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JR Ward - (Confraternita Del Pugnale Nero 06)

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JR Ward - (Confraternita Del Pugnale Nero 06)
J. R. WARD
LOVER ENSHRINED
UN AMORE PREZIOSO
UN ROMANZO DELLA CONFRATERNITA DEL PUGNALE NERO
Agartha 016
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Titolo dell'opera originale:
Black Dagger Brotherhood: Lover Enshrined
Traduzione dall'americano di Paola Pianalto
Questo romanzo è un'opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e
avvenimenti sono il prodotto dell'immaginazione dell'Autrice o
usati in modo fittizio.
Qualunque rassomiglianza con fatti, località, organizzazioni o
persone, vive o defunte, è del tutto casuale.
Copyright © Jessica Bird, 2008
All rights reserved including the right of reproduction
in whole or in part in any form.
Copyright © 2011 by Mondolibri S.p.A„ Milano
This edition published by arrangement with NAL Signet,
a member of Penguin Group (USA) Inc.
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Dedicato a: Te.
Sei stato un perfetto gentiluomo e un sollievo.
E sono convinta che la gioia ti si addica….
di certo te la meriti.
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Ringraziamenti
Con immensa gratitudine ai lettori
della Confraternita del Pugnale Nero
e in particolare alle ragazze!
Grazie infinite:
Karen Solem, Kara Cesare, Claire Zion, Kara Welsh.
Grazie, S-Byte, Ventrue, Loop e Opal per tutto ciò
che fate spinti dalla vostra bontà d'animo!
Come sempre con gratitudine al mio Comitato Esecutivo:
Sue Grafton, Dott.ssa Jessica Andersen, Betsey Vaughan.
E con grande stima all'incomparabile
Suzanne Brockmann.
A DLB: CON STIMA. Ti voglio bene. Baci. Mamma
A NTM: come sempre, con affetto e gratitudine.
Sei proprio un principe tra gli uomini.
PS: c'è qualcosa che non sei in grado di trovare?
A LeElla Scott: ci siamo? ci siamo?
ci siamo?
Ricordati che il controllo automatico della velocità di crociera è dalla
nostra parte e che non siamo niente senza LeSunshine.
Un abbraccio, carissima.
A Kaylie: benvenuta al mondo, piccolina.
Hai una mamma spettacolare... è assolutamente il mio Idolo,
e non solo perché mi rifornisce sempre di prodotti
per la cura dei capelli.
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A Bub: grazie per schwasted!
Niente di tutto ciò sarebbe possibile senza:
il mio affettuoso marito,
che è il mio consigliere, assistente e visionario,
la mia meravigliosa madre, che non potrò mai ripagare
per tutto l'amore che mi ha dato,
i miei familiari (sia di sangue che di adozione);
e i miei pìù cari amici.
Oh, e la dolce metà di WriterDog, naturalmente.
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Prologo
Venticinque anni, tre mesi, quattro giorni,
undici ore, otto minuti e trentaquattro secondi fa...
Il tempo non è, in realtà, un flusso ininterrotto verso
l'infinito. Fino all'ultimo secondo del presente è
malleabile. Creta, non cemento.
Cosa di cui l'Omega era grato. Se il tempo fosse stato
fìsso e immutabile, lui non avrebbe tenuto tra le braccia il
suo figlioletto appena nato.
I figli non erano mai stati il suo obiettivo. Eppure in
quel momento lui appariva trasformato.
«La madre è morta?» chiese al Fore-lesser che scendeva
le scale. Buffo, se gli avessero chiesto che anno pensava
fosse, avrebbe risposto il 1983. E, in un certo senso,
avrebbe avuto ragione.
II Fore-lesser annuì. «Non è sopravvissuta al parto.»
«Alle vampire accade spesso. È uno dei loro rari
pregi.» E quanto mai opportuno, nella fattispecie.
Uccidere la madre dopo che lo aveva servito così bene
pareva una scortesia.
«Cosa devo fare del cadavere?»
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L'Omega guardò il figlio che allungava la mano
aggrappandosi al suo pollice. La stretta era salda. «Che
strano.»
«Cosa?»
Era arduo esprimere a parole ciò che provava. O forse
il punto era proprio questo: non si aspettava di provare
nulla.
Suo figlio doveva essere una controffensiva alla
Profezia del Distruttore, una risposta calcolata nel
quadro della guerra contro i vampiri, una strategia per
assicurare la sopravvivenza dell'Omega. Suo figlio
avrebbe dato battaglia in un modo nuovo, sterminando
quella razza di selvaggi prima che il Distruttore
intaccasse a poco a poco l'essenza stessa dell'Omega fino
a non lasciarne traccia.
Fino a quel momento il piano era stato eseguito in
modo esemplare, a cominciare dal rapimento della
vampira, che l'Omega aveva poi provveduto a
inseminare, per finire con quel nuovo arrivato.
Il neonato lo guardò, muovendo la piccola bocca.
Aveva un buon odore, ma non perché era un tesser.
Tutt'a un tratto l'Omega non voleva lasciarlo andare.
Quel piccolo tra le sue braccia era un miracolo, una
scappatoia vivente, in carne e ossa. Contrariamente a sua
sorella, l'Omega non aveva la facoltà di creare dal nulla,
ma non gli era stata negata la possibilità di riprodursi.
Non era stato in grado di dar vita a una razza del tutto
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nuova, certo, ma poteva proiettare nel futuro una parte
di se stesso grazie al patrimonio genetico.
E l'aveva fatto.
«Padrone?» lo incalzò il Fore-lesser.
Proprio non voleva lasciar andare quel bambino. Ma
perché il piano funzionasse., suo figlio doveva vivere coi
nemici, doveva crescere in mezzo a loro, come uno di
loro. Doveva conoscere la loro lingua, la loro cultura e le
loro abitudini.
Doveva sapere dove vivevano, per poter andare a
massacrarli.
L'Omega si impose di consegnare il neonato al Forelesser. «Lascia il bambino nel luogo che ti ho proibito di
mettere a sacco. Avvolgilo in fasce e lascialo là. Quando
tornerai ti condurrò a me.»
Dopo di che morirai, terminò tra sé l'Omega.
Non dovevano esserci falle né errori.
Mentre il Fore-lesser si abbandonava a ignobili
manifestazioni di servilismo, che in qualunque altra
circostanza avrebbero suscitato l'interesse dell'Omega, il
sole sorgeva sui campi di grano di Caldwell, New York.
Al piano di sopra un sommesso crepitio esplose in un
falò, l'odore di bruciato annunciava l'incenerimento del
cadavere della vampira, insieme a tutto quel sangue sul
letto.
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Ottimo. L'ordine era importante, e quella fattoria era
nuova di zecca, costruita appositamente per la nascita di
suo figlio.
«Vai», ordinò l'Omega. «Vai e fa il tuo dovere.»
Il Fore-lesser uscì con il neonato; nel vedere la porta che
si chiudeva, l'Omega già si struggeva per la sua progenie.
Smaniava letteralmente per la mancanza del maschietto.
La soluzione a tanta angoscia, tuttavia, era a portata di
mano. Con un atto di volontà, l'Omega si proiettò
nell'aria catapultando la sua forma corporea nel
"presente", nel soggiorno stesso in cui si trovava.
Quel balzo temporale si manifestò in un repentino
invecchiamento della casa. La carta da parati sbiadì
staccandosi pigramente dalle pareti, i mobili apparvero
consunti, logorati da oltre vent'anni d'uso, il soffitto
passò dal bianco immacolato al giallo sporco, come
impregnato da anni e anni di fumo, l'assito si sollevò agli
angoli del corridoio.
In fondo alla casa sentì due umani che litigavano.
L'Omega fluttuò fino alla cucina sudicia e rovinata,
che solo fino a pochi secondi prima era splendente come
il giorno in cui era uscita dal mobilificio.
Non appena entrò nella stanza, l'uomo e la donna
smisero di bisticciare, paralizzati dallo shock. E lui
procedette alla tediosa impresa di sgombrare la fattoria
da occhi indiscreti.
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Suo figlio stava tornando all'ovile. E l'Omega sentiva il
bisogno di vederlo quasi più di quanto sentisse il bisogno
di farne buon uso.
Non appena il male toccò il centro del suo petto provò
una sensazione di vuoto e pensò a sua sorella. Lei aveva
messo al mondo una nuova razza, una razza generata
grazie alla combinazione della sua volontà e della
biologia disponibile. Com'era fiera di se stessa.
Anche il loro padre era fiero.
L'Omega aveva cominciato a uccidere i vampiri per
fare dispetto a entrambi, ma ben presto aveva capito che
si nutriva di quelle malefatte. Il loro padre non poteva
fermarlo, naturalmente, perché era emerso che i misfatti
dell'Omega - o meglio, la sua stessa esistenza , -- erano
necessari a controbilanciare la bontà di sua sorella.
L'equilibrio andava mantenuto. Era il principio
fondamentale di a sorella, la giustificazione dell'esistenza
dell'Omega e il mandato e il loro padre aveva ricevuto da
suo padre. Il fondamento stesso ^'universo.
Perciò l'Omega traeva soddisfazione dalla sofferenza
della Vergine Scriba. Ogni morte inflitta alla razza da lei
generata la faceva soffrire, e lui lo sapeva bene. Il fratello
era sempre stato in grado di interpretare i sentimenti
della sorella.
Ed era ancora più vero adesso.
L'Omega pensò a suo figlio là fuori, nel mondo, e si
preoccupò per lui. Sperava che quei venti e passa anni
non fossero stati troppo difficili. E ciò che fa ogni buon
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padre, no? I genitori di norma si preoccupano della loro
prole, la nutrono e la proteggano. Buoni e cattivi, virtuosi
e peccatori, tutti, quale che sia la nostra natura,
desideriamo il meglio per coloro che abbiamo messo al
mondo.
Era sconcertante scoprire che, in fin dei conti, aveva
qualcosa in comune con sua sorella... era uno shock
sapere che entrambi volevano che i loro figli potessero
vivere e prosperare.
L'Omega guardò i cadaveri dei due umani che aveva
appena eliminato.
Ma i propositi di fratello e sorella si escludevano a
vicenda, naturalmente, no?
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Capitolo 1
Il mago era tornato,
Phury chiuse gli occhi e lasciò ricadere la testa contro
la spalliera del letto. Ma cosa cavolo stava dicendo? Il
mago non se n'era mai andato.
A volte sei proprio un verme, socio, lo schemi la voce
sinistra dentro la sua testa. Sul serio. Dopo tutto quello che
abbiamo passato insieme.
Tutto quello che avevano passato insieme... proprio
vero.
Il mago era la causa del suo bisogno incontenibile di
fumo rosso e sempre nella sua testa, sempre lì a criticarlo
per ciò che non aveva fatto, per ciò che avrebbe dovuto
fare, per ciò che avrebbe potuto fare meglio.
Dovere. Volere. Potere.
Bella rima. La verità era che uno dei nove Nazgul, le
creature simili a spettri del Signore degli Anelli, lo
spingeva verso il fumo rosso neanche lo avesse legato
come un salame e poi gettato sul sedile posteriore di
un'auto.
In realtà, socio, tu saresti il paraurti anteriore.
Appunto.
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Con l'occhio della mente Phury vedeva il mago sotto
forma di uno spirito ritto in mezzo a una vasta distesa
grigia e desolata di teschi e ossa. Nel suo impeccabile
accento inglese, il bastardo si assicurava che Phury non
dimenticasse mai i propri fallimenti, e quella litania
martellante lo induceva ad accendersi uno spinello via
l'altro per non infilarsi in bocca la canna di una calibro
quaranta.
Non lo hai salvato. Non li hai salvati. Sono stati colpiti tutti
dalla maledizione per causa tua. La colpa è tua... la colpa è
tua...
Phury prese l'ennesimo spinello e fece scattare
l'accendino d'oro.
Lui era quello che nel Vecchio Continente veniva
chiamato Yexhile dhoble.
Il secondo gemello. Il gemello malefico.
Nato tre minuti dopo Zsadist, Phury aveva scatenato
sulla sua famiglia la maledizione dello squilibrio. Due
figli nobili, entrambi nati vivi, erano una fortuna troppo
grande e, come previsto, l'equilibrio era stato ripristinato:
dopo qualche mese il suo gemello era stato rapito, ridotto
in schiavitù e sottoposto per un secolo ad abusi di ogni
tipo.
Grazie a quella troia depravata della sua padrona,
Zsadist aveva cicatrici indelebili sul volto, sulla schiena,
intorno ai polsi e al collo. E cicatrici ancora peggiori
dentro di sé.
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Phury aprì gli occhi. Salvare fisicamente il suo gemello
non era bastato; c'era voluto il miracolo di Bella per far
risorgere l'anima di Z, e adesso lei era in pericolo. Se
l'avessero perduta...
Allora andrà tutto bene e l'equilibrio rimarrà intatto per la
generazione a venire, disse il mago. Non crederai sul serio che
il tuo gemello possa godere della benedizione di un figlio vivo e
vegeto? Tu avrai una caterva di figli. Lui non ne avrà neanche
uno. L'equilibrio funziona così.
Ah, e prenderò anche la sua shellan, te l'avevo già detto?
Phury prese il telecomando dello stereo e fece partire
"Che gelida manina".
Non funzionò. Al mago Puccini piaceva. Lo spirito
cominciò a Volteggiare per tutto il campo di teschi,
calpestando tutto ciò che gli capitava sotto ai piedi,
ondeggiando le braccia con eleganza, le lunghe vesti nere
a brandelli simili alla criniera di uno stallone che scrolli il
capo regale. Sullo sfondo dello sconfinato orizzonte di un
grigio senz'anima, il mago ballava e rideva.
Che gran casino.
Senza neanche guardare, Phury allungò la mano verso
il comodino e prese la busta con il fumo rosso e le cartine.
Non doveva neanche calcolare la distanza, come un
coniglio che sa dove sono i suoi escrementi.
Mentre il mago si scatenava al ritmo della Bohème,
Phury, senza smettere di fumare, si rollò altri due
cannoni di rinforzo. Soffiò fuori il fumo; aveva un buon
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profumo di caffè e cioccolato, ma se anche fosse stato
pestilenziale non avrebbe avuto importanza: pur di
mettere la sordina al mago era pronto a sentire puzza di
spazzatura bruciata.
Diamine, al punto in cui era, anche fumarsi un intero
cassonetto dell'immondizia gli andava benissimo, se
serviva a dargli un po' di pace.
Non riesco a credere quanto poco apprezzi il nostro
rapporto, disse il mago.
Phury si concentrò sul disegno che aveva in grembo,
quello a cui stava lavorando da una mezz'ora. Dopo un
rapido sguardo d'insieme, intinse la punta della penna
d'oca nel calamaio d'argento sterling in equilibrio contro
il fianco. L'inchiostro all'interno, con la sua densa
lucentezza oleosa, assomigliava al sangue dei suoi
nemici; sulla carta, tuttavia, era di un intenso marrone
rossastro, non un nero disgustoso. '
Non avrebbe mai usato il nero per dipingere una
persona cara. Portava sfortuna.
Inoltre, l'inchiostro rosso sangue aveva proprio il
colore dei riflessi nei capelli color mogano di Bella.
Quindi era adatto al suo soggetto.
Phury ombreggiò con cura la linea perfetta del naso, le
sottili staffilate del calamo si intersecarono fino a ottenere
la giusta densità.
Il disegno a inchiostro era molto simile alla vita: un
solo errore bastava a rovinare tutto.
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Maledizione. L'occhio di Bella non era neanche
lontanamente all'altezza dell'originale.
Piegando l'avambraccio per non strusciare il polso
sull'inchiostro fresco, tentò di correggere gli errori,
ritoccando la palpebra inferiore per angolare
maggiormente la curva. I tratteggi solcavano con
maestria il foglio di carta Crane. Ma l'occhio ancora non
andava bene.
No, non andava, nessuno poteva giudicarlo meglio di
lui, visto il tempo che aveva trascorso a disegnarla negli
ultimi otto mesi.
Il mago si fermò a metà plié per fargli notare che quella
menata del disegno a inchiostro era una stronzata bell'e
buona. Disegnare la shellan incinta del proprio gemello.
Onestamente...
Solo un bastardo schifoso poteva fissarsi su una femmina
sposata col suo gemello. Eppure tu l'hai fatto. Sarai fiero di te,
socio.
Già, il mago aveva sempre avuto un accento inglese,
chissà poi perché.
Phury aspirò un'altra boccata di fumo, piegando la
testa di lato per vedere se un cambiamento di prospettiva
migliorava le cose. Niente da fare. Non andava bene. E
neanche i capelli, per la verità. Chissà perché aveva
disegnato i lunghi capelli scuri di Bella raccolti in uno
chignon, con delle ciocche sottili che le solleticavano le
guance. Lei li portava sempre sciolti.
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Pazienza. Lei era comunque incantevole, e il resto del
viso era come lo dipingeva sempre: lo sguardo adorante
rivolto a destra, le ciglia stagliate in controluce, lo
sguardo colmo di un misto di calore e devozione.
Durante i pasti Zsadist sedeva alla destra di Bella. In
modo da avere libera la mano con cui era abituato a
combattere.
Phury non la disegnava mai con gli occhi puntati dritti
su di sé. Più che logico. Neanche nella vita reale attirava
il suo sguardo.
Bella era innamorata del suo gemello e, per quanto lui
la desiderasse, non avrebbe voluto cambiare le cose.
Il disegno la ritraeva dallo chignon alle spalle. Phury
non disegnava mai nemmeno il suo pancione. Le
femmine incinte non andavano mai dipinte dallo sterno
in giù. Anche questo portava sfortuna. Inoltre gli
rammentava ciò che lui temeva di più.
Le morti durante il parto erano frequenti.
Phury fece scorrere la punta della dita sul volto di
Bella, evitando il naso, dove l'inchiostro si stava ancora
asciugando. Era bellissima, anche con l'occhio
malriuscito, la pettinatura diversa e le labbra meno
carnose.
Quel disegno era finito. Poteva iniziarne un altro.
Spostandosi verso la base del ritratto, cominciò a
tracciare l'edera sulla curva della spalla. Prima una foglia,
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poi un lungo tralcio... poi altre foglie, che si arricciavano
e si infittivano, coprendole il collo, affollandosi contro la
mascella, lambendole la bocca, distendendosi sulle
guance.
Avanti e indietro, dal foglio al calamaio. L'edera la
avvolgeva tutta. L'edera copriva le tracce della penna
d'oca, nascondendo il cuore di Phury e il peccato che vi
albergava.
La cosa più difficile era coprirle il naso. Lo lasciava
sempre per ultimo e quando non poteva più evitarlo,
sentiva i polmoni bruciare come se lui stesso non
riuscisse più a respirare.
Quando l'edera ebbe la meglio sull'immagine, Phury
appallottolò il foglio e lo gettò nel cestino d'ottone
dall'altra parte della stanza.
Che mese era... agosto? Sì, agosto. Il che significava
che... Bella aveva un altro anno buono di gravidanza,
sempre ammesso che riuscisse a portarla a termine.
Come molte vampire, era già costretta a letto per evitare
un parto prematuro.
Schiacciando il mozzicone nel posacenere, Phury fece
per prendere uno dei due spinelli che si era appena
rollato e soltanto allora si rese conto di averli giù fumati.
Allungò l'unica gamba intera, spostò il cavalletto dal
grembo e prese di nuovo il suo kit di sopravvivenza: una
busta di plastica piena di fumo rosso, un sottile pacchetto
di cartine e il grosso accendisigari d'oro. Fu questione di
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un attimo rollarsi un'altra canna fresca fresca; mentre
dava il primo tiro, controllò la sua scorta di filmo.
Merda, era scarsa. Molto scarsa.
Le tapparelle d'acciaio che si alzavano lo aiutarono a
ritrovare la calma. In tutto il suo tenebroso splendore era
scesa la notte e il suo arrivo portava la libertà dalla
grande casa della confraternita... e la possibilità di
raggiungere il suo spacciatore, Rehvenge.
Buttò giù dal letto il moncone di gamba, si allungò
verso la pròtesi, la agganciò sotto al ginocchio destro e si
alzò in piedi. Era abbastanza fumato da percepire l'aria
intorno a sé come qualcosa da guadare e la finestra verso
cui piantava sembrava lontana chilometri. Ma andava
tutto bene. Mentre attraversava nudo la stanza era
confortato dal familiare torpore, placato dalla sensazione
di galleggiare.
Il giardino, giù di sotto, era sfolgorante, illuminato
dalla fila di portefinestre della biblioteca.
Quella sì che era una signora vista sul retro, pensò
Phury. Con tutti i fiori che scoppiavano di salute, gli
alberi da frutto carichi di pere e di mele, i sentieri
sgombri da erbacce, le siepi di bosso potate con cura.
Non come quella con cui era cresciuto. Neanche un
po'.
Proprio sotto la sua finestra le rose tea erano nel pieno
della fioritura, le grosse corolle variopinte fieramente
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ritte sopra gli steli spinosi. Le rose dirottarono il corso dei
suoi pensieri verso un'altra femmina.
Aspirando un'altra
femmina, quella che
disegnare... quella a
avrebbe dovuto fare
schizzo a penna.
boccata di fumo pensò alla sua
avrebbe dovuto legittimamente
cui, per legge e per tradizione,
molto di più che un semplice
L'Eletta Cormia. La sua Prima Sposa.
Tra le quaranta Elette.
Cribbio, come diavolo era finito a fare il Primate delle
Elette?
Te l'ho detto, rispose il mago. Avrai una caterva di figli, e
tutti avranno l'immensa gioia di guardare con ammirazione a
un padre la cui unica impresa è stata deludere tutti quelli che
gli stanno intorno.
Okay, per quanto perfido fosse il bastardo, era difficile
dargli torto. Non si era accoppiato con Cormia come
imponeva il rituale. Non era tornato dall'Altra Parte per
vedere la Direttrice. Non aveva incontrato le altre
trentanove femmine che avrebbe dovuto ingravidare.
Phury prese a fumare ancora più freneticamente,
schiacciato dal peso di quelle cosucce da niente che, come
massi fiammeggianti lanciati dal mago, gli atterravano
dritte in testa.
Il mago aveva un'ottima mira. D'altronde aveva fatto
molta pratica.
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Be', socio, sei un bersaglio facile. Tutto qua.
Per lo meno, Cormia non si lamentava per tutte quelle
inadempienze. Non aveva mai voluto essere la Prima
Sposa, l'avevano costretta in quel ruolo: il giorno del
rituale avevano dovuto legarla al talamo cerimoniale,
braccia e gambe spalancate, pronta per l'uso, come un
animale, completamente terrorizzata.
Appena
l'aveva
vista,
Phury
era
entrato
automaticamente in modalità-salvatore, la veste che gli
era più congeniale, e l'aveva portata lì nella casa della
Confraternita del Pugnale Nero, sistemandola nella
camera accanto alla sua. Tradizione o meno, per nulla al
mondo avrebbe preso una femmina con la forza; avendo
tempo e modo di conoscersi sarebbe stato più facile, o
almeno così pensava.
Sì... no. Cormia si era tenuta in disparte, mentre lui, un
giorno dopo l'altro, aveva tentato di non implodere.
Erano passati cinque mesi, ma loro due non si erano
avvicinati né reciprocamente né a un letto. Cormia
parlava di rado e si faceva vedere solo al momento dei
pasti. Se usciva dalla sua stanza era solo per andare a
prendere qualche libro in biblioteca.
Nella sua lunga veste bianca, sembrava più un'ombra
profumata di gelsomino che una creatura in carne e ossa.
La vergognosa verità, tuttavia, era che a lui andava
bene così. Quando aveva sostituto Vishous nel ruolo di
Primale era convinto di avere piena consapevolezza
dell'impegno che si stava assumendo sul piano sessuale,
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ma la pratica era molto più sconfortante della teoria.
Quaranta femmine. Quaranta.
Quattro-zero.
Doveva essere uscito di testa quando si era offerto di
rimpiazzare V. Il suo unico tentativo di perdere la
verginità non era stato uno spasso, Dio gli era
testimone... e sì che era stato con una professionista.
Anche se forse averci provato con una puttana era parte
del problema.
Ma a chi cavolo poteva rivolgersi, in alternativa? Era
un casto verginello di duecento anni, senza la minima
esperienza in materia. Come si poteva pretendere che
saltasse addosso alla tenera e fragile Cormia, che se la
scopasse fino a venire per poi correre al Santuario delle
Elette a fare come Bill Paxton in Big Love?
Cosa cavolo gli era saltato in mente?
Si infilò lo spinello tra le labbra e aprì la finestra. La
stanza venne inondata dal penetrante profumo della
notte estiva e lui tornò a concentrarsi sulle rose; Qualche
giorno prima aveva sorpreso Cormia con una rosa in
mano, una rosa che, con tutta evidenza, aveva tirato fuori
dal mazzo che Fritz metteva sempre nel salottino al
primo piano. Ferma vicino al vaso, stringeva la pallida
rosa color lavanda tra le lunghe dita, il capo chino sul
bocciolo, il naso che indugiava sopra di esso. Dalla
chioma bionda, come sempre raccolta in uno chignon,
erano sfuggite alcune ciocche sottili che ricadevano in
avanti arricciandosi in modo naturale. Proprio come i
petali della rosa.
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Cormia era trasalita quando lo aveva colto a fissarla,
aveva rimesso a posto la rosa ed era corsa in camera sua,
chiudendo la porta senza fare rumore.
Phury sapeva di non poterla tenere lì per sempre,
lontana da tutto ciò cui era abituata e da tutto ciò che era.
E poi dovevano portare a termine la cerimonia sessuale.
Era quello l'accordo che lui aveva concluso e il ruolo che,
come gli aveva spiegato Cormia, per quanto all'inizio
fosse spaventata, era preparata a ricoprire.
Phury si voltò vèrso il cassettone, verso un pesante
medaglione d'oro simile a una grossa penna stilografica
che recava un'incisione in una primitiva versione
dell'Antico Idioma: era il simbolo del Primale, non solo la
chiave d'accesso a tutti gli edifici dall'Altra Parte, ma il
biglietto da visita del vampiro responsabile delle Elette.
La forza della razza, com'era noto il Primale.
Il medaglione si era fatto sentire di nuovo, quel giorno,
così come era accaduto in passato. Ogni volta che la
Direttrice desiderava vederlo, il pendaglio vibrava, e in
teoria Phury era tenuto a smaterializzarsi per riprendere
forma in quella che avrebbe dovuto essere casa sua, il
Santuario. Ignorò anche quella convocazione. Così come
aveva già fatto con le altre due.
Non voleva sentire ciò che già sapeva: cinque mesi
senza suggellare il patto portando a termine la cerimonia
erano davvero troppi.
Pensò a Cormia, rintanata nella stanza degli ospiti
accanto alla sua, chiusa in se stessa. Senza nessuno con
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cui parlare. Lontana dalle sue sorelle. Aveva tentato di
stabilire un contatto con lei, col solo risultato di
innervosirla da morire. Comprensibilmente.
Dio, non aveva idea di come facesse a passare il tempo
senza impazzire. Aveva bisogno di un amico. Tutti
abbiamo bisogno di amici.
Non tutti se li meritano, però, fece notare il mago.
Phury si voltò, diretto verso la doccia. Passando
accanto al cestino della carta straccia si fermò. Il disegno
che aveva appallottolato aveva cominciato ad aprirsi e tra
le pieghe accartocciate scorse i tralci d'edera con cui lo
aveva coperto alla fine. Per una frazione di secondo
ricordò cosa c'era al di sotto, rammentò i capelli raccolti
in uno chignon e le ciocche sottili che ricadevano sulla
guancia vellutata. Ciocche che si"arricciavano come i
petali di una rosa.
Scrollando la testa, riprese a camminare. Cormia era
incantevole, ma...
Desiderarla sarebbe più che giusto, terminò il mago.
Dunque perché mai dovresti imboccare quella strada?
Rischieresti di rovinare il tuo record assoluto di successi.
Lasciami indovinare, sarebbe un vero disastro, socio.
Giusto?
Phury alzò il volume dell'aria di Puccini e si infilò
sotto la doccia.
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Capitolo 2
Mentre le tapparelle si alzavano per la notte, Cormia
era molto indaffarata.
Seduta a gambe incrociate sul tappeto orientale della
sua stanza, con una mano infilata dentro una boccia di
cristallo piena d'acqua, cercava di pescare dei piselli. I
legumi, duri come ciottoli quando Fritz glieli aveva
portati, dopo essere stati a mollo per un po' si erano
ammorbiditi abbastanza da poter essere usati.
Dopo averne acchiappato uno, Cormia si voltò a
sinistra e prese tino stuzzicadenti da una scatolina bianca
su cui c'era scritto, in rosso, STUZZICADENTI
SIMMONS, 500 PEZZI.
Prese il pisello e lo infilzò con lo stuzzicadenti, poi
prese un altro pisello e un altro stuzzicadenti e fece la
stessa cosa fino a formare un angolo retto. E andò avanti
così, creando prima un quadrato e poi un cubo.
Soddisfatta, si chinò per attaccarlo a uno dei suoi fratelli,
completando l'ultimo angolo di una struttura a base
quadrata larga un metro e mezzo circa. Adesso sarebbe
salita verso l'alto, costruendo i piani del traliccio.
Gli stuzzicadenti erano tutti uguali, stecchini di legno
identici tra loro, e anche i piselli erano tutti uguali, tondi
e verdi. Entrambi le ricordavano da dove veniva.
26
L'uniformità era importante, nel Santuario atemporale
delle Elette. L'uniformità era la cosa più importante.
Da quest'altra parte, invece, non c'era quasi niente di
uguale.
Aveva visto gli stuzzicadenti per la prima volta al
piano di sotto, dopo i pasti, quando il fratello Rhage e il
fratello Butch, uscendo dalla sala da pranzo, li avevano
presi da una scatolina d'argento. Senza un vero motivo,
una sera ne aveva presi un po' prima di salire in camera
sua. Aveva provato a metterne uno in bocca, ma il sapore
asciutto del legno non le era piaciuto. Non sapendo
cos'altro farci, li aveva allargati sul comodino e aveva
cominciato a spostarli componendo delle forme
geometriche.
Quando Fritz, il maggiordomo, era entrato a fare le
pulizie, aveva notato le sue manovre e poco dopo era
tornato con una boccia di piselli a bagno nell'acqua
tiepida. Le aveva mostrato lui come fare: infilzarvi un
pisello tra due stuzzicadenti, poi aggiungervi un'altra
sezione, un'altra, e un'altra ancora, e senza neanche
accorgertene ottenevi qualcosa degno di essere visto.
Via via che i suoi progetti diventavano più grandi e
più ambiziosi, Cormia aveva preso l'abitudine di
progettare in anticipo tutti gli angoli e le elevazioni per
limitare gli errori. Aveva anche cominciato a lavorare sul
pavimento per avere più spazio.
Chinandosi in avanti, controllò il disegno che aveva
fatto prima di iniziare, quello che aveva usato come
27
guida. Lo strato successivo era di dimensioni più ridotte,
così come quello dopo. Poi avrebbe aggiunto una torre.
Colorarlo sarebbe stato bello, pensò. Ma come fare?
Ah, il colore. La liberazione dell'occhio.
Stare da quest'altra parte aveva i suoi problemi, ma
una cosa che lei adorava senza riserve erano tutti i colori.
Nel Santuario delle Elette era tutto bianco: dall'erba agli
alberi, dai templi al cibo e alle bevande, fino ai libri
religiosi.
In preda al senso di colpa, Cormia lanciò un'occhiata ai
suoi testi sacri. Era difficile sostenere che stava
venerando la Vergine Scriba con la sua piccola cattedrale
di piselli e stuzzicadenti.
Nutrire l'ego non era la missione delle Elette. Era un
sacrilegio.
E la visita ricevuta giorni prima da parte della
Direttrice delle Elette avrebbe dovuto rammentarglielo.
Beata Vergine Scriba, non voleva pensarci.
Si alzò in piedi, attese che le passasse il capogiro e poi
si avvicinò a una delle finestre. Sotto di essa c'erano le
rose tea; Cormia esaminò con attenzione ogni cespuglio
in cerca di nuovi boccioli, petali caduti e foglie fresche.
Il tempo stava passando. Lo capiva dal modo in cui le
piante cambiavano, il loro ciclo di germinazione durava
tre o quattro giorni per ogni fioritura.
28
Un'altra cosa a cui abituarsi. Dall'Altra Parte il tempo
non esisteva. Esistevano ritmi per i rituali, i pasti e le
abluzioni, ma nessuna alternanza giorno-notte, nessuna
misurazione oraria, nessun cambio di stagione. Il tempo e
l'esistenza erano statici proprio come l'aria, la luce, il
paesaggio.
Da quest'altra parte aveva dovuto imparare che
esistevano i minuti, le ore, i giorni, le settimane, i mesi e
gli anni. Si usavano orologi e calendari per segnare lo
scorrere del tempo, e alla fine aveva capito come leggerli,
proprio come aveva compreso i cicli di questo mondo e la
gente che vi abitava.
Fuori, sul terrazzo, comparve un doggen, Aveva un
paio di cesoie e un grosso secchio rosso e passava da un
cespuglio all'altro pareggiandoli alla perfezione.
Cormia pensò ai candidi prati ondulati del Santuario.
Agli alberi candidi e immutabili. Alle candide piante
sempre in fiore. Dall'Altra Parte tutto era congelato al
posto giusto, quindi potare le siepi o tosare l'erba era
superfluo, non c'era mai nessun cambiamento.
Allo stesso modo, chi respirava quell'aria immota era
ugualmente congelato anche se si muoveva, vivendo
senza vivere per davvero.
Anche le Elette invecchiavano, tuttavia. E morivano.
Cormia si voltò a guardare da sopra la spalla un comò
con dei cassetti vuoti. Il rotolo di pergamena che la
Direttrice era venuta a consegnarle era posato sul lucido
piano di legno. L'Eletta Amalya, in qualità di Direttrice,
29
rilasciava
tali
riconoscimenti
in
occasione
dell'anniversario della nascita ed era comparsa per
compiere il suo dovere.
Se Cormia fosse stata dall'Altra Parte ci sarebbe stata
anche una cerimonia. Anche se non per lei, naturalmente.
L'individuo di cui si celebrava la nascita non riceveva
onori speciali poiché dall'Altra Parte non esisteva l'io.
Solo il tutto.
Pensare a se stessi, pensare con la propria testa, era un
atto blasfemo.
Cormia aveva sempre peccato in segreto. Aveva
sempre avuto idee, distrazioni e pulsioni sbagliate. Che
non portavano da nessuna parte.
Alzò una mano e la posò sulla finestra. Il vetro
attraverso cui guardava era più sottile del suo dito
mignolo, trasparente come l'aria, difficilmente si poteva
definire una barriera. Già da un po' aveva voglia di
raggiungere i fiori, giù di sotto, ma stava aspettando...
non sapeva bene cosa.
Appena giunta in quel luogo era stata turbata da un
sovraccarico sensoriale. C'era un'infinità di cose che non
conosceva, come le torce attaccate alle pareti che
bisognava accendere per fare luce, le macchine che
facevano cose come lavare i piatti o tenere il cibo in fresco
o creare immagini su un piccolo schermo. C'erano scatole
che a ogni ora suonavano e veicoli di metallo che la gente
usava per spostarsi, e cose che si passavano avanti e
indietro sul pavimento e che ronzavano e pulivano.
30
C'erano più colori lì che in tutte le gemme custodite
nel tesoro. E odori, anche, buoni e cattivi.
Era tutto così diverso, persone comprese. Nel luogo da
cui veniva lei non c'erano maschi e le sorelle erano
intercambiabili: tutte le Elette indossavano la stessa veste
candida, si raccoglievano i capelli nello stesso modo e
portavano al collo la stessa perla a goccia. Camminavano
e parlavano tutte nello stesso modo pacato e facevano le
stesse cose nello stesso momento. Lì invece era un caos. I
fratelli e le loro shellan erano vestiti in modo diverso e
chiacchieravano e ridevano secondo schemi diversi e ben
identificabili. Amavano determinati cibi, ma non altri; e
alcuni dormivano fino a tardi mentre altri non
dormivano per niente. Alcuni erano spassosi, altri feroci,
altri... belli.
Uno era decisamente bellissimo.
Bella era bellissima.
Specialmente agli occhi del Primale.
Quando la pendola cominciò a battere le ore, Cormia
si strinse le braccia intorno al busto. I pasti erano ima
tortura, un piccolo assaggio di come sarebbe stato
quando lei e il Primate fossero tornati a1 Santuario.
E quando lui avrebbe guardato in viso le sue sorelle
con analoga ammirazione e piacere.
A proposito di cambiamenti. All'inizio era terrorizzata
dal Primale. Ora, a distanza di cinque mesi, non voleva
dividerlo con nessun'altra.
31
Con la sua criniera multicolore, gli occhi gialli e la
voce bassa e suadente, il Primate era un maschio
magnifico all'apice della sua potenza sessuale. Ma non
era tanto questo a intrigarla. Lui era la personificazione
di tutto ciò che lei sapeva essere di valore: era sempre
generoso e altruista, mai egoista. A tavola era quello che
s'interessava di tutti, informandosi su ferite, disturbi di
stomaco e ansie grandi e piccole. Non cercava mai di
essere al centro dell'attenzione, non dirottava mai la
conversazione verso qualcosa che lo riguardava;
infinitamente disponibile, aveva sempre una parola
buona per tutti.
Se c'era un lavoro faticoso da fare, si offriva volontario,
se c'era una commissione da sbrigare, voleva pensarci lui,
se Fritz barcollava sotto il peso di un piatto da portata, il
Primate era il primo ad alzarsi dal suo posto per andare
ad aiutarlo. Da quello che Cormia aveva sentito a tavola,
era un guerriero pronto a combattere per difendere la
razza, un insegnante al corso di addestramento e un
ottimo amico per tutti.
Era veramente l'esempio perfetto delle virtù
altruistiche delle Elette, il Primate ideale. E a un certo
punto della sua permanenza lì, in un punto imprecisato
di quella lunga sequenza di secondi, ore, giorni e mesi,
Cormia aveva deviato dalla via del dovere inoltrandosi
nella caotica foresta della libertà di scelta. Adesso voleva
stare con lui. Non più per dovere, obbligo o necessità.
Lo voleva per se stessa.
Il che la rendeva una eretica.
32
Nella stanza accanto, la splendida musica che il
Primate ascoltava sempre quando era in casa si
interruppe di colpo, segno che stava per scendere da
basso per il Primo Pasto.
Sentendo bussare alla porta, Cormia trasalì e si voltò
di scatto. Mentre la veste si riassestava contro le sue
gambe, colse l'aroma di fumo rosso che s'insinuava nella
stanza.
Il Primale era venuto a cercarla?
In fretta controllò lo chignon infilandosi qualche ciocca
ribelle dietro alle orecchie. Aprì la porta di uno spiraglio
e lo guardò di sfuggita in volto prima di inchinarsi.
Oh, beata Vergine Scriba... il Primale era troppo
meraviglioso per poterlo guardare a lungo. Aveva gli
occhi gialli come citrini, la pelle di un bel bruno dorato, i
lunghi capelli di uno spettacolare mélange cromatico, dal
biondo chiarissimo al mogano scuro a un caldo color
rame.
Lui si piegò in un rapido inchino, formalità che
detestava, Cormia lo sapeva. Lo faceva per lei, però,
perché per quante volte le avesse ripetuto di non essere
formale, proprio non riusciva a trattenersi, era più forte
di lei.
«Senti, pensavo...», esordì lui.
Nell'esitazione che seguì, Cormia temette che la
Direttrice fosse andata a fargli visita. Tutte al Santuario
aspettavano che la cerimonia venisse completata, e tutte
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sapevano che non era ancora accaduto. Cormia
cominciava ad avvertire un'urgenza che non aveva nulla
a che fare con l'attrazione che provava per il Primale. Il
fardello della tradizione era ogni giorno più pesante.
Lui si schiarì la gola. «Siamo qui da parecchio tempo e
so che il cambiamento è stato duro. Pensavo che devi
sentirti un po' sola e che forse ti farebbe piacere un po' di
compagnia.»
Cormia si portò una mano al collo. Bene. Era tempo
che loro due stessero insieme. All'inizio non si sentiva
pronta per lui, ma adesso sì.
«Credo proprio che ti farebbe bene», disse lui nella sua
bella voce, «avere un po' di compagnia.»
Cormia fece un profondo inchino. «Vi ringrazio, vostra
grazia. Sono d'accordo.»
«Ottimo. Ho già in mente qualcuno.»
Cormia si raddrizzò lentamente. Qualcuno?
John Matthew dormiva sempre nudo.
Be', per lo meno dopo la transizione.
Si risparmiava sul bucato.
Con un gemito si infilò una mano tra le gambe e
strinse l'erezione dura come il marmo. Lo aveva svegliato
come al solito, una sveglia affidabile e svettante verso il
cielo come lo stramaledetto Big Ben.
34
Era anche dotata di uno di quei pulsanti con cui si può
mettere in pausa la suoneria. Se lui la coccolava un po',
dopo poteva riposare un'altra ventina di minuti prima
che si mettesse di nuovo sull'attenti. In genere questo
succedeva tre volte prima che John si alzasse dal letto, e
un'altra volta sotto la doccia.
E pensare che un tempo non vedeva l'ora di vivere
tutto questo.
Concentrarsi su pensieri sgradevoli non serviva e,
anche se aveva il sospetto che farsi le seghe aumentasse
l'impulso sessuale, ignorare il suo uccello era
impensabile: quando un paio di mesi prima aveva fatto
un tentativo in tal senso, nel giro di dodici ore era pronto
a scoparsi anche un albero, tanto era arrapato.
Esisteva qualcosa tipo un anti-Viagra? Il Cialis
Reversailis? L'Ammosciocillina?
Rotolandosi sulla schiena, spostò una gamba di lato,
spinse via le coperte e cominciò ad accarezzarsi. Quella
era la sua posizione preferita, ma se poi veniva di brutto
si raggomitolava sul fianco destro nel bel mezzo
dell'orgasmo.
Avere un'erezione era il suo sogno, prima della
transizione, perché pensava che diventare duro l'avrebbe
reso uomo. In realtà non era andata così. Certo, col suo
fisico enorme, le innate doti di guerriero e il suo perenne
stato di eccitazione, dal di fuori sembrava tenere alta la,
bandiera del vero macho.
Dentro, però, si sentiva ancora piccolo come non mai.
35
Inarcò la schiena pompando nel palmo con l'inguine.
Dio... che bello, però. Ogni volta era bellissimo... finché
era la sua mano a fare tutto quanto. L'unica volta che una
femmina lo aveva toccato, l'erezione si era sgonfiata più
in fretta del suo ego.
Perciò, a pensarci bene, il suo anti-Viagra ce l'aveva
già: un'altra persona.
Ma non era il momento di rivangare quella brutta
esperienza. Il suo uccello era quasi pronto a eiaculare; lo
capiva dall'intorpidimento. Appena prima di venire il
suo coso perdeva sensibilità, ed era proprio ciò che stava
accadendo adesso, mentre muoveva la mano su e giù
lungo la verga umidiccia.
Oh, sì... ecco... ci siamo... La tensione nei testicoli
aumentava a più non posso, i fianchi si dimenavano in
modo incontrollabile, le labbra si schiudevano
permettendogli di ansimare con più facilità. .. e, come se
non bastasse, il cervello voleva dire la sua.
No... cazzo... no, non lei di nuovo, ti prego, non...
Merda, troppo tardi. Proprio sul più bello la sua mente
si aggrappò all'unica cosa che, garantito, lo avrebbe fatto
godere come un riccio: una femmina tutta vestita di pelle
con un taglio di capelli maschile e le spalle muscolose
come quelle di un pugile professionista.
Xhex.
Con un ansito soffocato, John rotolò sul fianco e
cominciò a venire. L'orgasmo andò avanti all'infinito
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mentre lui fantasticava di loro due che facevano sesso in
uno dei bagni del club dove lei lavorava come
responsabile della sicurezza. Finché quelle immagini si
rincorrevano nel suo cervello il suo corpo non la
smetteva di eiaculare. Poteva andare avanti per dieci
minuti buoni fino ad annegare in quello che gli usciva
dall'uccello, fino a inzuppare tutte le lenzuola.
Tentò di imbrigliare i pensieri, di controllarsi... ma non
ci riuscì. Continuò a venire, la mano che accarezzava
l'inguine, il cuore che batteva all'impazzata, il respiro
strozzato in gola mentre si immaginava insieme a lei.
Meno male che era muto dalla nascita altrimenti tutti, in
casa, avrebbero saputo cosa stava combinando senza
riuscire a fermarsi.
L'impeto si placò solo dopo che a forza tolse la mano
dall'uccello. Mentre il corpo rallentava la sua corsa, John
giacque stremato, privo di forze, respirando contro il
cuscino, col sudore - e non solo - che si asciugava sulla
pelle.
Bel modo di svegliarsi. Bel modo di fare ginnastica. Bel
modo di ammazzare il tempo. Bello, sì, ma in definitiva
inutile.
Senza un motivo particolare, John lasciò vagare lo
sguardo, che andò a posarsi sul comodino. Se avesse
aperto il cassetto, cosa che non faceva mai, avrebbe
trovato due cose: una scatola rosso sangue grande più o
meno quanto un pugno e un vecchio diario rilegato in
pelle. La scatola conteneva un pesante anello d'oro con
sigillo che recava lo stemma della sua stirpe in quanto
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figlio del guerriero Darius, figlio di Marklon, membro
della Confraternita del Pugnale Nero. Il vetusto diario
aveva registrato per un paio d'anni i pensieri più intimi
di suo padre. Era un dono anche quello.
John non si era mai messo l'anello e non aveva mai
letto il diario.
Molte erano le ragioni per cui li teneva chiusi entrambi
in quel cassetto, ma la principale era che il vampiro che
lui considerava
suo padre non era Darius. Era un altro fratello. Un
fratello che risultava disperso ormai da otto mesi.
Se proprio doveva portare un anello, voleva che fosse
quello con lo stemma di Tohrment, figlio di Hharm.
Sarebbe stato un modo
per onorare il vampiro che aveva significato tanto per
lui per un lasso di tempo troppo breve.
Ma questo non sarebbe mai accaduto. Tohrment era
morto, con ogni probabilità, checché ne dicesse Wrath, e
in ogni caso non era tuo padre.
Non volendo farsi prendere dallo sconforto, John si
tirò su dal materasso e barcollò fino al bagno. La doccia
lo aiutò a riscuotersi, e così anche lo sforzo di infilarsi i
vestiti.
Quella sera non c'era lezione, quindi avrebbe passato
qualche altra ora giù in ufficio prima di trovarsi con
Qhuinn e Blay. Sperava che ci fossero molte scartoffìe da
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sistemare. Quella sera non moriva dalla voglia di vedere i
suoi due migliori amici.
Dovevano andare tutti e tre insieme dall'altra parte
della città fino al... Cristo, fino al centro commerciale.
Era un'idea di Qhuinn. Come quasi tutte le altre. A
sentire lui, il guardaroba di John aveva bisogno di una
iniezione di stile.
John abbassò lo sguardo sui Levi's e sulla T-shirt
bianca di Hanes. L'unico sfoggio che si era concesso
erano le scarpe da tennis: un paio di Nike Air Max nere.
E anche quelle erano poi così vistose.
Forse Qhuinn non aveva tutti i torti ad accusarlo di
essere schiavo della moda ma, andiamo, su chi doveva
fare colpo?
Il nome che gli balzò subito alla mente gli strappò
un'imprecazione: Xhex.
Qualcuno bussò alla porta. «John? Ci sei?»
John si affrettò a infilarsi la T-shirt nei jeans
chiedendosi come mai Phury lo stesse cercando. Era in
pari con gli studi e se la cavava egregiamente nel corpo a
corpo. Forse c'entrava col lavoro che faceva in ufficio?
Aprì la porta. Ciao.
«Ehilà. Tutto bene?» John annuì, poi si accigliò
vedendo che anche il fratello passava alla lingua dei
segni. Mi chiedevo se potevi farmi un favore.
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Qualunque cosa.
Cormia è...be', ha avuto dei problemi di adattamento, qui
sulla Terra. Credo che sarebbe bello se avesse qualcuno con cui
passare un po' di tempo, sai... qualcuno con la testa sulle
spalle, in gamba e tranquillo. Senza troppe complicazioni.
Così... pensi di potertene occupare tu? Devi solo parlarle o
portarla in giro per casa o... quello che ti pare. Lo farei io, ma...
È complicato, terminò John tra sé.
È complicato, disse a gesti Phury.
Un'immagine della bionda e taciturna Cormia si
stampò nella mente di John. Negli ultimi mesi aveva
notato che l'Eletta e Phury facevano di tutto per non
guardarsi e si era chiesto - come chiunque altro, senza
dubbio - se avessero suggellato il loro patto.
John pensava di no. Erano ancora troppo impacciati.
Ti dispiacerebbe farmi questo favore?, riprese Phury.
Cormia avrà delle domande, immaginò, o... non so, cose di cui
parlare.
Per la verità l'Eletta non sembrava ansiosa di
socializzare. A tavola se ne stava sempre a capo chino e
non diceva mai una parola mentre mangiava solo cibi
rigorosamente bianchi. Ma come faceva a dire di no a
Phury? Il fratello lo aiutava sempre con le posizioni
combattimento, rispondeva alle sue domande anche
dopo le lezioni ed era il tipo di persona con cui si
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desidera essere carini perché era gentile con tutti. Certo,
disse John. Molto volentieri.
Grazie. Phury gli diede una pacca sulla spalla,
soddisfatto, come si fosse levato un gran peso. Le dirò di
venire a cercarti in biblioteca dopo il Primo Pasto.
John guardò com'era vestito. Non era sicuro che lo
stile jeans e maglietta fosse abbastanza elegante, ma nel
suo armadio non si trovava altro.
Forse era un bene andare con gli amici a fare shopping
al centro commerciale. Peccato, anzi, non esserci andati
prima.
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Capitolo 3
Per tradizione, nella Lessening Society, una volta
affiliati si era conosciuti solo con la prima lettera del
cognome.
Mr D avrebbe dovuto chiamarsi Mr R. R come Roberts.
Ma l'identità che stava usando quando era stato reclutato
era Delancy. Perciò era diventato Mr D e lo chiamavano
così da trent'anni.
Non aveva importanza, però. I nomi non hanno mai
contato un accidente.
Mr D cambiò marcia prima di affrontare una curva
sulla Statale 22, ma scalare in terza non lo aiutò granché.
La Ford Focus aveva lo sprint di un novantenne. E
puzzava come di naftalina e pelle flaccida, pergiunta.
Caldwell, il distretto agricolo di New York, era ima
distesa lunga una ottantina di chilometri di campi di
grano e pascoli per bovini; mentre la attraversava
arrancando sulla sua bagnarola, Mr D si ritrovò a pensare
ai forconi da fieno. La prima persona l'aveva uccisa con
un forcone. A quattordici anni, quando stava ancora in
Texas. Suo cugino, Big Tommy.
Mr D era stato molto fiero di averla fatta franca per
quell'omicidio. Essere mingherlino e apparire indifeso
era stato il suo asso nella manica. Il buon vecchio Big
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Tommy era un attaccabrighe maldestro con una punta di
malvagità, quindi quando Mr D era corso gridando dalla
sua mamma con la faccia pesta, tutti avevano creduto che
suo cugino, colto da un raptus omicida, avesse avuto
quello che si meritava. Hah! Mr D aveva seguito Big
Tommy fin dentro al fienile e lo aveva fatto incazzare di
brutto per rimediare il labbro gonfio e l'occhio nero
necessari a invocare la legittima difesa. Poi aveva
afferrato il forcone, che in precedenza aveva appoggiato
contro uno dei box della stalla, e si era messo all'opera.
Voleva solo scoprire com'era uccidere un essere
umano. I gatti, gli opossum e i procioni che aveva
intrappolato e torturato andavano bene, okay, ma non
erano esseri umani.
L'impresa si era rivelata più dura del previsto. Nei
film i forconi affondano nella gente come un cucchiaio
nella minestra, ma è una bugia. I denti di quel coso si
erano incastrati nelle costole di Big Tommy, tanto che,
per estrarlo, Mr D era stato costretto a puntare il piede
contro il fianco di suo cugino. Il secondo affondo si era
conficcato nello stomaco, ma di nuovo il forcone si era
incastrato, nella spina dorsale, probabilmente. E allora
Mr D aveva dovuto far leva un'altra volta col piede.
Quando finalmente Big Tommy aveva smesso di strillare
come un maiale al macello, Mr D soffiava come un
mantice, sbuffando fuori l'aria dolciastra e impregnata di
pulviscolo del fienile come se non ce ne fosse abbastanza,
Ma non era stato un fiasco totale. Era stata una vera
goduria osservare le espressioni che si erano avvicendate
sulla faccia di suo cugino. Prima la rabbia, che lo aveva
spinto a colpire Mr D, poi l'incredulità e infine l'orrore e
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il terrore. Mentre tossiva sputando sangue e ansimando,
Big Tommy aveva sgranato gli occhi in preda a una
paura boia, una cosa molto simile al timore di Dio che le
mamme sperano sempre di inculcare nei loro figli. Mr D,
il cucciolo della famiglia, il piccoletto, si era sentito un
colosso alto due metri.
Era la prima volta che assaporava quel senso di potere
e avrebbe voluto provarlo di nuovo, poi però era arrivata
la polizia, in paese c'erano state molte chiacchiere e lui si
era imposto di fare il bravo. Aveva lasciato passare un
paio d'anni prima di rifare, qualcosa di simile. Lavorare
in un'azienda di trasformazione delle carni era Stato
l'ideale per affinare la sua abilità nel maneggiare il
coltello, e quando si era sentito pronto aveva sfruttato la
stessa messinscena utilizzata con Big Tommy: una rissa
da bar con uno spaccone. Aveva fatto infuriare il
bastardo, poi con l'astuzia lo aveva attirato in un angolo
buio. Un cacciavite aveva fatto il resto.
Le cose erano state più complicate che con Big
Tommy. Una volta scatenatosi contro il bullo, Mr D non
era più stato capace di fermarsi. Ed è più difficile tirar
fuori dal cilindro la carta della legittima difesa quando la
vittima è stata pugnalata sette volte, trascinata dietro
un'auto e smembrata come una macchina da rottamare.
Dopo aver impacchettato il morto dentro dei sacchi
dell'immondizia, Mr D l'aveva portato a fare un viaggetto
su al nord. Aveva usato la Pinto dell'amico e, quando il
cadavere aveva cominciato a puzzare, aveva trovato
quella che nel Mississippi rurale passava per una collina,
aveva fermato l'auto in cima al pendio e dato una spinta
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al paraurti anteriore. Il baule con il suo carico
nauseabondo aveva centrato in pieno un albero.
L'esplosione era stata una libidine.
Dopodiché Mr D aveva fatto l'autostop fino in
Tennessee e poi si era arrangiato con dei lavoretti saltuari
per pagarsi vitto e alloggio. Aveva fatto fuori altri due
uomini prima di spostarsi nella Carolina del Nord, dove
per un pelo non lo avevano beccato in flagrante.
I suoi bersagli erano sempre degli stronzi grandi e
grossi, ecco com'era diventato un lesser: senza saperlo
aveva preso di mira uno dei membri della Lessening
Society e, quando lo aveva quasi ammazzato malgrado la
sua stazza, il non morto era rimasto talmente
impressionato da chiedergli di aggregarsi alla compagnia
per dare la caccia ai vampiri.
A lui era parso un ottimo affare. Una volta superata
l'incredulità della serie "calma sarà proprio vero"?
Dopo l'affiliazione, Mr D era stato collocato nel
Connecticut, ma un paio d'anni prima si era trasferito a
Caldie, quando Mr X, il Fore-lesser dell'epoca, aveva tirato
un po' le redini della Società.
In trent'anni Mr D non era mai stato chiamato
dall'Omega.
La situazione era cambiata un paio d'ore prima.
La convocazione si era manifestata sotto forma di
sogno, mentre stava dormendo, e non aveva avuto
bisogno delle buone maniere della mamma per
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rispondere subito di sì. Ma non aveva potuto fare a meno
di chiedersi se sarebbe sopravvissuto a quella notte.
Le cose non andavano granché bene, alla Lessening
Society, da quando c'era di mezzo il Distruttore di cui
parlava la profezia.
II Distruttore un tempo era un poliziotto umano, da
quello che aveva sentito Mr D. Un poliziotto umano con
sangue di vampiro nelle vene, che l'Omega aveva
manipolato con pessimi risultati. Naturalmente la
Confraternita del Pugnale Nero lo aveva preso a bordo
sfruttandolo a proprio vantaggio. Mica scemi, quelli.
Perché un'uccisione da parte del Distruttore non era
solo un lesser di meno.
Se il Distruttore ti prendeva, ti toglieva la parte
dell'Omega che avevi dentro, assorbendola dentro di sé.
Invece dell'eterno paradiso che ti era stato promesso al
momento dell'ingresso nella Società, finivi imprigionato
dentro quell'uomo. E con ogni lesser distrutto in quel
modo, un pezzo dell'Omega andava perduto per sempre.
Prima, se combattevi i fratelli, il peggio che poteva
capitarti era di andare in paradiso. Adesso, invece, quasi
sempre venivi piantato per strada mezzo morto finché il
Distruttore non arrivava e ti inalava, riducendoti in
cenere e fregandoti la meritata vita eterna.
Per questo ultimamente il clima era parecchio teso.
L'Omega era più malvagio del solito, i lesser erano sul chi
vive a furia di guardarsi le spalle e i reclutamenti erano
precipitati al minimo storico
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perché tutti erano troppo presi a salvarsi la pelle per
cercare nuova linfa vitale.
Inoltre c'era stato un gran carosello di Fore-lesser.
Anche se quella non era una novità. Mr D svoltò a destra
sulla RR 149, una stradina di campagna, e proseguì per
altri cinque chilometri fino alla stradina successiva, il cui
segnale era stato abbattuto, probabilmente da una mazza
da baseball. La strada tutta curve era poco più che un
sentiero pieno di buche; Mr D fu costretto a rallentare per
evitare di ridursi lo Stomaco a un frappé: l'auto aveva le
stesse sospensioni di un fornellino elettrico, come dire
zero.
Un difetto della Lessening Society era che ti davano da
guidare dei catorci.
Bass Pond Lane... stava cercando Bass Pond La...
eccola lì. Sterzò bruscamente il volante, pigiò con forza
sul freno e per un pelo non uscì di strada.
Non essendoci lampioni stradali, mancò lo squallido
giardino invaso dalle erbacce che stava cercando e fu
costretto a ingranare la retromarcia e tornare indietro. La
fattoria era messa peggio della Focus, nient'altro che una
topaia col tetto cadente soffocata dal- l'equivalente
newyorkese del kudzu: l'edera velenosa. In mancanza del
vialetto d'accesso, parcheggiò lungo la strada, scese dalla
macchina e si raddrizzò il cappello da cowboy. La
fattoria gli ricordava casa sua, vuoi per la carta catramata
a vista vuoi per le finestre rotte e il misero prato infestato
dalle erbacce. Difficile credere che quella grassona di sua
madre, sempre chiusa in Casa, e quel rudere di suo
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padre, sfiancato dal lavoro nei campi, non fossero dentro
ad aspettarlo.
Dovevano essere schiattati da un pezzo, pensò Mr D
avvicinandosi alla porta. Lui era il minore di sette figli e i
suoi erano entrambi fumatori.
La porta a zanzariera era rimasta quasi senza
zanzariera e l'intelaiatura era tutta smangiata dalla
ruggine. Quando la aprì, emise un cigolio che ricordava
gli strilli di un maiale sgozzato, gli strilli di Big Tommy,
proprio come quella della sua vecchia casa. Bussò alla
porta interna senza ottenere risposta, così si tolse il
cappello da cowboy ed entrò, usando il fianco e la spalla
per far scattare la serratura.
Dentro c'era odore di fumo di sigaretta, muffa e morte.
I primi due erano rancidi, quello di morte era fresco, il
tipo di tanfo penetrante e fruttato che ti fa venir voglia di
uscire ad ammazzare qualcosa per unirti alla festa.
E c'era anche un altro odore. L'aroma dolciastro che
indugiava nell'aria indicava che l'Omega di recente era
stato lì. Lui o un altro tesser.
Col cappello in mano, Mr D attraversò le stanze buie
sul davanti, fino alla cucina sul retro. I cadaveri erano lì.
Due, riversi a pancia in giù. Non riusciva a capire di che
sesso fossero perché li avevano decapitati e spogliati, ma
le pozze di sangue nel punto in cui avrebbero dovuto
esserci le teste si erano mischiate, come se si stessero
tenendo per mano.
Era una scena dolcissima, in effetti.
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Mr D guardò, all'altro capo della stanza, la macchia
nera sul muro, tra il frigo giallo oro e il tavolo di formica
dalle gambe sottili. Quello scempio stava a significare che
un collega aveva fatto una brutta fine per mano
dell'Omega. Evidentemente il padrone aveva licenziato
un altro Fore-lesser.
Mr D scavalcò i cadaveri e aprì il frigo. I tesser non
mangiavano, ma era curioso di vedere cosa ci teneva la
coppia. Huh. Altri ricordi. C'era una confezione aperta di
bologna Oscar Mayer ed erano a corto di maionese.
Non che ormai dovessero più preoccuparsi di
preparare dei panini imbottiti.
Chiuse il frigo e si appoggiò all'indietro contro il...
La temperatura nella stanza crollò di venti gradi
buoni, neanche qualcuno avesse alzato il condizionatore
fino alla tacca Congelatevi le palle. Poi si alzò il vento, che
arruffò la tranquilla nottata estiva, sempre più
impetuoso, finché la fattoria non si mise a scricchiolare.
L'Omega.
Mr D si riscosse proprio quando la porta d'ingresso si
spalancò di colpo. Ciò che avanzò lungo il corridoio era
ima foschia nera come la pece, fluida e trasparente, che
rotolava sull'assito. Giunta di fronte a Mr D si condensò,
ergendosi in una sagoma maschile.
«Padrone», disse Mr D inchinandosi, col sangue che
scorreva a rotta di collo nelle vene per un misto di paura
e amore.
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La voce dell'Omega giunse da una remota distanza, e
come disturbata da interferenze e scariche elettriche. «Ti
nomino Fore-lesser.»
Mr D rimase senza fiato. Era il massimo degli onori, la
posizione di maggior potere all'interno della Lessening
Society. Non ci aveva mai neanche lontanamente sperato,
ma forse in effetti poteva cimentarsi per un po' in quel
ruolo. «Graz...»
L'Omega avanzò, avvolgendolo nella propria foschia
come un sudario di catrame. Un dolore atroce prese il
posto di ogni osso nel corpo di Mr D, che venne fatto
voltare e spinto con la faccia contro il bancone della
cucina. Il cappello gli volò via dalle mani, l'Omega
assunse il controllo e accaddero cose cui Mr D, potendo,
non avrebbe mai acconsentito.
Ma nella Società non c'era modo di dissentire. Solo in
una occasione potevi dire di sì, ed era quando entravi a
farne parte, poi perdevi il controllo su tutto ciò che
seguiva.
Dopo un tempo all'apparenza infinito, l'Omega uscì
dal corpo di Mr D e si vestì, coprendosi dalla testa ai
piedi con una tunica bianca. Con signorile eleganza il
male si aggiustò le falde della veste; nel frattempo gli
artigli erano spariti.
O forse non erano spariti, ma si erano consumati dopo
tutto quel dilaniare e lacerare.
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Debole e sanguinante, Mr D si accasciò contro il
bancone malconcio. Voleva vestirsi, ma dei suoi
indumenti restava ben poco.
«Gli eventi sono giunti a un punto cruciale», dichiarò
l'Omega. «L'incubazione è compiuta. Ora è tempo di
mettere al riparo il bozzolo.»
«Signorsì.» Come se fosse possibile un'altra risposta.
«In che cosa posso servirvi?»
«Il tuo compito è portarmi questo vampiro.» Così
dicendo, l'Omega tese la mano col palmo all'insù e dal
nulla comparve un'immagine che aleggiò nell'aria.
Mr D studiò quel viso, il cervello che galoppava in
preda all'ansia.
Quella specie di foto segnaletica trasparente non
bastava di | certo, gli occorrevano più dettagli.
«È nato qui e vive tra i vampiri di Caldwell.» La voce
dell'Omega sembrava uscita da un film di fantascienza e
riecheggiava nella stanza in modo inquietante. «Ha
superato la transizione solo da pochi mesi. I vampiri
credono sia uno di loro.»
Ah be', questo sì che restringeva il campo.
«Puoi servirti degli altri», proseguì l'Omega, «ma devi
prenderlo vivo. Se dovesse rimanere ucciso, ne
risponderai a me.»
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L'Omega si piegò di lato e poggiò il palmo sulla carta
da parati vicino al segno nero bruciacchiato. L'immagine
del civile si impresse a fuoco sui fiori gialli sbiaditi.
L'Omega inclinò leggermente la testa e guardò
l'immagine. Poi, con gesto elegante e delicato, accarezzò
quel volto. «È speciale, lui. Trovalo. Riportalo qui. Fallo
senza indugio.»
Non c'era bisogno di accennare ali 'altrimenti.
Quando il male svanì, Mr D si chinò a raccogliere il
cappello da cowboy. Per fortuna non si era schiacciato né
macchiato.
Stropicciandosi gli occhi, valutò in che razza di rogna
si era cacciato. Un vampiro, da qualche parte lì a
Caldwell. Era come cercare un ago in un pagliaio.
Prese un coltello da cucina e lo usò per ritagliare
l'immagine impressa sulla tappezzeria. Poi, con cautela,
staccò il pezzo di carta e studiò quel volto.
I vampiri erano riservatissimi per due motivi: non
volevano interferenze da parte degli umani e sapevano
che i lesser gli stavano addosso. Tuttavia uscivano in
pubblico, specie i maschi appena usciti dalla transizione.
Aggressivi e avventati, i più giovani bazzicavano gli
angoli più malfamati del centro di Caldwell, perché lì
trovavano le umane con cui fare sesso, le risse in cui
lanciarsi e ogni sorta di sballo da sniffare, bere e fumare.
Il centro di Caldwell. Avrebbe messo insieme una
squadra e puntato verso i bar del centro. Se anche non
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trovavano subito il soggetto in questione, la comunità dei
vampiri era molto ristretta. Di sicuro altri civili
conoscevano il loro bersaglio, ed estorcere informazioni
era uno dei punti forti di Mr D.
Altro che siero della verità. Gli bastava un martello a
granchio e una catena e si trasformava in una macchina
capace di far cantare chiunque.
Mr D trascinò al piano di sopra il suo povero corpo
ridotto uno straccio e con estrema cautela fece una doccia
nello schifo di bagno dei due morti. Quand'ebbe
terminato, si infilò una salopette e una camicia, che
naturalmente gli andavano grandi. Dopo aver arrotolato i
polsini della camicia e accorciato di quasi dieci centimetri
le gambe dei calzoni, si pettinò i capelli bianchi
appiattendoli sul cranio. Prima di uscire dalla stanza, si
mise una goccia di Old Spice trovato sul comò. Era quasi
solo alcol puro, come se il flacone fosse lì da un pezzo, ma
Mr D non disdegnava un tocco di classe.
Tornato da basso, attraversò la cucina e raccolse la
striscia di tappezzeria con sopra la faccia del vampiro.
Imprimendosi nella mente i tratti di quel volto, si ritrovò
a scalpitare come un segugio, eccitatissimo malgrado
fosse ancora tutto dolorante.
La caccia era aperta e lui sapeva da chi farsi assistere.
C'era una squadra di cinque lesser con cui aveva lavorato
a tratti nel corso degli ultimi due anni. Erano bravi
ragazzi, oddio, forse bravi non era proprio il termine
adatto, ma ci andava d'accordo e adesso che era Forelesser poteva comandarli a bacchetta.
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Avviandosi verso la porta d'ingresso si calcò bene in
testa il cappello e sfiorò la tesa in segno di saluto,
all'indirizzo dei due cadaveri. «Ci vediamo.»
Qhuinn entrò nello studio di suo padre già di cattivo
umore e di sicuro non si aspettava di uscirne felice e
contento.
E infatti. Appena lo vide entrare, suo padre lasciò
ricadere un angolo del Wall Street Journal per poter
premere le nocche delle dita sulla bocca e poi toccarsi i
due lati del collo. Bofonchiò in fretta qualche parola
nell'Antico Idioma, poi rialzò il giornale.
«Hai bisogno di me per il gala?» chiese Qhuinn.
«I doggen non te l'hanno detto?»
«No.»
«Li avevo avvertiti di dirtelo.»
«Sarebbe un no, quindi.» Gli aveva rivolto quella
domanda, e adesso insisteva per ottenere una risposta,
solo per il gusto di dargli fastidio.
«Non capisco perché non te l'abbiano detto.» Suo
padre scavallò e poi riaccavallò le gambe, la piega dei
pantaloni tesa come il suo labbro sul bicchiere di sherry.
«Vorrei solo dire le cose una volta sola, tutto qua. Non mi
pare di chiedere...»
«Non vuoi dirmelo, giusto?»
«... troppo. Voglio dire, onestamente, il compito della
servitù è evidente, lo dice la parola stessa: servire, e io
detesto dovermi ripetere.»
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Suo padre dondolava nervoso il piede libero,
scalciando l'aria. I mocassini guarniti di nappine erano,
come sempre, Cole Haan: cari come il fuoco, ma discreti
quanto un sospiro aristocratico.
Qhuinn abbassò lo sguardo sulle sue New Rock. Le
suole in carro armato erano alte cinque centimetri in
punta e sette e mezzo sul tallone. Il cuoio nero saliva fino
alla base dei polpacci; sopra di esso si incrociavano le
stringhe e tre magnifiche borchie cromate.
Ai tempi in cui prendeva la paglietta, prima di
scoprire che la transizione non avrebbe guarito il suo
difetto fisico, aveva risparmiato per mesi per prendere
quei cazzo di anfibi da duro, e subito dopo il
cambiamento se li era comprati. Erano il regalo che si era
fatto per essere sopravvissuto alla transizione, perché
sapeva che dai suoi non doveva aspettarsi un bel niente.
Quando li aveva sfoggiati al Primo Pasto, gli occhi di
suo padre erano quasi schizzati fuori dalle sue orbite di
perbenista.
«C'è qualcos'altro?» chiese adesso suo padre da dietro
al giornale.
«Naa. Sparirò dalla circolazione. Non temere.»
Dio solo sapeva se non l'aveva già fatto in occasione di
altre cerimonie ufficiali, anche se, seriamente, chi
volevano prendere in giro? La glymera sapeva benissimo
di lui e del suo "problemino" e quegli snob perdigiorno
erano come gli elefanti: avevano una memoria di ferro.
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«A proposito, tuo cugino Lash ha un nuovo lavoro»,
mormorò suo padre. «Alla clinica di Havers. Sogna di
diventare medico e fa pratica dopo la scuola.» Il giornale
si abbassò, lasciando intravedere per un attimo il volto di
suo padre... fu una specie di stilettata perché Qhuinn
colse lo sguardo deluso negli occhi del suo vecchio.
«Lash è un tale motivo di orgoglio per suo padre. Il
degno erede di una famiglia tanto in vista.»
Qhuinn lanciò un'occhiata alla mano sinistra del
padre. All'indice portava un grosso anello d'oro
massiccio con lo stemma di famiglia.
Tutti i giovani aristocratici ne ricevevano in dono uno,
dopo la transizione; entrambi i suoi migliori amici ce
l'avevano. Blay lo portava sempre, salvo durante le
esercitazioni in palestra o quando andavano in centro, e
anche John Matthew ne aveva uno, anche se non lo
metteva mai. E non erano gli unici a sfoggiare quei
vistosi tocchi d'oro grossi come fermacarte. Nel loro corso
di addestramento, al quartier generale della
Confraternita, uno dopo l'altro gli allievi, superata la
transizione, si sarebbero presentati in classe con al dito il
loro bravo anello con sigillo.
Lo stemma di famiglia inciso in dieci once d'oro:
cinquemila dollari.
Riceverlo dal proprio padre quando si diventava un
vampiro a tutti gli effetti era una soddisfazione
inestimabile.
Per Qhuinn la transizione era arrivata cinque mesi
prima, suppergiù. E lui aveva smesso di aspettarsi
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l'anello quattro mesi, tre settimane, sei giorni e due ore
prima.
Grosso modo.
Cribbio, malgrado le frizioni esistenti tra lui e il suo
vecchio non avrebbe mai immaginato di non ricevere
l'anello. E invece, sorpresa! Un nuovo modo di sentirsi
escluso dal gregge.
Ci fu un altro fruscio di carta, e impaziente, stavolta,
come se suo padre stesse scacciando via una mosca dal
suo hamburger. Anche se, naturalmente, lui non
mangiava hamburger perché erano troppo ordinari.
«Dovrò proprio parlare con quel doggen», disse.
Uscendo, Qhuinn chiuse la porta e quando si voltò per
infilare il corridoio, per un pelo non andò a sbattere
contro una doggen che veniva dalla biblioteca lì accanto.
La cameriera in uniforme fece un balzo all' indietro, si
baciò le nocche e le picchiettò sulle vene del collo.
Poi corse via farfugliando la stessa frase che poco
prima aveva mormorato suo padre. Qhuinn si fermò
davanti a uno specchio antico appeso alla parete rivestita
di seta. Malgrado le incrinature nel vetro piombato e le
macchioline scure nei punti in cui era saltata via la parte
riflettente, il suo problema era palese.
Sua madre aveva gli occhi grigi. Suo padre aveva gli
occhi grigi. Suo fratello e sua sorella avevano gli occhi
grigi.
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Qhuinn aveva un occhio azzurro e l'altro verde.
Ora, nella sua famiglia e tra i suoi antenati c'erano
occhi azzurri e occhi verdi, naturalmente, ma mai
insieme nella stessa persona e, chi l'avrebbe mai detto, le
deviazioni dalla norma non erano una bella cosa.
L'aristocrazia non ammetteva i difetti e i genitori di
Qhuinn non solo erano saldamente radicati nella glymera,
provenendo entrambi dalla cerchia delle sei famiglie
fondatrici della razza, ma suo padre era stato addirittura
leahdyre del Consiglio dei Princeps.
Tutti avevano sperato che la transizione risolvesse il
problema; sia l'azzurro che il verde sarebbero stati
accettabili. Be', niente da fare. Qhuinn era emerso dal
cambiamento con un fisico robusto, un bel paio di zanne,
una gran voglia di fare sesso... e un occhio azzurro e uno
verde.
Che nottata. Era stata la prima e unica volta che suo
padre aveva perso il controllo, la prima e unica volta che
Qhuinn le aveva buscate. E da allora nessuno, tra i
familiari come tra i domestici, aveva incrociato il suo
sguardo.
Uscendo non si prese neanche la briga di salutare sua
madre. E neanche sua sorella o suo fratello maggiore.
Sin dalla nascita era stato messo in disparte, in
famiglia, tenuto ai margini come diverso, relegato in
panchina da una specie di difetto genetico. L'unica
ancora di salvezza per la sua pietosa esistenza, secondo il
sistema di valori della razza, era che in famiglia c'erano
due giovani sani e normali e che il primogenito, suo
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fratello, era considerato
riproduzione.
accettabile
ai
fini
della
Qhuinn aveva sempre pensato che i suoi avrebbero
dovuto fermarsi a quota due, che sperare in tre figli sani
era sfidare troppo la sorte. Non poteva cambiare le carte
che gli erano state servite, tuttavia. Ma non poteva
neanche fare a meno di rimpiangere che le cose non
fossero andate diversamente.
Non poteva fare a meno di starci male.
Anche se il gala sarebbe stato solo un raduno di tipi
retrogradi e boriosi, in abito lungo o in smoking come
tanti pinguini, lui voleva stare con la sua famiglia
durante il grande ballo di fine estate della glymera.
Voleva stare spalla a spalla con suo fratello e contare
qualcosa, per una volta nella vita. Voleva mettersi in
ghingheri come tutti gli altri, sfoggiare il suo anello d'oro
e magari ballare con una delle ragazze di buona famiglia
ancora sulla piazza. In quella sfavillante comitiva di
aristocratici voleva essere considerato come un cittadino
a pieno titolo, come uno di loro, come un maschio adulto,
non un imbarazzo genetico.
Impossibile. Per la glymera lui era meno che un animale,
inadatto al sesso quanto un cane.
Mi manca solo il collare, pensò, smaterializzandosi
verso la casa di Blay.
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Capitolo 4
Nel frattempo, a est, nella grande casa della
confraternita, Cormia attendeva in biblioteca l'arrivo del
Primale e della
persona, chiunque fosse, in compagnia della quale lui
voleva farle trascorrere il suo tempo. Mentre andava su e
giù dal divano alla poltrona, sentì i fratelli che, nell'atrio,
parlavano di una qualche imminente festa della glymera.
La voce del fratello Rhage rimbombava stentorea.
«Quel branco di fancazzisti deleteri, con i loro mocassini
lustri...»
«Attento a come parli dei mocassini», lo interruppe il
fratello Butch. «Ne ho su un paio.»
«... quegli stronzi parassiti miopi e ottusi...»
«Forza, dì pure quello che pensi», scherzò qualcun
altro.
«... possono prendere il loro ballo di merda e ficcarselo
in quel posto.»
«Meno male che non fai il diplomatico, Hollywood»,
commentò il re con una risatina sommessa.
«Devi permettermi di inviargli un messaggio. Meglio
ancora, mandiamoci la mia bestia in nostra
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rappresentanza. Le faccio spaccare tutto. Gli starebbe
proprio bene a quei bastardi, per come hanno trattato
Marissa.»
«Sai», dichiarò Butch, «ho sempre pensato che ce
l'avevi un po' di sale in zucca, checché ne dicessero tutti
gli altri.»
Cormia smise di camminare quando il Primale
comparve sulla soglia della biblioteca con un bicchiere di
porto in mano. Era nella solita tenuta che indossava
sempre per il Primo Pasto, quando non doveva fare
lezione: un paio di calzoni fatti su misura, che gli stavano
a pennello e che quella sera erano color crema; una
camicia di seta, nera come di consueto, e una cintura nera
con la fibbia d'oro a forma di H allungata. Le scarpe a
punta quadrata, lustre come vino specchio, sfoggiavano
la stessa H della cintura.
Hermès, Cormia glielo aveva sentito dire una volta, a
tavola. Aveva i capelli sciolti; le onde gli si allargavano
sulle spalle poderose, alcune sul davanti, altre lungo la
schiena. Profumava di quello che i fratelli chiamavano
dopobarba, oltre al fumo all'aroma pi caffè che
impregnava la sua camera da letto.
Cormia sapeva esattamente che odore aveva la sua
camera da letto. Aveva passato un solo giorno stesa
accanto a lui, in quella stanza, e tutto di quella esperienza
era stato indimenticabile.
Ma non era il momento adatto per ricordare ciò che
era accaduto tra loro in quel letto enorme, mentre lui
dormiva. Era già abbastanza difficile stare lì con lui con
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un'intera stanza a dividerli e un mucchio di gente fuori
dalla porta. Ripensare adesso ai momenti in cui lui si era
premuto, nudo, contro di lei...
«Ti è piaciuta la cena?» chiese il Primale, bevendo un
sorso dal bicchiere.
«Sì, assolutamente. E vostra grazia l'ha gradita?» Lui
stava per rispondere, quando alle sue spalle comparve
John Matthew.
Il Primale si voltò verso il giovane e sorrise. «Ehilà,
vecchio mio. Lieto di vederti.»
John Matthew guardò Cormia e alzò una mano in
segno di saluto.
Lei si sentì sollevata da quella scelta. Non conosceva
John più degli altri, ma durante i pasti era silenzioso,
cosa che, data la sua mole, lo faceva apparire meno
terrificante.
«Vostra grazia», lo salutò con un inchino.
Raddrizzandosi, sentì il suo sguardo su di sé e si
chiese cosa vedesse. Una femmina o una Eletta?
Che pensiero bizzarro.
«Be', chiacchierate un po', voi due», li incoraggiò il
Primale spostando su di lei gli sfavillanti occhi dorati. «Io
stasera sono di turno, per cui sarò fuori.»
A combattere, pensò Cormia, con ima fitta di paura.
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Avrebbe voluto correre da lui e raccomandargli di
essere prudente, ma non era compito suo, giusto? Lei era
a stento la sua Prima Sposa, tanto per cominciare, e
secondariamente lui era la forza della razza e non aveva
nessun bisogno delle sue preoccupazioni.
Con una pacca sulla spalla a John Matthew, il Primale
la salutò con un cenno del capo e se ne andò.
Cormia si piegò di lato per vederlo salire le scale.
Malgrado la protesi, camminava con scioltezza. Era così
alto, fiero e bello, e lei detestava non vederlo per ore
prima del suo ritorno.
Quando si voltò, John Matthew era andato alla
scrivania a prendere un piccolo bloc notes e una penna.
Scriveva tenendo il foglio vicino al petto, la grossa mano
piegata all'insù. Mentre tracciava faticosamente le lettere,
sembrava molto più giovane di quanto suggeriva la sua
stazza.
Cormia lo aveva visto comunicare a gesti, nelle rare
occasioni in cui aveva qualcosa da dire, a tavola, e le era
venuto in mente che forse era muto.
John voltò il blocco verso di lei con una smorfia, come
se non fosse soddisfatto di ciò che aveva scritto. Ti piace
leggere? In questa biblioteca ci sono tanti bei libri.
Cormia lo guardò negli occhi. Erano di un
bell'azzurro. «Che problema ha la vostra voce, se posso
permettermi?»
Nessun problema. Ho fatto il voto del silenzio.
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Ah... sì, adesso ricordava. L'Eletta Layla glielo aveva
accennato.
«Vi ho visto usare le mani per comunicare», disse.
Lingua dei segni, scrisse lui.
«È un modo di comunicare molto elegante.»
Serve allo scopo. Poi scrisse qualcos'altro e le mostrò di
nuovo il blocco. Ho sentito che l'Altra Parte è molto diversa.
È vero che lì è tutto bianco?
Cormia alzò i panneggi della tunica, come a fornire un
esempio di com'era il posto da cui veniva. «Sì. Il bianco è
tutto ciò che abbiamo.» Si accigliò. «O meglio, tutto ciò
che ci serve.»
Avete la luce elettrica?
«Abbiamo le candele, e facciamo le cose a mano.»
Suona antiquato.
Cormia non era certa di cosa intendesse. «È una cosa
brutta?»
Lui scosse la testa. Io lo trovo fico.
Cormia conosceva quella parola perché l'aveva sentita
a tavola, ma ancora non capiva cosa c'entrasse un frutto
con un giudizio di valore apparentemente positivo.
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«Io non conosco altro», disse, avvicinandosi a una
delle porte alte e strette con i pannelli di vetro. «Be', fino
adesso.»
Le sue rose erano così vicine, pensò.
John fischiò e Cormia si voltò a guardare da sopra la
spalla il blocco che teneva rivolto verso di lei. Ti piace
questo posto? Aveva scritto. Puoi anche dirmi di no, sia
chiaro. Io non sono qui per giudicarti.
«Mi sento così diversa da tutti gli altri», disse lei
giocherellando con la veste. «Nelle conversazioni mi
perdo, anche se conosco la vostra lingua.»
Seguì un lungo silenzio. Quando Cormia tornò a
guardarlo, John stava scrivendo; di tanto in tanto si
fermava, come se stesse scegliendo una parola. Cancellò
qualcosa. Scrisse qualcos'altro. Quand'ebbe finito le porse
il bloc notes.
So cosa significa. Essendo muto mi sento quasi sempre fuori
posto. Da quando ho superato la transizione le cose vanno
meglio, ma ogni tanto capita ancora. Però qui nessuno ti
giudica. Noi ti vogliamo bene e siamo contenti di averti qui.
Cormia lesse due volte il paragrafo. Non sapeva bene
come reagire all'ultima frase. Era convinta di essere
tollerata perché l'aveva portata lì il Primale.
«Ma... vostra grazia, credevo che aveste scelto
volontariamente di mantenere il silenzio.» Vedendolo
arrossire aggiunse, «Chiedo scusa, sono cose che non mi
riguardano.»
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Lui scrisse qualcosa e poi glielo mostrò. Sono nato senza
laringe. La frase dopo era cancellata, ma Cormia riuscì
comunque a coglierne il succo. Aveva scritto qualcosa
tipo, Però sono bravo a combattere e sono sveglio e tutto il
resto.
Lei capiva bene perché avesse mentito. Al pari della
glymera, le Elette vedevano nella perfezione fisica la
prova lampante di una educazione adeguata e della forza
del patrimonio genetico della razza. Molti avrebbero
giudicato il mutismo di John come una pecca, e anche le
Elette potevano essere crudeli verso chi giudicavano
inferiore.
Cormia gli posò ima mano sul braccio. «Io non credo
che serva dire proprio tutto per farsi capire. Ed è più che
evidente che siete sano e forte.»
Con le guance che si tingevano di rosso, John chinò il
capo per nascondere gli occhi.
Cormia sorrise. Sentirsi rilassata di fronte a tanto
imbarazzo sembrava perverso, ma per certi versi adesso
le pareva che loro due fossero sullo stesso piano.
«Da quanto siete qui?» chiese.
John tornò al bloc notes; per un attimo il suo volto
tradì l'emozione. Otto mesi, più o meno. Mi hanno preso con
loro perché non avevo una famiglia. Mio padre è stato ucciso.
«Sono desolata per la vostra perdita. Ditemi... restate
qui perché vi piace?»
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Ci fu una lunga pausa. Poi lui cominciò a scrivere
lentamente. Quando le mostrò il blocco, c'era scritto, Mi
piace né più né meno di qualsiasi altra casa.
«Il che vi fa sentire fuori posto come me», mormorò
Cormia. «Qui, ma non qui.»
Lui annuì, poi sorrise, rivelando due zanne di un
bianco abbagliante.
Cormia non potè fare a meno
l'espressione sul bel viso del giovane.
di ricambiare
Al Santuario erano tutte come lei, lì invece non c'era
nessuno Uguale a lei. Finora.
Hai qualche domanda? scrisse lui. Non so, sulla casa?
Sulla servitù? Phury ha detto che forse ne avevi.
Domande... be', gliene veniva in mente qualcuna. Per
esempio da quanto tempo il Primale era innamorato di
Bella? Bella lo aveva mai ricambiato in qualche modo?
Avevano mai giaciuto insieme?
Si concentrò sui libri. «Al momento non ho nessuna
domanda.» Poi, senza un motivo, aggiunse, «Ho appena
finito Les Liaisons Dangereuses di Choderlos de Laclos.»
Ne hanno tratto un film. Con Sarah Michelle Gellar, Ryan
Phillippe e Reese Witherspoon.
«Un film? E chi sono tutte quelle persone?»
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Lui scrisse per un bel po'. Sai cos'è la televisione, giusto?
Quel pannello piatto nella sala del biliardo? Be', i film sono su
uno schermo ancora più grande, e le persone dentro ai film si
chiamano attori. Fingono di essere altre persone. Quei tre che
ho nominato sono attori. In realtà sono tutti attori, sia alla TV
che al cinema. Bè, quasi tutti.
«Ho dato solo ima sbirciatina alla sala del biliardo.
Non ci sono mai entrata.» Provava una curiosa vergogna
nell'ammettere quanto poco si fosse avventurata fuori
dalla sua stanza. «La televisione è quella scatola
luminosa con le immagini?»
EsattoPosso mostrarti come funziona, se ti va.
«Sì, per favore.»
Usciti dalla biblioteca si trovarono nel magico atrio
della magione, variopinto come un arcobaleno, e come
sempre Cormia alzò gli occhi al soffitto, tre piani sopra il
pavimento a mosaico. La scena dipinta lassù in cima
raffigurava alcuni guerrieri in sella a giganteschi
destrieri, pronti a combattere. I colori erano
scandalosamente vivaci, le figure forti e maestose, lo
sfondo di un azzurro brillante punteggiato da nuvole
bianche.
C'era un guerriero in particolare, dai capelli striati di
biondo, che Cormia non poteva fare a meno di
controllare ogni volta che attraversava l'atrio. Doveva
assicurarsi che stesse bene, anche se era ridicolo. Quelle
figure non si muovevano mai. La battaglia era sempre sul
punto di scoppiare, mai in atto.
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Contrariamente agli scontri che vedevano impegnati i
membri della confraternita. Contrariamente a quelli che
vedevano impegnato il Primale.
John Matthew le fece strada verso la stanza verde
scuro situata di fronte a quella dove si consumavano i
pasti. I fratelli ci trascorrevano molto tempo: spesso
Cormia aveva sentito le loro voci uscire da quel locale,
accompagnate da schiocchi sommessi di cui non aveva
saputo identificare l'origine. Fu John a svelare il mistero.
Passando accanto a un tavolo piatto coperto da un feltro
verde, prese una delle palle multicolori posate sulla sua
superficie facendola rotolare dall'altra parte. Quando la
palla andò a cozzare contro una delle compagne con un
rumore ovattato Cormia capì cosa aveva sentito.
John si fermò davanti a un quadro grigio e prese un
oggetto nero e sottile. Tutt'a un tratto comparve
un'immagine
coloratissima
accompagnata
da
un'esplosione sonora. Cormia balzò all'indietro mentre
un rombo riempiva la stanza e oggetti simili a proiettili
correvano a tutta velocità.
John la sorresse mentre il frastuono a poco a poco si
attenuava, poi sul bloc notes scrisse, Scusa, ho abbassato il
volume. Questa è ma gara della NASCAR. Dentro le
automobili ci sono delle persone che corrono lungo la pista. Il
più veloce vince.
Cormia si avvicinò all'immagine e la toccò, esitante.
Sentì solo una superficie piatta e liscia come tessuto.
Guardò dietro lo schermo. Non c'era altro che il muro.
«Stupefacente.»
69
John annuì e le porse l'oggetto sottile, muovendolo su
e giù quasi volesse incoraggiarla a prenderlo. Dopo
averle mostrato cosa premere in quella moltitudine di
pulsanti, si fece da parte. Cormia puntò quell'aggeggio
verso le figure in movimento... e le fece cambiare. Ancora
e poi ancora. Sembravano non finire mai.
«Niente vampiri, però», mormorò, mentre compariva
l'ennesimo scenario inondato dalla luce del giorno.
«Questa roba è solo per gli umani.»
Però la guardiamo anche noi. I vampiri compaiono in certi
film... non sono un granché, di solito. Né i film né i vampiri.
Cormia si lasciò sprofondare lentamente sul divano
davanti al televisore e John fece altrettanto, sistemandosi
su una sedia lì accanto. Quella infinita variazione era
avvincente e John le descriveva ogni "canale". Non
sapeva da quanto erano seduti lì, ma lui non sembrava
impaziente di andarsene.
Chissà che canali guardava il Primale, si chiese.
Alla fine John le mostrò come spegnere le immagini.
Tutta rossa per l'eccitazione, Cormia guardò le porte a
vetri.
«È sicuro là fuori?» chiese.
Molto. C'è un enorme muro di cinta che circonda tutto il
complesso, oltre a telecamere di sicurezza dappertutto. Ma
soprattutto siamo isolati dal mhis. Nessun lesser è mai
riuscito a trovare questo posto, e nessuno ci riuscirà mai... oh, e
gli scoiattoli e i cerbiatti sono innocui.
70
«Mi piacerebbe uscire.»
Ti accontento molto volentieri.
John si infilò il blocco sotto il braccio avviandosi verso
una delle portefinestre. Fece scattare la serratura d'ottone
e spalancò uno dei due battenti con un galante gesto del
braccio.
L'aria tiepida che s'insinuò nella stanza aveva un
odore diverso da quella che c'era in casa. Era un odore
ricco. Complesso. Reso sensuale dal suo bouquet floreale
e dal caldo afoso.
Cormia si alzò dal divano e raggiunse John. Al di là
della terrazza i giardini ben curati che per tanto tempo
aveva ammirato da lontano si stendevano a perdita
d'occhio. Con le sue aiole variopinte e gli alberi in fiore,
la vista non assomigliava per nulla alla distesa
monocromatica del Santuario, ma era altrettanto perfetta
e incantevole.
«Oggi è il mio compleanno», disse senza un motivo
particolare.
John sorrise e batté le mani. Poi scrisse, Avrei dovuto
farti un regalo.
«Un regalo?»
Sì, insomma, qualcosa. Per te.
Cormia si sporse fuori dalla portafinestra allungando
il collo. Il cielo sopra di lei era di un blu vellutato con
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tante lucine scintillanti che ne punteggiavano le pieghe.
Magnifico, pensò. Semplicemente magnifico.
«Questo è un regalo.»
Uscirono di casa insieme. Le lastre di pietra del
terrazzo erano fredde sotto i piedi nudi di Cormia, ma
l'aria era tiepida come l'acqua di un bagno, e quel
contrasto le piacque.
«Oh,..» disse inspirando a fondo. «Che meraviglia,..»
Girando più volte su se stessa volse lo sguardo su tutto
ciò che la circondava: la maestosa montagna della casa; le
chiome scure e vaporose degli alberi; il prato ondulato; i
fiori nelle loro aiuole ordinatissime.
La brezza che soffiava su tutto quanto era leggera
come un respiro e portava con sé una fragranza troppo
complessa e inebriante da definire.
John la lasciò andare avanti da sola, e i cauti passi di
lei si diressero verso le rose.
Quando le raggiunse, Cormia allungò il braccio e
accarezzò i petali delicati di una rosa già quasi sfiorita,
grossa come il suo palmo. Poi si chinò ad annusarne il
profumo.
Raddrizzandosi, scoppiò a ridere. Senza una ragione.
Era solo che... il suo cuore all'improvviso aveva messo le
ali e adesso si librava in volo dentro al petto, l'apatia che
l'aveva afflitta nell'ultimo mese si dileguò, spazzata via
da una vigorosa sferzata di energia.
72
Era il suo compleanno e lei era uscita all'esterno.
Guardò John e vide che la stava fissando con un
timido sorriso sulle labbra. Lui lo sapeva, pensò Cormia.
Sapeva quello che lei stava provando.
«Voglio fare una corsa.»
Lui indicò il prato con un ampio gesto del braccio.
Cormia non si soffermò a pensare ai pericoli
dell'ignoto o alla dignità che, come la tunica bianca, le
Elette non dovevano mai abbandonare. Accantonando il
gravoso fardello del decoro, sollevò leggermente la
candida veste e si mise a correre a più non posso. L'erba
primaverile era soffice sotto i suoi piedi, i capelli
sventolavano alle sue spalle e l'aria le accarezzava il viso.
Pur rimanendo saldamente ancorata al suolo, la libertà
nella sua anima la faceva volare.
73
Capitolo 5
In centro, nella zona dei club e della droga, Phury
camminava spedito lungo una traversa della Decima
Strada; i pesanti stivali calpestavano con forza il
marciapiede lurido, la giacca a vento nera sventolava alle
sue spalle. A una quindicina di metri davanti a lui c'era
un lesser e, date le rispettive posizioni, tecnicamente
Phury lo stava inseguendo. In realtà il non morto non
stava cercando di scappare. Il bastardo voleva inoltrarsi
nelle tenebre quanto bastava per potersi lanciare nella
lotta, e Phury non aveva nulla in contrario, anzi.
Nella guerra tra la confraternita e la Lessening Society
la regola numero uno era: niente tafferugli con gli umani
nei paraggi. Nessuna delle due parti in causa voleva
fastidi.
In pratica quella era l'unica regola.
Phury venne investito dall'odore dolciastro di talco
per neonati, la scia lasciata dal suo nemico era nauseante
da far schifo, ma valeva la pena sopportare quel tanfo
perché quello prometteva di essere un bel corpo a corpo.
L'assassino che stava inseguendo aveva i capelli bianchi
come la neve - il che stava a significare che era nella
Società da un bel pezzo: per motivi ignoti, tutti i lesser col
tempo sbiadivano perdendo la naturale pigmentazione di
capelli, occhi e pelle via via che acquisivano esperienza
nel dare la caccia e uccidere vampiri innocenti.
74
Grandiosa,
come
contropartita.
Più
assassinavi, più assomigliavi a un cadavere.
vampiri
Phury scansò un cassonetto dell'immondizia e
scavalcò d'un balzo quello che sperava fosse un mucchio
di stracci e non il cadavere di un umano senzatetto; altri
cinquanta metri neanche e lui e il suo amichetto
avrebbero finalmente trovato la privacy che cercavano.
Erano in un vicolo cieco, tra due file di edifici privi di
finestre e...
In fondo c'erano un paio di umani.
Phury e il suo nemico si fermarono di colpo davanti a
quei guastafeste. Mantenendosi a distanza di sicurezza,
valutarono la situazione mentre i due uomini li
guardavano.
«Fuori dai piedi», ringhiò quello sulla sinistra.
Okay, era chiaramente un caso di spaccius interruptus.
E il tizio sulla destra era decisamente il destinatario
finale dello scambio, e non solo perché non stava
cercando di assumere il controllo di fronte a
quell'intrusione. Quel bastardo rognoso era nervosetto,
gli occhi febbricitanti sgranati, la pelle giallastra
sudaticcia e rovinata dall'acne. Ma il dettaglio più
rivelatore era che continuava a fissare le tasche della
giacca del suo pusher, per nulla preoccupato dalla
prospettiva di finire impallinato dai due nuovi arrivati.
Naa, la sua più grande preoccupazione era come
procurarsi la dose per farsi un'altra pera, ed era
75
chiaramente terrorizzato all'idea di tornarsene a casa
senza ciò che gli serviva.
Phury deglutì a fatica mentre guardava quegli occhi
vuoti che si spostavano frenetici. Dio, aveva appena
provato quell'acuto senso di panico... ci aveva fatto i conti
appena prima che le tapparelle si alzassero per la notte,
giù a casa.
Lo spacciatore spostò una mano dietro la schiena. «Ho
detto fuori dai piedi.»
Cazzo. Se quel coglione tirava fuori una pistola sarebbe
scoppiato un gran casino perché... Okay, ecco, anche il
lesser stava infilando la mano dentro la giacca. Con
un'imprecazione, Phury seguì il loro esempio stringendo
nel palmo il calcio della SIG agganciata al fianco.
Lo spacciatore si bloccò, realizzando che tutti e tre
erano accessoriati in piombo. Dopo aver calcolato i rischi,
alzò le mani vuote davanti a sé.
«Ripensandoci, magari levo io le tende.»
«Ottima scelta», commentò sarcastico il lesser.
Il tossico però non la trovava un'idea tanto geniale.
«No, oh, no... no, io ho bisogno...»
«Dopo», disse lo spacciatore, abbottonandosi la giacca
come un esercente che chiude a chiave la porta del
negozio.
76
Poi accadde tutto così in fretta che sarebbe stato
impossibile impedirlo. All'improvviso il drogato estrasse
un taglierino e con un fendente maldestro, più per
fortuna che per bravura, squarciò la gola dello
spacciatore. Mentre il sangue schizzava dappertutto, il
tossico spalancò la bottega del pusher, frugandogli nelle
tasche nella giacca e ficcandosi pacchetti di cellofan nei
jeans sdruciti. Finito il raid, se la svignò come un topo di
fogna, curvo su se stesso, troppo euforico per quella
vincita alla lotteria per curarsi dei due killer che si
trovavano sulla sua strada.
Il lesser lo lasciò andare solo per sgombrare il campo,
in modo che il vero scontro potesse avere inizio.
Phury, invece, lo lasciò andare perché gli sembrava di
guardarsi allo specchio.
La gioia infinita sul volto del tossico era un vero shock.
L'amico era su un treno espresso lanciato verso uno
sballo coi fiocchi, ma la sua euforia non era dovuta tanto
al potersi bucare gratis. La vera goduria era l'estasi
assoluta derivante da quella esagerata sovrabbondanza
di roba.
Phury conosceva quella specie di esaltazione
orgasmica. La sperimentava ogni volta che si chiudeva a
chiave in camera sua con un grosso sacchetto gonfio di
fumo rosso e una confezione nuova di cartine.
Era... geloso. Era così...
La catena lo colpì di lato, alla gola, e si attorcigliò
intorno al collo, un serpente di metallo che con la coda gli
77
diede una sferzata della miseria, Quando il lesser tirò, gli
anelli si conficcarono nella carne bloccando tutto quanto:
respiro, circolazione, voce.
Il centro di gravità di Phury si spostò dal bacino alle
spalle, facendolo cadere in avanti; lui allungò le mani per
non sbattere la faccia contro il marciapiede e, atterrando
a quattro zampe, ebbe una fugace quanto vivida visione
dello spacciatore che a tre metri di distanza gorgogliava
come una caffettiera.
Il pusher tese una mano, muovendo lentamente le
labbra insanguinate. Aiutami... aiutami...
Lo scarpone del lesser colpì Phury alla testa, neanche
fosse un pallone; nel violento impatto che seguì, la terra
cominciò a girare vorticosamente, mentre Phury rotolava
su se stesso come una trottola e finiva dritto addosso allo
spacciatore; il peso morto dell'agonizzante fermò la sua
corsa.
Phury batté le palpebre convulsamente, ansimando.
Su in alto, le luci della città offuscavano molte delle stelle
della galassia, ma non quelle che lui vedeva per il dolore.
Vicino a sé sentì un ansito strozzato e per una frazione
di secondo voltò gli occhi annebbiati. Lo spacciatore
stava familiarizzando con la Vecchia Signora con la Falce,
esalando gli ultimi respiri dalla seconda bocca spalancata
all'altezza della gola. Il tipo puzzava di crack; doveva
essere un consumatore abituale, oltre che uno
spacciatore.
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Questo è il mio mondo, pensò Phury. Quel mondo fatto
di buste di cellofan e rotoli di contanti, di dipendenza e
ansia di procurarsi la dose successiva occupava il suo
tempo ancor più della missione per la confraternita.
Il mago si materializzò nella sua mente, ergendosi
come Atlante in quel campo di ossa. Altro che se è il tuo
mondo, scemo di un bastardo strafatto. E io sono il tuo re.
Il lesser diede uno strattone alla catena, mettendo a
tacere il mago e rendendo ancora più scintillanti le stelle
nella testa di Phury.
Se non tornava in gioco subito, l'asfissia sarebbe stata
la sua migliore, nonché unica, amica.
Portandosi le mani alla gola afferrò quella cazzo di
catena con entrambi i pugni, si rannicchiò a uovo e
arrotolò il guinzaglio d'acciaio intorno alla protesi. Col
piede fece leva sugli anelli che correvano sotto la suola
dello stivale, creando uno spiraglio per riuscire a
respirare.
Il lesser si piegò all'indietro, come quando si fa sci
d'acqua; sottoposta a quella pressione, la protesi quasi
cedette, l'angolazione del piede artificiale cambiò. Con
mossa fulminea, Phury liberò la gamba dalla catena,
lasciò andare l'estremità e fece forza col collo e con le
spalle. Il lesser volò contro il muro di mattoni di un
lavasecco Valu-rite; la forza e il peso del non morto
sollevarono da terra Phury.
Per una frazione di secondo la catena si allentò.
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Quanto bastava per permettere a Phury di ruotare su
se stesso, togliersela dal collo e afferrare un pugnale.
La botta contro l'edificio aveva lasciato il lesser tutto
intontito; Phury approfittò di quell'attimo di
sbandamento per lanciarsi in avanti col pugnale. La lama
in acciaio composito penetrò fino in fondo nella pancia
morbida e vuota del lesser, facendo sprizzare un lucido
fiotto di sangue nero.
L'assassino guardò in giù, in preda alla confusione,
come se le regole del gioco fossero cambiate nel bel
mezzo della partita e nessuno lo avesse avvertito. Le
mani bianche cercarono di tamponare il flusso di sangue
malefico e dolciastro, ma non poterono nulla contro
quella cascata inarrestabile.
Phury si pulì la bocca con la manica, eccitato,
pregustando ciò che stava per accadere.
Il lesser lo guardò in faccia e perse la sua espressione
interdetta. La paura si dipinse sui pallidi tratti del suo
volto.
«Allora sei tu...» sussurrò piegandosi sulle ginocchia.
«Il torturatore.»
L'impazienza di Phury si placò leggermente. «Come?»
«Ho sentito... parlare di te. Prima ci torturi... e poi ci
uccidi.»
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Si era fatto una reputazione nella Lessening Society?
Be', che scoperta. Ormai erano un paio di mesi che faceva
scempio di lesser.
«Come fai a sapere che sono io?»
«Da come... stai... sorridendo.»
Mentre il non morto si accasciava sul marciapiede,
Phury si rese conto del ghigno raccapricciante che aveva
stampato sulla faccia.
Difficile dire cosa fosse più spaventoso: che stesse
sogghignando o che non se ne fosse nemmeno accorto.
All'improvviso le pupille del lesser schizzarono verso
sinistra. «Grazie... al cielo.»
Phury rimase impietrito; qualcuno gli premeva la
canna di una pistola contro il rene sinistro e un nuovo
effluvio di borotalco gli invase le narici.
Non più di cinque isolati a est, nel suo ufficio privato
allo ZeroSum, Rehvenge, ovvero il Reverendo, imprecò.
Odiava gli incontinenti. Li odiava.
L'umano che ciondolava davanti alla sua scrivania si
era appena pisciato nei calzoni; la macchia formava un
cerchio blu scuro sulla patta dei Z Brand effetto usato.
Sembrava che qualcuno lo avesse centrato nelle parti
basse con una spugna bagnata.
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«Oh, per l'amor del cielo.» Rehv scosse la testa rivolto
alle sue guardie del corpo, i due Mori che facevano da
attaccapanni a quel pezzo di merda. Trez e iAm avevano
la sua stessa espressione disgustata.
L'unica, per quanto magra, consolazione, si disse
Rehv, era che le Doc Martens del tizio erano perfette
come recipienti. Non gocciolava fuori niente.
«Che cosa ho fatto?» squittì il tizio; dalla voce
sembrava che le palle nei boxer fradici si fossero spostate
verso nord, trasformandosi in tette. Un filo più alta e
avrebbe potuto essere un contralto. «Non ho fatto nien...»
Rehv troncò le scuse sul nascere. «Chrissy è arrivata
con un labbro spaccato e piena di lividi. Di nuovo.»
«E tu credi che sia stato io? Ma dai, quella fa la puttana
per te. Può essere stato chiun...»
Trez sollevò un'obiezione chiudendogli a forza la
mano a pugno e spremendola come un arancio.
Mentre il latrato di dolore dell'imputato si smorzava in
un guaito, Rehv oziosamente prese un tagliacarte
d'argento a forma di spada e ne saggiò la punta con
l'indice, affrettandosi poi a leccare via la goccia di sangue
che ne era sgorgata.
«Quando hai fatto domanda per lavorare qui», disse,
«hai fornito un indirizzo al 1311 della Ventitreesima
Strada. Che è anche l'indirizzo di Chrissy. Arrivate
insieme e ve ne andate via insieme a fine serata.» Il tizio
fece per aprire bocca, ma Rehv alzò la mano. «Sì, mi
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rendo conto che non è una prova schiacciante, però, vedi
l'anello che hai al dito... Aspetta, perché cerchi di
nascondere il braccio dietro la schiena? Trez, ti spiace
aiutarlo a posare il palmo qui sul tavolo?»
Mentre Rehv tamburellava con la punta del tagliacarte
sulla scrivania, Trez spinse in avanti quel bestione come
se non pesasse più di un sacco di biancheria sporca. Poi,
senza il minimo sforzo, appiattì la mano del bastardo
davanti a Rehv e la tenne ferma.
Rehv si piegò in avanti e col tagliacarte seguì i
contorni di un anello della Caldwell High School. «Sì,
vedi, Chrissy ha un segno strano sulla guancia. La prima
volta che l'ho visto mi sono chiesto cosa fosse. E questo
anello, giusto? Le hai mollato un manrovescio, eh? L'hai
presa in faccia con questo.»
Mentre il tizio tossicchiava come il motore di un
fuoribordo, Rehv tracciò un altro cerchio intorno alla
pietra azzurra dell'anello, poi con la punta affilata come
un rasoio accarezzò una dopo l'altra le dita dell'uomo,
dalle nocche ossute alle unghie piatte.
Le due nocche più grosse erano scorticate, la pelle
pallida era violacea e tumefatta.
«Non le hai rifilato solo un manrovescio, a quanto
pare», mormorò Rehv, continuando a carezzare le dita
dell'uomo col tagliacarte.
«Se l'è cercat...»
83
Rehv batté il pugno sulla scrivania, talmente forte che
il grosso apparecchio telefonico dell'ufficio fece un salto e
la cornetta scivolò giù dalla forcella.
«Non azzardarti a terminare la frase», sibilò Rhev,
sforzandosi di non scoprire le zanne che già premevano
con prepotenza. «Altrimenti, quant'è vero Dio, ti faccio
ingoiare le palle seduta stante.»
Quel cacasotto si afflosciò su se stesso mentre dal
telefono si levava un fioco bip-bip-bip al posto del segnale
di libero. Rilassato come sempre, iAm si protese in avanti
con calma per rimettere a posto il ricevitore.
Una goccia di sudore rotolò giù dal naso dell'umano,
atterrando sul dorso della sua mano; Rehv cercò di tenere
a freno la collera.
«Bene. Dove eravamo rimasti prima che per un pelo
non ti facessi castrare? Ah, sì... Le mani... stavamo
parlando delle mani. Buffo, non so cosa faremmo se non
ne avessimo due. Sì, insomma, non potremmo guidare
un'auto con il cambio manuale, per esempio. E tu ce l'hai
manuale, giusto? Già, ho visto quella Acura truccata con
cui te ne vai in giro. Bella macchina.»
Rehv posò a sua volta la mano sul legno lucido,
proprio accanto a quella del tizio, e confrontandole
indicò le differenze più salienti con il tagliacarte.
«La mia mano è più grande della tua... e anche più
larga. Le dita sono più lunghe. Le mie vene sono più
evidenti. Tu hai un tatuaggio di... cos'è quella roba alla
base del pollice? Una specie di... ah, il simbolo cinese
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della forza. Sì, i miei tatuaggi sono da un'altra parte. E
poi cos'altro, vediamo... la tua pelle è più chiara.
Accidenti, voi visi pallidi dovreste proprio abbronzarvi.
Senza qualche lampada sembrate tanti cadaveri
ambulanti.»
Rehv alzò gli occhi ripensando al passato, a sua madre
e alla sua collezione di lividi. Ci aveva messo tanto,
troppo tempo a vendicarla.
«Sai qual è la differenza più grande tra te e me?» disse.
«Vedi... io non ho le nocche sbucciate per aver picchiato
una donna.»
Con mossa repentina alzò il tagliacarte e lo abbassò di
colpo, talmente forte che la punta non solo trafisse la
carne, ma penetrò nel tek della scrivania/
La mano che aveva pugnalato era la sua.
L'umano lanciò un urlo, ma Rehv non sentì niente.
«Non azzardarti a svenire, mezzasega del cazzo»,
sibilò Rehvenge, vedendo che lo stronzo rovesciava gli
occhi nelle orbite. «Devi guardare con molta attenzione,
così ti ricorderai il mio messaggio.»
Rehv liberò il tagliacarte sollevando il palmo fino
all'impugnatura e sfilando la lama dalla scrivania. Poi,
alzando la mano per permettere all'uomo di vederla
bene, girò e rigirò avanti e indietro il tagliacarte con
precisione puntigliosa, aprendo uno squarcio nella pelle
e nelle ossa, allargando la ferita fino a trasformarla in una
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finestrella. Quand'ebbe finito, sfilò la lama e posò il
tagliacarte con cura accanto al telefono.
Col sangue che colava lungo l'interno della manica
raccogliendosi nell'incavo del gomito, guardò l'uomo
attraverso quel buco. «Ti tengo d'occhio. Dappertutto.
Sempre. Se Chrissy si presenta qui con un altro "livido"
per essere "caduta nella doccia" ti segno come un
calendario, mi sono spiegato?»
L'uomo si voltò di fianco e vomitò sulla gamba dei
calzoni.
Rehv smadonnò. Doveva immaginarselo, Fottutissimo
bullo di un bastardo senza palle.
Meno male che quello scemo con la pasta semidigerita
che gli gocciolava sulle Doc Martens zuppe di piscio non
sapeva di cosa era davvero capace Rehv. Quell'umano,
come tutti gli altri umani lì al club, non aveva idea che il
boss dello ZeroSum non solo era un vampiro, ma era
anche un symphath. Quel figlio di buona donna si sarebbe
cacato addosso, e allora sì che sarebbe stato un bel
macello. Ormai era ovvio che non portava il pannolone.
«Adesso la tua macchina è mia», dichiarò Rehv
allungando la mano verso il telefono per chiamare gli
addetti alle pulizie. «Consideralo un risarcimento con gli
interessi per la grana che mi hai sgraffignato lavorando al
bar. Sei licenziato per questo e per aver spacciato di
nascosto eroina nella mia zona. Ancora una cosa, la
prossima volta che cerchi di razzolare in territorio altrui
non marchiare i tuoi pacchetti con l'aquila che c'è sul tuo
giubbotto del cazzo. Così è troppo facile capire chi è il
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pusher che fa il furbo con la concorrenza. Ah, e come ho
già detto, sarà meglio che quella signora che lavora per
me non si presenti nemmeno con un'unghia scheggiata,
altrimenti vengo a farti una visitina. Adesso esci dal mio
ufficio e non farti mai più vedere da queste parti.»
Il tizio era così traumatizzato che non fiatò mentre lo
trascinavano a faccia in giù verso la porta tenendolo
fermo per le braccia.
Rehv picchiò di nuovo il pugno insanguinato sulla
scrivania per attirare l'attenzione generale.
I Mori si bloccarono di colpo, e anche il loro
prigioniero. L'umano fu l'unico a voltarsi a guardarlo da
sopra la spalla, nei suoi occhi c'era il terrore più assoluto.
«Un'ultima cosa», disse Rehv con un mezzo sorriso,
attento a non mostrare i canini aguzzi. «Se Chrissy se ne
va, dovrò dedurne che l'ha fatto perché tu l'hai costretta;
allora verrò a cercarti per recuperare le mie perdite
pecuniarie.» Poi, chinandosi in avanti, aggiunse, «I soldi
non mi servono, ricordatelo, però sono un sadico, per cui
godo a far soffrire la gente. La prossima volta mi
riprenderò la quota che mi spetta direttamente dalla tua
pellaccia, invece che dal portafoglio o da quello che hai
parcheggiato nel vialetto di casa tua. Le chiavi? Trez?»
II Moro infilò una mano nella tasca posteriore dei Z
Brand del tipo e gli gettò un portachiavi.
«Non preoccuparti delle scartoffie», disse Rehv
afferrandolo al volo. «La tua Acura del cacchio finirà in
87
un posto dove non servono le pratiche per il passaggio di
proprietà. Per ora ti saluto.»
Quando la porta si chiuse su quella scena madre, Rehv
lanciò un'occhiata al portachiavi. Sulla targhetta attaccata
all'anello c'era scritto SUNY NEW PALTZ, l'università.
«Cosa c'è?» disse senza alzare gli occhi.
La voce bassa di Xhex si levò dall'angolo buio
dell'ufficio dove lei si appostava sempre per godersi lo
spettacolo. «Se lo fa un'altra volta voglio occuparmene io
di persona.»
Rehv strinse le chiavi nel pugno e si appoggiò allo
schienale della poltroncina. Dire di no non serviva; se
quel pezzo di merda avesse malmenato di nuovo
Chrissy, con ogni probabilità la responsabile della
sicurezza del suo locale gli avrebbe dato comunque una
bella ripassata. Xhex non era come gli altri suoi
dipendenti. Xhex non era come nessun altro.
Be', non era del tutto vero, era come lui. Per metà
symphath.
O per metà sociopatica, come in quel caso.
«Tu tieni d'occhio la ragazza», le disse. «Se quel figlio
di puttana ricomincia a darci dentro col suo anello,
tireremo a sorte per vedere chi avrà il piacere di fargli un
culo così.»
«Io tengo già d'occhio tutte le tue ragazze», ribatté
Xhex avviandosi verso la porta con potenza scattante.
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Alta e muscolosa, aveva una corporatura maschile, ma
era tutt'altro che grossolana o volgare. Malgrado il fisico
asciutto, il taglio di capelli alla Annie Lennox e la sua
uniforme standard - maglietta attillata nera e pantaloni di
pelle neri - non era una ficafredda nelle massicce
sembianze di un trans. No, Xhex aveva l'eleganza letale
di un coltello: fulminea, decisiva, silenziosa.
E come tutti i pugnali, anche lei adorava far scorrere il
sangue.
«È il primo martedì del mese», disse posando la mano
sulla porta.
Come se non lo sapessi, pensò Rehv. «Esco tra una
mezz'ora.»
La porta si aprì e si richiuse; il frastuono del club,
dall'altra parte, invase per un attimo l'ufficio per poi
spegnersi bruscamente.
Rehv alzò il palmo. L'emorragia si stava già fermando,
altri venti minuti e il buco si sarebbe richiuso. Prima di
mezzanotte non ci sarebbe stata più traccia della ferita.
Ripensò al momento in cui si era infilzato. Non avere
la benché minima percezione del proprio corpo era uno
strano tipo di paralisi. Ti muovevi, ma non sentivi i
vestiti che avevi addosso, non ti accorgevi se le scarpe
erano troppo strette o se il terreno sotto i piedi era
accidentato o scivoloso.
Sentiva la mancanza del suo corpo, ma o prendeva la
dopamina e ne sopportava gli effetti collaterali, oppure
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doveva vedersela con il suo lato malefico. E quello era
uno scontro senza esclusione di colpi che non era sicuro
di poter vincere.
Afferrò il bastone da passeggio e con cautela si alzò
dalla poltroncina. A causa del suo stato di
intorpidimento generale l'equilibrio era un bel problema
e la forza di gravità era sua nemica, per cui il tragitto fino
al muro gli prese più tempo del dovuto. Quando
finalmente giunse a destinazione, posò il palmo su un
quadrato in rilievo e un pannello delle dimensioni di una
porta scivolò all'indietro, in perfetto stile Star Trek.
La suite nera camera-da-lètto-bagno che venne allo
scoperto era uno dei suoi tre rifugi d'emergenza, e per
qualche motivo era quello dotato della doccia migliore.
Forse perché, essendo grande solo sei metri quadri,
bastava aprire il rubinetto per fargli raggiungere
temperature tropicali.
E se eri uno che aveva sempre freddo, quello era un
notevole valore aggiunto.
Si spogliò e cominciò a far scendere l'acqua, radendosi
in fretta in attesa che il getto diventasse bollente. Mentre
si passava il rasoio sulle guance, il tipo che ricambiava il
suo sguardo dallo spècchio era lo stesso di sempre. Corta
cresta da moicano, occhi color ametista, tatuaggi sul petto
e sugli addominali. Un uccello lungo e moscio in mezzo
alle gambe.
Pensò a dove doveva andare quella sera e la sua
visione cambiò, una foschia rossastra sostituì tutti i colori
dello spettro visivo. Non ne rimase sorpreso. La violenza,
90
immancabilmente, liberava la sua natura malvagia come
cibo offerto a un affamato, e poco prima, in ufficio, ne
aveva avuto solo un piccolo assaggio.
In circostanze normali sarebbe stato il momento giusto
per un'altra dose di dopamina. La sua salvatrice chimica
teneva a bada i suoi peggiori istinti di symphath in cambio
di ipotermia, impotenza e torpore. Gli effetti collaterali
erano una bella rottura, ma non aveva scelta, e le bugie
avevano un costo.
Oltre a richiedere ottime prestazioni.
La sua ricattatrice esigeva ottime prestazioni.
Stringendo nel palmo l'uccello, come se potesse
proteggerlo da ciò che avrebbe dovuto fare di lì a qualche
ora, andò a controllare l'acqua. L'aria era così densa di
vapore che sembrava di respirare panna, ma l'acqua non
era ancora abbastanza calda. Non lo era mai.
Si stropicciò gli occhi con la mano libera. Vedeva
ancora tutto rosso, ma era un bene. Meglio combattere ad
armi pari con la sua ricattatrice. Male contro male.
Symphath contro symphath.
S'infilò sotto la doccia e il sangue versato scivolò
subito via. Si insaponò, ma si sentiva ancora sporco,
lercio dalla testa ai piedi. Una sensazione destinata a
peggiorare, ora dell'alba.
Sì... sapeva perfettamente perché le ragazze che
lavoravano per lui riempivano di vapore lo spogliatoio
alla fine del turno. Le puttane adorano l'acqua bollente.
91
Sapone e acqua bollente. Quello e una spugnetta a volte
aiutano a superare la nottata.
92
Capitolo 6
John seguiva con gli occhi Cormia che correva e
piroettava sull'erba del prato, la veste candida che
svolazzava alle sue spalle, a metà tra un'ala e una
bandiera. Non gli risultava che le Elette potessero
scorrazzare a piedi nudi in piena libertà e aveva la
sensazione che Cormia stesse infrangendo le regole. John
seguiva con gli occhi Cormia che correva e piroettava
sull'erba del prato, la veste candida che svolazzava alle
sue spalle, a metà tra un'ala e una bandiera. Non gli
risultava che le Elette potessero scorrazzare a piedi nudi
in piena libertà e aveva la sensazione che Cormia stesse
infrangendo le regole.
Bè, buon per lei. E che meraviglia poterla ammirare.
Con la gioia che l'animava, Cormia era nella notte ma
non faceva parte delle tenebre: era una lucciola, un
puntino luminoso che danzava sullo sfondo
dell'orizzonte fitto di boschi.
Phury avrebbe dovuto godersi lo spettacolo, pensò.
Il cellulare emise un bip e John lo tirò fuori dalla tasca.
Il messaggino di Qhuinn diceva: Puoi farti portare subito da
fritz a kasa di blay? Noi siamo pronti. Rispose subito: ok.
Mise via il BlackBerry. Quanto gli sarebbe piaciuto
riuscire a smaterializzarsi. Potevi provarci già un paio di
settimane dopo la transizione. Blay e Qhuinn non
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avevano avuto problemi, ma per lui era come agli inizi
dell'addestramento, quando era sempre il più lento, il più
debole e il peggiore di tutti i compagni. Bastava
concentrarsi sulla meta da raggiungere e spostarsi grazie
alla forza del pensiero. Almeno in teoria. Lui invece
aveva passato un mucchio di tempo a occhi chiusi, la
faccia contratta come il muso tutto pieghe di uno sharpei,
tentando di costringere le molecole del suo corpo ad
arrivare dall'altra parte della stanza ma restando fermo
dov'era. Aveva sentito che a volte ci voleva anche un
anno dalla transizione, prima di riuscire nell'impresa, ma
lui forse non ce l'avrebbe mai fatta.
Nel qual caso doveva prendere una cazzo di patente di
guida. Gli sembrava di avere dodici anni, con tutti quei
"puoi accompagnarmi fin là?" Fritz era un autista coi
fiocchi ma, che cavolo, lui voleva essere un uomo, non il
carico di un doggen.
Cormia fece tutto il giro del prato e poi tornò verso
casa. Quando si fermò di fronte a lui, sembrava quasi che
la sua tunica volesse continuare la corsa, i panneggi
ondeggiarono in avanti prima di assestarsi lungo il
corpo. Cormia aveva il fiato corto, le guance rosso fuoco
e un sorriso più grande della luna piena.
Dio, con i capelli biondi sciolti e quel grazioso rossore,
era il ritratto perfetto della ragazza simbolo dell'estate.
Gli sembrava quasi di vederla, in mezzo a un campo,
seduta sopra un plaid a quadretti, che mangiava torta di
mele vicino a una caraffa di limonata ghiacciata... con
addosso un bikini bianco e rosso.
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Okay, meglio evitare certe fantasie.
«Mi piace qua fuori», esclamò lei.
Stare qua fuori ti dona, scrisse lui, mostrandole il blocnotes.
«Mi spiace di aver aspettato tanto a venire qui»,
aggiunse Cormia, voltandosi verso le rose che crescevano
intorno alla terrazza. Si fece scorrere una mano su per il
collo e John ebbe la sensazione che volesse toccarle, ma le
briglie del riserbo stavano tornando alla carica.
Si schiarì la gola per attirare la sua attenzione. Puoi
raccoglierne una, se vuoi, scrisse.
«Io... io credo che lo farò.»
Cormia si avvicinò alle rose quasi fossero cerbiatti che
potevano spaventarsi, le braccia lungo i fianchi e i cauti
piedi scalzi sulle lastre di pietra. Andò dritta verso quelle
color lavanda, snobbando i boccioli dai colori più
spudorati, rossi e gialli.
John stava scrivendo Attenta alle spine quando Cormia
allungò la mano e, con in gridolino, la ritrasse. Sulla
punta del dito spuntò una goccia di sangue che, nella
penombra, su quella pelle candida sembrò nero.
Senza neanche accorgersene, John si chinò e mise
all'opera la bocca. Succhiò in fretta e leccò ancora più in
fretta, sbalordito dal proprio gesto, oltre che dal sapore
delizioso del sangue.
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In un angolo della sua mente si rese conto che aveva
bisogno di nutrirsi.
Merda.
Quando si raddrizzò, vide che Cormia lo fissava a
occhi sbarrati, impietrita. Due volte merda.
Scusa, scribacchiò in fretta. Non volevo che ti macchiasse
il vestito.
Bugiardo. Voleva sapere che sapore aveva.
«Io...»
Raccogli la tua rosa, ma stai attenta alle spine.
Cormia annuì e fece un secondo tentativo, in parte
perché voleva prendere il fiore e in parte, sospettava
John, per colmare il silenzio imbarazzato creato da lui.
La rosa che scelse era un esemplare perfetto, sul punto
di fiorire, un bocciolo di un viola argenteo che
prometteva di diventare grosso come un pompelmo,
«Grazie», disse Cormia. John stava per dire "prego"
quando si rese conto che lei si stava rivolgendo alla
pianta,
Cormia si voltò verso di lui. «Gli altri fiori che ho visto
erano dentro delle case di vetro piene d'acqua.»
Andiamo a cercare un vaso, scrisse lui. Qui li chiamiamo
così.
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Lei annuì e si avviò verso la portafinestra che si apriva
sulla sala del biliardo. Appena varcata la soglia, si voltò a
guardare. I suoi occhi indugiarono sul giardino come se
fosse un innamorato che non avrebbe rivisto mai più.
Possiamo rifarlo qualche altra volta, scrisse John sul bloc
notes. Ti piacerebbe?
Il rapido cenno d'assenso di Cormia fu un sollievo,
considerato quello che le aveva appena fatto. «Sì, mi
piacerebbe.»
forse potremmo anche guardare un film. Di sopra, in sala
proiezioni.
«Sala proiezioni?»
John chiuse la porta dietro di sé. È una stanza fatta
apposta per guardare i film.
«Possiamo vederlo adesso, il film?»
Il tono deciso della sua voce lo spinse a ricalibrare
leggermente la prima impressione che aveva avuto di lei.
Il pacato riserbo poteva essere frutto dell'educazione, più
che della sua personalità.
Stasera devo uscire. Ma cosa ne dici di domani sera?
«Va bene. Dopo il Primo Pasto.»
Okay, la mitezza decisamente non rientrava nella sua
personalità. Il che lo indusse a chiedersi come facesse a
97
sopportare la vita da Eletta. Io ho lezione, ma possiamo
vederci dopo, ti va?
«Sì. E mi piacerebbe imparare qualcosa di più su tutto
quello che c'è qui.» Il suo sorriso illuminò la sala del
biliardo come un falò; nel vederla piroettare su un piede
solo, John pensò a quelle graziose ballerine che saltano
fuori da certi portagioie.
Be', sono pronto a insegnarti quello che vuoi, scrisse.
Cormia si fermò, i capelli sciolti che dondolavano
intorno al volto. «Grazie, John Matthew. Sarai un ottimo
maestro.»
Quando lei lo guardò, John notò i suoi colori, più che il
suo viso o il suo corpo: il rosso delle guance e delle
labbra, il lavanda del fiore nella sua mano, il verde
pallido ma luminoso degli occhi, il giallo dorato dei
capelli.
Senza nessun motivo particolare pensò a Xhex. Xhex
era un temporale, tutta giocata sulle tonalità del nero e
del grigio ferro, una potenza tenuta a freno, ma non per
questo meno letale. Cormia era un giorno di sole
incastonato in un arcobaleno di luce, era calore in atto.
Si mise una mano sul cuore e la salutò con un inchino,
poi se ne andò. Mentre saliva in camera sua, si chiese se
preferiva il sole o il temporale.
Poi si rese conto che erano entrambi fuori dalla sua
portata, dunque che importanza aveva?
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Fermo nel vicolo con la nove millimetri premuta
contro il fegato di un fratello, Mr D era in stato di
massima allerta. Avrebbe preferito di gran lunga puntare
la pistola alla tempia del vampiro, ma per farlo gli
sarebbe servita una scala. Quei bastardi erano enormi,
onestamente.
Al loro confronto il buon vecchio Tommy, suo cugino,
sembrava alto come una lattina di Budweiser. E
altrettanto facile da schiacciare.
«Hai i capelli come una ragazza», disse Mr D.
«E tu puzzi di bagnoschiuma. Almeno io posso
tagliarmeli.»
«È Old Spice.»
«La prossima volta prova con qualcosa di più forte.
Tipo letame equino.»
Mr D premette con più forza la canna della pistola.
«Mettiti in ginocchio. Mani dietro la schiena, e abbassa la
testa.»
Mentre il fratello ubbidiva, Mr D rimase fermo
dov'era, senza accennare a tirare fuori le manette
d'acciaio. Rischiava di farsela sotto come un vigliacco,
questo sì, ma quel vampiro non era il tipo di cosa che
potevi lasciarti scappare, e non solo perché catturare un
fratello era un evento degno di entrare nei libri di storia.
Mr D stava tenendo per la coda un serpente a sonagli, e
lo sapeva fin troppo bene.
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Portò la mano alla cintura per prendere le manette e...
La situazione si capovolse in un baleno.
Il fratello si voltò di scatto su un ginocchio e da sotto
colpì col palmo la canna della pistola. Di riflesso Mr D
premette il grilletto e la pallottola partì verso il cielo,
volando inutilmente in paradiso.
Prima che l'eco dello sparo si fosse spenta, Mr D era
steso sulla schiena, confuso e frastornato, il cappello da
cowboy ancora una volta per terra mentre lui
soccombeva.
Il fratello lo fissava; aveva gli occhi spenti, senza vita,
malgrado il giallo vivo dell'iride. Più che logico,
d'altronde. Nessuno con un brìciolo di cervello avrebbe
azzardato una rotazione del genere stando in ginocchio.
A meno che non avesse già l'elettroencefalogramma
piatto.
Il fratello alzò il pugno sopra la testa.
Ahia, questa qui farà male.
Mr D si mosse in fretta, liberandosi dalla stretta alla
spalla e ruotando su un fianco, poi sferrò un calcio a
piedi uniti al polpaccio destro del fratello.
Ci fu come vino schiocco e... porco diavolo, una parte
della gamba volò per aria, Il fratello barcollò, la gamba
destra dei calzoni si era afflosciata dal ginocchio in giù,
ma non c'era tempo per stare lì a stupirsi. Quel
100
grandissimo bastardo perse l'equilibrio, crollando come
un palazzo che si sgretola su se stesso.
Mr D si scansò di corsa, poi gli balzò addosso; se non
lo neutralizzava adesso che era a terra, quello gli avrebbe
fatto mangiare le sue stesse trippe, sicuro come l'oro.
Gettò una gamba sopra il fratello, strinse nel pugno una
manciata di quei capelli da femminuccia e diede un
violento strattone mentre cercava di afferrare il coltello.
Niente da fare. Come un mustang imbizzarrito, il
fratello balzò su dal marciapiede, sgroppando. Mr D
strinse le gambe e gettò un braccio intorno a quel collo
poderoso, grosso come una coscia...
In un batter d'occhio la terra finì sottosopra e - cazzo - il
fratello si rovesciò sulla schiena come una testuggine,
trasformando Mr D in un materasso.
Era come se una lastra di granito gli fosse caduta sul
petto.
Per una frazione di secondo Mr D rimase intontito e il
fratello ne approfittò per spostarsi di lato, usando il
gomito come un ariete che lo centrò allo stomaco. Mentre
con un gemito Mr D si piegava in due in preda ai conati
di vomito, ci fu il lampo di un pugnale nero che veniva
sfoderato, poi il fratello si alzò sulle ginocchia.
Mr D si preparò a essere pugnalato; era stato Forelesser per meno di tre ore, che figuraccia.
101
Ma invece della pugnalata al cuore sentì che il fratello
gli tirava fuori la camicia dai pantaloni. Con la pancia
bianca scoperta guardò in su, inorridito.
Quello era il fratello che godeva ad affettare i nemici
prima di ucciderli. Il che significava che non sarebbe stata
una morte rapida e pulita. Sarebbe stato un processo
lungo e sanguinoso. Non era il Distruttore, certo, ma quel
bastardo gli avrebbe fatto sudare il viaggio fino alle porte
del paradiso.
I lesser potevano anche essere morti, ma sentivano il
dolore come chiunque altro.
Phury avrebbe dovuto tirare il fiato e cercare la protesi
invece di prepararsi a infierire come Sweeney Todd su
quel nanerottolo di un lesser. Cribbio, essere sfuggito per
un pelo a quel proiettile con su scritto il suo nome
avrebbe dovuto convincerlo a chiuderla lì e a smammare
da quel vicolo prima dell'arrivo di altri nemici.
Invece no. Mentre scopriva la pancia del lesser, era a
un tempo gelato fino al midollo e animato come da un
fuoco, su di giri neanche stesse entrando in camera sua
con un sacchetto pieno di fumo rosso, senza impegni per
almeno dieci ore.
Era uguale al tossico che aveva tagliato la corda,
euforico come se avesse vinto alla lotteria.
Il mago s'intromise in quella libidine, attirato
dall'eccitazione come da un mucchio di carne avariata.
Mettersi a giocare al macellaio è un modo cruento di
distinguersi, ma d'altronde essere un semplice fallito è un
102
tantino pedestre, giusto? E tu vieni da una famiglia nobile,
finché non hai causato la sua rovina. Quindi dacci dentro,
socio.
Phury si concentrò sulla carne tremebonda che aveva
denudato, lasciandosi pervadere dalla sensazione tattile
del pugnale che stringeva in mano e dal terrore
paralizzante del lesser. Ritrovando la serenità mentale,
Phury sorrise. Quel momento era suo. Tutto suo. Per
tutto il tempo che avrebbe impiegato a fare ciò che voleva
a quell'emissario del male, sarebbe stato in pace, liberato
dal caos della voce del mago.
Torturando guariva se stesso. Anche se solo per poco.
Puntò il pugnale sulla pelle del lesser e...
«Non ti azzardare.»
Phury si voltò a guardare da sopra la spalla. II suo
gemello era fermo all'imbocco del vicolo, una grossa
ombra nera con il cranio rasato. Non riusciva a vederlo in
faccia, ma non c'è bisogno di vedere ima fronte aggrottata
per capire l'antifona. L'incazzatura di Zsadist gli arrivava
a ondate.
Phury chiuse gli occhi lottando contro ima rabbia
cieca. Maledizione, stava per essere privato di quel
momento di piacere. Quello era un furto bello e buono.
In un lampo ripensò a tutte le volte che Zsadist lo
aveva costretto a picchiarlo, a picchiarlo fino a ridurgli la
faccia a una maschera di sangue. E adesso suo fratello
pensava che fare la stessa cosa con un lesser fosse
103
sbagliato? Ma che cazzo, quello di sicuro aveva
ammazzato una caterva di vampiri innocenti. Com'era
possibile che torturarlo fosse peggio che chiedere al
proprio fratello di massacrarti di botte, ben sapendo che
la cosa gli dava la nausea e lo avrebbe scombussolato per
giorni e giorni?
«Vattene via», disse Phury, aumentando la presa sul
lesser che si contorceva inutilmente. «Questi sono affari
miei, non ti riguardano.»
«Col cazzo. Mi avevi detto che avresti smesso.»
«Voltati e vattene, Z.»
«Così potrai farti ammazzare quando arriveranno i
rinforzi?»
L'assassino tra le grinfie di Phury si sollevò nel
tentativo di liberarsi, ed era così piccolo e robusto che
quasi ci riuscì. Che diamine, no, pensò Phury, non
avrebbe rinunciato al suo premio. Prima di rendersene
conto affondò il pugnale nel ventre del lesser, facendo
scorrere la lama lungo tutto il campo da gioco intestinale.
L'urlo del lesser sovrastò l'imprecazione di Zsadist; ma
in quel momento Phury rimase indifferente a entrambi i
suoni. Era arcistufo di tutto, compreso se stesso.
Dai, coraggio!, sussurrò il mago. Così mi piaci.
Zsadist gli fu addosso in meno di un secondo, gli
strappò di mano il pugnale e lo scagliò dall'altra parte del
104
vicolo. Mentre il lesser perdeva i sensi, Phury balzò in
piedi per affrontare il suo gemello.
