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Cap. X - La magnetizzazione delle rocce terrestri
Cap. X - La magnetizzazione delle rocce terrestri Cap. X - La magnetizzazione delle rocce terrestri X.1. Premessa Com’è stato detto, il campo crostale è il campo magnetico generato da rocce della crosta terrestre che siano magnetizzate dal campo nucleare. A proposito di questa magnetizzazione, vi sono quattro importanti osservazioni. a) La prima osservazione riguarda il fatto che, a rigore, tutte le rocce terrestri sono magnetizzate dal campo nucleare, ma quelle che danno un contributo misurabile al campo magnetico totale sono soltanto quelle nelle quali il campo nucleare induce una relativamente grande magnetizzazione, cioè le cosiddette rocce ferromagnetiche e ferrimagnetiche; esse sono dette correntemente, anche se non correttamente, rocce magnetiche per distinguerle dalle altre (rocce diamagnetiche, paramagnetiche e antiferromagnetiche), che, al loro confronto, si magnetizzano assai più debolmente. b) La seconda osservazione riguarda il fatto che per poter portare in conto la magnetizzazione di queste rocce occorre che la loro temperatura sia non troppo alta, e precisamente sia minore di quella temperatura, variabile da roccia a roccia e detta temperatura di Curie, al di sopra della quale (v. par. IX.1) cambia drasticamente il comportamento magnetico, passando piuttosto bruscamente nella categoria delle rocce paramagnetiche, pochissimo magnetizzabili. Per i vari tipi di rocce magnetiche (cioè ferro- o ferrimagnetiche) la temperatura di Curie varia, all’incirca, tra 400 e 1200 °C, come dire che sorgenti del campo di magnetizzazione crostale possono essere soltanto rocce ferri- o ferromagnetiche a profondità non maggiore di 100-200 km (cfr. fig. II.3/2): tutto sommato, è interessato un esiguo strato subsuperficiale della crosta terrestre. c) La terza osservazione è che le misure dell’intensità del campo crostale ricavate in una certa zona della superficie terrestre contengono informazioni sulla natura chimico-fisica delle rocce sottostanti, e ciò è molto importante dal punto di vista geologico, relativamente all’individuazione sia della costituzione degli strati, anche relativamente profondi, del terreno sia di rocce o altre formazioni naturali industrialmente interessanti (giacimenti di minerali, di petrolio, ecc.); su questa circostanza è basata quell’importante parte della geologia e della geofisica applicate che si chiama prospezione geofisica del sottosuolo (che peraltro esorbita dagli scopi del presente Corso di lezioni). d) La quarta osservazione riguarda il fatto che, come si vedrà tra non molto, una roccia ferri- o ferromagnetica di natura lavica presenta una magnetizzazione propria che non deriva dal CMT attuale ma dal CMT esistente nel momento in cui la roccia in questione si è formata, consolidandosi dal suo magma primigenio; dalle misure di questa particolare magnetizzazione è possibile ricavare quindi informazioni sul CMT che è esistito nelle varie regioni terrestri nel lungo corso dei tempi geologici, e ciò costituisce quella parte del geomagnetismo che è detta paleomagnetismo terrestre, o semplicemente paleogeomagnetismo; si tratta di una disciplina, relativamente recente (nacque all’incirca negli anni Sessanta del 20° sec.), che, come ben si comprende, è di grande interesse per la storia della Terra e, più in generale, per la cosmologia planetaria del Sistema Solare, e ad essa è stato dedicato il precedente cap. VIII. 1 Cap. X - La magnetizzazione delle rocce terrestri Ciò posto, quale necessario completamento di questa premessa si ritiene utile richiamare le nozioni di base della fisica della magnetizzazione dei corpi materiali. 2 Cap. X - La magnetizzazione delle rocce terrestri Richiami di fisica della magnetizzazione X.2. Definizioni fondamentali Ricordiamo brevemente che la magnetizzazione di un corpo materiale consiste nel fatto che quest’ultimo, posto che sia in un campo magnetico, acquista le proprietà di un magnete, e quindi, in particolare, di attrarre pezzi di ferro e di altri materiali ferromagnetici e, se possiede una forma comportante un asse di simmetria, di orientarsi spontaneamente dirigendo una delle sue estremità, e sempre quella, verso il nord geografico; passando da termini naturalistici a termini strettamente fisici, il corpo è diventato magnetizzato perché ha acquistato un momento magnetico dipolare m (momento di magnetizzazione) espresso dalla relazione: [X.2*1] m = ∫∫∫v M(P) dv , essendo v il volume del corpo, P il generico punto dell’elemento generico dv di questo ultimo e M una grandezza vettoriale, detta intensità di magnetizzazione, o semplicemente (quando non vi sia equivoco) magnetizzazione, che rappresenta il momento magnetico volumico (cioè a unità di volume) nel punto P del corpo ed è a sua volta definita dalla relazione [X.2*2] M(P) = lim ∆v 0(∆m/∆v) = dm/dv , cioè come limite, per il volumetto ∆v intorno al punto P che tende a zero (cioè che nell’intorno di P diventa sufficientemente più piccolo – nell’ambito del grado di precisione adottato – rispetto al volume di ogni altro corpo che compaia nel problema in esame), del rapporto tra il momento magnetico ∆m acquistato da questo volumetto e la misura ∆v del volumetto medesimo (e questo è il modo corretto di leggere la “derivata simbolica” dm/dv). Come si vede immediatamente, unità di misura della magnetizzazione così definita è l’ampere a metro; la magnetizzazione è quindi una grandezza omogenea con l’intensità H del campo magnetico e può essere interpretata come la “risposta” che la materia da cui è costituito il corpo dà a un campo magnetico nel quale il corpo in questione venga a trovarsi. Questo legame di effetto/causa è esplicito anche nella relazione di legame tra M e H, per la quale rinviamo alle considerazioni svolte nei parr. IV.3.5 e IV.3.6, riguardanti anche i legami tra i due detti vettori e l’induzione magnetica B; di queste considerazioni riterremo qui la parte conclusiva, secondo la quale in un mezzo materiale magneticamente lineare valgono le relazioni (in unità SI): [X.2*3] M= H, [X.2*4] B = 0(H+M) = 0(1+ ) = 0 rH = H , con suscettività magnetica, adimensionata, 0 permeabilità magnetica del vuoto, pari a 4_ 10 -7 henry a metro (H/m), r permeabilità magnetica relativa del mezzo, adimensionata, = 0 r permeabilità magnetica assoluta del mezzo, in H/m. A parte la permeabilità magnetica del vuoto, che è sempre una costante scalare, se il mezzo è magneticamente lineare le grandezze , e r sono tensori di secondo rango (cioè individuati da 9 componenti scalari: v. par. III.1.1) dipendenti dal punto considerato, che si riducono a funzioni scalari del posto se il mezzo è magneticamente isotropo (si magnetizza allo stesso modo indipendentemente dalla direzione del campo magnetizzante) e a costanti del mezzo se quest’ultimo è, oltre che magneticamente 3 Cap. X - La magnetizzazione delle rocce terrestri isotropo, anche magneticamente omogeneo (se il campo magnetizzante è uniforme, è parimenti uniforme, cioè identica in tutti i punti del mezzo, la magnetizzazione). Aggiungeremo, a titolo di semplice completamento, che se il mezzo non è magneticamente lineare, le grandezze dette sono espresse da combinazioni di tensori di vario rango). Nel seguito supporremo sempre – salvo esplicito avviso contrario – di poter considerare i materiali terrestri come mezzi magneticamente lineari e isotropi, per modo che si possano considerare sempre valide le relazioni testé ricordate e in esse le grandezze magnetiche del mezzo (suscettività e permeabilità magnetiche) come funzioni scalari del posto anziché come tensori del posto. Infine, allo scopo di facilitare la consultazione di altri materiali didattici nei quali le questioni di magnetismo siano trattate con unità CGSem (cosiddette unità di Gauss) riportiamo i fattori di conversione per le unità più frequenti [tra parentesi quadrate le denominazioni derivanti dal passato]: Grandezza Induzione magnetica B Intensità magnetica H Magnetizzazione Momento magnetico dipolare Permeabilità magnetica assoluta Suscettività magnetica TAB. X.2-1 - CORRISPONDENZA TRA UNITÀ MAGNETICHE SI E CGSem Unità SI Unità CGSem tesla (T) = 10 4 abT abtesla (abT) [gauss (G)] = 10 -4 T ampere a metro (A/m) = abampere a centimetro 4 _ /103 abA/cm _ (abA/cm) [oersted (Oe)] -3 =103/(4_ ) A/m _ 79,6 A/m 12,56 10 abA/cm -3 ampere a metro = 10 abampere a centimetro abA/cm (A/cm) = 103 A/m ampere per metro quaabampere per centimetro drato (A m2) = 103 quadrato (abA cm 2) = 2 abA cm 10-3 A m 2 henry a metro (H/m) = abhenry a centimetro = 10 7/(4_ ) abH/cm (abH/cm) 4 _ 10 -7 H/m _ 7,96 105 abH/cm _ 1,256 10-6 H/m unità SI (adimensionata) = unità CGSem (o di Gauss) = 10 7/(4_ ) unità CGSem (o (adimensionata) = 4_ 10-7 6 di Gauss) _ 7,96 10 unità unità SI _ 1,256 10 -6 unità CGSem (o di Gauss) SI X. 3.Fenomenologia macroscopica della magnetizzazione S’immagini di avere preparato una serie di campioni identici di vari materiali solidi che non siano stati preventivamente sottoposti a un campo magnetico (cioè che siano non magnetizzati), ciascuno in forma di cilindretto e di vincolare, di volta in volta, ciascuno di tali campioni nella parte centrale tra le espansioni polari di un potente elettromagnete, ortogonalmente a queste ultime (cioè nella direzione del campo magnetizzante H, il quale è quasi uniforme soltanto in una piccola parte di questa zona interpolare), avendo a disposizione i mezzi (per es., aghetti magnetici imperniati che funzionino a guisa di rudimentali magnetometri) per valutare l’intensità e la polarità della magnetizzazione acquistata dal campione. Nell’ambito di questa esperienza di tipo macroscopico elementare cominceremo con il chiamare comportamento magnetico quello di un cilindretto che sia stato magnetizzato e costituisca quindi un magnete; tale magnetino si dispone quasi sempre perpendicolarmente alle espansioni polari dell’elettromagnete, cioè secondo la direzione dell’intensità H del campo magnetizzante; se si tenta di spostarlo da questa posizione 4 Cap. X - La magnetizzazione delle rocce terrestri esso vi ritorna reagendo spesso piuttosto vivacemente all’azione perturbatrice. Tutto ciò si spiega piuttosto facilmente ricordando (par. IV.3.4) che un magnete è fisicamente caratterizzato dall’essere provvisto (in prima ma generalmente ottima approssimazione) di un momento magnetico dipolare m e che su esso un campo magnetico esterno, di intensità H, esercita una coppia di forze il cui momento vale M=m_ ( 0H), con 0 permeabilità magnetica del vuoto (ben rappresentativa di quella dell’aria in cui si sta sperimentando); la posizione di equilibrio è quella corrispondente all’annullarsi di tale momento di coppia, cioè al parallelismo tra m e H. Tornando ora ai nostri campioni, i tre comportamenti tipici desumibili dall’esperienza prima descritta sono i seguenti: a) comportamento diamagnetico (dal greco, “comportamento differente da quello di un magnete”): il campione risente di una debole azione repulsiva da parte dei poli dell’elettromagnete (se lasciato libero, esso tende a porsi ortogonalmente a H e a spostarsi verso la zona periferica del traferro: posizione tratteggiata nella fig. X.3/1, A); se si toglie il campione dal traferro, cioè se s’annulla il campo magnetizzante, sul campione (A’) non si manifesta più alcuna azione; questo comportamento può essere spiegato soltanto ammettendo che il campo magnetizzante susciti nel campione la comparsa di un momento magnetico di magnetizzazione md di debole intensità, che scompare al venire meno del campo medesimo ed è antiparallelo all’intensità H di quest’ultimo (nella fig. X.3/1 Aè indicata la polarità magnetica acquistata dal campione); la posizione tratteggiata è, in un certo senso, di equilibrio in quanto in essa è minimo il momento di coppia M, in virtù della diminuzione dell’intensità di H via via che ci si allontana dal centro verso la periferia del traferro dell’elettromagnete; b) comportamento paramagnetico (dal greco, “comportamento simile a quello di un magnete”): il campione risente di una debole azione attrattiva da parte dei poli dell’elettromagnete (se libero, si attacca a uno dei poli), acquistando la polarità indicata nella fig. X.3/1, B; annullando il campo magnetizzante, sul campione non si manifesta più alcuna azione (B’); questo comportamento può essere spiegato soltanto ammettendo che il campo magnetizzante susciti nel campione la comparsa di un momento magnetico di magnetizzazione mp di debole intensità, che scompare al venire meno del campo medesimo ed è equiparallelo all’intensità H di quest’ultimo; c) comportamento ferromagnetico (“comportamento simile a quello magnetico del ferro”, il quale ultimo elemento è l’esponente più importante del gruppo degli elementichimici ferromagnetici): ferro, nichel, cobalto, gadolinio): è simile al precedente comportamento paramagnetico (fig. X.3/1, C), salvo che l’azione attrattiva da parte dei poli dell’elettromagnete è assai più viva e che interrompendo la corrente elettrica nell’elettromagnete, cioè annullando il campo magnetizzante, il campione (C’) 5 Cap. X - La magnetizzazione delle rocce terrestri conserva gran parte della magnetizzazione