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Non-representational Tunisi? Spazio, luogo
Testo di Francesca Governa Non-representational Tunisi? Spazio, luogo, pratiche Un segreto e due percorsi Nel discorso comune, spazio e luogo sono “quasi” sinonimi. Ma è in quel “quasi” che si insinua il dubbio; è quel “quasi” che affascina; è in quel “quasi” che ci si può posizionare per capire cosa manca, cosa resta fuori. Nella nostra esplorazione, nel nostro ragionare e percorrere la città, nel nostro seguire le pratiche nel loro farsi e nel fare gli spazi pubblici di Tunisi ci siamo posti nel “quasi” fra spazio e luogo. Non siamo cioè partiti da una ricostruzione sistematica dei diversi (e spesso contraddittori) quadri teorici e interpretativi in cui si situa la riflessione su spa- Non-representational Tunisi? Spazio, luogo, pratiche Francesca Governa zio e luogo, per chiarire le differenze (e le somiglianze) fra i due concetti. Abbiamo invece, più o meno consapevolmente, fatto nostro quanto scrivono Davies e Dwyer (2007): «in place of the pursuit of certainty in generating representations of the world, there is recognition that the world is so textured as to exceed our capacity to understand it, and thus to accede that social science methodologies and forms of knowing will be characterized as much by openess, reflexivity and recursivity as by categorization, conclusion and closure» (p. 258)1. E, quindi, abbiamo provato, più o meno consapevolmente, a “giocare” con la vaghezza e l’ambiguità delle diverse concezioni, ascoltando le suggestioni che ognuna di esse ci consegna e provando a seguirle. C’è un punto di partenza per questo tentativo. E cioè se possiamo parlare di (e possiamo pensare agli) spazi senza parlare di (e senza pensare ai) luoghi, e viceversa. Edward Casey, un filosofo nord-americano che ha scritto molto e diffusamente sul nella post-modernità (o surmodernità) nella retorica dei “non luoghi” (Augé, 1992). In questo percorso (ricostruito ad esempio da Agnew, 2011), lo spazio è visto come insieme delle forze astratte di tipo economico e politico; il luogo è invece considerato come insieme delle relazioni sociali “dense”, di matrice comunitaria, che strutturano la vita sociale e le pratiche quotidiane, secondo un orientamento che si ricollega sia alla geografia fenomenologica (Tuan, 1974 e 1977; Relph, 1976), sia agli approcci centrati sullo studio dei comportamenti degli attori e sulle rappresentazioni spaziali sulle quali si fondano tali comportamenti (Di Méo, 2000; Staszak, 2001; Staeheli, 2003; Cresswell, 2004). Questa lettura separa, concettualmente e politicamente, lo spazio dal luogo. E, facendo corrispondere lo spazio, astratto e fluido, al globale, in cui avvengono e si decidono relazioni e scambi deterritorializzati e deterritorializzanti, e il luogo, stabile e fisso, al locale, in cui “prendono forma” l’unici- concetto di luogo, in un articolo del 2001 sostiene che il rapporto place/space sia uno dei segreti meglio protetti della filosofia2. Secondo Casey, è soprattutto la filosofia moderna che, progressivamente, ha condotto alla messa in discussione della distinzione fra i due concetti. Anzi, ricostruire come e perché si sia affievolita, fino a scomparire, la distinzione fra spazio e luogo (con l’assorbimento del secondo nel primo) sarebbe uno dei modi attraverso cui comprendere il farsi della modernità. La trasposizione del segreto che si cela nella coppia spazio/ luogo nel dibattito geografico ci consegna (almeno) due percorsi. Il primo è un percorso che scava nel rapporto spazio/luogo e nella progressiva “dissoluzione” moderna del luogo nello spazio3. È un percorso che privilegia la mancanza e la perdita: è la narrazione, tante volte letta e sentita, che descrive i connotati spaziali della modernità come anomia, mancanza di