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Notizie intorno all`Etica d`Aristotele tradotta in volgare

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Notizie intorno all`Etica d`Aristotele tradotta in volgare
DOI 10.1515/zrp-2015-0049
ZrP 2015; 131(3): 714–753
Cristina Scarpino
Notizie intorno all’Etica d’Aristotele tradotta
in volgare da Nicola Anglico*
Abstract: This paper presents the results of a survey of the literature referring to
the unpublished vernacular translation of the Nicomachean Ethics carried out by
Nicola Anglico. Brought to scholars’ attention by Concetto Marchesi in 1904, but
quite neglected by later literature, this work is of particular interest for the
manuscript tradition, both for the language used in the codices, and especially for
some historical and cultural traits connected to the author. The first part of this
paper provides an overview of the existing references to the text and its manuscripts, with attention to the linguistic veneer of some passages; the second one
focuses on the identification of the author and the historical and geographical
localisation of the original and of its source, which would be the Angevin court of
Naples.
Keywords: Nicola Anglico, Nicomachean Ethics, Vernacular translations
Nicola Anglico, Etica Nicomachea, Volgarizzamenti
Dr. Cristina Scarpino: Via San Vincenzo 94, I-73025 Martano (LE),
E-Mail: [email protected]
1 Dati generali e tradizione dell’opera
L’Etica di Aristotele tradotta in volgare da Nicola Anglico è un testo prosastico
che rientra nella trattatistica filosofica aristotelica e propriamente nel filone
specifico dei compendi dell’Etica nicomachea (cf. §5): non si tratta di un volgarizzamento letterale bensì di un’epitome dei dieci libri. La datazione dell’opera,
che gli studi sono tendenzialmente concordi nell’attribuire al XV secolo in base
alla datazione del suo testimone più noto prodotto nel regno aragonese (cf.
§1.1), non può tuttavia essere stabilita con certezza, poiché non è certo il periodo
in cui ha operato il suo autore: l’originale potrebbe ascriversi al XIV secolo, se
* Sono grata a Rita Librandi, per i suggerimenti operativi nelle varie fasi della stesura e della
pubblicazione di questo saggio; a Claudio Ciociola e Rosario Coluccia, per averne commentato la
prima versione; alla cortesia di Paolo Eleuteri devo la segnalazione dello studio di Benedetti
(1988).
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L’Etica d’Aristotele tradotta in volgare da Nicola Anglico
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accettiamo che Anglico sia il volgarizzatore e operi durante la dominazione
angioina (cf. §3).
Dalla ricognizione bibliografica, estesa anche ai motori di ricerca on-line,
scopriamo che il testo viene citato in prima istanza nell’articolo III, tomo XXIV
del settecentesco Giornale de’ Letterati d’Italia (cf. n. 14), ripreso dopo un breve
lasso di tempo da Paitoni (1766, 123: «La Etica d’Aristotele tradutta in volgare da
Maestro Nicolao Anglico, o forse Angelio»); solo un secolo e mezzo più tardi è
segnalato da Marchesi (1904, 138s.),1 che fornisce anche una trascrizione parziale
dei due testimoni da lui rinvenuti: «Se ne conservano due esemplari: uno nella
biblioteca dell’Oratorio a Napoli, l’altro nella biblioteca Marciana».2 Sebbene
filologicamente e diplomaticamente imperfette,3 le trascrizioni dello studioso,
insieme all’individuazione dei due testimoni, costituiscono una delle pochissime
note di merito che la critica primonovecentesca ha riconosciuto al suo lavoro (cf.
Mancini 1904; Gentile 1905; Pelaez 1904); esse rappresentano inoltre l’unico
sussidio di cui si dispone al momento per minime considerazioni di ordine
linguistico (cf. §2).
Negletta dalla letteratura,4 forse proprio a causa del giudizio dello stesso
Marchesi – «Ma come ridotto alterato e abortito questo nuovo tentativo di volgarizzazione aristotelica!» (1904, 138) – la traduzione di Anglico riappare in studi
più recenti5 come elemento di raffronto linguistico: in una digressione sulla
semantica del termine aristotelico ironia (είρωνεία) presso gli autori medievali
1 La ricerca di Marchesi viene severamente recensita da Gentile (1905) e la controreplica è in
Marchesi (1905); Segre (1964) si serve di Marchesi (1903 e 1904) nel capitolo sul volgarizzamento
del Tresor; Corti (1983, 96–109) utilizza l’edizione del compendio alessandrino-arabo fornita da
Marchesi (1904) per riscontri testuali con il Tresor di Brunetto Latini.
2 Ho consultato il lavoro di Marchesi attraverso la ristampa americana della Nabu Public Domain
Reprints (La Vergne TN, USA, 2010). Le trascrizioni dell’Etica di Anglico costituiscono il terzo
documento dell’Appendice; più specificamente i brani tratti dal codice napoletano sono compresi
nelle pp. 151–158, mentre la trascrizione dal ms. Marciano, vistosamente più ridotta, è pubblicata
nella n. 1 delle pp. 151s.
3 La valutazione è di Mancini (1904, 366) e si riferisce all’intero blocco dei documenti pubblicati
nell’Appendice di Marchesi, non solo alle versioni di Anglico.
4 Non ne fanno menzione i resoconti linguistici e culturali incentrati sulla fisionomia dialettale
antica della Campania e sul meridione continentale, tra i quali ricordo De Blasi/Varvaro (1987) e
(1988); De Blasi (1992); Bianchi/De Blasi/Librandi (1992); Coluccia (1994) e De Blasi/Fanciullo
(2002). La constatazione non sorprende: considerato il taglio storico-linguistico dell’analisi, che
si basa essenzialmente su dati verificabili, questi studi hanno inevitabilmente privilegiato il
materiale edito. Le menzioni dell’opera rinvenute in letteratura si limitano a mere citazioni e
pertanto sarebbe improprio parlare di «panoramica di studi» sull’Etica di Anglico.
5 Lo studio di Marchesi e il relativo riferimento al volgarizzamento di Anglico sono segnalati
nella traduzione inglese dell’Histoire de la Philosophie Médiévale di Maurice de Wulf curata da
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compare in Knox (1989, 133; cf. §4); in relazione all’espediente grafico impiegato
per distinguere la e verbo dalla e congiunzione viene ricordata nella n. 50 di
Montuori (1997, 85),6 punto di partenza della scheda filologica pubblicata nella
banca dati SALVIt, da cui muove questo lavoro (cf. Scarpino 2010).7
Riguardo alla circolazione del testo, Marchesi (1904, 138) riferisce che «il
volgarizzamento dell’Anglico ebbe umile esistenza e meschina diffusione; fu
infelicemente compiuto senz’arte e senza bisogno». I dati sull’attualizzazione
dello stesso contrastano però con questa affermazione. Dalla nostra ricerca
emerge che la tradizione manoscritta, che in letteratura – ricerche dello studioso
siciliano a parte – fa riferimento al solo codice napoletano, non è basata su un
codex unicum e non è bitestimoniale, bensì pluritestimoniale: l’Etica tradotta da
Anglico risulta di fatto tramandata dal ms. CF I 8 della Biblioteca Oratoriana del
Monumento Nazionale dei Girolamini di Napoli (d’ora in avanti NA BOMG 
CF I 8),8 dal ms. It. II 2 della Biblioteca Marciana di Venezia (VE BM It. II 2) e da
un altro testimone conservato nel fondo Cicogna della Biblioteca del Museo
Correr a Venezia (VE BMC Cic. 1474); un’attribuzione dubbia ad Anglico ho
rinvenuto inoltre in una breve descrizione del ms. Chigiano M VIII 162 (CV BAV
M VIII 162).
Ad eccezione delle trascrizioni di Marchesi cui abbiamo accennato poc’anzi e
di alcuni frammenti occasionali9 il nostro testo è integralmente inedito.
Messenger (1926, 265); non ne ho invece scorto riferimenti nell’edizione italiana di Wulf a cura di
Miano (1949–1957).
6 Riguardo alle lineette oblique che affiancano la e verbo, Montuori (1997, 85) rileva: «Stessa
abitudine ha Joan Marco Cinico, celebre amanuense della corte aragonese: in un codice della
Biblioteca Oratoriana dei Gerolamini di Napoli, contenente il volgarizzamento dell’Etica di
Aristotele fatto da Maestro Nicola Anglico, compilato per la duchessa d’Andria nel 1466».
7 Colgo l’occasione per spiegare l’origine di questo studio. In una fase di aggiornamento della
banca dati SALVIt, Rosario Coluccia mi ha trasmesso la citazione di Montuori riportata nella nota
precedente, a partire dalla quale avrei dovuto sviluppare l’apparato di schede collegato al
volgarizzamento di Anglico. Le ricerche, che in un primo momento avevano portato alla registrazione del solo testimone Oratoriano e delle traduzioni di Grossatesta e Oresme (cf. §5), hanno
conosciuto uno sviluppo quasi esponenziale dei dati. A causa della complessa tradizione manoscritta e testuale emersa, allo stato la scheda SALVIt sull’Etica di Anglico non risulta agganciata
ad alcun antecedente prossimo o remoto.
8 Qui e ove ricorrano altre segnature di codici seguo il sistema proposto in Ciociola (2001) e
adottato in SALVIt. Preciso inoltre che le descrizioni dei testimoni sviluppate nei paragrafi
successivi si basano su indagini dei codici da me condotte sulle riproduzioni digitali degli stessi;
fa eccezione l’Oratoriano, che al momento non è possibile esaminare né direttamente né in
riproduzione e per la descrizione del quale mi sono avvalsa del solo materiale bibliografico.
9 Cf. i segmenti analizzati da Barone (1899, 5s.) e l’espressione el copritore de se medesimo in
Knox (1989, 133, cf. più oltre), tutti desunti dal codice napoletano.
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L’Etica d’Aristotele tradotta in volgare da Nicola Anglico
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1.1 Il testimone Oratoriano
Il codice conservato presso la Biblioteca dei Gerolamini di Napoli è segnalato per
la prima volta da Mandarini (1897, 25s.), che ne fornisce anche una puntuale
descrizione. Il lavoro di Mandarini – recensito in prima istanza da Croce (1898,
150), che cita tra i casi notevoli proprio la versione dell’Etica di Anglico («Del
secolo XV si hanno alcuni volgarizzamenti di scrittori greci e latini: l’Etica di
Aristotele, tradotta dal maestro Nicola Anglico, scritta da Giovan Marco Cinico per
la duchessa di Andria») – è variamente ripreso in studi successivi, a partire da
Barone (1899, 5s.), da Altamura (1939, 421, al num. IX) e da De Marinis (1947–
1952, vol. 1, 46); una descrizione organica delle miniature presenti nel manufatto
è offerta da Putaturo Murano (1973, 29 e 59s.). Il codice è inoltre catalogato da
Knox (1989, 183), da Kristeller (1995, vol. 1, 396) e rientra nel repertorio dei
colophon latini di Reynhout (2006, vol. 2, 200). Le informazioni che seguono sono
variamente tratte da questi studi, specificamente citati ove necessario.
Il ms. NA BOMG CF I 8 (già Pil. XV n. 7) è un codice membranaceo in 4° del
sec. XV, composto da 64 carte di mm. 155 × 230, non numerate, vergate in
scrittura umanistica, con titoli rubricati contenenti i temi trattati nei vari libri e
iniziali di forma capitale che scandiscono l’argomentazione interna del testo; in
caratteri maiuscoli rossi è anche la sottoscrizione. Lo specchio di scrittura è
segnato con uno strumento non colorante, probabilmente una mina metallica;
due linee chiudono il primo verso di ciascuna pagina; quattro linee verticali, due
a sinistra e due a destra, delimitano i confini alla scrittura. Il testo è disposto a
piena pagina.
L’apparato decorativo consiste, a c. 1r, di una cornice a spirali bianche su
fondo multicolore, che al centro del lato sinistro avvolge l’iniziale T dorata – si
tratta della parola Tutte con cui si apre il primo libro – e che è avviata da piccoli
animali e da angioletti dalle forme armoniose e dal roseo incarnato, due dei quali
sorreggono uno stemma; le iniziali di ognuno degli altri libri sono dorate e ornate
ancora da spirali bianche che creano un intreccio su cui si innesta la lettera
capitale. Dalla perizia paleografica effettuata da Barone sulla c. 23r, riprodotta
nella tavola I del suo lavoro,10 apprendiamo che la prima iniziale l del costrutto la
10 La riproduco in edizione diplomatica dalla stampa pubblicata nel saggio di Barone, per
rendere maggiormente perpiscue le indicazioni dello studioso: LA VERGOGNA e somigliante | alla
paura saluo che la paura e de | le cose utile alla uita et la uergogna e| dellonore et de cio auene che
per la pau|ra lhomo impallidisce et per la uergo|gna aroscisse che lonore e de fuori et | lutilita della
uita sta dentro et auiensi | a giouani ma non a uechi non douendo | fare cosa onde essi si
uergognino.| Chella uergogna non e uirtu ma | passione. | ET non e la uergogna uirtu ma | passione
per cio chella non e habito | onde per ch(i)alchuno si uergogni non | percio e da dire che essere
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uergogna è dorata; la a che segue è in inchiostro rosso come anche la e, la g e la a
di uergogna; le rimanenti lettere di questa parola e tutte quelle delle parole
successive, fino a si uergognoso, sono scritte con inchiostro nero; la frase chella
vergogna non e uirtu ma passione è in inchiostro rosso; l’iniziale e di et è in
azzurro, la t in rosso, le parole che seguono fino a studiosa in nero. In inchiostro
rosso sono anche gli ultimi cinque versi della pagina. Le maiuscole sono di forma
capitale, tranne alcune e, come quella della parola uergogna (v. 1) e quella della
parola finisse (v. 18), che sono di forma onciale; di carattere minuscolo ingrandito
è la n di non (v. 12). Barone fornisce anche alcune informazioni sulla grafia e sulla
punteggiatura, dettaglio non irrilevante se si tiene conto della data cui risale la
descrizione.11 La lettera u è adoperata promiscuamente come vocale e come
consonante; punti e accenti si scambiano sulle i, alcune delle quali sono prive sia
dell’uno sia dell’altro segno; le i della parola giustitia (v. 21) presentano il punto
anche se sono maiuscole; si segnalano solo due tipologie di abbreviazioni: una
per contrazione (dovendo, v. 8), l’altra per troncamento (che, v. 14). Riguardo ai
segni di interpunzione, il punto segnala la fine del periodo, mentre i due punti
sono usati al posto della virgola. Sono seguite da punti, come nella scrittura
lapidaria, le parole degli ultimi versi in lettere capitali; due virgule in forma di
barrette oblique, una preposta e l’altra posposta alla e </e/>, distinguono il verbo
dalla congiunzione, sebbene la e congiunzione sia sempre trascritta et, alla
maniera latina.12
È presente uno stemma, non si sa se contemporaneo del codice o aggiunto
successivamente,13 che riproduce un’aquila in volo sopra un monte, con la preda
fra gli artigli e una fiaccola accesa nel becco; nell’angolo inferiore a sinistra si
studioso | ma che la uergogna solamente sia | studiosa. | FINISSE EL QVARTO LIBRO | INCMINCIA
EL QVINTO LIBRO | EL QVALE PARLA DELLA GIV|STITIA ET DELLA INGIVSTITIA | ET DELLE
LORO PARTI.
