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Relazione Tortura

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Relazione Tortura
"Insieme contro la tortura"
INCONTRO CON ETTORE MASINA
Dalla nascita della Rete Radiè Resch negli anni ’60, la nostra associazione si è sempre
dedicata all’ascolto delle realtà più oppresse e sofferenti, in particolare dell’America
Latina, ma anche della Palestina. Il nome Radiè Resch è proprio quello di una bambina
palestinese, morta a tre anni, in una grotta di Betlemme, ma non 2000 anni fa, bensì
poco più di 40. Da allora la nostra Rete, tramite l’autotassazione di tutti coloro che vi
aderiscono, ha organizzato numerose operazioni di sostegno per coloro che in questi
paesi necessitavano non solo si un supporto materiale, ma soprattutto morale. Per
tornare all’America Latina, nel Brasile, di quell’epoca, si torturava moltissimo e così
siamo andati avanti nel nostro impegno, che esiste tuttora, e che io ho lasciato quattro
anni fa per lasciare posto ai giovani ed il prossimo sarà il XIX° convegno nazionale. In
seguito ho accettato la candidatura alla Camera e sono stato eletto deputato, sono stato
poi sempre nella commissione esteri della Camera, quindi ho viaggiato anche per questo.
Con mia grande gioia, tutti i gruppi della Camera, conoscendo l’attività che già facevo,
hanno voluto nominarmi Presidente del Comitato per i diritti umani e lì mi sono
incontrato più che mai con la tortura. Comincio a proporre una domanda: dove comincia
la tortura? Che cosa può essere definito tortura? Probabilmente voi avete già dato delle
risposte, io vi dico la mia; non è così facile dare una risposta, perché se un padre
manesco ogni tanto molla una sberla al figlio, se è maschio, con una ragazza comincia ad
essere ancora più complicato, è un torturatore o no? Io credo che dipenda dall’animo
con cui viene dato e dall’intensità della sberla. Io ricordo di essere stato in una casa
dove c’era la famiglia che andando al mare aveva portato una colf con una bambinetta,
colf che dava una sberla a sua figlia che era perfettamente beata, mentre il bambino dei
padroni di casa, ogni volta che passava vicino a suo padre si riparava con la mano come
per ripararsi da una sberla che non aveva mai ricevuto; perché esiste in realtà una
violenza fantasmatica, cioè non espressa ma convenuta, che i bambini sentono. Allora,
forse un padre non è un torturatore, però già il carabiniere o il poliziotto che prende un
clandestino per strada ,che si mette seduto stravaccato su un tavolo della stazione dei
carabinieri, e quello gli molla una sberla per dirgli di stare dritto, qui già siamo davanti
ad un fenomeno ancora più forte perché qui già comincia ad esserci un disprezzo per la
persona umana, un diniego della nobiltà e della dignità della persona umana.
Ho provato a pensare quale potrebbe essere la definizione di tortura: secondo me
potrebbe essere la definizione di sofferenza fisica o psichica inflitta con intenzione e in
maniera appropriata, per vincerne la resistenza o convincerla dei propri supposti reati o
per schiacciarla e privarla della propria dignità. Io insisto soprattutto sulle sofferenze
psichiche perché possono essere grandi quanto le sofferenze fisiche, anzi talvolta anche
più gravi. Per tornare all’esempio del padre, l’umiliazione inflitta in pubblico può essere
ben più grave di uno schiaffo. Mi ricordo che da mio padre avrei preferito ricevere uno
schiaffo piuttosto che mi dicesse di mettermi in ginocchio e chiedere scusa , soprattutto
se tutto ciò succedeva in pubblico. Pensate, ci sono delle terribili foto degli ebrei
tedeschi negli anni dopo il 1934, dopo l’avvento di Hitler, costretti con uno spazzolino
da denti a lavare le strade di Berlino. Dunque un lavoro che non è lavoro. Ridurre delle
persone ad un lavoro che non è un lavoro, a fare delle cose insensate,è ridurle alla
pazzia. Ecco, questa forma di umiliazione psichica, secondo me, è più grave di
un’umiliazione fisica. E ce ne sono tanti altri. Ho visto recentemente il filmato di un
giovane che è stato in Palestina, a un posto di blocco in cui un soldato israeliano,
mentre perquisisce degli adulti ,vede una bambina che ha in braccio stretta una
bambola, e pensa che ci sia dentro una bomba o qualcosa del genere, la prende e la fa a
pezzi. Questa bambina scoppia in un pianto dirottissimo. Io sono convinto che questa è
stata una tortura che quella bambina porterà dentro di sè tutta la sua vita. Ci sono
anche delle torture che sono soltanto fisiche, perché non comportano una sofferenza
impressa alla carne, nel senso pieno della parola: non sono un’ustione, non una frustata,
non sono una puntura. Pensate alle deprivazioni sensoriali che sono adoperate molto
nella tortura. Vi faccio un esempio più recente: il caso del trasporto aereo dei talebani o
dei presunti appartenenti ad Al Qaeda dall’Afganistan a Cuba. Minimo un volo di 20 ore
e un massimo di 28 ore. Queste persone sono state private dell’udito con dei tamponi
che sono stati applicati alle orecchie, privati della vista per mezzo di cappucci, sono
state imbavagliate per non poter minimamente parlare tra di loro, sono stati incatenati
mani e piedi e quindi costretti all’immobilità assoluta per tutte le ore del viaggio e per
chi viaggia in aereo sa che non potersi muovere per tre ore è già una forma,diciamo
ridendo, di tortura; fatto per così tanto tempo diventa una vera tortura; incatenati mani
e piedi e costretti, e qui non so se già con intento voluto, incomincia già la
degradazione come ,perdere il controllo degli sfinteri; è chiaro che una persona che è
costretta a stare ferma 20-28 ore in un aereo incatenata, senza potersi muovere, si orina
addosso e si defeca addosso che è, per un adulto, una forma di degradazione terribile:
qui c’è tutto un tentativo di non cedere. Questa è una forma di violenza psichica
gravissima, secondo me. Non solo, ma poi ingabbiati in gabbie di 2 metri x 2, aperte alle
intemperie con un tetto di metallo che si arroventa al sole dei Carabi, e se fa vento, si
prenderanno il vento, se cominceranno i monsoni saranno schiacciati dai monsoni , già
sono soggetti a forma di tortura psicofisica, che è quella dell’illuminazione continua a
giorno di queste loro gabbie, che provoca per loro la perdita del ciclo vitale fisiologico,
importante per la salute di una persona normale, che è quella del ciclo luce/oscurità.
Nessuno ha ancora toccato queste persone con un bastone, con frustate, con un laccio
messo apposta per provocare una cancrena, però già siamo in presenza, secondo me, di
una tortura e di una grave ingiustizia.
Io poi dividerei le torture in tre categorie: La 1^ è quella che si direbbe praticata al
semplice scopo, diciamo semplice, di infliggere dolore. Questa è stata purtroppo una
cosa che ci portiamo dietro da secoli, secoli bui, terribili, non solo i secoli
dell’Inquisizione, ma i secoli precedenti; diffusi in tutto il mondo: in Asia, in Africa,
dovunque è stata praticata l’idea che il nemico che non moriva in battaglia dovesse
morire soffrendo particolarmente. Non starò qui a raccontarvi delle cose così. Mi
limiterò a dirvi che durante il periodo in cui ho fatto il Presidente della Commissione per
i Diritti Umani, ho dovuto occuparmi in continuazione di questo problema; una volta mi
è arrivato un dossier di fotografie a colori di quello che succedeva nel Kashmir, non mi
ricordo più, perché ho rimosso, se era il Kashmir indiano o pachistano, ciò che è certo, è
che quelle fotografie mi obbligarono ad andare alla toilette per vomitare per non so
quanto. Vi farò grazia di quello che avevo visto lì, ma per dire come questo regna ancora
nel mondo. Come per esempio nei grandi conflitti africani e soprattutto nelle zone in cui
ci sono dei bambini soldati, che quando vengono in genere presi dagli adulti vengono
torturati, torturati molto! Privati delle braccia: domandano se vogliono restare col
braccio destro o col braccio sinistro e l’altro glielo tagliano! Badate, non è una guerra
tribale, è una guerra sorretta da quella multinazionale dei brillanti che si è specializzata
in quelle bellissime pubblicità sui giornali femminili che dicono che un brillante è per
tutta la vita, anche l’amputazione di un braccio di un bambino vale per tutta la vita! C’è
poi un 2° tipo di tortura, naturalmente ci sono molte forme intermedie, io vi do una
suddivisione molto rozza. E’ finalizzata all’Intelligence, cioè ad ottenere dal prigioniero
informazioni che si suppone che egli nasconda. Questa tortura che sembrava ormai
rimossa dal mondo civile, in realtà sta riprendendo piede. E’ facile da capire anche il
perché: pensate, dobbiamo sempre riportare i fatti poi da noi: se un gruppo di banditi
sequestrasse vostro padre malato di cuore, che ha bisogno assoluto di medicine per
continuare a vivere, e questo gruppo di banditi non si fa vivo, e voi pensate che possa
morire da un momento all’altro nelle mani di questa gente se non viene subito liberato,
e la forza pubblica catturasse uno di questi supposti sequestratori e questo
sequestratore non volesse parlare, io credo che ciascuno di noi si troverebbe di fronte al
problema nel dire: Ma perché questo non parla? Può salvare mio padre, allora io lo
faccio parlare a tutti i costi! Moltiplicate questo dramma familiare per quelle che
possono essere le politiche nazionali, si arriva al punto che un famoso giornalista
americano, non uno stupido, uno dei più famosi giornalisti americani che si chiama
Jonathan Halt, ha difeso su uno dei giornali più importanti del mondo, “NeewsWeek nel
novembre scorso, l’uso della tortura moderata. Quando sentite la parola moderata
sputate per terra, perché è una pura ipocrisia, è come quando si dice una guerra
umanitaria, una guerra moderata; sono dei fenomeni che sfuggono a qualsiasi
moderazione perché sono un conflitto di irrazionalità, allora ha detto che, in fondo,
l’uso della tortura per prevenire attacchi terroristici potrebbe essere concesso e anzi
appare razionale. Perché razionale, perché, diceva lui, si tratta di salvare 2mila – 3 mila
persone – centomila demolendone una. Già, demolendo una persona ma per salvarne
due: Però voi capite che a questo punto l’idea diventa norma solo per i giorni buoni, in
cui non accade niente che ci chiama a decidere in prima persona. Ora questo fenomeno
è particolarmente importante, perché l’idea delle modeste pressioni fisiche in nome di
questa ragione, in nome della salvezza per altri, è stata più volte autorizzata, per
esempio dalla corte suprema israeliana e badate, quando si dice Corte Suprema
Israeliana, si dice un organo particolarmente importante, perché Israele è uno stato che
a 54 anni dalla sua fondazione non ha ancora una costituzione. Si è dato una carta
fondamentale, in cui si esprimono i valori dello Stato. Quindi tutto si svolge attraverso la
giurisprudenza, che in ultima istanza è la giurisprudenza della Corte Suprema Israeliana.
Ora, questa corte ha approvato in alcuni casi la tecnica delle moderate pressioni fisiche,
le quali, per quello che riguarda lo Shin Bet, che è il servizio segreto interno, applica
soprattutto due tecniche: non dare da bere al prigioniero, non lasciarlo dormire o la
tecnica dello scuotimento, che vuol dire che il prigioniero viene fatto alzare, poi si
prende un soldato particolarmente forzuto che lo afferra per gli avambracci e lo scuote
fortemente per alcuni secondi. La nostra scatola cranica non è completamente piena del
cervello e quindi il cervello così scosso provoca innanzitutto uno svenimento, un
obnubilamento della ragione al prigioniero che poi è fortemente prostrato e può così
essere costretto a parlare, ma provoca molto spesso delle lesioni cerebrali. Ad esempio
alcune lesioni portano alle paralisi, a gravi problemi circolatori ed in un certo numero di
casi al decesso della vittima. Ecco, vorrei farvi notare che al contrario di quel che si può
pensare non è questa che viene definita anche strumentazione dura per la ricerca della
verità, non è questa la tortura più diffusa. Uno crede, anche per i ricordi che ci
portiamo dentro, come quelli dell’Inquisizione, crede che questa sia la forma di tortura
più importante nel mondo e che venga soprattutto utilizzata per avere informazioni sulla
possibile attività terroristica di un gruppo o comunque sulle forze del cosiddetto nemico.
Invece questo non avviene, la tortura più diffusa al mondo è quella a scopo terroristico.
