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Non-representational Tunisi? Spazio, luogo

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Non-representational Tunisi? Spazio, luogo
Testo di Francesca Governa
Non-representational
Tunisi? Spazio, luogo,
pratiche
Un segreto e due percorsi
Nel discorso comune, spazio e
luogo sono “quasi” sinonimi.
Ma è in quel “quasi” che si insinua il dubbio; è quel “quasi”
che affascina; è in quel “quasi”
che ci si può posizionare per
capire cosa manca, cosa resta
fuori. Nella nostra esplorazione,
nel nostro ragionare e percorrere la città, nel nostro seguire le
pratiche nel loro farsi e nel fare
gli spazi pubblici di Tunisi ci siamo posti nel “quasi” fra spazio e
luogo. Non siamo cioè partiti da
una ricostruzione sistematica dei
diversi (e spesso contraddittori)
quadri teorici e interpretativi in
cui si situa la riflessione su spa-
Non-representational Tunisi? Spazio, luogo, pratiche
Francesca Governa
zio e luogo, per chiarire le differenze (e le somiglianze) fra i due
concetti. Abbiamo invece, più
o meno consapevolmente, fatto
nostro quanto scrivono Davies e
Dwyer (2007): «in place of the
pursuit of certainty in generating
representations of the world,
there is recognition that the world is so textured as to exceed our
capacity to understand it, and
thus to accede that social science methodologies and forms of
knowing will be characterized
as much by openess, reflexivity
and recursivity as by categorization, conclusion and closure» (p.
258)1. E, quindi, abbiamo provato, più o meno consapevolmente, a “giocare” con la vaghezza e
l’ambiguità delle diverse concezioni, ascoltando le suggestioni
che ognuna di esse ci consegna
e provando a seguirle.
C’è un punto di partenza per
questo tentativo. E cioè se possiamo parlare di (e possiamo
pensare agli) spazi senza parlare
di (e senza pensare ai) luoghi, e
viceversa. Edward Casey, un filosofo nord-americano che ha
scritto molto e diffusamente sul
nella post-modernità (o surmodernità) nella retorica dei “non
luoghi” (Augé, 1992). In questo
percorso (ricostruito ad esempio da Agnew, 2011), lo spazio
è visto come insieme delle forze astratte di tipo economico e
politico; il luogo è invece considerato come insieme delle relazioni sociali “dense”, di matrice
comunitaria, che strutturano la
vita sociale e le pratiche quotidiane, secondo un orientamento
che si ricollega sia alla geografia fenomenologica (Tuan, 1974
e 1977; Relph, 1976), sia agli
approcci centrati sullo studio
dei comportamenti degli attori e sulle rappresentazioni spaziali sulle quali si fondano tali
comportamenti (Di Méo, 2000;
Staszak, 2001; Staeheli, 2003;
Cresswell, 2004). Questa lettura
separa, concettualmente e politicamente, lo spazio dal luogo.
E, facendo corrispondere lo spazio, astratto e fluido, al globale,
in cui avvengono e si decidono
relazioni e scambi deterritorializzati e deterritorializzanti, e il
luogo, stabile e fisso, al locale,
in cui “prendono forma” l’unici-
concetto di luogo, in un articolo
del 2001 sostiene che il rapporto
place/space sia uno dei segreti
meglio protetti della filosofia2.
Secondo Casey, è soprattutto la
filosofia moderna che, progressivamente, ha condotto alla messa
in discussione della distinzione
fra i due concetti. Anzi, ricostruire come e perché si sia affievolita, fino a scomparire, la distinzione fra spazio e luogo (con
l’assorbimento del secondo nel
primo) sarebbe uno dei modi attraverso cui comprendere il farsi
della modernità.
La trasposizione del segreto
che si cela nella coppia spazio/
luogo nel dibattito geografico ci
consegna (almeno) due percorsi.