11 Soprattutto se consideriamo che questi due aspetti dell’analisi linguistica sono stati a lungo
trascurati nelle edizioni dei testi e, pur se per la grafia la situazione negli ultimi tempi «è in
positiva evoluzione», «più incertamente vanno le cose nel settore della paragrafematica e delle
pratiche interpuntive» (Coluccia 2008a, 65s.; nuove riflessioni in Coluccia 2011, 153ss.).
12 Sebbene in maniera desultoria il medesimo tratto è adottato dall’amanuense del ms. NA BN
XII E 20, testimone unico del Ricettario calabrese di Luca Geracitano di Stilo (1477), indagato da
chi scrive; stessa abitudine si rileva anche nel ms. FI BML Ashb. 1109, anche questo quattrocentesco, che tramanda Le sei età de la vita di Pietro Jacopo de Jennaro. Stessa funzione sembrano
avere le barrette verticali affiancate alla |o| di ouero nella trascrizione parziale del codice
Oratoriano procurata da Marchesi. Va detto che l’impiego della virgula in funzione diacritica è più
antico e se ne rinvengono tracce già nei primi testi in volgare (cf. Coluccia 2008a, 67s.).
13 Secondo Putaturo Murano (1973, 59) si tratta dello stemma del committente, non identificato;
per certo il codice non viene esemplato per la biblioteca reale.
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distingue il sole nascente. La legatura è in pergamena con labbro dorato; sul
dorso, in caratteri maiuscoli neri, si legge il titolo L’Etica di Aristotele. Mancano
note di possesso, ma il codice approda alla Biblioteca dei Gerolamini dalla
libreria di Giuseppe Valletta,14 la cui acquisizione si deve a Giovan Battista Vico,
uno dei più assidui frequentatori della biblioteca.
Si tratta di un esemplare di dedica, datato 13 agosto 1466 e trascritto per la
duchessa d’Andria15 da Gian Marco Cinico,16 il più noto dei calligrafi di re Ferrante, sulla cui attività riferisce analiticamente De Marinis (1947–1952, vol. 1, 42–51).
È probabilmente miniato dallo stesso Cinico, o forse, dato il rango della dedicataria, da Cola Rapicano, uno dei principali alluminatori della corte aragonese (cf.
Barone 1899, 5 n. 4 e Putaturo Murano 1973, 29).
14 Giureconsulto e letterato nato a Napoli nel 1636, il Valletta contribuisce al rinnovamento del
panorama culturale partenopeo dando nuova vita all’Accademia degli Investiganti (cf. ET online, s.v. Valletta) e formando una biblioteca ricca di codici, il cui elenco è pubblicato nel
«Giornale de’ letterati d’Italia» Tomo XXIV, Articolo III, Elogio del Signor Giuseppe Valletta
Napoletano, 49–105, a p. 86 (il testo dell’Elogio si può leggere anche nell’Appendice V di Rak
(1975, 410–429); il riferimento alla traduzione di Anglico è a p. 422). La provenienza vallettiana
del codice è esposta in forma dubitativa in Marchesi (1904, 151) e in Putaturo Murano (1973, 59).
Per la storia della biblioteca Oratoriana, cf. Croce (1898, 149) e Ricci (2005, 297–301).
15 La geografia di riferimento collega il codice all’area peribarese, il cui mecenate più noto è
Andrea Matteo Acquaviva, che commissiona varie opere per la sua biblioteca (cf. DBI, s.v.). Tra
queste l’Etica e la Retorica di Aristotele (cf. Tateo 1985, 374–379); la traduzione dell’Etica
aristotelica commissionata dall’Acquaviva cui allude Tateo in uno studio successivo (1995, 32ss.)
è con ogni probabilità una copia di quella del Bruni (cf. §5).
16 Non deducibile direttamente dalla sottoscrizione abrasa e danneggiata, l’informazione si
deve a Mandarini, che ha confrontato il nome Marcus presente nel margine inferiore di c. 64r con
la sottoscrizione del coevo ms. NA BN V I 3, testimone dell’Historia naturalis di Plinio: «Johannes
Marcus clarissimi et virtute et nobilitate viri Petri Strozae Florentini discipulus Marcique Rotae
magni viri equidem florentini amantissimus Parmae oriundus praestantissimo liberalitate viro
domino Gherardo Siculi Regni Prothonotario benemerito in XX ac centum dies Juvante Deo
Tranquille transcripsit. Panhormi anno salutis 1465 ultima Julii valeas qui legis Marcique Rotae
memineris obsecro» (De Marinis 1947–1952, vol. 1, 46). Modellando i dati del ms. Oratoriano su
quelli del ms. della Nazionale, Mandarini ha così ricostruito: «Johannes Marcus, Petri Strozae
Florentini discipulus Parmae oriundus…». L’interpretazione viene in seguito accettata da De
Marinis, che inserisce l’esemplare tra i manoscritti copiati da Joan Marco Cinico nella sezione dei
codici datati, al num. 4. Il nome di Cinico è inventariato nel repertorio dei Bénédictins du Bouveret
e il colophon relativo al codice Oratoriano è il num. 10459 (375, s.v. Iohannes Marcus). In relazione
al codice napoletano Cinico viene citato anche da Perito (1926, 115): «Nato a Parma, forse nel
1430, era già in Napoli nel 1462 e trascriveva codici per incarico di privati. Trascrisse infatti nel
1466, per la duchessa d’Andria, l’Etica di Aristotele tradotta in volgare dal maestro Nicola
Anglico», e da Bresciano/Fava (1969, 66): «Nella biblioteca dell’Oratorio si conserva un codicetto
membranaceo dell’Etica di Aristotile tradotta in volgare da Maestro Nicola Anglico, che il C. finì
di trascrivere, per uso della Duchessa di Andria, il 13 agosto 1466».
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Il codice tramanda unicamente il volgarizzamento dell’Etica Nicomachea
compiuto da Nicola Anglico. Il testo, pur se strutturato in dieci libri,17 non è una
versione integrale dell’opera aristotelica, ma una riduzione. Il primo libro inizia a
c. 1r con una rubrica che fa da titolo Incomincia lethica de Aristotele traducta in
uolgare da maestro Nicolao Anglico, seguita dall’incipit vero e proprio del testo
Incomincia el libro primo che tracta de felicitade; il decimo libro termina a c. 64r Et
la seconda cosa si e ch’egli habbia prouate et experimentate le dicte cose infra
diuerse maniere de genti […] et allora sara perfecto nella sapientia de gouernare la
citta. Finisse el libro del’Etica d’Aristotile, dove si legge anche la sottoscrizione
vergata in stile epigrafico e priva di alcune parole, ricostruite a posteriori da
Mandarini (cf. n. 16): «… Strozae. Florentini discipulus … Oriundus … magnanime
ducissae Andriae Neapoli: tranquille transcripsit. Anno salutis 1466. 13 Aug.
Valeas qui legis».
Le formule tranquille transcripsit e valeas qui legis corrispondono sia alla
datazione del codice sia al luogo in cui lo stesso è stato prodotto e vengono
inserite da Reynhout (2006, vol. 1, 271 e 290) proprio tra le varianti impiegate nel
siècle des humanistes del suo repertorio di colophon.18 In particolare la variante
tranquille transcripsit è ritenuta un tratto identificativo del Cinico e di altri tre
copisti operativi nella Napoli aragonese.19
Tutte queste specificità collocano il nostro esemplare a pieno titolo nella
stagione di traduzioni e volgarizzamenti prodotti alla corte degli Aragona, stagio-
17 Il dato conferma che l’opera tradotta da Anglico è proprio la Nicomachea, unica delle tre
etiche attribuite allo stagirita a essere suddivisa in dieci libri, e non un compendio delle tre etiche
aristoteliche (cf. §5).
18 Nella cronologia delle varianti, la percentuale più alta di entrambe le formule si rileva proprio
nel XV secolo. Un dato ulteriore riguarda la distribuzione geografica di transcripsit, significativa
per alcune considerazioni di ordine storico-culturale: generatasi nella Francia carolingia, la
variante sembra essere passata in Italia in un periodo molto più tardo, sviluppandosi prevalentemente in Toscana (dove si forma il Cinico) e successivamente nelle varie corti mecenati; nella
corte aragonese di Napoli è attestata verso la metà del XV secolo (Reynhout 2006, vol. 1, 272–
276).
19 «L’adverbe tranquille ne se rencontre nulle part ailleurs dans notre corpus. Le célèbre copiste
Iohannes Marcus Cynnicus de Parme l’emploie au moins quatorze fois entre 1463 et 1470 et
encore en 1494. Deux autres copistes attestés dans le cercle des rois aragonais de Naples
l’emploient également: Iohannes Rainaldus Mennius et Ioachim de Gigantibus. Pour Petrus
Hippolytus Lunensis, l’identification est plus hasardeuse, mais ce copiste en tous cas fut actif à
Naples dans la seconde moitié du XVᵉ siècle» (Reynhout 2006, vol. 1, 270s.). Riguardo alla
seconda formula, valeas qui legis, nella variante valeas qui legisti è una delle chiusure più
caratteristiche dell’Umanesimo ed è associata a Poggio Bracciolini (Reynhout 2006, vol. 1, 290).
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L’Etica d’Aristotele tradotta in volgare da Nicola Anglico
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ne che si realizza anche come operazione di copia di opere prodotte in età
angioina.20
1.2 Il testimone Marciano
Per questo codice disponiamo di pochissime informazioni, ricavabili essenzialmente da Marchesi (1904, 138 n. 2 e 151 n. 1) e prima ancora da Fulin (1872,
104s.).21 Le riprendo di seguito rifondendole con altri dati rinvenuti nel corso della
ricerca, che ho provveduto a verificare sulla riproduzione digitale del manoscritto.
Il ms. VE BM It. II 222 è un miscellaneo cartaceo del sec. XV, di mm. 270 x 215,
composto da 171 carte originariamente non numerate (le cifre arabe poste sul
margine in alto a destra sono moderne) e trascritte da un copista non toscano,
probabilmente veneto (cf. §2). Non presenta miniature, sebbene in corrispondenza dell’incipt di ogni libro sia presente uno spazio che avrebbe dovuto ospitare
un’iniziale miniata. La scrittura è disposta a piena pagina. Contiene opere didattico-dottrinali, vergate da più mani: l’Etica di Aristotele, il Trattato della Petizione23
20 Per un elenco di questi testi si vedano De Blasi/Varvaro (1988, 252–257) e Coluccia (1994,
395–399); in chiave diversa le medesime opere sono analizzate in De Blasi/Fanciullo (2002, 650–
654). Ai fini del nostro ragionamento è inoltre utile ricordare quanto segnalato da Sabatini (1975,
214) a proposito dell’attività di produzione dei codici, che non conosce soluzione di continuità
dal periodo angioino a quello aragonese: «Possiamo infine rintracciare una decina di codici di
età angioina e di probabile provenienza napoletana che entrarono a far parte della biblioteca
aragonese o circolarono in ambienti ad essa prossimi».
21 L’articolo di Fulin (cf. anche §1.3), ignorato dalla letteratura che si è occupata dei lavori di
Marchesi o del ms. NA BOMG CF I 8, è determinante per la ricostruzione della tradizione manoscritta dell’Etica di Anglico e per i risvolti storici, linguistici e culturali ad essa collegati.
22 It. II 2 è l’attuale segnatura del codice (cf. Benedetti 1988, 136), mentre sia Fulin sia
Marchesi riportano «Lat. XIV 43»; nel catalogo on-line della Biblioteca Marciana quest’ultima
segnatura presenta proprio il rinvio a It. II, 2 (4326) [cf. <http://marciana.venezia.sbn.it/la-biblio
teca/cataloghi/consultazione-manoscritti-sede/fondo-antico-e-appendice/lista-delle-25>; d.u.c.
27.05.2015].
23 Il titolo è alquanto generico, ma considerando la natura degli altri testi trasmessi e l’incipit
riportato da Benedetti (1988, 136) con riferimento al ms. VE BMC Cic. 1474, gemello di questo
codice (cf. §1.3), potrebbe trattarsi del rifacimento di un’opera tomistica: la frase iniziale sembrerebbe riecheggiare la struttura argomentativa della Summa Theologiae e dei commentari ad
Aristotele (ho consultato in prima istanza l’edizione della Summa pubblicata nel corpus della BA;
andranno in ogni caso effettuati controlli più sistematici). È da scartare invece qualsiasi collegamento con il De Petitione consolatus (IGI 2797), breve opera di contenuto politico che Quinto
Tullio Cicerone indirizza nel 64 a.C. al fratello Marco, candidatosi alle elezioni consolari per
l’anno successivo; la somiglianza dei titoli non corrisponde a equivalenze testuali (ho controllato
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e le Sentenze morali.24 Il testo di Anglico è suddiviso in capitoli rubricati; inizia a
c. 13r Incipit ethica Aristotilis liber primus. A c. 31v il testo volgare è interpolato da
una versione latina del VII libro dell’Etica (Capitulum septimum quod legis [sic]
positiua est precipua circha ree humanas de manifestacione cuiusdam dicti supra
et de comparacione prudencie ad scientiam et intellectum), che termina a c. 35v ed
è seguito dalla versione volgare del medesimo libro. L’ultimo capitolo inizia e si
conclude a c. 62v et alora sera perfecto ni la sapiencia de gouernar la citade.
Explicit deo gratias amen. Il codice approda alla Marciana per volere testamentario di Tomaso Giuseppe Farsetti,25 possessore privato e primo descrittore del
codice.26
1.3 Un testimone «ignoto»: il codice Cicogna
Il terzo testimone, sconosciuto alla letteratura che ha trattato più o meno implicitamente dell’Etica tradotta da Anglico, è un codice conservato nel Museo Correr
di Venezia, di cui ho appreso notizia nella ricognizione bibliografica sulla nostra
opera. I dati che ho rinvenuto su questo esemplare sono pubblicati in Benedetti
(1988, 136)27 e in Caracciolo Aricò (2008, 105s.), copia integrale di Fulin (1872,
l’ed. Facciolati del 1732: Q. Tullii Ciceronis, Commentariolum Petitionis ad Marcum Fratrem cum
adnotationibus et italica interpretatione).
