate, due candele accese illuminano il tavolo dove ci siederemo e c'è una musica dolce in sottofondo. Piatti e bicchieri sono di plastica e nella caraffa c'è succo di mele, ma bisogna rispettare le regole e sembra che ad Allie non importi. Spalanca gli occhi, ammirata. «Hai pensato tu a tutto questo?» Annuisco e lei viene avanti. «É bellissimo.» La accompagno alla finestra offrendole il braccio e lei non lo abbandona quando arriviamo lì. Il suo tocco è gentile e restiamo vicini in quella sera di cristallo. La finestra è socchiusa e avverto la brezza primaverile sulla mia guancia. Sta sorgendo la luna e la seguiamo a lungo con lo sguardo mentre si muove nel cielo. «Non ho mai visto nulla di così bello, ne sono sicura», dice, e sono d'accordo con lei. «Nemmeno io», dico, ma sto fissando il suo viso e lei capisce a che cosa alludo e sorride. Un attimo dopo sussurra: «Credo di sapere con chi è rimasta Allie alla fine della storia», dice tranquilla. «Lo sai davvero?» «E con chi?» «É rimasta con Noah.» «Ne sei sicura?» «Assolutamente. » Annuisco sorridendo. «É vero, è rimasta con lui», dico sottovoce e lei sorride a sua volta. Il suo viso è radioso. Sposto la sua sedia con un certo sforzo. Si siede e io mi siedo di fronte a lei. Allunga la mano sul tavolo, la prendo nella mia e sento il suo pollice che comincia a muoversi piano in una carezza, come accadde tanti anni fa. La fisso a lungo senza parlare, vivendo e rivivendo quei momenti lontani finché mi sembra di averli riportati al presente. Ancora una volta mi rendo conto di quanto io l'ami. Quando finalmente riesco a parlare mi trema la voce. «Sei bellissima», dico. Leggo nei suoi occhi che sa ciò che provo per lei e quale sia veramente il significato delle mie parole. Non reagisce subito. Abbassa il capo e mi chiedo a che cosa stia pensando. Non mi fornisce indizi e le stringo leggermente la mano. Aspetto. Ho imparato a conoscere il suo cuore in tutti i miei sogni e so che sono quasi giunto alla meta. Poco dopo, un miracolo dimostra che ho ragione. Mentre la musica di Glenn Miller si diffonde nella stanza illuminata dalle candele, mi accorgo che Allie a poco a poco cede a ciò che le si muove dentro. Vedo un sorriso caldo affiorare sulle sue labbra, quel tipo di sorriso per il quale vale la pena di vivere, e i suoi occhi di smeraldo si fissano nei miei. Attira la mia mano verso di sé. «Sei meraviglioso...» dice piano, e in quel momento anche lei si innamora di me, lo so perché l'ho visto accadere mille volte. Non aggiunge altro, non ne ha bisogno, ma il suo sguardo che affiora da un'altra vita mi restituisce la giovinezza. Sorrido con tutta la passione che riesco a raccogliere e ci fissiamo mentre i sentimenti si gonfiano come onde dentro di noi. I miei occhi scorrono lungo le pareti e poi in alto verso il soffitto e quando si posano di nuovo su Allie il calore mi avvolge. É vero, mi sento giovane. Non più infreddolito e dolente, ingobbito, deforme e mezzo cieco per la cataratta. Sono forte e fiero, l'uomo più fortunato del mondo, e alimento a lungo questa gioiosa sensazione. Quando le candele si sono consumate per un terzo, sono pronto a rompere il silenzio. Dico: «Ti amo profondamente, e spero che tu lo sappia». «Certo che lo so», dice quasi ansimando. «E anch'io ti ho sempre amato, Noah.» Noah, ho sentito bene? Noah. Quel nome echeggia nella mia testa. Noah... Noah. Lo sa, penso, sa chi sono io... Lo sa... Un piccolissimo miracolo, ma per me è un dono di Dio, e ripenso alla nostra vita insieme, io che la abbraccio, la amo, le resto accanto in tutti i miei anni migliori. Mormora: «Noah, mio carissimo Noah...» E io, che non ho voluto accettare il verdetto dei medici, ottengo il mio trionfo, sia pure per un momento. Rinuncio a ogni finzione, le bacio la mano e la avvicino alla mia guancia e sussurro: «Sei la cosa più bella che mi sia mai capitata». «Oh, Noah», dice con le lacrime agli occhi, «anch'io ti amo.» Se solo potesse finire così, sarei un uomo felice. Ma non accadrà, ne sono sicuro, poiché mentre i minuti scivolano via comincio a leggere segni di angoscia sul suo viso. «Qualcosa non va?» chiedo, e la sua risposta mi giunge in un sussurro. «Ho tanta paura. Ho paura di dimenticarti di nuovo. Non è giusto... non posso sopportare di rinunciare a questo.» La sua voce si spezza sul finire della frase e io non so che cosa dire. Capisco che la sera sta finendo e non c'è nulla che io possa fare per bloccare l'inevitabile. É qui che fallisco. Cerco di rassicurarla. «Non ti