Il primo è un percorso che scava nel rapporto spazio/luogo e
nella progressiva “dissoluzione”
moderna del luogo nello spazio3. È un percorso che privilegia la mancanza e la perdita: è
la narrazione, tante volte letta e
sentita, che descrive i connotati
spaziali della modernità come
anomia, mancanza di identità,
omogeneizzazione e spersonalizzazione, per poi “appiattirsi”
tà, l’identità, la specificità, racchiude anche un’opposizione
scalare. Ma è una lettura che,
nelle rappresentazioni “normali”
(cfr. Dematteis, 1985), assegna
anche dei “valori”: il luogo, concreto e identitario, è infatti considerato “meglio” dello spazio,
astratto e fluido. Così come il locale è “meglio” – più giusto, sostenibile ecc. – del globale (per
una critica, cfr. Purcell, 2006).
Il secondo percorso si situa,
invece, negandolo, dentro al
rapporto fra spazio e luogo e
considera i due concetti non in
opposizione, ma all’interno di
una relazione dialettica: «space
is not outside the place; it is not
abstract, it is not somehow “up
there” or disembodied» (Massey, 2004, p. 8)4. Specularmente, locale e globale non sono
visti come livelli separati e opposti, ma sono ontologicamente compresenti in ogni livello
geografico. I luoghi costituiscono un particolare “modo di essere” dello spazio, «particular
moments in intersecting social
relations, nets of which have
over time been constructed,
Non-representational Tunisi? Spazio, luogo, pratiche
Francesca Governa
laid down, interacted with one
another, decayed and renewed.
Some of these relations will be,
as it were, contained within the
place; others will stretch beyond
it, tying any particular locality
into wider relations and processes in which other places are implicated too» (Massey, 1994, p.
120)5. In questo caso, il luogo
è visto, cognitivamente e politicamente, né come “contesto”
né come “sfondo” (delle azioni,
dell’identità, dell’appartenenza)
(Amin, 2002), ma come momento (spaziale e temporale) definito dall’apertura e dalle relazioni translocali in cui è inscritto
(Thrift, 2006). I luoghi non sono
quindi definibili né individuabili
in termini di aree o entità geografiche chiuse e delimitate, dotate di identità date, determinate
dalla stabilità e dalla chiusura
(place-bound), ma sono considerati come intrecci di relazioni
(spaziali) situati nello spazio e
nel tempo. Intrecci aperti e discontinui che “accadono” e, accadendo, danno luogo (appunto) a conformazioni mutevoli e
contingenti in cui la prossimità
la logica del o/o: o spazio o luogo e, anche, o globale o locale. E
uno è preferibile all’altro.
Anche il secondo percorso riconosce il legame fra spazio e
luogo con una separazione che
però non è concettuale, ma si
invera nel fluire dei processi.
Come forma di organizzazione socio-spaziale, il luogo si
dissolve in un insieme di flussi
e relazioni che si “addensano”
da qualche parte, senza alcuna
materialità o ancoraggio, senza
stabilità. Questo dissolversi non
è necessariamente una perdita.
Come mette in evidenza Roberto Esposito (1998), la comunità
(concetto strettamente connesso alla concezione “territoriale”
di luogo, cfr. Bagnasco, 1999)
può essere pensata non solo in
termini “positivi” e appaganti (e
quindi, come tale, da rimpiangere), ma come finitezza e vuoto. Il
senso comunitario e territoriale
non è quindi solo e sempre un
“pieno” originale da ritrovare,
ma si risolve spesso in processi
di chiusura comunitaria e localista, nella costruzione di identità (territoriali) aggressive o co-
(fisica) non è sinonimo di similarità o di identità.
Entrambi i percorsi individuano un collegamento fra luogo e
spazio. Pensare lo spazio senza
pensare il luogo (e viceversa)
non è quindi una buona idea e
non è forse neanche possibile:
i due concetti sono legati, in
maniera ambigua, ma solida. Il
modo di considerare tale legame
è però diverso.