24 Il titolo può applicarsi a varie opere gnomologiche della classicità greca e latina: dalle
Sentenze auree di Democrate, ai Versi aurei pitagorici o pseudo-pitagorici, alle Auree sentenze di
Cornelio Tacito (cf. tra gli altri, Sodano 1991 e Joost Gaugier 2008, 146); in assenza di riscontri
testuali non è da escludere che si tratti ancora una volta di un commento di Tommaso d’Aquino,
nello specifico quello all’Etica aristotelica (Sententiae libri ethicorum), oppure del Trattato delle
volgari sentenze sopra le virtù morali di Graziolo de’ Bambaglioli (cf. n. 31). Un’ulteriore – e forse
non proprio inverosimile – ipotesi prefigura un collegamento con il commentario alla Sentenze di
Pietro Lombardo effettuato da Nicola di Ockham (cf. n. 48).
25 Letterato e bibliofilo veneziano che, nel testamento vergato a Venezia il 30 settembre 1786,
lascia in eredità alla Biblioteca Marciana manoscritti, commedie e libri di lingua come «piccolo
attestato d’amore e di stima al presente» (cf. DBI, s.v.).
26 Con l’aiuto di Iacopo Morelli, Farsetti pubblica un catalogo dei codici da lui posseduti. Si
tratta del volume Biblioteca manoscritta di Tomaso Giuseppe Farsetti patrizio veneto e balì del
sagr’ordine Gerosolimitano, Venezia, Fenzo, 1771. Ho preso visione dell’esemplare della Biblioteca dell’Università del Michigan, digitalizzato da Google [06.10.2011]; il nostro codice è descritto
alle pp. 214 e 215.
27 Nello studio di Benedetti è riprodotta la c. 1r del codice (1988, 136 fig. IV.5), che trascrivo qui
in edizione diplomatica dalla versione digitalizzata (la coincidenza con i relativi segmenti
tramandati dal codice Oratoriano pubblicati in Marchesi (1904) e ancor più da quello Marciano –
cf. §2 – è inequivocabile): [c.1r] Incipit Ethica aristotilis. liber p(r)imus. | Tvtte le cose desiderano
alchun bene | e bene e quello ch(e) tutte le cose doma(n)|dino e sono multi bene secondo diu(er)|se
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L’Etica d’Aristotele tradotta in volgare da Nicola Anglico
723
104s.), che a sua volta è un duplicato delle informazioni lasciateci da Emmanuele
Antonio Cicogna,28 catalogatore ed estensore del codice.
Il ms. VE BMC Cic. 147429 è un miscellaneo membranaceo del secondo quarto
del secolo XIV, composto da 46 carte di mm. 242 × 176, non numerate, vergate in
littera textualis. Le lettere iniziali sono rosse su filigrana azzurra e azzurre su
filigrana rossa, alternate; anche i segni di paragrafo si alternano in rosso e in
azzurro, mentre i titoli sono in rosso. I fogli sono distribuiti su 7 fascicoli (1–48, 52,
64, 78) alla fine di ognuno dei quali compaiono i richiami. Tra la carta 6 e la
carta 7 vi è una lacuna per la caduta di un foglio. Lo specchio di scrittura è di
mm. 160 x 104 e comprende mediamente da 28 a 31 righi. L’apparato decorativo
consiste in iniziali miniate e in lettere decorate a fogliami policromi che formano
piccoli fregi costellati da borchiette dorate (cc. 4r, 6r, 8r, 14r, 20r, 26r, 37r, 40v). A
cc. 1r, 10r e 32v si rinvengono capilettera figurati con dottori e alunni (c. 1r, 10r e
32v) e nel tondo collocato al centro del margine inferiore di c. 1r vi è Aristotele con
un libro in mano; le decorazioni in oro brunito nei fondi «riportano con sufficiente
verosimiglianza alla cultura figurativa bolognese attorno agli anni in cui opera
l’‹Illustratore›» (Benedetti 1988, 136). La legatura è del XIX secolo in pergamena
dura con cornice di filetti dorati e sul dorso reca Aristotile Etica.
cose ma tutte se reducono ad uno| il quale e principal di tutti il qua|le e sempre da elegiere per si
medes|mo et no(n) per altro e questo e. la felicita la quale perte|ne al optima disciplina cio.e al
gouernamento de la Citadi. sotto il qual gouernamento sono tutti i | gli altri beni. ¶El conoscemento
de esso bene fo i| grande accrescemento ala vita ch(e) per esso saquista | sì come il saetatore
conoscendo il segno se li fieri. | ¶Alora e manifesta la cosa chiaramente qua(n)do el|la e mostrata
secondo chella richiede dessere mostra|ta grossamente. Prima per la certança del opere hu|mane.
secondo che noi diciamo acio chel homo ad|operi non per chel homo sapia. e le ragioni suttili de|gli
aluminati lo intendimento | e le grosse ensegna|no ad operare. Terʒo dice chel popolo e la grossa gi|
ente la intendi. ¶E gli omini sauii gli quale sono | signoriçaturi de la lor uolontate sono proprii vditu|
ri di questa sciencia et non gli garçoni ne i siguitaturi de le loro uolontadi maluagii. Et garçoni so|no
di due maniere secondo eta e secondo costume. | Secondo il nome ciaschun confessa la felicita| mo
qual sia essa in cio molti discordano. On|de alquanti la pongono nele cose aperte si co|me nei diletti
corporali e chi ne le richeçe e nel hono|re et insomiglianti. Et alchuni in alchuna cosa di | fori di tutte
queste sicome nela idea.
28 Erudito veneziano preilluminista che «alla ‹bramosia di possedere cose rare e ricercate› (sono
sue parole del 1841) sacrificò buona parte dello stipendio con cui acquistò manoscritti rari,
classici latini, greci e italiani, opuscoli e libri d’ogni genere con una assiduità e tenacia misurabili, alla fine della sua vita, dai risultati veramente imponenti e quasi incredibili per un privato di
modeste condizioni finanziarie. Quando ormai vecchio e vicino alla morte cedette al comune di
Venezia la sua biblioteca in cambio di un vitalizio per le sorelle, l’inventario annoverava ben
40.000 volumi e 5.000 manoscritti» (DBI, s.v.).
29 Questà è la segnatura attuale della Biblioteca del Museo Correr; la vecchia classificazione
dell’inventario Cicogna reca il num. MXCV (cf. Caracciolo Aricò 2008, 105).
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Il codice è «copiato da mano intelligente e forse toscana»30 e tramanda l’Etica di
Aristotele (incipit: [c. 1r] Incipit Ethica Aristotilis. Liber primus. Tutte le cose desiderano alchun bene; explicit [c. 41v] allora serrà perfecto ne la sapientia di governar le
cità), il Trattato della Petizione (incipit [41v]: Tractatus super petitione qualis debet
esse ut ex auditione sit digna. Sententia è d’Avicena che fra tutti gl’animali che siano
sotoposti ai bisogni) e le Sentenze morali (incipit: A voler rezer el ben comun e ad
amarse lun con laltro); si tratta degli stessi testi tramandati dal codice VE BM It. II 2 descritto in §1.2, al quale rinvio per ulteriori dettagli sul contenuto.
Mutilo di cinque carte (39r–40v; 49r–51v), viene completato dal Cicogna, che
lo acquista nel 1843 e così riferisce a riguardo: «Vi mancavano due carte della
Etica, e due altre infine nel testo del Trattato della petizione, e le copiai io stesso
in pecora dal suddetto Codice Farsettiano, che ora sta fra’ Marciani col num. XLIII
della classe XIV. Ho copiate pure le Sentenze morali, le quali io tengo che fossero
unite a questo Codice» (Caracciolo Aricò 2008, 106). Prima di essere acquistato
dal Cicogna il codice fa parte della biblioteca di don Giambatista Mazari, pievano
di San Giovanni in Bragora (Benedetti 1988, 136). Dalla collezione privata del
Cicogna esso perviene alla Biblioteca del Civico Museo Correr di Venezia poco
prima della morte del possessore, avvenuta a Venezia nel 1868 (cf. n. 28).
Gli argomenti dell’Etica sono divisi in dieci libri, ciascuno dotato di una serie
di brevi capitoli. Analogamente al codice Marciano, più tardo, il ms. Cicogna
presenta l’interpolazione, tra la fine del VI e l’inizio del VII libro, di una versione
latina del VII libro.
1.4 Un testimone «dubbio»: il codice Chigiano
Tra gli excerpta della Biblioteca Apostolica Vaticana schedati in Kristeller (1995,
vol. 2, 396) è annoverato il codice Chigiano M VIII 162, così definito:
Mbr. XIV. Aristotle, Ethica and Rhetorica, volg. by Nicholo Anglico (?).31
30 La valutazione è del Cicogna (Caracciolo Aricò 2008, 106). Il referto linguistico condotto
da Benedetti (1988, 136) sulle prime carte del ms. individua tuttavia alcuni tratti emiliani,
«quali plurali femminili di Iᵅ declinazione in ‑i (es. le loro volontadi malvagii a c. 1r, de li lingui
torti a c. 6r) e desinenze verbali in ‑i (es. il saetatore… fièri a c. 1r). A una localizzazione
emiliana ben si accorda la presenza della metafonesi (soprattutto frequente la chiusura o > u
non solo da ‑I latina, ma pure da ‑i romanza: es. passiuni a c. 5r, turri a c. 8v); abbondante la
dittongazione libera incondizionata da é aperta tonica, quasi del tutto assente invece da ó
aperta tonica».
31 Non è forse un caso che nella catalogazione di Kristeller questo codice sia seguito da «Chig. M
VIII 164. misc. XV. Robert of Naples, sopra le virtù morali, with a Latin commentary». Il Trattato
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L’Etica d’Aristotele tradotta in volgare da Nicola Anglico
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Non ho rinvenuto altre descrizioni di questo esemplare, non consultabile nel
catalogo on-line della BAV. Dall’esiguo appunto di Kristeller deduciamo che si
tratta di un’attribuzione dubbia – della Retorica oltre che dell’Etica – a Nicola
Anglico. Per quanto ridotto, l’appunto ha però una rilevanza considerevole:
assegnando il manoscritto al XIV secolo contribuisce a retrodare notevolmente
l’opera originale rispetto ai due testimoni più noti.
Ho consultato l’esemplare vaticano in riproduzione digitale; di seguito i
risultati dell’indagine che integrano le informazioni di Kristeller.
Il ms. CV BAV Chig. M VIII 162 è composto da 86 carte, numerate in alto a
destra in cifre arabe, con titoli rubricati contenenti i temi trattati nei vari libri e
iniziali di forma capitale, che scandiscono l’argomentazione interna del testo,
disposto su due colonne. L’apparato decorativo consiste in una cornice che
alterna nodi e foglie, dalle quali fuoriescono un elemento antropomorfo e uno
zoomorfo; l’iniziale T della parola Tutte che apre il testo dell’Etica è l’unica
capitale miniata del manufatto. Il codice è costellato da glosse marginali, alcune
vergate dalla medesima mano che ha esemplato il testo, altre da mano differente.
Al centro del margine inferiore di c. 1r si legge la sigla D. P. B. Tramanda l’Etica e
la Retorica di Aristotele volgarizzate da Nicola Anglico. Il testo dell’Etica, preceduto da un incipit che funge da rubrica dell’opera (Qui s’incomincia l’Eticha
d’Aristotile), inizia a c. 1ra 2 (Tutte le cose desiderano alcuno bene) e termina a
c. 19rb 27 (ne la sapienza di governare la città); segue la sottoscrizione (c. 19rb 29–
31), che assegna la paternità del volgarizzamento a Nicola Anglico: Explicit Ethica
d’Aristotile reducta | in volgare per maestro Nicholo An|glico Deo gratias, Amen,
Amen, Am(en). Il codice si chiude a c. 86r con la parola Ypocrti, facente parte di
un elenco alfabetico di parole del primo libro della Retorica (c. 84v r. 1).
La presenza di tre, o forse quattro, testimoni considerata dal punto di vista
della circolazione dell’opera non può certo essere ritenuta indice di successo, ma
neppure di scarsa e meschina diffusione, come si è a lungo creduto.
Provare a ipotizzare qualsiasi rapporto di dipendenza tra i manoscritti per
una ricostruzione stemmatica su cui basare l’edizione del testo a questo livello
delle volgari sentenze sopra le virtù morali viene in realtà scritto dal bolognese Graziolo de’
Bambaglioli verso la metà del XIII secolo ed è falsamente attribuito a re Roberto di Napoli e
diffuso con il suo nome (cf. Sabatini 1975, 84 e DBI, s.v. Bambaglioli). Il dato non è insignificante
perché, come vedremo in §3, il nome di Nicola Anglico risulta in qualche modo connesso a quello
di Roberto d’Angiò, il cui interesse per la filosofia morale, evidente dalla stratificazione culturale
della sua biblioteca, è stato messo in luce in più occasioni (da Sabatini 1975, 71 almeno fino a
Galasso 1992, 547) e trova conferme nell’attribuzione al sovrano di una raccolta di assiomi morali
in latino intitolata Dicta et opiniones philosophorum (cf. Pryds 2000, 43), sulla quale torneremo in
chiusura.
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della ricerca è impossibile. Alcune considerazioni di carattere più generale sono
tuttavia fattibili anche con i pochi dati a nostra disposizione. Il ms. Oratoriano è
un esemplare di dedica datato e sottoscritto, su cui non si possono avanzare
dubbi di sorta: si tratta di un tipico manufatto del periodo aragonese; anche il ms.
Cicogna è una copia di pregio ma, a differenza del codice napoletano, è redatto
nel secolo precedente, come il Chigiano, e si genera o solo dimora in ambiente
veneto, come il Marciano.
Un elemento che potrebbe aiutare a contestualizzare meglio il testo è il
seguente: la paternità del volgarizzamento a Nicola Anglico è assegnata in
chiusura dal codice vaticano e in apertura da quello napoletano, mentre gli altri
due codici sono adespoti. Per quanto secondario, il dato lascerebbe pensare che
Cinico nel 1466 copiasse dall’originale o da un testo a questo stemmaticamente
molto vicino; di conseguenza l’originale, che non può in ogni caso essere coevo al
manoscritto napoletano giusta la testimonianza dei due testimoni trecenteschi,
potrebbe essere stato redatto presso la corte di Napoli o in un ambiente satellitare.
