Una piccola premessa, così anch`io posso credermi una grande
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Una piccola premessa, così anch`io posso credermi una grande
Una piccola premessa, così anch’io posso credermi una grande scrittrice, anche se sono altre le cose che accrescono gli uomini. Innanzi tutto devo dire, a mio discapito, che questo è un libro per pochi ma non per ardore vanesio, ma per l’amore che io ho cercato di infondere alle parole, ad ogni singola affermazione. Amore che nasce dalla passione per il cinema, per quella gioia di comprare il biglietto, scansare le tende, cercare il posto migliore e aspettare che le luci si spengano e che la magia cominci. Fin da ragazzina ho divorato con famelico fervore libri e film. Così leggendo e assaporando il cinema, la mia solitudine culturale si alimentava di tutte le storie del mondo. Ho scoperto Bernardo mangiando una pizza estiva con gli amici, in televisione passavano Novecento, fu la folgorazione. Ancora oggi il profumo del tiglio, le risate di Francesca mi ricordano Attila e Olmo. Ho rivisto i suoi film, decine di volte, e ogni volta li denudavo, intuivo così un particolare, un gesto, un’incertezza, a me sconosciuti fino allora. Vedevo il grande cineasta per me mito, trasformarsi in uomo e lo sentivo più vicino, reale, presente. Ho raccontato umilmente tre grandi opere che mi hanno aiutato a divenire quella che sono. Un grazie particolare quindi al suo indubbio talento di vedere oltre l’ovvietà dell’essere. A colazione con Bernardo “La verità è che la poesia, i dipinti, la musica sono cose assi belle, ma la gente non ci si vede abbastanza. Ha bisogno di qualcosa di più vistoso; di un’arte si, ma di un’arte contaminata, il teatro, il cinema, appunto. Tu vedi e ascolti fantasmi, 1 ombre che ti raccontano favole grate; ma che portano le tue cravatte, o almeno quelle che vorresti portare”. “Il momento della perfetta fusione dell’opera d’arte con l’anima di un popolo è quando quest’opera riesce ad oggettivarsi nella materia vivente del popolo: materia appunto, che crea la sua forma. Cinema e romanzo sono la forma d’arte “oggettiva” d’oggi, e quindi rappresentativa. Come una volta l’affresco, l’architettura, il poema eroico.” Pietro Bianchi. Caro Bernardo hai il gusto, l’intuito, la sensibilità giusta per il cinema. Di talento ne hai molto, il tuo limite semmai, è non saper tenere sotto controllo le tue doti. Sei uno tra i pochi registi italiani a lavorare indifferentemente in patria e all’estero, cioè con il grande capitale hollywoodiano- newyorchese, e hai sempre suscitato nei tuoi colleghi italiani, e spesso anche tra i critici, un confuso sentimento d’invidia e ammirazione. Sei sicuramente un privilegiato, e i privilegiati debbono pur scontare qualche ostilità, ed è cominciata subito, con l’esordio. Nell’estate del 1962, avevi vent’anni e vinsi il “Viareggio Opera Prima” per un libretto di poesie non eccelse, ma di buona scuola, ti fu maestro Pasolini, amico di tuo padre Attilio, un poeta bravo e importante, e come se non bastasse fosti a Venezia con un tuo primo film, LA COMMARE SECCA, abile e agile, ma assai freddo esercizio di stile su sceneggiatura del medesimo Pasolini. 2 Solo a Francesco Maselli, figlio dell’ottima borghesia protetto dai migliori registi del suo tempo, ma anche dall’apparato non indifferente del PCI, era capitato in sorte un esordio altrettanto assistito. Ma se tu, avessi avuto un talento pari a quello di Maselli, non sarei qui oggi a scrivere di te. Bertolucci di talento ne avevi e ne hai enormemente, e questo neanche i tuoi più accaniti detrattori possono negarlo. Io ti considero “UN ANIMALE DA CINEMA”: hai il gusto, l’intuito, la sensibilità giusta per il cinema; tra te e il cinema, come mezzo d’espressione e suggestione per immagini, c’è un rapporto di sintonia immediato e istintivo, forte come in pochi altri registi della tua generazione, che al tuo confronto figurano come più intellettualistici o più prosastici. Il tuo limite è semmai quello del controllo su tanto dono, e sei anzi uno dei primi registi ad aver mostrato una sindrome che si è poi diffusa: quella di artisti di enormi ambizioni e di enormi qualità, che sembrano però non essere all’altezza del loro talento, nei quali si avverte una forte discrepanza tra la loro qualità estetica e la loro qualità etica. Il caso più recente di artisti siffatti è quello di Kusturica: “UNDERGROUND” è il film di un cineasta quasi geniale, ma non è sorretto da una chiarezza di visione e di progetto, da un’adeguata struttura teorica, Kusturika è un regista che non riesce a diventare grande poeta perché tra istinto e ragione non fa armonia. La ragione non è all’altezza dell’istinto. Per questo i tuoi film che hanno più convinto sono quelli nei quali le ambizioni sembrano più coerenti: quelli sulle contraddizioni di una formazione borghese e italica, come lo stendhaliano PRIMA DELLA RIVOLUZIONE come il moraviano IL CONFORMISTA, come il borgesiano LA STRATEGIA DEL RAGNO, e più tardi, rovesciata l’attenzione dai figli ai padri, come la TRAGEDIA DI UN UOMO RIDICOLO, scritto tutto e solo dal te, film esemplare sulle colpe borghesi, negli anni bui e confusi del terrorismo. Film italiani cui si aggiungono volentieri pagine, ma solo pagine di NOVECENTO, e perfino di PARTNER, nel quale, rifacendoti al SOSIA di 3 Fedor Dostoevsky, il giovane autore rivendicava una sorta di schizofrenia, più recitata che reale, tra privato e politico, tra amore dell’arte e sogno di rivoluzione, tra eredità verdiana e viscontiana, ma più letteraria, meno teatrale e aspirazione da nouvelle vague. La contraddizione era in realtà più fittizia che reale. Tu Bernardo, figlio della Parma post- verdiana, ossessionato nei primi film dall’analisi del rapporto edipico, lettore e frequentatore di psicoanalisi fino a un esteriore compiacimento, ti sei sempre trovato piuttosto bene nei tuoi panni borghesi, e il massimo di rivoluzione è stato il partito comunista dell’ultimo padre buono della nostra storia politica, Enrico Berlinguer. Grande amante del cinema, tu, volevi il grande cinema: il superspettacolo, Hollywood, le Runaway Production ipermiliardarie, gli Oscar, il successo in più continenti e non solo in più nazioni. Questo successo tu hai fatto di tutto per ottenerlo, e l’hai raggiunto grazie a un film di eccezionale risonanza, ULTIMO TANGO A PARIGI, francostatunitense, l’hai confermato con L’ULTIMO IMPERATORE, cinostatunitense, e più di recente con IO BALLO DA SOLA. Dei tuoi ultimi film il più coerente mi è sembrato il TE’ NEL DESERTO, visione molto occidentale e statunitense dell’Africa e del deserto e molto europea della crisi di coppia; mentre i titoli che coinvolgono l’infanzia mi appaiono molto più pretestuosi e volontaristici, LA LUNA, L’ULTIMO IMPERATORE, PICCOLO BUDDHA. Brani stupendi punteggiano tutti questi film, attraverso i quali tu fai fatica a definirti, a sceglierti, tu sembri prigioniero di suggestioni letterarie, cinematografiche, sociologiche, filosofiche, le più varie: non ti è servita la psicoanalisi, e non sembri aver mai affrontato con adeguato rigore un tuo percorso di conoscenza, diciamo religioso. Sei, nonostante questo un grande del cinema? Grande lo sei, ma sei un grande fragile, un grande che non riesce ancora a dare il capolavoro sorretto dall’intensità di un rapporto tra talento e progetto, tra estetica ed etica, di cui invece avremmo un enorme bisogno e che io continuo ad augurarti di raggiungere. 4 D’altronde quanti sono in cinema, gli artisti, nei quali questa coerenza oggi si esprime, che siano paragonabili, per esempio a un Kubrick o a un vecchio austero alla Bresson. Non è facile parlare di te Bernardo, soprattutto oggi, c’è qualcosa che agisce d’impaccio, qualcosa che si oppone ad un accostamento immediato e puntuale. Forse la colpa è di quegli atteggiamenti un poco plateali che hanno accompagnato molti degli interventi critici più recenti: ricordiamo l’ammirazione a tutti i costi per il regista di successo o l’aria di sottile isteria che ha commentato lo scandalo- presunto di ULTIMO TANGO A PARIGI. Forse la scelta è di quelle preventive, magari giuste, ma spesso poco motivate, che uno si sente in qualche modo costretto a compiere: ci si sente obbligati a scegliere il primo Bertolucci quello che arriva a STRATEGIA DEL RAGNO tanto per intenderci, destinato a pochi ma fedeli amici, e l’ultimo quello che parte dal CONFORMISTA, al quale la fortuna assegna una dimensione, più vasta ma anche più indefinita. Un’analisi attenta smentirebbe la fondatezza di questa opposizione: ma per intanto la si dà, almeno mi pare del tutto necessaria. Forse la colpa, se colpa la si può chiamare, è infine di te stesso, che da parte tua sembri far di tutto per complicare il gioco: da sempre bisogna pur dire, cioè da quando alla COMMARE SECCA, film di scuola pasoliniana, a torto certo, ma questo è un altro problema, hai fatto seguire PRIMA DELLA RIVOLUZIONE, completamente estraneo per lo stile alla precedente tradizione italiana; o da quando A PARTNER, film gridato come pochi, hai fatto seguire ULTIMO TANGO A PARIGI, del tutto deciso, se si accetta il gioco di parole, a portare avanti temi “incivili”. Non una mossa sembra replicata, non una battuta ripetuta. Parlare di te è dunque difficile: parlarne complessivamente, voglio dire. Forse l’unica maniera è partire da quei temi ricorrenti, frequenti, ma quasi sempre posti tra parentesi, che si ripresentano da un film all’altro con una loro identità fissa pur nel cambiamento generale del tono o dell’ossessione narrativa. Ricordiamone pure qualcuno di questi luoghi topici: il gusto della danza, la presenza di figure paterne, l’insistenza di certi movimenti di macchina, quali il carrello o la steady cam e il dolly. 5 C’è tuttavia da dire subito una cosa: questi temi ricorrenti o queste passioni stilistiche, posti nel cuore di un cinema tra i meno ripetitivi che si conosca, (la coerenza non è più una virtù potrebbe suggerire qualcuno: certo sembrano lontani i tempi in cui l’autore era pseudonimo di visibili conferme), sono state lette da certi critici come una sorta di “spia” delle tue ossessioni o dei tuoi complessi personali; con una psicoanalisi di riporto, cioè si è operata una giustapposizione un poco gratuita tra biografia del reale e trasformazione simbolica. Seguendo questa strada è facile trovare dei disegni coerenti o dei quadri d’insieme: basti ridurre i film a una trama d’indizi e di sintomi che servono solo a far luce sui momenti personali e privati e il gioco come si dice, è fatto. Ma la verità è un’altra molti dei leit-movie del tuo cinema e molti dei dati sulla tua biografia, pur intersecandosi e quasi ricorrendosi, giocano ciascuno ruoli più segreti o più cifrati di quello che un semplice combaciarsi lasci supporre. Detto questo dovrebbe essere chiaro perché qui si esordisce dando un po’ d’attenzione a tre figure chiave dei tuoi film: la figura del viaggio legata ad un andare e venire rispetto al luogo d’origine, la figura dell’ambiguità, legata spesso a un disegno generazionale, e infine la figura della morte, legata ad un rapporto padre- figlio. Analizzando queste figure si avrà un duplice guadagno: da una parte troveremo un punto di vista unitario, che per ora sottolinei le analogie tra film e film, piuttosto che le differenze, di queste parleremo in seguito, dall’altra potremmo sondare ciascun motivo in profondità, vedendo a quali complicità conduce e verso quale senso diriga: allora al di là della giustapposizione un po’ facile di biografia reale e biografia immaginaria, scopriremo degli accordi più efficaci, quali ad esempio, il rapporto tra occasioni narrative e scelte stilistiche, il rapporto tra circostanze produttive e decisioni di fondo. Sarà in pratica, scoprire una rete di ragioni, una rete serrata a più tessiture; la tua rete, appunto. Il tema del viaggio, innanzi tutto. I tuoi personaggi viaggiano molto, non abitano stabilmente in un certo posto, vi si fermano soltanto. 