Il guaio era che gli mancava un pezzo di gamba.
Cadde di schianto contro il muro di mattoni; doveva
sembrare ubriaco, il che lo fece infuriare ancora di più.
Z raccolse la gamba artificiale e gliela lanciò. «Rimettiti
questa cazzo di protesi.»
Phury l'afferrò con una mano e si lasciò scivolare
lungo la parete fredda e ruvida della tintoria.
Merda. Beccato. Beccato in flagrante, pensò. E adesso
avrebbe dovuto fare i conti con i fratelli; gli sarebbero
stati tutti addosso.
Perché Z non si era infilato in un altro vicolo? Oppure
in quello, ma in un altro momento?
Accidenti, lui aveva bisogno di quella violenza. Perché
se non sfogava almeno in parte la rabbia che aveva
dentro sarebbe impazzito, e se dopo tutte le sue stronzate
masochistiche Z non riusciva a capirlo, be', poteva
andarsene affanculo.
Zsadist sfoderò il pugnale, affondò la lama nel primo
lesser rispedendolo all'Omega e poi rimase ritto sopra la
traccia bruciacchiata per terra.
«Merda di dieci cavalli», disse nell'Antico Idioma.
105
«Il nuovo dopobarba dei lesser», bofonchiò Phury,
stropicciandosi gli occhi.
«Credo che dovreste riflettere», disse una voce
strozzata dal tipico accento texano.
Z si voltò di scatto e Phury alzò la testa. Il piccolo lesser
aveva di nuovo in pugno la pistola e la stava puntando
contro Phury mentre teneva d'occhio Z.
Per tutta risposta, Z gli puntò contro la sua SIG.
«Siamo tutti nei pasticci», disse il piccoletto chinandosi
con un gemito a raccogliere un cappello da cowboy. Se lo
calcò sulla testa, poi tornò a stringersi lo stomaco per
tener dentro le viscere. «Vedi, se tu mi spari, la mia mano
si stringerà sul grilletto e colpirò il tuo amico, qui. Se
invece gli sparo io, tu impallinerai me.» Il lesser fece un
profondo respiro ed espirò con un altro gemito. «Credo
proprio che ci troviamo a un punto morto, e mica
possiamo stare qui tutta la notte. Uno sparo c'è già stato,
e chissà chi può averlo sentito.»
Quel bastardo di un texano aveva ragione. Il centro di
Caldwell a mezzanotte non era la Valle della Morte a
mezzogiorno. C'era gente in giro, persone che non erano
tutte del tipo umano strafatto. C'erano anche sbirri. E
vampiri civili. E altri lesser. Il vicolo era appartato, certo,
ma offriva solo una privacy relativa.
È il momento di darsela a gambe, socio, disse il mago.
«Merda», esclamò Phury.
106
«Sissignore», mormorò il lesser. «È proprio lì che
siamo, nella merda.»
Neanche a farlo apposta, ecco risuonare le sirene della
polizia, sempre più vicine.
Nessuno si mosse, neanche quando la volante svoltò
l'angolo infilandosi nel vicolo a tutta birra. Eh, sì,
qualcuno aveva sentito lo sparo partito accidentalmente
quando Phury e quella specie di John Wayne in
miniatura si erano affrontati; chiunque fosse, aveva preso
il telefono.
Il tableau vivant in mezzo al vicolo venne illuminato a
giorno dai fari dell'auto della polizia, che inchiodò con
grande stridore di freni.
Due portiere si spalancarono. «Deponete le armi!»
La voce strascicata del lesser si levò in un sussurro,
come un refolo d'aria nelle notti d'estate, «Potete
sistemare voi due le cose, giusto?»
«Piuttosto ti sparo nel culo», ribatté Z.
«Giù le armi o spariamo!»
Phury prese il pugno la situazione; con la forza del
pensiero fece piombare gli umani in uno stato di semiincoscienza, spingendo quello sulla destra a infilarsi
dentro l'auto per spegnere i fari.
«Molto obbligato», disse il lesser, cominciando a
strisciare lungo il vicolo. Teneva la schiena rasente al
107
muro, gli occhi fissi su Zsadist e la pistola puntata contro
Phury. Passando davanti ai poliziotti, afferrò la pistola
dell'agente che gli stava più vicino, una donna, e senza
incontrare la minima resistenza le tolse di mano quella
che aveva tutta l'aria di essere una nove millimetri.
Il lesser puntò l'arma contro Z. Ora che aveva entrambe
le mani impegnate, il sangue nero sgorgava a fiotti dalle
sue viscere. «Vi sparerei volentieri, ma poi non potreste
più fare i vostri giochetti mentali su questa bella coppia
di tutori dell'ordine. Mi sa che mi toccherà fare il bravo.»
«Dio buono», esclamò Z, spostando il peso avanti e
indietro sui talloni, come se si preparasse a scattare in
avanti.
«Non pronunciare il nome di Dio invano, per favore»,
disse il lesser, giunto all'angolo da cui era arrivata la
polizia. «Vi auguro una buona serata, signori.»
Il nanerottolo si dileguò in un battibaleno, senza il
minimo rumore. Sempre grazie alla forza del pensiero,
Phury indusse gli agenti a risalire in macchina e costrinse
la donna a chiamare la centrale per dire che dal
sopralluogo effettuato nel vicolo non risultavano risse o
casi di disturbo alla quiete pubblica. Quella pistola
mancante, però... quella era un bel guaio. Maledetto
lesser. Nessuna manipolazione della memoria poteva
spiegare la mancanza di una nove millimetri.
«Dalle la tua pistola», disse a Zsadist.
Il suo gemello avanzò estraendo il caricatore. Non
ripulì l'arma prima di lasciarla cadere in grembo alla
108
donna. Non ce n'era motivo. I vampiri non lasciano
impronte digitali identificabili.
«Sarà fortunata se questa storia non la manderà al
manicomio», commentò Z.
Eh già. Non era la sua pistola ed era vuota. Phury fece
del suo meglio, imprimendole nella mente il ricordo di
aver comprato quella nuova arma; l'aveva provata e
aveva tolto il caricatore perché le pallottole erano
difettose. Non era una gran copertura. Specie considerato
che tutte le pistole della confraternita avevano il numero
di serie limato.
Phury indusse il poliziotto al volante a ingranare la
retromarcia e uscire dal vicolo. Destinazione? La centrale
di polizia per una pausa caffè.
Una volta rimasti soli, Z guardò negli occhi il suo
gemello. «Vuoi svegliarti morto?»
Phury controllò con cura la protesi. Non aveva subito
danni, almeno per un uso normale, si era solo sganciata
dall'attacco sotto al ginocchio a causa della botta ricevuta.
Tuttavia non poteva più fidarsi a usarla per combattere,
non era sicuro.
Si tirò su la gamba dei calzoni, la riattaccò e si
raddrizzò. «Io vado a casa.»
«Mi hai sentito?»
«Sì. Ti ho sentito.» Guardò negli occhi il suo gemello.
Cavolo, che domanda, pensò. E da che pulpito. La
109
pulsione di morte di Z era stata il suo principio operativo
fino al suo incontro con Bella. Il che, fatte le debite
proporzioni, equivaleva a dire fino a dieci minuti prima.
Z aggrottò le sopracciglia sulla faccia scura. «Vai dritto
a casa.»
«Già. Dritto a casa. Hai capito perfettamente», disse
Phury voltandosi.
«Non ti sei scordato niente?» disse brusco Z.
Phury pensò a tutte le volte che si era messo sulle
tracce di Zsadist, cercando disperatamente di impedirgli
di suicidarsi o di uccidere qualcun altro. Pensò a tutte le
giornate insonni in cui non faceva che chiedersi se Z ce
l'avrebbe fatta, perché si rifiutava di bere dalle vampire e
insisteva a nutrirsi col sangue umano. Pensò alla tristezza
struggente che lo assaliva ogni volta che guardava il
volto sfregiato del suo gemello.
Pensò alla notte in cui si era piazzato davanti allo
specchio e si era rapato a zero, poi si era passato un
coltello sulla fronte e giù per la guancia per sembrare Z...
per prendere il posto del suo gemello, ritrovandosi alla
mercé della sadica vendetta di un lesser.
Pensò al pezzo di gamba che si era staccato con uno
colpo di pistola per salvare se stesso e Z.
«No», rispose voltandosi a guardarlo da sopra la
spalla. «Ricordo tutto. Tutto quanto.»
110
Senza il minimo rimorso si smaterializzò e riprese
forma sulla Decima Strada.
Sul marciapiede di fronte allo ZeroSum, col cuore e la
testa che urlavano, attraversò la strada come
rispondendo a un richiamo, come se lo avessero scelto
per quella missione di autodistruzione, come se qualcuno
gli avesse battuto sulla spalla, come se avesse visto
l'indice ossuto della sua dipendenza che gli faceva cenno
di avvicinarsi.
Non poteva resistere a quell'invito. Peggio, non
voleva.
Mentre avanzava verso l'ingresso principale del club, i
suoi piedi - quello vero e quello al titanio - servivano la
missione del mago. Tutti e due lo portarono oltre la
soglia, oltre l'addetto di guardia all'area VIP e oltre i
tavoli dei rampantelli in carriera, fino all'ufficio di
Rehvenge.
I Mori annuirono e uno di loro parlò dentro l'orologio.
Mentre aspettava, Phury sapeva benissimo di essere
prigioniero di una spirale senza fine, girava e girava
come la punta di un trapano, scavando sempre più
sottoterra. Sprofondava sempre più e a ogni nuovo strato
di sottosuolo incontrava filoni sempre più profondi e più
ricchi di minerale velenoso, filoni che si infiltravano nella
roccia madre, nel fondamento stesso della sua vita,
attirandolo sempre più giù. Lui puntava alla fonte, a
lasciarsi consumare dall'inferno, la sua destinazione
finale, e ogni nuovo livello era un perfido
incoraggiamento a sprofondare sempre più in basso.
111
II Moro sulla destra, Trez, annuì e aprì la porta di
quell'antro tenebroso. Era lì che frammenti di Ade
venivano spacciati in buste di cellofan e Phury entrò con
nervosa impazienza.
Rehvenge emerse da una porticina nascosta, il suo
sguardo color ametista acuto e lievemente deluso.
«La tua solita dose è già finita?» chiese in tono pacato.
Quel divoratore di peccati lo conosceva anche troppo
bene, pensò Phury.
«Si dice symphath, ricordi?» lo corresse Rehv, andando
lentamente alla scrivania con l'aiuto del bastone.
«Mangiatore di peccati è una volgarizzazione così
mostruosa. E poi non ho bisogno del mio lato malvagio
per capire come sei messo. Allora, quanta ne vuoi
stanotte?»
Si sbottonò l'impeccabile giacca a doppio petto nera e
si accomodò in una poltrona di cuoio nero. La corta
cresta da moicano luccicava come se fosse appena uscito
da sotto la doccia e aveva un buon profumo, un misto di
Cartier for Men e di qualche shampoo dall'aroma
speziato.
Phury ripensò all'altro spacciatore, quello che poco
prima aveva tirato le cuoia in quel vicolo, quello morto
dissanguato mentre invocava un aiuto che non era
arrivato. Rehv era vestito come uno appena arrivato dalla
Quinta Avenue, ma questo non cambiava la sostanza di
ciò che era.
112
Phury si guardò, guardò com'era vestito. E si rese
conto che lo stesso valeva per lui.
Cazzo... gli mancava un pugnale.
L'aveva lasciato nel vicolo.
«Il solito», disse, tirando fuori di tasca diecimila
dollari. «Dammi il solito.»
113
Capitolo 7
Nella sua stanza rosso sangue, Cormia non riusciva a
liberarsi dalla convinzione di aver innescato, uscendo di
casa, una catena di eventi di cui non poteva neanche
lontanamente immaginare l'esito finale. Sapeva solo che
il destino stava muovendo le cose dietro il sipario di
velluto del suo palcoscenico, e che alla riapertura del
sipario qualcosa sarebbe cambiato.
Non era sicura di gradire che il prossimo atto del
dramma fosse riservato al fato, ma era bloccata tra il
pubblico e non poteva andare da nessuna parte.
Però, in realtà, non era del tutto vero.
Andò alla porta, la aprì di uno spiraglio e guardò la
cima dello scalone, in fondo alla passatoia orientale.
Sulla destra c'era la galleria delle statue.
Ogni volta che saliva al primo piano e scorgeva le
eleganti figure allineate lungo il corridoio rischiarato
dagli alti finestroni ne rimaneva affascinata. Nella loro
raffinatezza formale, nell'immobilità della posa e nel
candore delle vesti le ricordavano il .Santuario.
Nella loro nudità e virilità, invece, le erano del tutto
estranee.
114
Se poteva uscire in giardino, poteva anche andare a
osservare da vicino quelle sculture. Assolutamente.
Si avviò lungo la passatoia, scalza e silenziosa,
superando la camera del Primule e quella di Rhage e
Mary. Lo studio del re, in cima alla scalinata, era chiuso,
e l'atrio al piano di sotto era deserto.
Svoltato l'angolo, le statue si estendevano per quella
che sembrava una distanza infinita. Disposte sulla
sinistra, erano illuminate dall'alto da faretti incassati nel
soffitto e separate l'una dall'altra da grandi finestre ad
arco. Sulla destra, ogni due finestre, c'erano delle porte
che, supponeva, si aprivano su altrettante camere da
letto.
Interessante. Se avesse progettato lei la casa avrebbe
collocato le stanze sull'altro lato, per non privarle della
vista sul giardino. Così, invece, se aveva interpretato
correttamente la pianta dell'edificio, le camere
affacciavano sull'ala opposta, quella che abbracciava il
cortile anteriore. Gradevole, certo, ma era meglio avere
paesaggi architettonici lungo i corridoi e vista sul
giardino e sulle montagne nelle camere da letto. Almeno
a suo giudizio.
Cormia si accigliò. Ultimamente le venivano strani
pensieri come quello, pensieri su cose e persone e persino
preghiere che non erano sempre di approvazione. Quelle
opinioni in libertà la mettevano a disagio, ma non
riusciva a evitarle.
115
Cercando di non soffermarsi sulla loro origine o sul
loro significato, svoltò l'angolo e si trovò davanti la
galleria.
La prima scultura raffigurava un giovane - un umano,
a giudicare dalla corporatura - avvolto in ricchi panneggi
che scendevano dalla spalla destra fino al fianco sinistro.
Aveva gli occhi fissi davanti a sé e il volto composto, né
triste né felice. Il torace era ampio, gli avambracci robusti
e asciutti a un tempo, l'addome piatto e scolpito.
La statua successiva era simile, solo che gli arti erano
disposti in modo diverso. Quella dopo era in un'altra
posizione ancora. Idem la quarta... solo che era
completamente nuda.
L'istinto la spingeva a oltrepassarla di corsa. La
curiosità le impose di fermarsi a guardare.
Il giovane scolpito era bellissimo nella sua nudità.
Cormia si guardò alle spalle. Non c'era nessuno.
Allungò la mano e sfiorò il collo della statua. Il marmo
era caldo, il che fu uno shock, poi però si rese conto che il
calore proveniva dal faretto incassato nel soffitto.
Pensò al Primale.
Avevano passato una giornata nello stesso letto, il
primo giorno, quando lui l'aveva portata in quella casa.
Aveva dovuto chiedergli il permesso di sdraiarsi accanto
a lui, nella sua stanza, e quando si erano stesi sotto le
116
lenzuola l'imbarazzo era calato su di loro come una
spinosa coltre di cardi.
A un certo punto lei si era assopita... ma era stata
svegliata da un enorme corpo maschile che le si premeva
addosso, e da una verga lunga e calda piantata contro il
fianco. Era troppo sconcertata per non acconsentire
quando, senza una parola, il Primale l'aveva spogliata
della tunica sostituendola con la propria pelle e con la
propria possanza fisica.
Non sempre era necessario parlare, in effetti.
Con una lenta carezza fece scorrere la punta delle dita
sul caldo petto di marmo della statua, indugiando sul
capezzolo che spuntava dalla piatta base di muscoli. Più
giù, costole e addominali offrivano una incantevole
sequenza di ondulazioni. Liscia, liscissima.
La pelle del Primale era altrettanto liscia.
Cormia posò la mano sul fianco della statua. Le
batteva forte il cuore.
Il caldo formicolio che sentiva non aveva nulla a che
fare con la pietra che aveva davanti. Nella sua mente lei
stava toccando il Primale, era del Primale il corpo sotto le
sue dita. Era suo, e non della statua, il membro che la
attirava.
La sua mano scese ancora fino a librarsi sulla sommità
dell'osso pubico del maschio scolpito.
117
Dall'atrio salì il rumore di qualcuno che entrava in
casa.
Cormia fece un balzo all'indietro, scostandosi dalla
statua talmente in fretta da incespicare nell'orlo della
tunica.
Passi pesanti salirono le scale di corsa fino al primo
piano. Cormia si nascose nella nicchia di una finestra e
sbirciò da dietro l'angolo.
In cima allo scalone comparve il fratello Zsadist. Era in
tenuta da combattimento, con due pugnali sul petto e
una pistola al fianco... e dalla piega dura della mascella
sembrava ancora sul campo di battaglia.
Si allontanò con passo deciso uscendo dal suo campo
visivo; poco dopo Cormia udì bussare a quella che
doveva essere la porta dello studio del re.
In punta di piedi andò in fondo al corridoio,
fermandosi dietro l'angolo.
Qualcuno abbaiò un ordine, poi la porta si aprì e si
richiuse.
La voce del re risuonava oltre il muro contro cui era
appoggiata. «Nottataccia, Z? Hai la faccia di uno che ha
appena subito un brutto tiro.»
La voce del fratello Zsadist era cupa. «Phury è già
rientrato?»
«Stanotte? Non che io sappia.»
118
«Maledetto bastardo. Aveva detto che stava tornando
a casa.»
«Il tuo gemello dice un sacco di cose. Perché non mi
ragguagli sul dramma di oggi?»
Appiattendosi contro al muro nella speranza di non
farsi notare, Cormia si augurò che non arrivasse nessuno.
Che cosa aveva combinato il Primate?
«L'ho beccato che affettava un lesser neanche fosse un
piatto di sushi.»
Il re imprecò. «Ma non ti aveva assicurato che avrebbe
smesso?»
«È così, infatti.»
Ci fu un lamento, come se il re si stesse stropicciando
gli occhi o forse massaggiando le tempie. «Allora, che
cosa hai visto di preciso?»
Ci fu una lunga pausa.
La voce del re si abbassò ancora di più. «Z, vecchio
mio, parla.
Devo sapere con che cosa ho a che fare per poter
intervenire.»
«E va bene. L'ho pescato con due lesser. Aveva perso la
protesi e aveva un segno rossastro intorno al collo, come
se avessero tentato di strangolarlo con una catena. Era
chino sopra la pancia di un lesser, col pugnale in mano.
119
Maledizione... non si rendeva minimamente conto di
quello che aveva intorno. Non mi ha visto finché non ho
parlato. Avrei potuto essere un altro lesser del cazzo e
allora? In questo momento lo starebbero torturando
oppure sarebbe già morto stecchito.»
«Cosa cazzo devo fare con quel ragazzo?»
La voce di Z assunse un tono teso. «Non voglio che
venga sbattuto fuori.»
«È una decisione che non spetta a te. E non guardarmi
in quel modo... sono ancora il tuo capo, razza di
esaltato.» Ci fu una pausa. «Merda, comincio a pensare
che il tuo gemello vada spedito di volata da un fottuto
strizzacervelli. È un pericolo per se stesso e per gli altri.
Gli hai detto niente?»
«Siamo stati interrotti dalla polizia...»
«Sono arrivati anche gli sbirri? Cristo...»
«Per cui, no, non gli ho parlato.»
Le voci giunsero soffocate finché il fratello Zsadist
disse, alzando il tono, «Hai pensato cosa significherebbe,
per lui? La confraternita è la sua vita.»
«Sei tu che hai sottoposto il caso alla mia attenzione.
Usa la testa. Una settimana di sospensione e una piccola
vacanza non bastano a sistemare le cose.»
120
Ci fu un altro silenzio. «Senti, devo andare a vedere
come sta Bella. Parla con Phury prima di prendere
provvedimenti drastici. Ti ascolterà. E ridagli questo.»
Qualcosa di pesante colpì quella che doveva essere
una scrivania; Cormia s'infilò in una delle camere degli
ospiti. Un attimo dopo sentì i passi pesanti del fratello
Zsadist che si dirigeva in camera sua.
Un pericolo per se stesso e per gli altri.
Non riusciva a immaginarsi il Primale che brutalizzava
i loro nemici o che per imprudenza si metteva in pericolo.
Ma perché il fratello Zsadist avrebbe mentito?
Non lo avrebbe mai fatto.
Improvvisamente esausta, si sedette sul bordo del letto
e tanto per fare qualcosa si guardò intorno. La stanza era
della stessa tonalità lavanda della sua rosa preferita.
Che bel colore, pensò, abbandonandosi all'indietro sul
piumone.
Proprio bello, anche se non servì a placare la sua
agitazione.
La Caldwell Galleria era due piani di Hollister, H&M,
Express,
Banana Republic e Ann Taylor nella periferia
residenziale della città. Con JCPenney, Lord and Taylor e
Macy's che presidiavano le estremità dei tre raggi della
piantina, era piazzata nel classico settore centrale di tutti
121
i centri commerciali, e attirava una folla fatta per tre
quarti di adolescenti e per un quarto di mammine
irrequiete. La sezione gastronomica era costituita da Mac
Donald's, KuikWok, California Smoothie, Auntie Anne's
e Cinnabon. I chioschi lungo le gallerie centrali
vendevano maglieria fatta a mano, bambolotti che
dondolavano la testa, telefoni cellulari e calendari con
foto di animali.
C'era odore di chiuso e di fragole di plastica.
Porca miseria, era al centro commerciale, pensò John
Matthew.
Non riusciva a crederci. Era lì al centro commerciale.
Troppo strano. Quando si dice ritrovarsi al punto di
partenza.
Dall'ultima volta che l'aveva visto gli avevano dato
una bella rinfrescata: al posto delle varie tonalità di beige,
adesso c'era un tema giamaicano giocato sul rosa e sul
verde oceano. Tutto, dalle piastrelle del pavimento ai
cestini dell'immondizia, dalle piante finte in vaso alle
fontane sembrava urlare We be jammin', all'insegna del
reggae.
Era tipo una camicia hawaiana addosso a un
cinquantenne. Allegramente e sgradevolmente fuori
posto.
Dio, come cambiano le cose. L'ultima volta che era
stato lì era un orfanello tutto pelle e ossa che si trascinava
dietro a un branco di altri bambini indesiderati. E adesso
122
eccolo lì, con due zanne in bocca, scarpe numerò 48 e un
fisico grande e grosso da cui tutti si tenevano alla larga.
Però era ancora orfano.
A proposito di orfani, cavolo, ricordava come fosse ieri
quelle gitarelle È al centro commerciale. Ogni anno il St.
Francis portava i suoi piccoli ospiti alla Galleria, prima di
Natale; una autentica crudeltà, visto che nessuno dei
bambini aveva i soldi per comprare le cose carine e
luccicanti in vendita. John aveva sempre paura che li
cacciassero via o roba del genere, perché nessuno del
gruppo aveva i sacchetti con gli acquisti che
autorizzavano a usare i gabinetti.
Ma quella sera non ci sarebbero stati problemi, pensò,
battendo la mano sulla tasca posteriore dei calzoni. Nel
portafoglio aveva quattrocento dollari guadagnati
lavorando nell'ufficio del centro di addestramento.
Che sollievo avere un po' di grana da spendere e
sentirsi a proprio agio in mezzo alla massa di clienti a
zonzo.
«Hai scordato il portafoglio?» chiese Blay.
John scosse la testa. Ce l'ho.
Qualche passo più avanti Qhuinn, alla testa del
terzetto, camminava spedito. Era di premura da quando
erano entrati e, quando Blay si fermò un attimo davanti a
Brookstone, guardò l'orologio con ostentata impazienza.
123
«Vediamo di sbrigarci, Blay», sbottò, «Manca solo
un'ora alla chiusura.»
«Che cos'hai stasera?» fece Blay, accigliato, «Sei teso da
matti, e non in senso buono.»
«Ma fammi il piacere.»
Allungarono il passo, oltrepassando gruppi di
adolescenti compatti come banchi di pesci, divisi in base
al tipo o al sesso: femmine e maschi non si mescolavano,
dark e fighetti delle scuole private non si mischiavano, I
confini erano molto chiari. John ricordava perfettamente
come funzionava: essendo stato escluso da ogni gruppo
aveva potuto osservarli tutti quanti.
Qhuinn si fermò davanti ad Abercrombie and Fitch.
«Urban Outfitters è troppo alternativo per te. Ti
metteremo addosso lo stile A-and-F.»
John si strinse nelle spalle e a gesti disse, Continuo a
pensare che non mi occorrano tutti questi vestiti nuovi,
«Hai due paia di Levi's, quattro T-shirt Hanes e un
paio di Nike, E quella felpa lì.» Felpa venne pronunciato
con lo stesso entusiasmo di gatto spiaccicato sull'asfalto.
Ho anche delle tute da ginnastica.
«Che ti varranno di sicuro la copertina di GQ, e
allora?» Qhuinn entrò nel negozio. «Dai, andiamo.»
John lo seguì insieme a Blay. All'interno la musica era
alta, i vestiti tutti ammassati e le foto dei modelli alle
124
pareti mostravano una schiera di individui perfetti in
bianco e nero.
Qhuinn cominciò a far passare file e file di camicie
appese con un'aria di vago disgusto, come se fosse roba
adatta a sua nonna. Più che logico, visto che lui era
decisamente tipo da Urban Outfitters, con la grossa
catena che penzolava dai jeans blu scuro, la T-shirt
Affliction con il teschio e le ali e gli enórmi anfibi neri. I
capelli scuri erano ritti in testa come spuntoni e aveva
sette piercing di bronzo all'orecchio sinistro, sette borchie
che andavano dal lobo alla sommità della cartilagine.
Si era fatto anche altri piercing, ma John non sapeva
bene dove. Meglio non sapere certe cose degli amici.
Blay, che invece era più nello stile del negozio, si
staccò per andare a vedere la sezione dei jeans sdruciti
"effetto usato", che sembravano di suo gradimento. John
si tenne in disparte, meno interessato ai vestiti che al fatto
che tutti li stavano guardando. Per quel che ne sapeva gli
umani non erano in grado di avvertire la presenza dei
vampiri, ma, che cavolo, per qualche motivo loro tre
erano al centro dell'attenzione.
«Posso aiutarvi?» Tutti e tre si voltarono. La ragazza
che aveva parlato era alta come Xhex, ma le analogie tra
le due femmine finivano lì. A differenza di quella che
abitava le fantasie di John, questa era molto in alto nella
scala della femminilità e soffriva di una specie di
sindrome di Tourette legata ai capelli, un tic che si
manifestava in incessanti scatti della testa e nell'impulso
evidentemente incontenibile di accarezzare e lisciare la
125
sua fantastica chioma ricciuta. Però aveva talento. In
qualche modo riusciva a fare tutti quei maneggi coi
capelli senza scadere nel ridicolo.
Francamente, era impressionante. Anche se non
necessariamente in senso buono.
Xhex non avrebbe mai...
Cazzo. Perché cavolo doveva sempre riportare tutto a
Xhex? Qhuinn sorrise alla ragazza, negli occhi un guizzo
che presagiva fantasie a quattro zampe. «Tempismo
perfetto. Abbiamo proprio bisogno di aiuto. Al mio
amico, qui, serve una bella iniezione di vita. Ci pensi tu?»
Oh. Dio. No. Pensò John.
Quando la ragazza gli lanciò un'occhiata, il suo
sguardo bollente lo fece sentire come se lo avesse
afferrato in mezzo alle gambe dandogli una strizzata al
pacco per vedere com'era messo. ... Si rifugiò dietro ima
rastrelliera di camice button-down nuove di zecca ma
dall'aria vissuta.
«Sono io che dirigo il negozio», spiegò la ragazza, con
ima voce strascicata molto sexy. «Quindi siete in buone
mani. Tutti e tre.»
«Beeeene.» Qhuinn fece scorrere gli occhi spaiati sulle
gambe vellutate della tipa. «Perché non cominci a
sistemare lui? Io intanto guardo.»
«Tu scegli una cosa, io la controllo e poi gliela porto in
camerino», intervenne Blay piazzandosi di fianco a John.
126
Con un sospiro di sollievo, John ringraziò brevemente
Blay per essere andato di nuovo in suo soccorso. Il suo
secondo nome era "paraurti", senza scherzi.
Purtroppo la tipa li gratificò di un sorriso ancora più
largo. «Due al prezzo di uno per me va bene. Tu
controlli, dici? Non sapevo che stasera ci fosse una
svendita di bei maschioni.»
Okay, sarebbe stato terribile.
Un'ora dopo, però, John si sentiva meglio. Venne fuori
che Stephanie, la responsabile del negozio, aveva occhio;
una volta concentratasi sul vestiario si diede una calmata
e lasciò perdere occhiate provocanti e doppi sensi. John si
ritrovò con dei bei jeans "effetto usato", un po' di quelle
morbide camice button-down e un paio di magliette
attillate che, doveva ammetterlo, gli mettevano in risalto
bicipiti e pettorali come cose degne di essere ammirate.
In più gli rifilarono anche un paio di collanine e una felpa
con cappuccio nera.
Alla fine andò alla cassa con tutti i suoi acquisti
drappeggiati sul braccio. Mettendo giù i vestiti, lanciò
un'occhiata a un cestino pieno di braccialetti. In mezzo al
groviglio di cuoio e conchiglie fu colpito da un lampo
color lavanda è rovistò dentro al mucchio per prenderlo.
Tirò fuori un braccialetto intrecciato con perline dello
stesso colore della rosa di Cormia e, sorridendo, lo infilò
di nascosto sotto una delle magliette.
Stephanie fece il conto.
127
Il totale superava i seicento bigliettoni. Sei. Cento.
Dollari.
John si imbufalì. Aveva solo circa quattro...
«Ce li ho io», intervenne Blay, allungando ima carta di
credito nera, la prestigiosa Black Centurion American
Express. «Puoi rimborsarmi più avanti», aggiunse
scoccandogli un'occhiata.
Alla vista del tesserino di plastica, Stephanie strabuzzò
gli occhi, poi scrutò intensamente Blay, quasi gli stesse
cambiando il cartellino del prezzo. «È la prima volta che
mi capita di vedere una black AmEx.»
«Non è niente di che», si schermì Blay, mettendosi a
frugare in un mucchio di collanine.
John gli diede una stretta al braccio e poi batté sul
registratore di cassa per attirare l'attenzione di Stephanie.
Allargò le banconote sul bancone, ma Blay scosse la testa
e a gesti disse, Mi rimborserai dopo, okay? So che posso
fidarmi. E pòi, parliamoci chiaro, vuoi davvero tornare qui a
prendere quello che non riesci a pagare subito? Io no di certo.
John si accigliò; era un ragionamento che non faceva
una grinza. Però poi te li restituisco, disse a gesti dopo
avergli allungato i suoi quattrocento dollari.
Con calma, ribatté Blay. Non c'è nessuna fretta.
Stephanie fece scorrere la carta di credito nel lettore,
digitò l'ammontare e attese con la punta delle dita sullo
scontrino. Qualche secondo dopo si udì un trillo;
128
Stephanie strappò via la ricevuta e la porse a Blay
insieme a una penna bic blu.
«E così... tra poco chiudiamo...»
«Ah sì?» fece Qhuinn poggiando un fianco contro il
bancone. «Cosa significa, esattamente?»
«Che dopo resto solo io. Sono il grande capo. Lascio
andare gli altri prima di me.»
«Ma così sarai tutta sola.»
«Già. È vero. Sola soletta.»
Merda, pensò John. Se Blay era un paraurti, Qhuinn
era il re delle complicazioni.
L'amico sorrise. «Sai, io e i miei soci non staremmo
tranquilli a lasciarti qui tutta sola.»
Ah, sì invece... sì, pensò John. I tuoi soci starebbero
alla grande.
Tragicamente, il sorriso sornione di Stephanie siglò
l'accordo. Non sarebbero andati da nessuna parte se
prima Qhuinn non entrava nel suo registratore di cassa.
Per fortuna fece alla svelta. Dieci minuti dopo il
negozio era vuoto e la saracinesca abbassata. E Qhuinn
veniva attirato per la catena dei jeans verso un bacio alla
francese.
129
John si aggrappò ai suoi due sacchettoni mentre Blay
si fingeva interessato alle camicie che aveva già guardato.
«Andiamo in uno dei camerini», disse Stephanie
contro la bocca di Qhuinn.
«Perfetto.»
«Può aggregarsi anche qualcun altro, a proposito.» La
ragazza si voltò e i suoi occhi si posarono su John. E lì
restarono. «C'è un sacco di spazio.»
Non esiste, pensò John. Non esiste proprio.
Negli occhi spaiati di Qhuinn si accese un lampo di
irritazione; da dietro la schiena della ragazza, a gesti,
disse, Vieni con noi, John. Sarebbe ora.
Stephanie scelse proprio quel momento per prendere il
carnoso labbro inferiore di Qhuinn tra i denti candidi e la
sua coscia tra le gambe. Era facile immaginare cosa gli
avrebbe fatto. Prima che lui si facesse lei.
John scosse la testa. Io resto qui.
E dai. Puoi guardarmi, prima. Ti mostro come si fa.
L'invito di Qhuinn non fu una sorpresa. Lui faceva
regolarmente sesso in coppia. Solo era la prima volta che
chiedeva a John di fargli compagnia.
E dai, John, vieni con noi.
No, grazie.
130
Qhuinn si rabbuiò. Non puoi startene sempre in panchina,
John.
John distolse lo sguardo. Sarebbe stato più facile
incazzarsi con l'amico se anche lui non avesse pensato
regolarmente la stessa cosa.
«E va bene», si arrese Qhuinn. «Noi torniamo tra un
po'.»
Con un sorriso pigro fece scivolare la mani sul sedere
della ragazza e la sollevò da terra. Mentre camminava
all'indietro, la gonna di lei si alzò, lasciando intravedere
le mutandine rosa e le natiche bianche.
Quando quei due si furono dileguati, John si voltò
verso Blay per fare un commento su quant'era porco
Qhuinn, ma si bloccò di colpo. Con una strana
espressione sul viso, Blay aveva lo sguardo puntato sul
camerino.
John fece un fischio sommesso per attirare la sua
attenzione. Puoi raggiungerli, sai. Se vuoi stare con loro. Io
sto bene qui.
Blay scosse la testa un po' troppo in fretta. «Naa. Resto
qui anch'io.»
Peccato che i suoi occhi tornarono a fissare il camerino
e non si schiodarono da lì, mentre ne usciva un gemito,
Dal suono non si capiva chi l'avesse fatto, e l'espressione
di Blay divenne ancora più tesa.
John fischiò di nuovo. Tutto okay?
131
«Tanto vale mettersi comodi», disse Blay andando a
sedersi sullo sgabello dietro la cassa chiusa a chiave.
«Saremo bloccati qui dentro per un bel po'.»
E va bene, pensò John. Qualunque fosse il motivo del
palese fastidio di Blay, era off limits.
Con un salto si issò a sedere sul bancone, lasciando
penzolare le gambe. Nel sentire un altro gemito cominciò
a pensare a Xhex e gli venne duro.
Grandioso. Proprio favoloso.
Stava tirando fuori la camicia dai calzoni per
nascondere il suo problemino quando Blay chiese,
«Allora, per chi è il braccialetto?»
È per me, rispose in fretta John.
«Sì, come no. Non è della tua misura.» Ci fu una
pausa. «Non sei obbligato a dirmelo, se non ti va.»
Onestamente, non è niente di importante.
«Okay.» Un minuto dopo Blay disse, «Allora, ti va di
fare un salto allo ZeroSum, dopo?»
John annuì a testa china.
Blay ridacchiò piano. «Ci avrei giurato. E scommetto
che se ci andassimo anche domani sera non avresti nulla
in contrario.»
Domani sera non posso, rispose lui soprappensiero.
132
«Perché no?»
Cazzo. Non posso e basta. Devo stare a casa.
Dal fondo del negozio si levò un altro gemito, poi ebbe
inizio un rimbombo ritmico, soffocato.
Quando i rumori cessarono, Blay trasse un profondo
sospiro, come dopo ima lunga corsa di allenamento. John
non poteva biasimarlo. Anche lui non vedeva l'ora di
uscire dal negozio. Con le luci basse e nessun altro in
giro, i vestiti appesi avevano un'aria sinistra.
In più, se si sbrigavano ad andare allo ZeroSum gli
restavano un paio d'ore buone per guardare Xhex, il che
era...
Patetico, in effetti.
I minuti scorrevano lenti. Dieci. Quindici. Venti.
«Merda», bofonchiò Blay. «Ma cosa diavolo stanno
combinando?»
John fece spallucce. Impossibile dirlo, dati i gusti del
loro amico.
«Ehilà, Qhuinn?» chiamò Blay. Non ottenendo
risposta, neanche lo straccio di un grugnito, scivolò giù
dallo sgabello. «Vado a vedere cosa succede.»
Andò al camerino e bussò. Un momento dopo infilò
dentro la testa. In un attimo sbarrò gli occhi, spalancò la
133
bocca e avvampò dalla radice dei capelli rossi fino alle
mani.
Ma beeeene. Evidentemente non avevano ancora finito.
Qualunque cosa stesse succedendo là dentro valeva la
pena di essere vista, perché Blay non si voltò subito. Un
istante dopo mosse lentamente la testa avanti e indietro,
forse rispondendo a una domanda di Qhuinn.
Blay tornò verso la cassa a testa china, con le mani
infilate in tasca. In silenzio si rimise seduto sullo sgabello,
ma cominciò a battere nervosamente il piede su e giù.
Era chiaro che non aveva più voglia di stare lì, e John
non poteva dargli torto.
Che cavolo, a quel punto potevano già essere allo
ZeroSum.
Dove lavorava Xhex.
Ancora quel simpatico pensiero ossessivo... avrebbe
voluto prendere a testate il bancone. Cribbio...
chiaramente la parola patetico ormai aveva un'altra
ortografia.
Adesso si scriveva J-O-H-N M-A-T-T-H-E-W.
134
Capitolo 8
Uno dei problemi con la vergogna, è che in realtà non
ti rende più basso, più silenzioso o meno visibile. Ti senti
né più né meno come sei.
Fermo nel cortile della grande casa della confraternita,
Phury guardava la sua facciata imponente. Grigia, tetra e
con una schiera di finestre scure che ti scrutavano torve,
sembrava un gigante sepolto fino al collo, tutt'altro che
felice di quella immersione sottoterra.
Non era pronto a entrare in casa più di quanto la casa
sembrasse pronta ad accoglierlo.
Si levò una leggera brezza e lui guardò verso nord. Era
una tipica notte agostana dell'interno dello Stato di New
York. Tutt'intorno era ancora estate, con gli alberi
fronzuti, la fontana che ciangottava e i grossi vasi a forma
di urna ai due lati dell'ingresso. L'aria era diversa, però.
Un po' più asciutta. Un po' più fresca.
Le stagioni, come il tempo, sono inarrestabili, giusto?
No, sbagliato. Le stagioni sono solo uno strumento di
misurazione del tempo, proprio come gli orologi e i
calendari.
Sto invecchiando, pensò.
135
Con la testa che partiva in direzioni ancora peggiori
del cazziatone che con ogni probabilità lo attendeva
dentro casa, attraversò il vestibolo ed entrò nell'atrio.
Dalla sala del biliardo giunse l'eco della voce della
regina, accompagnata da un quartetto di palle che si
scontravano delicatamente e da un paio di colpi più
sonori. L'imprecazione e la risata che seguirono avevano
entrambi un accento bostioniano. Il che significava che
Butch, in grado di battere chiunque altro in casa, aveva
appena perso contro Beth. Di nuovo, evidentemente.
Ascoltandoli, Phury non riuscì a ricordare l'ultima
volta che aveva giocato una partita a biliardo o
semplicemente passato del tempo in compagnia dei
fratelli - e se anche l'avesse fatto, non sarebbe stato del
tutto a suo agio. Non lo era mai. Per lui, la vita era una
moneta con il disastro su una faccia e l'attesa del disastro
sull'altra.
Hai bisogno di farti un'altra canna, socio, sentenziò il
mago con voce strascicata. Meglio ancora un bel cannone.
Non cambierà il fatto che sei uno sciocco bastardo, ma
aumenterà le tue probabilità di dare fuoco al letto quando ci
crollerai svenuto.
Su quella nota, Phury decise di prendere il toro per le
corna e salì al piano di sopra. Con un po' di fortuna, la
porta di Wrath sarebbe stata chiusa...
Era aperta, e il re era seduto alla scrivania.
Wrath alzò gli occhi dalla lente di ingrandimento con
cui stava leggendo un documento. Malgrado gli occhiali
136
da sole avvolgenti, era chiaro come il sole che era
arrabbiato. «Ti stavo aspettando.»
Nella testa di Phury il mago alzò la lunga veste nera e
si accomodò su una poltrona reclinabile foderata di pelle
umana. Il mio regno per dei popcorn e delle mentine ricoperte
di cioccolato. Sarà spetTAAAcolare.
Phury entrò nello studio senza far caso alle pareti blu
oltremare, ai sofà di seta color panna e alla mensola in
marmo bianco del camino. Dall'odore di lesser che
aleggiava nell'aria capì che Zsadist era appena stato lì.
«Immagino che Z ti abbia già parlato», disse, perché
non c'era motivo di non dire pane al pane.
Wrath posò la lente d'ingrandimento e si appoggiò
allo schienale della poltroncina, dietro lo scrittoio Luigi
XIV. «Chiudi la porta.»
Phury obbedì. «Vuoi che parli io per primo?»
«No, tu parli già abbastanza.» Il re sollevò i piedi e li
lasciò ricadere sul delicato scrittoio. I grossi stivali
atterrarono come due palle di cannone. «Parli anche
troppo.»
Più per cortesia che per curiosità, Phury attese che il re
elencasse tutti i suoi fallimenti. Li conosceva a memoria:
cercare di farsi ammazzare sul campo, assumere il ruolo
di Primale delle Elette senza portare a compimento la
cerimonia, essere troppo coinvolto dalla vita di Z e Bella,
non prestare abbastanza attenzione a Cormia, fumare in
continuazione...
137
Si concentrò intensamente sul suo re e attese che una
voce diversa da quella del mago criticasse le cazzate di
cui era responsabile.
Nulla di tutto ciò. Wrath non disse assolutamente
niente.
Il che sembrava suggerire che ogni parola era
superflua: i problemi erano così chiari e lampanti che
sarebbe stato come indicare una bomba che esplodeva e
dire, Ragazzi, che baccano... lascerà anche un bel cratere nel
marciapiede, eh?
«Ripensandoci», disse Wrath, «dimmi cosa dovrei fare,
con te. Dimmi cosa cazzo dovrei fare.»
Quando Phury non rispose, Wrath mormorò, «No
comment? Significa che neanche tu hai idea di cosa fare?»
«Penso che entrambi conosciamo la risposta.»
«Non ne sono sicuro. Tu cosa pensi che dovrei fare?»
«Mettermi a riposo per un po'.» «Ah.»
Altro silenzio.
«Allora siamo a questo punto?» chiese Phury. Cristo,
che voglia di uno spinello.
Il re batté le punte degli stivali. «Non saprei.»
«Significa che posso continuare a combattere?» Molto
meglio di quanto osasse sperare, «Ti do la mia parola...»
138
«Vaffanculo.» Wrath si alzò di scatto e girò intorno alla
scrivania. «Hai detto al tuo gemello che stavi venendo
qui, ma scommetto tutto quello che vuoi che sei andato
da Rehvenge. Hai promesso a Z che l'avresti piantata di
sfogarti sui lesser e non l'hai fatto. Hai detto che saresti
diventato Primale, e non lo sei. Porco mondo, continui a
ripetere che te ne vai in camera tua a dormire, ma tutti
noi sappiamo cosa combini, lì dentro. Onestamente, ti
aspetti che possa ancora prenderti in parola?»
«Allora dimmi cosa vuoi che faccia.»
Dietro gli occhiali da sole, gli occhi pallidi, quasi
ciechi, del re sembravano cercare qualcosa. «Non sono
sicuro che una sospensione e un ciclo di terapia servano a
qualcosa, perché non credo che rispetterai la prima e che
seguirai la seconda.»
Phury sentì insinuarsi nelle viscere una paura gelida,
simile a un cane ferito e bagnato che si raggomitola su se
stesso. «Vuoi sbattermi fuori?»
Era già capitato, nella storia della confraternita. Non
spesso, ma era capitato. Gli tornò in niente Murhder...
merda, sì, probabilmente era stato lui l'ultimo a venire
espulso.
«Mica è così facile, cosa credi?» disse Wrath. «Se ti
caccio che ne sarà delle Elette? Il Primale è sempre stato
un fratello, e non solo per motivi di lignaggio. E poi Z
non la prenderebbe affatto bene, per quanto adesso sia
incazzato con te.»
139
Fantastico. Le sue ancore di salvezza erano salvare il
suo gemello dall'andare fuori di testa e diventare lo
stallone da monta delle Elette.
Il re si avvicinò alle finestre. Fuori, gli alberi
ondeggiavano nel vento sempre più impetuoso.
«Ecco cosa penso.» Wrath alzò gli occhiali sulla fronte
e si stropicciò gli occhi come in preda a un gran mal di
testa. «Dovresti...»
«Mi dispiace», disse Phury, perché era l'unica cosa che
poteva dire.
:
«Anche a me.» Wrath lasciò ricadere gli occhiali sul
naso e scosse la testa. Tornò alla scrivania e si sedette, la
mascella contratta come le spalle. Aprì un cassetto ed
estrasse un pugnale nero.
Quello di Phury. Quello che aveva lasciato nel vicolo.
Z doveva averlo trovato e portato a casa.
Il re rigirò l'arma tra le mani e si schiarì la gola.
«Dammi l'altro pugnale. Sei escluso per sempre dalla
rotazione. Che tu veda o meno uno strizzacervelli o come
si metteranno le cose con le Elette non è affar mio. E non
ho consigli da darti perché la verità è che farai quello che
farai. Nulla di ciò che potrei importi o chiederti farebbe la
minima differenza.»
Il cuore di Phury si fermò per un istante. Tutto si
sarebbe immaginato, come possibile conclusione di
140
quell'incontro, tranne che Wrath si lavasse le mani
dell'intera faccenda.
«Sono ancora un fratello?»
Il re si limitò a fissare il pugnale... il che equivaleva a
una risposta: solo di nome.
Certe cose non occorre dirle, no?
«Parlerò con Z», mormorò il re. «Diremo che sei in
permesso amministrativo. Basta attività sul campo, per
te, e non venire più alle riunioni.»
Phury si sentì mancare, come se, precipitando in
caduta libera da un palazzo, avesse appena avvistato il
marciapiede su cui stava per sfracellarsi.
Niente più ancore di salvezza. Niente più promesse da
infrangere. Per il re, adesso Phury doveva arrangiarsi da
solo.
Millenovecentotrentadue, pensò. Era
confraternita per settantasei anni soltanto.
stato
nella
Portandosi la mano al petto afferrò il pugnale che gli
restava, sfoderò l'arma con gesto sicuro e la posò su
quell'incongruo scrittoio azzurro chiaro.
Salutò il suo re con un inchino e uscì senza un'altra
parola.
141
Bravo, esclamò il mago. Peccato che i tuoi genitori siano
già morti, socio. Sarebbero così fieri, in questo momento...
aspetta, riportiamoli indietro, eh, cosa dici?
Phury fu assalito con prepotenza da due immagini:
suo padre svenuto in una stanza piena di bottiglie di
birra vuote, sua madre stesa a letto con la faccia rivolta al
muro.
Tornò in camera sua, tirò fuori la sua scorta personale
di fumo, si rollò una canna e l'accese.
Con tutto quello che era successo quella notte e il
mago che si divertiva a fare l'anti-Oprah, o si metteva a
fumare o si metteva a urlare. Si mise a fumare.
Dall'altra parte della città, Xhex era tutt'altro che felice
mentre scortava Rehvenge fuori dall'uscita posteriore
dello ZeroSum e lo aiutava a salire sulla Bentley blindata.
A vederlo, il suo capo non stava meglio di lei: un'ombra
scura e tetra avvolta in una pelliccia di zibellino lunga
fino ai piedi che attraversava lenta il vicolo.
Xhex gli aprì la portiera del lato guidatore e attese che
si accomodasse sul sedile anatomico con l'aiuto del
bastone. Malgrado i ventun gradi della nottata, Rehv alzò
il riscaldamento al massimo e si strinse i baveri della
pelliccia intorno al collo - segno che la sua ultima
iniezione di dopamina doveva ancora esaurire il suo
effetto. Presto però sarebbe successo. Quando faceva quei
viaggi non era mai sotto l'effetto dei farmaci. Altrimenti
non era sicuro.
Non era sicuro, punto e basta.
142
Per venticinque anni Xhex si era offerta di
accompagnarlo per dargli man forte in quelle visite alla
sua ricattatrice; tutte le volte lui le aveva detto di no, così
adesso si risparmiava la fatica e teneva il becco chiuso. Il
costo del suo silenzio, però, era un umore nerissimo.
«Andrai a stare nella tua casa sicura?» chiese. «Sì.»
Xhex chiuse la portiera e seguì con lo sguardo l'auto
che si allontanava. Rehv non le svelava mai il luogo di
quegli incontri, ma lei sapeva più o meno dove
avvenivano, il GPS dell'auto indicava che Rehv andava
a nord.
Dio, detestava quello che era costretto a fare.
Per via del casino che lei aveva combinato venticinque
anni prima, Rehv doveva prostituirsi ogni primo martedì
del mese per proteggere entrambi.
La Principessa symphath da cui si lasciava scopare era
pericolosa. E pazza di lui.
All'inizio Xhex si aspettava che quella troia li
denunciasse entrambi in forma anonima per farli
deportare nella colonia dove venivano esiliati i symphath.
Lei però era stata più furba. Se fossero saliti su quella
nave, per quanto robusti, sarebbero stati fortunati a
sopravvivere sei mesi. I mezzosangue non potevano
competere con i symphath di razza pura, senza contare
che la Principessa era sposata col suo stesso zio.
Un despota possessivo e assetato di potere come
nessun altro.
143
Xhex imprecò. Non sapeva perché Rehv non la
odiasse, e non capiva proprio come potesse tollerare di
farsi scopare. Aveva la sensazione, però, che quelle notti
fossero il motivo per cui si prendeva tanta cura delle sue
ragazze. A differenza del tipico pappone, sapeva
esattamente come si sentono le prostitute, sapeva di
preciso com'è sbattersi qualcuno controvoglia solo perché
quello ha qualcosa che ti serve, fossero soldi o silenzio.
Xhex non aveva ancora trovato una via d'uscita per
entrambi, e ciò che rendeva ancora più insostenibile la
situazione era che Rehv aveva rinunciato a liberarsi.
Quella che un tempo era stata una situazione critica era
diventata la nuova realtà. A distanza di vent'anni
scopava ancora per proteggere tutti e due, e sempre per
colpa di Xhex; ogni primo martedì del mese prendeva e
partiva, e faceva l'impensabile con una che odiava... e
quella era la sua vita.
«Cazzo», esclamò Xhex nel vicolo deserto. «Quando
mai cambieranno le cose?»
L'unica risposta che ottenne fu una raffica di vento che
le soffiò addosso dei fogli di giornale e dei sacchetti di
plastica.
Rientrata nel locale, gli occhi si adattarono alle luci
psichedeliche, le orecchie assorbirono la musica dal ritmo
ipnotico e la pelle registrò un lieve calo di temperatura.
La sala VIP sembrava relativamente tranquilla, c'erano
i soliti habitué, ma Xhex stabilì comunque un contatto
visivo con i suoi due buttafuori. Dopo che essi ebbero
annuito segnalando il "tutto regolare", Xhex gettò un
144
occhio alle ragazze impegnate nei séparé. Controllò
l'andirivieni delle cameriere, i vassoi che portavano via i
bicchieri vuoti e li riportavano pieni. Valutò il livello
delle bottiglie dietro al bancone del bar dei VIP.
Giunta al cordone di velluto, si volse verso i clienti che
affollavano la parte principale del club. La massa sulla
pista da ballo si muoveva come un oceano agitato,
gonfiandosi, dividendosi e riavvicinandosi di nuovo. Ai
margini della pista, coppie e terzetti si dimenavano,
palpandosi, i laser rimbalzavano su volti e corpi
avvinghiati nella penombra.
Quella sera, a regola, c'era poco movimento, le
settimane partivano in sordina, poi la gente via via
aumentava fino al picco del sabato sera. Per lei come
responsabile della sicurezza, di solito il venerdì era il
giorno più pesante, con gli idioti che scaricavano le
frustrazioni di una brutta settimana lavorativa
esagerando con la droga e andando in overdose o
scatenando qualche rissa.
Ciò detto, dal momento che i fessi con qualche
dipendenza erano il pane quotidiano, lì al locale poteva
scoppiare un casino in ogni momento di ogni serata.
Meno male che lei era proprio in gamba nel suo
lavoro. Rehv gestiva lo smercio di droga, alcol e donne,
controllava la sua squadra di allibratori in combutta con
la mala di Las Vegas e si occupava di alcuni progetti
speciali che richiedevano una certa qual dose di
"coercizione". Lei, invece, era incaricata di tenere sotto
controllo l'ambiente, in modo che gli affari si potessero
145
condurre col minimo possibile di interferenze da parte
dei poliziotti umani e dei clienti idioti.
Stava per andare a controllare il mezzanino quando
dall'ingresso principale vide entrare quelli che ormai lei
chiamava i Ragazzi.
Indietreggiando nell'ombra, seguì con gli occhi i tre
giovani vampiri che, superato il cordone di velluto della
zona VIP, puntavano verso il fondo del locale. Si
piazzavano sempre al tavolo della confraternita, se era
libero, il che significava che o avevano il senso della
strategia, visto che era situato in un angolo accanto a una
uscita di sicurezza, o che avevano ricevuto ordine da
parte dell'autorità costituita di andare a sedersi lì e
comportarsi bene.
"Autorità" nel senso del re, Wrath.
Già, i Ragazzi non erano la solita combriccola di amici,
pensò Xhex mentre i tre si mettevano comodi. Per tutta
una serie di ragioni.
Quello con gli occhi di due colori diversi era un
cercaguai e, come sempre, dopo aver ordinato la sua
Corona, si alzò e andò dall'altra parte del locale in cerca
di gnocca. Il rosso rimase indietro, anche questo come da
copione. Era il classico boy scout, onesto, perbene,
affidabile. Il che la rendeva sospettosa su quello che
poteva nascondersi sotto quell'immagine rassicurante da
bravo ragazzo.
Dei tre, però, la vera grana era il muto. Si chiamava
Tehrror, altrimenti detto John Matthew, e il re era il suo
146
whard. Per quanto la riguardava, quindi, era un piatto di
porcellana in un recinto per tori. Se gli succedeva
qualcosa il club era fottuto.
Caspita quant'era cambiato quel ragazzino, negli
ultimi mesi. Lo aveva visto prima della transizione,
magro come un chiodo e de-boluccio, uno scricciolo
indifeso; e adesso eccolo lì, un gran bel pezzo di
marcantonio... e i pezzi di marcantonio erano un
problema se si mettevano a menare le mani. Anche se
finora John era stato più il tipo della serie "mi metto qui
tranquillo a guardare", i suoi occhi erano decisamente
troppo vecchi per un viso così giovane, il che suggeriva
che doveva aver vissuto qualche brutta esperienza. E
quando la gente entra in crisi, le brutte esperienze del
passato tendono a gettare benzina sul fuoco.
Occhi Spaiati, alias Qhuinn, figlio di Lohstrong, tornò
con un paio di tipe a dir poco disponibili, due biondine
che a quanto pareva avevano scelto delle mise coordinate
ai loro cosmopolitan: rosa come il cocktail, e parecchio
succinte.
Il rosso, Blaylock, non aveva molto fascino, ma non era
un problema perché Qhuinn ne aveva da vendere per
tutti e due. Cribbio, ne avrebbe avuto da vendere anche
per John Matthew, salvo che quest'ultimo si teneva fuori
dal gioco. Almeno per quel che aveva visto lei.
Dopo che gli amichetti di John furono spariti nel retro
con le due smutandate, Xhex si avvicinò al tavolo senza
un motivo particolare. Appena la vide lui si irrigidì, ma
147
gli succedeva sempre, proprio come la teneva sempre
d'occhio. Quando eri a capo della
sicurezza di un locale la gente aveva la tendenza a
voler sapere dov'eri.
«Come va?» fece Xhex.
Lui si strinse nelle spalle giocherellando con la
bottiglia di Corona. Scommetto che vorresti avere
un'etichetta da staccare, eh?, pensò Xhex.
«Ti spiace se ti chiedo una cosa?»
Lui spalancò leggermente gli occhi, ma fece di nuovo
spallucce.
«Perché non vai mai nel retro con i tuoi amici?» Non
erano affaracci suoi, naturalmente e, soprattutto, non
sapeva perché le interessasse tanto. Ma che cavolo... forse
era tutta colpa del primo-martedì-del-mese. Cercando di
non pensarci, faceva di tutto per aggrapparsi a
qualcos'altro.
«Tu alle ragazze piaci», proseguì. «Ho visto come ti
squadrano. E anche tu le guardi, però poi te ne stai
sempre qui.»
John Matthew avvampò; il rossore del viso era visibile
anche nella penombra della sala.
«Sei già impegnato?» mormorò, ancora più curiosa. «Il
re ti ha già trovato una femmina?»
148
Lui scosse la testa.
Okay, doveva lasciarlo in pace. Quel poveretto era
muto, come diavolo si aspettava che le rispondesse?
«Voglio subito il mio drink!» La stentorea voce
maschile sovrastò la musica e Xhex voltò la testa di
scatto. Due divanetti più in là, uno sbruffone grande e
grosso avanti con gli anni, in compagnia di altri nonnetti,
se l'era presa con una cameriera, pronto a salire sul primo
treno espresso per Coglionilandia.
«Scusa un attimo», disse Xhex rivolta a John.
Quando lo smargiasso allungò la zampaccia da orso e
agguantò la cameriera per la gonna, la poveretta perse il
controllo del vassoio e i cocktail volarono per aria. «Ho
detto, dammi subito il mio drink!»
Xhex si piazzò dietro la cameriera, sorreggendola.
«Non preoccuparti. Adesso se ne va.»
L'omone si alzò rumorosamente dal divanetto,
ergendosi in tutta la sua statura. Era alto quasi due metri.
«Tu dici?»
Xhex gli andò sotto fino a ritrovarsi seno-contro-petto
e lo guardò dritto negli occhi; il suo istinto di symphath
reclamava a gran voce di potersi scatenare, ma lei si
concentrò sugli spuntoni metallici che si era stretta
intorno alle cosce. Traendo forza dal dolore che
infliggeva a se stessa, vinse la propria natura.
149
«Esca subito», intimò in tono pacato, «altrimenti la
trascino fuori di qui per i capelli.»
L'alito dell'uomo puzzava come un panino al tonno
vecchio di un giorno. «Odio le lesbiche. Credete sempre
di essere più toste di quello che siete in realt...»
Xhex lo afferrò per il polso, lo fece ruotare su se stesso
e gli torse il braccio dietro la schiena. Poi gli mise una
gamba intorno alle caviglie e con uno spintone gli fece
perdere l'equilibrio. L'uomo crollò come un quarto di
bue, atterrando sulla moquette a pelo raso, e nell'impatto
il fiato gli uscì tutto d'un colpo in un'imprecazione,
Con mossa fulminea, Xhex si chinò affondandogli una
mano tra i capelli modellati col gel e afferrandolo con
l'altra per il bavero della giacca. Trascinarlo a faccia
avanti verso l'uscita laterale era un'operazione azzardata
su più fronti: stava creando un gran clamore, si stava
rendendo colpevole di percosse e rischiava di far
scoppiare una rissa se gli altri esponenti di quell'Olimpo
di Ritardati Mentali decidevano di correre in soccorso del
loro amico. Ma ogni tanto bisognava dare un po' di
spettacolo. Tutti i coglioni autorizzati a stare nell'area
VIP la stavano osservando, così come i buttafuori, che già
di base erano dei tipetti irascibili, e le ragazze che
lavoravano nel locale, le quali per la maggior parte
avevano più che comprensibili problemi di gestione della
rabbia.
Per mantenere la pace ogni tanto toccava sporcarsi le
mani.
150
E, considerato tutto il gel usato da quello spaccone,
alla fine avrebbe dovuto lavarsele ben bene.
Giunta davanti all'uscita laterale, accanto al tavolo
della confraternita, si fermò per aprire la porta, ma venne
anticipata da John che, come un perfetto gentiluomo, la
spalancò tenendola aperta per lei.
«Grazie», disse Xhex.
Fuori nel vicolo rovesciò sulla schiena quel gradasso
della malora e gli frugò nelle tasche mentre lui se ne
stava lì, lungo disteso, battendo le palpebre come un
pesce sul ponte di una nave. Quella perquisizione era
un'altra infrazione, da parte sua. All'interno del club
Xhex aveva poteri di polizia, ma tecnicamente il vicolo
era di proprietà della città di Caldwell. Ma non era tanto
questo, il codice d'avviamento postale di quel
palpeggiamento era irrilevante: la perquisizione era
illegale perché lei non aveva fondati motivi di ritenere
che quel tizio fosse in possesso di droga o armi.
La legge non autorizzava a perquisire qualcuno solo
perché era uno stronzo.
Ah... ma vedi, ecco cosa vuol dire dar retta all'istinto.
Oltre al portafoglio, gli trovò addosso un bel po' di coca e
tre pasticche di ecstasy. Xhex fece dondolare le bustine di
cellofan davanti agli occhi dell'uomo.
«Potrei farti arrestare.» Sorrise mentre lui cominciava a
balbettare. «Sì, sì, certo, non sono tue, non sai come sono
finite nelle tue tasche, sei innocente come un angioletto.
Ma guarda sopra quella porta.»
151
Vedendo che il tizio non si muoveva, lo afferrò per la
mascella voltandogli la testa di lato.
«Vedi quell'occhiolino rosso lampeggiante? Quella è
ima teleca-mera di sicurezza. Per cui questa merda...»,
così dicendo agitò le bustine davanti alla telecamera, poi
aprì il portafoglio, «... questi
due grammi di cocaina e le tre pasticche di ecstasy che
sono usciti ; dal taschino della tua giacca, signor... Robert
Finlay... sono stati 'immortalati da una registrazione
digitale. Huh... ma guarda, hai
due bei bambini. Scommetto che preferirebbero fare
colazione con te, domani mattina, invece di mangiare con
una babysitter perché tua moglie sta tentando di tirarti
fuori di galera.»
Gli rimise il portafogli in tasca e trattenne la droga.
«Ecco come suggerisco di risolvere la questione: andando
ciascuno per la propria strada. Tu non ti fai più rivedere nel mio locale e
io non spedisco in gattabuia le tue miserabili palle da
strapazzo. Che ne dici? Affare fatto?»
Mentre l'umano valutava se accettare l'offerta oppure
tentare la sorte, Xhex si alzò in piedi e arretrò
leggermente, in modo da potergli sferrare un bel calcio
all'occorrenza. Dubitava che fosse necessario, però. Chi si
appresta a fare a botte è tutto contratto e con lo sguardo
vigile. Lo sbruffone invece era molle come un fico,
evidentemente era a corto di energie e anche il suo ego si
era sgonfiato.
152
«Vattene a casa», gli disse Xhex.
E lui lo fece.
Mentre lo guardava allontanarsi goffamente, si infilò
la droga nella tasca di dietro dei calzoni. «Ti è piaciuto lo
spettacolo, John Matthew?» disse senza voltarsi.
Quando lo guardò da sopra la spalla, rimase senza
fiato. Gli occhi del ragazzino brillavano nell'oscurità... e
lui la fissava con la concentrazione maniacale dei maschi
quando hanno voglia di fare sesso. Sesso spinto.
Porca... puttana. Non era un ragazzino quello che aveva
davanti, t Senza neanche accorgersene si insinuò nella
sua mente con un pizzico della sua natura di symphath.
John stava pensando a... se stesso su un letto sfatto, con la
mano tra le gambe sopra un uccello gigantesco mentre si
masturbava fantasticando su di lei.
L'aveva fatto un'infinità di volte.
Xhex si voltò e gli andò vicino. Quando gli arrivò
davanti, lui non indietreggiò, e lei non ne fu sorpresa. In
quel momento di cruda tensione erotica non era più un
cucciolo impacciato ansioso di tagliare la corda. Era tutto
virilità animale, pronto ad affrontarla faccia a faccia.
Il che era... oh, accidenti a lei, non era una bella cosa.
Proprio. Per. Niente.
Cazzo.
153
Mentre lo fissava, voleva dirgli di posare quelle
scintillanti biglie azzurre sulle umane del club e di
lasciarla fuori da tutta quella storia. Voleva dirgli che lei
era molto più che off limits e di piantarla con quelle
fantasie. Voleva metterlo in guardia come aveva fatto con
tutti gli altri, ad eccezione di quel coriaceo moribondo di
Butch O'Neal prima che diventasse un fratello.
Invece in un sussurro disse, «La prossima volta che mi
pensi in quel modo, dì il mio nome quando vieni. Ti
piacerà ancora di più.»
Poi si piegò di lato per aprire la porta del club,
lasciando strusciare la spalla contro il petto di John.
Il roco ansito di lui le rimase a lungo nell'orecchio.
Tornando al lavoro, si disse che era tutta accaldata per
lo sforzo di trascinare fuori dal locale quella testa di
cazzo.
Quella vampata di calore non c'entrava assolutamente
niente con John Matthew.
Quando Xhex rientrò nel club, John rimase lì impalato
come un maledetto idiota. Più che logico. Quasi tutto il
suo sangue era defluito dal cervello nell'erezione dentro i
jeans effetto usato A & F nuovi di pacca. Il resto gli era
salito in faccia.
Il che significava che il cervello era a secco.
Xhex aveva capito cosa faceva quando pensava a lei.
Ma come cavolo faceva a saperlo?
154
Uno dei Mori di guardia all'ufficio di Rehvenge si
avvicinò. «Sei dentro o fuori dalla porta?»
John si trascinò fino al divanetto, trangugiò la Corona
in due sorsate e fu lieto di vedere una cameriera
avvicinarsi con un'altra birra senza che l'avesse ordinata.
Xhex era sparita nella parte principale del club, e lui la
cercò con gli occhi, sforzandosi di vedere attraverso la
cascata ornamentale che separava i VIP dagli altri clienti.
Non aveva bisogno di vederla per sapere dov'era,
comunque. Avvertiva la sua presenza. In mezzo a tutti
quei corpi, sapeva qual era il suo. Xhex era al bar.
Dìo, il fatto che riuscisse a malmenare un tizio grosso
il doppio di lei senza neanche versare una goccia di
sudore era eccitante da morire.
Il fatto che non apparisse offesa per le sue fantasie
erotiche su di lei era un sollievo.
Il fatto che lo avesse invitato a dire il suo nome
quando veniva gli... faceva venir voglia di venire seduta
stante.
Questo rispondeva alla domanda che si era posto
qualche ora prima, no? Se preferiva il sole o il temporale.
E gli diceva esattamente cosa avrebbe fatto appena
arrivato a casa.
155
Capitolo 9
Fuori dal variegato mosaico delle fattorie nei
sobborghi rurali di Caldwell, a nord delle cittadine lungo
le sponde serpeggianti del fiume Hudson, a tre ore circa
dal confine canadese, i Monti Adirondack si ergevano
maestosi. Con le cime e i fianchi coperti di pini e di cedri,
la catena montuosa era stata originata dai ghiacciai
allungatisi oltre la frontiera con l'Alaska, prima che
quest'ultima prendesse il nome di Alaska e prima che
esistessero urbani o vampiri in grado di chiamarla
frontiera.
Allorché l'ultima era glaciale si era ritirata dentro i
libri di storia destinati a essere scritti molto tempo dopo,
le grandi vallate rimaste nel terreno si erano riempite
delle acque derivanti dallo scioglimento degli iceberg.
Nel corso delle generazioni successive gli umani avevano
assegnato dei nomi a quelle immense pozze geologiche,
nomi come Lago George, Lago Champlain, Lago Saranac
e Lago Blue Mountain.
Gli umani, quei fastidiosi parassiti prolifici come
conigli, con le loro nidiate di bambini, si erano stanziati
nel corridoio del fiume Hudson, in cerca di acqua al pari
di molti altri animali. Col passare dei secoli spuntarono
delle città e s'impose la "civiltà", con tutte le sue
intrusioni nell'ambiente.
156
Le montagne, tuttavia, erano rimaste sovrane. Anche
nell'era dell'elettricità e della tecnologia, delle automobili
e del turismo, gli Adirondack dominavano il paesaggio
di quel tratto settentrionale dello Stato di New York.
Per questo sopravvivono tanti angoli poco frequentati
nel folto di quelle foreste.
Lungo la I-87, altrimenti detta Northway, Via del
Nord, le uscite diventano sempre più rade finché capita
di fare anche dieci, quindici, venti chilometri senza poter
uscire dall'interstatale. E se metti la freccia e imbocchi
una bretella sulla destra, trovi solo un paio di botteghe,
un benzinaio e due o tre case.
È facile nascondersi, sugli Adirondack.
Anche per i vampiri è facile nascondersi, sugli
Adirondack.
A fine nottata, mentre il sole si apprestava a fare la sua
grandiosa, sensazionale entrata in scena, un vampiro
attraversava da solo i fitti boschi del Monte Saddleback,
trascinando il corpo avvizzito come anni prima avrebbe
trascinato un sacco dell'immondizia. La fame era la sola
cosa che lo spingeva a muoversi, ad aprirsi un varco tra i
rami, l'istinto primordiale per il sangue ciò che lo teneva
in piedi.
Poco più avanti, in un intrico di rami di pino, la sua
preda era tesa, nervosa.
157
Il cervo sapeva di essere braccato, ma non riusciva a
vedere chi gli dava la caccia. Alzò il muso e fiutò l'aria,
muovendo le orecchie avanti e indietro.
La notte era gelida, lì al nord, e a quelle altitudini.
Vestito di stracci, il vampiro batteva i denti e aveva le
unghie cianotiche, ma anche potendo non si sarebbe
coperto meglio. L'unica sua concessione all'esistenza era
soddisfare la sete di sangue.
Non si sarebbe mai tolto la vita. Molto tempo prima
aveva sentito che chi moriva suicida non veniva
ammesso nel Fado, e invece era lì che lui voleva finire.
Quindi trascorreva le giornate tra dolori e stenti, in attesa
di morire di fame o in seguito a ima ferita.
Ma era un processo maledettamente lungo. D'altronde,
la fuga dalla sua vecchia vita, mesi e mesi prima, lo aveva
condotto in quei boschi per errore più che per una
precisa volontà. Nelle sue intenzioni doveva finire
altrove, in un luogo ancora più pericoloso.
Anche se non ricordava neanche più dove.
Il fatto che i suoi nemici non si fossero spinti così
lontano sugli Adirondack inizialmente lo aveva salvato,
ma adesso era fonte di frustrazione. Era troppo debole
per smaterializzarsi a destra e a manca nel tentativo di
trovare qualche lesser, e gli mancavano le energie per
camminare a lungo.
Era bloccato lì, sulle montagne, in attesa che la morte
lo trovasse.
158
Durante il giorno si proteggeva dal sole dentro una
grotta, una ferita nel granito della montagna era il suo
rifugio. Non dormiva molto. La fame e i ricordi lo
tenevano impietosamente sveglio e vigile.
Qualche metro più in là, la sua preda si allontanò di
altri due passi.
Inspirando a fondo, il vampiro cercò di chiamare a
raccolta le forze. Se non ce la faceva adesso per quella
notte era finita, e non solo perché il cielo cominciava a
rischiararsi, a est.
In un baleno scomparve e riprese forma accanto al
collo del cervo. Agguantandolo per lo snello garrese,
affondò le zanne nella giugulare che correva su dal cuore
tremante e atterrito dell'animale.
Non uccise la magnifica bestia. Bevve solo quel tanto
che gli bastava per sopravvivere un altro giorno gramo e
un'altra notte ancora più grama.
Quand'ebbe finito, spalancò le braccia e lasciò libero il
cervo, che scappò via saltellando. Il vampiro restò in
ascolto della sua rumorosa fuga attraverso la boscaglia,
invidioso della libertà dell'animale.
La forza ricavata dal suo sangue era ben poca cosa.
Ultimamente l'energia spesa per nutrirsi e ciò che ne
ricavava in cambio erano quasi alla pari. Il che significava
che la fine doveva essere prossima.
Il vampiro si sedette sul letto di aghi di pino e
attraverso i rami guardò il cielo notturno. Per un attimo
159
immaginò che il firmamento non fosse scuro, ma bianco,
e che le stelle lassù non fossero freddi corpi celesti che
riflettevano la luce, ma le anime dei morti.
Immaginò di vedere il Fado.
Lo faceva spesso, e in quella sconfinata distesa di
puntini luminosi sopra la sua testa localizzò i due che
considerava suoi, i due che gli erano stati strappati via
con la forza: un paio di stelle, una più grande e
splendente, l'altra più piccola e più incerta. Se ne stavano
vicine, come se la più piccola cercasse il riparo di sua m...
Il vampiro non riuscì a pronunciare quella parola.
Neanche mentalmente. Proprio come non riusciva a dire i
nomi che associava alle due stelle.
Ma in fondo non importava.
Quelle due stelle erano sue.
E presto le avrebbe raggiunte.
160
Capitolo 10
La sveglia accanto a Phury segnò il passaggio di un
altro minuto e sul display digitale si formò come una fila
di stuzzicadenti: le undici e undici del mattino.
Phury controllò la sua scorta segreta. Si era ridotta ai
minimi termini e, per quanto fosse strafatto, gli prese un
colpo. Fece un po' di calcoli cercando di fumare più
lentamente. Erano più o meno sette ore che pescava
ininterrottamente dal sacchetto di fumo rosso... quindi, a
occhio e croce, sarebbe rimasto a secco intorno alle
quattro del pomeriggio.
Il sole tramontava alle sette e mezzo. Poteva essere allo
ZeroSum non prima delle otto.
Quattro ore di zona morta. O, per essere più precisi,
quattro ore che rischiava di vivere un po' troppo
lucidamente.
Se vuoi, disse il mago, posso leggerti una favola. È una
cannonata. Un vampiro prende a modello il padre alcolizzato,
finisce morto in un vicolo. Nessuno lo piange. Un classico,
praticamente shakespeariano.
Ma forse l'avevi già sentita, socio?
Phury alzò il volume di "Donna non vidi mai" e aspirò a
fondo.
161
Quando la voce del tenore si alzò, secondo le
indicazioni di Puccini, pensò a come cantava Z. Che voce
aveva, suo fratello. Come l'organo di una chiesa, la sua
estensione spaziava dagli alti più puri a bassi così
profondi da trasformare il midollo spinale in un timpano;
gli bastava sentire una cosa una volta per riprodurla
fedelmente, poi arricchiva la melodia con qualche
apporto originale oppure si inventava qualcosa di
completamente nuovo. Tutto era il suo forte: la lirica, il
blues, il jazz, il buon vecchio rock and roll. Era una radio
vivente.
Nel tempio della confraternita era sempre lui a
guidare i canti dei fratelli.
Era dura pensare che non avrebbe mai più sentito
quella voce nella grotta sacra, pensò Phury.
O anche in casa, a pensarci bene. Erano mesi che Z non
cantava più; troppo in ansia per Bella, non era in vena di
imitare Tony Bennett, probabilmente, ed era impossibile
prevedere se i suoi concerti estemporanei sarebbero
ricominciati o meno.
Tutto dipendeva dal destino di Bella.
Phury diede un altro tiro allo spinello. Dio, che voglia
di andare a trovare Bella. Voleva accertarsi che stesse
bene e ima conferma visiva era ben diversa dal ripetersi
ossessivamente "nessuna nuova, buona nuova".
Ma non era in condizione di farle visita, e non solo
perché era fumato. Si portò le mani al collo e tastò i segni
lasciati dalla catena che il lesser gli aveva stretto intorno
162
alla gola. Guariva in fretta, ma non così in fretta, e Bella ci
vedeva benissimo. Non c'era motivo di allarmarla.
E poi di sicuro con lei c'era Z e un faccia a faccia col
suo gemello era troppo rischioso, visto com'erano finite le
cose in quel vicolo.
Un rumore sopra il comò gli fece alzare la testa.
All'altro capo della stanza il medaglione del Primale
stava vibrando; l'antico talismano d'oro fungeva da
cercapersone. Phury lo guardò muoversi sopra il mobile,
danzando in circolo come se stesse cercando un cavaliere
tra le spazzole d'argento accanto a cui lo aveva posato.
Non aveva voglia di andare dall'Altra Parte. Neanche
un po'. Essere cacciato dalla confraternita bastava, per
quel giorno.
Finì lo spinello, si alzò e uscì. In corridoio, per
abitudine, guardò la porta di Cormia. Era leggermente
socchiusa, cosa insolita. Sentì un rumore, come di un
tessuto che sbatteva.
Si avvicinò e bussò sullo stipite. «Cormia? Stai bene?»
«Oh! Sì... sì, sto bene.» La voce giungeva ovattata.
Quando lei non aggiunse altro, Phury si sporse in
avanti. «Hai la porta aperta.» Be', che genio. «Vuoi che la
chiuda?»
«Non l'ho fatto apposta.»
163
«Ti spiace se entro?» fece Phury, chiedendosi com'era
andata con John Matthew.
«Prego.»
Lui spalancò la porta...
Oh... perbacco. Seduta a gambe incrociate sul letto,
Cormia si stava intrecciando i capelli bagnati. Vicino a lei
c'era un asciugamano, che spiegava il rumore di poco
prima, e la tunica... la tunica si apriva sul davanti in una
profonda V che rischiava di mettere in mostra le morbide
rotondità dei seni.
Di che colore aveva i capezzoli?
Phury si affrettò a distogliere lo sguardo. E notò una
rosa color lavanda dentro un vaso di cristallo, sul
comodino.
Senza una ragione, sentì una stretta al petto e si
accigliò. «Allora, ti sei divertita insieme a John?»
«Sì. Lui è stato molto carino.»
«Ah, sì?»
Cormia annuì, annodando un nastro di raso bianco in
fondo alla treccia. Nel chiarore soffuso dell'abat-jour la
grossa treccia brillava come oro. Gli spiacque vedere che
la arrotolava alla base del collo, avrebbe voluto poterla
ammirare ancora un po', ma si consolò con i riccioli ribelli
che le incorniciavano il viso.
164
Che splendido soggetto per un disegno, pensò,
rimpiangendo di non avere sottomano carta e penna.
Strano... sembrava diversa. Forse perché le guance
erano colorite. «Che cosa avete fatto?»
«Io sono corsa fuori in giardino.»
Phury si accigliò ancora di più. «Perché qualcosa ti ha
spaventato?»
«No, perché ero libera di farlo.»
Lui ebbe una fugace visione di Cormia che correva
sull'erba del prato, coi capelli che svolazzavano alle sue
spalle. «E John che cosa ha fatto?»
«È rimasto a guardare.» Ah.
Prima che Phury potesse dire qualcosa, lei proseguì,
«Avevate ragione, è molto gentile. Stasera mi farà vedere
un film.»
«Ah, sì?»
«Mi ha insegnato a usare la televisione. E guardate
cosa mi ha regalato.» Allungò il polso mostrandogli un
braccialettino d'argento costellato di perline color
lavanda. «Non ho mai avuto niente di simile. Solo la mia
perla da Eletta.»
Così dicendo, sfiorò l'iridescente perla a goccia che
portava al collo. Phury socchiuse gli occhi. Lo sguardo di
165
Cormia era privo di malizia, puro e incantevole come il
bocciolo di rosa dall'altra parte della stanza.
Di fronte alle premure di John, Phury vide con
chiarezza ancora maggiore quanto l'aveva trascurata.
«Chiedo scusa», disse piano lei. «Adesso lo tolgo...»
«No. Ti dona. Moltissimo.»
«John ha detto che è un regalo», mormorò Cormia.
«Mi piacerebbe tenerlo.»
«Ma certo.» Con un profondo sospiro, Phury si guardò
intorno e notò una complessa struttura fatta di
stuzzicadenti... e piselli? «Che cos'è quello?»
«Ah... sì.» Cormia si avvicinò in fretta, quasi a voler
proteggere quel coso, qualunque cosa fosse.
«Che cos'è?» «È quello che c'è nella mia testa.» Si voltò
verso Phury. Poi si voltò dall'altra parte. «È solo una cosa
che ho cominciato a fare.»
Phury attraversò la stanza e si inginocchiò accanto a
lei. Con cautela fece scorrere un dito lungo un paio di
colonne. «È fantastico. Sembra la struttura di una casa.»
«Vi piace?» Cormia si inginocchiò. «L'ho fatto così,
tanto per fare.»
«Mi piace l'architettura, l'arte. E questo... le linee sono
magnifiche.»
166
Cormia piegò la testa esaminando l'opera e Phury
sorrise, pensando che anche lui faceva lo stesso con i suoi
disegni.
D'impulso disse, «Ti piacerebbe venire alla galleria
delle statue? Stavo giusto andando a farci un giro. È
subito dopo lo scalone.»
Quando Cormia alzò gli occhi su di lui, c'era una
consapevolezza, nel suo sguardo, che lo colse alla
sprovvista.
Forse la differenza non stava nel suo aspetto, si rese
conto Phury, ma nel modo in cui lo guardava.
Merda, forse John le era piaciuto per davvero.
Piaciuto, piaciuto, nel vero senso della parola. Quello sì
che sarebbe stato un pasticcio.
«Mi piacerebbe venire con voi», disse Cormia. «Mi
piacerebbe molto vedere l'arte.»
«Bene. Molto... bene. Andiamo.» Phury si raddrizzò e
le tese la mano, senza motivo apparente.
Un istante dopo lei fece scivolare il palmo nel suo.
Quando le loro dita si strinsero, Phury si rese conto che
l'ultimo contatto fisico che avevano avuto era stato quel
mattino pazzesco, a letto, quando lui aveva fatto quel
sogno erotico e si era svegliato tutto eccitato addosso a
lei.
«Coraggio», mormorò, guidandola verso la porta.
167
Uscirono in corridoio; Cormia non riusciva ancora a
credere che il Prunaie l'avesse presa per mano.
Desiderava da così tanto tempo un po' di intimità con lui
che le pareva surreale avere ottenuto non solo quella, ma
un vero contatto fisico.
Mentre si dirigevano verso la galleria dove si era già
avventurata, lui le lasciò andare la mano, ma le rimase
vicino. L'andatura claudicante si notava appena, era solo
un piccolo neo nel suo incedere elegante e, come al solito,
ai suoi occhi era più bello di qualsiasi opera d'arte.
Era in pensiero per lui, però, e non solo per quello che
aveva origliato per caso.
I vestiti che aveva addosso non erano quelli che
portava a tavola. I pantaloni di pelle e la camicia nera
erano la sua tenuta da combattimento, ed erano
macchiati.
Sangue, pensò Cormia. H suo e quello dei nemici della
razza.
Ma c'era di peggio. Aveva un livido rossastro intorno
al collo, come se in quel punto la pelle avesse subito un
danno, e anche delle escoriazioni sul dorso delle mani e
sul viso.
Cormia ripensò a ciò che il suo re aveva detto di lui. È
un pericolo per se stesso e per gli altri.
«Mio fratello Darius era un collezionista d'arte»,
spiegò Phury mentre passavano davanti allo studio di
168
Wrath. «Come tutto il resto in questa casa, queste statue
erano tutte sue. Adesso appartengono a Beth e a John.»
«John è figlio di Darius, figlio di Marklon?» «Sì.»
«Ho letto di Darius.» E di Beth, la regina, sua figlia. Ma
su John Matthew non c'era niente. Strano... in quanto
figlio del guerriero, avrebbe dovuto comparire sulla
prima pagina del volume a lui dedicato, insieme al resto
della sua progenie.
«Hai letto la biografìa di Darius?»
«Sì.» Era andata in cerca di informazioni su Vishous, il
fratello a cui in origine era stata promessa. Se avesse
saputo chi era destinato a diventare Primale, tuttavia,
avrebbe cercato tra le file di volumi rilegati in cuoio rosso
quelli dedicati a Phury, figlio di Ahgony.
Il Primale si fermò all'inizio della galleria delle statue.
«Cosa fate quando muore un fratello?» chiese. «Cosa fate
dei suoi libri?»
«Tutte le pagine bianche vengono contrassegnate con
un chrih, un simbolo nero, e sulla prima pagina del primo
volume viene annotata la data del decesso. Ci sono anche
delle cerimonie. Le abbiamo celebrate per Darius e
aspettiamo... riguardo a Tohrment, figlio di Hharm.»
Phury annuì recisamente e avanzò, come se non
avessero discusso niente di particolarmente importante.
«Per quale motivo me lo chiedete?» disse Cormia.
169
Ci fu una pausa. «Queste statue sono tutte del periodo
grecoromano.»
Cormia si strinse al collo le falde della veste. «Ah, sì?»
Il Primale oltrepassò le prime quattro statue, compresa
quella completamente nuda, ringraziando la Vergine
Scriba, e si fermò vicino a quella cui mancavano alcune
parti. «Sono un tantino mal-conce, ma considerato che
hanno più di duemila anni, è un miracolo che siano
sopravvissute anche solo in parte. Ehm... spero che la
nudità non ti offenda...»
«No.» Ma era lieta che lui ignorasse come aveva
toccato la statua nuda. «Io le trovo bellissime, vestite o
meno. E non mi importa se sono imperfette.»
«Mi ricordano la casa dove sono cresciuto.»
Cormia restò in attesa, acutamente consapevole di
quanto desiderava che terminasse quel pensiero. «Come
mai?»
«Avevamo anche noi delle statue, in giardino.» Phury
si accigliò. «Però erano coperte di rampicanti. Tutto il
giardino lo era. Rampicanti dappertutto.»
Il Primate riprese a camminare.
«Dove siete cresciuto?» chiese Cormia.
«Nel Vecchio Continente.»
«I vostri genitori...»
170
«Queste statue sono state acquistate negli anni
quaranta e cinquanta. Darius attraversò una fase
tridimensionale e, visto che aveva sempre odiato l'arte
moderna, comprò queste.»
Giunti alla fine della galleria, Phury si fermò di fronte
alla porta di una delle camere da letto e la fissò. «Sono
stanco.»
In quella stanza c'era Bella, pensò Cormia. Era
evidente dall'espressione sul volto del Primole. «Avete
mangiato?» chiese, pensando che sarebbe stato bello
spingerlo dalla parte opposta.
«Non ricordo.» Phury abbassò gli occhi sui suoi piedi,
protetti da un paio di pesanti stivali. «Dio... buono. Non
mi sono neanche cambiato.» C'era una strana nota sorda
nella sua voce, come Se quella scoperta lo avesse
svuotato. «Avrei dovuto cambiarmi. Prima di farti fare
questo giro.»
Allunga il braccio, si disse Cormia. Allungalo e prendilo
per mano. Come ha fatto lui con te.
«Dovrei cambiarmi», disse piano il Primole. «Devo
assolutamente cambiarmi.»
Cormia trasse un profondo respiro e, allungando il
braccio, gli afferrò la mano. Era gelida. In modo
allarmante.
«Torniamo in camera vostra», disse. «Torniamo lì.»
171
Lui annuì, ma non si mosse; prima di rendersene conto
Cormia lo stava guidando. O quanto meno guidava il suo
corpo. La sua mente era da un'altra parte, lo sentiva.
Lo accompagnò in camera sua, entro i confini di
marmo del bagno, e quando lo fece fermare lui rimase
dove lo aveva lasciato, di fronte ai due lavandini e al
grande specchio. Quando Cormia si voltò verso la
camera a spruzzo che loro chiamavano doccia, lui restò in
attesa, con inconsapevolezza più che con pazienza.
Quando il getto d'acqua fu abbastanza caldo sulla sua
mano, Cormia si voltò verso di lui. «È tutto pronto,
Vostra grazia. Potete lavarvi.»
Gli occhi gialli del Primole erano fissi davanti a sé, in
uno degli specchi, ma sul suo bel viso non c'era un
barlume di riconoscimento. Era come se riflesso nello
specchio lui vedesse un estraneo, un estraneo di cui non
si fidava e che non approvava.
«Vostra grazia?» lo chiamò Cormia. La sua immobilità
era allarmante; se non fosse stato in piedi avrebbe
controllato se gli batteva ancora il cuore. «Vostra grazia,
la doccia.» Puoi farcela, si disse Cormia. «Permettete che
vi spogli, vostra grazia?» Lui annuì appena; allora lei gli
si piazzò davanti e con qualche esitazione alzò le mani
sui bottoni della camicia. Uno dopo l'altro li slacciò;
l'indumento nero a poco a poco si aprì mettendo in
mostra l'ampio petto. Giunta all'ombelico, sfilò la camicia
dai calzoni
172
e continuò a sbottonarla. Lui restò immobile per tutto
il tempo, senza opporre la minima resistenza, gli occhi
fissi sullo specchio
anche quando lei spalancò la camicia facendola
scivolare giù dalle spalle.
Nella luce soffusa del bagno era magnifico, nessuna
delle statue
reggeva il paragone con lui. Il petto era enorme, le
spalle larghe
quasi tre volte quelle di lei. La cicatrice a forma di
stella sul pettorale sinistro sembrava incisa nella pelle,
altrimenti liscia e glabra; le venne voglia di toccarla, di
fare scorrere il dito sulle punte che si diramavano dal
centro di quel marchio.
Le venne voglia di premere le labbra in quel punto, di
premerle sul suo cuore. Sopra il distintivo carnoso della
confraternita. Posò la camicia sul bordo della vasca
panciuta, in attesa che il
Primale finisse di spogliarsi. Ma lui non fece niente del
genere.
«Posso... togliervi i calzoni?»
Lui annuì.
Le tremavano le dita mentre slacciava la fibbia della
cintura, poi il bottone dei pantaloni. Il corpo del Primole
si spostava avanti e indietro sotto i suoi strattoni, ma non
173
di molto, e lei rimase impressionata da quant'era
massiccio. Santissima Vergine Scriba, che buon odore
aveva.
La lampo di rame scendeva lentamente; per via della
posizione il da cui lavorava, Cormia dovette tenere unite
le due metà della cin
tura. Quando le lasciò andare la patta si aprì. Sotto i
pantaloni il Primale portava un indumento nero e
aderente che gli copriva i lombi, il che fu un sollievo.
Più o meno.
Nel vedere il rigonfiamento del suo sesso, Cormia
deglutì a fatica.
Stava per chiedergli se doveva continuare quando
guardò in su
e si accorse che lui era andato, completamente. O
finiva di spogliarlo o si sarebbe infilato sotto la doccia
mezzo vestito.
Gli tirò giù i calzoni fino alle ginocchia, gli occhi fissi
sul membro protetto da quel cotone morbido e nero.
Ricordò cos'aveva provato quando il Primale si era stretto
contro di lei, nel sonno. Quello che guadava adesso,
allora le era parso molto più grosso, ed era rigido mentre
le premeva contro il fianco.
Quello era il cambiamento dovuto all'eccitazione,
giusto? Nella sua austera lezione sul rituale di
accoppiamento la Direttrice precedente aveva illustrato
174
fin nei minimi particolari cosa accadeva ai maschi che si
apprestavano a fare sesso.
Aveva descritto nel dettaglio anche il dolore che quella
verga indurita procurava alle femmine.
Sforzandosi di non pensarci, Cormia si mise in
ginocchio per sbarazzarsi dei pantaloni e si accorse che
prima avrebbe dovuto togliergli gli stivali. Aprendosi un
varco tra le pieghe di pelle intorno alle caviglie, riuscì a
sfilare il primo stivale appoggiandosi alle gambe del
Primate e costringendolo a spostare il peso da un piede
all'altro. Si accinse a ripetere l'operazione dall'altra
parte... e trovò il piede fìnto.
Continuò imperterrita, senza fermarsi. Non le
importava che il Primale fosse mutilato, anche se era
curiosa di sapere come si era procurato una
menomazione tanto grave. Doveva essere successo in
combattimento. Che gran sacrificio per la razza...
I pantaloni vennero via come gli stivali: con una
maldestra serie di strattoni che il Primale non parve
notare. Si limitava a stare in equilibrio sul piede che lei
gli lasciava poggiato per terra, solido come una quercia.
Quando alla fine Cormia guardò di nuovo in su, sul suo
corpo erano rimaste solo due cose: l'indumento nero che
intorno all'elastico aveva scritto Calvin Klein, e le barre e il
piede di metallo che colmavano il vuoto tra il ginocchio
destro e il pavimento di marmo.
Cormia andò ad aprire la porta della camera a
spruzzo. «Vostra grazia, il bagno a cascata è pronto.»
175
II Primale voltò la testa verso di lei. «Grazie.»
Si tolse rapido ciò che gli copriva le pudenda e avanzò
verso di lei, nudo.
Cormia rimase senza fiato. Il grosso membro
penzolava lungo e floscio, la punta arrotondata
dondolava leggermente.
«Resti qui mentre mi faccio la doccia?» disse lui.
«Cos... ehm, volete che resti?» «Sì.»
«Allora... sì, resterò.»
176
Capitolo 11
Il
Primale scomparve dietro il vetro e Cormia lo
guardò arretrare verso il getto della doccia, la magnifica
chioma appiattita via via che si bagnava. Con un gemito,
lui inarcò la schiena e si portò le mani alla testa, piegando
il corpo in una curva elegante e poderosa insieme mentre
l'acqua gli scorreva tra i capelli e sul petto.
Cormia si morse il labbro mentre lui allungava la
mano di lato per afferrare una bottiglia. Ci fu come un
risucchio quando la spremette sul palmo una... due volte.
Poi la rimise a posto e si portò le mani alla testa
massaggiandosi i capelli. Grumi schiumosi gli
scivolarono lungo le braccia, gocciolando giù dai gomiti
sulle piastrelle ai suoi piedi. L'odore speziato che invase
la stanza le ricordò l'aria del giardino.
Con le ginocchia tremanti e la pelle calda come l'acqua
che lo avvolgeva, Cormia si mise a sedere sul bordo in
marmo della Jacuzzi.
Il Primale prese una saponetta, si insaponò le mani e si
lavò braccia e spalle. Dal profumo Cormia capì che era lo
stesso tipo di sapone che usava lei, e si combinava
magnificamente con quella cosa che aveva usato per
lavarsi i capelli.
Con grande disappunto si scoprì gelosa della schiuma
che scorreva sul torace, sui fianchi e sulle cosce lisce e
177
robuste del Primale, e si chiese se le avrebbe permesso di
unirsi a lui. Impossibile saperlo con certezza. A
differenza di alcune tra le sue sorelle, lei non era in grado
di leggere nel pensiero.
Ma davvero pensava di poter stare di fronte a lui, con
le mani sulla sua pelle, sotto quel getto caldo...?
Sì. Sì che poteva.
Il Primale scese più giù con la saponetta, sul petto e
sullo stomaco. Poi strinse quello che aveva in mezzo alle
cosce, passando le mani sopra e sotto il sesso. Come per il
resto delle sue abluzioni, si muoveva con deludente
economia.
Era una strana forma di tortura, una dolce sofferenza
osservarlo in un momento tanto intimo. Voleva che
durasse in eterno, ma sapeva che avrebbe dovuto
accontentarsi dei ricordi.
Quando il Primale chiuse il rubinetto e uscì, Cormia si
affrettò a tendergli un asciugamano per coprire quel
membro pesante e pendulo.
I muscoli si flettevano sotto alla pelle dorata,
gonfiandosi vistosamente per poi distendersi mentre si
asciugava. Si avvolse la salvietta intorno ai fianchi, ne
prese un'altra e si asciugò i capelli, frizionando avanti e
indietro le folte onde bagnate. Nel silenzio della stanza di
marmo lo sbatacchiare del tessuto di spugna era quasi
assordante, pensò Cormia.
O forse era il battito frenetico del suo cuore.
178
Alla fine il Primale aveva i capelli tutti ingarbugliati,
ma non parve notarlo quando si voltò verso di lei.
«Adesso dovrei andare a letto. Ho quattro ore da
riempire e tanto vale che cominci subito.»
Cormia non capiva cosa intendesse dire, ma annuì.
«Va bene, ma avete i capelli...»
Lui li toccò e soltanto allora parve accorgersi che erano
incollati al cranio.
«Volete che ve li spazzoli?» si offrì lei.
Una strana espressione si dipinse sul suo volto. «Se ti
fa piacere. Qualcuno... qualcuno una volta mi ha detto
che li maltratto troppo.»
Bella, pensò Cormia. Era stata Bella a dirglielo.
Non sapeva da dove le derivasse quella certezza, ma
ne era più che sicura...
Oh, ma chi voleva prendere in giro? C'era una nota
struggente nella voce di lui, ecco come faceva a saperlo.
Quel tono era l'equivalente verbale di quello che il
Primale aveva negli occhi quando si sedeva a tavola, in
sala da pranzo, di fronte a Bella.
Per quanto potesse apparire meschino, Cormia voleva
spazzolare quelle ciocche per sostituirsi a Bella. Voleva
sovrapporre il proprio ricordo a quello che lui aveva
dell'altra femmina.
179
La possessività era un problema, ma non poteva
cambiare ciò che provava. II Primale le porse una
spazzola; Cormia si aspettava che si sedesse sul bordo
della vasca, invece lui andò a mettersi sulla dormeuse
vicino al letto. Posò le mani sulle ginocchia, piegò la testa
all'indietro e attese che lei lo raggiungesse.
Mentre si avvicinava, Cormia pensò alle centinaia di
volte che aveva spazzolato i capelli delle sue sorelle, nella
sala da bagno. In quel momento, tuttavia, non era sicura
di saper usare quell'arnese munito di setole che stringeva
in mano.
«Ditemi se vi faccio male», disse.
«Non succederà.» Il Primale allungò la mano e prese
un telecomando. Premette un pulsante e quella musica
che ascoltava sempre, l'opera, invase la stanza.
«Che meraviglia», esclamò Cormia, lasciandosi
pervadere dalla voce del tenore. «Che lingua è?»
«Italiano. È Puccini. Una canzone d'amore. Parla di un
uomo, un poeta, che incontra una donna con due occhi
che gli rubano l'unica ricchezza che ha... Basta uno
sguardo in quegli occhi e tutti i suoi sogni, le visioni e i
castelli in aria gli vengono rubati da lei e sostituiti dalla
speranza. Adesso le sta dicendo chi è lui... e alla fine
dell'assolo le chiederà chi è lei.
«Qual è il titolo della canzone?»
«"Che gelida manina."»
180
«La ascoltate spesso, vero?»
«È il mio assolo preferito. Zsadist...»
«Zsadist cosa?»
«Niente.» Il Primale scosse la testa. «Niente...»
Mentre la voce del tenore si alzava potente, Cormia
allargò i capelli sulle spalle del Primale e, partendo dalle
punte, cominciò a spazzolarli con cautela e delicatezza. Il
sommesso raschiare delle setole si mescolò all'aria lirica.
Il Primale doveva sentirsi confortato da entrambi poiché
trasse un sospiro lento e profondo, gonfiando la cassa
toracica. i
Anche dopo aver districato tutti i nodi, Cormia
continuò a spazzolarlo, lisciando le onde con la mano
libera. Man mano che si asciugavano, i capelli
riacquistarono volume e i colori tornarono vividi, le onde
si riformavano dopo ogni colpo di spazzola e a poco a
poco riemergeva la criniera che ormai le era tanto
familiare.
Non poteva continuare a spazzolarlo all'infinito. Che
peccato. «Credo di aver finito.»
«Non mi hai spazzolato qui davanti.»
In realtà l'aveva fatto, più o meno. «Va bene.»
Fece il giro e si piazzò di fronte a lui; impossibile
ignorare come aveva spalancato le cosce, quasi
invitandola a infilarsi dentro.
181
Cormia si insinuò con le gambe nello spazio che le
aveva fatto. Lui aveva gli occhi chiusi, le ciglia bionde
abbassate sugli alti zigomi, le labbra leggermente schiuse.
Alzò la testa verso di lei con lo stesso tipo di invito
offerto dalla bocca e dalle ginocchia.
E lei lo accolse.
Cominciò a spazzolargli i capelli all'indietro. A ogni
colpo di spazzola lui contraeva i muscoli del collo per
non muovere la testa.
Dal palato di Cormia spuntarono le zanne.
Subito lui spalancò gli occhi, di un giallo brillante,
incontrando il suo sguardo.
«Hai fame», disse in tono stranamente gutturale.
Lei lasciò ricadere lungo il fianco la mano con la
spazzola. Senza voce, si limitò ad annuire. Al Santuario,
le Elette non avevano bisogno di nutrirsi. Lì invece il suo
corpo reclamava sangue. Ecco perché doveva sempre
lottare contro una sorta di letargo.
«Perché non me l'hai detto prima?» chiese lui
piegando la testa di lato. «Se è perché non mi vuoi, non
c'è problema. Possiamo trovare qualcun altro da cui puoi
bere.»
«Perché... perché non dovrei volere voi?»
Il Primale batté la mano sulla gamba artificiale. «Mi
manca qualcosa.»
182
Vero, pensò mestamente lei. Gli mancava qualcosa, ma
non aveva niente a che fare con l'arto amputato.
«Non volevo disturbare», disse. «È questo l'unico
motivo. Io vi trovo avvenente, con o senza gamba.»
Un guizzo di sorpresa gli illuminò il volto, poi uno
strano suono ritmico... simile alle fusa di un gatto... si
levò dal suo petto. «Nessun disturbo. Se vuoi attaccarti
alla mia vena, puoi farlo.»
Cormia rimase impalata, paralizzata dal suo sguardo e
dal modo in cui i suoi lineamenti mutarono quando
qualcosa s'insinuò nella sua espressione, qualcosa che lei
non aveva mai visto sul volto di nessun altro.
Lo desiderava, pensò Cormia. Disperatamente.
«Inginocchiati», disse lui in un sussurro sensuale.
Cormia si mise in ginocchio e la spazzola le cadde di
mano. Senza una parola, il Primale si protese verso di lei
cingendola tra le possenti braccia. Non la trasse a sé. Le
sciolse i capelli, tutti quanti, lo chignon e poi anche la
treccia.
Mentre le allargava i capelli sulle spalle gli sfuggì un
ringhio e Cormia si accorse che tremava tutto. Senza
preavviso, l'afferrò per la nuca attirandola contro la
propria gola.
«Bevi», disse in tono perentorio.
183
Cormia emise un sibilo simile a quello di un cobra e,
senza neanche rendersene conto, affondò le zanne nella
sua giugulare. Appena lo trafisse, lui si lasciò sfuggire un
grido e trasalì.
Santa madre delle Parole... Il suo sangue era fuoco,
prima in bocca e poi giù in gola, un'ondata travolgente
che la invase da dentro, infondendole una forza prima
sconosciuta.
«Più forte», sibilò lui. «Succhiami...»
Cormia fece scivolare le braccia sotto le sue e gli
affondò le unghie nella schiena, succhiando avidamente
dalla sua vena. Aveva il capogiro... no, un momento, era
lui che la stava spingendo all'in-dietro, fino a farla
stendere per terra. Non le importava quello che le faceva
o come sarebbe andata a finire perché il suo sapore era
inebriante, sconvolgente. Non capiva più niente; sapeva
solo che lui le stava infondendo la vita, sentiva quella
fonte di vita sulle labbra, poi giù in gola e nel ventre, e
non le occorreva sapere nient'altro.
La tunica... sentì che le sollevava la tunica sui fianchi.
Le cosce... si aprivano, questa volta erano le sue cosce ad
aprirsi sotto le mani di lui.
Sì.
Il cervello di Phury era su uno scaffale, da qualche
parte, lontano, fuori portata, fuori vista. In quel
momento, mentre nutriva quella femmina, era puro
istinto, l'uccello sul punto di venire, il suo unico pensiero
penetrarla prima che accadesse.
184
All'improvviso tutto, di lei e di lui, era diverso. E
urgente.
Sentiva il bisogno di entrare dentro di lei in tutte le
maniere possibili, e non solo nel modo temporaneo
legato al sesso. Sentiva il bisogno di dimenticare se
stesso, di marchiarla in modo indelebile, di riempirla del
suo sangue e del suo seme per poi ripetere la stessa cosa
l'indomani e il giorno dopo e quello dopo ancora.
Doveva impregnarla completamente in modo che
qualunque idiota sulla faccia della terra sapesse che, se si
fosse azzardato ad avvicinarla, avrebbe dovuto vedersela
con lui, e lui gli avrebbe fatto sputare tutti i denti e
fracassato braccia e gambe.
Mia.
Phury strappò via i panneggi dell'abito dalla vulva e...
Oh, sì, eccola lì. Sentiva il fuoco che saliva e...
«Cazzo», gemette. Lei era bagnata, turgida, madida,
traboccante di umori.
Se ci fosse stato un modo per non farla staccare dalla
sua vena mentre la leccava si sarebbe spostato subito. Il
meglio che riuscì a fare fu passare la mano sul suo sesso,
infilarsela in bocca e succhiare...
Rabbrividì nel sentire il suo sapore; leccando e
succhiando avidamente le dita spinse in avanti il bacino
premendo con delicatezza il glande contro l'ingresso
della vagina.
185
Proprio mentre cominciava a penetrarla e già sentiva
cedere la sua carne... quello stramaledetto medaglione
cominciò a vibrare sul comò accanto a loro. Assordante
come una sirena antincendio.
Ignoralo, ignoralo, ignora...
Cormia staccò la bocca dalla sua gola e alzò gli occhi,
sgranati e annebbiati dalla sete di sangue e di sesso, su
quel rumore fastidioso. «Che cos'è?»
«Niente.»
Il medaglione prese a vibrare ancora di più, in segno
di protesta. O protestava o stava festeggiando per aver
rovinato quel momento magico.
Forse era in combutta con il mago.
Tante grazie, canterellò il mago.
Phury rotolò via da Cormia, coprendola. Con una
sequela di violente imprecazioni si spinse all'indietro fino
ad appoggiarsi contro il letto, prendendosi la testa tra le
mani.
Entrambi ansimavano mentre quel pezzo d'oro
sbatacchiava tutt'intorno alle spazzole sul cassettone.
Quel rumore gli ricordò che non c'era intimità tra lui e
Cormia. Il peso della tradizione e del fato era
onnipresente e qualunque cosa facessero aveva enormi
ripercussioni, molto più grandi del semplice nutrirsi e
fare sesso tra un maschio e una femmina.
186
Cormia si alzò in piedi, quasi avesse intuito
esattamente cosa stava pensando. «Grazie per avermi
concesso la vostra vena.»
Non c'era nulla che lui potesse replicare. La sua gola
traboccava di bestemmie e frustrazione.
Quando la porta si chiuse alle spalle di Cormia, Phury
capì perché si era fermato. L'interruzione non c'entrava
niente: se avesse voluto, avrebbe potuto continuare.
Il punto era che, se andava a letto con lei, poi avrebbe
dovuto andare a letto anche con tutte le altre.
Prese uno spinello dal comodino e lo accese.
Se andava a letto con Cormia, poi non poteva più
tornare indietro. Doveva creare quaranta Bella...
ingravidare quaranta Elette e poi lasciarle in balia delle
doglie e del parto.
Doveva essere un amante per tutte loro, un padre per
tutti i loro figli e una guida per tutte le loro tradizioni,
quando invece si sentiva a malapena in grado di tirare
avanti, un giorno dopo l'altro, preoccupandosi solo di se
stesso.
Fissò la brace incandescente dello spinello. Era uno
shock realizzare che avrebbe posseduto Cormia se non ci
fosse stato di mezzo nessun altro. A tal punto la
desiderava.
Si accigliò. Gesù... la desiderava sin dal principio,
giusto?
187
Ma non era solo questo. Vero?
Pensò a come gli aveva spazzolato i capelli e con
grande turbamento si rese conto che in quei momenti era
riuscita a calmarlo... e non solo grazie ai colpi di
spazzola. La sua sola presenza bastava a rasserenarlo, dal
suo profumo di gelsomino al modo armonioso in cui si
muoveva, al suono melodioso della sua voce.
Nessuno, neanche Bella, riusciva a rilassarlo, ad
allentare la tensione che gli stringeva il petto
consentendogli di fare un bel respiro profondo.
Cormia sì.
Cormia ci riusciva.
Il che significava che a quel punto la bramava in ogni
senso.
Che ragazza fortunata, commentò beffardo il mago. Ehi,
perché non le dici che vuoi trasformarla nella tua nuova droga
d'elezione. Sarà felicissima di sapere che può diventare la tua
nuova dipendenza, che vuoi usarla per provare a uscire da
quella tua testa incasinata.
Sarà euforica, socio, perché questo è il sogno di ogni
fanciulla... e poi sappiamo tutti che sei il re dei rapporti sani.
Un autentico campione in quel campo.
Phury abbandonò la testa all'indietro, aspirò a fondo
dalla canna e trattenne il fumo nei polmoni finché non li
sentì bruciare come un incendio nel sottobosco.
188
Capitolo 12
Quella sera, quando la notte scese su Caldwell senza
attenuare minimamente l'afa, Mr D, nel torrido gabinetto
al primo piano della fattoria, si tolse la benda con cui si
era fasciato la pancia parecchie ore prima. Sotto, la pelle
era molto migliorata.
Almeno una cosa andava per il verso giusto, anche se
era l'unica. A meno di ventiquattr'ore dalla sua nomina a
Fore-lesser si sentiva come se qualcuno avesse pisciato nel
serbatoio del suo camioncino, avesse nutrito i suoi cani
con carne avariata e dato fuoco al fienile.
Avrebbe dovuto restare un soldato semplice.
Ma non aveva avuto scelta.
Gettò la benda sporca nel secchio da muratore che i
due morti evidentemente usavano come cestino per la
carta straccia e decise di non sostituirla. Il danno interno
era molto grosso, a giudicare dal male che aveva sentito e
da quanto era affondato quel pugnale nero. Ma per i
lesser il tratto intestinale era carne inutile. Che le sue
viscere fossero un groviglio infuocato non aveva nessuna
importanza, a patto di arrestare l'emorragia.
Ragazzi, la notte prima era uscito vivo per miracolo da
quel vicolo. Se nessuno lo avesse fermato, il fratello con i
189
capelli da femminuccia lo avrebbe spinato come un pesce
gatto, poco ma sicuro.
Qualcuno bussò alla porta, al piano di sotto. Mr D alzò
la testa di scatto. Le dieci in punto.
Almeno erano puntuali.
Si agganciò il cinturone con la pistola, prese lo Stetson
e scese le scale. Fuori c'erano tre camioncini e un pick-up
nel vialetto in terra battuta e due squadre di lesser sulla
veranda anteriore. Lasciò entrare i ragazzi, che lo
sovrastavano tutti di almeno una trentina di centimetri;
capì subito che non erano per nulla entusiasti della sua
promozione.
«In salotto», disse.
Mentre gli otto non morti gli passavano davanti, Mr D
sganciò la fondina della pistola, strinse nel palmo la
Magnum calibro 357 e la puntò contro l'ultimo della fila.
Premette il grilletto una, due, tre volte.
Gli spari risuonarono come tuoni, niente a che fare con
i colpi ovattati delle nove millimetri. Le pallottole
penetrarono nella schiena del lesser spappolando la spina
dorsale e aprendogli un buco nella pancia. Quello cadde
con un tonfo sul tappeto lurido, sollevando una nuvoletta
di polvere.
Rimettendo l'arma nella fondina, Mr D si chiese
quand'era l'ultima volta che avevano passato
190
l'aspirapolvere, in quel posto. Probabilmente quando
l'avevano costruito.
«Temo che dovrò sbrigarmi», disse girando intorno al
lesser che si contorceva sul pavimento.
Col sangue nero e oleoso che colava sul tappeto
marrone, Mr D appoggiò il piede sulla testa del lesser e
tirò fuori il frammento di tappezzeria su cui l'Omega
aveva impresso l'immagine del loro obiettivo.
«Voglio essere sicuro che tutti quanti abbiate capito
bene, ieri sera», disse alzando il pezzo di carta da parati.
«Dovete trovare questo vampiro. Altrimenti vi faccio
fuori uno dopo l'altro e ricomincio con una nuova
squadra.»
I lesser lo fissavano nel silenzio più totale, come se
avessero un solo cervello in comune che faticava a venire
a patti con un nuovo ordine mondiale.
«Piantatela di guardare me e guardate questa qui,
forza.» Così dicendo agitò l'immagine del vampiro.
«Portatemelo. Vivo. O giuro su Dio che mi trovo dei
nuovi cani da caccia, vi faccio a pezzetti e poi glieli do da
mangiare. Ci siamo capiti?»
Uno dopo l'altro i lesser annuirono, mentre quello a
terra mugolava di dolore.
«Bene.» Mr D puntò la canna della Magnum alla testa
del lesser ferito e sparò, riducendolo a brandelli. «E
adesso muoviamoci.»
191
Una quindicina di miglia a est, nello spogliatoio del
centro di addestramento sotterraneo, John Matthew si
innamorò. Cosa che mai si sarebbe aspettato potesse
accadere in quel luogo in particolare.
«Scarpe di Ed Hardy», disse Qhuinn allungandogli un
paio di scarpe da ginnastica. «Per te.»
John allungò la mano e le prese. Okay, erano uno
sballo. Nere. Suola bianca. Teschio su ognuna con il
marchio di Hardy nei colori dell'arcobaleno.
«Cavolo!» esclamò uno degli altri tirocinanti uscendo
dallo spogliatoio. «Dove le hai prese, quelle?»
Qhuinn lo guardò con aria saputa, alzando e
abbassando le sopracciglia. «Da urlo, eh?»
Erano di Qhuinn, pensò John. Probabilmente moriva
dalla voglia di portarle e aveva messo da parte i soldi per
comprarle.
«Provale, John.»
Sono fichissime, ma non posso, davvero.
Quando anche l'ultimo dei loro compagni di classe fu
uscito, la porta si chiuse e Qhuinn lasciò perdere l'aria
spavalda. Prese le scarpe, le infilò ai piedi di John e lo
guardò.
«Mi spiace di averti rotto l'anima, ieri sera. Sì,
insomma, sai, da A and F, con quella tipa... sono stato un
coglione.»
192
Non c'è problema.
«Sì, invece. Avevo la luna di traverso e mi sono
sfogato con te, e questo non va bene.»
Ecco, Qhuinn era fatto così. Prima magari perdeva le
staffe e faceva lo stronzo, poi però si pentiva sempre e
riusciva a convincerti che per lui eri la persona più
importante sulla faccia della terra e che gli spiaceva
sinceramente di averti offeso.
Sei proprio un fenomeno. Ma, sul serio, non posso accettare
queste. ..
«Ma da dove arrivi? Non essere villaaaaaaaaaaano,
ragazzo mio. Sono un regalo.»
Blay scosse la testa. «Prendile; John, tanto alla fine
dovrai arrenderti. Così almeno ci risparmierai le sue
pagliacciate.»
«Pagliacciate?» Qhuinn balzò su, assumendo la posa di
un oratore romano. «Sai distinguere il tuo culo dal tuo
gomito, giovane scriba?»
Blay arrossì. «E dai...»
Qhuinn si gettò addosso a Blay, afferrandolo per le
spalle e restando appeso all'amico, a peso morto.
«Sorreggimi. Il tuo insulto mi ha lasciato senza fiato.
Sono illibato.»
Con un grugnito, Blay cercò di tenerlo su. «Vorrai dire
allibito.»
193
«Illibato suona meglio.»
Blay si sforzava di non sorridere, di non apparire
divertito, ma gli occhi gli brillavano come due zaffiri e
aveva le guance tutte rosse.
Con una risatina silenziosa, John si sedette su una
delle panche dello spogliatoio, diede una scrollata ai
calzettoni bianchi e se li infilò sotto i jeans nuovi fintovecchio.
Sei proprio sicuro, Qhuinn? Perché mi sa che potrebbero
andarmi bene e non vorrei che cambiassi idea.
Qhuinn si staccò bruscamente da Blay raddrizzandosi
i vestiti con uno strattone. «Adesso offendi il mio onore.»
Piazzandosi di fronte a John, si mise in posa da
spadaccino. «Touché.»
Blay rise. «Si dice en garde, scimunito.»
Qhuinn gli scoccò un'occhiata da sopra la spalla. «ça
va, Bruto?»
«Et tu!»
«Si dice tutu, credo, e puoi tenerti per te i travestimenti
da donna, razza di pervertito.» Qhuinn fece un sorriso
radioso, tutto fiero di quella raffica di scemenze. «Adesso
mettiti quelle cazzo di scarpe, John, e facciamola finita
con questa storia. Prima che ci tocchi mettere Blay in un
polmone d'acciaio.»
«Vorrai dire sanatorio!»
194
«No, i sanitari non c'entrano.»
John si infilò le scarpe; gli andavano a pennello e per
certi versi lo facevano sentire più alto, anche se non si era
ancora alzato in piedi.
Qhuinn annuì compiaciuto, come ammirando un
capolavoro. «Ti stanno da Dio. Sai, forse dovremmo
aggiungere una nota più rude al tuo vestiario. Qualche
catena. Ehi, fatti dei piercing come i miei e aggiungi un
po' più di nero...»
«Sai perché Qhuinn ha un debole per il nero?»
Tutti e tre voltarono la testa di scatto. Lash stava
uscendo dalla doccia, un asciugamano bianco davanti
alle parti intime, le grosse spalle gocciolanti.
«Perché è daltonico, vero, cugino?» Lash si avviò con
tutta calma verso il suo armadietto e lo aprì facendo
sbattere lo sportello contro quello accanto. «Sa che ha gli
occhi di due colori diversi solo perché glielo hanno
detto.»
John si alzò, notando di sfuggita che le scarpe avevano
una aderenza fantastica. Il che, vista l'occhiataccia che
Qhuinn aveva scoccato al fondoschiena nudo di Lash,
poteva tornare utile nel giro di qualche secondo.
«Già, Qhuinn è speciale, non è vero, cugino?» Lash si
mise un paio di calzoni mimetici e una maglietta attillata,
poi con ostentazione si infilò un anello d'oro con sigillo
all'indice della mano destra. «Certa gente proprio non
195
c'entra niente col suo ambiente e non c'entrerà mai. È
molto triste che non si rassegni.»
«Andiamo via, Qhuinn>, sussurrò Blay.
Qhuinn digrignò i denti. «Farai meglio a chiudere il
becco, Lash. Sul serio.»
John si piazzò di fronte all'amico e a gesti disse
Andiamo da Blay a rilassarci un po', okay?
«Ehi, John, mi è appena venuta in mente una cosa.
Quando quell'umano ti ha stuprato, su quella scala, hai
urlato con le mani? Oppure hai ansimato e basta?»
John rimase impietrito, devastato
rivelazione. Così come i suoi due amici.
da
quella
Nessuno si mosse. Nessuno fiatava.
Nel silenzio di tomba dello spogliatoio lo sgocciolio
della doccia comune riecheggiava come un tamburo
militare.
Lash chiuse l'armadietto con un sorriso e guardò gli
altri due. «Ho letto la sua cartella clinica. È tutto scritto là
dentro. Lo hanno spedito da Havers per fare terapia
perché presentava sintomi di» - con le dita fece segno che
stava citando alla lettera - « "stress post-traumatico".
Allora, dicci, John, quando quel tizio ti ha inculato hai
provato a gridare? Eh, John? Ci hai provato o no?»
Quello doveva
rabbrividendo.
essere
un
196
incubo,
pensò
John
Lash rise infilandosi gli anfibi. «Ma guardatevi. Tutti e
tre lì, imbambolati. I pompinari ritardati.»
La voce di Qhuinn assunse un tono che non aveva mai
avuto. Senza traccia di baldanza o di collera, era solo
gelidamente cattiva. «Farai meglio a pregare che la cosa
non salti fuori. Con nessuno.»
«Altrimenti cosa? E dai, Qhuinn, sono un primogenito.
Mio padre è il fratello maggiore di tuo padre. Credi
davvero di potermi toccare? Hmm... naa, neanche un po',
caro mio. Neanche un po'.»
«Non una parola, Lash.»
«Sì, sì, come no. Se adesso volete scusarmi, io andrei.
Voi tre poi fate cascare le braccia.» Lash chiuse
l'armadietto e andò alla porta. Naturalmente si fermò a
guardarli da sopra la spalla, lisciandosi i capelli biondi.
«Scommetto che non hai gridato, John. Scommetto che lo
hai implorato di continuare. Scommetto che hai
supplicato...»
John si smaterializzò. Per la prima volta in vita sua si
spostò da un punto all'altro nello Spazio, attraverso l'aria.
Riprese forma di fronte a Lash piantandosi contro la
porta per bloccargli l'uscita, poi si voltò verso i suoi amici
Scoprendo le zanne. Lash era suo e suo soltanto.
Quando entrambi annuirono, il pestaggio ebbe inizio.
Lash era già pronto a incassare il primo colpo, con le
mani alzate e il peso sulle cosce. Così, invece di sferrargli
un pugno, John Si chinò, si scagliò in avanti e lo
197
agguantò per la vita mandandolo sbattere contro la fila di
armadietti.
Per nulla turbato, Lash si riprese con una ginocchiata
che quasi spaccò la faccia al suo avversario. John
incespicò all'indietro, poi ripartì all'attacco afferrando
Lash per il collo e conficcandogli i pollici sotto al mento,
con forza. Poi gli diede una testata al naso,
sfondandoglielo come un geyser, ma Lash rimase
impassibile. Col sangue che gli colava in bocca, sorrise;
poi sferrò un gancio destro allo stomaco di John che gli
infilò il fegato nei polmoni.
Volavano pugni a destra e a manca mentre i due
sbattevano contro armadietti, panche e pattumiere. A un
certo punto un paio di loro compagni provarono a
entrare, ma Blay e Qhuinn li spinsero fuori e chiusero la
porta a chiave.
John afferrò Lash per i capelli, indietreggiò e gli diede
un morso in cima alla spalla. Quando si staccò venne via
anche un pezzo di carne; i due ruotarono su se stessi, poi
Lash unì i palmi sferrando un colpo a due mani alla
tempia di John; per l'impatto quest'ultimo finì nella doccia
ballando il tip tap, ma prima di cadere riuscì a riprendersi.
Purtroppo i suoi riflessi non furono abbastanza pronti da
evitargli il cazzotto che lo centrò alla mascella.
Fu come essere colpito con una mazza da baseball;
soltanto allora si accorse che, chissà come, Lash si era
infilato un paio di vecchi tirapugni di ottone - essendo
John più grosso di lui, con ogni probabilità quel
vantaggio gli serviva. Un altro colpo sul muso e d'un
198
tratto nella sua testa fu il Quattro di Luglio: fuochi
d'artificio dappertutto. Prima di riuscire a snebbiare la
vista, venne sbattuto con la faccia contro il muro
piastrellato della doccia e tenuto fermo.
Lash fece per slacciargli la patta.
«Cosa ne dici di un replay, caro il mio John?» gracchiò.
«Oppure te lo fai mettere nel culo solo dagli umani?»
Nel sentire quel corpo massiccio che premeva contro
di lui da dietro, John rimase paralizzato.
Quel gesto avrebbe dovuto rinvigorirlo, avrebbe
dovuto farlo imbestialire. Invece tornò a essere il
ragazzino fragile di un tempo, impotente e terrorizzato,
in balia di qualcuno molto, molto più grosso di lui. In un
baleno si ritrovò su quella squallida rampa di scale,
spinto contro il muro, in trappola, sopraffatto.
Le lacrime gli pungevano gli occhi. No, questo no...
non di nuovo...
All'improvviso sentì un grido di guerra, e il peso che
lo schiacciava sparì.
John cadde in ginocchio e vomitò sul pavimento
bagnato.
Quando i conati si placarono si lasciò scivolare su un
fianco e si raggomitolò in posizione fetale, tremando
come la checca che era...
199
Lash era steso a terra proprio accanto a lui... e aveva la
gola squarciata.
Cercava di respirare, di trattenere il sangue, ma non ci
riusciva.
John alzò gli occhi, in preda al terrore.
Qhuinn li sovrastava entrambi, ansimante. Nella mano
destra stringeva un coltello da caccia insanguinato.
«Oh, Cristo...» esclamò Blay. «Cosa cazzo hai
combinato, Qhuinn?»
Che disastro. Che disastro spaventoso, di quelli che ti
cambiano la vita. E l'avrebbe cambiata a tutti e tre. Quello
che era cominciato come un pestaggio... rischiava di
finire con un assassinio.
John aprì la bocca per chiamare aiuto. Naturalmente
non ne uscì niente.
«Vado a chiamare qualcuno», disse Blay correndo
fuori.
John si rizzò a sedere, si tolse la camicia e si chinò
sopra Lash. Tirandogli via le mani, premette l'indumento
sulla ferita aperta pregando che l'emorragia si fermasse.
Lash lo guardò negli occhi, poi alzò a sua volta le mani
quasi a volerlo aiutare.
Stai fermo, sillabò John. Stai giù fermo. Sento che arriva
qualcuno.
200
Lash tossì e dalla bocca gli uscì un fiotto di sangue che
schizzò sul labbro inferiore e colò sul mento. Merda, c'era
sangue dappertutto.
Ma ci erano già passati, si disse John. Lui e Lash si
erano già presi a botte proprio lì, in quella doccia, e anche
allora l'acqua si era tinta di rosso, prima di scorrere giù
nello scarico. Poi però era finita bene.
Ma stavolta no, lo ammonì una voce dentro di lui.
Stavolta no...
In preda al panico, si mise a pregare per la vita di
Lash. Poi pregò che il tempo tornasse indietro. Poi si
augurò che fosse tutto un sogno...
In piedi vicino a lui c'era qualcuno che lo chiamava
per nome.
«John?» Guardò in su. Era la dottoressa Jane, il medico
privato della confraternita nonché shellan di Vishous. Il
suo volto spettrale, traslucido, era calmo, la voce pacata e
rassicurante. Quando si inginocchiò divenne solida come
lui. «John, ho bisogno che ti sposti così posso dargli
un'occhiata, okay? Lascialo andare e fai un passo
indietro. Hai fatto un ottimo lavoro, ma adesso devo
pensarci io.»
John annuì, ma Jane dovette comunque toccargli le
mani per costringerlo a lasciare la presa sulla camicia.
Qualcuno lo sollevò da terra. Blay. Sì, era Blay. Si
capiva dal profumo del dopobarba. Jump by Joop!
201
C'erano molte altre persone nello spogliatoio. Rhage
era sulla soglia della doccia e vicino a lui c'era V. E c'era
anche Butch.
Qhuinn... dov'era Qhuinn?
John si guardò intorno e lo vide dall'altra parte della
stanza. Non aveva più in mano il coltello insanguinato;
accanto a lui torreggiava Zsadist, minaccioso.
Qhuinn era ancora più bianco delle piastrelle della
doccia, gli occhi di due colori diversi fissi su Lash,
sbarrati.
«Sei agli arresti domiciliari a casa dei tuoi genitori», gli
disse Zsadist. «Se Lash muore, sarai accusato di
omicidio.»
Rhage si avvicinò a Qhuinn, forse pensando che il tono
duro di Z non fosse di grande aiuto. «Dai, figliolo,
tiriamo fuori la tua roba dall'armadietto.»
Fu Rhage ad accompagnare Qhuinn fuori dallo
spogliatoio, seguito da Blay.
John restò fermo dov'era. Ti prego, fa' che Lash viva,
pensò. Ti prego...
Cristo, non gli piaceva il modo in cui la dottoressa Jane
continuava a scuotere la testa; aveva aperto la sua borsa e
tirava fuori vino strumento dopo l'altro nel tentativo di
suturare il collo di Lash,
«Dimmi tutto.»
202
John trasalì e si voltò. Era Z.
«Dimmi come è successo, John.»
John tornò a guardare Lash e rivide tutta la scena. Oh,
Gesù... non gli andava di raccontare il perché e il
percome. Zsadist era a conoscenza del suo passato, sì, ma
lui non se la sentiva di rivelargli il motivo per cui Qhuinn
ci era andato giù tanto pesante.
Forse perché ancora non riusciva a credere che il suo
passato fosse venuto fuori così. Forse perché quel vecchio
incubo si era appena rinnovato.
Forse perché era una mezzasega, incapace di prendere
le difese dei suoi amici.
Il labbro sfregiato di Z si contrasse. «Ascolta, John,
Qhuinn è nella merda fino al collo. Legalmente è ancora
minorenne, ma questa è aggressione a mano armata ai
danni di un primogenito. Anche se Lash dovesse farcela,
la sua famiglia non gli darà tregua, e noi dobbiamo
sapere quello che è successo qui dentro.»
La dottoressa Jane si alzò in piedi, «L'ho richiuso, ma è
a rischio di infarto. Dev'essere ricoverato da Havers.
Immediatamente.»
Z annuì e fece entrare due doggen con una barella.
«Fritz è già pronto con la macchina, e io andrò con loro.»
Mentre Lash veniva sollevato dal pavimento, il fratello
scoccò a John un'occhiata severa. «Se vuoi salvare il tuo
amico, devi dirci cosa è successo.»
203
John seguì con lo sguardo il gruppetto che spingeva
Lash fuori dallo spogliatoio.
Quando la porta si chiuse sentì cedere le ginocchia;
guardò la pozza di sangue al centro della doccia.
In un angolo dello spogliatoio c'era una canna di gomma
che serviva per le pulizie quotidiane dei servizi. John
costrinse i piedi a camminare fino alla canna, montata
alla parete. La srotolò, aprì l'acqua, tirò il tubo fin dentro
alla doccia e poi aprì la bocchetta. Passò il getto avanti e
indietro, avanti e indietro, un centimetro dopo l'altro,
lavando via tutto il sangue, spingendolo verso lo scarico,
dove veniva inghiottito con un gorgoglio.
Avanti e indietro. Avanti e indietro.
Le piastrelle passarono dal rosso al rosa al bianco. Ma
non bastò a ripulire tutto quel macello. Neanche un po'.
204
Capitolo 13
Phury sentì delle mani sulla pelle, mani piccole e dalle
dita leggere, che scendevano sul suo ventre. Puntavano
verso la giuntura tra le cosce, grazie al cielo. Il pene era
turgido, caldo e smanioso di trovare uno sfogo e più
quelle mani si avvicinavano, più i fianchi spingevano
verso l'alto e poi si ritraevano, le natiche si contraevano e
poi si distendevano cedendo agli affondi che moriva
dalla voglia di fare.
Il suo uccello piangeva - sentiva lo stomaco bagnato. O
forse era già venuto una volta?
Oh, quelle mani che gli sfioravano la pelle,
stuzzicandolo. Sotto quel tocco speciale, impalpabile,
l'uccello gli tirava ancora di più, quasi potesse
protendersi e, con un po' di sforzo, raggiungere il
bersaglio.
Piccole mani che puntavano verso il suo...
Phury si svegliò con un sobbalzo che fece cadere il
cuscino giù dal letto.
«Merda.»
Sotto il groviglio di coperte il suo uccello palpitava, e
non per il solito bisogno generico che segnava il risveglio
serale di ogni maschio della specie. No... quello era un
205
bisogno specifico. Il suo corpo voleva qualcosa di molto
specifico da una femmina in particolare.
Cormia.
È nella stanza qui accanto, si disse.
Bell'affare farebbe, con te, lo schernì il mago. Perché non
vai da lei, socio. Sono certo che sarà felicissima di vederti dopo
che l'hai lasciata andare in quel modo, ieri sera. Senza una
parola. Senza il minimo accenno alla sua gratitudine.
Non potendo
dormeuse.
controbattere,
Phury
guardò
la
Era la prima volta in assoluto che nutriva una
femmina.
Fece per tastare il segno del morso sul collo, ma notò
che era già sparito, guarito.
Quella era una delle grandi pietre miliari della vita... e
la cosa
lo rattristava. Non che rimpiangesse di averlo fatto con
Cormia. Tutt'altro. Ma avrebbe voluto dirle che lei era
stata la prima.
Scostandosi i capelli dagli occhi guardò la sveglia.
Mezzanotte. Mezzanotte? Cribbio, aveva dormito otto ore
filate, chiaramente per aver sfamato Cormia. Però non si
sentiva rinfrancato. Lo stomaco protestava e gli
scoppiava la testa.
206
Fece per prendere il primo spinello della serata, che si
era preparato prima di mettersi a dormire, ma si bloccò
di colpo. La mano gli tremava al punto che temeva di
non riuscire a stringerlo tra le dita; rimase a fissare il
proprio palmo cercando di fermare il tremito con la forza
di volontà, senza il minimo successo.
Gli ci vollero ben tre tentativi prima di riuscire a
sollevare lo spinello dal comodino; osservava quei gesti
goffi come da lontano, come se fosse la mano di qualcun
altro, lo spinello di qualcun altro. Una volta infilatosi la
canna tra le labbra, lottò per posizionare l'accendino e far
scattare la pietrina.
Due tiri e il tremito cessò. Il mal di testa evaporò. Lo
stomaco si placò.
Purtroppo all'altro capo della stanza partì di nuovo
quella dannata vibrazione e tutti e tre tornarono di colpo:
il medaglione del Primale aveva ricominciato il solito
balletto sul cassettone.
Phury lo lasciò dov'era e continuò a fumare, pensando
a Cormia. Dubitava che, in circostanze normali, gli
avrebbe confessato
Il suo bisogno di nutrirsi. Ciò che era accaduto in
quella stanza era stata una combustione improvvisa
generata dalla sua sete di sangue, non poteva
interpretarla come una prova che Cormia lo desiderava
sessualmente. Non si era sottratta al sesso, questo sì, ma
non significava che volesse fare l'amore con lui, no?
Bisogno e libera scelta non sono la stessa cosa. Lei aveva
207
sentito il bisogno del suo sangue. Lui aveva sentito il
bisogno del suo corpo.
Le Elette avevano bisogno
ottemperare ai loro doveri.
di
entrambi
per
Schiacciando nel posacenere quel poco che restava
dello spinello, guardò il comò dall'altra parte della
stanza. Il medaglione alla fine si era fermato.
In meno di dieci minuti si fece una doccia, indossò
calzoni di seta bianca e si mise al collo il cordoncino di
cuoio con appeso il medaglione del Primale. Il talismano
d'oro massiccio andò a piazzarsi al centro del petto; era
caldo, forse a causa della vibrazione di poco prima.
Phury andò direttamente dall'Altra Parte; in quanto
Primale godeva di una dispensa speciale che gli evitava di
passare dal cortile
della Vergine Scriba. Riprese forma davanti
all'anfiteatro del Santuario, dove tutto era cominciato
cinque mesi prima; trovava difficile credere di avere
davvero preso il posto di Vishous nel ruolo di Primale.
Era un po' come guardare la sua mano tremante: non
era lui, punto.
Già, peccato che invece era proprio lui.
A qualche metro di distanza il palcoscenico bianco con
il pesante sipario immacolato risplendeva nella strana
luce implacabile dell'Altra Parte. Lì non c'erano ombre,
così come non c'era sole nel cielo pallido, eppure la luce
208
non mancava, come se tutto fosse la propria stessa fonte
luminosa. La temperatura era di ventun gradi, né troppo
calda né troppo fredda, e non c'era un alito di vento ad
accarezzare la pelle o increspare i vestiti. Tutto era di un
candore dolce e riposante.
Era l'equivalente paesaggistico della musica di
sottofondo diffusa in certi locali pubblici, nelle sale
d'aspetto e compagnia bella.
Camminando sul bianco e curatissimo tappeto erboso,
Phury girò intorno al teatro greco-romano e proseguì in
direzione dei vari templi e degli alloggi delle Elette.
Tutt'intorno al Santuario, una foresta bianca impediva di
vedere in lontananza. Phury si chiese cosa ci fosse al di là
di essa. Probabilmente nulla. Il Santuario assomigliava al
modellino di un architetto oppure a vino di quei trenini
giocattolo da montare, con la stazioncina in miniatura, le
rotaie e tutto il resto: se ci si spingeva fino ai suoi confini
si rischiava di trovarsi davanti a un ripido salto che finiva
su un gigantesco pavimento rivestito di moquette.
Phury continuò a camminare; non sapeva bene come
richiamare l'attenzione della Direttrice, ma non aveva
fretta di incontrarla. Per tergiversare ancora un po', andò
al tempio del Primale e usò il medaglione d'oro per aprire
il maestoso portone a due battenti. Attraversato l'atrio di
marmo bianco, entrò nell'unica, grande stanza del tempio
e rimase a fissare la piattaforma con sopra il letto coperto
dalle candide lenzuola di seta.