identità, omogeneizzazione e spersonalizzazione, per poi “appiattirsi” tà, l’identità, la specificità, racchiude anche un’opposizione scalare. Ma è una lettura che, nelle rappresentazioni “normali” (cfr. Dematteis, 1985), assegna anche dei “valori”: il luogo, concreto e identitario, è infatti considerato “meglio” dello spazio, astratto e fluido. Così come il locale è “meglio” – più giusto, sostenibile ecc. – del globale (per una critica, cfr. Purcell, 2006). Il secondo percorso si situa, invece, negandolo, dentro al rapporto fra spazio e luogo e considera i due concetti non in opposizione, ma all’interno di una relazione dialettica: «space is not outside the place; it is not abstract, it is not somehow “up there” or disembodied» (Massey, 2004, p. 8)4. Specularmente, locale e globale non sono visti come livelli separati e opposti, ma sono ontologicamente compresenti in ogni livello geografico. I luoghi costituiscono un particolare “modo di essere” dello spazio, «particular moments in intersecting social relations, nets of which have over time been constructed, Non-representational Tunisi? Spazio, luogo, pratiche Francesca Governa laid down, interacted with one another, decayed and renewed. Some of these relations will be, as it were, contained within the place; others will stretch beyond it, tying any particular locality into wider relations and processes in which other places are implicated too» (Massey, 1994, p. 120)5. In questo caso, il luogo è visto, cognitivamente e politicamente, né come “contesto” né come “sfondo” (delle azioni, dell’identità, dell’appartenenza) (Amin, 2002), ma come momento (spaziale e temporale) definito dall’apertura e dalle relazioni translocali in cui è inscritto (Thrift, 2006). I luoghi non sono quindi definibili né individuabili in termini di aree o entità geografiche chiuse e delimitate, dotate di identità date, determinate dalla stabilità e dalla chiusura (place-bound), ma sono considerati come intrecci di relazioni (spaziali) situati nello spazio e nel tempo. Intrecci aperti e discontinui che “accadono” e, accadendo, danno luogo (appunto) a conformazioni mutevoli e contingenti in cui la prossimità la logica del o/o: o spazio o luogo e, anche, o globale o locale. E uno è preferibile all’altro. Anche il secondo percorso riconosce il legame fra spazio e luogo con una separazione che però non è concettuale, ma si invera nel fluire dei processi. Come forma di organizzazione socio-spaziale, il luogo si dissolve in un insieme di flussi e relazioni che si “addensano” da qualche parte, senza alcuna materialità o ancoraggio, senza stabilità. Questo dissolversi non è necessariamente una perdita. Come mette in evidenza Roberto Esposito (1998), la comunità (concetto strettamente connesso alla concezione “territoriale” di luogo, cfr. Bagnasco, 1999) può essere pensata non solo in termini “positivi” e appaganti (e quindi, come tale, da rimpiangere), ma come finitezza e vuoto. Il senso comunitario e territoriale non è quindi solo e sempre un “pieno” originale da ritrovare, ma si risolve spesso in processi di chiusura comunitaria e localista, nella costruzione di identità (territoriali) aggressive o co- (fisica) non è sinonimo di similarità o di identità. Entrambi i percorsi individuano un collegamento fra luogo e spazio. Pensare lo spazio senza pensare il luogo (e viceversa) non è quindi una buona idea e non è forse neanche possibile: i due concetti sono legati, in maniera ambigua, ma solida. Il modo di considerare tale legame è però diverso. Nel primo percorso, il legame fra spazio e luogo è il racconto di una mancanza, del dissolvimento di un’organizzazione socio-spaziale ideale (che non esiste più e, forse, non è mai esistita) e del “vuoto” (di senso, di identità, di possibilità) che ne consegue. Il legame fra spazio e luogo, in realtà, li separa: applicando uno schema di ragionamento di tipo binario, i caratteri dello spazio e del luogo sono teoricamente, politicamente e anche scalarmente distinti6. Tale separazione fa’ corrispondere tutto il buono, il bello e il giusto a una parte soltanto del binomio e sostanzia una visione dei luoghi (e del locale) tutta positiva. È munque nostalgiche e regressive (Massey, 2005). Aperture e incroci: lo spazio nel luogo, il luogo nello spazio Benché i due percorsi prima richiamati, anche enfatizzando in maniera un po’ esagerata le differenze e i limiti, siano diversi, e presentino diversi modi di concepire spazio e luogo e il legame fra questi due concetti, non è però necessario tenerli separati (Mc Cann e Ward, 2010). E, in effetti, la distinzione fra i due percorsi è, per tanti versi, una distinzione a priori, che non tiene conto delle molte spazialità – insieme locali e translocali; territoriali e relazionali – nelle quali prendono forma le azioni e le pratiche, si definiscono e si esprimono interessi e poteri, si dispiegano gli effetti spaziali di scelte e decisioni. Se proviamo a “tenere insieme” la visione dello spazio e dei luoghi che afferma come tutto positivo il “valore della territorialità” e la visione che, negando tale valore, finisce per descrivere un mondo in Non-representational Tunisi? Spazio, luogo, pratiche cui tutto è flusso e relazione, è forse possibile posizionarsi, concettualmente, fra fissità e fluidità (Brenner, 1998), incrociando una forma moderata di relazionalità (ad esempio, Jones, 2009) e una forma moderata di territorialismo (ad esempio, Castree, 2004), per combinarle e far sì che si completino vicendevolmente. Il voler “tenere insieme” percorsi diversi non è una scappatoia per non prendere posizione. È piuttosto il tentativo di ricercare una possibilità “altra” per concepire e praticare spazio e luogo e superare così la distinzione fra luogo, come piccolo, vicino e quotidiano, e spazio, come grande, lontano e astratto7. E, diversamente, ma in maniera non meno potente (e diffusa), la visione di un luogo completamente “fluido” e instabile, dissolto nello spazio (cfr., in particolare, la grande fortuna della metafora della liquidità di Zygmunt Bauman, 2002, seguendo la quale è liquida la post-modernità, la vita, la paura e anche l’amore). “Tenere insieme” permette in- vece di non considerare a priori separatamente, in opposizione o in alternativa, le diverse forme dell’organizzazione spaziale, ma di vedere il loro legame come una questione “aperta”, da risolvere ex post, empiricamente. Un posizionamento fra che presenta qualche vantaggio. “Tenendo insieme” i due modi di vedere e pensare spazio e luogo, diventa possibile individuare e nominare (e quindi forse comprendere) diverse forme di organizzazione socio-spaziale, senza decidere a priori chi e cosa entri al loro interno e chi e cosa ne sia invece escluso: le caratteristiche fisico-materiali di organizzazione dello spazio e il dispiegarsi di diversi tipi di relazioni di potere su di esso (forme impositive e di controllo e forme auto-organizzative e di resistenza); le caratteristiche identitarie connesse alla stabilità e alla chiusura e quelle collegate all’intersezione e all’apertura; le relazioni fra livelli scalari e istituzionali; la mobilità, gli scambi e i flussi di persone, merci, informazioni. Un’apertura dello spazio e del Francesca Governa luogo, del modo di guardare allo spazio e al luogo, che non è solo descrittiva e di conoscenza, ma è anche politica, poiché permette di superare la distinzione che fa corrispondere tutto il bene o il male da una parte o dall’altra, mettendo in guardia dal rischio di naturalizzare spazio e luogo sulle contrapposizioni tradizionale/non tradizionale; endogeno/esogeno; conservazione/ innovazione; oggettivo/soggettivo; dentro/fuori; noi/loro. Posizionandosi