6 Nella COMMARE SECCA, l’assassino non è romano, viene dal Veneto: in PRIMA DELLA RIVOLUZIONE chi arriva è Gina, la zia di Fabrizio; in LA VIA DEL PETROLIO è tutto un andare, uno scoprire, un camminare, il Giacobbe di PARTNER arriva da Parigi e il Marcello Clerici del CONFORMISTA ci va. Ora a ben guardare il viaggio si svolge sempre con modalità particolari; l’arrivo, ad esempio, è causa spesso di uno spostamento che sembra difficile, se non impossibile superare. Si pensi alla situazione classica di due estranei come Giacobbe in PARTNER e Paul in ULTIMO TANGO: il loro disagio non è solo morale, ma anche geografico, sono infatti lontani dalla loro terra d’origine, di qui il bellissimo monologo di Paul sulla campagna della propria infanzia, pieno di nostalgia e di amore. Se gli arrivi creano imbarazzo, le partenze non sono meno problematiche: tu, Bernardo sembri restio a mostrarle, le dai sempre come già avvenute, anche se in cambio attribuisci grande importanza ai motivi che le hanno provocate. Non viste, ma necessarie, queste partenze chiamano in causa ragioni essenzialmente private, si pensi ad Athos che va a Tara per ritrovare l’amante del padre ed è costretto ad indagare sulla morte di costui non per il paese, che sa già tutto, ma per sé: si pensi al Marcello Clerici, che è partito per Parigi non solo per una missione “speciale”, ma soprattutto per ritrovare se stesso in un conformismo e in una normalità duramente conquistate. Il peso narrativo di queste partenze, come si vede, è sempre cruciale: si parte per conoscere, per sapere, per trovare, per scoprire. Si parte soprattutto per ritornare, fisicamente e moralmente, sulle tracce di un io assai riposto, si parte, anzi si è partiti. Al passato, e motivata con ragioni private ma vitali, la partenza in questi film sembra coprire un ruolo quasi di fondamento. Ecco dunque come nel tuo cinema si dispone la figura del viaggio; ricca di arrivi traumatici e avara nel mostrare partenze più essenziali. Sarebbe facile allora risolverla mettendogli contro, come commento e spiegazione il racconto che tu fai del tuo, quello che ti ha portato a trasferirti, a undici anni, da Parma a Roma: “…in principio Roma era soltanto intollerabile 7 sofferenza…ma tornavamo sempre in campagna per le feste, per le vacanze, e la casa mi appariva nelle dimensioni dell’infanzia, enorme, stupenda…” Le difficoltà dell’andare e il desiderio del ritornare sono esplicitamente confessati in molte tue interviste, così come erano già suggeriti in una delle prime poesie di IN CERCA DEL MISTERO, la tua raccolta pubblicata nel 1962, che ti valse il “Viareggio Opera Prima” di quell’anno. “che voglia di scappare via da Roma, senza dir niente in famiglia e alla gente che mi saluta per via…” Sarebbe dunque facile risolvere la figura del viaggio con una semplice giustapposizione, ponendola come trasformazione simbolica di un dato biografico. In realtà questo tema ci permette anche delle osservazioni che travalicano un rapporto così riduttivo; serve anche a suggerirci come funziona il tuo cinema, ad esempio. Basti pensare, alla presenza e al ruolo del viaggio in molti generi cinematografici, ad esempio, nel documentario, nel film di guerra o nel westner, dove esso è percorso verso o attraverso l’ignoto, mezzo di comunicazione tra la cultura e la presunta natura, occasione o preparazione diretta del conflitto; basti pensare a questa presenza e a questo ruolo per confrontarlo con l’uso che se ne fa qui, per cominciare a capire come non ci siano solo significati magari personali e profondi, ma anche rimandi precisi, apparenze specifiche. Voglio affermare che il tuo cinema, pur non essendo in senso stretto, di genere, mostra di non disdegnare una ripresa e un riutilizzo di elementi narrativi già collaudati, ora attraverso trapianti formalmente rispettosi, ora attraverso movenze parodistiche, comunque sempre con la coscienza dell’effetto che ne deriva. Questo rinvio molto particolare al genere, del resto può essere ulteriormente precisato, quando si pensa a quanto il tuo cinema ripercorra, sia letteralmente sia metaforicamente, i modi dell’inchiesta: lo fa ad esempio quando mette in scena una ricerca, (l’inquisizione della polizia nella COMMARE SECCA, il lavoro di scoperta del petrolio in LA VIA DEL PETROLIO, la conquista della verità in STRATEGIA DEL RAGNO), lo fai ancora quando rendi 8 percettibile un certo lavoro degli e sugli attori vedi, ULTIMO TANGO, lo fai infine quando scegli dei movimenti di macchina per così dire in prospettiva, e cioè carrelli, dolly e panoramiche che indagano la realtà profilmica progressivamente e inesorabilmente. A questo punto potrei anche far tornare i conti: l’idea dell’inchiesta è prossima a quella di un movimento, movimento ora di un soggetto che vuole conoscere, ora di una macchina da presa che cerca di liberarsi dalla fissità del suo supporto; dunque viaggio anche quando non è direttamente rappresentativo di un modo narrativo che suggerisce pur sempre i suoi gesti e i suoi modi. L’andare è una suggestione irrinunciabile. Ma il viaggio non entra nel tuo cinema solo come riferimento magari contraddittorio ai meccanismi del “genere, né solo come rinvio a certe scelte forse inconsapevoli, la presenza dell’inchiesta potrebbe essere una di queste, se tu indichi un funzionamento lo fai suggerendo anche una condizione materiale di esistenza di questo stesso cinema. Un cinema “emigrante” si potrebbe infatti parodiare; emigrante ai tempi di PRIMA DELLA RIVOLUZIONE, il film ignorato in Italia adorato in Francia a causa di una cifra stilistica che ti poneva , decisamente al di fuori dei tentativi autocritici di superare le certezze realistiche e neorealiste, emigrante ai tempi di LA VIA DEL PETROLIO, ed in maniera duplice, sia perché incursione nel regno del documentario e della televisione, sia perché nato dal trasferimento in Persia sulle tracce dell’ENI e degli operai italiani che lavorano laggiù; emigrante anche nello splendore produttivo di ULTIMO TANGO o di NOVECENTO, nella misura in cui si arriva ad essere un oggetto senza nazionalità o sovranazionale pur partendo da dati apparentemente settoriali, una vicenda limite in ULTIMO TANGO, una storia di provincia in NOVECENTO. Quest’ultima annotazione merita di essere precisata, visto che coinvolge un problema oggi cruciale. Ciò che infatti manca in molta parte del cinema contemporaneo è lo scontro tra un’ipotesi di universalità, del resto si dice che il linguaggio filmico sia collettivo per eccellenza, ad un’esigenza di maggior circoscrizione. Ogni film sembra ricercare più un proprio pubblico definito. Di qui indecisioni, equivoci, ma anche scelte radicali a favore dell’una o dell’altra soluzione. 9 Ora, Bernardo, come dirò, più avanti, imposti il tuo cinema più recente proprio in modo da restare dentro questa alternativa: tu, in un certo senso, proponi un percorso tra due poli opposti. Ecco che il tema del viaggio si riaffaccia, e si dichiara di nuovo essenziale. Non è un caso infatti che ULTIMO TANGO A PARIGI, tanto per andare ad un titolo preciso, si costruisca su di un attraversamento di fattori eterogenei, ciascuno con una sua identità specifica, e dunque in sé limitato ma capace di offrirsi ad una decifrazione immediata quando collocato nell’insieme, si pensi al gioco delle diverse culture che i personaggi manifestano, americana, europea ,autodidatta, istruita, vitalistica, riflessiva, si pensi al rapporto tra la generalità dello schema narrativo proposto e la particolarità della situazione raccontata; si pensi alla complessità del sistema emozioni che il film propone, dall’Atalante di Vigo, al cinema- verità in cui Tom si impegna. Del resto bastano i risultati commerciali di ULTIMO TANGO a confermare quest’impressione di percorso tra gli opposti: al successo del film, si oppone ad esempio il fatto che in America esso sia stato programmato nello speciale circuito porno dei Blue Movies, questo attraversamento dei contrari, dunque, potrebbe essere il senso ultimo del tuo viaggio che colpirebbe la volontà di non arrestarsi ad una o all’altra delle tappe, ma il desiderio di ripercorrere in ogni caso i termini del problema. Si comprende allora l’esitazione a partire, e lo spossamento all’arrivo. Il secondo dei tuoi grandi temi è l’ambiguità: un’ambiguità legata, nei personaggi dei tuoi film , ad un’insicurezza del proprio io, ad un incertezza del proprio ruolo morale o anche a un’apertura non dichiarata ma sottintesa verso possibilità poi non percorse, ad un tentativo di fare ciò che poi non si fa, ad apparizione di gesti solo sognati o solo ricordati. L’ambiguità è infatti una costante dei tuoi eroi, e pur assumendo facce diverse anche se non contrastanti, si manifesta il più delle volte secondo una figura tipica, e cioè attraverso una sorta di squilibrio o di disagio rispetto ai tempi. Questa precisazione dell’ambiguità in chiave didattico o più generale di rapporto di delega con il prima e il dopo ci può riportare alla mente alcune tue dichiarazioni, confermate in più di un’intervista e riguardanti la tua generazione. Una generazione, tu dici troppo giovane per la resistenza, per il dopoguerra, per il neorealismo, e troppo vecchia per una cultura teologica o per la grande 10 esplosione giovanile del “68; una generazione insomma stretta tra un magistero al passato ed un apprendistato al futuro; una generazione ambigua per forza. Ma, di nuovo, non in questa semplice giustapposizione che si esaurisce il senso di una figura pure costante, forse c’è dell’altro; forse c’è in gioco una biografia squisitamente cinematografica, altrettanto cifrata di quella reale, con il ricordo e il peso di un esordio per così dire ambiguo, irrimediabilmente “ post” e necessariamente “ pre”. Mi spiego subito. Tu, Bernardo, esordivi, dal punto di vista generazionale, sotto una strana stella: all’inizio degli anni settanta, per quanto la critica si ostini a leggere ogni cosa secondo l’ottica del neorealismo, qualcosa stava sensibilmente mutando nel panorama italiano. Ecco allora dove possiamo rintracciare altre radici alla figura dell’ambiguità: qui, in questa tensione di partenza, in questo squilibrio pur attuale, in questo gioco di “post” e di “pre”, di non più e non ancora, gioco che si rivela del resto in alcuni elementi tra le righe dei tuoi film, ad esempio nella realtà dei nomi. Il nome insomma è il sintomo dell’ambiguità della situazione generazionale: rimanda alla purezza del passato o al corrompimento del presente. Ma in te il dato cui si è accennato prima ossia quello della transizione, non è tipico solo dell’esordio, esso, sia pur sotto altra veste, riappare anche negli ultimi film. Oggi io posso affermare che il tuo cinema si propone come un cinema “ classico” nella misura in cui non solo raccoglie la tradizione di una ricchezza di mezzi di un’alta spettacolarità, di una sostanziale facilità di approccio, ma anche e soprattutto nella misura in cui è deciso a scontrarsi con l’immaginario di un pubblico senza confini; esso non è come tanta parte del cinema “moderno”, un cinema per gruppi o per settori o per mode o per occasioni contingenti, ma è un cinema che ha la presunzione di assumere per sé una socialità la più ampia possibile e di diventare elemento marcante di un’epoca. Dunque commemorazione del passato e futura memoria. Il terzo dei nuclei tematici presenti nei tuoi film è quello legato alla figura della morte. 