Ricordò come gli era apparsa Cormia quella volta,
legata, nuda, il viso nascosto da un lenzuolo bianco che
209
cadeva dall'alto raccogliendosi intorno alla sua gola. Lui
l'aveva strappato via ed era rimasto inorridito nel vedere
gli occhi atterriti e traboccanti di lacrime dell'Eletta.
L'avevano imbavagliata.
Alzò lo sguardo al soffitto, da dove era stato calato il
drappo. Nel marmo si distinguevano due minuscoli
ganci dorati. Gli venne voglia di tirarli via con un
martello pneumatico.
Continuando a fissare il soffitto, gli tornò in mente la
conversazione avuta con Vishous appena prima che
scoppiasse tutto quel casino del Primale. Erano nella sala
da pranzo della grande casa della confraternita e V gli
aveva accennato di aver avuto una visione che lo
riguardava.
Phury non desiderava conoscere i dettagli, ma erano
venuti fuori comunque; le parole del fratello adesso gli
apparivano stranamente chiare, come il replay di una
registrazione: Ti ho visto fermo a un crocevia in un campo
tutto bianco. Era una brutta giornata... già, c'era un temporale
tremendo. Ma quando hai preso una nuvola dal cielo e l'hai
avvolta intorno al pozzo ha smesso di piovere.
Phury socchiuse gli occhi fissando i due ganci sul
soffitto. Aveva strappato via il lenzuolo da lassù e lo
aveva usato per avvolgere Cormia. E lei aveva smesso di
piangere.
Era lei il pozzo... il pozzo che lui doveva colmare. Era
il futuro della razza, la fonte di nuovi fratelli e di nuove
Elette. La sorgente di vita.
210
Al pari di tutte le sue sorelle.
«Vostra grazia.»
Phury si voltò. La Direttrice era ferma sulla soglia del
tempio, la veste bianca lunga fino a terra, i capelli neri
raccolti in uno chignon. Con il suo sorriso tranquillo e la
pace che irradiava dai suoi occhi, aveva l'espressione
beatifica di chi è spiritualmente illuminato. Phury
invidiava tanta serena convinzione.
Amalya lo salutò con un inchino, il corpo sottile ed
elegante nella consueta tenuta delle Elette. «Lieta di
vedervi.»
Phury ricambiò l'inchino. «Anch'io.»
«Vi ringrazio per avermi concesso questa udienza»,
disse Amalya raddrizzandosi. Seguì una pausa.
Che lui non colmò.
Quando alla fine fu lei a farlo, parve scegliere le parole
con cura. «Pensavo che forse gradireste incontrare
qualche altra Eletta.»
Che razza di incontro avrà in mente, si chiese Phury.
Oh, solo un tè e uno spuntino, interloquì il mago. Con
tartine al cunnilingus, pere e cocomeri a gogo e un paio di
marroni, i tuoi.
«Cormia sta bene», disse lui, ignorando l'offerta.
211
«L'ho vista ieri.» Il tono della Direttrice era cortese ma
incolore, come se non convenisse con lui.
«Veramente?»
Lei si inchinò di nuovo. «Perdonate, vostra grazia. Era
l'anniversario della sua nascita e le usanze mi
imponevano di consegnarle una pergamena. Quando non
vi siete fatto sentire sono comparsa da lei. Ho cercato
nuovamente di mettermi in contatto con voi durante il
giorno.»
Santo cielo, il compleanno di Cormia era arrivato e
passato e lei non ne aveva fatto cenno?
L'aveva detto a John, però, giusto? Ecco il perché del
braccialetto.
Phury trattenne un'imprecazione. Avrebbe dovuto
prenderle qualcosa.
Si schiarì la gola. «Mi spiace di non aver risposto.»
Amalya si raddrizzò. «È nel vostro diritto. Non avete
motivo di dolervene, ve ne prego.»
Nel lungo silenzio che seguì, Phury intuì la domanda
che si celava nello sguardo gentile della Direttrice. «No,
non l'abbiamo ancora fatto.»
«Lei vi ha respinto?» chiese Amalya incurvando
leggermente le spalle.
212
Phury ripensò al pavimento di fronte alla dormeuse.
Era stato lui a fermarsi. «No. E colpa mia.»
«Voi non potete avere nessuna colpa.»
«Questo non è vero. Fidati.» La Direttrice si mise a
girare per il tempio, tormentando con le mani il
medaglione che aveva al collo. Era una copia esatta di
quello che portava lui, solo che quello di Amalya era
appeso a un nastro di raso bianco mentre la catena della
palla al piede di Phury era nera.
La Direttrice si fermò vicino al letto, sfiorando
delicatamente uno dei guanciali. «Pensavo che magari
gradireste conoscere qualcuna delle altre.»
Oh, cavolo, no. Non voleva scavalcare Cormia
scegliendo una Prima Sposa diversa. «Capisco dove vuoi
arrivare, ma non è che io non voglia Cormia.»
«Forse, tuttavia, vi sarebbe utile conoscere un'altra
Eletta.»
Chiaramente la Direttrice era a un passo dal porlo di
fronte a un ultimatum: o faceva sesso con Cormia o si
sceglieva un'altra Prima Sposa. Non poteva dire di
esserne sorpreso: erano passati cinque lunghi mesi.
Forse questo avrebbe risolto qualche problema. Il
guaio era che prendere un'altra Prima Sposa equivaleva a
scagliare una maledizione contro Cormia. Le Elette
l'avrebbero vista come una fallita, e lei stessa si sarebbe
sentita così, anche se era tutto il contrario.
213
«Come ho già detto, io sto bene con Cormia.»
«Certamente... ma forse sareste più propenso a
impegnarvi con un'altra tra noi? Layla, per esempio, è
mirabile di viso e di corpo, e ha ricevuto la formazione di
una ehros.»
«Non intendo fare questo sgarbo a Cormia. Ne
soffrirebbe da morire.»
«Vostra grazia... lei sta già soffrendo. Gliel'ho letto
negli occhi.» La Direttrice tornò verso di lui. «Inoltre,
noialtre siamo prigioniere della tradizione. Nutrivamo
grandi speranze che le nostre funzioni tornassero ai fasti
del passato. Scegliendo un'altra Prima Sposa e portando
a termine il rituale, libererete dal fardello dell'inutilità
tutte quante noi, Cormia compresa. Lei non è felice,
vostra grazia. Proprio come non lo siete voi.»
Phury pensò di nuovo a Cormia stesa su quel letto,
legata... Sin dall'inizio lei non voleva tutto questo, no?
Pensò a lei, così taciturna, nella grande casa della
confraternita. Pensò a lei, che non se l'era sentita neanche
di confidargli il suo bisogno di nutrirsi. Pensò a lei, che
non gli aveva detto nulla del suo compleanno, nulla del
suo desiderio di uscire, nulla di quelle costruzioni nella
sua stanza.
Quattro passi lungo un corridoio non potevano certo
compensare tutto ciò che le aveva negato.
214
«Siamo prigioniere, vostra grazia», riprese la
Direttrice. «Per come stanno le cose adesso, siamo tutte
come in trappola.»
E se la verità fosse stata un'altra? si chiese Phury. Forse
voleva tenere Cormia come Prima Sposa perché così non
doveva preoccuparsi della faccenda del sesso. Voleva
proteggerla e agire in modo corretto con lei, certo, e
questo gli faceva onore, ma le conseguenze proteggevano
anche lui.
C'erano Elette che volevano quel ruolo, che volevano
lui. Aveva sentito i loro sguardi su di sé quando si era
insediato come Primale.
Aveva dato la sua parola. Ed era arcistufo di
infrangere i giuramenti fatti.
«Vostra grazia, posso chiedervi di venire con me?
Gradirei mostrarvi un certo luogo, qui al Santuario.»
Phury seguì Amalya fuori dal Tempio del Primale;
insieme scesero la collina, in silenzio, diretti verso un
complesso di strutture bianche a quattro piani, adorne di
colonne.
«È qui che alloggiano le Elette», mormorò Amalya,
«ma io e voi non siamo tenuti a viverci.»
Meno male, pensò Phury, guardando le casette.
Oltrepassandole, notò che nessuna delle finestre era
munita di vetri. Inutile prendersi il disturbo, pensò, non
c'erano parassiti o altri animali... e di sicuro non pioveva
215
mai. Quell'assenza di vetri rimandava, naturalmente,
all'assenza di barriere tra lui e le Elette che lo
osservavano dall'interno dei loro alloggi.
C'era una femmina a ogni finestra di ogni stanza, in
ciascuno degli edifici.
Oh, Gesù.
«Eccoci arrivati» La Direttrice si fermò davanti a una
struttura a un piano e aprì il portone a due battenti.
Quando li spalancò, Phury ebbe un tuffo al cuore.
Culle. File e file di culle bianche e vuote.
Mentre Phury cercava disperatamente di respirare, la
voce della Direttrice si tinse di nostalgia. «Questo un
tempo era un luogo di grande gioia, pieno di vita,
brulicante di futuro. Se solo voleste prendere un'altra...
Vi sentite male, vostra grazia?»
Phury indietreggiò. Non riusciva a respirare. Non
riusciva a... respirare,
«Vostra grazia?» La Direttrice fece per sorreggerlo.
Lui si scostò bruscamente da lei. «Sto bene.»
Respira, maledizione. Respira.
È a questo che hai dato il tuo consenso. Tira fuori le palle e
assumiti le tue responsabilità.
216
Nella sua mente il mago gli snocciolò, un esempio
dopo l'altro, tutti i casi in cui aveva deluso le persone,
cominciando dal presente, con Z, Wrath e le torture ai
lesser, per poi risalire al passato e ai fallimenti con i suoi
genitori.
Era sempre stato carente in ogni aspetto della sua vita.
Ed era sempre stato in trappola, anche.
Almeno Cormia poteva liberarsi di tutto ciò. Liberarsi
di lui.
La voce della Direttrice era sempre più tesa, allarmata.
«Vostra grazia, forse dovreste stendervi...»
«Ne prenderò un'altra.»
«Voi...»
«Prenderò un'altra Prima Sposa.»
La Direttrice parve sconcertata, ma poi si piegò in un
profondo inchino. «Vostra grazia, grazie... grazie... Siete
la forza della razza e il nostro condottiero...»
Lui la lasciò cantare le sue lodi, lodi vuote, fasulle; gli
girava la testa e si sentiva come se qualcuno gli avesse
scaricato nelle viscere una vagonata di ghiaccio secco.
La Direttrice stringeva con forza il medaglione che
portava al collo, il volto sereno soffuso di gioia. «Vostra
grazia, cosa prediligete in una compagna? Ne avrei già in
mente un paio.»
217
«Devono essere consenzienti», rispose lui con sguardo
severo. «Niente coercizioni. Niente legacci. Devono
volerlo in piena libertà. Cormia non voleva, ed è stata
un'ingiustizia costringerla. Io mi sono offerto volontario,
lei non aveva scelta.»
La Direttrice gli mise una mano sul braccio. «Capisco,
e concordo. Cormia è sempre stata inadatta per il ruolo di
Prima Sposa, e in verità la precedente Direttrice l'aveva
scelta proprio per questo motivo. Io non sarò mai tanto
crudele.»
«E Cormia non dovrà avere problemi. Voglio dire, non
verrà scacciata da qui, dico bene?»
«Al suo ritorno la accoglieremo con gioia. È una
femmina rispettabilissima. Solo... meno adatta a questa
vita rispetto ad alcune altre di noi.»
Nel silenzio che seguì, Phury rivide Cormia che lo
spogliava prima della doccia, rivide i suoi occhi verdi
puri e innocenti che
si alzavano su di lui mentre armeggiava con la cintura
e i calzoni.
Lei voleva fare solo ciò che era giusto. All'inizio,
quando tutto quel pasticcio era cominciato, pur essendo
terrorizzata era pronta a fare la cosa giusta secondo i
dettami della sua tradizione, ossia: farsi possedere. Il che
la rendeva più forte di lui. Lei non stava scappando. Era
lui quello che aveva deciso di darsela a gambe.
218
«Di' alle altre che non ero degno di lei.» La Direttrice
lo guardò a bocca aperta. «È un ordine, maledizione»,
disse puntandole il dito contro. «Di' loro che... io non
sono alla sua altezza. Voglio che la eleviate a un rango
speciale... voglio che la trattiate col massimo riguardo,
chiaro? Come una reliquia in una teca. Trattatela bene,
altrimenti manderò in rovina questo posto.»
La Direttrice appariva confusa; Phury la aiutò,
rammentandole una cosa, «Questo è il mio mondo. Sono
io che comando, giusto? Sono la forza della maledetta
razza, dunque farai ciò che ti dico. Fai di sì con la testa.»
Quando Amalya ubbidì, Phury trasse un sospiro di
sollievo. «Bene. Sono lieto che siamo d'accordo. Dunque,
c'è bisogno di un'altra cerimonia?»
«Ah... ehm, quando avete rivolto la formula di r-rito a
Cormia, vi siete impegnato con tutte quante noi.» Posò di
nuovo la mano sul medaglione, ma stavolta Phury ebbe
la sensazione che non lo facesse con gioia. Più probabile
che sentisse il bisogno di sentirsi rassicurata. «Quando
pensate di... venire a stare qui?»
Phury pensò alla gravidanza di Bella. Non poteva
perdersi il parto e, per come stavano le cose tra lui e Z,
correva il rischio di non essere nemmeno avvertito. «Tra
un po'. Un anno, forse.»
«Allora, col vostro permesso, vi invierò la prima delle
Elette sulla terra.»
«Sì.» Ciò detto volse le spalle alla nursery, aveva
bisogno d'aria. «Senti, vado a fare quattro passi.»
219
«Dirò alle altre di non disturbarvi.»
«Grazie, e scusa se sono stato brusco.» Fece una pausa.
«Un'ultima cosa... voglio parlare con Cormia. Voglio
essere io a comunicaglielo.»
«Come desiderate», disse la Direttrice con un
profondo inchino. «Avrò bisogno di un paio di giorni per
preparare secondo il ritual...»
«Fammi solo sapere quando pensi di mandarmi una di
loro.»
«Sì, vostra grazia.»
Quando la Direttrice se ne andò, Phury rimase a
fissare il paesaggio immacolato e un attimo dopo la
distesa cambiò sotto i suoi occhi, trasformandosi in
tutt'altra scena. Spariti gli alberi incolori e ordinarissimi e
i prati all'apparenza coperti da una sottile coltre di neve.
Al loro posto vide il giardino infestato di erbacce della
sua dimora di famiglia, nel Vecchio Continente.
Dietro il grande edificio di pietra in cui era cresciuto
c'era un giardino cintato grande un paio d'acri. Suddiviso
in quadranti da vialetti coperti di ghiaia, era stato
concepito per mettere in mostra svariati esemplari di
vegetazione e offrire un luogo di naturale bellezza dove
la mente potesse rasserenarsi. Ai quattro angoli del muro
di cinta c'erano delle statue che raffiguravano le diverse
fasi deIla vita: un neonato tra le braccia del padre; un
aitante giovanotto; un padre che stringeva il figlioletto tra
le braccia; un vecchio saggio seduto con alle spalle il
figlio ormai adulto.
220
In principio il giardino doveva essere davvero
elegante, una autentica vetrina, e Phury poteva
immaginare la gioia dei suoi genitori, sposini novelli, nel
contemplare il suo splendore.
Lui però non aveva mai conosciuto la perfezione
promessa da quel luogo studiato con tanta cura. Ciò che
aveva visto del giardino era solo il caos della
trascuratezza. Quando era stato abbastanza grande per
rendersi conto di cosa gli stava intorno, le aiuole erano
già infestate dalle erbacce, le panchine si riflettevano
nell'acqua piena di alghe e l'erba aveva invaso i vialetti.
La cosa più triste, ai sui occhi, erano le statue. L'edera,
avviluppatasi tutt'in-torno a esse, le soffocava ogni anno
di più, il fogliame copriva sempre più ciò che la mano
dello scultore aveva voluto mostrare.
Il giardino era la rappresentazione visiva della rovina
della sua famiglia.
E lui si era imposto di rimediare. A tutto quanto.
Dopo la transizione, che lo aveva quasi ucciso, se n'era
andato dalla dimora di famiglia, ormai in uno stato di
totale abbandono. Ricordava quel momento con la stessa
chiarezza con cui rivedeva il povero giardino. La sera
della partenza, era ottobre, c'era la luna piena e sotto la
sua luce vivida aveva messo in valigia alcuni degli abiti
di suo padre, vecchi ma ancora belli.
Aveva solo un piano molto vago: riprendere le vane
ricerche di suo padre, seguire le tracce che lui aveva
lasciato freddare. La notte in cui Zsadist era stato rapito
era apparso subito chiaro quale bambinaia lo aveva preso
221
e Ahgony, come avrebbe fatto qualunque altro padre, si
era posto subito al suo inseguimento. Lei, tuttavia, era
stata scaltra e Ahgony non aveva trovato nulla di
concreto fino a quasi due anni dopo. Seguendo voci,
soffiate e pettegolezzi in circolazione, il Fratello aveva
setacciato il Vecchio Continente e alla fine aveva scovato
la copertina di Zsadist tra le cose della bambinaia... morta
appena una settimana prima.
Averla mancata per un soffio era solo l'ennesima
pagina della tragedia.
A quel punto Aghony aveva saputo che suo figlio era
stato preso da un vicino e venduto al mercato degli
schiavi. Il vicino aveva intascato i soldi ed era scappato.
Ahgony si era recato dal mercante di schiavi più vicino,
ma il traffico degli orfanelli era troppo esteso per
consentirgli di rintracciare Zsadist.
Ahgony si era arreso, era tornato a casa e si era dato al
bere.
Apprestandosi a riprendere le ricerche del padre,
Phury aveva ritenuto opportuno indossare gli abiti del
suo vecchio. E importante, anche. Assumendo le
sembianze del gentiluomo squattrinato, gli sarebbe stato
più agevole infiltrarsi nelle grandi dimore aristocratiche,
che poi erano quelle dove venivano impiegati gli schiavi.
Con indosso i vecchi abiti del padre, Phury poteva
confondersi con uno dei tanti vagabondi di buone
maniere che andavano raminghi per il mondo cercando
di mantenersi grazie all'arguzia e al fascino.
222
Vestito alla moda di venticinque anni prima, con in
mano un malandato borsone di cuoio, era andato da
entrambi i genitori a informarli dei suoi progetti.
Sapeva che sua madre era a letto, nel seminterrato,
perché lei viveva lì. Sapeva anche che non lo avrebbe
guardato. Non lo faceva mai, e non l'aveva mai biasimata
per questo. Lui era identico al figlio che le era' stato
sottratto, un memento in carne e ossa della tragedia che
l'aveva colpita. Comprendere che Phury era un individuo
distinto da Zsadist, che piangeva la perdita del fratello
gemello proprio come lei, poiché da quando lo avevano
rapito gli mancava metà di se stesso, comprendere che
aveva bisogno di affetto e di cure era superiore alle forze
di sua madre, a causa del dolore che la consumava.
Sua madre non lo aveva mai toccato. Neanche una
volta, neanche per fargli il bagnetto quand'era piccolo.
Dopo aver bussato, Phury si era premurato di dirle chi
era, prima di entrare, per permetterle di farsi forza. Non
ottenendo risposta, aveva aperto la porta ed era rimasto
sulla soglia, riempiendola tutta con il suo nuovo fisico
post-transizione. Mentre le spiegava le sue intenzioni,
non sapeva bene cosa attendersi da lei. Non ottenne
niente. Neanche una parola. Lei non alzò neanche la testa
dal cuscino sgualcito.
Phury aveva richiuso la porta ed era andato nelle
stanze di suo padre.
Lo aveva trovato svenuto, ubriaco fradicio in mezzo
alle bottiglie di birra scadente che gli permettevano di
essere, se non lucido, almeno intontito quanto bastava
223
per non pensare troppo. Dopo aver tentato invano di
svegliarlo, Phury aveva scribacchiato un biglietto e glielo
aveva lasciato sul petto, poi era salito di sopra ed era
uscito di casa.
Fermo sul terrazzo coperto di foglie e di buche della
casa un tempo sontuosa della sua famiglia, si era posto in
ascolto della notte. Sapeva che con ogni probabilità non
avrebbe mai più rivisto i suoi genitori, e temeva che
l'unico doggen rimasto morisse o restasse ferito. E allora
cosa avrebbero fatto i suoi?
Contemplando la maestà di un tempo, sentiva che il
suo gemello era da qualche parte là fuori, nella notte, in
attesa di essere trovato.
Mentre una scia di nuvole lattiginose si scostavano
dalla faccia della luna, Phury aveva cercato una qualche
forza in fondo a se stesso.
In verità,, aveva detto una voce profonda dentro la sua
testa, puoi cercare anche mille giorni e persino trovare tuo
fratello ancora in vita, ma stai pur certo che non potrai salvare
ciò che non può essere salvato. Non sei all'altezza di questa
missione; inoltre il tuo destino ti condanna al fallimento, quale
che sia l'obiettivo prescelto, poiché sei segnato dalla
maledizione dell'exhile dhoble.
Era il mago che parlava per la prima volta.
Mentre metabolizzava quelle parole, con la sensazione
di essere troppo debole per il viaggio che lo attendeva,
Phury aveva fatto il suo voto di castità. Alzando gli occhi
sul grande disco scintillante della luna nel cielo notturno,
224
aveva giurato alla Vergine Scriba di stare alla larga da
ogni distrazione. Sarebbe stato il salvatore senza
macchia, tutto concentrato sulla propria missione.
Sarebbe stato l'eroe capace di riportare indietro il suo
gemello. Sarebbe stato il guaritore in grado di far
risorgere la sua povera famiglia disastrata riportandola
alla salute e alla bellezza di un tempo.
Sarebbe stato il giardiniere.
Phury si riscosse, tornando al presente, quando il
mago riprese a parlare. Però avevo ragione io, no? Tutti e
due i tuoi genitori sono morti prematuramente e in miseria, il
tuo gemello è stato usato alla Stregua di una puttana e tu sei
uno squilibrato.
Avevo ragione io, no, socio?
Phury tornò a concentrarsi sulla strana distesa bianca
dell'Altra Parte. Era tutto così perfetto, tutto così in
ordine, non c'era niente fuori posto. I tulipani bianchi con
i loro steli bianchi nelle aiole intorno agli edifici; gli alberi
entro i confini della foresta, neanche l'ombra di
un'erbaccia.
Chissà chi tosava quei prati. Aveva l'impressione che
l'erba, come tutto il resto, crescesse così e basta.
Doveva essere bello.
225
Capitolo 14
Intanto, nella grande casa della confraternita, Cormia
controllò di nuovo l'orologio sul cassettone. John
Matthew avrebbe dovuto passare a prenderla già da
un'ora per andare a vedere il film; sperava che non fosse
successo niente di grave.
Camminando ancora un po' avanti e indietro si rese
conto che quella sera la stanza le sembrava troppo
angusta, troppo ingombra, anche se non c'erano mobili
nuovi e lei era tutta sola.
Santissima Vergine Scriba, aveva troppa energia.
Era il sangue del Primule.
Quello, e un'urgenza opprimente, insoddisfatta.
Si fermò vicino alla finestra, si portò la pirata delle dita
alle labbra e richiamò alla mente il sapore del Primale, la
sensazione che aveva provato nel toccarlo. Che slancio
impetuoso, che estasi celestiale. Ma perché si era
fermato? Quella domanda non faceva che ronzarle nella
testa. Perché non si era spinto più in là? Sì, certo, il
medaglione lo aveva distratto ma, in qualità di Primale,
era lui a dettar legge. Lui era la forza della razza, il capo
delle Elette, libero di ignorare tutto e tutti a suo
piacimento. ,
226
La sola risposta che le veniva in mente le dava la
nausea. Era per via dei suoi sentimenti per Bella? Aveva
creduto di tradire l'amata?
Era difficile decidere cosa fosse peggio: sperare che il
Primale stesse con lei e con tutte le sue sorelle o che non
stesse con nessuna di loro perché il suo cuore
apparteneva a un'altra.
Guardò fuori, nella notte. Ella sarebbe impazzita se
fosse restata ancora chiusa in camera. L'occhio le cadde
sulla piscina, con la sua superficie leggermente
increspata. Quel dolce movimento ondulatorio le
ricordava le profonde vasche da bagno dell'Altra Parte,
promettendole una tregua da tutto ciò che la agitava.
Senza neanche rendersene conto, si ritrovò fuori in
corridoio. Rapida e silenziosa, scese a piedi nudi lo
scalone fino all'atrio e attraversò il pavimento a mosaico.
Nella sala del biliardo infilò la portafinestra che John
aveva aperto la sera prima, e uscì.
Ferma sulle fredde lastre di pietra del terrazzo, protese
i sensi nelle tenebre facendo scorrere lo sguardo su ciò
che riusciva a scorgere della maestosa muraglia ai confini
della proprietà. Nessun pericolo in vista, almeno
all'apparenza. Tra i fiori e gli alberi del giardino non si
muoveva niente, a parte l'afosa aria notturna.
Si voltò a guardare l'imponente magione alle sue
spalle. Dietro le finestre illuminate alcuni doggen si
muovevano per casa. In caso di bisogno c'erano molte
persone nelle vicinanze.
227
Chiuse quasi del tutto la portafinestra, sollevò appena
la lunga sottana e attraversò di corsa il terrazzo in
direzione dell'acqua.
La piscina era rettangolare e circondata dalle stesse
lastre di pietra piatta e nera che pavimentavano il
terrazzo. C'erano sedie dalla forma allungata fatte di
striscioline intrecciate e tavolini con il piano di cristallo.
In un angolo c'era un aggeggio nero con un serbatoio
bianco. Dei vasi di fiori aggiungevano una nota di colore.
Cormia s'inginocchiò per controllare quant'era
profonda l'acqua. Al chiaro di luna la superficie
sembrava petrolio, probabilmente perché anche l'interno
della vasca era rivestito con le solite lastre nere. Non era
come le vasche dall'Altra Parte, non digradava in modo
graduale e Cormia aveva il sospetto che fosse molto
profonda. Ma non si rischiava di restare in trappola: a
intervalli regolari, lungo i bordi, c'erano dei maniglioni
ricurvi con cui ci si poteva aiutare per uscire dall'acqua.
Cormia infilò dentro prima l'alluce, poi tutto il piede;
la superfìcie della piscina si increspò, come se l'acqua
applaudisse a mo' di incoraggiamento.
Sulla sinistra c'era una scaletta; pochi gradini che
evidentemente servivano a entrare. Cormia si avvicinò, si
tolse la veste e, nuda, s'immerse nella piscina.
Le batteva forte il cuore ma, oh, che bello sentire la
dolce carezza avvolgente dell'acqua. Continuò a scendere
finché si sentì stringere in un abbraccio semovente e
delicato, dal petto ai talloni.
228
Che bellezza.
D'istinto si diede una spinta con i piedi e scivolò in
avanti senza peso, fendendo l'acqua. Tirando le braccia in
su e all'infuori e poi tirandole di nuovo indietro scoprì
che poteva spostarsi, andando dove voleva - prima a
destra, poi a sinistra, poi avanti, avanti, avanti fino in
fondo, dove una tavola sottile era sospesa sopra il pelo
dell'acqua.
Terminata quell'esplorazione, rotolò sulla schiena
lasciandosi galleggiare mentre contemplava il cielo. Le
lucine scintillanti lassù in alto la indussero a riflettere sul
suo posto tra le Elette, e sul suo dovere di essere una tra
le tante, una molecola che faceva parte di un tutto. Lei e
le sue sorelle erano indistinguibili nell'alveo della nobile
tradizione che si erano impegnate a servire: proprio come
l'acqua della piscina, uniforme e fluida, senza confini;
proprio come le stelle su nel cielo, tutte uguali.
Guardando il firmamento ebbe un altro di quei pensieri
aleatori, eretici, solo che questo non riguardava la
progettazione di una casa, i vestiti indossati da questo o
da quell'altro o se le piaceva un determinato cibo oppure
no.
Questo andava dritto al cuore della sua natura e la
marchiava come peccatrice ed eretica:
Non voleva essere una tra le tante.
Non con il Primale, Non per lui.
E non per se stessa.
229
Dall'altra parte della città Qhuinn, seduto sul letto,
fissava il cellulare stretto nel palmo. Aveva scritto un
messaggino rivolto a Blay e a John e stava aspettando di
inviarlo.
Era seduto lì da ore, almeno quella era la sua
impressione, anche se probabilmente era al massimo
un'ora. Dopo una doccia per lavare via il sangue di Lash,
aveva parcheggiato lì le chiappe facendosi forza per ciò
che lo attendeva.
Per qualche ragione continuava a pensare all'unica
cosa bella che, per quel che ricordava, i suoi genitori
avessero mai fatto per lui. Era stato tre anni prima, più o
meno. Li aveva assillati per dei mesi, tipo, per ottenere il
permesso di andare nel Connecticut da suo cugino
Saxton. Sax aveva già superato la transizione ed era un
tantino scapestrato, per cui naturalmente era l'eroe di
Qhuinn. E naturalmente i suoi non approvavano né Sax
né i suoi genitori, i quali se ne infischiavano alla grande
dei fastidiosi obblighi sociali che la glymera si era
autoimposta.
Qhuinn aveva pregato, implorato, supplicato, ma
malgrado tutti i suoi sforzi aveva ottenuto solo una sfilza
di no. Poi, tutt'a un tratto, suo padre lo aveva informato
che l'aveva avuta vinta e poteva andare a sud per il fine
settimana.
Gioia. Una gioia immensa. Aveva fatto le valigie con
tre giorni di anticipo e, quando al tramonto era scivolato
sul sedile posteriore dell'auto che doveva portarlo oltre il
230
confine con il Connecticut, si era sentito
dell'universo.
il re
Era stato gentile da parte dei suoi genitori.
Già, peccato che dopo aveva scoperto perché l'avevano
lasciato andare.
L'avventura da Sax non era andata granché bene.
Aveva bevuto come una spugna con suo cugino per tutta
la giornata di sabato ed era stato così male per quel
miscuglio letale di Jàgermeister e gelatine alla vodka che
gli zii avevano insistito per rispedirlo a casa a rimettersi
in sesto.
Essere riportato indietro da uno dei loro doggen era
stato uno smacco incredibile e il peggio era che aveva
continuato a chiedere all'autista di fermarsi perché
doveva vomitare. L'unica sua salvezza era che i genitori
di Sax avevano acconsentito a non dire niente ai suoi... a
condizione che lui stesso rendesse una piena confessione
appena scaricato davanti alla porta di casa.
Evidentemente neanche loro ci tenevano ad affrontare
sua madre e suo padre.
Quando il doggen si era fermato davanti alla villa,
Qhuinn aveva in mente di dire solo che si era sentito
male, il che era vero, e aveva chiesto di tornare a casa,
che invece non era vero e non lo sarebbe mai stato.
Solo che le cose erano andate diversamente. La villa
era tutta illuminata e nell'aria si diffondeva una musica
proveniente da un tendone sul retro. A ogni finestra
231
c'erano delle candele accese e in ogni stanza c'era gente
che si aggirava in piena libertà.
«Meno male che siamo tornati in tempo», aveva
commentato il doggen al volante, nel tipico tono
entusiasta dei doggen. «Sarebbe stato un peccato perdersi
tutto questo.»
Qhuinn era sceso dall'auto con la sua borsa da viaggio
e non si era neanche accorto quando il domestico era
ripartito.
Ma certo, aveva pensato. Suo padre stava per ritirarsi
dalla prestigiosa carica di leahdyre della glymera dopo un
brillante mandato alla testa del Consiglio dei Princeps.
Quello era il ricevimento che celebrava il suo operato e
segnava il passaggio di consegne al padre di Lash.
Ecco perché nelle ultime due settimane la servitù non
aveva avuto un attimo di tregua. Lui aveva pensato che
sua madre stesse (attraversando un altro dei suoi periodi
anali in cui tutto andava pulito alla perfezione, e invece
no. Tutto quel lavare e lustrare era in vista di quella
serata.
Qhuinn si era spostato sul retro della villa, tenendosi
al riparo delle siepi, trascinandosi dietro lo zaino.
Com'era bello il tendone. Luci sfavillanti pendevano dai
lampadari e guizzavano su tavoli addobbati con
composizioni di splendidi fiori e candele. Ogni sedia era
guarnita con fiocchi di raso e tra i posti a sedere erano
state stese delle passatoie. Come aveva immaginato, il
tema cromatico di tutto l'insieme era il binomio turchese
e giallo, a simboleggiare i due rami della famiglia.
232
Guardò gli ospiti e li riconobbe tutti, dal primo
all'ultimo. C'era il suo parentado al gran completo,
accanto alle famiglie più in vista della glymera, e tutti
erano elegantissimi, le femmine in abito da sera e i
maschi in tight. C'erano anche dei piccoli che
schizzavano come lucciole in mezzo agli adulti, mentre
gli anziani se ne stavano seduti ai margini, con un sorriso
sulle labbra.
Qhuinn era rimasto lì al buio, sentendosi parte
dell'accozzaglia di cianfrusaglie fatte sparire prima
dell'arrivo della comitiva, uno dei tanti oggetti orrendi e
inutili da nascondere dentro una credenza per non farli
vedere a nessuno. Non era la prima volta che veniva
colto dall'impulso di ficcarsi le dita negli occhi per
distruggere ciò che aveva segnato la sua rovina.
D'un tratto l'orchestrina aveva smesso di suonare e suo
padre si era avvicinato al microfono, ai bordi della pista
da ballo. Mentre tutti gli invitati si radunavano, la madre,
il fratello e la sorella di Qhuinn si erano raccolti alle
spalle del padre; tutti e quattro risplendevano in un
modo che non aveva nulla a che fare con lo sfavillio delle
luci tutt'intorno.
«Se mi concedete un attimo della vostra attenzione»,
aveva esordito suo padre nell'Antico Idioma. «Gradirei
rivolgere un saluto alle famiglie fondatrici che sono qui
stasera.» Applausi. «Agli altri membri del Consiglio.»
Applausi. «E a tutti quanti voi, che costituite il cuore
della glymera, oltre a far parte della mia famiglia.»
Applausi. «Questi dieci anni da leahdyre sono stati
impegnativi, ma abbiamo compiuto notevoli progressi, e
233
sono certo che il mio successore reggerà le redini con
mano ferma. Con la recente ascesa al trono del re è
ancora più essenziale che i nostri interessi vengano
esposti e sostenuti con la dovuta attenzione. Grazie
all'instancabile operato del Consiglio potremo imporre la
nostra visione alla razza... incuranti dei dissensi
ingiustificati di chi non comprende appieno quanto noi le
questioni sul tappeto...»
A quel punto era esploso un applauso scrosciante, in
segno di approvazione, seguito da un brindisi in onore
del padre di Lash. Poi il padre di Qhuinn si era schiarito
la gola, lanciando un'occhiata alle tre persone alle sue
spalle. Con voce lievemente roca, aveva detto, «È stato un
onore servire la glymera... e sebbene già senta la
mancanza della mia posizione, non sarei del tutto onesto
se non ammettessi che avere più tempo da dedicare alla
mia famiglia mi riempie di gioia. In verità, i miei familiari
sono la mia vita, e sento il bisogno di ringraziarli per la
leggerezza e il calore con cui mi riempiono il cuore ogni
giorno.»
La madre di Qhuinn gli aveva mandato un bacio al
volo, battendo freneticamente le palpebre; suo fratello
aveva gonfiato il petto orgoglioso, gli occhi traboccanti di
adorazione per il suo eroe; sua sorella aveva battuto le
mani saltellando su e giù, i riccioli che rimbalzavano di
gioia.
In quel momento Qhuinn si era sentito completamente
rifiutato come figlio, fratello e membro della famiglia, al
punto che nessuna parola, a lui o su di lui, avrebbe
potuto peggiorare la sua straziante tristezza.
234
Venne riscosso da quei ricordi quando suo padre
bussò energicamente alla porta; i colpi spezzarono la
presa del passato, allontanando la scena dalla sua mente.
Premette il tasto invio per mandare l'SMS, infilò il
cellulare nel taschino della camicia e disse, «Avanti.»
La porta si aprì, ma non era suo padre.
Era un doggen, lo stesso maggiordomo da cui aveva
saputo che per quell'anno non doveva andare al ballo
della glymera.
Il domestico si inchinò, ma non era necessariamente
un gesto di rispetto, e Qhuinn non lo interpretò come
tale. I doggen si inchinavano sempre e comunque.
Diamine, se interrompevano un procione che rovistava
tra i rifiuti la loro prima mossa, ancora prima di cacciarlo
via, era piegarsi nel solito, profondo inchino.
«Credo che me ne andrò», disse Qhuinn mentre il
maggiordomo compiva in fretta i gesti rituali per
scacciare il malocchio.
«Con tutto il dovuto rispetto», disse il doggen, con la
fronte ancora rivolta a terra, «suo padre le ordina di
lasciare questa casa.»
«Fico.» Qhuinn si alzò con il borsone in cui aveva
infilato la sua collezione di T-shirt e le sue quattro paia di
jeans.
Mettendoselo a tracolla, si chiese per quanto tempo
ancora gli avrebbero pagato l'abbonamento al cellulare.
235
Già negli ultimi due mesi - da quando la paghetta era
improvvisamente scomparsa - si aspettava di vederselo
tagliare.
Aveva la sensazione che il destino di T-Mobile,
proprio come il suo, fosse segnato.
«Suo padre mi ha chiesto di consegnarle questa.» Il
doggen non si raddrizzò nel tendergli la mano, che
stringeva una spessa busta commerciale.
L'impulso di dire al domestico di riportarla a suo
padre con la raccomandazione di ficcarsela in quel posto
era pressoché irresistibile.
Qhuinn prese la busta e l'aprì. Dopo aver dato una
scorsa ai fogli che conteneva, li piegò con calma
infilandoli di nuovo dentro. Ficcando il tutto nella cintura
dei calzoni disse, scherzando, «Vado ad aspettare il mio
autista.»
Il doggen si raddrizzò. «In fondo al viale, se non le
spiace.»
«Sì. Certo. Bene.» Chi se ne frega. «Vi serve il mio
sangue, giusto?»
«Se volesse essere tanto gentile.» Il doggen allungò una
coppa di ottone con l'interno rivestito in vetro nero.
Qhuinn usò il suo coltellino svizzero, perché il coltello
da caccia gli era stato confiscato. Si passò la lama sul
palmo e strinse il pugno per far colare alcune gocce rosse
nel calice.
236
Appena lui avesse messo piede fuori di casa avrebbero
bruciato il suo sangue come parte di un rituale di
purificazione.
Non si limitavano a scartare chi aveva dei difetti; si
sbarazzavano del male.
Qhuinn lasciò la sua stanza senza voltarsi indietro e si
incamminò lungo il corridoio. Non passò a salutare sua
sorella, anche se sentiva che si stava esercitando al flauto,
e lasciò stare suo fratello, intento a recitare dei versi in
latino. Non si fermò neanche davanti al salottino di sua
madre quando la sentì parlare al telefono, e ovviamente
tirò dritto davanti allo studio di suo padre.
Erano tutti d'accordo sul suo allontanamento, la prova
era nella busta.
Al pianoterra non sbatté il portone d'ingresso. Non
c'era motivo di dare spettacolo. Tutti quanti sapevano
che se ne stava andando, ecco perché si affannavano ad
apparire tanto indaffarati invece di prendere il tè in
soggiorno.
Si sarebbero riuniti non appena il doggen li avesse
informati che lui era uscito di casa, ci avrebbe
scommesso. Avrebbero sorseggiato una tazza di Earl
Grey e sbafato un paio di focaccine dolci, ci avrebbe
scommesso. Avrebbero tirato un grosso, grossissimo
sospiro di sollievo, ci avrebbe scommesso, e poi si
sarebbero lamentati di come sarebbe stata dura andare in
giro a testa alta dopo quello che lui aveva fatto a Lash.
237
Qhuinn imboccò il lungo viale d'accesso pieno di
curve. Giunto davanti alla grande cancellata di ferro,
vide che era aperta. Quando l'ebbe varcata, i battenti si
richiusero con un gran clangore, come se lo avessero
cacciato fuori a calci nel sedere.
La notte estiva era calda e umida, un lampo si stagliò
nel cielo a nord, in lontananza.
I temporali arrivavano sempre da nord, pensò Qhuinn,
sia d'estate che d'inverno. Nei mesi freddi i venti di nordest potevano seppellirti sotto tanta di quella neve da farti
sentire...
Accidenti. Era così scosso che stava parlando del
tempo da solo.
Posò sul marciapiede la sacca da viaggio.
Forse avrebbe dovuto mandare un messaggino a Blay
per chiedergli se poteva davvero dargli uno strappo.
Smaterializzarsi con il peso del borsone poteva essere
insidioso e non gli avevano mai comprato la macchina,
per cui ecco, per il momento era bloccato lì.
Aveva appena infilato la mano in tasca quando il
cellulare emise un trillo. Era un SMS di Blay: Devi venire a
stare da noi. Passo a prenderti.
Stava per rispondergli quando pensò alla busta e si
fermò. Infilò il telefonino nella sacca, si rimise in spalla la
borsa con la sua roba e si incamminò lungo il ciglio della
strada. Puntava verso est perché la scelta casuale di
girare a sinistra lo portava in quella direzione.
238
Cribbio... adesso era proprio un orfano. Era come se i
suoi sospetti più segreti si fossero realizzati. Aveva
sempre pensato di essere stato adottato o roba del genere
perché si era sempre sentito fuori posto nella sua
famiglia... e non solo per la storia degli occhi di due
colori diversi. Era fatto di una stoffa diversa. Lo era
sempre stato.
Una parte di lui voleva andare su tutte le furie per
essere stato cacciato di casa, ma cosa si aspettava? Non
era mai stato uno di loro, e aver aggredito un cugino di
primo grado con un coltello da caccia, anche se era
assolutamente giustificato, era imperdonabile.
Sarebbe costato anche dei bei soldoni al suo vecchio.
In caso di aggressione - assassinio, se Lash moriva - se
la vittima era un membro della glymèra, questi o la sua
famiglia avevano diritto a un risarcimento in denaro;
l'entità della somma dipendeva dal valore relativo del
ferito o deceduto. Lash era un giovane vampiro che
aveva superato la transizione, primogenito di una delle
famiglie fondatrici della razza. Solo il decesso di un
membro della confraternita o di ima aristocratica incinta
sarebbe stato più oneroso. E a pagare dovevano essere i
suoi genitori, non Qhuinn, perché legalmente si era
considerati adulti solo dopo un anno dalla transizione.
La cosa positiva era che, essendo tecnicamente ancora
minorenne, non lo avrebbero condannato a morte. Ma in
ogni caso lo avrebbero incriminato, e allora la vita per
come lui la conosceva sarebbe ufficialmente finita.
239
Quando si dice affrontare dei cambiamenti. Era fuori dalla
glymera. Fuori dalla sua famiglia. Fuori dal programma di
addestramento.
A parte cambiare sesso così, sui due piedi, era difficile
immaginare cos'altro si poteva fare per incasinargli
l'identità.
Per come stavano le cose al momento, aveva tempo
fino all'alba per decidere dove aspettare di sentire cosa
gli sarebbe capitato. Andare a stare da Blay sarebbe stata
la scelta più ovvia, salvo che per un grosso, enorme,
insormontabile problema: accogliere un reietto della
glymera equivaleva a devastare lo status sociale di quella
famiglia, per cui non se ne parlava nemmeno. E neanche
John poteva ospitarlo. Vivendo con i fratelli, il suo
domicilio era talmente top secret che non poteva ricevere
visite, figurarsi poi un ospite semi-permanente.
Colpevole di aver massacrato un compagno di corso. E
in attesa di finire al fresco.
Dio.... John. La cosa che aveva detto Lash.
Qhuinn sperava che non fosse vera, ma temeva che lo
fosse.
Aveva sempre pensato che John non si lanciasse con le
femmine perché era ancora più imbranato di Blay nelle
relazioni sociali. Ma adesso? Era ovvio che il ragazzo
aveva dei problemi molto seri... e Qhuinn si sentiva uno
stronzo di proporzioni gigantesche per averlo tampinato
in quel modo sul sesso.
240
Non c'era da stupirsi che John non avesse mai voluto
appartarsi con una femmina nel retro dello ZeroSum.
Accidenti a Lash.
Cavolo, quali che fossero le conseguenze di ciò che
aveva fatto con quel coltello, era pronto a rifare tutto da
capo. Lash era sempre stato un bastardo, erano anni che
voleva spaccargli la faccia. Ma dopo averlo visto
aggredire John in quel modo sperava proprio che
morisse.
E non solo perché un lurido bastardo in meno sulla
faccia della terra era un'ottima cosa.
Lash era una linguaccia, questa era la verità, e finché
era libero di spifferare quell'informazione, John non era
al sicuro. E questo era pericoloso. Nella glymera c'era chi
l'avrebbe giudicato un danno irreparabile alla sua virilità.
Se John voleva sperare di diventare un fratello a pieno
titolo e di guadagnarsi il rispetto dell'aristocrazia, se
voleva sperare di trovarsi una compagna e mettere su
famiglia, nessuno doveva sapere che era stato violentato
da un altro maschio, men che meno da un maschio umano.
Merda, il fatto che lo stupratore fosse un umano
peggiorava enormemente le cose. Agli occhi della glymera
gli umani erano topi di fogna a due zampe. Soccombere a
uno di loro era inconcepibile.
No, pensò Qhuinn camminando tutto solo, non
avrebbe cambiato una virgola di quello che aveva fatto.
241
Capitolo 15
Dopo aver ripulito a fondo le docce dello spogliatoio,
John andò in ufficio, si sedette alla scrivania e passò Dio
solo sa quanto tempo a fissare le carte che avrebbe
dovuto sistemare. Nel silenzio della stanza il labbro
gonfio pulsava, così come le nocche, ma quelli erano solo
fastidi minori a confronto del ruggito sordo che aveva in
testa.
Certo che la vita era proprio strana.
Quasi sempre scorreva a un ritmo prevedibile, gli
eventi fluivano entro il limite di velocità o appena al di
sotto. Ogni tanto, tuttavia, le cose accadevano in un
lampo, tipo quando una Porche ti risucchia le portiere in
autostrada. All'improvviso capitava qualcosa di brutto
che cambiava tutto in un batter d'occhio.
La morte di Wellsie era andata così. La scomparsa di
Tohr era andata così.
L'aggressione di Qhuinn a Lash era andata così.
E la cosa orribile che era successa a John su quella
rampa di scale... sì, anche quella.
Ogni tanto il
sull'acceleratore.
destino
242
si
divertiva
a
pigiare
Evidentemente la gola di Lash era destinata a venire
squarciata in quel preciso momento da parte di Qhuinn, e
il tempo aveva accelerato in modo da impedire
qualunque interferenza esterna.
Rinunciando a lavorare, John si alzò dalla scrivania e
si infilò dentro l'armadio imboccando il tunnel
sotterraneo che lo avrebbe riportato alla casa della
confraternita. Si vergognava come un cane di aver
sperato che Lash non ce la facesse. Non gli piaceva
pensare di essere tanto crudele, senza contare che, se
Lash moriva, Qhuinn se la sarebbe vista ancora più
brutta.
Non voleva che il suo segreto venisse svelato, però.
Appena entrato nell'atrio sentì il bip del cellulare. Era
Qhuinn:
Andato via di kasa. Nn so x quanto funzionerà cel. Mi
konsegnerò a Wrath quando vorrà.
Merda. John rispose subito: Blay può passare a prenderti.
Nessuna risposta.
Tentò di nuovo: Q? Aspetta Blay, nn andare via senza di
lui. Resta dove 6.
John si fermò ai piedi dello scalone in attesa di una
risposta. Il messaggio che ricevette un minuto dopo era
di Blay: Nn preoccuparti, a Q penso io. T faccio saxe quando si
fa vivo. Alla peggio passo a prenderlo.
243
Grazie al cazzo.
Di norma John avrebbe raggiunto i suoi amici a casa di
Blay, ma ancora non se la sentiva di affrontarli. Adesso di
sicuro lo avrebbero visto in modo diverso. Oltre tutto,
quello che gli era capitato si sarebbe stampato nelle loro
menti come un chiodo fisso, proprio come all'inizio era
accaduto anche a lui.
Dopo lo stupro non riusciva a levarsi dalla testa quello
che aveva dovuto subire, ci pensava in continuazione.
Col tempo ci aveva pensato sempre meno: prima quasi
tutto il giorno e tutta la notte, poi qualche volta di giorno
e poi un giorno sì e uno no; a un certo punto poteva
passare anche un'intera settimana senza che ci pensasse.
Per le notti ci era voluto molto, molto di più, ma alla fine
anche gli incubi, a poco a poco, erano svaniti.
Già, al momento non aveva nessuna voglia di
guardare i suoi amici negli occhi sapendo a cosa stavano
pensando. Cosa si stavano immaginando. Cosa si stavano
chiedendo.
Naa, ancora non se la sentiva di stare con loro.
Senza contare che non riusciva a scrollarsi di dosso la
sensazione che tutta la disgrazia di Lash fosse colpa sua.
Se non si fosse portato quel fardello addosso, Lash non
l'avrebbe tirato in ballo davanti ai suoi amici, non sarebbe
scoppiata nessuna rissa e Qhuinn non si sarebbe messo a
imitare Rambo con suo cugino.
244
Ancora una volta la porcheria successa su quella scala
causava dei problemi. Era come se le ripercussioni di
quello che gli era capitato non dovessero finire mai.
Passando davanti alla biblioteca diretto al piano di
sopra, entrò d'impulso e passò in rassegna gli scaffali
finché giunse alla sezione legale... larga sei o sette metri.
Dio, dovevano esserci una settantina di volumi di
giurisprudenza nell'Antico Idioma. Evidentemente i
vampiri erano litigiosi quanto gli umani.
Diede una scorsa ad alcuni tomi e leggendo il codice
penale si fece un'idea di quello che poteva accadere. Se
Lash moriva, Qhuinn doveva comparire davanti a Wrath
con l'accusa di omicidio, e le cose non promettevano bene
visto che, non essendo Qhuinn
la vittima
dell'aggressione, non poteva invocare la legittima difesa.
La cosa migliore era invocare le attenuanti per il delitto
d'onore, ma anche in quel caso era previsto un periodo di
detenzione, oltre a una multa salatissima da versare ai
genitori di Lash. D'altro canto, se Lash si salvava, era un
caso di aggressione a mano armata, che ugualmente
avrebbe comportato un periodo dietro le sbarre e una
sanzione pecuniaria.
In entrambi i casi si poneva lo stesso problema: per
quel che ne sapeva lui, la razza non disponeva di istituiti
di pena a causa del degrado subito dal sistema carcerario
nei quattrocento anni precedenti l'ascesa al trono di
Wrath. Di conseguenza, Qhuinn sarebbe stato posto agli
arresti domiciliari da qualche parte fino alla costruzione
di una prigione.
245
Era difficile immaginare che i genitori di Blay
accettassero senza problemi di accogliere a tempo
indeterminato un criminale sotto il >ro tetto. Dunque
dove poteva andare Qhuinn?
Con un'imprecazione, John rimise a posto i volumi
rilegati in pelle. Voltandosi scorse qualcosa al chiaro di
luna e dimenticò ciò che aveva appena letto.
Al di là delle portefinestre della biblioteca Cormia
stava uscendo dalla piscina, il corpo nudo stillante acqua,
la pelle talmente liscia da sembrare lucidata, le braccia e
le gambe, lunghe ed eleganti, aggraziate come una brezza
estiva.
Oh... accidenti.
Come cavolo aveva fatto Phury a stare lontano da lei?
Rivestendosi, Cormia si voltò verso la casa e, nel
vederlo, rimase impietrita. John alzò la mano in un saluto
imbarazzato. Si sentiva come un guardone. Cormia esitò,
nell'incertezza di essere stata colta Sul fatto mentre
faceva qualcosa di male, poi ricambiò il saluto.
John aprì la portafinestra e, soprappensiero, disse a
gesti, Scusa tanto se sono in ritardo.
Oh, fantastico, bravo. Lei non conosceva la lingua dei
segni...
«Vi spiace di avermi vista o di essere in ritardo? Avete
detto una delle due cose, immagino.» Quando lui batté
246
sull'orologio
seconda.»
Cormia arrossì
leggermente.
«Ah,
la
John annuì e lei gli andò vicino, senza fare rumore,
lasciando una scia di orme bagnate sulle lastre di pietra.
«Vi ho aspettato... Oh, santissima Vergine Scriba. Siete
ferito.»
Lui si portò la mano al labbro spaccato; avrebbe
preferito che Cormia non ci vedesse così bene al buio.
Cominciò a gesticolare nel tentativo di distrarla, ma poi,
frustato dalla barriera comunicativa, ebbe un'ispirazione.
Tirò fuori il cellulare e digitò un messaggio: Mi farebbe
ancora piacere vedere un film, se ti va.
Fino a quel momento era stata una notte d'inferno, ed
era destinata a peggiorare ulteriormente una volta che, al
ritorno dei fratelli dalla clinica, la sorte di Lash si sarebbe
chiarita. Era troppo teso per starsene da solo a
rimuginare; a quel punto, la prospettiva di sedersi al buio
con Cormia e svagarsi un po' era l'unica minimamente
sopportabile.
Lei lo squadrò per qualche secondo, socchiudendo gli
occhi. «Vi sentite bene?»
Sì, benissimo, digitò lui. Mi spiace solo di essere arrivato in
ritardo. Avrei proprio voglia di vedere un film.
«Molto volentieri, allora», disse lei con un inchino.
«Prima però vorrei sciacquarmi e cambiarmi.»
247
Insieme attraversarono la biblioteca e salirono il
sontuoso scalone. John era impressionato. Cormia non
era poi tanto imbarazzata, considerato che si era appena
mostrata in tutta la sua nudità, e lui lo trovava parecchio
intrigante.
In cima alle scale, Cormia entrò in camera sua. John
credeva di doverla aspettare per un bel po', invece lei
tornò in un lampo. E aveva i capelli sciolti.
Oh, Dio buono, che splendore. I riccioli le ricadevano fino
in fondo alla schiena, più scuri del solito biondo grano
perché erano ancora umidi.
«Ho i capelli bagnati», disse Cormia mostrando ima
manciata di forcine dorate. «Li raccoglierò appena
saranno asciutti.»
Se è per me fanne pure a meno, pensò John,
contemplandola ammirato.
«Vostra grazia?»
John si riscosse e fece strada lungo la galleria delle
statue fino alla porta a vento che segnava l'ingresso ai
quartieri della servitù. La tenne aperta per Cormia e poi
prese a destra, fino a una porta imbottita di cuoio che si
spalancò su tuia rampa di scalini coperti da una passatoia
in cui erano incastonate due file di lucine scintillanti.
Cormia sollevò la tunica bianca e cominciò a salire;
John la seguì, sforzandosi di non guardare le punte
arricciate dei capelli che le sfioravano il didietro.
248
La sala proiezioni al secondo piano faceva pensare alla
Metro-Goldwyn-Mayer degli anni Quaranta, con le sue
pareti nero e argento decorate con rilievi a forma di
ninfee in stile art déco e le raffinatissime applique oro e
argento. I posti a sedere, più che richiamare le gradinate
di uno stadio, erano degni di una Mercedes: ventun
poltroncine di cuoio distribuite in tre sezioni separate da
corridoi illuminati da altre file di lucine. Ognuno di quei
troni su-perimbottiti per il fondoschiena era largo come
un letto singolo e nell'insieme offrivano più portabicchieri di un Boeing 747.
La parete di fondo era tappezzata da migliaia di DVD,
e c'erano anche delle cibarie. Oltre a una macchina per
fare i popcorn, che al momento era spenta perché Fritz
non era stato avvertito della loro presenza, c'era un
distributore di Coca Cola e un bancone pieno di
caramelle e dolciumi assortiti: stringhe di liquirizia, uva
passa ricoperta di cioccolato al latte o fondente, caramelle
dure o gommose, tonde o a forma di pesciolino e così via.
John si fermò a guardare tutto quel ben di Dio: Milk
Duds, Raisinets, Swedish Fish, M&M's e Twizzlers. Era
affamato e nauseato insieme e per scegliere dovette
lottare contro il voltastomaco, ma pensava che forse a
Cormia avrebbe fatto piacere sgranocchiare qualcosa.
Mentre lei si guardava intorno con gli occhi sgranati,
John prese un pacchetto di M&M's, perché sono un
classico, e uno di Swedish Fish, nel caso Cormia non
gradisse il cioccolato. Prese due bicchieri della Coca Cola,
li riempì con una tonnellata di ghiaccio e poi ci versò
sopra la bevanda scura e frizzante.
249
Con un fischio sommesso attirò l'attenzione di Cormia
e annuì ih direzione delle prime file. Lei lo seguì,
all'apparenza affascinata dalle lucette incassate nei
gradini. Dopo averla fatta accomodare, John tornò su di
corsa cercando di farsi venire in mente un titolo da
mettere.
Okay, i film dell'orrore erano esclusi, sia per la delicata
sensibilità di Cormia sia per l'incubo assolutamente reale
che lui stesso aveva vissuto poche ore prima. Il che,
naturalmente... equivaleva a eliminare un buon
cinquanta per cento della raccolta, perché di solito era
Rhage a far pervenire a Fritz le richieste di nuovi film da
acquistare.
John scartò anche la sezione dedicata a Godzilla
perché gli ricordava Tohr. Le commedie sboccate come
American Pie e Due single a nozze-Wedding Crashers erano
troppo volgari per Cormia. In compenso la collezione di
Mary di film stranieri molto seri e profondi era... be',
troppo impegnativa per lui, neanche in ima serata sì
sarebbe riuscito a vederli fino in fondo: cercava qualcosa
che lo aiutasse a evadere, non un'altra forma di tortura.
Film d'azione? Chissà perché, ma aveva il sospetto che
Cormia non fosse in grado di afferrare le sottigliezze di
Bruce Willis, Silvester Stallone o Arnold Schwarzenegger.
Restavano solo le commedie romantiche. Sì, ma quale?
C'erano i classici di John Hughes: Sixteen Candles - Un
compleanno da ricordare, Bella in rosa, Breakfast Club. La
sezione dedicata a Julia Roberts con Mystic Pizza, Pretty
Woman, Fiori d'acciaio, Il matrimonio del mio migliore
amico... file su file di film con Jennifer Aniston, tutti
250
meritevoli di finire nel dimenticatoio. Tutti quelli con
Meg Ryan degli anni Novanta...
Tirò fuori un DVD.
Mentre se lo rigirava tra le mani pensò a Cormia che
ballava sull'erba del prato. Tombola.
Stava per voltarsi quando gli squillò il cellulare. Il
messaggio veniva da Zsadist, che evidentemente era
ancora alla clinica di Havers: Lash nn messo bene. Terapie in
korso. V aggiorno.
Il messaggio era rivolto a tutti gli ospiti della casa;
rileggendolo, John si chiese se fosse il caso di inoltrarlo a
Blay e Qhuinn. Alla fine si infilò il telefono in tasca,
pensando che tutti e due avevano già abbastanza a cui
pensare senza gli aggiornamenti a singhiozzo sulle
condizioni di Lash. Se fosse morto li avrebbe avvertiti.
Si guardò intorno un attimo. Era assolutamente
surreale fare una cosa normalissima come guardare un
film; gli sembrava vagamente inopportuno. Ma al
momento non si poteva fare altro che aspettare. Lui e
tutti gli altri coinvolti nella tragedia erano come in folle.
Si avvicinò al lettore DVD e inserì il disco
nell'apparecchio; non vedeva altro che Lash steso sulle
piastrelle della doccia, il terrore negli occhi, il sangue che
sgorgava a fiotti dal collo.
Cominciò a pregare che Lash ce la facesse.
251
Anche se significava vivere nel terrore di veder svelato
il suo segreto. Meglio questo che una condanna per
omicidio a carico di Qhuinn, e un morto sulla coscienza.
Ti prego, Dio, fa' che Lash si salvi.
252
Capitolo 16
In centro, allo ZeroSum, Rehv stava passando una
nottata di merda e la sua responsabile della sicurezza non
faceva che peggiorare le cose. Ritta a braccia conserte
davanti alla sua scrivania, Xhex lo guardava dall'alto in
basso neanche fosse imo stronzo di cane in una serata
torrida.
Rehvenge si stropicciò gli occhi, poi le restituì lo
sguardo torvo. «E perché dici che dovrei restare qui
dentro, sentiamo?»
«Perché sei tossico e terrorizzi i dipendenti.»
A riprova del fatto che non erano del tutto deficienti,
pensò lui.
«Cos'è successo ieri notte?» chiese dolcemente lei.
«Ti ho detto che ho comprato quel lotto a quattro
isolati da qui?»
«Sì. Ieri. Cosa è successo con la Principessa?»
«Questa città ha bisogno di un locale dark. Credo che
lo chiamerò La Maschera di Ferro.» Rehv si protese in
avanti verso lo schermo luminoso del portatile. «Le
entrate qui sono più che sufficienti a ottenere un prestito.
Potrei anche semplicemente staccare un assegno, anche
se così verremmo sottoposti a verifiche. Il riciclaggio di
253
denaro sporco è così fottutamente complicato, e se mi
chiedi un'altra volta di ieri notte ti sbatto fuori a calci.»
«Ah, facciamo i preziosi.»
Il labbro superiore di Rehvenge si contrasse mentre gli
spuntavano le zanne. «Non tirare troppo la corda, Xhex.
Non sono proprio dell'umore.»
«Senti, tieni pure la bocca chiusa, per me va benissimo,
però non sfogarti sul personale per i tuoi casini. Non ci
tengo a pulire le macerie dei tuoi rapporti
interpersonali... Perché continui a stropicciarti gli occhi?»
Rehv guardò l'orologio con una smorfia. Nel mezzo
della sua visione piatta e rossa si rese conto che erano
passate solo tre ore dall'ultima iniezione di dopamina.
«Hai già bisogno di un'altra dose?» chiese Xhex.
Senza prendersi la briga di annuire, Rehv aprì il
cassetto e tirò fuori una fialetta di vetro e una siringa. Si
tolse la giacca, arrotolò la manica della camicia, si legò il
laccio emostatico al braccio e poi cercò di infilare l'ago
sottile nel sigillo rosso della fiala.
Non riusciva a centrarlo. Senza la percezione della
profondità era come pescare nel vuoto pneumatico;
cercava di far combaciare la punta dell'ago con la
sommità della fiala, ma ogni volta mancava il bersaglio.
I symphath vedevano tutto rosso, nelle sue varie
sfumature, e avevano una visione bidimensionale.
Quando la droga non faceva effetto, perché era stressato
254
o perché aveva saltato una dose, l'alterazione della vista
era il primo segnale che qualcosa non andava.
«Da' qua, faccio io», si offrì Xhex.
Pervaso da un'ondata di cattiveria, Rehv scoprì di non
riuscire a parlare, quindi si limitò a scuotere la testa
intestardendosi ad armeggiare con la siringa. Nel
frattempo il suo fisico cominciò a ridestarsi dal profondo
torpore e le sensazioni affluirono nelle braccia e nelle
gambe sotto forma di fastidiosi formicolii.
«Okay, ora basta col tuo ego», disse Xhex girando
decisa intorno alla scrivania. «Lasciami...»
Rehv cercò di abbassare la manica in tempo, ma non ci
riuscì.
«Cristo santo», sibilò lei.
Lui allontanò goffamente il braccio, ma era troppo
tardi. Decisamente troppo tardi. .
«Lasciami fare», disse Xhex, posandogli una mano
sulla spalla. «Rilassati, capo... e lascia che mi prenda cura
di te.»
Con sorprendente delicatezza Xhex prese siringa e
fiala, poi allungò sopra la scrivania il braccio coperto di
lividi di Rehvenge, Ultimamente si era fatto talmente
tante punture che, per quanto guarisse in fretta, le vene
erano straziate, tutte gonfie e piene di buchi come strade
troppo trafficate.
255
«Proviamo con l'altro braccio.»
Mentre Rehvenge allungava il braccio destro, Xhex
infilò l'ago nella fiala senza problemi, aspirando quella
che avrebbe dovuto essere la sua dose normale. Lui
scosse la testa e alzò due dita per farle capire che doveva
raddoppiarla.
«Così è troppo», protestò lei.
Rehv fece per afferrare la siringa, ma lei la spostò fuori
dalla sua portata.
Lui picchiò il pugno sulla scrivania, guardandola negli
occhi imperioso.
Con un paio di violente imprecazioni, Xhex aumentò
la dose; Rehv rimase a guardarla mentre frugava nel
cassetto in cerca di una salviettina disinfettante, la apriva
e gliela passava all'interno del gomito. Dopo aver fatto
l'iniezione, Xhex sciolse il laccio emostatico e rimise tutto
nel cassetto della scrivania.
Rehvenge chiuse gli occhi, mettendosi comodo. Anche
con le palpebre abbassate il rosso persisteva.
«Da quanto tempo va avanti?» chiese piano Xhex. «La
doppia dose, iniettarsela senza prima disinfettarsi.
Quante volte al giorno ti fai?»
Lui si limitò a scuotere la testa.
Qualche istante dopo sentì che Xhex apriva la porta e
ordinava a Trez di andare a prendere la Bendey. Stava
256
per dirle che non se ne parlava proprio quando lei tirò
fuori dall'armadio una delle sue pellicce di zibellino.
«Adesso andiamo da Havers», disse Xhex. «E se ti
azzardi a discutere chiamo i ragazzi e ti faccio trascinare
fuori a forza da questo ufficio.»
Rehv la guardò truce. «Non sei tu... il capo, qui
dentro.»
«Vero. Ma se dico ai ragazzi che razza di infezione hai
al braccio credi che ci metteranno molto prima di
trascinarti fuori di peso? Se fai il bravo forse finirai sul
sedile di dietro invece che nel bagagliaio. Se invece fai lo
stronzo ti piazziamo sul cofano, a mo' di decorazione.»
«Vai a farti fottere.»
«Ci abbiamo già provato, ricordi? E non è piaciuto a
nessuno dei due.»
Merda, era
ricordarglielo.
proprio
il
momento
giusto
per
«Usa la testa, Rehv. Non puoi averla vinta, quindi
perché perdere tempo a protestare? Prima vai, prima
torni.» Si guardarono in cagnesco finché lei disse, «E va
bene, lasciamo perdere la doppia dose. Havers ti darà
solo un'occhiata al braccio. Ti dico solo una cosa: sepsi.»
Sì, come no, appena lo vedeva, il dottore avrebbe
capito subito la situazione.
257
Rehv afferrò il bastone e, lentamente, si alzò in piedi.
«Ho troppo caldo... per la pelliccia.»
«La porto lo stesso, così quando la dopamina farà
effetto e tu comincerai a raffreddarti non ti beccherai un
malanno.»
Xhex gli offrì il braccio senza guardarlo perché sapeva
che altrimenti non si sarebbe appoggiato, era troppo
orgoglioso. Ma aveva bisogno di appoggiarsi. Era debole
da far spavento.
«Detesto doverti dare ragione», disse Réhv.
«Il che spiega perché di solito sei così irascibile.»
Insieme uscirono adagio nel vicolo.
La Bendey era lì che aspettava, con Trez al volante. Il
Moro non fece domande né commenti, com'era nel suo
stile.
E naturalmente tutto quel silenzio opprimente lo
faceva sentire anche peggio quando si comportava da
imbecille.
Rehv ignorò il fatto che, dopo averlo aiutato a salire,
Xhex era scivolata accanto a lui sul sedile di dietro come
se temesse che potesse avere un attacco di mal d'auto o
roba del genere.
La Bendey partì con la magica fluidità di un tappeto
volante; molto appropriato visto che proprio su un
tappeto volante gli sembrava di viaggiare. Mentre la sua
258
natura di symphath battagliava col suo sangue di vampiro
si verificava un tira e molla tra il suo lato malvagio e
quello per metà decente, e quegli sbalzi di gravità morale
gli davano una nausea tremenda.
Forse Xhex aveva ragione a preoccuparsi che potesse
vomitare.
Svoltarono a sinistra sulla Trade, infilarono la Decima
Avenue e schizzarono verso il fiume, dove imboccarono
l'autostrada. Alla quarta uscita lasciarono l'autostrada e
attraversarono un quartiere di lusso, dove grandi ville
circondate da parchi sorgevano discoste dalla strada,
come sovrani in attesa che ci si inchinasse al loro
cospetto.
A causa della visione rossa e bidimensionale, Rhev
non ci vedeva molto con gli occhi. Grazie al suo lato
symphath, in compenso, sapeva anche troppo. Sentiva la
presenza degli umani nelle loro sontuose magioni,
conosceva i residenti tramite l'impronta emotiva che
emettevano, grazie all'energia sprigionata dai loro
sentimenti. Se la sua vista era piatta come uno schermo
televisivo, la sua percezione della gente era
tridimensionale: li percepiva sotto forma di griglie
psichiche, le interazioni tra gioia e tristezza, senso di
colpa e lussuria, collera e dolore creavano strutture che
per lui erano solide come le loro abitazioni.
Se il suo sguardo non riusciva a penetrare oltre i muri
di cinta e gli ordinati filari di alberi, se non poteva
varcare le solide pareti di pietra e calce delle loro dimore,
la sua natura malvagia vedeva con estrema chiarezza gli
259
uomini e le donne al loro interno, come se fossero nudi
davanti a lui, e i suoi istinti si rianimarono. Si concentrò
sulle debolezze che filtravano da quelle griglie emotive,
scovando i punti deboli di quelle persone, smanioso di
sconvolgerle ancora di più. Era il gatto astuto di fronte ai
poveri topolini, il persecutore dotato di artigli desideroso
di giocare con loro fino a stanare dalle loro testoline tutti
i segreti più inconfessabili, le bugie più turpi e le ansie
più vergognose.
Il suo lato malvagio li odiava con calmo distacco. Per
la sua natura di symphath, i deboli non meritavano di
ereditare la terra. Dovevano mangiarla fino a morirne
soffocati. Poi potevi schiacciare le loro carcasse nella
melma del loro sangue per passare alla vittima
successiva.
«Odio le voci nella mia testa», disse.
Xhex lo guardò. Nella penombra del sedile posteriore,
il suo viso duro e intelligente gli appariva curiosamente
bello, forse perché era l'unica in grado di capire fino in
fondo i demoni contro cui lui combatteva, e quel legame
tra loro la trasfigurava.
«Meglio disprezzare quella parte di te», disse Xhex.
«L'odio ti protegge.»
«Lottare è una noia.»
«Lo so. Ma riusciresti a vivere in un altro modo?»
«A volte ho qualche dubbio.»
260
Dieci minuti dopo, Trez varcò i cancelli della proprietà
di Havers; il torpore alle mani e ai piedi di Rehv stava già
tornando e la sua temperatura corporea era precipitata.
Mentre la Bendey svoltava sul retro fermandosi davanti
all'ingresso della clinica, la pelliccia di zibellino si rivelò
una manna dal cielo; Rehv se la strinse addosso per
riscaldarsi. Scendendo dall'auto notò che anche la visione
rossa cominciava a svanire, gli occhi tornavano a
percepire l'intera tavolozza cromatica del mondo e il
senso di profondità collocava gli oggetti nello spazio cui
era abituato.
«Io resto qua fuori», disse Xhex dal sedile posteriore.
Non entrava mai nella clinica. Considerato quello che
le avevano fatto, d'altronde, si capiva perché.
Rehv afferrò il bastone e vi si appoggiò con tutto il
peso. «Faccio presto.»
«Prenditi tutto il tempo che ci vuole. Trez e io ti
aspettiamo qui.»
Di ritorno dall'Altra Parte, Phury si materializzò
direttamente allo ZeroSum. Fece il suo acquisto da iAm
perché Rehv era fuori e il Moro ne faceva le veci, poi
tornò a casa e corse su in camera sua.
Voleva farsi una canna per rilassarsi un po' prima di
bussare alla porta di Cormia e dirle che era libera di
tornare al Santuario. Voleva anche prometterle che non
l'avrebbe mai importunata, nella sua veste di Primale, e
assicurarle che l'avrebbe protetta da ogni commento o
critica.
261
Voleva anche mettere in chiaro che gli dispiaceva
averla trascurata, lì sulla terra, tagliandola fuori dalla sua
vita.
Si sedette sul letto e prese le cartine, cercando di
prepararsi il discorso che le avrebbe fatto... e si ritrovò a
pensare a quando, la sera prima, Cormia lo aveva
spogliato, le sue mani pallide ed eleganti che gli
slacciavano la cintura prima di sbottonargli i calzoni. Di
colpo fu scosso da un'ondata di furibondo desiderio
erotico; fece del suo meglio per ignorarla, ma fingere
calma e distacco era come stare nella cucina di una casa
che andava a fuoco.
Impossibile non notare il calore, il fumo e tutti gli
allarmi antincendio.
Ah... ma per fortuna non durò a lungo. L'autopompa e
la squadra di pompieri bardati con maschere e guanti
arrivò sotto forma di un'immagine di tutte quelle culle
vuote. Quel ricordo, come una pistola carica puntata alla
testa, spense subito i suoi bollenti spiriti.
Nella sua mente apparve il mago, stagliato contro il
cielo grigio, ritto in mezzo al suo campo disseminato di
teschi. Quand'eri piccolo tuo padre era ubriaco giorno e notte.
Ricordi come ti faceva sentire? Dimmi, socio, che razza di
paparino sarai per tutti i tuoi figli, considerato che sei fumato
ventiquattr'ore su ventiquattro, sette giorni su sette?
Phury interruppe quello che stava facendo e ripensò a
tutte le volte che aveva sollevato suo padre dalle erbacce
del giardino trascinandolo dentro casa, proprio al sorgere
del sole. La prima volta aveva cinque anni... ed era
262
terrorizzato all'idea di non riuscire a metterlo al riparo in
tempo, tanto era pesante. Che spavento. Quel giardino
abbandonato a se stesso gli era parso grande come una
giungla, e le sue manine continuavano a mollare la presa
sulla cintura del padre. Lacrime di panico gli inondavano
il faccino mentre controllava frenetico il sole, sempre più
alto nel cielo.
Quando finalmente era riuscito a riportarlo in casa,
Ahgony aveva aperto gli occhi e lo aveva schiaffeggiato
con la mano grande come un badile.
Volevo morire là fuori, idiota. Dopo qualche istante di
silenzio, suo padre era scoppiato in lacrime
abbracciandolo stretto e gli aveva promesso che non
avrebbe mai più tentato di suicidarsi.
Ma invece ci aveva riprovato un'altra volta. E poi
un'altra e un'altra ancora. E ancora. Sempre con lo stesso
finale.
Phury aveva continuato a salvarlo perché voleva che
Zsadist, al suo ritorno a casa, trovasse ancora un padre.
Il mago sorrise. Ma poi non è andata così, no, socio? Tuo
padre è morto comunque e Zsadist non lo ha mai conosciuto.
Meno male che hai preso il vizio del fumo così almeno Z ha
sperimentato di persona qual era il retaggio della sua famiglia.
Phury si accigliò e guardò il water, al di là della porta
del bagno. Chiuse il pugno intorno al sacchetto di fumo
rosso e fece per alzarsi, deciso a buttarlo nel cesso e tirare
la corda.
263
Il mago rise. Non ce la farai mai. Non riuscirai a smettere.
Impossibile. Non riesci neanche a farne a meno per quattro ore
di fila senza andare nel panico. Sinceramente, ce la fai a
immaginare di non farti più neanche una canna per i prossimi
settecento anni? E dai, socio, ragiona.
Phury si rimise a sedere sul letto.
Oh, guarda, ha un cervello. Che shock.
Con un peso sul cuore, terminò di rollare e leccare lo
spinello e se lo infilò tra le labbra. Aveva appena tirato
fuori l'accendino quando all'altro capo della stanza
squillò il telefono.
Intuì subito di chi si trattava, e quando pescò il
cellulare dalla tasca dei calzoni ebbe la conferma che
aveva ragione. Zsadist. E aveva già chiamato tre volte.
Rispose, rimpiangendo di non essersi già acceso la
canna. «Sì?»
«Dove sei?»
«Sono appena tornato dall'Altra Parte.»
«Okay, bene, porta subito le chiappe qui alla clinica.
C'è stata una rissa nello spogliatoio. Crediamo che sia
stato John Matthew a cominciare, ma alla fine Qhuinn ha
accoltellato Lash al collo e il ragazzo è già andato una
volta in arresto cardiaco. Dicono di averlo stabilizzato,
ma nessuno sa cosa succederà. Ho appena provato per
l'ennesima volta a contattare i suoi genitori, ma scatta
264
sempre la segreteria, probabilmente a causa di quel gala.
Ti voglio qui quando arrivano.»
Evidentemente Wrath non lo aveva ancora avvertito
del gran cal-cione nel sedere che aveva dato al suo
gemello.
«Pronto?» fece Z, spazientito. «Phury? Ce l'hai con
me?»
«No.» Uno scatto per aprire l'accendino, un rapido
sfregamento del pollice ed ecco la fiamma. Phury si
rimise lo spinèllo in bocca e l'accese, facendosi coraggio.
«Però non posso venire.»
«Cosa vuol dire che non puoi? La mia shellan è incinta
e costretta a letto e io ce l'ho fatta a venire qui. Mi servi
come rappresentante del corso di addestramento e come
membro della confraternita...»
«Non posso.»
«Gesù Cristo, lo sento che stai fumando! Metti giù quel
cazzo di spinello e fai il tuo stramaledetto lavoro!»
«Non sono più un Fratello.»
Silenzio di tomba sulla linea. Poi la voce del suo
gemello, bassa e quasi impercettibile. «Cosa.»
Non era una domanda. Era più come se Z conoscesse
già la risposta, ma sperasse comunque in un miracolo.
265
Phury però non poteva accontentarlo. «Senti... Wrath
mi ha rimosso dalla confraternita. Ieri sera. Credevo che
te l'avesse detto.» Phury diede un gran tiro allo spinello e
lasciò che il fumo rotolasse fuori dalle labbra, lento come
melassa. Non gli era difficile immaginare la faccia del suo
gemello in quel momento, il RAZR stretto nel pugno, gli
occhi neri di rabbia, il labbro sfregiato ritratto.
Il ringhio che gli risuonò nell'orecchio non fu affatto
una sorpresa. «Grandioso. Ben fatto, cazzo!»
Il telefono divenne muto.
Phury provò a richiamare, ma venne rimbalzato sulla
casella vocale. Neanche questa fu una sorpresa.
Merda.
Non voleva solo riappacificarsi con Zsadist, voleva
sapere cosa diavolo era successo al centro di
addestramento. John stava bene? E Qhuinn? Tutti e due
prendevano fuoco subito, come tutti i vampiri freschi di
transizione, ma avevano un gran cuore.
Lash doveva aver combinato qualcosa di terribile.
Phury finì di fumare lo spinello a tempo di record.
Mentre ne rollava un altro e lo accendeva, decise che
poteva farsi ragguagliare da Rhage. Hollywood era
sempre fonte di...
Il mago scosse la testa. Wrath non sarebbe contento di
sapere che ti stai impicciando degli affari della confraternita, lo
266
capisci anche tu, socio. Qui sei solo un ospite, lurido bastardo.
Non fai più parte della famiglia.
Al piano di sopra, nella sala proiezioni, Cormia si
sistemò in una poltrona così comoda che le ricordava
l'acqua della piscina, avvolgente come il palmo di un
gigante buono.
Le luci si abbassarono e John la raggiunse.
Digitò qualcosa sul telefonino, poi le mostrò il display:
Sei pronta?
Quando Cormia annuì, la sala in penombra venne
illuminata da una immagine gigantesca e il suono si
riversò da ogni dove.
«Vergine santissima!»
John posò la mano sulla sua. Dopo qualche istante
Cormia si calmò e si concentrò sullo schermo, soffuso di
sfumature di azzurro. Immagini di umani apparivano e
sparivano, maschi e femmine ballavano insieme, vicini, i
corpi che si strusciavano, i fianchi che si dimenavano al
ritmo della musica.
Ogni tanto compariva una scritta rosa in inglese.
«E la stessa cosa della televisione?» chiese Cormia.
«Funziona nello stesso modo?»
John annuì proprio mentre in rosa comparivano le
parole Dirty Dancing.
267
Improvvisamente ecco scendere lungo una strada in
mezzo a colline verdeggianti una macchina chiamata
automobile. Nell'auto c'erano delle persone. Una famiglia
di umani con un padre, una madre e due figlie.
Da ogni angolo della sala si levò una voce femminile.
«Era l'estate del 1963...»
Quando John le premette qualcosa in mano, Cormia
riuscì a stento a staccare gli occhi dallo schermo il tempo
necessario per vedere cos'era. La cosa si rivelò essere un
sacchetto, un sacchet-tino marrone scuro aperto in cima.
John fece il gesto di tirare fuori qualcosa per mettersela in
bocca, così Cormia infilò dentro una mano. Ne uscirono
delle piccole cose tonde multicolori e lei esitò.
Non erano bianche, decisamente, e anche sulla terra lei
aveva mangiato sempre solo cose bianche, com'era
tradizione.
Ma, onestamente, che male c'era?
Si guardò intorno, pur sapendo che non c'era nessun
altro lì con loro, poi, con la sensazione di infrangere la
legge, se ne infilò qualcuna in...
Santissima... Vergine... Scriba!
Avevano un sapore che risvegliò la sua lingua in un
modo che le ricordò il sangue. Che cos'era quel cibo?
Cormia guardò il sacchetto. Sul davanti c'erano un paio
di personaggi da fumetto che assomigliavano ai confetti.
Sul pacchetto c'era scritto M&M's.
268
Doveva assolutamente mangiare tutto il sacchetto.
Subito. Anche se quello che c'era dentro non era bianco
non aveva importanza.
Ne mangiò degli altri, mugolando di piacere;
sentendola, John rise e le allungò qualcosa da bere, un
contenitore alto e rosso con su scritto Coca Cola. Dentro si
sentivano dei cubetti di ghiaccio che cozzavano gli uni
contro gli altri e c'era un bastoncino infilato nel
coperchio. John alzò il suo bicchiere e succhiò dal
bastoncino. Cormia fece altrettanto e poi tornò al suo
sacchetto magico e allo schermo.
Adesso sulla sponda di un lago c'erano delle persone
in fila che tentavano di imitare una graziosa biondina che
si muoveva prima a destra e poi a sinistra. La ragazza,
Baby, quella che raccontava la storia, cercava
disperatamente di seguire l'esempio degli altri.
Cormia si voltò verso John per chiedergli una cosa e
vide che stava fissando il cellulare con la fronte
aggrottata, come se fosse deluso.
Era successo qualcosa quella sera, prima del loro
incontro. Qualcosa di brutto. John era cupo, non lo aveva
mai visto tanto scuro in volto, ma era anche
incredibilmente riservato. Cormia desiderava aiutarlo,
per quanto possibile, ma non voleva apparire indiscreta.
Essendo lei stessa abituata a tenere tante cose per sé,
capiva l'importanza della privacy.
Decise di lasciarlo in pace, mettendosi comoda nella
poltroncina e lasciandosi trasportare dal film. Johnny era
269
bello, anche se non quanto il Primale, e, oh, come si
muoveva al ritmo della musica. E la cosa più bella era
vedere Baby che, a poco a poco, faceva progressi come
ballerina. Guardarla sbagliare, esercitarsi, inciampare e
poi finalmente eseguire i passi in modo corretto ti
riempiva il cuore di gioia per lei.
«Mi piace», disse Cormia. «Mi sembra quasi di vivere
le stesse cose.»
John voltò il cellulare verso di lei. Abbiamo tanti altri
film. A bizzeffe.
«Voglio vederli», disse Cormia bevendo ancora un
sorso di bibita ghiacciata. «Voglio vederli tutti...»
Tutt'a un tratto Baby e Johnny erano da soli nella
stanza di lui.
Cormia rimase di sasso quando vide che si
avvicinavano e cominciavano a ballare. Erano così
diversi, fisicamente, Johnny era molto più grosso di Baby,
molto più muscoloso, eppure la toccava con riverenza e
delicatezza. E non era il solo a osare delle carezze. Anche
lei lo accarezzava, facendo scorrere le mani sulla sua
pelle, con l'aria di provare un grande piacere.
Cormia schiuse le labbra e raddrizzò la schiena,
protendendosi verso lo schermo. Nella sua mente, il
Primale prese il posto di Johnny e lei divenne Baby.
Insieme si muovevano l'uno contro l'altra, strusciando i
fianchi, mentre i vestiti volavano via. Adesso erano da
soli, al buio, in un posto sicuro dove nessuno poteva
vederli o interromperli.
270
Come era successo nella stanza del Primale, solo che
adesso lui non si fermava, e non c'erano altre
implicazioni, non c'era il peso delle tradizioni, non c'era
la paura di fallire e le sue trentanove sorelle non erano
parte in causa.
Era tutto così semplice, così reale, anche se solo nella
sua testa.
Era questo che voleva con il Primale, pensò Cormia
guardando il film. Esattamente questo.
271
Capitolo 17
Seduto vicino a Cormia, John controllò di nuovo il
cellulare per due motivi. La scena di sesso lo stava
mettendo a disagio e fremeva per avere notizie di
Qhuinn e Lash.
Maledizione.
Inviò un altro messaggino a Blay, che gli rispose subito
dicendo che neanche lui aveva sentito l'amico e stava
pensando di tirar fuori le chiavi della macchina.
John posò il telefonino sulla coscia. Qhuinn non
poteva aver fatto qualcosa di veramente stupido. Stupido
come impiccarsi nel bagno. Naa. Impossibile.
Suo padre, in compenso, era capace di tutto. John non
lo aveva mai conosciuto, ma aveva sentito i racconti di
Blay... e visto l'occhio nero con cui Qhuinn si era
presentato la notte dopo la transizione.
Si accorse che stava battendo nervosamente il piede e
fermò la gamba posando il palmo sul ginocchio.
Superstizioso com'era, continuava a pensare a due detti
popolari secondo cui le disgrazie non vengono mai da
sole e non c'è due senza tre. Se Lash moriva, ne sarebbero
seguite altre due.
272
Pensò ai fratelli, fuori per strada a caccia di lesser. A
Qhuinn che da qualche parte vagava da solo, nella notte.
A Bella con la sua gravidanza.
Controllò di nuovo il cellulare, imprecando tra sé.
«Se dovete andare andate», disse Cormia. «Io posso
stare qui da sola.»
John fece per scuotere la testa, ma lei lo fermò
sfiorandogli il braccio. «Fate pure ciò che dovete,
qualunque cosa sia. È evidente che avete avuto una
serata difficile. Vi chiederei di parlarmene, ma non penso
che lo fareste.»
Vorrei tanto poter tornare indietro e non mettermi le scarpe,
digitò lui soprappensiero.
«Come? Non capisco.»
Be', cavolo, adesso doveva spiegarsi, altrimenti lo
avrebbe preso per scemo. Stasera è successo qualcosa di
brutto. Appena prima che accadesse, il mio amico mi aveva
regalato questo paio di scarpe da ginnastica. Se non le avessi
messe, noi tre saremmo già stati lontani prima che... Esitò,
quello che voleva dire era che lui e i suoi amici sarebbero
già stati lontani prima che Lash uscisse dalla doccia...
prima che succedesse quello che poi è successo.
Cormia lo guardò per qualche istante. «Volete sapere
cosa penso?»
Quando John annuì, lei disse, «Se non fosse stato per le
scarpe avreste perso tempo per qualche altro motivo, uno
273
qualsiasi: qualcun altro che si metteva qualcosa, oppure
una conversazione o una porta che non si apriva. Per
quanto si possa scegliere liberamente, il destino è
immutabile. Ciò che deve accadere accade, in un modo
o nell'altro.»
Dio, anche lui aveva pensato più o meno la stessa cosa,
giù nell'ufficio del centro di addestramento. Solo che...
È colpa mia, però. C'entravo io. È successo tutto per causa
mia.
«Avete fatto un torto a qualcuno?» Quando lui scosse
la testa, Cormia chiese, «Allora perché sarebbe colpa
vostra?»
Non poteva scendere nei dettagli. Neanche a parlarne.
Perché sì. Il mio amico ha fatto una cosa terribile per salvare la
mia reputazione.
«Ma è stata una sua libera scelta in quanto maschio di
valore.» Cormia gli strinse con forza il braccio. «Non
rammaricatevi per il suo libero arbitrio, chiedetevi
piuttosto cosa potete fare adesso per aiutarlo.»
Mi sento così dannatamente impotente.
«È una vostra impressione, non la realtà», disse
dolcemente lei. «Andate e riflettete. Troverete la strada
giusta, ne sono certa.»
La pacata fiducia che Cormia riponeva in lui era
rafforzata dal fatto che gliela si leggeva in faccia, non
274
erano solo parole. Ed era proprio ciò di cui lui aveva
bisogno.
Sei proprio forte, digitò John.
Cormia si illuminò, compiaciuta. «Grazie, padrone.»
Soltanto John, per favore.
Le porse il telecomando e si assicurò che sapesse come
usarlo. Lei imparò subito e la cosa non lo sorprese.
Cormia era come lui.
I suoi silenzi non implicavano che non fosse sveglia.
Si congedò con un inchino; gli fece uno sbrano effetto,
ma gli pareva la cosa giusta da fare, poi alzò i tacchi.
Salendo le scale inviò un SMS a Blay. Ormai erano
passate un paio d'ore dall'ultima volta che avevano
sentito Qhuinn ed era decisamente ora di andare a
vedere. Era probabile che avesse della roba con sé, il che
escludeva che potesse smaterializzarsi, dunque non
poteva essere andato lontano perché non aveva la
macchina. A meno che non si fosse fatto accompagnare
da qualche parte da uno dei doggen di casa sua.
John spalancò la porta che si apriva sulla galleria delle
statue. Cormia aveva proprio ragione: starsene seduto
con le mani in mano non avrebbe aiutato Qhuinn, alle
prese con la sua cacciata di casa, e non avrebbe cambiato
le cose per Lash, determinando se doveva vivere o
morire.
275
E, per quanto fosse imbarazzato per quello che
avevano sentito i suoi amici, loro due erano più
importanti delle parole crudeli pronunciate in quello
spogliatoio.
Aveva appena infilato le scale, quando il cellulare
segnalò l'arrivo di un SMS. Era di Zsadist: Lash andato. Si
mette male.
Qhuinn camminava lungo il ciglio della strada, un
piede dietro l'altro, con la sacca da viaggio che gli
sbatteva contro il sedere. In lontananza un fulmine saettò
nel cielo illuminando le querce e trasformando i tronchi
in una fila di massicci energumeni. Il tuono che seguì non
era poi così lontano e c'era ozono nell'aria. Aveva la
sensazione che in breve si sarebbe ritrovato bagnato
fradicio.
E aveva ragione. All'inizio le gocce di pioggia del
temporale erano grosse e distanziate, poi però si fecero
più piccole e più fitte, come se le gocce adulte fossero
saltate giù dalle nuvole per prime, seguite da quelle più
giovani solo quando ormai non c'era pericolo.
La pioggia colpiva la sacca di nylon producendo come
degli schiocchi, e i capelli cominciarono ad appiattirglisi
in cima al cranio. Qhuinn non fece nulla per coprirsi
perché tanto la pioggia avrebbe vinto. Era senza ombrello
e non aveva intenzione di ripararsi sotto una quercia col
rischio di restare fulminato.
I capelli ritti in testa non erano il look del momento.
276
Fu una decina di minuti dopo lo scoppio del
temporale che l'auto accostò alle sue spalle. I fari lo
colpirono alla schiena proiettando la sua ombra sul
marciapiede, il chiarore aumentò col calare del sibilo del
motore.
Blay era venuto a prenderlo.
Qhuinn si fermò e si voltò, schermandosi gli occhi col
braccio. Alla luce dei fari la pioggia era un finissimo
merletto bianco e davanti al cofano aleggiava una
nebbiolina che gli ricordava certi episodi di Scooby-Doo.
«Blay, potresti abbassare gli abbaglianti? Mi stai
accecando.»
La notte ripiombò nell'oscurità e quattro portiere si
spalancarono, ma all'interno dell'abitacolo non si accese
nessuna luce.
Qhuinn lentamente lasciò cadere il bordone per terra.
Quelli erano maschi della sua specie, non lesser. Il che,
considerato che era disarmato, era solo moderatamente
rassicurante.
Le portiere si richiusero con una rapida successione di
tunc. Quando un altro lampo rischiarò il cielo, Qhuinn
riuscì a scorgere quello che aveva davanti: i quattro erano
vestiti di nero e avevano la faccia nascosta dai cappucci.
Ah, già. La tradizionale guardia d'onore.
Qhuinn non scappò quando quelli, uno dopo l'altro,
tirarono fuori delle mazze nere. Si mise in guardia.
277
Avrebbe perso, e alla grande anche, ma che cavolo,
sarebbe andato giù con tutte le nocche insanguinate e
lasciando sull'asfalto i denti di quei quattro.
La guardia d'onore lo circondò, pronta a massacrarlo
di botte, e Qhuinn ruotò su se stesso, in attesa del primo
colpo. Erano tutti grandi e grossi, della sua stessa taglia, e
il loro obiettivo era riscuotere una sorta di risarcimento
fisico per quello che aveva fatto a Lash. Non trattandosi
di un rytho, ma di una forma di indennizzo, Qhuinn era
autorizzato a reagire.
Dunque Lash doveva avercela fatta...
Una delle mazze lo centrò dietro al ginocchio e fu
come essere colpito da una pistola paralizzante. Cercò di
non perdere l'equilibrio, ben sapendo che se finiva a terra
era fottuto, ma qualcun altro gli mise fuori
combattimento l'altra gamba, colpendolo al muscolo
della coscia. Atterrando sulle mani e sulle ginocchia,
venne tempestato da una gragnola di mazzate alle spalle
e alla schiena, ma con un balzo riuscì ad agguantare una
delle guardie per le caviglie. Il tizio cercò di fare un passo
avanti, ma Qhuinn non mollò la presa, provocando un
repentino spostamento del baricentro dell'avversario. Per
fortuna, piombando giù come un masso, il bastardo ebbe
la cortesia di tirarsi dietro uno dei suoi compari.
Qhuinn doveva procurarsi una mazza. Era la sua
unica possibilità di salvezza.
Con uno slancio sovrumano, cercò di afferrare quella
del tizio steso a terra, ma un'altra mazzata lo centrò al
polso. Il dolore fu come un'insegna al neon con su scritto
278
Cazzo che male e la mano perse immediatamente ogni
funzionalità, penzolando inerte e inservibile dal braccio.
Meno male che era ambidestro. Agguantò la mazza con
la sinistra e colpì al ginocchio il tizio che gli stava
davanti.
Dopo di che cominciò il divertimento. Alzarsi era
escluso, quindi si mosse fulmineo da terra, puntando alle
gambe e alle palle degli avversari. Quelli avanzavano e
poi si ritraevano di scatto per evitare i suoi colpi; era
come essere circondato da cani ringhiosi pronti ad
azzannarlo.
Cominciava a pensare di poterli tenere a bada quando
uno di loro prese un sasso grosso come un pugno e glielo
tirò in testa.
Qhuinn fu lesto a chinarsi, ma la pietra lo colpì di
rimbalzo, dopo aver toccato il marciapiede... centrandolo
alla tempia. Qhuinn rimase immobile per una frazione di
secondo e bastò questo a segnare la sua fine. Si
avventarono tutti e quattro addosso a lui e fu lì che ebbe
inizio il pestaggio vero e proprio. Raggomitolandosi su se
stesso, Qhuinn si strinse le braccia intorno alla testa nel
tentativo di proteggere meglio che poteva gli organi vitali
e il cervello, mentre quelli gliele davano di santa ragione.
In teoria non dovevano ammazzarlo.
Proprio per niente.
Ma uno di loro gli sferrò un calcio alla base della
schiena prendendolo nelle reni. Qhuinn non potè evitare
279
di inarcarsi, ma così facendo si scoprì, e il secondo calcio
lo colpì sotto al mento.
La mascella non era un buon ammortizzatore, anzi,
funse da amplificatore e, quando i denti di sotto
andarono a sbattere con violenza contro quelli di sopra, il
cranio assorbì il grosso dell'impatto. Stordito, Qhuinn si
accasciò su se stesso, abbassando le braccia e
abbandonando la posizione difensiva.
Non dovevano ucciderlo perché se lo stavano
picchiando significava che Lash era ancora vivo. Se fosse
morto, i genitori di suo cugino lo avrebbero trascinato
davanti al re chiedendogli di metterlo a morte, anche se
tecnicamente Qhuinn era minorenne. No, quel pestaggio
era solo una vendetta per le ferite inflitte a Lash, una
sorta di occhio per occhio. O almeno così avrebbe dovuto
essere.
Ma invece quelli continuarono a prenderlo a calci nella
schiena e poi uno prese la rincorsa piantandogli tutti e
due gli anfibi in mezzo al petto.
Qhuinn rimase senza fiato. Il suo cuore smise di
pompare. Tutto si fermò.
Fu allora che udì la voce di suo fratello, «Non farlo
più. È contro le regole.»
Suo fratello... suo fratello...? Allora non era per il
ferimento di Lash.
280
Quella spedizione punitiva veniva dalla sua stessa
famiglia ; volevano fargliela pagare per aver infangato il
loro nome.
Mentre Qhuinn ansimava nel vano tentativo di
respirare, i quattro si misero a litigare. La voce di suo
fratello era la più forte.
«Adesso basta!»
«Quel bastardo di un mutante merita di morire!»
Qhuinn perse interesse per quella scena madre
quando si accorse che il suo cuore non era ripartito... e
neanche il panico che lo colse d'improvviso a quella
scoperta bastò a rimetterlo in moto. Vedeva tutto a
scacchi, e cominciò a perdere sensibilità alle mani e ai
piedi.
Fu allora che vide la luce abbagliante.
Merda, era pronto per il Fado.
«Cristo! Andiamocene via!»
Qualcuno si chinò sopra di lui. «Torneremo a
prenderti, stronzo. E senza il tuo fratello del cazzo, la
prossima volta.»
Ci fu uno scalpiccio di piedi, rumori di portiere che si
aprivano e si chiudevano e poi uno stridore di freni
quando l'automobile partì. Subito dopo sopraggiunse
un'altra auto; allora la luce che aveva visto non era
281
l'Aldilà, si rese conto Qhuinn, ma qualcun altro che
guidava lungo la strada.
Accasciato al suolo dove lo avevano lasciato, gli
balenò l'idea che magari poteva tentare di prendersi a
pugni il petto, tipo 007 in Casino Royale, praticandosi da
solo la rianimazione cardiopolmonare.
Chiuse gli occhi. Già, se solo avesse potuto sistemare
tutto alla 007... Impossibile, però. Non riusciva a far
funzionare i polmoni se non per dei respiri debolissimi e
il suo cuore era sempre ridotto a un inutile muscolo nel
petto. Il fatto che non sentisse più dolore era ancora più
preoccupante.
La luce bianca che lo investì a quel punto fu come la
foschia sospesa sopra la strada, una nebbiolina sottile e
delicata che lo avvolse, rasserenandolo. Sotto quella luce
passò dal terrore alla totale assenza di paura. Quella non
era ima macchinarlo sapeva. Quello era proprio il Fado.
Si sentì levitare sopra il marciapiede e si librò, privo di
peso, fino all'imbocco di un corridoio bianco. In fondo
c'era una porta che si sentiva obbligato ad aprire. Avanzò
verso di essa con un'urgenza crescente e appena la
raggiunse posò la mano sulla maniglia. Quando strinse le
dita intorno all'ottone caldo ebbe la vaga sensazione che,
una volta varcata quella soglia, sarebbe stata finita.
Finché non apriva la porta e non metteva piede in quello
che c'era dall'altra parte era come sospeso a metà, né di là
né di qua.
Una volta entrato non poteva più tornare indietro.
282
Proprio mentre stava per girare la maniglia, vide
un'immagine sui pannelli dell'uscio. Era offuscata e lui si
fermò per un attimo, tentando di capire cosa fosse.
Oh... Dio...
guardando.
pensò, quando
Porca.,, troia.
283
realizzò
cosa
stava
Capitolo 18
Cormia non era né in camera sua né in bagno.
Scendendo nell'atrio per cercarla, Phury giunse a una
decisione. Se per caso incontrava Rhage non gli avrebbe
rivolto le domande che gli ronzavano per la testa. I guai
con i tirocinanti, i lesser e la guerra non erano più di sua
competenza e faceva meglio ad abituarsi.
Nessuno era più tenuto a fornirgli risposte sui fratelli e
sugli studenti.
Cormia era affar suo. Lei e le Elette. Ed era tempo che
si assumesse le sue responsabilità.
Giunto davanti all'arcata della sala da pranzo si fermò
di colpo. «Bella?»
La shellan del suo gemello era seduta su una delle
sedie vicino alla credenza, a testa china, una mano sul
pancione. Aveva il respiro corto.
Bella alzò gli occhi su di lui e sorrise debolmente.
«Ciao.»
Oh, Dio. «Ciao. Cosa c'è?»
«Sto bene. E prima che tu dica... che dovrei essere a
letto... ci sto andando...» Spostò lo sguardo sullo scalone.
«È solo che al momento mi sembra un tantino lontano.»
284
Per motivi di decoro, Phury era sempre stato attento a
evitare la compagnia di Bella al di fuori dei pasti comuni,
anche prima dell'arrivo di Cormia.
Ora però non era il momento di mantenere le distanze.
«Vuoi che ti porti io?»
Ci fu una pausa, durante la quale Phury si preparò a
contrastare eventuali obiezioni. Forse Bella gli avrebbe
permesso almeno di sorreggerla per un braccio...
«Sì, grazie.»
Oh... merda. «Ah, ma allora sei proprio diventata
ragionevole!»
Phury sorrise, come se non fosse sul punto di sclerare,
e le andò vicino. Quando la sollevò da terra, con un
braccio sotto le gambe e l'altro intorno alla schiena, gli
parve leggera come l'aria. Profumava di rose notturne e
anche di qualcos'altro. Qualcosa... di strano, come se gli
ormoni della gravidanza fossero tutti sballati.
Forse stava perdendo sangue.
«Allora, come ti senti?» chiese Phury con voce
sorprendentemente calma mentre la portava fino alle
scale.
«Sempre lo stesso. Stanca. Ma il piccolo scalcia
tantissimo, il che è un bene.»
285
«Bene.» Giunto al primo piano imboccò la galleria
delle statue. Quando lei gli posò la testa sulla spalla
rabbrividendo leggermente, Phury ebbe l'impulso di
mettersi a correre.
Appena arrivò davanti alla camera di Bella, l'uscio in
fondo al corridoio si aprì. Ne uscì Cormia che si fermò,
esitante, a occhi sgranati.
«Ti spiace aiutarmi?» fece lui.
Lei corse ad aprire la porta della stanza per
permettergli di entrare. Phury andò dritto al letto e
depose Bella nell'avvallamento creato dalle lenzuola e
dalle coperte piegate all'indietro.
«Vuoi qualcosa da mangiare?» chiese Phury,
preparandosi ad affrontare per gradi il discorso della
serie "facciamo venire la dottoressa Jane".
Gli occhi di Bella si accesero dello scintillio di un
tempo. «Credo che il problema sia proprio questo... ho
mangiato troppo. Ho fatto fuori due vaschette di
stracciatella alla menta Ben and Jerry.»
«Ottima scelta, se ti diverte lavorare di cucchiaio»,
scherzò Phury; poi, cercando di assumere un tono
noncurante, mormorò, «Cosa dici se chiamo Z?»
«E perché? Sono solo stanca. E prima che tu me lo
chieda, no, non sono stata in piedi più dell'ora che mi è
concessa. Non disturbarlo, sto bene.»
286
Forse era così, ma avrebbe comunque chiamato il suo
gemello. Solo, non davanti a lei.
Si lanciò un'occhiata alle spalle. Cormia era ferma
appena fuori dalla stanza, una figura silenziosa avvolta
nella lunga tunica, il bel volto segnato dalla
preoccupazione. Phury tornò a voltarsi verso Bella. «Ehi,
ti farebbe piacere un po' di compagnia?»
«Tantissimo», disse lei sorridendo a Cormia. «Ho
registrato una maratona di Project Runway e stavo giusto
per guardarla. Ti va di unirti a me?»
Cormia puntò gli occhi in quelli di Phury e la supplica
di lui dovette trasparire evidente in ciò che vide. «Non so
cosa sia, ma... sì, mi farebbe piacere guardarla insieme a
te.»
Quando entrò nella stanza, Phury la prese per un
braccio bisbigliando, «Io avverto Z. Se ti sembra che Bella
stia male prendi il telefono e digita asterisco-Z, okay?
Risponderà lui.»
Cormia annuì e sottovoce disse, «Mi prenderò cura di
lei.»
«Grazie», mormorò Phury dandole una piccola stretta
al braccio.
Dopo aver salutato, chiuse la porta e si allontanò di
qualche metro prima di chiamare Z al cellulare. Rispondi,
rispondi...
Casella vocale.
287
Merda.
«Non è lui. Non è lui!»
Ritto sotto la pioggia in fondo al vicolo di fianco a
McGrider's, Mr D aveva voglia di prendere il tesser che
aveva davanti, piazzarlo in mezzo a Trade Street e usarlo
a mo' di dosso artificiale.
«Ma che cazzo di problema hai?» esclamò quello
indicando il vampiro civile ai loro piedi. «È il terzo
vampiro che becchiamo stanotte. Più di quanti ne
abbiamo catturati da un anno a questa parte...»
Mr D sguainò il coltello a serramanico. «Be', non sono
quello che ci serve. Per cui adesso ti rimetti in pista, se
non vuoi che ti strappi le palle e me le mangi a
colazione.»
Il lesser fece un passo indietro e Mr D si chinò a
tagliare la giacca del civile. Il vampiro era privo di sensi e
conciato da sbatter via, sembrava un completo
spiegazzato con un disperato bisogno di passare in
tintoria. C'era sangue rosso dappertutto, sui suoi vestiti, e
la faccia, tutta a chiazze, sembrava un test di Rorschach.
Mr D lo perquisì in cerca del portafoglio; su una cosa
concordava col suo sottoposto, ma la tenne per sé. Era
difficile credere di aver messo a segno tre catture in una
sola notte... eppure si stava ancora cagando sotto,
neanche avesse mangiato prugne per giorni.
Non c'erano buone notizie per l'Omega, questa era la
verità, ed era lui a rischiare di rimetterci il culo.
288
«Portalo alla casa di Lowell Street», ordinò mentre una
monovolume azzurro pallido carica di rinforzi
imboccava il vicolo. «Fammi sapere quando rinviene.
Vedrò se sarà in grado di dirci qualcosa su quello che
stiamo cercando.»
«Agli ordini, capo.» Capo suonò come stronzo.
Mr D valutò l'ipotesi di prendere il coltello e scuoiare
quel figlio di puttana seduta stante. Ma avendo già fatto
fuori un lesser, quella notte, si impose di rinfoderare
l'arma. Assottigliare gli effettivi non era una grande idea,
al momento.
«Starei attento a comportarmi bene, se fossi in te,
ragazzo», mormorò mentre due lesser scendevano dalla
monovolume per caricare il civile.
«E perché? Mica siamo in Texas.»
«Verissimo.» Mr D paralizzò i principali gruppi
muscolari di quel cazzone, lo afferrò per le palle e strizzò
i gioielli di famiglia come caramelle gommose. Il non
morto lanciò un urlo, a dimostrazione del fatto che le
parti basse di un uomo, anche se impotente, restano
sempre il modo migliore per attirare la sua attenzione.
«Non c'è comunque motivo di essere villani», sussurrò
Mr D guardando il volto contratto del tesser. «La mamma
non ti ha insegnato niente?»
La risposta che ottenne poteva essere qualunque cosa,
per quel che si capiva, dal Ventitreesimo salmo a una
barzelletta sconcia, alla lista della spesa.
289
Appena lasciò andare la presa, Mr D sentì prudere
ogni centimetro quadrato di pelle.
Grandioso. Di bene in meglio.
«Mettete sottochiave quel vampiro», ordinò, «e poi
tornate qui. Non abbiamo ancora finito, per stanotte.»
Quando la monovolume ripartì, Mr D era pronto a
grattarsi con la carta vetrata. Quel prurito insopportabile
significava che l'Omega voleva vederlo, ma dove diavolo
potevano incontrarsi? Era in pieno centro e la proprietà
più vicina della Lessening Society era a dieci minuti
buoni di macchina... considerato che non aveva notizie
da dargli, tuttavia, farlo aspettare non era una buona
idea.
Risalì di buon passo la Trade controllando gli edifici
abbandonati. Alla fine decise che non poteva correre il
rischio di incontrare l'Omega in uno di essi. Gli umani
senzatetto erano dappertutto, in centro, e in una serata
come quella di sicuro cercavano riparo dal temporale.
L'ultima cosa di cui aveva bisogno era un testimone
umano, anche se strafatto o sbronzo, specie in previsione
della lavata di capo che stava per ricevere.
Un altro paio di isolati e giunse davanti a un cantiere
edile circondato da una recinzione alta tre metri. Aveva
visto crescere l'edificio sin dalla primavera precedente,
prima lo scheletro che si ergeva dal terreno, poi la pelle
di vetro che avvolgeva le travi d'acciaio e infine il sistema
nervoso di cavi e tubature incassato nelle pareti. Di notte
gli operai non lavoravano, dunque faceva proprio al caso
suo.
290
Mr D prese la rincorsa, spiccò un balzo, afferrò con
entrambe le mani il bordo della recinzione e la scavalcò.
Atterrò flettendo le ginocchia e rimase lì fermo,
accovacciato.
Non si fece avanti nessuno, neanche un cane pronto ad
azzannarlo; con la forza del pensiero Mr D spense un
paio di luci e al buio sgattaiolò verso una porta che - sì! non era chiusa a chiave.
Dentro c'era quell'odore asciutto di cartongesso e
malta da intonaco; Mr D si spinse più all'interno, facendo
riecheggiare i passi nel vuoto. Era il classico locale per
uffici, un enorme stanzone che un giorno sarebbe stato
suddiviso in tanti cubicoli. Poveracci, lui non ce l'avrebbe
mai fatta a reggere un lavoro a tavolino. Punto primo,
non ci capiva un'acca di libri e, punto secondo, se non
poteva vedere il cielo gli veniva voglia di urlare.
Giunto al centro dell'edificio si mise in ginocchio, si
tolse il cappello da cowboy e si preparò a ricevere una
strigliata della madonna.
Appena si aprì al padrone, il temporale si scatenò per
davvero, i tuoni rimbombavano, rimbalzando da un
palazzo all'altro. Tempismo perfetto. L'arrivo dell'Omega
risuonò come l'ennesimo rombo di tuono quando il
padrone irruppe nella versione di realtà rappresentata da
Caldwell, balzando fuori dal nulla come se stesse
emergendo da un lago. Quando fu arrivato
completamente, il fondo del cantiere tremò come se fosse
gomma che riprendeva la sua forma.
291
I bianchi panneggi della veste si distesero lungo la
spettrale figura nera dell'Omega e Mr D si apprestò a
lanciarsi nel classico "stiamo facendo del nostro meglio".
Ma fu l'Omega a parlare per primo. «Ho trovato ciò
che mi appartiene. La sua morte era la soluzione. Dammi
quattro uomini, procurati tutto l'occorrente e vai a
preparare la fattoria per una affiliazione.»
Okay, non era quello che si aspettava di sentire uscire
dalla bocca del padrone.
Mr D si alzò in piedi e tirò fuori il telefono. «C'è una
squadra sulla Terza Strada. Li avverto di venire qui.»
«No, li preleverò sul posto e viaggeranno con me.
Quando tornerò alla fattoria mi assisterai e poi dovrai
rendermi un servizio.»
«Sì, padrone.»
L'Omega tese le braccia e la veste bianca si dispiegò
come un paio d'ali. «Rallegrati, poiché ora siamo dieci
volte più forti. Mio figlio sta per tornare a casa.»
Ciò detto l'Omega sparì, lasciandosi alle spalle un
rotolo di pergamena sul pavimento di calcestruzzo.
«Figlio?» Mr D si chiese se aveva sentito bene.
«Figlio?»
Si chinò a raccogliere la pergamena. La lista delle cose
da prendere era lunga e piuttosto macabra, ma per nulla
stravagante.
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Tutta roba facile da trovare e poco costosa. Il che era
un bene, perché le sue finanze erano ridotte all'osso.
Si infilò la lista nel giaccone e si rimise il cappello da
cowboy.
Figlio?
Dall'altra parte della città, nella clinica sotterranea di
Havers, Rehv attendeva spazientito in una sala visita.
Controllò l'orologio per l'ottocentocinquantesima volta;
gli sembrava di essere un pilota di formula uno che al pit
stop scopriva di avere una squadra di meccanici
novantenni.
E poi, comunque, che cosa cavolo ci faceva lì? La
dopamina stava facendo effetto, il panico si era dissolto e
lui si sentiva ridicolo con i mocassini di Bally che
penzolavano giù dal lettino. Era tutto normale, tutto sotto
controllo e, per l'amor del cielo, il braccio sarebbe tornato
a posto, prima o poi. Il fatto che fosse lento a guarire
probabilmente significava solo che aveva bisogno di
nutrirsi. Una rapida seduta con Xhex e sarebbe tornato
come nuovo.
Per cui, davvero, avrebbe dovuto alzare i tacchi.
Già, l'unico problema era che Xhex e Trez lo
aspettavano nel parcheggio. Se non usciva di lì con
qualche bel cerotto sopra i segni degli aghi lo avrebbero
strapazzato per benino.
La porta si aprì ed entrò un'infermiera in camice
bianco, calze bianche e scarpe, bianche con la suola di
293
gomma. Perfetta per la parte, era l'incarnazione delle idee
e dei modelli antiquati di Havers. La femmina chiuse la
porta, tutta presa dalla lettura della cartella clinica; Rehv
non dubitava che stesse controllando quello che c'era
scritto, ma era anche ben consapevole che così poteva
evitare di guardarlo negli occhi.
Tutte le infermiere facevano così quando si trovavano
in sua presenza.
«Buonasera», lo salutò lei, rigida, scorrendo le pagine.
«Adesso le preleverò un campione di sangue, se non le
spiace.»
«Ottimo.» Almeno qualcosa si stava muovendo.
Rehvenge si sfilò una manica della pelliccia di
zibellino e fece lo stesso con la giacca, nel frattempo lei si
aggirava con aria indaffarata, lavandosi le mani e
infilandosi i guanti di lattice.
Tutte le infermiere detestavano avere a che fare con
lui. Intuito femminile. Anche se nella sua cartella non si
faceva cenno al fatto che fosse un symphath mezzosangue,
loro percepivano il suo lato malvagio. Sua sorella, Bella, e
la sua vecchia fiamma, Marissa, erano le uniche due
eccezioni degne di nota, poiché entrambe erano in grado
di tirar fuori il suo lato buono: lui voleva bene a
entrambe e loro lo sapevano. Ma il resto della razza? La
gente anonima non significava assolutamente niente per
lui e, chissà come, il gentil sesso se ne accorgeva sempre.
L'infermiera si avvicinò reggendo un piccolo vassoio
con sopra delle fiale e un laccio emostatico, e Rehv si
294
arrotolò la manica. In fretta e senza dire una parola, lei
effettuò il prelievo, poi più veloce che potè andò alla
porta.
«Quanto ci vorrà, ancora?» le chiese lui prima che
riuscisse a svignarsela.
«È appena arrivato un caso urgente. Ci vorrà un po'.»
La porta si chiuse.
Merda. Non gli andava di lasciare sguarnito il locale
per tutta la notte. Con anche Trez e Xhex fuori sede... no,
non andava bene. iAm era un duro, certo, ma anche i tipi
tosti hanno bisogno di man forte di fronte una massa di
quattrocento umani fatti o sbronzi.
Rehv prese il cellulare, fece il numero di Xhex e
discusse animatamente con lei per una decina di minuti.
Non fu divertente, ma servì comunque ad ammazzare un
po' di tempo. Xhex fu irremovibile sul fatto che lui
doveva restare lì in clinica, ma almeno acconsentì a
tornare al club insieme a Trez.
Solo dopo che Rehvenge lo ebbe ordinato in modo
esplicito a entrambi, naturalmente. «Okay», ringhiò lei.
«Bene», sibilò a denti stretti lui, chiudendo la
telefonata. Rehv si ficcò il cellulare in tasca. Tirò un paio
di moccoli. Lo prese di nuovo e digitò: Sono proprio
stronzo. Scusa. Mi xdoni? Appena premette il tasto di invio
gli arrivò un SMS da Xhex: 6 proprio stronzo, t rompo
l'anima solo xkè c tengo.
295
Rehvenge non potè fare a meno di ridere, specie
quando lei gli mandò quest'altro messaggino: 6 xdonato,
ma 6 cmq 1 stronzo. C sentiamo.
Rehv si rimise in tasca il telefonino e si guardò intorno,
catalogando il contenuto della stanza: gli abbassalingua
nel grande vaso di vetro vicino al lavandino, lo
sfigmomanometro appeso al muro e la scrivania con
tanto di computer in un angolo. Era già stato lì !" dentro.
Era già stato in tutte le sale visita della clinica.
Era un pezzo che lui e Havers giocavano alla coppia
medico/paziente e la situazione era insidiosa. Chiunque
avesse le prove che in circolazione c'era un symphath,
anche se mezzosangue, per legge era tenuto a
denunciarlo perché potesse essere allontanato dal resto
della popolazione ed esiliato nella colonia su al nord.
Cosa che avrebbe rovinato tutto. Perciò, ogni volta che
Rehv andava lì a farsi visitare, scavava nel cervello del
buon dottore e apriva quello che gli piaceva considerare
come il suo baule personale nell'attico di Havers.
Il trucco non era dissimile da quello utilizzato dai
vampiri per cancellare i ricordi a breve termine degli
umani, solo che andava ancora più in profondità. Dopo
aver fatto cadere in trance il medico, Rehv liberava le
informazioni su se stesso e sulla sua "condizione" in
modo che Havers potesse curarlo a dovere... e senza tutte
quelle sgradevoli ripercussioni sociali. Terminata la
visita, Rehv radunava la sua "roba" nel cervello del
dottore mettendola di nuovo al sicuro, chiusa a doppia
mandata dentro la sua corteccia cerebrale fino alla volta
successiva.
296
Era spregevole? Sì. C'era qualche alternativa? No. Lui
aveva bisogno di cure, non era come Xhex, che riusciva a
soffocare i propri impulsi senza l'aiuto di nessuno. Anche
se Dio solo sapeva come...
Rehv si raddrizzò con un repentino formicolio alla
spina dorsale, gli istinti subito all'erta.
Afferrò il bastone e scivolò giù dal lettino, atterrando
su due piedi che non riusciva a sentire. Fatti i tre passi
che lo separavano dalla porta, agguantò la maniglia e la
girò. Fuori, il corridoio era deserto in entrambe le
direzioni. In fondo, sulla sinistra, il banco accettazione e
la sala d'attesa sembravano tranquilli come sempre. Sulla
destra c'erano altre stanze per i pazienti e, al di là di
quelle, la porta a due battenti che conduceva alla camera
mortuaria.
Nessun dramma in corso.
Già... sembrava tutto a posto. Il personale medico
camminava deciso. Qualcuno tossì nella sala visita
accanto. Il ronzio dei condizionatori era un ribollire lento
e costante in sottofondo.
Rehvenge strizzò gli occhi, tentato di rizzare le
antenne del suo lato symphath, ma era troppo rischioso. Si
era appena rimesso in sesto. Pandora e il suo vaso
dovevano restare chiusi.
Rientrato in sala visita tirò fuori il cellulare e cominciò
a comporre il numero di Xhex per chiederle di tornare
alla clinica, ma la porta si aprì prima che la chiamata
venisse inoltrata.
297
Suo cognato, Zsadist, infilò dentro la testa. «Ho sentito
che eri qui.»
«Ehilà.» Rehv mise via il telefono e attribuì la botta
d'ansia che lo colse alla paranoia collegata al doppio
dosaggio. Ah, la gioia degli effetti collaterali.
Merda. «Dimmi che non sei qui per via di Bella.»
«Naa. Lei sta bene.» Z chiuse la porta e vi si appoggiò
contro. Adesso erano chiusi dentro insieme.
Gli occhi del Fratello erano neri. Il che significava che
era incazzato.
Rehvenge sollevò il bastone e lo lasciò dondolare tra le
gambe in caso di bisogno. Lui e Z adesso andavano
d'accordo, dopo qualche scazzo iniziale quando il
Fratello e Bella si erano messi insieme, ma le cose
potevano sempre cambiare. E, a giudicare dallo sguardo
di Z, nero come l'interno di una cripta, evidentemente lo
erano.
«C'è qualcosa che ti rode, amico?» chiese Rehv.
«Voglio che tu mi faccia un favore personale.»
Il termine favore sembrava improprio, «Parla.»
«Voglio che tu la smetta di fare affari col mio gemello.
Devi interrompere le forniture.» Z si piegò in avanti. «In
caso contrario, farò in modo che tu non possa più
vendere neanche una cannuccia da cocktail, in quella tua
topaia.»
298
Rehv picchiettò la punta del bastone contro il lettino,
chiedendosi se il Fratello avrebbe cambiato musica
sapendo che i profitti del club tenevano fuori da una
colonia di symphath il fratello della sua shellan. Z sapeva
che lui era un mezzosangue, ma non sapeva della
Principessa e dei suoi giochetti.
«Come sta mia sorella?» chiese sornione. «Bene? È
tranquilla? È importante per lei, non trovi? Evitare
turbamenti inutili.»
Zsadist socchiuse gli occhi fino a ridurli a due fessure,
il suo volto sfregiato era degno di un incubo. «Non vorrai
toccare questo tasto, mi auguro.»
«Se mi rovini la piazza le ripercussioni faranno soffrire
anche lei. Fidati.» Rehv spostò il bastone tenendolo dritto
nel palmo. «Il tuo gemello è maggiorenne e vaccinato. Se
hai dei problemi con la sua dipendenza, forse dovresti
parlarne con lui, huh.»
«Oh, lo farò. Ma voglio la tua parola. Non devi
vendergli più niente.»
Rehv guardò il bastone, ritto per aria in perfetto
equilibrio. Da molto tempo aveva fatto pace con i suoi
affari, senza dubbio con l'aiuto del suo lato symphath, per
il quale era un imperativo morale approfittare delle
debolezze altrui.
L'alibi con cui giustificava i suoi loschi traffici era che
le scelte dei suoi clienti non c'entravano niente con lui. Se
volevano rovinarsi la vita con quello che gli vendeva lui,
be', era un loro diritto... e per nulla diverso dai modi più
299
socialmente accettabili in cui la gente si autodistrugge,
come strafogarsi da McDonald's fino a farsi venire una
malattia di cuore o bere fino a farsi scoppiare il fegato
grazie a quelle brave persone della Anheuser-Busch o
giocare d'azzardo fino a perdere la casa.
Le droghe sono una merce come un'altra e lui era un
uomo d'affari; i clienti avrebbero semplicemente trovato
la loro rovina altrove, se lui gli chiudeva la porta in
faccia. Il meglio che potesse fare era assicurarsi che, se si
servivano da lui, la roba non fosse tagliata male e fosse
abbastanza pura da permettergli di prepararsi le dosi
senza correre rischi.
«La tua parola, vampiro», ringhiò Z.
Rehv abbassò gli occhi sulla manica che gli copriva
l'avambraccio sinistro e ripensò all'espressione di Xhex
quando aveva visto come si era conciato. Strani, i
parallelismi. Solo perché la sua droga d'elezione si
vendeva su ricetta medica non significava che lui fosse
immune dall'abusarne.
Alzò gli occhi, poi abbassò le palpebre e trattenne il
fiato. Si protese nello spazio che lo divideva dal fratello e
si insinuò nella sua mente. Sì... sotto la sua collera c'era il
terror panico.
E ricordi... di Phury. Una scena di qualche tempo
prima... una settantina d'anni prima... un letto di morte.
Di Phury.
Z stava avvolgendo il suo gemello in alcune coperte e
avvicinandolo a un fuoco alimentato a carbone. Era
300
preoccupato... Per la prima volta da quando aveva perso
l'anima a causa della schiavitù guardava qualcuno con
preoccupazione e pietà. Nella scena, tamponava la fronte
febbricitante di Phury, poi prendeva le armi e usciva.
«Vampiro...»
infermiere.»
mormorò
Rehv.
«Sei
bravo
come
«Esci dal mio cazzo di passato.»
«L'hai salvato, vero?» Rehv aprì gli occhi. «Phury era
malato. Ti sei rivolto a Wrath perché non sapevi dove
altro andare. Il selvaggio divenuto salvatore.»
«Per tua informazione sono di pessimo umore, e tu
stai risvegliando i miei istinti omicidi.»
«Ecco come siete finiti tutti e due nella confraternita.
Interessante.»
«Voglio la tua parola, divoratore di peccati, non una
noiosa storiella.»
Spinto da qualcosa che non voleva nominare, Rhev
posò la mano sul cuore. Nell'Antico Idioma disse
distintamente, «Te lo giuro solennemente. Il tuo gemello non
uscirà mai più dal mio locale con della droga su di sé.»
Il volto sfregiato di Z fu attraversato da un guizzo di
sorpresa. Poi il fratello annuì. «Dicono che è meglio non
fidarsi di un symphath. Quindi farò affidamento sull'altra
metà di te, sul fratello della mia Bella. Intesi?»
301
«Ottima idea», mormorò Rehv lasciando ricadere la
mano. «Perché è il lato con cui ho assunto questo
impegno solenne. Ma dimmi una cosa. Come fai a essere
sicuro che Phury non comprerà la roba da qualcun
altro?»
«A essere sincero, non ne ho idea.»
«Be', ti auguro buona fortuna, con lui.»
«Ne avremo bisogno», disse Zsadist andando alla
porta. «Ehi, Z?»
Il fratello lo guardò da sopra la spalla. «Cosa?»
Rehv si massaggiò il pettorale sinistro. «Non hai...
ehm, non hai avuto una brutta sensazione, stasera?»
Z si accigliò. «Sì, ma non è mica una novità. Non ne ho
una buona da Dio solo sa quanto tempo.»
La porta si chiuse e Rehv si appoggiò di nuovo la
mano sul cuore. Quel maledetto batteva all'impazzata
senza motivo apparente. Merda, forse era meglio farsi
visitare dal medico. Anche se gli toccava aspettare ancora
chissà quanto...
L'esplosione squassò la clinica con un boato simile al
rombo di un tuono.
302
Capitolo 19
Phury riprese forma tra i pini dietro i garage della
clinica di Havers... proprio quando scattarono gli allarmi
di sicurezza.
Le stridule urla elettroniche fecero abbaiare i cani del
vicinato, ma non c'era pericolo che qualcuno chiamasse la
polizia. Le sirene erano calibrate in modo da essere
troppo alte per l'orecchio umano.
Cazzo... era disarmato.
Si precipitò comunque verso l'ingresso della clinica,
pronto a combattere a mani nude, se necessario.
Lo scenario era molto peggiore del previsto. Il portone
d'acciaio penzolava dai cardini come un labbro spaccato
e all'interno del vestibolo le porte degli ascensori erano
spalancate, il pozzo in piena vista, con le sue vene e
arterie di funi e di cavi. Nel tetto della cabina c'era un
buco provocato da un'esplosione, l'equivalente di un foro
da proiettile nel petto di una persona.
Pennacchi di fumo e odore di borotalco salivano dalla
clinica sottostante. Nel sentire quella miscela agrodolce,
insieme ai tonfi della colluttazione al piano di sotto,
Phury scoprì le zanne e strinse i pugni.
Non perse tempo a chiedersi come avessero fatto i
tesser a localizzare la clinica e neanche si prese la briga di
303
utilizzare la scala fissata alla parete di cemento del pozzo
dell'ascensore. Balzò giù atterrando sulla parte di tetto
che ancora reggeva. Un altro salto attraverso lo squarcio
aperto dall'esplosione e si trovò di fronte al caos più
totale.
Nella sala d'attesa della clinica un trio di lesser canuti
come nonnetti stava ballando una specie di rap con
Zsadist e Rehvenge, mettendo a soqquadro quel mondo
fatto di sedie di plastica, riviste insulse e tristissime
piante in vaso. Quei bastardi sbiaditi erano
evidentemente dei veterani esperti, visto quant'erano
forti e sicuri di sé, ma Z e Rehv non si facevano mettere
sotto i piedi.
Era una situazione della serie "salta in pista e balla",
non c'era tempo per mettersi a pensare. Phury agguantò
una sedia di metallo dal banco accettazione, agitandola
come una mazza contro l'avversario più vicino. Quando
quello andò giù, Phury alzò la sedia e gli conficcò nel
petto una delle gambe lunghe e sottili.
Subito dopo lo schiocco e il lampo che segnavano la
fine del tesser, dal corridoio giunsero delle urla
provenienti dai reparti dov'erano ricoverati i pazienti.
«Vai!» sbraitò Z sferrando un calcio in testa a uno dei
tesser. «Noi cercheremo di trattenerli qui!»
Phury si lanciò oltre la porta a vento.
In corridoio c'erano dei corpi. Parecchi. Stesi dentro
pozze di sangue rosso sul linoleum verde pallido.
304
Oltrepassarli senza fermarsi a controllare come
stavano lo faceva stare male, ma doveva restare
concentrato sul personale e sui pazienti sicuramente vivi.
Un gruppo di essi gli correva incontro in preda al panico,
i camici bianchi dei medici e quelli dei pazienti
sventolavano come panni stesi al vento ad asciugare.
Phury li fermò, afferrandoli per le braccia e per le
spalle. «Entrate nelle stanze! Chiudetevi dentro a chiave!
Chiudete a chiave quelle maledette porte!»
«Non ci sono serrature!» gridò qualcuno. «E quelli
stanno portando via i pazienti!»
«Dannazione.» Phury si guardò intorno e vide un
cartello. «Questo ripostiglio ha la serratura?»
Un'infermiera annuì, sganciando qualcosa dalla
cintura. Con mano tremante gli porse una chiave. «Solo
all'esterno, però. Dovrà... chiuderci dentro lei.»
Phury annuì in direzione della porta su cui c'era scritto
RISERVATO AL PERSONALE. «Muovetevi.»
Il gruppetto entrò nello stanzino tre metri per tre con
le sue scaffalature alte fino al soffitto stracolme di scorte
di medicinali e di tutto l'occorrente per le medicazioni.
Chiudendo la porta su quei poveretti accovacciati sotto i
tubi al neon del basso soffitto, Phury sapeva che non
avrebbe mai dimenticato quella scena: sette facce
atterrite, quattordici occhi imploranti, settanta dita che si
cercavano e si stringevano reciprocamente fino a
trasformare i loro corpi separati in un unico, solido
blocco di paura.
305
Lui le conosceva, quelle persone, si erano prese cura di
lui e dei suoi problemi con la protesi. Erano vampiri
come lui e volevano che quella guerra finisse. Ed erano
costrette a fidarsi di lui perché al momento aveva più
potere di loro.
Allora essere Dio è così, pensò, rifuggendo da quel
ruolo.
«Non mi dimenticherò di voi», disse chiudendo la
porta sui loro visi, girò la chiave nella toppa e si fermò
per un secondo. Dall'area accettazione venivano ancora i
rumori della lotta in corso, ma nel resto della clinica c'era
silenzio.
Niente più personale. Niente più pazienti. Quei sette
erano gli unici sopravvissuti.
Voltò le spalle allo stanzino delle scorte e si allontanò
dal punto in cui Z e Rhev stavano dando battaglia,
seguendo un odore dolciastro e pervasivo che conduceva
nella direzione opposta. Oltrepassò di corsa il laboratorio
di Havers e la stanza segreta della quarantena in cui mesi
prima era stato ricoverato Butch. Lungo tutto il tragitto
impronte sbavate di anfibi con la suola nera si
mescolavano al sangue rosso dei vampiri.
Cristo, ma quanti lesser erano entrati lì dentro?
Quale che fosse la risposta, aveva un'idea su dov'erano
diretti: i tunnel utilizzati in caso di evacuazione, molto
probabilmente si trascinavano dietro qualche ostaggio.
La domanda era: come facevano a sapere che si
trovavano da quella parte?
306
Phury spalancò un'altra porta a vento e infilò la testa
dentro l'obitorio. Le file di cellette refrigerate, i tavoli
d'acciaio inossidabile e le bilance erano intatte. Logico.
Quelli volevano solo i vivi.
Risalì il corridoio e trovò l'uscita che i lesser avevano
usato per scappare con i pazienti rapiti. Del pannello
d'acciaio che bloccava l'ingresso al tunnel non restava
traccia, era saltato per aria come l'ingresso di servizio e il
tetto dell'ascensore.
Merda. Operazione pulitissima, impeccabile, dall'inizio
alla fine. Ed era pronto a scommettere che quella era solo
la prima offensiva. Altri lesser sarebbero sopraggiunti per
procedere al saccheggio perché la Lessening Society, in
questo, era medievale.
Phury tornò indietro di volata verso l'area
accettazione, nel caso Z e Rhev avessero bisogno di
rinforzi. Lungo la strada si portò il cellulare all'orecchio,
ma prima che V rispondesse alla chiamata, Havers mise
fuori la testa dal suo ufficio privato.
Phury riattaccò per poter parlare col medico,
augurandosi che il sistema di sicurezza di V fosse
scattato in contemporanea con gli allarmi della clinica. In
teoria doveva essere andata così, visto che i sistemi erano
collegati.
«Quante ambulanze avete?» chiese raggiungendo
Havers.
307
Il medico batté le palpebre diètro gli occhiali e allungò
la mano. Nel pugno tremante stringeva una nove
millimetri. «Ho una pistola.»
«Che adesso infilerai nella cintura senza usarla», disse
Phury. L'ultima cosa di cui avevano bisogno era il dito di
un dilettante sul grilletto. «Dai, mettila via e concentrati
su di me. Dobbiamo portare i superstiti fuori di qui.
Quante ambulanze avete?»
Havers armeggiò nel tentativo di infilare in tasca la
canna della Beretta; di fronte a tanta goffaggine, Phury
temette che si sparasse nel culo. «Q-q-quattro...»
«Dammi qua.» Phury prese la pistola, controllò che la
sicura fosse inserita e la infilò nella cintura del dottore,
«Quattro ambulanze. Bene. Ci servono degli autisti...»
All'improvviso saltò la luce e tutto piombò
nell'oscurità. In quel buio pesto Phury si chiese se per
caso la seconda ondata di lesser non si fosse già calata giù
dal pozzo dell'ascensore.
Quando entrò in funzione il generatore d'emergenza e
le fioche luci di sicurezza si accesero, afferrò il medico
per un braccio e lo scosse energicamente. «Possiamo
arrivare alle ambulanze attraverso la casa?»
«Sì... la casa, la mia casa... i tunnel...» Tre infermiere
comparvero alle sue spalle. Erano spaventate a morte,
bianche come le luci di emergenza sul soffitto,
«Oh, Vergine santissima», esclamò Havers, «i doggen
su in casa. Karolyn...»
308
«Ci penso io», disse Phury. «Li troverò e li porterò in
salvo. Dove sono le chiavi delle ambulanze?»
«Qui», disse il dottore allungando la mano dietro la
porta.
Grazie al cielo. «I lesser hanno trovato il tunnel sud,
quindi dobbiamo far uscire tutti quanti attraverso la
casa.»
«O-okay.»
«Daremo il via all'evacuazione subito dopo aver messo
provvisoriamente in sicurezza questa struttura», disse
Phury. «Voi quattro state chiusi qui dentro finché uno di
noi non verrà a prendervi. Sarete voi a guidare le
ambulanze.»
«C-come hanno fatto a trovarci?»
«Non ne ho idea.» Phury spinse Havers dentro
l'ufficio, chiuse la porta e gli gridò di girare la chiave
nella toppa.
Quando giunse all'area accettazione la lotta era
terminata, anche l'ultimo lesser era stato spedito con una
pugnalata nel regno dell'oblio dal rosso spadino di Rehv.
Z si asciugò la fronte con la mano che gli lasciò uno
sbaffo nero. «Situazione?» chiese rivolto a Phury.
«Almeno nove vittime tra membri dello staff e
pazienti, un numero imprecisato di ostaggi, l'area non è
in sicurezza.» Perché Dio solo sapeva quanti altri lesser
309
potevano nascondersi nel labirinto di corridoi e stanze
della clinica. «Suggerisco di stabilizzare l'ingresso e il
tunnel sud, così come l'accesso alla casa. L'evacuazione
richiederà l'uso della scala di servizio che sale su in casa,
seguita da una rapida partenza a bordo di ambulanze e
veicoli privati. Li guiderà il personale sanitario.
Destinazione: presidio clinico d'emergenza di Cedar
Street.»
Zsadist rimase un attimo interdetto, quasi fosse
sorpreso da tanta lucidità di analisi. «D'accordo.»
Un secondo dopo arrivò la cavalleria: Rhage, Butch e
Vishous atterrarono uno dopo l'altro nell'ascensore. Tutti
e tre armati fino ai denti e incazzati neri.