Riguardo alla materia trattata, sebbene il fine ultimo dell’Etica nicomachea sia la
determinazione e la ricerca della felicità intesa come sommo bene per tutti gli
uomini, l’opera contiene una serie di precetti che hanno come risvolto pratico la
ricerca della giusta strategia politica per governare bene: è pertanto evidente che
argomenti di tale portata si addicono più a regnanti e cortigiani che al semplice
volgo.
2 Tracce linguistiche
Dalle descrizioni riportate nel paragrafo precedente abbiamo appreso che i codici
conservati a Venezia tramandano l’Etica in maniera anonima associandola a testi
tematicamente affini, mentre il Chigiano e l’Oratoriano attribuiscono la paternità
del volgarizzamento a Nicola Anglico. I quattro codici si differenziano anche per
la datazione e, in misura minore, per la lingua.
Per inquadrare meglio quest’ultimo aspetto e tracciare minime considerazioni di ordine linguistico, ho trascritto i segmenti iniziali di due manoscritti: il
trecentesco Chigiano [C] e il quattrocentesco Marciano [M].32
32 Per comodità e per il solo paragrafo dell’analisi linguistica indico i codici con la denominazione della biblioteca o del fondo di appartenenza piuttosto che con l’intera sigla; pertanto M =
VE BM It. II 2 e C = CV BAV Chig. M VIII 162. Per esigenze di spazio, qui e negli altri casi in cui
riporto estratti dai codici, non segnalo i cambi di rigo o di carta. Distinguo u e v secondo l’uso
moderno, così come maiuscole, minuscole, apostrofi, accenti e segni di punteggiatura; preciso
inoltre che la numerazione posta a margine delle trascrizioni non corrisponde ai righi dei mss., è
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L’Etica d’Aristotele tradotta in volgare da Nicola Anglico
C (c. 1ra 1–1rb 15)
M (cc. 13r 1–13v 25)
Incipit Ethica Aristotilis liber p(ri)m(us).
Qui s’incomincia l’Eticha d’Aristotile.
Tutte le cose desiderano alcuno bene e bene è [T]ute le cose desiderano alcun bene e bene è
quello che tutte le cose dimandano. Et sono molti quello che tute le cose doma(n)dano. E sono molti
beni secondo diverse cose, ma tucti si riducono ad beni segondo diverse cose, ma tute se reducono ad
uno, il quale è principale di tutti, il quale è sempre uno, il qual è principal de tutj, il quale è sempre da
5
da eleggiare per se medesimo e non per altro; e elegere per si medesimo e no p(er) altro; e questo
questo è la felicità, la quale pertiene all’optima è
la felicità
la quale
p(er)tiene a
l’optima
disciplina, cioè al governamento de la cita, sotto el disciplina, cioè al governam(en)to de le citade,
quale governamento sono tucti gli altri beni. E lo sotto il quale governamento sono tutti gli altri
conoscimento d’esso bene fa grande acrescimento beni. E lo conoscim(en)to de esso bene fo grande
10
a la vita che p(er) esso s’aquista, si come e acrescim(en)to a la vita che p(er) esso s’aquista, si
ssaetractore conoscendo el segno s’il fiere. Del come il saetatore conosciendo il segno se li fiori.
modo dell’operationi i(n) questa scientia. Allora è Alora manifesta la cosa chiaramente, quando ella
manifesta la cosa chiaramente quando ella è è mostrata segondo che la rechiere d’essere
mostrata secondo che ella richiede. Questa scientia mostrata grossamente, prima p(er) la certanza de
15
richiede d’essere mostrata grossamente, prima per le opere humane, segondo che nui diciamo azò che
la incertanità dell’opere humane; secondo che noi l’omo adoperi non perché l’omo sapia, e le ragioni
dicemo acciò che ll’uomo aduopari, non p(er)ché sutili degli aluminati lo intendimento e le grosse
l’uomo sappia, e le ragioni sottili alamino lo ensegnano ad op(er)are; terzo dice ch’el populo e
intendimento, el grosso ismuovono ad operare; la grossa giente la intenda; e gli omeni sauij li qual
terço
acciò
l’antenda;
ch’el
e
li
popolo
huomini
e
la
savi
e
grossa
gente sono signorizatori de la lor voluntade sono
quali
sono p(ro)p(r)j uditurj di questa sciencia e no(n) gli
20
signoreggiatori de le loro volontà malvagie; e garzoni né li seguitatori de le loro voluntade
garçoni sono in due maniere, secondo l’eità et malvagij; e garzoni sono di due mainiere, segondo
secondo e costumi. Del nome de la felicità. etade et segondo costume. Segondo il nome
25
Secondo el nome ciaschuno confessa la felicità, ciascun confessa la felicità, ma qual sia ella in zò
ma quale sia essa in ciò molti si discordano, dunde molti discordano, unde alquanti la pongono ne le
alquanti la pongono ne le cose uperte, si come ne cose ap(er)te si come nei dillecti corporali e chi
diletti corporali e chi ne le richeçe e ne l’onore e nelle richeze e ne l’onore et in semiglianti, et
dissomeglianti e d’alcuno in alcuna cosa di fuore alcuni in alcuna cosa di fori da tute queste, si
30
da tucte queste, si come nella iddea. Del principio. come nella idea. De principio operis. E dovemo
Et dovemo cominciare de le cose conosciute a noi, comenziare da le cose conosciute a noi, zoè essere
cioè essere amaestrati e adottrinati de le buone amaestrati e adotrinati delle bone cosse e delle
cose e de le iuste, e questo è lo principio el quale giuste e questo è ’l p(ri)ncipio il quale non ha
non ha mestiero dir perché, che l’uomo die sapere mistieri di p(er)ché l’omo de sapere da si et
35
da sé ad imprendare d’altrui. Del sommo bene. El imparare da altruj. De summo bene. El summo
so(m)mo bene pare che sia nei diletti corporali, bene par che sia nei dilletti corporali, prima p(er)
prima per lo suo contrario, cioè tristitia; secondo lo so contrario, zoè t(ri)sticia, segondo che nulla
che nulla cosa è buona sença dilecto; terzo che cosa è dona senza dilletto; t(er)zo ch’esso è cosa
esso è cosa naturale che tucti el desiderano.
naturale che tutti lo dexiderano.
40
La parentela tra i due brani è indubbia, nonostante le modestissime lezioni
differenti, che potrebbero però essere spie di una situazione più complessa, di cui
impiegata come semplice accorgimento editoriale per una più facile individuazione delle forme
commentate di seguito.
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solo un’analisi complessiva conseguente alla collazione di tutti i testimoni e
all’edizione del testo può rendere conto.
Alcune rese diverse – talvolta contrarie – sembrerebbero dovute semplicemente a lapsus del copista (come fiori per fieri in M 12 e dona per bona in M 39),
ma potrebbero anche configurarsi come varianti da imputare a difetti di lettura o
al processo di trasmissione dell’originale,33 ad esempio: incertanità C 17 ~ certanza M 15; ismuovono C 2034 ~ ensegnano M 19; dissomeglianti C 30 ~ semiglianti
M 29; imprendare C 36 ~ imparare M 36. Riguardo a eleggiare C 6 ~ elegere M 6
potremmo essere di fronte a varianti diatopiche: la prima è una forma eugubina e
vale ‘eleggere’ (cf. TLIO, s.v. eleggere); la seconda, ben rappresentata in tutte le
varietà toscane e diffusa nelle regioni confinanti, è attestata anche in antichi
documenti veneziani e campani.35 Nessuna rilevanza particolare presenta l’opposizione mistieri M 35 ~ mestiero C 35: quest’ultima ricorre in vari dialetti toscani,36
mentre la prima forma, nonostante la dimensione fonetica tipica dell’area meridionale estrema, è generalizzata nell’italiano antico: la chiusura di e protonica in
sillaba iniziale si verifica anche in alcune zone dell’Italia settentrionale (cf.
Rohlfs, §130) e l’uscita in ‑i è ben documentata nel toscano letterario, valga per
tutti il dantesco dir non è mestieri di If 33.18.
Veniamo all’assetto linguistico. La patina di C è decisamente toscana, improntata su una sintassi quasi boccaccesca e latineggiante, con pochi elementi
che potrebbero ricondurre anche ad altre aree; si vedano ad esempio le forme
dicemo 18, che ricorre in testi romaneschi e perugini; antenda 22, che, nella
variante antende è registrata nelle Chiose alla commedia del bolognese Jacopo
della Lana; e dovemo 32, per cui cf. più oltre. Si tratta tuttavia di tratti tipici del
toscano medievale o della lingua letteraria. Regolarmente toscane anche le forme
33 Alcune di queste forme lascerebbero intravedere una fonte latina: ad esempio le rubriche
latine o latineggianti in M 1, 31 e 36, ma anche rese come alamino C 19 ~ aluminati M 18, che
sembrano veri e propri fraintendimenti di un originario – e probabilmente incompreso – correlato latino.
34 Come già alamino in C 19, anche questa lezione è più vicina a quella del ms. Oratoriano: «non
perche l’huomo sappia et le ragioni sottili allumino lo intendimento | esse muovono ad operare»
(Marchesi 1904, 151).
35 Tra le varie attestazioni registrate nel corpus TLIO (dal bolognese, dal romanesco, dall’umbro
e dal veneziano), se ne rinvengono due anche per il campano, una delle quali ricorre nell’Expositione sopra l’Inferno di Dante di Maramauro, singolare rimatore napoletano del Trecento, la cui
lingua è caratterizzata, come la maggior parte della produzione coeva, da una flebile patina
locale e da una più marcata adesione ai modelli toscani (cf. Coluccia 1983, 169s.). Come vedremo,
la medesima situazione si potrebbe ipotizzare per l’originale del nostro testo.
36 In assenza di indicazioni, i dati sulle attestazioni linguistiche si intendono verificate nel
corpus TLIO.
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L’Etica d’Aristotele tradotta in volgare da Nicola Anglico
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con scempia: acrescimento 10, amaestrati 33 e adottrinati 33. Tra gli esiti dittongati segnalo aduopari 18, attestato quasi esclusivamente nel senese, e fuore 30,
anche questa forma senese ma ben radicata in altre varietà toscane. Ancora al
senese sembrano ascriversi uperte 28 (negli Statuti senesi e nel Libro della divina
dottrina di Santa Caterina da Siena) e imprendare 36 (nei Fatti di Cesare, nella
Storia di Troia di Binduccio dello Scelto e nelle Chiose Selmiane); eità 24 riconduce invece al pisano.
L’esemplare della Marciana sembrerebbe caratterizzato da una patina decisamente più marcata in direzione locale: M ha infatti un gradiente di toscanità più
basso e presenta fenomeni che rinviano all’Italia settentrionale, più precisamente
il Veneto. Come già rileva Marchesi (1904, 189), la lingua di questo codice è
«imbastita di venezianismi, per quella caratteristica tenacia veneta nel filtrar tutto
attraverso la morfologia e l’ortografia dialettale». Sul piano grafo-fonetico il tratto
più caratteristico è la realizzazione con <z> dell’affricata dentale sorda [ʧ] (azò 16;
comenziare 32; zò 26; zoè 32 e 38) o sonora [ʣ] (signorizatori 21)37 e con <x> della
sibilante sonora [z] (dexiderano 40).38 A questi tratti aggiungiamo: la caduta delle
atone finali in alcun 2; qual 5, 20 e 26; principal 5; lor 21 e la realizzazione
scempia -t‑ del latino -CT‑ in adotrinati 33. Ben rappresentate la degeminazione
consonantica (tute 1, 3 e 33; tutj 5; elegere 6; citade 8; alora 13; saetatore 12;
sapia 17; sutili 18; aluminati 18; richeze 29; amaestrati 33; adotrinati 33) e la sonorizzazione di -c‑ intervocalica in segondo (3, 14, 16, 24, 252, 38). Regolare, sia per il
veneto sia per il toscano, la conservazione di o aperta in sillaba libera in forme
come omo 172, 35; omeni39 20; fori 30 (cf. Rohlfs, §§107 e 115). Per la morfologia, un
tratto caratteristico del veneziano è l’uso di la 14 invece di ella come proclitico
femm. di 3a per il neutro ‘la cosa’ (cf. Rohlfs, §§446, 450). Dal punto di vista
lessicale la variante pl. cosse 33 con l’accezione di ‘causa motivo’ non è inusuale
in veneziano: al sing. se ne rinvengono attestazioni con la medesima veste grafica
già nello Zibaldone da Canal (cf. TLIO, s.v. cosa al num. 1.7); anche rechiere 14
risulta essenzialmente veneziano.
37 Sugli sviluppi grafo-fonetici dei nessi toscani ce e ci in posizione iniziale e postconsonantica,
cf. Videsott (2009, 353–369); per un ulteriore confronto con antichi testi veneziani, cf. Stussi
(1965, xxv). Il tratto è analizzato anche in Tomasoni (1994, 216).
38 Il grafema x per rendere la sibilante sonora intervocalica è tipico della tradizione scrittoria
settentrionale e si rinviene in testi documentari veneziani (cf. Tomasoni 1994, 216). Per riscontri
di quest’uso in testi padovani e veronesi, cf. Tomasin (2004, 92) e Bertoletti (2005, 29).
39 Sembrerebbe una variante tipicamente veneta (su 70 occorrenze registrate dal corpus TLIO),
ben 46 rinviano al veneziano o a un altro dialetto veneto. Sulla conservazione di o postonica in
antichi testi veneziani, cf. Stussi (1965, L ) , che tra le esemplificazioni riporta proprio homeni.
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Nonostante la presenza di tratti localizzanti, la componente toscana è evidente soprattutto nella morfologia verbale. Come accennato in precedenza, in alcuni
casi si tratta di forme che appartengono alla tradizione letteraria e che quindi
travalicano i confini regionali (classico esempio dovemo 31, presente anche nel
testimone Chigiano nonché in testi emiliani, umbri e veneziani), in altri si tratta di
toscanismi puri, come pertiene 7 e pongono 27, anche questi ricorrenti in C.
Nel reperto non mancano tratti più facilmente accostabili a volgari meridionali. Mi riferisco in particolare alla chiusura in u, tratto peculiare – pur se non
esclusivo – delle zone estreme: la chiusura della o protonica è strutturale anche
nei volgari settentrionali e negli autori medievali l’uso oscilla tra o e u (cf. Rohlfs,
§131); la forma populo 19, con chiusura della postonica, sebbene estranea all’evoluzione fonetica del veneto, occorre anche in documenti veneziani.
Una considerazione a parte merita nui 16, che rinvia immediatamente al
meridione estremo. Assente nel primo testimone,40 nui non deve però suonare
strano nell’esemplare Marciano, poiché potrebbe trattarsi di un classico caso di
metafonia settentrionale41 (cf. Rohlfs, §74 e Cortelazzo/Paccagnella 1992, 224; il
corpus TLIO riporta un’occorrenza in un documento giuridico veneziano del 1225,
il Patto del Soldano d’Aleppo per la sicurezza dei veneziani).
