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Il mio intervento sarà breve e per certi versi direi particolare. Esso è
 Il mio intervento sarà breve e per certi versi direi particolare. Esso è stato preparato per rispondere alla richiesta della professoressa Ghidoli, giuntami poco dopo
aver letto quant’era apparso sulla stampa nell’autunno scorso con il resoconto di una
conferenza che avevo tenuto a Portonovo, il 3 di ottobre del 2010, per ricordare l’arrivo di Vittorio Emanuele II ad Ancona, il soggiorno del sovrano in città e poi l’inizio
del viaggio che, come avete sentito da chi mi ha preceduto ieri sera, lo porterà verso
l’Abruzzo e quindi a quell’incontro di Teano con Garibaldi e infine a Napoli.
In quell’occasione ricordai la tappa di Grottammare e quant’avvenne lì, dopo
aver avvicinato una delle tante giovani che gli si erano proposte in quei 4 o 5 giorni
di residenza a Palazzo Laureati. Di altre avventure femminili sapevamo. È apparso da
non molto il lavoro di Lidia Pupilli sulla famiglia Galletti, dove si ricorda che la
contessa Anna de Cadilhac Galletti, ben conosciuta nel mondo fermano, fu tra le
donne che si avvicinarono a Vittorio Emanuele II, tanto da averne un figlio. Si sa
anche di altre nobildonne del luogo che furono tra le preferite di Vittorio Emanuele II
nel periodo del soggiorno.
Tra queste, c’era anche una giovane figlia del governatore pro tempore di
Grottammare, giunto a occupare il suo ufficio tra il 19 e il 20 di settembre del 1860,
poco dopo la sconfitta dei pontifici a Castelfidardo. Si trattava quindi di una ragazza
presentata al Re dal padre ossia dal governatore, cioè a dire la massima carica istituzionale e civile rappresentante la città. Fatte le dovute presentazioni, il Re mostrò d’aver
gradito le gentili maniere della giovane e ne scaturì una vicenda di cui poi tratterò.
Occorre però fare un passo indietro per spiegare come sono arrivato a questa
storia di una passione nata tra Vittorio Emanuele II e una ragazza durante il soggiorno a Grottammare. Ebbene tutto va fatto risalire ad anni lontani, a circa un quarantennio fa, quando il mio maestro Werther Angelini era solito venire a Grottammare insieme alla consorte, tra la fine di luglio e i primi di agosto di ogni anno, per una visita alle zie della signora sepolte nel cimitero di Grottammare. Il Professore mi diceva,
una volta rientrato ad Ancona: «Sai a ogni viaggio a Grottammare ritrovo i vecchi
amici ed essi mi ricordano sempre la visita del Re Vittorio Emanuele e gli amori nati
a Grottammare, alcuni protrattisi nel tempo…». Racconti che il professor Angelini
ascoltava con piacere, se non altro per i suoi interessi riguardo alla Storia del
Risorgimento, di cui era docente all’Università di Urbino, e le informazioni che volta
per volta aveva ricevuto oralmente dagli anziani grottammaresi le metteva a confronto con quanto sapeva Enrico Liburdi che, dalla non lontana San Benedetto, aveva
notizie altrettanto stuzzicanti su Grottammare ma che magari non poggiavano su
puntuali riscontri documentali. Puntualmente, in ogni occasione, il professor Angelini
preferiva riunire le notizie sulle avventure del sovrano a Grottammare tra le tante
boutade, le tante dicerie che è ancor possibile raccogliere in ogni luogo dove è passato Vittorio Emanuele II, come del resto dove è transitato Garibaldi, o tanti altri
uomini del Risorgimento, frutto, spesso, dell’immaginario collettivo.
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Così è stato per un decennio circa, fino a quando, all’inizio degli anni ’80, nel
XV volume di Studi Maceratesi, un tomo dedicato in gran parte a studi e ricerche sul
periodo del pieno Risorgimento nell’area maceratese ma anche con qualche attenzione per vicini territori dell’ascolano, non veniva pubblicato un lungo saggio, quasi un
libro nel libro si potrebbe dire, di Gualberto Piangatelli, un socio della Deputazione,
storico di San Severino Marche, laboriosissimo, e che ha lavorato molto anche sul
periodo resistenziale, sulla storia contemporanea e del ’900 in genere, con frequenti
richiami a eventi da lui vissuti direttamente. Ebbene in questo lungo saggio di
Piangatelli dedicato a Carlo Luzi, cioè al primo rappresentante del collegio di San
Severino Marche nel parlamento italiano a Torino, egli pubblicava un documento ritrovato nel ricchissimo archivio della famiglia Luzi, che non è altro che una lettera
proveniente da Grottammare a firma di C. Sfrappini, datata 1 giugno 1861, in cui lo
Sfrappini riferiva all’onorevole Luzi quanto era accaduto a Grottammare nei giorni
del soggiorno di Vittorio Emanuele II. Ecco il contenuto della lettera di Sfrappini a
Carlo Luzi:
«Sebbene io conosca punto la bella Artemisia P… [qui cominciano i primi
problemi: sapere chi fosse e a quale famiglia corrisponda, nda], e pochissimo i di Lei Genitori, perché tanto Essa, che il padre partirono da questo
Paese pochi giorni dopo che io vi ritornai, pure eccomi a narrarvi ciò che sul
conto loro ho potuto raccogliere e dalla pubblica, e da quanto mi ha detto
Ravenna stesso. I Genitori della detta Artemisia sono Romani: il Padre è di
civile condizione, ed impiegato Governativo (Cancelliere) ma la Madre, a
quanto dicesi, è Figlia di un Salumaio. Certo che la di Lei educazione non
smentisce affatto tale notizia. Il P… circa un anno fa fu qui trasferito dal
Governo di Filottrano, ed allorché nel Settembre scorso furono abbattuti gli
Stemmi del non mai abbastanza aborrito Governo Clericale, e che il
Governatore d’allora, preso da spavento, si diede a precipitosa fuga, esso P…
dalla Giunta di Governo, venne nominato provvisoriamente a quel posto.
Come ben sapete, nel successivo Ottobre il nostro amatissimo Sovrano fu di
permanenza in questo Paese per 4 o 5 giorni, ed il P… volendo profittare di
questa favorevole circostanza per presentargli un’istanza, domandò udienza,
ed ottenutala condusse seco la Figlia Artemisia colla quale il Re si trattenne
da solo una buona ora. La sera susseguente, a circa le ore tre di notte, una
carrozza di corte si presentò alla Casa abitata dal P…, e presa la bella
Artemisia la trasportò alla residenza Reale [cioè a Palazzo Laureati, nda],
ove si trattenne due buone ore. Fu in quella sera che il Re segnò il rescritto
nell’istanza presentatagli, raccomandando al Commissario Valerio di contentare il Petente, in ciò che domandava. Tutte queste particolarità si conoscono
perché lo stesso P… le ha raccontate a più persone, e fra le altre in un pubblico Negozio essendovi presenti, a quanto mi dicono, lo iesino Salvoni, allora Commissario di Fermo, il Sig. Conte Domenico Monti Senatore, ed altri.
Partito poi il Re alla volta di Napoli, il P… gli fu dietro colla Figlia fino a
Giulia Nuova, da dove, dicono, riportasse un buono del Re stesso per mille
Lire. Ottenuto il suddetto rescritto, il ripetuto P… non dubitava punto che la
nomina di Giusdicente non gli venisse confermata, ma qual non fu la sua
sorpresa allorché verso la fine di Novembre, per parte del Commissario
Generale, gli venne il trasferimento come semplice Cancelliere alla
Giusdicenza di Montalto! Preso allora da somma stizza e dispetto partì immediatamente con la Figlia per Napoli ove trovavasi ancora il Sovrano. Da
quell’epoca non si è più saputo nulla di lui, solo che non si è più mosso da
quella città; ora da un mese a questa parte ha pure ritirato la sua Famiglia. Si
vuole che sia stato nominato Giudice ad uno di quei Tribunali, e che la Figlia
trovasi ora a Torino, ma questo lo potrete sapere meglio che noi; quello che
posso dire però è che il P… d’ordinario sempre disperato, e pieno di debiti,
ora non pena il denaro avendo rimesso in più volte alla sua famiglia finché è
stata qua circa Ottanta Napoleoni d’oro. Questo è quanto posso dirvi relativamente alla detta famiglia da dopo che è venuta in questo Paese, aggiungendovi un si dice, il quale sebbene detto da persone degne di tutta la fede, è
sempre un si dice, cioè che la bella Artemisia siasi sgravata per ben due
volte, una a Castiglion del Lago, l’altra a Filottrano. Finché è stata in questo
paese però non ha dato motivo a dire di Lei avendo costantemente tenuto una
condotta la più irreprensibile».[1]
È una lettera ricca di date, di informazioni riguardanti la famiglia di Artemisia,
con un primo riferimento a una località di residenza del gruppo familiare che rinvia
a Filottrano. Ben conoscendo gli archivi di Filottrano, frequentati spesso negli ultimi
trent’anni in occasione di altre indagini storiche, non ho perso tempo per cercare di
identificare persone e ottenere dati al fine di sciogliere l’enigma di quella P. e conoscere quindi il vero cognome della famiglia. Purtroppo la situazione dell’archivio
storico di Filottrano, così come è giunto a noi, presenta grandi lacune, tanto che, a
titolo d’esempio, mancano gran parte dei documenti del periodo dalla fine del
Settecento a tutto il secolo successivo. Esistono pochissime carte. Gli atti consiliari,
le uniche fonti dell’800 che si sono salvate, terminano al 1848 e riprendono col 1863.
Non esiste quasi più niente delle pratiche d’ufficio della cancelleria della comunità di
Filottrano negli anni attorno alla metà del XIX secolo. Neanche la verifica sull’altro
dato che compare nella lettera e cioè il fatto che la giovane Artemisia avesse avuto un
figlio durante il soggiorno filottranese, ha portato a risultati di sorta. Sfogliati attentamente tutti i registri parrocchiali, da quello delle nascite a quelli delle morti, nonché
quelli dei battesimi, i decimari, e gli stati d’anime, ora perfettamente conservati in una
unica raccolta presso la Pieve di Filottrano, dove sono confluiti gli archivi delle tre
parrocchie esistenti nel periodo preunitario. In quei registri, redatti dai parroci con
grande precisione e puntigliosità, non compare nessun battesimo, nessuna registrazione di un individuo nato che possa ricondurre alla figura di Artemisia o altri suoi familiari.
Nel frattempo notizie più certe sono state raccolte seguendo un’indicazione della
professoressa Ghidoli, la quale mi disse di aver rintracciato, tenendo sempre d’occhio
le località citate nelle ultime tre righe della lettera, l’ultima residenza della famiglia
prima del trasferimento a Filottrano e cioè Castiglion del Lago. La stessa Ghidoli
[1] G. Piangatelli, Vicende ed umori privati e pubblici del mondo politico maceratese attraverso l’Archivio
Luzi (1847-1896), in Aspetti della cultura e della società nel Maceratese dal 1860 al 1915, Atti del XV
convegno di Studi maceratesi (Macerata, 24-25 novembre 1979), Macerata, 1982, p. 285.
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suggeriva di consultare il Giornale magionese di Giuseppe Fabretti, ripubblicato a
Perugia nel 1999.[2] Un’opera di grande interesse documentario riguardante le comunità del Trasimeno tra la fine del Settecento e il 1869, l’anno della morte dell’estensore. Si tratta di una cronaca quotidiana frutto della penna del padre di Ariodante
Fabretti, forse più noto per i suoi studi archeologici e per la docenza all’Università di
Perugia, ma che nella breve esperienza della Repubblica Romana del ’49 aveva avuto un ruolo di rilievo come segretario dei triumviri Mazzini, Saffi, Armellini. Dopo la
fine della Repubblica romana, durata pochi mesi e crollata sotto i tiri dell’esercito
francese, Ariodante Fabretti, insieme a tanti altri che come lui avevano ricoperto incarichi negli uffici dell’amministrazione repubblicana, fu costretto a rifugiarsi in
Toscana, a Firenze, per rimanervi tutto il decennio successivo e poter rientrare nei
luoghi di origine soltanto al momento della caduta dello Stato Pontificio. La vicenda
personale di Giuseppe Fabretti, funzionario del governo pontificio e acuto osservatore di quanto avvenne nel cuore dell’Umbria nel mezzo secolo successivo al primo
arrivo dei francesi nel febbraio del 1797, risulta avvincente quanto quella dei suoi
Diari, che subirono molteplici traversie a partire dal 1846 quando furono sequestrati
e poi riconsegnati all’autore con alcune parti mancanti.
Ebbene tra le annotazioni di Giuseppe Fabretti compare, nel 1848, la figura di
Alessandro Pagnoncelli, giunto a Magione nel luglio di quell’anno per ricoprire l’incarico di cancelliere.[3] Si trattava del suo primo mandato fuori di Roma. Da qui la
soluzione dell’enigma della P. che ora può essere sciolto nel cognome Pagnoncelli,
corrispondente anche all’individuo che, secondo la lettera dello Sfrappini, aveva iniziato la sua carriera giudiziaria a Roma. Arrivato, quindi, nel luglio del ’48,
Alessandro Pagnoncelli amministra giustizia a Magione sia nel periodo del governo
pontificio, così come durante la gestione repubblicana, per rimanere al suo posto
anche dopo la restaurazione di Pio IX, finché non fu coinvolto in un delitto che, come
ricorda il Fabretti, capitava molto di frequente in quei paesi che guardano sul
Trasimeno: il rapimento di una ragazza a scopo di matrimonio. Così il Fabretti riportò l’accaduto:
«Il 12 giugno: Adelaide, figlia del cancelliere Alessandro Pagnoncelli veniva
rapita da un giovane sarto di Mercatale, chiamato Pietro Servoli. Rinaldo
Mosconi, creduto complice del seguito ratto, fu arrestato perché convivevano
nella medesima casa. Ma la giovane, avendo prestato il suo pienissimo consenso e sposati quindi a Cortona, rimase smentito simile preteso ratto.
Mosconi venne rilasciato la sera del 6 o 7 agosto, con sommo dispiacere del
cancelliere Pagnoncelli, e si metteva in urto con il detto Governatore Garalli
venendo a contese disdicevoli: il pubblico non lodava la condotta del nominato Pagnoncelli».[4]
Tutto qui in merito all’accaduto. Dalle annotazioni di Fabretti traspare la figura
di un Pagnoncelli piuttosto irruente e non sempre dal comportamento in linea con la
figura del giudice equilibrato e rispettoso dei risultati delle indagini e quindi delle
prove presentate durante il dibattimento processuale. Quella disavventura familiare
[2] G. P. Chiodini, Un diario dell’Ottocento. Il Giornale magionese di Giuseppe Fabretti, Perugia, 1999.
[3] Ivi, p. 275.
[4] Ivi, p. 329.
finì per macchiare, in qualche modo, il certificato di servizio di Pagnoncelli, tanto che
sei mesi dopo fu trasferito a Gualdo di Nocera, l’attuale Gualdo Tadino, addirittura
con una riduzione dello stipendio. Pagnoncelli rimarrà a Gualdo per qualche tempo,
per passare poi a Castiglion del Lago.[5]
A questo punto Fabretti fornisce un altro elemento che messo a confronto con
quanto riporta lo Sfrappini conferma si tratti proprio della persona di Alessandro
Pagnoncelli, come di colui che attorno al 1857 lasciò Castiglion del Lago per spostarsi a Filottrano e restarvi qualche mese.
