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Francesco Denozza, Università di Milano
XVIII Seminario Italospagnolofrancese di Teoria del Diritto XVIIIe Séminaire Franco‐italo‐espagnol de Théorie du Droit XVIII Seminario Hispano‐italiano‐francés de Teoría del Derecho Università Commerciale Luigi Bocconi, Milano 26 e 27 ottobre 2012 Tavola rotonda: Modelli economici e scienza giuridica Bozza dell’ intervento di: Francesco DENOZZA 1- L’unico modello economico a mia conoscenza che abbia avuto presso i giuristi un successo generalizzato e duraturo è quello proposto dal movimento c.d. di Law & Economics. E’ solo di questo perciò che mi occuperò nel mio intervento. Mi riferirò a questo movimento di pensiero usando la locuzione analisi economica del diritto ( EAL nell'acronimo inglese) non senza avere ribadito in limine che il nome non ne rispecchia il contenuto. L'EAL non consiste nell'analisi dei fenomeni giuridici posta in essere con i metodi della scienza economica. Si tratta invece dell'inquadramento del ragionamento giuridico all'interno dei canoni di una specifica scuola economica che, seppure per molto tempo dominante nell'ambito della dottrina, rappresenta non l'acquisizone definitiva e incontrastata della scienza economica, ma uno specifico e selettivo punto di osservazione dei fenomeni classificabili come economici. Con ciò vorrei che fosse chiaro che la critica che muoverò ai fondamenti dell'EAL implica una critica di questo specifico punto di vista e non implica in alcun modo una critica all'idea di utilizzare i metodi e le acquisizioni della scienza economica al fine di meglio comprendere le caratteristiche della realtà cui le norme devono essere applicate L' ossatura teorica dell'EAL si compone di un assunto, un giudizio di valore e di un ponte tra i due. L'assunto è che gli individui ispirano il loro comportamento al criterio del razionale perseguimento della massimizzazione del loro benessere personale. Il giudizio di valore pone la massimizzazione del benessere complessivo come l'obiettivo principale che la società deve perseguire. Il ponte è costituito dall'idea per cui il modo migliore di perseguire questo obiettivo è quello di consentire agli individui di perseguire senza ostacoli la loro naturale tendenza a massimizzare il loro benessere individuale. La mia profonda convinzione è che, osservati oggi a distanza di circa mezzo secolo dagli esordi del movimento, nessuno di questi tre elementi fondanti è minimamente in grado di resistere alla critica. 2- E’ ovvio che molti non condivideranno questa convinzione. Al di là del fatto che i sostenitori dell’EAL, più o meno ortodossi e più o meno entusiasti, siano ancor oggi numerosi, l’affermazione è probabilmente troppo tranchant per risultare condivisibile anche presso osservatori non del tutto simpatetici con l’EAL. Mi rendo conto di ciò, ma non intendo ammorbidire il giudizio, e ciò perché sono convinto che sia giunto il momento di cominciare a chiedersi non tanto se l’EAL sia giusta o sbagliata, quanto come sia stato possibile che una teoria così rudimentale sul piano filosofico, e così opinabile sul piano pratico, abbia potuto conquistare tra i giuristi, e non solo, l'enorme credito di cui tuttora gode. A coloro che sono ancora convinti che l’EAL sia in tutto o in buona parte accettabile, questo mio intervento probabilmente non dirà gran che. Chi dovesse invece condividere il giudizio negativo pocanzi espresso, e che riguarda i fondamenti stessi, e non semplici estensioni o applicazioni dellEAL, sarà forse indotto da questo cambio di prospettiva a qualche nuova riflessione. Brevemente sui tre punti: successo, debolezza dell'impianto filosofico, opinabilità pratica. Il successo mi sembra indiscutibile. Non si tratta solo e tanto di contare i giuristi che hanno esplicitamente aderito all'EAL ( che almeno in Europa non mi sembrano, tutto sommato, la maggioranza) quanto di considerare l'influenza che i suoi schemi concettuali hanno avuto sul dibattito dottrinale a livello internazionale e sull'inquadramento dei più importanti problemi di politica legislativa, con conseguente influenza sui legislatori ( compresi quelli europei) La debolezza sul piano filosofico. Basterà qui ricordare che la discussione sui suoi fondamenti, svoltasi oramai molti anni orsono, evidenziò una serie di limiti teorici ( dalla arbitrarietà delle aggregazioni di benessere, alla non invarianza della unità di misura - il denaro- che dovrebbe consentirne il calcolo, dalla assurdità della separazione dei profili allocativi da quelli distributivi, alla inaccettabilità del primato attribuito all'efficienza rispetto all'equità, ecc). Anche la rielaborazione di alcuni suoi assunti fondamentali (come il riferimento prioritario alla proprietà, al contratto e al mercato) all’interno di più raffinate elaborazioni ( penso a quella di Rawls e ancor più, sul piano delle affinità elettive, a quella di David Gauthier) conduce ad esiti ben diversi da quelli propugnati dall’EAL ( si pensi che la property - owners democracy di Rawls consacra mercato, contratto e proprietà personale, ma non la proprietà dei mezzi di