Nel primo percorso, il legame
fra spazio e luogo è il racconto
di una mancanza, del dissolvimento di un’organizzazione
socio-spaziale ideale (che non
esiste più e, forse, non è mai
esistita) e del “vuoto” (di senso,
di identità, di possibilità) che ne
consegue. Il legame fra spazio e
luogo, in realtà, li separa: applicando uno schema di ragionamento di tipo binario, i caratteri
dello spazio e del luogo sono
teoricamente, politicamente e
anche scalarmente distinti6. Tale
separazione fa’ corrispondere
tutto il buono, il bello e il giusto
a una parte soltanto del binomio
e sostanzia una visione dei luoghi (e del locale) tutta positiva. È
munque nostalgiche e regressive
(Massey, 2005).
Aperture e incroci:
lo spazio nel luogo,
il luogo nello spazio
Benché i due percorsi prima richiamati, anche enfatizzando
in maniera un po’ esagerata le
differenze e i limiti, siano diversi, e presentino diversi modi
di concepire spazio e luogo e il
legame fra questi due concetti,
non è però necessario tenerli separati (Mc Cann e Ward, 2010).
E, in effetti, la distinzione fra i
due percorsi è, per tanti versi,
una distinzione a priori, che non
tiene conto delle molte spazialità – insieme locali e translocali;
territoriali e relazionali – nelle
quali prendono forma le azioni
e le pratiche, si definiscono e si
esprimono interessi e poteri, si
dispiegano gli effetti spaziali di
scelte e decisioni. Se proviamo a
“tenere insieme” la visione dello
spazio e dei luoghi che afferma
come tutto positivo il “valore
della territorialità” e la visione
che, negando tale valore, finisce per descrivere un mondo in
Non-representational Tunisi? Spazio, luogo, pratiche
cui tutto è flusso e relazione, è
forse possibile posizionarsi, concettualmente, fra fissità e fluidità (Brenner, 1998), incrociando
una forma moderata di relazionalità (ad esempio, Jones, 2009)
e una forma moderata di territorialismo (ad esempio, Castree,
2004), per combinarle e far sì
che si completino vicendevolmente.
Il voler “tenere insieme” percorsi diversi non è una scappatoia per non prendere posizione. È
piuttosto il tentativo di ricercare
una possibilità “altra” per concepire e praticare spazio e luogo e superare così la distinzione
fra luogo, come piccolo, vicino
e quotidiano, e spazio, come
grande, lontano e astratto7. E, diversamente, ma in maniera non
meno potente (e diffusa), la visione di un luogo completamente “fluido” e instabile, dissolto
nello spazio (cfr., in particolare,
la grande fortuna della metafora
della liquidità di Zygmunt Bauman, 2002, seguendo la quale
è liquida la post-modernità, la
vita, la paura e anche l’amore).
“Tenere insieme” permette in-
vece di non considerare a priori
separatamente, in opposizione
o in alternativa, le diverse forme
dell’organizzazione spaziale, ma
di vedere il loro legame come
una questione “aperta”, da risolvere ex post, empiricamente.
Un posizionamento fra che
presenta qualche vantaggio. “Tenendo insieme” i due modi di
vedere e pensare spazio e luogo,
diventa possibile individuare e
nominare (e quindi forse comprendere) diverse forme di organizzazione socio-spaziale, senza
decidere a priori chi e cosa entri
al loro interno e chi e cosa ne sia
invece escluso: le caratteristiche
fisico-materiali di organizzazione dello spazio e il dispiegarsi di
diversi tipi di relazioni di potere
su di esso (forme impositive e di
controllo e forme auto-organizzative e di resistenza); le caratteristiche identitarie connesse
alla stabilità e alla chiusura e
quelle collegate all’intersezione e all’apertura; le relazioni
fra livelli scalari e istituzionali;
la mobilità, gli scambi e i flussi
di persone, merci, informazioni.
Un’apertura dello spazio e del
Francesca Governa
luogo, del modo di guardare allo
spazio e al luogo, che non è solo
descrittiva e di conoscenza, ma
è anche politica, poiché permette di superare la distinzione che
fa corrispondere tutto il bene o
il male da una parte o dall’altra,
mettendo in guardia dal rischio
di naturalizzare spazio e luogo
sulle contrapposizioni tradizionale/non tradizionale; endogeno/esogeno; conservazione/
innovazione; oggettivo/soggettivo; dentro/fuori; noi/loro. Posizionandosi sull’incrocio, la logica diviene quella e/e: spazio
e luogo non sono in alternativa,
ma sono “parti” (diverse) delle
diverse forme che la spazialità assume (e può assumere) (in
particolare, Jessop et al., 2008).
