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Relazione Tortura
"Insieme contro la tortura" INCONTRO CON ETTORE MASINA Dalla nascita della Rete Radiè Resch negli anni ’60, la nostra associazione si è sempre dedicata all’ascolto delle realtà più oppresse e sofferenti, in particolare dell’America Latina, ma anche della Palestina. Il nome Radiè Resch è proprio quello di una bambina palestinese, morta a tre anni, in una grotta di Betlemme, ma non 2000 anni fa, bensì poco più di 40. Da allora la nostra Rete, tramite l’autotassazione di tutti coloro che vi aderiscono, ha organizzato numerose operazioni di sostegno per coloro che in questi paesi necessitavano non solo si un supporto materiale, ma soprattutto morale. Per tornare all’America Latina, nel Brasile, di quell’epoca, si torturava moltissimo e così siamo andati avanti nel nostro impegno, che esiste tuttora, e che io ho lasciato quattro anni fa per lasciare posto ai giovani ed il prossimo sarà il XIX° convegno nazionale. In seguito ho accettato la candidatura alla Camera e sono stato eletto deputato, sono stato poi sempre nella commissione esteri della Camera, quindi ho viaggiato anche per questo. Con mia grande gioia, tutti i gruppi della Camera, conoscendo l’attività che già facevo, hanno voluto nominarmi Presidente del Comitato per i diritti umani e lì mi sono incontrato più che mai con la tortura. Comincio a proporre una domanda: dove comincia la tortura? Che cosa può essere definito tortura? Probabilmente voi avete già dato delle risposte, io vi dico la mia; non è così facile dare una risposta, perché se un padre manesco ogni tanto molla una sberla al figlio, se è maschio, con una ragazza comincia ad essere ancora più complicato, è un torturatore o no? Io credo che dipenda dall’animo con cui viene dato e dall’intensità della sberla. Io ricordo di essere stato in una casa dove c’era la famiglia che andando al mare aveva portato una colf con una bambinetta, colf che dava una sberla a sua figlia che era perfettamente beata, mentre il bambino dei padroni di casa, ogni volta che passava vicino a suo padre si riparava con la mano come per ripararsi da una sberla che non aveva mai ricevuto; perché esiste in realtà una violenza fantasmatica, cioè non espressa ma convenuta, che i bambini sentono. Allora, forse un padre non è un torturatore, però già il carabiniere o il poliziotto che prende un clandestino per strada ,che si mette seduto stravaccato su un tavolo della stazione dei carabinieri, e quello gli molla una sberla per dirgli di stare dritto, qui già siamo davanti ad un fenomeno ancora più forte perché qui già comincia ad esserci un disprezzo per la persona umana, un diniego della nobiltà e della dignità della persona umana. Ho provato a pensare quale potrebbe essere la definizione di tortura: secondo me potrebbe essere la definizione di sofferenza fisica o psichica inflitta con intenzione e in maniera appropriata, per vincerne la resistenza o convincerla dei propri supposti reati o per schiacciarla e privarla della propria dignità. Io insisto soprattutto sulle sofferenze psichiche perché possono essere grandi quanto le sofferenze fisiche, anzi talvolta anche più gravi. Per tornare all’esempio del padre, l’umiliazione inflitta in pubblico può essere ben più grave di uno schiaffo. Mi ricordo che da mio padre avrei preferito ricevere uno schiaffo piuttosto che mi dicesse di mettermi in ginocchio e chiedere scusa , soprattutto se tutto ciò succedeva in pubblico. Pensate, ci sono delle terribili foto degli ebrei tedeschi negli anni dopo il 1934, dopo l’avvento di Hitler, costretti con uno spazzolino da denti a lavare le strade di Berlino. Dunque un lavoro che non è lavoro. Ridurre delle persone ad un lavoro che non è un lavoro, a fare delle cose insensate,è ridurle alla pazzia. Ecco, questa forma di umiliazione psichica, secondo me, è più grave di un’umiliazione fisica. E ce ne sono tanti altri. Ho visto recentemente il filmato di un giovane che è stato in Palestina, a un posto di blocco in cui un soldato israeliano, mentre perquisisce degli adulti ,vede una bambina che ha in braccio stretta una bambola, e pensa che ci sia dentro una bomba o qualcosa del genere, la prende e la fa a pezzi. Questa bambina scoppia in un pianto dirottissimo. Io sono convinto che questa è stata una tortura che quella bambina porterà dentro di sè tutta la sua vita. Ci sono anche delle torture che sono soltanto fisiche, perché non comportano una sofferenza impressa alla carne, nel senso pieno della parola: non sono un’ustione, non una frustata, non sono una puntura. Pensate alle deprivazioni sensoriali che sono adoperate molto nella tortura. Vi faccio un esempio più recente: il caso del trasporto aereo dei talebani o dei presunti appartenenti ad Al Qaeda dall’Afganistan a Cuba. Minimo un volo di 20 ore e un massimo di 28 ore. Queste persone sono state private dell’udito con dei tamponi che sono stati applicati alle orecchie, privati della vista per mezzo di cappucci, sono state imbavagliate per non poter minimamente parlare tra di loro, sono stati incatenati mani e piedi e quindi costretti all’immobilità assoluta per tutte le ore del viaggio e per chi viaggia in aereo sa che non potersi muovere per tre ore è già una forma,diciamo ridendo, di tortura; fatto per così tanto tempo diventa una vera tortura; incatenati mani e piedi e costretti, e qui non so se già con intento voluto, incomincia già la degradazione come ,perdere il controllo degli sfinteri; è chiaro che una persona che è costretta a stare ferma 20-28 ore in un aereo incatenata, senza potersi muovere, si orina addosso e si defeca addosso che è, per un adulto, una forma di degradazione terribile: qui c’è tutto un tentativo di non cedere. Questa è una forma di violenza psichica gravissima, secondo me. Non solo, ma poi ingabbiati in gabbie di 2 metri x 2, aperte alle intemperie con un tetto di metallo che si arroventa al sole dei Carabi, e se fa vento, si prenderanno il vento, se cominceranno i monsoni saranno schiacciati dai monsoni , già sono soggetti a forma di tortura psicofisica, che è quella dell’illuminazione continua a giorno di queste loro gabbie, che provoca per loro la perdita del ciclo vitale fisiologico, importante per la salute di una persona normale, che è quella del ciclo luce/oscurità. Nessuno ha ancora toccato queste persone con un bastone, con frustate, con un laccio messo apposta per provocare una cancrena, però già siamo in presenza, secondo me, di una tortura e di una grave ingiustizia. Io poi dividerei le torture in tre categorie: La 1^ è quella che si direbbe praticata al semplice scopo, diciamo semplice, di infliggere dolore. Questa è stata purtroppo una cosa che ci portiamo dietro da secoli, secoli bui, terribili, non solo i secoli dell’Inquisizione, ma i secoli precedenti; diffusi in tutto il mondo: in Asia, in Africa, dovunque è stata praticata l’idea che il nemico che non moriva in battaglia dovesse morire soffrendo particolarmente. Non starò qui a raccontarvi delle cose così. Mi limiterò a dirvi che durante il periodo in cui ho fatto il Presidente della Commissione per i Diritti Umani, ho dovuto occuparmi in continuazione di questo problema; una volta mi è arrivato un dossier di fotografie a colori di quello che succedeva nel Kashmir, non mi ricordo più, perché ho rimosso, se era il Kashmir indiano o pachistano, ciò che è certo, è che quelle fotografie mi obbligarono ad andare alla toilette per vomitare per non so quanto. Vi farò grazia di quello che avevo visto lì, ma per dire come questo regna ancora nel mondo. Come per esempio nei grandi conflitti africani e soprattutto nelle zone in cui ci sono dei bambini soldati, che quando vengono in genere presi dagli adulti vengono torturati, torturati molto! Privati delle braccia: domandano se vogliono restare col braccio destro o col braccio sinistro e l’altro glielo tagliano! Badate, non è una guerra tribale, è una guerra sorretta da quella multinazionale dei brillanti che si è specializzata in quelle bellissime pubblicità sui giornali femminili che dicono che un brillante è per tutta la vita, anche l’amputazione di un braccio di un bambino vale per tutta la vita! C’è poi un 2° tipo di tortura, naturalmente ci sono molte forme intermedie, io vi do una suddivisione molto rozza. E’ finalizzata all’Intelligence, cioè ad ottenere dal prigioniero informazioni che si suppone che egli nasconda. Questa tortura che sembrava ormai rimossa dal mondo civile, in realtà sta riprendendo piede. E’ facile da capire anche il perché: pensate, dobbiamo sempre riportare i fatti poi da noi: se un gruppo di banditi sequestrasse vostro padre malato di cuore, che ha bisogno assoluto di medicine per continuare a vivere, e questo gruppo di banditi non si fa vivo, e voi pensate che possa morire da un momento all’altro nelle mani di questa gente se non viene subito liberato, e la forza pubblica catturasse uno di questi supposti sequestratori e questo sequestratore non volesse parlare, io credo che ciascuno di noi si troverebbe di fronte al problema nel dire: Ma perché questo non parla? Può salvare mio padre, allora io lo faccio parlare a tutti i costi! Moltiplicate questo dramma familiare per quelle che possono essere le politiche nazionali, si arriva al punto che un famoso giornalista americano, non uno stupido, uno dei più famosi giornalisti americani che si chiama Jonathan Halt, ha difeso su uno dei giornali più importanti del mondo, “NeewsWeek nel novembre scorso, l’uso della tortura moderata. Quando sentite la parola moderata sputate per terra, perché è una pura ipocrisia, è come quando si dice una guerra umanitaria, una guerra moderata; sono dei fenomeni che sfuggono a qualsiasi moderazione perché sono un conflitto di irrazionalità, allora ha detto che, in fondo, l’uso della tortura per prevenire attacchi terroristici potrebbe essere concesso e anzi appare razionale. Perché razionale, perché, diceva lui, si tratta di salvare 2mila – 3 mila persone – centomila demolendone una. Già, demolendo una persona ma per salvarne due: Però voi capite che a questo punto l’idea diventa norma solo per i giorni buoni, in cui non accade niente che ci chiama a decidere in prima persona. Ora questo fenomeno è particolarmente importante, perché l’idea delle modeste pressioni fisiche in nome di questa ragione, in nome della salvezza per altri, è stata più volte autorizzata, per esempio dalla corte suprema israeliana e badate, quando si dice Corte Suprema Israeliana, si dice un organo particolarmente importante, perché Israele è uno stato che a 54 anni dalla sua fondazione non ha ancora una costituzione. Si è dato una carta fondamentale, in cui si esprimono i valori dello Stato. Quindi tutto si svolge attraverso la giurisprudenza, che in ultima istanza è la giurisprudenza della Corte Suprema Israeliana. Ora, questa corte ha approvato in alcuni casi la tecnica delle moderate pressioni fisiche, le quali, per quello che riguarda lo Shin Bet, che è il servizio segreto interno, applica soprattutto due tecniche: non dare da bere al prigioniero, non lasciarlo dormire o la tecnica dello scuotimento, che vuol dire che il prigioniero viene fatto alzare, poi si prende un soldato particolarmente forzuto che lo afferra per gli avambracci e lo scuote fortemente per alcuni secondi. La nostra scatola cranica non è completamente piena del cervello e quindi il cervello così scosso provoca innanzitutto uno svenimento, un obnubilamento della ragione al prigioniero che poi è fortemente prostrato e può così essere costretto a parlare, ma provoca molto spesso delle lesioni cerebrali. Ad esempio alcune lesioni portano alle paralisi, a gravi problemi circolatori ed in un certo numero di casi al decesso della vittima. Ecco, vorrei farvi notare che al contrario di quel che si può pensare non è questa che viene definita anche strumentazione dura per la ricerca della verità, non è questa la tortura più diffusa. Uno crede, anche per i ricordi che ci portiamo dentro, come quelli dell’Inquisizione, crede che questa sia la forma di tortura più importante nel mondo e che venga soprattutto utilizzata per avere informazioni sulla possibile attività terroristica di un gruppo o comunque sulle forze del cosiddetto nemico. Invece questo non avviene, la tortura più diffusa al mondo è quella a scopo terroristico. Da un lato si cerca di spezzare per sempre la volontà di ribellione e magari la possibile ribellione di un dissidente, e dall’altra si cerca di creare nel tessuto collettivo, il terrore per un inferno che tante volte pare più spaventoso tanto più clandestino o al contrario è vistosamente esibito con i corpi dei torturati. Quindi una tortura di tipo manifesto, una tortura che ti dice stai attento a quello che fai, è meglio che non ti occupi di certi problemi. Vi faccio due esempi di questo uso della tortura: quello della clandestinità, della tortura clandestina. Se voi leggete un libro molto bello, molto più bello dei miei, forse oggi difficile da trovarsi, di Arthur Koestler, un grande scrittore russo, in realtà mistilingue, “Buio a mezzogiorno” pubblicato da Mondatori, che ebbe un successo strepitoso, voi vedrete come la tortura fu adoperata da Stalin, con quelle che venivano chiamate le grandi purghe, cioè le grandi repressioni di quelli che Stalin considerava i suoi dissidenti e che spesso invece erano i suoi fedeli compagni, fedeli comunisti, fu adoperata per terrorizzare la gente: cioè alcune persone sparivano, ma correva la voce fatta girare da persone importanti, che venivano bestialmente torturate nelle segrete della G.P.U. che era la polizia politica dell’Urss. Invece, quanto all’esibizione, io sono stato nel Salvador dove ho raccolto i racconti di tantissime persone. Qui vigeva l’uso terroristico dello stupro; cioè i soldati che stavano in una zona di operazioni, o che si avvicinavano ad una zona di operazioni, erano invitati a stuprare il maggior numero possibile di donne, con una pressione psicologica fortissima. In caso contrario venivano schedati come omosessuali. Questo stupro delle donne non era solo uno sfogo di libidine come si poteva pensare, ma era proprio il tentativo di creare tortura e terrore. Non solo, lungo le strade del Salvador venivano esposti i cadaveri delle persone macellate, e quando dico macellate intendo dire macellate: cioè persone a cui era stata strappata tutta la pelle della schiena; persone a cui erano poi state tagliate le orecchie, poi gli occhi, i testicoli, se erano maschi, infilati poi nella gola in maniera che morissero soffocati. Vi ho portato il racconto di una donna cilena torturata che vive in Italia, che parla anche nelle scuole, e che racconta in un capitolo di un libro che deve vedere la luce, che si intitola “Venire alla luce” e che sarà pubblicato dai Medici contro la tortura, in cui dice chiaramente che venne liberata dopo aver subito torture di tutti i tipi: quindi per seminare il terrore. Quando poi si parla di una tortura data non solo ai dissidenti, ma ai possibili dissidenti, come in Brasile, in cui ci sono stati degli anni terribili, dal ‘69 al ’75, in cui venivano presi e torturati non solo gli antifascisti, i resistenti contro la dittatura militare, ma anche delle persone che potevano essere pericolose per il regime come possibili dirigenti popolari. Per esempio l’operaio che sapeva suonare molto bene la chitarra e quindi durante la pausa mensa i suoi colleghi si mettevano attorno a lui, oppure che sapeva raccontare bene le barzellette, o ancora che gestiva una birreria aziendale, veniva preso, portato in carcere, torturato e restituito alla società riciclato dalla tortura, cioè un uomo che da quel momento in poi tendeva a nascondersi e non volere rapporti con nessuno perché sapeva di essere in pericolo mortale. Vorrei dirvi adesso qualcosa sul fatto che la tortura ha una sua scienza e un suo progresso e che è capace di rielaborare alcune usanza antichissime. Per esempio nel Vietnam del Sud, quelli dell’esercito collaborazionista, e gli Americani che stavano con loro, reiventarono qualcosa che i francesi avevano già inventato, ma che era stata antecedentemente dei cinesi i quali avevano conquistato il Vietnam, e cioè le gabbie di tigre: delle fosse alte tre metri in cui venivano calati i prigionieri, le donne quasi sempre dopo essere state violentate, venivano calate intere famiglie che rimanevano lì anche per due – tre anni. Il cibo veniva buttato di sotto: qualche volta si gridava “scostatevi” si buttava della calce per pulire le immondizie; qualche volta si buttava dell’acqua perché questi restassero un po’ puliti. Questa gente, io ho conosciuto una persona, rimaneva 3 – 4 anche 5 anni in queste fosse. Quella che io ho conosciuto era una dirigente vietnamita, con la quale mentre stavo parlando di tutta altra cosa ha cominciato a singhiozzare a dirotto e non è stata più capace di continuare il colloquio con me. Allora la sua segretaria mi ha spiegato quello che succedeva. Ogni tanto questa donna si sentiva ancora nella gabbia di tigre benché fosse una persona, un dirigente, arrivata ad un’alta carica all’interno dello Stato Vietnamita. Altre volte invece, la tortura è molto elaborata, cioè si è servita degli psicofarmaci. In Cile ne fu usato particolarmente uno di cui non ricordo il nome, che provocava nel torturato un senso di morte: una terribile oppressione al petto, un rallentamento dei battiti cardiaci, una sensazione di soffocamento. Questo terribile senso di morte veniva usato per poi incastrare questa povera persona dicendole “possiamo non farti morire, ma tu ci devi dire i nomi dei tuoi amici”. Qualcuno naturalmente parlava. In realtà molte di queste tecniche sono state insegnate fino a pochissimi mesi fa, e temo che, visto l’andazzo che corre, saranno riprese, in una vera e propria università che si chiama “Escuela de las Americas”. E’ un’istituzione del Pentagono che fino al 1989 era situata nella zona internazionale del canale di Panama. Adesso è stata portata a Fort Briggs in Georgia. Da questa escuelas sono passati dai 60.000 agli 80.000 ufficiali o graduati degli eserciti dell’America Latina, dei dittatori, naturalmente. Ci sono passati dei nomi celebri a cominciare da Noriega, di cui forse avete sentito parlare: era il dittatore di Panama, poi gli Stati Uniti sono andati a prenderlo con una guerra di cui nessuno ha mai parlato, e lo hanno messo in carcere dopo averlo foraggiato per tanti anni; dai generali Videla e Gualtieri che sono stati i dittatori dell’Argentina dei desaparecidos; del dittatore boliviano Banzer, ai notori assassini di Mons. Romero. Tutte queste persone sono passate di lì per imparare dagli americani quelle tecniche chiamate “ contra insurgencias”, contro le guerre civili, contro le ribellioni, e lì sono state insegnate anche delle tecniche tra le più distruttive. Io non ho voglia di raccontarvi tutto quello che ho conosciuto io, però una cosa ve la voglio raccontare perché mi ha molto impressionato. Quando sono andato in Uruguay ho potuto parlare con una persona che la Rete Radiè Resch ha aiutato…..Quando sono arrivato all’aeroporto di Montevideo con mia moglie, ho avuto la gioia indescrivibile di trovare tanta gente che con uno striscione, mi aspettava. Ci hanno offerto poi una cena in cui c’era una persona la quale mi ha detto “ voi mi avete liberato dalla camera della tortura con tante lettere di protesta, ed avete creato nei torturatori, che si vantavano di essere occidentali e cristiani, un complesso di paura che io morissi, da essere portato in un carcere in cui non mi hanno più toccato”. Questo Josè Pacella mi raccontò cosa gli avevano fatto e cioè una tortura che viene abbastanza normalmente usata in molte parti del mondo, che viene chiamata “il sommergibile”. Si tratta di una vasca piena di escrementi, di vomito, di orina ed acqua in cui il malcapitato viene costretto, tuffato con la testa in modo che beva fino a quando non sta per morire. Allora lo tirano su per i capelli, poi lo rituffano più e più volte. A questo punto, dice “io ero veramente distrutto, non ne potevo più, quando i miei torturatori, improvvisamente se ne sono andati ed è entrato un anziano signore che mi ha preso un braccio. In quel momento ero ridotto come un bambino terrorizzato: mi ha avvolto in una coperta ed ha cominciato a dire: ma perché fanno queste cose, ma sono delle bestie,ma povera persona! Ma povero Josè, guarda, adesso ti cullo io, dormi un pochino! Dopo 10 minuti, quando mi ero completamente rilassato, mi ha fatto cadere per terra e mi ha detto: tu sei uno sporco comunista e da qui non uscirai mai vivo. A quel punto sono impazzito letteralmente e sono impazzito per giorni e giorni; non so più cosa ho fatto per uno o due mesi”. Questo uomo era scosso continuamente da un tremito, fumava 100-150 sigarette al giorno ed era un uomo distrutto. Lo hanno portato in una clinica specializzata, è stato anche a casa nostra, ma non so se è stato recuperato; di notte urlava, perché molto spesso il torturato non riesce più a recuperare, salvo in alcuni casi. Bene, mi rimane solo da dirvi che tra noi abbiamo torturatori e torturati . Ora questo sembra impossibile a dirsi ,ma come ci dice il Telefono Azzurro, ci sono molti casi di sadismo genitoriale nei confronti dei bambini, molti, moltissimi, molto più di quello che crediamo, ed abbiamo anche i torturatori . Quando noi mandiamo in giro i nostri soldati, non sempre il tricolore che sventola è un tricolore pulito. In Somalia certissimamente i nostri soldati hanno torturato dei somali, ci sono le foto. Benché siano stati mandati tutti assolti o con condanne leggerissime , queste sono delle persone che da un momento all’altro possono rifare quello che hanno fatto. Questo vuol dire che quello che c’è di sadismo in loro non è più controllato e continuerà ad essere proiettato fuori da loro. Non dimentichiamo che loro stessi, i torturatori, spesso sono vittime di sadismi che hanno subito, ma questo non può frenare il nostro problema di bloccarli prima che facciano ad altri ciò che hanno fatto a loro. Certamente nelle carceri italiane ci sono delle torture.. Ogni anno il Consiglio d’Europa manda una visita accurata alle carceri ed ai posti di polizia, e tutti gli anni conclude che l’Italia non è seconda ad altri stati europei nell’ambito delle torture “legali”. Chi di voi ha visto i fatti di Genova sa come tante persone sono state tenute per ore e giorni in piedi con le mani dietro la schiena: è una forma di tortura. Abbiamo poi molti torturati, e questo è un fatto molto meno noto. Mi ricordo quando sono arrivati dal Cile tanti profughi cileni, ma anche brasiliani, era facile che la gente si accorgesse perché c’era un gran movimento di solidarietà, e che ci si occupasse dei loro casi. Adesso abbiamo una quantità di torturati, come vi dirà il medico che verrà a parlare con voi del gruppo di Amnesty; vi dirà quanti ne abbiamo anche a Roma e sono tantissimi. Sono persone che per lo più vengono dall’Africa e da quei regimi africani, compresi quelli di cui siamo molto amici, come la Tunisia e che approdano alla ricerca di una salvezza, che non trovano. Non la trovano anche perché con le leggi che abbiamo, e particolarmente con l’ultima che va in discussione questi giorni al Parlamento, noi respingiamo coloro che si dichiarano profughi politici, senza aver verificato fino in fondo la loro denuncia. Fino in fondo vuol dire concedergli spazio, vuol dire un periodo di tempo, aiutarli a parlare perché chi arriva qui non sa l’italiano: invece molto spesso non c’è una funzione di interpretariato che possa aiutare questa gente. Vivono con un sussidio miserabile e quindi sono costretti a trovarsi un lavoro molto spesso altrettanto miserabile, al nero, soggetti quindi a frustrazioni che alimentano ancora le frustrazioni che si portano dentro. Sono lavori che sono esposti a rischio, assolutamente non adatti. Chi ha avuto la spina dorsale stirata perché è stato appeso per ore ed ore ai polsi, non può stare in piedi davanti a un lavello a lavare nel retrobottega di una pizzeria piatti e posate. Molto spesso, per quanto riguarda le donne, c’è la mancanza di condizioni minime di tutela davanti ad una adolescenza che è stata così gravemente danneggiata; così le giovani donne sono le più rovinate da questo punto di vista. Queste persone vivono in maniera tragica: la nostra amica cilena (Gina Gatti) scrive: “Per più di vent’anni ho avuto i torturatori dentro di me.” Cioè, lei che era stata violentata, bruciata, soggetta ad una finta fucilazione, e così via ... sentiva i torturatori che erano diventati un solo corpo con lei, Che fare? Voi avete scelto la strada giusta. Il ricongiungimento ad Amnesty e soprattutto i medici di Amnesty , mi pare fondamentale: mi pare sia la strada maestra per chi si pone il problema di che fare. Da questo punto di vista, adottare non solo un diritto umano, ma adottare i medici che si occupano di questo, sarebbe già una cosa importantissima. Aiutarli perché i torturati hanno bisogno di persone attorno a loro che abbiano un volto amico, parole amiche, un gesto di tenerezza. Noi abbiamo commesso un errore fondamentale quando avevamo i cileni ed i brasiliani tra noi; non li facevamo parlare della tortura perché pensavamo che avrebbero avuto fastidio a raccontarci queste cose, nel ripercorrere queste loro vicende; ora questi medici, come vi racconterà chi verrà a parlare con voi, ci dicono che è necessario farli parlare. Soltanto se riescono a rovesciare questa enorme grumo di dolore che hanno in sè su orecchie amiche, allora cominciano sul serio ad uscire dalla camera della tortura. Vorrei dirvi che se noi ci mettiamo insieme a questi medici, ad Amnesty che fa un lavoro politico molto importante e su cui il discorso dovrebbe essere ampliato, noi potremmo agire e costringere finalmente il Parlamento Italiano a definire una legge. Pensate che nella legislazione italiana non abbiamo il reato di tortura. Chi viene torturato, al massimo può chiedere che il suo torturatore venga perseguito per lesioni o lesioni gravi: che in Italia ci sia questo reato, che sia punito e in base a questo siano riesaminate le responsabilità dei nostri militari e via dicendo. Guardate, davanti a noi ci sono delle possibilità di fare delle cose bellissime. Mi ricordo un colloquio con una dottoressa che si chiama Genopke la quale ha una clinica a Copenaghen per i torturati, per il loro recupero psicologico. Parlare con questa donna, una donna piccola di sessanta anni molto vivace, con degli occhi bellissimi e una capacità materna di ascoltare questi torturati, mi ha fatto pensare come sia possibile per loro ritrovare la strada, la strada della serenità. Mi ha raccontato un episodio bellissimo: Una forma non di tortura intenzionale, ma di accanimento poliziesco, diciamo così nel Salvador, era quello di legare le mani ai cosiddetti prigionieri politici, non