Phury controllò l'orologio. «Io porto fuori i civili e il
personale sanitario. Voi controllate se qua dentro ci sono
altri tesser e date il benvenuto alla prossima ondata.»
«Phury», lo chiamò Zsadist.
Phury si èra già voltato; quando lo guardò da sopra la
spalla, il suo gemello gli lanciò una delle due SIG che
portava sempre con sé.
«Occhio», gli raccomandò Z.
Phury afferrò al volo la pistola annuendo e imboccò di
corsa il corridoio. Fece un rapido calcolo delle distanze
che separavano lo stanzino con le scorte di medicinali
dall'ufficio di Havers e dalla scala; gli sembrava che i tre
punti fossero lontani chilometri, invece che poche decine
di metri.
310
Aprì la porta che dava sulle scale. Le luci di sicurezza
brillavano tosse e il silenzio era di tomba. In fretta salì i
gradini, digitò il codice d'accesso all'abitazione e fece
capolino in un corridoio rivestito di pannelli di legno.
L'odore di detersivo al limone veniva dal pavimento
tirato a lucido. Il profumo di rose veniva da un mazzo di
fiori sopra una colonnina di marmo. L'aroma di agnello e
rosmarino veniva dalla cucina.
Niente talco per neonati.
Da dietro l'angolo spuntò la testa di Karolyn, la
cameriera di Havers. «Padrone?»
«Raduna i domestici...»
«Siamo già riuniti. Proprio qui dietro. Abbiamo sentito
gli allarmi», disse accennando con la testa alle sue spalle.
«Siamo in dodici.»
«La casa è sicura?»
«Nessuno dei nostri sistemi di sicurezza è scattato.»
«Ottimo.» Phury le gettò le chiavi che gli aveva dato
Havers. «Prendete i tunnel che sbucano nei garage e
chiudetevi dentro a chiave. Mettete in moto tutte le
ambulanze e le automobili che avete, ma non uscite, e
lasciate una persona vicino alla porta in modo che io
possa entrare con gli altri. Busserò e mi identificherò.
Non aprite a nessuno tranne che a me o a un altro
fratello. Tutto chiaro?»
311
Era doloroso vedere la doggen soffocare la paura,
annuendo. «Il nostro padrone...?»
«Havers sta bene. Adesso vado a prenderlo.» Phury le
strinse forte la mano. «Voi andate. Subito. E fate alla
svelta. Non abbiamo tempo.»
In un batter d'occhio tornò giù. Sentiva i suoi fratelli
aggirarsi per la clinica, li riconosceva dal rumore degli
stivali, dall'odore e
da come parlavano. Non
evidentemente, non ancora.
c'erano
altri
lesser,
Andò per prima cosa nell'ufficio di Havers a liberare i
quattro chiusi lì dentro perché non si fidava del medico,
temeva che perdesse la testa e uscisse. Per fortuna il
dottore si comportò bene ed eseguì gli ordini, salendo
rapido le scale che portavano nella sua abitazione,
insieme alle infermiere. Phury li scortò fin dentro ai
tunnel che conducevano ai garage e attraversò insieme a
loro l'angusta via di fuga sotterranea che correva sotto il
parcheggio dietro alla clinica.
«Quale dei tunnel porta direttamente alle
ambulanze?» chiese quando giunsero a un quadrivio.
«Il secondo da sinistra, ma i garage sono tutti
collegati.»
«Tu e le infermiere dovete salite sulle ambulanze con i
pazienti.
«Perciò è lì che andremo.»
312
Camminavano più veloci che potevano. Giunti davanti
a una porta d'acciaio, Phury bussò e gridò il proprio
nome. La serratura scattò e lui fece entrare la sua truppa.
«Torno con
abbracciavano.
gli
altri»,
disse,
mentre
tutti
si
Rientrato nella clinica corse da Z. «Altri lesser?»
«No, nessuno. Ho piazzato V e Rhage di guardia sul
davanti, io e Rehv andiamo a piantonare il tunnel sud.»
«Mi farebbe comodo una copertura per i veicoli.»
«Ricevuto. Ti mando Rhage. Esci dal retro, giusto?»
«Sì.»
I due gemelli si separarono e Phury si diresse verso lo
stanzino delle scorte. Aveva la mano fermissima quando
tirò fuori di tasca la chiave dell'infermiera e bussò alla
porta.
«Sono io.» Infilò la chiave nella toppa e girò la
maniglia.
Vide di nuovo le loro facce e colse i lampi di sollievo
nel loro sguardo. Che svanirono subito alla vista della
pistola che aveva in mano.
«Vi faccio uscire attraverso la casa», spiegò. «Ci sono
problemi di mobilità?»
313
Il gruppetto si aprì in due per mostrargli un vampiro
più anziano steso per terra. Al braccio aveva una flebo
che una delle infermiere gli reggeva sopra la testa.
Merda. Phury si voltò verso il corridoio. Neanche
l'ombra di un fratello.
«Tu», disse indicando un tecnico di laboratorio.
«Portalo in braccio. E tu», aggiunse con un cenno del
capo all'infermiera che reggeva la sacca della flebo, «Stai
con loro.»
Mentre il tecnico sollevava il vecchio da terra e
l'infermiera bionda teneva ben sollevata la sacca della
flebo, Phury suddivise gli altri affiancando un membro
del personale a ogni paziente.
«Muovetevi il più rapidamente possibile. Dovete
prendere la scala che porta su in casa e poi infilarvi nei
tunnel che sbucano nei garage. È la prima porta a destra
appena entrati in casa. Io sarò dietro di voi. Andate.
Presto.»
Fecero del loro meglio, ma ci volle un secolo.
Un secolo.
Phury era un fascio di nervi quando finalmente
giunsero alla scala con le luci d'emergenza rosse;
chiudere a chiave la porta d'acciaio alle loro spalle gli
procurò ben poco sollievo, considerato che i lesser erano
armati di esplosivi. I pazienti si muovevano molto
adagio, due di essi erano reduci da interventi chirurgici.
Phury avrebbe voluto portarne almeno uno o anche tutti
314
e due, ma doveva impugnare la pistola, non poteva
rischiare.
Sul pianerottolo uno dei pazienti, una femmina con la
testa fasciata, dovette fermarsi.
Senza che nessuno glielo chiedesse, l'infermiera
bionda passò in fretta la flebo al tecnico dicendo, «Solo
finché non siamo dentro al tunnel.» Poi prese in braccio
la paziente priva di forze. «Andiamo.»
Phury le rivolse un cenno del capo autorizzandola a
ripartire.
Il gruppetto entrò alla spicciolata nella sontuosa
abitazione di Havers, con uno scalpiccio di piedi e un
paio di colpi di tosse come sottofondo. La totale assenza
di allarmi fu spettacolare quando Phury chiuse a chiave
dietro di sé la porta di comunicazione conia clinica e li
guidò verso l'ingresso del tunnel. ,
Mentre il gruppo si trascinava dentro a fatica,
l'infermiera bionda con la paziente tra le braccia si fermò.
«Ha qualche altra arma? Perché io so sparare.»
Phury inarcò le sopracciglia, stupito. «No, non ho
un'altra...»
Il suo sguardo fu attratto dalla lucentezza di due
spade ornamentali appese alla parete, sopra una delle
porte. «Prendi la mia pistola. Io ci so fare con le lame
affilate.»
315
L'infermiera sporse in fuori il fianco e lui fece scivolare
la SIG di Z nella tasca del camice; poi lei si voltò,
infilandosi decisa nel tunnel mentre Phury staccava le
due spade dai ganci d'ottone alla parete.
Quando giunsero davanti alla porta del garage con le
ambulanze Phury bussò col pugno chiuso, gridò il suo
nome e la porta si spalancò. Invece di entrare, ognuno dei
vampiri che aveva scortato fin lì lo guardò.
Sette visi. Quattordici occhi. Settanta dita ancora
intrecciate.
Ma adesso era diverso.
La loro gratitudine era l'altra faccia dell'essere Dio;
Phury fu sopraffatto da tanta devozione e sollievo. La
fiducia nel loro salvatore era stata ben riposta e la
ricompensa era la loro stessa vita: tale consapevolezza
collettiva era una forza palpabile.
«Non ne siamo ancora fuori», li ammonì Phury,
Quando Phury guardò di nuovo l'orologio erano
passati trentatré minuti.
Ventitré persone, tra civili, personale sanitario e
doggen, erano state evacuate dai garage. Le ambulanze e
le auto erano uscite non dalle solite porte di fronte al
retro della casa, ma attraverso pannelli retrattili che
consentirono ai veicoli di infilarsi subito nella boscaglia
dietro la clinica. Uno dopo l'altro, si erano allontanati a
fari spenti e senza usare i freni. E uno dopo l'altro erano
spariti nella notte.
316
L'operazione era stata un successo su tutta la linea,
eppure lui aveva un brutto presentimento.
I lesser non erano tornati.
Non era da loro. In circostanze normali, una volta
penetrati in un luogo lo invadevano a frotte. Era la loro
procedura operativa standard catturare quanti più civili
potevano per interrogarli e poi depredare le strutture in
cui erano riusciti a entrare spogliandole di tutti gli
oggetti di valore. Perché non avevano inviato altri
uomini? Specie visti i beni presenti nella clinica e nella
abitazione di Havers, e vista la consapevolezza che i
fratelli erano ancora lì, pronti a combattere.
Rientrato in clinica, Phury risalì tutto il corridoio,
controllando per la seconda volta che nelle stanze non ci
fossero altri superstiti. Fu una verifica penosa. Cadaveri.
Un mucchio di cadaveri. E l'intera struttura era
completamente distrutta, ferita a morte come ognuno dei
corpi stesi sul pavimento. C'erano lenzuola e coperte per
terra, cuscini dappertutto, aste per le flebo e
cardiofrequenzimetri rovesciati. Nei corridoi c'erano
scorte di medicinali sparpagliate qua e là, e tutte quelle
orribili impronte nerastre di anfibi e scie rosse di sangue.
Le evacuazioni d'emergenza non sono faccende per
maniaci dell'ordine. E neanche gli scontri corpo a corpo.
Phury si diresse verso l'area accettazione; era strano
non sentire più il solito trambusto, ma solo il ronzio
dell'impianto di climatizzazione e dei computer. Ogni
tanto squillava un telefono, ma non c'era più nessuno in
grado di rispondere.
317
La struttura era clinicamente morta, con solo deboli
tracce di attività cerebrale.
Né la clinica né la splendida abitazione di Havers
sarebbero più state utilizzate. I tunnel e tutte le porte
esterne e interne rimaste intatte sarebbero state chiuse a
chiave, le imposte sprangate e i sistemi di sicurezza
attivati. Gli ingressi divelti dall'esplosione e le porte
dell'ascensore sarebbero stati sbarrati con lastre di
acciaio. Alla fine, una scorta armata sarebbe stata
autorizzata a entrare attraverso i tunnel non
compromessi per prelevare mobili ed effetti personali,
ma doveva passare qualche tempo prima che ciò
accadesse. E dipendeva se i lesser tornavano o meno con i
carrelli della spesa.
Per fortuna Havers disponeva di una casa sicura, così
lui e la sua servitù avevano un posto dove andare; i
pazienti invece sarebbero stati ricoverati nella clinica
provvisoria. Cartelle cliniche ed esami di laboratorio
erano archiviati su un server esterno, quindi erano
ancora accessibili, ma il personale infermieristico avrebbe
dovuto rinnovare al più presto le scorte medicinali della
nuova sede.
Il vero problema era attrezzare un'altra clinica stabile a
tempo pieno, ma questo avrebbe richiesto mesi di lavoro,
nonché milioni di dollari.
Appena Phury arrivò davanti al banco accettazione,
un telefono ancora intatto squillò. Il trillo si interruppe
quando la chiamata venne dirottata sulla casella vocale, il
cui messaggio di benvenuto era già stato modificato in,
318
"Questo numero non è più attivo. Per informazioni vi
preghiamo di chiamare il seguente numero...»
Vishous aveva predisposto questo secondo numero
come punto di riferimento dove lasciare un messaggio e
le informazioni utili per venire ricontattati. Una volta
verificata identità e richiesta del chiamante, il personale
della nuova clinica lo avrebbe richiamato. Filtrando tutto
attraverso i suoi Quattro Giocattolini, come aveva
ribattezzato i quattro computer alla Tana, V era in grado
di registrare i numeri di chiunque avesse telefonato così,
se i lesser si azzardavano a ficcare il naso, i fratelli
potevano tentare di tracciare le loro linee.
Phury si fermò un attimo e si mise in ascolto,
stringendo in pugno la SIG. Havers aveva avuto
l'accortezza di nascondere una pistola sotto il posto di
guida di tutte le ambulanze, quindi la nove millimetri di
Z era tornata in famiglia, per così dire.
Relativo silenzio. Niente di strano. V e Rhage si erano
trasferiti alla nuova clinica nel caso la carovana fosse
stata localizzata dal nemico. Zsadist stava saldando
l'ingresso sfondato del tunnel sud. Rehvenge forse se
n'era già andato.
La clinica sembrava abbastanza sicura, ma Phury era
pronto a sparare per uccidere. Le operazioni come quella
lo innervosivano sempre...
Merda. Quella probabilmente era la sua ultima
operazione. E vi aveva partecipato solo perché era andato
a cercare Zsadist, non perché convocato in quanto
membro della confraternita.
319
Cercando di non rimuginare troppo, imboccò un altro
corridoio che conduceva alla parte della clinica dove si
trovava il pronto soccorso. Passando davanti a un
deposito scorte sentì un rumore di vetri infranti.
Alzò la pistola di Z tenendola vicinissima al volto e si
accostò adagio allo stipite della porta. Infilò dentro la
testa per un attimo e vide cosa stava succedendo: ritto
davanti a uno sportello chiuso a chiave sfondato da un
pugno, Rehvenge stava trasferendo alcune fiale dai
ripiani dell'armadietto alle tasche della sua pelliccia di
zibellino.
«Rilassati, vampiro», disse senza voltarsi. «È solo
dopamina. Non ho intenzione di vendere sul mercato
nero OxyContin o roba simile.»
Phury abbassò la pistola lungo il fianco. «Perché stai
prendendo...»
«Perché mi serve.»
Una volta rubata anche l'ultima fiala, Rehv diede le
spalle all'armadietto, gli occhi color ametista acuti come
quelli di una vipera. Dava sempre l'impressione di
calcolare la distanza giusta per colpire, anche quando era
con i fratelli.
«Allora, come pensi che abbiano trovato questo
posto?» chiese Rehv.
«Non saprei.» Phury annuì in direzione della porta.
«Dai, andiamo via. Qui non siamo al sicuro.»
320
Il sorriso di Rehvenge scoprì due zanne ancora
allungate. «So badare a me stesso, fidati.»
«Non ne dubito. Ma levare le tende non sarebbe una
cattiva idea.»
Rehv attraversò con cautela la stanza, scansando la
roba caduta per terra: scatole di bende, confezioni di
guanti di lattice e cappucci per termometri. Si
appoggiava pesantemente al bastone, ma solo uno
sciocco poteva prenderlo per un disabile.
«Dove sono i tuoi pugnali neri, verginello?» chiese in
tono mellifluo.
«Non sono affari tuoi, divoratore di peccati.»
«Hai ragione.» Rehv spostò col bastone un mucchietto
di abbassalingua, quasi cercasse di rimetterli nella
scatola. «Il tuo gemello ha voluto parlarmi, credo sia
giusto che tu lo sappia.» «Ah sì?»
«È ora di andare.»
Tutti e due si voltarono verso il corridoio. Alle loro
spalle era fermo Zsadist, le sopracciglia aggrottate sopra
gli occhi neri.
«Subito», precisò Z.
Rehv sorrise calmo sentendo la suoneria del suo
cellulare. «Senti senti, è arrivato il mio autista. È sempre
un piacere fare affari con voi, signori. Ci si vede.»
321
Così dicendo, girò intorno a Phury, salutò Z con un
cenno del capo e accostò il telefonino all'orecchio
allontanandosi con l'aiuto del bastone.
Il rumore dei suoi passi si affievolì a poco a poco, poi
ci fu solo un gran silenzio.
Phury anticipò la domanda del suo gemello: «Sono
venuto perché non hai risposto alle mie chiamate.»
Gli allungò la SIG, porgendogliela per il calcio.
Zsadist afferrò la nove millimetri, controllò la camera
di scoppio e la infilò nella fondina. «Ero troppo incazzato
per parlarti.»
«Non chiamavo per noi due. Ho trovato Bella in sala
da pranzo, mi è sembrata debole e l'ho portata in camera
sua. Credo che dovrebbe farsi vedere da Jane, ma sta a te
decidere.»
Zsadist sbiancò. «Ha detto che qualcosa non andava?»
«Quando si è messa a letto stava bene. Ha detto che
aveva mangiato troppo, che il problema era quello. Ma...»
Forse si era sbagliato sull'emorragia? «Credo proprio che
Jane dovrebbe visitarla...»
Zsadist si mise a correre come un forsennato; i pesanti
stivali risuonavano nel corridoio deserto con tonfi
assordanti che rimbombavano per tutta la clinica.
Phury lo seguì camminando normalmente. Pensò al
suo ruolo di Primale e provò a immaginarsi di correre da
322
Cormia per vedere come stava, con la stessa
preoccupazione, urgenza e disperazione del suo gemello.
Dio, vedeva la scena con estrema nitidezza... lei con suo
figlio in grembo e lui divorato costantemente dall'ansia,
come Z.
Si fermò a dare una sbirciata dentro una stanza.
Come si era sentito suo padre, al capezzale di sua
madre, quando lei aveva dato alla luce due figli sani?
Doveva aver provato una gioia immensa, indescrivibile...
finché era venuto fuori Phury, come una fortuna
esagerata. Troppa grazia, come si dice.
I parti erano un azzardo totale sotto tantissimi punti di
vista.
Proseguendo lungo il corridoio in direzione
dell'ascensore sventrato, Phury pensò che, sì,
probabilmente i suoi genitori sapevano sin dall'inizio che
due figli sani avrebbero portato a una intera vita di
tribolazioni. Erano molto religiosi e credevano
fermamente nel sistema di valori della Vergine Scriba, un
sistema imperniato sul concetto di equilibrio. Per certi
versi il rapimento di Z non doveva averli sorpresi, poiché
quella disgrazia aveva ristabilito l'equilibrio familiare.
Forse per quésto suo padre aveva smesso di cercare
Zsadist dopo aver saputo che la bambinaia era morta e
che il figlio perduto era stato venduto come schiavo.
Forse Aghony aveva temuto che le sue ricerche potessero
condannare Zsadist a un destino ancora più crudele...
lottando per ritrovare il figlio rapito, temeva di aver
provocato la morte della bambinaia e innescato una
323
catena di eventi non solo funesti, ma assolutamente
insostenibili.
Forse si attribuiva la colpa della schiavitù di Z.
Phury lo capiva perfettamente.
Si fermò un attimo a guardare la sala d'attesa, tutta
sottosopra come un bar dopo una rissa.
Pensò a Bella, appesa a un filo con la sua gravidanza, e
temette che quella maledizione infernale non avesse
ancora fatto il suo corso.
Almeno aveva liberato Cormia da quel retaggio di
sofferenze.
Il mago annuì. Ottimo lavoro, socio. L'hai salvata. È la
prima cosa buona che hai fatto.
Lei starà molto, molto meglio senza di te.
324
Capitolo 20
Mr D parcheggiò la Focus dietro la fattoria e spense il
motore. I sacchetti di Target erano sul sedile del
passeggero e, scendendo, li prese. Sullo scontrino nel
portafoglio c'era scritto $ 147,73. La sua carta di credito
era stata rifiutata, così aveva pagato con un assegno che
non era sicuro di poter coprire; proprio come ai vecchi
tempi. Suo padre era un maestro negli assegni "sportivi"
o "cabrio", quelli scoperti. Chiuse con un calcio la
portiera, chiedendosi se il vero motivo per cui i lesser
guidavano delle bagnarole non fosse che la Società
voleva mantenere un basso profilo, ma che era al verde.
Un tempo non ci si doveva mai preoccupare che la carta
di credito venisse accettata o se ci si poteva procurare al
più presto nuove armi. Quando il Fore-lesser era quel Mr
R, negli anni Ottanta, la com-pagnia se la passava bene,
perdiana.
Ora non più. E adesso erano cavoli suoi. Forse avrebbe
dovuto scoprire dove tenevano tutti i conti, ma non
sapeva da che parte cominciare. C'era stato un tale
carosello di Fore-lesser. Chi era stato l'ultimo con un
minimo di capacità organiz... Mr X.
Mr X sì che sapeva stare in sella, e aveva quel capanno
nei boschi... Mr D c'era andato, una o due volte. Se c'era
una qualche contabilità, molto probabile che fosse
proprio lì.
325
Se le sue carte di credito venivano rifiutate, non erano
certo le uniche, questo era il guaio. Il che significava che
con ogni probabilità altri lesser si stavano arrabattando
per procurarsi dei contanti, rubando agli umani o
tenendo per sé il bottino dei saccheggi.
Magari alla fine, con una gran botta di culo, avrebbe
scoperto che il salvadanaio era strapieno e si era solo
momentaneamente smarrito nella gran confusione di
tutti quei cambi al vertice. Ma aveva la sensazione che
non fosse così.
Mentre ricominciava a piovere, aprì la porta a
zanzariera sul retro con un colpo d'anca, girò la chiave
nella toppa ed entrò in cucina. Investito dal tanfo dei due
cadaveri, trattenne il respiro. L'uomo e la donna, come
poi si erano rivelati essere, facevano ancora un figurone
come macabri tappetini, ma uno dei vantaggi di essere
un lesser era avere il deodorante per ambienti
incorporato. Nel giro di pochi istanti, Mr D non sentì più
nessun fetore.
Dopo aver poggiato i sacchetti della spesa sul ripiano
della cucina, sentì un suono stranissimo diffondersi in
tutta la casa, un canticchiare sommesso... come una
ninnananna.
«Padrone?» O era lui oppure qualcuno stava sentendo
Radio Disney.
Svoltò l'angolo della sala da pranzo e si fermò di
colpo.
326
L'Omega era chino sul corpo nudo di un vampiro
biondo steso sopra il tavolo malandato. Qualcuno gli
aveva tagliato la gola vicino al mento, ma la ferita era
stata suturata, e non come si fa nelle autopsie. Chi lo
aveva ricucito aveva fatto un lavoro di fino.
Ma era vivo o morto? Non si capiva... no, un
momento, l'ampio petto andava su e giù, anche se in
modo quasi impercettibile.
«È così bello, non trovi?» L'Omega fece scorrere la
mano nera e traslucida sul volto del vampiro. «Biondo.
La madre era bionda. Hah! Mi avevano detto che non
potevo creare niente. Non come lei. Ma nostro padre si
sbagliava. Guarda mio figlio. Carne della mia carne.»
Mr D si sentì in dovere di dire qualcosa, come se gli
avessero mostrato un neonato aspettandosi i soliti
complimenti di prammatica. «È proprio una bellezza,
sissignore.»
«Hai quello che ti ho chiesto?»
«Sissignore.»
«Portami i coltelli.»
Quando Mr D tornò con i sacchetti di Target, l'Omega
mise una mano sul naso del vampiro e un'altra sulla sua
bocca. Il vampiro spalancò gli occhi, divincolandosi, ma,
debole com'era, riuscì solo a toccare la veste bianca
dell'Omega.
327
«Figlio mio, non ribellarti» sussurrò il Male con
soddisfazione. «È giunta l'ora della tua rinascita.»
La lotta convulsa continuò in un crescendo, che toccò il
culmine quando il vampiro si mise a battere i talloni sul
tavolo e a strisciare i palmi sul legno producendo un
suono stridulo. Si agitava come un burattino, tutto gesti
scomposti e inutile panico. Poi, di colpo, smise e rimase a
fissare il soffitto con gli occhi spenti e la bocca socchiusa.
Mentre la pioggia sferzava le finestre, l'Omega abbassò
il cappuccio bianco e si slacciò la tunica. Con gesto
elegante si tolse la veste impalpabile facendola volare
dall'altra parte della stanza. L'indumento finì nell'angolo,
diritto, come drappeggiato su un manichino.
L'Omega si protese, allungandosi e assottigliandosi
neanche fosse l'uomo di gomma, verso il lampadario da
quattro soldi appeso sopra il tavolo. Afferrò la catena nel
punto di congiunzione col soffitto e con uno strattone
deciso lo strappò via scagliandolo in un angolo. A
differenza della veste il lampadario non atterrò in modo
ordinato, ma terminò la sua inutile vita, se già non
l'aveva fatto, in un groviglio di lampadine rotte e bracci
d'ottone piegati.
Al suo posto, i cavi elettrici messi a nudo penzolavano
dal soffitto macchiato come rampicanti di palude sopra il
corpo del vampiro.
«Coltello, prego», ordinò l'Omega.
«Quale?»
328
«Quello a lama corta.»
Mr D rovistò nei sacchetti, trovò il coltello giusto e poi
ingaggiò una lotta disperata per aprire una confezione di
plastica a prova di consumatore, talmente robusta che gli
venne voglia di pugnalarsi per la frustrazione.
«Basta così», sibilò l'Omega allungando la mano.
«Posso andare a prendere le forbici...»
«Dammelo.»
Appena entrò in contatto con il palmo spettrale del
padrone, la plastica si sciolse, arricciandosi e cadendo per
terra come una pelle di serpente marrone e accartocciata.
Col coltello in mano, l'Omega tornò a voltarsi verso il
vampiro saggiando la lama sul proprio braccio spettrale;
quando dal taglio Sgorgò il sangue, nero come petrolio,
sorrise.
Fu come sventrare un maiale e accadde altrettanto in
fretta. Mentre il tuono rimbombava tutt'intorno alla casa,
quasi cercasse il modo di entrare, l'Omega fece scorrere la
lama affilata al centro del corpo del vampiro, dalla ferita
alla gola fino all'ombelico. Subito l'odore di sangue e di
carne sovrastò quello di talco per neonati del padrone.
«Portami il vaso con il coperchio.» L'Omega pronunciò
vahzo, invece di vaso.
Mr D andò a prendere un grosso vaso di ceramica
azzurro che aveva trovato nel reparto casalinghi. Mentre
329
glielo porgeva fu tentato di fargli notare che era troppo
presto per asportare il cuore, perché prima il sangue
dell'Omega
doveva
cominciare
a
circolare
nell'organismo. Poi però ricordò che il vampiro era
comunque morto, dunque che differenza faceva?
Evidentemente quella non era un'affiliazione come le
altre.
Con la punta incandescente del dito, l'Omega toccò lo
sterno del vampiro, che si aprì; la puzza di ossa
carbonizzate fece storcere il naso a Mr D. Le costole
vennero spalancate da mani invisibili per volere del
padrone, scoprendo il cuore privo di battito.
L'Omega infilò la mano traslucida nella gabbia
toracica, penetrando il sacco pericardico e formando col
palmo un nuovo nido per l'organo. Con espressione
infastidita liberò il muscolo dalle catene delle arterie e
delle vene, e un fiume rosso sangue si riversò sul petto
pallido del vampiro.
Mr D preparò il vaso, togliendo il coperchio e
reggendolo sotto la mano dell'Omega. Il cuore andò in
fiamme e una cascata di cenere cadde dentro il
contenitore.
«Prendi i secchi», ordinò l'Omega.
Mr D chiuse il vaso col coperchio e lo mise in un
angolo, poi tirò fuori da un sacchetto quattro secchi rossi
di Rubbermaid, tipo quelli che sua madre chiamava
bacili, piazzandoli sotto le braccia e le gambe del
vampiro mentre l'Omega recideva polsi e caviglie per
330
drenare il sangue dal corpo. La pelle del vampiro perse
colore con sorprendente velocità, passando dal bianco
cadaverico al grigio bluastro.
«Ora il coltello seghettato.»
Mr D rinunciò in partenza ad aprire la micidiale
confezione di plastica. Dopo averla fusa, l'Omega prese il
coltello e posò la mano libera sul tavolo. Stringendo le
dita a pugno, si segò il polso con un rumore secco, come
quando si taglia un ceppo di legno massello. Quand'ebbe
terminato, restituì il coltello a Mr D, prese la mano
amputata e la mise dentro il petto vuoto del vampiro.
«Rallegrati, figlio mio», bisbigliò l'Omega mentre in
fondo al braccio gli spuntava un'altra mano. «Tra un
attimo sentirai scorrere il mio sangue dentro di te.»
Così dicendo, l'Omega si tagliò con l'altro coltello il
polso appena formato e tenne la ferita sopra il pugno
nero.
Mr D ricordava per esperienza quella parte
dell'affiliazione. Aveva gridato per un dolore più atroce
di quello fisico. Lo avevano ingannato. Fregato alla
grande. Quello che gli avevano promesso era ben altra
cosa, e per lo strazio e il terrore era svenuto. Quando
aveva ripreso i sensi era tutta un'altra persona, un
membro dei morti viventi, un corpo impotente
condannato a vagare compiendo nefandezze.
Credeva che fossero solo una banda. Credeva che lo
avrebbero sottoposto a una specie di iniziazione, una
qualche prova del fuoco, e magari marchiato con un
331
tatuaggio per mettere in chiaro che adesso era uno di
loro.
Non sapeva che non ne sarebbe mai uscito fuori. O che
non sarebbe mai più stato umano.
L'intera faccenda gli aveva ricordato una cosa che
diceva sempre sua madre: Se fai un patto con un serpente a
sonagli, poi non puoi stupirti se ti morde.
All'improvviso andò via la luce.
L'Omega fece un passo indietro e intonò una nenia a
bocca chiusa. Stavolta non era una cantilena alla Disney,
ma un grande richiamo di energia, l'imminente raccolto
di un qualche potenziale invisibile. Via via che le
vibrazioni aumentavano, la casa cominciò a tremare,
dalle crepe nel soffitto pioveva la polvere, sul pavimento
i secchi avevano il ballo di San Vito. Mr D pensò ai
cadaveri in cucina e si chiese se anche loro stessero
ballando.
Fece appena in tempo a tapparsi le orecchie e a
incassare la testa nelle spalle.
Un fulmine colpì in pieno il tetto della fattoria. Dal
baccano che fece non poteva essere solo l'eco o la
ramificazione secondaria di una saetta caduta a qualche
metro di distanza.
No, non era come beccarsi in un occhio le schegge di
un sasso: era l'intero masso che ti piombava sulla zucca.
332
Il frastuono si tradusse in un dolore alle orecchie,
almeno per quanto riguardava Mr D, e la violenza
spaventosa dell'impatto gli fece temere che la casa
potesse crollargli addosso. L'Omega non condivideva
quella preoccupazione, all'apparenza. Guardava in alto
con zelo da predicatore della domenica, tutto rapito e in
estasi, neanche fosse un vero credente e qualcuno avesse
appena tirato fuori i serpenti a sonagli e la stricnina.
Il fulmine saettò attraverso le autostrade elettriche
della fattoria, o piuttosto, nella fattispecie, attraverso
stradine secondarie e sentieri battuti, ed emerse in un
fascio di energia giallo vivo proprio sopra il corpo del
vampiro. I fili pendenti del lampadario lo incanalarono
nella direzione giusta e il petto spalancato del vampiro,
con il suo cuore oleoso, funse da bacino di scarico.
Investito da quell'esplosione di energia, il corpo
sobbalzò sollevandosi dal tavolo, braccia e gambe
sbatacchiarono nell'aria e il petto si gonfiò. In un baleno il
padrone cambiò forma, avvolgendo il vampiro come una
seconda pelle per impedire che i quattro quadranti di
carne volassero da tutte le parti come pneumatici che
scoppiano.
Quando il fulmine si ritirò, il vampiro rimase sospeso
a mezz'aria con la sua coperta di Omega che risplendeva
nell'oscurità.
Il tempo... si fermò.
Mr D lo capì dal fatto che il dozzinale orologio a cucù
appeso alla parete cessò di battere. Per un po' non ci fu
più il normale passaggio da un secondo all'altro, solo un
333
infinito presente, mentre ciò che aveva smesso di
respirare ritrovava la strada verso la vita che aveva
perduto.
O meglio, che gli era stata tolta.
Fluttuando dolcemente, il vampiro tornò a posarsi sul
tavolo e l'Omega si staccò da lui, riacquistando la forma
originaria. Dalle labbra grigie del vampiro uscirono come
degli ansiti, un sibilo accompagnava ogni inspirazione
che immetteva aria nei polmoni. Nella cavità toracica
aperta il cuore fu scosso da un palpito, poi si organizzò
meglio e cominciò a pompare sul serio.
Mr D si concentrò sul volto del vampiro.
A poco a poco il pallore mortale lasciò il posto a uno
strano colorito roseo, come quello dei bambini dopo che
hanno corso col vento in faccia. Solo che quello non era
un segno di buona salute. No. Quella era una
resurrezione.
«Vieni da me, figlio mio.» L'Omega passò la mano sul
petto del vampiro e, dall'ombelico alla gola suturata, ossa
e carne si richiusero, rinsaldandosi. «Vivi per me.»
Il vampiro scoprì le zanne. Aprì gli occhi. E ruggì.
Qhuinn non rientrò nel proprio corpo fluttuando
dolcemente. No. Quando indietreggiò dalla porta bianca
che aveva davanti mettendosi a correre a perdifiato, la
vita terrena tornò da lui in un lampo, lo spirito atterrò
dentro la sua pelle neanche il Fado lo avesse preso a calci
in culo con una Onnipotente Converse Ali Star,
334
Qualcuno aveva premuto le labbra contro le sue e gli
stava soffiando aria nei polmoni. Poi sentì una forte
pressione al petto e qualcuno che contava mentre
spingeva con forza. Ci fu una piccola pausa, seguita da
un altro po' di respirazione bocca a bocca.
Era un'alternanza piacevole. Respiro. Compressione,
Respiro. Respiro. Compressione...
Il suo corpo venne scosso da un sobbalzo improvviso,
quasi fosse stufo di quella respirazione assistita.
Sull'onda di quello spasmo convulso, Qhuinn ruppe il
contatto con l'altra bocca inspirando da solo.
«Dio, ti ringrazio», esclamò Blay con voce strozzata.
Qhuinn scorse di sfuggita gli occhi spalancati e lucidi
dell'amico, poi si raggomitolò su un fianco. Dopo una
serie di leggeri ansiti sentì che il cuore afferrava la palla e
cominciava a correre, contraendosi e dilatandosi da solo.
Dopo un istante di "oh che bello sono vivo", il dolore lo
investì con violenza, travolgendolo, facendogli venir
voglia di tornare indietro a quando, esanime, non lo
sentiva. All'altezza delle reni, la schiena gli faceva un
male del diavolo, neanche l'avessero presa a martellate.
«Carichiamolo in macchina», gridò Blay. «Dobbiamo
portarlo alla clinica.»
Qhuinn socchiuse un occhio. Ai suoi piedi c'era John
che annuiva come uno di quei pupazzetti con la testa a
molla.
335
Oh, cavolo, no... non potevano portarlo alla clinica. La
Guardia d'Onore non aveva ancora finito con lui. Merda,
suo fratello...
«Niente... clinica», ansimò con un filo di voce.
'Fanculo, disse a gesti John.
«Niente. Clinica.» Forse non gli restava molto da
vivere, ma non per questo aveva fretta di divorare un Big
Mac alla Morte con contorno di patatine fritte.
Blay si chinò sopra di lui, occhi negli occhi, «Sei stato
investito da un cazzo di pirata della strada...»
«Non.... pirata.»
Blay ammutolì. «Allora cosa è stato?» Qhuinn si limitò
a guardarlo dritto negli occhi, lasciando che fosse lui a
indovinare. «Un momento... è stata una Guardia
d'Onore? La famiglia di Lash ti ha sguinzagliato contro
una Guardia d'Onore?»
«Non... quella... di Lash...»
«La tua?»
Qhuinn annuì, perché gli mancava l'energia per
muovere le labbra tumefatte.
«Ma mica devono ammazzarti...»
«Ma va?»
336
Blay guardò John. «Non possiamo portarlo da
Havers.»
La dottoressa Jane, disse John a gesti. Allora ci serve la
dottoressa Jane.
John tirò fuori il cellulare; Qhuinn stava per bocciare
anche quell'idea quando sentì sbatacchiare qualcosa
contro il braccio. Era la mano di Blay: tremava talmente
tanto che non riusciva a fermarla. Cazzo, tremava da
capo a piedi.
Qhuinn chiuse gli occhi e allungò il palmo verso
quello dell'amico. Ascoltando il sommesso ticchettio di
John che digitava un SMS, strinse con forza la mano di
Blay per confortarlo. E per confortare anche se stesso.
Un minuto e mezzo dopo un bip annunciò che era
arrivata la risposta.
«Cosa dice?» John doveva aver detto qualcosa a gesti
perché Blay esclamò in un sussurro, «Oh... mio... Dio. Ma
lei sta arrivando, giusto? Bene. A casa mia? Okay. Bene.
Spostiamolo.»
Due paia di mani lo sollevarono dal ciglio della strada
e lui grugnì di dolore... ma era un bene, pensò Qhuinn,
perché significava che il "ritorno dal regno dei morti"
doveva essere vero. Steso sul sedile posteriore dell'auto
di Blay, sentì salire i suoi due amici, poi le lievi vibrazioni
della BMW che accelerava.
337
Quando riaprì gli occhi incontrò quelli di John. Era
seduto davanti, ma era tutto girato per poterlo tenere
d'occhio.
Aveva uno sguardo preoccupato e incerto. Come se
non fosse sicuro che Qhuinn potesse farcela... e stesse
ripensando a quanto era successo nello spogliatoio, dieci
milioni e rotti di anni prima.
Qhuinn alzò le mani martoriate e, gesticolando
goffamente, disse, Per me sei sempre lo stesso. Non è
cambiato niente.
John spostò gli occhi a sinistra, di scatto, guardando
fuori dal finestrino.
I fari di un'auto alle loro spalle lo illuminarono in
pieno viso, strappandolo alle tenebre. Su quei lineamenti
belli e fieri era stampato il dubbio, chiaro come il sole.
Qhuinn chiuse gli occhi.
Che nottataccia.
338
Capitolo 21
«Oh mio Dio, quel vestito è un disastro.»
Cormia rise guardando il televisore di Bella e Zsadist.
Project Runway si rivelò uno "spettacolo" affascinante.
«Cos'è quella roba che pende dalla schiena?»
Bella scosse la testa. «Cattivo gusto sotto forma di raso.
Comunque credo che all'inizio fosse un fiocco.»
Le due femmine erano allungate sul letto
matrimoniale, la schiena appoggiata contro la testiera. In
mezzo a loro Boo, il gatto nero di casa, si godeva le
coccole a due mani; al pari di Bella, nean-che lui
sembrava apprezzare l'abito in questione. I suoi occhi
verdi fissavano disgustati la TV.
Cormia spostò la mano dalla schiena al fianco del
gatto. «Il colore non è male.»
«Non basta a compensare il fatto che sembra una
balena strizzata nel cellofan. E con una fune attaccata al
sedere.»
«Non so neanche cosa sia una balena, figuriamoci il
cellofan.»
Bella indicò lo schermo piatto all'altro capo della
stanza. «La stai guardando. Prova a immaginare qualcosa
339
che assomiglia a un mostro marino sotto quell'incubo di
vestito e voilà.»
Cormia sorrise; il tempo trascorso con Bella era stato
insieme rivelatore e stranamente sconcertante. Bella le
piaceva. Davvero. Era simpatica, affabile e premurosa,
bella di nome e di fatto, dentro e fuori.
Non c'era da stupirsi che il Primole la adorasse. E per
quanto fosse partita con l'intenzione di rivendicare i suoi
diritti su di lui, contro Bella, Cormia scoprì che non c'era
nessun bisogno di ribadire il suo status di Prima Sposa. Il
Primole non saltò fuori nella conversazione e non ci
furono allusioni o sottintesi in tal senso.
Quella che aveva percepito come una rivale si era
rivelata un'amica.
Cormia tornò a concentrarsi su ciò che aveva in
grembo. Una specie di opuscolo floscio, largo e sottile,
con le pagine patinate e un sacco dì quelli che Bella aveva
chiamato "annunci pubblicitari". Sul davanti c'era scritto
Vogue. «Guarda quanti vestiti diversi», mormorò. «È
stupefacente.»
«Ho quasi finito con Harper's Bazaar, se lo vuoi...»
La porta si spalancò con tale violenza che Cormia
balzò giù dal letto facendo volare Vogue in un angolo
come un uccellino spaventato. Sulla soglia c'era il fratello
Zsadist, fresco di combattimento a giudicare dall'odore di
borotalco che si portava dietro e dall'arsenale che aveva
addosso.
340
«Cosa sta succedendo?» chiese.
«Be'», disse lentamente Bella, «hai appena spaventato
a morte Cormia e me, Tim Gunn ha stoppato il tempo per
gli stilisti e io ho di nuovo fame, quindi sto per chiedere a
Fritz di portarmi una omelette. Pancetta affumicata e
formaggio cheddar. Qualche crocchetta di patate con
cipolla. E del succo d'arancia.»
Il fratello si guardò intorno come se si aspettasse di
vedere dei lesser dietro le tende. «Phury ha detto che non
stavi bene.»
«Ero stanca. Mi ha aiutato a salire le scale. Cormia
all'inizio mi ha fatto da babysitter, ma adesso credo che
abbia deciso di restare perché si sta divertendo, vero
Cormia? O almeno si stava divertendo, giusto?»
Cormia annuì, ma senza staccare gli occhi dal fratello.
Con quel volto sfregiato e il fisico gigantesco l'aveva
sempre messa a disagio, non perché fosse in alcun modo
brutto, ma per la sua aria feroce.
Zsadist la guardò e poi accadde una cosa stranissima.
Si mise a parlare con una voce incredibilmente gentile e
alzò una mano, quasi volesse calmarla.
«Tranquilla. Scusa se ti ho spaventata.» A poco a poco
i suoi occhi divennero gialli e il volto si addolcì. «Sono
solo in pensiero per la mia shellan. Non voglio farti del
male.»
Cormia sentì allentarsi la tensione; adesso capiva
perché Bella stava con lui. «Ma certo, vostra grazia»,
341
disse con un inchino. «È naturale che siate in pensiero per
lei.»
«Tu stai bene?» chiese Bella, guardando i vestiti
macchiati di sangue del suo hellren. «Stanno tutti bene?»
«I fratelli stanno bene», rispose Zsadist andando dalla
sua shellan e accarezzandole il viso con mano tremante.
«Voglio che Jane ti dia un'occhiata.»
«Se serve a farti sentire meglio dille pure di venire. Io
credo che sia tutto a posto, ma farò tutto quello che può
servire a farti stare tranquillo.»
«Hai perso ancora sangue?» Bella non rispose. «Vado
subito a chiamarla...»
«Non ne ho perso molto, e non c'è niente di diverso
dalle altre volte. Chiamare Jane è una buona idea,
probabilmente, anche se dubito che si possa fare
qualcosa.» Bella avvicinò le labbra al palmo di Zsadist e
lo baciò. «Ma prima per favore dimmi cosa è successo
stanotte.»
Zsadist si limitò a scrollare la testa e Bella chiuse gli
occhi, quasi fosse abituata a ricevere brutte notizie...
quasi ne avesse ricevute talmente spesso da non
necessitare ulteriori precisazioni. Le parole non potevano
aggiungere nulla alla tristezza di lei o di lui, né potevano
alleviare ciò che chiaramente sentivano.
Zsadist si chinò a baciare la sua compagna. Quando i
loro occhi si incontrarono, l'amore che ne scaturì fu così
342
intenso da creare un'aura di calore; dal punto in cui si
trovava, Cormia avrebbe giurato di sentirlo.
Bella non aveva mai manifestato un legame del genere
con il Primate. Mai.
Né, quanto a questo, lui l'aveva manifestato nei
confronti di Bella. Anche se forse solo per motivi di
discrezione.
Zsadist bisbigliò qualcosa, poi uscì come per andare a
caccia, le sopracciglia aggrottate, le spalle contratte,
solide come le travi di una casa.
Cormia si schiarì la gola. «Volete che vi chiami Fritz?
O che gli passi la vostra ordinazione?»
«Sarà meglio aspettare, se Jane deve venire a
visitarmi.» Bella spostò la mano sul pancione e cominciò
a muoverla lentamente in cerchio. «Ti andrebbe di
tornare, più tardi, per guardare il resto della trasmissione
con me?»
«Se vi fa piacere...»
«Assolutamente. Sei un'ottima compagnia.»
«Davvero?»
Gli occhi di Bella erano incredibilmente gentili.
«Davvero. Mi infondi un senso di calma.»
343
«Allora sarò la vostra compagna di parto. Da dove
vengo io, una sorella incinta ha sempre una compagna di
parto.»
«Grazie... grazie mille.» Bella si voltò, negli occhi un
lampo di paura. «Accetto tutto l'aiuto possibile.»
«Se posso permettermi», mormorò Cormia, «cosa vi
preoccupa di più?»
«Lui. Sono preoccupata per Z», rispose Bella tornando
a guardarla. «Poi sono preoccupata per il mio piccolo. È
molto strano. Non sono poi tanto preoccupata per me.»
«Siete molto coraggiosa.»
«Oh, non mi hai mai vista a metà giornata. Vado
spesso in crisi, fidati.»
«Penso comunque che siate coraggiosa», disse Cormia
posando la mano sul suo ventre piatto. «Dubito che
saprei essere altrettanto impavida.»
Bella sorrise. «Credo che ti sbagli. Ti ho osservata, in
questi ultimi mesi, e hai una forza incredibile.»
Cormia non ne era così sicura. «Spero tanto che la
visita vada bene, tornerò più tardi...»
«Non crederai sul serio che sia facile essere quello che
sei, no? Vivere col genere di pressioni cui sono sottoposte
le Elette. Non riesco neanche a immaginare come facciate
a sopportarle, e ho un profondo rispetto per te.»
344
Cormia non riuscì a fare altro che battere le palpebre,
incredula. «Sul... serio?»
Bella annuì. «Sì. E vuoi sapere un'altra cosa? Phury è
fortunato ad avere te. Mi auguro soltanto che non ci
metta troppo a capirlo.»
Santissima Vergine Scriba, non si sarebbe mai
aspettata di sentirsi dire una cosa simile da nessuno,
tanto meno da Bella; il suo shock doveva essere palese
poiché Bella rise.
«Okay, ti ho messa in imbarazzo, e me ne scuso. Ma è
da un pezzo che volevo dirvelo, a tutti e due.» Bella
lanciò un'occhiata al bagno con un grosso sospiro. «Ora
credo sia meglio che tu vada, così posso prepararmi per
Jane e le sue palpazioni. Adoro quella donna, sul serio,
però cribbio, detesto quando si infila quei guanti di
lattice.»
Cormia salutò in fretta e uscì per tornare in camera
sua, assorta nei suoi pensieri.
Svoltato l'angolo dello studio di Wrath, si fermò di
colpo. Quasi lo avesse evocato, ecco il Primale in cima al
grande scalone, minaccioso ed esausto.
I suoi occhi si posarono su di lei.
Doveva essere ansioso di avere notizie di Bella, pensò
Cormia. «Bella sta meglio, ma credo che nasconda
qualcosa. Il fratello Zsadist è appena andato a chiamare
la dottoressa Jane.»
345
«Bene. Mi fa piacere. Grazie per esserti presa cura di
lei.»
«È stato un piacere. Bella è adorabile.»
Il Primale annuì; poi fece scorrere lo sguardo su di lei,
dai capelli, raccolti in uno chignon, ai piedi nudi. Come
se stesse riprendendo confidenza con lei, come se non la
vedesse da un'eternità.
«A quali orrori avete assistito da quando siete uscito di
casa?» sussurrò Cormia.
«Perché me lo chiedi?»
«Mi fissate come se non mi vedeste da settimane. Che
cosa avete visto?»
«Sei brava a leggermi nel pensiero.»
«Quasi quanto siete bravo voi a eludere la mia
domanda.»
Lui sorrise. «Il che significa molto bravo, huh.»
«Non siete obbligato a parlare di...»
«Ho visto altri morti. Morti che si potevano evitare.
Che spreco, maledizione. Questa guerra è una tragedia.»
«Sì. Sì, è vero.» Avrebbe voluto prendergli la mano,
invece disse, «Vi andrebbe di... accompagnarmi in
giardino? Volevo fare quattro passi tra le rose prima che
sorga il sole.»
346
Lui esitò, poi scosse la testa. «Non posso. Mi dispiace.»
«Certo.» Cormia si inchinò per evitare i suoi occhi.
«Vostra grazia.»
«Stai attenta.»
«Va bene.» Ciò detto, Cormia raccolse la lunga veste e
rapida si diresse verso le scale che lui aveva appena
salito.
«Cormia.» «Sì?»
Si voltò a guardarlo da sopra la spalla e lui la trafisse
con uno sguardo penetrante. L'ardore di quegli occhi la
riportò a quando erano tutti e due sul pavimento, in
camera sua, e il cuore le balzò in gola.
Ma poi lui si limitò a scuotere la testa. «Niente. Solo,
sii prudente.»
Mentre Cormia scendeva le scale, Phury si diresse
verso la galleria delle statue, fermandosi davanti alla
prima delle finestre affacciate sul giardino dietro casa.
Andare a vedere le rose insieme a lei era escluso. In
quel momento lui era sconvolto, gli sembrava che lo
avessero scuoiato vivo, anche se aveva ancora tutta la
pelle addosso. Ogni volta che chiudeva gli occhi rivedeva
quei cadaveri nel corridoio della clinica, i volti spaventati
in quello stanzino pieno di medicinali e il coraggio di
coloro che non avrebbero dovuto essere costretti a
combattere per la loro vita.
347
Se non si fosse fermato per aiutare Bella a salire le
scale e poi non fosse andato a cercare Zsadist, forse quei
civili non si sarebbero salvati. Di certo nessuno lo
avrebbe chiamato in soccorso perché lui non era più un
fratello.
Giù di sotto Cormia uscì sul terrazzo, la veste candida
che risaltava contro le lastre di pietra grigio scuro. Si
avvicinò leggiadra alle rose e si chinò ad annusarle. Gli
pareva quasi di sentirla inspirare e poi sospirare
soddisfatta, inebriata dal profumo dei fiori.
I suoi pensieri passarono dall'orrore della guerra alla
bellezza delle forme femminili.
E a quello che maschi e femmine facevano tra le
lenzuola di raso.
No, non doveva ronzare intorno a Cormia in quel
momento, nella maniera più assoluta. Lui voleva
sostituire la morte e la sofferenza che aveva visto quella
notte con qualcos'altro, qualcosa di vivo e caldo, qualcosa
che coinvolgesse solo il corpo e non la testa. Osservando
la sua Prima Sposa colmare di attenzioni il roseto,
l'avrebbe voluta nuda sotto di sé, fremente di piacere,
madida di sudore.
Ah... ma lei non era più la sua Prima Sposa, no?
Merda.
La voce del mago si insinuò nella sua testa. Credevi
sinceramente di riuscire a fare il tuo dovere nei suoi confronti?
Di farla felice? Proteggerla? Passi dodici ore al giorno a
348
fumare. Vuoi accenderti uno spinello dopo l'altro davanti a lei
costringendola a guardarti mentre, sempre più rintronato,
finisci per appisolarti contro i cuscini del letto? Vuoi che veda
questo?
Vuoi costringerla a trascinarti dentro casa, all'alba, come
hai fatto tu con tuo padre?
Magari un giorno pensi anche di picchiarla per la
frustrazione.
«No!» gridò Phury.
Ah, no? Tuo padre ti aveva detto la stessa cosa o sbaglio,
socio? Ti aveva promesso che non ti avrebbe mai più picchiato.
Ma la parola di chi è schiavo di una dipendenza è proprio
questo: una parola e nient'altro. È questo il guaio.
Phury si stropicciò gli occhi dando le spalle alla
finestra.
Per darsi un obiettivo, uno qualunque, si diresse verso
lo studio di Wrath. Anche se lui non era più un membro
della confraternita, il re andava informato di quanto era
accaduto alla clinica. Z era impegnato con Jane e Bella e
gli altri fratelli si stavano rendendo utili alla nuova
clinica, quindi tanto valeva che fosse lui a fare rapporto
in via ufficiosa. Inoltre, voleva spiegare a Wrath perché si
era trovato sul posto e assicurargli che non si trattava di
un atto di insubordinazione per il benservito che gli
aveva dato.
E poi c'era la faccenda di Lash.
349
Il ragazzo era disperso.
Dal conteggio dei pazienti giunti alla nuova clinica
sommati ai cadaveri in quella vecchia, era emerso che
soltanto una persona era stata rapita, ed era Lash. Il
personale sanitario aveva riferito che il ragazzo era vivo
al momento dell'incursione, dopo il crollo dei suoi
parametri vitali erano riusciti a rianimarlo. H che era una
tragedia. Lash poteva anche essere un bastardo, ma
nessuno voleva che cadesse nelle grinfie dei lesser. Se era
fortunato sarebbe morto lungo il tragitto verso il luogo,
qualunque fosse, dove lo stavano portando, ed era molto
probabile che fosse morto, in effetti, visto com'era ridotto.
Phury bussò alla porta dello studio. «Mio signore? Mio
signore, ci sei?»
Non ottenendo risposta, riprovò di nuovo.
Niente. Si voltò e andò in camera sua, ben sapendo che
avrebbe ricominciato a fumare a ripetizione, riprendendo
il suo posto nel desolato regno del mago.
Come se potessi vivere altrove, lo schernì la sinistra voce
nella sua testa.
All'altro capo della città, a casa dei genitori di
Blaylock, Qhuinn venne fatto entrare di soppiatto
dall'ingresso posteriore riservato ai doggen. Fece del suo
meglio per camminare da solo, zoppicando, ma Blay
dovette aiutarlo a salire la scala di servizio fino in camera
sua.
350
Quando Blay uscì per raccontare ai suoi qualche balla
su dove era stato e su quello che aveva fatto, John montò
di guardia mentre Qhuinn si stendeva sul letto dell'amico
senza neanche l'ombra del sollievo abituale. E non solo
perché si sentiva come un pun-ching ball.
I genitori di Blay non si meritavano una rogna del
genere. Erano sempre stati buoni con lui. Che cavolo,
molti genitori non avrebbero permesso ai loro figli di
frequentarlo, quelli di Blay, invece, gli erano stati vicini
sin dal principio. Adesso, senza saperlo, rischiavano di
compromettere la loro posizione all'interno della glymera
offrendo rifugio a un fuggitivo rinnegato, una persona
non grata.
Al solo pensiero, Qhuinn si alzò con l'intenzione di
levare le tende, ma non aveva fatto i conti col suo
stomaco. Una fitta lancinante gli perforò le budella, come
se il fegato avesse preso arco e frecce e mirato ai reni.
Con un gemito, si sdraiò di nuovo.
Cerca di non muoverti, disse a gesti John.
«Rice.. .vuto.»
Il cellulare di John emise un trillo e lui lo tirò fuori
dalla tasca dei jeans A & F. Mentre l'amico leggeva l'SMS,
Qhuinn ripensò a quando loro tre erano andati a fare
spese al centro commerciale e poi lui in camerino si era
scopato la tipa che gestiva il negozio.
Da allora era cambiato tutto. Adesso tutto il mondo
era diverso. Si sentiva più vecchio di anni, invece che di
giorni.
351
John alzò gli occhi, accigliato. Mi vogliono a casa. È
successo qualcosa.
«Vai, allora... io qui sto a posto.»
Se posso torno.
«Non c'è problema. Blay ti terrà aggiornato.»
Quando John uscì, Qhuinn si guardò intorno e gli
tornarono in mente tutte le ore passate su quel letto. Blay
aveva una stanza fìchissima. Le pareti erano rivestite in
legno di ciliegio, il che le conferiva l'aspetto di uno
studio, e l'arredamento era moderno ed essenziale, non
quella soffocante roba d'antiquariato che era la passione
di tutti i membri della glymera, insieme alle regole più
assurde sull'etichetta da tenere in società. Il letto, enorme,
era coperto da un piumone nero e da una montagna di
cuscini comodissimi, senza per questo sembrare una roba
da femmine. Sul pavimento, davanti allo schermo al
plasma ad alta definizione, c'erano un'Xbox 360, una Wii
e una PS3, e la scrivania dove Blay faceva i compiti era in
perfetto ordine come tutto il resto, videogiochi compresi.
Sulla sinistra c'era un piccolo frigorifero, una pattumiera
nera Rubbermaid, che in tutta onestà assomigliava un po'
a un pisello, e un bidone arancione per le bottiglie.
Qualche tempo prima Blay si era convertito alla causa
ecologista ed era diventato un fanatico della raccolta
differenziata e del riciclaggio dei rifiuti. Proprio tipico di
Blay
Contribuiva
mensilmente
alla
PETA,
l'organizzazione animalista che combatte ogni forma di
violenza e sfruttamento sugli animali, mangiava solo
352
polli ruspanti e carne di bestiame allevato all'aperto, ed
era un patito dei cibi biologici.
Se ci fosse stata una ONU dei vampiri in cui fare uno
stage o un modo per fare volontariato al Porto Sicuro, lui
ci si sarebbe buttato senza pensarci due volte.
Blay era la cosa più vicina a un angelo che avesse mai
conosciuto, pensò Qhuinn.
Cazzo. Doveva andare via di lì prima che suo padre
facesse sbattere fuori dalla glymera tutta la famiglia di
Blay.
Cambiando posizione nel tentativo di trovare sollievo
alla base della schiena, si rese conto che non erano solo le
ferite a dargli fastidio. La busta che gli aveva consegnato
il doveri di suo padre era rimasta infilata nella cintura dei
jeans, malgrado tutte le botte che aveva preso.
Non aveva nessuna voglia di rivedere quelle carte, ma
chissà come se le ritrovò tra le mani sporche e
insanguinate.
Nonostante la vista annebbiata e i dolori diffusi in
tutto il corpo, si concentrò sulla pergamena. Era il suo
albero genealogico di cinque generazioni, il suo
certificato di nascita, per così dire. Guardò i tre nomi
sull'ultima riga. Il suo era in fondo a sinistra, accanto a
quello di suo fratello maggiore e di sua sorella. Era
sbarrato da un grossa X, e sotto l'elenco dei suoi genitori
e consanguinei c'erano le loro firme, vergate con un tratto
pesante dello stesso inchiostro.
353
Cancellarlo dalla famiglia richiedeva parecchie
scartoffie. I certificati di nascita di suo fratello e di sua
sorella andavano modificati allo stesso modo e anche il
certificato di matrimonio dei suoi andava rivisto. Il
Consiglio dei Princeps della glymera, inoltre, doveva
ricevere una dichiarazione in cui Qhuinn veniva
diseredato, il disconoscimento da parte dei suoi genitori
e una richiesta di espulsione. Dopo aver espunto il suo
nome sia dai membri della glymera che dall'immenso
archivio genealogico dell'aristocrazia, il leahdyre del
Consiglio avrebbe elaborato una missiva da inviare a
tutte le famiglie della glymera in cui veniva formalmente
annunciato il suo esilio.
Chiunque avesse una figlia in età da marito andava
messo sull'avviso, naturalmente.
Era tutto così ridicolo. Con quegli occhi di due colori
diversi non avrebbe comunque mai potuto farsi incidere
il nome di qualche aristocratica sulla schiena.
Qhuinn ripiegò il certificato di nascita e lo infilò di
nuovo nella busta. Mentre la richiudeva, ebbe la
sensazione che gli avessero sfondato il petto. Essere solo
al mondo, anche da adulto, era terrificante.
Ma contaminare chi era stato gentile con lui era anche
peggio.
Blay entrò con un vassoio traboccante di cibarie. «Non
so se hai fame...»
«Devo andare.»
354
Il suo amico posò sulla scrivania quello che aveva
portato; «Non credo che sia una buona idea.»
«Aiutami ad alzarmi. Me la caverò...» «Cazzate», disse
una voce femminile.
Jane, il medico della confraternita, comparve dal nulla
davanti a loro. Aveva una di quelle borse di foggia
antiquata che usavano i dottori di una volta, panciuta
come una pagnotta e con due manici in cima, e indossava
un camice bianco come quelli in uso alla clinica; il fatto
che fosse un fantasma non aveva la minima importanza.
Tutto, in lei, dai vestiti alla borsa, dai capelli al profumo,
diventata solido e tangibile appena arrivava, proprio
come se fosse una persona normale.
«Grazie di essere venuta», disse Blay, sempre
impeccabile come padrone di casa.
«Ehilà, dottoressa», farfugliò Qhuinn.
«Vediamo un po' cosa abbiamo qui» disse Jane
sedendosi sull'angolo del letto. Senza toccarlo, si limitò a
squadrare il suo paziente con occhio clinico, dalla testa ai
piedi.
«Non sono esattamente il candidato ideale per Playgirl,
eh?» scherzò imbarazzato lui.
«Quanti erano?» chiese seria lei.
«Diciotto. Mila.»
355
«Quattro», intervenne Blay. «Una Guardia d'Onore di
quattro.»
«Una Guardia d'Onore?» Jane scrollò la testa, quasi
stentasse a capire le usanze della razza. «Per Lash?»
«No, da parte della famiglia di Qhuinn», spiegò Blay.
«E non dovevano ucciderlo.»
Be', quello sembrava essere il suo nuovo leitmotiv,
pensò Qhuinn.
Jane aprì la borsa. «Okay, vediamo cosa c'è sotto i
vestiti.»
Concentratissima come sempre, tagliò, la camicia di
Qhuinn, gli auscultò il cuore e gli misurò la pressione.
Intanto che lo visitava, lui fissava il muro, lo schermo
televisivo spento, la sua borsa.
«Bella... comoda... la sua borsa», gemette mentre lei gli
palpava l'addome toccando un punto sensibile.
«Ne ho sempre desiderata una così. Marcus Welby era
il mio idolo.»
«Marcus chi?»
«Ti fa male anche qui?» L'ansito che gli sfuggì quando
lo tastò di nuovo le fornì la risposta che cercava, quindi
lui non aggiunse altro.
Jane gli tolse i pantaloni e, non avendo le mutande,
Qhuinn si affrettò a tirare le lenzuola sulle parti intime.
356
Lei le spinse via, lo scrutò dappertutto con aria
professionale e poi gli chiese di flettere braccia e gambe.
Si soffermò per qualche istante su un paio di lividi
spettacolari e poi lo coprì di nuovo.
«Con cosa ti hanno picchiato? Quegli ematomi sulle
cosce sono molto brutti.»
«Spranghe. Grosse, pesanti...»
«Mazze», intervenne Blay. «Devono aver usato quelle
mazze cerimoniali nere.»
«Sarebbe coerente con le lesioni.» La dottoressa si
concesse qualche secondo, come un computer in fase di
elaborazione dati. «Bene, la situazione è la seguente. Le
tue gambe sono messe parecchio male, ma le contusioni
dovrebbero guarire da sole. Non hai ferite aperte; hai un
taglio al palmo, ma immagino che sia leggermente
precedente a tutto il resto perché si sta già rimarginando.
E all'apparenza non hai niente di rotto, il che è un
miracolo.»
Niente di rotto o spezzato. Tranne il cuore,
naturalmente, pensò Qhuinn. Essere picchiato dal
proprio fratello...
Zitto, femminuccia, si disse.
«Allora è tutto a posto, giusto, dottoressa?»
«Per quanto tempo sei rimasto svenuto?»
357
Qhuinn si accigliò, all'improvviso quella visione del
Fado emerse dalla sua memoria e gli piombò addosso
come un corvo nero. Dio... era morto?
«Ehm... non ne ho idea. E non ho visto niente mentre
ero svenuto. Era tutto nero, sa... ero KO.» Non aveva
nessuna intenzione di accennare a quella piccola,
naturalissima allucinazione. «Però sto bene, sa...»
«Mi spiace, ma non sono d'accordo. La frequenza
cardiaca è alta, la pressione è bassa e non mi piace quella
pancia.»
«Mi fa solo un po' male.» «Ho paura che si sia
perforato qualcosa.»
Grandioso. «Non è niente.»
«Dov'è che hai preso la laurea in Medicina?» Jane
sorrise e lui fece una risatina. «Vorrei farti un'ecografia,
ma stanotte la clinica di Havers ha subito un attentato.»
«Che cosa?»
«Che cosa?» esclamò in contemporanea Blay.
«Credevo lo sapeste.»
«Ci sono dei superstiti?» chiese Blay.
«Lash è sparito.»
Mentre i ragazzi metabolizzavano le implicazioni di
quella notizia, Jane rovistò nella sua borsa delle
358
meraviglie e tirò fuori una siringa sigillata e una fialetta
con un tappino di gomma. «Ti darò qualcosa per il
dolore. E non preoccuparti», aggiunse sardonica, «non è
Demerol.»
«Perché, il Demerol fa male?»
«Ai vampiri? Sì.» Jane strabuzzò gli occhi. «Fidati.»
«Tutto quello che dice lei per me va bene.»
«Questo dovrebbe bastare per un paio d'ore», disse
Jane dopo avergli fatto l'iniezione. «Ma conto di tornare
anche prima.»
«Dev'essere quasi l'alba, eh?»
«Già, perciò dobbiamo sbrigarci. Hanno messo in
piedi una clinica provvisoria...»
«Non posso andarci», protestò Qhuinn. «Non posso...
Non sarebbe una buona idea.»
Blay annuì. «Non dobbiamo far sapere dove si trova.
Al momento Qhuinn non è al sicuro da nessuna parte.»
La dottoressa socchiuse gli occhi. Un istante dopo
disse, «Okay. Allora vedrò di pensare a un ambiente più
riservato dove prestarti le cure necessarie. Nel frattempo,
non muoverti da questo letto. E non mangiare o bere
niente, nel caso debba aprirti.»
Mentre la dottoressa Jane chiudeva la sua borsa alla
Marcus-vattelapesca, Qhuinn contò tutte le persone che
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non si sarebbero azzardate ad avvicinarlo, figurarsi
medicargli le ferite.
«Grazie», disse con un filo di voce.
«Non c'è di che.» Jane gli posò una mano sulla spalla e
strinse forte. «Sistemo tutto io. Tornerai come nuovo.
Puoi scommetterci la testa.»
In quel momento, guardando quegli occhi verde scuro,
Qhuinn credette sinceramente che lei potesse sistemare il
mondo intero e venne sopraffatto da un'ondata di
sollievo, come se qualcuno lo avesse avvolto in una
morbida coperta. Merda, se perché la sua vita era in
ottime mani o se per effetto di quello che la dottoressa gli
aveva pompato nel braccio, non aveva importanza: da
qualunque parte arrivasse, voleva godersi quel senso di
benessere.
«Ho sonno,»
«Proprio quello che volevo,»
Jane si avvicinò a Blay e gli bisbigliò qualcosa,,, e lui
sgranò gli occhi, pur tentando di nascondere la propria
reazione.
Ah, allora era nella merda fino al collo, pensò Qhuinn.
Dopo che la dottoressa se ne fu andata non si prese il
disturbo di chiedere cosa avesse detto, tanto Blay non
avrebbe aperto bocca, lo si capiva dalla faccia. Aveva le
labbra sigillate.
360
Ma c'era un sacco di altra roba da discutere, vista la
situazione di merda in cui si trovavano. «Che cosa hai
detto ai tuoi?» chiese Qhuinn.
«Non devi preoccuparti di niente.»
Malgrado la spossatezza sempre più invincibile,
Qhuinn scosse la testa. «Dimmelo.»
«Non devi...»
«Tu dimmelo e basta... altrimenti mi alzo e mi metto a
fare Pilates, cazzo.»
«Sì, come no. Hai sempre detto che è roba da finocchi.»
«Bene. Jujitsu, allora.
addormentato, ti spiace?»
Parla
prima
che
crolli
Blay tirò fuori una Corona dal frigo. «I miei avevano
intuito che eravamo noi, quando hanno sentito che
entrava qualcuno. Erano appena tornati dalla grande
festa della glymera. Per cui i genitori di Lash scopriranno
adesso tutto il fattaccio.»
Cazzo. «Gli hai detto.,, di me?»
«Sì, e vogliono che resti.» Blay stappò la birra, che
emise una specie di ansito. «Non diremo niente a
nessuno, tutto qua. Gireranno voci su dove sei finito, ma
la glymera non si metterà certo a battere a tappeto la città
per trovarti, e i nostri doggen sono persone fidate.»
«Resto solo per oggi.»
361
«Senti, i miei ti vogliono bene, e non ti lasceranno in
mezzo alla -strada. Sanno com'era Lash, e conoscono
anche i tuoi genitori.» Blay non aggiunse altro, ma il tono
che aveva usato bastava ad arricchire le sue parole di
tutta una serie di aggettivi.
Intolleranti, moralisti, crudeli...
«Non voglio essere un peso per nessuno», disse
Qhuinn, torvo, «Per te. Per nessuno.»
«Ma non sei di peso.» Blay abbassò gli occhi sul
pavimento. «Io ho solo i miei genitori. Da chi credi che
andrei se dovesse succedere qualcosa di brutto? Tu e
John siete tutto quello che ho, a parte mamma e papà. Voi
due siete la mia famiglia,»
«Blay, io finirò in prigione.»
«Noi non abbiamo prigioni, quindi ti servirà un posto
dove stare agli arresti domiciliari.» «E non pensi che la
cosa diventerà di dominio pubblico? Non credi che dovrò
rivelare dove sto?»
Blay tracannò metà birra, tirò fuori il telefonino e si
mise a digitare. «Senti, vuoi piantarla di fare l'uccello del
malaugurio? Abbiamo già abbastanza problemi così
senza bisogno che te ne inventi degli altri. Troveremo il
modo di farti stare qui, okay?»
Si sentì un bip.
«Vedi? John è d'accordo.» Blay gli mostrò il display del
cellulare dove c'era scritto, IDEA GRANDIOSA, poi finì
362
di scolarsi la birra con l'aria soddisfatta di un marito che
ha messo in ordine cantina e box. «Andrà tutto bene.»
Qhuinn guardò l'amico da sotto due palpebre pesanti
come macigni. «Sì.»
Il suo ultimo pensiero prima di addormentarsi fu che,
sì, certo, le cose si sarebbero sistemate... ma non come
aveva in mente Blay.
363
Capitolo 22
Lash, figlio dell'Omega, rinacque con un urlo
gutturale. In uno stato di folle confusione, tornò al
mondo come ci era venuto venticinque anni prima: nudo,
ansimante e insanguinato, solo che stavolta il suo corpo
era quello di un adulto, non di un neonato.
Il primo, fugace, momento di consapevolezza passò in
fretta, poi per lui cominciò lo strazio: aveva le vene piene
di acido e ogni centimetro del suo corpo era corroso
dall'interno. Con le mani sullo stomaco, si piegò su un
fianco vomitando bile nera su un logoro pavimento di
legno. Troppo stravolto dai conati, non si curò di
chiedersi dove fosse, cosa fosse successo o perché stesse
rimettendo roba che sembrava vecchio olio lubrificante.
Nel mezzo di quel turbinoso disorientamento, di quel
vomito inarrestabile e di un panico cieco e
incontrollabile, un salvatore gli tese la mano. Gli
accarezzò la schiena, più e più volte, il palmo caldo prese
un ritmo che rallentò la corsa frenetica del suo cuore,
calmò la sua testa e placò le sue viscere. Appena fu in
grado di farlo, Lash rotolò di nuovo sulla schiena.
Al centro di un campo visivo offuscato, riuscì a
mettere a fuoco una figura nera traslucida. Il volto etereo
era di una bellezza giovane e virile, sui vent'anni, ma la
malvagità dietro gli occhi tenebrosi lo rendeva orribile.
364
L'Omega. Doveva essere l'Omega.
Quello era il Male descritto dalla sua religione, dal suo
folklore e dalla sua educazione.
Lash fece per rimettersi a urlare, ma la mano spettrale
si protese verso di lui toccandogli con delicatezza il
braccio. Lash si calmò.
A casa, pensò. Sono a casa.
La mente vacillò isterica a quel pensiero. Non era a
casa. Era... di certo non aveva mai visto quella stanza
decrepita.
Dove cazzo era?
«Stai tranquillo», mormorò l'Omega. «Ti tornerà tutto
alla memoria.»
E così fu, tutto d'un colpo. Lash vide lo spogliatoio al
centro di addestramento... e John, quel finoccho della
malora, che sclerava quando il suo lurido segretuccio
veniva fuori. Poi si prendevano a cazzotti finché...
Qhuinn... Qhuinn gli tagliava la gola.
Porco diavolo... si sentì cadere sul pavimento della
doccia, le piastrelle una piattaforma d'atterraggio dura e
bagnata. Rivisse il gelo dello shock e ricordò di essersi
portato le mani alla gola, cominciando ad ansimare
mentre una stretta soffocante gli schiacciava il petto... il
sangue... stava annegando nel suo stesso sangue... poi
però lo avevano ricucito... e spedito alla clinica, dove...
365
Merda, era morto, giusto? Il dottore lo aveva ripreso
per i ca-pelli ma era decisamente morto.
«È così che ti ho trovato», mormorò l'Omega. «La tua
morte è stata il faro.»
Ma perché il Male lo voleva?
«Perché sei mio figlio», disse l'Omega con una voce
distorta colma di reverenza.
Figlio? Figlio?
Lash scosse lentamente la testa. «No... no...»
«Guardami negli occhi.»
Stabilito quel contatto visivo, Lash vide altre scene,
visioni che si succedevano come le pagine di un libro
illustrato. La storia che si dipanava lo fece a un tempo
rabbrividire e respirare meglio. Era il figlio del Male.
Nato da una vampira trattenuta contro la sua volontà in
quella stessa fattoria, oltre vent'anni prima. Dopo la sua
nascita era stato lasciato in un luogo di ritrovo per
vampiri, che lo avevano trovato e portato alla clinica di
Havers... dove in seguito era stato adottato dalla sua
famiglia in gran segreto, tanto che anche lui ne era
all'oscuro.
E adesso, raggiunta la maturità, era tornato da colui
che lo aveva generato.
A casa.
366
Mentre metabolizzava le implicazioni di quella
scoperta, fu colto dai morsi della fame e in bocca gli si
allungarono le zanne.
L'Omega sorrise e si voltò. Alle sue spalle, nell'angolo
più lontano di quella stanza schifosa, c'era un lesser
grande come un ragazzino di quattordici anni, gli
occhietti da topo fissi su Lash, il piccolo corpo contratto
come un serpente attorcigliato su se stesso.
«È giunto il momento di rendermi quel servizio», gli
disse l'Omega.
Il Male tese la mano tenebrosa e gli fece segno di
avvicinarsi.
Più che camminare, il lesser si muoveva in blocco,
come se brac-cia e gambe fossero paralizzate e mani
invisibili lo stessero sollevando e trasportando. Il non
morto sbarrò gli occhi slavati, strabuzzandoli in preda al
panico, ma Lash aveva in mente tutt'altro che la paura
dell'uomo che gli veniva offerto.
Appena colse il suo odore dolciastro, si rizzò a sedere,
e scoprì le zanne.
«Tu nutrirai mio figlio», disse l'Omega rivolto al lesser.
Senza attendere il suo consenso, Lash allungò la mano
e agguantò quel bastardello per la collottola
trascinandolo a sé, verso i canini frementi, poi gli affondò
le zanne nella carne e succhiò avidamente il sangue,
dolce come melassa e altrettanto denso.
367
Non aveva mai sentito un sapore simile, ma gli riempì
lo stomaco e gli diede forza, e tanto bastava.
Mentre Lash succhiava, l'Omega scoppiò a ridere,
piano all'inizio, poi sempre più forte, finché la casa tremò
per l'impeto di quella gioia matta e assassina.
Phury picchiettò lo spinello stai bordo del posacenere
e guardò ciò che aveva tracciato con la penna d'oca. Il
disegno era scioccante, e non solo a causa del soggetto.
Era anche uno dei migliori che avesse mai fatto.
La forma femminile sul foglio bianco panna era stesa
sopra un letto di raso, le spalle e il collo sorrette da
morbidi cuscini. Un braccio era sollevato sopra la testa, le
dita intrecciate nei lunghi capelli, l'altro abbandonato
lungo il fianco, la mano posata alla giuntura tra le cosce. I
seni erano turgidi, i piccoli capezzoli ritti, pronti per la
bocca di qualcuno, e le labbra schiuse in modo invitante...
così come le gambe. Entrambe erano aperte, un ginocchio
piegato, il piede inarcato e le dita contratte, quasi stesse
pregustando qualcosa di delizioso.
Guardava fuori dalla pagina, dritto verso di lui.
E non era uno schizzo appena abbozzato. Il ritratto era
curato fin nei minimi particolari, tratteggiato e sfumato
con precisione certosina per rendere la femmina in tutto
il suo fascino. Il risultato era una personificazione
tridimensionale del sesso, un orgasmo in nuce, tutto ciò
che un maschio poteva desiderare in una partner
sensuale, Phury diede un altro tiro allo spinello, tentando
di convincersi che non era Cormia.
368
No, quella non era Cormia... non era una femmina in
particolare, era solo un aggregato di attributi sessuali cui
aveva rinunciato finché aveva tenuto fede al suo voto di
castità. Era l'ideale femminile con cui avrebbe voluto
vivere la sua prima volta. Era la femmina da cui avrebbe
voluto abbeverarsi in tutti quegli anni. Era la sua amante
immaginaria, ora generosa ora esigente, a volte dolce e
arrendevole, altre volte avida e capricciosa.
Non era reale.
E non era Cormia.
Proruppe in un'imprecazione, risistemò l'uccello nei
calzoni del pigiama e schiacciò lo spinello nel posacenere.
Che razza di bugiardo schifoso. Bugiardo. Schifoso.
Altro che se era Cormia,
Lanciò un'occhiata al medaglione del Primale, sopra il
cassettone, ripensò alla conversazione con la Direttrice e
imprecò di nuovo. Fantastico. Ora che Cormia non era
più la sua Prima Sposa aveva deciso che la desiderava. La
sua solita fortuna.
«Cristo.»
Si sporse verso il comodino, si rollò un'altra canna e
l'accese. Con lo spinello tra le labbra cominciò a
disegnare l'edera, partendo dalle belle dita dei piedi.
Mentre aggiungeva una foglia dopo l'altra, coprendo a
poco a poco tutto il disegno, gli parve che fossero le sue
mani a salire lungo quelle gambe vellutate, sopra quel
ventre piatto e poi su, fino ai seni alti e sodi.
369
Era così preso dall'accarezzarla nella sua mente che la
sensazione di soffocamento solitamente associata al gesto
di coprire un disegno col rampicante non lo assalì finché
non giunse al volto.
Allora si fermò. Quella era proprio Cormia e non una
Cormia a metà, come Bella in quel ritratto di qualche sera
prima. I lineamenti di Cormia erano tutti lì, in bella vista,
dal taglio degli occhi al turgore del labbro inferiore alla
chioma lussureggiante.
E lei lo stava guardando. Lo desiderava.
Oh, Dio...
In fretta disegnò l'edera su tutta la faccia e poi restò a
guardare come l'aveva rovinata. I tralci la coprivano
completamente, debordando oltre i confini del suo corpo,
seppellendola senza metterla sottoterra.
In un lampo gli tornò in mente il giardino a casa dei
suoi genitori, così come l'aveva visto quell'ultima volta,
quando era tornato per dar loro sepoltura.
Dio, ricordava ancora quella notte con assoluta
chiarezza. Specie l'odore che avevano i resti del rogo.
La tomba che aveva scavato era in un canto, la fossa
nel terreno una ferita aperta nella fitta edera del giardino.
Vi aveva deposto entrambi i genitori, ma c'era un solo
corpo da seppellire. Aveva dovuto bruciare i resti di sua
madre. Si era già decomposta nel suo letto al punto che
non era riuscito a portarla fuori dal seminterrato. Aveva
dato fuoco a ciò che restava di lei nel punto in cui l'aveva
370
trovata, pronunciando formule sacre finché il fumo lo
aveva soffocato costringendolo a scappare.
Mentre il fuoco divampava all'interno della stanza di
pietra, aveva preso suo padre e l'aveva portato fuori fino
alla tomba. Dopo che le fiamme avevano divorato tutto
ciò che potevano raggiungere nel seminterrato, Phury
aveva raccolto le ceneri rimaste e le aveva messe in una
grande urna di bronzo. Erano un bel mucchio perché
insieme alla madre aveva bruciato il materasso e tutto il
letto.
Aveva collocato l'urna accanto alla testa di suo padre,
poi li aveva coperti di terra.
Dopo di che aveva incendiato l'intera casa,
riducendola in cenere. Era maledetta, tutto quel luogo era
maledetto, neanche la temperatura infernale delle
fiamme era bastata a purificare l'infezione della
malasorte, ne era certo.
Nell'andarsene, il suo ultimo pensiero fu che, nel giro
di non troppo tempo, l'edera avrebbe ricoperto
completamente le fondamenta.
Hai bruciato tutto quanto, è vero, disse il mago nella sua
testa. Ma avevi ragione tu, non è servito a scacciare la
maledizione. Tutte quelle fiamme non sono bastate a purificare
né loro né te, giusto, socio? Hanno solo fatto di te un piromane,
oltre che un salvatore mancato.
Spegnendo lo spinello, Phury appallottolò il disegno,
si agganciò la protesi e andò alla porta.
371
Non puoi scappare, non puoi sottrarti a me o al tuo passato,
mormorò il mago. Siamo come l'edera su quel pezzo di terra,
sempre con te, ti avvolgiamo completamente, copriamo la
maledizione che si è abbattuta su di te.
Gettando via il disegno, Phury uscì dalla stanza, tutt'a
un tratto spaventato dalla solitudine.
Appena mise piede in corridoio, quasi travolse Fritz. Il
maggiordomo balzò indietro in tempo, proteggendo un
vaso di... piselli? Piselli a bagno nell'acqua?
Le costruzioni di Cormia, rammentò Phury mentre il
contenuto del vaso tra le braccia del doggen minacciava di
rovesciarsi.
Fritz sorrise, malgrado la collisione evitata per un
soffio; il suo volto gommoso, solcato dalle rughe, si aprì
in un sorriso felice. «Se state cercando l'Eletta Cormia, è
in cucina, sta consumando il suo Ultimo Pasto con
Zsadist.»
Con Z? Cosa diavolo ci faceva con Z? «Sono insieme?»
«Credo che il padrone volesse parlarle in privato di
Bella. Ecco perché al momento mi sto dando da fare in
un'altra parte della casa.» Fritz si accigliò. «State bene,
padrone? Vi serve qualcosa?»
Che ne diresti di un bel trapianto di cervello? «No, grazie.»
Il doggen si congedò con un inchino ed entrò nella
stanza di Cormia, proprio mentre dall'atrio saliva l'eco di
372
alcune voci. Phury andò alla balconata e si affacciò dalla
ringhiera decorata con un motivo a foglie d'oro.
Ai piedi delle scale c'erano Wrath e Jane; l'espressione
spettrale di quest'ultima era tesa come la sua voce.
«... ecografo. Senti, so che non è l'ideale perché non ti
va di avere gente in giro per casa, ma non abbiamo scelta.
Sono andata alla clinica e non solo si rifiutano di
ricoverarlo, ma volevano a tutti i costi sapere dov'è.»
Wrath scosse
portarlo...»
la
testa.
«Cristo,
non
possiamo
«Sì che possiamo. Fritz può andare a prenderlo con la
Mercedes. E prima che tu dica di no, è da dicembre che
ogni settimana quei ragazzi vengono qui al quartier
generale per il corso di addestramento. Lui non capirà
neanche dove si trova. E per quanto riguarda quegli
stronzi della glymera, non c'è nessun bisogno di
informarli che lui è qui. Potrebbe morire, Wrath. E io non
voglio che John ce l'abbia sulla coscienza, tu si?»
Il re smadonnò in lungo e in largo guardandosi
intorno, come se i suoi occhi avessero bisogno di fare
qualcosa mentre la testa rimuginava sulla situazione. «E
va bene. Mettiti d'accordo con Fritz per il trasferimento.
Puoi sottoporlo alle analisi e operarlo, se necessario, nella
saletta per la fisioterapia, poi però dovrà essere portato
via appena possibile. Non me ne importa un fico secco
dell'opinione della glymera, quello che mi preoccupa è
creare un precedente. Non possiamo diventare un
albergo.»
373
«Ho capito. E, senti, voglio dare una mano a Havers. È
un compito troppo gravoso per lui avviare la nuova
clinica e seguire i pazienti. Però così dovrò assentarmi
per qualche giorno.»
«Vishous è d'accordo? Non ci saranno rischi per la tua
sicurezza?»
«Non tocca a lui decidere, e a te lo sto dicendo solo per
gentilezza.» Jane rise, asciutta. «Non guardarmi così.
Sono già morta. I lesser non possono ammazzarmi di
nuovo.»
«Non è affatto divertente.»
«L'umorismo macabro fa parte dell'avere un dottore in
casa. Rassegnati.»
Wrath scoppiò in una risata fragorosa. «Sei proprio un
osso duro. Non mi stupisce che V si sia innamorato di
te.» Poi il re tornò serio. «Ma, tanto per essere chiari, osso
duro o no, qui comando io. Questo posto e tutti quelli che
ci stanno sono sotto la mia responsabilità.
Jane sorrise. «Dio, mi ricordi Manny.»
«Chi?»
«Il mio vecchio capo. Primario di chirurgia al St.
Francis. Voi due andreste magnificamente d'accordo. O...
forse no.» Jane posò la mano trasparente sul robusto
avambraccio tatuato del re. Appena stabilito il contatto,
divenne solida da capo a piedi. «Wrath, non sono una
stupida e non intendo agire in modo precipitoso.
374
Vogliamo tutti e due la stessa cosa, e cioè che tutti siano
al sicuro... compresi i vampiri che non abitano qui. Non
lavorerò mai per te o per nessun altro, perché non è nella
mia natura, ma di sicuro intendo lavorare con te, okay?»
Con un sorriso pieno di rispetto, il re annuì reciso; era
la cosa più vicina a un inchino che potesse fare. «Me ne
farò una ragione.»
Quando Jane si allontanò in direzione del tunnel
sotterraneo, Wrath alzò gli occhi su Phury.
E non disse niente.
«Stavate parlando di Lash?» chiese Phury, sperando
che il ragazzo fosse stato ritrovato o roba del genere.
«No.»
Phury restò in attesa di un nome, ma quando il re si
voltò e cominciò a salire le scale con le sue lunghe falcate,
divorando la distanza che li separava due gradini alla
volta, fu subito chiaro che non gli avrebbe detto niente.
Affari della confraternita, pensò Phury.
Che un tempo erano anche i tuoi, gli fece cortesemente
notare il mago. Finché non hai perso la testa.
«Stavo venendo a cercarti», mentì Phury,
avvicinandosi al suo re; evidentemente un rapporto
ufficioso su quanto era accaduto alla clinica ormai era
superfluo. «Passeranno di qui un paio di Elette. Vengono
a vedere me.»
375
Le sopracciglia del re si tuffarono dietro gli occhiali
avvolgenti. «Allora hai completato la cerimonia con
Cormia, huh. Non dovresti vedere quelle femmine
dall'Altra Parte?»
«Molto presto lo farò.» Merda, era proprio vero.
Wrath incrociò le braccia sull'ampio petto. «Ho sentito
che stanotte ti sei fatto onore alla clinica. Grazie.»
Phury ingoiò il boccone amaro.
Quando eri un fratello il re non ti ringraziava mai per
quello che facevi perché facevi semplicemente il tuo
dovere, il tuo lavoro e ciò per cui eri nato. Poteva capitare
di ricevere un bravo! per averci dato dentro, o una
qualche forma imbarazzata di solidarietà al testosterone
se ti beccavano e rimanevi ferito... ma nessuno ti
ringraziava mai.
Phury si schiarì la gola. Non riuscendo a tirar fuori un
prego, non c'è di che si limitò a mormorare, «Tutto merito
di Z... e anche di Rehv, che si trovava lì per caso.»
«Sì, provvederò a ringraziare anche Rehvenge.» Wrath
si voltò verso lo studio. «Quel symphath si sta rivelando
utile.»
Phury rimase a guardare la porta a due battenti che si
chiudeva lentamente, precludendo al suo sguardo la
stanza azzurro pallido.
376
Voltandosi a sua volta per andare, gli cadde l'occhio
sul maestoso soffitto dell'atrio, con i suoi guerrieri così
fieri e realistici.
Adesso lui era un amante, non più un guerriero,
giusto?
Sì, disse il mago. E scommetto che sarai altrettanto
scadente sul piano sessuale. Adesso corri a cercare Cormia e
dille che ti piace così tanto che hai deciso di relegarla in
panchina. Guardala negli occhi e dille che ti scoperai le sue
sorelle. Tutte quante. Nessuna esclusa.
Tutte tranne lei.
E dì a te stesso che stai facendo la cosa giusta spezzandole il
cuore. Perché è per questo che stai scappando. Hai visto come ti
guarda e sai che ti ama e sei un vigliacco.
Diglielo. Dille tutto.
Mentre il mago si allontanava col vento in poppa,
Phury scese al piano terra, entrò nella sala del biliardo e
prese una bottiglia di vermouth Martini & Rossi e una di
gin Beefeater, poi afferrò un vasetto di olive, un bicchiere
da cocktail e...
La scatola di stuzzicadenti lo fece pensare a Cormia.
Tornando di sopra fu nuovamente assalito dalla paura
di stare da solo, ma aveva altrettanta paura di stare con
chiunque altro.
377
Sapeva solo che c'era un modo infallibile per
sbarazzarsi del mago, e intendeva servirsene.
Fino a perdere i sensi.
378
Capitolo 23
In genere Rehv non amava stare nel monolocale
dietro il suo ufficio allo ZeroSum. Dopo una nottata come
quella, tuttavia, non se la sentiva di guidare fino alla casa
sicura fuori città dove abitava sua madre, e l'attico al
Commodore, con la sua vetrata panoramica, era
tassativamente escluso.
Xhex era passata a prenderlo alla clinica e sulla via del
ritorno al club lo aveva torchiato per benino per farsi dire
come mai non l'avesse chiamata dopo l'attentato. Ma
andiamo, si era giustificato lui, un altro symphath
mezzosangue nella mischia?
Sì, vabbè. E poi le cliniche innervosivano anche lei.
Dopo averla ragguagliata sull'attacco, aveva mentito
dicendole che Havers gli aveva dato un'occhiata al
braccio e dei farmaci. Xhex aveva capito che non gliela
stava raccontando giusta, ma grazie al cielo erano troppo
vicini all'alba per lanciarsi in una litigata senza fine.
Certo, in teoria Xhex poteva fermarsi lì al club per
continuare a bisticciare, ma in pratica doveva sempre
tornare a casa sua. Sempre.
Al punto che Rehvenge si chiedeva cosa l'aspettasse a
casa, di preciso. O chi.
379
Entrò in bagno senza togliersi lo zibellino, anche se il
riscaldamento era al massimo. Mentre aspettava che
l'acqua della doccia si scaldasse, ripensò a quanto era
successo alla clinica e giunse alla conclusione che era
stato tragicamente stimolante. Combattere, per lui, era
come un vestito di Tom Ford: qualcosa che gli calzava a
pennello e che poteva ostentare con orgoglio. E la buona
notizia era che il suo lato symphath non aveva perso il
controllo, malgrado l'attrattiva di tutto quel sangue di
lesser versato.
Visto? Stava bene. Sul serio.
Quando si ritrovò avvolto in una nube di vapore si
costrinse a levarsi la pelliccia, il completo di Versace e la
camicia di Pink. I vestiti erano conciati da sbatter via e lo
zibellino non se la passava molto meglio, Li aggiunse al
mucchio da mandare a lavare a e a riparare.
Per infilarsi nella doccia doveva passare davanti al
lungo specchio sopra la fila di lavandini di cristallo.
Voltandosi verso il proprio riflesso, fece scorrere le mani
sulle stelle rosse a cinque punte che aveva sul petto. Poi
scese più giù e strinse l'uccello.
Sarebbe stato carino fare un po' di sesso, dopo tutto
quel macello, o quanto meno purificarsi fisicamente con
una bella sega. O anche tre.
Mentre si soppesava l'arnese non potè fare a meno di
notare che, massacrato com'era, il braccio sinistro
sembrava passato dentro un tritacarne.
Gli effetti collaterali sono una bella rottura di scatole.
380
Si infilò sotto l'acqua e capì che era bollente solo per
via dell'aria lattiginosa e umida che lo circondava e
perché la sua temperatura corporea tirò un enorme
sospiro di sollievo. La sua pelle non gli comunicava
niente: quanto era forte il getto sulle spalle, quanto era
liscia e scivolosa la saponetta che si passava sul corpo,
quanto era grande e caldo il suo palmo mentre lavava via
la schiuma facendola scivolare verso lo scarico
sottostante.
Continuò a insaponarsi più a lungo del necessario.
Non sopportava di andare a letto con la seppur minima
traccia di sporco, ma soprattutto aveva bisogno di una
scusa per restare sotto la doccia. Era una delle rare
occasioni in cui non aveva freddo, e uscire era sempre un
trauma terribile.
Dieci minuti dopo era tra le lenzuola del letto enorme,
nudo, e come un bambino si era tirato fin sotto al mento
la pesante coperta di visone. Quando il freddo
accumulato mentre si asciugava a poco a poco svanì,
chiuse gli occhi e spense le luci con la forza del pensiero.
Ormai il club, dall'altra parte dei muri foderati
d'acciaio, doveva essere vuoto; le sue ragazze erano a
casa, visto che per la maggior parte avevano figli; i baristi
e gli allibratori mangiavano un boccone e si rilassavano
da qualche parte; i fanatici del computer impegnati dietro
le quinte guardavano le repliche di Star Trek: TNG e i
venti addetti alle pulizie, finito di sistemare pavimenti,
tavoli,bagni e séparé, si stavano togliendo le uniformi
prima di recarsi sul posto di lavoro successivo.
381
Gli piaceva l'idea di essere lì da solo. Non capitava
spesso.
Gli squillò il cellulare e proruppe in un'imprecazione;
pur essendo da solo c'era sempre qualcuno che scocciava.
Tirò fuori il braccio per rispondere. «Xhex, se vuoi
continuare a litigare possiamo andare avanti fino a
domani...»
«Non sono Xhex, symphath.» La voce di Zsadist era
dura come un pugno. «E chiamo per tua sorella.»
Rehv si rizzò subito a sedere, incurante del fatto che le
coperte si erano abbassate, scoprendolo. «Cosa c'è.»
Finito di parlare con Zsadist, si sdraiò di nuovo; ecco
come ci si doveva sentire quando si pensava di avere un
attacco di cuore e poi si scopriva che era solo
indigestione: sollevati, ma con lo stomaco ancora in
subbuglio.
Bella stava bene. Per adesso. Il Fratello aveva chiamato
per tener fede al loro patto. Rehv aveva promesso di non
immischiarsi, ma voleva essere costantemente aggiornato
sulle condizioni di salute di sua sorella.
Cribbio, quella storia della gravidanza era tremenda.
Si tirò di nuovo le coperte fin sotto al mento. Doveva
chiamare sua madre e metterla al corrente, ma l'avrebbe
fatto più tardi. Di sicuro si stava mettendo a letto e non
c'era motivo di tenerla alzata tutto il giorno a
preoccuparsi.
382
Dio, Bella... la sua adorata Bella; non era più la sua
sorellina, adesso era la shellan di un fratello.
Loro due avevano sempre avuto un rapporto
profondo e complicato. In parte a causa delle rispettive
personalità, ma anche perché lei non aveva idea di cosa
fosse suo fratello Rehvenge. Ignorava completamente
anche il passato della loro madre e cosa avesse ucciso suo
padre.
O, più precisamente, "chi".
Rehv lo aveva assassinato per proteggere sua sorella, e
non avrebbe esitato a rifarlo. Per quel che ricordava, Bella
era l'unica cosa innocente della sua vita, l'unica cosa
pura. Avrebbe voluto che restasse sempre Così. Ma la
vita aveva preso un'altra piega.
Per evitare di pensare al rapimento di Bella da parte
dei lesser, cosa di cui continuava a ritenersi responsabile,
richiamò alla mente uno dei ricordi più vividi che aveva
di lei. Risaliva a un annetto dopo che lui aveva preso in
pugno la situazione, a casa, facendo fuori il padre di
Bella. Lei aveva sette anni.
Rehv era entrato in cucina e l'aveva trovata a tavola a
mangiare una scodella di Frosties, coi piedi che
dondolavano dalla sedia su cui si era arrampicata.
Indossava un paio di pantofole rosa - quelle che non le
piacevano, ma che doveva mettere quando le sue
preferite, quelle blu scuro, erano da lavare - e una
camicia da notte di flanella con file di rose gialle alternate
a righe azzurre e rosa.
383
Era una meraviglia, lì seduta con i lunghi capelli
castani sciolti sulle spalle, le ciabattine rosa e la fronte
tutta corrugata mentre rincorreva col cucchiaio gli ultimi
fiocchi di mais glassati.
«Perché mi guardi, galletto?» aveva chiesto con la sua
vocina, dondolando in piedi avanti e indietro sotto la
sedia.
Lui aveva sorriso. Già allora sfoggiava una cresta di
capelli alla moicana e Bella era l'unica che osasse
chiamarlo con quel soprannome impertinente. E,
naturalmente, lui l'amava ancora di più per questo.
«Così, non c'è un motivo.»
Ma era una bugia. Guardandola pescare col cucchiaio
nel latte zuccherato, Rehvenge aveva pensato che quel
momento di pace e di tranquillità valeva tutto il sangue
con cui si era sporcato le mani. Un mare di sangue.
Con un sospiro, lei aveva guardato la scatola dei
cereali poggiata sul ripiano dall'altra parte della cucina. I
piedi avevano smesso di dondolare, il sommesso piff,
piff, piff delle pantofole sul piolo della sedia era cessato.
«Cosa stai guardando, Lady Bell?» Lei non aveva
risposto subito; allora Rehv aveva guardato Tony la
Tigre, la mascotte dei Frosties, assalito da una serie di
flashback del padre di Bella. Era pronto a scommettere
che anche lei stava rivedendo le stesse scene.
Con una vocina sommessa, Bella aveva detto, «Posso
prenderne ancora un po' se voglio. Magari.»
384
Il tono era esitante, come di chi sta infilando il piede in
uno stagno in cui potrebbero esserci delle sanguisughe.
«Sì, Bella. Puoi prenderne quanti ne vuoi.»
Lei non era balzata giù dalla sedia. Era rimasta
immobile, come fanno i bambini e gli animali, respirando
e basta, i sensi che saggiavano l'ambiente circostante,
all'erta in caso di pericolo.
Rehv non si era mosso. Voleva portarle la scatola, ma
sapeva che doveva essere lei a compiere quel passo.
Doveva essere lei ad attraversare il lucido pavimento
rosso ciliegia con le sue ciabattine e tornare al suo posto
con Tony la Tigre. Dovevano essere le sue manine a
stringere la scatola mentre un'altra cascata di fiocchi si
rovesciava nel latte tiepido. Doveva essere lei a prendere
in mano il cucchiaio per rimettersi a mangiare.
Doveva imparare che in casa non c'era nessuno pronto
a sgridarla per aver fatto il bis di cornflakes perché aveva
ancora fame.
Suo padre era specializzato in quel genere di cose.
Come tanti vampiri della sua generazione, quel pezzo di
merda era convinto che le femmine della glymera
dovessero "mantenersi snelle". Come aveva ripetuto fino
alla nausea, il grasso sul fisico di una aristocratica era
l'equivalente della polvere che si accumula su una statua
di inestimabile valore.
Era stato ancora più duro con la loro madre.
385
In silenzio, Bella aveva abbassato gli occhi sul latte e
aveva cominciato a girare il cucchiaio dentro la scodella,
creando una scia di onde.
Non l'avrebbe fatto, aveva pensato Rehv, pronto a
uccidere da capo quel bastardo che l'aveva messa al
mondo. Era ancora spaventata.
Ma poi lei aveva posato il cucchiaio sul piatto sotto la
scodella, era scivolata giù dalla sedia e aveva attraversato
la cucina nella sua piccola camicia da notte di flanella.
Senza guardare Rehv. Senza neanche guardare il vivace
muso da cartone animato di Tony, quando aveva
afferrato la scatola.
Era terrorizzata. Era coraggiosa. Era piccola e
determinata.
A quel punto Rehv aveva visto tutto rosso, ma non
perché stesse emergendo il suo lato malvagio. Quando
Bella si era versata per la seconda volta i Frosties nella
scodella, lui aveva dovuto andare via. Aveva detto
qualcosa di allegro, niente di particolare, ed era corso a
chiudersi dentro al bagno in corridoio.
Aveva pianto da solo le sue lacrime di sangue.
Quel momento in cucina, con Tony e le pantofole di
ripiego di Bella, gli aveva fatto capire che aveva fatto
bene: l'approvazione per l'assassinio commesso era
giunta quando quella scatola di cereali aveva attraversato
la cucina in mano alla sua cara, diletta sorellina adorata.
386
Tornando al presente, pensò a Bella com'era adesso.
Una femmina adulta con un compagno potente e un
piccolo in grembo.
Il demone che doveva affrontare ora non era una cosa
che il suo fratellone cattivo potesse aiutarla a scacciare.
Non c'erano tombe aperte dentro cui gettare i resti
malconci e insanguinati del fato. Lui non poteva salvarla
da quel particolare tipo di mostro.
Chi vivrà vedrà. Si poteva solo aspettare.
Fino a quando l'avevano rapita, non lo aveva mai
neanche sfiorato il pensiero che Bella potesse morire
prima di lui. Durante quelle sei settimane spaventose nel
corso delle quali i lesser l'avevano tenuta prigioniera
sottoterra, tuttavia, non era riuscito a pensare ad altro che
alla sequenza delle morti nella sua famiglia. Aveva
sempre dato per scontato che la loro madre sarebbe stata
la prima ad andarsene, e in effetti da poco aveva iniziato
il rapido declino che conduceva i vampiri alla fine della
loro esistenza. Il secondo sarebbe stato lui, ne era ben
consapevole, perché presto o tardi sarebbe successa una
di queste due cose: o qualcuno avrebbe scoperto la sua
natura di symphath e lui sarebbe stato braccato e spedito
nella colonia, oppure la sua ricattatrice avrebbe
orchestrato la sua dipartita alla maniera dei symphath.
Ovvero: improvvisa e perversamente creativa...
Neanche a farlo apposta, dal cellulare si levò un
motivetto musicale. La suoneria trillò ancora, e poi
ancora, Rehvenge sapeva chi lo stava chiamando senza
bisogno di rispondere. Tali erano i legami tra symphath.
387
Parli del diavolo, pensò rispondendo alla chiamata della
sua ricattatrice.
Quando
chiuse
la
comunicazione,
aveva
appuntamento con la Principessa per la sera dopo,
Che fortuna,
Qhuinn fece questo lungo sogno assurdo in cui era a
Disney World, su un ottovolante con tanti su e giù.
Strano, lui le montagne russe le aveva viste solo in TV
perché mica puoi salire sulla Big Thunder Mountain se
non puoi stare al sole.
Terminata quella corsa misteriosa, apri gli occhi e
scoprì di essere nella saletta attrezzata per il pronto
soccorso e per la fisioterapia, al centro di addestramento
della confraternita.
Oh, sia lodato il cielo.
Evidentemente si era beccato una botta in testa mentre
si allenava con qualcuno, durante la lezione, e tutta
quell'altra storia -la rissa con Lash, la sua famiglia che lo
cacciava di casa e suo fratello che lo massacrava di botte
insieme agli altri della Guardia d'Onore - era solo un
incubo. Che sollievo...
La faccia della dottoressa Jane gli comparve davanti.
«Ehilà... sei tornato tra noi.»
Qhuinn batté le palpebre tossendo. «Come... da
dove?»
388
«Hai fatto un piccolo sonnellino. Così ho potuto
asportarti la milza.»
Merda. Allora non era un'allucinazione. Era la cruda
realtà. «Sto... bene?»
La dottoressa gli mise una mano sulla spalla, il palmo
era caldo e pesante anche se il resto della sua persona era
traslucido. «Sei stato bravissimo.»
«Lo stomaco mi fa ancora male», disse lui alzando la
testa e guardandosi il petto nudo, fino alla fasciatura
intorno alla vita.
«È normale, sarebbe strano il contrario. Ma sarai felice
di sapere che tra un'ora potrai tornare a casa di Blay.
L'intervento è riuscito alla perfezione, come da manuale,
e stai già guarendo bene. Io non ho problemi con la luce
del sole, quindi se hai bisogno di me posso raggiungerti
in un attimo a casa del tuo amico. Blay sa già cosa tenere
sotto controllo, e gli ho dato delle medicine per te.»
Qhuinn chiuse gli occhi, sopraffatto da una specie di
strana tristezza.
Mentre cercava di calmarsi sentì la dottoressa Jane che
diceva, «Blay, forse è meglio se vieni qui...»
Qhuinn scosse la testa, poi la voltò dall'altra parte.
«Ho bisogno di un minuto da solo.»
«Sei sicuro?» «Sì.»
389
Quando la porta si chiuse piano, Qhuinn si coprì il
volto con la mano tremante. Da solo... sì, era proprio solo.
E non soltanto perché non c'era nessun altro nella stanza
insieme a lui.
Com'era stato bello pensare che le ultime dodici ore
erano state solo un sogno.
Dio, cosa cazzo avrebbe fatto per il resto della sua
vita?
In un lampo ricordò la visione che aveva avuto in
prossimità del Fado. Forse avrebbe dovuto varcare quella
maledetta porta, malgrado ciò che aveva visto. Sarebbe
stato tutto più facile, poco ma sicuro.
Si concesse un attimo - o forse più una mezz'oretta per riprendersi. Poi, più forte che potè, gridò, «Sono
pronto. Possiamo andare.»
390
Capitolo 24
Una casa può essere vuota anche quando è piena di
gente. E non è forse un bene?
Un'oretta circa prima dell'alba, Phury svoltò
barcollando uno degli innumerevoli angoli della grande
casa della confraternita e dovette stendere il braccio per
non perdere l'equilibrio.
Non era proprio solo, però. Con lui c'era Boo, il gatto
nero di casa, che gli zampettava dietro sorvegliando la
situazione. Diamine, si poteva quasi dire che l'animale
avesse assunto il comando perché a un certo punto Phury
aveva preso a seguirlo invece di fare strada.
Fare strada sarebbe stata una pessima idea. Il tasso
alcolico del suo sangue era di gran lunga sopra il limite
consentito per qualunque cosa, salvo lavarsi i denti. E
questo prima di aggiungervi gli effetti stordenti di una
montagna di fumo rosso.
Quante canne si era fatto? Quanti cicchetti?
Be', adesso erano le... Non aveva idea di che ora fosse.
Però doveva essere quasi l'alba.
Tanto,
che
importanza
aveva?
Cercare
di
contabilizzare la bisboccia sarebbe stata comunque una
perdita di tempo. Era talmente rintronato che dubitava di
riuscire a tenere il conto, e poi non si ricordava neanche
391
qual era stato il suo tasso di consumo orario. Era uscito
dalla sua stanza quando il Beefeater era finito, ecco
l'unica sua certezza. Da principio aveva in mente di
recuperare un'altra bottiglia di gin, poi però aveva
incrociato Boo e cominciato quella passeggiatina.
Tutto considerato, avrebbe dovuto finire svenuto sul
letto. Era abbastanza sbronzo da crollare, e in fondo
quello era il suo obiettivo. 'Ma c'era un problema.
Malgrado ci avesse dato dentro con quella specie di
automedicazione, la testa gli scoppiava per le quattro
rogne con la C: Cormia e la sua situazione. Il casino con
le Elette. L'incursione alla clinica. E la creatura di Bella.
Per lo meno il mago era relativamente silenzioso.
Phury aprì una porta a caso cercando di capire dove lo
avesse portato il gatto. Ah, giusto. Ancora qualche metro e
sarebbe entrato nel territorio dei doggen, la vasta ala in cui
alloggiava la servitù. Bel guaio. Se lo pescavano a
gironzolare da quelle parti, a Fritz sarebbe venuto un
colpo pensando che in qualche modo i domestici non
avevano fatto il loro dovere.
Svoltò a destra col cervello che cominciava a smaniare
per il bisogno di un altro spinello. Stava per fare
dietrofront quando sentì dei rumori provenienti dalla
scala di servizio al secondo piano. C'era qualcuno su in
sala proiezione... doveva proprio battersela nella
direzione opposta, perché incappare in uno dei suoi
fratelli sarebbe stato un disastro.
Si era già voltato quando sentì profumo di gelsomino.
392
Si bloccò di colpo. Cormia...
Lassù in cima c'era Cormia.
Abbandonandosi all'indietro contro il muro, si
stropicciò la faccia e ripensò al disegno erotico che aveva
fatto. E all'erezione che gli era venuta mentre ci lavorava.
Boo miagolò, puntando dritto verso la porta della sala
proiezione. Il gatto lo guardò da sopra la spalla con due
occhi verdi che sembravano dire, Dai, porta le chiappe
quassù, amico.
«Non posso.» O meglio non dovrei.
Boo non se la bevve. Si raggomitolò su se stesso
agitando la coda su e giù, quasi aspettando che Phury si
decidesse a muoversi.
Phury sostenne lo sguardo dell'animale in una sorta di
braccio di ferro virtuale.
Fu lui, e non il gatto, a cedere per primo battendo le
palpebre e distogliendo lo sguardo.
Gettò la spugna passandosi una mano tra i capelli, si
raddrizzò la camicia di seta nera e si tirò su i calzoni
color panna. Poteva anche essere sbronzo e strafatto, ma
almeno aveva l'aspetto di un gentiluomo.
Palesemente soddisfatto da tanta risolutezza, Boo
trotterellò via dalla porta strusciandosi contro la sua
gamba, quasi a volerlo incoraggiare con un bel bravo!
forza! dai!
393
Quando il gatto si scostò, Phury aprì la porta posando
il mocassino Gucci sul primo gradino. Poi sul secondo,
sul terzo e così via, reggendosi al corrimano di ottone per
non perdere l'equilibrio e cercando di giustificare ciò che
stava facendo via via che saliva. Non ci riuscì. Se eri a
malapena in condizione di usare il dentifricio non dovevi
assolutamente interagire con l'Eletta che non era più
ufficialmente tua, anche se la desideravi da impazzire.
Specie data la notizia che doveva darle.
Giunto in cima alle scale svoltò l'angolo e guardò in
giù verso le file di poltroncine che digradavano
dolcemente. Cormia era seduta in prima fila, la candida
veste raccolta ai suoi piedi. Sullo schermo le immagini
scorrevano rapide. Stava riavvolgendo una scena.
Phury inspirò a fondo. Dio, che buon odore aveva...
per qualche motivo il suo profumo di gelsomino quella
sera era particolarmente intenso.
La pellicola finì di riavvolgersi e Phury alzò gli occhi
sul grande schermo. Cristo... santo.
Era... ima scena d'amore. Patrick Swayze e quella
Jennifer col nasone ci stavano dando dentro sopra un
letto. Dirty Dancing.
Cormia si protese in avanti sulla poltroncina e Phury
la vide in faccia. Seguiva rapita ciò che aveva davanti, le
labbra schiuse, una mano alla base della gola. I lunghi
capelli biondi le scivolarono giù dalla spalla sfiorandole il
ginocchio.
394
Il corpo di Phury reagì all'istante, l'erezione tese i
calzoni di Prada all'altezza dell'inguine, rovinando le
pince di sartoria. Malgrado il torpore indotto dalla droga,
il suo sesso fremeva impaziente.
Ma non per quello che c'era sullo schermo, il
detonatore era Cormia.
In un lampo Phury ricordò quando lei gli si era
avvinghiata addosso e il figlio di puttana che era in lui
rimarcò che, in quanto Primale delle Elette, era lui a
stabilire le regole. Anche se con la Direttrice aveva
concordato di scegliere un'altra Prima Sposa, poteva
ancora andare con Cormia, se voleva, e se lei non lo
respingeva... solo non avrebbe avuto lo stesso peso dal
punto di vista del cerimoniale.
Sì... anche se per completare l'iniziazione da Primale
avrebbe preso un'altra Eletta, poteva sempre scendere
quei gradini, inginocchiarsi di fronte a Cormia e alzarle la
candida tunica sopra i fianchi. Poteva far scivolare le
mani sulle sue cosce, spalancargliele e infilarci dentro la
testa. E dopo averla eccitata a dovere con la bocca
poteva...
Abbandonò la testa all'indietro. Okay, questo non lo
aiutava per niente a calmarsi. Senza contare che non
aveva mai avuto rapporti orali con una femmina, quindi
non sapeva neanche bene come comportarsi.
Per quanto, se sapeva mangiare un cono gelato, non
doveva essere poi così difficile trasferire a qualcos'altro la
stessa meccanica; in fondo si trattava solo di leccare e
succhiare.
395
E anche mordicchiare delicatamente.
Cazzo.
Andarsene era l'unica cosa sensata da fare, per cui si
voltò. Se restava lì non sarebbe riuscito a trattenersi dal
metterle le mani addosso.
«Vostra grazia?»
La voce di Cormia gli paralizzò le gambe e il respiro. E
mise sull'attenti il suo uccello.
Per decenza rammentò al suo arnese che qualunque
cosa dicesse Cormia non equivaleva a un invito a mettere
in pratica la sua fantasia vietata ai minori della serie "giù
in ginocchio e infilale la testa tra le cosce".
Cazzo.
La sala proiezioni sembrava piccola come una scatola
da scarpe quando Cormia disse, «Vostra grazia, avevate...
bisogno di qualcosa?»
Non voltarti.
Phury la guardò da sopra la spalla, i suoi occhi
infuocati inondarono di luce gialla gli schienali delle
poltroncine puntandosi su Cormia come due riflettori; i
capelli biondi catturarono e trattennero i raggi generati
dalla sua urgenza di venire dentro di lei.
«Vostra grazia...» ripeté Cormia con un filo di voce.
396
«Cosa stai guardando?» disse lui a voce bassa, anche
se era più che ovvio cosa c'era sullo schermo.
«Ehm... è stato John a scegliere il film», rispose lei
armeggiando col telecomando, premendo un tasto dopo
l'altro finché la pellicola non si fermò.
«Non il film, Cormia, la scena.»
«Ehm...»
«La scena che hai scelto... l'hai riguardata molte volte,
giusto?»
«Sì... è vero», ammise lei in un sussurro sensuale.
Dio com'era bella quando si girò completamente sulla
poltroncina per averlo di fronte... tutta occhi e bocca,
quella massa di capelli biondi, il profumo di gelsomino
che colmava la distanza tra loro.
Era eccitata; ecco perché la sua fragranza naturale era
così forte.
«Perché quella scena?» la incalzò Phury. «Perché hai
scelto proprio quella?»
In attesa di una risposta, il suo corpo si tese, l'erezione
palpitava al ritmo del suo cuore. Ciò che scorreva nel suo
sangue non aveva niente a che fare con rituali, obblighi o
responsabilità. Era sesso puro e semplice, sesso sfrenato,
del tipo che li avrebbe lasciati entrambi esausti, sudati,
discinti e forse anche un po' ammaccati. E, cosa che non
gli faceva certo onore, non gli importava se Cormia era
397
eccitata per quello che aveva appena visto. Voleva che lei
lo usasse... che lo usasse fino a prosciugarlo, fino a
stremare ogni centimetro del suo corpo, compreso quel
maledetto uccello sempre pronto a entrare in azione.
«Perché hai scelto quella scena, Cormia?»
Lei si portò di nuovo la bella mano alla base della gola.
«Perché... mi fa pensare a voi.»
Phury si lasciò sfuggire una sorta di ringhio. Okay,
non era la risposta che si aspettava. Il dovere era una cosa
ma, cribbio, Cormia non aveva l'aria di una femmina
preoccupata di rispettare la tradizione. Aveva voglia di
sesso. Forse addirittura ne sentiva il bisogno. Proprio
come lui.
E voleva farlo con lui.
Al rallentatore, Phury si voltò del tutto verso di lei, i
movimenti a un tratto perfettamente coordinati,
l'intontimento dovuto alle canne e ai superalcolici
spazzato via in un colpo solo.
L'avrebbe posseduta. Lì. Subito.
Cominciò a scendere la scalinata, pronto a reclamare
ciò che gli apparteneva.
Cormia si alzò dalla poltroncina, sotto la luce
accecante degli occhi del Primale. Lui si avvicinava,
un'ombra gigantesca che avanzava a lunghe falcate
divorando i gradini a due a due. Si fermò a un passo da
398
lei, inebriandola con quel suo delizioso odore di fumo e
di spezie.
«Lo guardi perché ti fa pensare a me», disse lui con
voce aspra e profonda. «Sì...»
«E a cosa pensi?» le chiese sfiorandole il viso.
Facendosi coraggio, lei tirò fuori delle parole che non
avevano senso. «Penso che... sento certe cose per voi.»
Lui proruppe in una risata erotica, oscuramente
elettrizzante. «Senti certe cose... E dove mi senti,
esattamente, mi chiedo?» Così dicendo spostò la punta
delle dita dal viso di Cormia al suo collo e poi alla
clavicola. «Qui?»
Lei deglutì, ma prima che potesse rispondere, lui fece
scorrere la mano sulla sua spalla e lungo il braccio. «Qui,
forse?» Le strinse con forza il polso, proprio sopra le
vene, poi fece scivolare la mano intorno alla vita,
posandola sulle reni, e premendo. «Dimmi, per caso è qui
che mi senti?»
All'improvviso l'afferrò per i fianchi con entrambe le
mani, si protese verso di lei e sussurrò, «O magari più in
basso?»
Qualcosa si gonfiò nel cuore di Cormia, qualcosa di
caldo come la luce negli occhi di lui.
«Sì», disse, respirando appena. «Ma anche qui.
Soprattutto... qui», così dicendo si mise la mano sul petto,
proprio sopra il cuore.
399
Phury rimase impietrito; lei avvertì quel cambiamento,
la torrida corrente nel sangue di lui si raffreddò, le
fiamme si spensero.
Ah, ecco, pensò Cormia. Mettendosi a nudo aveva
svelato anche la verità che lo riguardava.
Anche se era evidente sin dall'inizio, no?
Il Primale arretrò leggermente e si passò una mano tra
quei capelli scandalosamente belli. «Cormia...»
Facendo appello alla propria dignità, lei raddrizzò le
spalle. «Ditemi, come intendete procedere con le Elette?
O è con me in particolare che non desiderate
accoppiarvi?»
Phury le girò intorno e fece qualche passo davanti allo
schermo. H fermo immagine della scena, con Johnny e
Baby stesi così vicini, si proiettava sopra il suo corpo;
Cormia avrebbe tanto voluto sapere come spegnere il
film. La gamba di Baby sopra il fianco di Johnny, la mano
di lui che le stringeva la coscia mentre si strusciava
contro di lei, era l'ultima cosa che voleva vedere in quel
momento.
«Io non voglio stare con nessuno», disse il Primate.
«Bugiardo.» Lui si voltò di scatto a guardarla, sorpreso,
ma ormai le conseguenze della sincerità non le
importavano più. «Sapevate sin dall'inizio di non voler
giacere con nessuna di noi, vero? Lo sapevate, eppure
siete andato avanti con la cerimonia dinanzi alla Vergine
Scriba, anche se eravate innamorato di Bella e non
400
sopportavate di stare con nessun'altra. Avete alimentato
le speranze di quaranta femmine di valore sulla base di
una bugia...'»
«Ho parlato con la Direttrice. Ieri.»
Cormia sentì le gambe che cedevano, ma la voce
rimase ferma. «Davvero? E insieme cosa avete deciso?»
«Io... intendo liberarti. Dalla posizione di Prima
Sposa.»
Cormia strinse la veste con tale forza che si sentì il
sommesso rumore di uno strappo. «Intendete farlo o
l'avete già fatto?»
«L'ho già fatto.»
Cormia inghiottì amaro, sprofondando pesantemente
nella poltroncina.
«Cormia, sappi che non è per te.» Phury le andò vicino
e si inginocchiò di fronte a lei. «Tu sei bellissima...»
«Invece sì, è per me», disse lei. «Non è che non potete
accoppiarvi in generale, è me che non volete.»
«Voglio solo che tu sia libera da tutto questo...»
«Non mentite», scattò lei, abbandonando ogni pretesa
di civiltà. «Vi ho sempre detto che ero pronta a prendervi
dentro di me. Non ho mai detto o fatto nulla per
scoraggiarvi. Dunque se avete deciso di mettermi da
parte è perché non mi desiderate...»
401
Il Primale le afferrò una mano e se la infilò tra le
gambe. Cormia ansimò a quel contatto e lui sollevò
l'inguine premendo contro il suo palmo una cosa lunga e
dura. «Il problema non è il desiderio.»
Cormia schiuse la labbra. «Vostra grazia...»
I loro sguardi si incontrarono e rimasero avvinti.
Quando lui schiuse leggermente la bocca, come se non
riuscisse a respirare, Cormia trovò il coraggio di stringere
con delicatezza le dita intorno al membro rigido.
Scosso da un fremito, Phury le lasciò andare il polso.
«L'accoppiamento non c'entra», gracchiò roco. «È che sei
stata costretta in questo ruolo.»
Vero. All'inizio era così. Ma adesso... ciò che provava
per lui non era minimamente frutto di una coercizione.
Lo guardò negli occhi e provò un curioso senso di
sollievo. Se non era più la sua Prima Sposa niente di tutto
questo contava più veramente, giusto? Momenti come
quello, loro due insieme... erano solo due individui, non
più i portatori di un significato più grande di loro. Erano
solo lui e lei. Un maschio e una femmina.
Ma le altre? Tutte le altre sue sorelle? Non potè fare a
meno di chiederselo. Lui sarebbe andato con loro; glielo
leggeva negli occhi. C'era una grande risolutezza in quel
suo sguardo giallo.
Ciononostante, mentre il Primate esalava un sospiro
tremante, Cormia scacciò tutto questo dalla mente. Lui
402
non sarebbe mai stato veramente suo... ma lo aveva tutto
per sé in quel momento.
«Adesso nessuno mi costringe più», mormorò,
premendosi contro il suo petto. Alzò il mento e gli offrì
ciò che lui voleva. «Sono io che voglio farlo.»
Lui la fissò per un istante; le parole che disse con voce
gutturale le parvero assurde. «Io non ti merito.»
«Non è vero. Voi siete la forza della razza. Siete la
nostra virtù e la nostra potenza.»
Lui scosse la testa. «Non sono affatto come credi.»
«Sì, invece.»
«No...»
Lei lo zittì con un bacio, poi si ritrasse. «Non potete
cambiare ciò che penso di voi.»
Lui si sfregò il pollice sul labbro inferiore. «Se mi
conoscessi veramente, tutto ciò che credi cambierebbe.»
«Il vostro cuore sarebbe lo stesso. Ed è quello che
amo.»
Il suo sguardo si infiammò, a quelle parole; Cormia lo
baciò di nuovo per impedirgli di pensare, ed
evidentemente funzionò. Con un gemito, lui prese
l'iniziativa accarezzandole la bocca con quelle sue labbra
morbide, vellutate, fino a toglierle il respiro. Quando la
403
lambì con la lingua, lei la risucchiò d'istinto e lo sentì
trasalire, premuto contro di lei.
Fu un bacio lunghissimo. Infinite furono le sensazioni
suscitate in lei da tutto quel raspare, sfregare, spingere e
succhiare, e non era solo la bocca a partecipare... tutto il
suo corpo fremeva per ciò che stavano facendo e, a
giudicare dall'ardore e dalla frenesia con cui la baciava,
lo stesso valeva per il Primate.
E lei lo voleva ancora più coinvolto. Muovendo il
braccio su e giù, cominciò ad accarezzargli il sesso.
Lui si ritrasse bruscamente, «Farai meglio a stare
attenta con quello.»
«Con questo?» ripeté lei accarezzandolo attraverso i
pantaloni; lui gettò la testa all'indietro con un sibilo... e lei
continuò. Andò avanti così finché lui si morse il labbro
con le lunghe zanne, i muscoli del collo tesi allo spasimo.
«Perché devo stare attenta, vostra grazia?»
Lui raddrizzò la testa e, avvicinandole la bocca
all'orecchio, disse «Mi stai facendo venire.»
Cormia sentì qualcosa di caldo e umido tra le cosce. «È
quello che avete fatto quando eravamo nel vostro letto?
Quel primo giorno?»
«Sì...» sussurrò lui allungando la i.
Con una smania curiosa, ossessiva, Cormia scoprì che
voleva vederglielo fare di nuovo. Ne sentiva il bisogno.
404
Alzando il mento all'altezza del suo orecchio, bisbigliò,
«Fatelo di nuovo. Fatelo adesso.»
Dal petto del Primale si levò una sorta di grugnito, un
suono profondo che salì vibrando tra i loro corpi avvinti.
Buffo, in chiunque altro quel verso l'avrebbe terrorizzata.
Venendo da lui in quella situazione invece ne rimase
elettrizzata: tutta la potenza trattenuta del Primate era
nelle sue mani... Letteralmente. Era lei ad avere il
controllo.
Per una volta nella sua miserabile vita, era lei ad avere
il controllo.
Spingendosi contro il palmo di lei, il Primale disse,
«Non credo che dovremmo...»
Cormia lo strinse con forza, strappandogli un gemito
di piacere. «Non toglietemi anche questo», disse
imperiosa. «Non osate togliermelo.»
Seguendo un impulso che la Vergine Scriba sola
sapeva da dove veniva, Cormia gli morse il lobo
dell'orecchio. La reazione fu immediata. Abbaiando
un'imprecazione, lui balzò su e la schiacciò sulla
poltroncina, montandola in preda alla lussuria.
Per nulla intenzionata a tirarsi indietro, Cormia
continuò a stringerlo nel palmo e a lavorarselo,
controbilanciando le spinte del suo inguine. Lui
sembrava deliziato da quella frizione, quindi andò avanti
imperterrita anche quando lui l'afferrò per il mento
avvicinandole la testa.
405
«Fammi vedere gli occhi», ansimò. «Voglio guardarti
negli occhi quando...»
Appena i loro occhi si incontrarono, lui si tese tutto
con un gemito selvaggio. Eiaculò una... due... tre volte,
sottolineando ogni spasmo con un gemito.
Mentre il suo corpo esprimeva tutto il suo piacere, il
volto rapito e le braccia contratte del Primate erano le cose
più belle che lei avesse mai visto. Alla fine si placò e
deglutì sonoramente, senza
scostarsi da lei. Attraverso lo spigato in lana dei suoi
calzoni Cormia sentì la mano bagnata.
«Mi piace quando lo fate», disse.
«Mi piace quando lo fai tu a me», ribatté lui con una
risatina secca.
Stava per chiedergli se voleva rifarlo, quando lui le
scostò i capelli dalla guancia. «Cormia?»
«Sì...» Buffo, anche lei allungò la i proprio come poco
prima aveva fatto il Primate.
«Posso toccarti un po'?» disse lui lasciando vagare lo
sguardo sul suo corpo. «Non ti prometto niente. Non...
be', non posso prometterti la stessa cosa che mi hai dato
tu. Ma mi piacerebbe tantissimo toccarti. Soltanto un
po'.»
La disperazione le risucchiò tutta l'aria dai polmoni,
sostituendola con un gran fuoco. «Sì...»
406
Il Primate chiuse gli occhi e parve riprendersi. Poi si
chinò e premette le labbra sulla sua gola, di lato. «Penso
davvero che tu sia bellissima, non devi dubitarne mai.
Bellissima...»
Quando spostò le mani sul davanti della sua tunica, i
capezzoli si inturgidirono al punto che Cormia prese a
contorcersi sotto di lui.
«Posso fermarmi», disse lui, esitante. «Anche subito...»
«No», esclamò lei avvinghiandosi alle sue spalle per
tenerlo fermo. Non sapeva cosa stava per accadere ma,
qualunque cosa fosse, ne aveva bisogno.
Lui fece scorrere le labbra sul suo collo, indugiando
sulla mascella. Mentre premeva la bocca contro la sua,
Cormia sentì un tocco impalpabile sulla tunica... su uno
dei seni.
Inarcandosi, spinse il capezzolo contro la sua mano e
tutti e due gemettero.
«Oh, Gesù...» Il Primale si scostò leggermente e con
cautela, con reverenza, le aprì la tunica scoprendole il
seno. «Cormia...» Il suo tono profondo, lusinghiero, fu
come una carezza quasi tangibile su tutto il corpo di lei.
«Posso baciarti qui?» gemette, accarezzandola intorno
al capezzolo. «Ti prego.»
«Beata Vergine, sì...»
407
Lui chinò la testa e coprì il capezzolo con la bocca,
calda e umida, succhiando con delicatezza.
Cormia gettò indietro la testa, infilandogli le mani tra i
capelli e spalancando le gambe, senza un vero motivo e
con tutti i motivi del mondo. Voleva sentirlo dentro di sé
in tutti i modi possibili...
«Padrone?»
La rispettosa intrusione di Fritz dal fondo della sala
richiamò bruscamente la loro attenzione. Il Primale si
raddrizzò in fretta e furia coprendo Cormia, anche se la
poltroncina ne impediva la vista al maggiordomo.
«Cosa diavolo c'è?» sbottò.
«Chiedo scusa, ma l'Eletta Amalya è qui con l'Eletta
Selena. Desiderano vedervi.»
Un'ondata gelida travolse Cormia, ghiacciando tutto il
fuoco e la frenesia nel suo sangue. Sua sorella. Era lì per
vedere lui. Perfetto.
Il Primale si alzò in piedi sibilando una parola orrenda
che Cormia non potè fare a meno di riecheggiare nella
sua testa. «Arrivo tra cinque minuti», disse congedando
Fritz con un brusco gesto della mano.
«Sì, padrone.»
Dopo che il doggen fu uscito, il Primale scosse la testa.
«Mi dispiace...»
408
«Andate a fare ciò che dovete.» Vedendolo esitare,
Cormia ripeté. «Andate. Gradirei restare da sola.»
«Possiamo parlare più tardi.»
No, no davvero., pensò Cormia. Parlare non avrebbe
risolto niente.
«Andate, vi dico», insistette
ascoltarlo.
lei, smettendo
di
Rimasta di nuovo sola, fissò il fermo immagine finché
d'un tratto lo schermo non divenne tutto nero, con un
gruppetto di lettere che lampeggiavano qua e là,
formando la scritta Sony.
Si sentiva devastata, dentro e fuori. A parte il dolore al
petto, era in preda ai morsi della fame, come se le
avessero negato un pasto o una vena.
Ma non era di cibo che aveva bisogno.
Ciò di cui aveva bisogno era appena uscito dalla porta.
Per gettarsi tra le braccia di sua sorella.
409
Capitolo 25
Molto più a nord, sugli Adirondack, appena prima
dell'alba sulla Saddleback Mountain, il vampiro che
aveva braccato il cervo la notte prima ne stava
inseguendo un altro. Lento e scoordinato, sapeva che il
ruolo di cacciatore che stava interpretando era una
barzelletta. La forza ricavata dal sangue dell'animale non
gli bastava più. Quella notte, nel lasciare la grotta, era
così debole che dubitava di riuscire anche solo a
smaterializzarsi.
Il che significava che con ogni probabilità non ce
l'avrebbe fatta ad avvicinarsi abbastanza alla sua preda. Il
che significava che non si sarebbe nutrito. Il che
significava... che ormai era giunta la sua ora.
Che strano. Si era chiesto - come immaginava capitasse
a chiunque, di tanto in tanto - come sarebbe morto, di
preciso. In quali circostanze? Avrebbe sofferto? Quanto ci
avrebbe messo? Dato il suo campo d'azione, aveva dato
per scontato che sarebbe accaduto combattendo.
Invece stava per succedere lì, in quella foresta
silenziosa, per mano della magnificenza bruciante
dell'alba.
Sorpresa!
410
Qualche metro più avanti il cervo alzò il pesante palco
di corna preparandosi a balzare via. Chiamando a
raccolta le poche energie rimastegli, il vampiro tentò di
coprire la distanza che li separava... ma non accadde
nulla. La sua forma corporea tremolò nello spazio,
sparendo e ricomparendo come se qualcuno avesse fatto
scattare l'interruttore accendendo e spegnendo la luce,
ma lui non cambiò posizione e il cervo si allontanò con
un balzo attraversando rumorosamente la boscaglia, la
coda bianca fremente.
Il vampiro si lasciò cadere sul fondoschiena. Volse gli
occhi al cielo, sopraffatto dai rimpianti, che erano
numerosi e profondi e per la maggior parte relativi ai
defunti. Non tutti, però. Non tutti.
Pur agognando disperatamente il ricongiungimento
che si aspettava di trovare nel Fado, pur bramando
l'abbraccio di coloro che aveva perso qualche tempo
prima, sapeva di lasciare sulla terra una parte di sé.
Ma non c'era rimedio. A quell'abbandono.
L'unica consolazione era che suo figlio era in ottime
mani. Le migliori. I suoi fratelli si sarebbero presi cura di
lui, com'era giusto che fosse in una famiglia.
Avrebbe dovuto dirgli addio, però.
Avrebbe dovuto fare molte cose.
Ma il tempo dei buoni propositi era scaduto.
411
Memore della leggenda del suicidio, fece un paio di
tentativi di rialzarsi e, non riuscendovi, cercò persino di
trascinarsi faticosamente verso la caverna. Invano. Con
un barlume di gioia nel cuore tenebroso, alla fine si
arrese, crollando sul tappeto di foglie e aghi di pino.
Giacque immobile, a faccia in giù; il letto fresco e
rugiadoso della foresta gli riempì le narici di fragranze
pulite, pur venendo dal terriccio.
I primi raggi del sole giunsero da dietro, e subito sentì
la vampata di calore. La fine era arrivata e lui la accolse a
braccia aperte e a occhi chiusi per il sollievo.
La sua ultima sensazione prima di morire fu la
liberazione dalla dimensione terrena, il suo corpo
martoriato si sollevava verso la luce abbagliante, attratto
verso il ricongiungimento che aveva atteso per otto,
terribili mesi.
412
Capitolo 26
Al calar della notte, qualcosa come sedici ore dopo,
Lash, ritto ai margini di un bel prato ondulato che
risaliva verso una enorme villa in stile Tudor, girava e
rigirava al dito l'anello che gli aveva dato l'Omega.
Era cresciuto lì, pensò. Allevato, nutrito e messo a letto
in quella casa, da piccolo. Anni dopo, da adolescente, era
rimasto alzato a guardare film e a leggere libri sconci, e
sempre lì aveva navigato in Internet e mangiato
porcherie.
Aveva superato la transizione e fatto sesso per la
prima volta nella sua stanza al secondo piano.
«Serve aiuto?»
Lash si voltò a guardare il tesser al volante della Ford
Focus. Era quel nanetto che gli aveva fatto bere il suo
sangue. Aveva i capelli chiarissimi, come Bo Duke nel
telefilm Hazzard, che si arricciavano intorno al cappello
da cowboy. Gli occhi, di uno sbiadito azzurro fiordaliso,
suggerivano che prima dell'affiliazione era un tipico
ragazzo bianco del Midwest.
Il tizio era sopravvissuto al salasso grazie a qualche
autentica malvagità da parte dell'Omega, e Lash doveva
ammettere che ne era lieto. Aveva bisogno di aiuto per
capire la situazione, e Mr D non costituiva una minaccia.
413
«Ehi, pronto?» fece il tesser. «Tutto bene?»
«Tu resta in macchina.» Era bello dire qualcosa e
sapere che non ci sarebbero state discussioni. «Non ci
metterò molto.»
«Signorsì.»
Lash guardò di nuovo la sontuosa villa in stile Tudor.
Le luci brillavano gialle dietro le finestre dai vetri
romboidali, e la casa era illuminata anche dall'esterno
come una reginetta di bellezza su un palcoscenico.
All'interno c'erano delle persone che si muovevano nelle
varie stanze; Lash capì chi erano dalle loro sagome e da
dove si trovavano.
Sulla sinistra, in salotto, c'erano i due che avevano
cresciuto lui e i loro figli. Quello con le spalle larghe era
suo padre; adesso camminava avanti e indietro, una
mano andava su e giù dal viso come se stesse bevendo
qualcosa. Sua madre, sul divano, annuiva come uno di
quei pupazzi con la testa a molla, armoniosamente
proporzionata col suo elaborato chignon e il lungo collo
da cigno. Continuava a toccarsi i capelli come per
assicurarsi che fossero in ordine, anche se senza dubbio
l'acconciatura laccata era compatta come una siepe di
bosso.
Sulla dèstra, nell'ala riservata alla cucina, svariati
doggen si muovevano trafelati passando dai fornelli alla
credenza, dal frigorifero al piano di lavoro e di nuovo ai
fornelli.
414
Lash poteva quasi sentire l'odore della cena, e gli
vennero le lacrime agli occhi.