Spazio e luogo si “animano” vicendevolmente, si compenetrano, sono pensati come com-possibili (Jones e Jessop, 2010).
Da questo incrocio, guardando gli spazi pubblici di Tunisi, si
riescono a scorgere le diverse e
mutevoli forme che può assumere la spazialità, i ruoli diversi che
esse rivestono nel permettere il
dispiegarsi di azioni sociali e
delle pratiche, individuali e collettive, che “accadono” (e sono
quindi almeno moderatamente
radicate) in certi e specifici luoghi. La Place de la Kasbah e i
luoghi del potere istituzionali e
delle manifestazioni, ma anche
lo spazio “ritrovato” in cui giocare a calcio e sedersi sulle panchine (come si vede nei video
Davanti al palazzo e In piazza e nelle foto Nuvole). L’Avenue Bourguiba e la territorialità
esclusiva ed escludente disegnata dal tracciato del filo spinato
attorno al Ministero dell’Interno,
i luoghi “simbolici” della città,
come il Teatro municipale, e lo
spazio del quotidiano in cui si
passeggia e si guardano le vetrine (come descritto nel testo L’altra faccia di Tunisi ed è raccontato nei video “Questo spazio
ora è nostro” e ”La strada dove
tutto succede”).
Adottando questa prospettiva, che non separa e distingue,
ma prova a unire e a rendere
com-possibile diversi principi e
diverse dimensioni spaziali, riusciamo (forse) a comprendere
(cioè: a “prendere insieme”) le
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Francesca Governa
pratiche urbane, sia quelle quotidiane, routinarie e solite (come
andare a fare la spesa, incontrarsi con gli amici, sedersi nelle
terrazze all’aperto dei caffè), sia
quelle più “eccezionali” (come
le manifestazioni, i raduni, le
contestazioni e le rivolte); sia
quelle costruite da forme di interazione sociale più tradizionali,
basate sulla prossimità e la compresenza, sia quelle definite da
forme di interazione sociale che
prescindono dalla prossimità e
che definiscono nuovi spazi relazionali. Pensiamo ad esempio
a come e quanto la “stagione”
delle Primavere Arabe, e anche
la rivoluzione tunisina, sia stata
raccontata enfatizzando proprio
il ruolo delle relazioni virtuali
e dei social networks (Geisser,
2012)8. Non si tratta di stabilire
se le relazioni basate sulla prossimità e la compresenza siano
migliori o peggiori di altri tipi di
relazioni fra individui, né di stabilire quanto “spazio virtuale”
sia entrato in scena nelle pratiche
rivoluzionarie a Tunisi, quanto di
riconoscere l’evoluzione delle
modalità d’interazione sociale e
volte un po’ oscuro della non-representational theory (Thrift,
2008) permette di “situare” teoricamente il nostro tentativo
(e forse anche di fornire qualche “legittimazione” a ciò che
abbiamo fatto), in specifico per
quanto riguarda il superamento
della codificazione della realtà in definizioni chiuse e stabili
(dello spazio, dei luoghi, delle
pratiche) come unica (o prevalente) strategia conoscitiva. Definizioni che appaiono comunque
riduttive a fronte di una realtà
in continuo mutamento. E non
solo per i “grandi” cambiamenti,
come una Rivoluzione, ma perché è sempre e comunque diversa per gli attori presenti, per le
cose che dicono e fanno e per
le sensazioni che provano, per le
luci e le ombre, per i suoni e i
silenzi, per la nostra presenza (e
nostra di chi?), per le nostre sensazioni ed emozioni ecc.
