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JR Ward - (Confraternita Del Pugnale Nero 06)
J. R. WARD LOVER ENSHRINED UN AMORE PREZIOSO UN ROMANZO DELLA CONFRATERNITA DEL PUGNALE NERO Agartha 016 Visitaci: 2 Titolo dell'opera originale: Black Dagger Brotherhood: Lover Enshrined Traduzione dall'americano di Paola Pianalto Questo romanzo è un'opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono il prodotto dell'immaginazione dell'Autrice o usati in modo fittizio. Qualunque rassomiglianza con fatti, località, organizzazioni o persone, vive o defunte, è del tutto casuale. Copyright © Jessica Bird, 2008 All rights reserved including the right of reproduction in whole or in part in any form. Copyright © 2011 by Mondolibri S.p.A„ Milano This edition published by arrangement with NAL Signet, a member of Penguin Group (USA) Inc. 3 Dedicato a: Te. Sei stato un perfetto gentiluomo e un sollievo. E sono convinta che la gioia ti si addica…. di certo te la meriti. 4 Ringraziamenti Con immensa gratitudine ai lettori della Confraternita del Pugnale Nero e in particolare alle ragazze! Grazie infinite: Karen Solem, Kara Cesare, Claire Zion, Kara Welsh. Grazie, S-Byte, Ventrue, Loop e Opal per tutto ciò che fate spinti dalla vostra bontà d'animo! Come sempre con gratitudine al mio Comitato Esecutivo: Sue Grafton, Dott.ssa Jessica Andersen, Betsey Vaughan. E con grande stima all'incomparabile Suzanne Brockmann. A DLB: CON STIMA. Ti voglio bene. Baci. Mamma A NTM: come sempre, con affetto e gratitudine. Sei proprio un principe tra gli uomini. PS: c'è qualcosa che non sei in grado di trovare? A LeElla Scott: ci siamo? ci siamo? ci siamo? Ricordati che il controllo automatico della velocità di crociera è dalla nostra parte e che non siamo niente senza LeSunshine. Un abbraccio, carissima. A Kaylie: benvenuta al mondo, piccolina. Hai una mamma spettacolare... è assolutamente il mio Idolo, e non solo perché mi rifornisce sempre di prodotti per la cura dei capelli. 5 A Bub: grazie per schwasted! Niente di tutto ciò sarebbe possibile senza: il mio affettuoso marito, che è il mio consigliere, assistente e visionario, la mia meravigliosa madre, che non potrò mai ripagare per tutto l'amore che mi ha dato, i miei familiari (sia di sangue che di adozione); e i miei pìù cari amici. Oh, e la dolce metà di WriterDog, naturalmente. 6 Prologo Venticinque anni, tre mesi, quattro giorni, undici ore, otto minuti e trentaquattro secondi fa... Il tempo non è, in realtà, un flusso ininterrotto verso l'infinito. Fino all'ultimo secondo del presente è malleabile. Creta, non cemento. Cosa di cui l'Omega era grato. Se il tempo fosse stato fìsso e immutabile, lui non avrebbe tenuto tra le braccia il suo figlioletto appena nato. I figli non erano mai stati il suo obiettivo. Eppure in quel momento lui appariva trasformato. «La madre è morta?» chiese al Fore-lesser che scendeva le scale. Buffo, se gli avessero chiesto che anno pensava fosse, avrebbe risposto il 1983. E, in un certo senso, avrebbe avuto ragione. II Fore-lesser annuì. «Non è sopravvissuta al parto.» «Alle vampire accade spesso. È uno dei loro rari pregi.» E quanto mai opportuno, nella fattispecie. Uccidere la madre dopo che lo aveva servito così bene pareva una scortesia. «Cosa devo fare del cadavere?» 7 L'Omega guardò il figlio che allungava la mano aggrappandosi al suo pollice. La stretta era salda. «Che strano.» «Cosa?» Era arduo esprimere a parole ciò che provava. O forse il punto era proprio questo: non si aspettava di provare nulla. Suo figlio doveva essere una controffensiva alla Profezia del Distruttore, una risposta calcolata nel quadro della guerra contro i vampiri, una strategia per assicurare la sopravvivenza dell'Omega. Suo figlio avrebbe dato battaglia in un modo nuovo, sterminando quella razza di selvaggi prima che il Distruttore intaccasse a poco a poco l'essenza stessa dell'Omega fino a non lasciarne traccia. Fino a quel momento il piano era stato eseguito in modo esemplare, a cominciare dal rapimento della vampira, che l'Omega aveva poi provveduto a inseminare, per finire con quel nuovo arrivato. Il neonato lo guardò, muovendo la piccola bocca. Aveva un buon odore, ma non perché era un tesser. Tutt'a un tratto l'Omega non voleva lasciarlo andare. Quel piccolo tra le sue braccia era un miracolo, una scappatoia vivente, in carne e ossa. Contrariamente a sua sorella, l'Omega non aveva la facoltà di creare dal nulla, ma non gli era stata negata la possibilità di riprodursi. Non era stato in grado di dar vita a una razza del tutto 8 nuova, certo, ma poteva proiettare nel futuro una parte di se stesso grazie al patrimonio genetico. E l'aveva fatto. «Padrone?» lo incalzò il Fore-lesser. Proprio non voleva lasciar andare quel bambino. Ma perché il piano funzionasse., suo figlio doveva vivere coi nemici, doveva crescere in mezzo a loro, come uno di loro. Doveva conoscere la loro lingua, la loro cultura e le loro abitudini. Doveva sapere dove vivevano, per poter andare a massacrarli. L'Omega si impose di consegnare il neonato al Forelesser. «Lascia il bambino nel luogo che ti ho proibito di mettere a sacco. Avvolgilo in fasce e lascialo là. Quando tornerai ti condurrò a me.» Dopo di che morirai, terminò tra sé l'Omega. Non dovevano esserci falle né errori. Mentre il Fore-lesser si abbandonava a ignobili manifestazioni di servilismo, che in qualunque altra circostanza avrebbero suscitato l'interesse dell'Omega, il sole sorgeva sui campi di grano di Caldwell, New York. Al piano di sopra un sommesso crepitio esplose in un falò, l'odore di bruciato annunciava l'incenerimento del cadavere della vampira, insieme a tutto quel sangue sul letto. 9 Ottimo. L'ordine era importante, e quella fattoria era nuova di zecca, costruita appositamente per la nascita di suo figlio. «Vai», ordinò l'Omega. «Vai e fa il tuo dovere.» Il Fore-lesser uscì con il neonato; nel vedere la porta che si chiudeva, l'Omega già si struggeva per la sua progenie. Smaniava letteralmente per la mancanza del maschietto. La soluzione a tanta angoscia, tuttavia, era a portata di mano. Con un atto di volontà, l'Omega si proiettò nell'aria catapultando la sua forma corporea nel "presente", nel soggiorno stesso in cui si trovava. Quel balzo temporale si manifestò in un repentino invecchiamento della casa. La carta da parati sbiadì staccandosi pigramente dalle pareti, i mobili apparvero consunti, logorati da oltre vent'anni d'uso, il soffitto passò dal bianco immacolato al giallo sporco, come impregnato da anni e anni di fumo, l'assito si sollevò agli angoli del corridoio. In fondo alla casa sentì due umani che litigavano. L'Omega fluttuò fino alla cucina sudicia e rovinata, che solo fino a pochi secondi prima era splendente come il giorno in cui era uscita dal mobilificio. Non appena entrò nella stanza, l'uomo e la donna smisero di bisticciare, paralizzati dallo shock. E lui procedette alla tediosa impresa di sgombrare la fattoria da occhi indiscreti. 10 Suo figlio stava tornando all'ovile. E l'Omega sentiva il bisogno di vederlo quasi più di quanto sentisse il bisogno di farne buon uso. Non appena il male toccò il centro del suo petto provò una sensazione di vuoto e pensò a sua sorella. Lei aveva messo al mondo una nuova razza, una razza generata grazie alla combinazione della sua volontà e della biologia disponibile. Com'era fiera di se stessa. Anche il loro padre era fiero. L'Omega aveva cominciato a uccidere i vampiri per fare dispetto a entrambi, ma ben presto aveva capito che si nutriva di quelle malefatte. Il loro padre non poteva fermarlo, naturalmente, perché era emerso che i misfatti dell'Omega - o meglio, la sua stessa esistenza , -- erano necessari a controbilanciare la bontà di sua sorella. L'equilibrio andava mantenuto. Era il principio fondamentale di a sorella, la giustificazione dell'esistenza dell'Omega e il mandato e il loro padre aveva ricevuto da suo padre. Il fondamento stesso ^'universo. Perciò l'Omega traeva soddisfazione dalla sofferenza della Vergine Scriba. Ogni morte inflitta alla razza da lei generata la faceva soffrire, e lui lo sapeva bene. Il fratello era sempre stato in grado di interpretare i sentimenti della sorella. Ed era ancora più vero adesso. L'Omega pensò a suo figlio là fuori, nel mondo, e si preoccupò per lui. Sperava che quei venti e passa anni non fossero stati troppo difficili. E ciò che fa ogni buon 11 padre, no? I genitori di norma si preoccupano della loro prole, la nutrono e la proteggano. Buoni e cattivi, virtuosi e peccatori, tutti, quale che sia la nostra natura, desideriamo il meglio per coloro che abbiamo messo al mondo. Era sconcertante scoprire che, in fin dei conti, aveva qualcosa in comune con sua sorella... era uno shock sapere che entrambi volevano che i loro figli potessero vivere e prosperare. L'Omega guardò i cadaveri dei due umani che aveva appena eliminato. Ma i propositi di fratello e sorella si escludevano a vicenda, naturalmente, no? 12 Capitolo 1 Il mago era tornato, Phury chiuse gli occhi e lasciò ricadere la testa contro la spalliera del letto. Ma cosa cavolo stava dicendo? Il mago non se n'era mai andato. A volte sei proprio un verme, socio, lo schemi la voce sinistra dentro la sua testa. Sul serio. Dopo tutto quello che abbiamo passato insieme. Tutto quello che avevano passato insieme... proprio vero. Il mago era la causa del suo bisogno incontenibile di fumo rosso e sempre nella sua testa, sempre lì a criticarlo per ciò che non aveva fatto, per ciò che avrebbe dovuto fare, per ciò che avrebbe potuto fare meglio. Dovere. Volere. Potere. Bella rima. La verità era che uno dei nove Nazgul, le creature simili a spettri del Signore degli Anelli, lo spingeva verso il fumo rosso neanche lo avesse legato come un salame e poi gettato sul sedile posteriore di un'auto. In realtà, socio, tu saresti il paraurti anteriore. Appunto. 13 Con l'occhio della mente Phury vedeva il mago sotto forma di uno spirito ritto in mezzo a una vasta distesa grigia e desolata di teschi e ossa. Nel suo impeccabile accento inglese, il bastardo si assicurava che Phury non dimenticasse mai i propri fallimenti, e quella litania martellante lo induceva ad accendersi uno spinello via l'altro per non infilarsi in bocca la canna di una calibro quaranta. Non lo hai salvato. Non li hai salvati. Sono stati colpiti tutti dalla maledizione per causa tua. La colpa è tua... la colpa è tua... Phury prese l'ennesimo spinello e fece scattare l'accendino d'oro. Lui era quello che nel Vecchio Continente veniva chiamato Yexhile dhoble. Il secondo gemello. Il gemello malefico. Nato tre minuti dopo Zsadist, Phury aveva scatenato sulla sua famiglia la maledizione dello squilibrio. Due figli nobili, entrambi nati vivi, erano una fortuna troppo grande e, come previsto, l'equilibrio era stato ripristinato: dopo qualche mese il suo gemello era stato rapito, ridotto in schiavitù e sottoposto per un secolo ad abusi di ogni tipo. Grazie a quella troia depravata della sua padrona, Zsadist aveva cicatrici indelebili sul volto, sulla schiena, intorno ai polsi e al collo. E cicatrici ancora peggiori dentro di sé. 14 Phury aprì gli occhi. Salvare fisicamente il suo gemello non era bastato; c'era voluto il miracolo di Bella per far risorgere l'anima di Z, e adesso lei era in pericolo. Se l'avessero perduta... Allora andrà tutto bene e l'equilibrio rimarrà intatto per la generazione a venire, disse il mago. Non crederai sul serio che il tuo gemello possa godere della benedizione di un figlio vivo e vegeto? Tu avrai una caterva di figli. Lui non ne avrà neanche uno. L'equilibrio funziona così. Ah, e prenderò anche la sua shellan, te l'avevo già detto? Phury prese il telecomando dello stereo e fece partire "Che gelida manina". Non funzionò. Al mago Puccini piaceva. Lo spirito cominciò a Volteggiare per tutto il campo di teschi, calpestando tutto ciò che gli capitava sotto ai piedi, ondeggiando le braccia con eleganza, le lunghe vesti nere a brandelli simili alla criniera di uno stallone che scrolli il capo regale. Sullo sfondo dello sconfinato orizzonte di un grigio senz'anima, il mago ballava e rideva. Che gran casino. Senza neanche guardare, Phury allungò la mano verso il comodino e prese la busta con il fumo rosso e le cartine. Non doveva neanche calcolare la distanza, come un coniglio che sa dove sono i suoi escrementi. Mentre il mago si scatenava al ritmo della Bohème, Phury, senza smettere di fumare, si rollò altri due cannoni di rinforzo. Soffiò fuori il fumo; aveva un buon 15 profumo di caffè e cioccolato, ma se anche fosse stato pestilenziale non avrebbe avuto importanza: pur di mettere la sordina al mago era pronto a sentire puzza di spazzatura bruciata. Diamine, al punto in cui era, anche fumarsi un intero cassonetto dell'immondizia gli andava benissimo, se serviva a dargli un po' di pace. Non riesco a credere quanto poco apprezzi il nostro rapporto, disse il mago. Phury si concentrò sul disegno che aveva in grembo, quello a cui stava lavorando da una mezz'ora. Dopo un rapido sguardo d'insieme, intinse la punta della penna d'oca nel calamaio d'argento sterling in equilibrio contro il fianco. L'inchiostro all'interno, con la sua densa lucentezza oleosa, assomigliava al sangue dei suoi nemici; sulla carta, tuttavia, era di un intenso marrone rossastro, non un nero disgustoso. ' Non avrebbe mai usato il nero per dipingere una persona cara. Portava sfortuna. Inoltre, l'inchiostro rosso sangue aveva proprio il colore dei riflessi nei capelli color mogano di Bella. Quindi era adatto al suo soggetto. Phury ombreggiò con cura la linea perfetta del naso, le sottili staffilate del calamo si intersecarono fino a ottenere la giusta densità. Il disegno a inchiostro era molto simile alla vita: un solo errore bastava a rovinare tutto. 16 Maledizione. L'occhio di Bella non era neanche lontanamente all'altezza dell'originale. Piegando l'avambraccio per non strusciare il polso sull'inchiostro fresco, tentò di correggere gli errori, ritoccando la palpebra inferiore per angolare maggiormente la curva. I tratteggi solcavano con maestria il foglio di carta Crane. Ma l'occhio ancora non andava bene. No, non andava, nessuno poteva giudicarlo meglio di lui, visto il tempo che aveva trascorso a disegnarla negli ultimi otto mesi. Il mago si fermò a metà plié per fargli notare che quella menata del disegno a inchiostro era una stronzata bell'e buona. Disegnare la shellan incinta del proprio gemello. Onestamente... Solo un bastardo schifoso poteva fissarsi su una femmina sposata col suo gemello. Eppure tu l'hai fatto. Sarai fiero di te, socio. Già, il mago aveva sempre avuto un accento inglese, chissà poi perché. Phury aspirò un'altra boccata di fumo, piegando la testa di lato per vedere se un cambiamento di prospettiva migliorava le cose. Niente da fare. Non andava bene. E neanche i capelli, per la verità. Chissà perché aveva disegnato i lunghi capelli scuri di Bella raccolti in uno chignon, con delle ciocche sottili che le solleticavano le guance. Lei li portava sempre sciolti. 17 Pazienza. Lei era comunque incantevole, e il resto del viso era come lo dipingeva sempre: lo sguardo adorante rivolto a destra, le ciglia stagliate in controluce, lo sguardo colmo di un misto di calore e devozione. Durante i pasti Zsadist sedeva alla destra di Bella. In modo da avere libera la mano con cui era abituato a combattere. Phury non la disegnava mai con gli occhi puntati dritti su di sé. Più che logico. Neanche nella vita reale attirava il suo sguardo. Bella era innamorata del suo gemello e, per quanto lui la desiderasse, non avrebbe voluto cambiare le cose. Il disegno la ritraeva dallo chignon alle spalle. Phury non disegnava mai nemmeno il suo pancione. Le femmine incinte non andavano mai dipinte dallo sterno in giù. Anche questo portava sfortuna. Inoltre gli rammentava ciò che lui temeva di più. Le morti durante il parto erano frequenti. Phury fece scorrere la punta della dita sul volto di Bella, evitando il naso, dove l'inchiostro si stava ancora asciugando. Era bellissima, anche con l'occhio malriuscito, la pettinatura diversa e le labbra meno carnose. Quel disegno era finito. Poteva iniziarne un altro. Spostandosi verso la base del ritratto, cominciò a tracciare l'edera sulla curva della spalla. Prima una foglia, 18 poi un lungo tralcio... poi altre foglie, che si arricciavano e si infittivano, coprendole il collo, affollandosi contro la mascella, lambendole la bocca, distendendosi sulle guance. Avanti e indietro, dal foglio al calamaio. L'edera la avvolgeva tutta. L'edera copriva le tracce della penna d'oca, nascondendo il cuore di Phury e il peccato che vi albergava. La cosa più difficile era coprirle il naso. Lo lasciava sempre per ultimo e quando non poteva più evitarlo, sentiva i polmoni bruciare come se lui stesso non riuscisse più a respirare. Quando l'edera ebbe la meglio sull'immagine, Phury appallottolò il foglio e lo gettò nel cestino d'ottone dall'altra parte della stanza. Che mese era... agosto? Sì, agosto. Il che significava che... Bella aveva un altro anno buono di gravidanza, sempre ammesso che riuscisse a portarla a termine. Come molte vampire, era già costretta a letto per evitare un parto prematuro. Schiacciando il mozzicone nel posacenere, Phury fece per prendere uno dei due spinelli che si era appena rollato e soltanto allora si rese conto di averli giù fumati. Allungò l'unica gamba intera, spostò il cavalletto dal grembo e prese di nuovo il suo kit di sopravvivenza: una busta di plastica piena di fumo rosso, un sottile pacchetto di cartine e il grosso accendisigari d'oro. Fu questione di 19 un attimo rollarsi un'altra canna fresca fresca; mentre dava il primo tiro, controllò la sua scorta di filmo. Merda, era scarsa. Molto scarsa. Le tapparelle d'acciaio che si alzavano lo aiutarono a ritrovare la calma. In tutto il suo tenebroso splendore era scesa la notte e il suo arrivo portava la libertà dalla grande casa della confraternita... e la possibilità di raggiungere il suo spacciatore, Rehvenge. Buttò giù dal letto il moncone di gamba, si allungò verso la pròtesi, la agganciò sotto al ginocchio destro e si alzò in piedi. Era abbastanza fumato da percepire l'aria intorno a sé come qualcosa da guadare e la finestra verso cui piantava sembrava lontana chilometri. Ma andava tutto bene. Mentre attraversava nudo la stanza era confortato dal familiare torpore, placato dalla sensazione di galleggiare. Il giardino, giù di sotto, era sfolgorante, illuminato dalla fila di portefinestre della biblioteca. Quella sì che era una signora vista sul retro, pensò Phury. Con tutti i fiori che scoppiavano di salute, gli alberi da frutto carichi di pere e di mele, i sentieri sgombri da erbacce, le siepi di bosso potate con cura. Non come quella con cui era cresciuto. Neanche un po'. Proprio sotto la sua finestra le rose tea erano nel pieno della fioritura, le grosse corolle variopinte fieramente 20 ritte sopra gli steli spinosi. Le rose dirottarono il corso dei suoi pensieri verso un'altra femmina. Aspirando un'altra femmina, quella che disegnare... quella a avrebbe dovuto fare schizzo a penna. boccata di fumo pensò alla sua avrebbe dovuto legittimamente cui, per legge e per tradizione, molto di più che un semplice L'Eletta Cormia. La sua Prima Sposa. Tra le quaranta Elette. Cribbio, come diavolo era finito a fare il Primate delle Elette? Te l'ho detto, rispose il mago. Avrai una caterva di figli, e tutti avranno l'immensa gioia di guardare con ammirazione a un padre la cui unica impresa è stata deludere tutti quelli che gli stanno intorno. Okay, per quanto perfido fosse il bastardo, era difficile dargli torto. Non si era accoppiato con Cormia come imponeva il rituale. Non era tornato dall'Altra Parte per vedere la Direttrice. Non aveva incontrato le altre trentanove femmine che avrebbe dovuto ingravidare. Phury prese a fumare ancora più freneticamente, schiacciato dal peso di quelle cosucce da niente che, come massi fiammeggianti lanciati dal mago, gli atterravano dritte in testa. Il mago aveva un'ottima mira. D'altronde aveva fatto molta pratica. 21 Be', socio, sei un bersaglio facile. Tutto qua. Per lo meno, Cormia non si lamentava per tutte quelle inadempienze. Non aveva mai voluto essere la Prima Sposa, l'avevano costretta in quel ruolo: il giorno del rituale avevano dovuto legarla al talamo cerimoniale, braccia e gambe spalancate, pronta per l'uso, come un animale, completamente terrorizzata. Appena l'aveva vista, Phury era entrato automaticamente in modalità-salvatore, la veste che gli era più congeniale, e l'aveva portata lì nella casa della Confraternita del Pugnale Nero, sistemandola nella camera accanto alla sua. Tradizione o meno, per nulla al mondo avrebbe preso una femmina con la forza; avendo tempo e modo di conoscersi sarebbe stato più facile, o almeno così pensava. Sì... no. Cormia si era tenuta in disparte, mentre lui, un giorno dopo l'altro, aveva tentato di non implodere. Erano passati cinque mesi, ma loro due non si erano avvicinati né reciprocamente né a un letto. Cormia parlava di rado e si faceva vedere solo al momento dei pasti. Se usciva dalla sua stanza era solo per andare a prendere qualche libro in biblioteca. Nella sua lunga veste bianca, sembrava più un'ombra profumata di gelsomino che una creatura in carne e ossa. La vergognosa verità, tuttavia, era che a lui andava bene così. Quando aveva sostituto Vishous nel ruolo di Primale era convinto di avere piena consapevolezza dell'impegno che si stava assumendo sul piano sessuale, 22 ma la pratica era molto più sconfortante della teoria. Quaranta femmine. Quaranta. Quattro-zero. Doveva essere uscito di testa quando si era offerto di rimpiazzare V. Il suo unico tentativo di perdere la verginità non era stato uno spasso, Dio gli era testimone... e sì che era stato con una professionista. Anche se forse averci provato con una puttana era parte del problema. Ma a chi cavolo poteva rivolgersi, in alternativa? Era un casto verginello di duecento anni, senza la minima esperienza in materia. Come si poteva pretendere che saltasse addosso alla tenera e fragile Cormia, che se la scopasse fino a venire per poi correre al Santuario delle Elette a fare come Bill Paxton in Big Love? Cosa cavolo gli era saltato in mente? Si infilò lo spinello tra le labbra e aprì la finestra. La stanza venne inondata dal penetrante profumo della notte estiva e lui tornò a concentrarsi sulle rose; Qualche giorno prima aveva sorpreso Cormia con una rosa in mano, una rosa che, con tutta evidenza, aveva tirato fuori dal mazzo che Fritz metteva sempre nel salottino al primo piano. Ferma vicino al vaso, stringeva la pallida rosa color lavanda tra le lunghe dita, il capo chino sul bocciolo, il naso che indugiava sopra di esso. Dalla chioma bionda, come sempre raccolta in uno chignon, erano sfuggite alcune ciocche sottili che ricadevano in avanti arricciandosi in modo naturale. Proprio come i petali della rosa. 23 Cormia era trasalita quando lo aveva colto a fissarla, aveva rimesso a posto la rosa ed era corsa in camera sua, chiudendo la porta senza fare rumore. Phury sapeva di non poterla tenere lì per sempre, lontana da tutto ciò cui era abituata e da tutto ciò che era. E poi dovevano portare a termine la cerimonia sessuale. Era quello l'accordo che lui aveva concluso e il ruolo che, come gli aveva spiegato Cormia, per quanto all'inizio fosse spaventata, era preparata a ricoprire. Phury si voltò vèrso il cassettone, verso un pesante medaglione d'oro simile a una grossa penna stilografica che recava un'incisione in una primitiva versione dell'Antico Idioma: era il simbolo del Primale, non solo la chiave d'accesso a tutti gli edifici dall'Altra Parte, ma il biglietto da visita del vampiro responsabile delle Elette. La forza della razza, com'era noto il Primale. Il medaglione si era fatto sentire di nuovo, quel giorno, così come era accaduto in passato. Ogni volta che la Direttrice desiderava vederlo, il pendaglio vibrava, e in teoria Phury era tenuto a smaterializzarsi per riprendere forma in quella che avrebbe dovuto essere casa sua, il Santuario. Ignorò anche quella convocazione. Così come aveva già fatto con le altre due. Non voleva sentire ciò che già sapeva: cinque mesi senza suggellare il patto portando a termine la cerimonia erano davvero troppi. Pensò a Cormia, rintanata nella stanza degli ospiti accanto alla sua, chiusa in se stessa. Senza nessuno con 24 cui parlare. Lontana dalle sue sorelle. Aveva tentato di stabilire un contatto con lei, col solo risultato di innervosirla da morire. Comprensibilmente. Dio, non aveva idea di come facesse a passare il tempo senza impazzire. Aveva bisogno di un amico. Tutti abbiamo bisogno di amici. Non tutti se li meritano, però, fece notare il mago. Phury si voltò, diretto verso la doccia. Passando accanto al cestino della carta straccia si fermò. Il disegno che aveva appallottolato aveva cominciato ad aprirsi e tra le pieghe accartocciate scorse i tralci d'edera con cui lo aveva coperto alla fine. Per una frazione di secondo ricordò cosa c'era al di sotto, rammentò i capelli raccolti in uno chignon e le ciocche sottili che ricadevano sulla guancia vellutata. Ciocche che si"arricciavano come i petali di una rosa. Scrollando la testa, riprese a camminare. Cormia era incantevole, ma... Desiderarla sarebbe più che giusto, terminò il mago. Dunque perché mai dovresti imboccare quella strada? Rischieresti di rovinare il tuo record assoluto di successi. Lasciami indovinare, sarebbe un vero disastro, socio. Giusto? Phury alzò il volume dell'aria di Puccini e si infilò sotto la doccia. 25 Capitolo 2 Mentre le tapparelle si alzavano per la notte, Cormia era molto indaffarata. Seduta a gambe incrociate sul tappeto orientale della sua stanza, con una mano infilata dentro una boccia di cristallo piena d'acqua, cercava di pescare dei piselli. I legumi, duri come ciottoli quando Fritz glieli aveva portati, dopo essere stati a mollo per un po' si erano ammorbiditi abbastanza da poter essere usati. Dopo averne acchiappato uno, Cormia si voltò a sinistra e prese tino stuzzicadenti da una scatolina bianca su cui c'era scritto, in rosso, STUZZICADENTI SIMMONS, 500 PEZZI. Prese il pisello e lo infilzò con lo stuzzicadenti, poi prese un altro pisello e un altro stuzzicadenti e fece la stessa cosa fino a formare un angolo retto. E andò avanti così, creando prima un quadrato e poi un cubo. Soddisfatta, si chinò per attaccarlo a uno dei suoi fratelli, completando l'ultimo angolo di una struttura a base quadrata larga un metro e mezzo circa. Adesso sarebbe salita verso l'alto, costruendo i piani del traliccio. Gli stuzzicadenti erano tutti uguali, stecchini di legno identici tra loro, e anche i piselli erano tutti uguali, tondi e verdi. Entrambi le ricordavano da dove veniva. 26 L'uniformità era importante, nel Santuario atemporale delle Elette. L'uniformità era la cosa più importante. Da quest'altra parte, invece, non c'era quasi niente di uguale. Aveva visto gli stuzzicadenti per la prima volta al piano di sotto, dopo i pasti, quando il fratello Rhage e il fratello Butch, uscendo dalla sala da pranzo, li avevano presi da una scatolina d'argento. Senza un vero motivo, una sera ne aveva presi un po' prima di salire in camera sua. Aveva provato a metterne uno in bocca, ma il sapore asciutto del legno non le era piaciuto. Non sapendo cos'altro farci, li aveva allargati sul comodino e aveva cominciato a spostarli componendo delle forme geometriche. Quando Fritz, il maggiordomo, era entrato a fare le pulizie, aveva notato le sue manovre e poco dopo era tornato con una boccia di piselli a bagno nell'acqua tiepida. Le aveva mostrato lui come fare: infilzarvi un pisello tra due stuzzicadenti, poi aggiungervi un'altra sezione, un'altra, e un'altra ancora, e senza neanche accorgertene ottenevi qualcosa degno di essere visto. Via via che i suoi progetti diventavano più grandi e più ambiziosi, Cormia aveva preso l'abitudine di progettare in anticipo tutti gli angoli e le elevazioni per limitare gli errori. Aveva anche cominciato a lavorare sul pavimento per avere più spazio. Chinandosi in avanti, controllò il disegno che aveva fatto prima di iniziare, quello che aveva usato come 27 guida. Lo strato successivo era di dimensioni più ridotte, così come quello dopo. Poi avrebbe aggiunto una torre. Colorarlo sarebbe stato bello, pensò. Ma come fare? Ah, il colore. La liberazione dell'occhio. Stare da quest'altra parte aveva i suoi problemi, ma una cosa che lei adorava senza riserve erano tutti i colori. Nel Santuario delle Elette era tutto bianco: dall'erba agli alberi, dai templi al cibo e alle bevande, fino ai libri religiosi. In preda al senso di colpa, Cormia lanciò un'occhiata ai suoi testi sacri. Era difficile sostenere che stava venerando la Vergine Scriba con la sua piccola cattedrale di piselli e stuzzicadenti. Nutrire l'ego non era la missione delle Elette. Era un sacrilegio. E la visita ricevuta giorni prima da parte della Direttrice delle Elette avrebbe dovuto rammentarglielo. Beata Vergine Scriba, non voleva pensarci. Si alzò in piedi, attese che le passasse il capogiro e poi si avvicinò a una delle finestre. Sotto di essa c'erano le rose tea; Cormia esaminò con attenzione ogni cespuglio in cerca di nuovi boccioli, petali caduti e foglie fresche. Il tempo stava passando. Lo capiva dal modo in cui le piante cambiavano, il loro ciclo di germinazione durava tre o quattro giorni per ogni fioritura. 28 Un'altra cosa a cui abituarsi. Dall'Altra Parte il tempo non esisteva. Esistevano ritmi per i rituali, i pasti e le abluzioni, ma nessuna alternanza giorno-notte, nessuna misurazione oraria, nessun cambio di stagione. Il tempo e l'esistenza erano statici proprio come l'aria, la luce, il paesaggio. Da quest'altra parte aveva dovuto imparare che esistevano i minuti, le ore, i giorni, le settimane, i mesi e gli anni. Si usavano orologi e calendari per segnare lo scorrere del tempo, e alla fine aveva capito come leggerli, proprio come aveva compreso i cicli di questo mondo e la gente che vi abitava. Fuori, sul terrazzo, comparve un doggen, Aveva un paio di cesoie e un grosso secchio rosso e passava da un cespuglio all'altro pareggiandoli alla perfezione. Cormia pensò ai candidi prati ondulati del Santuario. Agli alberi candidi e immutabili. Alle candide piante sempre in fiore. Dall'Altra Parte tutto era congelato al posto giusto, quindi potare le siepi o tosare l'erba era superfluo, non c'era mai nessun cambiamento. Allo stesso modo, chi respirava quell'aria immota era ugualmente congelato anche se si muoveva, vivendo senza vivere per davvero. Anche le Elette invecchiavano, tuttavia. E morivano. Cormia si voltò a guardare da sopra la spalla un comò con dei cassetti vuoti. Il rotolo di pergamena che la Direttrice era venuta a consegnarle era posato sul lucido piano di legno. L'Eletta Amalya, in qualità di Direttrice, 29 rilasciava tali riconoscimenti in occasione dell'anniversario della nascita ed era comparsa per compiere il suo dovere. Se Cormia fosse stata dall'Altra Parte ci sarebbe stata anche una cerimonia. Anche se non per lei, naturalmente. L'individuo di cui si celebrava la nascita non riceveva onori speciali poiché dall'Altra Parte non esisteva l'io. Solo il tutto. Pensare a se stessi, pensare con la propria testa, era un atto blasfemo. Cormia aveva sempre peccato in segreto. Aveva sempre avuto idee, distrazioni e pulsioni sbagliate. Che non portavano da nessuna parte. Alzò una mano e la posò sulla finestra. Il vetro attraverso cui guardava era più sottile del suo dito mignolo, trasparente come l'aria, difficilmente si poteva definire una barriera. Già da un po' aveva voglia di raggiungere i fiori, giù di sotto, ma stava aspettando... non sapeva bene cosa. Appena giunta in quel luogo era stata turbata da un sovraccarico sensoriale. C'era un'infinità di cose che non conosceva, come le torce attaccate alle pareti che bisognava accendere per fare luce, le macchine che facevano cose come lavare i piatti o tenere il cibo in fresco o creare immagini su un piccolo schermo. C'erano scatole che a ogni ora suonavano e veicoli di metallo che la gente usava per spostarsi, e cose che si passavano avanti e indietro sul pavimento e che ronzavano e pulivano. 30 C'erano più colori lì che in tutte le gemme custodite nel tesoro. E odori, anche, buoni e cattivi. Era tutto così diverso, persone comprese. Nel luogo da cui veniva lei non c'erano maschi e le sorelle erano intercambiabili: tutte le Elette indossavano la stessa veste candida, si raccoglievano i capelli nello stesso modo e portavano al collo la stessa perla a goccia. Camminavano e parlavano tutte nello stesso modo pacato e facevano le stesse cose nello stesso momento. Lì invece era un caos. I fratelli e le loro shellan erano vestiti in modo diverso e chiacchieravano e ridevano secondo schemi diversi e ben identificabili. Amavano determinati cibi, ma non altri; e alcuni dormivano fino a tardi mentre altri non dormivano per niente. Alcuni erano spassosi, altri feroci, altri... belli. Uno era decisamente bellissimo. Bella era bellissima. Specialmente agli occhi del Primale. Quando la pendola cominciò a battere le ore, Cormia si strinse le braccia intorno al busto. I pasti erano ima tortura, un piccolo assaggio di come sarebbe stato quando lei e il Primate fossero tornati a1 Santuario. E quando lui avrebbe guardato in viso le sue sorelle con analoga ammirazione e piacere. A proposito di cambiamenti. All'inizio era terrorizzata dal Primale. Ora, a distanza di cinque mesi, non voleva dividerlo con nessun'altra. 31 Con la sua criniera multicolore, gli occhi gialli e la voce bassa e suadente, il Primate era un maschio magnifico all'apice della sua potenza sessuale. Ma non era tanto questo a intrigarla. Lui era la personificazione di tutto ciò che lei sapeva essere di valore: era sempre generoso e altruista, mai egoista. A tavola era quello che s'interessava di tutti, informandosi su ferite, disturbi di stomaco e ansie grandi e piccole. Non cercava mai di essere al centro dell'attenzione, non dirottava mai la conversazione verso qualcosa che lo riguardava; infinitamente disponibile, aveva sempre una parola buona per tutti. Se c'era un lavoro faticoso da fare, si offriva volontario, se c'era una commissione da sbrigare, voleva pensarci lui, se Fritz barcollava sotto il peso di un piatto da portata, il Primate era il primo ad alzarsi dal suo posto per andare ad aiutarlo. Da quello che Cormia aveva sentito a tavola, era un guerriero pronto a combattere per difendere la razza, un insegnante al corso di addestramento e un ottimo amico per tutti. Era veramente l'esempio perfetto delle virtù altruistiche delle Elette, il Primate ideale. E a un certo punto della sua permanenza lì, in un punto imprecisato di quella lunga sequenza di secondi, ore, giorni e mesi, Cormia aveva deviato dalla via del dovere inoltrandosi nella caotica foresta della libertà di scelta. Adesso voleva stare con lui. Non più per dovere, obbligo o necessità. Lo voleva per se stessa. Il che la rendeva una eretica. 32 Nella stanza accanto, la splendida musica che il Primate ascoltava sempre quando era in casa si interruppe di colpo, segno che stava per scendere da basso per il Primo Pasto. Sentendo bussare alla porta, Cormia trasalì e si voltò di scatto. Mentre la veste si riassestava contro le sue gambe, colse l'aroma di fumo rosso che s'insinuava nella stanza. Il Primale era venuto a cercarla? In fretta controllò lo chignon infilandosi qualche ciocca ribelle dietro alle orecchie. Aprì la porta di uno spiraglio e lo guardò di sfuggita in volto prima di inchinarsi. Oh, beata Vergine Scriba... il Primale era troppo meraviglioso per poterlo guardare a lungo. Aveva gli occhi gialli come citrini, la pelle di un bel bruno dorato, i lunghi capelli di uno spettacolare mélange cromatico, dal biondo chiarissimo al mogano scuro a un caldo color rame. Lui si piegò in un rapido inchino, formalità che detestava, Cormia lo sapeva. Lo faceva per lei, però, perché per quante volte le avesse ripetuto di non essere formale, proprio non riusciva a trattenersi, era più forte di lei. «Senti, pensavo...», esordì lui. Nell'esitazione che seguì, Cormia temette che la Direttrice fosse andata a fargli visita. Tutte al Santuario aspettavano che la cerimonia venisse completata, e tutte 33 sapevano che non era ancora accaduto. Cormia cominciava ad avvertire un'urgenza che non aveva nulla a che fare con l'attrazione che provava per il Primale. Il fardello della tradizione era ogni giorno più pesante. Lui si schiarì la gola. «Siamo qui da parecchio tempo e so che il cambiamento è stato duro. Pensavo che devi sentirti un po' sola e che forse ti farebbe piacere un po' di compagnia.» Cormia si portò una mano al collo. Bene. Era tempo che loro due stessero insieme. All'inizio non si sentiva pronta per lui, ma adesso sì. «Credo proprio che ti farebbe bene», disse lui nella sua bella voce, «avere un po' di compagnia.» Cormia fece un profondo inchino. «Vi ringrazio, vostra grazia. Sono d'accordo.» «Ottimo. Ho già in mente qualcuno.» Cormia si raddrizzò lentamente. Qualcuno? John Matthew dormiva sempre nudo. Be', per lo meno dopo la transizione. Si risparmiava sul bucato. Con un gemito si infilò una mano tra le gambe e strinse l'erezione dura come il marmo. Lo aveva svegliato come al solito, una sveglia affidabile e svettante verso il cielo come lo stramaledetto Big Ben. 34 Era anche dotata di uno di quei pulsanti con cui si può mettere in pausa la suoneria. Se lui la coccolava un po', dopo poteva riposare un'altra ventina di minuti prima che si mettesse di nuovo sull'attenti. In genere questo succedeva tre volte prima che John si alzasse dal letto, e un'altra volta sotto la doccia. E pensare che un tempo non vedeva l'ora di vivere tutto questo. Concentrarsi su pensieri sgradevoli non serviva e, anche se aveva il sospetto che farsi le seghe aumentasse l'impulso sessuale, ignorare il suo uccello era impensabile: quando un paio di mesi prima aveva fatto un tentativo in tal senso, nel giro di dodici ore era pronto a scoparsi anche un albero, tanto era arrapato. Esisteva qualcosa tipo un anti-Viagra? Il Cialis Reversailis? L'Ammosciocillina? Rotolandosi sulla schiena, spostò una gamba di lato, spinse via le coperte e cominciò ad accarezzarsi. Quella era la sua posizione preferita, ma se poi veniva di brutto si raggomitolava sul fianco destro nel bel mezzo dell'orgasmo. Avere un'erezione era il suo sogno, prima della transizione, perché pensava che diventare duro l'avrebbe reso uomo. In realtà non era andata così. Certo, col suo fisico enorme, le innate doti di guerriero e il suo perenne stato di eccitazione, dal di fuori sembrava tenere alta la, bandiera del vero macho. Dentro, però, si sentiva ancora piccolo come non mai. 35 Inarcò la schiena pompando nel palmo con l'inguine. Dio... che bello, però. Ogni volta era bellissimo... finché era la sua mano a fare tutto quanto. L'unica volta che una femmina lo aveva toccato, l'erezione si era sgonfiata più in fretta del suo ego. Perciò, a pensarci bene, il suo anti-Viagra ce l'aveva già: un'altra persona. Ma non era il momento di rivangare quella brutta esperienza. Il suo uccello era quasi pronto a eiaculare; lo capiva dall'intorpidimento. Appena prima di venire il suo coso perdeva sensibilità, ed era proprio ciò che stava accadendo adesso, mentre muoveva la mano su e giù lungo la verga umidiccia. Oh, sì... ecco... ci siamo... La tensione nei testicoli aumentava a più non posso, i fianchi si dimenavano in modo incontrollabile, le labbra si schiudevano permettendogli di ansimare con più facilità. .. e, come se non bastasse, il cervello voleva dire la sua. No... cazzo... no, non lei di nuovo, ti prego, non... Merda, troppo tardi. Proprio sul più bello la sua mente si aggrappò all'unica cosa che, garantito, lo avrebbe fatto godere come un riccio: una femmina tutta vestita di pelle con un taglio di capelli maschile e le spalle muscolose come quelle di un pugile professionista. Xhex. Con un ansito soffocato, John rotolò sul fianco e cominciò a venire. L'orgasmo andò avanti all'infinito 36 mentre lui fantasticava di loro due che facevano sesso in uno dei bagni del club dove lei lavorava come responsabile della sicurezza. Finché quelle immagini si rincorrevano nel suo cervello il suo corpo non la smetteva di eiaculare. Poteva andare avanti per dieci minuti buoni fino ad annegare in quello che gli usciva dall'uccello, fino a inzuppare tutte le lenzuola. Tentò di imbrigliare i pensieri, di controllarsi... ma non ci riuscì. Continuò a venire, la mano che accarezzava l'inguine, il cuore che batteva all'impazzata, il respiro strozzato in gola mentre si immaginava insieme a lei. Meno male che era muto dalla nascita altrimenti tutti, in casa, avrebbero saputo cosa stava combinando senza riuscire a fermarsi. L'impeto si placò solo dopo che a forza tolse la mano dall'uccello. Mentre il corpo rallentava la sua corsa, John giacque stremato, privo di forze, respirando contro il cuscino, col sudore - e non solo - che si asciugava sulla pelle. Bel modo di svegliarsi. Bel modo di fare ginnastica. Bel modo di ammazzare il tempo. Bello, sì, ma in definitiva inutile. Senza un motivo particolare, John lasciò vagare lo sguardo, che andò a posarsi sul comodino. Se avesse aperto il cassetto, cosa che non faceva mai, avrebbe trovato due cose: una scatola rosso sangue grande più o meno quanto un pugno e un vecchio diario rilegato in pelle. La scatola conteneva un pesante anello d'oro con sigillo che recava lo stemma della sua stirpe in quanto 37 figlio del guerriero Darius, figlio di Marklon, membro della Confraternita del Pugnale Nero. Il vetusto diario aveva registrato per un paio d'anni i pensieri più intimi di suo padre. Era un dono anche quello. John non si era mai messo l'anello e non aveva mai letto il diario. Molte erano le ragioni per cui li teneva chiusi entrambi in quel cassetto, ma la principale era che il vampiro che lui considerava suo padre non era Darius. Era un altro fratello. Un fratello che risultava disperso ormai da otto mesi. Se proprio doveva portare un anello, voleva che fosse quello con lo stemma di Tohrment, figlio di Hharm. Sarebbe stato un modo per onorare il vampiro che aveva significato tanto per lui per un lasso di tempo troppo breve. Ma questo non sarebbe mai accaduto. Tohrment era morto, con ogni probabilità, checché ne dicesse Wrath, e in ogni caso non era tuo padre. Non volendo farsi prendere dallo sconforto, John si tirò su dal materasso e barcollò fino al bagno. La doccia lo aiutò a riscuotersi, e così anche lo sforzo di infilarsi i vestiti. Quella sera non c'era lezione, quindi avrebbe passato qualche altra ora giù in ufficio prima di trovarsi con Qhuinn e Blay. Sperava che ci fossero molte scartoffìe da 38 sistemare. Quella sera non moriva dalla voglia di vedere i suoi due migliori amici. Dovevano andare tutti e tre insieme dall'altra parte della città fino al... Cristo, fino al centro commerciale. Era un'idea di Qhuinn. Come quasi tutte le altre. A sentire lui, il guardaroba di John aveva bisogno di una iniezione di stile. John abbassò lo sguardo sui Levi's e sulla T-shirt bianca di Hanes. L'unico sfoggio che si era concesso erano le scarpe da tennis: un paio di Nike Air Max nere. E anche quelle erano poi così vistose. Forse Qhuinn non aveva tutti i torti ad accusarlo di essere schiavo della moda ma, andiamo, su chi doveva fare colpo? Il nome che gli balzò subito alla mente gli strappò un'imprecazione: Xhex. Qualcuno bussò alla porta. «John? Ci sei?» John si affrettò a infilarsi la T-shirt nei jeans chiedendosi come mai Phury lo stesse cercando. Era in pari con gli studi e se la cavava egregiamente nel corpo a corpo. Forse c'entrava col lavoro che faceva in ufficio? Aprì la porta. Ciao. «Ehilà. Tutto bene?» John annuì, poi si accigliò vedendo che anche il fratello passava alla lingua dei segni. Mi chiedevo se potevi farmi un favore. 39 Qualunque cosa. Cormia è...be', ha avuto dei problemi di adattamento, qui sulla Terra. Credo che sarebbe bello se avesse qualcuno con cui passare un po' di tempo, sai... qualcuno con la testa sulle spalle, in gamba e tranquillo. Senza troppe complicazioni. Così... pensi di potertene occupare tu? Devi solo parlarle o portarla in giro per casa o... quello che ti pare. Lo farei io, ma... È complicato, terminò John tra sé. È complicato, disse a gesti Phury. Un'immagine della bionda e taciturna Cormia si stampò nella mente di John. Negli ultimi mesi aveva notato che l'Eletta e Phury facevano di tutto per non guardarsi e si era chiesto - come chiunque altro, senza dubbio - se avessero suggellato il loro patto. John pensava di no. Erano ancora troppo impacciati. Ti dispiacerebbe farmi questo favore?, riprese Phury. Cormia avrà delle domande, immaginò, o... non so, cose di cui parlare. Per la verità l'Eletta non sembrava ansiosa di socializzare. A tavola se ne stava sempre a capo chino e non diceva mai una parola mentre mangiava solo cibi rigorosamente bianchi. Ma come faceva a dire di no a Phury? Il fratello lo aiutava sempre con le posizioni combattimento, rispondeva alle sue domande anche dopo le lezioni ed era il tipo di persona con cui si 40 desidera essere carini perché era gentile con tutti. Certo, disse John. Molto volentieri. Grazie. Phury gli diede una pacca sulla spalla, soddisfatto, come si fosse levato un gran peso. Le dirò di venire a cercarti in biblioteca dopo il Primo Pasto. John guardò com'era vestito. Non era sicuro che lo stile jeans e maglietta fosse abbastanza elegante, ma nel suo armadio non si trovava altro. Forse era un bene andare con gli amici a fare shopping al centro commerciale. Peccato, anzi, non esserci andati prima. 41 Capitolo 3 Per tradizione, nella Lessening Society, una volta affiliati si era conosciuti solo con la prima lettera del cognome. Mr D avrebbe dovuto chiamarsi Mr R. R come Roberts. Ma l'identità che stava usando quando era stato reclutato era Delancy. Perciò era diventato Mr D e lo chiamavano così da trent'anni. Non aveva importanza, però. I nomi non hanno mai contato un accidente. Mr D cambiò marcia prima di affrontare una curva sulla Statale 22, ma scalare in terza non lo aiutò granché. La Ford Focus aveva lo sprint di un novantenne. E puzzava come di naftalina e pelle flaccida, pergiunta. Caldwell, il distretto agricolo di New York, era ima distesa lunga una ottantina di chilometri di campi di grano e pascoli per bovini; mentre la attraversava arrancando sulla sua bagnarola, Mr D si ritrovò a pensare ai forconi da fieno. La prima persona l'aveva uccisa con un forcone. A quattordici anni, quando stava ancora in Texas. Suo cugino, Big Tommy. Mr D era stato molto fiero di averla fatta franca per quell'omicidio. Essere mingherlino e apparire indifeso era stato il suo asso nella manica. Il buon vecchio Big 42 Tommy era un attaccabrighe maldestro con una punta di malvagità, quindi quando Mr D era corso gridando dalla sua mamma con la faccia pesta, tutti avevano creduto che suo cugino, colto da un raptus omicida, avesse avuto quello che si meritava. Hah! Mr D aveva seguito Big Tommy fin dentro al fienile e lo aveva fatto incazzare di brutto per rimediare il labbro gonfio e l'occhio nero necessari a invocare la legittima difesa. Poi aveva afferrato il forcone, che in precedenza aveva appoggiato contro uno dei box della stalla, e si era messo all'opera. Voleva solo scoprire com'era uccidere un essere umano. I gatti, gli opossum e i procioni che aveva intrappolato e torturato andavano bene, okay, ma non erano esseri umani. L'impresa si era rivelata più dura del previsto. Nei film i forconi affondano nella gente come un cucchiaio nella minestra, ma è una bugia. I denti di quel coso si erano incastrati nelle costole di Big Tommy, tanto che, per estrarlo, Mr D era stato costretto a puntare il piede contro il fianco di suo cugino. Il secondo affondo si era conficcato nello stomaco, ma di nuovo il forcone si era incastrato, nella spina dorsale, probabilmente. E allora Mr D aveva dovuto far leva un'altra volta col piede. Quando finalmente Big Tommy aveva smesso di strillare come un maiale al macello, Mr D soffiava come un mantice, sbuffando fuori l'aria dolciastra e impregnata di pulviscolo del fienile come se non ce ne fosse abbastanza, Ma non era stato un fiasco totale. Era stata una vera goduria osservare le espressioni che si erano avvicendate sulla faccia di suo cugino. Prima la rabbia, che lo aveva spinto a colpire Mr D, poi l'incredulità e infine l'orrore e 43 il terrore. Mentre tossiva sputando sangue e ansimando, Big Tommy aveva sgranato gli occhi in preda a una paura boia, una cosa molto simile al timore di Dio che le mamme sperano sempre di inculcare nei loro figli. Mr D, il cucciolo della famiglia, il piccoletto, si era sentito un colosso alto due metri. Era la prima volta che assaporava quel senso di potere e avrebbe voluto provarlo di nuovo, poi però era arrivata la polizia, in paese c'erano state molte chiacchiere e lui si era imposto di fare il bravo. Aveva lasciato passare un paio d'anni prima di rifare, qualcosa di simile. Lavorare in un'azienda di trasformazione delle carni era Stato l'ideale per affinare la sua abilità nel maneggiare il coltello, e quando si era sentito pronto aveva sfruttato la stessa messinscena utilizzata con Big Tommy: una rissa da bar con uno spaccone. Aveva fatto infuriare il bastardo, poi con l'astuzia lo aveva attirato in un angolo buio. Un cacciavite aveva fatto il resto. Le cose erano state più complicate che con Big Tommy. Una volta scatenatosi contro il bullo, Mr D non era più stato capace di fermarsi. Ed è più difficile tirar fuori dal cilindro la carta della legittima difesa quando la vittima è stata pugnalata sette volte, trascinata dietro un'auto e smembrata come una macchina da rottamare. Dopo aver impacchettato il morto dentro dei sacchi dell'immondizia, Mr D l'aveva portato a fare un viaggetto su al nord. Aveva usato la Pinto dell'amico e, quando il cadavere aveva cominciato a puzzare, aveva trovato quella che nel Mississippi rurale passava per una collina, aveva fermato l'auto in cima al pendio e dato una spinta 44 al paraurti anteriore. Il baule con il suo carico nauseabondo aveva centrato in pieno un albero. L'esplosione era stata una libidine. Dopodiché Mr D aveva fatto l'autostop fino in Tennessee e poi si era arrangiato con dei lavoretti saltuari per pagarsi vitto e alloggio. Aveva fatto fuori altri due uomini prima di spostarsi nella Carolina del Nord, dove per un pelo non lo avevano beccato in flagrante. I suoi bersagli erano sempre degli stronzi grandi e grossi, ecco com'era diventato un lesser: senza saperlo aveva preso di mira uno dei membri della Lessening Society e, quando lo aveva quasi ammazzato malgrado la sua stazza, il non morto era rimasto talmente impressionato da chiedergli di aggregarsi alla compagnia per dare la caccia ai vampiri. A lui era parso un ottimo affare. Una volta superata l'incredulità della serie "calma sarà proprio vero"? Dopo l'affiliazione, Mr D era stato collocato nel Connecticut, ma un paio d'anni prima si era trasferito a Caldie, quando Mr X, il Fore-lesser dell'epoca, aveva tirato un po' le redini della Società. In trent'anni Mr D non era mai stato chiamato dall'Omega. La situazione era cambiata un paio d'ore prima. La convocazione si era manifestata sotto forma di sogno, mentre stava dormendo, e non aveva avuto bisogno delle buone maniere della mamma per 45 rispondere subito di sì. Ma non aveva potuto fare a meno di chiedersi se sarebbe sopravvissuto a quella notte. Le cose non andavano granché bene, alla Lessening Society, da quando c'era di mezzo il Distruttore di cui parlava la profezia. II Distruttore un tempo era un poliziotto umano, da quello che aveva sentito Mr D. Un poliziotto umano con sangue di vampiro nelle vene, che l'Omega aveva manipolato con pessimi risultati. Naturalmente la Confraternita del Pugnale Nero lo aveva preso a bordo sfruttandolo a proprio vantaggio. Mica scemi, quelli. Perché un'uccisione da parte del Distruttore non era solo un lesser di meno. Se il Distruttore ti prendeva, ti toglieva la parte dell'Omega che avevi dentro, assorbendola dentro di sé. Invece dell'eterno paradiso che ti era stato promesso al momento dell'ingresso nella Società, finivi imprigionato dentro quell'uomo. E con ogni lesser distrutto in quel modo, un pezzo dell'Omega andava perduto per sempre. Prima, se combattevi i fratelli, il peggio che poteva capitarti era di andare in paradiso. Adesso, invece, quasi sempre venivi piantato per strada mezzo morto finché il Distruttore non arrivava e ti inalava, riducendoti in cenere e fregandoti la meritata vita eterna. Per questo ultimamente il clima era parecchio teso. L'Omega era più malvagio del solito, i lesser erano sul chi vive a furia di guardarsi le spalle e i reclutamenti erano precipitati al minimo storico 46 perché tutti erano troppo presi a salvarsi la pelle per cercare nuova linfa vitale. Inoltre c'era stato un gran carosello di Fore-lesser. Anche se quella non era una novità. Mr D svoltò a destra sulla RR 149, una stradina di campagna, e proseguì per altri cinque chilometri fino alla stradina successiva, il cui segnale era stato abbattuto, probabilmente da una mazza da baseball. La strada tutta curve era poco più che un sentiero pieno di buche; Mr D fu costretto a rallentare per evitare di ridursi lo Stomaco a un frappé: l'auto aveva le stesse sospensioni di un fornellino elettrico, come dire zero. Un difetto della Lessening Society era che ti davano da guidare dei catorci. Bass Pond Lane... stava cercando Bass Pond La... eccola lì. Sterzò bruscamente il volante, pigiò con forza sul freno e per un pelo non uscì di strada. Non essendoci lampioni stradali, mancò lo squallido giardino invaso dalle erbacce che stava cercando e fu costretto a ingranare la retromarcia e tornare indietro. La fattoria era messa peggio della Focus, nient'altro che una topaia col tetto cadente soffocata dal- l'equivalente newyorkese del kudzu: l'edera velenosa. In mancanza del vialetto d'accesso, parcheggiò lungo la strada, scese dalla macchina e si raddrizzò il cappello da cowboy. La fattoria gli ricordava casa sua, vuoi per la carta catramata a vista vuoi per le finestre rotte e il misero prato infestato dalle erbacce. Difficile credere che quella grassona di sua madre, sempre chiusa in Casa, e quel rudere di suo 47 padre, sfiancato dal lavoro nei campi, non fossero dentro ad aspettarlo. Dovevano essere schiattati da un pezzo, pensò Mr D avvicinandosi alla porta. Lui era il minore di sette figli e i suoi erano entrambi fumatori. La porta a zanzariera era rimasta quasi senza zanzariera e l'intelaiatura era tutta smangiata dalla ruggine. Quando la aprì, emise un cigolio che ricordava gli strilli di un maiale sgozzato, gli strilli di Big Tommy, proprio come quella della sua vecchia casa. Bussò alla porta interna senza ottenere risposta, così si tolse il cappello da cowboy ed entrò, usando il fianco e la spalla per far scattare la serratura. Dentro c'era odore di fumo di sigaretta, muffa e morte. I primi due erano rancidi, quello di morte era fresco, il tipo di tanfo penetrante e fruttato che ti fa venir voglia di uscire ad ammazzare qualcosa per unirti alla festa. E c'era anche un altro odore. L'aroma dolciastro che indugiava nell'aria indicava che l'Omega di recente era stato lì. Lui o un altro tesser. Col cappello in mano, Mr D attraversò le stanze buie sul davanti, fino alla cucina sul retro. I cadaveri erano lì. Due, riversi a pancia in giù. Non riusciva a capire di che sesso fossero perché li avevano decapitati e spogliati, ma le pozze di sangue nel punto in cui avrebbero dovuto esserci le teste si erano mischiate, come se si stessero tenendo per mano. Era una scena dolcissima, in effetti. 48 Mr D guardò, all'altro capo della stanza, la macchia nera sul muro, tra il frigo giallo oro e il tavolo di formica dalle gambe sottili. Quello scempio stava a significare che un collega aveva fatto una brutta fine per mano dell'Omega. Evidentemente il padrone aveva licenziato un altro Fore-lesser. Mr D scavalcò i cadaveri e aprì il frigo. I tesser non mangiavano, ma era curioso di vedere cosa ci teneva la coppia. Huh. Altri ricordi. C'era una confezione aperta di bologna Oscar Mayer ed erano a corto di maionese. Non che ormai dovessero più preoccuparsi di preparare dei panini imbottiti. Chiuse il frigo e si appoggiò all'indietro contro il... La temperatura nella stanza crollò di venti gradi buoni, neanche qualcuno avesse alzato il condizionatore fino alla tacca Congelatevi le palle. Poi si alzò il vento, che arruffò la tranquilla nottata estiva, sempre più impetuoso, finché la fattoria non si mise a scricchiolare. L'Omega. Mr D si riscosse proprio quando la porta d'ingresso si spalancò di colpo. Ciò che avanzò lungo il corridoio era ima foschia nera come la pece, fluida e trasparente, che rotolava sull'assito. Giunta di fronte a Mr D si condensò, ergendosi in una sagoma maschile. «Padrone», disse Mr D inchinandosi, col sangue che scorreva a rotta di collo nelle vene per un misto di paura e amore. 49 La voce dell'Omega giunse da una remota distanza, e come disturbata da interferenze e scariche elettriche. «Ti nomino Fore-lesser.» Mr D rimase senza fiato. Era il massimo degli onori, la posizione di maggior potere all'interno della Lessening Society. Non ci aveva mai neanche lontanamente sperato, ma forse in effetti poteva cimentarsi per un po' in quel ruolo. «Graz...» L'Omega avanzò, avvolgendolo nella propria foschia come un sudario di catrame. Un dolore atroce prese il posto di ogni osso nel corpo di Mr D, che venne fatto voltare e spinto con la faccia contro il bancone della cucina. Il cappello gli volò via dalle mani, l'Omega assunse il controllo e accaddero cose cui Mr D, potendo, non avrebbe mai acconsentito. Ma nella Società non c'era modo di dissentire. Solo in una occasione potevi dire di sì, ed era quando entravi a farne parte, poi perdevi il controllo su tutto ciò che seguiva. Dopo un tempo all'apparenza infinito, l'Omega uscì dal corpo di Mr D e si vestì, coprendosi dalla testa ai piedi con una tunica bianca. Con signorile eleganza il male si aggiustò le falde della veste; nel frattempo gli artigli erano spariti. O forse non erano spariti, ma si erano consumati dopo tutto quel dilaniare e lacerare. 50 Debole e sanguinante, Mr D si accasciò contro il bancone malconcio. Voleva vestirsi, ma dei suoi indumenti restava ben poco. «Gli eventi sono giunti a un punto cruciale», dichiarò l'Omega. «L'incubazione è compiuta. Ora è tempo di mettere al riparo il bozzolo.» «Signorsì.» Come se fosse possibile un'altra risposta. «In che cosa posso servirvi?» «Il tuo compito è portarmi questo vampiro.» Così dicendo, l'Omega tese la mano col palmo all'insù e dal nulla comparve un'immagine che aleggiò nell'aria. Mr D studiò quel viso, il cervello che galoppava in preda all'ansia. Quella specie di foto segnaletica trasparente non bastava di | certo, gli occorrevano più dettagli. «È nato qui e vive tra i vampiri di Caldwell.» La voce dell'Omega sembrava uscita da un film di fantascienza e riecheggiava nella stanza in modo inquietante. «Ha superato la transizione solo da pochi mesi. I vampiri credono sia uno di loro.» Ah be', questo sì che restringeva il campo. «Puoi servirti degli altri», proseguì l'Omega, «ma devi prenderlo vivo. Se dovesse rimanere ucciso, ne risponderai a me.» 51 L'Omega si piegò di lato e poggiò il palmo sulla carta da parati vicino al segno nero bruciacchiato. L'immagine del civile si impresse a fuoco sui fiori gialli sbiaditi. L'Omega inclinò leggermente la testa e guardò l'immagine. Poi, con gesto elegante e delicato, accarezzò quel volto. «È speciale, lui. Trovalo. Riportalo qui. Fallo senza indugio.» Non c'era bisogno di accennare ali 'altrimenti. Quando il male svanì, Mr D si chinò a raccogliere il cappello da cowboy. Per fortuna non si era schiacciato né macchiato. Stropicciandosi gli occhi, valutò in che razza di rogna si era cacciato. Un vampiro, da qualche parte lì a Caldwell. Era come cercare un ago in un pagliaio. Prese un coltello da cucina e lo usò per ritagliare l'immagine impressa sulla tappezzeria. Poi, con cautela, staccò il pezzo di carta e studiò quel volto. I vampiri erano riservatissimi per due motivi: non volevano interferenze da parte degli umani e sapevano che i lesser gli stavano addosso. Tuttavia uscivano in pubblico, specie i maschi appena usciti dalla transizione. Aggressivi e avventati, i più giovani bazzicavano gli angoli più malfamati del centro di Caldwell, perché lì trovavano le umane con cui fare sesso, le risse in cui lanciarsi e ogni sorta di sballo da sniffare, bere e fumare. Il centro di Caldwell. Avrebbe messo insieme una squadra e puntato verso i bar del centro. Se anche non 52 trovavano subito il soggetto in questione, la comunità dei vampiri era molto ristretta. Di sicuro altri civili conoscevano il loro bersaglio, ed estorcere informazioni era uno dei punti forti di Mr D. Altro che siero della verità. Gli bastava un martello a granchio e una catena e si trasformava in una macchina capace di far cantare chiunque. Mr D trascinò al piano di sopra il suo povero corpo ridotto uno straccio e con estrema cautela fece una doccia nello schifo di bagno dei due morti. Quand'ebbe terminato, si infilò una salopette e una camicia, che naturalmente gli andavano grandi. Dopo aver arrotolato i polsini della camicia e accorciato di quasi dieci centimetri le gambe dei calzoni, si pettinò i capelli bianchi appiattendoli sul cranio. Prima di uscire dalla stanza, si mise una goccia di Old Spice trovato sul comò. Era quasi solo alcol puro, come se il flacone fosse lì da un pezzo, ma Mr D non disdegnava un tocco di classe. Tornato da basso, attraversò la cucina e raccolse la striscia di tappezzeria con sopra la faccia del vampiro. Imprimendosi nella mente i tratti di quel volto, si ritrovò a scalpitare come un segugio, eccitatissimo malgrado fosse ancora tutto dolorante. La caccia era aperta e lui sapeva da chi farsi assistere. C'era una squadra di cinque lesser con cui aveva lavorato a tratti nel corso degli ultimi due anni. Erano bravi ragazzi, oddio, forse bravi non era proprio il termine adatto, ma ci andava d'accordo e adesso che era Forelesser poteva comandarli a bacchetta. 53 Avviandosi verso la porta d'ingresso si calcò bene in testa il cappello e sfiorò la tesa in segno di saluto, all'indirizzo dei due cadaveri. «Ci vediamo.» Qhuinn entrò nello studio di suo padre già di cattivo umore e di sicuro non si aspettava di uscirne felice e contento. E infatti. Appena lo vide entrare, suo padre lasciò ricadere un angolo del Wall Street Journal per poter premere le nocche delle dita sulla bocca e poi toccarsi i due lati del collo. Bofonchiò in fretta qualche parola nell'Antico Idioma, poi rialzò il giornale. «Hai bisogno di me per il gala?» chiese Qhuinn. «I doggen non te l'hanno detto?» «No.» «Li avevo avvertiti di dirtelo.» «Sarebbe un no, quindi.» Gli aveva rivolto quella domanda, e adesso insisteva per ottenere una risposta, solo per il gusto di dargli fastidio. «Non capisco perché non te l'abbiano detto.» Suo padre scavallò e poi riaccavallò le gambe, la piega dei pantaloni tesa come il suo labbro sul bicchiere di sherry. «Vorrei solo dire le cose una volta sola, tutto qua. Non mi pare di chiedere...» «Non vuoi dirmelo, giusto?» «... troppo. Voglio dire, onestamente, il compito della servitù è evidente, lo dice la parola stessa: servire, e io detesto dovermi ripetere.» 54 Suo padre dondolava nervoso il piede libero, scalciando l'aria. I mocassini guarniti di nappine erano, come sempre, Cole Haan: cari come il fuoco, ma discreti quanto un sospiro aristocratico. Qhuinn abbassò lo sguardo sulle sue New Rock. Le suole in carro armato erano alte cinque centimetri in punta e sette e mezzo sul tallone. Il cuoio nero saliva fino alla base dei polpacci; sopra di esso si incrociavano le stringhe e tre magnifiche borchie cromate. Ai tempi in cui prendeva la paglietta, prima di scoprire che la transizione non avrebbe guarito il suo difetto fisico, aveva risparmiato per mesi per prendere quei cazzo di anfibi da duro, e subito dopo il cambiamento se li era comprati. Erano il regalo che si era fatto per essere sopravvissuto alla transizione, perché sapeva che dai suoi non doveva aspettarsi un bel niente. Quando li aveva sfoggiati al Primo Pasto, gli occhi di suo padre erano quasi schizzati fuori dalle sue orbite di perbenista. «C'è qualcos'altro?» chiese adesso suo padre da dietro al giornale. «Naa. Sparirò dalla circolazione. Non temere.» Dio solo sapeva se non l'aveva già fatto in occasione di altre cerimonie ufficiali, anche se, seriamente, chi volevano prendere in giro? La glymera sapeva benissimo di lui e del suo "problemino" e quegli snob perdigiorno erano come gli elefanti: avevano una memoria di ferro. 55 «A proposito, tuo cugino Lash ha un nuovo lavoro», mormorò suo padre. «Alla clinica di Havers. Sogna di diventare medico e fa pratica dopo la scuola.» Il giornale si abbassò, lasciando intravedere per un attimo il volto di suo padre... fu una specie di stilettata perché Qhuinn colse lo sguardo deluso negli occhi del suo vecchio. «Lash è un tale motivo di orgoglio per suo padre. Il degno erede di una famiglia tanto in vista.» Qhuinn lanciò un'occhiata alla mano sinistra del padre. All'indice portava un grosso anello d'oro massiccio con lo stemma di famiglia. Tutti i giovani aristocratici ne ricevevano in dono uno, dopo la transizione; entrambi i suoi migliori amici ce l'avevano. Blay lo portava sempre, salvo durante le esercitazioni in palestra o quando andavano in centro, e anche John Matthew ne aveva uno, anche se non lo metteva mai. E non erano gli unici a sfoggiare quei vistosi tocchi d'oro grossi come fermacarte. Nel loro corso di addestramento, al quartier generale della Confraternita, uno dopo l'altro gli allievi, superata la transizione, si sarebbero presentati in classe con al dito il loro bravo anello con sigillo. Lo stemma di famiglia inciso in dieci once d'oro: cinquemila dollari. Riceverlo dal proprio padre quando si diventava un vampiro a tutti gli effetti era una soddisfazione inestimabile. Per Qhuinn la transizione era arrivata cinque mesi prima, suppergiù. E lui aveva smesso di aspettarsi 56 l'anello quattro mesi, tre settimane, sei giorni e due ore prima. Grosso modo. Cribbio, malgrado le frizioni esistenti tra lui e il suo vecchio non avrebbe mai immaginato di non ricevere l'anello. E invece, sorpresa! Un nuovo modo di sentirsi escluso dal gregge. Ci fu un altro fruscio di carta, e impaziente, stavolta, come se suo padre stesse scacciando via una mosca dal suo hamburger. Anche se, naturalmente, lui non mangiava hamburger perché erano troppo ordinari. «Dovrò proprio parlare con quel doggen», disse. Uscendo, Qhuinn chiuse la porta e quando si voltò per infilare il corridoio, per un pelo non andò a sbattere contro una doggen che veniva dalla biblioteca lì accanto. La cameriera in uniforme fece un balzo all' indietro, si baciò le nocche e le picchiettò sulle vene del collo. Poi corse via farfugliando la stessa frase che poco prima aveva mormorato suo padre. Qhuinn si fermò davanti a uno specchio antico appeso alla parete rivestita di seta. Malgrado le incrinature nel vetro piombato e le macchioline scure nei punti in cui era saltata via la parte riflettente, il suo problema era palese. Sua madre aveva gli occhi grigi. Suo padre aveva gli occhi grigi. Suo fratello e sua sorella avevano gli occhi grigi. 57 Qhuinn aveva un occhio azzurro e l'altro verde. Ora, nella sua famiglia e tra i suoi antenati c'erano occhi azzurri e occhi verdi, naturalmente, ma mai insieme nella stessa persona e, chi l'avrebbe mai detto, le deviazioni dalla norma non erano una bella cosa. L'aristocrazia non ammetteva i difetti e i genitori di Qhuinn non solo erano saldamente radicati nella glymera, provenendo entrambi dalla cerchia delle sei famiglie fondatrici della razza, ma suo padre era stato addirittura leahdyre del Consiglio dei Princeps. Tutti avevano sperato che la transizione risolvesse il problema; sia l'azzurro che il verde sarebbero stati accettabili. Be', niente da fare. Qhuinn era emerso dal cambiamento con un fisico robusto, un bel paio di zanne, una gran voglia di fare sesso... e un occhio azzurro e uno verde. Che nottata. Era stata la prima e unica volta che suo padre aveva perso il controllo, la prima e unica volta che Qhuinn le aveva buscate. E da allora nessuno, tra i familiari come tra i domestici, aveva incrociato il suo sguardo. Uscendo non si prese neanche la briga di salutare sua madre. E neanche sua sorella o suo fratello maggiore. Sin dalla nascita era stato messo in disparte, in famiglia, tenuto ai margini come diverso, relegato in panchina da una specie di difetto genetico. L'unica ancora di salvezza per la sua pietosa esistenza, secondo il sistema di valori della razza, era che in famiglia c'erano due giovani sani e normali e che il primogenito, suo 58 fratello, era considerato riproduzione. accettabile ai fini della Qhuinn aveva sempre pensato che i suoi avrebbero dovuto fermarsi a quota due, che sperare in tre figli sani era sfidare troppo la sorte. Non poteva cambiare le carte che gli erano state servite, tuttavia. Ma non poteva neanche fare a meno di rimpiangere che le cose non fossero andate diversamente. Non poteva fare a meno di starci male. Anche se il gala sarebbe stato solo un raduno di tipi retrogradi e boriosi, in abito lungo o in smoking come tanti pinguini, lui voleva stare con la sua famiglia durante il grande ballo di fine estate della glymera. Voleva stare spalla a spalla con suo fratello e contare qualcosa, per una volta nella vita. Voleva mettersi in ghingheri come tutti gli altri, sfoggiare il suo anello d'oro e magari ballare con una delle ragazze di buona famiglia ancora sulla piazza. In quella sfavillante comitiva di aristocratici voleva essere considerato come un cittadino a pieno titolo, come uno di loro, come un maschio adulto, non un imbarazzo genetico. Impossibile. Per la glymera lui era meno che un animale, inadatto al sesso quanto un cane. Mi manca solo il collare, pensò, smaterializzandosi verso la casa di Blay. 59 Capitolo 4 Nel frattempo, a est, nella grande casa della confraternita, Cormia attendeva in biblioteca l'arrivo del Primale e della persona, chiunque fosse, in compagnia della quale lui voleva farle trascorrere il suo tempo. Mentre andava su e giù dal divano alla poltrona, sentì i fratelli che, nell'atrio, parlavano di una qualche imminente festa della glymera. La voce del fratello Rhage rimbombava stentorea. «Quel branco di fancazzisti deleteri, con i loro mocassini lustri...» «Attento a come parli dei mocassini», lo interruppe il fratello Butch. «Ne ho su un paio.» «... quegli stronzi parassiti miopi e ottusi...» «Forza, dì pure quello che pensi», scherzò qualcun altro. «... possono prendere il loro ballo di merda e ficcarselo in quel posto.» «Meno male che non fai il diplomatico, Hollywood», commentò il re con una risatina sommessa. «Devi permettermi di inviargli un messaggio. Meglio ancora, mandiamoci la mia bestia in nostra 60 rappresentanza. Le faccio spaccare tutto. Gli starebbe proprio bene a quei bastardi, per come hanno trattato Marissa.» «Sai», dichiarò Butch, «ho sempre pensato che ce l'avevi un po' di sale in zucca, checché ne dicessero tutti gli altri.» Cormia smise di camminare quando il Primale comparve sulla soglia della biblioteca con un bicchiere di porto in mano. Era nella solita tenuta che indossava sempre per il Primo Pasto, quando non doveva fare lezione: un paio di calzoni fatti su misura, che gli stavano a pennello e che quella sera erano color crema; una camicia di seta, nera come di consueto, e una cintura nera con la fibbia d'oro a forma di H allungata. Le scarpe a punta quadrata, lustre come vino specchio, sfoggiavano la stessa H della cintura. Hermès, Cormia glielo aveva sentito dire una volta, a tavola. Aveva i capelli sciolti; le onde gli si allargavano sulle spalle poderose, alcune sul davanti, altre lungo la schiena. Profumava di quello che i fratelli chiamavano dopobarba, oltre al fumo all'aroma pi caffè che impregnava la sua camera da letto. Cormia sapeva esattamente che odore aveva la sua camera da letto. Aveva passato un solo giorno stesa accanto a lui, in quella stanza, e tutto di quella esperienza era stato indimenticabile. Ma non era il momento adatto per ricordare ciò che era accaduto tra loro in quel letto enorme, mentre lui dormiva. Era già abbastanza difficile stare lì con lui con 61 un'intera stanza a dividerli e un mucchio di gente fuori dalla porta. Ripensare adesso ai momenti in cui lui si era premuto, nudo, contro di lei... «Ti è piaciuta la cena?» chiese il Primale, bevendo un sorso dal bicchiere. «Sì, assolutamente. E vostra grazia l'ha gradita?» Lui stava per rispondere, quando alle sue spalle comparve John Matthew. Il Primale si voltò verso il giovane e sorrise. «Ehilà, vecchio mio. Lieto di vederti.» John Matthew guardò Cormia e alzò una mano in segno di saluto. Lei si sentì sollevata da quella scelta. Non conosceva John più degli altri, ma durante i pasti era silenzioso, cosa che, data la sua mole, lo faceva apparire meno terrificante. «Vostra grazia», lo salutò con un inchino. Raddrizzandosi, sentì il suo sguardo su di sé e si chiese cosa vedesse. Una femmina o una Eletta? Che pensiero bizzarro. «Be', chiacchierate un po', voi due», li incoraggiò il Primale spostando su di lei gli sfavillanti occhi dorati. «Io stasera sono di turno, per cui sarò fuori.» A combattere, pensò Cormia, con ima fitta di paura. 62 Avrebbe voluto correre da lui e raccomandargli di essere prudente, ma non era compito suo, giusto? Lei era a stento la sua Prima Sposa, tanto per cominciare, e secondariamente lui era la forza della razza e non aveva nessun bisogno delle sue preoccupazioni. Con una pacca sulla spalla a John Matthew, il Primale la salutò con un cenno del capo e se ne andò. Cormia si piegò di lato per vederlo salire le scale. Malgrado la protesi, camminava con scioltezza. Era così alto, fiero e bello, e lei detestava non vederlo per ore prima del suo ritorno. Quando si voltò, John Matthew era andato alla scrivania a prendere un piccolo bloc notes e una penna. Scriveva tenendo il foglio vicino al petto, la grossa mano piegata all'insù. Mentre tracciava faticosamente le lettere, sembrava molto più giovane di quanto suggeriva la sua stazza. Cormia lo aveva visto comunicare a gesti, nelle rare occasioni in cui aveva qualcosa da dire, a tavola, e le era venuto in mente che forse era muto. John voltò il blocco verso di lei con una smorfia, come se non fosse soddisfatto di ciò che aveva scritto. Ti piace leggere? In questa biblioteca ci sono tanti bei libri. Cormia lo guardò negli occhi. Erano di un bell'azzurro. «Che problema ha la vostra voce, se posso permettermi?» Nessun problema. Ho fatto il voto del silenzio. 63 Ah... sì, adesso ricordava. L'Eletta Layla glielo aveva accennato. «Vi ho visto usare le mani per comunicare», disse. Lingua dei segni, scrisse lui. «È un modo di comunicare molto elegante.» Serve allo scopo. Poi scrisse qualcos'altro e le mostrò di nuovo il blocco. Ho sentito che l'Altra Parte è molto diversa. È vero che lì è tutto bianco? Cormia alzò i panneggi della tunica, come a fornire un esempio di com'era il posto da cui veniva. «Sì. Il bianco è tutto ciò che abbiamo.» Si accigliò. «O meglio, tutto ciò che ci serve.» Avete la luce elettrica? «Abbiamo le candele, e facciamo le cose a mano.» Suona antiquato. Cormia non era certa di cosa intendesse. «È una cosa brutta?» Lui scosse la testa. Io lo trovo fico. Cormia conosceva quella parola perché l'aveva sentita a tavola, ma ancora non capiva cosa c'entrasse un frutto con un giudizio di valore apparentemente positivo. 64 «Io non conosco altro», disse, avvicinandosi a una delle porte alte e strette con i pannelli di vetro. «Be', fino adesso.» Le sue rose erano così vicine, pensò. John fischiò e Cormia si voltò a guardare da sopra la spalla il blocco che teneva rivolto verso di lei. Ti piace questo posto? Aveva scritto. Puoi anche dirmi di no, sia chiaro. Io non sono qui per giudicarti. «Mi sento così diversa da tutti gli altri», disse lei giocherellando con la veste. «Nelle conversazioni mi perdo, anche se conosco la vostra lingua.» Seguì un lungo silenzio. Quando Cormia tornò a guardarlo, John stava scrivendo; di tanto in tanto si fermava, come se stesse scegliendo una parola. Cancellò qualcosa. Scrisse qualcos'altro. Quand'ebbe finito le porse il bloc notes. So cosa significa. Essendo muto mi sento quasi sempre fuori posto. Da quando ho superato la transizione le cose vanno meglio, ma ogni tanto capita ancora. Però qui nessuno ti giudica. Noi ti vogliamo bene e siamo contenti di averti qui. Cormia lesse due volte il paragrafo. Non sapeva bene come reagire all'ultima frase. Era convinta di essere tollerata perché l'aveva portata lì il Primale. «Ma... vostra grazia, credevo che aveste scelto volontariamente di mantenere il silenzio.» Vedendolo arrossire aggiunse, «Chiedo scusa, sono cose che non mi riguardano.» 65 Lui scrisse qualcosa e poi glielo mostrò. Sono nato senza laringe. La frase dopo era cancellata, ma Cormia riuscì comunque a coglierne il succo. Aveva scritto qualcosa tipo, Però sono bravo a combattere e sono sveglio e tutto il resto. Lei capiva bene perché avesse mentito. Al pari della glymera, le Elette vedevano nella perfezione fisica la prova lampante di una educazione adeguata e della forza del patrimonio genetico della razza. Molti avrebbero giudicato il mutismo di John come una pecca, e anche le Elette potevano essere crudeli verso chi giudicavano inferiore. Cormia gli posò ima mano sul braccio. «Io non credo che serva dire proprio tutto per farsi capire. Ed è più che evidente che siete sano e forte.» Con le guance che si tingevano di rosso, John chinò il capo per nascondere gli occhi. Cormia sorrise. Sentirsi rilassata di fronte a tanto imbarazzo sembrava perverso, ma per certi versi adesso le pareva che loro due fossero sullo stesso piano. «Da quanto siete qui?» chiese. John tornò al bloc notes; per un attimo il suo volto tradì l'emozione. Otto mesi, più o meno. Mi hanno preso con loro perché non avevo una famiglia. Mio padre è stato ucciso. «Sono desolata per la vostra perdita. Ditemi... restate qui perché vi piace?» 66 Ci fu una lunga pausa. Poi lui cominciò a scrivere lentamente. Quando le mostrò il blocco, c'era scritto, Mi piace né più né meno di qualsiasi altra casa. «Il che vi fa sentire fuori posto come me», mormorò Cormia. «Qui, ma non qui.» Lui annuì, poi sorrise, rivelando due zanne di un bianco abbagliante. Cormia non potè fare a meno l'espressione sul bel viso del giovane. di ricambiare Al Santuario erano tutte come lei, lì invece non c'era nessuno Uguale a lei. Finora. Hai qualche domanda? scrisse lui. Non so, sulla casa? Sulla servitù? Phury ha detto che forse ne avevi. Domande... be', gliene veniva in mente qualcuna. Per esempio da quanto tempo il Primale era innamorato di Bella? Bella lo aveva mai ricambiato in qualche modo? Avevano mai giaciuto insieme? Si concentrò sui libri. «Al momento non ho nessuna domanda.» Poi, senza un motivo, aggiunse, «Ho appena finito Les Liaisons Dangereuses di Choderlos de Laclos.» Ne hanno tratto un film. Con Sarah Michelle Gellar, Ryan Phillippe e Reese Witherspoon. «Un film? E chi sono tutte quelle persone?» 67 Lui scrisse per un bel po'. Sai cos'è la televisione, giusto? Quel pannello piatto nella sala del biliardo? Be', i film sono su uno schermo ancora più grande, e le persone dentro ai film si chiamano attori. Fingono di essere altre persone. Quei tre che ho nominato sono attori. In realtà sono tutti attori, sia alla TV che al cinema. Bè, quasi tutti. «Ho dato solo ima sbirciatina alla sala del biliardo. Non ci sono mai entrata.» Provava una curiosa vergogna nell'ammettere quanto poco si fosse avventurata fuori dalla sua stanza. «La televisione è quella scatola luminosa con le immagini?» EsattoPosso mostrarti come funziona, se ti va. «Sì, per favore.» Usciti dalla biblioteca si trovarono nel magico atrio della magione, variopinto come un arcobaleno, e come sempre Cormia alzò gli occhi al soffitto, tre piani sopra il pavimento a mosaico. La scena dipinta lassù in cima raffigurava alcuni guerrieri in sella a giganteschi destrieri, pronti a combattere. I colori erano scandalosamente vivaci, le figure forti e maestose, lo sfondo di un azzurro brillante punteggiato da nuvole bianche. C'era un guerriero in particolare, dai capelli striati di biondo, che Cormia non poteva fare a meno di controllare ogni volta che attraversava l'atrio. Doveva assicurarsi che stesse bene, anche se era ridicolo. Quelle figure non si muovevano mai. La battaglia era sempre sul punto di scoppiare, mai in atto. 68 Contrariamente agli scontri che vedevano impegnati i membri della confraternita. Contrariamente a quelli che vedevano impegnato il Primale. John Matthew le fece strada verso la stanza verde scuro situata di fronte a quella dove si consumavano i pasti. I fratelli ci trascorrevano molto tempo: spesso Cormia aveva sentito le loro voci uscire da quel locale, accompagnate da schiocchi sommessi di cui non aveva saputo identificare l'origine. Fu John a svelare il mistero. Passando accanto a un tavolo piatto coperto da un feltro verde, prese una delle palle multicolori posate sulla sua superficie facendola rotolare dall'altra parte. Quando la palla andò a cozzare contro una delle compagne con un rumore ovattato Cormia capì cosa aveva sentito. John si fermò davanti a un quadro grigio e prese un oggetto nero e sottile. Tutt'a un tratto comparve un'immagine coloratissima accompagnata da un'esplosione sonora. Cormia balzò all'indietro mentre un rombo riempiva la stanza e oggetti simili a proiettili correvano a tutta velocità. John la sorresse mentre il frastuono a poco a poco si attenuava, poi sul bloc notes scrisse, Scusa, ho abbassato il volume. Questa è ma gara della NASCAR. Dentro le automobili ci sono delle persone che corrono lungo la pista. Il più veloce vince. Cormia si avvicinò all'immagine e la toccò, esitante. Sentì solo una superficie piatta e liscia come tessuto. Guardò dietro lo schermo. Non c'era altro che il muro. «Stupefacente.» 69 John annuì e le porse l'oggetto sottile, muovendolo su e giù quasi volesse incoraggiarla a prenderlo. Dopo averle mostrato cosa premere in quella moltitudine di pulsanti, si fece da parte. Cormia puntò quell'aggeggio verso le figure in movimento... e le fece cambiare. Ancora e poi ancora. Sembravano non finire mai. «Niente vampiri, però», mormorò, mentre compariva l'ennesimo scenario inondato dalla luce del giorno. «Questa roba è solo per gli umani.» Però la guardiamo anche noi. I vampiri compaiono in certi film... non sono un granché, di solito. Né i film né i vampiri. Cormia si lasciò sprofondare lentamente sul divano davanti al televisore e John fece altrettanto, sistemandosi su una sedia lì accanto. Quella infinita variazione era avvincente e John le descriveva ogni "canale". Non sapeva da quanto erano seduti lì, ma lui non sembrava impaziente di andarsene. Chissà che canali guardava il Primale, si chiese. Alla fine John le mostrò come spegnere le immagini. Tutta rossa per l'eccitazione, Cormia guardò le porte a vetri. «È sicuro là fuori?» chiese. Molto. C'è un enorme muro di cinta che circonda tutto il complesso, oltre a telecamere di sicurezza dappertutto. Ma soprattutto siamo isolati dal mhis. Nessun lesser è mai riuscito a trovare questo posto, e nessuno ci riuscirà mai... oh, e gli scoiattoli e i cerbiatti sono innocui. 70 «Mi piacerebbe uscire.» Ti accontento molto volentieri. John si infilò il blocco sotto il braccio avviandosi verso una delle portefinestre. Fece scattare la serratura d'ottone e spalancò uno dei due battenti con un galante gesto del braccio. L'aria tiepida che s'insinuò nella stanza aveva un odore diverso da quella che c'era in casa. Era un odore ricco. Complesso. Reso sensuale dal suo bouquet floreale e dal caldo afoso. Cormia si alzò dal divano e raggiunse John. Al di là della terrazza i giardini ben curati che per tanto tempo aveva ammirato da lontano si stendevano a perdita d'occhio. Con le sue aiole variopinte e gli alberi in fiore, la vista non assomigliava per nulla alla distesa monocromatica del Santuario, ma era altrettanto perfetta e incantevole. «Oggi è il mio compleanno», disse senza un motivo particolare. John sorrise e batté le mani. Poi scrisse, Avrei dovuto farti un regalo. «Un regalo?» Sì, insomma, qualcosa. Per te. Cormia si sporse fuori dalla portafinestra allungando il collo. Il cielo sopra di lei era di un blu vellutato con 71 tante lucine scintillanti che ne punteggiavano le pieghe. Magnifico, pensò. Semplicemente magnifico. «Questo è un regalo.» Uscirono di casa insieme. Le lastre di pietra del terrazzo erano fredde sotto i piedi nudi di Cormia, ma l'aria era tiepida come l'acqua di un bagno, e quel contrasto le piacque. «Oh,..» disse inspirando a fondo. «Che meraviglia,..» Girando più volte su se stessa volse lo sguardo su tutto ciò che la circondava: la maestosa montagna della casa; le chiome scure e vaporose degli alberi; il prato ondulato; i fiori nelle loro aiuole ordinatissime. La brezza che soffiava su tutto quanto era leggera come un respiro e portava con sé una fragranza troppo complessa e inebriante da definire. John la lasciò andare avanti da sola, e i cauti passi di lei si diressero verso le rose. Quando le raggiunse, Cormia allungò il braccio e accarezzò i petali delicati di una rosa già quasi sfiorita, grossa come il suo palmo. Poi si chinò ad annusarne il profumo. Raddrizzandosi, scoppiò a ridere. Senza una ragione. Era solo che... il suo cuore all'improvviso aveva messo le ali e adesso si librava in volo dentro al petto, l'apatia che l'aveva afflitta nell'ultimo mese si dileguò, spazzata via da una vigorosa sferzata di energia. 72 Era il suo compleanno e lei era uscita all'esterno. Guardò John e vide che la stava fissando con un timido sorriso sulle labbra. Lui lo sapeva, pensò Cormia. Sapeva quello che lei stava provando. «Voglio fare una corsa.» Lui indicò il prato con un ampio gesto del braccio. Cormia non si soffermò a pensare ai pericoli dell'ignoto o alla dignità che, come la tunica bianca, le Elette non dovevano mai abbandonare. Accantonando il gravoso fardello del decoro, sollevò leggermente la candida veste e si mise a correre a più non posso. L'erba primaverile era soffice sotto i suoi piedi, i capelli sventolavano alle sue spalle e l'aria le accarezzava il viso. Pur rimanendo saldamente ancorata al suolo, la libertà nella sua anima la faceva volare. 73 Capitolo 5 In centro, nella zona dei club e della droga, Phury camminava spedito lungo una traversa della Decima Strada; i pesanti stivali calpestavano con forza il marciapiede lurido, la giacca a vento nera sventolava alle sue spalle. A una quindicina di metri davanti a lui c'era un lesser e, date le rispettive posizioni, tecnicamente Phury lo stava inseguendo. In realtà il non morto non stava cercando di scappare. Il bastardo voleva inoltrarsi nelle tenebre quanto bastava per potersi lanciare nella lotta, e Phury non aveva nulla in contrario, anzi. Nella guerra tra la confraternita e la Lessening Society la regola numero uno era: niente tafferugli con gli umani nei paraggi. Nessuna delle due parti in causa voleva fastidi. In pratica quella era l'unica regola. Phury venne investito dall'odore dolciastro di talco per neonati, la scia lasciata dal suo nemico era nauseante da far schifo, ma valeva la pena sopportare quel tanfo perché quello prometteva di essere un bel corpo a corpo. L'assassino che stava inseguendo aveva i capelli bianchi come la neve - il che stava a significare che era nella Società da un bel pezzo: per motivi ignoti, tutti i lesser col tempo sbiadivano perdendo la naturale pigmentazione di capelli, occhi e pelle via via che acquisivano esperienza nel dare la caccia e uccidere vampiri innocenti. 74 Grandiosa, come contropartita. Più assassinavi, più assomigliavi a un cadavere. vampiri Phury scansò un cassonetto dell'immondizia e scavalcò d'un balzo quello che sperava fosse un mucchio di stracci e non il cadavere di un umano senzatetto; altri cinquanta metri neanche e lui e il suo amichetto avrebbero finalmente trovato la privacy che cercavano. Erano in un vicolo cieco, tra due file di edifici privi di finestre e... In fondo c'erano un paio di umani. Phury e il suo nemico si fermarono di colpo davanti a quei guastafeste. Mantenendosi a distanza di sicurezza, valutarono la situazione mentre i due uomini li guardavano. «Fuori dai piedi», ringhiò quello sulla sinistra. Okay, era chiaramente un caso di spaccius interruptus. E il tizio sulla destra era decisamente il destinatario finale dello scambio, e non solo perché non stava cercando di assumere il controllo di fronte a quell'intrusione. Quel bastardo rognoso era nervosetto, gli occhi febbricitanti sgranati, la pelle giallastra sudaticcia e rovinata dall'acne. Ma il dettaglio più rivelatore era che continuava a fissare le tasche della giacca del suo pusher, per nulla preoccupato dalla prospettiva di finire impallinato dai due nuovi arrivati. Naa, la sua più grande preoccupazione era come procurarsi la dose per farsi un'altra pera, ed era 75 chiaramente terrorizzato all'idea di tornarsene a casa senza ciò che gli serviva. Phury deglutì a fatica mentre guardava quegli occhi vuoti che si spostavano frenetici. Dio, aveva appena provato quell'acuto senso di panico... ci aveva fatto i conti appena prima che le tapparelle si alzassero per la notte, giù a casa. Lo spacciatore spostò una mano dietro la schiena. «Ho detto fuori dai piedi.» Cazzo. Se quel coglione tirava fuori una pistola sarebbe scoppiato un gran casino perché... Okay, ecco, anche il lesser stava infilando la mano dentro la giacca. Con un'imprecazione, Phury seguì il loro esempio stringendo nel palmo il calcio della SIG agganciata al fianco. Lo spacciatore si bloccò, realizzando che tutti e tre erano accessoriati in piombo. Dopo aver calcolato i rischi, alzò le mani vuote davanti a sé. «Ripensandoci, magari levo io le tende.» «Ottima scelta», commentò sarcastico il lesser. Il tossico però non la trovava un'idea tanto geniale. «No, oh, no... no, io ho bisogno...» «Dopo», disse lo spacciatore, abbottonandosi la giacca come un esercente che chiude a chiave la porta del negozio. 76 Poi accadde tutto così in fretta che sarebbe stato impossibile impedirlo. All'improvviso il drogato estrasse un taglierino e con un fendente maldestro, più per fortuna che per bravura, squarciò la gola dello spacciatore. Mentre il sangue schizzava dappertutto, il tossico spalancò la bottega del pusher, frugandogli nelle tasche nella giacca e ficcandosi pacchetti di cellofan nei jeans sdruciti. Finito il raid, se la svignò come un topo di fogna, curvo su se stesso, troppo euforico per quella vincita alla lotteria per curarsi dei due killer che si trovavano sulla sua strada. Il lesser lo lasciò andare solo per sgombrare il campo, in modo che il vero scontro potesse avere inizio. Phury, invece, lo lasciò andare perché gli sembrava di guardarsi allo specchio. La gioia infinita sul volto del tossico era un vero shock. L'amico era su un treno espresso lanciato verso uno sballo coi fiocchi, ma la sua euforia non era dovuta tanto al potersi bucare gratis. La vera goduria era l'estasi assoluta derivante da quella esagerata sovrabbondanza di roba. Phury conosceva quella specie di esaltazione orgasmica. La sperimentava ogni volta che si chiudeva a chiave in camera sua con un grosso sacchetto gonfio di fumo rosso e una confezione nuova di cartine. Era... geloso. Era così... La catena lo colpì di lato, alla gola, e si attorcigliò intorno al collo, un serpente di metallo che con la coda gli 77 diede una sferzata della miseria, Quando il lesser tirò, gli anelli si conficcarono nella carne bloccando tutto quanto: respiro, circolazione, voce. Il centro di gravità di Phury si spostò dal bacino alle spalle, facendolo cadere in avanti; lui allungò le mani per non sbattere la faccia contro il marciapiede e, atterrando a quattro zampe, ebbe una fugace quanto vivida visione dello spacciatore che a tre metri di distanza gorgogliava come una caffettiera. Il pusher tese una mano, muovendo lentamente le labbra insanguinate. Aiutami... aiutami... Lo scarpone del lesser colpì Phury alla testa, neanche fosse un pallone; nel violento impatto che seguì, la terra cominciò a girare vorticosamente, mentre Phury rotolava su se stesso come una trottola e finiva dritto addosso allo spacciatore; il peso morto dell'agonizzante fermò la sua corsa. Phury batté le palpebre convulsamente, ansimando. Su in alto, le luci della città offuscavano molte delle stelle della galassia, ma non quelle che lui vedeva per il dolore. Vicino a sé sentì un ansito strozzato e per una frazione di secondo voltò gli occhi annebbiati. Lo spacciatore stava familiarizzando con la Vecchia Signora con la Falce, esalando gli ultimi respiri dalla seconda bocca spalancata all'altezza della gola. Il tipo puzzava di crack; doveva essere un consumatore abituale, oltre che uno spacciatore. 78 Questo è il mio mondo, pensò Phury. Quel mondo fatto di buste di cellofan e rotoli di contanti, di dipendenza e ansia di procurarsi la dose successiva occupava il suo tempo ancor più della missione per la confraternita. Il mago si materializzò nella sua mente, ergendosi come Atlante in quel campo di ossa. Altro che se è il tuo mondo, scemo di un bastardo strafatto. E io sono il tuo re. Il lesser diede uno strattone alla catena, mettendo a tacere il mago e rendendo ancora più scintillanti le stelle nella testa di Phury. Se non tornava in gioco subito, l'asfissia sarebbe stata la sua migliore, nonché unica, amica. Portandosi le mani alla gola afferrò quella cazzo di catena con entrambi i pugni, si rannicchiò a uovo e arrotolò il guinzaglio d'acciaio intorno alla protesi. Col piede fece leva sugli anelli che correvano sotto la suola dello stivale, creando uno spiraglio per riuscire a respirare. Il lesser si piegò all'indietro, come quando si fa sci d'acqua; sottoposta a quella pressione, la protesi quasi cedette, l'angolazione del piede artificiale cambiò. Con mossa fulminea, Phury liberò la gamba dalla catena, lasciò andare l'estremità e fece forza col collo e con le spalle. Il lesser volò contro il muro di mattoni di un lavasecco Valu-rite; la forza e il peso del non morto sollevarono da terra Phury. Per una frazione di secondo la catena si allentò. 79 Quanto bastava per permettere a Phury di ruotare su se stesso, togliersela dal collo e afferrare un pugnale. La botta contro l'edificio aveva lasciato il lesser tutto intontito; Phury approfittò di quell'attimo di sbandamento per lanciarsi in avanti col pugnale. La lama in acciaio composito penetrò fino in fondo nella pancia morbida e vuota del lesser, facendo sprizzare un lucido fiotto di sangue nero. L'assassino guardò in giù, in preda alla confusione, come se le regole del gioco fossero cambiate nel bel mezzo della partita e nessuno lo avesse avvertito. Le mani bianche cercarono di tamponare il flusso di sangue malefico e dolciastro, ma non poterono nulla contro quella cascata inarrestabile. Phury si pulì la bocca con la manica, eccitato, pregustando ciò che stava per accadere. Il lesser lo guardò in faccia e perse la sua espressione interdetta. La paura si dipinse sui pallidi tratti del suo volto. «Allora sei tu...» sussurrò piegandosi sulle ginocchia. «Il torturatore.» L'impazienza di Phury si placò leggermente. «Come?» «Ho sentito... parlare di te. Prima ci torturi... e poi ci uccidi.» 80 Si era fatto una reputazione nella Lessening Society? Be', che scoperta. Ormai erano un paio di mesi che faceva scempio di lesser. «Come fai a sapere che sono io?» «Da come... stai... sorridendo.» Mentre il non morto si accasciava sul marciapiede, Phury si rese conto del ghigno raccapricciante che aveva stampato sulla faccia. Difficile dire cosa fosse più spaventoso: che stesse sogghignando o che non se ne fosse nemmeno accorto. All'improvviso le pupille del lesser schizzarono verso sinistra. «Grazie... al cielo.» Phury rimase impietrito; qualcuno gli premeva la canna di una pistola contro il rene sinistro e un nuovo effluvio di borotalco gli invase le narici. Non più di cinque isolati a est, nel suo ufficio privato allo ZeroSum, Rehvenge, ovvero il Reverendo, imprecò. Odiava gli incontinenti. Li odiava. L'umano che ciondolava davanti alla sua scrivania si era appena pisciato nei calzoni; la macchia formava un cerchio blu scuro sulla patta dei Z Brand effetto usato. Sembrava che qualcuno lo avesse centrato nelle parti basse con una spugna bagnata. 81 «Oh, per l'amor del cielo.» Rehv scosse la testa rivolto alle sue guardie del corpo, i due Mori che facevano da attaccapanni a quel pezzo di merda. Trez e iAm avevano la sua stessa espressione disgustata. L'unica, per quanto magra, consolazione, si disse Rehv, era che le Doc Martens del tizio erano perfette come recipienti. Non gocciolava fuori niente. «Che cosa ho fatto?» squittì il tizio; dalla voce sembrava che le palle nei boxer fradici si fossero spostate verso nord, trasformandosi in tette. Un filo più alta e avrebbe potuto essere un contralto. «Non ho fatto nien...» Rehv troncò le scuse sul nascere. «Chrissy è arrivata con un labbro spaccato e piena di lividi. Di nuovo.» «E tu credi che sia stato io? Ma dai, quella fa la puttana per te. Può essere stato chiun...» Trez sollevò un'obiezione chiudendogli a forza la mano a pugno e spremendola come un arancio. Mentre il latrato di dolore dell'imputato si smorzava in un guaito, Rehv oziosamente prese un tagliacarte d'argento a forma di spada e ne saggiò la punta con l'indice, affrettandosi poi a leccare via la goccia di sangue che ne era sgorgata. «Quando hai fatto domanda per lavorare qui», disse, «hai fornito un indirizzo al 1311 della Ventitreesima Strada. Che è anche l'indirizzo di Chrissy. Arrivate insieme e ve ne andate via insieme a fine serata.» Il tizio fece per aprire bocca, ma Rehv alzò la mano. «Sì, mi 82 rendo conto che non è una prova schiacciante, però, vedi l'anello che hai al dito... Aspetta, perché cerchi di nascondere il braccio dietro la schiena? Trez, ti spiace aiutarlo a posare il palmo qui sul tavolo?» Mentre Rehv tamburellava con la punta del tagliacarte sulla scrivania, Trez spinse in avanti quel bestione come se non pesasse più di un sacco di biancheria sporca. Poi, senza il minimo sforzo, appiattì la mano del bastardo davanti a Rehv e la tenne ferma. Rehv si piegò in avanti e col tagliacarte seguì i contorni di un anello della Caldwell High School. «Sì, vedi, Chrissy ha un segno strano sulla guancia. La prima volta che l'ho visto mi sono chiesto cosa fosse. E questo anello, giusto? Le hai mollato un manrovescio, eh? L'hai presa in faccia con questo.» Mentre il tizio tossicchiava come il motore di un fuoribordo, Rehv tracciò un altro cerchio intorno alla pietra azzurra dell'anello, poi con la punta affilata come un rasoio accarezzò una dopo l'altra le dita dell'uomo, dalle nocche ossute alle unghie piatte. Le due nocche più grosse erano scorticate, la pelle pallida era violacea e tumefatta. «Non le hai rifilato solo un manrovescio, a quanto pare», mormorò Rehv, continuando a carezzare le dita dell'uomo col tagliacarte. «Se l'è cercat...» 83 Rehv batté il pugno sulla scrivania, talmente forte che il grosso apparecchio telefonico dell'ufficio fece un salto e la cornetta scivolò giù dalla forcella. «Non azzardarti a terminare la frase», sibilò Rhev, sforzandosi di non scoprire le zanne che già premevano con prepotenza. «Altrimenti, quant'è vero Dio, ti faccio ingoiare le palle seduta stante.» Quel cacasotto si afflosciò su se stesso mentre dal telefono si levava un fioco bip-bip-bip al posto del segnale di libero. Rilassato come sempre, iAm si protese in avanti con calma per rimettere a posto il ricevitore. Una goccia di sudore rotolò giù dal naso dell'umano, atterrando sul dorso della sua mano; Rehv cercò di tenere a freno la collera. «Bene. Dove eravamo rimasti prima che per un pelo non ti facessi castrare? Ah, sì... Le mani... stavamo parlando delle mani. Buffo, non so cosa faremmo se non ne avessimo due. Sì, insomma, non potremmo guidare un'auto con il cambio manuale, per esempio. E tu ce l'hai manuale, giusto? Già, ho visto quella Acura truccata con cui te ne vai in giro. Bella macchina.» Rehv posò a sua volta la mano sul legno lucido, proprio accanto a quella del tizio, e confrontandole indicò le differenze più salienti con il tagliacarte. «La mia mano è più grande della tua... e anche più larga. Le dita sono più lunghe. Le mie vene sono più evidenti. Tu hai un tatuaggio di... cos'è quella roba alla base del pollice? Una specie di... ah, il simbolo cinese 84 della forza. Sì, i miei tatuaggi sono da un'altra parte. E poi cos'altro, vediamo... la tua pelle è più chiara. Accidenti, voi visi pallidi dovreste proprio abbronzarvi. Senza qualche lampada sembrate tanti cadaveri ambulanti.» Rehv alzò gli occhi ripensando al passato, a sua madre e alla sua collezione di lividi. Ci aveva messo tanto, troppo tempo a vendicarla. «Sai qual è la differenza più grande tra te e me?» disse. «Vedi... io non ho le nocche sbucciate per aver picchiato una donna.» Con mossa repentina alzò il tagliacarte e lo abbassò di colpo, talmente forte che la punta non solo trafisse la carne, ma penetrò nel tek della scrivania/ La mano che aveva pugnalato era la sua. L'umano lanciò un urlo, ma Rehv non sentì niente. «Non azzardarti a svenire, mezzasega del cazzo», sibilò Rehvenge, vedendo che lo stronzo rovesciava gli occhi nelle orbite. «Devi guardare con molta attenzione, così ti ricorderai il mio messaggio.» Rehv liberò il tagliacarte sollevando il palmo fino all'impugnatura e sfilando la lama dalla scrivania. Poi, alzando la mano per permettere all'uomo di vederla bene, girò e rigirò avanti e indietro il tagliacarte con precisione puntigliosa, aprendo uno squarcio nella pelle e nelle ossa, allargando la ferita fino a trasformarla in una 85 finestrella. Quand'ebbe finito, sfilò la lama e posò il tagliacarte con cura accanto al telefono. Col sangue che colava lungo l'interno della manica raccogliendosi nell'incavo del gomito, guardò l'uomo attraverso quel buco. «Ti tengo d'occhio. Dappertutto. Sempre. Se Chrissy si presenta qui con un altro "livido" per essere "caduta nella doccia" ti segno come un calendario, mi sono spiegato?» L'uomo si voltò di fianco e vomitò sulla gamba dei calzoni. Rehv smadonnò. Doveva immaginarselo, Fottutissimo bullo di un bastardo senza palle. Meno male che quello scemo con la pasta semidigerita che gli gocciolava sulle Doc Martens zuppe di piscio non sapeva di cosa era davvero capace Rehv. Quell'umano, come tutti gli altri umani lì al club, non aveva idea che il boss dello ZeroSum non solo era un vampiro, ma era anche un symphath. Quel figlio di buona donna si sarebbe cacato addosso, e allora sì che sarebbe stato un bel macello. Ormai era ovvio che non portava il pannolone. «Adesso la tua macchina è mia», dichiarò Rehv allungando la mano verso il telefono per chiamare gli addetti alle pulizie. «Consideralo un risarcimento con gli interessi per la grana che mi hai sgraffignato lavorando al bar. Sei licenziato per questo e per aver spacciato di nascosto eroina nella mia zona. Ancora una cosa, la prossima volta che cerchi di razzolare in territorio altrui non marchiare i tuoi pacchetti con l'aquila che c'è sul tuo giubbotto del cazzo. Così è troppo facile capire chi è il 86 pusher che fa il furbo con la concorrenza. Ah, e come ho già detto, sarà meglio che quella signora che lavora per me non si presenti nemmeno con un'unghia scheggiata, altrimenti vengo a farti una visitina. Adesso esci dal mio ufficio e non farti mai più vedere da queste parti.» Il tizio era così traumatizzato che non fiatò mentre lo trascinavano a faccia in giù verso la porta tenendolo fermo per le braccia. Rehv picchiò di nuovo il pugno insanguinato sulla scrivania per attirare l'attenzione generale. I Mori si bloccarono di colpo, e anche il loro prigioniero. L'umano fu l'unico a voltarsi a guardarlo da sopra la spalla, nei suoi occhi c'era il terrore più assoluto. «Un'ultima cosa», disse Rehv con un mezzo sorriso, attento a non mostrare i canini aguzzi. «Se Chrissy se ne va, dovrò dedurne che l'ha fatto perché tu l'hai costretta; allora verrò a cercarti per recuperare le mie perdite pecuniarie.» Poi, chinandosi in avanti, aggiunse, «I soldi non mi servono, ricordatelo, però sono un sadico, per cui godo a far soffrire la gente. La prossima volta mi riprenderò la quota che mi spetta direttamente dalla tua pellaccia, invece che dal portafoglio o da quello che hai parcheggiato nel vialetto di casa tua. Le chiavi? Trez?» II Moro infilò una mano nella tasca posteriore dei Z Brand del tipo e gli gettò un portachiavi. «Non preoccuparti delle scartoffie», disse Rehv afferrandolo al volo. «La tua Acura del cacchio finirà in 87 un posto dove non servono le pratiche per il passaggio di proprietà. Per ora ti saluto.» Quando la porta si chiuse su quella scena madre, Rehv lanciò un'occhiata al portachiavi. Sulla targhetta attaccata all'anello c'era scritto SUNY NEW PALTZ, l'università. «Cosa c'è?» disse senza alzare gli occhi. La voce bassa di Xhex si levò dall'angolo buio dell'ufficio dove lei si appostava sempre per godersi lo spettacolo. «Se lo fa un'altra volta voglio occuparmene io di persona.» Rehv strinse le chiavi nel pugno e si appoggiò allo schienale della poltroncina. Dire di no non serviva; se quel pezzo di merda avesse malmenato di nuovo Chrissy, con ogni probabilità la responsabile della sicurezza del suo locale gli avrebbe dato comunque una bella ripassata. Xhex non era come gli altri suoi dipendenti. Xhex non era come nessun altro. Be', non era del tutto vero, era come lui. Per metà symphath. O per metà sociopatica, come in quel caso. «Tu tieni d'occhio la ragazza», le disse. «Se quel figlio di puttana ricomincia a darci dentro col suo anello, tireremo a sorte per vedere chi avrà il piacere di fargli un culo così.» «Io tengo già d'occhio tutte le tue ragazze», ribatté Xhex avviandosi verso la porta con potenza scattante. 88 Alta e muscolosa, aveva una corporatura maschile, ma era tutt'altro che grossolana o volgare. Malgrado il fisico asciutto, il taglio di capelli alla Annie Lennox e la sua uniforme standard - maglietta attillata nera e pantaloni di pelle neri - non era una ficafredda nelle massicce sembianze di un trans. No, Xhex aveva l'eleganza letale di un coltello: fulminea, decisiva, silenziosa. E come tutti i pugnali, anche lei adorava far scorrere il sangue. «È il primo martedì del mese», disse posando la mano sulla porta. Come se non lo sapessi, pensò Rehv. «Esco tra una mezz'ora.» La porta si aprì e si richiuse; il frastuono del club, dall'altra parte, invase per un attimo l'ufficio per poi spegnersi bruscamente. Rehv alzò il palmo. L'emorragia si stava già fermando, altri venti minuti e il buco si sarebbe richiuso. Prima di mezzanotte non ci sarebbe stata più traccia della ferita. Ripensò al momento in cui si era infilzato. Non avere la benché minima percezione del proprio corpo era uno strano tipo di paralisi. Ti muovevi, ma non sentivi i vestiti che avevi addosso, non ti accorgevi se le scarpe erano troppo strette o se il terreno sotto i piedi era accidentato o scivoloso. Sentiva la mancanza del suo corpo, ma o prendeva la dopamina e ne sopportava gli effetti collaterali, oppure 89 doveva vedersela con il suo lato malefico. E quello era uno scontro senza esclusione di colpi che non era sicuro di poter vincere. Afferrò il bastone da passeggio e con cautela si alzò dalla poltroncina. A causa del suo stato di intorpidimento generale l'equilibrio era un bel problema e la forza di gravità era sua nemica, per cui il tragitto fino al muro gli prese più tempo del dovuto. Quando finalmente giunse a destinazione, posò il palmo su un quadrato in rilievo e un pannello delle dimensioni di una porta scivolò all'indietro, in perfetto stile Star Trek. La suite nera camera-da-lètto-bagno che venne allo scoperto era uno dei suoi tre rifugi d'emergenza, e per qualche motivo era quello dotato della doccia migliore. Forse perché, essendo grande solo sei metri quadri, bastava aprire il rubinetto per fargli raggiungere temperature tropicali. E se eri uno che aveva sempre freddo, quello era un notevole valore aggiunto. Si spogliò e cominciò a far scendere l'acqua, radendosi in fretta in attesa che il getto diventasse bollente. Mentre si passava il rasoio sulle guance, il tipo che ricambiava il suo sguardo dallo spècchio era lo stesso di sempre. Corta cresta da moicano, occhi color ametista, tatuaggi sul petto e sugli addominali. Un uccello lungo e moscio in mezzo alle gambe. Pensò a dove doveva andare quella sera e la sua visione cambiò, una foschia rossastra sostituì tutti i colori dello spettro visivo. Non ne rimase sorpreso. La violenza, 90 immancabilmente, liberava la sua natura malvagia come cibo offerto a un affamato, e poco prima, in ufficio, ne aveva avuto solo un piccolo assaggio. In circostanze normali sarebbe stato il momento giusto per un'altra dose di dopamina. La sua salvatrice chimica teneva a bada i suoi peggiori istinti di symphath in cambio di ipotermia, impotenza e torpore. Gli effetti collaterali erano una bella rottura, ma non aveva scelta, e le bugie avevano un costo. Oltre a richiedere ottime prestazioni. La sua ricattatrice esigeva ottime prestazioni. Stringendo nel palmo l'uccello, come se potesse proteggerlo da ciò che avrebbe dovuto fare di lì a qualche ora, andò a controllare l'acqua. L'aria era così densa di vapore che sembrava di respirare panna, ma l'acqua non era ancora abbastanza calda. Non lo era mai. Si stropicciò gli occhi con la mano libera. Vedeva ancora tutto rosso, ma era un bene. Meglio combattere ad armi pari con la sua ricattatrice. Male contro male. Symphath contro symphath. S'infilò sotto la doccia e il sangue versato scivolò subito via. Si insaponò, ma si sentiva ancora sporco, lercio dalla testa ai piedi. Una sensazione destinata a peggiorare, ora dell'alba. Sì... sapeva perfettamente perché le ragazze che lavoravano per lui riempivano di vapore lo spogliatoio alla fine del turno. Le puttane adorano l'acqua bollente. 91 Sapone e acqua bollente. Quello e una spugnetta a volte aiutano a superare la nottata. 92 Capitolo 6 John seguiva con gli occhi Cormia che correva e piroettava sull'erba del prato, la veste candida che svolazzava alle sue spalle, a metà tra un'ala e una bandiera. Non gli risultava che le Elette potessero scorrazzare a piedi nudi in piena libertà e aveva la sensazione che Cormia stesse infrangendo le regole. John seguiva con gli occhi Cormia che correva e piroettava sull'erba del prato, la veste candida che svolazzava alle sue spalle, a metà tra un'ala e una bandiera. Non gli risultava che le Elette potessero scorrazzare a piedi nudi in piena libertà e aveva la sensazione che Cormia stesse infrangendo le regole. Bè, buon per lei. E che meraviglia poterla ammirare. Con la gioia che l'animava, Cormia era nella notte ma non faceva parte delle tenebre: era una lucciola, un puntino luminoso che danzava sullo sfondo dell'orizzonte fitto di boschi. Phury avrebbe dovuto godersi lo spettacolo, pensò. Il cellulare emise un bip e John lo tirò fuori dalla tasca. Il messaggino di Qhuinn diceva: Puoi farti portare subito da fritz a kasa di blay? Noi siamo pronti. Rispose subito: ok. Mise via il BlackBerry. Quanto gli sarebbe piaciuto riuscire a smaterializzarsi. Potevi provarci già un paio di settimane dopo la transizione. Blay e Qhuinn non 93 avevano avuto problemi, ma per lui era come agli inizi dell'addestramento, quando era sempre il più lento, il più debole e il peggiore di tutti i compagni. Bastava concentrarsi sulla meta da raggiungere e spostarsi grazie alla forza del pensiero. Almeno in teoria. Lui invece aveva passato un mucchio di tempo a occhi chiusi, la faccia contratta come il muso tutto pieghe di uno sharpei, tentando di costringere le molecole del suo corpo ad arrivare dall'altra parte della stanza ma restando fermo dov'era. Aveva sentito che a volte ci voleva anche un anno dalla transizione, prima di riuscire nell'impresa, ma lui forse non ce l'avrebbe mai fatta. Nel qual caso doveva prendere una cazzo di patente di guida. Gli sembrava di avere dodici anni, con tutti quei "puoi accompagnarmi fin là?" Fritz era un autista coi fiocchi ma, che cavolo, lui voleva essere un uomo, non il carico di un doggen. Cormia fece tutto il giro del prato e poi tornò verso casa. Quando si fermò di fronte a lui, sembrava quasi che la sua tunica volesse continuare la corsa, i panneggi ondeggiarono in avanti prima di assestarsi lungo il corpo. Cormia aveva il fiato corto, le guance rosso fuoco e un sorriso più grande della luna piena. Dio, con i capelli biondi sciolti e quel grazioso rossore, era il ritratto perfetto della ragazza simbolo dell'estate. Gli sembrava quasi di vederla, in mezzo a un campo, seduta sopra un plaid a quadretti, che mangiava torta di mele vicino a una caraffa di limonata ghiacciata... con addosso un bikini bianco e rosso. 94 Okay, meglio evitare certe fantasie. «Mi piace qua fuori», esclamò lei. Stare qua fuori ti dona, scrisse lui, mostrandole il blocnotes. «Mi spiace di aver aspettato tanto a venire qui», aggiunse Cormia, voltandosi verso le rose che crescevano intorno alla terrazza. Si fece scorrere una mano su per il collo e John ebbe la sensazione che volesse toccarle, ma le briglie del riserbo stavano tornando alla carica. Si schiarì la gola per attirare la sua attenzione. Puoi raccoglierne una, se vuoi, scrisse. «Io... io credo che lo farò.» Cormia si avvicinò alle rose quasi fossero cerbiatti che potevano spaventarsi, le braccia lungo i fianchi e i cauti piedi scalzi sulle lastre di pietra. Andò dritta verso quelle color lavanda, snobbando i boccioli dai colori più spudorati, rossi e gialli. John stava scrivendo Attenta alle spine quando Cormia allungò la mano e, con in gridolino, la ritrasse. Sulla punta del dito spuntò una goccia di sangue che, nella penombra, su quella pelle candida sembrò nero. Senza neanche accorgersene, John si chinò e mise all'opera la bocca. Succhiò in fretta e leccò ancora più in fretta, sbalordito dal proprio gesto, oltre che dal sapore delizioso del sangue. 95 In un angolo della sua mente si rese conto che aveva bisogno di nutrirsi. Merda. Quando si raddrizzò, vide che Cormia lo fissava a occhi sbarrati, impietrita. Due volte merda. Scusa, scribacchiò in fretta. Non volevo che ti macchiasse il vestito. Bugiardo. Voleva sapere che sapore aveva. «Io...» Raccogli la tua rosa, ma stai attenta alle spine. Cormia annuì e fece un secondo tentativo, in parte perché voleva prendere il fiore e in parte, sospettava John, per colmare il silenzio imbarazzato creato da lui. La rosa che scelse era un esemplare perfetto, sul punto di fiorire, un bocciolo di un viola argenteo che prometteva di diventare grosso come un pompelmo, «Grazie», disse Cormia. John stava per dire "prego" quando si rese conto che lei si stava rivolgendo alla pianta, Cormia si voltò verso di lui. «Gli altri fiori che ho visto erano dentro delle case di vetro piene d'acqua.» Andiamo a cercare un vaso, scrisse lui. Qui li chiamiamo così. 96 Lei annuì e si avviò verso la portafinestra che si apriva sulla sala del biliardo. Appena varcata la soglia, si voltò a guardare. I suoi occhi indugiarono sul giardino come se fosse un innamorato che non avrebbe rivisto mai più. Possiamo rifarlo qualche altra volta, scrisse John sul bloc notes. Ti piacerebbe? Il rapido cenno d'assenso di Cormia fu un sollievo, considerato quello che le aveva appena fatto. «Sì, mi piacerebbe.» forse potremmo anche guardare un film. Di sopra, in sala proiezioni. «Sala proiezioni?» John chiuse la porta dietro di sé. È una stanza fatta apposta per guardare i film. «Possiamo vederlo adesso, il film?» Il tono deciso della sua voce lo spinse a ricalibrare leggermente la prima impressione che aveva avuto di lei. Il pacato riserbo poteva essere frutto dell'educazione, più che della sua personalità. Stasera devo uscire. Ma cosa ne dici di domani sera? «Va bene. Dopo il Primo Pasto.» Okay, la mitezza decisamente non rientrava nella sua personalità. Il che lo indusse a chiedersi come facesse a 97 sopportare la vita da Eletta. Io ho lezione, ma possiamo vederci dopo, ti va? «Sì. E mi piacerebbe imparare qualcosa di più su tutto quello che c'è qui.» Il suo sorriso illuminò la sala del biliardo come un falò; nel vederla piroettare su un piede solo, John pensò a quelle graziose ballerine che saltano fuori da certi portagioie. Be', sono pronto a insegnarti quello che vuoi, scrisse. Cormia si fermò, i capelli sciolti che dondolavano intorno al volto. «Grazie, John Matthew. Sarai un ottimo maestro.» Quando lei lo guardò, John notò i suoi colori, più che il suo viso o il suo corpo: il rosso delle guance e delle labbra, il lavanda del fiore nella sua mano, il verde pallido ma luminoso degli occhi, il giallo dorato dei capelli. Senza nessun motivo particolare pensò a Xhex. Xhex era un temporale, tutta giocata sulle tonalità del nero e del grigio ferro, una potenza tenuta a freno, ma non per questo meno letale. Cormia era un giorno di sole incastonato in un arcobaleno di luce, era calore in atto. Si mise una mano sul cuore e la salutò con un inchino, poi se ne andò. Mentre saliva in camera sua, si chiese se preferiva il sole o il temporale. Poi si rese conto che erano entrambi fuori dalla sua portata, dunque che importanza aveva? 98 Fermo nel vicolo con la nove millimetri premuta contro il fegato di un fratello, Mr D era in stato di massima allerta. Avrebbe preferito di gran lunga puntare la pistola alla tempia del vampiro, ma per farlo gli sarebbe servita una scala. Quei bastardi erano enormi, onestamente. Al loro confronto il buon vecchio Tommy, suo cugino, sembrava alto come una lattina di Budweiser. E altrettanto facile da schiacciare. «Hai i capelli come una ragazza», disse Mr D. «E tu puzzi di bagnoschiuma. Almeno io posso tagliarmeli.» «È Old Spice.» «La prossima volta prova con qualcosa di più forte. Tipo letame equino.» Mr D premette con più forza la canna della pistola. «Mettiti in ginocchio. Mani dietro la schiena, e abbassa la testa.» Mentre il fratello ubbidiva, Mr D rimase fermo dov'era, senza accennare a tirare fuori le manette d'acciaio. Rischiava di farsela sotto come un vigliacco, questo sì, ma quel vampiro non era il tipo di cosa che potevi lasciarti scappare, e non solo perché catturare un fratello era un evento degno di entrare nei libri di storia. Mr D stava tenendo per la coda un serpente a sonagli, e lo sapeva fin troppo bene. 99 Portò la mano alla cintura per prendere le manette e... La situazione si capovolse in un baleno. Il fratello si voltò di scatto su un ginocchio e da sotto colpì col palmo la canna della pistola. Di riflesso Mr D premette il grilletto e la pallottola partì verso il cielo, volando inutilmente in paradiso. Prima che l'eco dello sparo si fosse spenta, Mr D era steso sulla schiena, confuso e frastornato, il cappello da cowboy ancora una volta per terra mentre lui soccombeva. Il fratello lo fissava; aveva gli occhi spenti, senza vita, malgrado il giallo vivo dell'iride. Più che logico, d'altronde. Nessuno con un brìciolo di cervello avrebbe azzardato una rotazione del genere stando in ginocchio. A meno che non avesse già l'elettroencefalogramma piatto. Il fratello alzò il pugno sopra la testa. Ahia, questa qui farà male. Mr D si mosse in fretta, liberandosi dalla stretta alla spalla e ruotando su un fianco, poi sferrò un calcio a piedi uniti al polpaccio destro del fratello. Ci fu come vino schiocco e... porco diavolo, una parte della gamba volò per aria, Il fratello barcollò, la gamba destra dei calzoni si era afflosciata dal ginocchio in giù, ma non c'era tempo per stare lì a stupirsi. Quel 100 grandissimo bastardo perse l'equilibrio, crollando come un palazzo che si sgretola su se stesso. Mr D si scansò di corsa, poi gli balzò addosso; se non lo neutralizzava adesso che era a terra, quello gli avrebbe fatto mangiare le sue stesse trippe, sicuro come l'oro. Gettò una gamba sopra il fratello, strinse nel pugno una manciata di quei capelli da femminuccia e diede un violento strattone mentre cercava di afferrare il coltello. Niente da fare. Come un mustang imbizzarrito, il fratello balzò su dal marciapiede, sgroppando. Mr D strinse le gambe e gettò un braccio intorno a quel collo poderoso, grosso come una coscia... In un batter d'occhio la terra finì sottosopra e - cazzo - il fratello si rovesciò sulla schiena come una testuggine, trasformando Mr D in un materasso. Era come se una lastra di granito gli fosse caduta sul petto. Per una frazione di secondo Mr D rimase intontito e il fratello ne approfittò per spostarsi di lato, usando il gomito come un ariete che lo centrò allo stomaco. Mentre con un gemito Mr D si piegava in due in preda ai conati di vomito, ci fu il lampo di un pugnale nero che veniva sfoderato, poi il fratello si alzò sulle ginocchia. Mr D si preparò a essere pugnalato; era stato Forelesser per meno di tre ore, che figuraccia. 