acquistata, essendo diventato cioè un magnete permanente; questo comportamento può essere spiegato soltanto ammettendo che il campo magnetizzante susciti nel campione la comparsa di un momento magnetico di magnetizzazione mf piuttosto intenso, che è equiparallelo all’intensità H del campo magnetizzante e permanente, quest’ultimo termine stando a indicare che resta anche se si rimuove quest’ultimo campo. Questi risultati qualitativi sono confermati e ulteriormente arricchiti dai risultati di misurazioni dell’intensità di magnetizzazione M e della suscettività magnetica in funzione dell’intensità H del campo magnetizzante e delle condizioni fisico-chimiche, prendendo la temperatura assoluta T come parametro indicativo di queste ultime. a) Sostanze diamagnetiche: relazione lineare decrescente tra M e H (fig. X.3/2 a), suscettività negativa indipendente dalla temperatura (fig. b) e di piccolissimo valore (Tab. X.31). b) Sostanze paramagnetiche: relazione lineare crescente tra M e H (fig. X.3/2 c), suscettività positiva decrescente (a parità di campo) al crescere della temperatura (fig. d) e di piccolissimo valore (Tab. X.31). TAB. X.3-1 - SUSCETTIVITÀ (IN 10-6 SI) DI ALCUNE SOSTANZE DIA- E PARAMAGNETICHE Diamagnetiche. Suscettività Paramagnetiche Suscettività Acqua pura − 8,6 Alluminio + 22 Argento − 24 Aria + 0,38 Bismuto −164 Cromo + 31 Grafite − 8,2 Magnesio + 1,2 Piombo − 1,7 Manganese + 71 Rame − 8,9 Platino +260 Zinco − 14 Sodio + 7,5 c) Sostanze ferromagnetiche: relazione tra M e H (fig. X.3.3, a) crescente ma non lineare, tanto che al di sopra di un certo valore Hs dell’intensità del campo magnetizzante il valore di M resta costante a un certo valore Ms (saturazione magnetica); se, anche senza avere raggiunto la saturazione, si fa diminuire H, la magnetizzazione, e con essa la suscettività, presenta un andamento complesso con la temperatura (fig. b): al di sopra di una temperatura TC 6 Cap. X - La magnetizzazione delle rocce terrestri carat-teristica di ogni sostanza e detta temperatura ferromagnetica di Curie il comportamento diventa paramagnetico (scomparsa della saturazione, la suscettività crolla dai precedenti alti valori a un piccolissimo valore positivo che decresce, a parità di intensità del campo, con la temperatura); nell’ambito del comportamento ferromagnetico (T<T C) si dà il nome di curva di prima magnetizzazione al diagramma M(H) con il campione vergine, cioè non ancora assogettato a un campo magnetizzante (il diagramma tra l’origine O e la saturazione nella fig. a), mentre il comportamento per cui quando si fa diminuire l’intensità H del campo magnetizzante la magnetizzazione M diminuisce meno del dovuto (tanto che quando il campo magnetizzante s’annulla resta una magnetizzazione residua M r), come se M seguisse con ritardo le variazioni di H; si chiama istèresi magnetica (in greco “istèresi” significa appunto “ritardo”) e ciclo d’isteresi si chiama la curva chiusa intorno all’origine O degli assi (M,H) che si ottiene facendo variare H tra due valori H1 e H 2; in particolare, se questi valori sono ±H3, cioè simmetrici rispetto all’origine degli assi, si parla d’isteresi simmetrica; se H1≥Hs si parla poi d’isteresi a saturazione (è il caso della fig.) , altrimenti semplicemente di isteresi; è da osservare che si ha comunque isteresi sempreché H sia non minore di un certo valore H*, caratteristico di ogni sostanza e detto campo anisteretico (greco: “privo di isteresi”), al di sotto del quale si ha una magnetizzazione anisteretica o reversibile, come si ha per le sostanze dia-e paramagnetiche (in queste, per di più, la relazione tra campo magnetizzante e magnetizzazione è, come già detto, lineare, mentre per le sostanze ferromagnetiche si ha una relazione non lineare e non esprimibile esattamente con una funzione matematica); quale ultima notazione del linguaggio della magnetizzazione, si dà il nome di campo smagnetizzante (nel passato e tuttora nel linguaggio dei tecnici: campo coercitivo) all’intensità Hc del campo che occorre applicare per annullare la magnetizzazione residua, ovviamente diretto nel verso antiparallelo rispetto al campo che in precedenza aveva magnetizzato il corpo considerato. Da queste notizie puramente definitorie appare bene la complessità della parte della fisica della magnetizzazione che attiene alle sostanze ferromagnetiche, le quali, è superfluo sottolinearlo, hanno una straordinaria importanza pratica in quanto hanno una suscettività magnetica e quindi una permeabilità magnetica molto maggiore di quella delle sostanze dia-e paramagnetiche; nelle applicazioni, infatti, interessa avere grandi induzioni magnetiche B e, dato che, come s’è visto poco sopra (v. 2*4]), è B= 0(1+ )H = 0 rH= H, a parità di H, come dire a parità della molto costosa corrente elettrica che genera H, grandi valori di B (da centinaia a decine di migliaia di volte maggiori di quelli che si avrebbero nell’aria) s’ottengono usando sostanze ferromagnetiche. Dal punto di vista delle applicazioni tecniche i parametri più importanti di queste ultime sono la permeabilità relativa r(=1+ ), ed esattamente la permeabilità relativa massima rM (che si ha circa a mezza strada verso la saturazione), l’induzione di saturazione Bs, l’induzione residua Br, il campo smagnetizzante Hc . In rapporto a questi parametri tecnici si distinguono materiali magnetici dolci, caratterizzati da medi valori di rM e, soprattutto, da piccoli valori di Hc , per cui si magnetizzano bene e si smagnetizzano altrettanto bene, risultando dunque adatti, tipicamente, per costruire i nuclei di elettromagneti a funzionamento discontinuo (nuclei magnetici di relè elettromagnetici e di macchine elettriche in genere), e materiali magnetici duri, caratterizzati da grandi valori di Br e di Hc , che dunque si magnetizzano intensamente e si smagnetizzano molto 7 Cap. X - La magnetizzazione delle rocce terrestri difficilmente, prestandosi così tipicamente per la realizzazione di magneti permanenti. Nella tab. X.3-2 sono riportati i valori medi dei detti parametri per alcuni materiali magnetici dolci e duri. TAB. X.3-2 - PARAMETRI TECNICI [unità SI] DI ALCUNI MATERIALI FERROMAGNETICI 3 Materiali dolci Bs [T] Hc [A/m] T c [°C] rM [10 ] Ferro 5 2,15 80 770 Ferro-silicio 40 2,0 5 750 Ferriti Mn-Zn ≈40-80 0,3-0,6 10 ≈200 Mumetal 140 0,72 2,4 430 Permalloy 100 0,9-1,1 4 580-400 Materiali duri Br [T] Hc [A/m] Acciaio con Al e W 0,95 5900 Alnico 0,6-1,1 ≈45.000 Ferriti Mn-Zn 0,2-0,4 ≈10.000 Pt (77 %) - Co (23 %) 0,65 344.000 Un esame attento del variare delle dette grandezze mostra che sono riconoscibili altre due categorie di sostanze: d) sostanze ferrimagnetiche: sono costituite dalle ferriti, che sono materiali sinterizzati ottenuti da mescolanze di ferro con zinco o con manganese (rispettivamente “ferriti Zn” e “ferriti Mn”) e hanno un comportamento simile a quello delle sostanze ferromagnetiche (peraltro con permeabilità leggermente minore) a seconda dei casi dolci oppure dure, distinguendosi da esse per il fatto di essere cattive conduttrici dell’elettricità e quindi essere più adatte per utilizzazioni in campi magnetici variabili nel tempo, anche ad alta o altissima frequenza; e) sostanze antiferromagnetiche: sono costituite da alcuni composti di sostanze ferromagnetiche e hanno un comportamento magnetico simile a quello delle sostanze paramagnetiche per quanto riguarda i bassissimi valori di suscettività e l’andamento decrescente di questa con la temperatura alle temperature ordinarie; tuttavia, a temperature piuttosto piccole e precisamente minori di una certa temperatura, caratteristica di ogni sostanza e detta temperatura di Néel [ Louis Néel <neèl> (1904-1989), prof. di fisica nell’univ. di Grenoble; premio Nobel per la fisica nel 1970] (TN nella fig. X.3/4), la suscettività ha un valore crescente con la temperatura, a partire dal valore teoricamente nullo che si avrebbe allo zero assoluto (dunque la suscettività decresce sia sotto sia sopra TN). Ecco alcuni valori di questa temperatura critica (in °C) per alcune sostanze: CoCl2 –235, FeCl 2 –249, FeF2 –194, FeO –75, MnO –151, NiCl2 –223. X.4. Descrizione microscopica classica della magnetizzazione Per il comportamento magnetico macroscopico di sostanze materiali sono fondamentali la distinzione tra le sostanze le cui molecole non hanno un momento magnetico proprio, e sono le sostanze diamagnetiche, e tutte le altre, le cui molecole hanno invece un momento magnetico proprio, e, tra queste sostanze non diamagnetiche, la 8 Cap. X - La magnetizzazione delle rocce terrestri distinzione tra sostanze nelle quali i momenti magnetici molecolari (che, in particolare, possono essere relativi a molecole monoatomiche, cioè essere momenti magnetici atomici) interagiscono debolmente, e sono le sostanze paramagnetiche, e quelle in cui essi interagiscono fortemente, e queste sono le sostanze ferromagnetiche e ferrimagnetiche. a) Premessa generale. Consideriamo, per semplicità, una sostanza elementare, cioè le cui molecole siano monoatomiche, in uno spazio in cui non esista alcun campo magnetico esterno; consideriamone una molecola, cioè un atomo, e di questo consideriamo uno degli Z elettroni costituenti, essendo Z il numero atomico della sostanza. Secondo le vedute dell’elettromagnetismo atomico classico (cioè non quantistico né relativistico), tale elettrone in moto sulla sua orbita equivale, dal punto di vista elettromagnetico, a una spira circolare, di area S, percorsa da una corrente elettrica di intensità i=-e/T, con -e carica elettrica negativa dell’elettrone e T frequenza del moto circolare di esso (si tratta infatti della carica elettrica che passa nell’unità di tempo nel generico punto della “spira elettronica”); il momento magnetico dipolare associato al moto di tale elettrone vale me0 = iS ñ = – e(S/T)ñ = – e(dS/dt)ñ, dove ñ è il versore nel centro dell’orbita ortogonale al piano di questa e orientato in modo da vedere come antiorario il moto dell’elettrone (fig. X.4/1), e, data l’uniformità del moto orbitale dell’elettrone, si considerano coincidenti il valore istantaneo dS/dt della velocità areolare e il suo valor medio S/T. Passando alla situazione dinamica, indichiamo con me la massa dell’elettrone e con v la sua velocità; il momento della quantità di moto orbitale vale allora be = r×(me v) = r×[me (ds/dt)] = me (r×ds)/dt, essendo ds l’elemento di orbita percorso nel tempuscolo dt; il modulo del prodotto vettore tra parentesi rappresenta, come si sa, l’area del parallelogramma che ha per lati r e ds, come dire il doppio della velocità areolare ds, la quale è misurata dall’area della superficie spazzata dal raggio vettore r nel tempuscolo dt, per cui si può scrivere, in definitiva, be = 2me (dS/dt)ñ e, ricordando la relazione scritta poco sopra per il momento magnetico orbitale, [X.4*1] me0 = be , essendo e [X.4*2] ≈ 4,188 10-12 [C/kg] e =– 2me il cosiddetto rapporto giromagnetico dell’elettrone. b) Magnetizzazione diamagnetica. L’applicazione di un campo magnetico esterno con induzione B modifica profondamente la descritta dinamica del generico elettrone atomico. Infatti, all’applicazione del campo insorge un campo elettrico indotto Ei tale che, come sappiamo (terza equazione di Maxwell: riepilogo alla fine del IV cap.), rot Ei=–(∂B/∂t); questo campo transitorio (dura per tutto il transitorio temporale in cui B passa dal valore iniziale nullo al suo valore di regime) determina nell’orbita elettronica una forza elettromotrice indotta fi = 2πrEi = −πr2[∂ (Bcos ) ∂t], essendo (Bcos ) il 9 Cap. X - La magnetizzazione delle rocce terrestri flusso di induzione magnetica concatenato con l’orbita e l’angolo che B forma con il predetto versore ñ normale al piano dell’orbita (fig. X.4/1), avendosi, in definitiva: r d [X.4*3] Ei = – ( B cos ) ; 2 dt questo campo elettrico indotto dall’applicazione del campo è un campo tangenziale, cioè nella direzione della velocità dell’elettrone e, a seconda del suo verso, accelera o decelera il moto orbitale dell’elettrone e ne varia l’assetto spaziale; l’elettrone acquista un moto di precessione intorno alla direzione del campo, nel quale la direzione della velocità angolare orbitale descrive un cono il cui asse è parallelo al campo magnetico (situazione analoga alla precessione della Terra nella sua rivoluzione intorno al Sole o, su una scala ben diversa, a quella di una trottola intorno alla verticale locale). L’applicazione del teorema della quantità di moto (o dell’impulso lineare) dà: d(Mv) = d(Mr ) = Mr d = F dt = −eEi dt = (er/2) d(Bcos ). Integrando nel transitorio in cui il campo elettrico indotto agisce sull’elettrone (che, pur breve, è comunque molto grande rispetto al periodo T del moto orbitale e nel quale si hanno moltissime variazioni dell’assetto dell’orbita dell’elettrone in seguito alle collisioni che l’atomo subisce con gli atomi circostanti), ci si rende conto che, essendo del tutto casuale nel tempo l’assetto di ñ rispetto a B, il valore medio di cos (questo angolo varia tra −π/2 e +π/2) è 1 e quindi <d(Bcos )> = dB<cos > = dB e, ricordando espressioni precedenti, per la variazione d della velocità angolare conseguente all’applicazione del campo, che è vista 10 Cap. X - La magnetizzazione delle rocce terrestri come un’ulteriore