lascerò mai. Siamo insieme per sempre.» Lei sa che non posso aggiungere altro, perché nessuno di noi si affida a false promesse; ma dal modo in cui mi guarda capisco che vorrebbe qualcosa di più. La serenata dei grilli ci accompagna mentre cominciamo a cenare. Non abbiamo fame, ma io do il buon esempio e lei mi asseconda. Mastica a lungo bocconcini minuscoli e sono felice di vederla mangiare. Ha perso troppo peso negli ultimi tre mesi. Dopo cena, tento di resistere alla paura che a poco a poco mi invade. Dovrei essere esultante, perché ho la prova che possiamo riconquistare il nostro amore, ma ho già avvertito i rintocchi della campana d'allarme. Il sole è tramontato da un pezzo e il ladro sta per insinuarsi tra noi e io non riuscirò a fermarlo. Così la fisso e aspetto in quegli ultimi momenti che sembrano un'eternità. Nulla. Il ticchettio dell'orologio. Nulla. La prendo tra le braccia e si stringe a me. Nulla. La sento tremare e sussurro nel suo orecchio. Nulla. Per l'ultima volta quella sera le dico che l'amo. E il ladro arriva. Ancora oggi, dopo tutto questo tempo, sono stupefatto per la rapidità del fenomeno. Tutto accade all'improvviso. É ancora aggrappata a me, ma comincia a sbattere le palpebre e a scuotere la testa. Poi si volta verso un angolo della stanza e lo fissa a lungo, con lo sgomento stampato in viso. No! grida la mia mente. Non ancora, non adesso... Ci eravamo quasi ritrovati! Non stasera! Qualsiasi sera ma non questa... Per favore! Le parole si accavallano dentro di me. Non posso sopportarlo un'altra volta! Non è giusto... non è giusto... Ma come sempre la battaglia è perduta. Gli gnomi. Il mio stomaco sprofonda in un pozzo. Mi si mozza il fiato per un attimo, poi riprendo a respirare a fatica. Ho la bocca arida, il cuore martellante. É finita, lo so, non mi sbaglio. É calata la notte e con l'oscurità si manifesta lo stato confusionale tipico del morbo di Alzheimer di cui soffre mia moglie. E quando ciò accade lei è perduta e io mi chiedo se potremo mai amarci di nuovo. «Allie, non c'è nessuno lì», le dico, cercando di combattere l'inevitabile. Non mi crede. «Mi fissano con i loro occhi.» «No», sussurro scuotendo il capo. «Tu non li vedi?» «No», dico, e lei esita per un attimo. «Eppure sono proprio lì», dice respingendomi, «e mi stanno fissando.» Poi comincia a parlare tra sé e quando cerco di confortarla mi fissa con occhi selvaggi. «E tu chi sei?» grida col panico nella voce, sbiancandosi in viso. «Che ci fai qui?» Il terrore cresce dentro di lei e la mia impotenza mi tortura. Ora si allontana da me camminando all'indietro, le mani protese in gesto di difesa, e pronuncia le parole che più mi spezzano il cuore. «Vai via! Stai lontano da me!» urla. Ma già mi ha dimenticato perché sta lottando contro gli gnomi, cerca di tenerli a distanza con gesti dettati dal panico. Attraverso la stanza fino al letto. Sono debolissimo, adesso, ho le gambe dolenti e una strana fitta al fianco. Non so da dove venga. Devo sostenere una vera lotta per suonare il campanello e chiamare le infermiere perché le mie dita mostruose sembrano congelate assieme, ma finalmente ci riesco. Le infermiere arriveranno presto, lo so, e mentre le aspetto fisso mia moglie. Dieci. . . Venti. . . Passano trenta secondi e continuo a fissarla, i miei occhi registrano tutto mentre ripenso ai momenti meravigliosi di poco prima. Nel frattempo lei non si guarda mai alle spalle e io mi sento attanagliato dalle sue stesse visioni, da quella battaglia contro nemici invisibili. Siedo accanto al letto con la schiena piegata dal dolore e piango mentre riprendo il mio taccuino. Allie non se ne accorge nemmeno, e come potrebbe? La sua mente è altrove. Un paio di pagine cadono a terra e mi chino per raccoglierle. Sono stanchissimo, solo e lontano da mia moglie. Le infermiere, quando arrivano, vedono due persone bisognose di conforto. Una donna tremante di paura perché i demoni hanno invaso la sua mente, e un vecchio che l'ama più della sua stessa vita e piange in silenzio, il viso nascosto tra le mani. Passo il resto della serata solo in camera mia. Dalla porta socchiusa vedo passare della gente, alcuni sconosciuti, alcuni amici, e se mi concentro posso sentirli parlare delle loro famiglie e delle visite nel parco. Conversazioni banali, niente di più, eppure scopro che li invidio per quella loro facilità, di comunicare. Un altro peccato mortale, lo so, ma a volte non riesco a impedirmelo. Sento anche il dottor Barnwell che parla con un'infermiera e mi chiedo