sull’incrocio, la logica diviene quella e/e: spazio e luogo non sono in alternativa, ma sono “parti” (diverse) delle diverse forme che la spazialità assume (e può assumere) (in particolare, Jessop et al., 2008). Spazio e luogo si “animano” vicendevolmente, si compenetrano, sono pensati come com-possibili (Jones e Jessop, 2010). Da questo incrocio, guardando gli spazi pubblici di Tunisi, si riescono a scorgere le diverse e mutevoli forme che può assumere la spazialità, i ruoli diversi che esse rivestono nel permettere il dispiegarsi di azioni sociali e delle pratiche, individuali e collettive, che “accadono” (e sono quindi almeno moderatamente radicate) in certi e specifici luoghi. La Place de la Kasbah e i luoghi del potere istituzionali e delle manifestazioni, ma anche lo spazio “ritrovato” in cui giocare a calcio e sedersi sulle panchine (come si vede nei video Davanti al palazzo e In piazza e nelle foto Nuvole). L’Avenue Bourguiba e la territorialità esclusiva ed escludente disegnata dal tracciato del filo spinato attorno al Ministero dell’Interno, i luoghi “simbolici” della città, come il Teatro municipale, e lo spazio del quotidiano in cui si passeggia e si guardano le vetrine (come descritto nel testo L’altra faccia di Tunisi ed è raccontato nei video “Questo spazio ora è nostro” e ”La strada dove tutto succede”). Adottando questa prospettiva, che non separa e distingue, ma prova a unire e a rendere com-possibile diversi principi e diverse dimensioni spaziali, riusciamo (forse) a comprendere (cioè: a “prendere insieme”) le Non-representational Tunisi? Spazio, luogo, pratiche Francesca Governa pratiche urbane, sia quelle quotidiane, routinarie e solite (come andare a fare la spesa, incontrarsi con gli amici, sedersi nelle terrazze all’aperto dei caffè), sia quelle più “eccezionali” (come le manifestazioni, i raduni, le contestazioni e le rivolte); sia quelle costruite da forme di interazione sociale più tradizionali, basate sulla prossimità e la compresenza, sia quelle definite da forme di interazione sociale che prescindono dalla prossimità e che definiscono nuovi spazi relazionali. Pensiamo ad esempio a come e quanto la “stagione” delle Primavere Arabe, e anche la rivoluzione tunisina, sia stata raccontata enfatizzando proprio il ruolo delle relazioni virtuali e dei social networks (Geisser, 2012)8. Non si tratta di stabilire se le relazioni basate sulla prossimità e la compresenza siano migliori o peggiori di altri tipi di relazioni fra individui, né di stabilire quanto “spazio virtuale” sia entrato in scena nelle pratiche rivoluzionarie a Tunisi, quanto di riconoscere l’evoluzione delle modalità d’interazione sociale e volte un po’ oscuro della non-representational theory (Thrift, 2008) permette di “situare” teoricamente il nostro tentativo (e forse anche di fornire qualche “legittimazione” a ciò che abbiamo fatto), in specifico per quanto riguarda il superamento della codificazione della realtà in definizioni chiuse e stabili (dello spazio, dei luoghi, delle pratiche) come unica (o prevalente) strategia conoscitiva. Definizioni che appaiono comunque riduttive a fronte di una realtà in continuo mutamento. E non solo per i “grandi” cambiamenti, come una Rivoluzione, ma perché è sempre e comunque diversa per gli attori presenti, per le cose che dicono e fanno e per le sensazioni che provano, per le luci e le ombre, per i suoni e i silenzi, per la nostra presenza (e nostra di chi?), per le nostre sensazioni ed emozioni ecc. Riconoscere l’impossibilità di “fissare” il mondo e, quindi, di rappresentarlo, rischia di essere paralizzante. L’unica mossa possibile per evitare la paralisi è quella di fare “la geografia di la costruzione di nuovi spazi che questa determina. O, infine, possiamo anche provare a intercettare le molteplicità e