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Uomini che odiano le donne
Domenica La DOMENICA 8 MARZO 2009 di Repubblica l’attualità Se cambiano le regole del calcio MAURIZIO CROSETTI e GABRIELE ROMAGNOLI i protagonisti Il pittore “abos” che divise l’Australia GIANNI CLERICI Uomini che odiano le donne Si celebra l’otto marzo in un clima di emergenza per l’ondata di stupri FOTO HARRI PECCINOTTI, COURTESY DAMIANI EDITORE E forse è ora di smettere di parlare di violenza sulle donne e parlare di violenza dei maschi MICHELE SMARGIASSI ADRIANO SOFRI «I ossiamo, forzando un po’, ricapitolare la storia della guerra fra noi, i civili, e loro, i barbari, così. Loro vogliono rubarci le nostre donne e violentarle. Noi li puniamo e accogliamo le loro donne. Può trattarsi della bella Elena o del ratto delle Sabine, della Slesia nella Seconda guerra o della Bosnia di un’ora fa. «Per tutto il Diciannovesimo e il Ventesimo secolo i racconti di stupro furono pervasi dalla paura dei neri, degli immigrati e degli outsider razziali... delle persone senza fissa dimora...»: figurarsi oggi che «noi» diventiamo vecchi e non facciamo figli, e «loro» sono sfacciatamente giovani e prolifici come conigli. Romeni ci invadono e approfittano del buio per aggredire le nostre donne. Noi, longevi e danarosi, andiamo da turisti in luoghi caldi a noleggiare bambine: stupro geograficamente differito, pendant e rivalsa sullo stupro forestiero in patria. (segue nelle pagine successive) spettore, ma da quand’è che si va in carcere se si picchia la moglie?». Damiano Maranò ricorda ancora l’espressione di sincero stupore sul viso di quell’uomo, mentre gli metteva le manette. Era uno dei primi arrestati dal “Pool famiglia” della Procura di Milano. «Pensai fosse uno squilibrato, uno che non si rendeva conto delle proprie azioni. Quindici anni dopo non lo penso più. Penso invece che gli uomini, molti uomini, siano davvero lucidamente cattivi con le donne». La sua autocoscienza di genere (maschile), l’ispettore Maranò se l’è fatta sul campo. Aprendo centinaia di porte di casa e trovandoci dietro donne piangenti, sfigurate, sanguinanti, «anche peggio: legate alla sedia e tagliuzzate col coltello, o devastate da una pentolata d’acqua bollente». E mariti sbalorditi che fosse reato. Ricorda i nomi. Tutti, e dire che sono tanti. Ce n’è anche qualcuno famoso, attori, professionisti. (segue nelle pagine successive) P cultura Von Humboldt, l’esploratore filosofo AMBRA SOMASCHINI e LUCA VILLORESI spettacoli Cinema, il gergo dei set di Hollywood STEFANO BARTEZZAGHI e ANTONIO MONDA i sapori Tokyo, dove la cucina non dorme mai LICIA GRANELLO e RENATA PISU Repubblica Nazionale 28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA la copertina Otto marzo DOMENICA 8 MARZO 2009 Omicidi, stupri in strada, abusi in famiglia, stalking. Si parla molto di “difendere le donne”. Ma chi le difende? Gli uomini, ovviamente Così l’uomo aggressore scompare e si vede solo l’uomo protettore: soldati in città, ronde, voglia di linciaggio. Tutte risposte maschili, in quella logica proprietaria che è la radice della misoginia violenta “Maschi per obbligo” dalla paura alla violenza de? Gli uomini, è chiaro. Così l’uomo come autore della violenza scompare, e si vede solo l’uomo protettore. Soldati per le strade, ronde, tentativi di linciaggio degli stupratori, perfino la “legge del carcere”: sono tutte risposte maschili, legali o illegali, ma tutte dentro la medesima logica proprietaria che genera la violenza sulla donna: confermano una supremazia, non la contrastano». Come si interrompe l’eterno ratto delle Sabine? Anche nella cultura femminista si fa strada ormai l’idea che il problema va aggredito intervenendo sull’altra parte, su chi picchia. A Bologna la Casa delle donne per non subire violenza, storico rifugio delle maltrattate, è presa d’assalto: quasi raddoppiato negli ultimi anni il numero delle richieste di asilo. Sono soprattutto donne straniere, ma Giuditta Creazzo rifiuta l’apparente deduzione: «Quando il violento è uno straniero, è “colpa di una cultura patriarcale”. Quando è un italiano, è “un problema di psicopatologia”. Sono due modi di scaricare lontano, sullo straniero o sul deviante, una responsabilità che appartiene invece alla normalità della cul- MICHELE SMARGIASSI (segue dalla copertina) «N on c’è differenza. Poveracci, ricconi, sconosciuti, celebrità. Ma dico io, è possibile che alla fine l’unica cosa che li accomuna è che hanno tutti il pisello fra le gambe, scusi se non trovo altre parole?» Uomini che odiano le donneè il titolo fortunato di un giallo di Stieg Larsson che ha fatto il giro del mondo. Lascia la possibilità, almeno grammaticale, che esistano uomini che non odiano le donne. Ma non così tanti come vorremmo credere. Se una donna italiana su tre confida all’Istat di essere stata maltrattata da un uomo almeno una volta nella vita, i casi sono due: o c’è in giro un’attivissima task force di pochi imprendibili maneschi, o un terzo circa di uomini ha commesso nella vita almeno una violenza contro una donna. Se una donna su sette è stata picchiata fra le mura domestiche, vuol dire che più o meno in una casa su sette c’è un uomo violento. Che se lo sbatti fuori di casa diventa violento il doppio o il triplo (il 64 per cento delle separate e divorziate ha subito violenze dagli ex). Per non risparmiarci nessun orrore: due donne maltrattate su tre hanno ricevuto «spinte, strattoni, capelli tirati», una su due «schiaffi, calci, pugni, morsi», una su quindici un tentativo di strangolamento. Che la misoginia violenta esista, non è oggetto di dubbio. Semmai c’è da chiedersi se gli uomini siano diventati più cattivi ultimamente. Come suggerirebbe il clamore mediatico sull’“ondata di stupri”. Ma se chiedi a uno che i dati sulla criminalità li maneggia da anni, il sociologo bolognese Marzio Barbagli, ti frena: «Dove il nondenunciato, il sommerso, supera il 90 per cento è impossibile individuare tendenze». La violenza misogina è una zuppa torbida, basta immergere il mestolo giusto per tirare su brodaglia a volontà: è stato sufficiente dare vigore di legge a una parola, stalking(il crescendo di persecuzioni di un pretendente respinto descritte dal libro di Fe- Quelli che uccidono per amore ovvero il killer come eroe romantico ADRIANO SOFRI (segue dalla copertina) empre gli uomini (bianchi) si armano per castigare la foia profanatrice degli uomini (di colore). Il linciaggio serviva a quello. Anche le ronde: regolate, per carità, solo pensionati apolitici delle forze dell’ordine. Non scandalizzatevi: fra il linciaggio e le ronde c’è un legame tanto più sottile quanto più rivelatore. C’è una tale guerra di uomini, civili e barbari, che bastonano e sfregiano e ammazzano donne per amore, che ci si chiede come le donne non abbiano preteso una formidabile polizia femminile per la loro difesa. In molti ambiti adiacenti — la schiavitù sessuale, la prostituzione forzata, la tutela dei minori, la violenza domestica — la polizia femminile è il più significativo progresso del nostro Stato. Quanto a romeni stupratori, veri o immaginati, siamo alle ronde. In una vignetta lei dice: «Mi sento più sicura: lui adesso esce per fare la ronda, e mi lascia in pace». Come reagiamo alla frase: «Tutti gli uomini sono stupratori, almeno potenzialmente»? Be’, ci indignamo. Noblesse oblige. Però abbiamo un dubbio. Non che ci persuada la nozione biologista per cui ogni maschio animale è un candidato stupratore, e magari ogni femmina una aspirante stuprata. Pensiamo che sia affare di cultura. Che, come dicono le femministe più riflessive, stupratori non si nasce, si diventa. Però. Però si tratta di un affare di cultura così antico e longevo da agire quasi come una seconda natura. Maschi si nasce, uomini si diventa. Per troppo tempo, diventare uomini significava forzare una donna, «conquistarla», ed esibirne il trofeo coi propri simili. È cambiato abbastanza, almeno nel nostro pezzo di mondo? È cambiato molto, non abbastanza. Il maschilismo dimissionario conta molto meno del femminismo che si prende i suoi diritti. La fortuna del titolo Uomini che odiano le donne non toglie che per secoli, e ancora, gli uomini, spesso i migliori, abbiano variamente fatto l’apologia degli uomini che ammazzano le donne perché le amano. Perché sono troppo belle, libere, orgogliose, amabili, come la Nastasja dell’Idiota, o la sua emula, la Nadia di Rocco e i suoi fratelli, per non essere assassinate per amore. O perché mangiano noccioline, come «la bimba mia» di via Broletto. Troppo. Se sloggiare il delitto d’onore dal codice penale è stato così morbosamente arduo, è ancora più difficile sloggiare la mitizzazione dell’assassino di donne e dello stupratore come eroe romantico. Banalità del male: a incontrarli, gli assassini di donne e stupratori sono penosamente squallidi. Come noi, appena un po’ di più. Ora che abbiamo capito (abbiamo capito?) che lo stupro non è solo l’agguato dello sconosciuto che salta fuori dal buio, ma la violenza che segue la serata, che si compie fra famigliari e amici di famiglia, fra coniugi e fidanzati, nell’auto in cui lei ha accettato un passaggio o nell’ufficio in cui lui ha lavorato i suoi ricatti, siamo più vicini all’idea che «tutti gli uomini sono potenziali stupratori». Naturalmente, una tale ammissione è anche una mezza assoluzione: se siamo fatti così... È appena uscito un libro di Joanna Bourke, Stupro. Storia della violenza sessuale (Laterza), si occupa del tema per il mondo anglofono, dalla metà dell’Ottocento a oggi, sciorina un repertorio impressionante di fantasie maschili passate per scienza e legge. Una donna non può essere penetrata senza che il suo corpo acconsenta, una donna che torna a casa al buio sotto sotto si augura di essere assaltata, una donna che dice no, neanche sotto sotto, vuol dire sì... Tutte cose che fanno vergognare, oggi, mentre si moltiplicano le leggi che colpiscono severamente gli abusi sessuali: e tuttavia resta schiacciante la percentuale degli stupri che non vengono denunciati, e, fra i denunciati, che escono impuniti. L’espediente di annoverare lo stupro fra le aggressioni fisiche piuttosto che fra i crimini sessuali, e renderne meno ambigua la persecuzione giudiziaria, non solo non sarebbe producente, ma negherebbe la radice decisiva della questione. «Si può dire — scrive Bourke — che lo stupro è diventato sempre più un’aggressione sessuale». Io penso che la stessa tortura non solo abbia una componente sessuale, ma sia nella sua quintessenza un’aggressione sessuale. Nella pornografia (che la si pensi come un manuale di istruzioni, o come uno sfogo liberatore) molti uomini credono di vedere “che cosa vogliono le donne”, moltissime donne vedono “che cosa vogliono gli uomini”. Quando la società viene scossa da cambiamenti troppo rapidi e imprevisti e l’insicurezza diventa la chiave di un potere che non sa dove andare a parare, se non a se stesso, lo stupro diventa il delitto per antonomasia. È la storia dell’Italia di oggi. L’ho letta lo scorso 21 dicembre in dodici righe in corpo otto. Occhiello: «Monza e Palermo». Titolo: «Trovati cadaveri di due donne». Testo: «Il corpo di una donna carbonizzata è stato trovato in un campo alla periferia di Monza. Potrebbe trattarsi di prostituta. Sempre ieri, sul litorale di Mondello, è stato rinvenuto il cadavere di una donna di circa trent’anni dai tratti orientali». FOTO HARRI PECCINOTTI, COURTESY DAMIANI EDITORE S L’indottrinamento che spinge a una virilità malintesa scorre da sempre sottotraccia in molti spot, libri, film derica Angeli e Emilio Radice, Rose al veleno) e in poche settimane la polizia ha