chi sia tanto grave da richiedere una sua visita a quell'ora. Barnwell lavora troppo, e glielo dico. Passi più tempo con la sua famiglia, gli raccomando, non l'avrà sempre attorno a sé. Lui non mi dà retta. I suoi pazienti gli stanno a cuore, dice, e deve accorrere quando lo chiamano. Dice che non ha scelta, ma è lacerato dalle contraddizioni. Vorrebbe essere un medico totalmente devoto ai suoi malati e un uomo totalmente devoto alla famiglia. Non ci riuscirà mai, perché non avrà tempo a sufficienza, ma deve ancora impararlo. Mentre la sua voce si spegne lungo il corridoio mi chiedo se alla fine farà spontaneamente la sua scelta, oppure se sarà costretto a farla. Siedo in poltrona accanto alla finestra e ripenso a oggi. É stato un giorno felice e triste, meraviglioso e straziante. Le emozioni che cozzano tra loro mi inducono al silenzio per molte ore. Non andrò a leggere per gli amici questa sera. Non potrei, perché l'introspezione poetica mi farebbe scoppiare in lacrime. Col passar delle ore ogni rumore si spegne nei corridoi, si odono solo, a tratti, i passi marziali degli infermieri di notte. Verso le undici colgo l'eco di un altro passo che conosco bene e che in fondo mi aspettavo. Il dottor Barnwell si affaccia alla porta. «Ho visto la sua luce ancora accesa. Le spiace se entro? » «No di certo», rispondo. Viene avanti e si guarda attorno prima di sedersi a poca distanza da me. «Ho saputo che lei ha avuto una buona giornata con Allie», dice, e sorride. I nostri rapporti lo incuriosiscono e non so se il suo interesse sia puramente professionale. «Credo di sì.» Inclina un po' il capo per fissarmi. «E lei sta bene, Noah? Mi sembra un po' giù.» «Sono solo un po' stanco.» «Come ha trovato Allie oggi?» «Era okay. Abbiamo parlato per quasi quattro ore.» «Quattro ore? Noah... è incredibile.» Posso solo annuire. Lui continua, scuotendo il capo. «Non ho mai visto nulla di simile, e nemmeno ne ho avuta notizia da altre fonti. Immagino che questo sia il vero amore. Voi due siete fatti l'uno per l'altra. Allie deve amarla moltissimo, e lei lo sa, vero?» «Lo so», ma non riesco ad aggiungere altro. «Eppure mi sembra crucciato, Noah. Allie ha detto o fatto qualcosa che ha ferito i suoi sentimenti?» «No. Anzi, è stata meravigliosa. Ma in questo momento... in questo momento mi sento solo.» «Solo?» «Sì.» «Nessuno è solo.» «Io lo sono», dico, poi guardo l'orologio e penso alla famiglia di Barnwell che dorme in una casa tranquilla, il posto dove dovrebbe trovarsi anche lui. Dico: «Ed è solo anche lei». I due o tre giorni seguenti furono insignificanti. Allie non mi riconosceva più, nemmeno per un attimo, e confesso che anch'io ero spesso distratto, i miei pensieri tornavano costantemente al nostro giorno meraviglioso nel parco. Sebbene fosse finito troppo presto, come sempre, non c'era nulla da rimpiangere, tutto era stato perfetto, e mi sentivo felice per aver potuto assaporare ancora una volta tanta gioia. Nel corso della settimana seguente la mia vita tornò alla normalità, sempre che si possa definire normale l'esistenza che conduco qui. La lettura mattutina per Allie, la lettura serale per gli altri. Le notti insonni, sdraiato sul letto o seduto sulla poltrona accanto alla piccola stufa. Trovo uno strano conforto nella prevedibilità delle mie giornate. In una fresca e nebbiosa mattina, otto giorni dopo la nostra meravigliosa passeggiata nel parco, mi svegliai presto, come al solito, e mi affaccendai attorno alla scrivania, guardando le fotografie e rileggendo le lettere di tanti anni prima. O almeno cercai di farlo. Non riuscivo a concentrarmi perché avevo mal di testa, così alla fine rinunciai e andai a sedermi accanto alla finestra, per vedere sorgere il sole. Allie si sarebbe svegliata di lì a un paio d'ore e volevo essere fresco e riposato, perché una lunga lettura avrebbe di certo aumentato il dolore al capo. Chiusi gli occhi per alcuni minuti mentre dentro il mio cranio qualcosa pulsava all'impazzata e poi si calmava. Quando li riaprii contemplai il mio vecchio amico, il fiume che scorreva lì sotto. Dalla stanza di Allie non lo si vede, ma dalla mia sì, e quel corso d'acqua è sempre stato per me una fonte di ispirazione: scorre da centinaia di anni, eppure si rinnova con ogni pioggia. Quel mattino gli parlai, sussurrando perché potesse udirmi: «Tu sei benedetto, amico mio, e anch'io sono benedetto, e ci incontreremo nei prossimi giorni». La corrente si increspò mulinando, quasi per dirmi di sì, e la pallida luce dell'alba illuminò