Null’altro si sa del nucleo familiare e della sua composizione. Trattandosi di una
famiglia che si spostava di frequente da un luogo all’altro secondo gli incarichi assegnati dall’Amministrazione centrale, la sua permanenza in un determinato luogo, che
fosse Magione, Gualdo Tadino, Castiglion del Lago o Filottrano non era obbligatorio
fosse registrata e pertanto non può esservi traccia certa tra le carte dei vari municipi.
Sulla scomparsa di altra documentazione che comunque potesse aiutare a ricostruire il percorso e la carriera di Pagnoncelli sorge il sospetto che, come verificatosi
in casi analoghi, in tempi successivi il Pagnoncelli abbia richiesto e ottenuto di estrarre dall’archivio comunale tutta quella documentazione che potesse essergli utile per
ricostruire l’iter del suo impiego presso lo Stato. Tanto più se si pensa che tale documentazione possa essere stata richiesta quando il Pagnoncelli era a Napoli o in altra
città italiana e ricopriva importanti incarichi nell’amministrazione giudiziaria. Solo
così si riesce a trovare una giustificazione circa le lacune archivistiche presenti un po’
dappertutto. Un’ulteriore conferma potrebbe venire proprio da Grottammare dove
manca tutto il faldone del 1860. Si potrebbe anche dubitare che le carte siano state
fatte scomparire, perché contenenti prove che potevano dimostrare le umili origini cui
accenna lo Sfrappini, secondo quanto segnalato dallo stesso nella sua lettera.
Un’ipotesi che sarebbe meglio fosse avanzata da un investigatore piuttosto che da uno
storico!
Tornando all’episodio di Magione e al fatto che Fabretti ricordasse la gravidanza,
il ratto, il matrimonio riparatore ha contribuito a far sorgere il dubbio che invece di
Artemisia al Re fosse stata presentata Adelaide. Non può essere così perché non risulta che Artemisia sia stata sposata, anche se Sfrappini segnalò la presenza di due
figli, uno nato a Castiglion del Lago, l’altro a Filottrano, sull’esistenza dei quali, però,
ad oggi, non c’è prova certa, soprattutto per quello che dovrebbe esser nato a
Filottrano e del quale non c’è traccia nei registri parrocchiali.
A questo punto, come ricorda anche Alessandra Ghidoli, vien da pensare che le
ragazze poco serie in casa Pagnoncelli non fosse solo una ma due. Adelaide, sposata
al sarto Pietro Servoli, la quale non è detto avesse preferito starsene a Cortona, e
Artemisia, diventata una delle favorite di Vittorio Emanuele II. Non c’è da sperare di
poter chiarire le rispettive posizioni di Artemisia o Adelaide nemmeno attraverso la
consultazione di quanto nel 1911 fu recuperato dagli archivi pubblici e privati per le
celebrazioni, a Grottammare, del cinquantenario dell’Unità nazionale. Qualche informazione in più è venuta da alcune carte conservate da Enrico Liburdi nel suo ricco
archivio, carte custodite da qualche mese presso la sede della Deputazione di Storia
Patria per le Marche e in attesa di un puntuale riordino e di una classificazione. Sul
[5] Ivi, p. 330.
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soggiorno di Vittorio Emanuele II a Grottammare si scrissero nel 1911 pagine importanti, anche col recupero di testimonianze di persone che avevano assistito ai fatti, ma
la riservatezza riguardo alla vita privata del Re impedì di scivolare in quello che poteva esser preso come un pettegolezzo.[6]
Speravo di ricavare qualche notizia in più dalla lettura di un romanzo storico
uscito nel 1935, presso l’editore bolognese Cappelli, intitolato Castelfidardo 1860.
L’autore è Gualtiero Calvori, un anconetano, dipendente delle ferrovie ma che ora
sospettiamo, per alcuni indizi, discendesse da una famiglia che ha avuto a che fare
con Grottammare. Il sospetto nasce nel momento in cui si è avuta la possibilità di
disporre di una pubblicazione edita nel 1860 dove sono state riunite le iscrizioni apposte sugli archi trionfali lungo il percorso del corteo reale. Ebbene vi compaiono oltre a iscrizioni a firma dell’avv. Giuseppe Speranza, di Serafino Garofali, del conte
Filippo Palmaroli - anche un’iscrizione a firma di Stanislao Calvori e due di Icilio
Calvori. Antenati, parenti dello scrittore Gualtiero Calvori?[7]
Il romanzo è stato costruito attorno agli eventi capitati tra Grottammare, Fermo e
Marina Palmense negli anni 1859-60, nei mesi che precedono e seguono il momento
cruciale della battaglia di Castelfidardo del 18 settembre 1860. Una copia del romanzo è stata ritrovata nella biblioteca Liburdi e, come per altri volumi a lui particolarmente cari, anche questo porta sul frontespizio interno il timbro con la sua firma in
inchiostro indelebile e sotto la firma autentica. Inoltre è annotata la data del 16 giugno
1965, il giorno in cui il libro fu ceduto in dono a Liburdi dagli eredi di Ernesto
Garulli.[8] Un ritrovamento importante perché all’interno del volume è conservata una
cartolina illustrata, raffigurante la villa “Il cannone” di Marina Palmense dove la
Famiglia Garulli risiedeva, soprattutto nel periodo estivo. Si tratta di una cartolina
inviata da Ernesto Garulli al professor Liburdi, datata Roma 1 gennaio 1952, dove
Garulli forniva a Liburdi gli elementi giusti per sciogliere tutti i nomi e cognomi fittizi dei protagonisti del romanzo, motivo per cui ora si possono conoscere molte
delle vicissitudini alle quali andarono incontro giovani e meno giovani delle famiglie
Garulli e Laureati. A un certo punto, al capitolo sedicesimo, verso la parte finale del
libro, ci sono alcune pagine dedicate al soggiorno di Vittorio Emanuele II a Palazzo
Laureati, dove si fa cenno alla festosa accoglienza, alla concessione della decorazione
dell’ordine di San Maurizio e Lazzaro, come pure all’ultima avventura di una giovane, di nome Giulia, che, però, non dovrebbe avere niente a che fare con Artemisia. Si
[6] A.M. Aloysi, Grottammare e l’Unità d’Italia. 1860-1960, con prefazione e note di Enzo Piscitelli,
edizione di 150 copie stampate presso la Tipografia Giacomo Piattoni di Grottammare il 12.X.1960.
[7] Per la presenza auspicata desideratissima di Sua Maestà Vittorio Emanuele II. Il Municipio di
Grottammare festante, Tipografia dei Fratelli Jaffei, Ripatransone, 1860.
L’iscrizione dettata da Stanislao Calvori così recita: Infiorate la via di quel grande / che dopo lunghi anni
di schiavitù / ruppe le catene / colla politica coll’armi / ora col sorriso conferma / la concordia la religione / la Libertà.
Quelle di Icilio: Nel pianto levò Italia la fronte e scosse le sue catene / VITTORIO / ne udì il suono / trasse il brando / e le catene fur tronche. / Vidi l’Italia oppressa / da scellerati tiranni / vidi il genio di Lei /
pugnare il Re benefico / la Scienza e la Giustizia / parlò a Cavour / la Forza e la Vittoria / precedette
Cialdini / il Re porse all’Italia la mano / e l’Italia fu salva.
[8] Ernesto Garulli è stato il principale artefice della costruzione del monumento “Ai Vittoriosi delle
Marche” di Castelfidardo. A tal proposito cfr. G. Piccinini, Il monumento e la battaglia di Castelfidardo,
in Memoria, Memorie. 150 anni di storia nelle Marche, a cura di M. Severini, Ancona, 2012, pp. 93-108.
trattava di una delle tante ragazze da marito innamoratasi di uno dei giovani di casa
Laureati. Nessun altro riferimento a incontri con personaggi che non fossero i membri
della delegazione giunta da Napoli, vari amministratori locali ed esponenti del notabilato locale. Si citano i corteggiamenti della gioventù ospitata a casa Laureati senza
però alcuna notizia sugli svaghi amorosi di sua Maestà. Ecco quindi che il romanzo
è utile perché aiuta a ricostruire i diversi momenti del soggiorno reale a Grottammare,
ma non ci permette di andare oltre.
La speranza resta sempre quella di trovare informazioni più attendibili presso
archivi e biblioteche finora inesplorati, forse anche perché non accessibili.
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Ruggero Bonghi a Grottammare
In questa mia relazione vorrei partire da uno spunto suggerito dallo storico incontro di Grottammare. Chi era Ruggero Bonghi che alla guida della delegazione napoletana giunse nell’ottobre 1860 a Grottammare per incontrare il Re Vittorio Emanuele
ed invitarlo a recarsi presto a Napoli per unire il Sud al suo regno? Non c’è dubbio
che si trattasse di una delle maggiori personalità che più impressero alla storia risorgimentale l’impronta laica, elemento fondante della vicenda unitaria nazionale. Le
celebrazioni del 150º anniversario dell’Italia unita di quest’anno mettono opportunamente in evidenza i concetti basilari della nostra storia, evocando le parole chiave
“Unità” territoriale, “Indipendenza” dallo straniero, “Liberazione” dagli antichi regimi, ma lasciano in ombra un altro aspetto del Risorgimento che è ancor più significativo: l’edificazione dello “Stato laico” che fu compiuta nell’Ottocento contro la
Chiesa ufficiale, quella che si era arroccata nel potere temporale di Roma.
È perciò opportuno ricordare quel che hanno scritto alcuni tra i maggiori storici
del Risorgimento, tra cui Adolfo Omodeo: «… A creare questa nostra Italia, il cattolicesimo fu d’ostacolo: gli elementi cattolici, che vi parteciparono, furono per lo più
imbevuti di semi-giansenismo e di giobertismo della cui perfetta ortodossia è lecito
dubitare».[1] E, nel 1927, la nuova Storia dell’Italia unita dal 1871 al 1915, che
Benedetto Croce aveva scritto in pieno fascismo, si apriva con una felice rappresentazione dell’epopea risorgimentale: «Nel 1871 … si ebbe in Italia il sentimento che
un intero sistema di fini, a lungo perseguiti, si era a pieno attuato, e che un periodo
storico si chiudeva. L’Italia possedeva ormai indipendenza, unità e libertà, cioè le
stava dinanzi aperta la via al libero svolgimento così dei cittadini come della nazione,
delle persone individuali e della persona nazionale…»; ed indicava la validità delle
soluzioni laiche che erano state date al Risorgimento: «Circa le relazioni tra Stato e
Chiesa, laddove il Lanza e il Minghetti si attenevano alla formula cavouriana della
chiesa libera nello stato libero, lo Spaventa era risolutamente per lo stato contro la
chiesa, cioè per lo stato moderno contro la stato antiquato o… per la chiesa moderna
contro l’antica; e il Sella, giurisdizionalista, vedeva nella chiesa il “pericolo immenso” della società moderna, temendo che lo stato si spogliasse troppo spensieratamente delle armi di difesa e offesa che ancora possedeva contro di essa, e approvava il
disegno di legge del ministro della Sinistra, il Mancini, sugli abusi del clero».[2]
Ma torniamo a Ruggero Bonghi, protagonista dell’incontro di Grottammare.
Patriota, intellettuale, umanista, rientrato a Napoli da esule, venne nominato da
[1] A. Omodeo, Difesa del Risorgimento, Einaudi, Torino, 1955.
[2] B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Laterza, Bari, 1956.
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Garibaldi alla guida della sua città e, più tardi, fu chiamato dal Regno d’Italia a
Luogotenente del Re per le province napoletane. Anni dopo, nel 1874, divenne
Ministro dell’Istruzione nel secondo gabinetto Minghetti della Destra liberale, mentre
continuò ininterrottamente ad essere eletto parlamentare del Regno dal 1860 alla
morte nel 1895. Il capolavoro della sua attività di statista, in realtà, resta ancora oggi
la legge delle “Guarentigie” di cui fu relatore alla Camera e mediatore tra le correnti
politiche che avevano una diversa visione laica dei rapporti tra Stato e Chiesa. È vero
che la legge, al culmine dell’Unità dopo Porta Pia, non soddisfece né i rigidi separatisti liberali cavouriani, né i dottrinari della Sinistra democratica che avrebbero voluto misure più energiche contro la Chiesa, ma fu proprio il compromesso patrocinato
da Bonghi con cui si riconoscevano garanzie alla Santa Sede e si rafforzavano le
forme del controllo giurisdizionalista, che fece di quella legge il pilastro laico dei
rapporti tra Stato e Chiesa nella nuova Italia fino all’infausta Conciliazione del 1929
tra Mussolini e Pio XI.
Pur scontentando all’epoca entrambi le corrente laiche, della Destra liberale e
della Sinistra democratica, le “Guarentigie” volute da Bonghi hanno trovato in sede
storica un giudizio positivo espresso ottant’anni dopo da Federico Chabod: «… La
via seguita, attraverso la Legge delle Guarentigie, condusse al successo … perché
attraverso tale politica si venne consolidando la coscienza dello Stato non confessionale, sopravissuta a tante e tanto grandi tempeste, e che con l’unità nazionale e il
senso della libertà costituì il retaggio dell’Italia ottocentesca ai posteri».[3] In questa
sede in cui ci soffermiamo su Bonghi, che guidava i patrioti meridionali che giunsero
a Grottammare, occorre sottolineare come l’importante personalità risorgimentale
restò sempre caratterizzata sino alla fine della vita istituzionale da un radicato spirito
laico, incentrato più sulla prassi politica che non sull’ispirazione dottrinale. Mi piace
ricordare che nel 1895, nel periodo dominato dalla Sinistra trasformista che aveva
accenti anticlericali, ancorché gravemente malato volle avere una parte attiva nelle
celebrazioni commemorative del 20 settembre per il 25º anniversario di Porta Pia,
dichiarando apertamente che la Destra storica liberale doveva rivendicare la parte che
aveva avuto nel combattere il papato temporalistico e la Chiesa tradizionalista.
Il filo laico della Destra storica
Perché mai, per parlare del Risorgimento laico, ho preso lo spunto dal Bonghi
della legge delle “Guarentigie”, che fissarono le regole dei rapporti tra la nuova Italia
e la Chiesa di Pio IX? Per il fatto che la visione laica della società e la costruzione
dello Stato laico (inteso non già come potestà che impone una sua dottrina, ma come
garante neutrale della libertà di tutti) furono i dati fondanti dei movimenti risorgimentali che collegarono le diverse, e spesso opposte, correnti della Destra e della
Sinistra, dei monarchici e dei repubblicani, dei moderati, dei liberali e dei democratici. Per dirla con un’immagine oleografica, la laicità, pur se declinata in stili divaricati, collegò Cavour a Garibaldi, Carlo Cattaneo a Vittorio Emanuele II e un grande
[3] F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, Laterza, Bari, 1951.
statista della Destra liberale, Marco Minghetti, ad altri statisti quali Giuseppe
Zanardelli e Giovanni Giolitti che all’inizio del Novecento diedero vita al Centrosinistra.
Il filo laico e liberale consentì all’Italia tricolore di rientrare nel circuito dell’Occidente europeo umanista e illuminista. Era la tradizione politico-ideale che faceva
perno sulla separazione tra Stato e Chiesa, sulla neutralità dello Stato, sulla libertà di
culto e sui diritti individuali con il primato della coscienza su quello del potere istituzionale. Fu resa operante dapprima dai provvedimenti sabaudi sull’eguaglianza delle
religioni del 1848, poi dalla Costituzione della Repubblica romana, quindi dalle
grandi leggi della Destra contro i privilegi ecclesiastici del Regno d’Italia fino alle
“Guarantagie” di Bonghi, e proseguì infine con la Sinistra al potere dopo il 1876 con
i provvedimenti amministrativi necessari per arginare la reazione clericale che a sud
del Tronto assunse anche forme di brigantaggio.