scovato episodi di stalking ovunque, da Bari dove l’arrestato (per cranio rotto) gridava «volevo solo delle spiegazioni!», a Roma dove è volato addirittura il coperchio di ghisa di un tombino, a Genova, Torino, Palermo... Ma un dato storico ce l’abbiamo: gli omicidi. Gli omicidi vengono denunciati tutti. Per forza. Ebbene, le statistiche dicono che gli uomini ammazzano molto più delle donne, e questo non sorprende: siamo i guerrieri, gli ancestrali titolari della violenza. Poi, che gli uomini ammazzano soprattutto altri uomini, e neanche questo sorprende troppo, à la guerre comme à la guerre. Ma da un po’ sembrano aver modificato i bersagli. Se nel ‘94 meno di due maschi omicidi su dieci sceglievano una donna come vittima, nel 2006 erano già più di tre. Se gli omicidi in assoluto calano, i femminicidi proporzionalmente crescono. Del resto, su tre delitti in famiglia, due riguardano mariti che ammazzano le mogli. «E allora piantiamola una buona volta di parlare di “violenza sulledonne” e cominciamo a dire “violenza degli uomini”». Parla un uomo, Marco Deriu. Sociologo all’Università di Parma, firmatario dell’appello “La violenza sulle donne ci riguarda”. «Si parla solo di “difendere le donne”. Ma chi le difen- tura maschile». Giuditta coordina da tre anni il progetto Muvi, il cui programma è presto detto: cosa ne facciamo degli uomini che menano. Curarli? Punirli? «Per prima cosa, mettere al sicuro le donne». Insomma intanto prenderli, isolarli. «Tagliando l’alone di indulgenza. Quello che fa dire al vicino di casa o anche al maresciallo di paese che è meglio “non mettere il dito”, che “si aggiusteranno tra loro”». Ma finora è tutto un lavoro di difesa, di scudi e barricate. Corsi di tai-chi per massaie, spray al peperoncino nella borsetta. Tutto giusto. Ma è come dire: la guerra è eterna, attrezziamoci. Corsa agli armamenti. Stefano Ciccone è un pacifista, vent’anni fa rimase sconvolto da un caso di violenza, passato alle cronache come “lo stupro di piazza dei Massimi”. «Soprattutto dalle reazioni. Dai commenti maschili. Mi accorsi che perfino nel movimento c’era un fondo di pregiudizio violento». Qualche anno fa Stefano ha fondato Maschile Plurale, forse la prima rete di riflessione e intervento maschile contro la violenza alle donne. Adesso sono una dozzina di gruppi, da Pinerolo a Parma, da IL CATALOGO La foto di copertina e quelle che pubblichiamo in questa pagina sono tratte da H.P., la prima monografia dedicata al fotografo Harri Peccinotti, autore di scatti celebri (tra gli altri, i calendari Pirelli 1968 e 1969 realizzati con Derek Birdsall) e negli anni art director di Flair, Vanity Fair, Rolling Stone e Vogue Il catalogo, che raccoglie 200 illustrazioni, pubblicato da Damiani (228 pagine, 45 euro), è stato presentato ieri a Parigi nello spazio Colette Repubblica Nazionale DOMENICA 8 MARZO 2009 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29 IL DIPINTO I giorni giganteschi di René Magritte (1928) Torino ad Anghiari a Pietrasanta, ad affermare che va aperta finalmente una “questione maschile”. Fanno conferenze, documenti, lezioni. Qualcuno li chiama “i femministi”, qualcuno peggio. I blogdell’orgoglio neomaschile come Uomini 3000 li accusano di «invitare gli innocenti a riconoscersi rei». Ma soprattutto incassano sorrisini. Battute. Sfottò. «Accettiamo volentieri il rischio del ridicolo. È un segnale prezioso. Ci dà la prova della nostra efficacia: dimostra che sta scattando la reazione difensiva della cultura maschile». Cultura potente perché invisibile. Trentacinque anni fa perfino le femministe rimasero perplesse quando Carla Ravaioli, giornalista e militante, pubblicò Maschio per obbligo, antologia dell’indottrinamento subliminale alla virilità nascosto nella pubblicità, nei libri di testo, nei copioni del cinema e della tivù. «Non cambierei quasi nulla di quel libro», dice oggi, «se non sottolineare che, in una società dove la violenza è ormai uno strumento accettato e quotidiano della politica, la pedagogia del maschio è ancora più forte, più spudorata, e conta- Chi va nelle scuole a prevenire il bullismo di genere si sente dire: “Problemi da vecchi” Ma poi la verità viene fuori gia anche le donne». Se ne accorgono i Medici per i diritti umani, onlus impegnata nei paesi in guerra (quindi anche nel nostro, dove la guerra alle donne è sempre in corso), quando vanno nelle scuole a prevenire il bullismo di genere con una lezione per immagini che s’intitola appunto Maschio per obbligo. Sfilano sullo schermo i poster pubblicitari che ormai non mostrano più solo donne disponibili a offrirsi, ma anche uomini che comunque sia se le prendono: come le “perquisizioni” palpeggianti di una campagna della Relish, o quel poster di D&G che sembra sublimare uno stupro di gruppo. I ragazzi (e le ragazze) annoiati sbuffano: «È un problema vecchio, roba di voi adulti, tra di noi non c’è più differenza tra maschi e femmine, siamo alla pari». Poi scavi un po’. Approfondisci. E la verità viene fuori. «È vero, io controllo gli sms della mia ragazza». «Il mio ragazzo mi vieta di andare in gita scolastica con gli altri». «Mi ha minacciato di far vedere a tutti le nostre foto intime». «Se la vedo in discoteca con un altro, la meno». Dice Paolo Sarti, il pediatra che conduce gli incontri: «Non si nasce col gene della violenza maschile. Ma è come un virus che s’inocula molto in fretta, e attende il suo momento per esplodere». È una malattia, la violenza misogina? «No, ma anche i guasti socio-culturali hanno un’ezio-patogenesi». Delicata è la terapia. «Gridare che la violenza è sbagliata non serve: non si sentono violenti. L’unica strada è mettere alla berlina i comportamenti che per loro sono invece premianti: l’arroganza, i ricatti, le vanterie sessuali. Prendere in giro i modelli che ammirano, ridicolizzare i maschi dementi di cui è piena la tivù. Ma bisogna stare molto attenti: se sono solo le ragazze a ridere, i maschi reagiscono incattivendosi ancora di più». Smontare la misoginia violenta dall’interno: è una parola. In Italia, il maschilismo è ormai assurto a cultura di governo con le battute guascone di Berlusconi. Sotto traccia, ma esplode a volte in modi anche meno ridanciani, come nello showdown del 24 settembre 2003 a Montecitorio, quando alcuni (poco) onorevoli apostrofarono così le colleghe: «Altro che Camera dei deputati, vi portiamo in camera da letto!». Se non è odio misogino quello che sembra guadagnare terreno ogni giorno, cos’è? «Paura delle donne», risponde senza esitazione l’ispettore Maranò, che la sa lunga. «Paura», concorda Carla Ravaioli. «Paura», insiste Marco Deriu: «Gli uomini non odiano le donne, ne sono terrorizzati. Ho analizzato molti casi di cronaca. Nella maggioranza delle violenze domestiche, il violento cerca disperatamente di sottomettere la donna di cui in realtà è debitore, dipendente, senza la quale sarebbe finito. La violenza misogina di oggi non è il ritorno del patriarcato, è il sintomo del suo crollo». Ma attenti, che i calcinacci in testa fanno male. Repubblica Nazionale 30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA l’attualità Show business DOMENICA 8 MARZO 2009 Gol fantasma, vittorie o sconfitte sul filo del fuorigioco, arbitri in sudditanza psicologica... Le polemiche sono sempre più aspre e il calcio punta a introdurre nuove norme per diventare più esatto, tecnologico e “vendibile”. Ecco come, selezionando le proposte sul tappeto, potrebbe essere disputata una partita del futuro Se cambiano le regole del gioco MAURIZIO CROSETTI ra vent’anni sarà tanto cambiato che neppure lo riconosceremo. Forse, o forse no, ma probabilmente sì. Avrà più occhi, elettronici e umani. Avrà più spazi da percorrere e più tempo per farlo. Avrà l’illusione dell’esattezza scientifica e la presunzione di saperla usare. Sarà un calcio meno tecnico e più tecnologico, sempre più rapido e muscolare, dove le moviole — naturalmente in campo — faranno scansioni di ogni azione come se fossero disegni di Leonardo, e si continuerà a litigare e a sospettare proprio come adesso: solo, avremo più presunti colpevoli con i quali prendercela. E magari sentiremo malinconia di questi giorni preistorici in cui si litigava per un rigore: però sarà difficile accusare un sensore di sudditanza psicologica. La regia dello spettacolo, televisiva, agirà dentro stadi costruiti apposta, senza settori ospiti, massimo quarantamila persone. Tutti gli altri a casa, davanti allo schermo dove la partita si vedrà comunque meglio. Il telecomando sarà una consolle che permetterà di costruirsi la propria moviola personale (anche tu Biscardi). Il gioco sarà dissezionato in una lunga, continua autopsia e avremo molti spazi per seguire i consigli per gli acquisti: ad esempio, l’intervallo tra un tempo e l’altro durerà venti minuti, cinque più di adesso, e ci saranno quattro “time out” a partita, due per tempo, due per ogni allenatore. In apparenza serviranno ad aggiornare le indicazioni tattiche, nella sostanza saranno solo contenitori di spot pubblicitari. Le due esigenze, cioè una più vasta commerciabilità del prodotto e una maggiore certezza tecnica che riduca l’errore umano, procederanno insieme su un terreno minato. Oggi, le pupille degli arbitri in campo sono otto: arbitro, due assistenti e il quarto uomo. Diventeranno quattordici: arbitro capo, due arbitri d’area, due assistenti, quarto uomo e quinto uomo addetto alla moviola e ai contatti con gli altri sei. Tre direttori di gara in campo è l’ultima idea dell’International Board, ovvero l’organo della Fifa (la federazione del calcio mondiale) che vigila sulle diciassette sacre regole del pallone e che — unico ente supremo — può modificarle. Va detto che in oltre cent’anni è accaduto rarissimamente, essendo il football uno degli sport più conservatori, o forse essendo nato nella seconda metà dell’Ottocento già quasi perfetto: se piace così com’è in tutto il mondo, e da sempre, una ragione ci sarà. T Anche se poi, dall’epoca dei padri fondatori inglesi (26 ottobre 1863, Taverna dei Framassoni, Great Queen Street, Londra) fino ai giorni controversi di Collina e Rizzoli, le tavole della legge sono cambiate proprio poco. Da quel primo regolamento ufficiale della Football Association, ecco arrivare in seguito il fuorigioco (1867), arbitro, rigore e reti nelle porte (1891), calcio di punizione (1895), area di rigore (1901), regola del vantaggio (1903). Da allora, la novità più rilevante è stata la sostituzione dei giocatori infortunati, datata 1968. Poi, a parte il divieto per il portiere all’uso delle mani su retropassaggio (1992) e i tre punti per la vittoria (1994, questa sì una svolta epocale), il calcio ha saputo innovarsi (oddio) scrivendo i cognomi sulle magliette e distribuendo agli atleti numeri fissi, talvolta simili a quelli degli autobus (1995). Totalmente naufragati, invece, “golden gol” (o “morte istantanea”, 1996: la partita viene vinta dalla prima squadra che segna nei supplementari) e il suo ancor più sfortunato gemello “silver gol” (chi segna nel primo tempo supplementare vince, se poi la frazione si chiude senza altre reti). Comunque sia, i due arbitri d’area verranno collaudati già nella prossima Coppa Italia (la quale ospitò, anni fa, un non memorabile doppio arbitro in campo). Nel calcio di dopodomani avremo quasi certamente il cartellino arancione, via di mezzo tra ammonizione ed espulsione. E gli allenatori potranno sostituire un quarto giocatore, ma solo durante i supplementari. Come dice Zoff, aumenterà la confusione. Come dice Blatter, il gran capo del calcio, ci sarà più spettacolo, bisogna solo capire a quale prezzo. Proprio il celeberrimo colonnello