Proviamo a fare il punto. La toscanità di fondo dei due testi è fuori discussione ed è evidente a tutti i livelli; lo stesso dicasi dello stile, per cui, adattando al
nostro caso le osservazioni di Coluccia (2009, 2481), potremmo parlare di una
koiné letteraria alto-italiana. Il brano estratto dal testimone Marciano appare
tuttavia costellato di elementi linguistici non toscani, in prevalenza veneti e
talvolta meridionali. Una tale situazione non autorizza assolutamente a presumere un’originaria stesura in un volgare veneto del testo e una sua successiva
toscanizzazione. Quest’ipotesi apparirebbe al contrario alquanto improbabile, se
non altro per semplici motivi cronologici, considerato che anche uno dei due
40 Il regolare noi è anche nel codice Cicogna (c. 1r 17) e, giusta la trascrizione di Marchesi (1904,
151), in quello Oratoriano.
41 La situazione è differente se ci rivolgiamo al toscano letterario, in cui il tipo metafonetico
coesiste con la forma regolare noi. Si tratta in ogni caso di una forma importata dalla Sicilia,
attestata a partire dalla rima siciliana ricorrente proprio in un componimento del siculo-toscano
Compagnetto da Prato, Per lo marito c’ho rio, 15 noi : 17 lui (cf. Coluccia 2008b, LXVI)) . La rima
imperfetta noi : lui, che è dovuta al toscaneggiamento operato dai copisti e sottende un originario
nui garantito dalla rima, esce dall’uso dopo la testimonianza della Scuola siciliana (varianti sono
documentate già nei poeti della prima generazione: cf. Giacomo da Lentini, Dal core mi vene, 134
noi : 135 dui : 136 plui : 137 fui; Rinaldo d’Aquino, Amorosa donna fina, 21 voi : 24 llui). Al suo
posto viene «ripristinato» il sicilianismo nui, che si cristallizza come «fatto culturale» (il sintagma
è in Beltrami 2002, 56) e, in rima con lui, procede da Dante, Vn 22.13–16 2 : 3 sino al manzoniano
Cinque Maggio 32 : 34.
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L’Etica d’Aristotele tradotta in volgare da Nicola Anglico
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manoscritti più antichi sembrerebbe redatto da mano toscana (o toscano-emiliana; cf. §1.3). I segnali spiccatamente meridionali rilevati nel codice Marciano
potrebbero inoltre essere relitti di un antigrafo, perduto o da individuare, prodotto nel Mezzogiorno continentale, in cui «il tipo linguistico siciliano, o magari
calabro-siciliano, riesce in un certo periodo, a insinuare il proprio prestigio
nell’area napoletana» (Sabatini 1975, 118).42
Alcuni aspetti collegati all’identificazione linguistica e alla datazione dell’originale, si incrociano – e possono forse essere risolti – con l’identificazione dello
autore.
3 Nicola Anglico e la ricerca dell’originale
Dal codice Oratoriano abbiamo appreso che il traduttore dell’Etica aristotelica
trascritta dal Cinico è un non proprio noto Nicola Anglico. Tenendo conto della
polimorfia degli antroponimi nelle epoche indagate, la ricerca su questo personaggio, i cui risultati sono sintetizzati di seguito, è stata condotta controllando
sistematicamente nei repertori le seguenti varianti grafiche: Nic/h/ola Anglico,
Nic/h/olao Anglico, Nicc/h/olo/ò/ó Anglico, Nic/h/olo/ò/ó Anglico e il correlato
latino Nic/h/olaus Anglicus.
Proprio con riferimento a quest’ultima forma, va specificato che i personaggi
maggiormente noti con l’appellativo Nicolaus Anglicus nell’Europa medievale
sono Nicola Trevet/Trivet43 e Nicola di Ockham.44 Riguardo al primo, la cui opera
si rileva in altri volgarizzamenti dell’Italia meridionale,45 l’equazione Nicolaus
Anglicus = Nicholas Trevet, presente in vari indici dei nomi,46 trova conferme in
PMA, s.v. Nicolaus Trivetus, ed è ben spiegata in Löhmann (1977, 30): «Nicolaus
Trevet, bisweilen auch Nicolaus Anglicus genannt, ist wie Thomas Walleys englischer Dominikanermönch».
42 Si tenga inoltre presente quanto affermato dallo stesso Marchesi a proposito della lingua di
M: il «filtraggio» presume una versione in lingua differente che viene poi venetizzata.
43 Storico inglese (1265ca–1335ca), famoso redattore in latino di commenti dei classici; dalla
letteratura non risulta che abbia tradotto o commentato alcuno scritto di Aristotele.
44 Teologo e filosofo francescano (1242–1320ca) e magister di etica a Oxford, sulla dottrina del
quale si veda Friedman (2013, 149–169).
45 Corpose riprese testuali di Trevet a Seneca tragico e alla Consolatio boeziana si ritrovano ad
esempio nello Scripto sopra Theseu Re, anonimo commento di area salentina al Teseida (cf.
Maggiore 2010).
46 A titolo esplicativo rinvio a Monfrin/Pommerol (2001, 568): «Nicolaus Anglicus, v. Nicolaus
Trevet».
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Riguardo all’identificazione con Nicola di Ockham, ecco quanto si legge in
Frova (1998, 169):
«Potrebbe essere il caso di Siena, se accogliamo l’identificazione, sostenuta da Paolo Nardi,
fra il Nicolaus Anglicus, che nell’ultimo quarto del secolo compare più volte fra i maestri
salariati dal Comune per l’insegnamento della logica, con il frate Niccolò de Occam,
personaggio di spicco nello Studio della Curia nel periodo della permanenza a Viterbo».
In PMA, s.v. Nicolaus de Ockam, il correlato latino è reso con la specificazione del
luogo d’origine «Nicolaus de Anglia». Questa denominazione ricorre anche in
Parks (1954, 639), secondo cui un Nicholas de Anglia insegna presso l’università
di Siena dal 1278 al 1285:
«Magister Nicholas de Anglia, professor et magister in logica et natura (then at the
Roman curia, a very learned and honest man), was engaged regularly for logic or dialectic
until 1285 (some annual record missing); at the end of 1288, another person was hired to
teach logic».
Incrociando le informazioni fornite da Frova e Parks, sulle quali converrà indagare in studi successivi, si deduce facilmente che il Nicola Anglico maestro di logica
nello Studium generale senese coincide proprio con Nicola di Ockham. Dalle due
citazioni emergono inoltre dati rilevanti sia per l’allusione al soggiorno a Roma,
dove è conservato uno dei nostri codici, ma soprattutto perché la presenza
dell’inglese a Siena potrebbe giustificare un’ipotetica origine toscana dell’antigrafo alla base dei nostri testimoni (conformemente a quanto avviene per altri
volgarizzamenti veneti del periodo; cf. §6). Resterebbe da chiarire ovviamente se
Nicola di Ockham sia l’artefice del volgarizzamento47 – come attestano i codici
Oratoriano e Chigiano – oppure, più verosimilmente, se sia l’autore della versione
latina che ne è alla base.48
A onor del vero occorre specificare che in una formazione cognominale come
la nostra l’etnico non allude necessariamente al luogo d’origine, ma può denotare
47 Risulta tuttavia non proprio agevole individuare le ragioni che spingono un magister inglese
a tradurre in toscano.
48 La tradizione scientifica attribuisce a Nicola di Ockham opere esclusivamente in latino (una
sinossi in Musotto 2009); benché tra queste non figurino traduzioni dell’Etica aristotelica,
l’attività del teologo francescano risulta strettamente connessa ai problemi della morale. Ockham
è inoltre autore del Commentarium in quattuor libros sententiarum, un commentario alle Sentenze
di Pietro Lombardo. Questo dato potrebbe costituire un indizio particolarmente importante per
capire a quali Sentenze fa riferimento il testimone Marciano: se si dimostrasse che il Nicola
Anglico menzionato nei codici è proprio Nicola di Ockham, allora sembrerebbe plausibile
ipotizzare che il codice sia stato allestito per essere un assemblaggio delle sue opere.
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L’Etica d’Aristotele tradotta in volgare da Nicola Anglico
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anche il mestiere.49 Un esempio, proprio per il meridione continentale, fornisce
Accattatis (1869, 156s.): Niccolò da Reggio, rinomato medico dell’epoca di re
Roberto d’Angiò, è traduttore dal greco e per questo è conosciuto ugualmente
come Niccolò Greco. Anche nel caso del nostro Nicolao potrebbe trattarsi di autore
meridionale (o comunque italiano e non necessariamente inglese) che di mestiere
fa il traduttore/trascrittore di testi di autori inglesi.50
La voce Nicola Anglico non risulta in DBI, né in EBU, né in LIE-Autori; il
personaggio non è menzionato neppure nelle Fonti aragonesi, la raccolta di
documenti cancellereschi dei re d’Aragona, sotto la dominazione dei quali si
inquadra il nostro testimone più noto (cf. §1.1).
Nell’elenco dei codici conservati nella libreria di Giuseppe Valletta, già
chiamata in causa nella descrizione del ms NA BOMG CG I 8 (cf. §1.1 n. 14),
Anglico viene associato a un quasi omonimo toscano traduttore dal greco:
«L’Ethica d’Aristotile traducta in volgare da Maestro Nicolao Anglico (forse vorrà dire
Angelio che fu in Toscana un bravo letterato e tradusse altre cose dal greco). Nel fine si
legge: Petri Strozza [sic] Florentini discipulos oriundus magnanime Ducissa Andria Neapoli
transcripsit an. Salutis 1466. 13. Aug. Valeas qui legis in 4. Pergam».
Allo stato non è possibile stabilire se l’ipotesi sia dimostrabile o meno, ma mi
sembra che proprio la specificazione parentetica escluda paradossalmente l’identificazione tra Anglico e Angelio,51 per il semplice fatto che l’erudito toscano è
49 Si tenga inoltre presente la grande omonimia – e la conseguente difficoltà nell’individuazione di un personaggio ben preciso – generata dalle formazioni cognominali derivate da
luoghi d’origine. Ad esempio nell’indice di Schönberger/Quero Sánchez/Berges (2011, 2853) la
voce Nicolaus de Anglia può variamente riferirsi a Nicolaus de Anglia, Nicolaus de Ockham e
Nicolaus de Sancto Albano. Ancora, se riprendiamo le vesti latineggianti del nome, il nostro
Nicolaus Anglicus non deve essere confuso con l’omonimo confessore di Innocenzo IV e poi
vescovo di Assisi, su cui cf. Budinszky (1876, 96) e Coulton (1908, 383); così come il Nicholas de
Anglia citato da Parks va distinto dall’omonimo scolastico domenicano attivo a Padova nel
secolo successivo e autore della Quaestio disputata de praestitis quae fiunt Venetiis, su cui cf.
Kirshner (1970).
50 Ad esempio Roberto Grossatesta? (cf. §5). Potrebbe trattarsi di testi per così dire «anglonormanno-francesi», che preludono a possibili rapporti con la versione di Nicola d’Oresme,
chiamata in causa più avanti. Il collegamento riconduce subito all’ambiente padano e al Veneto
in particolare, culla dei primi volgarizzamenti provenienti dalla cultura d’oltralpe e sede di due
dei nostri manoscritti (cf. §§1.2 e 1.3). La presenza di altri due testimoni dell’Etica in Veneto ben si
associa inoltre con la tradizione letteraria di questa regione, da sempre caratterizzata da intenti
moraleggianti (cf. Cortelazzo/Paccagnella 1992, 226).
51 Si tratta di Nicolò degli Angeli o Nicolaus Angelius Bucinensis, filologo toscano del Rinascimento (cf. DBI, s.v. Angeli, Niccolò). L’attività dell’Angelio nella Firenze del XVI secolo è documentata anche nelle carte Strozziane, come informa Kristeller (1995, vol. 5) con riferimento al
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operativo nello studio fiorentino tra il 1473 e il 1507, mentre il codice Oratoriano è
del 1466, pertanto anteriore. Pur ammettendo che Anglico/Angelio abbia redatto
l’Etica nei primi anni della sua attività (nasce nel 1448), resta tuttavia difficile da
spiegare la presenza di una sua opera in due codici del XIV secolo, quali il
Cicogna e il Chigiano (cf. §§1.3 e 1.4).
La chiave di volta è offerta dai documenti d’archivio e dalle cedole di
tesoreria del periodo angioino, dove ho rintracciato notizie di un Nicola Anglico
amanuense e trascrittore alla corte napoletana di re Roberto d’Angiò nella prima
metà del XIV secolo:
«Anno 1334. Dicembre 2. Giacomo di Bologna, Giovanni di Ypra, Nicola Anglico, e Taddeo
Lombardo, ricevono il pagamento di alcune somme per la scrittura di alcuni libri e quaderni» (Barone 1886, 578);
«Al 7 febbraio dell’anno 1335 si fanno altri pagamenti a Guglielmo Provenzale e a Nicola
Anglico, per aver trascritta un’opera del fu frate Francesco de Marrano traslatata da Azzolino
di Roma» (Barone 1886, 578 n. 5).52
L’attività dell’Anglico presso gli Angioini di Napoli è segnalata anche da Mazzatinti (1897, II e IL) e l’attribuzione a Nicola del volgarizzamento dell’Etica aristotelica è confermata sia dal codice Oratoriano sia dal Chigiano. Accettando dunque
che il nostro autore coincida con il personaggio citato nei documenti angioini,
potremmo assumere come sue coordinate anagrafiche «Napoli (?), sec. XIII/XIV–
sec. XIV» e come terminus ante quem della composizione dell’opera il 1343, data
di morte di re Roberto.
Questi ultimi dati hanno una molteplice rilevanza: 1. nella storia dei volgarizzamenti italiani, l’opera diventerebbe la terza traduzione prodotta in ambiente napoletano in epoca angioina, affiancando quelle del De balneis puteolanis e
del Regimen sanitatis; 2. nella storia della tradizione dell’Etica aristotelica, quella di Nicola Anglico si configurerebbe come la terza traduzione volgare, dopo i
compendi di Taddeo Alderotti e del Tesoro volgare (cf. §5); 3. nella storia di
Napoli l’avvento degli Angioini implica la diffusione nel regno della cultura
Catalogo delle opere del Lasca, che comprende, tra le altre cose, «parti d’una lettera che Niccolao
Angelio scrive a Filippo Strozzi intitolandogli la Rettorica di Cic. ad Her». Sullo Studio fiorentino
si veda anche Verde (1973; i riferimenti all’Angelio sono alle pp. 371 e 423).