produzione, con esiti che certo non suonano musica alle orecchie dei sostenitori dell’EAL; anche la famosa tesi di Gauthier che individua nel mercato una morally free zone e che potrebbe mostrare qualche affinità con la pretesa dissociazione tra efficienza e giustizia distributiva, appare più un espediente teorico, riferito ad una situazione riconosciuta come puramente ipotetica- il mercato di concorrenza perfetta- che non un argomento effettivamente suscettibile di sviluppi operativi) Quanto all'opinabilità degli assunti basterà ricordare le indagini dei behavioristi da una parte e soprattutto dei sociologi economici dall'altra, e in particolare la critica sviluppata da questi ultimi all'idea, centrale nell'EAL, di impostare l' analisi partendo dalle singole transazioni che si svolgono tra individui in nessun modo socializzati, totalmente ignorando i networks sociali in cui gli agenti sono inevitabilmente “embedded” (per riprendere l'espressione che ricorre nel titolo del celebre lavoro di Granovetter) Scendendo poi dal piano teorico a quello più immediatamente percepibile da chiunque, le ricorrenti crisi dei mercati sino alla Grande Recessione che stiamo tuttora vivendo ben possono indurre qualche dubbio sul fatto che lo “scatenato” ( unfettered) perseguimento del benessere individuale si traduca necesariamente in un aumento del benessere collettivo 3- Veniamo allora al quesito paradossale che ho posto pocanzi, e cioè, come si spiega il tanto successo di una tanto debole teoria ? E’ ovvio che le possibili spiegazioni possono muoversi su piani molto diversi. Uno, ad es., potrebbe essere l’analisi dei flussi dei finanziamenti ricevuti dalle università americane e dai progetti che coinvolgevano metodologie ispirate all’ EAL. Qui vorrei tentare una spiegazione più, per così dire, culturale. La mia tesi è che l’EAL si presenta come una raffinata elaborazione a livello micro-economico e giuridico dell’ ideologia neo – liberista. In tale qualità l’EAL svolge due funzioni che le conferiscono agli occhi di un ricercatore altrettanti pregi oggettivi. Da una parte essa è in grado di fornire informazioni su fenomeni che non sono puramente immaginari, ma sono parte di un’effettiva realtà, con l’unica avvertenza che, contrariamente a come l’EAl cerca di presentarli, non si tratta di fenomeni appartenenti alla realtà dell’economia in generale, ma alla specifica realtà dell’economia neo-liberitsta. Dall’altra essa è in grado di fornire una chiave di lettura che ben coglie il senso che i fenomeni stessi hanno a livello di apparenza immediata e, soprattutto, nella mentalità degli agenti coinvolti. Con il che arriviamo all’ ultima e più impegnativa domanda. Cosa caratterizza questo neoliberismo di cui l’EAl rappresenterebbe- nella mia ipotesi- il riflesso ideologico a livello microeconomico e giuridico? Due cose possiamo dire che il neo-liberismo non è stato. Non è stato un fenomeno di regresso della presenza dello stato nell’economia (nel periodo 1970-2003 la percentuale delle spese pubbliche sul pil è passata dal 32,4 al 35,9 % negli USA, dal 42,1 al 42,8 in UK, dal 20,0 al 38,3 in Giappone, dal 39,1 al 49,4 in Germania e dal 39,3 al 54,4 in Francia, Fonte : BNP Paribas). Non è stato un fenomeno di deregolamentazione ( qui è più difficile dare numeri sensati, ma l’impressione è che negli ultimi 40 anni le regole siano diventate ben più numerose e complicate di quanto prima già fossero). La mia tesi è che il cambiamento rispetto ad epoche precedenti non sta solo e tanto nel diverso rapporto reale tra stato e mercato, o nella deregolazione di quest’ultimo, quanto e soprattutto nel mutamento della prospettiva che ispira il sistema di governo del mercato stesso. Detta in estrema sintesi, mentre prima si pensava ( con ovvie e clamorose differenze a seconda dei periodi e delle diverse correnti di pensiero) che i fallimenti del mercato dovessero essere affrontati partendo dal governo dei grandi aggregati, il neo-liberalismo si caratterizza per il fatto di affrontare i problemi partendo dall’analisi delle singole transazioni. Sempre procedendo con semplici contrapposizioni: prima si riteneva che un mercato spontaneamente funzionante, o opportunamente corretto e guidato da un saggio intervento pubblico, fosse la base per assicurare lo svolgimento di corrette contrattazioni e la realizzazione di eque transazioni. I neo-liberisti ritengono invece che l’importante sia facilitare la contrattazione e la realizzazione di ogni transazione che possa essere considerata singolarmente efficiente. L’idea è che da una somma di efficienze non possa che nascere un mercato pur esso necessariamente efficiente. L’obiettivo prioritario diventa allora non più il controllo della massa monetaria e creditizia, né il contollo della grandezza del consumo complessivo, né quello del potere dei managers che tanto preoccupava la generazione di Berle & Means, né quello della smisurata crescita delle imprese che preoccupava Mason e Bain, ma diventa quello di governare le transazioni tra risparmiatori e intermediari ( le varie MIFID), le transazioni dei singoli consumatori con i singoli commercianti ( le varie direttive in materia di contratti dei consumatori) la (presunta) transazione tra i soci e gli amministratori delle spa ( l’ agency problem e la teoria dello shareholder value), e, invece del mercato o della concorrenza nel suo complesso, le transazioni, gli atti uniletarali e le interrelazioni tra i vari tipi di imprese ( la teoria della massimizzazione del consumer welfare nell’antitrust). A livello teorico la c.d. transazione diventa l’ unità elementare di analisi e i c.d. costi di transazione diventano lo strumento teorico operativo che consente di classificare, distinguere, aggregare e infine progettare interventi relativi a varie tipologie di transazioni afflitte dall’uno o dall’altro tipo di costo. La diffusione di questo orientamento spiega tra l’altro la diffusa sensazione di progressiva frammentazione dell’ordinamento e il moltiplicarsi di discipline sempre più speciali ( si pensi alla materia contrattuale un tempo regno di incontrastato di alcuni principi fondamentali generalilibertà, volontà, autoresponsabilità- e adesso spezzettata in differenti discipline la cui tipologia continuamente si accresce: b to b; b to c; c to c; contratti stipulati da imprese in situazione di dipendenza economica; contratti stipulati da microimprese; contratti della catena agro-alimentare: l’ultima stravaganza del nostro legislatore, peraltro non del tutto ignota a livello europeo, dove esiste una specie di codificazioni di best practices della contrattazione del settore agro-alimentare avallata dalla Commissione, cfr. High level Forum for a better functioning of the food supply chain, Vertical relationships in the Food Supply Chain : Principles of Good Practices, del 29 novembre 2011). In fondo ogni transazione presenta a suo modo qualche peculiarità e il gioco delle suddivisioni può svilupparsi all’infinito. Nelle oramai famose lezioni al Collège de France dedicate alla nascita della biopolitica, Foucault sintetizzava il passaggio dal liberismo al neo-liberismo sottolinenando che nel primo il protagonista è il soggetto considerato come partner di uno scambio, mentre nel secondo il soggetto è teorizzato come un imprenditore di se stesso (uno che investe i suoi risparmi per arricchirsi, il suo tempo per poi vendersi meglio sul mercato del lavoro, ecc.). Credo che Foucault abbia ragione solo in parte.Il fattore fondamentale che caratterizza il capitalismo vecchio e nuovo è e resta la logica dello scambio (come elaborata nelle analisi che partono da Marx e passano attraverso Lukacs ed Adorno). Quello che è cambiato è che lo scambio (la transazione direbbe il cultore dell’EAL) non è più lo strumento con cui un soggetto converte un bene che non gli serve in uno che gli serve di più, ma è diventanto ( rectius: è oggi concepito come) un atto di massimizzazione. Di qui l’ossessione dell’EAL per la facilitazione e la moltiplicazione delle transazioni. I suoi sostenitori pensano che ogni transazione conclusa aggiunga necessariamente almeno un punto positivo in più su quella ipotetica lavagna luninosa in cui si misura la somma del benessere globale. Di qui un’ altra serie di conseguenze, come la scomposizione dell’ordinamneto in tanti sottosistemi dotati ciascuno del suo appropriato maximand: lo shareholder value, il consumer welfare, il benessere dei creditori, ecc.ecc. Di qui, in fondo, anche una delle radici profonde della recente crisi. Tutto impegnato a supportare la razionalità degli agenti onde favorire il più scorrevole svolgimento delle singole transazioni, l’ordinamento ha perso completamente di vista il sistema nel suo complesso e i rischi cui il tutto era esposto, anche a dispetto del buon funzionamento delle singole parti. E’ stato accantonato ogni tentativo di sindacare i contenuti e l’utilità sociale dei contratti e di regolarne in conseguenza la diffusione ( basti pensare alla vicenda dei derivati e alla decisione del nostro- e di altri- legislatori di rinunciare a quel pur molto approssimativo controllo che avrebbe potuto essere esercitato con il ricorso alla disicplina della scommessa). Nessuno ha pensato di favorire forme di miglior sindacato interno ( da parte dei CdA e degli organi di controllo) sulla qualità dei prodotti finanziari che gli amministratori delegati andavano comprando e vendendo. L’ incompletezza delle norme di protezione del cliente, che lasciava, e in parte lascia tuttora, privi di protezione i clienti sofisticati, ha evitato costi e consentito una maggiore diffusione di certi prodotti, ma ha spesso favorito l’ ingresso e la presenza sul mercato di soggetti in realtà incapaci di autotutelarsi compiutamente. In sintesi, la concentrazione sull’obiettivo di favorire ad ogni costo l’esplicazione della razionalità intenzionale dei singoli agenti, e con essa la smisurata crescita delle ottimizzanti transazioni che essi andavano a concludere, ha indotto i legislatori, e le amministrazioni responsabili, ad ignorare i problemi di razionalità complessiva del sistema. Ed è proprio il fallimento della razionalità inintenzionale del sistema che ci ha portato sull’orlo del baratro, e, forse, anche un pochino più in là.