Da un lato si cerca di spezzare per sempre la volontà di ribellione e magari la possibile
ribellione di un dissidente, e dall’altra si cerca di creare nel tessuto collettivo, il terrore
per un inferno che tante volte pare più spaventoso tanto più clandestino o al contrario è
vistosamente esibito con i corpi dei torturati. Quindi una tortura di tipo manifesto, una
tortura che ti dice stai attento a quello che fai, è meglio che non ti occupi di certi
problemi. Vi faccio due esempi di questo uso della tortura: quello della clandestinità,
della tortura clandestina. Se voi leggete un libro molto bello, molto più bello dei miei,
forse oggi difficile da trovarsi, di Arthur Koestler, un grande scrittore russo, in realtà
mistilingue, “Buio a mezzogiorno” pubblicato da Mondatori, che ebbe un successo
strepitoso, voi vedrete come la tortura fu adoperata da Stalin, con quelle che venivano
chiamate le grandi purghe, cioè le grandi repressioni di quelli che Stalin considerava i
suoi dissidenti e che spesso invece erano i suoi fedeli compagni, fedeli comunisti, fu
adoperata per terrorizzare la gente: cioè alcune persone sparivano, ma correva la voce
fatta girare da persone importanti, che venivano bestialmente torturate nelle segrete
della G.P.U. che era la polizia politica dell’Urss. Invece, quanto all’esibizione, io sono
stato nel Salvador dove ho raccolto i racconti di tantissime persone. Qui vigeva l’uso
terroristico dello stupro; cioè i soldati che stavano in una zona di operazioni, o che si
avvicinavano ad una zona di operazioni, erano invitati a stuprare il maggior numero
possibile di donne, con una pressione psicologica fortissima. In caso contrario venivano
schedati come omosessuali. Questo stupro delle donne non era solo uno sfogo di libidine
come si poteva pensare, ma era proprio il tentativo di creare tortura e terrore. Non
solo, lungo le strade del Salvador venivano esposti i cadaveri delle persone macellate, e
quando dico macellate intendo dire macellate: cioè persone a cui era stata strappata
tutta la pelle della schiena; persone a cui erano poi state tagliate le orecchie, poi gli
occhi, i testicoli, se erano maschi, infilati poi nella gola in maniera che morissero
soffocati. Vi ho portato il racconto di una donna cilena torturata che vive in Italia, che
parla anche nelle scuole, e che racconta in un capitolo di un libro che deve vedere la
luce, che si intitola “Venire alla luce” e che sarà pubblicato dai Medici contro la tortura,
in cui dice chiaramente che venne liberata dopo aver subito torture di tutti i tipi: quindi
per seminare il terrore. Quando poi si parla di una tortura data non solo ai dissidenti, ma
ai possibili dissidenti, come in Brasile, in cui ci sono stati degli anni terribili, dal ‘69 al
’75, in cui venivano presi e torturati non solo gli antifascisti, i resistenti contro la
dittatura militare, ma anche delle persone che potevano essere pericolose per il regime
come possibili dirigenti popolari. Per esempio l’operaio che sapeva suonare molto bene
la chitarra e quindi durante la pausa mensa i suoi colleghi si mettevano attorno a lui,
oppure che sapeva raccontare bene le barzellette, o ancora che gestiva una birreria
aziendale, veniva preso, portato in carcere, torturato e restituito alla società riciclato
dalla tortura, cioè un uomo che da quel momento in poi tendeva a nascondersi e non
volere rapporti con nessuno perché sapeva di essere in pericolo mortale. Vorrei dirvi
adesso qualcosa sul fatto che la tortura ha una sua scienza e un suo progresso e che è
capace di rielaborare alcune usanza antichissime. Per esempio nel Vietnam del Sud,
quelli dell’esercito collaborazionista, e gli Americani che stavano con loro, reiventarono
qualcosa che i francesi avevano già inventato, ma che era stata antecedentemente dei
cinesi i quali avevano conquistato il Vietnam, e cioè le gabbie di tigre: delle fosse alte
tre metri in cui venivano calati i prigionieri, le donne quasi sempre dopo essere state
violentate, venivano calate intere famiglie che rimanevano lì anche per due – tre anni. Il
cibo veniva buttato di sotto: qualche volta si gridava “scostatevi” si buttava della calce
per pulire le immondizie; qualche volta si buttava dell’acqua perché questi restassero un
po’ puliti. Questa gente, io ho conosciuto una persona, rimaneva 3 – 4 anche 5 anni in
queste fosse. Quella che io ho conosciuto era una dirigente vietnamita, con la quale
mentre stavo parlando di tutta altra cosa ha cominciato a singhiozzare a dirotto e non è
stata più capace di continuare il colloquio con me. Allora la sua segretaria mi ha
spiegato quello che succedeva. Ogni tanto questa donna si sentiva ancora nella gabbia di
tigre benché fosse una persona, un dirigente, arrivata ad un’alta carica all’interno dello
Stato Vietnamita. Altre volte invece, la tortura è molto elaborata, cioè si è servita degli
psicofarmaci. In Cile ne fu usato particolarmente uno di cui non ricordo il nome, che
provocava nel torturato un senso di morte: una terribile oppressione al petto, un
rallentamento dei battiti cardiaci, una sensazione di soffocamento. Questo terribile
senso di morte veniva usato per poi incastrare questa povera persona dicendole
“possiamo non farti morire, ma tu ci devi dire i nomi dei tuoi amici”. Qualcuno
naturalmente parlava. In realtà molte di queste tecniche sono state insegnate fino a
pochissimi mesi fa, e temo che, visto l’andazzo che corre, saranno riprese, in una vera e
propria università che si chiama “Escuela de las Americas”. E’ un’istituzione del
Pentagono che fino al 1989 era situata nella zona internazionale del canale di Panama.
Adesso è stata portata a Fort Briggs in Georgia. Da questa escuelas sono passati dai
60.000 agli 80.000 ufficiali o graduati degli eserciti dell’America Latina, dei dittatori,
naturalmente. Ci sono passati dei nomi celebri a cominciare da Noriega, di cui forse
avete sentito parlare: era il dittatore di Panama, poi gli Stati Uniti sono andati a
prenderlo con una guerra di cui nessuno ha mai parlato, e lo hanno messo in carcere
dopo averlo foraggiato per tanti anni; dai generali Videla e Gualtieri che sono stati i
dittatori dell’Argentina dei desaparecidos; del dittatore boliviano Banzer, ai notori
assassini di Mons. Romero. Tutte queste persone sono passate di lì per imparare dagli
americani quelle tecniche chiamate “ contra insurgencias”, contro le guerre civili,
contro le ribellioni, e lì sono state insegnate anche delle tecniche tra le più distruttive.
Io non ho voglia di raccontarvi tutto quello che ho conosciuto io, però una cosa ve la
voglio raccontare perché mi ha molto impressionato. Quando sono andato in Uruguay ho
potuto parlare con una persona che la Rete Radiè Resch ha aiutato…..Quando sono
arrivato all’aeroporto di Montevideo con mia moglie, ho avuto la gioia indescrivibile di
trovare tanta gente che con uno striscione, mi aspettava. Ci hanno offerto poi una cena
in cui c’era una persona la quale mi ha detto “ voi mi avete liberato dalla camera della
tortura con tante lettere di protesta, ed avete creato nei torturatori, che si vantavano
di essere occidentali e cristiani, un complesso di paura che io morissi, da essere portato
in un carcere in cui non mi hanno più toccato”. Questo Josè Pacella mi raccontò cosa gli
avevano fatto e cioè una tortura che viene abbastanza normalmente usata in molte parti
del mondo, che viene chiamata “il sommergibile”. Si tratta di una vasca piena di
escrementi, di vomito, di orina ed acqua in cui il malcapitato viene costretto, tuffato
con la testa in modo che beva fino a quando non sta per morire. Allora lo tirano su per i
capelli, poi lo rituffano più e più volte. A questo punto, dice “io ero veramente
distrutto, non ne potevo più, quando i miei torturatori, improvvisamente se ne sono
andati ed è entrato un anziano signore che mi ha preso un braccio. In quel momento ero
ridotto come un bambino terrorizzato: mi ha avvolto in una coperta ed ha cominciato a
dire: ma perché fanno queste cose, ma sono delle bestie,ma povera persona! Ma povero
Josè, guarda, adesso ti cullo io, dormi un pochino! Dopo 10 minuti, quando mi ero
completamente rilassato, mi ha fatto cadere per terra e mi ha detto: tu sei uno sporco
comunista e da qui non uscirai mai vivo. A quel punto sono impazzito letteralmente e
sono impazzito per giorni e giorni; non so più cosa ho fatto per uno o due mesi”. Questo
uomo era scosso continuamente da un tremito, fumava 100-150 sigarette al giorno ed
era un uomo distrutto. Lo hanno portato in una clinica specializzata, è stato anche a
casa nostra, ma non so se è stato recuperato; di notte urlava, perché molto spesso il
torturato non riesce più a recuperare, salvo in alcuni casi. Bene, mi rimane solo da dirvi
che tra noi abbiamo torturatori e torturati . Ora questo sembra impossibile a dirsi ,ma
come ci dice il Telefono Azzurro, ci sono molti casi di sadismo genitoriale nei confronti
dei bambini, molti, moltissimi, molto più di quello che crediamo, ed abbiamo anche i
torturatori . Quando noi mandiamo in giro i nostri soldati, non sempre il tricolore che
sventola è un tricolore pulito. In Somalia certissimamente i nostri soldati hanno
torturato dei somali, ci sono le foto. Benché siano stati mandati tutti assolti o con
condanne leggerissime , queste sono delle persone che da un momento all’altro possono
rifare quello che hanno fatto. Questo vuol dire che quello che c’è di sadismo in loro non
è più controllato e continuerà ad essere proiettato fuori da loro. Non dimentichiamo che
loro stessi, i torturatori, spesso sono vittime di sadismi che hanno subito, ma questo non
può frenare il nostro problema di bloccarli prima che facciano ad altri ciò che hanno
fatto a loro. Certamente nelle carceri italiane ci sono delle torture.. Ogni anno il
Consiglio d’Europa manda una visita accurata alle carceri ed ai posti di polizia, e tutti gli
anni conclude che l’Italia non è seconda ad altri stati europei nell’ambito delle torture
“legali”. Chi di voi ha visto i fatti di Genova sa come tante persone sono state tenute
per ore e giorni in piedi con le mani dietro la schiena: è una forma di tortura. Abbiamo
poi molti torturati, e questo è un fatto molto meno noto. Mi ricordo quando sono arrivati
dal Cile tanti profughi cileni, ma anche brasiliani, era facile che la gente si accorgesse
perché c’era un gran movimento di solidarietà, e che ci si occupasse dei loro casi.
Adesso abbiamo una quantità di torturati, come vi dirà il medico che verrà a parlare con
voi del gruppo di Amnesty; vi dirà quanti ne abbiamo anche a Roma e sono tantissimi.
Sono persone che per lo più vengono dall’Africa e da quei regimi africani, compresi
quelli di cui siamo molto amici, come la Tunisia e che approdano alla ricerca di una
salvezza, che non trovano. Non la trovano anche perché con le leggi che abbiamo, e
particolarmente con l’ultima che va in discussione questi giorni al Parlamento, noi
respingiamo coloro che si dichiarano profughi politici, senza aver verificato fino in fondo
la loro denuncia. Fino in fondo vuol dire concedergli spazio, vuol dire un periodo di
tempo, aiutarli a parlare perché chi arriva qui non sa l’italiano: invece molto spesso non
c’è una funzione di interpretariato che possa aiutare questa gente. Vivono con un
sussidio miserabile e quindi sono costretti a trovarsi un lavoro molto spesso altrettanto
miserabile, al nero, soggetti quindi a frustrazioni che alimentano ancora le frustrazioni
che si portano dentro. Sono lavori che sono esposti a rischio, assolutamente non adatti.
Chi ha avuto la spina dorsale stirata perché è stato appeso per ore ed ore ai polsi, non
può stare in piedi davanti a un lavello a lavare nel retrobottega di una pizzeria piatti e
posate. Molto spesso, per quanto riguarda le donne, c’è la mancanza di condizioni
minime di tutela davanti ad una adolescenza che è stata così gravemente danneggiata;
così le giovani donne sono le più rovinate da questo punto di vista. Queste persone
vivono in maniera tragica: la nostra amica cilena (Gina Gatti) scrive: “Per più di
vent’anni ho avuto i torturatori dentro di me.” Cioè, lei che era stata violentata,
bruciata, soggetta ad una finta fucilazione, e così via ... sentiva i torturatori che erano
diventati un solo corpo con lei, Che fare? Voi avete scelto la strada giusta. Il
ricongiungimento ad Amnesty e soprattutto i medici di Amnesty , mi pare fondamentale:
mi pare sia la strada maestra per chi si pone il problema di che fare. Da questo punto di
vista, adottare non solo un diritto umano, ma adottare i medici che si occupano di
questo, sarebbe già una cosa importantissima. Aiutarli perché i torturati hanno bisogno
di persone attorno a loro che abbiano un volto amico, parole amiche, un gesto di
tenerezza. Noi abbiamo commesso un errore fondamentale quando avevamo i cileni ed i
brasiliani tra noi; non li facevamo parlare della tortura perché pensavamo che avrebbero
avuto fastidio a raccontarci queste cose, nel ripercorrere queste loro vicende; ora questi
medici, come vi racconterà chi verrà a parlare con voi, ci dicono che è necessario farli
parlare. Soltanto se riescono a rovesciare questa enorme grumo di dolore che hanno in
sè su orecchie amiche, allora cominciano sul serio ad uscire dalla camera della tortura.
Vorrei dirvi che se noi ci mettiamo insieme a questi medici, ad Amnesty che fa un lavoro
politico molto importante e su cui il discorso dovrebbe essere ampliato, noi potremmo
agire e costringere finalmente il Parlamento Italiano a definire una legge. Pensate che
nella legislazione italiana non abbiamo il reato di tortura. Chi viene torturato, al
massimo può chiedere che il suo torturatore venga perseguito per lesioni o lesioni gravi:
che in Italia ci sia questo reato, che sia punito e in base a questo siano riesaminate le
responsabilità dei nostri militari e via dicendo. Guardate, davanti a noi ci sono delle
possibilità di fare delle cose bellissime. Mi ricordo un colloquio con una dottoressa che si
chiama Genopke la quale ha una clinica a Copenaghen per i torturati, per il loro
recupero psicologico. Parlare con questa donna, una donna piccola di sessanta anni
molto vivace, con degli occhi bellissimi e una capacità materna di ascoltare questi
torturati, mi ha fatto pensare come sia possibile per loro ritrovare la strada, la strada
della serenità. Mi ha raccontato un episodio bellissimo: Una forma non di tortura
intenzionale, ma di accanimento poliziesco, diciamo così nel Salvador, era quello di
legare le mani ai cosiddetti prigionieri politici, non per i polsi, ma per i pollici dietro la
schiena. Questi pollici, vengono legati con la corda di nylon che penetra, blocca i vasi
sanguigni e molto spesso, in un grandissimo numero di casi, questi pollici devono essere
amputati per cancrena. Perdere un pollice significa perdere metà della mano perché
vuol dire perdere l’unico dito opponibile e quindi è una lesione particolarmente grave.