il mondo che era nostro. Mio e del fiume. L'acqua che scorre, accelera, rallenta. É come la vita. Contemplandola si imparano molte cose. Accadde proprio nel momento in cui il sole faceva capolino all'orizzonte. Avvertii un formicolio nella mano, cosa che non era mai accaduta prima. Cercai di sollevarla, ma fui costretto a rinunciarvi perché la mia testa pulsava di nuovo, molto forte, come se mi avessero dato una martellata. Chiusi gli occhi strizzando le palpebre. La mia mano cessò di formicolare e divenne inerte, come se i muscoli fossero stati recisi all'improvviso nell'avambraccio. Poi un'onda di dolore partì dal cervello e scivolando lungo il collo si diffuse in ogni cellula del mio corpo, sembrava un'onda d'alta marea che travolge tutto al suo passaggio. Non ci vedevo più, udivo solo il rombo di un treno in corsa che passava a pochi centimetri di distanza e capii che ero stato colpito da un ictus. La lingua di fuoco del dolore lacerava il mio corpo e negli ultimi attimi di lucidità pensai ad Allie nel suo letto, in attesa della storia che non le avrei più narrato, smarrita e confusa, del tutto incapace di aiutare se stessa. Esattamente come me. E mentre i miei occhi si chiudevano definitivamente mi chiesi: Oh Dio, che cosa ho mai fatto? Rimasi in stato di semincoscienza per giorni, e solo a tratti mi rendevo conto di essere collegato a delle macchine, con dei tubicini che dal naso mi scendevano in gola e due sacche da fleboclisi appese sopra la testa. Sentivo il ronzio dei macchinari in sottofondo e a volte strani rumori che non riuscivo a identificare. Una delle macchine, che pulsava al ritmo del mio cuore, era stranamente confortante, e spesso mi lasciavo cullare scivolando verso un mondo senza tempo. I medici erano inquieti, leggevo la preoccupazione sui loro volti mentre scrutavano le cartelle cliniche e regolavano i macchinari. Sussurravano tra loro, convinti che non potessi sentirli. «L'ictus potrebbe essere una cosa seria», dicevano, «specie per un uomo della sua età, e le conseguenze rischiano di essere pesanti. » I volti si facevano ancora più cupi mentre snocciolavano le varie eventualità: «Perdita della parola, difficoltà motorie, paralisi». Altri appunti sulla cartella clinica, altri bip di una strana macchina e poi se ne andavano, senza rendersi conto che avevo sentito tutto. Io cercavo di non pensarci e mi concentravo su Allie, cercavo di vederla nella mia mente, di riportarla dentro di me affinché fossimo di nuovo una cosa sola. Ricordavo la carezza delle sue mani, udivo la sua voce, vedevo il suo volto, e poi i miei occhi si gonfiavano di lacrime perché non sapevo se mi sarebbe mai più stato possibile starle accanto, stringerla a me, trascorrere i giorni con lei parlando e leggendo e passeggiando. Questa non era la fine che avevo immaginato e tanto meno sperato. Mi ero convinto che sarei stato l'ultimo ad andarsene. E forse stava accadendo il contrario. Scivolavo fuori e dentro uno stato di incoscienza finché in un'altra mattina nebbiosa le promesse che avevo fatto ad Allie diedero uno scossone al mio corpo. Aprii gli occhi e vidi la stanza piena di fiori, il loro profumo mi sembrò vivificante. Allungai la mano verso il campanello, riuscii a premere il pulsante e un'infermiera arrivò trenta secondi dopo, seguita dal dottor Barnwell che sorrise quasi immediatamente. «Ho sete», dissi con voce roca, e il sorriso del medico si dilatò. «Ben tornato», disse, «lo sapevo che ce l'avrebbe fatta. » Dopo due settimane ho potuto lasciare l'ospedale, anche se ormai sono un uomo dimezzato, una Cadillac che può girare solo su due ruote, perché il mio lato destro è più debole del sinistro. Tutti se ne rallegrano perché la paralisi avrebbe potuto essere totale. A volte mi sembra di essere circondato da inguaribili ottimisti. La conseguenza più negativa è che con le mie mani non posso servirmi di un bastone o di una sedia a rotelle, perciò riesco a camminare solo con una cadenza molto speciale. Non piede sinistro-destro-sinistro come in gioventù, e nemmeno strascicando entrambi i piedi come negli ultimi tempi, ma il sinistro spinto lentamente in avanti che si trascina dietro il destro. Percorrere un corridoio è un'avventura epica, un processo lentissimo anche per me, che già due settimane fa pensavo di camminare come una tartaruga. É sera quando rientro nella mia stanza e so che non dormirò. Respiro a fondo le fragranze primaverili che filtrano dalla finestra socchiusa, l'aria è molto fresca ma quel cambiamento