101 Ma invece della pugnalata al cuore sentì che il fratello gli tirava fuori la camicia dai pantaloni. Con la pancia bianca scoperta guardò in su, inorridito. Quello era il fratello che godeva ad affettare i nemici prima di ucciderli. Il che significava che non sarebbe stata una morte rapida e pulita. Sarebbe stato un processo lungo e sanguinoso. Non era il Distruttore, certo, ma quel bastardo gli avrebbe fatto sudare il viaggio fino alle porte del paradiso. I lesser potevano anche essere morti, ma sentivano il dolore come chiunque altro. Phury avrebbe dovuto tirare il fiato e cercare la protesi invece di prepararsi a infierire come Sweeney Todd su quel nanerottolo di un lesser. Cribbio, essere sfuggito per un pelo a quel proiettile con su scritto il suo nome avrebbe dovuto convincerlo a chiuderla lì e a smammare da quel vicolo prima dell'arrivo di altri nemici. Invece no. Mentre scopriva la pancia del lesser, era a un tempo gelato fino al midollo e animato come da un fuoco, su di giri neanche stesse entrando in camera sua con un sacchetto pieno di fumo rosso, senza impegni per almeno dieci ore. Era uguale al tossico che aveva tagliato la corda, euforico come se avesse vinto alla lotteria. Il mago s'intromise in quella libidine, attirato dall'eccitazione come da un mucchio di carne avariata. Mettersi a giocare al macellaio è un modo cruento di distinguersi, ma d'altronde essere un semplice fallito è un 102 tantino pedestre, giusto? E tu vieni da una famiglia nobile, finché non hai causato la sua rovina. Quindi dacci dentro, socio. Phury si concentrò sulla carne tremebonda che aveva denudato, lasciandosi pervadere dalla sensazione tattile del pugnale che stringeva in mano e dal terrore paralizzante del lesser. Ritrovando la serenità mentale, Phury sorrise. Quel momento era suo. Tutto suo. Per tutto il tempo che avrebbe impiegato a fare ciò che voleva a quell'emissario del male, sarebbe stato in pace, liberato dal caos della voce del mago. Torturando guariva se stesso. Anche se solo per poco. Puntò il pugnale sulla pelle del lesser e... «Non ti azzardare.» Phury si voltò a guardare da sopra la spalla. II suo gemello era fermo all'imbocco del vicolo, una grossa ombra nera con il cranio rasato. Non riusciva a vederlo in faccia, ma non c'è bisogno di vedere ima fronte aggrottata per capire l'antifona. L'incazzatura di Zsadist gli arrivava a ondate. Phury chiuse gli occhi lottando contro ima rabbia cieca. Maledizione, stava per essere privato di quel momento di piacere. Quello era un furto bello e buono. In un lampo ripensò a tutte le volte che Zsadist lo aveva costretto a picchiarlo, a picchiarlo fino a ridurgli la faccia a una maschera di sangue. E adesso suo fratello pensava che fare la stessa cosa con un lesser fosse 103 sbagliato? Ma che cazzo, quello di sicuro aveva ammazzato una caterva di vampiri innocenti. Com'era possibile che torturarlo fosse peggio che chiedere al proprio fratello di massacrarti di botte, ben sapendo che la cosa gli dava la nausea e lo avrebbe scombussolato per giorni e giorni? «Vattene via», disse Phury, aumentando la presa sul lesser che si contorceva inutilmente. «Questi sono affari miei, non ti riguardano.» «Col cazzo. Mi avevi detto che avresti smesso.» «Voltati e vattene, Z.» «Così potrai farti ammazzare quando arriveranno i rinforzi?» L'assassino tra le grinfie di Phury si sollevò nel tentativo di liberarsi, ed era così piccolo e robusto che quasi ci riuscì. Che diamine, no, pensò Phury, non avrebbe rinunciato al suo premio. Prima di rendersene conto affondò il pugnale nel ventre del lesser, facendo scorrere la lama lungo tutto il campo da gioco intestinale. L'urlo del lesser sovrastò l'imprecazione di Zsadist; ma in quel momento Phury rimase indifferente a entrambi i suoni. Era arcistufo di tutto, compreso se stesso. Dai, coraggio!, sussurrò il mago. Così mi piaci. Zsadist gli fu addosso in meno di un secondo, gli strappò di mano il pugnale e lo scagliò dall'altra parte del 104 vicolo. Mentre il lesser perdeva i sensi, Phury balzò in piedi per affrontare il suo gemello. Il guaio era che gli mancava un pezzo di gamba. Cadde di schianto contro il muro di mattoni; doveva sembrare ubriaco, il che lo fece infuriare ancora di più. Z raccolse la gamba artificiale e gliela lanciò. «Rimettiti questa cazzo di protesi.» Phury l'afferrò con una mano e si lasciò scivolare lungo la parete fredda e ruvida della tintoria. Merda. Beccato. Beccato in flagrante, pensò. E adesso avrebbe dovuto fare i conti con i fratelli; gli sarebbero stati tutti addosso. Perché Z non si era infilato in un altro vicolo? Oppure in quello, ma in un altro momento? Accidenti, lui aveva bisogno di quella violenza. Perché se non sfogava almeno in parte la rabbia che aveva dentro sarebbe impazzito, e se dopo tutte le sue stronzate masochistiche Z non riusciva a capirlo, be', poteva andarsene affanculo. Zsadist sfoderò il pugnale, affondò la lama nel primo lesser rispedendolo all'Omega e poi rimase ritto sopra la traccia bruciacchiata per terra. «Merda di dieci cavalli», disse nell'Antico Idioma. 105 «Il nuovo dopobarba dei lesser», bofonchiò Phury, stropicciandosi gli occhi. «Credo che dovreste riflettere», disse una voce strozzata dal tipico accento texano. Z si voltò di scatto e Phury alzò la testa. Il piccolo lesser aveva di nuovo in pugno la pistola e la stava puntando contro Phury mentre teneva d'occhio Z. Per tutta risposta, Z gli puntò contro la sua SIG. «Siamo tutti nei pasticci», disse il piccoletto chinandosi con un gemito a raccogliere un cappello da cowboy. Se lo calcò sulla testa, poi tornò a stringersi lo stomaco per tener dentro le viscere. «Vedi, se tu mi spari, la mia mano si stringerà sul grilletto e colpirò il tuo amico, qui. Se invece gli sparo io, tu impallinerai me.» Il lesser fece un profondo respiro ed espirò con un altro gemito. «Credo proprio che ci troviamo a un punto morto, e mica possiamo stare qui tutta la notte. Uno sparo c'è già stato, e chissà chi può averlo sentito.» Quel bastardo di un texano aveva ragione. Il centro di Caldwell a mezzanotte non era la Valle della Morte a mezzogiorno. C'era gente in giro, persone che non erano tutte del tipo umano strafatto. C'erano anche sbirri. E vampiri civili. E altri lesser. Il vicolo era appartato, certo, ma offriva solo una privacy relativa. È il momento di darsela a gambe, socio, disse il mago. «Merda», esclamò Phury. 106 «Sissignore», mormorò il lesser. «È proprio lì che siamo, nella merda.» Neanche a farlo apposta, ecco risuonare le sirene della polizia, sempre più vicine. Nessuno si mosse, neanche quando la volante svoltò l'angolo infilandosi nel vicolo a tutta birra. Eh, sì, qualcuno aveva sentito lo sparo partito accidentalmente quando Phury e quella specie di John Wayne in miniatura si erano affrontati; chiunque fosse, aveva preso il telefono. Il tableau vivant in mezzo al vicolo venne illuminato a giorno dai fari dell'auto della polizia, che inchiodò con grande stridore di freni. Due portiere si spalancarono. «Deponete le armi!» La voce strascicata del lesser si levò in un sussurro, come un refolo d'aria nelle notti d'estate, «Potete sistemare voi due le cose, giusto?» «Piuttosto ti sparo nel culo», ribatté Z. «Giù le armi o spariamo!» Phury prese il pugno la situazione; con la forza del pensiero fece piombare gli umani in uno stato di semiincoscienza, spingendo quello sulla destra a infilarsi dentro l'auto per spegnere i fari. «Molto obbligato», disse il lesser, cominciando a strisciare lungo il vicolo. Teneva la schiena rasente al 107 muro, gli occhi fissi su Zsadist e la pistola puntata contro Phury. Passando davanti ai poliziotti, afferrò la pistola dell'agente che gli stava più vicino, una donna, e senza incontrare la minima resistenza le tolse di mano quella che aveva tutta l'aria di essere una nove millimetri. Il lesser puntò l'arma contro Z. Ora che aveva entrambe le mani impegnate, il sangue nero sgorgava a fiotti dalle sue viscere. «Vi sparerei volentieri, ma poi non potreste più fare i vostri giochetti mentali su questa bella coppia di tutori dell'ordine. Mi sa che mi toccherà fare il bravo.» «Dio buono», esclamò Z, spostando il peso avanti e indietro sui talloni, come se si preparasse a scattare in avanti. «Non pronunciare il nome di Dio invano, per favore», disse il lesser, giunto all'angolo da cui era arrivata la polizia. «Vi auguro una buona serata, signori.» Il nanerottolo si dileguò in un battibaleno, senza il minimo rumore. Sempre grazie alla forza del pensiero, Phury indusse gli agenti a risalire in macchina e costrinse la donna a chiamare la centrale per dire che dal sopralluogo effettuato nel vicolo non risultavano risse o casi di disturbo alla quiete pubblica. Quella pistola mancante, però... quella era un bel guaio. Maledetto lesser. Nessuna manipolazione della memoria poteva spiegare la mancanza di una nove millimetri. «Dalle la tua pistola», disse a Zsadist. Il suo gemello avanzò estraendo il caricatore. Non ripulì l'arma prima di lasciarla cadere in grembo alla 108 donna. Non ce n'era motivo. I vampiri non lasciano impronte digitali identificabili. «Sarà fortunata se questa storia non la manderà al manicomio», commentò Z. Eh già. Non era la sua pistola ed era vuota. Phury fece del suo meglio, imprimendole nella mente il ricordo di aver comprato quella nuova arma; l'aveva provata e aveva tolto il caricatore perché le pallottole erano difettose. Non era una gran copertura. Specie considerato che tutte le pistole della confraternita avevano il numero di serie limato. Phury indusse il poliziotto al volante a ingranare la retromarcia e uscire dal vicolo. Destinazione? La centrale di polizia per una pausa caffè. Una volta rimasti soli, Z guardò negli occhi il suo gemello. «Vuoi svegliarti morto?» Phury controllò con cura la protesi. Non aveva subito danni, almeno per un uso normale, si era solo sganciata dall'attacco sotto al ginocchio a causa della botta ricevuta. Tuttavia non poteva più fidarsi a usarla per combattere, non era sicuro. Si tirò su la gamba dei calzoni, la riattaccò e si raddrizzò. «Io vado a casa.» «Mi hai sentito?» «Sì. Ti ho sentito.» Guardò negli occhi il suo gemello. Cavolo, che domanda, pensò. E da che pulpito. La 109 pulsione di morte di Z era stata il suo principio operativo fino al suo incontro con Bella. Il che, fatte le debite proporzioni, equivaleva a dire fino a dieci minuti prima. Z aggrottò le sopracciglia sulla faccia scura. «Vai dritto a casa.» «Già. Dritto a casa. Hai capito perfettamente», disse Phury voltandosi. «Non ti sei scordato niente?» disse brusco Z. Phury pensò a tutte le volte che si era messo sulle tracce di Zsadist, cercando disperatamente di impedirgli di suicidarsi o di uccidere qualcun altro. Pensò a tutte le giornate insonni in cui non faceva che chiedersi se Z ce l'avrebbe fatta, perché si rifiutava di bere dalle vampire e insisteva a nutrirsi col sangue umano. Pensò alla tristezza struggente che lo assaliva ogni volta che guardava il volto sfregiato del suo gemello. Pensò alla notte in cui si era piazzato davanti allo specchio e si era rapato a zero, poi si era passato un coltello sulla fronte e giù per la guancia per sembrare Z... per prendere il posto del suo gemello, ritrovandosi alla mercé della sadica vendetta di un lesser. Pensò al pezzo di gamba che si era staccato con uno colpo di pistola per salvare se stesso e Z. «No», rispose voltandosi a guardarlo da sopra la spalla. «Ricordo tutto. Tutto quanto.» 110 Senza il minimo rimorso si smaterializzò e riprese forma sulla Decima Strada. Sul marciapiede di fronte allo ZeroSum, col cuore e la testa che urlavano, attraversò la strada come rispondendo a un richiamo, come se lo avessero scelto per quella missione di autodistruzione, come se qualcuno gli avesse battuto sulla spalla, come se avesse visto l'indice ossuto della sua dipendenza che gli faceva cenno di avvicinarsi. Non poteva resistere a quell'invito. Peggio, non voleva. Mentre avanzava verso l'ingresso principale del club, i suoi piedi - quello vero e quello al titanio - servivano la missione del mago. Tutti e due lo portarono oltre la soglia, oltre l'addetto di guardia all'area VIP e oltre i tavoli dei rampantelli in carriera, fino all'ufficio di Rehvenge. I Mori annuirono e uno di loro parlò dentro l'orologio. Mentre aspettava, Phury sapeva benissimo di essere prigioniero di una spirale senza fine, girava e girava come la punta di un trapano, scavando sempre più sottoterra. Sprofondava sempre più e a ogni nuovo strato di sottosuolo incontrava filoni sempre più profondi e più ricchi di minerale velenoso, filoni che si infiltravano nella roccia madre, nel fondamento stesso della sua vita, attirandolo sempre più giù. Lui puntava alla fonte, a lasciarsi consumare dall'inferno, la sua destinazione finale, e ogni nuovo livello era un perfido incoraggiamento a sprofondare sempre più in basso. 111 II Moro sulla destra, Trez, annuì e aprì la porta di quell'antro tenebroso. Era lì che frammenti di Ade venivano spacciati in buste di cellofan e Phury entrò con nervosa impazienza. Rehvenge emerse da una porticina nascosta, il suo sguardo color ametista acuto e lievemente deluso. «La tua solita dose è già finita?» chiese in tono pacato. Quel divoratore di peccati lo conosceva anche troppo bene, pensò Phury. «Si dice symphath, ricordi?» lo corresse Rehv, andando lentamente alla scrivania con l'aiuto del bastone. «Mangiatore di peccati è una volgarizzazione così mostruosa. E poi non ho bisogno del mio lato malvagio per capire come sei messo. Allora, quanta ne vuoi stanotte?» Si sbottonò l'impeccabile giacca a doppio petto nera e si accomodò in una poltrona di cuoio nero. La corta cresta da moicano luccicava come se fosse appena uscito da sotto la doccia e aveva un buon profumo, un misto di Cartier for Men e di qualche shampoo dall'aroma speziato. Phury ripensò all'altro spacciatore, quello che poco prima aveva tirato le cuoia in quel vicolo, quello morto dissanguato mentre invocava un aiuto che non era arrivato. Rehv era vestito come uno appena arrivato dalla Quinta Avenue, ma questo non cambiava la sostanza di ciò che era. 112 Phury si guardò, guardò com'era vestito. E si rese conto che lo stesso valeva per lui. Cazzo... gli mancava un pugnale. L'aveva lasciato nel vicolo. «Il solito», disse, tirando fuori di tasca diecimila dollari. «Dammi il solito.» 113 Capitolo 7 Nella sua stanza rosso sangue, Cormia non riusciva a liberarsi dalla convinzione di aver innescato, uscendo di casa, una catena di eventi di cui non poteva neanche lontanamente immaginare l'esito finale. Sapeva solo che il destino stava muovendo le cose dietro il sipario di velluto del suo palcoscenico, e che alla riapertura del sipario qualcosa sarebbe cambiato. Non era sicura di gradire che il prossimo atto del dramma fosse riservato al fato, ma era bloccata tra il pubblico e non poteva andare da nessuna parte. Però, in realtà, non era del tutto vero. Andò alla porta, la aprì di uno spiraglio e guardò la cima dello scalone, in fondo alla passatoia orientale. Sulla destra c'era la galleria delle statue. Ogni volta che saliva al primo piano e scorgeva le eleganti figure allineate lungo il corridoio rischiarato dagli alti finestroni ne rimaneva affascinata. Nella loro raffinatezza formale, nell'immobilità della posa e nel candore delle vesti le ricordavano il .Santuario. Nella loro nudità e virilità, invece, le erano del tutto estranee. 114 Se poteva uscire in giardino, poteva anche andare a osservare da vicino quelle sculture. Assolutamente. Si avviò lungo la passatoia, scalza e silenziosa, superando la camera del Primule e quella di Rhage e Mary. Lo studio del re, in cima alla scalinata, era chiuso, e l'atrio al piano di sotto era deserto. Svoltato l'angolo, le statue si estendevano per quella che sembrava una distanza infinita. Disposte sulla sinistra, erano illuminate dall'alto da faretti incassati nel soffitto e separate l'una dall'altra da grandi finestre ad arco. Sulla destra, ogni due finestre, c'erano delle porte che, supponeva, si aprivano su altrettante camere da letto. Interessante. Se avesse progettato lei la casa avrebbe collocato le stanze sull'altro lato, per non privarle della vista sul giardino. Così, invece, se aveva interpretato correttamente la pianta dell'edificio, le camere affacciavano sull'ala opposta, quella che abbracciava il cortile anteriore. Gradevole, certo, ma era meglio avere paesaggi architettonici lungo i corridoi e vista sul giardino e sulle montagne nelle camere da letto. Almeno a suo giudizio. Cormia si accigliò. Ultimamente le venivano strani pensieri come quello, pensieri su cose e persone e persino preghiere che non erano sempre di approvazione. Quelle opinioni in libertà la mettevano a disagio, ma non riusciva a evitarle. 115 Cercando di non soffermarsi sulla loro origine o sul loro significato, svoltò l'angolo e si trovò davanti la galleria. La prima scultura raffigurava un giovane - un umano, a giudicare dalla corporatura - avvolto in ricchi panneggi che scendevano dalla spalla destra fino al fianco sinistro. Aveva gli occhi fissi davanti a sé e il volto composto, né triste né felice. Il torace era ampio, gli avambracci robusti e asciutti a un tempo, l'addome piatto e scolpito. La statua successiva era simile, solo che gli arti erano disposti in modo diverso. Quella dopo era in un'altra posizione ancora. Idem la quarta... solo che era completamente nuda. L'istinto la spingeva a oltrepassarla di corsa. La curiosità le impose di fermarsi a guardare. Il giovane scolpito era bellissimo nella sua nudità. Cormia si guardò alle spalle. Non c'era nessuno. Allungò la mano e sfiorò il collo della statua. Il marmo era caldo, il che fu uno shock, poi però si rese conto che il calore proveniva dal faretto incassato nel soffitto. Pensò al Primale. Avevano passato una giornata nello stesso letto, il primo giorno, quando lui l'aveva portata in quella casa. Aveva dovuto chiedergli il permesso di sdraiarsi accanto a lui, nella sua stanza, e quando si erano stesi sotto le 116 lenzuola l'imbarazzo era calato su di loro come una spinosa coltre di cardi. A un certo punto lei si era assopita... ma era stata svegliata da un enorme corpo maschile che le si premeva addosso, e da una verga lunga e calda piantata contro il fianco. Era troppo sconcertata per non acconsentire quando, senza una parola, il Primale l'aveva spogliata della tunica sostituendola con la propria pelle e con la propria possanza fisica. Non sempre era necessario parlare, in effetti. Con una lenta carezza fece scorrere la punta delle dita sul caldo petto di marmo della statua, indugiando sul capezzolo che spuntava dalla piatta base di muscoli. Più giù, costole e addominali offrivano una incantevole sequenza di ondulazioni. Liscia, liscissima. La pelle del Primale era altrettanto liscia. Cormia posò la mano sul fianco della statua. Le batteva forte il cuore. Il caldo formicolio che sentiva non aveva nulla a che fare con la pietra che aveva davanti. Nella sua mente lei stava toccando il Primale, era del Primale il corpo sotto le sue dita. Era suo, e non della statua, il membro che la attirava. La sua mano scese ancora fino a librarsi sulla sommità dell'osso pubico del maschio scolpito. 117 Dall'atrio salì il rumore di qualcuno che entrava in casa. Cormia fece un balzo all'indietro, scostandosi dalla statua talmente in fretta da incespicare nell'orlo della tunica. Passi pesanti salirono le scale di corsa fino al primo piano. Cormia si nascose nella nicchia di una finestra e sbirciò da dietro l'angolo. In cima allo scalone comparve il fratello Zsadist. Era in tenuta da combattimento, con due pugnali sul petto e una pistola al fianco... e dalla piega dura della mascella sembrava ancora sul campo di battaglia. Si allontanò con passo deciso uscendo dal suo campo visivo; poco dopo Cormia udì bussare a quella che doveva essere la porta dello studio del re. In punta di piedi andò in fondo al corridoio, fermandosi dietro l'angolo. Qualcuno abbaiò un ordine, poi la porta si aprì e si richiuse. La voce del re risuonava oltre il muro contro cui era appoggiata. «Nottataccia, Z? Hai la faccia di uno che ha appena subito un brutto tiro.» La voce del fratello Zsadist era cupa. «Phury è già rientrato?» «Stanotte? Non che io sappia.» 118 «Maledetto bastardo. Aveva detto che stava tornando a casa.» «Il tuo gemello dice un sacco di cose. Perché non mi ragguagli sul dramma di oggi?» Appiattendosi contro al muro nella speranza di non farsi notare, Cormia si augurò che non arrivasse nessuno. Che cosa aveva combinato il Primate? «L'ho beccato che affettava un lesser neanche fosse un piatto di sushi.» Il re imprecò. «Ma non ti aveva assicurato che avrebbe smesso?» «È così, infatti.» Ci fu un lamento, come se il re si stesse stropicciando gli occhi o forse massaggiando le tempie. «Allora, che cosa hai visto di preciso?» Ci fu una lunga pausa. La voce del re si abbassò ancora di più. «Z, vecchio mio, parla. Devo sapere con che cosa ho a che fare per poter intervenire.» «E va bene. L'ho pescato con due lesser. Aveva perso la protesi e aveva un segno rossastro intorno al collo, come se avessero tentato di strangolarlo con una catena. Era chino sopra la pancia di un lesser, col pugnale in mano. 119 Maledizione... non si rendeva minimamente conto di quello che aveva intorno. Non mi ha visto finché non ho parlato. Avrei potuto essere un altro lesser del cazzo e allora? In questo momento lo starebbero torturando oppure sarebbe già morto stecchito.» «Cosa cazzo devo fare con quel ragazzo?» La voce di Z assunse un tono teso. «Non voglio che venga sbattuto fuori.» «È una decisione che non spetta a te. E non guardarmi in quel modo... sono ancora il tuo capo, razza di esaltato.» Ci fu una pausa. «Merda, comincio a pensare che il tuo gemello vada spedito di volata da un fottuto strizzacervelli. È un pericolo per se stesso e per gli altri. Gli hai detto niente?» «Siamo stati interrotti dalla polizia...» «Sono arrivati anche gli sbirri? Cristo...» «Per cui, no, non gli ho parlato.» Le voci giunsero soffocate finché il fratello Zsadist disse, alzando il tono, «Hai pensato cosa significherebbe, per lui? La confraternita è la sua vita.» «Sei tu che hai sottoposto il caso alla mia attenzione. Usa la testa. Una settimana di sospensione e una piccola vacanza non bastano a sistemare le cose.» 120 Ci fu un altro silenzio. «Senti, devo andare a vedere come sta Bella. Parla con Phury prima di prendere provvedimenti drastici. Ti ascolterà. E ridagli questo.» Qualcosa di pesante colpì quella che doveva essere una scrivania; Cormia s'infilò in una delle camere degli ospiti. Un attimo dopo sentì i passi pesanti del fratello Zsadist che si dirigeva in camera sua. Un pericolo per se stesso e per gli altri. Non riusciva a immaginarsi il Primale che brutalizzava i loro nemici o che per imprudenza si metteva in pericolo. Ma perché il fratello Zsadist avrebbe mentito? Non lo avrebbe mai fatto. Improvvisamente esausta, si sedette sul bordo del letto e tanto per fare qualcosa si guardò intorno. La stanza era della stessa tonalità lavanda della sua rosa preferita. Che bel colore, pensò, abbandonandosi all'indietro sul piumone. Proprio bello, anche se non servì a placare la sua agitazione. La Caldwell Galleria era due piani di Hollister, H&M, Express, Banana Republic e Ann Taylor nella periferia residenziale della città. Con JCPenney, Lord and Taylor e Macy's che presidiavano le estremità dei tre raggi della piantina, era piazzata nel classico settore centrale di tutti 121 i centri commerciali, e attirava una folla fatta per tre quarti di adolescenti e per un quarto di mammine irrequiete. La sezione gastronomica era costituita da Mac Donald's, KuikWok, California Smoothie, Auntie Anne's e Cinnabon. I chioschi lungo le gallerie centrali vendevano maglieria fatta a mano, bambolotti che dondolavano la testa, telefoni cellulari e calendari con foto di animali. C'era odore di chiuso e di fragole di plastica. Porca miseria, era al centro commerciale, pensò John Matthew. Non riusciva a crederci. Era lì al centro commerciale. Troppo strano. Quando si dice ritrovarsi al punto di partenza. Dall'ultima volta che l'aveva visto gli avevano dato una bella rinfrescata: al posto delle varie tonalità di beige, adesso c'era un tema giamaicano giocato sul rosa e sul verde oceano. Tutto, dalle piastrelle del pavimento ai cestini dell'immondizia, dalle piante finte in vaso alle fontane sembrava urlare We be jammin', all'insegna del reggae. Era tipo una camicia hawaiana addosso a un cinquantenne. Allegramente e sgradevolmente fuori posto. Dio, come cambiano le cose. L'ultima volta che era stato lì era un orfanello tutto pelle e ossa che si trascinava dietro a un branco di altri bambini indesiderati. E adesso 122 eccolo lì, con due zanne in bocca, scarpe numerò 48 e un fisico grande e grosso da cui tutti si tenevano alla larga. Però era ancora orfano. A proposito di orfani, cavolo, ricordava come fosse ieri quelle gitarelle È al centro commerciale. Ogni anno il St. Francis portava i suoi piccoli ospiti alla Galleria, prima di Natale; una autentica crudeltà, visto che nessuno dei bambini aveva i soldi per comprare le cose carine e luccicanti in vendita. John aveva sempre paura che li cacciassero via o roba del genere, perché nessuno del gruppo aveva i sacchetti con gli acquisti che autorizzavano a usare i gabinetti. Ma quella sera non ci sarebbero stati problemi, pensò, battendo la mano sulla tasca posteriore dei calzoni. Nel portafoglio aveva quattrocento dollari guadagnati lavorando nell'ufficio del centro di addestramento. Che sollievo avere un po' di grana da spendere e sentirsi a proprio agio in mezzo alla massa di clienti a zonzo. «Hai scordato il portafoglio?» chiese Blay. John scosse la testa. Ce l'ho. Qualche passo più avanti Qhuinn, alla testa del terzetto, camminava spedito. Era di premura da quando erano entrati e, quando Blay si fermò un attimo davanti a Brookstone, guardò l'orologio con ostentata impazienza. 123 «Vediamo di sbrigarci, Blay», sbottò, «Manca solo un'ora alla chiusura.» «Che cos'hai stasera?» fece Blay, accigliato, «Sei teso da matti, e non in senso buono.» «Ma fammi il piacere.» Allungarono il passo, oltrepassando gruppi di adolescenti compatti come banchi di pesci, divisi in base al tipo o al sesso: femmine e maschi non si mescolavano, dark e fighetti delle scuole private non si mischiavano, I confini erano molto chiari. John ricordava perfettamente come funzionava: essendo stato escluso da ogni gruppo aveva potuto osservarli tutti quanti. Qhuinn si fermò davanti ad Abercrombie and Fitch. «Urban Outfitters è troppo alternativo per te. Ti metteremo addosso lo stile A-and-F.» John si strinse nelle spalle e a gesti disse, Continuo a pensare che non mi occorrano tutti questi vestiti nuovi, «Hai due paia di Levi's, quattro T-shirt Hanes e un paio di Nike, E quella felpa lì.» Felpa venne pronunciato con lo stesso entusiasmo di gatto spiaccicato sull'asfalto. Ho anche delle tute da ginnastica. «Che ti varranno di sicuro la copertina di GQ, e allora?» Qhuinn entrò nel negozio. «Dai, andiamo.» John lo seguì insieme a Blay. All'interno la musica era alta, i vestiti tutti ammassati e le foto dei modelli alle 124 pareti mostravano una schiera di individui perfetti in bianco e nero. Qhuinn cominciò a far passare file e file di camicie appese con un'aria di vago disgusto, come se fosse roba adatta a sua nonna. Più che logico, visto che lui era decisamente tipo da Urban Outfitters, con la grossa catena che penzolava dai jeans blu scuro, la T-shirt Affliction con il teschio e le ali e gli enórmi anfibi neri. I capelli scuri erano ritti in testa come spuntoni e aveva sette piercing di bronzo all'orecchio sinistro, sette borchie che andavano dal lobo alla sommità della cartilagine. Si era fatto anche altri piercing, ma John non sapeva bene dove. Meglio non sapere certe cose degli amici. Blay, che invece era più nello stile del negozio, si staccò per andare a vedere la sezione dei jeans sdruciti "effetto usato", che sembravano di suo gradimento. John si tenne in disparte, meno interessato ai vestiti che al fatto che tutti li stavano guardando. Per quel che ne sapeva gli umani non erano in grado di avvertire la presenza dei vampiri, ma, che cavolo, per qualche motivo loro tre erano al centro dell'attenzione. «Posso aiutarvi?» Tutti e tre si voltarono. La ragazza che aveva parlato era alta come Xhex, ma le analogie tra le due femmine finivano lì. A differenza di quella che abitava le fantasie di John, questa era molto in alto nella scala della femminilità e soffriva di una specie di sindrome di Tourette legata ai capelli, un tic che si manifestava in incessanti scatti della testa e nell'impulso evidentemente incontenibile di accarezzare e lisciare la 125 sua fantastica chioma ricciuta. Però aveva talento. In qualche modo riusciva a fare tutti quei maneggi coi capelli senza scadere nel ridicolo. Francamente, era impressionante. Anche se non necessariamente in senso buono. Xhex non avrebbe mai... Cazzo. Perché cavolo doveva sempre riportare tutto a Xhex? Qhuinn sorrise alla ragazza, negli occhi un guizzo che presagiva fantasie a quattro zampe. «Tempismo perfetto. Abbiamo proprio bisogno di aiuto. Al mio amico, qui, serve una bella iniezione di vita. Ci pensi tu?» Oh. Dio. No. Pensò John. Quando la ragazza gli lanciò un'occhiata, il suo sguardo bollente lo fece sentire come se lo avesse afferrato in mezzo alle gambe dandogli una strizzata al pacco per vedere com'era messo. ... Si rifugiò dietro ima rastrelliera di camice button-down nuove di zecca ma dall'aria vissuta. «Sono io che dirigo il negozio», spiegò la ragazza, con ima voce strascicata molto sexy. «Quindi siete in buone mani. Tutti e tre.» «Beeeene.» Qhuinn fece scorrere gli occhi spaiati sulle gambe vellutate della tipa. «Perché non cominci a sistemare lui? Io intanto guardo.» «Tu scegli una cosa, io la controllo e poi gliela porto in camerino», intervenne Blay piazzandosi di fianco a John. 126 Con un sospiro di sollievo, John ringraziò brevemente Blay per essere andato di nuovo in suo soccorso. Il suo secondo nome era "paraurti", senza scherzi. Purtroppo la tipa li gratificò di un sorriso ancora più largo. «Due al prezzo di uno per me va bene. Tu controlli, dici? Non sapevo che stasera ci fosse una svendita di bei maschioni.» Okay, sarebbe stato terribile. Un'ora dopo, però, John si sentiva meglio. Venne fuori che Stephanie, la responsabile del negozio, aveva occhio; una volta concentratasi sul vestiario si diede una calmata e lasciò perdere occhiate provocanti e doppi sensi. John si ritrovò con dei bei jeans "effetto usato", un po' di quelle morbide camice button-down e un paio di magliette attillate che, doveva ammetterlo, gli mettevano in risalto bicipiti e pettorali come cose degne di essere ammirate. In più gli rifilarono anche un paio di collanine e una felpa con cappuccio nera. Alla fine andò alla cassa con tutti i suoi acquisti drappeggiati sul braccio. Mettendo giù i vestiti, lanciò un'occhiata a un cestino pieno di braccialetti. In mezzo al groviglio di cuoio e conchiglie fu colpito da un lampo color lavanda è rovistò dentro al mucchio per prenderlo. Tirò fuori un braccialetto intrecciato con perline dello stesso colore della rosa di Cormia e, sorridendo, lo infilò di nascosto sotto una delle magliette. Stephanie fece il conto. 127 Il totale superava i seicento bigliettoni. Sei. Cento. Dollari. John si imbufalì. Aveva solo circa quattro... «Ce li ho io», intervenne Blay, allungando ima carta di credito nera, la prestigiosa Black Centurion American Express. «Puoi rimborsarmi più avanti», aggiunse scoccandogli un'occhiata. Alla vista del tesserino di plastica, Stephanie strabuzzò gli occhi, poi scrutò intensamente Blay, quasi gli stesse cambiando il cartellino del prezzo. «È la prima volta che mi capita di vedere una black AmEx.» «Non è niente di che», si schermì Blay, mettendosi a frugare in un mucchio di collanine. John gli diede una stretta al braccio e poi batté sul registratore di cassa per attirare l'attenzione di Stephanie. Allargò le banconote sul bancone, ma Blay scosse la testa e a gesti disse, Mi rimborserai dopo, okay? So che posso fidarmi. E pòi, parliamoci chiaro, vuoi davvero tornare qui a prendere quello che non riesci a pagare subito? Io no di certo. John si accigliò; era un ragionamento che non faceva una grinza. Però poi te li restituisco, disse a gesti dopo avergli allungato i suoi quattrocento dollari. Con calma, ribatté Blay. Non c'è nessuna fretta. Stephanie fece scorrere la carta di credito nel lettore, digitò l'ammontare e attese con la punta delle dita sullo scontrino. Qualche secondo dopo si udì un trillo; 128 Stephanie strappò via la ricevuta e la porse a Blay insieme a una penna bic blu. «E così... tra poco chiudiamo...» «Ah sì?» fece Qhuinn poggiando un fianco contro il bancone. «Cosa significa, esattamente?» «Che dopo resto solo io. Sono il grande capo. Lascio andare gli altri prima di me.» «Ma così sarai tutta sola.» «Già. È vero. Sola soletta.» Merda, pensò John. Se Blay era un paraurti, Qhuinn era il re delle complicazioni. L'amico sorrise. «Sai, io e i miei soci non staremmo tranquilli a lasciarti qui tutta sola.» Ah, sì invece... sì, pensò John. I tuoi soci starebbero alla grande. Tragicamente, il sorriso sornione di Stephanie siglò l'accordo. Non sarebbero andati da nessuna parte se prima Qhuinn non entrava nel suo registratore di cassa. Per fortuna fece alla svelta. Dieci minuti dopo il negozio era vuoto e la saracinesca abbassata. E Qhuinn veniva attirato per la catena dei jeans verso un bacio alla francese. 129 John si aggrappò ai suoi due sacchettoni mentre Blay si fingeva interessato alle camicie che aveva già guardato. «Andiamo in uno dei camerini», disse Stephanie contro la bocca di Qhuinn. «Perfetto.» «Può aggregarsi anche qualcun altro, a proposito.» La ragazza si voltò e i suoi occhi si posarono su John. E lì restarono. «C'è un sacco di spazio.» Non esiste, pensò John. Non esiste proprio. Negli occhi spaiati di Qhuinn si accese un lampo di irritazione; da dietro la schiena della ragazza, a gesti, disse, Vieni con noi, John. Sarebbe ora. Stephanie scelse proprio quel momento per prendere il carnoso labbro inferiore di Qhuinn tra i denti candidi e la sua coscia tra le gambe. Era facile immaginare cosa gli avrebbe fatto. Prima che lui si facesse lei. John scosse la testa. Io resto qui. E dai. Puoi guardarmi, prima. Ti mostro come si fa. L'invito di Qhuinn non fu una sorpresa. Lui faceva regolarmente sesso in coppia. Solo era la prima volta che chiedeva a John di fargli compagnia. E dai, John, vieni con noi. No, grazie. 130 Qhuinn si rabbuiò. Non puoi startene sempre in panchina, John. John distolse lo sguardo. Sarebbe stato più facile incazzarsi con l'amico se anche lui non avesse pensato regolarmente la stessa cosa. «E va bene», si arrese Qhuinn. «Noi torniamo tra un po'.» Con un sorriso pigro fece scivolare la mani sul sedere della ragazza e la sollevò da terra. Mentre camminava all'indietro, la gonna di lei si alzò, lasciando intravedere le mutandine rosa e le natiche bianche. Quando quei due si furono dileguati, John si voltò verso Blay per fare un commento su quant'era porco Qhuinn, ma si bloccò di colpo. Con una strana espressione sul viso, Blay aveva lo sguardo puntato sul camerino. John fece un fischio sommesso per attirare la sua attenzione. Puoi raggiungerli, sai. Se vuoi stare con loro. Io sto bene qui. Blay scosse la testa un po' troppo in fretta. «Naa. Resto qui anch'io.» Peccato che i suoi occhi tornarono a fissare il camerino e non si schiodarono da lì, mentre ne usciva un gemito, Dal suono non si capiva chi l'avesse fatto, e l'espressione di Blay divenne ancora più tesa. John fischiò di nuovo. Tutto okay? 131 «Tanto vale mettersi comodi», disse Blay andando a sedersi sullo sgabello dietro la cassa chiusa a chiave. «Saremo bloccati qui dentro per un bel po'.» E va bene, pensò John. Qualunque fosse il motivo del palese fastidio di Blay, era off limits. Con un salto si issò a sedere sul bancone, lasciando penzolare le gambe. Nel sentire un altro gemito cominciò a pensare a Xhex e gli venne duro. Grandioso. Proprio favoloso. Stava tirando fuori la camicia dai calzoni per nascondere il suo problemino quando Blay chiese, «Allora, per chi è il braccialetto?» È per me, rispose in fretta John. «Sì, come no. Non è della tua misura.» Ci fu una pausa. «Non sei obbligato a dirmelo, se non ti va.» Onestamente, non è niente di importante. «Okay.» Un minuto dopo Blay disse, «Allora, ti va di fare un salto allo ZeroSum, dopo?» John annuì a testa china. Blay ridacchiò piano. «Ci avrei giurato. E scommetto che se ci andassimo anche domani sera non avresti nulla in contrario.» Domani sera non posso, rispose lui soprappensiero. 132 «Perché no?» Cazzo. Non posso e basta. Devo stare a casa. Dal fondo del negozio si levò un altro gemito, poi ebbe inizio un rimbombo ritmico, soffocato. Quando i rumori cessarono, Blay trasse un profondo sospiro, come dopo ima lunga corsa di allenamento. John non poteva biasimarlo. Anche lui non vedeva l'ora di uscire dal negozio. Con le luci basse e nessun altro in giro, i vestiti appesi avevano un'aria sinistra. In più, se si sbrigavano ad andare allo ZeroSum gli restavano un paio d'ore buone per guardare Xhex, il che era... Patetico, in effetti. I minuti scorrevano lenti. Dieci. Quindici. Venti. «Merda», bofonchiò Blay. «Ma cosa diavolo stanno combinando?» John fece spallucce. Impossibile dirlo, dati i gusti del loro amico. «Ehilà, Qhuinn?» chiamò Blay. Non ottenendo risposta, neanche lo straccio di un grugnito, scivolò giù dallo sgabello. «Vado a vedere cosa succede.» Andò al camerino e bussò. Un momento dopo infilò dentro la testa. In un attimo sbarrò gli occhi, spalancò la 133 bocca e avvampò dalla radice dei capelli rossi fino alle mani. Ma beeeene. Evidentemente non avevano ancora finito. Qualunque cosa stesse succedendo là dentro valeva la pena di essere vista, perché Blay non si voltò subito. Un istante dopo mosse lentamente la testa avanti e indietro, forse rispondendo a una domanda di Qhuinn. Blay tornò verso la cassa a testa china, con le mani infilate in tasca. In silenzio si rimise seduto sullo sgabello, ma cominciò a battere nervosamente il piede su e giù. Era chiaro che non aveva più voglia di stare lì, e John non poteva dargli torto. Che cavolo, a quel punto potevano già essere allo ZeroSum. Dove lavorava Xhex. Ancora quel simpatico pensiero ossessivo... avrebbe voluto prendere a testate il bancone. Cribbio... chiaramente la parola patetico ormai aveva un'altra ortografia. Adesso si scriveva J-O-H-N M-A-T-T-H-E-W. 134 Capitolo 8 Uno dei problemi con la vergogna, è che in realtà non ti rende più basso, più silenzioso o meno visibile. Ti senti né più né meno come sei. Fermo nel cortile della grande casa della confraternita, Phury guardava la sua facciata imponente. Grigia, tetra e con una schiera di finestre scure che ti scrutavano torve, sembrava un gigante sepolto fino al collo, tutt'altro che felice di quella immersione sottoterra. Non era pronto a entrare in casa più di quanto la casa sembrasse pronta ad accoglierlo. Si levò una leggera brezza e lui guardò verso nord. Era una tipica notte agostana dell'interno dello Stato di New York. Tutt'intorno era ancora estate, con gli alberi fronzuti, la fontana che ciangottava e i grossi vasi a forma di urna ai due lati dell'ingresso. L'aria era diversa, però. Un po' più asciutta. Un po' più fresca. Le stagioni, come il tempo, sono inarrestabili, giusto? No, sbagliato. Le stagioni sono solo uno strumento di misurazione del tempo, proprio come gli orologi e i calendari. Sto invecchiando, pensò. 135 Con la testa che partiva in direzioni ancora peggiori del cazziatone che con ogni probabilità lo attendeva dentro casa, attraversò il vestibolo ed entrò nell'atrio. Dalla sala del biliardo giunse l'eco della voce della regina, accompagnata da un quartetto di palle che si scontravano delicatamente e da un paio di colpi più sonori. L'imprecazione e la risata che seguirono avevano entrambi un accento bostioniano. Il che significava che Butch, in grado di battere chiunque altro in casa, aveva appena perso contro Beth. Di nuovo, evidentemente. Ascoltandoli, Phury non riuscì a ricordare l'ultima volta che aveva giocato una partita a biliardo o semplicemente passato del tempo in compagnia dei fratelli - e se anche l'avesse fatto, non sarebbe stato del tutto a suo agio. Non lo era mai. Per lui, la vita era una moneta con il disastro su una faccia e l'attesa del disastro sull'altra. Hai bisogno di farti un'altra canna, socio, sentenziò il mago con voce strascicata. Meglio ancora un bel cannone. Non cambierà il fatto che sei uno sciocco bastardo, ma aumenterà le tue probabilità di dare fuoco al letto quando ci crollerai svenuto. Su quella nota, Phury decise di prendere il toro per le corna e salì al piano di sopra. Con un po' di fortuna, la porta di Wrath sarebbe stata chiusa... Era aperta, e il re era seduto alla scrivania. Wrath alzò gli occhi dalla lente di ingrandimento con cui stava leggendo un documento. Malgrado gli occhiali 136 da sole avvolgenti, era chiaro come il sole che era arrabbiato. «Ti stavo aspettando.» Nella testa di Phury il mago alzò la lunga veste nera e si accomodò su una poltrona reclinabile foderata di pelle umana. Il mio regno per dei popcorn e delle mentine ricoperte di cioccolato. Sarà spetTAAAcolare. Phury entrò nello studio senza far caso alle pareti blu oltremare, ai sofà di seta color panna e alla mensola in marmo bianco del camino. Dall'odore di lesser che aleggiava nell'aria capì che Zsadist era appena stato lì. «Immagino che Z ti abbia già parlato», disse, perché non c'era motivo di non dire pane al pane. Wrath posò la lente d'ingrandimento e si appoggiò allo schienale della poltroncina, dietro lo scrittoio Luigi XIV. «Chiudi la porta.» Phury obbedì. «Vuoi che parli io per primo?» «No, tu parli già abbastanza.» Il re sollevò i piedi e li lasciò ricadere sul delicato scrittoio. I grossi stivali atterrarono come due palle di cannone. «Parli anche troppo.» Più per cortesia che per curiosità, Phury attese che il re elencasse tutti i suoi fallimenti. Li conosceva a memoria: cercare di farsi ammazzare sul campo, assumere il ruolo di Primale delle Elette senza portare a compimento la cerimonia, essere troppo coinvolto dalla vita di Z e Bella, non prestare abbastanza attenzione a Cormia, fumare in continuazione... 137 Si concentrò intensamente sul suo re e attese che una voce diversa da quella del mago criticasse le cazzate di cui era responsabile. Nulla di tutto ciò. Wrath non disse assolutamente niente. Il che sembrava suggerire che ogni parola era superflua: i problemi erano così chiari e lampanti che sarebbe stato come indicare una bomba che esplodeva e dire, Ragazzi, che baccano... lascerà anche un bel cratere nel marciapiede, eh? «Ripensandoci», disse Wrath, «dimmi cosa dovrei fare, con te. Dimmi cosa cazzo dovrei fare.» Quando Phury non rispose, Wrath mormorò, «No comment? Significa che neanche tu hai idea di cosa fare?» «Penso che entrambi conosciamo la risposta.» «Non ne sono sicuro. Tu cosa pensi che dovrei fare?» «Mettermi a riposo per un po'.» «Ah.» Altro silenzio. «Allora siamo a questo punto?» chiese Phury. Cristo, che voglia di uno spinello. Il re batté le punte degli stivali. «Non saprei.» «Significa che posso continuare a combattere?» Molto meglio di quanto osasse sperare, «Ti do la mia parola...» 138 «Vaffanculo.» Wrath si alzò di scatto e girò intorno alla scrivania. «Hai detto al tuo gemello che stavi venendo qui, ma scommetto tutto quello che vuoi che sei andato da Rehvenge. Hai promesso a Z che l'avresti piantata di sfogarti sui lesser e non l'hai fatto. Hai detto che saresti diventato Primale, e non lo sei. Porco mondo, continui a ripetere che te ne vai in camera tua a dormire, ma tutti noi sappiamo cosa combini, lì dentro. Onestamente, ti aspetti che possa ancora prenderti in parola?» «Allora dimmi cosa vuoi che faccia.» Dietro gli occhiali da sole, gli occhi pallidi, quasi ciechi, del re sembravano cercare qualcosa. «Non sono sicuro che una sospensione e un ciclo di terapia servano a qualcosa, perché non credo che rispetterai la prima e che seguirai la seconda.» Phury sentì insinuarsi nelle viscere una paura gelida, simile a un cane ferito e bagnato che si raggomitola su se stesso. «Vuoi sbattermi fuori?» Era già capitato, nella storia della confraternita. Non spesso, ma era capitato. Gli tornò in niente Murhder... merda, sì, probabilmente era stato lui l'ultimo a venire espulso. «Mica è così facile, cosa credi?» disse Wrath. «Se ti caccio che ne sarà delle Elette? Il Primale è sempre stato un fratello, e non solo per motivi di lignaggio. E poi Z non la prenderebbe affatto bene, per quanto adesso sia incazzato con te.» 139 Fantastico. Le sue ancore di salvezza erano salvare il suo gemello dall'andare fuori di testa e diventare lo stallone da monta delle Elette. Il re si avvicinò alle finestre. Fuori, gli alberi ondeggiavano nel vento sempre più impetuoso. «Ecco cosa penso.» Wrath alzò gli occhiali sulla fronte e si stropicciò gli occhi come in preda a un gran mal di testa. «Dovresti...» «Mi dispiace», disse Phury, perché era l'unica cosa che poteva dire. : «Anche a me.» Wrath lasciò ricadere gli occhiali sul naso e scosse la testa. Tornò alla scrivania e si sedette, la mascella contratta come le spalle. Aprì un cassetto ed estrasse un pugnale nero. Quello di Phury. Quello che aveva lasciato nel vicolo. Z doveva averlo trovato e portato a casa. Il re rigirò l'arma tra le mani e si schiarì la gola. «Dammi l'altro pugnale. Sei escluso per sempre dalla rotazione. Che tu veda o meno uno strizzacervelli o come si metteranno le cose con le Elette non è affar mio. E non ho consigli da darti perché la verità è che farai quello che farai. Nulla di ciò che potrei importi o chiederti farebbe la minima differenza.» Il cuore di Phury si fermò per un istante. Tutto si sarebbe immaginato, come possibile conclusione di 140 quell'incontro, tranne che Wrath si lavasse le mani dell'intera faccenda. «Sono ancora un fratello?» Il re si limitò a fissare il pugnale... il che equivaleva a una risposta: solo di nome. Certe cose non occorre dirle, no? «Parlerò con Z», mormorò il re. «Diremo che sei in permesso amministrativo. Basta attività sul campo, per te, e non venire più alle riunioni.» Phury si sentì mancare, come se, precipitando in caduta libera da un palazzo, avesse appena avvistato il marciapiede su cui stava per sfracellarsi. Niente più ancore di salvezza. Niente più promesse da infrangere. Per il re, adesso Phury doveva arrangiarsi da solo. Millenovecentotrentadue, pensò. Era confraternita per settantasei anni soltanto. stato nella Portandosi la mano al petto afferrò il pugnale che gli restava, sfoderò l'arma con gesto sicuro e la posò su quell'incongruo scrittoio azzurro chiaro. Salutò il suo re con un inchino e uscì senza un'altra parola. 141 Bravo, esclamò il mago. Peccato che i tuoi genitori siano già morti, socio. Sarebbero così fieri, in questo momento... aspetta, riportiamoli indietro, eh, cosa dici? Phury fu assalito con prepotenza da due immagini: suo padre svenuto in una stanza piena di bottiglie di birra vuote, sua madre stesa a letto con la faccia rivolta al muro. Tornò in camera sua, tirò fuori la sua scorta personale di fumo, si rollò una canna e l'accese. Con tutto quello che era successo quella notte e il mago che si divertiva a fare l'anti-Oprah, o si metteva a fumare o si metteva a urlare. Si mise a fumare. Dall'altra parte della città, Xhex era tutt'altro che felice mentre scortava Rehvenge fuori dall'uscita posteriore dello ZeroSum e lo aiutava a salire sulla Bentley blindata. A vederlo, il suo capo non stava meglio di lei: un'ombra scura e tetra avvolta in una pelliccia di zibellino lunga fino ai piedi che attraversava lenta il vicolo. Xhex gli aprì la portiera del lato guidatore e attese che si accomodasse sul sedile anatomico con l'aiuto del bastone. Malgrado i ventun gradi della nottata, Rehv alzò il riscaldamento al massimo e si strinse i baveri della pelliccia intorno al collo - segno che la sua ultima iniezione di dopamina doveva ancora esaurire il suo effetto. Presto però sarebbe successo. Quando faceva quei viaggi non era mai sotto l'effetto dei farmaci. Altrimenti non era sicuro. Non era sicuro, punto e basta. 142 Per venticinque anni Xhex si era offerta di accompagnarlo per dargli man forte in quelle visite alla sua ricattatrice; tutte le volte lui le aveva detto di no, così adesso si risparmiava la fatica e teneva il becco chiuso. Il costo del suo silenzio, però, era un umore nerissimo. «Andrai a stare nella tua casa sicura?» chiese. «Sì.» Xhex chiuse la portiera e seguì con lo sguardo l'auto che si allontanava. Rehv non le svelava mai il luogo di quegli incontri, ma lei sapeva più o meno dove avvenivano, il GPS dell'auto indicava che Rehv andava a nord. Dio, detestava quello che era costretto a fare. Per via del casino che lei aveva combinato venticinque anni prima, Rehv doveva prostituirsi ogni primo martedì del mese per proteggere entrambi. La Principessa symphath da cui si lasciava scopare era pericolosa. E pazza di lui. All'inizio Xhex si aspettava che quella troia li denunciasse entrambi in forma anonima per farli deportare nella colonia dove venivano esiliati i symphath. Lei però era stata più furba. Se fossero saliti su quella nave, per quanto robusti, sarebbero stati fortunati a sopravvivere sei mesi. I mezzosangue non potevano competere con i symphath di razza pura, senza contare che la Principessa era sposata col suo stesso zio. Un despota possessivo e assetato di potere come nessun altro. 143 Xhex imprecò. Non sapeva perché Rehv non la odiasse, e non capiva proprio come potesse tollerare di farsi scopare. Aveva la sensazione, però, che quelle notti fossero il motivo per cui si prendeva tanta cura delle sue ragazze. A differenza del tipico pappone, sapeva esattamente come si sentono le prostitute, sapeva di preciso com'è sbattersi qualcuno controvoglia solo perché quello ha qualcosa che ti serve, fossero soldi o silenzio. Xhex non aveva ancora trovato una via d'uscita per entrambi, e ciò che rendeva ancora più insostenibile la situazione era che Rehv aveva rinunciato a liberarsi. Quella che un tempo era stata una situazione critica era diventata la nuova realtà. A distanza di vent'anni scopava ancora per proteggere tutti e due, e sempre per colpa di Xhex; ogni primo martedì del mese prendeva e partiva, e faceva l'impensabile con una che odiava... e quella era la sua vita. «Cazzo», esclamò Xhex nel vicolo deserto. «Quando mai cambieranno le cose?» L'unica risposta che ottenne fu una raffica di vento che le soffiò addosso dei fogli di giornale e dei sacchetti di plastica. Rientrata nel locale, gli occhi si adattarono alle luci psichedeliche, le orecchie assorbirono la musica dal ritmo ipnotico e la pelle registrò un lieve calo di temperatura. La sala VIP sembrava relativamente tranquilla, c'erano i soliti habitué, ma Xhex stabilì comunque un contatto visivo con i suoi due buttafuori. Dopo che essi ebbero annuito segnalando il "tutto regolare", Xhex gettò un 144 occhio alle ragazze impegnate nei séparé. Controllò l'andirivieni delle cameriere, i vassoi che portavano via i bicchieri vuoti e li riportavano pieni. Valutò il livello delle bottiglie dietro al bancone del bar dei VIP. Giunta al cordone di velluto, si volse verso i clienti che affollavano la parte principale del club. La massa sulla pista da ballo si muoveva come un oceano agitato, gonfiandosi, dividendosi e riavvicinandosi di nuovo. Ai margini della pista, coppie e terzetti si dimenavano, palpandosi, i laser rimbalzavano su volti e corpi avvinghiati nella penombra. Quella sera, a regola, c'era poco movimento, le settimane partivano in sordina, poi la gente via via aumentava fino al picco del sabato sera. Per lei come responsabile della sicurezza, di solito il venerdì era il giorno più pesante, con gli idioti che scaricavano le frustrazioni di una brutta settimana lavorativa esagerando con la droga e andando in overdose o scatenando qualche rissa. Ciò detto, dal momento che i fessi con qualche dipendenza erano il pane quotidiano, lì al locale poteva scoppiare un casino in ogni momento di ogni serata. Meno male che lei era proprio in gamba nel suo lavoro. Rehv gestiva lo smercio di droga, alcol e donne, controllava la sua squadra di allibratori in combutta con la mala di Las Vegas e si occupava di alcuni progetti speciali che richiedevano una certa qual dose di "coercizione". Lei, invece, era incaricata di tenere sotto controllo l'ambiente, in modo che gli affari si potessero 145 condurre col minimo possibile di interferenze da parte dei poliziotti umani e dei clienti idioti. Stava per andare a controllare il mezzanino quando dall'ingresso principale vide entrare quelli che ormai lei chiamava i Ragazzi. Indietreggiando nell'ombra, seguì con gli occhi i tre giovani vampiri che, superato il cordone di velluto della zona VIP, puntavano verso il fondo del locale. Si piazzavano sempre al tavolo della confraternita, se era libero, il che significava che o avevano il senso della strategia, visto che era situato in un angolo accanto a una uscita di sicurezza, o che avevano ricevuto ordine da parte dell'autorità costituita di andare a sedersi lì e comportarsi bene. "Autorità" nel senso del re, Wrath. Già, i Ragazzi non erano la solita combriccola di amici, pensò Xhex mentre i tre si mettevano comodi. Per tutta una serie di ragioni. Quello con gli occhi di due colori diversi era un cercaguai e, come sempre, dopo aver ordinato la sua Corona, si alzò e andò dall'altra parte del locale in cerca di gnocca. Il rosso rimase indietro, anche questo come da copione. Era il classico boy scout, onesto, perbene, affidabile. Il che la rendeva sospettosa su quello che poteva nascondersi sotto quell'immagine rassicurante da bravo ragazzo. Dei tre, però, la vera grana era il muto. Si chiamava Tehrror, altrimenti detto John Matthew, e il re era il suo 146 whard. Per quanto la riguardava, quindi, era un piatto di porcellana in un recinto per tori. Se gli succedeva qualcosa il club era fottuto. Caspita quant'era cambiato quel ragazzino, negli ultimi mesi. Lo aveva visto prima della transizione, magro come un chiodo e de-boluccio, uno scricciolo indifeso; e adesso eccolo lì, un gran bel pezzo di marcantonio... e i pezzi di marcantonio erano un problema se si mettevano a menare le mani. Anche se finora John era stato più il tipo della serie "mi metto qui tranquillo a guardare", i suoi occhi erano decisamente troppo vecchi per un viso così giovane, il che suggeriva che doveva aver vissuto qualche brutta esperienza. E quando la gente entra in crisi, le brutte esperienze del passato tendono a gettare benzina sul fuoco. Occhi Spaiati, alias Qhuinn, figlio di Lohstrong, tornò con un paio di tipe a dir poco disponibili, due biondine che a quanto pareva avevano scelto delle mise coordinate ai loro cosmopolitan: rosa come il cocktail, e parecchio succinte. Il rosso, Blaylock, non aveva molto fascino, ma non era un problema perché Qhuinn ne aveva da vendere per tutti e due. Cribbio, ne avrebbe avuto da vendere anche per John Matthew, salvo che quest'ultimo si teneva fuori dal gioco. Almeno per quel che aveva visto lei. Dopo che gli amichetti di John furono spariti nel retro con le due smutandate, Xhex si avvicinò al tavolo senza un motivo particolare. Appena la vide lui si irrigidì, ma 147 gli succedeva sempre, proprio come la teneva sempre d'occhio. Quando eri a capo della sicurezza di un locale la gente aveva la tendenza a voler sapere dov'eri. «Come va?» fece Xhex. Lui si strinse nelle spalle giocherellando con la bottiglia di Corona. Scommetto che vorresti avere un'etichetta da staccare, eh?, pensò Xhex. «Ti spiace se ti chiedo una cosa?» Lui spalancò leggermente gli occhi, ma fece di nuovo spallucce. «Perché non vai mai nel retro con i tuoi amici?» Non erano affaracci suoi, naturalmente e, soprattutto, non sapeva perché le interessasse tanto. Ma che cavolo... forse era tutta colpa del primo-martedì-del-mese. Cercando di non pensarci, faceva di tutto per aggrapparsi a qualcos'altro. «Tu alle ragazze piaci», proseguì. «Ho visto come ti squadrano. E anche tu le guardi, però poi te ne stai sempre qui.» John Matthew avvampò; il rossore del viso era visibile anche nella penombra della sala. «Sei già impegnato?» mormorò, ancora più curiosa. «Il re ti ha già trovato una femmina?» 148 Lui scosse la testa. Okay, doveva lasciarlo in pace. Quel poveretto era muto, come diavolo si aspettava che le rispondesse? «Voglio subito il mio drink!» La stentorea voce maschile sovrastò la musica e Xhex voltò la testa di scatto. Due divanetti più in là, uno sbruffone grande e grosso avanti con gli anni, in compagnia di altri nonnetti, se l'era presa con una cameriera, pronto a salire sul primo treno espresso per Coglionilandia. «Scusa un attimo», disse Xhex rivolta a John. Quando lo smargiasso allungò la zampaccia da orso e agguantò la cameriera per la gonna, la poveretta perse il controllo del vassoio e i cocktail volarono per aria. «Ho detto, dammi subito il mio drink!» Xhex si piazzò dietro la cameriera, sorreggendola. «Non preoccuparti. Adesso se ne va.» L'omone si alzò rumorosamente dal divanetto, ergendosi in tutta la sua statura. Era alto quasi due metri. «Tu dici?» Xhex gli andò sotto fino a ritrovarsi seno-contro-petto e lo guardò dritto negli occhi; il suo istinto di symphath reclamava a gran voce di potersi scatenare, ma lei si concentrò sugli spuntoni metallici che si era stretta intorno alle cosce. Traendo forza dal dolore che infliggeva a se stessa, vinse la propria natura. 149 «Esca subito», intimò in tono pacato, «altrimenti la trascino fuori di qui per i capelli.» L'alito dell'uomo puzzava come un panino al tonno vecchio di un giorno. «Odio le lesbiche. Credete sempre di essere più toste di quello che siete in realt...» Xhex lo afferrò per il polso, lo fece ruotare su se stesso e gli torse il braccio dietro la schiena. Poi gli mise una gamba intorno alle caviglie e con uno spintone gli fece perdere l'equilibrio. L'uomo crollò come un quarto di bue, atterrando sulla moquette a pelo raso, e nell'impatto il fiato gli uscì tutto d'un colpo in un'imprecazione, Con mossa fulminea, Xhex si chinò affondandogli una mano tra i capelli modellati col gel e afferrandolo con l'altra per il bavero della giacca. Trascinarlo a faccia avanti verso l'uscita laterale era un'operazione azzardata su più fronti: stava creando un gran clamore, si stava rendendo colpevole di percosse e rischiava di far scoppiare una rissa se gli altri esponenti di quell'Olimpo di Ritardati Mentali decidevano di correre in soccorso del loro amico. Ma ogni tanto bisognava dare un po' di spettacolo. Tutti i coglioni autorizzati a stare nell'area VIP la stavano osservando, così come i buttafuori, che già di base erano dei tipetti irascibili, e le ragazze che lavoravano nel locale, le quali per la maggior parte avevano più che comprensibili problemi di gestione della rabbia. Per mantenere la pace ogni tanto toccava sporcarsi le mani. 150 E, considerato tutto il gel usato da quello spaccone, alla fine avrebbe dovuto lavarsele ben bene. Giunta davanti all'uscita laterale, accanto al tavolo della confraternita, si fermò per aprire la porta, ma venne anticipata da John che, come un perfetto gentiluomo, la spalancò tenendola aperta per lei. «Grazie», disse Xhex. Fuori nel vicolo rovesciò sulla schiena quel gradasso della malora e gli frugò nelle tasche mentre lui se ne stava lì, lungo disteso, battendo le palpebre come un pesce sul ponte di una nave. Quella perquisizione era un'altra infrazione, da parte sua. All'interno del club Xhex aveva poteri di polizia, ma tecnicamente il vicolo era di proprietà della città di Caldwell. Ma non era tanto questo, il codice d'avviamento postale di quel palpeggiamento era irrilevante: la perquisizione era illegale perché lei non aveva fondati motivi di ritenere che quel tizio fosse in possesso di droga o armi. La legge non autorizzava a perquisire qualcuno solo perché era uno stronzo. Ah... ma vedi, ecco cosa vuol dire dar retta all'istinto. Oltre al portafoglio, gli trovò addosso un bel po' di coca e tre pasticche di ecstasy. Xhex fece dondolare le bustine di cellofan davanti agli occhi dell'uomo. «Potrei farti arrestare.» Sorrise mentre lui cominciava a balbettare. «Sì, sì, certo, non sono tue, non sai come sono finite nelle tue tasche, sei innocente come un angioletto. Ma guarda sopra quella porta.» 151 Vedendo che il tizio non si muoveva, lo afferrò per la mascella voltandogli la testa di lato. «Vedi quell'occhiolino rosso lampeggiante? Quella è ima teleca-mera di sicurezza. Per cui questa merda...», così dicendo agitò le bustine davanti alla telecamera, poi aprì il portafoglio, «... questi due grammi di cocaina e le tre pasticche di ecstasy che sono usciti ; dal taschino della tua giacca, signor... Robert Finlay... sono stati 'immortalati da una registrazione digitale. Huh... ma guarda, hai due bei bambini. Scommetto che preferirebbero fare colazione con te, domani mattina, invece di mangiare con una babysitter perché tua moglie sta tentando di tirarti fuori di galera.» Gli rimise il portafogli in tasca e trattenne la droga. «Ecco come suggerisco di risolvere la questione: andando ciascuno per la propria strada. Tu non ti fai più rivedere nel mio locale e io non spedisco in gattabuia le tue miserabili palle da strapazzo. Che ne dici? Affare fatto?» Mentre l'umano valutava se accettare l'offerta oppure tentare la sorte, Xhex si alzò in piedi e arretrò leggermente, in modo da potergli sferrare un bel calcio all'occorrenza. Dubitava che fosse necessario, però. Chi si appresta a fare a botte è tutto contratto e con lo sguardo vigile. Lo sbruffone invece era molle come un fico, evidentemente era a corto di energie e anche il suo ego si era sgonfiato. 152 «Vattene a casa», gli disse Xhex. E lui lo fece. Mentre lo guardava allontanarsi goffamente, si infilò la droga nella tasca di dietro dei calzoni. «Ti è piaciuto lo spettacolo, John Matthew?» disse senza voltarsi. Quando lo guardò da sopra la spalla, rimase senza fiato. Gli occhi del ragazzino brillavano nell'oscurità... e lui la fissava con la concentrazione maniacale dei maschi quando hanno voglia di fare sesso. Sesso spinto. Porca... puttana. Non era un ragazzino quello che aveva davanti, t Senza neanche accorgersene si insinuò nella sua mente con un pizzico della sua natura di symphath. John stava pensando a... se stesso su un letto sfatto, con la mano tra le gambe sopra un uccello gigantesco mentre si masturbava fantasticando su di lei. L'aveva fatto un'infinità di volte. Xhex si voltò e gli andò vicino. Quando gli arrivò davanti, lui non indietreggiò, e lei non ne fu sorpresa. In quel momento di cruda tensione erotica non era più un cucciolo impacciato ansioso di tagliare la corda. Era tutto virilità animale, pronto ad affrontarla faccia a faccia. Il che era... oh, accidenti a lei, non era una bella cosa. Proprio. Per. Niente. Cazzo. 153 Mentre lo fissava, voleva dirgli di posare quelle scintillanti biglie azzurre sulle umane del club e di lasciarla fuori da tutta quella storia. Voleva dirgli che lei era molto più che off limits e di piantarla con quelle fantasie. Voleva metterlo in guardia come aveva fatto con tutti gli altri, ad eccezione di quel coriaceo moribondo di Butch O'Neal prima che diventasse un fratello. Invece in un sussurro disse, «La prossima volta che mi pensi in quel modo, dì il mio nome quando vieni. Ti piacerà ancora di più.» Poi si piegò di lato per aprire la porta del club, lasciando strusciare la spalla contro il petto di John. Il roco ansito di lui le rimase a lungo nell'orecchio. Tornando al lavoro, si disse che era tutta accaldata per lo sforzo di trascinare fuori dal locale quella testa di cazzo. Quella vampata di calore non c'entrava assolutamente niente con John Matthew. Quando Xhex rientrò nel club, John rimase lì impalato come un maledetto idiota. Più che logico. Quasi tutto il suo sangue era defluito dal cervello nell'erezione dentro i jeans effetto usato A & F nuovi di pacca. Il resto gli era salito in faccia. Il che significava che il cervello era a secco. Xhex aveva capito cosa faceva quando pensava a lei. Ma come cavolo faceva a saperlo? 154 Uno dei Mori di guardia all'ufficio di Rehvenge si avvicinò. «Sei dentro o fuori dalla porta?» John si trascinò fino al divanetto, trangugiò la Corona in due sorsate e fu lieto di vedere una cameriera avvicinarsi con un'altra birra senza che l'avesse ordinata. Xhex era sparita nella parte principale del club, e lui la cercò con gli occhi, sforzandosi di vedere attraverso la cascata ornamentale che separava i VIP dagli altri clienti. Non aveva bisogno di vederla per sapere dov'era, comunque. Avvertiva la sua presenza. In mezzo a tutti quei corpi, sapeva qual era il suo. Xhex era al bar. Dìo, il fatto che riuscisse a malmenare un tizio grosso il doppio di lei senza neanche versare una goccia di sudore era eccitante da morire. Il fatto che non apparisse offesa per le sue fantasie erotiche su di lei era un sollievo. Il fatto che lo avesse invitato a dire il suo nome quando veniva gli... faceva venir voglia di venire seduta stante. Questo rispondeva alla domanda che si era posto qualche ora prima, no? Se preferiva il sole o il temporale. E gli diceva esattamente cosa avrebbe fatto appena arrivato a casa. 155 Capitolo 9 Fuori dal variegato mosaico delle fattorie nei sobborghi rurali di Caldwell, a nord delle cittadine lungo le sponde serpeggianti del fiume Hudson, a tre ore circa dal confine canadese, i Monti Adirondack si ergevano maestosi. Con le cime e i fianchi coperti di pini e di cedri, la catena montuosa era stata originata dai ghiacciai allungatisi oltre la frontiera con l'Alaska, prima che quest'ultima prendesse il nome di Alaska e prima che esistessero urbani o vampiri in grado di chiamarla frontiera. Allorché l'ultima era glaciale si era ritirata dentro i libri di storia destinati a essere scritti molto tempo dopo, le grandi vallate rimaste nel terreno si erano riempite delle acque derivanti dallo scioglimento degli iceberg. Nel corso delle generazioni successive gli umani avevano assegnato dei nomi a quelle immense pozze geologiche, nomi come Lago George, Lago Champlain, Lago Saranac e Lago Blue Mountain. Gli umani, quei fastidiosi parassiti prolifici come conigli, con le loro nidiate di bambini, si erano stanziati nel corridoio del fiume Hudson, in cerca di acqua al pari di molti altri animali. Col passare dei secoli spuntarono delle città e s'impose la "civiltà", con tutte le sue intrusioni nell'ambiente. 156 Le montagne, tuttavia, erano rimaste sovrane. Anche nell'era dell'elettricità e della tecnologia, delle automobili e del turismo, gli Adirondack dominavano il paesaggio di quel tratto settentrionale dello Stato di New York. Per questo sopravvivono tanti angoli poco frequentati nel folto di quelle foreste. Lungo la I-87, altrimenti detta Northway, Via del Nord, le uscite diventano sempre più rade finché capita di fare anche dieci, quindici, venti chilometri senza poter uscire dall'interstatale. E se metti la freccia e imbocchi una bretella sulla destra, trovi solo un paio di botteghe, un benzinaio e due o tre case. È facile nascondersi, sugli Adirondack. Anche per i vampiri è facile nascondersi, sugli Adirondack. A fine nottata, mentre il sole si apprestava a fare la sua grandiosa, sensazionale entrata in scena, un vampiro attraversava da solo i fitti boschi del Monte Saddleback, trascinando il corpo avvizzito come anni prima avrebbe trascinato un sacco dell'immondizia. La fame era la sola cosa che lo spingeva a muoversi, ad aprirsi un varco tra i rami, l'istinto primordiale per il sangue ciò che lo teneva in piedi. Poco più avanti, in un intrico di rami di pino, la sua preda era tesa, nervosa. 157 Il cervo sapeva di essere braccato, ma non riusciva a vedere chi gli dava la caccia. Alzò il muso e fiutò l'aria, muovendo le orecchie avanti e indietro. La notte era gelida, lì al nord, e a quelle altitudini. Vestito di stracci, il vampiro batteva i denti e aveva le unghie cianotiche, ma anche potendo non si sarebbe coperto meglio. L'unica sua concessione all'esistenza era soddisfare la sete di sangue. Non si sarebbe mai tolto la vita. Molto tempo prima aveva sentito che chi moriva suicida non veniva ammesso nel Fado, e invece era lì che lui voleva finire. Quindi trascorreva le giornate tra dolori e stenti, in attesa di morire di fame o in seguito a ima ferita. Ma era un processo maledettamente lungo. D'altronde, la fuga dalla sua vecchia vita, mesi e mesi prima, lo aveva condotto in quei boschi per errore più che per una precisa volontà. Nelle sue intenzioni doveva finire altrove, in un luogo ancora più pericoloso. Anche se non ricordava neanche più dove. Il fatto che i suoi nemici non si fossero spinti così lontano sugli Adirondack inizialmente lo aveva salvato, ma adesso era fonte di frustrazione. Era troppo debole per smaterializzarsi a destra e a manca nel tentativo di trovare qualche lesser, e gli mancavano le energie per camminare a lungo. Era bloccato lì, sulle montagne, in attesa che la morte lo trovasse. 158 Durante il giorno si proteggeva dal sole dentro una grotta, una ferita nel granito della montagna era il suo rifugio. Non dormiva molto. La fame e i ricordi lo tenevano impietosamente sveglio e vigile. Qualche metro più in là, la sua preda si allontanò di altri due passi. Inspirando a fondo, il vampiro cercò di chiamare a raccolta le forze. Se non ce la faceva adesso per quella notte era finita, e non solo perché il cielo cominciava a rischiararsi, a est. In un baleno scomparve e riprese forma accanto al collo del cervo. Agguantandolo per lo snello garrese, affondò le zanne nella giugulare che correva su dal cuore tremante e atterrito dell'animale. Non uccise la magnifica bestia. Bevve solo quel tanto che gli bastava per sopravvivere un altro giorno gramo e un'altra notte ancora più grama. Quand'ebbe finito, spalancò le braccia e lasciò libero il cervo, che scappò via saltellando. Il vampiro restò in ascolto della sua rumorosa fuga attraverso la boscaglia, invidioso della libertà dell'animale. La forza ricavata dal suo sangue era ben poca cosa. Ultimamente l'energia spesa per nutrirsi e ciò che ne ricavava in cambio erano quasi alla pari. Il che significava che la fine doveva essere prossima. Il vampiro si sedette sul letto di aghi di pino e attraverso i rami guardò il cielo notturno. Per un attimo 159 immaginò che il firmamento non fosse scuro, ma bianco, e che le stelle lassù non fossero freddi corpi celesti che riflettevano la luce, ma le anime dei morti. Immaginò di vedere il Fado. Lo faceva spesso, e in quella sconfinata distesa di puntini luminosi sopra la sua testa localizzò i due che considerava suoi, i due che gli erano stati strappati via con la forza: un paio di stelle, una più grande e splendente, l'altra più piccola e più incerta. Se ne stavano vicine, come se la più piccola cercasse il riparo di sua m... Il vampiro non riuscì a pronunciare quella parola. Neanche mentalmente. Proprio come non riusciva a dire i nomi che associava alle due stelle. Ma in fondo non importava. Quelle due stelle erano sue. E presto le avrebbe raggiunte. 160 Capitolo 10 La sveglia accanto a Phury segnò il passaggio di un altro minuto e sul display digitale si formò come una fila di stuzzicadenti: le undici e undici del mattino. Phury controllò la sua scorta segreta. Si era ridotta ai minimi termini e, per quanto fosse strafatto, gli prese un colpo. Fece un po' di calcoli cercando di fumare più lentamente. Erano più o meno sette ore che pescava ininterrottamente dal sacchetto di fumo rosso... quindi, a occhio e croce, sarebbe rimasto a secco intorno alle quattro del pomeriggio. Il sole tramontava alle sette e mezzo. Poteva essere allo ZeroSum non prima delle otto. Quattro ore di zona morta. O, per essere più precisi, quattro ore che rischiava di vivere un po' troppo lucidamente. Se vuoi, disse il mago, posso leggerti una favola. È una cannonata. Un vampiro prende a modello il padre alcolizzato, finisce morto in un vicolo. Nessuno lo piange. Un classico, praticamente shakespeariano. Ma forse l'avevi già sentita, socio? Phury alzò il volume di "Donna non vidi mai" e aspirò a fondo. 161 Quando la voce del tenore si alzò, secondo le indicazioni di Puccini, pensò a come cantava Z. Che voce aveva, suo fratello. Come l'organo di una chiesa, la sua estensione spaziava dagli alti più puri a bassi così profondi da trasformare il midollo spinale in un timpano; gli bastava sentire una cosa una volta per riprodurla fedelmente, poi arricchiva la melodia con qualche apporto originale oppure si inventava qualcosa di completamente nuovo. Tutto era il suo forte: la lirica, il blues, il jazz, il buon vecchio rock and roll. Era una radio vivente. Nel tempio della confraternita era sempre lui a guidare i canti dei fratelli. Era dura pensare che non avrebbe mai più sentito quella voce nella grotta sacra, pensò Phury. O anche in casa, a pensarci bene. Erano mesi che Z non cantava più; troppo in ansia per Bella, non era in vena di imitare Tony Bennett, probabilmente, ed era impossibile prevedere se i suoi concerti estemporanei sarebbero ricominciati o meno. Tutto dipendeva dal destino di Bella. Phury diede un altro tiro allo spinello. Dio, che voglia di andare a trovare Bella. Voleva accertarsi che stesse bene e ima conferma visiva era ben diversa dal ripetersi ossessivamente "nessuna nuova, buona nuova". Ma non era in condizione di farle visita, e non solo perché era fumato. Si portò le mani al collo e tastò i segni lasciati dalla catena che il lesser gli aveva stretto intorno 162 alla gola. Guariva in fretta, ma non così in fretta, e Bella ci vedeva benissimo. Non c'era motivo di allarmarla. E poi di sicuro con lei c'era Z e un faccia a faccia col suo gemello era troppo rischioso, visto com'erano finite le cose in quel vicolo. Un rumore sopra il comò gli fece alzare la testa. All'altro capo della stanza il medaglione del Primale stava vibrando; l'antico talismano d'oro fungeva da cercapersone. Phury lo guardò muoversi sopra il mobile, danzando in circolo come se stesse cercando un cavaliere tra le spazzole d'argento accanto a cui lo aveva posato. Non aveva voglia di andare dall'Altra Parte. Neanche un po'. Essere cacciato dalla confraternita bastava, per quel giorno. Finì lo spinello, si alzò e uscì. In corridoio, per abitudine, guardò la porta di Cormia. Era leggermente socchiusa, cosa insolita. Sentì un rumore, come di un tessuto che sbatteva. Si avvicinò e bussò sullo stipite. «Cormia? Stai bene?» «Oh! Sì... sì, sto bene.» La voce giungeva ovattata. Quando lei non aggiunse altro, Phury si sporse in avanti. «Hai la porta aperta.» Be', che genio. «Vuoi che la chiuda?» «Non l'ho fatto apposta.» 163 «Ti spiace se entro?» fece Phury, chiedendosi com'era andata con John Matthew. «Prego.» Lui spalancò la porta... Oh... perbacco. Seduta a gambe incrociate sul letto, Cormia si stava intrecciando i capelli bagnati. Vicino a lei c'era un asciugamano, che spiegava il rumore di poco prima, e la tunica... la tunica si apriva sul davanti in una profonda V che rischiava di mettere in mostra le morbide rotondità dei seni. Di che colore aveva i capezzoli? Phury si affrettò a distogliere lo sguardo. E notò una rosa color lavanda dentro un vaso di cristallo, sul comodino. Senza una ragione, sentì una stretta al petto e si accigliò. «Allora, ti sei divertita insieme a John?» «Sì. Lui è stato molto carino.» «Ah, sì?» Cormia annuì, annodando un nastro di raso bianco in fondo alla treccia. Nel chiarore soffuso dell'abat-jour la grossa treccia brillava come oro. Gli spiacque vedere che la arrotolava alla base del collo, avrebbe voluto poterla ammirare ancora un po', ma si consolò con i riccioli ribelli che le incorniciavano il viso. 164 Che splendido soggetto per un disegno, pensò, rimpiangendo di non avere sottomano carta e penna. Strano... sembrava diversa. Forse perché le guance erano colorite. «Che cosa avete fatto?» «Io sono corsa fuori in giardino.» Phury si accigliò ancora di più. «Perché qualcosa ti ha spaventato?» «No, perché ero libera di farlo.» Lui ebbe una fugace visione di Cormia che correva sull'erba del prato, coi capelli che svolazzavano alle sue spalle. «E John che cosa ha fatto?» «È rimasto a guardare.» Ah. Prima che Phury potesse dire qualcosa, lei proseguì, «Avevate ragione, è molto gentile. Stasera mi farà vedere un film.» «Ah, sì?» «Mi ha insegnato a usare la televisione. E guardate cosa mi ha regalato.» Allungò il polso mostrandogli un braccialettino d'argento costellato di perline color lavanda. «Non ho mai avuto niente di simile. Solo la mia perla da Eletta.» Così dicendo, sfiorò l'iridescente perla a goccia che portava al collo. Phury socchiuse gli occhi. Lo sguardo di 165 Cormia era privo di malizia, puro e incantevole come il bocciolo di rosa dall'altra parte della stanza. Di fronte alle premure di John, Phury vide con chiarezza ancora maggiore quanto l'aveva trascurata. «Chiedo scusa», disse piano lei. «Adesso lo tolgo...» «No. Ti dona. Moltissimo.» «John ha detto che è un regalo», mormorò Cormia. «Mi piacerebbe tenerlo.» «Ma certo.» Con un profondo sospiro, Phury si guardò intorno e notò una complessa struttura fatta di stuzzicadenti... e piselli? «Che cos'è quello?» «Ah... sì.» Cormia si avvicinò in fretta, quasi a voler proteggere quel coso, qualunque cosa fosse. «Che cos'è?» «È quello che c'è nella mia testa.» Si voltò verso Phury. Poi si voltò dall'altra parte. «È solo una cosa che ho cominciato a fare.» Phury attraversò la stanza e si inginocchiò accanto a lei. Con cautela fece scorrere un dito lungo un paio di colonne. «È fantastico. Sembra la struttura di una casa.» «Vi piace?» Cormia si inginocchiò. «L'ho fatto così, tanto per fare.» «Mi piace l'architettura, l'arte. E questo... le linee sono magnifiche.» 166 Cormia piegò la testa esaminando l'opera e Phury sorrise, pensando che anche lui faceva lo stesso con i suoi disegni. D'impulso disse, «Ti piacerebbe venire alla galleria delle statue? Stavo giusto andando a farci un giro. È subito dopo lo scalone.» Quando Cormia alzò gli occhi su di lui, c'era una consapevolezza, nel suo sguardo, che lo colse alla sprovvista. Forse la differenza non stava nel suo aspetto, si rese conto Phury, ma nel modo in cui lo guardava. Merda, forse John le era piaciuto per davvero. Piaciuto, piaciuto, nel vero senso della parola. Quello sì che sarebbe stato un pasticcio. «Mi piacerebbe venire con voi», disse Cormia. «Mi piacerebbe molto vedere l'arte.» «Bene. Molto... bene. Andiamo.» Phury si raddrizzò e le tese la mano, senza motivo apparente. Un istante dopo lei fece scivolare il palmo nel suo. Quando le loro dita si strinsero, Phury si rese conto che l'ultimo contatto fisico che avevano avuto era stato quel mattino pazzesco, a letto, quando lui aveva fatto quel sogno erotico e si era svegliato tutto eccitato addosso a lei. «Coraggio», mormorò, guidandola verso la porta. 167 Uscirono in corridoio; Cormia non riusciva ancora a credere che il Prunaie l'avesse presa per mano. Desiderava da così tanto tempo un po' di intimità con lui che le pareva surreale avere ottenuto non solo quella, ma un vero contatto fisico. Mentre si dirigevano verso la galleria dove si era già avventurata, lui le lasciò andare la mano, ma le rimase vicino. L'andatura claudicante si notava appena, era solo un piccolo neo nel suo incedere elegante e, come al solito, ai suoi occhi era più bello di qualsiasi opera d'arte. Era in pensiero per lui, però, e non solo per quello che aveva origliato per caso. I vestiti che aveva addosso non erano quelli che portava a tavola. I pantaloni di pelle e la camicia nera erano la sua tenuta da combattimento, ed erano macchiati. Sangue, pensò Cormia. H suo e quello dei nemici della razza. Ma c'era di peggio. Aveva un livido rossastro intorno al collo, come se in quel punto la pelle avesse subito un danno, e anche delle escoriazioni sul dorso delle mani e sul viso. Cormia ripensò a ciò che il suo re aveva detto di lui. È un pericolo per se stesso e per gli altri. «Mio fratello Darius era un collezionista d'arte», spiegò Phury mentre passavano davanti allo studio di 168 Wrath. «Come tutto il resto in questa casa, queste statue erano tutte sue. Adesso appartengono a Beth e a John.» «John è figlio di Darius, figlio di Marklon?» «Sì.» «Ho letto di Darius.» E di Beth, la regina, sua figlia. Ma su John Matthew non c'era niente. Strano... in quanto figlio del guerriero, avrebbe dovuto comparire sulla prima pagina del volume a lui dedicato, insieme al resto della sua progenie. «Hai letto la biografìa di Darius?» «Sì.» Era andata in cerca di informazioni su Vishous, il fratello a cui in origine era stata promessa. Se avesse saputo chi era destinato a diventare Primale, tuttavia, avrebbe cercato tra le file di volumi rilegati in cuoio rosso quelli dedicati a Phury, figlio di Ahgony. Il Primale si fermò all'inizio della galleria delle statue. «Cosa fate quando muore un fratello?» chiese. «Cosa fate dei suoi libri?» «Tutte le pagine bianche vengono contrassegnate con un chrih, un simbolo nero, e sulla prima pagina del primo volume viene annotata la data del decesso. Ci sono anche delle cerimonie. Le abbiamo celebrate per Darius e aspettiamo... riguardo a Tohrment, figlio di Hharm.» Phury annuì recisamente e avanzò, come se non avessero discusso niente di particolarmente importante. «Per quale motivo me lo chiedete?» disse Cormia. 169 Ci fu una pausa. «Queste statue sono tutte del periodo grecoromano.» Cormia si strinse al collo le falde della veste. «Ah, sì?» Il Primale oltrepassò le prime quattro statue, compresa quella completamente nuda, ringraziando la Vergine Scriba, e si fermò vicino a quella cui mancavano alcune parti. «Sono un tantino mal-conce, ma considerato che hanno più di duemila anni, è un miracolo che siano sopravvissute anche solo in parte. Ehm... spero che la nudità non ti offenda...» «No.» Ma era lieta che lui ignorasse come aveva toccato la statua nuda. «Io le trovo bellissime, vestite o meno. E non mi importa se sono imperfette.» «Mi ricordano la casa dove sono cresciuto.» Cormia restò in attesa, acutamente consapevole di quanto desiderava che terminasse quel pensiero. «Come mai?» «Avevamo anche noi delle statue, in giardino.» Phury si accigliò. «Però erano coperte di rampicanti. Tutto il giardino lo era. Rampicanti dappertutto.» Il Primate riprese a camminare. «Dove siete cresciuto?» chiese Cormia. «Nel Vecchio Continente.» «I vostri genitori...» 170 «Queste statue sono state acquistate negli anni quaranta e cinquanta. Darius attraversò una fase tridimensionale e, visto che aveva sempre odiato l'arte moderna, comprò queste.» Giunti alla fine della galleria, Phury si fermò di fronte alla porta di una delle camere da letto e la fissò. «Sono stanco.» In quella stanza c'era Bella, pensò Cormia. Era evidente dall'espressione sul volto del Primole. «Avete mangiato?» chiese, pensando che sarebbe stato bello spingerlo dalla parte opposta. «Non ricordo.» Phury abbassò gli occhi sui suoi piedi, protetti da un paio di pesanti stivali. «Dio... buono. Non mi sono neanche cambiato.» C'era una strana nota sorda nella sua voce, come Se quella scoperta lo avesse svuotato. «Avrei dovuto cambiarmi. Prima di farti fare questo giro.» Allunga il braccio, si disse Cormia. Allungalo e prendilo per mano. Come ha fatto lui con te. «Dovrei cambiarmi», disse piano il Primole. «Devo assolutamente cambiarmi.» Cormia trasse un profondo respiro e, allungando il braccio, gli afferrò la mano. Era gelida. In modo allarmante. «Torniamo in camera vostra», disse. «Torniamo lì.» 171 Lui annuì, ma non si mosse; prima di rendersene conto Cormia lo stava guidando. O quanto meno guidava il suo corpo. La sua mente era da un'altra parte, lo sentiva. Lo accompagnò in camera sua, entro i confini di marmo del bagno, e quando lo fece fermare lui rimase dove lo aveva lasciato, di fronte ai due lavandini e al grande specchio. Quando Cormia si voltò verso la camera a spruzzo che loro chiamavano doccia, lui restò in attesa, con inconsapevolezza più che con pazienza. Quando il getto d'acqua fu abbastanza caldo sulla sua mano, Cormia si voltò verso di lui. «È tutto pronto, Vostra grazia. Potete lavarvi.» Gli occhi gialli del Primole erano fissi davanti a sé, in uno degli specchi, ma sul suo bel viso non c'era un barlume di riconoscimento. Era come se riflesso nello specchio lui vedesse un estraneo, un estraneo di cui non si fidava e che non approvava. «Vostra grazia?» lo chiamò Cormia. La sua immobilità era allarmante; se non fosse stato in piedi avrebbe controllato se gli batteva ancora il cuore. «Vostra grazia, la doccia.» Puoi farcela, si disse Cormia. «Permettete che vi spogli, vostra grazia?» Lui annuì appena; allora lei gli si piazzò davanti e con qualche esitazione alzò le mani sui bottoni della camicia. Uno dopo l'altro li slacciò; l'indumento nero a poco a poco si aprì mettendo in mostra l'ampio petto. Giunta all'ombelico, sfilò la camicia dai calzoni 172 e continuò a sbottonarla. Lui restò immobile per tutto il tempo, senza opporre la minima resistenza, gli occhi fissi sullo specchio anche quando lei spalancò la camicia facendola scivolare giù dalle spalle. Nella luce soffusa del bagno era magnifico, nessuna delle statue reggeva il paragone con lui. Il petto era enorme, le spalle larghe quasi tre volte quelle di lei. La cicatrice a forma di stella sul pettorale sinistro sembrava incisa nella pelle, altrimenti liscia e glabra; le venne voglia di toccarla, di fare scorrere il dito sulle punte che si diramavano dal centro di quel marchio. Le venne voglia di premere le labbra in quel punto, di premerle sul suo cuore. Sopra il distintivo carnoso della confraternita. Posò la camicia sul bordo della vasca panciuta, in attesa che il Primale finisse di spogliarsi. Ma lui non fece niente del genere. «Posso... togliervi i calzoni?» Lui annuì. Le tremavano le dita mentre slacciava la fibbia della cintura, poi il bottone dei pantaloni. Il corpo del Primole si spostava avanti e indietro sotto i suoi strattoni, ma non 173 di molto, e lei rimase impressionata da quant'era massiccio. Santissima Vergine Scriba, che buon odore aveva. La lampo di rame scendeva lentamente; per via della posizione il da cui lavorava, Cormia dovette tenere unite le due metà della cin tura. Quando le lasciò andare la patta si aprì. Sotto i pantaloni il Primale portava un indumento nero e aderente che gli copriva i lombi, il che fu un sollievo. Più o meno. Nel vedere il rigonfiamento del suo sesso, Cormia deglutì a fatica. Stava per chiedergli se doveva continuare quando guardò in su e si accorse che lui era andato, completamente. O finiva di spogliarlo o si sarebbe infilato sotto la doccia mezzo vestito. Gli tirò giù i calzoni fino alle ginocchia, gli occhi fissi sul membro protetto da quel cotone morbido e nero. Ricordò cos'aveva provato quando il Primale si era stretto contro di lei, nel sonno. Quello che guadava adesso, allora le era parso molto più grosso, ed era rigido mentre le premeva contro il fianco. Quello era il cambiamento dovuto all'eccitazione, giusto? Nella sua austera lezione sul rituale di accoppiamento la Direttrice precedente aveva illustrato 174 fin nei minimi particolari cosa accadeva ai maschi che si apprestavano a fare sesso. Aveva descritto nel dettaglio anche il dolore che quella verga indurita procurava alle femmine. Sforzandosi di non pensarci, Cormia si mise in ginocchio per sbarazzarsi dei pantaloni e si accorse che prima avrebbe dovuto togliergli gli stivali. Aprendosi un varco tra le pieghe di pelle intorno alle caviglie, riuscì a sfilare il primo stivale appoggiandosi alle gambe del Primate e costringendolo a spostare il peso da un piede all'altro. Si accinse a ripetere l'operazione dall'altra parte... e trovò il piede fìnto. Continuò imperterrita, senza fermarsi. Non le importava che il Primale fosse mutilato, anche se era curiosa di sapere come si era procurato una menomazione tanto grave. Doveva essere successo in combattimento. Che gran sacrificio per la razza... I pantaloni vennero via come gli stivali: con una maldestra serie di strattoni che il Primale non parve notare. Si limitava a stare in equilibrio sul piede che lei gli lasciava poggiato per terra, solido come una quercia. Quando alla fine Cormia guardò di nuovo in su, sul suo corpo erano rimaste solo due cose: l'indumento nero che intorno all'elastico aveva scritto Calvin Klein, e le barre e il piede di metallo che colmavano il vuoto tra il ginocchio destro e il pavimento di marmo. Cormia andò ad aprire la porta della camera a spruzzo. «Vostra grazia, il bagno a cascata è pronto.» 175 II Primale voltò la testa verso di lei. «Grazie.» Si tolse rapido ciò che gli copriva le pudenda e avanzò verso di lei, nudo. Cormia rimase senza fiato. Il grosso membro penzolava lungo e floscio, la punta arrotondata dondolava leggermente. «Resti qui mentre mi faccio la doccia?» disse lui. «Cos... ehm, volete che resti?» «Sì.» «Allora... sì, resterò.» 176 Capitolo 11 Il Primale scomparve dietro il vetro e Cormia lo guardò arretrare verso il getto della doccia, la magnifica chioma appiattita via via che si bagnava. Con un gemito, lui inarcò la schiena e si portò le mani alla testa, piegando il corpo in una curva elegante e poderosa insieme mentre l'acqua gli scorreva tra i capelli e sul petto. Cormia si morse il labbro mentre lui allungava la mano di lato per afferrare una bottiglia. Ci fu come un risucchio quando la spremette sul palmo una... due volte. Poi la rimise a posto e si portò le mani alla testa massaggiandosi i capelli. Grumi schiumosi gli scivolarono lungo le braccia, gocciolando giù dai gomiti sulle piastrelle ai suoi piedi. L'odore speziato che invase la stanza le ricordò l'aria del giardino. Con le ginocchia tremanti e la pelle calda come l'acqua che lo avvolgeva, Cormia si mise a sedere sul bordo in marmo della Jacuzzi. Il Primale prese una saponetta, si insaponò le mani e si lavò braccia e spalle. Dal profumo Cormia capì che era lo stesso tipo di sapone che usava lei, e si combinava magnificamente con quella cosa che aveva usato per lavarsi i capelli. Con grande disappunto si scoprì gelosa della schiuma che scorreva sul torace, sui fianchi e sulle cosce lisce e 177 robuste del Primale, e si chiese se le avrebbe permesso di unirsi a lui. Impossibile saperlo con certezza. A differenza di alcune tra le sue sorelle, lei non era in grado di leggere nel pensiero. Ma davvero pensava di poter stare di fronte a lui, con le mani sulla sua pelle, sotto quel getto caldo...? Sì. Sì che poteva. Il Primale scese più giù con la saponetta, sul petto e sullo stomaco. Poi strinse quello che aveva in mezzo alle cosce, passando le mani sopra e sotto il sesso. Come per il resto delle sue abluzioni, si muoveva con deludente economia. Era una strana forma di tortura, una dolce sofferenza osservarlo in un momento tanto intimo. Voleva che durasse in eterno, ma sapeva che avrebbe dovuto accontentarsi dei ricordi. Quando il Primale chiuse il rubinetto e uscì, Cormia si affrettò a tendergli un asciugamano per coprire quel membro pesante e pendulo. I muscoli si flettevano sotto alla pelle dorata, gonfiandosi vistosamente per poi distendersi mentre si asciugava. Si avvolse la salvietta intorno ai fianchi, ne prese un'altra e si asciugò i capelli, frizionando avanti e indietro le folte onde bagnate. Nel silenzio della stanza di marmo lo sbatacchiare del tessuto di spugna era quasi assordante, pensò Cormia. O forse era il battito frenetico del suo cuore. 178 Alla fine il Primale aveva i capelli tutti ingarbugliati, ma non parve notarlo quando si voltò verso di lei. «Adesso dovrei andare a letto. Ho quattro ore da riempire e tanto vale che cominci subito.» Cormia non capiva cosa intendesse dire, ma annuì. «Va bene, ma avete i capelli...» Lui li toccò e soltanto allora parve accorgersi che erano incollati al cranio. «Volete che ve li spazzoli?» si offrì lei. Una strana espressione si dipinse sul suo volto. «Se ti fa piacere. Qualcuno... qualcuno una volta mi ha detto che li maltratto troppo.» Bella, pensò Cormia. Era stata Bella a dirglielo. Non sapeva da dove le derivasse quella certezza, ma ne era più che sicura... Oh, ma chi voleva prendere in giro? C'era una nota struggente nella voce di lui, ecco come faceva a saperlo. Quel tono era l'equivalente verbale di quello che il Primale aveva negli occhi quando si sedeva a tavola, in sala da pranzo, di fronte a Bella. Per quanto potesse apparire meschino, Cormia voleva spazzolare quelle ciocche per sostituirsi a Bella. Voleva sovrapporre il proprio ricordo a quello che lui aveva dell'altra femmina. 179 La possessività era un problema, ma non poteva cambiare ciò che provava. II Primale le porse una spazzola; Cormia si aspettava che si sedesse sul bordo della vasca, invece lui andò a mettersi sulla dormeuse vicino al letto. Posò le mani sulle ginocchia, piegò la testa all'indietro e attese che lei lo raggiungesse. Mentre si avvicinava, Cormia pensò alle centinaia di volte che aveva spazzolato i capelli delle sue sorelle, nella sala da bagno. In quel momento, tuttavia, non era sicura di saper usare quell'arnese munito di setole che stringeva in mano. «Ditemi se vi faccio male», disse. «Non succederà.» Il Primale allungò la mano e prese un telecomando. Premette un pulsante e quella musica che ascoltava sempre, l'opera, invase la stanza. «Che meraviglia», esclamò Cormia, lasciandosi pervadere dalla voce del tenore. «Che lingua è?» «Italiano. È Puccini. Una canzone d'amore. Parla di un uomo, un poeta, che incontra una donna con due occhi che gli rubano l'unica ricchezza che ha... Basta uno sguardo in quegli occhi e tutti i suoi sogni, le visioni e i castelli in aria gli vengono rubati da lei e sostituiti dalla speranza. Adesso le sta dicendo chi è lui... e alla fine dell'assolo le chiederà chi è lei. «Qual è il titolo della canzone?» «"Che gelida manina."» 180 «La ascoltate spesso, vero?» «È il mio assolo preferito. Zsadist...» «Zsadist cosa?» «Niente.» Il Primale scosse la testa. «Niente...» Mentre la voce del tenore si alzava potente, Cormia allargò i capelli sulle spalle del Primale e, partendo dalle punte, cominciò a spazzolarli con cautela e delicatezza. Il sommesso raschiare delle setole si mescolò all'aria lirica. Il Primale doveva sentirsi confortato da entrambi poiché trasse un sospiro lento e profondo, gonfiando la cassa toracica. i Anche dopo aver districato tutti i nodi, Cormia continuò a spazzolarlo, lisciando le onde con la mano libera. Man mano che si asciugavano, i capelli riacquistarono volume e i colori tornarono vividi, le onde si riformavano dopo ogni colpo di spazzola e a poco a poco riemergeva la criniera che ormai le era tanto familiare. Non poteva continuare a spazzolarlo all'infinito. Che peccato. «Credo di aver finito.» «Non mi hai spazzolato qui davanti.» In realtà l'aveva fatto, più o meno. «Va bene.» Fece il giro e si piazzò di fronte a lui; impossibile ignorare come aveva spalancato le cosce, quasi invitandola a infilarsi dentro. 181 Cormia si insinuò con le gambe nello spazio che le aveva fatto. Lui aveva gli occhi chiusi, le ciglia bionde abbassate sugli alti zigomi, le labbra leggermente schiuse. Alzò la testa verso di lei con lo stesso tipo di invito offerto dalla bocca e dalle ginocchia. E lei lo accolse. Cominciò a spazzolargli i capelli all'indietro. A ogni colpo di spazzola lui contraeva i muscoli del collo per non muovere la testa. Dal palato di Cormia spuntarono le zanne. Subito lui spalancò gli occhi, di un giallo brillante, incontrando il suo sguardo. «Hai fame», disse in tono stranamente gutturale. Lei lasciò ricadere lungo il fianco la mano con la spazzola. Senza voce, si limitò ad annuire. Al Santuario, le Elette non avevano bisogno di nutrirsi. Lì invece il suo corpo reclamava sangue. Ecco perché doveva sempre lottare contro una sorta di letargo. «Perché non me l'hai detto prima?» chiese lui piegando la testa di lato. «Se è perché non mi vuoi, non c'è problema. Possiamo trovare qualcun altro da cui puoi bere.» «Perché... perché non dovrei volere voi?» Il Primale batté la mano sulla gamba artificiale. «Mi manca qualcosa.» 182 Vero, pensò mestamente lei. Gli mancava qualcosa, ma non aveva niente a che fare con l'arto amputato. «Non volevo disturbare», disse. «È questo l'unico motivo. Io vi trovo avvenente, con o senza gamba.» Un guizzo di sorpresa gli illuminò il volto, poi uno strano suono ritmico... simile alle fusa di un gatto... si levò dal suo petto. «Nessun disturbo. Se vuoi attaccarti alla mia vena, puoi farlo.» Cormia rimase impalata, paralizzata dal suo sguardo e dal modo in cui i suoi lineamenti mutarono quando qualcosa s'insinuò nella sua espressione, qualcosa che lei non aveva mai visto sul volto di nessun altro. Lo desiderava, pensò Cormia. Disperatamente. «Inginocchiati», disse lui in un sussurro sensuale. Cormia si mise in ginocchio e la spazzola le cadde di mano. Senza una parola, il Primale si protese verso di lei cingendola tra le possenti braccia. Non la trasse a sé. Le sciolse i capelli, tutti quanti, lo chignon e poi anche la treccia. Mentre le allargava i capelli sulle spalle gli sfuggì un ringhio e Cormia si accorse che tremava tutto. Senza preavviso, l'afferrò per la nuca attirandola contro la propria gola. «Bevi», disse in tono perentorio. 183 Cormia emise un sibilo simile a quello di un cobra e, senza neanche rendersene conto, affondò le zanne nella sua giugulare. Appena lo trafisse, lui si lasciò sfuggire un grido e trasalì. Santa madre delle Parole... Il suo sangue era fuoco, prima in bocca e poi giù in gola, un'ondata travolgente che la invase da dentro, infondendole una forza prima sconosciuta. «Più forte», sibilò lui. «Succhiami...» Cormia fece scivolare le braccia sotto le sue e gli affondò le unghie nella schiena, succhiando avidamente dalla sua vena. Aveva il capogiro... no, un momento, era lui che la stava spingendo all'in-dietro, fino a farla stendere per terra. Non le importava quello che le faceva o come sarebbe andata a finire perché il suo sapore era inebriante, sconvolgente. Non capiva più niente; sapeva solo che lui le stava infondendo la vita, sentiva quella fonte di vita sulle labbra, poi giù in gola e nel ventre, e non le occorreva sapere nient'altro. La tunica... sentì che le sollevava la tunica sui fianchi. Le cosce... si aprivano, questa volta erano le sue cosce ad aprirsi sotto le mani di lui. Sì. Il cervello di Phury era su uno scaffale, da qualche parte, lontano, fuori portata, fuori vista. In quel momento, mentre nutriva quella femmina, era puro istinto, l'uccello sul punto di venire, il suo unico pensiero penetrarla prima che accadesse. 184 All'improvviso tutto, di lei e di lui, era diverso. E urgente. Sentiva il bisogno di entrare dentro di lei in tutte le maniere possibili, e non solo nel modo temporaneo legato al sesso. Sentiva il bisogno di dimenticare se stesso, di marchiarla in modo indelebile, di riempirla del suo sangue e del suo seme per poi ripetere la stessa cosa l'indomani e il giorno dopo e quello dopo ancora. Doveva impregnarla completamente in modo che qualunque idiota sulla faccia della terra sapesse che, se si fosse azzardato ad avvicinarla, avrebbe dovuto vedersela con lui, e lui gli avrebbe fatto sputare tutti i denti e fracassato braccia e gambe. Mia. Phury strappò via i panneggi dell'abito dalla vulva e... Oh, sì, eccola lì. Sentiva il fuoco che saliva e... «Cazzo», gemette. Lei era bagnata, turgida, madida, traboccante di umori. Se ci fosse stato un modo per non farla staccare dalla sua vena mentre la leccava si sarebbe spostato subito. Il meglio che riuscì a fare fu passare la mano sul suo sesso, infilarsela in bocca e succhiare... Rabbrividì nel sentire il suo sapore; leccando e succhiando avidamente le dita spinse in avanti il bacino premendo con delicatezza il glande contro l'ingresso della vagina. 185 Proprio mentre cominciava a penetrarla e già sentiva cedere la sua carne... quello stramaledetto medaglione cominciò a vibrare sul comò accanto a loro. Assordante come una sirena antincendio. Ignoralo, ignoralo, ignora... Cormia staccò la bocca dalla sua gola e alzò gli occhi, sgranati e annebbiati dalla sete di sangue e di sesso, su quel rumore fastidioso. «Che cos'è?» «Niente.» Il medaglione prese a vibrare ancora di più, in segno di protesta. O protestava o stava festeggiando per aver rovinato quel momento magico. Forse era in combutta con il mago. Tante grazie, canterellò il mago. Phury rotolò via da Cormia, coprendola. Con una sequela di violente imprecazioni si spinse all'indietro fino ad appoggiarsi contro il letto, prendendosi la testa tra le mani. Entrambi ansimavano mentre quel pezzo d'oro sbatacchiava tutt'intorno alle spazzole sul cassettone. Quel rumore gli ricordò che non c'era intimità tra lui e Cormia. Il peso della tradizione e del fato era onnipresente e qualunque cosa facessero aveva enormi ripercussioni, molto più grandi del semplice nutrirsi e fare sesso tra un maschio e una femmina. 186 Cormia si alzò in piedi, quasi avesse intuito esattamente cosa stava pensando. «Grazie per avermi concesso la vostra vena.» Non c'era nulla che lui potesse replicare. La sua gola traboccava di bestemmie e frustrazione. Quando la porta si chiuse alle spalle di Cormia, Phury capì perché si era fermato. L'interruzione non c'entrava niente: se avesse voluto, avrebbe potuto continuare. Il punto era che, se andava a letto con lei, poi avrebbe dovuto andare a letto anche con tutte le altre. Prese uno spinello dal comodino e lo accese. Se andava a letto con Cormia, poi non poteva più tornare indietro. Doveva creare quaranta Bella... ingravidare quaranta Elette e poi lasciarle in balia delle doglie e del parto. Doveva essere un amante per tutte loro, un padre per tutti i loro figli e una guida per tutte le loro tradizioni, quando invece si sentiva a malapena in grado di tirare avanti, un giorno dopo l'altro, preoccupandosi solo di se stesso. Fissò la brace incandescente dello spinello. Era uno shock realizzare che avrebbe posseduto Cormia se non ci fosse stato di mezzo nessun altro. A tal punto la desiderava. Si accigliò. Gesù... la desiderava sin dal principio, giusto? 187 Ma non era solo questo. Vero? Pensò a come gli aveva spazzolato i capelli e con grande turbamento si rese conto che in quei momenti era riuscita a calmarlo... e non solo grazie ai colpi di spazzola. La sua sola presenza bastava a rasserenarlo, dal suo profumo di gelsomino al modo armonioso in cui si muoveva, al suono melodioso della sua voce. Nessuno, neanche Bella, riusciva a rilassarlo, ad allentare la tensione che gli stringeva il petto consentendogli di fare un bel respiro profondo. Cormia sì. Cormia ci riusciva. Il che significava che a quel punto la bramava in ogni senso. Che ragazza fortunata, commentò beffardo il mago. Ehi, perché non le dici che vuoi trasformarla nella tua nuova droga d'elezione. Sarà felicissima di sapere che può diventare la tua nuova dipendenza, che vuoi usarla per provare a uscire da quella tua testa incasinata. Sarà euforica, socio, perché questo è il sogno di ogni fanciulla... e poi sappiamo tutti che sei il re dei rapporti sani. Un autentico campione in quel campo. Phury abbandonò la testa all'indietro, aspirò a fondo dalla canna e trattenne il fumo nei polmoni finché non li sentì bruciare come un incendio nel sottobosco. 188 Capitolo 12 Quella sera, quando la notte scese su Caldwell senza attenuare minimamente l'afa, Mr D, nel torrido gabinetto al primo piano della fattoria, si tolse la benda con cui si era fasciato la pancia parecchie ore prima. Sotto, la pelle era molto migliorata. Almeno una cosa andava per il verso giusto, anche se era l'unica. A meno di ventiquattr'ore dalla sua nomina a Fore-lesser si sentiva come se qualcuno avesse pisciato nel serbatoio del suo camioncino, avesse nutrito i suoi cani con carne avariata e dato fuoco al fienile. Avrebbe dovuto restare un soldato semplice. Ma non aveva avuto scelta. Gettò la benda sporca nel secchio da muratore che i due morti evidentemente usavano come cestino per la carta straccia e decise di non sostituirla. Il danno interno era molto grosso, a giudicare dal male che aveva sentito e da quanto era affondato quel pugnale nero. Ma per i lesser il tratto intestinale era carne inutile. Che le sue viscere fossero un groviglio infuocato non aveva nessuna importanza, a patto di arrestare l'emorragia. Ragazzi, la notte prima era uscito vivo per miracolo da quel vicolo. Se nessuno lo avesse fermato, il fratello con i 189 capelli da femminuccia lo avrebbe spinato come un pesce gatto, poco ma sicuro. Qualcuno bussò alla porta, al piano di sotto. Mr D alzò la testa di scatto. Le dieci in punto. Almeno erano puntuali. Si agganciò il cinturone con la pistola, prese lo Stetson e scese le scale. Fuori c'erano tre camioncini e un pick-up nel vialetto in terra battuta e due squadre di lesser sulla veranda anteriore. Lasciò entrare i ragazzi, che lo sovrastavano tutti di almeno una trentina di centimetri; capì subito che non erano per nulla entusiasti della sua promozione. «In salotto», disse. Mentre gli otto non morti gli passavano davanti, Mr D sganciò la fondina della pistola, strinse nel palmo la Magnum calibro 357 e la puntò contro l'ultimo della fila. Premette il grilletto una, due, tre volte. Gli spari risuonarono come tuoni, niente a che fare con i colpi ovattati delle nove millimetri. Le pallottole penetrarono nella schiena del lesser spappolando la spina dorsale e aprendogli un buco nella pancia. Quello cadde con un tonfo sul tappeto lurido, sollevando una nuvoletta di polvere. Rimettendo l'arma nella fondina, Mr D si chiese quand'era l'ultima volta che avevano passato 190 l'aspirapolvere, in quel posto. Probabilmente quando l'avevano costruito. «Temo che dovrò sbrigarmi», disse girando intorno al lesser che si contorceva sul pavimento. Col sangue nero e oleoso che colava sul tappeto marrone, Mr D appoggiò il piede sulla testa del lesser e tirò fuori il frammento di tappezzeria su cui l'Omega aveva impresso l'immagine del loro obiettivo. «Voglio essere sicuro che tutti quanti abbiate capito bene, ieri sera», disse alzando il pezzo di carta da parati. «Dovete trovare questo vampiro. Altrimenti vi faccio fuori uno dopo l'altro e ricomincio con una nuova squadra.» I lesser lo fissavano nel silenzio più totale, come se avessero un solo cervello in comune che faticava a venire a patti con un nuovo ordine mondiale. «Piantatela di guardare me e guardate questa qui, forza.» Così dicendo agitò l'immagine del vampiro. «Portatemelo. Vivo. O giuro su Dio che mi trovo dei nuovi cani da caccia, vi faccio a pezzetti e poi glieli do da mangiare. Ci siamo capiti?» Uno dopo l'altro i lesser annuirono, mentre quello a terra mugolava di dolore. «Bene.» Mr D puntò la canna della Magnum alla testa del lesser ferito e sparò, riducendolo a brandelli. «E adesso muoviamoci.» 191 Una quindicina di miglia a est, nello spogliatoio del centro di addestramento sotterraneo, John Matthew si innamorò. Cosa che mai si sarebbe aspettato potesse accadere in quel luogo in particolare. «Scarpe di Ed Hardy», disse Qhuinn allungandogli un paio di scarpe da ginnastica. «Per te.» John allungò la mano e le prese. Okay, erano uno sballo. Nere. Suola bianca. Teschio su ognuna con il marchio di Hardy nei colori dell'arcobaleno. «Cavolo!» esclamò uno degli altri tirocinanti uscendo dallo spogliatoio. «Dove le hai prese, quelle?» Qhuinn lo guardò con aria saputa, alzando e abbassando le sopracciglia. «Da urlo, eh?» Erano di Qhuinn, pensò John. Probabilmente moriva dalla voglia di portarle e aveva messo da parte i soldi per comprarle. «Provale, John.» Sono fichissime, ma non posso, davvero. Quando anche l'ultimo dei loro compagni di classe fu uscito, la porta si chiuse e Qhuinn lasciò perdere l'aria spavalda. Prese le scarpe, le infilò ai piedi di John e lo guardò. «Mi spiace di averti rotto l'anima, ieri sera. Sì, insomma, sai, da A and F, con quella tipa... sono stato un coglione.» 192 Non c'è problema. «Sì, invece. Avevo la luna di traverso e mi sono sfogato con te, e questo non va bene.» Ecco, Qhuinn era fatto così. Prima magari perdeva le staffe e faceva lo stronzo, poi però si pentiva sempre e riusciva a convincerti che per lui eri la persona più importante sulla faccia della terra e che gli spiaceva sinceramente di averti offeso. Sei proprio un fenomeno. Ma, sul serio, non posso accettare queste. .. «Ma da dove arrivi? Non essere villaaaaaaaaaaano, ragazzo mio. Sono un regalo.» Blay scosse la testa. «Prendile; John, tanto alla fine dovrai arrenderti. Così almeno ci risparmierai le sue pagliacciate.» «Pagliacciate?» Qhuinn balzò su, assumendo la posa di un oratore romano. «Sai distinguere il tuo culo dal tuo gomito, giovane scriba?» Blay arrossì. «E dai...» Qhuinn si gettò addosso a Blay, afferrandolo per le spalle e restando appeso all'amico, a peso morto. «Sorreggimi. Il tuo insulto mi ha lasciato senza fiato. Sono illibato.» Con un grugnito, Blay cercò di tenerlo su. «Vorrai dire allibito.» 193 «Illibato suona meglio.» Blay si sforzava di non sorridere, di non apparire divertito, ma gli occhi gli brillavano come due zaffiri e aveva le guance tutte rosse. Con una risatina silenziosa, John si sedette su una delle panche dello spogliatoio, diede una scrollata ai calzettoni bianchi e se li infilò sotto i jeans nuovi fintovecchio. Sei proprio sicuro, Qhuinn? Perché mi sa che potrebbero andarmi bene e non vorrei che cambiassi idea. Qhuinn si staccò bruscamente da Blay raddrizzandosi i vestiti con uno strattone. «Adesso offendi il mio onore.» Piazzandosi di fronte a John, si mise in posa da spadaccino. «Touché.» Blay rise. «Si dice en garde, scimunito.» Qhuinn gli scoccò un'occhiata da sopra la spalla. «ça va, Bruto?» «Et tu!» «Si dice tutu, credo, e puoi tenerti per te i travestimenti da donna, razza di pervertito.» Qhuinn fece un sorriso radioso, tutto fiero di quella raffica di scemenze. «Adesso mettiti quelle cazzo di scarpe, John, e facciamola finita con questa storia. Prima che ci tocchi mettere Blay in un polmone d'acciaio.» «Vorrai dire sanatorio!» 194 «No, i sanitari non c'entrano.» John si infilò le scarpe; gli andavano a pennello e per certi versi lo facevano sentire più alto, anche se non si era ancora alzato in piedi. Qhuinn annuì compiaciuto, come ammirando un capolavoro. «Ti stanno da Dio. Sai, forse dovremmo aggiungere una nota più rude al tuo vestiario. Qualche catena. Ehi, fatti dei piercing come i miei e aggiungi un po' più di nero...» «Sai perché Qhuinn ha un debole per il nero?» Tutti e tre voltarono la testa di scatto. Lash stava uscendo dalla doccia, un asciugamano bianco davanti alle parti intime, le grosse spalle gocciolanti. «Perché è daltonico, vero, cugino?» Lash si avviò con tutta calma verso il suo armadietto e lo aprì facendo sbattere lo sportello contro quello accanto. «Sa che ha gli occhi di due colori diversi solo perché glielo hanno detto.» John si alzò, notando di sfuggita che le scarpe avevano una aderenza fantastica. Il che, vista l'occhiataccia che Qhuinn aveva scoccato al fondoschiena nudo di Lash, poteva tornare utile nel giro di qualche secondo. «Già, Qhuinn è speciale, non è vero, cugino?» Lash si mise un paio di calzoni mimetici e una maglietta attillata, poi con ostentazione si infilò un anello d'oro con sigillo all'indice della mano destra. «Certa gente proprio non 195 c'entra niente col suo ambiente e non c'entrerà mai. È molto triste che non si rassegni.» «Andiamo via, Qhuinn>, sussurrò Blay. Qhuinn digrignò i denti. «Farai meglio a chiudere il becco, Lash. Sul serio.» John si piazzò di fronte all'amico e a gesti disse Andiamo da Blay a rilassarci un po', okay? «Ehi, John, mi è appena venuta in mente una cosa. Quando quell'umano ti ha stuprato, su quella scala, hai urlato con le mani? Oppure hai ansimato e basta?» John rimase impietrito, devastato rivelazione. Così come i suoi due amici. da quella Nessuno si mosse. Nessuno fiatava. Nel silenzio di tomba dello spogliatoio lo sgocciolio della doccia comune riecheggiava come un tamburo militare. Lash chiuse l'armadietto con un sorriso e guardò gli altri due. «Ho letto la sua cartella clinica. È tutto scritto là dentro. Lo hanno spedito da Havers per fare terapia perché presentava sintomi di» - con le dita fece segno che stava citando alla lettera - « "stress post-traumatico". Allora, dicci, John, quando quel tizio ti ha inculato hai provato a gridare? Eh, John? Ci hai provato o no?» Quello doveva rabbrividendo. essere un 196 incubo, pensò John Lash rise infilandosi gli anfibi. «Ma guardatevi. Tutti e tre lì, imbambolati. I pompinari ritardati.» La voce di Qhuinn assunse un tono che non aveva mai avuto. Senza traccia di baldanza o di collera, era solo gelidamente cattiva. «Farai meglio a pregare che la cosa non salti fuori. Con nessuno.» «Altrimenti cosa? E dai, Qhuinn, sono un primogenito. Mio padre è il fratello maggiore di tuo padre. Credi davvero di potermi toccare? Hmm... naa, neanche un po', caro mio. Neanche un po'.» «Non una parola, Lash.» «Sì, sì, come no. Se adesso volete scusarmi, io andrei. Voi tre poi fate cascare le braccia.» Lash chiuse l'armadietto e andò alla porta. Naturalmente si fermò a guardarli da sopra la spalla, lisciandosi i capelli biondi. «Scommetto che non hai gridato, John. Scommetto che lo hai implorato di continuare. Scommetto che hai supplicato...» John si smaterializzò. Per la prima volta in vita sua si spostò da un punto all'altro nello Spazio, attraverso l'aria. Riprese forma di fronte a Lash piantandosi contro la porta per bloccargli l'uscita, poi si voltò verso i suoi amici Scoprendo le zanne. Lash era suo e suo soltanto. Quando entrambi annuirono, il pestaggio ebbe inizio. Lash era già pronto a incassare il primo colpo, con le mani alzate e il peso sulle cosce. Così, invece di sferrargli un pugno, John Si chinò, si scagliò in avanti e lo 197 agguantò per la vita mandandolo sbattere contro la fila di armadietti. Per nulla turbato, Lash si riprese con una ginocchiata che quasi spaccò la faccia al suo avversario. John incespicò all'indietro, poi ripartì all'attacco afferrando Lash per il collo e conficcandogli i pollici sotto al mento, con forza. Poi gli diede una testata al naso, sfondandoglielo come un geyser, ma Lash rimase impassibile. Col sangue che gli colava in bocca, sorrise; poi sferrò un gancio destro allo stomaco di John che gli infilò il fegato nei polmoni. Volavano pugni a destra e a manca mentre i due sbattevano contro armadietti, panche e pattumiere. A un certo punto un paio di loro compagni provarono a entrare, ma Blay e Qhuinn li spinsero fuori e chiusero la porta a chiave. John afferrò Lash per i capelli, indietreggiò e gli diede un morso in cima alla spalla. Quando si staccò venne via anche un pezzo di carne; i due ruotarono su se stessi, poi Lash unì i palmi sferrando un colpo a due mani alla tempia di John; per l'impatto quest'ultimo finì nella doccia ballando il tip tap, ma prima di cadere riuscì a riprendersi. Purtroppo i suoi riflessi non furono abbastanza pronti da evitargli il cazzotto che lo centrò alla mascella. Fu come essere colpito con una mazza da baseball; soltanto allora si accorse che, chissà come, Lash si era infilato un paio di vecchi tirapugni di ottone - essendo John più grosso di lui, con ogni probabilità quel vantaggio gli serviva. Un altro colpo sul muso e d'un 198 tratto nella sua testa fu il Quattro di Luglio: fuochi d'artificio dappertutto. Prima di riuscire a snebbiare la vista, venne sbattuto con la faccia contro il muro piastrellato della doccia e tenuto fermo. Lash fece per slacciargli la patta. «Cosa ne dici di un replay, caro il mio John?» gracchiò. «Oppure te lo fai mettere nel culo solo dagli umani?» Nel sentire quel corpo massiccio che premeva contro di lui da dietro, John rimase paralizzato. Quel gesto avrebbe dovuto rinvigorirlo, avrebbe dovuto farlo imbestialire. Invece tornò a essere il ragazzino fragile di un tempo, impotente e terrorizzato, in balia di qualcuno molto, molto più grosso di lui. In un baleno si ritrovò su quella squallida rampa di scale, spinto contro il muro, in trappola, sopraffatto. Le lacrime gli pungevano gli occhi. No, questo no... non di nuovo... All'improvviso sentì un grido di guerra, e il peso che lo schiacciava sparì. John cadde in ginocchio e vomitò sul pavimento bagnato. Quando i conati si placarono si lasciò scivolare su un fianco e si raggomitolò in posizione fetale, tremando come la checca che era... 199 Lash era steso a terra proprio accanto a lui... e aveva la gola squarciata. Cercava di respirare, di trattenere il sangue, ma non ci riusciva. John alzò gli occhi, in preda al terrore. Qhuinn li sovrastava entrambi, ansimante. Nella mano destra stringeva un coltello da caccia insanguinato. «Oh, Cristo...» esclamò Blay. «Cosa cazzo hai combinato, Qhuinn?» Che disastro. Che disastro spaventoso, di quelli che ti cambiano la vita. E l'avrebbe cambiata a tutti e tre. Quello che era cominciato come un pestaggio... rischiava di finire con un assassinio. John aprì la bocca per chiamare aiuto. Naturalmente non ne uscì niente. «Vado a chiamare qualcuno», disse Blay correndo fuori. John si rizzò a sedere, si tolse la camicia e si chinò sopra Lash. Tirandogli via le mani, premette l'indumento sulla ferita aperta pregando che l'emorragia si fermasse. Lash lo guardò negli occhi, poi alzò a sua volta le mani quasi a volerlo aiutare. Stai fermo, sillabò John. Stai giù fermo. Sento che arriva qualcuno. 200 Lash tossì e dalla bocca gli uscì un fiotto di sangue che schizzò sul labbro inferiore e colò sul mento. Merda, c'era sangue dappertutto. Ma ci erano già passati, si disse John. Lui e Lash si erano già presi a botte proprio lì, in quella doccia, e anche allora l'acqua si era tinta di rosso, prima di scorrere giù nello scarico. Poi però era finita bene. Ma stavolta no, lo ammonì una voce dentro di lui. Stavolta no... In preda al panico, si mise a pregare per la vita di Lash. Poi pregò che il tempo tornasse indietro. Poi si augurò che fosse tutto un sogno... In piedi vicino a lui c'era qualcuno che lo chiamava per nome. «John?» Guardò in su. Era la dottoressa Jane, il medico privato della confraternita nonché shellan di Vishous. Il suo volto spettrale, traslucido, era calmo, la voce pacata e rassicurante. Quando si inginocchiò divenne solida come lui. «John, ho bisogno che ti sposti così posso dargli un'occhiata, okay? Lascialo andare e fai un passo indietro. Hai fatto un ottimo lavoro, ma adesso devo pensarci io.» John annuì, ma Jane dovette comunque toccargli le mani per costringerlo a lasciare la presa sulla camicia. Qualcuno lo sollevò da terra. Blay. Sì, era Blay. Si capiva dal profumo del dopobarba. Jump by Joop! 201 C'erano molte altre persone nello spogliatoio. Rhage era sulla soglia della doccia e vicino a lui c'era V. E c'era anche Butch. Qhuinn... dov'era Qhuinn? John si guardò intorno e lo vide dall'altra parte della stanza. Non aveva più in mano il coltello insanguinato; accanto a lui torreggiava Zsadist, minaccioso. Qhuinn era ancora più bianco delle piastrelle della doccia, gli occhi di due colori diversi fissi su Lash, sbarrati. «Sei agli arresti domiciliari a casa dei tuoi genitori», gli disse Zsadist. «Se Lash muore, sarai accusato di omicidio.» Rhage si avvicinò a Qhuinn, forse pensando che il tono duro di Z non fosse di grande aiuto. «Dai, figliolo, tiriamo fuori la tua roba dall'armadietto.» Fu Rhage ad accompagnare Qhuinn fuori dallo spogliatoio, seguito da Blay. John restò fermo dov'era. Ti prego, fa' che Lash viva, pensò. Ti prego... Cristo, non gli piaceva il modo in cui la dottoressa Jane continuava a scuotere la testa; aveva aperto la sua borsa e tirava fuori vino strumento dopo l'altro nel tentativo di suturare il collo di Lash, «Dimmi tutto.» 202 John trasalì e si voltò. Era Z. «Dimmi come è successo, John.» John tornò a guardare Lash e rivide tutta la scena. Oh, Gesù... non gli andava di raccontare il perché e il percome. Zsadist era a conoscenza del suo passato, sì, ma lui non se la sentiva di rivelargli il motivo per cui Qhuinn ci era andato giù tanto pesante. Forse perché ancora non riusciva a credere che il suo passato fosse venuto fuori così. Forse perché quel vecchio incubo si era appena rinnovato. Forse perché era una mezzasega, incapace di prendere le difese dei suoi amici. Il labbro sfregiato di Z si contrasse. «Ascolta, John, Qhuinn è nella merda fino al collo. Legalmente è ancora minorenne, ma questa è aggressione a mano armata ai danni di un primogenito. Anche se Lash dovesse farcela, la sua famiglia non gli darà tregua, e noi dobbiamo sapere quello che è successo qui dentro.» La dottoressa Jane si alzò in piedi, «L'ho richiuso, ma è a rischio di infarto. Dev'essere ricoverato da Havers. Immediatamente.» Z annuì e fece entrare due doggen con una barella. «Fritz è già pronto con la macchina, e io andrò con loro.» Mentre Lash veniva sollevato dal pavimento, il fratello scoccò a John un'occhiata severa. «Se vuoi salvare il tuo amico, devi dirci cosa è successo.» 203 John seguì con lo sguardo il gruppetto che spingeva Lash fuori dallo spogliatoio. Quando la porta si chiuse sentì cedere le ginocchia; guardò la pozza di sangue al centro della doccia. In un angolo dello spogliatoio c'era una canna di gomma che serviva per le pulizie quotidiane dei servizi. John costrinse i piedi a camminare fino alla canna, montata alla parete. La srotolò, aprì l'acqua, tirò il tubo fin dentro alla doccia e poi aprì la bocchetta. Passò il getto avanti e indietro, avanti e indietro, un centimetro dopo l'altro, lavando via tutto il sangue, spingendolo verso lo scarico, dove veniva inghiottito con un gorgoglio. Avanti e indietro. Avanti e indietro. Le piastrelle passarono dal rosso al rosa al bianco. Ma non bastò a ripulire tutto quel macello. Neanche un po'. 204 Capitolo 13 Phury sentì delle mani sulla pelle, mani piccole e dalle dita leggere, che scendevano sul suo ventre. Puntavano verso la giuntura tra le cosce, grazie al cielo. Il pene era turgido, caldo e smanioso di trovare uno sfogo e più quelle mani si avvicinavano, più i fianchi spingevano verso l'alto e poi si ritraevano, le natiche si contraevano e poi si distendevano cedendo agli affondi che moriva dalla voglia di fare. Il suo uccello piangeva - sentiva lo stomaco bagnato. O forse era già venuto una volta? Oh, quelle mani che gli sfioravano la pelle, stuzzicandolo. Sotto quel tocco speciale, impalpabile, l'uccello gli tirava ancora di più, quasi potesse protendersi e, con un po' di sforzo, raggiungere il bersaglio. Piccole mani che puntavano verso il suo... Phury si svegliò con un sobbalzo che fece cadere il cuscino giù dal letto. «Merda.» Sotto il groviglio di coperte il suo uccello palpitava, e non per il solito bisogno generico che segnava il risveglio serale di ogni maschio della specie. No... quello era un 205 bisogno specifico. Il suo corpo voleva qualcosa di molto specifico da una femmina in particolare. Cormia. È nella stanza qui accanto, si disse. Bell'affare farebbe, con te, lo schernì il mago. Perché non vai da lei, socio. Sono certo che sarà felicissima di vederti dopo che l'hai lasciata andare in quel modo, ieri sera. Senza una parola. Senza il minimo accenno alla sua gratitudine. Non potendo dormeuse. controbattere, Phury guardò la Era la prima volta in assoluto che nutriva una femmina. Fece per tastare il segno del morso sul collo, ma notò che era già sparito, guarito. Quella era una delle grandi pietre miliari della vita... e la cosa lo rattristava. Non che rimpiangesse di averlo fatto con Cormia. Tutt'altro. Ma avrebbe voluto dirle che lei era stata la prima. Scostandosi i capelli dagli occhi guardò la sveglia. Mezzanotte. Mezzanotte? Cribbio, aveva dormito otto ore filate, chiaramente per aver sfamato Cormia. Però non si sentiva rinfrancato. Lo stomaco protestava e gli scoppiava la testa. 