La Genopke mi ha detto che al termine della terapia, ha visto la faccia di un contadino
che aveva subito questa amputazione, che si illuminava: “Dottoressa lei pensa che
questo pollice mi rispunterà?”
Ora, se volete, fatemi pure delle domande.
G. Lodoli: Uno spunto di riflessione: Tante volte pensiamo alla pena di morte come
avvenuta solo nel passato. In realtà tutte queste cose sono all’interno di noi, nel nostro
patrimonio genetico abbiamo tutte le caratteristiche del torturatore che del torturato.
Quindi, ad un certo momento, è la civiltà che va avanti, che ci fa rigettare certe cose, è
la nostra parte buona che ha il sopravvento sulla parte cattiva. La tortura avviene
sempre perché c’è una grande fetta dell’opinione pubblica che la vuole. Ci sono i
torturatori ma c’è la gente che lo vuole, tutti gli altri lo accettano. Le gabbie di
Guantanamo ci sono perché gli americani le vogliono; altrimenti non ci sarebbero.
Pensate a quello che facevano i nazisti: gran parte dell’opinione pubblica approvava il
regime. Pensate a quello che succede in Italia: gli episodi di tortura che per fortuna non
sono molto frequenti, sono ampiamente tollerati e approvati da gran parte dell’opinione
pubblica. Le guardie che pestano i detenuti, che pestano gli extra-comunitari o il
ladruncolo, sono approvate e per strada vengono applaudite molto spesso. Un ultimo
esempio: l’altro ieri in Florida sono state assolte due guardie che facevano parte di un
gruppo che nel ’99 avevano pestato e ammazzato un detenuto nel braccio della morte.
Per condannare a morte una persona negli Stati Uniti bastano otto mesi, per un
poveraccio. Queste guardie sono state processate soltanto nel 2002. Il processo è
cominciato il 14 gennaio e sono state assolte un mese dopo. La difesa delle guardie ha
sostenuto che loro non sapevano che il detenuto aveva progettato di rivelare ai
giornalisti le torture che erano state inflitte ad altri cinque detenuti che erano stati
trasferiti in quel carcere dopo aver avuto problemi con le guardie nel carcere da cui
provenivano. Loro questo non lo sapevano, e il detenuto si era provocato quelle lesioni
buttandosi contro le sbarre della cella e buttandosi dal lettino per terra. L’autopsia
rilevava che quest’uomo aveva 22 costole fratturate con 30 fratture, lo sterno
fratturato, l’osso del collo, una spalla, il naso, per non parlare di numerose lesione
interne che avevano causato la morte per emorragia interna ed esterna. Oltre a ciò
aveva delle impronte delle scarpe delle guardie sullo stomaco, sul collo, sulla schiena.
Secondo la difesa, queste lesioni erano state procurate come già detto. Tra l’altro
questo detenuto aveva una gran voglia di vivere e si teneva fisicamente esercitato
facendo ginnastica in cella pure essendo in segregazione nel braccio della morte. Bene,
pensate che per processare queste guardie non si riusciva a trovare una giuria: sono
state intervistate 1200 persone e non si è riusciti a trovarne 6 idonee a questo processo.
Alla fine il giudice ha autorizzato come membri della giuria, i dipendenti
dell’amministrazione carceraria.
M. Fotia: Un altro aspetto su cui forse si può lavorare è il perché si usi una forma di
lesione della volontà di una persona a tal punto da ridurla a un essere fallito che non è
più capace di controllare se stesso. Nel caso delle donne, di controllare il proprio corpo.
Il controllo del corpo per le donne è un fatto fondamentale, di mente, e qui possiamo
andare alle streghe del seicento. Ogni volta che le donne hanno tirato fuori, in maniera
molto consapevole, questo controllo del loro corpo, si sono trovate di fronte ad elementi
che definisco di tortura. L’elemento dignità è un filo conduttore che abbiamo ritrovato
spesso: vi esorto a non pensare che quanto succede in America a proposito delle carceri,
non succede oggi da noi. Ciò mi viene dall’esperienza di volontariato da me fatta nel
carcere di Rebibbia, in cui sono venuta a conoscenza di episodi di violenze incredibili
nei confronti dei più poveri, dei più disarmati. Chi è sottoposto a tortura sono gli extracomunitari, il ladruncolo. Per le detenute politiche, la mia esperienza devo dire che è
stata un’esperienza protetta, perché loro avevano gli strumenti per proteggersi dalle
torture e nessuno osava mettere le mani addosso a gente che poteva contattare, dopo
una certa epoca sia chiaro, giornalisti ecc. Mi raccontavano però delle loro compagne
extra-comunitarie, ladre, gente che andava dentro per piccolo spaccio e che invece
aveva subito violenze. Secondo me, questo nesso fra la lesione della dignità umana e la
violenza, che nessuno si debba sentire chiamato fuori da queste cose, vi potrebbe
sollecitare a qualche riflessione. Io vi sollecito a non essere ipocriti, a riconoscere che
alle volte fingiamo di non sapere, oppure addirittura cediamo al mito della sicurezza.
M. Sanfelice: L’indignazione dell’Opinione Pubblica è fondamentale: non si può avere un
atteggiamento neutro di fronte a queste cose, altrimenti si finisce in realtà a dare un
appoggio. Un intervento si impone, e da parte di voi ragazzi ci deve essere un’opinione a
riguardo.
Cecilia: Si è parlato di cose che anche in passato ci sono sempre state, dalla situazione
delle donne all’uso della tortura. Però mi chiedo perché, come nel caso di Safiya, si è
scelto di parlare di una unica vicenda.
E. Masina: E’ una domanda molto importante: In queste realtà si sceglie un caso perché
lo si conosce. Il caso di Safiya parte così: L’Associazione per i diritti umani della Nigeria
manda una grande quantità di lettere. Una di queste lettere ,in Italia, la riceve “Il Paese
delle donne” che è un sito che evidenzia la notizia più del Corriere Della Sera. Arriva poi
ad un consigliere comunale di Napoli di Rifondazione Comunista, che immediatamente
presenta un’interpellanza al Consiglio Comunale per vedere se non si possa dare
solidarietà a questa donna. Il fatto allora viene conosciuto di più e preso in mano anche
da “Nessuno tocchi Caino” e da un giornalista arabo che scrive a me. Successivamente,
partiamo questo giornalista ed io, la Comunità di S. Egidio e “Nessuno tocchi Caino”, i
quali con Grazia Francescano dei Verdi, vengono ricevuti dall’Ambasciatore Nigeriano, il
quale si rimangia quello che il governo nigeriano aveva detto due giorni prima, cioè di
non poter intervenire nelle leggi di uno Stato federale. Ammette invece che non
avrebbero mai permesso che la vicenda di Safiya andasse avanti. Quindi c’è già un primo
contatto. A questo punto però l’opinione pubblica italiana non si è ancora mossa, anche
se poi sarà quella che si muoverà di più nel mondo. Si muovono a questo punto anche i
più grandi giornali. Qui c’è stata una risposta prontissima dell’opinione pubblica anche
grazie all’intervento di reti televisive Rai, Mediaste e perfino Telepadania. In ogni caso,
escludendo i media, siamo riusciti ad inviare oltre 250.000 firme di protesta
all’Ambasciata Nigeriana. Siamo ora certi che Safiya non sarà uccisa. Purtroppo in Sudan
è già scoppiato un altro caso simile che poi è rientrato, vedendo ciò che era già successo
in Nigeria. C’è peraltro da temere per la gravità di certe commutazioni di pena. La
pressione sull’Ambasciata Nigeriana è opportuno che continui. Ricordo sempre quanto la
mia vita sia cambiata da quando ho deciso di dare retta a Martin Luther King quando
diceva “Vi prego di indignarvi ogni giorno”. Quando ci indigniamo, un caso ci appartiene
e dobbiamo trattarlo anche noi: nessuno farà ciò che noi potremmo fare. Dobbiamo
essere consapevoli che questo problema è nostro. Dobbiamo quindi lavorare per un caso
singolo ma tenendo presente che dobbiamo mobilitare l’attenzione della gente ed essere
capaci di dare vita ad un movimento, anche perché si tratta di fare politica: si salda così
la nostra necessità di persone attente ai diritti e persone che sanno che i diritti si
conquistano solo politicamente e culturalmente. Amnesty fa questo lavoro splendido
perché unisce queste tendenze e ricordate che ha certamente maggior bisogno di
giovani. Vi prego molto di occuparvene.
Valentina: Il problema principale è proprio l’incapacità di avere rispetto della persona
umana. Nonostante ciò che abbiamo saputo sui talebani, non si può non ammettere che
sono comunque persone e come tali devono essere rispettati. E’ per il rispetto della
persona umana che dobbiamo batterci in ogni situazione.
Maria: E’ giusto a come pensare di rimediare dopo, come nel caso dei torturati, ma mi
chiedo come intervenire prima e mi sembra che nella tradizione e nella cultura Afgana e
orientale in genere, tutto ciò non abbia un’importanza fondamentale. Come introdurre
in queste culture il concetto per il rispetto per l’uomo è la prima cosa.
M. Fotia: Non è giusto pensare che queste mancanze siano solo delle altre culture, anche
l’Occidente ha le sue colpe. Pensiamo all’Olocausto, che non ha riguardato un paese
lontano, ma la cultura di un grande popolo molto colto. L’atteggiamento integralista è
purtroppo comune a qualsiasi religione monoteista.
Valeria: In base ad una terribile esperienza di violenza subita da mio padre per motivi
banali, la cosa che più mi spaventa è l’indifferenza della gente che per paura non
interviene.
E. Masina: Se il mondo è così, ma è bello anche perché è duttile, noi possiamo cambiarlo.
Se vogliamo, mettendoci insieme, possiamo creare dei movimenti di opinione pubblica,
vincere la paura con la solidarietà, con l’indignazione e creare qualcosa di diverso.
Possiamo e dobbiamo muoverci anche da soli. Dobbiamo saperci modificare, non
rinunciando ad una parte importante del nostro essere. L’etica è un dato fondamentale,
non possiamo buttarla via come qualcosa che ci dà fastidio. Ciò che è importante
dell’etica è soprattutto nei giorni difficili non in quelli buoni.
Claudia: Dopo l’11 settembre si parla tanto di guerra, delle tragedie dell’attualità. Poi,
improvvisamente, non se ne parla più, tutto scompare. Anche di Safyia ora lo sanno
tutti, ma in futuro tutto tornerà nel buio come è sempre stato. Su questo sono
pessimista.
E. Masina : Bush ha detto che non sapremo più la verità, che questa guerra segreta sarà
combattuta senza notizie. Si farà sempre più fatica ad avere notizie e dovremo affidarci
a dei modi alternativi: internet, ma soprattutto il passaparola. E’ importante che noi
non rinunciamo alla ricerca della verità: dobbiamo solamente attivarla in forme nuove.
Roma,19 febbraio 2002
Ettore Masina, giornalista e scrittore, è stato inviato speciale de “Il Giorno” e dei
telegiornale della RAI, curando rubriche di successo quali Gulliver e Spazio Sette.
Dal 1983 al 1992 è stato deputato al Parlamento e nella decima legislatura i gruppi
parlamentari lo hanno scelto concordemente a presiedere il Comitato per i diritti
umani. Fra le sue opere ricordiamo: Il ferro e il miele ( Rusconi 1984),Un inverno al
Sud : Cile, Vietnam, Sudafrica, Palestina (Marietti 1992), Diario di un cattolico
errante (Gamberetti,1997), Il volo del passero (San Paolo 1997) oltre al recentissimo
romanzo in uscita ad aprile nelle librerie “Il Vincere” (San Paolo 2002)
INCONTRO CON MAURO GENTILINI
Oggi vi vorrei parlare partendo dalla mia conoscenza con Dario Canale. Originario della
Calabria, fece studi classici, si laureò in filosofia e cominciò ad insegnare in un paesino
della provincia di Sassari, dove insegnò per qualche anno; poi, dato il suo impegno
politico e soprattutto l’interesse per le vicende dell’America Latina, che in quegli anni
’60 – ’70 era praticamente soggiogata da dittature militari che opprimevano un po’ tutti
i paesi a cominciare dal Brasile, Dario pensò bene di trasferirvisi per insegnare italiano
nelle scuole italiane (e ce ne sono tante), chiedendo ed ottenendo poi anche la
cittadinanza. Si impegnò politicamente e fu subito preso di mira dalle autorità e dai
militari. La persecuzione degli oppositori politici era fortissima. Dario fu imprigionato
una prima volta e poi una seconda, e per tute e due le volte torturato orrendamente. La
tortura che si dava agli oppositori politici nelle carceri brasiliane era molto forte e molto
efficace, perché si sa che la tortura non è fatta solo per estorcere confessioni, o il nome
di altri, dei complici, ma anche per terrorizzare la popolazione. Anche semplicemente
col fatto che i torturati, una volta rilasciati, se rilasciati, se riescono a salvarsi, possono
testimoniare alla gente, parenti e conoscenti, con la loro presenza, anche se non
parlano e non dicono niente, che si può sapere, attraverso la loro esperienza, che cosa
può capitare a chi si oppone. Dario non parlò sotto tortura, nessuna delle due volte che
fu torturato, tanto è che i suoi amici e compagni di lotta politica gliene furono
enormemente grati. Io ho parlato con quei suoi amici che erano stati a loro volta
imprigionati, ma evidentemente la polizia militare non aveva abbastanza elementi per
incriminarli, per cui subirono maltrattamenti, ma si salvarono perché Dario tacque i loro
nomi. Questi li ho conosciuti a Roma perché molti si rifugiarono in Italia e non solo
brasiliani. Loro mi raccontarono che dovevano tutto al silenzio di Dario. Dario fu, alla
fine, espulso dal Brasile perché ad un certo punto si preferì sbarazzarsi di quelli con la
doppia cittadinanza e mandarli nella patria di origine. Arrivò in Italia nel ’79 e subito si
dette da fare, e fu allora che io lo conobbi insieme ad Ettore Masina, in occasione di una
iniziativa per l’Amnistia in Brasile ai prigionieri politici. Dovete sapere che nelle
dittature sudamericane quando si cominciava a parlare di Amnistia era l’inizio della fine
per la dittatura. Questo tentativo di amnistia fu appoggiato dalla popolazione brasiliana
e da organismi molto importanti come la Commissione Episcopale, l’Associazione degli
Avvocati e così via. Ci fecero sapere, noi ci occupavamo anche di fare campagne qui,
che sarebbe stata opportuna una campagna in Italia per sostenere dall’esterno questa
amnistia. Dario Canale, insieme a noi, ci si buttò a capofitto. Organizzò delle cose in
maniera veramente egregia, insieme alla Fondazione Lelio Basso, all’epoca ancora vivo,
e insieme riuscirono a fare davvero parecchio. Senza falsa modestia, riuscimmo a
mandare alle autorità brasiliane, una quantità enorme di cartoline appositamente
predisposte, telegrammi, lettere di protesta per chiedere che venisse concessa questa
amnistia. Alla fine l’amnistia fu data e fu infatti il principio della fine della dittatura e il
ripristino in Brasile delle libertà democratiche. Anche se ancora oggi possiamo dire che
le libertà democratiche in quel paese sono piuttosto sulla carta: è una democrazia più
formale che sostanziale. Insomma c’è ancora molta lotta politica da fare per arrivare,
per esempio, alla riforma agraria. Pensate infatti che in Brasile non c’è ancora mai stata
una riforma agraria. Comandano i latifondisti, comandano sul Parlamento perché
riescono a far eleggere o i membri delle loro famiglie o addirittura i loro tirapiedi. Per
proseguire con la breve biografia di Dario Canale, finita questa campagna se ne
incominciò subito un'altra per consentire il ritorno in patria, finanziariamente, dei
brasiliani che, esiliati in Italia, volevano ripartire con le loro famiglie. Forse sapete che
nella rete radiè resch, chiamiamo operazioni le nostre iniziative. Finanziammo
l’operazione ritorno, che ebbe molto successo, tramite l’autotassazione. Tutte queste
operazioni che riusciamo a fare, sono più di quaranta, quasi tutte in America Latina o in
Palestina, ci consentono di raccogliere complessivamente in tutta Italia circa
seicentocinquanta milioni di lire e sono quasi tutte di provenienza dai bilanci famigliari.