velocità angolare, pe , da aggiungere a quella intrinseca dell’elettrone ed è chiamata velocità angolare di precessione elettronica, si ha: e [X.4*4] <d > = pe = B. 2M Come si vede, p è parallela a B, indipendentemente dall’orientamento istantaneo del piano dell’orbita elettronico rispetto al campo magnetico applicato. Secondo la [X.4.2], a questa velocità angolare corrisponde un momento magnetico di precessione mpe =–[e/(2M)] [aM( L a)], con a distanza assiale istantanea dell’elettrone da pe (v. ancora fig. X.4/1); segue: e2 a2 B , [X.4*5] mpe = – 4M cioè un momento antiparallelo a B; è r2=x2+y2+z2, a2=x2+y2, <x2>≈<y2>≈<z2>, e quindi <a2>=(2/3)r2; per il momento magnetico di precessione atomico mpa di un atomo con i=Z numero atomico Z segue mpa = – [e2/(6M)] i =1 ri 2 B, che, chiamando < 2> il valore quadratico medio delle orbite degli Z elettroni, si può esprimere come: e2Z < 2 > [X.4*6] mpa = – B. 6M Passando a sostanze composte, il momento magnetico di precessione molecolare è semplicemente il risultante vettoriale dei momenti magnetici di precessione degli atomi che costituiscono la molecola della sostanza considerata. È utile fare presente che nel passato si è usato chiamare precessione elettronica di Larmor (e, di seguito, momento atomico di Larmor, ecc.) quello che prima abbiamo chiamato semplicemente ‘precessione elettronica’, ‘momento di precessione’, e via dicendo. Ciò deriva dal fatto che la prima teoria in termini classici relativa al fenomeno appena descritto è dovuta, intorno al 19o8, all’irlandese Joseph. Larmor <làamoo> (1857-1942, prof. di matematica nell’univ. inglese di Cambridge); questi considerò come forza agente sul generico elettrone legato in seguito all’applicazione del campo magnetico, responsabile quindi della variazione dello stato dinamico e conseguentemente dello stato magnetico di esso, la forza di Lorentz, e non quella dell’impulso di campo elettrico per induzione all’applicazione del campo magnetico; benché le premesse e lo svolgimento della teoria di Larmor siano sensibilmente differenti da quelle esposte prima, la conseguente velocità di precessione è ancora espressa dalla [X.4.4]: una coincidenza di risultati che talora si dà in certi fenomeni fisici tra una teoria esatta e una errata. Il ragionamento di Larmor era infatti errato; la dimostrazione di questa erroneità fu data nel 1917, quando il fisico statumitense John van Vleck <vèn vlèk> (1899-1980; prof. di fisica nella Harvard Univ., premio Nobel per la fisica nel 1977) osservò che lo stato termodinamico di un materiale magnetizzato per precessione degli elettroni dei suoi atomi è più ordinato e quindi con entropia minore rispetto allo stato non magnetizzato; a questa variazione di entropia deve corrispondere una variazione energetica, che non può essere assolutamente imputata alla forza di Lorentz: questa, com’è ben noto, è una forza trasversale allo spostamento dell’ente su cui agisce e quindi ha contenuto energetico nullo. L’impostazione di Larmor, con la relativa terminologia, è tuttora presente - è da presumere per ragioni di semplicità - in alcune trattazioni di prima approssimazione didattica. In definitiva, tutte le molecole, siano provviste o no di un momento magnetico proprio, ne acquistano uno (o ne aggiungono uno a quello loro proprio) in virtù del predetto fenomeno di precessione elettronica nel momento in cui su esse venga ad agire un campo magnetico; il momento magnetico acquistato è antiparallelo rispetto al campo magnetico. Se le molecole (mono- o pluriatomiche) non hanno un momento magnetico intrinseco, si ha la magnetizzazione diamagnetica, in cui il magnetismo è costituito dall’insieme dei momenti magnetici di precessione atomici o molecolari; per le molecole che hanno un momento magnetico proprio un campo magnetico esterno, oltre che determinare la detta magnetizzazione diamagnetica, agisce ben più intensamente, con azioni di coppia, sui 11 Cap. X - La magnetizzazione delle rocce terrestri momenti molecolari, determinando la ‘magnetizzazione paramagnetica’ di cui parleremo tra breve; questa magnetizzazione soverchia e maschera quella diamagnetica, cosicché quest’ultima, ancorché di carattere universale per tutte le molecole, finisce per apparire soltanto per le molecole prive di momento magnetico proprio. Per avere un’idea - sempre in termini di fisica classica - dell’entità della magnetizzazione diamagnetica possiamo considerare una generica sostanza semplice, cioè con molecole monoatomiche, di numero atomico Z, e magneticamente lineare; la suscettività diamagnetica, d, di questa sostanza è, a norma di definizione (v. [IV.3.5*8]), il rapporto tra la magnetizzazione (momento magnetico dell’unità di volume, e quindi N volte il momento di precessione atomico mpa, se N è la concentrazione atomica, in atomi/m3) e l’intensità H del campo magnetico (siamo a livello atomico, e quindi nel vuoto, talché H=B/ 0, con 0 permeabilità magnetica del vuoto, pari a 4π 10-7 H/m); a conti fatti, risulta: 2 e ZN 2 = 5,883 10-15 ZN 2 ; [X.4*7] = d 6M valutando N in circa 1023 atomi a m3 (sostanza solida) e < 2> in circa 10-18 m2, risulterebbe per d un valore negativo, indipendente dalla temperatura e piccolo (≈ 10-7 [SI]), tutto in accordo con i valori misurabili (v. tab. X.3-1). c) Magnetizzazione paramagnetica e ferromagnetica. La magnetizzazione paramagnetica riguarda, come s’è detto, sostanze le cui molecole hanno un momento magnetico intrinseco, indipendentemente dalla presenza di un campo magnetico macroscopico esterno; osserviamo subito che la fisica classica non è in grado di dare dei criteri in base ai quali si possa stabilire se una data molecola può avere o no un momento magnetico proprio. Per il momento, accettiamo come un fatto di Natura che le molecole di certe sostanze hanno un loro momento magnetico, mm. Un campo magnetico esterno esercita una coppia di forze su ognuno di questi momenti magnetici molecolari (v. [IV.3.4*1]), tendendo a disporli parallelamente a sé medesimo; diciamo “tendendo” in quanto a questa azione orientatrice del campo s’oppone l’azione disordinatrice delle collisioni che ogni molecola subisce incessantemente da parte delle molecole circostanti in virtù dell’agitazione termica; il risultato netto è che se si considera il valore medio nel tempo della componente del momento magnetico della generica molecola nella direzione del campo, che chiameremo momento magnetico molecolare di orientamento (col campo), mmo, tale valore medio non è nullo, come invece sarebbe a causa dell’agitazione termica - in assenza del campo magnetico esterno qualunque direzione si volesse considerare. Un brillante fisico francese, Pierre Langevin <lang(e)vèn> (1872-1946; prof. di fisica nell’univ. di Parigi), ha calcolato nel 1901, con metodi di meccanica statistica, questo momento d’orientamento, ottenendo: [X.4*8] mmo = L(a) mm , essendo [X.4*9] L(a) = coth a − (1/a) ≈ a/3 la cosiddetta funzione di Langevin del parametro di Langevin m [X.4*10] a = m Bl , k BT con k B (= 1,38 10-23 J/K) costante di Boltzmann, T temperatura assoluta, Bl induzione del campo ma gnetizzante locale, cioè agente sulla singola molecola (v. oltre); l’ordine 12 Cap. X - La magnetizzazione delle rocce terrestri di grandezza del momento molecolare mm è 10 -19 A m 2, per cui quello del momento magnetico d’orientamento mmo è deducibile dal diagramma di L(a) dato nella fig. X.4/2. I momenti magnetici molecolari, orientati dal campo esterno, interagiscono tra loro più o meno fortemente a seconda del loro valore e della distanza intermolecolare media (il campo generato da un momento magnetico dipolare decade con il cubo della distanza: v. [IV.3.8.2*1]); sul singolo momento magnetico molecolare viene ad agire, oltre al campo magnetizzante esterno, anche il campo interno generato dai momenti magnetici molecolari circostanti, i due campi costituendo nel complesso il campo locale per la singola molecola (il Bl che compare nell’espressione 4*10 del parametro di Langevin). Se il campo locale è poco diverso dal campo esterno (come dire se il campo interno è trascurabile o quasi rispetto al campo magnetizzante) le molecole interagiscono magneticamente tra loro in maniera molto debole, per modo che si possono ritenere pressoché libere le une rispetto alle altre; il piccolo valore dei momenti su cui il campo magnetizzante agisce e l’azione dell’agitazione termica spiegano, insieme, la relativamente debole magnetizzazione, concorde al campo magnetizzante, che si ha in questo caso, che è quello delle sostanze paramagnetiche; tipiche tra queste sono le sostanze aeriformi, nelle quali l’esiguità delle interazioni magnetiche molecolari è dovuta semplicemente alla relativamente grande distanza media tra molecola e molecola. Se invece le molecole interagiscono magneticamente tra loro in maniera forte, come accade nelle sostanze ferromagnetiche (così dette perché esponente tipico ne è il ferro), in assenza di un campo magnetizzante esiste un campo interno relativamente intenso, derivante dal fatto che molecole contigue s’influenzano reciprocamente, così da allinearsi insieme secondo un’unica direzione, che è la situazione di minima energia magnetica; si tratta di fenomeni di allineamento mutuo con carattere molto locale, per cui in seno alla sostanza si crea tutta una serie di aggruppamenti molecolari, detti domini ferromagnetici, in ognuno dei quali tutti i momenti magnetici molecolari sono allineati secondo una stessa direzione, che peraltro varia da dominio a dominio; i domini interagiscono sviluppando azioni reciproche che portano, come risultato finale, a una situazione di minima energia magnetica. La fig. X.4/3 illustra schematicamente la formazione e l’assetto reciproco dei detti domini. Nella fig. a è la situazione in una piccola regione interna di un parallelepipedo di materiale ferromagnetico, immaginato a temperatura decrescente e nella situazione in cui quest’ultima è di poco maggiore della temperatura di Curie di quel materiale; a causa della minore agitazione termica rispetto alla situazione che si aveva a temperatura maggiore, cominciano a formarsi nuclei di domini ferromagnetici, per il semplice fatto che in un sito qualsiasi due molecole interagiscono casualmente disponendosi con i loro momenti magnetici parallelamente fra foro, cosicché il più intenso momento magnetico così creatosi “cattura” il momento di una molecola tra quelle vicine, e così via, sempre in contrasto con l’azione disordinatrice dell’agitazione termica; ciò si ripete in tanti altri siti, con la formazione di nuclei di domini con pareti fluide, orientati a caso; nella zona “d’incertezza” tra un dominio e l’altro, cosiddetta parete di domini, il progressivo passaggio dalla zona di predominio di un dominio informazione a quella del dominio 13 Cap. X - La magnetizzazione delle rocce terrestri conti-guo porta alla situazione schematizzata nella fig. b. Al diminuire della temperatura l’”azione di cattura” dei domini diventa sempre più efficace, lo spessore delle zone d’incertezza costituenti le pareti si riduce e si passa a una situazione in cui si può parlare di interazione di domini, il sistema dei domini portandosi verso la definitiva situazione a temperatura ambiente; il processo di tendenza a questa situazione finale di equilibrio è governato dalla generale legge naturale del sistema a portarsi nella situazione di energia minima come dire che sia minima l’energia totale del campo generato complessivamen- te dai domini medesimi, a guisa di minuscoli magneti; poiché tale energia è calcolabile come integrale della densità di energia magnetica nel volume del campo, la situazione di energia minima è, in parole povere, quella in cui il volume occupato dal campo (all’interno e all’esterno del materiale) è minimo; le figg. c g schematizzano varie situazioni che possono verificarsi realmente (si tratta di schemi desunti da fotografie di domini evidenziati in campioni) e, come facilmente s’immagina, l’energia si riduce progressivamente dall’una all’altra via via che si riduce l’estensione e l’intensità del campo all’esterno del campione (nella situazione g, che è quella a energia veramente minima, il campo magnetico è ristretto, salvo qualche per mille, al solo volume del campione). Questa è dunque la situazione dei materiali ferrimagnetici (e anche, come abbiamo accennato, ferromagnetici) per così dire naturale, cioè senza che sia applicato alcun campo magnetizzante. Applicando ora un campo magnetizzante, questo viene ad agire non sui debolissimi e disordinati momenti magnetici molecolari (come nelle sostanze paramagnetiche), ma sugli intensi e ordinati momenti magnetici dei domini, determinando una magnetizzazione centinaia o migliaia di volte più intensa rispetto a quella di una situazione paramagnetica. La fig. X.4/4 mostra (ripresa da fotografie di un campione) la fenomenologia della magnetizzazione di un campione ferromagnetico (simile a quello della fig. X.4/3 g). La situazione della fig. a è quella in assenza di un campo magnetizzante H. Come si vede, un campo magnetizzante moderato (fig. b) provoca l’espansione dei domini i cui momenti sono paralleli o quasi rispetto ad esso e la contrazione di quelli antiparalleli o quasi (si arriva facilmente a 14 