206 Fece per prendere il primo spinello della serata, che si era preparato prima di mettersi a dormire, ma si bloccò di colpo. La mano gli tremava al punto che temeva di non riuscire a stringerlo tra le dita; rimase a fissare il proprio palmo cercando di fermare il tremito con la forza di volontà, senza il minimo successo. Gli ci vollero ben tre tentativi prima di riuscire a sollevare lo spinello dal comodino; osservava quei gesti goffi come da lontano, come se fosse la mano di qualcun altro, lo spinello di qualcun altro. Una volta infilatosi la canna tra le labbra, lottò per posizionare l'accendino e far scattare la pietrina. Due tiri e il tremito cessò. Il mal di testa evaporò. Lo stomaco si placò. Purtroppo all'altro capo della stanza partì di nuovo quella dannata vibrazione e tutti e tre tornarono di colpo: il medaglione del Primale aveva ricominciato il solito balletto sul cassettone. Phury lo lasciò dov'era e continuò a fumare, pensando a Cormia. Dubitava che, in circostanze normali, gli avrebbe confessato Il suo bisogno di nutrirsi. Ciò che era accaduto in quella stanza era stata una combustione improvvisa generata dalla sua sete di sangue, non poteva interpretarla come una prova che Cormia lo desiderava sessualmente. Non si era sottratta al sesso, questo sì, ma non significava che volesse fare l'amore con lui, no? Bisogno e libera scelta non sono la stessa cosa. Lei aveva 207 sentito il bisogno del suo sangue. Lui aveva sentito il bisogno del suo corpo. Le Elette avevano bisogno ottemperare ai loro doveri. di entrambi per Schiacciando nel posacenere quel poco che restava dello spinello, guardò il comò dall'altra parte della stanza. Il medaglione alla fine si era fermato. In meno di dieci minuti si fece una doccia, indossò calzoni di seta bianca e si mise al collo il cordoncino di cuoio con appeso il medaglione del Primale. Il talismano d'oro massiccio andò a piazzarsi al centro del petto; era caldo, forse a causa della vibrazione di poco prima. Phury andò direttamente dall'Altra Parte; in quanto Primale godeva di una dispensa speciale che gli evitava di passare dal cortile della Vergine Scriba. Riprese forma davanti all'anfiteatro del Santuario, dove tutto era cominciato cinque mesi prima; trovava difficile credere di avere davvero preso il posto di Vishous nel ruolo di Primale. Era un po' come guardare la sua mano tremante: non era lui, punto. Già, peccato che invece era proprio lui. A qualche metro di distanza il palcoscenico bianco con il pesante sipario immacolato risplendeva nella strana luce implacabile dell'Altra Parte. Lì non c'erano ombre, così come non c'era sole nel cielo pallido, eppure la luce 208 non mancava, come se tutto fosse la propria stessa fonte luminosa. La temperatura era di ventun gradi, né troppo calda né troppo fredda, e non c'era un alito di vento ad accarezzare la pelle o increspare i vestiti. Tutto era di un candore dolce e riposante. Era l'equivalente paesaggistico della musica di sottofondo diffusa in certi locali pubblici, nelle sale d'aspetto e compagnia bella. Camminando sul bianco e curatissimo tappeto erboso, Phury girò intorno al teatro greco-romano e proseguì in direzione dei vari templi e degli alloggi delle Elette. Tutt'intorno al Santuario, una foresta bianca impediva di vedere in lontananza. Phury si chiese cosa ci fosse al di là di essa. Probabilmente nulla. Il Santuario assomigliava al modellino di un architetto oppure a vino di quei trenini giocattolo da montare, con la stazioncina in miniatura, le rotaie e tutto il resto: se ci si spingeva fino ai suoi confini si rischiava di trovarsi davanti a un ripido salto che finiva su un gigantesco pavimento rivestito di moquette. Phury continuò a camminare; non sapeva bene come richiamare l'attenzione della Direttrice, ma non aveva fretta di incontrarla. Per tergiversare ancora un po', andò al tempio del Primale e usò il medaglione d'oro per aprire il maestoso portone a due battenti. Attraversato l'atrio di marmo bianco, entrò nell'unica, grande stanza del tempio e rimase a fissare la piattaforma con sopra il letto coperto dalle candide lenzuola di seta. Ricordò come gli era apparsa Cormia quella volta, legata, nuda, il viso nascosto da un lenzuolo bianco che 209 cadeva dall'alto raccogliendosi intorno alla sua gola. Lui l'aveva strappato via ed era rimasto inorridito nel vedere gli occhi atterriti e traboccanti di lacrime dell'Eletta. L'avevano imbavagliata. Alzò lo sguardo al soffitto, da dove era stato calato il drappo. Nel marmo si distinguevano due minuscoli ganci dorati. Gli venne voglia di tirarli via con un martello pneumatico. Continuando a fissare il soffitto, gli tornò in mente la conversazione avuta con Vishous appena prima che scoppiasse tutto quel casino del Primale. Erano nella sala da pranzo della grande casa della confraternita e V gli aveva accennato di aver avuto una visione che lo riguardava. Phury non desiderava conoscere i dettagli, ma erano venuti fuori comunque; le parole del fratello adesso gli apparivano stranamente chiare, come il replay di una registrazione: Ti ho visto fermo a un crocevia in un campo tutto bianco. Era una brutta giornata... già, c'era un temporale tremendo. Ma quando hai preso una nuvola dal cielo e l'hai avvolta intorno al pozzo ha smesso di piovere. Phury socchiuse gli occhi fissando i due ganci sul soffitto. Aveva strappato via il lenzuolo da lassù e lo aveva usato per avvolgere Cormia. E lei aveva smesso di piangere. Era lei il pozzo... il pozzo che lui doveva colmare. Era il futuro della razza, la fonte di nuovi fratelli e di nuove Elette. La sorgente di vita. 210 Al pari di tutte le sue sorelle. «Vostra grazia.» Phury si voltò. La Direttrice era ferma sulla soglia del tempio, la veste bianca lunga fino a terra, i capelli neri raccolti in uno chignon. Con il suo sorriso tranquillo e la pace che irradiava dai suoi occhi, aveva l'espressione beatifica di chi è spiritualmente illuminato. Phury invidiava tanta serena convinzione. Amalya lo salutò con un inchino, il corpo sottile ed elegante nella consueta tenuta delle Elette. «Lieta di vedervi.» Phury ricambiò l'inchino. «Anch'io.» «Vi ringrazio per avermi concesso questa udienza», disse Amalya raddrizzandosi. Seguì una pausa. Che lui non colmò. Quando alla fine fu lei a farlo, parve scegliere le parole con cura. «Pensavo che forse gradireste incontrare qualche altra Eletta.» Che razza di incontro avrà in mente, si chiese Phury. Oh, solo un tè e uno spuntino, interloquì il mago. Con tartine al cunnilingus, pere e cocomeri a gogo e un paio di marroni, i tuoi. «Cormia sta bene», disse lui, ignorando l'offerta. 211 «L'ho vista ieri.» Il tono della Direttrice era cortese ma incolore, come se non convenisse con lui. «Veramente?» Lei si inchinò di nuovo. «Perdonate, vostra grazia. Era l'anniversario della sua nascita e le usanze mi imponevano di consegnarle una pergamena. Quando non vi siete fatto sentire sono comparsa da lei. Ho cercato nuovamente di mettermi in contatto con voi durante il giorno.» Santo cielo, il compleanno di Cormia era arrivato e passato e lei non ne aveva fatto cenno? L'aveva detto a John, però, giusto? Ecco il perché del braccialetto. Phury trattenne un'imprecazione. Avrebbe dovuto prenderle qualcosa. Si schiarì la gola. «Mi spiace di non aver risposto.» Amalya si raddrizzò. «È nel vostro diritto. Non avete motivo di dolervene, ve ne prego.» Nel lungo silenzio che seguì, Phury intuì la domanda che si celava nello sguardo gentile della Direttrice. «No, non l'abbiamo ancora fatto.» «Lei vi ha respinto?» chiese Amalya incurvando leggermente le spalle. 212 Phury ripensò al pavimento di fronte alla dormeuse. Era stato lui a fermarsi. «No. E colpa mia.» «Voi non potete avere nessuna colpa.» «Questo non è vero. Fidati.» La Direttrice si mise a girare per il tempio, tormentando con le mani il medaglione che aveva al collo. Era una copia esatta di quello che portava lui, solo che quello di Amalya era appeso a un nastro di raso bianco mentre la catena della palla al piede di Phury era nera. La Direttrice si fermò vicino al letto, sfiorando delicatamente uno dei guanciali. «Pensavo che magari gradireste conoscere qualcuna delle altre.» Oh, cavolo, no. Non voleva scavalcare Cormia scegliendo una Prima Sposa diversa. «Capisco dove vuoi arrivare, ma non è che io non voglia Cormia.» «Forse, tuttavia, vi sarebbe utile conoscere un'altra Eletta.» Chiaramente la Direttrice era a un passo dal porlo di fronte a un ultimatum: o faceva sesso con Cormia o si sceglieva un'altra Prima Sposa. Non poteva dire di esserne sorpreso: erano passati cinque lunghi mesi. Forse questo avrebbe risolto qualche problema. Il guaio era che prendere un'altra Prima Sposa equivaleva a scagliare una maledizione contro Cormia. Le Elette l'avrebbero vista come una fallita, e lei stessa si sarebbe sentita così, anche se era tutto il contrario. 213 «Come ho già detto, io sto bene con Cormia.» «Certamente... ma forse sareste più propenso a impegnarvi con un'altra tra noi? Layla, per esempio, è mirabile di viso e di corpo, e ha ricevuto la formazione di una ehros.» «Non intendo fare questo sgarbo a Cormia. Ne soffrirebbe da morire.» «Vostra grazia... lei sta già soffrendo. Gliel'ho letto negli occhi.» La Direttrice tornò verso di lui. «Inoltre, noialtre siamo prigioniere della tradizione. Nutrivamo grandi speranze che le nostre funzioni tornassero ai fasti del passato. Scegliendo un'altra Prima Sposa e portando a termine il rituale, libererete dal fardello dell'inutilità tutte quante noi, Cormia compresa. Lei non è felice, vostra grazia. Proprio come non lo siete voi.» Phury pensò di nuovo a Cormia stesa su quel letto, legata... Sin dall'inizio lei non voleva tutto questo, no? Pensò a lei, così taciturna, nella grande casa della confraternita. Pensò a lei, che non se l'era sentita neanche di confidargli il suo bisogno di nutrirsi. Pensò a lei, che non gli aveva detto nulla del suo compleanno, nulla del suo desiderio di uscire, nulla di quelle costruzioni nella sua stanza. Quattro passi lungo un corridoio non potevano certo compensare tutto ciò che le aveva negato. 214 «Siamo prigioniere, vostra grazia», riprese la Direttrice. «Per come stanno le cose adesso, siamo tutte come in trappola.» E se la verità fosse stata un'altra? si chiese Phury. Forse voleva tenere Cormia come Prima Sposa perché così non doveva preoccuparsi della faccenda del sesso. Voleva proteggerla e agire in modo corretto con lei, certo, e questo gli faceva onore, ma le conseguenze proteggevano anche lui. C'erano Elette che volevano quel ruolo, che volevano lui. Aveva sentito i loro sguardi su di sé quando si era insediato come Primale. Aveva dato la sua parola. Ed era arcistufo di infrangere i giuramenti fatti. «Vostra grazia, posso chiedervi di venire con me? Gradirei mostrarvi un certo luogo, qui al Santuario.» Phury seguì Amalya fuori dal Tempio del Primale; insieme scesero la collina, in silenzio, diretti verso un complesso di strutture bianche a quattro piani, adorne di colonne. «È qui che alloggiano le Elette», mormorò Amalya, «ma io e voi non siamo tenuti a viverci.» Meno male, pensò Phury, guardando le casette. Oltrepassandole, notò che nessuna delle finestre era munita di vetri. Inutile prendersi il disturbo, pensò, non c'erano parassiti o altri animali... e di sicuro non pioveva 215 mai. Quell'assenza di vetri rimandava, naturalmente, all'assenza di barriere tra lui e le Elette che lo osservavano dall'interno dei loro alloggi. C'era una femmina a ogni finestra di ogni stanza, in ciascuno degli edifici. Oh, Gesù. «Eccoci arrivati» La Direttrice si fermò davanti a una struttura a un piano e aprì il portone a due battenti. Quando li spalancò, Phury ebbe un tuffo al cuore. Culle. File e file di culle bianche e vuote. Mentre Phury cercava disperatamente di respirare, la voce della Direttrice si tinse di nostalgia. «Questo un tempo era un luogo di grande gioia, pieno di vita, brulicante di futuro. Se solo voleste prendere un'altra... Vi sentite male, vostra grazia?» Phury indietreggiò. Non riusciva a respirare. Non riusciva a... respirare, «Vostra grazia?» La Direttrice fece per sorreggerlo. Lui si scostò bruscamente da lei. «Sto bene.» Respira, maledizione. Respira. È a questo che hai dato il tuo consenso. Tira fuori le palle e assumiti le tue responsabilità. 216 Nella sua mente il mago gli snocciolò, un esempio dopo l'altro, tutti i casi in cui aveva deluso le persone, cominciando dal presente, con Z, Wrath e le torture ai lesser, per poi risalire al passato e ai fallimenti con i suoi genitori. Era sempre stato carente in ogni aspetto della sua vita. Ed era sempre stato in trappola, anche. Almeno Cormia poteva liberarsi di tutto ciò. Liberarsi di lui. La voce della Direttrice era sempre più tesa, allarmata. «Vostra grazia, forse dovreste stendervi...» «Ne prenderò un'altra.» «Voi...» «Prenderò un'altra Prima Sposa.» La Direttrice parve sconcertata, ma poi si piegò in un profondo inchino. «Vostra grazia, grazie... grazie... Siete la forza della razza e il nostro condottiero...» Lui la lasciò cantare le sue lodi, lodi vuote, fasulle; gli girava la testa e si sentiva come se qualcuno gli avesse scaricato nelle viscere una vagonata di ghiaccio secco. La Direttrice stringeva con forza il medaglione che portava al collo, il volto sereno soffuso di gioia. «Vostra grazia, cosa prediligete in una compagna? Ne avrei già in mente un paio.» 217 «Devono essere consenzienti», rispose lui con sguardo severo. «Niente coercizioni. Niente legacci. Devono volerlo in piena libertà. Cormia non voleva, ed è stata un'ingiustizia costringerla. Io mi sono offerto volontario, lei non aveva scelta.» La Direttrice gli mise una mano sul braccio. «Capisco, e concordo. Cormia è sempre stata inadatta per il ruolo di Prima Sposa, e in verità la precedente Direttrice l'aveva scelta proprio per questo motivo. Io non sarò mai tanto crudele.» «E Cormia non dovrà avere problemi. Voglio dire, non verrà scacciata da qui, dico bene?» «Al suo ritorno la accoglieremo con gioia. È una femmina rispettabilissima. Solo... meno adatta a questa vita rispetto ad alcune altre di noi.» Nel silenzio che seguì, Phury rivide Cormia che lo spogliava prima della doccia, rivide i suoi occhi verdi puri e innocenti che si alzavano su di lui mentre armeggiava con la cintura e i calzoni. Lei voleva fare solo ciò che era giusto. All'inizio, quando tutto quel pasticcio era cominciato, pur essendo terrorizzata era pronta a fare la cosa giusta secondo i dettami della sua tradizione, ossia: farsi possedere. Il che la rendeva più forte di lui. Lei non stava scappando. Era lui quello che aveva deciso di darsela a gambe. 218 «Di' alle altre che non ero degno di lei.» La Direttrice lo guardò a bocca aperta. «È un ordine, maledizione», disse puntandole il dito contro. «Di' loro che... io non sono alla sua altezza. Voglio che la eleviate a un rango speciale... voglio che la trattiate col massimo riguardo, chiaro? Come una reliquia in una teca. Trattatela bene, altrimenti manderò in rovina questo posto.» La Direttrice appariva confusa; Phury la aiutò, rammentandole una cosa, «Questo è il mio mondo. Sono io che comando, giusto? Sono la forza della maledetta razza, dunque farai ciò che ti dico. Fai di sì con la testa.» Quando Amalya ubbidì, Phury trasse un sospiro di sollievo. «Bene. Sono lieto che siamo d'accordo. Dunque, c'è bisogno di un'altra cerimonia?» «Ah... ehm, quando avete rivolto la formula di r-rito a Cormia, vi siete impegnato con tutte quante noi.» Posò di nuovo la mano sul medaglione, ma stavolta Phury ebbe la sensazione che non lo facesse con gioia. Più probabile che sentisse il bisogno di sentirsi rassicurata. «Quando pensate di... venire a stare qui?» Phury pensò alla gravidanza di Bella. Non poteva perdersi il parto e, per come stavano le cose tra lui e Z, correva il rischio di non essere nemmeno avvertito. «Tra un po'. Un anno, forse.» «Allora, col vostro permesso, vi invierò la prima delle Elette sulla terra.» «Sì.» Ciò detto volse le spalle alla nursery, aveva bisogno d'aria. «Senti, vado a fare quattro passi.» 219 «Dirò alle altre di non disturbarvi.» «Grazie, e scusa se sono stato brusco.» Fece una pausa. «Un'ultima cosa... voglio parlare con Cormia. Voglio essere io a comunicaglielo.» «Come desiderate», disse la Direttrice con un profondo inchino. «Avrò bisogno di un paio di giorni per preparare secondo il ritual...» «Fammi solo sapere quando pensi di mandarmi una di loro.» «Sì, vostra grazia.» Quando la Direttrice se ne andò, Phury rimase a fissare il paesaggio immacolato e un attimo dopo la distesa cambiò sotto i suoi occhi, trasformandosi in tutt'altra scena. Spariti gli alberi incolori e ordinarissimi e i prati all'apparenza coperti da una sottile coltre di neve. Al loro posto vide il giardino infestato di erbacce della sua dimora di famiglia, nel Vecchio Continente. Dietro il grande edificio di pietra in cui era cresciuto c'era un giardino cintato grande un paio d'acri. Suddiviso in quadranti da vialetti coperti di ghiaia, era stato concepito per mettere in mostra svariati esemplari di vegetazione e offrire un luogo di naturale bellezza dove la mente potesse rasserenarsi. Ai quattro angoli del muro di cinta c'erano delle statue che raffiguravano le diverse fasi deIla vita: un neonato tra le braccia del padre; un aitante giovanotto; un padre che stringeva il figlioletto tra le braccia; un vecchio saggio seduto con alle spalle il figlio ormai adulto. 220 In principio il giardino doveva essere davvero elegante, una autentica vetrina, e Phury poteva immaginare la gioia dei suoi genitori, sposini novelli, nel contemplare il suo splendore. Lui però non aveva mai conosciuto la perfezione promessa da quel luogo studiato con tanta cura. Ciò che aveva visto del giardino era solo il caos della trascuratezza. Quando era stato abbastanza grande per rendersi conto di cosa gli stava intorno, le aiuole erano già infestate dalle erbacce, le panchine si riflettevano nell'acqua piena di alghe e l'erba aveva invaso i vialetti. La cosa più triste, ai sui occhi, erano le statue. L'edera, avviluppatasi tutt'in-torno a esse, le soffocava ogni anno di più, il fogliame copriva sempre più ciò che la mano dello scultore aveva voluto mostrare. Il giardino era la rappresentazione visiva della rovina della sua famiglia. E lui si era imposto di rimediare. A tutto quanto. Dopo la transizione, che lo aveva quasi ucciso, se n'era andato dalla dimora di famiglia, ormai in uno stato di totale abbandono. Ricordava quel momento con la stessa chiarezza con cui rivedeva il povero giardino. La sera della partenza, era ottobre, c'era la luna piena e sotto la sua luce vivida aveva messo in valigia alcuni degli abiti di suo padre, vecchi ma ancora belli. Aveva solo un piano molto vago: riprendere le vane ricerche di suo padre, seguire le tracce che lui aveva lasciato freddare. La notte in cui Zsadist era stato rapito era apparso subito chiaro quale bambinaia lo aveva preso 221 e Ahgony, come avrebbe fatto qualunque altro padre, si era posto subito al suo inseguimento. Lei, tuttavia, era stata scaltra e Ahgony non aveva trovato nulla di concreto fino a quasi due anni dopo. Seguendo voci, soffiate e pettegolezzi in circolazione, il Fratello aveva setacciato il Vecchio Continente e alla fine aveva scovato la copertina di Zsadist tra le cose della bambinaia... morta appena una settimana prima. Averla mancata per un soffio era solo l'ennesima pagina della tragedia. A quel punto Aghony aveva saputo che suo figlio era stato preso da un vicino e venduto al mercato degli schiavi. Il vicino aveva intascato i soldi ed era scappato. Ahgony si era recato dal mercante di schiavi più vicino, ma il traffico degli orfanelli era troppo esteso per consentirgli di rintracciare Zsadist. Ahgony si era arreso, era tornato a casa e si era dato al bere. Apprestandosi a riprendere le ricerche del padre, Phury aveva ritenuto opportuno indossare gli abiti del suo vecchio. E importante, anche. Assumendo le sembianze del gentiluomo squattrinato, gli sarebbe stato più agevole infiltrarsi nelle grandi dimore aristocratiche, che poi erano quelle dove venivano impiegati gli schiavi. Con indosso i vecchi abiti del padre, Phury poteva confondersi con uno dei tanti vagabondi di buone maniere che andavano raminghi per il mondo cercando di mantenersi grazie all'arguzia e al fascino. 222 Vestito alla moda di venticinque anni prima, con in mano un malandato borsone di cuoio, era andato da entrambi i genitori a informarli dei suoi progetti. Sapeva che sua madre era a letto, nel seminterrato, perché lei viveva lì. Sapeva anche che non lo avrebbe guardato. Non lo faceva mai, e non l'aveva mai biasimata per questo. Lui era identico al figlio che le era' stato sottratto, un memento in carne e ossa della tragedia che l'aveva colpita. Comprendere che Phury era un individuo distinto da Zsadist, che piangeva la perdita del fratello gemello proprio come lei, poiché da quando lo avevano rapito gli mancava metà di se stesso, comprendere che aveva bisogno di affetto e di cure era superiore alle forze di sua madre, a causa del dolore che la consumava. Sua madre non lo aveva mai toccato. Neanche una volta, neanche per fargli il bagnetto quand'era piccolo. Dopo aver bussato, Phury si era premurato di dirle chi era, prima di entrare, per permetterle di farsi forza. Non ottenendo risposta, aveva aperto la porta ed era rimasto sulla soglia, riempiendola tutta con il suo nuovo fisico post-transizione. Mentre le spiegava le sue intenzioni, non sapeva bene cosa attendersi da lei. Non ottenne niente. Neanche una parola. Lei non alzò neanche la testa dal cuscino sgualcito. Phury aveva richiuso la porta ed era andato nelle stanze di suo padre. Lo aveva trovato svenuto, ubriaco fradicio in mezzo alle bottiglie di birra scadente che gli permettevano di essere, se non lucido, almeno intontito quanto bastava 223 per non pensare troppo. Dopo aver tentato invano di svegliarlo, Phury aveva scribacchiato un biglietto e glielo aveva lasciato sul petto, poi era salito di sopra ed era uscito di casa. Fermo sul terrazzo coperto di foglie e di buche della casa un tempo sontuosa della sua famiglia, si era posto in ascolto della notte. Sapeva che con ogni probabilità non avrebbe mai più rivisto i suoi genitori, e temeva che l'unico doggen rimasto morisse o restasse ferito. E allora cosa avrebbero fatto i suoi? Contemplando la maestà di un tempo, sentiva che il suo gemello era da qualche parte là fuori, nella notte, in attesa di essere trovato. Mentre una scia di nuvole lattiginose si scostavano dalla faccia della luna, Phury aveva cercato una qualche forza in fondo a se stesso. In verità,, aveva detto una voce profonda dentro la sua testa, puoi cercare anche mille giorni e persino trovare tuo fratello ancora in vita, ma stai pur certo che non potrai salvare ciò che non può essere salvato. Non sei all'altezza di questa missione; inoltre il tuo destino ti condanna al fallimento, quale che sia l'obiettivo prescelto, poiché sei segnato dalla maledizione dell'exhile dhoble. Era il mago che parlava per la prima volta. Mentre metabolizzava quelle parole, con la sensazione di essere troppo debole per il viaggio che lo attendeva, Phury aveva fatto il suo voto di castità. Alzando gli occhi sul grande disco scintillante della luna nel cielo notturno, 224 aveva giurato alla Vergine Scriba di stare alla larga da ogni distrazione. Sarebbe stato il salvatore senza macchia, tutto concentrato sulla propria missione. Sarebbe stato l'eroe capace di riportare indietro il suo gemello. Sarebbe stato il guaritore in grado di far risorgere la sua povera famiglia disastrata riportandola alla salute e alla bellezza di un tempo. Sarebbe stato il giardiniere. Phury si riscosse, tornando al presente, quando il mago riprese a parlare. Però avevo ragione io, no? Tutti e due i tuoi genitori sono morti prematuramente e in miseria, il tuo gemello è stato usato alla Stregua di una puttana e tu sei uno squilibrato. Avevo ragione io, no, socio? Phury tornò a concentrarsi sulla strana distesa bianca dell'Altra Parte. Era tutto così perfetto, tutto così in ordine, non c'era niente fuori posto. I tulipani bianchi con i loro steli bianchi nelle aiole intorno agli edifici; gli alberi entro i confini della foresta, neanche l'ombra di un'erbaccia. Chissà chi tosava quei prati. Aveva l'impressione che l'erba, come tutto il resto, crescesse così e basta. Doveva essere bello. 225 Capitolo 14 Intanto, nella grande casa della confraternita, Cormia controllò di nuovo l'orologio sul cassettone. John Matthew avrebbe dovuto passare a prenderla già da un'ora per andare a vedere il film; sperava che non fosse successo niente di grave. Camminando ancora un po' avanti e indietro si rese conto che quella sera la stanza le sembrava troppo angusta, troppo ingombra, anche se non c'erano mobili nuovi e lei era tutta sola. Santissima Vergine Scriba, aveva troppa energia. Era il sangue del Primule. Quello, e un'urgenza opprimente, insoddisfatta. Si fermò vicino alla finestra, si portò la pirata delle dita alle labbra e richiamò alla mente il sapore del Primale, la sensazione che aveva provato nel toccarlo. Che slancio impetuoso, che estasi celestiale. Ma perché si era fermato? Quella domanda non faceva che ronzarle nella testa. Perché non si era spinto più in là? Sì, certo, il medaglione lo aveva distratto ma, in qualità di Primale, era lui a dettar legge. Lui era la forza della razza, il capo delle Elette, libero di ignorare tutto e tutti a suo piacimento. , 226 La sola risposta che le veniva in mente le dava la nausea. Era per via dei suoi sentimenti per Bella? Aveva creduto di tradire l'amata? Era difficile decidere cosa fosse peggio: sperare che il Primale stesse con lei e con tutte le sue sorelle o che non stesse con nessuna di loro perché il suo cuore apparteneva a un'altra. Guardò fuori, nella notte. Ella sarebbe impazzita se fosse restata ancora chiusa in camera. L'occhio le cadde sulla piscina, con la sua superficie leggermente increspata. Quel dolce movimento ondulatorio le ricordava le profonde vasche da bagno dell'Altra Parte, promettendole una tregua da tutto ciò che la agitava. Senza neanche rendersene conto, si ritrovò fuori in corridoio. Rapida e silenziosa, scese a piedi nudi lo scalone fino all'atrio e attraversò il pavimento a mosaico. Nella sala del biliardo infilò la portafinestra che John aveva aperto la sera prima, e uscì. Ferma sulle fredde lastre di pietra del terrazzo, protese i sensi nelle tenebre facendo scorrere lo sguardo su ciò che riusciva a scorgere della maestosa muraglia ai confini della proprietà. Nessun pericolo in vista, almeno all'apparenza. Tra i fiori e gli alberi del giardino non si muoveva niente, a parte l'afosa aria notturna. Si voltò a guardare l'imponente magione alle sue spalle. Dietro le finestre illuminate alcuni doggen si muovevano per casa. In caso di bisogno c'erano molte persone nelle vicinanze. 227 Chiuse quasi del tutto la portafinestra, sollevò appena la lunga sottana e attraversò di corsa il terrazzo in direzione dell'acqua. La piscina era rettangolare e circondata dalle stesse lastre di pietra piatta e nera che pavimentavano il terrazzo. C'erano sedie dalla forma allungata fatte di striscioline intrecciate e tavolini con il piano di cristallo. In un angolo c'era un aggeggio nero con un serbatoio bianco. Dei vasi di fiori aggiungevano una nota di colore. Cormia s'inginocchiò per controllare quant'era profonda l'acqua. Al chiaro di luna la superficie sembrava petrolio, probabilmente perché anche l'interno della vasca era rivestito con le solite lastre nere. Non era come le vasche dall'Altra Parte, non digradava in modo graduale e Cormia aveva il sospetto che fosse molto profonda. Ma non si rischiava di restare in trappola: a intervalli regolari, lungo i bordi, c'erano dei maniglioni ricurvi con cui ci si poteva aiutare per uscire dall'acqua. Cormia infilò dentro prima l'alluce, poi tutto il piede; la superfìcie della piscina si increspò, come se l'acqua applaudisse a mo' di incoraggiamento. Sulla sinistra c'era una scaletta; pochi gradini che evidentemente servivano a entrare. Cormia si avvicinò, si tolse la veste e, nuda, s'immerse nella piscina. Le batteva forte il cuore ma, oh, che bello sentire la dolce carezza avvolgente dell'acqua. Continuò a scendere finché si sentì stringere in un abbraccio semovente e delicato, dal petto ai talloni. 228 Che bellezza. D'istinto si diede una spinta con i piedi e scivolò in avanti senza peso, fendendo l'acqua. Tirando le braccia in su e all'infuori e poi tirandole di nuovo indietro scoprì che poteva spostarsi, andando dove voleva - prima a destra, poi a sinistra, poi avanti, avanti, avanti fino in fondo, dove una tavola sottile era sospesa sopra il pelo dell'acqua. Terminata quell'esplorazione, rotolò sulla schiena lasciandosi galleggiare mentre contemplava il cielo. Le lucine scintillanti lassù in alto la indussero a riflettere sul suo posto tra le Elette, e sul suo dovere di essere una tra le tante, una molecola che faceva parte di un tutto. Lei e le sue sorelle erano indistinguibili nell'alveo della nobile tradizione che si erano impegnate a servire: proprio come l'acqua della piscina, uniforme e fluida, senza confini; proprio come le stelle su nel cielo, tutte uguali. Guardando il firmamento ebbe un altro di quei pensieri aleatori, eretici, solo che questo non riguardava la progettazione di una casa, i vestiti indossati da questo o da quell'altro o se le piaceva un determinato cibo oppure no. Questo andava dritto al cuore della sua natura e la marchiava come peccatrice ed eretica: Non voleva essere una tra le tante. Non con il Primale, Non per lui. E non per se stessa. 229 Dall'altra parte della città Qhuinn, seduto sul letto, fissava il cellulare stretto nel palmo. Aveva scritto un messaggino rivolto a Blay e a John e stava aspettando di inviarlo. Era seduto lì da ore, almeno quella era la sua impressione, anche se probabilmente era al massimo un'ora. Dopo una doccia per lavare via il sangue di Lash, aveva parcheggiato lì le chiappe facendosi forza per ciò che lo attendeva. Per qualche ragione continuava a pensare all'unica cosa bella che, per quel che ricordava, i suoi genitori avessero mai fatto per lui. Era stato tre anni prima, più o meno. Li aveva assillati per dei mesi, tipo, per ottenere il permesso di andare nel Connecticut da suo cugino Saxton. Sax aveva già superato la transizione ed era un tantino scapestrato, per cui naturalmente era l'eroe di Qhuinn. E naturalmente i suoi non approvavano né Sax né i suoi genitori, i quali se ne infischiavano alla grande dei fastidiosi obblighi sociali che la glymera si era autoimposta. Qhuinn aveva pregato, implorato, supplicato, ma malgrado tutti i suoi sforzi aveva ottenuto solo una sfilza di no. Poi, tutt'a un tratto, suo padre lo aveva informato che l'aveva avuta vinta e poteva andare a sud per il fine settimana. Gioia. Una gioia immensa. Aveva fatto le valigie con tre giorni di anticipo e, quando al tramonto era scivolato sul sedile posteriore dell'auto che doveva portarlo oltre il 230 confine con il Connecticut, si era sentito dell'universo. il re Era stato gentile da parte dei suoi genitori. Già, peccato che dopo aveva scoperto perché l'avevano lasciato andare. L'avventura da Sax non era andata granché bene. Aveva bevuto come una spugna con suo cugino per tutta la giornata di sabato ed era stato così male per quel miscuglio letale di Jàgermeister e gelatine alla vodka che gli zii avevano insistito per rispedirlo a casa a rimettersi in sesto. Essere riportato indietro da uno dei loro doggen era stato uno smacco incredibile e il peggio era che aveva continuato a chiedere all'autista di fermarsi perché doveva vomitare. L'unica sua salvezza era che i genitori di Sax avevano acconsentito a non dire niente ai suoi... a condizione che lui stesso rendesse una piena confessione appena scaricato davanti alla porta di casa. Evidentemente neanche loro ci tenevano ad affrontare sua madre e suo padre. Quando il doggen si era fermato davanti alla villa, Qhuinn aveva in mente di dire solo che si era sentito male, il che era vero, e aveva chiesto di tornare a casa, che invece non era vero e non lo sarebbe mai stato. Solo che le cose erano andate diversamente. La villa era tutta illuminata e nell'aria si diffondeva una musica proveniente da un tendone sul retro. A ogni finestra 231 c'erano delle candele accese e in ogni stanza c'era gente che si aggirava in piena libertà. «Meno male che siamo tornati in tempo», aveva commentato il doggen al volante, nel tipico tono entusiasta dei doggen. «Sarebbe stato un peccato perdersi tutto questo.» Qhuinn era sceso dall'auto con la sua borsa da viaggio e non si era neanche accorto quando il domestico era ripartito. Ma certo, aveva pensato. Suo padre stava per ritirarsi dalla prestigiosa carica di leahdyre della glymera dopo un brillante mandato alla testa del Consiglio dei Princeps. Quello era il ricevimento che celebrava il suo operato e segnava il passaggio di consegne al padre di Lash. Ecco perché nelle ultime due settimane la servitù non aveva avuto un attimo di tregua. Lui aveva pensato che sua madre stesse (attraversando un altro dei suoi periodi anali in cui tutto andava pulito alla perfezione, e invece no. Tutto quel lavare e lustrare era in vista di quella serata. Qhuinn si era spostato sul retro della villa, tenendosi al riparo delle siepi, trascinandosi dietro lo zaino. Com'era bello il tendone. Luci sfavillanti pendevano dai lampadari e guizzavano su tavoli addobbati con composizioni di splendidi fiori e candele. Ogni sedia era guarnita con fiocchi di raso e tra i posti a sedere erano state stese delle passatoie. Come aveva immaginato, il tema cromatico di tutto l'insieme era il binomio turchese e giallo, a simboleggiare i due rami della famiglia. 232 Guardò gli ospiti e li riconobbe tutti, dal primo all'ultimo. C'era il suo parentado al gran completo, accanto alle famiglie più in vista della glymera, e tutti erano elegantissimi, le femmine in abito da sera e i maschi in tight. C'erano anche dei piccoli che schizzavano come lucciole in mezzo agli adulti, mentre gli anziani se ne stavano seduti ai margini, con un sorriso sulle labbra. Qhuinn era rimasto lì al buio, sentendosi parte dell'accozzaglia di cianfrusaglie fatte sparire prima dell'arrivo della comitiva, uno dei tanti oggetti orrendi e inutili da nascondere dentro una credenza per non farli vedere a nessuno. Non era la prima volta che veniva colto dall'impulso di ficcarsi le dita negli occhi per distruggere ciò che aveva segnato la sua rovina. D'un tratto l'orchestrina aveva smesso di suonare e suo padre si era avvicinato al microfono, ai bordi della pista da ballo. Mentre tutti gli invitati si radunavano, la madre, il fratello e la sorella di Qhuinn si erano raccolti alle spalle del padre; tutti e quattro risplendevano in un modo che non aveva nulla a che fare con lo sfavillio delle luci tutt'intorno. «Se mi concedete un attimo della vostra attenzione», aveva esordito suo padre nell'Antico Idioma. «Gradirei rivolgere un saluto alle famiglie fondatrici che sono qui stasera.» Applausi. «Agli altri membri del Consiglio.» Applausi. «E a tutti quanti voi, che costituite il cuore della glymera, oltre a far parte della mia famiglia.» Applausi. «Questi dieci anni da leahdyre sono stati impegnativi, ma abbiamo compiuto notevoli progressi, e 233 sono certo che il mio successore reggerà le redini con mano ferma. Con la recente ascesa al trono del re è ancora più essenziale che i nostri interessi vengano esposti e sostenuti con la dovuta attenzione. Grazie all'instancabile operato del Consiglio potremo imporre la nostra visione alla razza... incuranti dei dissensi ingiustificati di chi non comprende appieno quanto noi le questioni sul tappeto...» A quel punto era esploso un applauso scrosciante, in segno di approvazione, seguito da un brindisi in onore del padre di Lash. Poi il padre di Qhuinn si era schiarito la gola, lanciando un'occhiata alle tre persone alle sue spalle. Con voce lievemente roca, aveva detto, «È stato un onore servire la glymera... e sebbene già senta la mancanza della mia posizione, non sarei del tutto onesto se non ammettessi che avere più tempo da dedicare alla mia famiglia mi riempie di gioia. In verità, i miei familiari sono la mia vita, e sento il bisogno di ringraziarli per la leggerezza e il calore con cui mi riempiono il cuore ogni giorno.» La madre di Qhuinn gli aveva mandato un bacio al volo, battendo freneticamente le palpebre; suo fratello aveva gonfiato il petto orgoglioso, gli occhi traboccanti di adorazione per il suo eroe; sua sorella aveva battuto le mani saltellando su e giù, i riccioli che rimbalzavano di gioia. In quel momento Qhuinn si era sentito completamente rifiutato come figlio, fratello e membro della famiglia, al punto che nessuna parola, a lui o su di lui, avrebbe potuto peggiorare la sua straziante tristezza. 234 Venne riscosso da quei ricordi quando suo padre bussò energicamente alla porta; i colpi spezzarono la presa del passato, allontanando la scena dalla sua mente. Premette il tasto invio per mandare l'SMS, infilò il cellulare nel taschino della camicia e disse, «Avanti.» La porta si aprì, ma non era suo padre. Era un doggen, lo stesso maggiordomo da cui aveva saputo che per quell'anno non doveva andare al ballo della glymera. Il domestico si inchinò, ma non era necessariamente un gesto di rispetto, e Qhuinn non lo interpretò come tale. I doggen si inchinavano sempre e comunque. Diamine, se interrompevano un procione che rovistava tra i rifiuti la loro prima mossa, ancora prima di cacciarlo via, era piegarsi nel solito, profondo inchino. «Credo che me ne andrò», disse Qhuinn mentre il maggiordomo compiva in fretta i gesti rituali per scacciare il malocchio. «Con tutto il dovuto rispetto», disse il doggen, con la fronte ancora rivolta a terra, «suo padre le ordina di lasciare questa casa.» «Fico.» Qhuinn si alzò con il borsone in cui aveva infilato la sua collezione di T-shirt e le sue quattro paia di jeans. Mettendoselo a tracolla, si chiese per quanto tempo ancora gli avrebbero pagato l'abbonamento al cellulare. 235 Già negli ultimi due mesi - da quando la paghetta era improvvisamente scomparsa - si aspettava di vederselo tagliare. Aveva la sensazione che il destino di T-Mobile, proprio come il suo, fosse segnato. «Suo padre mi ha chiesto di consegnarle questa.» Il doggen non si raddrizzò nel tendergli la mano, che stringeva una spessa busta commerciale. L'impulso di dire al domestico di riportarla a suo padre con la raccomandazione di ficcarsela in quel posto era pressoché irresistibile. Qhuinn prese la busta e l'aprì. Dopo aver dato una scorsa ai fogli che conteneva, li piegò con calma infilandoli di nuovo dentro. Ficcando il tutto nella cintura dei calzoni disse, scherzando, «Vado ad aspettare il mio autista.» Il doggen si raddrizzò. «In fondo al viale, se non le spiace.» «Sì. Certo. Bene.» Chi se ne frega. «Vi serve il mio sangue, giusto?» «Se volesse essere tanto gentile.» Il doggen allungò una coppa di ottone con l'interno rivestito in vetro nero. Qhuinn usò il suo coltellino svizzero, perché il coltello da caccia gli era stato confiscato. Si passò la lama sul palmo e strinse il pugno per far colare alcune gocce rosse nel calice. 236 Appena lui avesse messo piede fuori di casa avrebbero bruciato il suo sangue come parte di un rituale di purificazione. Non si limitavano a scartare chi aveva dei difetti; si sbarazzavano del male. Qhuinn lasciò la sua stanza senza voltarsi indietro e si incamminò lungo il corridoio. Non passò a salutare sua sorella, anche se sentiva che si stava esercitando al flauto, e lasciò stare suo fratello, intento a recitare dei versi in latino. Non si fermò neanche davanti al salottino di sua madre quando la sentì parlare al telefono, e ovviamente tirò dritto davanti allo studio di suo padre. Erano tutti d'accordo sul suo allontanamento, la prova era nella busta. Al pianoterra non sbatté il portone d'ingresso. Non c'era motivo di dare spettacolo. Tutti quanti sapevano che se ne stava andando, ecco perché si affannavano ad apparire tanto indaffarati invece di prendere il tè in soggiorno. Si sarebbero riuniti non appena il doggen li avesse informati che lui era uscito di casa, ci avrebbe scommesso. Avrebbero sorseggiato una tazza di Earl Grey e sbafato un paio di focaccine dolci, ci avrebbe scommesso. Avrebbero tirato un grosso, grossissimo sospiro di sollievo, ci avrebbe scommesso, e poi si sarebbero lamentati di come sarebbe stata dura andare in giro a testa alta dopo quello che lui aveva fatto a Lash. 237 Qhuinn imboccò il lungo viale d'accesso pieno di curve. Giunto davanti alla grande cancellata di ferro, vide che era aperta. Quando l'ebbe varcata, i battenti si richiusero con un gran clangore, come se lo avessero cacciato fuori a calci nel sedere. La notte estiva era calda e umida, un lampo si stagliò nel cielo a nord, in lontananza. I temporali arrivavano sempre da nord, pensò Qhuinn, sia d'estate che d'inverno. Nei mesi freddi i venti di nordest potevano seppellirti sotto tanta di quella neve da farti sentire... Accidenti. Era così scosso che stava parlando del tempo da solo. Posò sul marciapiede la sacca da viaggio. Forse avrebbe dovuto mandare un messaggino a Blay per chiedergli se poteva davvero dargli uno strappo. Smaterializzarsi con il peso del borsone poteva essere insidioso e non gli avevano mai comprato la macchina, per cui ecco, per il momento era bloccato lì. Aveva appena infilato la mano in tasca quando il cellulare emise un trillo. Era un SMS di Blay: Devi venire a stare da noi. Passo a prenderti. Stava per rispondergli quando pensò alla busta e si fermò. Infilò il telefonino nella sacca, si rimise in spalla la borsa con la sua roba e si incamminò lungo il ciglio della strada. Puntava verso est perché la scelta casuale di girare a sinistra lo portava in quella direzione. 238 Cribbio... adesso era proprio un orfano. Era come se i suoi sospetti più segreti si fossero realizzati. Aveva sempre pensato di essere stato adottato o roba del genere perché si era sempre sentito fuori posto nella sua famiglia... e non solo per la storia degli occhi di due colori diversi. Era fatto di una stoffa diversa. Lo era sempre stato. Una parte di lui voleva andare su tutte le furie per essere stato cacciato di casa, ma cosa si aspettava? Non era mai stato uno di loro, e aver aggredito un cugino di primo grado con un coltello da caccia, anche se era assolutamente giustificato, era imperdonabile. Sarebbe costato anche dei bei soldoni al suo vecchio. In caso di aggressione - assassinio, se Lash moriva - se la vittima era un membro della glymèra, questi o la sua famiglia avevano diritto a un risarcimento in denaro; l'entità della somma dipendeva dal valore relativo del ferito o deceduto. Lash era un giovane vampiro che aveva superato la transizione, primogenito di una delle famiglie fondatrici della razza. Solo il decesso di un membro della confraternita o di ima aristocratica incinta sarebbe stato più oneroso. E a pagare dovevano essere i suoi genitori, non Qhuinn, perché legalmente si era considerati adulti solo dopo un anno dalla transizione. La cosa positiva era che, essendo tecnicamente ancora minorenne, non lo avrebbero condannato a morte. Ma in ogni caso lo avrebbero incriminato, e allora la vita per come lui la conosceva sarebbe ufficialmente finita. 239 Quando si dice affrontare dei cambiamenti. Era fuori dalla glymera. Fuori dalla sua famiglia. Fuori dal programma di addestramento. A parte cambiare sesso così, sui due piedi, era difficile immaginare cos'altro si poteva fare per incasinargli l'identità. Per come stavano le cose al momento, aveva tempo fino all'alba per decidere dove aspettare di sentire cosa gli sarebbe capitato. Andare a stare da Blay sarebbe stata la scelta più ovvia, salvo che per un grosso, enorme, insormontabile problema: accogliere un reietto della glymera equivaleva a devastare lo status sociale di quella famiglia, per cui non se ne parlava nemmeno. E neanche John poteva ospitarlo. Vivendo con i fratelli, il suo domicilio era talmente top secret che non poteva ricevere visite, figurarsi poi un ospite semi-permanente. Colpevole di aver massacrato un compagno di corso. E in attesa di finire al fresco. Dio.... John. La cosa che aveva detto Lash. Qhuinn sperava che non fosse vera, ma temeva che lo fosse. Aveva sempre pensato che John non si lanciasse con le femmine perché era ancora più imbranato di Blay nelle relazioni sociali. Ma adesso? Era ovvio che il ragazzo aveva dei problemi molto seri... e Qhuinn si sentiva uno stronzo di proporzioni gigantesche per averlo tampinato in quel modo sul sesso. 240 Non c'era da stupirsi che John non avesse mai voluto appartarsi con una femmina nel retro dello ZeroSum. Accidenti a Lash. Cavolo, quali che fossero le conseguenze di ciò che aveva fatto con quel coltello, era pronto a rifare tutto da capo. Lash era sempre stato un bastardo, erano anni che voleva spaccargli la faccia. Ma dopo averlo visto aggredire John in quel modo sperava proprio che morisse. E non solo perché un lurido bastardo in meno sulla faccia della terra era un'ottima cosa. Lash era una linguaccia, questa era la verità, e finché era libero di spifferare quell'informazione, John non era al sicuro. E questo era pericoloso. Nella glymera c'era chi l'avrebbe giudicato un danno irreparabile alla sua virilità. Se John voleva sperare di diventare un fratello a pieno titolo e di guadagnarsi il rispetto dell'aristocrazia, se voleva sperare di trovarsi una compagna e mettere su famiglia, nessuno doveva sapere che era stato violentato da un altro maschio, men che meno da un maschio umano. Merda, il fatto che lo stupratore fosse un umano peggiorava enormemente le cose. Agli occhi della glymera gli umani erano topi di fogna a due zampe. Soccombere a uno di loro era inconcepibile. No, pensò Qhuinn camminando tutto solo, non avrebbe cambiato una virgola di quello che aveva fatto. 241 Capitolo 15 Dopo aver ripulito a fondo le docce dello spogliatoio, John andò in ufficio, si sedette alla scrivania e passò Dio solo sa quanto tempo a fissare le carte che avrebbe dovuto sistemare. Nel silenzio della stanza il labbro gonfio pulsava, così come le nocche, ma quelli erano solo fastidi minori a confronto del ruggito sordo che aveva in testa. Certo che la vita era proprio strana. Quasi sempre scorreva a un ritmo prevedibile, gli eventi fluivano entro il limite di velocità o appena al di sotto. Ogni tanto, tuttavia, le cose accadevano in un lampo, tipo quando una Porche ti risucchia le portiere in autostrada. All'improvviso capitava qualcosa di brutto che cambiava tutto in un batter d'occhio. La morte di Wellsie era andata così. La scomparsa di Tohr era andata così. L'aggressione di Qhuinn a Lash era andata così. E la cosa orribile che era successa a John su quella rampa di scale... sì, anche quella. Ogni tanto il sull'acceleratore. destino 242 si divertiva a pigiare Evidentemente la gola di Lash era destinata a venire squarciata in quel preciso momento da parte di Qhuinn, e il tempo aveva accelerato in modo da impedire qualunque interferenza esterna. Rinunciando a lavorare, John si alzò dalla scrivania e si infilò dentro l'armadio imboccando il tunnel sotterraneo che lo avrebbe riportato alla casa della confraternita. Si vergognava come un cane di aver sperato che Lash non ce la facesse. Non gli piaceva pensare di essere tanto crudele, senza contare che, se Lash moriva, Qhuinn se la sarebbe vista ancora più brutta. Non voleva che il suo segreto venisse svelato, però. Appena entrato nell'atrio sentì il bip del cellulare. Era Qhuinn: Andato via di kasa. Nn so x quanto funzionerà cel. Mi konsegnerò a Wrath quando vorrà. Merda. John rispose subito: Blay può passare a prenderti. Nessuna risposta. Tentò di nuovo: Q? Aspetta Blay, nn andare via senza di lui. Resta dove 6. John si fermò ai piedi dello scalone in attesa di una risposta. Il messaggio che ricevette un minuto dopo era di Blay: Nn preoccuparti, a Q penso io. T faccio saxe quando si fa vivo. Alla peggio passo a prenderlo. 243 Grazie al cazzo. Di norma John avrebbe raggiunto i suoi amici a casa di Blay, ma ancora non se la sentiva di affrontarli. Adesso di sicuro lo avrebbero visto in modo diverso. Oltre tutto, quello che gli era capitato si sarebbe stampato nelle loro menti come un chiodo fisso, proprio come all'inizio era accaduto anche a lui. Dopo lo stupro non riusciva a levarsi dalla testa quello che aveva dovuto subire, ci pensava in continuazione. Col tempo ci aveva pensato sempre meno: prima quasi tutto il giorno e tutta la notte, poi qualche volta di giorno e poi un giorno sì e uno no; a un certo punto poteva passare anche un'intera settimana senza che ci pensasse. Per le notti ci era voluto molto, molto di più, ma alla fine anche gli incubi, a poco a poco, erano svaniti. Già, al momento non aveva nessuna voglia di guardare i suoi amici negli occhi sapendo a cosa stavano pensando. Cosa si stavano immaginando. Cosa si stavano chiedendo. Naa, ancora non se la sentiva di stare con loro. Senza contare che non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione che tutta la disgrazia di Lash fosse colpa sua. Se non si fosse portato quel fardello addosso, Lash non l'avrebbe tirato in ballo davanti ai suoi amici, non sarebbe scoppiata nessuna rissa e Qhuinn non si sarebbe messo a imitare Rambo con suo cugino. 244 Ancora una volta la porcheria successa su quella scala causava dei problemi. Era come se le ripercussioni di quello che gli era capitato non dovessero finire mai. Passando davanti alla biblioteca diretto al piano di sopra, entrò d'impulso e passò in rassegna gli scaffali finché giunse alla sezione legale... larga sei o sette metri. Dio, dovevano esserci una settantina di volumi di giurisprudenza nell'Antico Idioma. Evidentemente i vampiri erano litigiosi quanto gli umani. Diede una scorsa ad alcuni tomi e leggendo il codice penale si fece un'idea di quello che poteva accadere. Se Lash moriva, Qhuinn doveva comparire davanti a Wrath con l'accusa di omicidio, e le cose non promettevano bene visto che, non essendo Qhuinn la vittima dell'aggressione, non poteva invocare la legittima difesa. La cosa migliore era invocare le attenuanti per il delitto d'onore, ma anche in quel caso era previsto un periodo di detenzione, oltre a una multa salatissima da versare ai genitori di Lash. D'altro canto, se Lash si salvava, era un caso di aggressione a mano armata, che ugualmente avrebbe comportato un periodo dietro le sbarre e una sanzione pecuniaria. In entrambi i casi si poneva lo stesso problema: per quel che ne sapeva lui, la razza non disponeva di istituiti di pena a causa del degrado subito dal sistema carcerario nei quattrocento anni precedenti l'ascesa al trono di Wrath. Di conseguenza, Qhuinn sarebbe stato posto agli arresti domiciliari da qualche parte fino alla costruzione di una prigione. 245 Era difficile immaginare che i genitori di Blay accettassero senza problemi di accogliere a tempo indeterminato un criminale sotto il >ro tetto. Dunque dove poteva andare Qhuinn? Con un'imprecazione, John rimise a posto i volumi rilegati in pelle. Voltandosi scorse qualcosa al chiaro di luna e dimenticò ciò che aveva appena letto. Al di là delle portefinestre della biblioteca Cormia stava uscendo dalla piscina, il corpo nudo stillante acqua, la pelle talmente liscia da sembrare lucidata, le braccia e le gambe, lunghe ed eleganti, aggraziate come una brezza estiva. Oh... accidenti. Come cavolo aveva fatto Phury a stare lontano da lei? Rivestendosi, Cormia si voltò verso la casa e, nel vederlo, rimase impietrita. John alzò la mano in un saluto imbarazzato. Si sentiva come un guardone. Cormia esitò, nell'incertezza di essere stata colta Sul fatto mentre faceva qualcosa di male, poi ricambiò il saluto. John aprì la portafinestra e, soprappensiero, disse a gesti, Scusa tanto se sono in ritardo. Oh, fantastico, bravo. Lei non conosceva la lingua dei segni... «Vi spiace di avermi vista o di essere in ritardo? Avete detto una delle due cose, immagino.» Quando lui batté 246 sull'orologio seconda.» Cormia arrossì leggermente. «Ah, la John annuì e lei gli andò vicino, senza fare rumore, lasciando una scia di orme bagnate sulle lastre di pietra. «Vi ho aspettato... Oh, santissima Vergine Scriba. Siete ferito.» Lui si portò la mano al labbro spaccato; avrebbe preferito che Cormia non ci vedesse così bene al buio. Cominciò a gesticolare nel tentativo di distrarla, ma poi, frustato dalla barriera comunicativa, ebbe un'ispirazione. Tirò fuori il cellulare e digitò un messaggio: Mi farebbe ancora piacere vedere un film, se ti va. Fino a quel momento era stata una notte d'inferno, ed era destinata a peggiorare ulteriormente una volta che, al ritorno dei fratelli dalla clinica, la sorte di Lash si sarebbe chiarita. Era troppo teso per starsene da solo a rimuginare; a quel punto, la prospettiva di sedersi al buio con Cormia e svagarsi un po' era l'unica minimamente sopportabile. Lei lo squadrò per qualche secondo, socchiudendo gli occhi. «Vi sentite bene?» Sì, benissimo, digitò lui. Mi spiace solo di essere arrivato in ritardo. Avrei proprio voglia di vedere un film. «Molto volentieri, allora», disse lei con un inchino. «Prima però vorrei sciacquarmi e cambiarmi.» 247 Insieme attraversarono la biblioteca e salirono il sontuoso scalone. John era impressionato. Cormia non era poi tanto imbarazzata, considerato che si era appena mostrata in tutta la sua nudità, e lui lo trovava parecchio intrigante. In cima alle scale, Cormia entrò in camera sua. John credeva di doverla aspettare per un bel po', invece lei tornò in un lampo. E aveva i capelli sciolti. Oh, Dio buono, che splendore. I riccioli le ricadevano fino in fondo alla schiena, più scuri del solito biondo grano perché erano ancora umidi. «Ho i capelli bagnati», disse Cormia mostrando ima manciata di forcine dorate. «Li raccoglierò appena saranno asciutti.» Se è per me fanne pure a meno, pensò John, contemplandola ammirato. «Vostra grazia?» John si riscosse e fece strada lungo la galleria delle statue fino alla porta a vento che segnava l'ingresso ai quartieri della servitù. La tenne aperta per Cormia e poi prese a destra, fino a una porta imbottita di cuoio che si spalancò su tuia rampa di scalini coperti da una passatoia in cui erano incastonate due file di lucine scintillanti. Cormia sollevò la tunica bianca e cominciò a salire; John la seguì, sforzandosi di non guardare le punte arricciate dei capelli che le sfioravano il didietro. 248 La sala proiezioni al secondo piano faceva pensare alla Metro-Goldwyn-Mayer degli anni Quaranta, con le sue pareti nero e argento decorate con rilievi a forma di ninfee in stile art déco e le raffinatissime applique oro e argento. I posti a sedere, più che richiamare le gradinate di uno stadio, erano degni di una Mercedes: ventun poltroncine di cuoio distribuite in tre sezioni separate da corridoi illuminati da altre file di lucine. Ognuno di quei troni su-perimbottiti per il fondoschiena era largo come un letto singolo e nell'insieme offrivano più portabicchieri di un Boeing 747. La parete di fondo era tappezzata da migliaia di DVD, e c'erano anche delle cibarie. Oltre a una macchina per fare i popcorn, che al momento era spenta perché Fritz non era stato avvertito della loro presenza, c'era un distributore di Coca Cola e un bancone pieno di caramelle e dolciumi assortiti: stringhe di liquirizia, uva passa ricoperta di cioccolato al latte o fondente, caramelle dure o gommose, tonde o a forma di pesciolino e così via. John si fermò a guardare tutto quel ben di Dio: Milk Duds, Raisinets, Swedish Fish, M&M's e Twizzlers. Era affamato e nauseato insieme e per scegliere dovette lottare contro il voltastomaco, ma pensava che forse a Cormia avrebbe fatto piacere sgranocchiare qualcosa. Mentre lei si guardava intorno con gli occhi sgranati, John prese un pacchetto di M&M's, perché sono un classico, e uno di Swedish Fish, nel caso Cormia non gradisse il cioccolato. Prese due bicchieri della Coca Cola, li riempì con una tonnellata di ghiaccio e poi ci versò sopra la bevanda scura e frizzante. 249 Con un fischio sommesso attirò l'attenzione di Cormia e annuì ih direzione delle prime file. Lei lo seguì, all'apparenza affascinata dalle lucette incassate nei gradini. Dopo averla fatta accomodare, John tornò su di corsa cercando di farsi venire in mente un titolo da mettere. Okay, i film dell'orrore erano esclusi, sia per la delicata sensibilità di Cormia sia per l'incubo assolutamente reale che lui stesso aveva vissuto poche ore prima. Il che, naturalmente... equivaleva a eliminare un buon cinquanta per cento della raccolta, perché di solito era Rhage a far pervenire a Fritz le richieste di nuovi film da acquistare. John scartò anche la sezione dedicata a Godzilla perché gli ricordava Tohr. Le commedie sboccate come American Pie e Due single a nozze-Wedding Crashers erano troppo volgari per Cormia. In compenso la collezione di Mary di film stranieri molto seri e profondi era... be', troppo impegnativa per lui, neanche in ima serata sì sarebbe riuscito a vederli fino in fondo: cercava qualcosa che lo aiutasse a evadere, non un'altra forma di tortura. Film d'azione? Chissà perché, ma aveva il sospetto che Cormia non fosse in grado di afferrare le sottigliezze di Bruce Willis, Silvester Stallone o Arnold Schwarzenegger. Restavano solo le commedie romantiche. Sì, ma quale? C'erano i classici di John Hughes: Sixteen Candles - Un compleanno da ricordare, Bella in rosa, Breakfast Club. La sezione dedicata a Julia Roberts con Mystic Pizza, Pretty Woman, Fiori d'acciaio, Il matrimonio del mio migliore amico... file su file di film con Jennifer Aniston, tutti 250 meritevoli di finire nel dimenticatoio. Tutti quelli con Meg Ryan degli anni Novanta... Tirò fuori un DVD. Mentre se lo rigirava tra le mani pensò a Cormia che ballava sull'erba del prato. Tombola. Stava per voltarsi quando gli squillò il cellulare. Il messaggio veniva da Zsadist, che evidentemente era ancora alla clinica di Havers: Lash nn messo bene. Terapie in korso. V aggiorno. Il messaggio era rivolto a tutti gli ospiti della casa; rileggendolo, John si chiese se fosse il caso di inoltrarlo a Blay e Qhuinn. Alla fine si infilò il telefono in tasca, pensando che tutti e due avevano già abbastanza a cui pensare senza gli aggiornamenti a singhiozzo sulle condizioni di Lash. Se fosse morto li avrebbe avvertiti. Si guardò intorno un attimo. Era assolutamente surreale fare una cosa normalissima come guardare un film; gli sembrava vagamente inopportuno. Ma al momento non si poteva fare altro che aspettare. Lui e tutti gli altri coinvolti nella tragedia erano come in folle. Si avvicinò al lettore DVD e inserì il disco nell'apparecchio; non vedeva altro che Lash steso sulle piastrelle della doccia, il terrore negli occhi, il sangue che sgorgava a fiotti dal collo. Cominciò a pregare che Lash ce la facesse. 251 Anche se significava vivere nel terrore di veder svelato il suo segreto. Meglio questo che una condanna per omicidio a carico di Qhuinn, e un morto sulla coscienza. Ti prego, Dio, fa' che Lash si salvi. 252 Capitolo 16 In centro, allo ZeroSum, Rehv stava passando una nottata di merda e la sua responsabile della sicurezza non faceva che peggiorare le cose. Ritta a braccia conserte davanti alla sua scrivania, Xhex lo guardava dall'alto in basso neanche fosse imo stronzo di cane in una serata torrida. Rehvenge si stropicciò gli occhi, poi le restituì lo sguardo torvo. «E perché dici che dovrei restare qui dentro, sentiamo?» «Perché sei tossico e terrorizzi i dipendenti.» A riprova del fatto che non erano del tutto deficienti, pensò lui. «Cos'è successo ieri notte?» chiese dolcemente lei. «Ti ho detto che ho comprato quel lotto a quattro isolati da qui?» «Sì. Ieri. Cosa è successo con la Principessa?» «Questa città ha bisogno di un locale dark. Credo che lo chiamerò La Maschera di Ferro.» Rehv si protese in avanti verso lo schermo luminoso del portatile. «Le entrate qui sono più che sufficienti a ottenere un prestito. Potrei anche semplicemente staccare un assegno, anche se così verremmo sottoposti a verifiche. Il riciclaggio di 253 denaro sporco è così fottutamente complicato, e se mi chiedi un'altra volta di ieri notte ti sbatto fuori a calci.» «Ah, facciamo i preziosi.» Il labbro superiore di Rehvenge si contrasse mentre gli spuntavano le zanne. «Non tirare troppo la corda, Xhex. Non sono proprio dell'umore.» «Senti, tieni pure la bocca chiusa, per me va benissimo, però non sfogarti sul personale per i tuoi casini. Non ci tengo a pulire le macerie dei tuoi rapporti interpersonali... Perché continui a stropicciarti gli occhi?» Rehv guardò l'orologio con una smorfia. Nel mezzo della sua visione piatta e rossa si rese conto che erano passate solo tre ore dall'ultima iniezione di dopamina. «Hai già bisogno di un'altra dose?» chiese Xhex. Senza prendersi la briga di annuire, Rehv aprì il cassetto e tirò fuori una fialetta di vetro e una siringa. Si tolse la giacca, arrotolò la manica della camicia, si legò il laccio emostatico al braccio e poi cercò di infilare l'ago sottile nel sigillo rosso della fiala. Non riusciva a centrarlo. Senza la percezione della profondità era come pescare nel vuoto pneumatico; cercava di far combaciare la punta dell'ago con la sommità della fiala, ma ogni volta mancava il bersaglio. I symphath vedevano tutto rosso, nelle sue varie sfumature, e avevano una visione bidimensionale. Quando la droga non faceva effetto, perché era stressato 254 o perché aveva saltato una dose, l'alterazione della vista era il primo segnale che qualcosa non andava. «Da' qua, faccio io», si offrì Xhex. Pervaso da un'ondata di cattiveria, Rehv scoprì di non riuscire a parlare, quindi si limitò a scuotere la testa intestardendosi ad armeggiare con la siringa. Nel frattempo il suo fisico cominciò a ridestarsi dal profondo torpore e le sensazioni affluirono nelle braccia e nelle gambe sotto forma di fastidiosi formicolii. «Okay, ora basta col tuo ego», disse Xhex girando decisa intorno alla scrivania. «Lasciami...» Rehv cercò di abbassare la manica in tempo, ma non ci riuscì. «Cristo santo», sibilò lei. Lui allontanò goffamente il braccio, ma era troppo tardi. Decisamente troppo tardi. . «Lasciami fare», disse Xhex, posandogli una mano sulla spalla. «Rilassati, capo... e lascia che mi prenda cura di te.» Con sorprendente delicatezza Xhex prese siringa e fiala, poi allungò sopra la scrivania il braccio coperto di lividi di Rehvenge, Ultimamente si era fatto talmente tante punture che, per quanto guarisse in fretta, le vene erano straziate, tutte gonfie e piene di buchi come strade troppo trafficate. 255 «Proviamo con l'altro braccio.» Mentre Rehvenge allungava il braccio destro, Xhex infilò l'ago nella fiala senza problemi, aspirando quella che avrebbe dovuto essere la sua dose normale. Lui scosse la testa e alzò due dita per farle capire che doveva raddoppiarla. «Così è troppo», protestò lei. Rehv fece per afferrare la siringa, ma lei la spostò fuori dalla sua portata. Lui picchiò il pugno sulla scrivania, guardandola negli occhi imperioso. Con un paio di violente imprecazioni, Xhex aumentò la dose; Rehv rimase a guardarla mentre frugava nel cassetto in cerca di una salviettina disinfettante, la apriva e gliela passava all'interno del gomito. Dopo aver fatto l'iniezione, Xhex sciolse il laccio emostatico e rimise tutto nel cassetto della scrivania. Rehvenge chiuse gli occhi, mettendosi comodo. Anche con le palpebre abbassate il rosso persisteva. «Da quanto tempo va avanti?» chiese piano Xhex. «La doppia dose, iniettarsela senza prima disinfettarsi. Quante volte al giorno ti fai?» Lui si limitò a scuotere la testa. Qualche istante dopo sentì che Xhex apriva la porta e ordinava a Trez di andare a prendere la Bendey. Stava 256 per dirle che non se ne parlava proprio quando lei tirò fuori dall'armadio una delle sue pellicce di zibellino. «Adesso andiamo da Havers», disse Xhex. «E se ti azzardi a discutere chiamo i ragazzi e ti faccio trascinare fuori a forza da questo ufficio.» Rehv la guardò truce. «Non sei tu... il capo, qui dentro.» «Vero. Ma se dico ai ragazzi che razza di infezione hai al braccio credi che ci metteranno molto prima di trascinarti fuori di peso? Se fai il bravo forse finirai sul sedile di dietro invece che nel bagagliaio. Se invece fai lo stronzo ti piazziamo sul cofano, a mo' di decorazione.» «Vai a farti fottere.» «Ci abbiamo già provato, ricordi? E non è piaciuto a nessuno dei due.» Merda, era ricordarglielo. proprio il momento giusto per «Usa la testa, Rehv. Non puoi averla vinta, quindi perché perdere tempo a protestare? Prima vai, prima torni.» Si guardarono in cagnesco finché lei disse, «E va bene, lasciamo perdere la doppia dose. Havers ti darà solo un'occhiata al braccio. Ti dico solo una cosa: sepsi.» Sì, come no, appena lo vedeva, il dottore avrebbe capito subito la situazione. 257 Rehv afferrò il bastone e, lentamente, si alzò in piedi. «Ho troppo caldo... per la pelliccia.» «La porto lo stesso, così quando la dopamina farà effetto e tu comincerai a raffreddarti non ti beccherai un malanno.» Xhex gli offrì il braccio senza guardarlo perché sapeva che altrimenti non si sarebbe appoggiato, era troppo orgoglioso. Ma aveva bisogno di appoggiarsi. Era debole da far spavento. «Detesto doverti dare ragione», disse Réhv. «Il che spiega perché di solito sei così irascibile.» Insieme uscirono adagio nel vicolo. La Bendey era lì che aspettava, con Trez al volante. Il Moro non fece domande né commenti, com'era nel suo stile. E naturalmente tutto quel silenzio opprimente lo faceva sentire anche peggio quando si comportava da imbecille. Rehv ignorò il fatto che, dopo averlo aiutato a salire, Xhex era scivolata accanto a lui sul sedile di dietro come se temesse che potesse avere un attacco di mal d'auto o roba del genere. La Bendey partì con la magica fluidità di un tappeto volante; molto appropriato visto che proprio su un tappeto volante gli sembrava di viaggiare. Mentre la sua 258 natura di symphath battagliava col suo sangue di vampiro si verificava un tira e molla tra il suo lato malvagio e quello per metà decente, e quegli sbalzi di gravità morale gli davano una nausea tremenda. Forse Xhex aveva ragione a preoccuparsi che potesse vomitare. Svoltarono a sinistra sulla Trade, infilarono la Decima Avenue e schizzarono verso il fiume, dove imboccarono l'autostrada. Alla quarta uscita lasciarono l'autostrada e attraversarono un quartiere di lusso, dove grandi ville circondate da parchi sorgevano discoste dalla strada, come sovrani in attesa che ci si inchinasse al loro cospetto. A causa della visione rossa e bidimensionale, Rhev non ci vedeva molto con gli occhi. Grazie al suo lato symphath, in compenso, sapeva anche troppo. Sentiva la presenza degli umani nelle loro sontuose magioni, conosceva i residenti tramite l'impronta emotiva che emettevano, grazie all'energia sprigionata dai loro sentimenti. Se la sua vista era piatta come uno schermo televisivo, la sua percezione della gente era tridimensionale: li percepiva sotto forma di griglie psichiche, le interazioni tra gioia e tristezza, senso di colpa e lussuria, collera e dolore creavano strutture che per lui erano solide come le loro abitazioni. Se il suo sguardo non riusciva a penetrare oltre i muri di cinta e gli ordinati filari di alberi, se non poteva varcare le solide pareti di pietra e calce delle loro dimore, la sua natura malvagia vedeva con estrema chiarezza gli 259 uomini e le donne al loro interno, come se fossero nudi davanti a lui, e i suoi istinti si rianimarono. Si concentrò sulle debolezze che filtravano da quelle griglie emotive, scovando i punti deboli di quelle persone, smanioso di sconvolgerle ancora di più. Era il gatto astuto di fronte ai poveri topolini, il persecutore dotato di artigli desideroso di giocare con loro fino a stanare dalle loro testoline tutti i segreti più inconfessabili, le bugie più turpi e le ansie più vergognose. Il suo lato malvagio li odiava con calmo distacco. Per la sua natura di symphath, i deboli non meritavano di ereditare la terra. Dovevano mangiarla fino a morirne soffocati. Poi potevi schiacciare le loro carcasse nella melma del loro sangue per passare alla vittima successiva. «Odio le voci nella mia testa», disse. Xhex lo guardò. Nella penombra del sedile posteriore, il suo viso duro e intelligente gli appariva curiosamente bello, forse perché era l'unica in grado di capire fino in fondo i demoni contro cui lui combatteva, e quel legame tra loro la trasfigurava. «Meglio disprezzare quella parte di te», disse Xhex. «L'odio ti protegge.» «Lottare è una noia.» «Lo so. Ma riusciresti a vivere in un altro modo?» «A volte ho qualche dubbio.» 260 Dieci minuti dopo, Trez varcò i cancelli della proprietà di Havers; il torpore alle mani e ai piedi di Rehv stava già tornando e la sua temperatura corporea era precipitata. Mentre la Bendey svoltava sul retro fermandosi davanti all'ingresso della clinica, la pelliccia di zibellino si rivelò una manna dal cielo; Rehv se la strinse addosso per riscaldarsi. Scendendo dall'auto notò che anche la visione rossa cominciava a svanire, gli occhi tornavano a percepire l'intera tavolozza cromatica del mondo e il senso di profondità collocava gli oggetti nello spazio cui era abituato. «Io resto qua fuori», disse Xhex dal sedile posteriore. Non entrava mai nella clinica. Considerato quello che le avevano fatto, d'altronde, si capiva perché. Rehv afferrò il bastone e vi si appoggiò con tutto il peso. «Faccio presto.» «Prenditi tutto il tempo che ci vuole. Trez e io ti aspettiamo qui.» Di ritorno dall'Altra Parte, Phury si materializzò direttamente allo ZeroSum. Fece il suo acquisto da iAm perché Rehv era fuori e il Moro ne faceva le veci, poi tornò a casa e corse su in camera sua. Voleva farsi una canna per rilassarsi un po' prima di bussare alla porta di Cormia e dirle che era libera di tornare al Santuario. Voleva anche prometterle che non l'avrebbe mai importunata, nella sua veste di Primale, e assicurarle che l'avrebbe protetta da ogni commento o critica. 261 Voleva anche mettere in chiaro che gli dispiaceva averla trascurata, lì sulla terra, tagliandola fuori dalla sua vita. Si sedette sul letto e prese le cartine, cercando di prepararsi il discorso che le avrebbe fatto... e si ritrovò a pensare a quando, la sera prima, Cormia lo aveva spogliato, le sue mani pallide ed eleganti che gli slacciavano la cintura prima di sbottonargli i calzoni. Di colpo fu scosso da un'ondata di furibondo desiderio erotico; fece del suo meglio per ignorarla, ma fingere calma e distacco era come stare nella cucina di una casa che andava a fuoco. Impossibile non notare il calore, il fumo e tutti gli allarmi antincendio. Ah... ma per fortuna non durò a lungo. L'autopompa e la squadra di pompieri bardati con maschere e guanti arrivò sotto forma di un'immagine di tutte quelle culle vuote. Quel ricordo, come una pistola carica puntata alla testa, spense subito i suoi bollenti spiriti. Nella sua mente apparve il mago, stagliato contro il cielo grigio, ritto in mezzo al suo campo disseminato di teschi. Quand'eri piccolo tuo padre era ubriaco giorno e notte. Ricordi come ti faceva sentire? Dimmi, socio, che razza di paparino sarai per tutti i tuoi figli, considerato che sei fumato ventiquattr'ore su ventiquattro, sette giorni su sette? Phury interruppe quello che stava facendo e ripensò a tutte le volte che aveva sollevato suo padre dalle erbacce del giardino trascinandolo dentro casa, proprio al sorgere del sole. La prima volta aveva cinque anni... ed era 262 terrorizzato all'idea di non riuscire a metterlo al riparo in tempo, tanto era pesante. Che spavento. Quel giardino abbandonato a se stesso gli era parso grande come una giungla, e le sue manine continuavano a mollare la presa sulla cintura del padre. Lacrime di panico gli inondavano il faccino mentre controllava frenetico il sole, sempre più alto nel cielo. Quando finalmente era riuscito a riportarlo in casa, Ahgony aveva aperto gli occhi e lo aveva schiaffeggiato con la mano grande come un badile. Volevo morire là fuori, idiota. Dopo qualche istante di silenzio, suo padre era scoppiato in lacrime abbracciandolo stretto e gli aveva promesso che non avrebbe mai più tentato di suicidarsi. Ma invece ci aveva riprovato un'altra volta. E poi un'altra e un'altra ancora. E ancora. Sempre con lo stesso finale. Phury aveva continuato a salvarlo perché voleva che Zsadist, al suo ritorno a casa, trovasse ancora un padre. Il mago sorrise. Ma poi non è andata così, no, socio? Tuo padre è morto comunque e Zsadist non lo ha mai conosciuto. Meno male che hai preso il vizio del fumo così almeno Z ha sperimentato di persona qual era il retaggio della sua famiglia. Phury si accigliò e guardò il water, al di là della porta del bagno. Chiuse il pugno intorno al sacchetto di fumo rosso e fece per alzarsi, deciso a buttarlo nel cesso e tirare la corda. 263 Il mago rise. Non ce la farai mai. Non riuscirai a smettere. Impossibile. Non riesci neanche a farne a meno per quattro ore di fila senza andare nel panico. Sinceramente, ce la fai a immaginare di non farti più neanche una canna per i prossimi settecento anni? E dai, socio, ragiona. Phury si rimise a sedere sul letto. Oh, guarda, ha un cervello. Che shock. Con un peso sul cuore, terminò di rollare e leccare lo spinello e se lo infilò tra le labbra. Aveva appena tirato fuori l'accendino quando all'altro capo della stanza squillò il telefono. Intuì subito di chi si trattava, e quando pescò il cellulare dalla tasca dei calzoni ebbe la conferma che aveva ragione. Zsadist. E aveva già chiamato tre volte. Rispose, rimpiangendo di non essersi già acceso la canna. «Sì?» «Dove sei?» «Sono appena tornato dall'Altra Parte.» «Okay, bene, porta subito le chiappe qui alla clinica. C'è stata una rissa nello spogliatoio. Crediamo che sia stato John Matthew a cominciare, ma alla fine Qhuinn ha accoltellato Lash al collo e il ragazzo è già andato una volta in arresto cardiaco. Dicono di averlo stabilizzato, ma nessuno sa cosa succederà. Ho appena provato per l'ennesima volta a contattare i suoi genitori, ma scatta 264 sempre la segreteria, probabilmente a causa di quel gala. Ti voglio qui quando arrivano.» Evidentemente Wrath non lo aveva ancora avvertito del gran cal-cione nel sedere che aveva dato al suo gemello. «Pronto?» fece Z, spazientito. «Phury? Ce l'hai con me?» «No.» Uno scatto per aprire l'accendino, un rapido sfregamento del pollice ed ecco la fiamma. Phury si rimise lo spinèllo in bocca e l'accese, facendosi coraggio. «Però non posso venire.» «Cosa vuol dire che non puoi? La mia shellan è incinta e costretta a letto e io ce l'ho fatta a venire qui. Mi servi come rappresentante del corso di addestramento e come membro della confraternita...» «Non posso.» «Gesù Cristo, lo sento che stai fumando! Metti giù quel cazzo di spinello e fai il tuo stramaledetto lavoro!» «Non sono più un Fratello.» Silenzio di tomba sulla linea. Poi la voce del suo gemello, bassa e quasi impercettibile. «Cosa.» Non era una domanda. Era più come se Z conoscesse già la risposta, ma sperasse comunque in un miracolo. 265 Phury però non poteva accontentarlo. «Senti... Wrath mi ha rimosso dalla confraternita. Ieri sera. Credevo che te l'avesse detto.» Phury diede un gran tiro allo spinello e lasciò che il fumo rotolasse fuori dalle labbra, lento come melassa. Non gli era difficile immaginare la faccia del suo gemello in quel momento, il RAZR stretto nel pugno, gli occhi neri di rabbia, il labbro sfregiato ritratto. Il ringhio che gli risuonò nell'orecchio non fu affatto una sorpresa. «Grandioso. Ben fatto, cazzo!» Il telefono divenne muto. Phury provò a richiamare, ma venne rimbalzato sulla casella vocale. Neanche questa fu una sorpresa. Merda. Non voleva solo riappacificarsi con Zsadist, voleva sapere cosa diavolo era successo al centro di addestramento. John stava bene? E Qhuinn? Tutti e due prendevano fuoco subito, come tutti i vampiri freschi di transizione, ma avevano un gran cuore. Lash doveva aver combinato qualcosa di terribile. Phury finì di fumare lo spinello a tempo di record. Mentre ne rollava un altro e lo accendeva, decise che poteva farsi ragguagliare da Rhage. Hollywood era sempre fonte di... Il mago scosse la testa. Wrath non sarebbe contento di sapere che ti stai impicciando degli affari della confraternita, lo 266 capisci anche tu, socio. Qui sei solo un ospite, lurido bastardo. Non fai più parte della famiglia. Al piano di sopra, nella sala proiezioni, Cormia si sistemò in una poltrona così comoda che le ricordava l'acqua della piscina, avvolgente come il palmo di un gigante buono. Le luci si abbassarono e John la raggiunse. Digitò qualcosa sul telefonino, poi le mostrò il display: Sei pronta? Quando Cormia annuì, la sala in penombra venne illuminata da una immagine gigantesca e il suono si riversò da ogni dove. «Vergine santissima!» John posò la mano sulla sua. Dopo qualche istante Cormia si calmò e si concentrò sullo schermo, soffuso di sfumature di azzurro. Immagini di umani apparivano e sparivano, maschi e femmine ballavano insieme, vicini, i corpi che si strusciavano, i fianchi che si dimenavano al ritmo della musica. Ogni tanto compariva una scritta rosa in inglese. «E la stessa cosa della televisione?» chiese Cormia. «Funziona nello stesso modo?» John annuì proprio mentre in rosa comparivano le parole Dirty Dancing. 267 Improvvisamente ecco scendere lungo una strada in mezzo a colline verdeggianti una macchina chiamata automobile. Nell'auto c'erano delle persone. Una famiglia di umani con un padre, una madre e due figlie. Da ogni angolo della sala si levò una voce femminile. «Era l'estate del 1963...» Quando John le premette qualcosa in mano, Cormia riuscì a stento a staccare gli occhi dallo schermo il tempo necessario per vedere cos'era. La cosa si rivelò essere un sacchetto, un sacchet-tino marrone scuro aperto in cima. John fece il gesto di tirare fuori qualcosa per mettersela in bocca, così Cormia infilò dentro una mano. Ne uscirono delle piccole cose tonde multicolori e lei esitò. Non erano bianche, decisamente, e anche sulla terra lei aveva mangiato sempre solo cose bianche, com'era tradizione. Ma, onestamente, che male c'era? Si guardò intorno, pur sapendo che non c'era nessun altro lì con loro, poi, con la sensazione di infrangere la legge, se ne infilò qualcuna in... Santissima... Vergine... Scriba! Avevano un sapore che risvegliò la sua lingua in un modo che le ricordò il sangue. Che cos'era quel cibo? Cormia guardò il sacchetto. Sul davanti c'erano un paio di personaggi da fumetto che assomigliavano ai confetti. Sul pacchetto c'era scritto M&M's. 268 Doveva assolutamente mangiare tutto il sacchetto. Subito. Anche se quello che c'era dentro non era bianco non aveva importanza. Ne mangiò degli altri, mugolando di piacere; sentendola, John rise e le allungò qualcosa da bere, un contenitore alto e rosso con su scritto Coca Cola. Dentro si sentivano dei cubetti di ghiaccio che cozzavano gli uni contro gli altri e c'era un bastoncino infilato nel coperchio. John alzò il suo bicchiere e succhiò dal bastoncino. Cormia fece altrettanto e poi tornò al suo sacchetto magico e allo schermo. Adesso sulla sponda di un lago c'erano delle persone in fila che tentavano di imitare una graziosa biondina che si muoveva prima a destra e poi a sinistra. La ragazza, Baby, quella che raccontava la storia, cercava disperatamente di seguire l'esempio degli altri. Cormia si voltò verso John per chiedergli una cosa e vide che stava fissando il cellulare con la fronte aggrottata, come se fosse deluso. Era successo qualcosa quella sera, prima del loro incontro. Qualcosa di brutto. John era cupo, non lo aveva mai visto tanto scuro in volto, ma era anche incredibilmente riservato. Cormia desiderava aiutarlo, per quanto possibile, ma non voleva apparire indiscreta. Essendo lei stessa abituata a tenere tante cose per sé, capiva l'importanza della privacy. Decise di lasciarlo in pace, mettendosi comoda nella poltroncina e lasciandosi trasportare dal film. Johnny era 269 bello, anche se non quanto il Primale, e, oh, come si muoveva al ritmo della musica. E la cosa più bella era vedere Baby che, a poco a poco, faceva progressi come ballerina. Guardarla sbagliare, esercitarsi, inciampare e poi finalmente eseguire i passi in modo corretto ti riempiva il cuore di gioia per lei. «Mi piace», disse Cormia. «Mi sembra quasi di vivere le stesse cose.» John voltò il cellulare verso di lei. Abbiamo tanti altri film. A bizzeffe. «Voglio vederli», disse Cormia bevendo ancora un sorso di bibita ghiacciata. «Voglio vederli tutti...» Tutt'a un tratto Baby e Johnny erano da soli nella stanza di lui. Cormia rimase di sasso quando vide che si avvicinavano e cominciavano a ballare. Erano così diversi, fisicamente, Johnny era molto più grosso di Baby, molto più muscoloso, eppure la toccava con riverenza e delicatezza. E non era il solo a osare delle carezze. Anche lei lo accarezzava, facendo scorrere le mani sulla sua pelle, con l'aria di provare un grande piacere. Cormia schiuse le labbra e raddrizzò la schiena, protendendosi verso lo schermo. Nella sua mente, il Primale prese il posto di Johnny e lei divenne Baby. Insieme si muovevano l'uno contro l'altra, strusciando i fianchi, mentre i vestiti volavano via. Adesso erano da soli, al buio, in un posto sicuro dove nessuno poteva vederli o interromperli. 270 Come era successo nella stanza del Primale, solo che adesso lui non si fermava, e non c'erano altre implicazioni, non c'era il peso delle tradizioni, non c'era la paura di fallire e le sue trentanove sorelle non erano parte in causa. Era tutto così semplice, così reale, anche se solo nella sua testa. Era questo che voleva con il Primale, pensò Cormia guardando il film. Esattamente questo. 271 Capitolo 17 Seduto vicino a Cormia, John controllò di nuovo il cellulare per due motivi. La scena di sesso lo stava mettendo a disagio e fremeva per avere notizie di Qhuinn e Lash. Maledizione. Inviò un altro messaggino a Blay, che gli rispose subito dicendo che neanche lui aveva sentito l'amico e stava pensando di tirar fuori le chiavi della macchina. John posò il telefonino sulla coscia. Qhuinn non poteva aver fatto qualcosa di veramente stupido. Stupido come impiccarsi nel bagno. Naa. Impossibile. Suo padre, in compenso, era capace di tutto. John non lo aveva mai conosciuto, ma aveva sentito i racconti di Blay... e visto l'occhio nero con cui Qhuinn si era presentato la notte dopo la transizione. Si accorse che stava battendo nervosamente il piede e fermò la gamba posando il palmo sul ginocchio. Superstizioso com'era, continuava a pensare a due detti popolari secondo cui le disgrazie non vengono mai da sole e non c'è due senza tre. Se Lash moriva, ne sarebbero seguite altre due. 272 Pensò ai fratelli, fuori per strada a caccia di lesser. A Qhuinn che da qualche parte vagava da solo, nella notte. A Bella con la sua gravidanza. Controllò di nuovo il cellulare, imprecando tra sé. «Se dovete andare andate», disse Cormia. «Io posso stare qui da sola.» John fece per scuotere la testa, ma lei lo fermò sfiorandogli il braccio. «Fate pure ciò che dovete, qualunque cosa sia. È evidente che avete avuto una serata difficile. Vi chiederei di parlarmene, ma non penso che lo fareste.» Vorrei tanto poter tornare indietro e non mettermi le scarpe, digitò lui soprappensiero. «Come? Non capisco.» Be', cavolo, adesso doveva spiegarsi, altrimenti lo avrebbe preso per scemo. Stasera è successo qualcosa di brutto. Appena prima che accadesse, il mio amico mi aveva regalato questo paio di scarpe da ginnastica. Se non le avessi messe, noi tre saremmo già stati lontani prima che... Esitò, quello che voleva dire era che lui e i suoi amici sarebbero già stati lontani prima che Lash uscisse dalla doccia... prima che succedesse quello che poi è successo. Cormia lo guardò per qualche istante. «Volete sapere cosa penso?» Quando John annuì, lei disse, «Se non fosse stato per le scarpe avreste perso tempo per qualche altro motivo, uno 273 qualsiasi: qualcun altro che si metteva qualcosa, oppure una conversazione o una porta che non si apriva. Per quanto si possa scegliere liberamente, il destino è immutabile. Ciò che deve accadere accade, in un modo o nell'altro.» Dio, anche lui aveva pensato più o meno la stessa cosa, giù nell'ufficio del centro di addestramento. Solo che... È colpa mia, però. C'entravo io. È successo tutto per causa mia. «Avete fatto un torto a qualcuno?» Quando lui scosse la testa, Cormia chiese, «Allora perché sarebbe colpa vostra?» Non poteva scendere nei dettagli. Neanche a parlarne. Perché sì. Il mio amico ha fatto una cosa terribile per salvare la mia reputazione. «Ma è stata una sua libera scelta in quanto maschio di valore.» Cormia gli strinse con forza il braccio. «Non rammaricatevi per il suo libero arbitrio, chiedetevi piuttosto cosa potete fare adesso per aiutarlo.» Mi sento così dannatamente impotente. «È una vostra impressione, non la realtà», disse dolcemente lei. «Andate e riflettete. Troverete la strada giusta, ne sono certa.» La pacata fiducia che Cormia riponeva in lui era rafforzata dal fatto che gliela si leggeva in faccia, non 274 erano solo parole. Ed era proprio ciò di cui lui aveva bisogno. Sei proprio forte, digitò John. Cormia si illuminò, compiaciuta. «Grazie, padrone.» Soltanto John, per favore. Le porse il telecomando e si assicurò che sapesse come usarlo. Lei imparò subito e la cosa non lo sorprese. Cormia era come lui. I suoi silenzi non implicavano che non fosse sveglia. Si congedò con un inchino; gli fece uno sbrano effetto, ma gli pareva la cosa giusta da fare, poi alzò i tacchi. Salendo le scale inviò un SMS a Blay. Ormai erano passate un paio d'ore dall'ultima volta che avevano sentito Qhuinn ed era decisamente ora di andare a vedere. Era probabile che avesse della roba con sé, il che escludeva che potesse smaterializzarsi, dunque non poteva essere andato lontano perché non aveva la macchina. A meno che non si fosse fatto accompagnare da qualche parte da uno dei doggen di casa sua. John spalancò la porta che si apriva sulla galleria delle statue. Cormia aveva proprio ragione: starsene seduto con le mani in mano non avrebbe aiutato Qhuinn, alle prese con la sua cacciata di casa, e non avrebbe cambiato le cose per Lash, determinando se doveva vivere o morire. 275 E, per quanto fosse imbarazzato per quello che avevano sentito i suoi amici, loro due erano più importanti delle parole crudeli pronunciate in quello spogliatoio. Aveva appena infilato le scale, quando il cellulare segnalò l'arrivo di un SMS. Era di Zsadist: Lash andato. Si mette male. Qhuinn camminava lungo il ciglio della strada, un piede dietro l'altro, con la sacca da viaggio che gli sbatteva contro il sedere. In lontananza un fulmine saettò nel cielo illuminando le querce e trasformando i tronchi in una fila di massicci energumeni. Il tuono che seguì non era poi così lontano e c'era ozono nell'aria. Aveva la sensazione che in breve si sarebbe ritrovato bagnato fradicio. E aveva ragione. All'inizio le gocce di pioggia del temporale erano grosse e distanziate, poi però si fecero più piccole e più fitte, come se le gocce adulte fossero saltate giù dalle nuvole per prime, seguite da quelle più giovani solo quando ormai non c'era pericolo. La pioggia colpiva la sacca di nylon producendo come degli schiocchi, e i capelli cominciarono ad appiattirglisi in cima al cranio. Qhuinn non fece nulla per coprirsi perché tanto la pioggia avrebbe vinto. Era senza ombrello e non aveva intenzione di ripararsi sotto una quercia col rischio di restare fulminato. I capelli ritti in testa non erano il look del momento. 276 Fu una decina di minuti dopo lo scoppio del temporale che l'auto accostò alle sue spalle. I fari lo colpirono alla schiena proiettando la sua ombra sul marciapiede, il chiarore aumentò col calare del sibilo del motore. Blay era venuto a prenderlo. Qhuinn si fermò e si voltò, schermandosi gli occhi col braccio. Alla luce dei fari la pioggia era un finissimo merletto bianco e davanti al cofano aleggiava una nebbiolina che gli ricordava certi episodi di Scooby-Doo. «Blay, potresti abbassare gli abbaglianti? Mi stai accecando.» La notte ripiombò nell'oscurità e quattro portiere si spalancarono, ma all'interno dell'abitacolo non si accese nessuna luce. Qhuinn lentamente lasciò cadere il bordone per terra. Quelli erano maschi della sua specie, non lesser. Il che, considerato che era disarmato, era solo moderatamente rassicurante. Le portiere si richiusero con una rapida successione di tunc. Quando un altro lampo rischiarò il cielo, Qhuinn riuscì a scorgere quello che aveva davanti: i quattro erano vestiti di nero e avevano la faccia nascosta dai cappucci. Ah, già. La tradizionale guardia d'onore. Qhuinn non scappò quando quelli, uno dopo l'altro, tirarono fuori delle mazze nere. Si mise in guardia. 277 Avrebbe perso, e alla grande anche, ma che cavolo, sarebbe andato giù con tutte le nocche insanguinate e lasciando sull'asfalto i denti di quei quattro. La guardia d'onore lo circondò, pronta a massacrarlo di botte, e Qhuinn ruotò su se stesso, in attesa del primo colpo. Erano tutti grandi e grossi, della sua stessa taglia, e il loro obiettivo era riscuotere una sorta di risarcimento fisico per quello che aveva fatto a Lash. Non trattandosi di un rytho, ma di una forma di indennizzo, Qhuinn era autorizzato a reagire. Dunque Lash doveva avercela fatta... Una delle mazze lo centrò dietro al ginocchio e fu come essere colpito da una pistola paralizzante. Cercò di non perdere l'equilibrio, ben sapendo che se finiva a terra era fottuto, ma qualcun altro gli mise fuori combattimento l'altra gamba, colpendolo al muscolo della coscia. Atterrando sulle mani e sulle ginocchia, venne tempestato da una gragnola di mazzate alle spalle e alla schiena, ma con un balzo riuscì ad agguantare una delle guardie per le caviglie. Il tizio cercò di fare un passo avanti, ma Qhuinn non mollò la presa, provocando un repentino spostamento del baricentro dell'avversario. Per fortuna, piombando giù come un masso, il bastardo ebbe la cortesia di tirarsi dietro uno dei suoi compari. Qhuinn doveva procurarsi una mazza. Era la sua unica possibilità di salvezza. Con uno slancio sovrumano, cercò di afferrare quella del tizio steso a terra, ma un'altra mazzata lo centrò al polso. Il dolore fu come un'insegna al neon con su scritto 278 Cazzo che male e la mano perse immediatamente ogni funzionalità, penzolando inerte e inservibile dal braccio. Meno male che era ambidestro. Agguantò la mazza con la sinistra e colpì al ginocchio il tizio che gli stava davanti. Dopo di che cominciò il divertimento. Alzarsi era escluso, quindi si mosse fulmineo da terra, puntando alle gambe e alle palle degli avversari. Quelli avanzavano e poi si ritraevano di scatto per evitare i suoi colpi; era come essere circondato da cani ringhiosi pronti ad azzannarlo. Cominciava a pensare di poterli tenere a bada quando uno di loro prese un sasso grosso come un pugno e glielo tirò in testa. Qhuinn fu lesto a chinarsi, ma la pietra lo colpì di rimbalzo, dopo aver toccato il marciapiede... centrandolo alla tempia. Qhuinn rimase immobile per una frazione di secondo e bastò questo a segnare la sua fine. Si avventarono tutti e quattro addosso a lui e fu lì che ebbe inizio il pestaggio vero e proprio. Raggomitolandosi su se stesso, Qhuinn si strinse le braccia intorno alla testa nel tentativo di proteggere meglio che poteva gli organi vitali e il cervello, mentre quelli gliele davano di santa ragione. In teoria non dovevano ammazzarlo. Proprio per niente. Ma uno di loro gli sferrò un calcio alla base della schiena prendendolo nelle reni. Qhuinn non potè evitare 279 di inarcarsi, ma così facendo si scoprì, e il secondo calcio lo colpì sotto al mento. La mascella non era un buon ammortizzatore, anzi, funse da amplificatore e, quando i denti di sotto andarono a sbattere con violenza contro quelli di sopra, il cranio assorbì il grosso dell'impatto. Stordito, Qhuinn si accasciò su se stesso, abbassando le braccia e abbandonando la posizione difensiva. Non dovevano ucciderlo perché se lo stavano picchiando significava che Lash era ancora vivo. Se fosse morto, i genitori di suo cugino lo avrebbero trascinato davanti al re chiedendogli di metterlo a morte, anche se tecnicamente Qhuinn era minorenne. No, quel pestaggio era solo una vendetta per le ferite inflitte a Lash, una sorta di occhio per occhio. O almeno così avrebbe dovuto essere. Ma invece quelli continuarono a prenderlo a calci nella schiena e poi uno prese la rincorsa piantandogli tutti e due gli anfibi in mezzo al petto. Qhuinn rimase senza fiato. Il suo cuore smise di pompare. Tutto si fermò. Fu allora che udì la voce di suo fratello, «Non farlo più. È contro le regole.» Suo fratello... suo fratello...? Allora non era per il ferimento di Lash. 280 Quella spedizione punitiva veniva dalla sua stessa famiglia ; volevano fargliela pagare per aver infangato il loro nome. Mentre Qhuinn ansimava nel vano tentativo di respirare, i quattro si misero a litigare. La voce di suo fratello era la più forte. «Adesso basta!» «Quel bastardo di un mutante merita di morire!» Qhuinn perse interesse per quella scena madre quando si accorse che il suo cuore non era ripartito... e neanche il panico che lo colse d'improvviso a quella scoperta bastò a rimetterlo in moto. Vedeva tutto a scacchi, e cominciò a perdere sensibilità alle mani e ai piedi. Fu allora che vide la luce abbagliante. Merda, era pronto per il Fado. «Cristo! Andiamocene via!» Qualcuno si chinò sopra di lui. «Torneremo a prenderti, stronzo. E senza il tuo fratello del cazzo, la prossima volta.» Ci fu uno scalpiccio di piedi, rumori di portiere che si aprivano e si chiudevano e poi uno stridore di freni quando l'automobile partì. Subito dopo sopraggiunse un'altra auto; allora la luce che aveva visto non era 281 l'Aldilà, si rese conto Qhuinn, ma qualcun altro che guidava lungo la strada. Accasciato al suolo dove lo avevano lasciato, gli balenò l'idea che magari poteva tentare di prendersi a pugni il petto, tipo 007 in Casino Royale, praticandosi da solo la rianimazione cardiopolmonare. Chiuse gli occhi. Già, se solo avesse potuto sistemare tutto alla 007... Impossibile, però. Non riusciva a far funzionare i polmoni se non per dei respiri debolissimi e il suo cuore era sempre ridotto a un inutile muscolo nel petto. Il fatto che non sentisse più dolore era ancora più preoccupante. La luce bianca che lo investì a quel punto fu come la foschia sospesa sopra la strada, una nebbiolina sottile e delicata che lo avvolse, rasserenandolo. Sotto quella luce passò dal terrore alla totale assenza di paura. Quella non era ima macchinarlo sapeva. Quello era proprio il Fado. Si sentì levitare sopra il marciapiede e si librò, privo di peso, fino all'imbocco di un corridoio bianco. In fondo c'era una porta che si sentiva obbligato ad aprire. Avanzò verso di essa con un'urgenza crescente e appena la raggiunse posò la mano sulla maniglia. Quando strinse le dita intorno all'ottone caldo ebbe la vaga sensazione che, una volta varcata quella soglia, sarebbe stata finita. Finché non apriva la porta e non metteva piede in quello che c'era dall'altra parte era come sospeso a metà, né di là né di qua. Una volta entrato non poteva più tornare indietro. 282 Proprio mentre stava per girare la maniglia, vide un'immagine sui pannelli dell'uscio. Era offuscata e lui si fermò per un attimo, tentando di capire cosa fosse. Oh... Dio... guardando. pensò, quando Porca.,, troia. 283 realizzò cosa stava Capitolo 18 Cormia non era né in camera sua né in bagno. Scendendo nell'atrio per cercarla, Phury giunse a una decisione. Se per caso incontrava Rhage non gli avrebbe rivolto le domande che gli ronzavano per la testa. I guai con i tirocinanti, i lesser e la guerra non erano più di sua competenza e faceva meglio ad abituarsi. Nessuno era più tenuto a fornirgli risposte sui fratelli e sugli studenti. Cormia era affar suo. Lei e le Elette. Ed era tempo che si assumesse le sue responsabilità. Giunto davanti all'arcata della sala da pranzo si fermò di colpo. «Bella?» La shellan del suo gemello era seduta su una delle sedie vicino alla credenza, a testa china, una mano sul pancione. Aveva il respiro corto. Bella alzò gli occhi su di lui e sorrise debolmente. «Ciao.» Oh, Dio. «Ciao. Cosa c'è?» «Sto bene. E prima che tu dica... che dovrei essere a letto... ci sto andando...» Spostò lo sguardo sullo scalone. «È solo che al momento mi sembra un tantino lontano.» 284 Per motivi di decoro, Phury era sempre stato attento a evitare la compagnia di Bella al di fuori dei pasti comuni, anche prima dell'arrivo di Cormia. Ora però non era il momento di mantenere le distanze. «Vuoi che ti porti io?» Ci fu una pausa, durante la quale Phury si preparò a contrastare eventuali obiezioni. Forse Bella gli avrebbe permesso almeno di sorreggerla per un braccio... «Sì, grazie.» Oh... merda. «Ah, ma allora sei proprio diventata ragionevole!» Phury sorrise, come se non fosse sul punto di sclerare, e le andò vicino. Quando la sollevò da terra, con un braccio sotto le gambe e l'altro intorno alla schiena, gli parve leggera come l'aria. Profumava di rose notturne e anche di qualcos'altro. Qualcosa... di strano, come se gli ormoni della gravidanza fossero tutti sballati. Forse stava perdendo sangue. «Allora, come ti senti?» chiese Phury con voce sorprendentemente calma mentre la portava fino alle scale. «Sempre lo stesso. Stanca. Ma il piccolo scalcia tantissimo, il che è un bene.» 285 «Bene.» Giunto al primo piano imboccò la galleria delle statue. Quando lei gli posò la testa sulla spalla rabbrividendo leggermente, Phury ebbe l'impulso di mettersi a correre. Appena arrivò davanti alla camera di Bella, l'uscio in fondo al corridoio si aprì. Ne uscì Cormia che si fermò, esitante, a occhi sgranati. «Ti spiace aiutarmi?» fece lui. Lei corse ad aprire la porta della stanza per permettergli di entrare. Phury andò dritto al letto e depose Bella nell'avvallamento creato dalle lenzuola e dalle coperte piegate all'indietro. «Vuoi qualcosa da mangiare?» chiese Phury, preparandosi ad affrontare per gradi il discorso della serie "facciamo venire la dottoressa Jane". Gli occhi di Bella si accesero dello scintillio di un tempo. «Credo che il problema sia proprio questo... ho mangiato troppo. Ho fatto fuori due vaschette di stracciatella alla menta Ben and Jerry.» «Ottima scelta, se ti diverte lavorare di cucchiaio», scherzò Phury; poi, cercando di assumere un tono noncurante, mormorò, «Cosa dici se chiamo Z?» «E perché? Sono solo stanca. E prima che tu me lo chieda, no, non sono stata in piedi più dell'ora che mi è concessa. Non disturbarlo, sto bene.» 286 Forse era così, ma avrebbe comunque chiamato il suo gemello. Solo, non davanti a lei. Si lanciò un'occhiata alle spalle. Cormia era ferma appena fuori dalla stanza, una figura silenziosa avvolta nella lunga tunica, il bel volto segnato dalla preoccupazione. Phury tornò a voltarsi verso Bella. «Ehi, ti farebbe piacere un po' di compagnia?» «Tantissimo», disse lei sorridendo a Cormia. «Ho registrato una maratona di Project Runway e stavo giusto per guardarla. Ti va di unirti a me?» Cormia puntò gli occhi in quelli di Phury e la supplica di lui dovette trasparire evidente in ciò che vide. «Non so cosa sia, ma... sì, mi farebbe piacere guardarla insieme a te.» Quando entrò nella stanza, Phury la prese per un braccio bisbigliando, «Io avverto Z. Se ti sembra che Bella stia male prendi il telefono e digita asterisco-Z, okay? Risponderà lui.» Cormia annuì e sottovoce disse, «Mi prenderò cura di lei.» «Grazie», mormorò Phury dandole una piccola stretta al braccio. Dopo aver salutato, chiuse la porta e si allontanò di qualche metro prima di chiamare Z al cellulare. Rispondi, rispondi... Casella vocale. 287 Merda. «Non è lui. Non è lui!» Ritto sotto la pioggia in fondo al vicolo di fianco a McGrider's, Mr D aveva voglia di prendere il tesser che aveva davanti, piazzarlo in mezzo a Trade Street e usarlo a mo' di dosso artificiale. «Ma che cazzo di problema hai?» esclamò quello indicando il vampiro civile ai loro piedi. «È il terzo vampiro che becchiamo stanotte. Più di quanti ne abbiamo catturati da un anno a questa parte...» Mr D sguainò il coltello a serramanico. «Be', non sono quello che ci serve. Per cui adesso ti rimetti in pista, se non vuoi che ti strappi le palle e me le mangi a colazione.» Il lesser fece un passo indietro e Mr D si chinò a tagliare la giacca del civile. Il vampiro era privo di sensi e conciato da sbatter via, sembrava un completo spiegazzato con un disperato bisogno di passare in tintoria. C'era sangue rosso dappertutto, sui suoi vestiti, e la faccia, tutta a chiazze, sembrava un test di Rorschach. Mr D lo perquisì in cerca del portafoglio; su una cosa concordava col suo sottoposto, ma la tenne per sé. Era difficile credere di aver messo a segno tre catture in una sola notte... eppure si stava ancora cagando sotto, neanche avesse mangiato prugne per giorni. Non c'erano buone notizie per l'Omega, questa era la verità, ed era lui a rischiare di rimetterci il culo. 288 «Portalo alla casa di Lowell Street», ordinò mentre una monovolume azzurro pallido carica di rinforzi imboccava il vicolo. «Fammi sapere quando rinviene. Vedrò se sarà in grado di dirci qualcosa su quello che stiamo cercando.» «Agli ordini, capo.» Capo suonò come stronzo. Mr D valutò l'ipotesi di prendere il coltello e scuoiare quel figlio di puttana seduta stante. Ma avendo già fatto fuori un lesser, quella notte, si impose di rinfoderare l'arma. Assottigliare gli effettivi non era una grande idea, al momento. «Starei attento a comportarmi bene, se fossi in te, ragazzo», mormorò mentre due lesser scendevano dalla monovolume per caricare il civile. «E perché? Mica siamo in Texas.» «Verissimo.» Mr D paralizzò i principali gruppi muscolari di quel cazzone, lo afferrò per le palle e strizzò i gioielli di famiglia come caramelle gommose. Il non morto lanciò un urlo, a dimostrazione del fatto che le parti basse di un uomo, anche se impotente, restano sempre il modo migliore per attirare la sua attenzione. «Non c'è comunque motivo di essere villani», sussurrò Mr D guardando il volto contratto del tesser. «La mamma non ti ha insegnato niente?» La risposta che ottenne poteva essere qualunque cosa, per quel che si capiva, dal Ventitreesimo salmo a una barzelletta sconcia, alla lista della spesa. 289 Appena lasciò andare la presa, Mr D sentì prudere ogni centimetro quadrato di pelle. Grandioso. Di bene in meglio. «Mettete sottochiave quel vampiro», ordinò, «e poi tornate qui. Non abbiamo ancora finito, per stanotte.» Quando la monovolume ripartì, Mr D era pronto a grattarsi con la carta vetrata. Quel prurito insopportabile significava che l'Omega voleva vederlo, ma dove diavolo potevano incontrarsi? Era in pieno centro e la proprietà più vicina della Lessening Society era a dieci minuti buoni di macchina... considerato che non aveva notizie da dargli, tuttavia, farlo aspettare non era una buona idea. Risalì di buon passo la Trade controllando gli edifici abbandonati. Alla fine decise che non poteva correre il rischio di incontrare l'Omega in uno di essi. Gli umani senzatetto erano dappertutto, in centro, e in una serata come quella di sicuro cercavano riparo dal temporale. L'ultima cosa di cui aveva bisogno era un testimone umano, anche se strafatto o sbronzo, specie in previsione della lavata di capo che stava per ricevere. Un altro paio di isolati e giunse davanti a un cantiere edile circondato da una recinzione alta tre metri. Aveva visto crescere l'edificio sin dalla primavera precedente, prima lo scheletro che si ergeva dal terreno, poi la pelle di vetro che avvolgeva le travi d'acciaio e infine il sistema nervoso di cavi e tubature incassato nelle pareti. Di notte gli operai non lavoravano, dunque faceva proprio al caso suo. 290 Mr D prese la rincorsa, spiccò un balzo, afferrò con entrambe le mani il bordo della recinzione e la scavalcò. Atterrò flettendo le ginocchia e rimase lì fermo, accovacciato. Non si fece avanti nessuno, neanche un cane pronto ad azzannarlo; con la forza del pensiero Mr D spense un paio di luci e al buio sgattaiolò verso una porta che - sì! non era chiusa a chiave. Dentro c'era quell'odore asciutto di cartongesso e malta da intonaco; Mr D si spinse più all'interno, facendo riecheggiare i passi nel vuoto. Era il classico locale per uffici, un enorme stanzone che un giorno sarebbe stato suddiviso in tanti cubicoli. Poveracci, lui non ce l'avrebbe mai fatta a reggere un lavoro a tavolino. Punto primo, non ci capiva un'acca di libri e, punto secondo, se non poteva vedere il cielo gli veniva voglia di urlare. Giunto al centro dell'edificio si mise in ginocchio, si tolse il cappello da cowboy e si preparò a ricevere una strigliata della madonna. Appena si aprì al padrone, il temporale si scatenò per davvero, i tuoni rimbombavano, rimbalzando da un palazzo all'altro. Tempismo perfetto. L'arrivo dell'Omega risuonò come l'ennesimo rombo di tuono quando il padrone irruppe nella versione di realtà rappresentata da Caldwell, balzando fuori dal nulla come se stesse emergendo da un lago. Quando fu arrivato completamente, il fondo del cantiere tremò come se fosse gomma che riprendeva la sua forma. 291 I bianchi panneggi della veste si distesero lungo la spettrale figura nera dell'Omega e Mr D si apprestò a lanciarsi nel classico "stiamo facendo del nostro meglio". Ma fu l'Omega a parlare per primo. «Ho trovato ciò che mi appartiene. La sua morte era la soluzione. Dammi quattro uomini, procurati tutto l'occorrente e vai a preparare la fattoria per una affiliazione.» Okay, non era quello che si aspettava di sentire uscire dalla bocca del padrone. Mr D si alzò in piedi e tirò fuori il telefono. «C'è una squadra sulla Terza Strada. Li avverto di venire qui.» «No, li preleverò sul posto e viaggeranno con me. Quando tornerò alla fattoria mi assisterai e poi dovrai rendermi un servizio.» «Sì, padrone.» L'Omega tese le braccia e la veste bianca si dispiegò come un paio d'ali. «Rallegrati, poiché ora siamo dieci volte più forti. Mio figlio sta per tornare a casa.» Ciò detto l'Omega sparì, lasciandosi alle spalle un rotolo di pergamena sul pavimento di calcestruzzo. «Figlio?» Mr D si chiese se aveva sentito bene. «Figlio?» Si chinò a raccogliere la pergamena. La lista delle cose da prendere era lunga e piuttosto macabra, ma per nulla stravagante. 292 Tutta roba facile da trovare e poco costosa. Il che era un bene, perché le sue finanze erano ridotte all'osso. Si infilò la lista nel giaccone e si rimise il cappello da cowboy. Figlio? Dall'altra parte della città, nella clinica sotterranea di Havers, Rehv attendeva spazientito in una sala visita. Controllò l'orologio per l'ottocentocinquantesima volta; gli sembrava di essere un pilota di formula uno che al pit stop scopriva di avere una squadra di meccanici novantenni. E poi, comunque, che cosa cavolo ci faceva lì? La dopamina stava facendo effetto, il panico si era dissolto e lui si sentiva ridicolo con i mocassini di Bally che penzolavano giù dal lettino. Era tutto normale, tutto sotto controllo e, per l'amor del cielo, il braccio sarebbe tornato a posto, prima o poi. Il fatto che fosse lento a guarire probabilmente significava solo che aveva bisogno di nutrirsi. Una rapida seduta con Xhex e sarebbe tornato come nuovo. Per cui, davvero, avrebbe dovuto alzare i tacchi. Già, l'unico problema era che Xhex e Trez lo aspettavano nel parcheggio. Se non usciva di lì con qualche bel cerotto sopra i segni degli aghi lo avrebbero strapazzato per benino. La porta si aprì ed entrò un'infermiera in camice bianco, calze bianche e scarpe, bianche con la suola di 293 gomma. Perfetta per la parte, era l'incarnazione delle idee e dei modelli antiquati di Havers. La femmina chiuse la porta, tutta presa dalla lettura della cartella clinica; Rehv non dubitava che stesse controllando quello che c'era scritto, ma era anche ben consapevole che così poteva evitare di guardarlo negli occhi. Tutte le infermiere facevano così quando si trovavano in sua presenza. «Buonasera», lo salutò lei, rigida, scorrendo le pagine. «Adesso le preleverò un campione di sangue, se non le spiace.» «Ottimo.» Almeno qualcosa si stava muovendo. Rehvenge si sfilò una manica della pelliccia di zibellino e fece lo stesso con la giacca, nel frattempo lei si aggirava con aria indaffarata, lavandosi le mani e infilandosi i guanti di lattice. Tutte le infermiere detestavano avere a che fare con lui. Intuito femminile. Anche se nella sua cartella non si faceva cenno al fatto che fosse un symphath mezzosangue, loro percepivano il suo lato malvagio. Sua sorella, Bella, e la sua vecchia fiamma, Marissa, erano le uniche due eccezioni degne di nota, poiché entrambe erano in grado di tirar fuori il suo lato buono: lui voleva bene a entrambe e loro lo sapevano. Ma il resto della razza? La gente anonima non significava assolutamente niente per lui e, chissà come, il gentil sesso se ne accorgeva sempre. L'infermiera si avvicinò reggendo un piccolo vassoio con sopra delle fiale e un laccio emostatico, e Rehv si 294 arrotolò la manica. In fretta e senza dire una parola, lei effettuò il prelievo, poi più veloce che potè andò alla porta. «Quanto ci vorrà, ancora?» le chiese lui prima che riuscisse a svignarsela. «È appena arrivato un caso urgente. Ci vorrà un po'.» La porta si chiuse. Merda. Non gli andava di lasciare sguarnito il locale per tutta la notte. Con anche Trez e Xhex fuori sede... no, non andava bene. iAm era un duro, certo, ma anche i tipi tosti hanno bisogno di man forte di fronte una massa di quattrocento umani fatti o sbronzi. Rehv prese il cellulare, fece il numero di Xhex e discusse animatamente con lei per una decina di minuti. Non fu divertente, ma servì comunque ad ammazzare un po' di tempo. Xhex fu irremovibile sul fatto che lui doveva restare lì in clinica, ma almeno acconsentì a tornare al club insieme a Trez. Solo dopo che Rehvenge lo ebbe ordinato in modo esplicito a entrambi, naturalmente. «Okay», ringhiò lei. «Bene», sibilò a denti stretti lui, chiudendo la telefonata. Rehv si ficcò il cellulare in tasca. Tirò un paio di moccoli. Lo prese di nuovo e digitò: Sono proprio stronzo. Scusa. Mi xdoni? Appena premette il tasto di invio gli arrivò un SMS da Xhex: 6 proprio stronzo, t rompo l'anima solo xkè c tengo. 295 Rehvenge non potè fare a meno di ridere, specie quando lei gli mandò quest'altro messaggino: 6 xdonato, ma 6 cmq 1 stronzo. C sentiamo. Rehv si rimise in tasca il telefonino e si guardò intorno, catalogando il contenuto della stanza: gli abbassalingua nel grande vaso di vetro vicino al lavandino, lo sfigmomanometro appeso al muro e la scrivania con tanto di computer in un angolo. Era già stato lì !" dentro. Era già stato in tutte le sale visita della clinica. Era un pezzo che lui e Havers giocavano alla coppia medico/paziente e la situazione era insidiosa. Chiunque avesse le prove che in circolazione c'era un symphath, anche se mezzosangue, per legge era tenuto a denunciarlo perché potesse essere allontanato dal resto della popolazione ed esiliato nella colonia su al nord. Cosa che avrebbe rovinato tutto. Perciò, ogni volta che Rehv andava lì a farsi visitare, scavava nel cervello del buon dottore e apriva quello che gli piaceva considerare come il suo baule personale nell'attico di Havers. Il trucco non era dissimile da quello utilizzato dai vampiri per cancellare i ricordi a breve termine degli umani, solo che andava ancora più in profondità. Dopo aver fatto cadere in trance il medico, Rehv liberava le informazioni su se stesso e sulla sua "condizione" in modo che Havers potesse curarlo a dovere... e senza tutte quelle sgradevoli ripercussioni sociali. Terminata la visita, Rehv radunava la sua "roba" nel cervello del dottore mettendola di nuovo al sicuro, chiusa a doppia mandata dentro la sua corteccia cerebrale fino alla volta successiva. 296 Era spregevole? Sì. C'era qualche alternativa? No. Lui aveva bisogno di cure, non era come Xhex, che riusciva a soffocare i propri impulsi senza l'aiuto di nessuno. Anche se Dio solo sapeva come... Rehv si raddrizzò con un repentino formicolio alla spina dorsale, gli istinti subito all'erta. Afferrò il bastone e scivolò giù dal lettino, atterrando su due piedi che non riusciva a sentire. Fatti i tre passi che lo separavano dalla porta, agguantò la maniglia e la girò. Fuori, il corridoio era deserto in entrambe le direzioni. In fondo, sulla sinistra, il banco accettazione e la sala d'attesa sembravano tranquilli come sempre. Sulla destra c'erano altre stanze per i pazienti e, al di là di quelle, la porta a due battenti che conduceva alla camera mortuaria. Nessun dramma in corso. Già... sembrava tutto a posto. Il personale medico camminava deciso. Qualcuno tossì nella sala visita accanto. Il ronzio dei condizionatori era un ribollire lento e costante in sottofondo. Rehvenge strizzò gli occhi, tentato di rizzare le antenne del suo lato symphath, ma era troppo rischioso. Si era appena rimesso in sesto. Pandora e il suo vaso dovevano restare chiusi. Rientrato in sala visita tirò fuori il cellulare e cominciò a comporre il numero di Xhex per chiederle di tornare alla clinica, ma la porta si aprì prima che la chiamata venisse inoltrata. 297 Suo cognato, Zsadist, infilò dentro la testa. «Ho sentito che eri qui.» «Ehilà.» Rehv mise via il telefono e attribuì la botta d'ansia che lo colse alla paranoia collegata al doppio dosaggio. Ah, la gioia degli effetti collaterali. Merda. «Dimmi che non sei qui per via di Bella.» «Naa. Lei sta bene.» Z chiuse la porta e vi si appoggiò contro. Adesso erano chiusi dentro insieme. Gli occhi del Fratello erano neri. Il che significava che era incazzato. Rehvenge sollevò il bastone e lo lasciò dondolare tra le gambe in caso di bisogno. Lui e Z adesso andavano d'accordo, dopo qualche scazzo iniziale quando il Fratello e Bella si erano messi insieme, ma le cose potevano sempre cambiare. E, a giudicare dallo sguardo di Z, nero come l'interno di una cripta, evidentemente lo erano. «C'è qualcosa che ti rode, amico?» chiese Rehv. «Voglio che tu mi faccia un favore personale.» Il termine favore sembrava improprio, «Parla.» «Voglio che tu la smetta di fare affari col mio gemello. Devi interrompere le forniture.» Z si piegò in avanti. «In caso contrario, farò in modo che tu non possa più vendere neanche una cannuccia da cocktail, in quella tua topaia.» 298 Rehv picchiettò la punta del bastone contro il lettino, chiedendosi se il Fratello avrebbe cambiato musica sapendo che i profitti del club tenevano fuori da una colonia di symphath il fratello della sua shellan. Z sapeva che lui era un mezzosangue, ma non sapeva della Principessa e dei suoi giochetti. «Come sta mia sorella?» chiese sornione. «Bene? È tranquilla? È importante per lei, non trovi? Evitare turbamenti inutili.» Zsadist socchiuse gli occhi fino a ridurli a due fessure, il suo volto sfregiato era degno di un incubo. «Non vorrai toccare questo tasto, mi auguro.» «Se mi rovini la piazza le ripercussioni faranno soffrire anche lei. Fidati.» Rehv spostò il bastone tenendolo dritto nel palmo. «Il tuo gemello è maggiorenne e vaccinato. Se hai dei problemi con la sua dipendenza, forse dovresti parlarne con lui, huh.» «Oh, lo farò. Ma voglio la tua parola. Non devi vendergli più niente.» Rehv guardò il bastone, ritto per aria in perfetto equilibrio. Da molto tempo aveva fatto pace con i suoi affari, senza dubbio con l'aiuto del suo lato symphath, per il quale era un imperativo morale approfittare delle debolezze altrui. L'alibi con cui giustificava i suoi loschi traffici era che le scelte dei suoi clienti non c'entravano niente con lui. Se volevano rovinarsi la vita con quello che gli vendeva lui, be', era un loro diritto... e per nulla diverso dai modi più 299 socialmente accettabili in cui la gente si autodistrugge, come strafogarsi da McDonald's fino a farsi venire una malattia di cuore o bere fino a farsi scoppiare il fegato grazie a quelle brave persone della Anheuser-Busch o giocare d'azzardo fino a perdere la casa. Le droghe sono una merce come un'altra e lui era un uomo d'affari; i clienti avrebbero semplicemente trovato la loro rovina altrove, se lui gli chiudeva la porta in faccia. Il meglio che potesse fare era assicurarsi che, se si servivano da lui, la roba non fosse tagliata male e fosse abbastanza pura da permettergli di prepararsi le dosi senza correre rischi. «La tua parola, vampiro», ringhiò Z. Rehv abbassò gli occhi sulla manica che gli copriva l'avambraccio sinistro e ripensò all'espressione di Xhex quando aveva visto come si era conciato. Strani, i parallelismi. Solo perché la sua droga d'elezione si vendeva su ricetta medica non significava che lui fosse immune dall'abusarne. Alzò gli occhi, poi abbassò le palpebre e trattenne il fiato. Si protese nello spazio che lo divideva dal fratello e si insinuò nella sua mente. Sì... sotto la sua collera c'era il terror panico. E ricordi... di Phury. Una scena di qualche tempo prima... una settantina d'anni prima... un letto di morte. Di Phury. Z stava avvolgendo il suo gemello in alcune coperte e avvicinandolo a un fuoco alimentato a carbone. Era 300 preoccupato... Per la prima volta da quando aveva perso l'anima a causa della schiavitù guardava qualcuno con preoccupazione e pietà. Nella scena, tamponava la fronte febbricitante di Phury, poi prendeva le armi e usciva. «Vampiro...» infermiere.» mormorò Rehv. «Sei bravo come «Esci dal mio cazzo di passato.» «L'hai salvato, vero?» Rehv aprì gli occhi. «Phury era malato. Ti sei rivolto a Wrath perché non sapevi dove altro andare. Il selvaggio divenuto salvatore.» «Per tua informazione sono di pessimo umore, e tu stai risvegliando i miei istinti omicidi.» «Ecco come siete finiti tutti e due nella confraternita. Interessante.» «Voglio la tua parola, divoratore di peccati, non una noiosa storiella.» Spinto da qualcosa che non voleva nominare, Rhev posò la mano sul cuore. Nell'Antico Idioma disse distintamente, «Te lo giuro solennemente. Il tuo gemello non uscirà mai più dal mio locale con della droga su di sé.» Il volto sfregiato di Z fu attraversato da un guizzo di sorpresa. Poi il fratello annuì. «Dicono che è meglio non fidarsi di un symphath. Quindi farò affidamento sull'altra metà di te, sul fratello della mia Bella. Intesi?» 301 «Ottima idea», mormorò Rehv lasciando ricadere la mano. «Perché è il lato con cui ho assunto questo impegno solenne. Ma dimmi una cosa. Come fai a essere sicuro che Phury non comprerà la roba da qualcun altro?» «A essere sincero, non ne ho idea.» «Be', ti auguro buona fortuna, con lui.» «Ne avremo bisogno», disse Zsadist andando alla porta. «Ehi, Z?» Il fratello lo guardò da sopra la spalla. «Cosa?» Rehv si massaggiò il pettorale sinistro. «Non hai... ehm, non hai avuto una brutta sensazione, stasera?» Z si accigliò. «Sì, ma non è mica una novità. Non ne ho una buona da Dio solo sa quanto tempo.» La porta si chiuse e Rehv si appoggiò di nuovo la mano sul cuore. Quel maledetto batteva all'impazzata senza motivo apparente. Merda, forse era meglio farsi visitare dal medico. Anche se gli toccava aspettare ancora chissà quanto... L'esplosione squassò la clinica con un boato simile al rombo di un tuono. 302 Capitolo 19 Phury riprese forma tra i pini dietro i garage della clinica di Havers... proprio quando scattarono gli allarmi di sicurezza. Le stridule urla elettroniche fecero abbaiare i cani del vicinato, ma non c'era pericolo che qualcuno chiamasse la polizia. Le sirene erano calibrate in modo da essere troppo alte per l'orecchio umano. Cazzo... era disarmato. Si precipitò comunque verso l'ingresso della clinica, pronto a combattere a mani nude, se necessario. Lo scenario era molto peggiore del previsto. Il portone d'acciaio penzolava dai cardini come un labbro spaccato e all'interno del vestibolo le porte degli ascensori erano spalancate, il pozzo in piena vista, con le sue vene e arterie di funi e di cavi. Nel tetto della cabina c'era un buco provocato da un'esplosione, l'equivalente di un foro da proiettile nel petto di una persona. Pennacchi di fumo e odore di borotalco salivano dalla clinica sottostante. Nel sentire quella miscela agrodolce, insieme ai tonfi della colluttazione al piano di sotto, Phury scoprì le zanne e strinse i pugni. Non perse tempo a chiedersi come avessero fatto i tesser a localizzare la clinica e neanche si prese la briga di 303 utilizzare la scala fissata alla parete di cemento del pozzo dell'ascensore. Balzò giù atterrando sulla parte di tetto che ancora reggeva. Un altro salto attraverso lo squarcio aperto dall'esplosione e si trovò di fronte al caos più totale. Nella sala d'attesa della clinica un trio di lesser canuti come nonnetti stava ballando una specie di rap con Zsadist e Rehvenge, mettendo a soqquadro quel mondo fatto di sedie di plastica, riviste insulse e tristissime piante in vaso. Quei bastardi sbiaditi erano evidentemente dei veterani esperti, visto quant'erano forti e sicuri di sé, ma Z e Rehv non si facevano mettere sotto i piedi. Era una situazione della serie "salta in pista e balla", non c'era tempo per mettersi a pensare. Phury agguantò una sedia di metallo dal banco accettazione, agitandola come una mazza contro l'avversario più vicino. Quando quello andò giù, Phury alzò la sedia e gli conficcò nel petto una delle gambe lunghe e sottili. Subito dopo lo schiocco e il lampo che segnavano la fine del tesser, dal corridoio giunsero delle urla provenienti dai reparti dov'erano ricoverati i pazienti. «Vai!» sbraitò Z sferrando un calcio in testa a uno dei tesser. «Noi cercheremo di trattenerli qui!» Phury si lanciò oltre la porta a vento. In corridoio c'erano dei corpi. Parecchi. Stesi dentro pozze di sangue rosso sul linoleum verde pallido. 304 Oltrepassarli senza fermarsi a controllare come stavano lo faceva stare male, ma doveva restare concentrato sul personale e sui pazienti sicuramente vivi. Un gruppo di essi gli correva incontro in preda al panico, i camici bianchi dei medici e quelli dei pazienti sventolavano come panni stesi al vento ad asciugare. Phury li fermò, afferrandoli per le braccia e per le spalle. «Entrate nelle stanze! Chiudetevi dentro a chiave! Chiudete a chiave quelle maledette porte!» «Non ci sono serrature!» gridò qualcuno. «E quelli stanno portando via i pazienti!» «Dannazione.» Phury si guardò intorno e vide un cartello. «Questo ripostiglio ha la serratura?» Un'infermiera annuì, sganciando qualcosa dalla cintura. Con mano tremante gli porse una chiave. «Solo all'esterno, però. Dovrà... chiuderci dentro lei.» Phury annuì in direzione della porta su cui c'era scritto RISERVATO AL PERSONALE. «Muovetevi.» Il gruppetto entrò nello stanzino tre metri per tre con le sue scaffalature alte fino al soffitto stracolme di scorte di medicinali e di tutto l'occorrente per le medicazioni. Chiudendo la porta su quei poveretti accovacciati sotto i tubi al neon del basso soffitto, Phury sapeva che non avrebbe mai dimenticato quella scena: sette facce atterrite, quattordici occhi imploranti, settanta dita che si cercavano e si stringevano reciprocamente fino a trasformare i loro corpi separati in un unico, solido blocco di paura. 305 Lui le conosceva, quelle persone, si erano prese cura di lui e dei suoi problemi con la protesi. Erano vampiri come lui e volevano che quella guerra finisse. Ed erano costrette a fidarsi di lui perché al momento aveva più potere di loro. Allora essere Dio è così, pensò, rifuggendo da quel ruolo. «Non mi dimenticherò di voi», disse chiudendo la porta sui loro visi, girò la chiave nella toppa e si fermò per un secondo. Dall'area accettazione venivano ancora i rumori della lotta in corso, ma nel resto della clinica c'era silenzio. Niente più personale. Niente più pazienti. Quei sette erano gli unici sopravvissuti. Voltò le spalle allo stanzino delle scorte e si allontanò dal punto in cui Z e Rhev stavano dando battaglia, seguendo un odore dolciastro e pervasivo che conduceva nella direzione opposta. Oltrepassò di corsa il laboratorio di Havers e la stanza segreta della quarantena in cui mesi prima era stato ricoverato Butch. Lungo tutto il tragitto impronte sbavate di anfibi con la suola nera si mescolavano al sangue rosso dei vampiri. Cristo, ma quanti lesser erano entrati lì dentro? Quale che fosse la risposta, aveva un'idea su dov'erano diretti: i tunnel utilizzati in caso di evacuazione, molto probabilmente si trascinavano dietro qualche ostaggio. La domanda era: come facevano a sapere che si trovavano da quella parte? 