Ormai i suoi genitori dovevano sapere cos'era successo
nello spogliatoio e poi alla clinica. Dovevano essere stati
informati. La sera prima erano fuori, al ballo della
glymera, ma erano rimasti in casa tutto il giorno ed
entrambi apparivano turbati.
Lash lanciò un'occhiata al secondo piano, alle sette
finestre della sua stanza.
«Pensa di entrare?» chiese il lesser, facendolo sentire
un cacasotto.
«Chiudi quella boccaccia prima che ti tagli la lingua.»
Lash sfoderò il coltello da caccia agganciato alla
cintura e avanzò sull'erba rasata. Il prato era soffice sotto
gli anfibi nuovi.
Aveva dovuto chiedere al nanerottolo di procurargli
dei vestiti, ma non gli piacevano. Venivano tutti da
Target. Roba da quattro soldi.
Giunto davanti al portone mise la mano sul tastierino
del sistema di sicurezza... ma esitò prima di digitare il
codice d'accesso.
Il suo cane era morto l'anno prima. Di vecchiaia.
Era un Rottweiler con tanto di pedigree, glielo
avevano regalato i suoi quando aveva undici anni. Non
approvavano la razza, ma Lash era stato irremovibile,
415
quindi ne avevano adottato uno di un anno circa. La
prima notte che aveva passato a casa, Lash aveva provato
a forargli l'orecchio con una spilla da balia e King lo
aveva azzannato con tanta ferocia da trapassargli il
braccio.
Dopo di che erano diventati inseparabili. E quando
quel vecchio cagnaccio aveva tirato le cuoia, Lash aveva
pianto come un vitello.
Inserì il codice d'accesso, poi mise la mano sinistra sul
chiavistello. La luce sopra il portone fece luccicare la
lama del coltello.
Avrebbe tanto voluto che il cane fosse ancora vivo. Gli
sarebbe piaciuto traghettare almeno ima cosa dalla sua
vecchia vita a quella nuova.
Entrò in casa e si diresse in soggiorno.
Quando giunse davanti allo studio di Wrath, John
Matthew era rilassato quanto un golfista sotto un
temporale, e la vista del re non fece che aumentare la sua
ansia. Seduto dietro l'elegante scrittoio, Wrath era scuro
in volto e tamburellava con le dita, lo sguardo fisso sul
telefono come se avesse appena ricevuto cattive notizie.
Di nuovo.
John si infilò sotto il braccio quello che aveva in mano
e bussò piano allo stipite. «Cosa c'è, figliolo», disse Wrath
senza alzare lo sguardo.
John attese che il re lo guardasse prima di usare con
cura la lingua dei segni. Qhuinn è stato cacciato di casa.
416
«Già, e ho sentito che la sua famiglia ha avuto anche la
gentilezza di farlo massacrare di botte da una Guardia
d'Onore.» Wrath si appoggiò all'indietro, facendo
scricchiolare la delicata poltroncina. «Che razza di
padre.... tipico rappresentante della glymera.»
Dal tono si capiva che era un complimento alla stregua
del brutto stronzo.
Non può stare per sempre da Blay, e non sa dove altro
andare.
Il re scosse la testa. «Okay, so dove vuoi andare a
parare e la risposta è no. Anche se questa fosse una casa
normale, e non lo è, Qhuinn ha ucciso un tirocinante, e
non me frega un tubo se pensi che Lash se lo sia meritato
per quello che ha fatto. So che hai parlato con Rhage e gli
hai raccontato quello che è successo, ma il tuo amico non
solo è fuori dal programma, ma dovrà subire un
processo.» Wrath si piegò di lato per guardare al di là di
John. «Hai tirato giù dal letto Phury?»
John si voltò. Sulla soglia c'era Vishous.
Il fratello annuì. «Si sta vestendo. E anche Z. Non vuoi
che me ne occupi io? Sei sicuro?»
«Loro due erano gli insegnanti di Lash, e Z è testimone
di quanto è successo alla clinica. I genitori di Lash
vogliono parlare con loro e soltanto con loro, e io ho
promesso di mandarglieli a casa appena possibile.»
«Okay. Tienimi aggiornato.»
417
Vishous se ne andò e Wrath poggiò i gomiti sulla
scrivania. «Senti, John, lo so che Qhuinn è un tuo caro
amico e ci sono parecchie cose nella sua situazione che mi
fanno stare male. Vorrei tanto poterlo aiutare, ma non
sono in condizione di farlo.»
John insistette, sperando di non dover ricorrere alla
sua ultima risorsa. Non potrebbe stare al Porto Sicuro?
«Le ospiti del centro si sentono a disagio in presenza
di maschi, per ovvi motivi. Specie quelle con storie di
violenza alle spalle.»
Ma lui è mio amico. Non posso far finta di niente sapendo
che non ha un posto dove andare, che non ha un lavoro, che
non ha soldi...
«Tutto ciò non ha la minima importanza, John.» Le
parole deve andare in prigione aleggiavano nell'aria. «L'hai
detto tu stesso. Ha fatto un uso eccessivo della forza in
quello che era un banale litigio tra due teste calde. La
giusta reazione sarebbe stata separare te e Lash, non tirar
fuori il coltello e sgozzare suo cugino. Lash ti ha
aggredito con un'arma letale? No. Puoi dire, in tutta
onestà, che ti avrebbe ucciso? No. Si è trattato di uso
sproporzionato della forza, e i genitori di Lash lo
accusano di aggressione a mano armata con l'intento di
uccidere e di omicidio prossimale secondo il diritto dei
nostri avi.»
Omicidio prossimale?
«Il personale medico della clinica giura che Lash era
stato rianimato, al momento dell'incursione. I suoi
418
genitori presumono che non sopravviverà alla cattura da
parte dei lesser e intendono accusare Qhuinn anche di
questo, in base alla relazione causa-effetto. Se non fosse
stato per le azioni di Qhuinn, infatti, Lash non si sarebbe
trovato in clinica al momento dell'attacco e non sarebbe
stato rapito. Di conseguenza è omicidio prossimale.»
Ma Lash ci lavorava, alla clinica, quindi avrebbe potuto
trovarsi comunque lì, quella notte.
«Salvo che non sarebbe stato ricoverato come paziente,
ti pare?» Wrath tamburellava con le grosse dita sul
delicato scrittoio. «Questa è una bruttissima storia, John.
Lash era figlio unico e i suoi genitori appartengono
entrambi a famiglie fondatrici della razza. Qhuinn non
può cavarsela. Quella Guardia d'Onore è l'ultimo dei suoi
problemi, a questo punto.»
Nel silenzio che seguì, John si sentì soffocare, come se i
polmoni si fossero bloccati. Sin dal principio sapeva che
sarebbero giunti a quella impasse, che quanto aveva
raccontato a Rhage non sarebbe bastato a salvare il suo
amico. Avrebbe fatto qualunque cosa pur di evitare ciò
che stava per fare, ma era giunto preparato.
Andò a chiudere la porta, poi si avvicinò alla scrivania.
Con mano tremante prese la cartelletta che aveva sotto il
braccio e la posò sul tampone di carta assorbente del re.
Era il suo asso nella manica.
«Che roba è?»
419
Con lo stomaco che rimbalzava sul pavimento pelvico
come su un castello gonfiabile, John spinse lentamente la
sua cartella clinica verso il re.
Sono io. Quello che devi vedere è alla prima pagina.
Accigliandosi, Wrath prese la lente d'ingrandimento
che doveva usare per leggere. Aprì la cartellina e si chinò
sopra il rapporto che descriveva nel dettaglio la seduta di
terapia cui John si era sottoposto alla clinica di Havers.
John capì subito quando giunse alla parte saliente perché
le robuste spalle del re si irrigidirono sotto la T-shirt nera.
Oddio... pensò John, adesso vomito.
Un attimo dopo il re chiuse l'incartamento e posò la
lente sul tampone di carta assorbente. In silenzio sistemò
con cura i due oggetti in modo che fossero fianco a fianco
e posizionati alla perfezione, col manico d'avorio della
lente d'ingrandimento allineato con la base della cartella.
Quando alla fine Wrath. alzò gli occhi, John non
distolse lo sguardo, anche se si sentiva lercio come se
ogni centimetro quadrato del suo corpo grondasse
sporcizia. Ecco perché Qhuinn l'ha fatto. Lash ha letto la mia
cartella clinica perché lavorava da Havers e l'avrebbe spifferato
a tutti. Quindi non era affatto un banale litigio tra due teste
calde.
Wrath tirò su gli occhiali da sole e si stropicciò gli
occhi. «Gesù... Cristo. Posso capire perché non avevi
nessuna fretta di raccontarlo in giro.» Scosse la testa.
«John... mi dispiace tantissimo per quello che è sue...»
420
John batté il piede con forza per spingere il re ad
alzare la testa. L'ho rivelato solo ed esclusivamente per la
situazione in cui si trova Qhuinn. Non ho intenzione di
parlarne.
Poi, muovendo le mani veloce, a scatti, perché doveva
farla finita con quello schifo, disse, Quando Qhuinn ha
tirato fuori il coltello, Lash mi aveva schiacciato contro il muro
della doccia e mi stava tirando giù i calzoni. Il mio amico ha
fatto quello che ha fatto non solo per impedirgli di parlare...
capisci? lo... io ero come paralizzato ero paralizzato...
«Okay, figliolo, va tutto bene... non c'è bisogno che tu
dica altro.»
John si strinse le braccia intorno al corpo, premendosi
le mani tremanti contro i fianchi. Chiuse gli occhi
strizzandoli forte; non ce la faceva a guardare in faccia
Wrath.
«John?» disse il re un attimo dopo. «Figliolo,
guardami.»
John riuscì a stento ad aprire gli occhi. Wrath era così
virile, COSÌ potente... il condottiero dell'intera razza.
Ammettere di fronte a un guerriero simile quel
vergognoso atto di violenza era terribile quasi quanto
averlo vissuto, in passato.
Wrath batté la mano sulla cartella clinica. «Questo
cambia tutto.» Allungò la mano verso il telefono e,
alzando il ricevitore, disse, «Fritz? Ehilà, vecchio mio.
Ascolta, vai a prendere Qhuinn a casa di Blaylock e
portarlo qui da me. Digli che è un ordine supremo.»
421
Quando il re riagganciò, John sentì che gli bruciavano
gli occhi, come se fosse in procinto di piangere. In preda
al panico afferrò la cartelletta, si voltò di scatto e si avviò
quasi di corsa verso la porta.
«John? Figliolo? Non andartene, per favore.»
John non si fermò. Proprio non poteva. Scosse la testa,
schizzò fuori dallo studio e si precipitò in camera sua.
Dopo aver chiuso la porta a chiave andò in bagno, si
inginocchiò davanti al water e diede di stomaco.
Ritto accanto alla sagoma addormentata di Blay,
Qhuinn si sentiva una carogna. L'amico dormiva come
aveva sempre fatto sin da piccolo: con la testa avvolta in
una coperta e le lenzuola tirate fin sotto al naso. L'enorme
corpo era una montagna che si ergeva dalla pianura del
letto, non più la collinetta di prima della transizione... ma
la posizione era sempre la stessa.
Ne avevano passate così tante, insieme... tutte le
grandi prime volte della vita, dal bere al guidare, dal
fumare alla transizione, al sesso. Non avevano segreti,
loro due, non c'era pensiero intimo che non si fossero
confidati, in un modo o nell'altro.
Oddio, non era del tutto vero. Lui sapeva certe cose
che Blay non avrebbe mai ammesso.
Non dirgli addio era quasi un furto, ma non c'era
rimedio. Nel posto dov'era diretto, Blay non poteva
seguirlo.
422
C'era una comunità di vampiri, giù all'ovest; Qhuinn
aveva letto qualcosa in una delle bacheche in rete. Il
gruppo era una fazione che aveva rotto con la cultura
dominante dei vampiri qualcosa come duecento anni
prima, e aveva formato un'enclave lontana dalla sede di
Caldwell.
Niente tipi in stile glymera, lì. Erano quasi tutti
fuorilegge, in realtà.
Qhuinn pensava di poterla raggiungere in una sola
notte, smaterializzandosi duecento miglia per volta. Al
suo arrivo sarebbe stato un rottame, ma almeno si
sarebbe trovato in mezzo a gente come lui. Reietti.
Attaccabrighe. Fuggitivi.
Presto o tardi lo avrebbero trovato, ma non aveva
niente da perderete, prima di farsi beccare, faceva sudare
l'autorità costituita. Era già caduto in disgrazia a tutti i
livelli e le accuse che gli avrebbero mosso non potevano
essere peggiori di così; tanto valeva assaggiare un po' di
libertà prima di farsi sbattere in galera.
L'unica sua preoccupazione era Blay. Ci sarebbe
rimasto molto male nel vedersi abbandonato, ma almeno
poteva contare su John. E John era un amico coi fiocchi.
Qhuinn diede le spalle all'amico, si mise la sacca a
tracolla e in punta di piedi andò alla porta. Si era rimesso
a meraviglia, la pronta guarigione era l'unico lascito che
la sua famiglia non poteva portargli via. L'intervento gli
aveva lasciato solo una sutura al fianco e i lividi erano
spariti quasi completamente, anche dalle gambe. Si
423
sentiva in forze, e anche se presto avrebbe dovuto
nutrirsi, era pronto a partire.
Quella di Blay era una bella casa d'epoca, ma arredata
in stile moderno, il che significava che in corridoio e sulle
scale di servizio c'era la moquette, grazie al cielo. Qhuinn
si allontanò senza fare il minimo rumore, diretto al
tunnel sotterraneo che portava fuori dal seminterrato.
La cantina era lustra come uno specchio e come
sempre, chissà perché, profumava di Chardonnay. Che
fosse il classico odore delle vecchie mura di pietra
imbiancate a calce?
L'ingresso segreto del tunnel era nell'angolo in fondo a
destra, mascherato da scaffali scorrevoli pieni di libri.
Bastava allungare la mano, tirare un po' in fuori una
copia di Sir Gawain e il Cavaliere Verde e scattava un
meccanismo che faceva ritrarre il tramezzo rivelando...
«Che fesso che sei.»
Qhuinn fece un balzo degno di un campione
olimpionico. Lì nel tunnel, seduto su una sedia a sdraio
neanche stesse prendendo la tintarella, c'era Blay con un
libro in grembo, una lampada a batteria su un tavolino e
una coperta sulle gambe.
Alzò con tutta calma un bicchiere di succo d'arancia in
un brindisi scherzoso, poi bevve una sorsata.
«Ciaaaaaaaao, Lucy.»
«Ma che cazzo...? Mica starai aspettando me?»
424
«Invece sì.»
«E nel tuo letto cosa c'era?»
«Cuscini e la mia copertina per la testa. Stando qui mi
sono proprio rilassato. Anche il libro è buono», disse
mostrando la copertina di Una stagione al Purgatorio. «Mi
piace Dominick Dunne. Ottimo scrittore. Occhiali
fantastici.»
Qhuinn guardò, al di là dell'amico, la galleria male
illuminata che si perdeva in lontananza, in una tenebra
apparentemente infinita. Un po' come il futuro, pensò.
«Blay, lo sai che devo andare via.»
Blay alzò il cellulare. «Per la verità non puoi. Ho
appena ricevuto un SMS da John. Wrath vuole vederti e
Fritz sta venendo a prenderti proprio adesso, mentre
parliamo.»
«Merda. Non posso andare...»
«Due parole: Ordine. Supremo. Quando il re chiama
tocca correre. Scappa adesso e non solo sarai un
fuggiasco per la glymera, ma finirai anche sulla lista nera
del re. Il che significa che i fratelli ti daranno la caccia.»
Lo avrebbero fatto comunque. «Senti, questa storia di
Lash finirà in un tribunale della Corona, ecco cosa
significa il messaggio di John. Mi rinchiuderanno da
qualche parte. Per tanto, tantissimo tempo. Io voglio solo
andarmene per un po'.»
425
Leggi: finché non scoprono dove mi sono nascosto.
«Vuoi sfidare il re?»
«Sì, sì, esatto. Non ho niente da perdere, e forse
passeranno anni prima che mi trovino.»
Blay spostò la coperta dalle gambe e si alzò. Era in
jeans e felpa, ma in qualche modo sembrava che fosse in
smoking. Blay era così: impeccabile anche in abiti da
lavoro.
«Se te la squagli, io vengo con te», disse.
«Non voglio.»
«Cavoli tuoi.»
Pensando alla terra di banditi verso cui era diretto,
Qhuinn sentì crescere un senso di oppressione al petto. Il
suo amico era così fedele, così leale, così onesto e pulito.
Aveva ancora un che di sostanzialmente innocente e
ottimistico, anche se ormai era un adulto a tutti gli effetti.
Qhuinn prese un bel respiro e tutto d'un fiato disse,
«Non voglio che tu sappia dove vado. E non voglio
vederti mai più.»
«Non puoi dire sul serio.»
«Ho visto...» Qhuinn si schiarì la gola e si impose di
proseguire. «Ho visto come mi guardi. L'ho notato... tipo
quando ero con quella tipa, nel camerino di A and F. Non
guardavi lei, guardavi me, perché sbavavi per me.
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Vero?» Blay fece un passo indietro, barcollando e, come
se fossero impegnati in una scazzottata, Qhuinn picchiò
ancora più duro. «È da un po' che mi desideri, e credevi
che non me ne fossi accorto. Bè, invece sì. Per cui non
seguirmi. Questa cosa tra noi finisce qui, stanotte stessa.»
Qhuinn si voltò e cominciò a camminare, lasciando il
suo migliore amico, la persona che gli era più cara al
mondo, più ancora di John, in quel tunnel ghiacciato. Da
solo.
Era l'unico modo per salvargli la vita. Blay era
esattamente il tipo del nobile idiota, capace di buttarsi
giù dal ponte di Brooklyn per seguire coloro che amava.
E visto che era impossibile dissuaderlo a parole,
bisognava tagliarlo fuori.
Qhuinn camminava in fretta, sempre più in fretta,
allontanandosi dalla luce. Quando il tunnel piegò a
destra, Blay e il chiarore proveniente dal seminterrato
sparirono e lui si ritrovò da solo in quella buia gabbia
d'acciaio scavata nel sottosuolo.
Per tutto il tragitto vide la faccia di Blay, chiara come il
sole. A ogni passo, l'espressione annientata dell'amico fu
il faro da seguire.
Sarebbe rimasta con lui. Per sempre.
Giunto alla fine del tunnel, inserito il codice d'uscita e
sbucato in un capanno per il giardinaggio, a un
chilometro e mezzo dalla casa di Blay, si rese conto di
essersi sbagliato: eccome se aveva qualcosa da perdere.
Credeva di avere toccato il fondo, ma in realtà era caduto
427
ancora più in basso: aveva fatto a pezzi il cuore di Blay e
lo aveva calpestato senza pietà; il rimorso e il dolore che
provava erano quasi intollerabili.
Emergendo in un campo di lillà, cambiò idea. Sì, era
un povero disgraziato, per nascita e perché vittima delle
circostanze. Ma non stava scritto da nessuna parte che
dovesse peggiorare le cose.
Tirò fuori il cellulare, ormai quasi scarico, e via SMS
spiegò a John dove si trovava. Non sapeva neanche se
aveva già esaurito il credito...
John gli rispose immediatamente.
Fritz sarebbe passato a prenderlo nel giro di dieci
minuti.
428
Capitolo 27
In camera sua, nella grande casa della confraternita,
Cormia se ne stava seduta sul pavimento davanti alla
costruzione che aveva iniziato la sera prima, con una
scatola di stuzzicadenti in mano e una ciotola di piselli
accanto. Senza usare nessuna delle due. L'unica cosa che
stava facendo - e solo la beata Vergine sapeva da quanto
tempo - era aprire e chiudere... aprire e chiudere... aprire
e chiudere la linguetta della scatola.
Bloccata e praticamente immobile, ormai andava
avanti da un pezzo, e aveva l'unghia del pollice tutta
smangiata in punta.
Se non era più Prima Sposa non aveva più motivo di
restare lì. Non svolgeva più nessuna funzione ufficiale e,
stando così le cose, avrebbe dovuto tornare al Santuario a
meditare, pregare e servire la Vergine Scriba insieme alle
sue sorelle.
Il suo posto non era lì, in quella casa o in quel mondo.
Non lo era mai stato.
Volgendo lo sguardo dalla scatola di stuzzicadenti alla
struttura che aveva messo insieme, esaminò le unità da
cui era costituita pensando alle Elette e alla molteplicità
delle loro funzioni: dalla tenuta del calendario spirituale
all'adorazione della Vergine Scriba, dalla registrazione
429
delle Sue parole e della Sua storia... alla procreazione di
nuovi Fratelli e di future Elette.
Immaginò di riprendere la vita al Santuario: invece di
tornare a casa le pareva di regredire. E, stranamente, ciò
che avrebbe dovuto preoccuparla più di tutto il resto aver fallito come Prima Sposa - non la turbava poi tanto.
Gettò per terra la scatola. Nell'atterrare, il coperchio si
aprì e un mucchietto di stecchini saltò fuori
sparpagliandosi in un groviglio confuso.
Discordia. Disordine. Caos.
Cormia raccolse quello che aveva rovesciato
rimettendo tutto in ordine, e decise di fare altrettanto con
la propria vita. Avrebbe parlato con il Primale, raccolto le
sue tre tuniche e se ne sarebbe andata.
Stava infilando nella scatola l'ultimo stuzzicadenti
quando bussarono alla porta.
«Avanti», disse senza neanche prendersi la briga di
alzarsi.
Fritz infilò dentro la testa. «Buonasera, Eletta, sono
latore di un messaggio da parte della padrona, Bella. La
padrona desidera sapere se gradirebbe raggiungerla in
camera sua per il Primo Pasto.»
Cormia si schiarì la gola. «Non credo...»
«Se posso permettermi», mormorò il maggiordomo.
«La dottoressa Jane ha appena lasciato la padrona. La
430
visita ha destato qualche preoccupazione, mi è parso di
capire. Forse la sua presenza, Eletta, contribuirebbe a
tranquillizzare la nostra futura mahmen.»
Cormia alzò gli occhi. «Un'altra visita? Vuoi dire dopo
quella di ieri sera?» «Sì.»
«Dille che arrivo subito.»
Fritz chinò il capo con reverenza. «Grazie, signora. Ora
devo andare a prendere una persona, ma al mio ritorno
cucinerò per voi due. Non starò via a lungo.»
Cormia fece una doccia veloce, si asciugò i capelli e li
raccolse in imo chignon, quindi si cambiò infilando una
veste stirata di fresco. Uscendo dalla stanza, sentì un
rumore di stivali nell'atrio e si affacciò dalla balconata.
Giù di sotto, il Primale stava attraversando deciso il
mosaico sul pavimento, raffigurante un melo. Indossava
un paio di calzoni neri di pelle e una camicia nera, e i
capelli, quella meravigliosa, morbida profusione di
colori, brillavano sotto le luci e contro la scura distesa
delle spalle.
Quasi avesse percepito la presenza di Cormia, si fermò
e guardò in su. I suoi occhi gialli, sfolgoranti come citrini,
l'ammaliarono.
Rimase a guardarlo mentre quello sfolgorio, a poco a
poco, si offuscava.
Fu lei a dargli le spalle, perché ne aveva abbastanza di
venire abbandonata. Nel voltarsi vide Zsadist sbucare
dalla galleria delle statue. Il fratello volse gli occhi su di
431
lei, erano neri; non fu necessario chiedergli come stava
Bella. Quell'espressione tetra rendeva superflua ogni
parola.
«Stavo andando a tenerle compagnia», gli disse. «Mi
ha mandata a chiamare.»
«Lo so. Mi fa piacere. E ti ringrazio.»
Nel breve silenzio che seguì, Cormia scrutò i pugnali
che si incrociavano sul petto del guerriero. Doveva avere
addosso altre armi, pensò, anche se non si vedevano.
Il Primale non ne aveva. Niente pugnali, nessun
rigonfiamento sotto gli abiti.
Chissà dove stava andando. Non dall'Altra Parte,
perché era vestito per questo mondo. Ma allora dove? E
perché?
«È giù che mi aspetta?» chiese Zsadist.
«Chi, il Primale?» Quando il fratello annuì, Cormia
balbettò, «Ehm... sì, sì.»
Strano essere quella che sapeva dov'era... e quella a cui
veniva chiesto dove fosse.
Pensò al fatto che era disarmato.
«Prendetevi cura di lui», disse senza mezzi termini.
«Per favore.»
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Qualcosa si tese nel volto di Zsadist, che poi chinò il
capo una volta. «Lo farò.»
Con un inchino, Cormia si volse verso la galleria delle
statue, ma la voce profonda di Zsadist la indusse a
fermarsi di colpo: «Il piccolo non si muove molto. Non
dopo quello che è successo ieri notte, qualunque cosa
fosse.»
Cormia lo guardò da sopra la spalla, spiacente di non
poter fare di più. «Purificherò la stanza. È ciò che
facciamo dall'Altra Parte quando... purificherò la stanza.»
«Non dirle che te l'ho detto.»
«D'accordo.» Cormia avrebbe voluto posargli la mano
sulla spalla, invece disse, «Mi prenderò cura di lei.
Andate a fare ciò che dovete con lui.»
Il fratello chinò il capo e scese le scale.
Sotto, nell'atrio, Phury si massaggiò il petto e poi si
stiracchiò, tentando di liberarsi del dolore tra i pettorali.
Era sorpreso da quanto era difficile vedere Cormia che gli
dava le spalle.
Curiosamente brutale, in realtà.
Pensò all'Eletta che aveva incontrato all'alba. La
differenza tra lei e Cormia era evidente. Selena era
ansiosa di diventare Prima Sposa. Le brillavano gli occhi
mentre lo squadrava da capo a piedi, neanche fosse un
toro da monta. Phury aveva dovuto fare appello a tutta la
433
sua buona educazione solo per stare nella stessa stanza
con lei.
Non era cattiva ed era molto bella, ma... dannazione,
sembrava quasi che volesse piazzarsi sulle sue ginocchia
e darci dentro seduta stante. Gli aveva assicurato che era
più che pronta a servire lui e la sua tradizione... e che
«ogni fibra del suo corpo lo desiderava.»
Il lo chiaramente significava il suo sesso.
E alla fine della nottata ne sarebbe arrivata un'altra.
Dio. Buono.
In cima alle scale comparve Zsadist, che scese in fretta
con la giacca a vento in mano. «Andiamo.»
Phury notò la tensione sul volto del suo gemello e
subito intuì che Bella non stava bene.
«Bella... ?»
«Non ho intenzione di toccare l'argomento con te.» Z
attraversò l'atrio di gran carriera, passandogli davanti
senza degnarlo di uno sguardo. «Limitiamoci alle
questioni di lavoro.»
Phury lo seguì accigliato. Dall'eco dei loro passi
sembrava che nell'atrio ci fosse ima sola persona invece
che due. Malgrado la protesi, infatti, Phury aveva sempre
avuto la stessa falcata di Z, lo stesso modo di camminare,
lo stesso modo di dondolare le braccia.
434
Gemelli.
Ma le somiglianze tra loro finivano lì, sul piano della
biologia, giusto? Nella vita avevano preso due strade
diverse.
Entrambe schifose.
Con un improvviso salto logico, Phury vide le cose
sotto una luce diversa.
Merda, da sempre si torturava per il destino di Z... da
sempre viveva all'ombra gelida e pervasiva della tragedia
della loro famiglia. Aveva sofferto, maledizione... anche
lui aveva sofferto, e continuava a soffrire. Pur rispettando
la santità dell'unione del suo gemello con Bella, qualcosa
gli scattò nella testa nel vedersi tagliato fuori come un
perfetto estraneo. E per di più ostile.
Appena mise piede sulla ghiaia del cortile, si fermò di
botto. «Zsadist.»
Z proseguì imperterrito verso la Escalade.
«Zsadist.»
Il suo gemello si fermò con le mani sui fianchi, senza
voltarsi. «Se è per quella faccenda tra te e i lesser, non
provare a scusarti di nuovo.»
Phury si allentò il colletto della camicia. «No, non è
per quello.»
435
«Non voglio sentir parlare neanche del fumo rosso. O
del fatto che sei stato sbattuto fuori dalla confraternita.»
«Voltati, Z.»
«Perché.»
Ci fu una lunga pausa. Poi, in tono duro, Phury sibilò,
«Non mi hai mai detto grazie.»
Z voltò la testa di scatto. «Come, scusa?»
«Non. Mi. Hai. Mai. Ringraziato.»
«Per cosa?»
«Per averti salvato. Dannazione, ti ho salvato da quella
troia della tua Padrona e da quello che ti faceva. E tu non
mi hai mai ringraziato.» Phury avanzò verso il suo
gemello, alzando sempre più la voce. «Ti ho cercato per
un cazzo di secolo e ti ho tirato fuori da quella prigione
salvando la tua cazzo di vita...»
Zsadist si sporse in avanti puntandogli contro l'indice
come una pistola. «Vuoi che ti riconosca il merito di
avermi salvato? Aspetta e spera, Io non ti ho mai chiesto
nessun cazzo di favore. L'hai fatto solo per il tuo
complesso da Buon Samaritano.»
«Se non ti avessi tirato fuori da quell'inferno non
avresti Bella!»
«Se non l'avessi fatto, adesso lei non rischierebbe di
morire! È la gratitudine che vuoi? Farai meglio a darti
436
una pacca sulla spalla da solo perché al momento io non
ne provo neanche un po'.»
"Le parole si persero nella notte, quasi cercassero altre
orecchie.
Phury batté le palpebre, poi si scoprì a pronunciare
delle parole, parole che voleva dire da tanto tempo. «Ho
sepolto i nostri genitori da solo. Sono stato l'unico a
prendersi cura dei loro cadaveri, ad annusare il fumo
della cremazione...»
«E io non li ho mai conosciuti. Erano degli estranei, per
me, e lo eri anche tu, quando sei saltato fuori
all'improvviso.,.»
«Loro ti volevano bene!»
«Abbastanza da smettere di cercarmi! Accidenti a loro!
Credi che non sappia che lui ha smesso di cercarmi? Sono
tornato indietro e ho ripercorso le sue tracce a partire
dalla casa che avevi dato alle fiamme. So fin dove si è
spinto nostro padre prima di arrendersi. Credi che me ne
freghi qualcosa di lui? Lui ha rinunciato a cercarmi!»
«Tu per loro eri più reale di me! Eri dappertutto, in
quella casa, eri tutto per loro!»
«Oh, povero Phury del cazzo», scattò rabbioso Z.
«Non azzardarti a farti compatire. Hai una vaga idea di
cosa è stata la mia vita?»
«Io ho perso una cazzò di gamba per te!»
437
«Hai scelto tu di venire a cercarmi! Se non ti piace
com'è andata a finire non venire a lamentarti con me!»
Phury espirò con forza, assolutamente sconcertato.
«Brutto ingrato di un bastardo. Brutto ingrato di un figlio
di puttana... vorresti dirmi che preferivi stare con la
Padrona?» Di fronte al silenzio ostinato del suo gemello,
Phury scosse la testa. «Ho sempre pensato che i sacrifici
che avevo fatto valessero la pena. La castità.
Il panico. I costi in termini fisici.» La collera divampò
di nuovo. «Per non parlare delle turbe psichiche che mi
sono venute per tutte le volte che mi hai chiesto di
massacrarti di botte. E adesso vieni a dirmi che preferivi
restare uno schiavo di sangue?»
«È questo che ti rode? Vuoi che giustifichi questa tua
vena autodistruttiva da salvatore del cazzo mostrandoti
la mia riconoscenza?» Z proruppe in una risata amara.
«Fa' un po' come ti pare! Credi che mi diverta a vedere
come ti stai scavando la fossa fumando e bevendo come
un dannato? Credi che mi piaccia quello che ho visto
l'altra notte in quel vicolo?» Z imprecò. «'Fanculo, io non
ci sto. Proprio per niente. Svegliati, Phury. Tu ti stai
ammazzando. Piantala di cercare scuse e di dire palle e
guarda come ti sei ridotto.»
A un livello profondo, inconscio, Phury capì che
quello scontro tra loro due era nell'aria da tempo, E che il
suo gemello non aveva tutti i torti.
Ma neanche lui.
438
Scosse di nuovo la testa, «Non credo di sbagliare a
pretendere un po' di riconoscenza, È tutta la vita che
sono invisibile, in questa famiglia.»
Seguì qualche minuto di silenzio.
Poi Z sibilò, «Per l'amor del cielo, scendi giù dalla
croce. Qualcun altro ne ha bisogno più di te.»
Il tono sprezzante con cui lo disse rinfocolò la rabbia in
Phury che, d'impulso, slanciò in fuori il braccio; il pugno
centrò Z alla mascella, producendo un crac simile a
quello della mazza da baseball che batte un fuoricampo.
Z volò per aria, atterrando come un telone sulla GTO
di Rhage.
Mentre il suo gemello di rialzava, Phury si mise in
guardia agitando i pugni. Un altro secondo e mezzo e si
sarebbero affrontati in un pestaggio senza esclusione di
colpi, scambiandosi cazzotti invece di insulti finché uno
dei due, o tutti e due, non sarebbe crollato.
E dove li avrebbe portati, tutto ciò?
Lentamente, Phury abbassò le braccia.
In quel mentre la Mercedes di Fritz varcò i cancelli del
parco.
Alla luce dei fari dell'auto Zsadist, si rassettò il
giaccone e con calma andò alla Escalade per aprire la
portiera del posto di guida. «Se non fosse per quello che
ho appena promesso a Cormia, ti spaccherei la faccia.»
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«Cosa?»
«Sali in questa cazzo di macchina.»
«Che cosa le hai detto?»
Z si sedette al volante e lo guardò, gli occhi neri che
fendevano la notte come coltelli. «La tua ragazza è
preoccupata per te, così mi ha fatto promettere di
prendermi cura di te. E, a differenza di qualcun altro, io
le promesse le mantengo.»
Ahia.
«Adesso sali», disse Z sbattendo la portiera del SUV.
Imprecando, Phury fece il giro della macchina mentre
la Mercedes si fermava e Qhuinn scendeva dal sedile
posteriore. Il ragazzo sgranò gli occhi nel vedere la
maestosa dimora della confraternita.
Doveva essere lì per il processo, pensò Phury
infilandosi di fianco al suo gemello, chiuso in un silenzio
di tomba.
«Sai dov'è la casa dei genitori di Lash, giusto?» fece
Phury.
«Certo che lo so.»
Il chiudi il becco restò sottinteso.
Mentre la Escalade procedeva verso la cancellata, la
voce del mago tuonò, serissima, nella testa di Phury: Devi
440
essere un eroe per guadagnarti la gratitudine degli altri, e tu
non sei il tipo del "cavaliere dalla luccicante armatura". È solo
quello che speri di essere.
Phury guardò fuori dal finestrino, le parole rabbiose
che lui e Z si erano appena scambiati riecheggiavano
come spari in un vicolo.
Fai un favore a tutti quanti loro e vattene via, disse il
mago. Vattene via e basta, socio.
Vuoi essere un eroe? Allora fai in modo che non debbano
mai più avere a che fare con te.
441
Capitolo 28
Qhuinn era assolutamente sicuro che quella sera le sue
palle fossero sul menù di Wrath, ciononostante rimase
stupefatto alla vista del centro di addestramento della
confraternita. Era grande come una piccola città,
costruito con blocchi di pietra grossi come il torace di un
fratello, con finestre rinforzate al titanio o roba del
genere. I doccioni intorno al tetto e tutte le ombre erano
perfette. Proprio quello che ci si aspettava.
«Padrone?» disse il maggiordomo indicando il portone
degno di una cattedrale. «Vogliamo entrare? Dovrei
mettermi ai fornelli.»
«Ai fornelli?»
Parlando adagio come se si stesse rivolgendo a un
minorato mentale, il doggen spiegò, «Io cucino per la
confraternita, oltre a badare al resto della casa.»
Oh, cazzo... Quello non era il centro di addestramento,
era la tana della confraternita.
Be', per forza, cosa credevi? Guarda che razza di misure di
sicurezza. C'erano telecamere montate sopra le porte e
sotto il tetto, e il muro di cinta intorno al giardino
sembrava uscito da un film su Alcatraz. Diamine,
mancava solo di veder spuntare da dietro l'angolo un
442
branco di dobermann al gran galoppo, con le fauci
spalancate.
Ma forse i cani stavano ancora rosicchiando le ossa
dell'ultimo ospite che avevano ridotto in polpette.
«Padrone?» ripeté il maggiordomo. «Le spiace?»
«Sì... sì, certo.» Qhuinn deglutì sonoramente e avanzò,
preparato ad affrontare con coraggio il cazziatone del re.
«Ah, senti, lascio la mia roba in macchina.»
«Come desidera, padrone.»
Cribbio, grazie al cielo Blay non avrebbe visto cosa
stava per succedere...
Un battente del mastodontico portone si aprì e
comparve un volto familiare, che alzò una mano in segno
di saluto.
Ah, fantastico. Se Blay si perdeva lo spettacolo John, in
compenso, si sarebbe seduto in prima fila.
L'amico sfoggiava i blue-jeans e una delle camicie
button-down che avevano preso da Abercrombie. Sui
gradini di pietra nera dell'ingresso i suoi piedi nudi
risaltavano pallidi, e sembrava relativamente calmo, il
che era piuttosto irritante. Quel bastardo poteva almeno
avere il buon gusto di farsi venire i sudori freddi o la
cacarella in segno di solidarietà.
Ehilà, lo salutò John, a gesti. «Ehilà.»
443
John si fece da parte per lasciar libero il passaggio.
Come va?
«Vorrei tanto essere un fumatore.» Perché così avrebbe
potuto rimandare la resa dei conti per il tempo di una
sigaretta.
Non dire sciocchezze. Tu detesti fumare.
«Quando mi troverò di fronte al plotone d'esecuzione
potrei rivedere una posizione tanto intransigente.»
Ma sta' zitto.
Qhuinn attraversò un vestibolo che lo mise
profondamente a disagio: non era abbastanza elegante
per quel pavimento di marmo bianco e nero e per quel
po' po' di lampadario... ma era d'oro massiccio? Molto
probabile...
Porca miseria, pensò fermandosi di botto.
L'atrio che aveva di fronte era principesco, degno degli
zar di tutte le Russie, con i suoi colori vivaci,
quell'incredibile orgia di foglie dorate, il pavimento a
mosaico e il soffitto affrescato... o forse no? Cavolo, forse
con tutte quelle romantiche colonne di marmo e quella
volta enorme, era più in stile con i romanzi di Danielle
Steel.
Non che avesse letto i suoi libri.
444
Be', sì, okay, uno l'aveva letto, ma aveva dodici anni,
stava poco bene e si era concentrato solo sulle scene di
sesso.
«Quassù», tuonò una voce profonda.
Qhuinn alzò gli occhi. Ritto in cima allo scalone
riccamente decorato, con i pesanti stivali piantati per
terra come se fosse il padrone del mondo, in pantaloni di
pelle nera e T-shirt nera, c'era il re.
«Forza, leviamoci il pensiero», disse imperioso Wrath.
Deglutendo a fatica, Qhuinn seguì John fino al primo
piano.
Quando giunsero in cima, Wrath disse, «Voglio solo
Qhuinn. Tu resta qui, John.»
Voglio fargli da testimone... cominciò a dire John.
«No», tagliò corto Wrath, voltandosi. «Niente da fare.»
Merda, pensò Qhuinn. Non aveva diritto neanche a
uno straccio di testimonianza in sua difesa?
Ti aspetto qui, disse John a segni,
«Grazie, amico,»
Qhuinn spinse lo sguardo oltre la porta lasciata aperta
dal re. La stanza che aveva davanti era... be', il tipo di
posto che sua madre avrebbe adorato: azzurro pallido,
445
arredata con gusto raffinato e quasi femminile, con certe
applique di cristallo che sembravano orecchini.
Non esattamente ciò che ci si sarebbe aspettati come
studio di Wrath.
Il re andò a piazzarsi dietro un delicato scrittoio;
Qhuinn entrò, chiuse la porta e raccolse le mani davanti a
sé. Mentre aspettava, l'intera situazione gli parve
surreale. Non riusciva a capacitarsi di come la sua vita
fosse arrivata a quel punto,
«Volevi uccidere
preamboli.
Lash?»
chiese
Wrath,
senza
Alla faccia delle dichiarazioni preliminari. «Ehm...»
«Sì o no?»
In rapida successione, Qhuinn passò in rassegna le
risposte possibili: No, certo che no, il coltello ha agito da solo,
io in realtà cercavo di fermarlo. .. No, volevo solo fargli la
barba... No, non pensavo che recidere la giugulare di qualcuno
potesse causarne la morte...
Qhuinn si schiarì la gola una volta. Due volte, «Sì.»
Il re incrociò le braccia sul petto, «Se Lash non avesse
abbassato i calzoni di John, avresti fatto la stessa cosa?»
I polmoni di Qhuinn smisero di funzionare per un
attimo. Non avrebbe dovuto sorprendersi che il re
sapesse esattamente cos'era successo, però, cavolo,
sentirglielo dire in modo tanto esplicito era scioccante.
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Oltre tutto, parlare di quella vicenda era dura, visto
quello che Lash aveva detto e fatto. In fin dei conti si
trattava di John.
«Allora?» lo incalzò il re da dietro la scrivania. «Se
Lash non gli avesse calato i calzoni lo avresti sgozzato?»
Qhuinn cercò di raccogliere le idee. «Senta, John aveva
detto a me e a Blay di starne fuori, e finché si trattava di
uno scontro leale ero pronto a lasciar perdere. Ma...»
Scosse la testa. «Naa. Quella porcheria che Lash ha fatto a
un certo punto non era leale. E stato come sparare a
bruciapelo.»
«Ma non c'era bisogno di ucciderlo, no? Avresti potuto
separarlo da John. Mollargli un paio di cazzottoni.
Stenderlo.»
«Vero.»
Wrath stese il braccio di lato, come per sgranchirlo, e
in questo modo fece schioccare la spalla. «Adesso devi
essere assolutamente sincero con me. Se menti lo capirò,
perché sentirò l'odore della menzogna.» Gli occhi di
Wrath ardevano dietro gli occhiali avvolgenti, «So
benissimo che odiavi tuo cugino. Sei sicuro di non aver
abusato della forza per regolare i conti con lui?»
Qhuinn si passò le mani tra i capelli, cercando di
ricordare il
più possibile dell'accaduto. C'erano dei buchi nella sua
memoria, spazi vuoti scavati dal groviglio di emozioni
447
che lo avevano spinto ad afferrare il coltello e a scagliarsi
in avanti, ma ricordava abbastanza.
«A essere onesto... merda, non potevo permettere che
John venisse ferito e umiliato così. Vede, lui è rimasto
paralizzato. Quando Lash gli ha tirato giù i calzoni, è
rimasto paralizzato. Erano tutti e due nella doccia, John
era schiacciato contro il muro e di botto si è
immobilizzato. Non so se Lash sarebbe arrivato fino in
fondo con... be', ha capito... perché non ero nella sua
testa, ma era capacissimo di provarci.» Qhuinn deglutì a
fatica. «Io ho visto la scena, ho visto che John non
riusciva a fare niente e... a un tratto non ci ho visto più...
io, be' - cazzo - avevo il coltello in mano, poi mi sono
ritrovato addosso a Lash e senza neanche accorgermene
l'ho sgozzato. La verità? Certo, odiavo Lash, ma non è
questo il punto. Lui o un altro non aveva importanza,
non gliel'avrei fatta passare liscia. Chiunque avesse fatto
una porcata del genere a John doveva vedersela con me.
E, prima che me lo chieda, so già qual è la sua prossima
domanda.»
«E la risposta è?»
«Sì, lo rifarei.»
«Lo rifaresti anche adesso.»
«Sì.» Qhuinn guardò le pareti celesti dello studio e
pensò che era assurdo parlare di un orrore simile in una
stanza così fottutamente bella. «Immagino che questo
faccia di me un assassino impenitente, huh... allora, cosa
pensa di farmi? Ah, probabilmente lo saprà già, ma la
mia famiglia mi ha ripudiato.»
448
«Sì, l'ho sentito.»
Seguì un lungo silenzio; Qhuinn ammazzò il tempo
fissando le sue New Rock col cuore che batteva
all'impazzata.
«John vuole che tu resti qui.»
Qhuinn alzò gli occhi di scatto sul re. «Cosa?»
«Mi hai sentito.»
«Merda. Lei non può approvare una cosa del genere.
Non posso stare qui, nella maniera più assoluta.»
«Come hai detto?»
sopracciglia corvine.
fece
il
re
aggrottando
le
«Ehm... chiedo scusa.» Qhuinn si cucì la bocca
ricordando a se stesso che quello era il re, il che
significava che poteva fare quel cavolo che gli pareva,
compreso ribattezzare il sole e la luna, dichiarare che lo si
doveva salutare infilandosi il pollice su per il culo... e
accogliere sotto il proprio tetto dei disgraziati come
Qhuinn, se gli girava.
Nel mondo dei vampiri, re era sinonimo di c-a-r-t-a bi-a-nc-a.
Oltre tutto, perché cavolo doveva dire di no a qualcosa
che andava a suo vantaggio? Razza di deficiente. ,
449
Wrath si alzò in piedi e Qhuinn dovette trattenersi dal
fare istintivamente un passo indietro, anche se erano
separati da sette o otto metri di tappeto Aubusson.
Gesù, che gigante, però.
«Ho parlato con il padre di Lash, un'oretta fa», disse
Wrath. «I tuoi gli hanno comunicato che non intendono
versare alcun risarcimento. Avendoti ripudiato,
sostengono che sei tu a dover sganciare il malloppo.
Cinque milioni.»
«Cinque milioni,?»
«Ieri notte Lash è stato sequestrato dai lesser. Nessuno
crede che possa tornare. Verrai processato per omicidio
prossimale, sulla base del presupposto che i lesser non si
sarebbero presi il disturbo di portare via un cadavere.»
«Accidenti...» Oddio, Lash... e, cazzo, quello era un
mucchio di soldi. «Senta, io ho solo i vestiti che ho
addosso e un cambio nella mia sacca da viaggio. Se
vogliono posso anche prenderseli...»
«Il padre di Lash è consapevole della tua situazione
finanziaria. Alla luce di questo, vuole prenderti in casa
come domestico.»
Qhuinn sbiancò, agghiacciato. Uno schiavo... per il
resto della vita? Per i genitori di Lash?
«Questo», riprese Wrath, «dopo che sarai uscito di
prigione, naturalmente. E, a proposito, la razza ne ha
450
ancora una in funzione. A nord del confine con il
Canada.»
Qhuinn rimase impalato dov'era, completamente
imbambolato. Cavolo, in quanti modi diversi può finire
la vita, pensò. La morte non è l'unica via d'uscita.
«Tu cosa ne dici?» mormorò Wrath.
La prigione... Dio solo sapeva dove e per Dio solo
sapeva quanto tempo. La schiavitù... presso un famiglia
che lo avrebbe odiato fino alla morte.
Qhuinn pensò al tragitto compiuto nel tunnel sotto la
casa di Blay e alla decisione cui era pervenuto una volta
giunto in fondo.
«Ho gli occhi di due colori diversi», mormorò,
alzandoli Sul re. «Ma l'onore non mi manca. Farò tutto il
necessario per rimediare... purché», disse con improvvisa
fermezza, «purché nessuno mi costringa a chiedere scusa.
Questo... non posso accettarlo. Quello che ha fatto Lash è
peggio che sbagliato. E stato volutamente crudele e fatto
apposta per rovinare la vita di John. Io. Non. Sono.
Pentito.»
Wrath fece il giro della scrivania e attraversò la stanza
in due falcate. Passando davanti a Qhuinn disse,
«Risposta esatta, figliolo. Aspetta qui fuori col tuo amico.
Sarò da te tra qualche minuto.»
«Come, scus... che cosa?»
451
Il re aprì la porta e con un cenno impaziente del capo
ripeté, «Qui. Fuori.»
Qhuinn uscì incespicando dallo studio.
Com'è andata? Chiese John, balzando su da una sedia
addossata al muro del corridoio. Cos'è successo?
Qhuinn lo guardò; non se la sentiva di dirgli che prima
sarebbe finito in galera e, una volta rilasciato, lo
avrebbero preso in custodia i genitori di Lash, ansiosi di
torturarlo per il resto dei suoi giorni. «Ehm, poteva
andare peggio.»
Stai mentendo.
«No.»
Sei pallido come un morto.
«Be', che scoperta, mi hanno operato, tipo, ieri.»
Ma fammi il piacere. Cosa sta succedendo?
«A dire il vero, non ne ho la più pallida idea.»
«Scusate.» Era Beth,, la regina, con un'espressione
grave sul viso e in mano una scatola di cuoio lunga e
piatta. «Ragazzi? Devo entrare lì dentro.»
I due amici si scostarono e Beth entrò nello studio
chiudendosi la porta alle spalle.
452
John e Qhuinn
aspettarono.
aspettarono...
aspettarono...
e
Dio solo sapeva cosa stavano combinando là dentro il
re e la regina. Evidentemente ci voleva il giusto tempo
per sistemare le carte su cui era scritto il suo destino.
Come a Monopoli, quando si pesca la carta col peggiore
degli imprevisti: Andate in prigione direttamente senza
passare dal "Via!" e senza ritirare i 500 dollari.
John tirò fuori il cellulare, quasi avesse bisogno di
tenere le mani occupate, e lo controllò accigliato. Dopo
aver inviato un SMS se lo rimise in tasca.
Strano che Blay non si sia ancora fatto vivo.
Non proprio, pensò Qhuinn, sentendosi un gran figlio
di puttana.
Il re spalancò la porta. «Riportate il culo qua dentro.»
Ci fu uno scalpiccio di piedi e poi Wrath chiuse la
porta. Adesso erano tutti e quattro nello studio. Il re
tornò alla scrivania, parcheggiò le chiappe su quella sedia
da casa di bambola e sollevò gli enormi stivali sopra la
montagna di scartoffie. Quando Beth andò a piazzarsi al
suo fianco, la prese per mano.
«Voi ragazzi avete mai sentito parlare degli ahstrux
nohstrum?» Quando John e Qhuinn scossero la testa come
due idioti, Wrath fece un sorrisetto gelido, cattivo. «È una
posizione antiquata, una specie di corpo di guardia
privato, ma con licenza di uccidere per proteggere il
padrone. Sono killer col salvacondotto.»
453
Qhuinn deglutì sonoramente, chiedendosi
diavolo c'entrasse tutto ciò con lui e John.
cosa
Il re proseguì. «Gli ahstrux nohstrum possono essere
nominati solo per decreto reale e garantiscono un livello
di sicurezza simile a quello dei servizi segreti americani.
Il soggetto sottoposto a protezione dev'essere un
personaggio di rilievo e la guardia dev'essere
estremamente capace.» Wrath baciò la mano della regina.
«Un personaggio di rilievo è qualcuno la cui presenza è
importante a giudizio del re. Che poi sarei io. Ora... la
mia shellan, qui, è la cosa più preziosa al mondo, per me,
e non c'è nulla che non farei per evitare che soffra.
Inoltre, dal punto di vista della razza nel suo insieme, lei
è la regina. Di conseguenza il suo unico fratello rientra
senza alcun dubbio nella categoria dei personaggi di
rilievo.
«Quanto alla parte relativa alla competenza richiesta...
si dà il caso che abbia saputo, Qhuinn, che, a parte John,
tu eri il migliore del tuo corso di addestramento. Sei
micidiale nel corpo a corpo, hai un'ottima mira e...», il
tono del re si tinse d'ironia, «... sappiamo tutti quanto sei
bravo col coltello, giusto?»
Qhuinn si sentì pervadere da uno strano impeto, come
se una specie di foschia si fosse diradata rivelando un
sentiero inaspettato nel fitto della natura più selvaggia. Si
aggrappò al braccio di John per non perdere l'equilibrio,
anche se la cosa lo bollava come una femminuccia.
«C'è una cosa, però», disse il re. «Gli ahstrux nohstrum
sono tenuti a sacrificare la vita per la persona che
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proteggono. Se le cose si mettono male devono essere
ponti a morire. Ah, ed è un impegno a vita, a meno che io
non stabilisca diversamente. Io sono il solo a poterli
licenziare, mi sono spiegato?»
«Certo. Assolutamente», disse Qhuinn, d'impulso.
Wrath sorrise e prese la scatola che Beth aveva portato
con sé. Ne estrasse un grosso fascio di carte in fondo al
quale c'era un sigillo dorato con dei nastri di raso rossi e
neri. «Caspita, guarda un po' che roba.»
Come se niente fosse, gettò il documento dall'aria
ufficiale in fondo alla scrivania.
Qhuinn e John si chinarono insieme per leggere.
Nell'Antico Idioma il documento dichiarava che...
«Cazzarola», esclamò sottovoce Qhuinn, poi di scatto
guardò Beth. «Scusi, non volevo essere sboccato.»
Lei sorrise e baciò il suo hellren sulla testa. «Non fa
niente. Ho sentito di peggio.»
«Guarda la data», disse Wrath,
Era retrodatato... recava una data di due mesi prima.
Secondo il documento, Qhuinn figlio di Lohstrong, era
l'ahstrux nohstrum di John Matthew, figlio di Darius,
figlio di Marklon, sin dalla fine di giugno.
«Sono proprio una frana con le scartoffie», commentò
Wrath, sornione. «Mi ero dimenticato di avvertirvi. Colpa
mia. Dunque, naturalmente, ciò significa che tu, John, sei
455
responsabile del risarcimento pecuniario, perché il
soggetto sotto protezione deve saldare tutti i debiti
contratti in conseguenza della protezione stessa.»
Immediatamente John mosse le mani per dire,
Pagherò...
«No, un momento», lo interruppe Qhuinn. «Lui non ha
tutti quei soldi...»
«A questo punto il tuo amico vale una quarantina di
milioni, quindi può permetterselo senza problemi.»
Qhuinn guardò John. «Cosa? E perché cavolo lavori in
ufficio per pagarti i vestiti, allora?»
A chi devo intestare l'assegno? Chiese John, ignorandolo.
«Ai genitori di Lash. In qualità di direttore finanziario
della confraternita, Beth ti dirà a che conto è collegato,
giusto, leelan?» Wrath strinse con forza la mano di Beth e
le sorrise. Quando riportò l'attenzione su Qhuinn e John,
l'espressione adorante era sparita. «Qhuinn si trasferirà
qui da noi con effetto immediato, e percepirà un salario
di settantacinquemila dollari all'anno, che tu gli verserai.
E, Qhuinn, sei categoricamente escluso dal programma di
addestramento, ma ciò non impedisce a me e ai fratelli
di... be', non so, allenarci con te per tenerti in esercizio. In
fin dei conti ci teniamo ai nostri. E adesso tu sei uno di
noi.»
Qhuinn trasse un profondo sospiro. Poi un altro e
poi... «Devo... devo sedermi.»
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Come ima fottutissima mezzasega si avvicinò
barcollando a uno dei divani azzurro pallido. Mentre
tutti lo guardavano come se fossero sul punto di offrirgli
un sacchetto di carta dentro cui respirare o dei Kleenex, si
mise una mano nel punto in cui era stato operato nella
speranza di far credere che era tutta colpa della ferita,
invece che dell'emozione.
Il guaio era... che non riusciva a far entrare aria nei
polmoni. Non sapeva cosa cavolo gli stava entrando in
bocca ma, qualunque cosa fosse, non serviva
minimamente a dissipare il senso di vertigine che gli
annebbiava la mente o la sensazione di bruciore alla
cassa toracica.
Curiosamente, chi andò ad accovacciarsi davanti a lui
non fu John, e neppure la regina. Fu Wrath. D'un tratto il
re comparve nel suo offuscato campo visivo, gli occhiali
da sole e il volto crudele assolutamente incongrui
rispetto alla dolcezza della voce.
«Metti la testa tra le ginocchia, figliolo.» Il re gli posò
una mano sulla spalla e con delicatezza lo spinse giù.
«Coraggio.»
Qhuinn ubbidì, e cominciò a tremare tanto
violentemente che, se non fosse stato per il grosso palmo
di Wrath che lo teneva fermo, sarebbe caduto per terra.
Non voleva piangere. Si rifiutava di versare anche una
sola lacrima. Così, ansimando e tremando, si ritrovò in
un bagno di sudore freddo.
457
Sottovoce, in modo che solo Wrath potesse sentirlo,
bisbigliò, «Credevo... di essere solo come un cane.»
«Naa», fece Wrath, sempre a bassa voce. «Come ho già
detto, adesso sei uno di noi, capito?»
Qhuinn alzò gli occhi. «Ma io non sono nessuno.»
«Ah, al diavolo.» Il re scosse lentamente la testa. «Hai
salvato l'onore di John. Quindi, come ho detto, fai parte
della famiglia, figliolo.»
Qhuinn spostò gli occhi su Beth e John, che se ne
stavano fermi fianco a fianco. Attraverso il velo di
lacrime che non aveva versato, notò la somiglianza dei
capelli e degli occhi blu scuro.
Famiglia...
Raddrizzò la schiena e si alzò in piedi, ergendosi in
tutta la sua altezza. Sistemandosi camicia e capelli, finì di
ricomporsi e si avvicinò a John.
Con le spalle erette tese la mano al suo amico. «Sono
pronto a dare la vita per te. Con o senza quel pezzo di
carta.»
Mentre quelle parole gli uscivano di bocca, si rese
conto che erano la prima cosa da adulto che avesse mai
detto, la sua prima promessa in assoluto. E non gli veniva
in mente una persona migliore a cui offrirla, tranne forse
Blay.
458
John guardò in giù, poi afferrò la mano tesa dell'amico
in una stretta salda e forte. Non si abbracciarono, non
parlarono.
E io per te, sillabò John in silenzio quando i loro occhi si
incontrarono. E io... per te.
«Puoi chiedermi di Phury, se vuoi, quando avrai finito
con quello.»
Cormia si raddrizzò dal cero bianco che stava
accendendo e si voltò a guardare da sopra la spalla. Bella
era sdraiata supina sul grande letto all'altro capo della
stanza, una mano pallida e sottile sul pancione.
«Davvero, puoi», confermò con un pallido sorriso.
«Così avrò qualcos'altro a cui pensare. E in questo
momento ne ho bisogno,»
Cormia spense il fiammifero soffiandoci sopra. «Come
hai fatto a capire che stavo pensando a lui?»
«Hai quella che io chiamo "fronte da maschio". È
un'espressione accigliata che ti viene quando pensi al tuo
compagno e ti viene voglia di pigliarlo a pedate nel
sedere o di abbracciarlo stretto fino a togliergli il
respiro.»
«Il Primale non è mio.» Cormia sollevò il turibolo d'oro
facendolo girare tre volte intorno alla candela. La litania
che recitava era sommessa ma insistente, un'invocazione
alla Vergine Scriba affinché vegliasse su Bella e sul suo
piccolo.
459
«Lui non mi ama», disse Bella. «Non proprio.»
Cormia posò il turibolo su un tavolo nell'angolo più a
est della stanza e controllò con cura che le fiamme delle
tre candele fossero belle alte.
Il passato, il presente e il futuro.
«Hai sentito cos'ho detto? Phury non mi ama.»
Cormia strinse gli occhi con forza. «Sono convinta che
ti sbagli.»
«Lui crede di amarmi, ma non è così.»
«Con tutto il dovuto rispetto...»
«Tu lo desideri?»
Cormia avvampò al ricordo di quanto era accaduto in
sala proiezione. Rivisse le sensazioni che l'avevano
pervasa nel toccarlo... il senso di potere che aveva
provato col suo membro stretto tra le mani ... il modo in
cui lui aveva mosso la bocca sul suo seno.
«Prenderò quel rossore come un sì», disse Bella con
una risatina soffocata.
«Vergine santissima, non so proprio cosa dire.»
«Siediti qui vicino a me», disse Bella battendo la mano
sul letto. «Lascia che ti parli di lui. E che ti dica perché
sono sicura che non è innamorato di me.»
460
Se si metteva ad ascoltare perché il Primate non poteva
assolutamente sentirsi come credeva di sentirsi, si
sarebbe invaghita ancora di più di lui, Cormia ne era
certa.
Quindi, naturalmente, andò a sedersi sulla trapunta
accanto a Bella.
«Phury è una brava persona. Una persona di valore. È
capace di amare profondamente, ma ciò non significa che
sia innamorato di chiunque gli sta a cuore. Se voi due vi
concedete ancora un po' di tempo...»
«Io presto tornerò a casa.»
Bella inarcò le sopracciglia. «Dall'Altra Parte? Perché?»
«Sono qui da molto tempo.» Era troppo dura
confessare di essere stata scartata. Specialmente a Bella.
«Sono stata qui... abbastanza.»
Bella parve rattristata. «E se ne andrà anche Phury?»
«Non saprei.»
«Be', dovrebbe tornare per combattere.»
«Ah... sì.» Evidentemente Bella ancora non sapeva che
era stato rimosso dalla confraternita, e quello non era il
momento più adatto per sottoporla a spiacevoli shock.
Bella si passò la mano sul pancione. «Ti hanno
spiegato perché Phury è diventato Primale? Al posto di
Vishous, intendo.»
461
«No. Non sapevo neanche che ci fosse stata una
sostituzione finché non ho visto chi mi aveva raggiunta
nel tempio.»
«Più o meno all'epoca dei fatti, Vishous si è
innamorato della dottoressa Jane. Phury non voleva che
loro due si separassero, così si è offerto di sostituirlo.»
Bella scosse la testa. «Phury è fatto così, darà sempre la
precedenza agli altri. Sempre. È nella sua natura.»
«Lo so. Per questo lo ammiro tanto. Dalle mie parti...»
Cormia si sforzò di trovare le parole. «Per le Elette
l'altruismo è il più grande tra tutti i valori. Noi serviamo
la razza e la Vergine Scriba, e nel farlo anteponiamo con
gioia il tutto a noi stesse. Sacrificare se stessi per il bene
supremo, per ciò che è più importante dell'io, è la virtù
più grande. Ed è ciò che fa il Primale. Credo che sia...»
«Sì...?»
«Che sia questo il motivo per cui lo rispetto tanto. Be',
questo e la sua... la sua...»
Bella rise di gusto. «La sua mente acuta, giusto?
Chiaramente non c'entrano niente i suoi occhi gialli o
tutti quei capelli meravigliosi, eh?»
Cormia pensò che se già una volta il suo rossore aveva
parlato per lei, poteva rifarlo.
«Non c'è bisogno che rispondi», disse Bella con un
sorriso. «Phury è speciale. Ma, tornando alla generosità,
il fatto è questo: se passi troppo tempo a concentrarti su
quello che c'è fuori di te ti perdi. Ecco perché mi
preoccupo per lui, ed ecco perché so che non mi ama per
462
davvero. È convinto che io abbia salvato il suo gemello
offrendogli qualcosa che lui non era in grado di dargli.
Ciò che prova è gratitudine, una profonda gratitudine e
una sorta di idolatria, ma non è vero amore.»
«Come fate a esserne certa?»
Dopo un attimo di esitazione, Bella disse, «Chiedigli
dei suoi rapporti col sesso femminile. Così capirai.»
«Si è innamorato
preparandosi al peggio.
spesso?»
chiese
Cormia,
«Assolutamente no, tutt'altro.» Bella continuava ad
accarezzarsi il pancione. «Non sono affari miei, ma lo
dirò lo stesso. A parte il mio hellren non c'è un maschio
che io stimi più di Phury, e tu mi piaci molto. Se lui
continuerà a stare qui, spero che lo faccia anche tu. Mi
piace come lo guardi. E mi piace molto come ti guarda
lui.»
«Mi ha scartata.»
Bella alzò la testa di scatto. «Cosa?»
«Non sono più la Prima Sposa.»
«Accidenti.»
«Perciò dovrei proprio tornare al Santuario. Se non
altro per facilitare le cose all'Eletta che lui sceglierà per
rimpiazzarmi.»
463
Era la cosa giusta da dire, ma non ci credeva
veramente, e la voce tradì i suoi sentimenti. Persino lei ne
avvertiva la tensione.
Buffo, dire una cosa tenendo per sé ciò che pensava
veramente era una abilità che aveva affinato nel corso
della sua vita dall'Altra Parte. Quand'era là, mentire
veniva naturale come indossare la veste bianca,
raccogliersi i capelli e recitare a memoria i testi
cerimoniali.
Adesso invece era difficile,
«Senza offesa», disse Bella, «ma il mio bugiardometro
sta suonando.»
«Il tuo... bugiardometro?»
«Mi stai mentendo, Senti, posso darti un consiglio non
richiesto?»
«Ma certo.»
«Non lasciarti inghiottire da questa cosa delle Elette.
Se credi veramente in ciò che ti hanno insegnato, va bene,
ma se ti ritrovi di continuo a combattere contro una
vocina nella tua testa, allora significa che quel posto non
fa per te. Essere brava a mentire non è una virtù.»
Proprio così, pensò Cormia, Era esattamente ciò che
aveva sempre dovuto fare. Mentire.
Bella cambiò posizione, tirandosi un po' più su sui
cuscini, «Non so quanto sai sul mio conto, ma io ho un
464
fratello. Rehvenge. È un testone intrattabile, lo è sempre
stato, ma io gli voglio bene e siamo molto legati. Mio
padre è morto quando io avevo quattro anni e Rhev ha
preso il suo posto come capofamiglia per mia madre e
per me. Si è preso molta cura di noi due, ma era anche
soffocante da morire, così alla fine ho cambiato casa. Ho
dovuto.., Mi stava facendo impazzire. Gesù, avresti
dovuto sentire che litigate. Rehv era animato da buone
intenzioni, ma è un po' vecchio stampo, molto
tradizionalista, in pratica voleva decidere sempre tutto
lui.»
«Però sembra una persona di valore.»
«Oh, assolutamente. Ma il punto è che, dopo
venticinque anni sotto la sua tutela ero solo sua sorella,
non ero più me stessa, se capisci cosa intendo.» Bella
prese la mano di Cormia. «La cosa migliore che ho fatto
per me stessa è stata andarmene di casa e imparare a
conoscermi.» Il suo sguardo si fece assorto, tormentato.
«Non è stato facile, e ci sono state... delle conseguenze.
Ma malgrado tutto quello che ho dovuto passare, ti
raccomando vivamente di capire chi sei. Voglio dire, tu
sai che persona sei?»
«Sono una Eletta.»
«E poi?»
«Poi.,. basta.»
Bella le strinse la mano con forza, «Pensa a te stessa,
Cormia, e comincia dalle piccole cose, Qual è il tuo colore
465
preferito? Cosa ti piace mangiare? Ti piace alzarti presto?
Che cosa ti rende felice? E triste?»
Cormia guardò il turibolo all'altra estremità della
stanza e pensò a tutte le preghiere che conosceva,
preghiere adatte a ogni eventualità. E ai canti, E alle
cerimonie. Aveva tutto un vocabolario spirituale a sua
disposizione, non solo di parole, ma di gesti.
E quello era praticamente tutto. Oppure no?
Spostò gli occhi in quelli di Bella. «So che... mi
piacciono le rose color lavanda. E mi piace costruire delle
cose nella mia testa.»
Bella sorrise, poi nascose uno sbadiglio con il dorso
della mano. «Questo, amica mia, è un buon inizio. Allora,
vuoi finire di vedere Project Runway? Con la TV accesa ti
verrà più facile riflettere su te stessa, mentre stai qui con
me; mancano ancora venti minuti prima che Fritz ci porti
la cena.»
Cormia si mise comoda contro i cuscini accanto alla
sua... amica. Non sua sorella, la sua... amica. «Grazie,
Bella. Grazie.»
«Figurati, non c'è di che. Sai, adoro l'incenso. È molto
rilassante.»
Bella puntò il telecomando verso lo schermo piatto,
premette alcuni tasti e Tim Gunn comparve nella
sartoria, i capelli d'argento lisci e in ordine come un
tessuto ben stirato, davanti a lui una delle stiliste
466
scuoteva la testa guardando il vestito rosso che aveva
confezionato solo in parte.
«Grazie», ripeté di nuovo Cormia, senza voltarsi.
Bella si limitò a stringerle forte la mano, e tutte e due si
concentrarono sullo schermo.
467
Capitolo 29
Lash uscì barcollando dalla casa dei suoi genitori, con
tutte e due le mani insanguinate. Aveva le ginocchia
molli e camminava a scatti. Incespicando nei propri piedi
guardò in giù. Oh, Dio, quello schifo era anche sulla
camicia e sugli anfibi.
Mr D balzò giù dalla Focus. «È ferito?»
Lash non trovò le parole per rispondere. Fiacco e
tremante, riusciva a stento a reggersi in piedi. «Ci è
voluto... molto più di quanto pensassi.»
«Venga qui, signore, saliamo in macchina.»
Lash si lasciò aiutare dal piccoletto ad arrivare fino al
lato del passeggero e a sistemarsi sul sedile.
«Che cos'ha lì in mano, signore...»
Lash spinse da parte il tesser e si piegò in due in preda
a un urto di vomito. Dopo due conati, dalla bocca gli uscì
qualcosa di nero e oleoso che gli colò sul mento. Lui se lo
pulì con la mano e lo guardò.
Non era sangue. Almeno non del tipo che... «Li ho
uccisi», gracchiò.
468
Il lesser si inginocchiò di fronte a lui. «Certo, vedrà
come sarà orgoglioso il suo papà. Quei bastardi non sono
il suo futuro. Noi lo siamo.»
Lash cercò di non rivedere quelle scene nella sua testa.
«Mia madre è quella che ha strillato più forte. Quando mi
ha visto ammazzare mio padre.»
«Non suo padre. Non sua madre. Animali. Quelli là
dentro erano animali. È stato come uccidere un cervo... o,
sì, un topo, capisce? Una bestia schifosa.» Il non morto
scosse la testa. «Loro non c'entravano niente con lei, non
erano i suoi genitori. Lei credeva solo che lo fossero.»
Lash si guardò le mani. In ima c'era il coltello,
nell'altra una catena. «Quanto sangue.»
«Già, sanguinano un casino quei vampiri.»
Ci fu un lungo silenzio. Un silenzio che parve durare
un anno intero.
«Dica un po', signore, per caso c'è una piscina qui
intorno?» Quando Lash annuì, il lesser disse, «Qua
dietro?» Lash annuì di nuovo. «Okay, adesso la porto lì
così potrà darsi una bella lavata. Nel baule della
macchina ci sono dei vestiti puliti, così poi potrà
metterseli.»
Senza neanche accorgersene, Lash si ritrovò sotto la
doccia della piscina, a lavarsi via dalla pelle i resti dei
suoi genitori e a guardare il rosso del sangue incanalarsi
nello scarico ai suoi piedi. Sciacquò anche coltello e
469
catena e, quando uscì per asciugarsi, per prima cosa si
mise al collo la catena di acciaio inossidabile.
Dalla catena pendevano due medagliette. Una era la
medaglietta di riconoscimento del suo Rottweiler mentre
sull'altra c'era la data dell'ultima antirabbica di King.
Lash si cambiò in fretta e trasferì il portafogli di suo
padre dai calzoni sporchi che aveva prima a quelli puliti
che gli aveva procurato Mr D. Doveva continuare a usare
gli anfibi, ma le macchie di sangue ora erano meno rosse
e davano più sul marrone, il che le rendeva più
sopportabili.
Uscito dallo spogliatoio, trovò il piccoletto seduto su
uno dei tavolini col piano in vetro vicino alle sedie da
giardino.
Il lesser saltò giù subito. «Vuole che chiami i rinforzi?»
Lash guardò la villa in stile Tudor. All'andata aveva in
mente di saccheggiarla, di portare via tutto quello che
valeva qualcosa, di usare una pattuglia di quelle che
l'Omega gli aveva descritto come di una truppa per
svuotarla da cima a fondo, lasciando solo la tappezzeria e
le assi del pavimento.
Così, in stile Conan il Barbaro. Gli sembrava perfetto.
La dichiarazione ideale del suo nuovo status. Non ti
limiti a schiacciare i tuoi nemici, ma gli rubi i cavalli, dai
fuoco alle loro baracche e ascolti i lamenti delle loro
donne...
470
Solo che lui sapeva cosa c'era dentro quella casa,
questo era il guaio. Conteneva i cadaveri dei suoi genitori
e dei doggen. Stava guardando un mausoleo e l'idea di
violare la sacralità di quel luogo, di farlo invadere da un
branco di lesser per profanarlo era insopportabile.
«Voglio andare via di qui.»
«Allora torniamo dopo?»
«Portami subito via di qui e basta.»
«Come vuole.»
«Risposta esatta.»
Muovendosi come un vecchio, Lash tornò sul davanti
della casa tenendo gli occhi dritti davanti a sé, evitando
le finestre davanti a cui passava.
Quando aveva massacrato i doggen, in cucina, in forno
stava arrostendo un pollo, di quelli con dentro quegli
aggeggi che saltano su di scatto per farti capire quando è
ben cotto. Dopo aver massacrato anche l'ultimo dei
domestici, si era fermato davanti alla cucina Vi King e
aveva acceso la lucina. Il pollo era pronto.
Aveva aperto il cassettino sulla sinistra e tirato fuori
due guanti da forno a strisce bianche e rosse con sopra
l'etichetta Williams-Sonoma. Aveva spento il forno e
tirato fuori la teglia posandola sui fornelli. Il pollo era di
un bel marrone dorato con un ripieno di pane di
granturco. Le rigaglie, sul fondo, stavano insaporendo il
sugo.
471
Aveva spento anche le patate che stavano bollendo
nell'acqua.
«Portami via di qui», disse infilandosi in macchina.
Dovette aiutarsi con le mani per spostare dentro le
gambe.
Un attimo dopo il motore della Focus si mise in moto
con un rumore che ricordava una macchina da cucire e
quella carriola si avviò lungo il viale d'accesso. Nel
profondo silenzio dell'abitacolo, Lash tirò fuori il
portafoglio di suo padre dai pantaloni cargo nuovi, lo
aprì e passò in rassegna tesserini e carte di credito, ATM,
Visa, Black Centurion American Express...
«Dove vuole andare?» chiese Mr D quando giunsero
sulla Statale 22.
«Non lo so.»
Mr D gli lanciò un'occhiata. «Io ho accoppato mio
cugino. Avevo sedici anni. Era una carogna e mi è
piaciuto farlo, era giusto farlo. Però dopo mi sono sentito
male, in colpa. Per cui non c'è niente di strano se adesso
le sembra di averli traditi, mica deve scusarsi.»
L'idea che qualcuno capisse anche solo in minima
parte quello che stava passando faceva sembrare tutto
meno simile a un incubo. «Mi sento... morto.»
«Passerà.»
«No... non mi sentirò mai più... Oh, 'fanculo, chiudi il
becco e guida, okay?»
472
Lash estrasse l'ultimo tesserino mentre svoltavano a
destra sulla Statale 22. Era la falsa patente di guida di suo
padre. Appena posò gli occhi sulla foto gli venne il
voltastomaco. «Accosta!»
La Focus sterzò bruscamente verso il ciglio della
strada. Mentre un grosso SUV li superava, Lash aprì la
portiera e vomitò ancora un po' di roba nera.
Era perduto. Completamente perduto.
Che cosa diavolo aveva fatto? Chi era?
«So io dove portarla», disse Mr D. «Se chiude la
portiera l'accompagno in un posto dove si sentirà
meglio.»
E sia, pensò Lash. A quel punto avrebbe accettato
suggerimenti anche da una scodella di Rice Krispies.
«Qualunque posto... tranne che qui.»
La Focus fece inversione e puntò verso il centro di
Caldwell. Dopo neanche tre chilometri, Lash lanciò
un'occhiata al piccoletto. «Dove stiamo andando?»
«In un posto dove potrà tirare il fiato. Si fidi.»
Lash guardò fuori dal finestrino e si sentì un maledetto
finocchio. «Manda là una squadra», disse schiarendosi la
gola, «e digli di portare via tutto quello che si può.»
«Sissignore.»
473
Mentre Z, al volante della Escalade, risaliva il viale
d'accesso della sontuosa villa in stile Tudor dove
abitavano Lash e i suoi genitori, Phury, accigliato, si
slacciò la cintura di sicurezza. Ma che cavolo...?
Il portone era spalancato sulla notte estiva, il
lampadario acceso nell'atrio gettava una luce dorata sul
portico anteriore e sul paio di siepi ornamentali
sull'attenti ai due lati dell'ingresso.
Okay, qualcosa non quadrava. Le case in stile
coloniale, coi vasi sul portico e i nanetti nelle aiole,
possono avere la porta languidamente aperta, non c'è
niente di strano. O magari le villette in stile ranch, con le
bici davanti al garage e disegni a gessetto sui
marciapiedi. O al limite i caravan con i finestrini sfondati
e decrepite sedie di plastica sparpagliate nel prato pieno
di erbacce.
Ma le magioni in stile Tudor circondate da parchi
curatissimi non hanno il maestoso portone spalancato
sulla notte, non è normale. Sarebbe come se una
debuttante mostrasse il reggiseno perché non ha saputo
scegliere l'abito giusto.
Phury scese imprecando dal SUV. L'odore di sangue
fresco e di tesser era anche troppo familiare.
Zsadist impugnò una delle pistole e chiuse la portiera.
«Merda.»
Capirono subito che non avrebbero parlato con i
genitori di Lash di ciò che era accaduto al loro figlio. Era
474
molto probabile che si sarebbero trovati di fronte a dei
cadaveri.
«Chiama Butch», disse Zsadist. «Questa è una scena
del crimine.»
Phury aveva già il cellulare in mano e stava
componendo il numero. «È quello che sto facendo.»
Quando Butch rispose, disse, «Ci servono rinforzi qui,
subito. C'è stata un'irruzione.»
Prima di entrare in casa i gemelli si fermarono a
controllare la porta d'ingresso. Non c'erano segni di
effrazione e il sistema di sicurezza non stava suonando a
tutto spiano.
Non aveva senso. Se un tesser si fosse presentato alla
porta suonando il campanello nessun doggen lo avrebbe
mai fatto entrare. Impossibile. Quindi i lesser dovevano
essersi introdotti in casa da qualche altra parte per poi
uscire dalla porta principale.
E si erano dati un gran da fare, altro che. Sul lussuoso
tappeto orientale nell'atrio di marmo c'era una scia di
sangue... e non era fatta di gocce: sembrava che qualcuno
avesse passato sul pavimento un rullo da imbianchino.
La scia rossa andava dallo studio alla sala da pranzo.
Z girò a sinistra verso lo studio, mentre Phury andò a
destra entrando nella sala da...
«Ho trovato i cadaveri», disse brusco.
475
Capì subito quando Z vide Io spettacolo che aveva
davanti perché lo sentì ringhiare, «Cristo santissimo.»
I genitori di Lash erano seduti su due sedie in fondo al
tavolo, le spalle legate allo schienale in modo da farli
stare diritti. Il sangue, fuoriuscito dalle pugnalate al petto
e al collo, si era raccolto in una pozza sul lucido
pavimento ai loro piedi.
Le candele erano accese. Nei bicchieri qualcuno aveva
versato del vino. Sul tavolo, tra i due corpi, c'era un bel
pollo arrosto appena sfornato, tanto che l'aroma della
carne sovrastava il tanfo del sangue.
Su due sedie a destra e a sinistra della credenza erano
piazzati i cadaveri di due doggen, morti che dovevano
servire altri morti.
Phury scosse la testa. «Quanto ci scommetti che non ci
sono altri cadaveri in casa? Altrimenti sarebbero allineati
qui anche loro.»
I bei vestiti dei genitori di Lash erano stati rassettati
con cura, i tre fili di perle di sua madre in perfetto ordine,
così come la cravatta e la giacca di suo padre. I capelli
erano un disastro e le ferite erano roba da film dell'orrore
alla Rob Zombie, ma gli abiti macchiati di sangue erano
impeccabili. Sembravano due bambolotti morbosamente
macabri.
Z picchiò il pugno sul muro. «Bastardi schifosi... quei
fottuti lesser sono malati nella testa.»
«Puoi dirlo forte.»
476
«Controlliamo il resto della casa.»
Perlustrarono la biblioteca e la sala da musica e non
trovarono nulla. La dispensa era intatta. La cucina recava
segni di colluttazione compatibili con due omicidi ma, a
parte ciò, nient'altro... nessun indizio utile a identificare il
punto da cui erano entrati i lesser.
Il primo piano era pulito; le splendide camere da letto,
con le loro tende di lino, i pezzi d'antiquariato e i lussuosi
piumoni, sembravano appena uscite da Casabella. Al
secondo piano c'era una suite degna di un re che, a
giudicare dai manuali sulle armi da fuoco e le arti
marziali, oltre al computer e all'impianto stereo, doveva
essere la stanza di Lash. Era lustra come uno specchio.
In tutta la casa, a parte i punti in cui erano stati
commessi gli omicidi, non era stato toccato niente. Non
era stato rubato niente.
Tornati da basso, Zsadist esaminò in fretta i cadaveri
mentre Phury dava un'occhiata al pannello centrale del
sistema di sicurezza, fuori, vicino al garage.
Quand'ebbe terminato tornò dal gemello. «Ho
controllato gli allarmi. Non è stato violato o manomesso
niente, né tramite un codice né staccando la corrente.»
«Il padre non ha il portafoglio», disse Z, «ma ha
ancora al polso l'orologio, un Ebel. La madre ha al dito
l'anello di diamanti e un paio di orecchini giganti.»
Con le mani sui fianchi, Phury scuoteva la testa. «Due
irruzioni, qui e alla clinica. Entrambe senza saccheggio.»
477
«Almeno sappiamo come hanno trovato questo posto.
Sì, insomma, hanno rapito Lash e lo hanno torturato
finché non ha parlato. È l'unico modo. Non poteva avere
documenti con sé, quando
lo hanno portato via dalla clinica, quindi l'indirizzo
deve essere uscito dalla sua bocca.»
Phury si guardò intorno, soffermandosi su tutte le
opere d'arte alle pareti. «Qui c'è qualcosa che non quadra.
Di solito saccheggiano tutto.»
«Ma, supponendo che abbiamo preso il portafoglio del
padre, il grosso dei beni è in banca, di sicuro. Se riescono
ad accedere a quei conti possono rubare tutto in modo
più pulito.»
«Ma perché lasciare qua tutta questa roba?»
«Dove siete?» riecheggiò dall'atrio la voce di Rhage.
«Qui», gridò Z.
«Dobbiamo avvertire le altre famiglie della glymera»,
disse Phury. «Se Lash ha spifferato il suo indirizzo Dio
solo sa cos'altro gli hanno cavato fuori. Le conseguenze
potrebbero essere senza precedenti.»
Butch e Rhage entrarono nella stanza e lo sbirro scosse
la testa. «Merda, questo schifo mi riporta dritto dritto alla
Omicidi.»
«Cristo...» sospirò Hollywood.
478
«Sappiamo come sono entrati?» chiese il poliziotto,
girando intorno al tavolo.
«No, ma setacciamo di nuovo la casa», disse Phury.
«Non posso credere che siano entrati dalla porta
principale.»
Tutti e quattro salirono ai piani superiori. Giunti
davanti alla stanza di Lash, si fermarono scrollando la
testa.
Phury si guardò intorno, il cervello in fermento.
«Dobbiamo far girare la voce.»
«Be', guarda un po' qui», mormorò Z annuendo in
direzione di una finestra.
Un'auto stava svoltando nel viale d'accesso. Seguita da
una seconda. E da una terza.
«Ecco i tuoi saccheggiatori», disse il fratello.
«Teste di cazzo», sibilò Rhage con un ghigno tetro.
«Tempismo perfetto, però... ho giusto bisogno di un po'
di moto per smaltire la cena.»
«E sarebbe una scortesia imperdonabile non andare ad
accoglierli all'ingresso», bofonchiò Butch.
Istintivamente, Phury fece per aprire il giaccone, ma
poi rammentò che non c'erano pistole né pugnali da
brandire.
479
Dopo una frazione di secondo di imbarazzo, durante
la quale nessuno ebbe il coraggio di guardarlo in faccia,
disse, «Io torno al quartier generale e comincio a
contattare le altre famiglie della glymera. Informerò anche
Wrath.»
Gli altri tre annuirono tornando in fretta verso le scale.
Mentre loro scendevano di corsa per dare il benvenuto
ai lesser, Phury diede un'ultima occhiata alla camera da
letto. Quanto avrebbe voluto essere al loro fianco a
uccidere i figli di puttana responsabili di quel massacro.
Il mago lo affrontò nella sua mente. Non combatteranno
più con te perché non possono fidarsi di te. I soldati non
vogliono l'appoggio di gente inaffidabile.
Parliamoci chiaro, socio, tu hai chiuso su questo fronte. La
domanda è, quanto ci metterai a rovinare tutto anche con le
Elette?
Phury stava già per smaterializzarsi quando si fermò,
accigliandosi.
Dall'altra parte della stanza, sul comò, c'era una
macchia di qualcosa su una delle maniglie d'ottone dei
cassetti.
Phury andò a controllare più da vicino. Marrone
scuro... era sangue rappreso.
Aprì il cassetto; c'erano delle impronte insanguinate
sugli oggetti all'interno: sbaffi di sangue sull'orologio
Jacob & Co. tempestato di diamanti che Lash portava
480
prima della transizione, e anche su una catenina di
diamanti e su un grosso orecchino. Evidentemente era
stato asportato qualcosa dal cassetto, ma perché un lesser
avrebbe lasciato lì della roba tanto preziosa? Era difficile
immaginare cosa potesse valere più di tutti quei
diamanti, qualcosa di così piccolo da stare dentro un
cassettino.
Phury perlustrò con gli occhi la stanza: il portatile
Sony VAIO e l'iPod... e la dozzina di altri cassetti, tra
scrivania, comò e comodini. Erano tutti perfettamente
chiusi.
«Devi andare via.»
Phury si voltò. Sulla soglia c'era Z, con la pistola in
pugno.
«Vattene subito via di qui, Phury. Sei disarmato.»
«Potrei
rimediare»,
ribatté
Phury
lanciando
un'occhiata alla scrivania dove, sopra i libri di testo,
erano appoggiati un paio di pugnali. «In meno di un
secondo.»
«Vai.» Z scoprì le zanne. «Qui non sei d'aiuto.»
I primi rumori dello scontro riecheggiarono su per le
scale in una serie di grugniti e violente imprecazioni.
Il suo gemello si precipitò a difendere la razza e Phury
lo seguì con lo sguardo. Poi si smaterializzò dalla camera
da letto di Lash, diretto alla scrivania nell'ufficio del
centro di addestramento.
481
Capitolo 30
«Devi riposare», disse Cormia vedendo che Bella
sbadigliava di nuovo.
Fritz era appena passato a ritirare i piatti del Primo
Pasto. Bella aveva preso bistecca con purè di patate e
stracciatella alla menta come dessert. Cormia aveva
mangiato il purè... e un po' di gelato.
E lei che pensava che le M&M's fossero squisite!
Bella si accoccolò ancora di più contro i cuscini. «Sai,
credo che tu abbia ragione. Sono stanca. Forse possiamo
finire la maratona più tardi?»
«Mi sembra ottimo», disse Cormia scivolando giù dal
letto. «Avete bisogno di qualcosa?»
«No.» Bella chiuse gli occhi. «Ehi, prima che tu te ne
vada, di cosa sono fatte quelle candele? Sono
incredibilmente rilassanti.»
Contro la federa bianca di pizzo, Bella era
spaventosamente pallida. «Sono fatte con cose sacre
dell'Altra Parte. Cose sacre e terapeutiche. Erbe e fiori
miscelati con acqua della fontana della Vergine Scriba.»
«Sapevo che erano speciali.»
«Io resto nei paraggi», disse d'impulso Cormia.
482
«Bene.»
Cormia uscì dalla stanza facendo attenzione a
chiudere adagio la porta.
«Signora?»
Cormia si voltò. «Fritz? Credevo te ne fossi andato con
il vassoio.»
«L'ho fatto», disse il maggiordomo alzando il mazzo di
fiori che aveva in mano. «Stavo andando a sistemare
questi.»
«Che bei fiori.»
«Sono per il salotto al primo piano», spiegò Fritz
sfilando dal mazzo una rosa color lavanda e
offrendogliela. «Per voi, padrona.»
«Oh, grazie.» Cormia si portò al naso i petali delicati.
«Oh, che buon profumo.»
Poi trasalì nel sentire qualcosa contro la gamba.
Chinandosi, fece scorrere la mano sulla schiena
morbida e flessuosa del gatto nero. «Ehi, ciao, Boo.»
L'animale si appoggiò contro di lei facendo le fusa, il
suo corpo sorprendentemente forte la costrinse a spostare
il peso sull'altra gamba.
«Ti piacciono le rose?» gli chiese, offrendogli il fiore.
483
Boo scosse la testa spingendo il muso contro la mano
libera di Cormia, desideroso di attenzioni.
«Adoro questo gatto.»
«E lui adora voi», disse Fritz; poi, esitando, aggiunse,
«Padrona, se posso...»
«Cosa c'è?»
«Padron Phury è nell'ufficio del centro di
addestramento e credo che gli farebbe bene un po' di
compagnia. Forse potreste...»
Con un sonoro miao il gatto trotterellò verso il
sontuoso scalone agitando la coda. Se avesse avuto
braccia e mani, avrebbe indicato l'atrio sottostante.
Il maggiordomo rise. «Credo che sua signoria Boo sia
d'accordo.»
Il gatto miagolò di nuovo.
Cormia aumentò la stretta sul gambo della rosa,
raddrizzandosi. Forse era giusto così. Doveva informare
il Primale che stava per andarsene. «Mi farebbe piacere
vedere sua grazia, ma sei sicuro che sia il momento...»
«Bene, bene! Vi accompagno da lui.»
Il maggiordomo trotterellò fino al salotto e un attimo
dopo era già di ritorno. Aveva il passo scattante e una
luce radiosa in volto, come se godesse di quello che stava
facendo.
484
«Venite, padrona, scendiamo.»
Boo miagolò di nuovo facendo strada giù per le scale,
poi svoltò a sinistra, infilandosi in una porta nera
nascosta in un angolo. Il maggiordomo digitò un codice
d'accesso su un tastierino numerico e aprì quello che si
rivelò essere un pannello d'acciaio spesso una quindicina
di centimetri. Cormia seguì Fritz giù per un paio di
gradini... e si ritrovò in un tunnel che sembrava stendersi
all'infinito in entrambe le direzioni.
Guardandosi intorno, si strinse meglio nella tunica.
Era strano provare un senso di claustrofobia in mezzo a
tanto spazio, ma d'un tratto aveva realizzato che erano
intrappolati sottoterra.
«A proposito, il codice è 1914», disse il maggiordomo
controllando che la porta fosse ben chiusa. «L'anno in cui
è stata costruita la casa. Basta inserirlo in questi tastierini
per aprire tutte le porte lungo la strada. Il tunnel è di
cemento e acciaio e tutte le uscite sono sigillate. L'interno
è monitorato da un sistema di sicurezza. Ci sono
telecamere» - così dicendo indicò il soffitto - «e altri
dispositivi di monitoraggio. Qui siete al sicuro come in
casa o in giardino.»
«Grazie», disse Cormia, sorridendo. «Ero... un tantino
nervosa.»
«Più che comprensibile, signora.» Boo si strusciò
contro di lei, quasi a darle una piccola stretta di
rassicurazione alla mano.
485
«Da questa parte.» Il maggiordomo s'incamminò
strascicando i piedi, il volto rugoso raggiante. «Il padrone
sarà felice di vedervi.»
Cormia lo seguì, aggrappata alla sua rosa. Lungo il
tragitto cercò di formulare mentalmente l'addio più
adeguato e si ritrovò con gli occhi lucidi.
All'inizio aveva lottato contro quel suo destino, lottato
contro il ruolo di Prima Sposa. Eppure adesso che stava
per ottenere ciò che voleva piangeva la perdita che
accompagnava la sua relativa libertà.
Di sopra, nella galleria delle statue, John aprì la
seconda porta dopo quella di camera sua e accese la luce.
Qhuinn entrò con cautela nella stanza, come
augurandosi che le suole delle sue New Rock non fossero
infangate. «Bel posticino.»
Io dormo nella stanza accanto, spiegò a gesti John.
I loro cellulari emisero un trillo in contemporanea; era
un SMS da parte di Phury: Lezioni annullate x prossima
settimana, x altre info kollegarsi a sito Web protetto.
John scosse la testa. Lezioni annullate. Clinica devastata
e saccheggiata. Lash rapito... e probabilmente torturato.
Le ricadute di ciò che era accaduto nello spogliatoio
continuavano.
Le disgrazie... le disgrazie non vengono mai sole,
questo era il detto, ma adesso cominciavano a esagerare.
486
«Niente più lezioni, huh», mormorò Qhuinn, un po'
troppo indaffarato a posare la sacca da viaggio. «Per
nessuno.»
Dobbiamo contattare Blay, disse John. Mi pare impossibile
che non si faccia sentire da ieri sera. Forse dovremmo andare a
trovarlo subito.
Qhuinn andò a uno dei finestroni alti fino al soffitto e
scostò i pesanti tendaggi. «Non credo che abbia voglia di
vedermi tanto presto. Lo so che adesso mi stai chiedendo
perché. Fidati. Ha bisogno di stare un po' da solo.»
John scosse la testa e inviò a Blay il seguente
messaggio: Zero-Sum stasera xkè lezione saltata? Novità su
me e Q.
«Dirà che non può venire. Ammesso che tu gli stia
chiedendo di incontrarsi con noi.»
Qhuinn si voltò a guardarlo da sopra la spalla proprio
mentre il telefonino segnalava l'arrivo di un SMS. Il
messaggio di Blay diceva: Stanotte nn posso. Impegni
familiari. C sentiamo.
John si infilò il cellulare in tasca. Cosa è successo?
«Niente. Tutto... non so...»
Bussarono alla porta. Dal baccano doveva essere
qualcuno col pugno grosso come un macigno.
«Sì?» gridò Qhuinn.
487
Wrath entrò impettito. Sembrava ancora più tetro di
prima, come se altre cattive notizie fossero piombate
addosso alla confraternita. In mano stringeva una
valigetta nera di metallo e un groviglio di cuoio.
Li alzò entrambi, guardando serio Qhuinn. «Non c'è
bisogno che ti dica di non fare il cretino con queste,
giusto?»
«Ehm, no... signore. Ma che cosa sono?»
«Le tue nuove migliori amiche.» Il re posò la valigetta
sul letto, fece scattare due serrature nere e sollevò il
coperchio.
«Porca miseria!»
Porca miseria, esclamò muto John.
«Prego.»
All'interno, incuneate in una custodia grigia fatta con
lo stesso materiale dei cartoni per le uova, c'erano un
paio di micidiali quarantacinque automatiche Heckler &
Koch. Dopo aver controllato la camera di scoppio di una
di esse, Wrath la porse a Qhuinn, tenendola per la canna.
«V ti preparerà dei documenti d'identità nell'Antico
Idioma. Se la situazione diventa critica tirali fuori, e
chiunque ti stia dando fastidio dovrà vedersela con me.
Fritz ti procurerà tante di quelle munizioni da fare
invidia a un plotone di Marines.» Il re gettò a Qhuinn
quello che si rivelò essere un fodero da agganciare al
torace. «Quando sei con John non devi mai girare
488
disarmato. Anche in questa casa. Intesi? Questa è la
regola.»
Qhuinn alzò la pistola nel palmo. John si aspettava che
sparasse qualche battutaccia a doppio senso su quant'era
bello essere bene equipaggiati, invece l'amico disse,
«Voglio libero accesso al poligono di tiro. Devo potermi
esercitare almeno tre volte alla settimana. Minimo.»
Wrath increspò un angolo della bocca. «Vorrà dire che
gli daremo il tuo nome, cosa ne dici?»
Lì, muto, in mezzo a quei due, John si sentiva un
guardone, ma era affascinato dal repentino cambiamento
di Qhuinn. La facciata da buffone era sparita. Adesso era
serissimo e concentrato sul suo nuovo incarico, tutt'a un
tratto più duro dei suoi vestiti da duro.
Qhuinn indicò una porta. «Quella dà sulla camera da
letto di John?»
«Sì.»
«'Sera, ragazzi.»
Vishous entrò e gli occhi di Qhuinn non furono i soli a
spalancarsi. Il fratello stringeva tra le mani una pesante
catena con una medaglia a una delle estremità, un paio di
tenaglie e quella che sembrava una di quelle cassettine
portaesche usate dai pescatori.
«Siediti, ragazzo», disse V.
489
«Forza», lo incitò Wrath indicando il letto con un
cenno del capo. «È ora di lasciarsi incatenare,,, su quel
pendente è inciso lo stemma di John. Ti tocca anche un
bel tatuaggio. Questo è un impegno che dura tutta la vita,
come ti ho spiegato.»
Qhuin si sedette senza dire una parola; V andò a
piazzarsi alle sue spalle, gli mise la pesante catena
intorno al collo e con le tenaglie chiuse l'ultimo anello. Il
medaglione gli arrivava appena sotto le clavicole.
«Questo ti verrà tolto solo se muori o se ti fai
licenziare.» V gli diede una vigorosa pacca sulla spalla.
«A proposito, se ti danno il benservito, per le antiche
leggi la lettera di licenziamento sarà una ghigliottina,
chiaro? È così che recuperiamo la catena. Se invece tiri le
cuoia, romperemo una delle maglie. Perché profanare i
morti è volgare. E adesso passiamo al tatuaggio.»
Qhuinn fece per levarsi la maglietta. «Ne ho sempre
desiderato uno...»
«Quella puoi tenerla», disse V aprendo la cassettina e
tirando fuori una macchinetta per i tatuaggi; Qhuinn si
arrotolò una manica fin sopra la spalla. «No, neanche il
braccio mi serve.»
Qhuinn si accigliò; Vishous infilò la spina nella presa e
si infilò un paio di guanti di lattice neri. Sul bordo del
letto aprì un vasetto nero e uno rosso e un contenitore
più grande con dentro una soluzione trasparente.
«Girati verso di me.» Il fratello tirò fuori una striscia di
stoffa bianca e un tampone sterilizzante mentre Qhuinn
490
voltava le sue New Rock poggiando le mani sulle
ginocchia. «Guarda in su.»
Sulla faccia? pensò John mentre V disinfettava la
guancia sinistra dell'amico.
Qhuinn non si mosse di un millimetro. Neanche
quando vide avvicinarsi l'ago ronzante.
John cercò di sbirciare qual era il disegno, ma non ci
riuscì. Strano che venisse usato l'inchiostro rosso. Aveva
sentito che il nero era il solo colore consentito..,
Porco... giuda, pensò John quando V si tirò indietro.
Era una singola lacrima rossa bordata di nero.
«Sta a simboleggiare il fatto che sei pronto a versare il
tuo sangue per John», spiegò Wrath. «E serve anche per
far sapere a tutti, in termini inequivocabili, qual è il tuo
ruolo. Se John muore, verrà riempita con l'inchiostro
nero, a significare che hai servito in modo onorevole una
persona importante. Se non lo proteggerai a dovere,
verrà contornata da un rettangolo e sbarrata con una X
per mostrare che hai disonorato la nostra razza.»
Qhuinn si alzò e andò a guardarsi allo specchio. «Mi
piace.»
«Bene», disse asciutto V, avvicinandosi per cospargere
l'unguento trasparente sopra l'inchiostro.
«Puoi farmene un altro?»
491
V guardò Wrath, poi si strinse nelle spalle. «Cosa
vuoi?»
Qhuinn si indicò la nuca. «Ci voglio scrivere "18
agosto 2008", nell'Antico Idioma. E non farlo troppo
piccolo.»
La data di oggi, pensò John.
V annuì. «Okay. Si può fare. Però dovrà essere in nero.
Il rosso è riservato ai tatuaggi speciali.»
«Sì. Va bene.» Qhuinn tornò verso il letto e si sedette a
gambe incrociate sul bordo del materasso, poi chinò la
testa scoprendo la nuca. «I numeri si devono leggere
bene, per favore.»
«Li vuoi grandi.» «Sì.»
V rise. «Mi piaci, sai. Adesso tieni sollevata la catena e
lasciami lavorare.»
Fece relativamente in fretta, il ronzio lamentoso della
macchinetta fluttuava come il motore di un'automobile,
aumentando e diminuendo, aumentando e diminuendo.
V aggiunse alla base del disegno uno svolazzo artistico
che poi tracciò tutto intorno, in questo modo il tatuaggio
assomigliava a un'elegante targa.
Questa volta John si piazzò alle spalle di V e rimase a
osservare tutta l'operazione, dall'inizio alla fine. Le tre
righe di testo erano una meraviglia e, dato che Qhuinn
aveva il collo lungo e i capelli corti, sarebbero state
sempre in bella vista.
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Anche John ne voleva uno. Sì, ma quale?
«Ganzo», commentò V pulendo la pelle di Qhuinn con
la pezzuola un tempo bianca e ormai tutta macchiata.
«Grazie», disse Qhuinn mentre V gli spalmava ancora
un po' di quell'unguento; l'inchiostro fresco spiccava
vivido sulla pelle dorata. «Grazie mille.»
«Non l'hai ancora visto. Per quel che ne sai, potrei aver
scritto "Somaro".»
«Naa, non ho mai dubitato di te», disse Qhuinn con un
sorrisone.
Vishous ricambiò con un mezzo sorriso, il duro volto
tatuato mostrava tutta la sua approvazione. «Sì, be', non
sei di quelli che si muovono. Se ti muovi sei fottuto. Se
stai fermo ti becchi i tatuaggi migliori.»
V batté il palmo contro quello del ragazzo, poi raccolse
il suo armamentario e uscì mentre Qhuinn andava in
bagno a controllare il tatuaggio allo specchio.
È bellissimo, disse John alle sue spalle. Proprio bellissimo.
«È esattamente quello che volevo», mormorò Qhuinn
guardando la scritta che copriva tutta la nuca.
Quando i due amici uscirono dal bagno Wrath si infilò
la mano nella tasca posteriore dei calzoni, tirò fuori un
mazzo di chiavi e lo porse a Qhuinn. «Queste sono della
Mercedes. Per qualunque spostamento con John usa
493
questa macchina finché non te ne procureremo un'altra. È
blindata, e veloce come un razzo.»
«Posso ancora portarlo allo ZeroSum?»
«Non è mica un prigioniero.»
John batté il piede con forza e a gesti disse, Non sono
neanche una femminuccia.
Wrath proruppe in una risata. «Non ho mai detto che
lo fossi. John, dai al tuo amico le parole d'ordine per tutte
le porte, per il tunnel e per il cancello.»
«E le lezioni?» chiese Qhuinn. «Quando riprenderanno
posso restare con John anche se sono stato espulso?»
Wrath si fermò sulla porta. «Ci penseremo quando
sarà il momento. Il futuro è incerto. Come al solito,
cazzo.»
Dopo che il re se ne fu andato, John pensò a Blay.
Avrebbe dovuto essere lì a condividere tutto questo con
loro.
Vorrei andare allo ZeroSum, disse a gesti.
«Perché? Credi che servirebbe a tirar fuori di casa
Blay?» Qhuinn andò alla valigetta e caricò l'altra pistola,
il caricatore scivolò al suo posto con un sussurro e un
clic.
Dimmi cosa sta succedendo. Subito.
494
Qhuinn si agganciò le fondine ascellari e ci infilò
dentro le pistole. Aveva un'aria... potente. Letale. Con i
corti capelli scuri, i piercing all'orecchio e il tatuaggio
sotto l'occhio azzurro, se John non avesse saputo chi era
lo avrebbe preso per un fratello.
Che cosa è successo tra te e Blay?
«Ho rotto con lui, e l'ho fatto in malo modo.»
Dio buono... Perché?
«Dovevo finire in galera per omicidio, ricordi? Blay si
sarebbe consumato preoccupandosi per me. Si sarebbe
rovinato la vita. Meglio che mi odi piuttosto che sentirsi
solo per il resto dei suoi giorni.»
Senza offesa, ma sei davvero così importante per lui?
Qhuinn gli scoccò uno sguardo penetrante con i suoi
occhi di due colori diversi. «Sì. E non farmi domande in
proposito.»
John sapeva riconoscere una linea di confine quando la
incontrava: in parole povere, era appena andato a
sbattere contro un muro di cemento armato circondato
da filo spinato.
Voglio comunque andare allo ZeroSum, e voglio comunque
dargli la possibilità di uscire con noi.
Qhuinn tirò fuori una giacca leggera dal borsone e
mentre se la infilava parve ricomporsi. Quando si voltò, il
495
suo tipico sorriso sornione era tornato al suo posto.
«Ogni vostro desiderio è un ordine, mio principe.»
Non chiamarmi così.
Uscendo, John inviò un altro SMS a Blay, sperando che
prima o poi si facesse vivo. Forse, se non gli dava tregua,
alla fine si sarebbe arreso.
«Allora come dovrei chiamarti?» scherzò Qhuinn
balzando davanti a lui per aprirgli la porta con gesto
teatrale. «Preferisci "mio signore"?»
Dacci un taglio, per favore.
«Cosa ne dici del buon vecchio "padrone"?» Quando
John gli scoccò un'occhiataccia, Qhuinn si strinse nelle
spalle. «E va bene. Vada per zuccone, allora. Ma te la sei
cercata, io ti avevo dato ampia libertà di scelta.»
496
Capitolo 31
C'erano due cose che la glymera prediligeva sopra ogni
altra: un bel ricevimento e un bel funerale.
Con il massacro dei genitori di Lash le ottenne
entrambe.
Seduto davanti al computer nell'ufficio del centro di
addestramento, Phury sentiva un dolore pulsante
proprio dietro l'occhio sinistro. Era come se il mago
stesse martellando il nervo ottico con un punteruolo da
ghiaccio.
In realtà è un trapano, socio, puntualizzò il mago.
Giusto, pensò Phury. Naturale.
Fai del sarcasmo? disse il mago. Ah, giusto, avevi in
programma di diventare un tossico spacciato e una delusione
per i tuoi fratelli e adesso che ci sei riuscito mi diventi
insolente. Sai, forse dovresti tenere un seminario: il metodo in
dieci tappe di Phury, figlio di Ahgony, per avere successo come
fallito assoluto e irrecuperabile.
Posso iniziare io? Partiamo dalle basi: nascere.
Phury piantò i gomiti ai due lati del portatile e si
massaggiò le tempie, sforzandosi di restare aggrappato al
mondo reale invece che al cimitero del mago.
497
Con gli occhi fissi sullo schermo luminoso del
computer, pensò a tutta la merda che si stava riversando
nella casella di posta elettronica della confraternita. La
glymera semplicemente non aveva capito la situazione.
Nel messaggio che aveva inviato ai membri
dell'aristocrazia, Phury li aveva informati degli attacchi
sollecitandoli a lasciare Caldwell per rifugiarsi nelle loro
case sicure. Aveva scelto le parole con estrema cura,
attento a non scatenare il panico, ma evidentemente non
era stato abbastanza macabro.
Per quanto, veniva da pensare, il brutale assassinio del
loro leahdyre e della sua shellan nella loro stessa casa
dovesse bastare.
Dio, c'erano stati tanti di quei morti per mano della
Lessening Society nelle ultime due notti... e a giudicare
dalle reazioni della glymera ce ne sarebbero stati altri.
Molto presto.
Lash sapeva dove abitava ogni famiglia aristocratica,
in città, dunque era probabile che una fetta consistente
della glymera fosse in pericolo. Non c'era neanche bisogno
che quel poveretto, sotto tortura, spifferasse tutti gli
indirizzi. Se i lesser si introducevano in un paio di quelle
case avrebbero trovato indizi sufficienti a localizzarne
molte altre: rubriche, inviti alle feste, programmi di
riunioni. Le rivelazioni di Lash sarebbero state come un
terremoto che colpisce una faglia devastando il
paesaggio.
Ma la glymera avrebbe dimostrato un minimo di
intelligenza di fronte a una minaccia di tale portata? No.
498
A leggere la e-mail che aveva appena ricevuto dal
tesoriere del Consiglio dei Princeps, quegli idioti, invece
di trasferirsi nelle case sicure, dovevano piangere la
"sconcertante perdita di una coppia di valore tanto
insigne" organizzando l'ennesimo party.
Così potevano scatenare una lotta di potere per
stabilire chi doveva essere il prossimo leahdyre, c'era da
scommetterci.
E in conclusione, il tizio aveva buttato lì che il
Consiglio della glymera avrebbe riscosso il debito dovuto
alla famiglia di Lash in conseguenza delle azioni di
Qhuinn.
Be', che generosità. Non che volessero la grana tutta
per sé per... diciamo... festeggiare un nuovo leahdyre. Che
diamine, no. Stavano solo "salvaguardando un
precedente importante: assicurarsi che i misfatti
venissero puniti."
Sì, come no.
Grazie a Dio Qhuinn si era liberato di quella gente,
anche se la sua nomina ad ahstrux nohstrum di John, da
parte di Wrath, era stata uno shock. Mossa azzardata,
specie perché retroattiva. E per quella che all'apparenza
era una rissa in una doccia che Qhuinn aveva fermato in
modo inopportuno? Doveva esserci sotto qualcos'altro,
qualcosa che veniva tenuto segreto. Altrimenti non aveva
senso.
La glymera avrebbe scoperto che Wrath stava
proteggendo Qhuinn, e prima o poi quella nomina si
499
sarebbe ritorta contro il re. Malgrado ciò, Phury era lieto
che fosse finita così. John, Blay e Qhuinn erano la crema
del gruppo dei tirocinanti, mentre Lash... be', Lash aveva
sempre portato guai.
Qhuinn aveva gli occhi di due colori diversi, certo, ma
quello col difetto era Lash. C'era sempre stato qualcosa
che non andava in lui.
Il computer emise un bip e un'altra e-mail finì nella
posta in entrata della confraternita. Stavolta era il braccio
destro del defunto leahdyre. Ma guarda! Il tizio invocava
una "ferma presa di posizione contro questa tragica serie
di perdite, che in ultima istanza è una vile minaccia alla
sicurezza delle nostre abitazioni. In questo momento la
cosa migliore è stringersi tutti insieme per celebrare i riti
funebri in onore dei nostri cari defunti..."
Okay, quando si dice la stupidità. Chiunque con un
briciolo di cervello, avrebbe riempito il set coordinato di
valigie Louis Vuitton e si sarebbe fiondato fuori città
finché le acque non si fossero calmate. Ma invece no,
quelli preferivano tirar fuori ghette e guanti e fare finta di
essere in uno dei film della premiata ditta MerchantIvory, tutti in gramaglie e con le debite espressioni di
cordoglio. Gli sembrava già di sentire le ricercate, ipocrite
frasi di circostanza che si sarebbero palleggiati
vicendevolmente, mentre doggen in livrea offrivano
sfogliatine ai funghi seguite da un garbato scontro per il
controllo politico.
Sperava solo che tornassero in sé perché, per quanto lo
facessero imbestialire, non voleva che si svegliassero
500
morti, per così dire. Wrath poteva sempre ordinare a tutti
di lasciare Caldwell, ma era probabile che questo li
avrebbe spinti a impuntarsi ancora di più. Il re e
l'aristocrazia non erano amici, anzi, a stento erano alleati.
Arrivò un'altra e-mail, sempre dello stesso tenore.
"Resteremo qui e daremo un ricevimento"
Cribbio, aveva bisogno di uno spinello.
E aveva bisogno di...
L'anta dell'armadio si aprì e Cormia emerse dal
passaggio segreto che immetteva nel tunnel. Nella bella
mano affusolata aveva una rosa color lavanda e un
pudico riserbo sul viso.
«Cormia?» fece Phury, sentendosi subito ridicolo.
Come se a un certo punto della giornata lei avesse
cambiato nome facendosi chiamare Trixie o Irene.
«Qualcosa non va?»
«Non volevo disturbarvi. Fritz mi ha suggerito...» così
dicendo Cormia si voltò, come se si aspettasse di trovare
il maggiordomo alle sue spalle. «Ehm... mi ha portata
qui.»
Phury si alzò in piedi; che fosse una forma di
risarcimento da parte del maggiordomo per
l'intempestiva interruzione della notte prima? In tal caso
quel doggen era un eroe. «Ne sono lieto.»
Be', forse lieto non era proprio il termine esatto.
Disgraziatamente, la sua urgenza di fumare fu sostituita
501
dall'urgenza di fare qualcos'altro con la bocca. Qualcosa
che comportava comunque l'atto di succhiare.
Arrivò un'altra e-mail e il laptop la segnalò con un bip.
Tutti e due guardarono il computer.
«Se siete occupato posso andare...»
«No.» La glymera era come un muro di gomma e, visto
e considerato che aveva già l'emicrania, non c'era motivo
di continuare a sbattere la testa contro la loro caparbietà.
Purtroppo non poteva fare altro fino al verificarsi della
prossima tragedia, che lui avrebbe comunicato via email...
Anzi, quell'incombenza non sarebbe toccata a lui, no?
Era alla tastiera solo perché tutti gli altri erano impegnati
in ben altre faccende, da sbrigare con l'aiuto dèi pugnali.
«Come stai?» chiese per non pensarci. E perché gli
interessava la risposta.
Cormia si guardò intorno. «Non avrei mai immaginato
che quaggiù ci fosse tutto questo.»
«Ti andrebbe di fare un giro?»
Lei esitò e tese la mano in cui stringeva la perfetta rosa
color lavanda... lo stesso colore del braccialetto che le
aveva regalato John Matthew. «Credo che il mio fiore
abbia bisogno di bere.»
«Provvedo subito.» Desideroso di darle qualcosa,
qualsiasi cosa, Phury si avvicinò a una confezione da
502
ventiquattro di Poland Spring e tirò fuori una bottiglia.
La stappò, bevve una sorsata per abbassare il livello
dell'acqua, e poi la posò sulla scrivania. «Qui ce n'è
abbastanza per farla felice.»
Rimase a fissare le mani di Cormia mentre lei infilava
la rosa in quel vaso improvvisato. Erano così belle,
pallide e... moriva dalla voglia di sentirle sulla pelle.
Dappertutto.
Si alzò e girò intorno della scrivania, tirando fuori la
camicia dai calzoni per coprire l'inguine. Detestava la
sciatteria nel vestire, ma meglio apparire trasandato che
correre il rischio di mostrarle quant'era su di giri.
Perché lo era. Altro che se lo era. Aveva la sensazione
che con lei sarebbe sempre stato così: qualcosa, quando
era venuto nella sua mano, la notte prima, aveva
cambiato tutto.
Le tenne aperta la porta che dava sul corridoio. «Vieni
a vedere il nostro centro di addestramento.»
Cormia lo seguì fuori dall'ufficio e lui le fece fare il
giro di tutta la struttura, mostrandole la palestra, il
deposito attrezzi, la sala per la fisioterapia e il poligono
di tiro, e illustrandole le varie attività che vi si
svolgevano. Cormia pareva interessata, ma rimase per lo
più in silenzio, e Phury ebbe la sensazione che volesse
dirgli qualcosa.
Poteva immaginare cosa.
503
Voleva tornare dall'Altra Parte.
Davanti allo spogliatoio si fermò. «Qui è dove i ragazzi
si fanno la doccia e si cambiano. Le aule sono lì in fondo.»
Cristo, non voleva che lei se ne andasse. Ma cosa
diavolo si aspettava che facesse? L'aveva lasciata senza
più un ruolo da svolgere, lì sulla Terra.
Sei tu a non avere più nessun ruolo, qui, rimarcò il mago.
«Vieni, ti faccio vedere una delle aule», disse per tirare
un po' più in lungo le cose.
La portò nell'aula dove faceva lezione lui, provando
un curioso senso di orgoglio nel mostrarle dove lavorava.
Dove aveva lavorato.
«Che cos'è quello?» chiese Cormia, indicando la
lavagna coperta di figure.
«Ah... sì...» Phury andò alla lavagna e cancellò in fretta
l'analisi delle vittime di una bomba esplosa nel centro di
Caldwell.
Cormia incrociò le braccia sul petto, ma sembrava un
tentativo di trattenersi più che un gesto difensivo.
«Credete che non sappia cosa fa la confraternita?»
«Ciò non significa che voglia rammentartelo.»
«Pensate di rientrare nella confraternita?»
504
Phury rimase impietrito. Deve averglielo detto Bella,
pensò. «Non sapevo che fossi a conoscenza della mia
espulsione.»
«Perdonate, non sono affari miei...»
«No, non fa niente... e, no, credo che i miei giorni da
guerriero siano finiti.» La guardò da sopra la spalla e
rimase colpito da quanto era perfetta così, appoggiata a
braccia conserte contro uno dei banchi dove sedevano gli
allievi. «Ehi... ti spiace se ti faccio un ritratto?»
Lei arrossì. «Penso... bè, se lo desiderate. Devo fare
qualcosa?»
«Resta dove sei e basta.» Phury rimise a posto il
cancellino sul bordo della lavagna e prese un gessetto.
«In effetti, potresti sciogliere i capelli?»
Non ottenendo risposta si voltò e rimase sorpreso nel
vederla con le mani tra i capelli, che armeggiava con le
forcine dorate. Una dopo l'altra, le lunghe ciocche bionde
e ondulate caddero sulle spalle incorniciandole il viso e il
collo.
Anche sotto alle luci fluorescenti dell'aula Cormia era
uno splendore.
«Siediti sopra il banco», disse Phury. Aveva la voce
roca. «Per favore.»
Lei ubbidì e accavallò le gambe... e, per la miseria, la
veste si aprì fin sopra la coscia. Quando Cormia fece per
chiuderla, lui sussurrò, «Lascia.»
505
Le mani di lei si fermarono, poi si ritrassero posandosi
di piatto sul banco per sostenere il peso del busto. «Così
va bene?»
«Non. Muoverti.»
Phury se la prese comoda. Il gesso divenne un
surrogato delle sue mani; scorreva su tutto il corpo di
Cormia indugiando sul collo, sul turgore dei seni, sulla
curva dei fianchi e sulla lunga e vellutata distesa delle
gambe. Trasferendo la sua immagine sulla lavagna fece
l'amore con lei, accompagnato in sottofondo dal raschiare
del gesso.
O forse era il suo respiro.
«Siete molto bravo», disse a un certo punto Cormia.
Lui era troppo indaffarato e avido di guardarla per
risponderle, troppo preso da ciò che immaginava di farle
una volta terminato il ritratto.
Dopo un'eternità durata un solo istante, fece un passo
indietro per valutare il proprio lavoro. Perfetto. Era lei,
ma anche di più -sebbene nel disegno ci fosse una
sfumatura erotica che non poteva sfuggire neanche a lei.
Non voleva scioccarla, ma non avrebbe potuto
modificare quell'aspetto del suo lavoro. Era in ogni linea
del suo corpo, nella posa e nel viso. Cormia era l'ideale
sessuale femminile. Almeno per lui.
«È finito», disse brusco.
«Quella... sarei io?»
506
«È come ti vedo io.»
Ci fu un lungo silenzio. Poi con una sorta di sconcerto
Cormia disse, «Mi trovate bella.»
«Sì», disse lui facendo scorrere il dito lungo le linee
che aveva tracciato. Il silenzio dilatava la distanza che li
separava, mettendolo a disagio. «Beh, allora...» disse.
«Non possiamo lasciarlo qui così...»
«Per favore! No!» esclamò lei, tendendo una mano.
«Lasciate che mi guardi ancora un po'. Vi prego.»
Okay. Bene. Tutto quello che voleva. Diamine, a quel
punto poteva ordinare al suo cuore di non battere e
quello avrebbe ubbidito allegramente. Cormia era
diventata la sua torre di controllo, la padrona del suo
corpo, qualunque cosa gli avesse detto di fare, dire o
prendere, lui l'avrebbe accontentata. Senza fare
domande. Con qualunque mezzo.
In un angolo della sua mente sapeva che tutto ciò era
tipico dei vampiri innamorati: la tua femmina ti
comandava, punto e basta. Ma lui non poteva
innamorarsi di lei, giusto?
«È così bello», disse Cormia, gli occhi verdi fissi sulla
lavagna.
Phury si voltò a guardarla. «Quella sei tu, Cormia. Tu
sei così.»
Lei ebbe un guizzo nello sguardo, poi, come in
imbarazzo, si chiuse lo spacco nella tunica.
507
«Per favore, no», sussurrò Phury, riecheggiando le
parole che poco prima aveva detto lei. «Lasciami
guardare ancora un po'. Ti prego.»
La tensione tra loro era palpabile, sul punto di
esplodere.
«Scusa», disse Phury, seccato con se stesso. «Non
volevo metterti in...»
Cormia abbassò le mani e il voluttuoso tessuto bianco
si riaprì con la docilità incondizionata di un cagnolino,
tanto che gli venne voglia di accarezzarlo sulla testa e
dargli un osso.
«Hai un odore fortissimo», disse lei in un sussurro
sensuale.
«Sì.» Phury posò il gesso inspirando il profumo di
gelsomino. «Anche tu.»
«Hai voglia di baciarmi, vero?»
Lui annuì. «Sì.»
«Hai tirato la camicia fuori dai calzoni. Perché?»
«Sono eccitato. Mi è venuto duro appena sei entrata
nell'ufficio.»
Con un ansito, Cormia fece scorrere lo sguardo dal
petto di lui fino ai fianchi. Vedendola schiudere le labbra,
Phury capì subito a cosa stava pensando: a lui che le
veniva in mano.
508
«È incredibile», disse in un soffio lei. «Quando sono
con te, così, tutto il resto non conta. A parte...»
Phury le andò vicino. «Lo so.»
Quando si fermò di fronte a lei, Cormia alzò gli occhi.
«Pensi di baciarmi?»
«Se vuoi.»
«Non dovremmo», disse lei, posandogli le mani sul
petto. Ma non lo spinse via. Si aggrappò alla sua camicia
come fosse un'ancora di salvezza. «Non dovremmo.»
«Vero», fece lui, infilandole dietro l'orecchio una
ciocca ribelle. Il bisogno disperato di penetrarla in
qualche modo, in qualunque modo, gli mandò in
cortocircuito il lobo frontale. Ritto di fronte a lei sentiva
solo i suoi istinti più bassi, i bisogni primordiali di un
maschio. «Ma può essere una cosa molto intima, Cormia.
Una cosa tra te e me.»
«Una cosa intima... mi piace l'intimità.» Sollevò il
mento, offrendogli ciò che desiderava.
«Anche a me», gemette lui, piegandosi sulle ginocchia.
Lei parve confusa. «Credevo che volessi baciarmi...»
«Infatti.» Phury strinse i palmi intorno alle sue caviglie
e li fece scorrere su e giù lungo i polpacci. «Muoio dalla
voglia.»
«Ma allora perché...»
509
Con delicatezza, lui le scavallò le gambe e la veste che fosse benedetta - si aprì completamente,
mostrandogli tutto: i fianchi, le cosce e la piccola fessura
che tanto bramava.
Leccandosi le labbra, Phury fece scivolare le mani
lungo l'interno delle gambe di lei, allargandole adagio,
inesorabilmente. Con un sospiro erotico, Cormia si piegò
all'indietro per fargli spazio, rassicurandolo sulle proprie
intenzioni, confermandogli che anche lei voleva farlo, che
era pronta proprio come lui.
«Sdraiati», disse lui. «Sdraiati e allarga le gambe.»
Oh, cazzo... Era morbida come panna mentre si
abbandonava all'indietro fino a stendersi sul banco.
«Così?» «Sì... proprio così.»
Phury fece scorrere il palmo dietro una delle sue
gambe, facendole poggiare il piede sulla propria spalla.
Cominciò a baciarle il polpaccio e poi seguì il percorso
tracciato dalle sue carezze, salendo sempre più su. A
metà coscia fece una pausa per controllare se lei stava
bene. Cormia lo guardava con gli occhi verdi spalancati,
le dita sulle labbra, il respiro affannoso.
«Sei pronta?» le chiese in un roco sussurro. «Perché
una volta iniziato sarà dura fermarsi, e non voglio
spaventarti.»
«Che cosa vuoi farmi?»
510
«La stessa cosa che mi hai fatto tu ieri notte con la
mano. Solo che userò la bocca.»
Lei gemette, rovesciando gli occhi. «Oh, santissima
Vergine Scriba...»
«È un sì?» «Sì.»
«Ti piacerà. Fidati», disse Phury, apprestandosi a
slacciarle il vestito.
E, merda, sì, sapeva di non mentire. Una parte di lui
sapeva con assoluta certezza che l'avrebbe fatta godere,
anche se era la prima volta che ci provava.
Sciolse la cintura e aprì la tunica.
Finalmente la vide in tutta la sua nudità, dai seni alti e
sodi alla piatta distesa del ventre, dalle belle labbra
pallide alla vulva. Quando Cormia abbassò la mano sul
monte di Venere, era identica al ritratto che le aveva fatto
il giorno prima, sensualissima, femminile e potente... solo
che adesso era vera, in carne e ossa.
«Gesù... Cristo.» Nella sua bocca le zanne si
allungarono, rammentandogli che non si nutriva da
parecchio tempo. Incapace di trattenere un verso
gutturale, a metà tra la richiesta e la supplica, non
avrebbe saputo dire quanto di quel gemito fosse dovuto
al sesso di lei e quanto invece al suo sangue.
Ma aveva qualche importanza?
«Cormia... ho bisogno di te.»
511
Il modo in cui lei allargò le gambe fu un regalo che
non aveva confronti con i doni ricevuti in passato: con
quel gesto gli permise di vedere il nido rosato che
cercava. Era già lucida di umori.
E lui l'avrebbe eccitata ancora di più.
Con un grugnito si chinò a posare la bocca su di lei,
puntando dritto al cuore del suo corpo.
Entrambi urlarono. Lei gli infilò le mani tra i capelli e
lui le afferrò le cosce con forza, spingendosi ancora più
all'interno. Era così calda contro le sue labbra, calda e
bagnata, e lui la rese ancora più calda e bagnata baciando
il suo sesso con trasporto. Cormia gemette; l'istinto ebbe
la meglio su entrambi, spianando la strada a gesti più
audaci; Phury prese a leccarla con foga mentre lei
dimenava i fianchi.
Dio, che suoni incredibili.
E il sapore era ancora più incredibile.
Phury alzò gli occhi, spingendo lo sguardo oltre il suo
ventre, fino ai seni, assalito dal bisogno irrefrenabile di
toccarle i piccoli capezzoli. Li pizzicò con delicatezza e
poi li accarezzò con i pollici.
Il modo in cui lei si inarcò lo spinse sull'orlo
dell'orgasmo. Era davvero troppo.
«Muoviti più in fretta», disse Phury. «Ti prego... Dio,
muoviti contro di me.»
512
Quando Cormia cominciò a dimenare l'inguine, Phury
tirò fuori la lingua lasciando che lei lo cavalcasse a suo
piacimento, godendo di quella frizione. Non ce la fece ad
andare avanti così per molto, però, divorato com'era dal
bisogno di annullare ogni distanza tra loro.
Intrappolandole i fianchi tra le mani, premette la faccia
contro di lei, dal mento al naso; adesso sentiva solo il suo
sapore, solo il suo odore, e perse la cognizione di tutto il
resto.
Poi giunse il momento di fare davvero sul serio.
Phury cominciò a titillare con insistenza la sommità
della vulva; l'ansito che le sfuggì gli confermò che aveva
trovato il punto giusto. Quando Cormia cominciò a
muovere i fianchi con impeto crescente, lui le prese la
mano per rassicurarla. Lei si aggrappò al palmo che le
veniva offerto con tale forza da lasciargli il segno delle
unghie. Fantastico. Voleva quei segni a mezzaluna anche
sulla schiena... anche sul sedere, mentre la trapanava
senza tregua.
Voleva stare tutto addosso a lei, dentro di lei.
Voleva lasciarle il segno anche lui.
Cormia sapeva che il proprio corpo stava facendo
esattamente ciò che il giorno prima aveva fatto quello del
Primale. La tempesta che si stava addensando, la smania
che sentiva crescere dentro di sé e il fuoco che la divorava
le dicevano che si trovava nello stesso punto in cui era
stato lui.
Sull'orlo del baratro.
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Tra le sue gambe il Primale era enorme, le spalle larghe
la spalancavano completamente. Gli splendidi capelli
multicolori le coprivano le cosce e la sua bocca aderiva
alla vulva, labbra contro labbra, lingua viscida contro
pieghe scivolose. Sembrava tutto così magnifico,
spaventoso e inevitabile... e l'unico motivo per cui non si
sentiva completamente sopraffatta era la mano di lui
sulla sua.
Quel tocco era meglio di qualunque parola di
rassicurazione, sotto molti aspetti... ma soprattutto
perché, per provare a parlarle, lui avrebbe dovuto
interrompere ciò che stava facendo, e sarebbe stato un
delitto.
Proprio quando cominciava a temere di andare in
frantumi, un'ondata di energia la travolse trascinandola
verso l'alto e poi via, verso un altro luogo, mentre il suo
corpo sussultava ritmicamente. Allorché tutta quella
meravigliosa tensione si liberò di colpo, il piacere fu così
intenso che le vennero le lacrime agli occhi e gridò
qualcosa... o forse non era niente, solo un'esplosione di
fiato.
Dopo, quando tutto fu passato, il Primate alzò la testa
con un'ultima, lenta carezza della lingua, prima di
staccarsi dal suo sesso.
«Stai bene?» chiese, gli occhi gialli e selvaggi.
Lei aprì la bocca per parlare. Quando non ne uscì nulla
di coerente, annuì.
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Il Primale si leccò le labbra con tutta calma, lasciando
intravedere la punta delle zanne... che divennero ancora
più lunghe quando le guardò il collo.
Piegare la testa di lato e offrirgli la vena fu la cosa più
naturale del mondo.
«Bevete da me», disse Cormia.
Col fuoco nello sguardo il Primale strisciò sopra di lei,
baciandole il ventre e indugiando su uno dei capezzoli,
che leccò con grande trasporto. Poi le sue zanne furono
sulla gola di Cormia. «Sei sicura?» «Sì... oh, DIO!»
La trafisse con forza, a fondo, e fu tutto così fulmineo...
proprio come lei se l'era immaginato. Lui era un fratello
in cerca di quello che serviva al sostentamento di tutti
loro, e lei non era un oggetto fragile che rischiava di
rompersi. Gli offrì il suo sangue e lui lo prese, e dentro di
sé sentì montare di nuovo quella tensione selvaggia.
Si agitò sul banco, spalancando le gambe.
«Prendetemi. Mentre succhiate... entrate dentro di me.»
Senza staccarsi dal suo collo, il Primate armeggiò con i
calzoni con un ringhio selvaggio, facendo sbattere contro
il tavolo la fibbia della cintura. La spostò brutalmente
verso il bordo, piantò le mani dietro le sue ginocchia e le
allargò le gambe.
Cormia sentì una pressione rovente, vigorosa...
Ma poi lui si fermò.
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A poco a poco, invece di succhiarla, prese a leccarla e a
darle dei piccoli baci, poi smise del tutto restando
perfettamente immobile, a parte il respiro. Cormia
sentiva ancora il fuoco nel sangue di lui, sentiva ancora il
suo odore penetrante, la smania per la sua vena, ma lui
non si muoveva anche se lei era lì, a sua completa
disposizione.
Il Primale le lasciò andare le gambe, con delicatezza le
abbassò e le sollevò il busto, affondandole la testa nella
spalla.
Lei lo strinse con dolcezza, rischiando di rimanere
schiacciata sotto il peso spaventoso del suo corpo, in
equilibrio tra il tavolo e il pavimento.
«State bene?» gli sussurrò all'orecchio.
Phury mosse la testa avanti e indietro, premendosi
ancora di più contro di lei. «Devi sapere una cosa.»
«Cosa vi angustia?» chiese Cormia, accarezzandogli la
spalla. «Parlate.»
Lui disse qualcosa che lei non colse, «Come?» «Sono.,,
vergine.»
516
Capitolo 32
«Stanotte?» chiese Xhex. «Vai su a nord stanotte?»
Rehv annuì e riprese a esaminare i progetti edilizi per il
suo nuovo club. I fasci di carte con gli schizzi
architettonici
azzurri,
allargati
sulla
scrivania,
sommergevano tutto il resto delle scartoffie.
No. Non era quello che voleva. La struttura generale
non andava bene... era troppo aperta. Lui voleva un
locale pieno di piccoli spazi dove i clienti potessero
appartarsi nell'ombra. Voleva una pista da ballo, certo,
ma non quadrata. Voleva qualcosa di insolito. Che
facesse accapponare la pelle. Qualcosa di vagamente
minaccioso e molto elegante. Voleva che il club fosse un
misto tra Edgar Allan Poe, Bram Stoker e Jack lo
Squartatore, con tante cromature nichelate e un'orgia di
nero lucido. Un incrocio tra lo stile vittoriano e il gotico
moderno.
La roba che stava guardando, invece, assomigliava a
qualunque altro club in città.
Spinse via i progetti e controllò l'orologio. «Devo
andare.»
Xhex incrociò le braccia sul petto, ritta davanti alla
porta dell'ufficio.
«E, no, tu non vieni», disse Rehvenge.
517
«Voglio venire.»
«È uno spiacevole déja vu? Non abbiamo già vissuto la
stessa scena due sere fa? Oltre che un altro centinaio di
altre volte? La risposta è, e sarà sempre, no.»
«Perché?» sbottò lei. «Non ho mai capito perché. Trez
lo hai lasciato venire, però.»
«Trez è diverso.» Rehv si infilò la pelliccia di zibellino
e aprì il cassetto della scrivania. Il nuovo paio di Glock
calibro quaranta che aveva appena acquistato si
adattavano alla perfezione alle fondine che si era
agganciato sotto il completo Bottega Veneta. , «So quello
che fai. Con lei.»
Rehv rimase impietrito. Poi continuò a infilare le
pistole nelle fondine. «Certo che lo sai. Mi vedo con lei, le
do i soldi e me ne vado.»
«Non fai solo questo.»
«Sì, invece», ribatté lui scoprendo le zanne per un
attimo.
«No, invece. È questo che non vuoi farmi vedere?»
Rehv serrò i denti con forza, guardandola torvo
all'altro capo dell'ufficio. «Non c'è niente da vedere.
Punto.»
Xhex cedeva di rado, ma ebbe il buon senso di non
tirare troppo la corda. Con gli occhi che ribollivano di
518
rabbia, disse, «I cambiamenti di programma non sono
una bella cosa. Ti ha detto perché?»
«No», rispose Rehv andando alla porta. «Ma andrà
tutto come al solito.»
«Non è mai come al solito. Solo che te lo sei
dimenticato.»
Rehvenge pensò a tutti gli anni di quello schifo e al
fatto che il futuro non gli riservava cambiamenti di sorta.
«Dimenticato? Non sai quanto ti sbagli. Fidati.»
«Dimmi una cosa. Se lei tentasse di farti del male,
spareresti per ucciderla?»
«Dimmi che non me lo hai chiesto.»
Quell'argomento di conversazione da solo bastava a
fargli venir voglia di scorticarsi vivo e mandare la pelle in
tintoria. L'idea che Xhex osasse sfidarlo su una cosa che
lui non voleva guardare troppo da vicino era
inammissibile.
Una parte di lui adorava quello che faceva una volta al
mese, questa era la verità. E quella realtà era
assolutamente insostenibile quando si trovava nel suo
mondo abituale, il mondo in cui la dopamina gli
consentiva di vivere, un mondo relativamente normale e
sano.
Quella scheggia di orrore nel suo cuore era qualcosa
che non aveva la minima intenzione di condividere non
nessuno.
519
Xhex si mise le mani sui fianchi e alzò il mento di
scatto, la sua classica posa quando litigavano.
«Chiamami, quando hai finito.»
«Lo faccio sempre.»
Rehvenge raccolse i progetti per il nuovo club, prese la
sacca da viaggio e uscì dall'ufficio. Nel vicolo di fianco al
locale, Trez lo aspettava a bordo della Bendey; appena
vide Rehv lasciò il posto di guida.
La voce del Moro comparve nella testa di Rehv,
profonda e melodiosa. SARÒ LÀ TRA UNA
MEZZ'ORETTA PER PERLUSTRARE LA ZONA E
CONTROLLARE IL CAPANNO.
«Okay.»
DIMMI CHE NON SEI IMBOTTITO DI DOPAMINA
Rehv gli diede una pacca sulla spalla. «Non mi faccio
da un'ora. E, sì, ho con me l'antidoto al veleno.»
BENE. GUIDA PIANO, COGLIONE.
«No. Vedrò di centrare qualche camion carico di tronchi e
qualche cervo vagante.»
Trez chiuse la portiera e fece un passo indietro.
Incrociando le braccia sul petto massiccio, increspò le
labbra in imo dei suoi rari sorrisi e le zanne bianche
brillarono nel bel volto scuro. Per una frazione di
secondo nel suo sguardo si accese un lampo verde oliva,
l'equivalente moresco di una strizzatina d'occhio.
520
Rehvenge partì. Era lieto di poter contare sull'aiuto di
Trez. Il Moro e suo fratello, iAm, conoscevano un sacco
di trucchetti in grado di mettere in crisi anche un
symphath. In fin dei conti erano membri eminenti della
s'Hisbe delle Ombre.
Rehv lanciò un'occhiata all'orologio della Bendey.