In quella occasione invece io riuscii con degli amici, ad avere finanziamenti extra anche
dai sindacati delle varie confederazioni e perfino dai partiti. Finito questo impegno,
Dario, non poté rientrare in Brasile, a differenza di altri esiliati brasiliani perché su di lui
c’erano delle documentazioni che lo presentavano addirittura come un pericoloso
sovversivo, anche finita la dittatura. Ebbe quindi dei problemi, rinunciò, e pensò di
andare in Mozambico, che si era appena liberato dal regime coloniale portoghese, per
insegnare ai ragazzi della giungla. Sennonché, quando i mozambicani seppero che aveva
una laurea in filosofia, gli dissero che avrebbe dovuto insegnare all’Università della
capitale Maputu. Per forza di cose dovette accettare, nonostante il livello delle
università africane fosse non molto elevato. Si trovò a poter fare un lavoro di formazione
politica molto buono. Io rimasi sempre in contatto epistolare con lui. Ci scrivemmo
parecchio. In seguito, dopo due anni in Mozambico, decise di fare un’esperienze
nell’Europa dell’Est. Va detto che lui in Brasile si era iscritto ad uno dei due piccoli
partiti comunisti brasiliani esistenti all’epoca. Uno era di ispirazione sovietica, l’altro
maoista. Perciò lui aveva delle credenziali per andare a lavorare nell’Europa dell’Est, ed
andò nella Germania dell’Est. Mi scrisse subito appena arrivato là,che c’era un
socialismo reale che non gli dispiaceva affatto per quel po’ di prerogative e cose buone
del sistema socialismo reale, mentre io gli scrissi elencandogli tutti i punti contrari.
Venne poi più di una volta in Italia, sia per i parenti che per ritrovare gli amici. Tutte le
volte che è venuto a Roma l’ho ospitato a casa mia con mia moglie, anche lei aderente
alla Rete Radiè Resch dal 1966. Si era sposato con una tedesca e lavorava a Lipsia come
bibliotecario nella biblioteca nazionale della città; studiò il tedesco e lo imparò
benissimo dato che era piuttosto cervellone, era portato per le lingue. Diventò un
esperto bibliofilo. Poi arrivò il patatrac. Questo patatrac, nel caso di Dario, ha due
motivazioni. Lui era una delle vittime della tortura che non amava parlare della sua
esperienza, per motivi di ritegno ed altri più profondi. I comunisti dei paesi latinoamericani avevano una visione del comunismo, della rivoluzione di ottobre e di tutto il
resto molto, molto diversa da quella che avevamo noi europei, perché vivano in
condizioni precarie sia come vita sociale, sia come possibilità di avere una vita decente
dal punto di vista economico e sociale. Ebbero poi l’esperienza rovinosa delle dittature
militari. Dario cominciò ad aprire gli occhi su questo punto proprio quando era in
Germania Est. Io ho poi parlato con la moglie, Cristiane Canale una tedesca molto in
gamba, giornalista e scrittrice, esperta di Tina Modotti (la fotografa della rivoluzione
messicana), che mi raccontò successivamente, dopo la morte di Dario, che lui, negli
ultimi tempi, stava veramente male: il sistema sovietico stava andando a rotoli, oltre
tutti i problemi insoluti che lui aveva al suo interno. Ricordo che, in una delle sue
venute a Roma, mi parlò del film “Urla del silenzio” un film di alcuni anni fa, che
raccontava l’esperienza del comunismo nella Cambogia di Pol Pot e dei Khmer rossi, che
era stata un’esperienza tremenda di stragi. Dario mi chiese se avevo visto il film. Gli
dissi di sì, e lui mi disse che ne era rimasto sconvolto. I Latino-americani di fede
comunista, vedevano il comunismo come la panacea, un modo di risolvere tutti i mali
del mondo senza perciò l’occhio critico, che invece noi europei, occidentali, siamo in
grado di esercitare verso qualsiasi dottrina o ideologia. Per questo era difficile per lui,
come per gli altri latino-americani capire. Quando Dario cominciò a rendersi conto,
cominciò la sua grande crisi, come mi raccontò la vedova, e il momento culminante fu la
strage di Piazza Tien An Men a Pechino. Anche se siete giovanissimi, avrete forse sentito
parlare di quel tentativo di democratizzare il regime comunista cinese che fu soffocato,
purtroppo, ai danni soprattutto dei giovani, degli studenti che avevano preso parte a
questa specie di rivolta. Addirittura, quando Dario seppe della strage, andò a casa e per
la rabbia, lui che era un tipo estremamente mite, si mise a sfasciare la mobilia dalla
disperazione. Si iscrisse in quel tempo ad una associazione per la “Morte dolce” nella
Germania Occidentale. Cristiane non sapeva ovviamente niente, non sapeva neanche di
questi gravi problemi psicologici. Dario decise di farla finita nel giugno 1989, aveva 48
anni. Disse alla moglie, che andava a Stoccarda per un convegno di scrittori tedeschi
delle due Germanie, che erano ancora separate, le disse dunque che l’avrebbe raggiunta
dopo qualche giorno. La raggiunse effettivamente a Stoccarda ma prese alloggio in un
albergo e in base alle istruzioni che aveva ricevuto da questa associazione, prese del
veleno e si suicidò. Non prima di avere scritto tre lettere: una alla moglie, per spiegarle
e chiedere perdono; una alla polizia per spiegare e liberare i gestori dell’albergo da ogni
responsabilità e infine la terza al direttore dell’albergo per chiedere scusa del disturbo
che aveva arrecato. Quando seppi della sua morte rimasi colpito, esterrefatto, non mi
spiegavo il perché. Poi seppi da un altro degli amici italo-brasiliani qui a Roma, che
aveva avuto modo di parlare al telefono con Cristiane, che si era trattato effettivamente
di suicidio. Per Dario hanno sicuramente influito due elementi: quello della ferita che
rimane dentro per chi è passato per la tortura e non è riuscito a venirne veramente fuori
e poi la delusione politica, dell’idea per la quale aveva vissuto, lottato, subito il
carcere, la tortura, la persecuzione, l’espulsione dal paese che amava, l’impossibilità di
tornarvi, con il crollo del mondo comunista, crollò dentro anche lui. Io credo, però, che
la componente psicologica relativa alla tortura subita sia stata determinante, come
anche in altri casi. Non so se già Ettore Masina vi ha parlato del caso di un frate
brasiliano: Frei Tito De Alençao. Caso tipico ed esemplare delle vittime della tortura che
non riescono a riprendere una vita normale e che concludono con il suicidio la loro
esistenza. Ricordate Primo Levi. Dario non parlava mai delle sue drammatiche
esperienza, ma una volta mi confidò che nelle pause fra le varie sedute di tortura,
riusciva a parlare anche con i suoi torturatori. Da questo punto di vista era veramente
testardo: cercava di convincere politicamente anche i suoi torturatori ……. che
sbagliavano, che erano al servizio di un regime oppressivo che era contro l’uomo ecc.
Bene, quando noi sapemmo della morte, di questa morte, noi della Rete dicemmo agli
amici medici della sezione di Amnesty che già da un po’ si stavano occupando della
tortura, se non fosse il caso di prendere qualche iniziativa per ricordare Dario e
soprattutto di lavorare a favore delle vittime sopravvissute qui in Italia. Abbiamo
organizzato il convegno in Campidoglio proprio per testimoniare l’esistenza della
tortura, trovandoci noi Italiani più indietro rispetto ad altre nazioni europee. In
Germania e in Danimarca esistevano infatti già allora dei centri per il recupero psicofisico dei torturati. L’intento di questi medici nostri amici contro la tortura era proprio
quello di creare un centro anche in Italia. Inizialmente si parlò di Bologna, ma l’idea
tramontò, tanto più che gran parte dei rifugiati passa per Roma. Quindi fu più utile
scegliere Roma. In occasione di quel convegno, che riuscì molto bene, con la
partecipazione di numerose autorità, non solo del Comune di Roma, nacque l’operazione
Dario Canale. Pensammo cioè di dare un primo finanziamento di 20.000.000. Partì qui
l’intervento di questi medici, prima esiguo, ma che col tempo è aumentato. Ci siamo poi
fermati per qualche anno perché gli amici medici ebbero delle difficoltà: si scontrarono
cioè non con l’ostilità, ma con la freddezza delle vittime stesse della tortura. Era
indubbiamente difficile sapere chi avesse subito torture. Noi siamo naturalmente in
contatto con il Centro Italiano Rifugiati e con altri centri che accolgono gli immigrati,
per poter avere informazioni per entrare in contatto con loro. Piano piano invece la cosa
si è sciolta, perché queste persone hanno capito che questi medici erano dalla loro parte
e che volevano lavorare per il loro bene, per il loro benessere. Non erano
semplicemente dei funzionari della Commissione del Ministero degli Interni che deve
stabilire chi può avere lo status di rifugiato politico e chi no. Capirono quindi che i
medici lavoravano gratuitamente, in maniera volontaristica, ed iniziarono ad affluire ai
loro ambulatori ed hanno parlato. Come Rete Radiè Resch abbiamo ripreso a finanziare
l’operazione sei anni fa, e attualmente diamo un contributo che, sembrerà ridicolo, ma
è tanto per chi non ha nulla, di 16.000.000 annui. I medici poi, dandosi da fare e
documentando la loro attività, sono riusciti ultimamente ad avere un finanziamento
dall’ONU di 54.000.000.che però rischia di essere una-tantum. I medici sono molto grati
alla Rete Radiè Resch perché possono contare di sicuro su questi soldi che servono ad
alleggerire le difficoltà di sopravvivenza di queste persone e spesso dei loro familiari:
tessere bus, alloggi, tessere telefoniche, spesa per gli interpreti ecc. adesso sono partiti
anche degli incontri di psico-terapia di gruppo, proprio grazie agli interpreti. Si può far
sì che la seduta sia veramente efficace. Pensiamo di continuare questa operazione nel
tempo finché gli amici medici non saranno riusciti a trovare altre forme di finanziamento
o autofinanziarsi. Fanno delle collette continue tra la gente che conoscono e tra loro
stessi, mettendo spesso mano al loro portafogli. Io li rispetto e li ammiro enormemente.
Li ho conosciuti da vicino, quattro dei quali sono amici che conosco da tanto tempo,
perché alcuni facevano già parte della Rete Radiè Resch, ma poi ho potuto capire
quanto il loro sacrificio di tempo e non solo, sia notevole. Vi ho portato una cassetta de
“Il fatto” di E. Biagi, che sapete quanto riesce efficacemente a trattare i problemi in
una decina di minuti. Questa trasmissione è dedicata alla tortura e risale ormai al
dicembre del 2000: le cose, purtroppo, non sono cambiate affatto.