52 Entrambe le notizie vengono ripubblicate con ulteriori commenti da Supino Martini (1993,
73); il Francesco da Marrano cui si allude nel secondo brano è François de Meyronnes, un
francescano scrittore di teologia e politica che entra in contatto con re Roberto ad Avignone (cf.
Sabatini 1975, 63).
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L’Etica d’Aristotele tradotta in volgare da Nicola Anglico
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d’oltralpe;53 non sarebbe pertanto da scartare l’ipotesi di una dipendenza tra la
versione di Anglico e quella francese di Nicola d’Oresme, ritenuta a lungo la
prima traduzione in lingua volgare dell’Etica di Aristotele (come avviene per
altri volgarizzamenti italiani, anche il nostro testo potrebbe avere alla base un
antecedente francese). Va però tenuto in considerazione un dettaglio cronologico non proprio insignificante. Partendo dal testo latino di Roberto Grossatesta,
Oresme completa la sua opera tra il 1369 e il 1370 (cf. §5); accertato che la nostra
opera venga realizzata prima del 1343, gli eventuali rapporti di dipendenza con
il testo di Oresme andrebbero analizzati a direzione invertita, così come in
chiave inversa andrebbero lette le dinamiche politico-culturali soggiacenti: la
traduzione dell’Etica prodotta per il re francese di Napoli, precedendo quella
commissionata dal re di Francia, sancirebbe il primato del mecenatismo di
Roberto su quello dei regnanti della madre patria.54
4 Le coordinate del problema
Autore e datazione rappresentano due coordinate del problema relativo all’individuazione dell’originale; il terzo elemento è rappresentato dalla lingua.
Dai paragrafi precedenti è emerso che la lingua impiegata nei due testimoni
del XV secolo, sebbene più marcata in senso locale nel codice Marciano, presenta
un fondo decisamente toscaneggiante; di purissimo toscano linguaggio parla
anche Fulin (1872, 105) in relazione al trecentesco codice Cicogna (cf. §1.3). Il
gradiente di toscanità del testo è alto al punto che anche la bibliografia contemporanea considera italiana55 la versione di Anglico: Reynhout (2006, vol. 2, 200)
presenta il contenuto del codice come «la traduction italienne de l’Ethique d’Aristote par Nicolo Anglico»; in precedenza, già Knox (1989, 133) riferendosi all’Anglico parla di his Italian compendium of Nicomachean Ethics e considera l’autore
operativo nel XV secolo sulla base della datazione del ms. napoletano (cf. §1.1).
La medesima opinione si legge già in Barone (1899, 6) il quale, seppur implicitamente, colloca l’operato di Anglico nel Quattrocento:
53 Sono emblematici i casi di traduzioni dal latino in francese (cf. Sabatini 1975, 38s.; De Blasi/
Varvaro 1987, 459s.; Bianchi/De Blasi/Librandi 1992, 633s.; Supino Martini 1993, 74).
54 La biblioteca di re Roberto (su cui cf. Sabatini 1975, 71–75) precorre di fatto la libreria reale di
Carlo V il Saggio, destinata a divenire la Bibliothèque Nationale de France.
55 La qualifica «italiano» per indicare un volgare trecentesco denota un uso estensivo del
termine sviluppatosi prevalentemente all’estero (cf. OED, s.v. Tuscan n., alla lettera c: ‘The
language of Tuscany, regarded as the classical form of Italian’).
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«in generale l’ortografia del codice, ch’è proprio quella, come a me sembra, adoperata
dall’Anglico e dai costui contemporanei, che scrissero in volgare, dev’essere studiata più dal
lato filologico, che dal lato paleografico».
A meno che non si tratti di un banale lapsus, questa dichiarazione lascia supporre
che Anglico e Cinico siano contemporanei: per certo il codice Oratoriano è stato
trascritto da Cinico, ma se la grafia impiegatavi è la stessa di Anglico, allora i due
personaggi devono aver operato nelle stesso periodo, ovvero il XV secolo. Ritengo
tuttavia più probabile che Barone abbia semplicemente confuso Cinico con Anglico: stando ai documenti d’archivio citati in precedenza (raccolti peraltro dallo
stesso Barone) i due personaggi non sarebbero affatto contemporanei; al contrario tra i due intercorre quasi un secolo di distanza, in quanto il primo è attivo
presso gli Angioini e il secondo presso gli Aragonesi. Fissato l’arco cronologico
dell’autore, la data di composizione dell’opera non può che essere ascritta al
XIV secolo, ipotesi confermata dalla datazione dei codici Cicogna e Chigiano.
Chiarito questo equivoco, resta da stabilire in quale lingua sia stata eseguita
la versione originale. La provenienza napoletana del più noto fra i testimoni
manoscritti e la presenza nella Napoli angioina del suo artefice non obbligano a
supporre una produzione in volgare napoletano dello stesso. Come abbiamo
dichiarato in apertura di paragrafo, sia lo stile sia la lingua possono ritenersi
esempi di puro toscano e questa toscanità può spiegarsi o con l’ipotesi di un
antigrafo toscano oppure come segno tangibile della penetrazione della cultura
toscana nella Napoli dei secoli XIV–XV, ripetutamente messa in luce.56
A differenza di quanto avverrà per alcuni volgarizzamenti prodotti nel periodo aragonese, in cui l’antigrafo alla base è di regola un testo già toscanizzato, non
dovrebbe stupire che la traduzione di Anglico sia stata eseguita direttamente in
toscano, perché il regno di re Roberto, marcato da un’assenza di ogni testimonianza di cultura volgare,57 è caratterizzato da un’embrionale apertura verso il toscano,
che si accentuerà durante il regno di Giovanna I, con la figura di Niccolò Ac-
56 Sulle dinamiche di questa penetrazione si è espresso a più riprese Sabatini (1975); eccone un
passo esemplificativo: «la fase municipale nella cultura volgare napoletana è di brevissima
durata: si riduce praticamente ai due poemetti medicali [De Balneis Puteolanis e Regimen
sanitatis] e si esaurisce con la seconda stesura, già toscaneggiante di questi testi. Quanto alla
Cronaca di Partenope, cominciata intorno al 1345, possiamo dire con certezza solo che un codice
della fine del secolo rivela una esasperata volontà di toscaneggiamento […] vedremo come l’uso
fiorentino domini assolutamente il campo della lirica fiorentina colta» (ib., 118).
57 Cf. Sabatini (1975, 83). Considerato il clima culturale francesizzante della corte e dell’aristocrazia partenopea agli inizi della dominazione angioina (si producono opere direttamente in
francese e si traduce dal latino in francese), è difficile pensare che un traduttore al servizio di re
Roberto potesse scrivere in napoletano. I casi dei volgarizzamenti del Regimen e del De Balneis
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L’Etica d’Aristotele tradotta in volgare da Nicola Anglico
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ciaiuoli. La toscanità è lo status regolare dello scrivere in volgare nel Trecento e a
questo proposito è piuttosto eloquente quanto dichiara Fulin (1872, 105) proprio
in riferimento alla facies linguistica del testimone Marciano: «lo stile è puro
toscano e fiorito sicché a ragione può tenersi per lavoro del secolo XIV».
Al di là delle spiegazioni storico-culturali, un sostegno a questa tesi potrebbe
venire direttamente dai dati testuali. Ipotizzare una trascrizione in toscano partendo da un antigrafo toscano renderebbe vana la specificazione traducta in
volgare presente nella rubrica iniziale del codice napoletano, dove volgare, tenendo conto dell’altezza cronologica della testimonianza, potrebbe essere semplicemente sinonimo di «fiorentino o toscano»,58 per analogia all’equazione per cui
roman è un «altro nome usato nel Medioevo per ‘francese’» (Beltrami 2007, VIII).59
L’ipotesi di un antigrafo toscano non può tuttavia essere esclusa a priori. Solo
l’edizione del testo e un’analisi linguistica che ne esamini la lingua in dettaglio
potrebbe farci capire se la toscanità presente sia un lascito della versione precedente o rappresenti invece un segno del volgersi del napoletano verso il modello
toscano avanzante e stabilire così se siamo di fronte a un vero e proprio volgarizzamento o a una versione ipertoscaneggiante.
sono diversi, perché diversa è la materia trattata, diverso il pubblico di riferimento e diverso il
contesto che li ha generati.
58 Riferito a un testo, il termine «toscano» ne indica la composizione in fiorentino letterario del
Trecento (cf. GDLI, s.v., al num. 3).
59 L’ipotesi di una coincidenza tra volgare e fiorentino è confermata da un’altra specificazione
del medesimo studioso inerente alla Retorica di Brunetto: «La Rettorica doveva tradurre in
volgare fiorentino (alla lettera ‘volgarizzare’) e commentare il De invenzione, un manuale di
retorica» (Beltrami 2007, XI–XII). Il nostro caso rientra quindi nella questione collegata a
«volgarizzare e tradurre», su cui tanto è stato scritto. La dittologia, cristallizzata dal titolo di
Folena (1991) e spesso intesa come sinonimica, cela in realtà delle sfumature semantiche ben
spiegate da Segre (1995, 271): «Volgarizzare, che in origine significava ‘interpretare per il volgo’,
assume prestissimo il valore di ‘tradurre’, e diventa il termine più diffuso, in alternativa con le
perifrasi ridurre, o ritrarre, o recare, in volgare. Una dichiarazione esplicita della finalità di
divulgazione culturale assegnata alle traduzioni dal latino. Invece, l’attuale tradurre è (con
questo significato) innovazione quattrocentesca di Leonardo Bruni, e passa nelle altre lingue
romanze più tardi. Avverto poi che volgarizzare è usato in particolare per le versioni dal latino».
Non sorprende quindi che l’espressione traducta in volgare sia tramandata proprio dal testimone
quattrocentesco.
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5 Opera antica e antecedenti medievali:
percorsi filologici
Non è questa la sede per analizzare la struttura dell’Etica aristotelica o per
commentarne la complicata storia della tradizione e nemmeno per discutere il
ruolo che essa ha ricoperto nello sviluppo del pensiero medievale dell’Occidente.60 Tuttavia tali aspetti non possono essere completamente glissati: alcuni
episodi di questa storia costituiscono la necessaria premessa allo sviluppo della
nostra argomentazione.
La tradizione manoscritta tramanda sotto il nome di Aristotele tre opere che
trattano di problemi morali: l’Etica Nicomachea (in 10 libri), l’Etica Eudemia (in
7 libri) e la Grande Etica o Magna Moralia (in 2 libri); le prime due sono sicuramente di Aristotele, mentre la terza è più probabilmente un prodotto della sua
scuola, anche se le ipotesi sull’attribuzione di quest’ultima sono molteplici e
controverse.61 L’Etica Eudemia è raccolta e ordinata dal discepolo di Aristotele
Eudemo da Rodi e per questo è stata a lui falsamente attribuita; è anteriore alla
Nicomachea e si ritiene composta nel periodo di Asso (347–342ca) o ancor prima
(gli studi più recenti concordano nel vedervi la prima formulazione dell’etica
aristotelica, ancora legata al pensiero platonico).
L’Etica Nicomachea è l’ultima e la più nota delle tre etiche attribuite al
Filosofo; essa «esprime il pensiero autentico e definitivo di Aristotele e quando si
parla di etica aristotelica si deve intendere, sostanzialmente, la dottrina contenuta nell’Etica Nicomachea» (Mazzarelli 1993, 44). L’opera è sistematizzata dal figlio
Nicomaco circa vent’anni dopo la morte del padre, e, sebbene la data di composizione non si possa stabilire con precisione, le lezioni in essa racchiuse vanno
collocate nel periodo del secondo soggiorno di Aristotele ad Atene, in concomitanza con la fondazione del Liceo. Viene pubblicata per la prima volta tra il 40 e il
20 a.C. da Andronico di Rodi, all’interno del corpus delle opere aristoteliche.
60 Così Tateo (1985, 379): «L’Etica aristotelica è il libro più importante della cultura occidentale
fra Due e Quattrocento. Interpretato in direzione alquanto differente dagli scolastici e dagli
umanisti, esso rappresenta il più evidente segno della continuità fra Tardo Medioevo e Rinascimento: costituisce la fondazione razionale, laica della morale». Sulla diffusione dell’opera nella
tradizione latina medievale, cf. Marchesi (1904) e Kretzmann/Kenny/Pinborg (1982, 655–672); per
le traduzioni umanistiche e la diffusione dell’Etica nel Rinascimento, cf. Garin (1947–1950) e
(1961) e Schmitt/Skinner (1988, 87–90). L’edizione classica è contenuta nell’opera omnia di
Aristotele curata da Bekker (1831–1870); spesso viene utilizzata come base delle traduzioni
moderne anche l’edizione Bywater (1894).
61 Tra i molteplici studi dedicati all’argomento si vedano almeno Mazzarelli (1993, 42); Caiani
(1996, 33ss.) e Dudley (1999, 11 n. 19).
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L’Etica d’Aristotele tradotta in volgare da Nicola Anglico
739
La trasmissione dell’Etica nel primo Medioevo è per così dire isolata rispetto
al resto del corpus aristotelico e la sua ricezione risulta pertanto meno consolidata
e profonda di altri scritti del Filosofo inerenti a logica, metafisica e storia naturale.62 È solo nella seconda metà del XIV secolo che l’opera diviene parte integrante
del curricolo universitario; conseguentemente, il suo impiego aumenta man
mano che se ne sviluppano i commenti, tanto che nel Quattrocento diventa uno
dei libri preferiti dai traduttori umanisti.63
Come altre opere dell’antichità e dello stesso Aristotele, anche l’Etica nel
corso dei secoli è stata sottoposta a notevoli ristrutturazioni formali e variamente utilizzata, soprattutto attraverso la mediazione di commenti, antologie e
riduzioni, spesso più diffuse del testo integrale (per citarne i più noti, il Commento medio di Averroè e i commentari latini di Alberto Magno e Tommaso
d’Aquino). La scansione degli argomenti all’interno della Nicomachea è tale da
rendere il testo facilmente smembrabile in blocchi omogenei, che favoriscono la
produzione di excerpta e rendono difficile stabilire quanto l’opera sia utilizzata
per via diretta.64 La ricostruzione della tradizione manoscritta, oltre che dall’elevato numero dei testimoni, è complicata da un’intricatissima rete di trasmissione: il pensiero di Aristotele è sottoposto al travaso dal greco al siriaco e dal
siriaco all’arabo, infine dall’arabo o dall’ebraico al latino (Miano 1949–1957, 67).