Aveva appuntamento con la Principessa per l'una di
notte. Considerato che era un viaggio di due ore in
direzione nord e che adesso erano le undici e un quarto,
doveva guidare come un pazzo.
Premendo sull'acceleratore pensò a Xhex. Non voleva
sapere come fosse venuta a conoscenza della faccenda del
sesso... sperava ardentemente che continuasse a
rispettare il suo volere e che non le saltasse in mente di
raggiungerlo acquattandosi nell'ombra.
Non doveva scoprire che lui non era nient'altro che
una puttana.
Da una parte Phury non riusciva a credere di essersi
lasciato sfuggire di bocca le parole «sono vergine»,
dall'altra, era felice di averle dette.
Non aveva idea di cosa pensasse Cormia, però. Lei era
muta come una tomba.
Si ritrasse quanto bastava per rimettersi il membro nei
calzoni e tirare su la cerniera, poi le raddrizzò la veste,
unendo le due falde e coprendo il suo splendido corpo.
Nel silenzio della stanza si mise a camminare avanti e
indietro, dalla porta alla parete di fronte e ritorno.
521
Lei seguiva ogni sua mossa con gli occhi. Dio, cosa
diavolo stava pensando?
«Non dovrebbe avere importanza, immagino », disse
alla fine Phury. «Non so perché l'ho tirato fuori.»
«Com'è possibile... no, scusate. È una domanda così
sconveniente...»
«No, non mi dispiace spiegare.» Fece una pausa, non
sapendo se lei avesse letto qualcosa sul passato di
Zsadist. «Ho fatto un voto di castità, quand'ero giovane.
Per essere più forte. E l'ho rispettato.»
Non proprio, socio, intervenne il mago. Perché non le
racconti della puttana. Dille della prostituta che hai pagato allo
ZeroSum, che ti sei portato in uno dei bagni e con cui non sei
riuscito a venire.
È proprio da te essere eccezionale anche in questo. Tipico.
L'unico vergine zozzo sulla faccia della terra.
Phury si fermò davanti al ritratto che aveva tracciato
stilla lavagna. Aveva rovinato tutto.
Prese un gesso e, a partire dai piedi, cominciò a
disegnare i tralci d'edera.
«Cosa state facendo?» chiese Cormia. «Così lo
rovinate.»
Ah, piccola, rispose il mago. Per quanto sia bravo a
disegnare, è ancora più bravo a rovinare.
522
In breve, la magnifica figura di Cormia venne coperta
di una coltre di rampicanti. Quand'ebbe finito, Phury fece
un passo indietro. «Una volta ho provato a fare sesso. Ma
non ci sono riuscito.»
«Come mai?» chiese lei con voce tesa.
«Non era giusto. Non era la persona giusta. Mi sono
fermato.»
Ci fu una pausa e poi un fruscio quando Cormia scese
dal banco. «Proprio come adesso con me.»
«No, non è...» esclamò lui voltandosi di scatto.
«Vi siete fermato, no? Avete scelto di non continuare.»
«Cormia, non è che ...»
«Per chi vi state conservando?» Lo fissava con due
occhi incredibilmente acuti. «O invece è qualcos'altro?
Sono le fantasie che vi ispira Bella? È questo che vi ha
bloccato? Se è così, mi spiace per le Elette. Ma se invece la
castità serve a tenervi isolato e al sicuro, mi spiace per
voi. Quella forza è una menzogna.»
Aveva ragione, pensò Phury. Accidenti a lui, Cormia
aveva proprio ragione.
Lei si raccolse i capelli e lo guardò con la dignità di
una regina mentre li puntava con le forcine. «Tornerò al
Santuario. Vi auguro ogni bene.»
523
Si voltò e Phury la raggiunse di corsa. «Cormia,
aspetta...»
Quando fece per afferrarle il braccio, lei lo allontanò.
«Perché dovrei aspettare? Cosa cambierebbe? Niente.
Andate con le altre, se ci riuscite. E se non ci riuscite,
dovrete farvi da parte affinché qualcun altro possa essere
la forza di cui ha bisogno la razza.»
Ciò detto uscì, chiudendosi la porta alle spalle.
Fermo nell'aula vuota, con la risata del mago che gli
risuonava nelle orecchie, Phury chiuse gli occhi e sentì il
mondo restringersi intorno a sé, finché passato, presente
e futuro non gli tolsero il respiro, trasformandolo in una
delle statue del giardino avvizzito e pieno di erbacce
della sua famiglia.
Quella forza è una menzogna...
Nel silenzio che lo circondava, le parole di Cormia
continuavano a riecheggiargli senza fine nella testa.
524
Capitolo 33
«Ma è un semplice club», disse il figlio dell'Omega con
voce insieme abbattuta e seccata.
Mr D spense l'asmatico motore della Focus e lo
guardò. «Già. E qui troveremo quello che le serve.»
Avevano girato per un bel po' senza meta perché il
figlio dell'Omega non la finiva più di dare di stomaco.
L'ultima crisi era stata una quarantina di minuti prima,
però, per cui Mr D era ragionevolmente sicuro che le cose
si fossero sistemate. Difficile dire se tutto quel dare di
stomaco era dovuto a quello che il figlio dell'Omega
aveva dovuto fare o se invece la causa era la sua
affiliazione. In un caso come nell'altro, Mr D si era preso
cura di lui, a un certo punto reggendogli addirittura la
testa perché il ragazzo era troppo debole per tenerla su
da solo.
Screamer's era il posto giusto per loro. Il figlio del
Male non sarebbe stato in grado di mangiare o di fare
sesso, ma lì erano sicuri di trovare una cosa: umani
ubriachi da usare come punching ball.
Per quanto stanco e nervoso, il figlio dell'Omega aveva
una forza nelle vene, una forza che andava scatenata. Il
club e i suoi idioti erano la pistola. Il figlio dell'Omega la
pallottola.
525
E una bella rissa avrebbe ravvivato le cose alla grande.
«Coraggio, andiamo», disse Mr D scendendo dall'auto.
«È una cazzata.» Le parole potevano suonare forti, ma
il tono era ancora quello di un ragazzo col silos delle
granaglie vuoto.
«No.» Mr D fece il giro della macchina, gli aprì la
portiera e lo aiutò a scendere. «Deve fidarsi di me.»
Attraversarono la strada e, quando il buttafuori in
cima alla fila di clienti in attesa scoccò un'occhiataccia a
Mr D, lui gli allungò cinquanta sacchi e ottenne il
permesso di entrare subito.
«Ce ne stiamo qui tranquilli per un po'», disse Mr D
facendosi strada tra la calca di gente fino al bar.
Un rap duro rimbombava per tutto il locale mentre
donne vestite di cuoio si aggiravano in cerca di polli da
spennare e gli uomini si guardavano in cagnesco.
Mr D capì di aver visto giusto quando il figlio
dell'Omega fulminò con lo sguardo un gruppo di
studentelli che facevano un gran baccano tracannando
roba forte in bicchieri da martini.
«Sì, tiriamo solo un po' il fiato», disse soddisfatto Mr
D.
«Cosa vi porto?» chiese il barista.
Mr D sorrise. «Per noi niente...»
526
«Un Patron», disse il figlio dell'Omega.
Quando il barista si allontanò, Mr D si chinò verso il
ragazzo. «Non può più mangiare. E neanche bere o fare
sesso.»
Il figlio dell'Omega ruotò su di lui gli occhi sbiaditi.
«Cosa? Mi stai prendendo per i fondelli?»
«Nossignore, è così che...»
«Sì, sì, 'fanculo.» Quando arrivò il bicchiere che aveva
ordinato, il figlio dell'Omega disse al barista, «Segna sul
mio conto.»
Poi buttò giù d'un fiato la tequila guardando torvo Mr
D. Mr D scosse la testa cercando di localizzare il
gabinetto. Ragazzi, una volta aveva provato a mangiare e
poi aveva tirato su per un'ora. Non ne avevano già avuto
abbastanza, per quella notte?
«Dov'è il secondo?» sbraitò Lash rivolto al barista.
Mr D voltò la testa di scatto. Il figlio dell'Omega, ritto
in piedi e felice come ima pasqua, tamburellava le dita
sul bancone. Arrivò il secondo bicchierino. Poi il terzo.
Dopo aver ordinato il quarto, Lash lo fissò con un
lampo di aggressività negli occhi pallidi. «Allora, cos'è
'sta storia che non potrei più mangiare né bere?»
Mr D non capiva se stava guardando una bomba
pronta a esplodere... o un miracolo. I lesser non erano in
grado di ingerire cibi o bevande, una volta affiliati. Il
527
sangue nero dell'Omega forniva loro il nutrimento ed era
incompatibile con qualsiasi altra cosa. Tutto ciò di cui
avevano bisogno per sopravvivere era un paio d'ore di
riposo al giorno.
«Penso che lei sia diverso», disse Mr D con voce colma
di rispetto.
«Puoi dirlo forte», bofonchiò il figlio dell'Omega, e poi
ordinò un hamburger.
Mangiando e bevendo, il ragazzo riprendeva colore a
vista d'occhio; anche il suo sguardo stralunato lasciò il
posto a una rinnovata sicurezza. Guardando l'hamburger
con patatine fritte e tutta quella tequila finire giù nel
gargarozzo di Lash, Mr D non potè fare a meno di
chiedersi se sarebbe sbiadito come tutti gli altri tesser. Era
evidente che nel suo caso non valevano le solite regole.
«E cos'è questa stronzata che non potrei fare sesso?»
disse il figlio dell'Omega pulendosi la bocca con un
tovagliolino di carta nero.
«Noi siamo impotenti. Capisce, non possiamo...»
«So cosa significa, professore.»
Il figlio dell'Omega adocchiò una bionda dall'aria
disponibile in fondo al bancone. Mr D non avrebbe avuto
il fegato di rimorchiarla neanche se fosse stato in grado di
farselo rizzare. Con quel corpo da Playboy e la faccia da
reginetta del ballo, l'avrebbe scartata in partenza come
fuori dalla sua portata. Non che lei lo avrebbe notato,
tanto per cominciare.
528
La bionda notò il figlio dell'Omega, però, e da come lo
guardava, Mr D fu spinto a valutare il suo nuovo capo
con grande attenzione. Con quei capelli biondi tagliati
corti, il volto scolpito e gli occhi grigi, Lash era un gran
bel figlio di puttana. E aveva il tipo di fisico che faceva
impazzire le donne, alto e muscoloso, il torace un
triangolo rovesciato con alla base i fianchi stretti, pronti a
ogni sorta di impresa.
Se fossero stati ancora a scuola, Mr D sarebbe stato
fiero di farsi vedere in compagnia del figlio dell'Omega.
E anche di uscire con la gente del suo giro.
Ma quella non era la scuola, e Lash aveva bisogno di
lui. E lo sapeva, anche.
La ragazza in fondo al bancone sorrise al figlio
dell'Omega, tirò fuori la ciliegia che galleggiava nel suo
drink azzurro e ci girò intorno la lingua rosa.
Era facile immaginarsela mentre faceva la stessa cosa
con un paio di palle e Mr D dovette distogliere lo
sguardo. Eh sì, se fosse stato ancora umano sarebbe
diventato rosso come un peperone. Era sempre stato uno
che arrossiva un casino quando si trattava di ragazze.
Il figlio dell'Omega scivolò giù dallo sgabello. «Niente
cibo e niente sesso, eh? Sì, come no. Aspetta qui,
coglione.»
Così dicendo, gli diede le spalle avviandosi verso la
bionda.
529
Rimasto solo al bar con un bicchierino di tequila vuoto
e un piatto unto e sporco di ketchup, Mr D pensò che in
fondo ci aveva azzeccato. Voleva distrarre il figlio
dell'Omega, spingerlo a pensare a qualcosa di diverso
dallo scempio dei suoi genitori adottivi... solo che lui
aveva in mente una bella scazzottata.
Invece quello si era fatto un bel pranzetto e anche una
bella bevuta. E adesso avrebbe coronato il tutto con una
gran scopata, cancellando dalla memoria quella brutta
esperienza.
Quando il barista gli chiese se voleva qualcosa, Mr D
scosse la testa. Che gran peccato non potersi più
concedere un cicchetto. A lui piaceva il SoCo, il Southern
Comfort. Si sarebbe fatto volentieri anche un
bell'hamburger. Un tempo andava matto per gli
hamburger, cavolo.
«Hai niente per me, Sam?»
Mr D si voltò. Un pezzo di marcantonio con un sorriso
beota e un ego smisurato si era stravaccato sul bancone e
guardava il barista. Sotto il giubbotto di pelle nera, con
una favolosa aquila ricamata sulla schiena, portava dei
jeans di tre taglie più grandi e un paio di robusti
scarponi, tipo quelli usati dai carpentieri. Al collo aveva
delle catenine di diamanti e al polso un vistoso orologio.
Mr D non era un patito di gioielli, ma gli piaceva un
casino l'anello del tipo, uno di quelli che i genitori
regalano ai figli quando si diplomano. Era d'oro giallo,
diversamente da tutto il resto, con al centro una pietra
azzurro pallido.
530
A Mr D sarebbe piaciuto prendersi un diploma.
«Sì, qualcosa c'è», rispose il barista avvicinandosi, e
annuì in direzione del gruppo di ragazzi che poco prima
avevano fatto incazzare il figlio dell'Omega. «Ho detto a
quelli chi cercare.»
«Bene.» Il marcantonio tirò fuori di tasca qualcosa e i
due si strinsero la mano.
Grana, pensò Mr D.
Il marcantonio fece un sorrisone raddrizzandosi il
giubbotto di pelle, con l'anello che mandava bagliori di
un azzurro vivo. Si avvicinò ai ragazzi di lato, poi si voltò
come se volesse mostrare loro il dorso del giubbotto.
Ci fu un po' di trambusto e poi mani che si infilavano
in tasca, strette di mano e poi di nuovo mani in tasca.
La cosa non passò inosservata. Gli altri clienti
osservavano la scena ed era evidente che quelli non si
stavano scambiando dei biglietti da visita.
Quel tipo non sarebbe stato in affari ancora per molto,
pensò Mr D.
«Sicuro che non vuole niente?» gli chiese il barista.
Mr D lanciò un'occhiata in direzione del bagno, dove
Lash aveva portato la bionda. «Naa, grazie, sto solo
aspettando il mio amico.»
531
«Scommetto che gli ci vorrà un bel po'», ghignò il
barista. «Quella è una che ci sa fare, mi sa.»
Su in camera Cormia raccolse tutta la sua roba... che
non era molta.
Con gli occhi fissi sul mucchietto di tuniche, libri di
preghiere e turiboli realizzò con un'imprecazione che
aveva dimenticato la sua rosa nell'ufficio. Ma tanto non
avrebbe potuto portarla con sé al Santuario. Le uniche
cose terrestri consentite erano quelle di importanza
storica.
In senso lato, naturalmente.
Lanciò un'occhiata alla sua ultima - non solo nel senso
di più recente, ma in assoluto - costruzione di
stuzzicadenti e piselli.
Che ipocrita era stata a criticare il Primale per aver
cercato forza nella separazione: lei cosa stava facendo?
Stava lasciando quel mondo che la metteva
continuamente alla prova con l'intenzione di cercare un
isolamento ancora più profondo di quello che aveva
conosciuto in passato come Eletta.
Le vennero le lacrime agli occhi...
Qualcuno bussò piano alla porta.
«Un momento!» gridò, cercando di calmarsi. Quando
finalmente andò ad aprire, sgranò gli occhi stringendosi
la veste intorno al collo per nascondere il segno del
morso. «Sorella?»
532
Sulla soglia c'era l'Eletta Layla, incantevole come
sempre. «Salve.»
«Salve.»
Si scambiarono due inchini lunghi e profondi, la cosa
più vicina a un abbraccio consentita alle Elette.
«Dove sei diretta?» chiese Cormia quando si
raddrizzarono. «Devi servire col tuo sangue i Fratelli
Rhage e Vishous?»
Buffo, la formalità di quelle parole adesso le pareva
strana. Si era abituata a parlare in modo molto più
informale, un modo che la faceva sentire più a suo agio.
«Devo vedere il Fratello Rhage, in verità.» Ci fu una
pausa. «E desideravo al contempo sapere come stai.
Posso entrare?»
«Ma certo. Accomodati pure nelle mie stanze.»
Layla entrò,
imbarazzato.
portandosi
appresso
un
silenzio
Ah, allora la notizia era già giunta al Santuario, pensò
Cormia. Tutte le Elette sapevano che lei era stata scartata
come Prima Sposa.
«Cos'è quello?» chiese Layla, indicando il graticcio
nell'angolo.
«Oh, è solo un passatempo.»
533
«Un passatempo?»
«Quando ho un po' di tempo disponibile, io...» Be',
quella era un'ammissione di colpevolezza, giusto?
Avrebbe dovuto pregare, se non aveva nient'altro da fare.
«Ad ogni modo...»
Layla non manifestò alcuna forma di condanna
nell'espressione del viso o nelle parole, di fronte a quella
rivelazione. E tuttavia la sua sola presenza bastava a far
sentire in colpa Cormia.
«Dunque, sorella», disse Cormia con improvvisa
impazienza, «immagino sia risaputo che un'altra verrà
elevata al ruolo di Prima Sposa, è così?»
Layla si avvicinò alla Costruzione di piselli e
stuzzicadenti e, con delicatezza, fece scorrere un dito
lungo una delle sue sezioni. «Rammenti quando mi hai
trovata nascosta vicino allo Stagno dei Riflessi? È stato
dopo che avevo assistito John Matthew nella sua
transizione.»
Cormia annuì; ricordava
dell'Eletta. «Eri molto turbata.»
il
pianto
sommesso
«E tu sei stata molto gentile con me. Io ti ho mandata
via, ma ti ero molto grata, ed è in questo spirito che
sono... che sono venuta qui per ricambiare la gentilezza
che mi hai dimostrato in quella circostanza. I fardelli che
portiamo in quanto Elette sono gravosi e non sempre
compresi da chi non vive tra noi. Volevo farti sapere che,
essendomi a mia volta sentita come tu ti senti ora, in
questo momento sono tua sorella nel cuore.»
534
Cormia
si
commossa.»
inchinò
profondamente.
«Sono...
Era anche molte altre cose. Esterrefatta, tanto per
cominciare, che ne stessero anche solo parlando. La
franchezza era una cosa insolita.
Layla tornò a guardare la costruzione. «Tu non
desideri tornare all'ovile, vero?»
Dopo aver valutato le alternative a sua disposizione,
Cormia decise di confidare a Layla una verità che
faticava ad ammettere anche con se stessa. «Mi hai letto
nel pensiero.»
«Altre, tra noi, hanno scelto un'altra via e sono venute
a vivere da quest'altra parte. Non c'è motivo di provare
vergogna.»
«Non ne sarei così sicura», ribatté asciutta Cormia. «La
vergogna è come le vesti che indossiamo. Sempre con
noi, come una seconda pelle.»
«Ma se ti togli la veste, ti liberi dei fardelli; sta a te
scegliere.»
«Mi stai mandando un messaggio, Layla?»
«No. In verità, se tornerai all'ovile verrai accolta a
braccia aperte dalle tue sorelle. La Direttrice ha messo in
chiaro che non c'è nulla di disdicevole nel sostituire una
Prima Sposa con un'altra. Il Primale ha un'altissima
considerazione di te. Così ha detto lei.»
535
Cormia si mise a camminare su e giù per la stanza.
«Questa è la posizione ufficiale, naturalmente. Ma, in
tutta onestà... sai cosa pensano le altre in cuor loro. Ci
sono solo due spiegazioni possibili: o il Primale mi ha
trovata inadeguata oppure sono stata io a respingerlo.
Entrambe sono inaccettabili e ugualmente scandalose.»
Il silenzio che seguì le confermò la correttezza della
conclusione cui era giunta.
Si fermò davanti alla finestra e guardò fuori, in
direzione della piscina. Non era certa di avere la forza di
lasciare le sue sorelle. E, oltre tutto, dove poteva andare?
Ripensando al Santuario, si disse che vi aveva passato
dei momenti piacevoli, momenti in cui aveva provato
una grande risolutezza e si era sentita gratificata
dall'essere parte di un bene superiore. Se poi fosse
diventata una scriba segregata, com'era nelle sue
intenzioni, avrebbe potuto evitare i contatti con le altre
per interi cicli.
L'isolamento le parve una cosa meravigliosa.
«È vero che non vuoi bene al Primale?» chiese Layla.
No. «Sì.» Cormia scosse la testa. «Voglio dire, gli
voglio bene
come è giusto che sia. Come gliene vuoi tu. Sarò felice
per chiunque diventerà Prima Sposa al posto mio.»
A quanto pareva, Layla, contrariamente a Bella, non
disponeva di un "bugiardometro" perché la bugia fluttuò
536
nell'aria senza che l'Eletta la mettesse in discussione; si
limitò a prenderne atto con un inchino.
«Posso rivolgerti un'altra domanda, allora?» disse
Layla, raddrizzandosi.
«Ma certo, sorella.»
«Ti ha trattata bene?»
«Il Primale? Sì. È stato molto premuroso.»
Layla si avvicinò al letto e prese uno dei libri di
preghiere. «Ho letto nella sua biografia che è un valoroso
guerriero e che ha salvato il suo gemello da un destino
orribile.»
«È un valoroso guerriero.» Cormia abbassò lo sguardo
sul roseto. Ormai tutte le Elette dovevano aver letto i
volumi relativi al Primate, nella speciale sezione della
biblioteca dedicata alla Confraternita... rimpianse di non
avere fatto altrettanto prima che lui la portasse lì.
«Lui ne parla mai?» la incalzò Layla.
«Di cosa?»
«Di come ha salvato il suo gemello, il Fratello Zsadist,
da una illecita schiavitù di sangue. È così che il Primale ha
perso la gamba.»
Cormia voltò la testa di scatto. «Veramente? È così che
è successo?»
537
«Non te ne ha mai parlato?»
«No, mai. È una persona molto riservata. Almeno con
me.»
Quell'informazione fu uno shock. Cormia ripensò a ciò
che gli aveva detto, che gli piaceva fantasticare su Bella.
Non era quello che faceva anche lei con il Primale?
Sapeva così poco della sua storia, così poco di ciò che lo
aveva plasmato facendolo diventare com'era.
Ah, ma conosceva la sua anima, no?
E lo amava per questo.
Bussarono alla porta. Quando Cormia disse di entrare,
Fritz infilò dentro la testa.
«Chiedo scusa, ma il padrone è pronto a ricevervi»,
disse rivolto a Layla.
Layla si portò le mani ai capelli, poi si lisciò la veste.
Mentre Fritz si allontanava, Cormia pensò che l'Eletta si
preoccupava un po' troppo del suo.,.
Oh... no...
«Stai... andando da lui? Dal Primale?»
«Devo vederlo adesso, sì», confermò Layla con un
inchino.
«Non Rhage.»
538
«Da lui andrò dopo.»
Cormia si irrigidì, agghiacciata. Ma certo. Cosa si
aspettava? «Farai meglio ad andare, allora.»
Layla socchiuse gli occhi, poi li spalancò di colpo.
«Sorella?»
«Coraggio, vai. Meglio non fare aspettare il Primale.»
Cormia si voltò verso la finestra, improvvisamente colta
dall'impulso di urlare.
«Cormia...» sussurrò sua sorella. «Cormia, tu gli vuoi
bene. In verità, gli vuoi molto bene.»
«Non ho mai detto questo.»
«Non ce n'è bisogno. Il tuo viso e il tono della tua voce
sono eloquenti. Sorella cara, perché mai... perché vuoi
farti da parte?»
Cormia si immaginò il Primale con la testa tra le cosce
di sua sorella Layla, pensò alla sua bocca che la faceva
inarcare di piacere, e le venne il voltastomaco. «Ti faccio i
miei migliori auguri per il tuo colloquio. Spero che lui
scelga bene e che scelga te.»
«Perché vuoi farti da parte?»
«Io sono stata messa da parte», precisò piccata lei.
«Non è stata una mia decisione. Ora, ti prego, non fare
aspettare il Primale. Dopo tutto, Dio non voglia, non
possiamo permetterlo.»
539
«Dio?» ripeté Layla, impallidendo.
Cormia agitò la mano avanti e indietro. «È solo un
modo di dire che usano qui, non una professione di fede.
Ora, per favore, vai.»
Layla si concesse qualche istante per riprendersi, dopo
quella gaffe spirituale; sembrava averne un gran bisogno.
Poi con voce soave disse, «Stai pur certa che non sceglierà
me. E sappi che se mai ti occorresse...»
«Non succederà.» Cormia si voltò e guardò fuori dalla
finestra, immobile come una statua.
Quando finalmente la porta si chiuse con imo scatto,
proruppe in un'imprecazione. Poi attraversò la stanza
decisa e prese a calci quella maledetta costruzione,
sempre lì tra i piedi. La fece a pezzi calpestandola,
frantumandola in modo sistematico, finché l'ordine
preesistente fu ridotto a un cumulo di macerie sul
tappeto.
Quando non restò nient' altro da distruggere, le sue
lacrime battezzarono quello sfacelo, insieme al sangue
sotto i suoi piedi nudi.
540
Capitolo 34
In centro, da Screamer s, Lash stava facendo buon uso
di uno dei bagni.
E non per una bella pisciata.
Affondato fino alle palle in quella bionda del bar, la
stava prendendo da dietro, pompando come un
forsennato mentre lei si teneva aggrappata al lavandino,
con la minigonna di pelle nera sollevata sopra il sedere, il
perizoma nero spostato di lato e il maglione nero con lo
scollo a V spalancato sui seni. Aveva una graziosa
farfallina rosa tatuata su un fianco e un ciondolo a forma
di cuore appeso a una catenina attorno al collo, e tutti e
due venivano furiosamente sballottati al ritmo delle sue
spinte.
Era
divertente,
specie
perché,
a
dispetto
dell'abbigliamento da gran troia, Lash aveva la
sensazione che non fosse abituata a quel tipo di sesso:
non si era rifatta niente dal chirurgo estetico, il rossetto
non era a prova di sbavature e aveva provato a fargli
mettere il preservativo.
Appena prima di venire, Lash si ritrasse, la fece
voltare e la spinse giù in ginocchio. Le eiaculò in bocca
con un ruggito, pensando che quello stronzetto di Mr D
aveva ragione: era proprio quello che gli ci voleva. Un
541
senso di dominio, un ritorno a ciò che per lui era la
normalità.
E il sesso andava ancora alla grande.
Appena finito si tirò su la cerniera, infischiandosene se
lei sputava o mandava giù.
«E io?» fece lei, pulendosi la bocca.
«Tu cosa?»
«Come, scusa?»
Lash inarcò un sopracciglio controllandosi i capelli allo
specchio. Hmm... forse doveva farseli crescere di nuovo.
Dopo la transizione aveva adottato un taglio militare, ma
la coda di cavallo che aveva prima gli mancava. Aveva
dei bei capelli.
Cavolo, il collare di King gli stava da dio,.,
«Ehi, pronto?» lo incalzò la ragazza.
Seccato, Lash le lanciò un'occhiata dallo specchio.
«Non crederai sul serio che me ne sbatta qualcosa se
vieni oppure no.»
Per un attimo lei parve confusa, come se il film che
aveva noleggiato da Blockbuster fosse diverso dal DVD
dentro la custodia. «Come hai detto?»
«Cos'è che non ti è chiaro?»
542
Lei batté le palpebre, interdetta per lo shock. «Io non...
capisco.»
Già, evidentemente invece di Pretty Woman sul suo
schermo era comparso Debbie si fa Dallas,
Lash si guardò intorno, nel bagno. «Ti sei lasciata
portare qua dentro, tirare su la gonna e scopare, E adesso
ti sorprende che non me ne freghi un cazzo di te? Cosa
credevi che succedesse, esattamente?»
Dalla faccia della bionda svanì anche l'ultima traccia
dell'espressione eccitata della serie "sono una brava
ragazza che. sta facendo una brutta cosa", «Non c'è
nessun bisogno di essere villani.»
«Com'è che le puttanelle come te sono sempre
sorprese?»
«Puttanelle?» Una rabbia ipocrita le distorse i
lineamenti, tramutandola da tipa carina in brutta strega e tuttavia, in qualche modo, rendendola più intrigante.
«Tu non mi conosci.»
«Oh, sì, invece. Sei una zoccola che permette a uno che
non ha mai visto prima di venirle in bocca dentro un
cesso. Ma fammi il piacere. Ho più rispetto per le battone.
Almeno loro intascano qualcos'altro, oltre alla sborra.»
«Bastardo schifoso!»
«Mi stai annoiando.» Lash allungò la mano verso la
maniglia,
543
Lei lo afferrò per un braccio. «Stai molto attento,
stronzo. Posso rovinarti la vita in men che non si dica. Sai
chi è mio padre?»
«Uno che non è stato capace di tirarti su come si
deve?»
Lei gli mollò uno sganassone con la mano libera.
«Vaffanculo.»
Okay, la violenza la rendeva decisamente più
interessante.
Con le zanne che si allungavano, era già pronto a
trapassarle il collo con un morso neanche fosse una
stringa di liquirizia appena tolta dal sacchetto. Solo che
qualcuno bussò energicamente alla porta ricordandogli
che si trovava nel gabinetto di un locale pubblico, che lei
era una umana e che le pulizie erano sempre un casino.
«Te ne pentirai», sibilò rabbiosa la bionda.
«Ah, sì?» Lash le andò sotto a muso duro e rimase
sorpreso nel vedere che non arretrava di un millimetro.
«Non puoi farmi un bel niente, ragazzina.» «Staremo a
vedere.»
«Ma se non sai neanche come mi chiamo.»
Il sorriso gelido che gli rivolse la faceva sembrare più
adulta. «Io so un sacco di...»
Da fuori ricominciarono a bussare.
544
Prima che la bionda gli mollasse un altro ceffone che lo
avrebbe costretto a reagire, Lash uscì dal gabinetto
liquidandola con un frettoloso, «Vedi di tirarti giù la
gonna.»
Il tizio che si era incaponito a bussare gli diede
un'occhiata e si fece subito da parte. «Scusa, amico.»
«Nessun problema», disse Lash, alzando gli occhi al
cielo. «Probabilmente hai salvato la vita a quella troia.»
L'umano rise. «Stupide puttane. O le ammazzi o te le
tieni, non c'è rimedio.» Il gabinetto lì accanto si aprì e il
tizio si voltò, mostrando una splendida aquila in rilievo
sul dorso del giubbotto di pelle.
«Bell'uccellino hai qui dietro», commentò Lash.
«Grazie.»
Lash tornò al bar e rivolse un cenno del capo a Mr D.
«È ora di andare. Ho fatto.»
Insieme uscirono dal locale affollato e rumoroso.
Appena mise piede sul marciapiede di Trade Street, Lash
fece un sospiro di sollievo. Vivo. Si sentiva pienamente
vivo.
«Dammi il tuo telefono», disse incamminandosi verso
la Focus. «E il numero di quattro killer che si rispettino.»
Mr D gli allungò il Nokia snocciolando alcuni numeri
di telefono. Lash chiamò il primo, e al lesser che rispose
diede l'indirizzo di ima zona bene della città; percepiva
545
distintamente il sospetto di quel bastardo, specie quando
quello chiese chi cazzo lo stava chiamando dal cellulare
di Mr D.
Non sapevano chi era. I suoi uomini non sapevano chi
era.
Lash restituì il telefono al Fore-lesser sbraitandogli di
dare conferma. Cristo, quei dubbi non avrebbero dovuto
sorprenderlo, ma adesso le cose sarebbero cambiate, altro
che. Per guadagnare credito avrebbe dato alle sue truppe
alcuni bersagli da colpire quella notte stessa, poi,
l'indomani mattina, avrebbe convocato la Lessening
Society dando a tutti quanti una bella girata.
O lo seguivano o li avrebbe spediti al Creatore. Punto.
Dopo altre tre volte in cui si ripeté la stessa solfa, col
cellulare che andava avanti e indietro tra lui e Mr D, Lash
disse, «Adesso portami al 2115 di Boone Lane.»
«Vuole che chiami rinforzi?»
«Per la prossima casa, sì. Ma questa qui è una faccenda
personale.»
Qhuinn, il suo caro cuginetto, stava per fare una brutta
fine.
Dopo cinque mesi da Primale, Phury era abituato a
provare un senso di fastidio, come quando si indossa un
abito che veste male. Tutta quella maledetta storia era
stata un abito sbagliato dopo l'altro, un intero
guardaroba di Non-voglio-farlo.
546
Eppure quel colloquio con Layla per la posizione di
Prima Sposa gli sembrava particolarmente sbagliato.
Perversamente sbagliato.
Mentre la aspettava in biblioteca, pregava Dio che
l'Eletta non si spogliasse come avevano fatto le altre.
«Vostra grazia?»
Phury si voltò a guardare da sopra la spalla. L'Eletta
era ferma sulla soglia, la veste candida lunga fino ai
piedi, il corpo snello atteggiato con grazia regale.
Layla fece un profondo inchino. «Mi auguro che
stasera stiate bene.»
«Grazie. Ricambio l'augurio.»
Raddrizzandosi, Layla lo guardò dritto in faccia.
Aveva gli occhi verdi. Come quelli di Cormia.
Merda. Doveva farsi una canna. «Ti spiace se fumo?»
«Certo che no. Ecco, lasciate che vi aiuti.» Prima che
Phury potesse dirle di non disturbarsi, Layla prese un
accendisigari di cristallo e si avvicinò.
Infilandosi lo spinello tra le labbra, Phury la fermò
prima che facesse scattare il coperchio. «Lascia. Faccio da
solo», disse levandole di mano il pesante accendisigari.
«Come preferite, vostra grazia.»
547
Dopo il raschiare della pietrina, si levò una fiamma
gialla; Layla fece un passo indietro e si guardò intorno.
«Questa stanza mi ricorda casa», mormorò.
«Com'è possibile?»
«Tutti questi libri.» Si avvicinò alla libreria e toccò il
dorso in cuoio di alcuni volumi. «Io adoro i libri. Se non
mi avessero formata come ehros avrei voluto diventare
una scriba segregata.»
Sembrava così rilassata, pensò Phury, e per qualche
motivo la cosa lo innervosì. Il che era pazzesco. Con le
altre si era sentito come un'aragosta nell'atrio di un
ristorante di pesce, con lei invece no, erano solo due
persone che chiacchieravano.
«Posso chiederti una cosa?» disse soffiando fuori il
fumo.
«Certo.»
«Sei venuta liberamente?» «Sì.»
La risposta era così pacata da apparire meccanica. «Sei
sicura?»
«Da lungo tempo desidero servire il Primale. Sono
sempre stata ferma in tale aspirazione.»
Sembrava assolutamente sincera... ma qualcosa non
quadrava.
548
Poi Phury capì. «Sei convinta che non ti sceglierò,
vero?» «Sì.»
«E come mai?»
Adesso Layla lasciò trasparire l'emozione; chinò il
capo, alzò le mani e intrecciò le dita. «Sono stata portata
qui per assistere John Matthew durante la transizione.
L'ho fatto, ma il padrone... mi ha respinta.»
«In che senso?»
«Dopo che aveva superato il cambiamento l'ho lavato,
ma lui mi ha respinta. Sono stata addestrata per servire
sessualmente ed ero pronta a farlo, ma lui mi ha
respinta.»
Oh, perbacco. Okay. Non esageriamo con le confidenze. «E
pensi che questo mi induca a non sceglierti?»
«La Direttrice ha insistito perché mi presentassi qui da
voi, ma è stata una forma di rispetto nei vostri confronti,
per consentirvi di scegliere tra tutte le Elette. Né lei né io
ci aspettiamo che mi eleviate al rango di Prima Sposa.»
«John Matthew ti ha detto perché non ha...?» Perché
quasi tutti i vampiri erano arrapati da matti, subito dopo
la transizione.
«Me ne sono andata quando mi ha chiesto di farlo.
Questo è tutto.» Layla alzò gli occhi di scatto su quelli di
Phury. «In verità, Padron Matthew è un maschio di
valore. Non è nella sua natura descrivere nei dettagli i
difetti altrui.»
549
«Sono certo che non è stato per...»
«Vi prego. Possiamo chiudere qui l'argomento, vostra
grazia?»
Phury soffiò uno sbuffo di fumo all'aroma di caffè.
«Fritz ha detto che eri su in camera di Cormia. Che cosa
ci facevi lì?»
Ci fu una lunga pausa. «È una questione tra sorelle.
Naturalmente ve lo direi... se mi ordinaste di farlo.»
Lui non potè fare a meno di approvare il pacato
riserbo della sua voce.
«No, non fa niente.» Fu tentato di chiederle se Cormia
stava bene, ma conosceva già la risposta. Non stava bene.
Proprio come lui.
«Volete che vada?» chiese Layla. «So che la Direttrice
ha altre due sorelle pronte per voi. Sono ansiose di venire
a salutarvi.»
Proprio come le altre due che erano passate a trovarlo
la notte prima. Eccitate. Pronte a compiacerlo. Onorate di
incontrarlo.
Phury si portò di nuovo lo spinello alle labbra e aspirò
a lungo e lentamente. «Non sembri molto contenta.»
«Del fatto che le mie sorelle vengano a trovarvi? Ma
certo...»
«No, di questo nostro incontro.»
550
«Al contrario, sono ansiosa di stare con un maschio.
Sono stata addestrata all'accoppiamento e voglio essere
qualcosa di più che una semplice fonte di sangue. Rhage
e Vishous non richiedono tutti i miei servigi, ed è un peso
sentirsi inutilizzata ..,» I suoi occhi andarono ai libri. «In
verità, mi sento come un libro abbandonato su uno
scaffale. Mi sono state date le parole per la storia della
mia vita, ma nessuno le legge, per così dire.»
Dio, pensò Phury, sapeva esattamente che sensazione
era. Anche lui si sentiva così. Aspettava da un'eternità
che le cose si sistemassero, che il dramma avesse fine,
aspettava da un'eternità di poter finalmente fare un bel
respiro e cominciare a vivere. Che paradosso. Da quel
che aveva detto, Layla si sentiva così perché nella sua
vita non succedeva niente. Lui invece si sentiva "non
letto" perché per troppo tempo erano successe troppe
cose.
In un caso come nell'altro, il risultato finale era
identico.
Nessuno dei due faceva molto più che arrivare alla
fine della giornata.
Be', piangi pure quanto ti pare, socio, lo schernì il mago.
Phury si avvicinò a un portacenere e spense lo
spinello. «Dì alla Direttrice di non mandarmi
nessun'altra, non ce n'è bisogno.»
Layla lo guardò dritto negli occhi. «Domando scusa?»
«Scelgo te.»
551
Qhuinn risalì il viale d'accesso e parcheggiò la
Mercedes nera davanti a casa di Blay. Avevano aspettato
per ore allo ZeroSum, con John che continuava a inviare
SMS all'amico. Non ottenendo risposta, John aveva
deciso di levare le tende ed eccoli lì.
«Vuoi che ti apra la portiera?» chiese asciutto Qhuinn
spegnendo il motore.
John lo guardò. Se dico di sì, poi lo fai?
«No.»
Allora esigo senz'altro che tu mi apra la portiera.
«Accidenti a te», disse Qhuinn scendendo dall'auto,
«Mi sciupi tutto il divertimento.»
John chiuse la portiera scuotendo la testa. Sono solo
contento che tu sia così manipolat-abile.
«Quella parola non esiste.»
Da quando in qua te la fai con Daniel Webster? Ehi,
pronto? "Supermegagigantesco" non ti dice niente?
Qhuinn lanciò un'occhiata alla casa. Gli sembrava
quasi di sentire la voce di Blay che interveniva per
correggere l'amico, In realtà sarebbe Merriam-Webster.
«Lasciamo perdere.»
Insieme girarono dietro alla casa, diretti alla porta da
cui si accedeva alla cucina. La grande villa di mattoni in
stile coloniale aveva una facciata anteriore molto austera,
552
ma il retro, con i finestroni della cucina alti fino al soffitto
e una veranda illuminata da una simpatica lanterna in
ferro battuto, appariva accogliente.
Per la prima volta in vita sua, Qhuinn bussò e attese
che qualcuno andasse ad aprire.
Dev'essere stata una litigata della madonna, eh, disse a
gesti John. Tra te e Blay.
«Oh, non saprei. Sid Vicious si comportava peggio di
me, per esempio.»
Fu la mamma di Blay ad aprire la porta. Come sempre,
era il ritratto della Marion Cunningham di Happy Days,
dai capelli rossi alla gonna; un concentrato di tutto ciò
che il gentil sesso ha di bello, tondo e caldo.
Guardandola, Qhuinn realizzò in quel momento che lei, e
non quel ghiacciolo rinsecchito di sua madre, era il suo
modello femminile.
Già... broccolare ragazze e ragazzi nei bar andava
benissimo, ma avrebbe sposato una come la madre di
Blay. Una in gamba. E le sarebbe rimasto fedele fino alla
fine dei suoi giorni.
Sempre ammesso che riuscisse a trovare una disposta
a prenderselo.
La mamma di Blay si fece da parte per lasciarli entrare.
«Non c'è bisogno di bussare, lo sapete...» d'un tratto notò
la catena di platino al collo di Qhuinn, poi il tatuaggio
sulla sua guancia.
553
Guardando John, mormorò, «Allora è così che il re ha
sistemato le cose.»
Sì, signora, confermò John a gesti.
Lei si voltò verso Qhuinn, gli gettò le braccia al collo e
lo strinse così forte da spostargli la spina dorsale. Proprio
quello che gli ci voleva; per la prima volta da giorni,
stretto in quell'abbraccio, Qhuinn fece un bel respiro.
«Potevi stare qui da noi. Non c'era bisogno che te ne
andassi», disse lei in un sussurro.
«Non potevo farvi questo.»
«Siamo più forti di quanto pensi», ribatté lei
sciogliendo l'abbraccio e annuendo in direzione della
scala di servizio. «Blay è di sopra.»
Qhuinn si accigliò nel vedere un mucchio di bagagli
vicino al tavolo della cucina. «Andate da qualche parte?»
«Dobbiamo lasciare la città. Quasi tutti gli altri membri
della glymera hanno deciso di restare, ma con... quello che
è successo, qui è troppo pericoloso.»
«Saggia decisione», commentò Qhuinn, chiudendo la
porta della cucina. «Andate su al nord?»
«Il padre di Blay vorrebbe prendersi un po' di vacanza,
così tutti e tre faremo il giro dei parenti giù al sud...»
In fondo alle scale comparve Blay, che incrociando le
braccia sul petto, annuì rivolto a John, «Che succede?»
554
John lo salutò; Qhuinn non riusciva a credere che
l'amico non gli avesse accennato alla decisione di lasciare
la città. Merda. Voleva fare fagotto senza dire dove
andava o quando pensava di tornare?
Be', da che pulpito. Non era il proverbiale bue che dice
cornuto all'asino?
La mamma di Blay gli strinse con forza il braccio
bisbigliando, «Sono contenta che tu sia passato prima
della nostra partenza.» Poi , a voce più alta, aggiunse,
«Okay, ho svuotato il frigo e l'ho pulito per bene e nella
dispensa non c'è niente che possa andare a male. Credo
che adesso andrò a prendere i gioielli in cassaforte.»
Gesù, chiese a gesti John mentre lei si allontanava. Per
quanto starete via?
«Non lo so», rispose Blay. «Un po'.»
Nella lunga pausa che seguì, John spostò più volte lo
sguardo dall'uno all'altro dei suoi due amici. Alla fine
sbuffando disse, Okay, basta con questa stupidaggine. Cosa
cazzo è successo tra voi due?
«Niente.»
«Niente.» Blay accennò con la testa alle sue spalle,
«Sentite, io devo tornare su a finire i bagagli...»
«Sì, anche noi dobbiamo andare», lo interruppe brusco
Qhuinn.
555
Eh, no, che cavolo, protestò John avviandosi deciso
verso le scale. Adesso andiamo in camera tua e chiariamo
questa faccenda. Subito.
Quando John mise piede sul primo gradino Qhuinn fu
costretto a seguirlo per via del suo nuovo lavoro e anche
Blay fece altrettanto, probabilmente perché il suo galateo
interiore non ammetteva che potesse mancare ai suoi
doveri di perfetto padrone di casa.
Una volta di sopra, John chiuse la porta della stanza di
Blay e si mise le mani sui fianchi spostando lo sguardo
avanti e indietro, come un genitore ritto in mezzo a due
figli recalcitranti e con un gran macello sul pavimento.
Blay andò all'armadio e, quando lo aprì, il grande
specchio all'interno di una delle ante rifletté l'immagine
di Qhuinn. I loro occhi si incontrarono per un attimo.
«Bello, quel nuovo gioiellino», mormorò Blay,
guardando la catena che indicava la nuova posizione di
Qhuinn.
«Non è un gioiello.»
«No. E sono contento per voi due, davvero.» Tirò fuori
un parka... il che significava che o la famiglia andava "giù
al sud" nel senso dell'Antartico, oppure che lui intendeva
stare via per parecchio tempo. Tipo, per tutto l'inverno.
John batté il piede con forza. Il tempo sta per scadere.
Pronto? Deficienti?
556
«Mi dispiace», mormorò Qhuinn rivolto a Blay. «Per
quello che ho detto nel tunnel.»
«John lo sa? Gli hai raccontato tutto?» «No.»
Blay lasciò cadere il giaccone nella sacca di Prada e
guardò John. «È convinto che io lo ami. Nel senso che...
sarei innamorato di lui.»
John spalancò lentamente la bocca.
Blay scoppiò in una risata che subito si interruppe
bruscamente, come se avesse un nodo in gola. «Già.
Pensa un po'. Io innamorato di Qhuinn... uno che,
quando non ha la luna storta, è una troia e un cagacazzo.
Ma vuoi sapere qual è la cosa più assurda?»
John annuì e Qhuinn si tese tutto.
«Ha ragione lui», disse Blay abbassando lo sguardo sul
borsone.
Beh, John fece una faccia come se gli avessero appena
conficcato un punteruolo nel piede.
«Già», fece Blay. «Ecco perché le femmine non mi sono
mai piaciute più di tanto. Nessuna di loro era alla sua
altezza. E nemmeno i ragazzi, peraltro. Quindi sono
bell'e fottuto, ma questo è un problema mio, non suo o
tuo.»
Cristo, pensò Qhuinn. Era proprio la settimana delle
grandi rivelazioni.
557
«Mi dispiace, Blay». disse, perché non sapeva cos'altro
fare.
«Sì, ci scommetto. È imbarazzante un casino, eh?» Blay
prese il parka e si mise in spalla la sacca di Prada. «Ma va
tutto bene. Me ne vado fuori città per un po', tanto voi
due state alla grande. Siete proprio forti. Ora devo
andare. Vi mando un SMS tra un paio di giorni.»
Qhuinn era pronto a scommettere che si stava
riferendo solo a John.
Merda.
«Ci si vede», disse Blay voltandosi.
Vedendo il suo migliore amico che gli dava le spalle
diretto alla porta, Qhuinn aprì le sue inutili labbra
pregando di dire la cosa giusta. Quando questo non
accadde, pregò che ne uscisse comunque qualcosa.
Qualsiasi cosa...
Lo strillo che salì dal pianterreno era acuto.
La madre di Blay.
Tutti e tre schizzarono fuori dalla stanza come se vi
fosse scoppiata una bomba. Si precipitarono in fondo al
corridoio e volarono giù dalle scale. In cucina scoprirono
che l'incubo della guerra era piombato dentro casa.
Lesser. Due. In casa di Blay. Cazzo.
558
E uno dei due teneva la madre di Blay contro il petto,
stringendola al collo da dietro.
Blay lanciò un urlo belluino, ma Qhuinn lo fermò
prima che si scagliasse in avanti. «Lei ha un coltello alla
gola» sibilò. «La sgozzerà seduta stante.»
Il lesser sorrise trascinando la madre di Blay per tutta
la cucina e poi fuori casa, verso un minivan parcheggiato
vicino al garage.
Mentre John Matthew si smaterializzava sparendo alla
vista, un altro lesser sopraggiunse dalla sala da pranzo.
Qhuinn lasciò andare Blay e tutti e due si lanciarono
all'attacco, avventandosi prima contro quello e poi contro
un altro non morto entrato dalla porta di servizio.
Si scatenò un corpo a corpo che mise a soqquadro la
cucina. Qhuinn sperava ardentemente che John avesse
ripreso forma dentro il furgoncino del primo lesser,
preparandosi a dargli il benvenuto che si meritava.
Ti prego, fa'che la mamma di Blay non resti vittima del
fuoco incrociato.
Quando l'ennesimo non morto entrò dalla porta,
Qhuinn diede una testata al lesser con cui si stava
scazzottando e impugnò una delle sue due magnifiche
calibro quarantacinque nuove di zecca, ficcando con
forza la canna sotto il mento di quel bastardo.
I proiettili gli spappolarono la testa, scoperchiando di
netto la calotta cranica... il che diede a Qhuinn tutto il
559
tempo di pugnalarlo al cuore col coltello che aveva al
fianco.
Pop! Pop! Fizz-fizz! Oh, che sollievo.
Quel figlio di puttana sparì in un lampo luminoso; ma
invece di godersi la morte del suo primo lesser, Qhuinn si
voltò di scatto per controllare come se la cavava Blay e
rimase scioccato. Il padre di Blay era sopraggiunto di
corsa e adesso tutti e due stavano smammando a tutta
velocità. Cosa piuttosto sorprendente, dal momento che il
padre di Blay era un contabile.
Era il momento di correre a dar man forte a John.
Qhuinn si precipitò fuori dalla porta sul retro, ma
appena mise piede sull'erba del giardino, un lampo
proveniente dal minivan gli fece intuire che ormai il suo
aiuto era superfluo.
John balzò fuori dalla Town & Country sbattendo la
portiera, poi batté il pugno sulla fiancata e il minivan fece
retromarcia a tutta birra. Qhuinn scorse di sfuggita la
mamma di Blay, le nocche bianche strette intorno al
volante, che percorreva a marcia indietro il vialetto
d'accesso.
«Stai bene, J?» chiese Qhuinn, sperando vivamente che
John Matthew non si facesse ammazzare nella sua prima
notte da ahstrux nohstrum.
John alzò le mani per dire qualcosa, ma proprio allora
si udì uno schianto di vetri rotti.
560
I due amici si voltarono di scatto verso la casa. Come
nella scena di un film, due corpi volarono fuori dalla
vetrata panoramica del soggiorno. Uno dei due era Blay,
e atterrò sopra il lesser che aveva gettato fuori casa come
un materasso macchiato. Prima che il non morto potesse
riprendersi dall'impatto, Blay lo agguantò per la testa e
gli spezzò il collo come fosse un pollo.
«Mio padre è ancora dentro che sta lottando!» gridò
mentre Qhuinn gli lanciava il coltello. «Giù in cantina!»
Mentre John e Qhuinn si fiondavano dentro di corsa, ci
fu un terzo lampo accecante, poi Blay li raggiunse alle
scale del seminterrato. Insieme scesero a precipizio
seguendo i rumori di quella nuova colluttazione.
Giunti in fondo alle scale, si fermarono di colpo. Il
padre di Blay stava affrontando un tesser con una spada
della Guerra civile in una mano e un pugnale nell'altra.
Dietro gli occhiali alla Joe Friday, i suoi occhi ardevano
come due torce, poi si spostarono per una frazione di
secondo. «Voi tre statene fuori. Questo qui è mio.»
Poi tutto accadde in un attimo, prima di poter dire
Papà Ninfa.
Il padre di Blay si avventò contro il tesser col coltello in
pugno, squartandolo come un tacchino e rispendendolo
all'Omega con una bella pugnalata. Quando la furia da
sterminio si placò, il vampiro alzò gli occhi, agitatissimo.
«Tua madre...»
561
«È scappata col loro furgone», rispose Qhuinn. «L'ha
liberata John.»
A quella notizia, Blay e suo padre si rilassarono.
Soltanto allora Qhuinn notò che Blay sanguinava da un
taglio alla spalla, uno all'addome, un altro alla schiena e...
Suo padre si asciugò la fronte con il braccio.
«Dobbiamo metterci in contatto con lei...»
John alzò il cellulare, che già squillava.
La voce della madre di Blay, quando lei rispose, era
incrinata, ma non per problemi sulla linea. «John? John,
sta...»
«Siamo tutti qui», la rassicurò il padre di Blay.
«Continua a guidare, cara...»
John scosse la testa, gli tese il telefono e a gesti disse, E
se nel furgone ci fosse qualche dispositivo di localizzazione?
Il padre di Blay si lasciò sfuggire una parolaccia.
«Cara? Fermati, fermati e scendi dal furgone.
Smaterializzati, vai alla casa sicura e chiamami quando
sei lì.»
«Sei sicuro...»
«Presto, tesoro. Presto.»
Si sentì il rumore di un motore che rallentava. Una
portiera che sbatteva. Poi più niente.
562
«Cara?» il padre di Blay afferrò il telefonino. «Cara?
Oh, Gesù...»
«Sono qui», giunse la voce di sua moglie. «Qui alla
casa sicura.»
Tutti tirarono un gran sospiro di sollievo.
«Ti raggiungo subito.»
Mentre gli altri parlavano, Qhuinn era tutto preso a
cogliere eventuali rumori di passi sulle scale. E se fossero
arrivati altri lesserà Blay era ferito, e suo padre sembrava
stravolto.
«Dobbiamo andare subito via di qui», disse rivolto a
nessuno in particolare.
Salirono di sopra, caricarono le valigie sulla Lexus del
padre di Blay e, prima che Qhuinn avesse il tempo di
contare fino a tre, Blay e suo padre si dileguarono nella
notte.
Era accaduto tutto così in fretta. L'attacco, lo scontro,
la fuga... i saluti rimasti inespressi. Blay era salito in
macchina con suo padre ed era partito con armi e
bagagli. Ma cos'altro poteva accadere? Non era il
momento di tirarla per le lunghe, e non solo perché dieci
minuti prima i lesser si erano fatti un bel giretto per casa.
«Credo che dovremmo alzare i tacchi», disse Qhuinn.
563
John scosse la testa. Voglio restare qui. Ne arriveranno
altri quando quelli che abbiamo ucciso non si presenteranno
all'appello.
Qhuinn guardò il salotto, adesso trasformato in
veranda grazie al numero da stuntman hollywoodiano di
Blay. C'era molto da portar via e il pensiero che anche
solo una confezione di Kleenex in casa di Blay potesse
cadere nelle mani della Lessening Society lo faceva
incazzare da morire.
John si mise a digitare al cellulare. Dico a Wrath quello
che è successo e che noi due ci fermiamo qui. Siamo addestrati
per questo. È ora di entrare in azione.
Qhuin non poteva essere più d'accordo, ma era anche
sicurissimo che Wrath non avrebbe approvato.
Un attimo dopo il cellulare di John segnalò l'arrivo di
un SMS. John lo lesse, poi lentamente sorrise e mostrò il
display a Qhuinn.
Il messaggio veniva da Wrath. Ok. Kiamate se serve
aiuto.
Cazzarola... Erano in guerra anche loro.
564
Capitolo 35
Rehv parcheggiò la Bentley all'ingresso sud-est del
Black Snake State Park, il Parco Statale del Serpente
Nero. Il parcheggio coperto di ghiaia era piccolo,
sufficiente a ospitare solo dieci auto, ma mentre gli altri
parcheggi, dopo una certa ora, erano chiusi da catenelle,
quello era sempre aperto perché da lì partivano i sentieri
per i capanni in affìtto.
Scendendo dalla macchina prese il bastone, ma non
perché ne avesse bisogno per non perdere l'equilibrio.
Aveva ricominciato a vedere rosso più o meno a metà del
viaggio e adesso il suo corpo era vivissimo, fremente,
caldo e ipersensibile.
Prima di chiudere a chiave la Bentley infilò la pelliccia
di zibellino nel bagagliaio, perché l'auto era già
abbastanza vistosa senza bisogno di lasciare
venticinquemila dollari di pelliccia russa in bella vista.
Controllò anche due volte di aver preso il kit antiveleno e
dopamina in abbondanza. Si Sì.
Chiuse il baule, inserì l'allarme e si voltò verso il fìtto
filare di alberi che segnavano i confini più esterni del
parco. Chissà perché le betulle, le querce e i pioppi
intorno al parcheggio gli ricordavano una folla di
spettatori assiepati lungo il percorso di una parata, tutti
pigiati come sardine ai bordi della ghiaia, coi rami che
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sconfinavano oltre i limiti consentiti mentre i tronchi
restavano dove dovevano stare.
La notte era immota, tranne che per una brezzolina
frizzante e asciutta che preannunciava l'imminente arrivo
dell'autunno. Buffo, lì al nord agosto poteva essere
decisamente gelido e, per come si sentiva adesso, quel
frescolino non gli dispiaceva. Anzi, era una goduria.
Si diresse verso il sentiero principale, oltrepassando un
posto di controllo incustodito e una serie di segnali per
escursionisti. Meno di mezzo chilometro più in là
cominciava la foresta; Rehv prese la pista sterrata
inoltrandosi nel parco. Il capanno di tronchi distava un
chilometro e mezzo; era a una ventina di metri dalla sua
meta, quando un groviglio di foglie volò accanto ai suoi
piedi. L'ombra che le sospingeva era torrida, di un calore
tropicale, la sentiva intorno alle caviglie.
«Grazie, amico», disse a Trez. CI VEDIAMO LÌ.
«Bene.»
Mentre la sua guardia del corpo avanzava come una
foschia, Rehv si raddrizzò la cravatta senza motivo.
Tanto non gli sarebbe rimasta al collo ancora per molto,
garantito.
La radura dove si ergeva il capanno era illuminata
dalla luna; impossibile capire quale, tra le ombre in
mezzo agli alberi, fosse Trez. Ma proprio per questo la
sua guardia del corpo valeva tanto oro quanto pesava.
Neanche un symphath era in grado di distinguerlo dal
resto del paesaggio, quando non voleva essere visto.
566
Rehv si fermò un attimo davanti alla porta del rustico
capanno di legno, guardandosi intorno. La Principessa
era già arrivata: tutt'intorno allo scenario apparentemente
bucolico si stendeva una densa, invisibile nube di paura...
il genere di nube che i bambini percepiscono guardando
le case abbandonate nelle notti buie e ventose. Era la
versione symphath del mhis, e garantiva che il loro
incontro non venisse disturbato dagli umani. O da altri
animali.
Non lo sorprendeva che fosse arrivata in anticipo. Non
potendo prevedere se sarebbe stata in ritardo, in anticipo
o puntuale, a qualunque ora lei si presentasse, lui era
sempre pronto.
La porta del capanno si aprì con il consueto cigolio. Il
rumore penetrò dritto al centro del suo cervello,
facendolo rabbrividire, ma Rehv coprì le proprie
emozioni con l'immagine di una spiaggia assolata che
aveva visto una volta in TV.
Dalle ombre nell'angolo dell'open space giunsero
parole pronunciate con voce chiara e profonda. «Lo fai
sempre. Mi chiedo cosa nascondi al tuo amore.»
Continua pure a chiedertelo, pensò Rehvenge. Non
poteva permetterle di insinuarsi nella sua testa. A parte il
fatto che proteggersi era cruciale, tagliarla fuori la faceva
impazzire, il che lo rendeva raggiante di soddisfazione.
Chiudendo la porta, decise di buttarla sul romantico
recitando la parte dell'innamorato respinto. Lei si sarebbe
aspettata che Rehv si chiedesse che fine aveva fatto il loro
solito programma e lo avrebbe tenuto sulla corda il più a
567
lungo possibile prima di dirglielo. Ma il fascino
funzionava, anche con i symphath, sebbene, naturalmente,
in modo contorto e perverso. La Principessa sapeva che
lui la odiava, e che gli costava fingere di essere
innamorato di lei. Il profondo fastidio procuratogli dal
dirle quelle piccole bugie - e non le bugie in sé - era ciò
che lo avrebbe fatto entrare nelle sue grazie.
«Quanto mi sei mancata», disse con voce profonda,
appassionata.
Portò le dita alla cravatta che si era appena
raddrizzato e lentamente sciolse il nodo. La reazione di
lei fu istantanea. I suoi occhi brillarono come rubini
davanti a un falò, e non fece nulla per nasconderlo.
Sapeva che così gli dava la nausea.
«Ti sono mancata? Certo che ti sono mancata.» La sua
voce ricordava il sibilo di un serpente, con le S molto
allungate. «Ma quanto?»
Rehv tenne la scena della spiaggia in primo piano
nella sua mente, confinando quella serpe nel lobo
frontale, tenendola fuori da sé. «Mi sei mancata da
impazzire.»
Mise da parte il bastone, si tolse la giacca e slacciò il
primo bottone in alto della camicia di seta... poi il
secondo... il terzo e così via, finché dovette tirar fuori le
falde dai calzoni per completare l'opera. Quando scrollò
le spalle lasciando scivolare per terra la camicia, la
Principessa sibilò per davvero e lui sentì tirare l'uccello.
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Odiava la Principessa e odiava doverci fare sesso, ma
gli piaceva esercitare quel potere su di lei. La sua
debolezza gli procurava un brivido erotico molto simile a
quello che si prova quando si è davvero attratti da
qualcuno. Per questo riusciva a farselo drizzare anche se
gli si accapponava la pelle neanche fosse avvolto in una
coperta di vermi.
«Tieni addosso i vestiti», ordinò brusca lei.
«No.» Se li toglieva sempre quando decideva lui, non
quando lo diceva lei. Era una questione di orgoglio.
«Tieni addosso i vestiti, puttana.»
«No.» Rehv si slacciò la cintura e la sfilò dai passanti,
frustando l'aria col morbido cuoio. La lasciò cadere come
aveva già fatto con la camicia, con noncuranza.
«I vestiti devi tenerli addosso...» La frase rimase in
sospeso perché la sua forza si stava indebolendo. E il
punto era proprio questo.
Con gesto deliberato, lui si strinse il pacco, poi abbassò
la cerniera, slacciò il bottone e di colpo i pantaloni
caddero sul pavimento. Il membro si erse in tutta la sua
lunghezza, riassumendo nella sostanza il tipo di rapporto
esistente tra loro due. Rehvenge era furioso con lei,
odiava se stesso e detestava il fatto che Trez, da fuori,
assistesse a tutta la scena.
Di conseguenza il suo uccello era duro come il marmo
e stillante in punta.
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Per i symphath, un viaggio nella malattia mentale era
meglio di qualunque ostentazione da agente provocatore,
ecco perché quella messinscena funzionava. Lui poteva
darle quella roba morbosa. Poteva darle anche
qualcos'altro. Lei sbavava per lo scontro sessuale che
s'innescava tra loro. L'accoppiamento tra symphath era
una partita a scacchi civile che si concludeva con uno
scambio di fluidi corporei. Lei aveva bisogno dei
grugniti, della lotta, della carnalità che solo il lato
vampiresco di Rehv poteva darle.
«Toccati», disse in un sussurro. «Toccati. Fallo per
me.»
Lui non lo fece. Con un grugnito scalciò via i
mocassini e si scostò dal mucchio di vestiti. Poi cominciò
ad avanzare, ben consapevole dello spettacolo che stava
offrendo, col pisello sull'attenti. Si fermò in mezzo al
capanno, illuminato da una falce di luna.
Detestava ammetterlo, ma anche a lui piaceva da
impazzire quello schifo. Era l'unico momento nella sua
vita in cui poteva essere quello che era veramente, in cui
non doveva mentire a chi gli stava intorno. L'orrenda
verità era che una parte di lui aveva bisogno di quella
relazione contorta e morbosa; era questo, più della
minaccia per lui e per Xhex, che lo spingeva a tornare lì,
un mese dopo l'altro.
Non era certo che la Principessa fosse consapevole di
questa sua debolezza. Stava sempre molto attento a non
scoprire le proprie carte, ma non potevi mai essere
troppo sicuro di quello che un symphath sapeva sul tuo
570
conto. Il che, ovviamente, rendeva ancora più interessanti
tutte quelle manovre perché la posta in gioco era più alta.
«Pensavo di iniziare con uno spettacolino, stanotte»,
disse voltandosi. Dandole la schiena cominciò a
masturbarsi, prendendo l'uccello nella grossa mano e
accarezzandolo.
«Noioso», sussurrò senza fiato lei.
«Bugiarda.» Rehv si strinse il glande così forte da non
riuscire a trattenere un ansito.
A quel suono, la principessa mugolò, sempre più
coinvolta dal gioco erotico grazie al dolore di lui. Rehv
abbassò lo sguardo su quello che stava facendo e
sperimentò una sorta di fugace, inquietante dislocazione,
come se stesse guardando il membro di un altro e il
braccio di un altro che andava su e giù. D'altro canto,
mantenere un certo distacco da quell'atto era necessario,
era l'unico modo in cui la sua natura di vampiro poteva
gestire quello che facevano durante i loro incontri. Lì la
parte buona di lui non c'era. L'aveva lasciata fuori dalla
porta quando era entrato.
Quello era il territorio del Divoratore di peccati.
«Cosa stai facendo?», gemette lei.
«Mi sto accarezzando. Vigorosamente. Il chiaro di luna
è bello sul mio uccello. Sono bagnato.»
Lei inspirò con forza, «Voltati. Subito,»
571
«No.»
Lei non fece nessun rumore, ma Rehv sapeva che si era
avvicinata e il senso di trionfo spazzò via la
dissociazione. Viveva per distruggerla. Quel senso di
potere che lo pervadeva tutto, era come eroina nelle vene.
Sì, dopo si sarebbe sentito lurido da far spavento e, certo,
era tormentato dagli incubi a causa di tutto questo, ma al
momento era seriamente su di giri.
La Principessa avanzò tenendosi nell'ombra; Rehv capì
subito quando vide quello che lui stava facendo perché
gemette forte, incapace di trattenersi malgrado il riserbo
tipico dei symphath.
«Se hai intenzione di guardarmi» - così dicendo Rehv
strizzò di nuovo la punta dell'uccello fino a farla
diventare viola, e non potè fare a meno di inarcarsi per il
dolore - «io voglio vedere te.»
La Principessa entrò nella pozza di luce lunare e, per
un attimo lui perse il ritmo.
Indossava un abito rosso fuoco e i rubini della collana
brillavano contro la pelle diafana. I capelli corvini erano
raccolti in un alto chignon, occhi e labbra erano dello
stesso rosso sangue delle pietre preziose che aveva al
collo. Dai lobi delle orecchie, appesi per la coda munita
di pungiglione, due scorpioni albini lo fissavano.
Era orribilmente bella. Un rettile che camminava
eretto, con due occhi ipnotici.
572
Le braccia, incrociate all'altezza della vita, erano
infilate nelle maniche dell'abito, lunghe fino a terra; ora
però le lasciò ricadere lungo i fianchi. Rehv non le guardò
le mani. Non ci riusciva. Lo disgustavano troppo e, nel
vederle, avrebbe perso l'erezione.
Per restare eccitato fece scivolare il palmo sotto i
testicoli e li tirò verso l'alto, in modo che incorniciassero
l'uccello. Quando li lasciò andare, ballonzolarono
evocando la sua potenza sessuale.
Lei non sapeva dove posare gli occhi, tali e tante erano
le cose che voleva vedere di lui. Li lasciò scivolare sopra
il suo torace, indugiando sulla coppia di stelle rosse che
gli marchiavano i pettorali. I vampiri pensavano che
fossero solo decorative, ma per i symphath erano la prova
evidente del suo sangue reale e dei due omicidi che
aveva commesso: il parricidio valeva una stella, a
differenza del matricidio, simboleggiato dai cerchi.
L'inchiostro rosso significava che Rehvenge era un
membro della famiglia reale.
La Principessa si liberò del vestito; sotto i ricchi
panneggi dell'abito, il suo corpo era coperto da una rete
di raso rosso aderentissima, conficcata nella pelle. In
armonia con l'aspetto largamente asessuato della sua
specie, i seni erano piccoli e i fianchi molto sottili. L'unica
prova certa che fosse una femmina era la minuscola
fessura tra le gambe. Analogamente, anche i maschi della
specie erano androgini, con lunghi capelli raccolti alla
maniera delle femmine e abiti identici. Rehv non ne
aveva mai visto uno nudo, grazie al cielo, ma supponeva
573
che il loro uccello presentasse la stessa piccola anomalia
del suo.
Oh, che gioia.
Quell'anomalia era, naturalmente, un altro dei motivi
per cui gli piaceva chiavare la Principessa. Sapeva di farle
male, alla fine.
«Adesso ti tocco», disse lei, andandogli vicino.
«Puttana.»
Rehv si irrigidì nel sentire la mano di lei stringersi
intorno all'erezione, ma le concesse un solo istante di
contatto. Arretrando bruscamente sfilò l'uccello dalla sua
stretta.
«Vuoi mettere fine al nostro rapporto?» disse con voce
strascicata, odiando le sue stesse parole. «Per questo mi
hai dato buca, l'altra notte? Questo schifo è troppo
noioso, per te?»
Lei avanzò, come lui aveva previsto. «Andiamo, tu sei
il mio giocattolo. Mi mancheresti da morire.» «Ah.»
Questa volta, quando lo afferrò, gli affondò le unghie
nel pene. Lui trattenne un ansito irrigidendo le spalle fino
quasi a far schioccare le clavicole.
«Allora ti sei chiesto dov'ero?» sussurrò la Principessa
appoggiandosi addosso a lui. Gli strusciò la bocca sul
collo e il contatto con le sue labbra gli irritò la pelle. Si era
messa un rossetto a base di peperoncini tritati,
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accuratamente calibrato per provocare un bruciore
intenso. «Eri in pensiero per me. In pena per me.»
«Sì. È così», disse lui, perché quella menzogna
l'avrebbe eccitata.
«Lo sapevo.» La Principessa si piegò sulle ginocchia
protendendosi verso di lui. Appena le sue labbra
entrarono in contatto con il glande, il bruciore provocato
dal rossetto fece contrarre i testicoli come due pugni.
«Chiedimelo.»
«Che cosa? Un pompino o il perché del cambiamento
di programma?»
«Sto pensando di farti supplicare per entrambi.» Così
dicendo, afferrò il pene e lo spinse verso l'alto, contro il
ventre, poi tirò fuori la lingua titillando la punta uncinata
alla base dell'erezione. L'uncino era la parte di lui che
preferiva, quella che si agganciava quando Rehvenge
veniva, tenendoli legati. Personalmente lui lo odiava, ma
accidenti, era piacevole sentirselo stuzzicare, malgrado il
dolore derivante da quello che si era messa sulle labbra.
«Chiedimelo.» La Principessa lasciò ricadere l'uccello e
lo prese in bocca.
«Ah, merda, succhiami», gemette lui.
E lei lo fece, perdio se lo fece. Spalancò la gola e lo
mandò giù più che potè. Era fantastico, ma il bruciore era
terribile. Per vendicarsi di quel simpatico rossetto Chanel
N° Incubo, Rehv l'afferrò per i capelli e spinse i fianchi in
avanti con forza, facendola soffocare.
575
Per tutta risposta, lei affondò un'unghia in quella
specie di aculeo, fino a far sgorgare il sangue. Rehvenge
lanciò un urlo, con le lacrime agli occhi. Nel vedere una
lacrima sulla sua guancia, la Principessa sorrise,
godendosi quel rosso sul suo viso.
«Devi dire "per favore"», disse. «Quando mi chiederai
di spiegare.»
Fu tentato di dirle che poteva scordarselo, invece
affondò di nuovo nella sua bocca e lei lo graffiò di nuovo;
andarono avanti così per un po', finché entrambi si
ritrovarono ansimanti.
A quel punto il suo membro era in fiamme, infuocato,
palpitante per il bisogno di venire in quella sua
stramaledetta bocca.
«Chiedimi perché», disse perentoria lei. «Chiedimi
perché non mi sono fatta vedere.»
Lui scosse la testa. «No... me lo dirai tu quando ne
avrai voglia. Invece ti chiedo se stai solo perdendo tempo
o se ti decidi a farmi venire.»
Lei si tirò su da terra, andò alla finestra e si puntellò
sul davanzale con quelle mani orribili. «Puoi venire. Ma
solo dentro di me.»
Lo faceva sempre, la troia. Insisteva sempre con quella
storia del dentro.
E sempre alla finestra. Chiaramente, anche se non
poteva essere certa che si fosse portato dietro i rinforzi, in
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qualche modo aveva intuito che qualcuno li stava
osservando. E se scopavano davanti alle vetrate, la
sentinella di Rehv sarebbe stata costretta a guardare.
«Vieni dentro di me, maledizione.»
La Principessa inarcò la schiena sollevando il sedere.
La rete che indossava le risalì lungo le gambe e in mezzo
alle cosce: sarebbe stato costretto a strapparla almeno in
parte, per penetrarla. Che poi era il motivo per cui lei la
portava. Se il rossetto era una tortura, quel reticolo della
malora era anche peggio.
Rehvenge andò a piazzarsi dietro di lei e infilò indice e
medio di entrambe le mani nella rete, all'altezza delle
reni, poi, con uno strattone, la strappò via dalle sue
natiche e dal suo sesso.
Lei era bagnata, turgida e vogliosa.
Lo guardò da sopra la spalla e sorrise, scoprendo una
chiostra di denti bianchi e squadrati. «Sono affamata. Mi
sono conservata per te. Come sempre.»
Lui non riuscì a trattenere una smorfia. Non
sopportava l'idea di essere il suo unico amante, avrebbe
di gran lunga preferito far parte di una nutrita schiera di
maschi, in modo che quanto accadeva tra loro non avesse
tutto quel peso. E in più la parità lo nauseava: anche lei
era la sua unica amante.
Affondò con forza dentro di lei, spingendola in avanti
fino a farle sbattere la testa contro il vetro. Poi si
aggrappò ai suoi fianchi e lentamente scivolò fuori. Le
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gambe di lei fremettero, scosse da ima serie di spasmi;
Rehv detestava l'idea di darle quello che voleva, quindi si
spinse di nuovo dentro, adagio, fermandosi a metà per
non concedersi completamente.
«Di più, grazie», disse lei con gli occhi rossi che
sputavano fuoco da sopra la spalla.
«Perché non ti sei fatta vedere, mia adorata troia.»
«Perché non chiudi il becco e ti decidi a venire?»
Rehv si piegò in avanti e fece scorrere le zanne sulla
sua spalla. La rete era intrisa di veleno di scorpione che
subito gli intorpidì le labbra. Si sarebbe ritrovato quello
schifo su tutte le mani e sul corpo, alla fine della scopata,
così avrebbe dovuto correre a farsi una doccia nella sua
casa sicura. Ma sarebbe stato comunque troppo tardi.
Sarebbe stato malissimo, come al solito. Essendo la
Principessa una symphath di razza pura, il veleno non le
faceva né caldo né freddo; per lei era come un profumo,
un elemento di seduzione come un altro. Per il lato
vampiresco di Rehv, invece, particolarmente sensibile,
era estremamente tossico.
Lentamente Rehv uscì da lei e poi scivolò di nuovo
dentro per cinque o sei centimetri. Capì di averla fatta
godere quando la Principessa affondò le dita a tre nocche
nel vecchio, logoro legno del davanzale.
Dio, quelle mani, con quel trio di giunture e le unghie
rosse... sembravano uscite da un film dell'orrore, il
genere di cosa che poteva spuntare dal coperchio di una
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bara prima che lo zombie di turno saltasse fuori per
uccidere il bravo ragazzo.
«Dimmi... perché... troia...» disse Rehv, sottolineando
ogni parola con una spinta. «Altrimenti niente orgasmo
per nessuno dei due.»
Dio, odiava e amava tutto questo: loro due che
lottavano per mantenere la propria posizione di potere,
entrambi inviperiti per le concessioni che erano obbligati
a fare. A lei rodeva essere stata costretta a girargli intorno
per vederlo eiaculare mentre lui detestava ciò che le stava
facendo; lei, inoltre, non voleva svelargli perché era in
ritardo di due notti, pur sapendo che alla fine avrebbe
dovuto capitolare, se voleva venire...
E via di questo passo, come su una giostra che
continua a girare in tondo.
«Dimmelo», ringhiò lui.
«Tuo zio diventa sempre più forte.»
«Ah sì?» fece Rehv, ricompensandola con una
penetrazione rapida e vigorosa, che le strappò un ansito.
«Come sarebbe?»
«Due sere fa...» Il respiro affannoso le usciva di bocca
con una specie di sibilo, mentre torceva la schiena per
accoglierlo il più a fondo possibile. «È stato incoronato.»
Rehv perse il ritmo. Merda. Un cambio al vertice non
era un bene. I symphath erano confinati in quella colonia,
questo sì, isolati dal mondo reale, ma qualunque
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instabilità politica, laggiù, minacciava quel po' di
controllo, preziosissimo, cui erano sottoposti.
«Abbiamo bisogno di te», disse la Principessa
piegando il braccio dietro la schiena e affondandogli le
unghie nel sedere. «Devi fare quello che sai fare meglio.»
Non esiste proprio.
Aveva ucciso già abbastanza parenti.
La Principessa lo guardò da sopra la spalla, e lo
scorpione appeso al suo orecchio lo fissò intensamente,
muovendo in tondo le zampe lunghe e sottili,
protendendole verso di lui. «Ora che ti ho detto il perché
vedi di darti una mossa.»
Rehv mise il cervello sotto stretto controllo, si
concentrò sulla scena della spiaggia e lasciò fare al suo
corpo. Sotto il ritmo implacabile dei suoi affondi, la
Principessa raggiunse l'orgasmo, stringendolo dentro di
sé in una serie di contrazioni, come dentro un pugno.
Strizzato in quella morsa, il membro si agganciò alla
vulva inondandola col suo seme.
Appena fu in grado di farlo, Rehv si ritrasse e
cominciò la sua discesa agli inferi. Sentiva già l'effetto del
veleno di cui era impregnata quella maledetta rete,
sentiva un formicolio diffuso in tutto il corpo, le
terminazioni nervose della sua epidermide si
accendevano e si spegnevano in spasmi dolorosi. E le
cose erano destinate a peggiorare.
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La Principessa si raddrizzò e andò a recuperare il
vestito. Da una tasca nascosta estrasse una lunga striscia
di raso rosso e, con gli occhi fìssi su Rehvenge, se la infilò
in mezzo alle gambe, legandola in ima elaborata serie di
fiocchi.
I suoi occhi rosso rubino brillavano di soddisfazione
mentre si assicurava di non perdere neanche una goccia
del suo sperma.
Rehvenge odiava tutto ciò, e lei lo sapeva, motivo per
cui non si lamentava mai sentendolo ritrarsi tanto in
fretta. Sapeva perfettamente che lui avrebbe voluto
immergerla in una vasca piena di candeggina
costringendola a lavarsi fino a far sparire ogni traccia del
loro rapporto sessuale, come se non avesse mai avuto
luogo.
«Dov'è la mia decima?» chiese infilandosi il vestito.
Rehvenge, che cominciava a vederci doppio a causa
del veleno, andò a prendere la giacca e tirò fuori un
sacchettino di velluto. Glielo lanciò e lei lo afferrò al volo.
Dentro c'erano duecentocinquantamila dollari in
rubini. Già tagliati. Pronti per essere incastonati.
«Devi venire a casa.»
Lui era troppo stanco per stare al suo gioco. «Quella
colonia non è casa mia.»
«Ti sbagli. Ti sbagli di grosso. Ma avrai modo di
ricrederti. Te lo garantisco.» Ciò detto, svanì nel nulla.
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Rehv si accasciò, piantando il palmo sul muro del
capanno, travolto da una nera ondata di spossatezza.
Nel sentire la porta che si apriva, si raddrizzò e
raccolse i calzoni da terra. Senza dire una parola, Trez
andò a sorreggerlo.
Stava malissimo, e sarebbe stato anche peggio, ma
riuscì a vestirsi da solo. Era importante, per lui. Lo faceva
sempre da solo.
Quando la giacca fu tornata al suo posto, la cravatta
annodata intorno al collo e il bastone stretto in mano, il
suo migliore amico nonché guardia del corpo lo prese in
braccio e, come un bambino, lo riportò verso l'auto.
582
Capitolo 36
Lo stress in una persona è come l'aria in un pallone.
Troppa pressione, troppa merda, troppe brutte notizie...
ed ecco rovinata la festa di compleanno.
Phury spalancò bruscamente il cassetto del comodino,
anche se ci aveva appena guardato dentro. «Merda.»
Dove cazzo era tutto il suo fumo rosso?
Tirò fuori dal taschino il sacchetto quasi vuoto.
Appena abbastanza per un misero spinello. Faceva
meglio a correre subito allo ZeroSum prima che il
Reverendo chiudesse per la notte.
Si infilò la giacca leggera per avere un posto dove
nascondere la busta piena di roba al ritorno, poi scese in
fretta lo scalone. Giunto nell'atrio aveva la testa che gli
scoppiava per la Top Ten del mago: i Primi Dieci Motivi
per cui Phury, Figlio di Ahgony, È una Faccia di Merda.
Al decimo posto in classifica: riesce a farsi cacciare dalla
confraternita. Al nono posto: è un drogato. All'ottavo posto:
litiga col suo gemello quando la shellan incinta di
quest'ultimo sta poco bene. Al settimo posto: è un drogato. Al
sesto posto: umilia la femmina con cui vuole stare, spingendola
ad allontanarsi. Al quinto posto: mente per nascondere la sua
tossicodipendenza.
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O anche questo rientrava nella nona e nella settima
posizione?
Al quarto posto: delude i genitori. Al terzo posto: è un
drogato. Al secondo posto: si innamora della suddetta femmina
spinta ad allontanarsi. ..
Merda.
Merda.
Merda.
Si era innamorato di Cormia? Come? Quando?
Al diavolo, saltò su il mago, nella sua testa, lascia
perdere, socio.
Finisci l'elenco. Dai. Dunque... credo che metteremo al
primo posto "è un drogato", eh, tu cosa dici?
«Dove stai andando?» La voce di Wrath calò dall'alto
come una sorta di coscienza e Phury rimase impietrito
con la mano sulla porta del vestibolo.
«Dove?» ripeté il re.
Oh, niente di speciale, pensò Phury senza voltarsi. Giusto
al manicomio.
«A fare un giro in macchina», rispose, alzando le
chiavi dell'auto sopra la testa.
584
A quel punto mentire non gli dava più alcun fastidio.
Voleva solo che si levassero tutti dai piedi. Una volta
comprato il fumo rosso, ima volta calmatosi e con la testa
non più ridotta a ima bomba molotov pronta a esplodere
da un momento all'altro, poteva ricominciare a interagire.
Wrath cominciò a scendere le scale, il ritmo dei suoi
passi un conto alla rovescia prima di un ceffone della
miseria. Phury si voltò per fronteggiare il re, una rabbia
sorda che montava nel petto.
E, pensa un po', neanche Wrath era in vena di
smancerie. Le sopracciglia aggrottate si erano tuffate
dietro gli occhiali da sole, le zanne si erano allungate, il
corpo era teso da matti.
Evidentemente le brutte notizie non erano ancora
finite.
«Cos'è successo ancora?» fece Phury a denti stretti.
Quando cavolo sarebbe finita quella valanga di sciagure?
Quando la sventura avrebbe smesso di accanirsi contro di
loro passando finalmente a rovinare la vita di qualcun
altro?
«Stanotte hanno colpito quattro famiglie della glymera
e non ci sono superstiti. Devo dare a Qhuinn una notizia
spaventosa; lui e John Matthew sono di sorveglianza a
casa di Blaylock, ma non riesco a mettermi in contatto
con nessuno dei due.»
«Vuoi che vada a vedere?»
585
«No, voglio che porti il culo al Santuario e che cominci
a fare il tuo stramaledetto dovere», sbottò Wrarth. «Ci
servono più fratelli, e tu hai acconsentito a diventare
Primate, perciò piantala di tergiversare.»
Phury fremeva per scoprire le zanne, ma si trattenne.
«Ho scelto un'altra Prima Sposa. La stanno preparando,
ci andrò domani al tramonto.»
Wrath inarcò le sopracciglia di scatto. Poi annuì ima
volta. «Okay. Bene. Ora, qua! è il numero di Blaylock?
Voglio che torni a casa sua. Tutti i fratelli sono impegnati
e non voglio che Qhuinn apprenda la notizia per
telefono.»
«Posso andarci...»
«Col cavolo», ribatté secco il re. «Anche se facessi
ancora parte della confraternita, con quello che sta
succedendo in queste ore non mi sognerei mai di mettere
a repentaglio la vita del Primale della razza, grazie tante.
Adesso ti decidi sì o no a darmi il numero di Blaylock?»
Phury glielo diede, lo salutò con un cenno del capo e
attraversò il vestibolo. Non gliene fregava un tubo di
aver detto a Wrath che andava a fare un giro in
macchina; lasciò la BMW parcheggiata in cortile e si
smaterializzò verso il centro città.
Tanto Wrath sapeva che stava mentendo, e non c'era
motivo di ritardare la puntatina allo ZeroSum prendendo
la macchina per tenere in piedi una bugia di cui entrambi
erano perfettamente consapevoli.
586
Giunto all'ingresso del club, Phury saltò la coda di
clienti in attesa, semplicemente scavalcandola e
costringendo il buttafuori a levarsi di mezzo.
Nella sezione VIP iAm era ritto davanti alla porta
dell'ufficio di Rehv. Il Moro non parve sorpreso di
vederlo, ma d'altronde era difficile sorprendere le due
guardie del corpo di Rehv.
«Il capo non c'è; vuoi fare un acquisto?»
Phury annuì e iAm lo fece accomodare. Rally, il
tirapiedi addetto alla roba, si allontanò in fretta dopo che
Phury ebbe spalancato due volte il palmo.
iAm poggiò il fianco contro la scrivania di Rehvenge,
limitandosi a fissare il muro di fronte, gli occhi neri
impassibili, calmi. Suo fratello, Trez, era la testa calda tra
i due, quindi Phury aveva sempre pensato che fosse iAm
quello da cui guardarsi.
Anche se era un po' come scegliere tra due pistole:
questione di sfumature.
«Un consiglio», disse il Moro.
«Ne faccio volentieri a meno.»
«Cazzi tuoi. Non passare alla roba più pesante,
amico.»
«Non so di cosa stai parlando.»
«Balle.»
587
Rally emerse dalla porta nascosta nell'angolo. Alla
vista di tutte quelle foglioline nella busta di plastica
trasparente, Phury sentì precipitare la pressione
sanguigna e accelerare il battito cardiaco. Allungò i mille
dollari e uscì il più in fretta possibile dall'ufficio, ansioso
di darsi da fare in camera sua.
Mentre puntava verso l'uscita laterale, scorse Xhex
ferma vicino al bar dell'area VIP. Lei adocchiò il suo
braccio infilato dentro la giacca, poi accigliandosi sillabò,
Cazzo.
Vedendola avvicinarsi a grandi passi, Phury ebbe la
bizzarra sensazione che volesse riprendersi la sua roba.
Non se ne parlava proprio; aveva pagato in moneta
sonante e comprato a un prezzo onesto. La direzione non
poteva avere niente da ridire, non ce n'era motivo.
In fretta uscì e si smaterializzò. Non aveva la più
pallida idea di quale fosse il problema, e non gliene
fregava niente. Aveva quello che gli serviva e voleva
tornarsene a casa.
Mentre viaggiava in un confuso ammasso di molecole,
ripensò a quel tossico nel vicolo, quello che aveva
sgozzato il suo spacciatore e poi gli aveva frugato nelle
tasche mentre il sangue schizzava dappertutto.
Cercò di convincersi che non era come lui. Cercò di
non vedere la disperazione degli ultimi venti minuti
come il primo passo verso quello che il tossico aveva
fatto con il coltello a serramanico.
588
La verità, però, era che niente e nessuno era al sicuro
quando si trovava tra un tossico e quello per cui
smaniava.
Nel giardino dietro la casa di Blay, John si guardò
intorno; gli sembrava di averlo già fatto un migliaio di
volte. Quell'attesa, quello sguardo vigile... quella pausa
da predatore, sembrava far tutto parte della sua seconda
natura. Il che era pazzesco.
Naa, gli disse una vocina. È sempre stato così. Solo che
prima non te ne rendevi conto.
Accanto
a
lui,
nell'ombra,
Qhuinn
era
sorprendentemente immobile. Di solito si muoveva in
continuazione, batteva i piedi e le mani, camminava su e
giù, chiacchierava. Ma non quella notte, non tra quei
cespugli di caprifoglio.
Sì, okay, si erano appostati in mezzo al caprifoglio.
Non certo virile come stare dietro un gruppo di querce,
ma la copertura era migliore e poi era l'unico
nascondiglio disponibile vicino alla porta di servizio.
John controllò l'orologio. Stavano aspettando da un
paio d'ore abbondanti. Alla fine avrebbero dovuto
rientrare per evitare l'alba. Bella fregatura. Lui era lì per
combattere. Era preparato a combattere.
Se non menava un altro tesser, la frustrazione sarebbe
schizzata alle stelle.
589
Purtroppo tutto ciò che avevano era una brezzolina di
fine estate che di tanto in tanto controbilanciava il
monotono canto dei grilli.
Non sapevo di Blay, disse a gesti, tanto per fare
qualcosa. Da quanto sapevi che... sì, insomma, sapevi cosa
provava?
«Più o meno da quando è cominciata...», rispose
Qhuinn tamburellando con le dita sulla coscia, «cioè un
sacco di tempo fa.»
Caspita, pensò John. Con tutti quei segreti che
venivano a galla, per tutti e tre era come rivivere la
transizione.
E, proprio come dopo i cambiamenti che li avevano
trasformati sul piano fisico, nessuno dei tre sarebbe più
stato come prima.
«Blay nascondeva quello che provava», mormorò
Qhuinn. «Ma non per il fatto del sesso. Voglio dire, io
non ho problemi a farmela con i maschi, specie se ci sono
di mezzo anche le loro pollastre.» Qhuinn rise. «Che
faccia scioccata. Non lo sapevi?» Be'... io...cioè...
Cristo santo, se prima sentiva il peso della propria
verginità di fronte a Qhuinn e a tutta la sua... a quello che
era... adesso si rese conto di essere proprio VERGINE.
«Senti, se ti metto a disagio...»
No, non è questo. Che cavolo, non sono poi così sorpreso. Sì,
insomma, ti sei infilato nei bagni con tutta una varietà di...
590
«Già. Quello che capita capita, per quanto mi riguarda,
capisci. Tutto fa brodo.» Qhuinn si massaggiò la fronte.
«Non penso di fare così per sempre, però.» No?
«Un giorno vorrei una shellan tutta per me. Nel
frattempo, però, voglio fare di tutto e di più. Solo così mi
sento vivo.» John ci pensò su. Anch'io voglio una femmina.
Ma è difficile per- che...
Senza guardarlo Qhuinn annuì, per indicare che aveva
capito... il che era un bene. Buffo, in un certo senso era
più facile parlarne adesso che il suo amico sapeva
esattamente perché certe cose gli creavano dei problemi.
«Sai, ho visto come guardi Xhex.»
John divenne rosso come un pomodoro. Um... «È una
fìcata. Cioè, cazzo... lei è sexy da matti. Un po' anche
perché mette una paura boia. Sarebbe capace di farti
ingoiare i denti se passi il limite, credo.» Qhuinn si
strinse nelle spalle. «Ma non pensi che faresti meglio a
cominciare con una un po' meno... non so, un po' meno
tosta?» Mica si può scegliere da chi si è attratti. «Amen.»
Sentirono un rumore; qualcuno stava girando intorno
alla casa. Si misero subito all'erta alzando le pistole e
puntandole verso est. «Sono io», gridò Blay. «Non
sparate.»
John uscì da dietro ai caprifogli. Credevo che andassi via
con i tuoi. Blay fissava Qhuinn. «Sono ore che i fratelli
cercano di contat-tarti.»
«Perché mi guardi così?» disse Qhuinn abbassando la
pistola lungo il fianco.
591
«Vogliono che torni al quartier generale.» Perché?
Chiese a gesti John, anche se Blay aveva ancora gli occhi
fìssi su Qhuinn. Wrath ha detto che possiamo restare qui...
«Cos'è successo?» chiese Qhuinn, teso. «Tu lo sai, vero?»
«Wrath vuole che tu...»
«La mia famiglia è stata colpita, giusto?» disse Qhuinn
contraendo la mascella. «Giusto?»
«Wrath vuole che tu...»
«Al diavolo Wrath. Parla!»
Blay spostò fugacemente gli occhi su John, prima di
riportarli sul loro amico. «Tuo padre, tua madre e tua
sorella sono morti. Tuo fratello è scomparso.»
Qhuinn emise una sorta di sibilo, come se qualcuno gli
avesse sferrato un calcio nello stomaco mozzandogli il
fiato. John e Blay fecero per sorreggerlo, ma lui si scostò
bruscamente, allontanandosi di qualche passo.
Blay scosse la testa. «Mi dispiace tantissimo.»
Qhuinn non disse nulla. Era come se avesse
dimenticato la sua lingua.
Blay fece per toccarlo di nuovo, ma quando Qhuinn
arretrò di un altro passo, disse, «Senti, vedendo che non
riusciva a mettersi in contatto con nessuno dei due Wrath
mi ha chiamato e mi ha chiesto di riportarvi a casa. La
glymera sta per entrare in isolamento.»
Andiamo alla macchina, disse John rivolto a Qhuinn.
592
«Io non vengo.»
«Qhuinn...»
Qhuinn...
La voce di Qhuinn traboccava dell'emozione che il suo
viso si rifiutava di manifestare. «Al diavolo tutto quanto.
Al diavolo...»
Dentro la casa di Blay si accese una luce e Qhuinn
voltò la testa di scatto. Attraverso le finestre della cucina
tutti e tre videro un lesser entrare nella stanza, in piena
vista.
Fu impossibile fermare Qhuinn. A velocità
supersonica, si fiondò con la pistola spianata dentro casa
attraverso la porta di servizio e, una volta, dentro non
sparò al rallentatore. Puntò la H & K contro il non morto
e premette il grilletto a ripetizione, scaraventando contro
il muro quel bastardo pallido.
Continuò a sparare anche quando il lesser si accasciò
versando sangue nero, trasformando la carta da parati
alle sue spalle in un quadro alla Jackson Pollock.
Blay e John si precipitarono dentro e John gettò un
braccio intorno al collo dell'amico. Trascinandolo
indietro, gli afferrò la mano con la pistola nel caso
provasse a voltarsi e a sparare.
Un altro lesser entrò di volata in cucina e Blay prese in
pugno la situazione sfilando un coltello da scalco da un
ceppo da macellaio di Henckels. Quando si voltò verso
593
l'altro bastardo pallido, quello estrasse da chissà dove un
coltello a serramanico e i due cominciarono a girare in
tondo. Blay era carico, il fisico robusto pronto a lanciarsi
nella lotta, gli occhi vigili. Il guaio era che sanguinava
ancora per le ferite riportate nello scontro precedente, era
pallido e tirato in volto per tutto ciò che era successo.
Malgrado John lo tenesse saldamente per il braccio,
Qhuinn alzò la pistola.
John scosse la testa. «Lasciami andare. Subito», sibilò
Qhuinn.
La voce era mortalmente calma, tanto che John ubbidì.
Con una mira perfetta, Qhuinn conficcò una pallottola
in mezzo agli occhi del lesser, che si afflosciò come una
bambola di pezza.
«Ma che cazzo...?», scattò Blay. «Quello era mio.»
«Mica posso stare a guardare mentre ti fanno a fettine.
Non esiste al mondo.»
Blay puntò un dito tremante contro Qhuinn. «Non
farlo mai più.»
«Stanotte ho perso delle persone che non sopportavo.
Non ho intenzione di perdere qualcuno a cui tengo.»
«Non ho bisogno che tu diventi il mio eroe...»
John si piazzò in mezzo tra i due amici. A casa, disse a
gesti. Subito.
594
«Potrebbero esserci altri...»
«È probabile che ci siano altri...»
Tutti e tre ammutolirono di colpo sentendo squillare il
telefono di Blay.
«È Wrath.» Le dita di Blay volavano sui tasti. «Ci
vuole subito a casa. E, John, controlla il tuo cellulare,
credo che non funzioni.»
John lo tirò fuori dalla tasca. Era morto stecchito, ma
non era il momento di chiedersi come mai. Forse si era
rotto nel corso della colluttazione?
Andiamo, disse.
Qhuinn andò al ceppo da macellaio, tirò fuori un
coltello da scalco e pugnalò sia il lesser che aveva
trasformato in un colabrodo sia quello che aveva
rispedito all'Omega centrandolo in pieno.
In fretta chiusero la casa meglio che poterono,
inserirono l'allarme e si pigiarono dentro la Mercedes di
Fritz, con Qhuinn al volante e Blay e John dietro.
Mentre procedevano verso la Statale 22, Qhuinn iniziò
ad alzare il divisorio. «Se dobbiamo tornare al quartier
generale, tu non devi vedere dov'è, Blay.»
Ma quello era solo uno dei motivi per cui stava
alzando lo schermo, naturalmente. Qhuinn voleva stare
da solo. Faceva sempre così quando era in crisi per
qualcosa, ecco perché John si era messo dietro.
595
Nella fitta oscurità del sedile posteriore, John lanciò
un'occhiata a Blay. Era appoggiato contro lo schienale di
cuoio neanche la testa gli pesasse come un blocco motore
e aveva gli occhi infossati nel cranio. Dimostrava
cent'anni.
In termini umani.
John lo rivide com'era qualche sera prima, da
Abercrombie, mentre curiosava tra le camicie esposte
tirandone fuori una ogni tanto per esaminarla meglio. Il
ragazzo dai capelli rossi del negozio sembrava un
lontano cugino più giovane della persona seduta nella
Mercedes, erano alti uguali e avevano capelli e occhi
dello stesso colore, ma per il resto non avevano niente in
comune.
John gli diede un colpetto sul braccio. Devi farti vedere
dalla dottoressa Jane.
Blay si guardò la camicia bianca e parve sorpreso nel
vederla sporca di sangue. «Allora era questo che
continuava a ripetere mia mamma. Non mi fa male.»
Bene.
Blay si voltò a guardare fuori dal finestrino, anche se
era impossibile vedere qualcosa. «Mio papà ha detto che
potevo restare. Per combattere.»
John fischiò piano per fargli voltare di nuovo la testa.
Non sapevo che tuo papà maneggiasse così bene la spada.
596
«Prima di sposare mia madre era un soldato, È stata lei
a farlo smettere.» Blay si spazzolò con la mano la camicia,
anche se il sangue aveva impregnato il tessuto,
macchiandolo. «Hanno litigato di brutto quando Wrath
mi ha chiamato per chiedermi di rintracciare voi due.
Mia madre ha paura che io possa morire. Mio padre
vuole che mi comporti con onore, ora che la razza ha
bisogno di aiuto. La situazione è questa.»
E tu cosa vuoi?
Blay alzò gli occhi sul divisorio, poi subito distolse lo
sguardo, guardandosi intorno, «Io voglio combattere.»
John si appoggiò allo schienale. Bene.
Dopo un lungo silenzio, Blay disse. «John?»
John voltò lentamente la testa, si sentiva esausto
quanto Blay.
Cosa?, sillabò, non avendo la forza di usare la lingua
dei segni.
«Vuoi ancora essere mio amico? Anche se sono gay?»
John si accigliò. Poi si tirò su e gli sferrò un pugno alla
spalla.
«Ahia! Ma che cavolo...»
Perché non dovrei voler essere tuo amico? A parte il fatto
che sei un idiota a chiedermelo...
597
Blay si massaggiò il punto in cui era stato colpito.
«Scusa. Non sapevo se cambiava le cose o,,. Non
azzardarti a rifarlo! Qui ho un taglio!»
John si rimise comodo. Stava per dargli ancora del
Pezzo di idiota quando si rese conto che anche lui si era
chiesto più o meno la stessa cosa dopo quanto era
successo nello spogliatoio.
Guardò l'amico. Per me sei sempre lo stesso.
«Non l'ho detto ai miei», disse Blay con un profondo
sospiro. «Tu e Qhuinn siete i soli a saperlo.»
Be', quando lo dirai al tuoi, o a chiunque altro, lui e io
saremo al tuo fianco. Sempre.
La domanda che John non aveva le palle di fargli
doveva trasparire dai suoi occhi perché Blay gli toccò la
spalla.
«No. Per niente. Credo che niente potrebbe mai farmi
perdere la stima che ho di te.»
Con due sospiri identici, chiusero gli occhi in
contemporanea. Nessuno dei due disse un'altra parola
per il resto del tragitto fino a casa.
Seduto sul sedile del passeggero della Focus, Lash
aveva la frustrante sensazione che, malgrado gli attacchi
sferrati contro le case dell'aristocrazia, la Società non
avesse ancora recepito il messaggio. I lesser prendevano
ordini da Mr D invece che da lui.
598
Che cavolo, non sapevano neanche della sua esistenza.
Lanciò un'occhiata a Mr D, intento a guidare con le
mani alle dieci e due sul volante. Una parte di lui era
tentata di freddarlo solo per dispetto, ma il suo lato
razionale sapeva che doveva tenerlo in vita per usarlo
come portavoce... almeno fino a quando non avrebbe
potuto dimostrare chi era al resto delle sue truppe.
Truppe. Gli piaceva un casino quella parola.
Era seconda solo a sue.
Forse poteva inventarsi un'uniforme. Tipo quella di un
generale o roba del genere.
Di certo se la meritava, data l'efficacia della sua
strategia militare. Era un genio, altro che storie, e il fatto
che stesse sfruttando contro la confraternita proprio
quello che aveva appreso nel suo corso di addestramento
era un autentico colpo da maestro.
In passato la Lessening Society si era sempre limitata a
scalfire superficialmente la popolazione dei vampiri.
Senza un vero servizio di spionaggio e con forze militari
prive di coordinamento, era ima strategia mordi-e-fuggi
dai successi molto limitati.
Lui, invece, pensava in grande e disponeva delle
conoscenze adatte a realizzare i suoi piani.
Il modo migliore per eliminare i vampiri era spezzare
la volontà collettiva della società, e il primo passo in tal
senso era la destabilizzazione. Quattro delle sei famiglie
599
fondatrici della glymera erano state decapitate. Ne
mancavano altre due; una volta colpite anche quelle, i
lesser potevano passare a occuparsi del resto
dell'aristocrazia. Con la glymera sotto attacco e decimata,
ciò che restava del Consiglio dei Princeps si sarebbe
rivoltato contro Wrath in quanto re; sarebbero nate delle
fazioni contrapposte e ne sarebbero scaturite delle lotte di
potere. Costretto ad affrontare il malcontento diffuso e i
disordini tra la popolazione civile, la messa in
discussione della sua autorità e una guerra in atto, Wrath
avrebbe compiuto madornali errori di valutazione. Cosa
che avrebbe esacerbato l'instabilità generale.
Le conseguenze non sarebbero state esclusivamente
politiche. L'ondata di saccheggi appena avviata
significava meno entrate per la confraternita, a causa
dell'erosione della base imponibile. Meno aristocratici
significava meno lavori per i civili, il che avrebbe causato
difficoltà finanziarie nelle classi inferiori e un'erosione
del loro sostegno al sovrano. Un circolo vizioso che
inevitabilmente avrebbe condotto alla rovina di Wrath destinato a venire deposto, ucciso o relegato in una
posizione puramente rappresentativa - e causato lo
sfascio della struttura sociale dei vampiri. Tutto sarebbe
precipitato nel caos più totale, e proprio allora Lash
avrebbe fatto la sua comparsa sulla scena per spazzare
via il poco che restava.
Meglio di così poteva esserci solo lo scoppio di
un'epidemia tra i vampiri.
Finora il suo piano aveva funzionato; quella prima
notte era stata un successo su quasi tutta la linea. Gli era
600
scocciato che quello stronzo di Qhuinn non fosse in casa,
quando avevano preso di mira la sua abitazione, perché
gli sarebbe piaciuto uccidere il caro cuginetto; ma in
compenso aveva appreso qualcosa di interessante. Sulla
scrivania di suo zio aveva trovato dei documenti in base
ai quali Qhuinn veniva rinnegato ed espulso dalla sua
famiglia. Il che significava che quel coglioncello con gli
occhi spaiati era là fuori da qualche parte, uccel di bosco,
ma non a casa di Blay, evidentemente, dato che avevano
colpito anche quella.
Sì, gli rodeva che Qhuinn non fosse in casa. Ma
almeno avevano catturato vivo suo fratello. Quello sì che
sarebbe stato uno spasso.
La Società aveva subito numerose perdite, soprattutto
a casa di Blay e dello stesso Lash, ma nel complesso il
bilancio era largamente a favore di Lash.
Il momento, tuttavia, era critico. I membri della
glymera sarebbero scappati nelle loro case sicure; lui
conosceva alcune delle zone in cui sorgevano, per la
maggior parte erano su al nord, nella parte settentrionale
dello stato di New York, il che significava lunghi viaggi
per i suoi uomini. Per stringere i tempi dovevano colpire
quanti più indirizzi possibile lì in città.
Piantine. Servivano delle piantine stradali.
Appena gli venne quell'idea il suo stomaco cominciò a
lamentarsi.
Servivano piantine e cibarie.
601
«Entra in quella stazione di servizio», sbraitò.
Mr D non fece in tempo a svoltare a sinistra, quindi si
spostò sull'altra corsia e tornò indietro.
«Ho bisogno di mettere qualcosa sotto i denti», spiegò
Lash. «E di piantine per...»
Dall'altra parte della strada si accesero i lampeggianti
azzurri di una volante del Dipartimento di Polizia di
Caldwell e Lash proruppe in un'imprecazione.
Se il piedipiatti li aveva pizzicati a fare quella manovra
scorretta erano nella merda fino al collo. Nel baule della
Focus c'erano pistole e altre armi. Vestiti insanguinati.
Portafogli, orologi e anelli sottratti ai vampiri morti.
fantastico. Proprio fantastico. L'agente, evidentemente,
non stava facendo una pausa-ciambella d'emergenza,
perché veniva dritto verso di loro.
«Porca troia!» Lash guardò Mr D, che stava
accostando. «Dimmi che hai una patente in regola.»
«Ma certo.» Mr D parcheggiò la macchina e abbassò il
finestrino quando uno dei tutori dell'ordine al servizio
dei cittadini di Caidie si fermò accanto alla portiera.
«Ehilà, agente. Ecco qui la patente.»
«Mi serve anche il libretto di circolazione.» Lo sbirro
infilò la testa dentro l'auto e fece una smorfia, come se
non gli piacesse il loro odore.
Dio, è vero. Il borotalco.
602
Lash si mise comodo mentre Mr D, serafico, apriva il
vano portaoggetti. Ne estrasse un foglio bianco grande
come una scheda, a cui Lash lanciò un'occhiata frettolosa.
In effetti sembrava tutto in regola. Il documento recava il
simbolo dello Stato di New York, il nome di Richard
Delano e un indirizzo al civico 1583 della Decima Strada,
interno 4F.
Mr D allungò il tutto fuori dal finestrino. «Lo so che
non dovevo fare quell'inversione, là dietro, signore.
Volevamo solo mangiare un boccone e avevo mancato il
parcheggio.»
Lash fissò Mr D, impressionato dal quello sfoggio di
talento interpretativo. D guardava il poliziotto con la
giusta combinazione di mesta vergogna, sincero
rammarico e assoluta onestà. Cavolo, quando aveva
buttato lì quel signore manco fosse un amen in chiesa era
stato impagabile. La sua faccia meritava di figurare su
una scatola di cereali: incarnava tutto ciò che è sano e
genuino, ricco di vitamine e fibre, imbottito del buon
vecchio regime alimentare americano.
H poliziotto esaminò i documenti e glieli restituì.
Illuminando l'interno dell'auto con la torcia, disse, «Non
lo faccia pi...»
Guardando Lash si accigliò.
L'atteggiamento da "okay qui sto solo perdendo
tempo" svanì in una frazione di secondo. Accostando alla
bocca la ricetrasmittente fissata al bavero, chiamò i
rinforzi, poi disse, «Devo chiederle di scendere dall'auto,
signore.»
603
«Dice a me?» fece Lash, Cazzo, non aveva documenti
con sé. «Perché?»
«Per favore scenda dall'auto, signore.»
«Prima mi dica perché.»
La torcia illuminò la catena che Lash aveva al collo.
«Abbiamo ricevuto una denuncia, circa un'ora fa, da una
cliente di Screamer's relativa a un maschio bianco, un
metro e novantotto, capelli biondi tagliati a spazzola, con
al collo un collare da cane. Quindi ho bisogno che lei
scenda dall'auto.»
«Di che denuncia si tratta?»
«Violenza sessuale.» Un'altra auto della polizia accostò
davanti a loro, poi fece retromarcia fermandosi
vicinissimo ai fari della Focus. «Per piacere scenda dal
veicolo, signore.»
Quella troia giù al bar era andata alla polizia? Ma se
era stata lei a implorarlo di scoparla. «No.»
«Se non scende dall'auto sarò costretto a tirarla fuori
con la forza.»
«Scenda dalla macchina», bisbigliò Mr D.
Il secondo poliziotto girò intorno alla Focus e aprì la
portiera di Lash. «Scenda dall'auto, signore.»
Neanche per sogno. Obbedire a quegli idioti? A quegli
umani del cazzo? Lui era il figlio dell'Omega, per l'amor
604
del cielo. Non seguiva le regole dei vampiri, figuriamoci
quelle che governano l'Homo sapiens.
«Signore?» lo incalzò lo sbirro.
«Perché invece non si ficca nel culo la sua cazzo di
pistola paralizzante?»
L'agente si chinò e lo agguantò per il braccio. «La
dichiaro in arresto per violenza sessuale. Tutto ciò che
dirà potrà essere usato contro di lei in tribunale. Se non
può permettersi un avvocato...»
«Non dirà mica sul serio, cazzo...»
«... gliene verrà assegnato uno d'ufficio. Ha capito
bene i diritti....»
«Mi lasci andare...»
«... che le ho appena esposto?»
Ci vollero tutti e due gli agenti per trascinarlo fuori
dall'auto, e ovviamente nel frattempo si era radunata una
folla di curiosi. Merda. Poteva strappare via le braccia a
quegli umani come niente e ficcargliele su per il culo, ma
non poteva fare una sceneggiata. Troppi testimoni,
«Signore, ha capito i suoi diritti?» Questo gli veniva
chiesto mentre veniva fatto piroettare su se stesso, spinto
a faccia avanti contro il cofano della macchina e
ammanettato.
605
Attraverso il parabrezza, Lash guardò Mr D, che
adesso non sembrava più innocente come un agnellino.
Aveva socchiuso gli occhi e si poteva solo sperare che si
stesse scervellando per trovare una via d'uscita.
«Signore? Ha capito i suoi diritti?» «Sì», scattò Lash,
furente. «Perfettamente, cazzo.» Lo sbirro sulla sinistra si
chinò su di lui. «A proposito, aggiungeremo un altro
capo d'accusa per resistenza a pubblico ufficiale. E poi
quella bionda aveva diciassette anni.»
606
Capitolo 37
Dietro la grande casa della confraternita, Cormia
correva a più non posso sul prato ben rasato, malgrado i
piedi nudi e feriti. Correva per perdersi, correva nella
speranza di catturare un briciolo di chiarezza, correva
perché non c'era un posto dove volesse andare, ma non
poteva più restare dov'era.
Col fiato che entrava e usciva faticosamente dai
polmoni, le gambe che bruciavano e le braccia
intorpidite, continuava a correre avanti e indietro:
seguiva il muro di cinta fino al limitare della foresta, poi
si voltava e tornava verso i giardini.
Layla e il Primale. Layla che giaceva con il Primale. Layla
nuda con il Primale.
Si mise a correre ancora più forte.
Lui avrebbe scelto Layla. Non era a suo agio in quel
ruolo, quindi avrebbe scelto l'Eletta che aveva già visto
per casa e che aveva servito i suoi fratelli con grazia e
discrezione. Avrebbe scelto ciò che gli era familiare.
Avrebbe scelto Layla.
All'improvviso le gambe cedettero e Cormia crollò,
sfinita.
607
Quando si fu ripresa abbastanza da alzare la testa si
accigliò, ansimante. Era caduta su uno strano fazzoletto
di prato tutto spelacchiato, del diametro di un paio di
metri. Era come se vi avessero bruciato qualcosa e il
terreno non si fosse ancora ripreso.
Azzeccatissimo, sotto molti punti di vista.
Rotolando sulla schiena guardò il cielo notturno. Le
cosce le bruciavano, e anche i polmoni, ma il fuoco vero
era dentro il cervello. Il suo posto non era lì, sulla Terra,
ma non sopportava l'idea di tornare al Santuario.
Le sembrava di essere come l'aria estiva, tra il verde
terreno erboso e la galassia trapunta di stelle sopra la sua
testa. Non era né di là né di qua... ed era invisibile.
Si alzò in piedi e lentamente tornò verso la terrazza. Le
finestre della casa erano illuminate. Guardandosi intorno,
si rese conto che la tavolozza notturna di quel mondo le
sarebbe mancata: i rossi, i rosa, i gialli e i viola delle rose
tea erano tenui e delicati, quasi che i fiori si sentissero
intimiditi. In biblioteca, il rosso cupo dei tendaggi era
come un fuoco che covava sotto la cenere, e la sala del
biliardo, con il suo vivido verde scuro, sembrava fatta di
smeraldi.
Che bello. Era tutto così bello, un piacere per gli occhi.
Per rinviare di un altro po' la partenza andò alla
piscina. L'acqua nera le parlava, la superficie scintillante
sussurrava tramite i sospiri melodiosi e l'invitante
sfavillio della lima sulle piccole onde.
608
Cormia lasciò cadere la veste e si immerse in quella
morbida oscurità, penetrando l'ordito della superficie
della piscina, spingendosi sul fondo e fendendo l'acqua
con poderose bracciate.
Quando riemerse, all'altra estremità, una decisione si
insinuò dentro di lei insieme all'aria con cui si riempì i
polmoni. Avrebbe informato Fritz che se ne stava
andando, chiedendogli di avvertire Bella. Poi, al
Santuario, avrebbe chiesto udienza presso la Direttrice
Amalya e con l'occasione avrebbe avanzato la richiesta di
diventare una scriba segregata.
Sapeva che tra le mansioni di una scriba rientrava
quella di seguire le tracce della prole del Primule, ma
preferiva averci a che fare nel regno delle lettere piuttosto
che essere costretta a posare gli occhi su legioni di
cuccioli dai capelli multicolori e dagli splendidi occhi
gialli.
Perché ci sarebbero stati dei cuccioli. Sebbene lo avesse
provocato in merito alla sua forza, il Primale avrebbe fatto
ciò che doveva. Adesso lottava ancora più strenuamente
con il proprio ruolo, ma il suo senso del dovere avrebbe
prevalso sull'interesse personale.
Bella aveva perfettamente ragione nel giudizio che
aveva espresso su di lui.
«Be', salve.»
Cormia si ritrovò davanti un paio di giganteschi anfibi
con la punta rinforzata in metallo. Trasalendo, fece
609
scorrere gli occhi lungo il corpo slanciato di un maschio
che indossava quelli che lì chiamavano blue jeans.
«E tu chi sei?» chiese lui con una bella voce calda,
accovacciandosi sui talloni. Aveva due occhi
sensazionali, infossati e di due colori diversi, con le ciglia
dello stesso nero corvino dei capelli.
Prima che Cormia potesse rispondere, John Matthew
sopraggiunse alle spalle dello sconosciuto e fischiò forte
per attirare la sua attenzione. Quando il giovane sul
bordo della piscina si voltò a guardarlo da sopra la
spalla, John scosse la testa gesticolando frenetico.
«Oh... merda, scusa tanto.» Il giovane bruno si erse in
tutta la sua statura alzando le mani, quasi a scusarsi della
gaffe. «Non sapevo chi fossi.»
Un altro giovane uscì dalla portafinestra della
biblioteca. Aveva i capelli rossi, macchie di sangue sulla
camicia e l'aria stremata.
Erano soldati che combattevano con John, pensò
Cormia. Giovani soldati.
«Chi sei?» chiese a quello con gli occhi belli e strani.
«Qhuinn. Sono con lui», e agitò il pollice indicando
John Matthew. «Il rosso è...»
«Blaylock», lo interruppe brusco l'altro. «Io sono
Blaylock.»
«Stavo solo facendo una nuotata», disse Cormia.
610
«Lo vedo.» Il sorriso di Qhuinn adesso era affabile,
non più sensuale.
Eppure era attratto da lei, pensò Cormia. Lo sentiva.
Soltanto allora realizzò che, col percorso appena scelto,
sarebbe rimasta per sempre illibata. In quanto scriba
segregata non sarebbe mai stata tra le Elette visitate dal ¥
rimale.
Dunque non avrebbe mai rivissuto quel meraviglioso
senso di tempesta interiore che si scatenava dentro di lei
in sua presenza.
Mai più.
L'infinita distesa degli anni a venire si dipanò davanti
a lei toccando una corda irrequieta e disperata e,
sull'onda di quella insoddisfazione, si spinse attraverso
l'acqua tiepida, fino alla scaletta. Afferrando i sostegni si
tirò su e sentì l'aria fredda sulla pelle; sapeva che tutti e
tre i soldati la stavano osservando.
Tale consapevolezza la demoralizzò e insieme la
imbaldanzì. Quella era l'ultima volta che occhi maschili si
posavano sul suo corpo, e il pensiero che stava per
confinare per sempre in una cella di clausura quanto c'era
di femminile in lei era difficile da mandare giù. Non
poteva andare con nessuno che non fosse il Primale ma,
per come stavano le cose con le sue sorelle, non
sopportava di andare con lui. Dunque quella era la fine.
Pochi istanti ancora e si sarebbe avvolta nella tunica,
dicendo addio per sempre a qualcosa che non era mai
neanche veramente cominciato.
611
Dunque non si sarebbe scusata per la propria nudità
né avrebbe nascosto il proprio corpo, uscendo dal
morbido abbraccio dell'acqua.
Phury si rimaterializzò nei giardini dietro la casa della
confraternita perché non gli andava di incontrare
nessuno. Con quello che gli ronzava per la testa, varcare
il portone principale col rischio di...
I sui piedi si fermarono, il suo cuore si fermò, il suo
respiro si fermò.
Cormia stava uscendo dalla piscina, le splendide
forme femminili stillanti acqua... mentre tre giovani
freschi di transizione la contemplavano impalati, a tre o
quattro metri di distanza, con le lingue penzoloni fino
all'ombelico.
Oh... diavolo... no.
Il vampiro innamorato che era in lui si ridestò come
una belva inferocita, facendo piazza pulita delle
menzogne di cui si era nutrito circa i propri sentimenti,
uscendo con un ruggito dalla caverna del suo cuore e
strappandogli via fino all'ultimo brandello di civiltà.
La sua femmina se ne stava lì, nuda, sotto gli sguardi
concupiscenti di altri maschi.
Solo questo sapeva. Il resto non aveva importanza.
Prima ancora di rendersene conto emise un ringhio
che lacerò l'aria come un tuono. John Matthew e i suoi
amici volsero gli occhi su di lui, poi tutti e tre
612
indietreggiarono all'unisono. Di corsa. Come se la piscina
avesse preso fuoco.
Cormia, dal canto suo, non guardò nella sua direzione.
Non si affrettò neanche a coprirsi. Al contrario, raccolse
la tunica e se la fece scivolare sulle spalle con lentezza
deliberata, in un latente gesto di sfida.
Cosa che lo fece infuriare come non mai. «Entra in
casa», ordinò imperioso. «Svelta.»
Lei lo guardò e, con voce ferma quanto il suo sguardo,
disse, «E se decidessi di non farlo?»
«Ti carico in spalla e ti porto dentro di peso.» Phury si
voltò verso i ragazzi. «Questi sono affari nostri, non
vostri. Sparite, se ci tenete alla pelle. Subito.»
Il terzetto esitò finché Cormia disse, «Andrà tutto
bene. Non preoccupatevi.»
Mentre si voltavano, Phury ebbe la sensazione che non
sarebbero andati lontano, ma Cormia non aveva bisogno
di protezione. I vampiri innamorati erano mortalmente
pericolosi per tutti tranne che per le loro compagne. Lui
era fuori controllo, sì, ma era Cormia ad avere il
telecomando. E aveva il sospetto che lei lo sapesse.
Con estrema calma, Cormia si strizzò i capelli. «Perché
volete che entri?»
«Cammini da sola o vuoi che ti porti io?»
613
«Vi ho chiesto perché.» «Perché adesso andrai in
camera mia.» Le parole furono sospinte fuori dalla bocca
dal suo respiro affannoso.
«In camera vostra? In camera mia, vorrete dire. Perché
mi avete detto di uscire dalla vostra cinque mesi fa.»
Il pene era la sede della sua belva e premeva per essere
liberato in modo da potersi liberare a sua volta dentro di
lei. E l'eccitazione era innegabile: il suo treno era sul
binario, il biglietto obliterato, il viaggio già cominciato".
Anche per Cormia.
Phury le andò vicino. Sentiva sulla pelle il calore
rovente emanato dal suo corpo, e il suo profumo di
gelsomino era denso come il sangue che gli scorreva nelle
vene.
Le mostrò le zanne fulmineo soffiando come un gatto.
«Andiamo in camera mia.»
«Non ho nessun motivo di andare in camera vostra.»
«Sì, invece.»
«No, temo proprio di no», fece lei gettando con
noncuranza sulla spalla la grossa coda attorcigliata.
Ciò detto gli voltò le spalle ed entrò senza fretta.
Lui la seguì come si fa con una preda, standole alle
calcagna attraverso la biblioteca, su per il sontuoso
scalone e fino in camera sua.
614
Cormia socchiuse appena l'uscio e sgattaiolò dentro.
Prima di restare chiuso fuori, Phury sbatté il palmo sul
pannello di legno ed entrò con la forza. Fu lui a chiudere
la porta. A chiave.
«Levati la tunica.»
«Perché?»
«Perché se te la levo io rischio di farla a brandelli.»
Cormia alzò il mento e socchiuse le palpebre; così,
anche se doveva guardare in su per incrociare il suo
sguardo, era come se lo guardasse dall'alto in basso.
«Perché dovrei spogliarmi?»
«Voglio marchiarti», ringhiò lui dando voce all'istinto
territoriale insito in ogni fibra del suo corpo.
«Veramente? Vi rendete conto che non avrebbe alcun
senso?»
«Ne ha eccome, invece.»
«Prima non mi volevate.»
«Col cavolo.»
«Mi avete paragonato a quell'altra femmina con cui
avete tentato di andare senza riuscirci.»
«E tu non mi hai lasciato finire. Lei era una puttana
che ho pagato al solo scopo di liberarmi della mia
615
verginità. Non era una femmina che desideravo. Non era
te.» Inspirò a fondo il suo odore e lo espirò, facendo le
fusa come un gatto. «Lei non era te.»
«Eppure avete accettato Layla, non è così?» Quando
lui non rispose, Cormia si avviò senza fretta verso il
bagno e aprì l'acqua nella doccia. «Sì che l'avete accettata.
Come Prima Sposa.»
«Lei non c'entra, adesso», ribatté lui dalla soglia.
«Come sarebbe? Le Elette sono un tutt'uno e io sono
ancora una di loro.» Cormia si voltò verso di lui e lasciò
cadere la tunica. «O sbaglio?»
Phury sentì l'uccello ergersi con prepotenza dietro la
cerniera dei calzoni. Sotto i faretti del soffitto il corpo di
lei luccicava, letteralmente, i seni alti e sodi, le cosce
leggermente divaricate.
Cormia s'infilò sotto la doccia e lui rimase a guardarla
mentre inarcava la schiena e si lavava i capelli. A ogni
sua mossa perdeva, un pezzetto dopo l'altro, quel poco
che ancora restava del suo lato civilizzato. In una qualche
oscura, primitiva sede del suo cervello, sapeva che
avrebbe dovuto andarsene, perché stava per rendere
irrimediabilmente insostenibile una situazione già di per
sé complicata. Ma il suo corpo aveva trovato il
nutrimento di cui aveva bisogno per sopravvivere.
E non appena lei fosse uscita da quella maledetta
doccia, se la sarebbe mangiata viva.
616
Capitolo 38
Sì, lo avrebbe lasciato fare.
Mentre si sciacquava la schiuma dai capelli, Cormia
sapeva che nel momento in cui fosse uscita dalla doccia
sarebbe finita sotto il Primale.
Gli avrebbe permesso di possederla. E, al tempo
stesso, anche lei lo avrebbe posseduto.
Basta con i quasi e i per poco, basta con i forse sì e forse
no. Basta con il destino crudele di cui erano entrambi
prigionieri. Basta fare quello che altri le avevano imposto
di fare.
Lei voleva il Primale. E lo avrebbe avuto.
Al diavolo le sue sorelle. Lui era suo.
Ma solo per stanotte, puntualizzò una voce dentro di lei.
«'Fanculo», esclamò lei rivolta alla parete di marmo.
Chiuse il rubinetto con forza e spalancò la porta. Il
getto d'acqua s'interruppe bruscamente e lei si trovò
davanti il Primale.
Era nudo. In erezione. Le zanne allungate al massimo.
617
Il ruggito che lanciò era degno di un leone; con quel
suono che riecheggiava per tutto il marmo del bagno,
Cormia si ritrovò ancora più bagnata in mezzo alle
gambe.
Lui le si avvicinò e lei non lo respinse quando l'afferrò
per la vita sollevandola da terra. Non fu delicato, ma lei
non cercava la delicatezza... e per assicurarsi che lo
capisse gli diede un morso alla spalla mentre passavano
in camera da letto.
Lui ruggì di nuovo sbattendola sul letto. Lei rimbalzò
una, due volte sul materasso, poi rotolò a pancia in giù
cercando di strisciare via, tanto per farlo penare. Non
aveva la minima intenzione di dirgli di no ma, accidenti,
lo avrebbe costretto a inseguirla...
Con un balzo, il Primale le atterrò sulla schiena
immobilizzandole le mani sopra la testa. Mentre Cormia
cercava di voltarsi sotto di lui, le aprì le gambe con le
ginocchia tenendola ferma con il bacino. Il membro eretto
scivolò verso il basso premendo contro di lei e facendola
inarcare.
Le lasciò le braccia libere quel tanto che bastava per
permetterle di voltare le spalle e guardarlo.
La baciò. A lungo e con trasporto. E lei gli tenne testa,
non più schiava della tradizionale arrendevolezza delle
Elette.
Con una mossa repentina lui si ritrasse, si spostò
leggermente e...
618
Cormia gemette quando la penetrò con un unico,
vigoroso affondo. Poi non ci fu tempo per parlare,
pensare o indugiare sul dolore che sentiva quando i
fianchi di lui divennero una forza motrice implacabile.
Era una cosa buona e giusta, tutto quanto: dall'odore
penetrante e speziato di lui al suo peso che gravava su di
lei, dal modo in cui i suoi capelli le ricadevano sul viso
agli ansiti che uscivano dalle loro labbra schiuse.
Quando lui cominciò a spingersi più a fondo, Cormia
spalancò ancora di più le gambe riecheggiando il suo
ritmo con i fianchi.
Aveva le lacrime agli occhi, ma non si soffermò a
pensarci, travolta dall'impeto incontenibile di lui; un
grumo di fuoco prese vita nel punto in cui lui pompava
avanti e indietro, al punto che temette di rimanere arsa
viva... e non lo trovò affatto spiacevole.
Vennero nello stesso istante, e nel bel mezzo
dell'orgasmo Cormia lo scorse da sopra la spalla, la testa
gettata all'indietro, la mascella contratta, i possenti
muscoli delle braccia in rilievo sotto la pelle liscia. Ben
presto, però, si smarrì del tutto e non riuscì a vedere più
niente. Anche il suo corpo si contraeva e si rilassava, si
contraeva e si rilassava avidamente intorno al sesso del
Primale, spremendolo fino all'ultima goccia, facendolo
mugolare e contorcere di piacere, lasciandosi marchiare
da lui.
Poi tutto finì.
Dopo, Cormia pensò ai temporali estivi che ogni tanto
infuriavano sopra la grande casa della confraternita.
619
Quando si placavano, il silenzio era ancora più profondo
per la violenza con cui si erano scatenati. Era lo stesso per
loro due. Lì, immobili, col respiro che si normalizzava e il
cuore che rallentava, era difficile ricordare la vivida
urgenza che li aveva spinti fino a quell'assordante
momento di silenzio.
Guardò in faccia il Primale e vide lo sgomento e poi lo
shock prendere il posto dell'ossessiva smania di
marchiarla.
Che cosa si aspettava? Che quella danza di corpi lo
inducesse a rinunciare alla posizione di Primale, a
infrangere il suo giuramento dichiarandola sua unica
shellan. Credeva che sarebbe impazzito di gioia perché,
alla vigilia della sua partenza, travolti da un impulso
irrefrenabile, avevano fatto ciò che già da mesi avrebbero
dovuto compiere con reverenza e avvedutezza?
«Vi prego, uscite dal mio corpo», disse con voce
strozzata.
Phury non riusciva a comprendere ciò che aveva fatto,
eppure la prova era lì, davanti ai suoi occhi: il corpo
snello di Cormia schiacciato sotto il peso del suo, le
guance rigate di lacrime e i lividi ai polsi.
L'aveva presa da dietro, come una cagna, rubandole la
verginità. L'aveva tenuta giù, costringendola a
sottomettersi perché lui era più forte. Era affondato
dentro di lei senza riguardo per il dolore che sicuramente
aveva sentito.
620
«Vi prego, uscite dal mio corpo.» La voce di lei era
tremante e quel vi prego lo fece morire. Poteva solo
chiederglielo perché era completamente in suo potere.
Si staccò da lei e scese dal letto, barcollando come un
ubriaco.
Cormia si voltò su un fianco raggomitolandosi su se
stessa. La sua spina dorsale sembrava così fragile, la
delicata colonna vertebrale suscettibile di spezzarsi sotto
alla pelle immacolata.
«Mi dispiace.» Dio, come suonavano vane quelle
parole, due secchi vuoti.
«Vi prego, andate via.»
Visto il modo in cui l'aveva sopraffatta, soddisfare la
sua richiesta appariva fondamentale. Anche se lasciarla
era l'ultima cosa che voleva fare.
Phury entrò in bagno, si vestì e andò alla porta. «Dopo
dobbiamo parlare...»
«Non c'è nessun "dopo". Voglio chiedere di diventare
una scriba segregata. Così tramanderò la vostra storia,
ma non ne farò parte.»
«Cormia, no.»
Lei lo guardò da sopra a spalla. «Il mio posto è là.»
Poi affondò di nuovo la testa nel guanciale.
621
«Andate», disse. «Per favore.»
Phury uscì senza esserne veramente cosciente. Solo
qualche tempo dopo realizzò di essere tornato in camera
sua; era seduto sul bordo del letto a fumare imo spinello.
Nel silenzio della stanza gli tremavano le mani, il cuore
era una batteria elettronica scassata e il piede batteva sul
pavimento,
Il mago era ben piantato al centro della sua mente,
ritto nella lunga veste nera agitata dal vento, la figura
stagliata contro un orizzonte vasto e grigio. In mano, in
equilibrio sul palmo, reggeva un teschio.
Che aveva gli occhi gialli.
Te l'avevo detto che l'avresti fatta soffrire. Te l'avevo detto.
Phury guardò lo spinello che aveva in mano,
sforzandosi di vedere qualcos'altro oltre alla rovina. Non
ci riuscì. Era stato una bestia.
Ti avevo detto cosa sarebbe successo. Avevo ragione. Avevo
ragione sin dall'inizio. E, a proposito, la maledizione non è la
tua nascita. Non sta nel fatto che sei nato dopo il tuo gemello.
La maledizione sei tu. Che fossero nati altri cinque gemelli
insieme a te oppure nessuno, l'effetto su tutte le vite intorno a
te sarebbe stato lo stesso.
Phury prese il telecomando e accese lo stereo Bose, ma
nell'istante in cui ima delle splendide, voluttuose opere
di Puccini inondò la stanza, gli salirono le lacrime agli
occhi. Che musica incantevole, ma anche intollerabile se
paragonava la magica melodia della voce di Luciano
622
Pavarotti ai grugniti che aveva emesso stando sopra
Cormia.
L'aveva tenuta giù. Le aveva bloccato le braccia.
L'aveva montata da dietro...
La maledizione sei tu.
Mentre la voce del mago continuava ad assillarlo,
martellante, si sentì ancora una volta soffocare dall'edera
del passato che, uno strato dopo l'altro, lo seppelliva
sotto i suoi fallimenti: tutte le cose che non aveva portato
a termine, tutte le volte che avrebbe potuto fare la
differenza ma non era stato all'altezza, tutta la
sollecitudine che aveva tentato di dimostrare, senza
riuscirci... e adesso si aggiungeva un nuovo strato. Quello
relativo a Cormia.
Sentì l'ultimo rantolo di suo padre. E il crepitio del
corpo di sua madre consumato dalle fiamme. E la collera
del suo gemello per essere stato salvato.
Ma peggiore di tutto il resto era la voce di Cormia: Vi
prego, uscite dal mio corpo.
Phury si tappò le orecchie con le mani, anche se non
serviva a niente.
La maledizione sei tu.
Con un gemito si strine la testa tra le mani, con tanta
forza da far tremare le braccia.
623
Non ti piace la verità? disse il mago, sprezzante. Non ti
piace la mia voce? Sai come farmi sparire.
Il mago lasciò cadere il teschio nel mucchio di ossa ai
suoi piedi. Sai come fare.
Phury fumò disperatamente, terrorizzato da tutto
quello che c'era nella sua testa.
Lo spinello non intaccava neanche superficialmente
l'odio che provava per se stesso o le voci che lo
tormentavano.
Il mago poggiò lo scarpone nero in cima al teschio
dagli occhi gialli. Sai cosa fare.
624
Capitolo 39
A nord, sugli Adirondack, in fondo a una grotta nel
Black Snake State Park, il vampiro che due giorni prima,
era crollato all'arrivo dell'alba, non riusciva a capire
perché il sole splendesse su di lui senza mandarlo a
fuoco. A meno che fosse nel Fado.
No... quello non poteva essere il Fado. I dolori
lancinanti del suo corpo e le urla nella sua testa erano
troppo simili a quelli che sentiva sulla terra.
Ma allora il sole? Era avvolto dalla sua calda luce
eppure respirava.
Cribbio, se tutta quella storia che i vampiri non
tollerano la luce del giorno era una balla, l'intera razza
era fatta da idioti.
Ma, un momento, non era in una grotta? Quindi, come
facevano a raggiungerlo i raggi del sole?
«Mangia questo», disse il sole.
Okay, ammesso e non concesso che fosse ancora vivo,
chiaramente aveva le allucinazioni. Perché quello che gli
venne spinto sotto il muso assomigliava tanto a un Big
Mac, il che era impossibile.
625
A meno che fosse effettivamente morto e il Fado,
invece dei cancelli dorati, avesse gli Archi Dorati della
McDonald's.
«Senti», disse il sole, «se il tuo cervello ha dimenticato
come si fa a mangiare, apri la bocca e basta. Ti ficco
dentro questo coso così vediamo se i tuoi denti si
ricordano cosa fare.»
Il vampiro socchiuse le labbra, perché l'aroma della
carne stava risvegliando il suo stomaco e lo faceva
sbavare come un cane. Quando gli venne spinto in bocca
l'hamburger, la mascella mise il pilota automatico
chiudendosi con forza.
Staccò un grosso boccone mugolando di piacere. Per
un istante il fremito d'approvazione delle papille
gustative sostituì tutta la sua sofferenza, compresa quella
mentale. Inghiottì con un altro mugolio di piacere.
«Mangiane ancora un po'», disse il sole, premendogli il
Big Mac contro le labbra.
Lui lo divorò tutto. E mangiò anche un po' di patatine
fritte; malgrado fossero tiepide erano comunque una
manna dal cielo. Poi sentì che gli sollevavano la testa e
bevve un goccio di Coca Cola leggermente acquosa.
«Il Mickey D più vicino è a una trentina di chilometri»,
spiegò il sole, quasi cercasse di colmare il silenzio. «Per
questo la roba si è un po' raffreddata.»
Il vampiro ne voleva ancora.
626
«Sì, ecco il bis. Apri bene.»
Un altro Big Mac. Altre patatine fritte. Altra Coca Cola.
«Ho fatto del mio meglio, ma hai bisogno di sangue»,
disse il sole, come se lui fosse un bambino. «E devi
andare a casa.»
Quando il vampiro scosse la testa, si accorse di essere
sdraiato sulla schiena con una lastra di pietra per cuscino
e il fondo di terra battuta come materasso. Non era nella
stessa grotta di prima, però. Questa aveva un odore
diverso. Un odore come di... aria fresca, aria fresca
primaverile.
Anche se... forse quello era l'odore del sole?
«Sì, invece, devi tornare a casa.»
«No...»
«Be', allora abbiamo un problema, io e te», bofonchiò il
sole. Ci fu un fruscio, come se qualcuno molto grosso si
fosse accovacciato sui talloni. «Tu sei il favore che mi
serve per tornare.»