per i polsi, ma per i pollici dietro la schiena. Questi pollici, vengono legati con la corda di nylon che penetra, blocca i vasi sanguigni e molto spesso, in un grandissimo numero di casi, questi pollici devono essere amputati per cancrena. Perdere un pollice significa perdere metà della mano perché vuol dire perdere l’unico dito opponibile e quindi è una lesione particolarmente grave. La Genopke mi ha detto che al termine della terapia, ha visto la faccia di un contadino che aveva subito questa amputazione, che si illuminava: “Dottoressa lei pensa che questo pollice mi rispunterà?” Ora, se volete, fatemi pure delle domande. G. Lodoli: Uno spunto di riflessione: Tante volte pensiamo alla pena di morte come avvenuta solo nel passato. In realtà tutte queste cose sono all’interno di noi, nel nostro patrimonio genetico abbiamo tutte le caratteristiche del torturatore che del torturato. Quindi, ad un certo momento, è la civiltà che va avanti, che ci fa rigettare certe cose, è la nostra parte buona che ha il sopravvento sulla parte cattiva. La tortura avviene sempre perché c’è una grande fetta dell’opinione pubblica che la vuole. Ci sono i torturatori ma c’è la gente che lo vuole, tutti gli altri lo accettano. Le gabbie di Guantanamo ci sono perché gli americani le vogliono; altrimenti non ci sarebbero. Pensate a quello che facevano i nazisti: gran parte dell’opinione pubblica approvava il regime. Pensate a quello che succede in Italia: gli episodi di tortura che per fortuna non sono molto frequenti, sono ampiamente tollerati e approvati da gran parte dell’opinione pubblica. Le guardie che pestano i detenuti, che pestano gli extra-comunitari o il ladruncolo, sono approvate e per strada vengono applaudite molto spesso. Un ultimo esempio: l’altro ieri in Florida sono state assolte due guardie che facevano parte di un gruppo che nel ’99 avevano pestato e ammazzato un detenuto nel braccio della morte. Per condannare a morte una persona negli Stati Uniti bastano otto mesi, per un poveraccio. Queste guardie sono state processate soltanto nel 2002. Il processo è cominciato il 14 gennaio e sono state assolte un mese dopo. La difesa delle guardie ha sostenuto che loro non sapevano che il detenuto aveva progettato di rivelare ai giornalisti le torture che erano state inflitte ad altri cinque detenuti che erano stati trasferiti in quel carcere dopo aver avuto problemi con le guardie nel carcere da cui provenivano. Loro questo non lo sapevano, e il detenuto si era provocato quelle lesioni buttandosi contro le sbarre della cella e buttandosi dal lettino per terra. L’autopsia rilevava che quest’uomo aveva 22 costole fratturate con 30 fratture, lo sterno fratturato, l’osso del collo, una spalla, il naso, per non parlare di numerose lesione interne che avevano causato la morte per emorragia interna ed esterna. Oltre a ciò aveva delle impronte delle scarpe delle guardie sullo stomaco, sul collo, sulla schiena. Secondo la difesa, queste lesioni erano state procurate come già detto. Tra l’altro questo detenuto aveva una gran voglia di vivere e si teneva fisicamente esercitato facendo ginnastica in cella pure essendo in segregazione nel braccio della morte. Bene, pensate che per processare queste guardie non si riusciva a trovare una giuria: sono state intervistate 1200 persone e non si è riusciti a trovarne 6 idonee a questo processo. Alla fine il giudice ha autorizzato come membri della giuria, i dipendenti dell’amministrazione carceraria. M. Fotia: Un altro aspetto su cui forse si può lavorare è il perché si usi una forma di lesione della volontà di una persona a tal punto da ridurla a un essere fallito che non è più capace di controllare se stesso. Nel caso delle donne, di controllare il proprio corpo. Il controllo del corpo per le donne è un fatto fondamentale, di mente, e qui possiamo andare alle streghe del seicento. Ogni volta che le donne hanno tirato fuori, in maniera molto consapevole, questo controllo del loro corpo, si sono trovate di fronte ad elementi che definisco di tortura. L’elemento dignità è un filo conduttore che abbiamo ritrovato spesso: vi esorto a non pensare che quanto succede in America a proposito delle carceri, non succede oggi da noi. Ciò mi viene dall’esperienza di volontariato da me fatta nel carcere di Rebibbia, in cui sono venuta a conoscenza di episodi di violenze incredibili nei confronti dei più poveri, dei più disarmati. Chi è sottoposto a tortura sono gli extracomunitari, il ladruncolo. Per le detenute politiche, la mia esperienza devo dire che è stata un’esperienza protetta, perché loro avevano gli strumenti per proteggersi dalle torture e nessuno osava mettere le mani addosso a gente che poteva contattare, dopo una certa epoca sia chiaro, giornalisti ecc. Mi raccontavano però delle loro compagne extra-comunitarie, ladre, gente che andava dentro per piccolo spaccio e che invece aveva subito violenze. Secondo me, questo nesso fra la lesione della dignità umana e la violenza, che nessuno si debba sentire chiamato fuori da queste cose, vi potrebbe sollecitare a qualche riflessione. Io vi sollecito a non essere ipocriti, a riconoscere che alle volte fingiamo di non sapere, oppure addirittura cediamo al mito della sicurezza. M. Sanfelice: L’indignazione dell’Opinione Pubblica è fondamentale: non si può avere un atteggiamento neutro di fronte a queste cose, altrimenti si finisce in realtà a dare un appoggio. Un intervento si impone, e da parte di voi ragazzi ci deve essere un’opinione a riguardo. Cecilia: Si è parlato di cose che anche in passato ci sono sempre state, dalla situazione delle donne all’uso della tortura. Però mi chiedo perché, come nel caso di Safiya, si è scelto di parlare di una unica vicenda. E. Masina: E’ una domanda molto importante: In queste realtà si sceglie un caso perché lo si conosce. Il caso di Safiya parte così: L’Associazione per i diritti umani della Nigeria manda una grande quantità di lettere. Una di queste lettere ,in Italia, la riceve “Il Paese delle donne” che è un sito che evidenzia la notizia più del Corriere Della Sera. Arriva poi ad un consigliere comunale di Napoli di Rifondazione Comunista, che immediatamente presenta un’interpellanza al Consiglio Comunale per vedere se non si possa dare solidarietà a questa donna. Il fatto allora viene conosciuto di più e preso in mano anche da “Nessuno tocchi Caino” e da un giornalista arabo che scrive a me. Successivamente, partiamo questo giornalista ed io, la Comunità di S. Egidio e “Nessuno tocchi Caino”, i quali con Grazia Francescano dei Verdi, vengono ricevuti dall’Ambasciatore Nigeriano, il quale si rimangia quello che il governo nigeriano aveva detto due giorni prima, cioè di non poter intervenire nelle leggi di uno Stato federale. Ammette invece che non avrebbero mai permesso che la vicenda di Safiya andasse avanti. Quindi c’è già un primo contatto. A questo punto però l’opinione pubblica italiana non si è ancora mossa, anche se poi sarà quella che si muoverà di più nel mondo. Si muovono a questo punto anche i più grandi giornali. Qui c’è stata una risposta prontissima dell’opinione pubblica anche grazie all’intervento di reti televisive Rai, Mediaste e perfino Telepadania. In ogni caso, escludendo i media, siamo riusciti ad inviare oltre 250.000 firme di protesta all’Ambasciata Nigeriana. Siamo ora certi che Safiya non sarà uccisa. Purtroppo in Sudan è già scoppiato un altro caso simile che poi è rientrato, vedendo ciò che era già successo in Nigeria. C’è peraltro da temere per la gravità di certe commutazioni di pena. La pressione sull’Ambasciata Nigeriana è opportuno che continui. Ricordo sempre quanto la mia vita sia cambiata da quando ho deciso di dare retta a Martin Luther King quando diceva “Vi prego di indignarvi ogni giorno”. Quando ci indigniamo, un caso ci appartiene e dobbiamo trattarlo anche noi: nessuno farà ciò che noi potremmo fare. Dobbiamo essere consapevoli che questo problema è nostro. Dobbiamo quindi lavorare per un caso singolo ma tenendo presente che dobbiamo mobilitare l’attenzione della gente ed essere capaci di dare vita ad un movimento, anche perché si tratta di fare politica: si salda così la nostra necessità di persone attente ai diritti e persone che sanno che i diritti si conquistano solo politicamente e culturalmente. Amnesty fa questo lavoro splendido perché unisce queste tendenze e ricordate che ha certamente maggior bisogno di giovani. Vi prego molto di occuparvene. Valentina: Il problema principale è proprio l’incapacità di avere rispetto della persona umana. Nonostante ciò che abbiamo saputo sui talebani, non si può non ammettere che sono comunque persone e come tali devono essere rispettati. E’ per il rispetto della persona umana che dobbiamo batterci in ogni situazione. Maria: E’ giusto a come pensare di rimediare dopo, come nel caso dei torturati, ma mi chiedo come intervenire prima e mi sembra che nella tradizione e nella cultura Afgana e orientale in genere, tutto ciò non abbia un’importanza fondamentale. Come introdurre in queste culture il concetto per il rispetto per l’uomo è la prima cosa. M. Fotia: Non è giusto pensare che queste mancanze siano solo delle altre culture, anche l’Occidente ha le sue colpe. Pensiamo all’Olocausto, che non ha riguardato un paese lontano, ma la cultura di un grande popolo molto colto. L’atteggiamento integralista è purtroppo comune a qualsiasi religione monoteista. Valeria: In base ad una terribile esperienza di violenza subita da mio padre per motivi banali, la cosa che più mi spaventa è l’indifferenza della gente che per paura non interviene. E. Masina: Se il mondo è così, ma è bello anche perché è duttile, noi possiamo cambiarlo. Se vogliamo, mettendoci insieme, possiamo creare dei movimenti di opinione pubblica, vincere la paura con la solidarietà, con l’indignazione e creare qualcosa di diverso. Possiamo e dobbiamo muoverci anche da soli. Dobbiamo saperci modificare, non rinunciando ad una parte importante del nostro essere. L’etica è un dato fondamentale, non possiamo buttarla via come qualcosa che ci dà fastidio. Ciò che è importante dell’etica è soprattutto nei giorni difficili non in quelli buoni. Claudia: Dopo l’11 settembre si parla tanto di guerra, delle tragedie dell’attualità. Poi, improvvisamente, non se ne parla più, tutto scompare. Anche di Safyia ora lo sanno tutti, ma in futuro tutto tornerà nel buio come è sempre stato. Su questo sono pessimista. E. Masina : Bush ha detto che non sapremo più la verità, che questa guerra segreta sarà combattuta senza notizie. Si farà sempre più fatica ad avere notizie e dovremo affidarci a dei modi alternativi: internet, ma soprattutto il passaparola. E’ importante che noi non rinunciamo alla ricerca della verità: dobbiamo solamente attivarla in forme nuove. Roma,19 febbraio 2002 Ettore Masina, giornalista e scrittore, è stato inviato speciale de “Il Giorno” e dei telegiornale della RAI, curando rubriche di successo quali Gulliver e Spazio Sette. Dal 1983 al 1992 è stato deputato al Parlamento e nella decima legislatura i gruppi parlamentari lo hanno scelto concordemente a presiedere il Comitato per i diritti umani. Fra le sue opere ricordiamo: Il ferro e il miele ( Rusconi 1984),Un inverno al Sud : Cile, Vietnam, Sudafrica, Palestina (Marietti 1992), Diario di un cattolico errante (Gamberetti,1997), Il volo del passero (San Paolo 1997) oltre al recentissimo romanzo in uscita ad aprile nelle librerie “Il Vincere” (San Paolo 2002) INCONTRO CON MAURO GENTILINI Oggi vi vorrei parlare partendo dalla mia conoscenza con Dario Canale. Originario della Calabria, fece studi classici, si laureò in filosofia e cominciò ad insegnare in un paesino della provincia di Sassari, dove insegnò per qualche anno; poi, dato il suo impegno politico e soprattutto l’interesse per le vicende dell’America Latina, che in quegli anni ’60 – ’70 era praticamente soggiogata da dittature militari che opprimevano un po’ tutti i paesi a cominciare dal Brasile, Dario pensò bene di trasferirvisi per insegnare italiano nelle scuole italiane (e ce ne sono tante), chiedendo ed ottenendo poi anche la cittadinanza. Si impegnò politicamente e fu subito preso di mira dalle autorità e dai militari. La persecuzione degli oppositori politici era fortissima. Dario fu imprigionato una prima volta e poi una seconda, e per tute e due le volte torturato orrendamente. La tortura che si dava agli oppositori politici nelle carceri brasiliane era molto forte e molto efficace, perché si sa che la tortura non è fatta solo per estorcere confessioni, o il nome di altri, dei complici, ma anche per terrorizzare la popolazione. Anche semplicemente col fatto che i torturati, una volta rilasciati, se rilasciati, se riescono a salvarsi, possono testimoniare alla gente, parenti e conoscenti, con la loro presenza, anche se non parlano e non dicono niente, che si può sapere, attraverso la loro esperienza, che cosa può capitare a chi si oppone. Dario non parlò sotto tortura, nessuna delle due volte che fu torturato, tanto è che i suoi amici e compagni di lotta politica gliene furono enormemente grati. Io ho parlato con quei suoi amici che erano stati a loro volta imprigionati, ma evidentemente la polizia militare non aveva abbastanza elementi per incriminarli, per cui subirono maltrattamenti, ma si salvarono perché Dario tacque i loro nomi. Questi li ho conosciuti a Roma perché molti si rifugiarono in Italia e non