Roma, 19/03/2002
Il dott. Mauro Gentilini è il coordinatore del gruppo di Roma dell’Associazione di
solidarietà Internazionale Rete Radiè Resch
INCONTRO CON GIANNI VAUDO
So che avete già avuto un incontro sulla tortura. Altre volte sono andato nelle scuole
molto tranquillo dicendomi “tanto non sanno nulla, me la cavo comunque”. Adesso sono
invece un po’ preoccupato perché qui forse sapete un po’ più. Allora vi dico chi sono io:
sono semplicemente una persona che ha fatto attivismo con Amnesty International per
12 anni circa, cioè come volontario in un gruppo, senza fare grandi carriere; poi essendo
psicologo, ho iniziato ad
interessarmi ad un gruppo di medici che si chiama “Medici
contro la tortura”, iscritti ad Amnesty, che hanno iniziato a occuparsi di questo
problema. Dieci anni fa hanno fatto una bellissima iniziativa nella Sala della
Protomoteca, in Campidoglio, invitando dei relatori molto importanti a livello
internazionale,
che parlassero delle conseguenze della tortura sul piano medico e
psicologico. Da lì è nato un po’ il mio interesse… Ho lasciato il mio attivismo con
Amnesty e sto cercando di lavorare con persone che hanno subito maltrattamenti. In
Italia, da qualche anno, sono nati gruppi di psicologi per l’emergenza: per esempio
terremoti, attentati. Ci sono delle persone che hanno dei problemi a breve, medio o
lungo termine di recupero, e quindi ci sono degli psicologi che decidono di andare a
lavorare nell’emergenza. Io faccio parte di un gruppo che si chiama” Psicologi per i
popoli”, che è diffuso su tutto il territorio nazionale. L’area di interesse è sempre
quella. Sono qui in triplice veste: Amnesty, che è il primo interesse, di Medici contro la
tortura e faccio parte di Psicologi per i popoli. Detto questo, mi piacerebbe molto se
cominciaste voi, perché vengano fuori le cose che veramente vi interessano, che non
avete già sentito,ed anche perché ciò che conta, quando sarete usciti dal Liceo, è il
piccolo bagaglio che vi porterete dentro: può essere quella parola detta da Ettore
Masina, da Giuseppe Lodoli, quella idea o emozione che vi hanno dato altri, oppure
niente, è possibile.
Karin: Come si può incominciare una terapia, come si può far dire alla gente ciò che ha
passato?
Vaudo: Scriviamo alla lavagna le parole chiave delle vostre domande: terapia.
Matteo:Chi ha avuto la personalità completamente distrutta, può essere recuperato o lo
choc è permanente?
Vaudo: Scriviamo: recupero.
Valentina: Come si può aiutare le perone che sono state torturate a denunciare, perché
agiscano nel sociale ed aiutino gli altri?
Vaudo: Scriviamo: aiuto e denuncia.
Elisa: Come si pone il terapeuta a livello umano?
Vaudo: Scriviamo: emozioni del terapeuta.
Sabina: Quali sono i danni psicologi più gravi? Come si deve porre lo psicologo, come
reagisce il paziente?
Vaudo: Comincio a rispondervi. Per fortuna, si, si può recuperare la persona. Matteo è
stato molto radicale. Ci sono dei gradi diversi, ed allora parlare di distruzione della
personalità non è appropriato. Ricordo un articolo della fondatrice del centro danese di
Copenaghen, in cui è stato realizzato uno dei primi centri su indicazione di Amnesty
per il recupero dei torturati già 30-40 anni fa. Sono forse ancora all’avanguardia. Una
delle affermazioni forti che lei fa in questo articolo, riguarda il possibile recupero di
queste persone, non tutte e comunque, ma a pri gradi sicuramente si. Quindi c’è da
essere ottimisti, nel senso che l’uomo è per fortuna abbastanza plastico, per cui gli si
può lasciare una grossa impronta sopra, quella non si cancella, ma si può impedire che la
sua vita sia distrutta. La tortura non si dimentica, però l’importante è reimmetterla in
un sistema di vita, non accettare che la tortura devasti, annienti la propria vita e
personalità. Ecco, questa è una credenza che la persona che ha sofferto molto può
portare, e che va combattuta. Non bisogna accettare che la persona insista sul
messaggio che “tanto non c’è niente da fare”. Se si sta davanti ad uno psicologo vuol
dire che qualche speranza c’è. Approccio: in psicologia l’approccio non è unico, ci sono
varie correnti e modalità. Comunque un indirizzo generale è quello di dare una grande
accoglienza già con la persona che viene in terapia. L’approccio tradizionale della
psicoanalisi è da scartare con la persona torturata. Immaginate cos’è posizionarsi dietro
la persona che, essendo stata torturata, è stata bendata o incappucciata. Sarebbe
ripetere una situazione di non controllo che non va invece ripetuta. Bisogna fare qualche
piccola variazione: faccia a faccia con la persona e sicuramente non neutralità benevola
da parte del terapeuta, ma grande umanità, il comportarsi ed il reagire da essere
umano. E’ la cosa che tengo più a mente quando incontro una persona: restituirle una
reazione umana, proprio come correttivo di quello che ha vissuto, in cui la cosa più
grave è che è stata trattata disumanamente. Al suo dolore, le persone intorno, i
torturatori, hanno reagito disumanamente; quello è il punto. La cosa peggiore della
tortura è che tende alla disumanizzazione. Immaginate, sotto le peggiori torture, i
torturatori che ridono, prendono in giro. Da questo, bisogna passare ad una reazione
umana… Io, all’occorrenza,( so anche da altri psicologi, di una cosa che non si fa mai in
psicoterapia normale, trattandosi di altri problemi) posso anche comunicare in maniera
molto forte le mie emozioni, quando sento un racconto di quel tipo… Ci sono alcuni
psicologi che scelgono di comunicare il proprio dolore, la propria compartecipazione.
Sono convinto che questa modalità di reazione alla persona sia terapeutica, ho già
avuto dei riscontri. La cosa più grossa che perde il torturato è la fiducia nel mondo, nel
mondo sociale, nelle persone, ovviamente. Cercare di ridargli la fiducia, trasmettere
che il mondo non è tutto nero, ma anche grigio e perfino bianco, è il tentativo di
lavorare con le persone che hanno subito tali maltrattamenti. Ho parlato molto, ora
ditemi voi.
Matteo: Dopo quanto tempo le persone torturate riescono a tirare fuori ciò che hanno
vissuto?
Vaudo: Le persone sono molto restie e ne parlano malvolentieri, con serie difficoltà, ed
è logico. Io vedo una persona del Camerun da oltre sei mesi, ma a tuttora non mi dice
niente di ciò che gli è capitato, anche se io ne sono a conoscenza da altri referti medici.
Né io posso tante domande, perché non posso ricreare un contesto neppure lentamente
simile a quello della tortura, quando era sotto interrogatorio. Devo lasciare molto
spazio, devo dare stimoli senza andare troppo a fondo; appena trovo qualche ostacolo,
fermarmi. Senza contare quante volte queste persone che arrivano, hanno dovuto
raccontare la loro storia: Avvocati, per essere aiutati, per chiedere lo status di rifugiati,
devono passare una serie di iter, in cui hanno sicuramente raccontato la loro storia, in
maniera fredda, distaccata emotivamente, se no non avrebbero retto. Tutti noi
abbiamo, per fortuna, questi meccanismi di difesa, per cui stacchi le emozioni e
racconti a livello di testa quello che riesci a raccontare. Però, questo meccanismo di
difesa che è così strano, può diventare, nel tempo, l’ostacolo principale per riportare a
galla quelle emozioni, cioè la vita. Se la persona continua a tappare le sue emozioni, a
non voler parlare del suo trauma, quello continua a lavorargli dentro: mano a mano che
riacquista la capacità di parlarne, di dare voce alla sua sofferenza, questo lo aiuta
molto, comincia a ricollegarlo con il mondo. Solo dopo anni, a volte, riescono a parlare.
Inoltre queste persone, in Italia, non è che passano una vita tale per cui, come torturati,
hanno chi li coccola. Continuano a passare una serie di guai. Prima di tutto devono
essere differenziati dalla massa di extra-comunitari che ci troviamo intorno. Per
esempio, chi ti pulisce il vetro, chi incontri per strada in un gruppetto, non potresti mai
sapere: può essere una persona che ha subito torture, più o meno gravi. C’è una gamma
di cose terribili, dal pestaggio a cose inimmaginabili.
M. Sanfelice: E’ difficile farsi riconoscere lo status di rifugiato?
Vaudo: Questa domanda mi dà l’occasione di spiegare meglio cosa fanno i medici contro
la tortura. Loro visitano queste persone che ovviamente sono venute al centro sociale
per una serie di motivi: se c’è il sospetto di tortura, l’operatore dice “Guarda puoi farti
visitare da questi medici, i quali ti faranno un certificato che aggiungerai all’esame della
Commissione e che certificherà quello che troverà fisicamente”. Ciò aiuta sicuramente
la persona, la quale conclude quasi sempre la sua richiesta dicendo “ Se torno nel mio
paese sono a rischio di morte. Vi chiedo asilo politico”. Le preoccupazioni di queste
persone sono tante: nel quotidiano la loro vita non è semplice, a volte non sanno dove
andare a dormire, il presente non è facile. Tutto ciò che aiuta a dare tranquillità,
sicurezza e supporto alla persona, è indirettamente un grosso aiuto a chi ha subito
maltrattamenti. Se hai tanti problemi nel presente, puoi anche rivangare nel passato? Se
invece hai cibo e letto assicurati, o la telefonata, è diverso. I medici chiedono sempre:
la famiglia l’hai sentita? C’è chi risponde: “Non la posso sentire, se la chiamo
individuano la chiamata ed è peggio”. Altra sofferenza. Altri dicono:”No, da mesi,
perché non ho soldi”. Allora gli vengono dati dei soldi in modo da favorire questo primo
contatto. Voi capite quanto sollievo possa dare ad una persona contattare i propri cari.
Il nostro è un approccio multi variato. Adesso cominciato ad affiancarsi i fisioterapisti
perché tante volte vengono lamentati sintomi fisici che non ci sono, che non sono
giustificati da quello che hanno subito. Per cui tra fisioterapia e psicoterapia si cerca di
affrontare la questione per altre vie.
A. M. Cannas: Quante persone riescono a contattare Medici contro la tortura e di che
provenienza sono?
Vaudo: Sì certo, precisiamo che , Medici contro la tortura, non sorridete, è in realtà un
nucleo di quattro persone, con intorno altre che ruotano, per interventi specialistici:
Dentisti, Ginecologi, ecc. Sono peraltro personalità molto spiccate, ognuno con il suo
modo. Si tratta di uno psichiatra, di un internista, di n medico legale, e di un
epidemiologo, i quali riescono a fare un enorme lavoro. Le persone che arrivano da loro
sono pre-selezionate dall’operatore nei due punti di appoggio fondamentali: la Caritas di
via degli Astalli e la Casa Dei Diritti Sociali a via Giolitti, zona Termini. Lì ci sono
operatori che accolgono queste persone che arrivano: se si capisce che si tratta di
problemi legati alla tortura, vengono indirizzati a loro. Moltissimi sono i Curdi, sia
iracheni che turchi. Un grosso gruppo sono anche i sudanesi. Uno dei nostri problemi
fondamentali, in questi casi, è trovare un interprete, il quale non è solo interprete, ma
anche un mediatore culturale. Infatti non si tratta solo di tradurre, ma far capire quello
che appartiene ad aspetti o credenze popolari della loro cultura. Fare i mediatori
culturali non è facile. Si tratta di ragazzi giovani, che a loro volta hanno subito
maltrattamenti e che, in ogni caso, non sono certo venuti in vacanza in Italia. Sono
assistite circa duecento persone l’anno ma sono in costante aumento. Ora ci si accorge,
ma anni fa, questi medici hanno iniziato come persone di buona volontà, professionisti
di buona volontà, i quali, quando c’era un problema coinvolgevano altri colleghi. C’è poi
il paradosso di come funziona la psiche umana. E’ come se subire un trattamento che ti
ha disumanizzato, invece di far cadere la vergogna su chi l’ha fatto, fa cadere la
vergogna su di te. Per i torturati è così: il disonore della propria umanità ferita, è così
forte che si ha una sorta di pudore paradossale a tirarla fuori.
G. Lodoli: Ciò perché il torturato viene anche obbligato a cose che vanno contro i suoi
principi morali.
Vaudo: Sì, bisogna aiutarlo a combattere questi sensi di colpa, sostenerlo, riportarlo ad
una chiarezza di pensiero, perché non deve in alcun modo farsene un’ulteriore carico
emotivo. Sono condizioni di ansia elevatissime.
M. Sanfelice: Qual è la personalità del torturatore e come prevenire questi fatti e non
solo tentare di risolverli?
Vaudo: Secondo me avere questa risposta è impossibile, sarebbe la chiave per prevenire
il male umano. L’uomo è libero e se è libero, è previsto che possa fare il male …… è un
mio pensiero. Si diventa comunque torturatori attraverso lo stesso processo di
disumanizzazione. In certe situazioni forti, estreme, anche la persona più strutturata ed
equilibrata crolla. Il torturatore, è ovvio, ha anche una componente di sadismo enorme;
però ognuno di noi cosa sa di quanto sadismo ha dentro? Un altro aspetto riguarda certi
luoghi comuni, come l’idea che possono essere torturati solo i dissidenti politici, di alto
livello intellettuale, che la gente comune non sia interessata. Invece, purtroppo, la
tortura può riguardare tutti, sia persone con parenti coinvolti, sia etnie specifiche come
i curdi, vengono prese non per avere informazioni od altro, ma per restituirle ridotte a
stracci alla comunità, con il monito: “Vedete, siete dissidenti, vedete come vi
trattiamo, vedete che fine fate, vedete come siamo potenti, come possiamo ridurvi”.
Maria: L’uso di armi da guerra, usate anche per tortura, o le cosi dette armi “non letali”
sono prodotte o vendute anche da paesi europei, come è possibile?
Vaudo: L’Inghilterra è tra i maggiori costruttori dei famigerati manganelli elettrici. Sono
in effetti molto usati. C’è tutto un commercio sulle armi e strumenti di tortura. La
ragione di Stato e la realtà delle cose sono agli antipodi. Amnesty si muove e viene
anche incoraggiata da certe aree e forze politiche, ma poi è estremamente difficile
intervenire. Devono essere i singoli a muoversi, che in qualche modo costruiscono una
rete, per cui certe cose, legali o non legali, non siano più possibili. Fin quando questo
processo non avverrà, è un processo ideale … ma, se non è questo il male del mondo, o
parte del male del mondo, allora cos’è? Le persone devono raggiungere
un’autocoscienza e cercare tutti gli altri con cui si condivide un certo pensiero e
sostenerlo. Ognuno può fare nel suo piccolo, per la sua età, per quello che può. E deve
evitare il qualunquismo. Io non vedo altre possibilità.