Riconoscere l’impossibilità di
“fissare” il mondo e, quindi, di
rappresentarlo, rischia di essere paralizzante. L’unica mossa
possibile per evitare la paralisi
è quella di fare “la geografia di
la costruzione di nuovi spazi che
questa determina. O, infine, possiamo anche provare a intercettare le molteplicità e le differenze dei diversi spazi, mediando
fra gli schemi interpretativi dei
diversi attori e delle diverse pratiche spaziali che essi mettono
in atto come componenti dello
spazio di cui sono parte.
Se ci posizioniamo sull’incrocio, riusciamo quindi a muoverci fra diversi approcci, letture e
punti di vista. Unicità e specificità; identità e relazioni; apertura
e chiusura non ci appaiono più
come “cose” (relazioni, problemi, opportunità) che possiamo
escludere, trascurare, nascondere come brutte o belle secondo
l’approccio interpretativo che
adottiamo, ma come parti che
definiscono, ognuna, pezzi della
spazialità, mobilitati e mobilitabili nelle e dalle pratiche.
Seguire le pratiche,
ascoltare le emozioni
Non ci era chiaro questo modo
di procedere. Eppure questo tentativo non è così insolito. Il quadro, eclettico, multiforme e a
ciò che accade”: seguire i processi, i movimenti, le relazioni,
le sensazioni, le emozioni, il fluire delle cose. E cioè praticare
quella strategia che, seguendo
il lessico della non-representational theory, possiamo qualificare come non cognitive ways
of knowing in cui il pre-cognitivo è «something more than
an addendum to the cognitive»
(Thrift, 2008, p. 6)9. Una strategia conoscitiva che riconosce
“l’intelligenza delle emozioni”
(Nussbaum, 2003) nella vita degli esseri umani, e quindi anche
nelle loro pratiche (spaziali e di
ricerca spaziale). Ma che permette anche (anzi forse richiede) di “introdurre” le emozioni
e i sentimenti come fonti da cui
trarre informazioni – soggettive e incerte, ma non per questo
meno presenti - per descrivere
un luogo e “ciò che accade” in
quel luogo (Anderson e Smith,
2001).
L’ipotesi sottesa a questa strategia è tanto evidente, quanto
“scientificamente eterodossa”:
«social fabrics and practices
are not locked in to rational or
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Francesca Governa
predictable logics, and often
are visceral and instinctive»
(Lorimer, 2008, p. 552)10. Paradossalmente, ma forse neanche
troppo, ascoltare le emozioni e
i sentimenti (o almeno provarci)
diviene un modo per “entrare”
nella realtà, superando così l’idea (consolatoria, ma debole)
che esistano dei modelli, generali e generalizzabili, che permettono di catalogare, descrivere, rappresentare e spiegare la
(e poi magari intervenire nella)
complessità anche “viscerale e
instintiva” del mondo. Nel nostro caso, poi, i luoghi e gli spazi
che abbiamo “praticato”, sono i
luoghi e gli spazi di una Rivoluzione, e quindi di dispiegamenti
passionali, emotivi e sentimentali quanto mai “potenti”. E, in
più, almeno in parte, collettivi.
Su questo aspetto ci sarebbe
molto lavoro da fare per non cadere in una visione “facilmente” emozionale della geografia,
secondo la quale i luoghi trasmettono emozioni (paura, gioia, repulsione, attaccamento,
piacere ecc.) ai soggetti che li
“abitano”11. Non è tanto e solo
zioni geografiche? E ciò che impariamo può essere compreso da
altri, trasmesso ad altri, condiviso almeno nel metodo o nel linguaggio?); del significato politico
di un simile modo di intendere
e praticare la geografia (che rilevanza politica e/o nel “pubblico”
ha praticare una geografia di questo genere? E quali implicazioni
etiche comporta?). Tutte domande (e ovviamente se ne potrebbero fare anche altre) su cui è
necessario riflettere, cercando di
situarsi entro un dibattito piuttosto articolato (almeno nell’ambito della geografia anglofona), per
provare a incrociare le diverse
posizioni in esso presenti con
strumenti e concetti interpretativi
a noi più consoni e vicini e con
l’inatteso che è emerso facendo,
quasi senza accorgercene (e comunque senza averlo preventivato), una esplorazione indiziaria
anche nel campo della geografia
delle emozioni.
questo: questo modo di intendere e praticare una geografia delle emozioni riconosce solo debolmente (e quindi solo debolmente considera) il ruolo delle
emozioni del/la ricercatore/trice
come “strategia conoscitiva” dei
luoghi stessi; blocca le emozioni
in sé e nei luoghi (in un percorso
unidirezionale, che va dai luoghi al soggetto); tende a mantenere una distinzione fra il campo delle emozioni (privato) e la
sfera pubblica e/o politica12.