306 Phury spalancò un'altra porta a vento e infilò la testa dentro l'obitorio. Le file di cellette refrigerate, i tavoli d'acciaio inossidabile e le bilance erano intatte. Logico. Quelli volevano solo i vivi. Risalì il corridoio e trovò l'uscita che i lesser avevano usato per scappare con i pazienti rapiti. Del pannello d'acciaio che bloccava l'ingresso al tunnel non restava traccia, era saltato per aria come l'ingresso di servizio e il tetto dell'ascensore. Merda. Operazione pulitissima, impeccabile, dall'inizio alla fine. Ed era pronto a scommettere che quella era solo la prima offensiva. Altri lesser sarebbero sopraggiunti per procedere al saccheggio perché la Lessening Society, in questo, era medievale. Phury tornò indietro di volata verso l'area accettazione, nel caso Z e Rhev avessero bisogno di rinforzi. Lungo la strada si portò il cellulare all'orecchio, ma prima che V rispondesse alla chiamata, Havers mise fuori la testa dal suo ufficio privato. Phury riattaccò per poter parlare col medico, augurandosi che il sistema di sicurezza di V fosse scattato in contemporanea con gli allarmi della clinica. In teoria doveva essere andata così, visto che i sistemi erano collegati. «Quante ambulanze avete?» chiese raggiungendo Havers. 307 Il medico batté le palpebre diètro gli occhiali e allungò la mano. Nel pugno tremante stringeva una nove millimetri. «Ho una pistola.» «Che adesso infilerai nella cintura senza usarla», disse Phury. L'ultima cosa di cui avevano bisogno era il dito di un dilettante sul grilletto. «Dai, mettila via e concentrati su di me. Dobbiamo portare i superstiti fuori di qui. Quante ambulanze avete?» Havers armeggiò nel tentativo di infilare in tasca la canna della Beretta; di fronte a tanta goffaggine, Phury temette che si sparasse nel culo. «Q-q-quattro...» «Dammi qua.» Phury prese la pistola, controllò che la sicura fosse inserita e la infilò nella cintura del dottore, «Quattro ambulanze. Bene. Ci servono degli autisti...» All'improvviso saltò la luce e tutto piombò nell'oscurità. In quel buio pesto Phury si chiese se per caso la seconda ondata di lesser non si fosse già calata giù dal pozzo dell'ascensore. Quando entrò in funzione il generatore d'emergenza e le fioche luci di sicurezza si accesero, afferrò il medico per un braccio e lo scosse energicamente. «Possiamo arrivare alle ambulanze attraverso la casa?» «Sì... la casa, la mia casa... i tunnel...» Tre infermiere comparvero alle sue spalle. Erano spaventate a morte, bianche come le luci di emergenza sul soffitto, «Oh, Vergine santissima», esclamò Havers, «i doggen su in casa. Karolyn...» 308 «Ci penso io», disse Phury. «Li troverò e li porterò in salvo. Dove sono le chiavi delle ambulanze?» «Qui», disse il dottore allungando la mano dietro la porta. Grazie al cielo. «I lesser hanno trovato il tunnel sud, quindi dobbiamo far uscire tutti quanti attraverso la casa.» «O-okay.» «Daremo il via all'evacuazione subito dopo aver messo provvisoriamente in sicurezza questa struttura», disse Phury. «Voi quattro state chiusi qui dentro finché uno di noi non verrà a prendervi. Sarete voi a guidare le ambulanze.» «C-come hanno fatto a trovarci?» «Non ne ho idea.» Phury spinse Havers dentro l'ufficio, chiuse la porta e gli gridò di girare la chiave nella toppa. Quando giunse all'area accettazione la lotta era terminata, anche l'ultimo lesser era stato spedito con una pugnalata nel regno dell'oblio dal rosso spadino di Rehv. Z si asciugò la fronte con la mano che gli lasciò uno sbaffo nero. «Situazione?» chiese rivolto a Phury. «Almeno nove vittime tra membri dello staff e pazienti, un numero imprecisato di ostaggi, l'area non è in sicurezza.» Perché Dio solo sapeva quanti altri lesser 309 potevano nascondersi nel labirinto di corridoi e stanze della clinica. «Suggerisco di stabilizzare l'ingresso e il tunnel sud, così come l'accesso alla casa. L'evacuazione richiederà l'uso della scala di servizio che sale su in casa, seguita da una rapida partenza a bordo di ambulanze e veicoli privati. Li guiderà il personale sanitario. Destinazione: presidio clinico d'emergenza di Cedar Street.» Zsadist rimase un attimo interdetto, quasi fosse sorpreso da tanta lucidità di analisi. «D'accordo.» Un secondo dopo arrivò la cavalleria: Rhage, Butch e Vishous atterrarono uno dopo l'altro nell'ascensore. Tutti e tre armati fino ai denti e incazzati neri. Phury controllò l'orologio. «Io porto fuori i civili e il personale sanitario. Voi controllate se qua dentro ci sono altri tesser e date il benvenuto alla prossima ondata.» «Phury», lo chiamò Zsadist. Phury si èra già voltato; quando lo guardò da sopra la spalla, il suo gemello gli lanciò una delle due SIG che portava sempre con sé. «Occhio», gli raccomandò Z. Phury afferrò al volo la pistola annuendo e imboccò di corsa il corridoio. Fece un rapido calcolo delle distanze che separavano lo stanzino con le scorte di medicinali dall'ufficio di Havers e dalla scala; gli sembrava che i tre punti fossero lontani chilometri, invece che poche decine di metri. 310 Aprì la porta che dava sulle scale. Le luci di sicurezza brillavano tosse e il silenzio era di tomba. In fretta salì i gradini, digitò il codice d'accesso all'abitazione e fece capolino in un corridoio rivestito di pannelli di legno. L'odore di detersivo al limone veniva dal pavimento tirato a lucido. Il profumo di rose veniva da un mazzo di fiori sopra una colonnina di marmo. L'aroma di agnello e rosmarino veniva dalla cucina. Niente talco per neonati. Da dietro l'angolo spuntò la testa di Karolyn, la cameriera di Havers. «Padrone?» «Raduna i domestici...» «Siamo già riuniti. Proprio qui dietro. Abbiamo sentito gli allarmi», disse accennando con la testa alle sue spalle. «Siamo in dodici.» «La casa è sicura?» «Nessuno dei nostri sistemi di sicurezza è scattato.» «Ottimo.» Phury le gettò le chiavi che gli aveva dato Havers. «Prendete i tunnel che sbucano nei garage e chiudetevi dentro a chiave. Mettete in moto tutte le ambulanze e le automobili che avete, ma non uscite, e lasciate una persona vicino alla porta in modo che io possa entrare con gli altri. Busserò e mi identificherò. Non aprite a nessuno tranne che a me o a un altro fratello. Tutto chiaro?» 311 Era doloroso vedere la doggen soffocare la paura, annuendo. «Il nostro padrone...?» «Havers sta bene. Adesso vado a prenderlo.» Phury le strinse forte la mano. «Voi andate. Subito. E fate alla svelta. Non abbiamo tempo.» In un batter d'occhio tornò giù. Sentiva i suoi fratelli aggirarsi per la clinica, li riconosceva dal rumore degli stivali, dall'odore e da come parlavano. Non evidentemente, non ancora. c'erano altri lesser, Andò per prima cosa nell'ufficio di Havers a liberare i quattro chiusi lì dentro perché non si fidava del medico, temeva che perdesse la testa e uscisse. Per fortuna il dottore si comportò bene ed eseguì gli ordini, salendo rapido le scale che portavano nella sua abitazione, insieme alle infermiere. Phury li scortò fin dentro ai tunnel che conducevano ai garage e attraversò insieme a loro l'angusta via di fuga sotterranea che correva sotto il parcheggio dietro alla clinica. «Quale dei tunnel porta direttamente alle ambulanze?» chiese quando giunsero a un quadrivio. «Il secondo da sinistra, ma i garage sono tutti collegati.» «Tu e le infermiere dovete salite sulle ambulanze con i pazienti. «Perciò è lì che andremo.» 312 Camminavano più veloci che potevano. Giunti davanti a una porta d'acciaio, Phury bussò e gridò il proprio nome. La serratura scattò e lui fece entrare la sua truppa. «Torno con abbracciavano. gli altri», disse, mentre tutti si Rientrato nella clinica corse da Z. «Altri lesser?» «No, nessuno. Ho piazzato V e Rhage di guardia sul davanti, io e Rehv andiamo a piantonare il tunnel sud.» «Mi farebbe comodo una copertura per i veicoli.» «Ricevuto. Ti mando Rhage. Esci dal retro, giusto?» «Sì.» I due gemelli si separarono e Phury si diresse verso lo stanzino delle scorte. Aveva la mano fermissima quando tirò fuori di tasca la chiave dell'infermiera e bussò alla porta. «Sono io.» Infilò la chiave nella toppa e girò la maniglia. Vide di nuovo le loro facce e colse i lampi di sollievo nel loro sguardo. Che svanirono subito alla vista della pistola che aveva in mano. «Vi faccio uscire attraverso la casa», spiegò. «Ci sono problemi di mobilità?» 313 Il gruppetto si aprì in due per mostrargli un vampiro più anziano steso per terra. Al braccio aveva una flebo che una delle infermiere gli reggeva sopra la testa. Merda. Phury si voltò verso il corridoio. Neanche l'ombra di un fratello. «Tu», disse indicando un tecnico di laboratorio. «Portalo in braccio. E tu», aggiunse con un cenno del capo all'infermiera che reggeva la sacca della flebo, «Stai con loro.» Mentre il tecnico sollevava il vecchio da terra e l'infermiera bionda teneva ben sollevata la sacca della flebo, Phury suddivise gli altri affiancando un membro del personale a ogni paziente. «Muovetevi il più rapidamente possibile. Dovete prendere la scala che porta su in casa e poi infilarvi nei tunnel che sbucano nei garage. È la prima porta a destra appena entrati in casa. Io sarò dietro di voi. Andate. Presto.» Fecero del loro meglio, ma ci volle un secolo. Un secolo. Phury era un fascio di nervi quando finalmente giunsero alla scala con le luci d'emergenza rosse; chiudere a chiave la porta d'acciaio alle loro spalle gli procurò ben poco sollievo, considerato che i lesser erano armati di esplosivi. I pazienti si muovevano molto adagio, due di essi erano reduci da interventi chirurgici. Phury avrebbe voluto portarne almeno uno o anche tutti 314 e due, ma doveva impugnare la pistola, non poteva rischiare. Sul pianerottolo uno dei pazienti, una femmina con la testa fasciata, dovette fermarsi. Senza che nessuno glielo chiedesse, l'infermiera bionda passò in fretta la flebo al tecnico dicendo, «Solo finché non siamo dentro al tunnel.» Poi prese in braccio la paziente priva di forze. «Andiamo.» Phury le rivolse un cenno del capo autorizzandola a ripartire. Il gruppetto entrò alla spicciolata nella sontuosa abitazione di Havers, con uno scalpiccio di piedi e un paio di colpi di tosse come sottofondo. La totale assenza di allarmi fu spettacolare quando Phury chiuse a chiave dietro di sé la porta di comunicazione conia clinica e li guidò verso l'ingresso del tunnel. , Mentre il gruppo si trascinava dentro a fatica, l'infermiera bionda con la paziente tra le braccia si fermò. «Ha qualche altra arma? Perché io so sparare.» Phury inarcò le sopracciglia, stupito. «No, non ho un'altra...» Il suo sguardo fu attratto dalla lucentezza di due spade ornamentali appese alla parete, sopra una delle porte. «Prendi la mia pistola. Io ci so fare con le lame affilate.» 315 L'infermiera sporse in fuori il fianco e lui fece scivolare la SIG di Z nella tasca del camice; poi lei si voltò, infilandosi decisa nel tunnel mentre Phury staccava le due spade dai ganci d'ottone alla parete. Quando giunsero davanti alla porta del garage con le ambulanze Phury bussò col pugno chiuso, gridò il suo nome e la porta si spalancò. Invece di entrare, ognuno dei vampiri che aveva scortato fin lì lo guardò. Sette visi. Quattordici occhi. Settanta dita ancora intrecciate. Ma adesso era diverso. La loro gratitudine era l'altra faccia dell'essere Dio; Phury fu sopraffatto da tanta devozione e sollievo. La fiducia nel loro salvatore era stata ben riposta e la ricompensa era la loro stessa vita: tale consapevolezza collettiva era una forza palpabile. «Non ne siamo ancora fuori», li ammonì Phury, Quando Phury guardò di nuovo l'orologio erano passati trentatré minuti. Ventitré persone, tra civili, personale sanitario e doggen, erano state evacuate dai garage. Le ambulanze e le auto erano uscite non dalle solite porte di fronte al retro della casa, ma attraverso pannelli retrattili che consentirono ai veicoli di infilarsi subito nella boscaglia dietro la clinica. Uno dopo l'altro, si erano allontanati a fari spenti e senza usare i freni. E uno dopo l'altro erano spariti nella notte. 316 L'operazione era stata un successo su tutta la linea, eppure lui aveva un brutto presentimento. I lesser non erano tornati. Non era da loro. In circostanze normali, una volta penetrati in un luogo lo invadevano a frotte. Era la loro procedura operativa standard catturare quanti più civili potevano per interrogarli e poi depredare le strutture in cui erano riusciti a entrare spogliandole di tutti gli oggetti di valore. Perché non avevano inviato altri uomini? Specie visti i beni presenti nella clinica e nella abitazione di Havers, e vista la consapevolezza che i fratelli erano ancora lì, pronti a combattere. Rientrato in clinica, Phury risalì tutto il corridoio, controllando per la seconda volta che nelle stanze non ci fossero altri superstiti. Fu una verifica penosa. Cadaveri. Un mucchio di cadaveri. E l'intera struttura era completamente distrutta, ferita a morte come ognuno dei corpi stesi sul pavimento. C'erano lenzuola e coperte per terra, cuscini dappertutto, aste per le flebo e cardiofrequenzimetri rovesciati. Nei corridoi c'erano scorte di medicinali sparpagliate qua e là, e tutte quelle orribili impronte nerastre di anfibi e scie rosse di sangue. Le evacuazioni d'emergenza non sono faccende per maniaci dell'ordine. E neanche gli scontri corpo a corpo. Phury si diresse verso l'area accettazione; era strano non sentire più il solito trambusto, ma solo il ronzio dell'impianto di climatizzazione e dei computer. Ogni tanto squillava un telefono, ma non c'era più nessuno in grado di rispondere. 317 La struttura era clinicamente morta, con solo deboli tracce di attività cerebrale. Né la clinica né la splendida abitazione di Havers sarebbero più state utilizzate. I tunnel e tutte le porte esterne e interne rimaste intatte sarebbero state chiuse a chiave, le imposte sprangate e i sistemi di sicurezza attivati. Gli ingressi divelti dall'esplosione e le porte dell'ascensore sarebbero stati sbarrati con lastre di acciaio. Alla fine, una scorta armata sarebbe stata autorizzata a entrare attraverso i tunnel non compromessi per prelevare mobili ed effetti personali, ma doveva passare qualche tempo prima che ciò accadesse. E dipendeva se i lesser tornavano o meno con i carrelli della spesa. Per fortuna Havers disponeva di una casa sicura, così lui e la sua servitù avevano un posto dove andare; i pazienti invece sarebbero stati ricoverati nella clinica provvisoria. Cartelle cliniche ed esami di laboratorio erano archiviati su un server esterno, quindi erano ancora accessibili, ma il personale infermieristico avrebbe dovuto rinnovare al più presto le scorte medicinali della nuova sede. Il vero problema era attrezzare un'altra clinica stabile a tempo pieno, ma questo avrebbe richiesto mesi di lavoro, nonché milioni di dollari. Appena Phury arrivò davanti al banco accettazione, un telefono ancora intatto squillò. Il trillo si interruppe quando la chiamata venne dirottata sulla casella vocale, il cui messaggio di benvenuto era già stato modificato in, 318 "Questo numero non è più attivo. Per informazioni vi preghiamo di chiamare il seguente numero...» Vishous aveva predisposto questo secondo numero come punto di riferimento dove lasciare un messaggio e le informazioni utili per venire ricontattati. Una volta verificata identità e richiesta del chiamante, il personale della nuova clinica lo avrebbe richiamato. Filtrando tutto attraverso i suoi Quattro Giocattolini, come aveva ribattezzato i quattro computer alla Tana, V era in grado di registrare i numeri di chiunque avesse telefonato così, se i lesser si azzardavano a ficcare il naso, i fratelli potevano tentare di tracciare le loro linee. Phury si fermò un attimo e si mise in ascolto, stringendo in pugno la SIG. Havers aveva avuto l'accortezza di nascondere una pistola sotto il posto di guida di tutte le ambulanze, quindi la nove millimetri di Z era tornata in famiglia, per così dire. Relativo silenzio. Niente di strano. V e Rhage si erano trasferiti alla nuova clinica nel caso la carovana fosse stata localizzata dal nemico. Zsadist stava saldando l'ingresso sfondato del tunnel sud. Rehvenge forse se n'era già andato. La clinica sembrava abbastanza sicura, ma Phury era pronto a sparare per uccidere. Le operazioni come quella lo innervosivano sempre... Merda. Quella probabilmente era la sua ultima operazione. E vi aveva partecipato solo perché era andato a cercare Zsadist, non perché convocato in quanto membro della confraternita. 319 Cercando di non rimuginare troppo, imboccò un altro corridoio che conduceva alla parte della clinica dove si trovava il pronto soccorso. Passando davanti a un deposito scorte sentì un rumore di vetri infranti. Alzò la pistola di Z tenendola vicinissima al volto e si accostò adagio allo stipite della porta. Infilò dentro la testa per un attimo e vide cosa stava succedendo: ritto davanti a uno sportello chiuso a chiave sfondato da un pugno, Rehvenge stava trasferendo alcune fiale dai ripiani dell'armadietto alle tasche della sua pelliccia di zibellino. «Rilassati, vampiro», disse senza voltarsi. «È solo dopamina. Non ho intenzione di vendere sul mercato nero OxyContin o roba simile.» Phury abbassò la pistola lungo il fianco. «Perché stai prendendo...» «Perché mi serve.» Una volta rubata anche l'ultima fiala, Rehv diede le spalle all'armadietto, gli occhi color ametista acuti come quelli di una vipera. Dava sempre l'impressione di calcolare la distanza giusta per colpire, anche quando era con i fratelli. «Allora, come pensi che abbiano trovato questo posto?» chiese Rehv. «Non saprei.» Phury annuì in direzione della porta. «Dai, andiamo via. Qui non siamo al sicuro.» 320 Il sorriso di Rehvenge scoprì due zanne ancora allungate. «So badare a me stesso, fidati.» «Non ne dubito. Ma levare le tende non sarebbe una cattiva idea.» Rehv attraversò con cautela la stanza, scansando la roba caduta per terra: scatole di bende, confezioni di guanti di lattice e cappucci per termometri. Si appoggiava pesantemente al bastone, ma solo uno sciocco poteva prenderlo per un disabile. «Dove sono i tuoi pugnali neri, verginello?» chiese in tono mellifluo. «Non sono affari tuoi, divoratore di peccati.» «Hai ragione.» Rehv spostò col bastone un mucchietto di abbassalingua, quasi cercasse di rimetterli nella scatola. «Il tuo gemello ha voluto parlarmi, credo sia giusto che tu lo sappia.» «Ah sì?» «È ora di andare.» Tutti e due si voltarono verso il corridoio. Alle loro spalle era fermo Zsadist, le sopracciglia aggrottate sopra gli occhi neri. «Subito», precisò Z. Rehv sorrise calmo sentendo la suoneria del suo cellulare. «Senti senti, è arrivato il mio autista. È sempre un piacere fare affari con voi, signori. Ci si vede.» 321 Così dicendo, girò intorno a Phury, salutò Z con un cenno del capo e accostò il telefonino all'orecchio allontanandosi con l'aiuto del bastone. Il rumore dei suoi passi si affievolì a poco a poco, poi ci fu solo un gran silenzio. Phury anticipò la domanda del suo gemello: «Sono venuto perché non hai risposto alle mie chiamate.» Gli allungò la SIG, porgendogliela per il calcio. Zsadist afferrò la nove millimetri, controllò la camera di scoppio e la infilò nella fondina. «Ero troppo incazzato per parlarti.» «Non chiamavo per noi due. Ho trovato Bella in sala da pranzo, mi è sembrata debole e l'ho portata in camera sua. Credo che dovrebbe farsi vedere da Jane, ma sta a te decidere.» Zsadist sbiancò. «Ha detto che qualcosa non andava?» «Quando si è messa a letto stava bene. Ha detto che aveva mangiato troppo, che il problema era quello. Ma...» Forse si era sbagliato sull'emorragia? «Credo proprio che Jane dovrebbe visitarla...» Zsadist si mise a correre come un forsennato; i pesanti stivali risuonavano nel corridoio deserto con tonfi assordanti che rimbombavano per tutta la clinica. Phury lo seguì camminando normalmente. Pensò al suo ruolo di Primale e provò a immaginarsi di correre da 322 Cormia per vedere come stava, con la stessa preoccupazione, urgenza e disperazione del suo gemello. Dio, vedeva la scena con estrema nitidezza... lei con suo figlio in grembo e lui divorato costantemente dall'ansia, come Z. Si fermò a dare una sbirciata dentro una stanza. Come si era sentito suo padre, al capezzale di sua madre, quando lei aveva dato alla luce due figli sani? Doveva aver provato una gioia immensa, indescrivibile... finché era venuto fuori Phury, come una fortuna esagerata. Troppa grazia, come si dice. I parti erano un azzardo totale sotto tantissimi punti di vista. Proseguendo lungo il corridoio in direzione dell'ascensore sventrato, Phury pensò che, sì, probabilmente i suoi genitori sapevano sin dall'inizio che due figli sani avrebbero portato a una intera vita di tribolazioni. Erano molto religiosi e credevano fermamente nel sistema di valori della Vergine Scriba, un sistema imperniato sul concetto di equilibrio. Per certi versi il rapimento di Z non doveva averli sorpresi, poiché quella disgrazia aveva ristabilito l'equilibrio familiare. Forse per quésto suo padre aveva smesso di cercare Zsadist dopo aver saputo che la bambinaia era morta e che il figlio perduto era stato venduto come schiavo. Forse Aghony aveva temuto che le sue ricerche potessero condannare Zsadist a un destino ancora più crudele... lottando per ritrovare il figlio rapito, temeva di aver provocato la morte della bambinaia e innescato una 323 catena di eventi non solo funesti, ma assolutamente insostenibili. Forse si attribuiva la colpa della schiavitù di Z. Phury lo capiva perfettamente. Si fermò un attimo a guardare la sala d'attesa, tutta sottosopra come un bar dopo una rissa. Pensò a Bella, appesa a un filo con la sua gravidanza, e temette che quella maledizione infernale non avesse ancora fatto il suo corso. Almeno aveva liberato Cormia da quel retaggio di sofferenze. Il mago annuì. Ottimo lavoro, socio. L'hai salvata. È la prima cosa buona che hai fatto. Lei starà molto, molto meglio senza di te. 324 Capitolo 20 Mr D parcheggiò la Focus dietro la fattoria e spense il motore. I sacchetti di Target erano sul sedile del passeggero e, scendendo, li prese. Sullo scontrino nel portafoglio c'era scritto $ 147,73. La sua carta di credito era stata rifiutata, così aveva pagato con un assegno che non era sicuro di poter coprire; proprio come ai vecchi tempi. Suo padre era un maestro negli assegni "sportivi" o "cabrio", quelli scoperti. Chiuse con un calcio la portiera, chiedendosi se il vero motivo per cui i lesser guidavano delle bagnarole non fosse che la Società voleva mantenere un basso profilo, ma che era al verde. Un tempo non ci si doveva mai preoccupare che la carta di credito venisse accettata o se ci si poteva procurare al più presto nuove armi. Quando il Fore-lesser era quel Mr R, negli anni Ottanta, la com-pagnia se la passava bene, perdiana. Ora non più. E adesso erano cavoli suoi. Forse avrebbe dovuto scoprire dove tenevano tutti i conti, ma non sapeva da che parte cominciare. C'era stato un tale carosello di Fore-lesser. Chi era stato l'ultimo con un minimo di capacità organiz... Mr X. Mr X sì che sapeva stare in sella, e aveva quel capanno nei boschi... Mr D c'era andato, una o due volte. Se c'era una qualche contabilità, molto probabile che fosse proprio lì. 325 Se le sue carte di credito venivano rifiutate, non erano certo le uniche, questo era il guaio. Il che significava che con ogni probabilità altri lesser si stavano arrabattando per procurarsi dei contanti, rubando agli umani o tenendo per sé il bottino dei saccheggi. Magari alla fine, con una gran botta di culo, avrebbe scoperto che il salvadanaio era strapieno e si era solo momentaneamente smarrito nella gran confusione di tutti quei cambi al vertice. Ma aveva la sensazione che non fosse così. Mentre ricominciava a piovere, aprì la porta a zanzariera sul retro con un colpo d'anca, girò la chiave nella toppa ed entrò in cucina. Investito dal tanfo dei due cadaveri, trattenne il respiro. L'uomo e la donna, come poi si erano rivelati essere, facevano ancora un figurone come macabri tappetini, ma uno dei vantaggi di essere un lesser era avere il deodorante per ambienti incorporato. Nel giro di pochi istanti, Mr D non sentì più nessun fetore. Dopo aver poggiato i sacchetti della spesa sul ripiano della cucina, sentì un suono stranissimo diffondersi in tutta la casa, un canticchiare sommesso... come una ninnananna. «Padrone?» O era lui oppure qualcuno stava sentendo Radio Disney. Svoltò l'angolo della sala da pranzo e si fermò di colpo. 326 L'Omega era chino sul corpo nudo di un vampiro biondo steso sopra il tavolo malandato. Qualcuno gli aveva tagliato la gola vicino al mento, ma la ferita era stata suturata, e non come si fa nelle autopsie. Chi lo aveva ricucito aveva fatto un lavoro di fino. Ma era vivo o morto? Non si capiva... no, un momento, l'ampio petto andava su e giù, anche se in modo quasi impercettibile. «È così bello, non trovi?» L'Omega fece scorrere la mano nera e traslucida sul volto del vampiro. «Biondo. La madre era bionda. Hah! Mi avevano detto che non potevo creare niente. Non come lei. Ma nostro padre si sbagliava. Guarda mio figlio. Carne della mia carne.» Mr D si sentì in dovere di dire qualcosa, come se gli avessero mostrato un neonato aspettandosi i soliti complimenti di prammatica. «È proprio una bellezza, sissignore.» «Hai quello che ti ho chiesto?» «Sissignore.» «Portami i coltelli.» Quando Mr D tornò con i sacchetti di Target, l'Omega mise una mano sul naso del vampiro e un'altra sulla sua bocca. Il vampiro spalancò gli occhi, divincolandosi, ma, debole com'era, riuscì solo a toccare la veste bianca dell'Omega. 327 «Figlio mio, non ribellarti» sussurrò il Male con soddisfazione. «È giunta l'ora della tua rinascita.» La lotta convulsa continuò in un crescendo, che toccò il culmine quando il vampiro si mise a battere i talloni sul tavolo e a strisciare i palmi sul legno producendo un suono stridulo. Si agitava come un burattino, tutto gesti scomposti e inutile panico. Poi, di colpo, smise e rimase a fissare il soffitto con gli occhi spenti e la bocca socchiusa. Mentre la pioggia sferzava le finestre, l'Omega abbassò il cappuccio bianco e si slacciò la tunica. Con gesto elegante si tolse la veste impalpabile facendola volare dall'altra parte della stanza. L'indumento finì nell'angolo, diritto, come drappeggiato su un manichino. L'Omega si protese, allungandosi e assottigliandosi neanche fosse l'uomo di gomma, verso il lampadario da quattro soldi appeso sopra il tavolo. Afferrò la catena nel punto di congiunzione col soffitto e con uno strattone deciso lo strappò via scagliandolo in un angolo. A differenza della veste il lampadario non atterrò in modo ordinato, ma terminò la sua inutile vita, se già non l'aveva fatto, in un groviglio di lampadine rotte e bracci d'ottone piegati. Al suo posto, i cavi elettrici messi a nudo penzolavano dal soffitto macchiato come rampicanti di palude sopra il corpo del vampiro. «Coltello, prego», ordinò l'Omega. «Quale?» 328 «Quello a lama corta.» Mr D rovistò nei sacchetti, trovò il coltello giusto e poi ingaggiò una lotta disperata per aprire una confezione di plastica a prova di consumatore, talmente robusta che gli venne voglia di pugnalarsi per la frustrazione. «Basta così», sibilò l'Omega allungando la mano. «Posso andare a prendere le forbici...» «Dammelo.» Appena entrò in contatto con il palmo spettrale del padrone, la plastica si sciolse, arricciandosi e cadendo per terra come una pelle di serpente marrone e accartocciata. Col coltello in mano, l'Omega tornò a voltarsi verso il vampiro saggiando la lama sul proprio braccio spettrale; quando dal taglio Sgorgò il sangue, nero come petrolio, sorrise. Fu come sventrare un maiale e accadde altrettanto in fretta. Mentre il tuono rimbombava tutt'intorno alla casa, quasi cercasse il modo di entrare, l'Omega fece scorrere la lama affilata al centro del corpo del vampiro, dalla ferita alla gola fino all'ombelico. Subito l'odore di sangue e di carne sovrastò quello di talco per neonati del padrone. «Portami il vaso con il coperchio.» L'Omega pronunciò vahzo, invece di vaso. Mr D andò a prendere un grosso vaso di ceramica azzurro che aveva trovato nel reparto casalinghi. Mentre 329 glielo porgeva fu tentato di fargli notare che era troppo presto per asportare il cuore, perché prima il sangue dell'Omega doveva cominciare a circolare nell'organismo. Poi però ricordò che il vampiro era comunque morto, dunque che differenza faceva? Evidentemente quella non era un'affiliazione come le altre. Con la punta incandescente del dito, l'Omega toccò lo sterno del vampiro, che si aprì; la puzza di ossa carbonizzate fece storcere il naso a Mr D. Le costole vennero spalancate da mani invisibili per volere del padrone, scoprendo il cuore privo di battito. L'Omega infilò la mano traslucida nella gabbia toracica, penetrando il sacco pericardico e formando col palmo un nuovo nido per l'organo. Con espressione infastidita liberò il muscolo dalle catene delle arterie e delle vene, e un fiume rosso sangue si riversò sul petto pallido del vampiro. Mr D preparò il vaso, togliendo il coperchio e reggendolo sotto la mano dell'Omega. Il cuore andò in fiamme e una cascata di cenere cadde dentro il contenitore. «Prendi i secchi», ordinò l'Omega. Mr D chiuse il vaso col coperchio e lo mise in un angolo, poi tirò fuori da un sacchetto quattro secchi rossi di Rubbermaid, tipo quelli che sua madre chiamava bacili, piazzandoli sotto le braccia e le gambe del vampiro mentre l'Omega recideva polsi e caviglie per 330 drenare il sangue dal corpo. La pelle del vampiro perse colore con sorprendente velocità, passando dal bianco cadaverico al grigio bluastro. «Ora il coltello seghettato.» Mr D rinunciò in partenza ad aprire la micidiale confezione di plastica. Dopo averla fusa, l'Omega prese il coltello e posò la mano libera sul tavolo. Stringendo le dita a pugno, si segò il polso con un rumore secco, come quando si taglia un ceppo di legno massello. Quand'ebbe terminato, restituì il coltello a Mr D, prese la mano amputata e la mise dentro il petto vuoto del vampiro. «Rallegrati, figlio mio», bisbigliò l'Omega mentre in fondo al braccio gli spuntava un'altra mano. «Tra un attimo sentirai scorrere il mio sangue dentro di te.» Così dicendo, l'Omega si tagliò con l'altro coltello il polso appena formato e tenne la ferita sopra il pugno nero. Mr D ricordava per esperienza quella parte dell'affiliazione. Aveva gridato per un dolore più atroce di quello fisico. Lo avevano ingannato. Fregato alla grande. Quello che gli avevano promesso era ben altra cosa, e per lo strazio e il terrore era svenuto. Quando aveva ripreso i sensi era tutta un'altra persona, un membro dei morti viventi, un corpo impotente condannato a vagare compiendo nefandezze. Credeva che fossero solo una banda. Credeva che lo avrebbero sottoposto a una specie di iniziazione, una qualche prova del fuoco, e magari marchiato con un 331 tatuaggio per mettere in chiaro che adesso era uno di loro. Non sapeva che non ne sarebbe mai uscito fuori. O che non sarebbe mai più stato umano. L'intera faccenda gli aveva ricordato una cosa che diceva sempre sua madre: Se fai un patto con un serpente a sonagli, poi non puoi stupirti se ti morde. All'improvviso andò via la luce. L'Omega fece un passo indietro e intonò una nenia a bocca chiusa. Stavolta non era una cantilena alla Disney, ma un grande richiamo di energia, l'imminente raccolto di un qualche potenziale invisibile. Via via che le vibrazioni aumentavano, la casa cominciò a tremare, dalle crepe nel soffitto pioveva la polvere, sul pavimento i secchi avevano il ballo di San Vito. Mr D pensò ai cadaveri in cucina e si chiese se anche loro stessero ballando. Fece appena in tempo a tapparsi le orecchie e a incassare la testa nelle spalle. Un fulmine colpì in pieno il tetto della fattoria. Dal baccano che fece non poteva essere solo l'eco o la ramificazione secondaria di una saetta caduta a qualche metro di distanza. No, non era come beccarsi in un occhio le schegge di un sasso: era l'intero masso che ti piombava sulla zucca. 332 Il frastuono si tradusse in un dolore alle orecchie, almeno per quanto riguardava Mr D, e la violenza spaventosa dell'impatto gli fece temere che la casa potesse crollargli addosso. L'Omega non condivideva quella preoccupazione, all'apparenza. Guardava in alto con zelo da predicatore della domenica, tutto rapito e in estasi, neanche fosse un vero credente e qualcuno avesse appena tirato fuori i serpenti a sonagli e la stricnina. Il fulmine saettò attraverso le autostrade elettriche della fattoria, o piuttosto, nella fattispecie, attraverso stradine secondarie e sentieri battuti, ed emerse in un fascio di energia giallo vivo proprio sopra il corpo del vampiro. I fili pendenti del lampadario lo incanalarono nella direzione giusta e il petto spalancato del vampiro, con il suo cuore oleoso, funse da bacino di scarico. Investito da quell'esplosione di energia, il corpo sobbalzò sollevandosi dal tavolo, braccia e gambe sbatacchiarono nell'aria e il petto si gonfiò. In un baleno il padrone cambiò forma, avvolgendo il vampiro come una seconda pelle per impedire che i quattro quadranti di carne volassero da tutte le parti come pneumatici che scoppiano. Quando il fulmine si ritirò, il vampiro rimase sospeso a mezz'aria con la sua coperta di Omega che risplendeva nell'oscurità. Il tempo... si fermò. Mr D lo capì dal fatto che il dozzinale orologio a cucù appeso alla parete cessò di battere. Per un po' non ci fu più il normale passaggio da un secondo all'altro, solo un 333 infinito presente, mentre ciò che aveva smesso di respirare ritrovava la strada verso la vita che aveva perduto. O meglio, che gli era stata tolta. Fluttuando dolcemente, il vampiro tornò a posarsi sul tavolo e l'Omega si staccò da lui, riacquistando la forma originaria. Dalle labbra grigie del vampiro uscirono come degli ansiti, un sibilo accompagnava ogni inspirazione che immetteva aria nei polmoni. Nella cavità toracica aperta il cuore fu scosso da un palpito, poi si organizzò meglio e cominciò a pompare sul serio. Mr D si concentrò sul volto del vampiro. A poco a poco il pallore mortale lasciò il posto a uno strano colorito roseo, come quello dei bambini dopo che hanno corso col vento in faccia. Solo che quello non era un segno di buona salute. No. Quella era una resurrezione. «Vieni da me, figlio mio.» L'Omega passò la mano sul petto del vampiro e, dall'ombelico alla gola suturata, ossa e carne si richiusero, rinsaldandosi. «Vivi per me.» Il vampiro scoprì le zanne. Aprì gli occhi. E ruggì. Qhuinn non rientrò nel proprio corpo fluttuando dolcemente. No. Quando indietreggiò dalla porta bianca che aveva davanti mettendosi a correre a perdifiato, la vita terrena tornò da lui in un lampo, lo spirito atterrò dentro la sua pelle neanche il Fado lo avesse preso a calci in culo con una Onnipotente Converse Ali Star, 334 Qualcuno aveva premuto le labbra contro le sue e gli stava soffiando aria nei polmoni. Poi sentì una forte pressione al petto e qualcuno che contava mentre spingeva con forza. Ci fu una piccola pausa, seguita da un altro po' di respirazione bocca a bocca. Era un'alternanza piacevole. Respiro. Compressione, Respiro. Respiro. Compressione... Il suo corpo venne scosso da un sobbalzo improvviso, quasi fosse stufo di quella respirazione assistita. Sull'onda di quello spasmo convulso, Qhuinn ruppe il contatto con l'altra bocca inspirando da solo. «Dio, ti ringrazio», esclamò Blay con voce strozzata. Qhuinn scorse di sfuggita gli occhi spalancati e lucidi dell'amico, poi si raggomitolò su un fianco. Dopo una serie di leggeri ansiti sentì che il cuore afferrava la palla e cominciava a correre, contraendosi e dilatandosi da solo. Dopo un istante di "oh che bello sono vivo", il dolore lo investì con violenza, travolgendolo, facendogli venir voglia di tornare indietro a quando, esanime, non lo sentiva. All'altezza delle reni, la schiena gli faceva un male del diavolo, neanche l'avessero presa a martellate. «Carichiamolo in macchina», gridò Blay. «Dobbiamo portarlo alla clinica.» Qhuinn socchiuse un occhio. Ai suoi piedi c'era John che annuiva come uno di quei pupazzetti con la testa a molla. 335 Oh, cavolo, no... non potevano portarlo alla clinica. La Guardia d'Onore non aveva ancora finito con lui. Merda, suo fratello... «Niente... clinica», ansimò con un filo di voce. 'Fanculo, disse a gesti John. «Niente. Clinica.» Forse non gli restava molto da vivere, ma non per questo aveva fretta di divorare un Big Mac alla Morte con contorno di patatine fritte. Blay si chinò sopra di lui, occhi negli occhi, «Sei stato investito da un cazzo di pirata della strada...» «Non.... pirata.» Blay ammutolì. «Allora cosa è stato?» Qhuinn si limitò a guardarlo dritto negli occhi, lasciando che fosse lui a indovinare. «Un momento... è stata una Guardia d'Onore? La famiglia di Lash ti ha sguinzagliato contro una Guardia d'Onore?» «Non... quella... di Lash...» «La tua?» Qhuinn annuì, perché gli mancava l'energia per muovere le labbra tumefatte. «Ma mica devono ammazzarti...» «Ma va?» 336 Blay guardò John. «Non possiamo portarlo da Havers.» La dottoressa Jane, disse John a gesti. Allora ci serve la dottoressa Jane. John tirò fuori il cellulare; Qhuinn stava per bocciare anche quell'idea quando sentì sbatacchiare qualcosa contro il braccio. Era la mano di Blay: tremava talmente tanto che non riusciva a fermarla. Cazzo, tremava da capo a piedi. Qhuinn chiuse gli occhi e allungò il palmo verso quello dell'amico. Ascoltando il sommesso ticchettio di John che digitava un SMS, strinse con forza la mano di Blay per confortarlo. E per confortare anche se stesso. Un minuto e mezzo dopo un bip annunciò che era arrivata la risposta. «Cosa dice?» John doveva aver detto qualcosa a gesti perché Blay esclamò in un sussurro, «Oh... mio... Dio. Ma lei sta arrivando, giusto? Bene. A casa mia? Okay. Bene. Spostiamolo.» Due paia di mani lo sollevarono dal ciglio della strada e lui grugnì di dolore... ma era un bene, pensò Qhuinn, perché significava che il "ritorno dal regno dei morti" doveva essere vero. Steso sul sedile posteriore dell'auto di Blay, sentì salire i suoi due amici, poi le lievi vibrazioni della BMW che accelerava. 337 Quando riaprì gli occhi incontrò quelli di John. Era seduto davanti, ma era tutto girato per poterlo tenere d'occhio. Aveva uno sguardo preoccupato e incerto. Come se non fosse sicuro che Qhuinn potesse farcela... e stesse ripensando a quanto era successo nello spogliatoio, dieci milioni e rotti di anni prima. Qhuinn alzò le mani martoriate e, gesticolando goffamente, disse, Per me sei sempre lo stesso. Non è cambiato niente. John spostò gli occhi a sinistra, di scatto, guardando fuori dal finestrino. I fari di un'auto alle loro spalle lo illuminarono in pieno viso, strappandolo alle tenebre. Su quei lineamenti belli e fieri era stampato il dubbio, chiaro come il sole. Qhuinn chiuse gli occhi. Che nottataccia. 338 Capitolo 21 «Oh mio Dio, quel vestito è un disastro.» Cormia rise guardando il televisore di Bella e Zsadist. Project Runway si rivelò uno "spettacolo" affascinante. «Cos'è quella roba che pende dalla schiena?» Bella scosse la testa. «Cattivo gusto sotto forma di raso. Comunque credo che all'inizio fosse un fiocco.» Le due femmine erano allungate sul letto matrimoniale, la schiena appoggiata contro la testiera. In mezzo a loro Boo, il gatto nero di casa, si godeva le coccole a due mani; al pari di Bella, nean-che lui sembrava apprezzare l'abito in questione. I suoi occhi verdi fissavano disgustati la TV. Cormia spostò la mano dalla schiena al fianco del gatto. «Il colore non è male.» «Non basta a compensare il fatto che sembra una balena strizzata nel cellofan. E con una fune attaccata al sedere.» «Non so neanche cosa sia una balena, figuriamoci il cellofan.» Bella indicò lo schermo piatto all'altro capo della stanza. «La stai guardando. Prova a immaginare qualcosa 339 che assomiglia a un mostro marino sotto quell'incubo di vestito e voilà.» Cormia sorrise; il tempo trascorso con Bella era stato insieme rivelatore e stranamente sconcertante. Bella le piaceva. Davvero. Era simpatica, affabile e premurosa, bella di nome e di fatto, dentro e fuori. Non c'era da stupirsi che il Primole la adorasse. E per quanto fosse partita con l'intenzione di rivendicare i suoi diritti su di lui, contro Bella, Cormia scoprì che non c'era nessun bisogno di ribadire il suo status di Prima Sposa. Il Primole non saltò fuori nella conversazione e non ci furono allusioni o sottintesi in tal senso. Quella che aveva percepito come una rivale si era rivelata un'amica. Cormia tornò a concentrarsi su ciò che aveva in grembo. Una specie di opuscolo floscio, largo e sottile, con le pagine patinate e un sacco dì quelli che Bella aveva chiamato "annunci pubblicitari". Sul davanti c'era scritto Vogue. «Guarda quanti vestiti diversi», mormorò. «È stupefacente.» «Ho quasi finito con Harper's Bazaar, se lo vuoi...» La porta si spalancò con tale violenza che Cormia balzò giù dal letto facendo volare Vogue in un angolo come un uccellino spaventato. Sulla soglia c'era il fratello Zsadist, fresco di combattimento a giudicare dall'odore di borotalco che si portava dietro e dall'arsenale che aveva addosso. 340 «Cosa sta succedendo?» chiese. «Be'», disse lentamente Bella, «hai appena spaventato a morte Cormia e me, Tim Gunn ha stoppato il tempo per gli stilisti e io ho di nuovo fame, quindi sto per chiedere a Fritz di portarmi una omelette. Pancetta affumicata e formaggio cheddar. Qualche crocchetta di patate con cipolla. E del succo d'arancia.» Il fratello si guardò intorno come se si aspettasse di vedere dei lesser dietro le tende. «Phury ha detto che non stavi bene.» «Ero stanca. Mi ha aiutato a salire le scale. Cormia all'inizio mi ha fatto da babysitter, ma adesso credo che abbia deciso di restare perché si sta divertendo, vero Cormia? O almeno si stava divertendo, giusto?» Cormia annuì, ma senza staccare gli occhi dal fratello. Con quel volto sfregiato e il fisico gigantesco l'aveva sempre messa a disagio, non perché fosse in alcun modo brutto, ma per la sua aria feroce. Zsadist la guardò e poi accadde una cosa stranissima. Si mise a parlare con una voce incredibilmente gentile e alzò una mano, quasi volesse calmarla. «Tranquilla. Scusa se ti ho spaventata.» A poco a poco i suoi occhi divennero gialli e il volto si addolcì. «Sono solo in pensiero per la mia shellan. Non voglio farti del male.» Cormia sentì allentarsi la tensione; adesso capiva perché Bella stava con lui. «Ma certo, vostra grazia», 341 disse con un inchino. «È naturale che siate in pensiero per lei.» «Tu stai bene?» chiese Bella, guardando i vestiti macchiati di sangue del suo hellren. «Stanno tutti bene?» «I fratelli stanno bene», rispose Zsadist andando dalla sua shellan e accarezzandole il viso con mano tremante. «Voglio che Jane ti dia un'occhiata.» «Se serve a farti sentire meglio dille pure di venire. Io credo che sia tutto a posto, ma farò tutto quello che può servire a farti stare tranquillo.» «Hai perso ancora sangue?» Bella non rispose. «Vado subito a chiamarla...» «Non ne ho perso molto, e non c'è niente di diverso dalle altre volte. Chiamare Jane è una buona idea, probabilmente, anche se dubito che si possa fare qualcosa.» Bella avvicinò le labbra al palmo di Zsadist e lo baciò. «Ma prima per favore dimmi cosa è successo stanotte.» Zsadist si limitò a scrollare la testa e Bella chiuse gli occhi, quasi fosse abituata a ricevere brutte notizie... quasi ne avesse ricevute talmente spesso da non necessitare ulteriori precisazioni. Le parole non potevano aggiungere nulla alla tristezza di lei o di lui, né potevano alleviare ciò che chiaramente sentivano. Zsadist si chinò a baciare la sua compagna. Quando i loro occhi si incontrarono, l'amore che ne scaturì fu così 342 intenso da creare un'aura di calore; dal punto in cui si trovava, Cormia avrebbe giurato di sentirlo. Bella non aveva mai manifestato un legame del genere con il Primate. Mai. Né, quanto a questo, lui l'aveva manifestato nei confronti di Bella. Anche se forse solo per motivi di discrezione. Zsadist bisbigliò qualcosa, poi uscì come per andare a caccia, le sopracciglia aggrottate, le spalle contratte, solide come le travi di una casa. Cormia si schiarì la gola. «Volete che vi chiami Fritz? O che gli passi la vostra ordinazione?» «Sarà meglio aspettare, se Jane deve venire a visitarmi.» Bella spostò la mano sul pancione e cominciò a muoverla lentamente in cerchio. «Ti andrebbe di tornare, più tardi, per guardare il resto della trasmissione con me?» «Se vi fa piacere...» «Assolutamente. Sei un'ottima compagnia.» «Davvero?» Gli occhi di Bella erano incredibilmente gentili. «Davvero. Mi infondi un senso di calma.» 343 «Allora sarò la vostra compagna di parto. Da dove vengo io, una sorella incinta ha sempre una compagna di parto.» «Grazie... grazie mille.» Bella si voltò, negli occhi un lampo di paura. «Accetto tutto l'aiuto possibile.» «Se posso permettermi», mormorò Cormia, «cosa vi preoccupa di più?» «Lui. Sono preoccupata per Z», rispose Bella tornando a guardarla. «Poi sono preoccupata per il mio piccolo. È molto strano. Non sono poi tanto preoccupata per me.» «Siete molto coraggiosa.» «Oh, non mi hai mai vista a metà giornata. Vado spesso in crisi, fidati.» «Penso comunque che siate coraggiosa», disse Cormia posando la mano sul suo ventre piatto. «Dubito che saprei essere altrettanto impavida.» Bella sorrise. «Credo che ti sbagli. Ti ho osservata, in questi ultimi mesi, e hai una forza incredibile.» Cormia non ne era così sicura. «Spero tanto che la visita vada bene, tornerò più tardi...» «Non crederai sul serio che sia facile essere quello che sei, no? Vivere col genere di pressioni cui sono sottoposte le Elette. Non riesco neanche a immaginare come facciate a sopportarle, e ho un profondo rispetto per te.» 344 Cormia non riuscì a fare altro che battere le palpebre, incredula. «Sul... serio?» Bella annuì. «Sì. E vuoi sapere un'altra cosa? Phury è fortunato ad avere te. Mi auguro soltanto che non ci metta troppo a capirlo.» Santissima Vergine Scriba, non si sarebbe mai aspettata di sentirsi dire una cosa simile da nessuno, tanto meno da Bella; il suo shock doveva essere palese poiché Bella rise. «Okay, ti ho messa in imbarazzo, e me ne scuso. Ma è da un pezzo che volevo dirvelo, a tutti e due.» Bella lanciò un'occhiata al bagno con un grosso sospiro. «Ora credo sia meglio che tu vada, così posso prepararmi per Jane e le sue palpazioni. Adoro quella donna, sul serio, però cribbio, detesto quando si infila quei guanti di lattice.» Cormia salutò in fretta e uscì per tornare in camera sua, assorta nei suoi pensieri. Svoltato l'angolo dello studio di Wrath, si fermò di colpo. Quasi lo avesse evocato, ecco il Primale in cima al grande scalone, minaccioso ed esausto. I suoi occhi si posarono su di lei. Doveva essere ansioso di avere notizie di Bella, pensò Cormia. «Bella sta meglio, ma credo che nasconda qualcosa. Il fratello Zsadist è appena andato a chiamare la dottoressa Jane.» 345 «Bene. Mi fa piacere. Grazie per esserti presa cura di lei.» «È stato un piacere. Bella è adorabile.» Il Primale annuì; poi fece scorrere lo sguardo su di lei, dai capelli, raccolti in uno chignon, ai piedi nudi. Come se stesse riprendendo confidenza con lei, come se non la vedesse da un'eternità. «A quali orrori avete assistito da quando siete uscito di casa?» sussurrò Cormia. «Perché me lo chiedi?» «Mi fissate come se non mi vedeste da settimane. Che cosa avete visto?» «Sei brava a leggermi nel pensiero.» «Quasi quanto siete bravo voi a eludere la mia domanda.» Lui sorrise. «Il che significa molto bravo, huh.» «Non siete obbligato a parlare di...» «Ho visto altri morti. Morti che si potevano evitare. Che spreco, maledizione. Questa guerra è una tragedia.» «Sì. Sì, è vero.» Avrebbe voluto prendergli la mano, invece disse, «Vi andrebbe di... accompagnarmi in giardino? Volevo fare quattro passi tra le rose prima che sorga il sole.» 346 Lui esitò, poi scosse la testa. «Non posso. Mi dispiace.» «Certo.» Cormia si inchinò per evitare i suoi occhi. «Vostra grazia.» «Stai attenta.» «Va bene.» Ciò detto, Cormia raccolse la lunga veste e rapida si diresse verso le scale che lui aveva appena salito. «Cormia.» «Sì?» Si voltò a guardarlo da sopra la spalla e lui la trafisse con uno sguardo penetrante. L'ardore di quegli occhi la riportò a quando erano tutti e due sul pavimento, in camera sua, e il cuore le balzò in gola. Ma poi lui si limitò a scuotere la testa. «Niente. Solo, sii prudente.» Mentre Cormia scendeva le scale, Phury si diresse verso la galleria delle statue, fermandosi davanti alla prima delle finestre affacciate sul giardino dietro casa. Andare a vedere le rose insieme a lei era escluso. In quel momento lui era sconvolto, gli sembrava che lo avessero scuoiato vivo, anche se aveva ancora tutta la pelle addosso. Ogni volta che chiudeva gli occhi rivedeva quei cadaveri nel corridoio della clinica, i volti spaventati in quello stanzino pieno di medicinali e il coraggio di coloro che non avrebbero dovuto essere costretti a combattere per la loro vita. 347 Se non si fosse fermato per aiutare Bella a salire le scale e poi non fosse andato a cercare Zsadist, forse quei civili non si sarebbero salvati. Di certo nessuno lo avrebbe chiamato in soccorso perché lui non era più un fratello. Giù di sotto Cormia uscì sul terrazzo, la veste candida che risaltava contro le lastre di pietra grigio scuro. Si avvicinò leggiadra alle rose e si chinò ad annusarle. Gli pareva quasi di sentirla inspirare e poi sospirare soddisfatta, inebriata dal profumo dei fiori. I suoi pensieri passarono dall'orrore della guerra alla bellezza delle forme femminili. E a quello che maschi e femmine facevano tra le lenzuola di raso. No, non doveva ronzare intorno a Cormia in quel momento, nella maniera più assoluta. Lui voleva sostituire la morte e la sofferenza che aveva visto quella notte con qualcos'altro, qualcosa di vivo e caldo, qualcosa che coinvolgesse solo il corpo e non la testa. Osservando la sua Prima Sposa colmare di attenzioni il roseto, l'avrebbe voluta nuda sotto di sé, fremente di piacere, madida di sudore. Ah... ma lei non era più la sua Prima Sposa, no? Merda. La voce del mago si insinuò nella sua testa. Credevi sinceramente di riuscire a fare il tuo dovere nei suoi confronti? Di farla felice? Proteggerla? Passi dodici ore al giorno a 348 fumare. Vuoi accenderti uno spinello dopo l'altro davanti a lei costringendola a guardarti mentre, sempre più rintronato, finisci per appisolarti contro i cuscini del letto? Vuoi che veda questo? Vuoi costringerla a trascinarti dentro casa, all'alba, come hai fatto tu con tuo padre? Magari un giorno pensi anche di picchiarla per la frustrazione. «No!» gridò Phury. Ah, no? Tuo padre ti aveva detto la stessa cosa o sbaglio, socio? Ti aveva promesso che non ti avrebbe mai più picchiato. Ma la parola di chi è schiavo di una dipendenza è proprio questo: una parola e nient'altro. È questo il guaio. Phury si stropicciò gli occhi dando le spalle alla finestra. Per darsi un obiettivo, uno qualunque, si diresse verso lo studio di Wrath. Anche se lui non era più un membro della confraternita, il re andava informato di quanto era accaduto alla clinica. Z era impegnato con Jane e Bella e gli altri fratelli si stavano rendendo utili alla nuova clinica, quindi tanto valeva che fosse lui a fare rapporto in via ufficiosa. Inoltre, voleva spiegare a Wrath perché si era trovato sul posto e assicurargli che non si trattava di un atto di insubordinazione per il benservito che gli aveva dato. E poi c'era la faccenda di Lash. 349 Il ragazzo era disperso. Dal conteggio dei pazienti giunti alla nuova clinica sommati ai cadaveri in quella vecchia, era emerso che soltanto una persona era stata rapita, ed era Lash. Il personale sanitario aveva riferito che il ragazzo era vivo al momento dell'incursione, dopo il crollo dei suoi parametri vitali erano riusciti a rianimarlo. H che era una tragedia. Lash poteva anche essere un bastardo, ma nessuno voleva che cadesse nelle grinfie dei lesser. Se era fortunato sarebbe morto lungo il tragitto verso il luogo, qualunque fosse, dove lo stavano portando, ed era molto probabile che fosse morto, in effetti, visto com'era ridotto. Phury bussò alla porta dello studio. «Mio signore? Mio signore, ci sei?» Non ottenendo risposta, riprovò di nuovo. Niente. Si voltò e andò in camera sua, ben sapendo che avrebbe ricominciato a fumare a ripetizione, riprendendo il suo posto nel desolato regno del mago. Come se potessi vivere altrove, lo schernì la sinistra voce nella sua testa. All'altro capo della città, a casa dei genitori di Blaylock, Qhuinn venne fatto entrare di soppiatto dall'ingresso posteriore riservato ai doggen. Fece del suo meglio per camminare da solo, zoppicando, ma Blay dovette aiutarlo a salire la scala di servizio fino in camera sua. 350 Quando Blay uscì per raccontare ai suoi qualche balla su dove era stato e su quello che aveva fatto, John montò di guardia mentre Qhuinn si stendeva sul letto dell'amico senza neanche l'ombra del sollievo abituale. E non solo perché si sentiva come un pun-ching ball. I genitori di Blay non si meritavano una rogna del genere. Erano sempre stati buoni con lui. Che cavolo, molti genitori non avrebbero permesso ai loro figli di frequentarlo, quelli di Blay, invece, gli erano stati vicini sin dal principio. Adesso, senza saperlo, rischiavano di compromettere la loro posizione all'interno della glymera offrendo rifugio a un fuggitivo rinnegato, una persona non grata. Al solo pensiero, Qhuinn si alzò con l'intenzione di levare le tende, ma non aveva fatto i conti col suo stomaco. Una fitta lancinante gli perforò le budella, come se il fegato avesse preso arco e frecce e mirato ai reni. Con un gemito, si sdraiò di nuovo. Cerca di non muoverti, disse a gesti John. «Rice.. .vuto.» Il cellulare di John emise un trillo e lui lo tirò fuori dalla tasca dei jeans A & F. Mentre l'amico leggeva l'SMS, Qhuinn ripensò a quando loro tre erano andati a fare spese al centro commerciale e poi lui in camerino si era scopato la tipa che gestiva il negozio. Da allora era cambiato tutto. Adesso tutto il mondo era diverso. Si sentiva più vecchio di anni, invece che di giorni. 351 John alzò gli occhi, accigliato. Mi vogliono a casa. È successo qualcosa. «Vai, allora... io qui sto a posto.» Se posso torno. «Non c'è problema. Blay ti terrà aggiornato.» Quando John uscì, Qhuinn si guardò intorno e gli tornarono in mente tutte le ore passate su quel letto. Blay aveva una stanza fìchissima. Le pareti erano rivestite in legno di ciliegio, il che le conferiva l'aspetto di uno studio, e l'arredamento era moderno ed essenziale, non quella soffocante roba d'antiquariato che era la passione di tutti i membri della glymera, insieme alle regole più assurde sull'etichetta da tenere in società. Il letto, enorme, era coperto da un piumone nero e da una montagna di cuscini comodissimi, senza per questo sembrare una roba da femmine. Sul pavimento, davanti allo schermo al plasma ad alta definizione, c'erano un'Xbox 360, una Wii e una PS3, e la scrivania dove Blay faceva i compiti era in perfetto ordine come tutto il resto, videogiochi compresi. Sulla sinistra c'era un piccolo frigorifero, una pattumiera nera Rubbermaid, che in tutta onestà assomigliava un po' a un pisello, e un bidone arancione per le bottiglie. Qualche tempo prima Blay si era convertito alla causa ecologista ed era diventato un fanatico della raccolta differenziata e del riciclaggio dei rifiuti. Proprio tipico di Blay Contribuiva mensilmente alla PETA, l'organizzazione animalista che combatte ogni forma di violenza e sfruttamento sugli animali, mangiava solo 352 polli ruspanti e carne di bestiame allevato all'aperto, ed era un patito dei cibi biologici. Se ci fosse stata una ONU dei vampiri in cui fare uno stage o un modo per fare volontariato al Porto Sicuro, lui ci si sarebbe buttato senza pensarci due volte. Blay era la cosa più vicina a un angelo che avesse mai conosciuto, pensò Qhuinn. Cazzo. Doveva andare via di lì prima che suo padre facesse sbattere fuori dalla glymera tutta la famiglia di Blay. Cambiando posizione nel tentativo di trovare sollievo alla base della schiena, si rese conto che non erano solo le ferite a dargli fastidio. La busta che gli aveva consegnato il doveri di suo padre era rimasta infilata nella cintura dei jeans, malgrado tutte le botte che aveva preso. Non aveva nessuna voglia di rivedere quelle carte, ma chissà come se le ritrovò tra le mani sporche e insanguinate. Nonostante la vista annebbiata e i dolori diffusi in tutto il corpo, si concentrò sulla pergamena. Era il suo albero genealogico di cinque generazioni, il suo certificato di nascita, per così dire. Guardò i tre nomi sull'ultima riga. Il suo era in fondo a sinistra, accanto a quello di suo fratello maggiore e di sua sorella. Era sbarrato da un grossa X, e sotto l'elenco dei suoi genitori e consanguinei c'erano le loro firme, vergate con un tratto pesante dello stesso inchiostro. 353 Cancellarlo dalla famiglia richiedeva parecchie scartoffie. I certificati di nascita di suo fratello e di sua sorella andavano modificati allo stesso modo e anche il certificato di matrimonio dei suoi andava rivisto. Il Consiglio dei Princeps della glymera, inoltre, doveva ricevere una dichiarazione in cui Qhuinn veniva diseredato, il disconoscimento da parte dei suoi genitori e una richiesta di espulsione. Dopo aver espunto il suo nome sia dai membri della glymera che dall'immenso archivio genealogico dell'aristocrazia, il leahdyre del Consiglio avrebbe elaborato una missiva da inviare a tutte le famiglie della glymera in cui veniva formalmente annunciato il suo esilio. Chiunque avesse una figlia in età da marito andava messo sull'avviso, naturalmente. Era tutto così ridicolo. Con quegli occhi di due colori diversi non avrebbe comunque mai potuto farsi incidere il nome di qualche aristocratica sulla schiena. Qhuinn ripiegò il certificato di nascita e lo infilò di nuovo nella busta. Mentre la richiudeva, ebbe la sensazione che gli avessero sfondato il petto. Essere solo al mondo, anche da adulto, era terrificante. Ma contaminare chi era stato gentile con lui era anche peggio. Blay entrò con un vassoio traboccante di cibarie. «Non so se hai fame...» «Devo andare.» 354 Il suo amico posò sulla scrivania quello che aveva portato; «Non credo che sia una buona idea.» «Aiutami ad alzarmi. Me la caverò...» «Cazzate», disse una voce femminile. Jane, il medico della confraternita, comparve dal nulla davanti a loro. Aveva una di quelle borse di foggia antiquata che usavano i dottori di una volta, panciuta come una pagnotta e con due manici in cima, e indossava un camice bianco come quelli in uso alla clinica; il fatto che fosse un fantasma non aveva la minima importanza. Tutto, in lei, dai vestiti alla borsa, dai capelli al profumo, diventata solido e tangibile appena arrivava, proprio come se fosse una persona normale. «Grazie di essere venuta», disse Blay, sempre impeccabile come padrone di casa. «Ehilà, dottoressa», farfugliò Qhuinn. «Vediamo un po' cosa abbiamo qui» disse Jane sedendosi sull'angolo del letto. Senza toccarlo, si limitò a squadrare il suo paziente con occhio clinico, dalla testa ai piedi. «Non sono esattamente il candidato ideale per Playgirl, eh?» scherzò imbarazzato lui. «Quanti erano?» chiese seria lei. «Diciotto. Mila.» 355 «Quattro», intervenne Blay. «Una Guardia d'Onore di quattro.» «Una Guardia d'Onore?» Jane scrollò la testa, quasi stentasse a capire le usanze della razza. «Per Lash?» «No, da parte della famiglia di Qhuinn», spiegò Blay. «E non dovevano ucciderlo.» Be', quello sembrava essere il suo nuovo leitmotiv, pensò Qhuinn. Jane aprì la borsa. «Okay, vediamo cosa c'è sotto i vestiti.» Concentratissima come sempre, tagliò, la camicia di Qhuinn, gli auscultò il cuore e gli misurò la pressione. Intanto che lo visitava, lui fissava il muro, lo schermo televisivo spento, la sua borsa. «Bella... comoda... la sua borsa», gemette mentre lei gli palpava l'addome toccando un punto sensibile. «Ne ho sempre desiderata una così. Marcus Welby era il mio idolo.» «Marcus chi?» «Ti fa male anche qui?» L'ansito che gli sfuggì quando lo tastò di nuovo le fornì la risposta che cercava, quindi lui non aggiunse altro. Jane gli tolse i pantaloni e, non avendo le mutande, Qhuinn si affrettò a tirare le lenzuola sulle parti intime. 356 Lei le spinse via, lo scrutò dappertutto con aria professionale e poi gli chiese di flettere braccia e gambe. Si soffermò per qualche istante su un paio di lividi spettacolari e poi lo coprì di nuovo. «Con cosa ti hanno picchiato? Quegli ematomi sulle cosce sono molto brutti.» «Spranghe. Grosse, pesanti...» «Mazze», intervenne Blay. «Devono aver usato quelle mazze cerimoniali nere.» «Sarebbe coerente con le lesioni.» La dottoressa si concesse qualche secondo, come un computer in fase di elaborazione dati. «Bene, la situazione è la seguente. Le tue gambe sono messe parecchio male, ma le contusioni dovrebbero guarire da sole. Non hai ferite aperte; hai un taglio al palmo, ma immagino che sia leggermente precedente a tutto il resto perché si sta già rimarginando. E all'apparenza non hai niente di rotto, il che è un miracolo.» Niente di rotto o spezzato. Tranne il cuore, naturalmente, pensò Qhuinn. Essere picchiato dal proprio fratello... Zitto, femminuccia, si disse. «Allora è tutto a posto, giusto, dottoressa?» «Per quanto tempo sei rimasto svenuto?» 357 Qhuinn si accigliò, all'improvviso quella visione del Fado emerse dalla sua memoria e gli piombò addosso come un corvo nero. Dio... era morto? «Ehm... non ne ho idea. E non ho visto niente mentre ero svenuto. Era tutto nero, sa... ero KO.» Non aveva nessuna intenzione di accennare a quella piccola, naturalissima allucinazione. «Però sto bene, sa...» «Mi spiace, ma non sono d'accordo. La frequenza cardiaca è alta, la pressione è bassa e non mi piace quella pancia.» «Mi fa solo un po' male.» «Ho paura che si sia perforato qualcosa.» Grandioso. «Non è niente.» «Dov'è che hai preso la laurea in Medicina?» Jane sorrise e lui fece una risatina. «Vorrei farti un'ecografia, ma stanotte la clinica di Havers ha subito un attentato.» «Che cosa?» «Che cosa?» esclamò in contemporanea Blay. «Credevo lo sapeste.» «Ci sono dei superstiti?» chiese Blay. «Lash è sparito.» Mentre i ragazzi metabolizzavano le implicazioni di quella notizia, Jane rovistò nella sua borsa delle 358 meraviglie e tirò fuori una siringa sigillata e una fialetta con un tappino di gomma. «Ti darò qualcosa per il dolore. E non preoccuparti», aggiunse sardonica, «non è Demerol.» «Perché, il Demerol fa male?» «Ai vampiri? Sì.» Jane strabuzzò gli occhi. «Fidati.» «Tutto quello che dice lei per me va bene.» «Questo dovrebbe bastare per un paio d'ore», disse Jane dopo avergli fatto l'iniezione. «Ma conto di tornare anche prima.» «Dev'essere quasi l'alba, eh?» «Già, perciò dobbiamo sbrigarci. Hanno messo in piedi una clinica provvisoria...» «Non posso andarci», protestò Qhuinn. «Non posso... Non sarebbe una buona idea.» Blay annuì. «Non dobbiamo far sapere dove si trova. Al momento Qhuinn non è al sicuro da nessuna parte.» La dottoressa socchiuse gli occhi. Un istante dopo disse, «Okay. Allora vedrò di pensare a un ambiente più riservato dove prestarti le cure necessarie. Nel frattempo, non muoverti da questo letto. E non mangiare o bere niente, nel caso debba aprirti.» Mentre la dottoressa Jane chiudeva la sua borsa alla Marcus-vattelapesca, Qhuinn contò tutte le persone che 359 non si sarebbero azzardate ad avvicinarlo, figurarsi medicargli le ferite. «Grazie», disse con un filo di voce. «Non c'è di che.» Jane gli posò una mano sulla spalla e strinse forte. «Sistemo tutto io. Tornerai come nuovo. Puoi scommetterci la testa.» In quel momento, guardando quegli occhi verde scuro, Qhuinn credette sinceramente che lei potesse sistemare il mondo intero e venne sopraffatto da un'ondata di sollievo, come se qualcuno lo avesse avvolto in una morbida coperta. Merda, se perché la sua vita era in ottime mani o se per effetto di quello che la dottoressa gli aveva pompato nel braccio, non aveva importanza: da qualunque parte arrivasse, voleva godersi quel senso di benessere. «Ho sonno,» «Proprio quello che volevo,» Jane si avvicinò a Blay e gli bisbigliò qualcosa,,, e lui sgranò gli occhi, pur tentando di nascondere la propria reazione. Ah, allora era nella merda fino al collo, pensò Qhuinn. Dopo che la dottoressa se ne fu andata non si prese il disturbo di chiedere cosa avesse detto, tanto Blay non avrebbe aperto bocca, lo si capiva dalla faccia. Aveva le labbra sigillate. 360 Ma c'era un sacco di altra roba da discutere, vista la situazione di merda in cui si trovavano. «Che cosa hai detto ai tuoi?» chiese Qhuinn. «Non devi preoccuparti di niente.» Malgrado la spossatezza sempre più invincibile, Qhuinn scosse la testa. «Dimmelo.» «Non devi...» «Tu dimmelo e basta... altrimenti mi alzo e mi metto a fare Pilates, cazzo.» «Sì, come no. Hai sempre detto che è roba da finocchi.» «Bene. Jujitsu, allora. addormentato, ti spiace?» Parla prima che crolli Blay tirò fuori una Corona dal frigo. «I miei avevano intuito che eravamo noi, quando hanno sentito che entrava qualcuno. Erano appena tornati dalla grande festa della glymera. Per cui i genitori di Lash scopriranno adesso tutto il fattaccio.» Cazzo. «Gli hai detto.,, di me?» «Sì, e vogliono che resti.» Blay stappò la birra, che emise una specie di ansito. «Non diremo niente a nessuno, tutto qua. Gireranno voci su dove sei finito, ma la glymera non si metterà certo a battere a tappeto la città per trovarti, e i nostri doggen sono persone fidate.» «Resto solo per oggi.» 361 «Senti, i miei ti vogliono bene, e non ti lasceranno in mezzo alla -strada. Sanno com'era Lash, e conoscono anche i tuoi genitori.» Blay non aggiunse altro, ma il tono che aveva usato bastava ad arricchire le sue parole di tutta una serie di aggettivi. Intolleranti, moralisti, crudeli... «Non voglio essere un peso per nessuno», disse Qhuinn, torvo, «Per te. Per nessuno.» «Ma non sei di peso.» Blay abbassò gli occhi sul pavimento. «Io ho solo i miei genitori. Da chi credi che andrei se dovesse succedere qualcosa di brutto? Tu e John siete tutto quello che ho, a parte mamma e papà. Voi due siete la mia famiglia,» «Blay, io finirò in prigione.» «Noi non abbiamo prigioni, quindi ti servirà un posto dove stare agli arresti domiciliari.» «E non pensi che la cosa diventerà di dominio pubblico? Non credi che dovrò rivelare dove sto?» Blay tracannò metà birra, tirò fuori il telefonino e si mise a digitare. «Senti, vuoi piantarla di fare l'uccello del malaugurio? Abbiamo già abbastanza problemi così senza bisogno che te ne inventi degli altri. Troveremo il modo di farti stare qui, okay?» Si sentì un bip. «Vedi? John è d'accordo.» Blay gli mostrò il display del cellulare dove c'era scritto, IDEA GRANDIOSA, poi finì 362 di scolarsi la birra con l'aria soddisfatta di un marito che ha messo in ordine cantina e box. «Andrà tutto bene.» Qhuinn guardò l'amico da sotto due palpebre pesanti come macigni. «Sì.» Il suo ultimo pensiero prima di addormentarsi fu che, sì, certo, le cose si sarebbero sistemate... ma non come aveva in mente Blay. 363 Capitolo 22 Lash, figlio dell'Omega, rinacque con un urlo gutturale. In uno stato di folle confusione, tornò al mondo come ci era venuto venticinque anni prima: nudo, ansimante e insanguinato, solo che stavolta il suo corpo era quello di un adulto, non di un neonato. Il primo, fugace, momento di consapevolezza passò in fretta, poi per lui cominciò lo strazio: aveva le vene piene di acido e ogni centimetro del suo corpo era corroso dall'interno. Con le mani sullo stomaco, si piegò su un fianco vomitando bile nera su un logoro pavimento di legno. Troppo stravolto dai conati, non si curò di chiedersi dove fosse, cosa fosse successo o perché stesse rimettendo roba che sembrava vecchio olio lubrificante. Nel mezzo di quel turbinoso disorientamento, di quel vomito inarrestabile e di un panico cieco e incontrollabile, un salvatore gli tese la mano. Gli accarezzò la schiena, più e più volte, il palmo caldo prese un ritmo che rallentò la corsa frenetica del suo cuore, calmò la sua testa e placò le sue viscere. Appena fu in grado di farlo, Lash rotolò di nuovo sulla schiena. Al centro di un campo visivo offuscato, riuscì a mettere a fuoco una figura nera traslucida. Il volto etereo era di una bellezza giovane e virile, sui vent'anni, ma la malvagità dietro gli occhi tenebrosi lo rendeva orribile. 364 L'Omega. Doveva essere l'Omega. Quello era il Male descritto dalla sua religione, dal suo folklore e dalla sua educazione. Lash fece per rimettersi a urlare, ma la mano spettrale si protese verso di lui toccandogli con delicatezza il braccio. Lash si calmò. A casa, pensò. Sono a casa. La mente vacillò isterica a quel pensiero. Non era a casa. Era... di certo non aveva mai visto quella stanza decrepita. Dove cazzo era? «Stai tranquillo», mormorò l'Omega. «Ti tornerà tutto alla memoria.» E così fu, tutto d'un colpo. Lash vide lo spogliatoio al centro di addestramento... e John, quel finoccho della malora, che sclerava quando il suo lurido segretuccio veniva fuori. Poi si prendevano a cazzotti finché... Qhuinn... Qhuinn gli tagliava la gola. Porco diavolo... si sentì cadere sul pavimento della doccia, le piastrelle una piattaforma d'atterraggio dura e bagnata. Rivisse il gelo dello shock e ricordò di essersi portato le mani alla gola, cominciando ad ansimare mentre una stretta soffocante gli schiacciava il petto... il sangue... stava annegando nel suo stesso sangue... poi però lo avevano ricucito... e spedito alla clinica, dove... 365 Merda, era morto, giusto? Il dottore lo aveva ripreso per i ca-pelli ma era decisamente morto. «È così che ti ho trovato», mormorò l'Omega. «La tua morte è stata il faro.» Ma perché il Male lo voleva? «Perché sei mio figlio», disse l'Omega con una voce distorta colma di reverenza. Figlio? Figlio? Lash scosse lentamente la testa. «No... no...» «Guardami negli occhi.» Stabilito quel contatto visivo, Lash vide altre scene, visioni che si succedevano come le pagine di un libro illustrato. La storia che si dipanava lo fece a un tempo rabbrividire e respirare meglio. Era il figlio del Male. Nato da una vampira trattenuta contro la sua volontà in quella stessa fattoria, oltre vent'anni prima. Dopo la sua nascita era stato lasciato in un luogo di ritrovo per vampiri, che lo avevano trovato e portato alla clinica di Havers... dove in seguito era stato adottato dalla sua famiglia in gran segreto, tanto che anche lui ne era all'oscuro. E adesso, raggiunta la maturità, era tornato da colui che lo aveva generato. A casa. 366 Mentre metabolizzava le implicazioni di quella scoperta, fu colto dai morsi della fame e in bocca gli si allungarono le zanne. L'Omega sorrise e si voltò. Alle sue spalle, nell'angolo più lontano di quella stanza schifosa, c'era un lesser grande come un ragazzino di quattordici anni, gli occhietti da topo fissi su Lash, il piccolo corpo contratto come un serpente attorcigliato su se stesso. «È giunto il momento di rendermi quel servizio», gli disse l'Omega. Il Male tese la mano tenebrosa e gli fece segno di avvicinarsi. Più che camminare, il lesser si muoveva in blocco, come se brac-cia e gambe fossero paralizzate e mani invisibili lo stessero sollevando e trasportando. Il non morto sbarrò gli occhi slavati, strabuzzandoli in preda al panico, ma Lash aveva in mente tutt'altro che la paura dell'uomo che gli veniva offerto. Appena colse il suo odore dolciastro, si rizzò a sedere, e scoprì le zanne. «Tu nutrirai mio figlio», disse l'Omega rivolto al lesser. Senza attendere il suo consenso, Lash allungò la mano e agguantò quel bastardello per la collottola trascinandolo a sé, verso i canini frementi, poi gli affondò le zanne nella carne e succhiò avidamente il sangue, dolce come melassa e altrettanto denso. 367 Non aveva mai sentito un sapore simile, ma gli riempì lo stomaco e gli diede forza, e tanto bastava. Mentre Lash succhiava, l'Omega scoppiò a ridere, piano all'inizio, poi sempre più forte, finché la casa tremò per l'impeto di quella gioia matta e assassina. Phury picchiettò lo spinello stai bordo del posacenere e guardò ciò che aveva tracciato con la penna d'oca. Il disegno era scioccante, e non solo a causa del soggetto. Era anche uno dei migliori che avesse mai fatto. La forma femminile sul foglio bianco panna era stesa sopra un letto di raso, le spalle e il collo sorrette da morbidi cuscini. Un braccio era sollevato sopra la testa, le dita intrecciate nei lunghi capelli, l'altro abbandonato lungo il fianco, la mano posata alla giuntura tra le cosce. I seni erano turgidi, i piccoli capezzoli ritti, pronti per la bocca di qualcuno, e le labbra schiuse in modo invitante... così come le gambe. Entrambe erano aperte, un ginocchio piegato, il piede inarcato e le dita contratte, quasi stesse pregustando qualcosa di delizioso. Guardava fuori dalla pagina, dritto verso di lui. E non era uno schizzo appena abbozzato. Il ritratto era curato fin nei minimi particolari, tratteggiato e sfumato con precisione certosina per rendere la femmina in tutto il suo fascino. Il risultato era una personificazione tridimensionale del sesso, un orgasmo in nuce, tutto ciò che un maschio poteva desiderare in una partner sensuale, Phury diede un altro tiro allo spinello, tentando di convincersi che non era Cormia. 368 No, quella non era Cormia... non era una femmina in particolare, era solo un aggregato di attributi sessuali cui aveva rinunciato finché aveva tenuto fede al suo voto di castità. Era l'ideale femminile con cui avrebbe voluto vivere la sua prima volta. Era la femmina da cui avrebbe voluto abbeverarsi in tutti quegli anni. Era la sua amante immaginaria, ora generosa ora esigente, a volte dolce e arrendevole, altre volte avida e capricciosa. Non era reale. E non era Cormia. Proruppe in un'imprecazione, risistemò l'uccello nei calzoni del pigiama e schiacciò lo spinello nel posacenere. Che razza di bugiardo schifoso. Bugiardo. Schifoso. Altro che se era Cormia, Lanciò un'occhiata al medaglione del Primale, sopra il cassettone, ripensò alla conversazione con la Direttrice e imprecò di nuovo. Fantastico. Ora che Cormia non era più la sua Prima Sposa aveva deciso che la desiderava. La sua solita fortuna. «Cristo.» Si sporse verso il comodino, si rollò un'altra canna e l'accese. Con lo spinello tra le labbra cominciò a disegnare l'edera, partendo dalle belle dita dei piedi. Mentre aggiungeva una foglia dopo l'altra, coprendo a poco a poco tutto il disegno, gli parve che fossero le sue mani a salire lungo quelle gambe vellutate, sopra quel ventre piatto e poi su, fino ai seni alti e sodi. 369 Era così preso dall'accarezzarla nella sua mente che la sensazione di soffocamento solitamente associata al gesto di coprire un disegno col rampicante non lo assalì finché non giunse al volto. Allora si fermò. Quella era proprio Cormia e non una Cormia a metà, come Bella in quel ritratto di qualche sera prima. I lineamenti di Cormia erano tutti lì, in bella vista, dal taglio degli occhi al turgore del labbro inferiore alla chioma lussureggiante. E lei lo stava guardando. Lo desiderava. Oh, Dio... In fretta disegnò l'edera su tutta la faccia e poi restò a guardare come l'aveva rovinata. I tralci la coprivano completamente, debordando oltre i confini del suo corpo, seppellendola senza metterla sottoterra. In un lampo gli tornò in mente il giardino a casa dei suoi genitori, così come l'aveva visto quell'ultima volta, quando era tornato per dar loro sepoltura. Dio, ricordava ancora quella notte con assoluta chiarezza. Specie l'odore che avevano i resti del rogo. La tomba che aveva scavato era in un canto, la fossa nel terreno una ferita aperta nella fitta edera del giardino. Vi aveva deposto entrambi i genitori, ma c'era un solo corpo da seppellire. Aveva dovuto bruciare i resti di sua madre. Si era già decomposta nel suo letto al punto che non era riuscito a portarla fuori dal seminterrato. Aveva dato fuoco a ciò che restava di lei nel punto in cui l'aveva 370 trovata, pronunciando formule sacre finché il fumo lo aveva soffocato costringendolo a scappare. Mentre il fuoco divampava all'interno della stanza di pietra, aveva preso suo padre e l'aveva portato fuori fino alla tomba. Dopo che le fiamme avevano divorato tutto ciò che potevano raggiungere nel seminterrato, Phury aveva raccolto le ceneri rimaste e le aveva messe in una grande urna di bronzo. Erano un bel mucchio perché insieme alla madre aveva bruciato il materasso e tutto il letto. Aveva collocato l'urna accanto alla testa di suo padre, poi li aveva coperti di terra. Dopo di che aveva incendiato l'intera casa, riducendola in cenere. Era maledetta, tutto quel luogo era maledetto, neanche la temperatura infernale delle fiamme era bastata a purificare l'infezione della malasorte, ne era certo. Nell'andarsene, il suo ultimo pensiero fu che, nel giro di non troppo tempo, l'edera avrebbe ricoperto completamente le fondamenta. Hai bruciato tutto quanto, è vero, disse il mago nella sua testa. Ma avevi ragione tu, non è servito a scacciare la maledizione. Tutte quelle fiamme non sono bastate a purificare né loro né te, giusto, socio? Hanno solo fatto di te un piromane, oltre che un salvatore mancato. Spegnendo lo spinello, Phury appallottolò il disegno, si agganciò la protesi e andò alla porta. 371 Non puoi scappare, non puoi sottrarti a me o al tuo passato, mormorò il mago. Siamo come l'edera su quel pezzo di terra, sempre con te, ti avvolgiamo completamente, copriamo la maledizione che si è abbattuta su di te. Gettando via il disegno, Phury uscì dalla stanza, tutt'a un tratto spaventato dalla solitudine. Appena mise piede in corridoio, quasi travolse Fritz. Il maggiordomo balzò indietro in tempo, proteggendo un vaso di... piselli? Piselli a bagno nell'acqua? Le costruzioni di Cormia, rammentò Phury mentre il contenuto del vaso tra le braccia del doggen minacciava di rovesciarsi. Fritz sorrise, malgrado la collisione evitata per un soffio; il suo volto gommoso, solcato dalle rughe, si aprì in un sorriso felice. «Se state cercando l'Eletta Cormia, è in cucina, sta consumando il suo Ultimo Pasto con Zsadist.» Con Z? Cosa diavolo ci faceva con Z? «Sono insieme?» «Credo che il padrone volesse parlarle in privato di Bella. Ecco perché al momento mi sto dando da fare in un'altra parte della casa.» Fritz si accigliò. «State bene, padrone? Vi serve qualcosa?» Che ne diresti di un bel trapianto di cervello? «No, grazie.» Il doggen si congedò con un inchino ed entrò nella stanza di Cormia, proprio mentre dall'atrio saliva l'eco di 372 alcune voci. Phury andò alla balconata e si affacciò dalla ringhiera decorata con un motivo a foglie d'oro. Ai piedi delle scale c'erano Wrath e Jane; l'espressione spettrale di quest'ultima era tesa come la sua voce. «... ecografo. Senti, so che non è l'ideale perché non ti va di avere gente in giro per casa, ma non abbiamo scelta. Sono andata alla clinica e non solo si rifiutano di ricoverarlo, ma volevano a tutti i costi sapere dov'è.» Wrath scosse portarlo...» la testa. «Cristo, non possiamo «Sì che possiamo. Fritz può andare a prenderlo con la Mercedes. E prima che tu dica di no, è da dicembre che ogni settimana quei ragazzi vengono qui al quartier generale per il corso di addestramento. Lui non capirà neanche dove si trova. E per quanto riguarda quegli stronzi della glymera, non c'è nessun bisogno di informarli che lui è qui. Potrebbe morire, Wrath. E io non voglio che John ce l'abbia sulla coscienza, tu si?» Il re smadonnò in lungo e in largo guardandosi intorno, come se i suoi occhi avessero bisogno di fare qualcosa mentre la testa rimuginava sulla situazione. «E va bene. Mettiti d'accordo con Fritz per il trasferimento. Puoi sottoporlo alle analisi e operarlo, se necessario, nella saletta per la fisioterapia, poi però dovrà essere portato via appena possibile. Non me ne importa un fico secco dell'opinione della glymera, quello che mi preoccupa è creare un precedente. Non possiamo diventare un albergo.» 373 «Ho capito. E, senti, voglio dare una mano a Havers. È un compito troppo gravoso per lui avviare la nuova clinica e seguire i pazienti. Però così dovrò assentarmi per qualche giorno.» «Vishous è d'accordo? Non ci saranno rischi per la tua sicurezza?» «Non tocca a lui decidere, e a te lo sto dicendo solo per gentilezza.» Jane rise, asciutta. «Non guardarmi così. Sono già morta. I lesser non possono ammazzarmi di nuovo.» «Non è affatto divertente.» «L'umorismo macabro fa parte dell'avere un dottore in casa. Rassegnati.» Wrath scoppiò in una risata fragorosa. «Sei proprio un osso duro. Non mi stupisce che V si sia innamorato di te.» Poi il re tornò serio. «Ma, tanto per essere chiari, osso duro o no, qui comando io. Questo posto e tutti quelli che ci stanno sono sotto la mia responsabilità. Jane sorrise. «Dio, mi ricordi Manny.» «Chi?» «Il mio vecchio capo. Primario di chirurgia al St. Francis. Voi due andreste magnificamente d'accordo. O... forse no.» Jane posò la mano trasparente sul robusto avambraccio tatuato del re. Appena stabilito il contatto, divenne solida da capo a piedi. «Wrath, non sono una stupida e non intendo agire in modo precipitoso. 374 Vogliamo tutti e due la stessa cosa, e cioè che tutti siano al sicuro... compresi i vampiri che non abitano qui. Non lavorerò mai per te o per nessun altro, perché non è nella mia natura, ma di sicuro intendo lavorare con te, okay?» Con un sorriso pieno di rispetto, il re annuì reciso; era la cosa più vicina a un inchino che potesse fare. «Me ne farò una ragione.» Quando Jane si allontanò in direzione del tunnel sotterraneo, Wrath alzò gli occhi su Phury. E non disse niente. «Stavate parlando di Lash?» chiese Phury, sperando che il ragazzo fosse stato ritrovato o roba del genere. «No.» Phury restò in attesa di un nome, ma quando il re si voltò e cominciò a salire le scale con le sue lunghe falcate, divorando la distanza che li separava due gradini alla volta, fu subito chiaro che non gli avrebbe detto niente. Affari della confraternita, pensò Phury. Che un tempo erano anche i tuoi, gli fece cortesemente notare il mago. Finché non hai perso la testa. «Stavo venendo a cercarti», mentì Phury, avvicinandosi al suo re; evidentemente un rapporto ufficioso su quanto era accaduto alla clinica ormai era superfluo. «Passeranno di qui un paio di Elette. Vengono a vedere me.» 375 Le sopracciglia del re si tuffarono dietro gli occhiali avvolgenti. «Allora hai completato la cerimonia con Cormia, huh. Non dovresti vedere quelle femmine dall'Altra Parte?» «Molto presto lo farò.» Merda, era proprio vero. Wrath incrociò le braccia sull'ampio petto. «Ho sentito che stanotte ti sei fatto onore alla clinica. Grazie.» Phury ingoiò il boccone amaro. Quando eri un fratello il re non ti ringraziava mai per quello che facevi perché facevi semplicemente il tuo dovere, il tuo lavoro e ciò per cui eri nato. Poteva capitare di ricevere un bravo! per averci dato dentro, o una qualche forma imbarazzata di solidarietà al testosterone se ti beccavano e rimanevi ferito... ma nessuno ti ringraziava mai. Phury si schiarì la gola. Non riuscendo a tirar fuori un prego, non c'è di che si limitò a mormorare, «Tutto merito di Z... e anche di Rehv, che si trovava lì per caso.» «Sì, provvederò a ringraziare anche Rehvenge.» Wrath si voltò verso lo studio. «Quel symphath si sta rivelando utile.» Phury rimase a guardare la porta a due battenti che si chiudeva lentamente, precludendo al suo sguardo la stanza azzurro pallido. 376 Voltandosi a sua volta per andare, gli cadde l'occhio sul maestoso soffitto dell'atrio, con i suoi guerrieri così fieri e realistici. Adesso lui era un amante, non più un guerriero, giusto? Sì, disse il mago. E scommetto che sarai altrettanto scadente sul piano sessuale. Adesso corri a cercare Cormia e dille che ti piace così tanto che hai deciso di relegarla in panchina. Guardala negli occhi e dille che ti scoperai le sue sorelle. Tutte quante. Nessuna esclusa. Tutte tranne lei. E dì a te stesso che stai facendo la cosa giusta spezzandole il cuore. Perché è per questo che stai scappando. Hai visto come ti guarda e sai che ti ama e sei un vigliacco. Diglielo. Dille tutto. Mentre il mago si allontanava col vento in poppa, Phury scese al piano terra, entrò nella sala del biliardo e prese una bottiglia di vermouth Martini & Rossi e una di gin Beefeater, poi afferrò un vasetto di olive, un bicchiere da cocktail e... La scatola di stuzzicadenti lo fece pensare a Cormia. Tornando di sopra fu nuovamente assalito dalla paura di stare da solo, ma aveva altrettanta paura di stare con chiunque altro. 377 Sapeva solo che c'era un modo infallibile per sbarazzarsi del mago, e intendeva servirsene. Fino a perdere i sensi. 378 Capitolo 23 In genere Rehv non amava stare nel monolocale dietro il suo ufficio allo ZeroSum. Dopo una nottata come quella, tuttavia, non se la sentiva di guidare fino alla casa sicura fuori città dove abitava sua madre, e l'attico al Commodore, con la sua vetrata panoramica, era tassativamente escluso. Xhex era passata a prenderlo alla clinica e sulla via del ritorno al club lo aveva torchiato per benino per farsi dire come mai non l'avesse chiamata dopo l'attentato. Ma andiamo, si era giustificato lui, un altro symphath mezzosangue nella mischia? Sì, vabbè. E poi le cliniche innervosivano anche lei. Dopo averla ragguagliata sull'attacco, aveva mentito dicendole che Havers gli aveva dato un'occhiata al braccio e dei farmaci. Xhex aveva capito che non gliela stava raccontando giusta, ma grazie al cielo erano troppo vicini all'alba per lanciarsi in una litigata senza fine. Certo, in teoria Xhex poteva fermarsi lì al club per continuare a bisticciare, ma in pratica doveva sempre tornare a casa sua. Sempre. Al punto che Rehvenge si chiedeva cosa l'aspettasse a casa, di preciso. O chi. 379 Entrò in bagno senza togliersi lo zibellino, anche se il riscaldamento era al massimo. Mentre aspettava che l'acqua della doccia si scaldasse, ripensò a quanto era successo alla clinica e giunse alla conclusione che era stato tragicamente stimolante. Combattere, per lui, era come un vestito di Tom Ford: qualcosa che gli calzava a pennello e che poteva ostentare con orgoglio. E la buona notizia era che il suo lato symphath non aveva perso il controllo, malgrado l'attrattiva di tutto quel sangue di lesser versato. Visto? Stava bene. Sul serio. Quando si ritrovò avvolto in una nube di vapore si costrinse a levarsi la pelliccia, il completo di Versace e la camicia di Pink. I vestiti erano conciati da sbatter via e lo zibellino non se la passava molto meglio, Li aggiunse al mucchio da mandare a lavare a e a riparare. Per infilarsi nella doccia doveva passare davanti al lungo specchio sopra la fila di lavandini di cristallo. Voltandosi verso il proprio riflesso, fece scorrere le mani sulle stelle rosse a cinque punte che aveva sul petto. Poi scese più giù e strinse l'uccello. Sarebbe stato carino fare un po' di sesso, dopo tutto quel macello, o quanto meno purificarsi fisicamente con una bella sega. O anche tre. Mentre si soppesava l'arnese non potè fare a meno di notare che, massacrato com'era, il braccio sinistro sembrava passato dentro un tritacarne. Gli effetti collaterali sono una bella rottura di scatole. 380 Si infilò sotto l'acqua e capì che era bollente solo per via dell'aria lattiginosa e umida che lo circondava e perché la sua temperatura corporea tirò un enorme sospiro di sollievo. La sua pelle non gli comunicava niente: quanto era forte il getto sulle spalle, quanto era liscia e scivolosa la saponetta che si passava sul corpo, quanto era grande e caldo il suo palmo mentre lavava via la schiuma facendola scivolare verso lo scarico sottostante. Continuò a insaponarsi più a lungo del necessario. Non sopportava di andare a letto con la seppur minima traccia di sporco, ma soprattutto aveva bisogno di una scusa per restare sotto la doccia. Era una delle rare occasioni in cui non aveva freddo, e uscire era sempre un trauma terribile. Dieci minuti dopo era tra le lenzuola del letto enorme, nudo, e come un bambino si era tirato fin sotto al mento la pesante coperta di visone. Quando il freddo accumulato mentre si asciugava a poco a poco svanì, chiuse gli occhi e spense le luci con la forza del pensiero. Ormai il club, dall'altra parte dei muri foderati d'acciaio, doveva essere vuoto; le sue ragazze erano a casa, visto che per la maggior parte avevano figli; i baristi e gli allibratori mangiavano un boccone e si rilassavano da qualche parte; i fanatici del computer impegnati dietro le quinte guardavano le repliche di Star Trek: TNG e i venti addetti alle pulizie, finito di sistemare pavimenti, tavoli,bagni e séparé, si stavano togliendo le uniformi prima di recarsi sul posto di lavoro successivo. 381 Gli piaceva l'idea di essere lì da solo. Non capitava spesso. Gli squillò il cellulare e proruppe in un'imprecazione; pur essendo da solo c'era sempre qualcuno che scocciava. Tirò fuori il braccio per rispondere. «Xhex, se vuoi continuare a litigare possiamo andare avanti fino a domani...» «Non sono Xhex, symphath.» La voce di Zsadist era dura come un pugno. «E chiamo per tua sorella.» Rehv si rizzò subito a sedere, incurante del fatto che le coperte si erano abbassate, scoprendolo. «Cosa c'è.» Finito di parlare con Zsadist, si sdraiò di nuovo; ecco come ci si doveva sentire quando si pensava di avere un attacco di cuore e poi si scopriva che era solo indigestione: sollevati, ma con lo stomaco ancora in subbuglio. Bella stava bene. Per adesso. Il Fratello aveva chiamato per tener fede al loro patto. Rehv aveva promesso di non immischiarsi, ma voleva essere costantemente aggiornato sulle condizioni di salute di sua sorella. Cribbio, quella storia della gravidanza era tremenda. Si tirò di nuovo le coperte fin sotto al mento. Doveva chiamare sua madre e metterla al corrente, ma l'avrebbe fatto più tardi. Di sicuro si stava mettendo a letto e non c'era motivo di tenerla alzata tutto il giorno a preoccuparsi. 382 Dio, Bella... la sua adorata Bella; non era più la sua sorellina, adesso era la shellan di un fratello. Loro due avevano sempre avuto un rapporto profondo e complicato. In parte a causa delle rispettive personalità, ma anche perché lei non aveva idea di cosa fosse suo fratello Rehvenge. Ignorava completamente anche il passato della loro madre e cosa avesse ucciso suo padre. O, più precisamente, "chi". Rehv lo aveva assassinato per proteggere sua sorella, e non avrebbe esitato a rifarlo. Per quel che ricordava, Bella era l'unica cosa innocente della sua vita, l'unica cosa pura. Avrebbe voluto che restasse sempre Così. Ma la vita aveva preso un'altra piega. Per evitare di pensare al rapimento di Bella da parte dei lesser, cosa di cui continuava a ritenersi responsabile, richiamò alla mente uno dei ricordi più vividi che aveva di lei. Risaliva a un annetto dopo che lui aveva preso in pugno la situazione, a casa, facendo fuori il padre di Bella. Lei aveva sette anni. Rehv era entrato in cucina e l'aveva trovata a tavola a mangiare una scodella di Frosties, coi piedi che dondolavano dalla sedia su cui si era arrampicata. Indossava un paio di pantofole rosa - quelle che non le piacevano, ma che doveva mettere quando le sue preferite, quelle blu scuro, erano da lavare - e una camicia da notte di flanella con file di rose gialle alternate a righe azzurre e rosa. 383 Era una meraviglia, lì seduta con i lunghi capelli castani sciolti sulle spalle, le ciabattine rosa e la fronte tutta corrugata mentre rincorreva col cucchiaio gli ultimi fiocchi di mais glassati. «Perché mi guardi, galletto?» aveva chiesto con la sua vocina, dondolando in piedi avanti e indietro sotto la sedia. Lui aveva sorriso. Già allora sfoggiava una cresta di capelli alla moicana e Bella era l'unica che osasse chiamarlo con quel soprannome impertinente. E, naturalmente, lui l'amava ancora di più per questo. «Così, non c'è un motivo.» Ma era una bugia. Guardandola pescare col cucchiaio nel latte zuccherato, Rehvenge aveva pensato che quel momento di pace e di tranquillità valeva tutto il sangue con cui si era sporcato le mani. Un mare di sangue. Con un sospiro, lei aveva guardato la scatola dei cereali poggiata sul ripiano dall'altra parte della cucina. I piedi avevano smesso di dondolare, il sommesso piff, piff, piff delle pantofole sul piolo della sedia era cessato. «Cosa stai guardando, Lady Bell?» Lei non aveva risposto subito; allora Rehv aveva guardato Tony la Tigre, la mascotte dei Frosties, assalito da una serie di flashback del padre di Bella. Era pronto a scommettere che anche lei stava rivedendo le stesse scene. Con una vocina sommessa, Bella aveva detto, «Posso prenderne ancora un po' se voglio. Magari.» 384 Il tono era esitante, come di chi sta infilando il piede in uno stagno in cui potrebbero esserci delle sanguisughe. «Sì, Bella. Puoi prenderne quanti ne vuoi.» Lei non era balzata giù dalla sedia. Era rimasta immobile, come fanno i bambini e gli animali, respirando e basta, i sensi che saggiavano l'ambiente circostante, all'erta in caso di pericolo. Rehv non si era mosso. Voleva portarle la scatola, ma sapeva che doveva essere lei a compiere quel passo. Doveva essere lei ad attraversare il lucido pavimento rosso ciliegia con le sue ciabattine e tornare al suo posto con Tony la Tigre. Dovevano essere le sue manine a stringere la scatola mentre un'altra cascata di fiocchi si rovesciava nel latte tiepido. Doveva essere lei a prendere in mano il cucchiaio per rimettersi a mangiare. Doveva imparare che in casa non c'era nessuno pronto a sgridarla per aver fatto il bis di cornflakes perché aveva ancora fame. Suo padre era specializzato in quel genere di cose. Come tanti vampiri della sua generazione, quel pezzo di merda era convinto che le femmine della glymera dovessero "mantenersi snelle". Come aveva ripetuto fino alla nausea, il grasso sul fisico di una aristocratica era l'equivalente della polvere che si accumula su una statua di inestimabile valore. Era stato ancora più duro con la loro madre. 385 In silenzio, Bella aveva abbassato gli occhi sul latte e aveva cominciato a girare il cucchiaio dentro la scodella, creando una scia di onde. Non l'avrebbe fatto, aveva pensato Rehv, pronto a uccidere da capo quel bastardo che l'aveva messa al mondo. Era ancora spaventata. Ma poi lei aveva posato il cucchiaio sul piatto sotto la scodella, era scivolata giù dalla sedia e aveva attraversato la cucina nella sua piccola camicia da notte di flanella. Senza guardare Rehv. Senza neanche guardare il vivace muso da cartone animato di Tony, quando aveva afferrato la scatola. Era terrorizzata. Era coraggiosa. Era piccola e determinata. A quel punto Rehv aveva visto tutto rosso, ma non perché stesse emergendo il suo lato malvagio. Quando Bella si era versata per la seconda volta i Frosties nella scodella, lui aveva dovuto andare via. Aveva detto qualcosa di allegro, niente di particolare, ed era corso a chiudersi dentro al bagno in corridoio. Aveva pianto da solo le sue lacrime di sangue. Quel momento in cucina, con Tony e le pantofole di ripiego di Bella, gli aveva fatto capire che aveva fatto bene: l'approvazione per l'assassinio commesso era giunta quando quella scatola di cereali aveva attraversato la cucina in mano alla sua cara, diletta sorellina adorata. 386 Tornando al presente, pensò a Bella com'era adesso. Una femmina adulta con un compagno potente e un piccolo in grembo. Il demone che doveva affrontare ora non era una cosa che il suo fratellone cattivo potesse aiutarla a scacciare. Non c'erano tombe aperte dentro cui gettare i resti malconci e insanguinati del fato. Lui non poteva salvarla da quel particolare tipo di mostro. Chi vivrà vedrà. Si poteva solo aspettare. Fino a quando l'avevano rapita, non lo aveva mai neanche sfiorato il pensiero che Bella potesse morire prima di lui. Durante quelle sei settimane spaventose nel corso delle quali i lesser l'avevano tenuta prigioniera sottoterra, tuttavia, non era riuscito a pensare ad altro che alla sequenza delle morti nella sua famiglia. Aveva sempre dato per scontato che la loro madre sarebbe stata la prima ad andarsene, e in effetti da poco aveva iniziato il rapido declino che conduceva i vampiri alla fine della loro esistenza. Il secondo sarebbe stato lui, ne era ben consapevole, perché presto o tardi sarebbe successa una di queste due cose: o qualcuno avrebbe scoperto la sua natura di symphath e lui sarebbe stato braccato e spedito nella colonia, oppure la sua ricattatrice avrebbe orchestrato la sua dipartita alla maniera dei symphath. Ovvero: improvvisa e perversamente creativa... Neanche a farlo apposta, dal cellulare si levò un motivetto musicale. La suoneria trillò ancora, e poi ancora, Rehvenge sapeva chi lo stava chiamando senza bisogno di rispondere. Tali erano i legami tra symphath. 387 Parli del diavolo, pensò rispondendo alla chiamata della sua ricattatrice. Quando chiuse la comunicazione, aveva appuntamento con la Principessa per la sera dopo, Che fortuna, Qhuinn fece questo lungo sogno assurdo in cui era a Disney World, su un ottovolante con tanti su e giù. Strano, lui le montagne russe le aveva viste solo in TV perché mica puoi salire sulla Big Thunder Mountain se non puoi stare al sole. Terminata quella corsa misteriosa, apri gli occhi e scoprì di essere nella saletta attrezzata per il pronto soccorso e per la fisioterapia, al centro di addestramento della confraternita. Oh, sia lodato il cielo. Evidentemente si era beccato una botta in testa mentre si allenava con qualcuno, durante la lezione, e tutta quell'altra storia -la rissa con Lash, la sua famiglia che lo cacciava di casa e suo fratello che lo massacrava di botte insieme agli altri della Guardia d'Onore - era solo un incubo. Che sollievo... La faccia della dottoressa Jane gli comparve davanti. «Ehilà... sei tornato tra noi.» Qhuinn batté le palpebre tossendo. «Come... da dove?» 388 «Hai fatto un piccolo sonnellino. Così ho potuto asportarti la milza.» Merda. Allora non era un'allucinazione. Era la cruda realtà. «Sto... bene?» La dottoressa gli mise una mano sulla spalla, il palmo era caldo e pesante anche se il resto della sua persona era traslucido. «Sei stato bravissimo.» «Lo stomaco mi fa ancora male», disse lui alzando la testa e guardandosi il petto nudo, fino alla fasciatura intorno alla vita. «È normale, sarebbe strano il contrario. Ma sarai felice di sapere che tra un'ora potrai tornare a casa di Blay. L'intervento è riuscito alla perfezione, come da manuale, e stai già guarendo bene. Io non ho problemi con la luce del sole, quindi se hai bisogno di me posso raggiungerti in un attimo a casa del tuo amico. Blay sa già cosa tenere sotto controllo, e gli ho dato delle medicine per te.» Qhuinn chiuse gli occhi, sopraffatto da una specie di strana tristezza. Mentre cercava di calmarsi sentì la dottoressa Jane che diceva, «Blay, forse è meglio se vieni qui...» Qhuinn scosse la testa, poi la voltò dall'altra parte. «Ho bisogno di un minuto da solo.» «Sei sicuro?» «Sì.» 389 Quando la porta si chiuse piano, Qhuinn si coprì il volto con la mano tremante. Da solo... sì, era proprio solo. E non soltanto perché non c'era nessun altro nella stanza insieme a lui. Com'era stato bello pensare che le ultime dodici ore erano state solo un sogno. Dio, cosa cazzo avrebbe fatto per il resto della sua vita? In un lampo ricordò la visione che aveva avuto in prossimità del Fado. Forse avrebbe dovuto varcare quella maledetta porta, malgrado ciò che aveva visto. Sarebbe stato tutto più facile, poco ma sicuro. Si concesse un attimo - o forse più una mezz'oretta per riprendersi. Poi, più forte che potè, gridò, «Sono pronto. Possiamo andare.» 390 Capitolo 24 Una casa può essere vuota anche quando è piena di gente. E non è forse un bene? Un'oretta circa prima dell'alba, Phury svoltò barcollando uno degli innumerevoli angoli della grande casa della confraternita e dovette stendere il braccio per non perdere l'equilibrio. Non era proprio solo, però. Con lui c'era Boo, il gatto nero di casa, che gli zampettava dietro sorvegliando la situazione. Diamine, si poteva quasi dire che l'animale avesse assunto il comando perché a un certo punto Phury aveva preso a seguirlo invece di fare strada. Fare strada sarebbe stata una pessima idea. Il tasso alcolico del suo sangue era di gran lunga sopra il limite consentito per qualunque cosa, salvo lavarsi i denti. E questo prima di aggiungervi gli effetti stordenti di una montagna di fumo rosso. Quante canne si era fatto? Quanti cicchetti? Be', adesso erano le... Non aveva idea di che ora fosse. Però doveva essere quasi l'alba. Tanto, che importanza aveva? Cercare di contabilizzare la bisboccia sarebbe stata comunque una perdita di tempo. Era talmente rintronato che dubitava di riuscire a tenere il conto, e poi non si ricordava neanche 391 qual era stato il suo tasso di consumo orario. Era uscito dalla sua stanza quando il Beefeater era finito, ecco l'unica sua certezza. Da principio aveva in mente di recuperare un'altra bottiglia di gin, poi però aveva incrociato Boo e cominciato quella passeggiatina. Tutto considerato, avrebbe dovuto finire svenuto sul letto. Era abbastanza sbronzo da crollare, e in fondo quello era il suo obiettivo. 'Ma c'era un problema. Malgrado ci avesse dato dentro con quella specie di automedicazione, la testa gli scoppiava per le quattro rogne con la C: Cormia e la sua situazione. Il casino con le Elette. L'incursione alla clinica. E la creatura di Bella. Per lo meno il mago era relativamente silenzioso. Phury aprì una porta a caso cercando di capire dove lo avesse portato il gatto. Ah, giusto. Ancora qualche metro e sarebbe entrato nel territorio dei doggen, la vasta ala in cui alloggiava la servitù. Bel guaio. Se lo pescavano a gironzolare da quelle parti, a Fritz sarebbe venuto un colpo pensando che in qualche modo i domestici non avevano fatto il loro dovere. Svoltò a destra col cervello che cominciava a smaniare per il bisogno di un altro spinello. Stava per fare dietrofront quando sentì dei rumori provenienti dalla scala di servizio al secondo piano. C'era qualcuno su in sala proiezione... doveva proprio battersela nella direzione opposta, perché incappare in uno dei suoi fratelli sarebbe stato un disastro. Si era già voltato quando sentì profumo di gelsomino. 392 Si bloccò di colpo. Cormia... Lassù in cima c'era Cormia. Abbandonandosi all'indietro contro il muro, si stropicciò la faccia e ripensò al disegno erotico che aveva fatto. E all'erezione che gli era venuta mentre ci lavorava. Boo miagolò, puntando dritto verso la porta della sala proiezione. Il gatto lo guardò da sopra la spalla con due occhi verdi che sembravano dire, Dai, porta le chiappe quassù, amico. «Non posso.» O meglio non dovrei. Boo non se la bevve. Si raggomitolò su se stesso agitando la coda su e giù, quasi aspettando che Phury si decidesse a muoversi. Phury sostenne lo sguardo dell'animale in una sorta di braccio di ferro virtuale. Fu lui, e non il gatto, a cedere per primo battendo le palpebre e distogliendo lo sguardo. Gettò la spugna passandosi una mano tra i capelli, si raddrizzò la camicia di seta nera e si tirò su i calzoni color panna. Poteva anche essere sbronzo e strafatto, ma almeno aveva l'aspetto di un gentiluomo. Palesemente soddisfatto da tanta risolutezza, Boo trotterellò via dalla porta strusciandosi contro la sua gamba, quasi a volerlo incoraggiare con un bel bravo! forza! dai! 393 Quando il gatto si scostò, Phury aprì la porta posando il mocassino Gucci sul primo gradino. Poi sul secondo, sul terzo e così via, reggendosi al corrimano di ottone per non perdere l'equilibrio e cercando di giustificare ciò che stava facendo via via che saliva. Non ci riuscì. Se eri a malapena in condizione di usare il dentifricio non dovevi assolutamente interagire con l'Eletta che non era più ufficialmente tua, anche se la desideravi da impazzire. Specie data la notizia che doveva darle. Giunto in cima alle scale svoltò l'angolo e guardò in giù verso le file di poltroncine che digradavano dolcemente. Cormia era seduta in prima fila, la candida veste raccolta ai suoi piedi. Sullo schermo le immagini scorrevano rapide. Stava riavvolgendo una scena. Phury inspirò a fondo. Dio, che buon odore aveva... per qualche motivo il suo profumo di gelsomino quella sera era particolarmente intenso. La pellicola finì di riavvolgersi e Phury alzò gli occhi sul grande schermo. Cristo... santo. Era... ima scena d'amore. Patrick Swayze e quella Jennifer col nasone ci stavano dando dentro sopra un letto. Dirty Dancing. Cormia si protese in avanti sulla poltroncina e Phury la vide in faccia. Seguiva rapita ciò che aveva davanti, le labbra schiuse, una mano alla base della gola. I lunghi capelli biondi le scivolarono giù dalla spalla sfiorandole il ginocchio. 394 Il corpo di Phury reagì all'istante, l'erezione tese i calzoni di Prada all'altezza dell'inguine, rovinando le pince di sartoria. Malgrado il torpore indotto dalla droga, il suo sesso fremeva impaziente. Ma non per quello che c'era sullo schermo, il detonatore era Cormia. In un lampo Phury ricordò quando lei gli si era avvinghiata addosso e il figlio di puttana che era in lui rimarcò che, in quanto Primale delle Elette, era lui a stabilire le regole. Anche se con la Direttrice aveva concordato di scegliere un'altra Prima Sposa, poteva ancora andare con Cormia, se voleva, e se lei non lo respingeva... solo non avrebbe avuto lo stesso peso dal punto di vista del cerimoniale. Sì... anche se per completare l'iniziazione da Primale avrebbe preso un'altra Eletta, poteva sempre scendere quei gradini, inginocchiarsi di fronte a Cormia e alzarle la candida tunica sopra i fianchi. Poteva far scivolare le mani sulle sue cosce, spalancargliele e infilarci dentro la testa. E dopo averla eccitata a dovere con la bocca poteva... Abbandonò la testa all'indietro. Okay, questo non lo aiutava per niente a calmarsi. Senza contare che non aveva mai avuto rapporti orali con una femmina, quindi non sapeva neanche bene come comportarsi. Per quanto, se sapeva mangiare un cono gelato, non doveva essere poi così difficile trasferire a qualcos'altro la stessa meccanica; in fondo si trattava solo di leccare e succhiare. 395 E anche mordicchiare delicatamente. Cazzo. Andarsene era l'unica cosa sensata da fare, per cui si voltò. Se restava lì non sarebbe riuscito a trattenersi dal metterle le mani addosso. «Vostra grazia?» La voce di Cormia gli paralizzò le gambe e il respiro. E mise sull'attenti il suo uccello. Per decenza rammentò al suo arnese che qualunque cosa dicesse Cormia non equivaleva a un invito a mettere in pratica la sua fantasia vietata ai minori della serie "giù in ginocchio e infilale la testa tra le cosce". Cazzo. La sala proiezioni sembrava piccola come una scatola da scarpe quando Cormia disse, «Vostra grazia, avevate... bisogno di qualcosa?» Non voltarti. Phury la guardò da sopra la spalla, i suoi occhi infuocati inondarono di luce gialla gli schienali delle poltroncine puntandosi su Cormia come due riflettori; i capelli biondi catturarono e trattennero i raggi generati dalla sua urgenza di venire dentro di lei. «Vostra grazia...» ripeté Cormia con un filo di voce. 396 «Cosa stai guardando?» disse lui a voce bassa, anche se era più che ovvio cosa c'era sullo schermo. «Ehm... è stato John a scegliere il film», rispose lei armeggiando col telecomando, premendo un tasto dopo l'altro finché la pellicola non si fermò. «Non il film, Cormia, la scena.» «Ehm...» «La scena che hai scelto... l'hai riguardata molte volte, giusto?» «Sì... è vero», ammise lei in un sussurro sensuale. Dio com'era bella quando si girò completamente sulla poltroncina per averlo di fronte... tutta occhi e bocca, quella massa di capelli biondi, il profumo di gelsomino che colmava la distanza tra loro. Era eccitata; ecco perché la sua fragranza naturale era così forte. «Perché quella scena?» la incalzò Phury. «Perché hai scelto proprio quella?» In attesa di una risposta, il suo corpo si tese, l'erezione palpitava al ritmo del suo cuore. Ciò che scorreva nel suo sangue non aveva niente a che fare con rituali, obblighi o responsabilità. Era sesso puro e semplice, sesso sfrenato, del tipo che li avrebbe lasciati entrambi esausti, sudati, discinti e forse anche un po' ammaccati. E, cosa che non gli faceva certo onore, non gli importava se Cormia era 397 eccitata per quello che aveva appena visto. Voleva che lei lo usasse... che lo usasse fino a prosciugarlo, fino a stremare ogni centimetro del suo corpo, compreso quel maledetto uccello sempre pronto a entrare in azione. «Perché hai scelto quella scena, Cormia?» Lei si portò di nuovo la bella mano alla base della gola. «Perché... mi fa pensare a voi.» Phury si lasciò sfuggire una sorta di ringhio. Okay, non era la risposta che si aspettava. Il dovere era una cosa ma, cribbio, Cormia non aveva l'aria di una femmina preoccupata di rispettare la tradizione. Aveva voglia di sesso. Forse addirittura ne sentiva il bisogno. Proprio come lui. E voleva farlo con lui. Al rallentatore, Phury si voltò del tutto verso di lei, i movimenti a un tratto perfettamente coordinati, l'intontimento dovuto alle canne e ai superalcolici spazzato via in un colpo solo. L'avrebbe posseduta. Lì. Subito. Cominciò a scendere la scalinata, pronto a reclamare ciò che gli apparteneva. Cormia si alzò dalla poltroncina, sotto la luce accecante degli occhi del Primale. Lui si avvicinava, un'ombra gigantesca che avanzava a lunghe falcate divorando i gradini a due a due. Si fermò a un passo da 398 lei, inebriandola con quel suo delizioso odore di fumo e di spezie. «Lo guardi perché ti fa pensare a me», disse lui con voce aspra e profonda. «Sì...» «E a cosa pensi?» le chiese sfiorandole il viso. Facendosi coraggio, lei tirò fuori delle parole che non avevano senso. «Penso che... sento certe cose per voi.» Lui proruppe in una risata erotica, oscuramente elettrizzante. «Senti certe cose... E dove mi senti, esattamente, mi chiedo?» Così dicendo spostò la punta delle dita dal viso di Cormia al suo collo e poi alla clavicola. «Qui?» Lei deglutì, ma prima che potesse rispondere, lui fece scorrere la mano sulla sua spalla e lungo il braccio. «Qui, forse?» Le strinse con forza il polso, proprio sopra le vene, poi fece scivolare la mano intorno alla vita, posandola sulle reni, e premendo. «Dimmi, per caso è qui che mi senti?» All'improvviso l'afferrò per i fianchi con entrambe le mani, si protese verso di lei e sussurrò, «O magari più in basso?» Qualcosa si gonfiò nel cuore di Cormia, qualcosa di caldo come la luce negli occhi di lui. «Sì», disse, respirando appena. «Ma anche qui. Soprattutto... qui», così dicendo si mise la mano sul petto, proprio sopra il cuore. 399 Phury rimase impietrito; lei avvertì quel cambiamento, la torrida corrente nel sangue di lui si raffreddò, le fiamme si spensero. Ah, ecco, pensò Cormia. Mettendosi a nudo aveva svelato anche la verità che lo riguardava. Anche se era evidente sin dall'inizio, no? Il Primale arretrò leggermente e si passò una mano tra quei capelli scandalosamente belli. «Cormia...» Facendo appello alla propria dignità, lei raddrizzò le spalle. «Ditemi, come intendete procedere con le Elette? O è con me in particolare che non desiderate accoppiarvi?» Phury le girò intorno e fece qualche passo davanti allo schermo. H fermo immagine della scena, con Johnny e Baby stesi così vicini, si proiettava sopra il suo corpo; Cormia avrebbe tanto voluto sapere come spegnere il film. La gamba di Baby sopra il fianco di Johnny, la mano di lui che le stringeva la coscia mentre si strusciava contro di lei, era l'ultima cosa che voleva vedere in quel momento. «Io non voglio stare con nessuno», disse il Primate. «Bugiardo.» Lui si voltò di scatto a guardarla, sorpreso, ma ormai le conseguenze della sincerità non le importavano più. «Sapevate sin dall'inizio di non voler giacere con nessuna di noi, vero? Lo sapevate, eppure siete andato avanti con la cerimonia dinanzi alla Vergine Scriba, anche se eravate innamorato di Bella e non 400 sopportavate di stare con nessun'altra. Avete alimentato le speranze di quaranta femmine di valore sulla base di una bugia...'» «Ho parlato con la Direttrice. Ieri.» Cormia sentì le gambe che cedevano, ma la voce rimase ferma. «Davvero? E insieme cosa avete deciso?» «Io... intendo liberarti. Dalla posizione di Prima Sposa.» Cormia strinse la veste con tale forza che si sentì il sommesso rumore di uno strappo. «Intendete farlo o l'avete già fatto?» «L'ho già fatto.» Cormia inghiottì amaro, sprofondando pesantemente nella poltroncina. «Cormia, sappi che non è per te.» Phury le andò vicino e si inginocchiò di fronte a lei. «Tu sei bellissima...» «Invece sì, è per me», disse lei. «Non è che non potete accoppiarvi in generale, è me che non volete.» «Voglio solo che tu sia libera da tutto questo...» «Non mentite», scattò lei, abbandonando ogni pretesa di civiltà. «Vi ho sempre detto che ero pronta a prendervi dentro di me. Non ho mai detto o fatto nulla per scoraggiarvi. Dunque se avete deciso di mettermi da parte è perché non mi desiderate...» 401 Il Primale le afferrò una mano e se la infilò tra le gambe. Cormia ansimò a quel contatto e lui sollevò l'inguine premendo contro il suo palmo una cosa lunga e dura. «Il problema non è il desiderio.» Cormia schiuse la labbra. «Vostra grazia...» I loro sguardi si incontrarono e rimasero avvinti. Quando lui schiuse leggermente la bocca, come se non riuscisse a respirare, Cormia trovò il coraggio di stringere con delicatezza le dita intorno al membro rigido. Scosso da un fremito, Phury le lasciò andare il polso. «L'accoppiamento non c'entra», gracchiò roco. «È che sei stata costretta in questo ruolo.» Vero. All'inizio era così. Ma adesso... ciò che provava per lui non era minimamente frutto di una coercizione. Lo guardò negli occhi e provò un curioso senso di sollievo. Se non era più la sua Prima Sposa niente di tutto questo contava più veramente, giusto? Momenti come quello, loro due insieme... erano solo due individui, non più i portatori di un significato più grande di loro. Erano solo lui e lei. Un maschio e una femmina. Ma le altre? Tutte le altre sue sorelle? Non potè fare a meno di chiederselo. Lui sarebbe andato con loro; glielo leggeva negli occhi. C'era una grande risolutezza in quel suo sguardo giallo. Ciononostante, mentre il Primate esalava un sospiro tremante, Cormia scacciò tutto questo dalla mente. Lui 402 non sarebbe mai stato veramente suo... ma lo aveva tutto per sé in quel momento. «Adesso nessuno mi costringe più», mormorò, premendosi contro il suo petto. Alzò il mento e gli offrì ciò che lui voleva. «Sono io che voglio farlo.» Lui la fissò per un istante; le parole che disse con voce gutturale le parvero assurde. «Io non ti merito.» «Non è vero. Voi siete la forza della razza. Siete la nostra virtù e la nostra potenza.» Lui scosse la testa. «Non sono affatto come credi.» «Sì, invece.» «No...» Lei lo zittì con un bacio, poi si ritrasse. «Non potete cambiare ciò che penso di voi.» Lui si sfregò il pollice sul labbro inferiore. «Se mi conoscessi veramente, tutto ciò che credi cambierebbe.» «Il vostro cuore sarebbe lo stesso. Ed è quello che amo.» Il suo sguardo si infiammò, a quelle parole; Cormia lo baciò di nuovo per impedirgli di pensare, ed evidentemente funzionò. Con un gemito, lui prese l'iniziativa accarezzandole la bocca con quelle sue labbra morbide, vellutate, fino a toglierle il respiro. Quando la 403 lambì con la lingua, lei la risucchiò d'istinto e lo sentì trasalire, premuto contro di lei. Fu un bacio lunghissimo. Infinite furono le sensazioni suscitate in lei da tutto quel raspare, sfregare, spingere e succhiare, e non era solo la bocca a partecipare... tutto il suo corpo fremeva per ciò che stavano facendo e, a giudicare dall'ardore e dalla frenesia con cui la baciava, lo stesso valeva per il Primate. E lei lo voleva ancora più coinvolto. Muovendo il braccio su e giù, cominciò ad accarezzargli il sesso. Lui si ritrasse bruscamente, «Farai meglio a stare attenta con quello.» «Con questo?» ripeté lei accarezzandolo attraverso i pantaloni; lui gettò la testa all'indietro con un sibilo... e lei continuò. Andò avanti così finché lui si morse il labbro con le lunghe zanne, i muscoli del collo tesi allo spasimo. «Perché devo stare attenta, vostra grazia?» Lui raddrizzò la testa e, avvicinandole la bocca all'orecchio, disse «Mi stai facendo venire.» Cormia sentì qualcosa di caldo e umido tra le cosce. «È quello che avete fatto quando eravamo nel vostro letto? Quel primo giorno?» «Sì...» sussurrò lui allungando la i. Con una smania curiosa, ossessiva, Cormia scoprì che voleva vederglielo fare di nuovo. Ne sentiva il bisogno. 404 Alzando il mento all'altezza del suo orecchio, bisbigliò, «Fatelo di nuovo. Fatelo adesso.» Dal petto del Primale si levò una sorta di grugnito, un suono profondo che salì vibrando tra i loro corpi avvinti. Buffo, in chiunque altro quel verso l'avrebbe terrorizzata. Venendo da lui in quella situazione invece ne rimase elettrizzata: tutta la potenza trattenuta del Primate era nelle sue mani... Letteralmente. Era lei ad avere il controllo. Per una volta nella sua miserabile vita, era lei ad avere il controllo. Spingendosi contro il palmo di lei, il Primale disse, «Non credo che dovremmo...» Cormia lo strinse con forza, strappandogli un gemito di piacere. «Non toglietemi anche questo», disse imperiosa. «Non osate togliermelo.» Seguendo un impulso che la Vergine Scriba sola sapeva da dove veniva, Cormia gli morse il lobo dell'orecchio. La reazione fu immediata. Abbaiando un'imprecazione, lui balzò su e la schiacciò sulla poltroncina, montandola in preda alla lussuria. Per nulla intenzionata a tirarsi indietro, Cormia continuò a stringerlo nel palmo e a lavorarselo, controbilanciando le spinte del suo inguine. Lui sembrava deliziato da quella frizione, quindi andò avanti imperterrita anche quando lui l'afferrò per il mento avvicinandole la testa. 405 «Fammi vedere gli occhi», ansimò. «Voglio guardarti negli occhi quando...» Appena i loro occhi si incontrarono, lui si tese tutto con un gemito selvaggio. Eiaculò una... due... tre volte, sottolineando ogni spasmo con un gemito. Mentre il suo corpo esprimeva tutto il suo piacere, il volto rapito e le braccia contratte del Primate erano le cose più belle che lei avesse mai visto. Alla fine si placò e deglutì sonoramente, senza scostarsi da lei. Attraverso lo spigato in lana dei suoi calzoni Cormia sentì la mano bagnata. «Mi piace quando lo fate», disse. «Mi piace quando lo fai tu a me», ribatté lui con una risatina secca. Stava per chiedergli se voleva rifarlo, quando lui le scostò i capelli dalla guancia. «Cormia?» «Sì...» Buffo, anche lei allungò la i proprio come poco prima aveva fatto il Primate. «Posso toccarti un po'?» disse lui lasciando vagare lo sguardo sul suo corpo. «Non ti prometto niente. Non... be', non posso prometterti la stessa cosa che mi hai dato tu. Ma mi piacerebbe tantissimo toccarti. Soltanto un po'.» La disperazione le risucchiò tutta l'aria dai polmoni, sostituendola con un gran fuoco. «Sì...» 406 Il Primate chiuse gli occhi e parve riprendersi. Poi si chinò e premette le labbra sulla sua gola, di lato. «Penso davvero che tu sia bellissima, non devi dubitarne mai. Bellissima...» Quando spostò le mani sul davanti della sua tunica, i capezzoli si inturgidirono al punto che Cormia prese a contorcersi sotto di lui. «Posso fermarmi», disse lui, esitante. «Anche subito...» «No», esclamò lei avvinghiandosi alle sue spalle per tenerlo fermo. Non sapeva cosa stava per accadere ma, qualunque cosa fosse, ne aveva bisogno. Lui fece scorrere le labbra sul suo collo, indugiando sulla mascella. Mentre premeva la bocca contro la sua, Cormia sentì un tocco impalpabile sulla tunica... su uno dei seni. Inarcandosi, spinse il capezzolo contro la sua mano e tutti e due gemettero. «Oh, Gesù...» Il Primale si scostò leggermente e con cautela, con reverenza, le aprì la tunica scoprendole il seno. «Cormia...» Il suo tono profondo, lusinghiero, fu come una carezza quasi tangibile su tutto il corpo di lei. «Posso baciarti qui?» gemette, accarezzandola intorno al capezzolo. «Ti prego.» «Beata Vergine, sì...» 407 Lui chinò la testa e coprì il capezzolo con la bocca, calda e umida, succhiando con delicatezza. Cormia gettò indietro la testa, infilandogli le mani tra i capelli e spalancando le gambe, senza un vero motivo e con tutti i motivi del mondo. Voleva sentirlo dentro di sé in tutti i modi possibili... «Padrone?» La rispettosa intrusione di Fritz dal fondo della sala richiamò bruscamente la loro attenzione. Il Primale si raddrizzò in fretta e furia coprendo Cormia, anche se la poltroncina ne impediva la vista al maggiordomo. «Cosa diavolo c'è?» sbottò. «Chiedo scusa, ma l'Eletta Amalya è qui con l'Eletta Selena. Desiderano vedervi.» Un'ondata gelida travolse Cormia, ghiacciando tutto il fuoco e la frenesia nel suo sangue. Sua sorella. Era lì per vedere lui. Perfetto. Il Primale si alzò in piedi sibilando una parola orrenda che Cormia non potè fare a meno di riecheggiare nella sua testa. «Arrivo tra cinque minuti», disse congedando Fritz con un brusco gesto della mano. «Sì, padrone.» Dopo che il doggen fu uscito, il Primale scosse la testa. «Mi dispiace...» 408 «Andate a fare ciò che dovete.» Vedendolo esitare, Cormia ripeté. «Andate. Gradirei restare da sola.» «Possiamo parlare più tardi.» No, no davvero., pensò Cormia. Parlare non avrebbe risolto niente. «Andate, vi dico», insistette ascoltarlo. lei, smettendo di Rimasta di nuovo sola, fissò il fermo immagine finché d'un tratto lo schermo non divenne tutto nero, con un gruppetto di lettere che lampeggiavano qua e là, formando la scritta Sony. Si sentiva devastata, dentro e fuori. A parte il dolore al petto, era in preda ai morsi della fame, come se le avessero negato un pasto o una vena. Ma non era di cibo che aveva bisogno. Ciò di cui aveva bisogno era appena uscito dalla porta. Per gettarsi tra le braccia di sua sorella. 409 Capitolo 25 Molto più a nord, sugli Adirondack, appena prima dell'alba sulla Saddleback Mountain, il vampiro che aveva braccato il cervo la notte prima ne stava inseguendo un altro. Lento e scoordinato, sapeva che il ruolo di cacciatore che stava interpretando era una barzelletta. La forza ricavata dal sangue dell'animale non gli bastava più. Quella notte, nel lasciare la grotta, era così debole che dubitava di riuscire anche solo a smaterializzarsi. Il che significava che con ogni probabilità non ce l'avrebbe fatta ad avvicinarsi abbastanza alla sua preda. Il che significava che non si sarebbe nutrito. Il che significava... che ormai era giunta la sua ora. Che strano. Si era chiesto - come immaginava capitasse a chiunque, di tanto in tanto - come sarebbe morto, di preciso. In quali circostanze? Avrebbe sofferto? Quanto ci avrebbe messo? Dato il suo campo d'azione, aveva dato per scontato che sarebbe accaduto combattendo. Invece stava per succedere lì, in quella foresta silenziosa, per mano della magnificenza bruciante dell'alba. Sorpresa! 