di temperatura mi rinvigorisce. Evelyn, una delle infermiere che hanno un terzo della mia età, mi aiuta a sistemarmi sulla poltrona e sta per chiudere la finestra. Le dico di no e, pur inarcando le sopracciglia, accetta la mia decisione. Sento aprire un cassetto e poco dopo un maglione si posa sulle mie spalle. Evelyn me lo sistema addosso come se io fossi un bambino e quando ha finito mi dà due colpetti leggeri sulla schiena. Non dice nulla, ma dal suo silenzio capisco che sta guardando fuori della finestra. Rimane a lungo immobile e io mi chiedo a che cosa stia pensando, ma non le pongo domande. A un tratto la sento sospirare. Si volta per andarsene e poi si ferma, si china su di me, mi bacia sulla guancia con tenerezza, proprio come fa mia nipote. Ne sono sorpreso e lei mi dice a bassa voce: «Siamo felici che lei sia tornato. Ci è mancato molto. Pregavamo per lei perché questo posto non era più lo stesso da quando se n'era andato». Sorride e mi accarezza la guancia prima di avviarsi verso la porta. Io non dico nulla. Più tardi sento ancora il suo passo, sta parlando con un'altra infermiera in corridoio, spingono il carrello delle medicazioni. Il cielo stanotte è stellato e il mondo brilla di una luce azzurrina. Ogni suono sembra fondersi nel canto intenso dei grilli. Mi chiedo se dall'esterno qualcuno può vedermi, un prigioniero della sua stessa carne seduto in poltrona. Scruto tra gli alberi, nel cortile, sulle panchine presso il fiume in cerca di un segno di vita, ma non c'è nulla. Persino il Brices Creek è immobile, sembra uno spazio vuoto nell'oscurità e mi sento avvolto dal suo mistero. Rimango in osservazione per ore, finché vedo il riflesso delle nuvole rimbalzare sul pelo dell'acqua. Sta arrivando un temporale e tra poco il cielo argenteo diventerà grigio in un nuovo crepuscolo. Guizzano lampi laceranti e la mia mente divaga. Chi siamo, Allie e io? Forse simili all'edera che si aggrappa a un vecchio cipresso con tanta forza che morirebbero entrambi se qualcuno li separasse? Non lo so. Un altro lampo illumina il tavolino accanto a me tanto che posso vedere la fotografia di Allie, la mia preferita. L'ho fatta incorniciare tempo fa con la speranza che il vetro le impedisse di scolorire. Non posso fare a meno di fissarla a lungo. Aveva quarantun anni, allora, e mai era stata più bella. Vorrei chiederle tante cose ma so che non può rispondermi e allora distolgo lo sguardo. Stanotte, con Allie all'altro capo del corridoio, sono solo. Sarò sempre solo. Così pensavo nel mio letto d'ospedale e ne sono ancora convinto mentre vedo ammassarsi fuori della finestra le nubi del temporale. Una profonda tristezza mi assale perché mi rendo conto che negli ultimi giorni passati assieme non l'ho mai baciata sulle labbra. Forse non lo farò mai più. Impossibile da prevedere con questa malattia. Ma perché penso a queste cose? Finalmente mi alzo e mi avvicino alla scrivania per accendere la lampada. Mi costa più fatica di quanto immaginassi, sono stremato, perciò non ritorno alla mia poltrona, mi siedo lì e guardo le fotografie. Fotografie di famiglia, di nipotini, di viaggi. Fotografie mie e di Allie. Ripenso ai giorni trascorsi assieme, noi due soli o con i ragazzi, e di nuovo mi piomba addosso il peso dell'età. Apro un cassetto e trovo dei fiori che le regalai tanto tempo fa, secchi, sbiaditi e legati assieme da un nastro. Fragili da maneggiarsi come me, potrebbero sbriciolarsi al minimo urto. Però Allie ha voluto conservarli. «Non capisco che cosa ne vuoi fare», dicevo, ma lei mi ignorava. A volte, la sera, me la vedo davanti con quei fiori in mano, li fissa con rispetto, come se nascondessero il segreto della vita. Le donne. Poiché questa sembra una notte dedicata ai ricordi, cerco e trovo la mia vera nuziale. É nel primo cassetto della scrivania, avvolta nella carta velina. Non la porto più perché le mie nocche sono gonfie e la circolazione nelle mie dita pessima. Libero l'anello dal suo involucro e lo osservo, ha in sé la forza di un simbolo, il cerchio, e io so, so, che non avrei mai potuto averne un altro. E in quel momento sussurro: «Sono sempre tuo, Allie, mia regina, mia bellezza eterna. Tu sei, e sei sempre stata, la cosa migliore della mia vita». Forse mi sta ascoltando mentre pronuncio quelle parole, e attendo un segno. Invano. Sono le undici e mezzo e cerco la lettera che mi scrisse, quella che leggo nei momenti speciali. La trovo dove l'avevo lasciata. Esito un po' prima di sfilarla dalla busta, e le mie mani tremano. Infine