I principali artefici dell’architettura istituzionale del Risorgimento furono i liberali della Destra storica che si ispiravano alla filosofia laica separatista riassunta
nella formula “Libera Chiesa in libero Stato”. Nel maggio 1861, Cavour affermava
alla Camera del neonato Regno d’Italia: «La storia di tutti i secoli, come di tutte le
contrade, ci dimostra che ovunque la riunione tra potere civile e potere religioso ebbe
luogo, la civiltà sempre cessò di progredire, anzi sempre indietreggiò; il più schifoso
dispotismo si stabilì, e ciò, o signori, sia che una casta sacerdotale usurpasse il potere
temporale, sia che un califfo o sultano unisse nelle sue mani il potere spirituale».[4] Il
paradosso del ceto dirigente cavouriano fu che molti suoi esponenti si sentivano e si
dichiaravano, per fede e per cultura, cattolici: i presidenti del Consiglio Massimo
D’Azeglio (1849-1852), Luigi Carlo Farini (1862), Marco Minghetti (1863 e 1873),
Bettino Ricasoli (1861 e 1866), Giovanni Lanza (1869), e i ministri Quintino Sella ed
Emilio Visconti Venosta. Alcuni di loro ritenevano che attraverso l’Italia laica e liberale si potesse provocare anche una radicale innovazione del cattolicesimo italiano,
dal tradizionalismo di Pio IX a una forma religiosa più aperta di tipo giansenista europeo. Pensavano in buona sostanza che la laicità risorgimentale avesse una capacità
di trascinamento anche all’interno del mondo cattolico e furono proprio loro, i liberali anche cattolici, ad usare il pugno di ferro contro i clericali che si opponevano al
processo unitario. Ecco alcuni episodi significativi da ricordare.
Nel Meridione, pochi mesi dopo i Mille, il governo piemontese fronteggiò la reazione della Sede apostolica con una politica di intransigenza che ancora stupisce: furono processati e arrestati sessantasei vescovi e otto cardinali (Corsi, Baluffi, De
Angelis, Carafa, Riario-Sforza, Antonucci, Morichini, e il futuro Leone XIII, Pecci).[5]
A Firenze nel 1860 sul Monitore toscano di Bettino Ricasoli si leggeva: «I vescovi hanno scelto una mala via che è tanto contraria alla loro missione evangelica
quanto nuocevole agli interessi della religione… Il governo sa che deve tutelare la
dignità, la sicurezza, la tranquillità dello Stato anche contro i ministri di Dio, se i
ministri di Dio diventano soldati del Papa re».
[4] C. Cavour, Discorsi parlamentari, 15 voll., a cura di A. Omodeo, L. Russo e A. Saitta, La Nuova Italia,
Firenze, 1932-1975.
[5] V. Gorresio, Risorgimento scomunicato, Parenti, Firenze, 1977.
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A Napoli, allorché Pasquale Stanislao Mancini assunse la direzione del dicastero
degli affari ecclesiastici, emanò una serie di decreti che vietavano ai religiosi di comunicare con i loro superiori e i capitoli generali con sede a Roma; abolivano gli
ordini religiosi; incameravano i beni ecclesiastici.
A Palermo il generale Raffaele Cadorna, nominato commissario con pieni poteri
per il ristabilimento dell’ordine, scriveva nella relazione del 1866 al presidente del
Consiglio: «Devo dichiarare che da parte dei frati e delle monache, s’influì grandemente a promuovere i lamentati torbidi. Risulta che il loro danaro fu la principale
risorsa per organizzare e mantenere le bande armate, per apprestar loro armi e munizioni. Parecchi frati hanno preso parte ai combattimenti in mezzo alle squadre dei
rivoltosi».[6]
Mazzini, Cattaneo, Garibaldi e i democratici radicali
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Se di questo tipo fu, a grandi linee, la politica della Destra liberale, ancora più
incisiva sul terreno laico, e spesso anticlericale, fu l’azione condotta sul terreno civile e sociale dai repubblicani e democratici che si richiamavano a Giuseppe Mazzini e
a Carlo Cattaneo, il quale così valutava l’insegnamento affidato agli ecclesiastici:
«Finché col nome del razionalismo essi diffamano, maledicono e impediscono l’uso
della ragione, finché il gesuita insegna che la ragione umana deve lasciarsi trattare
come un cadavere, il luogo degli uomini più o meno votati a questa dottrina non è in
mezzo ai figli dei liberi cittadini. No. La Chiesa non è libera».[7]
Se Cattaneo fu il padrino intellettuale del laicismo anticlericale, Giuseppe
Garibaldi ne rappresentò in qualche modo la bandiera popolare dietro cui si raggrupparono folte schiere patriottiche che contrastavano l’influenza della religione e il potere dei preti. Garibaldi sollecitava i settori popolari pronunziando discorsi di forte tono
che mettevano alla gogna i sacerdoti «nemici del popolo italiano, ostacoli alla libertà
e democrazia, e faccia oscura della civiltà moderna». Le sue invettive anticlericali,
semplici, efficaci e spesso volgari, passavano di bocca in bocca suscitando plauso e
consenso: alla proclamazione del Regno esclamò: «I preti sono i più fieri e temibili
nemici dell’Italia. Dunque fuori dalla nostra terra quella setta contagiosa e perversa»;
e dieci anni più tardi scrisse nelle sue memorie di avere sempre attaccato il “pretismo”
perché aveva trovato in esso «il puntello di ogni dispotismo, di ogni vizio, di ogni
corruzione… Il prete è la personificazione della menzogna. Il mentitore è ladro. Il ladro è assassino, e potrei trovare al prete una serie di altri infami corollari…».[8]
Nel 1879 Garibaldi vegliardo insieme all’irruente capo dei radicali Felice
Cavallotti convocò a Roma una grande assise dei gruppi democratici, radicali e repubblicani con la partecipazione delle maggiori personalità laiche del tempo, Giosuè
Carducci, Agostino Bertani, Adriano Lemmi futuro Gran Maestro della Massoneria,
Federico Campanella, Aurelio Saffi già triunviro della Repubblica romana, Alberto
Mario, Edoardo Pantano, Giovanni Bovio e Matteo Imbriani, da cui nacque la “Lega
[6] Vittorio Gorresio, Risorgimento scomunicato, Parenti, Firenze, 1977.
[7] Alessandro Galante Garrone, I radicali in Italia (1849-1925), Garzanti, Milano, 1973.
[8] Giuseppe Garibaldi, Memorie, a cura di Giuseppe Armani, Rizzoli, Milano, 1982.
della democrazia” con un programma di liberalismo radicale e anticlericale che aveva
come capisaldi la revisione dello Statuto albertino, il suffragio universale maschile,
l’abolizione del giuramento di fedeltà dei deputati alla monarchia, la laicizzazione
dello Stato, la confisca e distribuzione ai meno abbienti dei beni ecclesiastici, la riforma fiscale e l’introduzione di una tassazione progressiva, e i lavori pubblici di
bonifica su larga scala.
L’ultimo esponente del laicismo repubblicano fu Ernesto Nathan, ebreo, mazziniano, radicale, irredentista, Gran Maestro della Massoneria e sindaco di Roma, che
a Porta Pia, il 20 settembre 1910, alla vigila del cinquantenario, argomentò sulla
«superiorità della civiltà della Roma laica di contro l’altra Roma, quella racchiusa in
Vaticano, fortilizio del dogma, ultimo disperato sforzo per eternare il regno dell’ignoranza … Sulle vecchie mura del dogma si è accumulato l’intonaco di quella infallibilità pontificia che, ereditata dalla tradizione, passata nei costumi, si manifesta purtroppo oggi nell’ignoranza popolare che dinanzi all’apparizione di una epidemia,
appende voti alla Madonna e scanna i sanitari; quell’infallibilità che incita il pontefice a boicottare le legittime aspirazioni umane, le ricerche della civiltà, le manifestazioni del pensiero, lo muove ad architettare nuovi scuri per escludere la luce del
giorno…Nella Roma di un tempo non bastavano mai le chiese per pregare, mentre
invano si chiedevano le scuole; oggi le chiese sovrabbondano, esuberano; le scuole
non bastano mai! Ecco il significato della breccia di Porta Pia…».[9]
Il cinquantenario del 1911
Questi, alcuni tratti del Risorgimento laico. Ma che cosa significò il primo grande anniversario dell’Unità, il cinquantenario del 1911? A me pare che quell’anno
possa essere considerato il culmine del Risorgimento laico e, al tempo stesso, un
momento di svolta. Il 17 marzo 1911 si aprirono a Torino le celebrazioni del cinquantenario e, dieci giorni dopo, il giovane Re Vittorio Emanuele III pronunciava a Roma
il discorso in Campidoglio, invitato dall’amministrazione Nathan.
L’Italia era percorsa dai fermenti di una classe dirigente liberale che si interrogava sui cinquant’anni di unità e laicità, i cui valori avevano ispirato la nazione che non
solo si era unificata territorialmente ma si era anche trasformata in profondità, rivelando contrasti e disparità di non poco conto. Il 26 aprile il ministro dell’agricoltura
e industria Francesco Saverio Nitti apriva a Torino l’Esposizione internazionale
dell’Industria e del Lavoro. Il 4 giugno - il giorno dello Statuto albertino - si inaugurava a Roma con un discorso del Presidente del Consiglio Giolitti il monumento a
Vittorio Emanuele II, detto altrimenti in maniera simbolica “Altare della patria”,
opera dell’architetto Giuseppe Sacconi da Montalto delle Marche.
V’era allora la consapevolezza che Stato italiano, integralmente laico, aveva dietro di sè una nazione rientrata nel circuito della civiltà liberale grazie all’epopea risorgimentale che si era conclusa a Porta Pia. Le grandi leggi varate in cinquant’anni
[9] E. Nathan, Discorso del sindaco di Roma pronunziato dinanzi alla Breccia di Porta Pia, 20 settembre
1910, in Anna Maria Isastia, Scritti politici di Nathan, Foggia 1998, originalmente in Comune di Roma,
Cinque anni di amministrazione popolare 1907-1912, tip. Centenari, 1912.
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avevano fatto dell’Italia un Paese moderno, anche se molto restava da fare quanto
all’allargamento della base sociale. Solo per fare qualche esempio della modernizzazione intervenuta in cinquant’anni, basta citare il codice civile del 1865, che garantiva e regolava in una società liberale la vita e le attività dell’individuo e postulava
l’eguaglianza delle persone e la libertà dei beni; e la legge sullo stato civile del 1877,
che dava inizio al lento processo di parificazione della condizione giuridica di ambo
i sessi. E all’inizio del nuovo secolo non si può dimenticare il codice penale Zanardelli
del 1902 di chiara impronta laica e liberale che prevedeva, tra l’altro, la repressione
degli abusi dei ministri di culto, l’abolizione della pena di morte e l’introduzione di
una limitata libertà di sciopero.
Le celebrazioni di Grottammare
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Anche a Grottammare le celebrazioni per il cinquantenario ebbero il medesimo
spirito, con un sovrappiù per la memoria del passaggio di Vittorio Emanuele a palazzo Laureati prima di varcare il Tronto verso il territorio borbonico. Dalla pubblicistica del tempo si possono trarre alcune notazioni: le manifestazioni del cinquantenario
ebbero anche qui quell’ispirazione laica che rappresentava allora la comune religione
civile.
Tra le numerose personalità che parteciparono alle onoranze in diversa posizione
- comitato d’onore, comitato esecutivo, oratori, etc. - non si trova un solo ecclesiastico perché, è bene ricordarlo, tutti i movimenti risorgimentali che si riconoscevano in
Vittorio Emanuele II e, per altri versi, in Garibaldi, furono antagonisti alla Chiesa
romana e al papato. Non è un caso che, allora a Grottammare, non si onorò soltanto
il passaggio del Re, che ricevette i patrioti napoletani di Ruggero Bonghi, ma anche
Garibaldi, e ad entrambi furono dedicati due monumenti dello stesso scultore Vito
Pardo. Può sembrare la solita oleografia risorgimentale: «In quale piazza d’Italia non
vi sono monumenti al Re ed al “biondo eroe”, come fu chiamato qui cinquant’anni fa
Garibaldi?». Ma in realtà i due personaggi rappresentavano le due facce di quella
trinità - libertà, indipendenza e laicità - che oggi qualcuno vorrebbe ridurre ad un
binomio privo della terza gamba.
Se si rileggono le cronache del tempo, si trovano notizie istruttive sull’Italia
post-risorgimentale. Il presidente del comitato d’onore era l’on. Luigi Dari, deputato
del collegio di San Benedetto del Tronto, mentre l’on. Alceo Speranza, deputato del
collegio di Fermo, era presidente del comitato esecutivo insieme al sindaco avv. Lino
Citeroni. Partecipavano inoltre nel gruppo ristretto di vertice gli altri deputati della
provincia, Enrico Teodori del collegio di Ascoli Piceno e Romolo Murri del collegio
di Montegiorgio. Nell’insieme si trattava di tre deputati, come si diceva allora “ministeriali”, e di un radicale, l’ex prete Murri, su cui vale la pena di proiettare un filo di
luce. Il sacerdote era parte del “Movimento modernista” erede della tradizione dei
cattolici liberali risorgimentali, che pensavano che lo Stato laico riuscisse a provocare anche una riforma religiosa nella Chiesa. Ma tutto ciò non ebbe seguito durante
l’Ottocento e il buon Romolo Murri, che aveva anche provato a costituire il partito
della Democrazia cristiana, fu scomunicato e cacciato dalla Chiesa, per cui divenne
un esponente del Partito radicale e come tale fu eletto deputato a Montegiorgio per la
sola legislatura 1909-1913, perché in seguito cadde sotto i colpi della gerarchia ecclesiastica e del Patto Gentiloni.
Tornando alle celebrazioni di Grottammare si apprende che parteciparono a quegli eventi per onorare il Re Vittorio Emanuele e scoprire il busto di Garibaldi nella
piazza omonima a sud del palazzo Laureati, oltre alle solite autorità, alle bande e alle
scolaresche, i seguenti gruppi: i cacciatori del Tronto e delle Marche, i volontari garibaldini che avevano combattuto contro i papalini, molte società di tiro a segno (si
inaugurò allora a Grottammare il nuovo poligono, struttura civile tipica dell’Italia
unitaria tra Ottocento e Novecento) e le società di mutuo soccorso, le cooperative di
consumo, i reduci delle patrie battaglie, le società costituzionali, le società operaie di
quasi tutti paesi della provincia (Acquaviva Picena, Amandola, Ascoli Piceno,
Carassai, Cossignano, Cupra Marittima, Lapedona, etc.), le logge massoniche, i circoli anticlericali e i gruppi sportivi e ciclistici. Si trattava dell’intelaiatura di quella
società civile ad indirizzo laico che si era sviluppata nel post-Risorgimento per sostenere il nuovo Stato e difenderlo dall’ostilità che allora gli riservava la rete cattolica
costituita da consociazioni, banche e cooperative.