410 Qualche metro più avanti il cervo alzò il pesante palco di corna preparandosi a balzare via. Chiamando a raccolta le poche energie rimastegli, il vampiro tentò di coprire la distanza che li separava... ma non accadde nulla. La sua forma corporea tremolò nello spazio, sparendo e ricomparendo come se qualcuno avesse fatto scattare l'interruttore accendendo e spegnendo la luce, ma lui non cambiò posizione e il cervo si allontanò con un balzo attraversando rumorosamente la boscaglia, la coda bianca fremente. Il vampiro si lasciò cadere sul fondoschiena. Volse gli occhi al cielo, sopraffatto dai rimpianti, che erano numerosi e profondi e per la maggior parte relativi ai defunti. Non tutti, però. Non tutti. Pur agognando disperatamente il ricongiungimento che si aspettava di trovare nel Fado, pur bramando l'abbraccio di coloro che aveva perso qualche tempo prima, sapeva di lasciare sulla terra una parte di sé. Ma non c'era rimedio. A quell'abbandono. L'unica consolazione era che suo figlio era in ottime mani. Le migliori. I suoi fratelli si sarebbero presi cura di lui, com'era giusto che fosse in una famiglia. Avrebbe dovuto dirgli addio, però. Avrebbe dovuto fare molte cose. Ma il tempo dei buoni propositi era scaduto. 411 Memore della leggenda del suicidio, fece un paio di tentativi di rialzarsi e, non riuscendovi, cercò persino di trascinarsi faticosamente verso la caverna. Invano. Con un barlume di gioia nel cuore tenebroso, alla fine si arrese, crollando sul tappeto di foglie e aghi di pino. Giacque immobile, a faccia in giù; il letto fresco e rugiadoso della foresta gli riempì le narici di fragranze pulite, pur venendo dal terriccio. I primi raggi del sole giunsero da dietro, e subito sentì la vampata di calore. La fine era arrivata e lui la accolse a braccia aperte e a occhi chiusi per il sollievo. La sua ultima sensazione prima di morire fu la liberazione dalla dimensione terrena, il suo corpo martoriato si sollevava verso la luce abbagliante, attratto verso il ricongiungimento che aveva atteso per otto, terribili mesi. 412 Capitolo 26 Al calar della notte, qualcosa come sedici ore dopo, Lash, ritto ai margini di un bel prato ondulato che risaliva verso una enorme villa in stile Tudor, girava e rigirava al dito l'anello che gli aveva dato l'Omega. Era cresciuto lì, pensò. Allevato, nutrito e messo a letto in quella casa, da piccolo. Anni dopo, da adolescente, era rimasto alzato a guardare film e a leggere libri sconci, e sempre lì aveva navigato in Internet e mangiato porcherie. Aveva superato la transizione e fatto sesso per la prima volta nella sua stanza al secondo piano. «Serve aiuto?» Lash si voltò a guardare il tesser al volante della Ford Focus. Era quel nanetto che gli aveva fatto bere il suo sangue. Aveva i capelli chiarissimi, come Bo Duke nel telefilm Hazzard, che si arricciavano intorno al cappello da cowboy. Gli occhi, di uno sbiadito azzurro fiordaliso, suggerivano che prima dell'affiliazione era un tipico ragazzo bianco del Midwest. Il tizio era sopravvissuto al salasso grazie a qualche autentica malvagità da parte dell'Omega, e Lash doveva ammettere che ne era lieto. Aveva bisogno di aiuto per capire la situazione, e Mr D non costituiva una minaccia. 413 «Ehi, pronto?» fece il tesser. «Tutto bene?» «Tu resta in macchina.» Era bello dire qualcosa e sapere che non ci sarebbero state discussioni. «Non ci metterò molto.» «Signorsì.» Lash guardò di nuovo la sontuosa villa in stile Tudor. Le luci brillavano gialle dietro le finestre dai vetri romboidali, e la casa era illuminata anche dall'esterno come una reginetta di bellezza su un palcoscenico. All'interno c'erano delle persone che si muovevano nelle varie stanze; Lash capì chi erano dalle loro sagome e da dove si trovavano. Sulla sinistra, in salotto, c'erano i due che avevano cresciuto lui e i loro figli. Quello con le spalle larghe era suo padre; adesso camminava avanti e indietro, una mano andava su e giù dal viso come se stesse bevendo qualcosa. Sua madre, sul divano, annuiva come uno di quei pupazzi con la testa a molla, armoniosamente proporzionata col suo elaborato chignon e il lungo collo da cigno. Continuava a toccarsi i capelli come per assicurarsi che fossero in ordine, anche se senza dubbio l'acconciatura laccata era compatta come una siepe di bosso. Sulla dèstra, nell'ala riservata alla cucina, svariati doggen si muovevano trafelati passando dai fornelli alla credenza, dal frigorifero al piano di lavoro e di nuovo ai fornelli. 414 Lash poteva quasi sentire l'odore della cena, e gli vennero le lacrime agli occhi. Ormai i suoi genitori dovevano sapere cos'era successo nello spogliatoio e poi alla clinica. Dovevano essere stati informati. La sera prima erano fuori, al ballo della glymera, ma erano rimasti in casa tutto il giorno ed entrambi apparivano turbati. Lash lanciò un'occhiata al secondo piano, alle sette finestre della sua stanza. «Pensa di entrare?» chiese il lesser, facendolo sentire un cacasotto. «Chiudi quella boccaccia prima che ti tagli la lingua.» Lash sfoderò il coltello da caccia agganciato alla cintura e avanzò sull'erba rasata. Il prato era soffice sotto gli anfibi nuovi. Aveva dovuto chiedere al nanerottolo di procurargli dei vestiti, ma non gli piacevano. Venivano tutti da Target. Roba da quattro soldi. Giunto davanti al portone mise la mano sul tastierino del sistema di sicurezza... ma esitò prima di digitare il codice d'accesso. Il suo cane era morto l'anno prima. Di vecchiaia. Era un Rottweiler con tanto di pedigree, glielo avevano regalato i suoi quando aveva undici anni. Non approvavano la razza, ma Lash era stato irremovibile, 415 quindi ne avevano adottato uno di un anno circa. La prima notte che aveva passato a casa, Lash aveva provato a forargli l'orecchio con una spilla da balia e King lo aveva azzannato con tanta ferocia da trapassargli il braccio. Dopo di che erano diventati inseparabili. E quando quel vecchio cagnaccio aveva tirato le cuoia, Lash aveva pianto come un vitello. Inserì il codice d'accesso, poi mise la mano sinistra sul chiavistello. La luce sopra il portone fece luccicare la lama del coltello. Avrebbe tanto voluto che il cane fosse ancora vivo. Gli sarebbe piaciuto traghettare almeno ima cosa dalla sua vecchia vita a quella nuova. Entrò in casa e si diresse in soggiorno. Quando giunse davanti allo studio di Wrath, John Matthew era rilassato quanto un golfista sotto un temporale, e la vista del re non fece che aumentare la sua ansia. Seduto dietro l'elegante scrittoio, Wrath era scuro in volto e tamburellava con le dita, lo sguardo fisso sul telefono come se avesse appena ricevuto cattive notizie. Di nuovo. John si infilò sotto il braccio quello che aveva in mano e bussò piano allo stipite. «Cosa c'è, figliolo», disse Wrath senza alzare lo sguardo. John attese che il re lo guardasse prima di usare con cura la lingua dei segni. Qhuinn è stato cacciato di casa. 416 «Già, e ho sentito che la sua famiglia ha avuto anche la gentilezza di farlo massacrare di botte da una Guardia d'Onore.» Wrath si appoggiò all'indietro, facendo scricchiolare la delicata poltroncina. «Che razza di padre.... tipico rappresentante della glymera.» Dal tono si capiva che era un complimento alla stregua del brutto stronzo. Non può stare per sempre da Blay, e non sa dove altro andare. Il re scosse la testa. «Okay, so dove vuoi andare a parare e la risposta è no. Anche se questa fosse una casa normale, e non lo è, Qhuinn ha ucciso un tirocinante, e non me frega un tubo se pensi che Lash se lo sia meritato per quello che ha fatto. So che hai parlato con Rhage e gli hai raccontato quello che è successo, ma il tuo amico non solo è fuori dal programma, ma dovrà subire un processo.» Wrath si piegò di lato per guardare al di là di John. «Hai tirato giù dal letto Phury?» John si voltò. Sulla soglia c'era Vishous. Il fratello annuì. «Si sta vestendo. E anche Z. Non vuoi che me ne occupi io? Sei sicuro?» «Loro due erano gli insegnanti di Lash, e Z è testimone di quanto è successo alla clinica. I genitori di Lash vogliono parlare con loro e soltanto con loro, e io ho promesso di mandarglieli a casa appena possibile.» «Okay. Tienimi aggiornato.» 417 Vishous se ne andò e Wrath poggiò i gomiti sulla scrivania. «Senti, John, lo so che Qhuinn è un tuo caro amico e ci sono parecchie cose nella sua situazione che mi fanno stare male. Vorrei tanto poterlo aiutare, ma non sono in condizione di farlo.» John insistette, sperando di non dover ricorrere alla sua ultima risorsa. Non potrebbe stare al Porto Sicuro? «Le ospiti del centro si sentono a disagio in presenza di maschi, per ovvi motivi. Specie quelle con storie di violenza alle spalle.» Ma lui è mio amico. Non posso far finta di niente sapendo che non ha un posto dove andare, che non ha un lavoro, che non ha soldi... «Tutto ciò non ha la minima importanza, John.» Le parole deve andare in prigione aleggiavano nell'aria. «L'hai detto tu stesso. Ha fatto un uso eccessivo della forza in quello che era un banale litigio tra due teste calde. La giusta reazione sarebbe stata separare te e Lash, non tirar fuori il coltello e sgozzare suo cugino. Lash ti ha aggredito con un'arma letale? No. Puoi dire, in tutta onestà, che ti avrebbe ucciso? No. Si è trattato di uso sproporzionato della forza, e i genitori di Lash lo accusano di aggressione a mano armata con l'intento di uccidere e di omicidio prossimale secondo il diritto dei nostri avi.» Omicidio prossimale? «Il personale medico della clinica giura che Lash era stato rianimato, al momento dell'incursione. I suoi 418 genitori presumono che non sopravviverà alla cattura da parte dei lesser e intendono accusare Qhuinn anche di questo, in base alla relazione causa-effetto. Se non fosse stato per le azioni di Qhuinn, infatti, Lash non si sarebbe trovato in clinica al momento dell'attacco e non sarebbe stato rapito. Di conseguenza è omicidio prossimale.» Ma Lash ci lavorava, alla clinica, quindi avrebbe potuto trovarsi comunque lì, quella notte. «Salvo che non sarebbe stato ricoverato come paziente, ti pare?» Wrath tamburellava con le grosse dita sul delicato scrittoio. «Questa è una bruttissima storia, John. Lash era figlio unico e i suoi genitori appartengono entrambi a famiglie fondatrici della razza. Qhuinn non può cavarsela. Quella Guardia d'Onore è l'ultimo dei suoi problemi, a questo punto.» Nel silenzio che seguì, John si sentì soffocare, come se i polmoni si fossero bloccati. Sin dal principio sapeva che sarebbero giunti a quella impasse, che quanto aveva raccontato a Rhage non sarebbe bastato a salvare il suo amico. Avrebbe fatto qualunque cosa pur di evitare ciò che stava per fare, ma era giunto preparato. Andò a chiudere la porta, poi si avvicinò alla scrivania. Con mano tremante prese la cartelletta che aveva sotto il braccio e la posò sul tampone di carta assorbente del re. Era il suo asso nella manica. «Che roba è?» 419 Con lo stomaco che rimbalzava sul pavimento pelvico come su un castello gonfiabile, John spinse lentamente la sua cartella clinica verso il re. Sono io. Quello che devi vedere è alla prima pagina. Accigliandosi, Wrath prese la lente d'ingrandimento che doveva usare per leggere. Aprì la cartellina e si chinò sopra il rapporto che descriveva nel dettaglio la seduta di terapia cui John si era sottoposto alla clinica di Havers. John capì subito quando giunse alla parte saliente perché le robuste spalle del re si irrigidirono sotto la T-shirt nera. Oddio... pensò John, adesso vomito. Un attimo dopo il re chiuse l'incartamento e posò la lente sul tampone di carta assorbente. In silenzio sistemò con cura i due oggetti in modo che fossero fianco a fianco e posizionati alla perfezione, col manico d'avorio della lente d'ingrandimento allineato con la base della cartella. Quando alla fine Wrath. alzò gli occhi, John non distolse lo sguardo, anche se si sentiva lercio come se ogni centimetro quadrato del suo corpo grondasse sporcizia. Ecco perché Qhuinn l'ha fatto. Lash ha letto la mia cartella clinica perché lavorava da Havers e l'avrebbe spifferato a tutti. Quindi non era affatto un banale litigio tra due teste calde. Wrath tirò su gli occhiali da sole e si stropicciò gli occhi. «Gesù... Cristo. Posso capire perché non avevi nessuna fretta di raccontarlo in giro.» Scosse la testa. «John... mi dispiace tantissimo per quello che è sue...» 420 John batté il piede con forza per spingere il re ad alzare la testa. L'ho rivelato solo ed esclusivamente per la situazione in cui si trova Qhuinn. Non ho intenzione di parlarne. Poi, muovendo le mani veloce, a scatti, perché doveva farla finita con quello schifo, disse, Quando Qhuinn ha tirato fuori il coltello, Lash mi aveva schiacciato contro il muro della doccia e mi stava tirando giù i calzoni. Il mio amico ha fatto quello che ha fatto non solo per impedirgli di parlare... capisci? lo... io ero come paralizzato ero paralizzato... «Okay, figliolo, va tutto bene... non c'è bisogno che tu dica altro.» John si strinse le braccia intorno al corpo, premendosi le mani tremanti contro i fianchi. Chiuse gli occhi strizzandoli forte; non ce la faceva a guardare in faccia Wrath. «John?» disse il re un attimo dopo. «Figliolo, guardami.» John riuscì a stento ad aprire gli occhi. Wrath era così virile, COSÌ potente... il condottiero dell'intera razza. Ammettere di fronte a un guerriero simile quel vergognoso atto di violenza era terribile quasi quanto averlo vissuto, in passato. Wrath batté la mano sulla cartella clinica. «Questo cambia tutto.» Allungò la mano verso il telefono e, alzando il ricevitore, disse, «Fritz? Ehilà, vecchio mio. Ascolta, vai a prendere Qhuinn a casa di Blaylock e portarlo qui da me. Digli che è un ordine supremo.» 421 Quando il re riagganciò, John sentì che gli bruciavano gli occhi, come se fosse in procinto di piangere. In preda al panico afferrò la cartelletta, si voltò di scatto e si avviò quasi di corsa verso la porta. «John? Figliolo? Non andartene, per favore.» John non si fermò. Proprio non poteva. Scosse la testa, schizzò fuori dallo studio e si precipitò in camera sua. Dopo aver chiuso la porta a chiave andò in bagno, si inginocchiò davanti al water e diede di stomaco. Ritto accanto alla sagoma addormentata di Blay, Qhuinn si sentiva una carogna. L'amico dormiva come aveva sempre fatto sin da piccolo: con la testa avvolta in una coperta e le lenzuola tirate fin sotto al naso. L'enorme corpo era una montagna che si ergeva dalla pianura del letto, non più la collinetta di prima della transizione... ma la posizione era sempre la stessa. Ne avevano passate così tante, insieme... tutte le grandi prime volte della vita, dal bere al guidare, dal fumare alla transizione, al sesso. Non avevano segreti, loro due, non c'era pensiero intimo che non si fossero confidati, in un modo o nell'altro. Oddio, non era del tutto vero. Lui sapeva certe cose che Blay non avrebbe mai ammesso. Non dirgli addio era quasi un furto, ma non c'era rimedio. Nel posto dov'era diretto, Blay non poteva seguirlo. 422 C'era una comunità di vampiri, giù all'ovest; Qhuinn aveva letto qualcosa in una delle bacheche in rete. Il gruppo era una fazione che aveva rotto con la cultura dominante dei vampiri qualcosa come duecento anni prima, e aveva formato un'enclave lontana dalla sede di Caldwell. Niente tipi in stile glymera, lì. Erano quasi tutti fuorilegge, in realtà. Qhuinn pensava di poterla raggiungere in una sola notte, smaterializzandosi duecento miglia per volta. Al suo arrivo sarebbe stato un rottame, ma almeno si sarebbe trovato in mezzo a gente come lui. Reietti. Attaccabrighe. Fuggitivi. Presto o tardi lo avrebbero trovato, ma non aveva niente da perderete, prima di farsi beccare, faceva sudare l'autorità costituita. Era già caduto in disgrazia a tutti i livelli e le accuse che gli avrebbero mosso non potevano essere peggiori di così; tanto valeva assaggiare un po' di libertà prima di farsi sbattere in galera. L'unica sua preoccupazione era Blay. Ci sarebbe rimasto molto male nel vedersi abbandonato, ma almeno poteva contare su John. E John era un amico coi fiocchi. Qhuinn diede le spalle all'amico, si mise la sacca a tracolla e in punta di piedi andò alla porta. Si era rimesso a meraviglia, la pronta guarigione era l'unico lascito che la sua famiglia non poteva portargli via. L'intervento gli aveva lasciato solo una sutura al fianco e i lividi erano spariti quasi completamente, anche dalle gambe. Si 423 sentiva in forze, e anche se presto avrebbe dovuto nutrirsi, era pronto a partire. Quella di Blay era una bella casa d'epoca, ma arredata in stile moderno, il che significava che in corridoio e sulle scale di servizio c'era la moquette, grazie al cielo. Qhuinn si allontanò senza fare il minimo rumore, diretto al tunnel sotterraneo che portava fuori dal seminterrato. La cantina era lustra come uno specchio e come sempre, chissà perché, profumava di Chardonnay. Che fosse il classico odore delle vecchie mura di pietra imbiancate a calce? L'ingresso segreto del tunnel era nell'angolo in fondo a destra, mascherato da scaffali scorrevoli pieni di libri. Bastava allungare la mano, tirare un po' in fuori una copia di Sir Gawain e il Cavaliere Verde e scattava un meccanismo che faceva ritrarre il tramezzo rivelando... «Che fesso che sei.» Qhuinn fece un balzo degno di un campione olimpionico. Lì nel tunnel, seduto su una sedia a sdraio neanche stesse prendendo la tintarella, c'era Blay con un libro in grembo, una lampada a batteria su un tavolino e una coperta sulle gambe. Alzò con tutta calma un bicchiere di succo d'arancia in un brindisi scherzoso, poi bevve una sorsata. «Ciaaaaaaaao, Lucy.» «Ma che cazzo...? Mica starai aspettando me?» 424 «Invece sì.» «E nel tuo letto cosa c'era?» «Cuscini e la mia copertina per la testa. Stando qui mi sono proprio rilassato. Anche il libro è buono», disse mostrando la copertina di Una stagione al Purgatorio. «Mi piace Dominick Dunne. Ottimo scrittore. Occhiali fantastici.» Qhuinn guardò, al di là dell'amico, la galleria male illuminata che si perdeva in lontananza, in una tenebra apparentemente infinita. Un po' come il futuro, pensò. «Blay, lo sai che devo andare via.» Blay alzò il cellulare. «Per la verità non puoi. Ho appena ricevuto un SMS da John. Wrath vuole vederti e Fritz sta venendo a prenderti proprio adesso, mentre parliamo.» «Merda. Non posso andare...» «Due parole: Ordine. Supremo. Quando il re chiama tocca correre. Scappa adesso e non solo sarai un fuggiasco per la glymera, ma finirai anche sulla lista nera del re. Il che significa che i fratelli ti daranno la caccia.» Lo avrebbero fatto comunque. «Senti, questa storia di Lash finirà in un tribunale della Corona, ecco cosa significa il messaggio di John. Mi rinchiuderanno da qualche parte. Per tanto, tantissimo tempo. Io voglio solo andarmene per un po'.» 425 Leggi: finché non scoprono dove mi sono nascosto. «Vuoi sfidare il re?» «Sì, sì, esatto. Non ho niente da perdere, e forse passeranno anni prima che mi trovino.» Blay spostò la coperta dalle gambe e si alzò. Era in jeans e felpa, ma in qualche modo sembrava che fosse in smoking. Blay era così: impeccabile anche in abiti da lavoro. «Se te la squagli, io vengo con te», disse. «Non voglio.» «Cavoli tuoi.» Pensando alla terra di banditi verso cui era diretto, Qhuinn sentì crescere un senso di oppressione al petto. Il suo amico era così fedele, così leale, così onesto e pulito. Aveva ancora un che di sostanzialmente innocente e ottimistico, anche se ormai era un adulto a tutti gli effetti. Qhuinn prese un bel respiro e tutto d'un fiato disse, «Non voglio che tu sappia dove vado. E non voglio vederti mai più.» «Non puoi dire sul serio.» «Ho visto...» Qhuinn si schiarì la gola e si impose di proseguire. «Ho visto come mi guardi. L'ho notato... tipo quando ero con quella tipa, nel camerino di A and F. Non guardavi lei, guardavi me, perché sbavavi per me. 426 Vero?» Blay fece un passo indietro, barcollando e, come se fossero impegnati in una scazzottata, Qhuinn picchiò ancora più duro. «È da un po' che mi desideri, e credevi che non me ne fossi accorto. Bè, invece sì. Per cui non seguirmi. Questa cosa tra noi finisce qui, stanotte stessa.» Qhuinn si voltò e cominciò a camminare, lasciando il suo migliore amico, la persona che gli era più cara al mondo, più ancora di John, in quel tunnel ghiacciato. Da solo. Era l'unico modo per salvargli la vita. Blay era esattamente il tipo del nobile idiota, capace di buttarsi giù dal ponte di Brooklyn per seguire coloro che amava. E visto che era impossibile dissuaderlo a parole, bisognava tagliarlo fuori. Qhuinn camminava in fretta, sempre più in fretta, allontanandosi dalla luce. Quando il tunnel piegò a destra, Blay e il chiarore proveniente dal seminterrato sparirono e lui si ritrovò da solo in quella buia gabbia d'acciaio scavata nel sottosuolo. Per tutto il tragitto vide la faccia di Blay, chiara come il sole. A ogni passo, l'espressione annientata dell'amico fu il faro da seguire. Sarebbe rimasta con lui. Per sempre. Giunto alla fine del tunnel, inserito il codice d'uscita e sbucato in un capanno per il giardinaggio, a un chilometro e mezzo dalla casa di Blay, si rese conto di essersi sbagliato: eccome se aveva qualcosa da perdere. Credeva di avere toccato il fondo, ma in realtà era caduto 427 ancora più in basso: aveva fatto a pezzi il cuore di Blay e lo aveva calpestato senza pietà; il rimorso e il dolore che provava erano quasi intollerabili. Emergendo in un campo di lillà, cambiò idea. Sì, era un povero disgraziato, per nascita e perché vittima delle circostanze. Ma non stava scritto da nessuna parte che dovesse peggiorare le cose. Tirò fuori il cellulare, ormai quasi scarico, e via SMS spiegò a John dove si trovava. Non sapeva neanche se aveva già esaurito il credito... John gli rispose immediatamente. Fritz sarebbe passato a prenderlo nel giro di dieci minuti. 428 Capitolo 27 In camera sua, nella grande casa della confraternita, Cormia se ne stava seduta sul pavimento davanti alla costruzione che aveva iniziato la sera prima, con una scatola di stuzzicadenti in mano e una ciotola di piselli accanto. Senza usare nessuna delle due. L'unica cosa che stava facendo - e solo la beata Vergine sapeva da quanto tempo - era aprire e chiudere... aprire e chiudere... aprire e chiudere la linguetta della scatola. Bloccata e praticamente immobile, ormai andava avanti da un pezzo, e aveva l'unghia del pollice tutta smangiata in punta. Se non era più Prima Sposa non aveva più motivo di restare lì. Non svolgeva più nessuna funzione ufficiale e, stando così le cose, avrebbe dovuto tornare al Santuario a meditare, pregare e servire la Vergine Scriba insieme alle sue sorelle. Il suo posto non era lì, in quella casa o in quel mondo. Non lo era mai stato. Volgendo lo sguardo dalla scatola di stuzzicadenti alla struttura che aveva messo insieme, esaminò le unità da cui era costituita pensando alle Elette e alla molteplicità delle loro funzioni: dalla tenuta del calendario spirituale all'adorazione della Vergine Scriba, dalla registrazione 429 delle Sue parole e della Sua storia... alla procreazione di nuovi Fratelli e di future Elette. Immaginò di riprendere la vita al Santuario: invece di tornare a casa le pareva di regredire. E, stranamente, ciò che avrebbe dovuto preoccuparla più di tutto il resto aver fallito come Prima Sposa - non la turbava poi tanto. Gettò per terra la scatola. Nell'atterrare, il coperchio si aprì e un mucchietto di stecchini saltò fuori sparpagliandosi in un groviglio confuso. Discordia. Disordine. Caos. Cormia raccolse quello che aveva rovesciato rimettendo tutto in ordine, e decise di fare altrettanto con la propria vita. Avrebbe parlato con il Primale, raccolto le sue tre tuniche e se ne sarebbe andata. Stava infilando nella scatola l'ultimo stuzzicadenti quando bussarono alla porta. «Avanti», disse senza neanche prendersi la briga di alzarsi. Fritz infilò dentro la testa. «Buonasera, Eletta, sono latore di un messaggio da parte della padrona, Bella. La padrona desidera sapere se gradirebbe raggiungerla in camera sua per il Primo Pasto.» Cormia si schiarì la gola. «Non credo...» «Se posso permettermi», mormorò il maggiordomo. «La dottoressa Jane ha appena lasciato la padrona. La 430 visita ha destato qualche preoccupazione, mi è parso di capire. Forse la sua presenza, Eletta, contribuirebbe a tranquillizzare la nostra futura mahmen.» Cormia alzò gli occhi. «Un'altra visita? Vuoi dire dopo quella di ieri sera?» «Sì.» «Dille che arrivo subito.» Fritz chinò il capo con reverenza. «Grazie, signora. Ora devo andare a prendere una persona, ma al mio ritorno cucinerò per voi due. Non starò via a lungo.» Cormia fece una doccia veloce, si asciugò i capelli e li raccolse in imo chignon, quindi si cambiò infilando una veste stirata di fresco. Uscendo dalla stanza, sentì un rumore di stivali nell'atrio e si affacciò dalla balconata. Giù di sotto, il Primale stava attraversando deciso il mosaico sul pavimento, raffigurante un melo. Indossava un paio di calzoni neri di pelle e una camicia nera, e i capelli, quella meravigliosa, morbida profusione di colori, brillavano sotto le luci e contro la scura distesa delle spalle. Quasi avesse percepito la presenza di Cormia, si fermò e guardò in su. I suoi occhi gialli, sfolgoranti come citrini, l'ammaliarono. Rimase a guardarlo mentre quello sfolgorio, a poco a poco, si offuscava. Fu lei a dargli le spalle, perché ne aveva abbastanza di venire abbandonata. Nel voltarsi vide Zsadist sbucare dalla galleria delle statue. Il fratello volse gli occhi su di 431 lei, erano neri; non fu necessario chiedergli come stava Bella. Quell'espressione tetra rendeva superflua ogni parola. «Stavo andando a tenerle compagnia», gli disse. «Mi ha mandata a chiamare.» «Lo so. Mi fa piacere. E ti ringrazio.» Nel breve silenzio che seguì, Cormia scrutò i pugnali che si incrociavano sul petto del guerriero. Doveva avere addosso altre armi, pensò, anche se non si vedevano. Il Primale non ne aveva. Niente pugnali, nessun rigonfiamento sotto gli abiti. Chissà dove stava andando. Non dall'Altra Parte, perché era vestito per questo mondo. Ma allora dove? E perché? «È giù che mi aspetta?» chiese Zsadist. «Chi, il Primale?» Quando il fratello annuì, Cormia balbettò, «Ehm... sì, sì.» Strano essere quella che sapeva dov'era... e quella a cui veniva chiesto dove fosse. Pensò al fatto che era disarmato. «Prendetevi cura di lui», disse senza mezzi termini. «Per favore.» 432 Qualcosa si tese nel volto di Zsadist, che poi chinò il capo una volta. «Lo farò.» Con un inchino, Cormia si volse verso la galleria delle statue, ma la voce profonda di Zsadist la indusse a fermarsi di colpo: «Il piccolo non si muove molto. Non dopo quello che è successo ieri notte, qualunque cosa fosse.» Cormia lo guardò da sopra la spalla, spiacente di non poter fare di più. «Purificherò la stanza. È ciò che facciamo dall'Altra Parte quando... purificherò la stanza.» «Non dirle che te l'ho detto.» «D'accordo.» Cormia avrebbe voluto posargli la mano sulla spalla, invece disse, «Mi prenderò cura di lei. Andate a fare ciò che dovete con lui.» Il fratello chinò il capo e scese le scale. Sotto, nell'atrio, Phury si massaggiò il petto e poi si stiracchiò, tentando di liberarsi del dolore tra i pettorali. Era sorpreso da quanto era difficile vedere Cormia che gli dava le spalle. Curiosamente brutale, in realtà. Pensò all'Eletta che aveva incontrato all'alba. La differenza tra lei e Cormia era evidente. Selena era ansiosa di diventare Prima Sposa. Le brillavano gli occhi mentre lo squadrava da capo a piedi, neanche fosse un toro da monta. Phury aveva dovuto fare appello a tutta la 433 sua buona educazione solo per stare nella stessa stanza con lei. Non era cattiva ed era molto bella, ma... dannazione, sembrava quasi che volesse piazzarsi sulle sue ginocchia e darci dentro seduta stante. Gli aveva assicurato che era più che pronta a servire lui e la sua tradizione... e che «ogni fibra del suo corpo lo desiderava.» Il lo chiaramente significava il suo sesso. E alla fine della nottata ne sarebbe arrivata un'altra. Dio. Buono. In cima alle scale comparve Zsadist, che scese in fretta con la giacca a vento in mano. «Andiamo.» Phury notò la tensione sul volto del suo gemello e subito intuì che Bella non stava bene. «Bella... ?» «Non ho intenzione di toccare l'argomento con te.» Z attraversò l'atrio di gran carriera, passandogli davanti senza degnarlo di uno sguardo. «Limitiamoci alle questioni di lavoro.» Phury lo seguì accigliato. Dall'eco dei loro passi sembrava che nell'atrio ci fosse ima sola persona invece che due. Malgrado la protesi, infatti, Phury aveva sempre avuto la stessa falcata di Z, lo stesso modo di camminare, lo stesso modo di dondolare le braccia. 434 Gemelli. Ma le somiglianze tra loro finivano lì, sul piano della biologia, giusto? Nella vita avevano preso due strade diverse. Entrambe schifose. Con un improvviso salto logico, Phury vide le cose sotto una luce diversa. Merda, da sempre si torturava per il destino di Z... da sempre viveva all'ombra gelida e pervasiva della tragedia della loro famiglia. Aveva sofferto, maledizione... anche lui aveva sofferto, e continuava a soffrire. Pur rispettando la santità dell'unione del suo gemello con Bella, qualcosa gli scattò nella testa nel vedersi tagliato fuori come un perfetto estraneo. E per di più ostile. Appena mise piede sulla ghiaia del cortile, si fermò di botto. «Zsadist.» Z proseguì imperterrito verso la Escalade. «Zsadist.» Il suo gemello si fermò con le mani sui fianchi, senza voltarsi. «Se è per quella faccenda tra te e i lesser, non provare a scusarti di nuovo.» Phury si allentò il colletto della camicia. «No, non è per quello.» 435 «Non voglio sentir parlare neanche del fumo rosso. O del fatto che sei stato sbattuto fuori dalla confraternita.» «Voltati, Z.» «Perché.» Ci fu una lunga pausa. Poi, in tono duro, Phury sibilò, «Non mi hai mai detto grazie.» Z voltò la testa di scatto. «Come, scusa?» «Non. Mi. Hai. Mai. Ringraziato.» «Per cosa?» «Per averti salvato. Dannazione, ti ho salvato da quella troia della tua Padrona e da quello che ti faceva. E tu non mi hai mai ringraziato.» Phury avanzò verso il suo gemello, alzando sempre più la voce. «Ti ho cercato per un cazzo di secolo e ti ho tirato fuori da quella prigione salvando la tua cazzo di vita...» Zsadist si sporse in avanti puntandogli contro l'indice come una pistola. «Vuoi che ti riconosca il merito di avermi salvato? Aspetta e spera, Io non ti ho mai chiesto nessun cazzo di favore. L'hai fatto solo per il tuo complesso da Buon Samaritano.» «Se non ti avessi tirato fuori da quell'inferno non avresti Bella!» «Se non l'avessi fatto, adesso lei non rischierebbe di morire! È la gratitudine che vuoi? Farai meglio a darti 436 una pacca sulla spalla da solo perché al momento io non ne provo neanche un po'.» "Le parole si persero nella notte, quasi cercassero altre orecchie. Phury batté le palpebre, poi si scoprì a pronunciare delle parole, parole che voleva dire da tanto tempo. «Ho sepolto i nostri genitori da solo. Sono stato l'unico a prendersi cura dei loro cadaveri, ad annusare il fumo della cremazione...» «E io non li ho mai conosciuti. Erano degli estranei, per me, e lo eri anche tu, quando sei saltato fuori all'improvviso.,.» «Loro ti volevano bene!» «Abbastanza da smettere di cercarmi! Accidenti a loro! Credi che non sappia che lui ha smesso di cercarmi? Sono tornato indietro e ho ripercorso le sue tracce a partire dalla casa che avevi dato alle fiamme. So fin dove si è spinto nostro padre prima di arrendersi. Credi che me ne freghi qualcosa di lui? Lui ha rinunciato a cercarmi!» «Tu per loro eri più reale di me! Eri dappertutto, in quella casa, eri tutto per loro!» «Oh, povero Phury del cazzo», scattò rabbioso Z. «Non azzardarti a farti compatire. Hai una vaga idea di cosa è stata la mia vita?» «Io ho perso una cazzò di gamba per te!» 437 «Hai scelto tu di venire a cercarmi! Se non ti piace com'è andata a finire non venire a lamentarti con me!» Phury espirò con forza, assolutamente sconcertato. «Brutto ingrato di un bastardo. Brutto ingrato di un figlio di puttana... vorresti dirmi che preferivi stare con la Padrona?» Di fronte al silenzio ostinato del suo gemello, Phury scosse la testa. «Ho sempre pensato che i sacrifici che avevo fatto valessero la pena. La castità. Il panico. I costi in termini fisici.» La collera divampò di nuovo. «Per non parlare delle turbe psichiche che mi sono venute per tutte le volte che mi hai chiesto di massacrarti di botte. E adesso vieni a dirmi che preferivi restare uno schiavo di sangue?» «È questo che ti rode? Vuoi che giustifichi questa tua vena autodistruttiva da salvatore del cazzo mostrandoti la mia riconoscenza?» Z proruppe in una risata amara. «Fa' un po' come ti pare! Credi che mi diverta a vedere come ti stai scavando la fossa fumando e bevendo come un dannato? Credi che mi piaccia quello che ho visto l'altra notte in quel vicolo?» Z imprecò. «'Fanculo, io non ci sto. Proprio per niente. Svegliati, Phury. Tu ti stai ammazzando. Piantala di cercare scuse e di dire palle e guarda come ti sei ridotto.» A un livello profondo, inconscio, Phury capì che quello scontro tra loro due era nell'aria da tempo, E che il suo gemello non aveva tutti i torti. Ma neanche lui. 438 Scosse di nuovo la testa, «Non credo di sbagliare a pretendere un po' di riconoscenza, È tutta la vita che sono invisibile, in questa famiglia.» Seguì qualche minuto di silenzio. Poi Z sibilò, «Per l'amor del cielo, scendi giù dalla croce. Qualcun altro ne ha bisogno più di te.» Il tono sprezzante con cui lo disse rinfocolò la rabbia in Phury che, d'impulso, slanciò in fuori il braccio; il pugno centrò Z alla mascella, producendo un crac simile a quello della mazza da baseball che batte un fuoricampo. Z volò per aria, atterrando come un telone sulla GTO di Rhage. Mentre il suo gemello di rialzava, Phury si mise in guardia agitando i pugni. Un altro secondo e mezzo e si sarebbero affrontati in un pestaggio senza esclusione di colpi, scambiandosi cazzotti invece di insulti finché uno dei due, o tutti e due, non sarebbe crollato. E dove li avrebbe portati, tutto ciò? Lentamente, Phury abbassò le braccia. In quel mentre la Mercedes di Fritz varcò i cancelli del parco. Alla luce dei fari dell'auto Zsadist, si rassettò il giaccone e con calma andò alla Escalade per aprire la portiera del posto di guida. «Se non fosse per quello che ho appena promesso a Cormia, ti spaccherei la faccia.» 439 «Cosa?» «Sali in questa cazzo di macchina.» «Che cosa le hai detto?» Z si sedette al volante e lo guardò, gli occhi neri che fendevano la notte come coltelli. «La tua ragazza è preoccupata per te, così mi ha fatto promettere di prendermi cura di te. E, a differenza di qualcun altro, io le promesse le mantengo.» Ahia. «Adesso sali», disse Z sbattendo la portiera del SUV. Imprecando, Phury fece il giro della macchina mentre la Mercedes si fermava e Qhuinn scendeva dal sedile posteriore. Il ragazzo sgranò gli occhi nel vedere la maestosa dimora della confraternita. Doveva essere lì per il processo, pensò Phury infilandosi di fianco al suo gemello, chiuso in un silenzio di tomba. «Sai dov'è la casa dei genitori di Lash, giusto?» fece Phury. «Certo che lo so.» Il chiudi il becco restò sottinteso. Mentre la Escalade procedeva verso la cancellata, la voce del mago tuonò, serissima, nella testa di Phury: Devi 440 essere un eroe per guadagnarti la gratitudine degli altri, e tu non sei il tipo del "cavaliere dalla luccicante armatura". È solo quello che speri di essere. Phury guardò fuori dal finestrino, le parole rabbiose che lui e Z si erano appena scambiati riecheggiavano come spari in un vicolo. Fai un favore a tutti quanti loro e vattene via, disse il mago. Vattene via e basta, socio. Vuoi essere un eroe? Allora fai in modo che non debbano mai più avere a che fare con te. 441 Capitolo 28 Qhuinn era assolutamente sicuro che quella sera le sue palle fossero sul menù di Wrath, ciononostante rimase stupefatto alla vista del centro di addestramento della confraternita. Era grande come una piccola città, costruito con blocchi di pietra grossi come il torace di un fratello, con finestre rinforzate al titanio o roba del genere. I doccioni intorno al tetto e tutte le ombre erano perfette. Proprio quello che ci si aspettava. «Padrone?» disse il maggiordomo indicando il portone degno di una cattedrale. «Vogliamo entrare? Dovrei mettermi ai fornelli.» «Ai fornelli?» Parlando adagio come se si stesse rivolgendo a un minorato mentale, il doggen spiegò, «Io cucino per la confraternita, oltre a badare al resto della casa.» Oh, cazzo... Quello non era il centro di addestramento, era la tana della confraternita. Be', per forza, cosa credevi? Guarda che razza di misure di sicurezza. C'erano telecamere montate sopra le porte e sotto il tetto, e il muro di cinta intorno al giardino sembrava uscito da un film su Alcatraz. Diamine, mancava solo di veder spuntare da dietro l'angolo un 442 branco di dobermann al gran galoppo, con le fauci spalancate. Ma forse i cani stavano ancora rosicchiando le ossa dell'ultimo ospite che avevano ridotto in polpette. «Padrone?» ripeté il maggiordomo. «Le spiace?» «Sì... sì, certo.» Qhuinn deglutì sonoramente e avanzò, preparato ad affrontare con coraggio il cazziatone del re. «Ah, senti, lascio la mia roba in macchina.» «Come desidera, padrone.» Cribbio, grazie al cielo Blay non avrebbe visto cosa stava per succedere... Un battente del mastodontico portone si aprì e comparve un volto familiare, che alzò una mano in segno di saluto. Ah, fantastico. Se Blay si perdeva lo spettacolo John, in compenso, si sarebbe seduto in prima fila. L'amico sfoggiava i blue-jeans e una delle camicie button-down che avevano preso da Abercrombie. Sui gradini di pietra nera dell'ingresso i suoi piedi nudi risaltavano pallidi, e sembrava relativamente calmo, il che era piuttosto irritante. Quel bastardo poteva almeno avere il buon gusto di farsi venire i sudori freddi o la cacarella in segno di solidarietà. Ehilà, lo salutò John, a gesti. «Ehilà.» 443 John si fece da parte per lasciar libero il passaggio. Come va? «Vorrei tanto essere un fumatore.» Perché così avrebbe potuto rimandare la resa dei conti per il tempo di una sigaretta. Non dire sciocchezze. Tu detesti fumare. «Quando mi troverò di fronte al plotone d'esecuzione potrei rivedere una posizione tanto intransigente.» Ma sta' zitto. Qhuinn attraversò un vestibolo che lo mise profondamente a disagio: non era abbastanza elegante per quel pavimento di marmo bianco e nero e per quel po' po' di lampadario... ma era d'oro massiccio? Molto probabile... Porca miseria, pensò fermandosi di botto. L'atrio che aveva di fronte era principesco, degno degli zar di tutte le Russie, con i suoi colori vivaci, quell'incredibile orgia di foglie dorate, il pavimento a mosaico e il soffitto affrescato... o forse no? Cavolo, forse con tutte quelle romantiche colonne di marmo e quella volta enorme, era più in stile con i romanzi di Danielle Steel. Non che avesse letto i suoi libri. 444 Be', sì, okay, uno l'aveva letto, ma aveva dodici anni, stava poco bene e si era concentrato solo sulle scene di sesso. «Quassù», tuonò una voce profonda. Qhuinn alzò gli occhi. Ritto in cima allo scalone riccamente decorato, con i pesanti stivali piantati per terra come se fosse il padrone del mondo, in pantaloni di pelle nera e T-shirt nera, c'era il re. «Forza, leviamoci il pensiero», disse imperioso Wrath. Deglutendo a fatica, Qhuinn seguì John fino al primo piano. Quando giunsero in cima, Wrath disse, «Voglio solo Qhuinn. Tu resta qui, John.» Voglio fargli da testimone... cominciò a dire John. «No», tagliò corto Wrath, voltandosi. «Niente da fare.» Merda, pensò Qhuinn. Non aveva diritto neanche a uno straccio di testimonianza in sua difesa? Ti aspetto qui, disse John a segni, «Grazie, amico,» Qhuinn spinse lo sguardo oltre la porta lasciata aperta dal re. La stanza che aveva davanti era... be', il tipo di posto che sua madre avrebbe adorato: azzurro pallido, 445 arredata con gusto raffinato e quasi femminile, con certe applique di cristallo che sembravano orecchini. Non esattamente ciò che ci si sarebbe aspettati come studio di Wrath. Il re andò a piazzarsi dietro un delicato scrittoio; Qhuinn entrò, chiuse la porta e raccolse le mani davanti a sé. Mentre aspettava, l'intera situazione gli parve surreale. Non riusciva a capacitarsi di come la sua vita fosse arrivata a quel punto, «Volevi uccidere preamboli. Lash?» chiese Wrath, senza Alla faccia delle dichiarazioni preliminari. «Ehm...» «Sì o no?» In rapida successione, Qhuinn passò in rassegna le risposte possibili: No, certo che no, il coltello ha agito da solo, io in realtà cercavo di fermarlo. .. No, volevo solo fargli la barba... No, non pensavo che recidere la giugulare di qualcuno potesse causarne la morte... Qhuinn si schiarì la gola una volta. Due volte, «Sì.» Il re incrociò le braccia sul petto, «Se Lash non avesse abbassato i calzoni di John, avresti fatto la stessa cosa?» I polmoni di Qhuinn smisero di funzionare per un attimo. Non avrebbe dovuto sorprendersi che il re sapesse esattamente cos'era successo, però, cavolo, sentirglielo dire in modo tanto esplicito era scioccante. 446 Oltre tutto, parlare di quella vicenda era dura, visto quello che Lash aveva detto e fatto. In fin dei conti si trattava di John. «Allora?» lo incalzò il re da dietro la scrivania. «Se Lash non gli avesse calato i calzoni lo avresti sgozzato?» Qhuinn cercò di raccogliere le idee. «Senta, John aveva detto a me e a Blay di starne fuori, e finché si trattava di uno scontro leale ero pronto a lasciar perdere. Ma...» Scosse la testa. «Naa. Quella porcheria che Lash ha fatto a un certo punto non era leale. E stato come sparare a bruciapelo.» «Ma non c'era bisogno di ucciderlo, no? Avresti potuto separarlo da John. Mollargli un paio di cazzottoni. Stenderlo.» «Vero.» Wrath stese il braccio di lato, come per sgranchirlo, e in questo modo fece schioccare la spalla. «Adesso devi essere assolutamente sincero con me. Se menti lo capirò, perché sentirò l'odore della menzogna.» Gli occhi di Wrath ardevano dietro gli occhiali avvolgenti, «So benissimo che odiavi tuo cugino. Sei sicuro di non aver abusato della forza per regolare i conti con lui?» Qhuinn si passò le mani tra i capelli, cercando di ricordare il più possibile dell'accaduto. C'erano dei buchi nella sua memoria, spazi vuoti scavati dal groviglio di emozioni 447 che lo avevano spinto ad afferrare il coltello e a scagliarsi in avanti, ma ricordava abbastanza. «A essere onesto... merda, non potevo permettere che John venisse ferito e umiliato così. Vede, lui è rimasto paralizzato. Quando Lash gli ha tirato giù i calzoni, è rimasto paralizzato. Erano tutti e due nella doccia, John era schiacciato contro il muro e di botto si è immobilizzato. Non so se Lash sarebbe arrivato fino in fondo con... be', ha capito... perché non ero nella sua testa, ma era capacissimo di provarci.» Qhuinn deglutì a fatica. «Io ho visto la scena, ho visto che John non riusciva a fare niente e... a un tratto non ci ho visto più... io, be' - cazzo - avevo il coltello in mano, poi mi sono ritrovato addosso a Lash e senza neanche accorgermene l'ho sgozzato. La verità? Certo, odiavo Lash, ma non è questo il punto. Lui o un altro non aveva importanza, non gliel'avrei fatta passare liscia. Chiunque avesse fatto una porcata del genere a John doveva vedersela con me. E, prima che me lo chieda, so già qual è la sua prossima domanda.» «E la risposta è?» «Sì, lo rifarei.» «Lo rifaresti anche adesso.» «Sì.» Qhuinn guardò le pareti celesti dello studio e pensò che era assurdo parlare di un orrore simile in una stanza così fottutamente bella. «Immagino che questo faccia di me un assassino impenitente, huh... allora, cosa pensa di farmi? Ah, probabilmente lo saprà già, ma la mia famiglia mi ha ripudiato.» 448 «Sì, l'ho sentito.» Seguì un lungo silenzio; Qhuinn ammazzò il tempo fissando le sue New Rock col cuore che batteva all'impazzata. «John vuole che tu resti qui.» Qhuinn alzò gli occhi di scatto sul re. «Cosa?» «Mi hai sentito.» «Merda. Lei non può approvare una cosa del genere. Non posso stare qui, nella maniera più assoluta.» «Come hai detto?» sopracciglia corvine. fece il re aggrottando le «Ehm... chiedo scusa.» Qhuinn si cucì la bocca ricordando a se stesso che quello era il re, il che significava che poteva fare quel cavolo che gli pareva, compreso ribattezzare il sole e la luna, dichiarare che lo si doveva salutare infilandosi il pollice su per il culo... e accogliere sotto il proprio tetto dei disgraziati come Qhuinn, se gli girava. Nel mondo dei vampiri, re era sinonimo di c-a-r-t-a bi-a-nc-a. Oltre tutto, perché cavolo doveva dire di no a qualcosa che andava a suo vantaggio? Razza di deficiente. , 449 Wrath si alzò in piedi e Qhuinn dovette trattenersi dal fare istintivamente un passo indietro, anche se erano separati da sette o otto metri di tappeto Aubusson. Gesù, che gigante, però. «Ho parlato con il padre di Lash, un'oretta fa», disse Wrath. «I tuoi gli hanno comunicato che non intendono versare alcun risarcimento. Avendoti ripudiato, sostengono che sei tu a dover sganciare il malloppo. Cinque milioni.» «Cinque milioni,?» «Ieri notte Lash è stato sequestrato dai lesser. Nessuno crede che possa tornare. Verrai processato per omicidio prossimale, sulla base del presupposto che i lesser non si sarebbero presi il disturbo di portare via un cadavere.» «Accidenti...» Oddio, Lash... e, cazzo, quello era un mucchio di soldi. «Senta, io ho solo i vestiti che ho addosso e un cambio nella mia sacca da viaggio. Se vogliono posso anche prenderseli...» «Il padre di Lash è consapevole della tua situazione finanziaria. Alla luce di questo, vuole prenderti in casa come domestico.» Qhuinn sbiancò, agghiacciato. Uno schiavo... per il resto della vita? Per i genitori di Lash? «Questo», riprese Wrath, «dopo che sarai uscito di prigione, naturalmente. E, a proposito, la razza ne ha 450 ancora una in funzione. A nord del confine con il Canada.» Qhuinn rimase impalato dov'era, completamente imbambolato. Cavolo, in quanti modi diversi può finire la vita, pensò. La morte non è l'unica via d'uscita. «Tu cosa ne dici?» mormorò Wrath. La prigione... Dio solo sapeva dove e per Dio solo sapeva quanto tempo. La schiavitù... presso un famiglia che lo avrebbe odiato fino alla morte. Qhuinn pensò al tragitto compiuto nel tunnel sotto la casa di Blay e alla decisione cui era pervenuto una volta giunto in fondo. «Ho gli occhi di due colori diversi», mormorò, alzandoli Sul re. «Ma l'onore non mi manca. Farò tutto il necessario per rimediare... purché», disse con improvvisa fermezza, «purché nessuno mi costringa a chiedere scusa. Questo... non posso accettarlo. Quello che ha fatto Lash è peggio che sbagliato. E stato volutamente crudele e fatto apposta per rovinare la vita di John. Io. Non. Sono. Pentito.» Wrath fece il giro della scrivania e attraversò la stanza in due falcate. Passando davanti a Qhuinn disse, «Risposta esatta, figliolo. Aspetta qui fuori col tuo amico. Sarò da te tra qualche minuto.» «Come, scus... che cosa?» 451 Il re aprì la porta e con un cenno impaziente del capo ripeté, «Qui. Fuori.» Qhuinn uscì incespicando dallo studio. Com'è andata? Chiese John, balzando su da una sedia addossata al muro del corridoio. Cos'è successo? Qhuinn lo guardò; non se la sentiva di dirgli che prima sarebbe finito in galera e, una volta rilasciato, lo avrebbero preso in custodia i genitori di Lash, ansiosi di torturarlo per il resto dei suoi giorni. «Ehm, poteva andare peggio.» Stai mentendo. «No.» Sei pallido come un morto. «Be', che scoperta, mi hanno operato, tipo, ieri.» Ma fammi il piacere. Cosa sta succedendo? «A dire il vero, non ne ho la più pallida idea.» «Scusate.» Era Beth,, la regina, con un'espressione grave sul viso e in mano una scatola di cuoio lunga e piatta. «Ragazzi? Devo entrare lì dentro.» I due amici si scostarono e Beth entrò nello studio chiudendosi la porta alle spalle. 452 John e Qhuinn aspettarono. aspettarono... aspettarono... e Dio solo sapeva cosa stavano combinando là dentro il re e la regina. Evidentemente ci voleva il giusto tempo per sistemare le carte su cui era scritto il suo destino. Come a Monopoli, quando si pesca la carta col peggiore degli imprevisti: Andate in prigione direttamente senza passare dal "Via!" e senza ritirare i 500 dollari. John tirò fuori il cellulare, quasi avesse bisogno di tenere le mani occupate, e lo controllò accigliato. Dopo aver inviato un SMS se lo rimise in tasca. Strano che Blay non si sia ancora fatto vivo. Non proprio, pensò Qhuinn, sentendosi un gran figlio di puttana. Il re spalancò la porta. «Riportate il culo qua dentro.» Ci fu uno scalpiccio di piedi e poi Wrath chiuse la porta. Adesso erano tutti e quattro nello studio. Il re tornò alla scrivania, parcheggiò le chiappe su quella sedia da casa di bambola e sollevò gli enormi stivali sopra la montagna di scartoffie. Quando Beth andò a piazzarsi al suo fianco, la prese per mano. «Voi ragazzi avete mai sentito parlare degli ahstrux nohstrum?» Quando John e Qhuinn scossero la testa come due idioti, Wrath fece un sorrisetto gelido, cattivo. «È una posizione antiquata, una specie di corpo di guardia privato, ma con licenza di uccidere per proteggere il padrone. Sono killer col salvacondotto.» 453 Qhuinn deglutì sonoramente, chiedendosi diavolo c'entrasse tutto ciò con lui e John. cosa Il re proseguì. «Gli ahstrux nohstrum possono essere nominati solo per decreto reale e garantiscono un livello di sicurezza simile a quello dei servizi segreti americani. Il soggetto sottoposto a protezione dev'essere un personaggio di rilievo e la guardia dev'essere estremamente capace.» Wrath baciò la mano della regina. «Un personaggio di rilievo è qualcuno la cui presenza è importante a giudizio del re. Che poi sarei io. Ora... la mia shellan, qui, è la cosa più preziosa al mondo, per me, e non c'è nulla che non farei per evitare che soffra. Inoltre, dal punto di vista della razza nel suo insieme, lei è la regina. Di conseguenza il suo unico fratello rientra senza alcun dubbio nella categoria dei personaggi di rilievo. «Quanto alla parte relativa alla competenza richiesta... si dà il caso che abbia saputo, Qhuinn, che, a parte John, tu eri il migliore del tuo corso di addestramento. Sei micidiale nel corpo a corpo, hai un'ottima mira e...», il tono del re si tinse d'ironia, «... sappiamo tutti quanto sei bravo col coltello, giusto?» Qhuinn si sentì pervadere da uno strano impeto, come se una specie di foschia si fosse diradata rivelando un sentiero inaspettato nel fitto della natura più selvaggia. Si aggrappò al braccio di John per non perdere l'equilibrio, anche se la cosa lo bollava come una femminuccia. «C'è una cosa, però», disse il re. «Gli ahstrux nohstrum sono tenuti a sacrificare la vita per la persona che 454 proteggono. Se le cose si mettono male devono essere ponti a morire. Ah, ed è un impegno a vita, a meno che io non stabilisca diversamente. Io sono il solo a poterli licenziare, mi sono spiegato?» «Certo. Assolutamente», disse Qhuinn, d'impulso. Wrath sorrise e prese la scatola che Beth aveva portato con sé. Ne estrasse un grosso fascio di carte in fondo al quale c'era un sigillo dorato con dei nastri di raso rossi e neri. «Caspita, guarda un po' che roba.» Come se niente fosse, gettò il documento dall'aria ufficiale in fondo alla scrivania. Qhuinn e John si chinarono insieme per leggere. Nell'Antico Idioma il documento dichiarava che... «Cazzarola», esclamò sottovoce Qhuinn, poi di scatto guardò Beth. «Scusi, non volevo essere sboccato.» Lei sorrise e baciò il suo hellren sulla testa. «Non fa niente. Ho sentito di peggio.» «Guarda la data», disse Wrath, Era retrodatato... recava una data di due mesi prima. Secondo il documento, Qhuinn figlio di Lohstrong, era l'ahstrux nohstrum di John Matthew, figlio di Darius, figlio di Marklon, sin dalla fine di giugno. «Sono proprio una frana con le scartoffie», commentò Wrath, sornione. «Mi ero dimenticato di avvertirvi. Colpa mia. Dunque, naturalmente, ciò significa che tu, John, sei 455 responsabile del risarcimento pecuniario, perché il soggetto sotto protezione deve saldare tutti i debiti contratti in conseguenza della protezione stessa.» Immediatamente John mosse le mani per dire, Pagherò... «No, un momento», lo interruppe Qhuinn. «Lui non ha tutti quei soldi...» «A questo punto il tuo amico vale una quarantina di milioni, quindi può permetterselo senza problemi.» Qhuinn guardò John. «Cosa? E perché cavolo lavori in ufficio per pagarti i vestiti, allora?» A chi devo intestare l'assegno? Chiese John, ignorandolo. «Ai genitori di Lash. In qualità di direttore finanziario della confraternita, Beth ti dirà a che conto è collegato, giusto, leelan?» Wrath strinse con forza la mano di Beth e le sorrise. Quando riportò l'attenzione su Qhuinn e John, l'espressione adorante era sparita. «Qhuinn si trasferirà qui da noi con effetto immediato, e percepirà un salario di settantacinquemila dollari all'anno, che tu gli verserai. E, Qhuinn, sei categoricamente escluso dal programma di addestramento, ma ciò non impedisce a me e ai fratelli di... be', non so, allenarci con te per tenerti in esercizio. In fin dei conti ci teniamo ai nostri. E adesso tu sei uno di noi.» Qhuinn trasse un profondo sospiro. Poi un altro e poi... «Devo... devo sedermi.» 456 Come ima fottutissima mezzasega si avvicinò barcollando a uno dei divani azzurro pallido. Mentre tutti lo guardavano come se fossero sul punto di offrirgli un sacchetto di carta dentro cui respirare o dei Kleenex, si mise una mano nel punto in cui era stato operato nella speranza di far credere che era tutta colpa della ferita, invece che dell'emozione. Il guaio era... che non riusciva a far entrare aria nei polmoni. Non sapeva cosa cavolo gli stava entrando in bocca ma, qualunque cosa fosse, non serviva minimamente a dissipare il senso di vertigine che gli annebbiava la mente o la sensazione di bruciore alla cassa toracica. Curiosamente, chi andò ad accovacciarsi davanti a lui non fu John, e neppure la regina. Fu Wrath. D'un tratto il re comparve nel suo offuscato campo visivo, gli occhiali da sole e il volto crudele assolutamente incongrui rispetto alla dolcezza della voce. «Metti la testa tra le ginocchia, figliolo.» Il re gli posò una mano sulla spalla e con delicatezza lo spinse giù. «Coraggio.» Qhuinn ubbidì, e cominciò a tremare tanto violentemente che, se non fosse stato per il grosso palmo di Wrath che lo teneva fermo, sarebbe caduto per terra. Non voleva piangere. Si rifiutava di versare anche una sola lacrima. Così, ansimando e tremando, si ritrovò in un bagno di sudore freddo. 457 Sottovoce, in modo che solo Wrath potesse sentirlo, bisbigliò, «Credevo... di essere solo come un cane.» «Naa», fece Wrath, sempre a bassa voce. «Come ho già detto, adesso sei uno di noi, capito?» Qhuinn alzò gli occhi. «Ma io non sono nessuno.» «Ah, al diavolo.» Il re scosse lentamente la testa. «Hai salvato l'onore di John. Quindi, come ho detto, fai parte della famiglia, figliolo.» Qhuinn spostò gli occhi su Beth e John, che se ne stavano fermi fianco a fianco. Attraverso il velo di lacrime che non aveva versato, notò la somiglianza dei capelli e degli occhi blu scuro. Famiglia... Raddrizzò la schiena e si alzò in piedi, ergendosi in tutta la sua altezza. Sistemandosi camicia e capelli, finì di ricomporsi e si avvicinò a John. Con le spalle erette tese la mano al suo amico. «Sono pronto a dare la vita per te. Con o senza quel pezzo di carta.» Mentre quelle parole gli uscivano di bocca, si rese conto che erano la prima cosa da adulto che avesse mai detto, la sua prima promessa in assoluto. E non gli veniva in mente una persona migliore a cui offrirla, tranne forse Blay. 458 John guardò in giù, poi afferrò la mano tesa dell'amico in una stretta salda e forte. Non si abbracciarono, non parlarono. E io per te, sillabò John in silenzio quando i loro occhi si incontrarono. E io... per te. «Puoi chiedermi di Phury, se vuoi, quando avrai finito con quello.» Cormia si raddrizzò dal cero bianco che stava accendendo e si voltò a guardare da sopra la spalla. Bella era sdraiata supina sul grande letto all'altro capo della stanza, una mano pallida e sottile sul pancione. «Davvero, puoi», confermò con un pallido sorriso. «Così avrò qualcos'altro a cui pensare. E in questo momento ne ho bisogno,» Cormia spense il fiammifero soffiandoci sopra. «Come hai fatto a capire che stavo pensando a lui?» «Hai quella che io chiamo "fronte da maschio". È un'espressione accigliata che ti viene quando pensi al tuo compagno e ti viene voglia di pigliarlo a pedate nel sedere o di abbracciarlo stretto fino a togliergli il respiro.» «Il Primale non è mio.» Cormia sollevò il turibolo d'oro facendolo girare tre volte intorno alla candela. La litania che recitava era sommessa ma insistente, un'invocazione alla Vergine Scriba affinché vegliasse su Bella e sul suo piccolo. 459 «Lui non mi ama», disse Bella. «Non proprio.» Cormia posò il turibolo su un tavolo nell'angolo più a est della stanza e controllò con cura che le fiamme delle tre candele fossero belle alte. Il passato, il presente e il futuro. «Hai sentito cos'ho detto? Phury non mi ama.» Cormia strinse gli occhi con forza. «Sono convinta che ti sbagli.» «Lui crede di amarmi, ma non è così.» «Con tutto il dovuto rispetto...» «Tu lo desideri?» Cormia avvampò al ricordo di quanto era accaduto in sala proiezione. Rivisse le sensazioni che l'avevano pervasa nel toccarlo... il senso di potere che aveva provato col suo membro stretto tra le mani ... il modo in cui lui aveva mosso la bocca sul suo seno. «Prenderò quel rossore come un sì», disse Bella con una risatina soffocata. «Vergine santissima, non so proprio cosa dire.» «Siediti qui vicino a me», disse Bella battendo la mano sul letto. «Lascia che ti parli di lui. E che ti dica perché sono sicura che non è innamorato di me.» 460 Se si metteva ad ascoltare perché il Primate non poteva assolutamente sentirsi come credeva di sentirsi, si sarebbe invaghita ancora di più di lui, Cormia ne era certa. Quindi, naturalmente, andò a sedersi sulla trapunta accanto a Bella. «Phury è una brava persona. Una persona di valore. È capace di amare profondamente, ma ciò non significa che sia innamorato di chiunque gli sta a cuore. Se voi due vi concedete ancora un po' di tempo...» «Io presto tornerò a casa.» Bella inarcò le sopracciglia. «Dall'Altra Parte? Perché?» «Sono qui da molto tempo.» Era troppo dura confessare di essere stata scartata. Specialmente a Bella. «Sono stata qui... abbastanza.» Bella parve rattristata. «E se ne andrà anche Phury?» «Non saprei.» «Be', dovrebbe tornare per combattere.» «Ah... sì.» Evidentemente Bella ancora non sapeva che era stato rimosso dalla confraternita, e quello non era il momento più adatto per sottoporla a spiacevoli shock. Bella si passò la mano sul pancione. «Ti hanno spiegato perché Phury è diventato Primale? Al posto di Vishous, intendo.» 461 «No. Non sapevo neanche che ci fosse stata una sostituzione finché non ho visto chi mi aveva raggiunta nel tempio.» «Più o meno all'epoca dei fatti, Vishous si è innamorato della dottoressa Jane. Phury non voleva che loro due si separassero, così si è offerto di sostituirlo.» Bella scosse la testa. «Phury è fatto così, darà sempre la precedenza agli altri. Sempre. È nella sua natura.» «Lo so. Per questo lo ammiro tanto. Dalle mie parti...» Cormia si sforzò di trovare le parole. «Per le Elette l'altruismo è il più grande tra tutti i valori. Noi serviamo la razza e la Vergine Scriba, e nel farlo anteponiamo con gioia il tutto a noi stesse. Sacrificare se stessi per il bene supremo, per ciò che è più importante dell'io, è la virtù più grande. Ed è ciò che fa il Primale. Credo che sia...» «Sì...?» «Che sia questo il motivo per cui lo rispetto tanto. Be', questo e la sua... la sua...» Bella rise di gusto. «La sua mente acuta, giusto? Chiaramente non c'entrano niente i suoi occhi gialli o tutti quei capelli meravigliosi, eh?» Cormia pensò che se già una volta il suo rossore aveva parlato per lei, poteva rifarlo. «Non c'è bisogno che rispondi», disse Bella con un sorriso. «Phury è speciale. Ma, tornando alla generosità, il fatto è questo: se passi troppo tempo a concentrarti su quello che c'è fuori di te ti perdi. Ecco perché mi preoccupo per lui, ed ecco perché so che non mi ama per 462 davvero. È convinto che io abbia salvato il suo gemello offrendogli qualcosa che lui non era in grado di dargli. Ciò che prova è gratitudine, una profonda gratitudine e una sorta di idolatria, ma non è vero amore.» «Come fate a esserne certa?» Dopo un attimo di esitazione, Bella disse, «Chiedigli dei suoi rapporti col sesso femminile. Così capirai.» «Si è innamorato preparandosi al peggio. spesso?» chiese Cormia, «Assolutamente no, tutt'altro.» Bella continuava ad accarezzarsi il pancione. «Non sono affari miei, ma lo dirò lo stesso. A parte il mio hellren non c'è un maschio che io stimi più di Phury, e tu mi piaci molto. Se lui continuerà a stare qui, spero che lo faccia anche tu. Mi piace come lo guardi. E mi piace molto come ti guarda lui.» «Mi ha scartata.» Bella alzò la testa di scatto. «Cosa?» «Non sono più la Prima Sposa.» «Accidenti.» «Perciò dovrei proprio tornare al Santuario. Se non altro per facilitare le cose all'Eletta che lui sceglierà per rimpiazzarmi.» 463 Era la cosa giusta da dire, ma non ci credeva veramente, e la voce tradì i suoi sentimenti. Persino lei ne avvertiva la tensione. Buffo, dire una cosa tenendo per sé ciò che pensava veramente era una abilità che aveva affinato nel corso della sua vita dall'Altra Parte. Quand'era là, mentire veniva naturale come indossare la veste bianca, raccogliersi i capelli e recitare a memoria i testi cerimoniali. Adesso invece era difficile, «Senza offesa», disse Bella, «ma il mio bugiardometro sta suonando.» «Il tuo... bugiardometro?» «Mi stai mentendo, Senti, posso darti un consiglio non richiesto?» «Ma certo.» «Non lasciarti inghiottire da questa cosa delle Elette. Se credi veramente in ciò che ti hanno insegnato, va bene, ma se ti ritrovi di continuo a combattere contro una vocina nella tua testa, allora significa che quel posto non fa per te. Essere brava a mentire non è una virtù.» Proprio così, pensò Cormia, Era esattamente ciò che aveva sempre dovuto fare. Mentire. Bella cambiò posizione, tirandosi un po' più su sui cuscini, «Non so quanto sai sul mio conto, ma io ho un 464 fratello. Rehvenge. È un testone intrattabile, lo è sempre stato, ma io gli voglio bene e siamo molto legati. Mio padre è morto quando io avevo quattro anni e Rhev ha preso il suo posto come capofamiglia per mia madre e per me. Si è preso molta cura di noi due, ma era anche soffocante da morire, così alla fine ho cambiato casa. Ho dovuto.., Mi stava facendo impazzire. Gesù, avresti dovuto sentire che litigate. Rehv era animato da buone intenzioni, ma è un po' vecchio stampo, molto tradizionalista, in pratica voleva decidere sempre tutto lui.» «Però sembra una persona di valore.» «Oh, assolutamente. Ma il punto è che, dopo venticinque anni sotto la sua tutela ero solo sua sorella, non ero più me stessa, se capisci cosa intendo.» Bella prese la mano di Cormia. «La cosa migliore che ho fatto per me stessa è stata andarmene di casa e imparare a conoscermi.» Il suo sguardo si fece assorto, tormentato. «Non è stato facile, e ci sono state... delle conseguenze. Ma malgrado tutto quello che ho dovuto passare, ti raccomando vivamente di capire chi sei. Voglio dire, tu sai che persona sei?» «Sono una Eletta.» «E poi?» «Poi.,. basta.» Bella le strinse la mano con forza, «Pensa a te stessa, Cormia, e comincia dalle piccole cose, Qual è il tuo colore 465 preferito? Cosa ti piace mangiare? Ti piace alzarti presto? Che cosa ti rende felice? E triste?» Cormia guardò il turibolo all'altra estremità della stanza e pensò a tutte le preghiere che conosceva, preghiere adatte a ogni eventualità. E ai canti, E alle cerimonie. Aveva tutto un vocabolario spirituale a sua disposizione, non solo di parole, ma di gesti. E quello era praticamente tutto. Oppure no? Spostò gli occhi in quelli di Bella. «So che... mi piacciono le rose color lavanda. E mi piace costruire delle cose nella mia testa.» Bella sorrise, poi nascose uno sbadiglio con il dorso della mano. «Questo, amica mia, è un buon inizio. Allora, vuoi finire di vedere Project Runway? Con la TV accesa ti verrà più facile riflettere su te stessa, mentre stai qui con me; mancano ancora venti minuti prima che Fritz ci porti la cena.» Cormia si mise comoda contro i cuscini accanto alla sua... amica. Non sua sorella, la sua... amica. «Grazie, Bella. Grazie.» «Figurati, non c'è di che. Sai, adoro l'incenso. È molto rilassante.» Bella puntò il telecomando verso lo schermo piatto, premette alcuni tasti e Tim Gunn comparve nella sartoria, i capelli d'argento lisci e in ordine come un tessuto ben stirato, davanti a lui una delle stiliste 466 scuoteva la testa guardando il vestito rosso che aveva confezionato solo in parte. «Grazie», ripeté di nuovo Cormia, senza voltarsi. Bella si limitò a stringerle forte la mano, e tutte e due si concentrarono sullo schermo. 467 Capitolo 29 Lash uscì barcollando dalla casa dei suoi genitori, con tutte e due le mani insanguinate. Aveva le ginocchia molli e camminava a scatti. Incespicando nei propri piedi guardò in giù. Oh, Dio, quello schifo era anche sulla camicia e sugli anfibi. Mr D balzò giù dalla Focus. «È ferito?» Lash non trovò le parole per rispondere. Fiacco e tremante, riusciva a stento a reggersi in piedi. «Ci è voluto... molto più di quanto pensassi.» «Venga qui, signore, saliamo in macchina.» Lash si lasciò aiutare dal piccoletto ad arrivare fino al lato del passeggero e a sistemarsi sul sedile. «Che cos'ha lì in mano, signore...» Lash spinse da parte il tesser e si piegò in due in preda a un urto di vomito. Dopo due conati, dalla bocca gli uscì qualcosa di nero e oleoso che gli colò sul mento. Lui se lo pulì con la mano e lo guardò. Non era sangue. Almeno non del tipo che... «Li ho uccisi», gracchiò. 468 Il lesser si inginocchiò di fronte a lui. «Certo, vedrà come sarà orgoglioso il suo papà. Quei bastardi non sono il suo futuro. Noi lo siamo.» Lash cercò di non rivedere quelle scene nella sua testa. «Mia madre è quella che ha strillato più forte. Quando mi ha visto ammazzare mio padre.» «Non suo padre. Non sua madre. Animali. Quelli là dentro erano animali. È stato come uccidere un cervo... o, sì, un topo, capisce? Una bestia schifosa.» Il non morto scosse la testa. «Loro non c'entravano niente con lei, non erano i suoi genitori. Lei credeva solo che lo fossero.» Lash si guardò le mani. In ima c'era il coltello, nell'altra una catena. «Quanto sangue.» «Già, sanguinano un casino quei vampiri.» Ci fu un lungo silenzio. Un silenzio che parve durare un anno intero. «Dica un po', signore, per caso c'è una piscina qui intorno?» Quando Lash annuì, il lesser disse, «Qua dietro?» Lash annuì di nuovo. «Okay, adesso la porto lì così potrà darsi una bella lavata. Nel baule della macchina ci sono dei vestiti puliti, così poi potrà metterseli.» Senza neanche accorgersene, Lash si ritrovò sotto la doccia della piscina, a lavarsi via dalla pelle i resti dei suoi genitori e a guardare il rosso del sangue incanalarsi nello scarico ai suoi piedi. Sciacquò anche coltello e 469 catena e, quando uscì per asciugarsi, per prima cosa si mise al collo la catena di acciaio inossidabile. Dalla catena pendevano due medagliette. Una era la medaglietta di riconoscimento del suo Rottweiler mentre sull'altra c'era la data dell'ultima antirabbica di King. Lash si cambiò in fretta e trasferì il portafogli di suo padre dai calzoni sporchi che aveva prima a quelli puliti che gli aveva procurato Mr D. Doveva continuare a usare gli anfibi, ma le macchie di sangue ora erano meno rosse e davano più sul marrone, il che le rendeva più sopportabili. Uscito dallo spogliatoio, trovò il piccoletto seduto su uno dei tavolini col piano in vetro vicino alle sedie da giardino. Il lesser saltò giù subito. «Vuole che chiami i rinforzi?» Lash guardò la villa in stile Tudor. All'andata aveva in mente di saccheggiarla, di portare via tutto quello che valeva qualcosa, di usare una pattuglia di quelle che l'Omega gli aveva descritto come di una truppa per svuotarla da cima a fondo, lasciando solo la tappezzeria e le assi del pavimento. Così, in stile Conan il Barbaro. Gli sembrava perfetto. La dichiarazione ideale del suo nuovo status. Non ti limiti a schiacciare i tuoi nemici, ma gli rubi i cavalli, dai fuoco alle loro baracche e ascolti i lamenti delle loro donne... 470 Solo che lui sapeva cosa c'era dentro quella casa, questo era il guaio. Conteneva i cadaveri dei suoi genitori e dei doggen. Stava guardando un mausoleo e l'idea di violare la sacralità di quel luogo, di farlo invadere da un branco di lesser per profanarlo era insopportabile. «Voglio andare via di qui.» «Allora torniamo dopo?» «Portami subito via di qui e basta.» «Come vuole.» «Risposta esatta.» Muovendosi come un vecchio, Lash tornò sul davanti della casa tenendo gli occhi dritti davanti a sé, evitando le finestre davanti a cui passava. Quando aveva massacrato i doggen, in cucina, in forno stava arrostendo un pollo, di quelli con dentro quegli aggeggi che saltano su di scatto per farti capire quando è ben cotto. Dopo aver massacrato anche l'ultimo dei domestici, si era fermato davanti alla cucina Vi King e aveva acceso la lucina. Il pollo era pronto. Aveva aperto il cassettino sulla sinistra e tirato fuori due guanti da forno a strisce bianche e rosse con sopra l'etichetta Williams-Sonoma. Aveva spento il forno e tirato fuori la teglia posandola sui fornelli. Il pollo era di un bel marrone dorato con un ripieno di pane di granturco. Le rigaglie, sul fondo, stavano insaporendo il sugo. 471 Aveva spento anche le patate che stavano bollendo nell'acqua. «Portami via di qui», disse infilandosi in macchina. Dovette aiutarsi con le mani per spostare dentro le gambe. Un attimo dopo il motore della Focus si mise in moto con un rumore che ricordava una macchina da cucire e quella carriola si avviò lungo il viale d'accesso. Nel profondo silenzio dell'abitacolo, Lash tirò fuori il portafoglio di suo padre dai pantaloni cargo nuovi, lo aprì e passò in rassegna tesserini e carte di credito, ATM, Visa, Black Centurion American Express... «Dove vuole andare?» chiese Mr D quando giunsero sulla Statale 22. «Non lo so.» Mr D gli lanciò un'occhiata. «Io ho accoppato mio cugino. Avevo sedici anni. Era una carogna e mi è piaciuto farlo, era giusto farlo. Però dopo mi sono sentito male, in colpa. Per cui non c'è niente di strano se adesso le sembra di averli traditi, mica deve scusarsi.» L'idea che qualcuno capisse anche solo in minima parte quello che stava passando faceva sembrare tutto meno simile a un incubo. «Mi sento... morto.» «Passerà.» «No... non mi sentirò mai più... Oh, 'fanculo, chiudi il becco e guida, okay?» 472 Lash estrasse l'ultimo tesserino mentre svoltavano a destra sulla Statale 22. Era la falsa patente di guida di suo padre. Appena posò gli occhi sulla foto gli venne il voltastomaco. «Accosta!» La Focus sterzò bruscamente verso il ciglio della strada. Mentre un grosso SUV li superava, Lash aprì la portiera e vomitò ancora un po' di roba nera. Era perduto. Completamente perduto. Che cosa diavolo aveva fatto? Chi era? «So io dove portarla», disse Mr D. «Se chiude la portiera l'accompagno in un posto dove si sentirà meglio.» E sia, pensò Lash. A quel punto avrebbe accettato suggerimenti anche da una scodella di Rice Krispies. «Qualunque posto... tranne che qui.» La Focus fece inversione e puntò verso il centro di Caldwell. Dopo neanche tre chilometri, Lash lanciò un'occhiata al piccoletto. «Dove stiamo andando?» «In un posto dove potrà tirare il fiato. Si fidi.» Lash guardò fuori dal finestrino e si sentì un maledetto finocchio. «Manda là una squadra», disse schiarendosi la gola, «e digli di portare via tutto quello che si può.» «Sissignore.» 473 Mentre Z, al volante della Escalade, risaliva il viale d'accesso della sontuosa villa in stile Tudor dove abitavano Lash e i suoi genitori, Phury, accigliato, si slacciò la cintura di sicurezza. Ma che cavolo...? Il portone era spalancato sulla notte estiva, il lampadario acceso nell'atrio gettava una luce dorata sul portico anteriore e sul paio di siepi ornamentali sull'attenti ai due lati dell'ingresso. Okay, qualcosa non quadrava. Le case in stile coloniale, coi vasi sul portico e i nanetti nelle aiole, possono avere la porta languidamente aperta, non c'è niente di strano. O magari le villette in stile ranch, con le bici davanti al garage e disegni a gessetto sui marciapiedi. O al limite i caravan con i finestrini sfondati e decrepite sedie di plastica sparpagliate nel prato pieno di erbacce. Ma le magioni in stile Tudor circondate da parchi curatissimi non hanno il maestoso portone spalancato sulla notte, non è normale. Sarebbe come se una debuttante mostrasse il reggiseno perché non ha saputo scegliere l'abito giusto. Phury scese imprecando dal SUV. L'odore di sangue fresco e di tesser era anche troppo familiare. Zsadist impugnò una delle pistole e chiuse la portiera. «Merda.» Capirono subito che non avrebbero parlato con i genitori di Lash di ciò che era accaduto al loro figlio. Era 474 molto probabile che si sarebbero trovati di fronte a dei cadaveri. «Chiama Butch», disse Zsadist. «Questa è una scena del crimine.» Phury aveva già il cellulare in mano e stava componendo il numero. «È quello che sto facendo.» Quando Butch rispose, disse, «Ci servono rinforzi qui, subito. C'è stata un'irruzione.» Prima di entrare in casa i gemelli si fermarono a controllare la porta d'ingresso. Non c'erano segni di effrazione e il sistema di sicurezza non stava suonando a tutto spiano. Non aveva senso. Se un tesser si fosse presentato alla porta suonando il campanello nessun doggen lo avrebbe mai fatto entrare. Impossibile. Quindi i lesser dovevano essersi introdotti in casa da qualche altra parte per poi uscire dalla porta principale. E si erano dati un gran da fare, altro che. Sul lussuoso tappeto orientale nell'atrio di marmo c'era una scia di sangue... e non era fatta di gocce: sembrava che qualcuno avesse passato sul pavimento un rullo da imbianchino. La scia rossa andava dallo studio alla sala da pranzo. Z girò a sinistra verso lo studio, mentre Phury andò a destra entrando nella sala da... «Ho trovato i cadaveri», disse brusco. 475 Capì subito quando Z vide Io spettacolo che aveva davanti perché lo sentì ringhiare, «Cristo santissimo.» I genitori di Lash erano seduti su due sedie in fondo al tavolo, le spalle legate allo schienale in modo da farli stare diritti. Il sangue, fuoriuscito dalle pugnalate al petto e al collo, si era raccolto in una pozza sul lucido pavimento ai loro piedi. Le candele erano accese. Nei bicchieri qualcuno aveva versato del vino. Sul tavolo, tra i due corpi, c'era un bel pollo arrosto appena sfornato, tanto che l'aroma della carne sovrastava il tanfo del sangue. Su due sedie a destra e a sinistra della credenza erano piazzati i cadaveri di due doggen, morti che dovevano servire altri morti. Phury scosse la testa. «Quanto ci scommetti che non ci sono altri cadaveri in casa? Altrimenti sarebbero allineati qui anche loro.» I bei vestiti dei genitori di Lash erano stati rassettati con cura, i tre fili di perle di sua madre in perfetto ordine, così come la cravatta e la giacca di suo padre. I capelli erano un disastro e le ferite erano roba da film dell'orrore alla Rob Zombie, ma gli abiti macchiati di sangue erano impeccabili. Sembravano due bambolotti morbosamente macabri. Z picchiò il pugno sul muro. «Bastardi schifosi... quei fottuti lesser sono malati nella testa.» «Puoi dirlo forte.» 476 «Controlliamo il resto della casa.» Perlustrarono la biblioteca e la sala da musica e non trovarono nulla. La dispensa era intatta. La cucina recava segni di colluttazione compatibili con due omicidi ma, a parte ciò, nient'altro... nessun indizio utile a identificare il punto da cui erano entrati i lesser. Il primo piano era pulito; le splendide camere da letto, con le loro tende di lino, i pezzi d'antiquariato e i lussuosi piumoni, sembravano appena uscite da Casabella. Al secondo piano c'era una suite degna di un re che, a giudicare dai manuali sulle armi da fuoco e le arti marziali, oltre al computer e all'impianto stereo, doveva essere la stanza di Lash. Era lustra come uno specchio. In tutta la casa, a parte i punti in cui erano stati commessi gli omicidi, non era stato toccato niente. Non era stato rubato niente. Tornati da basso, Zsadist esaminò in fretta i cadaveri mentre Phury dava un'occhiata al pannello centrale del sistema di sicurezza, fuori, vicino al garage. Quand'ebbe terminato tornò dal gemello. «Ho controllato gli allarmi. Non è stato violato o manomesso niente, né tramite un codice né staccando la corrente.» «Il padre non ha il portafoglio», disse Z, «ma ha ancora al polso l'orologio, un Ebel. La madre ha al dito l'anello di diamanti e un paio di orecchini giganti.» Con le mani sui fianchi, Phury scuoteva la testa. «Due irruzioni, qui e alla clinica. Entrambe senza saccheggio.» 477 «Almeno sappiamo come hanno trovato questo posto. Sì, insomma, hanno rapito Lash e lo hanno torturato finché non ha parlato. È l'unico modo. Non poteva avere documenti con sé, quando lo hanno portato via dalla clinica, quindi l'indirizzo deve essere uscito dalla sua bocca.» Phury si guardò intorno, soffermandosi su tutte le opere d'arte alle pareti. «Qui c'è qualcosa che non quadra. Di solito saccheggiano tutto.» «Ma, supponendo che abbiamo preso il portafoglio del padre, il grosso dei beni è in banca, di sicuro. Se riescono ad accedere a quei conti possono rubare tutto in modo più pulito.» «Ma perché lasciare qua tutta questa roba?» «Dove siete?» riecheggiò dall'atrio la voce di Rhage. «Qui», gridò Z. «Dobbiamo avvertire le altre famiglie della glymera», disse Phury. «Se Lash ha spifferato il suo indirizzo Dio solo sa cos'altro gli hanno cavato fuori. Le conseguenze potrebbero essere senza precedenti.» Butch e Rhage entrarono nella stanza e lo sbirro scosse la testa. «Merda, questo schifo mi riporta dritto dritto alla Omicidi.» «Cristo...» sospirò Hollywood. 478 «Sappiamo come sono entrati?» chiese il poliziotto, girando intorno al tavolo. «No, ma setacciamo di nuovo la casa», disse Phury. «Non posso credere che siano entrati dalla porta principale.» Tutti e quattro salirono ai piani superiori. Giunti davanti alla stanza di Lash, si fermarono scrollando la testa. Phury si guardò intorno, il cervello in fermento. «Dobbiamo far girare la voce.» «Be', guarda un po' qui», mormorò Z annuendo in direzione di una finestra. Un'auto stava svoltando nel viale d'accesso. Seguita da una seconda. E da una terza. «Ecco i tuoi saccheggiatori», disse il fratello. «Teste di cazzo», sibilò Rhage con un ghigno tetro. «Tempismo perfetto, però... ho giusto bisogno di un po' di moto per smaltire la cena.» «E sarebbe una scortesia imperdonabile non andare ad accoglierli all'ingresso», bofonchiò Butch. Istintivamente, Phury fece per aprire il giaccone, ma poi rammentò che non c'erano pistole né pugnali da brandire. 479 Dopo una frazione di secondo di imbarazzo, durante la quale nessuno ebbe il coraggio di guardarlo in faccia, disse, «Io torno al quartier generale e comincio a contattare le altre famiglie della glymera. Informerò anche Wrath.» Gli altri tre annuirono tornando in fretta verso le scale. Mentre loro scendevano di corsa per dare il benvenuto ai lesser, Phury diede un'ultima occhiata alla camera da letto. Quanto avrebbe voluto essere al loro fianco a uccidere i figli di puttana responsabili di quel massacro. Il mago lo affrontò nella sua mente. Non combatteranno più con te perché non possono fidarsi di te. I soldati non vogliono l'appoggio di gente inaffidabile. Parliamoci chiaro, socio, tu hai chiuso su questo fronte. La domanda è, quanto ci metterai a rovinare tutto anche con le Elette? Phury stava già per smaterializzarsi quando si fermò, accigliandosi. Dall'altra parte della stanza, sul comò, c'era una macchia di qualcosa su una delle maniglie d'ottone dei cassetti. Phury andò a controllare più da vicino. Marrone scuro... era sangue rappreso. Aprì il cassetto; c'erano delle impronte insanguinate sugli oggetti all'interno: sbaffi di sangue sull'orologio Jacob & Co. tempestato di diamanti che Lash portava 480 prima della transizione, e anche su una catenina di diamanti e su un grosso orecchino. Evidentemente era stato asportato qualcosa dal cassetto, ma perché un lesser avrebbe lasciato lì della roba tanto preziosa? Era difficile immaginare cosa potesse valere più di tutti quei diamanti, qualcosa di così piccolo da stare dentro un cassettino. Phury perlustrò con gli occhi la stanza: il portatile Sony VAIO e l'iPod... e la dozzina di altri cassetti, tra scrivania, comò e comodini. Erano tutti perfettamente chiusi. «Devi andare via.» Phury si voltò. Sulla soglia c'era Z, con la pistola in pugno. «Vattene subito via di qui, Phury. Sei disarmato.» «Potrei rimediare», ribatté Phury lanciando un'occhiata alla scrivania dove, sopra i libri di testo, erano appoggiati un paio di pugnali. «In meno di un secondo.» «Vai.» Z scoprì le zanne. «Qui non sei d'aiuto.» I primi rumori dello scontro riecheggiarono su per le scale in una serie di grugniti e violente imprecazioni. Il suo gemello si precipitò a difendere la razza e Phury lo seguì con lo sguardo. Poi si smaterializzò dalla camera da letto di Lash, diretto alla scrivania nell'ufficio del centro di addestramento. 481 Capitolo 30 «Devi riposare», disse Cormia vedendo che Bella sbadigliava di nuovo. Fritz era appena passato a ritirare i piatti del Primo Pasto. Bella aveva preso bistecca con purè di patate e stracciatella alla menta come dessert. Cormia aveva mangiato il purè... e un po' di gelato. E lei che pensava che le M&M's fossero squisite! Bella si accoccolò ancora di più contro i cuscini. «Sai, credo che tu abbia ragione. Sono stanca. Forse possiamo finire la maratona più tardi?» «Mi sembra ottimo», disse Cormia scivolando giù dal letto. «Avete bisogno di qualcosa?» «No.» Bella chiuse gli occhi. «Ehi, prima che tu te ne vada, di cosa sono fatte quelle candele? Sono incredibilmente rilassanti.» Contro la federa bianca di pizzo, Bella era spaventosamente pallida. «Sono fatte con cose sacre dell'Altra Parte. Cose sacre e terapeutiche. Erbe e fiori miscelati con acqua della fontana della Vergine Scriba.» «Sapevo che erano speciali.» «Io resto nei paraggi», disse d'impulso Cormia. 482 «Bene.» Cormia uscì dalla stanza facendo attenzione a chiudere adagio la porta. «Signora?» Cormia si voltò. «Fritz? Credevo te ne fossi andato con il vassoio.» «L'ho fatto», disse il maggiordomo alzando il mazzo di fiori che aveva in mano. «Stavo andando a sistemare questi.» «Che bei fiori.» «Sono per il salotto al primo piano», spiegò Fritz sfilando dal mazzo una rosa color lavanda e offrendogliela. «Per voi, padrona.» «Oh, grazie.» Cormia si portò al naso i petali delicati. «Oh, che buon profumo.» Poi trasalì nel sentire qualcosa contro la gamba. Chinandosi, fece scorrere la mano sulla schiena morbida e flessuosa del gatto nero. «Ehi, ciao, Boo.» L'animale si appoggiò contro di lei facendo le fusa, il suo corpo sorprendentemente forte la costrinse a spostare il peso sull'altra gamba. «Ti piacciono le rose?» gli chiese, offrendogli il fiore. 483 Boo scosse la testa spingendo il muso contro la mano libera di Cormia, desideroso di attenzioni. «Adoro questo gatto.» «E lui adora voi», disse Fritz; poi, esitando, aggiunse, «Padrona, se posso...» «Cosa c'è?» «Padron Phury è nell'ufficio del centro di addestramento e credo che gli farebbe bene un po' di compagnia. Forse potreste...» Con un sonoro miao il gatto trotterellò verso il sontuoso scalone agitando la coda. Se avesse avuto braccia e mani, avrebbe indicato l'atrio sottostante. Il maggiordomo rise. «Credo che sua signoria Boo sia d'accordo.» Il gatto miagolò di nuovo. Cormia aumentò la stretta sul gambo della rosa, raddrizzandosi. Forse era giusto così. Doveva informare il Primale che stava per andarsene. «Mi farebbe piacere vedere sua grazia, ma sei sicuro che sia il momento...» «Bene, bene! Vi accompagno da lui.» Il maggiordomo trotterellò fino al salotto e un attimo dopo era già di ritorno. Aveva il passo scattante e una luce radiosa in volto, come se godesse di quello che stava facendo. 484 «Venite, padrona, scendiamo.» Boo miagolò di nuovo facendo strada giù per le scale, poi svoltò a sinistra, infilandosi in una porta nera nascosta in un angolo. Il maggiordomo digitò un codice d'accesso su un tastierino numerico e aprì quello che si rivelò essere un pannello d'acciaio spesso una quindicina di centimetri. Cormia seguì Fritz giù per un paio di gradini... e si ritrovò in un tunnel che sembrava stendersi all'infinito in entrambe le direzioni. Guardandosi intorno, si strinse meglio nella tunica. Era strano provare un senso di claustrofobia in mezzo a tanto spazio, ma d'un tratto aveva realizzato che erano intrappolati sottoterra. «A proposito, il codice è 1914», disse il maggiordomo controllando che la porta fosse ben chiusa. «L'anno in cui è stata costruita la casa. Basta inserirlo in questi tastierini per aprire tutte le porte lungo la strada. Il tunnel è di cemento e acciaio e tutte le uscite sono sigillate. L'interno è monitorato da un sistema di sicurezza. Ci sono telecamere» - così dicendo indicò il soffitto - «e altri dispositivi di monitoraggio. Qui siete al sicuro come in casa o in giardino.» «Grazie», disse Cormia, sorridendo. «Ero... un tantino nervosa.» «Più che comprensibile, signora.» Boo si strusciò contro di lei, quasi a darle una piccola stretta di rassicurazione alla mano. 485 «Da questa parte.» Il maggiordomo s'incamminò strascicando i piedi, il volto rugoso raggiante. «Il padrone sarà felice di vedervi.» Cormia lo seguì, aggrappata alla sua rosa. Lungo il tragitto cercò di formulare mentalmente l'addio più adeguato e si ritrovò con gli occhi lucidi. All'inizio aveva lottato contro quel suo destino, lottato contro il ruolo di Prima Sposa. Eppure adesso che stava per ottenere ciò che voleva piangeva la perdita che accompagnava la sua relativa libertà. Di sopra, nella galleria delle statue, John aprì la seconda porta dopo quella di camera sua e accese la luce. Qhuinn entrò con cautela nella stanza, come augurandosi che le suole delle sue New Rock non fossero infangate. «Bel posticino.» Io dormo nella stanza accanto, spiegò a gesti John. I loro cellulari emisero un trillo in contemporanea; era un SMS da parte di Phury: Lezioni annullate x prossima settimana, x altre info kollegarsi a sito Web protetto. John scosse la testa. Lezioni annullate. Clinica devastata e saccheggiata. Lash rapito... e probabilmente torturato. Le ricadute di ciò che era accaduto nello spogliatoio continuavano. Le disgrazie... le disgrazie non vengono mai sole, questo era il detto, ma adesso cominciavano a esagerare. 486 «Niente più lezioni, huh», mormorò Qhuinn, un po' troppo indaffarato a posare la sacca da viaggio. «Per nessuno.» Dobbiamo contattare Blay, disse John. Mi pare impossibile che non si faccia sentire da ieri sera. Forse dovremmo andare a trovarlo subito. Qhuinn andò a uno dei finestroni alti fino al soffitto e scostò i pesanti tendaggi. «Non credo che abbia voglia di vedermi tanto presto. Lo so che adesso mi stai chiedendo perché. Fidati. Ha bisogno di stare un po' da solo.» John scosse la testa e inviò a Blay il seguente messaggio: Zero-Sum stasera xkè lezione saltata? Novità su me e Q. «Dirà che non può venire. Ammesso che tu gli stia chiedendo di incontrarsi con noi.» Qhuinn si voltò a guardarlo da sopra la spalla proprio mentre il telefonino segnalava l'arrivo di un SMS. Il messaggio di Blay diceva: Stanotte nn posso. Impegni familiari. C sentiamo. John si infilò il cellulare in tasca. Cosa è successo? «Niente. Tutto... non so...» Bussarono alla porta. Dal baccano doveva essere qualcuno col pugno grosso come un macigno. «Sì?» gridò Qhuinn. 487 Wrath entrò impettito. Sembrava ancora più tetro di prima, come se altre cattive notizie fossero piombate addosso alla confraternita. In mano stringeva una valigetta nera di metallo e un groviglio di cuoio. Li alzò entrambi, guardando serio Qhuinn. «Non c'è bisogno che ti dica di non fare il cretino con queste, giusto?» «Ehm, no... signore. Ma che cosa sono?» «Le tue nuove migliori amiche.» Il re posò la valigetta sul letto, fece scattare due serrature nere e sollevò il coperchio. «Porca miseria!» Porca miseria, esclamò muto John. «Prego.» All'interno, incuneate in una custodia grigia fatta con lo stesso materiale dei cartoni per le uova, c'erano un paio di micidiali quarantacinque automatiche Heckler & Koch. Dopo aver controllato la camera di scoppio di una di esse, Wrath la porse a Qhuinn, tenendola per la canna. «V ti preparerà dei documenti d'identità nell'Antico Idioma. Se la situazione diventa critica tirali fuori, e chiunque ti stia dando fastidio dovrà vedersela con me. Fritz ti procurerà tante di quelle munizioni da fare invidia a un plotone di Marines.» Il re gettò a Qhuinn quello che si rivelò essere un fodero da agganciare al torace. «Quando sei con John non devi mai girare 488 disarmato. Anche in questa casa. Intesi? Questa è la regola.» Qhuinn alzò la pistola nel palmo. John si aspettava che sparasse qualche battutaccia a doppio senso su quant'era bello essere bene equipaggiati, invece l'amico disse, «Voglio libero accesso al poligono di tiro. Devo potermi esercitare almeno tre volte alla settimana. Minimo.» Wrath increspò un angolo della bocca. «Vorrà dire che gli daremo il tuo nome, cosa ne dici?» Lì, muto, in mezzo a quei due, John si sentiva un guardone, ma era affascinato dal repentino cambiamento di Qhuinn. La facciata da buffone era sparita. Adesso era serissimo e concentrato sul suo nuovo incarico, tutt'a un tratto più duro dei suoi vestiti da duro. Qhuinn indicò una porta. «Quella dà sulla camera da letto di John?» «Sì.» «'Sera, ragazzi.» Vishous entrò e gli occhi di Qhuinn non furono i soli a spalancarsi. Il fratello stringeva tra le mani una pesante catena con una medaglia a una delle estremità, un paio di tenaglie e quella che sembrava una di quelle cassettine portaesche usate dai pescatori. «Siediti, ragazzo», disse V. 489 «Forza», lo incitò Wrath indicando il letto con un cenno del capo. «È ora di lasciarsi incatenare,,, su quel pendente è inciso lo stemma di John. Ti tocca anche un bel tatuaggio. Questo è un impegno che dura tutta la vita, come ti ho spiegato.» Qhuin si sedette senza dire una parola; V andò a piazzarsi alle sue spalle, gli mise la pesante catena intorno al collo e con le tenaglie chiuse l'ultimo anello. Il medaglione gli arrivava appena sotto le clavicole. «Questo ti verrà tolto solo se muori o se ti fai licenziare.» V gli diede una vigorosa pacca sulla spalla. «A proposito, se ti danno il benservito, per le antiche leggi la lettera di licenziamento sarà una ghigliottina, chiaro? È così che recuperiamo la catena. Se invece tiri le cuoia, romperemo una delle maglie. Perché profanare i morti è volgare. E adesso passiamo al tatuaggio.» Qhuinn fece per levarsi la maglietta. «Ne ho sempre desiderato uno...» «Quella puoi tenerla», disse V aprendo la cassettina e tirando fuori una macchinetta per i tatuaggi; Qhuinn si arrotolò una manica fin sopra la spalla. «No, neanche il braccio mi serve.» Qhuinn si accigliò; Vishous infilò la spina nella presa e si infilò un paio di guanti di lattice neri. Sul bordo del letto aprì un vasetto nero e uno rosso e un contenitore più grande con dentro una soluzione trasparente. «Girati verso di me.» Il fratello tirò fuori una striscia di stoffa bianca e un tampone sterilizzante mentre Qhuinn 490 voltava le sue New Rock poggiando le mani sulle ginocchia. «Guarda in su.» Sulla faccia? pensò John mentre V disinfettava la guancia sinistra dell'amico. Qhuinn non si mosse di un millimetro. Neanche quando vide avvicinarsi l'ago ronzante. John cercò di sbirciare qual era il disegno, ma non ci riuscì. Strano che venisse usato l'inchiostro rosso. Aveva sentito che il nero era il solo colore consentito.., Porco... giuda, pensò John quando V si tirò indietro. Era una singola lacrima rossa bordata di nero. «Sta a simboleggiare il fatto che sei pronto a versare il tuo sangue per John», spiegò Wrath. «E serve anche per far sapere a tutti, in termini inequivocabili, qual è il tuo ruolo. Se John muore, verrà riempita con l'inchiostro nero, a significare che hai servito in modo onorevole una persona importante. Se non lo proteggerai a dovere, verrà contornata da un rettangolo e sbarrata con una X per mostrare che hai disonorato la nostra razza.» Qhuinn si alzò e andò a guardarsi allo specchio. «Mi piace.» «Bene», disse asciutto V, avvicinandosi per cospargere l'unguento trasparente sopra l'inchiostro. «Puoi farmene un altro?» 491 V guardò Wrath, poi si strinse nelle spalle. «Cosa vuoi?» Qhuinn si indicò la nuca. «Ci voglio scrivere "18 agosto 2008", nell'Antico Idioma. E non farlo troppo piccolo.» La data di oggi, pensò John. V annuì. «Okay. Si può fare. Però dovrà essere in nero. Il rosso è riservato ai tatuaggi speciali.» «Sì. Va bene.» Qhuinn tornò verso il letto e si sedette a gambe incrociate sul bordo del materasso, poi chinò la testa scoprendo la nuca. «I numeri si devono leggere bene, per favore.» «Li vuoi grandi.» «Sì.» V rise. «Mi piaci, sai. Adesso tieni sollevata la catena e lasciami lavorare.» Fece relativamente in fretta, il ronzio lamentoso della macchinetta fluttuava come il motore di un'automobile, aumentando e diminuendo, aumentando e diminuendo. V aggiunse alla base del disegno uno svolazzo artistico che poi tracciò tutto intorno, in questo modo il tatuaggio assomigliava a un'elegante targa. Questa volta John si piazzò alle spalle di V e rimase a osservare tutta l'operazione, dall'inizio alla fine. Le tre righe di testo erano una meraviglia e, dato che Qhuinn aveva il collo lungo e i capelli corti, sarebbero state sempre in bella vista. 492 Anche John ne voleva uno. Sì, ma quale? «Ganzo», commentò V pulendo la pelle di Qhuinn con la pezzuola un tempo bianca e ormai tutta macchiata. «Grazie», disse Qhuinn mentre V gli spalmava ancora un po' di quell'unguento; l'inchiostro fresco spiccava vivido sulla pelle dorata. «Grazie mille.» «Non l'hai ancora visto. Per quel che ne sai, potrei aver scritto "Somaro".» «Naa, non ho mai dubitato di te», disse Qhuinn con un sorrisone. Vishous ricambiò con un mezzo sorriso, il duro volto tatuato mostrava tutta la sua approvazione. «Sì, be', non sei di quelli che si muovono. Se ti muovi sei fottuto. Se stai fermo ti becchi i tatuaggi migliori.» V batté il palmo contro quello del ragazzo, poi raccolse il suo armamentario e uscì mentre Qhuinn andava in bagno a controllare il tatuaggio allo specchio. È bellissimo, disse John alle sue spalle. Proprio bellissimo. «È esattamente quello che volevo», mormorò Qhuinn guardando la scritta che copriva tutta la nuca. Quando i due amici uscirono dal bagno Wrath si infilò la mano nella tasca posteriore dei calzoni, tirò fuori un mazzo di chiavi e lo porse a Qhuinn. «Queste sono della Mercedes. Per qualunque spostamento con John usa 493 questa macchina finché non te ne procureremo un'altra. È blindata, e veloce come un razzo.» «Posso ancora portarlo allo ZeroSum?» «Non è mica un prigioniero.» John batté il piede con forza e a gesti disse, Non sono neanche una femminuccia. Wrath proruppe in una risata. «Non ho mai detto che lo fossi. John, dai al tuo amico le parole d'ordine per tutte le porte, per il tunnel e per il cancello.» «E le lezioni?» chiese Qhuinn. «Quando riprenderanno posso restare con John anche se sono stato espulso?» Wrath si fermò sulla porta. «Ci penseremo quando sarà il momento. Il futuro è incerto. Come al solito, cazzo.» Dopo che il re se ne fu andato, John pensò a Blay. Avrebbe dovuto essere lì a condividere tutto questo con loro. Vorrei andare allo ZeroSum, disse a gesti. «Perché? Credi che servirebbe a tirar fuori di casa Blay?» Qhuinn andò alla valigetta e caricò l'altra pistola, il caricatore scivolò al suo posto con un sussurro e un clic. Dimmi cosa sta succedendo. Subito. 494 Qhuinn si agganciò le fondine ascellari e ci infilò dentro le pistole. Aveva un'aria... potente. Letale. Con i corti capelli scuri, i piercing all'orecchio e il tatuaggio sotto l'occhio azzurro, se John non avesse saputo chi era lo avrebbe preso per un fratello. Che cosa è successo tra te e Blay? «Ho rotto con lui, e l'ho fatto in malo modo.» Dio buono... Perché? «Dovevo finire in galera per omicidio, ricordi? Blay si sarebbe consumato preoccupandosi per me. Si sarebbe rovinato la vita. Meglio che mi odi piuttosto che sentirsi solo per il resto dei suoi giorni.» Senza offesa, ma sei davvero così importante per lui? Qhuinn gli scoccò uno sguardo penetrante con i suoi occhi di due colori diversi. «Sì. E non farmi domande in proposito.» John sapeva riconoscere una linea di confine quando la incontrava: in parole povere, era appena andato a sbattere contro un muro di cemento armato circondato da filo spinato. Voglio comunque andare allo ZeroSum, e voglio comunque dargli la possibilità di uscire con noi. Qhuinn tirò fuori una giacca leggera dal borsone e mentre se la infilava parve ricomporsi. Quando si voltò, il 495 suo tipico sorriso sornione era tornato al suo posto. «Ogni vostro desiderio è un ordine, mio principe.» Non chiamarmi così. Uscendo, John inviò un altro SMS a Blay, sperando che prima o poi si facesse vivo. Forse, se non gli dava tregua, alla fine si sarebbe arreso. «Allora come dovrei chiamarti?» scherzò Qhuinn balzando davanti a lui per aprirgli la porta con gesto teatrale. «Preferisci "mio signore"?» Dacci un taglio, per favore. «Cosa ne dici del buon vecchio "padrone"?» Quando John gli scoccò un'occhiataccia, Qhuinn si strinse nelle spalle. «E va bene. Vada per zuccone, allora. Ma te la sei cercata, io ti avevo dato ampia libertà di scelta.» 496 Capitolo 31 C'erano due cose che la glymera prediligeva sopra ogni altra: un bel ricevimento e un bel funerale. Con il massacro dei genitori di Lash le ottenne entrambe. Seduto davanti al computer nell'ufficio del centro di addestramento, Phury sentiva un dolore pulsante proprio dietro l'occhio sinistro. Era come se il mago stesse martellando il nervo ottico con un punteruolo da ghiaccio. In realtà è un trapano, socio, puntualizzò il mago. Giusto, pensò Phury. Naturale. Fai del sarcasmo? disse il mago. Ah, giusto, avevi in programma di diventare un tossico spacciato e una delusione per i tuoi fratelli e adesso che ci sei riuscito mi diventi insolente. Sai, forse dovresti tenere un seminario: il metodo in dieci tappe di Phury, figlio di Ahgony, per avere successo come fallito assoluto e irrecuperabile. Posso iniziare io? Partiamo dalle basi: nascere. Phury piantò i gomiti ai due lati del portatile e si massaggiò le tempie, sforzandosi di restare aggrappato al mondo reale invece che al cimitero del mago. 497 Con gli occhi fissi sullo schermo luminoso del computer, pensò a tutta la merda che si stava riversando nella casella di posta elettronica della confraternita. La glymera semplicemente non aveva capito la situazione. Nel messaggio che aveva inviato ai membri dell'aristocrazia, Phury li aveva informati degli attacchi sollecitandoli a lasciare Caldwell per rifugiarsi nelle loro case sicure. Aveva scelto le parole con estrema cura, attento a non scatenare il panico, ma evidentemente non era stato abbastanza macabro. Per quanto, veniva da pensare, il brutale assassinio del loro leahdyre e della sua shellan nella loro stessa casa dovesse bastare. Dio, c'erano stati tanti di quei morti per mano della Lessening Society nelle ultime due notti... e a giudicare dalle reazioni della glymera ce ne sarebbero stati altri. Molto presto. Lash sapeva dove abitava ogni famiglia aristocratica, in città, dunque era probabile che una fetta consistente della glymera fosse in pericolo. Non c'era neanche bisogno che quel poveretto, sotto tortura, spifferasse tutti gli indirizzi. Se i lesser si introducevano in un paio di quelle case avrebbero trovato indizi sufficienti a localizzarne molte altre: rubriche, inviti alle feste, programmi di riunioni. Le rivelazioni di Lash sarebbero state come un terremoto che colpisce una faglia devastando il paesaggio. Ma la glymera avrebbe dimostrato un minimo di intelligenza di fronte a una minaccia di tale portata? No. 498 A leggere la e-mail che aveva appena ricevuto dal tesoriere del Consiglio dei Princeps, quegli idioti, invece di trasferirsi nelle case sicure, dovevano piangere la "sconcertante perdita di una coppia di valore tanto insigne" organizzando l'ennesimo party. Così potevano scatenare una lotta di potere per stabilire chi doveva essere il prossimo leahdyre, c'era da scommetterci. E in conclusione, il tizio aveva buttato lì che il Consiglio della glymera avrebbe riscosso il debito dovuto alla famiglia di Lash in conseguenza delle azioni di Qhuinn. Be', che generosità. Non che volessero la grana tutta per sé per... diciamo... festeggiare un nuovo leahdyre. Che diamine, no. Stavano solo "salvaguardando un precedente importante: assicurarsi che i misfatti venissero puniti." Sì, come no. Grazie a Dio Qhuinn si era liberato di quella gente, anche se la sua nomina ad ahstrux nohstrum di John, da parte di Wrath, era stata uno shock. Mossa azzardata, specie perché retroattiva. E per quella che all'apparenza era una rissa in una doccia che Qhuinn aveva fermato in modo inopportuno? Doveva esserci sotto qualcos'altro, qualcosa che veniva tenuto segreto. Altrimenti non aveva senso. La glymera avrebbe scoperto che Wrath stava proteggendo Qhuinn, e prima o poi quella nomina si 499 sarebbe ritorta contro il re. Malgrado ciò, Phury era lieto che fosse finita così. John, Blay e Qhuinn erano la crema del gruppo dei tirocinanti, mentre Lash... be', Lash aveva sempre portato guai. Qhuinn aveva gli occhi di due colori diversi, certo, ma quello col difetto era Lash. C'era sempre stato qualcosa che non andava in lui. Il computer emise un bip e un'altra e-mail finì nella posta in entrata della confraternita. Stavolta era il braccio destro del defunto leahdyre. Ma guarda! Il tizio invocava una "ferma presa di posizione contro questa tragica serie di perdite, che in ultima istanza è una vile minaccia alla sicurezza delle nostre abitazioni. In questo momento la cosa migliore è stringersi tutti insieme per celebrare i riti funebri in onore dei nostri cari defunti..." Okay, quando si dice la stupidità. Chiunque con un briciolo di cervello, avrebbe riempito il set coordinato di valigie Louis Vuitton e si sarebbe fiondato fuori città finché le acque non si fossero calmate. Ma invece no, quelli preferivano tirar fuori ghette e guanti e fare finta di essere in uno dei film della premiata ditta MerchantIvory, tutti in gramaglie e con le debite espressioni di cordoglio. Gli sembrava già di sentire le ricercate, ipocrite frasi di circostanza che si sarebbero palleggiati vicendevolmente, mentre doggen in livrea offrivano sfogliatine ai funghi seguite da un garbato scontro per il controllo politico. Sperava solo che tornassero in sé perché, per quanto lo facessero imbestialire, non voleva che si svegliassero 500 morti, per così dire. Wrath poteva sempre ordinare a tutti di lasciare Caldwell, ma era probabile che questo li avrebbe spinti a impuntarsi ancora di più. Il re e l'aristocrazia non erano amici, anzi, a stento erano alleati. Arrivò un'altra e-mail, sempre dello stesso tenore. "Resteremo qui e daremo un ricevimento" Cribbio, aveva bisogno di uno spinello. E aveva bisogno di... L'anta dell'armadio si aprì e Cormia emerse dal passaggio segreto che immetteva nel tunnel. Nella bella mano affusolata aveva una rosa color lavanda e un pudico riserbo sul viso. «Cormia?» fece Phury, sentendosi subito ridicolo. Come se a un certo punto della giornata lei avesse cambiato nome facendosi chiamare Trixie o Irene. «Qualcosa non va?» «Non volevo disturbarvi. Fritz mi ha suggerito...» così dicendo Cormia si voltò, come se si aspettasse di trovare il maggiordomo alle sue spalle. «Ehm... mi ha portata qui.» Phury si alzò in piedi; che fosse una forma di risarcimento da parte del maggiordomo per l'intempestiva interruzione della notte prima? In tal caso quel doggen era un eroe. «Ne sono lieto.» Be', forse lieto non era proprio il termine esatto. Disgraziatamente, la sua urgenza di fumare fu sostituita 501 dall'urgenza di fare qualcos'altro con la bocca. Qualcosa che comportava comunque l'atto di succhiare. Arrivò un'altra e-mail e il laptop la segnalò con un bip. Tutti e due guardarono il computer. «Se siete occupato posso andare...» «No.» La glymera era come un muro di gomma e, visto e considerato che aveva già l'emicrania, non c'era motivo di continuare a sbattere la testa contro la loro caparbietà. Purtroppo non poteva fare altro fino al verificarsi della prossima tragedia, che lui avrebbe comunicato via email... Anzi, quell'incombenza non sarebbe toccata a lui, no? Era alla tastiera solo perché tutti gli altri erano impegnati in ben altre faccende, da sbrigare con l'aiuto dèi pugnali. «Come stai?» chiese per non pensarci. E perché gli interessava la risposta. Cormia si guardò intorno. «Non avrei mai immaginato che quaggiù ci fosse tutto questo.» «Ti andrebbe di fare un giro?» Lei esitò e tese la mano in cui stringeva la perfetta rosa color lavanda... lo stesso colore del braccialetto che le aveva regalato John Matthew. «Credo che il mio fiore abbia bisogno di bere.» «Provvedo subito.» Desideroso di darle qualcosa, qualsiasi cosa, Phury si avvicinò a una confezione da 502 ventiquattro di Poland Spring e tirò fuori una bottiglia. La stappò, bevve una sorsata per abbassare il livello dell'acqua, e poi la posò sulla scrivania. «Qui ce n'è abbastanza per farla felice.» Rimase a fissare le mani di Cormia mentre lei infilava la rosa in quel vaso improvvisato. Erano così belle, pallide e... moriva dalla voglia di sentirle sulla pelle. Dappertutto. Si alzò e girò intorno della scrivania, tirando fuori la camicia dai calzoni per coprire l'inguine. Detestava la sciatteria nel vestire, ma meglio apparire trasandato che correre il rischio di mostrarle quant'era su di giri. Perché lo era. Altro che se lo era. Aveva la sensazione che con lei sarebbe sempre stato così: qualcosa, quando era venuto nella sua mano, la notte prima, aveva cambiato tutto. Le tenne aperta la porta che dava sul corridoio. «Vieni a vedere il nostro centro di addestramento.» Cormia lo seguì fuori dall'ufficio e lui le fece fare il giro di tutta la struttura, mostrandole la palestra, il deposito attrezzi, la sala per la fisioterapia e il poligono di tiro, e illustrandole le varie attività che vi si svolgevano. Cormia pareva interessata, ma rimase per lo più in silenzio, e Phury ebbe la sensazione che volesse dirgli qualcosa. Poteva immaginare cosa. 503 Voleva tornare dall'Altra Parte. Davanti allo spogliatoio si fermò. «Qui è dove i ragazzi si fanno la doccia e si cambiano. Le aule sono lì in fondo.» Cristo, non voleva che lei se ne andasse. Ma cosa diavolo si aspettava che facesse? L'aveva lasciata senza più un ruolo da svolgere, lì sulla Terra. Sei tu a non avere più nessun ruolo, qui, rimarcò il mago. «Vieni, ti faccio vedere una delle aule», disse per tirare un po' più in lungo le cose. La portò nell'aula dove faceva lezione lui, provando un curioso senso di orgoglio nel mostrarle dove lavorava. Dove aveva lavorato. «Che cos'è quello?» chiese Cormia, indicando la lavagna coperta di figure. «Ah... sì...» Phury andò alla lavagna e cancellò in fretta l'analisi delle vittime di una bomba esplosa nel centro di Caldwell. Cormia incrociò le braccia sul petto, ma sembrava un tentativo di trattenersi più che un gesto difensivo. «Credete che non sappia cosa fa la confraternita?» «Ciò non significa che voglia rammentartelo.» «Pensate di rientrare nella confraternita?» 504 Phury rimase impietrito. Deve averglielo detto Bella, pensò. «Non sapevo che fossi a conoscenza della mia espulsione.» «Perdonate, non sono affari miei...» «No, non fa niente... e, no, credo che i miei giorni da guerriero siano finiti.» La guardò da sopra la spalla e rimase colpito da quanto era perfetta così, appoggiata a braccia conserte contro uno dei banchi dove sedevano gli allievi. «Ehi... ti spiace se ti faccio un ritratto?» Lei arrossì. «Penso... bè, se lo desiderate. Devo fare qualcosa?» «Resta dove sei e basta.» Phury rimise a posto il cancellino sul bordo della lavagna e prese un gessetto. «In effetti, potresti sciogliere i capelli?» Non ottenendo risposta si voltò e rimase sorpreso nel vederla con le mani tra i capelli, che armeggiava con le forcine dorate. Una dopo l'altra, le lunghe ciocche bionde e ondulate caddero sulle spalle incorniciandole il viso e il collo. Anche sotto alle luci fluorescenti dell'aula Cormia era uno splendore. «Siediti sopra il banco», disse Phury. Aveva la voce roca. «Per favore.» Lei ubbidì e accavallò le gambe... e, per la miseria, la veste si aprì fin sopra la coscia. Quando Cormia fece per chiuderla, lui sussurrò, «Lascia.» 505 Le mani di lei si fermarono, poi si ritrassero posandosi di piatto sul banco per sostenere il peso del busto. «Così va bene?» «Non. Muoverti.» Phury se la prese comoda. Il gesso divenne un surrogato delle sue mani; scorreva su tutto il corpo di Cormia indugiando sul collo, sul turgore dei seni, sulla curva dei fianchi e sulla lunga e vellutata distesa delle gambe. Trasferendo la sua immagine sulla lavagna fece l'amore con lei, accompagnato in sottofondo dal raschiare del gesso. O forse era il suo respiro. «Siete molto bravo», disse a un certo punto Cormia. Lui era troppo indaffarato e avido di guardarla per risponderle, troppo preso da ciò che immaginava di farle una volta terminato il ritratto. Dopo un'eternità durata un solo istante, fece un passo indietro per valutare il proprio lavoro. Perfetto. Era lei, ma anche di più -sebbene nel disegno ci fosse una sfumatura erotica che non poteva sfuggire neanche a lei. Non voleva scioccarla, ma non avrebbe potuto modificare quell'aspetto del suo lavoro. Era in ogni linea del suo corpo, nella posa e nel viso. Cormia era l'ideale sessuale femminile. Almeno per lui. «È finito», disse brusco. «Quella... sarei io?» 506 «È come ti vedo io.» Ci fu un lungo silenzio. Poi con una sorta di sconcerto Cormia disse, «Mi trovate bella.» «Sì», disse lui facendo scorrere il dito lungo le linee che aveva tracciato. Il silenzio dilatava la distanza che li separava, mettendolo a disagio. «Beh, allora...» disse. «Non possiamo lasciarlo qui così...» «Per favore! No!» esclamò lei, tendendo una mano. «Lasciate che mi guardi ancora un po'. Vi prego.» Okay. Bene. Tutto quello che voleva. Diamine, a quel punto poteva ordinare al suo cuore di non battere e quello avrebbe ubbidito allegramente. Cormia era diventata la sua torre di controllo, la padrona del suo corpo, qualunque cosa gli avesse detto di fare, dire o prendere, lui l'avrebbe accontentata. Senza fare domande. Con qualunque mezzo. In un angolo della sua mente sapeva che tutto ciò era tipico dei vampiri innamorati: la tua femmina ti comandava, punto e basta. Ma lui non poteva innamorarsi di lei, giusto? «È così bello», disse Cormia, gli occhi verdi fissi sulla lavagna. Phury si voltò a guardarla. «Quella sei tu, Cormia. Tu sei così.» Lei ebbe un guizzo nello sguardo, poi, come in imbarazzo, si chiuse lo spacco nella tunica. 507 «Per favore, no», sussurrò Phury, riecheggiando le parole che poco prima aveva detto lei. «Lasciami guardare ancora un po'. Ti prego.» La tensione tra loro era palpabile, sul punto di esplodere. «Scusa», disse Phury, seccato con se stesso. «Non volevo metterti in...» Cormia abbassò le mani e il voluttuoso tessuto bianco si riaprì con la docilità incondizionata di un cagnolino, tanto che gli venne voglia di accarezzarlo sulla testa e dargli un osso. «Hai un odore fortissimo», disse lei in un sussurro sensuale. «Sì.» Phury posò il gesso inspirando il profumo di gelsomino. «Anche tu.» «Hai voglia di baciarmi, vero?» Lui annuì. «Sì.» «Hai tirato la camicia fuori dai calzoni. Perché?» «Sono eccitato. Mi è venuto duro appena sei entrata nell'ufficio.» Con un ansito, Cormia fece scorrere lo sguardo dal petto di lui fino ai fianchi. Vedendola schiudere le labbra, Phury capì subito a cosa stava pensando: a lui che le veniva in mano. 508 «È incredibile», disse in un soffio lei. «Quando sono con te, così, tutto il resto non conta. A parte...» Phury le andò vicino. «Lo so.» Quando si fermò di fronte a lei, Cormia alzò gli occhi. «Pensi di baciarmi?» «Se vuoi.» «Non dovremmo», disse lei, posandogli le mani sul petto. Ma non lo spinse via. Si aggrappò alla sua camicia come fosse un'ancora di salvezza. «Non dovremmo.» «Vero», fece lui, infilandole dietro l'orecchio una ciocca ribelle. Il bisogno disperato di penetrarla in qualche modo, in qualunque modo, gli mandò in cortocircuito il lobo frontale. Ritto di fronte a lei sentiva solo i suoi istinti più bassi, i bisogni primordiali di un maschio. «Ma può essere una cosa molto intima, Cormia. Una cosa tra te e me.» «Una cosa intima... mi piace l'intimità.» Sollevò il mento, offrendogli ciò che desiderava. «Anche a me», gemette lui, piegandosi sulle ginocchia. Lei parve confusa. «Credevo che volessi baciarmi...» «Infatti.» Phury strinse i palmi intorno alle sue caviglie e li fece scorrere su e giù lungo i polpacci. «Muoio dalla voglia.» «Ma allora perché...» 509 Con delicatezza, lui le scavallò le gambe e la veste che fosse benedetta - si aprì completamente, mostrandogli tutto: i fianchi, le cosce e la piccola fessura che tanto bramava. Leccandosi le labbra, Phury fece scivolare le mani lungo l'interno delle gambe di lei, allargandole adagio, inesorabilmente. Con un sospiro erotico, Cormia si piegò all'indietro per fargli spazio, rassicurandolo sulle proprie intenzioni, confermandogli che anche lei voleva farlo, che era pronta proprio come lui. «Sdraiati», disse lui. «Sdraiati e allarga le gambe.» Oh, cazzo... Era morbida come panna mentre si abbandonava all'indietro fino a stendersi sul banco. «Così?» «Sì... proprio così.» Phury fece scorrere il palmo dietro una delle sue gambe, facendole poggiare il piede sulla propria spalla. Cominciò a baciarle il polpaccio e poi seguì il percorso tracciato dalle sue carezze, salendo sempre più su. A metà coscia fece una pausa per controllare se lei stava bene. Cormia lo guardava con gli occhi verdi spalancati, le dita sulle labbra, il respiro affannoso. «Sei pronta?» le chiese in un roco sussurro. «Perché una volta iniziato sarà dura fermarsi, e non voglio spaventarti.» «Che cosa vuoi farmi?» 510 «La stessa cosa che mi hai fatto tu ieri notte con la mano. Solo che userò la bocca.» Lei gemette, rovesciando gli occhi. «Oh, santissima Vergine Scriba...» «È un sì?» «Sì.» «Ti piacerà. Fidati», disse Phury, apprestandosi a slacciarle il vestito. E, merda, sì, sapeva di non mentire. Una parte di lui sapeva con assoluta certezza che l'avrebbe fatta godere, anche se era la prima volta che ci provava. Sciolse la cintura e aprì la tunica. Finalmente la vide in tutta la sua nudità, dai seni alti e sodi alla piatta distesa del ventre, dalle belle labbra pallide alla vulva. Quando Cormia abbassò la mano sul monte di Venere, era identica al ritratto che le aveva fatto il giorno prima, sensualissima, femminile e potente... solo che adesso era vera, in carne e ossa. «Gesù... Cristo.» Nella sua bocca le zanne si allungarono, rammentandogli che non si nutriva da parecchio tempo. Incapace di trattenere un verso gutturale, a metà tra la richiesta e la supplica, non avrebbe saputo dire quanto di quel gemito fosse dovuto al sesso di lei e quanto invece al suo sangue. Ma aveva qualche importanza? «Cormia... ho bisogno di te.» 511 Il modo in cui lei allargò le gambe fu un regalo che non aveva confronti con i doni ricevuti in passato: con quel gesto gli permise di vedere il nido rosato che cercava. Era già lucida di umori. E lui l'avrebbe eccitata ancora di più. Con un grugnito si chinò a posare la bocca su di lei, puntando dritto al cuore del suo corpo. Entrambi urlarono. Lei gli infilò le mani tra i capelli e lui le afferrò le cosce con forza, spingendosi ancora più all'interno. Era così calda contro le sue labbra, calda e bagnata, e lui la rese ancora più calda e bagnata baciando il suo sesso con trasporto. Cormia gemette; l'istinto ebbe la meglio su entrambi, spianando la strada a gesti più audaci; Phury prese a leccarla con foga mentre lei dimenava i fianchi. Dio, che suoni incredibili. E il sapore era ancora più incredibile. Phury alzò gli occhi, spingendo lo sguardo oltre il suo ventre, fino ai seni, assalito dal bisogno irrefrenabile di toccarle i piccoli capezzoli. Li pizzicò con delicatezza e poi li accarezzò con i pollici. Il modo in cui lei si inarcò lo spinse sull'orlo dell'orgasmo. Era davvero troppo. «Muoviti più in fretta», disse Phury. «Ti prego... Dio, muoviti contro di me.» 512 Quando Cormia cominciò a dimenare l'inguine, Phury tirò fuori la lingua lasciando che lei lo cavalcasse a suo piacimento, godendo di quella frizione. Non ce la fece ad andare avanti così per molto, però, divorato com'era dal bisogno di annullare ogni distanza tra loro. Intrappolandole i fianchi tra le mani, premette la faccia contro di lei, dal mento al naso; adesso sentiva solo il suo sapore, solo il suo odore, e perse la cognizione di tutto il resto. Poi giunse il momento di fare davvero sul serio. Phury cominciò a titillare con insistenza la sommità della vulva; l'ansito che le sfuggì gli confermò che aveva trovato il punto giusto. Quando Cormia cominciò a muovere i fianchi con impeto crescente, lui le prese la mano per rassicurarla. Lei si aggrappò al palmo che le veniva offerto con tale forza da lasciargli il segno delle unghie. Fantastico. Voleva quei segni a mezzaluna anche sulla schiena... anche sul sedere, mentre la trapanava senza tregua. Voleva stare tutto addosso a lei, dentro di lei. Voleva lasciarle il segno anche lui. Cormia sapeva che il proprio corpo stava facendo esattamente ciò che il giorno prima aveva fatto quello del Primale. La tempesta che si stava addensando, la smania che sentiva crescere dentro di sé e il fuoco che la divorava le dicevano che si trovava nello stesso punto in cui era stato lui. Sull'orlo del baratro. 513 Tra le sue gambe il Primale era enorme, le spalle larghe la spalancavano completamente. Gli splendidi capelli multicolori le coprivano le cosce e la sua bocca aderiva alla vulva, labbra contro labbra, lingua viscida contro pieghe scivolose. Sembrava tutto così magnifico, spaventoso e inevitabile... e l'unico motivo per cui non si sentiva completamente sopraffatta era la mano di lui sulla sua. Quel tocco era meglio di qualunque parola di rassicurazione, sotto molti aspetti... ma soprattutto perché, per provare a parlarle, lui avrebbe dovuto interrompere ciò che stava facendo, e sarebbe stato un delitto. Proprio quando cominciava a temere di andare in frantumi, un'ondata di energia la travolse trascinandola verso l'alto e poi via, verso un altro luogo, mentre il suo corpo sussultava ritmicamente. Allorché tutta quella meravigliosa tensione si liberò di colpo, il piacere fu così intenso che le vennero le lacrime agli occhi e gridò qualcosa... o forse non era niente, solo un'esplosione di fiato. Dopo, quando tutto fu passato, il Primate alzò la testa con un'ultima, lenta carezza della lingua, prima di staccarsi dal suo sesso. «Stai bene?» chiese, gli occhi gialli e selvaggi. Lei aprì la bocca per parlare. Quando non ne uscì nulla di coerente, annuì. 514 Il Primale si leccò le labbra con tutta calma, lasciando intravedere la punta delle zanne... che divennero ancora più lunghe quando le guardò il collo. Piegare la testa di lato e offrirgli la vena fu la cosa più naturale del mondo. «Bevete da me», disse Cormia. Col fuoco nello sguardo il Primale strisciò sopra di lei, baciandole il ventre e indugiando su uno dei capezzoli, che leccò con grande trasporto. Poi le sue zanne furono sulla gola di Cormia. «Sei sicura?» «Sì... oh, DIO!» La trafisse con forza, a fondo, e fu tutto così fulmineo... proprio come lei se l'era immaginato. Lui era un fratello in cerca di quello che serviva al sostentamento di tutti loro, e lei non era un oggetto fragile che rischiava di rompersi. Gli offrì il suo sangue e lui lo prese, e dentro di sé sentì montare di nuovo quella tensione selvaggia. Si agitò sul banco, spalancando le gambe. «Prendetemi. Mentre succhiate... entrate dentro di me.» Senza staccarsi dal suo collo, il Primate armeggiò con i calzoni con un ringhio selvaggio, facendo sbattere contro il tavolo la fibbia della cintura. La spostò brutalmente verso il bordo, piantò le mani dietro le sue ginocchia e le allargò le gambe. Cormia sentì una pressione rovente, vigorosa... Ma poi lui si fermò. 515 A poco a poco, invece di succhiarla, prese a leccarla e a darle dei piccoli baci, poi smise del tutto restando perfettamente immobile, a parte il respiro. Cormia sentiva ancora il fuoco nel sangue di lui, sentiva ancora il suo odore penetrante, la smania per la sua vena, ma lui non si muoveva anche se lei era lì, a sua completa disposizione. Il Primale le lasciò andare le gambe, con delicatezza le abbassò e le sollevò il busto, affondandole la testa nella spalla. Lei lo strinse con dolcezza, rischiando di rimanere schiacciata sotto il peso spaventoso del suo corpo, in equilibrio tra il tavolo e il pavimento. «State bene?» gli sussurrò all'orecchio. Phury mosse la testa avanti e indietro, premendosi ancora di più contro di lei. «Devi sapere una cosa.» «Cosa vi angustia?» chiese Cormia, accarezzandogli la spalla. «Parlate.» Lui disse qualcosa che lei non colse, «Come?» «Sono.,, vergine.» 516 Capitolo 32 «Stanotte?» chiese Xhex. «Vai su a nord stanotte?» Rehv annuì e riprese a esaminare i progetti edilizi per il suo nuovo club. I fasci di carte con gli schizzi architettonici azzurri, allargati sulla scrivania, sommergevano tutto il resto delle scartoffie. No. Non era quello che voleva. La struttura generale non andava bene... era troppo aperta. Lui voleva un locale pieno di piccoli spazi dove i clienti potessero appartarsi nell'ombra. Voleva una pista da ballo, certo, ma non quadrata. Voleva qualcosa di insolito. Che facesse accapponare la pelle. Qualcosa di vagamente minaccioso e molto elegante. Voleva che il club fosse un misto tra Edgar Allan Poe, Bram Stoker e Jack lo Squartatore, con tante cromature nichelate e un'orgia di nero lucido. Un incrocio tra lo stile vittoriano e il gotico moderno. La roba che stava guardando, invece, assomigliava a qualunque altro club in città. Spinse via i progetti e controllò l'orologio. «Devo andare.» Xhex incrociò le braccia sul petto, ritta davanti alla porta dell'ufficio. «E, no, tu non vieni», disse Rehvenge. 