dell’esercito svizzero, una specie di dittatore senza veri avversari (caratteristica dei poteri forti del calcio, non solo all’estero), da anni cerca di introdurre norme più ludiche, a volte un po’ carnevalesche, perché il prodotto più piace e più si vende, più annoia e meno si guarda. Dunque, la sua famosa (e famigerata) proposta di allargare le porte, fin qui respinta al mittente, avrà buone probabilità di essere accolta. Oggi sono larghe 7 metri e 32 per 2 metri e 44: potrebbero estendersi a 7 metri e 50 e alzarsi a 2 metri e mezzo, per la gioia dei portieri. I quali, nell’ormai lontano 1992 sono stati i protagonisti dell’ultimo cambiamento regolamentare di un certo peso, quando venne loro proibito di prendere con le mani i passaggi all’indietro (intenzionali) da parte dei compagni. Poi, è chiaro che le novità più importanti riguarderanno le due situazioni che da sempre fanno più Moviole in campo e alla tv: i novanta minuti saranno dissezionati in una lunga, continua autopsia E con super-intervallo e time out avremo più spot discutere, cioè rigori e gol fantasma. Per i falli in area, i due arbitri supplementari dovrebbero bastare, tenendo conto che la moviola in campo farà il resto: verrà azionata da tecnici e supervisionata dal quinto uomo, in collegamento via radio con i colleghi. Sarà lui a rivedere in tempo reale le azioni contestate (e in tv passeranno nel frattempo altri spot supplementari) per poi comunicare il verdetto all’arbitro capo, cui comunque spetterà la parola definitiva. Un giorno potrebbero abolire il fuorigioco e magari il pareggio attraverso i rigori a oltranza, oppure quell’americanata degli “shoot out”, i rigori in Repubblica Nazionale DOMENICA 8 MARZO 2009 corsa provati senza esito in qualche dimenticabile torneo estivo. E che dire del “corner corto”, già testato invano a livello giovanile? Oppure delle rimesse laterali con i piedi? Torneranno di moda? Sarà totalmente elettronica la soluzione degli scabrosi casi da linea bianca: il pallone l’ha superata oppure no? Era gol o non lo era? Il perimetro di porta ospiterà i sensori, e il pallone conterrà un dispositivo che sarà “letto” da questi, dunque senza margini d’errore (in teoria, perché poche cose sono fallibili e capricciose come la tecnologia). Il principale sponsor tecnico planetario, che produ- LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31 ce anche palloni, ha già messo a punto un sistema che non è entrato in produzione a causa dei costi: infatti, il regolamento del calcio prevede una necessaria uniformità a livello mondiale, e tutti devono poter sostenere le spese di eventuali innovazioni. Se oggi l’Uefa, guidata da Michel Platini, spinge per una maggiore democrazia e una più equa distribuzione delle risorse, domani la ragion di stato potrebbe ridurre il numero delle federazioni, lasciando in vita soltanto le più ricche: e queste si compreranno tutti i giocattoli che vogliono. Forse, per giocarci da sole. Corner-tre-rigore, portiere volante i miracoli del football fai da te GABRIELE ROMAGNOLI i deve aver giocato perfino Blatter, se mai è stato bambino, cicciottello ma felice. È accaduto in tutte le parti del mondo, bastava ci fosse un prato, o una spiaggia, anche il cemento di un parcheggio andava bene. Non era una partita, erano tante in contemporanea, altroché diretta gol, con rettangoli di gioco senza lati, perpendicolari e paralleli, palloni che volavano da uno all’altro e venivano rispediti con irritata cortesia. C’erano regole internazionali mai scritte né codificate, è un mistero come si siano tramandate. Se ne applicavano, quante? Un tot. L’universo era una forma imprecisa, la vita un pressoché, il gioco una cosa serissima. Se da qualche parte quel calcio fai da te si gioca ancora, è così che accade: come viene. Per prima cosa si delimitano le porte. Per pali si usano due sacche. Poi si contano i passi dall’una all’altra. Le possibilità che la distanza sia la stessa eguagliano quelle di dimostrare il quinto postulato di Euclide. Quando, inevitabilmente, a un certo punto della partita un tiro supererà il portiere e quello griderà «Palo!» o, ancora meglio «Traversa!» Borges sorriderà tra le nuvole: «E dicevano che io avevo fantasia». La seconda operazione si chiama “fare le parti”. I due capitani (rigorosamente privi di fascia) si trovano al centro «bim bum bam» e chi ha vinto a pari o dispari sceglie per primo chi vuole in squadra tra i presenti. Poi l’altro ne sceglie due, per compensare. E avanti a due alla volta fino all’ultimo, lo sciagurato Egidio, il figlio di Loria, l’uomo che incontrate in ascensore, quello che saluta guardando il pavimento, scende un piano sotto di voi, dove ha studio l’analista. Ancora una cosa prima di cominciare: si fissano le regole accettate. Poiché non c’è arbitro, le consolida un patto d’onore tra i giocatori. Non è mai stato chiarito come siano nate queste varianti al calcio ufficiale, occorre pensare a un legislatore fantasma supremo, una variante infantile della Grundnorm, la norma fondamentale che il filosofo del diritto Hans Kelsen poneva, presupposta e non definita, in cima allo Stufenbau, l’ordinamento giuridico. Oppure bisogna chiedersi dove fosse cent’anni fa, quando la palla cominciò a rotolare, il nonno di Moggi. E comunque: corner-tre-rigore era (forse è) una delle più diffuse variazioni sul tema del regolamento calcistico. Induceva i difensori a rinviare in avanti, i portieri a cercare disperatamente di trattenere. Ogni calcio d’angolo concesso avvicinava la maledizione. Che fosse ineluttabile risultava dalla secchezza della formula, concepita come la strofa di una “conta”: corner-tre-rigore e non c’è moviola che tenga. Un’estrema concessione del capitano in superiorità numerica o con la squadra decisamente più forte dopo aver fatto le parti era: «Voi, portiere volante». Il portiere volante è già a nominarsi una figurina uscita dall’album FantaPanini, all’incrocio tra Battara e Batman. È l’eccezione viaggiante, l’eresia che si fa prassi: può abbandonare la porta, avanzare, segnare, come vuole, quando può. Se la partita si svolge (va) in un campo delimitato lateralmente da qualche muro occorre (va) un’ultima decisione: vale sponda? Ossia, quando la palla tocca la parete è fuori o resta in gioco e questo schema diventa un succedaneo della triangolazione? Triangolazione? Fluidificazione? Ripartenza? In quelle partite saltavano, come le regole, gli schemi e ciascuno si trasformava, nel suo piccolo va da sé, in una specie di versione giovanile del Dino Sani (centrocampista brasileiro, non chansonnier petroniano, attenzione) rievocato da Edmondo Berselli nel Più mancino dei tiri, uno che «vede il calcio come un orizzonte di misconosciuta razionalità, capace di trasformare mentalmente triangoli scaleni in equilateri, linee divergenti in parallele, il principio di determinazione in calcolabilità assoluta». Quale è il risultato? Gol. O, più semplicemente e clamorosamente: divertimento. E quando è che finiscono le partite? Non mai, spiacenti, ma quasi: quando fa buio. C Repubblica Nazionale DOMENICA 8 MARZO 2009 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33 i protagonisti il primo a entrare nel “Who’s Who” degli australiani celebri La sua vita, in altalena tra i successi decretati dai benpensanti e le persecuzioni dei razzisti, è un esempio di integrazione mancata FOTO CORBIS Apripista Albert Namatjira è stato il primo “abos” a mescolare l’iconografia del Tempo degli Antenati con l’arte occidentale, e per questa via L’ARTISTA A sinistra, un paesaggio australiano dipinto da Albert Namatjira; sopra e in basso, due fotografie che ritraggono l’artista D MELBOURNE opo cinquant’anni di Australian Open, ho la fortuna di essermi creato una piccola cerchia di amici, a Melbourne. Tra loro primeggia George, che condivide la mia passione per le ricerche rinascimentali sul tennis, ed è un inesausto collezionista di testi e memorabilia. L’amico si è spostato di recente in una villa vittoriana all’angolo di Fitzroy Gardens e me ne ha offerto, simbolicamente, le chiavi. All’interno della sua casa George conserva e accresce una notevole collezione di pitture aborigene, che non posso fare a meno di ammirare, dal giorno in cui un altro amico, titolare di una galleria d’arte, ha tentato di spiegarmene il significato. Per gli aborigeni, la pittura è più che diversa dalla nostra rappresentazione di fatti, dapprima correlati alla religione, in seguito a umane vicende, a paesaggi, infine pura astrazione. Per gli antichi abitanti dell’Australia dipingere significa ritrovarsi all’interno del Dream Time, dentro la consapevolezza della creazione del mondo, della legge dell’esistenza, che tutti sono obbligati ad osservare. Creature semidivine Il Dream Time è il Tempo degli Antenati, creature semidivine che emersero dal suolo durante la Creazione, e nelle loro peregrinazioni suscitarono le montagne, i fiumi, le piante; gli uomini, gli animali, dai canguri alle formiche, dall’opossum al dugongo. Nel dipingere, dapprima su cortecce lisciate, con pigmenti d’ocra gialla, argilla bianca, o carbone, in seguito con i colori e le tele offertegli dai bianchi, gli aborigeni rappresentano quel che noi chiamiamo weltanschauung. La galleria dei dipinti non ha certo segreti per George. Ma, nell’assuefarmi, almeno un poco, ai segni e ai simboli, non potevo evitar di notare un quadro diverso dagli altri, un dipinto in parte figurativo, se una piccola radura racchiusa da una cerchia di eucalipti veniva attraversata da un canguro volante. Nel notare la mia curiosità, George sorrise, per affermare: «È Namatjira». E, alla mia sorpresa, prese a raccontarmi la storia che mi provo a riassumere. Namatjira venne battezzato Albert dal prete luterano di un luogo a sua volta ribattezzato Hermannsburg, a cinque ore d’auto da Alice Springs. Era il 1902 e, dopo il genocidio del secolo seguente Il pittore aborigeno che fece volare i canguri GIANNI CLERICI agli sbarchi dei primi bianchi, le autorità avevano intrapreso un tentativo di conversione di massa degli abos, come venivano definiti i precedenti proprietari di quelle terre. Gruppi di nomadi, spesso incapaci di comunicare tra loro per le enormi distanze e i duecento dialetti a volte incomprensibili. Tra i suoi coetanei della tribù degli Aranda, Albert si distinse subito, per la capacità di apprendere l’inglese, e per la nativa intelligenza. Seguì tutti gli insegnamenti dei missionari con facilità, ma d’improvviso, a tredici anni, scomparve. Era il tempo dell’iniziazione virile, che si svolge segreta, a volte cruenta, lontano da occhi indiscreti, nel bush o in qualche caverna graffita da migliaia d’anni. Ritornato a Hermannsburg, Albert venne a trovarsi in difficoltà per le leggi tribali, che impedivano il suo matrimonio con Rubina a causa di un tessuto genetico vietato. Fu così costretto a fuggirsene con l’amata, a vivere da mandriano dei bianchi in un luogo remoto, sinché il divieto tribale venne tolto, e i due furono riammessi a Hermannsburg. Al di fuori di un continuo lavoro con le mandrie, Albert iniziò a dimostrare un talento creativo che si manifestava nella decorazione di boomerang e di tavolette ovali tratte dall’acacia. Un poliziotto che sorvegliava l’area, MacKinnon, trovò quei lavori di suo gusto e, nella vivissima sorpresa generale, ne acquistò ben dodici, offrendo l’inattesa somma di cinque scellini. Fu l’avvio di una carriera che apparve praticabile quando la visita di un pittore, Max Batterbee, fece sì che a Namatjira venisse offerta una scatola di acquarelli, e suggeriti i primi rudimenti per utilizzarli: con risultati sorprendentemente positivi. Per