mi decido a leggere: Caro Noah, ti scrivo questa lettera alla luce della candela mentre tu dormi nella stanza da letto che abbiamo condiviso fin dal giorno del nostro matrimonio. E sebbene non mi giunga il suono del tuo respiro, so che sei lì e tra poco mi sdraierò accanto a te come al solito. E il tuo calore mi avvolgerà confortante guidandomi a poco a poco verso il luogo dove sognerò di te e del meraviglioso uomo che sei. La fiamma della candela mi ricorda un fuoco di cinque decadi fa, quando io indossavo gli indumenti che mi avevi imprestato e tu i tuoi jeans. Capii in quel momento che saremmo sempre rimasti assieme, anche se il giorno dopo sembravo esitante. Il mio cuore era stato catturato, incatenato a un poeta del Sud, e dentro di me ero certa che sarebbe stato sempre tuo. Come potevo mettere in dubbio un amore che si proiettava fino alle stelle e ruggiva come un oceano in tempesta? Perché così era tra noi e così è ancora oggi. Rammento quando tornai da te il giorno dopo, il giorno in cui arrivò mia madre. Avevo tanta paura, una paura mai provata prima, perché ero certa che non mi avresti perdonata per essere andata da Lon. Tremavo scendendo dall'auto, ma tu cancellasti tutto con il tuo sorriso e con il tuo modo di prendermi per mano. «Che ne diresti di un buon caffè» fu il tuo solo commento. E non se ne parlò più, in tutti gli anni a venire. Né mi ponesti domande quando ti chiesi di rimanere sola per alcuni giorni. Se vedevi le lacrime nei miei occhi, sapevi sempre se dovevi starmi vicino o lasciarmi in pace. Non so come tu riuscissi a indovinarlo, ma mi facilitavi le cose. Più tardi, quando ci recammo nella piccola cappella per scambiarci le promesse e gli anelli, lessi nei tuoi occhi che avevo preso la decisione giusta. Meglio ancora, capii che ero stata pazza prendendo in considerazione un uomo diverso. Non ho mai avuto rimpianti. La nostra vita in comune è stata meravigliosa e ora mi capita di ripercorrerla spesso con la mente. Chiudo gli occhi e ti vedo seduto sotto il portico, con i capelli spruzzati di grigio e una chitarra in mano, e mentre suoni i bambini battono le mani e ballano. I tuoi vestiti sono stropicciati da ore di lavoro e sei stanco, ma quando ti dico che dovresti riposare rispondi: «É quel che sto facendo adesso». Trovo che il tuo amore per i nostri figli sia molto sensuale ed eccitante. Te lo dico dopo, quando loro stanno già dormendo. Poi ci togliamo i vestiti e ci baciamo e quasi ci smarriamo in noi stessi prima di scivolare tra le lenzuola di flanella. Ti amo per molte cose ma specialmente per le tue passioni, che sono state lo splendore della vita. L'amore e la poesia e la paternità e l'amicizia e la bellezza e la natura. Sono felice che tu abbia insegnato tutto ciò ai ragazzi, perché so che vivranno meglio. Loro mi dicono quanto sei eccezionale e io mi sento la donna più fortunata del mondo. Hai insegnato tante cose anche a me, e mi hai ispirato e mi hai incoraggiato a dipingere, e non sai quanto ciò sia stato importante. I miei quadri sono ora nei musei o in grandi collezioni private, ma in certi momenti mi sentivo frastornata per via delle esposizioni e dei critici, e tu eri lì pronto a sostenermi con parole gentili. Hai capito la mia necessità di avere un mio studio, e un mio spazio privato, hai perdonato le macchie di vernice sui miei vestiti, sui miei capelli e persino sui mobili. So che non deve essere stato facile. Ci vuole un uomo speciale per vivere in queste condizioni, Noah. E tu l'hai fatto. Per quarantacinque anni meravigliosi. Sei il mio miglior amico oltre che il mio amante e non so quale dei due io apprezzi di più. Entrambi mi sono indispensabili. Tu hai qualcosa dentro di te, Noah, qualcosa di bellissimo e di forte. La gentilezza. Ecco quello che vedo quando ti guardo ora, ecco quello che tutti vedono. La gentilezza. Sei sempre sereno e pronto alla comprensione, al perdono. Dio è con te, deve essere con te, perché sei la persona più simile a un angelo che io abbia mai incontrato. So che hai pensato che io fossi pazza perché ti ho fatto scrivere la nostra storia prima di lasciare la nostra casa per sempre, ma ho le mie buone ragioni e ti ringrazio per la tua pazienza. Non te le ho mai dette quelle ragioni, sebbene tu me lo chiedessi, ma adesso è bene che tu sappia. Abbiamo avuto una vita che la maggior parte delle coppie sposate ignora, eppure, quando ti guardo, sono terrorizzata dall'idea che tutto ciò finirà ben presto. Conosciamo entrambi la mia prognosi e quel