G. Lodoli: Un altro approfondimento sarebbe quello che le peggiori violazioni dei diritti
umani vengono promosse da una minoranza, approvate spesso da una maggioranza,
tollerate da tutti gli altri. Tutta una nazione stava dietro al Nazismo. Tutti siamo
responsabili di quello che avviene.
Vaudo: Il manifesto di Amnesty contro la tortura, rappresentava vari visi di persone e si
diceva: può colpire chiunque di voi. La tortura cioè, come avviene in tanti Stati, può
essere rivolta contro chiunque, anche se di solito è rivolta alla popolazione adulta
maschile. Donne e bambini sono invece sottoposti più spesso, come nelle guerre etniche,
a stupri o abusi sessuali in genere. Senza contare il caso dei bambini-soldato della Sierra
Leone. Bambini dell’altra etnia costretti a combattere con una serie di cerimoniali, a
dieci anni o poco più. Si forma al disumano. Sono stati addestrati ad uccidere, e quando
l’incubo è finito la loro etnia non li rivuole più. Ci sono centri per il recupero di questi
ragazzi in vari paesi come Colombia, Uganda, Brasile ecc. Non è comunque facile
reinserirli nelle loro famiglie.
A.M.Cannas: Qual è il sostegno finanziario che Medici contro la tortura ha avuto finora?
Come è appoggiata l’Associazione?
Vaudo: La Chiesa Valdese dà dei soldi. Sono comunque ben accetti tutti i tipi di
contributo. L’Associazione ha avuto anche un piccolo contributo dalle Nazioni Unite, ma
si tratta ancora di finanziamenti molto saltuari che non permettono di estendersi e
organizzarsi meglio. Queste non sono cose che rendono, e quindi lascio a voi dedurre …..
Ora, con fatica, c’è una sede a via Agresti dalle parti della Cristoforo Colombo.
Oltre a salutarvi, vi ringrazio per il livello di ascolto, che è piuttosto raro. Vi invito a
conciliare, anche alla vostra età, le cose quotidiane e quelle più importanti: Trovare il
modo di assimilare anche le cose drammatiche, senza farsene travolgere.
Roma 5/03/2002
RELAZIONI DEL GRUPPO DI LAVORO
Il laboratorio che ho scelto di intraprendere, l’ho scelto fra tutti perché è quello più serio ed utile per
una formazione personale. In pochi mesi di lavoro con ragazzi più grandi e con una prof.ssa
preparata, ho conosciuto meglio cose di cui prima sapevo molto poco. Noi ragazzi abbiamo votato
per occuparci di un diritto fondamentale tra quelli esistenti: IL DIRITTO ALL’INTEGRITA’
FISICA, quindi ci siamo interessati alla tortura. In un secondo momento, ricorrendo a qualsiasi
fonte utile, ne abbiamo scoperto l’origine e lo sviluppo nel tempo. Non abbiamo mai avuto la
pretesa di risolvere da soli un problema che da sempre impegna molta gente, ma ci siamo solamente
uniti a loro, e credo che di questo ogni partecipante al corso debba sentirsi fiero. Non è stato
semplice esprimersi di fronte agli altri (essendo una delle più piccole), ma non mi sono mai pentita
di aver scelto questo laboratorio perché, vedendo poi i risultati, mi sono sentita molto gratificata.
Sono anche convinta del fatto che siamo riusciti a combinare qualcosa di utile (ad esempio abbiamo
cercato di evitare la lapidazione di una donna). Quello che mi piace di più è l’aver incontrato
ragazzi maturi che sanno esprimere veramente nel modo migliore quello che pensano e sono
convinti di poter fare qualcosa di buono! A questo punto bisogna anche riconoscere il lavoro (molto
duro) dell’organizzatrice che, con tutta la professionalità di questo mondo, ci ha permesso anche di
incontrare persone importanti; ad esempio Ettore Masina, noto giornalista e scrittore, che si occupa
da tempo del problema della tortura; il Dottor Gianni Vaudo, uno psicologo che si impegna ad
aiutare, anche con anni di sedute, persone che subiscono le violenze, ed il dott. Mauro Gentilini.
Tutti loro sono stati carinissimi con noi, ci hanno ascoltato e soprattutto ci hanno raccontato le loro
esperienze, rispondendo poi alle nostre domande. Delle tante cose che abbiamo fatto in questo
corso, quella che mi ha colpito di più è stata la lettura di un testo autobiografico di Gina Gatti, una
donna torturata insieme al marito negli anni ’70 in Cile. Lei, in questo testo, ha descritto molto
accuratamente la sua esperienza senza tralasciare i particolari più atroci. Molti dottori l’hanno
aiutata a rinascere ed a ritrovare la dignità e la fiducia negli altri. Io la stimo molto per averci
raccontato quello che ha passato, non so se io ci sarei mai riuscita! Per concludere, vorrei
consigliare ad ogni Preside di inserire un corso del genere nella propria scuola e consigliare ai
ragazzi di frequentarlo.
Valeria C. 1^AL
All’inizio del laboratorio ci è stato chiesto il perché della nostra scelta. Riflettendoci ora credo di
aver scelto questo laboratorio perché era l’unico che ci insegnava qualcosa sulla vita al di fuori della
scuola, l’unico che ci faceva affrontare la dura realtà di ciò che ci accade intorno. Abbiamo operato
la scelta di adottare un articolo della Dichiarazione Universale Dei Diritti Umani. A maggioranza di
voti è stato scelto l’articolo 5 contro la tortura. In seguito ci sono stati vari incontri riguardanti la
tortura: con Ettore Masina e Gianni Vaudo (quelli a cui sono stata presente), due persone che si
battono per delle persone così sfortunate. Purtroppo sulla tortura le persone non sono informate,
perché alla televisione o attraverso i mezzi di comunicazione, non se ne parla. Ma sfortunatamente,
c’è anche molta gente che non vuole essere informata, che chiude gli occhi al resto del mondo ed
alla realtà: anche se triste, la tortura e gli altri mali del mondo sono una realtà che ci circonda.
Questo laboratorio per me ha significato tanto. Ho capito di voler essere una di quelle persone che
agiscono attivamente per fare del bene a persone meno fortunate. Una cosa che mi ha colpito molto
è stata la raccolta di firme proposta dalla prof.ssa Cannas e la nostra partecipazione attiva. La
raccolta firme è stata a favore di Safyia, la ragazza nigeriana condannata alla lapidazione. Il fatto di
sapere che anche la mia firma ha contribuito alla sua assoluzione, mi ha dato tanto, perché ho capito
che, se tanta gente si unisce, c’è una speranza maggiore di combattere i mali del mondo. Ora
abbiamo organizzato una raccolta di fondi da destinare ai medici contro la tortura, in modo da
contribuire all’aiuto di persone tanto in difficoltà. Spero che questo laboratorio abbia aperto gli
occhi ad altri ragazzi come me, e che quindi abbia lasciato tanto, almeno così è stato per me.
Karin C. 1^AL
Ad inizio anno, tra le varie opzioni di laboratori che potevamo scegliere, io ricordo di aver optato
per “ADOTTARE UN DIRITTO UMANO” principalmente perché avevo intuito che, a differenza
degli altri, in questo laboratorio, oltre ad imparare nuove cose importanti per la mia cultura, avrei
potuto agire attivamente oltre le mura scolastiche e sentirmi soddisfatta per avere almeno tentato di
dare un piccolo contributo a chi si occupa di gravi problemi. Come prima cosa, abbiamo deciso di
adottare il diritto che riguarda la tortura. Ci siamo poi documentati sulla storia della tortura, i metodi
più usati anche ai giorni d’oggi, in quali zone del mondo è più praticata: ammetto che queste notizie
mi hanno lasciata perplessa. Non credevo proprio, ad esempio, che la tortura fosse così praticata e
soprattutto in paesi moderni e civilizzati come gli Stati Uniti, che reputavo fossero ben lontani da
problemi di questo tipo. Fino ad ora non sospettavo quasi per niente quanto fosse importante e
diffuso questo problema, raramente mi è capitato di sentire alcuni casi di torturati, e questo mi
lascia pensare che non siamo sufficientemente informati. Successivamente abbiamo avuto incontri
con persone che si occupano della tortura e che ci hanno potuto fornire testimonianze dal vivo che
hanno avuto con persone in passato torturate. Forse l’incontro che mi ha colpito di più è stato quello
con Ettore Masina: tra le tante informazioni che ci ha fornito, ci ha illustrato le varie tipologie di
tortura e raccontato alcune vicende di persone che ha incontrato nella sua vita che hanno subito
delle torture. Ho appreso quanto sia più forte per queste persone il dolore psicologico, perché è
difficile, anche dopo tanti anni, farsi aiutare da qualche professionista e far riaffiorare alla mente
quello che hanno passato. Per fare un esempio, un giorno abbiamo letto un racconto di Gina Gatti,
ex torturata cilena, in cui lei racconta come dopo la tortura era cambiata e non si riconosceva più e
quanto tempo è trascorso prima che lei capisse di avere bisogno di aiuto per riuscire a riportare a
gala la sua storia. Ora abbiamo raccolto dei fondi da dare all’Associazione Medici contro la Tortura
e parteciperemo alla tavola rotonda che si terrà l’8 maggio, poi il laboratorio finirà. Non so se
qualcuno di noi, compresa me, cercherà in futuro di fare volontariato o iscriversi a qualche
Associazione, ma per quanto mi riguarda non dimenticherò mai ciò che ho appreso e mi rimarrà
sempre impresso.
Roberta G. 1^AL
Prima di tutto perché ho scelto proprio questo corso: perché era l’unico un po’ diverso dagli altri,
quello in cui si parla di qualcosa che pensiamo di conoscere abbastanza, ma di cui in realtà sai ben
poco (e me ne accorgo sempre di più ogni martedì che passa), e poi, oltre a stare ad ascoltare due
ore alla settimana, puoi anche dare un piccolo contributo effettivo. Cosa mi ha colpito
maggiormente: sicuramente gli incontri con le persone che si occupano da anni di diritti umani che
ci sono venuti a trovare. L’incontro con lo psicologo di Medici contro la Tortura mi ha chiarito
perfettamente il lato di un percorso di un torturato, e cioè il recupero dopo la tortura, per il rientro in
società. Mi appassiono sempre molto alla sfera psichica delle varie situazioni e mi sono resa conto
che con questo tipo di persone, spesso l’esperienza o la preparazione che si può avere in materia,
non bastano perché ogni torturato ha avuto un vissuto diverso e ogni volta bisogna saper affrontare
il rapporto di conseguenza. Non occorre mostrare per forza le tue conoscenza in psichiatria, ma
soprattutto le tue conoscenza e appoggio come persona, amico, confidente. L’incontro con Ettore
Masina mi ha fatto capire che ciò che facciamo noi come gruppo scolastico è molto importante ma
minimo, paragonato al lavoro di una vita di un uomo che si è sempre dedicato a questa grande
piaga. Ma la cosa che mi ha stupito di più, positivamente, è che all’inizio di questo laboratorio non
pensavo che avremmo veramente organizzato addirittura una “colletta di istituto” e un dibattito su
questo tema. Insomma alla fine, sembriamo una vera “grande” organizzazione contro la tortura!
Laura S. 3^AL
All’inizio dell’anno, quando scelsi questo laboratorio, pensavo fosse solo un modo diverso per
passare due ore a scuola. Queste due ore, invece, si sono rivelate molto interessanti ed istruttive.
Qui non si sono fatti solamente discorsi e letture senza senso, che in futuro nessuno ricorderà, al
contrario. Prima di questo anno io conoscevo vagamente il significato di tortura, non ero in grado di
fare esempi, e la mia mente non riusciva a pensare a metodi di tortura così avanzati e pericolosi
quali sono quelli attuali. Ora, quasi a fine anno, ho chiaro non solo il significato di tortura, ma ho
anche in mente testimonianze, articoli, documenti e filmati. Questa esperienza è stata importante
perché mi ha permesso di capire che nel mondo ci sono situazioni che, per me, sono ancora difficili
da comprendere, mentalità completamente diversa dalla mia e fatti che avvengono quotidianamente
a mia insaputa. Mi ha anche fatto capire che oltre al mio piccolo mondo che conosco e in cui vedo
tutto tranquillo e pacifico, c’è tutto un grande mondo che è completamente lontano dalla pace e
dalla tranquillità. Durante questo anno abbiamo avuto diversi incontri con persone che vivono la
propria vita per aiutare i torturati e fermare i torturatori. Credo anche che l’idea di raccogliere fondi
da destinare a “Medici contro la Tortura” sia stata una ulteriore conferma che questo tempo passato
a scuola sia stato utilizzato bene e che il corso sia stato coinvolgente. Queste iniziative penso siano
molto utili anche perché non sono temi molto conosciuti tra i giovani. L’incontro per me più
interessante è stato quello con lo psicologo Gianni Vaudo. Mi è sembrato fondamentale capire come
queste persone riescano ad aiutare i torturati. Un altro momento per me toccante, è stata la lettura
della testimonianza di Gina Gatti.
Giorgia T. 3^AL
All’inizio dell’anno ho scelto di far parte del gruppo dei diritti umani perché ero sicura che le
esperienze che avrei fatto mi avrebbero spinto a battermi per i valori in cui credo. Ciò che mi ha
colpito maggiormente è stato vedere con quanta passione le persone si occupano di difendere i
diritti dei più deboli. Dei vari incontri che si sono svolti in classe, quello che ho apprezzato di più è
stato quello con lo psicologo Gianni Vaudo. Con semplicità ci ha spiegato quello che prova una
persona che si trova di fronte ad una scelta: o l’opportunità di uscire dallo stato d’animo di profonda
angoscia, anche se apportando ulteriore dolore a se stesso, oppure continuare a tenere tutto dentro.