quello che era uno svago, Albert aveva poco tempo. Con sei figli a carico, si alzava all’alba per il suo lavoro di mandriano, sellaio, tuttofare. Sinché un nuovo pastore, padre Albrecht, prese con sé dieci acquarelli per mostrarli a Melbourne, e addirittura organizzare una esposizione. Il successo, e la sorpresa, sollecitarono la visita della moglie del Governatore del Victoria, Lady Huntingfield, che si spinse sino a Hermannsburg per incontrare Albert. Cifre astronomiche Era, nel frattempo, iniziata la Seconda guerra mondiale, e ad Hermannsburg venne inviato, quale controllore della comunità germanica, il primo estimatore di Albert, Rex Batterbee. Quattro anni più tardi, nel 1944, Batterbee fu in grado di organizzare a Melbourne la prima mostra personale del suo pupillo, che vendette tutti i trentotto dipinti a prezzi tra le dieci e le trentacinque ghinee. Cifre astronomiche per un aborigeno. Il quale, insieme al successo, ricevette critiche crudeli, per aver, secondo alcuni, abbandonato i nativi canoni teosofici in favore di «una versione approssimativa della pittura occidentale, con risvolti di qualche interesse topografico e assolutamente banale». Quando il professor Elkin, l’antropologo di maggior fama, volle inaugurare una nuova esposizione a Sydney, Namatjira divenne una personalità, certo discussa, ma addirittura in grado di figurare, primo tra gli aborigeni, nel Who’s Who degli australiani celebri. Insieme al successo, che gli valse tra l’altro l’abbandono della baracca per una casetta in muratura, giunsero difficoltà, sotto forma di tasse, e dell’obbligo tribale di dividere i guadagni con una cinquantina di parenti, secondo una tradizione che considerava la proprietà bene comune. Nel bel mezzo di queste difficoltà, il tour della Regina Elisabetta giunse ad offrire a Namatjira un onore sin lì negato ai suoi corazziali. Vestito a nuovo e imbarcato su un aereo per Darwin, il pittore fu ricevuto e congratulato dalla Regina e dal Duca di Edimburgo, e gli fu offerto il certificato di cittadinanza australiana. Ragioni in apparenza burocratiche fecero sì che diritti eguali a quelli dei bianchi lo raggiungessero solo tre anni dopo. Nell’istante stesso in cui veniva pubblicato un elenco di 15.711 aborigeni che, da una condizione di semi-schiavitù, venivano ammessi alla “tutela”: con limitati diritti di spostamento all’interno della riserva, e divieto assoluto di acquistare alcolici. Ma la riqualificazione non sembrò giovargli. Dopo un dissenso con il suo agente, la richiesta di quadri diminuì. Non meglio andava la salute, e Albert si vide costretto al ricovero per una angina. E, dopo essere stata maltrattata, la moglie Rubina lo abbandonò, affermando: «Lui Albert cambiato adesso. Lui spesso irritato e triste». Il direttore regionale del Welfare si chiese pubblicamente se non fosse il caso di revocargli la cittadinanza. Il suo caso fu discusso, e i razzisti trovarono modo di servirsene a dimostrazione della incapacità degli aborigeni ad adeguarsi a costumi civili. La situazione si aggravò quando, in seguito ad una rissa di ubriachi, e alla morte di due di loro, Albert venne chiamato a testimoniare, e dovette difendersi dall’accusa di aver offerto alcool ai colpevoli. Intanto, da un viaggio in taxi, era nato un nuovo caso, e Albert veniva accusato di aver passato una bottiglia di rum all’autista aborigeno, tale Henoch Raberaba. Namatjira non riuscì ad evitare una condanna a sei mesi, con l’obbligo di lavoro forzato. Colori violenti Mentre si attendeva il risultato dell’appello alla Suprema Corte, le ricadute pubblicitarie della vicenda furono enormi. Pandit Nehru giunse a parlare di razzismo, mentre, dall’altro lato, il direttore della Galleria di Stato del Victoria rifiutava l’esposizione di un quadro, adducendone «l’insufficiente livello artistico». Al limite della resistenza, Namatjira dichiarò: «Non ne posso più. Quel che desidero è tirarmi una fucilata. Perché non ci ammazzano tutti? In realtà, è quello che vogliono». Mentre la Regina evitava di essere messa al corrente, la segregazione del poveraccio finì grazie ad un ricovero per una crisi di cuore, che ebbe almeno il risultato di far ritornare presso di lui la moglie, e di consentire un trasferimento nell’ospedaletto di Hermannsburg. Durante il periodo di convalescenza, Albert riprese a dipingere. Iniziava un quadro per subito lasciarlo, e rimanere immobile, in uno stato di sonnolenza, lo sguardo lontano: i colori dei suoi dipinti si distinguono da tutti i precedenti per intensità, quasi per violenza. Quel suo povero stato vegetativo ebbe a cessare in seguito all’ultima crisi cardiaca. Non cessarono le polemiche, e si volle negargli la sepoltura ad Alice Springs perché si trovava fuori dai confini degli Aranda. Uno dei migliori giornalisti australiani riassunse, sul Sun di Melbourne: «La deprecabile verità è che bisognerebbe far davvero qualcosa in favore degli aborigeni, ma solo cittadini eccezionali se ne occupano. Siamo tutti responsabili, ma se un critico obiettivo dicesse che non ce ne importa nulla, avremmo serie difficoltà nel contraddirlo». Par giusto ricordare, a conclusione, che le scuse ufficiali ad un popolo derubato delle sue terre e in condizioni di semischiavitù ci sono state soltanto il 12 febbraio 2008, grazie al Primo Ministro Kevin Rudd. Forse anche Namatjira avrebbe apprezzato. Repubblica Nazionale 34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8 MARZO 2009 CULTURA* Tra Settecento e Ottocento questo prussiano anomalo attraversò le foreste e scalò le montagne dell’America latina, tracciando mappe, catalogando fiori, decifrando i misteri delle civiltà sepolte. Un prototipo degli eroi di Salgari e Verne ora riscoperto, a centocinquanta anni dalla morte, in un libro pubblicato da Prestel Il genio di Von Humboldt co delle barricate del ‘48. Un genio. E un genio di successo perché, oltre a essere riconosciuto come una massima autoon Humboldt? Alexanrità scientifica da tutte le accademie del der Von Humboldt? La mondo, Von Humboldt è stato anche domanda potrebbe uno dei grandi miti popolari dell’Ottostroncare il concorrente cento. di ogni telequiz. Un vuoLetame o diamanti, non faceva molta to di memoria (collettidifferenza. Perché la prima dote di Von vo), che appare tanto più singolare se si Humboldt — un tratto che lo accomuna considera che pure chi quel nome lo rialla mente di Leonardo — era la sua cacorda finisce spesso per calarlo nei pacità di leggere la natura: un ecpanni di un avventuroso esplocezionale colpo d’occhio sul ratore. L’immagine certaparticolare, associato a mente si addice al persouna grande visione d’innaggio, autore di un fasieme. Von Humboldt moso viaggio attraverera capace di andare so il Sud America, dal a scoprire (contro Rio delle Amazzoni ogni previsione) alle Ande; ma, conuna miniera di diatemporaneamente, manti in fondo alla la definizione suona Siberia con la stesfin troppo limitativa sa semplicità con la per un uomo che, quale, in Sud Amementre fissava i merica, trovandosi a ridiani e i paralleli passare davanti a delle nuove carte una grande colonia geografiche, rileggedi uccelli marini, aveva le leggi del magnetiva analizzato le prosmo terrestre, decifrava prietà fertilizzanti di i misteri dei calendari atquei giacimenti di guano, zechi, identificava centiintuendone il futuro econonaia di piante sconosciute, pemico. Se in Germania e in Frannetrava i misteri dei vulcani... cia Von Humboldt siede ancora Botanico, geologo, astronoRITRATTO al suo posto d’onore, tra Kant e mo, antropologo... senza diVon Humboldt Goethe, in Italia sembra non menticare il brillante converin un ritratto avere più la memoria che si mesatore, il fine diplomatico, il diche lo raffigura vulgatore... e l’uomo che non in età più matura rita. La ricorrenza dei 150 anni dalla morte diventa così un’ocaveva paura di schierarsi, ora casione per rispolverare una contro la schiavitù, ora al fian- LUCA VILLORESI V biografia davvero fuori dal comune. Una storia che inizia nel 1769, in un castello prussiano. Da una famiglia che, accanto ad Alexander, annovera tra i suoi geni anche il fratello, Wilhelm, filosofo, diplomatico, pioniere della linguistica. Alexander è, ovviamente, precoce. Gira le università tedesche. Studia di tutto: fisica, chimica, finanza, storia, medicina, matematica, botanica. Nel 1792 Von Humboldt comincia a lavorare nella società mineraria statale prussiana. L’esperienza è breve; ma già delinea le capacità di quell’ingegnere che migliora le attrezzature di soccorso, inventa una nuova lampada, si batte per far ottenere una pensione agli operai. Gli offrono anche una carriera diplomatica. Ma la Prussia ad Alexander Von Humboldt va stretta. Lui è un uomo del suo tempo. E il suo è un tempo mutevole. Sono gli anni — illuminati, ro- S E I T 17 0 7 La casa d’aste Dorotheum leader in Europa centrale apre a Roma Preview di una selezione di opere pregiate delle aste primaverili 10 – 11 marzo, ore 10 – 18 Giornate di valutazioni 12 – 13 marzo, ore 10 – 18 Dorotheum Roma, Palazzo Colonna, Piazza SS. Apostoli, 66, 00187 Roma Maria Cristina Paoluzzi, tel. +39-06-699 23 671, [email protected] Cataloghi online: www.dorotheum.com Antonio Joli, Basilica e Piazza San Pietro a Roma (part.), asta a Vienna 31 marzo mantici, scientifici, avventurosi — che chiudono il Settecento e aprono le porte dell’Ottocento. Da una parte i viaggi di Cook e Bougainville, dall’altra quello del Beagle di Darwin. Da una parte Linneo che esplora la Lapponia e mette a punto la sua nomenclatura, dall’altra il Jardin royal des plantes di Parigi e i Giardini reali di Kew. Von Humboldt è lì in mezzo, come uno spartiacque. Un geografo, in un tempo dove la geografia è ancora una materia da scrivere e da riscrivere. La fine delle guerre napoleoniche ha liberato e spinto le flotte verso nuovi orizzonti: Oceania, Africa, il passaggio a Nord Ovest... esplorazioni, colonie, traffici. Le piante del Nuovo mondo non sono più solo una curiosità per i giardini dei nobili, ma assumono impreviste valenze commerciali. Von Humboldt, in compagnia del medico e botanico francese Aimé Bonpland, si imbarca per il Sud America nel 1799. È l’inizio di un’esplorazione che, nell’arco di cinque anni, lo porterà a coprire 9.650 chilometri. Cuba, Venezuela, Perù, Colombia, Ecuador, Messico. Risale il Rio delle Amazzoni e l’Orinoco. Scala le Ande. E una sua ascensione a quota 5.600 metri, oltre a portare alla prima descrizione del mal di montagna, resterà per trent’anni il record d’altitudine dell’alpinismo europeo. Mangia tuberi e formiche. Raccoglie una quantità incredibile di osservazioni: zoologia, astronomia, vulcanologia. Per restare alla botanica: Von Humboldt e Bonpland classificano sessantamila piante, scoprendone 6.300 fino allora sconosciute. Intanto scrive con- Repubblica Nazionale DOMENICA 8 MARZO 2009 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35 BOTANICO Il ritratto di Alexander Von Humboldt dipinto da Joseph Stieler nel 1843; a sinistra e a destra, alcune tavole botaniche realizzate dal grande viaggiatore tratte dal libro Alexander Von Humboldt and the botanical exploration of the Americas edizioni Prestel Una collezione di sessantamila piante risalendo Amazzoni e Orinoco AMBRA SOMASCHINI gni esemplare veniva seccato, pressato tra due fogli di carta e conservato in un flacone di formalina con il nome, la data e l’ora in cui era stato raccolto. Passiflora, mimose, dalie, lobelie, rose, acacie, fiori di senna, di cactus, di iperico, come ibernati. Sono soltanto alcune delle specie botaniche scoperte alla fine del Settecento tra Cuba, Messico e Ande settentrionali. Sono