Verso la rottura del fascismo
Questa era l’Italia del cinquantenario, piccola, modesta, onestamente laica e liberale, ma inserita nel circuito delle moderne potenze europee. Ed è proprio in quella
stagione, prima e dopo il cinquantenario del 1911, che cominciò a maturare la svolta
funesta che sarebbe giunta a termine dopo la Prima guerra mondiale con l’avvento del
fascismo e avrebbe creato la frattura con la tradizione risorgimentale. Nel dicembre
1910 fu costituita l’associazione nazionalista italiana da Enrico Corradini e Luigi
Federzoni, nomi che poi si ritroveranno nel gruppo dirigente fascista; alle porte bussava l’infatuazione colonialistica, che avrebbe portato nell’ottobre 1911 allo sbarco a
Tripoli. Nel 1912 poi, come effetto della riforma elettorale che introdusse il suffragio
universale maschile, il vecchio mondo liberale di Giolitti stipulò quel patto Gentiloni
negoziato per ottenere il voto dei cattolici ai candidati governativi moderati che si
impegnavano a sostenere una serie di rivendicazioni di ispirazione cattolica e più
spesso clericale. In campo culturale la reazione allo sterile positivismo di fine
Ottocento portò non solo alla critica idealistica di quei nuovi studi letterari e filosofici di cui Benedetto Croce fu l’esponente più illustre, ma anche a quel vitalismo intellettualistico fondato sul primato dell’azione che sboccò dapprima nella retorica interventista della Grande Guerra e poi nell’autoritarismo fascista. L’effetto fu che in seno
a diversi schieramenti politici - il conservatore, il liberale, il repubblicano e il socialista - cresceva la retorica nazionalista che avrebbe portato alla guerra e quindi alla
tragedia del fascismo.
Vorrei però terminare richiamandomi a un episodio che in pieno regime fascista
testimonia quel che era stato e cosa aveva significato il Risorgimento laico e liberale.
Quando nel 1929 Mussolini e il cardinal Pietro Gasparri per conto di Pio XI siglarono
i “Patti Lateranensi”, che chiudevano malamente il conflitto apertosi nel 1870 a Porta
Pia, Benedetto Croce, erede della tradizione liberale risorgimentale, pronunziò in
Senato il famoso discorso di opposizione al Concordato anche a nome di Francesco
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Ruffini, Luigi Albertini, Alberto Bergamini, Emanuele Paternò di Sessa e Tito
Sinibaldi:
«Il Risorgimento aveva le sue radici nel Seicento che fu segnato dalla lotta e
dall’ascensione delle istituzione laiche di fronte alla Chiesa… Questo tratto
originario della nuova Italia non si perse mai, neppure quando si formò il
partito nazionale-liberale-cattolico che accolse uomini insigni, da tutti ancor
oggi ricordati e venerati, e un poeta si chiamò Alessandro Manzoni. Quel
partito, giova rammentarlo, non venne respinto e condannato dai liberali, ma
dalla Chiesa… Accanto o di fronte agli uomini che stimano Parigi valer bene
una messa vi sono quelli per quali l’ascoltare o no una messa è cosa che
vale infinitamente più di Parigi, perché è affare di coscienza».[10]
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[10] B. Croce, Discorso sui disegni di legge riguardanti l’esecuzione del Trattato e del Concordato tra la
Santa sede e l’Italia, Senato del Regno, 24 maggio 1929, anche in M. Teodori, Risorgimento laico,
Rubbettino, Soveria Mannelli, 2011.
Antefatto e breve cronistoria
In un periodo storico in cui lapidi, monumenti, cippi crescevano senza sosta sul
suolo italico, nelle grandi città come nei più piccoli e sperduti borghi, per celebrarvi
nel bronzo e nel marmo personaggi, eventi, episodi della compiuta unità nazionale
degni di essere ricordati, Grottammare non volle essere da meno. Dalla morte del
“gran Re”, avvenuta all’inizio del 1878, alle grandi celebrazioni giubilari del 1911,
l’Italia visse infatti un intenso fervore monumentale degnamente culminato a Roma
nella lunga e complessa impresa dell’Altare della Patria che doveva, in una colossale apoteosi marmorea, celebrare il Padre di quella stessa Patria e suo primo sovrano:
quel Re Vittorio Emanuele che non aveva però voluto rinunciare, salendo nel 1861 al
trono d’Italia, al suo essere stato il secondo tra i Savoia di quel nome a regnare, sia
pure sul piccolo Regno di Sardegna.
Tutta l’Italia si era preparata con largo anticipo a celebrare il cinquantenario con
un intenso programma di festeggiamenti che avrebbero dovuto, almeno in parte, far
dimenticare i momenti bui, sia dell’operazione militare in sé - come non considerare
la spietata durezza con cui si era operata la repressione in alcuni territori già duosiciliani? -, sia degli scontenti suscitati da provvedimenti economici estremamente gravosi che avevano portato a rivolte e moti di piazza repressi talvolta nel sangue. Così
era accaduto non molti anni prima a Milano, quando nel maggio 1898 il generale
Il modello del busto di Giuseppe Garibaldi ed il monumento commemorativo
(da L’Illustrazione Italiana, anno XXXVIII, n.33 del 13 agosto 1911, p. 152)
79
Bava Beccaris aveva dato ordine di sparare a cannonate contro i cittadini milanesi in
tumulto per quella che fu definita la “rivolta dello stomaco”, uccidendone almeno
ottanta e ferendone quasi cinquecento. C’era dunque un assoluto bisogno, mentre
oltretutto ancora persistevano gli effetti destabilizzanti dello scandalo politico-finanziario della Banca Romana, di rinverdire le glorie della Patria, quella per la cui grandezza si era combattuto impiegando risorse ingenti anche in termini di vite umane
(quanto era costata l’impresa africana, per la quale ancora tante famiglie portavano il
lutto dei caduti nella strage di Dogali di 24 anni prima?) e che presto avrebbe visto il
deflagrare di un terribile ed impensabile olocausto. E il regicidio? Come dimenticare
che il secondo Re, Umberto, questo sì primo, era caduto all’alba del nuovo secolo
sotto il piombo dell’anarchico Gaetano Bresci? Eppure l’Italia voleva celebrare. Con
il Novecento nuove speranze di civiltà, benessere e progresso si erano comunque
accese e così l’impresa che era stata concepita fin dal 1878 e che, dopo la nomina di
varie commissioni e l’espletamento di molte selezioni e svariati concorsi, era stata nel
1884 affidata alla progettualità dell’architetto marchigiano conte Giuseppe Sacconi,
ebbe finalmente il necessario impulso ed il supporto anche economico per consentirne la realizzazione (il suo costo stratosferico ed in costante crescita sfiorerà alla fine
i 30 milioni di lire!). Nel 1911, dunque, il Vittoriano sarà inaugurato e una grande
esposizione dedicata alle Regioni d’Italia verrà allestita con originali padiglioni nelle
aree limitrofe al Mausoleo di Adriano, Castel Sant’Angelo, nel nuovo e moderno
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L’On. Alceo Speranza al tempo delle celebrazioni cinquantenarie
quartiere Prati (i prati di Castello erano però già spariti con la costruzione dei possenti argini dei Lungotevere e la cementificazione nei terreni recuperati agli acquitrini e
sottratti alle esondazioni del fiume).
A Grottammare anche l’On. Alceo Speranza si era per tempo prodigato perché
fossero preparati adeguati festeggiamenti nel luogo dove cinquanta anni prima
Vittorio Emanuele aveva sostato per ricevervi, il 12 ottobre 1860, la Deputazione
napoletana che doveva con il suo invito legittimare, almeno pro forma, l’ingresso nel
Regno delle Due Sicilie del sovrano sabaudo, fermo al confine del Tronto. Nel suo
articolato programma delle manifestazioni celebrative, in un primo momento previste
per il 1910, non poteva dunque mancare l’inaugurazione di un monumento che avrebbe dovuto perpetuare nel marmo e nel bronzo quel memorabile evento e che non si
sarebbe dovuto limitare alla erezione di un semplice cippo o alla apposizione di una
lapide commemorativa.
Grottammare meritava un vero monumento di adeguate dimensioni e da affidarsi
allo scalpello di un valente scultore. Pratico, per i suoi incarichi politici, dell’ambiente romano e di quello artistico che gravitava attorno alla Direzione Generale delle
Antichità e Belle Arti del Ministero dell’Istruzione, Speranza non esitò a puntare in
alto. Non è infatti escluso che egli abbia pensato di affidare l’incarico ad uno dei più
affermati artisti del tempo, il piemontese Giulio Monteverde (1837-1917) che, intimo
anche di Re Umberto, era stato da questi nominato senatore del Regno. Tuttavia, o
per i molteplici impegni di Monteverde, che stava fra l’altro lavorando al gruppo de
Il Pensiero proprio per il Vittoriano e che era del resto in età già avanzata, o per l’impossibilità della municipalità di Grottammare di corrispondere allo scultore una parcella adeguata alla sua fama ed alla sua posizione sociale, Speranza dovette ben
presto abbandonare l’idea. Sicuramente, però, un abboccamento con il Maestro dove-
Cartolina di Alceo Speranza all’On. Pavia recante l’immagine del bozzetto del monumento di Vito Pardo
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va essere avvenuto già qualche anno prima ed è del tutto probabile che fosse stato
proprio questi a fare allo Speranza il nome di un suo allievo che già aveva dato prova
di ottime capacità e che parteciperà anche nel 1909 al concorso per una delle sculture
dell’Altare della Patria: il veneziano Vito Pardo (1872 - 1933/1936). Fu forse per
questo che nel 1907, essendo sindaco della vicina Ripatransone lo Speranza, lo stesso
Pardo vi realizzerà la lapide dedicata a Luigi Mercantini e risulterebbe, anche per
motivi logistici, difficile credere che in quella occasione lo scultore non fosse passato per Grottammare. Se poi questo avvenne, almeno un semplice abboccamento con
l’intellighenzia culturale e politica del luogo non poteva essere mancato!
Fu comunque con tutta probabilità nel 1909, a quanto scrive il Pignocchi nella
sua esauriente Relazione sulle Onoranze cinquantenarie di Grottammare[1] e come gli
atti comunali confermano, che Pardo assunse ufficialmente l’impegno del monumento cui, in un primo tempo, si era pensato dare degna collocazione nel Largo Principe
di Napoli, di fronte al Municipio. Scelto invece il posizionamento nei giardini comunali in quanto ritenuto più idoneo e maggiormente adeguato a consentire una amena
fruizione dell’opera anche da parte dei tanti forestieri villeggianti nella cittadina
balneare, Pardo, nel corso di ripetuti soggiorni e sopralluoghi a Grottammare, elaborò
definitivamente le caratteristiche dell’erigendo gruppo scultoreo. Dai verbali delle
sedute del Consiglio comunale è interessante rilevare che la collocazione prescelta
dalla maggioranza fu anche motivata dalla volontà di rimuovere dai giardini due
statue di piccole dimensioni realizzate in terracotta le quali, raffiguranti Garibaldi e
Vittorio Emanuele II, vengono giudicate inadeguate e del tutto prive di valore artistico con espressioni talmente esplicite da suscitare le offese rimostranze dell’assessore
[1] Tipografia del Fra’ Crispino, s.d. - comunque post settembre 1913 -, p. 62.
Largo Principe di Napoli (oggi via Matteotti), prima ipotizzata sede per il monumento di Vito Pardo
anziano cav. Luigi Ricciotti, che tanto aveva in precedenza operato per la realizzazione e la decorazione di quello spazio verde. A schiacciante maggioranza fu comunque
deciso che i due “monumentini” sarebbero stati sistemati nell’erigendo istituto scolastico da intitolarsi al patriota e studioso avv. Giuseppe Speranza, padre dell’On. Alceo,
e che ben più solennemente i giardini comunali avrebbero ricordato il memorabile
evento del 12 ottobre 1860 con l’opera del Pardo. Questi, da parte sua, non esitò ad
accettare l’incarico, dichiarando di volerlo realizzare gratuitamente, ponendo a carico
del Comune di Grottammare le sole spese vive da stimarsi in circa Lire 1.000. Si
legge infatti nel verbale della seduta del 30 novembre 1909 nella quale il Consiglio
comunale tratta dell’organizzazione della “festa patriottica”, allora fissata per il successivo 12 ottobre 1910: «…il nostro Deputato, On. Speranza ha potuto ottenere
dall’Illustre scultore Prof. Comm. Vito Pardo la benevola adesione per l’esecuzione
di un ricordo marmoreo simbolico riferentisi al detto avvenimento col solo rimborso
delle spese vive presunte in Lire mille o poco più». In quella sede il cons. Concetti,
interpretando un concorde apprezzamento «loda poi e ringrazia sentitamente l’illustre
Vito Pardo che con tanta gentilezza acconsente di onorare Grottammare con opera
simbolica e artistica».
In realtà i rapporti tra la committenza e lo scultore non saranno né facili né piani
come si era inizialmente sperato. Da un lato infatti le molteplici iniziative fiorite per
commemorare degnamente l’evento risultarono inevitabilmente complesse dal punto
di vista organizzativo e ben più onerose di quanto preventivato, dall’altro il fulcro
“simbolico e artistico” dei festeggiamenti, il monumento commissionato al Pardo, si
rivelò un’opera altamente impegnativa anche dal punto di vista economico e di realizzazione assai più lunga e difficile del previsto. In effetti se le spese vive inizialmente indicate nel novembre 1909 in un migliaio di lire già il 21 febbraio del 1910 sono
Busta con l’intestazione delle Celebrazioni realizzata per la corrispondenza del Comitato Esecutivo delle stesse
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verbalizzate come «non eccedenti le lire milleduecento (L. 1.200)» da porsi «a carico
del bilancio del venturo 1911», sarà ben presto chiaro che né la previsione di spesa
né la prefissata data dei festeggiamenti potranno essere rispettate. Nella seduta del 26
giugno infatti, quando neanche quattro mesi mancherebbero ai festeggiamenti, si discute «Ancora sulla spesa pel monumento commemorativo del 1860» e viene data
lettura di una «lettera dell’Illustre Vito Pardo in data 19 corrente colla quale lo scultore insigne partecipa che pel lavoro del monumento commemorativo del 1860 per
Grottammare occorrono non meno di tre mesi, che le spese vive come ebbe ad accennare in altra sua sono molto maggiori di quelle preventivate ed in seguito a più precisi studi e calcoli sono risultate necessarie almeno L. 3.000 e che queste dovrebbero
pagarsi in quanto a L.1.000 all’atto della decisione, L. 1.000 al 15 Agosto e L. 1.000
al 30 Settembre. Attende quindi la risoluzione del Consiglio onde mettersi senza indugio all’opera per fare una cosa degna della solenne circostanza, altrimenti non
potrebbe più eseguire il lavoro». Tale annuncio getta nello scompiglio la seduta e ne
consegue un aspro dibattito se si debbano accettare condizioni che non rispettano i
precedenti accordi ma che anzi sembrano quasi ricattatorie o se per amor di patria ed
orgoglio civico non si debba abbassare la testa e far fronte comunque alle nuove richieste di Pardo. Il Sindaco Citeroni risolve la questione, affermando che «né lui né
la Giunta potrebbero più rimanere al posto se tale spesa di L. 3.000 resasi necessaria
non venisse ammessa e molto probabilmente la festa non avrebbe più luogo con quel
disdoro che si comprende.» A questo punto, sia pure obtorto collo, «per patriottismo
e amore del natìo loco», per «le circostanze eccezionali», per «decoro, convenienza
del Paese, impegni del Deputato del Comitato d’onore, del Comitato esecutivo ed
altro», per «non creare imbarazzi e dissensi di cui non è dato valutare la portata» il
Consiglio delibera di assumere sul bilancio 1911 la spesa di L. 3.000 per il monumen-
Grottammare in festa per le celebrazioni cinquantenarie in una cartolina dell’epoca
to, in luogo delle 1.200 prima stabilite. Si
giungerà così, il 18 agosto, quando sembra
ormai chiaro che il monumento non potrà
essere pronto per il mese di ottobre, a discutere su una nuova richiesta del Pardo, stavolta inerente l’esecuzione della piattaforma basamentale che il Comune deve approntare nei giardini comunali, nel luogo
individuato dallo scultore come il più idoneo ad accogliere la sua opera. L’autore ha
infatti comunicato che, se tale indispensabile manufatto non dovesse essere realizzato
entro il 20 agosto, egli sarebbe costretto a
«declinare ogni responsabilità per la inaugurazione del monumento nel tempo stabilito». Questo nuovo intoppo, che costringe
l’Amministrazione a ricorrere a provvedimenti di somma urgenza, provoca le rimostranze di chi sostiene le ragioni del consi- Francobollo chiudi-lettera
gliere Ricciotti, il quale - affezionato all’immagine della pineta e dei giardini in cui trovavano collocazione i due esecrati monumentini in terracotta - paventa la possibilità che la rimozione di quelli risulti sì gradita all’occhio e al gusto estetico degli amanti dell’arte ma offensiva nei confronti del
Re Vittorio e del generale Garibaldi. Ne segue un’accesa discussione in cui ci si
preoccupa di assicurare «che tutti amano di vedere la figura di quei Grandi» che verranno comunque collocati in «un posto adatto che stabilirà il Consiglio» ma che ora
è necessario trovare subito e «a qualunque prezzo» operai disponibili per realizzare
nei tempi imposti da Pardo il basamento. Insomma, il momento è grave e il sindaco
Citeroni lamenta «una specie di ostruzionismo da chi già fautore della rimozione
delle due indecenti statue di terra cotta, si fa ora sostenitore della loro conservazione
nello stesso posto e non in altro…». Ne seguono proteste e assicurazioni e per tagliar
corto la delibera è votata per alzata di mano e approvata con 12 voti favorevoli e due
soli contrari. Le statue rimosse dovranno, dunque, trovare collocazione nel nuovo
edificio scolastico che si sta erigendo su progetto dell’architetto Pilotti di Ascoli
Piceno ma che non è stato ancora ultimato; bisogna pertanto, anche in questo caso,
accelerare i lavori, perché l’istituto, da realizzarsi secondo canoni anche estetici validi e aggiornati, possa essere per tempo portato a compimento. Purtroppo, forse anche
per la fretta con cui si deve procedere, non mancano in cantiere contrattempi e perfino incidenti, uno dei quali, particolarmente funesto, provocherà il 7 agosto 1911, a
festeggiamenti da poco conclusi, la morte dell’operaio Luigi Zeppilli di Offida, caduto dalle impalcature della scuola da un’altezza di circa 12 metri e deceduto sul colpo.