le differenze dei diversi spazi, mediando fra gli schemi interpretativi dei diversi attori e delle diverse pratiche spaziali che essi mettono in atto come componenti dello spazio di cui sono parte. Se ci posizioniamo sull’incrocio, riusciamo quindi a muoverci fra diversi approcci, letture e punti di vista. Unicità e specificità; identità e relazioni; apertura e chiusura non ci appaiono più come “cose” (relazioni, problemi, opportunità) che possiamo escludere, trascurare, nascondere come brutte o belle secondo l’approccio interpretativo che adottiamo, ma come parti che definiscono, ognuna, pezzi della spazialità, mobilitati e mobilitabili nelle e dalle pratiche. Seguire le pratiche, ascoltare le emozioni Non ci era chiaro questo modo di procedere. Eppure questo tentativo non è così insolito. Il quadro, eclettico, multiforme e a ciò che accade”: seguire i processi, i movimenti, le relazioni, le sensazioni, le emozioni, il fluire delle cose. E cioè praticare quella strategia che, seguendo il lessico della non-representational theory, possiamo qualificare come non cognitive ways of knowing in cui il pre-cognitivo è «something more than an addendum to the cognitive» (Thrift, 2008, p. 6)9. Una strategia conoscitiva che riconosce “l’intelligenza delle emozioni” (Nussbaum, 2003) nella vita degli esseri umani, e quindi anche nelle loro pratiche (spaziali e di ricerca spaziale). Ma che permette anche (anzi forse richiede) di “introdurre” le emozioni e i sentimenti come fonti da cui trarre informazioni – soggettive e incerte, ma non per questo meno presenti - per descrivere un luogo e “ciò che accade” in quel luogo (Anderson e Smith, 2001). L’ipotesi sottesa a questa strategia è tanto evidente, quanto “scientificamente eterodossa”: «social fabrics and practices are not locked in to rational or Non-representational Tunisi? Spazio, luogo, pratiche Francesca Governa predictable logics, and often are visceral and instinctive» (Lorimer, 2008, p. 552)10. Paradossalmente, ma forse neanche troppo, ascoltare le emozioni e i sentimenti (o almeno provarci) diviene un modo per “entrare” nella realtà, superando così l’idea (consolatoria, ma debole) che esistano dei modelli, generali e generalizzabili, che permettono di catalogare, descrivere, rappresentare e spiegare la (e poi magari intervenire nella) complessità anche “viscerale e instintiva” del mondo. Nel nostro caso, poi, i luoghi e gli spazi che abbiamo “praticato”, sono i luoghi e gli spazi di una Rivoluzione, e quindi di dispiegamenti passionali, emotivi e sentimentali quanto mai “potenti”. E, in più, almeno in parte, collettivi. Su questo aspetto ci sarebbe molto lavoro da fare per non cadere in una visione “facilmente” emozionale della geografia, secondo la quale i luoghi trasmettono emozioni (paura, gioia, repulsione, attaccamento, piacere ecc.) ai soggetti che li “abitano”11. Non è tanto e solo zioni geografiche? E ciò che impariamo può essere compreso da altri, trasmesso ad altri, condiviso almeno nel metodo o nel linguaggio?); del significato politico di un simile modo di intendere e praticare la geografia (che rilevanza politica e/o nel “pubblico” ha praticare una geografia di questo genere? E quali implicazioni etiche comporta?). Tutte domande (e ovviamente se ne potrebbero fare anche altre) su cui è necessario riflettere, cercando di situarsi entro un dibattito piuttosto articolato (almeno nell’ambito della geografia anglofona), per provare a incrociare le diverse posizioni in esso presenti con strumenti e concetti interpretativi a noi più consoni e vicini e con l’inatteso che è emerso facendo, quasi senza accorgercene (e comunque senza averlo preventivato), una esplorazione indiziaria anche nel campo della geografia delle emozioni. questo: questo modo di intendere e praticare una geografia delle emozioni riconosce