Cap. X - La magnetizzazione delle rocce terrestri capire come ciò accada pensando che all’azione del campo dei domini s’aggiunge quella del campo esterno magnetizzante, con effetti diretti sui momenti delle molecole nelle pareti dei domini, che passano dal dominio sfavorito a quello favorito dal campo esterno); queste espansioni o contrazioni sono di tipo reversibile per piccoli valori del campo magnetizzante, nel senso che al cessare di questo tutto ritorna com’era prima (è la situazione che ha nella “zona anisteretica” della fig. X.4.3/3); per campi smagnetizzanti più intensi (fig. c))le espansioni o contrazioni sono di tipo irreversibile, nel senso che al cessare del campo il volume dei domini non ritorna qual era; benché si tratti di fenomeni d’interazione tra momenti magnetici e non d’interazione meccanica, si parla, espressivamente, di attriti di parete per indicare la causa di questa irreversibilità. L’esistenza dell’isteresi magnetica e, in particolare, di una consistente magnetizzazione residua al venire meno del campo magnetizzante derivano dal fatto che, in virtù di questi “attriti di parete”, i domini tendono a restare, in larga parte, nella posizione di reciproco allineamento in cui li aveva forzati il campo magnetizzante. Se poi il campo magnetizzante è sufficientemente intenso, all’espansione dei domini s’accompagna la loro rotazione nella direzione del campo, che è sempre irreversibile. Al limite, per campi magnetizzanti molto intensi tutti i domini sono orientati nella direzione del campo e all’aumentare dell’intensità di questo non si rilevano più altri effetti (situazione della saturazione magnetica) Per quanto riguarda l’influenza della temperatura sulla magnetizzazione, al crescere della temperatura la sempre più vivace agitazione termica riduce la saldezza della struttura dei domini, sino a che, raggiuntasi l’intorno della temperatura di Curie del materiale, si ha il collasso dei domini, i singoli momenti magnetici molecolari riacquistano la loro libertà e si passa a un comportamento paramagnetico; riducendo poi la temperatura, si ripassa nelle fasi di formazione e d’interazione dei domini descritta analogicamente nella detta fig. X.4/3. Risultano così spiegate, fenomenologicamente, le particolarità fondamentali del comportamento delle sostanze ferromagnetiche. Ricordiamo ora succintamente i lineamenti della teoria che fu sviluppata al riguardo, ad opera del fisico francese Pierre Ernest Weiss <vàis> (1865-1940); prof. di fisica in varie univ. francesi), che nel 1904 completò le già ricordate considerazioni di un altro grande fisico francese, Pierre Curie <kiurì>, già ricordato, che nel 1903 meritò il premio Nobel per la fisica con la moglie Marie nata Sklodowska, per i loro studi sulla radioattività naturale). Il campo locale di induzione Bl, è considerato, come s’è accennato, risultante del campo magnetizzante esterno, di induzione B= 0H e intensità H, e del campo interno, rappresentabile mediante la magnetizzazione M del materiale; in generale, può scriversi: [X.4*11] Bl = 0(H+WM) , essendo W chiamata costante di Weiss, caratteristica di ogni materiale. 15 Cap. X - La magnetizzazione delle rocce terrestri Caso W<<1 (paramagnetismo) Si ha allora Bl 0H, cioè il campo locale coincide sensibilmente con il campo magnetizzante; dalle 4*8÷4*10 segue per la suscettività paramagnetica: 2 Nm0 0 Nm p [X.4*12] = , p= H 3k BT che, raccogliendo i termini costanti in una costante C (costante di Curie, caratteristica di ogni sostanza), 2 0 Nm p [X.4*13] C= , 3k B prende l’aspetto (legge di Curie) C [X.4*14] ; p= T questa legge mette ben in evidenza la dipendenza della suscettività paramagnetica dalla temperatura assoluta: p è positiva, di piccolo valore e decresce all’aumentare della temperatura, in perfetto accordo con l’esperienza. Caso W>1 (ferromagnetismo) È Bl> 0H, cioè il campo locale è maggiore del campo magnetizzante, a questo aggiungendosi il campo d’induzione 0WM generato collettivamente dai momenti magnetici molecolari in allineamento circostanti la generica molecola considerata. Facendo sistema delle 4*8-10 e 4*11, e risolvendo rispetto a M ha:: k BT H a− [X.4*15] M= , 2 W 0Wm p [X.4*16] M = NmpL(a) ; nel piano M(a) (fig. X.4/5 a) la prima di queste equazioni rappresenta una retta c (retta di campo locale), in genere non passante per l’origine (passa per l’origine soltanto in caso di campo magnetizzante nullo), di coefficiente angolare tan =k BT/( 0W m 2p ), mentre la seconda ripete la funzione di Langevin; i valori della magnetizzazione M in funzione del parametro di Langevin a (v. 4*10) si ottengono per intersezione. Peraltro è più espressivo assumere come variabile indipendente, anziché il parametro di Langevin a, l’intensità H del campo magnetizzante, che è presente in a; se si fa variare H simmetricamente intorno all’origine tra due situazioni di uguale saturazione, il cosiddetto ciclo d’isteresi magnetica a magnetizzazione rigida (cioè ‘alla saturazione’), riportato nella fig. b. Come si vede, partendo da una sostanza non magnetizzata, la magnetizzazione M cresce al crescere di H, dapprima rapidamente, poi sempre più lentamente fino a restare costante al valore di saturazione MS; se ora si fa decrescere H, si nota che M decresce assai meno (bisogna pensare che la sostanza considerata sia un cristallo costituente un unico dominio), tanto che quando il campo magnetizzante s’è annullato (H=0), resta una magnetizzazione residua ben consistente, Mr; che s’annulla soltanto se si fa crescere H 16 Cap. X - La magnetizzazione delle rocce terrestri per valori “negativi” (cioè un campo diretto nel verso contrario di quello del campo magnetizzante precedente) fino a raggiungere un certo valore Hc , detto campo coercitivo, in corrispondenza al quale la magnetizzazione salta a un valore “negativo” (il dominio si capovolge di colpo); facendo crescere ancora H, stavolta per valori “negativi”, si raggiunge una saturazione “negativa”, e così via, ciclicamente (se la variazione di H non è simmetrica rispetto all’origine, si hanno “cicli asimmetrici”). Si ritrovano così tutte le circostanze descritte precedentemente in termini sperimentali; tuttavia, se si confronta il ciclo d’isteresi “teorico” X.4/5 b col ciclo “sperimentale” X.4/3 a, si nota la mancanza della brusca transizione di magnetizzazione che si ha in corrispondenza del campo coercitivo, l’inversione della magnetizzazione seguendo in maniera molto graduale quella del campo magnetizzante; come ben si comprende, questo fenomeno è determinato dalfatto che in questo caso pratico la sostanza è costituita da molti domini e dall’esistenza degli “attriti di parete” fra i domini cui s’è accennato poco sopra, circostanze che non sono contemplate nella semplice teoria di Langevin-Weiss dianzi richiamata. Tornando alla situazione della teoria, cioè alla fig. X.4/5, è da osservare che l’esistenza del ciclo d’isteresi (caratteristica fondamentale del ferromagnetismo) corrisponde al fatto che la retta di campo locale immagine della 4*15 abbia due intersezioni con la curva immagine della funzione di Langevin 4*16; ciò accade soltanto se il coefficiente angolare di questa retta è non maggiore di quello della tangente nell’origine alla curva di Langevin, il che - dipendendo tale coefficiente angolare dalla temperatura assoluta T - è come dire che sia: 2 0Wm p [X.4*17] T < TC = , 3k B essendo TC la temperatura ferromagnetica di Curie, caratteristica di ogni sostanza, al disotto e al disopra della quale si ha un comportamento, rispettivamente, ferromagnetico (struttura a domini) e paramagnetico (domini collassati in momenti magnetici molecolari liberi). d) Magnetizzazione ferrimagnetica e antiferromagnetica. Si tratta di due casi particolari di ferromagnetismo, cioè di magnetismo a domini magnetici, che si presentano con sostanze complesse cristalline la cui cella elementare è costituita da sottoreticoli compenetrantisi, alcuni dei quali provvisti di momento magnetico proprio, ma con orientamenti reciproci sia paralleli che antiparalleli. Il ferrimagnetismo si ha quando i valori dei momenti sottoreticolari sono sensibilmente differenti, per cui si ha un momento risultante non nullo, anzi comparabile con quello molecolare di sostanze ferromagnetiche, e un comportamento simile appunto a quello ferromagnetico: suscettività positiva e grande, isteresi magnetica, transizione paramagnetica alla propria temperatura di Curie. L’antiferromagnetismo si ha quando il momento risultante è nullo in assenza di 17 Cap. X - La magnetizzazione delle rocce terrestri agitazione termica (cioè allo zero assoluto), ed è quest’ultima che turbando l’allineamento dei domini sottoreticolari, determina un piccolo momento risultante non nullo e fortemente dipendente dalla temperatura, con il comportamento descritto in precedenza, per qualche verso simile a quello paramagnetico: suscettività positiva e piccola, crescente oppure decrescente con la temperatura rispettivamente al di sotto e al disopra di una temperatura caratteristica di ogni sostanza (temperatura di Néel: v. sopra, fig. X.3.4). La denominazione “ferrimagnetismo” deriva dalle ferriti, sostanze sia naturali sia artificiali, aventi una struttura chimica rappresentata dalla formula mO⋅Fe2O3, con m metallo bivalente (Mn, Zn, Mg, Fe, ecc.), e la cui struttura cristallina è schematizzata nella fig. X.4/6 a. La cella cristallina elementare comprende 32 ioni ossigeno negativi, O2−, e 24 ioni metallici positivi, organizzati in due sottoreticoli, rispettivamente di 16 ioni (ottaedrico) e di 8 ioni (tetraedrico); la natura ferri- oppure antiferromagnetica deriva dalle relazioni magnetiche tra questi sottoreticoli. La ferrite naturale più importante è la magnetite, che è un ossido ferroso-ferrico, FeO⋅Fe2O3, la cui struttura cristallina è quella degli spinelli inversi e la cui struttura magnetica è specificata nella fig. b, con un momento risultante m non nullo; si tratta della roccia “magnetica” più importante: nota fino dall’Antichità, ha dato il nome al magnetismo (v. par. I.1). Negli anni Cinquanta del XX sec. sono state realizzate ferriti artificiali (a zinco, ZnO⋅Fe2O3; a manganese, MnO⋅Fe2O3; e altre), sia ferrimagnetiche sia antiferromagnetiche. Per es., è antiferromagnetica la ferrite a zinco, con la struttura indicata nella fig. c; i 16 ioni Fe 2+ sono organizzati in due domini uguali e antiparalleli, mentre il sottoreticolo degli 8 ioni Zn+2 non ha momento magnetico, talché il momento risultante m, ad antiparallelismo perfetto, è nullo; in realtà, l’agitazione termica turba l’antiparallelismo tendenziale, determinando un debole momento risultante medio e un comportamento simile a quello paramagnetico, descritto all’inizio di questo paragrafo. A titolo di sintesi, la tab.X.4-1 è una sinossi comparativa delle principali nozioni sui cinque tipi di magnetismo che sono stati richiamati. 18 Cap. X - La magnetizzazione delle rocce terrestri X.5. Cenno sulla teoria quantistica della magnetizzazione Senza entrare nei particolari di questa teoria, che esula dagli scopi della presente esposizione, ci limiteremo a indicare le sue linee principali. Due basilari differenze rispetto alla teoria classica sono che (1) tutte le grandezze sono quantizzate, cioè le loro caratteristiche quantitative non variano con continuità ma discontinuamente, per quanti, e che (2) per gli elettroni legati in un atomo accanto al momento magnetico orbitale, meo (associato alla quantità di moto di rivoluzione intorno al nucleo atomico) è considerato anche un momento magnetico di spin, mes (associato a un momento angolare intrinseco dell’elettrone: l’inglese spin vale “rotazione”). a) La quantità di moto di spin può avere soltanto i due valori s [h/(2π)], con s numero quantico di spin, che ha i due soli valori ±(1/2); facendo intervenire il rapporto giromagnetico elettronico dato dalla 4*2, il momento magnetico di spin vale: h e 1 h eh [X.5*1] mes = e s =– (± ) =± =± B, 2 2M 2 2 4 M essendo e ≈ 1,602 10-19 C la carica elettrica e M ≈ 9,108 10 -31 kg la massa (a riposo) dell’elettrone, e h ≈ 6,62 10-34 J s la costante di Planck (la quantità h/(2π) si chiama costante di Planck ridotta); la quantità B=eh/(4πM) ≈ 9,27 10 -24 A m 2 è l’unità di misura quantistica dei momenti magnetici, detta magnetone (di Bohr), da Niels Bohr <bòor>, fisico danese (1885-1962; prof. di fisica nell’univ. di Copenhagen). Come si vede, il numero quantico di spin quantizza il momento magnetico elettronico di spin, che vale un magnetone e il significato del doppio segno di s è che il detto momento può essere parallelo oppure antiparallelo rispetto al campo magnetizzante. b) La quantità di moto orbitale può avere i valori discreti [l(l+1)]1/2[h/(2π)], essendo l un secondo numero quantico elettronico, detto numero quantico elettronico azimutale, che quantizza la forma dell’orbita intorno al nucleo (se l=0 si hanno orbite circolari e, al crescere di l, orbite ellittiche sempre più schiacciate) e può assumere gli n valori interi da 0 a n–1, essendo n un altro numero intero, detto numero quantico elettronico principale, che quantizza l’energia totale dell’elettrone. Facendo intervenire anche qui il rapporto giromagnetico elettronico e , per il momento magnetico elettronico