Il Consiglio comunale, nel corso della seduta ordinaria già prevista per quello stesso
giorno, delibera di mettere a carico del Comune «le poche spese di modesti funerali»
per quella ennesima vittima del lavoro che forse oggi nessuno più ricorda. La successiva proposta è relativa al conferimento della cittadinanza grottammarese e ai ringraziamenti ad alcuni «personaggi che hanno contribuito alla splendida riuscita delle
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feste cinquantenarie per l’Annessione Partenopea qui testé celebrate con soddisfazione ed elogio di tutti e che hanno procurato lustro e nome al Paese». Tra questi figura
«lo scultore del monumento Comm. Prof. Vito Pardo che col genio, coll’arte e col
disinteresse ha avuto parte precipua nella nostra grande commemorazione» ed a lui
viene anche indirizzato «un ringraziamento solenne speciale». Tutto a posto dunque.
Le manifestazioni si erano svolte, è vero, con quasi un anno di ritardo rispetto alla
data inizialmente fissata, ma questo fu ampiamente giustificato dalla possibilità di
inserire l’evento di Grottammare nelle solenni celebrazioni nazionali del 1911, che
avevano visto grandi e piccoli centri impegnati in tutta la Nazione nei festeggiamenti per il Cinquantenario dell’Unità d’Italia. Rimanevano però da saldare i conti anche
con l’artista che fino ad allora aveva ricevuto solo un anticipo di 500 lire. Le restanti
2.500, sommate ad altre 1.000 ancora da versare per le varie manifestazioni organizzate, portava il debito a L. 3.500, una cifra che poneva il Comune in obiettiva difficoltà finanziaria. Il 2 ottobre del 1911, per rispondere degli impegni assunti in consonanza di suoi precedenti deliberati e senza nuovi aggravi per il bilancio comunale, si
autorizza la Giunta a «provvedere lire tremilacinquecento a residuo delle spese per le
feste cinquantenarie e ricordo marmoreo commemorativo degli avvenimenti patriottici del 1860 mediante mutuo con Istituti di Credito od anche con privati a saggio
d’interesse non superiore al 7 p% all’anno estinguibile (capitale ed interessi) in anni
quattro, colle modalità e garanzie che meglio crederà la Giunta stessa, provvedendo
per l’ammortizzo con le somme già stanziate in Bilancio». Tale provvedimento, messo ai voti «per alzata e seduta», è approvato all’unanimità.
Pardo riceverà dunque il saldo del monumento realizzato per Grottammare e che
potrebbe comprendere anche un’altra opera, forse commissionata per risarcire in
qualche modo Garibaldi della detronizzazione subìta per far posto nei giardini pub-
Le statue di Vittorio Emanuele II e di Giuseppe Garibaldi nei giardini comunali prima della loro rimozione
blici al Monumento dell’annessione partenopea. Si tratta di un busto in bronzo, in
realtà poco più di una testa, dell’Eroe dei due mondi che, realizzato probabilmente
già nel 1910, non risulta però menzionato nei documenti testé citati. Se non commissionato dal Comune, si potrebbe presumere che si sia trattato di un dono alla cittadina
o dello stesso Pardo o di un notabile del luogo, lo Speranza ad esempio. Ancora a Vito
Pardo la Famiglia Laureati affiderà, nella medesima circostanza, la realizzazione di
una targa in bronzo modellata a bassorilievo e raffigurante il momento dell’incontro
di Vittorio Emanuele II con la Deputazione napoletana, avvenuto appunto nella Villa
dei marchesi Laureati e precisamente nel salone dove l’opera sarà collocata ad imperitura memoria dello storico evento.
L’illustre scultore Vito Pardo
Si è fin qui trattato delle vicende che portarono Grottammare a dotarsi per i solenni festeggiamenti del 1911 di un monumento celebrativo del memorabile incontro del
1860 e di come la sua realizzazione fosse stata affidata allo scultore veneziano Vito
Pardo. Converrà ora, però, tracciare una breve nota biografica di questo artista che, per
quanto famoso e ricercato in vita, è attualmente ricordato quasi esclusivamente per la
sua opera più celebre, il Monumento Nazionale di Castelfidardo, il cui modello in
gesso è conservato a Roma presso il Museo Centrale del Risorgimento al Vittoriano.
In realtà poche sono le notizie che abbiamo su questo artista troppo in fretta dimenticato ed anzi, se non fosse per la biografia dedicatagli da Momus (pseudonimo di
Attilio Piccioni) con cui nel 1922 si inaugura la “Leonardo, collana di volumetti sugli
artisti viventi italiani”,[2] di Pardo e dei suoi inizi oggi sapremmo poco o nulla. Persino
il Panzetta nel suo utilissimo repertorio gli dedica poche righe in cui non riporta neppure la data esatta della sua morte - riferita ad un 19 novembre del 1933 o del 1936 - e
che, per quanto riguarda Grottammare, cita esclusivamente il busto di Garibaldi.
Certamente Pardo non fu tra i grandi del suo tempo ma è altrettanto vero che la fortuna che conobbe in vita non fu immeritata; se qualcosa però può essergli rimproverato
è forse l’essersi eccessivamente allineato, quasi immedesimato, al gusto allora imperante. Se questo, insieme ad una innegabile capacità tecnica, gli valse infatti molte
committenze ed alcuni affidamenti pubblici di notevole importanza, è però altrettanto
vero che gli ha negato una proiezione nel futuro apprezzamento della critica e nelle
conoscenze di una più vasta cerchia di pubblico. Troppo legato fu infatti il suo stile
alle contingenze di un momento storico e di un genere, la scultura celebrativa, che
presto si sarebbero evoluti in differenti movimenti e correnti in cui gli sarebbe stato
impossibile trovare una valutazione positiva ed una possibile collocazione.
Precocissimo talento, Vito Pardo ebbe il 25 marzo 1872 umili natali a Venezia,
ove, mostrate ben presto singolari doti artistiche, già dodicenne fu ammesso a frequentare i corsi di pittura della locale Accademia di Belle Arti. Dopo soli due anni si
volgeva però allo studio della scultura, per la quale dimostrò subito una spiccata
predisposizione e dopo altri tre anni di applicazione nella materia, sotto la guida dello scultore Antonio Dal Zotto, usciva dall’Accademia con l’onore di numerosi rico[2] Nuovo dizionario degli scultori italiani dell’Ottocento e del primo Novecento, Torino 2003, p. 680
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Vito Pardo in un raro ritratto fotografico (dalla monografia dedicatagli da Momus nel 1922)
noscimenti. Desideroso di migliorarsi, neanche ventenne
giungeva a Roma dalla natìa
Venezia con il preciso scopo di
conoscere Giulio Monteverde e
di divenirne allievo. In quegli
anni (siamo intorno al 1892)
questi era infatti uno degli scultori italiani di maggior fama e
senza dubbio il più apprezzato
dal Re Umberto I, che ne volle
addirittura la nomina a senatore
e che sovente lo accolse ospite
nella Villa Reale di Monza. Al
Monteverde il sovrano aveva
tra l’altro commissionato la sistemazione della fontana nei
giardini del Palazzo Reale del
Quirinale, detta di Caserta perché realizzata con un gruppo
scultoreo prelevato appunto
dall’antica Reggia borbonica.
Tra il Re e l’artista il rapporto
era con il tempo divenuto così
affiatato ed informale che le Cartolina ricordo riproducente il bozzetto del monumento celebrativo
cronache aneddotiche riportano
anche loro scherzosi dialoghi, come quello in cui Re Umberto, ironizzando sull’ignoranza di uno scultore che si era detto autore di un «busto equestre», non aveva esitato a chiedere al Monteverde cosa aspettasse ad eseguirgli un suo busto a cavallo.
Grazie al proprio talento ed alla stima del sovrano non mancarono mai, dunque,
all’illustre artista e senatore le commissioni pubbliche nonché quelle private della
nobiltà e dell’alta borghesia. Fu questo l’ambiente in cui Pardo fu introdotto dal suo
maestro e certamente nello studio di quello in piazza Indipendenza (il Palazzo
Monteverde è tuttora riconoscibile, perché coronato da una copia della sua celebre
scultura raffigurante il Genio di Franklin) il giovane talentuoso scultore poté perfino
conoscere la Regina Margherita, che lo onorerà addirittura di un invito a corte. Nel
marzo 1900, poi, il Monteverde, presentandolo al Re come il migliore dei suoi allievi
ed illustrando l’opera a cui il giovane veneziano stava lavorando - un ritratto del
Principe Amedeo di Savoia duca d’Aosta commissionato dal Comune di Cesena susciterà nei suoi confronti l’interesse del sovrano. «Questo è veramente mio fratello!» esclamerà Re Umberto, ammirato e sorpreso dalla perfetta somiglianza del busto
all’originale.
Di lì a poco Vito Pardo sarà tra gli scultori più ricercati a livello nazionale e non
stupisce che a lui abbia pensato l’On. Speranza per la lapide a Mercantini di
Ripatransone e per il monumento commemorativo di Grottammare, un’opera che
avrebbe posto in risalto la bella cittadina rivierasca non solo tra le località più amene
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per le bellezze naturali ma anche tra quelle più artisticamente aggiornate. Come si è
detto, ben tre furono le opere contemporaneamente eseguite da Pardo per Grottammare, poiché al monumento celebrativo dello storico incontro di Vittorio Emanuele II
con la deputazione dei notabili napoletani debbono aggiungersi due saggi di minor
impegno: il bassorilievo bronzeo per i marchesi Laureati ed il busto in bronzo di Giuseppe Garibaldi, commissionato per ricordare il passaggio dell’Eroe a Grottammare
il 23 gennaio 1849, quando, diretto a Roma per partecipare come rappresentante di
Macerata all’Assemblea costituente della Repubblica Romana, vi fece sosta ospite
del medico e patriota Gianfrancesco Salvatori. Il busto, che è ora conservato nel
Municipio, fu posto all’esterno della casa di fronte a Villa Laureati sabato 22 luglio
1911 alle ore 11,45, accompagnandosi a una precedente lapide che ricordava come
essa fosse stata onorata della presenza del Generale. Un evento memorabile, quello,
che caratterizzerà per più di un secolo la modesta dimora, al punto da trasferire l’intitolazione a Garibaldi non solo alla locanda ivi esistente ma persino al suo titolare,
chiamato comunemente “Garibaldi”, maschio o femmina che fosse. A Villa Laureati
fu invece collocata, come si è detto, la bella targa voluta dalla famiglia marchesale a
memoria dello storico incontro avvenuto nella sua nobile residenza il 12 ottobre 1860.
Sia il busto sia la targa dei marchesi Laureati dovrebbero essere stati ordinati al Pardo
nel 1910, contestualmente al monumento che, come si è detto, si pensava in un primo
momento di poter inaugurare nell’ottobre di quello stesso anno. Fu però ben presto
chiaro che un’opera così impegnativa e monumentale avrebbe avuto necessità di
tempi di lavorazione meno ristretti, ma la causa della ritardata consegna non fu solo
questa. In realtà lo scultore stava contemporaneamente lavorando anche per altri
cantieri, perché la ricorrenza cinquantenaria che Grottammare si apprestava a celebrare si sarebbe festeggiata anche nel resto d’Italia con un fiorire di iniziative che
privilegiavano la statuaria e l’erezione di monumenti, un campo questo in cui, come
si è visto, Pardo si era cimentato con esiti positivi. Ad una attività già piuttosto intensa di scultura ritrattistica e funeraria l’artista venne dunque ad affiancare quella celebrativa che, soprattutto nelle Marche, e forse grazie anche ai buoni uffici dell’On.
Speranza, lo coinvolse assumendo carattere di notevole importanza anche nelle dimensioni monumentali. Si richiamano a tale proposito, in particolare, il Monumento
per la Liberazione di Pergola e il Monumento Ossario Nazionale di Castelfidardo (il
cui modello Pardo poté con agio realizzare in un salone appositamente concessogli in
uso a Castel Sant’Angelo), eseguiti parallelamente a quello per Grottammare.