Anche per le traduzioni bisogna distinguere quelle dall’arabo e quelle derivate
direttamente dal greco. Le traduzioni arabo-latine sono state più numerose di
quelle greco-latine e prime in ordine di tempo; in particolare la prima parafrasi
latina dall’arabo è il Liber Nicomachiae redatto a Toledo da Ermanno Alemanno
62 I dati possono variare leggermente se ci rivolgiamo alla tradizione manoscritta in caratteri
greci, caratteristica dell’estremo Mezzogiorno d’Italia fino al XV secolo. Con riferimento alla
nostra opera, Arnesano (2006, 155) segnala un codice pergamenaceo del XIII secolo, che tramanda una copia dell’Etica Nicomachea e dei Magna Moralia vergata da Costantino Firate per Rinaldo
di Gallipoli: il ms. CV BAV Barb. gr. 75. In un contesto più tardo, che dal Salento si estende alla
Terra di Bari, si inserisce la copia dell’Etica nicomachea eseguita verso il 1500 da Costantino
Angelo di Sternatia e miniata da Reginaldo Pirano di Monopoli su commissione di Matteo
Acquaviva. Non si tratta della stessa opera citata nella n. 15, ma del codice NA BN Vindob.
phil. gr. 4, su cui cf. Ficcadori (1996, LXIV)) .
63 Un esempio molto chiaro di evoluzione del testo attraverso le sue traduzioni medievali e
umanistiche è in Schmitt/Skinner (1988, 89); il target di riferimento dell’opera – il mondo
raffinato del regno aragonese e delle corti nobiliari – giustifica la committenza di copie di pregio,
quali sono il ms. NA BOMG CF I 8 (cf. §1.1) o gli esemplari commissionati dall’Acquaviva (cf.
n. 15).
64 Parlare di una tradizione «diretta», considerando quanto appena riferito sulla trasmissione
dell’opera di Aristotele, può sembrare incoerente. Il termine va dunque inteso in senso lato; in
caso contrario la quasi totalità del corpus aristotelico dovrebbe essere ascritta alla sua tradizione
indiretta.
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740
Cristina Scarpino
nel 1240.65 Dalla traduzione di Ermanno deriva il volgarizzamento dell’Etica
Nicomachea che «spicca al centro del Tresor»66 (e del Tesoro volgarizzato) e che la
critica non è concorde nell’identificare con quello del medico fiorentino Taddeo
Alderotti, anche questo dipendente dalla versione latina dell’Alemanno.67
Le prime traduzioni latine direttamente dal greco, senza cioè la mediazione
araba, risalgono già al XII secolo (Bianchi 2003), ma la più influente è eseguita
nella metà del secolo successivo (probabilmente tra il 1246 e il 1247) dall’inglese
Roberto Grossatesta e diviene il testo latino di riferimento per tutto il Medioevo.68
Basata su versioni precedenti, l’Ethica ad Nicomachum realizzata dal vescovo di
Lincoln è affiancata dalla traduzione di un ampio corpus di commentari greci, tra
cui quelli di Eustrazio di Nicea e di Michele di Efeso.69 Al testo di Grossatesta
attingono Nicola d’Oresme, che completa la traduzione francese tra il 1369 e il
1370 su richiesta di Carlo V il Saggio,70 e, nel pieno Umanesimo italiano, Leonardo Bruni.71
65 Nel 1243 l’Alemanno produce una versione dell’Etica derivandola dal compendio alessandrino-arabo, mentre la prima è impostata sul commento medio di Averroé (cf. Kretzmann/Kenny/
Pinborg 1982, 59s.).
66 Precisamente nei capp. 2–49 del II Libro, come spiega Beltrami (2007, XVII–XVIII), da cui è
tratta la citazione a testo.
67 Non entro qui nell’intricata tradizione del Tresor e della questione attributiva del Tesoro
volgare a Bono Giamboni, né in quella dei rapporti di dipendenza tra Tresor, Tesoro volgare e
traduzione dell’Etica di Taddeo Alderotti, testimoniata in prima istanza da un passo del Convivio
dantesco (I.x.10) e di cui una prima sintesi offre Cecioni (1889, 7ss.). Si vedano in ogni caso le
questioni aperte sintetizzate in Beltrami (2007, XVII n. 32), i rinvii bibliografici contenuti nella
scheda SALVIt del Tesoro salentino curata da Marzano (2007) e, con specifico riferimento a un
uso diretto del compendio alessandrino-arabo da parte dell’Alderotti e di Brunetto, le riflessioni
contenute in Corti (1983, 98).
68 La versione del Grossatesta è anche il testo di partenza di almeno dieci dei sedici commenti
all’Etica Nicomachea prodotti a partire dal XIII secolo (cf. Wieland 2002, 359); in contemporanea,
nella Sicilia di Manfredi, e su iniziativa dello stesso, Bartolomeo da Messina traduce i Magna
moralia (cf. Cavallo 1982, 586).
69 Con la precisione che gli è peculiare, Grossatesta aggiunge numerose note che glossano
termini inglesi e precisano la grammatica. Sull’attività traduttoria di questo autore, cf. Kretzmann/Kenny/Pinborg (1982, 61 e 659s.) e Schmitt/Skinner (1988, 304).
70 Ritenuta a lungo la prima traduzione in lingua volgare – perché basata su un testo integrale
della Nichomachea e non su compendi – la versione di Oresme è arricchita con commenti
prelevati principalmente da Tommaso d’Aquino (Cf. Kretzmann/Kenny/Pinborg 1982, 669).
71 Composta tra il 1416 e il 1417, la traduzione dell’Ethica nicomachea è una delle più importanti
e conosciute traduzioni latine del prolifico umanista aretino, anche perché innesca una polemica
sullo stile e sul valore dell’interpretazione dell’originale, che si ripresenterà, con metodi e toni
diversi, anche in altre occasioni (celebre il caso della disputa filologica e linguistica intorno alla
Naturalis historia di Plinio). La dimensione filologica che caratterizza le traduzioni tra Trecento e
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L’Etica d’Aristotele tradotta in volgare da Nicola Anglico
741
Posto che Anglico non traducesse direttamente né dal greco né dall’arabo,72 e
ferma restando la possibilità che traducesse da un’ipotetica versione latina di
Ockham (cf. n. 48), il quadro di riferimento a sua disposizione si presenta piuttosto variegato e le ipotesi nei confronti della fonte potrebbero essere:
1.
Anglico traduce dal testo latino di Ermanno (< dal compendio alessandrinoarabo);
2. Anglico traduce dal testo francese di Brunetto (< dal latino di Ermanno);
3. Anglico riprende il testo volgare dell’Alderotti (< dal latino di Ermanno);
4. Anglico riprende il Tesoro volgare (< dal latino di Ermanno o dal volgare
dell’Alderotti);
5. Anglico traduce dal testo latino di Grossatesta (< direttamente dal greco).
Avendo assunto come coordinate anagrafiche del nostro autore quelle dei documenti d’archivio, non possiamo accettare l’ipotesi che Anglico traduca da Oresme, semplicemente perché la traduzione francese è posteriore al periodo di
attività di Anglico, collocata provvisoriamente non oltre il 1343 (cf. §3); per le
medesime ragioni non ho tenuto conto della quattrocentesca versione bruniana.
Nei primi quattro casi la traduzione di Anglico si inserirebbe nel gruppo dei
testi derivati dal compendio arabo-alessandrino, nel quinto caso in quello della
traduzioni dirette dal greco. Solo un riscontro testuale eseguito su queste opere
potrebbe fornire risposte definitive, ma già dagli esigui dati a nostra disposizione
è forse possibile intravedere percorsi ed effettuare scelte che delimitino il raggio
d’azione.
Lo studio di Knox (1989) citato in §1 lascia intendere che la traduzione latina
di Ermanno sia alla base dei volgarizzamenti di Taddeo Alderotti, del Tesoro
volgare (che lo studioso assegna allo stesso Brunetto) e del compendio di Nicola
Anglico. Nel commentare la resa di deiectus humilians, ossia l’autodenigratore,
presente nella versione di Ermanno, Knox accosta le soluzioni dell’Alderotti
Quattrocento si incrocia con il problema dell’equivalenza semantica: come intendere esattamente
la terminologia aristotelica e quale rapporto istituire fra il termine originario (greco e/o arabo) e il
correlato latino prima e volgare poi. Sulla base di queste premesse, l’Ethica ad Nicomachum del
Bruni è molto di più di una semplice rivisitazione del testo di Grossatesta, poiché attrae gli
umanisti per tutto il XVI secolo (cf. Schmitt/Skinner 1988, 78, 82 e 89) e conosce anche diverse
edizioni a stampa (cf. IGI, I, numm. 817–820 e 824).
72 Sull’attività di traduzione dal greco e sulla provenienza dei codici presso la corte di re
Roberto, cf. Ficcadori (1996, XLVII)) : «I traduttori ‹greci› di Roberto, occupati principalmente ma
non solo con testi di medicina, venivano tutti dall’antica Magna Grecia […] un ordine del re
faceva obbligo a tutti i proprietari di esibire gli eventuali manoscritti e prestarli per la necessaria
opera di copia o di traduzione».
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742
Cristina Scarpino
(l’uomo dispregiato e umile), del Tesoro volgare (il dispregiato e l’umile)73 e dell’Anglico (el copritore de se medesimo, c. 15v),74 chiosando quest’ultima the man
who conceals himself, ossia ‘colui che si nasconde, che cela se stesso’.75 Proviamo
ad analizzare questi elementi. Mentre le equivalenze tra il deiectus humilians di
Ermanno e le soluzioni di Alderotti e del Tesoro sono inequivocabili e geneticamente giustificabili, non si può dire lo stesso per la scelta di Anglico, formalmente
distante sia dalla traduzione latina sia dalle due versioni toscane. Si consideri
inoltre che la semantica della parola copritore non coincide con nessuna delle
accezioni registrate nei dizionari storici dell’italiano76 e si configura come testimonianza del tutto eccezionale, probabilmente ricalcata su (n)asconditore, di cui
si rinvengono tracce nel TB. In attesa di ulteriori accertamenti non sarebbe
neppure da escludere un collegamento con il riflessivo francese «se couvrir», per
cui nel TL, s.v. covrir, trovo attestazioni a partire dai Lais di Marie de France: mult
se covrirent e guarderent Qu’il ne fussent apercëu.77
Tornando ai rapporti di dipendenza tratteggiati da Knox, possiamo aggiungere che la notevole toscanità del testo di Anglico potrebbe prefigurare un rapporto
diretto con Alderotti o con il Tesoro, piuttosto che con Ermanno. Anche questa
supposizione presenta tuttavia un vizio di fondo, rilevato già in 3.1: perché
tradurre in volgare (= toscano; cf. §4) un’opera che è già in toscano? Indipendentemente dalle coincidenze formali e/o semantiche, che se episodiche non sono
sufficienti a garantire dipendenza tra le opere coinvolte, il testo di Anglico non
dovrebbe risalire al blocco Alemanno-Alderotti-Tesoro per diverse ragioni di
ordine storico-culturale: 1. nel regno di Roberto si traduce molto dal latino e dal
francese verso il toscano, di conseguenza commissionare una versione «dal
toscano al toscano» non avrebbe di che giustificarsi; 2. la traduzione di Anglico,
73 Sulla valenza di dispregiato in questo testo, cf. TLIO, s.v., al num. 5.
74 Questa l’indicazione di Knox (1989) riferita al ms. Oratoriano; pressoché identiche le lezioni
degli altri tre codici: mal copritore di se medesimo (CV BAV Chig. M VIII 162, c. 5rb 11–12; VE BM It.
II 2, c. 25v 9); mal copritore di se medesemo (VE BMC Cic. 1474, c. 9v 25).
75 Per completezza specifico che Knox (1989), pur citando il lavoro in bibliografia, non utilizza
la trascrizione di Marchesi (1904), priva di questo brano, e attinge forse direttamente dal codice.
Ancora a questioni di interpretazione semantica nelle traduzioni della Nicomachea è dedicato lo
studio di Wieland (2002).
76 Limitatamente alle attestazioni medievali e rinascimentali, gli unici significati rinvenuti sono:
‘operaio specializzato nella costruzione di coperture’ (TB, GDLI, TLIO) e, con valore aggettivale
‘di animale che feconda la femmina’ (Crusca, TB, GDLI). La parola manca in LIZ.
77 La scelta di Anglico può forse considerarsi come forma di personalizzazione rispetto al testo
sorgente (su questo tipo di microvarianza, cf. Varvaro 1999, 416–420); in ogni caso solo l’analisi
integrale del testo e il confronto con l’antecedente diretto potrà stabilire il livello di letterarietà o
di tecnicità del nostro testo.
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L’Etica d’Aristotele tradotta in volgare da Nicola Anglico
743
pur rientrando nella compagine dei compendi dell’Etica aristotelica, sembra
appartenere al blocco delle traduzioni afferenti alla tradizione greco-latina e non
a quella arabo-latina (cui appartengono invece le versioni di Alderotti e del
Tesoro); 3. se l’etnicismo presente nella forma cognominale significasse proprio
‘traduttore di opere [o di autori] inglesi’, non è improbabile che l’antecedente
remoto sia proprio la versione greco-latina dell’inglese Grossatesta, che nella
Francia angioina avrà il suo volgarizzatore in Nicola d’Oresme, così come nella
Napoli angioina avrebbe come suo traduttore Nicola Anglico. A supporto di
questa ipotesi, faccio notare che una certa autonomia del rimaneggiamento del
testo di Anglico da quello di Alderotti è evidenziata già da Benedetti (1988, 136):
«Un punto di c. 1r (El conoscemento de esso bene fo grande accrescemento a la
vita), assente nella versione dell’Alderotto, traduce il Liber Ethicorum del commento tomistico alla Nicomachea (cf. ibidem, p. 38 n. 1), noto quindi al volgarizzatore».
Al fine di rilevare alcune convergenze e/o divergenze tra le opere in questione, ho messo a confronto un altro passo del testo di Anglico con la traduzione
moderna e integrale dell’Eticha Nicomachea e con il Tresor di Brunetto Latini.