11 La morte, infatti, scandisce molte vicende e segna molti destini e molte sono le circostanze nel tuo cinema in cui gioca un ruolo cruciale e pare avere un peso particolare, quello che segna il contemporaneo apparire di una figura paterna. Quindi per quanto l’immagine paterna sia un luogo topico nel tuo cinema, e per quanto sia sempre introdotta con lo spessore dell’ambivalenza, ciò cui si associa sistematicamente è la liberazione di pulsioni di morte, letterali o figurate che siano. Sarebbe allora facile, e i più lo fanno, commentare questo fatto evocando Edipo e dandogli una consistenza reale, del resto agli artisti è permesso avere problemi in famiglia: sarebbe facile trovare la giustapposizione esatta nello straordinario amore di Attilio per i figli, un amore decisamente possessivo e forse soffocante; si cita spesso la sua ossessione, che tu bambino ti facessi male in qualche modo, o sul versante opposto ricordare il tuo esordio come poeta, ad imitazione di tuo padre e poi l’improvvisa cessazione di ogni attività con la conquista di uno strumento autonomo, e cioè del cinema, sarebbe facile, ancora, allargare lo sguardo a certe figure vicarie: “Pier Paolo Pasolini è sempre stato una figura paterna per me, e così quando mi ha parlato male di ULTIMO TANGO, io ho avvertito un senso di liberazione. Più me ne parlava male, più mi si distruggeva come figura paterna…” Sarebbe facile fare tutto questo, ma non sarebbe giusto o almeno non del tutto giusto: un tale confronto non può esaurire un’analisi; può servire da esordio non certo da conclusione. Il rapporto tra la figura della morte e la presenza paterna può servire invece per riproporre un problema che ho già accennato, quello di una definizione del tuo cinema.. Ciò che allora possiamo mettere in gioco è l’atteggiamento verso i “genitori” filmici: in primo luogo il realismo, ossia il padre effettivo o presunto di tutto il cinema italiano del dopoguerra. Quale dunque la tua posizione? Continuando ad usare i sistemi elementari e banali di parentela, diremo quella di un figlio ribelle ma consapevole. È ULTIMO TANGO, che ci consegna l’immagine esemplare: l’albergo di Paul, ospita assieme ai ricordi di un matrimonio conclusosi tragicamente, le figure più rappresentative di una stagione cinematografica ormai lontana: Massimo Girotti è diventato un amante vanitoso e in fondo sciocco, Maria Michi una madre incapace di capire, Giovanna Galletti una prostituta. Ciò che si compie insomma è una rivisitazione del neorealismo, dissacratoria e insieme esorcistica. 12 Del resto come ho già accennato, tu, Bernardo hai giocato fin dall’esordio su di un rapporto di ripresa- distanziazione rispetto ai più immediati antecedenti, ponendoti in un’area stilistica che potremmo chiamare post- realistica. LA COMMARE SECCA, infatti, se si fa riconoscere per la situazione base del racconto, sceglie anche moduli espressivi, decisamente “altri”: i quattro episodi di cui è composto sono costruiti guardando rispettivamente al cinema giapponese, al cinema fantastico, al cinema verità, e solo l’ultimo, tenero e romantico, direttamente ad un certo realismo sentimentale e liricheggiante. Se si volesse trovare l’albero genealogico di PRIMA DELLA RIVOLUZIONE, poi, si sarebbe costretti a compiere giri sinuosissimi: per quanto la vicenda possa trarre in inganno, in questo film c’è del neorealismo solo attraverso Rossellini. Al di là del gioco di parole, ciò che importa è che le parentesi si infittiscono: anche l’amicizia dei coetanei serve ad allontanare il peso dei genitori. Il distacco, non solo dal neorealismo ma dal realismo tout-court, diventerà evidentissimo in PARTNER, dove sono distrutti, letteralmente, tutti i motivi di verosimiglianza: la finzione si rivela in quanto tale e il cinema dichiara di non avere in sé la possibilità di esibire il reale. L’atto di violenza a questo punto è radicale, e si manifesta con una definitiva messa a morte del padre. Ma i tuoi padri cinematografici, non sono solo il realismo e il neorealismo, altre famiglie sono coinvolte. Il cinema americano classico, ad esempio, certamente amato, e perciò esorcizzato, PARTNER di nuovo, ci consente il richiamo puntuale: una lunga sequenza in tram, tra due innamorati, come non ricordare, Aurora di Murnau è conclusa con l’assassinio della donna invece che con la rappacificazione: il gusto della battuta evasiva è confermato. Ma si potrà dire a questo punto che un po’ tutto il cinema classico, quel tuo cinema, che come si è suggerito, cerca di raccogliere l’eredità riprendendone la funzione principale, è un po’ tutto il cinema classico, dicevo, che viene rivisitato, violentato, riproposto, in una tensione incessante di amore folle e di odio distanziatore. Cinema – padre per eccellenza, dunque: per virtù intrinseca come non riconoscere quanto gli dobbiamo? E’ per ammissione consapevole del figlio che prendendo le distanze per fissarsi un’identità, ne ricalca intanto fedelmente le orme. 13 Se allora vogliamo rincorrere per forza le dichiarazioni d’autore, ecco che in una delle tue prime interviste il trinomio padre- cinema- violenza è introdotto con ingenuità solo presunta, mescolando biografia reale e biografia artistica: “Mio padre mi insegnava a vedere il cinema, a capire il cinema, ad amare il cinema . Il mio amore per il cinema dipende quindi in gran parte dal suo amore per il cinema, come il suo amore per la campagna viene fuori dall’amore di mio nonno per la campagna. Io ho avuto la fortuna di poter guardare ad una cultura anche cinematografica, che esisteva prima di me, di avere delle radici, magari per potermene liberare. Le cose sono dette chiaramente, mi pare: più che una constatazione, tu qui detti un programma. Ma se qualcuno trova il gioco troppo facile, e con ciò non si dichiara persuaso, pensi allora alla funzione che hanno nei tuoi film le frequentissime citazioni cinematografiche. Le citazioni cinematografiche non sono soltanto un vezzo intellettuale, né un omaggio per partito preso, né una strizzatina d’occhio allo spettatore più intelligente, ma sono anche e soprattutto indici seminati ad arte per far riflettere, sono delle riprese nel senso letterale del termine, e dunque il computo di un eredità o il controllo di un bilancio. E questo qualunque sia il loro valore apparente: il rimando all’Atalante di Vigo, ad esempio, ha una portata analoga sia se svolto con affetto, sia se proposto con ironia. Citare è mettere il proprio accanto all’altrui; meglio è esercitare una violenza sorvegliata che permette qualche domanda sull’identità e la confusione dei ruoli: insomma è un gioco di famiglia un poco aspro che condotto con tatto, si apre e si chiude con un confronto fra genitori e figli. I n questo senso, ciò che fin qui si è cercato di costruire è stata una sorta di mappa del tuo universo, una rete, si è anche detto, nata dalla decifrazione degli elementi piuttosto che da semplici constatazioni. Ma ora si cercherà di cambiare registro alla lettura: nelle prossime pagine, passando all’esame dei singoli film non si punterà più sull’accumulo dei motivi ma sull’analisi del principio di costruzione cui ogni opera tende o sembra 14 obbedire , non più su relazioni spesso solo metaforiche ma su una letteralità di certi procedimenti. Non sarà un tradimento di ciò che fin qui si è fatto, sarà invece la verifica, condotta da un altro punto di vista, dei dati fin qui rinvenuti . Passando ai singoli testi, insomma, i fili resteranno gli stessi, anche se cambierà la forma della matassa. Ma i rischi ci sono e il più pericoloso , nel ripercorrere film dopo film la tua carriera cinematografica, è il precipitare inesorabilmente verso lo stereotipo. La ragione sta in una tradizione critica che raramente è andata oltre l’incontro occasionale: ci si è quasi sempre accontentati del primo sguardo , o della prima definizione a botta calda, tra le eccezioni vorrei ricordare l’ottimo quaderno di Morando Morandini per l’Aiace. Ora che invece si è programmaticamente costretti alla revisione e alla rilettura, questi stereotipi possono funzionare più che mai da impaccio; soprattutto nei confronti di quella tua caratteristica di cui si è detto nelle pagine precedenti, e cioè del tuo far coesistere indicazioni diverse, della tua apertura a più soluzioni possibili, del tuo atteggiamento ambivalente verso la tradizione. Qui ogni riduzione, specie se un po’ violenta, non può che riuscire mortale. Per cercare dunque di evitare questi passi faremo bene ad esaminare ciascun film seguendo un duplice binario: da una parte tenteremo una descrizione dei suoi elementi tipici, dall’altra rischieremo un confronto con le letture che ieri non sono state date e con la circostanza in cui esso è stato prodotto. Per quanto possibile sarà questo lo schema dell’opera, che verterà su tre dei tuoi “grandi” lungometraggi, a mio avviso i più espressivi, o meglio i più emozionanti e dilanianti ULTIMO TANGO A PARIGI, IL TE’ NEL DESERTO, IO BALLO DA SOLA. Qui io ho ritrovato la tua essenza. Grazie. Ultimo tango a Parigi 15 Una situazione blandamente schizofrenica, influenza il lavoro per Ultimo tango a Parigi, un film di attori e di atmosfere, anzi giocato soprattutto sul volto e sulla fisicità magnetica di una celebre, immortale star, Marlon Brando. Questo Brando, invecchiato, bellissimo, con i capelli un po’ lunghi e grigi, e un cappotto di cammello s’imprime in modo indelebile nell’immaginario della generazione del sessantotto e di quella immediatamente successiva. Infatti, Ultimo tango, ci parla degli anni dopo la Rivoluzione, anche sessuale, mediante i caratteri di Jeanne eTom, mentre Paul, terzo polo del classico triangolo, rappresenta la memoria, la tradizione, il cinema dei padri. Ma Brando recita anche se stesso, cioè il selvaggio che è stato, l’anticonformista, il ribelle, il bad guy, la coscienza sporca di un’industria dello spettacolo edificante e retorica. La biografia di Paul, narrataci dalla domestica, macchiata dal sangue di Rosa, è emblematica. “Un tipo quieto, faceva il pugile, ma gli è andata male, poi è diventato attore, ha trafficato nel porto di New York, ha fatto il rivoluzionario nell’America del Sud; giornalista in Giappone, un giorno sbarca a Tahiti, si arrangia, piglia la malaria, poi arriva a Parigi e qui, qui trova una con un po’ di soldi e la sposa.” È una biografia anche cinematografica, in cui indirettamente si citano le interpretazioni di Brando, Fronte del porto, viva Zapata, Sayonara, gli ammutinati del Baunty. Ma prima di tutto un’enumerazione epica, la celebrazione di un mito, quello del viaggiatore condannato ad errare, simile all’olandese volante o al vecchio marinaio di Coleridge. Esploratore, intellettuale, artista, petroliere come Draker, baleniere come Achab, trafficante d’armi come Rimbaud, Maudit e illuminato, tuttavia quasi un veggente o un profeta. In seguito Paul, a letto, narra a Jeanne il suo passato, replicando una delle scene iniziali di Ossessione di Visconti, dove Gino appena dopo aver fatto l’amore con Giovanna, brevemente racconta i suoi trascorsi e si mitizza. La tua strategia è proprio quella di imbrigliarci in un caleidoscopio di riferimenti, soprattutto extratestuali. C’è poi il set, lo spazio claustrofobico dell’appartamento rosso a cui si accede subito. Siamo in piena, divina, celluloide. Ecco i titoli di testa, disposti prima a sinistra e poi a destra di due dipinti di Francis Bacon, quello di Un uomo in T-shirt che, plasmato dall’angoscia, occupa 16 un divano scarlatto, e quello di una donna dal volto piagato, tumefatto, posta su una sedia che sembra uno strumento di tortura. Finiti i titoli, i due quadri, si affiancano e comincia il film, che ripeto ancora è iniziato da un pezzo. Anche questo sei tu, cioè l’illusione, l’ammiccare al pubblico tutto, agli spettatori avvertiti, a quelli d’essai, ai buoni lettori, agli addetti ai lavori. La citazione colta di Bacon, e aver concepito la scenografia principale di Ultimo tango secondo i colori e le volumetrie del pittore, significa annunciare a chi intende, sia le intenzioni della storia, sia la tua poetica. L’arte di Bacon è legata all’estetica settecentesca del sublime, alle teorizzazioni di Burke, Kant e Schiller. Il primo ritiene che il bello sia opposto al sublime e che quest’ultimo nasca dai sentimenti di paura e di orrore suscitati dall’infinito, dall’abnorme, da tutto ciò che è terribile e riguarda cose terribili, ad esempio il vuoto, l’oscurità, la solitudine, il silenzio. Questo orrore dilettevole, Kant scrive che se il giorno è bello, la notte è sublime, consente l’inserimento dell’informe e del brutto naturale nell’ambito dell’educazione estetica. Perciò Paul e Jeanne di Ultimo Tango si chiudono in una monade baconiana, invero molto teatrale, dove improvvisano uno psicodramma nello stile del living, alla ricerca di emozioni sublimi. Vuoto, oscuro, silente, remoto, l’appartamento è come un utero e come la caverna di Platone, ma vi campeggia un “mostro”, quei mobili accatastati in un angolo e ricoperti da un lenzuolo bianco, che evoca appunto la sostanza baconiana e orrorifica dell’apologo. Segregati in the box i protagonisti si psicoanalizzano a vicenda e per questo accantonano l’identità anagrafica, costruendone altre due, enigmatiche, vere e false allo stesso tempo. Il senso del tempo viene rimosso programmaticamente, anche se c’è una scadenza e quell’ora simbolica finisce, come quella dell’analista. Lì dentro Jeanne e Paul, ne fanno di cotte e di crude, liberano le fantasie, gli istinti animaleschi, si abbandonano alle perversioni, si accoppiano felici o mortalmente soli. All’inizio tu citi ancora la voix humaine di Cocteau e Rossellini, un esempio di solitudine filmata che evidentemente lo affascina, quando Jeanne risponde al telefono dell’appartamento e Paul solleva la cornetta nella stanza accanto senza articolare parola. 17 È un edificio strano, ha ammonito la portinaia, come labirintica è la pianta dell’albergo di Paul e misteriosi i clienti, morbosamente dediti al voyeurismo. In Ultimo tango, le architetture possiedono mille occhi. Non potrebbe essere altrimenti, dato che sono scatole baconiane, moduli quadrangolari come il piccolo schermo televisivo, che invitano alla professione di voyeur, ma anche luoghi brulicanti d’inconscio come la pittura surrealistica. Nel film, assimilato ad un albergo di infinite stanze, a una scatola cranica, a un teatro per bambini di legno o di tela, tornano le fotografie dell’infanzia, che Jeanne mostra a Tom, che Gina in Prima della rivoluzione spargeva sul letto, riguardandole nella solitudine della propria camera. Corriamo a Rebours verso le forme e i sapori più autentici, al dizionario Larousse, dove la protagonista ha letto le parole proibite, mestruazione e pene, al come Mustafà addestrato a riconoscere gli arabi dall’odore, alla giungla a cui assomigliava il parco della villa, all’immagine tanto amata del colonnello, occhi verdi e stivali lucidi, così bello nella sua uniforme! Poi di nuovo avanti nel tempo, al concepimento adolescenziale per i vocaboli sporchi, al turpiloquio nell’appartamento rosso, e ancora indietro ai brutti ricordi di Paul, al cane Dutch, che dava la caccia ai conigli, ai genitori alcolisti, allo sterco di vacca, alla madre che gli insegnò ad amare la natura. Avanti e indietro, gatto e topo, quasi musicalmente e con simmetria. In questo concerto inquietante, dove domina il sax solista di Gato Barbieri, riaffiora in contrappunto con la cinephile funerea del regista e del suo alter ego nel testo, il cineasta Tom, interpretato da Jean Pierre Léaud. Questi immediatamente evoca, e non solo per i cinefili, l’ombra di Truffaut, i Quattrocento colpi, la personalità irritante di Antoine Doinel, le intemperanze e i candori della Nouvelle Vague, insomma tutto un mondo che significa qualcosa per te e per noi, sul quale Tom depone una lapide neanche troppo simbolica, quando imprigiona Jeanne con un salvagente e la chiede in sposa. Sul salvagente c’è scritto Atalante, titolo del film di Jean Vigo. Questa non è soltanto una citazione dotta. Tom getta il salvagente, che affonda, come l’Atalante segna per Vigo, il passaggio dall’impegno politico, anarchico e antiborghese, al disagio esistenziale e al furore controllato di chi vive emarginato, ben sapendo di aver fallito nella pratica, ma non nella teoria, quel salvagente che si inabissa in coincidenza con la proposta di matrimonio che Tom fa a Jeanne, indica che i due, hanno forse, per 18 il momento, accantonano ogni ipotesi di vita alternativa a quella tradizionale della loro classe, anzi ci scherzano sopra: “A gioventù pop, matrimonio pop”. Una constatazione di Jeanne “l’amore tuttavia non è pop”, ci fa intendere che Paul aveva visto giusto definendola una ragazza fuori moda che tenta di essere alla moda. Poco prima c’è stata la nota sequenza del burro, sequenza fin troppo discussa. Paul denuda il fondoschiena di Jeannne, lo lubrifica e annuncia che terrà un discorso sulla famiglia, “quella santa istituzione inventata per educare i selvaggi alla virtù”, quindi la sodomizza, invitandola a ripetere le sue parole: “Santa famiglia sacrario dei buoni cittadini- lei grida di dolore -, dove i bambini vengono torturati finché non dicono la prima bugia, la volontà è spezzata dalla repressione, la libertà è assassinata dall’egoismo.” C’è ben poco di pop in tutto questo e se ne accorsero ben presto i censori, che come noto riuscirono nel gennaio 1976 a far condannare in cassazione te e il film, destinato al rogo. Siamo arrivati alle vicende giudiziarie di Ultimo Tango, al suo carattere provocatorio, che occorre ricordarlo, ti danneggiò, eppure ti impose all’attenzione dell’opinione pubblica, innescando un successo di scandalo che dura ancora. Quel signore che segue Jeanne per strada e praticamente la violenta in modo non per niente politically correct, non è un individuo qualsiasi, bensì Marlon Brando. Questo può spiegare ciò che Pauline Kael, scrisse nel 1972 in occasione della proiezione di Ultimo tango al New York Film Festival, paragonando lo sconvolgimento suscitato nel pubblico statunitense a quello verificatosi in seguito alla prima rappresentazione di Le sacre printemps a Parigi nel 1913. L’opinione della Kael, “ un film che ha mutato il volto di un’arte” non lascia indifferenti, anche se il paragone con Stravinskiy è azzardato. Tuttavia di Ultimo tango si parlò molto, sia a favore sia contro, citando Bataille e Celine. La polemica si riaccende, quando tu presti la tua copia alla Cooperativa “Missione impossibile” che, il 25 settembre 1982, la proietta nel corso di una rassegna dedicata ai principali autori europei. La polizia sequestra la pellicola, tu e i promotori della manifestazione dell’iniziativa siete denunciati per spettacolo osceno. 19 Il film torna ufficialmente in circolazione, solo dopo il febbraio 1987, quando il giudice istruttore Paolo Colella archivia il procedimento penale, ritenendo che Ultimo tango non offenda più il comune senso del pudore. Gli anni passano, le usanze cambiano e la “ scandalosa sequenza del burro” riacquista la sua esatta collocazione autoriale. Recita la sentenza del 1987: “Amore e morte, sesso e distruzione, piacere e crisi, sono i temi che fanno di Ultimo tango a Parigi, un film con piena dignità di opera d’arte, soprattutto per il modo in cui questi motivi profondi vengono affrontati”. L’opera che resta oggi vietata ai minori di 18 anni, non scuote né arene né tribunali, può essere vista in cassetta. Il messaggio quindi si è perduto? Le sue ipotesi progressive sono veramente datate? Dobbiamo concludere che “ l’Atalante” giace realmente sul fondo, come un relitto d’altri tempi? Risposta negativa, per tutti i motivi che ho esposto e per una ragione sostanziale. A fronte della superficialità di quella coppia di “puer” sventatelli, intenzionati a chiamare la prole futura, con i nomi di Castro e della Luxemburg, hanno lo sguardo intenso, il naso romano e la piega classica della bocca di Paul. Questi è il tipo senza fissa dimora, senza amici e senza figli, un malinconico anarchico viandante. La sua giacca nera, la cravatta rossa, gli occhi duri e fatali, sono quelli dell’eterno Hyde, degli odierni seguaci di Dioniso, dei saltimbanchi di Picasso, degli iniziati a riti sulfurei e orrorifici, al sabba della storia come alle chimere dell’immaginazione. Paul è l’icona e il maestro e la maschera del ciarlatano, eroe e poeta, intimista e rivoluzionario, manipolatore e strumento. Paul è il creatore e il lupo di se stesso, quindi Giacobbe e Athos messi insieme. Il discorso psicoanalitico allora qui è brutale e diretto. Si esprime nelle fasi e nelle atmosfere di un legame erotico in cui Paul e Jeanne, oltre a vivere l’analisi come speranza, entro certi limiti la esplicano riflessivamente. Credo che un freddo intellettualismo esplori tutta l’opera. È in un reciproco interrogarsi e psicanalizzarsi dove riaffiorano determinanti fantasmi del passato. Paul è un quarantacinquenne senza radici, dopo essersi trascinato attraverso le più degradanti vicissitudini cosmopolite, approda a Parigi, dove si adatta ad una convivenza coniugale ardente e ambigua. 