Pensando ai vari e ponderosi impegni dell’artista per la ricorrenza cinquantenaria del
1911, non si può inoltre non considerare il notevole aggravio che dovette derivargli
dall’essere chiamato con Marcello Piacentini e Angelo Guazzaroni ad elaborare il
progetto definitivo dello Stadio Nazionale di Roma, da inaugurarsi anch’esso nel
1911 e per il quale l’artista realizzerà pure le statue del frontone monumentale. La
mole di lavoro si rivelerà dunque tale da mettere Vito Pardo in seria difficoltà, al
punto che l’opera per Grottammare sarà fornita davvero in extremis rispetto all’inizio
dei festeggiamenti cinquantenari. Di tale ritardo, variamente motivato, danno attestazione i verbali delle sedute del Consiglio comunale, ma una ulteriore prova è ravvisabile nel fatto che il monumento non compare nel materiale a stampa predisposto per
l’occasione, se non attraverso il suo modello in gesso. Esaminando le immagini che
riproducono il gruppo scultoreo, questo vi appare infatti semplicemente abbozzato e
totalmente bianco anche nella statua del popolano di Napoli, che nella esecuzione
finale sarà invece fusa in bronzo. Nelle illustrazioni fotografiche, come quelle nel
libro Il Natale della Patria stampato per l’occasione, nelle cartoline ricordo delle
celebrazioni, nei chiudilettera, ecc. il soggetto rappresentato è infatti sempre il modello - se non addirittura il bozzetto - dell’opera e si dovranno attendere gli articoli di
cronaca sui conclusi festeggiamenti di Grottammare per vedere finalmente il monumento far bella mostra di sé nei giardini comunali. L’artista, pur non avendo potuto
rispettare i tempi e il preventivo di spesa (già indicato in un massimo L. 1.200, a
esclusivo rimborso delle spese vive, ma poi lievitato a L. 3.000 con notevole imbarazzo per il Comune committente), si farà però onore confermando la sua fama e
pertanto all’«illustre» scultore Vito Pardo sarà, oltre che saldato l’onorario, rivolto un
«ringraziamento solenne speciale» con proposta di concessione della cittadinanza
grottammarese. Non si sa se questa gli sia stata poi conferita, ma lo stesso Momus,
introducendo a p. 49 della citata monografia le memorie autobiografiche del Pardo,
si era sentito in dovere di chiarire che, per quanto egli fosse per nascita veneziano,
«vien da molti considerato marchigiano perché cittadino onorario di Castelfidardo e
di altre città della regione, nonché Professore onorario - fin dal 1905 - dell’Accademia di Belle Arti in Urbino, e perché dato alle Marche la sua prima e geniale produzione artistica, da lui profusa poi con tanto successo anche in Sicilia, nelle Puglie, in
Lombardia e nelle Terre irredente». Un veneto-marchigiano, dunque, fu Vito Pardo,
epigono di una illustre tradizione che aveva visto nei secoli scendere da Venezia lungo la costa adriatica fino alle Marche tanti artisti, tra cui i Crivelli e Lorenzo Lotto.
Di ben altra tempra, si dirà, rispetto al nostro, e questo è innegabile, ma se è pur vero
che Pardo non merita del tutto il progressivo oblìo in cui negli anni è caduto, non
potrebbe essere forse questa iniziativa che Grottammare ha voluto a 100 anni di distanza, l’occasione per invertirne il corso?
Alceo Speranza davanti al monumento di Vito Pardo (particolare di una cartolina dell’epoca)
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Cartolina riproducente il monumento di Vito Pardo da poco inaugurato
Il Monumento commemorativo
Finalmente inaugurato alle ore 11,30 di domenica 23 luglio 1911, il monumento
commemorativo di Grottammare aveva a lungo rappresentato per la cittadinanza committente un vero e proprio “oggetto misterioso”, che si attendeva con ansia ed anche
una qualche incertezza di poter finalmente conoscere. Raffigurato, come si è detto,
solo attraverso il bozzetto in gesso, persino nel libro Il Natale della Patria che l’On.
Alceo Speranza aveva predisposto per l’occasione e nei giornali che anticipavano
l’evento o ne descrivevano lo svolgersi (ad esempio Mare Piceno del 23 luglio 1911 a
pagina 1), poche ed imprecise erano le notizie sull’opera di cui neppure si concordava
sulla esatta intitolazione. Meglio infatti nel dubbio mantenersi sul generico e definire
il gruppo scultoreo “monumento commemorativo” o addirittura “Monumento-Ricordo
Annessione Partenopea” come appunto in Mare Piceno, ove a pagina 3 così è tra
l’altro descritto:
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Firma dell’autore (sopra) e iscrizioni (sotto) sul monumento celebrativo
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«Il monumento è tutto ispirato ad un profondo e forte simbolismo: da massi
informi dei vari Stati in cui era divisa la penisola nostra s’innalza e si solidifica lentamente la nuova Italia incerta ancora negli arti inferiori (riprodotti
quasi in bassorilievo), granitica e solenne invece nel busto e nella testa che
impressiona per ellenica bellezza e grandiosità.
Ai piedi, in bronzo, sta il popolano di Napoli, in cui è viva l’impressione di
ultimo raccoglimento per il volontario giuramento di fedeltà al nuovo Regno.
Egli poggia sull’ arme antica nella cui elsa è inciso l’araldico cavallo partenopeo e stende la mano sulla data memoranda: 12 ottobre 1860. È una statua
veramente bella. Dall’altro lato un tronco dalle profonde radici quasi tentacoli proteggenti lo stemma dei Borboni giace reciso dal colpo fatale degli
avvenimenti che condurranno all’indipendenza italica.
L’insieme del monumento è magistralmente intonato all’ambiente con piante
e fiori».
Questo è tutto: il testo vuole sintetizzare il significato dell’opera: la genesi della
nuova Nazione italica che dalla congerie pressoché informe degli stati preunitari caratterizzati da tirannica barbarie, ormai fiera si erge assisa in trono e turricoronata
mentre il popolano di Napoli che ha con la sua spada appena troncato il tentacolare
albero della stirpe borbonica le giura solennemente fedeltà. Un gesto questo che vuole esprimere il voto di annessione al Regno d’Italia che la Deputazione partenopea
aveva manifestato a Re Vittorio nel fatidico incontro di Grottammare. Tale il senso
della descrizione in cui si avverte una qualche incertezza di lettura dell’opera, cui si
cerca di supplire con l’uso di toni enfatici. Bisognerà infatti attendere ancora qualche
giorno per vedere finalmente pubblicata l’immagine dal vero del monumento di
Pardo nella sua collocazione tra il verde dei giardini comunali. Una delle prime pub-
Il nuovo edificio scolastico intitolato a Giuseppe Speranza
blicazioni in tal senso fu l’articolo a tutta pagina 152 nel periodico a diffusione nazionale L’Illustrazione Italiana, n.33 del 13 agosto 1911, in cui si offrono anche
sintetiche notizie sul manufatto che è «in pietra delle cave d’ Orte e rappresenta il
popolo napoletano redento, che un vigoroso popolano simboleggia nell’atto di giurare fedeltà alla novella Italia, che sovrasta granitica sulle rovine del Regno Borbonico».
Si aggiunge pure che «il monumento è alto cinque metri e la statua del popolano, in
bronzo, due». Di più non era necessario aggiungere, perché ormai l’opera era ben
collocata e pienamente fruibile. Forse anche troppo…
Nei decenni successivi e nel secondo dopoguerra, soprattutto, il monumento
gradualmente veniva infatti a perdere la sua solennità per assumere un diverso e più
famigliare carattere. I bambini ne fecero addirittura il fulcro dei loro giochi e, superato il reverenziale e rispettoso timore con cui i loro padri e nonni avevano guardato
alla granitica Italia, scavalcavano tranquillamente la del tutto virtuale barriera fiorita
che circondava l’opera, per dare addirittura la scalata alla sua mole. Chi come me è
cresciuto negli anni Cinquanta e Sessanta sa bene di cosa parlo. Ci si riuniva a frotte
nella pineta per i semplici giochi che allora ci davano allegria e che erano quasi esclusivamente di tipo fisico: corse, acchiapparelle, arrampicate… mai avremmo immaginato allora che i nostri figli e nipoti avrebbero, giocando, esercitato quasi esclusivamente le dita delle mani ma, del resto, ora viviamo nell’era digitale! Scalando però
irriverentemente il gruppo scultoreo secondo un percorso di passaggi ben definiti - il
ceppo troncato, il braccio del popolano, le ginocchia dell’Italia su cui mi sedevo
molto soddisfatta, ed infine le sue spalle - io, come varie generazioni di bambini
grottammaresi per nascita o per libera scelta, ci appropriavamo di una storia che non
conoscevamo ancora, ma che già facevamo nostra ed amavamo. Quei cinque metri di
pietra di San Valentino e di bronzo, con la cui forza ci confrontavamo, ci rendevano
consapevoli anche della nostra forza e ci univano tra noi forse più che se avessimo
saputo cosa rappresentavano quelle figure e quei simboli. Non sapevamo certo riconoscere gli stemmi borbonici o dello Stato della Chiesa, e francamente anche le
scritte con la firma di Pardo e la data di inaugurazione non ci dicevano granché, ma
la donna seduta e con la corona in testa che, questo sì lo sapevamo, era l’Italia ci
piaceva, perché era grande, forte e capace di accoglierci in grembo. Allo stesso modo
non ci sfuggiva l’atto di sottomissione e il valore del giuramento che quell’uomo di
bronzo stava compiendo e a volte avremmo voluto rubargliela quella spada per compiere noi, seri seri, quello stesso gesto, quel giuramento che doveva essere tanto importante. Cominciavamo allora a capire che dalla nostra amicizia, dai nostri giochi, le
cui regole andavano rispettate, dall’amore per quel luogo e quel paese stava nascendo
il nostro senso di appartenenza alla comunità, in cui un giorno avremmo riconosciuto
le radici del nostro sentire civile. Oggi, naturalmente, il monumento di Vito Pardo è
ben altrimenti protetto e salvaguardato, ma per non rischiare che esso non abbia più
l’eloquente funzione che per tanti di noi ha avuto ricordiamoci sempre di trasmetterne il senso alle presenti e future generazioni, spieghiamone la genesi ed il significato
e come esso sia nato dalla volontà di una cittadinanza fiera del proprio passato e del
proprio retaggio. Non dimentichiamo che ognuno di noi ha un impegno nei confronti
del tempo e del luogo in cui vive e che dovrà consegnare a chi verrà dopo: renderlo
consapevole e orgoglioso della propria storia sarà un prezioso, ineguagliabile regalo.
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Volantino riproducente il manifesto murale approntato nel 1960 per celebrare il centenario dell’incontro
di Grottammare (erroneamente datato 1950!)
Anche a me corre l’obbligo, non in maniera solamente formale, di ringraziare il
Sindaco, il Vicesindaco e Assessore alla Cultura, per avermi coinvolto in questa bella
manifestazione ma soprattutto ringraziare la professoressa, collega ed amica,
Alessandra Ghidoli, non necessariamente in quest’ordine naturalmente; anche perché
ieri, mentre ascoltavo il suo intervento nella prima giornata del convegno, mi sono
accorto, e lei stessa se ne rende conto oggi, perché non ne abbiamo discusso insieme,
che abbiamo anche altri motivi particolari di sintonia professionale, in quanto come lei
anche io mi sono diplomato in paleografia archivistica e diplomatica, Lei a Roma, io
a Bologna, e questa continua frequentazione con i documenti la percorriamo spesso.
Quindi risultiamo in pratica essere quasi degli storici dell’arte un pochino eretici nei
confronti di quelli tradizionali che, per quanto riguarda l’approccio alla critica nella
storia dell’arte, talvolta invece di basarsi su un’analisi puntuale (forse molto noiosa e
faticosa) dei documenti si avvicinano - almeno taluni, i peggiori secondo me - a quella che viene individuata quasi come un’illuminazione divina. Cioè, e naturalmente
maneggio un po’ il paradosso, avviene che si esamina un’opera d’arte figurativa e
subito, con prontezza e sapienza immediata, si afferma con sicurezza assoluta: «questo
è stato fatto dal tale autore il 2 ottobre del 1624, al secondo piano della abitazione in
via tale, e così di seguito solo sulla base di semplici somiglianze stilistiche.»
Queste poche battute mi permettono di entrare nel discorso che è quello non solo
di parlare di un avvenimento importante riferito specificamente a Grottammare, ma
di ricordare qual è l’importanza dei documenti nell’analisi storica, per arrivare a considerare anzi i documenti come base della storia e la storia come motivo fondante
anche del discorso di tutela dei beni culturali. Del resto, quando noi facciamo riferimento alla Costituzione della Repubblica Italiana (molti fanno riferimento alla nostra
carta costituzionale in questi momenti travagliati), vediamo che c’è un articolo, il 9,
che parla proprio di uno dei compiti principali della Repubblica, che promuove, quindi protegge, i beni storici e artistici. Storici, artistici ed etnoantropologici è anche il
nome della Soprintendenza nella quale lavoro, che prima era denominata per i Beni
artistici e storici. Ora questa inversione di aggettivi non è una mera questione formale, ma un riconoscimento, alla fine doveroso, di una realtà che prima non veniva
presa assolutamente in considerazione, e cioè che i beni culturali hanno sempre una
base storica, nel senso che tutti quelli che noi chiamiamo beni culturali possono avere una valenza artistica ma tutti hanno, comunque, appunto, una valenza storica. È
dunque necessario il recupero della Storia, l’approfondimento della ricerca storica,
per una vera e consapevole tutela dei beni culturali.
Quando sono stato invitato a partecipare in questa manifestazione, che ha avuto
un risultato notevole di pubblico pure oggi - anche se il Sindaco e altri dicevano sta-
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mattina: «Ci sarà pochissima gente perché preferiranno andare tutti al mare» - non
pensavo davvero che, contrariamente ai timori, l’attenzione ai Beni Culturali e alla
stessa Grottammare e alla sua storia sarebbe stata dimostrata in maniera così esplicita. Ora, dicevo, quando sono stato coinvolto in questa iniziativa non sapevo di primo
acchito in che modo inserirmi, perché nell’ambito delle manifestazioni per i 150 anni
avevo solo parlato qua e là nelle Marche di storia militare, e stiamo preparando delle
conferenze per vedere l’impatto della legislazione che il Commissario straordinario
Lorenzo Valerio, qui ricordato anche ieri, aveva realizzato nella Regione tra la fine
del 1860 e l’inizio del 1861 con particolare riferimento ai beni culturali.
Naturalmente allora avvenne uno stravolgimento molto importante in ogni settore, ma non voglio sovrappormi a quella parte delle relazioni che già ne hanno trattato.
Quindi, d’accordo anche con la professoressa Ghidoli, abbiamo trovato questo titolo
che è appunto I luoghi del Risorgimento nelle Marche: una meditata ricognizione da
parte del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Io farei anche cadere l’articolo
iniziale, perché se diciamo “i” luoghi sembra che siamo riusciti ad individuarli tutti,
cosa che forse non è. Un titolo forse pretenzioso, ma veniamo subito ad un aspetto
più propriamente pragmatico, entrando anche in quel settore di tipo burocratico che
ricordava proprio Alessandra Ghidoli ieri, quando, ad esempio, si faceva riferimento
al fatto che, in pratica, senza i buoni rilasciati dall’autorità militare sarda, pur avendo
fornito dei servizi, i privati cittadini e le autorità di Grottammare, in occasione del
passaggio e della sosta di Vittorio Emanuele II, non erano riusciti a farsi rimborsare.
Quindi, la parte burocratico-amministrativa è importante, anche come motivo scatenante di quanto vi sto per dire: perché tutto inizia nel febbraio del 2010 - come ricorda bene il Direttore Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici delle Marche, architetto Paolo Scarpellini, che con pazienza mi sta ascoltando - quando il Segretario
generale del Ministero inviò una circolare a tutte le Direzioni Regionali dicendo, in
pratica, «Attivatevi per individuare i luoghi della memoria nelle singole Regioni»,
allegando intanto un elenco di massima Regione per Regione dei luoghi. Parla di
celebrazioni questa circolare per i 150 anni dell’Unità d’Italia, di luoghi della memoria e di grandi mostre: iniziative di ogni tipo, quindi, e suggerisce anche di verificare
la possibilità di provvedere ad eventuali interventi di manutenzione e restauro su
memorie risorgimentali presenti nelle diverse Regioni.