solo brasiliani. Loro mi raccontarono che dovevano tutto al silenzio di Dario. Dario fu, alla fine, espulso dal Brasile perché ad un certo punto si preferì sbarazzarsi di quelli con la doppia cittadinanza e mandarli nella patria di origine. Arrivò in Italia nel ’79 e subito si dette da fare, e fu allora che io lo conobbi insieme ad Ettore Masina, in occasione di una iniziativa per l’Amnistia in Brasile ai prigionieri politici. Dovete sapere che nelle dittature sudamericane quando si cominciava a parlare di Amnistia era l’inizio della fine per la dittatura. Questo tentativo di amnistia fu appoggiato dalla popolazione brasiliana e da organismi molto importanti come la Commissione Episcopale, l’Associazione degli Avvocati e così via. Ci fecero sapere, noi ci occupavamo anche di fare campagne qui, che sarebbe stata opportuna una campagna in Italia per sostenere dall’esterno questa amnistia. Dario Canale, insieme a noi, ci si buttò a capofitto. Organizzò delle cose in maniera veramente egregia, insieme alla Fondazione Lelio Basso, all’epoca ancora vivo, e insieme riuscirono a fare davvero parecchio. Senza falsa modestia, riuscimmo a mandare alle autorità brasiliane, una quantità enorme di cartoline appositamente predisposte, telegrammi, lettere di protesta per chiedere che venisse concessa questa amnistia. Alla fine l’amnistia fu data e fu infatti il principio della fine della dittatura e il ripristino in Brasile delle libertà democratiche. Anche se ancora oggi possiamo dire che le libertà democratiche in quel paese sono piuttosto sulla carta: è una democrazia più formale che sostanziale. Insomma c’è ancora molta lotta politica da fare per arrivare, per esempio, alla riforma agraria. Pensate infatti che in Brasile non c’è ancora mai stata una riforma agraria. Comandano i latifondisti, comandano sul Parlamento perché riescono a far eleggere o i membri delle loro famiglie o addirittura i loro tirapiedi. Per proseguire con la breve biografia di Dario Canale, finita questa campagna se ne incominciò subito un'altra per consentire il ritorno in patria, finanziariamente, dei brasiliani che, esiliati in Italia, volevano ripartire con le loro famiglie. Forse sapete che nella rete radiè resch, chiamiamo operazioni le nostre iniziative. Finanziammo l’operazione ritorno, che ebbe molto successo, tramite l’autotassazione. Tutte queste operazioni che riusciamo a fare, sono più di quaranta, quasi tutte in America Latina o in Palestina, ci consentono di raccogliere complessivamente in tutta Italia circa seicentocinquanta milioni di lire e sono quasi tutte di provenienza dai bilanci famigliari. In quella occasione invece io riuscii con degli amici, ad avere finanziamenti extra anche dai sindacati delle varie confederazioni e perfino dai partiti. Finito questo impegno, Dario, non poté rientrare in Brasile, a differenza di altri esiliati brasiliani perché su di lui c’erano delle documentazioni che lo presentavano addirittura come un pericoloso sovversivo, anche finita la dittatura. Ebbe quindi dei problemi, rinunciò, e pensò di andare in Mozambico, che si era appena liberato dal regime coloniale portoghese, per insegnare ai ragazzi della giungla. Sennonché, quando i mozambicani seppero che aveva una laurea in filosofia, gli dissero che avrebbe dovuto insegnare all’Università della capitale Maputu. Per forza di cose dovette accettare, nonostante il livello delle università africane fosse non molto elevato. Si trovò a poter fare un lavoro di formazione politica molto buono. Io rimasi sempre in contatto epistolare con lui. Ci scrivemmo parecchio. In seguito, dopo due anni in Mozambico, decise di fare un’esperienze nell’Europa dell’Est. Va detto che lui in Brasile si era iscritto ad uno dei due piccoli partiti comunisti brasiliani esistenti all’epoca. Uno era di ispirazione sovietica, l’altro maoista. Perciò lui aveva delle credenziali per andare a lavorare nell’Europa dell’Est, ed andò nella Germania dell’Est. Mi scrisse subito appena arrivato là,che c’era un socialismo reale che non gli dispiaceva affatto per quel po’ di prerogative e cose buone del sistema socialismo reale, mentre io gli scrissi elencandogli tutti i punti contrari. Venne poi più di una volta in Italia, sia per i parenti che per ritrovare gli amici. Tutte le volte che è venuto a Roma l’ho ospitato a casa mia con mia moglie, anche lei aderente alla Rete Radiè Resch dal 1966. Si era sposato con una tedesca e lavorava a Lipsia come bibliotecario nella biblioteca nazionale della città; studiò il tedesco e lo imparò benissimo dato che era piuttosto cervellone, era portato per le lingue. Diventò un esperto bibliofilo. Poi arrivò il patatrac. Questo patatrac, nel caso di Dario, ha due motivazioni. Lui era una delle vittime della tortura che non amava parlare della sua esperienza, per motivi di ritegno ed altri più profondi. I comunisti dei paesi latinoamericani avevano una visione del comunismo, della rivoluzione di ottobre e di tutto il resto molto, molto diversa da quella che avevamo noi europei, perché vivano in condizioni precarie sia come vita sociale, sia come possibilità di avere una vita decente dal punto di vista economico e sociale. Ebbero poi l’esperienza rovinosa delle dittature militari. Dario cominciò ad aprire gli occhi su questo punto proprio quando era in Germania Est. Io ho poi parlato con la moglie, Cristiane Canale una tedesca molto in gamba, giornalista e scrittrice, esperta di Tina Modotti (la fotografa della rivoluzione messicana), che mi raccontò successivamente, dopo la morte di Dario, che lui, negli ultimi tempi, stava veramente male: il sistema sovietico stava andando a rotoli, oltre tutti i problemi insoluti che lui aveva al suo interno. Ricordo che, in una delle sue venute a Roma, mi parlò del film “Urla del silenzio” un film di alcuni anni fa, che raccontava l’esperienza del comunismo nella Cambogia di Pol Pot e dei Khmer rossi, che era stata un’esperienza tremenda di stragi. Dario mi chiese se avevo visto il film. Gli dissi di sì, e lui mi disse che ne era rimasto sconvolto. I Latino-americani di fede comunista, vedevano il comunismo come la panacea, un modo di risolvere tutti i mali del mondo senza perciò l’occhio critico, che invece noi europei, occidentali, siamo in grado di esercitare verso qualsiasi dottrina o ideologia. Per questo era difficile per lui, come per gli altri latino-americani capire. Quando Dario cominciò a rendersi conto, cominciò la sua grande crisi, come mi raccontò la vedova, e il momento culminante fu la strage di Piazza Tien An Men a Pechino. Anche se siete giovanissimi, avrete forse sentito parlare di quel tentativo di democratizzare il regime comunista cinese che fu soffocato, purtroppo, ai danni soprattutto dei giovani, degli studenti che avevano preso parte a questa specie di rivolta. Addirittura, quando Dario seppe della strage, andò a casa e per la rabbia, lui che era un tipo estremamente mite, si mise a sfasciare la mobilia dalla disperazione. Si iscrisse in quel tempo ad una associazione per la “Morte dolce” nella Germania Occidentale. Cristiane non sapeva ovviamente niente, non sapeva neanche di questi gravi problemi psicologici. Dario decise di farla finita nel giugno 1989, aveva 48 anni. Disse alla moglie, che andava a Stoccarda per un convegno di scrittori tedeschi delle due Germanie, che erano ancora separate, le disse dunque che l’avrebbe raggiunta dopo qualche giorno. La raggiunse effettivamente a Stoccarda ma prese alloggio in un albergo e in base alle istruzioni che aveva ricevuto da questa associazione, prese del veleno e si suicidò. Non prima di avere scritto tre lettere: una alla moglie, per spiegarle e chiedere perdono; una alla polizia per spiegare e liberare i gestori dell’albergo da ogni responsabilità e infine la terza al direttore dell’albergo per chiedere scusa del disturbo che aveva arrecato. Quando seppi della sua morte rimasi colpito, esterrefatto, non mi spiegavo il perché. Poi seppi da un altro degli amici italo-brasiliani qui a Roma, che aveva avuto modo di parlare al telefono con Cristiane, che si era trattato effettivamente di suicidio. Per Dario hanno sicuramente influito due elementi: quello della ferita che rimane dentro per chi è passato per la tortura e non è riuscito a venirne veramente fuori e poi la delusione politica, dell’idea per la quale aveva vissuto, lottato, subito il carcere, la tortura, la persecuzione, l’espulsione dal paese che amava, l’impossibilità di tornarvi, con il crollo del mondo comunista, crollò dentro anche lui. Io credo, però, che la componente psicologica relativa alla tortura subita sia stata determinante, come anche in altri casi. Non so se già Ettore Masina vi ha parlato del caso di un frate brasiliano: Frei Tito De Alençao. Caso tipico ed esemplare delle vittime della tortura che non riescono a riprendere una vita normale e che concludono con il suicidio la loro esistenza. Ricordate Primo Levi. Dario non parlava mai delle sue drammatiche esperienza, ma una volta mi confidò che nelle pause fra le varie sedute di tortura, riusciva a parlare anche con i suoi torturatori. Da questo punto di vista era veramente testardo: cercava di convincere politicamente anche i suoi torturatori ……. che sbagliavano, che erano al servizio di un regime oppressivo che era contro l’uomo ecc. Bene, quando noi sapemmo della morte, di questa morte, noi della Rete dicemmo agli amici medici della sezione di Amnesty che già da un po’ si stavano occupando della tortura, se non fosse il caso di prendere qualche iniziativa per ricordare Dario e soprattutto di lavorare a favore delle vittime sopravvissute qui in Italia. Abbiamo organizzato il convegno in Campidoglio proprio per testimoniare l’esistenza della tortura, trovandoci noi Italiani più indietro rispetto ad altre nazioni europee. In Germania e in Danimarca esistevano infatti già allora dei centri per il recupero psicofisico dei torturati. L’intento di questi medici nostri amici contro la tortura era proprio quello di creare un centro anche in Italia. Inizialmente si parlò di Bologna, ma l’idea tramontò, tanto più che gran parte dei rifugiati passa per Roma. Quindi fu più utile scegliere Roma. In occasione di quel convegno, che riuscì molto bene, con la partecipazione di numerose autorità, non solo del Comune di Roma, nacque l’operazione Dario Canale. Pensammo cioè di dare un primo finanziamento di 20.000.000. Partì qui l’intervento di questi medici, prima esiguo, ma che col tempo è aumentato. Ci siamo poi fermati per qualche anno perché gli amici medici ebbero delle difficoltà: si scontrarono cioè non con l’ostilità, ma con la freddezza delle vittime stesse della tortura. Era indubbiamente difficile sapere chi avesse subito torture. Noi siamo naturalmente in contatto con il Centro Italiano Rifugiati e con altri centri che accolgono gli immigrati, per poter avere informazioni per entrare in contatto con loro. Piano piano invece la cosa si è sciolta, perché queste persone hanno capito che questi medici erano dalla loro parte e che volevano lavorare per il loro bene, per il loro benessere. Non erano semplicemente dei funzionari della Commissione del Ministero degli Interni che deve stabilire chi può avere lo status di rifugiato politico e chi no. Capirono quindi che i medici lavoravano gratuitamente, in maniera volontaristica, ed iniziarono ad affluire ai loro ambulatori ed hanno parlato. Come Rete Radiè Resch abbiamo ripreso a finanziare l’operazione sei anni fa, e attualmente diamo un contributo che, sembrerà ridicolo, ma è tanto per chi non ha nulla, di 16.000.000 annui. I medici poi, dandosi da fare e documentando la loro attività, sono riusciti ultimamente ad avere un finanziamento dall’ONU di 54.000.000.che però rischia di essere una-tantum. I medici sono molto grati alla Rete Radiè Resch perché possono contare di sicuro su questi soldi che servono ad alleggerire le difficoltà di sopravvivenza di queste persone e spesso dei loro familiari: tessere bus, alloggi, tessere telefoniche, spesa per gli interpreti ecc. adesso sono partiti anche degli incontri di psico-terapia di gruppo, proprio grazie agli interpreti. Si può far sì che la seduta sia veramente efficace. Pensiamo di continuare questa operazione nel tempo finché gli amici medici non saranno riusciti a trovare altre forme di finanziamento o autofinanziarsi. Fanno delle collette continue tra la gente che conoscono e tra loro stessi, mettendo spesso mano al loro portafogli. Io li rispetto e li ammiro enormemente. Li ho conosciuti da vicino, quattro dei quali sono amici che conosco da tanto tempo, perché alcuni facevano già parte della Rete Radiè Resch, ma poi ho potuto capire quanto il loro sacrificio di tempo e non solo, sia notevole. Vi ho portato una cassetta de “Il fatto” di E. Biagi, che sapete quanto riesce efficacemente a trattare i problemi in una decina di minuti. Questa trasmissione è dedicata alla tortura e risale ormai al dicembre del 2000: le cose, purtroppo, non sono cambiate affatto. Roma, 19/03/2002 Il dott. Mauro Gentilini è il coordinatore del gruppo di Roma dell’Associazione di solidarietà Internazionale Rete Radiè Resch INCONTRO CON GIANNI VAUDO So che avete già avuto un incontro sulla tortura. Altre volte sono andato nelle scuole molto tranquillo dicendomi “tanto non sanno nulla, me la cavo comunque”. Adesso sono invece un po’ preoccupato perché qui forse sapete un po’ più. Allora vi dico chi sono io: sono