soltanto un tassello di quel patchwork di fitogeografia costruito con centocinquanta illustrazioni e materiale inedito da Hans Walter Lack — direttore dell’Orto Botanico e professore alla Free University di Berlino — in Alexander Von Humboldt and the botanical exploration of the Americas (Prestel, 288 pagine, 148 euro, 185 dollari), da fine aprile nelle librerie tedesche e da giugno in quelle anglosassoni, per celebrare il 6 maggio prossimo il centocinquantesimo anniversario della morte del botanico berlinese. Lack ha raccolto materiale per sei anni in tutta Europa. Inediti, manoscritti, disegni e acquerelli recuperati tra il Fitzwilliam Museum di Cambridge, la University Library, i Tropical and Botanical Gardens di Francoforte. Una ricerca che mette in luce il viaggio di Von Humboldt in America latina fatto tra il 1799 e il 1804 a piedi, a cavallo, in canoa, tra Colombia, Venezuela, Ecuador, Perù, Cuba e Messico. L’autore ha analizzato, estratto e riprodotto i disegni di piante e fiori da lettere, taccuini e quaderni, ma non si è fermato alla spedizione in Sud America. Ha raccontato per la prima volta come le ricerche sul campo siano state successivamente pubblicate — in mezzo a mille difficoltà — a Parigi da Aimé Bonpland e tra Parigi e Berlino da Karl Sigismund Kunth. O Von Humboldt era un botanico ma soprattutto un esploratore. Organizzava viaggi, scriveva diari e immaginava itinerari tra giungle e foreste, scalava montagne e seguiva i percorsi dei fiumi dal mare alle sorgenti. Secondo molti la sua è stata la “scoperta scientifica” dell’America. Mentre l’attraversava, aveva fissato meridiani e paralleli, redatto mappe, studiato sessantamila piante. Per fare più misurazioni possibili si era portato dietro telescopi, sestanti, quadranti, cronometri e barometri. E la spedizione per i pionieri dell’epoca era subito diventata un modello da imitare. tro la schiavitù, lamenta le condizioni di vita delle donne, denuncia lo sfruttamento delle miniere d’argento. Quando rientra sul vecchio continente, nel 1804, è già un mito. E fama maggiore (i contemporanei ritenevano che, dopo Napoleone, fosse lui l’uomo più conosciuto in Europa) gli verrà dalla pubblicazione del resoconto delle sue esplorazioni: Viaggio nelle regioni equinoziali del Nuovo mondo, un’opera in 34 volumi che vedrà la luce in Francia tra il 1807 e il 1833. Von Humboldt si stabilisce a Parigi. È un’anticipazione degli eroi di Salgari e Verne. Ma è anche un’autorità accademica. Un grande divulgatore (uno scienziato, sosteneva, deve essere un po’ artista e trasmettere le sue conoscenze), preso a modello da quel filone scientifico letterario che all’epoca riscuote una grande fortuna con le biblioteche universali e le riviste stile Annales des voyages. È anche un brillante conversatore: «Una fontana dai molti zampilli», racconterà Goethe, «sotto i quali basta porre dei recipienti perché essi siano riempiti da un fiotto rinfrescante e inesauribile». Von Humboldt si ferma a Parigi per vent’anni. Di giorno scrive, studia, sperimenta. Di notte domina i salotti. Federico Guglielmo II, però, lo richiama a Berlino. Vuole utilizzarlo come ambasciatore. Von Humboldt ha sessant’anni. Ma quando lo zar si offre di finanziargli un viaggio ai confini orientali della Russia per la ricerca di giacimenti minerari parte in quattro e quattr’otto per un viaggio di quindicimila chilometri che lo porterà fino all’estremo della Siberia e ai confini con la Cina. L’esploratore annoterà di aver sostato in 12.244 stazioni di posta; senza aggiungere troppi particolari perché lo zar, per concedergli i fondi, gli ha posto una condizione precisa: non commentare la situazione del paese. Von Humboldt non ha paura di schierarsi. Ed è nemico dei pregiudizi. Si dice sia omosessuale. E gli vengono accreditate diverse relazioni, da quelle giovanili, fino a quelle dell’età matura. Molto chiacchierata quella con il fisico Gay-Lussac; assieme al quale, peraltro, scoprirà quelle due parti di idrogeno e una di ossigeno che danno vita alla combinazione dell’acqua. Infine, c’è anche il profeta dell’ecologia. Perché il suo approccio alla natura — vista come una realtà unitaria che chiude cielo, flora, animali, uomini in un concatenarsi di cause ed effetti — anticipa molte tesi moderne, traducendole in precise previsioni. Vede gli spagnoli che disboscano i fianchi delle colline nel basso Perù e prevede ciò che aveva già previsto per la Lombardia: frane, fonti che si seccano, alluvioni. «Abbattendo gli alberi che ricoprono la cima e il fianco dei monti gli uomini, in tutte le regioni del globo, in ogni situazione climatica, preparano calamità per le generazioni del futuro». Muore a Berlino, nel 1859. Sta finendo di scrivere il quinto ed ultimo volume di Kosmos, un «progetto di descrizione fisica del mondo» che l’ha occupato per venticinque anni e resta, forse, l’opera scientifica più ambiziosa del secolo. Ha novant’anni. E se ne va serenamente perché in fondo, dice, «la vita è una gran noia». Repubblica Nazionale 36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8 MARZO 2009 SPETTACOLI Cosa si intende per “Regola Eastwood”? E perché Groucho non è solo il nome del più noto dei fratelli Marx, ma anche un movimento della macchina da presa? Un libro appena uscito in America svela il linguaggio nascosto parlato da Hollywood tra un ciac e l’altro parole del Cinema Le Lo slang segreto sussurrato sul set ANTONIO MONDA Q NEW YORK uando venne chiamato a interpretare il protagonista del Texano dagli occhi di ghiaccio, Clint Eastwood accettò con entusiasmo: aveva apprezzato enormemente la sceneggiatura di Philip Kaufman, al quale era stata affidata anche la regia. Ma ci mise meno di una settimana per capire che con lui non sarebbe mai andato d’accordo e che, per dirla con il termine diffuso in seguito dai publicist, si erano immediatamente create «insanabili divergenze creative». Con il potere attribuitogli dal suo status di star, chiese ed ottenne che Kaufman venisse licenziato, assunse in prima persona la regia del film e finì per firmarlo. Una cosa simile avvenne qualche anno dopo con Corda tesa, ma in questo caso il regista Richard Tuggle riuscì a mantenere almeno il nome nei titoli, sebbene fosse stato fatto licenziare da Eastwood dopo pochi giorni. Si trattò di una vittoria di Pirro, e forse non è un caso che in seguito Tuggle sia riuscito a dirigere soltanto un altro film. In seguito a questi episodi, il Directors Guild (il sindacato dei registi) ha sanzionato il divieto per un attore di far licenziare e sostituire il proprio regista, ma la regola continua a essere aggirata, grazie alla complicità di produttori che hanno ben chiara la scala del potere su un set hollywoodiano. La “Eastwood Rule” è uno dei tanti termini dello slang cinematografico elencati da Tony Bill in un delizioso libro intitolato Movie Speak, con il quale l’autore propone un vero e proprio dizionario del cinema, intervallandolo ad aneddoti e considerazioni sull’industria dello spettacolo. Bill, che ha prodotto La Stangata, ha un approccio a metà tra il disincanto e l’affetto nei confronti del proprio ambiente, e usa il linguaggio veloce del set e delle trattative tra talents (gli attori, dei quali spiega che non è necessario che abbiano realmente talento) e percenters (i manager, gli agenti e tutti coloro che sono pagati a percentuale). Queste alcune delle voci maggiormente significative. NATIONAL GEOGRAPHIC VIDEO CLINT EASTWOOD DORIS DAY IL MISTERO DEGLI SQUALI MARTELLO Circa 20 milioni di anni fa apparve una nuova specie: lo squalo martello. GROUCHO MARX Come ha potuto evolversi questo strano animale marino e, soprattutto, come è riuscito ad arrivare fino ai giorni nostri? HORACE MCMAHON IN EDICOLA IL DVD DI MARZO A € 9,90 PRODUTTORE A Hollywood esiste una differenza fondamentale tra produttore, produttore esecutivo e produttore associato. Il primo è quello che detiene il vero potere e ha il diritto di ritirare l’Oscar in caso di vittoria. Il secondo è identificato come “i soldi” e spesso viene defraudato del fatto di aver reso possibile il film. Il terzo rappresenta un titolo che è poco più che un contentino per professionisti che spesso hanno svolto un ruolo determinante. In Hollywood, Vermont David Mamet spiega che «il credit di produttore associato è quello che dai alla tua segretaria invece di aumentarle lo stipendio». DORIS DAY PARKING È il parcheggio migliore dello studio cinematografico, riservato storicamente per contratto all’automobile della diva. GROUCHO La posizione assunta da un interprete che si abbassa per aiutare il cameraman nell’inquadratura. La definizione nasce dall’inconfondibile modo di camminare di Groucho Marx. HORACE MCMAHON Definizione opposta al “Groucho” È il termine che indica il movimento improvviso con cui un interprete esce improvvisamente dal campo. Per questo modo di fare il caratterista Horace McMahon era detestato dagli operatori hollywoodiani. SEAGULL/GABBIANO Uno stacco inutile e fintamente poetico, girato da registi a corto di idee con l’illusione di nobilitare la scena. Tipiche le inquadrature degli uccelli che hanno dato il nome al lemma. FIFTY-FIFTY La tecnica di ripresa che equilibra un’inquadratura con due personaggi che dialogano, valorizzando il profilo migliore degli interpreti in questione e rispettando nello stesso tempo il rispettivo star power. Nel caso di attori di grandissima importanza l’equilibrio è mantenuto contando i secondi e i centimetri di presenza sullo schermo. Tony Bill raccomanda di non chiedere mai a Barbra Streisand di recitare sul lato sinistro. TELEVISIONE Paddy Chayefsky, il grande sceneggiatore di Marty e Quinto Potere, la definiva «democrazia al livello più basso», mentre Billy Wilder la elogiava con questa motivazione: «Da quando è stata inventata anche noi uomini di cinema abbiamo qualcosa da guardare dall’alto in basso». Tony Bill si limita a scrivere a caratteri cubitali di NON DIMENTICARE MAI che il suo unico fine è quello di raccogliere il pubblico più numeroso possibile di fronte ad una pubblicità. Oggi alcuni canali televisivi producono serie degne dei migliori film hollywoodiani, ma non è un caso che lo slang della Hbo sia: «It’s not tv, it’s Hbo». GREEK/GRECO L’ordine dato al trovarobe di rendere incomprensibile una scritta oscena. “To greek it/Rendere greco qualcosa” significa ad esempio trasformare la scritta sul muro “fuck” in “buck”, e prende origine da un’ammissione di ignoranza: «Non capisco cosa significhi: per me è greco». REMBRANDT Il nome con cui viene chiamato il pittore di scena. Repubblica Nazionale DOMENICA 8 MARZO 2009 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37 DISNEY DEATH La morte provvisoria di un personaggio, che è riportato miracolosamente in vita, come avviene per Biancaneve nel film omonimo e per Baloo nel Libro della Giungla. BIANCANEVE REGOLA CASTLE ROCK Prende il nome dall’omonima casa di produzione, fondata da Rob Reiner, Martin Schafer e altri soci nel 1987. La regola è quella secondo la quale esistono soltanto quattro tipi di film: «Buoni film che funzionano, brutti film che funzionano, buoni film che non funzionano e brutti film che non funzionano», dove il termine “funzionare” intende unicamente generare soldi. MICKEY ROONEY Un movimento rasoterra della macchina da presa, chiamato così per la bassa statura del celebre attore. Rooney non si è mai offeso per la definizione, e anzi ne ha fatto pubblicamente motivo di vanto. MICKEY ROONEY ORSON WELLES Nella foto grande una scena del film Viale del tramonto, di Billy Wilder del 1950 “SIAMO NELL’ORO” Una delle espressioni che preoccupa maggiormente i produttori, ed