Nel primo elenco di massima stilato dal Ministero, vediamo come i luoghi dei
fatti rilevanti dell’Indipendenza nazionale si riferiscano spesso a fatti bellici, che nel
nostro caso sappiamo essere direttamente collegati all’effettiva liberazione dal precedente governo e poi alla susseguente annessione (non diciamo ancora ingresso nel
Regno d’Italia). Cominciando dall’inizio della storia del nostro Risorgimento, il
Ministero indica come luoghi di interesse: Tolentino con, il 2 e 3 Maggio del 1815,
la battaglia dell’esercito napoletano di Gioacchino Murat contro gli austriaci; poi
Ancona, con la resa della Giunta delle Province Unite italiane, sempre nella prima
parte dell’800 (1831) al Cardinale Benvenuti; sempre ad Ancona (23 Febbraio 1832)
colpo di mano delle truppe francesi che occupano la città. Poi c’è un piccolo decalage, dovuto ovviamente ad un errore di citazione, perché il Ministero ci ricorda che
anche Pisa è nelle Marche e di preoccuparsi perché a Pisa nell’ottobre del 1839 c’è
stata la prima riunione degli scienziati italiani. Per Pesaro-Urbino si cita il Forte di
San Leo, prigione politica pontificia, occupata nel 1831 dal generale Sercognani che
veniva a cercare di liberare anche le Marche, provenendo da Bologna (tralasciando
anche in questo caso il fatto che San Leo non fa più parte amministrativamente della
Regione e che, quindi, a questa ricerca dovrebbe essere demandata la Regione Emilia
Romagna). Però poi passa in esame anche i monumenti ossari (non è presente oggi
chi doveva parlare del monumento di Castelfidardo) e - sinteticamente, ma valutandone appieno l’importanza - il Ministero in questa circolare, pur sommaria, dedica
una quindicina di righe al monumento, riconoscendone implicitamente ed esplicitamente la valenza storico culturale. «Il grande monumento al generale Cialdini sorge
sul parco del Monte Cucco sito della battaglia contro l’esercito pontificio del generale De La Moricière, si tratta di un gruppo bronzeo dello scultore veneziano Vito Pardo
allievo di Giulio Monteverde amico di Giovanni Pascoli ed è uno dei più grandi
monumenti bronzei realizzati per commemorare l’esercito italiano». La battaglia del
18 settembre del 1860, come sappiamo da questo excursus forzatamente breve cui
faceva riferimento anche il professor Severini ieri, è stata importante dal punto di
vista strategico e storico, ma tutto si è svolto in pochissimo tempo, e poi anche, e per
fortuna, con un numero di caduti piuttosto limitato, 88 pontifici e una sessantina delle truppe sarde; altra cosa ugualmente importante è che questi avvenimenti militari in
pratica durano 18-20 giorni, quindi tutto si risolve in breve. Quindi poi viene detto
che cosa era accaduto nella battaglia: l’esercito sardo marcia verso l’Italia Meridionale
per incontrare Garibaldi e si scontra con l’esercito pontificio comandato appunto da
De La Moricière. Sconfitti sul campo e costretti a ripiegare ad Ancona, i pontifici
resisteranno ad una serie di bombardamenti che provocano anche l’esplosione della
Lanterna (il Faro) di Ancona. I sardi riescono ad entrare in città, si arrendono il 29
Settembre i pontifici e tutto si conclude. Altro monumento meritevole per il Ministero
è quello ai caduti posto al Passetto ad Ancona e, fra i monumenti a poeti e scrittori
fondamentali per la costruzione della coscienza nazionale nel corso del Risorgimento,
a Ripatransone (se ne è parlato anche ieri) le targhe che ricordano Mercantini e, a
Recanati, il monumento a Giacomo Leopardi.
In seguito al pungolamento effettuato dal Direttore Regionale, le Soprintendenze
un po’ si sono mosse. Per esempio, venendo al nostro caso, la Soprintendenza ai beni
architettonici e paesaggistici prepara un programma di intervento su questi monumenti, tenendo conto - cosa che il Ministero subito non aveva detto ma aveva precisato successivamente - che tutto doveva essere realizzato senza avere quasi la minima
speranza di ricevere un supporto economico per poterlo effettuare; però questo non
sarebbe stato un grandissimo problema, in quanto gli interventi su buona parte dei
monumenti individuati erano di breve momento. Il monumento di Castelfidardo era
già in corso di restauro da tempo da parte del Comune e i luoghi della memoria citati per Ancona erano anche così indistintamente determinati per cui, in fondo, la riflessione che si poteva fare era: che tipo di intervento possiamo pensare riguardo alla
battaglia di Tolentino o per la piazza in cui le truppe delle Province Unite si sono
arrese ad Ancona al governo pontificio? Magari mettiamo una targa e forse non di
più, poi organizziamo una manifestazione commemorativa. A questo punto però è
intervenuto come elemento positivo, nel discorso in cui il Ministero aveva voluto
coinvolgere tutti gli uffici periferici, il fatto che presso la Direzione Regionale da
tempo c’erano dei fondi della Regione Marche che non erano stati completamente
impegnati e che nelle indicazioni di massima date per il loro utilizzo poteva entrare
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anche come tipologia di intervento previsto quello che il Ministero suggeriva di fare
per rivitalizzare la commemorazione dei 150 anni che, almeno in un primo momento
(anche ieri è stato ricordato), quando sono iniziate le celebrazioni, non si pensava che
anche da parte di molti enti locali, di associazioni, di quella che viene chiamata la
società civile ci potesse essere così tanta partecipazione; per cui questo input era
sentito anche dal Ministero come piuttosto importante. In questo caso dunque c’erano
fondi che dovevano servire, gestiti dalla Soprintendenza ai beni architettonici e paesaggistici delle Marche, secondo le indicazioni per gli impegni di spesa per “Studi e
ricerche del palinsesto territoriale atto a fornire una base documentale per la salvaguardia, tutela e valorizzazione dei siti di interesse culturale”. Sembrava una descrizione che si attagliava abbastanza bene a quello che chiedeva il Ministero.
Su questa base si è pensato ad una indagine da svolgere in ognuna delle cinque
Province marchigiane, ma visto che la situazione di ricerca si riferiva a realtà storiche
precedenti alla creazione della nuova Provincia di Fermo, sono stati affidati quattro
incarichi, da me seguiti come Responsabile Unico del Procedimento. In maniera più
specifica, e veniamo finalmente all’argomento del mio intervento, gli incarichi erano
per “Analisi storico-critiche, censimento e catalogazione delle targhe commemorative
concernenti l’Unità d’Italia poste o murate nelle facciate di pubblici edifici”. Tutto
questo doveva portare da parte dei professionisti/schedatori, tutti architetti, a produrre
una relazione preliminare di inquadramento storico delle targhe collocate nella provincia indagata, un censimento delle targhe su formato excell, schede di catalogo OA che
nella terminologia ministeriale sono le schede di catalogo che riguardano le opere
d’arte quindi OA - come ci sono altre schede per altri tipi di beni culturali, con differenti modalità di schedatura che vengono individuate a seconda degli oggetti: ad esempio, le stampe vengono catalogate con le schede S, le monete e le medaglie con le
schede N (di numismatica) e così via - quindi a livello inventariale per ciascuna targa.
Diceva prima il relatore che mi ha preceduto, il professor Teodori, che non c’è
quasi città italiana dove nella piazza principale, o in qualche altro luogo, non ci sia
un monumento o una targa a Garibaldi, Vittorio Emanuele, Cavour o a Mazzini; purtroppo la ricerca sfata questa convinzione che tutti noi avevamo, perché in realtà sono
stati esaminati dai vari ricercatori tutti i 239 comuni che adesso sono compresi nelle
Marche e vediamo che, invece, è vero il contrario. In una grande quantità di comuni
non sono state trovate targhe o riferimenti monumentali all’Unità d’Italia; questo,
però, riafferma maggiormente la validità di queste targhe come documenti che ci
devono spiegare questa cosa, perché ovviamente risultano importanti quelli dedicati
per esempio a Garibaldi, dove effettivamente Garibaldi nei vari momenti transitando
per le Marche si è fermato. Oppure ci mostrano che l’apprezzamento per la nuova
forma di governo era maggiore che altrove, o dove maggiori erano le resistenze, e
quindi ovviamente non si riteneva, da parte di chi doveva finanziare questi monumenti/documenti, glorificare qualche cosa che ancora non si riusciva ad accettare; quindi
anche le assenze ci spiegano qualche cosa e ci danno una interpretazione storiografica seria ed importante.
In pratica ora vengo anche io a dare dei numeri, meno interessanti purtroppo di
quelli del professor Pescosolido ieri, che tra l’altro li maneggiava con grandissima
abilità e una memoria prodigiosa, io invece li leggo. Nella Provincia di Pesaro e
Urbino sono stati analizzati i 59 comuni che la compongono di cui solo 18 presentano
delle targhe; naturalmente la riflessione da fare è che ogni Comune ne può avere 1,
2, 3 o 4, o più, tanto è vero che in questi 18 comuni, di targhe riferentisi in generale
all’Unità d’Italia, concetto che come vedremo è piuttosto mobile, anche per la storiografia, ce ne sono 49. Molto più puntuale e favorevole la situazione nella Provincia
di Ancona, sia perché dopo l’Unità è diventata il centro di governo della Regione, sia
perché molti degli eventi importanti sono avvenutiti all’interno di questa Provincia,
come la stessa battaglia di Castelfidardo che abbiamo ricordato prima. In questa
Provincia, a fronte di un numero minore di comuni, che sono in tutto 48, e anche
stranamente a fronte del numero dei comuni dove queste documentazioni ci sono, di
targhe ne abbiamo 144. Per Macerata i comuni sono 56, 26 con targhe, per un totale
di 81 pezzi. Venendo invece alla vecchia Provincia di Ascoli Piceno, adesso quindi
alle due Province di Ascoli e Fermo esaminate insieme, che però qui abbiamo ridiviso per comodità nelle due nuove entità di Amministrazione provinciale, avevamo un
totale di 72 comuni, fra tutte due le Province, con 23 in cui sono state rilevate presenze monumentali di genere risorgimentale, un totale, per tutte e due le Province, di 50
targhe; scindendo fra Fermo e Ascoli vediamo che ad Ascoli su 33 comuni 10 sono
forniti di queste memorie per un totale di 27 targhe, Fermo con i 40 comuni che la
compongono, 13 appena sono illustrati con 23 targhe e naturalmente con 27 e 23
torniamo ai 50 complessivi.
Fin qua il discorso è sufficientemente noioso, mi rendo conto, e per renderlo un
po’ meno pesante, visto che sono state naturalmente scattate fotografie per tutte le
schede, anche se sarebbe impossibile proiettarle per tutte le Province, passiamo alle
immagini. Vedremo, ovviamente con una rapidissima carrellata, solo quelle che riguardano Ascoli e Fermo. Nei fogli excell naturalmente, nelle schede e quant’altro
dovevano produrre i ricercatori, ovviamente non c’è solo una descrizione del tipo
«nel Comune di Grottammare ce ne sono 4, 3, 2 o 1» ma dove sono collocate e naturalmente qual è l’argomento, e ogni approfondimento del caso. Quindi, possiamo ricavarne una griglia completa per vedere quali sono gli argomenti risorgimentali e i
personaggi più rappresentati, non limitandoci alla Provincia di Fermo e a quella di
Ascoli, ma analizzandole tutte.
Vediamo che, come ci ricordava in questo caso positivamente il professor
Teodori, chi tiene la palma della vittoria nella Regione è sempre Garibaldi, che troviamo presente a Fermo e Ascoli per 14 volte, a Pesaro 18, ad Ancona 21 e a Macerata
addirittura 24; quasi alla pari sono Vittorio Emanuele II e Mazzini; poco è presente
Cavour, tranne nel Maceratese, dove ritorna ad un livello di 10, ma bisogna ricordarsi in questo discorso, come rammentava anche Teodori prima, dei Padri della Patria
raffigurati insieme, talvolta 3, talvolta 4, in qualche caso solamente 2 alla volta, essendo numerose le realtà comunali dove le lapidi risultano collettive. Ci sono dunque
molti Comuni dove vengono rappresentati tutti e 4, quasi per non far torto a nessuno,
diremmo, in una situazione magari non immediatamente successiva all’Unità, anche
perché la gran parte delle apposizioni di queste targhe non sono contemporanee all’unificazione, se non nei casi che si riferiscono al plebiscito che ha unito le Marche al
Regno d’Italia o che l’ha proposto a Vittorio Emanuele II o ad altri fatti minori locali. L’apposizione e il ricordo dei cosiddetti padri della patria incomincia quasi sempre
dopo la loro scomparsa o in corrispondenza con gli anniversari della nascita, della
morte o dell’Unità, quindi gran parte delle targhe fanno riferimento anche al
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Cinquantenario del 1911; molte sono collegate alla morte di Garibaldi nel 1882 o
alla morte di Vittorio Emanuele II nel 1878. Qualcuna fa riferimento a Garibaldi in
corrispondenza del centenario della nascita del 1907, ma in generale sono pensate,
decise e collocate sempre in periodi temporali in cui almeno una parte di coloro che
avevano preso parte ai moti risorgimentali era ancora viva, moti che poi, senza tornare all’interpretazione storiografica che vede nella Prima Guerra mondiale la IV
Guerra di Indipendenza, in fondo si erano conclusi nel 1870. C’è poi da tener conto
del fatto che molti dei partecipanti erano ovviamente, per la stessa propensione dei
giovani all’azione, di età limitata, ed avevano continuato a vivere fino agli anni VentiTrenta, e qualcuno anche oltre, del ventesimo secolo. Quindi questa interpretazione
di massima, che però deve anche confrontarsi col fatto che, pur nei limiti proposti
dall’incarico che prevedeva di dover censire solamente le targhe riferite all’Unità
d’Italia poste su edifici pubblici, qualcuno dei ricercatori è, diciamo così, andato oltre
l’incarico (ma non per guadagnare di più, dato che il compenso era fisso), allargandosi come ambito temporale, dandoci una panoramica complessiva che arriva fino ai
giorni nostri, schedando targhe che riguardano sì l’Unità d’Italia ma non solo.
Troviamo dunque, per esempio, targhe che ricordano non solo i caduti delle guerre risorgimentali, ma anche i caduti in Africa, in Libia nel 1911 o ad Adua nel 1896;
naturalmente ci sono le targhe, in base al discorso che facevamo sulla la IV Guerra di
Indipendenza, che ricordano la guerra del 1915-18, o quelle che fanno riferimento al
regicidio di Umberto I nel 1900 e anche tre targhe, in percentuale sono non pochissime, che ricordano Pio IX, non cassate per fortuna dal nuovo Stato unitario, e molte
targhe che riguardano patrioti locali, che troviamo situate nelle località di dove erano
originari questi personaggi eminenti.
Tutta questa profusione di targhe “risorgimentali”, quindi, sta a dimostrare la
volontà di tramandare, scrivendo in maniera indelebile e sotto gli occhi di tutti, i
fatti e le persone che avevano contribuito a realizzare un cambiamento epocale, alla
base della nuova realtà dell’Italia, sotto una forma istituzionale unitaria, che doveva
essere il coronamento di tutte le speranze, le fatiche, i lutti che si erano succeduti
durante il periodo risorgimentale, ma anche nelle epoche precedenti.
Debbo ringraziare il Signor Sindaco, qui presente, per avermi invitato a questo
importante convegno dandomi la possibilità di ascoltare le parole di così illustri
Relatori. Il mio intervento è limitatissimo, poiché è solo motivato dal riferimento al
nome Laureati, in quanto discendente diretto della famiglia nella cui abitazione soggiornò dall’11 al 15 ottobre del 1860 il Re Vittorio Emanuele II, dove avvenne il fatidico incontro con la deputazione partenopea. La mia presenza in questa occasione
desta in me un gradito significato, perché mi permette di prender parte alla soddisfazione riservata a tutti gli attuali cittadini di Grottammare, in quanto lo storico episodio
dell’ottobre del 1860 fu favorito soprattutto dai sentimenti e dal comportamento dei
loro padri grottammaresi, caratteristiche, queste, che furono apprezzate dallo stesso
Re e dal Suo seguito. Come è già stato ricordato in numerose altre occasioni, il Re
poco dopo il suo arrivo diede ordine al generale D’Angrogna di licenziare la Guardia,
riservata alla protezione della sua persona, in quanto l’affetto popolare si era dimostrato più che sufficiente a tutelare la sua sicurezza e la sua tranquillità. Così pure
l’aiutante di campo della Brigata Regina, Antonino Di Prampero, nel suo diario, tenuto mentre alloggiava assieme ai generali e agli altri ufficiali di Stato Maggiore a
palazzo Fenili, parla di «gente alla buona ma di un cuore grande come il mare che
hanno davanti». Questi sono i Grottammaresi!