20 Rosa, la moglie, era tenutaria di un albergo equivoco in cui ospitava Marcel, un amante del quale Paul sapeva tutto. Con il suicidio, Rosa, lo sprofonda nel disperato torpore di un uomo straniero e finito. Di venticinque anni più giovane, Jeanne è essa pure una sradicata. Quel mondo borghese di cui il padre simboleggiava i principi reazionari, la madre, la fatuità, e il tiepido fidanzatino dedito al cinema verità, perché altro non poteva fare, la sterilità culturale e l’arrivismo carrieristico, non è più il suo. E lei se n’è distaccata sotto lo stimolo di una bruciante sete vitalistica di indipendenza: la sua era una bottega di idee e persone ammuffite di cui proferire, Jeanne è un’anima ansante che reclama nuovi e perversi brividi di esistenza. Queste due solitudini si fondono in un'unica furia erotica, ma sotto l’impulso di due diverse esigenze. Per Jeanne il sesso diviene sinonimo di libertà, e si lancia nella viziosa curiosità dell’avventura. Paul si tuffa nella libidine più sfrenata per ritrovarvi energie di sopravvivenza. La casualità, l’anonimato, la belluinità sadomasochista, l’isolamento che contraddistingue i loro tre giorni di passione animalesca, avranno così un senso diverso. Jeanne sfoga la sua golosità di ebbrezze inattese e proibite, mentre per Paul sono condizioni di esclusività e di radicalismo indispensabili per sentirsi qualcuno mediante il possesso assoluto di una donna cui consegnarsi, una volta schiavizzata con la vigoria dei sensi. Ma è un possesso illusorio. Paul punta troppo alla carne per arrivare al cuore. In lui l’ardore carnale ha risonanze interiori, perché lo vive con la disperata serietà del naufrago. Però mentre da alchimista della corruzione distrugge Jeanne per soggiogarla, di fatto, si autopunisce annientando se stesso. Per la ragazza, il rapporto è soprattutto un gioco da cui tende a sottrarsi appena ne subodora le implicazioni più profonde e l’avvizzimento fisico, e quando lui tenterà di riconquistarla, lei ha già deciso di sposare il buffo cineasta, chiedendole il nome, estremo atto di violenza e insieme offerta di una relazione interpersonale di nuova dignità, Jeanne impugnando la pistola d’ordinanza del padre, lo uccide. Gesto assassino dalle molteplici valenze: rifiuto della figura paterna, in cui Paul, nella violenza del sodomizzatore e nella beffa del Kept, si andava identificando, 21 disdetta sprezzante per un gioco carnale oramai scontato e in via d’esaurimento, ripugnanza davanti alla verità miseranda di un eroe romantico che si sfalda in un clownesco rottame umano, negazione atterrita e infantile di impegnarsi in un rapporto che Paul gli stava proponendo con spiragli di crescente autenticità, opzione per una sicurezza borghese alla quale il maître di hotel fallito aveva ostensibilmente irriso nelle sale dell’ultimo tango. Il film è dunque un arcano connubio di eros e thanatos che esplode nel folle amarsi – distruggersi in cui Paul e Jeanne si accaniscono, in un’esasperazione della bestialità segnata da un progressivo raggelarsi nel terrore funereo inutilmente sottolineato da quell’imbarazzante, per il tuo talento intendo, topo morto. Quel clima di feroce allucinazione proclama, senza perifrasi, l’impotenza dei sensi a riscattare l’uomo dall’amarezza dell’alienazione e della nevrosi. Verità e moralità di fondo, secondo me, gravemente penalizzate dal realismo analitico di qualche episodio. Il fascino e la tensione di una rievocazione onirica pregna di indecenze esistenziali, viene infranto da pagine di un cronachismo così insistito da cadere nella pornografia d’immagini selvagge e insieme glaciali atte a ingenerare perverse connivenze, oppure a proiettare patologico e cupo disgusto sulla stessa realtà erotica. Il ricorso ad un linguaggio essenziale e allusivo come comprova l’esempio di Ingmar Bergman, che IN SILENZIO espose situazioni analoghe in un contesto analogicamente “onirico”, avrebbe sempre a mio parere, raggiunto risultati emotivi più provocatori e sotto certi aspetti forse più conturbanti ma contrassegnati dal preciso senso e valore derivante dal loro limpido collocarsi nella coerenza espressiva dei film. La sodomizzazione della Anna Bergmaniana sotto gli occhi della sorella è, sentita immediatamente dallo spettatore come un momento essenziale dell’andante drammatico del film, mentre gli exploits di Paul e Jeanne sono talmente punteggiati di particolari e di esplicitazioni da figurare come un excursus all’interno dell’economia dell’ultimo tango, nella quale solo uno sforzo per sottrarsi al diluirsi aneddotico della rappresentazione consente di riportarlo. Ultimo tango è quindi costruito in maniera singolare: assomiglia a un puzzle I cui pezzi vadano disposti secondo diverse direzioni e diversi piani, alcuni orizzontalmente, per vicinanze, altri verticalmente, per sovrapposizioni, altri diagonalmente. 22 Vediamo subito come la più immediata delle linee lungo cui è possibile seguire il film è rappresentata dai puri e semplici avvenimenti narrati, dalle vicende raccontate, che procedono tutte su un duplice binario: da una parte cercando un’identità propria, una propria autonomia, tra loro non si toccano, dall’altra invece, grazie ad un gioco complesso di mediazioni, finiscono con l’interagire, magari con lo sfiorarsi soltanto, ma sempre con conseguenze pesanti. Ora se ciò avviene, se le diverse storie rimangono indipendenti seguendo ciascuna il proprio destino, e insieme si incontrano e interferiscono tra loro, ciò si deve all’anello che chiude la catena, cioè il rapporto Jeanne – Paul. Quello che conta, infatti, non è che esso costituisca la vicenda centrale del film, la storia principale, ma che si svolga con particolare modalità, non per nulla Jeanne e Paul sono vicini, e insieme sono distanti, il rituale dei loro incontri sottolinea bene questo fatto: fanno l’amore, esplorano il loro corpo, ma non sanno l’uno il nome dell’altro; non per nulla ciascuno dei due è portatore di una serie di vicende che l’altro non conosce, ma con cui finisce per scontrarsi; non per nulla la tragedia nasce quando si vuole sapere ciò che in realtà esiste. Dunque il racconto di Ultimo tango, che pure a prima vista sembra chiudersi su una vicenda unica, isolata, in realtà procede in una serie di incastri: accosta, lega, separa. È una costellazione, ciò che lo tiene insieme, è un gioco di sguardi. Su questo impianto narrativo particolare, potrei parlare di una vera e propria diaspora di nuclei Di racconto, si innestano altri motivi, elementi che complicano per così dire, la situazione. C’è innanzi tutto una precisa organizzazione dello spazio, Ultimo tango, in questo senso è molto attento. I luoghi base sono due: un interno, l’appartamento vuoto in Rue Jules Verne, e un esterno, le strade, la città mito; tra essi, una serie di zone intermedie, la casa di Jeanne, l’albergo di Paul, la sala del tango, il set di Tom. Le relazioni tra questi due punti sono complesse: alcune giocano sull’opposizione dichiarata, altre sull’analogia sotterranea, altre infine giocano sulla reciprocità. Ora in questo sistema di spazi ciò che conta è che i personaggi compiano dei percorsi specifici: ciascuno di essi ha il suo itinerario, per quanto incrociate, le tappe dell’uno non coincidono con le tappe dell’altro. Paul, ad esempio: il suo cammino si pone tra due esterni, la strada, luogo in cui lo vediamo camminare all’inizio, il balcone in faccia alla città su cui muore alla fine, ma passa anche e 23 soprattutto attraverso esperienze di chiuso, l’appartamento vuoto, le zone ambigue dell’albergo, della sala da ballo, della casa di Jeanne. La sua dunque è una vera e propria risalita all’aperto, è una conquista progressiva dello spazio, o meglio di uno spazio; lì troverà la sua morte, quando invece si aspettava la vita: ma il suo errore consisterà proprio nel confondere i luoghi, nel voler vedere Jeanne fuori dall’appartamento di rue Jules Verne, nel voler affermare la propria presenza anche dove non la si accetta. Anche Jeanne, a sua volta, compie un percorso personale: i poli del suo itinerario sono le zone di ambivalenza, il set del fidanzato e la casa della madre; in mezzo, c’è l’interno dell’appartamento, vissuto però non come condizione essenziale per una risalita, ma come zona franca, come luogo circoscritto. L’esperienza di un esterno totale le è negata: coerentemente con il suo ruolo, ogni posto in cui essa vive è segnato da regole, da convenzioni, da ricordi; alla fine, rimarrà al di qua della porta a vetri che dà sul balcone, dentro casa sua. Gli altri personaggi, infine, non attraversano degli spazi, ma sono come bloccati: ciascuno di essi occupa una casella, solo ai protagonisti è permesso, e di qui nasce la loro tragedia, di muoversi sulla scacchiera. Altro fattore che si innesta sul racconto di base, è una certa linea di segni, o di indizi, o di simboli, che si avverte in anticipo sulla piega che la storia sta prendendo e dal senso che essa vuole assumere. I segni più massicci sono quelli di morte: a cominciare dai titoli di testa, con le due opere di Bacon, Vita in decomposizione, per finire al centro del film, ossia alle violenze fisiche che compiono e che accettano sul proprio corpo, l’esplorazione anale di Jeanne, la sodomizzazione di Paul. Qui le tracce sono chiare, la disposizione degli elementi non si può ingannare: è Thanathos che si mostra in Eros; la mitica coppia si ricostruisce. Comunque è soprattutto Paul che vive questi indizi di morte: basta ricordare, come il suo albergo è dominato dalla presenza di Rosa appena suicidatasi, come l’appartamento spoglio e vuoto di rue Jules Verne, in cui egli cerca di perdersi come unica condizione per un suo prossimo ritrovarsi, per lui può ben essere una metafora della tomba, come i ballerini di tango che egli incontra sono truccati con una maschera quasi funeraria. È soprattutto il destino di Paul che è preparato da lontano. A questa catena di simboli di morte se ne aggiunge poi un'altra, che agisce in un certo senso come “rinforzo”: è il discorso che passa attraverso la presenza reale o parlata degli animali. 