semplicemente una persona che ha fatto attivismo con Amnesty International per 12 anni circa, cioè come volontario in un gruppo, senza fare grandi carriere; poi essendo psicologo, ho iniziato ad interessarmi ad un gruppo di medici che si chiama “Medici contro la tortura”, iscritti ad Amnesty, che hanno iniziato a occuparsi di questo problema. Dieci anni fa hanno fatto una bellissima iniziativa nella Sala della Protomoteca, in Campidoglio, invitando dei relatori molto importanti a livello internazionale, che parlassero delle conseguenze della tortura sul piano medico e psicologico. Da lì è nato un po’ il mio interesse… Ho lasciato il mio attivismo con Amnesty e sto cercando di lavorare con persone che hanno subito maltrattamenti. In Italia, da qualche anno, sono nati gruppi di psicologi per l’emergenza: per esempio terremoti, attentati. Ci sono delle persone che hanno dei problemi a breve, medio o lungo termine di recupero, e quindi ci sono degli psicologi che decidono di andare a lavorare nell’emergenza. Io faccio parte di un gruppo che si chiama” Psicologi per i popoli”, che è diffuso su tutto il territorio nazionale. L’area di interesse è sempre quella. Sono qui in triplice veste: Amnesty, che è il primo interesse, di Medici contro la tortura e faccio parte di Psicologi per i popoli. Detto questo, mi piacerebbe molto se cominciaste voi, perché vengano fuori le cose che veramente vi interessano, che non avete già sentito,ed anche perché ciò che conta, quando sarete usciti dal Liceo, è il piccolo bagaglio che vi porterete dentro: può essere quella parola detta da Ettore Masina, da Giuseppe Lodoli, quella idea o emozione che vi hanno dato altri, oppure niente, è possibile. Karin: Come si può incominciare una terapia, come si può far dire alla gente ciò che ha passato? Vaudo: Scriviamo alla lavagna le parole chiave delle vostre domande: terapia. Matteo:Chi ha avuto la personalità completamente distrutta, può essere recuperato o lo choc è permanente? Vaudo: Scriviamo: recupero. Valentina: Come si può aiutare le perone che sono state torturate a denunciare, perché agiscano nel sociale ed aiutino gli altri? Vaudo: Scriviamo: aiuto e denuncia. Elisa: Come si pone il terapeuta a livello umano? Vaudo: Scriviamo: emozioni del terapeuta. Sabina: Quali sono i danni psicologi più gravi? Come si deve porre lo psicologo, come reagisce il paziente? Vaudo: Comincio a rispondervi. Per fortuna, si, si può recuperare la persona. Matteo è stato molto radicale. Ci sono dei gradi diversi, ed allora parlare di distruzione della personalità non è appropriato. Ricordo un articolo della fondatrice del centro danese di Copenaghen, in cui è stato realizzato uno dei primi centri su indicazione di Amnesty per il recupero dei torturati già 30-40 anni fa. Sono forse ancora all’avanguardia. Una delle affermazioni forti che lei fa in questo articolo, riguarda il possibile recupero di queste persone, non tutte e comunque, ma a pri gradi sicuramente si. Quindi c’è da essere ottimisti, nel senso che l’uomo è per fortuna abbastanza plastico, per cui gli si può lasciare una grossa impronta sopra, quella non si cancella, ma si può impedire che la sua vita sia distrutta. La tortura non si dimentica, però l’importante è reimmetterla in un sistema di vita, non accettare che la tortura devasti, annienti la propria vita e personalità. Ecco, questa è una credenza che la persona che ha sofferto molto può portare, e che va combattuta. Non bisogna accettare che la persona insista sul messaggio che “tanto non c’è niente da fare”. Se si sta davanti ad uno psicologo vuol dire che qualche speranza c’è. Approccio: in psicologia l’approccio non è unico, ci sono varie correnti e modalità. Comunque un indirizzo generale è quello di dare una grande accoglienza già con la persona che viene in terapia. L’approccio tradizionale della psicoanalisi è da scartare con la persona torturata. Immaginate cos’è posizionarsi dietro la persona che, essendo stata torturata, è stata bendata o incappucciata. Sarebbe ripetere una situazione di non controllo che non va invece ripetuta. Bisogna fare qualche piccola variazione: faccia a faccia con la persona e sicuramente non neutralità benevola da parte del terapeuta, ma grande umanità, il comportarsi ed il reagire da essere umano. E’ la cosa che tengo più a mente quando incontro una persona: restituirle una reazione umana, proprio come correttivo di quello che ha vissuto, in cui la cosa più grave è che è stata trattata disumanamente. Al suo dolore, le persone intorno, i torturatori, hanno reagito disumanamente; quello è il punto. La cosa peggiore della tortura è che tende alla disumanizzazione. Immaginate, sotto le peggiori torture, i torturatori che ridono, prendono in giro. Da questo, bisogna passare ad una reazione umana… Io, all’occorrenza,( so anche da altri psicologi, di una cosa che non si fa mai in psicoterapia normale, trattandosi di altri problemi) posso anche comunicare in maniera molto forte le mie emozioni, quando sento un racconto di quel tipo… Ci sono alcuni psicologi che scelgono di comunicare il proprio dolore, la propria compartecipazione. Sono convinto che questa modalità di reazione alla persona sia terapeutica, ho già avuto dei riscontri. La cosa più grossa che perde il torturato è la fiducia nel mondo, nel mondo sociale, nelle persone, ovviamente. Cercare di ridargli la fiducia, trasmettere che il mondo non è tutto nero, ma anche grigio e perfino bianco, è il tentativo di lavorare con le persone che hanno subito tali maltrattamenti. Ho parlato molto, ora ditemi voi. Matteo: Dopo quanto tempo le persone torturate riescono a tirare fuori ciò che hanno vissuto? Vaudo: Le persone sono molto restie e ne parlano malvolentieri, con serie difficoltà, ed è logico. Io vedo una persona del Camerun da oltre sei mesi, ma a tuttora non mi dice niente di ciò che gli è capitato, anche se io ne sono a conoscenza da altri referti medici. Né io posso tante domande, perché non posso ricreare un contesto neppure lentamente simile a quello della tortura, quando era sotto interrogatorio. Devo lasciare molto spazio, devo dare stimoli senza andare troppo a fondo; appena trovo qualche ostacolo, fermarmi. Senza contare quante volte queste persone che arrivano, hanno dovuto raccontare la loro storia: Avvocati, per essere aiutati, per chiedere lo status di rifugiati, devono passare una serie di iter, in cui hanno sicuramente raccontato la loro storia, in maniera fredda, distaccata emotivamente, se no non avrebbero retto. Tutti noi abbiamo, per fortuna, questi meccanismi di difesa, per cui stacchi le emozioni e racconti a livello di testa quello che riesci a raccontare. Però, questo meccanismo di difesa che è così strano, può diventare, nel tempo, l’ostacolo principale per riportare a galla quelle emozioni, cioè la vita. Se la persona continua a tappare le sue emozioni, a non voler parlare del suo trauma, quello continua a lavorargli dentro: mano a mano che riacquista la capacità di parlarne, di dare voce alla sua sofferenza, questo lo aiuta molto, comincia a ricollegarlo con il mondo. Solo dopo anni, a volte, riescono a parlare. Inoltre queste persone, in Italia, non è che passano una vita tale per cui, come torturati, hanno chi li coccola. Continuano a passare una serie di guai. Prima di tutto devono essere differenziati dalla massa di extra-comunitari che ci troviamo intorno. Per esempio, chi ti pulisce il vetro, chi incontri per strada in un gruppetto, non potresti mai sapere: può essere una persona che ha subito torture, più o meno gravi. C’è una gamma di cose terribili, dal pestaggio a cose inimmaginabili. M. Sanfelice: E’ difficile farsi riconoscere lo status di rifugiato? Vaudo: Questa domanda mi dà l’occasione di spiegare meglio cosa fanno i medici contro la tortura. Loro visitano queste persone che ovviamente sono venute al centro sociale per una serie di motivi: se c’è il sospetto di tortura, l’operatore dice “Guarda puoi farti visitare da questi medici, i quali ti faranno un certificato che aggiungerai all’esame della Commissione e che certificherà quello che troverà fisicamente”. Ciò aiuta sicuramente la persona, la quale conclude quasi sempre la sua richiesta dicendo “ Se torno nel mio paese sono a rischio di morte. Vi chiedo asilo politico”. Le preoccupazioni di queste persone sono tante: nel quotidiano la loro vita non è semplice, a volte non sanno dove andare a dormire, il presente non è facile. Tutto ciò che aiuta a dare tranquillità, sicurezza e supporto alla persona, è indirettamente un grosso aiuto a chi ha subito maltrattamenti. Se hai tanti problemi nel presente, puoi anche rivangare nel passato? Se invece hai cibo e letto assicurati, o la telefonata, è diverso. I medici chiedono sempre: la famiglia l’hai sentita? C’è chi risponde: “Non la posso sentire, se la chiamo individuano la chiamata ed è peggio”. Altra sofferenza. Altri dicono:”No, da mesi, perché non ho soldi”. Allora gli vengono dati dei soldi in modo da favorire questo primo contatto. Voi capite quanto sollievo possa dare ad una persona contattare i propri cari. Il nostro è un approccio multi variato. Adesso cominciato ad affiancarsi i fisioterapisti perché tante volte vengono lamentati sintomi fisici che non ci sono, che non sono giustificati da quello che hanno subito. Per cui tra fisioterapia e psicoterapia si cerca di affrontare la questione per altre vie. A. M. Cannas: Quante persone riescono a contattare Medici contro la tortura e di che provenienza sono? Vaudo: Sì certo, precisiamo che , Medici contro la tortura, non sorridete, è in realtà un nucleo di quattro persone, con intorno altre che ruotano, per interventi specialistici: Dentisti, Ginecologi, ecc. Sono peraltro personalità molto spiccate, ognuno con il suo modo. Si tratta di uno psichiatra, di un internista, di n medico legale, e di un epidemiologo, i quali riescono a fare un enorme lavoro. Le persone che arrivano da loro sono pre-selezionate dall’operatore nei due punti di appoggio fondamentali: la Caritas di via degli Astalli e la Casa Dei Diritti Sociali a via Giolitti, zona Termini. Lì ci sono operatori che accolgono queste persone che arrivano: se si capisce che si tratta di problemi legati alla tortura, vengono indirizzati a loro. Moltissimi sono i Curdi, sia iracheni che turchi. Un grosso gruppo sono anche i sudanesi. Uno dei nostri problemi fondamentali, in questi casi, è trovare un interprete, il quale non è solo interprete, ma anche un mediatore culturale. Infatti non si tratta solo di tradurre, ma far capire quello che appartiene ad aspetti o credenze popolari della loro cultura. Fare i mediatori culturali non è facile. Si tratta di ragazzi giovani, che a loro volta hanno subito maltrattamenti e che, in ogni caso, non sono certo venuti in vacanza in Italia. Sono assistite circa duecento persone l’anno ma sono in costante aumento. Ora ci si accorge, ma anni fa, questi medici hanno iniziato come persone di buona volontà, professionisti di buona volontà, i quali, quando c’era un problema coinvolgevano altri colleghi. C’è poi il paradosso di come funziona la psiche umana. E’ come se subire un trattamento che ti ha disumanizzato, invece di far cadere la vergogna su chi l’ha fatto, fa cadere la vergogna su di te. Per i torturati è così: il disonore della propria umanità ferita, è così forte che si ha una sorta di pudore paradossale a tirarla fuori. G. Lodoli: Ciò perché il torturato viene anche obbligato a cose che vanno contro i suoi principi morali. Vaudo: Sì, bisogna aiutarlo a combattere questi sensi di colpa, sostenerlo, riportarlo ad una chiarezza di pensiero, perché non deve in alcun modo farsene un’ulteriore carico emotivo. Sono condizioni di ansia elevatissime. M. Sanfelice: Qual è la personalità del torturatore e come prevenire questi fatti e non solo tentare di risolverli? Vaudo: Secondo me avere questa risposta è impossibile, sarebbe la chiave per prevenire il male umano. L’uomo è libero e se è libero, è previsto che possa fare il male …… è un mio pensiero. Si diventa comunque torturatori attraverso lo stesso processo di disumanizzazione. In certe situazioni forti, estreme, anche la persona più strutturata ed equilibrata crolla. Il torturatore, è ovvio, ha anche una componente di sadismo enorme; però ognuno di noi cosa sa di quanto sadismo ha dentro? Un altro aspetto riguarda certi luoghi comuni, come l’idea che possono essere torturati solo i dissidenti politici, di alto livello intellettuale, che la gente comune non sia interessata. Invece, purtroppo, la tortura può riguardare tutti, sia persone con parenti coinvolti, sia etnie specifiche come i curdi, vengono prese non per avere informazioni od altro, ma per restituirle ridotte a stracci alla comunità, con il monito: “Vedete, siete dissidenti, vedete come vi trattiamo, vedete che fine fate, vedete come siamo potenti, come possiamo ridurvi”. Maria: L’uso di armi da guerra, usate anche per tortura, o le cosi dette armi “non letali” sono prodotte o vendute anche da paesi europei, come è possibile? Vaudo: L’Inghilterra è tra i maggiori costruttori dei famigerati manganelli elettrici. Sono in effetti molto usati. C’è tutto un commercio sulle armi e strumenti di tortura. La ragione di Stato e la realtà delle cose sono agli antipodi. Amnesty si muove e viene anche incoraggiata da certe aree e forze politiche, ma poi è estremamente difficile intervenire. Devono essere i singoli a muoversi, che in