azimutale meo associato alla detta quantità di moto si ha: [X.5*2] meo = – l (l + 1) B , con l = 0÷n–1 . c) Un quarto numero quantico quantizza la posizione del momento magnetico azimutale (se si vuole, del piano orbitale) rispetto al campo magnetizzante; precisamente, la componente mez di tale momento rispetto al campo vale: [X.5*3] mez = – m B , con m = –l÷+l , m essendo detto numero quantico elettronico magnetico, un intero che, come indicato, può assumere uno dei 2l+1 valori tra –l e +l (la quantità di moto orbitale risulta parallela al campo magnetizzante per m=–l e antiparallela per m=+l). d) Composizione dei momenti magnetici elettronici di un atomo. Sia L il risultante dei Z momenti della quantità di moto orbitali degli elettroni di un atomo di 19 Cap. X - La magnetizzazione delle rocce terrestri numero atomico Z e S il risultante dei Z momenti delle quantità di moto di spin. A determinare il momento della quantità di moto dell’atomo, ba, è la composizione dei due detti risultanti, cosiddetto accoppiamento spin-orbita, che segue determinate regole di accoppiamento, dette regole di Russell-Saunders [Henry Norris Russel <ràsl> (1877-1957), statunitense, prof. di astronomia nell’univ. di Princeton] [Frederick Albert Saunders <sònds>(1875-1963), prof. di fisica nella Harvard University di Cambridge, Mass.], dipendenti dal grado di occupazione dei vari gusci elettronici (si chiama guscio [ingl. shell <scèl>] elettronico in un atomo l’insieme degli elettroni che hanno uguali i due numeri quantici principale e azimutale); precisamente, è: h [X.5*4] ba = L ± S = J ( J + 1) , 2 prendendosi nel doppio segno il segno + oppure il segno − a seconda che i gusci elettronici siano riempiti, rispettivamente, per più oppure per meno della metà, ed essendo J un numero semintero o intero (J=1/2, 1, 3/2, 2, 5/2,...); se tutti i gusci consentiti sono pieni, ba è nullo. Per il momento magnetico atomico segue: [X.5*5] ma = − g J ( J + 1) B , avendosi per il fattore di Landé [Alfred Landé <landé>, fisico tedesco (1888-1975), prof. di fisica nell’univ. di Tubinga, poi in quella di Columbus, Ohio, SUA] g l’espressione 1 + J ( J + 1) + S ( S + 1) − L( L + 1) [X.5*6] g= . 2 J ( J + 1) Per quanto riguarda l’assetto spaziale del momento magnetico atomico, la sua componente maz nella direzione del campo magnetizzante vale: [X.5*7] maz = − g B MJ , con MJ = −J÷+J (zero compreso) . Come ben risulta da questa sintesi, la teoria quantistica del magnetismo atomico è in grado, a differenza della teoria classica, di dare un criterio preciso sulla possibilità che un atomo abbia un momento magnetico proprio: precisamente, i suoi gusci elettronici non devono essere tutti pieni. Ciò precisato, le linee di sviluppo della teoria quantistica della magnetizzazione e i risultati finali sono analoghi a quelli della teoria classica; in dettaglio: diamagnetismo: stesso procedimento della teoria classica, ovviamente salvo l’uso delle appropriate grandezze quantizzate; paramagnetismo: la funzione di Langevin (4*9-10) va sostituita dalla analoga funzione di Brillouin [Louis Marcel <briiuèn> (1854-1900), prof. di fisica nel Collège de France a Parigi] (il suo diagramma è sostanzialmente identico a quello della funzione di Langevin, fig. X.4/2): x 2J + 1 2J + 1 1 x) − [X.5*8] BJ = coth ( coth ( ) , 2J 2J 2J 2J gJ B Bl [X.5*9] x= ; 0 k BT per la suscettività paramagnetica p risulta il valore: 2 2 0 Ng J ( J + 1) B [X.5*10] , p= 3k BT sostanzialmente coincidente col valore classico 4*12, ove si tenga conto delle 5*5-5*6; ferromagnetismo: rispetto alla teoria classica, la funzione di Brillouin anziché quella di Langevin; inoltre, le interazioni di parete tra domini contigui sono rese calcolabili 20 Cap. X - La magnetizzazione delle rocce terrestri introducendo apposite funzioni d’interazione di scambio; ferrimagnetismo e antiferromagnetismo: trattazione derivata, come nella teoria classica, da quella quantistica del ferromagnetismo. La magnetizzazione delle rocce terrestri X.6. Proprietà magnetiche delle rocce Dal punto di vista magnetico una roccia è caratterizzata, al pari di ogni altra sostanza materiale, dal valore (con segno) della suscettività magnetica e dal modo di variare di questa con la temperatura e con l’intensità del campo magnetizzante, caratteristiche fenomenologiche che la collocano nell’una o nell’altra delle categorie dianzi menzionate. A titolo di esempio, riportiamo nella tab. X.6-1 i valori della suscettività magnetica di alcune rocce e di alcuni minerali; sono immediatamente riconoscibili le sostanze diamagnetiche ( negativa e piccola) e paramagnetiche ( positiva e piccola). TAB. X.6-1 - SUSCETTIVITÀ MAGNETICA DI ALCUNE ROCCE E ALCUNI MINERALI Roccia o minerale Suscettività (valori medi SI) Comportamento marmo – 6,0 10 –9 diamagnetico salgemma – 6,5 10 –8 “ grafite – 6,3 10 –7 “ quarzo – 9,0 10 –7 “ pirite + 9,5 10 –6 paramagnetico graniti + (0,65÷9,5) 10 –5 “ basalti + (0,09÷1,6) 10 –4 “ dolomite + 1,3 10 –4 “ ematiti + (0,16÷2,4) 10 –4 “ pegmatiti + (0,24÷4,5) 10 –4 “ gabbri + (0,24÷5,7) 10 –4 “ pirrotiti + (0,4÷4,0) 10 –2 misto para-ferri. ilmeniti + (0,24÷2,4) 10 –1 “ magnetite + 0,1 ferrimagnetico nichel + 25 ferromagnetico ferro + 500 “ Le rocce diamagnetiche e paramagnetiche, caratterizzate dunque da piccola suscettività, sono assai debolmente magnetizzate dal campo magnetico terrestre nucleare (e da altri campi comunque presenti) e non danno luogo quindi a sensibili deformazioni del CMT, presentando perciò un interesse piuttosto limitato; ben diverso è il caso delle rocce ferrimagnetiche (relativamente diffuse) e ferromagnetiche (relativamente rare), le quali si magnetizzano intensamente e permanentemente, e sono correntemente chiamate rocce magnetiche. Nella maggior parte dei casi si tratta di ossidi di ferro in soluzione solida con ossidi di titanio, quindi con reticoli di ioni positivi Fe bivalenti o trivalenti e di ioni positivi Ti bivalenti, più ioni negativi bivalenti O, i quali ultimi non giocano peraltro nella formazione di momenti magnetici. I processi di alterazione chimica e cristallografica che si sono svolti e si svolgono nei tempi geologici portano a particolari situazioni di lega, con transizioni di formula chimica, di 21 Cap. X - La magnetizzazione delle rocce terrestri struttura cristallina e di comportamento magnetico. Una buona rappresentazione di questa complessa situazione è rappresentata dal diagramma ternario delle rocce magnetiche riportato nella fig. X.6/1. Si tratta di una sorta di diagramma triangolare (triangolo delle rocce magnetiche), ai cui vertici si trovano la wüstite, ossido di ferro bivalente FeO, paramagnetica, l’ematite/maghemite (della quale riparleremo più avanti), ossido di ferro trivalente, Fe2O3, rispettivamente antiferromagnetica e ferrimagnetica, e il rutilo, biossido di titanio, TiO2, paramagnetico; andando da destra verso sinistra lungo i segmenti 1, 2 e 3, che rappresentano le linee di evoluzione delle leghe solide interessanti magneticamente (rispettivamente, linea delle titanomagnetiti, delle titanoematiti e titanomaghemiti, e delle pseudobrookiti), si passa da proprietà antiferromagnetiche o ferrimagnetiche a proprietà paramagnetiche, via via che titanio sostituisce ferro. Come abbiamo accennato in precedenza parlando del comportamento ferrimagnetico, la roccia magnetica più importante è la magnetite, FeO⋅Fe2O3, o Fe 3O4, che è appunto ferrimagnetica e si trova al centro del lato di base del triangolo delle rocce magnetiche; rinviando alla fig. X.4/6 b, ci limitiamo qui a ricordare che la sua struttura cristallina è quella di uno spinello inverso; la sua magnetizzazione di saturazione è di circa 5 105 A/m e la sua temperatura di Curie è 578 °C. Si presenta spesso naturalmente in soluzioni solide con ossido di titanio, in proporzioni variabili, formando la serie delle rocce dette titanomagnetiti (1 nella fig. X.6/1), nelle quali la magnetizzazione di saturazione e la temperatura di Curie diminuiscono all’aumentare dell’ossido di titanio, fino a che l’ossido di ferro bivalente, FeO, è stato sostituito completamente da ossido di titanio, TiO, giungendo così all’altro termine estremo di questa serie, l’ulvospinello, TiO⋅Fe2O3, o Fe2TiO 4; che è paramagnetico a temperatura normale e antiferromagnetico a bassissime temperature (la sua temperatura di Néel è –153 °C), quali tuttavia non si trovano in Natura. Un’altra importante roccia magnetica è l’ossido ferrico Fe 2O3, che si presenta in due forme strutturali: quella romboedrica ( -Fe2O3), che si chiama ematite, e quella monometrica a spinello come la magnetite ( -Fe2O3), che si chiama maghemite. L’ematite ha un comportamento antiferromagnetico; sempre per sostituzione di ferro con titanio forma una serie di soluzioni solide (le titanoematiti) che termina con l’ilmenite, TiO 2⋅FeO, o FeTiO 3, paramagnetica. La maghemite, analogamente all’ematite, forma una serie di soluzioni solide (le titanomaghemiti), che, per essere ferrimagnetiche, sono piuttosto importanti per il geomagnetismo; è da osservare che essa è metastabile e alla temperatura di qualche centinaio di grado centigradi si trasforma in ematite. Tra le altre rocce contenenti ferro (oltre quelle nominate finora) è da ricordare soltanto la pirrotite, che è il solfuro di ferro la cui composizione chimica è esprimibile con la formula FeS1+x , con x non maggiore di circa 0,15; il suo comportamento è antiferromagnetico per x non maggiore di circa 0,1 e ferrimagnetico per x compreso all’incirca tra 0,1 e 0,15. È importante osservare che tutte le rocce non magnetiche (ossia dia-, para- e antiferromagnetiche), anche sedimentarie, hanno in fase dispersa granuli di rocce 22 Cap. X - La magnetizzazione delle rocce terrestri magnetiche. X.7. Misurazione della magnetizzazione di rocce Le tecniche di misurazione della suscettività magnetica, della permeabilità magnetica relativa o assoluta, della magnetizzazione di saturazione, del campo coercitivo, della temperatura di Curie e di altri simili parametri del comportamento magnetico di rocce sono quelle stesse messe in atto per materiali in genere e di normale uso nella pratica di laboratorio fisico o tecnico; le considerazioni su esse sono rinviate, per necessaria brevità, ad altri testi. Qui ci si riferirà soltanto alla misurazione della magnetizzazione propria di rocce ferromagnetiche e soprattutto ferrimagnetiche, come dire della magnetizzazione residua che tali rocce presentano una volta che siano rimosse dal loro sito naturale e quindi dal CMT che le aveva magnetizzate; queste misurazioni sono di capitale importanza per lo studio dei vari processi di magnetizzazione delle rocce e specialmente per le ricerche sul paleomagnetismo del quale abbiamo parlato nel cap. VIII. X.7.1. Raccolta e preparazione dei campioni La prima, e non banale, operazione consiste nella raccolta di campioni delle rocce da esaminare. Individuata la parte di roccia da cui prelevare i campioni, si sceglie su essa una superficie sensibilmente piana e orizzontale, e, servendosi di una livella e di una bussola, si traccia su tale superficie una linea orizzontale orientata indicante la direzione del nord magnetico (orientamento). La precisione è modesta (qualche grado) e per di più non è facile trovare una superficie, anche piuttosto limitata, rispondente alle dette caratteristiche di planeità e orizzontalità; in genere questa superficie va, almeno in parte, creata con adeguata lavorazione; bisogna essere molto cauti, al fine di non alterare la situazione magnetica del materiale, per esempio evitando l’uso di utensili di ferro o d’acciaio. Una fonte di futuri notevoli errori è costituita dal fatto che la roccia di interesse potrebbe essere stata magnetizzata, oltre che dal CMT, anche accidentalmente dalle intense correnti elettriche unidirezionali di fulmini scaricatisi a terra; poiché tali correnti, di natura impulsiva, scorrono essenzialmente alla superficie del suolo, penetrando assai poco in profondità, un efficace artificio è di raccogliere i campioni a 1÷2 m di pro fondità, che presumibilmente sono esenti da magnetizzazioni spurie da scariche elettriche atmosferiche; ugualmente buona è la tecnica di raccogliere più campioni della roccia che interessa, in modo che poi i campioni eventualmente “avariati” risaltino bene rispetto a quelli non alterati, con le loro misure aberranti rispetto al valore medio delle misure della serie dei campioni. La seconda operazione consiste nel trarre successivamente, in laboratorio, dal campione di roccia i campioni di misura, cioè pezzi di forma adatta allo strumento di misurazione da usare. Una forma molto usata è quella cubica, con spigolo dell’ordine di un pollice (ca. 2,5 cm); non è difficile ottenere che i tre spigoli concorrenti in un vertice materializzino un sistema di riferimento locale relativo al sito di rinvenimento: verticale locale discendente, direzione orizzontale al nord, direzione orizzontale all’est. Abbastanza popolare è anche la forma a cilindretto, sempre con direzioni locali marcate. 