che significa per noi. Vedo le lacrime nei tuoi occhi e mi angoscio più per te che per me, perché pavento il dolore che dovrai sopportare. Non ci sono parole per esprimere quello che provo, e non sono mai stata brava con le parole. Ma il mio amore per te è così profondo, così incredibile, che troverò il modo per tornare da te nonostante la malattia. Te lo giuro. Ecco perché la storia è importante. Quando sarò sola e smarrita tu me la leggerai - così come l'hai raccontata ai ragazzi - e convinciti che in qualche modo io capirò che si tratta di noi. E forse, solo forse, riusciremo a essere ancora uniti. Perfavore, non arrabbiarti con me nei giorni in cui non ti riconoscerò più - e sappiamo che accadrà. Ricordati che ti amo, che ti amerò sempre, e che, qualunque cosa accada, ho vissuto la vita più felice possibile. Accanto a te. Se conservi questa lettera, quando la rileggerai abbi fede in ciò che ti dico adesso. Noah, dovunque tu sia e in qualunque momento ciò accada, io ti amo. Ti amo mentre ti scrivo e ti amo mentre rileggi questa lettera. Mi spiace di non trovare le parole per dirtelo meglio. Ti amo tanto, marito mio. Tu sei, e sei sempre stato, il mio sogno. Allie Ho finito di leggere questa lettera e la ripongo. Poi mi alzo dalla scrivania e cerco le pantofole. Sono sotto al letto e devo sedermi di nuovo per infilarle. Attraverso la stanza e apro la porta. Do una sbirciatina nel corridoio e vedo Janice alla sua scrivania. O almeno suppongo che sia Janice. Devo passare davanti a lei per andare da Allie e a quest'ora non mi è permesso lasciare la mia camera. Janice non infrange mai le regole. Suo marito è avvocato. Aspetto con la speranza che se ne vada, ma non ha intenzione di muoversi e mi spazientisco. Decido di uscire comunque dalla mia camera e mi avvio lungo il corridoio, strascico un piede, sposto l'altro, strascico un piede. Anni luce per coprire una breve distanza, eppure sembra che Janice non si accorga della mia marcia di avvicinamento. Sono silenzioso come una pantera nella giungla, invisibile come un piccioncino neonato. Alla fine mi scopre e la cosa non mi sorprende. Mi trovo proprio davanti a lei. «Noah», dice, «che sta facendo?» «Una passeggiatina», dico io, «non riesco a dormire. » «Lei sa che non le è permesso.» «Lo so.» Però non mi muovo. Non ho intenzione di cedere. «Questa non è solo una passeggiatina, vero? Lei sta andando da Allie.» «Sì», rispondo. «Noah, lei sa che cosa è accaduto l'ultima volta che l'ha vista di notte.» «Me ne ricordo.» «Allora si renderà conto che non può farlo di nuovo. » Non rispondo direttamente alla sua domanda. Invece dico: «Allie mi manca molto». «Lo so. Ma non posso permetterle questa visita.» «É il nostro anniversario», insisto. É la verità. Tra un anno le nozze d'oro. Quarantanove anni oggi. «Capisco.» «Allora posso andare?» Per un attimo distoglie lo sguardo e la sua voce cambia, suona più dolce e mi sorprende. Non avrei mai immaginato che fosse un tipo sentimentale. «Noah, sono qui da cinque anni e prima ho lavorato in un istituto analogo. Ho visto centinaia di coppie lottare contro il dolore e la sofferenza, ma mai nessuno si è comportato come lei. Nessuno qui, né i medici né le infermiere, hanno mai visto niente di simile. » Si interrompe per un attimo mentre, inaspettatamente, i suoi occhi si colmano di lacrime. Le asciuga con la punta di un dito e continua: «Quando penso a quello che lei fa, giorno dopo giorno, non posso nemmeno immaginare come ci riesca. A volte sconfigge addirittura la malattia di Allie. I dottori non ci capiscono nulla, ma noi infermiere sì. É il miracolo dell'amore. Molto semplice, eppure è la cosa più incredibile che abbia mai visto». Un nodo mi stringe la gola e rimango senza parole. «Tuttavia, lei non può andare da Allie ora, Noah, e io non posso permetterglielo. Ritorni nella sua stanza.» Poi riordina alcuni fogli sul suo tavolo e con un lieve sorriso dice: «Scendo a bere un caffè. Non potrò controllarla per un po' e perciò la prego di non fare sciocchezze». Si alza in fretta, mi sfiora un braccio con la mano e scende le scale senza voltarsi. Sono solo. Non so che cosa pensare. Abbasso lo sguardo sul tavolo e vedo una tazza piena di caffè fumante. Ancora una volta scopro che ci sono persone molto buone in questo mondo. Per la prima volta dopo anni non avverto più il gelo nelle mie ossa e riprendo il mio viaggio verso la camera di Allie con passi da formica, ma anche quel ritmo è pericoloso perché le mie gambe sono già stanche. Devo