Abbiamo quindi una suggestione, quella di provare a praticare
una geografia che provi a confrontarsi con l’imprevedibilità e
la non-razionalità dell’esistente, ma scarsa chiarezza teorica
(cosa sono le emozioni? Cos’è
la geografia delle emozioni? Ed
è questa la strada da percorrere
per provare a descrivere, benché non pienamente rappresentare, e quindi a comprendere, la
complessità multidimensionale
del reale?); metodologica (come
si studia la geografia delle emozioni e, parallelamente, come
possiamo “imparare” dalle emozioni nelle e per le nostre descri-
Provare ad andare
(e guardare) oltre
Secondo i principi della non-representational theory, spazi e
luoghi non sono rappresentabili,
ma sono solo individuabili seguendo le pratiche e guardando i
cambiamenti e gli eventi, anche
quelli più minuti, che “accadono” al loro interno. Se poi questi
luoghi e questi spazi sono i luoghi e gli spazi in cui si è svolta
una Rivoluzione, è davvero solo
il cambiamento che possiamo
immaginare di riuscire a cogliere: possiamo riconoscere ciò che
è stato, ma sapendo che non si
stratifica, che si apre a nuovi, e
continui, mutamenti, in cui si
succedono senza sosta grandi e
piccoli eventi che mutano ciò
che proviamo a raccontare.
Tuttavia, se è vero che non tutto è rappresentabile, forse però
qualcosa lo è; così come, se il
mutamento qualifica le caratteristiche dei luoghi e degli spazi, non tutto è però mutevole e
volatile13. Esistono anche altri
“sguardi”, altri quadri teorici di
riferimento, che riconoscono, ad
esempio, che spazio e luogo presentano una materialità “stabile”
(benché non immodificabile) o
che le forme del potere che su
di essi e in essi si dispiegano la-
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sciano dei segni, nella spazialità
e nelle pratiche che si svolgono
al loro interno, influendo su ciò
che accade e ciò che non accade. Distinguendo fra contesto e
azione sociale, Lorimer (2008)
scrive: «to do so is to conceive
of representation (context) and
non-representation
(practice)
held together – albeit sometimes
in tension – rather than effecting
a complete reversal of the earlier
disciplinary tradition when signifying (con)texts were privileged over social actions» (p. 4)14.
Le azioni sociali, le pratiche,
il ciò che accade non è quindi
solo frutto della contingenza,
degli eventi e delle relazioni,
ma anche del fatto che queste
azioni, queste pratiche non avvengono “nell’aria”, ma in un
certo luogo e derivano quindi
anche, almeno debolemente,
dal radicamento spaziale di soggetti, azioni, movimenti (Leitner
et al., 2008; Nicholls, 2009)15.
Possiamo quindi provare a usare la non-representational theory
come “backgrounds hum” (Lorimer, 2008), e, da qui, provare a
“muoverci fra” diverse concezio-
are not about you or it, subject
or object. They are relations that
inspire the world» (Dewsbury
et al., 2002, p. 439)17. Una geografia degli affects è quindi una
geografia delle “relazioni fra”
e, contemporaneamente di ciò
che c’è nella relazione («in the
between of the relation» Anderson, 2006, p. 737): fra soggetti,
fra soggetti e oggetti, fra descrizioni e azioni…18
Intesa in questo modo, la geografia delle emozioni (e degli affects) permette di porre in
maniera forse diversa una delle
questioni al centro delle riflessioni sulle metodologie qualitative nella ricerca geografica:
e cioè il problema del posizionamento del/la ricercatore/trice
nel “contesto” della ricerca e la
(insolubile) dicotomia fra insider
e ousider, fra il “non voler essere fuori” e l’impossibilità di essere “perfettamente dentro”. La
lettura dicotomica schematizza
le differenze separando, da un
lato, un ricercatore insider alla
società e al territorio, giudicato
positivamente, ma in realtà impossibile da attuare; dall’altro
ni dello spazio e dei luoghi (e,
più in generale, tra diversi modi
di pensare e fare geografia).