23 Cap. X - La magnetizzazione delle rocce terrestri X.7.2. Misurazione del momento magnetico di campioni Come sappiamo (v. par. IV.3.5), la magnetizzazione M di un campione materiale sufficientemente piccolo perché in esso la magnetizzazione medesima possa considerarsi uniforme vale M = m/v, essendo m il momento magnetico del campione e v il suo volume; siccome quest’ultimo non dà luogo a problemi di misurazione, misurare la magnetizzazione di una roccia si riduce a misurare il momento magnetico di un piccolo campione di essa. Per misurare momenti magnetici di campioni di rocce si sono usati in tempi recenti e si usano tuttora (in ordine storico) magnetometri astatici, magnetometri a rotazione e gradiometri a saturazione; hanno cominciato a entrare nell’uso anche magnetometri SQUID (v. oltre: par. 7.2.4). Una caratteristica fondamentale dei laboratori in cui si svolgono queste misurazioni è che in essi non deve essere presente alcun campo magnetico, compreso il CMT; l’assenza di campi locali accidentali è garantita dalla cura con cui si rimuovono tutte le sorgenti di essi (oggetti magnetizzati e correnti elettriche, specialmente se unidirezionali), mentre per rimuovere il CMT gli strumenti di misurazione sono collocati entro un grande solenoide complesso, a più bobine (spesso racchiudente l’intero laboratorio), alimentato con correnti elettriche tali da generare automaticamente con esso un campo magnetico che, istante per istante, è esattamente uguale e opposto al CMT, in modo da annullarlo. X.7.2.1. Magnetometro astatico Si tratta di uno strumento il cui principio di misurazione, come sensibile misuratore di correnti elettriche, fu realizzato (1825) da Leopoldo Nobili (1787-1835), prof. nel Museo di fisica e storia naturale di Firenze; la sua forma attuale per il geomagnetismo è dovuta (1961) all’inglese P.M.S Blackett, già nominato in altro sito (par. IX.1). Un sottile filo di torsione f (fig. X.7.2.1/1) agisce da filo di sospensione di un equipaggio sensibile costituito da due aghetti magnetici identici e antiparalleli; tale equipaggio è provvisto di uno specchietto per misurare, con il noto metodo dell’indice ottico, le sue deflessioni intorno all’asse verticale; data l’antipolarità degli aghi, il CMT − come del resto ogni altro campo magnetico che sia sensibilmente uniforme nell’ambito della piccola zona occupata dall’equipaggio mobile − esercita azioni di coppia uguali e opposte sui due aghi e quindi non esercita alcuna azione netta sull’equipaggio. Se ora (fig. a) si dispone un campione magnetizzato in verticale sotto l’equipaggio, poiché il campo generato dal suo momento magnetico m (si tratta essenzialmente di un campo di dipolo) ha un forte gradiente verticale, la sua componente orizzontale (quella verticale non ha ovviamente alcuna influenza sull’assetto angolare dell’equipaggio mobile) ha un certo valore, Bh, per l’ago basso e un valore minore, B h−∆B h, per l’ago alto; insorge quindi una coppia netta il cui momento −m0×∆B h, con m0 momento dell’ago (noto, o misurabile a parte), è equilibrato da quello della coppia antagonista di torsione sviluppata dal filo di sospensione, c , dove c è la costante di torsione del filo (nota, o misurabile a parte) e è l’angolo di cui ha rotato l’equipaggio mobile fino alla sua nuova posizione di equilibrio (misurato col dispositivo a indice ottico); risulta così determinato ∆Bh, dal quale, ricordando la formula del campo magnetico di dipolo [IV.3.8.2*1] e tenendo conto della geometria della misurazione, si ricava la componente orizzontale mh del momento del campione. Rotando opportunamente quest’ultimo di 90°, mantenendolo peraltro sempre sulla verticale dell’equipaggio mobile, si eseguono altre due misurazioni, fino ad avere il valore delle tre componenti carte siane necessarie e sufficienti per determinare il momento magnetico m del campione e da questo, facendo scendere in campo il suo volume, la magnetizzazione M della roccia da cui è stato tratto il campione sotto 24 Cap. X - La magnetizzazione delle rocce terrestri misurazione. Una notevole variante di questo metodo è la cosiddetta “misurazione fuori centro”, consistente nello spostare il campione di una certa quantità rispetto alla verticale dello strumento, per es. di ∆x lungo l’asse x del sistema di riferimento strumentale (fig. b); se ∆x è molto minore della quota z dell’ago basso, su quest’ultimo al campo ~mx /z3 della precedente posizione “verticali”, con mx componente secondo l’asse x del momento del campione, s’aggiunge il campo ~3m z∆x/z4, che invece si sottrae se il campione è spostato sempre di ∆x ma dall’altra parte; con una serie di misurazioni con il campione spostato lungo gli assi locali x e y, e ruotando il campione di 90° intorno a un asse orizzontale si determinano le tre componenti cartesiane locali del momento magnetico del campione. Un’altra variante, assai speditiva, per la misurazione di queste componenti (Collinson, 1970) è di far rotare il campione intorno alla direzione della componente desiderata con un periodo di rotazione dell’ordine del decimo di secondo, molto minore rispetto al periodo proprio di oscillazione dell’equipaggio dello strumento, che è dell’ordine della decina di secondi. Le misurazioni sono relativamente agevoli e soddisfacentemente accurate se la magnetizzazione da misurare è non minore di 10−10 A/m, che è da considerarsi l’ordine di grandezza della sensibilità di questo strumento. X.7.2.2. Magnetometro a rotazione Questo strumento (ingl. spinner magnetometer) è basato sul fatto che se si fa rotare un campione, provvisto di un suo momento magnetico m, intorno all’asse di una vicina bobina cilindrica, in questa s’induce una forza elettromotrice che è proporzionale, a parità di altri parametri, alla componente del detto momento ortogonale all’asse di rotazione, alla frequenza di rotazione, al numero delle spire e alle dimensioni della bobina; il valore della componente in questione può essere ricavato dall’ampiezza della forza elettromotrice indotta (alternata alla frequenza di rotazione), mentre l’assetto spaziale del relativo componente del momento è deducibile, con opportuni dispositivi, dalla fase di essa. Uno dei possibili schemi operativi dello strumento è mostrato nella fig. X.7.2.2. Il campione, qui di forma cubica, è portato da un albero che ruota uniformemente, con una frequenza tra qualche giro a secondo e qualche decina di giri a secondo (per frequenze più alte, fino a qualche centinaio di giri a secondo, il campione è portato dal rotore di una turbinetta ad aria compressa), accanto a una bobina con due avvolgimenti contigui identici ma con opposti versi di avvolgimento, e ciò al fine di annullare segnali indotti da campi magnetici variabili presenti nell’ambiente, compreso lo stesso CMT; il segnale utile ai capi della bobina è costituito dalla differenza tra la tensione indotta nella semibobina vicina al campione rotante e quella, minore,indotta nell’altra semibobina, più lontana dal campione; questo segnale, che è di piccola ampiezza (dell’ordine di grandezza di qualche µV), è opportunamente amplificato e poi comparato con un segnale di riferimento la cui fase è nota in relazione a una definita direzione x in un piano ortogonale all’asse di rotazione e solidale con questo, quindi con il campione. Nello schema della figura è usato un dispositivo fotoelettrico; l’albero rotante porta un disco diviso in una metà trasparente e una opaca; il raggio generato da una sorgente luminosa ortogonalmente al disco e raccolto da un sensore fotoelettrico è da quest’ultimo trasformato in un segnale elettrico alternato quadrato in cui i tratti verticali corrispondono al passaggio del raggio luminoso dalla parte opaca a quella trasparente del disco, come dire che la direzione x cui riferire il campione è il diametro che separa i due semidischi; il dispositivo rivelatore è 25 Cap. X - La magnetizzazione delle rocce terrestri costituito da un voltmetro da cui si ricava l’ampiezza della tensione indotta dal campione e quindi, per il tramite di una costante strumentale, l’intensità del componente del momento magnetico del campione ortogonalmente all’asse di rotazione, e da un comparatore di fase da cui si deduce l’angolo tra questa componente e la detta direzione x in un piano ortogonale all’asse di rotazione. Eseguendo tre misurazioni secondo i tre assi del campione (a tal fine quest’ultimo è di volta in volta opportunamente ruotato nel suo supporto), risultano determinate le tre componenti cartesiane che individuano vettorialmente il momento magnetico del campione. La sensibilità è dello stesso ordine di grandezza di quella dei magnetometri astatici, cioè di circa 10−10 A/m, ma la procedura di misurazione è più rapida e facilmente convertibile, mediante opportuni dispositivi elettronici, in una procedura semiautomatica di misurazione, elaborazione delle misure e successiva registrazione dei risultati. X.7.2.3. Gradiometro a saturazione Uno dei possibili schemi dello strumento è mostrato nella fig. X.7.2.3. Un magnetometro a saturazione (v. par. V.3.2.2) è provvisto di due sensori, a, disposti, a piccola distanza fra loro, uno parallelamente e l’altro antiparallelamente rispetto al CMT locale, B 0; il dispositivo di misurazione, b, non dà quindi alcuna indicazione, in quanto il dispositivo è sensibile soltanto al gradiente di B dall’uno all’altro sensore, essendo dunque un gradiometro magnetico, e in condizioni normali il gradiente di campo tra i due sensori piuttosto vicini tra loro è troppo piccolo per poter essere rilevato. Se ora s’avvicina a uno dei sensori il campione di roccia da misurare, il campo d’induzione cui questo sensore è sensibile aumenta di ∆B = [ 0/(4π)]2mx /r3, essendo mx la componente del momento magnetico m del campione secondo l’asse x del sensore e r la distanza del centro di quest’ultimo dal centro del campione, mentre il campo rimane praticamente invariato per l’altro sensore; in definitiva, lo strumento misura ∆B e da questo, per il tramite di una costante strumentale, mx ; l’effetto magnetizzante del CMT B 0 è annullato effettuando una seconda misurazione dopo aver ruotato il campione di 180° intorno a un asse verticale e facendo la media tra le due misure così ottenute; ripetendo questa procedura dopo avere ruotato il campione di 90° prima intorno a un asse verticale e poi intorno a un asse orizzontale si determinano le tre componenti cartesiane necessarie e sufficienti per individuare vettorialmente il momento magnetico del campione. Se quest’ultimo è magnetizzato non uniformemente si ricorre a particolari procedure di misurazione, in merito alle quali, per brevità, non è necessario entrare in questa sede. I gradiometri a saturazione hanno una sensibilità dell’ordine di 10-9 A/m, minore quindi di quella dei magnetometri astatici e a rotazione, ma sono senza dubbio gli strumenti più comodi per misurazioni relativamente rapide su campioni sufficientemente magnetizzati, anche in operazioni di campagna. X.7.2.4. Magnetometri SQUID Uno SQUID (dall’ingl. Superconducting QUantum Interference Device “dispositivo 26 Cap. X - La magnetizzazione delle rocce terrestri interferometrico quantistico a superconduzione”) è uno strumento relativamente complesso a causa della necessità di operare a bassissime temperature, ma insuperabile per la sua enorme sensibilità magnetometrica: consente di misurare induzioni o variazioni d’induzione fino a soltanto circa 10−14 tesla, irraggiungibili con qualsiasi altro strumento. Esso è costituito da due strati superconduttori (materiali che se tenuti a temperatura minore di una loro temperatura caratteristica (tra circa 0, 1 e 9 K) presentano una conduttività elettrica estremamente grande) separati da un sottilissimo (qualche decimo di µm) strato isolante, formanti così quel che si chiama una giunzione Josephson (<jùsifson>), dal nome di Brian David Josephson (n. 1940; prof. di fisica nell’univ. inglese di Cambridge) che scoprì le proprietà del dispositivo; questa giunzione è inserita in un circuito percorso da una corrente elettrica ad altissima frequenza (centinaia di MHz); se sulla giunzione agisce un campo magnetico, questo produce una modulazione della corrente (effetto Josephson a corrente alternata),dalla quale è possibile determinare il flusso d’induzione magnetica concatenato col circuito e quindi l’induzione del campo magnetico agente. Nelle applicazioni geomagnetiche i magnetometri SQUID, sia perché relativamente impegnativi dal punto di vista operativo, sia perché la loro sensibilità eccede di norma le esigenze normali, sono ristretti a particolari misurazioni di laboratorio, nelle quali sostituiscono, tutto sommato vantaggiosamente, magnetometri astatici in misurazioni “fuori centro”, secondo la disposizione della fig. X.7.2.1 b, oppure realizzano sensibilissimi gradiometri magnetici, secondo la disposizione della fig. X.7.2.3. X.8. Magnetizzazione delle rocce indotta e residua X.8.1. Premesse a) Con riferimento a quelle che abbiamo chiamato prima rocce magnetiche, cioè essenzialmente rocce ferrimagnetiche, un campione di tali rocce presenta una magnetizzazione propria la quale è risultante: a1) di una magnetizzazione indotta, dovuta al fatto che il campione è immerso nel CMT e descritta dalla 2*3; dipende dalla suscettività della roccia e, dato il piccolo valore dell’intensità del CMT (i 45.000 nT medi dell’induzione geomagnetica corrispondono a un’intensità di soli ca. 36 A/m!), è