solo debolmente (e quindi solo debolmente considera) il ruolo delle emozioni del/la ricercatore/trice come “strategia conoscitiva” dei luoghi stessi; blocca le emozioni in sé e nei luoghi (in un percorso unidirezionale, che va dai luoghi al soggetto); tende a mantenere una distinzione fra il campo delle emozioni (privato) e la sfera pubblica e/o politica12. Abbiamo quindi una suggestione, quella di provare a praticare una geografia che provi a confrontarsi con l’imprevedibilità e la non-razionalità dell’esistente, ma scarsa chiarezza teorica (cosa sono le emozioni? Cos’è la geografia delle emozioni? Ed è questa la strada da percorrere per provare a descrivere, benché non pienamente rappresentare, e quindi a comprendere, la complessità multidimensionale del reale?); metodologica (come si studia la geografia delle emozioni e, parallelamente, come possiamo “imparare” dalle emozioni nelle e per le nostre descri- Provare ad andare (e guardare) oltre Secondo i principi della non-representational theory, spazi e luoghi non sono rappresentabili, ma sono solo individuabili seguendo le pratiche e guardando i cambiamenti e gli eventi, anche quelli più minuti, che “accadono” al loro interno. Se poi questi luoghi e questi spazi sono i luoghi e gli spazi in cui si è svolta una Rivoluzione, è davvero solo il cambiamento che possiamo immaginare di riuscire a cogliere: possiamo riconoscere ciò che è stato, ma sapendo che non si stratifica, che si apre a nuovi, e continui, mutamenti, in cui si succedono senza sosta grandi e piccoli eventi che mutano ciò che proviamo a raccontare. Tuttavia, se è vero che non tutto è rappresentabile, forse però qualcosa lo è; così come, se il mutamento qualifica le caratteristiche dei luoghi e degli spazi, non tutto è però mutevole e volatile13. Esistono anche altri “sguardi”, altri quadri teorici di riferimento, che riconoscono, ad esempio, che spazio e luogo presentano una materialità “stabile” (benché non immodificabile) o che le forme del potere che su di essi e in essi si dispiegano la- Non-representational Tunisi? Spazio, luogo, pratiche Francesca Governa sciano dei segni, nella spazialità e nelle pratiche che si svolgono al loro interno, influendo su ciò che accade e ciò che non accade. Distinguendo fra contesto e azione sociale, Lorimer (2008) scrive: «to do so is to conceive of representation (context) and non-representation (practice) held together – albeit sometimes in tension – rather than effecting a complete reversal of the earlier disciplinary tradition when signifying (con)texts were privileged over social actions» (p. 4)14. Le azioni sociali, le pratiche, il ciò che accade non è quindi solo frutto della contingenza, degli eventi e delle relazioni, ma anche del fatto che queste azioni, queste pratiche non avvengono “nell’aria”, ma in un certo luogo e derivano quindi anche, almeno debolemente, dal radicamento spaziale di soggetti, azioni, movimenti (Leitner et al., 2008; Nicholls, 2009)15. Possiamo quindi provare a usare la non-representational theory come “backgrounds hum” (Lorimer, 2008), e, da qui, provare a “muoverci fra” diverse concezio- are not about you or it, subject or object. They are relations that inspire the world» (Dewsbury et al., 2002, p. 439)17. Una geografia degli affects è quindi una geografia delle “relazioni fra” e, contemporaneamente di ciò che c’è nella relazione («in the between of the relation» Anderson, 2006, p. 737): fra soggetti, fra soggetti e oggetti, fra descrizioni e azioni…18 Intesa in questo modo, la geografia delle emozioni (e degli affects) permette di porre in maniera forse diversa una delle questioni al centro delle riflessioni sulle metodologie qualitative nella ricerca geografica: e cioè il problema del posizionamento del/la ricercatore/trice nel “contesto” della ricerca e la (insolubile) dicotomia fra insider e ousider, fra il “non voler essere fuori” e l’impossibilità di essere “perfettamente dentro”. La lettura dicotomica schematizza le differenze separando, da un lato, un ricercatore insider alla società e al territorio, giudicato positivamente, ma in realtà impossibile da attuare; dall’altro ni dello spazio e dei luoghi (e, più in generale, tra diversi modi di pensare e fare geografia). Al momento, però, è solo possibile intravvedere qualche pista di ricerca e qualche collegamento, una trama che disegna un percorso di lavoro possibile, ancora un po’ sfocato ma con qualche parte più chiara. Uno dei punti di ingresso in questo percorso concerne i diversi modi di definire e praticare la geografia delle emozioni: dalle “radici” nella geografia femminista, che riconoscono le differenze di genere nel legame fra l’organizzazione spaziale e la sfera emotiva, sia dal punto di vista teorico sia da quello pratico, alla distinzione fra emozioni e affects, intendendo questi ultimi come «properties, competencies, modalities, energies, attunements, arrangements and intensities of differing texture, temporality, velocity and spatiality, that act on bodies, are produced through bodies and transmitted by bodies» (Lorimer, 2008, p. 2)16. La differenza fra i due termini non è una questione puramente lessicale: «affects lato, un ricercatore outsider rispetto alla società e al territorio che descrive, giudicato negativamente, ma in realtà ineluttabile (Crang, 2005; Crang e Cook, 2007; Kindon et al., 2007). Ma questa dicotomia, e questa rigida separazione, sono davvero inevitabili? Non è possibile, in altri termini, riformulare in maniera differente la questione del posizionamento e aggirare l’entrata diretta su una questione che, posta così, rischia di essere senza via di uscita? Per provare ad andare (e guardare) oltre, possiamo interrogare il lavoro che abbiamo svolto, riflettendo in particolare sul ruolo delle pratiche visuali e delle metodologie della geografia visuale, nonché sul valore (ma anche sui limiti) del posizionamento esplicito (e visibile) del/la ricercatore/trice all’interno dei luoghi (noi, con le nostre facce, le nostre voci, le nostre paure, le nostre debolezze, il nostro orgoglio…), nel trattare tale questione19. E, più in generale, nel favorire/permettere il dispiegarsi di una strategia conoscitiva non Non-representational Tunisi? Spazio, luogo, pratiche Francesca Governa (del tutto) cognitiva e non (del tutto) rappresentativa per fare una geografia del nascosto (le emozioni, le cose che non si vedono, il posizionamento etico, i valori….), così come per confrontarsi con la rilevanza politica e sociale di questi strumenti e, soprattutto, di questa modalità di fare ricerca. Un percorso di ricerca da svolgere però non tanto (o non soltanto) in termini astratti, ma ricercando le possibilità di “agire nel dire” e, quindi, di agire nell’azione (della ricerca e delle pratiche della ricerca). Casey E. S. (1997), The fate of place. A philosophical history, University of California Press, Berkeley. Casey E. S. (2001), “Espaces lisses et lieux bruts”, Revue de métaphysique et de morale, 32 (4), pp. 465-481. Castree N. (2004), “Differential geographies: place, indigenous rights and ‘local’ resources”, Political geographies, 23, pp. 133-167. Crang M. 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Sack (2000) scrive «When an eminent philosopher argues that place, not space, is fundamental, geographers should pay attention» (2000, p. 136) («quando un eminente filosofo sostiene che il luogo, non lo spazio, è fondamentale, i geografi dovrebbero prestare attenzione»). 3. Per la biforcazione fra i due concetti, e gli orientamenti teorici e culturali in cui si innesta, cfr. Portugali (2006). 4. «lo spazio non è al di fuori del luogo, non è astratto, non è da qualche parte “lassù” o incorporeo». 