Penso che questa esperienza mi aiuterà nella vita, perché mi ha reso più matura e mi ha mostrato le
tante facce della realtà, che anche se per noi può essere rosea, per altri può essere tremenda.
Elisa T. 3^AL
Inizialmente ho scelto di dedicarmi a questo corso per curiosità, ma quando sono entrato a far parte
del gruppo, le notizie che ho saputo mi hanno colpito moltissimo. Questo corso è molto ben riuscito
e il clima che si è creato tra di noi è stato molto caldo. Abbiamo lavorato insieme e, quello che più
conta, è stato scoprire in questi avvenimenti qualcosa che ci ha aperto gli occhi. L’ignoranza che ci
rende ciechi di avvenimenti che accadono ancora oggi sotto gli occhi di tutti ci ha fatto riflettere che
ciò avviene nell’indifferenza quasi totale.
Antonio C. 3^BL
Tra i laboratori proposti, questo è sicuramente il corso più interessante più coinvolgente. Segue un
progetto valido e meritevole che si pone come obiettivo quello di preoccuparsi e denunciare abusi e
violazione dei diritti umani che avvengono spesso a nostra insaputa, anche nei paesi che si
definiscono industrializzati. E’ stato un corso dinamico, ricco di spunti e di testimonianze, arricchito
dalla presenza di persone che hanno voluto farci partecipi delle loro esperienze personali,
comprendendo la serietà del nostro progetto. Il materiale a nostra disposizione è stato corposo,
anche se la mancanza di strutture nella scuola ha un po’ limitato il nostro raggio di azione; per
esempio, un eventuale postazione internet ci avrebbe permesso di accelerare i tempi e di lavorare
con maggiore immediatezza. L’aver avuto l’ attenzione di Amnesty International è per noi un
grande traguardo, perché significa essere riusciti a lasciare un segno, essere riusciti ad attirare
l’attenzione della più famosa, importante ed attiva organizzazione per la tutela dei diritti umani. Ora
attendiamo la tavola rotonda di fine corso, con la quale chiunque avrà la possibilità di conoscere il
nostro lavoro e di partecipare in prima persona al raggiungimento del nostro scopo: sensibilizzare le
coscienze su questo problema.
Alessandro V. 3^BL
All’inizio dell’anno ogni studente ha dovuto scegliere di quale laboratorio far parte ed io
ho deciso di partecipare a quello sui diritti umani. Nel corso delle due ore settimanali
abbiamo poi scelto il diritto da adottare, ed è stato scelto l’articolo relativo alla
tortura. Personalmente ho deciso di far parte di questo gruppo perché si parla di un
argomento attuale e perché forse insieme riusciremo a fare un piccolo passo verso la
costruzione di un mondo migliore. Ciò mi ha permesso di conoscere cose che non avrei
mai pensato, mi ha dato modo di sapere quanto sia grande la crudeltà umana e quanto
sia diffuso il sadismo nel mondo. Inoltre penso che sia stato un corso non solo istruttivo
ma che ci ha dato la possibilità di sapere cose tenute all’oscuro, molto bello perché
abbiamo avuto la possibilità di parlare con persone competenti come Ettore Masina,
Gianni Vaudo, Mauro Gentilini che ci hanno messo al corrente di ciò che sta succedendo
nel mondo e che ci hanno aiutato a trovare delle piccole strade che ci potrebbero
portare alla soluzione del problema. Per l’8 maggio abbiamo organizzato una tavola
rotonda che renderà partecipe chiunque voglia e se la senta di fare qualcosa per questo
problema. Riusciremo a trovare qualche soluzione? Noi ci proviamo, ed invitiamo a
partecipare tutti a questo incontro.
Giulia C. 4^AL
La tortura, più che un atto disumano, è purtroppo un profilo bestiale che l’uomo possiede da
sempre. Non riuscendo a ragionare, a trovare una soluzione per sfogare la sua ira, tende sempre a
scatenarsi contro il prossimo come un essere frustrato. Da sempre tutti sanno cosa sia la tortura o la
persecuzione, ma la maggior parte delle volte nessuno ha mai avuto il coraggio di alzare la testa e
gridare contro tanta sofferenza. Pensiamo, che sin dal Medioevo venivano bruciate vive le streghe e
gli eretici (anche se spesso non erano tali), data l’epoca, si potrebbero anche giustificare
comportamenti tanto atroci, l’uomo non aveva proprio il “lume” della ragione. Ma quando si arriva
discriminare, perseguitare, torturare, martoriare il prossimo e infine ucciderlo, per sopraffarlo, allora
sento proprio di dover fare qualcosa, anche se rimango nel mio piccolo, dove fortunatamente
insieme a me ci sono altri ragazzi pronti a muoversi contro questa arma antica che è la tortura.
Spero che anche altri ragazzi ed anche adulti prendano a cuore questo argomento e sentano, come
abbiamo fatto noi, il peso di tante vite in pericolo.
Cecilia S. 4^AL
Quando ho scelto questo corso come opzione di laboratorio,non mi aspettavo nulla di
concreto, anzi, non pensavo mai che saremmo arrivati addirittura ad una raccolta di
fondi per “medici contro la Tortura”. Ricordo di aver scelto questo laboratorio perché
non mi andava proprio a genio quello a cui assistevo: mi riferisco ai massacri in Terra
Santa, e perché speravo di saperne di più. Non che ora la situazione sia molto cambiata,
ma so che si può fare qualcosa per rimediare. Alla luce dei fatti, dopo i vari incontri,
riconosco che la situazione del rispetto dei diritti umani è disastrosa, inesistente. Grazie
a questo laboratorio ho capito anche che c’è la speranza di aiutare chi subisce queste
violazioni, anche se in piccolo. Mi sono divertita, mi sono incuriosita, mi sono informata,
e purtroppo mi sono resa conto che ciò che i media ci fanno sapere non è sempre “ tutta
la verità”. Quello che pensavo fosse un laboratorio in cui non si sarebbe fatto niente, si
è rivelato una gran cosa, interessante e soprattutto concreta. Posso dire di essere
pienamente soddisfatta della mia scelta.
Maria V. 4^AL
Ho scelto il laboratorio dei diritti umani perché ho sempre pensato che i diritti dell’uomo non
vengono mai presi veramente in considerazione. Inoltre vedendo gli ultimi avvenimenti, ho capito
che il diritto che viene maggiormente violato è il diritto alla vita, il diritto al rispetto dell’esistenza.
Affrontando soprattutto l’argomento relativo alla tortura, facendo ricerche, ascoltando varie
testimonianze, ho sviluppato le mie conoscenze che mi hanno portato ad un interesse maggiore
sull’argomento. Ovviamente sono cose toccanti che lasciano un segno e che ci convincono sempre
di più ad aiutare le persone che sono vittime della tortura e ad eliminare definitivamente questo
grande nemico.
Anna D.B. 4^AL
Mi sono accorto che questo corso mi ha dato uno stimolo solidale che non mancava nella mia vita,
ma non era espresso in modo evidente. Filmati e discussioni mi hanno portato ha riflettere sulle
conseguenze a cui possono condurre metodi distruttivi come la tortura, che non colpisce l’uomo
solo fisicamente, ma anche moralmente. Il corso è stato esauriente su questi argomenti e anche la
partecipazione di uomini che sono impegnati nelle campagne a favore dei diritti umani,mi ha colto
un po’ di sorpresa, perché non immaginavo un corso così completo. Un aspetto negativo (che non
interessa questo laboratorio) è stato nel vedere molte persone disinteressate e non colpite da queste
crude realtà che dovrebbero portare maggior coinvolgimento in tutti. Comunque un altro aspetto
positivo consiste nella raccolta di fondi per aiutare un’Associazione che appoggia i diritti umani.
Spero vivamente che questo nostro piccolo sforzo, possa servire a spezzare una catena di
indifferenza che deve essere spezzata dalla nostra volontà di aiutare il prossimo.
Andrea N. 4^CL
Amnesty International è l’organizzazione che più si occupa nel mondo della tutela dei diritti umani.
In tutta Italia si sono formati gruppi di lavoro frequentati da ragazzi che, assistiti da docenti e da
esperti in materia, hanno potuto approfondire le loro conoscenze dei diritti umani, che vengono
quotidianamente calpestati. Nella nostra scuola abbiamo deciso di adottare il diritto a non subire
violenze, il diritto a non essere torturati sia in guerra che in pace, sia per motivi politici che per
motivi sociali. L’intervento di Ettore Masina è stato veramente chiarificatore: ha sottolineato la
crudeltà dei metodi di tortura e gli effetti terribili sulla personalità delle persone, talmente fragili da
non essere in grado di rapportarsi più con il mondo esterno. Al giorno d’oggi la violenza è spesso
gratuita e colpisce soprattutto donne e minori.
Andrea P. 4^CL
Amnesty International tenta con tutti i mezzi possibili, dichiarazioni e contributi concreti, di
risolvere concretamente qualche caso, Noi come gruppo di giovani ci siamo avventurati, con l’aiuto
con alcuni esperti in materia, come Ettore Masina, in un percorso conosciuto in tutto il mondo per la
sua crudeltà: La Tortura. Abbiamo preso in considerazione anche il caso di Safyia. Molte sono le
donne torturate o imprigionate ingiustamente, solo perché hanno tentato di far valere i loro diritti.
La volontà e l’impegno di un gruppo di giovani non può evitare questa violenza, ma sicuramente
insieme ad Amnesty può dare il suo contributo.
Enrico S. 4^CL
Il corso da me frequentato ha avuto due fini fondamentali: quello di sensibilizzarci maggiormente
riguardo al problema tanto grave della tortura, e quello di informarci in modo approfondito di ciò
che concerne le varie sfaccettature di tale argomento (o diversi metodi di tortura impiegati in ogni
angolo del mondo, il reinserimento del torturato nella società, ecc.). Nonostante la delicatezza del
tema affrontato, grazie a vari incontri con esperti preparatissimi e validi esponenti di Associazioni
umanitarie come Amnesty International, tutto è stato affrontato in maniera semplice e costruttiva.
Con certezza, questo corso ha lasciato in me un segno indelebile tale quale alle cicatrici di uomini,
che per un ideale politico, per intolleranza religiosa o per altro ancora, sono stati torturati e privati
della propria dignità. Concludo sostenendo che tale corso è stato un ulteriore incoraggiamento a
proseguire la lotta per cambiare in meglio il nostro mondo.
Francesco D.R. 5^AL
Frequentando il corso sui diritti umani, ho potuto conoscere una realtà spesso nascosta e oscurata,
taciuta all’opinione pubblica. Abbiamo adottato l’art. 5 riguardante la tortura, e ci siamo adoperati
al meglio per capire di che cosa realmente si trattasse con incontri con persone importanti e
umanamente ammirevoli, di varie associazioni come Amnesty e Medici contro la Tortura. Queste
persone ci hanno riportato esperienze dirette dandoci l’opportunità di interagire con loro con
domande, rivolgendo loro le nostre perplessità ed incertezze. Ci hanno parlato della condizione
psicologica dei torturati e delle difficoltà che essi incontrano ritrovandosi ad affrontare nuovamente
una realtà ormai distorta, piena di sfiduci a nella vita stessa e soprattutto nel prossimo, della
condizione fisica dei torturati, i quali portano con se le ferite che il più delle volte non sono ferite
visibili dati i metodi atroci utilizzati (come scosse elettriche nei punti più delicati del corpo) facendo
in modo che non rimangano segni. Il torturato è portato a perdere totalmente la dignità e il rispetto
umano. Abbiamo cercato di affrontare il problema documentandoci, cercando di affrontare le
motivazioni che spingono a tanta brutalità, mettendoci in contatto con l’Associazione Medici contro
la Tortura e mobilitandoci attivamente, concretamente, trovando dei fondi proprio per sostenere
questa Associazione. Questi medici offrono infatti ai torturati di diverse e molteplici etnie e culture,
rifugiati in Italia, non solo un’assistenza medica e psicologica, ma anche un sostentamento per poter
affrontare al meglio il “soggiorno” nel nostro paese. Abbiamo inoltre affrontato il problema del
disagio delle donne prevalentemente nel Medio Oriente, mobilitandoci per Safyia. Questo corso pur
nella sua più brutale crudezza mi ha fatto aprire gli occhi su una realtà spaventosa e fuoriuscire dal
mio piccolo mondo perfetto, Anche noi nel nostro piccolo possiamo fare qualcosa. L’importante è
l’informazione, la divulgazione e soprattutto saper alzare la voce.
Giulia P. 5^AL
Se devo proprio trarre delle conclusioni e dire la mia su questo corso, devo dire che sono stata
molto soddisfatta e contenta che sia stato organizzato. Inizialmente la scelta dell’argomento da
affrontare non è stata facile e rapida perché, purtroppo, sui diritti umani c’è moltissimo da discutere
e da riflettere. Abbiamo affrontato la tematica della tortura: una realtà da sempre conosciuta ma che,
come tutte le cose e situazioni scomode, vengono sempre messe in secondo piano. Ho avuto la
possibilità, grazie a questi momenti di confronto di riflettere, dire la mia e nel mio piccolo fare
qualcosa di concreto; quindi la soddisfazione di aver potuto aiutare chi ha veramente bisogno in
modo semplice, umile, ma estremamente intelligente. Spero che anche i miei “compagni di viaggio”
la pensino come me e che abbiano imparato qualcosa da tutte queste dure verità che ci circondano,
che purtroppo non sono mai abbastanza evidenziate e analizzate.
Vanessa S. 5^AL
Quando ho saputo dell’esistenza di questo laboratorio, mi sono detta che era fatto apposta per me.