Al momento, però, è solo possibile intravvedere qualche pista
di ricerca e qualche collegamento, una trama che disegna un percorso di lavoro possibile, ancora
un po’ sfocato ma con qualche
parte più chiara. Uno dei punti
di ingresso in questo percorso
concerne i diversi modi di definire e praticare la geografia delle emozioni: dalle “radici” nella
geografia femminista, che riconoscono le differenze di genere
nel legame fra l’organizzazione
spaziale e la sfera emotiva, sia
dal punto di vista teorico sia da
quello pratico, alla distinzione
fra emozioni e affects, intendendo questi ultimi come «properties, competencies, modalities,
energies, attunements, arrangements and intensities of differing
texture, temporality, velocity and
spatiality, that act on bodies, are
produced through bodies and
transmitted by bodies» (Lorimer,
2008, p. 2)16. La differenza fra i
due termini non è una questione puramente lessicale: «affects
lato, un ricercatore outsider rispetto alla società e al territorio
che descrive, giudicato negativamente, ma in realtà ineluttabile (Crang, 2005; Crang e Cook,
2007; Kindon et al., 2007). Ma
questa dicotomia, e questa rigida separazione, sono davvero
inevitabili? Non è possibile, in
altri termini, riformulare in maniera differente la questione del
posizionamento e aggirare l’entrata diretta su una questione
che, posta così, rischia di essere
senza via di uscita?
Per provare ad andare (e guardare) oltre, possiamo interrogare
il lavoro che abbiamo svolto, riflettendo in particolare sul ruolo
delle pratiche visuali e delle metodologie della geografia visuale, nonché sul valore (ma anche
sui limiti) del posizionamento
esplicito (e visibile) del/la ricercatore/trice all’interno dei luoghi (noi, con le nostre facce, le
nostre voci, le nostre paure, le
nostre debolezze, il nostro orgoglio…), nel trattare tale questione19. E, più in generale, nel
favorire/permettere il dispiegarsi
di una strategia conoscitiva non
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(del tutto) cognitiva e non (del
tutto) rappresentativa per fare
una geografia del nascosto (le
emozioni, le cose che non si vedono, il posizionamento etico,
i valori….), così come per confrontarsi con la rilevanza politica e sociale di questi strumenti
e, soprattutto, di questa modalità
di fare ricerca. Un percorso di ricerca da svolgere però non tanto
(o non soltanto) in termini astratti, ma ricercando le possibilità
di “agire nel dire” e, quindi, di
agire nell’azione (della ricerca e
delle pratiche della ricerca).
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Note
1. «invece di ricercare la certezza
nella costruzione di rappresentazioni del mondo, vi è il riconoscimento
che il mondo è così stratificato da
superare la nostra capacità di capire, e quindi l’adesione al fatto che le
metodologie delle scienze sociali e
le stesse forme di sapere saranno caratterizzate tanto da apertura, riflessività e ricorsività quanto da categorizzazione, conclusione e chiusura».
Non-representational Tunisi? Spazio, luogo, pratiche
2. cfr., in particolare, Casey (1997),
un libro che ha avuto una notevole
influenza su ampia parte della geografia anglofona. Recensendo il libro
di Casey, R. D. Sack (2000) scrive
«When an eminent philosopher argues that place, not space, is fundamental, geographers should pay
attention» (2000, p. 136) («quando
un eminente filosofo sostiene che il
luogo, non lo spazio, è fondamentale, i geografi dovrebbero prestare
attenzione»).
3. Per la biforcazione fra i due concetti, e gli orientamenti teorici e culturali in cui si innesta, cfr. Portugali
(2006).