qualche modo costruiscono una rete, per cui certe cose, legali o non legali, non siano più possibili. Fin quando questo processo non avverrà, è un processo ideale … ma, se non è questo il male del mondo, o parte del male del mondo, allora cos’è? Le persone devono raggiungere un’autocoscienza e cercare tutti gli altri con cui si condivide un certo pensiero e sostenerlo. Ognuno può fare nel suo piccolo, per la sua età, per quello che può. E deve evitare il qualunquismo. Io non vedo altre possibilità. G. Lodoli: Un altro approfondimento sarebbe quello che le peggiori violazioni dei diritti umani vengono promosse da una minoranza, approvate spesso da una maggioranza, tollerate da tutti gli altri. Tutta una nazione stava dietro al Nazismo. Tutti siamo responsabili di quello che avviene. Vaudo: Il manifesto di Amnesty contro la tortura, rappresentava vari visi di persone e si diceva: può colpire chiunque di voi. La tortura cioè, come avviene in tanti Stati, può essere rivolta contro chiunque, anche se di solito è rivolta alla popolazione adulta maschile. Donne e bambini sono invece sottoposti più spesso, come nelle guerre etniche, a stupri o abusi sessuali in genere. Senza contare il caso dei bambini-soldato della Sierra Leone. Bambini dell’altra etnia costretti a combattere con una serie di cerimoniali, a dieci anni o poco più. Si forma al disumano. Sono stati addestrati ad uccidere, e quando l’incubo è finito la loro etnia non li rivuole più. Ci sono centri per il recupero di questi ragazzi in vari paesi come Colombia, Uganda, Brasile ecc. Non è comunque facile reinserirli nelle loro famiglie. A.M.Cannas: Qual è il sostegno finanziario che Medici contro la tortura ha avuto finora? Come è appoggiata l’Associazione? Vaudo: La Chiesa Valdese dà dei soldi. Sono comunque ben accetti tutti i tipi di contributo. L’Associazione ha avuto anche un piccolo contributo dalle Nazioni Unite, ma si tratta ancora di finanziamenti molto saltuari che non permettono di estendersi e organizzarsi meglio. Queste non sono cose che rendono, e quindi lascio a voi dedurre ….. Ora, con fatica, c’è una sede a via Agresti dalle parti della Cristoforo Colombo. Oltre a salutarvi, vi ringrazio per il livello di ascolto, che è piuttosto raro. Vi invito a conciliare, anche alla vostra età, le cose quotidiane e quelle più importanti: Trovare il modo di assimilare anche le cose drammatiche, senza farsene travolgere. Roma 5/03/2002 RELAZIONI DEL GRUPPO DI LAVORO Il laboratorio che ho scelto di intraprendere, l’ho scelto fra tutti perché è quello più serio ed utile per una formazione personale. In pochi mesi di lavoro con ragazzi più grandi e con una prof.ssa preparata, ho conosciuto meglio cose di cui prima sapevo molto poco. Noi ragazzi abbiamo votato per occuparci di un diritto fondamentale tra quelli esistenti: IL DIRITTO ALL’INTEGRITA’ FISICA, quindi ci siamo interessati alla tortura. In un secondo momento, ricorrendo a qualsiasi fonte utile, ne abbiamo scoperto l’origine e lo sviluppo nel tempo. Non abbiamo mai avuto la pretesa di risolvere da soli un problema che da sempre impegna molta gente, ma ci siamo solamente uniti a loro, e credo che di questo ogni partecipante al corso debba sentirsi fiero. Non è stato semplice esprimersi di fronte agli altri (essendo una delle più piccole), ma non mi sono mai pentita di aver scelto questo laboratorio perché, vedendo poi i risultati, mi sono sentita molto gratificata. Sono anche convinta del fatto che siamo riusciti a combinare qualcosa di utile (ad esempio abbiamo cercato di evitare la lapidazione di una donna). Quello che mi piace di più è l’aver incontrato ragazzi maturi che sanno esprimere veramente nel modo migliore quello che pensano e sono convinti di poter fare qualcosa di buono! A questo punto bisogna anche riconoscere il lavoro (molto duro) dell’organizzatrice che, con tutta la professionalità di questo mondo, ci ha permesso anche di incontrare persone importanti; ad esempio Ettore Masina, noto giornalista e scrittore, che si occupa da tempo del problema della tortura; il Dottor Gianni Vaudo, uno psicologo che si impegna ad aiutare, anche con anni di sedute, persone che subiscono le violenze, ed il dott. Mauro Gentilini. Tutti loro sono stati carinissimi con noi, ci hanno ascoltato e soprattutto ci hanno raccontato le loro esperienze, rispondendo poi alle nostre domande. Delle tante cose che abbiamo fatto in questo corso, quella che mi ha colpito di più è stata la lettura di un testo autobiografico di Gina Gatti, una donna torturata insieme al marito negli anni ’70 in Cile. Lei, in questo testo, ha descritto molto accuratamente la sua esperienza senza tralasciare i particolari più atroci. Molti dottori l’hanno aiutata a rinascere ed a ritrovare la dignità e la fiducia negli altri. Io la stimo molto per averci raccontato quello che ha passato, non so se io ci sarei mai riuscita! Per concludere, vorrei consigliare ad ogni Preside di inserire un corso del genere nella propria scuola e consigliare ai ragazzi di frequentarlo. Valeria C. 1^AL All’inizio del laboratorio ci è stato chiesto il perché della nostra scelta. Riflettendoci ora credo di aver scelto questo laboratorio perché era l’unico che ci insegnava qualcosa sulla vita al di fuori della scuola, l’unico che ci faceva affrontare la dura realtà di ciò che ci accade intorno. Abbiamo operato la scelta di adottare un articolo della Dichiarazione Universale Dei Diritti Umani. A maggioranza di voti è stato scelto l’articolo 5 contro la tortura. In seguito ci sono stati vari incontri riguardanti la tortura: con Ettore Masina e Gianni Vaudo (quelli a cui sono stata presente), due persone che si battono per delle persone così sfortunate. Purtroppo sulla tortura le persone non sono informate, perché alla televisione o attraverso i mezzi di comunicazione, non se ne parla. Ma sfortunatamente, c’è anche molta gente che non vuole essere informata, che chiude gli occhi al resto del mondo ed alla realtà: anche se triste, la tortura e gli altri mali del mondo sono una realtà che ci circonda. Questo laboratorio per me ha significato tanto. Ho capito di voler essere una di quelle persone che agiscono attivamente per fare del bene a persone meno fortunate. Una cosa che mi ha colpito molto è stata la raccolta di firme proposta dalla prof.ssa Cannas e la nostra partecipazione attiva. La raccolta firme è stata a favore di Safyia, la ragazza nigeriana condannata alla lapidazione. Il fatto di sapere che anche la mia firma ha contribuito alla sua assoluzione, mi ha dato tanto, perché ho capito che, se tanta gente si unisce, c’è una speranza maggiore di combattere i mali del mondo. Ora abbiamo organizzato una raccolta di fondi da destinare ai medici contro la tortura, in modo da contribuire all’aiuto di persone tanto in difficoltà. Spero che questo laboratorio abbia aperto gli occhi ad altri ragazzi come me, e che quindi abbia lasciato tanto, almeno così è stato per me. Karin C. 1^AL Ad inizio anno, tra le varie opzioni di laboratori che potevamo scegliere, io ricordo di aver optato per “ADOTTARE UN DIRITTO UMANO” principalmente perché avevo intuito che, a differenza degli altri, in questo laboratorio, oltre ad imparare nuove cose importanti per la mia cultura, avrei potuto agire attivamente oltre le mura scolastiche e sentirmi soddisfatta per avere almeno tentato di dare un piccolo contributo a chi si occupa di gravi problemi. Come prima cosa, abbiamo deciso di adottare il diritto che riguarda la tortura. Ci siamo poi documentati sulla storia della tortura, i metodi più usati anche ai giorni d’oggi, in quali zone del mondo è più praticata: ammetto che queste notizie mi hanno lasciata perplessa. Non credevo proprio, ad esempio, che la tortura fosse così praticata e soprattutto in paesi moderni e civilizzati come gli Stati Uniti, che reputavo fossero ben lontani da problemi di questo tipo. Fino ad ora non sospettavo quasi per niente quanto fosse importante e diffuso questo problema, raramente mi è capitato di sentire alcuni casi di torturati, e questo mi lascia pensare che non siamo sufficientemente informati. Successivamente abbiamo avuto incontri con persone che si occupano della tortura e che ci hanno potuto fornire testimonianze dal vivo che hanno avuto con persone in passato torturate. Forse l’incontro che mi ha colpito di più è stato quello con Ettore Masina: tra le tante informazioni che ci ha fornito, ci ha illustrato le varie tipologie di tortura e raccontato alcune vicende di persone che ha incontrato nella sua vita che hanno subito delle torture. Ho appreso quanto sia più forte per queste persone il dolore psicologico, perché è difficile, anche dopo tanti anni, farsi aiutare da qualche professionista e far riaffiorare alla mente quello che hanno passato. Per fare un esempio, un giorno abbiamo letto un racconto di Gina Gatti, ex torturata cilena, in cui lei racconta come dopo la tortura era cambiata e non si riconosceva più e quanto tempo è trascorso prima che lei capisse di avere bisogno di aiuto per riuscire a riportare a gala la sua storia. Ora abbiamo raccolto dei fondi da dare all’Associazione Medici contro la Tortura e parteciperemo alla tavola rotonda che si terrà l’8 maggio, poi il laboratorio finirà. Non so se qualcuno di noi, compresa me, cercherà in futuro di fare volontariato o iscriversi a qualche Associazione, ma per quanto mi riguarda non dimenticherò mai ciò che ho appreso e mi rimarrà sempre impresso. Roberta G. 1^AL Prima di tutto perché ho scelto proprio questo corso: perché era l’unico un po’ diverso dagli altri, quello in cui si parla di qualcosa che pensiamo di conoscere abbastanza, ma di cui in realtà sai ben poco (e me ne accorgo sempre di più ogni martedì che passa), e poi, oltre a stare ad ascoltare due ore alla settimana, puoi anche dare un piccolo contributo effettivo. Cosa mi ha colpito maggiormente: sicuramente gli incontri con le persone che si occupano da anni di diritti umani che ci sono venuti a trovare. L’incontro con lo psicologo di Medici contro la Tortura mi ha chiarito perfettamente il lato di un percorso di un torturato, e cioè il recupero dopo la tortura, per il rientro in società. Mi appassiono sempre molto alla sfera psichica delle varie situazioni e mi sono resa conto che con questo tipo di persone, spesso l’esperienza o la preparazione che si può avere in materia, non bastano perché ogni torturato ha avuto un vissuto diverso e ogni volta bisogna saper affrontare il rapporto di conseguenza. Non occorre mostrare per forza le tue conoscenza in psichiatria, ma soprattutto le tue conoscenza e appoggio come persona, amico, confidente. L’incontro con Ettore Masina mi ha fatto capire che ciò che facciamo noi come gruppo scolastico è molto importante ma minimo, paragonato al lavoro di una vita di un uomo che si è sempre dedicato a questa grande piaga. Ma la cosa che mi ha stupito di più, positivamente, è che all’inizio di questo laboratorio non pensavo che avremmo veramente organizzato addirittura una “colletta di istituto” e un dibattito su questo tema. Insomma alla fine, sembriamo una vera “grande” organizzazione contro la tortura! Laura S. 3^AL All’inizio dell’anno, quando scelsi questo laboratorio, pensavo fosse solo un modo diverso per passare due ore a scuola. Queste due ore, invece, si sono rivelate molto interessanti ed istruttive. Qui non si sono fatti solamente discorsi e letture senza senso, che in futuro nessuno ricorderà, al contrario. Prima di questo anno io conoscevo vagamente il significato di tortura, non ero in grado di fare esempi, e la mia mente non riusciva a pensare a metodi di tortura così avanzati e pericolosi quali sono quelli attuali. Ora, quasi a fine anno, ho chiaro non solo il significato di tortura, ma ho anche in mente testimonianze, articoli, documenti e filmati. Questa esperienza è stata importante perché mi ha permesso di capire che nel mondo ci sono situazioni che, per me, sono ancora difficili da comprendere, mentalità completamente diversa dalla mia e fatti che avvengono quotidianamente a mia insaputa. Mi ha anche fatto capire che oltre al mio piccolo mondo che conosco e in cui vedo tutto tranquillo e pacifico, c’è tutto un grande mondo che è completamente lontano dalla pace e dalla tranquillità. Durante questo anno abbiamo avuto diversi incontri con persone che vivono la propria vita per aiutare i torturati e fermare i torturatori. Credo anche che l’idea di raccogliere fondi da destinare a “Medici contro la Tortura” sia stata una ulteriore conferma che questo tempo passato a scuola sia stato utilizzato bene e che il corso sia stato coinvolgente. Queste iniziative penso siano molto utili anche perché non sono temi molto conosciuti tra i giovani. L’incontro per me più interessante è stato quello con lo psicologo Gianni Vaudo. Mi è sembrato fondamentale capire come queste persone riescano ad aiutare i torturati. Un altro momento per me toccante, è stata la lettura della testimonianza di Gina Gatti. Giorgia T. 3^AL All’inizio dell’anno ho scelto di far parte del gruppo dei diritti umani perché ero sicura che le esperienze che avrei fatto mi avrebbero spinto a battermi per i valori in cui credo. Ciò che mi ha colpito maggiormente è stato vedere con quanta passione le persone si occupano di difendere i diritti dei più deboli. Dei vari incontri che si sono svolti in classe, quello che ho apprezzato di più è stato quello con lo psicologo Gianni Vaudo. Con