è quel che annuncia il direttore di produzione per spiegare che sono iniziati gli straordinari a doppia paga. “PORTATE LA CARNE” Il modo dispregiativo con cui il regista comunica al suo assistente di convocare gli attori sul set. PERRIER MEETING Appuntamento che dura meno del tempo che ci vuole a bere un bicchiere di acqua minerale, e prelude generalmente a un licenziamento in tronco. JANE RUSSELL “AZIONE!” È l’ordine con cui si dà il via ad una scena. Sul set hollywoodiano non è sempre il regista a dare l’ordine in questione: molti cineasti amano sottolineare il proprio potere limitandosi a muovere leggermente il capo, altri affidano il compito all’assistente, ed altri ancora propongono varianti personali. Martin Scorsese dice: «Azione, energia!»; Clint Eastwood sussurra con un filo di voce: «Inizia pure»; mentre Samuel Fuller amava sparare un colpo della propria Luger. REGISTA Secondo la “teoria dell’autore” di Andrew Sarris il regista è il massimo responsabile artistico di un film. A Hollywood la teoria di Sarris rappresenta soltanto una variabile, e spesso un’eccezione. Orson Welles definì una volta il regista «una persona che tiene sotto controllo gli incidenti». GO WITH THE MONEY Seguire con la massima cura tutto ciò che riguarda la star più pagata del film mettendo in secondo piano il resto. Pochi cineasti come Welles hanno rifiutato di accettare questo ordine da parte del produttore. Registi con minore personalità replicano invece l’indicazione perentoria sottovoce al direttore della fotografia, facendo bene attenzione che altri interpreti non si accorgano di quanto sta avvenendo. JANE RUSSELL Dal nome dell’attrice, nota per il seno molto abbondante. Si tratta di una sineddoche che intende un’inquadratura all’altezza del petto. MARTINI L’ultima inquadratura della giornata lavorativa. Chi la pronuncia pregusta già l’aperitivo serale. In questo caso, lo slang hollywoodiano utilizza una metafora e annuncia il momento in cui si può finalmente evadere dalla fabbrica dei sogni. Da amarcord a famolo strano il vocabolario dei film italiani STEFANO BARTEZZAGHI «I n che film l’hai visto?» è un modo di dire sensatissimo: esprime lo stupore di fronte all’irreale e invita a fare le opportune (ma a volte scomode) distinzioni fra i diversi piani di realtà. Si sa che vedere un film rende letterale la metafora (anzi l’ossimoro) del sogno ad occhi aperti: con la differenza che il sogno lo produciamo noi mentre il film lo produce il suo produttore, e quindi è meno incertamente dalla parte della realtà oggettiva. Forse si potrebbe usare anche un’altra domanda: «In che film l’hai sentito?». Sì, perché dall’introduzione del sonoro alla fine degli anni Venti, il cinema ha donato alla lingua (o ha amplificato nella lingua) quantità di espressioni, tormentoni, modi linguistici di atteggiarsi. Per fare solo gli esempi più rimarchevoli, per diffusione o per attualità, le pinzillacchere di Totò e i maccheroni di Alberto Sordi venivano subito ripetuti e imitati anche alla Bovisasca; e, d’altra parte, recentissime cronache hanno raccontato come la Gessica di Carlo Verdone, con il suo pure dilagante «famolo strano», ha ispirato un sito che organizzava orge che ora preoccupano carabinieri e autorità sanitarie. Quel che il cinema dice, lo spettatore acquisisce e ripete. Subito dopo gli inizi impacciati in cui dallo schermo si parlava con la lingua del teatro contemporaneo (il primo film sonoro italiano, nel 1930, era tratto da Pirandello), il cinema si scontrò con la tenacia dei dialetti italiani, osteggiata (senza successo e forse senza troppa convinzione) dal fascismo e poi messa a confronto dal neorealismo con l’inglese e i diversi idiomi degli Alleati. Da una parte, dunque, l’italiano prezioso e totalmente artificioso dei telefoni bianchi; dall’altra, la sintesi suprema di Sciuscià, dove il dialetto lustra e rivernicia le scarpe alla lingua dello straniero liberatore. Il dialetto resterà una risorsa realistica (Olmi), comica o farsesca (da I soliti ignoti ai cinepanettoni con le macchiette regionali), ma anche onirico-enigmatica, se si pensa all’Amarcorddi Fellini, o persino comicoenigmatica, se consideriamo Massimo Troisi e quel suo arditissimo esperimento di idioma stretto e veloce. I conti, però, il cinema li ha dovuti fare soprattutto con la carenza di una lingua italiana media; se l’è anche costruita quando era il caso, per esempio importandola via doppiaggio. Le storie della lingua italiana parlano tutte di quel prezioso «sì...» che abbiamo sostituito a «pronto!» rispondendo al telefono, o di invenzioni fortunate (come il «picchiatello», per tradurre pixilated) o sciagurate (come «la città bassa» che vorrebbe rendere l’intraducibile downtown). Poi però la macchietta, la voce di gergo, il preziosismo aulico, l’eloquio vano si fanno notare più degli usi medi, che in italiano tendono subito all’affettazione o alla burocrazia. Così fra Totò e l’onorevole Trombetta oggi quello strano sembra il secondo, con i suoi «Permette che mi presenti?» e «Ricordatevi che io sono un onorevole». Embè? È la vecchia storia dell’eterna commedia dell’arte: maschere e stereotipi, pierini, brancaleoni e terruncielli, ognuno fornito della sua devianza linguistica, hanno diffuso quisquilie, viulenza, craniate pazzesche e «traversate lo cavalcone in fila longobarda». Si può andare per filoni, il comico, il romantico, il macho, il disinvolto. Nel filone intellettuale furono per tempo segnalate le incongruenze esistenzialiste in Antonioni, culminate nel «Mi fanno male i capelli» detto da Monica Vitti (mentre solo di recente Alberto Arbasino ha lamentato «Noi non parlavamo così» a proposito della Dolce Vita di Federico Fellini). Qualcosa di analogo si è riscontrato anche nel filone movimentista, soprattutto su Maledetti vi ameròdi Marco Tullio Giordana, ma poi i film di Nanni Moretti hanno imposto locuzioni che corrispondono anche a un modo di vedere il mondo, da «giro, vedo gente» a «continuiamo così, facciamoci del male». Perché poi il vero contributo del cinema è quello: suggerisce comportamenti, ancor prima che frasi e parole. Certi impermeabili, certe acconciature, certi modi di stare seduti allo sgabello di un bar, la camminata a gambe larghe che molti spettatori ripetevano all’uscita da un western; e poi le frasi e gli sguardi d’amore, il modo stesso di farlo, l’amore, ormai; le battute sdrammatizzanti e quelle di litigio; i modi di esultare. Come Don Chisciotte viveva in un mondo modellato dai romanzi cavallereschi, così di volta in volta, caso per caso, ci si può trovare a esportare da Hollywood (o Bollywood) a Vimodrone, da Cinecittà a Canicattì (con la spassosa aggravante che già Nando Moriconi era un Don Chisciotte, come ogni suo successore verdoniano). Il cinema ha influito sul modo di agire, e di «montare» le nostre azioni, sui nostri ritmi e persino sui nostri visi. Lo ha scritto Roland Barthes, per poi sottolineare che la somiglianza fisica che riscontriamo fra molti volti che vediamo per strada e quelli dei divi è dovuta al fatto che è dalla strada che viene lo stereotipo cinematografico. Avrà dunque avuto ragione Gianni Celati a intitolare una sua raccolta di racconti Cinema naturale. Quello che abbiamo visto e che abbiamo sentito al cinema è quel che c’era già da vedere e sentire, ma che nel passaggio dallo schermo ha focalizzato la nostra attenzione, modellato i nostri comportamenti e i nostri corpi, diventando riconoscibile nella sua paradossale naturalezza. Repubblica Nazionale 38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8 MARZO 2009 i sapori Dai cinque euro di un pasto pronto, ai trecento della cena da Jiro, maestro ottantenne che crea per solo dieci clienti alla volta, la metropoli giapponese offre una varietà gastronomica straordinaria. Per questo ha ospitato il summit dei più grandi chef del mondo Capitali del gusto Allievo di Ezio Santin (Antica Osteria del Ponte di Cassinetta, Milano), Yoshihiro Narisawa gestisce “Les Creations de Narisawa” Tra i piatti, lo strepitoso filetto avvolto nella cenere vegetale DOVE DORMIRE DOVE MANGIARE DOVE COMPRARE GRAND HYATT TOKYO 6-10-3 Roppongi, Minato-Ku Tel. (+81) 3-4333-1234 Camera doppia da 190 euro ISEHIRO (YAKITORI) 5-4, 1-chome, Kyobashi, Chuo-ku Tel. (+81) 3-3281-5864 Chiuso domenica, menù da 12 euro TSUKIJI FISH MARKET 5-2 Tsukiji Chuo-ku Tel. (+81) 3-3547-8011 SUMISHO HOTEL 9-4 Nihonbashi-Kobunecho Tel (+81) 3-3661-4603 Camera doppia da 90 euro IPPOH (TEMPURA) 4F, Kojun Building, 6-8-7 Ginza Tel. (+81) 3-3289-5011 Chiuso domenica, menù da 35 euro CHA CHA NOMA TEA SHOP 5-13-14 Jingu-mae, Omotesando, Shibuya-ku Tel. (+81) 3-5468-8846 SADACHIYO RYOKAN 2-20-1 Asakusa, Taito-ku Tel. (+81) 3-3842-6431 Camera doppia da 80 euro SUSHI-KO 6-3-8 Ginza, Hibiya Tel. (+81) 3-3571-1968 Senza chiusura, menù da 120 euro SADAHARU AOKI SWEETS Tokyo MidTown Galleria B1, 9-7-4 Akasaka, Minato-ku Tel. (+81) 3-5413-7112 GREEN HOTEL OCHANOMIZU 2-6, Kanda-Awajicho, Chiyoda-ku Tel. (+81) 3-3255-4161 Camera doppia da 112 euro YAMADA CHIKARA 1-15-2 Minami-Azabu, Minato Tel. (+81) 3-5492-5817 Chiuso domenica, menù da 150 euro SHINANOYA LIQUOR STORE 1-12-9 Kabukicho Shinjuku-ku Tel. (+81) 3-3204-2365 Tokyo La cucina che non dorme mai LICIA GRANELLO Sushi & sashimi Il piatto-simbolo – con e senza riso nelle due dizioni – prevede pesce freschissimo, wasabi, aceto di riso, zenzero marinato dolce, salsa di soia Teppanyaki Di origine nippocaliforniana, la piastra di ferro (teppan) inserita all’interno del tavolo, su cui il cuoco salta (yaki) sottili porzioni di pesce, carne e verdure Shabu-shabu Mezzo secolo di vita per la cottura fai-da-te: la parola shabu definisce il rumore della fettina di carne intinta nella pentola di brodo bollente in mezzo al tavolo Yakitori Gli spiedini grigliati, anche in versioni diverse dalla tradizione (polpa e fegatini di pollo), sono spennellati con una salsa a base di sakè, salsa di soia, mirin e zucchero Tempura Pesce, frutti di mare e verdure per la frittura croccante. La pastella è preparata al momento con rosso d’uovo, farina e acqua ghiacciata, che non fa assorbire l’olio «M a dove sta il divertimento nell’andare in un ristorante dove la roba te la devi cucinare tu?!». Un attonito Bill Murray commenta così con Scarlett Johansson il rituale della cena shabu-shabu in uno dei dialoghi più divertenti di Lost in translation, film-culto sul senso di dispersione e inadeguatezza ambientato a Tokyo. Nella città dei ventitré quartieri (ku) da oltre mezzo milione di abitanti ciascuno, pensare che un solo stile di cucina li identifichi tutti sarebbe folle. Al contrario, in nessun’altra capitale del mondo gli estremi gastronomici sono così distanti. Da una parte, il massimo della condivisione fai-da-te, con i ristoranti dai tavoli attrezzati per ospitare al centro il fornello con pentola di brodo. Dall’altra, l’arte del servizio più raffinata e avvolgente, grazie alle cameriere-geishe che si inginocchiano sul tatami di fianco al cliente per servire sushi e zuppe. In mezzo, tutto quello che avreste voluto sapere sul cibo e non avete mai osato chiedere: non solo e non tanto a livello di bocconi proibiti — e quotidianamente serviti, dalle bistecche di balena al brodo di tartaruga, fino alle interiora di pesce-palla — quanto nel mirabolante approccio agli alimenti più comuni e apparentemente banali. Non si spiegherebbe altrimenti perché, secondo tutte le guide turistiche di Tokyo, in cima alla top ten dei luoghi imperdibili da visitare non ci sia un tempio, una strada, un monumento, ma lo Tsukiji Fish Market, dove ogni giorno transitano quasi tre tonnellate di pesce. Da lì in poi, nella