4. «lo spazio non è al di fuori del
luogo, non è astratto, non è da qualche parte “lassù” o incorporeo».
5. «momenti particolari che derivano dall’intersezione di relazioni sociali, reti da cui sono stati costruiti
nel corso del tempo, che hanno permesso la loro interazione, (…) che
hanno consentito il loro decadimento e il loro rinnovamento. Alcune di
queste relazioni è come se fossero
contenute all’interno del luogo; altre
si estendono al di là di esso, connettendo una località particolare all’interno di relazioni più ampie e in più
ampi processi in cui sono coinvolti
anche altri luoghi».
6. Per una critica più generale agli
schemi di ragionamento binari, cfr.
Latour (2005).
7. Come scrive Amin (2004), «the local continues to be seen as the space
of the intimate, the familiar, the near,
the embodied; that is, as a space constitutively separate and different from
a global space seen as the space of
the afar, the abstract, the virtual, the
encroaching, the hegemonic» (p.
33) («il locale continua a essere visto
come lo spazio dell’intimo, del familiare, del vicino, del corporeo; cioè,
come spazio costitutivamente separato e diverso dallo spazio globale
visto come lo spazio del lontano,
dell’astratto, del virtuale, dello sconfinato, dell’egemonico»).
8. Più in generale, sul ruolo degli
spazi virtuali nelle pratiche rivoluzionarie e nei movimenti di protesta,
e sul loro “necessario” rapporto con
la dimensione della fisicità e della
materialità che prende forma negli
spazi pubblici e nelle piazze, cfr.
Gerbaudo (2012) e il commento e la
recensione di Pollio (2013).
9. «qualcosa di più di un’appendice
del cognitivo».
Francesca Governa
10. «gli spazi e le pratiche sociali
non sono bloccati in logiche razionali e prevedibili, e spesso sono viscerali e istintive».
11. Una ricostruzione del modo diverso di intendere e praticare una geografia delle emozioni nel dibattito
della geografia anglofona è contenuta in Pile (2010).
12. Per una critica su questi e altri
aspetti, cfr. Anderson e Smith (2001),
che considerano la “geografia delle
emozioni” come modo di conoscere, essere e fare; sul ruolo politico
delle emozioni e delle passioni, e
del modo di conoscere che usa emozioni e passioni, cfr., più in generale,
Nussbaum (2003).
13. cfr., ad esempio, la “critica simpatetica” alla non-representation
theory avanzata da Cresswell (2006).
14. «per farlo possiamo concepire
insieme la rappresentazione (contesto) e la non-rappresentazione (pratica) – benché esse siano a volte in
tensione -, piuttosto che effettuare
un completo rovesciamento della
precedente tradizione disciplinare,
in cui i (con)testi erano privilegiati
rispetto alle azioni sociali»
15. Gli articoli di Leitner et al.
(2008) e Nicholls (2009) riguardano
entrambi la spazialità dei movimenti
sociali e delle contentious politics e,
pur partendo da prospettive in parte diverse, criticano la “egemonia”
assunta dal concetto di scala nell’interpretazione della geografia dell’azione collettiva e convergono sulla
necessità di innovare il lessico attraverso cui descrivere il ruolo dell’organizzazione socio-spaziale (considerando almeno luogo, territorio,
scala, rete, cfr. Jessop et al., 2008)
nella comprensione (interpretativa e
politica) delle azioni sociali.
16. «proprietà, competenze, modalità, energie, attivazioni, accordi e
intensità di diversa trama, temporalità, velocità e spazialità, che agiscono sui corpi, sono prodotti attraverso
i corpi e trasmessi dai corpi».
17. «non sono relative a te o a quella cosa, soggetto o oggetto. Sono relazioni che animano il mondo».
18. «nel tra della relazione».
19. Per una rassegna delle diverse
metodologie della ricerca visuale in
geografia, cfr. Bignante, 2011; per
alcuni primi riferimenti per iniziare
a interrogare il valore non solo metodologico delle pratiche visuali, cfr.
Crang (2003); Driver (2003); Garrett
(2010); Roberts (2012).
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