Il vampiro si accigliò, inspirò a fatica e gracchiò, «Non
ho un posto dove andare. Niente favori.»
«Non sta a te decidere, amico. E neanche a me.» Il sole
scosse la testa, o almeno così parve, perché le ombre
indistinte che proiettava nella caverna si mossero come
onde. «Purtroppo devo riportarti a casa.»
627
«Ma io non sono niente per te.»
«In un mondo perfetto sarebbe vero. Purtroppo, però,
questo non è il Paradiso. Proprio per niente.»
Il vampiro non poteva essere più d'accordo, ma tutta
quella storia del tornare a casa era una grandissima
stronzata. Mentre l'energia ricavata dal cibo si diffondeva
nel suo organismo, trovò la forza di rizzarsi a sedere, si
stropicciò gli occhi e...
«Oh... merda», esclamò fissando il sole, incredulo.
Il sole annuì, tetro. «Già, concordo perfettamente.
Dunque, la situazione è questa, possiamo procedere con
le buone o con le cattive. Scegli tu. Anche se, tengo a
precisare, se sarò costretto a trovare casa tua senza il tuo
aiuto, la cosa richiederà degli sforzi da parte mia, e
questo mi farà incazzare di brutto.»
«Io laggiù non ci torno. Mai più.»
Il sole si passò una mano tra i lunghi capelli biondi e
neri. Anelli d'oro brillavano alle sue dita, scintillavano
alle orecchie, luccicavano al naso e sfolgoravano intorno
al collo taurino. Gli occhi di un bianco abbagliante, privi
di pupille, lampeggiarono di rabbia, l'anello azzurro vivo
intorno a quelle iridi lunari divenne blu scuro.
«Okay. Con le cattive, allora. Dì buonanotte, Gracie.»
Mentre tutto diventava nero, il vampiro sentì l'angelo
caduto Lassiter dire, «Figlio di puttana.»
628
Capitolo 40
«Avete visto la faccia di Phury?» disse Blay.
All'altra estremità della cucina, John lo guardò
annuendo, d'accordissimo con lui. Lui e i suoi amici si
stavano scolando qualche birretta per tirarsi un po' su. A
velocità supersonica.
Non aveva mia visto un vampiro con quella faccia.
Mai.
«Era una faccia da vampiro innamorato, altro che»,
sentenziò Qhuinn; andò al frigorifero, lo aprì e tirò fuori
altre tre bottiglie dalla scorta di Sam Adams della regina.
Blay prese quella che gli aveva allungato, poi con una
smorfia si tastò la spalla.
John stappò la sua e bevve un sorso. Poi mise giù la
bottiglia e, a gesti, disse, Sono preoccupato per Cormia,
«Phury non le farà male», disse Qhuinn sedendosi al
tavolo. «Naa, non esiste. Noi poteva anche mandarci al
creatore in anticipo, ma lei no.»
John sbirciò in sala da pranzo. Ho sentito delle porte che
sbattevano. Forte.
«Be', c'è un sacco di gente in questa casa...» Qhuinn si
guardò intorno come se fosse alle prese con un difficile
629
problema di matematica. «Compresi noi tre. Va' a
sapere.»
John si alzò in piedi. Devo andare a controllare. Non... sì,
insomma, starò attento a non disturbare. Voglio solo
assicurarmi che sia tutto a posto.
«Vengo con te», disse Qhuinn accennando ad alzarsi
di nuovo.
No, tu stai qui. E, prima che cominci a far andare la bocca,
vaffanculo. Questa è casa mia, e non ho bisogno di qualcuno
che mi sta appiccicato al sedere come un'ombra.
«Okay, okay, okay.» Qhuinn spostò gli occhi su Blay.
«Allora noi due andiamo nella saletta per la fisioterapia.
Ci vediamo lì?»
«Perché dobbiamo andare nella saletta per
fisioterapia?» chiese Blay senza guardarlo.
la
«Perché tu stai ancora sanguinando e da qui non sai
come arrivare alla cassetta del pronto soccorso.»
Qhuinn guardò fisso Blay. Blay guardò fìsso la sua
birra.
«Perché non mi dici semplicemente come arrivarci?»
borbottò Blay.
«E come pensi di riuscire a medicarti la schiena?»
630
Blay bevve una lunga sorsata della sua Sam Adams.
«E va bene. Prima però voglio finire la mia birra. E devo
mangiare qualcosa. Sto morendo di fame.»
«Bene. Cosa vuoi mangiare?»
Come quel detective della tivù, Joe Friday, erano tutti
e due rigidi e si limitavano ai fatti.
Ci vediamo là, disse John, voltandosi. Cribbio, vedere
quei due che si tenevano il muso in un certo senso
sconvolgeva l'intero ordine mondiale. Era sbagliato e
basta.
John uscì passando dalla sala da pranzo; giunto in
cima alle scale stava quasi correndo. Al primo piano sentì
odore di fumo rosso e un'aria d'opera uscire dalla stanza
di Phury - quella poetica melodia che ascoltava di solito.
Difficilmente poteva essere la colonna sonora di un
rapporto sessuale violento. Forse dopo aver litigato si
erano separati, chiudendosi ciascuno nella propria
stanza?
John avanzò furtivo fino alla camera di Cormia e si
mise in ascolto. Niente. Anche se in corridoio filtrava un
effluvio dalla ricca fragranza floreale.
Vedere se Cormia stava bene non poteva far male a
nessuno, pensò, quindi alzò le nocche e bussò piano alla
porta. Non ottenendo risposta, fischiò.
«John?» disse Cormia.
631
Lui aprì la porta pensando di avere ottenuto il
permesso di...
E rimase impietrito.
Cormia era sdraiata di traverso sul letto, sopra un
groviglio di piumini e lenzuola. Dava la schiena alla
porta, era nuda e c'era sangue... sull'interno delle sue
cosce.
Lei alzò la testa sopra la spalla, poi si affrettò a
coprirsi. «Vergine santissima!»
Mentre Cormia si tirava il piumone su fino al collo,
John rimase lì impalato, col cervello che tentava di
elaborare la scena davanti ai suoi occhi.
Le aveva fatto male. Phury le aveva fatto male.
Cormia scosse la testa. «Oh... accidenti.»
John batté le palpebre una volta, poi un'altra... e rivide
il se stesso qualche anno prima in un lurido ballatoio,
dopo quello che aveva subito.
Anche all'interno delle sue cosce c'era qualcosa.
Qualcosa sul suo viso doveva averla allarmata
parecchio perché Cormia tese un braccio verso di lui.
«John... oh, John, no... sto bene... sto bene... fidati, sto...»
John si voltò e con calma uscì dalla stanza.
«John!»
632
Anni prima, quando era magrolino e indifeso, non
aveva potuto vendicarsi del suo aggressore. Adesso,
mentre in due falcate copriva i tre metri che lo
separavano dalla porta di Phury, era in condizione di
fare qualcosa per il suo passato e per il presente di
Cormia. Adesso era abbastanza grosso e abbastanza
forte. Adesso poteva prendere le difese di qualcuno che
si era trovato alla mercé di una persona più forte.
«John! No!» gridò Cormia precipitandosi fuori dalla
stanza.
John non bussò. No, non perse tempo a bussare. A
quel punto i suoi pugni non erano destinati al legno.
Erano destinati alla carne.
Spalancando la porta, trovò Phury seduto sul letto con
uno spinello tra le labbra. I loro occhi si incontrarono; il
volto di Phury traboccava di senso di colpa, dolore e
rimpianto.
Cosa che tagliò la testa al toro.
Con un ruggito silenzioso, John si avventò contro il
fratello, che non fece assolutamente nulla per fermare
l'attacco. Anzi, si offrì ai suoi colpi abbandonandosi
all'indietro, sui cuscini, mentre John lo tempestava di
pugni sulla bocca, sugli occhi e sulla mascella, senza
fermarsi.
Qualcuno stava gridando. Una femmina.
Qualcuno arrivò di corsa.
633
Urla. Molte urla.
«Ma cosa cazzo succede?» tuonò Wrath.
John non sentì niente, preso com'era a massacrare di
botte Phury. Il fratello non era più il suo insegnante o il
suo amico, era un violento e uno stupratore.
Il sangue scorreva sulle lenzuola.
Più che giusto, cazzo.
Alla fine qualcuno lo tirò via... Rhage, era Rhage... e
Cormia corse da Phury. Lui però la tenne a distanza,
rotolando via.
«Ma Cristo santissimo!» sibilò furente Wrath. «Volete
piantarla una buona volta?»
La musica lirica in sottofondo faceva a pugni con la
scena in corso: la sua maestosa bellezza era in stridente
contrasto con la faccia devastata di Phury, con la rabbia
cieca di John e con le lacrime di Cormia.
Wrath si voltò verso John. «Si può sapere cosa cazzo ti
ha preso?»
«Me lo meritavo», intervenne Phury, pulendosi il
labbro sanguinante. «Meritavo anche di peggio.»
Wrath voltò la testa verso il letto. «Cosa?»
«No, non se lo meritava», disse Cormia, stringendosi
al collo le falde della veste. «È stato consensuale.»
634
«No, invece.» Phury scosse la testa. «Non è vero.»
Il re si irrigidì. «Che cosa è stato consensuale?» chiese
all'Eletta con voce bassa e tesa.
Mentre tutti i presenti spostavano gli occhi dall'imo
all'altra, John li teneva fìssi su Phury. Se mai Rhage
avesse allentato la presa, si sarebbe scagliato di nuovo
contro di lui. Chiunque ci fosse a bordo ring.
Lentamente, Phury si mise a sedere con una smorfia, la
faccia che già cominciava a gonfiarsi. «Non mentire,
Cormia.»
«Pensate a ciò che avete detto voi stesso», sbottò lei. «Il
Primale non ha fatto nulla di male...»
«Palle, Cormia! Ti ho preso con la forza...»
«Non è vero...»
Qualcuno si intromise nella discussione. Poi un altro.
Anche John intervenne, gridando mute oscenità
all'indirizzo di Phury mentre lottava come un forsennato
per liberarsi dalla stretta di Rhage.
Wrath andò alla scrivania, prese un pesante
portacenere di cristallo e lo scaraventò contro il muro.
L'oggetto andò in mille pezzi, lasciando nell'intonaco
un'ammaccatura grossa come una testa.
«Se qualcuno si azzarda a dire un'altra stramaledetta
parola faccio la stessa cosa col suo cranio, sono stato
chiaro?»
635
Tutti ammutolirono. E non fiatarono più.
«Tu» - disse Wrath indicando John - «esci di qui
mentre cerco di capirci qualcosa.»
John scosse la testa, incurante del portacenere. Voleva
restare. Sentiva il bisogno di restare. Qualcuno doveva
proteggere...
Cormia gli andò vicino e gli prese la mano,
stringendola forte. «Sei un maschio di valore, e so che sei
convinto di proteggere il mio onore, ma guardami negli
occhi e vedrai cos'è successo veramente.»
John la scrutò attentamente. C'era tristezza sul suo
volto, ma era la tristezza struggente che ti prende quando
sei infelice. C'era anche risolutezza e una forza
inequivocabile.
Non c'era traccia di paura, soffocante disperazione o
atroce vergogna.
Cormia non era nello stato in cui si era trovato lui
dopo lo stupro.
«Vai», lo incoraggiò piano lei. «Va tutto bene.
Veramente.»
John guardò Wrath, che annuì dicendo, «Non so in che
cosa sei incappato, ma ho intenzione di scoprirlo. Lascia
che mi occupi io di questa faccenda, figliolo. Non temere
per Cormia, la tratterò secondo giustizia. Ora, tutti
quanti, fuori.»
636
John strinse con forza la mano di Cormia e uscì con
Rhage e con gli altri. Non appena mise piede in corridoio,
la porta venne chiusa e lui sentì delle voci sommesse.
Non andò lontano. Non ce la fece. Giunto davanti allo
studio di Wrath, le ginocchia si presero una pausa
cedendo di schianto e facendolo crollare su una delle
sedie d'antiquariato che punteggiavano il corridoio.
Dopo aver assicurato a tutti quanti che stava bene lasciò
penzolare la testa, respirando lentamente.
Il passato era vivo nella sua testa, rianimato da ciò che
aveva visto nella stanza di Cormia.
Chiudere gli occhi non serviva a niente. Tentare di
calmarsi ragionando non serviva a niente.
Mentre cercava disperatamente di riprendersi, si rese
conto che erano passate settimane dall'ultima volta che
lui e Zsadist avevano fatto la solita passeggiata nei
boschi. Via via che la gravidanza di Bella procedeva e
diventava sempre più motivo di preoccupazione, quelle
scarpinate notturne, un tempo quotidiane, durante le
quali lui e Zsadist vagavano per i boschi in silenzio si
erano fatte sempre più rare.
Adesso ne avrebbe fatta volentieri una.
Alzò la testa e lanciò un'occhiata alla galleria delle
statue, chiedendosi se Zsadist fosse in casa.
Probabilmente no, visto che non era insieme agli altri
quando, poco prima, era scoppiato quel putiferio. Data la
carneficina di quella notte, doveva avere il suo bel da fare
sul campo.
637
John si alzò e andò in camera sua. Si chiuse dentro e si
stese sul letto, poi mandò un SMS a Qhuin e Blay dicendo
che voleva farsi una dormita. Avrebbero ricevuto il
messaggio una volta usciti dal tunnel.
Fissando il soffitto pensò... al numero tre. Non c'è due
senza tre. Proprio vero. Le disgrazie non vengono mai
sole, infatti arrivano tre per volta. E non sempre
implicano la morte.
Tre volte aveva perso il controllo nel corso dell'ultimo
anno. Tre volte era esploso e aveva aggredito qualcuno.
Due volte Lash e una Phury.
Sei instabile, disse ima voce.
Be', però aveva i suoi buoni motivi. La prima volta
Lash aveva provocato Qhuinn. La seconda volta Lash se
l'era più che cercata. E questa volta, la terza... le prove
circostanziali erano schiaccianti. Chi non sarebbe passato
alle vie di fatto avendo visto una femmina ridotta in
quello stato? Che razza di maschio poteva far finta di
niente?
Sei instabile.
Chiudendo gli occhi, cercò di non ricordare la rampa
di scale in quel palazzo cadente dove abitava da solo.
Cercò di non ricordare il rumore di quegli scarponi che lo
rincorrevano su per i gradini. Cercò di non ricordare il
tanfo di muffa stantia, urina fresca e colonia mista a
sudore che gli aveva invaso le narici quando era successo
quello che era successo...
638
Non riusciva a liberarsi dei ricordi. Specie il ricordo
degli odori.
La muffa era quella del muro contro cui era stato
spinto con la faccia. L'urina era la sua, e gli era colata
lungo l'interno delle cosce fino ai calzoni calati a forza. La
colonia mista a sudore era quella del suo aggressore.
Il ricordo di quella scena era ancora freschissimo.
Riviveva le sensazioni fisiche di allora con la stessa
chiarezza di quelle presenti, rivedeva la scala come
vedeva la stanza in cui si trovava in quel momento.
Fresco... fresco... freschissimo... e sul cartone del latte di
quell'episodio terrificante non c'era data di scadenza, a
quanto pareva.
Non ci voleva una laurea in psicologia per capire che
le radici del suo temperamento esplosivo erano in tutto
quello che si teneva dentro.
Per la prima volta in vita sua voleva parlare con
qualcuno.
No... non esattamente.
Rivoleva indietro una persona in particolare, una
persona che gli apparteneva. Voleva suo padre.
Dopo che John si era esibito nel suo numero alla Mike
Tyson, la faccia di Phury sembrava cotta allo spiedo e
servita su un letto di insalata appena tagliata della varietà
"ho toccato il fondo." «Senti, Wrath... non prendertela con
John.»
639
«Si è trattato di un equivoco», disse Cormia
rivolgendosi al re. «Nient'altro.»
«Cosa diavolo è successo tra voi due?» chiese Wrath.
«Niente», rispose Cormia. «Assolutamente niente.»
Il re non se la bevve neanche per un secondo, a
dimostrazione del fatto che al loro impavido condottiero
il cervello non mancava; al momento, però, Phury non
aveva la forza di argomentare in favore della verità. Non
smetteva di tamponarsi col dorso del braccio la bocca
maciullata mentre Wrath continuava a parlare e Cormia
continuava a difenderlo, dio solo sapeva perché.
Wrath li guardò torvo da dietro gli occhiali avvolgenti.
«Sentite, voi due, devo fracassare qualcos'altro per
costringervi a piantarla con le cazzate? Col cavolo che
non è successo niente. John è una testa calda, ma non è
un...»
«John ha frainteso ciò che ha visto», lo interruppe
Cormia.
«Che cosa ha visto?»
«Niente. Vi dico che non era niente; è così e basta.»
Wrath la squadrò per bene, quasi cercasse dei lividi.
Poi guardò serio Phury. «E tu cosa cazzo hai da dirmi?»
Phury scosse la testa. «Cormia si sbaglia. John non ha
fraint...»
640
«Il Primale si sta addossando inutilmente una colpa
che non ha», disse tagliente Cormia. «Il mio onore non è
stato compromesso in alcun modo, e ritengo di essere io
la sola a poter giudicare, o sbaglio?»
Un attimo dopo il re chinò il capo. «Come desideri.»
«Grazie, Vostra Altezza», disse Cormia con un
profondo inchino. «Ora, gradirei prendere congedo.»
«Vuoi che ti faccia portare qualcosa da mangiare da
Fritz?»
«No. Prendo congedo dal mondo terreno. Torno a
casa.» Si inchinò di nuovo e, nel farlo, i biondi capelli,
ancora umidi per la doccia, scivolarono giù dalla spalla
sfiorando il pavimento. «Faccio a entrambi i miei migliori
auguri e porgo i miei più cordiali saluti al resto dei
fratelli e alla servitù. Vostra Maestà.» Un altro inchino a
Wrath. «Vostra grazia.» Un inchino a Phury.
Phury balzò giù dal letto e corse in avanti in preda al
panico... ma Cormia svanì nel nulla prima che potesse
raggiungerla.
Sparita. Così.
«Ti prego di scusarmi, ma vorrei essere lasciato solo»,
disse a Wrath. Era quasi un ordine, ma non gliene
fregava niente.
«Non credo proprio che dovresti stare da solo, in
questo momento», ribatté Wrath, cupo.
641
A quel punto ci fu uno scambio di battute, una sorta di
botta e risposta che per certi versi doveva aver
rassicurato Wrath, perché alla fine il re uscì.
Quando se ne fu andato, Phury rimase in piedi in
mezzo alla stanza, immobile come una statua, a fissare
l'impronta del posacenere sul muro. Dentro era tutto
agitato, ma fuori era perfettamente immobile: l'edera
soffocante cresceva sottopelle, invece che sopra.
Con un guizzo degli occhi controllò l'orologio.
Mancava soltanto un'ora all'alba.
Andando in bagno per darsi una ripulita, sapeva di
dover fare alla svelta.
642
Capitolo 41
La stazione di polizia di Caldwell aveva due facce ben
distinte: l'ingresso anteriore sulla Decima, con tutti i
gradini, dove le troupe televisive riprendevano le cose
che vedevi nei notiziari serali, e quello posteriore, con le
sbarre di ferro, dove si sbrigava la routine quotidiana. In
realtà la facciata sulla Decima Strada era solo
marginalmente più bella, perché l'edificio degli anni
Sessanta era come il profilo di una tardona orrenda: non
c'era un lato migliore.
La volante dentro cui si trovava Lash si fermò proprio
davanti all'ingresso sul retro.
Come cazzo ci era finito, lì?
Lo sbirro che lo aveva arrestato fece il giro della
macchina e aprì la portiera. «Scenda dall'auto, per
favore.»
Lash lo guardò fisso, poi spostò le gambe di lato,
scardinò le ginocchia e si raddrizzò, torreggiando sopra
l'umano. Subito fantasticò di squarciargli la gola
trasformando la sua giugulare in un sifone del selz.
«Da questa parte, signore.»
«Okay.»
643
Aveva innervosito quel figlio di puttana; lo capì dal
modo in cui lo sbirro portò la mano al calcio della pistola
malgrado fossero in piena vista dell'intero corpo di
polizia di Caldwell.
Lash venne condotto oltre una porta a due battenti e
lungo un corridoio col pavimento in linoleum che, a
vederlo, era lì da quando quel materiale era stato
inventato. Si fermarono davanti a uno sportello di
Plexiglas spesso come un braccio, e lo sbirro berciò
qualcosa dentro un coso circolare di metallo montato
sulla parete. La donna dall'altra parte, nella sua uniforme
blu scuro, era tutta indaffarata e attraente come lo sbirro.
Ma sistemò in fretta le scartoffie. Quando le parve di
aver messo insieme abbastanza moduli da riempire, fece
scivolare soddisfatta sotto lo sportello il fascio di carte
verso il collega e annuì. La porta accanto a loro emise un
biiiiiiiip seguito da un rumore sordo, neanche avesse
sbloccato la serratura con un rutto, poi ecco un'altra
logora distesa di linoleum che terminava in una stanzetta
con una panca, una sedia e una scrivania.
Dopo che si furono seduti, l'agente tirò fuori una
penna e la aprì con uno scatto. «Qual è il suo nome
completo?»
«Larry Owens», rispose Lash. «Come ho già detto a
lui.»
Il tizio si chinò sui fogli. «Indirizzo?»
«1583, Decima Strada, interno 4-F, per il momento.»
Tanto valeva fornire l'indirizzo sul libretto di circolazione
644
della Focus. Mr D gli avrebbe portato la falsa patente di
guida che Lash aveva usato quando viveva con i suoi
genitori, ma non ricordava esattamente cosa c'era scritto.
«Ha qualche documento da cui risulti che abita lì?»
«Non qui con me. Deve portarmeli il mio amico.»
«Data di nascita?»
«Quando posso fare la mia telefonata?»
«Tra un minuto. Data di nascita?»
«Tredici ottobre 1981.» O almeno così credeva; anche
quella era falsa.
L'agente gli avvicinò un tampone per timbri, si alzò e
gli liberò uno dei polsi dalle manette. «Adesso devo
prenderle le impronte digitali.»
Buona fortuna, pensò Lash.
Lasciò che il tizio gli prendesse la mano sinistra
tirandola in avanti e lo osservò mentre gli passava i
polpastrelli sull'inchiostro per poi premerli su un foglio
bianco suddiviso in dieci riquadri disposti su due file.
Nel vedere il risultato il poliziotto aggrottò la fronte e
ritentò con un altro dito. «Non esce niente.»
«Da piccolo mi sono ustionato.»
645
«Come no.» Il tizio ripeté la stessa operazione un altro
paio di volte, poi si arrese e gli rimise le manette. «Venga
alla macchina fotografica.»
Lash attraversò la stanza e rimase fermo mentre un
flash lo immortalava per le foto segnaletiche. «Voglio fare
la mia telefonata.»
«Tra poco la farà.»
«Qual è la cauzione?»
«Ancora non lo so.»
«Quando mi fate uscire?»
«Appena avrà pagato la cauzione fissata dal giudice.
Oggi pomeriggio, probabilmente, dato che è ancora
presto.»
Lash venne riammanettato con le mani davanti e gli fu
spinto vicino un telefono, L'agente premette un tasto per
il vivavoce e chiamò il cellulare di Mr D via via che Lash
snocciolava il numero.
Quando il tesser rispose lo sbirro si fece da parte.
Lash non perse tempo in convenevoli. «Portami il
portafoglio. È nella mia giacca, in macchina, sul sedile di
dietro. Non hanno ancora fissato la cauzione, ma
procurati subito dei contanti.»
«Quando vuole che venga?»
646
«Porta qui subito il documento d'identità. Poi tutto
dipende da quando il giudice fisserà la cauzione.» Lash
guardò l'agente. «Posso richiamarlo per dirgli quando
può passare a prendermi?»
«No, ma il suo amico può chiamare il centralino del
distretto e farsi passare la prigione, così scoprirà quando
lei verrà rilasciato.»
«Hai sentito?»
«Sì», rispose Mr D con voce metallica,
«Non smettete di lavorare.»
«No.»
Dieci minuti dopo, Lash era in una cella di sicurezza.
La stanzetta in calcestruzzo nove metri per nove era la
solita cella, con le sue belle sbarre sul davanti e
nell'angolo il suo bel water con lavandino coordinato in
acciaio inox, che avrebbe fatto inorridire i migliori
arredobagno sul mercato. Quando Lash andò a sedersi
sulla panca dando le spalle al muro della cella, cinque tizi
lo squadrarono da capo a piedi. Due erano
chiaramente dei tossici, perché erano unti e bisunti e si
erano fritti il cervello qualche ora prima. Gli altri tre
facevano al caso suo, anche se erano solo degli umani: un
tizio con due bicipiti da paura e una buona dozzina di
tatuaggi da galeotto nell'angolo opposto, lontano da tutti
gli altri; il membro di una gang, con tanto di bandana
azzurra, che faceva su e giù davanti alle sbarre come un
647
sorcio in gabbia; e uno skinhead psicopatico pieno di tic,
vicino alla porta della cella.
Naturalmente i tossici se ne fregavano altamente che
qualcun altro si fosse unito all'allegra brigata, ma gli altri
gli presero le misure neanche fosse uno stinco di agnello
al banco di una gastronomia.
Lash pensò a tutti i tesser che avevano perso quella
notte.
«Ehi, stronzo», disse rivolto al tizio gonfio di muscoli,
«è stato il tuo ragazzo a farti quei tatuaggi? O era troppo
occupato a incularti?»
Quello socchiuse gli occhi. «Che cosa hai detto?»
Il membro della gang scrollò il capo. «Devi essere
proprio uscito di testa, bianco.»
Lo skinhead scoppiò in una risata stridula e convulsa,
che ricordava il ronzio di un frullatore.
Chi poteva immaginare che reclutare nuovi elementi
fosse tanto facile, pensò Lash.
Quando si smaterializzò, Phury non andò allo
ZeroSum, ma da Screamer's.
La nottata era quasi finita per cui non c'era fila fuori
dal club, quindi entrò direttamente dalla porta principale
e andò al bar. Mentre il rap martellava duro, i superstiti
della bisboccia si tenevano disperatamente aggrappati ai
648
loro cicchetti, riversi gli uni sugli altri negli angoli bui,
troppo sbronzi anche per fare sesso.
Il barista si avvicinò dicendo, «Ultime ordinazioni
prima della chiusura.»
«Un Sapphire martini.»
Il tipo tornò con il drink e, prima di posare il bicchiere
triangolare, stese sul bancone un tovagliolino da cocktail.
«Sono dodici dollari.»
Phury fece scivolare una banconota da cinquanta sul
bancone nero tenendoci sopra la mano. «Sto cercando
una cosa. E non è il resto.»
Il barista guardò il verdone. «Cosa cerca?»
«Mi piace andare a cavallo.»
Gli occhi del tizio cominciarono a vagare per il locale.
«Ah sì? Be', questo è un club, mica una scuderia.»
«Non vesto di blu. Mai.»
Il barista riportò gli occhi su Phury, squadrandolo ben
bene. «Vestiti cari come quelli che ha addosso...
potrebbero essere di un colore qualsiasi.»
«Il blu non mi piace.»
«Viene da fuori città?»
«Diciamo di sì.»
649
«Ha la faccia conciata da far spavento.»
«Ma va? Non me n'ero accorto.»
Ci fu una pausa. «Vede quel tizio là in fondo? Quello
con l'aquila sul giubbotto? Forse lui può aiutarla. Ho
detto forse. Io non lo conosco.»
«Naturale.»
Phury lasciò i cinquanta dollari e il drink, e si fece
strada tra i pochi clienti rimasti, con in testa una cosa
sola.
Appena prima che fosse a tiro, il tizio in questione si
allontanò senza fretta, uscendo dalla porta laterale.
Phury lo seguì nel vicolo; non appena misero piede
fuori, qualcosa scattò nella sua testa, ma lui la ignorò. Gli
interessava una cosa sola... era talmente concentrato su
quella che persino la voce del mago era sparita.
«Scusi», disse.
Lo spacciatore girò sui tacchi e lo squadrò da capo a
piedi come aveva fatto il barista. «Noi due non ci
conosciamo.»
«No. Però conosce i miei amici.»
«Davvero?» Quando Phury gli mostrò un paio di
centoni, il tipo sorrise. «Ah, sì. Cosa cerca?»
«Ero.»
650
«Tempismo perfetto. L'ho quasi finita.» Il tizio infilò
una mano dentro il giubbotto e l'anello che aveva al dito
mandò un lampo azzurro.
Per una frazione di secondo, Phury rivide il pusher e il
tossico in quel vicolo, quelli in cui si era imbattuto
inseguendo il lesser, parecchie notti prima. Buffo,
quell'incontro aveva dato inizio alla grande discesa agli
inferi, no? Una discesa che lo aveva portato fin lì, in quel
momento, in quel vicolo... dove una bustina piena di
eroina gli finì in mano.
«Sono qui», e lo spacciatore annuì in direzione della
porta del club, «praticamente ogni sera...»
Le luci li investirono da ogni direzione, per gentile
concessione delle auto civetta della polizia parcheggiate
alle due estremità del vicolo.
«Mani in alto!» gridò qualcuno.
Phury fissò gli occhi atterriti dello spacciatore senza
provare il benché minimo senso di solidarietà o di
complicità. «Devo andare. Ci si vede.»
Phury cancellò il ricordo di se stesso dalla memoria
dei quattro poliziotti con le pistole spianate e da quella
del pusher col suo bel oh-cazzo stampato sulla faccia, e si
smaterializzò col suo acquisto.
651
Capitolo 42
Qhuinn fece strada lungo il tunnel che correva
sottoterra, dalla casa della confraternita all'ufficio del
centro di addestramento. Blay gli stava dietro, e l'unico
rumore era quello dei loro anfibi. Era stato lo stesso
durante il pasto che avevano consumato insieme,
soltanto acciottolio di stoviglie e posate d'argento e ogni
tanto un Mi passi il sale, per favole?
La grande penuria di chiacchiere a cena era stata rotta
soltanto dall'esplosione improvvisa di chissà quale
dramma al piano di sopra. Sentendo gridare avevano
messo giù le forchette ed erano corsi nell'atrio, ma Rhage
si era sporto dalla balconata scuotendo la testa per
avvertirli di starne fuori.
Ottimo. Avevano già abbastanza rogne per conto loro.
Quando giunsero davanti alla porta che si apriva
nell'armadio dell'ufficio, Qhuinn digitò sul tastierino di
sicurezza il numero 1914, facendo in modo che Blay lo
vedesse bene.
«L'anno in cui è stata costruita la casa,
evidentemente.»
Passarono
attraverso
l'armadio
sbucando vicino alla scrivania. «Mi ero sempre chiesto
come facessero ad arrivare qui», commentò Qhuinn
scrollando la testa.
652
Blay fece un verso che avrebbe potuto essere
qualunque cosa, da «Anch'io» a «Ficcati nel culo una
motosega, lurido verme schifoso.»
Il tragitto fino alla saletta per la fisioterapia era noto a
entrambi; una volta entrati in palestra, fu impossibile non
notare tutti i metri di distanza che Blay mise tra loro
appena potè.
«Adesso puoi anche andare», disse quando giunsero
alla porta contrassegnata dalla scritta DEPOSITO
ATTREZZI/FISIOTERAPIA. «Mi arrangio da solo col
taglio alla schiena.»
«È in mezzo alle scapole.»
Blay afferrò la maniglia e rifece il verso gutturale di
prima. E
stavolta decisamente non poteva essere una cosa tipo
"anch'io".
«Cerca di ragionare», disse Qhuinn.
Blay teneva gli occhi fissi davanti a sé. Un attimo dopo
aprì la porta. «Lavati le mani. Prima di toccarmi voglio
che ti lavi le mani.»
Entrando, Blay andò dritto verso il lettino su cui era
stato operato Qhuinn due notti prima.
«Dobbiamo collaborare per medicare quella cazzo di
ferita», disse Qhuinn guardandosi intorno nella stanza
653
piastrellata, con i suoi armadietti d'acciaio inox e
l'attrezzatura medica.
Blay si sedette sul lettino, si tolse la camicia e con una
smorfia guardò le ferite ancora non del tutto rimarginate
sul torace. «Merda.»
Qhuinn buttò fuori tutto il fiato che aveva nei
polmoni, fissando l'amico in silenzio. Con la testa
penzoloni, Blay esaminava i tagli sul petto; era bello, così:
le spalle larghe, i pettorali scolpiti, le braccia muscolose.
Ciò che lo rendeva ancora più attraente, però, era il suo
discreto riserbo.
Difficile non chiedersi cosa si nascondesse sotto tanto
pudore.
Immedesimandosi nella parte dell'infermiere, Qhuinn
tirò fuori dagli armadietti garze, cerotti e soluzione
antisettica e poggiò il tutto sopra un carrello che poi
spinse fino al lettino.
Radunato tutto l'occorrente, andò al lavandino in
acciaio inossidabile e premette il pedale per far scorrere
l'acqua.
Mentre si lavava le mani disse piano, «Se potessi, lo
farei.»
«Come hai detto?»
Qhuinn si versò il sapone liquido sui palmi, sfregando
vigorosamente mani e braccia fino ai gomiti. Era
un'esagerazione, ma se Blay lo voleva superpulito, lo
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avrebbe accontentato. «Se potessi amare un ragazzo,
saresti tu.»
«Sì, ripensandoci, faccio da solo, e al diavolo la ferita
alla schien...»
«Dico sul serio.» Qhuinn lasciò andare il pedale per
chiudere l'acqua e scosse le mani sopra il lavandino.
«Credi che non ci abbia pensato? A stare con te, voglio
dire. E non solo per il sesso.»
«Davvero ci hai pensato?» sussurrò Blay sovrastando
lo sgocciolio.
Qhuinn si asciugò le mani su una pila di asciugamani
sterili azzurri alla sua sinistra, e se ne portò dietro uno
tornando verso Blay, «Sì. Reggi questo sotto le ferite, ti
spiace?»
Blay ubbidì e Qhuinn spruzzò un po' di disinfettante
sullo squarcio all'altezza dello sterno.
«Non lo sapevo... Porca troia!»
«Brucia, eh?» Qhuinn girò intorno al lettino
fermandosi davanti alla schiena dell'amico. «Adesso
sistemo questa. Ti consiglio di farti forza. È ancora più
profonda.»
Tenendo un altro asciugamano sotto la ferita, Qhuinn
ci spruzzò sopra una roba che, dall'odore, sembrava uno
di quei disinfettanti per la casa, tipo il Lysol. Blay sibilò
con forza per il dolore e Qhuinn fece una smorfia. «Un
secondo e ho finito.»
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«Scommetto che lo dici a tutti i...» Blay s'interruppe di
colpo.
«Naa. Non lo dico a nessuno. Mi prendono come sono.
Se poi non gli sta bene, è un loro problema.»
Qhuinn prese una confezione di garze sterili, la aprì e
premette la pezzuola bianca sulla ferita tra le scapole di
Blay. «Certo che ci ho pensato, a noi due... ma a lungo
termine mi vedo con una femmina. Non so spiegarlo. È
così e basta.»
La cassa toracica di Blay si dilatò e si contrasse. «Forse
perché non vuoi un altro difetto?»
Qhuinn si accigliò. «No.»
«Sei sicuro?»
«Senti, se mi importasse cosa pensa la gente credi che
farei quello che faccio?» Qhuinn girò intorno al lettino e
tamponò il taglio sul petto dell'amico, poi medicò la
ferita alla spalla. «E poi i miei familiari sono morti. Non
devo più fare colpo su nessuno.»
«Perché sei stato così crudele?» chiese Blay in tono
compunto. «Là nel tunnel, a casa mia.»
Qhuinn prese un tubetto di Neomicina e tornò a
concentrarsi sulla schiena dell'amico. «Ero praticamente
sicuro di non tornare e non volevo che ti rovinassi la vita
per me. Ho pensato che era meglio se mi odiavi, piuttosto
che sentire la mia mancanza.»
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Blay rise di gusto. Era un bel suono. «Quanto sei
arrogante.»
«Non mi dire. Però è vero, no?» Qhuinn spalmò la
pomata bianca come il latte sulla lacerazione della pelle.
«Sarebbe andata così.»
Quando fece nuovamente il giro del lettino, Blay alzò
la testa. I loro occhi si incontrarono e Qhuinn posò la
mano stilla guancia dell'amico.
Sfregando delicatamente il pollice avanti e indietro
sussurrò, «Voglio vederti con qualcuno degno di te. Che
ti tratti bene. Che stia solo con te. Io non sono il tipo.
Anche se mi sistemassi con una femmina... merda,
continuo a ripetermi che potrei esserle fedele, ma in cuor
mio non ci credo veramente.»
Il desiderio struggente negli occhi azzurri che lo
fissavano gli spezzò il cuore. Completamente. Non
riusciva a capire cosa Blay ci trovasse di così speciale in
lui.
«Che cos'hai nella testa», sussurrò, «per volermi così
bene?»
Il sorriso mesto di Blay lo fece apparire invecchiato di
un milione di anni, segnandogli il viso con il genere di
consapevolezza che si raggiunge solo dopo che la vita ti
ha preso a calci nei coglioni una infinità di volte. «Che
cos'hai tu nella testa, per non riuscire a capire il perché?»
«Ci toccherà concordare sul fatto che non siamo
d'accordo.»
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«Mi prometti una cosa?»
«Tutto quello che vuoi.»
«Lasciami, se vuoi, ma non farlo per il mio bene. Non
sono un bambino e non crollo così facilmente, e quello
che sento non sono affaracci tuoi.»
«Credevo di fare la cosa giusta.»
«Ti sei sbagliato. Allora, me lo prometti?»
Qhuinn espirò con forza. «E va bene, te lo prometto.
Però tu devi giurare di cercarti qualcuno di reale, okay?»
«Per me tu sei reale.»
«Giura. Altrimenti rifaccio la scena del tunnel, "posso
fare a meno di tutti" e compagnia bella. Voglio che tu ti
apra alla possibilità di conoscere qualcuno che puoi avere
per davvero.»
Blay fece scorrere la mano lungo il braccio di Qhuinn e
gli strinse il polso con forza, suggellando il patto per
conto di entrambi. «Okay... va bene. Però sarà un
maschio. Con le femmine ci ho provato, ma non
funziona.»
«Basta che tu sia felice. Qualunque cosa, purché ti
renda felice.»
Mentre la tensione si allentava, Qhuinn abbracciò
l'amico e lo tenne stretto, cercando di assorbire la sua
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tristezza, rimpiangendo che le cose non fossero andate
diversamente.
«Mi sa che è meglio così», disse Blay contro la sua
spalla. «Non sai neanche cucinare.»
«Vedi? Non sono il Principe Azzurro, proprio per
niente.»
Qhuinn avrebbe giurato di aver sentito
sussurrare, «Sì, invece», ma non ne era sicuro.
Blay
Si staccarono, si guardarono negli occhi... e scattò
qualcosa. Nel silenzio del centro di addestramento, nella
profonda intimità di quell'attimo, qualcosa cambiò.
«Una volta sola», disse sottovoce Blay. «Fallo una
volta sola. Così saprò com'è.»
Qhuinn scosse la testa. «No... non penso...» «Sì.»
Un istante dopo Qhuinn fece scivolare entrambe le
mani su per il grosso collo di Blay, stringendo tra i palmi
la mascella quadrata. «Sei sicuro?»
Quando Blay annuì, Qhuinn gli reclinò la testa
all'indietro tenendola ferma mentre, a poco a poco,
accorciava le distanze. Appena prima che le loro bocche
si toccassero Blay abbassò le palpebre, tremante, e...
Oh, che dolce. Le labbra di Blay erano incredibilmente
morbide e dolci.
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La lingua probabilmente non doveva entrarci, ma fu
più forte di lui. Qhuinn lambì l'interno della bocca e poi
vi affondò, facendo scivolare le braccia intorno a Blay e
stringendolo forte. Quando alla fine alzò la testa, lo
sguardo negli occhi di Blay era eloquente: era pronto a
tutto. Pronto a spingersi fino in fondo.
Potevano portare a casa la scintilla che era scoccata tra
loro fino a ritrovarsi nudi, con Qhuinn che faceva al suo
amico quello che sapeva fare meglio.
Dopo, però, le cose non sarebbero più state come
prima; fu questo a fermarlo, malgrado tutt'a un tratto
volesse esattamente ciò che voleva Blay. «Sei troppo
importante per me», disse brusco. «Sei troppo buono per
il tipo di sesso che faccio io.»
Gli occhi di Blay indugiavano ancora sulle labbra di
Qhuinn. «In questo momento non sarei per niente
d'accordo.»
Qhuinn lasciò andare l'amico e fece un passo indietro;
era la prima e unica volta in vita sua che diceva di no a
qualcuno, si rese conto. «No, ho ragione io. Altro che se
ho ragione, cazzo.»
Blay fece un profondo sospiro; poi poggiò le mani sul
lettino tentando, o almeno così parve, di ricomporsi.
«Non sento più i piedi e neanche le mani», disse con una
risatina.
«Mi offrirei di massaggiarteli, ma...»
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Lo sguardo che Blay gli lanciò da sotto le ciglia era
maledettamente sexy. «Saresti tentato di massaggiarmi
qualcos'altro?»
«Che cazzone», sogghignò Qhuinn.
«Va bene, va bene. Come vuoi.» Blay prese il
disinfettante, se ne spruzzò un po' sul petto e coprì la
ferita con la garza, che poi fissò con un cerotto. «Ti spiace
sistemare quella sulla schiena?»
«Okay.»
Mentre copriva la ferita con la garza, Qhuinn si
immaginò qualcun altro che toccava la pelle di Blay... che
faceva scorrere le mani su di lui, alleviando il tipo di
smania che un maschio sente tra le cosce.
«Una cosa, però», mormorò.
«Cosa?»
La voce che gli uscì dalla gola era diversa dalla sua
solita, non l'aveva mai sentita prima. «Se qualcuno ti
spezza il cuore o ti tratta di merda lo sfascio con queste
mani e poi lo pianto, tutto rotto e sanguinante, a friggere
al sole.»
La risata di Blay rimbombò contro le pareti piastrellate
della stanza. «Sì, come no...»
«Sono serissimo, cazzo.»
661
Gli occhi azzurri di Blay lo guardarono da sopra la
spalla.
«Se qualcuno si azzarda a farti del male», ringhiò Qhuinn
nell'Antico Idioma, «lo infilzo in cima a un palo e lo lascio lì
a marcire.»
Nel suo grande cottage sugli Adirondack, Rehvenge
stava cercando
disperatamente di scaldarsi. Infagottato in un pesante
accappatoio di spugna con sopra una coperta di visone,
era steso su un divano a neanche un metro e mezzo dalle
fiamme di un bel fuoco scoppiettante.
La stanza era tra le sue preferite, nell'enorme casa
simile a un fienile, l'austero arredamento vittoriano rosso
granato, oro e blu scuro si addiceva spesso al suo umore
scontroso. Buffo, aveva sempre pensato che un cane ci
sarebbe stato bene vicino all'imponente camino di pietra.
Un qualche tipo di cane da caccia. Dio, forse l'avrebbe
preso, un cane. Bella aveva sempre amato i cani. La loro
madre no, però, quindi non ne avevano mai avuto uno
nella dimora di famiglia, a Caldwell.
Accigliandosi pensò a sua madre, che stava in un'altra
delle case di famiglia, a duecentocinquanta chilometri di
distanza circa. Non si era ancora ripresa dal rapimento di
Bella. Probabilmente non ci sarebbe mai riuscita. Dopo
tutti quei mesi, ancora non se la sentiva di lasciare la
campagna; per quanto, data la situazione a Caldwell, non
era certo un male.
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Sarebbe morta nella casa in cui viveva adesso, pensò
Rehv. Nel giro di un paio d'anni, probabilmente. La
vecchiaia cominciava a farsi sentire, il suo orologio
biologico cominciava a correre verso il traguardo, aveva
già i capelli bianchi.
«Ho raccolto altra legna», annunciò Trez entrando con
le braccia cariche di ceppi. Il Moro andò al caminetto,
spostò il parafuoco e attizzò il fuoco fino a farlo crepitare
in una fiammata ancora più luminosa.
Cosa alquanto bizzarra, essendo agosto.
Ah, ma quello era l'agosto sugli Adirondack. E in più
lui era imbottito di dopamina, quindi aveva più o meno
le percezioni sensoriali e la temperatura corporea del
legno pietrificato.
Trez rimise a posto il parafuoco e si voltò a guardarlo
da sopra la spalla. «Hai le labbra viola. Vuoi che ti
prepari del caffè?»
«Sei una guardia del corpo, non un maggiordomo.»
«Quante altre persone vedi, qui intorno, con dei vassoi
d'argento?»
«Mi arrangio da solo.» Rehv fece per rizzarsi a sedere e
fu assalito dalla nausea. «Cazzo.»
«Rimettiti giù prima che ti stenda io con un cazzotto.»
Quando Trez uscì, Rehv si sdraiò di nuovo contro i
cuscini. Odiava gli strascichi di quello che faceva alla
663
Principessa. Li odiava. Voleva solo dimenticare tutto
quanto, almeno fino al mese successivo. Purtroppo quello
schifo si ripresentava all'infinito nella sua testa.
Continuava a rivedere ciò che aveva fatto quella notte al
capanno, rivedeva se stesso nell'atto di masturbarsi per
sedurre la Principessa e poi trombarla contro il davanzale
della finestra.
Le variazioni su quella perversione costituivano tutta
la sua vita sessuale da quanto tempo, ormai? Merda...
Si chiese di sfuggita come sarebbe stato avere
qualcuno da amare, ma archiviò in fretta quella fantasia.
Poteva fare sesso solo se non era sotto l'effetto dei
farmaci, non c'era altro modo. Dunque l'unica possibile
partner sessuale per lui era una symphath, e per nulla al
mondo si sarebbe infiammato per una di quelle. Lui e
Xhex ci avevano provato, certo, ma era stato un disastro
sotto parecchi punti di vista.
Si vide arrivare sotto il naso una tazza di caffè. «Bevi
questo.»
Allungò la mano dicendo, «Graz...»
«Oh, cazzo, ma ti sei visto?»
Rehv cambiò subito mano, infilando di nuovo il
braccio martoriato sotto le coperte. «Come stavo dicendo,
grazie.»
«Allora è per questo che Xhex ti ha costretto ad andare
in clinica, eh?» Trez andò a sistemarsi in una comoda
664
poltrona color sangue di bue. «No, non mi aspetto una
conferma. Mi pare lampante.»
Trez accavallò le gambe; sembrava un perfetto
gentiluomo, un autentico esempio di regalità: malgrado
fosse in anfibi, maglietta attillata e pantaloni cargo neri e fosse capacissimo di staccare la testa a qualcuno per poi
giocarci a pallone - lo si sarebbe preso per un re, gli
mancavano solo corona e manto foderato di ermellino.
Il che poi in effetti, guarda caso, era la verità.
«Buono, il caffè», mormorò Rehv.
«Adesso però non chiedermi di cucinare. Come sta
andando l'antidoto?»
«Benone.»
«Allora hai ancora lo stomaco sottosopra.»
«Dovresti essere un symphath.»
«Lavoro con due di loro. Basta e avanza, grazie tante.»
Rehv sorrise bevendo un'altra mostruosa sorsata di
caffè. Probabilmente si stava ustionando tutto il palato,
vista la quantità di vapore che si alzava dalla tazza, ma
lui non sentiva niente.
In compenso era anche troppo consapevole dello
sguardo fermo e cupo di Trez. Il Moro stava per dirgli
qualcosa di sgradevole. Contrariamente alla maggior
665
parte della gente, quando Trez ti diceva quello che non
volevi sentire ti guardava dritto in faccia.
Rehv alzò gli occhi al cielo. «Dai, sputa il rospo.»
«Ogni volta che vai con lei stai sempre peggio.»
Vero. All'inizio poteva andare con la Principessa e
subito dopo tornare al lavoro. Dopo un paio d'anni gli
serviva un veloce riposino. Poi un sonnellino di un paio
d'ore.
Adesso
era
fuori
combattimento
per
ventiquattr'ore buone. Il fatto era che stava sviluppando
una reazione allergica al veleno. Il siero antiveleno che
Trez gli pompava nelle vene dopo il rapporto sessuale gli
impediva di andare in shock anafilattico, certo, ma lui
non si riprendeva più bene come prima.
Forse un giorno non si sarebbe ripreso affatto.
Passando in rassegna tutti i medicinali che doveva
assumere regolarmente, pensò, Merda, sempre meglio
vivere grazie alla chimica che morire. Più o meno.
Trez lo stava ancora fissando, quindi bevve un altro
sorso di caffè e disse, «Rompere con lei è da escludere.»
«Potresti tagliare la corda, però. Lasciare Caldwell e
cercare un altro posto dove vivere. Se lei non sa dove
trovarti, non potrà denunciarti.»
«Se lascio la città, lei andrà a cercare mia madre. La
quale non vorrà trasferirsi per via di Bella e del piccolo.»
«Questa cosa finirà per ucciderti.»
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«Lei è troppo dipendente da me per correre questo
rischio.»
«Allora devi dirle di piantarla di strofinarsi addosso
gli scorpioni. Capisco che tu voglia apparire forte, ma
quella finirà per scoparsi un cadavere, se non la smette.»
«Conoscendola, la necrofilia sarebbe un afrodisiaco.»
Alle spalle di Trez una luce meravigliosa si affacciò
all'orizzonte.
«Oh, merda, è già così tardi», esclamò Rehv, cercando
il telecomando per abbassare le tapparelle d'acciaio in
tutta la casa.
Ma non era il sole. O almeno non il sole che traccia il
suo arco nel cielo.
Una figura luminosa stava risalendo il prato davanti
alla casa, senza fretta.
A Rehv venne in mente una sola cosa in grado di
produrre quell'effetto.
«Ah, fantastico, cazzo», bofonchiò, rizzandosi a sedere.
«Cribbio, la notte è già finita?»
Trez era già in piedi. «Vuoi che lo lasci entrare?»
«Tanto vale. Altrimenti passerà attraverso le vetrate.»
Il Moro spalancò una delle porte scorrevoli e si fece da
parte per lasciar passare Lassiter. La sua andatura
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dinoccolata era la manifestazione fisica di una pronuncia
strascicata, lenta, insolente e melliflua. «Quanto tempo
che non ci si vede», disse l'angelo.
«Mai abbastanza.»
«Sempre molto cordiale.»
«Senti, General Electric», disse Rehv battendo
convulsamente le palpebre. «Ti spiace abbassare un po' la
luce? Sembri una di quelle sfere a specchi che si vedono
in certe discoteche.»
Lo sfolgorio si attenuò a poco a poco, finché Lassiter
apparve normale. Be', normale per uno che ha la mania
di riempirsi di pier-cing tanto da poter aspirare, con tutto
quell'oro addosso, a diventare una specie di Fort Knox.
Trez chiuse la porta e ci si piazzò davanti, un muro di
"azzardati a toccare il mio amico e angelo o no ti faccio
un culo così."
«Che cosa ti porta nella mia proprietà?» chiese Rehv,
stringendo la tazza tra le mani nel tentativo di assorbirne
tutto il calore.
«Ho un problema.»
«Spiacente, ma non posso aggiustarti la personalità.»
Lassiter rise e quel suono risuonò per tutta la casa
come le campane di una chiesa. «No, io mi piaccio così
come sono, grazie.»
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«Non posso neanche aiutare la tua natura delirante e
maniacale.»
«Devo trovare un indirizzo.»
«Ti sembro l'elenco telefonico, per caso?»
«Mi sembri un cadavere ambulante, a dire il vero.»
«Grazie del complimento, anche tu sei sempre
gentile.» Rehv finì il suo caffè. «Perché pensi che voglia
aiutarti?»
«Perché sì.»
«Ti spiace buttar lì un paio di verbi e di sostantivi?
Non ti seguo.»
Lassiter si fece serio, la sua bellezza eterea perse il
solito sorri-setto da bastardo. «Sono qui in via ufficiale.»
Rehv si accigliò. «Senza offesa, ma credevo che il tuo
capo ti avesse dato il benservito.»
«Ho un'ultima possibilità di fare il bravo ragazzo.»
L'angelo guardò intensamente la tazza di caffè tra le
mani di Rehv. «Se mi aiuti, posso ricambiare il favore.»
«Davvero?»
Lassiter fece per avanzare, ma Trez gli fu subito
addosso come una mano di vernice. «Non azzardarti.»
«Posso curarlo. Se mi permetti di toccarlo, lo guarirò.»
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Trez aggrottò la fronte e aprì la bocca come per dire
all'angelo di andare a curarsi lui, ma fuori di lì.
«Aspetta», disse Rehv.
Merda, era così stanco, dolorante e giù di corda che era
difficile illudersi di stare meglio al calar della sera. Di lì a
una settimana.
«Che indirizzo sarebbe?»
«Quello della Confraternita.»
«Hah. Anche se lo conoscessi - e non lo conosco - non
potrei dartelo.»
«Ho qualcosa che loro hanno perduto.»
Rehv stava per farsi un'altra risata quando il suo lato
symphath rizzò le antenne. L'angelo era una testa di
cavolo, ma era serissimo. Merda... possibile che fosse
vero? Possibile che avesse trovato...
«Sì, è così», confermò Lassiter. «Allora, mi aiuti ad
aiutarli? E in cambio, visto che sono un ragazzo di
parola, risolverò il tuo pro-blemino.»
«Di che problemino parli?»
«L'infezione da stafilococco aureo meticillinoresistente, altrimenti detta MRSA, che hai al braccio. E il
fatto che, al momento, altre due esposizioni a quel veleno
di scorpione ti manderebbero in shock anafilattico.»
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Lassiter scosse la testa. «Non farò domande. Su nessuna
delle due cose.»
«Sicuro di sentirti bene? Di solito sei più ficcanaso di
così.»
«Ehi, se vuoi raccontarmi...»
«Lasciamo perdere. Fai pure, se vuoi», disse Rehv
tendendo il braccio malconcio. «Ti aiuterò come posso,
ma non ti prometto nulla.»
Lassiter scoccò un sorriso a Trez. «Allora, bello, ti va di
tirare il fiato e farti da parte? Perché il tuo capo ha
acconsentito...»
«Non è il mio capo.»
«Non sono il suo capo.»
Lassiter chinò la testa. «Il tuo collega, allora. Insomma,
ti spiace levarti dai piedi?»
Trez scoprì le zanne e serrò le mascelle con forza, due
volte; il suo modo - il modo dell'Ombra - per dire a
qualcuno che si stava avventurando su un sentiero
strettissimo sull'orlo di una scogliera molto alta. Ma alla
fine fece un passo indietro.
Lassiter avanzò, di nuovo sfolgorante.
Rehv guardò quegli occhi argentei privi di pupille.
«Fammi male e Trez ti farà a pezzettini; nessuno riuscirà
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a rimetterti insieme, neanche con lo scotch. Lo conosci,
sai chi è e di cosa è capace.»
«Lo so, ma non serve agitarsi tanto, è solo uno spreco
di energie. Non posso fare del male ai giusti, quindi sei al
sicuro.»
Rehv proruppe in ima gran risata. «Farà meglio a stare
in campana, allora.»
Quando Lassiter lo toccò, Rehv sentì scorrere nel
braccio una corrente che gli strappò un ansito. Mentre
una miracolosa guarigione cominciava diffondersi nel
suo organismo, si sdraiò, rabbrividendo, nel suo nido di
coperte. Oh, Dio... Il senso di spossatezza stava svanendo.
Il dolore che sentiva stava regredendo, dunque.
In quella sua voce meravigliosa, Lassiter mormorò,
«Non hai niente da temere. Non sempre i giusti si
comportano secondo giustizia, ma la loro anima resta
pura. In fondo al cuore sei rimasto incontaminato.
Adesso chiudi gli occhi, cretino, sto per accendermi come
un falò.»
Rehv strizzò gli occhi e dovette voltarsi dall'altra parte
quando una esplosione di energia allo stato puro lo
investì in pieno. Fu come un megaorgasmo pompato di
steroidi, un impeto gigantesco che lo travolse,
disintegrandolo, finché ridiscese in una pioggia di stelle.
Rehv rientrò nel proprio corpo con un sospiro lungo e
profondo. Lassiter lo lasciò andare e si sfregò la mano sui
jeans a vita bassa. «E adesso veniamo a quello che mi
serve.» «Non sarà facile arrivare a loro.» «Dimmi
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qualcosa che non so.» «Prima dovrò verificare quello che
hai in mano.» «Non è proprio al settimo cielo.»
«Be', per forza, sta con te. Ma non ci credo finché non
lo vedo.» Ci fu una pausa. Poi Lassiter chinò il capo. «E
va bene. Torno appena fa buio e ti porto da lui.»
«D'accordo, angelo, affare fatto.»
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Capitolo 43
Alle prime luci dell'alba Phury andò in camera sua e
riempì una borsa di L.L, Bean con alcuni accessori utili
quando si fa ginnastica, ovvero un asciugamano, l'iPod,
una bottiglia d'acqua.., e l'armamentario tipico del
tossico, comprendente un cucchiaio, un accendino, una
siringa, una cintura e la sua scorta di droga.
Uscito dalla sua stanza, si avviò verso la galleria delle
statue con l'andatura di chi è animato da intenti
salutistici. Non volendo stare troppo vicino a Bella e Z
optò per una delle stanze degli ospiti più vicine allo
scalone. Sgattaiolò dentro e per un pelo non scappò
subito fuori per sceglierne un'altra: Ì muri erano di un
polveroso color lavanda, proprio come le rose preferite
da Cormia.
Voci di doggen che passavano in corridoio lo indussero
a non muoversi.
Andò in bagno, chiuse anche quella porta e abbassò le
luci fino a ottenere un chiarore soffuso, da fuoco che arde
sotto la cenere. Mentre le tapparelle scendevano per il
giorno, si sedette sul pavimento di marmo con la schiena
appoggiata alla Jacuzzi e tirò fuori le cose che stava per
usare su se stesso.
Non era poi chissà che, quello che si apprestava a fare.
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Era come immergersi nell'acqua fredda. Una volta
superato lo shock, ti ci abitui.
Era anche incoraggiato dal silenzio nella sua testa. Da
quando aveva imboccato quella strada, il mago non
aveva proferito parola.
Picchiettò sulla bustina per far scendere un po' di
polverina bianca dentro un cucchiaio di argento sterling,
aggiungendo qualche goccia d'acqua dalla bottiglia. Le
mani non gli tremavano per niente. Fece scattare
l'accendino e piazzò la fiamma sotto la miscela.
Senza una ragione, notò che il motivo ornamentale a
sbalzo sul manico del cucchiaio era il Mughetto di
Gorham, la famosa marca di articoli casalinghi. Risalente
a fine Ottocento.
Quando la miscela di eroina e acqua cominciò a
bollire, posò il cucchiaio sul pavimento di marmo, riempì
la siringa e prese la cintura di Hermès. Tese il braccio
sinistro, fece scorrere la cinghia di cuoio nella lucida
fibbia d'oro, strinse con forza e si infilò l'estremità libera
sotto il braccio per tenerla ferma.
Nell'incavo del gomito le vene si gonfiarono e lui le
picchiettò. Scelse la più grossa, poi si accigliò.
La roba nella siringa era marrone.
Per un attimo fu colto dal panico. Il marrone era un
brutto colore.
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Scosse la testa per snebbiarla, poi infilò l'ago nella
vena e tirò su lo stantuffo per assicurarsi di essere entrato
bene. Appena vide il rosso del sangue spinse giù il
pollice, svuotò la siringa e slacciò la cintura.
L'effetto fu molto più rapido del previsto. Un attimo
prima lasciava ricadere il braccio e un attimo dopo, in
preda a una nausea tremenda, strisciava verso il water in
una bizzarra corsa al rallentatore.
Quella merda non aveva niente a che vedere col fumo
rosso. Niente dolce rilassamento, niente cortese bussare
alla porta prima che la droga gli arrivasse al cervello.
Quello era un assalto in piena regola: abbattuta la porta
con l'ariete, tutte le armi avevano cominciato a sparare
All'impazzata. Mentre vomitava, ricordò a se stesso che
se l'era cercata.
Vagamente, sullo sfondo, nell'angolo più remoto e
oscuro della sua coscienza, udì il mago che cominciava a
ridere... sentì esplodere la stridula soddisfazione della
sua tossicodipendenza, proprio quando l'eroina prese il
sopravvento sul resto della sua mente e del suo corpo.
Mentre sveniva dando di stomaco, si rese conto che
era rimasto fregato. Invece di uccidere il mago, era
rimasto solo con il deserto di morte e il suo padrone.
Ottimo lavoro, socio... eccellente.
Merda, le ossa disseminate in quella distesa desolata
erano i resti dei drogati che il mago aveva condotto alla
morte a furia di parole. E il teschio di Phury era proprio
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lì, in primo piano. La vittima più recente. Ma certo non
l'ultima.
«Ma certo», disse l'Eletta Amalya. «Certo che puoi
scegliere la via della segregazione... sempre che sia ciò
che desideri veramente. È così?»
Cormia annuì, poi ricordò che, essendo al Santuario,
era tornata nel regno degli inchini. Piegò il busto e
mormorò, «Grazie.»
Raddrizzandosi
appartamenti della
si
guardò
intorno.
Era
negli
Direttrice, due stanze arredate nella tradizione delle
Elette, ovvero prive di un vero e proprio arredamento.
Tutto era semplice, ridotto all'essenziale e bianco; l'unica
differenza rispetto alla sistemazione delle altre Elette era
che Amalya disponeva di qualche posto a sedere per le
udienze con le sorelle.
Era tutto così bianco, pensò Cormia. Così... bianco. E le
sedie su cui si erano accomodate avevano lo schienale
rigido ed erano senza cuscini.
«La tua richiesta giunge al momento opportuno,
suppongo», disse la Direttrice. «L'ultima scriba segregata
rimasta, Selena, si è ritirata con l'avvento del Primale. La
Vergine Scriba è stata lieta di vederla abbandonare
l'incarico, dato il cambiamento della nostra condizione.
Nessuno, tuttavia, si è fatto avanti per sostituirla.»
«Mi permetto di suggerire che potrei fungere anche da
scriba archivista primaria.»
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«Sarebbe molto generoso da parte tua. Consentirebbe
alle altre una maggiore libertà per gli incontri con il
Primale.» Seguì un lungo silenzio. «Vogliamo procedere?»
Quando Cormia annuì, inginocchiandosi a terra, la
Direttrice accese qualche bastoncino d'incenso e diede
inizio alla cerimonia di segregazione.
Al termine, Cormia si alzò in piedi e andò in fondo alla
stanza, verso una grande apertura nel muro che sulla
terra avrebbe chiamato finestra.
In fondo alla bianca distesa del Santuario vide il
Tempio delle Scrivane Segregate, annesso agli
appartamenti privati della Vergine Scriba e privo di
finestre. Entro i suoi confini immacolati non ci sarebbe
stato nessuno, a parte lei. Lei insieme a rotoli di
pergamena, litri di inchiostro rosso sangue e la storia in
divenire della razza che lei stessa era tenuta a registrare
in quanto spettatrice, e non più parte in causa.
«Non posso», disse.
«Scusa, cosa hai...»
Qualcuno bussò allo stipite della porta. «Avanti»,
gridò Amalya.
Una delle sorelle entrò e si piegò in un profondo
inchino. «L'Eletta Layla è pronta. Ha terminato le
abluzioni per Sua Maestà il Primole.»
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«Ah, bene», disse Amalya afferrando un turibolo.
«Facciamola accomodare nel Tempio, poi provvederò a
convocare il Primale.»
«Come desiderate», disse l'Eletta che, a capo chino,
uscì a ritroso dalla stanza; Cormia colse il sorriso di
anticipazione sulle sue labbra.
Probabilmente sperava di essere la prossima a recarsi
al tempio del Primale.
«Vogliate scusarmi», disse Cormia col cuore che
batteva in modo irregolare, come uno strumento
incapace di trovare il ritmo giusto. «Gradirei ritirarmi nel
Tempio delle Scrivane.»
«Ma certo.» Tutt'a un tratto lo sguardo di Amalya si
fece penetrante. «Sei proprio sicura della tua scelta,
sorella?»
«Sì. E questo è un giorno glorioso per tutte noi. Farò in
modo di documentarlo come si conviene.»
«Darò ordine di portarti i pasti.»
«Sì. Grazie.»
«Cormia... io sono qui, se mai sentissi il bisogno di
consigliarti con qualcuno. In via del tutto confidenziale.»
Cormia si inchinò e uscì in fretta, andando
direttamente al maestoso tempio bianco che adesso era la
sua dimora.
679
Appena si chiuse il portone alle spalle venne avvolta
da una fitta oscurità. Le candele posizionate ai quattro
angoli della stanza dall'alto soffitto si accesero,
obbedienti al suo volere; in quel chiarore soffuso Cormia
guardò i sei scrittoi bianchi, con le sei penne d'oca
bianche sull'attenti, i calamai pieni di inchiostro rosso
sangue e le bocce di cristallo piene di acqua delle visioni.
Alcune ceste sul pavimento contenevano fasci di
pergamena arrotolati e legati con dei nastri bianchi,
pronti ad accogliere i simboli dell'Antico Idioma che
avrebbero tramandato i progressi della razza.
Contro la parete di fondo c'erano tre letti a castello,
ciascuno con un unico cuscino immacolato e le lenzuola
piegate in modo impeccabile. Ai piedi dei letti non
c'erano coperte: la temperatura perfetta le rendeva
superflue. In un angolo, una tenda si apriva su un bagno
privato.
Sulla destra, una porta d'argento riccamente decorata
consentiva l'accesso alla biblioteca privata della Vergine
Scriba. Le Scrivane Segregate erano le sole a cui Sua
Santità dettava il suo diario privato, e quando venivano
convocate usavano quella porta per essere ricevute.
La feritoia al centro del portale serviva a far passare
avanti e indietro le pergamene durante il processo di
revisione. La Vergine Scriba leggeva e approvava l'intera
storia oppure la correggeva finché non la trovava
adeguata. Una volta approvato, il rotolo di pergamena
veniva tagliato su misura e unito ad altre pagine per
diventare uno dei volumi della biblioteca, oppure
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arrotolato e collocato nei sacri archivi della Vergine
Scriba.
Cormia si avvicinò a una delle scrivanie e si sedette
sullo sgabello privo di schienale.
Il silenzio e l'isolamento la agitavano come un gran
brulicare di folla; rimase seduta a lungo, non riuscì a
capire per quanto, sforzandosi di ritrovare la calma.
Aveva supposto di potercela fare, che la segregazione
fosse l'unica soluzione possibile. Adesso fremeva per
uscire..
Forse doveva solo trovare qualcos'altro su cui
concentrarsi.
Impugnò la penna d'oca bianca e aprì il calamaio alla
sua destra. Per scaldarsi cominciò a tracciare alcuni dei
caratteri più semplici dell'Antico Idioma.
Ma non riuscì a proseguire a lungo.
Le lettere divennero disegni geometrici. I disegni si
trasformarono in file di parallelepipedi. I parallelepipedi
si tramutarono... in progetti edilizi.
Nel frattempo, nella grande casa della confraternita,
John alzò la testa dal cuscino sentendo bussare piano alla
porta. Scese dal letto e andò ad aprire. Fuori in corridoio
trovò Qhuinn e Blay ritti fianco a fianco, spalla contro
spalla, come facevano sempre.
Una cosa almeno era andata bene, all'apparenza.
681
«Dobbiamo trovare una stanza per Blay», disse
Qhuinn. «Hai idea di dove potremmo sistemarlo?»
«E appena fa buio dovrei recuperare un po' della mia
roba», aggiunse Blaylock. «Il che vuol dire fare un salto a
casa mia.»
Nessun problema, disse John a gesti.
Qhuinn dormiva nella stanza accanto, quindi John
proseguì fino a quella subito dopo e aprì la porta di una
camera degli ospiti di un pallido color lavanda.
Possiamo cambiare colore, disse John, se è troppo da
femmina.
Blay rise. «Sì, non sono sicuro di riuscire a digerirlo.»
Mentre l'amico provava il letto, John si avviò in bagno
e aprì la porta...
Phury era riverso con la testa vicino al water, l'enorme
corpo afflosciato, privo di sensi, il volto cereo. Ai suoi
piedi una siringa, un cucchiaio e una cintura.
«Porca puttana!» l'imprecazione di Qhuinn riecheggiò
per tutto il marmo color panna del bagno.
John si voltò di scatto. Vai a chiamare la dottoressa Jane.
Presto. Dovrebbe essere nella Tana con Vishous.
Qhuinn si precipitò fuori mentre John faceva rotolare
Phury sulla schiena. Il fratello aveva le labbra viola, ma
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non per i pugni ricevuti da John. Non respirava. Già da
un po'.
Contro ogni previsione, Jane entrò con Qhuinn
letteralmente una frazione di secondo dopo. «Stavo
andando a visitare Bella... Oh... merda.»
Si avvicinò e procedette al controllo dei segni vitali più
rapido che John avesse mai visto. Poi aprì la sua borsa da
dottore e tirò fuori una siringa e una fiala.
«È vivo?»
Tutti e quattro si voltarono verso la porta del bagno.
Sulla soglia era fermo Zsadist, il volto sfregiato
pallidissimo.
«È...» Z spostò gli occhi sul corpo che giaceva per terra
accanto alla Jacuzzi. «Vivo?»
Jane guardò John e sibilò, «Portalo fuori di qui, Subito.
Non è il caso che assista.»
Ciò che John vide sul volto della dottoressa gli. fece
raggelare il sangue: non era certa di riuscire a rianimare
Phury.
Sotto shock, si alzò e andò da Z.
«Io non me ne vado», disse Zsadist.
«Sì, invece.» Jane alzò la siringa che aveva riempito e
premette lo stantuffo. Uno sottilissimo spruzzo di
qualcosa uscì dalla punta dell'ago e lei si voltò di nuovo
683
verso Phury. «Qhuinn, tu stai qui con me. Blaylock, vai
con loro e chiudi la porta.»
Zsadist aprì la bocca, ma John scosse la testa.
Con una calma stranissima gli andò vicino, faccia a
faccia, gli mise le mani sulle braccia e lo spinse indietro.
E in un silenzio stupefatto, Z si lasciò condurre fuori
dalla stanza.
Blay chiuse la porta e ci si piazzò davanti, bloccando
l'accesso.
Gli occhi cupi di Z erano fissi in quelli di John,
John non potè fare altro che ricambiare quello
sguardo.
«Non può essersene andato», gracchiò Zsadist. «Non
può»
684
Capitolo 44
«Lavorare? In che senso?» fece l'avanzo di galera pieno
di tatuaggi.
Lash appoggiò i gomiti sulle ginocchia e guardò negli
occhi il suo nuovo migliore amico. Il modo in cui quei
due erano passati dallo scambiarsi smargiassate al fare le
fusa come gattini era una riprova del suo potere di
seduzione. Prima colpivi a testa bassa per stabilire un
piano di uguaglianza, poi mostravi rispetto, poi parlavi
di soldi.
Gli altri due, il membro della gang con la scritta Diego
RIP-Requiescat In Pace - intorno alle clavicole e Mastro
Lindo con la zucca pelata e gli anfibi, si erano avvicinati
quatti quatti e stavano ascoltando anche loro. Anche
questo rientrava nella strategia di Lash: tira dentro il più
tosto e gli altri lo seguiranno.
Lash sorrise. «Sto cercando aiuto per mantenere
l'ordine.»
Lo sguardo di Mr Tatuaggi era pieno di azioni
disoneste fatte per pochi soldi. «Hai un bar?»
«No», rispose Lash lanciando un'occhiata a Mr RiposiIn-Pace. «È una specie di difesa del territorio, se
vogliamo.»
685
Il tizio della gang annuì, come se conoscesse tutte le
regole di quel gioco di società.
Mr Tatuaggi fletté le braccia. «Cosa ti fa credere che
voglia fare qualcosa per te? Non ti conosco neanche.»
Lash appoggiò le spalle al muro. «Credevo che ti
andasse di alzare un po' di grana. Scusa tanto.»
Chiuse gli occhi come per mettersi a dormire, ma poi
udì delle voci che gli fecero alzare le palpebre di scatto.
Un agente stava scortando verso la cella un altro
delinquente.
Be', guarda guarda. Il tizio di Screamer's con l'aquila sul
giubbotto.
Il novellino venne fatto entrare e i tre duri lo accolsero
con le solite occhiatacce della serie "stai in campana". Uno
dei tossici alzò gli occhi e gli rivolse un pallido sorriso
come se l'avesse conosciuto nell'esercizio della sua
professione.
Interessante. E così era uno spacciatore.
L'Uomo Aquila squadrò i presenti e rivolse a Lash un
cenno del capo in segno di riconoscimento, prima di
andare a sedersi all'altro capo della panca. Sembrava più
infastidito che spaventato.
Mr Tatuaggi si chinò verso Lash. «Mica ho detto che
non mi interessa.»
686
Lash lo guardò. «Dove ti trovo per parlarne con
calma?»
«Conosci Buss's Bikes?»
«È quell'autofficina per Harley sulla Tremont, giusto?»
«Sì. È mia e di mio fratello. Siamo biker.»
«Allora conosci altra gente che potrebbe aiutarmi.»
«Forse sì, forse no.»
«Come ti chiami?»
Mr Tatuaggi strinse gli occhi. Poi indicò il braccio su
cui aveva tatuato un motociclista in sella a una HarleyDavidson, un low-rider. «Chiamami Low.»
Diego RIP cominciò a battere nervosamente il piede,
come se fremesse per dire qualcosa, ma Lash non era
pronto a farsela con le bande di strada o con le teste
rasate. Non ancora. Meglio non allargarsi troppo,
all'inizio. Era più sicuro. Prima avrebbe valutato se
poteva aggiungere un paio di motociclisti alla variegata
compagine della Lessening Society. Se poi funzionava,
avrebbe gettato le reti e pescato qualcun altro. Forse
addirittura si sarebbe fatto arrestare di nuovo, tanto per
cominciare.
«Owens», chiamò uno sbirro sulla porta.
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«Ci si vede», disse Lash rivolto a Low. Salutò con un
cenno del capo Diego, lo skinhead e lo spacciatore e
lasciò i tossici alle loro conversazioni con il pavimento.
Fuori, attese che un agente gli spiegasse tutta la
pappardella pagina per pagina: «qui ci sono i capi
d'accusa a suo carico», «questo è il numero dei difensori
d'ufficio; deve chiamarli se vuole che le venga assegnato
un legale», «la data di comparizione in tribunale è tra sei
settimane...», «se non si presenta perderà la cauzione e
verrà emesso un mandato d'arresto a suo carico», bla, bla,
bla...
Firmò un paio di volte col nome Larry Owens e poi
venne rilasciato nel corridoio dove era stato condotto in
manette otto ore prima. Alla fine della striscia di
linoleum c'era Mr D seduto su una brutta sedia di
plastica, che si alzò subito con aria sollevata.
«Andiamo a mangiare», disse
avviavano verso l'uscita.
Lash
mentre
si
«Sissignore.»
Lash uscì dall'ingresso anteriore della centrale di
polizia di
Caldwell, troppo distratto dalle cose che aveva da fare
per curarsi dell'ora. Quando il sole lo colpì in pieno viso
indietreggiò con un grido, andando a sbattere contro Mr
D.
Coprendosi il volto, cercò goffamente di tornare
dentro.
688
Mr D lo agguantò per le braccia. «Ma cosa...»
«Il sole!» Lash era quasi rientrato quando si rese conto
che... non succedeva niente. Non era in fiamme, non si
era trasformato in una enorme palla di fuoco e non lo
aspettava una orribile morte per ustioni.
Si fermò... e per la prima volta in vita sua si voltò verso
il sole. «Come splende», disse schermandosi gli occhi col
braccio.
«Non dovrebbe guardarlo così.»
«Com'è... caldo.»
Lash si appoggiò contro la facciata in pietra
dell'edificio; trovava incredibile tutto quel calore. I raggi
che lo colpivano si irradiarono dalla pelle fin dentro ai
muscoli.
Non era mai stato invidioso degli umani, ma se avesse
saputo com'era bello stare in pieno sole, Dio, li avrebbe
invidiati eccome.
«Tutto okay?» chiese Mr D.
«Sì... sì, tutto bene.» Lash chiuse gli occhi e per qualche
istante si limitò a respirare. <<I miei genitori... non mi
hanno mai lasciato uscire. Prima della transizione i
vampiri in teoria possono esporsi alla luce del sole, ma
mia madre e mio padre non hanno mai voluto correre
rischi.»
689
«Non riesco neanche a immaginare di stare senza
sole.»
Adesso non ci riusciva neanche Lash.
Alzò il mento, chiuse gli occhi per un attimo... e si
ripromise di ringraziare suo padre la prossima volta che
lo vedeva.
Era una cosa... magnifica.
Phury rinvenne con in bocca un sapore bruciante,
disgustoso. Per la verità lo sentiva dappertutto, come se
qualcuno gli avesse spruzzato sottopelle uno di quei
detersivi per pulire il forno.
Aveva gli occhi incollati. Lo stomaco era una palla di
piombo. I polmoni si gonfiavano e si sgonfiavano con
l'entusiasmo di un paio di tossici strafatti, rintronati come
dopo aver passato ore ed ore ad ascoltare i Grateful
Dead. E a guidare la carica che non lo avrebbe portato
proprio da nessuna parte c'era il cervello, che
evidentemente era andato e non era stato rianimato
insieme al resto del corpo.
In realtà anche il suo petto era un po' off limits.
Oppure... no, il cuore batteva ancora perché... be', per
forza, no? Altrimenti non avrebbe fatto di quei pensieri,
giusto?
Fu assalito da un'immagine della grigia e desolata
distesa di ossa, col mago che si stagliava contro
l'orizzonte plumbeo.
690
Bentornato, bellezza, disse il mago. È stato divertente da
morire. Quando possiamo rifarlo?
Rifare che cosa? si chiese Phury.
Il mago rise. Oh, con che facilità dimenticate i momenti più
spassosi.
Phury gemette e sentì qualcuno che si muoveva.
«Cormia», gracchiò.
«No.»
Quella voce, quella profonda voce maschile. Così
simile a quella che usciva dalla sua stessa bocca. Identica,
in realtà.
Lì con lui c'era Zsadist.
Phury voltò la testa e dentro
sciabordò; la zucca, ridotta a un
piantine e un piccolo scrigno del
bollicine, ma niente con le
effettivamente vivo.
il cranio il cervello
acquario, conteneva
tesoro con tanto di
pinne. Niente di
Z aveva una faccia terribile, con quelle occhiaie scure,
le labbra tirate e la cicatrice più visibile che mai.
«Ti ho sognato», disse Phury. Dio, che voce, era ridotta
a un raspo. «Stavi cantando per me.»
Z mosse lentamente la testa avanti e indietro. «Non
ero io. Non sono più in vena di cantare.»
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«Dov'è lei?» chiese Phury.
«Cormia? Al Santuario.»
«Oh...» Giusto. L'aveva spinta a tornare là dopo aver
fatto sesso con lei. E poi si... Era. Fatto. Una. Pera. Di.
Eroina. «Oh, Dio.»
Quella simpatica folgorazione gli snebbiò la vista e lo
indusse a guardarsi intorno.
L'unica cosa che vide, dappertutto, era un pallido color
lavanda; ripensò a Cormia, che emergeva dall'armadio
dell'ufficio nella sua veste candida e con quella rosa in
mano. La rosa era ancora là, pensò. Lei se l'era
dimenticata.
«Vuoi bere qualcosa?»
Phury si voltò verso il suo gemello, all'altro capo della
Stanza. Sembrava svuotato e stravolto.
«Sono stanco», mormorò Phury.
Z si alzò e si avvicinò con un bicchiere in mano. «Alza
la testa.»
Phury ubbidì, anche se così l'acqua dentro il suo
acquario minacciava di traboccare. Mentre Zsadist
reggeva il bicchiere vicino alle sue labbra, Phury mandò
giù un sorso, poi un altro e poi cominciò a bere
avidamente, divorato da una sete terribile.
692
Passata la sete, abbandonò la testa sul cuscino.
«Grazie.»
«Ne vuoi ancora?»
«No.»
Zsadist posò il bicchiere sul comodino, poi tornò a
mettersi sulla sedia color lavanda, a braccia conserte, il
mento che sfiorava il petto.
Era dimagrito, pensò Phury. Aveva di nuovo le
guance incavate.
«Non avevo ricordi», disse piano Z.
«Di cosa?»
«Di te. Di loro. Sì, insomma, di dove stavo prima di
essere rapito e poi venduto.»
Che fosse l'acqua o quello che aveva appena detto Z,
Phury riacquistò subito piena lucidità. «Non potevi
ricordare i nostri genitori... o la nostra casa. Eri troppo
piccolo.»
«Rammento la bambinaia. Be', in realtà ho un solo
ricordo: lei che si mette un po' di marmellata sul pollice e
poi me lo fa succhiare. È più o meno tutto quello che mi
ricordo. Poi... mi stavano vendendo all'asta, con tutta
quella gente che mi guardava.» Z si accigliò. «Sono
cresciuto facendo lo sguattero. Lavavo montagne di
piatti, pulivo montagne di verdura, servivo birra ai
soldati. Erano buoni con me. Quella parte era... okay.» Z
693
si stropicciò gli occhi. «Dimmi una cosa. Per te com'è
stata? L'infanzia, e poi l'adolescenza.»
«Solitaria.» Okay, così suonava egoista. «No, volevo
dire...»
«Mi sentivo solo anch'io. Mi mancava qualcosa, ma
non sapevo cosa. Ero la metà di un intero, però c'ero
soltanto io.»
«Mi sentivo anch'io così. Salvo che io sapevo cosa
mancava.» Il tu rimase sottinteso.
«Non voglio parlare di quello che è successo dopo la
mia transizione», disse Z con voce improvvisamente
piatta.
«Non è necessario.»
Zsadist annuì e parve chiudersi in se stesso. Nel
silenzio che seguì, Phury non riusciva neanche a
immaginare cosa stesse ricordando. Il dolore, il degrado e
la rabbia.
«Ricordi, prima che entrassimo nella confraternita,»
mormorò Z, «quando sono sparito per tre settimane?
Eravamo ancora nel Vecchio Continente e tu non avevi
idea di dove fossi andato?» «Sì.»
«L'ho uccisa. La Padrona.»
Phury batté le palpebre, sorpreso da quell'ammissione.
Tutti si erano sempre lanciati in congetture su quella
morte. «Allora non è stato suo marito.»
694
«No. Era violento, certo, ma sono stato io a ucciderla.
Vedi, aveva preso un altro schiavo di sangue. Lo aveva
rinchiuso in quella gabbia. Io...» la voce di Z si incrinò,
poi tornò fermissima. «Non potevo permetterle di farlo a
qualcun altro. Sono tornato là... l'ho trovato... Merda, era
nudo e nello stesso angolo in cui io avevo l'abitudine
di...»
Phury trattenne il fiato; era quello che aveva sempre
voluto e temuto di sapere. Strano che stessero facendo
quella conversazione proprio adesso.
«In cui avevi l'abitudine di fare cosa?»
«Sedermi. Avevo l'abitudine di sedermi in
quell'angolo quando lei non mi... Sì, me ne stavo seduto
lì, così almeno sapevo cosa aspettarmi. Quel ragazzino,
anche lui era seduto con le spalle al muro e le ginocchia
contro il petto. Proprio come facevo io. Era giovane, così
giovane, doveva aver appena superato la transizione.
Aveva gli occhi castano chiaro... ed erano pieni di terrore.
Credeva che fossi lì per lui. Sì, insomma... che fossi sceso
lì per lui. Appena entrato, non riuscivo a parlare, e
questo lo spaventò ancora di più. Tremava... tremava
talmente tanto che batteva i denti, e ricordo ancora le
nocche delle sue mani. Si teneva aggrappato ai polpacci
scheletrici, e le nocche quasi gli perforavano la pelle.»
Phury strinse i denti al ricordo di quando aveva
liberato Zsadist, di quando l'aveva visto incatenato al
tavolaccio in mezzo a quella cella, nudo. Z non aveva
paura. Aveva subito troppi abusi e troppo a lungo per
695
lasciarsi impressionare da quello che potevano ancora
fargli.
Zsadist si schiarì la gola. «Gli ho detto... gli ho detto
che volevo liberarlo. All'inizio non mi ha creduto. Finché
ho tirato su le maniche del cappotto e gli ho mostrato i
polsi. Appena ha visto le fasce tatuate degli schiavi di
sangue non ho dovuto aggiungere un'altra parola. Mi ha
seguito senza esitare.» Z fece un profondo sospiro. «La
Padrona ci ha sorpresi mentre lo stavo portando fuori dai
sotterranei del castello. Lui faceva fatica a camminare
perché immagino che avesse avuto una giornata... piena.
Ho dovuto caricarlo in spalla. Ad ogni modo, lei ci ha
beccati... e, prima che potesse chiamare le guardie, l'ho
sistemata. Quel ragazzo... è rimasto a guardare mentre le
spezzavo il collo e la mollavo per terra. Dopo le ho
tagliato la testa perché... vedi, nessuno dei due credeva
che fosse davvero morta. Cazzo, ero in quel labirinto di
gallerie, dove poteva sorprenderci chiunque, e non
riuscivo a muovermi. Continuavo a fissarla. Il ragazzo mi
ha chiesto se era proprio morta. Ho risposto che non lo
sapevo. Lei non si muoveva, ma come facevo a essere
sicuro?
«Il ragazzo mi ha guardato in faccia e non
dimenticherò mai la sua voce. "Tornerà. Torna sempre."
Per come la vedevo io, tutti e due avevamo già
abbastanza rogne per preoccuparci anche di quello.
Perciò le ho mozzato la testa, e lui l'ha tenuta per i capelli
mentre scappavamo.» Zsadist si stropicciò la faccia.
«Dopo averlo liberato, non sapevo cosa farne di lui. Ecco
a cosa sono servite quelle tre settimane. L'ho portato in
Italia, il più lontano possibile, fin sulla punta dello
696
stivale. Lì c'era una famiglia che Vishous conosceva dagli
anni in cui aveva lavorato per quel mercante, a Venezia.
Comunque sia, loro avevano bisogno di aiuto in casa ed
erano brava gente. Lo hanno preso a servizio in cambio
di una paga regolare. L'ultima cosa che ho saputo di lui,
una decina di anni fa, è che aveva avuto il secondo figlio
dalla sua shellan.»
«Lo hai salvato», disse Phury.
«Tirarlo fuori di lì non l'ha salvato», ribatté Zsadist,
guardandolo. «Il punto è proprio questo, Phury. Era
impossibile salvarlo. Era impossibile salvare me. So che è
quello che continui ad aspettarti, quello per cui vivi. Ma...
non succederà mai. Senti... non posso ringraziarti
perché... per quanto io ami Bella, per quanto ami la mia
vita e il punto in cui sono, continuo a tornare con la
mente ad allora. È più forte di me. Lo rivivo ogni
giorno.»
«Ma...»
«No, lasciami finire. Tutta questa storia della droga...
Senti, tu non hai fallito con me, perché non si può fallire
quando un'impresa è impossibile.»
Phury sentì sgorgare una lacrima rovente. «Voglio solo
che le cose vadano per il verso giusto.»
«Lo so. Ma non è mai stato così e mai lo sarà, e non
devi ucciderti per questo. Io sono come sono e basta.»
Non c'era nessuna promessa di gioia sul volto di Z,
nessuno spazio potenziale per un po' di felicità. La
697
mancanza di mania omicida era un miglioramento, ma
l'assenza di ogni sostanziale soddisfazione per essere
vivo non era certo motivo di festeggiamenti.
«Credevo che Bella ti avesse salvato.»
«Lei ha fatto moltissimo. Ma in questo momento, per
come sta andando la gravidanza...»
Non ebbe bisogno di terminare la frase. Non c'erano
parole adeguate per descrivere gli spaventosi "e se". Z si
era rassegnato a perderla, si rese conto Phury. Aveva
deciso che l'amore della sua vita stava per morire.
Non c'era da meravigliarsi che non fosse in vena di
ringraziamenti per essere stato salvato.
«Per tantissimi anni ho tenuto con me il teschio della
Padrona», riprese Z, «non per un qualche morboso
attaccamento. Mi serviva per quando avevo gli incubi in
cui la vedevo tornare da me. Vedi, mi svegliavo di
soprassalto e la prima cosa che facevo era controllare che
fosse ancora morta.»
«Posso capirlo...»
«Vuoi sapere cosa ho fatto negli ultimi due mesi?»
«Sì...»
«Mi sveglio di soprassalto e vado nel panico perché
non so se sei ancora vivo.» Z scosse la testa. «Vedi, posso
allungare il braccio sotto le lenzuola e toccare Bella,
sentire il suo corpo caldo. Ma con tè non posso fare la
698
stessa cosa... e credo che il mio subconscio si sia convinto
che tutti e due, probabilmente, tra un anno non
ci sarete più » «Mi dispiace... merda...» Phury si coprì
la faccia con le mani. «Mi dispiace.»
«Credo che dovresti andare. Al Santuario, dico. Lì
sarai più al sicuro. Se resti qui rischi di non farcela a
tirare neanche un altro anno. Devi andare
assolutamente.»
«Non so se sia necessario...»
«Sarò un po' più chiaro. Abbiamo fatto una riunione.»
Phury lasciò ricadere le mani. «Che tipo di riunione?»
«Il tipo che si tiene a porte chiuse. Io, Wrath e gli altri
fratelli. L'unico modo che hai per stare qui è smetterla di
drogarti
ed
entrare
in
un
programma
di
disintossicazione. E nessuno crede che lo farai.»
Phury si accigliò. «Non sapevo che esistesse una
Narcotici Anonimi dei vampiri.»
«Non esiste, infatti, ma esistono degli incontri serali
per gli umani. Ho fatto una ricerca in Internet. Ma non è
questo il punto, giusto? Perché anche se tu promettessi di
andarci, nessuno ti crederebbe. E io penso... penso che
non ci creda neanche tu.»
Difficile sostenere il contrario, pensò Phury,
considerato quello che aveva portato dentro casa e che si
era sparato nel braccio.
699
Al solo pensiero di smettere con la droga gli sudavano
le mani. «Hai detto a Rehv di non vendermi più il fumo,
vero?» Ecco perché Xhex lo aveva guardato male quando
era passato per quell'ultimo acquisto.
«Sì. E so che non è stato lui a venderti l'eroina. C'era
un'aquila sul pacchetto. Il marchio di Rehv è una stella
rossa.»
«Se vado al Santuario, come fai a sapere che non
continuerò a farmi?»
«Non posso saperlo con certezza.» Z si alzò in piedi.
«Ma almeno non sarò costretto a guardare. E nemmeno
gli altri.»
«Sei così dannatamente calmo», mormorò Phury a
scoppio ritardato.
«Ti ho visto morto vicino a un water e nelle ultime otto
ore ho vegliato su di te chiedendomi come cazzo ribaltare
la situazione. Sono distrutto, ho i nervi a pezzi e, se non
l'hai ancora capito, tutti noi ce ne laviamo le mani di te.»
Ciò detto, Zsadist si voltò e lentamente andò alla
porta.
«Zsadist.» Z si fermò, ma senza voltarsi. «Non ho
intenzione di ringraziarti per questo. Così siamo pari.»
«Mi pare giusto.»
700
Quando la porta si chiuse, Phury ebbe uno strano
pensiero dissociativo che, considerato tutto quello che era
appena stato detto, appariva quanto meno incongruo.
Se Zsadist non cantava più, il mondo aveva perso un
tesoro.
701
Capitolo 45
All'altro capo del quartier generale della confraternita,
a una dozzina di metri sottoterra, John se ne stava seduto
alla scrivania dell'ufficio del centro di addestramento
fissando il computer che aveva davanti. Si sentiva in
dovere di guadagnarsi lo stipendio, ma con le lezioni
sospese a tempo indeterminato non c'era molto da fare.
Il lavoro d'ufficio gli piaceva. Di solito impiegava il
tempo registrando voti, aggiornando fascicoli con i
rapporti sugli infortuni occorsi durante le esercitazioni
pratiche e annotando i progressi del corso di studi. Era
bello distillare l'ordine dal caos, mettere ogni cosa al suo
posto.
Controllò l'orologio. Blay e Qhuinn si stavano
allenando in sala pesi e ci sarebbero rimasti un'altra
mezz'ora minimo.
Cosa fare... cosa fare...
D'impulso sfogliò le cartelle del computer e trovò
quella chiamata Incidenti. La aprì e richiamò il file in cui
Phury aveva archiviato il rapporto sull'attacco alla casa
di Lash.
Cristo... santo. I cadaveri dei suoi genitori erano stati
piazzati sulle sedie intorno al tavolo della sala da pranzo,
spostati lì dal salotto, dove erano stati uccisi. In casa non
702
era stato toccato nient'altro, salvo un cassetto in camera
di Lash, e Phury aveva buttato giù un appunto a
margine: effetto personale? Ma di che valore, visto che hanno
lasciato i gioielli?
John aprì gli altri rapporti sulle case attaccate. Quella
di Qhuinn. Quella di Blay. Quelle di altri tre compagni di
classe. Quelle di altri cinque aristocratici. Bilancio delle
vittime: ventinove, doggen compresi. Le case erano state
saccheggiate da cima a fondo.
Con tutta evidenza era la serie di incursioni più
riuscita dopo il sacco della tenuta di famiglia di Wrath,
nel Vecchio Continente.
John cercò di immaginare cosa doveva aver subito
Lash per rivelare quegli indirizzi. Era un pezzo di merda,
ma non aveva nessuna simpatia per i lesser.
Torturato. Doveva essere morto.
Senza un motivo particolare, entrò nel file che lo
riguardava. Phury, o chi per lui, aveva già compilato il
certificato di morte. Nome: Lash, figlio di Ibix, figlio di
Ibixes, figlio di Thornsrae. Data di nascita: 3 marzo 1983. Data
di morte: approssimativamente agosto 2008. Età al momento
del decesso: 25. Causa del decesso: non confermata; sospetta
tortura. Ubicazione del cadavere: ignota; ipotesi: eliminato
dalla Lessening Society. Resti consegnati a: non disponibili.
Il file conteneva molte altre informazioni. Lash aveva
subito numerosi provvedimenti disciplinari, non solo al
corso di addestramento, ma ai ritiri della glymera. Fu una
sorpresa trovarli nel suo fascicolo, dato il grado di
703
riservatezza dell'aristocrazia riguardo ogni imperfezione,
ma d'altronde la confraternita aveva preteso di conoscere
integralmente la storia di tutti i tirocinanti, prima di
ammetterli al programma.
Era stato scannerizzato anche il suo certificato di
nascita. Nome: Lash, figlio di Ibix, figlio di Ibixes, figlio di
Thornsrae. Data di nascita: 3 marzo 1983, ore 1,14. Madre:
Rayelle, figlia del soldato Nellshon. Certificato di nascita
firmato da: dott. Havers, figlio di Havers. Dimesso dalla
clinica: 3 marzo 1983.
Lash morto, andato. Assurdo.
Il telefono squillò facendolo sobbalzare. John sollevò il
ricevitore e fischiò. «Dieci minuti», disse la voce di
Vishous. «Studio di Wrath. Riunione. Venite anche voi
tre.»
Poi la comunicazione venne interrotta.
Cazzarola. Dopo un istante di smarrimento, John corse
in sala pesi per avvertire Qhuinn e Blay. Anche loro
rimasero interdetti per qualche secondo, poi, ancora in
tuta, schizzarono insieme all'amico verso lo studio di
Wrath.
Nello studio azzurro pallido del re trovarono la
confraternita al gran completo. I fratelli torreggiavano
nella stanza arredata con gusto squisito facendola
apparire minuscola. Vicino al camino, Rhage stava
scartando un Tootsie Pop al gusto d'uva, a giudicare
dall'incarto violaceo. Vishous e Butch sedevano insieme
su un sofà d'epoca, facendo temere per le sue gambe
704
sottili. Wrath era dietro la scrivania. Z era nell'angolo più
lontano, a braccia conserte, gli occhi fissi davanti a sé sul
centro della stanza.
John chiuse la porta e non si mosse, Qhuinn e Blay
seguirono il suo esempio cercando, come lui, di passare
inosservati.
«Ecco cosa abbiamo», esordì Wrath, appoggiando gli
stivali sullo scrittoio coperto di carte. «I capi di cinque
delle famiglie fondatrici sono morti. Ciò che resta della
glymera è per lo più sparpagliato lungo il litorale
orientale e in case sicure. Finalmente. Le perdite
ammontano a poco meno di trenta. Nella nostra storia ci
sono stati un paio di massacri, ma questo attacco è di una
gravità senza precedenti.»
«Avrebbero dovuto muoversi più in fretta», borbottò
Vishous. «Maledetti sciocchi, non hanno voluto
ascoltarci.»
«Vero, ma ci aspettavamo davvero qualcosa di
diverso? Dunque la situazione è questa. È ragionevole
aspettarsi una qualche reazione negativa da parte del
Consiglio dei Princeps sotto forma di proclama contro il
sottoscritto. La mia previsione è che tenteranno di
fomentare una guerra civile. Finché sarò in vita io nessun
altro potrà diventare re, garantito, ma potrebbero
rendermi la vita molto difficile, impedendomi di regnare
in modo adeguato e di tenere unita la razza.» I fratelli
bofonchiarono ogni sorta di improperio e Wrath alzò una
mano per zittirli. «La buona notizia è che hanno dei
problemi organizzativi, il che ci dà ancora un po' di
705
tempo. In base al suo statuto, il Consiglio dei Princeps
deve avere sede a Caldwell e tenere in loco le sue
riunioni. Questa regola è stata creata un paio di secoli fa
per garantire che la base del potere non fosse trasferita
altrove. Dal momento che nessuno di loro è in città e che
- ohibò! - nel 1790, data di redazione dell'attuale statuto,
le videoconferenze non esistevano, non possono
convocare una riunione per modificare i regolamenti o
eleggere un nuovo leahdyre finché non riportano qui le
chiappe almeno per una sera. Date tutte le morti che ci
sono state, passerà un po' di tempo prima che ciò accada,
ma parliamo di settimane, non di mesi.»
Rhage addentò il Tootsie Pop e il crac riecheggiò in
tutta la stanza. «Abbiamo idea di cosa non è stato ancora
colpito?»
«Ho preparato delle copie per ciascuno di voi», disse
Wrath indicando l'angolo esterno della scrivania.
Rhage andò a prendere il fascio di fogli e li distribuì
anche a Qhuinn, John e Blay.
John guardò le colonne in cui era suddiviso il foglio.
Nella prima c'erano dei nomi. Nella seconda degli
indirizzi. Nella terza una stima del numero di persone,
doggen compresi, che abitavano in casa. Nella quarta una
valutazione
approssimativa
del
contenuto
dell'abitazione, sulla base del ruolo dei contribuenti.
Nell'ultima veniva precisato se la famiglia aveva liberato
o meno l'abitazione, se la proprietà era stata saccheggiata
e in quale misura.
706
«Voglio che vi dividiate l'elenco delle famiglie di cui
non abbiamo avuto notizie», ordinò Wrath. «Se in quelle
case c'è ancora qualcuno, voglio che lo facciate
sgomberare anche a costo di trascinarlo fuori per i capelli.
John, tu e Qhuinn andate con Z. Blay, tu vai con Rhage.
Domande?»
Senza un motivo apparente, John si ritrovò a guardare
l'orrenda poltrona verde avocado dietro la scrivania di
Wrath. Era la poltrona di Tohr.
O meglio, lo era stata.
Gli sarebbe piaciuto che Tohr lo vedesse con quella
lista in mano, pronto ad andare a difendere la razza.
«Bene», concluse Wrath. «Adesso uscite e fate quello
che vi ho detto.»
Dall'Altra Parte, nel Tempio delle Scrivane Segregate,
Cormia arrotolò la pergamena su cui aveva schizzato
case ed edifici e la posò sul pavimento accanto allo
sgabello. Non sapeva cosa farne. Bruciarla, forse? Al
Santuario non esistevano cestini per la carta straccia.
Spostando davanti a sé una boccia di cristallo piena
d'acqua della fontana della Vergine Scriba, ripensò a
quelle con dentro i piselli che le portava sempre Fritz.
Quel passatempo le mancava di già. Le mancava il
maggiordomo. Le mancava...
Il Primale.
707
Strinse la boccia tra i palmi e cominciò a sfregare il
cristallo, creando sul pelo dell'acqua delle increspature
che catturarono la luce delle candele. Il calore delle mani
e il lieve sciabordio produssero un effetto vorticoso e
dalle piccole onde emerse proprio ciò che lei voleva
vedere. Appena comparve l'immagine, Cormia smise di
agitare l'acqua lasciando calmare la superficie per poter
guardare e poi descrivere ciò che vedeva.
Era il Primale, vestito come quella prima notte in cui
l'aveva incontrata in cima alle scale e l'aveva guardata
come se non la vedesse da una settimana. Ma non era
nella casa della confraternita. Stava correndo lungo un
corridoio con delle scie di sangue e delle orme nere. Dei
corpi erano accasciati per terra, su entrambi i lati, resti di
vampiri che fino a pochi istanti prima erano vivi.
Cormia rimase a guardare il Primale che radunava un
gruppetto di vampiri terrorizzati e li faceva entrare in
uno stanzino pieno di scorte medicinali. Vide la sua
faccia mentre li chiudeva dentro a chiave, vide la paura,
la tristezza e la rabbia sul suo volto.
Si era dato da fare per salvarli, per trovare un
nascondiglio sicuro, per prendersi cura di loro.
Quando la visione cominciò a svanire, strinse di nuovo
la boccia tra le mani. Ora che aveva visto cos'era accaduto
poteva riguardare da capo le azioni del Primale. Le
guardò una seconda volta e poi una terza.
Era come quel film che aveva visto sulla terra, solo che
questo era un fatto reale, un brandello di passato, non un
presente fittizio, di fantasia.
708
Poi vide altre cose, scene relative al Primale, alla
confraternita e
alla razza. Oh, l'orrore di quelle uccisioni, di quei
cadaveri in dimore lussuose... talmente tanti da risultarle
incomprensibili. Uno a uno, vide i volti delle vittime dei
tesser. Poi vide i fratelli impegnati sul campo di battaglia,
in numero così ridotto che John, Blay e Qhuinn erano
stati costretti prematuramente a fare la guerra.
Se andava avanti così i lesser avrebbero vinto...
Accigliandosi, si chinò sopra la boccia, ancora più
vicino.
Sulla superficie dell'acqua vide un lesser biondo, cosa
non insolita... ma aveva le zanne.
Qualcuno bussò alla
l'immagine scomparve.
porta,
Cormia
trasalì
e
Dall'altro lato del portone del tempio giunse una voce
soffocata. «Sorella?»
Era Selena, la precedente scrivana segregata.
«Salve», gridò Cormia.
«H tuo pasto, sorella», disse l'Eletta. Con un fruscio il
vassoio venne fatto scivolare attraverso un'apertura.
«Spero sia di tuo gradimento.»
«Grazie.»
709
«Hai qualche domanda da farmi?»
«No, grazie.»
«Tornerò a ritirare il vassoio...» la voce dell'Eletta si
alzò di quasi un'ottava per l'eccitazione, «... dopo l'arrivo
del Primale.»
Cormia chinò il capo, poi ricordò che la sorella non
poteva vederla. «Come desideri.»
L'Eletta se ne andò, senza dubbio a prepararsi per il
Primate.
Cormia tornò a chinarsi sopra la scrivania per
guardare la boccia, non più il suo interno. Era un oggetto
fragilissimo, molto sottile eccetto la base, pesante e
solida. Il bordo del cristallo era tagliente come la lama di
un coltello.
Rimase a lungo così, non avrebbe saputo dire per
quanto. Alla fine si riscosse da quella sorta di trance e a
fatica posò di nuovo le mani sulla sfera di cristallo.
Quando il Primale riaffiorò in superficie non rimase
sorpresa...
Rimase inorridita.
Il Primale era steso scompostamente su un pavimento
di marmo, esanime, vicino alla tazza di un gabinetto.
Cormia stava per balzare in piedi per fare la Vergine sola
sapeva che cosa, quando l'immagine cambiò. Adesso il
Primate era a letto, un letto di un pallido color lavanda.
710
Voltando la testa guardò dritto verso di lei, attraverso
l'acqua, e disse, «Cormia?»
Oh, santissima Vergine Scriba, quel suono le fece venir
voglia di piangere.
«Cormia?»
Lei balzò in piedi. Il Primale era fermo sulla soglia del
tempio, tutto vestito di bianco, con al collo il medaglione
legato al suo ruolo.
«In verità...» Cormia non riuscì a proseguire. Aveva
voglia di corrergli incontro, di abbracciarlo e tenerlo
stretto. Lo aveva visto morto. Lo aveva visto..,
«Perché sei qui?» chiese lui, guardandosi intorno nella
stanza spoglia. «Tutta sola.»
«Sono segregata.» Cormia si schiarì la gola. «Ve
l'avevo detto.»
«Dunque non posso stare qui?»
«Voi siete il Primale. Potete stare dove volete.»
Lui fece il giro della stanza; lei aveva tantissime
domande, ma nessun diritto di porgliele.
«Nessun altro ha il permesso di stare qui?» chiese lui,
guardandola.
711
«No, a meno che una delle mie sorelle non si unisca a
me come scriba segregata. La Direttrice però può entrare,
col mio permesso.»
«Qual è lo scopo della segregazione?»
«Oltre a trascrivere la storia generale delle razze, noi...
io... vedo le cose che la Vergine Scriba desidera
mantenere... riservate.» Il Primale socchiuse gli occhi
gialli; Cormia sapeva cosa stava pensando. «Sì, ho visto
ciò che avete fatto. In quel bagno.»
L'imprecazione che lui si lasciò sfuggire riecheggiò
contro il soffitto bianco.
«Vi sentite bene?» chiese Cormia.
«Sì. Sto bene», rispose lui incrociando le braccia sul
petto. «Pensi di stare bene qui? Tutta sola?»
«Starò bene.»
Il Primale la guardò. A lungo e intensamente. La
sofferenza traspariva dal suo volto, dai solchi profondi
scavati dal dolore e dal rimpianto.
«Non mi avete fatto male», disse Cormia. «Quando
siamo stati insieme, non mi avete fatto male. Voi ne siete
convinto, lo so, ma vi sbagliate.»
«Vorrei... che le cose fossero diverse.»
Cormia rise mestamente e d'impulso mormorò, «Siete
il Primale. Cambiatele.»
712
«Vostra grazia?» Sulla soglia comparve la Direttrice,
confusa, «Cosa fate qui?»
«Sono passato a trovare Cormia.»
«Oh, ma...» Amalya parve riscuotersi, quasi
ricordando all'improvviso che il Primale poteva andare
dove voleva e vedere chi voleva, poiché segregata era un
termine che imponeva restrizioni a tutti tranne che a lui.
«Ma certo, vostra grazia. Ehm... l'Eletta Layla è pronta
per voi, nel vostro tempio.»
Cormia abbassò lo sguardo sulla sfera che aveva
davanti. Le Elette avevano cicli di fertilità brevissimi,
dunque era molto probabile che Layla fosse fertile o in
procinto di esserlo. Senza dubbio molto presto ci sarebbe
stata una gravidanza da annotare.
«Ora dovete andare», disse guardando il Primale.
Lui la trafisse
«Cormia...»
letteralmente
con
lo
sguardo.
«Vostra grazia?» lo interruppe la Direttrice.
«Andrò al tempio quando sarò pronto», la zittì lui con
voce dura, da sopra la spalla.
«Oh, vi prego di perdonarmi, vostra grazia, non
intendevo...»
«Non fa niente», disse stancamente lui. «Dille... che
arrivo.»
713
La Direttrice si affrettò a uscire e a chiudere la porta.
Il Primale tornò a guardare negli occhi Cormia. Poi
attraversò la stanza con espressione grave.
Nel vedere che si buttava in ginocchio davanti a lei,
Cormia rimase scioccata. «Vostra grazia, non dovreste...»
«Phury. Chiamami Phury. Non "vostra grazia" o
"Primale". A partire da adesso voglio che usi solo il mio
vero nome.»
«Ma...»
«Niente ma.»
Cormia scosse la testa. «E va bene, solo, non dovreste
stare in ginocchio. Mai.»
«Davanti a te dovrei stare sempre in ginocchio», così
dicendo le posò delicatamente le mani sulle braccia
«Davanti a te... dovrei stare sempre inchinato.» Fece
scorrere lo sguardo sul suo viso e sui suoi capelli.
«Ascolta, Cormia, voglio che tu sappia una cosa.»
Lei lo guardò; i suoi occhi erano la cosa più incredibile
che avesse mai visto, ipnotici, gialli come i citrini alla luce
del fuoco. «Sì?»
«Ti amo.»
«Cosa?» fece lei con una stretta al cuore.
714
«Ti amo», ripeté lui scuotendo la testa e sedendosi a
gambe incrociate. «Oh, Cristo... ho incasinato tutto. Ma ti
amo. Volevo dirtelo perché... be', merda, perché è
importante, e perché significa che non posso andare con
le altre Elette. Non posso stare con loro, Cormia. O con te
o con nessun'altra.»
Lei era al settimo cielo. Per una frazione di secondo
sentì il cuore mettere le ali e volare dentro il petto,
librandosi su folate di gioia. Era ciò che aveva desiderato,
quella dichiarazione, quella realtà...
La sua radiosa felicità si offuscò con la stessa rapidità
con cui era esplosa.
Cormia ripensò alle immagini dei caduti, dei torturati,
di chi era stato barbaramente ucciso. E ripensò al fatto
che ormai i fratelli guerrieri erano rimasti in... quanti?
Quattro. Solo quattro.
Secoli prima erano sempre almeno venti o trenta,
Cormia guardò la boccia davanti a sé e poi la penna
d'oca che aveva usato. C'era la concreta possibilità che a
un certo punto, in un futuro non troppo lontano, non ci
fosse più nessuna storia da tramandare.
«Dovete andare da lei, da Layla», disse con una voce
piatta come la pergamena su cui doveva scrivere.
«Dovete andare da tutte quante loro.»
«Non hai sentito cos'ho detto?»
715
«Sì. Ma questa cosa è più grande di voi e di me.»
Cormia si alzò in piedi, perché se non si muoveva
rischiava di impazzire. «Io non sono più una Eletta, non
lo sono più nel profondo del cuore. Ma ho visto ciò che
sta succedendo. La razza non potrà sopravvivere così.»
Il Primale si stropicciò gli occhi con una smorfia. «Io ti
voglio.»
«Lo so.»
«Se andrò con le altre, riuscirai a sopportarlo? Io non
sono sicuro di farcela.»
«Temo... di no. Perciò ho scelto questo», così dicendo
indicò la stanza con un ampio gesto della mano. «Qui
posso vivere in pace.»
«Posso venire a trovarti, però. Vero?»
«Siete il Primale. Potete fare qualunque cosa.» Cormia
si fermò accanto a una delle candele. Fissando la fiamma
chiese, «Perché avete fatto ciò che avete fatto?»
«Diventare Primale, vuoi dire? Io...»
«No. La droga. Nel bagno. Avete rischiato di morire.»
Non ottenendo risposta lo guardò. «Voglio sapere
perché.»
Ci fu un lungo silenzio. Poi lui disse, «Sono un
tossicodipendente.»
«Un tossicodipendente?»
716
«Sì. Sono la prova lampante che si può essere
aristocratici, avere denaro e una posizione di prestigio ed
essere un tossico.» I suoi occhi gialli erano di una
trasparenza brutale. «Vorrei tanto essere un maschio di
valore e dirti che posso smettere, ma non sono sicuro di
farcela, questa è la verità. Non sarebbe la prima volta che
faccio delle promesse, a me stesso o a qualcun altro,
senza poi mantenerle. La mia parola... non vale più
niente per nessuno, me compreso.»
La sua parola...
Cormia pensò a Layla che aspettava, alle Elette che
aspettavano, all'intera razza che aspettava. Tutti
aspettavano lui.
«Phury... mio caro, adorato Phury, mantieni una delle
tue promesse, adesso. Vai da Layla, falla tua e tieni fede
all'impegno assunto con noi. Dacci una storia da scrivere,
da vivere e in cui prosperare. Sii la forza della razza,
com'è giusto che sia.» Lui fece per parlare, ma Cormia
alzò la mano per fermarlo. «Sai che è giusto così. Sai che
ho ragione.»
Dopo un attimo di tensione, Phury si alzò in piedi,
Pallido e malfermo sulle gambe, si raddrizzò la veste.
«Voglio che tu sappia che... se andrò con un'altra,
chiunque sia, nel mio cuore ci sarai tu.»
Lei chiuse gli occhi. Per tutta la vita le avevano
insegnato a condividere, ma lasciarlo andare con un'altra
fémmina era come gettare qualcosa di prezioso per terra
e poi calpestarlo fino a ridurlo in polvere.
717
«Andate in pace», disse piano. «E tornate in pace.
Anche se non posso stare con voi, non rifiuterò mai la
vostra compagnia.»
Phury salì la montagnola su cui sorgeva il tempio del
Primale camminando a fatica, con un piede che sembrava
incatenato. Incatenato e avvolto nel filo spinato.
Dio, oltre a sentirsi gravato da un peso enorme, il
piede e la caviglia sani gli bruciavano neanche li avesse
infilati dentro un secchio di acido per batterie. Mai si
sarebbe immaginato di essere lieto di aver perso metà
gamba, ma almeno non doveva sentire quello strazio in
stereo.
Il portone del Tempio del Primate era chiuso; Phury
aprì un battente e sentì un profumo di erbe e di fiori.
Entrò e rimase fermo nel vestibolo; sentiva la presenza di
Layla poco più avanti, nella stanza principale del tempio.
Sapeva che l'avrebbe trovata nella stessa posizione in cui
aveva trovato Cormia, mesi prima: stesa sul letto con
lunghi drappi candidi che, cadendo dal soffitto, si
raccoglievano intorno alla sua gola lasciando in vista solo
il suo corpo.
Rimase a fissare i bianchi gradini di marmo che
conducevano alla grande tenda che doveva scostare per
arrivare da Layla. Tre gradini. Tre gradini da salire e poi
si sarebbe trovato nella stanza principale.
Si voltò e si mise a sedere sui gradini.
Si sentiva la testa strana, forse perché erano tipo dodici
ore che non fumava uno spinello. Strana... nel senso di
718
stranamente chiara. Cristo, era lucidissimo. Tanta
chiarezza aveva come effetto secondario una nuova voce
che gli parlava nella testa. Una voce nuova e diversa da
quella del mago.
Era... la sua stessa voce. Per la prima volta da tempo
immemorabile, quasi non la riconobbe.
Questa cosa è sbagliata.
Con una smorfia si massaggiò il polpaccio che gli era
rimasto. Il bruciore sembrava salire dalla caviglia, ma
almeno quando si massaggiava il muscolo migliorava
leggermente.
Questa cosa è sbagliata.
Era difficile non concordare con se stesso. Tutta la vita
aveva vissuto per gli altri. Per il suo gemello. Per la
confraternita. Per la razza. Era sempre la stessa storia,
anche la faccenda del Primale. Aveva passato la vita
intera a tentare di fare l'eroe, e adesso non solo stava
sacrificando se stesso, ma stava sacrificando anche
Cormia.
Pensò a lei in quella stanza, sola con quelle bocce di
cristallo, le penne d'oca e tutta quella pergamena. Poi la
rivide contro di sé, calda e viva.
No, disse la sua voce interiore. Non lo farò.
«Non voglio farlo», disse, massaggiandosi tutte e due
le cosce.
719
«Vostra grazia?» giunse la voce di Layla, dall'altro lato
della tenda.
Stava per risponderle quando d'un tratto il bruciore lo
pervase completamente, travolgendolo, divorandolo
vivo, consumando ogni centimetro del suo corpo. Con un
nodo allo stomaco, tese le braccia tremanti per non
cadere all'indietro.
Un suono strangolato gli gorgogliò in gola, e dovette
faticare per riprendere fiato.
«Vostra grazia?» La voce di Layla era preoccupata... e
più vicina.
Ma non riusciva a risponderle. Impossibile.
All'improvviso il suo corpo si trasformò in una palla di
neve, un globo ghiacciato; tremava tutto, scosso da dolori
lancinanti.
Ma cosa cav...
Delirium tremens, pensò. Era un cazzo di delirium
tremens perché per la prima volta in circa duecento anni
il suo organismo era senza fumo rosso.
Sapeva di avere due possibilità: smaterializzarsi,
tornare sulla terra, trovare uno spacciatore diverso da
Rehvenge e non staccare la spina della sua dipendenza.
Oppure stringere i denti.
E smettere.
720
Il mago gli fece l'occhiolino, in primo piano, ritto
davanti al suo regno di desolazione. Ah, socio, non puoi
farcela. Lo sai. Perché tentare?
Phury si concesse un attimo per vomitare. Merda, gli
sembrava di morire. Sul serio.
Basta che torni sulla Terra e ti procuri quello che ti serve.
Puoi sentirti meglio con uno scatto di accendino. Tutto qua. E
questo strazio passerà.
Phury tremava convulsamente, battendo i denti come
cubetti di ghiaccio dentro un bicchiere.
Puoi far cessare tutto questo. Basta che accendi uno spinello.
«Già una volta mi hai mentito. Hai detto che potevo
liberarmi di te, e invece non sei sparito per niente.»
Ah, socio, era solo una piccola bugia innocente, tra amici. E
che sarà mai?
Phury pensò al bagno di quella stanza color lavanda e
a quello che aveva fatto lì dentro. «È tutto.»
Il mago cominciò a incavolarsi. Tremando di brutto,
neanche fosse finito dentro un frullatore, Phury allungò
le gambe, si stese sul fresco pavimento di marmo del
vestibolo e si preparò a starsene lì per un bel po'.
«Merda», disse in piena crisi di astinenza. «Sarà una
bella rottura.»
721
Capitolo 46
John e Qhuinn erano un paio di metri dietro Zsadist
mentre tutti e tre si avvicinavano a una moderna villa a
un piano. L'edificio era al sesto posto nell'elenco di
proprietà non ancora colpite dai lesser. Il terzetto si fermò
all'ombra di un paio di alberi ai bordi del prato.
John aveva la pelle d'oca. Con la sua elegante struttura
bassa e allargata, la casa assomigliava in modo
incredibile a quella in cui aveva vissuto per un
brevissimo periodo con Tohr e Wellsie.
«Tu preferisci stare qui, John?» gli chiese Zsadist da
sopra la spalla.
Quando John annuì, il fratello commentò, «Me
l'immaginavo. Fa venire i brividi anche a me. Qhuinn,
stai qui con lui.»
Zsadist avanzò nelle tenebre controllando porte e
finestre. Quando sparì dietro la villa, Qhuinn guardò
l'amico.
«Perché ti fa venire i brividi?»
John si strinse nelle spalle. Un tempo abitavo in una casa
come questa.
«Caspita, te la passavi bene da umano.»
722
È stato dopo.
«Oh, vuoi dire con... Giusto.»
Dio, la villa doveva essere dello stesso costruttore
perché la facciata e la disposizione delle stanze era
sostanzialmente identica. Guardando tutte le finestre,
John ripensò alla sua camera da letto: blu scuro, in stile
moderno e con tona vetrata scorrevole. Al suo arrivo
l'armadio era vuoto, ma poi si era riempito con i primi
vestiti nuovi che avesse mai posseduto.
I ricordi tornarono ad assalirlo, ricordi della cena che
aveva consumato la sera in cui Tohr e Wellsie lo avevano
accolto in casa loro. Cucina messicana. Wellsie aveva
preparato delle specialità messicane e aveva messo tutto
in tavola, grossi piatti da portata pieni di enchiladas e
quesadillas. All'epoca, prima della transizione, John era
delicatissimo di stomaco, e ricordava la mortificazione
che aveva provato quando era stato capace solo di
rigirare il cibo nel piatto.
A quel punto, però, Wellsie gli aveva piazzato davanti
una ciotola di riso in bianco condito con salsa allo
zenzero.
Quando lei si era seduta, John era scoppiato in lacrime;
raggomitolato su se stesso, piccolo e fragile com'era,
aveva pianto per quella gentilezza. Dopo una vita
passata a sentirsi diverso, ecco che all'improvviso aveva
trovato qualcuno che sapeva di cosa aveva bisogno e ci
teneva abbastanza da darglielo.
723
I genitori fanno questo, no? Ti conoscono meglio di te
stesso, e si prendono cura di te quando non sei in grado
di farlo da solo.
«Vuota e intatta», disse Zsadist tornando. «Prossima
casa?»
Qhuinn consultò la lista. «425, Easterly Court...»
Dal cellulare di Z si levò una musichetta sommessa. Il
fratello controllò il numero e si accigliò, poi avvicinò il
telefono all'orecchio. «Cosa c'è, Rehv?»
John spostò gli occhi sulla casa, poi però li riportò su Z
quando lo sentì dire. «Cosa? Mi prendi in giro? È saltato
fuori dove?» Lunga pausa. «Dici sul serio, cazzo? Sei
sicuro? Sicuro al cento per cento?» Z chiuse la telefonata
e rimase a fissare il cellulare. «Devo tornare a casa.
Subito. Merda.»
Cosa c'è? Chiese John a gesti.
«Ragazzi, ce la fate a controllare gli altri tre indirizzi
da soli?» John annuì; il fratello lo guardava in modo
strano. «Tieni il telefono a portata di mano, figliolo.
Capito?»
Quando John annuì, Zsadist scomparve.
«Okay, qualunque cosa sia, chiaramente non è affar
nostro», commentò Qhuinn piegando la lista e
infilandola nella tasca dei jeans. «Leviamo le tende?»
724
John lanciò un'ultima occhiata alla casa. Mi dispiace per
i tuoi genitori, disse a gesti un istante dopo.
La risposta di Qhuinn tardò a venire. «Grazie.»
Io sento la mancanza dei miei.
«Credevo che fossi orfano.»
Per un periodo non lo sono più stato.
Dopo un lungo silenzio, Qhuinn disse, «Dai, John,
andiamo via di qui. Dobbiamo controllare la casa di
Easterly.»
Dopo un minuto di riflessione, John disse, Ti spiace se
prima ci fermiamo in un posto? Non è lontano.
«Sicuro. Dove?»
Voglio andare a casa di Lash.
«Perché?»
Non so. Per vedere dov'è cominciato tutto questo,
immagino. E poi voglio dare un'occhiata alla sua stanza.
«Ma come facciamo a entrare?»
Se le tapparelle sono ancora regolate dal timer saranno
alzate, possiamo smaterializzarci e passare attraverso il vetro.
«Be'... che cavolo, se è lì che vuoi andare, va bene.»
725
Insieme si smaterializzarono e ripresero forma nel
giardino laterale della grande villa Tudor. Le tapparelle
erano alzate per la notte e in un baleno si ritrovarono in
salotto.
C'era un tanfo insopportabile; John aveva
l'impressione che qualcuno gli avesse infilato della lana
d'acciaio nelle narici per poi usarla a mo' di cotton fioc...
ficcandola su fino al lobo frontale.
Coprendosi la bocca e il naso si mise a tossire.
«Cazzo», esclamò Qhuinn, facendo altrettanto.
Tutti e due guardarono per terra. C'era sangue su tutto
il tappeto e sul divano; le macchie, ormai asciutte, erano
marroni.
Seguirono le tracce fino all'atrio.
«Oh, Gesù...»
John alzò la testa. Oltre l'elegante arco della sala da
pranzo c'era una scena che sembrava uscita da un film di
Rob Zombie. I cadaveri della madre e del padre di Lash
erano seduti a quelli che dovevano essere i loro posti
abituali, davanti a un tavolo magnificamente
apparecchiato. Avevano lo stesso colore dei marciapiedi,
un grigio pallido e opaco, e i loro bei vestiti erano come i
tappeti, coperti di macchie e striature marroni.
C'erano anche delle mosche.
«Dio, quei lesser sono proprio malati, senza scherzi.»
726
John deglutì la bile che gli era salita in gola e avanzò di
qualche passo.
«Merda, hai proprio bisogno di vederli da vicino,
amico?»
John osservò la stanza, sforzandosi di ignorare l'orrore
e di notare i particolari. Il piatto da portata su cui era
posato il pollo arrosto aveva delle macchie di sangue sui
bordi.
Era stato l'assassino a posarlo sul tavolo. Dopo aver
sistemato i corpi, molto probabilmente.
Saliamo in camera di Lash.
Salire al piano di sopra fu strano da matti perché erano
soli in casa... ma non proprio. In qualche modo, i morti
giù di sotto riempivano l'aria con qualcosa di simile a un
rumore. Di certo l'odore li seguì su per le scale.
«La sua stanza è al secondo piano», disse Qhuinn
quando giunsero al primo piano.
Entrati nella camera da letto di Lash rimasero quasi
delusi, tanta era la normalità rispetto allo shock della sala
da pranzo. Letto. Scrivania. Stereo. Computer. TV.
Comò.
John si avvicinò e vide il cassetto con le impronte
insanguinate.
727
Erano troppo sbavate per dire se avevano il disegno a
spirale tipico dei polpastrelli. Prese una camicia a caso e
la usò per aprire il cassetto, perché era quello che
facevano nelle serie televisive. All'interno, altri segni
insanguinati, anch'essi troppo sbavati.
Con un tuffo al cuore si chinò per guardare più da
vicino. Sull'angolo di una custodia per orologio di Jacob
& Co. c'era un'impronta particolarmente chiara.
Fischiò per attirare l'attenzione di Qhuinn. I lesser
lasciano le impronte digitali?
«Se entrano in contatto con qualcosa, di sicuro.»
No, voglio dire, lasciano delle impronte, impronte? Non solo
dei segni come i nostri, ma roba con delle linee, tipo?
«Sì, certo», confermò Qhuinn avvicinandosi. «Cosa stai
guardando?»
John indicò l'astuccio. Sull'angolo c'era la riproduzione
perfetta di un pollice... senza creste visibili. Come quello
di un vampiro.
Non pensi che,,,
«No. Impossibile. Non hanno mai trasformato un
vampiro.»
John tirò fuori il cellulare e scattò ima foto. Poi,
ripensandoci, prese la scatola e se la infilò nella giacca,
728
«Abbiamo finito?» chiese Qhuinn, «Fammi felice e dì
di sì.»
Voglio solo... John esitò. Dammi un altro minuto.
«Okay, ma allora io vado a controllare le stanze al
primo piano. Non... non ce la faccio a stare qui dentro
così.»
John annuì mentre l'amico usciva dalla stanza, e si
sentì in colpa. Gesù, forse era stato crudele anche solo
chiedergli di andare lì.
Già... perché era pazzesco. Stare lì in mezzo a tutta la
roba di Lash dava l'impressione che lui fosse ancora vivo.
Dall'altra parte della città, al volante della Focus, Lash
non era per niente contento. Quel catorcio faceva cagare,
sul serio, anche nel traffico cittadino non aveva ripresa.
Per andare da zero a cinquanta ci metteva tre giorni.
«Dobbiamo ammodernarci.»
Sul sedile del passeggero Mr D stava controllando la
pistola, le dita sottili volavano sull'arma, «Sì,,, uhm, a
questo proposito.»
«Cosa.»
«Penso che ci toccherà aspettare i soldi dei saccheggi.»
«E perché?»
729
«Ho trovato gli estratti conto della banca, sa, quelli
dell'ultimo Fore-lesser, Mr X. Erano nel suo capanno. E
non è rimasto granché.»
«Cosa intendi con "granché"?»
«Be', non c'è più niente, in sostanza. Non so dove sia
finito tutto il malloppo e non so chi sia stato a farlo
sparire, ma restano più o meno cinquemila dollari.»
«Cinque? Mi prendi per il culo?» Lash lasciò che l'auto
decelerasse. Come staccare la spina a un vegetale.
Erano al verde? Ma che cavolo? Lui era tipo il Principe
delle Tenebre e il suo esercito al netto valeva cinque
testoni?
Aveva i soldi della sua defunta famiglia, certo, ma per
quanti fossero non bastavano certo a finanziare una
guerra.
«Cazzo... allora me ne torno a casa mia. Mi sono rotto
di girare su questa carretta.» Sì, tutt'a un tratto aveva
superato del tutto lo shock per il massacro di mamma e
papà. Gli serviva al più presto una macchina nuova e nel
garage della villa Tudor era parcheggiata una Mercedes
da urlo che filava come un razzo. Ci sarebbe salito e
l'avrebbe guidata senza il minimo senso di colpa.
'Fanculo i vampiri e tutto il resto.
Svoltando a destra in direzione del suo quartiere,
tuttavia, fu assalito dalla nausea. Ma mica doveva entrare
in casa, quindi non avrebbe visto i cadaveri, sempre
ammesso che fossero ancora dove
730
li aveva lasciati...
Merda, doveva entrare per forza a prendere le chiavi.
Pazienza. Doveva crescere, cazzo.
Dieci minuti dopo parcheggiò accanto ai garage sul
retro della villa e scese. «Porta questa bagnarola alla
fattoria. Ci vediamo là.»
«Sicuro? Non sarà meglio che l'aspetti?»
Lash si guardò la mano, accigliato. L'anello che
l'Omega gli aveva dato la notte prima si stava scaldando
e cominciava a brillare.
«Mi sa che suo padre vuole vederla», disse Mr D,
scendendo dall'auto.
«Già.» Merda. «Com'è che funziona?»
«Deve trovare un posto tranquillo. Stia zitto e calmo e
lui verrà da lei oppure la porterà da lui.»
Lash lanciò un'occhiata alla villa; come posto poteva
andare. «Ci vediamo alla fattoria. E poi voglio che mi
porti a quel capanno dove ci sono tutti i registri.»
«Sissignore.» Mr D si sfiorò la tesa del cappello da
cowboy e scivolò dietro il volante.
Mentre la Focus ripercorreva ansimando il viale
d'accesso, Lash entrò dalla cucina. La casa puzzava
terribilmente, il nauseabondo fetore fruttato della morte e
731
della decomposizione sembrava quasi solido, tanto era
forte.
Era opera sua, pensò Lash. Era lui il responsabile di
quello che ammorbava quella splendida villa.
Tirò fuori il cellulare per richiamare indietro Mr D, ma
poi esitò, concentrandosi sull'anello. L'oro ormai
bruciava, incandescente; era sorpreso che non gli avesse
già staccato il dito.
Suo padre. Suo padre.
I morti lì in casa non erano i suoi genitori.
Aveva fatto la cosa giusta.
Varcò la porta a vento che immetteva in sala da
pranzo. Con l'anello che sfolgorava rimase a guardare le
persone che aveva creduto essere i suoi genitori. La verità
si nasconde tra le bugie, no? Per tutta la vita aveva
dovuto dissimulare la sua vera natura, camuffare il male
che aveva dentro. Ogni tanto qualche fugace sprazzo del
suo vero io era venuto fuori, certo, ma il fulcro che
costituiva il suo motore era rimasto nascosto.
Adesso era libero.
Fissando il maschio e la femmina assassinati che aveva
davanti, all'improvviso non provò niente. Era come
guardare dei manifesti macabri nell'atrio di qualche
cinema: la sua mente attribuiva loro il giusto peso.
Ovvero nessuno.
732
Toccò la catena che aveva al collo e si sentì stupido per
lo sciocco sentimentalismo che lo aveva indotto a
prenderla. Fu tentato di levarsela, ma poi ci ripensò...
L'animale al cui ricordo era associata era forte, crudele e
possente.
Perciò fu in quanto simbolo, e non per affetto verso il
suo cane, che la tenne al collo.
Dio, quanto puzzavano quei morti.
Lash si spostò nell'atrio. Il pavimento di marmo era un
posto buono come un altro per incontrare il suo vero
padre. Si mise a sedere sentendosi un idiota. Chiuse gli
occhi; non vedeva l'ora di levarsi il pensiero e recuperare
le chiavi della...
Un ronzio ruppe il silenzio della casa; il rumore non
veniva da nessun punto in particolare.
Lash aprì gli occhi di scatto. Suo padre stava venendo
lì? Oppure lo avrebbe portato da un'altra parte?
D'un tratto una corrente cominciò a mulinargli
intorno, distorcendo la sua visione delle cose. O forse
distorcendo ciò che lo circondava. Nel mezzo di quel
turbine, tuttavia, lui era saldissimo, pervaso da una
strana fiducia. Il padre non avrebbe mai fatto del male al
figlio. Chi fa del male è il male, ma il vincolo di sangue
tra lui e il suo genitore significava che lui era l'Omega.
E, se non altro per egoismo, l'Omega non avrebbe fatto
del male a se stesso.
733
Proprio mentre stava per essere portato via, quando il
vortice aveva quasi consumato la sua forma corporea,
Lash guardò in su.
Sulle scale di fronte a lui c'era John Matthew.
734
Capitolo 47
«Sorella», un sibilo dall'altro lato del portone del
tempio. «Sorella.»
Cormia alzò gli occhi dalla pergamena su cui stava
trascrivendo le scene che aveva visto, quelle in cui il
Primale salvava quei civili. «Layla?»
«Il Primale sta male. Chiede di te.»
Cormia lasciò cadere la penna d'oca e volò alla porta,
spalancandola. «Sta male?» ripeté scrutando il volto
pallido e sconvolto della sorella.
«È a letto, ha i sudori freddi e trema tutto. Non sta
affatto bene, in verità. Ho cercato di aiutarlo, ma non me
l'ha permesso, l'ho trascinato via dal vestibolo quando ha
perso conoscenza.»
Cormia tirò su il cappuccio della veste. «Le altre
sono...?»
«Le nostre sorelle sono a pranzo. Sono tutte a tavola.
Non ti vedrà nessuno.»
Cormia si precipitò fuori dal tempio, ma rimase
accecata dalla luce splendente del Santuario. Prese per
mano Layla finché gli occhi non si abituarono e insieme
corsero al tempio del Primale.
735
Cormia sgattaiolò dentro attraverso il portone dorato e
scostò la pesante tenda.
Il Primale era steso sul letto con addosso solo i
pantaloni di seta dell'abito che portava abitualmente al
Santuario. La pelle, coperta da un velo di sudore, aveva
un colorito malsano. Scosso dai tremiti, il suo fisico
massiccio appariva terribilmente fragile.
«Cormia?» disse, tendendo una mano tremante.
Lei si avvicinò, abbassando il cappuccio. «Sono qui.»
Lui si tese tutto nel sentire la sua voce, ma quando
Cormia gli toccò la punta delle dita si calmò.
Buon Dio, era bollente.
«Cosa c'è?» gli chiese, sedendosi accanto a lui.
«Cr-cr-cr-credo ch-che sia la d-disintossicazione.»
«La disintossicazione?»
«N-n-niente...
drooooghee...»
d-droghe...
b-b-bbbasta...
d-d-d-
Cormia a stento riusciva a capire cosa stava dicendo,
ma intuì che l'ultima cosa che doveva fare era offrirsi di
andare a prendergli una di quelle sigarette che fumava
sempre.
«C'è niente che possa fare per alleviare le vostre
sofferenze?» Nel vedere che si leccava le labbra secche
disse, «Desiderate un po' d'acqua?»
736
«La prendo io», si offrì Layla, avviandosi in bagno.
«Grazie, sorella», disse Cormia da sopra la spalla.
«Porta anche qualche pezzuola.» «Sì.»
Mentre Layla spariva dietro una tenda in fondo al
tempio, Phury chiuse gli occhi e cominciò ad agitare la
testa sul cuscino e a parlare in modo più comprensibile.
«Il giardino... il giardino è pieno di erbacce... oh, Dio,
l'edera... è dappertutto... ha coperto tutte le statue.»
Quando Layla tornò con una brocca, una ciotola e
delle pezzuole bianche, Cormia disse, «Grazie. Ora
lasciaci, per favore, sorella.»
Aveva la sensazione che le cose stessero per
precipitare e che Phury preferisse non essere visto in
quello stato confusionale.
«Cosa devo dire alle Elette quando mi presenterò a
tavola?» chiese Layla con un inchino.
«Dì che il Primale sta riposando dopo essersi
accoppiato con te, e che ha chiesto di poter restare un po'
da solo. Mi prenderò cura io di lui.»
«Quando devo tornare?»
«Il ciclo del sonno comincia presto?»
«Dopo le preghiere di Thideh.»
737
«Giusto. Torna quando saranno tutte sistemate. Se la
cosa non si risolve... dovrò andare sulla Terra a chiamare
la dottoressa Jane, e tu dovrai stare con lui.»
«A chiamare chi?»
«Una guaritrice. Vai. Presto. Decanta le virtù del suo
corpo e della tua posizione. E fallo con veemenza.»
Cormia accarezzò all'indietro i capelli di Phury. «Più
enfatica sarai, meglio sarà per lui.»
«Come desideri. Tornerò.»
Cormia attese che la sorella uscisse, poi tentò di far
bere ancora Phury. Ma lui era troppo frastornato per
riuscirci, incapace di concentrarsi su ciò che lei gli
avvicinava alle labbra. Cormia si arrese, inumidì una
pezzuola e gliela premette sul viso.