517 «Voglio venire.» «È uno spiacevole déja vu? Non abbiamo già vissuto la stessa scena due sere fa? Oltre che un altro centinaio di altre volte? La risposta è, e sarà sempre, no.» «Perché?» sbottò lei. «Non ho mai capito perché. Trez lo hai lasciato venire, però.» «Trez è diverso.» Rehv si infilò la pelliccia di zibellino e aprì il cassetto della scrivania. Il nuovo paio di Glock calibro quaranta che aveva appena acquistato si adattavano alla perfezione alle fondine che si era agganciato sotto il completo Bottega Veneta. , «So quello che fai. Con lei.» Rehv rimase impietrito. Poi continuò a infilare le pistole nelle fondine. «Certo che lo sai. Mi vedo con lei, le do i soldi e me ne vado.» «Non fai solo questo.» «Sì, invece», ribatté lui scoprendo le zanne per un attimo. «No, invece. È questo che non vuoi farmi vedere?» Rehv serrò i denti con forza, guardandola torvo all'altro capo dell'ufficio. «Non c'è niente da vedere. Punto.» Xhex cedeva di rado, ma ebbe il buon senso di non tirare troppo la corda. Con gli occhi che ribollivano di 518 rabbia, disse, «I cambiamenti di programma non sono una bella cosa. Ti ha detto perché?» «No», rispose Rehv andando alla porta. «Ma andrà tutto come al solito.» «Non è mai come al solito. Solo che te lo sei dimenticato.» Rehvenge pensò a tutti gli anni di quello schifo e al fatto che il futuro non gli riservava cambiamenti di sorta. «Dimenticato? Non sai quanto ti sbagli. Fidati.» «Dimmi una cosa. Se lei tentasse di farti del male, spareresti per ucciderla?» «Dimmi che non me lo hai chiesto.» Quell'argomento di conversazione da solo bastava a fargli venir voglia di scorticarsi vivo e mandare la pelle in tintoria. L'idea che Xhex osasse sfidarlo su una cosa che lui non voleva guardare troppo da vicino era inammissibile. Una parte di lui adorava quello che faceva una volta al mese, questa era la verità. E quella realtà era assolutamente insostenibile quando si trovava nel suo mondo abituale, il mondo in cui la dopamina gli consentiva di vivere, un mondo relativamente normale e sano. Quella scheggia di orrore nel suo cuore era qualcosa che non aveva la minima intenzione di condividere non nessuno. 519 Xhex si mise le mani sui fianchi e alzò il mento di scatto, la sua classica posa quando litigavano. «Chiamami, quando hai finito.» «Lo faccio sempre.» Rehvenge raccolse i progetti per il nuovo club, prese la sacca da viaggio e uscì dall'ufficio. Nel vicolo di fianco al locale, Trez lo aspettava a bordo della Bendey; appena vide Rehv lasciò il posto di guida. La voce del Moro comparve nella testa di Rehv, profonda e melodiosa. SARÒ LÀ TRA UNA MEZZ'ORETTA PER PERLUSTRARE LA ZONA E CONTROLLARE IL CAPANNO. «Okay.» DIMMI CHE NON SEI IMBOTTITO DI DOPAMINA Rehv gli diede una pacca sulla spalla. «Non mi faccio da un'ora. E, sì, ho con me l'antidoto al veleno.» BENE. GUIDA PIANO, COGLIONE. «No. Vedrò di centrare qualche camion carico di tronchi e qualche cervo vagante.» Trez chiuse la portiera e fece un passo indietro. Incrociando le braccia sul petto massiccio, increspò le labbra in imo dei suoi rari sorrisi e le zanne bianche brillarono nel bel volto scuro. Per una frazione di secondo nel suo sguardo si accese un lampo verde oliva, l'equivalente moresco di una strizzatina d'occhio. 520 Rehvenge partì. Era lieto di poter contare sull'aiuto di Trez. Il Moro e suo fratello, iAm, conoscevano un sacco di trucchetti in grado di mettere in crisi anche un symphath. In fin dei conti erano membri eminenti della s'Hisbe delle Ombre. Rehv lanciò un'occhiata all'orologio della Bendey. Aveva appuntamento con la Principessa per l'una di notte. Considerato che era un viaggio di due ore in direzione nord e che adesso erano le undici e un quarto, doveva guidare come un pazzo. Premendo sull'acceleratore pensò a Xhex. Non voleva sapere come fosse venuta a conoscenza della faccenda del sesso... sperava ardentemente che continuasse a rispettare il suo volere e che non le saltasse in mente di raggiungerlo acquattandosi nell'ombra. Non doveva scoprire che lui non era nient'altro che una puttana. Da una parte Phury non riusciva a credere di essersi lasciato sfuggire di bocca le parole «sono vergine», dall'altra, era felice di averle dette. Non aveva idea di cosa pensasse Cormia, però. Lei era muta come una tomba. Si ritrasse quanto bastava per rimettersi il membro nei calzoni e tirare su la cerniera, poi le raddrizzò la veste, unendo le due falde e coprendo il suo splendido corpo. Nel silenzio della stanza si mise a camminare avanti e indietro, dalla porta alla parete di fronte e ritorno. 521 Lei seguiva ogni sua mossa con gli occhi. Dio, cosa diavolo stava pensando? «Non dovrebbe avere importanza, immagino », disse alla fine Phury. «Non so perché l'ho tirato fuori.» «Com'è possibile... no, scusate. È una domanda così sconveniente...» «No, non mi dispiace spiegare.» Fece una pausa, non sapendo se lei avesse letto qualcosa sul passato di Zsadist. «Ho fatto un voto di castità, quand'ero giovane. Per essere più forte. E l'ho rispettato.» Non proprio, socio, intervenne il mago. Perché non le racconti della puttana. Dille della prostituta che hai pagato allo ZeroSum, che ti sei portato in uno dei bagni e con cui non sei riuscito a venire. È proprio da te essere eccezionale anche in questo. Tipico. L'unico vergine zozzo sulla faccia della terra. Phury si fermò davanti al ritratto che aveva tracciato stilla lavagna. Aveva rovinato tutto. Prese un gesso e, a partire dai piedi, cominciò a disegnare i tralci d'edera. «Cosa state facendo?» chiese Cormia. «Così lo rovinate.» Ah, piccola, rispose il mago. Per quanto sia bravo a disegnare, è ancora più bravo a rovinare. 522 In breve, la magnifica figura di Cormia venne coperta di una coltre di rampicanti. Quand'ebbe finito, Phury fece un passo indietro. «Una volta ho provato a fare sesso. Ma non ci sono riuscito.» «Come mai?» chiese lei con voce tesa. «Non era giusto. Non era la persona giusta. Mi sono fermato.» Ci fu una pausa e poi un fruscio quando Cormia scese dal banco. «Proprio come adesso con me.» «No, non è...» esclamò lui voltandosi di scatto. «Vi siete fermato, no? Avete scelto di non continuare.» «Cormia, non è che ...» «Per chi vi state conservando?» Lo fissava con due occhi incredibilmente acuti. «O invece è qualcos'altro? Sono le fantasie che vi ispira Bella? È questo che vi ha bloccato? Se è così, mi spiace per le Elette. Ma se invece la castità serve a tenervi isolato e al sicuro, mi spiace per voi. Quella forza è una menzogna.» Aveva ragione, pensò Phury. Accidenti a lui, Cormia aveva proprio ragione. Lei si raccolse i capelli e lo guardò con la dignità di una regina mentre li puntava con le forcine. «Tornerò al Santuario. Vi auguro ogni bene.» 523 Si voltò e Phury la raggiunse di corsa. «Cormia, aspetta...» Quando fece per afferrarle il braccio, lei lo allontanò. «Perché dovrei aspettare? Cosa cambierebbe? Niente. Andate con le altre, se ci riuscite. E se non ci riuscite, dovrete farvi da parte affinché qualcun altro possa essere la forza di cui ha bisogno la razza.» Ciò detto uscì, chiudendosi la porta alle spalle. Fermo nell'aula vuota, con la risata del mago che gli risuonava nelle orecchie, Phury chiuse gli occhi e sentì il mondo restringersi intorno a sé, finché passato, presente e futuro non gli tolsero il respiro, trasformandolo in una delle statue del giardino avvizzito e pieno di erbacce della sua famiglia. Quella forza è una menzogna... Nel silenzio che lo circondava, le parole di Cormia continuavano a riecheggiargli senza fine nella testa. 524 Capitolo 33 «Ma è un semplice club», disse il figlio dell'Omega con voce insieme abbattuta e seccata. Mr D spense l'asmatico motore della Focus e lo guardò. «Già. E qui troveremo quello che le serve.» Avevano girato per un bel po' senza meta perché il figlio dell'Omega non la finiva più di dare di stomaco. L'ultima crisi era stata una quarantina di minuti prima, però, per cui Mr D era ragionevolmente sicuro che le cose si fossero sistemate. Difficile dire se tutto quel dare di stomaco era dovuto a quello che il figlio dell'Omega aveva dovuto fare o se invece la causa era la sua affiliazione. In un caso come nell'altro, Mr D si era preso cura di lui, a un certo punto reggendogli addirittura la testa perché il ragazzo era troppo debole per tenerla su da solo. Screamer's era il posto giusto per loro. Il figlio del Male non sarebbe stato in grado di mangiare o di fare sesso, ma lì erano sicuri di trovare una cosa: umani ubriachi da usare come punching ball. Per quanto stanco e nervoso, il figlio dell'Omega aveva una forza nelle vene, una forza che andava scatenata. Il club e i suoi idioti erano la pistola. Il figlio dell'Omega la pallottola. 525 E una bella rissa avrebbe ravvivato le cose alla grande. «Coraggio, andiamo», disse Mr D scendendo dall'auto. «È una cazzata.» Le parole potevano suonare forti, ma il tono era ancora quello di un ragazzo col silos delle granaglie vuoto. «No.» Mr D fece il giro della macchina, gli aprì la portiera e lo aiutò a scendere. «Deve fidarsi di me.» Attraversarono la strada e, quando il buttafuori in cima alla fila di clienti in attesa scoccò un'occhiataccia a Mr D, lui gli allungò cinquanta sacchi e ottenne il permesso di entrare subito. «Ce ne stiamo qui tranquilli per un po'», disse Mr D facendosi strada tra la calca di gente fino al bar. Un rap duro rimbombava per tutto il locale mentre donne vestite di cuoio si aggiravano in cerca di polli da spennare e gli uomini si guardavano in cagnesco. Mr D capì di aver visto giusto quando il figlio dell'Omega fulminò con lo sguardo un gruppo di studentelli che facevano un gran baccano tracannando roba forte in bicchieri da martini. «Sì, tiriamo solo un po' il fiato», disse soddisfatto Mr D. «Cosa vi porto?» chiese il barista. Mr D sorrise. «Per noi niente...» 526 «Un Patron», disse il figlio dell'Omega. Quando il barista si allontanò, Mr D si chinò verso il ragazzo. «Non può più mangiare. E neanche bere o fare sesso.» Il figlio dell'Omega ruotò su di lui gli occhi sbiaditi. «Cosa? Mi stai prendendo per i fondelli?» «Nossignore, è così che...» «Sì, sì, 'fanculo.» Quando arrivò il bicchiere che aveva ordinato, il figlio dell'Omega disse al barista, «Segna sul mio conto.» Poi buttò giù d'un fiato la tequila guardando torvo Mr D. Mr D scosse la testa cercando di localizzare il gabinetto. Ragazzi, una volta aveva provato a mangiare e poi aveva tirato su per un'ora. Non ne avevano già avuto abbastanza, per quella notte? «Dov'è il secondo?» sbraitò Lash rivolto al barista. Mr D voltò la testa di scatto. Il figlio dell'Omega, ritto in piedi e felice come ima pasqua, tamburellava le dita sul bancone. Arrivò il secondo bicchierino. Poi il terzo. Dopo aver ordinato il quarto, Lash lo fissò con un lampo di aggressività negli occhi pallidi. «Allora, cos'è 'sta storia che non potrei più mangiare né bere?» Mr D non capiva se stava guardando una bomba pronta a esplodere... o un miracolo. I lesser non erano in grado di ingerire cibi o bevande, una volta affiliati. Il 527 sangue nero dell'Omega forniva loro il nutrimento ed era incompatibile con qualsiasi altra cosa. Tutto ciò di cui avevano bisogno per sopravvivere era un paio d'ore di riposo al giorno. «Penso che lei sia diverso», disse Mr D con voce colma di rispetto. «Puoi dirlo forte», bofonchiò il figlio dell'Omega, e poi ordinò un hamburger. Mangiando e bevendo, il ragazzo riprendeva colore a vista d'occhio; anche il suo sguardo stralunato lasciò il posto a una rinnovata sicurezza. Guardando l'hamburger con patatine fritte e tutta quella tequila finire giù nel gargarozzo di Lash, Mr D non potè fare a meno di chiedersi se sarebbe sbiadito come tutti gli altri tesser. Era evidente che nel suo caso non valevano le solite regole. «E cos'è questa stronzata che non potrei fare sesso?» disse il figlio dell'Omega pulendosi la bocca con un tovagliolino di carta nero. «Noi siamo impotenti. Capisce, non possiamo...» «So cosa significa, professore.» Il figlio dell'Omega adocchiò una bionda dall'aria disponibile in fondo al bancone. Mr D non avrebbe avuto il fegato di rimorchiarla neanche se fosse stato in grado di farselo rizzare. Con quel corpo da Playboy e la faccia da reginetta del ballo, l'avrebbe scartata in partenza come fuori dalla sua portata. Non che lei lo avrebbe notato, tanto per cominciare. 528 La bionda notò il figlio dell'Omega, però, e da come lo guardava, Mr D fu spinto a valutare il suo nuovo capo con grande attenzione. Con quei capelli biondi tagliati corti, il volto scolpito e gli occhi grigi, Lash era un gran bel figlio di puttana. E aveva il tipo di fisico che faceva impazzire le donne, alto e muscoloso, il torace un triangolo rovesciato con alla base i fianchi stretti, pronti a ogni sorta di impresa. Se fossero stati ancora a scuola, Mr D sarebbe stato fiero di farsi vedere in compagnia del figlio dell'Omega. E anche di uscire con la gente del suo giro. Ma quella non era la scuola, e Lash aveva bisogno di lui. E lo sapeva, anche. La ragazza in fondo al bancone sorrise al figlio dell'Omega, tirò fuori la ciliegia che galleggiava nel suo drink azzurro e ci girò intorno la lingua rosa. Era facile immaginarsela mentre faceva la stessa cosa con un paio di palle e Mr D dovette distogliere lo sguardo. Eh sì, se fosse stato ancora umano sarebbe diventato rosso come un peperone. Era sempre stato uno che arrossiva un casino quando si trattava di ragazze. Il figlio dell'Omega scivolò giù dallo sgabello. «Niente cibo e niente sesso, eh? Sì, come no. Aspetta qui, coglione.» Così dicendo, gli diede le spalle avviandosi verso la bionda. 529 Rimasto solo al bar con un bicchierino di tequila vuoto e un piatto unto e sporco di ketchup, Mr D pensò che in fondo ci aveva azzeccato. Voleva distrarre il figlio dell'Omega, spingerlo a pensare a qualcosa di diverso dallo scempio dei suoi genitori adottivi... solo che lui aveva in mente una bella scazzottata. Invece quello si era fatto un bel pranzetto e anche una bella bevuta. E adesso avrebbe coronato il tutto con una gran scopata, cancellando dalla memoria quella brutta esperienza. Quando il barista gli chiese se voleva qualcosa, Mr D scosse la testa. Che gran peccato non potersi più concedere un cicchetto. A lui piaceva il SoCo, il Southern Comfort. Si sarebbe fatto volentieri anche un bell'hamburger. Un tempo andava matto per gli hamburger, cavolo. «Hai niente per me, Sam?» Mr D si voltò. Un pezzo di marcantonio con un sorriso beota e un ego smisurato si era stravaccato sul bancone e guardava il barista. Sotto il giubbotto di pelle nera, con una favolosa aquila ricamata sulla schiena, portava dei jeans di tre taglie più grandi e un paio di robusti scarponi, tipo quelli usati dai carpentieri. Al collo aveva delle catenine di diamanti e al polso un vistoso orologio. Mr D non era un patito di gioielli, ma gli piaceva un casino l'anello del tipo, uno di quelli che i genitori regalano ai figli quando si diplomano. Era d'oro giallo, diversamente da tutto il resto, con al centro una pietra azzurro pallido. 530 A Mr D sarebbe piaciuto prendersi un diploma. «Sì, qualcosa c'è», rispose il barista avvicinandosi, e annuì in direzione del gruppo di ragazzi che poco prima avevano fatto incazzare il figlio dell'Omega. «Ho detto a quelli chi cercare.» «Bene.» Il marcantonio tirò fuori di tasca qualcosa e i due si strinsero la mano. Grana, pensò Mr D. Il marcantonio fece un sorrisone raddrizzandosi il giubbotto di pelle, con l'anello che mandava bagliori di un azzurro vivo. Si avvicinò ai ragazzi di lato, poi si voltò come se volesse mostrare loro il dorso del giubbotto. Ci fu un po' di trambusto e poi mani che si infilavano in tasca, strette di mano e poi di nuovo mani in tasca. La cosa non passò inosservata. Gli altri clienti osservavano la scena ed era evidente che quelli non si stavano scambiando dei biglietti da visita. Quel tipo non sarebbe stato in affari ancora per molto, pensò Mr D. «Sicuro che non vuole niente?» gli chiese il barista. Mr D lanciò un'occhiata in direzione del bagno, dove Lash aveva portato la bionda. «Naa, grazie, sto solo aspettando il mio amico.» 531 «Scommetto che gli ci vorrà un bel po'», ghignò il barista. «Quella è una che ci sa fare, mi sa.» Su in camera Cormia raccolse tutta la sua roba... che non era molta. Con gli occhi fissi sul mucchietto di tuniche, libri di preghiere e turiboli realizzò con un'imprecazione che aveva dimenticato la sua rosa nell'ufficio. Ma tanto non avrebbe potuto portarla con sé al Santuario. Le uniche cose terrestri consentite erano quelle di importanza storica. In senso lato, naturalmente. Lanciò un'occhiata alla sua ultima - non solo nel senso di più recente, ma in assoluto - costruzione di stuzzicadenti e piselli. Che ipocrita era stata a criticare il Primale per aver cercato forza nella separazione: lei cosa stava facendo? Stava lasciando quel mondo che la metteva continuamente alla prova con l'intenzione di cercare un isolamento ancora più profondo di quello che aveva conosciuto in passato come Eletta. Le vennero le lacrime agli occhi... Qualcuno bussò piano alla porta. «Un momento!» gridò, cercando di calmarsi. Quando finalmente andò ad aprire, sgranò gli occhi stringendosi la veste intorno al collo per nascondere il segno del morso. «Sorella?» 532 Sulla soglia c'era l'Eletta Layla, incantevole come sempre. «Salve.» «Salve.» Si scambiarono due inchini lunghi e profondi, la cosa più vicina a un abbraccio consentita alle Elette. «Dove sei diretta?» chiese Cormia quando si raddrizzarono. «Devi servire col tuo sangue i Fratelli Rhage e Vishous?» Buffo, la formalità di quelle parole adesso le pareva strana. Si era abituata a parlare in modo molto più informale, un modo che la faceva sentire più a suo agio. «Devo vedere il Fratello Rhage, in verità.» Ci fu una pausa. «E desideravo al contempo sapere come stai. Posso entrare?» «Ma certo. Accomodati pure nelle mie stanze.» Layla entrò, imbarazzato. portandosi appresso un silenzio Ah, allora la notizia era già giunta al Santuario, pensò Cormia. Tutte le Elette sapevano che lei era stata scartata come Prima Sposa. «Cos'è quello?» chiese Layla, indicando il graticcio nell'angolo. «Oh, è solo un passatempo.» 533 «Un passatempo?» «Quando ho un po' di tempo disponibile, io...» Be', quella era un'ammissione di colpevolezza, giusto? Avrebbe dovuto pregare, se non aveva nient'altro da fare. «Ad ogni modo...» Layla non manifestò alcuna forma di condanna nell'espressione del viso o nelle parole, di fronte a quella rivelazione. E tuttavia la sua sola presenza bastava a far sentire in colpa Cormia. «Dunque, sorella», disse Cormia con improvvisa impazienza, «immagino sia risaputo che un'altra verrà elevata al ruolo di Prima Sposa, è così?» Layla si avvicinò alla Costruzione di piselli e stuzzicadenti e, con delicatezza, fece scorrere un dito lungo una delle sue sezioni. «Rammenti quando mi hai trovata nascosta vicino allo Stagno dei Riflessi? È stato dopo che avevo assistito John Matthew nella sua transizione.» Cormia annuì; ricordava dell'Eletta. «Eri molto turbata.» il pianto sommesso «E tu sei stata molto gentile con me. Io ti ho mandata via, ma ti ero molto grata, ed è in questo spirito che sono... che sono venuta qui per ricambiare la gentilezza che mi hai dimostrato in quella circostanza. I fardelli che portiamo in quanto Elette sono gravosi e non sempre compresi da chi non vive tra noi. Volevo farti sapere che, essendomi a mia volta sentita come tu ti senti ora, in questo momento sono tua sorella nel cuore.» 534 Cormia si commossa.» inchinò profondamente. «Sono... Era anche molte altre cose. Esterrefatta, tanto per cominciare, che ne stessero anche solo parlando. La franchezza era una cosa insolita. Layla tornò a guardare la costruzione. «Tu non desideri tornare all'ovile, vero?» Dopo aver valutato le alternative a sua disposizione, Cormia decise di confidare a Layla una verità che faticava ad ammettere anche con se stessa. «Mi hai letto nel pensiero.» «Altre, tra noi, hanno scelto un'altra via e sono venute a vivere da quest'altra parte. Non c'è motivo di provare vergogna.» «Non ne sarei così sicura», ribatté asciutta Cormia. «La vergogna è come le vesti che indossiamo. Sempre con noi, come una seconda pelle.» «Ma se ti togli la veste, ti liberi dei fardelli; sta a te scegliere.» «Mi stai mandando un messaggio, Layla?» «No. In verità, se tornerai all'ovile verrai accolta a braccia aperte dalle tue sorelle. La Direttrice ha messo in chiaro che non c'è nulla di disdicevole nel sostituire una Prima Sposa con un'altra. Il Primale ha un'altissima considerazione di te. Così ha detto lei.» 535 Cormia si mise a camminare su e giù per la stanza. «Questa è la posizione ufficiale, naturalmente. Ma, in tutta onestà... sai cosa pensano le altre in cuor loro. Ci sono solo due spiegazioni possibili: o il Primale mi ha trovata inadeguata oppure sono stata io a respingerlo. Entrambe sono inaccettabili e ugualmente scandalose.» Il silenzio che seguì le confermò la correttezza della conclusione cui era giunta. Si fermò davanti alla finestra e guardò fuori, in direzione della piscina. Non era certa di avere la forza di lasciare le sue sorelle. E, oltre tutto, dove poteva andare? Ripensando al Santuario, si disse che vi aveva passato dei momenti piacevoli, momenti in cui aveva provato una grande risolutezza e si era sentita gratificata dall'essere parte di un bene superiore. Se poi fosse diventata una scriba segregata, com'era nelle sue intenzioni, avrebbe potuto evitare i contatti con le altre per interi cicli. L'isolamento le parve una cosa meravigliosa. «È vero che non vuoi bene al Primale?» chiese Layla. No. «Sì.» Cormia scosse la testa. «Voglio dire, gli voglio bene come è giusto che sia. Come gliene vuoi tu. Sarò felice per chiunque diventerà Prima Sposa al posto mio.» A quanto pareva, Layla, contrariamente a Bella, non disponeva di un "bugiardometro" perché la bugia fluttuò 536 nell'aria senza che l'Eletta la mettesse in discussione; si limitò a prenderne atto con un inchino. «Posso rivolgerti un'altra domanda, allora?» disse Layla, raddrizzandosi. «Ma certo, sorella.» «Ti ha trattata bene?» «Il Primale? Sì. È stato molto premuroso.» Layla si avvicinò al letto e prese uno dei libri di preghiere. «Ho letto nella sua biografia che è un valoroso guerriero e che ha salvato il suo gemello da un destino orribile.» «È un valoroso guerriero.» Cormia abbassò lo sguardo sul roseto. Ormai tutte le Elette dovevano aver letto i volumi relativi al Primate, nella speciale sezione della biblioteca dedicata alla Confraternita... rimpianse di non avere fatto altrettanto prima che lui la portasse lì. «Lui ne parla mai?» la incalzò Layla. «Di cosa?» «Di come ha salvato il suo gemello, il Fratello Zsadist, da una illecita schiavitù di sangue. È così che il Primale ha perso la gamba.» Cormia voltò la testa di scatto. «Veramente? È così che è successo?» 537 «Non te ne ha mai parlato?» «No, mai. È una persona molto riservata. Almeno con me.» Quell'informazione fu uno shock. Cormia ripensò a ciò che gli aveva detto, che gli piaceva fantasticare su Bella. Non era quello che faceva anche lei con il Primale? Sapeva così poco della sua storia, così poco di ciò che lo aveva plasmato facendolo diventare com'era. Ah, ma conosceva la sua anima, no? E lo amava per questo. Bussarono alla porta. Quando Cormia disse di entrare, Fritz infilò dentro la testa. «Chiedo scusa, ma il padrone è pronto a ricevervi», disse rivolto a Layla. Layla si portò le mani ai capelli, poi si lisciò la veste. Mentre Fritz si allontanava, Cormia pensò che l'Eletta si preoccupava un po' troppo del suo.,. Oh... no... «Stai... andando da lui? Dal Primale?» «Devo vederlo adesso, sì», confermò Layla con un inchino. «Non Rhage.» 538 «Da lui andrò dopo.» Cormia si irrigidì, agghiacciata. Ma certo. Cosa si aspettava? «Farai meglio ad andare, allora.» Layla socchiuse gli occhi, poi li spalancò di colpo. «Sorella?» «Coraggio, vai. Meglio non fare aspettare il Primale.» Cormia si voltò verso la finestra, improvvisamente colta dall'impulso di urlare. «Cormia...» sussurrò sua sorella. «Cormia, tu gli vuoi bene. In verità, gli vuoi molto bene.» «Non ho mai detto questo.» «Non ce n'è bisogno. Il tuo viso e il tono della tua voce sono eloquenti. Sorella cara, perché mai... perché vuoi farti da parte?» Cormia si immaginò il Primale con la testa tra le cosce di sua sorella Layla, pensò alla sua bocca che la faceva inarcare di piacere, e le venne il voltastomaco. «Ti faccio i miei migliori auguri per il tuo colloquio. Spero che lui scelga bene e che scelga te.» «Perché vuoi farti da parte?» «Io sono stata messa da parte», precisò piccata lei. «Non è stata una mia decisione. Ora, ti prego, non fare aspettare il Primale. Dopo tutto, Dio non voglia, non possiamo permetterlo.» 539 «Dio?» ripeté Layla, impallidendo. Cormia agitò la mano avanti e indietro. «È solo un modo di dire che usano qui, non una professione di fede. Ora, per favore, vai.» Layla si concesse qualche istante per riprendersi, dopo quella gaffe spirituale; sembrava averne un gran bisogno. Poi con voce soave disse, «Stai pur certa che non sceglierà me. E sappi che se mai ti occorresse...» «Non succederà.» Cormia si voltò e guardò fuori dalla finestra, immobile come una statua. Quando finalmente la porta si chiuse con imo scatto, proruppe in un'imprecazione. Poi attraversò la stanza decisa e prese a calci quella maledetta costruzione, sempre lì tra i piedi. La fece a pezzi calpestandola, frantumandola in modo sistematico, finché l'ordine preesistente fu ridotto a un cumulo di macerie sul tappeto. Quando non restò nient' altro da distruggere, le sue lacrime battezzarono quello sfacelo, insieme al sangue sotto i suoi piedi nudi. 540 Capitolo 34 In centro, da Screamer s, Lash stava facendo buon uso di uno dei bagni. E non per una bella pisciata. Affondato fino alle palle in quella bionda del bar, la stava prendendo da dietro, pompando come un forsennato mentre lei si teneva aggrappata al lavandino, con la minigonna di pelle nera sollevata sopra il sedere, il perizoma nero spostato di lato e il maglione nero con lo scollo a V spalancato sui seni. Aveva una graziosa farfallina rosa tatuata su un fianco e un ciondolo a forma di cuore appeso a una catenina attorno al collo, e tutti e due venivano furiosamente sballottati al ritmo delle sue spinte. Era divertente, specie perché, a dispetto dell'abbigliamento da gran troia, Lash aveva la sensazione che non fosse abituata a quel tipo di sesso: non si era rifatta niente dal chirurgo estetico, il rossetto non era a prova di sbavature e aveva provato a fargli mettere il preservativo. Appena prima di venire, Lash si ritrasse, la fece voltare e la spinse giù in ginocchio. Le eiaculò in bocca con un ruggito, pensando che quello stronzetto di Mr D aveva ragione: era proprio quello che gli ci voleva. Un 541 senso di dominio, un ritorno a ciò che per lui era la normalità. E il sesso andava ancora alla grande. Appena finito si tirò su la cerniera, infischiandosene se lei sputava o mandava giù. «E io?» fece lei, pulendosi la bocca. «Tu cosa?» «Come, scusa?» Lash inarcò un sopracciglio controllandosi i capelli allo specchio. Hmm... forse doveva farseli crescere di nuovo. Dopo la transizione aveva adottato un taglio militare, ma la coda di cavallo che aveva prima gli mancava. Aveva dei bei capelli. Cavolo, il collare di King gli stava da dio,., «Ehi, pronto?» lo incalzò la ragazza. Seccato, Lash le lanciò un'occhiata dallo specchio. «Non crederai sul serio che me ne sbatta qualcosa se vieni oppure no.» Per un attimo lei parve confusa, come se il film che aveva noleggiato da Blockbuster fosse diverso dal DVD dentro la custodia. «Come hai detto?» «Cos'è che non ti è chiaro?» 542 Lei batté le palpebre, interdetta per lo shock. «Io non... capisco.» Già, evidentemente invece di Pretty Woman sul suo schermo era comparso Debbie si fa Dallas, Lash si guardò intorno, nel bagno. «Ti sei lasciata portare qua dentro, tirare su la gonna e scopare, E adesso ti sorprende che non me ne freghi un cazzo di te? Cosa credevi che succedesse, esattamente?» Dalla faccia della bionda svanì anche l'ultima traccia dell'espressione eccitata della serie "sono una brava ragazza che. sta facendo una brutta cosa", «Non c'è nessun bisogno di essere villani.» «Com'è che le puttanelle come te sono sempre sorprese?» «Puttanelle?» Una rabbia ipocrita le distorse i lineamenti, tramutandola da tipa carina in brutta strega e tuttavia, in qualche modo, rendendola più intrigante. «Tu non mi conosci.» «Oh, sì, invece. Sei una zoccola che permette a uno che non ha mai visto prima di venirle in bocca dentro un cesso. Ma fammi il piacere. Ho più rispetto per le battone. Almeno loro intascano qualcos'altro, oltre alla sborra.» «Bastardo schifoso!» «Mi stai annoiando.» Lash allungò la mano verso la maniglia, 543 Lei lo afferrò per un braccio. «Stai molto attento, stronzo. Posso rovinarti la vita in men che non si dica. Sai chi è mio padre?» «Uno che non è stato capace di tirarti su come si deve?» Lei gli mollò uno sganassone con la mano libera. «Vaffanculo.» Okay, la violenza la rendeva decisamente più interessante. Con le zanne che si allungavano, era già pronto a trapassarle il collo con un morso neanche fosse una stringa di liquirizia appena tolta dal sacchetto. Solo che qualcuno bussò energicamente alla porta ricordandogli che si trovava nel gabinetto di un locale pubblico, che lei era una umana e che le pulizie erano sempre un casino. «Te ne pentirai», sibilò rabbiosa la bionda. «Ah, sì?» Lash le andò sotto a muso duro e rimase sorpreso nel vedere che non arretrava di un millimetro. «Non puoi farmi un bel niente, ragazzina.» «Staremo a vedere.» «Ma se non sai neanche come mi chiamo.» Il sorriso gelido che gli rivolse la faceva sembrare più adulta. «Io so un sacco di...» Da fuori ricominciarono a bussare. 544 Prima che la bionda gli mollasse un altro ceffone che lo avrebbe costretto a reagire, Lash uscì dal gabinetto liquidandola con un frettoloso, «Vedi di tirarti giù la gonna.» Il tizio che si era incaponito a bussare gli diede un'occhiata e si fece subito da parte. «Scusa, amico.» «Nessun problema», disse Lash, alzando gli occhi al cielo. «Probabilmente hai salvato la vita a quella troia.» L'umano rise. «Stupide puttane. O le ammazzi o te le tieni, non c'è rimedio.» Il gabinetto lì accanto si aprì e il tizio si voltò, mostrando una splendida aquila in rilievo sul dorso del giubbotto di pelle. «Bell'uccellino hai qui dietro», commentò Lash. «Grazie.» Lash tornò al bar e rivolse un cenno del capo a Mr D. «È ora di andare. Ho fatto.» Insieme uscirono dal locale affollato e rumoroso. Appena mise piede sul marciapiede di Trade Street, Lash fece un sospiro di sollievo. Vivo. Si sentiva pienamente vivo. «Dammi il tuo telefono», disse incamminandosi verso la Focus. «E il numero di quattro killer che si rispettino.» Mr D gli allungò il Nokia snocciolando alcuni numeri di telefono. Lash chiamò il primo, e al lesser che rispose diede l'indirizzo di ima zona bene della città; percepiva 545 distintamente il sospetto di quel bastardo, specie quando quello chiese chi cazzo lo stava chiamando dal cellulare di Mr D. Non sapevano chi era. I suoi uomini non sapevano chi era. Lash restituì il telefono al Fore-lesser sbraitandogli di dare conferma. Cristo, quei dubbi non avrebbero dovuto sorprenderlo, ma adesso le cose sarebbero cambiate, altro che. Per guadagnare credito avrebbe dato alle sue truppe alcuni bersagli da colpire quella notte stessa, poi, l'indomani mattina, avrebbe convocato la Lessening Society dando a tutti quanti una bella girata. O lo seguivano o li avrebbe spediti al Creatore. Punto. Dopo altre tre volte in cui si ripeté la stessa solfa, col cellulare che andava avanti e indietro tra lui e Mr D, Lash disse, «Adesso portami al 2115 di Boone Lane.» «Vuole che chiami rinforzi?» «Per la prossima casa, sì. Ma questa qui è una faccenda personale.» Qhuinn, il suo caro cuginetto, stava per fare una brutta fine. Dopo cinque mesi da Primale, Phury era abituato a provare un senso di fastidio, come quando si indossa un abito che veste male. Tutta quella maledetta storia era stata un abito sbagliato dopo l'altro, un intero guardaroba di Non-voglio-farlo. 546 Eppure quel colloquio con Layla per la posizione di Prima Sposa gli sembrava particolarmente sbagliato. Perversamente sbagliato. Mentre la aspettava in biblioteca, pregava Dio che l'Eletta non si spogliasse come avevano fatto le altre. «Vostra grazia?» Phury si voltò a guardare da sopra la spalla. L'Eletta era ferma sulla soglia, la veste candida lunga fino ai piedi, il corpo snello atteggiato con grazia regale. Layla fece un profondo inchino. «Mi auguro che stasera stiate bene.» «Grazie. Ricambio l'augurio.» Raddrizzandosi, Layla lo guardò dritto in faccia. Aveva gli occhi verdi. Come quelli di Cormia. Merda. Doveva farsi una canna. «Ti spiace se fumo?» «Certo che no. Ecco, lasciate che vi aiuti.» Prima che Phury potesse dirle di non disturbarsi, Layla prese un accendisigari di cristallo e si avvicinò. Infilandosi lo spinello tra le labbra, Phury la fermò prima che facesse scattare il coperchio. «Lascia. Faccio da solo», disse levandole di mano il pesante accendisigari. «Come preferite, vostra grazia.» 547 Dopo il raschiare della pietrina, si levò una fiamma gialla; Layla fece un passo indietro e si guardò intorno. «Questa stanza mi ricorda casa», mormorò. «Com'è possibile?» «Tutti questi libri.» Si avvicinò alla libreria e toccò il dorso in cuoio di alcuni volumi. «Io adoro i libri. Se non mi avessero formata come ehros avrei voluto diventare una scriba segregata.» Sembrava così rilassata, pensò Phury, e per qualche motivo la cosa lo innervosì. Il che era pazzesco. Con le altre si era sentito come un'aragosta nell'atrio di un ristorante di pesce, con lei invece no, erano solo due persone che chiacchieravano. «Posso chiederti una cosa?» disse soffiando fuori il fumo. «Certo.» «Sei venuta liberamente?» «Sì.» La risposta era così pacata da apparire meccanica. «Sei sicura?» «Da lungo tempo desidero servire il Primale. Sono sempre stata ferma in tale aspirazione.» Sembrava assolutamente sincera... ma qualcosa non quadrava. 548 Poi Phury capì. «Sei convinta che non ti sceglierò, vero?» «Sì.» «E come mai?» Adesso Layla lasciò trasparire l'emozione; chinò il capo, alzò le mani e intrecciò le dita. «Sono stata portata qui per assistere John Matthew durante la transizione. L'ho fatto, ma il padrone... mi ha respinta.» «In che senso?» «Dopo che aveva superato il cambiamento l'ho lavato, ma lui mi ha respinta. Sono stata addestrata per servire sessualmente ed ero pronta a farlo, ma lui mi ha respinta.» Oh, perbacco. Okay. Non esageriamo con le confidenze. «E pensi che questo mi induca a non sceglierti?» «La Direttrice ha insistito perché mi presentassi qui da voi, ma è stata una forma di rispetto nei vostri confronti, per consentirvi di scegliere tra tutte le Elette. Né lei né io ci aspettiamo che mi eleviate al rango di Prima Sposa.» «John Matthew ti ha detto perché non ha...?» Perché quasi tutti i vampiri erano arrapati da matti, subito dopo la transizione. «Me ne sono andata quando mi ha chiesto di farlo. Questo è tutto.» Layla alzò gli occhi di scatto su quelli di Phury. «In verità, Padron Matthew è un maschio di valore. Non è nella sua natura descrivere nei dettagli i difetti altrui.» 549 «Sono certo che non è stato per...» «Vi prego. Possiamo chiudere qui l'argomento, vostra grazia?» Phury soffiò uno sbuffo di fumo all'aroma di caffè. «Fritz ha detto che eri su in camera di Cormia. Che cosa ci facevi lì?» Ci fu una lunga pausa. «È una questione tra sorelle. Naturalmente ve lo direi... se mi ordinaste di farlo.» Lui non potè fare a meno di approvare il pacato riserbo della sua voce. «No, non fa niente.» Fu tentato di chiederle se Cormia stava bene, ma conosceva già la risposta. Non stava bene. Proprio come lui. «Volete che vada?» chiese Layla. «So che la Direttrice ha altre due sorelle pronte per voi. Sono ansiose di venire a salutarvi.» Proprio come le altre due che erano passate a trovarlo la notte prima. Eccitate. Pronte a compiacerlo. Onorate di incontrarlo. Phury si portò di nuovo lo spinello alle labbra e aspirò a lungo e lentamente. «Non sembri molto contenta.» «Del fatto che le mie sorelle vengano a trovarvi? Ma certo...» «No, di questo nostro incontro.» 550 «Al contrario, sono ansiosa di stare con un maschio. Sono stata addestrata all'accoppiamento e voglio essere qualcosa di più che una semplice fonte di sangue. Rhage e Vishous non richiedono tutti i miei servigi, ed è un peso sentirsi inutilizzata ..,» I suoi occhi andarono ai libri. «In verità, mi sento come un libro abbandonato su uno scaffale. Mi sono state date le parole per la storia della mia vita, ma nessuno le legge, per così dire.» Dio, pensò Phury, sapeva esattamente che sensazione era. Anche lui si sentiva così. Aspettava da un'eternità che le cose si sistemassero, che il dramma avesse fine, aspettava da un'eternità di poter finalmente fare un bel respiro e cominciare a vivere. Che paradosso. Da quel che aveva detto, Layla si sentiva così perché nella sua vita non succedeva niente. Lui invece si sentiva "non letto" perché per troppo tempo erano successe troppe cose. In un caso come nell'altro, il risultato finale era identico. Nessuno dei due faceva molto più che arrivare alla fine della giornata. Be', piangi pure quanto ti pare, socio, lo schernì il mago. Phury si avvicinò a un portacenere e spense lo spinello. «Dì alla Direttrice di non mandarmi nessun'altra, non ce n'è bisogno.» Layla lo guardò dritto negli occhi. «Domando scusa?» «Scelgo te.» 551 Qhuinn risalì il viale d'accesso e parcheggiò la Mercedes nera davanti a casa di Blay. Avevano aspettato per ore allo ZeroSum, con John che continuava a inviare SMS all'amico. Non ottenendo risposta, John aveva deciso di levare le tende ed eccoli lì. «Vuoi che ti apra la portiera?» chiese asciutto Qhuinn spegnendo il motore. John lo guardò. Se dico di sì, poi lo fai? «No.» Allora esigo senz'altro che tu mi apra la portiera. «Accidenti a te», disse Qhuinn scendendo dall'auto, «Mi sciupi tutto il divertimento.» John chiuse la portiera scuotendo la testa. Sono solo contento che tu sia così manipolat-abile. «Quella parola non esiste.» Da quando in qua te la fai con Daniel Webster? Ehi, pronto? "Supermegagigantesco" non ti dice niente? Qhuinn lanciò un'occhiata alla casa. Gli sembrava quasi di sentire la voce di Blay che interveniva per correggere l'amico, In realtà sarebbe Merriam-Webster. «Lasciamo perdere.» Insieme girarono dietro alla casa, diretti alla porta da cui si accedeva alla cucina. La grande villa di mattoni in stile coloniale aveva una facciata anteriore molto austera, 552 ma il retro, con i finestroni della cucina alti fino al soffitto e una veranda illuminata da una simpatica lanterna in ferro battuto, appariva accogliente. Per la prima volta in vita sua, Qhuinn bussò e attese che qualcuno andasse ad aprire. Dev'essere stata una litigata della madonna, eh, disse a gesti John. Tra te e Blay. «Oh, non saprei. Sid Vicious si comportava peggio di me, per esempio.» Fu la mamma di Blay ad aprire la porta. Come sempre, era il ritratto della Marion Cunningham di Happy Days, dai capelli rossi alla gonna; un concentrato di tutto ciò che il gentil sesso ha di bello, tondo e caldo. Guardandola, Qhuinn realizzò in quel momento che lei, e non quel ghiacciolo rinsecchito di sua madre, era il suo modello femminile. Già... broccolare ragazze e ragazzi nei bar andava benissimo, ma avrebbe sposato una come la madre di Blay. Una in gamba. E le sarebbe rimasto fedele fino alla fine dei suoi giorni. Sempre ammesso che riuscisse a trovare una disposta a prenderselo. La mamma di Blay si fece da parte per lasciarli entrare. «Non c'è bisogno di bussare, lo sapete...» d'un tratto notò la catena di platino al collo di Qhuinn, poi il tatuaggio sulla sua guancia. 553 Guardando John, mormorò, «Allora è così che il re ha sistemato le cose.» Sì, signora, confermò John a gesti. Lei si voltò verso Qhuinn, gli gettò le braccia al collo e lo strinse così forte da spostargli la spina dorsale. Proprio quello che gli ci voleva; per la prima volta da giorni, stretto in quell'abbraccio, Qhuinn fece un bel respiro. «Potevi stare qui da noi. Non c'era bisogno che te ne andassi», disse lei in un sussurro. «Non potevo farvi questo.» «Siamo più forti di quanto pensi», ribatté lei sciogliendo l'abbraccio e annuendo in direzione della scala di servizio. «Blay è di sopra.» Qhuinn si accigliò nel vedere un mucchio di bagagli vicino al tavolo della cucina. «Andate da qualche parte?» «Dobbiamo lasciare la città. Quasi tutti gli altri membri della glymera hanno deciso di restare, ma con... quello che è successo, qui è troppo pericoloso.» «Saggia decisione», commentò Qhuinn, chiudendo la porta della cucina. «Andate su al nord?» «Il padre di Blay vorrebbe prendersi un po' di vacanza, così tutti e tre faremo il giro dei parenti giù al sud...» In fondo alle scale comparve Blay, che incrociando le braccia sul petto, annuì rivolto a John, «Che succede?» 554 John lo salutò; Qhuinn non riusciva a credere che l'amico non gli avesse accennato alla decisione di lasciare la città. Merda. Voleva fare fagotto senza dire dove andava o quando pensava di tornare? Be', da che pulpito. Non era il proverbiale bue che dice cornuto all'asino? La mamma di Blay gli strinse con forza il braccio bisbigliando, «Sono contenta che tu sia passato prima della nostra partenza.» Poi , a voce più alta, aggiunse, «Okay, ho svuotato il frigo e l'ho pulito per bene e nella dispensa non c'è niente che possa andare a male. Credo che adesso andrò a prendere i gioielli in cassaforte.» Gesù, chiese a gesti John mentre lei si allontanava. Per quanto starete via? «Non lo so», rispose Blay. «Un po'.» Nella lunga pausa che seguì, John spostò più volte lo sguardo dall'uno all'altro dei suoi due amici. Alla fine sbuffando disse, Okay, basta con questa stupidaggine. Cosa cazzo è successo tra voi due? «Niente.» «Niente.» Blay accennò con la testa alle sue spalle, «Sentite, io devo tornare su a finire i bagagli...» «Sì, anche noi dobbiamo andare», lo interruppe brusco Qhuinn. 555 Eh, no, che cavolo, protestò John avviandosi deciso verso le scale. Adesso andiamo in camera tua e chiariamo questa faccenda. Subito. Quando John mise piede sul primo gradino Qhuinn fu costretto a seguirlo per via del suo nuovo lavoro e anche Blay fece altrettanto, probabilmente perché il suo galateo interiore non ammetteva che potesse mancare ai suoi doveri di perfetto padrone di casa. Una volta di sopra, John chiuse la porta della stanza di Blay e si mise le mani sui fianchi spostando lo sguardo avanti e indietro, come un genitore ritto in mezzo a due figli recalcitranti e con un gran macello sul pavimento. Blay andò all'armadio e, quando lo aprì, il grande specchio all'interno di una delle ante rifletté l'immagine di Qhuinn. I loro occhi si incontrarono per un attimo. «Bello, quel nuovo gioiellino», mormorò Blay, guardando la catena che indicava la nuova posizione di Qhuinn. «Non è un gioiello.» «No. E sono contento per voi due, davvero.» Tirò fuori un parka... il che significava che o la famiglia andava "giù al sud" nel senso dell'Antartico, oppure che lui intendeva stare via per parecchio tempo. Tipo, per tutto l'inverno. John batté il piede con forza. Il tempo sta per scadere. Pronto? Deficienti? 556 «Mi dispiace», mormorò Qhuinn rivolto a Blay. «Per quello che ho detto nel tunnel.» «John lo sa? Gli hai raccontato tutto?» «No.» Blay lasciò cadere il giaccone nella sacca di Prada e guardò John. «È convinto che io lo ami. Nel senso che... sarei innamorato di lui.» John spalancò lentamente la bocca. Blay scoppiò in una risata che subito si interruppe bruscamente, come se avesse un nodo in gola. «Già. Pensa un po'. Io innamorato di Qhuinn... uno che, quando non ha la luna storta, è una troia e un cagacazzo. Ma vuoi sapere qual è la cosa più assurda?» John annuì e Qhuinn si tese tutto. «Ha ragione lui», disse Blay abbassando lo sguardo sul borsone. Beh, John fece una faccia come se gli avessero appena conficcato un punteruolo nel piede. «Già», fece Blay. «Ecco perché le femmine non mi sono mai piaciute più di tanto. Nessuna di loro era alla sua altezza. E nemmeno i ragazzi, peraltro. Quindi sono bell'e fottuto, ma questo è un problema mio, non suo o tuo.» Cristo, pensò Qhuinn. Era proprio la settimana delle grandi rivelazioni. 557 «Mi dispiace, Blay». disse, perché non sapeva cos'altro fare. «Sì, ci scommetto. È imbarazzante un casino, eh?» Blay prese il parka e si mise in spalla la sacca di Prada. «Ma va tutto bene. Me ne vado fuori città per un po', tanto voi due state alla grande. Siete proprio forti. Ora devo andare. Vi mando un SMS tra un paio di giorni.» Qhuinn era pronto a scommettere che si stava riferendo solo a John. Merda. «Ci si vede», disse Blay voltandosi. Vedendo il suo migliore amico che gli dava le spalle diretto alla porta, Qhuinn aprì le sue inutili labbra pregando di dire la cosa giusta. Quando questo non accadde, pregò che ne uscisse comunque qualcosa. Qualsiasi cosa... Lo strillo che salì dal pianterreno era acuto. La madre di Blay. Tutti e tre schizzarono fuori dalla stanza come se vi fosse scoppiata una bomba. Si precipitarono in fondo al corridoio e volarono giù dalle scale. In cucina scoprirono che l'incubo della guerra era piombato dentro casa. Lesser. Due. In casa di Blay. Cazzo. 558 E uno dei due teneva la madre di Blay contro il petto, stringendola al collo da dietro. Blay lanciò un urlo belluino, ma Qhuinn lo fermò prima che si scagliasse in avanti. «Lei ha un coltello alla gola» sibilò. «La sgozzerà seduta stante.» Il lesser sorrise trascinando la madre di Blay per tutta la cucina e poi fuori casa, verso un minivan parcheggiato vicino al garage. Mentre John Matthew si smaterializzava sparendo alla vista, un altro lesser sopraggiunse dalla sala da pranzo. Qhuinn lasciò andare Blay e tutti e due si lanciarono all'attacco, avventandosi prima contro quello e poi contro un altro non morto entrato dalla porta di servizio. Si scatenò un corpo a corpo che mise a soqquadro la cucina. Qhuinn sperava ardentemente che John avesse ripreso forma dentro il furgoncino del primo lesser, preparandosi a dargli il benvenuto che si meritava. Ti prego, fa'che la mamma di Blay non resti vittima del fuoco incrociato. Quando l'ennesimo non morto entrò dalla porta, Qhuinn diede una testata al lesser con cui si stava scazzottando e impugnò una delle sue due magnifiche calibro quarantacinque nuove di zecca, ficcando con forza la canna sotto il mento di quel bastardo. I proiettili gli spappolarono la testa, scoperchiando di netto la calotta cranica... il che diede a Qhuinn tutto il 559 tempo di pugnalarlo al cuore col coltello che aveva al fianco. Pop! Pop! Fizz-fizz! Oh, che sollievo. Quel figlio di puttana sparì in un lampo luminoso; ma invece di godersi la morte del suo primo lesser, Qhuinn si voltò di scatto per controllare come se la cavava Blay e rimase scioccato. Il padre di Blay era sopraggiunto di corsa e adesso tutti e due stavano smammando a tutta velocità. Cosa piuttosto sorprendente, dal momento che il padre di Blay era un contabile. Era il momento di correre a dar man forte a John. Qhuinn si precipitò fuori dalla porta sul retro, ma appena mise piede sull'erba del giardino, un lampo proveniente dal minivan gli fece intuire che ormai il suo aiuto era superfluo. John balzò fuori dalla Town & Country sbattendo la portiera, poi batté il pugno sulla fiancata e il minivan fece retromarcia a tutta birra. Qhuinn scorse di sfuggita la mamma di Blay, le nocche bianche strette intorno al volante, che percorreva a marcia indietro il vialetto d'accesso. «Stai bene, J?» chiese Qhuinn, sperando vivamente che John Matthew non si facesse ammazzare nella sua prima notte da ahstrux nohstrum. John alzò le mani per dire qualcosa, ma proprio allora si udì uno schianto di vetri rotti. 560 I due amici si voltarono di scatto verso la casa. Come nella scena di un film, due corpi volarono fuori dalla vetrata panoramica del soggiorno. Uno dei due era Blay, e atterrò sopra il lesser che aveva gettato fuori casa come un materasso macchiato. Prima che il non morto potesse riprendersi dall'impatto, Blay lo agguantò per la testa e gli spezzò il collo come fosse un pollo. «Mio padre è ancora dentro che sta lottando!» gridò mentre Qhuinn gli lanciava il coltello. «Giù in cantina!» Mentre John e Qhuinn si fiondavano dentro di corsa, ci fu un terzo lampo accecante, poi Blay li raggiunse alle scale del seminterrato. Insieme scesero a precipizio seguendo i rumori di quella nuova colluttazione. Giunti in fondo alle scale, si fermarono di colpo. Il padre di Blay stava affrontando un tesser con una spada della Guerra civile in una mano e un pugnale nell'altra. Dietro gli occhiali alla Joe Friday, i suoi occhi ardevano come due torce, poi si spostarono per una frazione di secondo. «Voi tre statene fuori. Questo qui è mio.» Poi tutto accadde in un attimo, prima di poter dire Papà Ninfa. Il padre di Blay si avventò contro il tesser col coltello in pugno, squartandolo come un tacchino e rispendendolo all'Omega con una bella pugnalata. Quando la furia da sterminio si placò, il vampiro alzò gli occhi, agitatissimo. «Tua madre...» 561 «È scappata col loro furgone», rispose Qhuinn. «L'ha liberata John.» A quella notizia, Blay e suo padre si rilassarono. Soltanto allora Qhuinn notò che Blay sanguinava da un taglio alla spalla, uno all'addome, un altro alla schiena e... Suo padre si asciugò la fronte con il braccio. «Dobbiamo metterci in contatto con lei...» John alzò il cellulare, che già squillava. La voce della madre di Blay, quando lei rispose, era incrinata, ma non per problemi sulla linea. «John? John, sta...» «Siamo tutti qui», la rassicurò il padre di Blay. «Continua a guidare, cara...» John scosse la testa, gli tese il telefono e a gesti disse, E se nel furgone ci fosse qualche dispositivo di localizzazione? Il padre di Blay si lasciò sfuggire una parolaccia. «Cara? Fermati, fermati e scendi dal furgone. Smaterializzati, vai alla casa sicura e chiamami quando sei lì.» «Sei sicuro...» «Presto, tesoro. Presto.» Si sentì il rumore di un motore che rallentava. Una portiera che sbatteva. Poi più niente. 562 «Cara?» il padre di Blay afferrò il telefonino. «Cara? Oh, Gesù...» «Sono qui», giunse la voce di sua moglie. «Qui alla casa sicura.» Tutti tirarono un gran sospiro di sollievo. «Ti raggiungo subito.» Mentre gli altri parlavano, Qhuinn era tutto preso a cogliere eventuali rumori di passi sulle scale. E se fossero arrivati altri lesserà Blay era ferito, e suo padre sembrava stravolto. «Dobbiamo andare subito via di qui», disse rivolto a nessuno in particolare. Salirono di sopra, caricarono le valigie sulla Lexus del padre di Blay e, prima che Qhuinn avesse il tempo di contare fino a tre, Blay e suo padre si dileguarono nella notte. Era accaduto tutto così in fretta. L'attacco, lo scontro, la fuga... i saluti rimasti inespressi. Blay era salito in macchina con suo padre ed era partito con armi e bagagli. Ma cos'altro poteva accadere? Non era il momento di tirarla per le lunghe, e non solo perché dieci minuti prima i lesser si erano fatti un bel giretto per casa. «Credo che dovremmo alzare i tacchi», disse Qhuinn. 563 John scosse la testa. Voglio restare qui. Ne arriveranno altri quando quelli che abbiamo ucciso non si presenteranno all'appello. Qhuinn guardò il salotto, adesso trasformato in veranda grazie al numero da stuntman hollywoodiano di Blay. C'era molto da portar via e il pensiero che anche solo una confezione di Kleenex in casa di Blay potesse cadere nelle mani della Lessening Society lo faceva incazzare da morire. John si mise a digitare al cellulare. Dico a Wrath quello che è successo e che noi due ci fermiamo qui. Siamo addestrati per questo. È ora di entrare in azione. Qhuin non poteva essere più d'accordo, ma era anche sicurissimo che Wrath non avrebbe approvato. Un attimo dopo il cellulare di John segnalò l'arrivo di un SMS. John lo lesse, poi lentamente sorrise e mostrò il display a Qhuinn. Il messaggio veniva da Wrath. Ok. Kiamate se serve aiuto. Cazzarola... Erano in guerra anche loro. 564 Capitolo 35 Rehv parcheggiò la Bentley all'ingresso sud-est del Black Snake State Park, il Parco Statale del Serpente Nero. Il parcheggio coperto di ghiaia era piccolo, sufficiente a ospitare solo dieci auto, ma mentre gli altri parcheggi, dopo una certa ora, erano chiusi da catenelle, quello era sempre aperto perché da lì partivano i sentieri per i capanni in affìtto. Scendendo dalla macchina prese il bastone, ma non perché ne avesse bisogno per non perdere l'equilibrio. Aveva ricominciato a vedere rosso più o meno a metà del viaggio e adesso il suo corpo era vivissimo, fremente, caldo e ipersensibile. Prima di chiudere a chiave la Bentley infilò la pelliccia di zibellino nel bagagliaio, perché l'auto era già abbastanza vistosa senza bisogno di lasciare venticinquemila dollari di pelliccia russa in bella vista. Controllò anche due volte di aver preso il kit antiveleno e dopamina in abbondanza. Si Sì. Chiuse il baule, inserì l'allarme e si voltò verso il fìtto filare di alberi che segnavano i confini più esterni del parco. Chissà perché le betulle, le querce e i pioppi intorno al parcheggio gli ricordavano una folla di spettatori assiepati lungo il percorso di una parata, tutti pigiati come sardine ai bordi della ghiaia, coi rami che 565 sconfinavano oltre i limiti consentiti mentre i tronchi restavano dove dovevano stare. La notte era immota, tranne che per una brezzolina frizzante e asciutta che preannunciava l'imminente arrivo dell'autunno. Buffo, lì al nord agosto poteva essere decisamente gelido e, per come si sentiva adesso, quel frescolino non gli dispiaceva. Anzi, era una goduria. Si diresse verso il sentiero principale, oltrepassando un posto di controllo incustodito e una serie di segnali per escursionisti. Meno di mezzo chilometro più in là cominciava la foresta; Rehv prese la pista sterrata inoltrandosi nel parco. Il capanno di tronchi distava un chilometro e mezzo; era a una ventina di metri dalla sua meta, quando un groviglio di foglie volò accanto ai suoi piedi. L'ombra che le sospingeva era torrida, di un calore tropicale, la sentiva intorno alle caviglie. «Grazie, amico», disse a Trez. CI VEDIAMO LÌ. «Bene.» Mentre la sua guardia del corpo avanzava come una foschia, Rehv si raddrizzò la cravatta senza motivo. Tanto non gli sarebbe rimasta al collo ancora per molto, garantito. La radura dove si ergeva il capanno era illuminata dalla luna; impossibile capire quale, tra le ombre in mezzo agli alberi, fosse Trez. Ma proprio per questo la sua guardia del corpo valeva tanto oro quanto pesava. Neanche un symphath era in grado di distinguerlo dal resto del paesaggio, quando non voleva essere visto. 566 Rehv si fermò un attimo davanti alla porta del rustico capanno di legno, guardandosi intorno. La Principessa era già arrivata: tutt'intorno allo scenario apparentemente bucolico si stendeva una densa, invisibile nube di paura... il genere di nube che i bambini percepiscono guardando le case abbandonate nelle notti buie e ventose. Era la versione symphath del mhis, e garantiva che il loro incontro non venisse disturbato dagli umani. O da altri animali. Non lo sorprendeva che fosse arrivata in anticipo. Non potendo prevedere se sarebbe stata in ritardo, in anticipo o puntuale, a qualunque ora lei si presentasse, lui era sempre pronto. La porta del capanno si aprì con il consueto cigolio. Il rumore penetrò dritto al centro del suo cervello, facendolo rabbrividire, ma Rehv coprì le proprie emozioni con l'immagine di una spiaggia assolata che aveva visto una volta in TV. Dalle ombre nell'angolo dell'open space giunsero parole pronunciate con voce chiara e profonda. «Lo fai sempre. Mi chiedo cosa nascondi al tuo amore.» Continua pure a chiedertelo, pensò Rehvenge. Non poteva permetterle di insinuarsi nella sua testa. A parte il fatto che proteggersi era cruciale, tagliarla fuori la faceva impazzire, il che lo rendeva raggiante di soddisfazione. Chiudendo la porta, decise di buttarla sul romantico recitando la parte dell'innamorato respinto. Lei si sarebbe aspettata che Rehv si chiedesse che fine aveva fatto il loro solito programma e lo avrebbe tenuto sulla corda il più a 567 lungo possibile prima di dirglielo. Ma il fascino funzionava, anche con i symphath, sebbene, naturalmente, in modo contorto e perverso. La Principessa sapeva che lui la odiava, e che gli costava fingere di essere innamorato di lei. Il profondo fastidio procuratogli dal dirle quelle piccole bugie - e non le bugie in sé - era ciò che lo avrebbe fatto entrare nelle sue grazie. «Quanto mi sei mancata», disse con voce profonda, appassionata. Portò le dita alla cravatta che si era appena raddrizzato e lentamente sciolse il nodo. La reazione di lei fu istantanea. I suoi occhi brillarono come rubini davanti a un falò, e non fece nulla per nasconderlo. Sapeva che così gli dava la nausea. «Ti sono mancata? Certo che ti sono mancata.» La sua voce ricordava il sibilo di un serpente, con le S molto allungate. «Ma quanto?» Rehv tenne la scena della spiaggia in primo piano nella sua mente, confinando quella serpe nel lobo frontale, tenendola fuori da sé. «Mi sei mancata da impazzire.» Mise da parte il bastone, si tolse la giacca e slacciò il primo bottone in alto della camicia di seta... poi il secondo... il terzo e così via, finché dovette tirar fuori le falde dai calzoni per completare l'opera. Quando scrollò le spalle lasciando scivolare per terra la camicia, la Principessa sibilò per davvero e lui sentì tirare l'uccello. 568 Odiava la Principessa e odiava doverci fare sesso, ma gli piaceva esercitare quel potere su di lei. La sua debolezza gli procurava un brivido erotico molto simile a quello che si prova quando si è davvero attratti da qualcuno. Per questo riusciva a farselo drizzare anche se gli si accapponava la pelle neanche fosse avvolto in una coperta di vermi. «Tieni addosso i vestiti», ordinò brusca lei. «No.» Se li toglieva sempre quando decideva lui, non quando lo diceva lei. Era una questione di orgoglio. «Tieni addosso i vestiti, puttana.» «No.» Rehv si slacciò la cintura e la sfilò dai passanti, frustando l'aria col morbido cuoio. La lasciò cadere come aveva già fatto con la camicia, con noncuranza. «I vestiti devi tenerli addosso...» La frase rimase in sospeso perché la sua forza si stava indebolendo. E il punto era proprio questo. Con gesto deliberato, lui si strinse il pacco, poi abbassò la cerniera, slacciò il bottone e di colpo i pantaloni caddero sul pavimento. Il membro si erse in tutta la sua lunghezza, riassumendo nella sostanza il tipo di rapporto esistente tra loro due. Rehvenge era furioso con lei, odiava se stesso e detestava il fatto che Trez, da fuori, assistesse a tutta la scena. Di conseguenza il suo uccello era duro come il marmo e stillante in punta. 569 Per i symphath, un viaggio nella malattia mentale era meglio di qualunque ostentazione da agente provocatore, ecco perché quella messinscena funzionava. Lui poteva darle quella roba morbosa. Poteva darle anche qualcos'altro. Lei sbavava per lo scontro sessuale che s'innescava tra loro. L'accoppiamento tra symphath era una partita a scacchi civile che si concludeva con uno scambio di fluidi corporei. Lei aveva bisogno dei grugniti, della lotta, della carnalità che solo il lato vampiresco di Rehv poteva darle. «Toccati», disse in un sussurro. «Toccati. Fallo per me.» Lui non lo fece. Con un grugnito scalciò via i mocassini e si scostò dal mucchio di vestiti. Poi cominciò ad avanzare, ben consapevole dello spettacolo che stava offrendo, col pisello sull'attenti. Si fermò in mezzo al capanno, illuminato da una falce di luna. Detestava ammetterlo, ma anche a lui piaceva da impazzire quello schifo. Era l'unico momento nella sua vita in cui poteva essere quello che era veramente, in cui non doveva mentire a chi gli stava intorno. L'orrenda verità era che una parte di lui aveva bisogno di quella relazione contorta e morbosa; era questo, più della minaccia per lui e per Xhex, che lo spingeva a tornare lì, un mese dopo l'altro. Non era certo che la Principessa fosse consapevole di questa sua debolezza. Stava sempre molto attento a non scoprire le proprie carte, ma non potevi mai essere troppo sicuro di quello che un symphath sapeva sul tuo 570 conto. Il che, ovviamente, rendeva ancora più interessanti tutte quelle manovre perché la posta in gioco era più alta. «Pensavo di iniziare con uno spettacolino, stanotte», disse voltandosi. Dandole la schiena cominciò a masturbarsi, prendendo l'uccello nella grossa mano e accarezzandolo. «Noioso», sussurrò senza fiato lei. «Bugiarda.» Rehv si strinse il glande così forte da non riuscire a trattenere un ansito. A quel suono, la principessa mugolò, sempre più coinvolta dal gioco erotico grazie al dolore di lui. Rehv abbassò lo sguardo su quello che stava facendo e sperimentò una sorta di fugace, inquietante dislocazione, come se stesse guardando il membro di un altro e il braccio di un altro che andava su e giù. D'altro canto, mantenere un certo distacco da quell'atto era necessario, era l'unico modo in cui la sua natura di vampiro poteva gestire quello che facevano durante i loro incontri. Lì la parte buona di lui non c'era. L'aveva lasciata fuori dalla porta quando era entrato. Quello era il territorio del Divoratore di peccati. «Cosa stai facendo?», gemette lei. «Mi sto accarezzando. Vigorosamente. Il chiaro di luna è bello sul mio uccello. Sono bagnato.» Lei inspirò con forza, «Voltati. Subito,» 571 «No.» Lei non fece nessun rumore, ma Rehv sapeva che si era avvicinata e il senso di trionfo spazzò via la dissociazione. Viveva per distruggerla. Quel senso di potere che lo pervadeva tutto, era come eroina nelle vene. Sì, dopo si sarebbe sentito lurido da far spavento e, certo, era tormentato dagli incubi a causa di tutto questo, ma al momento era seriamente su di giri. La Principessa avanzò tenendosi nell'ombra; Rehv capì subito quando vide quello che lui stava facendo perché gemette forte, incapace di trattenersi malgrado il riserbo tipico dei symphath. «Se hai intenzione di guardarmi» - così dicendo Rehv strizzò di nuovo la punta dell'uccello fino a farla diventare viola, e non potè fare a meno di inarcarsi per il dolore - «io voglio vedere te.» La Principessa entrò nella pozza di luce lunare e, per un attimo lui perse il ritmo. Indossava un abito rosso fuoco e i rubini della collana brillavano contro la pelle diafana. I capelli corvini erano raccolti in un alto chignon, occhi e labbra erano dello stesso rosso sangue delle pietre preziose che aveva al collo. Dai lobi delle orecchie, appesi per la coda munita di pungiglione, due scorpioni albini lo fissavano. Era orribilmente bella. Un rettile che camminava eretto, con due occhi ipnotici. 572 Le braccia, incrociate all'altezza della vita, erano infilate nelle maniche dell'abito, lunghe fino a terra; ora però le lasciò ricadere lungo i fianchi. Rehv non le guardò le mani. Non ci riusciva. Lo disgustavano troppo e, nel vederle, avrebbe perso l'erezione. Per restare eccitato fece scivolare il palmo sotto i testicoli e li tirò verso l'alto, in modo che incorniciassero l'uccello. Quando li lasciò andare, ballonzolarono evocando la sua potenza sessuale. Lei non sapeva dove posare gli occhi, tali e tante erano le cose che voleva vedere di lui. Li lasciò scivolare sopra il suo torace, indugiando sulla coppia di stelle rosse che gli marchiavano i pettorali. I vampiri pensavano che fossero solo decorative, ma per i symphath erano la prova evidente del suo sangue reale e dei due omicidi che aveva commesso: il parricidio valeva una stella, a differenza del matricidio, simboleggiato dai cerchi. L'inchiostro rosso significava che Rehvenge era un membro della famiglia reale. La Principessa si liberò del vestito; sotto i ricchi panneggi dell'abito, il suo corpo era coperto da una rete di raso rosso aderentissima, conficcata nella pelle. In armonia con l'aspetto largamente asessuato della sua specie, i seni erano piccoli e i fianchi molto sottili. L'unica prova certa che fosse una femmina era la minuscola fessura tra le gambe. Analogamente, anche i maschi della specie erano androgini, con lunghi capelli raccolti alla maniera delle femmine e abiti identici. Rehv non ne aveva mai visto uno nudo, grazie al cielo, ma supponeva 573 che il loro uccello presentasse la stessa piccola anomalia del suo. Oh, che gioia. Quell'anomalia era, naturalmente, un altro dei motivi per cui gli piaceva chiavare la Principessa. Sapeva di farle male, alla fine. «Adesso ti tocco», disse lei, andandogli vicino. «Puttana.» Rehv si irrigidì nel sentire la mano di lei stringersi intorno all'erezione, ma le concesse un solo istante di contatto. Arretrando bruscamente sfilò l'uccello dalla sua stretta. «Vuoi mettere fine al nostro rapporto?» disse con voce strascicata, odiando le sue stesse parole. «Per questo mi hai dato buca, l'altra notte? Questo schifo è troppo noioso, per te?» Lei avanzò, come lui aveva previsto. «Andiamo, tu sei il mio giocattolo. Mi mancheresti da morire.» «Ah.» Questa volta, quando lo afferrò, gli affondò le unghie nel pene. Lui trattenne un ansito irrigidendo le spalle fino quasi a far schioccare le clavicole. «Allora ti sei chiesto dov'ero?» sussurrò la Principessa appoggiandosi addosso a lui. Gli strusciò la bocca sul collo e il contatto con le sue labbra gli irritò la pelle. Si era messa un rossetto a base di peperoncini tritati, 574 accuratamente calibrato per provocare un bruciore intenso. «Eri in pensiero per me. In pena per me.» «Sì. È così», disse lui, perché quella menzogna l'avrebbe eccitata. «Lo sapevo.» La Principessa si piegò sulle ginocchia protendendosi verso di lui. Appena le sue labbra entrarono in contatto con il glande, il bruciore provocato dal rossetto fece contrarre i testicoli come due pugni. «Chiedimelo.» «Che cosa? Un pompino o il perché del cambiamento di programma?» «Sto pensando di farti supplicare per entrambi.» Così dicendo, afferrò il pene e lo spinse verso l'alto, contro il ventre, poi tirò fuori la lingua titillando la punta uncinata alla base dell'erezione. L'uncino era la parte di lui che preferiva, quella che si agganciava quando Rehvenge veniva, tenendoli legati. Personalmente lui lo odiava, ma accidenti, era piacevole sentirselo stuzzicare, malgrado il dolore derivante da quello che si era messa sulle labbra. «Chiedimelo.» La Principessa lasciò ricadere l'uccello e lo prese in bocca. «Ah, merda, succhiami», gemette lui. E lei lo fece, perdio se lo fece. Spalancò la gola e lo mandò giù più che potè. Era fantastico, ma il bruciore era terribile. Per vendicarsi di quel simpatico rossetto Chanel N° Incubo, Rehv l'afferrò per i capelli e spinse i fianchi in avanti con forza, facendola soffocare. 575 Per tutta risposta, lei affondò un'unghia in quella specie di aculeo, fino a far sgorgare il sangue. Rehvenge lanciò un urlo, con le lacrime agli occhi. Nel vedere una lacrima sulla sua guancia, la Principessa sorrise, godendosi quel rosso sul suo viso. «Devi dire "per favore"», disse. «Quando mi chiederai di spiegare.» Fu tentato di dirle che poteva scordarselo, invece affondò di nuovo nella sua bocca e lei lo graffiò di nuovo; andarono avanti così per un po', finché entrambi si ritrovarono ansimanti. A quel punto il suo membro era in fiamme, infuocato, palpitante per il bisogno di venire in quella sua stramaledetta bocca. «Chiedimi perché», disse perentoria lei. «Chiedimi perché non mi sono fatta vedere.» Lui scosse la testa. «No... me lo dirai tu quando ne avrai voglia. Invece ti chiedo se stai solo perdendo tempo o se ti decidi a farmi venire.» Lei si tirò su da terra, andò alla finestra e si puntellò sul davanzale con quelle mani orribili. «Puoi venire. Ma solo dentro di me.» Lo faceva sempre, la troia. Insisteva sempre con quella storia del dentro. E sempre alla finestra. Chiaramente, anche se non poteva essere certa che si fosse portato dietro i rinforzi, in 576 qualche modo aveva intuito che qualcuno li stava osservando. E se scopavano davanti alle vetrate, la sentinella di Rehv sarebbe stata costretta a guardare. «Vieni dentro di me, maledizione.» La Principessa inarcò la schiena sollevando il sedere. La rete che indossava le risalì lungo le gambe e in mezzo alle cosce: sarebbe stato costretto a strapparla almeno in parte, per penetrarla. Che poi era il motivo per cui lei la portava. Se il rossetto era una tortura, quel reticolo della malora era anche peggio. Rehvenge andò a piazzarsi dietro di lei e infilò indice e medio di entrambe le mani nella rete, all'altezza delle reni, poi, con uno strattone, la strappò via dalle sue natiche e dal suo sesso. Lei era bagnata, turgida e vogliosa. Lo guardò da sopra la spalla e sorrise, scoprendo una chiostra di denti bianchi e squadrati. «Sono affamata. Mi sono conservata per te. Come sempre.» Lui non riuscì a trattenere una smorfia. Non sopportava l'idea di essere il suo unico amante, avrebbe di gran lunga preferito far parte di una nutrita schiera di maschi, in modo che quanto accadeva tra loro non avesse tutto quel peso. E in più la parità lo nauseava: anche lei era la sua unica amante. Affondò con forza dentro di lei, spingendola in avanti fino a farle sbattere la testa contro il vetro. Poi si aggrappò ai suoi fianchi e lentamente scivolò fuori. Le 577 gambe di lei fremettero, scosse da ima serie di spasmi; Rehv detestava l'idea di darle quello che voleva, quindi si spinse di nuovo dentro, adagio, fermandosi a metà per non concedersi completamente. «Di più, grazie», disse lei con gli occhi rossi che sputavano fuoco da sopra la spalla. «Perché non ti sei fatta vedere, mia adorata troia.» «Perché non chiudi il becco e ti decidi a venire?» Rehv si piegò in avanti e fece scorrere le zanne sulla sua spalla. La rete era intrisa di veleno di scorpione che subito gli intorpidì le labbra. Si sarebbe ritrovato quello schifo su tutte le mani e sul corpo, alla fine della scopata, così avrebbe dovuto correre a farsi una doccia nella sua casa sicura. Ma sarebbe stato comunque troppo tardi. Sarebbe stato malissimo, come al solito. Essendo la Principessa una symphath di razza pura, il veleno non le faceva né caldo né freddo; per lei era come un profumo, un elemento di seduzione come un altro. Per il lato vampiresco di Rehv, invece, particolarmente sensibile, era estremamente tossico. Lentamente Rehv uscì da lei e poi scivolò di nuovo dentro per cinque o sei centimetri. Capì di averla fatta godere quando la Principessa affondò le dita a tre nocche nel vecchio, logoro legno del davanzale. Dio, quelle mani, con quel trio di giunture e le unghie rosse... sembravano uscite da un film dell'orrore, il genere di cosa che poteva spuntare dal coperchio di una 578 bara prima che lo zombie di turno saltasse fuori per uccidere il bravo ragazzo. «Dimmi... perché... troia...» disse Rehv, sottolineando ogni parola con una spinta. «Altrimenti niente orgasmo per nessuno dei due.» Dio, odiava e amava tutto questo: loro due che lottavano per mantenere la propria posizione di potere, entrambi inviperiti per le concessioni che erano obbligati a fare. A lei rodeva essere stata costretta a girargli intorno per vederlo eiaculare mentre lui detestava ciò che le stava facendo; lei, inoltre, non voleva svelargli perché era in ritardo di due notti, pur sapendo che alla fine avrebbe dovuto capitolare, se voleva venire... E via di questo passo, come su una giostra che continua a girare in tondo. «Dimmelo», ringhiò lui. «Tuo zio diventa sempre più forte.» «Ah sì?» fece Rehv, ricompensandola con una penetrazione rapida e vigorosa, che le strappò un ansito. «Come sarebbe?» «Due sere fa...» Il respiro affannoso le usciva di bocca con una specie di sibilo, mentre torceva la schiena per accoglierlo il più a fondo possibile. «È stato incoronato.» Rehv perse il ritmo. Merda. Un cambio al vertice non era un bene. I symphath erano confinati in quella colonia, questo sì, isolati dal mondo reale, ma qualunque 579 instabilità politica, laggiù, minacciava quel po' di controllo, preziosissimo, cui erano sottoposti. «Abbiamo bisogno di te», disse la Principessa piegando il braccio dietro la schiena e affondandogli le unghie nel sedere. «Devi fare quello che sai fare meglio.» Non esiste proprio. Aveva ucciso già abbastanza parenti. La Principessa lo guardò da sopra la spalla, e lo scorpione appeso al suo orecchio lo fissò intensamente, muovendo in tondo le zampe lunghe e sottili, protendendole verso di lui. «Ora che ti ho detto il perché vedi di darti una mossa.» Rehv mise il cervello sotto stretto controllo, si concentrò sulla scena della spiaggia e lasciò fare al suo corpo. Sotto il ritmo implacabile dei suoi affondi, la Principessa raggiunse l'orgasmo, stringendolo dentro di sé in una serie di contrazioni, come dentro un pugno. Strizzato in quella morsa, il membro si agganciò alla vulva inondandola col suo seme. Appena fu in grado di farlo, Rehv si ritrasse e cominciò la sua discesa agli inferi. Sentiva già l'effetto del veleno di cui era impregnata quella maledetta rete, sentiva un formicolio diffuso in tutto il corpo, le terminazioni nervose della sua epidermide si accendevano e si spegnevano in spasmi dolorosi. E le cose erano destinate a peggiorare. 580 La Principessa si raddrizzò e andò a recuperare il vestito. Da una tasca nascosta estrasse una lunga striscia di raso rosso e, con gli occhi fìssi su Rehvenge, se la infilò in mezzo alle gambe, legandola in ima elaborata serie di fiocchi. I suoi occhi rosso rubino brillavano di soddisfazione mentre si assicurava di non perdere neanche una goccia del suo sperma. Rehvenge odiava tutto ciò, e lei lo sapeva, motivo per cui non si lamentava mai sentendolo ritrarsi tanto in fretta. Sapeva perfettamente che lui avrebbe voluto immergerla in una vasca piena di candeggina costringendola a lavarsi fino a far sparire ogni traccia del loro rapporto sessuale, come se non avesse mai avuto luogo. «Dov'è la mia decima?» chiese infilandosi il vestito. Rehvenge, che cominciava a vederci doppio a causa del veleno, andò a prendere la giacca e tirò fuori un sacchettino di velluto. Glielo lanciò e lei lo afferrò al volo. Dentro c'erano duecentocinquantamila dollari in rubini. Già tagliati. Pronti per essere incastonati. «Devi venire a casa.» Lui era troppo stanco per stare al suo gioco. «Quella colonia non è casa mia.» «Ti sbagli. Ti sbagli di grosso. Ma avrai modo di ricrederti. Te lo garantisco.» Ciò detto, svanì nel nulla. 581 Rehv si accasciò, piantando il palmo sul muro del capanno, travolto da una nera ondata di spossatezza. Nel sentire la porta che si apriva, si raddrizzò e raccolse i calzoni da terra. Senza dire una parola, Trez andò a sorreggerlo. Stava malissimo, e sarebbe stato anche peggio, ma riuscì a vestirsi da solo. Era importante, per lui. Lo faceva sempre da solo. Quando la giacca fu tornata al suo posto, la cravatta annodata intorno al collo e il bastone stretto in mano, il suo migliore amico nonché guardia del corpo lo prese in braccio e, come un bambino, lo riportò verso l'auto. 582 Capitolo 36 Lo stress in una persona è come l'aria in un pallone. Troppa pressione, troppa merda, troppe brutte notizie... ed ecco rovinata la festa di compleanno. Phury spalancò bruscamente il cassetto del comodino, anche se ci aveva appena guardato dentro. «Merda.» Dove cazzo era tutto il suo fumo rosso? Tirò fuori dal taschino il sacchetto quasi vuoto. Appena abbastanza per un misero spinello. Faceva meglio a correre subito allo ZeroSum prima che il Reverendo chiudesse per la notte. Si infilò la giacca leggera per avere un posto dove nascondere la busta piena di roba al ritorno, poi scese in fretta lo scalone. Giunto nell'atrio aveva la testa che gli scoppiava per la Top Ten del mago: i Primi Dieci Motivi per cui Phury, Figlio di Ahgony, È una Faccia di Merda. Al decimo posto in classifica: riesce a farsi cacciare dalla confraternita. Al nono posto: è un drogato. All'ottavo posto: litiga col suo gemello quando la shellan incinta di quest'ultimo sta poco bene. Al settimo posto: è un drogato. Al sesto posto: umilia la femmina con cui vuole stare, spingendola ad allontanarsi. Al quinto posto: mente per nascondere la sua tossicodipendenza. 583 O anche questo rientrava nella nona e nella settima posizione? Al quarto posto: delude i genitori. Al terzo posto: è un drogato. Al secondo posto: si innamora della suddetta femmina spinta ad allontanarsi. .. Merda. Merda. Merda. Si era innamorato di Cormia? Come? Quando? Al diavolo, saltò su il mago, nella sua testa, lascia perdere, socio. Finisci l'elenco. Dai. Dunque... credo che metteremo al primo posto "è un drogato", eh, tu cosa dici? «Dove stai andando?» La voce di Wrath calò dall'alto come una sorta di coscienza e Phury rimase impietrito con la mano sulla porta del vestibolo. «Dove?» ripeté il re. Oh, niente di speciale, pensò Phury senza voltarsi. Giusto al manicomio. «A fare un giro in macchina», rispose, alzando le chiavi dell'auto sopra la testa. 584 A quel punto mentire non gli dava più alcun fastidio. Voleva solo che si levassero tutti dai piedi. Una volta comprato il fumo rosso, ima volta calmatosi e con la testa non più ridotta a ima bomba molotov pronta a esplodere da un momento all'altro, poteva ricominciare a interagire. Wrath cominciò a scendere le scale, il ritmo dei suoi passi un conto alla rovescia prima di un ceffone della miseria. Phury si voltò per fronteggiare il re, una rabbia sorda che montava nel petto. E, pensa un po', neanche Wrath era in vena di smancerie. Le sopracciglia aggrottate si erano tuffate dietro gli occhiali da sole, le zanne si erano allungate, il corpo era teso da matti. Evidentemente le brutte notizie non erano ancora finite. «Cos'è successo ancora?» fece Phury a denti stretti. Quando cavolo sarebbe finita quella valanga di sciagure? Quando la sventura avrebbe smesso di accanirsi contro di loro passando finalmente a rovinare la vita di qualcun altro? «Stanotte hanno colpito quattro famiglie della glymera e non ci sono superstiti. Devo dare a Qhuinn una notizia spaventosa; lui e John Matthew sono di sorveglianza a casa di Blaylock, ma non riesco a mettermi in contatto con nessuno dei due.» «Vuoi che vada a vedere?» 585 «No, voglio che porti il culo al Santuario e che cominci a fare il tuo stramaledetto dovere», sbottò Wrarth. «Ci servono più fratelli, e tu hai acconsentito a diventare Primate, perciò piantala di tergiversare.» Phury fremeva per scoprire le zanne, ma si trattenne. «Ho scelto un'altra Prima Sposa. La stanno preparando, ci andrò domani al tramonto.» Wrath inarcò le sopracciglia di scatto. Poi annuì ima volta. «Okay. Bene. Ora, qua! è il numero di Blaylock? Voglio che torni a casa sua. Tutti i fratelli sono impegnati e non voglio che Qhuinn apprenda la notizia per telefono.» «Posso andarci...» «Col cavolo», ribatté secco il re. «Anche se facessi ancora parte della confraternita, con quello che sta succedendo in queste ore non mi sognerei mai di mettere a repentaglio la vita del Primale della razza, grazie tante. Adesso ti decidi sì o no a darmi il numero di Blaylock?» Phury glielo diede, lo salutò con un cenno del capo e attraversò il vestibolo. Non gliene fregava un tubo di aver detto a Wrath che andava a fare un giro in macchina; lasciò la BMW parcheggiata in cortile e si smaterializzò verso il centro città. Tanto Wrath sapeva che stava mentendo, e non c'era motivo di ritardare la puntatina allo ZeroSum prendendo la macchina per tenere in piedi una bugia di cui entrambi erano perfettamente consapevoli. 586 Giunto all'ingresso del club, Phury saltò la coda di clienti in attesa, semplicemente scavalcandola e costringendo il buttafuori a levarsi di mezzo. Nella sezione VIP iAm era ritto davanti alla porta dell'ufficio di Rehv. Il Moro non parve sorpreso di vederlo, ma d'altronde era difficile sorprendere le due guardie del corpo di Rehv. «Il capo non c'è; vuoi fare un acquisto?» Phury annuì e iAm lo fece accomodare. Rally, il tirapiedi addetto alla roba, si allontanò in fretta dopo che Phury ebbe spalancato due volte il palmo. iAm poggiò il fianco contro la scrivania di Rehvenge, limitandosi a fissare il muro di fronte, gli occhi neri impassibili, calmi. Suo fratello, Trez, era la testa calda tra i due, quindi Phury aveva sempre pensato che fosse iAm quello da cui guardarsi. Anche se era un po' come scegliere tra due pistole: questione di sfumature. «Un consiglio», disse il Moro. «Ne faccio volentieri a meno.» «Cazzi tuoi. Non passare alla roba più pesante, amico.» «Non so di cosa stai parlando.» «Balle.» 587 Rally emerse dalla porta nascosta nell'angolo. Alla vista di tutte quelle foglioline nella busta di plastica trasparente, Phury sentì precipitare la pressione sanguigna e accelerare il battito cardiaco. Allungò i mille dollari e uscì il più in fretta possibile dall'ufficio, ansioso di darsi da fare in camera sua. Mentre puntava verso l'uscita laterale, scorse Xhex ferma vicino al bar dell'area VIP. Lei adocchiò il suo braccio infilato dentro la giacca, poi accigliandosi sillabò, Cazzo. Vedendola avvicinarsi a grandi passi, Phury ebbe la bizzarra sensazione che volesse riprendersi la sua roba. Non se ne parlava proprio; aveva pagato in moneta sonante e comprato a un prezzo onesto. La direzione non poteva avere niente da ridire, non ce n'era motivo. In fretta uscì e si smaterializzò. Non aveva la più pallida idea di quale fosse il problema, e non gliene fregava niente. Aveva quello che gli serviva e voleva tornarsene a casa. Mentre viaggiava in un confuso ammasso di molecole, ripensò a quel tossico nel vicolo, quello che aveva sgozzato il suo spacciatore e poi gli aveva frugato nelle tasche mentre il sangue schizzava dappertutto. Cercò di convincersi che non era come lui. Cercò di non vedere la disperazione degli ultimi venti minuti come il primo passo verso quello che il tossico aveva fatto con il coltello a serramanico. 588 La verità, però, era che niente e nessuno era al sicuro quando si trovava tra un tossico e quello per cui smaniava. Nel giardino dietro la casa di Blay, John si guardò intorno; gli sembrava di averlo già fatto un migliaio di volte. Quell'attesa, quello sguardo vigile... quella pausa da predatore, sembrava far tutto parte della sua seconda natura. Il che era pazzesco. Naa, gli disse una vocina. È sempre stato così. Solo che prima non te ne rendevi conto. Accanto a lui, nell'ombra, Qhuinn era sorprendentemente immobile. Di solito si muoveva in continuazione, batteva i piedi e le mani, camminava su e giù, chiacchierava. Ma non quella notte, non tra quei cespugli di caprifoglio. Sì, okay, si erano appostati in mezzo al caprifoglio. Non certo virile come stare dietro un gruppo di querce, ma la copertura era migliore e poi era l'unico nascondiglio disponibile vicino alla porta di servizio. John controllò l'orologio. Stavano aspettando da un paio d'ore abbondanti. Alla fine avrebbero dovuto rientrare per evitare l'alba. Bella fregatura. Lui era lì per combattere. Era preparato a combattere. Se non menava un altro tesser, la frustrazione sarebbe schizzata alle stelle. 589 Purtroppo tutto ciò che avevano era una brezzolina di fine estate che di tanto in tanto controbilanciava il monotono canto dei grilli. Non sapevo di Blay, disse a gesti, tanto per fare qualcosa. Da quanto sapevi che... sì, insomma, sapevi cosa provava? «Più o meno da quando è cominciata...», rispose Qhuinn tamburellando con le dita sulla coscia, «cioè un sacco di tempo fa.» Caspita, pensò John. Con tutti quei segreti che venivano a galla, per tutti e tre era come rivivere la transizione. E, proprio come dopo i cambiamenti che li avevano trasformati sul piano fisico, nessuno dei tre sarebbe più stato come prima. «Blay nascondeva quello che provava», mormorò Qhuinn. «Ma non per il fatto del sesso. Voglio dire, io non ho problemi a farmela con i maschi, specie se ci sono di mezzo anche le loro pollastre.» Qhuinn rise. «Che faccia scioccata. Non lo sapevi?» Be'... io...cioè... Cristo santo, se prima sentiva il peso della propria verginità di fronte a Qhuinn e a tutta la sua... a quello che era... adesso si rese conto di essere proprio VERGINE. «Senti, se ti metto a disagio...» No, non è questo. Che cavolo, non sono poi così sorpreso. Sì, insomma, ti sei infilato nei bagni con tutta una varietà di... 590 «Già. Quello che capita capita, per quanto mi riguarda, capisci. Tutto fa brodo.» Qhuinn si massaggiò la fronte. «Non penso di fare così per sempre, però.» No? «Un giorno vorrei una shellan tutta per me. Nel frattempo, però, voglio fare di tutto e di più. Solo così mi sento vivo.» John ci pensò su. Anch'io voglio una femmina. Ma è difficile per- che... Senza guardarlo Qhuinn annuì, per indicare che aveva capito... il che era un bene. Buffo, in un certo senso era più facile parlarne adesso che il suo amico sapeva esattamente perché certe cose gli creavano dei problemi. «Sai, ho visto come guardi Xhex.» John divenne rosso come un pomodoro. Um... «È una fìcata. Cioè, cazzo... lei è sexy da matti. Un po' anche perché mette una paura boia. Sarebbe capace di farti ingoiare i denti se passi il limite, credo.» Qhuinn si strinse nelle spalle. «Ma non pensi che faresti meglio a cominciare con una un po' meno... non so, un po' meno tosta?» Mica si può scegliere da chi si è attratti. «Amen.» Sentirono un rumore; qualcuno stava girando intorno alla casa. Si misero subito all'erta alzando le pistole e puntandole verso est. «Sono io», gridò Blay. «Non sparate.» John uscì da dietro ai caprifogli. Credevo che andassi via con i tuoi. Blay fissava Qhuinn. «Sono ore che i fratelli cercano di contat-tarti.» «Perché mi guardi così?» disse Qhuinn abbassando la pistola lungo il fianco. 591 «Vogliono che torni al quartier generale.» Perché? Chiese a gesti John, anche se Blay aveva ancora gli occhi fìssi su Qhuinn. Wrath ha detto che possiamo restare qui... «Cos'è successo?» chiese Qhuinn, teso. «Tu lo sai, vero?» «Wrath vuole che tu...» «La mia famiglia è stata colpita, giusto?» disse Qhuinn contraendo la mascella. «Giusto?» «Wrath vuole che tu...» «Al diavolo Wrath. Parla!» Blay spostò fugacemente gli occhi su John, prima di riportarli sul loro amico. «Tuo padre, tua madre e tua sorella sono morti. Tuo fratello è scomparso.» Qhuinn emise una sorta di sibilo, come se qualcuno gli avesse sferrato un calcio nello stomaco mozzandogli il fiato. John e Blay fecero per sorreggerlo, ma lui si scostò bruscamente, allontanandosi di qualche passo. Blay scosse la testa. «Mi dispiace tantissimo.» Qhuinn non disse nulla. Era come se avesse dimenticato la sua lingua. Blay fece per toccarlo di nuovo, ma quando Qhuinn arretrò di un altro passo, disse, «Senti, vedendo che non riusciva a mettersi in contatto con nessuno dei due Wrath mi ha chiamato e mi ha chiesto di riportarvi a casa. La glymera sta per entrare in isolamento.» Andiamo alla macchina, disse John rivolto a Qhuinn. 592 «Io non vengo.» «Qhuinn...» Qhuinn... La voce di Qhuinn traboccava dell'emozione che il suo viso si rifiutava di manifestare. «Al diavolo tutto quanto. Al diavolo...» Dentro la casa di Blay si accese una luce e Qhuinn voltò la testa di scatto. Attraverso le finestre della cucina tutti e tre videro un lesser entrare nella stanza, in piena vista. Fu impossibile fermare Qhuinn. A velocità supersonica, si fiondò con la pistola spianata dentro casa attraverso la porta di servizio e, una volta, dentro non sparò al rallentatore. Puntò la H & K contro il non morto e premette il grilletto a ripetizione, scaraventando contro il muro quel bastardo pallido. Continuò a sparare anche quando il lesser si accasciò versando sangue nero, trasformando la carta da parati alle sue spalle in un quadro alla Jackson Pollock. Blay e John si precipitarono dentro e John gettò un braccio intorno al collo dell'amico. Trascinandolo indietro, gli afferrò la mano con la pistola nel caso provasse a voltarsi e a sparare. Un altro lesser entrò di volata in cucina e Blay prese in pugno la situazione sfilando un coltello da scalco da un ceppo da macellaio di Henckels. Quando si voltò verso 593 l'altro bastardo pallido, quello estrasse da chissà dove un coltello a serramanico e i due cominciarono a girare in tondo. Blay era carico, il fisico robusto pronto a lanciarsi nella lotta, gli occhi vigili. Il guaio era che sanguinava ancora per le ferite riportate nello scontro precedente, era pallido e tirato in volto per tutto ciò che era successo. Malgrado John lo tenesse saldamente per il braccio, Qhuinn alzò la pistola. John scosse la testa. «Lasciami andare. Subito», sibilò Qhuinn. La voce era mortalmente calma, tanto che John ubbidì. Con una mira perfetta, Qhuinn conficcò una pallottola in mezzo agli occhi del lesser, che si afflosciò come una bambola di pezza. «Ma che cazzo...?», scattò Blay. «Quello era mio.» «Mica posso stare a guardare mentre ti fanno a fettine. Non esiste al mondo.» Blay puntò un dito tremante contro Qhuinn. «Non farlo mai più.» «Stanotte ho perso delle persone che non sopportavo. Non ho intenzione di perdere qualcuno a cui tengo.» «Non ho bisogno che tu diventi il mio eroe...» John si piazzò in mezzo tra i due amici. A casa, disse a gesti. Subito. 594 «Potrebbero esserci altri...» «È probabile che ci siano altri...» Tutti e tre ammutolirono di colpo sentendo squillare il telefono di Blay. «È Wrath.» Le dita di Blay volavano sui tasti. «Ci vuole subito a casa. E, John, controlla il tuo cellulare, credo che non funzioni.» John lo tirò fuori dalla tasca. Era morto stecchito, ma non era il momento di chiedersi come mai. Forse si era rotto nel corso della colluttazione? Andiamo, disse. Qhuinn andò al ceppo da macellaio, tirò fuori un coltello da scalco e pugnalò sia il lesser che aveva trasformato in un colabrodo sia quello che aveva rispedito all'Omega centrandolo in pieno. In fretta chiusero la casa meglio che poterono, inserirono l'allarme e si pigiarono dentro la Mercedes di Fritz, con Qhuinn al volante e Blay e John dietro. Mentre procedevano verso la Statale 22, Qhuinn iniziò ad alzare il divisorio. «Se dobbiamo tornare al quartier generale, tu non devi vedere dov'è, Blay.» Ma quello era solo uno dei motivi per cui stava alzando lo schermo, naturalmente. Qhuinn voleva stare da solo. Faceva sempre così quando era in crisi per qualcosa, ecco perché John si era messo dietro. 595 Nella fitta oscurità del sedile posteriore, John lanciò un'occhiata a Blay. Era appoggiato contro lo schienale di cuoio neanche la testa gli pesasse come un blocco motore e aveva gli occhi infossati nel cranio. Dimostrava cent'anni. In termini umani. John lo rivide com'era qualche sera prima, da Abercrombie, mentre curiosava tra le camicie esposte tirandone fuori una ogni tanto per esaminarla meglio. Il ragazzo dai capelli rossi del negozio sembrava un lontano cugino più giovane della persona seduta nella Mercedes, erano alti uguali e avevano capelli e occhi dello stesso colore, ma per il resto non avevano niente in comune. John gli diede un colpetto sul braccio. Devi farti vedere dalla dottoressa Jane. Blay si guardò la camicia bianca e parve sorpreso nel vederla sporca di sangue. «Allora era questo che continuava a ripetere mia mamma. Non mi fa male.» Bene. Blay si voltò a guardare fuori dal finestrino, anche se era impossibile vedere qualcosa. «Mio papà ha detto che potevo restare. Per combattere.» John fischiò piano per fargli voltare di nuovo la testa. Non sapevo che tuo papà maneggiasse così bene la spada. 596 «Prima di sposare mia madre era un soldato, È stata lei a farlo smettere.» Blay si spazzolò con la mano la camicia, anche se il sangue aveva impregnato il tessuto, macchiandolo. «Hanno litigato di brutto quando Wrath mi ha chiamato per chiedermi di rintracciare voi due. Mia madre ha paura che io possa morire. Mio padre vuole che mi comporti con onore, ora che la razza ha bisogno di aiuto. La situazione è questa.» E tu cosa vuoi? Blay alzò gli occhi sul divisorio, poi subito distolse lo sguardo, guardandosi intorno, «Io voglio combattere.» John si appoggiò allo schienale. Bene. Dopo un lungo silenzio, Blay disse. «John?» John voltò lentamente la testa, si sentiva esausto quanto Blay. Cosa?, sillabò, non avendo la forza di usare la lingua dei segni. «Vuoi ancora essere mio amico? Anche se sono gay?» John si accigliò. Poi si tirò su e gli sferrò un pugno alla spalla. «Ahia! Ma che cavolo...» Perché non dovrei voler essere tuo amico? A parte il fatto che sei un idiota a chiedermelo... 597 Blay si massaggiò il punto in cui era stato colpito. «Scusa. Non sapevo se cambiava le cose o,,. Non azzardarti a rifarlo! Qui ho un taglio!» John si rimise comodo. Stava per dargli ancora del Pezzo di idiota quando si rese conto che anche lui si era chiesto più o meno la stessa cosa dopo quanto era successo nello spogliatoio. Guardò l'amico. Per me sei sempre lo stesso. «Non l'ho detto ai miei», disse Blay con un profondo sospiro. «Tu e Qhuinn siete i soli a saperlo.» Be', quando lo dirai al tuoi, o a chiunque altro, lui e io saremo al tuo fianco. Sempre. La domanda che John non aveva le palle di fargli doveva trasparire dai suoi occhi perché Blay gli toccò la spalla. «No. Per niente. Credo che niente potrebbe mai farmi perdere la stima che ho di te.» Con due sospiri identici, chiusero gli occhi in contemporanea. Nessuno dei due disse un'altra parola per il resto del tragitto fino a casa. Seduto sul sedile del passeggero della Focus, Lash aveva la frustrante sensazione che, malgrado gli attacchi sferrati contro le case dell'aristocrazia, la Società non avesse ancora recepito il messaggio. I lesser prendevano ordini da Mr D invece che da lui. 598 Che cavolo, non sapevano neanche della sua esistenza. Lanciò un'occhiata a Mr D, intento a guidare con le mani alle dieci e due sul volante. Una parte di lui era tentata di freddarlo solo per dispetto, ma il suo lato razionale sapeva che doveva tenerlo in vita per usarlo come portavoce... almeno fino a quando non avrebbe potuto dimostrare chi era al resto delle sue truppe. Truppe. Gli piaceva un casino quella parola. Era seconda solo a sue. Forse poteva inventarsi un'uniforme. Tipo quella di un generale o roba del genere. Di certo se la meritava, data l'efficacia della sua strategia militare. Era un genio, altro che storie, e il fatto che stesse sfruttando contro la confraternita proprio quello che aveva appreso nel suo corso di addestramento era un autentico colpo da maestro. In passato la Lessening Society si era sempre limitata a scalfire superficialmente la popolazione dei vampiri. Senza un vero servizio di spionaggio e con forze militari prive di coordinamento, era ima strategia mordi-e-fuggi dai successi molto limitati. Lui, invece, pensava in grande e disponeva delle conoscenze adatte a realizzare i suoi piani. Il modo migliore per eliminare i vampiri era spezzare la volontà collettiva della società, e il primo passo in tal senso era la destabilizzazione. Quattro delle sei famiglie 599 fondatrici della glymera erano state decapitate. Ne mancavano altre due; una volta colpite anche quelle, i lesser potevano passare a occuparsi del resto dell'aristocrazia. Con la glymera sotto attacco e decimata, ciò che restava del Consiglio dei Princeps si sarebbe rivoltato contro Wrath in quanto re; sarebbero nate delle fazioni contrapposte e ne sarebbero scaturite delle lotte di potere. Costretto ad affrontare il malcontento diffuso e i disordini tra la popolazione civile, la messa in discussione della sua autorità e una guerra in atto, Wrath avrebbe compiuto madornali errori di valutazione. Cosa che avrebbe esacerbato l'instabilità generale. Le conseguenze non sarebbero state esclusivamente politiche. L'ondata di saccheggi appena avviata significava meno entrate per la confraternita, a causa dell'erosione della base imponibile. Meno aristocratici significava meno lavori per i civili, il che avrebbe causato difficoltà finanziarie nelle classi inferiori e un'erosione del loro sostegno al sovrano. Un circolo vizioso che inevitabilmente avrebbe condotto alla rovina di Wrath destinato a venire deposto, ucciso o relegato in una posizione puramente rappresentativa - e causato lo sfascio della struttura sociale dei vampiri. Tutto sarebbe precipitato nel caos più totale, e proprio allora Lash avrebbe fatto la sua comparsa sulla scena per spazzare via il poco che restava. Meglio di così poteva esserci solo lo scoppio di un'epidemia tra i vampiri. Finora il suo piano aveva funzionato; quella prima notte era stata un successo su quasi tutta la linea. Gli era 600 scocciato che quello stronzo di Qhuinn non fosse in casa, quando avevano preso di mira la sua abitazione, perché gli sarebbe piaciuto uccidere il caro cuginetto; ma in compenso aveva appreso qualcosa di interessante. Sulla scrivania di suo zio aveva trovato dei documenti in base ai quali Qhuinn veniva rinnegato ed espulso dalla sua famiglia. Il che significava che quel coglioncello con gli occhi spaiati era là fuori da qualche parte, uccel di bosco, ma non a casa di Blay, evidentemente, dato che avevano colpito anche quella. Sì, gli rodeva che Qhuinn non fosse in casa. Ma almeno avevano catturato vivo suo fratello. Quello sì che sarebbe stato uno spasso. La Società aveva subito numerose perdite, soprattutto a casa di Blay e dello stesso Lash, ma nel complesso il bilancio era largamente a favore di Lash. Il momento, tuttavia, era critico. I membri della glymera sarebbero scappati nelle loro case sicure; lui conosceva alcune delle zone in cui sorgevano, per la maggior parte erano su al nord, nella parte settentrionale dello stato di New York, il che significava lunghi viaggi per i suoi uomini. Per stringere i tempi dovevano colpire quanti più indirizzi possibile lì in città. Piantine. Servivano delle piantine stradali. Appena gli venne quell'idea il suo stomaco cominciò a lamentarsi. Servivano piantine e cibarie. 601 «Entra in quella stazione di servizio», sbraitò. Mr D non fece in tempo a svoltare a sinistra, quindi si spostò sull'altra corsia e tornò indietro. «Ho bisogno di mettere qualcosa sotto i denti», spiegò Lash. «E di piantine per...» Dall'altra parte della strada si accesero i lampeggianti azzurri di una volante del Dipartimento di Polizia di Caldwell e Lash proruppe in un'imprecazione. Se il piedipiatti li aveva pizzicati a fare quella manovra scorretta erano nella merda fino al collo. Nel baule della Focus c'erano pistole e altre armi. Vestiti insanguinati. Portafogli, orologi e anelli sottratti ai vampiri morti. fantastico. Proprio fantastico. L'agente, evidentemente, non stava facendo una pausa-ciambella d'emergenza, perché veniva dritto verso di loro. «Porca troia!» Lash guardò Mr D, che stava accostando. «Dimmi che hai una patente in regola.» «Ma certo.» Mr D parcheggiò la macchina e abbassò il finestrino quando uno dei tutori dell'ordine al servizio dei cittadini di Caidie si fermò accanto alla portiera. «Ehilà, agente. Ecco qui la patente.» «Mi serve anche il libretto di circolazione.» Lo sbirro infilò la testa dentro l'auto e fece una smorfia, come se non gli piacesse il loro odore. Dio, è vero. Il borotalco. 602 Lash si mise comodo mentre Mr D, serafico, apriva il vano portaoggetti. Ne estrasse un foglio bianco grande come una scheda, a cui Lash lanciò un'occhiata frettolosa. In effetti sembrava tutto in regola. Il documento recava il simbolo dello Stato di New York, il nome di Richard Delano e un indirizzo al civico 1583 della Decima Strada, interno 4F. Mr D allungò il tutto fuori dal finestrino. «Lo so che non dovevo fare quell'inversione, là dietro, signore. Volevamo solo mangiare un boccone e avevo mancato il parcheggio.» Lash fissò Mr D, impressionato dal quello sfoggio di talento interpretativo. D guardava il poliziotto con la giusta combinazione di mesta vergogna, sincero rammarico e assoluta onestà. Cavolo, quando aveva buttato lì quel signore manco fosse un amen in chiesa era stato impagabile. La sua faccia meritava di figurare su una scatola di cereali: incarnava tutto ciò che è sano e genuino, ricco di vitamine e fibre, imbottito del buon vecchio regime alimentare americano. H poliziotto esaminò i documenti e glieli restituì. Illuminando l'interno dell'auto con la torcia, disse, «Non lo faccia pi...» Guardando Lash si accigliò. L'atteggiamento da "okay qui sto solo perdendo tempo" svanì in una frazione di secondo. Accostando alla bocca la ricetrasmittente fissata al bavero, chiamò i rinforzi, poi disse, «Devo chiederle di scendere dall'auto, signore.» 603 «Dice a me?» fece Lash, Cazzo, non aveva documenti con sé. «Perché?» «Per favore scenda dall'auto, signore.» «Prima mi dica perché.» La torcia illuminò la catena che Lash aveva al collo. «Abbiamo ricevuto una denuncia, circa un'ora fa, da una cliente di Screamer's relativa a un maschio bianco, un metro e novantotto, capelli biondi tagliati a spazzola, con al collo un collare da cane. Quindi ho bisogno che lei scenda dall'auto.» «Di che denuncia si tratta?» «Violenza sessuale.» Un'altra auto della polizia accostò davanti a loro, poi fece retromarcia fermandosi vicinissimo ai fari della Focus. «Per piacere scenda dal veicolo, signore.» Quella troia giù al bar era andata alla polizia? Ma se era stata lei a implorarlo di scoparla. «No.» «Se non scende dall'auto sarò costretto a tirarla fuori con la forza.» «Scenda dalla macchina», bisbigliò Mr D. Il secondo poliziotto girò intorno alla Focus e aprì la portiera di Lash. «Scenda dall'auto, signore.» Neanche per sogno. Obbedire a quegli idioti? A quegli umani del cazzo? Lui era il figlio dell'Omega, per l'amor 604 del cielo. Non seguiva le regole dei vampiri, figuriamoci quelle che governano l'Homo sapiens. «Signore?» lo incalzò lo sbirro. «Perché invece non si ficca nel culo la sua cazzo di pistola paralizzante?» L'agente si chinò e lo agguantò per il braccio. «La dichiaro in arresto per violenza sessuale. Tutto ciò che dirà potrà essere usato contro di lei in tribunale. Se non può permettersi un avvocato...» «Non dirà mica sul serio, cazzo...» «... gliene verrà assegnato uno d'ufficio. Ha capito bene i diritti....» «Mi lasci andare...» «... che le ho appena esposto?» Ci vollero tutti e due gli agenti per trascinarlo fuori dall'auto, e ovviamente nel frattempo si era radunata una folla di curiosi. Merda. Poteva strappare via le braccia a quegli umani come niente e ficcargliele su per il culo, ma non poteva fare una sceneggiata. Troppi testimoni, «Signore, ha capito i suoi diritti?» Questo gli veniva chiesto mentre veniva fatto piroettare su se stesso, spinto a faccia avanti contro il cofano della macchina e ammanettato. 605 Attraverso il parabrezza, Lash guardò Mr D, che adesso non sembrava più innocente come un agnellino. Aveva socchiuso gli occhi e si poteva solo sperare che si stesse scervellando per trovare una via d'uscita. «Signore? Ha capito i suoi diritti?» «Sì», scattò Lash, furente. «Perfettamente, cazzo.» Lo sbirro sulla sinistra si chinò su di lui. «A proposito, aggiungeremo un altro capo d'accusa per resistenza a pubblico ufficiale. E poi quella bionda aveva diciassette anni.» 606 Capitolo 37 Dietro la grande casa della confraternita, Cormia correva a più non posso sul prato ben rasato, malgrado i piedi nudi e feriti. Correva per perdersi, correva nella speranza di catturare un briciolo di chiarezza, correva perché non c'era un posto dove volesse andare, ma non poteva più restare dov'era. Col fiato che entrava e usciva faticosamente dai polmoni, le gambe che bruciavano e le braccia intorpidite, continuava a correre avanti e indietro: seguiva il muro di cinta fino al limitare della foresta, poi si voltava e tornava verso i giardini. Layla e il Primale. Layla che giaceva con il Primale. Layla nuda con il Primale. Si mise a correre ancora più forte. Lui avrebbe scelto Layla. Non era a suo agio in quel ruolo, quindi avrebbe scelto l'Eletta che aveva già visto per casa e che aveva servito i suoi fratelli con grazia e discrezione. Avrebbe scelto ciò che gli era familiare. Avrebbe scelto Layla. All'improvviso le gambe cedettero e Cormia crollò, sfinita. 607 Quando si fu ripresa abbastanza da alzare la testa si accigliò, ansimante. Era caduta su uno strano fazzoletto di prato tutto spelacchiato, del diametro di un paio di metri. Era come se vi avessero bruciato qualcosa e il terreno non si fosse ancora ripreso. Azzeccatissimo, sotto molti punti di vista. Rotolando sulla schiena guardò il cielo notturno. Le cosce le bruciavano, e anche i polmoni, ma il fuoco vero era dentro il cervello. Il suo posto non era lì, sulla Terra, ma non sopportava l'idea di tornare al Santuario. Le sembrava di essere come l'aria estiva, tra il verde terreno erboso e la galassia trapunta di stelle sopra la sua testa. Non era né di là né di qua... ed era invisibile. Si alzò in piedi e lentamente tornò verso la terrazza. Le finestre della casa erano illuminate. Guardandosi intorno, si rese conto che la tavolozza notturna di quel mondo le sarebbe mancata: i rossi, i rosa, i gialli e i viola delle rose tea erano tenui e delicati, quasi che i fiori si sentissero intimiditi. In biblioteca, il rosso cupo dei tendaggi era come un fuoco che covava sotto la cenere, e la sala del biliardo, con il suo vivido verde scuro, sembrava fatta di smeraldi. Che bello. Era tutto così bello, un piacere per gli occhi. Per rinviare di un altro po' la partenza andò alla piscina. L'acqua nera le parlava, la superficie scintillante sussurrava tramite i sospiri melodiosi e l'invitante sfavillio della lima sulle piccole onde. 608 Cormia lasciò cadere la veste e si immerse in quella morbida oscurità, penetrando l'ordito della superficie della piscina, spingendosi sul fondo e fendendo l'acqua con poderose bracciate. Quando riemerse, all'altra estremità, una decisione si insinuò dentro di lei insieme all'aria con cui si riempì i polmoni. Avrebbe informato Fritz che se ne stava andando, chiedendogli di avvertire Bella. Poi, al Santuario, avrebbe chiesto udienza presso la Direttrice Amalya e con l'occasione avrebbe avanzato la richiesta di diventare una scriba segregata. Sapeva che tra le mansioni di una scriba rientrava quella di seguire le tracce della prole del Primule, ma preferiva averci a che fare nel regno delle lettere piuttosto che essere costretta a posare gli occhi su legioni di cuccioli dai capelli multicolori e dagli splendidi occhi gialli. Perché ci sarebbero stati dei cuccioli. Sebbene lo avesse provocato in merito alla sua forza, il Primale avrebbe fatto ciò che doveva. Adesso lottava ancora più strenuamente con il proprio ruolo, ma il suo senso del dovere avrebbe prevalso sull'interesse personale. Bella aveva perfettamente ragione nel giudizio che aveva espresso su di lui. «Be', salve.» Cormia si ritrovò davanti un paio di giganteschi anfibi con la punta rinforzata in metallo. Trasalendo, fece 609 scorrere gli occhi lungo il corpo slanciato di un maschio che indossava quelli che lì chiamavano blue jeans. «E tu chi sei?» chiese lui con una bella voce calda, accovacciandosi sui talloni. Aveva due occhi sensazionali, infossati e di due colori diversi, con le ciglia dello stesso nero corvino dei capelli. Prima che Cormia potesse rispondere, John Matthew sopraggiunse alle spalle dello sconosciuto e fischiò forte per attirare la sua attenzione. Quando il giovane sul bordo della piscina si voltò a guardarlo da sopra la spalla, John scosse la testa gesticolando frenetico. «Oh... merda, scusa tanto.» Il giovane bruno si erse in tutta la sua statura alzando le mani, quasi a scusarsi della gaffe. «Non sapevo chi fossi.» Un altro giovane uscì dalla portafinestra della biblioteca. Aveva i capelli rossi, macchie di sangue sulla camicia e l'aria stremata. Erano soldati che combattevano con John, pensò Cormia. Giovani soldati. «Chi sei?» chiese a quello con gli occhi belli e strani. «Qhuinn. Sono con lui», e agitò il pollice indicando John Matthew. «Il rosso è...» «Blaylock», lo interruppe brusco l'altro. «Io sono Blaylock.» «Stavo solo facendo una nuotata», disse Cormia. 610 «Lo vedo.» Il sorriso di Qhuinn adesso era affabile, non più sensuale. Eppure era attratto da lei, pensò Cormia. Lo sentiva. Soltanto allora realizzò che, col percorso appena scelto, sarebbe rimasta per sempre illibata. In quanto scriba segregata non sarebbe mai stata tra le Elette visitate dal ¥ rimale. Dunque non avrebbe mai rivissuto quel meraviglioso senso di tempesta interiore che si scatenava dentro di lei in sua presenza. Mai più. L'infinita distesa degli anni a venire si dipanò davanti a lei toccando una corda irrequieta e disperata e, sull'onda di quella insoddisfazione, si spinse attraverso l'acqua tiepida, fino alla scaletta. Afferrando i sostegni si tirò su e sentì l'aria fredda sulla pelle; sapeva che tutti e tre i soldati la stavano osservando. Tale consapevolezza la demoralizzò e insieme la imbaldanzì. Quella era l'ultima volta che occhi maschili si posavano sul suo corpo, e il pensiero che stava per confinare per sempre in una cella di clausura quanto c'era di femminile in lei era difficile da mandare giù. Non poteva andare con nessuno che non fosse il Primale ma, per come stavano le cose con le sue sorelle, non sopportava di andare con lui. Dunque quella era la fine. Pochi istanti ancora e si sarebbe avvolta nella tunica, dicendo addio per sempre a qualcosa che non era mai neanche veramente cominciato. 611 Dunque non si sarebbe scusata per la propria nudità né avrebbe nascosto il proprio corpo, uscendo dal morbido abbraccio dell'acqua. Phury si rimaterializzò nei giardini dietro la casa della confraternita perché non gli andava di incontrare nessuno. Con quello che gli ronzava per la testa, varcare il portone principale col rischio di... I sui piedi si fermarono, il suo cuore si fermò, il suo respiro si fermò. Cormia stava uscendo dalla piscina, le splendide forme femminili stillanti acqua... mentre tre giovani freschi di transizione la contemplavano impalati, a tre o quattro metri di distanza, con le lingue penzoloni fino all'ombelico. Oh... diavolo... no. Il vampiro innamorato che era in lui si ridestò come una belva inferocita, facendo piazza pulita delle menzogne di cui si era nutrito circa i propri sentimenti, uscendo con un ruggito dalla caverna del suo cuore e strappandogli via fino all'ultimo brandello di civiltà. La sua femmina se ne stava lì, nuda, sotto gli sguardi concupiscenti di altri maschi. Solo questo sapeva. Il resto non aveva importanza. Prima ancora di rendersene conto emise un ringhio che lacerò l'aria come un tuono. John Matthew e i suoi amici volsero gli occhi su di lui, poi tutti e tre 612 indietreggiarono all'unisono. Di corsa. Come se la piscina avesse preso fuoco. Cormia, dal canto suo, non guardò nella sua direzione. Non si affrettò neanche a coprirsi. Al contrario, raccolse la tunica e se la fece scivolare sulle spalle con lentezza deliberata, in un latente gesto di sfida. Cosa che lo fece infuriare come non mai. «Entra in casa», ordinò imperioso. «Svelta.» Lei lo guardò e, con voce ferma quanto il suo sguardo, disse, «E se decidessi di non farlo?» «Ti carico in spalla e ti porto dentro di peso.» Phury si voltò verso i ragazzi. «Questi sono affari nostri, non vostri. Sparite, se ci tenete alla pelle. Subito.» Il terzetto esitò finché Cormia disse, «Andrà tutto bene. Non preoccupatevi.» Mentre si voltavano, Phury ebbe la sensazione che non sarebbero andati lontano, ma Cormia non aveva bisogno di protezione. I vampiri innamorati erano mortalmente pericolosi per tutti tranne che per le loro compagne. Lui era fuori controllo, sì, ma era Cormia ad avere il telecomando. E aveva il sospetto che lei lo sapesse. Con estrema calma, Cormia si strizzò i capelli. «Perché volete che entri?» «Cammini da sola o vuoi che ti porti io?» 613 «Vi ho chiesto perché.» «Perché adesso andrai in camera mia.» Le parole furono sospinte fuori dalla bocca dal suo respiro affannoso. «In camera vostra? In camera mia, vorrete dire. Perché mi avete detto di uscire dalla vostra cinque mesi fa.» Il pene era la sede della sua belva e premeva per essere liberato in modo da potersi liberare a sua volta dentro di lei. E l'eccitazione era innegabile: il suo treno era sul binario, il biglietto obliterato, il viaggio già cominciato". Anche per Cormia. Phury le andò vicino. Sentiva sulla pelle il calore rovente emanato dal suo corpo, e il suo profumo di gelsomino era denso come il sangue che gli scorreva nelle vene. Le mostrò le zanne fulmineo soffiando come un gatto. «Andiamo in camera mia.» «Non ho nessun motivo di andare in camera vostra.» «Sì, invece.» «No, temo proprio di no», fece lei gettando con noncuranza sulla spalla la grossa coda attorcigliata. Ciò detto gli voltò le spalle ed entrò senza fretta. Lui la seguì come si fa con una preda, standole alle calcagna attraverso la biblioteca, su per il sontuoso scalone e fino in camera sua. 614 Cormia socchiuse appena l'uscio e sgattaiolò dentro. Prima di restare chiuso fuori, Phury sbatté il palmo sul pannello di legno ed entrò con la forza. Fu lui a chiudere la porta. A chiave. «Levati la tunica.» «Perché?» «Perché se te la levo io rischio di farla a brandelli.» Cormia alzò il mento e socchiuse le palpebre; così, anche se doveva guardare in su per incrociare il suo sguardo, era come se lo guardasse dall'alto in basso. «Perché dovrei spogliarmi?» «Voglio marchiarti», ringhiò lui dando voce all'istinto territoriale insito in ogni fibra del suo corpo. «Veramente? Vi rendete conto che non avrebbe alcun senso?» «Ne ha eccome, invece.» «Prima non mi volevate.» «Col cavolo.» «Mi avete paragonato a quell'altra femmina con cui avete tentato di andare senza riuscirci.» «E tu non mi hai lasciato finire. Lei era una puttana che ho pagato al solo scopo di liberarmi della mia 615 verginità. Non era una femmina che desideravo. Non era te.» Inspirò a fondo il suo odore e lo espirò, facendo le fusa come un gatto. «Lei non era te.» «Eppure avete accettato Layla, non è così?» Quando lui non rispose, Cormia si avviò senza fretta verso il bagno e aprì l'acqua nella doccia. «Sì che l'avete accettata. Come Prima Sposa.» «Lei non c'entra, adesso», ribatté lui dalla soglia. «Come sarebbe? Le Elette sono un tutt'uno e io sono ancora una di loro.» Cormia si voltò verso di lui e lasciò cadere la tunica. «O sbaglio?» Phury sentì l'uccello ergersi con prepotenza dietro la cerniera dei calzoni. Sotto i faretti del soffitto il corpo di lei luccicava, letteralmente, i seni alti e sodi, le cosce leggermente divaricate. Cormia s'infilò sotto la doccia e lui rimase a guardarla mentre inarcava la schiena e si lavava i capelli. A ogni sua mossa perdeva, un pezzetto dopo l'altro, quel poco che ancora restava del suo lato civilizzato. In una qualche oscura, primitiva sede del suo cervello, sapeva che avrebbe dovuto andarsene, perché stava per rendere irrimediabilmente insostenibile una situazione già di per sé complicata. Ma il suo corpo aveva trovato il nutrimento di cui aveva bisogno per sopravvivere. E non appena lei fosse uscita da quella maledetta doccia, se la sarebbe mangiata viva. 616 Capitolo 38 Sì, lo avrebbe lasciato fare. Mentre si sciacquava la schiuma dai capelli, Cormia sapeva che nel momento in cui fosse uscita dalla doccia sarebbe finita sotto il Primale. Gli avrebbe permesso di possederla. E, al tempo stesso, anche lei lo avrebbe posseduto. Basta con i quasi e i per poco, basta con i forse sì e forse no. Basta con il destino crudele di cui erano entrambi prigionieri. Basta fare quello che altri le avevano imposto di fare. Lei voleva il Primale. E lo avrebbe avuto. Al diavolo le sue sorelle. Lui era suo. Ma solo per stanotte, puntualizzò una voce dentro di lei. «'Fanculo», esclamò lei rivolta alla parete di marmo. Chiuse il rubinetto con forza e spalancò la porta. Il getto d'acqua s'interruppe bruscamente e lei si trovò davanti il Primale. Era nudo. In erezione. Le zanne allungate al massimo. 617 Il ruggito che lanciò era degno di un leone; con quel suono che riecheggiava per tutto il marmo del bagno, Cormia si ritrovò ancora più bagnata in mezzo alle gambe. Lui le si avvicinò e lei non lo respinse quando l'afferrò per la vita sollevandola da terra. Non fu delicato, ma lei non cercava la delicatezza... e per assicurarsi che lo capisse gli diede un morso alla spalla mentre passavano in camera da letto. Lui ruggì di nuovo sbattendola sul letto. Lei rimbalzò una, due volte sul materasso, poi rotolò a pancia in giù cercando di strisciare via, tanto per farlo penare. Non aveva la minima intenzione di dirgli di no ma, accidenti, lo avrebbe costretto a inseguirla... Con un balzo, il Primale le atterrò sulla schiena immobilizzandole le mani sopra la testa. Mentre Cormia cercava di voltarsi sotto di lui, le aprì le gambe con le ginocchia tenendola ferma con il bacino. Il membro eretto scivolò verso il basso premendo contro di lei e facendola inarcare. Le lasciò le braccia libere quel tanto che bastava per permetterle di voltare le spalle e guardarlo. La baciò. A lungo e con trasporto. E lei gli tenne testa, non più schiava della tradizionale arrendevolezza delle Elette. Con una mossa repentina lui si ritrasse, si spostò leggermente e... 618 Cormia gemette quando la penetrò con un unico, vigoroso affondo. Poi non ci fu tempo per parlare, pensare o indugiare sul dolore che sentiva quando i fianchi di lui divennero una forza motrice implacabile. Era una cosa buona e giusta, tutto quanto: dall'odore penetrante e speziato di lui al suo peso che gravava su di lei, dal modo in cui i suoi capelli le ricadevano sul viso agli ansiti che uscivano dalle loro labbra schiuse. Quando lui cominciò a spingersi più a fondo, Cormia spalancò ancora di più le gambe riecheggiando il suo ritmo con i fianchi. Aveva le lacrime agli occhi, ma non si soffermò a pensarci, travolta dall'impeto incontenibile di lui; un grumo di fuoco prese vita nel punto in cui lui pompava avanti e indietro, al punto che temette di rimanere arsa viva... e non lo trovò affatto spiacevole. Vennero nello stesso istante, e nel bel mezzo dell'orgasmo Cormia lo scorse da sopra la spalla, la testa gettata all'indietro, la mascella contratta, i possenti muscoli delle braccia in rilievo sotto la pelle liscia. Ben presto, però, si smarrì del tutto e non riuscì a vedere più niente. Anche il suo corpo si contraeva e si rilassava, si contraeva e si rilassava avidamente intorno al sesso del Primale, spremendolo fino all'ultima goccia, facendolo mugolare e contorcere di piacere, lasciandosi marchiare da lui. Poi tutto finì. Dopo, Cormia pensò ai temporali estivi che ogni tanto infuriavano sopra la grande casa della confraternita. 619 Quando si placavano, il silenzio era ancora più profondo per la violenza con cui si erano scatenati. Era lo stesso per loro due. Lì, immobili, col respiro che si normalizzava e il cuore che rallentava, era difficile ricordare la vivida urgenza che li aveva spinti fino a quell'assordante momento di silenzio. Guardò in faccia il Primale e vide lo sgomento e poi lo shock prendere il posto dell'ossessiva smania di marchiarla. Che cosa si aspettava? Che quella danza di corpi lo inducesse a rinunciare alla posizione di Primale, a infrangere il suo giuramento dichiarandola sua unica shellan. Credeva che sarebbe impazzito di gioia perché, alla vigilia della sua partenza, travolti da un impulso irrefrenabile, avevano fatto ciò che già da mesi avrebbero dovuto compiere con reverenza e avvedutezza? «Vi prego, uscite dal mio corpo», disse con voce strozzata. Phury non riusciva a comprendere ciò che aveva fatto, eppure la prova era lì, davanti ai suoi occhi: il corpo snello di Cormia schiacciato sotto il peso del suo, le guance rigate di lacrime e i lividi ai polsi. L'aveva presa da dietro, come una cagna, rubandole la verginità. L'aveva tenuta giù, costringendola a sottomettersi perché lui era più forte. Era affondato dentro di lei senza riguardo per il dolore che sicuramente aveva sentito. 620 «Vi prego, uscite dal mio corpo.» La voce di lei era tremante e quel vi prego lo fece morire. Poteva solo chiederglielo perché era completamente in suo potere. Si staccò da lei e scese dal letto, barcollando come un ubriaco. Cormia si voltò su un fianco raggomitolandosi su se stessa. La sua spina dorsale sembrava così fragile, la delicata colonna vertebrale suscettibile di spezzarsi sotto alla pelle immacolata. «Mi dispiace.» Dio, come suonavano vane quelle parole, due secchi vuoti. «Vi prego, andate via.» Visto il modo in cui l'aveva sopraffatta, soddisfare la sua richiesta appariva fondamentale. Anche se lasciarla era l'ultima cosa che voleva fare. Phury entrò in bagno, si vestì e andò alla porta. «Dopo dobbiamo parlare...» «Non c'è nessun "dopo". Voglio chiedere di diventare una scriba segregata. Così tramanderò la vostra storia, ma non ne farò parte.» «Cormia, no.» Lei lo guardò da sopra a spalla. «Il mio posto è là.» Poi affondò di nuovo la testa nel guanciale. 621 «Andate», disse. «Per favore.» Phury uscì senza esserne veramente cosciente. Solo qualche tempo dopo realizzò di essere tornato in camera sua; era seduto sul bordo del letto a fumare imo spinello. Nel silenzio della stanza gli tremavano le mani, il cuore era una batteria elettronica scassata e il piede batteva sul pavimento, Il mago era ben piantato al centro della sua mente, ritto nella lunga veste nera agitata dal vento, la figura stagliata contro un orizzonte vasto e grigio. In mano, in equilibrio sul palmo, reggeva un teschio. Che aveva gli occhi gialli. Te l'avevo detto che l'avresti fatta soffrire. Te l'avevo detto. Phury guardò lo spinello che aveva in mano, sforzandosi di vedere qualcos'altro oltre alla rovina. Non ci riuscì. Era stato una bestia. Ti avevo detto cosa sarebbe successo. Avevo ragione. Avevo ragione sin dall'inizio. E, a proposito, la maledizione non è la tua nascita. Non sta nel fatto che sei nato dopo il tuo gemello. La maledizione sei tu. Che fossero nati altri cinque gemelli insieme a te oppure nessuno, l'effetto su tutte le vite intorno a te sarebbe stato lo stesso. Phury prese il telecomando e accese lo stereo Bose, ma nell'istante in cui ima delle splendide, voluttuose opere di Puccini inondò la stanza, gli salirono le lacrime agli occhi. Che musica incantevole, ma anche intollerabile se paragonava la magica melodia della voce di Luciano 622 Pavarotti ai grugniti che aveva emesso stando sopra Cormia. L'aveva tenuta giù. Le aveva bloccato le braccia. L'aveva montata da dietro... La maledizione sei tu. Mentre la voce del mago continuava ad assillarlo, martellante, si sentì ancora una volta soffocare dall'edera del passato che, uno strato dopo l'altro, lo seppelliva sotto i suoi fallimenti: tutte le cose che non aveva portato a termine, tutte le volte che avrebbe potuto fare la differenza ma non era stato all'altezza, tutta la sollecitudine che aveva tentato di dimostrare, senza riuscirci... e adesso si aggiungeva un nuovo strato. Quello relativo a Cormia. Sentì l'ultimo rantolo di suo padre. E il crepitio del corpo di sua madre consumato dalle fiamme. E la collera del suo gemello per essere stato salvato. Ma peggiore di tutto il resto era la voce di Cormia: Vi prego, uscite dal mio corpo. Phury si tappò le orecchie con le mani, anche se non serviva a niente. La maledizione sei tu. Con un gemito si strine la testa tra le mani, con tanta forza da far tremare le braccia. 623 Non ti piace la verità? disse il mago, sprezzante. Non ti piace la mia voce? Sai come farmi sparire. Il mago lasciò cadere il teschio nel mucchio di ossa ai suoi piedi. Sai come fare. Phury fumò disperatamente, terrorizzato da tutto quello che c'era nella sua testa. Lo spinello non intaccava neanche superficialmente l'odio che provava per se stesso o le voci che lo tormentavano. Il mago poggiò lo scarpone nero in cima al teschio dagli occhi gialli. Sai cosa fare. 624 Capitolo 39 A nord, sugli Adirondack, in fondo a una grotta nel Black Snake State Park, il vampiro che due giorni prima, era crollato all'arrivo dell'alba, non riusciva a capire perché il sole splendesse su di lui senza mandarlo a fuoco. A meno che fosse nel Fado. No... quello non poteva essere il Fado. I dolori lancinanti del suo corpo e le urla nella sua testa erano troppo simili a quelli che sentiva sulla terra. Ma allora il sole? Era avvolto dalla sua calda luce eppure respirava. Cribbio, se tutta quella storia che i vampiri non tollerano la luce del giorno era una balla, l'intera razza era fatta da idioti. Ma, un momento, non era in una grotta? Quindi, come facevano a raggiungerlo i raggi del sole? «Mangia questo», disse il sole. Okay, ammesso e non concesso che fosse ancora vivo, chiaramente aveva le allucinazioni. Perché quello che gli venne spinto sotto il muso assomigliava tanto a un Big Mac, il che era impossibile. 