semplicità ci ha spiegato quello che prova una persona che si trova di fronte ad una scelta: o l’opportunità di uscire dallo stato d’animo di profonda angoscia, anche se apportando ulteriore dolore a se stesso, oppure continuare a tenere tutto dentro. Penso che questa esperienza mi aiuterà nella vita, perché mi ha reso più matura e mi ha mostrato le tante facce della realtà, che anche se per noi può essere rosea, per altri può essere tremenda. Elisa T. 3^AL Inizialmente ho scelto di dedicarmi a questo corso per curiosità, ma quando sono entrato a far parte del gruppo, le notizie che ho saputo mi hanno colpito moltissimo. Questo corso è molto ben riuscito e il clima che si è creato tra di noi è stato molto caldo. Abbiamo lavorato insieme e, quello che più conta, è stato scoprire in questi avvenimenti qualcosa che ci ha aperto gli occhi. L’ignoranza che ci rende ciechi di avvenimenti che accadono ancora oggi sotto gli occhi di tutti ci ha fatto riflettere che ciò avviene nell’indifferenza quasi totale. Antonio C. 3^BL Tra i laboratori proposti, questo è sicuramente il corso più interessante più coinvolgente. Segue un progetto valido e meritevole che si pone come obiettivo quello di preoccuparsi e denunciare abusi e violazione dei diritti umani che avvengono spesso a nostra insaputa, anche nei paesi che si definiscono industrializzati. E’ stato un corso dinamico, ricco di spunti e di testimonianze, arricchito dalla presenza di persone che hanno voluto farci partecipi delle loro esperienze personali, comprendendo la serietà del nostro progetto. Il materiale a nostra disposizione è stato corposo, anche se la mancanza di strutture nella scuola ha un po’ limitato il nostro raggio di azione; per esempio, un eventuale postazione internet ci avrebbe permesso di accelerare i tempi e di lavorare con maggiore immediatezza. L’aver avuto l’ attenzione di Amnesty International è per noi un grande traguardo, perché significa essere riusciti a lasciare un segno, essere riusciti ad attirare l’attenzione della più famosa, importante ed attiva organizzazione per la tutela dei diritti umani. Ora attendiamo la tavola rotonda di fine corso, con la quale chiunque avrà la possibilità di conoscere il nostro lavoro e di partecipare in prima persona al raggiungimento del nostro scopo: sensibilizzare le coscienze su questo problema. Alessandro V. 3^BL All’inizio dell’anno ogni studente ha dovuto scegliere di quale laboratorio far parte ed io ho deciso di partecipare a quello sui diritti umani. Nel corso delle due ore settimanali abbiamo poi scelto il diritto da adottare, ed è stato scelto l’articolo relativo alla tortura. Personalmente ho deciso di far parte di questo gruppo perché si parla di un argomento attuale e perché forse insieme riusciremo a fare un piccolo passo verso la costruzione di un mondo migliore. Ciò mi ha permesso di conoscere cose che non avrei mai pensato, mi ha dato modo di sapere quanto sia grande la crudeltà umana e quanto sia diffuso il sadismo nel mondo. Inoltre penso che sia stato un corso non solo istruttivo ma che ci ha dato la possibilità di sapere cose tenute all’oscuro, molto bello perché abbiamo avuto la possibilità di parlare con persone competenti come Ettore Masina, Gianni Vaudo, Mauro Gentilini che ci hanno messo al corrente di ciò che sta succedendo nel mondo e che ci hanno aiutato a trovare delle piccole strade che ci potrebbero portare alla soluzione del problema. Per l’8 maggio abbiamo organizzato una tavola rotonda che renderà partecipe chiunque voglia e se la senta di fare qualcosa per questo problema. Riusciremo a trovare qualche soluzione? Noi ci proviamo, ed invitiamo a partecipare tutti a questo incontro. Giulia C. 4^AL La tortura, più che un atto disumano, è purtroppo un profilo bestiale che l’uomo possiede da sempre. Non riuscendo a ragionare, a trovare una soluzione per sfogare la sua ira, tende sempre a scatenarsi contro il prossimo come un essere frustrato. Da sempre tutti sanno cosa sia la tortura o la persecuzione, ma la maggior parte delle volte nessuno ha mai avuto il coraggio di alzare la testa e gridare contro tanta sofferenza. Pensiamo, che sin dal Medioevo venivano bruciate vive le streghe e gli eretici (anche se spesso non erano tali), data l’epoca, si potrebbero anche giustificare comportamenti tanto atroci, l’uomo non aveva proprio il “lume” della ragione. Ma quando si arriva discriminare, perseguitare, torturare, martoriare il prossimo e infine ucciderlo, per sopraffarlo, allora sento proprio di dover fare qualcosa, anche se rimango nel mio piccolo, dove fortunatamente insieme a me ci sono altri ragazzi pronti a muoversi contro questa arma antica che è la tortura. Spero che anche altri ragazzi ed anche adulti prendano a cuore questo argomento e sentano, come abbiamo fatto noi, il peso di tante vite in pericolo. Cecilia S. 4^AL Quando ho scelto questo corso come opzione di laboratorio,non mi aspettavo nulla di concreto, anzi, non pensavo mai che saremmo arrivati addirittura ad una raccolta di fondi per “medici contro la Tortura”. Ricordo di aver scelto questo laboratorio perché non mi andava proprio a genio quello a cui assistevo: mi riferisco ai massacri in Terra Santa, e perché speravo di saperne di più. Non che ora la situazione sia molto cambiata, ma so che si può fare qualcosa per rimediare. Alla luce dei fatti, dopo i vari incontri, riconosco che la situazione del rispetto dei diritti umani è disastrosa, inesistente. Grazie a questo laboratorio ho capito anche che c’è la speranza di aiutare chi subisce queste violazioni, anche se in piccolo. Mi sono divertita, mi sono incuriosita, mi sono informata, e purtroppo mi sono resa conto che ciò che i media ci fanno sapere non è sempre “ tutta la verità”. Quello che pensavo fosse un laboratorio in cui non si sarebbe fatto niente, si è rivelato una gran cosa, interessante e soprattutto concreta. Posso dire di essere pienamente soddisfatta della mia scelta. Maria V. 4^AL Ho scelto il laboratorio dei diritti umani perché ho sempre pensato che i diritti dell’uomo non vengono mai presi veramente in considerazione. Inoltre vedendo gli ultimi avvenimenti, ho capito che il diritto che viene maggiormente violato è il diritto alla vita, il diritto al rispetto dell’esistenza. Affrontando soprattutto l’argomento relativo alla tortura, facendo ricerche, ascoltando varie testimonianze, ho sviluppato le mie conoscenze che mi hanno portato ad un interesse maggiore sull’argomento. Ovviamente sono cose toccanti che lasciano un segno e che ci convincono sempre di più ad aiutare le persone che sono vittime della tortura e ad eliminare definitivamente questo grande nemico. Anna D.B. 4^AL Mi sono accorto che questo corso mi ha dato uno stimolo solidale che non mancava nella mia vita, ma non era espresso in modo evidente. Filmati e discussioni mi hanno portato ha riflettere sulle conseguenze a cui possono condurre metodi distruttivi come la tortura, che non colpisce l’uomo solo fisicamente, ma anche moralmente. Il corso è stato esauriente su questi argomenti e anche la partecipazione di uomini che sono impegnati nelle campagne a favore dei diritti umani,mi ha colto un po’ di sorpresa, perché non immaginavo un corso così completo. Un aspetto negativo (che non interessa questo laboratorio) è stato nel vedere molte persone disinteressate e non colpite da queste crude realtà che dovrebbero portare maggior coinvolgimento in tutti. Comunque un altro aspetto positivo consiste nella raccolta di fondi per aiutare un’Associazione che appoggia i diritti umani. Spero vivamente che questo nostro piccolo sforzo, possa servire a spezzare una catena di indifferenza che deve essere spezzata dalla nostra volontà di aiutare il prossimo. Andrea N. 4^CL Amnesty International è l’organizzazione che più si occupa nel mondo della tutela dei diritti umani. In tutta Italia si sono formati gruppi di lavoro frequentati da ragazzi che, assistiti da docenti e da esperti in materia, hanno potuto approfondire le loro conoscenze dei diritti umani, che vengono quotidianamente calpestati. Nella nostra scuola abbiamo deciso di adottare il diritto a non subire violenze, il diritto a non essere torturati sia in guerra che in pace, sia per motivi politici che per motivi sociali. L’intervento di Ettore Masina è stato veramente chiarificatore: ha sottolineato la crudeltà dei metodi di tortura e gli effetti terribili sulla personalità delle persone, talmente fragili da non essere in grado di rapportarsi più con il mondo esterno. Al giorno d’oggi la violenza è spesso gratuita e colpisce soprattutto donne e minori. Andrea P. 4^CL Amnesty International tenta con tutti i mezzi possibili, dichiarazioni e contributi concreti, di risolvere concretamente qualche caso, Noi come gruppo di giovani ci siamo avventurati, con l’aiuto con alcuni esperti in materia, come Ettore Masina, in un percorso conosciuto in tutto il mondo per la sua crudeltà: La Tortura. Abbiamo preso in considerazione anche il caso di Safyia. Molte sono le donne torturate o imprigionate ingiustamente, solo perché hanno tentato di far valere i loro diritti. La volontà e l’impegno di un gruppo di giovani non può evitare questa violenza, ma sicuramente insieme ad Amnesty può dare il suo contributo. Enrico S. 4^CL Il corso da me frequentato ha avuto due fini fondamentali: quello di sensibilizzarci maggiormente riguardo al problema tanto grave della tortura, e quello di informarci in modo approfondito di ciò che concerne le varie sfaccettature di tale argomento (o diversi metodi di tortura impiegati in ogni angolo del mondo, il reinserimento del torturato nella società, ecc.). Nonostante la delicatezza del tema affrontato, grazie a vari incontri con esperti preparatissimi e validi esponenti di Associazioni umanitarie come Amnesty International, tutto è stato affrontato in maniera semplice e costruttiva. Con certezza, questo corso ha lasciato in me un segno indelebile tale quale alle cicatrici di uomini, che per un ideale politico, per intolleranza religiosa o per altro ancora, sono stati torturati e privati della propria dignità. Concludo sostenendo che tale corso è stato un ulteriore incoraggiamento a proseguire la lotta per cambiare in meglio il nostro mondo. Francesco D.R. 5^AL Frequentando il corso sui diritti umani, ho potuto conoscere una realtà spesso nascosta e oscurata, taciuta all’opinione pubblica. Abbiamo adottato l’art. 5 riguardante la tortura, e ci siamo adoperati al meglio per capire di che cosa realmente si trattasse con incontri con persone importanti e umanamente ammirevoli, di varie associazioni come Amnesty e Medici contro la Tortura. Queste persone ci hanno riportato esperienze dirette dandoci l’opportunità di interagire con loro con domande, rivolgendo loro le nostre perplessità ed incertezze. Ci hanno parlato della condizione psicologica dei torturati e delle difficoltà che essi incontrano ritrovandosi ad affrontare nuovamente una realtà ormai distorta, piena di sfiduci a nella vita stessa e soprattutto nel prossimo, della condizione fisica dei torturati, i quali portano con se le ferite che il più delle volte non sono ferite visibili dati i metodi atroci utilizzati (come scosse elettriche nei punti più delicati del corpo) facendo in modo che non rimangano segni. Il torturato è portato a perdere totalmente la dignità e il rispetto umano. Abbiamo cercato di affrontare il problema documentandoci, cercando di affrontare le motivazioni che spingono a tanta brutalità, mettendoci in contatto con l’Associazione Medici contro la Tortura e mobilitandoci attivamente, concretamente, trovando dei fondi proprio per sostenere questa Associazione. Questi medici offrono infatti ai torturati di diverse e molteplici etnie e culture, rifugiati in Italia, non solo un’assistenza medica e psicologica, ma anche un sostentamento per poter affrontare al meglio il “soggiorno” nel nostro paese. Abbiamo inoltre affrontato il problema del disagio delle donne prevalentemente nel Medio Oriente, mobilitandoci per Safyia. Questo corso pur nella sua più brutale crudezza mi ha fatto aprire gli occhi su una realtà spaventosa e fuoriuscire dal mio piccolo mondo perfetto, Anche noi nel nostro piccolo possiamo fare qualcosa. L’importante è l’informazione, la divulgazione e soprattutto saper alzare la voce. Giulia P. 5^AL Se devo proprio trarre delle conclusioni e dire la mia su questo corso, devo dire che sono stata molto soddisfatta e contenta che sia stato organizzato. Inizialmente la scelta dell’argomento da affrontare non è stata facile e rapida perché, purtroppo, sui diritti umani c’è moltissimo da discutere e da riflettere. Abbiamo affrontato la tematica della tortura: una realtà da sempre conosciuta ma che, come tutte le cose e situazioni scomode, vengono sempre messe in secondo piano. Ho avuto la possibilità, grazie a questi momenti di confronto di riflettere, dire la mia e nel mio piccolo fare qualcosa di concreto; quindi la soddisfazione di aver potuto aiutare chi ha veramente bisogno in modo semplice, umile, ma estremamente intelligente. Spero che anche i miei “compagni di viaggio” la pensino come me e che abbiano imparato qualcosa da tutte queste dure verità che ci circondano, che purtroppo non sono mai abbastanza evidenziate e analizzate. Vanessa S. 5^AL Quando ho saputo dell’esistenza di questo laboratorio, mi sono detta che era fatto apposta per me. Era da tempo che riflettevo sulle piaghe che affliggono