anisteretica, cioè scompare se, con adatti provvedimenti di compensazione con un campo uguale e opposto, s’annulla il campo ambiente, e a2) di una magnetizzazione residua, che è appunto quel che resta dopo avere rimosso la magnetizzazione del CMT attuale; essa presenta l’interesse maggiore in quanto è in relazione con le modalità del CMT che hanno accompagnato la vita della roccia nei lunghi tempi geologici; l’interesse è particolarmente grande nel caso delle rocce effusive, cioè derivanti dal raffreddamento (sulla superficie terrestre oppure sui fondi oceanici) di magmi provenienti dalle grandi profondità; in tale caso la componente più longeva di tale magnetizzazione residua − isolata con i procedimenti di “lavaggio” di cui diremo tra poco − è quella impartita dal CMT di allora alla roccia in raffreddamento dal magma effuso e porta quindi con sé fondamentali informazioni sull’entità di questo CMT e sulla posizione geografica della roccia in quel momento; è sulle misure di questa componente (propriamente: magnetizzazione residua termica) che è basata la disciplina che s’occupa delle caratteristiche che il CMT ha avuto nei tempi geologici, cosiddetto paleomagnetismo (in particolare, per tempi relativamente recenti, archeomagnetismo se i campioni analizzati provengono da reperti archeologici: 27 Cap. X - La magnetizzazione delle rocce terrestri laterizi, terrecotte, ecc.) che costituisce l’argomento del precedente cap. VIII.. b) La magnetizzazione residua, Mr, può riuscire sorprendentemente maggiore di quella indotta dal campo attuale, Mi; l’importanza relativa delle due magnetizzazioni è quantificata dal rapporto di Königsberger <kénigsbèrgher> [dal nome del fisico tedesco Johann Georg Königsberger (1874-1946), prof. di fisica matematica nell’univ. di Friburgo in Brisgovia]: Mr M [X.8.1*1] Qn = r = , (B / 0 ) Mi con suscettività della roccia e B/ 0 intensità del CMT attuale. Orbene, le rocce ignee presentano valori di questo rapporto maggiori di 1 (fra 2 e 10) e nel caso di alcuni basalti effusivi si arriva a circa 100. Un’ipotesi che fu avanzata al momento di questa scoperta fu che il CMT fosse anormalmente intenso durante la formazione di queste rocce, ma essa non soltanto non trova giustificazione in quello che finora è noto sul CMT del passato, anche lontanissimo, ma è smentita dal fatto che lave recenti (per es., quelle del vulcano giapponese Mihara, emesse nel 1931 e nel 1940, con un CMT pochissimo differente da quello attuale) danno per Qn valori intorno al centinaio. Si è quindi indotti a supporre l’esistenza di uno speciale processo di intensa magnetizzazione, anche da parte del relativamente poco intenso CMT attuale e del passato, che entra in atto durante il raffreddamento delle rocce dallo stato magmatico fluido ad alta temperatura a quello solido a temperatura ambiente loro proprio: la magnetizzazione residua termica (TRM: v. oltre). Oltre alla TRM, ricorderemo qui di seguito altre magnetizzazioni residue rilevanti: la magnetizzazione residua chimica (CRM), caratteristica di rocce sedimentarie che si cristallizzano a una temperatura minore della temperatura di Curie delle loro frazioni magnetiche; la magnetizzazione residua sedimentaria, o detritica (DRM), esclusiva delle rocce sedimentarie in cui siano dispersi granuli (detriti) di rocce ferro- o ferrimagnetiche; la magnetizzazione residua isotermica (IRM), che non deriva da fenomeni termici ma da correnti elettriche accidentali, quali, tipicamente, quelle generate dalla caduta di fulmini, oppure per intense sollecitazioni meccaniche; infine, la magnetizzazione residua viscosa (VRM), che è la debole magnetizzazione, piuttosto stabile, indotta dal CMT nei lunghi tempi geologici. c) Tutti questi tipi di magnetizzazione residua decadono nel tempo esponenzialmente, con una costante di tempo (il periodo di tempo nel quale la magnetizzazione considerata si riduce a 1/e, cioè a circa il 37 %, del valore all’istante t0 considerato come istante iniziale), con una legge del tipo: [X.8.1*2] M(t) = M(t=t0)exp[–(t–t0)/ ] . X.8.2. “Lavaggio” preliminare dei campioni La magnetizzazione misurabile in un campione di roccia è di norma il risultante di magnetizzazioni di origine diversa; accanto a una magnetizzazione principale, che è la più intensa e anche la più interessante dal punto di vista fisico-chimico (tipicamente, ma non esclusivamente, la magnetizzazione termica), sono presenti altri tipi di magnetizzazione (sicuramente quella viscosa e spesso anche quella chimica e sedimentaria), che devono essere rimosse per studiare quella principale; a tal fine, prima 28 Cap. X - La magnetizzazione delle rocce terrestri della misurazione del loro momento magnetico i campioni di roccia sono assoggettati a un procedimento detto “lavaggio”, del quale sono praticate due tecniche: il lavaggio magnetico e il lavaggio termico. Il lavaggio magnetico di un campione di roccia consiste nella seguente procedura, da attuare in un ambiente a campo nullo, in cui cioè ogni campo magnetico, compreso il CMT, sia stato annullato mediante un’opportuna compensazione (analogamente a quanto si fa nei laboratori dove si misura la magnetizzazione di campioni di rocce: v. la parte iniziale del par. 7.2). Si misura innanzitutto – per es. mediante un magnetometro a rotazione – l’intensità e la direzione della magnetizzazione di un campione scelto a rappresentare tutta una serie di campioni di identica origine; infilato questo campione in un solenoide in cui si può inviare corrente elettrica alternata alla frequenza normale (50 Hz in Europa, 60 Hz negli SUA), s’invia nel solenoide una corrente la cui intensità, piuttosto modesta, è fatta lentamente descrescere fino ad annullarsi, in modo che il campione sia assoggettato a un certo campo (che agisce da campo smagnetizzante) di intensità decrescente da un certo valore H1 a zero; si ripete poi la misurazione della magnetizzazione, che dà un valore M1 minore dell’ iniziale, in quanto il campo alternato ha disordinato e reso inattivi ai fini della magnetizzazione complessiva la parte dei domini magnetici aventi un campo coercitivo minore di H1. Si ripete questa operazione molte volte, aumentando via via l’intensità della corrente e quindi l’intensità del campo alternato smagnetizzante, e alla fine riportando in diagramma valori corrispondenti di intensità smagnetizzante H e di magnetizzazione M risultante: si ottiene un diagramma del tipo di quello mostrato nella fig. X.8.2/1. Come si vede, v’è una prima fase in cui la magnetizzazione decresce piuttosto rapidamente; essa corrisponde al disordinamento da parte del campo alternato smagnetizzante dei domini di magnetizzazione più deboli; segue un ampio pianerottolo in cui la magnetizzazione risultante non risente dell’aumento dell’intensità del campo alternato smagnetizzante e che corrisponde al mantenimento della parte più stabile e più coerente dei domini di magnetizzazione del campione, che chiameremo fase di magnetizzazione stabile; a un certo punto l’induzione del campo alternato smagnetizzante è intensa a sufficienza per cominciare a disordinare i detti domini stabili, dopo di che la magnetizzazione diminuisce esponenzialmente e piuttosto rapidamente al crescere dell’intensità del campo smagnetizzante; il valore Hb a cui inizia il pianerottolo di stabilità si chiama induzione di blocco (in questo pianerottolo i domini sono “bloccati” in una configurazione stabile in virtù delle forti interazioni reciproche) e quello, Hs, a cui inizia la smagnetizzazione completa si chiama induzione di smagnetizzazione. A questo punto si sa che sottoponendo un altro campione della serie cui appartiene il campione esaminato – che ormai ha perso la sua magnetizzazione propria – a un campo smagnetizzante di intensità compresa tra quelle, Hb e Hs, che delimitano il detto pianerottolo, esso conserverà la sola magnetizzazione stabile, e questa potrà essere misurata senza ambiguità sulla sua natura. Quanto al lavaggio termico, esso consiste nel misurare – sempre in un ambiente a campo magnetico nullo – la magnetizzazione di un campione a varie temperature via via crescenti a partire da qualche centinaio di °C e riportando poi in diagramma temperature e magnetizzazioni corrispondenti, ottenendosi un diagramma come quello della fig. X.8.2/2; come ben si comprende, a ogni temperatura di misurazione Tm la 29 Cap. X - La magnetizzazione delle rocce terrestri magnetizzazione che si misura in corrispondenza è quella dovuta ai soli domini la cui temperatura di Curie TC è non minore di Tm; l’intervallo di temperatura in cui si ha la sola magnetizzazazione stabile è quello corrispondente al pianerottolo del diagramma. Analogamente a quello che si usa fare nel lavaggio magnetico, si chiamano temperatura di blocco la temperatura (Tb nella fig.) al di sopra della quale resta la sola magnetizzazione stabile e temperatura di smagnetizzazione (Ts) quella alla quale comincia il decadimento a zero della magnetizzazione stabile; la temperatura per preparare alla misurazione i campioni è una qualunque temperatura intermedia tra queste due. X.8.3. Magnetizzazione residua termica Questo magnetizzazione, chiamata anche magnetizzazione termorimanente (calco dell’ingl. ThermoRemanent Magnetization, sigla TRM), che – è bene ripeterlo – è di gran lunga la più importante ai fini del paleomagnetismo e anche la più intensa tra tutte le magnetizzazioni residue (il suo ordine di grandezza è di 1 A/m, almeno un migliaio di volte maggiore rispetto alle altre); deriva dai fenomeni fisici che avvengono in un materiale solido ferro- o ferrimagnetico nella sua transizione di formazione dall’iniziale stato di magma paramagnetico allo stato di roccia consolidata ferro- o ferrimagnetica, quando la temperatura, inizialmente molto maggiore della temperatura di Curie del materiale, nel diminuire durante il raffreddamento che segue l’affioramento del magma dalle profondità terrestri interessa valori intorno alla detta temperatura critica. Una circostanza che caratterizza tale transizione è la sua durata, che è molto maggiore di quella che si ha nei normali processi siderurgici. Allo stato di magma fuoriuscente alla superficie terrestre (oppure sul fondo di un oceano) il materiale che costituirà la roccia si trova a una temperatura (dipendente dal tipo di lava) tra circa 800 e circa 1200 °C, ben maggiore della temperatura di Curie dei componenti ferro- o ferrimagnetici presenti. Il raffreddamento che si ha nell’effusione alla superficie terrestre è molto lento, sia per la piccola conduttività termica dell’aria sovrastante e delle rocce consolidate circostanti, sia per l’enorme massa da raffreddare e la relativamente piccola area della superficie di scambio termico; si raggiunge l’equilibrio termico con l’ambiente in un periodo di tempo – largamente variabile con le condizioni locali – che è dell’ordine di alcuni mesi, mentre la permanenza nell’intorno di ±3 % della temperatura di Curie (all’incirca la “larghezza termica” della transizione paramagnetico/ferrimagnetico) è dell’ordine di alcuni giorni. Contrariamente a quello che si può pensare a prima vista, altrettanto lunghi tempi di raffreddamento si hanno anche per le effusioni dai fondi oceanici; in questo caso, nel primo contatto del magma affiorante con l’acqua oceanica quest’ultima si vaporizza e si forma uno strato di vapore acqueo fortemente compresso sulla superficie del magma; il raffreddamento di quest’ultimo avviene dunque per scambio termico con l’acqua circostante attraverso questo strato aeriforme, che, come l’aria in superficie, è un cattivo conduttore del calore; in definitiva, anche in questo caso si ha un raffreddamento molto lento. Tornando a questo lento raffreddamento – sia che avvenga alla superficie terrestre sia che avvenga su fondi oceanici –, appena si è penetrati nel detto intervallo critico di temperatura i 30 Cap. X - La magnetizzazione delle rocce terrestri momenti magnetici molecolari – fino a quel momento “liberi” in preda alla vivace agitazione termica – cominciano a ridurre le loro distanze e ad interagire significativamente; intorno a casuali raggruppamenti locali di relativamente poche molecole con momenti paralleli cominciano a formarsi, per aggregamento progressivo, i nuclei dei futuri domini ferro- o ferrimagnetici (la successiva estensione di questi è poi governata – come già detto a proposito della formazione dei domini magnetici (par. 4.c) – dalla condizione di organizzarsi in strutture con la minima energia configurazionale magnetica); in queste condizioni iniziali le pareti tra domini contigui sono piuttosto “fluide”, per cui i domini medesimi possono espandersi e rotare con relativa facilità sotto l’azione molto prolungata esercitata dal sia pur debole CMT sui momenti di questi domini “quasi liberi”, che sono enormemente maggiori dei precedenti momenti molecolari “liberi”; proseguendo il raffreddamento e diminuendo quindi l’azione disordinatrice dell’agitazione termica, i domini s’ingrandiscono e s’irrigidiscono nel venire a contatto lungo le loro pareti, interagendo e “congelandosi” nell’assetto definitivo imposto loro dal CMT. Tutto ciò è espressivamente chiamato superparamagnetismo. Così, i grandi valori del rapporto di Königsberger osservati in