625 A meno che fosse effettivamente morto e il Fado, invece dei cancelli dorati, avesse gli Archi Dorati della McDonald's. «Senti», disse il sole, «se il tuo cervello ha dimenticato come si fa a mangiare, apri la bocca e basta. Ti ficco dentro questo coso così vediamo se i tuoi denti si ricordano cosa fare.» Il vampiro socchiuse le labbra, perché l'aroma della carne stava risvegliando il suo stomaco e lo faceva sbavare come un cane. Quando gli venne spinto in bocca l'hamburger, la mascella mise il pilota automatico chiudendosi con forza. Staccò un grosso boccone mugolando di piacere. Per un istante il fremito d'approvazione delle papille gustative sostituì tutta la sua sofferenza, compresa quella mentale. Inghiottì con un altro mugolio di piacere. «Mangiane ancora un po'», disse il sole, premendogli il Big Mac contro le labbra. Lui lo divorò tutto. E mangiò anche un po' di patatine fritte; malgrado fossero tiepide erano comunque una manna dal cielo. Poi sentì che gli sollevavano la testa e bevve un goccio di Coca Cola leggermente acquosa. «Il Mickey D più vicino è a una trentina di chilometri», spiegò il sole, quasi cercasse di colmare il silenzio. «Per questo la roba si è un po' raffreddata.» Il vampiro ne voleva ancora. 626 «Sì, ecco il bis. Apri bene.» Un altro Big Mac. Altre patatine fritte. Altra Coca Cola. «Ho fatto del mio meglio, ma hai bisogno di sangue», disse il sole, come se lui fosse un bambino. «E devi andare a casa.» Quando il vampiro scosse la testa, si accorse di essere sdraiato sulla schiena con una lastra di pietra per cuscino e il fondo di terra battuta come materasso. Non era nella stessa grotta di prima, però. Questa aveva un odore diverso. Un odore come di... aria fresca, aria fresca primaverile. Anche se... forse quello era l'odore del sole? «Sì, invece, devi tornare a casa.» «No...» «Be', allora abbiamo un problema, io e te», bofonchiò il sole. Ci fu un fruscio, come se qualcuno molto grosso si fosse accovacciato sui talloni. «Tu sei il favore che mi serve per tornare.» Il vampiro si accigliò, inspirò a fatica e gracchiò, «Non ho un posto dove andare. Niente favori.» «Non sta a te decidere, amico. E neanche a me.» Il sole scosse la testa, o almeno così parve, perché le ombre indistinte che proiettava nella caverna si mossero come onde. «Purtroppo devo riportarti a casa.» 627 «Ma io non sono niente per te.» «In un mondo perfetto sarebbe vero. Purtroppo, però, questo non è il Paradiso. Proprio per niente.» Il vampiro non poteva essere più d'accordo, ma tutta quella storia del tornare a casa era una grandissima stronzata. Mentre l'energia ricavata dal cibo si diffondeva nel suo organismo, trovò la forza di rizzarsi a sedere, si stropicciò gli occhi e... «Oh... merda», esclamò fissando il sole, incredulo. Il sole annuì, tetro. «Già, concordo perfettamente. Dunque, la situazione è questa, possiamo procedere con le buone o con le cattive. Scegli tu. Anche se, tengo a precisare, se sarò costretto a trovare casa tua senza il tuo aiuto, la cosa richiederà degli sforzi da parte mia, e questo mi farà incazzare di brutto.» «Io laggiù non ci torno. Mai più.» Il sole si passò una mano tra i lunghi capelli biondi e neri. Anelli d'oro brillavano alle sue dita, scintillavano alle orecchie, luccicavano al naso e sfolgoravano intorno al collo taurino. Gli occhi di un bianco abbagliante, privi di pupille, lampeggiarono di rabbia, l'anello azzurro vivo intorno a quelle iridi lunari divenne blu scuro. «Okay. Con le cattive, allora. Dì buonanotte, Gracie.» Mentre tutto diventava nero, il vampiro sentì l'angelo caduto Lassiter dire, «Figlio di puttana.» 628 Capitolo 40 «Avete visto la faccia di Phury?» disse Blay. All'altra estremità della cucina, John lo guardò annuendo, d'accordissimo con lui. Lui e i suoi amici si stavano scolando qualche birretta per tirarsi un po' su. A velocità supersonica. Non aveva mia visto un vampiro con quella faccia. Mai. «Era una faccia da vampiro innamorato, altro che», sentenziò Qhuinn; andò al frigorifero, lo aprì e tirò fuori altre tre bottiglie dalla scorta di Sam Adams della regina. Blay prese quella che gli aveva allungato, poi con una smorfia si tastò la spalla. John stappò la sua e bevve un sorso. Poi mise giù la bottiglia e, a gesti, disse, Sono preoccupato per Cormia, «Phury non le farà male», disse Qhuinn sedendosi al tavolo. «Naa, non esiste. Noi poteva anche mandarci al creatore in anticipo, ma lei no.» John sbirciò in sala da pranzo. Ho sentito delle porte che sbattevano. Forte. «Be', c'è un sacco di gente in questa casa...» Qhuinn si guardò intorno come se fosse alle prese con un difficile 629 problema di matematica. «Compresi noi tre. Va' a sapere.» John si alzò in piedi. Devo andare a controllare. Non... sì, insomma, starò attento a non disturbare. Voglio solo assicurarmi che sia tutto a posto. «Vengo con te», disse Qhuinn accennando ad alzarsi di nuovo. No, tu stai qui. E, prima che cominci a far andare la bocca, vaffanculo. Questa è casa mia, e non ho bisogno di qualcuno che mi sta appiccicato al sedere come un'ombra. «Okay, okay, okay.» Qhuinn spostò gli occhi su Blay. «Allora noi due andiamo nella saletta per la fisioterapia. Ci vediamo lì?» «Perché dobbiamo andare nella saletta per fisioterapia?» chiese Blay senza guardarlo. la «Perché tu stai ancora sanguinando e da qui non sai come arrivare alla cassetta del pronto soccorso.» Qhuinn guardò fisso Blay. Blay guardò fìsso la sua birra. «Perché non mi dici semplicemente come arrivarci?» borbottò Blay. «E come pensi di riuscire a medicarti la schiena?» 630 Blay bevve una lunga sorsata della sua Sam Adams. «E va bene. Prima però voglio finire la mia birra. E devo mangiare qualcosa. Sto morendo di fame.» «Bene. Cosa vuoi mangiare?» Come quel detective della tivù, Joe Friday, erano tutti e due rigidi e si limitavano ai fatti. Ci vediamo là, disse John, voltandosi. Cribbio, vedere quei due che si tenevano il muso in un certo senso sconvolgeva l'intero ordine mondiale. Era sbagliato e basta. John uscì passando dalla sala da pranzo; giunto in cima alle scale stava quasi correndo. Al primo piano sentì odore di fumo rosso e un'aria d'opera uscire dalla stanza di Phury - quella poetica melodia che ascoltava di solito. Difficilmente poteva essere la colonna sonora di un rapporto sessuale violento. Forse dopo aver litigato si erano separati, chiudendosi ciascuno nella propria stanza? John avanzò furtivo fino alla camera di Cormia e si mise in ascolto. Niente. Anche se in corridoio filtrava un effluvio dalla ricca fragranza floreale. Vedere se Cormia stava bene non poteva far male a nessuno, pensò, quindi alzò le nocche e bussò piano alla porta. Non ottenendo risposta, fischiò. «John?» disse Cormia. 631 Lui aprì la porta pensando di avere ottenuto il permesso di... E rimase impietrito. Cormia era sdraiata di traverso sul letto, sopra un groviglio di piumini e lenzuola. Dava la schiena alla porta, era nuda e c'era sangue... sull'interno delle sue cosce. Lei alzò la testa sopra la spalla, poi si affrettò a coprirsi. «Vergine santissima!» Mentre Cormia si tirava il piumone su fino al collo, John rimase lì impalato, col cervello che tentava di elaborare la scena davanti ai suoi occhi. Le aveva fatto male. Phury le aveva fatto male. Cormia scosse la testa. «Oh... accidenti.» John batté le palpebre una volta, poi un'altra... e rivide il se stesso qualche anno prima in un lurido ballatoio, dopo quello che aveva subito. Anche all'interno delle sue cosce c'era qualcosa. Qualcosa sul suo viso doveva averla allarmata parecchio perché Cormia tese un braccio verso di lui. «John... oh, John, no... sto bene... sto bene... fidati, sto...» John si voltò e con calma uscì dalla stanza. «John!» 632 Anni prima, quando era magrolino e indifeso, non aveva potuto vendicarsi del suo aggressore. Adesso, mentre in due falcate copriva i tre metri che lo separavano dalla porta di Phury, era in condizione di fare qualcosa per il suo passato e per il presente di Cormia. Adesso era abbastanza grosso e abbastanza forte. Adesso poteva prendere le difese di qualcuno che si era trovato alla mercé di una persona più forte. «John! No!» gridò Cormia precipitandosi fuori dalla stanza. John non bussò. No, non perse tempo a bussare. A quel punto i suoi pugni non erano destinati al legno. Erano destinati alla carne. Spalancando la porta, trovò Phury seduto sul letto con uno spinello tra le labbra. I loro occhi si incontrarono; il volto di Phury traboccava di senso di colpa, dolore e rimpianto. Cosa che tagliò la testa al toro. Con un ruggito silenzioso, John si avventò contro il fratello, che non fece assolutamente nulla per fermare l'attacco. Anzi, si offrì ai suoi colpi abbandonandosi all'indietro, sui cuscini, mentre John lo tempestava di pugni sulla bocca, sugli occhi e sulla mascella, senza fermarsi. Qualcuno stava gridando. Una femmina. Qualcuno arrivò di corsa. 633 Urla. Molte urla. «Ma cosa cazzo succede?» tuonò Wrath. John non sentì niente, preso com'era a massacrare di botte Phury. Il fratello non era più il suo insegnante o il suo amico, era un violento e uno stupratore. Il sangue scorreva sulle lenzuola. Più che giusto, cazzo. Alla fine qualcuno lo tirò via... Rhage, era Rhage... e Cormia corse da Phury. Lui però la tenne a distanza, rotolando via. «Ma Cristo santissimo!» sibilò furente Wrath. «Volete piantarla una buona volta?» La musica lirica in sottofondo faceva a pugni con la scena in corso: la sua maestosa bellezza era in stridente contrasto con la faccia devastata di Phury, con la rabbia cieca di John e con le lacrime di Cormia. Wrath si voltò verso John. «Si può sapere cosa cazzo ti ha preso?» «Me lo meritavo», intervenne Phury, pulendosi il labbro sanguinante. «Meritavo anche di peggio.» Wrath voltò la testa verso il letto. «Cosa?» «No, non se lo meritava», disse Cormia, stringendosi al collo le falde della veste. «È stato consensuale.» 634 «No, invece.» Phury scosse la testa. «Non è vero.» Il re si irrigidì. «Che cosa è stato consensuale?» chiese all'Eletta con voce bassa e tesa. Mentre tutti i presenti spostavano gli occhi dall'imo all'altra, John li teneva fìssi su Phury. Se mai Rhage avesse allentato la presa, si sarebbe scagliato di nuovo contro di lui. Chiunque ci fosse a bordo ring. Lentamente, Phury si mise a sedere con una smorfia, la faccia che già cominciava a gonfiarsi. «Non mentire, Cormia.» «Pensate a ciò che avete detto voi stesso», sbottò lei. «Il Primale non ha fatto nulla di male...» «Palle, Cormia! Ti ho preso con la forza...» «Non è vero...» Qualcuno si intromise nella discussione. Poi un altro. Anche John intervenne, gridando mute oscenità all'indirizzo di Phury mentre lottava come un forsennato per liberarsi dalla stretta di Rhage. Wrath andò alla scrivania, prese un pesante portacenere di cristallo e lo scaraventò contro il muro. L'oggetto andò in mille pezzi, lasciando nell'intonaco un'ammaccatura grossa come una testa. «Se qualcuno si azzarda a dire un'altra stramaledetta parola faccio la stessa cosa col suo cranio, sono stato chiaro?» 635 Tutti ammutolirono. E non fiatarono più. «Tu» - disse Wrath indicando John - «esci di qui mentre cerco di capirci qualcosa.» John scosse la testa, incurante del portacenere. Voleva restare. Sentiva il bisogno di restare. Qualcuno doveva proteggere... Cormia gli andò vicino e gli prese la mano, stringendola forte. «Sei un maschio di valore, e so che sei convinto di proteggere il mio onore, ma guardami negli occhi e vedrai cos'è successo veramente.» John la scrutò attentamente. C'era tristezza sul suo volto, ma era la tristezza struggente che ti prende quando sei infelice. C'era anche risolutezza e una forza inequivocabile. Non c'era traccia di paura, soffocante disperazione o atroce vergogna. Cormia non era nello stato in cui si era trovato lui dopo lo stupro. «Vai», lo incoraggiò piano lei. «Va tutto bene. Veramente.» John guardò Wrath, che annuì dicendo, «Non so in che cosa sei incappato, ma ho intenzione di scoprirlo. Lascia che mi occupi io di questa faccenda, figliolo. Non temere per Cormia, la tratterò secondo giustizia. Ora, tutti quanti, fuori.» 636 John strinse con forza la mano di Cormia e uscì con Rhage e con gli altri. Non appena mise piede in corridoio, la porta venne chiusa e lui sentì delle voci sommesse. Non andò lontano. Non ce la fece. Giunto davanti allo studio di Wrath, le ginocchia si presero una pausa cedendo di schianto e facendolo crollare su una delle sedie d'antiquariato che punteggiavano il corridoio. Dopo aver assicurato a tutti quanti che stava bene lasciò penzolare la testa, respirando lentamente. Il passato era vivo nella sua testa, rianimato da ciò che aveva visto nella stanza di Cormia. Chiudere gli occhi non serviva a niente. Tentare di calmarsi ragionando non serviva a niente. Mentre cercava disperatamente di riprendersi, si rese conto che erano passate settimane dall'ultima volta che lui e Zsadist avevano fatto la solita passeggiata nei boschi. Via via che la gravidanza di Bella procedeva e diventava sempre più motivo di preoccupazione, quelle scarpinate notturne, un tempo quotidiane, durante le quali lui e Zsadist vagavano per i boschi in silenzio si erano fatte sempre più rare. Adesso ne avrebbe fatta volentieri una. Alzò la testa e lanciò un'occhiata alla galleria delle statue, chiedendosi se Zsadist fosse in casa. Probabilmente no, visto che non era insieme agli altri quando, poco prima, era scoppiato quel putiferio. Data la carneficina di quella notte, doveva avere il suo bel da fare sul campo. 637 John si alzò e andò in camera sua. Si chiuse dentro e si stese sul letto, poi mandò un SMS a Qhuin e Blay dicendo che voleva farsi una dormita. Avrebbero ricevuto il messaggio una volta usciti dal tunnel. Fissando il soffitto pensò... al numero tre. Non c'è due senza tre. Proprio vero. Le disgrazie non vengono mai sole, infatti arrivano tre per volta. E non sempre implicano la morte. Tre volte aveva perso il controllo nel corso dell'ultimo anno. Tre volte era esploso e aveva aggredito qualcuno. Due volte Lash e una Phury. Sei instabile, disse ima voce. Be', però aveva i suoi buoni motivi. La prima volta Lash aveva provocato Qhuinn. La seconda volta Lash se l'era più che cercata. E questa volta, la terza... le prove circostanziali erano schiaccianti. Chi non sarebbe passato alle vie di fatto avendo visto una femmina ridotta in quello stato? Che razza di maschio poteva far finta di niente? Sei instabile. Chiudendo gli occhi, cercò di non ricordare la rampa di scale in quel palazzo cadente dove abitava da solo. Cercò di non ricordare il rumore di quegli scarponi che lo rincorrevano su per i gradini. Cercò di non ricordare il tanfo di muffa stantia, urina fresca e colonia mista a sudore che gli aveva invaso le narici quando era successo quello che era successo... 638 Non riusciva a liberarsi dei ricordi. Specie il ricordo degli odori. La muffa era quella del muro contro cui era stato spinto con la faccia. L'urina era la sua, e gli era colata lungo l'interno delle cosce fino ai calzoni calati a forza. La colonia mista a sudore era quella del suo aggressore. Il ricordo di quella scena era ancora freschissimo. Riviveva le sensazioni fisiche di allora con la stessa chiarezza di quelle presenti, rivedeva la scala come vedeva la stanza in cui si trovava in quel momento. Fresco... fresco... freschissimo... e sul cartone del latte di quell'episodio terrificante non c'era data di scadenza, a quanto pareva. Non ci voleva una laurea in psicologia per capire che le radici del suo temperamento esplosivo erano in tutto quello che si teneva dentro. Per la prima volta in vita sua voleva parlare con qualcuno. No... non esattamente. Rivoleva indietro una persona in particolare, una persona che gli apparteneva. Voleva suo padre. Dopo che John si era esibito nel suo numero alla Mike Tyson, la faccia di Phury sembrava cotta allo spiedo e servita su un letto di insalata appena tagliata della varietà "ho toccato il fondo." «Senti, Wrath... non prendertela con John.» 639 «Si è trattato di un equivoco», disse Cormia rivolgendosi al re. «Nient'altro.» «Cosa diavolo è successo tra voi due?» chiese Wrath. «Niente», rispose Cormia. «Assolutamente niente.» Il re non se la bevve neanche per un secondo, a dimostrazione del fatto che al loro impavido condottiero il cervello non mancava; al momento, però, Phury non aveva la forza di argomentare in favore della verità. Non smetteva di tamponarsi col dorso del braccio la bocca maciullata mentre Wrath continuava a parlare e Cormia continuava a difenderlo, dio solo sapeva perché. Wrath li guardò torvo da dietro gli occhiali avvolgenti. «Sentite, voi due, devo fracassare qualcos'altro per costringervi a piantarla con le cazzate? Col cavolo che non è successo niente. John è una testa calda, ma non è un...» «John ha frainteso ciò che ha visto», lo interruppe Cormia. «Che cosa ha visto?» «Niente. Vi dico che non era niente; è così e basta.» Wrath la squadrò per bene, quasi cercasse dei lividi. Poi guardò serio Phury. «E tu cosa cazzo hai da dirmi?» Phury scosse la testa. «Cormia si sbaglia. John non ha fraint...» 640 «Il Primale si sta addossando inutilmente una colpa che non ha», disse tagliente Cormia. «Il mio onore non è stato compromesso in alcun modo, e ritengo di essere io la sola a poter giudicare, o sbaglio?» Un attimo dopo il re chinò il capo. «Come desideri.» «Grazie, Vostra Altezza», disse Cormia con un profondo inchino. «Ora, gradirei prendere congedo.» «Vuoi che ti faccia portare qualcosa da mangiare da Fritz?» «No. Prendo congedo dal mondo terreno. Torno a casa.» Si inchinò di nuovo e, nel farlo, i biondi capelli, ancora umidi per la doccia, scivolarono giù dalla spalla sfiorando il pavimento. «Faccio a entrambi i miei migliori auguri e porgo i miei più cordiali saluti al resto dei fratelli e alla servitù. Vostra Maestà.» Un altro inchino a Wrath. «Vostra grazia.» Un inchino a Phury. Phury balzò giù dal letto e corse in avanti in preda al panico... ma Cormia svanì nel nulla prima che potesse raggiungerla. Sparita. Così. «Ti prego di scusarmi, ma vorrei essere lasciato solo», disse a Wrath. Era quasi un ordine, ma non gliene fregava niente. «Non credo proprio che dovresti stare da solo, in questo momento», ribatté Wrath, cupo. 641 A quel punto ci fu uno scambio di battute, una sorta di botta e risposta che per certi versi doveva aver rassicurato Wrath, perché alla fine il re uscì. Quando se ne fu andato, Phury rimase in piedi in mezzo alla stanza, immobile come una statua, a fissare l'impronta del posacenere sul muro. Dentro era tutto agitato, ma fuori era perfettamente immobile: l'edera soffocante cresceva sottopelle, invece che sopra. Con un guizzo degli occhi controllò l'orologio. Mancava soltanto un'ora all'alba. Andando in bagno per darsi una ripulita, sapeva di dover fare alla svelta. 642 Capitolo 41 La stazione di polizia di Caldwell aveva due facce ben distinte: l'ingresso anteriore sulla Decima, con tutti i gradini, dove le troupe televisive riprendevano le cose che vedevi nei notiziari serali, e quello posteriore, con le sbarre di ferro, dove si sbrigava la routine quotidiana. In realtà la facciata sulla Decima Strada era solo marginalmente più bella, perché l'edificio degli anni Sessanta era come il profilo di una tardona orrenda: non c'era un lato migliore. La volante dentro cui si trovava Lash si fermò proprio davanti all'ingresso sul retro. Come cazzo ci era finito, lì? Lo sbirro che lo aveva arrestato fece il giro della macchina e aprì la portiera. «Scenda dall'auto, per favore.» Lash lo guardò fisso, poi spostò le gambe di lato, scardinò le ginocchia e si raddrizzò, torreggiando sopra l'umano. Subito fantasticò di squarciargli la gola trasformando la sua giugulare in un sifone del selz. «Da questa parte, signore.» «Okay.» 643 Aveva innervosito quel figlio di puttana; lo capì dal modo in cui lo sbirro portò la mano al calcio della pistola malgrado fossero in piena vista dell'intero corpo di polizia di Caldwell. Lash venne condotto oltre una porta a due battenti e lungo un corridoio col pavimento in linoleum che, a vederlo, era lì da quando quel materiale era stato inventato. Si fermarono davanti a uno sportello di Plexiglas spesso come un braccio, e lo sbirro berciò qualcosa dentro un coso circolare di metallo montato sulla parete. La donna dall'altra parte, nella sua uniforme blu scuro, era tutta indaffarata e attraente come lo sbirro. Ma sistemò in fretta le scartoffie. Quando le parve di aver messo insieme abbastanza moduli da riempire, fece scivolare soddisfatta sotto lo sportello il fascio di carte verso il collega e annuì. La porta accanto a loro emise un biiiiiiiip seguito da un rumore sordo, neanche avesse sbloccato la serratura con un rutto, poi ecco un'altra logora distesa di linoleum che terminava in una stanzetta con una panca, una sedia e una scrivania. Dopo che si furono seduti, l'agente tirò fuori una penna e la aprì con uno scatto. «Qual è il suo nome completo?» «Larry Owens», rispose Lash. «Come ho già detto a lui.» Il tizio si chinò sui fogli. «Indirizzo?» «1583, Decima Strada, interno 4-F, per il momento.» Tanto valeva fornire l'indirizzo sul libretto di circolazione 644 della Focus. Mr D gli avrebbe portato la falsa patente di guida che Lash aveva usato quando viveva con i suoi genitori, ma non ricordava esattamente cosa c'era scritto. «Ha qualche documento da cui risulti che abita lì?» «Non qui con me. Deve portarmeli il mio amico.» «Data di nascita?» «Quando posso fare la mia telefonata?» «Tra un minuto. Data di nascita?» «Tredici ottobre 1981.» O almeno così credeva; anche quella era falsa. L'agente gli avvicinò un tampone per timbri, si alzò e gli liberò uno dei polsi dalle manette. «Adesso devo prenderle le impronte digitali.» Buona fortuna, pensò Lash. Lasciò che il tizio gli prendesse la mano sinistra tirandola in avanti e lo osservò mentre gli passava i polpastrelli sull'inchiostro per poi premerli su un foglio bianco suddiviso in dieci riquadri disposti su due file. Nel vedere il risultato il poliziotto aggrottò la fronte e ritentò con un altro dito. «Non esce niente.» «Da piccolo mi sono ustionato.» 645 «Come no.» Il tizio ripeté la stessa operazione un altro paio di volte, poi si arrese e gli rimise le manette. «Venga alla macchina fotografica.» Lash attraversò la stanza e rimase fermo mentre un flash lo immortalava per le foto segnaletiche. «Voglio fare la mia telefonata.» «Tra poco la farà.» «Qual è la cauzione?» «Ancora non lo so.» «Quando mi fate uscire?» «Appena avrà pagato la cauzione fissata dal giudice. Oggi pomeriggio, probabilmente, dato che è ancora presto.» Lash venne riammanettato con le mani davanti e gli fu spinto vicino un telefono, L'agente premette un tasto per il vivavoce e chiamò il cellulare di Mr D via via che Lash snocciolava il numero. Quando il tesser rispose lo sbirro si fece da parte. Lash non perse tempo in convenevoli. «Portami il portafoglio. È nella mia giacca, in macchina, sul sedile di dietro. Non hanno ancora fissato la cauzione, ma procurati subito dei contanti.» «Quando vuole che venga?» 646 «Porta qui subito il documento d'identità. Poi tutto dipende da quando il giudice fisserà la cauzione.» Lash guardò l'agente. «Posso richiamarlo per dirgli quando può passare a prendermi?» «No, ma il suo amico può chiamare il centralino del distretto e farsi passare la prigione, così scoprirà quando lei verrà rilasciato.» «Hai sentito?» «Sì», rispose Mr D con voce metallica, «Non smettete di lavorare.» «No.» Dieci minuti dopo, Lash era in una cella di sicurezza. La stanzetta in calcestruzzo nove metri per nove era la solita cella, con le sue belle sbarre sul davanti e nell'angolo il suo bel water con lavandino coordinato in acciaio inox, che avrebbe fatto inorridire i migliori arredobagno sul mercato. Quando Lash andò a sedersi sulla panca dando le spalle al muro della cella, cinque tizi lo squadrarono da capo a piedi. Due erano chiaramente dei tossici, perché erano unti e bisunti e si erano fritti il cervello qualche ora prima. Gli altri tre facevano al caso suo, anche se erano solo degli umani: un tizio con due bicipiti da paura e una buona dozzina di tatuaggi da galeotto nell'angolo opposto, lontano da tutti gli altri; il membro di una gang, con tanto di bandana azzurra, che faceva su e giù davanti alle sbarre come un 647 sorcio in gabbia; e uno skinhead psicopatico pieno di tic, vicino alla porta della cella. Naturalmente i tossici se ne fregavano altamente che qualcun altro si fosse unito all'allegra brigata, ma gli altri gli presero le misure neanche fosse uno stinco di agnello al banco di una gastronomia. Lash pensò a tutti i tesser che avevano perso quella notte. «Ehi, stronzo», disse rivolto al tizio gonfio di muscoli, «è stato il tuo ragazzo a farti quei tatuaggi? O era troppo occupato a incularti?» Quello socchiuse gli occhi. «Che cosa hai detto?» Il membro della gang scrollò il capo. «Devi essere proprio uscito di testa, bianco.» Lo skinhead scoppiò in una risata stridula e convulsa, che ricordava il ronzio di un frullatore. Chi poteva immaginare che reclutare nuovi elementi fosse tanto facile, pensò Lash. Quando si smaterializzò, Phury non andò allo ZeroSum, ma da Screamer's. La nottata era quasi finita per cui non c'era fila fuori dal club, quindi entrò direttamente dalla porta principale e andò al bar. Mentre il rap martellava duro, i superstiti della bisboccia si tenevano disperatamente aggrappati ai 648 loro cicchetti, riversi gli uni sugli altri negli angoli bui, troppo sbronzi anche per fare sesso. Il barista si avvicinò dicendo, «Ultime ordinazioni prima della chiusura.» «Un Sapphire martini.» Il tipo tornò con il drink e, prima di posare il bicchiere triangolare, stese sul bancone un tovagliolino da cocktail. «Sono dodici dollari.» Phury fece scivolare una banconota da cinquanta sul bancone nero tenendoci sopra la mano. «Sto cercando una cosa. E non è il resto.» Il barista guardò il verdone. «Cosa cerca?» «Mi piace andare a cavallo.» Gli occhi del tizio cominciarono a vagare per il locale. «Ah sì? Be', questo è un club, mica una scuderia.» «Non vesto di blu. Mai.» Il barista riportò gli occhi su Phury, squadrandolo ben bene. «Vestiti cari come quelli che ha addosso... potrebbero essere di un colore qualsiasi.» «Il blu non mi piace.» «Viene da fuori città?» «Diciamo di sì.» 649 «Ha la faccia conciata da far spavento.» «Ma va? Non me n'ero accorto.» Ci fu una pausa. «Vede quel tizio là in fondo? Quello con l'aquila sul giubbotto? Forse lui può aiutarla. Ho detto forse. Io non lo conosco.» «Naturale.» Phury lasciò i cinquanta dollari e il drink, e si fece strada tra i pochi clienti rimasti, con in testa una cosa sola. Appena prima che fosse a tiro, il tizio in questione si allontanò senza fretta, uscendo dalla porta laterale. Phury lo seguì nel vicolo; non appena misero piede fuori, qualcosa scattò nella sua testa, ma lui la ignorò. Gli interessava una cosa sola... era talmente concentrato su quella che persino la voce del mago era sparita. «Scusi», disse. Lo spacciatore girò sui tacchi e lo squadrò da capo a piedi come aveva fatto il barista. «Noi due non ci conosciamo.» «No. Però conosce i miei amici.» «Davvero?» Quando Phury gli mostrò un paio di centoni, il tipo sorrise. «Ah, sì. Cosa cerca?» «Ero.» 650 «Tempismo perfetto. L'ho quasi finita.» Il tizio infilò una mano dentro il giubbotto e l'anello che aveva al dito mandò un lampo azzurro. Per una frazione di secondo, Phury rivide il pusher e il tossico in quel vicolo, quelli in cui si era imbattuto inseguendo il lesser, parecchie notti prima. Buffo, quell'incontro aveva dato inizio alla grande discesa agli inferi, no? Una discesa che lo aveva portato fin lì, in quel momento, in quel vicolo... dove una bustina piena di eroina gli finì in mano. «Sono qui», e lo spacciatore annuì in direzione della porta del club, «praticamente ogni sera...» Le luci li investirono da ogni direzione, per gentile concessione delle auto civetta della polizia parcheggiate alle due estremità del vicolo. «Mani in alto!» gridò qualcuno. Phury fissò gli occhi atterriti dello spacciatore senza provare il benché minimo senso di solidarietà o di complicità. «Devo andare. Ci si vede.» Phury cancellò il ricordo di se stesso dalla memoria dei quattro poliziotti con le pistole spianate e da quella del pusher col suo bel oh-cazzo stampato sulla faccia, e si smaterializzò col suo acquisto. 651 Capitolo 42 Qhuinn fece strada lungo il tunnel che correva sottoterra, dalla casa della confraternita all'ufficio del centro di addestramento. Blay gli stava dietro, e l'unico rumore era quello dei loro anfibi. Era stato lo stesso durante il pasto che avevano consumato insieme, soltanto acciottolio di stoviglie e posate d'argento e ogni tanto un Mi passi il sale, per favole? La grande penuria di chiacchiere a cena era stata rotta soltanto dall'esplosione improvvisa di chissà quale dramma al piano di sopra. Sentendo gridare avevano messo giù le forchette ed erano corsi nell'atrio, ma Rhage si era sporto dalla balconata scuotendo la testa per avvertirli di starne fuori. Ottimo. Avevano già abbastanza rogne per conto loro. Quando giunsero davanti alla porta che si apriva nell'armadio dell'ufficio, Qhuinn digitò sul tastierino di sicurezza il numero 1914, facendo in modo che Blay lo vedesse bene. «L'anno in cui è stata costruita la casa, evidentemente.» Passarono attraverso l'armadio sbucando vicino alla scrivania. «Mi ero sempre chiesto come facessero ad arrivare qui», commentò Qhuinn scrollando la testa. 652 Blay fece un verso che avrebbe potuto essere qualunque cosa, da «Anch'io» a «Ficcati nel culo una motosega, lurido verme schifoso.» Il tragitto fino alla saletta per la fisioterapia era noto a entrambi; una volta entrati in palestra, fu impossibile non notare tutti i metri di distanza che Blay mise tra loro appena potè. «Adesso puoi anche andare», disse quando giunsero alla porta contrassegnata dalla scritta DEPOSITO ATTREZZI/FISIOTERAPIA. «Mi arrangio da solo col taglio alla schiena.» «È in mezzo alle scapole.» Blay afferrò la maniglia e rifece il verso gutturale di prima. E stavolta decisamente non poteva essere una cosa tipo "anch'io". «Cerca di ragionare», disse Qhuinn. Blay teneva gli occhi fissi davanti a sé. Un attimo dopo aprì la porta. «Lavati le mani. Prima di toccarmi voglio che ti lavi le mani.» Entrando, Blay andò dritto verso il lettino su cui era stato operato Qhuinn due notti prima. «Dobbiamo collaborare per medicare quella cazzo di ferita», disse Qhuinn guardandosi intorno nella stanza 653 piastrellata, con i suoi armadietti d'acciaio inox e l'attrezzatura medica. Blay si sedette sul lettino, si tolse la camicia e con una smorfia guardò le ferite ancora non del tutto rimarginate sul torace. «Merda.» Qhuinn buttò fuori tutto il fiato che aveva nei polmoni, fissando l'amico in silenzio. Con la testa penzoloni, Blay esaminava i tagli sul petto; era bello, così: le spalle larghe, i pettorali scolpiti, le braccia muscolose. Ciò che lo rendeva ancora più attraente, però, era il suo discreto riserbo. Difficile non chiedersi cosa si nascondesse sotto tanto pudore. Immedesimandosi nella parte dell'infermiere, Qhuinn tirò fuori dagli armadietti garze, cerotti e soluzione antisettica e poggiò il tutto sopra un carrello che poi spinse fino al lettino. Radunato tutto l'occorrente, andò al lavandino in acciaio inossidabile e premette il pedale per far scorrere l'acqua. Mentre si lavava le mani disse piano, «Se potessi, lo farei.» «Come hai detto?» Qhuinn si versò il sapone liquido sui palmi, sfregando vigorosamente mani e braccia fino ai gomiti. Era un'esagerazione, ma se Blay lo voleva superpulito, lo 654 avrebbe accontentato. «Se potessi amare un ragazzo, saresti tu.» «Sì, ripensandoci, faccio da solo, e al diavolo la ferita alla schien...» «Dico sul serio.» Qhuinn lasciò andare il pedale per chiudere l'acqua e scosse le mani sopra il lavandino. «Credi che non ci abbia pensato? A stare con te, voglio dire. E non solo per il sesso.» «Davvero ci hai pensato?» sussurrò Blay sovrastando lo sgocciolio. Qhuinn si asciugò le mani su una pila di asciugamani sterili azzurri alla sua sinistra, e se ne portò dietro uno tornando verso Blay, «Sì. Reggi questo sotto le ferite, ti spiace?» Blay ubbidì e Qhuinn spruzzò un po' di disinfettante sullo squarcio all'altezza dello sterno. «Non lo sapevo... Porca troia!» «Brucia, eh?» Qhuinn girò intorno al lettino fermandosi davanti alla schiena dell'amico. «Adesso sistemo questa. Ti consiglio di farti forza. È ancora più profonda.» Tenendo un altro asciugamano sotto la ferita, Qhuinn ci spruzzò sopra una roba che, dall'odore, sembrava uno di quei disinfettanti per la casa, tipo il Lysol. Blay sibilò con forza per il dolore e Qhuinn fece una smorfia. «Un secondo e ho finito.» 655 «Scommetto che lo dici a tutti i...» Blay s'interruppe di colpo. «Naa. Non lo dico a nessuno. Mi prendono come sono. Se poi non gli sta bene, è un loro problema.» Qhuinn prese una confezione di garze sterili, la aprì e premette la pezzuola bianca sulla ferita tra le scapole di Blay. «Certo che ci ho pensato, a noi due... ma a lungo termine mi vedo con una femmina. Non so spiegarlo. È così e basta.» La cassa toracica di Blay si dilatò e si contrasse. «Forse perché non vuoi un altro difetto?» Qhuinn si accigliò. «No.» «Sei sicuro?» «Senti, se mi importasse cosa pensa la gente credi che farei quello che faccio?» Qhuinn girò intorno al lettino e tamponò il taglio sul petto dell'amico, poi medicò la ferita alla spalla. «E poi i miei familiari sono morti. Non devo più fare colpo su nessuno.» «Perché sei stato così crudele?» chiese Blay in tono compunto. «Là nel tunnel, a casa mia.» Qhuinn prese un tubetto di Neomicina e tornò a concentrarsi sulla schiena dell'amico. «Ero praticamente sicuro di non tornare e non volevo che ti rovinassi la vita per me. Ho pensato che era meglio se mi odiavi, piuttosto che sentire la mia mancanza.» 656 Blay rise di gusto. Era un bel suono. «Quanto sei arrogante.» «Non mi dire. Però è vero, no?» Qhuinn spalmò la pomata bianca come il latte sulla lacerazione della pelle. «Sarebbe andata così.» Quando fece nuovamente il giro del lettino, Blay alzò la testa. I loro occhi si incontrarono e Qhuinn posò la mano stilla guancia dell'amico. Sfregando delicatamente il pollice avanti e indietro sussurrò, «Voglio vederti con qualcuno degno di te. Che ti tratti bene. Che stia solo con te. Io non sono il tipo. Anche se mi sistemassi con una femmina... merda, continuo a ripetermi che potrei esserle fedele, ma in cuor mio non ci credo veramente.» Il desiderio struggente negli occhi azzurri che lo fissavano gli spezzò il cuore. Completamente. Non riusciva a capire cosa Blay ci trovasse di così speciale in lui. «Che cos'hai nella testa», sussurrò, «per volermi così bene?» Il sorriso mesto di Blay lo fece apparire invecchiato di un milione di anni, segnandogli il viso con il genere di consapevolezza che si raggiunge solo dopo che la vita ti ha preso a calci nei coglioni una infinità di volte. «Che cos'hai tu nella testa, per non riuscire a capire il perché?» «Ci toccherà concordare sul fatto che non siamo d'accordo.» 657 «Mi prometti una cosa?» «Tutto quello che vuoi.» «Lasciami, se vuoi, ma non farlo per il mio bene. Non sono un bambino e non crollo così facilmente, e quello che sento non sono affaracci tuoi.» «Credevo di fare la cosa giusta.» «Ti sei sbagliato. Allora, me lo prometti?» Qhuinn espirò con forza. «E va bene, te lo prometto. Però tu devi giurare di cercarti qualcuno di reale, okay?» «Per me tu sei reale.» «Giura. Altrimenti rifaccio la scena del tunnel, "posso fare a meno di tutti" e compagnia bella. Voglio che tu ti apra alla possibilità di conoscere qualcuno che puoi avere per davvero.» Blay fece scorrere la mano lungo il braccio di Qhuinn e gli strinse il polso con forza, suggellando il patto per conto di entrambi. «Okay... va bene. Però sarà un maschio. Con le femmine ci ho provato, ma non funziona.» «Basta che tu sia felice. Qualunque cosa, purché ti renda felice.» Mentre la tensione si allentava, Qhuinn abbracciò l'amico e lo tenne stretto, cercando di assorbire la sua 658 tristezza, rimpiangendo che le cose non fossero andate diversamente. «Mi sa che è meglio così», disse Blay contro la sua spalla. «Non sai neanche cucinare.» «Vedi? Non sono il Principe Azzurro, proprio per niente.» Qhuinn avrebbe giurato di aver sentito sussurrare, «Sì, invece», ma non ne era sicuro. Blay Si staccarono, si guardarono negli occhi... e scattò qualcosa. Nel silenzio del centro di addestramento, nella profonda intimità di quell'attimo, qualcosa cambiò. «Una volta sola», disse sottovoce Blay. «Fallo una volta sola. Così saprò com'è.» Qhuinn scosse la testa. «No... non penso...» «Sì.» Un istante dopo Qhuinn fece scivolare entrambe le mani su per il grosso collo di Blay, stringendo tra i palmi la mascella quadrata. «Sei sicuro?» Quando Blay annuì, Qhuinn gli reclinò la testa all'indietro tenendola ferma mentre, a poco a poco, accorciava le distanze. Appena prima che le loro bocche si toccassero Blay abbassò le palpebre, tremante, e... Oh, che dolce. Le labbra di Blay erano incredibilmente morbide e dolci. 659 La lingua probabilmente non doveva entrarci, ma fu più forte di lui. Qhuinn lambì l'interno della bocca e poi vi affondò, facendo scivolare le braccia intorno a Blay e stringendolo forte. Quando alla fine alzò la testa, lo sguardo negli occhi di Blay era eloquente: era pronto a tutto. Pronto a spingersi fino in fondo. Potevano portare a casa la scintilla che era scoccata tra loro fino a ritrovarsi nudi, con Qhuinn che faceva al suo amico quello che sapeva fare meglio. Dopo, però, le cose non sarebbero più state come prima; fu questo a fermarlo, malgrado tutt'a un tratto volesse esattamente ciò che voleva Blay. «Sei troppo importante per me», disse brusco. «Sei troppo buono per il tipo di sesso che faccio io.» Gli occhi di Blay indugiavano ancora sulle labbra di Qhuinn. «In questo momento non sarei per niente d'accordo.» Qhuinn lasciò andare l'amico e fece un passo indietro; era la prima e unica volta in vita sua che diceva di no a qualcuno, si rese conto. «No, ho ragione io. Altro che se ho ragione, cazzo.» Blay fece un profondo sospiro; poi poggiò le mani sul lettino tentando, o almeno così parve, di ricomporsi. «Non sento più i piedi e neanche le mani», disse con una risatina. «Mi offrirei di massaggiarteli, ma...» 660 Lo sguardo che Blay gli lanciò da sotto le ciglia era maledettamente sexy. «Saresti tentato di massaggiarmi qualcos'altro?» «Che cazzone», sogghignò Qhuinn. «Va bene, va bene. Come vuoi.» Blay prese il disinfettante, se ne spruzzò un po' sul petto e coprì la ferita con la garza, che poi fissò con un cerotto. «Ti spiace sistemare quella sulla schiena?» «Okay.» Mentre copriva la ferita con la garza, Qhuinn si immaginò qualcun altro che toccava la pelle di Blay... che faceva scorrere le mani su di lui, alleviando il tipo di smania che un maschio sente tra le cosce. «Una cosa, però», mormorò. «Cosa?» La voce che gli uscì dalla gola era diversa dalla sua solita, non l'aveva mai sentita prima. «Se qualcuno ti spezza il cuore o ti tratta di merda lo sfascio con queste mani e poi lo pianto, tutto rotto e sanguinante, a friggere al sole.» La risata di Blay rimbombò contro le pareti piastrellate della stanza. «Sì, come no...» «Sono serissimo, cazzo.» 661 Gli occhi azzurri di Blay lo guardarono da sopra la spalla. «Se qualcuno si azzarda a farti del male», ringhiò Qhuinn nell'Antico Idioma, «lo infilzo in cima a un palo e lo lascio lì a marcire.» Nel suo grande cottage sugli Adirondack, Rehvenge stava cercando disperatamente di scaldarsi. Infagottato in un pesante accappatoio di spugna con sopra una coperta di visone, era steso su un divano a neanche un metro e mezzo dalle fiamme di un bel fuoco scoppiettante. La stanza era tra le sue preferite, nell'enorme casa simile a un fienile, l'austero arredamento vittoriano rosso granato, oro e blu scuro si addiceva spesso al suo umore scontroso. Buffo, aveva sempre pensato che un cane ci sarebbe stato bene vicino all'imponente camino di pietra. Un qualche tipo di cane da caccia. Dio, forse l'avrebbe preso, un cane. Bella aveva sempre amato i cani. La loro madre no, però, quindi non ne avevano mai avuto uno nella dimora di famiglia, a Caldwell. Accigliandosi pensò a sua madre, che stava in un'altra delle case di famiglia, a duecentocinquanta chilometri di distanza circa. Non si era ancora ripresa dal rapimento di Bella. Probabilmente non ci sarebbe mai riuscita. Dopo tutti quei mesi, ancora non se la sentiva di lasciare la campagna; per quanto, data la situazione a Caldwell, non era certo un male. 662 Sarebbe morta nella casa in cui viveva adesso, pensò Rehv. Nel giro di un paio d'anni, probabilmente. La vecchiaia cominciava a farsi sentire, il suo orologio biologico cominciava a correre verso il traguardo, aveva già i capelli bianchi. «Ho raccolto altra legna», annunciò Trez entrando con le braccia cariche di ceppi. Il Moro andò al caminetto, spostò il parafuoco e attizzò il fuoco fino a farlo crepitare in una fiammata ancora più luminosa. Cosa alquanto bizzarra, essendo agosto. Ah, ma quello era l'agosto sugli Adirondack. E in più lui era imbottito di dopamina, quindi aveva più o meno le percezioni sensoriali e la temperatura corporea del legno pietrificato. Trez rimise a posto il parafuoco e si voltò a guardarlo da sopra la spalla. «Hai le labbra viola. Vuoi che ti prepari del caffè?» «Sei una guardia del corpo, non un maggiordomo.» «Quante altre persone vedi, qui intorno, con dei vassoi d'argento?» «Mi arrangio da solo.» Rehv fece per rizzarsi a sedere e fu assalito dalla nausea. «Cazzo.» «Rimettiti giù prima che ti stenda io con un cazzotto.» Quando Trez uscì, Rehv si sdraiò di nuovo contro i cuscini. Odiava gli strascichi di quello che faceva alla 663 Principessa. Li odiava. Voleva solo dimenticare tutto quanto, almeno fino al mese successivo. Purtroppo quello schifo si ripresentava all'infinito nella sua testa. Continuava a rivedere ciò che aveva fatto quella notte al capanno, rivedeva se stesso nell'atto di masturbarsi per sedurre la Principessa e poi trombarla contro il davanzale della finestra. Le variazioni su quella perversione costituivano tutta la sua vita sessuale da quanto tempo, ormai? Merda... Si chiese di sfuggita come sarebbe stato avere qualcuno da amare, ma archiviò in fretta quella fantasia. Poteva fare sesso solo se non era sotto l'effetto dei farmaci, non c'era altro modo. Dunque l'unica possibile partner sessuale per lui era una symphath, e per nulla al mondo si sarebbe infiammato per una di quelle. Lui e Xhex ci avevano provato, certo, ma era stato un disastro sotto parecchi punti di vista. Si vide arrivare sotto il naso una tazza di caffè. «Bevi questo.» Allungò la mano dicendo, «Graz...» «Oh, cazzo, ma ti sei visto?» Rehv cambiò subito mano, infilando di nuovo il braccio martoriato sotto le coperte. «Come stavo dicendo, grazie.» «Allora è per questo che Xhex ti ha costretto ad andare in clinica, eh?» Trez andò a sistemarsi in una comoda 664 poltrona color sangue di bue. «No, non mi aspetto una conferma. Mi pare lampante.» Trez accavallò le gambe; sembrava un perfetto gentiluomo, un autentico esempio di regalità: malgrado fosse in anfibi, maglietta attillata e pantaloni cargo neri e fosse capacissimo di staccare la testa a qualcuno per poi giocarci a pallone - lo si sarebbe preso per un re, gli mancavano solo corona e manto foderato di ermellino. Il che poi in effetti, guarda caso, era la verità. «Buono, il caffè», mormorò Rehv. «Adesso però non chiedermi di cucinare. Come sta andando l'antidoto?» «Benone.» «Allora hai ancora lo stomaco sottosopra.» «Dovresti essere un symphath.» «Lavoro con due di loro. Basta e avanza, grazie tante.» Rehv sorrise bevendo un'altra mostruosa sorsata di caffè. Probabilmente si stava ustionando tutto il palato, vista la quantità di vapore che si alzava dalla tazza, ma lui non sentiva niente. In compenso era anche troppo consapevole dello sguardo fermo e cupo di Trez. Il Moro stava per dirgli qualcosa di sgradevole. Contrariamente alla maggior 665 parte della gente, quando Trez ti diceva quello che non volevi sentire ti guardava dritto in faccia. Rehv alzò gli occhi al cielo. «Dai, sputa il rospo.» «Ogni volta che vai con lei stai sempre peggio.» Vero. All'inizio poteva andare con la Principessa e subito dopo tornare al lavoro. Dopo un paio d'anni gli serviva un veloce riposino. Poi un sonnellino di un paio d'ore. Adesso era fuori combattimento per ventiquattr'ore buone. Il fatto era che stava sviluppando una reazione allergica al veleno. Il siero antiveleno che Trez gli pompava nelle vene dopo il rapporto sessuale gli impediva di andare in shock anafilattico, certo, ma lui non si riprendeva più bene come prima. Forse un giorno non si sarebbe ripreso affatto. Passando in rassegna tutti i medicinali che doveva assumere regolarmente, pensò, Merda, sempre meglio vivere grazie alla chimica che morire. Più o meno. Trez lo stava ancora fissando, quindi bevve un altro sorso di caffè e disse, «Rompere con lei è da escludere.» «Potresti tagliare la corda, però. Lasciare Caldwell e cercare un altro posto dove vivere. Se lei non sa dove trovarti, non potrà denunciarti.» «Se lascio la città, lei andrà a cercare mia madre. La quale non vorrà trasferirsi per via di Bella e del piccolo.» «Questa cosa finirà per ucciderti.» 666 «Lei è troppo dipendente da me per correre questo rischio.» «Allora devi dirle di piantarla di strofinarsi addosso gli scorpioni. Capisco che tu voglia apparire forte, ma quella finirà per scoparsi un cadavere, se non la smette.» «Conoscendola, la necrofilia sarebbe un afrodisiaco.» Alle spalle di Trez una luce meravigliosa si affacciò all'orizzonte. «Oh, merda, è già così tardi», esclamò Rehv, cercando il telecomando per abbassare le tapparelle d'acciaio in tutta la casa. Ma non era il sole. O almeno non il sole che traccia il suo arco nel cielo. Una figura luminosa stava risalendo il prato davanti alla casa, senza fretta. A Rehv venne in mente una sola cosa in grado di produrre quell'effetto. «Ah, fantastico, cazzo», bofonchiò, rizzandosi a sedere. «Cribbio, la notte è già finita?» Trez era già in piedi. «Vuoi che lo lasci entrare?» «Tanto vale. Altrimenti passerà attraverso le vetrate.» Il Moro spalancò una delle porte scorrevoli e si fece da parte per lasciar passare Lassiter. La sua andatura 667 dinoccolata era la manifestazione fisica di una pronuncia strascicata, lenta, insolente e melliflua. «Quanto tempo che non ci si vede», disse l'angelo. «Mai abbastanza.» «Sempre molto cordiale.» «Senti, General Electric», disse Rehv battendo convulsamente le palpebre. «Ti spiace abbassare un po' la luce? Sembri una di quelle sfere a specchi che si vedono in certe discoteche.» Lo sfolgorio si attenuò a poco a poco, finché Lassiter apparve normale. Be', normale per uno che ha la mania di riempirsi di pier-cing tanto da poter aspirare, con tutto quell'oro addosso, a diventare una specie di Fort Knox. Trez chiuse la porta e ci si piazzò davanti, un muro di "azzardati a toccare il mio amico e angelo o no ti faccio un culo così." «Che cosa ti porta nella mia proprietà?» chiese Rehv, stringendo la tazza tra le mani nel tentativo di assorbirne tutto il calore. «Ho un problema.» «Spiacente, ma non posso aggiustarti la personalità.» Lassiter rise e quel suono risuonò per tutta la casa come le campane di una chiesa. «No, io mi piaccio così come sono, grazie.» 668 «Non posso neanche aiutare la tua natura delirante e maniacale.» «Devo trovare un indirizzo.» «Ti sembro l'elenco telefonico, per caso?» «Mi sembri un cadavere ambulante, a dire il vero.» «Grazie del complimento, anche tu sei sempre gentile.» Rehv finì il suo caffè. «Perché pensi che voglia aiutarti?» «Perché sì.» «Ti spiace buttar lì un paio di verbi e di sostantivi? Non ti seguo.» Lassiter si fece serio, la sua bellezza eterea perse il solito sorri-setto da bastardo. «Sono qui in via ufficiale.» Rehv si accigliò. «Senza offesa, ma credevo che il tuo capo ti avesse dato il benservito.» «Ho un'ultima possibilità di fare il bravo ragazzo.» L'angelo guardò intensamente la tazza di caffè tra le mani di Rehv. «Se mi aiuti, posso ricambiare il favore.» «Davvero?» Lassiter fece per avanzare, ma Trez gli fu subito addosso come una mano di vernice. «Non azzardarti.» «Posso curarlo. Se mi permetti di toccarlo, lo guarirò.» 669 Trez aggrottò la fronte e aprì la bocca come per dire all'angelo di andare a curarsi lui, ma fuori di lì. «Aspetta», disse Rehv. Merda, era così stanco, dolorante e giù di corda che era difficile illudersi di stare meglio al calar della sera. Di lì a una settimana. «Che indirizzo sarebbe?» «Quello della Confraternita.» «Hah. Anche se lo conoscessi - e non lo conosco - non potrei dartelo.» «Ho qualcosa che loro hanno perduto.» Rehv stava per farsi un'altra risata quando il suo lato symphath rizzò le antenne. L'angelo era una testa di cavolo, ma era serissimo. Merda... possibile che fosse vero? Possibile che avesse trovato... «Sì, è così», confermò Lassiter. «Allora, mi aiuti ad aiutarli? E in cambio, visto che sono un ragazzo di parola, risolverò il tuo pro-blemino.» «Di che problemino parli?» «L'infezione da stafilococco aureo meticillinoresistente, altrimenti detta MRSA, che hai al braccio. E il fatto che, al momento, altre due esposizioni a quel veleno di scorpione ti manderebbero in shock anafilattico.» 670 Lassiter scosse la testa. «Non farò domande. Su nessuna delle due cose.» «Sicuro di sentirti bene? Di solito sei più ficcanaso di così.» «Ehi, se vuoi raccontarmi...» «Lasciamo perdere. Fai pure, se vuoi», disse Rehv tendendo il braccio malconcio. «Ti aiuterò come posso, ma non ti prometto nulla.» Lassiter scoccò un sorriso a Trez. «Allora, bello, ti va di tirare il fiato e farti da parte? Perché il tuo capo ha acconsentito...» «Non è il mio capo.» «Non sono il suo capo.» Lassiter chinò la testa. «Il tuo collega, allora. Insomma, ti spiace levarti dai piedi?» Trez scoprì le zanne e serrò le mascelle con forza, due volte; il suo modo - il modo dell'Ombra - per dire a qualcuno che si stava avventurando su un sentiero strettissimo sull'orlo di una scogliera molto alta. Ma alla fine fece un passo indietro. Lassiter avanzò, di nuovo sfolgorante. Rehv guardò quegli occhi argentei privi di pupille. «Fammi male e Trez ti farà a pezzettini; nessuno riuscirà 671 a rimetterti insieme, neanche con lo scotch. Lo conosci, sai chi è e di cosa è capace.» «Lo so, ma non serve agitarsi tanto, è solo uno spreco di energie. Non posso fare del male ai giusti, quindi sei al sicuro.» Rehv proruppe in ima gran risata. «Farà meglio a stare in campana, allora.» Quando Lassiter lo toccò, Rehv sentì scorrere nel braccio una corrente che gli strappò un ansito. Mentre una miracolosa guarigione cominciava diffondersi nel suo organismo, si sdraiò, rabbrividendo, nel suo nido di coperte. Oh, Dio... Il senso di spossatezza stava svanendo. Il dolore che sentiva stava regredendo, dunque. In quella sua voce meravigliosa, Lassiter mormorò, «Non hai niente da temere. Non sempre i giusti si comportano secondo giustizia, ma la loro anima resta pura. In fondo al cuore sei rimasto incontaminato. Adesso chiudi gli occhi, cretino, sto per accendermi come un falò.» Rehv strizzò gli occhi e dovette voltarsi dall'altra parte quando una esplosione di energia allo stato puro lo investì in pieno. Fu come un megaorgasmo pompato di steroidi, un impeto gigantesco che lo travolse, disintegrandolo, finché ridiscese in una pioggia di stelle. Rehv rientrò nel proprio corpo con un sospiro lungo e profondo. Lassiter lo lasciò andare e si sfregò la mano sui jeans a vita bassa. «E adesso veniamo a quello che mi serve.» «Non sarà facile arrivare a loro.» «Dimmi 672 qualcosa che non so.» «Prima dovrò verificare quello che hai in mano.» «Non è proprio al settimo cielo.» «Be', per forza, sta con te. Ma non ci credo finché non lo vedo.» Ci fu una pausa. Poi Lassiter chinò il capo. «E va bene. Torno appena fa buio e ti porto da lui.» «D'accordo, angelo, affare fatto.» 673 Capitolo 43 Alle prime luci dell'alba Phury andò in camera sua e riempì una borsa di L.L, Bean con alcuni accessori utili quando si fa ginnastica, ovvero un asciugamano, l'iPod, una bottiglia d'acqua.., e l'armamentario tipico del tossico, comprendente un cucchiaio, un accendino, una siringa, una cintura e la sua scorta di droga. Uscito dalla sua stanza, si avviò verso la galleria delle statue con l'andatura di chi è animato da intenti salutistici. Non volendo stare troppo vicino a Bella e Z optò per una delle stanze degli ospiti più vicine allo scalone. Sgattaiolò dentro e per un pelo non scappò subito fuori per sceglierne un'altra: Ì muri erano di un polveroso color lavanda, proprio come le rose preferite da Cormia. Voci di doggen che passavano in corridoio lo indussero a non muoversi. Andò in bagno, chiuse anche quella porta e abbassò le luci fino a ottenere un chiarore soffuso, da fuoco che arde sotto la cenere. Mentre le tapparelle scendevano per il giorno, si sedette sul pavimento di marmo con la schiena appoggiata alla Jacuzzi e tirò fuori le cose che stava per usare su se stesso. Non era poi chissà che, quello che si apprestava a fare. 674 Era come immergersi nell'acqua fredda. Una volta superato lo shock, ti ci abitui. Era anche incoraggiato dal silenzio nella sua testa. Da quando aveva imboccato quella strada, il mago non aveva proferito parola. Picchiettò sulla bustina per far scendere un po' di polverina bianca dentro un cucchiaio di argento sterling, aggiungendo qualche goccia d'acqua dalla bottiglia. Le mani non gli tremavano per niente. Fece scattare l'accendino e piazzò la fiamma sotto la miscela. Senza una ragione, notò che il motivo ornamentale a sbalzo sul manico del cucchiaio era il Mughetto di Gorham, la famosa marca di articoli casalinghi. Risalente a fine Ottocento. Quando la miscela di eroina e acqua cominciò a bollire, posò il cucchiaio sul pavimento di marmo, riempì la siringa e prese la cintura di Hermès. Tese il braccio sinistro, fece scorrere la cinghia di cuoio nella lucida fibbia d'oro, strinse con forza e si infilò l'estremità libera sotto il braccio per tenerla ferma. Nell'incavo del gomito le vene si gonfiarono e lui le picchiettò. Scelse la più grossa, poi si accigliò. La roba nella siringa era marrone. Per un attimo fu colto dal panico. Il marrone era un brutto colore. 675 Scosse la testa per snebbiarla, poi infilò l'ago nella vena e tirò su lo stantuffo per assicurarsi di essere entrato bene. Appena vide il rosso del sangue spinse giù il pollice, svuotò la siringa e slacciò la cintura. L'effetto fu molto più rapido del previsto. Un attimo prima lasciava ricadere il braccio e un attimo dopo, in preda a una nausea tremenda, strisciava verso il water in una bizzarra corsa al rallentatore. Quella merda non aveva niente a che vedere col fumo rosso. Niente dolce rilassamento, niente cortese bussare alla porta prima che la droga gli arrivasse al cervello. Quello era un assalto in piena regola: abbattuta la porta con l'ariete, tutte le armi avevano cominciato a sparare All'impazzata. Mentre vomitava, ricordò a se stesso che se l'era cercata. Vagamente, sullo sfondo, nell'angolo più remoto e oscuro della sua coscienza, udì il mago che cominciava a ridere... sentì esplodere la stridula soddisfazione della sua tossicodipendenza, proprio quando l'eroina prese il sopravvento sul resto della sua mente e del suo corpo. Mentre sveniva dando di stomaco, si rese conto che era rimasto fregato. Invece di uccidere il mago, era rimasto solo con il deserto di morte e il suo padrone. Ottimo lavoro, socio... eccellente. Merda, le ossa disseminate in quella distesa desolata erano i resti dei drogati che il mago aveva condotto alla morte a furia di parole. E il teschio di Phury era proprio 676 lì, in primo piano. La vittima più recente. Ma certo non l'ultima. «Ma certo», disse l'Eletta Amalya. «Certo che puoi scegliere la via della segregazione... sempre che sia ciò che desideri veramente. È così?» Cormia annuì, poi ricordò che, essendo al Santuario, era tornata nel regno degli inchini. Piegò il busto e mormorò, «Grazie.» Raddrizzandosi appartamenti della si guardò intorno. Era negli Direttrice, due stanze arredate nella tradizione delle Elette, ovvero prive di un vero e proprio arredamento. Tutto era semplice, ridotto all'essenziale e bianco; l'unica differenza rispetto alla sistemazione delle altre Elette era che Amalya disponeva di qualche posto a sedere per le udienze con le sorelle. Era tutto così bianco, pensò Cormia. Così... bianco. E le sedie su cui si erano accomodate avevano lo schienale rigido ed erano senza cuscini. «La tua richiesta giunge al momento opportuno, suppongo», disse la Direttrice. «L'ultima scriba segregata rimasta, Selena, si è ritirata con l'avvento del Primale. La Vergine Scriba è stata lieta di vederla abbandonare l'incarico, dato il cambiamento della nostra condizione. Nessuno, tuttavia, si è fatto avanti per sostituirla.» «Mi permetto di suggerire che potrei fungere anche da scriba archivista primaria.» 677 «Sarebbe molto generoso da parte tua. Consentirebbe alle altre una maggiore libertà per gli incontri con il Primale.» Seguì un lungo silenzio. «Vogliamo procedere?» Quando Cormia annuì, inginocchiandosi a terra, la Direttrice accese qualche bastoncino d'incenso e diede inizio alla cerimonia di segregazione. Al termine, Cormia si alzò in piedi e andò in fondo alla stanza, verso una grande apertura nel muro che sulla terra avrebbe chiamato finestra. In fondo alla bianca distesa del Santuario vide il Tempio delle Scrivane Segregate, annesso agli appartamenti privati della Vergine Scriba e privo di finestre. Entro i suoi confini immacolati non ci sarebbe stato nessuno, a parte lei. Lei insieme a rotoli di pergamena, litri di inchiostro rosso sangue e la storia in divenire della razza che lei stessa era tenuta a registrare in quanto spettatrice, e non più parte in causa. «Non posso», disse. «Scusa, cosa hai...» Qualcuno bussò allo stipite della porta. «Avanti», gridò Amalya. Una delle sorelle entrò e si piegò in un profondo inchino. «L'Eletta Layla è pronta. Ha terminato le abluzioni per Sua Maestà il Primole.» 678 «Ah, bene», disse Amalya afferrando un turibolo. «Facciamola accomodare nel Tempio, poi provvederò a convocare il Primale.» «Come desiderate», disse l'Eletta che, a capo chino, uscì a ritroso dalla stanza; Cormia colse il sorriso di anticipazione sulle sue labbra. Probabilmente sperava di essere la prossima a recarsi al tempio del Primale. «Vogliate scusarmi», disse Cormia col cuore che batteva in modo irregolare, come uno strumento incapace di trovare il ritmo giusto. «Gradirei ritirarmi nel Tempio delle Scrivane.» «Ma certo.» Tutt'a un tratto lo sguardo di Amalya si fece penetrante. «Sei proprio sicura della tua scelta, sorella?» «Sì. E questo è un giorno glorioso per tutte noi. Farò in modo di documentarlo come si conviene.» «Darò ordine di portarti i pasti.» «Sì. Grazie.» «Cormia... io sono qui, se mai sentissi il bisogno di consigliarti con qualcuno. In via del tutto confidenziale.» Cormia si inchinò e uscì in fretta, andando direttamente al maestoso tempio bianco che adesso era la sua dimora. 679 Appena si chiuse il portone alle spalle venne avvolta da una fitta oscurità. Le candele posizionate ai quattro angoli della stanza dall'alto soffitto si accesero, obbedienti al suo volere; in quel chiarore soffuso Cormia guardò i sei scrittoi bianchi, con le sei penne d'oca bianche sull'attenti, i calamai pieni di inchiostro rosso sangue e le bocce di cristallo piene di acqua delle visioni. Alcune ceste sul pavimento contenevano fasci di pergamena arrotolati e legati con dei nastri bianchi, pronti ad accogliere i simboli dell'Antico Idioma che avrebbero tramandato i progressi della razza. Contro la parete di fondo c'erano tre letti a castello, ciascuno con un unico cuscino immacolato e le lenzuola piegate in modo impeccabile. Ai piedi dei letti non c'erano coperte: la temperatura perfetta le rendeva superflue. In un angolo, una tenda si apriva su un bagno privato. Sulla destra, una porta d'argento riccamente decorata consentiva l'accesso alla biblioteca privata della Vergine Scriba. Le Scrivane Segregate erano le sole a cui Sua Santità dettava il suo diario privato, e quando venivano convocate usavano quella porta per essere ricevute. La feritoia al centro del portale serviva a far passare avanti e indietro le pergamene durante il processo di revisione. La Vergine Scriba leggeva e approvava l'intera storia oppure la correggeva finché non la trovava adeguata. Una volta approvato, il rotolo di pergamena veniva tagliato su misura e unito ad altre pagine per diventare uno dei volumi della biblioteca, oppure 680 arrotolato e collocato nei sacri archivi della Vergine Scriba. Cormia si avvicinò a una delle scrivanie e si sedette sullo sgabello privo di schienale. Il silenzio e l'isolamento la agitavano come un gran brulicare di folla; rimase seduta a lungo, non riuscì a capire per quanto, sforzandosi di ritrovare la calma. Aveva supposto di potercela fare, che la segregazione fosse l'unica soluzione possibile. Adesso fremeva per uscire.. Forse doveva solo trovare qualcos'altro su cui concentrarsi. Impugnò la penna d'oca bianca e aprì il calamaio alla sua destra. Per scaldarsi cominciò a tracciare alcuni dei caratteri più semplici dell'Antico Idioma. Ma non riuscì a proseguire a lungo. Le lettere divennero disegni geometrici. I disegni si trasformarono in file di parallelepipedi. I parallelepipedi si tramutarono... in progetti edilizi. Nel frattempo, nella grande casa della confraternita, John alzò la testa dal cuscino sentendo bussare piano alla porta. Scese dal letto e andò ad aprire. Fuori in corridoio trovò Qhuinn e Blay ritti fianco a fianco, spalla contro spalla, come facevano sempre. Una cosa almeno era andata bene, all'apparenza. 681 «Dobbiamo trovare una stanza per Blay», disse Qhuinn. «Hai idea di dove potremmo sistemarlo?» «E appena fa buio dovrei recuperare un po' della mia roba», aggiunse Blaylock. «Il che vuol dire fare un salto a casa mia.» Nessun problema, disse John a gesti. Qhuinn dormiva nella stanza accanto, quindi John proseguì fino a quella subito dopo e aprì la porta di una camera degli ospiti di un pallido color lavanda. Possiamo cambiare colore, disse John, se è troppo da femmina. Blay rise. «Sì, non sono sicuro di riuscire a digerirlo.» Mentre l'amico provava il letto, John si avviò in bagno e aprì la porta... Phury era riverso con la testa vicino al water, l'enorme corpo afflosciato, privo di sensi, il volto cereo. Ai suoi piedi una siringa, un cucchiaio e una cintura. «Porca puttana!» l'imprecazione di Qhuinn riecheggiò per tutto il marmo color panna del bagno. John si voltò di scatto. Vai a chiamare la dottoressa Jane. Presto. Dovrebbe essere nella Tana con Vishous. Qhuinn si precipitò fuori mentre John faceva rotolare Phury sulla schiena. Il fratello aveva le labbra viola, ma 682 non per i pugni ricevuti da John. Non respirava. Già da un po'. Contro ogni previsione, Jane entrò con Qhuinn letteralmente una frazione di secondo dopo. «Stavo andando a visitare Bella... Oh... merda.» Si avvicinò e procedette al controllo dei segni vitali più rapido che John avesse mai visto. Poi aprì la sua borsa da dottore e tirò fuori una siringa e una fiala. «È vivo?» Tutti e quattro si voltarono verso la porta del bagno. Sulla soglia era fermo Zsadist, il volto sfregiato pallidissimo. «È...» Z spostò gli occhi sul corpo che giaceva per terra accanto alla Jacuzzi. «Vivo?» Jane guardò John e sibilò, «Portalo fuori di qui, Subito. Non è il caso che assista.» Ciò che John vide sul volto della dottoressa gli. fece raggelare il sangue: non era certa di riuscire a rianimare Phury. Sotto shock, si alzò e andò da Z. «Io non me ne vado», disse Zsadist. «Sì, invece.» Jane alzò la siringa che aveva riempito e premette lo stantuffo. Uno sottilissimo spruzzo di qualcosa uscì dalla punta dell'ago e lei si voltò di nuovo 683 verso Phury. «Qhuinn, tu stai qui con me. Blaylock, vai con loro e chiudi la porta.» Zsadist aprì la bocca, ma John scosse la testa. Con una calma stranissima gli andò vicino, faccia a faccia, gli mise le mani sulle braccia e lo spinse indietro. E in un silenzio stupefatto, Z si lasciò condurre fuori dalla stanza. Blay chiuse la porta e ci si piazzò davanti, bloccando l'accesso. Gli occhi cupi di Z erano fissi in quelli di John, John non potè fare altro che ricambiare quello sguardo. «Non può essersene andato», gracchiò Zsadist. «Non può» 684 Capitolo 44 «Lavorare? In che senso?» fece l'avanzo di galera pieno di tatuaggi. Lash appoggiò i gomiti sulle ginocchia e guardò negli occhi il suo nuovo migliore amico. Il modo in cui quei due erano passati dallo scambiarsi smargiassate al fare le fusa come gattini era una riprova del suo potere di seduzione. Prima colpivi a testa bassa per stabilire un piano di uguaglianza, poi mostravi rispetto, poi parlavi di soldi. Gli altri due, il membro della gang con la scritta Diego RIP-Requiescat In Pace - intorno alle clavicole e Mastro Lindo con la zucca pelata e gli anfibi, si erano avvicinati quatti quatti e stavano ascoltando anche loro. Anche questo rientrava nella strategia di Lash: tira dentro il più tosto e gli altri lo seguiranno. Lash sorrise. «Sto cercando aiuto per mantenere l'ordine.» Lo sguardo di Mr Tatuaggi era pieno di azioni disoneste fatte per pochi soldi. «Hai un bar?» «No», rispose Lash lanciando un'occhiata a Mr RiposiIn-Pace. «È una specie di difesa del territorio, se vogliamo.» 685 Il tizio della gang annuì, come se conoscesse tutte le regole di quel gioco di società. Mr Tatuaggi fletté le braccia. «Cosa ti fa credere che voglia fare qualcosa per te? Non ti conosco neanche.» Lash appoggiò le spalle al muro. «Credevo che ti andasse di alzare un po' di grana. Scusa tanto.» Chiuse gli occhi come per mettersi a dormire, ma poi udì delle voci che gli fecero alzare le palpebre di scatto. Un agente stava scortando verso la cella un altro delinquente. Be', guarda guarda. Il tizio di Screamer's con l'aquila sul giubbotto. Il novellino venne fatto entrare e i tre duri lo accolsero con le solite occhiatacce della serie "stai in campana". Uno dei tossici alzò gli occhi e gli rivolse un pallido sorriso come se l'avesse conosciuto nell'esercizio della sua professione. Interessante. E così era uno spacciatore. L'Uomo Aquila squadrò i presenti e rivolse a Lash un cenno del capo in segno di riconoscimento, prima di andare a sedersi all'altro capo della panca. Sembrava più infastidito che spaventato. Mr Tatuaggi si chinò verso Lash. «Mica ho detto che non mi interessa.» 686 Lash lo guardò. «Dove ti trovo per parlarne con calma?» «Conosci Buss's Bikes?» «È quell'autofficina per Harley sulla Tremont, giusto?» «Sì. È mia e di mio fratello. Siamo biker.» «Allora conosci altra gente che potrebbe aiutarmi.» «Forse sì, forse no.» «Come ti chiami?» Mr Tatuaggi strinse gli occhi. Poi indicò il braccio su cui aveva tatuato un motociclista in sella a una HarleyDavidson, un low-rider. «Chiamami Low.» Diego RIP cominciò a battere nervosamente il piede, come se fremesse per dire qualcosa, ma Lash non era pronto a farsela con le bande di strada o con le teste rasate. Non ancora. Meglio non allargarsi troppo, all'inizio. Era più sicuro. Prima avrebbe valutato se poteva aggiungere un paio di motociclisti alla variegata compagine della Lessening Society. Se poi funzionava, avrebbe gettato le reti e pescato qualcun altro. Forse addirittura si sarebbe fatto arrestare di nuovo, tanto per cominciare. «Owens», chiamò uno sbirro sulla porta. 687 «Ci si vede», disse Lash rivolto a Low. Salutò con un cenno del capo Diego, lo skinhead e lo spacciatore e lasciò i tossici alle loro conversazioni con il pavimento. Fuori, attese che un agente gli spiegasse tutta la pappardella pagina per pagina: «qui ci sono i capi d'accusa a suo carico», «questo è il numero dei difensori d'ufficio; deve chiamarli se vuole che le venga assegnato un legale», «la data di comparizione in tribunale è tra sei settimane...», «se non si presenta perderà la cauzione e verrà emesso un mandato d'arresto a suo carico», bla, bla, bla... Firmò un paio di volte col nome Larry Owens e poi venne rilasciato nel corridoio dove era stato condotto in manette otto ore prima. Alla fine della striscia di linoleum c'era Mr D seduto su una brutta sedia di plastica, che si alzò subito con aria sollevata. «Andiamo a mangiare», disse avviavano verso l'uscita. Lash mentre si «Sissignore.» Lash uscì dall'ingresso anteriore della centrale di polizia di Caldwell, troppo distratto dalle cose che aveva da fare per curarsi dell'ora. Quando il sole lo colpì in pieno viso indietreggiò con un grido, andando a sbattere contro Mr D. Coprendosi il volto, cercò goffamente di tornare dentro. 688 Mr D lo agguantò per le braccia. «Ma cosa...» «Il sole!» Lash era quasi rientrato quando si rese conto che... non succedeva niente. Non era in fiamme, non si era trasformato in una enorme palla di fuoco e non lo aspettava una orribile morte per ustioni. Si fermò... e per la prima volta in vita sua si voltò verso il sole. «Come splende», disse schermandosi gli occhi col braccio. «Non dovrebbe guardarlo così.» «Com'è... caldo.» Lash si appoggiò contro la facciata in pietra dell'edificio; trovava incredibile tutto quel calore. I raggi che lo colpivano si irradiarono dalla pelle fin dentro ai muscoli. Non era mai stato invidioso degli umani, ma se avesse saputo com'era bello stare in pieno sole, Dio, li avrebbe invidiati eccome. «Tutto okay?» chiese Mr D. «Sì... sì, tutto bene.» Lash chiuse gli occhi e per qualche istante si limitò a respirare. <<I miei genitori... non mi hanno mai lasciato uscire. Prima della transizione i vampiri in teoria possono esporsi alla luce del sole, ma mia madre e mio padre non hanno mai voluto correre rischi.» 689 «Non riesco neanche a immaginare di stare senza sole.» Adesso non ci riusciva neanche Lash. Alzò il mento, chiuse gli occhi per un attimo... e si ripromise di ringraziare suo padre la prossima volta che lo vedeva. Era una cosa... magnifica. Phury rinvenne con in bocca un sapore bruciante, disgustoso. Per la verità lo sentiva dappertutto, come se qualcuno gli avesse spruzzato sottopelle uno di quei detersivi per pulire il forno. Aveva gli occhi incollati. Lo stomaco era una palla di piombo. I polmoni si gonfiavano e si sgonfiavano con l'entusiasmo di un paio di tossici strafatti, rintronati come dopo aver passato ore ed ore ad ascoltare i Grateful Dead. E a guidare la carica che non lo avrebbe portato proprio da nessuna parte c'era il cervello, che evidentemente era andato e non era stato rianimato insieme al resto del corpo. In realtà anche il suo petto era un po' off limits. Oppure... no, il cuore batteva ancora perché... be', per forza, no? Altrimenti non avrebbe fatto di quei pensieri, giusto? Fu assalito da un'immagine della grigia e desolata distesa di ossa, col mago che si stagliava contro l'orizzonte plumbeo. 690 Bentornato, bellezza, disse il mago. È stato divertente da morire. Quando possiamo rifarlo? Rifare che cosa? si chiese Phury. Il mago rise. Oh, con che facilità dimenticate i momenti più spassosi. Phury gemette e sentì qualcuno che si muoveva. «Cormia», gracchiò. «No.» Quella voce, quella profonda voce maschile. Così simile a quella che usciva dalla sua stessa bocca. Identica, in realtà. Lì con lui c'era Zsadist. Phury voltò la testa e dentro sciabordò; la zucca, ridotta a un piantine e un piccolo scrigno del bollicine, ma niente con le effettivamente vivo. il cranio il cervello acquario, conteneva tesoro con tanto di pinne. Niente di Z aveva una faccia terribile, con quelle occhiaie scure, le labbra tirate e la cicatrice più visibile che mai. «Ti ho sognato», disse Phury. Dio, che voce, era ridotta a un raspo. «Stavi cantando per me.» Z mosse lentamente la testa avanti e indietro. «Non ero io. Non sono più in vena di cantare.» 691 «Dov'è lei?» chiese Phury. «Cormia? Al Santuario.» «Oh...» Giusto. L'aveva spinta a tornare là dopo aver fatto sesso con lei. E poi si... Era. Fatto. Una. Pera. Di. Eroina. «Oh, Dio.» Quella simpatica folgorazione gli snebbiò la vista e lo indusse a guardarsi intorno. L'unica cosa che vide, dappertutto, era un pallido color lavanda; ripensò a Cormia, che emergeva dall'armadio dell'ufficio nella sua veste candida e con quella rosa in mano. La rosa era ancora là, pensò. Lei se l'era dimenticata. «Vuoi bere qualcosa?» Phury si voltò verso il suo gemello, all'altro capo della Stanza. Sembrava svuotato e stravolto. «Sono stanco», mormorò Phury. Z si alzò e si avvicinò con un bicchiere in mano. «Alza la testa.» Phury ubbidì, anche se così l'acqua dentro il suo acquario minacciava di traboccare. Mentre Zsadist reggeva il bicchiere vicino alle sue labbra, Phury mandò giù un sorso, poi un altro e poi cominciò a bere avidamente, divorato da una sete terribile. 692 Passata la sete, abbandonò la testa sul cuscino. «Grazie.» «Ne vuoi ancora?» «No.» Zsadist posò il bicchiere sul comodino, poi tornò a mettersi sulla sedia color lavanda, a braccia conserte, il mento che sfiorava il petto. Era dimagrito, pensò Phury. Aveva di nuovo le guance incavate. «Non avevo ricordi», disse piano Z. «Di cosa?» «Di te. Di loro. Sì, insomma, di dove stavo prima di essere rapito e poi venduto.» Che fosse l'acqua o quello che aveva appena detto Z, Phury riacquistò subito piena lucidità. «Non potevi ricordare i nostri genitori... o la nostra casa. Eri troppo piccolo.» «Rammento la bambinaia. Be', in realtà ho un solo ricordo: lei che si mette un po' di marmellata sul pollice e poi me lo fa succhiare. È più o meno tutto quello che mi ricordo. Poi... mi stavano vendendo all'asta, con tutta quella gente che mi guardava.» Z si accigliò. «Sono cresciuto facendo lo sguattero. Lavavo montagne di piatti, pulivo montagne di verdura, servivo birra ai soldati. Erano buoni con me. Quella parte era... okay.» Z 693 si stropicciò gli occhi. «Dimmi una cosa. Per te com'è stata? L'infanzia, e poi l'adolescenza.» «Solitaria.» Okay, così suonava egoista. «No, volevo dire...» «Mi sentivo solo anch'io. Mi mancava qualcosa, ma non sapevo cosa. Ero la metà di un intero, però c'ero soltanto io.» «Mi sentivo anch'io così. Salvo che io sapevo cosa mancava.» Il tu rimase sottinteso. «Non voglio parlare di quello che è successo dopo la mia transizione», disse Z con voce improvvisamente piatta. «Non è necessario.» Zsadist annuì e parve chiudersi in se stesso. Nel silenzio che seguì, Phury non riusciva neanche a immaginare cosa stesse ricordando. Il dolore, il degrado e la rabbia. «Ricordi, prima che entrassimo nella confraternita,» mormorò Z, «quando sono sparito per tre settimane? Eravamo ancora nel Vecchio Continente e tu non avevi idea di dove fossi andato?» «Sì.» «L'ho uccisa. La Padrona.» Phury batté le palpebre, sorpreso da quell'ammissione. Tutti si erano sempre lanciati in congetture su quella morte. «Allora non è stato suo marito.» 694 «No. Era violento, certo, ma sono stato io a ucciderla. Vedi, aveva preso un altro schiavo di sangue. Lo aveva rinchiuso in quella gabbia. Io...» la voce di Z si incrinò, poi tornò fermissima. «Non potevo permetterle di farlo a qualcun altro. Sono tornato là... l'ho trovato... Merda, era nudo e nello stesso angolo in cui io avevo l'abitudine di...» Phury trattenne il fiato; era quello che aveva sempre voluto e temuto di sapere. Strano che stessero facendo quella conversazione proprio adesso. «In cui avevi l'abitudine di fare cosa?» «Sedermi. Avevo l'abitudine di sedermi in quell'angolo quando lei non mi... Sì, me ne stavo seduto lì, così almeno sapevo cosa aspettarmi. Quel ragazzino, anche lui era seduto con le spalle al muro e le ginocchia contro il petto. Proprio come facevo io. Era giovane, così giovane, doveva aver appena superato la transizione. Aveva gli occhi castano chiaro... ed erano pieni di terrore. Credeva che fossi lì per lui. Sì, insomma... che fossi sceso lì per lui. Appena entrato, non riuscivo a parlare, e questo lo spaventò ancora di più. Tremava... tremava talmente tanto che batteva i denti, e ricordo ancora le nocche delle sue mani. Si teneva aggrappato ai polpacci scheletrici, e le nocche quasi gli perforavano la pelle.» Phury strinse i denti al ricordo di quando aveva liberato Zsadist, di quando l'aveva visto incatenato al tavolaccio in mezzo a quella cella, nudo. Z non aveva paura. Aveva subito troppi abusi e troppo a lungo per 695 lasciarsi impressionare da quello che potevano ancora fargli. Zsadist si schiarì la gola. «Gli ho detto... gli ho detto che volevo liberarlo. All'inizio non mi ha creduto. Finché ho tirato su le maniche del cappotto e gli ho mostrato i polsi. Appena ha visto le fasce tatuate degli schiavi di sangue non ho dovuto aggiungere un'altra parola. Mi ha seguito senza esitare.» Z fece un profondo sospiro. «La Padrona ci ha sorpresi mentre lo stavo portando fuori dai sotterranei del castello. Lui faceva fatica a camminare perché immagino che avesse avuto una giornata... piena. Ho dovuto caricarlo in spalla. Ad ogni modo, lei ci ha beccati... e, prima che potesse chiamare le guardie, l'ho sistemata. Quel ragazzo... è rimasto a guardare mentre le spezzavo il collo e la mollavo per terra. Dopo le ho tagliato la testa perché... vedi, nessuno dei due credeva che fosse davvero morta. Cazzo, ero in quel labirinto di gallerie, dove poteva sorprenderci chiunque, e non riuscivo a muovermi. Continuavo a fissarla. Il ragazzo mi ha chiesto se era proprio morta. Ho risposto che non lo sapevo. Lei non si muoveva, ma come facevo a essere sicuro? «Il ragazzo mi ha guardato in faccia e non dimenticherò mai la sua voce. "Tornerà. Torna sempre." Per come la vedevo io, tutti e due avevamo già abbastanza rogne per preoccuparci anche di quello. Perciò le ho mozzato la testa, e lui l'ha tenuta per i capelli mentre scappavamo.» Zsadist si stropicciò la faccia. «Dopo averlo liberato, non sapevo cosa farne di lui. Ecco a cosa sono servite quelle tre settimane. L'ho portato in Italia, il più lontano possibile, fin sulla punta dello 696 stivale. Lì c'era una famiglia che Vishous conosceva dagli anni in cui aveva lavorato per quel mercante, a Venezia. Comunque sia, loro avevano bisogno di aiuto in casa ed erano brava gente. Lo hanno preso a servizio in cambio di una paga regolare. L'ultima cosa che ho saputo di lui, una decina di anni fa, è che aveva avuto il secondo figlio dalla sua shellan.» «Lo hai salvato», disse Phury. «Tirarlo fuori di lì non l'ha salvato», ribatté Zsadist, guardandolo. «Il punto è proprio questo, Phury. Era impossibile salvarlo. Era impossibile salvare me. So che è quello che continui ad aspettarti, quello per cui vivi. Ma... non succederà mai. Senti... non posso ringraziarti perché... per quanto io ami Bella, per quanto ami la mia vita e il punto in cui sono, continuo a tornare con la mente ad allora. È più forte di me. Lo rivivo ogni giorno.» «Ma...» «No, lasciami finire. Tutta questa storia della droga... Senti, tu non hai fallito con me, perché non si può fallire quando un'impresa è impossibile.» Phury sentì sgorgare una lacrima rovente. «Voglio solo che le cose vadano per il verso giusto.» «Lo so. Ma non è mai stato così e mai lo sarà, e non devi ucciderti per questo. Io sono come sono e basta.» Non c'era nessuna promessa di gioia sul volto di Z, nessuno spazio potenziale per un po' di felicità. La 697 mancanza di mania omicida era un miglioramento, ma l'assenza di ogni sostanziale soddisfazione per essere vivo non era certo motivo di festeggiamenti. «Credevo che Bella ti avesse salvato.» «Lei ha fatto moltissimo. Ma in questo momento, per come sta andando la gravidanza...» Non ebbe bisogno di terminare la frase. Non c'erano parole adeguate per descrivere gli spaventosi "e se". Z si era rassegnato a perderla, si rese conto Phury. Aveva deciso che l'amore della sua vita stava per morire. Non c'era da meravigliarsi che non fosse in vena di ringraziamenti per essere stato salvato. «Per tantissimi anni ho tenuto con me il teschio della Padrona», riprese Z, «non per un qualche morboso attaccamento. Mi serviva per quando avevo gli incubi in cui la vedevo tornare da me. Vedi, mi svegliavo di soprassalto e la prima cosa che facevo era controllare che fosse ancora morta.» «Posso capirlo...» «Vuoi sapere cosa ho fatto negli ultimi due mesi?» «Sì...» «Mi sveglio di soprassalto e vado nel panico perché non so se sei ancora vivo.» Z scosse la testa. «Vedi, posso allungare il braccio sotto le lenzuola e toccare Bella, sentire il suo corpo caldo. Ma con tè non posso fare la 698 stessa cosa... e credo che il mio subconscio si sia convinto che tutti e due, probabilmente, tra un anno non ci sarete più » «Mi dispiace... merda...» Phury si coprì la faccia con le mani. «Mi dispiace.» «Credo che dovresti andare. Al Santuario, dico. Lì sarai più al sicuro. Se resti qui rischi di non farcela a tirare neanche un altro anno. Devi andare assolutamente.» «Non so se sia necessario...» «Sarò un po' più chiaro. Abbiamo fatto una riunione.» Phury lasciò ricadere le mani. «Che tipo di riunione?» «Il tipo che si tiene a porte chiuse. Io, Wrath e gli altri fratelli. L'unico modo che hai per stare qui è smetterla di drogarti ed entrare in un programma di disintossicazione. E nessuno crede che lo farai.» Phury si accigliò. «Non sapevo che esistesse una Narcotici Anonimi dei vampiri.» «Non esiste, infatti, ma esistono degli incontri serali per gli umani. Ho fatto una ricerca in Internet. Ma non è questo il punto, giusto? Perché anche se tu promettessi di andarci, nessuno ti crederebbe. E io penso... penso che non ci creda neanche tu.» Difficile sostenere il contrario, pensò Phury, considerato quello che aveva portato dentro casa e che si era sparato nel braccio. 699 Al solo pensiero di smettere con la droga gli sudavano le mani. «Hai detto a Rehv di non vendermi più il fumo, vero?» Ecco perché Xhex lo aveva guardato male quando era passato per quell'ultimo acquisto. «Sì. E so che non è stato lui a venderti l'eroina. C'era un'aquila sul pacchetto. Il marchio di Rehv è una stella rossa.» «Se vado al Santuario, come fai a sapere che non continuerò a farmi?» «Non posso saperlo con certezza.» Z si alzò in piedi. «Ma almeno non sarò costretto a guardare. E nemmeno gli altri.» «Sei così dannatamente calmo», mormorò Phury a scoppio ritardato. «Ti ho visto morto vicino a un water e nelle ultime otto ore ho vegliato su di te chiedendomi come cazzo ribaltare la situazione. Sono distrutto, ho i nervi a pezzi e, se non l'hai ancora capito, tutti noi ce ne laviamo le mani di te.» Ciò detto, Zsadist si voltò e lentamente andò alla porta. «Zsadist.» Z si fermò, ma senza voltarsi. «Non ho intenzione di ringraziarti per questo. Così siamo pari.» «Mi pare giusto.» 700 Quando la porta si chiuse, Phury ebbe uno strano pensiero dissociativo che, considerato tutto quello che era appena stato detto, appariva quanto meno incongruo. Se Zsadist non cantava più, il mondo aveva perso un tesoro. 701 Capitolo 45 All'altro capo del quartier generale della confraternita, a una dozzina di metri sottoterra, John se ne stava seduto alla scrivania dell'ufficio del centro di addestramento fissando il computer che aveva davanti. Si sentiva in dovere di guadagnarsi lo stipendio, ma con le lezioni sospese a tempo indeterminato non c'era molto da fare. Il lavoro d'ufficio gli piaceva. Di solito impiegava il tempo registrando voti, aggiornando fascicoli con i rapporti sugli infortuni occorsi durante le esercitazioni pratiche e annotando i progressi del corso di studi. Era bello distillare l'ordine dal caos, mettere ogni cosa al suo posto. Controllò l'orologio. Blay e Qhuinn si stavano allenando in sala pesi e ci sarebbero rimasti un'altra mezz'ora minimo. Cosa fare... cosa fare... D'impulso sfogliò le cartelle del computer e trovò quella chiamata Incidenti. La aprì e richiamò il file in cui Phury aveva archiviato il rapporto sull'attacco alla casa di Lash. Cristo... santo. I cadaveri dei suoi genitori erano stati piazzati sulle sedie intorno al tavolo della sala da pranzo, spostati lì dal salotto, dove erano stati uccisi. In casa non 702 era stato toccato nient'altro, salvo un cassetto in camera di Lash, e Phury aveva buttato giù un appunto a margine: effetto personale? Ma di che valore, visto che hanno lasciato i gioielli? John aprì gli altri rapporti sulle case attaccate. Quella di Qhuinn. Quella di Blay. Quelle di altri tre compagni di classe. Quelle di altri cinque aristocratici. Bilancio delle vittime: ventinove, doggen compresi. Le case erano state saccheggiate da cima a fondo. Con tutta evidenza era la serie di incursioni più riuscita dopo il sacco della tenuta di famiglia di Wrath, nel Vecchio Continente. John cercò di immaginare cosa doveva aver subito Lash per rivelare quegli indirizzi. Era un pezzo di merda, ma non aveva nessuna simpatia per i lesser. Torturato. Doveva essere morto. Senza un motivo particolare, entrò nel file che lo riguardava. Phury, o chi per lui, aveva già compilato il certificato di morte. Nome: Lash, figlio di Ibix, figlio di Ibixes, figlio di Thornsrae. Data di nascita: 3 marzo 1983. Data di morte: approssimativamente agosto 2008. Età al momento del decesso: 25. Causa del decesso: non confermata; sospetta tortura. Ubicazione del cadavere: ignota; ipotesi: eliminato dalla Lessening Society. Resti consegnati a: non disponibili. Il file conteneva molte altre informazioni. Lash aveva subito numerosi provvedimenti disciplinari, non solo al corso di addestramento, ma ai ritiri della glymera. Fu una sorpresa trovarli nel suo fascicolo, dato il grado di 703 riservatezza dell'aristocrazia riguardo ogni imperfezione, ma d'altronde la confraternita aveva preteso di conoscere integralmente la storia di tutti i tirocinanti, prima di ammetterli al programma. Era stato scannerizzato anche il suo certificato di nascita. Nome: Lash, figlio di Ibix, figlio di Ibixes, figlio di Thornsrae. Data di nascita: 3 marzo 1983, ore 1,14. Madre: Rayelle, figlia del soldato Nellshon. Certificato di nascita firmato da: dott. Havers, figlio di Havers. Dimesso dalla clinica: 3 marzo 1983. Lash morto, andato. Assurdo. Il telefono squillò facendolo sobbalzare. John sollevò il ricevitore e fischiò. «Dieci minuti», disse la voce di Vishous. «Studio di Wrath. Riunione. Venite anche voi tre.» Poi la comunicazione venne interrotta. Cazzarola. Dopo un istante di smarrimento, John corse in sala pesi per avvertire Qhuinn e Blay. Anche loro rimasero interdetti per qualche secondo, poi, ancora in tuta, schizzarono insieme all'amico verso lo studio di Wrath. Nello studio azzurro pallido del re trovarono la confraternita al gran completo. I fratelli torreggiavano nella stanza arredata con gusto squisito facendola apparire minuscola. Vicino al camino, Rhage stava scartando un Tootsie Pop al gusto d'uva, a giudicare dall'incarto violaceo. Vishous e Butch sedevano insieme su un sofà d'epoca, facendo temere per le sue gambe 704 sottili. Wrath era dietro la scrivania. Z era nell'angolo più lontano, a braccia conserte, gli occhi fissi davanti a sé sul centro della stanza. John chiuse la porta e non si mosse, Qhuinn e Blay seguirono il suo esempio cercando, come lui, di passare inosservati. «Ecco cosa abbiamo», esordì Wrath, appoggiando gli stivali sullo scrittoio coperto di carte. «I capi di cinque delle famiglie fondatrici sono morti. Ciò che resta della glymera è per lo più sparpagliato lungo il litorale orientale e in case sicure. Finalmente. Le perdite ammontano a poco meno di trenta. Nella nostra storia ci sono stati un paio di massacri, ma questo attacco è di una gravità senza precedenti.» «Avrebbero dovuto muoversi più in fretta», borbottò Vishous. «Maledetti sciocchi, non hanno voluto ascoltarci.» «Vero, ma ci aspettavamo davvero qualcosa di diverso? Dunque la situazione è questa. È ragionevole aspettarsi una qualche reazione negativa da parte del Consiglio dei Princeps sotto forma di proclama contro il sottoscritto. La mia previsione è che tenteranno di fomentare una guerra civile. Finché sarò in vita io nessun altro potrà diventare re, garantito, ma potrebbero rendermi la vita molto difficile, impedendomi di regnare in modo adeguato e di tenere unita la razza.» I fratelli bofonchiarono ogni sorta di improperio e Wrath alzò una mano per zittirli. «La buona notizia è che hanno dei problemi organizzativi, il che ci dà ancora un po' di 705 tempo. In base al suo statuto, il Consiglio dei Princeps deve avere sede a Caldwell e tenere in loco le sue riunioni. Questa regola è stata creata un paio di secoli fa per garantire che la base del potere non fosse trasferita altrove. Dal momento che nessuno di loro è in città e che - ohibò! - nel 1790, data di redazione dell'attuale statuto, le videoconferenze non esistevano, non possono convocare una riunione per modificare i regolamenti o eleggere un nuovo leahdyre finché non riportano qui le chiappe almeno per una sera. Date tutte le morti che ci sono state, passerà un po' di tempo prima che ciò accada, ma parliamo di settimane, non di mesi.» Rhage addentò il Tootsie Pop e il crac riecheggiò in tutta la stanza. «Abbiamo idea di cosa non è stato ancora colpito?» «Ho preparato delle copie per ciascuno di voi», disse Wrath indicando l'angolo esterno della scrivania. Rhage andò a prendere il fascio di fogli e li distribuì anche a Qhuinn, John e Blay. John guardò le colonne in cui era suddiviso il foglio. Nella prima c'erano dei nomi. Nella seconda degli indirizzi. Nella terza una stima del numero di persone, doggen compresi, che abitavano in casa. Nella quarta una valutazione approssimativa del contenuto dell'abitazione, sulla base del ruolo dei contribuenti. Nell'ultima veniva precisato se la famiglia aveva liberato o meno l'abitazione, se la proprietà era stata saccheggiata e in quale misura. 706 «Voglio che vi dividiate l'elenco delle famiglie di cui non abbiamo avuto notizie», ordinò Wrath. «Se in quelle case c'è ancora qualcuno, voglio che lo facciate sgomberare anche a costo di trascinarlo fuori per i capelli. John, tu e Qhuinn andate con Z. Blay, tu vai con Rhage. Domande?» Senza un motivo apparente, John si ritrovò a guardare l'orrenda poltrona verde avocado dietro la scrivania di Wrath. Era la poltrona di Tohr. O meglio, lo era stata. Gli sarebbe piaciuto che Tohr lo vedesse con quella lista in mano, pronto ad andare a difendere la razza. «Bene», concluse Wrath. «Adesso uscite e fate quello che vi ho detto.» Dall'Altra Parte, nel Tempio delle Scrivane Segregate, Cormia arrotolò la pergamena su cui aveva schizzato case ed edifici e la posò sul pavimento accanto allo sgabello. Non sapeva cosa farne. Bruciarla, forse? Al Santuario non esistevano cestini per la carta straccia. Spostando davanti a sé una boccia di cristallo piena d'acqua della fontana della Vergine Scriba, ripensò a quelle con dentro i piselli che le portava sempre Fritz. Quel passatempo le mancava di già. Le mancava il maggiordomo. Le mancava... Il Primale. 707 Strinse la boccia tra i palmi e cominciò a sfregare il cristallo, creando sul pelo dell'acqua delle increspature che catturarono la luce delle candele. Il calore delle mani e il lieve sciabordio produssero un effetto vorticoso e dalle piccole onde emerse proprio ciò che lei voleva vedere. Appena comparve l'immagine, Cormia smise di agitare l'acqua lasciando calmare la superficie per poter guardare e poi descrivere ciò che vedeva. Era il Primale, vestito come quella prima notte in cui l'aveva incontrata in cima alle scale e l'aveva guardata come se non la vedesse da una settimana. Ma non era nella casa della confraternita. Stava correndo lungo un corridoio con delle scie di sangue e delle orme nere. Dei corpi erano accasciati per terra, su entrambi i lati, resti di vampiri che fino a pochi istanti prima erano vivi. Cormia rimase a guardare il Primale che radunava un gruppetto di vampiri terrorizzati e li faceva entrare in uno stanzino pieno di scorte medicinali. Vide la sua faccia mentre li chiudeva dentro a chiave, vide la paura, la tristezza e la rabbia sul suo volto. Si era dato da fare per salvarli, per trovare un nascondiglio sicuro, per prendersi cura di loro. Quando la visione cominciò a svanire, strinse di nuovo la boccia tra le mani. Ora che aveva visto cos'era accaduto poteva riguardare da capo le azioni del Primale. Le guardò una seconda volta e poi una terza. Era come quel film che aveva visto sulla terra, solo che questo era un fatto reale, un brandello di passato, non un presente fittizio, di fantasia. 708 Poi vide altre cose, scene relative al Primale, alla confraternita e alla razza. Oh, l'orrore di quelle uccisioni, di quei cadaveri in dimore lussuose... talmente tanti da risultarle incomprensibili. Uno a uno, vide i volti delle vittime dei tesser. Poi vide i fratelli impegnati sul campo di battaglia, in numero così ridotto che John, Blay e Qhuinn erano stati costretti prematuramente a fare la guerra. Se andava avanti così i lesser avrebbero vinto... Accigliandosi, si chinò sopra la boccia, ancora più vicino. Sulla superficie dell'acqua vide un lesser biondo, cosa non insolita... ma aveva le zanne. Qualcuno bussò alla l'immagine scomparve. porta, Cormia trasalì e Dall'altro lato del portone del tempio giunse una voce soffocata. «Sorella?» Era Selena, la precedente scrivana segregata. «Salve», gridò Cormia. «H tuo pasto, sorella», disse l'Eletta. Con un fruscio il vassoio venne fatto scivolare attraverso un'apertura. «Spero sia di tuo gradimento.» «Grazie.» 709 «Hai qualche domanda da farmi?» «No, grazie.» «Tornerò a ritirare il vassoio...» la voce dell'Eletta si alzò di quasi un'ottava per l'eccitazione, «... dopo l'arrivo del Primale.» Cormia chinò il capo, poi ricordò che la sorella non poteva vederla. «Come desideri.» L'Eletta se ne andò, senza dubbio a prepararsi per il Primate. Cormia tornò a chinarsi sopra la scrivania per guardare la boccia, non più il suo interno. Era un oggetto fragilissimo, molto sottile eccetto la base, pesante e solida. Il bordo del cristallo era tagliente come la lama di un coltello. Rimase a lungo così, non avrebbe saputo dire per quanto. Alla fine si riscosse da quella sorta di trance e a fatica posò di nuovo le mani sulla sfera di cristallo. Quando il Primale riaffiorò in superficie non rimase sorpresa... Rimase inorridita. Il Primale era steso scompostamente su un pavimento di marmo, esanime, vicino alla tazza di un gabinetto. Cormia stava per balzare in piedi per fare la Vergine sola sapeva che cosa, quando l'immagine cambiò. Adesso il Primate era a letto, un letto di un pallido color lavanda. 710 Voltando la testa guardò dritto verso di lei, attraverso l'acqua, e disse, «Cormia?» Oh, santissima Vergine Scriba, quel suono le fece venir voglia di piangere. «Cormia?» Lei balzò in piedi. Il Primale era fermo sulla soglia del tempio, tutto vestito di bianco, con al collo il medaglione legato al suo ruolo. «In verità...» Cormia non riuscì a proseguire. Aveva voglia di corrergli incontro, di abbracciarlo e tenerlo stretto. Lo aveva visto morto. Lo aveva visto.., «Perché sei qui?» chiese lui, guardandosi intorno nella stanza spoglia. «Tutta sola.» «Sono segregata.» Cormia si schiarì la gola. «Ve l'avevo detto.» «Dunque non posso stare qui?» «Voi siete il Primale. Potete stare dove volete.» Lui fece il giro della stanza; lei aveva tantissime domande, ma nessun diritto di porgliele. «Nessun altro ha il permesso di stare qui?» chiese lui, guardandola. 711 «No, a meno che una delle mie sorelle non si unisca a me come scriba segregata. La Direttrice però può entrare, col mio permesso.» «Qual è lo scopo della segregazione?» «Oltre a trascrivere la storia generale delle razze, noi... io... vedo le cose che la Vergine Scriba desidera mantenere... riservate.» Il Primale socchiuse gli occhi gialli; Cormia sapeva cosa stava pensando. «Sì, ho visto ciò che avete fatto. In quel bagno.» L'imprecazione che lui si lasciò sfuggire riecheggiò contro il soffitto bianco. «Vi sentite bene?» chiese Cormia. «Sì. Sto bene», rispose lui incrociando le braccia sul petto. «Pensi di stare bene qui? Tutta sola?» «Starò bene.» Il Primale la guardò. A lungo e intensamente. La sofferenza traspariva dal suo volto, dai solchi profondi scavati dal dolore e dal rimpianto. «Non mi avete fatto male», disse Cormia. «Quando siamo stati insieme, non mi avete fatto male. Voi ne siete convinto, lo so, ma vi sbagliate.» «Vorrei... che le cose fossero diverse.» Cormia rise mestamente e d'impulso mormorò, «Siete il Primale. Cambiatele.» 712 «Vostra grazia?» Sulla soglia comparve la Direttrice, confusa, «Cosa fate qui?» «Sono passato a trovare Cormia.» «Oh, ma...» Amalya parve riscuotersi, quasi ricordando all'improvviso che il Primale poteva andare dove voleva e vedere chi voleva, poiché segregata era un termine che imponeva restrizioni a tutti tranne che a lui. «Ma certo, vostra grazia. Ehm... l'Eletta Layla è pronta per voi, nel vostro tempio.» Cormia abbassò lo sguardo sulla sfera che aveva davanti. Le Elette avevano cicli di fertilità brevissimi, dunque era molto probabile che Layla fosse fertile o in procinto di esserlo. Senza dubbio molto presto ci sarebbe stata una gravidanza da annotare. «Ora dovete andare», disse guardando il Primale. Lui la trafisse «Cormia...» letteralmente con lo sguardo. «Vostra grazia?» lo interruppe la Direttrice. «Andrò al tempio quando sarò pronto», la zittì lui con voce dura, da sopra la spalla. «Oh, vi prego di perdonarmi, vostra grazia, non intendevo...» «Non fa niente», disse stancamente lui. «Dille... che arrivo.» 713 La Direttrice si affrettò a uscire e a chiudere la porta. Il Primale tornò a guardare negli occhi Cormia. Poi attraversò la stanza con espressione grave. Nel vedere che si buttava in ginocchio davanti a lei, Cormia rimase scioccata. «Vostra grazia, non dovreste...» «Phury. Chiamami Phury. Non "vostra grazia" o "Primale". A partire da adesso voglio che usi solo il mio vero nome.» «Ma...» «Niente ma.» Cormia scosse la testa. «E va bene, solo, non dovreste stare in ginocchio. Mai.» «Davanti a te dovrei stare sempre in ginocchio», così dicendo le posò delicatamente le mani sulle braccia «Davanti a te... dovrei stare sempre inchinato.» Fece scorrere lo sguardo sul suo viso e sui suoi capelli. «Ascolta, Cormia, voglio che tu sappia una cosa.» Lei lo guardò; i suoi occhi erano la cosa più incredibile che avesse mai visto, ipnotici, gialli come i citrini alla luce del fuoco. «Sì?» «Ti amo.» «Cosa?» fece lei con una stretta al cuore. 714 «Ti amo», ripeté lui scuotendo la testa e sedendosi a gambe incrociate. «Oh, Cristo... ho incasinato tutto. Ma ti amo. Volevo dirtelo perché... be', merda, perché è importante, e perché significa che non posso andare con le altre Elette. Non posso stare con loro, Cormia. O con te o con nessun'altra.» Lei era al settimo cielo. Per una frazione di secondo sentì il cuore mettere le ali e volare dentro il petto, librandosi su folate di gioia. Era ciò che aveva desiderato, quella dichiarazione, quella realtà... La sua radiosa felicità si offuscò con la stessa rapidità con cui era esplosa. Cormia ripensò alle immagini dei caduti, dei torturati, di chi era stato barbaramente ucciso. E ripensò al fatto che ormai i fratelli guerrieri erano rimasti in... quanti? Quattro. Solo quattro. Secoli prima erano sempre almeno venti o trenta, Cormia guardò la boccia davanti a sé e poi la penna d'oca che aveva usato. C'era la concreta possibilità che a un certo punto, in un futuro non troppo lontano, non ci fosse più nessuna storia da tramandare. «Dovete andare da lei, da Layla», disse con una voce piatta come la pergamena su cui doveva scrivere. «Dovete andare da tutte quante loro.» «Non hai sentito cos'ho detto?» 715 «Sì. Ma questa cosa è più grande di voi e di me.» Cormia si alzò in piedi, perché se non si muoveva rischiava di impazzire. «Io non sono più una Eletta, non lo sono più nel profondo del cuore. Ma ho visto ciò che sta succedendo. La razza non potrà sopravvivere così.» Il Primale si stropicciò gli occhi con una smorfia. «Io ti voglio.» «Lo so.» «Se andrò con le altre, riuscirai a sopportarlo? Io non sono sicuro di farcela.» «Temo... di no. Perciò ho scelto questo», così dicendo indicò la stanza con un ampio gesto della mano. «Qui posso vivere in pace.» «Posso venire a trovarti, però. Vero?» «Siete il Primale. Potete fare qualunque cosa.» Cormia si fermò accanto a una delle candele. Fissando la fiamma chiese, «Perché avete fatto ciò che avete fatto?» «Diventare Primale, vuoi dire? Io...» «No. La droga. Nel bagno. Avete rischiato di morire.» Non ottenendo risposta lo guardò. «Voglio sapere perché.» Ci fu un lungo silenzio. Poi lui disse, «Sono un tossicodipendente.» «Un tossicodipendente?» 716 «Sì. Sono la prova lampante che si può essere aristocratici, avere denaro e una posizione di prestigio ed essere un tossico.» I suoi occhi gialli erano di una trasparenza brutale. «Vorrei tanto essere un maschio di valore e dirti che posso smettere, ma non sono sicuro di farcela, questa è la verità. Non sarebbe la prima volta che faccio delle promesse, a me stesso o a qualcun altro, senza poi mantenerle. La mia parola... non vale più niente per nessuno, me compreso.» La sua parola... Cormia pensò a Layla che aspettava, alle Elette che aspettavano, all'intera razza che aspettava. Tutti aspettavano lui. «Phury... mio caro, adorato Phury, mantieni una delle tue promesse, adesso. Vai da Layla, falla tua e tieni fede all'impegno assunto con noi. Dacci una storia da scrivere, da vivere e in cui prosperare. Sii la forza della razza, com'è giusto che sia.» Lui fece per parlare, ma Cormia alzò la mano per fermarlo. «Sai che è giusto così. Sai che ho ragione.» Dopo un attimo di tensione, Phury si alzò in piedi, Pallido e malfermo sulle gambe, si raddrizzò la veste. «Voglio che tu sappia che... se andrò con un'altra, chiunque sia, nel mio cuore ci sarai tu.» Lei chiuse gli occhi. Per tutta la vita le avevano insegnato a condividere, ma lasciarlo andare con un'altra fémmina era come gettare qualcosa di prezioso per terra e poi calpestarlo fino a ridurlo in polvere. 717 «Andate in pace», disse piano. «E tornate in pace. Anche se non posso stare con voi, non rifiuterò mai la vostra compagnia.» Phury salì la montagnola su cui sorgeva il tempio del Primale camminando a fatica, con un piede che sembrava incatenato. Incatenato e avvolto nel filo spinato. Dio, oltre a sentirsi gravato da un peso enorme, il piede e la caviglia sani gli bruciavano neanche li avesse infilati dentro un secchio di acido per batterie. Mai si sarebbe immaginato di essere lieto di aver perso metà gamba, ma almeno non doveva sentire quello strazio in stereo. Il portone del Tempio del Primate era chiuso; Phury aprì un battente e sentì un profumo di erbe e di fiori. Entrò e rimase fermo nel vestibolo; sentiva la presenza di Layla poco più avanti, nella stanza principale del tempio. Sapeva che l'avrebbe trovata nella stessa posizione in cui aveva trovato Cormia, mesi prima: stesa sul letto con lunghi drappi candidi che, cadendo dal soffitto, si raccoglievano intorno alla sua gola lasciando in vista solo il suo corpo. Rimase a fissare i bianchi gradini di marmo che conducevano alla grande tenda che doveva scostare per arrivare da Layla. Tre gradini. Tre gradini da salire e poi si sarebbe trovato nella stanza principale. Si voltò e si mise a sedere sui gradini. Si sentiva la testa strana, forse perché erano tipo dodici ore che non fumava uno spinello. Strana... nel senso di 718 stranamente chiara. Cristo, era lucidissimo. Tanta chiarezza aveva come effetto secondario una nuova voce che gli parlava nella testa. Una voce nuova e diversa da quella del mago. Era... la sua stessa voce. Per la prima volta da tempo immemorabile, quasi non la riconobbe. Questa cosa è sbagliata. Con una smorfia si massaggiò il polpaccio che gli era rimasto. Il bruciore sembrava salire dalla caviglia, ma almeno quando si massaggiava il muscolo migliorava leggermente. Questa cosa è sbagliata. Era difficile non concordare con se stesso. Tutta la vita aveva vissuto per gli altri. Per il suo gemello. Per la confraternita. Per la razza. Era sempre la stessa storia, anche la faccenda del Primale. Aveva passato la vita intera a tentare di fare l'eroe, e adesso non solo stava sacrificando se stesso, ma stava sacrificando anche Cormia. Pensò a lei in quella stanza, sola con quelle bocce di cristallo, le penne d'oca e tutta quella pergamena. Poi la rivide contro di sé, calda e viva. No, disse la sua voce interiore. Non lo farò. «Non voglio farlo», disse, massaggiandosi tutte e due le cosce. 719 «Vostra grazia?» giunse la voce di Layla, dall'altro lato della tenda. Stava per risponderle quando d'un tratto il bruciore lo pervase completamente, travolgendolo, divorandolo vivo, consumando ogni centimetro del suo corpo. Con un nodo allo stomaco, tese le braccia tremanti per non cadere all'indietro. Un suono strangolato gli gorgogliò in gola, e dovette faticare per riprendere fiato. «Vostra grazia?» La voce di Layla era preoccupata... e più vicina. Ma non riusciva a risponderle. Impossibile. All'improvviso il suo corpo si trasformò in una palla di neve, un globo ghiacciato; tremava tutto, scosso da dolori lancinanti. Ma cosa cav... Delirium tremens, pensò. Era un cazzo di delirium tremens perché per la prima volta in circa duecento anni il suo organismo era senza fumo rosso. Sapeva di avere due possibilità: smaterializzarsi, tornare sulla terra, trovare uno spacciatore diverso da Rehvenge e non staccare la spina della sua dipendenza. Oppure stringere i denti. E smettere. 720 Il mago gli fece l'occhiolino, in primo piano, ritto davanti al suo regno di desolazione. Ah, socio, non puoi farcela. Lo sai. Perché tentare? Phury si concesse un attimo per vomitare. Merda, gli sembrava di morire. Sul serio. Basta che torni sulla Terra e ti procuri quello che ti serve. Puoi sentirti meglio con uno scatto di accendino. Tutto qua. E questo strazio passerà. Phury tremava convulsamente, battendo i denti come cubetti di ghiaccio dentro un bicchiere. Puoi far cessare tutto questo. Basta che accendi uno spinello. «Già una volta mi hai mentito. Hai detto che potevo liberarmi di te, e invece non sei sparito per niente.» Ah, socio, era solo una piccola bugia innocente, tra amici. E che sarà mai? Phury pensò al bagno di quella stanza color lavanda e a quello che aveva fatto lì dentro. «È tutto.» Il mago cominciò a incavolarsi. Tremando di brutto, neanche fosse finito dentro un frullatore, Phury allungò le gambe, si stese sul fresco pavimento di marmo del vestibolo e si preparò a starsene lì per un bel po'. «Merda», disse in piena crisi di astinenza. «Sarà una bella rottura.» 721 Capitolo 46 John e Qhuinn erano un paio di metri dietro Zsadist mentre tutti e tre si avvicinavano a una moderna villa a un piano. L'edificio era al sesto posto nell'elenco di proprietà non ancora colpite dai lesser. Il terzetto si fermò all'ombra di un paio di alberi ai bordi del prato. John aveva la pelle d'oca. Con la sua elegante struttura bassa e allargata, la casa assomigliava in modo incredibile a quella in cui aveva vissuto per un brevissimo periodo con Tohr e Wellsie. «Tu preferisci stare qui, John?» gli chiese Zsadist da sopra la spalla. Quando John annuì, il fratello commentò, «Me l'immaginavo. Fa venire i brividi anche a me. Qhuinn, stai qui con lui.» Zsadist avanzò nelle tenebre controllando porte e finestre. Quando sparì dietro la villa, Qhuinn guardò l'amico. «Perché ti fa venire i brividi?» John si strinse nelle spalle. Un tempo abitavo in una casa come questa. «Caspita, te la passavi bene da umano.» 722 È stato dopo. «Oh, vuoi dire con... Giusto.» Dio, la villa doveva essere dello stesso costruttore perché la facciata e la disposizione delle stanze era sostanzialmente identica. Guardando tutte le finestre, John ripensò alla sua camera da letto: blu scuro, in stile moderno e con tona vetrata scorrevole. Al suo arrivo l'armadio era vuoto, ma poi si era riempito con i primi vestiti nuovi che avesse mai posseduto. I ricordi tornarono ad assalirlo, ricordi della cena che aveva consumato la sera in cui Tohr e Wellsie lo avevano accolto in casa loro. Cucina messicana. Wellsie aveva preparato delle specialità messicane e aveva messo tutto in tavola, grossi piatti da portata pieni di enchiladas e quesadillas. All'epoca, prima della transizione, John era delicatissimo di stomaco, e ricordava la mortificazione che aveva provato quando era stato capace solo di rigirare il cibo nel piatto. A quel punto, però, Wellsie gli aveva piazzato davanti una ciotola di riso in bianco condito con salsa allo zenzero. Quando lei si era seduta, John era scoppiato in lacrime; raggomitolato su se stesso, piccolo e fragile com'era, aveva pianto per quella gentilezza. Dopo una vita passata a sentirsi diverso, ecco che all'improvviso aveva trovato qualcuno che sapeva di cosa aveva bisogno e ci teneva abbastanza da darglielo. 723 I genitori fanno questo, no? Ti conoscono meglio di te stesso, e si prendono cura di te quando non sei in grado di farlo da solo. «Vuota e intatta», disse Zsadist tornando. «Prossima casa?» Qhuinn consultò la lista. «425, Easterly Court...» Dal cellulare di Z si levò una musichetta sommessa. Il fratello controllò il numero e si accigliò, poi avvicinò il telefono all'orecchio. «Cosa c'è, Rehv?» John spostò gli occhi sulla casa, poi però li riportò su Z quando lo sentì dire. «Cosa? Mi prendi in giro? È saltato fuori dove?» Lunga pausa. «Dici sul serio, cazzo? Sei sicuro? Sicuro al cento per cento?» Z chiuse la telefonata e rimase a fissare il cellulare. «Devo tornare a casa. Subito. Merda.» Cosa c'è? Chiese John a gesti. «Ragazzi, ce la fate a controllare gli altri tre indirizzi da soli?» John annuì; il fratello lo guardava in modo strano. «Tieni il telefono a portata di mano, figliolo. Capito?» Quando John annuì, Zsadist scomparve. «Okay, qualunque cosa sia, chiaramente non è affar nostro», commentò Qhuinn piegando la lista e infilandola nella tasca dei jeans. «Leviamo le tende?» 724 John lanciò un'ultima occhiata alla casa. Mi dispiace per i tuoi genitori, disse a gesti un istante dopo. La risposta di Qhuinn tardò a venire. «Grazie.» Io sento la mancanza dei miei. «Credevo che fossi orfano.» Per un periodo non lo sono più stato. Dopo un lungo silenzio, Qhuinn disse, «Dai, John, andiamo via di qui. Dobbiamo controllare la casa di Easterly.» Dopo un minuto di riflessione, John disse, Ti spiace se prima ci fermiamo in un posto? Non è lontano. «Sicuro. Dove?» Voglio andare a casa di Lash. «Perché?» Non so. Per vedere dov'è cominciato tutto questo, immagino. E poi voglio dare un'occhiata alla sua stanza. «Ma come facciamo a entrare?» Se le tapparelle sono ancora regolate dal timer saranno alzate, possiamo smaterializzarci e passare attraverso il vetro. «Be'... che cavolo, se è lì che vuoi andare, va bene.» 725 Insieme si smaterializzarono e ripresero forma nel giardino laterale della grande villa Tudor. Le tapparelle erano alzate per la notte e in un baleno si ritrovarono in salotto. C'era un tanfo insopportabile; John aveva l'impressione che qualcuno gli avesse infilato della lana d'acciaio nelle narici per poi usarla a mo' di cotton fioc... ficcandola su fino al lobo frontale. Coprendosi la bocca e il naso si mise a tossire. «Cazzo», esclamò Qhuinn, facendo altrettanto. Tutti e due guardarono per terra. C'era sangue su tutto il tappeto e sul divano; le macchie, ormai asciutte, erano marroni. Seguirono le tracce fino all'atrio. «Oh, Gesù...» John alzò la testa. Oltre l'elegante arco della sala da pranzo c'era una scena che sembrava uscita da un film di Rob Zombie. I cadaveri della madre e del padre di Lash erano seduti a quelli che dovevano essere i loro posti abituali, davanti a un tavolo magnificamente apparecchiato. Avevano lo stesso colore dei marciapiedi, un grigio pallido e opaco, e i loro bei vestiti erano come i tappeti, coperti di macchie e striature marroni. C'erano anche delle mosche. «Dio, quei lesser sono proprio malati, senza scherzi.» 726 John deglutì la bile che gli era salita in gola e avanzò di qualche passo. «Merda, hai proprio bisogno di vederli da vicino, amico?» John osservò la stanza, sforzandosi di ignorare l'orrore e di notare i particolari. Il piatto da portata su cui era posato il pollo arrosto aveva delle macchie di sangue sui bordi. Era stato l'assassino a posarlo sul tavolo. Dopo aver sistemato i corpi, molto probabilmente. Saliamo in camera di Lash. Salire al piano di sopra fu strano da matti perché erano soli in casa... ma non proprio. In qualche modo, i morti giù di sotto riempivano l'aria con qualcosa di simile a un rumore. Di certo l'odore li seguì su per le scale. «La sua stanza è al secondo piano», disse Qhuinn quando giunsero al primo piano. Entrati nella camera da letto di Lash rimasero quasi delusi, tanta era la normalità rispetto allo shock della sala da pranzo. Letto. Scrivania. Stereo. Computer. TV. Comò. John si avvicinò e vide il cassetto con le impronte insanguinate. 727 Erano troppo sbavate per dire se avevano il disegno a spirale tipico dei polpastrelli. Prese una camicia a caso e la usò per aprire il cassetto, perché era quello che facevano nelle serie televisive. All'interno, altri segni insanguinati, anch'essi troppo sbavati. Con un tuffo al cuore si chinò per guardare più da vicino. Sull'angolo di una custodia per orologio di Jacob & Co. c'era un'impronta particolarmente chiara. Fischiò per attirare l'attenzione di Qhuinn. I lesser lasciano le impronte digitali? «Se entrano in contatto con qualcosa, di sicuro.» No, voglio dire, lasciano delle impronte, impronte? Non solo dei segni come i nostri, ma roba con delle linee, tipo? «Sì, certo», confermò Qhuinn avvicinandosi. «Cosa stai guardando?» John indicò l'astuccio. Sull'angolo c'era la riproduzione perfetta di un pollice... senza creste visibili. Come quello di un vampiro. Non pensi che,,, «No. Impossibile. Non hanno mai trasformato un vampiro.» John tirò fuori il cellulare e scattò ima foto. Poi, ripensandoci, prese la scatola e se la infilò nella giacca, 728 «Abbiamo finito?» chiese Qhuinn, «Fammi felice e dì di sì.» Voglio solo... John esitò. Dammi un altro minuto. «Okay, ma allora io vado a controllare le stanze al primo piano. Non... non ce la faccio a stare qui dentro così.» John annuì mentre l'amico usciva dalla stanza, e si sentì in colpa. Gesù, forse era stato crudele anche solo chiedergli di andare lì. Già... perché era pazzesco. Stare lì in mezzo a tutta la roba di Lash dava l'impressione che lui fosse ancora vivo. Dall'altra parte della città, al volante della Focus, Lash non era per niente contento. Quel catorcio faceva cagare, sul serio, anche nel traffico cittadino non aveva ripresa. Per andare da zero a cinquanta ci metteva tre giorni. «Dobbiamo ammodernarci.» Sul sedile del passeggero Mr D stava controllando la pistola, le dita sottili volavano sull'arma, «Sì,,, uhm, a questo proposito.» «Cosa.» «Penso che ci toccherà aspettare i soldi dei saccheggi.» «E perché?» 729 «Ho trovato gli estratti conto della banca, sa, quelli dell'ultimo Fore-lesser, Mr X. Erano nel suo capanno. E non è rimasto granché.» «Cosa intendi con "granché"?» «Be', non c'è più niente, in sostanza. Non so dove sia finito tutto il malloppo e non so chi sia stato a farlo sparire, ma restano più o meno cinquemila dollari.» «Cinque? Mi prendi per il culo?» Lash lasciò che l'auto decelerasse. Come staccare la spina a un vegetale. Erano al verde? Ma che cavolo? Lui era tipo il Principe delle Tenebre e il suo esercito al netto valeva cinque testoni? Aveva i soldi della sua defunta famiglia, certo, ma per quanti fossero non bastavano certo a finanziare una guerra. «Cazzo... allora me ne torno a casa mia. Mi sono rotto di girare su questa carretta.» Sì, tutt'a un tratto aveva superato del tutto lo shock per il massacro di mamma e papà. Gli serviva al più presto una macchina nuova e nel garage della villa Tudor era parcheggiata una Mercedes da urlo che filava come un razzo. Ci sarebbe salito e l'avrebbe guidata senza il minimo senso di colpa. 'Fanculo i vampiri e tutto il resto. Svoltando a destra in direzione del suo quartiere, tuttavia, fu assalito dalla nausea. Ma mica doveva entrare in casa, quindi non avrebbe visto i cadaveri, sempre ammesso che fossero ancora dove 730 li aveva lasciati... Merda, doveva entrare per forza a prendere le chiavi. Pazienza. Doveva crescere, cazzo. Dieci minuti dopo parcheggiò accanto ai garage sul retro della villa e scese. «Porta questa bagnarola alla fattoria. Ci vediamo là.» «Sicuro? Non sarà meglio che l'aspetti?» Lash si guardò la mano, accigliato. L'anello che l'Omega gli aveva dato la notte prima si stava scaldando e cominciava a brillare. «Mi sa che suo padre vuole vederla», disse Mr D, scendendo dall'auto. «Già.» Merda. «Com'è che funziona?» «Deve trovare un posto tranquillo. Stia zitto e calmo e lui verrà da lei oppure la porterà da lui.» Lash lanciò un'occhiata alla villa; come posto poteva andare. «Ci vediamo alla fattoria. E poi voglio che mi porti a quel capanno dove ci sono tutti i registri.» «Sissignore.» Mr D si sfiorò la tesa del cappello da cowboy e scivolò dietro il volante. Mentre la Focus ripercorreva ansimando il viale d'accesso, Lash entrò dalla cucina. La casa puzzava terribilmente, il nauseabondo fetore fruttato della morte e 731 della decomposizione sembrava quasi solido, tanto era forte. Era opera sua, pensò Lash. Era lui il responsabile di quello che ammorbava quella splendida villa. Tirò fuori il cellulare per richiamare indietro Mr D, ma poi esitò, concentrandosi sull'anello. L'oro ormai bruciava, incandescente; era sorpreso che non gli avesse già staccato il dito. Suo padre. Suo padre. I morti lì in casa non erano i suoi genitori. Aveva fatto la cosa giusta. Varcò la porta a vento che immetteva in sala da pranzo. Con l'anello che sfolgorava rimase a guardare le persone che aveva creduto essere i suoi genitori. La verità si nasconde tra le bugie, no? Per tutta la vita aveva dovuto dissimulare la sua vera natura, camuffare il male che aveva dentro. Ogni tanto qualche fugace sprazzo del suo vero io era venuto fuori, certo, ma il fulcro che costituiva il suo motore era rimasto nascosto. Adesso era libero. Fissando il maschio e la femmina assassinati che aveva davanti, all'improvviso non provò niente. Era come guardare dei manifesti macabri nell'atrio di qualche cinema: la sua mente attribuiva loro il giusto peso. Ovvero nessuno. 732 Toccò la catena che aveva al collo e si sentì stupido per lo sciocco sentimentalismo che lo aveva indotto a prenderla. Fu tentato di levarsela, ma poi ci ripensò... L'animale al cui ricordo era associata era forte, crudele e possente. Perciò fu in quanto simbolo, e non per affetto verso il suo cane, che la tenne al collo. Dio, quanto puzzavano quei morti. Lash si spostò nell'atrio. Il pavimento di marmo era un posto buono come un altro per incontrare il suo vero padre. Si mise a sedere sentendosi un idiota. Chiuse gli occhi; non vedeva l'ora di levarsi il pensiero e recuperare le chiavi della... Un ronzio ruppe il silenzio della casa; il rumore non veniva da nessun punto in particolare. Lash aprì gli occhi di scatto. Suo padre stava venendo lì? Oppure lo avrebbe portato da un'altra parte? D'un tratto una corrente cominciò a mulinargli intorno, distorcendo la sua visione delle cose. O forse distorcendo ciò che lo circondava. Nel mezzo di quel turbine, tuttavia, lui era saldissimo, pervaso da una strana fiducia. Il padre non avrebbe mai fatto del male al figlio. Chi fa del male è il male, ma il vincolo di sangue tra lui e il suo genitore significava che lui era l'Omega. E, se non altro per egoismo, l'Omega non avrebbe fatto del male a se stesso. 733 Proprio mentre stava per essere portato via, quando il vortice aveva quasi consumato la sua forma corporea, Lash guardò in su. Sulle scale di fronte a lui c'era John Matthew. 734 Capitolo 47 «Sorella», un sibilo dall'altro lato del portone del tempio. «Sorella.» Cormia alzò gli occhi dalla pergamena su cui stava trascrivendo le scene che aveva visto, quelle in cui il Primale salvava quei civili. «Layla?» «Il Primale sta male. Chiede di te.» Cormia lasciò cadere la penna d'oca e volò alla porta, spalancandola. «Sta male?» ripeté scrutando il volto pallido e sconvolto della sorella. «È a letto, ha i sudori freddi e trema tutto. Non sta affatto bene, in verità. Ho cercato di aiutarlo, ma non me l'ha permesso, l'ho trascinato via dal vestibolo quando ha perso conoscenza.» Cormia tirò su il cappuccio della veste. «Le altre sono...?» «Le nostre sorelle sono a pranzo. Sono tutte a tavola. Non ti vedrà nessuno.» Cormia si precipitò fuori dal tempio, ma rimase accecata dalla luce splendente del Santuario. Prese per mano Layla finché gli occhi non si abituarono e insieme corsero al tempio del Primale. 735 Cormia sgattaiolò dentro attraverso il portone dorato e scostò la pesante tenda. Il Primale era steso sul letto con addosso solo i pantaloni di seta dell'abito che portava abitualmente al Santuario. La pelle, coperta da un velo di sudore, aveva un colorito malsano. Scosso dai tremiti, il suo fisico massiccio appariva terribilmente fragile. «Cormia?» disse, tendendo una mano tremante. Lei si avvicinò, abbassando il cappuccio. «Sono qui.» Lui si tese tutto nel sentire la sua voce, ma quando Cormia gli toccò la punta delle dita si calmò. Buon Dio, era bollente. «Cosa c'è?» gli chiese, sedendosi accanto a lui. «Cr-cr-cr-credo ch-che sia la d-disintossicazione.» «La disintossicazione?» «N-n-niente... drooooghee...» d-droghe... b-b-bbbasta... d-d-d- Cormia a stento riusciva a capire cosa stava dicendo, ma intuì che l'ultima cosa che doveva fare era offrirsi di andare a prendergli una di quelle sigarette che fumava sempre. «C'è niente che possa fare per alleviare le vostre sofferenze?» Nel vedere che si leccava le labbra secche disse, «Desiderate un po' d'acqua?» 736 «La prendo io», si offrì Layla, avviandosi in bagno. «Grazie, sorella», disse Cormia da sopra la spalla. «Porta anche qualche pezzuola.» «Sì.» Mentre Layla spariva dietro una tenda in fondo al tempio, Phury chiuse gli occhi e cominciò ad agitare la testa sul cuscino e a parlare in modo più comprensibile. «Il giardino... il giardino è pieno di erbacce... oh, Dio, l'edera... è dappertutto... ha coperto tutte le statue.» Quando Layla tornò con una brocca, una ciotola e delle pezzuole bianche, Cormia disse, «Grazie. Ora lasciaci, per favore, sorella.» Aveva la sensazione che le cose stessero per precipitare e che Phury preferisse non essere visto in quello stato confusionale. «Cosa devo dire alle Elette quando mi presenterò a tavola?» chiese Layla con un inchino. «Dì che il Primale sta riposando dopo essersi accoppiato con te, e che ha chiesto di poter restare un po' da solo. Mi prenderò cura io di lui.» «Quando devo tornare?» «Il ciclo del sonno comincia presto?» «Dopo le preghiere di Thideh.» 