città che non dorme mai tutto è possibile, a partire da cinque euro, il prezzo di un bento (pasto pronto) con riso, zuppa e pesce caldo, serviti con una tazza di tè verde, fino ai due-trecento per una cena indimenticabile da Jiro, lo straordinario ottantenne supermaestro di sushi che dispensa le sue delizie e uno spettacolo fantastico a dieci fortunati per turno (scandendo perfino la tempistica degli assaggi per evitare sbalzi nella temperatura di riso e pesce...). Proprio la varietà di offerta mangereccia e la profonda cultura alimentare hanno indotto la créme de la créme dell’alta cucina internazionale a scegliere Tokyo come sede del primo summit mondiale di gastronomia, organizzato da Yukio Hattori, super-chef responsabile della scuola di cucina più famosa del Giappone, il “Nutrition College”. Così, pochi giorni fa nei saloni dell’International Forum, sono sfilati Joel Robouchon e Ferran Adrià, Nobu e Massimiliano Alajmo, Grant Achatz e Dong Zhenxiang, Heston Blumenthal e Pierre Gagnaire. Tecniche, ricette, ma soprattutto la scoperta della felice contaminazione con l’arte culinaria occidentale, dal pesce crudo alle cotture croccanti, passando per il rispetto assoluto di colori e principi nutritivi. Ma il fascino del nippo-food in purezza resta intatto. Se siete a Tokyo, prima di cominciare a litigare con bacchette e wasabi, rilassatevi al “New York bar”, ultimo piano del Park Hyatt Hotel. Mentre vi godete la vista mozzafiato e sorseggiate un Sakè-Martini, potreste scoprire Scarlett Johansson seduta al tavolo vicino. Manzo di Kobe La carne arriva da bovini allevati tra musica, massaggi e dieta a base di birra. Le finissime marezzature di grasso si traducono in consistenza incredibilmente morbida Salsa di soia Prodotta dalla fermentazione dei fagioli di soia con acqua, farina e sale, viene usata da sola o come ingrediente nelle varianti chiara e scura - in moltissime ricette Toro Il “foie gras di pesce”, la ventresca di tonno rosso è considerata un boccone pregiato, sia nei bocconcini di sushi e sashimi (i più costosi), sia nelle preparazioni tataki Noodles I lunghissimi spaghetti, classificati secondo la farina (udon, grano, al sud; e soba, grano saraceno, nel nord), si servono in zuppa bollente con carni e verdure Sakè Il vino ricavato dalla fermentazione del riso vanta un’alta concentrazione alcolica Diverse le tipologie: fruttato, secco, frizzante... Si serve freddo o caldo Repubblica Nazionale DOMENICA 8 MARZO 2009 13 milioni gli abitanti della prefettura 35 milioni gli abitanti dell’area LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39 200 mila i ristoranti nel territorio 173 i ristoranti premiati con stelle Michelin Nel paese dove si spilluzzica bellezza e non si mangiano cibi ma suggestioni RENATA PISU utrirsi di opere d’arte, mangiare colori, un pasto non ordinato intorno alla centralità di una portata ma frammentato in piccole bellezze, questa la particolarità della cucina giapponese autentica, prima delle contaminazioni. Paziente e frugale sublimazione della foglia di lattuga, della prugna, del pesciolino, della fettina di zucca per creare piccoli capolavori, cibo che non si presenta come preda, quindi bandito il coltello assassino, la forchetta dentata. Basta una lieve presa delle bacchette e questo cibo, che è puro nella sostanza ed elaborato soltanto in omaggio alla vista, si poggia sulle labbra, morbidamente inghiottito. Come se niente fosse. È ancora cibo? O è invece, come diceva Roland Barthes, un ornamento? Bello, bellissimo, da mangiare con gli occhi. Come la nostra pasticceria, l’alta pasticceria, i pasticcini, così perfetti ed elaborati. Un vero ristorante giapponese, ma anche e forse soprattutto il banco di un negozio di alimentari, sembra far riferimento a schemi di presentazione e di seduzione che da noi vengono rispettati unicamente per i cibi superflui, i dolci per l’appunto, il lusso del di più che ci si concede dopo la sazietà. La pasta è la pasta, la bistecca è la bistecca, il pollo è ancora lì con le sue forme animali, ha addirittura le cosce. Ma un pasticcino, cosa è mai? A Tokyo è come se tutti vivessero di pasticcini, si nutrissero con sublime aristocratico distacco, con un sospiro. O una madeleine. Sin da bambini, non si mangiano cibi ma pensieri, suggestioni. Ci pensa la mamma che prepara lo o-bento, che sarebbe — chi se lo ricorda? — pressappoco il cestino del pranzo dei nostri scolari di un tempo, quelli con il grembiulino e il fiocco al collo. Nello o-bento, una scatola a scomparti, le mamme mettono colori, minute porzioni del loro amore, elaborano cibi in forma di Topolino, o dell’eroe dei manga del momento. Oppure crisantemi di riso, giardinetti di alghe. Anche a teatro, ti servono cibi in un o-bento, microscopiche porzioni di bellezza commestibile. Anche nello Shinkasen, il treno a alta velocità giapponese, si vendono pasti nello o-bento. O-bento più o meno cari, più o meno raffinati, ma che delizia è lo o-bento, questa scatola di lacca o di legno o di plastica con dentro un variegato pranzo “bonsai”. Anche a tavola, a casa o al ristorante, mangiare significa prima di tutto vagare con lo sguardo su un’esposizione di frammenti presentati tutti assieme artisticamente, seguendo un itinerario dettato dal desiderio, prelevando ora un colore, ora un altro, senza rispettare la rigidità di un menu. Il pasto si presenta completo su di un vassoio, ordinato minuziosamente dentro piattini e ciotole, stoviglie decorate con motivi che cambiano a seconda della stagione e hanno forme e colori in armonia con il clima, con le fioriture, con le sfumature di verde dell’erba, del giallo delle foglie. Mai fiori di ciliegio in autunno, mai castagne d’estate, l’errore sarebbe imperdonabile, esteticamente scorretto. Nutrirsi è per i giapponesi un atto supremamente formale ma loro hanno le loro forme, niente a che vedere con le nostre maniere de table, con i nostri orari canonici, le fatidiche ore dei pasti: si spilluzzica bellezza, si vive di pasticcini. N L’APPUNTAMENTO È magica la primavera a Tokyo. Tutto merito dei cherry blossoms, i boccioli dei ciliegi, che colorano di biancorosa la città . Nelle due settimane a cavallo tra fine marzo e inizio aprile, la “hanami season” sarà punteggiata di percorsi guidati e sakè-party negli angoli più suggestivi dove ammirare le fioriture, dallo Shinjyuku Gyoen Garden a Ueno& Sumida parks, fino alle romantiche mini-crociere davanti alla baia e lungo le rive erbose del castello di Chidorigafuchi Repubblica Nazionale DOMENICA 8 MARZO 2009 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41 le tendenze Era il 1959 quando l’americano Allen Grant senior realizzò il primo paio. Poi l’avvento della minigonna li rese indispensabili. Oggi l’Italia è il produttore Irrinunciabili leader dell’accessorio più amato dalle donne (ma detestato dagli uomini), ormai sofisticato e hi-tech FANTASIA RAMAGE A RETE EFFETTO PIZZO FLOREALE TARTAN DAMASCATO Fantasia ramage lungo le gambe con maglietta abbinata per il collant viola 50 denari di Bombana Collant a rete senza cuciture con raffinato motivo a cerchi: è il modello Londra di La Perla Fantasia effetto pizzo con motivo di fiori per il collant firmato Philippe Matignon per Goldenpoint È trasparente ma non rinuncia all’effetto primavera delle stampe a fiori il collant Just Cavalli Classico motivo tartan, ma rivisto in nuove nuances di colore È il modello Vivienne di Oroblu È con disegno jacquard damascato il collant Melita bicolore di Pierre Mantoux La calza rivoluzionaria che inventò le gambe LAURA LAURENZI l collant compie cinquant’anni, indumento funzionale e in fin dei conti prosaico, antipatizzato dagli uomini per la sua carica antierotica, sempre più popolare fra le donne per la sua dirompente praticità. Correva l’anno 1959 quando Allen Grant sr, della Glen Raven Mills, fabbrica di tessuti del Nord Carolina, ideò e realizzò il primo collant, usando il nylon, «delicato come una ragnatela, resistente come l’acciaio». Il 1959 è anche l’anno in cui viene inventata la Lycra, fibra elastica hi-tech che un giorno avrebbe rivoluzionato il mondo dell’intimo, dei costumi da bagno e ovviamente anche dei collant. Passò ancora qualche anno prima che le calze lunghe fino alla vita, guardate all’inizio con diffidenza, diventassero un indumento di massa. Fu l’avvento della minigonna a renderlo indispensabile, adottato prima dalle più giovani e dalle più temerarie, ma diventato rapidamente un accessorio cui nessuna donna avrebbe rinunciato. Era una strada senza ritorno, a cambiare costumi e consumi, gusti, riferimenti, abitudini. In fondo il collant aveva antenati celebri già negli anni Cinquanta: per esempio la calzamaglia censoria e supercoprente con cui furono rivestite le gemelle Kessler. Porta un collant abbinato solo a un maxi pullover Marilyn Monroe nel film Facciamo l’amore, ma siamo già nel ‘60. Ne sfoggia uno anche Sophia Loren mentre balla uno scatenato rock and roll per Clark Gable ne La Baia di Napoli, stesso anno. Ma sono sostanzialmente calzamaglie simili a quelle che si indossavano sotto la tuta da sci, total black stile Amleto, o da paggio, pesantissime e grinzose. Il collant invece fu rivoluzionario per il suo effetto nudo, perché era una seconda pelle, ma anche perché liberava la donna dalla schiavitù del reggicalze e dei gancetti, scomoda calamita di erotismo. Accompagnava signore & ragazze nella marcia verso la libertà, la comodità, l’emancipazione. Era l’indumento del futuro, indosso a una spaziale Jane Fonda nei panni stellari di Barbarella (1968) con stivali super sexy e sguardo aggressivo. Apprezzatissimo dall’universo femminile, fu sempre (e lo è ancora) osteggiato dagli uomini, che lo hanno vissuto come un defraudante sopruso. Non a caso dall’ultima importante ricerca di mercato commissionata proprio da Lycra, intitolata “Gli uomini preferiscono le gonne”, risulta che la calza autoreggente, e non certo lo sterilizzato collant, sia di gran lunga (nell’ottanta per cento dei casi) la calza preferita dagli uomini di tutte le età, regina indiscussa dell’immaginario maschile. Mezzo secolo di storia. Nella sua banalità I il collant è ormai una certezza, un punto fermo. E l’Italia è il primo produttore mondiale. Maculati, operati, tatuati, i collant non sono più un semplice accessorio, bensì un capo d’abbigliamento, anzi “il” capo d’abbigliamento che secondo gli esperti di moda fa la differenza. Sono un prolungamento dell’abito, una parte essenziale. Sofisticatissimi, ricercati, spruzzati di lurex o tempestati di paillettes, trafitti da oblò, decorati con applicazioni di ogni tipo, pitonati, leopardati, mimetici, tribali, a spina di pesce, optical, scozzesi, gessati, di pizzo o broccato. Belli o pacchiani, chic oppure troppo vistosi. Ma soprattutto hitech, dotati di effetti speciali un tempo insospettabili: c’è il collant anti varici, il collant anti statico, anti fatica, anti zanzara, anti cellulite, anti batterico, il collant che massaggia, quello che idrata, quello che depila, quello dotato di push-up con effetto lievitante sui glutei, quello che abbronza, quello che cambia profumo a seconda dell’ora del giorno o della sera, quello che lenisce il jet lag. Il bilancio del settore fino a qualche mese fa era positivo. «Abbiamo vissuto una stagione molto favorevole, grazie anche agli stilisti che, dopo tante collezioni di gambe nude e dopo tanti pantaloni, hanno rilanciato alla grande il collant sulle passerelle; e grazie alle giovanissime, che hanno comprato soprattutto collant ad alto contenuto-moda da abbinare alle minigonne», afferma Giovanni Fabiani, presidente del Centro Servizi Calza di Castelgoffredo