5. «momenti particolari che derivano dall’intersezione di relazioni sociali, reti da cui sono stati costruiti nel corso del tempo, che hanno permesso la loro interazione, (…) che hanno consentito il loro decadimento e il loro rinnovamento. Alcune di queste relazioni è come se fossero contenute all’interno del luogo; altre si estendono al di là di esso, connettendo una località particolare all’interno di relazioni più ampie e in più ampi processi in cui sono coinvolti anche altri luoghi». 6. Per una critica più generale agli schemi di ragionamento binari, cfr. Latour (2005). 7. Come scrive Amin (2004), «the local continues to be seen as the space of the intimate, the familiar, the near, the embodied; that is, as a space constitutively separate and different from a global space seen as the space of the afar, the abstract, the virtual, the encroaching, the hegemonic» (p. 33) («il locale continua a essere visto come lo spazio dell’intimo, del familiare, del vicino, del corporeo; cioè, come spazio costitutivamente separato e diverso dallo spazio globale visto come lo spazio del lontano, dell’astratto, del virtuale, dello sconfinato, dell’egemonico»). 8. Più in generale, sul ruolo degli spazi virtuali nelle pratiche rivoluzionarie e nei movimenti di protesta, e sul loro “necessario” rapporto con la dimensione della fisicità e della materialità che prende forma negli spazi pubblici e nelle piazze, cfr. Gerbaudo (2012) e il commento e la recensione di Pollio (2013). 9. «qualcosa di più di un’appendice del cognitivo». Francesca Governa 10. «gli spazi e le pratiche sociali non sono bloccati in logiche razionali e prevedibili, e spesso sono viscerali e istintive». 11. Una ricostruzione del modo diverso di intendere e praticare una geografia delle emozioni nel dibattito della geografia anglofona è contenuta in Pile (2010). 12. Per una critica su questi e altri aspetti, cfr. Anderson e Smith (2001), che considerano la “geografia delle emozioni” come modo di conoscere, essere e fare; sul ruolo politico delle emozioni e delle passioni, e del modo di conoscere che usa emozioni e passioni, cfr., più in generale, Nussbaum (2003). 13. cfr., ad esempio, la “critica simpatetica” alla non-representation theory avanzata da Cresswell (2006). 14. «per farlo possiamo concepire insieme la rappresentazione (contesto) e la non-rappresentazione (pratica) – benché esse siano a volte in tensione -, piuttosto che effettuare un completo rovesciamento della precedente tradizione disciplinare, in cui i (con)testi erano privilegiati rispetto alle azioni sociali» 15. Gli articoli di Leitner et al. (2008) e Nicholls (2009) riguardano entrambi la spazialità dei movimenti sociali e delle contentious politics e, pur partendo da prospettive in parte diverse, criticano la “egemonia” assunta dal concetto di scala nell’interpretazione della geografia dell’azione collettiva e convergono sulla necessità di innovare il lessico attraverso cui descrivere il ruolo dell’organizzazione socio-spaziale (considerando almeno luogo, territorio, scala, rete, cfr. Jessop et al., 2008) nella comprensione (interpretativa e politica) delle azioni sociali. 16. «proprietà, competenze, modalità, energie, attivazioni, accordi e intensità di diversa trama, temporalità, velocità e spazialità, che agiscono sui corpi, sono prodotti attraverso i corpi e trasmessi dai corpi». 17. «non sono relative a te o a quella cosa, soggetto o oggetto. Sono relazioni che animano il mondo». 18. «nel tra della relazione». 19. Per una rassegna delle diverse metodologie della ricerca visuale in geografia, cfr. Bignante, 2011; per alcuni primi riferimenti per iniziare a interrogare il valore non solo metodologico delle pratiche visuali, cfr. Crang (2003); Driver (2003); Garrett (2010); Roberts (2012).