Phury spalancò gli occhi febbricitanti e non li staccò
più da lei, intenta a tamponargli la fronte. «Il giardino... è
pieno di erbacce», disse con insistenza. «Pieno di
erbacce.»
«Shhh...» Cormia immerse di nuovo la pezzuola nella
ciotola, rinfrescandola per lui. «Va tutto bene.»
«No», gemette lui, sospirando disperato, «L'edera le ha
coperte tutte. Le statue... sono sparite, andate... io sono
andato.»
Il terrore in quello sguardo giallo le raggelò il sangue.
Aveva le allucinazioni, era chiaramente fuori di sé, ma
ciò che vedeva, qualunque cosa fosse, per lui era molto
738
reale... sempre più agitato, si girava e rigirava tra le
lenzuola immacolate.
«L'edera... oh, Dio, l'edera sta venendo a prendermi...
ce l'ho dappertutto, sulla pelle...»
«Shh...» Forse da sola non ce l'avrebbe fatta a gestire la
situazione. Forse... Ma se il problema era la sua mente,
allora... «Phury, ascoltami. Se l'edera sta coprendo tutto
la toglieremo.»
Lui parve placarsi e ritrovare un minimo di lucidità.
«Sul... serio?»
Cormia pensò ai giardinieri che aveva visto dall'altra
parte, sulla Terra. «Sì. La tireremo via.»
«No... non possiamo. L'edera vincerà... vinc...»
Cormia si chinò, vicinissima a lui. «E chi lo dice?» Il
tono energico della sua voce parve catturare la sua
attenzione, «Adesso dimmi, da dove dovremmo
cominciare a tagliare?»
Lui cominciò a scuotere la testa e Cormia lo afferrò per
la mascella. «Da dove cominciamo?»
Lui batté le palpebre a quella richiesta perentoria.
«Ehm... quelle messe peggio sono le statue delle quattro
fasi della vita...»
«Va bene. Allora partiremo da lì.» Cormia tentò di
figurarsi le quattro fasi della vita... infanzia, giovinezza,
739
maturità e vecchiaia. «Cominceremo dal neonato. Che
attrezzi dobbiamo usare?»
Il Primale chiuse gli occhi. «Le cesoie. Useremo le
cesoie.»
«E cosa dobbiamo fare con le cesoie?»
«L'edera... l'edera è cresciuta e sta coprendo tutte le
statue. Non ... si vedono più le facce. Soffoca... le statue.
Non sono libere... non riescono a vedere...» Il Primale
scoppiò a piangere. «Oh, Dio. Non ci vedo più. Non sono
mai stato capace di vedere... oltre le erbacce di quel
giardino.»
«Resta con me. Ascoltami... noi due cambieremo le
cose. Noi due insieme cambieremo le cose.» Cormia gli
prese la mano e la premette contro le labbra. «Abbiamo le
cesoie. Insieme taglieremo via tutta l'edera. E
cominceremo dalla statua del piccolo.» Phury fece un bel
respiro, come se lo attendesse un gran lavoro, e Cormia si
sentì incoraggiata nei suoi sforzi. «Io strapperò via l'edera
dalla faccia del piccolo e tu la taglierai. Mi vedi?» «Sì...»
«Ti vedi?» «Sì.»
«Bene. Adesso voglio che tagli il tralcio d'edera che sto
tenendo in mano. Fallo. Presto.»
«Sì... ecco... sì, lo sto tagliando.»
«Ora metti per terra ai nostri piedi quello che hai
tagliato», proseguì Cormia scostandogli i capelli dal viso.
«E adesso ricomincia a tagliare... ancora...» «Sì.»
740
«Ancora.» «Sì.»
«Adesso... cominci a vedere la faccia della statua?»
«Sì... sì, vedo la faccia del piccolo...» disse Phury,
mentre una lacrima gli rigava la guancia. «La vedo...
vedo... me stesso in lui.»
Intanto sulla Terra, in casa di Lash, John si fermò sulle
scale pensando che forse il fattore fifa, nella grande villa
Tudor, gli aveva mandato in tilt il cervello.
Perché quello laggiù in fondo, seduto a gambe
incrociate sul pavimento dell'atrio, avvolto da un turbine
che gli mulinava intorno vorticosamente distorcendo
tutto quanto, non poteva assolutamente essere Lash.
Mentre il suo cervello tentava di districare la realtà da
ciò che non poteva in alcun modo essere reale, John notò
che il profumo dolciastro di borotalco permeava l'aria,
quasi tingendola di rosa. Dio, invece di eclissare il
nauseabondo bouquet della morte, non faceva che
accentuare lo spaventoso tanfo di putrefazione. Ecco
perché quell'odore gli aveva sempre dato la nausea:
perché era identico a quello della morte.
In quel momento, Lash guardò in su. Sembrava
scioccato quanto lui, pensò John, ma poi a poco a poco
sorrise.
Dal vortice che lo avvolgeva la sua voce risalì le scale,
come provenisse da una distanza molto più grande di
quella che li separava.
741
«Be', ciao, Johnny bello.» La risata, familiare e bizzarra
al tempo stesso, riecheggiava in modo strano.
John strinse la pistola con entrambe le mani
puntandola contro quello che c'era laggiù, qualunque
cosa fosse.
«Ci vedremo presto», disse Lash diventando
bidimensionale, una sorta di immagine di se stesso.
«Porterò i tuoi omaggi a mio padre.»
La sua forma andava e veniva, poi sparì del tutto,
inghiottita da quel turbine deformante.
John abbassò l'arma, poi la infilò nella fondina. Che
poi è quello che si fa quando non c'è niente a cui sparare.
«John?» Gli anfibi di Qhuinn risuonarono pesanti alle
sue spalle.
«Cosa diavolo stai facendo?»
Non lo so... credevo di aver visto... «Chi?»
Lash. L'ho visto proprio lì davanti... Io... be', credevo di
averlo visto.
«Resta qui.» Qhuinn estrasse la pistola e scese le scale
passando al setaccio il pianterreno.
Lentamente, John scese nell'atrio. Aveva visto Lash.
Vero?
742
«Tutto a posto», disse Qhuinn di ritorno dalla
perlustrazione. «Senti, torniamocene a casa. Mi sa che
non stai bene. Hai mangiato, stanotte? E, già che ci siamo,
quand'è l'ultima volta che hai dormito?»
Io... non saprei.
«Okay. Andiamo via.»
Avrei giurato...
«Subito.»
Mentre si smaterializzavano per riprendere forma nel
cortile della casa della confraternita, John pensò che forse
il suo amico aveva ragione. Forse avrebbe dovuto
mangiare qualcosa e...
Non fecero in tempo a entrare. Appena arrivati, videro
uscire i fratelli in fila indiana dal maestoso portone a due
battenti. Tra tutti avevano abbastanza armi da
qualificarsi come una vera e propria milizia.
Wrath li bloccò con un'occhiata dura da dietro gli
occhiali avvolgenti. «Voi due. Nella Escalade con Rhage e
Blay. A meno che non vi servano altre munizioni.»
Quando i due ragazzi scossero la testa, il re si
smaterializzò insieme a Vishous, Butch e Zsadist.
Saliti a bordo del SUV, con Blay seduto davanti, John
chiese, Cosa sta succedendo?
743
Rhage pigiò il piede sull'acceleratore. Mentre
l'Escalade schizzava fuori dal cortile con un ruggito, il
fratello rispose, asciutto, «Visita da parte di un vecchio
amico-nemico. Del tipo che speri sempre di non rivedere
mai più.»
Be', era un pò il leitmotiv della serata, no?
744
Capitolo 48
Il sogno... l'allucinazione... quello che era, insomma,
sembrava vero. Assolutamente e completamente vero.
Ritto nel giardino soffocato dalla vegetazione della sua
residenza di famiglia nel Vecchio Continente, sotto ima
fulgida luna piena, Phury protese la mano verso il volto
della statua raffigurante la terza fase della vita, la
maturità, e strappò via i tralci d'edera dagli occhi, dal
naso e dalla bocca del vampiro che con tanta fierezza
stringeva tra le braccia il figlioletto.
Ormai Phury era espertissimo nel taglio; dopo essersi
esibito nella magia delle cesoie, gettò un altro groviglio
verde nel telone impermeabile allargato ai suoi piedi.
«Eccolo», mormorò. «Eccolo... qui...»
La statua aveva i capelli lunghi, proprio come lui, e gli
occhi infossati, proprio come lui, ma la radiosa felicità sul
suo viso non gli apparteneva. Come neanche il piccolo
stretto tra le sue braccia. Tuttavia andava liberata, quindi
continuò a strappare via, uno strato dopo l'altro, tutta
l'edera cresciuta senza controllo.
Quand'ebbe terminato, il marmo sottostante era striato
dalle lacrime verdi lasciate dalle erbacce defunte, ma la
maestosità della figura era innegabile.
745
Un vampiro nel fiore degli anni con il figlioletto tra le
braccia.
Phury si voltò. «Cosa ne pensi?» chiese da sopra la
spalla.
«Penso che è bellissimo.» La voce di Cormia era tutto
intorno a lui, in stereo, anche se lei era al suo fianco.
Phury le sorrise, sul suo viso vedeva riflesso tutto
l'amore che nutriva per lei. «Ancora una.»
«Ma, guarda, l'ultima è già fatta», disse lei con un
ampio gesto della mano.
Era vero, anche l'ultima statua era a posto; le erbacce
sparite, insieme a tutte le macchie dovute alla
trascuratezza. Il vampiro adesso era vecchio e se ne stava
seduto con un bastone tra le mani. Il suo volto era ancora
bello, anche se in virtù della saggezza e non più per il
fulgore della gioventù.
Il ciclo era completo.
E le erbacce non c'erano più.
Phury guardò di nuovo la scultura raffigurante la
terza fase della vita. Anch'essa era pulita, come per
magia, così come le statue del giovane e del neonato.
L'intero giardino era stato sistemato e adesso riposava,
nel pieno della fioritura, sotto il dolce tepore del cielo
notturno. Gli alberi da frutto accanto alle statue erano
carichi di pere e di mele e i vialetti erano bordati da
746
ordinate siepi di bosso. Nelle aiuole i fiori crescevano in
un incantevole disordine, come accade nei bei giardini
all'inglese.
Phury si volse verso la casa. Le imposte che prima
penzolavano sbilenche dai cardini erano state raddrizzate
e i buchi nelle tegole del tetto non c'erano più. L'intonaco
era liscio e compatto, le crepe sparite e tutti i vetri intatti.
Il terrazzo era stato liberato dalle foglie morte e i piccoli
cedimenti della pavimentazione, dove un tempo si
raccoglieva la pioggia, erano stati livellati. Rigogliose
composizioni in vaso di gerani e petunie spiccavano,
bianche e rosse, tra sedie e tavolini di vimini.
Dietro la finestra dal soggiorno vide qualcosa che si
muoveva... possibile? Sì.
Sua madre. Suo padre.
La coppia si offrì alla vista e tutti e due erano come le
statue: risorti. Sua madre con gli occhi gialli, i capelli
biondi e il volto perfetto... Suo padre con i capelli neri, lo
sguardo limpido e il sorriso gentile.
Erano... incredibilmente belli ai suoi occhi, erano il suo
sacro graal.
«Vai da loro», lo incoraggiò Cormia.
Phury salì sul terrazzo, l'abito bianco ancora
immacolato malgrado tutto il lavoro fatto. Lentamente si
avvicinò ai suoi genitori, timoroso di far svanire la
visione.
747
«Mahmen?» mormorò.
Sua madre appoggiò la punta delle dita sul vetro.
Phury rispecchiò quel gesto dal suo lato della finestra,
nel punto esatto in cui lei aveva posato la mano. Appena
toccò il vetro, sentì il calore di sua madre irradiarsi
attraverso la finestra.
Suo padre sorrise e disse qualcosa.
«Cosa?» fece Phury.
Siamo così fieri di te... figliolo.
Phury strinse gli occhi con forza. Nessuno dei due lo
aveva mai chiamato così, era la prima volta.
Ora puoi andare, proseguì suo padre. Adesso qui stiamo
bene. Hai sistemato... tutto.
Phury li guardò. «Siete sicuri?»
Entrambi annuirono. Poi, attraverso il vetro pulito,
giunse la voce di sua madre.
Ora vai e vivi, figliolo. Vai... vivi la tua vita, non la nostra.
Noi qui stiamo bene.
Col fiato sospeso, Phury rimase lì fermo a guardarli,
assaporando quel momento, godendosi il loro aspetto.
Poi, con la mano sul cuore, si piegò in un inchino.
748
Era un saluto. Non un addio, ma uno "statemi bene".
Ed ebbe la sensazione che lo sarebbero stati per davvero.
Phury aprì gli occhi di scatto. Sopra di lui incombeva
una fitta coltre di nubi... no, un momento, era un
altissimo soffitto di marmo bianco.
Voltò la testa. Seduta accanto a lui c'era Cormia che gli
teneva la mano, sul volto un calore simile al sentimento
che gli scaldava il petto. «Vuoi qualcosa da bere?» chiese
lei.
«C... come?»
Cormia prese un bicchiere dal tavolo. «Vuoi bere?»
«Sì, grazie.»
«Alza la testa.»
Phury bevve una sorsata di assaggio e trovò l'acqua
poco invitante. Non sapeva di niente ed era alla stessa
temperatura della sua bocca, ma quando la mandò giù
provò una sensazione piacevole, e senza neanche
accorgersene svuotò il bicchiere.
«Ne vuoi ancora?»
«Sì, grazie.» Evidentemente quello era tutto il suo
vocabolario.
Cormia prese una caraffa e riempì di nuovo il
bicchiere; quel gorgoglio era un bel suono, pensò Phury.
749
«Ecco», mormorò lei. Questa volta gli tenne alzata la
testa e, bevendo, Phury la guardò nei begli occhi verdi.
Quando Concia fece per allontanare il bicchiere dalle
sue labbra, Phury le afferrò il polso con delicatezza.
«Vorrei svegliarmi sempre così», disse nell'Antico Idioma,
«perso nel tuo sguardo e nel tuo profumo.»
Si aspettava che lei si ritraesse, turbata, tagliandolo
fuori. Invece mormorò, «Abbiamo ripulito il tuo
giardino.» «Sì...»
Qualcuno bussò al portone del tempio.
«Aspetta, prima di
guardandosi intorno.
rispondere»,
disse
Cormia,
Posò il bicchiere e attraversò la stanza. Dopo che si fu
nascosta dietro una tenda di velluto bianco, Phury si
schiarì la gola. «Sì?»
«Posso entrare, vostra grazia?» La voce della Direttrice
era cortese e rispettosa.
Lui si tirò addosso un lenzuolo, anche se aveva i
pantaloni, poi controllò bene che Cormia non fosse
visibile. «Sì.»
La Direttrice scostò la tenda del vestibolo e si piegò in
un profondo inchino. Reggeva un vassoio coperto. «Vi ho
portato un dono da parte delle Elette.»
750
Quando la Direttrice si raddrizzò, la radiosità del suo
volto gli fece capire che Layla aveva mentito, e mentito
con grande abilità.
Non fidandosi a sedersi, rimase sdraiato e la invitò ad
avvicinarsi con un cenno della mano.
La Direttrice avanzò verso il letto e si inginocchiò
davanti a lui. «Da parte delle vostre spose», disse,
alzando il coperchio d'oro.
Sul vassoio, ripiegato con la precisione di una pianta
stradale, c'era un foulard ricamato. Di raso e incrostato di
pietre preziose, era un'opera d'arte spettacolare.
«Per il nostro maschio», disse la Direttrice, chinando il
capo.
«Grazie.» Merda.
Phury prese il foulard e lo aprì. Citrini e diamanti
tracciavano nell'Antico Idioma la scritta Forza della Razza.
Le gemme scintillanti erano come le femmine lì al
Santuario, pensò Phury, strette nella loro montatura di
platino.
«Ci avete reso molto felici», disse Amalya con un
tremito nella voce. Si raddrizzò per poi inchinarsi di
nuovo. «C'è niente che possiamo fare per ripagarvi della
nostra gioia?»
«No, grazie. Voglio solo riposare.»
751
Dopo un altro inchino, Amalya si dileguò leggera
come una dolce brezza, in un silenzio tragicamente carico
di aspettativa.
A quel punto Phury si mise a sedere, ma dovette
aiutarsi con le braccia. In posizione verticale la sua testa,
leggera e vuota, ballonzolava sulla spina dorsale come un
palloncino. «Cormia?»
Lei uscì da dietro la tenda. Posò gli occhi sul foulard,
poi su di lui. «Vuoi che chiami la dottoressa Jane?»
«No, non sono malato. Era il delirium tremens.»
«Così hai detto. Non ho ben chiaro cosa sia, però.»
«Crisi di astinenza», spiegò lui, grattandosi le braccia.
Non era ancora finita, pensò. Aveva un prurito diffuso e i
polmoni gli bruciavano come in debito d'aria, anche se
così non era.
Ciò che reclamavano, lo sapeva, era il fumo rosso.
«C'è un bagno dietro la tenda?» chiese. «Sì.»
«Mi aspetti, per favore? Non ci metterò molto. Mi do
solo una lavata.»
Lei farà in tempo a morire prima che tu possa tornare pulito,
disse il mago.
Phury chiuse gli occhi, improvvisamente privo di
forze.
752
«Cosa c'è?»
Dille che è tornato il tuo vecchio socio.
Dille che il tuo vecchio socio non se ne andrà mai.
E poi torniamocene nel mondo reale a prendere quello che ti
farà passare quel senso di oppressione ai polmoni e quel prurito
su tutta la pelle.
«Cosa c'è?» ripeté Cormia.
Phury fece un gran sospiro. Al momento non sapeva
molto, giusto il suo nome e non certo quello del
Presidente degli Stati Uniti. Ma di una cosa era sicuro: se
ricominciava ad ascoltare il mago sarebbe morto.
«Niente», disse concentrandosi sulla femmina che
aveva davanti.
Nella terra desolata del mago quella risposta non
venne presa bene; le sue vesti vennero sollevate da un
vento impetuoso, che spazzò il campo disseminato di
ossa.
Le hai mentito! Io sono tutto! Sono tutto! La voce del
mago era sempre più stridula. Io sono...
«Niente», disse debolmente Phury, sollevandosi a
fatica. «Tu non sei niente.»
«Come?»
753
Phury scosse la testa; con l'aiuto di Cormia riuscì a non
perdere l'equilibrio. Insieme andarono in bagno. Era
identico a qualunque altro, salvo che sul water non c'era
nessun logo; be', oltre a questo, in fondo alla stanza
scorreva un ruscello... che presumibilmente fungeva da
vasca da bagno.
«Ti aspetto qui fuori», disse Cormia, lasciandolo solo.
Dopo aver usato il gabinetto, Phury entrò nel ruscello
con l'aiuto di qualche gradino di marmo. L'acqua, come
quella nel bicchiere, aveva la sua stessa temperatura
corporea. Su un piattino nell'angolo c'era quella che
aveva tutta l'aria di essere una saponetta. Phury la prese.
Era morbida, a forma di mezzaluna; la strinse tra i palmi
e immerse le mani nell'acqua. La schiuma che si formò
era densa e profumata di sempreverde. Si insaponò i
capelli, il viso e il corpo, inspirando a fondo,
riempiendosi i polmoni di quella fragranza... nella
speranza di purificarli dai secoli di automedicazione a
base di fumo.
Quand'ebbe terminato, lasciò scorrere l'acqua sulla
pelle tormentata dal prurito e sui muscoli doloranti. A
occhi chiusi tagliò fuori il mago meglio che potè, ma era
difficile perché quello stava facendo una scenata di
proporzioni gigantesche. Nella sua vecchia vita Phury
avrebbe messo su un'opera lirica, ma adesso non
poteva... e non solo perché lì non esistevano impianti
stereo Bose. Quel particolare tipo di musica gli ricordava
troppo il suo gemello... che non cantava più.
754
Il rumore del ruscello, tuttavia, era incantevole, il
dolce sciabordio musicale si levava dai ciottoli levigati
come saltando dall'uno all'altro.
Non volendo far attendere Cormia, Phury piantò i
piedi sul fondo del ruscello e sollevò il busto fuori dalla
corrente. L'acqua scivolò giù, lungo il petto e l'addome,
come due mani rassicuranti; alzando le braccia la sentì
gocciolare dalle dita e dai gomiti.
Scendeva giù... cadeva giù... colava giù.
La voce del mago tentò sovrastare il rumore
dell'acqua. Phury la sentiva nella sua testa, lottava per
farsi sentire, per far presa sul suo orecchio interno.
Ma lo scroscio dell'acqua era più forte.
Phury inspirò a fondo il profumo di sempreverde, con
un senso di libertà che non c'entrava niente col luogo in
cui si trovava fisicamente: non contava dove si trovava
col corpo, ma dov'era con la testa.
Per la prima volta il mago non era più forte di lui.
Cormia camminava su e giù nel tempio del Primale.
Non era malato. Era in crisi di astinenza.
Non era malato.
Si fermò ai piedi del letto.
Ricordò quando, legata lì sopra, aveva sentito entrare
qualcuno, un maschio, ed era stata sopraffatta dal terrore.
755
Impossibilitata a vedere, impossibilitata a muoversi e col
divieto di dire di no, era rimasta stesa lì, alla mercé della
tradizione.
Ogni vergine, dopo la transizione, veniva offerta al
Primale in quel modo.
Altre dovevano aver provato la sua stessa paura. E
altre l'avrebbero provata, in futuro.
Dio... com'era sporco quel posto, pensò, guardando le
pareti bianche che la circondavano. Sporco delle
menzogne dette e lasciate a sedimentare nei cuori delle
Elette che respiravano quell'aria immota.
Tra le Elette circolava un antico adagio, il genere di
massima che nessuno avrebbe saputo dire quando era
stata la prima volta in cui l'aveva sentita. Giusta è la causa
della nostra fede, sereno sia il nostro animo nell'adempimento
del dovere, nulla potrà recar danno a noi credenti, poiché la
purezza è la nostra forza e la nostra virtù, il genitore che guida
nostro figlio.
Un ruggito selvaggio uscì dal bagno.
Phury stava urlando.
Cormia si voltò di scatto, precipitandosi nell'altra
stanza.
Lo trovò nudo nel ruscello, a pugni chiusi, il busto
proteso verso l'alto, la spina dorsale tesa allo spasimo.
Ma non stava gridando. Stava ridendo.
756
Voltò la testa, e quando la vide abbassò le braccia
senza smettere di ridere. «Scusa...» Quando un'altra
ventata di gioia selvaggia premette per erompere dal
petto, tentò di trattenersi, ma non ci riuscì. «Penserai che
sono impazzito.»
«No...» Pensava che fosse bellissimo, la pelle dorata
lucida d'acqua, i capelli che ricadevano in folti riccioli
sulla schiena, «Cosa c'è di tanto divertente?»
«Mi passi un asciugamano?»
Cormia gli allungò un telo da bagno e non distolse lo
sguardo mentre emergeva dal ruscello.
«Non hai mai sentito parlare del Mago di Ozi» chiese
lui,
«È una storia?»
«Credo di no.» Phury si legò la salvietta in vita. «Forse
un giorno ti mostrerò il film. Ma era per questo che
ridevo. Non avevo capito niente. Non era uno spirito
onnipotente quello che sentivo nella testa. Era il Mago di
Oz, nient'altro che un fragile vecchietto. Solo che io lo
credevo terrificante e più forte di me.»
«Un mago?»
Phury si picchiettò l'indice sulla tempia. «Una voce
nella mia testa. Perfida. Fumavo per scacciarla. Credevo
che fosse vino spirito potente e invincibile. Ma non era
così. Non è così.»
757
Era impossibile non condividere tanta felicità; Cormia
gli sorrise, pervasa da un repentino calore che le riempì
anima e cuore.
«Sì, era solo una voce alta e stentorea, ma niente di
speciale.» Phury cominciò a grattarsi il braccio come se
avesse un eritema... ma non c'era niente a rovinare la
vellutata perfezione della sua pelle. «Alta... stentorea...»
Phury la fissava e il suo sguardo improvvisamente
cambiò. Cormia capì subito il perché. Nei suoi occhi
ardeva il fuoco dell'eccitazione, mentre il suo sesso si
ingrossava tra le cosce.
«Scusa», disse lui, afferrando un altro asciugamano e
coprendosi l'inguine.
«Hai fatto l'amore con lei?» chiese d'impulso Cormia.
«Con Layla? No. Ero ancora nel vestibolo quando ho
capito che non potevo andare fino in fondo.» Scosse la
testa. «Non accadrà mai. Non posso stare con
nessun'altra che te. La domanda è cosa fare adesso... e,
comunque vada, penso di conoscere la risposta. Credo
che tutto questo», così dicendo fece un ampio gesto col
braccio, quasi a comprendere tutto ciò che c'era dentro e
intorno al Santuario, «non possa più andare avanti.
Questo sistema, questo modo di vivere, non funziona.
Hai ragione tu, e non solo per quanto riguarda noi, ma
tutti quanti. Non funziona per nessuno.»
Mentre assimilava quelle parole, Cormia pensò al
luogo in cui era nata. Pensò ai bianchi prati ondulati, agli
edifici candidi, alle vesti immacolate.
758
Phury scosse la testa. «Un tempo c'erano duecento
Elette, giusto? A quell'epoca i fratelli erano trenta o
quaranta, giusto?» Quando Cormia annuì, lui abbassò lo
sguardo sull'acqua turbinosa del ruscello. «E adesso
quanti ne rimangono? Sai, non è solo la Lessening Society
a ucciderci, sono queste maledette regole sotto cui
viviamo. Voglio dire, dai, le Elette qui non sono protette,
sono prigioniere. E vengono maltrattate. Che tu fossi o
meno attratta da me non aveva la minima importanza,
saresti stata comunque costretta a fare sesso con me, e
questa è ima crudeltà. Tu e le tue sorelle siete
intrappolate qui dentro, al servizio di una tradizione
obsoleta in cui non so quante di voi credano veramente.
Nella vita da Eletta... non c'è libertà di scelta. Nessuna di
voi ha la benché minima possibilità di scegliere.
Prendiamo il tuo caso, per esempio... tu non vuoi stare
qui. Sei tornata perché non avevi alternative, giusto?»
Tre parole le uscirono di bocca, tre parole impossibili
che cambiavano tutto. «Sì che ne avevo.»
Cormia sollevò la tunica e poi la lasciò ricadere,
pensando al rotolo di pergamena sul pavimento del
Tempio delle Scrivane Segregate, quello , con sopra gli
schizzi degli edifici, quello che non poteva portare da
nessuna parte.
Ora fu lei a scuotere la testa. «Non ho mai saputo
quanto poco conoscevo me stessa finché non sono andata
sulla Terra. E devo credere che lo stesso valga per le mie
sorelle. Devono essere... è impossibile che io sia l'unica ad
avere dei talenti nascosti o degli interessi segreti», disse
Cormia camminando su e giù per il bagno. «E credo che
759
tutte noi ci sentiamo delle fallite... se non altro perché le
pressioni sono così forti che tutto viene elevato a un
livello di importanza suprema e totale. Basta il minimo
errore - una parola scritta in modo scorretto, una nota
stonata in un canto o un punto malriuscito in una pezza
di stoffa - e senti di aver deluso l'intera razza.»
Tutt'a un tratto non riusciva più a fermare quel fiume
di parole. «Hai perfettamente ragione. Così non funziona.
Il nostro scopo è servire la Vergine Scriba, ma deve pur
esserci un modo per farlo senza smettere di onorare noi
stesse.» Cormia guardò Phury. «Se siamo le sue Elette, le
sue figliole predilette, non vuol forse dire che lei desidera
il meglio per tutte noi? Non è quello che i genitori
vogliono per i loro figli? Ma questo come può essere...»,
così dicendo fece scorrere le sguardo sull'onnipresente,
soffocante candore del bagno, «... come può essere il
meglio? Per la maggior parte di noi assomiglia più a un
freezer che a una vita. Siamo come in coma, anche se ci
muoviamo. Come... fa a essere il meglio, per noi?»
«Non lo è. Non lo è affatto», disse Phury scuro in
volto.
Appallottolò il lungo telo da bagno e lo gettò sul
pavimento di marmo, poi afferrò il medaglione del
Primale e se lo strappò via dal collo.
Voleva ritirarsi, pensò Cormia, a un tempo euforica e
delusa per il futuro. Voleva ritirarsi...
Phury alzò il pesante pendaglio d'oro, lasciandolo
penzolare dal cordoncino di cuoio, e Cormia rimase
senza fiato. L'espressione sul suo volto evocava forza e
760
determinazione, non irresponsabilità, la luce nei suoi
occhi parlava di possesso e attitudine al comando, non di
codardia e fuga dai propri doveri. Ritto di fronte a lei,
incarnava l'intero paesaggio del Santuario, tutti gli edifici
e i terreni, l'aria e l'acqua: non apparteneva a quel
mondo, ma lo incarnava.
Dopo un'intera vita trascorsa a guardare la storia
dispiegarsi in una boccia d'acqua, Cormia si rese conto,
mentre osservava il medaglione tenuto sollevato, che per
la prima volta vedeva la storia nel suo farsi davanti ai
suoi occhi, in tempo reale.
Niente sarebbe più stato come prima.
Con quell'emblema dell'eminenza della sua posizione
che dondolava avanti e indietro sotto il suo pugno, Phury
proclamò con voce dura e profonda, «Io sono la forza
della razza. Sono il Primale. E dunque regnerò!»
761
Capitolo 49
Nei sobborghi di Caldwell, nella mite notte estiva, la
confraternita, riunita sotto un'incantevole luna piena, si
chiedeva cosa diavolo stesse succedendo. La Escalade si
fermò vicino al gruppo compatto dei vampiri guerrieri.
John, stupito di trovarsi lì tra loro, si slacciò la cintura di
sicurezza e scese, mentre Rhage spegneva il SUV. Blay e
Qhuinn lo affiancarono e tutti e tre insieme avanzarono
verso i fratelli.
Il campo davanti a loro si stendeva tra un collare di
pini, l'erba era punteggiata da ciuffetti di verghe d'oro e
da qualche sporadica, vaporosa asclepiade.
Vishous accese ima delle sue sigarette rollate a mano,
spandendo all'intorno l'aroma del tabacco turco. «Lo
stronzo è in ritardo.»
«Calma, V», lo ammonì sottovoce Wrath. «Ti mando
via se non stai buono.»
«Stronzo. Non tu, lui.»
«Butch, metti il guinzaglio al tuo amico, ti spiace?
Prima che gli metta la museruola io con un bel pino.»
Il bagliore giunse da oriente; piccolo all'inizio, come la
scintilla di un accendino, poi sempre più grande, fino a
diventare come il sole. La luce si raccolse a poco a poco,
nel bosco, filtrata dai tronchi e dai rami. John pensò ai
762
film sugli esperimenti nucleari che aveva visto a scuola,
quelli in cui gli alberi e tutto il resto finivano rasi al suolo
dopo la grande esplosione luminosa.
«Vi prego, ditemi che quella roba non è radioattiva»,
disse Qhuinn.
«Naa», fece Rhage. «Però domani mattina saremo tutti
abbronzati.»
Butch si schermò gli occhi con un braccio. «E io che
non ho portato il mio Coppertone.»
Però nessuno estrasse le armi, notò John. Anche se
erano tutti tesi come corde di violino.
All'improvviso dal folto degli alberi uscì un uomo... un
uomo sfolgorante, la fonte di tutta quella luce. Aveva
qualcosa poggiato sulle braccia, un telone o un tappeto
o...
«Figlio di puttana», mormorò Wrath quando la figura
si fermò a una ventina di metri di distanza.
L'uomo sfolgorante rise. «Be', guarda chi si rivede, il
buon re Wrath e la sua banda di buontemponi. Voialtri
dovreste fare degli spettacolini per bambini, tanto
mettete allegria, giuro.»
«Fantastico», bofonchiò
dell'umorismo è intatto.»
Rhage,
«il
suo
senso
Vishous soffiò fuori una boccata di fumo. «Potrei
provare a farglielo passare io a furia di legnate.»
763
«Usando il suo braccio, magari...»
Wrath fulminò i due fratelli con un'occhiataccia e loro
lo ricambiarono con degli sguardi della serie "chi, noi?"
Il re scrollò la testa e, rivolto alla figura luminosa,
disse, «È un secolo che non ci vediamo. Grazie a Dio.
Come cazzo stai?»
Prima che l'uomo avesse il tempo di rispondere, V
imprecò. «Se devo stare ad ascoltare tutta quella storia
alla Keanu Reeves in Matrix, tutte quelle stronzate della
serie "Io sono Neo", potrebbe scoppiarmi la testa.»
«Non è che volevi dire Neon?» ribatté Butch. «Perché a
me ricorda tanto l'insegna della Shell.»
Wrath voltò la testa di scatto. «Chiudete il becco. Tutti
quanti.»
La figura sfolgorante rise. «Allora, lo volete il vostro
regalo di Natale in anticipo? O preferite continuare a
mancarmi di rispetto finché non decido di alzare i
tacchi?»
«Natale? Quella è la tua tradizione, non la nostra, mi
pare», disse Wrath.
«Sarebbe un no? Perché è qualcosa che vi manca da un
bel pezzo.» Con ciò il bagliore svanì, come se qualcuno
avesse staccato la spina della fonte luminosa.
Ritto nella radura adesso c'era un uomo come
chiunque altro... be', più o meno, dato che era avvolto in
764
catene d'oro. Tra le braccia reggeva qualcuno, un
vampiro con la barba lunga e i capelli scuri striati di
bianco...
John fu pervaso da un fremito.
«Non riconoscete il vostro fratello?» disse la figura,
abbassando gli occhi sul vampiro che teneva in braccio,
«Come dimenticano in fretta.»
Fu John a rompere le righe e attraversare il prato di
corsa. Qualcuno lo chiamò, ma non si sarebbe fermato
per niente e nessuno al mondo. Correva a più non posso,
col vento che gli mugghiava nelle orecchie e il sangue che
gli martellava nelle vene,
I fili d'erba gli sferzavano i jeans, la fresca notte
agostana gli schiaffeggiava le guance e i pugni in cui
aveva serrato le mani fendevano l'aria.
Papà, gridò muto. Papà!
Si fermò di colpo, tappandosi la bocca con la mano.
Era Tohrment, ma in una versione rattrappita, come se lo
avessero lasciato fuori al sole per mesi. Il volto era
scarno, gli occhi infossati nelle orbite, la pelle pendeva
flaccida dalle ossa. La barba era lunga e scura, i capelli
arruffati ridotti a un ispido groviglio nero, eccezion fatta
per una fulgida striscia bianca come la neve sulla fronte. I
vestiti erano quelli che indossava la notte in cui era
scomparso dal centro di addestramento, laceri e sudici.
John sobbalzò nel sentire una mano sulla spalla.
765
«Tranquillo, figliolo», disse Wrath. «Gesù Cristo...»
«Il mio nome è Lassiter, per la verità», precisò l'uomo,
«nel caso te ne fossi scordato.»
«Spiritoso. Allora, qual è il prezzo?» chiese il re,
tendendo le braccia per farsi passare Tohr.
«Mi piace come dai per scontato che ce ne sia uno.»
John avrebbe voluto essere lui a caricare Tohr in
macchina ma, per come gli tremavano le ginocchia, era
probabile che dovessero portare in braccio anche lui.
«Perché, non c'è nessun prezzo?» fece Wrath
prendendo in braccio il fratello. «Merda, non pesa
niente», commentò scuotendo la testa.
«È sopravvissuto bevendo sangue di cervo.»
«Da quanto sai di lui?»
«L'ho trovato due giorni fa.»
«Il prezzo», lo incalzò Wrath, senza staccare gli occhi
da Tohrment.
«Be', ecco.» Il re imprecò e l'uomo, Lassiter, rise. «Non
è un prezzo, però.»
«Cosa vuoi.»
«È un'offerta "due al prezzo di uno".»
766
«Come, scusa?»
«Io vengo con lui.»
«Col cazzo.»
La voce dell'uomo perse ogni leggerezza. «Fa parte
dell'accordo e, credimi, anch'io ne farei volentieri a meno.
Il fatto è che lui è la mia ultima chance per cui, sì, mi
spiace ma con lui vi beccate anche me. E, a proposito, se
dici di no faccio fare una brutta fine a tutti quanti, così.»
L'uomo fece schioccare le dita e una scintilla di un
bianco accecante si accese contro il cielo notturno.
«Ti presento Lassiter, l'angelo caduto», disse Wrath un
istante dopo, rivolto a John. «Una delle ultime volte che è
sceso sulla Terra, in Europa centrale, è scoppiata
un'epidemia...» «Okay, quella non è stata colpa mia...»
«... che ha spazzato via i due terzi della popolazione
umana.»
«Gradirei ricordarti che a te gli umani non piacciono.»
«Da morti emanano un cattivo odore.»
«Vale per tutti voi mortali.»
John faticava a seguire la conversazione, preso com'era
a guardare Tohr. Apri gli occhi... apri gli occhi... ti prego,
Dio...
767
«Dai, John, andiamo.» Wrath si voltò verso gli altri
fratelli e cominciò a camminare. Quando li raggiunse
disse piano, «Nostro fratello è tornato.»
«Oh, Cristo, è vivo», esclamò qualcuno.
«Grazie a Dio», bofonchiò qualcun altro.
«Diglielo», disse Lassiter da dietro. «Digli che arriva
con un compagno di stanza.»
I fratelli alzarono la testa di scatto, all'unisono.
«Baciami il culo», sussurrò Vishous.
«Non lo prenderò come un invito», borbottò Lassiter.
768
Capitolo 50
Phury attraversò la distesa di un bianco accecante del
Santuario, diretto all'ingresso privato della Vergine
Scriba. Bussò una volta e rimase in attesa, inoltrando con
la forza del pensiero una richiesta di udienza.
Quando le porte si aprirono si aspettava di essere
accolto dalla Direttrice Amalya, invece dall'altra parte
non c'era nessuno. Il candido cortile della Vergine Scriba
era deserto, salvo che per gli uccelli appollaiati sull'albero
carico di fiori bianchi.
Fringuelli e canarini erano fuori posto, lì, ma proprio
per questo ancora più incantevoli. Contro il bianco del
fogliame e dei rami, i loro colori risaltavano vivaci; nel
sentire i loro richiami, Phury pensò a tutte le volte che
Vishous si era recato lì con una di quelle fragili creaturine
chiusa tra le mani a coppa.
Dopo che la Vergine Scriba aveva rinunciato a loro per
amore di suo figlio, il figlio glieli aveva restituiti.
Phury si avvicinò alla fontana e rimase in ascolto
dell'acqua che zampillava nella vasca di marmo. Capì
subito quando la Vergine Scriba comparve alle sue spalle
perché gli si rizzarono i peli sulla nuca.
769
«Pensavo che ti saresti ritirato», gli disse. «Ho visto il
cammino del Primale snodarsi per i passi di un altro. Tu
dovevi essere solo un momento di transizione.»
Lui la guardò da sopra la spalla. «Anch'io pensavo che
mi sarei ritirato. Invece no.»
Strano, pensò. Sotto i panneggi neri che le coprivano il
volto, le mani e i piedi, il suo fulgore sembrava più fioco
di quanto ricordava.
La Vergine Scriba fluttuò verso i suoi uccellini.
«Gradirei che mi salutassi come si conviene, Primale.»
Con un profondo inchino, lui pronunciò la formula di
rito nell'Antico Idioma, Le usò anche la cortesia di restare
inchinato, in attesa che lei lo liberasse dalla posa
supplice.
«Ah, ma il punto è proprio questo», mormorò la
Vergine Scriba, «Tu ti sei già liberato da solo. E adesso
vuoi la stessa cosa per la mia Eletta.» Phury fece per
parlare, ma lei lo anticipò. «Non devi darmi spiegazioni.
Credi forse che non sappia cosa ti passa per la testa?
Anche il tuo mago, come lo chiami tu, mi è noto.»
Okay, questo gli procurò un certo imbarazzo.
«Alzati, Phury, figlio di Ahgony.» Quando lui ubbidì
lei disse, «Noi tutti siamo il prodotto della nostra
educazione, Primate. Le costruzioni derivanti dalle nostre
scelte sorgono sulle fondamenta gettate dai nostri
genitori, e dai loro genitori prima di loro. Noi siamo solo
770
il piano successivo della casa, o la pietra successiva lungo
il selciato.»
Phury scosse lentamente la testa. «Possiamo scegliere
una direzione diversa. Possiamo seguire una rotta
diversa tra quelle indicate dalla bussola.
«Di questo non sono sicura.»
«Io invece devo esserlo... altrimenti non farei buon uso
della vita che mi avete dato.»
«Effettivamente.» La Vergine Scriba voltò la testa
verso i suoi appartamenti privati. «Effettivamente,
Primale.»
Nel silenzio che seguì parve rattristata, il che lo
sorprese. Era preparato a una dura lotta, che diamine, era
difficile non pensare alla Vergine Scrivana come a un tir
vestito di nero.
«Dimmi, Primale, come intendi affrontare tutto ciò?»
«Non sono ancora sicuro. Ma le Elette che si sentono
più a loro agio qui posso restare, mentre quelle che
desiderano avventurarsi dall'altra parte troveranno un
porto sicuro sulla Terra, con me.»
«Abbandoni per sempre questi luoghi?»
«Sulla Terra c'è qualcosa di cui ho bisogno, qualcosa
che devo avere. Ma farò la spola avanti e indietro. Ci
vorranno decenni, forse anche più, per cambiare tutto.
Cormia mi aiuterà.»
771
«E hai deciso di possedere solo lei?»
«Sì. Se le altre troveranno dei compagni di loro
gradimento, ammetterò tutte le loro figlie femmine nella
tradizionale cerchia delle Elette e solleciterò Wrath ad
accogliere nella confraternita i loro figli maschi, che
nascano qui o sulla Terra. Ma io avrò solo Cormia.»
«E la purezza del sangue? La forza che ne deriva? Non
ci saranno più modelli di riferimento? La riproduzione
selettiva era una scelta deliberata, volta a generare forza
dalla forza. E se un'Eletta dovesse scegliere un compagno
che non appartiene alla confraternita?»
Phury pensò a Qhuinn e Blay. Due giovani forti che
col tempo
sarebbero diventati ancora più forti. Perché non
potevano far parte
della confraternita?
«Sarà Wrath a decidere. Ma per parte mia lo
incoraggerò ad accettare i soggetti meritevoli,
indipendentemente dal loro lignaggio. Un cuore
intrepido può rendere un guerriero più alto e più forte di
quanto non sia fisicamente. La razza si sta estinguendo,
lo sapete bene. Stiamo perdendo terreno, generazione
dopo generazione, e non solo a causa della guerra. La
Lessening Society non è la sola cosa che ci uccide. Anche
le tradizioni lo fanno.»
La Vergine Scriba fluttuò verso la fontana.
772
Ci fu un lungo, lunghissimo silenzio.
«Ho la sensazione di avere perso», disse sottovoce. «Di
avere perso tutti voi.»
«Non è così. Niente affatto. Siate una madre per la
razza, invece che una sorta di carceriere, e otterrete tutto
ciò che vorrete. Liberateci e guardateci prosperare.»
Il ciangottio della fontana parve gonfiarsi, alzarsi,
sull'onda delle emozioni della Vergine Scriba.
Phury guardò gli zampilli che, catturando la luce,
brillavano come tante stelle; ogni gocciolina racchiudeva
un
arcobaleno
d'incredibile
bellezza.
Mentre
contemplava le gemme scintillanti in ogni frammento del
tutto, pensò alle Elette e alle loro tante doti individuali.
Pensò ai suoi fratelli.
Pensò alle loro shellan.
Pensò alla sua amata.
E comprese i motivi del silenzio della Vergine Scriba.
«Voi non ci perderete. Noi non vi abbandoneremo né vi
dimenticheremo mai. Come potremmo? Voi ci avete
generato, guidato e rafforzato. Ma ora... ora tocca a noi.
Lasciateci andare e vi saremo più vicini che mai.
Lasciateci prendere in mano il futuro per forgiarlo come
meglio possiamo. Abbiate fede nella vostra creazione.»
«Hai la forza per questo, Primale?» disse aspra lei.
«Sarai in grado di guidare le Elette anche dopo tutto
773
quello che hai passato? Non hai avuto una vita facile, e la
strada che intendi imboccare non è piana né liscia.»
Ritto sulla gamba sana e sulla protesi, Phury ripensò
alla propria esistenza valutando il proprio valore, la
tempra del carattere, e giunse ad un'unica risposta.
«Sono qui, no?» dichiarò. «Sono ancora in piedi,
giusto? Ditemi voi se ho la forza necessaria oppure no.»
Lei abbozzò un sorriso, Phury non poteva vederla in
faccia ma sapeva che era così.
La Vergine Scriba annuì una volta, «Così sia, dunque,
Primale. Sia fatta la tua volontà.»
Poi si voltò e scomparve nei suoi appartamenti.
Phury espirò come se gli avessero tolto un tappo dal
sedere.
Porca. Puttana.
Aveva appena mandato a gambe all'aria l'intero
tessuto spirituale della razza. Per non parlare di quello
biologico.
Cribbio, se avesse saputo come stava per evolversi la
nottata si sarebbe mangiato una bella scodella di cereali,
prima di scendere da quel letto.
Si voltò per tornare al Santuario. La prima tappa
sarebbe stata Cormia; poi insieme sarebbero andati dalla
Direttrice e...
774
Aprì la porta e rimase di sasso.
L'erba era verde.
L'erba era verde e il cielo era azzurro... i narcisi erano
gialli e le rose erano di tutti i colori dell'arcobaleno... e gli
edifici erano rossi, bianco panna e blu scuro...
Le Elette si riversavano fuori dai loro alloggi,
reggendo le loro nuove vesti colorate e guardandosi
intorno in preda all'euforia e allo stupore.
Cormia emerse dal tempio del Primale e si guardò
intorno, il bel volto esterrefatto. Quando vide Phury si
tappò la bocca con le mani, battendo freneticamente le
palpebre.
Con un urlo raccolse la splendida veste color lavanda
e gli corse incontro, piangendo a dirotto.
Gli saltò al collo, e lui la tenne stretta, premendosi
contro il suo corpo caldo.
«Ti amo», sussurrò lei con voce strozzata. «Ti amo, ti
amo... ti amo.»
In quel momento, col mondo in trasformazione per
merito suo e la sua shellan al sicuro tra le sue braccia,
Phury sentì qualcosa che non avrebbe mai immaginato di
provare.
Finalmente si sentì l'eroe che aveva sempre sognato di
essere.
775
Capitolo 51
Nel frattempo, nella grande casa della confraternita,
John Matthew se ne stava seduto in una poltrona
imbottita di fronte al letto su cui dormiva Tohr. Il Fratello
non si era mosso da quando erano tornati a casa,
parecchie ore prima.
Il che sembrava la regola, quella notte. Sembrava che
tutti, in casa, fossero addormentati, sopraffatti da una
irresistibile stanchezza collettiva.
Be', tutti tranne John. E l'angelo che camminava avanti
e indietro nella camera degli ospiti lì accanto.
Tohr era al centro dei pensieri di entrambi.
Dio, John non si sarebbe mai aspettato di sentirsi più
grosso del Fratello, non si sarebbe mai aspettato di essere
fisicamente più forte e di certo non avrebbe mai pensato
di doversi prendere cura di lui. O di esserne
responsabile.
E tutto questo perché Tohr aveva perso venticinque
chili, come minimo, e aveva la faccia e il fisico di chi è
andato in guerra ed è stato ferito a morte.
Che strano, pensò John. All'inizio sperava che Tohr si
svegliasse subito, adesso invece aveva paura di vedere
quegli occhi aperti. Non sapeva se avrebbe sopportato di
essere tagliato fuori. Sarebbe stato comprensibile, dato
776
tutto quello che aveva perduto Tohr, ma... ne sarebbe
morto di dolore.
E poi, finché Tohr dormiva, lui non sarebbe crollato
scoppiando in singhiozzi.
Nella stanza c'era uno spettro, infatti. Un bellissimo
spettro dai capelli rossi e col pancione: lì con loro c'era
Wellsie. Malgrado fosse morta, era lì con loro, e così pure
il suo piccolo mai nato. La shellan di Tohr non sarebbe
mai stata lontana. Era impossibile guardare Tohr senza
vedere anche lei. Loro due erano stati inseparabili in vita,
e lo erano anche nella morte. Tohr respirava, certo, ma
non era più vivo, poco ma sicuro.
«Sei tu?»
Di scatto, John spostò gli occhi sul letto.
Tohr era sveglio e lo guardava, colmando la breve
distanza che li separava.
Lentamente, John si alzò in piedi raddrizzandosi la Tshirt e i jeans. Sono John. John Matthew.
Thor non disse niente, limitandosi a guardarlo dalla
testa ai piedi.
Ho superato la transizione, spiegò come uno scemo John.
«Sei come D. Grande e grosso.»
Dio, quella voce era proprio come se la ricordava.
Profonda come la nota di basso di un organo in chiesa e
777
altrettanto imperiosa. C'era una differenza, però. Una
sfumatura sepolcrale del tutto nuova.
O forse veniva dal vuoto dietro quegli occhi blu.
Ho dovuto comprare dei vestiti nuovi. Gesù Cristo, che
idiota. Hai... hai fame? Ti ho portato dei panini al roast-beef. E
i biscotti alla menta e cioccolato Pepperidge Farm Milanos.
Una volta ti piacevan...
«Sono a posto così.»
Vuoi qualcosa da bere? Ho qui un thermos di caffè.
«Naa.» Tohr lanciò un'occhiata al bagno. «Cavolo, un
gabinetto al coperto. Era un pezzo che non ne vedevo
uno. E, no, non mi serve aiuto.»
Era doloroso da guardare, pensò John, come
l'anteprima di un futuro che non si sarebbe aspettato di
vedere per altre centinaia e centinaia d'anni: Tohrment
era un vecchio.
Il Fratello afferrò con mano tremante il bordo delle
lenzuola e a poco a poco le scostò dal corpo nudo. Si
fermò per qualche istante. Poi fece scivolare le gambe giù
dal letto fino a posare i piedi per terra. Dopo un'altra
pausa si alzò a fatica; le spalle, un tempo larghe e
robuste, fecero uno sforzo immane per reggere un peso
di poco superiore a quello di uno scheletro.
Non camminava. Strascicava i piedi come le persone
molto anziane, con la testa china, la schiena curva, le
778
mani alzate quasi temesse di cadere da un momento
all'altro.
La porta del bagno si chiuse. Si sentì il gorgoglio dello
sciacquone, poi lo scroscio della doccia.
John tornò a sedersi in poltrona con un senso di vuoto
allo stomaco, e non solo perché era a digiuno dalla sera
prima. Preoccupazione, ansia, angoscia, non pensava ad
altro, non sentiva altro. Le respirava con l'aria che gli
entrava nei polmoni, erano il battito stesso del suo cuore.
Quella era l'altra faccia del rapporto genitori-fìgli.
Quando il figlio stava in pensiero per il padre.
Sempre ammesso che tra lui e Tohr esistesse ancora
quel tipo di legame.
John non ne era sicuro. Il fratello lo aveva guardato
come si guarda un estraneo.
Cominciò a battere nervosamente il piede, al ritmo dei
secondi che passavano, e si sfregò i palmi sulle cosce.
Strano, tutto il resto - le cose che erano accadute, persino
la tragedia di Lash - sembrava irreale e privo di
importanza. Contava solo il momento presente con Tohr.
Quando la porta del bagno si aprì, quasi un'ora dopo,
John rimase come paralizzato.
Tohr si era infilato un accappatoio e i capelli erano
quasi del tutto in ordine, anche se la barba era ancora
ispida e incolta.
779
Con quel suo passo malfermo, strascicato e
inaffidabile, il Fratello tornò a letto e si stese con un
gemito, adagiandosi goffamente contro i cuscini.
Posso fare quale...
«Non è qui che volevo finire, John. Non voglio fingere.
Non è qui... che voglio stare.»
Okay, disse a gesti John. Okay.
Mentre il silenzio si prolungava, John intavolò
mentalmente la conversazione che voleva fare con Tohr:
Qhuinn e Blay sotto venuti a stare qui, i genitori di Qhuinn
sono morti e Lash è... non so cosa dire di lui... C'è una femmina
che mi piace, ma non è alla mia portata, e partecipo anch'io alla
guerra e mi sei mancato e voglio che tu sia fiero di me e ho
paura e mi manca Wellsie e tu stai bene?
E, soprattutto... Per favore dimmi che non te andrai più.
Mai più. Ho bisogno di te.
Invece si alzò in piedi e a gesti disse, Adesso ti lascio
riposare. Se hai bisogno di qualcosa...
«Sto bene così.»
Okay. Sì. Okay...
John stiracchiò il bordo della T-shirt e si voltò.
Andando verso la porta non riusciva a respirare.
Oddio, speriamo di non incrociare nessuno in
corridoio, pensò.
780
«John.»
John si fermò. Si voltò di scatto.
Quando incontrò gli occhi stanchi di Tohr fu come se
qualcuno gli avesse scardinato le ginocchia.
Tohr chiuse gli occhi e spalancò le braccia.
John corse verso il letto e si aggrappò a suo padre
come se ne andasse della sua stessa vita. Affondò il viso
contro quello che un tempo era un petto ampio e
poderoso e ascoltò il cuore che ancora batteva dentro di
esso. Tra i due fu lui a stringere con maggior vigore, e
non perché Thor non ci tenesse, ma perché non ne aveva
la forza.
Piansero tutti e due, finché non ebbero più fiato per
versare altre lacrime.
781
Capitolo 52
I grilletti non devono per forza essere sulle pistole per
portare guai, pensò Phury guardando la facciata in vetro
e acciaio dello ZeroSum.
Merda, la disintossicazione costringeva il tuo corpo a
subire un violento cambiamento chimico, ma per le
smanie che avevi in testa non faceva un tubo di niente, E
il mago era più piccolo di lui, certo, ma quella carogna
non se n'era ancora andata. E Phury aveva la sensazione
che ci sarebbe voluto parecchio prima che la voce
sparisse.
Prendendosi metaforicamente a calci nel sedere,
avanzò verso il buttafuori, che gli scoccò un'occhiata
strana, ma lo fece entrare. Una volta dentro non prestò la
minima attenzione alla folla, che come al solito si aprì in
due ali per lasciarlo passare. Non rivolse nessun cenno
d'intesa al buttafuori ritto davanti al cordone di velluto
che delimitava l'area VIP. Non disse nulla a iAm, che lo
fece accomodare nell'ufficio di Rehv.
«A cosa devo il piacere», lo apostrofò Rehvenge da
dietro la scrivania.
Phury fissò il suo spacciatore.
Rehv indossava il solito completo nero che per lui era
lo standard, anche se non aveva niente di standard. Il
782
taglio era impeccabile, anche da seduto, e sotto le luci
soffuse la stoffa brillava, chiaro indizio che nella trama
era intessuto qualche filo di seta. I baveri aderivano alla
perfezione al torace poderoso e le maniche lasciavano
intravedere la giusta porzione di polsino.
Rehv si accigliò. «Sento le tue emozioni anche da qui.
Hai combinato qualcosa.»
Phury non riuscì a trattenere una risata. «Sì, si può
dire così. Sto andando da Wrath, perché ho da esporgli
qualcosa di molto importante. Prima però sono passato
di qui perché la mia shellan e io abbiamo bisogno di un
posto dove stare.»
Le sopracciglia s'inarcarono di scatto sopra gli occhi
color ametista di Rehvenge. «La tua shellan? Perbacco.
Non più Eletta?»
«No.» Phury si schiarì la gola. «Senti, so che hai delle
case. In quantità. Volevo sapere se posso affittarne una
per un paio di mesi. Mi servono molte stanze. Ma proprio
tante.»
«La casa della confraternita è troppo affollata?»
«No.»
«Mhm.» Rehv piegò la testa di lato, le parti rasate del
taglio alla moicana erano lisce. «Wrath ha altre case, no?
E so che anche il tuo fratello V ne ha. Ho sentito che da
qualche parte ha una specie di pied-à-terre per le sue
pratiche sadomaso. Devo ammettere che sono sorpreso di
vederti venire da me.»
783
«Ho solo pensato di cominciare da te.»
«Mhm.» Rehv si alzò e con l'aiuto del bastone andò ad
aprire un pannello scorrevole dietro la scrivania. «Bel
completino, a proposito. L'hai preso da Victoria's Secret?
Scusami un secondo.»
Mentre Rehvenge entrava nella stanza da letto segreta,
Phury diede un'occhiata al proprio abbigliamento. Ecco
perché tutti lo guardavano in modo strano. Aveva ancora
addosso l'abito di raso bianco che portava dall'Altra
Parte.
Rehv uscì un istante dopo. In mano aveva un paio di
mocassini neri in pelle di alligatore decorati con dei
morsetti rivelatori.
Lasciò cadere le scarpe Gucci ai piedi di Phury.
«Invece di girare a piedi nudi perché non ti infili questi?
E, mi spiace, ma non ho niente da darti in affitto.»
Phury trasse un profondo sospiro. «Okay, grazie...»
«Però puoi andare a stare gratis nel mio cottage sugli
Adirondack. Per tutto il tempo che vuoi.»
Phury batté le palpebre. «Posso p...»
«Se stai per dire che puoi pagarmi, vaffanculo. Come
ho già detto, non ho mente da darti in affitto. Trez può
fare un salto lassù per darti i codici. Io mi farò vivo
appena prima dell'alba il primo martedì di ogni mese, ma
per il resto la casa è a vostra completa disposizione.»
784
«Non so cosa dire.»
«Forse un giorno dovrai ricambiare il favore. Non
occorre dire altro.»
«Conta pure su di me. Hai la mia parola.»
«E tu le mie scarpe. Tienile pure, anche dopo che avrai
recuperato le tue.»
Phury si infilò i mocassini. Calzavano a pennello. «Te
le ripor...»
«No. Consideralo un regalo di nozze.»
«Be'... grazie.»
«Prego. So che sei un estimatore di Gucci...»
«Non dicevo per i mocassini, anche se sono favolosi.
Intendevo... per avermi depennato dalla lista dei tuoi
clienti. So che hai parlato con Z.»
Rehv sorrise. «E così hai deciso di ripulirti, eh?»
«Farò del mio meglio per smettere.»
«Mhm.» Gli occhi di ametista si socchiusero. «E io
credo che ce la farai. Hai la stessa determinazione che ho
visto negli occhi di alcune persone che prima venivano
nel mio ufficio ogni due per tre e poi una sera, per un
motivo o per un altro, hanno deciso di non venirci più.
Punto e stop. È bello da vedere.»
785
«Già, non mi vedrai più bazzicare da queste parti.»
Il telefono di Rehv si mise a squillare; lui controllò il
nome sul display e si accigliò. «Aspetta un attimo,
potrebbe interessarti. E il capo de facto del Consiglio dei
Princeps.» Rispose con un tono a metà tra l'impaziente e
l'annoiato. «Io sto bene e tu? Sì. Sì. Terribile, sì. No, sono
ancora in città, diciamo che sono una colonna.»
Rehv si appoggiò allo schienale della poltroncina
giocherellando con il tagliacarte a forma di pugnale.
«Già. Ha-hah. Giusto. Sì, lo so, il vuoto di potere è...
Come, scusa?» esclamò lasciando cadere il tagliacarte sul
tampone di carta assorbente. «Che cosa hai detto? Ah, ma
pensa. Be', e Marissa? Ah. Davvero. Non mi sorprende...»
Phury non potè fare a meno di chiedersi che razza di
bomba fosse appena stata sganciata.
Qualche istante dopo, Rehv si schiarì la gola. Poi un
lento sorriso si allargò sulle sue labbra. «Be', allora, visto
come la pensi... mi farebbe un immenso piacere. Grazie.»
Riattaccò e alzò gli occhi. «Indovina chi è il nuovo
leahdyre del Consiglio?»
Phury lo fissò a bocca aperta. «Ma non puoi. Come
diavolo fai a...»
«Pare che, tra i sopravvissuti, io sia il membro più
anziano della mia stirpe, e c'è una regola in base alla
quale le femmine non possono rivestire il ruolo di
leahdyre. Dato che sono l'unico maschio del Consiglio,
indovina un po'?» Si accomodò meglio nella poltroncina
di cuoio. «Hanno bisogno di me.»
786
«Porca... troia.»
«Già, se si ha la fortuna di vivere abbastanza se ne
vedono di tutti i colori. Dì al tuo capo che sarà un piacere
fare affari con lui.»
«Contaci. Assolutamente. E, senti, grazie ancora. Di
tutto», così dicendo, Phury andò alla porta. «Se hai
bisogno di me, basta che chiami.»
Rehvenge chinò il capo una sola volta. «Sarà fatto,
vampiro. Noi divoratori di peccati presentiamo sempre il
conto a chi ci deve un favore.»
«Il termine politicamente corretto è symphath», scherzò
Phury con un sorrisetto.
Uscendo dall'ufficio sentì la risata sommessa e
lievemente malefica di Rehv rombare come un tuono.
Phury si materializzò di fronte alla grande casa della
confraternita e si rassettò gli abiti. Ansioso di fare una
buona impressione, gli sembrava già di non vivere più
sotto quel tetto.
Più che logico, d'altronde: la sua testa aveva cambiato
indirizzo.
Era imbarazzante da morire entrare nel vestibolo e
suonare al videocitofono come un estraneo qualunque.
Fritz parve altrettanto sorpreso quando aprì il portone.
«Padrone?»
787
«Potresti dire a Wrath che sono qui e che vorrei
parlargli?»
«Certamente.» Il doggen si inchinò e senza indugio salì
il sontuoso scalone.
Nell'attesa, Phury si guardò intorno, nell'atrio,
pensando a suo fratello Darius che aveva costruito quel
posto... quanti anni prima?
Wrath comparve in cima alla scalinata
un'espressione cauta e diffidente. «Ehilà.»
con
«Ehilà.» Phury alzò una mano. «Ti spiace se salgo un
minuto?»
«Figurati, vieni.»
Phury salì lentamente. Più si avvicinava alla sua
stanza più il prurito aumentava perché non poteva fare a
meno di pensare a tutte le canne che si era fumato lì
dentro. Una parte di lui aveva una voglia matta di farsi
un tiro; gli venne quasi l'affanno, gli scoppiava la testa.
«Senti», disse Wrath in tono duro, «se sei venuto qui
per la tua droga...»
Phury alzò una mano e con voce roca disse, «No.
Possiamo parlare a quattr'occhi?»
«Va bene.»
Quando la porta dello studio si chiuse, Phury fece del
suo meglio per scacciare quel bisogno disperato di fumo
788
e cominciò a parlare. Non sapeva bene cosa gli usciva di
bocca. Primate. Cormia. Vergine Scriba. Futuro. Elette.
Fratelli. Cambiamento.
Cambiamento.
Cambiamento.
Quando alla fine si fermò, si rese conto che Wrath non
aveva aperto bocca.
«Così, ecco cosa ho deciso», riprese Phury. «Ho già
detto alle Elette che avrei trovato un posto dove stare.»
«E dove sarebbe, questo posto?»
«Su a nord, nella tenuta di Rehv.»
«Veramente?»
«Sì. Lassù saremo al sicuro. È un posto tranquillo e
non troppo frequentato dagli umani. Posso proteggere
più facilmente quelle che verranno a stare da questa
parte. Ma tutto quanto dovrà essere graduale. Un paio di
loro si sono già dette interessate a vedere. Esplorare.
Imparare. Cormia e io le aiuteremo ad assimilare per
quanto vorranno. Ma è tutto su base volontaria. Saranno
loro a scegliere.»
«E la Vergine Scriba è d'accordo?»
«Sì. Naturalmente per quanto riguarda la confraternita
sei tu ad avere l'ultima parola.»
789
Wrath si alzò in piedi scrollando il capo.
Phury annuì, non poteva biasimarlo se nutriva dei
dubbi su quel progetto. Dopo quel mare di parole, poteva
solo sperare di dimostrarle almeno in parte con i fatti.
«Okay, be', come ho già detto, dipende da...»
Wrath si avvicinò e gli tese la mano. «Sottoscrivo in
pieno. Qualunque cosa ti serva per le Elette, qui sulla
Terra, fai conto di avercela già. Qualunque cosa.»
Phury rimase per un attimo interdetto. «Be'.... ottimo»,
disse alla fine con voce roca, stringendo la mano del
fratello.
Wrath sorrise. «Ti darò tutto quello che ti serve.»
«Benissimo...» Phury si accigliò e lanciò un'occhiata
alla scrivania del re. «Um... posso usare un momento il
tuo computer?»
«Assolutamente. E quando avrai finito ti darò una
bella notizia. Be', più o meno.»
«Di cosa si tratta?»
Wrath indicò la porta con un cenno del capo. «Tohr è
tornato.»
«È vivo?» esclamò Phury con un nodo in gola.
«Più o meno... più o meno. Ma è a casa. E cercheremo
di farlo restare.»
790
Capitolo 53
Seduto al tavolo della confraternita, nella sezione VIP
dello ZeroSum, John Matthew era ubriaco fradicio.
Sbronzo marcio.
Ciucco tradito.
Così, appena finita la birra numero - numero? Non si
ricordava più neanche a che numero era arrivato insomma, l'ennesima birra che si era scolato negli ultimi
cinque minuti, ordinò uno Jàger Bomb, un cocktail a base
di Jagermeister e Red Bull che era una vera bomba.
Qhuinn e Blay non dicevano assolutamente niente, il
che tornava a loro merito.
Era dura spiegare cosa c'era dietro tutto quel bere, cosa
lo spingeva a tracannare un cicchetto via l'altro. Aveva i
nervi a pezzi, ecco l'unica cosa che continuava a ripetersi.
Aveva lasciato Tohr a casa, addormentato su quel letto
neanche fosse una bara, e anche se era fantastico che si
fossero ritrovati, il fratello non era tornato liberamente,
neanche un po'.
John non ce l'avrebbe fatta a perderlo di nuovo.
E poi c'era quel bizzarro avvistamento di Lash e il fatto
che John in pratica era convinto che stava andando fuori
di testa.
791
Quando la cameriera arrivò con l'ordinazione, Qhuinn
disse, «Portagli un'altra birra.»
Ti adoro, gli disse John a gesti.
«Be', ci odierai tutti e due quando arriverai a casa e
comincerai a spruzzare in giro vomito come quegli
aggeggi che servono a irrigare i campi da golf. Ma non
pensiamo al domani, godiamoci il presente, okay?»
Ricevuto. John buttò giù il cocktail tutto d'un fiato e
quando gli atterrò nello stomaco non sentì niente, nessun
bruciore, nessuna vampata esplosiva. D'altronde, dai,
siamo seri, in una foresta che sta andando a fuoco che
differenza può mai fare la fiamma di un accendino
Zippo?
Aveva ragione Qhuinn: molto probabile che finisse col
vomitare anche l'anima. In effetti...
John si alzò barcollando.
«Oh, cazzo, ci siamo», disse Qhuinn alzandosi a sua
volta.
Vado da solo.
«No, caro, non più», disse Qhuinn picchiettando il dito
sulla catena che aveva al collo.
John piantò i pugni sul tavolo e si protese verso
l'amico scoprendo le zanne.
792
«Ma cosa cazzo...?» sibilò Qhuinn mentre Blay volgeva
frenetico lo sguardo sui divanetti tutt'intorno. «Cosa
cazzo credi di fare?»
Vado da solo.
Qhuinn lo guardò torvo, pronto a litigare, ma poi si
rimise a sedere. «E va bene. Fai un po' come ti pare. È
meglio se per un po' non vedo la tua faccia.»
John si allontanò, stupito che nessun altro, lì al club, si
fosse accorto che il pavimento ballava come nelle case
stregate di certi parchi dei divertimenti. Appena prima di
arrivare al corridoio dove si trovavano i bagni privati
cambiò idea, svoltò a sinistra e quatto quatto oltrepassò il
cordone di velluto.
Dall'altra parte zigzagò tra la calca dei clienti con la
grazia di un bisonte, urtando la gente di striscio,
andando a sbattere contro i muri, sbilanciandosi in avanti
e poi piegandosi bruscamente all'indietro per non finire a
gambe all'aria.
Infilò le scale per il mezzanino e si fece strada a
gomitate fino alla toilette dei signori.
C'erano due tizi agli orinatoi e uno vicino ai lavandini;
senza guardare in faccia nessuno, John si fiondò dritto
verso il fondo della stanza. Aprì il gabinetto per gli
handicappati, l'ultimo della fila, poi si tirò indietro in
preda alla nausea, ed entrò nel penultimo. Appena chiuse
la porta a chiave, il suo stomaco si trasformò in una
betoniera, le viscere si torcevano, si agitavano neanche
fossero quei volontari che si affannano a mettere insieme
793
i pacchi dono da spedire con urgenza per via aerea in
qualche posto colpito da un disastro naturale.
Merda. Perché non aveva usato il gabinetto privato in
fondo all'area VIP? Doveva proprio far sentire a quei tre
là fuori come si liberava lo stomaco manco fosse un
idraulico che stura uno scarico?
Cazzo, era proprio perfido.
A quel punto si voltò a guardare il water. Era nero,
come quasi tutto allo ZeroSum, ma sapeva che era pulito.
Il locale di Rehv era pulito.
Be', a parte la prostituzione. La droga. E le scommesse.
Okay, era pulito dal punto di vista dell'igiene, non in
base al codice penale.
John abbandonò la testa all'indietro contro la porta
metallica e chiuse gli occhi, mentre il vero motivo di tutto
quel bere cominciava a venire a galla.
Qual è il criterio di valutazione di un vampiro? Saper
combattere? Saper resistere il più a lungo possibile
quando fa sollevamento pesi? Sapersi vendicare?
Saper tenere sotto controllo le emozioni quando tutto
il mondo comincia a vacillare come il pavimento di una
casa stregata? Saper amare qualcuno pur nella
consapevolezza che potrebbe abbandonarti per sempre?
Saper fare sesso?
794
Okay, era stato un grosso errore chiudere gli occhi. O
mettersi a pensare. Socchiuse le palpebre concentrandosi
sul soffitto nero con i faretti incassati simili a stelle.
Il rubinetto del lavandino venne chiuso. Venne tirata
l'acqua in due orinatoi. La porta della toilette si aprì e si
chiuse, si aprì e si chiuse.
Un paio di gabinetti più in là qualcuno aspirò con
forza dal naso. Una, due volte. Poi si sentì come uno
sbuffo e un ahhhhhb. Rumore di passi. Acqua corrente.
Una risata da maniaco. La porta della toilette che si
apriva e si chiudeva di nuovo.
Solo. Era da solo. Ma non per molto perché presto
sarebbe entrato qualcun altro.
John guardò in fondo al water nero, intimando al suo
stomaco di darsi una mossa se voleva risparmiargli una
figuraccia.
Evidentemente il suo stomaco non voleva. O forse... sì.
No? Merda...
Stava fissando la tazza del cesso, in attesa che l'urto di
vomito si decidesse a partire, quando d'un tratto
dimenticò il suo stomaco e realizzò dove si trovava.
Lui era nato in un gabinetto. Era venuto al mondo in
un posto dove la gente dà di stomaco dopo aver alzato il
gomito... e subito era stato abbandonato a se stesso da
una madre che non aveva mai conosciuto e da un padre
che non lo aveva mai conosciuto.
795
Se Tohr spariva di nuovo...
John si voltò di scatto, ma non riuscì ad alzare il gancio
per uscire. In preda a un panico crescente armeggiò con 2
meccanismo nero, che alla fine si sbloccò. Si catapultò
fuori puntando dritto verso la porta, ma non ci arrivò
mai.
Sopra ciascuno dei sei lavandini di rame c'era uno
specchio dalla cornice dorata.
Inspirando a fondo, scelse quello più vicino alla porta
e ci si piazzò davanti, guardando per la prima volta la
sua faccia da adulto.
Gli occhi erano identici a prima... gli occhi avevano
mantenuto
lo stesso colore blu e la stessa forma. Tutto il resto non
lo riconobbe: il profilo deciso della mascella, il grosso
collo, la fronte spaziosa. Ma gli occhi erano i suoi.
O almeno così immaginava.
Chi sono, si chiese muto.
Ritraendo le labbra si sporse in avanti ed esaminò le
zanne.
«Non dirmi che non le hai mai viste.»
John si voltò di scatto. Appoggiata contro la porta c'era
Xhex. Lo aveva bloccato lì dentro insieme a lei.
796
Era vestita come al solito, ma per lui fu come vedere
per la prima volta la maglietta attillata e i calzoni di pelle.
«Ti ho visto barcollare fin qui. Volevo solo assicurarmi
che stessi bene.» Gli occhi grigi di lei erano fermissimi;
non vacillavano mai, John ci avrebbe scommesso. Quella
femmina aveva lo sguardo di una statua, diretto e
imperturbabile.
Lo sguardo di una statua incredibilmente sexy.
Voglio scoparti, sillabò; si stava rendendo ridicolo, ma
non gliene fregava niente.
«Ah, sì?»
Evidentemente sapeva leggere le labbra. O quelle o gli
uccelli, perché il suo, dentro i jeans, stava facendo di
tutto per mettersi in mostra. Sì.
«Ci sono un sacco di donne in questo club.»
Ma loro non sono te.
«Credo che con loro staresti meglio.»
E io penso che tu staresti meglio con me.
Da dove cavolo saltava fuori tanta sicurezza? Non lo
sapeva e non gli importava. Che fosse un dono divino a
tutto vantaggio della sua autostima o solo stupidità
dovuta alla sbronza, l'avrebbe cavalcata fino in fondo.
Anzi, ne sono certo.
797
Con gesto deliberato fece scivolare i pollici sotto la
cintura dei jeans e lentamente li tirò su. La sua
eccitazione apparve evidente come il rivestimento
esterno di una casa. Xhex guardò in giù. John sapeva cosa
stava vedendo: un equipaggiamento all'altezza dei suoi
due metri di statura. E questo a riposo. In erezione era
impressionante.
Ah, allora non siamo così statuari, eh? pensò, vedendo
che lo sguardo di lei, invece di tornare sul suo viso,
indugiava sull'inguine con un lampo appena percettibile.
Con gli occhi di Xhex su di sé e un brivido erotico
violento come una scossa elettrica tra loro, John non era
più assorto nel suo passato. Era tutto calato nel presente.
E il presente era lei che chiudeva a chiave quella cazzo di
porta e si faceva leccare la fica. Poi loro due che
scopavano, in piedi.
Xhex schiuse le labbra, e John attese le sue parole
neanche aspettasse l'avvento di Gesù Cristo.
All'improvviso lei si portò la mano all'auricolare,
accigliandosi. «Merda. Devo andare.»
John sfilò un asciugamano di carta dal distributore a
muro, prese la penna dalla tasca e scrisse qualche parola
audace. Prima che lei avesse il tempo di prendere il volo,
le si avvicinò e le ficcò in mano quello che aveva
scribacchiato.
Xhex guardò il pezzo di carta. «Vuoi che lo legga
subito o più tardi?»
798
Più tardi, sillabò lui.
Quando uscì era molto più sobrio. E in faccia aveva un
sorrisone compiaciuto della serie "Che uomo che sono".
Quando Lash ricomparve nell'atrio dei suoi genitori
rimase fermo per qualche secondo. Gli sembrava di
essere stato pressato tra due fogli di carta cerata e
appiattito con un ferro da stiro, una foglia secca
conservata artificialmente, e non senza dolore.
Si guardò le mani, fletté le dita. Si sgranchì il collo.
Erano cominciate le lezioni di suo padre. Si sarebbero
incontrati regolarmente. Lui era pronto a imparare.
Serrò i pugni e poi distese le dita, contando i trucchetti
a sua disposizione. Trucchetti che... non erano trucchetti,
in realtà. Proprio per niente. Lui era un mostro. Un
mostro che cominciava appena a realizzare l'utilità delle
scaglie sul suo corpo, delle fiamme nelle sue fauci e degli
aculei sulla coda.
Era un po' come dopo la transizione. Doveva capire da
capo chi era e come funzionava il suo corpo.
Per fortuna l'Omega lo avrebbe aiutato. Come
dovrebbe fare ogni buon genitore.
Quando se la sentì di farlo, voltò la testa verso le scale,
verso il punto in cui aveva visto John.
Era stato bellissimo rivedere il suo nemico. Davvero
rincuorante.
799
Hallmark doveva proprio lanciare sul mercato una
linea di cartoline dedicate alla vendetta, da spedire a chi
si intendeva braccare senza pietà.
Lash si alzò con cautela e lentamente si guardò
intorno, passando in rassegna gli oggetti che lo
circondavano: la pendola nell'angolo accanto alla porta
d'ingresso, i dipinti a olio e tutte le cianfrusaglie e i
ricordi di famiglia accumulati con cura, una generazione
dopo l'altra.
Poi si voltò verso la sala da pranzo.
I badili, pensò, erano nel garage.
Ne trovò un paio allineati contro il muro, accanto al
pannello con appesi gli attrezzi da giardinaggio. Il badile
che scelse aveva il manico di legno e una larga pala
smaltata di rosso.
Quando uscì fu sorpreso nel vedere che era ancora
buio; gli sembrava di aver passato ore e ore insieme
all'Omega. A meno che non fosse già il giorno dopo. O
addirittura quello ancora successivo.
Andò nel giardino di fianco alla casa e scelse un punto
sotto la quercia che ombreggiava le grandi finestre dello
studio. Cominciò a scavare, alzando di tanto in tanto gli
occhi sulle vetrate e sulla stanza al di là di esse. Il divano
era ancora macchiato di sangue. Che cosa ridicola da
notare. Mica potevano evaporare da solo dalla fodera di
seta. -
800
Scavò una fossa profonda un metro e mezzo, lunga tre
metri e larga un metro e venti.
Il mucchio di terra che ne ricavò era più grosso del
previsto e aveva un odore come quello del prato dopo un
violento temporale, dolciastro e muschiato. O forse
l'aroma dolciastro veniva da lui.
Il chiarore sempre più intenso, a est, lo indusse a
gettare il badile fuori dalla buca e a uscire con un balzo.
Doveva muoversi alla svelta, prima che il sole sorgesse, e
così fece. Prima calò dentro suo padre. Poi sua madre. Li
sistemò di fianco, uno dietro l'altro, con suo padre che
abbracciava sua madre.
Poi rimase fermo a guardarli.
Aveva sentito il bisogno di procedere alla sepoltura
prima di chiamare un'altra squadra di uomini per cercare
di svuotare la villa; quell'impulso lo aveva sorpreso, ma
d'altronde quei due erano stati i suoi genitori per la
prima parte della sua vita; si era detto che non gliene
fregava niente di loro, ma non era vero. Non voleva che
quei tesser profanassero i loro cadaveri in
decomposizione. La casa sì, quella potevano depredarla
senza problemi, ma i corpi no.
Col sole sempre più alto nel cielo e i raggi dorati che
filtravano tra i frondosi rami della quercia, fece una
telefonata e poi richiuse la fossa.
Porca miseria, pensò quand'ebbe terminato. Sembrava
proprio una tomba, con la terra smossa in cima che
formava una specie di cupola a forma di pagnotta.
801
Stava riponendo il badile in garage quando udì la
prima delle auto che si fermava davanti al portone
anteriore. Due tesser scesero proprio mentre una seconda
berlina imboccava il viale d'accesso, seguita da un pickup
Ford F-150 e da una monovolume.
Tutti insieme spandevano un gran profumo di
borotalco, dolce come l'aria mattutina. In fila indiana
entrarono in casa dei suoi genitori.
Il camion dei traslochi noleggiato da Mr D fu l'ultimo
ad arrivare.
Il Fore-lesser prese in pugno la situazione dando inizio
al saccheggio; nel frattempo Lash salì a farsi una doccia
veloce nella sua vecchia stanza da bagno. Mentre si
asciugava andò all'armadio. Vestiti... vestiti... chissà
perché, le cose che aveva indossato negli ultimi tempi
adesso gli sembravano stonate; tirò fuori un completo
fìchissimo di Prada.
La fase militare minimalista-chic era definitivamente
chiusa. Non era più il bravo soldatino-sottoaddestramento della confraternita.
Sentendosi sexy da morire andò al comò, aprì il
cassetto dove teneva i gioielli e...
Dove cazzo era il suo orologio? Il Jacob & Co.
tempestato di diamanti?
Cosa diavolo era...
802
Si guardò intorno e fiutò l'aria nella stanza. Poi fece
scattare la vista azzurrata, in modo da evidenziare in rosa
le impronte di chiunque avesse toccato la sua roba,
proprio come gli aveva insegnato suo padre.
Sul comò spiccavano delle impronte fresche e
anonime, prive di caratteristiche salienti, più vivide di
quelle che aveva lasciato lui stesso qualche giorno prima.
Fiutò di nuovo l'aria. John... John e Qhuinn erano stati lì...
e uno di quei miserabili figli di puttana aveva preso il suo
fottuto orologio.
Prese il coltello da caccia dalla scrivania e, con un
ruggito, lo scagliò dall'altra parte della stanza, dove andò
a conficcarsi in uno dei guanciali neri del letto.
Sulla soglia
succede...»
comparve
Mr
D.
«Signore?
Cosa
Lash si voltò di scatto e lo immobilizzo col dito, tanto
per usare un altro dei doni del suo vero padre.
Poi però, con un respiro profondo, abbassò il braccio e
si raddrizzò il vestito.
«Preparami...» Dovette schiarirsi la gola prima di
continuare, tanto era furioso. «Preparami la colazione.
Voglio mangiarla nel solarium, non in sala da pranzo.»
Mr D uscì e una decina di minuti dopo, passata la
rabbia, Lash scese di sotto e si accomodò di fronte a una
tavola imbandita con uova e pancetta affumicata, pane
tostato, marmellata e succo d'arancia.
803
Mr D aveva spremuto di persona le arance,
evidentemente. Il che, visto il sapore delizioso del succo,
era una scusa più che valida per non averlo freddato
seduta stante.
Gli altri lesser finirono per radunarsi tutti sulla soglia
del solarium, a guardarlo mangiare come se stesse
compiendo chissà quale magia.
Mentre Lash sorbiva un'ultima, lunga sorsata di caffè,
uno di loro disse, «Ma tu chi cazzo sei?»
Lash si pulì la bocca col tovagliolo e con tutta calma si
tolse la giacca. Poi si alzò slacciandosi i bottoni della
camicia rosa pastello.
«Sono il tuo re del cazzo.»
Detto ciò, spalancò la camicia e, con la forza del
pensiero, squarciò la pelle all'altezza dello sterno. Con la
gabbia toracica spalancata, scoprì le zanne esponendo il
cuore nero e palpitante.
I lesser balzarono all'indietro all'unisono. Uno arrivò
addirittura a farsi il segno della croce, il coglione.
Con calma Lash si richiuse il petto, si riabbottonò la
camicia e si rimise seduto. «Ancora un po' di caffè, Mr
D.»
Il cowboy batté le palpebre un paio di volte, inebetito:
ottima imitazione di una pecora intenta a risolvere un
problema di matematica. «Sì... sissignore.»
804
Lash alzò di nuovo la tazza e guardò le facce pallide
che aveva davanti. «Benvenuti nel futuro, signori. Adesso
vedete di muovere il culo, voglio il pianterreno
completamente vuoto prima che arrivi il postino, alle
dieci e mezzo.»
805
Capitolo 54
L'East Caldwell Community Center sorgeva sulla
Baxter Avenue, tra il Caldie Pizza & Mexican e la
Caldwell Tennis Academy. Situato in una grande fattoria
costruita all'epoca io cui i campi circostanti erano
coltivati a granoturco, aveva un bel prato e un pennone
con tanto di bandiera sul davanti e delle altalene sul
retro.
Quando Phury si materializzò dietro la struttura, il suo
unico pensiero fu di sparire di nuovo. Controllò
l'orologio. Dieci minuti.
Dieci minuti in cui doveva costringersi a restare.
Dio, che voglia di farsi una canna. Il suo cuore correva
come un velocista, le mani si potevano strizzare e il
prurito lo faceva diventare matto.
Sforzandosi di estraniarsi dal proprio corpo guardò il
parcheggio. Conteneva una ventina di macchine un po'
di tutte le marche e modelli. C'erano furgoncini e Toyota,
una Saab decappottabile e un maggiolino Volkswagen
rosa, tre monovolume e una Mini Cooper.
Si infilò le mani in tasca e attraversò il prato fino al
marciapiede che correva intorno all'edificio. Giunto al
tratto asfaltato che costituiva il viale d'accesso e il
806
parcheggio, risalì verso il portone a due battenti bordato
di alluminio.
Dentro c'era odore di cocco. Forse per via della cera
per pavimenti sul linoleum.
Proprio mentre stava meditando seriamente di tagliare
la corda, un umano sbucò da una porta; lo scroscio di uno
sciacquone svanì a poco a poco mentre l'uscio con su
scritto UOMINI si chiudeva alle sue spalle.
«È qui per la terapia di gruppo?» chiese il tizio
asciugandosi le mani con una salvietta di carta. Aveva
due occhi marroni gentili, come quelli di un cane da
caccia, e una giacca di tweed dall'aria pesante, per essere
estate. La cravatta era lavorata a maglia.
«Ehm, non saprei.»
«Be', se sta cercando la riunione, è giù nel
seminterrato.» Il suo sorriso era così spontaneo e affabile
che Phury fu lì lì per ricambiarlo, ma si fermò in tempo,
ricordando le differenze di dentatura tra le due specie.
«Ci sto andando anch'io, se vuole venire con me. Ma se
preferisce aspettare ancora un po', va bene lo stesso.»
Phury guardò le mani dell'uomo. Le stava ancora
sfregando, avanti e indietro, avanti e indietro.
«Sono nervoso», spiegò lui. «Ho le mani sudate.»
Phury abbozzò un sorriso. «Sa... credo che verrò giù
con lei.»
807
«Bene. Io sono Jonathon.»
«Io Ph-Patrick.»
Non si strinsero la mano e Phury ne fu lieto. Non
aveva un asciugamano di carta e le tasche stavano
peggiorando lo stato già pietoso delle sue mani grondanti
sudore.
Il seminterrato del centro aveva i muri di cemento
tinteggiati di bianco panna, il pavimento rivestito con
una moquette marrone scuro a pelo raso dall'aria
particolarmente resistente, e una quantità di tubi al neon
sul soffitto basso. La maggior parte della trentina di sedie
disposte in cerchio era occupata; quando Jonathon si
diresse verso un posto libero al centro, Phury lo salutò
con un cenno del capo e ne scelse uno il più possibile
vicino alla porta.
«Sono le nove», disse una donna con i capelli corti e
neri. Poi, alzandosi in piedi, lesse da un foglio di carta:
«Tutto ciò che viene detto qui non deve uscire da questa
stanza. Quando qualcuno sta parlando non bisogna
interromperlo o chiacchierare col vicino...»
Phury non sentì il resto perché era troppo impegnato a
vedere chi c'era. A parte lui, nessuno tra i presenti
sfoggiava vestiti Aquascutum, ed erano tutti umani.
Senza eccezioni. L'età andava dai venti ai quarantacinquant'anni, forse perché quell'orario era comodo per
chi lavorava o andava a scuola.
Osservando quei volti cercò di immaginare cosa
avesse fatto ciascuno di loro per finire lì, in quello spoglio
808
seminterrato profumato di cocco, col fondoschiena
piantato sulla plastica nera delle sedie.
Che cosa ci faceva lui, lì? Quella non era la sua gente, e
non solo perché nessuno di loro aveva le zanne e un
problema con la luce del sole.
Restò comunque, perché non aveva un altro posto
dove andare, e si chiese se lo stesso valesse anche per
qualcuno degli altri.
«Questo è un gruppo di ascolto», spiegò la donna, «e
stasera sarà Jonathon a parlare.»
Jonathon si alzò in piedi. Le mani stavano ancora
stropicciando i resti dell'asciugamano di carta, sfregando
avanti e indietro quello che ormai era ridotto a una specie
di sigaro Kleenex.
«Salve, io mi chiamo
riecheggiò un coro
Jonathon.» Nella stanza
di "ciao" pronunciati meccanicamente. «E sono un
tossicodipendente. Io... ho, ehm, ho fatto uso di cocaina
per una decina d'anni e ho perso praticamente tutto
quello che avevo. Sono stato dentro due volte. Ho dovuto
dichiarare bancarotta. Ho perso la casa. Mia moglie...
ehm, ha chiesto il divorzio e si è trasferita in un altro
stato insieme a mia figlia. Subito dopo ho perso il lavoro
come insegnante di fisica perché ero sempre strafatto.
«Sono pulito da, sì, da agosto. Ma... non ho smesso di
pensare alla droga. Al momento vivo in una casa famiglia
perché ho seguito un programma di recupero e ho un
809
nuovo lavoro. Ho cominciato due settimane fa. Insegno
in una prigione, in realtà. La prigione in cui ero carcerato.
Matematica, insegno matematica.» Jonathon si schiarì la
gola. «Be'... dunque, ehm, esattamente un anno fa...
esattamente un anno fa ero in un vicolo, in centro. Stavo
comprando una dose da un pusher e ci hanno beccati.
Non la polizia. Il tizio che spacciava in quella zona. Ha
sparato e mi ha colpito al fianco e alla coscia. Io...»
Jonathon si schiarì di nuovo la voce. «Mentre me ne
stavo steso lì per terra, sanguinante, ho sentito che
qualcuno mi spostava le braccia. Il tizio che aveva
sparato mi ha fregato il cappotto, il portafoglio e
l'orologio, poi mi ha dato la pistola in testa. Io... io
proprio non dovrei essere qui, stasera.» Si levò un
mormorio diffuso di uh-huh. «Ho iniziato a venire a
queste riunioni perché non sapevo dove altro andare.
Adesso scelgo di venire qui perché voglio stare dove
sono stasera più di quanto voglia sballarmi. A volte... a
volte il margine è sottilissimo, basta un niente e potrei
ricascarci. Così, se mi capita di pensare al futuro, non
vado più in là di martedì prossimo alle nove. Quando
tornerò di nuovo qui. Insomma, be', ecco dov'ero un
anno fa e dove sono adesso.»
Jonathon si rimise seduto.
Phury attese che gli altri si lanciassero in domande e
commenti. Invece si alzò in piedi un'altra persona. «Ciao,
io mi chiamo Ellis...»
Funzionava così. Uno dopo l'altro, tutti parlavano
della propria dipendenza.
810
Alle nove e cinquantatré, stando all'orologio appeso al
muro, la donna bruna si alzò in piedi. «Adesso recitiamo
la Preghiera della Serenità.»
Phury si alzò in piedi con gli altri e rimase scioccato
quando qualcuno lo prese per mano.
Non era più sudaticcia, in compenso.
Non sapeva per quanto ce l'avrebbe fatta a resistere. Il
mago era stato con lui per tantissimi anni e lo conosceva
come un fratello. Ma una cosa la sapeva di sicuro: il
prossimo martedì, alle nove di sera, sarebbe tornato lì.
Uscì insieme agli altri e, quando venne investito
dall'aria notturna, quasi si piegò in due per il bisogno di
fumare.
Mentre tutti gli altri si sparpagliavano verso le loro
auto, avviavano i motori e accendevano i fari, lui si
sedette su una delle altalene con le mani sulle ginocchia e
i piedi piantati sulla nuda terra.
Per un attimo gli parve di essere osservato, ma forse la
paranoia era un effetto collaterale della disintossicazione,
chissà.
Una decina di minuti dopo trovò un punto immerso
nell'ombra e si smaterializzò verso il nord dello Stato,
verso la casa di Rehv.
Quando riprese forma dietro il grande cottage in stile
Adirondack, la prima cosa che vide fu una figura dietro
le vetrate scorrevoli.
811
Cormia lo stava aspettando.
Scivolò fuori senza fare rumore, chiuse la vetrata e
incrociò le braccia sul petto per scaldarsi. Il pesante
maglione irlandese lavorato a mano che aveva indosso
era di Phury, e i pantacollant erano presi in prestito da
Bella. I lunghi capelli biondi, sciolti sulle spalle, le
arrivavano in fondo alla schiena e brillavano come oro
alla luce accesa dietro i vetri romboidali delle finestre.
«Ciao», la salutò lui.
«Ciao.»
Phury si avvicinò, risalendo il prato fino alla terrazza
di pietra. «Hai freddo?»
«Un pochino.»
«Bene, così posso scaldarti.» Spalancò le braccia e
Cormia si strinse addosso a lui. Malgrado il grosso
maglione, Phury la sentiva contro di sé. «Grazie per non
aver chiesto com'è andata. Ci sto ancora provando... non
so cosa dire, davvero.»
Lei fece scorrere le mani sul suo corpo, dalla vita alle
spalle. «Me lo dirai se e quando sarai pronto a farlo.»
«Voglio tornarci.»
«Bene.»
Rimasero lì fermi, stretti nella notte gelida, e avevano
caldo, molto caldo.
812
Phury avvicinò le labbra all'orecchio di Cormia e
bisbigliò, «Ho voglia di stare dentro di te.»
«Sì...» sussurrò sensuale lei.
Dentro non sarebbero stati soli, ma erano soli lì fuori,
al riparo buio e silenzioso della casa. Spingendola ancor
più nell'oscurità, Phury insinuò le mani sotto il maglione
della sua shellan e le fece scivolare sulla sua pelle. Liscia,
calda e vitale, lei si inarcò sotto quella carezza.
«Ti lascio tenere il maglione», le disse. «Ma quei
pantacollant devono sparire.»
Infilò i pollici nell'elastico dei fuseau abbassandoli fino
alle caviglie e poi sfilandoli via dai piedi.
«Non hai freddo, vero?» le chiese, anche se conosceva
già la risposta. Gli bastava toccarla, sentire il suo odore.
«Neanche un po'.»
Il fianco della casa era di pietra, ma Phury sapeva che
il pesante maglione irlandese le avrebbe riparato le
spalle,
fungendo
da
imbottitura.
«Appoggiati
all'indietro.»
Quando Cormia lo fece lui le circondò la vita con un
braccio per ammortizzare il contatto col muro, le mise la
mano libera sui seni e la baciò. Fu un bacio profondo,
lungo, lento; la bocca di lei si muoveva sotto la sua in
modi a un tempo familiari e misteriosi; d'altronde, fare
l'amore con lei era questo, no? Ormai la conosceva a
fondo, dentro e fuori, non c'era parte di lui che non fosse
813
entrata dentro di lei, in una forma o nell'altra. Eppure
stare con lei era meraviglioso come la prima volta.
Lei era sempre la stessa, eppure sempre nuova.
E sapeva bene qual era il punto. Sapeva che adesso lui
aveva bisogno di assumere il controllo, sapeva che aveva
bisogno di condurre il gioco. In quel momento Phury
voleva fare qualcosa di giusto e di bello e voleva farlo
bene, perché dopo quella riunione riusciva solo a pensare
a tutti gli orrori che aveva fatto a se stesso e agli altri, e
un po' anche a lei.
Phury fece con comodo, affondandole la lingua in
bocca, avanti e indietro, e accarezzandole il seno con la
mano, investimenti che fruttarono un dividendo di tutto
rispetto: Cormia si sciolse nel suo abbraccio, flessuosa ed
eccitatissima, mentre l'erezione premeva con prepotenza
contro i calzoni nel disperato tentativo di liberarsi.
«Credo che dovrei assicurarmi di non farti buscare un
colpo d'aria», disse Phury facendo scivolare la mano
verso il basso.
«Sì... fallo», gemette lei, piegando la testa di lato.
Phury non era certo che avesse esposto la gola di
proposito, ma alle sue zanne non importava.
Immediatamente si apprestarono a trafiggerla,
allungandosi dall'arcata superiore, affilate e fameliche.
Le infilò una mano tra le cosce e nel sentire quel fuoco
gli cedettero le ginocchia. Voleva prendersela con calma,
ma non ce la faceva più.
814
«Oh, Cormia», mugolò, facendo scivolare entrambe le
mani sui suoi fianchi e sollevandola di peso. «Slacciami i
pantaloni... tiramelo fuori...» disse, spalancandole le
cosce col proprio corpo.
Avvolta dall'odore sempre più intenso di Phury,
l'odore del desiderio tipico dei vampiri innamorati,
Cormia liberò il suo membro e si lasciò penetrare in un
affondo a un tempo fluido e vigoroso.
Abbandonò la testa all'indietro mentre Phury,
tenendola sollevata, entrava e usciva dal suo corpo. Con
magistrale coordinazione si attaccò anche alla sua vena,
una prodezza facile come bere un bicchier d'acqua.
Quando le zanne le trafìssero la delicata pelle del collo,
Cormia si aggrappò alle sue spalle stringendo la camicia
nei pugni,
«Ti amo...»
Per una frazione di secondo, Phury rimase impietrito.
Quell'attimo si impresse con limpidezza estrema nella
sua mente; tutto, dal peso di lei tra le sue braccia alla
stretta della vulva intorno al pene, dalla gola di lei contro
la sua bocca ai loro odori che si fondevano, dal profumo
del bosco all'aria cristallina. Aveva l'esatta percezione
dell'equilibrio tra la gamba sana e la protesi, e di quanto
gli tirava la camicia sotto le braccia perché lei vi si era
aggrappata. Sentiva con chiarezza il petto di lei che
pompava contro il suo, il pulsare del sangue nelle vene di
entrambi, il montare della tensione erotica.
815
Ma più di tutto aveva la piena consapevolezza di
quanto era profondo l'amore che li legava.
Non ricordava niente di altrettanto vivido, di
altrettanto reale.
Ecco il dono della guarigione, della disintossicazione.
La capacità di vivere quell'attimo con la sua amata
essendo pienamente consapevole, pienamente lucido,
pienamente presente. Concentrato al massimo.
Ripensò alla riunione, a Jonathon e a ciò che aveva
detto a un certo punto: Voglio stare dove sono stasera più di
quanto voglia sballarmi.
Sì. Maledizione... sì.
Phury riprese a muoversi, ora prendendo, ora dando.
Senza fiato, teso allo spasimo, nell'istante in cui
vennero insieme si sentì vivo... vivo più che mai.
816
Capitolo 55
Xhex lasciò il club alle quattro e dodici del mattino. Gli
addetti alle pulizie stavano passando l'aspirapolvere,
pulendo e lucidando e alla fine avevano l'incarico di
chiudere tutte le porte, lei invece programmò
l'attivazione automatica degli allarmi alle otto. I
registratori di cassa erano vuoti e l'ufficio di Rehvenge
non solo era chiuso a chiave, ma impenetrabile.
La sua Ducati la stava aspettando nel garage privato
dove era parcheggiata la Bendey quando Rehv non ne
aveva bisogno. Xhex spinse fuori la motocicletta nera,
montò in sella mentre la porta del garage si chiudeva
sferragliando, e mise in moto con uno scatto del piede.
Non usava mai il casco.
In compenso portava sempre i copripantaloni di cuoio
e il giubbotto da motociclista.
Con la Ducati che rombava tra le gambe iniziò il lungo
tragitto verso casa, zigzagando nel labirinto di sensi unici
del centro per poi lanciarsi a tutto gas lungo la
Northway. Stava viaggiando ben oltre i centosessanta
chilometri orari quando superò a tutta velocità un'auto
della polizia, parcheggiata sotto i pini dell'aiuola
spartitraffico.
Xhex non accendeva mai i fari.
817
Il che spiegava perché, ammesso che Xhex avesse fatto
scattare il radar dello sbirro e lui non stesse ronfando
dietro il distintivo, quello non si lanciò all'inseguimento.
Difficile inseguire ciò che non riuscivi a vedere.
Xhex aveva due posti dove riposarsi, a Caldwell: un
appartamento in un seminterrato in centro per quando le
serviva subito un po' di privacy, e un capanno con due
camere da letto in un angolo appartato sul fiume
Hudson.
La strada sterrata che conduceva alla sua proprietà sul
lungo
fiume era un sentiero e nulla più, grazie al fatto che
negli ultimi trent'anni Xhex l'aveva lasciata invadere dal
sottobosco. In fondo a quel groviglio di vegetazione, su
un appezzamento di sette acri, sorgeva un capanno da
pesca degli anni Vénti, una costruzione solida ma priva
di qualità estetiche. Il garage, che sorgeva staccato, sulla
destra, era stato un valore aggiunto di primaria
importanza quando aveva esaminato la proprietà. Xhex
era il tipo di persona che amava tenere a portata di mano
una grande potenza di fuoco, e poter depositare le
munizioni fuori casa riduceva le probabilità di saltare per
aria nel sonno.
La moto entrò nel garage e Xhex entrò in casa.
Si fermò in cucina. Le piaceva l'odore di quel posto: il
profumo di pino proveniente dalle vecchie assi del
soffitto, delle pareti e del pavimento e la dolce fragranza
di cedro che veniva dagli armadi destinati a ospitare
l'attrezzatura dei pescatori.
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Non aveva un sistema di sicurezza. Non ci credeva.
Aveva se stessa. Ed era sempre bastato.
Dopo una tazza di caffè istantaneo passò in camera da
letto e si tolse i calzoni di pelle. In slip e reggiseno
sportivo neri si stese sul nudo assito facendosi forza.
Per quanto fosse tosta, le ci voleva sempre un minuto.
Quando si sentì pronta, abbassò le mani verso le cosce,
verso le fasce metalliche munite di spuntoni conficcati
nella pelle e nei muscoli. Le serrature dei cilici scattarono
con un pop; Xhex si lasciò sfuggire un gemito mentre il
sangue colava dalle ferite. Con la vista annebbiata si
raggomitolò su un fianco, respirando a bocca aperta.
Quello era l'unico modo in cui riusciva a dominare il
suo lato symphath. Il dolore era la sua automedicazione.
Con la pelle resa viscida dal suo stesso sangue e il
sistema nervoso che si ricalibrava, fu pervasa da un
formicolio. Lei lo vedeva come la ricompensa per essere
stata forte, per aver mantenuto i nervi saldi. Era tutta
chimica, certo, banalissime endorfine che scorrevano
all'impazzata nelle vene, nient'altro, ma c'era qualcosa di
magico in quel vigoroso, prepotente senso di euforia.
In momenti come quello era tentata di comprare dei
mobili per quel posto, ma era un impulso facile da
contrastare: il pavimento di legno era più semplice da
pulire.
819
Il respiro si stava normalizzando, il cuore rallentava e
il cervello cominciava a riattivarsi, quando qualcosa
s'insinuò nella sua testa invertendo la tendenza verso la
stabilizzazione.
John Matthew.
John Matthew... quel bastardo. Aveva, tipo, dodici
anni, per l'amor del cielo. Cosa cavolo gli era saltato in
mente di provarci con lei?
Lo rivide ritto sotto quelle luci, nel bagno del
mezzanino, il volto di un guerriero, non di un ragazzino,
il corpo di un maschio all'altezza della situazione, non di
uno sfigato con problemi di autostima, abituato a fare da
tappezzeria.
Allungò la mano di lato, avvicinò i calzoni e tirò fuori
l'asciugamano di carta piegato che John le aveva dato. Lo
aprì e lesse cosa aveva scritto.
La prossima volta dì il mio nome. Godrai ancora di più.
Xhex appallottolò la salvietta con un ringhio. Aveva
una mezza idea di alzarsi e bruciarla.
Invece si infilò la mano libera in mezzo alle gambe.
Mentre il sole si alzava all'orizzonte, inondando di
luce la camera da letto, Xhex si immaginò John Matthew
steso sulla schiena, sotto di sé, intento a spingerle dentro
quello che gli aveva visto dentro i jeans mentre lei lo
cavalcava con foga...
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Che razza di fantasia. Incredibile. Se la prese a morte
con lui per avergliela ispirata. Ci avrebbe dato un taglio,
se avesse potuto.
Invece disse il suo nome.
Due volte.
821
Capitolo 56
La Vergine Scriba era una maniaca del controllo. Che
non era un male, se eri una divinità e avevi creato un
mondo intero all'interno del mondo già esistente, una
storia all'interno della storia universale.
Sul serio. Non era un male.
Be', forse era un bene... fino a un certo punto.
La Vergine Scriba fluttuò verso il sancta sanctorum
impenetrabile all'interno dei suoi appartamenti privati, e
a un suo comando la porta a due battenti si aprì. Dalla
stanza fuoriuscì una leggera foschia che si gonfiò come
una pezza di raso nel vento. Quando la condensa si ritirò,
apparve sua figlia Payne, il poderoso corpo sospeso,
inanimato, nell'aria.
Payne era come il suo defunto padre: aggressiva,
calcolatrice e forte.
Pericolosa.
Tra le Elette non c'era posto per una femmina come
Payne. E neppure nel mondo dei vampiri. Dopo quel suo
atto finale, la Vergine Scriba aveva isolato lì sua figlia,
inadatta a qualunque altro luogo, in nome della sicurezza
generale.
Abbiate fede nella vostra creazione.
822
Le parole del Primale le risuonavano nelle orecchie dal
momento che le aveva pronunciate. Esprimevano una
verità sepolta in fondo ai pensieri e ai timori più reconditi
della Vergine Scrivana.
Le vite dei vampiri, maschi e femmine, che lei aveva
cavato dal serbatoio biologico tramite un unico, generoso
atto di volontà, non si potevano riporre in sezioni
separate, come i libri nella biblioteca del Santuario.
L'ordine è attraente, certo, poiché nell'ordine risiedono
sicurezza e salvezza. La natura, tuttavia, compresa quella
degli esseri viventi, è caotica, imprevedibile e
recalcitrante alle costrizioni.
Abbiate fede nella' vostra creazione.
La Vergine Scriba era in grado di vedere molte cose di
là da venire, intere legioni di trionfi e tragedie, ma erano
semplici granelli di sabbia in una spiaggia sconfinata.
Non era in grado di prevedere, tuttavia, il destino nella
sua interezza: essendo il futuro della razza che aveva
generato legato troppo strettamente al suo stesso destino,
la prosperità o la decadenza della sua gente le era
sconosciuta e inconoscibile.
L'unica totalità di cui disponeva era il presente, e il
Primale aveva ragione. I suoi adorati figli non stavano
prosperando, e se le cose restavano invariate presto non
ne sarebbe rimasto nessuno.
Il cambiamento era la sola speranza che avevano per il
futuro.
823
La Vergine Scriba sollevò il cappuccio nero e lo lasciò
ricadere sulla schiena. Tese la mano e, attraverso l'aria
immota, inviò un caldo flusso di molecole verso sua
figlia.
Gli occhi di ghiaccio di Payne, tanto simili a quelli del
suo gemello, Vishous, si spalancarono di colpo.
«Figliola», disse la Vergine Scriba.
Non fu sorpresa nel sentire la risposta.
«Vaffanculo.»
824
Capitolo 57
Più di un mese dopo, Cormia si svegliò nel modo in
cui si stava abituando ad accogliere il crepuscolo.
Phury spingeva l'erezione dura come il marmo contro
di lei. Con ogni probabilità era ancora addormentato. Col
sorriso sulle labbra, Cormia rotolò a pancia in giù per
fargli spazio, già sapendo quale sarebbe stata la sua
reazione. Infatti. Lui le fu sopra in un attimo,
schiacciandola sotto al suo peso come una coperta calda
che le impediva di muoversi e...
Quando la prese da dietro, Cormia si lasciò sfuggire
un mugolio di piacere.
«Mmm», le sussurrò all'orecchio lui. «Buonasera,
shellan.»
Lei sorrise, inarcando la schiena per permettergli di
penetrarla ancora più a fondo. «Hellren caro, come stai...»
Gemettero insieme quando un affondo vigoroso la
trafisse fin dentro l'anima. Mentre Phury la cavalcava
lento, dolcemente, sfregando il naso contro la sua nuca e
mordicchiandola con le zanne, si tenevano per mano, le
dita intrecciate.
Non si erano ancora sposati ufficialmente, c'era stato
troppo da fare con le Elette desiderose di vedere com'era
questo mondo. Ma stavano insieme ogni momento, e
825
Cormia non riusciva a spiegarsi come avessero potuto
vivere lontani.
Be'... una sera alla settimana dovevano separarsi per
qualche ora. Ogni martedì Phury andava alla sua
riunione dei Narcotici Anonimi.
Rinunciare al fumo rosso lo metteva a dura prova.
Spesso era molto nervoso oppure gli si annebbiava la
vista o doveva lottare per non azzannare qualcosa per il
fastidio. Le prime due settimane aveva avuto i sudori
freddi; adesso stavano diminuendo, ma ogni tanto
soffriva di ipersensibilità cutanea.
Però non aveva avuto nessuna ricaduta. Per quanto
fosse dura, lui non mollava. E non si era dato neanche
all'alcol.
Avevano fatto un mucchio di sesso, in compenso. Cosa
che a lei non dispiaceva affatto.
Phury si ritrasse e la fece rotolare sulla schiena.
Montandole sopra, la baciò con urgenza, le mani sui seni,
le dita che sfregavano i capezzoli turgidi. Inarcandosi
contro di lui, Cormia fece scivolare le mani tra i loro corpi
avvinti, afferrò il membro eretto e lo accarezzò come
piaceva a lui, dalla base alla punta, su e giù.
Sul cassettone il cellulare di Phury emise un bip; lo
ignorarono entrambi mentre lei, sorridendo radiosa, lo
guidava di nuovo dentro di sé. Quando furono di nuovo
una cosa sola, il fuoco divampò incontrollabile e il ritmo
dei loro movimenti divenne frenetico. Avvinghiata alle
826
spalle del suo amore, attenta ad assecondare le sue
spinte, Cormia si lasciò trasportare via da lui, con lui.
Passato l'impeto dell'estasi, aprì gli occhi e venne
salutata dal caldo sguardo giallo che la riempiva sempre
di gioia.
«Adoro svegliarmi», disse Phury, baciandola sulla
bocca.
«Anch'io ...»
Sulle scale scattò l'allarme; il suo urlo stridulo era il
genere di cosa che faceva rimpiangere di non essere
sordi.
Con una risata, Phury rotolò su un fianco, tenendola
stretta al petto. «Cinque... quattro... tre... due...»
«Scuuusaaateeee!»
scalinata.
gridò
Layla
dal
fondo
della
«Cos'è stato stavolta, Eletta?» gridò di rimando Phury.
«Uova strapazzate», rispose lei, sempre urlando.
Phury scrollò la testa. «Avrei giurato che fosse il pane
tostato», disse sottovoce a Cormia.
«Impossibile. Il tostapane l'ha rotto ieri.»
«Veramente?»
827
Cormia annuì. «Ha provato a infilarci una fetta di
pizza e il formaggio...»
«Dappertutto?»
«Dappertutto.»
«Non fa niente, Layla», disse Phury ad alta voce. «Puoi
sempre pulire la pentola e riprovarci.»
«Non credo che la pentola si possa utilizzare di
nuovo», fu la risposta.
«Non oso chiedere», commentò Phury abbassando la
voce.
«Ma non sono di metallo?»
«Dovrebbero.»
«Sarà meglio che vada a darle una mano», disse
Cormia tirandosi su. «Adesso scendo, sorella!» gridò.
«Due secondi.»
Phury l'attirò di nuovo a sé per un bacio, poi la lasciò
andare. Cormia fece una doccia veloce - veloce come il
fulmine - e quando uscì dal bagno indossava un paio di
blue jeans comodi e una delle camicie Gucci di Phury.
Forse per tutti gli anni in cui aveva portato morbide
tuniche non amava i vestiti attillati e il suo hellren non
aveva nulla da ridire, perché gli piaceva che portasse i
suoi vestiti.
828
«Quel colore ti sta a meraviglia», le disse con voce
sexy, guardandola mentre si faceva la treccia.
«Ti piace il color lavanda?» fece lei con una piccola
piroetta, e negli occhi di lui si accese un lampo di un
giallo brillante.
«Oh, sì che mi piace. Vieni qui, Eletta.»
Cormia si mise le mani sui fianchi mentre giù di sotto
il pianoforte cominciava a suonare. Scale. Il che
significava che Selena si era alzata. «Devo scendere
prima che Layla dia fuoco alla casa.»
Phury fece quel sorriso che faceva sempre quando se
la immaginava nuda, molto nuda. «Vieni qui, Eletta.»
«Cosa ne dici se faccio un salto giù e poi torno con
qualcosa da mangiare?»
Phury ebbe l'audacia di gettare via le lenzuola
aggrovigliate e posare la mano sul membro turgido.
«Solo tu puoi soddisfare il mio appetito.»
Un aspirapolvere si unì al coro di rumori proveniente
dal pianterreno, tanto per chiarire chi altri si era alzato e
girava per casa. Amalya e Pheonia tiravano a sorte tutti i
giorni per decidere chi poteva usare l'aspirapolvere. Che
i tappeti nel grande cottage di Rehvenge ne avessero
bisogno o meno poco importava... venivano sempre
passati con l'aspirapolvere.
829
«Due secondi», disse Cormia sapendo che, se gli
capitava a tiro, sarebbero finiti di nuovo avvinghiati. «Poi
torno su e tu potrai imboccarmi, cosa ne dici?»
Tutto fremente, Phury strabuzzò gli occhi. «Oh, sì.
Questa è... Oh, sì, è un'idea magnifica.»
Il cellulare emise un altro bip e con un gemito Phury
allungò la mano verso il comodino. «Okay, vai, prima
che ti tenga bloccata qui per un'altra ora. O magari
quattro.»
Cormia si avviò verso la porta, ridendo.
«Dio.. .buono.»
Cormia si voltò. «Che cosa c'è?»
Phury si rizzò lentamente a sedere, stringendo il
telefonino come se valesse più dei quattrocento dollari
che gli era costato la settimana prima.
«Phury?»
Lui le mostrò il display.
L'SMS veniva da Zsadist: femminuccia, 2 h fa. Nalla. Sxo
ke stiate bene. Z.
Cormia si morse il labbro, poi con delicatezza posò
una mano sulla spalla di Phury. «Dovresti tornare a casa.
Dovresti vederlo. Vederli.»
830
Phury deglutì a fatica. «Sì. Non so. Non penso che ci
andrò... Forse è un bene. Wrath e io possiamo fare quello
che serve al telefono... Sì. Meglio di rio.»
«Pensi di rispondere all'SMS?»
«Sì», disse Phury, coprendosi l'inguine col lenzuolo e
fissando il cellulare.
Un istante dopo Cormia disse, «Vuoi che lo faccia io?»
Phury annuì. «Per favore. Mandalo a nome di tutti e
due, okay?»
Lei lo baciò sulla testa e poi digitò, Auguri a te, alla tua
shellan e al vostro cucciolo. Vi siamo vicini nello spirito, con
affetto, Phury e Cormia.
La sera dopo, Phury fu tentato di non andare
all'incontro della Narcotici Anonimi. Molto tentato.
Alla fine ci andò. Non sapeva cosa lo avesse convinto a
farlo. Non sapeva come c'era riuscito.
Voleva solo accendersi uno spinello per non dover più
sentire il dolore. Strano però. Perché cavolo soffriva
tanto? La piccola del suo gemello era venuta al mondo e
stava bene, Z era diventato padre, Bella era sopravvissuta
al parto... avrebbe dovuto sentirsi euforico e sollevato, in
fondo era ciò che si erano augurati tutti quanti, lui per
primo.
Senza dubbio lui era l'unico ad avere reagito in modo
tanto assurdo. Gli altri fratelli di sicuro era tutti presi a
831
brindare alla salute di Z e della sua figlioletta e a
coccolare Bella. I festeggiamenti sarebbero andati avanti
per settimane e Fritz sarebbe stato al settimo cielo per
tutti i banchetti e le cerimonie da organizzare.
Gli sembrava quasi di vedere la scena. Il sontuoso
ingresso della magione sarebbe stato decorato con festoni
verde brillante, il colore della stirpe di Z, e porpora, il
colore di quella di Bella. Ghirlande di fiori sarebbero
state appese a tutte le porte della casa, armadi e
armadietti compresi, per simboleggiare la nascita di
Nalla. I camini sarebbero rimasti accesi per giorni,
alimentati da speciali ceppi aromatici ricavati dal fusto
della canna da zucchero, ciocchi di legno trattati in modo
da ardere lentamente in un tripudio di fiamme rosse, per
rendere onore al sangue nuovo del piccolo tesoro appena
nato.
Allo scoccare della ventiquattresima ora dal lieto
evento ogni abitante della casa avrebbe portato ai
genitori gonfi di orgoglio un enorme fiocco intessuto coi
colori della propria famiglia. I fiocchi, annodati alla culla
di Nalla, erano la promessa solenne di vegliare su di lei
per tutta la vita. Nel giro di un'ora, la culla dove Nalla
poggiava la preziosa testolina sarebbe stata sommersa da
una cascata di fiocchi di raso, coi lunghi nastri che
toccavano terra in un fiume d'amore.
Nalla avrebbe ricevuto in dono gioielli di inestimabile
valore, sarebbe stata avvolta in drappi di velluto e stretta
da braccia amorevoli. Sarebbe stata curata teneramente e
tenuta in gran conto per il miracolo che era, e per sempre
la sua nascita avrebbe rallegrato il cuori di coloro che
832
avevano atteso con speranza e timore di darle il
benvenuto.
Già... Phury non sapeva cosa lo avesse spinto ad
andare al centro di recupero, non sapeva cosa lo avesse
aiutato a varcare quella porta e a scendere in quel
seminterrato, e non sapeva cosa lo avesse convinto a
restare.
In compenso sapeva che, una volta tornato al cottage
di Rehvenge, non se l'era sentita di entrare.
Si era seduto sulla terrazza posteriore, in una poltrona
di vimini, sotto le stelle. In testa non aveva niente. E
assolutamente tutto.
A un certo punto Cormia uscì e gli mise una mano
sulla spalla, come faceva sempre quando sentiva che era
assorto nei suoi pensieri. Phury le diede un bacio sul
palmo della mano, lei lo baciò sulla bocca e tornò dentro,
molto probabilmente a lavorare ai progetti per il nuovo
club di Rehv.
La notte era tranquilla e decisamente fredda. Di tanto
in tanto una folata di vento scompigliava le chiome degli
alberi, le fronde autunnali stormivano con un fruscio
sommesso, quasi lusingate da quelle attenzioni.
Nella casa alle sue spalle Phury sentiva il futuro. Le
Elette protendevano le braccia verso il mondo esterno,
imparando cose su se stesse e sulla Terra. Era così fiero di
loro; era un Primale nel solco della più antica tradizione,
nel senso che era disposto a uccidere per proteggere le
833
sue femmine, era pronto a fare qualsiasi cosa per una
qualunque di loro.
Ma quello era un amore paterno. Il suo amore
coniugale era per Cormia e per lei soltanto.
Phury si massaggiò il centro del petto e lasciò scorrere
le ore mentre il vento soffiava impetuoso. La luna,
raggiunto il culmine della sua parabola celeste, cominciò
la sua discesa. Qualcuno in casa mise su un'aria lirica.
Qualcun altro, grazie al cielo, cambiò musica scegliendo
un motivo hip hop. Qualcuno aprì l'acqua nella doccia.
Qualcun altro si mise a passare l'aspirapolvere. Di nuovo.
La vita. In tutta la sua banale maestà.
Non potevi godertela se te ne stavi seduto al buio con
le mani in mano, sia in senso letterale che metaforico,
perché eri intrappolato nella tenebra di qualche
dipendenza.
Phury si toccò il polpaccio della protesi. Fino a quel
momento ce l'aveva fatta con una gamba-dimezzata.
Vivere il resto della vita senza il suo gemello e senza i
suoi fratelli... avrebbe fatto anche questo. Aveva molto di
cui essere grato, e questo avrebbe compensato le tante
mancanze.
Quel senso di vuoto non sarebbe durato per sempre.
In casa qualcuno tornò alla lirica.
Oh, merda. Stavolta era Puccini.
834
"Che gelida manina."
Con tutto il repertorio che avevano a disposizione
perché scegliere proprio l'unico assolo che, garantito, lo
avrebbe fatto stare peggio? Dio, non ascoltava La Bohème
da... be', da una vita, o almeno quella era la sua
impressione. Nel sentire quella musica tanto amata ebbe
una stretta al cuore che gli tolse il respiro.
Afferrò i braccioli della poltrona e fece per alzarsi.
Proprio non ce la faceva ad ascoltare la voce di quel
tenore. Quella splendida, potente voce tenorile gli
ricordava troppo...
Ai margini del bosco comparve Zsadist. Cantando.
Stava cantando... Era sua la voce tenorile nelle orecchie
di Phury, non un CD che suonava dentro casa.
La voce di Z si librava sui picchi e le vallate dell'aria
lirica mentre lui avanzava sull'erba al ritmo delle parole
perfettamente intonate. Il vento divenne la sua orchestra,
sospingendo i suoni spettacolari che gli uscivano di bocca
oltre il prato e gli alberi, su, fino in cima alle montagne, e
ancora più su, fino in cielo, il solo luogo in cui poteva
essere nato un talento simile.
Phury si alzò in piedi, quasi che a sollevarlo dalla
poltrona non fossero state le sue gambe, ma la voce del
suo gemello. Quello era il ringraziamento rimasto tanto a
lungo inespresso, quella la gratitudine per il salvataggio
e la riconoscenza per la vita vissuta, quella era la gola
spiegata di un padre attonito cui mancavano le parole
per esprimere a suo fratello cosa sentiva e che doveva
835
ricorrere alla musica per manifestare almeno in parte ciò
che non riusciva a dire.
«Ah, diamine... Z», mormorò Phury nel bel mezzo di
quello splendore.
Quando l'assolo giunse al culmine, quando la corda
delle emozioni vibrò col massimo della potenza, tutti i
membri della confraternita emersero uno dopo l'altro
dalle tenebre della notte. Wrath. Rhage. Butch. Vishous.
Tutti con la veste cerimoniale bianca che avrebbero
indossato per onorare la ventiquattresima ora dalla
nascita di Nalla.
Zsadist intonò l'ultima, sublime nota del pezzo
proprio di fronte a Phury.
Quando il verso finale, "Vi piaccia dir!", fluttuò verso
l'infinito, Z alzò una mano.
Nel vento notturno si agitava un gigantesco fiocco di
raso verde e oro.
Cormia si avvicinò con tempismo perfetto, cingendo
col braccio la vita di Phury, che si reggeva in piedi solo
grazie e lei.
Nell'Antico Idioma Zsadist disse, «Sareste tanto gentili
da onorare la nascita della mia figlioletta con i colori del vostro
lignaggio e l'amore dei vostri cuori?»
Con un profondo inchino offrì loro il fiocco.
836
Phury prese i lunghi nastri di raso, e con voce
incrinata dall'emozione, disse, «Sarebbe un onore
incommensurabile offrire in pegno alla tua figlioletta i colori
del nostro lignaggio.»
Z si raddrizzò; difficile dire chi dei due avanzò per
primo verso l'altro.
Molto probabilmente si incontrarono a metà strada.
Si abbracciarono senza dire niente. A volte le parole
non bastano, le lettere e la grammatica si rivelano
strumenti incapaci di contenere i moti del cuore.
I fratelli applaudirono.
A un certo punto Phury prese per mano Cormia,
attirandola vicino a sé.
Poi guardò il suo gemello e chiese, «Dimmi, Nalla ha
gli occhi gialli?»
Z annuì, sorridendo. «Sì. Bella dice che mi assomiglia...
il che significa che assomiglia anche a te. Vieni a vedere
la mia femminuccia, fratello caro. Torna a casa a
conoscere tua nipote. Sulla sua culla c'è un grande spazio
vuoto, abbiamo bisogno che voi due lo colmiate.»
Phury sentì che Cormia, stretta a lui, gli accarezzava il
centro del petto. Con un profondo sospiro si passò una
mano sugli occhi. «Quella è la mia opera preferita e il mio
assolo preferito.»
837
«Lo so.» Sorridendo a Cormia, Z recitò i primi due
versi, "Che gelida manina, se la lasci riscaldar." «E adesso
hai una manina da riscaldare nella tua.»
«Lo stesso vale per te, fratello.»
«Vero. Verissimo, per fortuna.» Z si fece serio. «Per
favore... vieni a trovarla... ma vieni anche a trovare noi. I
fratelli sentono la tua mancanza. Io sento la tua
mancanza.»
Phury socchiuse gli occhi, folgorato da un'intuizione.
«Eri tu, vero? Sei venuto al centro di recupero. E dopo
sei rimasto a guardarmi mentre ero seduto su
quell'altalena.»
«Sono così fiero di te», disse Z con voce rotta.
«Anch'io», disse Cormia.
Che momento perfetto, pensò Phury. Un momento
assolutamente perfetto, col suo gemello davanti a lui, la
sua shellan al suo fianco e il mago svanito nel nulla.
Un momento perfetto a tal punto che, ne era certo, lo
avrebbe ricordato per il resto dei suoi giorni con
chiarezza e commozione immutate.
Phury baciò sulla fronte la sua shellan, indugiando
contro di lei a mo' di ringraziamento. Poi sorrise a
Zsadist.
838
«Con piacere. Verremo con piacere e reverenza alla
culla di Nalla.»
«E i vostri nastri?»
Phury abbassò gli occhi sul fiocco verde e oro, i bei
nastri di raso intrecciati a simboleggiare l'unione tra lui e
Cormia. All'improvviso lei lo abbracciò ancora più forte,
quasi stesse pensando esattamente la stessa cosa.
Ovvero che, proprio come quei nastri, loro due
insieme, stavano benissimo.
«Sì, fratello caro. Verremo assolutamente con i nostri
nastri.» Poi, guardando Cormia in fondo agli occhi,
aggiunse, «E, sai, se ci fosse il tempo per una cerimonia
nuziale, sarebbe fantastico perché...»
Ciò che stava per dire venne interrotto dagli scrosci di
risa, le grida di giubilo e le pacche sulle spalle dei fratelli.
Ma Cormia aveva colto il succo del discorso. Phury non
aveva mai visto nessuno fare un sorriso bello e radioso
come quello che gli rivolse lei quando lo guardò.
Dunque doveva avere intuito cosa intendeva dire.
Ti amerò per sempre. Non sempre è necessario dirlo per
farsi capire.
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Glossario dei nomi comuni e dei nomi propri
Ahstrux nohstrum. Guardia privata con licenza di
uccidere, nominata dal re.
Ahvenge. Vendicare con esito letale. In genere è il
vampiro maschio a cercare vendetta per l'amata o
comunque per una persona cara.
Chrih. Nell'Antico
onorevole.
Idioma,
simbolo
di
morte
Cohntehst. Conflitto tra due vampiri in competizione
per aggiudicarsi il diritto di diventare il compagno di una
femmina.
Confraternita del Pugnale Nero. Vampiri guerrieri
altamente qualificati incaricati di proteggere la loro
specie dagli attacchi della Lessening Society. In seguito a
una riproduzione selettiva all'interno della razza, i
membri della confraternita sono dotati di una forza fisica
e mentale eccezionali e della capacità di guarire
rapidamente. In genere non sono imparentati tra loro e
vengono arruolati nella confraternita tramite nomina da
parte degli altri fratelli. Aggressivi, orgogliosi,
indipendenti e riservati per natura, conducono esistenze
separate dai vampiri civili e hanno pochissimi contatti
con i membri delle altre classi, eccetto quando devono
nutrirsi del loro sangue. Sono protagonisti di leggende e
oggetto di venerazione all'interno del mondo dei
vampiri. Possono morire solo in seguito alle ferite più
gravi, per esempio una pugnalata o un colpo di arma da
fuoco al cuore.
840
A parte Darius, i nomi dei vampiri membri della
Confraternita del Pugnale Nero richiamano la
caratteristica peculiare della loro natura: Wrath, "ira", in
inglese; Tohrment, che rimanda all'inglese torment,
"tormento"; Vishous, variante di vicious, ovvero "vizioso";
Rhage, variante dell'inglese rage , "rabbia"; Phury, che
rimanda a un'idea di purezza e infine Zsadist, ispirato
all'inglese sadistic, "sadico" (N.d.T.).
Dhunhd. Inferno.
Doggen. Nel mondo dei vampiri questo termine
designa un membro della classe dei servitori. Nel servire
i loro padroni, i doggen sono fedeli ad antiche tradizioni
conservatrici, osservano
un
rigido
codice
di
comportamento e regole molto formali in fatto di
vestiario. Possono uscire durante il giorno, ma
invecchiano relativamente in fretta. La loro aspettativa di
vita si aggira intorno ai cinquecento anni.
Ehros. Eletta esperta nelle arti amatorie.
Elette. Vampire femmine allevate allo scopo di servire
la Vergine Scrivana. Sono considerate membri
dell'aristocrazia, anche se la loro esistenza è focalizzata
più su questioni spirituali che mondane. Hanno
pochissimi o nessun contatto con i maschi, ma per volere
della Vergine Scrivana possono accoppiarsi con i
guerrieri per propagare la loro classe. Alcune sono dotate
della capacità di predire il futuro. In passato i membri
della confraternita privi di una compagna potevano
servirsi di loro per soddisfare il periodico bisogno di bere
sangue, pratica ripristinata di recente.
841
Exhile dboble. Il gemello malefico o maledetto, nato
per secondo.
Fado. Regno intemporale dove i defunti si riuniscono
per l'eternità con i loro cari.
Ghardian. Custode, tutore. Esistono svariati tipi di
ghardian, il più importante dei quali è quello che si
occupa di una femmina sottoposta a sehclusion.
Glymera. Élite aristocratica, grosso modo equivalente
all'alta società inglese del periodo della Reggenza (181120).
Hellren. Vampiro maschio sposato con una femmina. I
maschi possono avere più di una compagna.
Leahdyre. Persona potente e influente.
Leelan. Termine affettuoso liberamente traducibile con
"mia diletta", "mia adorata".
Lessening Society. Società dei minori. Ordine di
assassini fondato dall'Omega allo scopo di annientare la
specie dei vampiri.
Lesser. Essere umano privato dell'anima che, in quanto
membro della Lessening Society, ha come obiettivo lo
sterminio dei vampiri. Per uccidere un lesser, o "minore",
bisogna pugnalarlo al petto, altrimenti non invecchia e
vive in eterno. I lesser non mangiano, non bevono e sono
sessualmente impotenti. Col tempo perdono la
pigmentazione originaria di capelli, pelle e iridi fino a
diventare di un biondo slavato, molto pallidi e con gli
842
occhi chiarissimi. Profumano di talco per neonati. Una
volta ammessi all'interno della Lessening Society da
parte dell'Omega, essi conservano un vaso di ceramica in
cui viene custodito il loro cuore, dopo che è stato
rimosso.
Lewlhen. Regalo, dono.
Lheage. Espressione di rispetto con cui una femmina
sessualmente sottomessa si rivolge al suo dominatore.
Mahmen. Madre, mamma. Usato sia come nome
comune sia come appellativo affettuoso.
Mhis. Mascheramento di un determinato ambiente
fisico; creazione di un campo illusorio.
Nalla. Appellativo affettuoso traducibile con "mia
diletta", "cara", "amore".
Nallum. Appellativo affettuoso traducibile con "mio
diletto", "caro", "amore".
Newling. Vergine.
Omega. Figura mistica e malvagia che ha come
obiettivo l'estinzione dei vampiri a causa del
risentimento che cova nei confronti della Vergine Scriba.
Esiste in una dimensione intemporale ed è dotato di ampi
poteri, ma non della facoltà di procreare.
Periodo del bisogno. Periodo di fertilità di un
vampiro femmina. In genere dura due giorni ed è
accompagnato da un forte desiderio sessuale. Si verifica
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grosso modo cinque anni dopo la transizione e, in
seguito, si ripresenta una volta ogni dieci anni. Tutti i
vampiri maschi reagiscono in qualche misura quando si
trovano nelle vicinanze di una femmina che attraversa
questa fase. Si tratta di un periodo potenzialmente
pericoloso, caratterizzato da lotte e conflitti tra maschi in
competizione, in particolare se la femmina non ha un
compagno.
Phearsom. Aggettivo che si riferisce alla potenza degli
organi sessuali maschili. Traducibile letteralmente con
qualcosa come: "degno di penetrare una femmina".
Prima Famiglia. Il re e la regina dei vampiri e tutti i
figli da essi generati.
Prìnceps. Supremo rango dell'aristocrazia dei vampiri,
secondo soltanto ai membri della Prima Famiglia e alle
Elette della Vergine Scrivana. È un titolo nobiliare che si
eredita alla nascita e che non può essere conferito in
seguito.
Pyrocant. Termine che si riferisce a una debolezza
cruciale di un individuo. Si può trattare di una debolezza
interna, come per esempio una dipendenza, oppure
esterna, come un amante.
Rahlman. Salvatore.
Rytho. Maniera rituale di fare ammenda. Viene offerto
da chi ha ferito nell'onore un altro vampiro. Se lo accetta,
la vittima ha il diritto di colpire con un'arma a sua scelta
il responsabile dell'offesa, il quale deve presentarsi privo
di difese.
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Schiavo di sangue. Vampiro, maschio o femmina,
soggiogato da un altro vampiro allo scopo di soddisfare
il suo bisogno di bere sangue. La pratica di tenere degli
schiavi di sangue è stata dichiarata illegale di recente.
Sehclusion. Condizione imposta dal re a una femmina
dell'aristocrazia in seguito a una petizione presentata dai
familiari della femmina stessa. Pone la femmina sotto la
custodia esclusiva di un ghardian, in genere il maschio
più anziano della famiglia. Il ghardian acquisisce di
conseguenza il diritto legale di controllare sotto ogni
aspetto la vita della femmina, limitandone a suo
piacimento i contatti con il mondo esterno.
Shellan. Vampira sposata. Le shellan, in genere, hanno
un solo compagno a causa della natura spiccatamente
territoriale dei vampiri maschi sentimentalmente legati.
Symphath. All'interno della razza dei vampiri questa è
una specie caratterizzata, tra le altre cose, dalla capacità e
dal desiderio di manipolare le emozioni altrui allo scopo
di realizzare uno scambio di energia. Storicamente i
symphath sono stati oggetto di discriminazione e in
determinate epoche sono stati perseguitati e cacciati dai
vampiri. Attualmente sono in via di estinzione.
Tomba. Cripta sacra della confraternita del Pugnale
Nero, utilizzata come luogo cerimoniale nonché come
magazzino dove vengono custoditi i vasi contenenti i
cuori dei tesser. Tra le cerimonie ivi celebrate figurano
affiliazioni alla confraternita, funerali e azioni disciplinari
nei confronti dei fratelli. Nessuno vi è ammesso eccetto i
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membri della confraternita, la Vergine Scriba o i
candidati all'affiliazione.
Trahyner. Termine utilizzato tra vampiri maschi per
esprimere rispetto e affetto reciproco. Liberamente
traducibile con "amico caro".
Transizione. Momento critico nella vita di un
vampiro, maschio o femmina, che segna il suo passaggio
all'età adulta. In genere si verifica intorno ai venticinque
anni di età. Dopo la transizione i vampiri sono costretti,
per sopravvivere, a bere il sangue di un vampiro
dell'altro sesso e non sopportano più la luce del sole.
Alcuni vampiri, in particolare i maschi, non
sopravvivono a questo cambiamento. Prima della
transizione i vampiri sono fisicamente deboli, non attivi
sessualmente o comunque indifferenti e incapaci di
smaterializzarsi.
Vampiro. Membro di una specie distinta da quella
dell'Homo sapiens. Per sopravvivere i vampiri devono
bere il sangue di un vampiro del sesso opposto. Il sangue
umano li mantiene in vita, anche se la forza fìsica che ne
ricavano non dura a lungo. Dopo la transizione, che in
genere si verifica intorno ai venticinque anni, i vampiri
non possono più uscire alla luce del sole e sono costretti a
bere con regolarità sangue fresco. I vampiri non sono in
grado di "convertire" gli umani, trasformandoli a loro
volta in vampiri, tramite un morso o una trasfusione di
sangue, anche se in rari casi possono riprodursi
accoppiandosi con la specie umana. I vampiri riescono a
smaterializzarsi a piacimento, anche se per farlo devono
riuscire a calmarsi e a concentrarsi e non possono portare
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con sé nulla di pesante. Sono anche in grado di cancellare
i ricordi degli umani, a patto che si tratti di ricordi a
breve termine. Alcuni vampiri sono inoltre dotati della
facoltà di leggere nel pensiero. La loro aspettativa di vita
è pari, e in alcuni casi anche superiore, al migliaio di
anni.
Vergine Scriba. Forza mistica consigliera del re
nonché custode degli archivi dei vampiri e dispensatrice
di privilegi. Esiste in una dimensione atemporale ed è
dotata di ampi poteri. Capace di un unico atto creativo, lo
ha utilizzato per dare vita ai vampiri.
Wahlker. Individuo che, dopo la morte e l'ingresso nel
Fado, torna in vita. I wahlker sono molto rispettati e
riveriti per il loro travaglio.
Whard. Equivalente di padrino o madrina.
Finito di stampare nel mese di marzo 2011 per conto di MONDOLIBRI
S.pA., Milano presso il Nuovo Istituto Italiano d'Arti Grafiche Bergamo
Stampato in Italia - Printed in Italy
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