Mantova. Un comparto che, con le sue 250 aziende, da solo produce il settanta per cento delle calze vendute nell’intera Europa, con un fatturato annuo di un miliardo e mezzo di euro. Una vera eccellenza del made in Italy. Poi, con la crisi globale, negli ultimi mesi c’è stato un calo delle vendite al consumo pari a un cinquesei per cento, e un crollo verticale degli ordini all’industria, che a gennaio sono diminuiti del cinquanta per cento. Un tempo, prima dell’avvento della Lycra, i collant duravano meno, si sfilavano prima: avevano un costo più contenuto ma finivano prima nel cestino. Quindi se ne vendevano molti di più. Negli ultimi dieci anni il consumo si è addirittura dimezzato, come numero di paia pro capite, ma non certo come valore di spesa. Ogni italiana oggi compra in media fra le tredici e le quattordici paia di calze l’anno (la cifra include collant, autoreggenti, parigine, gambaletti, leggings, calze riposanti). Il sessanta per cento di quello che spende viene speso in collant. Poco sexy forse, ma indispensabili. A POIS Fondo nero con pois color glicine per il collant estroso ed elegante di Emporio Armani L’ANNIVERSARIO Calzedonia celebra il compleanno dei collant con Anniversary, modello speciale a tiratura limitata disponibile dal 30 marzo. Effetto nudo e alta tecnologia le sue caratteristiche 50 anni A VITA BASSA Collant velatocoprente vita bassa con effetto finto gambaletto e ricamo per Omsa Collant di Repubblica Nazionale 42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8 MARZO 2009 l’incontro Ha ottantotto anni, la pelle di pesca e la frangetta da ragazza Sta alla ribalta da prima della guerra, in teatro è ancora una leonessa e adesso ha scritto un libro, “Di tanti palpiti”, sulla lirica e le sue donne Ma è raccontando le donne di tutti i giorni che ha fatto ridere gli italiani. “La mia satira non si accanisce ma non è bonaria E guardando le donne nuove, constato che le vecchie sono le più nuove” Sempreverdi Franca Valeri tempi non sono cambiati. Franca Valeri nella sua casa di Roma, nascosta dai pini e per niente in centro, ha ancora una portiera. Viene con piccoli passi invisibili a chiudere le persiane, è quasi ora di cena. I tempi sono cambiati: la portiera è una giovane donna indiana, con i capelli color lava, e porta odore di gelsomino. «Ecco la portiera», la annuncia quando la vede entrare in casa, e batte anche le mani. Come la chiamasse in scena. «Quando qui si è ventilato di eliminare la portiera ho chiamato l’amministratore: ditemelo subito, che io cambio casa. È assurdo, la vita è già così difficile». La portiera forse è il punto di vista che ha scelto per guardare le vite degli altri. Con distacco, dal basso verso l’alto: la gente che scende, la gente che sale. Ferma nello stesso punto, a osservare gli esseri umani, e un po’ l’Italia e le donne, e a scriverne ininterrottamente per la radio, il teatro, la tv, il cinema, e di nuovo la tv, e ora di nuovo il teatro, per oltre sessant’anni. La sua casa è come un bjioux, piena zeppa di libri, statuine di porcellana, ricordi di Giuseppe Verdi. Ci sono dei centrini e un divano con i cuscini di velluto e per terra le ciotole dei suoi amati cani, sulle mensole le loro fotografie incorniciate d’argento. È un po’ antica e un po’ vanesia, questa casa, non le somiglia molto: lei sempre così sobria, così moderna, per sempre giovane nella mente, e più bella e più giovane quasi quasi ora che ha ottantotto anni, ma la pelle come pesca e la frangetta da ragazza. Solo la voce trema ma in teatro no, in teatro le viene una forza da leone. lità, parlano di politica. Ma i commenti all’attualità sono inevitabilmente qualunquisti». Il tg? «Se non posso evitarlo. La vita sociale del Paese sembra che non faccia più parte della realtà, e degli individui. La società oggi non esiste». La bocciatura all’Accademia fu la sua fortuna, non disse niente ai genitori, una zia la coprì per tre anni, studiò, incontrò degli amici: «Allora i giovani avevano idee, e i grandi li guardavano con benevolenza, erano attenti a quello che facevano. Ora tutto questo è abolito». Non dice scomparso, dice abolito. I giovani che incontrò erano Vittorio Caprioli e Alberto Bonucci, con cui fondò il teatro dei Gobbi che era talmente avanti che debuttarono in Francia. Finito lo spettacolo delle undici, se ne andava alla Cave Saint German, dove cantava anche Juliette Greco, sola, col tubino nero di Capucci, a fare i suoi monologhi in francese; e il critico di le Monde la recensiva. I grandi che erano attenti, allora e non ora, si chiamavano Totò, De Sica, Ennio Flaiano, Federico Fellini, René Clair. Le attrici comiche ora sono impegnate: stanno attaccate all’attualità, parlano di politica... Ma così si perde di vista la vita della gente: la società oggi non esiste più FOTO GRAZIA NERI I ROMA «I medici dicono che è l’adrenalina. Io dico che è la postura e che sono felice». Franca Valeri parla poco e brevemente, così come ha sempre scritto i suoi sketch: quei monologhi femminili che sono soliloqui, a guardarli da vicino. Le piace la brevità, signora Valeri? «Non è la brevità, è l’essenzialità. Non mi piace andare oltre l’effetto: specie nel teatro comico, si prolunga un effetto che si è già ottenuto». Fu breve anche il messaggio con cui annunciò alla famiglia (milanesi, borghesi, ambiziosi) che aveva deciso di prendere un’altra strada. «Non avendo il coraggio, non c’era molta confidenza, scrissi un biglietto e glielo misi sullo specchio del bagno: “Ho deciso che faccio l’attrice”, brevissimo». La vita che racconta non comincia con la sua carriera; che poi cominciò con una bocciatura all’Accademia Silvio d’Amico, compagni d’esame Nino Manfredi e Rossella Falk. La vita che racconta comincia con la musica, che in questa stanza è presente dappertutto, come nel suo ultimo libro, Di tanti palpiti, piccole note sulle donne della lirica e sulla musica (Baldini Castoldi Dalai-La Tartaruga, curato da Patrizia Zappa Mulas). «Mi portavano già all’opera quando avevo sei anni: un amico di mio padre, Paolo Buzzi, che faceva parte del gruppo dei Futuristi, aveva un palco alla Scala, proprio sopra l’orchestra. Giuravo che mi sarei svegliata la mattina dopo per andare a scuola, e i miei mi mandavano. Buzzi era affascinato da questa bambina melomane, che in casa canticchiava le opere. Mi vestivo con dei vestiti bambineschi, per queste serate, ma che io consideravo vestiti da gran sera. Tra cui uno di georgette fragola, con un nastro di velluto che mi scendeva dalla spalla. Me lo aveva portato mio padre da Parigi». Andava a scuola a via della Spiga questa bambina affascinata dalle stoffe che fanno rumore. Poi a diciotto anni aveva letto tutto Proust: «In francese, regolarmente», precisa, «era un ambiente un po’ snob». «Poi venne la guerra, le leggi razziali, mio padre era ebreo, andò con mio fratello in Svizzera. Con mia madre rimanemmo a Milano, clandestine. Ma io andavo in giro lo stesso: lo facevo con un senso di ribellione. Pensavo che i benpensanti avrebbero vinto, a ripensarci ora ero terribilmente incauta. Ricordo che piangemmo la sera che la radio clandestina annunciò che i nazi erano entrati a Parigi». Ora la ascolta la radio? «Poco, anche la tv quasi non la vedo: per fortuna la sera lavoro. Le attrici comiche oggi sono impegnate, stanno attaccate all’attua- Facciamo un salto nel presente. I giovani in tv, questo esercito di aspiranti artisti dello spettacolo, li vede? «Rifanno ancora Saranno famosi, che è un film del 1980. Ma vi venga un’altra idea... In questo paese non si vede niente da trent’anni. La spudoratezza di questi ragazzi? Che noia. Hanno una piccola bravura, ma il talento è una cosa molto misteriosa. Il più brillante, quello che si nota di più, spesso è il peggiore. Il talento è timido». E pieno di segreti, come il suo. «Invento sulla realtà», dice. «Non scrivo mai una frase che sento, non prendo appunti su una persona reale, le imitazioni sono caduche. Sono silenziosa, parlo poco, osservo molto». Come creava l’effetto di far ridere raccontando le donne, dopo tanti anni ancora non si vede: la comicità è una questione delicata. Saremo vaghi allora: fanno ancora tanto ridere, sono malinconiche, sono piene di difetti, parlano sempre degli uomini, oh queste donne, li compatiscono, li giustificano, ne restano deluse, li sognano, li aspettano; e gli uomini non si vedono mai. Questo si vede nei suoi sketch, che qualcuno ha definito feroci. «Ci tengono tanto le donne agli uomini, e vivono in una società maschilista. La mia satira non può né peggiorare né migliorare questa cosa, è un fatto». Si è mai offeso nessuno per i suoi personaggi? «No mai, una volta Mina, ma fu un equivoco. Che sciocchezza questa della ferocia: io ho grande fiducia nell’umorismo e nell’intelligenza delle donne». Di donne ne ha raccontante tante: le adolescenti esistenzialiste, le cesire, le signorine snob, le sciure, le telefoniste, le mogli dolenti, le innamorate croniche, le venete solidali, le emiliane leggere, le romane raffazzonate, le milanesi permalose, le modaiole, le mondane, e le portiere appunto. A guardare su You Tube i filmati, centinaia e centinaia — o a leggere i testi raccolti, pochissimi (resta trovabile un Toh, quante donne! Di Lindau), mentre purtroppo i dischi della Fonit Cetra non sono mai stati ristampati — ci si stupisce delle date. La signorina snob è del 1949, e parla così: «Ho comprato un’isola vendendo alcuni fronzoli. Costava pochissimo, e in più c’era l’annuncio su un giornale inglese, come per una domestica a mezzo servizio. Divertentissimo. Sperdutissima, non è riportata neanche sui mappamondi, di un selvaggiume orrendo, che se anche ci pianti la lattuga non ci cresce. Siamo tutti eccitatissimi». Parigi o cara, il suo capolavoro, a rivederlo pare che l’abbia girato Almodovar. Nei suoi Carnet de Notes, che anco- ra porta in giro, compaiono in fondo sempre e solo esseri umani: anche se il commendatore, l’augusta genitrice, la mamma petulante, la figlia mammona, la scostumata, la ragazza da marito, sono tipi che sembrano socialmente scomparsi. Il “capoufficio” non lo dice più nessuno. Ma tra tutte le frasi, la più lontana, quella che ora un personaggio non direbbe proprio più è: «Ma che volgarità». «Non la dicono, ma molti la pensano. È talmente dilagante che siamo come impietriti, non si mette più in conto nemmeno di sottolinearla». Ha cominciato a scrivere che c’era il Duce, poi è venuta la lavatrice, poi il divorzio, il tinello è scomparso, è apparso il loft e il lettino dello psicanalista. Una certa morale di facciata, certi matrimoni saranno diversi? Diversi i rapporti nelle coppie giovani, diverse anche le donne? O anche l’emancipazione è presunta, e forse un po’ presuntuosa oggi? «Certe donne lavorano tanto per lavorare». Punto e a capo: «Non lo so se le giovani coppie siano diverse da quelle che raccontavo sessanta o trenta anni fa. Molte vivono con i sintomi di quella libertà morale che reciprocamente si concedono. Ma l’uomo e la donna sono sempre uguali, che siano giovani o vecchi, che siano legalmente sposati o no: è un fatto di genere. È sul genere che ho scritto. Ora che ne faccio di donne nuove, constato che le vecchie sono le più nuove». Ci ha osservato a lungo a noi donne, ma il suo sguardo resta segreto, come un trucco del mestiere. Signora Valeri, è benevolo il suo sguardo o no? «Non mi accanisco. Ma bonaria, benevola, no. Precisa». Franca Valeri scrive, recita, fa ancora ridere... e parla, e poi saluta sulla porta, sempre con affetto e con eleganza. E, a cercare di essere precisi, c’è della compassione nel suo sguardo. ‘‘ CARLOTTA MISMETTI CAPUA Repubblica Nazionale