24 La figura dell’animale, in Ultimo tango, non solo commenta il processo di regressione ad uno stadio quasi biologico che i protagonisti vorrebbero tentare, ma anche e soprattutto serve come metafora della violenza e della morte. Ricordiamo il topo che Paul, scherzo atroce, fa trovare a Jeanne nel letto per provocarle ribrezzo; ma ricordiamo soprattutto le parole, tutte centrate sull’immagine di un porco, con cui Paul accompagna la propria sodomizzazione, gli insulti a Jeanne dopo che questa ha mostrato un fugace attimo di affetto. “ È un angelo, un uomo delizioso e un artista immenso, lo adoro!” Parlando di Marlon, tu, Bernardo, sei quasi commosso, ti ridono gli occhi, sembri un ragazzino di fronte al suo primo gelato. Non soltanto perché gli devi gran parte del successo del film, ma anche perché senti la fierezza di aver restituito al pubblico l’immagine più autentica della grandezza di Brando, costretto dal PADRINO nei limiti di un pur superbo caratterista. Lavorare con lui, tu dici, è stata una gioia, tu non sai niente del Brando piantagrane e megalomane di cui altri hanno parlato. Sul set è stato dolcissimo e affettuoso come un padre con Maria, la giovanissima attrice dal musetto di scugnizza araba venuta al mondo proprio quando Brando mieteva allori per QUEL TRAM CHIAMATO DESIDERIO. Che il rapporto tra Marlon e Maria sia stato teneramente domestico, è credibile soltanto da quanti conoscono il fossato che divide la realtà della vita, dalla finzione del cinema. Il grande fascino del film con cui tu ti consacri autore di rilevanza mondiale e domatore di mostri sacri consiste, infatti, nel clima sconcertante e misterioso, persino con spunti gialli, che circonda la relazione fra i due protagonisti, contrappunta dall’inquietante ricordo d’una donna che si è tagliata le vene e illeggiadrita dall’ironico balletto d’una troupe televisiva. Ora non resta che far cantare a Brando divenuto per l’occasione Violetta Valery, “follie follie, delirio vano e questo povera donna, sola abbandonata in questo popoloso deserto che appellano Parigi che spero or più? Che far degg’io? Gioire di voluttà nei portici perire. 25 Alla fine del film, comunque Brando ti ha detto “non farò mai più un altro film come questo. Non mi piace fare l’attore, ma questa volta è stato peggio. Mi sono sentito violentato dall’inizio alla fine, ogni giorno, ogni momento. Ho sentito che tutta la mia vita, le mie cose più intime, i miei figli, tutto mi è stato strappato fuori.” Poche settimane dopo la fine delle riprese Marlon, aveva riguadagnato i dieci chili che tu gli avevi fatto perdere. Tu non sei neanche sicuro che lui abbia visto il film finito, perché tu eri libero di andare contro il personaggio della pagina scritta. Potevi proporre gesti, potevi spingere le situazioni, potevi approfondire certi lati oscuri di quel “mostro”. Infatti, la scena in cui Brando gioca con Maria al lupo e Cappuccetto Rosso era prevista dal copione, ma tu l’hai spinta molto più lontano. I cinquantenni americani quando vedevano il film ci ritrovavano tutta una fraseologia oscena degli anni ’50 che appartiene a loro e a Brando. Mentre giravi parlavi a malapena l’inglese. Ma Brando è uno dei pochi attori con cui tu hai lavorato che non ti ha mai chiesto che cosa significassero i gesti, i movimenti, le azioni che gli chiedevi di eseguire. Esistono altri attori che hanno bisogno di capire quello che gli si domanda. Tu sei sempre pronto, in questi casi, a inventare delle spiegazioni, in perfetta malafede, che hanno la funzione di tranquillizzarli. Naturalmente le spiegazioni che proponi sono riduttive, come succede sempre quando si passa dalla cosa in sé alla sua interpretazione. Ci sono registi che fanno pensare agli irrequieti maestri d’orchestra. Altri si comportano come fossero comandanti di vascello. Il tuo modo di lavorare con gli attori, invece, per un lungo periodo, era simile a quello di uno psicanalista selvaggio. Si tratta essenzialmente di stabilire un transfert, di creare una situazione di conforto oppure di disagio, di stabilire e indirizzare certe tensioni. Ultimo tango è, infatti, la storia di una crudele educazione, sentimentale, maschile. Brando all’inizio è un personaggio brutale e aggressivo, che subisce lentamente un processo di devirilizzazione, fino a farsi sodomizzare dalla ragazza. Così mettere in scena è “mettere in culo”. 26 Brando precipita indietro fino alla morte, a una morte che è una nascita paradossale. Quando giace morto sul balcone, la sua posizione è quella di un feto. E la macchina da presa si muove come un musical hollywoodiano degli anni ’50. Accanto al ricordo di Henry Miller che si trascinava per Montparnasse alla ricerca dei soldi per mangiare, c’è la nostalgia del ballerino che rovescia in coreografia il proprio vagabondaggio. Quando Brando, tutto fradicio di pioggia, entra nell’ascensore, improvvisa dei passi di tip-tap per far uscire l’acqua dalle scarpe come Gene Kelly. Il te’ nel deserto Gli occhi del protagonista, rivolti al soffitto, innescano i flashback. In città Kit scende dal taxi, passa davanti al cinema Alcazar, entra nello stesso bar da cui aveva iniziato il viaggio, ode la stessa musica, ritrova il narratore. Tratto da un’opera dello scrittore Paul Bowles, Il tè nel deserto, si rivela ancor più letterario de L’ULTIMO IMPERATORE. I titoli di testa sono accompagnati da immagini documentarie di New York negli anni Quaranta, in viraggio seppia. Sappiamo che Bowles, innamoratosi del Marocco durante un viaggio compiuto nel 1931, vi si stabilì nel ’47 con la moglie Jane, scrittrice. Quindi la sua presenza nel film ti ha consentito il recupero di una doppia memoria: storica e autobiografica. Appena scesa sul molo di Tangeri, Kit rimprovera il loro fatuo compagno d’avventura: “Tunner, noi non siamo turisti, siamo viaggiatori” e quando George domanda che differenza ci sia tra gli uni e gli altri Port risponde: “ un turista e quello che pensa al ritorno a casa fin dal momento che arriva.” Frase completata dalla moglie “ laddove un viaggiatore può anche non tornare affatto”. Allora si intuiscono subito lo schema triangolare della storia e il suo motivo conduttore, sottolineato dal primo intervento del narratore, che osserva in 27 silenzio i protagonisti mentre la sua voce fuori campo esordisce “poiché né Kit né Port avevano mai dato alla loro vita un qualsiasi ordine, avevano entrambi compiuto il fatale errore di considerare confusionalmente il tempo come inesistente. Un anno era come un altro, alla fine tutto sarebbe potuto accadere.” Spazio, tempo, azione, anzi confusione e smarrimento: queste le coordinate canoniche di un testo che al solito illustra un momento di latitanza dalla realtà e la conseguente vocazione a perdersi di Kit e Port. La coppia ha raggiunto il Marocco via mare e si muove verso i monti dell’Atlante. Questo nome e il fatto che il dramma si svolga in una colonia francese fanno venire in mente Ultimo tango a Parigi e Vigo con il suo famoso Atalante. Tu sempre pronto accogli il suggerimento inserendo all’inizio e alla fine de Il tè nel deserto una canzone famosa di Charles Trenet, je chante, che innesca una colonna sonora suggestiva e simbolica. Tutto questo per dire che la tua strategia da regista cinefilo crea intorno alla vicenda, invero piuttosto banale, della coppia in crisi, un duplice alone di citazione filmica e musicale. La nostalgia nasce proprio da lì e viene sommersa, come il salvagente dell’Atalante, dal fluido pittoresco delle immagini. Parafrasando i personaggi, potremmo chiederci: tu sei un cineasta turista o un regista viaggiatore? Ti sposti meditando di tornare a Parma, Parigi, o ti abbandoni al mistero di nuovi orizzonti, come fa Kit, perdendo la strada di casa? Perdersi, anzi smarrirsi è indubbiamente una delle tue costanti, la più sentita, la più efficace. Tanto forte è questa tensione nei protagonisti dei tuoi film da farci pensare a un’aspirazione altrettanto intensa del tuo animo, infatti, tu segui la direzione del melodramma raggelato e cerebrale di Antonioni, dove tuttavia le deflagrazioni emozionali sussistono, anzi segnano di passione, di giallo, rosso, arancione, la consistenza plumbea della tela, ad esempio PROFESSIONE REPORTER. L’aggressione mistica dei luoghi della coppia Moresby ricorda inoltre quello che accade ai coniugi Joyce, britannici e molto self-controlled, nell’intenso VIAGGIO IN ITALIA di Rossellini. L’enigma dell’animus mediterraneo, torrido, sensuale, panico, ma gentile e liricamente liberatorio, triste, ingenuo e felice come ci appare nel Decameron e 28 nel fiore delle Mille e una notte di Pasolini, scuote le già labili certezze dei due americani. Dioniso è dietro l’angolo, occhieggia a Kit e Port, li segue da un’oasi all’altra accompagnato dal suo corteo barbaro di percussioni e di flauti. Tali sono le maledizioni e le nemesi dei protagonisti, questa è la febbre di cui muore Port, questa è la malattia dello spirito da cui la moglie rinasce a nuova vita. La trama quindi ci riporta all’inizio: che cosa intravede Kit oltre l’icona del narratore? Che cosa hanno scorto le pupille dilatate del marito? Probabilmente ciò che tormenta il nonno Berlinghieri e lo spinge al suicidio: il sentimento del tempo, la verità della morte. Così l’anziano Bowles, nel finale chiede a Kit se si è perduta e, ottenuta conferma, sentenzia: “Poiché, non sappiamo quando moriremo, siamo portati a credere che la vita sia un pozzo inesauribile. Però tutto accade Solo un certo numero di volte, un numero minimo di volte. Quante volte vi ricorderete di un certo pomeriggio della vostra infanzia, un pomeriggio che è così profondamente parte di voi che, senza, neanche riuscireste a concepire la vostra vita? Forse altre quattro o cinque volte, forse nemmeno. Quante altre volte guarderete levarsi la luna? Forse venti, eppure tutto sembra senza limiti.” Il romanziere Paul Bowles e la scrittrice Katherine Moresby ci appaiono, quindi legittimamente, come padre e figlia, maestro e allieva con ciò replicando il rapporto fra Caterina Silvestri e il suo anziano insegnante di canto de LA LUNA, ma anche come autore e personaggio. La valenza prismatica del tuo cinema impone continui specchiamenti, rimandi e allusioni. L’altro notturno che risplende sommesso nel deserto, altrimenti rosso e abbacinante, suggerisce il volto della madre, sempre in LA LUNA, quindi l’infanzia, la memoria, il rimpianto proustiano del passato, e insieme, l’ombra della morte, il completamento oscuro di noi tutti. Eppure la convincente essenza lirico-nostalgica dell’opera, sembra appannata da una sorta di eclissi promozionale turistica. Le dune solcate dai cammelli, il bel tenebroso Belqassim, il corteggiamento scherzoso presso il fuoco, il candido sorriso di un piccolo cavaliere e la magniloquente colonna sonora, sono coronati da alcune notti di sesso robusto