rocce ignee si spiegano ora molto semplicemente in base al fatto la magnetizzazione imposta loro dal CMT durante la loro formazione è avvenuta nelle condizioni di superparamagnetismo appena ricordate: l’effetto di un CMT debole agente a lungo sugli intensi momenti magnetici di domini in formazione quasi liberi. Come si dimostra, la costante di tempo del superparamagnetismo, cioè il periodo di tempo in cui la magnetizzazione aumenta di exp (–1) ≈ 37 %, si può esprimere con la formula: gv [X.8.3*1] = f exp , k BT essendo v il volume dei domini, k B la costante di Boltzmann, T la temperatura assoluta, f e g due costanti caratteristiche della roccia considerata (precisamente, si tratta di funzioni dei parametri elastici, elettrici e magnetici del materiale e quindi, in ultima analisi, di funzioni della temperatura assoluta). Come si vede, cresce rapidamente al crescere del rapporto v/T; nella fase iniziale del superparamagnetismo questo rapporto è relativamente piccolo (domini piccoli, temperatura alta) e parimenti piccolo è , come dire che il CMT allinea rapidamente i domini in formazione; all’aumentare del volume medio di questi e al diminuire della temperatura aumenta e la magnetizzazione si stabilizza; il valore finale è dell’ordine del miliardo di anni (l’età della Terra è dell’ordine di 4 miliardi di anni!).Indipendentemente dal suo valore paleomagnetico, la misurazione, in campi noti, di questa costante di tempo può fornire importanti informazioni su parametri chimico-fisici delle rocce (il volume medio dei domini, e parametri deducibili dalle funzioni f e g). Le proprietà che rendono la TRM insostituibilmente preziosa per le ricerche di paleomagnetismo sono le seguenti: (a) la magnetizzazione acquisita è in generale estremamente stabile, per cui il suo valore nel lontano tempo di formazione – tempo fornito dalla geologia – è attendibilmente deducibile dal suo valore misurato attualmente e dall’applicazione della formula 8.1*2 del decadimento naturale; (b) la magnetizzazione acquisita ha –salvo casi eccezionali – la stessa direzione del CMT dell’epoca di formazione della roccia, il che, operando su campioni opportunamente “orientati” all’atto della loro raccolta, consente di determinare – come abbiamo visto nel cap. VIII sul paleomagnetismo – le caratteristiche “geografiche” del CMT nei tempi geologici; (c) per piccoli valori dell’intensità magnetizzante – quali sono quelli del CMT – la 31 Cap. X - La magnetizzazione delle rocce terrestri magnetizzazione acquisita è proporzionale all’intensità del campo magnetizzante. Queste proprietà garantiscono – per quello che se ne sa ora – l’attendibilità delle informazioni che la TRM fornisce sulla “storia” del CMT. X.8.4. Magnetizzazione residua chimica È detta anche magnetizzazione chemi(o)rimanente (calco dell’ingl. ChemiRemanent Magnetization, sigla CRM). Ha origine in alterazioni chimiche che una roccia assai spesso subisce nei lunghi tempi geologici: per es., i minerali di una roccia inizialmente paramagnetica possono trasformarsi, per ossidazione, in ossidi ferrimagnetici e anche questi ultimi possono alterarsi, acquistando – sempre per es. – una suscettività maggiore. Si tratta di una magnetizzazione molto stabile e quindi potrebbe essere sfruttata a fini paleomagnetici se non esistesse la grave difficoltà costituita dal fatto che la “data di nascita” della forma attuale di essa – ovviamente, l’unica su cui si possono effettuare misurazioni – è in genere sconosciuta. Pur avendo una stabilità comparabile con quella della TRM, ha intensità decisamente minore e quindi può essere facilmente rimossa con un’operazione di lavaggio magnetico o termico. Per il tempo di rilassamento – dal valore del quale possono ricavarsi informazioni simili a quelle deducibili dall’analoga grandezza per la TRM – vale una formula simile alla [X.8.3*1]; anche qui l’importanza prevalente è quella del rapporto tra il volume medio dei granuli ferro- o ferrimagnetici che si stanno formando per alterazione chimica e successivo accrescimento chimico e la temperatura assoluta, la quale ultima può ritenersi sensibilmente costante intorno al valore medio ambientale; così, il ruolo prevalente è quello del volume dei detti granuli, per il quale – analogamente all’“induzione di blocco” del lavaggio magnetico e alla “temperatura di blocco” del lavaggio termico (par. X.8.2 – si può definire un volume di blocco, quale valore medio del volume dei granuli ferro- o ferrimagnetici formatisi chimicamente, in corrispondenza al quale la costante di tempo del processo è sufficientemente grande per poter considerare che si sia raggiunta una condizione stabile. X.8.5. Magnetizzazione residua sedimentaria È detta anche magnetizzazione rimanente detritica (calco dell’ingl. Dedritic Remanent Magnetization, sigla DRM) e riguarda, come la denominazione stessa fa intendere, rocce di origine sedimentaria. Il materiale di cui sono costituite queste rocce contiene spesso una piccola frazione di detriti di rocce ferro- o ferrimagnetiche che in origine avevano una loro magnetizzazione, per lo più termica, e si sono prodotti per erosione delle rocce madri, finendo poi per depositarsi, insieme ad altri materiali, sul fondo di un bacino acqueo. Durante la lenta sedimentazione in acqua calma il CMT orienta parallelamente a sé i momenti magnetici di queste particelle, determinando una magnetizzazione d’insieme di tutto il sedimento; questa magnetizzazione non riproduce esattamente le caratteristiche geometriche del CMT, specialmente per quanto riguarda l’inclinazione, che tende a essere di piccolo valore, non molto diverso da quello della superficie di fondo del bacino; ciò deriva dal fatto che i granuli sono generalmente di forma allungata e mentre nello scendere nell’acqua si mantengono abbastanza paralleli al CMT, sia in declinazione che in inclinazione, una volta giunti a toccare il fondo s’adagiano su esso. Sono stati tuttavia riscontrati, sia in Natura sia in laboratorio, casi in 32 Cap. X - La magnetizzazione delle rocce terrestri cui le particelle dotate di momento magnetico si ritrovano in una matrice di assai più fini particelle dia- o para- o antiferromagnetiche, nelle quali hanno una certa possibilità di movimento e di seguire meglio l’azione orientatrice del CMT; non si riscontra allora il grande errore d’inclinazione al quale abbiamo accennato. È comunque una magnetizzazione di non grande stabilità e di piccola intensità (ca. 10–3 A/m, contro ca. 1 A/m delle rocce ignee). 33 Cap. X - La magnetizzazione delle rocce terrestri X.8.6. Magnetizzazione residua isotermica È detta anche magnetizzazione rimanente isotermica (calco dell’ingl. Isometric Remanent Magnetization, sigla IRM) e deriva da processi di magnetizzazione di natura non termica ma elettromagnetica, cioè da correnti elettriche (tipicamente quelle suscitate nel terreno da scariche elettriche atmosferiche) oppure meccanica, conseguente ad alterazioni della struttura dei domini e sottodomini prodotta dalle intense sollecitazioni di compressione e di tensione cui la roccia è stata sottoposta nella sua lunga vita (v. il successivo par. X.10); è un tipo di magnetizzazione piuttosto debole ed è facilmente eliminabile con il lavaggio dei campioni. X.9. Anisotropie magnetiche Esistono rocce ferrimagnetiche che, analogamente a quel che succede per altri materiali, sono magneticamente anisotrope, cioè si magnetizzano in maniera quantitativamente differente a seconda della direzione del campo magnetizzante; per esse si può definire un indice di anisotropia magnetica, pari al rapporto percentuale A tra la suscettività M che si misura con un campo magnetizzante applicato nella direzione di massima magnetizzazione e la suscettività m con il medesimo campo ma nella direzione di difficile magnetizzazione: [X.9*1] A = 100 ( M − 1) . m Ancorché non sempre sia conosciuto in tutti suoi dettagli, il meccanismo fisico che dà luogo a questa anisotropia è intrinsecamente legato ai processi d’interazione dei momenti magnetici di dominio caratteristici del superparamagnetismo di queste rocce. Poiché la conseguenza di questa anisotropia è che una roccia che la presenti tende a magnetizzarsi secondo la sua direzione di facile magnetizzazione, si deve tenere conto di essa nel valutare l’attendibilità delle indicazioni sulla direzione del CMT all’epoca della formazione della roccia tratte dalla direzione della TRM di campioni. Per quello che se ne sa ora, si ritiene che se l’indice di anisotropia non supera il 5 % la direzione della magnetizzazione residua misurabile attualmente non si discosta sensibilmente da quella del CMT all’epoca della formazione della roccia.; se tale indice supera il 5%, conviene usare campioni di roccia con una minore anisotropia. Un’anisotropia di tipo diverso è quella esibita da una massa rocciosa che presenti valori di suscettività sensibilmente variabili da zona a zona di essa; ascrivibile a vari possibili meccanismi fisici (per es., perturbazioni meccaniche durante la fase di formazione dei domini ferrimagnetici o superparamagnetici: v. il par. successivo), è in genere debole e quindi facilmente eliminabile nel lavaggio dei campioni; nei casi in cui essa interessi per qualche verso, basta fare la media tra le misure dedotte da più campioni prelevati in punti opportunamente scelti nella massa rocciosa. X.10. Effetto piezomagnetico ed effetto sismomagnetico Si chiama effetto piezomagnetico il fenomeno per cui la suscettività magnetica e, nel caso di materiali ferro- o ferrimagnetici, la magnetizzazione propria variano se un materiale è sollecitato meccanicamente; si parla anche di effetto magnetoelastico, anche se questa locuzione non appare del tutto propria (essa si attaglia meglio al fenomeno 34 Cap. X - La magnetizzazione delle rocce terrestri della magnetostrizione, cioè della diminuzione delle dimensioni conseguente a sforzi interni suscitati da una magnetizzazione, che è in un certo senso il fenomeno inverso). a) Effetto piezomagnetico di suscettività, cioè relativo alla variazione della suscettività magnetica a seguito di sollecitazioni meccaniche. Queste sollecitazioni producono variazioni della struttura ferrimagnetica, che abbiamo visto essere quella degli spinelli inversi; com’è stato dimostrato mediante esperimenti di laboratorio che hanno conferma to precedenti studi teorici, risulta una diminuita magnetizzabilità, e quindi una diminuita suscettività magnetica nella direzione della sollecitazione, mentre il contrario avviene nelle direzioni perpendicolari a quest’ultima. Precisamente, per sollecitazioni di compressione semplice la diminuzione della suscettività “parallela” = è descritta dalla legge (T. Nagata, 1970): [X.10*1] , 1 + ap dove è la suscettività in assenza di 0 sollecitazione, p è la pressione e a è un coefficiente positivo il cui valore, variabile da roccia a roccia, è dell’ordine di (1÷4) 10−4 kg/cm2 (fig. X.10/1). =· = b) Effetto piezomagnetico di magnetizzazione, cioè relativo alla variazione della magnetizzazione propria, il quale non ha trovato ancora un soddisfacente spiegazione teorica. Per le rocce ferrimagnetiche questo effetto è descritto da una legge simile alla 10*1, con coefficienti dello stesso ordine di grandezza. c) Effetti piezomagnetici sia di suscettività sia di magnetizzazione si verificano naturalmente nelle rocce, sia in conseguenza dello stato di compressione in cui generalmente e normalmente esse si trovano, sia in conseguenza di sollecitazioni da considerarsi anomale ed eccezionali, quali si hanno in zone dove si stanno accumulando tensioni elastiche che poi daranno luogo a movimenti sismici: in quest’ultimo caso si parla specificamente di effetto sismomagnetico. Considerazioni teoriche portano a fare stimare dell’ordine di una decina di nT la variazione di intensità del CMT in zone in cui si sono poi verificati forti terremoti, e in effetti pare che qualcosa di questo genere sia stato osservato pur nelle notevolmente difficili condizioni osservative dovute al fatto che il CMT è affetto da frequenti variazioni irregolari dello stesso ordine di grandezza, e anche maggiori. L’effetto sismomagnetico appare come una promettente strada da battere nell’ambito della cosiddetta fisica dei precursori sismici: quest’ultima è la parte della geofisica della Terra solida volta all’individuazione dei vari fenomeni che possono essere utilizzati, almeno in teoria, per dedurre grandezze fisiche che aiutino a formulare un’attendibile previsione delle caratteristiche degli eventi sismici potenzialmente distruttivi (coordinate geografiche della zona con i massimi effetti, epoca dell’evento, 35 Cap. X - La magnetizzazione delle rocce terrestri intensità della scossa principale) al fine di mettere in atto efficaci provvedimenti cautelari (rinforzamento delle costruzioni, sgombero delle popolazioni, approntamento degli ausili medici, ecc.). Come ben si comprende, questo particolare aspetto del geomagnetismo è di straordinaria importanza per un paese, qual è l’Italia, afflitto da una sismicità intensa, diffusa e letale (nel corso del sec. XX le perdite umane nel breve periodo per eventi sismici sono state in Italia dell’ordine di ben 130.000 morti). 36 Cap. X - La magnetizzazione delle rocce terrestri 37