737 «Giusto. Torna quando saranno tutte sistemate. Se la cosa non si risolve... dovrò andare sulla Terra a chiamare la dottoressa Jane, e tu dovrai stare con lui.» «A chiamare chi?» «Una guaritrice. Vai. Presto. Decanta le virtù del suo corpo e della tua posizione. E fallo con veemenza.» Cormia accarezzò all'indietro i capelli di Phury. «Più enfatica sarai, meglio sarà per lui.» «Come desideri. Tornerò.» Cormia attese che la sorella uscisse, poi tentò di far bere ancora Phury. Ma lui era troppo frastornato per riuscirci, incapace di concentrarsi su ciò che lei gli avvicinava alle labbra. Cormia si arrese, inumidì una pezzuola e gliela premette sul viso. Phury spalancò gli occhi febbricitanti e non li staccò più da lei, intenta a tamponargli la fronte. «Il giardino... è pieno di erbacce», disse con insistenza. «Pieno di erbacce.» «Shhh...» Cormia immerse di nuovo la pezzuola nella ciotola, rinfrescandola per lui. «Va tutto bene.» «No», gemette lui, sospirando disperato, «L'edera le ha coperte tutte. Le statue... sono sparite, andate... io sono andato.» Il terrore in quello sguardo giallo le raggelò il sangue. Aveva le allucinazioni, era chiaramente fuori di sé, ma ciò che vedeva, qualunque cosa fosse, per lui era molto 738 reale... sempre più agitato, si girava e rigirava tra le lenzuola immacolate. «L'edera... oh, Dio, l'edera sta venendo a prendermi... ce l'ho dappertutto, sulla pelle...» «Shh...» Forse da sola non ce l'avrebbe fatta a gestire la situazione. Forse... Ma se il problema era la sua mente, allora... «Phury, ascoltami. Se l'edera sta coprendo tutto la toglieremo.» Lui parve placarsi e ritrovare un minimo di lucidità. «Sul... serio?» Cormia pensò ai giardinieri che aveva visto dall'altra parte, sulla Terra. «Sì. La tireremo via.» «No... non possiamo. L'edera vincerà... vinc...» Cormia si chinò, vicinissima a lui. «E chi lo dice?» Il tono energico della sua voce parve catturare la sua attenzione, «Adesso dimmi, da dove dovremmo cominciare a tagliare?» Lui cominciò a scuotere la testa e Cormia lo afferrò per la mascella. «Da dove cominciamo?» Lui batté le palpebre a quella richiesta perentoria. «Ehm... quelle messe peggio sono le statue delle quattro fasi della vita...» «Va bene. Allora partiremo da lì.» Cormia tentò di figurarsi le quattro fasi della vita... infanzia, giovinezza, 739 maturità e vecchiaia. «Cominceremo dal neonato. Che attrezzi dobbiamo usare?» Il Primale chiuse gli occhi. «Le cesoie. Useremo le cesoie.» «E cosa dobbiamo fare con le cesoie?» «L'edera... l'edera è cresciuta e sta coprendo tutte le statue. Non ... si vedono più le facce. Soffoca... le statue. Non sono libere... non riescono a vedere...» Il Primale scoppiò a piangere. «Oh, Dio. Non ci vedo più. Non sono mai stato capace di vedere... oltre le erbacce di quel giardino.» «Resta con me. Ascoltami... noi due cambieremo le cose. Noi due insieme cambieremo le cose.» Cormia gli prese la mano e la premette contro le labbra. «Abbiamo le cesoie. Insieme taglieremo via tutta l'edera. E cominceremo dalla statua del piccolo.» Phury fece un bel respiro, come se lo attendesse un gran lavoro, e Cormia si sentì incoraggiata nei suoi sforzi. «Io strapperò via l'edera dalla faccia del piccolo e tu la taglierai. Mi vedi?» «Sì...» «Ti vedi?» «Sì.» «Bene. Adesso voglio che tagli il tralcio d'edera che sto tenendo in mano. Fallo. Presto.» «Sì... ecco... sì, lo sto tagliando.» «Ora metti per terra ai nostri piedi quello che hai tagliato», proseguì Cormia scostandogli i capelli dal viso. «E adesso ricomincia a tagliare... ancora...» «Sì.» 740 «Ancora.» «Sì.» «Adesso... cominci a vedere la faccia della statua?» «Sì... sì, vedo la faccia del piccolo...» disse Phury, mentre una lacrima gli rigava la guancia. «La vedo... vedo... me stesso in lui.» Intanto sulla Terra, in casa di Lash, John si fermò sulle scale pensando che forse il fattore fifa, nella grande villa Tudor, gli aveva mandato in tilt il cervello. Perché quello laggiù in fondo, seduto a gambe incrociate sul pavimento dell'atrio, avvolto da un turbine che gli mulinava intorno vorticosamente distorcendo tutto quanto, non poteva assolutamente essere Lash. Mentre il suo cervello tentava di districare la realtà da ciò che non poteva in alcun modo essere reale, John notò che il profumo dolciastro di borotalco permeava l'aria, quasi tingendola di rosa. Dio, invece di eclissare il nauseabondo bouquet della morte, non faceva che accentuare lo spaventoso tanfo di putrefazione. Ecco perché quell'odore gli aveva sempre dato la nausea: perché era identico a quello della morte. In quel momento, Lash guardò in su. Sembrava scioccato quanto lui, pensò John, ma poi a poco a poco sorrise. Dal vortice che lo avvolgeva la sua voce risalì le scale, come provenisse da una distanza molto più grande di quella che li separava. 741 «Be', ciao, Johnny bello.» La risata, familiare e bizzarra al tempo stesso, riecheggiava in modo strano. John strinse la pistola con entrambe le mani puntandola contro quello che c'era laggiù, qualunque cosa fosse. «Ci vedremo presto», disse Lash diventando bidimensionale, una sorta di immagine di se stesso. «Porterò i tuoi omaggi a mio padre.» La sua forma andava e veniva, poi sparì del tutto, inghiottita da quel turbine deformante. John abbassò l'arma, poi la infilò nella fondina. Che poi è quello che si fa quando non c'è niente a cui sparare. «John?» Gli anfibi di Qhuinn risuonarono pesanti alle sue spalle. «Cosa diavolo stai facendo?» Non lo so... credevo di aver visto... «Chi?» Lash. L'ho visto proprio lì davanti... Io... be', credevo di averlo visto. «Resta qui.» Qhuinn estrasse la pistola e scese le scale passando al setaccio il pianterreno. Lentamente, John scese nell'atrio. Aveva visto Lash. Vero? 742 «Tutto a posto», disse Qhuinn di ritorno dalla perlustrazione. «Senti, torniamocene a casa. Mi sa che non stai bene. Hai mangiato, stanotte? E, già che ci siamo, quand'è l'ultima volta che hai dormito?» Io... non saprei. «Okay. Andiamo via.» Avrei giurato... «Subito.» Mentre si smaterializzavano per riprendere forma nel cortile della casa della confraternita, John pensò che forse il suo amico aveva ragione. Forse avrebbe dovuto mangiare qualcosa e... Non fecero in tempo a entrare. Appena arrivati, videro uscire i fratelli in fila indiana dal maestoso portone a due battenti. Tra tutti avevano abbastanza armi da qualificarsi come una vera e propria milizia. Wrath li bloccò con un'occhiata dura da dietro gli occhiali avvolgenti. «Voi due. Nella Escalade con Rhage e Blay. A meno che non vi servano altre munizioni.» Quando i due ragazzi scossero la testa, il re si smaterializzò insieme a Vishous, Butch e Zsadist. Saliti a bordo del SUV, con Blay seduto davanti, John chiese, Cosa sta succedendo? 743 Rhage pigiò il piede sull'acceleratore. Mentre l'Escalade schizzava fuori dal cortile con un ruggito, il fratello rispose, asciutto, «Visita da parte di un vecchio amico-nemico. Del tipo che speri sempre di non rivedere mai più.» Be', era un pò il leitmotiv della serata, no? 744 Capitolo 48 Il sogno... l'allucinazione... quello che era, insomma, sembrava vero. Assolutamente e completamente vero. Ritto nel giardino soffocato dalla vegetazione della sua residenza di famiglia nel Vecchio Continente, sotto ima fulgida luna piena, Phury protese la mano verso il volto della statua raffigurante la terza fase della vita, la maturità, e strappò via i tralci d'edera dagli occhi, dal naso e dalla bocca del vampiro che con tanta fierezza stringeva tra le braccia il figlioletto. Ormai Phury era espertissimo nel taglio; dopo essersi esibito nella magia delle cesoie, gettò un altro groviglio verde nel telone impermeabile allargato ai suoi piedi. «Eccolo», mormorò. «Eccolo... qui...» La statua aveva i capelli lunghi, proprio come lui, e gli occhi infossati, proprio come lui, ma la radiosa felicità sul suo viso non gli apparteneva. Come neanche il piccolo stretto tra le sue braccia. Tuttavia andava liberata, quindi continuò a strappare via, uno strato dopo l'altro, tutta l'edera cresciuta senza controllo. Quand'ebbe terminato, il marmo sottostante era striato dalle lacrime verdi lasciate dalle erbacce defunte, ma la maestosità della figura era innegabile. 745 Un vampiro nel fiore degli anni con il figlioletto tra le braccia. Phury si voltò. «Cosa ne pensi?» chiese da sopra la spalla. «Penso che è bellissimo.» La voce di Cormia era tutto intorno a lui, in stereo, anche se lei era al suo fianco. Phury le sorrise, sul suo viso vedeva riflesso tutto l'amore che nutriva per lei. «Ancora una.» «Ma, guarda, l'ultima è già fatta», disse lei con un ampio gesto della mano. Era vero, anche l'ultima statua era a posto; le erbacce sparite, insieme a tutte le macchie dovute alla trascuratezza. Il vampiro adesso era vecchio e se ne stava seduto con un bastone tra le mani. Il suo volto era ancora bello, anche se in virtù della saggezza e non più per il fulgore della gioventù. Il ciclo era completo. E le erbacce non c'erano più. Phury guardò di nuovo la scultura raffigurante la terza fase della vita. Anch'essa era pulita, come per magia, così come le statue del giovane e del neonato. L'intero giardino era stato sistemato e adesso riposava, nel pieno della fioritura, sotto il dolce tepore del cielo notturno. Gli alberi da frutto accanto alle statue erano carichi di pere e di mele e i vialetti erano bordati da 746 ordinate siepi di bosso. Nelle aiuole i fiori crescevano in un incantevole disordine, come accade nei bei giardini all'inglese. Phury si volse verso la casa. Le imposte che prima penzolavano sbilenche dai cardini erano state raddrizzate e i buchi nelle tegole del tetto non c'erano più. L'intonaco era liscio e compatto, le crepe sparite e tutti i vetri intatti. Il terrazzo era stato liberato dalle foglie morte e i piccoli cedimenti della pavimentazione, dove un tempo si raccoglieva la pioggia, erano stati livellati. Rigogliose composizioni in vaso di gerani e petunie spiccavano, bianche e rosse, tra sedie e tavolini di vimini. Dietro la finestra dal soggiorno vide qualcosa che si muoveva... possibile? Sì. Sua madre. Suo padre. La coppia si offrì alla vista e tutti e due erano come le statue: risorti. Sua madre con gli occhi gialli, i capelli biondi e il volto perfetto... Suo padre con i capelli neri, lo sguardo limpido e il sorriso gentile. Erano... incredibilmente belli ai suoi occhi, erano il suo sacro graal. «Vai da loro», lo incoraggiò Cormia. Phury salì sul terrazzo, l'abito bianco ancora immacolato malgrado tutto il lavoro fatto. Lentamente si avvicinò ai suoi genitori, timoroso di far svanire la visione. 747 «Mahmen?» mormorò. Sua madre appoggiò la punta delle dita sul vetro. Phury rispecchiò quel gesto dal suo lato della finestra, nel punto esatto in cui lei aveva posato la mano. Appena toccò il vetro, sentì il calore di sua madre irradiarsi attraverso la finestra. Suo padre sorrise e disse qualcosa. «Cosa?» fece Phury. Siamo così fieri di te... figliolo. Phury strinse gli occhi con forza. Nessuno dei due lo aveva mai chiamato così, era la prima volta. Ora puoi andare, proseguì suo padre. Adesso qui stiamo bene. Hai sistemato... tutto. Phury li guardò. «Siete sicuri?» Entrambi annuirono. Poi, attraverso il vetro pulito, giunse la voce di sua madre. Ora vai e vivi, figliolo. Vai... vivi la tua vita, non la nostra. Noi qui stiamo bene. Col fiato sospeso, Phury rimase lì fermo a guardarli, assaporando quel momento, godendosi il loro aspetto. Poi, con la mano sul cuore, si piegò in un inchino. 748 Era un saluto. Non un addio, ma uno "statemi bene". Ed ebbe la sensazione che lo sarebbero stati per davvero. Phury aprì gli occhi di scatto. Sopra di lui incombeva una fitta coltre di nubi... no, un momento, era un altissimo soffitto di marmo bianco. Voltò la testa. Seduta accanto a lui c'era Cormia che gli teneva la mano, sul volto un calore simile al sentimento che gli scaldava il petto. «Vuoi qualcosa da bere?» chiese lei. «C... come?» Cormia prese un bicchiere dal tavolo. «Vuoi bere?» «Sì, grazie.» «Alza la testa.» Phury bevve una sorsata di assaggio e trovò l'acqua poco invitante. Non sapeva di niente ed era alla stessa temperatura della sua bocca, ma quando la mandò giù provò una sensazione piacevole, e senza neanche accorgersene svuotò il bicchiere. «Ne vuoi ancora?» «Sì, grazie.» Evidentemente quello era tutto il suo vocabolario. Cormia prese una caraffa e riempì di nuovo il bicchiere; quel gorgoglio era un bel suono, pensò Phury. 749 «Ecco», mormorò lei. Questa volta gli tenne alzata la testa e, bevendo, Phury la guardò nei begli occhi verdi. Quando Concia fece per allontanare il bicchiere dalle sue labbra, Phury le afferrò il polso con delicatezza. «Vorrei svegliarmi sempre così», disse nell'Antico Idioma, «perso nel tuo sguardo e nel tuo profumo.» Si aspettava che lei si ritraesse, turbata, tagliandolo fuori. Invece mormorò, «Abbiamo ripulito il tuo giardino.» «Sì...» Qualcuno bussò al portone del tempio. «Aspetta, prima di guardandosi intorno. rispondere», disse Cormia, Posò il bicchiere e attraversò la stanza. Dopo che si fu nascosta dietro una tenda di velluto bianco, Phury si schiarì la gola. «Sì?» «Posso entrare, vostra grazia?» La voce della Direttrice era cortese e rispettosa. Lui si tirò addosso un lenzuolo, anche se aveva i pantaloni, poi controllò bene che Cormia non fosse visibile. «Sì.» La Direttrice scostò la tenda del vestibolo e si piegò in un profondo inchino. Reggeva un vassoio coperto. «Vi ho portato un dono da parte delle Elette.» 750 Quando la Direttrice si raddrizzò, la radiosità del suo volto gli fece capire che Layla aveva mentito, e mentito con grande abilità. Non fidandosi a sedersi, rimase sdraiato e la invitò ad avvicinarsi con un cenno della mano. La Direttrice avanzò verso il letto e si inginocchiò davanti a lui. «Da parte delle vostre spose», disse, alzando il coperchio d'oro. Sul vassoio, ripiegato con la precisione di una pianta stradale, c'era un foulard ricamato. Di raso e incrostato di pietre preziose, era un'opera d'arte spettacolare. «Per il nostro maschio», disse la Direttrice, chinando il capo. «Grazie.» Merda. Phury prese il foulard e lo aprì. Citrini e diamanti tracciavano nell'Antico Idioma la scritta Forza della Razza. Le gemme scintillanti erano come le femmine lì al Santuario, pensò Phury, strette nella loro montatura di platino. «Ci avete reso molto felici», disse Amalya con un tremito nella voce. Si raddrizzò per poi inchinarsi di nuovo. «C'è niente che possiamo fare per ripagarvi della nostra gioia?» «No, grazie. Voglio solo riposare.» 751 Dopo un altro inchino, Amalya si dileguò leggera come una dolce brezza, in un silenzio tragicamente carico di aspettativa. A quel punto Phury si mise a sedere, ma dovette aiutarsi con le braccia. In posizione verticale la sua testa, leggera e vuota, ballonzolava sulla spina dorsale come un palloncino. «Cormia?» Lei uscì da dietro la tenda. Posò gli occhi sul foulard, poi su di lui. «Vuoi che chiami la dottoressa Jane?» «No, non sono malato. Era il delirium tremens.» «Così hai detto. Non ho ben chiaro cosa sia, però.» «Crisi di astinenza», spiegò lui, grattandosi le braccia. Non era ancora finita, pensò. Aveva un prurito diffuso e i polmoni gli bruciavano come in debito d'aria, anche se così non era. Ciò che reclamavano, lo sapeva, era il fumo rosso. «C'è un bagno dietro la tenda?» chiese. «Sì.» «Mi aspetti, per favore? Non ci metterò molto. Mi do solo una lavata.» Lei farà in tempo a morire prima che tu possa tornare pulito, disse il mago. Phury chiuse gli occhi, improvvisamente privo di forze. 752 «Cosa c'è?» Dille che è tornato il tuo vecchio socio. Dille che il tuo vecchio socio non se ne andrà mai. E poi torniamocene nel mondo reale a prendere quello che ti farà passare quel senso di oppressione ai polmoni e quel prurito su tutta la pelle. «Cosa c'è?» ripeté Cormia. Phury fece un gran sospiro. Al momento non sapeva molto, giusto il suo nome e non certo quello del Presidente degli Stati Uniti. Ma di una cosa era sicuro: se ricominciava ad ascoltare il mago sarebbe morto. «Niente», disse concentrandosi sulla femmina che aveva davanti. Nella terra desolata del mago quella risposta non venne presa bene; le sue vesti vennero sollevate da un vento impetuoso, che spazzò il campo disseminato di ossa. Le hai mentito! Io sono tutto! Sono tutto! La voce del mago era sempre più stridula. Io sono... «Niente», disse debolmente Phury, sollevandosi a fatica. «Tu non sei niente.» «Come?» 753 Phury scosse la testa; con l'aiuto di Cormia riuscì a non perdere l'equilibrio. Insieme andarono in bagno. Era identico a qualunque altro, salvo che sul water non c'era nessun logo; be', oltre a questo, in fondo alla stanza scorreva un ruscello... che presumibilmente fungeva da vasca da bagno. «Ti aspetto qui fuori», disse Cormia, lasciandolo solo. Dopo aver usato il gabinetto, Phury entrò nel ruscello con l'aiuto di qualche gradino di marmo. L'acqua, come quella nel bicchiere, aveva la sua stessa temperatura corporea. Su un piattino nell'angolo c'era quella che aveva tutta l'aria di essere una saponetta. Phury la prese. Era morbida, a forma di mezzaluna; la strinse tra i palmi e immerse le mani nell'acqua. La schiuma che si formò era densa e profumata di sempreverde. Si insaponò i capelli, il viso e il corpo, inspirando a fondo, riempiendosi i polmoni di quella fragranza... nella speranza di purificarli dai secoli di automedicazione a base di fumo. Quand'ebbe terminato, lasciò scorrere l'acqua sulla pelle tormentata dal prurito e sui muscoli doloranti. A occhi chiusi tagliò fuori il mago meglio che potè, ma era difficile perché quello stava facendo una scenata di proporzioni gigantesche. Nella sua vecchia vita Phury avrebbe messo su un'opera lirica, ma adesso non poteva... e non solo perché lì non esistevano impianti stereo Bose. Quel particolare tipo di musica gli ricordava troppo il suo gemello... che non cantava più. 754 Il rumore del ruscello, tuttavia, era incantevole, il dolce sciabordio musicale si levava dai ciottoli levigati come saltando dall'uno all'altro. Non volendo far attendere Cormia, Phury piantò i piedi sul fondo del ruscello e sollevò il busto fuori dalla corrente. L'acqua scivolò giù, lungo il petto e l'addome, come due mani rassicuranti; alzando le braccia la sentì gocciolare dalle dita e dai gomiti. Scendeva giù... cadeva giù... colava giù. La voce del mago tentò sovrastare il rumore dell'acqua. Phury la sentiva nella sua testa, lottava per farsi sentire, per far presa sul suo orecchio interno. Ma lo scroscio dell'acqua era più forte. Phury inspirò a fondo il profumo di sempreverde, con un senso di libertà che non c'entrava niente col luogo in cui si trovava fisicamente: non contava dove si trovava col corpo, ma dov'era con la testa. Per la prima volta il mago non era più forte di lui. Cormia camminava su e giù nel tempio del Primale. Non era malato. Era in crisi di astinenza. Non era malato. Si fermò ai piedi del letto. Ricordò quando, legata lì sopra, aveva sentito entrare qualcuno, un maschio, ed era stata sopraffatta dal terrore. 755 Impossibilitata a vedere, impossibilitata a muoversi e col divieto di dire di no, era rimasta stesa lì, alla mercé della tradizione. Ogni vergine, dopo la transizione, veniva offerta al Primale in quel modo. Altre dovevano aver provato la sua stessa paura. E altre l'avrebbero provata, in futuro. Dio... com'era sporco quel posto, pensò, guardando le pareti bianche che la circondavano. Sporco delle menzogne dette e lasciate a sedimentare nei cuori delle Elette che respiravano quell'aria immota. Tra le Elette circolava un antico adagio, il genere di massima che nessuno avrebbe saputo dire quando era stata la prima volta in cui l'aveva sentita. Giusta è la causa della nostra fede, sereno sia il nostro animo nell'adempimento del dovere, nulla potrà recar danno a noi credenti, poiché la purezza è la nostra forza e la nostra virtù, il genitore che guida nostro figlio. Un ruggito selvaggio uscì dal bagno. Phury stava urlando. Cormia si voltò di scatto, precipitandosi nell'altra stanza. Lo trovò nudo nel ruscello, a pugni chiusi, il busto proteso verso l'alto, la spina dorsale tesa allo spasimo. Ma non stava gridando. Stava ridendo. 756 Voltò la testa, e quando la vide abbassò le braccia senza smettere di ridere. «Scusa...» Quando un'altra ventata di gioia selvaggia premette per erompere dal petto, tentò di trattenersi, ma non ci riuscì. «Penserai che sono impazzito.» «No...» Pensava che fosse bellissimo, la pelle dorata lucida d'acqua, i capelli che ricadevano in folti riccioli sulla schiena, «Cosa c'è di tanto divertente?» «Mi passi un asciugamano?» Cormia gli allungò un telo da bagno e non distolse lo sguardo mentre emergeva dal ruscello. «Non hai mai sentito parlare del Mago di Ozi» chiese lui, «È una storia?» «Credo di no.» Phury si legò la salvietta in vita. «Forse un giorno ti mostrerò il film. Ma era per questo che ridevo. Non avevo capito niente. Non era uno spirito onnipotente quello che sentivo nella testa. Era il Mago di Oz, nient'altro che un fragile vecchietto. Solo che io lo credevo terrificante e più forte di me.» «Un mago?» Phury si picchiettò l'indice sulla tempia. «Una voce nella mia testa. Perfida. Fumavo per scacciarla. Credevo che fosse vino spirito potente e invincibile. Ma non era così. Non è così.» 757 Era impossibile non condividere tanta felicità; Cormia gli sorrise, pervasa da un repentino calore che le riempì anima e cuore. «Sì, era solo una voce alta e stentorea, ma niente di speciale.» Phury cominciò a grattarsi il braccio come se avesse un eritema... ma non c'era niente a rovinare la vellutata perfezione della sua pelle. «Alta... stentorea...» Phury la fissava e il suo sguardo improvvisamente cambiò. Cormia capì subito il perché. Nei suoi occhi ardeva il fuoco dell'eccitazione, mentre il suo sesso si ingrossava tra le cosce. «Scusa», disse lui, afferrando un altro asciugamano e coprendosi l'inguine. «Hai fatto l'amore con lei?» chiese d'impulso Cormia. «Con Layla? No. Ero ancora nel vestibolo quando ho capito che non potevo andare fino in fondo.» Scosse la testa. «Non accadrà mai. Non posso stare con nessun'altra che te. La domanda è cosa fare adesso... e, comunque vada, penso di conoscere la risposta. Credo che tutto questo», così dicendo fece un ampio gesto col braccio, quasi a comprendere tutto ciò che c'era dentro e intorno al Santuario, «non possa più andare avanti. Questo sistema, questo modo di vivere, non funziona. Hai ragione tu, e non solo per quanto riguarda noi, ma tutti quanti. Non funziona per nessuno.» Mentre assimilava quelle parole, Cormia pensò al luogo in cui era nata. Pensò ai bianchi prati ondulati, agli edifici candidi, alle vesti immacolate. 758 Phury scosse la testa. «Un tempo c'erano duecento Elette, giusto? A quell'epoca i fratelli erano trenta o quaranta, giusto?» Quando Cormia annuì, lui abbassò lo sguardo sull'acqua turbinosa del ruscello. «E adesso quanti ne rimangono? Sai, non è solo la Lessening Society a ucciderci, sono queste maledette regole sotto cui viviamo. Voglio dire, dai, le Elette qui non sono protette, sono prigioniere. E vengono maltrattate. Che tu fossi o meno attratta da me non aveva la minima importanza, saresti stata comunque costretta a fare sesso con me, e questa è ima crudeltà. Tu e le tue sorelle siete intrappolate qui dentro, al servizio di una tradizione obsoleta in cui non so quante di voi credano veramente. Nella vita da Eletta... non c'è libertà di scelta. Nessuna di voi ha la benché minima possibilità di scegliere. Prendiamo il tuo caso, per esempio... tu non vuoi stare qui. Sei tornata perché non avevi alternative, giusto?» Tre parole le uscirono di bocca, tre parole impossibili che cambiavano tutto. «Sì che ne avevo.» Cormia sollevò la tunica e poi la lasciò ricadere, pensando al rotolo di pergamena sul pavimento del Tempio delle Scrivane Segregate, quello , con sopra gli schizzi degli edifici, quello che non poteva portare da nessuna parte. Ora fu lei a scuotere la testa. «Non ho mai saputo quanto poco conoscevo me stessa finché non sono andata sulla Terra. E devo credere che lo stesso valga per le mie sorelle. Devono essere... è impossibile che io sia l'unica ad avere dei talenti nascosti o degli interessi segreti», disse Cormia camminando su e giù per il bagno. «E credo che 759 tutte noi ci sentiamo delle fallite... se non altro perché le pressioni sono così forti che tutto viene elevato a un livello di importanza suprema e totale. Basta il minimo errore - una parola scritta in modo scorretto, una nota stonata in un canto o un punto malriuscito in una pezza di stoffa - e senti di aver deluso l'intera razza.» Tutt'a un tratto non riusciva più a fermare quel fiume di parole. «Hai perfettamente ragione. Così non funziona. Il nostro scopo è servire la Vergine Scriba, ma deve pur esserci un modo per farlo senza smettere di onorare noi stesse.» Cormia guardò Phury. «Se siamo le sue Elette, le sue figliole predilette, non vuol forse dire che lei desidera il meglio per tutte noi? Non è quello che i genitori vogliono per i loro figli? Ma questo come può essere...», così dicendo fece scorrere le sguardo sull'onnipresente, soffocante candore del bagno, «... come può essere il meglio? Per la maggior parte di noi assomiglia più a un freezer che a una vita. Siamo come in coma, anche se ci muoviamo. Come... fa a essere il meglio, per noi?» «Non lo è. Non lo è affatto», disse Phury scuro in volto. Appallottolò il lungo telo da bagno e lo gettò sul pavimento di marmo, poi afferrò il medaglione del Primale e se lo strappò via dal collo. Voleva ritirarsi, pensò Cormia, a un tempo euforica e delusa per il futuro. Voleva ritirarsi... Phury alzò il pesante pendaglio d'oro, lasciandolo penzolare dal cordoncino di cuoio, e Cormia rimase senza fiato. L'espressione sul suo volto evocava forza e 760 determinazione, non irresponsabilità, la luce nei suoi occhi parlava di possesso e attitudine al comando, non di codardia e fuga dai propri doveri. Ritto di fronte a lei, incarnava l'intero paesaggio del Santuario, tutti gli edifici e i terreni, l'aria e l'acqua: non apparteneva a quel mondo, ma lo incarnava. Dopo un'intera vita trascorsa a guardare la storia dispiegarsi in una boccia d'acqua, Cormia si rese conto, mentre osservava il medaglione tenuto sollevato, che per la prima volta vedeva la storia nel suo farsi davanti ai suoi occhi, in tempo reale. Niente sarebbe più stato come prima. Con quell'emblema dell'eminenza della sua posizione che dondolava avanti e indietro sotto il suo pugno, Phury proclamò con voce dura e profonda, «Io sono la forza della razza. Sono il Primale. E dunque regnerò!» 761 Capitolo 49 Nei sobborghi di Caldwell, nella mite notte estiva, la confraternita, riunita sotto un'incantevole luna piena, si chiedeva cosa diavolo stesse succedendo. La Escalade si fermò vicino al gruppo compatto dei vampiri guerrieri. John, stupito di trovarsi lì tra loro, si slacciò la cintura di sicurezza e scese, mentre Rhage spegneva il SUV. Blay e Qhuinn lo affiancarono e tutti e tre insieme avanzarono verso i fratelli. Il campo davanti a loro si stendeva tra un collare di pini, l'erba era punteggiata da ciuffetti di verghe d'oro e da qualche sporadica, vaporosa asclepiade. Vishous accese ima delle sue sigarette rollate a mano, spandendo all'intorno l'aroma del tabacco turco. «Lo stronzo è in ritardo.» «Calma, V», lo ammonì sottovoce Wrath. «Ti mando via se non stai buono.» «Stronzo. Non tu, lui.» «Butch, metti il guinzaglio al tuo amico, ti spiace? Prima che gli metta la museruola io con un bel pino.» Il bagliore giunse da oriente; piccolo all'inizio, come la scintilla di un accendino, poi sempre più grande, fino a diventare come il sole. La luce si raccolse a poco a poco, nel bosco, filtrata dai tronchi e dai rami. John pensò ai 762 film sugli esperimenti nucleari che aveva visto a scuola, quelli in cui gli alberi e tutto il resto finivano rasi al suolo dopo la grande esplosione luminosa. «Vi prego, ditemi che quella roba non è radioattiva», disse Qhuinn. «Naa», fece Rhage. «Però domani mattina saremo tutti abbronzati.» Butch si schermò gli occhi con un braccio. «E io che non ho portato il mio Coppertone.» Però nessuno estrasse le armi, notò John. Anche se erano tutti tesi come corde di violino. All'improvviso dal folto degli alberi uscì un uomo... un uomo sfolgorante, la fonte di tutta quella luce. Aveva qualcosa poggiato sulle braccia, un telone o un tappeto o... «Figlio di puttana», mormorò Wrath quando la figura si fermò a una ventina di metri di distanza. L'uomo sfolgorante rise. «Be', guarda chi si rivede, il buon re Wrath e la sua banda di buontemponi. Voialtri dovreste fare degli spettacolini per bambini, tanto mettete allegria, giuro.» «Fantastico», bofonchiò dell'umorismo è intatto.» Rhage, «il suo senso Vishous soffiò fuori una boccata di fumo. «Potrei provare a farglielo passare io a furia di legnate.» 763 «Usando il suo braccio, magari...» Wrath fulminò i due fratelli con un'occhiataccia e loro lo ricambiarono con degli sguardi della serie "chi, noi?" Il re scrollò la testa e, rivolto alla figura luminosa, disse, «È un secolo che non ci vediamo. Grazie a Dio. Come cazzo stai?» Prima che l'uomo avesse il tempo di rispondere, V imprecò. «Se devo stare ad ascoltare tutta quella storia alla Keanu Reeves in Matrix, tutte quelle stronzate della serie "Io sono Neo", potrebbe scoppiarmi la testa.» «Non è che volevi dire Neon?» ribatté Butch. «Perché a me ricorda tanto l'insegna della Shell.» Wrath voltò la testa di scatto. «Chiudete il becco. Tutti quanti.» La figura sfolgorante rise. «Allora, lo volete il vostro regalo di Natale in anticipo? O preferite continuare a mancarmi di rispetto finché non decido di alzare i tacchi?» «Natale? Quella è la tua tradizione, non la nostra, mi pare», disse Wrath. «Sarebbe un no? Perché è qualcosa che vi manca da un bel pezzo.» Con ciò il bagliore svanì, come se qualcuno avesse staccato la spina della fonte luminosa. Ritto nella radura adesso c'era un uomo come chiunque altro... be', più o meno, dato che era avvolto in 764 catene d'oro. Tra le braccia reggeva qualcuno, un vampiro con la barba lunga e i capelli scuri striati di bianco... John fu pervaso da un fremito. «Non riconoscete il vostro fratello?» disse la figura, abbassando gli occhi sul vampiro che teneva in braccio, «Come dimenticano in fretta.» Fu John a rompere le righe e attraversare il prato di corsa. Qualcuno lo chiamò, ma non si sarebbe fermato per niente e nessuno al mondo. Correva a più non posso, col vento che gli mugghiava nelle orecchie e il sangue che gli martellava nelle vene, I fili d'erba gli sferzavano i jeans, la fresca notte agostana gli schiaffeggiava le guance e i pugni in cui aveva serrato le mani fendevano l'aria. Papà, gridò muto. Papà! Si fermò di colpo, tappandosi la bocca con la mano. Era Tohrment, ma in una versione rattrappita, come se lo avessero lasciato fuori al sole per mesi. Il volto era scarno, gli occhi infossati nelle orbite, la pelle pendeva flaccida dalle ossa. La barba era lunga e scura, i capelli arruffati ridotti a un ispido groviglio nero, eccezion fatta per una fulgida striscia bianca come la neve sulla fronte. I vestiti erano quelli che indossava la notte in cui era scomparso dal centro di addestramento, laceri e sudici. John sobbalzò nel sentire una mano sulla spalla. 765 «Tranquillo, figliolo», disse Wrath. «Gesù Cristo...» «Il mio nome è Lassiter, per la verità», precisò l'uomo, «nel caso te ne fossi scordato.» «Spiritoso. Allora, qual è il prezzo?» chiese il re, tendendo le braccia per farsi passare Tohr. «Mi piace come dai per scontato che ce ne sia uno.» John avrebbe voluto essere lui a caricare Tohr in macchina ma, per come gli tremavano le ginocchia, era probabile che dovessero portare in braccio anche lui. «Perché, non c'è nessun prezzo?» fece Wrath prendendo in braccio il fratello. «Merda, non pesa niente», commentò scuotendo la testa. «È sopravvissuto bevendo sangue di cervo.» «Da quanto sai di lui?» «L'ho trovato due giorni fa.» «Il prezzo», lo incalzò Wrath, senza staccare gli occhi da Tohrment. «Be', ecco.» Il re imprecò e l'uomo, Lassiter, rise. «Non è un prezzo, però.» «Cosa vuoi.» «È un'offerta "due al prezzo di uno".» 766 «Come, scusa?» «Io vengo con lui.» «Col cazzo.» La voce dell'uomo perse ogni leggerezza. «Fa parte dell'accordo e, credimi, anch'io ne farei volentieri a meno. Il fatto è che lui è la mia ultima chance per cui, sì, mi spiace ma con lui vi beccate anche me. E, a proposito, se dici di no faccio fare una brutta fine a tutti quanti, così.» L'uomo fece schioccare le dita e una scintilla di un bianco accecante si accese contro il cielo notturno. «Ti presento Lassiter, l'angelo caduto», disse Wrath un istante dopo, rivolto a John. «Una delle ultime volte che è sceso sulla Terra, in Europa centrale, è scoppiata un'epidemia...» «Okay, quella non è stata colpa mia...» «... che ha spazzato via i due terzi della popolazione umana.» «Gradirei ricordarti che a te gli umani non piacciono.» «Da morti emanano un cattivo odore.» «Vale per tutti voi mortali.» John faticava a seguire la conversazione, preso com'era a guardare Tohr. Apri gli occhi... apri gli occhi... ti prego, Dio... 767 «Dai, John, andiamo.» Wrath si voltò verso gli altri fratelli e cominciò a camminare. Quando li raggiunse disse piano, «Nostro fratello è tornato.» «Oh, Cristo, è vivo», esclamò qualcuno. «Grazie a Dio», bofonchiò qualcun altro. «Diglielo», disse Lassiter da dietro. «Digli che arriva con un compagno di stanza.» I fratelli alzarono la testa di scatto, all'unisono. «Baciami il culo», sussurrò Vishous. «Non lo prenderò come un invito», borbottò Lassiter. 768 Capitolo 50 Phury attraversò la distesa di un bianco accecante del Santuario, diretto all'ingresso privato della Vergine Scriba. Bussò una volta e rimase in attesa, inoltrando con la forza del pensiero una richiesta di udienza. Quando le porte si aprirono si aspettava di essere accolto dalla Direttrice Amalya, invece dall'altra parte non c'era nessuno. Il candido cortile della Vergine Scriba era deserto, salvo che per gli uccelli appollaiati sull'albero carico di fiori bianchi. Fringuelli e canarini erano fuori posto, lì, ma proprio per questo ancora più incantevoli. Contro il bianco del fogliame e dei rami, i loro colori risaltavano vivaci; nel sentire i loro richiami, Phury pensò a tutte le volte che Vishous si era recato lì con una di quelle fragili creaturine chiusa tra le mani a coppa. Dopo che la Vergine Scriba aveva rinunciato a loro per amore di suo figlio, il figlio glieli aveva restituiti. Phury si avvicinò alla fontana e rimase in ascolto dell'acqua che zampillava nella vasca di marmo. Capì subito quando la Vergine Scriba comparve alle sue spalle perché gli si rizzarono i peli sulla nuca. 769 «Pensavo che ti saresti ritirato», gli disse. «Ho visto il cammino del Primale snodarsi per i passi di un altro. Tu dovevi essere solo un momento di transizione.» Lui la guardò da sopra la spalla. «Anch'io pensavo che mi sarei ritirato. Invece no.» Strano, pensò. Sotto i panneggi neri che le coprivano il volto, le mani e i piedi, il suo fulgore sembrava più fioco di quanto ricordava. La Vergine Scriba fluttuò verso i suoi uccellini. «Gradirei che mi salutassi come si conviene, Primale.» Con un profondo inchino, lui pronunciò la formula di rito nell'Antico Idioma, Le usò anche la cortesia di restare inchinato, in attesa che lei lo liberasse dalla posa supplice. «Ah, ma il punto è proprio questo», mormorò la Vergine Scriba, «Tu ti sei già liberato da solo. E adesso vuoi la stessa cosa per la mia Eletta.» Phury fece per parlare, ma lei lo anticipò. «Non devi darmi spiegazioni. Credi forse che non sappia cosa ti passa per la testa? Anche il tuo mago, come lo chiami tu, mi è noto.» Okay, questo gli procurò un certo imbarazzo. «Alzati, Phury, figlio di Ahgony.» Quando lui ubbidì lei disse, «Noi tutti siamo il prodotto della nostra educazione, Primate. Le costruzioni derivanti dalle nostre scelte sorgono sulle fondamenta gettate dai nostri genitori, e dai loro genitori prima di loro. Noi siamo solo 770 il piano successivo della casa, o la pietra successiva lungo il selciato.» Phury scosse lentamente la testa. «Possiamo scegliere una direzione diversa. Possiamo seguire una rotta diversa tra quelle indicate dalla bussola. «Di questo non sono sicura.» «Io invece devo esserlo... altrimenti non farei buon uso della vita che mi avete dato.» «Effettivamente.» La Vergine Scriba voltò la testa verso i suoi appartamenti privati. «Effettivamente, Primale.» Nel silenzio che seguì parve rattristata, il che lo sorprese. Era preparato a una dura lotta, che diamine, era difficile non pensare alla Vergine Scrivana come a un tir vestito di nero. «Dimmi, Primale, come intendi affrontare tutto ciò?» «Non sono ancora sicuro. Ma le Elette che si sentono più a loro agio qui posso restare, mentre quelle che desiderano avventurarsi dall'altra parte troveranno un porto sicuro sulla Terra, con me.» «Abbandoni per sempre questi luoghi?» «Sulla Terra c'è qualcosa di cui ho bisogno, qualcosa che devo avere. Ma farò la spola avanti e indietro. Ci vorranno decenni, forse anche più, per cambiare tutto. Cormia mi aiuterà.» 771 «E hai deciso di possedere solo lei?» «Sì. Se le altre troveranno dei compagni di loro gradimento, ammetterò tutte le loro figlie femmine nella tradizionale cerchia delle Elette e solleciterò Wrath ad accogliere nella confraternita i loro figli maschi, che nascano qui o sulla Terra. Ma io avrò solo Cormia.» «E la purezza del sangue? La forza che ne deriva? Non ci saranno più modelli di riferimento? La riproduzione selettiva era una scelta deliberata, volta a generare forza dalla forza. E se un'Eletta dovesse scegliere un compagno che non appartiene alla confraternita?» Phury pensò a Qhuinn e Blay. Due giovani forti che col tempo sarebbero diventati ancora più forti. Perché non potevano far parte della confraternita? «Sarà Wrath a decidere. Ma per parte mia lo incoraggerò ad accettare i soggetti meritevoli, indipendentemente dal loro lignaggio. Un cuore intrepido può rendere un guerriero più alto e più forte di quanto non sia fisicamente. La razza si sta estinguendo, lo sapete bene. Stiamo perdendo terreno, generazione dopo generazione, e non solo a causa della guerra. La Lessening Society non è la sola cosa che ci uccide. Anche le tradizioni lo fanno.» La Vergine Scriba fluttuò verso la fontana. 772 Ci fu un lungo, lunghissimo silenzio. «Ho la sensazione di avere perso», disse sottovoce. «Di avere perso tutti voi.» «Non è così. Niente affatto. Siate una madre per la razza, invece che una sorta di carceriere, e otterrete tutto ciò che vorrete. Liberateci e guardateci prosperare.» Il ciangottio della fontana parve gonfiarsi, alzarsi, sull'onda delle emozioni della Vergine Scriba. Phury guardò gli zampilli che, catturando la luce, brillavano come tante stelle; ogni gocciolina racchiudeva un arcobaleno d'incredibile bellezza. Mentre contemplava le gemme scintillanti in ogni frammento del tutto, pensò alle Elette e alle loro tante doti individuali. Pensò ai suoi fratelli. Pensò alle loro shellan. Pensò alla sua amata. E comprese i motivi del silenzio della Vergine Scriba. «Voi non ci perderete. Noi non vi abbandoneremo né vi dimenticheremo mai. Come potremmo? Voi ci avete generato, guidato e rafforzato. Ma ora... ora tocca a noi. Lasciateci andare e vi saremo più vicini che mai. Lasciateci prendere in mano il futuro per forgiarlo come meglio possiamo. Abbiate fede nella vostra creazione.» «Hai la forza per questo, Primale?» disse aspra lei. «Sarai in grado di guidare le Elette anche dopo tutto 773 quello che hai passato? Non hai avuto una vita facile, e la strada che intendi imboccare non è piana né liscia.» Ritto sulla gamba sana e sulla protesi, Phury ripensò alla propria esistenza valutando il proprio valore, la tempra del carattere, e giunse ad un'unica risposta. «Sono qui, no?» dichiarò. «Sono ancora in piedi, giusto? Ditemi voi se ho la forza necessaria oppure no.» Lei abbozzò un sorriso, Phury non poteva vederla in faccia ma sapeva che era così. La Vergine Scriba annuì una volta, «Così sia, dunque, Primale. Sia fatta la tua volontà.» Poi si voltò e scomparve nei suoi appartamenti. Phury espirò come se gli avessero tolto un tappo dal sedere. Porca. Puttana. Aveva appena mandato a gambe all'aria l'intero tessuto spirituale della razza. Per non parlare di quello biologico. Cribbio, se avesse saputo come stava per evolversi la nottata si sarebbe mangiato una bella scodella di cereali, prima di scendere da quel letto. Si voltò per tornare al Santuario. La prima tappa sarebbe stata Cormia; poi insieme sarebbero andati dalla Direttrice e... 774 Aprì la porta e rimase di sasso. L'erba era verde. L'erba era verde e il cielo era azzurro... i narcisi erano gialli e le rose erano di tutti i colori dell'arcobaleno... e gli edifici erano rossi, bianco panna e blu scuro... Le Elette si riversavano fuori dai loro alloggi, reggendo le loro nuove vesti colorate e guardandosi intorno in preda all'euforia e allo stupore. Cormia emerse dal tempio del Primale e si guardò intorno, il bel volto esterrefatto. Quando vide Phury si tappò la bocca con le mani, battendo freneticamente le palpebre. Con un urlo raccolse la splendida veste color lavanda e gli corse incontro, piangendo a dirotto. Gli saltò al collo, e lui la tenne stretta, premendosi contro il suo corpo caldo. «Ti amo», sussurrò lei con voce strozzata. «Ti amo, ti amo... ti amo.» In quel momento, col mondo in trasformazione per merito suo e la sua shellan al sicuro tra le sue braccia, Phury sentì qualcosa che non avrebbe mai immaginato di provare. Finalmente si sentì l'eroe che aveva sempre sognato di essere. 775 Capitolo 51 Nel frattempo, nella grande casa della confraternita, John Matthew se ne stava seduto in una poltrona imbottita di fronte al letto su cui dormiva Tohr. Il Fratello non si era mosso da quando erano tornati a casa, parecchie ore prima. Il che sembrava la regola, quella notte. Sembrava che tutti, in casa, fossero addormentati, sopraffatti da una irresistibile stanchezza collettiva. Be', tutti tranne John. E l'angelo che camminava avanti e indietro nella camera degli ospiti lì accanto. Tohr era al centro dei pensieri di entrambi. Dio, John non si sarebbe mai aspettato di sentirsi più grosso del Fratello, non si sarebbe mai aspettato di essere fisicamente più forte e di certo non avrebbe mai pensato di doversi prendere cura di lui. O di esserne responsabile. E tutto questo perché Tohr aveva perso venticinque chili, come minimo, e aveva la faccia e il fisico di chi è andato in guerra ed è stato ferito a morte. Che strano, pensò John. All'inizio sperava che Tohr si svegliasse subito, adesso invece aveva paura di vedere quegli occhi aperti. Non sapeva se avrebbe sopportato di essere tagliato fuori. Sarebbe stato comprensibile, dato 776 tutto quello che aveva perduto Tohr, ma... ne sarebbe morto di dolore. E poi, finché Tohr dormiva, lui non sarebbe crollato scoppiando in singhiozzi. Nella stanza c'era uno spettro, infatti. Un bellissimo spettro dai capelli rossi e col pancione: lì con loro c'era Wellsie. Malgrado fosse morta, era lì con loro, e così pure il suo piccolo mai nato. La shellan di Tohr non sarebbe mai stata lontana. Era impossibile guardare Tohr senza vedere anche lei. Loro due erano stati inseparabili in vita, e lo erano anche nella morte. Tohr respirava, certo, ma non era più vivo, poco ma sicuro. «Sei tu?» Di scatto, John spostò gli occhi sul letto. Tohr era sveglio e lo guardava, colmando la breve distanza che li separava. Lentamente, John si alzò in piedi raddrizzandosi la Tshirt e i jeans. Sono John. John Matthew. Thor non disse niente, limitandosi a guardarlo dalla testa ai piedi. Ho superato la transizione, spiegò come uno scemo John. «Sei come D. Grande e grosso.» Dio, quella voce era proprio come se la ricordava. Profonda come la nota di basso di un organo in chiesa e 777 altrettanto imperiosa. C'era una differenza, però. Una sfumatura sepolcrale del tutto nuova. O forse veniva dal vuoto dietro quegli occhi blu. Ho dovuto comprare dei vestiti nuovi. Gesù Cristo, che idiota. Hai... hai fame? Ti ho portato dei panini al roast-beef. E i biscotti alla menta e cioccolato Pepperidge Farm Milanos. Una volta ti piacevan... «Sono a posto così.» Vuoi qualcosa da bere? Ho qui un thermos di caffè. «Naa.» Tohr lanciò un'occhiata al bagno. «Cavolo, un gabinetto al coperto. Era un pezzo che non ne vedevo uno. E, no, non mi serve aiuto.» Era doloroso da guardare, pensò John, come l'anteprima di un futuro che non si sarebbe aspettato di vedere per altre centinaia e centinaia d'anni: Tohrment era un vecchio. Il Fratello afferrò con mano tremante il bordo delle lenzuola e a poco a poco le scostò dal corpo nudo. Si fermò per qualche istante. Poi fece scivolare le gambe giù dal letto fino a posare i piedi per terra. Dopo un'altra pausa si alzò a fatica; le spalle, un tempo larghe e robuste, fecero uno sforzo immane per reggere un peso di poco superiore a quello di uno scheletro. Non camminava. Strascicava i piedi come le persone molto anziane, con la testa china, la schiena curva, le 778 mani alzate quasi temesse di cadere da un momento all'altro. La porta del bagno si chiuse. Si sentì il gorgoglio dello sciacquone, poi lo scroscio della doccia. John tornò a sedersi in poltrona con un senso di vuoto allo stomaco, e non solo perché era a digiuno dalla sera prima. Preoccupazione, ansia, angoscia, non pensava ad altro, non sentiva altro. Le respirava con l'aria che gli entrava nei polmoni, erano il battito stesso del suo cuore. Quella era l'altra faccia del rapporto genitori-fìgli. Quando il figlio stava in pensiero per il padre. Sempre ammesso che tra lui e Tohr esistesse ancora quel tipo di legame. John non ne era sicuro. Il fratello lo aveva guardato come si guarda un estraneo. Cominciò a battere nervosamente il piede, al ritmo dei secondi che passavano, e si sfregò i palmi sulle cosce. Strano, tutto il resto - le cose che erano accadute, persino la tragedia di Lash - sembrava irreale e privo di importanza. Contava solo il momento presente con Tohr. Quando la porta del bagno si aprì, quasi un'ora dopo, John rimase come paralizzato. Tohr si era infilato un accappatoio e i capelli erano quasi del tutto in ordine, anche se la barba era ancora ispida e incolta. 779 Con quel suo passo malfermo, strascicato e inaffidabile, il Fratello tornò a letto e si stese con un gemito, adagiandosi goffamente contro i cuscini. Posso fare quale... «Non è qui che volevo finire, John. Non voglio fingere. Non è qui... che voglio stare.» Okay, disse a gesti John. Okay. Mentre il silenzio si prolungava, John intavolò mentalmente la conversazione che voleva fare con Tohr: Qhuinn e Blay sotto venuti a stare qui, i genitori di Qhuinn sono morti e Lash è... non so cosa dire di lui... C'è una femmina che mi piace, ma non è alla mia portata, e partecipo anch'io alla guerra e mi sei mancato e voglio che tu sia fiero di me e ho paura e mi manca Wellsie e tu stai bene? E, soprattutto... Per favore dimmi che non te andrai più. Mai più. Ho bisogno di te. Invece si alzò in piedi e a gesti disse, Adesso ti lascio riposare. Se hai bisogno di qualcosa... «Sto bene così.» Okay. Sì. Okay... John stiracchiò il bordo della T-shirt e si voltò. Andando verso la porta non riusciva a respirare. Oddio, speriamo di non incrociare nessuno in corridoio, pensò. 780 «John.» John si fermò. Si voltò di scatto. Quando incontrò gli occhi stanchi di Tohr fu come se qualcuno gli avesse scardinato le ginocchia. Tohr chiuse gli occhi e spalancò le braccia. John corse verso il letto e si aggrappò a suo padre come se ne andasse della sua stessa vita. Affondò il viso contro quello che un tempo era un petto ampio e poderoso e ascoltò il cuore che ancora batteva dentro di esso. Tra i due fu lui a stringere con maggior vigore, e non perché Thor non ci tenesse, ma perché non ne aveva la forza. Piansero tutti e due, finché non ebbero più fiato per versare altre lacrime. 781 Capitolo 52 I grilletti non devono per forza essere sulle pistole per portare guai, pensò Phury guardando la facciata in vetro e acciaio dello ZeroSum. Merda, la disintossicazione costringeva il tuo corpo a subire un violento cambiamento chimico, ma per le smanie che avevi in testa non faceva un tubo di niente, E il mago era più piccolo di lui, certo, ma quella carogna non se n'era ancora andata. E Phury aveva la sensazione che ci sarebbe voluto parecchio prima che la voce sparisse. Prendendosi metaforicamente a calci nel sedere, avanzò verso il buttafuori, che gli scoccò un'occhiata strana, ma lo fece entrare. Una volta dentro non prestò la minima attenzione alla folla, che come al solito si aprì in due ali per lasciarlo passare. Non rivolse nessun cenno d'intesa al buttafuori ritto davanti al cordone di velluto che delimitava l'area VIP. Non disse nulla a iAm, che lo fece accomodare nell'ufficio di Rehv. «A cosa devo il piacere», lo apostrofò Rehvenge da dietro la scrivania. Phury fissò il suo spacciatore. Rehv indossava il solito completo nero che per lui era lo standard, anche se non aveva niente di standard. Il 782 taglio era impeccabile, anche da seduto, e sotto le luci soffuse la stoffa brillava, chiaro indizio che nella trama era intessuto qualche filo di seta. I baveri aderivano alla perfezione al torace poderoso e le maniche lasciavano intravedere la giusta porzione di polsino. Rehv si accigliò. «Sento le tue emozioni anche da qui. Hai combinato qualcosa.» Phury non riuscì a trattenere una risata. «Sì, si può dire così. Sto andando da Wrath, perché ho da esporgli qualcosa di molto importante. Prima però sono passato di qui perché la mia shellan e io abbiamo bisogno di un posto dove stare.» Le sopracciglia s'inarcarono di scatto sopra gli occhi color ametista di Rehvenge. «La tua shellan? Perbacco. Non più Eletta?» «No.» Phury si schiarì la gola. «Senti, so che hai delle case. In quantità. Volevo sapere se posso affittarne una per un paio di mesi. Mi servono molte stanze. Ma proprio tante.» «La casa della confraternita è troppo affollata?» «No.» «Mhm.» Rehv piegò la testa di lato, le parti rasate del taglio alla moicana erano lisce. «Wrath ha altre case, no? E so che anche il tuo fratello V ne ha. Ho sentito che da qualche parte ha una specie di pied-à-terre per le sue pratiche sadomaso. Devo ammettere che sono sorpreso di vederti venire da me.» 783 «Ho solo pensato di cominciare da te.» «Mhm.» Rehv si alzò e con l'aiuto del bastone andò ad aprire un pannello scorrevole dietro la scrivania. «Bel completino, a proposito. L'hai preso da Victoria's Secret? Scusami un secondo.» Mentre Rehvenge entrava nella stanza da letto segreta, Phury diede un'occhiata al proprio abbigliamento. Ecco perché tutti lo guardavano in modo strano. Aveva ancora addosso l'abito di raso bianco che portava dall'Altra Parte. Rehv uscì un istante dopo. In mano aveva un paio di mocassini neri in pelle di alligatore decorati con dei morsetti rivelatori. Lasciò cadere le scarpe Gucci ai piedi di Phury. «Invece di girare a piedi nudi perché non ti infili questi? E, mi spiace, ma non ho niente da darti in affitto.» Phury trasse un profondo sospiro. «Okay, grazie...» «Però puoi andare a stare gratis nel mio cottage sugli Adirondack. Per tutto il tempo che vuoi.» Phury batté le palpebre. «Posso p...» «Se stai per dire che puoi pagarmi, vaffanculo. Come ho già detto, non ho mente da darti in affitto. Trez può fare un salto lassù per darti i codici. Io mi farò vivo appena prima dell'alba il primo martedì di ogni mese, ma per il resto la casa è a vostra completa disposizione.» 784 «Non so cosa dire.» «Forse un giorno dovrai ricambiare il favore. Non occorre dire altro.» «Conta pure su di me. Hai la mia parola.» «E tu le mie scarpe. Tienile pure, anche dopo che avrai recuperato le tue.» Phury si infilò i mocassini. Calzavano a pennello. «Te le ripor...» «No. Consideralo un regalo di nozze.» «Be'... grazie.» «Prego. So che sei un estimatore di Gucci...» «Non dicevo per i mocassini, anche se sono favolosi. Intendevo... per avermi depennato dalla lista dei tuoi clienti. So che hai parlato con Z.» Rehv sorrise. «E così hai deciso di ripulirti, eh?» «Farò del mio meglio per smettere.» «Mhm.» Gli occhi di ametista si socchiusero. «E io credo che ce la farai. Hai la stessa determinazione che ho visto negli occhi di alcune persone che prima venivano nel mio ufficio ogni due per tre e poi una sera, per un motivo o per un altro, hanno deciso di non venirci più. Punto e stop. È bello da vedere.» 785 «Già, non mi vedrai più bazzicare da queste parti.» Il telefono di Rehv si mise a squillare; lui controllò il nome sul display e si accigliò. «Aspetta un attimo, potrebbe interessarti. E il capo de facto del Consiglio dei Princeps.» Rispose con un tono a metà tra l'impaziente e l'annoiato. «Io sto bene e tu? Sì. Sì. Terribile, sì. No, sono ancora in città, diciamo che sono una colonna.» Rehv si appoggiò allo schienale della poltroncina giocherellando con il tagliacarte a forma di pugnale. «Già. Ha-hah. Giusto. Sì, lo so, il vuoto di potere è... Come, scusa?» esclamò lasciando cadere il tagliacarte sul tampone di carta assorbente. «Che cosa hai detto? Ah, ma pensa. Be', e Marissa? Ah. Davvero. Non mi sorprende...» Phury non potè fare a meno di chiedersi che razza di bomba fosse appena stata sganciata. Qualche istante dopo, Rehv si schiarì la gola. Poi un lento sorriso si allargò sulle sue labbra. «Be', allora, visto come la pensi... mi farebbe un immenso piacere. Grazie.» Riattaccò e alzò gli occhi. «Indovina chi è il nuovo leahdyre del Consiglio?» Phury lo fissò a bocca aperta. «Ma non puoi. Come diavolo fai a...» «Pare che, tra i sopravvissuti, io sia il membro più anziano della mia stirpe, e c'è una regola in base alla quale le femmine non possono rivestire il ruolo di leahdyre. Dato che sono l'unico maschio del Consiglio, indovina un po'?» Si accomodò meglio nella poltroncina di cuoio. «Hanno bisogno di me.» 786 «Porca... troia.» «Già, se si ha la fortuna di vivere abbastanza se ne vedono di tutti i colori. Dì al tuo capo che sarà un piacere fare affari con lui.» «Contaci. Assolutamente. E, senti, grazie ancora. Di tutto», così dicendo, Phury andò alla porta. «Se hai bisogno di me, basta che chiami.» Rehvenge chinò il capo una sola volta. «Sarà fatto, vampiro. Noi divoratori di peccati presentiamo sempre il conto a chi ci deve un favore.» «Il termine politicamente corretto è symphath», scherzò Phury con un sorrisetto. Uscendo dall'ufficio sentì la risata sommessa e lievemente malefica di Rehv rombare come un tuono. Phury si materializzò di fronte alla grande casa della confraternita e si rassettò gli abiti. Ansioso di fare una buona impressione, gli sembrava già di non vivere più sotto quel tetto. Più che logico, d'altronde: la sua testa aveva cambiato indirizzo. Era imbarazzante da morire entrare nel vestibolo e suonare al videocitofono come un estraneo qualunque. Fritz parve altrettanto sorpreso quando aprì il portone. «Padrone?» 787 «Potresti dire a Wrath che sono qui e che vorrei parlargli?» «Certamente.» Il doggen si inchinò e senza indugio salì il sontuoso scalone. Nell'attesa, Phury si guardò intorno, nell'atrio, pensando a suo fratello Darius che aveva costruito quel posto... quanti anni prima? Wrath comparve in cima alla scalinata un'espressione cauta e diffidente. «Ehilà.» con «Ehilà.» Phury alzò una mano. «Ti spiace se salgo un minuto?» «Figurati, vieni.» Phury salì lentamente. Più si avvicinava alla sua stanza più il prurito aumentava perché non poteva fare a meno di pensare a tutte le canne che si era fumato lì dentro. Una parte di lui aveva una voglia matta di farsi un tiro; gli venne quasi l'affanno, gli scoppiava la testa. «Senti», disse Wrath in tono duro, «se sei venuto qui per la tua droga...» Phury alzò una mano e con voce roca disse, «No. Possiamo parlare a quattr'occhi?» «Va bene.» Quando la porta dello studio si chiuse, Phury fece del suo meglio per scacciare quel bisogno disperato di fumo 788 e cominciò a parlare. Non sapeva bene cosa gli usciva di bocca. Primate. Cormia. Vergine Scriba. Futuro. Elette. Fratelli. Cambiamento. Cambiamento. Cambiamento. Quando alla fine si fermò, si rese conto che Wrath non aveva aperto bocca. «Così, ecco cosa ho deciso», riprese Phury. «Ho già detto alle Elette che avrei trovato un posto dove stare.» «E dove sarebbe, questo posto?» «Su a nord, nella tenuta di Rehv.» «Veramente?» «Sì. Lassù saremo al sicuro. È un posto tranquillo e non troppo frequentato dagli umani. Posso proteggere più facilmente quelle che verranno a stare da questa parte. Ma tutto quanto dovrà essere graduale. Un paio di loro si sono già dette interessate a vedere. Esplorare. Imparare. Cormia e io le aiuteremo ad assimilare per quanto vorranno. Ma è tutto su base volontaria. Saranno loro a scegliere.» «E la Vergine Scriba è d'accordo?» «Sì. Naturalmente per quanto riguarda la confraternita sei tu ad avere l'ultima parola.» 789 Wrath si alzò in piedi scrollando il capo. Phury annuì, non poteva biasimarlo se nutriva dei dubbi su quel progetto. Dopo quel mare di parole, poteva solo sperare di dimostrarle almeno in parte con i fatti. «Okay, be', come ho già detto, dipende da...» Wrath si avvicinò e gli tese la mano. «Sottoscrivo in pieno. Qualunque cosa ti serva per le Elette, qui sulla Terra, fai conto di avercela già. Qualunque cosa.» Phury rimase per un attimo interdetto. «Be'.... ottimo», disse alla fine con voce roca, stringendo la mano del fratello. Wrath sorrise. «Ti darò tutto quello che ti serve.» «Benissimo...» Phury si accigliò e lanciò un'occhiata alla scrivania del re. «Um... posso usare un momento il tuo computer?» «Assolutamente. E quando avrai finito ti darò una bella notizia. Be', più o meno.» «Di cosa si tratta?» Wrath indicò la porta con un cenno del capo. «Tohr è tornato.» «È vivo?» esclamò Phury con un nodo in gola. «Più o meno... più o meno. Ma è a casa. E cercheremo di farlo restare.» 790 Capitolo 53 Seduto al tavolo della confraternita, nella sezione VIP dello ZeroSum, John Matthew era ubriaco fradicio. Sbronzo marcio. Ciucco tradito. Così, appena finita la birra numero - numero? Non si ricordava più neanche a che numero era arrivato insomma, l'ennesima birra che si era scolato negli ultimi cinque minuti, ordinò uno Jàger Bomb, un cocktail a base di Jagermeister e Red Bull che era una vera bomba. Qhuinn e Blay non dicevano assolutamente niente, il che tornava a loro merito. Era dura spiegare cosa c'era dietro tutto quel bere, cosa lo spingeva a tracannare un cicchetto via l'altro. Aveva i nervi a pezzi, ecco l'unica cosa che continuava a ripetersi. Aveva lasciato Tohr a casa, addormentato su quel letto neanche fosse una bara, e anche se era fantastico che si fossero ritrovati, il fratello non era tornato liberamente, neanche un po'. John non ce l'avrebbe fatta a perderlo di nuovo. E poi c'era quel bizzarro avvistamento di Lash e il fatto che John in pratica era convinto che stava andando fuori di testa. 791 Quando la cameriera arrivò con l'ordinazione, Qhuinn disse, «Portagli un'altra birra.» Ti adoro, gli disse John a gesti. «Be', ci odierai tutti e due quando arriverai a casa e comincerai a spruzzare in giro vomito come quegli aggeggi che servono a irrigare i campi da golf. Ma non pensiamo al domani, godiamoci il presente, okay?» Ricevuto. John buttò giù il cocktail tutto d'un fiato e quando gli atterrò nello stomaco non sentì niente, nessun bruciore, nessuna vampata esplosiva. D'altronde, dai, siamo seri, in una foresta che sta andando a fuoco che differenza può mai fare la fiamma di un accendino Zippo? Aveva ragione Qhuinn: molto probabile che finisse col vomitare anche l'anima. In effetti... John si alzò barcollando. «Oh, cazzo, ci siamo», disse Qhuinn alzandosi a sua volta. Vado da solo. «No, caro, non più», disse Qhuinn picchiettando il dito sulla catena che aveva al collo. John piantò i pugni sul tavolo e si protese verso l'amico scoprendo le zanne. 792 «Ma cosa cazzo...?» sibilò Qhuinn mentre Blay volgeva frenetico lo sguardo sui divanetti tutt'intorno. «Cosa cazzo credi di fare?» Vado da solo. Qhuinn lo guardò torvo, pronto a litigare, ma poi si rimise a sedere. «E va bene. Fai un po' come ti pare. È meglio se per un po' non vedo la tua faccia.» John si allontanò, stupito che nessun altro, lì al club, si fosse accorto che il pavimento ballava come nelle case stregate di certi parchi dei divertimenti. Appena prima di arrivare al corridoio dove si trovavano i bagni privati cambiò idea, svoltò a sinistra e quatto quatto oltrepassò il cordone di velluto. Dall'altra parte zigzagò tra la calca dei clienti con la grazia di un bisonte, urtando la gente di striscio, andando a sbattere contro i muri, sbilanciandosi in avanti e poi piegandosi bruscamente all'indietro per non finire a gambe all'aria. Infilò le scale per il mezzanino e si fece strada a gomitate fino alla toilette dei signori. C'erano due tizi agli orinatoi e uno vicino ai lavandini; senza guardare in faccia nessuno, John si fiondò dritto verso il fondo della stanza. Aprì il gabinetto per gli handicappati, l'ultimo della fila, poi si tirò indietro in preda alla nausea, ed entrò nel penultimo. Appena chiuse la porta a chiave, il suo stomaco si trasformò in una betoniera, le viscere si torcevano, si agitavano neanche fossero quei volontari che si affannano a mettere insieme 793 i pacchi dono da spedire con urgenza per via aerea in qualche posto colpito da un disastro naturale. Merda. Perché non aveva usato il gabinetto privato in fondo all'area VIP? Doveva proprio far sentire a quei tre là fuori come si liberava lo stomaco manco fosse un idraulico che stura uno scarico? Cazzo, era proprio perfido. A quel punto si voltò a guardare il water. Era nero, come quasi tutto allo ZeroSum, ma sapeva che era pulito. Il locale di Rehv era pulito. Be', a parte la prostituzione. La droga. E le scommesse. Okay, era pulito dal punto di vista dell'igiene, non in base al codice penale. John abbandonò la testa all'indietro contro la porta metallica e chiuse gli occhi, mentre il vero motivo di tutto quel bere cominciava a venire a galla. Qual è il criterio di valutazione di un vampiro? Saper combattere? Saper resistere il più a lungo possibile quando fa sollevamento pesi? Sapersi vendicare? Saper tenere sotto controllo le emozioni quando tutto il mondo comincia a vacillare come il pavimento di una casa stregata? Saper amare qualcuno pur nella consapevolezza che potrebbe abbandonarti per sempre? Saper fare sesso? 794 Okay, era stato un grosso errore chiudere gli occhi. O mettersi a pensare. Socchiuse le palpebre concentrandosi sul soffitto nero con i faretti incassati simili a stelle. Il rubinetto del lavandino venne chiuso. Venne tirata l'acqua in due orinatoi. La porta della toilette si aprì e si chiuse, si aprì e si chiuse. Un paio di gabinetti più in là qualcuno aspirò con forza dal naso. Una, due volte. Poi si sentì come uno sbuffo e un ahhhhhb. Rumore di passi. Acqua corrente. Una risata da maniaco. La porta della toilette che si apriva e si chiudeva di nuovo. Solo. Era da solo. Ma non per molto perché presto sarebbe entrato qualcun altro. John guardò in fondo al water nero, intimando al suo stomaco di darsi una mossa se voleva risparmiargli una figuraccia. Evidentemente il suo stomaco non voleva. O forse... sì. No? Merda... Stava fissando la tazza del cesso, in attesa che l'urto di vomito si decidesse a partire, quando d'un tratto dimenticò il suo stomaco e realizzò dove si trovava. Lui era nato in un gabinetto. Era venuto al mondo in un posto dove la gente dà di stomaco dopo aver alzato il gomito... e subito era stato abbandonato a se stesso da una madre che non aveva mai conosciuto e da un padre che non lo aveva mai conosciuto. 795 Se Tohr spariva di nuovo... John si voltò di scatto, ma non riuscì ad alzare il gancio per uscire. In preda a un panico crescente armeggiò con 2 meccanismo nero, che alla fine si sbloccò. Si catapultò fuori puntando dritto verso la porta, ma non ci arrivò mai. Sopra ciascuno dei sei lavandini di rame c'era uno specchio dalla cornice dorata. Inspirando a fondo, scelse quello più vicino alla porta e ci si piazzò davanti, guardando per la prima volta la sua faccia da adulto. Gli occhi erano identici a prima... gli occhi avevano mantenuto lo stesso colore blu e la stessa forma. Tutto il resto non lo riconobbe: il profilo deciso della mascella, il grosso collo, la fronte spaziosa. Ma gli occhi erano i suoi. O almeno così immaginava. Chi sono, si chiese muto. Ritraendo le labbra si sporse in avanti ed esaminò le zanne. «Non dirmi che non le hai mai viste.» John si voltò di scatto. Appoggiata contro la porta c'era Xhex. Lo aveva bloccato lì dentro insieme a lei. 796 Era vestita come al solito, ma per lui fu come vedere per la prima volta la maglietta attillata e i calzoni di pelle. «Ti ho visto barcollare fin qui. Volevo solo assicurarmi che stessi bene.» Gli occhi grigi di lei erano fermissimi; non vacillavano mai, John ci avrebbe scommesso. Quella femmina aveva lo sguardo di una statua, diretto e imperturbabile. Lo sguardo di una statua incredibilmente sexy. Voglio scoparti, sillabò; si stava rendendo ridicolo, ma non gliene fregava niente. «Ah, sì?» Evidentemente sapeva leggere le labbra. O quelle o gli uccelli, perché il suo, dentro i jeans, stava facendo di tutto per mettersi in mostra. Sì. «Ci sono un sacco di donne in questo club.» Ma loro non sono te. «Credo che con loro staresti meglio.» E io penso che tu staresti meglio con me. Da dove cavolo saltava fuori tanta sicurezza? Non lo sapeva e non gli importava. Che fosse un dono divino a tutto vantaggio della sua autostima o solo stupidità dovuta alla sbronza, l'avrebbe cavalcata fino in fondo. Anzi, ne sono certo. 797 Con gesto deliberato fece scivolare i pollici sotto la cintura dei jeans e lentamente li tirò su. La sua eccitazione apparve evidente come il rivestimento esterno di una casa. Xhex guardò in giù. John sapeva cosa stava vedendo: un equipaggiamento all'altezza dei suoi due metri di statura. E questo a riposo. In erezione era impressionante. Ah, allora non siamo così statuari, eh? pensò, vedendo che lo sguardo di lei, invece di tornare sul suo viso, indugiava sull'inguine con un lampo appena percettibile. Con gli occhi di Xhex su di sé e un brivido erotico violento come una scossa elettrica tra loro, John non era più assorto nel suo passato. Era tutto calato nel presente. E il presente era lei che chiudeva a chiave quella cazzo di porta e si faceva leccare la fica. Poi loro due che scopavano, in piedi. Xhex schiuse le labbra, e John attese le sue parole neanche aspettasse l'avvento di Gesù Cristo. All'improvviso lei si portò la mano all'auricolare, accigliandosi. «Merda. Devo andare.» John sfilò un asciugamano di carta dal distributore a muro, prese la penna dalla tasca e scrisse qualche parola audace. Prima che lei avesse il tempo di prendere il volo, le si avvicinò e le ficcò in mano quello che aveva scribacchiato. Xhex guardò il pezzo di carta. «Vuoi che lo legga subito o più tardi?» 798 Più tardi, sillabò lui. Quando uscì era molto più sobrio. E in faccia aveva un sorrisone compiaciuto della serie "Che uomo che sono". Quando Lash ricomparve nell'atrio dei suoi genitori rimase fermo per qualche secondo. Gli sembrava di essere stato pressato tra due fogli di carta cerata e appiattito con un ferro da stiro, una foglia secca conservata artificialmente, e non senza dolore. Si guardò le mani, fletté le dita. Si sgranchì il collo. Erano cominciate le lezioni di suo padre. Si sarebbero incontrati regolarmente. Lui era pronto a imparare. Serrò i pugni e poi distese le dita, contando i trucchetti a sua disposizione. Trucchetti che... non erano trucchetti, in realtà. Proprio per niente. Lui era un mostro. Un mostro che cominciava appena a realizzare l'utilità delle scaglie sul suo corpo, delle fiamme nelle sue fauci e degli aculei sulla coda. Era un po' come dopo la transizione. Doveva capire da capo chi era e come funzionava il suo corpo. Per fortuna l'Omega lo avrebbe aiutato. Come dovrebbe fare ogni buon genitore. Quando se la sentì di farlo, voltò la testa verso le scale, verso il punto in cui aveva visto John. Era stato bellissimo rivedere il suo nemico. Davvero rincuorante. 799 Hallmark doveva proprio lanciare sul mercato una linea di cartoline dedicate alla vendetta, da spedire a chi si intendeva braccare senza pietà. Lash si alzò con cautela e lentamente si guardò intorno, passando in rassegna gli oggetti che lo circondavano: la pendola nell'angolo accanto alla porta d'ingresso, i dipinti a olio e tutte le cianfrusaglie e i ricordi di famiglia accumulati con cura, una generazione dopo l'altra. Poi si voltò verso la sala da pranzo. I badili, pensò, erano nel garage. Ne trovò un paio allineati contro il muro, accanto al pannello con appesi gli attrezzi da giardinaggio. Il badile che scelse aveva il manico di legno e una larga pala smaltata di rosso. Quando uscì fu sorpreso nel vedere che era ancora buio; gli sembrava di aver passato ore e ore insieme all'Omega. A meno che non fosse già il giorno dopo. O addirittura quello ancora successivo. Andò nel giardino di fianco alla casa e scelse un punto sotto la quercia che ombreggiava le grandi finestre dello studio. Cominciò a scavare, alzando di tanto in tanto gli occhi sulle vetrate e sulla stanza al di là di esse. Il divano era ancora macchiato di sangue. Che cosa ridicola da notare. Mica potevano evaporare da solo dalla fodera di seta. - 800 Scavò una fossa profonda un metro e mezzo, lunga tre metri e larga un metro e venti. Il mucchio di terra che ne ricavò era più grosso del previsto e aveva un odore come quello del prato dopo un violento temporale, dolciastro e muschiato. O forse l'aroma dolciastro veniva da lui. Il chiarore sempre più intenso, a est, lo indusse a gettare il badile fuori dalla buca e a uscire con un balzo. Doveva muoversi alla svelta, prima che il sole sorgesse, e così fece. Prima calò dentro suo padre. Poi sua madre. Li sistemò di fianco, uno dietro l'altro, con suo padre che abbracciava sua madre. Poi rimase fermo a guardarli. Aveva sentito il bisogno di procedere alla sepoltura prima di chiamare un'altra squadra di uomini per cercare di svuotare la villa; quell'impulso lo aveva sorpreso, ma d'altronde quei due erano stati i suoi genitori per la prima parte della sua vita; si era detto che non gliene fregava niente di loro, ma non era vero. Non voleva che quei tesser profanassero i loro cadaveri in decomposizione. La casa sì, quella potevano depredarla senza problemi, ma i corpi no. Col sole sempre più alto nel cielo e i raggi dorati che filtravano tra i frondosi rami della quercia, fece una telefonata e poi richiuse la fossa. Porca miseria, pensò quand'ebbe terminato. Sembrava proprio una tomba, con la terra smossa in cima che formava una specie di cupola a forma di pagnotta. 801 Stava riponendo il badile in garage quando udì la prima delle auto che si fermava davanti al portone anteriore. Due tesser scesero proprio mentre una seconda berlina imboccava il viale d'accesso, seguita da un pickup Ford F-150 e da una monovolume. Tutti insieme spandevano un gran profumo di borotalco, dolce come l'aria mattutina. In fila indiana entrarono in casa dei suoi genitori. Il camion dei traslochi noleggiato da Mr D fu l'ultimo ad arrivare. Il Fore-lesser prese in pugno la situazione dando inizio al saccheggio; nel frattempo Lash salì a farsi una doccia veloce nella sua vecchia stanza da bagno. Mentre si asciugava andò all'armadio. Vestiti... vestiti... chissà perché, le cose che aveva indossato negli ultimi tempi adesso gli sembravano stonate; tirò fuori un completo fìchissimo di Prada. La fase militare minimalista-chic era definitivamente chiusa. Non era più il bravo soldatino-sottoaddestramento della confraternita. Sentendosi sexy da morire andò al comò, aprì il cassetto dove teneva i gioielli e... Dove cazzo era il suo orologio? Il Jacob & Co. tempestato di diamanti? Cosa diavolo era... 802 Si guardò intorno e fiutò l'aria nella stanza. Poi fece scattare la vista azzurrata, in modo da evidenziare in rosa le impronte di chiunque avesse toccato la sua roba, proprio come gli aveva insegnato suo padre. Sul comò spiccavano delle impronte fresche e anonime, prive di caratteristiche salienti, più vivide di quelle che aveva lasciato lui stesso qualche giorno prima. Fiutò di nuovo l'aria. John... John e Qhuinn erano stati lì... e uno di quei miserabili figli di puttana aveva preso il suo fottuto orologio. Prese il coltello da caccia dalla scrivania e, con un ruggito, lo scagliò dall'altra parte della stanza, dove andò a conficcarsi in uno dei guanciali neri del letto. Sulla soglia succede...» comparve Mr D. «Signore? Cosa Lash si voltò di scatto e lo immobilizzo col dito, tanto per usare un altro dei doni del suo vero padre. Poi però, con un respiro profondo, abbassò il braccio e si raddrizzò il vestito. «Preparami...» Dovette schiarirsi la gola prima di continuare, tanto era furioso. «Preparami la colazione. Voglio mangiarla nel solarium, non in sala da pranzo.» Mr D uscì e una decina di minuti dopo, passata la rabbia, Lash scese di sotto e si accomodò di fronte a una tavola imbandita con uova e pancetta affumicata, pane tostato, marmellata e succo d'arancia. 803 Mr D aveva spremuto di persona le arance, evidentemente. Il che, visto il sapore delizioso del succo, era una scusa più che valida per non averlo freddato seduta stante. Gli altri lesser finirono per radunarsi tutti sulla soglia del solarium, a guardarlo mangiare come se stesse compiendo chissà quale magia. Mentre Lash sorbiva un'ultima, lunga sorsata di caffè, uno di loro disse, «Ma tu chi cazzo sei?» Lash si pulì la bocca col tovagliolo e con tutta calma si tolse la giacca. Poi si alzò slacciandosi i bottoni della camicia rosa pastello. «Sono il tuo re del cazzo.» Detto ciò, spalancò la camicia e, con la forza del pensiero, squarciò la pelle all'altezza dello sterno. Con la gabbia toracica spalancata, scoprì le zanne esponendo il cuore nero e palpitante. I lesser balzarono all'indietro all'unisono. Uno arrivò addirittura a farsi il segno della croce, il coglione. Con calma Lash si richiuse il petto, si riabbottonò la camicia e si rimise seduto. «Ancora un po' di caffè, Mr D.» Il cowboy batté le palpebre un paio di volte, inebetito: ottima imitazione di una pecora intenta a risolvere un problema di matematica. «Sì... sissignore.» 804 Lash alzò di nuovo la tazza e guardò le facce pallide che aveva davanti. «Benvenuti nel futuro, signori. Adesso vedete di muovere il culo, voglio il pianterreno completamente vuoto prima che arrivi il postino, alle dieci e mezzo.» 805 Capitolo 54 L'East Caldwell Community Center sorgeva sulla Baxter Avenue, tra il Caldie Pizza & Mexican e la Caldwell Tennis Academy. Situato in una grande fattoria costruita all'epoca io cui i campi circostanti erano coltivati a granoturco, aveva un bel prato e un pennone con tanto di bandiera sul davanti e delle altalene sul retro. Quando Phury si materializzò dietro la struttura, il suo unico pensiero fu di sparire di nuovo. Controllò l'orologio. Dieci minuti. Dieci minuti in cui doveva costringersi a restare. Dio, che voglia di farsi una canna. Il suo cuore correva come un velocista, le mani si potevano strizzare e il prurito lo faceva diventare matto. Sforzandosi di estraniarsi dal proprio corpo guardò il parcheggio. Conteneva una ventina di macchine un po' di tutte le marche e modelli. C'erano furgoncini e Toyota, una Saab decappottabile e un maggiolino Volkswagen rosa, tre monovolume e una Mini Cooper. Si infilò le mani in tasca e attraversò il prato fino al marciapiede che correva intorno all'edificio. Giunto al tratto asfaltato che costituiva il viale d'accesso e il 806 parcheggio, risalì verso il portone a due battenti bordato di alluminio. Dentro c'era odore di cocco. Forse per via della cera per pavimenti sul linoleum. Proprio mentre stava meditando seriamente di tagliare la corda, un umano sbucò da una porta; lo scroscio di uno sciacquone svanì a poco a poco mentre l'uscio con su scritto UOMINI si chiudeva alle sue spalle. «È qui per la terapia di gruppo?» chiese il tizio asciugandosi le mani con una salvietta di carta. Aveva due occhi marroni gentili, come quelli di un cane da caccia, e una giacca di tweed dall'aria pesante, per essere estate. La cravatta era lavorata a maglia. «Ehm, non saprei.» «Be', se sta cercando la riunione, è giù nel seminterrato.» Il suo sorriso era così spontaneo e affabile che Phury fu lì lì per ricambiarlo, ma si fermò in tempo, ricordando le differenze di dentatura tra le due specie. «Ci sto andando anch'io, se vuole venire con me. Ma se preferisce aspettare ancora un po', va bene lo stesso.» Phury guardò le mani dell'uomo. Le stava ancora sfregando, avanti e indietro, avanti e indietro. «Sono nervoso», spiegò lui. «Ho le mani sudate.» Phury abbozzò un sorriso. «Sa... credo che verrò giù con lei.» 807 «Bene. Io sono Jonathon.» «Io Ph-Patrick.» Non si strinsero la mano e Phury ne fu lieto. Non aveva un asciugamano di carta e le tasche stavano peggiorando lo stato già pietoso delle sue mani grondanti sudore. Il seminterrato del centro aveva i muri di cemento tinteggiati di bianco panna, il pavimento rivestito con una moquette marrone scuro a pelo raso dall'aria particolarmente resistente, e una quantità di tubi al neon sul soffitto basso. La maggior parte della trentina di sedie disposte in cerchio era occupata; quando Jonathon si diresse verso un posto libero al centro, Phury lo salutò con un cenno del capo e ne scelse uno il più possibile vicino alla porta. «Sono le nove», disse una donna con i capelli corti e neri. Poi, alzandosi in piedi, lesse da un foglio di carta: «Tutto ciò che viene detto qui non deve uscire da questa stanza. Quando qualcuno sta parlando non bisogna interromperlo o chiacchierare col vicino...» Phury non sentì il resto perché era troppo impegnato a vedere chi c'era. A parte lui, nessuno tra i presenti sfoggiava vestiti Aquascutum, ed erano tutti umani. Senza eccezioni. L'età andava dai venti ai quarantacinquant'anni, forse perché quell'orario era comodo per chi lavorava o andava a scuola. Osservando quei volti cercò di immaginare cosa avesse fatto ciascuno di loro per finire lì, in quello spoglio 808 seminterrato profumato di cocco, col fondoschiena piantato sulla plastica nera delle sedie. Che cosa ci faceva lui, lì? Quella non era la sua gente, e non solo perché nessuno di loro aveva le zanne e un problema con la luce del sole. Restò comunque, perché non aveva un altro posto dove andare, e si chiese se lo stesso valesse anche per qualcuno degli altri. «Questo è un gruppo di ascolto», spiegò la donna, «e stasera sarà Jonathon a parlare.» Jonathon si alzò in piedi. Le mani stavano ancora stropicciando i resti dell'asciugamano di carta, sfregando avanti e indietro quello che ormai era ridotto a una specie di sigaro Kleenex. «Salve, io mi chiamo riecheggiò un coro Jonathon.» Nella stanza di "ciao" pronunciati meccanicamente. «E sono un tossicodipendente. Io... ho, ehm, ho fatto uso di cocaina per una decina d'anni e ho perso praticamente tutto quello che avevo. Sono stato dentro due volte. Ho dovuto dichiarare bancarotta. Ho perso la casa. Mia moglie... ehm, ha chiesto il divorzio e si è trasferita in un altro stato insieme a mia figlia. Subito dopo ho perso il lavoro come insegnante di fisica perché ero sempre strafatto. «Sono pulito da, sì, da agosto. Ma... non ho smesso di pensare alla droga. Al momento vivo in una casa famiglia perché ho seguito un programma di recupero e ho un 809 nuovo lavoro. Ho cominciato due settimane fa. Insegno in una prigione, in realtà. La prigione in cui ero carcerato. Matematica, insegno matematica.» Jonathon si schiarì la gola. «Be'... dunque, ehm, esattamente un anno fa... esattamente un anno fa ero in un vicolo, in centro. Stavo comprando una dose da un pusher e ci hanno beccati. Non la polizia. Il tizio che spacciava in quella zona. Ha sparato e mi ha colpito al fianco e alla coscia. Io...» Jonathon si schiarì di nuovo la voce. «Mentre me ne stavo steso lì per terra, sanguinante, ho sentito che qualcuno mi spostava le braccia. Il tizio che aveva sparato mi ha fregato il cappotto, il portafoglio e l'orologio, poi mi ha dato la pistola in testa. Io... io proprio non dovrei essere qui, stasera.» Si levò un mormorio diffuso di uh-huh. «Ho iniziato a venire a queste riunioni perché non sapevo dove altro andare. Adesso scelgo di venire qui perché voglio stare dove sono stasera più di quanto voglia sballarmi. A volte... a volte il margine è sottilissimo, basta un niente e potrei ricascarci. Così, se mi capita di pensare al futuro, non vado più in là di martedì prossimo alle nove. Quando tornerò di nuovo qui. Insomma, be', ecco dov'ero un anno fa e dove sono adesso.» Jonathon si rimise seduto. Phury attese che gli altri si lanciassero in domande e commenti. Invece si alzò in piedi un'altra persona. «Ciao, io mi chiamo Ellis...» Funzionava così. Uno dopo l'altro, tutti parlavano della propria dipendenza. 810 Alle nove e cinquantatré, stando all'orologio appeso al muro, la donna bruna si alzò in piedi. «Adesso recitiamo la Preghiera della Serenità.» Phury si alzò in piedi con gli altri e rimase scioccato quando qualcuno lo prese per mano. Non era più sudaticcia, in compenso. Non sapeva per quanto ce l'avrebbe fatta a resistere. Il mago era stato con lui per tantissimi anni e lo conosceva come un fratello. Ma una cosa la sapeva di sicuro: il prossimo martedì, alle nove di sera, sarebbe tornato lì. Uscì insieme agli altri e, quando venne investito dall'aria notturna, quasi si piegò in due per il bisogno di fumare. Mentre tutti gli altri si sparpagliavano verso le loro auto, avviavano i motori e accendevano i fari, lui si sedette su una delle altalene con le mani sulle ginocchia e i piedi piantati sulla nuda terra. Per un attimo gli parve di essere osservato, ma forse la paranoia era un effetto collaterale della disintossicazione, chissà. Una decina di minuti dopo trovò un punto immerso nell'ombra e si smaterializzò verso il nord dello Stato, verso la casa di Rehv. Quando riprese forma dietro il grande cottage in stile Adirondack, la prima cosa che vide fu una figura dietro le vetrate scorrevoli. 811 Cormia lo stava aspettando. Scivolò fuori senza fare rumore, chiuse la vetrata e incrociò le braccia sul petto per scaldarsi. Il pesante maglione irlandese lavorato a mano che aveva indosso era di Phury, e i pantacollant erano presi in prestito da Bella. I lunghi capelli biondi, sciolti sulle spalle, le arrivavano in fondo alla schiena e brillavano come oro alla luce accesa dietro i vetri romboidali delle finestre. «Ciao», la salutò lui. «Ciao.» Phury si avvicinò, risalendo il prato fino alla terrazza di pietra. «Hai freddo?» «Un pochino.» «Bene, così posso scaldarti.» Spalancò le braccia e Cormia si strinse addosso a lui. Malgrado il grosso maglione, Phury la sentiva contro di sé. «Grazie per non aver chiesto com'è andata. Ci sto ancora provando... non so cosa dire, davvero.» Lei fece scorrere le mani sul suo corpo, dalla vita alle spalle. «Me lo dirai se e quando sarai pronto a farlo.» «Voglio tornarci.» «Bene.» Rimasero lì fermi, stretti nella notte gelida, e avevano caldo, molto caldo. 812 Phury avvicinò le labbra all'orecchio di Cormia e bisbigliò, «Ho voglia di stare dentro di te.» «Sì...» sussurrò sensuale lei. Dentro non sarebbero stati soli, ma erano soli lì fuori, al riparo buio e silenzioso della casa. Spingendola ancor più nell'oscurità, Phury insinuò le mani sotto il maglione della sua shellan e le fece scivolare sulla sua pelle. Liscia, calda e vitale, lei si inarcò sotto quella carezza. «Ti lascio tenere il maglione», le disse. «Ma quei pantacollant devono sparire.» Infilò i pollici nell'elastico dei fuseau abbassandoli fino alle caviglie e poi sfilandoli via dai piedi. «Non hai freddo, vero?» le chiese, anche se conosceva già la risposta. Gli bastava toccarla, sentire il suo odore. «Neanche un po'.» Il fianco della casa era di pietra, ma Phury sapeva che il pesante maglione irlandese le avrebbe riparato le spalle, fungendo da imbottitura. «Appoggiati all'indietro.» Quando Cormia lo fece lui le circondò la vita con un braccio per ammortizzare il contatto col muro, le mise la mano libera sui seni e la baciò. Fu un bacio profondo, lungo, lento; la bocca di lei si muoveva sotto la sua in modi a un tempo familiari e misteriosi; d'altronde, fare l'amore con lei era questo, no? Ormai la conosceva a fondo, dentro e fuori, non c'era parte di lui che non fosse 813 entrata dentro di lei, in una forma o nell'altra. Eppure stare con lei era meraviglioso come la prima volta. Lei era sempre la stessa, eppure sempre nuova. E sapeva bene qual era il punto. Sapeva che adesso lui aveva bisogno di assumere il controllo, sapeva che aveva bisogno di condurre il gioco. In quel momento Phury voleva fare qualcosa di giusto e di bello e voleva farlo bene, perché dopo quella riunione riusciva solo a pensare a tutti gli orrori che aveva fatto a se stesso e agli altri, e un po' anche a lei. Phury fece con comodo, affondandole la lingua in bocca, avanti e indietro, e accarezzandole il seno con la mano, investimenti che fruttarono un dividendo di tutto rispetto: Cormia si sciolse nel suo abbraccio, flessuosa ed eccitatissima, mentre l'erezione premeva con prepotenza contro i calzoni nel disperato tentativo di liberarsi. «Credo che dovrei assicurarmi di non farti buscare un colpo d'aria», disse Phury facendo scivolare la mano verso il basso. «Sì... fallo», gemette lei, piegando la testa di lato. Phury non era certo che avesse esposto la gola di proposito, ma alle sue zanne non importava. Immediatamente si apprestarono a trafiggerla, allungandosi dall'arcata superiore, affilate e fameliche. Le infilò una mano tra le cosce e nel sentire quel fuoco gli cedettero le ginocchia. Voleva prendersela con calma, ma non ce la faceva più. 814 «Oh, Cormia», mugolò, facendo scivolare entrambe le mani sui suoi fianchi e sollevandola di peso. «Slacciami i pantaloni... tiramelo fuori...» disse, spalancandole le cosce col proprio corpo. Avvolta dall'odore sempre più intenso di Phury, l'odore del desiderio tipico dei vampiri innamorati, Cormia liberò il suo membro e si lasciò penetrare in un affondo a un tempo fluido e vigoroso. Abbandonò la testa all'indietro mentre Phury, tenendola sollevata, entrava e usciva dal suo corpo. Con magistrale coordinazione si attaccò anche alla sua vena, una prodezza facile come bere un bicchier d'acqua. Quando le zanne le trafìssero la delicata pelle del collo, Cormia si aggrappò alle sue spalle stringendo la camicia nei pugni, «Ti amo...» Per una frazione di secondo, Phury rimase impietrito. Quell'attimo si impresse con limpidezza estrema nella sua mente; tutto, dal peso di lei tra le sue braccia alla stretta della vulva intorno al pene, dalla gola di lei contro la sua bocca ai loro odori che si fondevano, dal profumo del bosco all'aria cristallina. Aveva l'esatta percezione dell'equilibrio tra la gamba sana e la protesi, e di quanto gli tirava la camicia sotto le braccia perché lei vi si era aggrappata. Sentiva con chiarezza il petto di lei che pompava contro il suo, il pulsare del sangue nelle vene di entrambi, il montare della tensione erotica. 815 Ma più di tutto aveva la piena consapevolezza di quanto era profondo l'amore che li legava. Non ricordava niente di altrettanto vivido, di altrettanto reale. Ecco il dono della guarigione, della disintossicazione. La capacità di vivere quell'attimo con la sua amata essendo pienamente consapevole, pienamente lucido, pienamente presente. Concentrato al massimo. Ripensò alla riunione, a Jonathon e a ciò che aveva detto a un certo punto: Voglio stare dove sono stasera più di quanto voglia sballarmi. Sì. Maledizione... sì. Phury riprese a muoversi, ora prendendo, ora dando. Senza fiato, teso allo spasimo, nell'istante in cui vennero insieme si sentì vivo... vivo più che mai. 816 Capitolo 55 Xhex lasciò il club alle quattro e dodici del mattino. Gli addetti alle pulizie stavano passando l'aspirapolvere, pulendo e lucidando e alla fine avevano l'incarico di chiudere tutte le porte, lei invece programmò l'attivazione automatica degli allarmi alle otto. I registratori di cassa erano vuoti e l'ufficio di Rehvenge non solo era chiuso a chiave, ma impenetrabile. La sua Ducati la stava aspettando nel garage privato dove era parcheggiata la Bendey quando Rehv non ne aveva bisogno. Xhex spinse fuori la motocicletta nera, montò in sella mentre la porta del garage si chiudeva sferragliando, e mise in moto con uno scatto del piede. Non usava mai il casco. In compenso portava sempre i copripantaloni di cuoio e il giubbotto da motociclista. Con la Ducati che rombava tra le gambe iniziò il lungo tragitto verso casa, zigzagando nel labirinto di sensi unici del centro per poi lanciarsi a tutto gas lungo la Northway. Stava viaggiando ben oltre i centosessanta chilometri orari quando superò a tutta velocità un'auto della polizia, parcheggiata sotto i pini dell'aiuola spartitraffico. Xhex non accendeva mai i fari. 817 Il che spiegava perché, ammesso che Xhex avesse fatto scattare il radar dello sbirro e lui non stesse ronfando dietro il distintivo, quello non si lanciò all'inseguimento. Difficile inseguire ciò che non riuscivi a vedere. Xhex aveva due posti dove riposarsi, a Caldwell: un appartamento in un seminterrato in centro per quando le serviva subito un po' di privacy, e un capanno con due camere da letto in un angolo appartato sul fiume Hudson. La strada sterrata che conduceva alla sua proprietà sul lungo fiume era un sentiero e nulla più, grazie al fatto che negli ultimi trent'anni Xhex l'aveva lasciata invadere dal sottobosco. In fondo a quel groviglio di vegetazione, su un appezzamento di sette acri, sorgeva un capanno da pesca degli anni Vénti, una costruzione solida ma priva di qualità estetiche. Il garage, che sorgeva staccato, sulla destra, era stato un valore aggiunto di primaria importanza quando aveva esaminato la proprietà. Xhex era il tipo di persona che amava tenere a portata di mano una grande potenza di fuoco, e poter depositare le munizioni fuori casa riduceva le probabilità di saltare per aria nel sonno. La moto entrò nel garage e Xhex entrò in casa. Si fermò in cucina. Le piaceva l'odore di quel posto: il profumo di pino proveniente dalle vecchie assi del soffitto, delle pareti e del pavimento e la dolce fragranza di cedro che veniva dagli armadi destinati a ospitare l'attrezzatura dei pescatori. 818 Non aveva un sistema di sicurezza. Non ci credeva. Aveva se stessa. Ed era sempre bastato. Dopo una tazza di caffè istantaneo passò in camera da letto e si tolse i calzoni di pelle. In slip e reggiseno sportivo neri si stese sul nudo assito facendosi forza. Per quanto fosse tosta, le ci voleva sempre un minuto. Quando si sentì pronta, abbassò le mani verso le cosce, verso le fasce metalliche munite di spuntoni conficcati nella pelle e nei muscoli. Le serrature dei cilici scattarono con un pop; Xhex si lasciò sfuggire un gemito mentre il sangue colava dalle ferite. Con la vista annebbiata si raggomitolò su un fianco, respirando a bocca aperta. Quello era l'unico modo in cui riusciva a dominare il suo lato symphath. Il dolore era la sua automedicazione. Con la pelle resa viscida dal suo stesso sangue e il sistema nervoso che si ricalibrava, fu pervasa da un formicolio. Lei lo vedeva come la ricompensa per essere stata forte, per aver mantenuto i nervi saldi. Era tutta chimica, certo, banalissime endorfine che scorrevano all'impazzata nelle vene, nient'altro, ma c'era qualcosa di magico in quel vigoroso, prepotente senso di euforia. In momenti come quello era tentata di comprare dei mobili per quel posto, ma era un impulso facile da contrastare: il pavimento di legno era più semplice da pulire. 819 Il respiro si stava normalizzando, il cuore rallentava e il cervello cominciava a riattivarsi, quando qualcosa s'insinuò nella sua testa invertendo la tendenza verso la stabilizzazione. John Matthew. John Matthew... quel bastardo. Aveva, tipo, dodici anni, per l'amor del cielo. Cosa cavolo gli era saltato in mente di provarci con lei? Lo rivide ritto sotto quelle luci, nel bagno del mezzanino, il volto di un guerriero, non di un ragazzino, il corpo di un maschio all'altezza della situazione, non di uno sfigato con problemi di autostima, abituato a fare da tappezzeria. Allungò la mano di lato, avvicinò i calzoni e tirò fuori l'asciugamano di carta piegato che John le aveva dato. Lo aprì e lesse cosa aveva scritto. La prossima volta dì il mio nome. Godrai ancora di più. Xhex appallottolò la salvietta con un ringhio. Aveva una mezza idea di alzarsi e bruciarla. Invece si infilò la mano libera in mezzo alle gambe. Mentre il sole si alzava all'orizzonte, inondando di luce la camera da letto, Xhex si immaginò John Matthew steso sulla schiena, sotto di sé, intento a spingerle dentro quello che gli aveva visto dentro i jeans mentre lei lo cavalcava con foga... 820 Che razza di fantasia. Incredibile. Se la prese a morte con lui per avergliela ispirata. Ci avrebbe dato un taglio, se avesse potuto. Invece disse il suo nome. Due volte. 821 Capitolo 56 La Vergine Scriba era una maniaca del controllo. Che non era un male, se eri una divinità e avevi creato un mondo intero all'interno del mondo già esistente, una storia all'interno della storia universale. Sul serio. Non era un male. Be', forse era un bene... fino a un certo punto. La Vergine Scriba fluttuò verso il sancta sanctorum impenetrabile all'interno dei suoi appartamenti privati, e a un suo comando la porta a due battenti si aprì. Dalla stanza fuoriuscì una leggera foschia che si gonfiò come una pezza di raso nel vento. Quando la condensa si ritirò, apparve sua figlia Payne, il poderoso corpo sospeso, inanimato, nell'aria. Payne era come il suo defunto padre: aggressiva, calcolatrice e forte. Pericolosa. Tra le Elette non c'era posto per una femmina come Payne. E neppure nel mondo dei vampiri. Dopo quel suo atto finale, la Vergine Scriba aveva isolato lì sua figlia, inadatta a qualunque altro luogo, in nome della sicurezza generale. Abbiate fede nella vostra creazione. 822 Le parole del Primale le risuonavano nelle orecchie dal momento che le aveva pronunciate. Esprimevano una verità sepolta in fondo ai pensieri e ai timori più reconditi della Vergine Scrivana. Le vite dei vampiri, maschi e femmine, che lei aveva cavato dal serbatoio biologico tramite un unico, generoso atto di volontà, non si potevano riporre in sezioni separate, come i libri nella biblioteca del Santuario. L'ordine è attraente, certo, poiché nell'ordine risiedono sicurezza e salvezza. La natura, tuttavia, compresa quella degli esseri viventi, è caotica, imprevedibile e recalcitrante alle costrizioni. Abbiate fede nella' vostra creazione. La Vergine Scriba era in grado di vedere molte cose di là da venire, intere legioni di trionfi e tragedie, ma erano semplici granelli di sabbia in una spiaggia sconfinata. Non era in grado di prevedere, tuttavia, il destino nella sua interezza: essendo il futuro della razza che aveva generato legato troppo strettamente al suo stesso destino, la prosperità o la decadenza della sua gente le era sconosciuta e inconoscibile. L'unica totalità di cui disponeva era il presente, e il Primale aveva ragione. I suoi adorati figli non stavano prosperando, e se le cose restavano invariate presto non ne sarebbe rimasto nessuno. Il cambiamento era la sola speranza che avevano per il futuro. 823 La Vergine Scriba sollevò il cappuccio nero e lo lasciò ricadere sulla schiena. Tese la mano e, attraverso l'aria immota, inviò un caldo flusso di molecole verso sua figlia. Gli occhi di ghiaccio di Payne, tanto simili a quelli del suo gemello, Vishous, si spalancarono di colpo. «Figliola», disse la Vergine Scriba. Non fu sorpresa nel sentire la risposta. «Vaffanculo.» 824 Capitolo 57 Più di un mese dopo, Cormia si svegliò nel modo in cui si stava abituando ad accogliere il crepuscolo. Phury spingeva l'erezione dura come il marmo contro di lei. Con ogni probabilità era ancora addormentato. Col sorriso sulle labbra, Cormia rotolò a pancia in giù per fargli spazio, già sapendo quale sarebbe stata la sua reazione. Infatti. Lui le fu sopra in un attimo, schiacciandola sotto al suo peso come una coperta calda che le impediva di muoversi e... Quando la prese da dietro, Cormia si lasciò sfuggire un mugolio di piacere. «Mmm», le sussurrò all'orecchio lui. «Buonasera, shellan.» Lei sorrise, inarcando la schiena per permettergli di penetrarla ancora più a fondo. «Hellren caro, come stai...» Gemettero insieme quando un affondo vigoroso la trafisse fin dentro l'anima. Mentre Phury la cavalcava lento, dolcemente, sfregando il naso contro la sua nuca e mordicchiandola con le zanne, si tenevano per mano, le dita intrecciate. Non si erano ancora sposati ufficialmente, c'era stato troppo da fare con le Elette desiderose di vedere com'era questo mondo. Ma stavano insieme ogni momento, e 825 Cormia non riusciva a spiegarsi come avessero potuto vivere lontani. Be'... una sera alla settimana dovevano separarsi per qualche ora. Ogni martedì Phury andava alla sua riunione dei Narcotici Anonimi. Rinunciare al fumo rosso lo metteva a dura prova. Spesso era molto nervoso oppure gli si annebbiava la vista o doveva lottare per non azzannare qualcosa per il fastidio. Le prime due settimane aveva avuto i sudori freddi; adesso stavano diminuendo, ma ogni tanto soffriva di ipersensibilità cutanea. Però non aveva avuto nessuna ricaduta. Per quanto fosse dura, lui non mollava. E non si era dato neanche all'alcol. Avevano fatto un mucchio di sesso, in compenso. Cosa che a lei non dispiaceva affatto. Phury si ritrasse e la fece rotolare sulla schiena. Montandole sopra, la baciò con urgenza, le mani sui seni, le dita che sfregavano i capezzoli turgidi. Inarcandosi contro di lui, Cormia fece scivolare le mani tra i loro corpi avvinti, afferrò il membro eretto e lo accarezzò come piaceva a lui, dalla base alla punta, su e giù. Sul cassettone il cellulare di Phury emise un bip; lo ignorarono entrambi mentre lei, sorridendo radiosa, lo guidava di nuovo dentro di sé. Quando furono di nuovo una cosa sola, il fuoco divampò incontrollabile e il ritmo dei loro movimenti divenne frenetico. Avvinghiata alle 826 spalle del suo amore, attenta ad assecondare le sue spinte, Cormia si lasciò trasportare via da lui, con lui. Passato l'impeto dell'estasi, aprì gli occhi e venne salutata dal caldo sguardo giallo che la riempiva sempre di gioia. «Adoro svegliarmi», disse Phury, baciandola sulla bocca. «Anch'io ...» Sulle scale scattò l'allarme; il suo urlo stridulo era il genere di cosa che faceva rimpiangere di non essere sordi. Con una risata, Phury rotolò su un fianco, tenendola stretta al petto. «Cinque... quattro... tre... due...» «Scuuusaaateeee!» scalinata. gridò Layla dal fondo della «Cos'è stato stavolta, Eletta?» gridò di rimando Phury. «Uova strapazzate», rispose lei, sempre urlando. Phury scrollò la testa. «Avrei giurato che fosse il pane tostato», disse sottovoce a Cormia. «Impossibile. Il tostapane l'ha rotto ieri.» «Veramente?» 827 Cormia annuì. «Ha provato a infilarci una fetta di pizza e il formaggio...» «Dappertutto?» «Dappertutto.» «Non fa niente, Layla», disse Phury ad alta voce. «Puoi sempre pulire la pentola e riprovarci.» «Non credo che la pentola si possa utilizzare di nuovo», fu la risposta. «Non oso chiedere», commentò Phury abbassando la voce. «Ma non sono di metallo?» «Dovrebbero.» «Sarà meglio che vada a darle una mano», disse Cormia tirandosi su. «Adesso scendo, sorella!» gridò. «Due secondi.» Phury l'attirò di nuovo a sé per un bacio, poi la lasciò andare. Cormia fece una doccia veloce - veloce come il fulmine - e quando uscì dal bagno indossava un paio di blue jeans comodi e una delle camicie Gucci di Phury. Forse per tutti gli anni in cui aveva portato morbide tuniche non amava i vestiti attillati e il suo hellren non aveva nulla da ridire, perché gli piaceva che portasse i suoi vestiti. 828 «Quel colore ti sta a meraviglia», le disse con voce sexy, guardandola mentre si faceva la treccia. «Ti piace il color lavanda?» fece lei con una piccola piroetta, e negli occhi di lui si accese un lampo di un giallo brillante. «Oh, sì che mi piace. Vieni qui, Eletta.» Cormia si mise le mani sui fianchi mentre giù di sotto il pianoforte cominciava a suonare. Scale. Il che significava che Selena si era alzata. «Devo scendere prima che Layla dia fuoco alla casa.» Phury fece quel sorriso che faceva sempre quando se la immaginava nuda, molto nuda. «Vieni qui, Eletta.» «Cosa ne dici se faccio un salto giù e poi torno con qualcosa da mangiare?» Phury ebbe l'audacia di gettare via le lenzuola aggrovigliate e posare la mano sul membro turgido. «Solo tu puoi soddisfare il mio appetito.» Un aspirapolvere si unì al coro di rumori proveniente dal pianterreno, tanto per chiarire chi altri si era alzato e girava per casa. Amalya e Pheonia tiravano a sorte tutti i giorni per decidere chi poteva usare l'aspirapolvere. Che i tappeti nel grande cottage di Rehvenge ne avessero bisogno o meno poco importava... venivano sempre passati con l'aspirapolvere. 829 «Due secondi», disse Cormia sapendo che, se gli capitava a tiro, sarebbero finiti di nuovo avvinghiati. «Poi torno su e tu potrai imboccarmi, cosa ne dici?» Tutto fremente, Phury strabuzzò gli occhi. «Oh, sì. Questa è... Oh, sì, è un'idea magnifica.» Il cellulare emise un altro bip e con un gemito Phury allungò la mano verso il comodino. «Okay, vai, prima che ti tenga bloccata qui per un'altra ora. O magari quattro.» Cormia si avviò verso la porta, ridendo. «Dio.. .buono.» Cormia si voltò. «Che cosa c'è?» Phury si rizzò lentamente a sedere, stringendo il telefonino come se valesse più dei quattrocento dollari che gli era costato la settimana prima. «Phury?» Lui le mostrò il display. L'SMS veniva da Zsadist: femminuccia, 2 h fa. Nalla. Sxo ke stiate bene. Z. Cormia si morse il labbro, poi con delicatezza posò una mano sulla spalla di Phury. «Dovresti tornare a casa. Dovresti vederlo. Vederli.» 830 Phury deglutì a fatica. «Sì. Non so. Non penso che ci andrò... Forse è un bene. Wrath e io possiamo fare quello che serve al telefono... Sì. Meglio di rio.» «Pensi di rispondere all'SMS?» «Sì», disse Phury, coprendosi l'inguine col lenzuolo e fissando il cellulare. Un istante dopo Cormia disse, «Vuoi che lo faccia io?» Phury annuì. «Per favore. Mandalo a nome di tutti e due, okay?» Lei lo baciò sulla testa e poi digitò, Auguri a te, alla tua shellan e al vostro cucciolo. Vi siamo vicini nello spirito, con affetto, Phury e Cormia. La sera dopo, Phury fu tentato di non andare all'incontro della Narcotici Anonimi. Molto tentato. Alla fine ci andò. Non sapeva cosa lo avesse convinto a farlo. Non sapeva come c'era riuscito. Voleva solo accendersi uno spinello per non dover più sentire il dolore. Strano però. Perché cavolo soffriva tanto? La piccola del suo gemello era venuta al mondo e stava bene, Z era diventato padre, Bella era sopravvissuta al parto... avrebbe dovuto sentirsi euforico e sollevato, in fondo era ciò che si erano augurati tutti quanti, lui per primo. Senza dubbio lui era l'unico ad avere reagito in modo tanto assurdo. Gli altri fratelli di sicuro era tutti presi a 831 brindare alla salute di Z e della sua figlioletta e a coccolare Bella. I festeggiamenti sarebbero andati avanti per settimane e Fritz sarebbe stato al settimo cielo per tutti i banchetti e le cerimonie da organizzare. Gli sembrava quasi di vedere la scena. Il sontuoso ingresso della magione sarebbe stato decorato con festoni verde brillante, il colore della stirpe di Z, e porpora, il colore di quella di Bella. Ghirlande di fiori sarebbero state appese a tutte le porte della casa, armadi e armadietti compresi, per simboleggiare la nascita di Nalla. I camini sarebbero rimasti accesi per giorni, alimentati da speciali ceppi aromatici ricavati dal fusto della canna da zucchero, ciocchi di legno trattati in modo da ardere lentamente in un tripudio di fiamme rosse, per rendere onore al sangue nuovo del piccolo tesoro appena nato. Allo scoccare della ventiquattresima ora dal lieto evento ogni abitante della casa avrebbe portato ai genitori gonfi di orgoglio un enorme fiocco intessuto coi colori della propria famiglia. I fiocchi, annodati alla culla di Nalla, erano la promessa solenne di vegliare su di lei per tutta la vita. Nel giro di un'ora, la culla dove Nalla poggiava la preziosa testolina sarebbe stata sommersa da una cascata di fiocchi di raso, coi lunghi nastri che toccavano terra in un fiume d'amore. Nalla avrebbe ricevuto in dono gioielli di inestimabile valore, sarebbe stata avvolta in drappi di velluto e stretta da braccia amorevoli. Sarebbe stata curata teneramente e tenuta in gran conto per il miracolo che era, e per sempre la sua nascita avrebbe rallegrato il cuori di coloro che 832 avevano atteso con speranza e timore di darle il benvenuto. Già... Phury non sapeva cosa lo avesse spinto ad andare al centro di recupero, non sapeva cosa lo avesse aiutato a varcare quella porta e a scendere in quel seminterrato, e non sapeva cosa lo avesse convinto a restare. In compenso sapeva che, una volta tornato al cottage di Rehvenge, non se l'era sentita di entrare. Si era seduto sulla terrazza posteriore, in una poltrona di vimini, sotto le stelle. In testa non aveva niente. E assolutamente tutto. A un certo punto Cormia uscì e gli mise una mano sulla spalla, come faceva sempre quando sentiva che era assorto nei suoi pensieri. Phury le diede un bacio sul palmo della mano, lei lo baciò sulla bocca e tornò dentro, molto probabilmente a lavorare ai progetti per il nuovo club di Rehv. La notte era tranquilla e decisamente fredda. Di tanto in tanto una folata di vento scompigliava le chiome degli alberi, le fronde autunnali stormivano con un fruscio sommesso, quasi lusingate da quelle attenzioni. Nella casa alle sue spalle Phury sentiva il futuro. Le Elette protendevano le braccia verso il mondo esterno, imparando cose su se stesse e sulla Terra. Era così fiero di loro; era un Primale nel solco della più antica tradizione, nel senso che era disposto a uccidere per proteggere le 833 sue femmine, era pronto a fare qualsiasi cosa per una qualunque di loro. Ma quello era un amore paterno. Il suo amore coniugale era per Cormia e per lei soltanto. Phury si massaggiò il centro del petto e lasciò scorrere le ore mentre il vento soffiava impetuoso. La luna, raggiunto il culmine della sua parabola celeste, cominciò la sua discesa. Qualcuno in casa mise su un'aria lirica. Qualcun altro, grazie al cielo, cambiò musica scegliendo un motivo hip hop. Qualcuno aprì l'acqua nella doccia. Qualcun altro si mise a passare l'aspirapolvere. Di nuovo. La vita. In tutta la sua banale maestà. Non potevi godertela se te ne stavi seduto al buio con le mani in mano, sia in senso letterale che metaforico, perché eri intrappolato nella tenebra di qualche dipendenza. Phury si toccò il polpaccio della protesi. Fino a quel momento ce l'aveva fatta con una gamba-dimezzata. Vivere il resto della vita senza il suo gemello e senza i suoi fratelli... avrebbe fatto anche questo. Aveva molto di cui essere grato, e questo avrebbe compensato le tante mancanze. Quel senso di vuoto non sarebbe durato per sempre. In casa qualcuno tornò alla lirica. Oh, merda. Stavolta era Puccini. 834 "Che gelida manina." Con tutto il repertorio che avevano a disposizione perché scegliere proprio l'unico assolo che, garantito, lo avrebbe fatto stare peggio? Dio, non ascoltava La Bohème da... be', da una vita, o almeno quella era la sua impressione. Nel sentire quella musica tanto amata ebbe una stretta al cuore che gli tolse il respiro. Afferrò i braccioli della poltrona e fece per alzarsi. Proprio non ce la faceva ad ascoltare la voce di quel tenore. Quella splendida, potente voce tenorile gli ricordava troppo... Ai margini del bosco comparve Zsadist. Cantando. Stava cantando... Era sua la voce tenorile nelle orecchie di Phury, non un CD che suonava dentro casa. La voce di Z si librava sui picchi e le vallate dell'aria lirica mentre lui avanzava sull'erba al ritmo delle parole perfettamente intonate. Il vento divenne la sua orchestra, sospingendo i suoni spettacolari che gli uscivano di bocca oltre il prato e gli alberi, su, fino in cima alle montagne, e ancora più su, fino in cielo, il solo luogo in cui poteva essere nato un talento simile. Phury si alzò in piedi, quasi che a sollevarlo dalla poltrona non fossero state le sue gambe, ma la voce del suo gemello. Quello era il ringraziamento rimasto tanto a lungo inespresso, quella la gratitudine per il salvataggio e la riconoscenza per la vita vissuta, quella era la gola spiegata di un padre attonito cui mancavano le parole per esprimere a suo fratello cosa sentiva e che doveva 835 ricorrere alla musica per manifestare almeno in parte ciò che non riusciva a dire. «Ah, diamine... Z», mormorò Phury nel bel mezzo di quello splendore. Quando l'assolo giunse al culmine, quando la corda delle emozioni vibrò col massimo della potenza, tutti i membri della confraternita emersero uno dopo l'altro dalle tenebre della notte. Wrath. Rhage. Butch. Vishous. Tutti con la veste cerimoniale bianca che avrebbero indossato per onorare la ventiquattresima ora dalla nascita di Nalla. Zsadist intonò l'ultima, sublime nota del pezzo proprio di fronte a Phury. Quando il verso finale, "Vi piaccia dir!", fluttuò verso l'infinito, Z alzò una mano. Nel vento notturno si agitava un gigantesco fiocco di raso verde e oro. Cormia si avvicinò con tempismo perfetto, cingendo col braccio la vita di Phury, che si reggeva in piedi solo grazie e lei. Nell'Antico Idioma Zsadist disse, «Sareste tanto gentili da onorare la nascita della mia figlioletta con i colori del vostro lignaggio e l'amore dei vostri cuori?» Con un profondo inchino offrì loro il fiocco. 836 Phury prese i lunghi nastri di raso, e con voce incrinata dall'emozione, disse, «Sarebbe un onore incommensurabile offrire in pegno alla tua figlioletta i colori del nostro lignaggio.» Z si raddrizzò; difficile dire chi dei due avanzò per primo verso l'altro. Molto probabilmente si incontrarono a metà strada. Si abbracciarono senza dire niente. A volte le parole non bastano, le lettere e la grammatica si rivelano strumenti incapaci di contenere i moti del cuore. I fratelli applaudirono. A un certo punto Phury prese per mano Cormia, attirandola vicino a sé. Poi guardò il suo gemello e chiese, «Dimmi, Nalla ha gli occhi gialli?» Z annuì, sorridendo. «Sì. Bella dice che mi assomiglia... il che significa che assomiglia anche a te. Vieni a vedere la mia femminuccia, fratello caro. Torna a casa a conoscere tua nipote. Sulla sua culla c'è un grande spazio vuoto, abbiamo bisogno che voi due lo colmiate.» Phury sentì che Cormia, stretta a lui, gli accarezzava il centro del petto. Con un profondo sospiro si passò una mano sugli occhi. «Quella è la mia opera preferita e il mio assolo preferito.» 837 «Lo so.» Sorridendo a Cormia, Z recitò i primi due versi, "Che gelida manina, se la lasci riscaldar." «E adesso hai una manina da riscaldare nella tua.» «Lo stesso vale per te, fratello.» «Vero. Verissimo, per fortuna.» Z si fece serio. «Per favore... vieni a trovarla... ma vieni anche a trovare noi. I fratelli sentono la tua mancanza. Io sento la tua mancanza.» Phury socchiuse gli occhi, folgorato da un'intuizione. «Eri tu, vero? Sei venuto al centro di recupero. E dopo sei rimasto a guardarmi mentre ero seduto su quell'altalena.» «Sono così fiero di te», disse Z con voce rotta. «Anch'io», disse Cormia. Che momento perfetto, pensò Phury. Un momento assolutamente perfetto, col suo gemello davanti a lui, la sua shellan al suo fianco e il mago svanito nel nulla. Un momento perfetto a tal punto che, ne era certo, lo avrebbe ricordato per il resto dei suoi giorni con chiarezza e commozione immutate. Phury baciò sulla fronte la sua shellan, indugiando contro di lei a mo' di ringraziamento. Poi sorrise a Zsadist. 838 «Con piacere. Verremo con piacere e reverenza alla culla di Nalla.» «E i vostri nastri?» Phury abbassò gli occhi sul fiocco verde e oro, i bei nastri di raso intrecciati a simboleggiare l'unione tra lui e Cormia. All'improvviso lei lo abbracciò ancora più forte, quasi stesse pensando esattamente la stessa cosa. Ovvero che, proprio come quei nastri, loro due insieme, stavano benissimo. «Sì, fratello caro. Verremo assolutamente con i nostri nastri.» Poi, guardando Cormia in fondo agli occhi, aggiunse, «E, sai, se ci fosse il tempo per una cerimonia nuziale, sarebbe fantastico perché...» Ciò che stava per dire venne interrotto dagli scrosci di risa, le grida di giubilo e le pacche sulle spalle dei fratelli. Ma Cormia aveva colto il succo del discorso. Phury non aveva mai visto nessuno fare un sorriso bello e radioso come quello che gli rivolse lei quando lo guardò. Dunque doveva avere intuito cosa intendeva dire. Ti amerò per sempre. Non sempre è necessario dirlo per farsi capire. 839 Glossario dei nomi comuni e dei nomi propri Ahstrux nohstrum. Guardia privata con licenza di uccidere, nominata dal re. Ahvenge. Vendicare con esito letale. In genere è il vampiro maschio a cercare vendetta per l'amata o comunque per una persona cara. Chrih. Nell'Antico onorevole. Idioma, simbolo di morte Cohntehst. Conflitto tra due vampiri in competizione per aggiudicarsi il diritto di diventare il compagno di una femmina. Confraternita del Pugnale Nero. Vampiri guerrieri altamente qualificati incaricati di proteggere la loro specie dagli attacchi della Lessening Society. In seguito a una riproduzione selettiva all'interno della razza, i membri della confraternita sono dotati di una forza fisica e mentale eccezionali e della capacità di guarire rapidamente. In genere non sono imparentati tra loro e vengono arruolati nella confraternita tramite nomina da parte degli altri fratelli. Aggressivi, orgogliosi, indipendenti e riservati per natura, conducono esistenze separate dai vampiri civili e hanno pochissimi contatti con i membri delle altre classi, eccetto quando devono nutrirsi del loro sangue. Sono protagonisti di leggende e oggetto di venerazione all'interno del mondo dei vampiri. Possono morire solo in seguito alle ferite più gravi, per esempio una pugnalata o un colpo di arma da fuoco al cuore. 840 A parte Darius, i nomi dei vampiri membri della Confraternita del Pugnale Nero richiamano la caratteristica peculiare della loro natura: Wrath, "ira", in inglese; Tohrment, che rimanda all'inglese torment, "tormento"; Vishous, variante di vicious, ovvero "vizioso"; Rhage, variante dell'inglese rage , "rabbia"; Phury, che rimanda a un'idea di purezza e infine Zsadist, ispirato all'inglese sadistic, "sadico" (N.d.T.). Dhunhd. Inferno. Doggen. Nel mondo dei vampiri questo termine designa un membro della classe dei servitori. Nel servire i loro padroni, i doggen sono fedeli ad antiche tradizioni conservatrici, osservano un rigido codice di comportamento e regole molto formali in fatto di vestiario. Possono uscire durante il giorno, ma invecchiano relativamente in fretta. La loro aspettativa di vita si aggira intorno ai cinquecento anni. Ehros. Eletta esperta nelle arti amatorie. Elette. Vampire femmine allevate allo scopo di servire la Vergine Scrivana. Sono considerate membri dell'aristocrazia, anche se la loro esistenza è focalizzata più su questioni spirituali che mondane. Hanno pochissimi o nessun contatto con i maschi, ma per volere della Vergine Scrivana possono accoppiarsi con i guerrieri per propagare la loro classe. Alcune sono dotate della capacità di predire il futuro. In passato i membri della confraternita privi di una compagna potevano servirsi di loro per soddisfare il periodico bisogno di bere sangue, pratica ripristinata di recente. 841 Exhile dboble. Il gemello malefico o maledetto, nato per secondo. Fado. Regno intemporale dove i defunti si riuniscono per l'eternità con i loro cari. Ghardian. Custode, tutore. Esistono svariati tipi di ghardian, il più importante dei quali è quello che si occupa di una femmina sottoposta a sehclusion. Glymera. Élite aristocratica, grosso modo equivalente all'alta società inglese del periodo della Reggenza (181120). Hellren. Vampiro maschio sposato con una femmina. I maschi possono avere più di una compagna. Leahdyre. Persona potente e influente. Leelan. Termine affettuoso liberamente traducibile con "mia diletta", "mia adorata". Lessening Society. Società dei minori. Ordine di assassini fondato dall'Omega allo scopo di annientare la specie dei vampiri. Lesser. Essere umano privato dell'anima che, in quanto membro della Lessening Society, ha come obiettivo lo sterminio dei vampiri. Per uccidere un lesser, o "minore", bisogna pugnalarlo al petto, altrimenti non invecchia e vive in eterno. I lesser non mangiano, non bevono e sono sessualmente impotenti. Col tempo perdono la pigmentazione originaria di capelli, pelle e iridi fino a diventare di un biondo slavato, molto pallidi e con gli 842 occhi chiarissimi. Profumano di talco per neonati. Una volta ammessi all'interno della Lessening Society da parte dell'Omega, essi conservano un vaso di ceramica in cui viene custodito il loro cuore, dopo che è stato rimosso. Lewlhen. Regalo, dono. Lheage. Espressione di rispetto con cui una femmina sessualmente sottomessa si rivolge al suo dominatore. Mahmen. Madre, mamma. Usato sia come nome comune sia come appellativo affettuoso. Mhis. Mascheramento di un determinato ambiente fisico; creazione di un campo illusorio. Nalla. Appellativo affettuoso traducibile con "mia diletta", "cara", "amore". Nallum. Appellativo affettuoso traducibile con "mio diletto", "caro", "amore". Newling. Vergine. Omega. Figura mistica e malvagia che ha come obiettivo l'estinzione dei vampiri a causa del risentimento che cova nei confronti della Vergine Scriba. Esiste in una dimensione intemporale ed è dotato di ampi poteri, ma non della facoltà di procreare. Periodo del bisogno. Periodo di fertilità di un vampiro femmina. In genere dura due giorni ed è accompagnato da un forte desiderio sessuale. Si verifica 843 grosso modo cinque anni dopo la transizione e, in seguito, si ripresenta una volta ogni dieci anni. Tutti i vampiri maschi reagiscono in qualche misura quando si trovano nelle vicinanze di una femmina che attraversa questa fase. Si tratta di un periodo potenzialmente pericoloso, caratterizzato da lotte e conflitti tra maschi in competizione, in particolare se la femmina non ha un compagno. Phearsom. Aggettivo che si riferisce alla potenza degli organi sessuali maschili. Traducibile letteralmente con qualcosa come: "degno di penetrare una femmina". Prima Famiglia. Il re e la regina dei vampiri e tutti i figli da essi generati. Prìnceps. Supremo rango dell'aristocrazia dei vampiri, secondo soltanto ai membri della Prima Famiglia e alle Elette della Vergine Scrivana. È un titolo nobiliare che si eredita alla nascita e che non può essere conferito in seguito. Pyrocant. Termine che si riferisce a una debolezza cruciale di un individuo. Si può trattare di una debolezza interna, come per esempio una dipendenza, oppure esterna, come un amante. Rahlman. Salvatore. Rytho. Maniera rituale di fare ammenda. Viene offerto da chi ha ferito nell'onore un altro vampiro. Se lo accetta, la vittima ha il diritto di colpire con un'arma a sua scelta il responsabile dell'offesa, il quale deve presentarsi privo di difese. 844 Schiavo di sangue. Vampiro, maschio o femmina, soggiogato da un altro vampiro allo scopo di soddisfare il suo bisogno di bere sangue. La pratica di tenere degli schiavi di sangue è stata dichiarata illegale di recente. Sehclusion. Condizione imposta dal re a una femmina dell'aristocrazia in seguito a una petizione presentata dai familiari della femmina stessa. Pone la femmina sotto la custodia esclusiva di un ghardian, in genere il maschio più anziano della famiglia. Il ghardian acquisisce di conseguenza il diritto legale di controllare sotto ogni aspetto la vita della femmina, limitandone a suo piacimento i contatti con il mondo esterno. Shellan. Vampira sposata. Le shellan, in genere, hanno un solo compagno a causa della natura spiccatamente territoriale dei vampiri maschi sentimentalmente legati. Symphath. All'interno della razza dei vampiri questa è una specie caratterizzata, tra le altre cose, dalla capacità e dal desiderio di manipolare le emozioni altrui allo scopo di realizzare uno scambio di energia. Storicamente i symphath sono stati oggetto di discriminazione e in determinate epoche sono stati perseguitati e cacciati dai vampiri. Attualmente sono in via di estinzione. Tomba. Cripta sacra della confraternita del Pugnale Nero, utilizzata come luogo cerimoniale nonché come magazzino dove vengono custoditi i vasi contenenti i cuori dei tesser. Tra le cerimonie ivi celebrate figurano affiliazioni alla confraternita, funerali e azioni disciplinari nei confronti dei fratelli. Nessuno vi è ammesso eccetto i 845 membri della confraternita, la Vergine Scriba o i candidati all'affiliazione. Trahyner. Termine utilizzato tra vampiri maschi per esprimere rispetto e affetto reciproco. Liberamente traducibile con "amico caro". Transizione. Momento critico nella vita di un vampiro, maschio o femmina, che segna il suo passaggio all'età adulta. In genere si verifica intorno ai venticinque anni di età. Dopo la transizione i vampiri sono costretti, per sopravvivere, a bere il sangue di un vampiro dell'altro sesso e non sopportano più la luce del sole. Alcuni vampiri, in particolare i maschi, non sopravvivono a questo cambiamento. Prima della transizione i vampiri sono fisicamente deboli, non attivi sessualmente o comunque indifferenti e incapaci di smaterializzarsi. Vampiro. Membro di una specie distinta da quella dell'Homo sapiens. Per sopravvivere i vampiri devono bere il sangue di un vampiro del sesso opposto. Il sangue umano li mantiene in vita, anche se la forza fìsica che ne ricavano non dura a lungo. Dopo la transizione, che in genere si verifica intorno ai venticinque anni, i vampiri non possono più uscire alla luce del sole e sono costretti a bere con regolarità sangue fresco. I vampiri non sono in grado di "convertire" gli umani, trasformandoli a loro volta in vampiri, tramite un morso o una trasfusione di sangue, anche se in rari casi possono riprodursi accoppiandosi con la specie umana. I vampiri riescono a smaterializzarsi a piacimento, anche se per farlo devono riuscire a calmarsi e a concentrarsi e non possono portare 846 con sé nulla di pesante. Sono anche in grado di cancellare i ricordi degli umani, a patto che si tratti di ricordi a breve termine. Alcuni vampiri sono inoltre dotati della facoltà di leggere nel pensiero. La loro aspettativa di vita è pari, e in alcuni casi anche superiore, al migliaio di anni. Vergine Scriba. Forza mistica consigliera del re nonché custode degli archivi dei vampiri e dispensatrice di privilegi. Esiste in una dimensione atemporale ed è dotata di ampi poteri. Capace di un unico atto creativo, lo ha utilizzato per dare vita ai vampiri. Wahlker. Individuo che, dopo la morte e l'ingresso nel Fado, torna in vita. I wahlker sono molto rispettati e riveriti per il loro travaglio. Whard. Equivalente di padrino o madrina. Finito di stampare nel mese di marzo 2011 per conto di MONDOLIBRI S.pA., Milano presso il Nuovo Istituto Italiano d'Arti Grafiche Bergamo Stampato in Italia - Printed in Italy 847 848