e autentico con il buon selvaggio 29 Sorge il sospetto di assistere allo spot di un’agenzia di viaggi, che promette tutto questo relax più l’assoluta certezza dell’igiene e del corretto comportamento dei nativi. Per cui una pallida e stressata signora del New England o una virago californiana, dopo il film, potrebbero facilmente credere alle lusinghe del testo, per di più letterarie, sentimentali e d’autore. Sebbene la prostituta Mahrnia, racconti, nel romanzo di Bowles, in originale intitolato Il cielo che protegge, come tre ragazze recatesi a bere il tè nel deserto v’incontrino la morte, simboleggiata dalla sabbia nei bicchieri. Tu, Bernardo ami il grande cinema: porti la macchina da presa e la tua idea nei grandi spazi. La Cina de L’ULTIMO IMPERATORE dava una grande emozione visiva, come PICCOLO BUDDHA. Qui siamo nella grande dimensione del silenzio dove le relazioni umane, le emozioni ritornano centro incontaminato dell’esistenza. Siamo in un luogo lontano dalla grande America, che i due protagonisti, Port e Kit, hanno lasciato per cercare di ritrovarsi. Cominciano un lungo doloroso viaggio attraverso il deserto, in una specie di easy rider. Sembrano alla ricerca di qualcosa che restituisca ragione ai loro sentimenti comuni. Ma sembrano contemporaneamente alla ricerca di qualcosa che hanno dentro, che hanno perduto nel rapporto di coppia. Il film è attraversato da una sensazione di febbre e di morte. Il punto più alto della narrazione, come d’altra parte nel romanzo di Bowles, è l’agonia, il viaggio verso la morte di Port. I due attori sono assolutamente straordinari. Come lo è, da sempre, la fotografia, immaginata da quel genio che è Vittorio Storaro. “ non è sull’impossibilità dell’amore, ma sull’impossibilità di essere felici in amore. Kit e Port si guardano negli occhi e dicono “chi sono? Chi sei?” 30 Io ballo da sola Il tema è la prima volta della bellissima e casta Lucy. Un inno alle ragioni del cuore sullo sfondo del Chiantishire popolato da intellettuali ex libertari Una critica radicale del consumismo sessuale. E nel conflitto generazionale si consuma l’addio ai miti del ’68. Sotto una quercia secolare, in un intenso tramonto nel cielo del Chianti, Lucy e Osvaldo, a diciannove anni, perdono la verginità. Per amore! Gli studiosi avranno già riconosciuto una tua scena madre. Ma IO BALLO DA SOLA è qualcosa di più che una storia raccontata con la pellicola. Lucy è destinata a diventare l’immagine simbolo della rivoluzione sessuale, neoromantica di fine secolo. Siamo agli antipodi di ULTIMO TANGO, Jeanne era una tipica figlia degli anni settanta, per lei la sessualità era un territorio da esplorare, in tutti i suoi aspetti, con insaziabile avidità e furore ideologico. E tu, Bernardo racconti: “I giovani della mia generazione volevano spaccare tutto, la sessualità veniva vissuta come sventramento, brutalità, quella brutalità oggettivamente rivoluzionaria che ho raccontato in Ultimo tango, in Io ballo da sola invece, la protagonista Lucy ha 19 anni, è bellissima ed è vergine per scelta culturale. Ma non è vittima di un’educazione bacchettona, nessuno le ha mai detto, che fare l’amore è peccato, né che il sesso e una cosa “sporca”. Sua madre, morta suicida, era una poetessa libertaria, un ex figlia dei fiori. Eppure, Lucy, caso insolito di Lolita casta e pura, aspetta di innamorarsi per farlo, finalmente, con gioia e tenerezza. Per lei la prima volta non è più, come per la generazione di sua madre, una conquista da sbandierare, ma un evento da vivere soprattutto con il cuore. 31 Grazie a questo film, tu sei di nuovo tornato a girare in Italia, l’azione si svolge tutta in un casale a Brolio, nel Chianti e hai scelto una storia apparentemente piccola e sentimentale: una giovane studentessa americana, orfana di madre, trascorre una vacanza consolatoria in Toscana, a casa di amici, sperando di incontrare l’amore. In realtà il film è di ben ampio respiro e propone un argomento che certo farà discutere, anche al di là dell’ambito cinematografico, il neoromanticismo e la sua estrema espressione, cioè la castità, come scelta controcorrente, forse rivoluzionaria. Se poi si pensa che ad averla proposta era un regista oramai sessantenne, che ha fatto della trasgressione un tema forte della sua filmografia, di NOVECENTO è stata da poco proibita la visione in una scuola americana, è ancor più provocatorio. A un certo punto di IO BALLO DA SOLA, un personaggio spiega la poca disinvoltura sessuale di Lucy e dei giovani in generale con la paura dell’AIDS. Tutto qui? Tu, Bernardo affermi che non è affatto riducibile a questo. Il terrore delle malattie è la metafora di una paura più generale, anzi di un rifiuto di stare alle regole, imposte da questa società dell’opulenza consumistica, che ci bombarda continuamente di immagini di sessualità. La scelta neoromantica è una scelta contro tutto questo. I ragazzi come scaturisce dalle tue affermazioni sono cauti, la scelta di fare sesso o no, è meditata, così come quella del partner. Forse in questo comportamento c’è anche il desiderio di essere all’opposto del modello dei padri. Non solo Lucy è il tipico esempio di vittima de quella che gli psicologi definiscono “famiglia allargata” disfunzionale, figli che nel bene e nel male sono costretti a fare i conti con l’esistenza della sessualità dei loro genitori. Una questione che alle generazioni cresciute in età predivorzista non si era posta. La diversità di Lucy, emerge ancor di più, nel film, proprio dal confronto con i personaggi delle generazioni precedenti: quaranta-cinquantenni raffinati, colti, leggermente trasgressivi, come tu li chiami, con un buffo neologismo, ”frivoluzionari” a metà strada tra la voglia di frivolezza e intenzioni Gauchiste. Gli ospiti di Lucy sono lo scultore Ian e sua moglie Diana, inglesi che hanno scelto le colline del Chianti per costruire un loro mondo ideale, un parnaso immerso nella bellezza assoluta dell’arte e della natura. 32 Loro vicino di casa è Alex, scrittore, malato terminale che diventa il confidente di Lucy perché assorbe la giovinezza e la bellezza della ragazza come se fossero salvifiche medicine. Intorno ai personaggi centrali si agita il coro, un mercante d’arte anziano e un po’ matto, un ex corrispondente di guerra, la disegnatrice di gioielli Miranda con il suo amante, una giornalista italiana che risponde alla posta del cuore e altra varia umanità che popola un microcosmo abbastanza tipico di quello che viene chiamato con ironia “chiantishire”, ovvero l’ambiente degli stranieri, per lo più artisti o intellettuali, espatriati in Toscana. …Anni fa era stata loro ospite una ragazza su cui tutti avevano fantasticato. Un po’. Lo spunto è stato quel ricordo, ma nessun personaggio è direttamente ispirato a persone vere. Con Susan Minot abbiamo lavorato in forma “work in progress”; molte soluzioni sono nate dal contatto con gli attori prima tra tutti Liv Tyler, che ha un senso del cinema non comune. Infatti interpreta perfettamente la psicologia di Lucy, una ragazza che passa molto tempo da sola scrivendo poesie che poi butta via. …l’impagabile privilegio, di sciupare tipico dei giovani, che si sentono immortali. Lucy, può anche posare a seno nudo per lo scultore, ma in piscina indossa solo costumi interi, e reagisce con risolini d’imbarazzo di fronte agli adulti ex libertari che prendono il sole integrale. La purezza di Lucy e d’altri suoi coetanei, non è solo fisica. In IO BALLO DA SOLA, tu presenti i giovani, come portatori di energie e valori nuovi, forse migliori di quelli degli adulti del film, esponenti di un mondo cechoviano, in decadenza. Questi stranieri che hanno deciso di vivere nel Chianti per rubare la bellezza dell’arte e del paesaggio italiano, capiscono, proprio attraverso il confronto con la bellezza autentica di Lucy, ben più carnale di quella di un affresco, che il loro mondo perfettamente armonico è giunto a Capolinea. È come se tu debuttante nel ’62 avessi bevuto un filtro di giovinezza artistica. 33 Ma non si può dire che tu sei rinato, piuttosto è nato un nuovo Bernardo. …il contatto con questa storia di ragazzi mi ha aperto nuove prospettive. Prima nutrivo dei sospetti nei confronti dei giovani, ma quando me li sono trovati lì, davanti, alla macchina da presa, ho scoperto, che sono molto più interessanti di quanto credessi. …ci sono film, destinati a materializzare le fantasie di onnipotenza del regista. La storia del cinema è piena di film che cercano di assomigliare alla vita Novecento è uno di questi, come lo sono stati certi film di Eric Von Stroheim o Apocalypse Now di Francis Ford Coppola. Io ballo da sola, più che cercare di somigliare alla vita, pare un’operazione horror, destinata a prosciugarla, attraverso una vampirizzazione della giovinezza, splendidamente interpretata da una ninfa aristocratica alla quale tutti i personaggi del film tentano di rubarne la bellezza. Bernardo con questo film sei finalmente ritornato, sei stato per oltre dieci anni esule volontario in giro, nel mondo, dalla Cina al Marocco, al Nepal per una trilogia esotica, che ha segnato la tua definitiva consacrazione, grazie anche ai nove premi oscar, raccolti con L’ULTIMO IMPERATORE. Ma oramai avevi voglia di tornare a casa, di rimisurarti con un film leggero, che non pesa che qualche grammo, come tu stesso lo definisci. E poco lontano dalla natia Emilia, in Toscana, luogo perfetto per una vacanza dello spirito, in mezzo alle dolci colline del Chianti, hai trovato il set ideale, per una storia semplice, intima, a tal punto di sfiorare la confessione impudica di un cineasta accortosi di non essere più giovane. Reduce da PICCOLO BUDDHA, ennesimo successo mondiale, tu hai manifestato l’intenzione di rientrare in una dimensione più famigliare. Anche se parallelamente svelavi il desiderio di portare a compimento uno dei grandi sogni della tua carriera Novecento, con un atto terzo e ultimo a coprire gli anni dal ’46 ai giorni nostri. …un progetto ambizioso e stimolante perché siamo a fine millennio, ma rinviato a data da destinarsi, perché oggi del mio paese capisco poco. Riemerge subito quindi, la voglia di tornare a modelli meno ingombranti, come nel 1982 con LA TRAGEDIA DI UN UOMO RIDICOLO, girato sui luoghi di 34 Novecento, poco lontano dalla contrada dell’infanzia e dell’anziano padre Attilio. Per cambiare rotta rispetto a un itinerario che pareva segnato sulle orme del kolossal, tu, avevi bisogno di alcuni distacchi. Ecco spiegata la temporanea separazione dal direttore della fotografia di sempre Vittorio Storaro. Una pausa è stata concessa anche allo sceneggiatore- cognato Mark People, con cui avevi scritto i copioni degli ultimi dieci anni; al suo posto Susan Minot, scrittrice americana, unica presenza femminile nella corrente letteraria del minimalismo, rivelatasi in Italia con il romanzo Scimmie e Incantesimo, libro romantico tipico di formazione e iniziazione. Perfetta quindi per le tue nuove esigenze. Per la scelta della protagonista tu avevi messo un annuncio sui giornali: “cercasi attrice in grado di esprimere la purezza interiore e non, di un’immacolata fanciulla. La scelta è caduta su Liv, figlia di Steve Tyler, rockstar degli Aerosmith. Un’acerba commediante che aveva debuttato in Silent Fall di Bruce Berensford, nel ruolo di testimone di un brutale assassinio, e che Woody Allen, per il suo nuovo film, il musical Anna Oz, aveva richiesto. Ma già donna malgrado l’età, a causa della scandalosa giovinezza regalatale dal padre, amico delle droghe e dell’alcool e lontano da lei per anni. Nemmeno tu, all’inizio, conoscevi bene i richiami del tuo inconscio, spaventato dal tempo che passa. Ma Liv sul set ha portato una ventata di leggerezza, diradando le ombre e mettendo in ordine i tuoi confusi pensieri. Vestita con abiti a fiori, sottili e trasparenti, occhi magnetici e cuffiette per ascoltare le canzoni preferite, quelle di D.J. Harvey, emblema di una leggerezza del vivere, del muoversi, del ballare, trasformava l’atmosfera con la sua presenza. …io ballo da sola, mi aiuterà a ristabilire un equilibrio, perché io che non ho figli, che potrei essere il padre di Liv e del suo personaggio Lucy, nella storia di questa ragazza pronta a diventare donna, lasciandosi andare alle fantasie, cerco di catturare le affinità che possono legare tra loro persone diverse, come Gustave Flaubert con Madame Bovary, sto probabilmente praticando un transfert. 