questo mondo, e, se da una parte il vedere determinate cose mi indignava al punto da star male,dall’altra riguardava un puntino inerme contro forze incontrollabili e incontrastabili. Ero convinta che i miei “travasi di bile” non potessero cambiare ciò che non andava. Poi è arrivato il corso e un nuovo alito di speranza ha cominciato a vivere dentro di me, non ero più un puntino senza un arma per combattere, c’erano tante altre persone che, come me, non accettavano di vivere in un mondo sbagliato. Incontrando giornalisti, medici ed attivisti ho scoperto quanto sia grande il potere di una singola persona, se questa decide di fare qualcosa di buono per coloro che hanno bisogno di aiuto. Quando si è trattato di raccogliere le firme, per salvare la vita di Safyia, mi sono sentita utile e forse lo sono stata. Prendere parte a questa iniziativa è stata davvero una grande esperienza, perché mi ha insegnato ad aprire gli occhi ed a credere che tutto è possibile, basta volerlo. Valentina D.A. 5^AL Ho scelto il corso sui diritti umani perché mi è stato presentato come una iniziativa attiva e proficua. Forse un piccolo contributo a cambiare il mondo lo abbiamo dato anche noi. Molto interessante è stato l’intervento di Ettore Masina che ha saputo sensibilizzarci su ciò che riguarda la tortura. Il racconto di Mauro Gentilini su alcuni episodi relativi alla vita di Dario Canale mi hanno fatto riflettere; ma soprattutto la visione di un breve filmato da lui portato mi ha fatto pensare”Come è possibile nel 2000 una cosa del genere?” In qualche modo i nostri incontri non si sono ridotti a parole al vento, ma di fronte a questi avvenimenti terrificanti abbiamo cercato di agire concretamente, Spero che nei miei prossimi anni potrò lottare anch’io per combattere ciò che non mi piace. Non bisogna rassegnarsi perché ognuno di noi, nel suo piccolo, può contribuire a migliorare il mondo. Cristina F. 5^AL Questo corso ci sta permettendo di fare qualcosa in prima persona per i diritti umani. Noi, piccolo gruppo, lavoriamo nell’ambiente scolastico e cerchiamo di promuovere la conoscenza dei diritti umani e la difesa delle vittime delle violazioni di questi diritti. Il nostro gruppo si è proposto di conoscere gli strumenti internazionali che tutelano i diritti umani, ci siamo poi interessati e documentati a ciò che è, adesso come un tempo, la tortura. Ci ha colpito molto la vicenda di Safyia. In molti paesi le donne che tentano di far valere i propri diritti fondamentali rischiano la tortura, l’imprigionamento o la morte. Alcune si battono per i “familiari scomparsi”, altre contro la tortura e la violenza, altre per la parità dei diritti in materia di lavoro, di godimento della terra o di accesso al credito. Il fallimento della comunità internazionale non consiste solamente nel fatto che essa non è riuscita a garantire alle donne i loro diritti sociali, economici e culturali, ma nel fatto che i governi non hanno mostrato la volontà di prevenire le violazioni dei diritti civili e politici delle donne, in alcuni casi hanno addirittura consentito tale violazione. La responsabilità degli abusi ai danni delle donne non è solo dei governi. Gruppi armati di opposizione adottano tattiche di repressione e terrore per raggiungere i loro obiettivi nei tanti conflitti che minacciano tante nazioni del mondo. Angela L. e Pamela M. 5^AL Per rispondere alla domanda “Perché hai scelto questo laboratorio?” potrei fornire varie ragioni. Ma c’è qualcosa che mi ha spinto in particolare, insieme ad un gruppo di compagni, ad adottare un diritto umano. Mi sembrava assai originale e interessante questo progetto che ci chiede di sensibilizzare e sensibilizzarci. La nostra società (lo scrivo anche se potrei apparire scontata) vive un periodo difficile, deludente direi, pieno di cose da cambiare. I diritti che definirei naturali vengono violati; mentre noi nel nostro piccolo pensiamo a cosa indossare questo oggi, c’è qualcuno che è costretto a vivere lottando continuamente contro chi gli nega il diritto di essere: essere libero di pensare, libero di essere se stesso. Ciò che ha attratto la mia attenzione, è il fatto che le ore del nostro laboratorio non dovevano essere sfruttate solo per dibattere, per le solite quattro chiacchiere in molti casi inutili e inconcludenti, ma per andare nello specifico, adottare un solo diritto umano scelto da noi, studiarlo e studiare dove, come e perché viene violato. Così è stato. La mia attenzione, il mio interesse, sono stati richiamati da tutto questo, ma ciò che ancora mi stimola a portare avanti questo progetto è la convinzione che non serve fare grandi cose. Se riescono ben vengano, ma basta un piccolo gesto di un piccolo gruppo che passa parola, e qualcun altro farà la sua parte: questo funziona sempre. Forse non saremo in grado di salvare vite, ma è importante che da parte nostra una fiammella che resta sempre accesa rappresenti la speranza. Credo davvero che un altro mondo sia possibile. Sabina P. 5^AL Quando ci hanno dato il foglio con la lista dei laboratori, per il primo anno ho fatto una scelta basata sui miei veri pensieri, e non solo una scelta del tipo “Va beh … andiamo a fare questo perché mi serve per recuperare qualche materia”. Abbiamo iniziato il corso, e la prof.ssa Cannas che lo teneva, ci ha spiegato di che tipo di argomenti avremmo parlato, e ciò suscitava sempre di più in me curiosità e voglia di essere attivo in questo lavoro sulla tortura e sulle ingiustizie tuttora compiute a discapito di tante persone innocenti. Questi incontri, oltre ad essere educativi dal punto di vista conoscitivo, sono stati per me anche un corso di “Moral-building”, nel senso che sapevo alcune cose, per le quali avevo già preso una posizione al riguardo, ma vivendoci dentro, ho imparato moltissime altre cose. Non ho trovato niente di negativo in questo corso, penso che sia molti di noi, sia soprattutto la prof.ssa, abbiano messo anima e corpo in questo progetto lavorando con serietà e attivismo. Importanti per la nostra preparazione sull’argomento sono stati sicuramente gli incontri che abbiamo avuto, ma per mia sfortuna non ho potuto assistere all’incontro con Ettore Masina, ma le persone presenti mi hanno riferito che è stato molto interessante. A mio avviso è stata buona l’idea di raccogliere fondi per “medici contro la Tortura”, raccolta che coinvolge tutto il nostro liceo. A fine corso mi sento cresciuto in senso morale, e le mie idee sull’argomento tortura, le ho sentite più mie e più forti. Albert W. 5^AL Ritengo che questo laboratorio sui diritti umani sia stato molto costruttivo. Ho imparato molte cose interessanti e sono cresciuto anche interiormente. Mi sono piaciuti molto gli interventi di Ettore Masina e del dott. Gianni Vaudo: sono stati ambedue molto chiari e sono riusciti a catturare la mia attenzione con argomentazioni molto interessanti. Ora sono consapevole di cose di cui prima non ero a conoscenza, e questo grazie anche alla bravura della prof.ssa Cannas, che ha saputo coinvolgerci in maniera egregia. La “tavola rotonda” che si terrà l’8 maggio sarà fondamentale per tirare le somme di questo viaggio. Il tema della tortura, da noi adottato, è forse troppo trascurato dai mezzi di informazione, ma siamo riusciti a repererire molti documenti che ci permetteranno di costruire un vero e proprio dossier. La decisione di aiutare finanziariamente l’Associazione dei Medici contro la Tortura è stato un atto di generosità molto bello, e ho potuto constatare personalmente. essendo stato uno di quelli incaricati della raccolta dei fondi, la disponibilità di coloro che sono nella nostra scuola e che hanno contribuito a questa causa. In conclusione, posso dire di uscire da questo laboratorio sicuramente arricchito, ma soprattutto sono diventato molto più sensibile nei riguardi di coloro che vedono i loro diritti lesi da persone prepotenti; inoltre, ora so molte più cose sulla tortura, e queste informazioni sono sicuro che mi saranno utili per tutta la vita. Matteo S. 5^BL CONCLUSIONI Vorrei esprimere alcune considerazioni relative a questi mesi trascorsi con i ragazzi che hanno scelto il Laboratorio “ADOTTARE I DIRITTI UMANI: PAROLE E FATTI “. Innanzitutto, la mia iniziale perplessità nel proporre un’attività importante e impegnativa, che mi faceva temere di non avere molte iscrizioni: perplessità che è svanita nel rendermi conto che ben 25 ragazzi, dalla 1^ alla 5^ classe, avevano invece avuto il coraggio di affrontare una tematica non proprio leggera e che, oltre a tutto, li impegnava molto concretamente. “Parole e fatti” , la condizione basilare di questo progetto, ha implicato infatti non solo una parte teorica , ma anche una scelta concreta: l’adozione dell’Associazione Medici contro la tortura. E’ stata l’ulteriore prova della bontà del progetto diretto dalla prof.ssa Gioia Longo Di Cristofaro dell’Università degli Studi La Sapienza, che ha già funzionato egregiamente in centinaia di scuole. La lettura della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo è stato il nostro punto di partenza. Sono seguite letture di altri testi e documenti vari, in gran parte forniti dagli stessi ragazzi, impegnati in ricerche su Internet. Alla conclusione delle nostre riflessioni, si è poi giunti, tramite votazione, alla scelta del diritto N° 5 , contro la tortura,il quale asserisce: “Nessuno sarà sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti”. Ecco perché l’adozione di questa associazione volontaria. Coscienti dei nostri limiti, abbiamo almeno tentato di operare una scelta che ci facesse sentire un po’ meno impotenti. Il dibattito ed il confronto di idee all’interno del gruppo è sempre stato buono: ma il vero punto di forza sono stati gli incontri con Ettore Masina, Gianni Vaudo, Mauro Gentilini. Le testimonianze che hanno portato, dirette e indirette, con la drammaticità delle situazioni descritte e vissute, credo abbiano lasciato un grande contributo di riflessioni ad ognuno di noi. Parte del nostro tempo è stata dedicata anche alla drammatica vicenda di Safyia, la donna nigeriana condannata alla lapidazione. E’stata seguita regolarmente la rassegna stampa, si è cercato, via e-mail, un contatto con la redazione della rubrica radiofonica “Zapping”, che tanto ha fatto in questa occasione, ed infine abbiamo raccolto circa 200 firme di protesta inviate all’Ambasciata nigeriana. Dopo aver raccolto tutte le nostre riflessioni in una relazione finale, abbiamo chiuso i nostri incontri con la visione del film “Garage Olimpo”, di Marco Bechis sulla tragedia della storia recente relativa ai desaparecidos argentini. La tavola rotonda conclusiva che abbiamo organizzato, vuole essere proprio il più giusto epilogo di questa esperienza, che si vuole con forza condividere con tutti coloro che vorranno parteciparvi. Ne saranno protagonisti Ettore Masina; Andrea Taviani, di medici contro la tortura; la prof.ssa Gioia Longo e la signora Gina Gatti, la quale sarà tra noi proveniente da Modena dove risiede e che sarà la vera, unica testimone di una tragica esperienza di vita e della forza necessaria per uscire fuori da certe esperienze. In conclusione, devo dire che ho vissuto un’esperienza veramente costruttiva, che mi ha inoltre consentito di scoprire tanta sensibilità, intelligenza e spirito critico in ragazzi che talvolta, a torto, vogliono apparire superficiali o interessati a ben altro. Mi auguro vivamente che, come qualcuno di loro già ha detto, questi interessi vengano coltivati anche fuori dalla scuola e che vengano vissuti come una vera crescita sia civile che delle loro personalità, non solo in senso egoistico, ma rivolgendo la propria attenzione anche agli altri e verso tematiche spesso durissime. Devo dei ringraziamenti a tanti. Ringrazio il nostro Dirigente Scolastico, prof. Baiocco ed il Collegio Docenti, che approvando questo progetto speciale ne hanno reso possibile l’attuazione. Un particolare ed affettuoso grazie alla collega Marina Sanfelice ed a suo marito Giuseppe Lodoli, per il loro appoggio assiduo, concreto e morale; la prof.ssa Fotia che ha partecipato attivamente con il suo gruppo di giornalismo, all’incontro con Ettore Masina; la prof.ssa Nesso, i tanti colleghi della sezione linguistica compreso il personale non docente, che con la loro disponibilità hanno contribuito alla buona riuscita della raccolta dei fondi; tutta la Sede centrale, che in tutte le sue componenti ha aderito e partecipato con interesse ed altrettanta generosità. Non ho parole, infine, per ringraziare Ettore Masina, Gianni Vaudo, Mauro Gentilini, Andrea Taviani e Gina Gatti per il loro fondamentale apporto e l’eccezionale disponibilità nell’incontrare i ragazzi del nostro liceo. Roma li, 30/4/2002 Il docente coordinatore del gruppo Note: 1. Il logo della copertina è di Francesco De Rocco, il titolo “Insieme contro la tortura” è stato proposto da Pamela M. 2. La trascrizione delle registrazioni effettuate durante gli incontri è stata da me curata dando precedenza all’aspetto discorsivo e probabilmente a discapito di una buona forma italiana. 3. Ho accantonato l’idea iniziale di una relazione unica del gruppo perché la spontaneità e l’immediatezza delle singole relazioni mi sono sembrate molto più efficaci di una eventuale mia elaborazione che le sintetizzasse. 4. Il testo di questo dossier sarà disponibile tra i Progetti Speciali del POF, sul sito ufficiale del Liceo Orazio http://www.liceo-orazio.it