Era da tempo che riflettevo sulle piaghe che affliggono questo mondo, e, se da una parte il vedere
determinate cose mi indignava al punto da star male,dall’altra riguardava un puntino inerme contro
forze incontrollabili e incontrastabili. Ero convinta che i miei “travasi di bile” non potessero
cambiare ciò che non andava. Poi è arrivato il corso e un nuovo alito di speranza ha cominciato a
vivere dentro di me, non ero più un puntino senza un arma per combattere, c’erano tante altre
persone che, come me, non accettavano di vivere in un mondo sbagliato. Incontrando giornalisti,
medici ed attivisti ho scoperto quanto sia grande il potere di una singola persona, se questa decide di
fare qualcosa di buono per coloro che hanno bisogno di aiuto. Quando si è trattato di raccogliere le
firme, per salvare la vita di Safyia, mi sono sentita utile e forse lo sono stata. Prendere parte a questa
iniziativa è stata davvero una grande esperienza, perché mi ha insegnato ad aprire gli occhi ed a
credere che tutto è possibile, basta volerlo.
Valentina D.A. 5^AL
Ho scelto il corso sui diritti umani perché mi è stato presentato come una iniziativa
attiva e proficua. Forse un piccolo contributo a cambiare il mondo lo abbiamo dato
anche noi. Molto interessante è stato l’intervento di Ettore Masina che ha saputo
sensibilizzarci su ciò che riguarda la tortura. Il racconto di Mauro Gentilini su alcuni
episodi relativi alla vita di Dario Canale mi hanno fatto riflettere; ma soprattutto la
visione di un breve filmato da lui portato mi ha fatto pensare”Come è possibile nel 2000
una cosa del genere?” In qualche modo i nostri incontri non si sono ridotti a parole al
vento, ma di fronte a questi avvenimenti terrificanti abbiamo cercato di agire
concretamente, Spero che nei miei prossimi anni potrò lottare anch’io per combattere
ciò che non mi piace. Non bisogna rassegnarsi perché ognuno di noi, nel suo piccolo, può
contribuire a migliorare il mondo.
Cristina F. 5^AL
Questo corso ci sta permettendo di fare qualcosa in prima persona per i diritti umani. Noi, piccolo
gruppo, lavoriamo nell’ambiente scolastico e cerchiamo di promuovere la conoscenza dei diritti
umani e la difesa delle vittime delle violazioni di questi diritti. Il nostro gruppo si è proposto di
conoscere gli strumenti internazionali che tutelano i diritti umani, ci siamo poi interessati e
documentati a ciò che è, adesso come un tempo, la tortura. Ci ha colpito molto la vicenda di Safyia.
In molti paesi le donne che tentano di far valere i propri diritti fondamentali rischiano la tortura,
l’imprigionamento o la morte. Alcune si battono per i “familiari scomparsi”, altre contro la tortura e
la violenza, altre per la parità dei diritti in materia di lavoro, di godimento della terra o di accesso al
credito. Il fallimento della comunità internazionale non consiste solamente nel fatto che essa non è
riuscita a garantire alle donne i loro diritti sociali, economici e culturali, ma nel fatto che i governi
non hanno mostrato la volontà di prevenire le violazioni dei diritti civili e politici delle donne, in
alcuni casi hanno addirittura consentito tale violazione. La responsabilità degli abusi ai danni delle
donne non è solo dei governi. Gruppi armati di opposizione adottano tattiche di repressione e terrore
per raggiungere i loro obiettivi nei tanti conflitti che minacciano tante nazioni del mondo.
Angela L. e Pamela M. 5^AL
Per rispondere alla domanda “Perché hai scelto questo laboratorio?” potrei fornire varie ragioni. Ma
c’è qualcosa che mi ha spinto in particolare, insieme ad un gruppo di compagni, ad adottare un
diritto umano. Mi sembrava assai originale e interessante questo progetto che ci chiede di
sensibilizzare e sensibilizzarci. La nostra società (lo scrivo anche se potrei apparire scontata) vive
un periodo difficile, deludente direi, pieno di cose da cambiare. I diritti che definirei naturali
vengono violati; mentre noi nel nostro piccolo pensiamo a cosa indossare questo oggi, c’è qualcuno
che è costretto a vivere lottando continuamente contro chi gli nega il diritto di essere: essere libero
di pensare, libero di essere se stesso. Ciò che ha attratto la mia attenzione, è il fatto che le ore del
nostro laboratorio non dovevano essere sfruttate solo per dibattere, per le solite quattro chiacchiere
in molti casi inutili e inconcludenti, ma per andare nello specifico, adottare un solo diritto umano
scelto da noi, studiarlo e studiare dove, come e perché viene violato. Così è stato. La mia attenzione,
il mio interesse, sono stati richiamati da tutto questo, ma ciò che ancora mi stimola a portare avanti
questo progetto è la convinzione che non serve fare grandi cose. Se riescono ben vengano, ma basta
un piccolo gesto di un piccolo gruppo che passa parola, e qualcun altro farà la sua parte: questo
funziona sempre. Forse non saremo in grado di salvare vite, ma è importante che da parte nostra una
fiammella che resta sempre accesa rappresenti la speranza. Credo davvero che un altro mondo sia
possibile.
Sabina P. 5^AL
Quando ci hanno dato il foglio con la lista dei laboratori, per il primo anno ho fatto una scelta basata
sui miei veri pensieri, e non solo una scelta del tipo “Va beh … andiamo a fare questo perché mi
serve per recuperare qualche materia”. Abbiamo iniziato il corso, e la prof.ssa Cannas che lo teneva,
ci ha spiegato di che tipo di argomenti avremmo parlato, e ciò suscitava sempre di più in me
curiosità e voglia di essere attivo in questo lavoro sulla tortura e sulle ingiustizie tuttora compiute a
discapito di tante persone innocenti. Questi incontri, oltre ad essere educativi dal punto di vista
conoscitivo, sono stati per me anche un corso di “Moral-building”, nel senso che sapevo alcune
cose, per le quali avevo già preso una posizione al riguardo, ma vivendoci dentro, ho imparato
moltissime altre cose. Non ho trovato niente di negativo in questo corso, penso che sia molti di noi,
sia soprattutto la prof.ssa, abbiano messo anima e corpo in questo progetto lavorando con serietà e
attivismo. Importanti per la nostra preparazione sull’argomento sono stati sicuramente gli incontri
che abbiamo avuto, ma per mia sfortuna non ho potuto assistere all’incontro con Ettore Masina, ma
le persone presenti mi hanno riferito che è stato molto interessante. A mio avviso è stata buona
l’idea di raccogliere fondi per “medici contro la Tortura”, raccolta che coinvolge tutto il nostro
liceo. A fine corso mi sento cresciuto in senso morale, e le mie idee sull’argomento tortura, le ho
sentite più mie e più forti.
Albert W. 5^AL
Ritengo che questo laboratorio sui diritti umani sia stato molto costruttivo. Ho imparato
molte cose interessanti e sono cresciuto anche interiormente. Mi sono piaciuti molto gli
interventi di Ettore Masina e del dott. Gianni Vaudo: sono stati ambedue molto chiari e
sono riusciti a catturare la mia attenzione con argomentazioni molto interessanti. Ora
sono consapevole di cose di cui prima non ero a conoscenza, e questo grazie anche alla
bravura della prof.ssa Cannas, che ha saputo coinvolgerci in maniera egregia. La “tavola
rotonda” che si terrà l’8 maggio sarà fondamentale per tirare le somme di questo
viaggio. Il tema della tortura, da noi adottato, è forse troppo trascurato dai mezzi di
informazione, ma siamo riusciti a repererire molti documenti che ci permetteranno di
costruire un vero e proprio dossier. La decisione di aiutare finanziariamente
l’Associazione dei Medici contro la Tortura è stato un atto di generosità molto bello, e
ho potuto constatare personalmente. essendo stato uno di quelli incaricati della raccolta
dei fondi, la disponibilità di coloro che sono nella nostra scuola e che hanno contribuito
a questa causa. In conclusione, posso dire di uscire da questo laboratorio sicuramente
arricchito, ma soprattutto sono diventato molto più sensibile nei riguardi di coloro che
vedono i loro diritti lesi da persone prepotenti; inoltre, ora so molte più cose sulla
tortura, e queste informazioni sono sicuro che mi saranno utili per tutta la vita.
Matteo S. 5^BL
CONCLUSIONI
Vorrei esprimere alcune considerazioni relative a questi mesi trascorsi con i ragazzi che
hanno scelto il Laboratorio “ADOTTARE I DIRITTI UMANI: PAROLE E FATTI “. Innanzitutto,
la mia iniziale perplessità nel proporre un’attività importante e impegnativa, che mi
faceva temere di non avere molte iscrizioni: perplessità che è svanita nel rendermi
conto che ben 25 ragazzi, dalla 1^ alla 5^ classe, avevano invece avuto il coraggio di
affrontare una tematica non proprio leggera e che, oltre a tutto, li impegnava molto
concretamente. “Parole e fatti” , la condizione basilare di questo progetto, ha implicato
infatti non solo una parte teorica , ma anche una scelta concreta: l’adozione
dell’Associazione Medici contro la tortura. E’ stata l’ulteriore prova della bontà del
progetto diretto dalla prof.ssa Gioia Longo Di Cristofaro dell’Università degli Studi La
Sapienza, che ha già funzionato egregiamente in centinaia di scuole.
La lettura della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo è stato il nostro punto di
partenza. Sono seguite letture di altri testi e documenti vari, in gran parte forniti dagli
stessi ragazzi, impegnati in ricerche su Internet. Alla conclusione delle nostre riflessioni,
si è poi giunti, tramite votazione, alla scelta del diritto N° 5 , contro la tortura,il quale
asserisce: “Nessuno sarà sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti crudeli, inumani
o degradanti”. Ecco perché l’adozione di questa associazione volontaria. Coscienti dei
nostri limiti, abbiamo almeno tentato di operare una scelta che ci facesse sentire un po’
meno impotenti.
Il dibattito ed il confronto di idee all’interno del gruppo è sempre stato buono: ma il
vero punto di forza sono stati gli incontri con Ettore Masina, Gianni Vaudo, Mauro
Gentilini. Le testimonianze che hanno portato, dirette e indirette, con la drammaticità
delle situazioni descritte e vissute, credo abbiano lasciato un grande contributo di
riflessioni ad ognuno di noi.
Parte del nostro tempo è stata dedicata anche alla drammatica vicenda di Safyia, la
donna nigeriana condannata alla lapidazione. E’stata seguita regolarmente la rassegna
stampa, si è cercato, via e-mail, un contatto con la redazione della rubrica radiofonica
“Zapping”, che tanto ha fatto in questa occasione, ed infine abbiamo raccolto circa 200
firme di protesta inviate all’Ambasciata nigeriana. Dopo aver raccolto tutte le nostre
riflessioni in una relazione finale, abbiamo chiuso i nostri incontri con la visione del film
“Garage Olimpo”, di Marco Bechis sulla tragedia della storia recente relativa ai
desaparecidos argentini. La tavola rotonda conclusiva che abbiamo organizzato, vuole
essere proprio il più giusto epilogo di questa esperienza, che si vuole con forza
condividere con tutti coloro che vorranno parteciparvi. Ne saranno protagonisti Ettore
Masina; Andrea Taviani, di medici contro la tortura; la prof.ssa Gioia Longo e la signora
Gina Gatti, la quale sarà tra noi proveniente da Modena dove risiede e che sarà la vera,
unica testimone di una tragica esperienza di vita e della forza necessaria per uscire fuori
da certe esperienze.
In conclusione, devo dire che ho vissuto un’esperienza veramente costruttiva, che mi ha
inoltre consentito di scoprire tanta sensibilità, intelligenza e spirito critico in ragazzi che
talvolta, a torto, vogliono apparire superficiali o interessati a ben altro. Mi auguro
vivamente che, come qualcuno di loro già ha detto, questi interessi vengano coltivati
anche fuori dalla scuola e che vengano vissuti come una vera crescita sia civile che
delle loro personalità, non solo in senso egoistico, ma rivolgendo la propria attenzione
anche agli altri e verso tematiche spesso durissime.
Devo dei ringraziamenti a tanti. Ringrazio il nostro Dirigente Scolastico, prof. Baiocco
ed il Collegio Docenti, che approvando questo progetto speciale ne hanno reso possibile
l’attuazione. Un particolare ed affettuoso grazie alla collega Marina Sanfelice ed a suo
marito Giuseppe Lodoli, per il loro appoggio assiduo, concreto e morale; la prof.ssa Fotia
che ha partecipato attivamente con il suo gruppo di giornalismo, all’incontro con Ettore
Masina; la prof.ssa Nesso, i tanti colleghi della sezione linguistica compreso il personale
non docente, che con la loro disponibilità hanno contribuito alla buona riuscita della
raccolta dei fondi; tutta la Sede centrale, che in tutte le sue componenti ha aderito e
partecipato con interesse ed altrettanta generosità. Non ho parole, infine, per
ringraziare Ettore Masina, Gianni Vaudo, Mauro Gentilini, Andrea Taviani e Gina Gatti
per il loro fondamentale apporto e l’eccezionale disponibilità nell’incontrare i ragazzi
del nostro liceo.
Roma li, 30/4/2002
Il docente coordinatore del gruppo
Note:
1.
Il logo della copertina è di Francesco De Rocco, il titolo “Insieme contro la
tortura” è stato proposto da Pamela M.
2.
La trascrizione delle registrazioni effettuate durante gli incontri è stata da me
curata dando precedenza all’aspetto discorsivo e probabilmente a discapito di
una buona forma italiana.
3.
Ho accantonato l’idea iniziale di una relazione unica del gruppo perché la
spontaneità e l’immediatezza delle singole relazioni mi sono sembrate molto più
efficaci di una eventuale mia elaborazione che le sintetizzasse.
4.
Il testo di questo dossier sarà disponibile tra i Progetti Speciali del POF, sul sito
ufficiale del Liceo Orazio http://www.liceo-orazio.it
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