35 Il tema centrale di Io ballo da sola è appunto capire a che punto è la notte, rapinando giovinezza e naturalezza. …ho compiuto 18 anni sul set, …questo film mi ha aiutato a crescere, in quella casa dai muri antichi dove abbiamo girato, e che Bernardo, paragonava alla leggerezza della musica di Mozart, …la mia Lucy ascolta sempre musica rock, la stessa che piace a me. Due culture che nella vicenda si incontrano: un’esperienza che ho provato anch’io in Toscana, una terra meravigliosa. Questo film, ha mutato il mio sguardo verso gli altri. Altrettanto dolci sono le confessioni di Jean Marais e Stefania Sandrelli… sono un voyeur della bellezza, Liv- Lucy è così incantevole da spingermi a pensare che il film abbia davvero un’anima mozartiana, fatta di grazia e dolore insieme. E Stefania Sandrelli…vedendo Lucy mi è capitato di ripensare al mio primo personaggio adolescenziale di SEDOTTA E ABBANDONATA, film di Pietro Germi del 1964 in cui avevo 18 anni e una carica di vitalità ancora tutta da consumare. La scelta degli attori allora evidenzia lo scontro generazionale che si manifesta via, via, che il viaggio psicologico si sviluppa, tuttavia si tratta di una raffinata selezione internazionale dall’intenso e asciutto Jeremy Irons, un sofferente drammaturgo di scuola inglese, a Marias l’esperto d’arte antica, un pezzo del cinema e del teatro francese degli ultimi sessanta anni, dalla figlia dell’attore irlandese Cyril Cusak, Sinead, che interpreta Diana. E poi Stefania Sandrelli, che come Zeffirelli, gli hai offerto la scena più eroticamente sorprendente. E poi il gigionesco Carlo Cecchi, Joseph Fiennes e Roberto Zibetti, giovane rivelazione nel ruolo di Niccolò. …antiche passioni e scoperte recenti per un cast meraviglioso. Hai affermato. Raccontare una vicenda che ruota attorno alla giovinezza, quella perduta di alcuni e quella sfrontata di altri, ti ha ridato la carica…la voglia di parlare di una generazione che non è più la mia, mi è venuta per reagire al centenario del cinema, che era roba vecchia, funerea. Ho ritrovato la libertà che avevo negli anni sessanta, l’atmosfera lieve del film mi ha permesso di girare con la steady-cam una macchina da presa che sembra 36 volare. Tutto bene, tranne il titolo, il lato tormentato di un film di grande serenità: Dancing by mysel, non piaceva ai produttori perché troppo triste e Ladri di bellezza in Italia era troppo scontato. Adesso Io ballo da sola non mi dispiace: quel affermativo perentorio definisce bene il percorso d’iniziazione di Lucy. Il film Io ballo da sola potrebbe essere letto anche sfogliando le poesie di Giacomo Leopardi, dai primi versi dell’Ultimo canto di Saffo. “placida notte, e verecondo raggio, della cadente luna; e tu che spunti tra la tacita selva in su la rupe nunzio del giorno” …alle rime del Passero Solitario “ tu penoso in disparte il tutto miri; non compagni, non voli non ti cal d’allegria, schivi gli spassi canti e così trapassi dell’anno e di tua vita il più bel fiore” …alla silente melanconia dell’Infinito. “sempre caro mi fu quell’ermo colle”. …ad altri astri e dolci paesaggi che innescano la meditazione lirica in Alla luna e La sera del dì di festa. Ermo il colle dei Grayson lo è di certo. Scabro ed essenziale come l’arte del duecento. Tu hai dichiarato di guardare la Toscana come se fosse il Bhutan, come se si trattasse di un’esperienza nuova, attraverso gli occhi di Lucy, una turista proveniente da un paese lontano, che sta affrontando il viaggio, che la porterà a trasformarsi da ragazza a donna. Il paesaggio riflette la forza e la fragilità di questo passaggio. Matrice conflittuale, psicologico-estetica. Di tale matrice conflittuale, tu, ci informi fin dall’inizio, quando in un viraggio seppia scorrono davanti i nostri occhi alcuni frammenti di cinema verità, come se 37 fossero reperti di pittura vascolare greca: parti del corpo di Lucy seduta in aereo, la guida tascabile, un dipinto senese, una miniatura indiana. Il tutto colto con voluta apparente casualità, in campo medio, con gusto da entomologo sadico. Un taglio di ripresa che sicuramente proviene dal talento morboso e neogotico del tuo nuovo direttore della fotografia. È un universo primordiale questo, dove, ogni meriggiare pallido e assorto nasconde cruda violenza, sanguinose cerimonie pagane, deflorazioni acuminate. Potremmo dire che l’etrusco ha colpito ancora, e non saremmo lontani dal vero. C’è, infatti, un mostro alla radice di Lucy, quel demone senza volto che l’ha generata sotto il sole, tra i filari, stuprando Sarah, come la dea madre terra, replicando un rituale propiziatorio per il raccolto. Vino e sangue, rosse crete di Siena: la toscana di Io ballo da sola non è tanto rinascimentale, cortese e ridente, quanto cupa, profonda enigmatica, mortale. Forza e fragilità, hai spiegato, presiedono il destino di Lucy. La protagonista n’è circondata, perché nette, robuste e remote, inafferrabili come una tela, come un soggetto di Brancusi, come la statuaria etrusca ci appaiono le creazioni dello scultore Ian, che sono in realtà opera dell’artista Matthew Spender, tuo amico e figlio del poeta Sir Stephan Spender. …avevo visto molti attori, ma non li ritenevo credibili nelle vesti di un artista o troppo belli o troppo artisti, secondo un cliché. Poi ho visto Donald Mccann a teatro e mio ha fatto pensare a un ergastolano. Avevo trovato l’uomo giusto: misterioso, emanava un costante senso di pericolo. Fuori del mondo e ritorno. A una domanda apparentemente semplice e scabrosa, tu offri una risposta sapiente, astuta, sincera. Come nei romanzi inglesi di conversazione tra intellettuali con rendita di grande tradizione, Io ballo da sola racchiude fuori dal mondo, un piccolo mondo, a confrontarsi con verità minime e con verità eterne. Generazioni, caratteri, stili di vita. La vita e la morte, il privilegio e l’arroganza, il dovere e il piacere, il lasciarsi vivere o la scelta di come vivere. Il film è un piccolo romanzo di formazione, è una riflessione molto mossa e matura che si pone in apparenza domande semplici, cui dare risposte altrettanto 38 semplici o banali, e che affronta lo scabroso e gravoso, il presuntuoso ma ineludibile compito, per un autore, di dire cosa si è capito o cosa si vuole che si capisca dei massimi problemi. Tanti anni fa Roman Polanski, in un film oggi dimenticato, accompagnò una ragazzina americana, molto sciocca dentro, un corrotto piccolo universo di ricchi, in una villa sulla costiera amalfitana. Il film si chiamava “Che?” e rifaceva comicamente Candide. Ma la tua Lucy non è né candida, né sciocca, è assolutamente normale. Cresce in un mondo di brutture, tra insicurezze, in agguato, tra padri e madri molto imperfetti ed evasivi, e deve districarsi nel piccolo labirinto delle proposte, dei modelli dei valori possibili. Tu, infine, chiudi la sua esperienza tra titoli di testa che vedono Lucy seguita dalla macchina a mano dentro un aereo; e titoli di coda che mostrano Siena dall’alto in una ripresa aerea. Alla città si torna, è obbligatorio tornarci. Il passaggio dalla comunità fuori dalla città, è servito a una comprensione e a una maturazione. Il banale traliccio di Susan Minot, serve a te, per un film astuto, sincero. …si le cose tornano. La perdita della verginità come illuminazione. In questo film c’è una serenità che non conoscevo prima, gli altri miei film grondano dolore, disperazione, angoscia. Invece questa volta volevo trattare con delicatezza e lievità temi profondi, sfiorarli appena. Fino a raccontare il momento della perdita di verginità rompendo il cliché legato alla mia generazione, di una specie di violenza necessaria. Questo stato di leggerezza l’ho sempre sognato, ma non me lo ero mai potuto permettere. Volevo identificarmi con una vergine. Bello riconquistare delle verginità nella vita anche quando si è avanti negli anni. In realtà ho cercato di rappresentare la familiarità che si può avere con la bellezza, l’arte, la poesia, un’idea che ho ereditato da mio padre Attilio. …mio padre Attilio ha visto il film, è venuto verso di me, mi ha sorriso e ha detto: bene, bravo hai fatto, la tua opera prima. 39 Il tuo papà poeta non aveva sbagliato paradosso. Io ballo da sola segna visibilmente una svolta nel tuo percorso. …le parole di papà, mi hanno confermato un mio sospetto, quello di essere davvero entrato in una fase diversa. Forse è stato il fatto di ritornare a piazzare la macchina da presa in Italia o l’argomento del film, la verginità. La cosa di cui vado più orgoglioso, comunque, è di essere riuscito a rappresentare un gruppetto di teen-ager d’oggi, senza le resistenze e i diaframmi che temevo. I ragazzi non vivono in modo gioioso, sono schiacciati dalla sottocultura generalizzata. Si presentano da un lato in modo arrogante e per altri aspetti completamente disarmati. Se proprio devo trovare un senso finale al mio film, beh, sicuramente è la ricerca di un rinnovamento personale. Lucy cerca se stessa. Io ho cominciato. Un ringraziamento doveroso al poeta Attilio senza il suo amore per il cinema Bernardo, non sarebbe stato così colto, e io non avrei vissuto le passioni dei suoi film. Come tu dici queste passioni, anche le più sfrenate vanno vissute, fino in fondo. Quello cui si deve rinunciare è il proprio ego. Troppa autocelebrazione. Il mio sguardo, ora, grazie alla tua sensibilità, come Lucy si impadronisce del futuro, con gioia. Non è cosa da poco. 40 41