appoggiarmi alla parete per non cadere. Le lampade ronzano sul soffitto, la loro luce fluorescente mi ferisce gli occhi e strizzo le palpebre. Supero una dozzina di camere immerse nell'oscurità, camere dove sono entrato per leggere poesie a delle persone di cui sento la mancanza. Sono amici, volti che conosco bene. Li rivedrò domattina ma stasera no, non ho tempo per indugiare. E a poco a poco, mentre avanzo, quei movimenti lentissimi pompano sangue nelle mie arterie consunte. Mi sento più forte a ogni passo. Una porta si apre dietro di me, ma nessuno si muove alle mie spalle. Mi sento uno straniero. Nessuno mi può fermare. Il telefono squilla nella guardiola delle infermiere e mi spingo avanti perché non mi sorprendano. Sono un bandito di mezzanotte, un bandito mascherato che galoppa sul suo cavallo fuggendo da cittadine sonnolente per raggiungere il giallo splendore del deserto con delle sacche di polvere d'oro appese alla sella. Sono giovane e forte e il mio cuore brucia di passione, abbatterò la sua porta con una spallata e la prenderò tra le mie braccia per portarla in paradiso. Vogliamo scherzare? La mia vita è così semplice ormai. Sono un vecchio pazzo innamorato che sogna solo di poter leggere un racconto ad Allie e tenerle la mano quando possibile. Sono un peccatore con molte colpe che crede nei prodigi, ma sono anche troppo vecchio per cambiare e troppo vecchio perché cambiare mi importi. Quando finalmente raggiungo la sua stanza mi sento debolissimo. Le gambe mi si piegano, ho gli occhi appannati e il mio cuore batte all'impazzata. Lotto con il pomolo della porta, mi ci vogliono entrambe le mani e un notevole sforzo per girarlo: infine l'uscio si apre e la luce del corridoio scivola dentro illuminando il letto dove lei dorme. Mentre la guardo, ho la sensazione di essere solo un passante che si incrocia per strada tra la folla, subito dimenticato. La stanza è silenziosa e Allie giace con le coperte rialzate fino alla vita. Dopo un momento si gira su un fianco e il fruscio del suo corpo tra le lenzuola risveglia in me ricordi di tempi felici. Sembra piccola in quel letto e di nuovo ho la sensazione che tutto sia finito tra noi. L'aria è viziata e rabbrividisco. Queste quattro pareti sono la nostra tomba. Non mi muovo, oggi è il nostro anniversario e spasimo dalla voglia di parlarle dei miei sentimenti, ma sto zitto per non svegliarla. Inoltre, è tutto scritto su un foglietto che le farò scivolare sotto il guanciale: In queste ultime tenere ore dove tutto è puro venga la luce del giorno a risvegliare la certezza d'amore. Mi sembra di sentire qualcuno che sta arrivando allora entro e mi chiudo l'uscio alle spalle. Nell'oscurità seguo a memoria il percorso che porta alla finestra. Apro le tende e la luna mi fissa, un'immensa luna piena, custode della notte. Mi volto verso Allie e accarezzo mille sogni e, pur sapendo che non devo farlo, mi siedo sul letto per infilare il biglietto sotto il suo guanciale. Poi mi chino e dolcemente le sfioro una guancia, morbida come cipria. Le accarezzo i capelli e mi sento mozzare il fiato. Sono stupito, in estasi, come un compositore che scopra per la prima volta la musica di Mozart. Allie si rigira e apre gli occhi sbattendo le palpebre e subito io mi pento della mia follia perché adesso comincerà a strillare e a piangere, come fa sempre di notte. Sono debole e impulsivo, lo so, ma qualcosa dentro di me mi induce a tentare l'impossibile e mi chino su di lei, i nostri volti si toccano. E quando le sue labbra si posano sulle mie, sento un formicolio che non avevo mai avvertito prima, in tutti i nostri anni di vita comune, però non mi ritraggo. E all'improvviso il miracolo, perché sento che la sua bocca si schiude e scopro il paradiso perduto, intatto ed eterno come le stelle. Sento il calore del suo corpo e mentre le nostre lingue si incontrano mi concedo di volare alto, come feci tanti anni fa. Chiudo gli occhi e divento un veliero che fende le onde senza esitazione e senza paura, e Allie è il vento che gonfia le mie vele. Accarezzo di nuovo la sua guancia, prendo la sua mano nella mia, le bacio le labbra, la fronte, e lei respira a fondo, poi mormora: «Oh, Noah... quanto mi sei mancato». Un altro miracolo - il massimo! e non c'è modo di frenare le lacrime mentre cominciamo a galleggiare verso il cielo. Perché in quel momento, mentre il mondo si colma di prodigi, io sento la mano di lei sulla mia camicia e lentamente, molto lentamente, comincia a slacciare i bottoni a uno a uno. FINE.