Anglico, Etica
Le vertù intelletuali
s’acquistano p(er) dotrina et
p(er) solicitudine, e p(er)zò
abisognano tempo
d’exp(er)im(en)to, e le morali
s’aq(ui)stano p(er) usare la
bontà, e chon quelli ch’amano
la bontà. Perzò se mostra che
nui no semo né boni né rei
p(er) natura né (con)tra natura
che le cose na(tura)li no si
mutano né si possono
tra(n)smutare, segonda che de
le cose na(tura)li p(ri)ma
avemo le potenzie e poi le
op(er)acioni, si come nelle
altre arti, che p(er) molte volte
sonare dovenimo sonatorj e
non p(er) molto udire divenimo
uditori; terza che da une
medesime cose si fa ogn(i)
vertù e corompesse
somigliantemente l’altre, che
p(er) zitarizare divenimo boni
Aristotele, Etica Nicomachea
Essendo pertanto di due specie
la virtù: l’una dianoetica e
l’altra etica, la prima trae per
la maggior parte
dall’insegnamento sia la sua
origine che il suo
accrescimento e perciò
necessita di esperienza e di
tempo; la seconda invece
proviene dall’abitudine donde
ha anche ricevuto il nome, che
deriva con un piccolo
mutamento da έθος. E di
conseguenza è ugualmente
chiaro che nessuna delle virtù
etiche si origina in noi per
natura. Nessuna delle cose
esistenti per natura diviene
infatti diversa per abitudine:
per esempio, la pietra che per
natura viene trascinata verso
il basso, non potrebbe essere
abituata a portarsi verso l’alto
neppure se si tentasse di farlo
Brunetto, Tresor
La vertu de l’entendement est
engendree et escreue en l’ome
par doctrine et par
eneseignement, et por ce li
covient esperience et lonc
tens. La vertu de moralité naist
et croist par bon us et honeste,
car ele n’est pas en nos par
nature, a ce que chose naturel
ne puet estre muee de sa
nature par usage contraire.
Raison coment: la nature de la
pierre est d’aller tozjors aval;
nus ne la porroit tant gieter
amont que ele seust sus aller.
Et la nature dou feu est d’aller
amont; nus ne le porroit tant
avaller que il seust en aval
metre la flambe. Et
generaument nulle naturel
chose puet par usaige
apprendre a faire le contraire
de sa nature. Et ja soit ce que
ceste vertu ne soit en nos
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744
Cristina Scarpino
Anglico, Etica
citariste, e se non fosse cossì
no(n) sarebbe mestieri de
docente che tutti adiverebbere
boni ouer rei; e così de le vertù
che usati, q(ue)lle che sono ni
pericoli, divenimo forti overo
timidi. Onde non è leggiero a
mutarsi, poiché l’uomo è
adusato nele zoventude, ch’in
ciò sta tutta la bontà e la
malicia; segno che noi no semo
buoni né rei p(er) natura, si è il
porre delle leggie; e così è
manifesto si come ditto è. Ma
semo attivati a ricevere le vertù
e le malicie p(er) usanza. Che
le vertù se corrompe dal troppo
et dal poco. E dovemo sapere
che le vertù sono nate a
corromp(er)si e dal troppo e
dal poco, sì como quelli che
non ama nessuna
dellectacione è magiormente
salvatico che temp(er)ato et p
(er) lo megio si salvano [ms. CV
BAV Chig. M VIII 162, cc. 16v
22–17r 23].
Aristotele, Etica Nicomachea
gettandola in aria infinite volte;
e neppure il fuoco potrebbe
abituarsi a volgersi verso il
basso, né nessun’altra cosa di
quelle che per loro natura
sono in un modo potrebbe
essere abituata ad essere in
un altro. Dunque le virtù non
sorgono né per natura né
contro natura, ma esse
s’ingenerano in noi che per
natura siamo predisposti a
riceverle e grazie all’abitudine
le portiamo a compimento.
Inoltre, tra tutte le cose che ci
derivano per natura, dapprima
riceviamo in noi le capacità,
mentre in seguito produciamo
le attività (ciò che appunto è
chiaro nel caso dei sensi: non
abbiamo acquisito i sensi in
conseguenza dell’avere
numerose volte compiuto
l’atto di vedere o di ascoltare,
bensì, al contrario, è perché
possedevamo quei sensi che
ne abbiamo fatto uso, mentre
non è per averne fatto uso che
li abbiamo acquisiti). Le virtù
invece le conseguiamo dopo
averle precedentemente
messe in pratica, come anche
nel caso delle altre arti; in
effetti le cose che bisogna
imparare e compiere, le
impariamo compiendole: per
esempio, costruendo una casa
si diventa costruttori e
suonando la cetra, citaristi.
Così, pertanto, anche
compiendo azioni giuste
diveniamo giusti e
compiendone di moderate,
moderati e di coraggiose,
coraggiosi, Né è prova anche
ciò che avviene nelle città:
Brunetto, Tresor
nature, et le compliment est en
nos par usaige. Por ce je di que
ceste vertus ne sont pas en nos
dou tout sens nature, ne dou
tout selonc nature, mes la
racine et le comencement de
reçoivre ces vertus sont en nos
par nature et lor compliment
est en nos par usaige. Et toutes
chises qui sont en nos par
nature sont premierement en
pooir et pui en fait, aussi come
les sens de l’ome; car tout
avant a l’ome pooir de veoir et
de l’oïr, et par celui pooir voit
et ot, et nus ne voit devant qu’il
en a le povoir. Donques savons
nos que le pooir est devant le
faire, mes es choses de
moralité est le contraire, car
l’uevre et le fait est devant le
pooir. Raison coment: por quoi
aucun home a la vertu de
justise? Porce qu’il a devant
fait maintes huevres de justise;
et un autre a la vertu de
chasteté, [por ce qu’il a devant
fait maintes euvres de
chasteté]. Tout autresi est des
choses de mestier et de art; car
l’en [set] faire maisons, por ce
que l’en a maintes faites
premierement, car autrement
ne le seust il, se il ne l’eust
ovré plusors fois. Autresi set
chascuns biens citoler por ce
que il l’a moult usé. Et l’ome
est bon par bien faire, et
mauvais par mau faire; et par
une meesme chose naissent en
nos et se corrompent les
vertus, se cele chose est
menee en diverses manieres;
tout autresi com la santé: car
travaillier atempreement
engendre santé ou cors de
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L’Etica d’Aristotele tradotta in volgare da Nicola Anglico
 
 
Aristotele, Etica Nicomachea
i nomoteti rendono buoni i
cittadini facendo loro
contrarre delle abitudini;
questo è l’intendimento di
ogni nomoteta e quanti non lo
portano a buon compimento
sbagliano; ed in questo
differisce una buona
costituzione da una cattiva.
Inoltre ogni virtù nasce e si
deteriora in conseguenza ed a
causa delle stesse azioni ed
ugualmente anche ogni arte: è
in conseguenza del suonare la
cetra che si diventa
indifferentemente buoni e
cattivi citaristi. Ugualmente
per i costruttori di case e per
tutti gli altri artigiani: dal
costruire bene deriveranno
costruttori buoni, mentre dal
costruire male, cattivi. Infatti
se le cose non stessero così,
non ci sarebbe alcun bisogno
di chi insegna, ma tutti
sarebbero per natura buoni o
cattivi artigiani. Così è anche
per le virtù: compiendo la
azioni nei commerci con gli
uomini diveniamo gli uni
giusti, gli altri ingiusti e
compiendone altre nei pericoli
ed abituandoci ad avere paura
o coraggio diveniamo gli uni
coraggiosi, gli altri vili [II,1;
Caiani (1996, 220s.)].
745
Brunetto, Tresor
l’ome; mes travaillier ou plus
ou moins que mestier est
corompe la santé; mes
moieneté la guarde et acroist.
Ausi est la vertu, car ele
corompe et guaste par poi et
par trop, et si se conserve et
mantient par la moieneté
[II,10.1–7; Beltrami et al.
(2007, 344ss.)].
Premesso che commenti di tipo filologico non sono possibili a questo stadio della
ricerca, mi limito a un’osservazione sull’organizzazione testuale.
La traduzione di Anglico è un compendio dell’Etica Nicomachea, fatto che
emerge anche dalle nostre trascrizioni: i brani della colonna centrale e di quella
di destra sono abbondantemente più lunghi di quello della colonna di sinistra,
poiché rappresentano due versioni integrali – pur se differenti – dell’opera di
Aristotele. Il Tresor di Brunetto Latini è esattamente un volgarizzamento e non un
compendio della Nicomachea: aderisce quasi completamente alla traduzione
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746
Cristina Scarpino
moderna; si vedano in particolare i passaggi delle esemplificazioni relative alla
pietra, al fuoco e ai nomoteti, sistematicamente omessi nella versione di Anglico.
Come abbiamo accennato in §4, non va escluso che alla base del nostro volgarizzamento ci sia un compendio toscano o una traduzione perduta, ma è anche
possibile che il nostro autore abbia compendiato direttamente dalla versione
latina di Grossatesta oppure da quella francese di Brunetto: le convergenze tra il
testo di Anglico e il Tresor sottolineate nella tabella potrebbero non essere del
tutto casuali.
Semplici coincidenze testuali non sono ovviamente sufficienti a garantire
interdipendenza tra le opere in esame, così come semplici divergenze (come
quella rilevata da Knox 1989) non sono sufficienti a sancirne la totale indipendenza. Sicuramente una collazione sistematica tra questi antecedenti e l’Etica di
Anglico potrebbe rivelare dati molto più significativi di quelli basati su occasionali reperti. La ricerca dell’antigrafo diretto del nostro testo si presenta in ogni caso
come operazione estremamente delicata, complicata dal fatto che le fonti aristoteliche, prossime e remote, sono caratterizzate da una diffusione sovraregionale e
sovranazionale, che ne ha spesso smembrato l’assetto originario. Una puntuale
sintesi della questione si legge in Librandi (1995, 14) a proposito dell’edizione di
un altro testo aristotelico trecentesco, la Metaura, volgarizzamento anonimo
fiorentino dai Meteorologica:
«La ricostruzione del pensiero e dei testi aristotelici non fu priva di errori e difficoltà, anche
perché la natura delle prime traduzioni lasciò spesso a desiderare. Inizialmente la scelta
delle opere da tradurre non fu sempre determinata da esigenze scientifiche, ma piuttosto
dalla disponibilità e dalla brevità del testo; accadeva pertanto che trattati più lunghi, ma di
maggiore importanza, fossero trascurati a vantaggio di opere minori. Era possibile e abbastanza frequente che tra l’originale in lingua greca e la sua trasposizione latina si interponessero copie di altre versioni, che compromettevano ulteriormente l’aderenza al testo
originario».
6 L’Etica di Nicola Anglico: un’opera inesplorata
della letteratura angioino-aragonese o, ancora
una volta, un antecedente toscano?
Come dichiarato in apertura, questo studio è un resoconto generale sull’Etica di
Nicola Anglico, effettuato partendo da informazioni di repertorio, successivamente analizzate incrociando bibliografia scientifica e dati codicologici. Le interpretazioni qui esposte vanno pertanto intese come ipotesi preliminari che potranno
ricevere conferme o rettifiche, ma potranno anche essere ribaltate, dall’edizione
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L’Etica d’Aristotele tradotta in volgare da Nicola Anglico
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del testo, passo imprescindibile per futuri sviluppi di questa ricerca, insieme a
un’indagine sul possibile testo di partenza, la quale getterebbe luce anche sulla
genesi del volgare. Proviamo tuttavia a tirare le somme.
L’Etica tradotta da Nicola Anglico appartiene a quel contingente di opere
ignorate dalla letteratura o perché offuscate dalla presenza di alter ego maggiormente celebri o perché meno considerate dalla critica del tempo. Nonostante già
Marchesi avesse individuato ben due testimoni dell’opera, questa viene citata
esclusivamente in relazione al suo esemplare di pregio, la cui notorietà è legata al
nome di Gian Marco Cinico e la cui portata culturale è stata riconosciuta da critici
del calibro di Croce e Gentile. Dalla nostra ricognizione emerge che il testo è
tramandato da quattro esemplari, due risalenti al XIV secolo, due al XV; due
conservati a Venezia, uno conservato a Roma, uno a Napoli. Il codice romano e
quello napoletano assegnano il volgarizzamento a Nicola Anglico e il secondo di
questi ultimi due è una copia di dedica realizzata in pieno periodo aragonese,
mentre l’opera originale – giusti i riferimenti contenuti nei documenti d’archivio – potrebbe essere stata redatta nella Napoli angioina, dove è tutt’altro che
inusuale trovare opere in volgare toscano.
Accettando che l’autore citato nei manoscritti coincida proprio con il traduttore operante alla corte degli Angiò (cf. §3), la storia di questo testo sembra
dispiegarsi attraverso il suo testimone più noto, elemento tangibile della continuità culturale tra le due dominazioni che si avvicendano nel regno di Napoli:
l’Etica di Anglico si configurerebbe pertanto come un’opera redatta sotto re
Roberto o poco più tardi e copiata durante il regno di Ferrante d’Aragona, in base
a un meccanismo di produzione e copia dei codici in più esemplari, che ha come
fine ultimo quello di arricchire le biblioteche pubbliche e private. Sebbene non vi
siano dati certi che questo volgarizzamento sia stato scritto in età angioina, la
testimonianza dei due manoscritti trecenteschi non consente in ogni caso di
collocarne la composizione molto al di là di quel periodo. Il nostro testo si
inserirebbe all’interno del risveglio della classicità e andrebbe di pari passo con
l’interesse di re Roberto per gli scritti di filosofia: è proprio la silloge Dicta et
opiniones philosophorum attribuita all’angioino (cf. n. 31) ad essere stata considerata dalla critica «un documento non trascurabile della conoscenza della Nicomachea nel sec. XIV» (Mancini 1904, 365), constatazione che concorda con la datazione dei due codici più antichi.
Una seconda possibilità è che il nome di Anglico si riferisca non al volgarizzatore ma all’autore della fonte latina (forse Nicola di Ockham? cf. §3) e che dunque
l’artefice dell’antigrafo sia un anonimo toscano. Per quanto ammaliante, l’idea
che Anglico possa aver compiuto il lavoro nella Napoli del XIV secolo mostra un
elemento di debolezza: resta infatti da approfondire come e perché questi traduca
direttamente in toscano. Sicuramente il ruolo del toscano all’interno della corte
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angioina e i pilastri mossi da Sabatini (1975, cf. § 4) sono basi ineccepibili da cui
partire; va tuttavia tenuto in conto che dei volgarizzamenti prodotti a Napoli il
nostro sarebbe l’unico a partire da subito e integralmente in toscano.
Ipotesi da dimostrare a parte, il dato che continua a confermarsi in maniera
netta con questa ricerca è la linea dal fiorentino al veneto, che segna la storia dei
testi scientifico-filosofici del periodo.
Riguardo ai rapporti di dipendenza o di copia, in attesa della collazione
integrale e dell’indagine sulla possibile fonte, non si possono delineare tesi di
alcun genere. In ogni caso tali rapporti non vanno esclusi a priori, così come va
mantenuta la possibilità che alcuni di questi codici copiassero da un antigrafo
comune, verosimilmente vicino al testimone conservato a Napoli, da cui si sarebbero generate le copie che, prima di approdare nelle biblioteche di Roma e
Venezia, hanno viaggiato lungo le direttrici tirrenica e adriatica, vettori classici
della diffusione culturale nel nostro paese sin dalla poesia delle origini.
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