A fare gli onori di casa al Re in quei cinque giorni di permanenza furono Marino
Laureati e i suoi figli, allora poco più che ventenni: Camillo, che era mio nonno, e
Mario, mio prozio, da cui discende la famiglia dei baroni De Nardis. Il fratello di
Marino era Pietro; nacque, anche lui a Grottammare, il 23 luglio 1802, fu un famoso
violoncellista, frequentatore delle più note corti europee e da buon italiano tenne alto
l’onore del proprio Paese anche all’estero. Fu amico personale di grandi patrioti italiani fra cui Farini. La nostra città lo ricorda con una via a lui intestata vicino alla Chiesa
di San Pio V. Non fu presente all’avvenimento, perché trattenuto a Roma da malattia,
ma nel carteggio di famiglia ho rinvenuto alcune sue lettere indirizzate al nipote
Camillo, delle quali mi limito a leggere alcuni stralci per non abusare del mio tempo
a disposizione e costringere il professor Piergallini a dover controllare l’orologio!
Nella prima di questa lettere, così si esprime:
«Caro Camillo dopo un eterno sospirare, stamane, al fine, ricevo la tua
dell’otto. Nel riceverla mi ha preso un tremito in tutta la persona e tale mi
perseguita tutt’ora e a stento posso scrivere. La nuova che mi dai di ospitare
il più grande Personaggio del secolo mi ha reso pazzo di gioia e una maggiore soddisfazione non poteva esserci. Mi affligge solo una cosa, di non poter
essere presente al gran ricevimento e non poter baciare quella destra liberatrice. Farini vi parlerà di me; ora poi come il cieco desidera la luce mi aspetto da te i minimi dettagli dell’accaduto di tanto evento».
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Nella seconda lettera datata 20 ottobre si legge:
«Camillo caro io dal 13 fino ad oggi vissi in una agitazione e in una trepidazione tale da non aver pausa né giorno né notte. Nulla sapevo direttamente
dalla cara famiglia e d’altronde qui a Roma correvano tante voci diverse
sulla permanenza del Re a Grottammare; immagina cosa mi girasse per il
capo e quanto soffrissi. Però, la sospirata tua lettera, che proprio ora vengo a
ricevere, ha portato al travagliato mio cuore, quiete e il massimo dei contenti. L’altissimo onore avuto di ospitare il Re d’Italia e di essere stato contento
dell’alloggio di tutto cuore offertogli, l’averci dimorato 5 giorni, le parole
benevoli che vi diresse, la decorazione data all’adorato fratello Marino, sono
cose che mi ridanno la vita. Che sia ringraziato Dio e Maria Santissima.
Voglio pure sapere dove alloggiò Farini e cosa ti disse per mio conto e il
resto del seguito come venne disposto. Garulli non mi ha scritto ancora ma è
certo che in mia mancanza avrà fatto per eccellenza le mie veci, che se ne
abbia tutta la nostra riconoscenza. Camillo caro scrivimi subito, affezionatissimo zio Pietro».
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Pietro Laureati morì a Grottammare il 2 febbraio del 1876; Camillo sposò
Caterina Stracchi ed ebbero 4 figli: Marino, Mario, che era mio padre, Enrico e
Giulio. Ulteriori riferimenti al nome della mia famiglia possono essere trovati in
precedenti pubblicazioni e in particolare nel libro Il Natale della Patria a Grottammare
dell’Onorevole Alceo Speranza, scritto nella ricorrenza del centenario precedentemente illustrato dalla professoressa Ghidoli e dal professor Teodori nei loro autorevoli interventi appena ascoltati.
Altro momento importante è stato l’anno 1925, quando l’allora Principe ereditario Umberto di Savoia, provenendo da Ascoli Piceno e diretto a Fermo, volle visitare
i luoghi in cui si svolse lo storico incontro del 1860. Si fermò quindi a palazzo
Laureati per una breve visita e fu ricevuto da mia nonna Caterina, moglie di Camillo,
da mio padre Mario, valoroso ufficiale dell’Esercito, dai miei zii Marino e Giulio,
quest’ultimo famoso aviatore, e da zia Giuditta Trevisani, vedova dell’altro zio
Enrico. Di questo episodio esistono foto ufficiali che ritraggono il Principe Umberto
affacciato dal nostro terrazzo per salutare la folla che lo acclama nel piazzale sottostante, che fu poi intestato a suo nome, a ricordo di questo avvenimento.
Io stesso presenziai poi alla rievocazione del primo centenario nel 1960, di cui
resta solo un registro con le firme dei partecipanti, che mi permetto di offrire all’Amministrazione Comunale, nella persona del signor Sindaco.
Concludo rinnovando il mio ringraziamento per l’invito ricevuto, rivolgo il mio
deferente ossequio agli illustri Relatori e ringrazio tutti i presenti per l’attenzione che
hanno voluto dedicarmi.
4 Luglio 2010 dalle ore 19
Cerimonia di inaugurazione del Giardino del Castello
7 Novembre 2010 - Pineta Ricciotti / Scuola G. Speranza dalle ore 9
Celebrazione del IV Novembre
Festa dell’Unità Nazionale e Commemorazione dei Caduti
Interventi delle Autorità civili e militari
Sfilata e concerto del corpo bandistico La Marchigiana
28 Novembre 2010 - Teatro dell’Arancio ore 21,30
Masse d’Italia - Sulle tracce di una storia d’Italia dall’unità a oggi
con Gloria e Andrea Strappa, a cura dell’Associazione Culturale L’Onagro
26 Dicembre 2010 - Chiesa di San Pio V ore 21,15
Gran Concerto di Natale per coro, solista e strumenti della Corale Sisto V
Soprano solista Margherita Calia - Direttore M° Luigi Petrucci
28 Gennaio 2011 - Teatro delle Energie ore 21,30
Viva l’Italia!...Viva la Libertà! - Omaggio per il 150° dell’Unità d’Italia
Concerto per orchestra di fiati, musiche di Ponchielli, Verdi, Piovani
a cura della Fondazione Gioventù Musicale d’Italia
Marzo 2011 - Pineta Ricciotti
Restauro del monumento Il popolano di Napoli di Vito Pardo
5 Marzo 2011 - Teatro dell’Arancio ore 17,30
Il Natale della Patria di Alceo Speranza (1911) - Presentazione della ristampa anastatica
dell’opera - Interventi di Piero Craveri e Alessandra Ghidoli
16 Marzo 2011 - Partenza da Piazza San Pio V ore 21,30
I luoghi dell’Unità a Grottammare
Passeggiata storica a cura di Mario Petrelli: visita alla lapide commemorativa di Palazzo
Laureati, al Monumento all’Unità d’Italia e al Busto di Garibaldi di Vito Pardo
a seguire, Sala Consiliare ore 22,30 - Il sipario teatrale: appuntamenti probabili
della storia a cura di Giarmando Dimarti e dell’Associazione Culturale Rosa dei Venti
17 Marzo 2011 - Via Salvo D’Acquisto ore 17
Posizionamento dello Scrigno della Memoria*
con la partecipazione della Banda “La Marchigiana” di Grottammare
4 e 5 Giugno 2011 - Sala Kursaal
12 ottobre 1860: lo storico incontro di Grottammare e il suo contributo
all’Unità d’Italia
Convegno di approfondimento, coordinamento a cura di Alessandra Ghidoli
*Lo scrigno che avrebbe dovuto essere riposto nel nuovo Polo Scolastico è attualmente
custodito nell’Archivio Storico
107
7 - 16 - 25 - 30 Luglio 2011 - Giardino del Castello ore 21,30
Voci tra le Mura: le parole dell’Unità
Spettacoli di musica e poesia dedicati all’Italia
a cura della Fondazione Gioventù Musicale d’Italia
28 Luglio 2011 - Chiesa di Santa Lucia ore 21,15
XVIII Rassegna Int.le di Musica per Organo “Riviera delle Palme”
Concerto di musica italiana per il 150º anniversario dell’Unità d’Italia
Gianluigi Spaziani (organo) - Polina Balva (soprano)
a cura dell’Associazione Organistica Picena
9 Agosto 2011 - Chiesa di San Pio V ore 21,30
Concerto d’estate: Inno all’Unità d’Italia di Roberto Remondi
Festeggiamenti 150º anniversario dell’Unità d’Italia
a cura della Corale Sisto V
23 Agosto 2011 - Teatro delle Energie ore 21,30
IX Festival Liszt: concerto del baritono grottammarese Andrea Concetti
a cura della Fondazione Gioventù Musicale d’Italia
23 Ottobre 2011 - Piazza Fazzini ore 15,30
Festa della Città per il conseguimento del titolo onorifico
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26 Novembre 2011 - Biblioteca comunale “M. Rivosecchi” ore 17
150 anni: porte aperte alla Cultura. Un viaggio nella nostra storia attraverso
Biblioteche, Archivi e Musei delle Marche. Open Day - Gran Tour Cultura: l’Unità a colori
Lettura animata per bambini, a cura della Cooperativa Girasole di Grottammare
6 Dicembre 2011 - Biblioteca comunale “M. Rivosecchi” ore 16,30
150 anni: porte aperte alla Cultura. Un viaggio nella nostra storia attraverso
Biblioteche, Archivi e Musei delle Marche.
Presentazione del video-spot Mettiti nei panni degli altri: vedrai che le apparenze
ingannano, a cura dell’Istituto Superiore Fazzini-Mercantini di Grottammare
15 Dicembre 2011 - Biblioteca comunale “M. Rivosecchi” ore 21,30
Piccolo profondo Risorgimento
Presentazione del libro di Marco Severini
17 Marzo 2012 - Sala consiliare ore 18
Alessandro Manzoni tra Risorgimento e Unità
Intervento di Giarmando Dimarti
a cura dell’Associazione Culturale Rosa dei Venti
23 novembre 2012 - Sala Kursaal ore 9, Biblioteca comunale “M. Rivosecchi” ore 12
Inaugurazione Archivio storico di Grottammare
Conclusione e presentazione del progetto di catalogazione dei documenti
17 marzo 2016 - Teatro dell’Arancio ore 18
12 ottobre 1860: lo storico incontro di Grottammare e il suo contributo
all’Unità d’Italia
Presentazione degli Atti del convegno
PIERO CRAVERI (1938) attualmente ricopre la carica di Presidente dell’Ente Morale Suor
Orsola Benincasa di Napoli e della Fondazione Biblioteca Benedetto Croce. Studioso di Storia
moderna e contemporanea, ha scritto numerosi libri e collaborato a riviste scientifiche italiane e
straniere. Ha pubblicato il volume La Repubblica, 1958-1992 per la Storia d’Italia della Utet
diretta da Giuseppe Galasso, Una democrazia incompiuta. Profili del ’900, edita dall’editore
Marsilio, e ha curato per l’edizione nazionale delle opere di Benedetto Croce il volume
Materialismo storico ed economia marxista. Nel 2005 è stata pubblicata l’edizione da lui curata
dei Taccuini di guerra: 1943-1945 di Benedetto Croce, per l’edizione Adelphi. È autore di una
biografia di Alcide De Gasperi, edita dalla casa Editrice Il Mulino e del volume Guido Carli,
senatore e ministro, 1983-1992, pubblicata con l’editore Bollati Boringhieri. Ha insegnato nelle
università italiane di Genova, Messina, Roma e Napoli (Federico II e Suor Orsola Benincasa, di
cui è stato Preside della Facoltà di Lettere), nella Facoltà Sciences Politiques di Parigi e all’Università di Nanterre. È membro dei Consigli Scientifici e consulente di riviste scientifiche e
Fondazioni culturali. Già Senatore della Repubblica, è stato designato quale membro del
Comitato per i 150 anni dell’Unità di Italia e presidente del Comitato Nazionale per le celebrazioni del bicentenario della nascita di Camillo Benso Conte di Cavour. Ha svolto una vasta attività pubblicistica ed è attualmente collaboratore de Il Sole 24Ore ed Il Corriere del Mezzogiorno.
GUIDO PESCOSOLIDO (1947) è stato allievo di Rosario Romeo e Renzo De Felice. Ha insegnato negli Atenei di Messina, Napoli, Roma Tre, LUISS e La Sapienza, nella quale è stato
Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia ed è attualmente Direttore del Dipartimento di
Storia Culture Religioni. Fra i suoi lavori si segnalano, oltre al volume Stato e società, 18701898, per la collana «Storia dell’Italia contemporanea» delle Edizioni Scientifiche Italiane di
Napoli, uscito nel 1976, e il volume Terra e nobiltà. I Borghese - secoli XVIII e XIX, Jouvence,
Roma 1979, i volumi Agricoltura e industria nell’Italia unita (prima edito da Le Monnier nel
1983, poi più volte ristampato da Laterza dal 1994) e Unità nazionale e sviluppo economico
1750-1913 (Laterza, Roma-Bari 1998). Ha fatto parte del comitato scientifico della
Enciclopedia delle Scienze sociali ed è stato condirettore con Giuseppe Bedeschi del Dizionario
enciclopedico Treccani Storia, opere entrambe edite dall’Istituto della Enciclopedia Italiana.
Dal 1994 è direttore dei programmi culturali dell’Associazione Nazionale per gli Interessi del
Mezzogiorno d’Italia (ANIMI).
FRANCESCO SABATINI (1931) è stato allievo di Alfredo Schiaffini e Natalino Sapegno. Dal
1971 è Professore ordinario di Storia della lingua italiana e linguistica italiana. Ha insegnato
nelle Università di Lecce, Genova, Napoli, Roma Tre e La Sapienza. Dal 1965 fa parte della
Deputazione Abruzzese di Storia Patria. Presidente della Società di Linguistica Italiana dal
1977 al 1981 e dal 1999 al 2001 dell’Associazione per la Storia della Lingua Italiana, dal 1976
è anche socio dell’Accademia della Crusca, della quale nel marzo del 2000 è stato eletto presidente. Ha curato, assieme a un gruppo di collaboratori, la riedizione anastatica e informatica
del primo Vocabolario della Crusca del 1612. È autore di numerose pubblicazioni, tra cui il
noto Dizionario Italiano (insieme a Vittorio Coletti) e L’Europa dei popoli (insieme al demografo Antonio Golini); i suoi interessi di ricerca si concentrano sulle origini delle lingue neolatine, la pluralità di lingue e culture nell’Italia medievale, l’evoluzione dell’italiano dopo
l’unità politica e nell’era delle telecomunicazioni, l’educazione linguistica nella scuola italiana.
Ha compiuto studi sulla storia dell’Abruzzo, sua regione di origine. Ha ricevuto la Medaglia
d’oro del Presidente della Repubblica per la Cultura, l’Arte e la Scuola nel 1988. Dal 2009 è
titolare della rubrica televisiva “Pronto soccorso linguistico” trasmessa la domenica mattina
nell’ambito del programma Unomattina in famiglia della RAI.
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MARCO SEVERINI (1965) insegna Storia dell’Italia contemporanea presso il Dipartimento di
Studi Umanistici dell’Università di Macerata. È autore di oltre 500 pubblicazioni, tra cui alcune
in lingua straniera, che trattano aspetti politici, civili e culturali dell’età contemporanea. Nel 1999
ha vinto, con la sua monografia La rete dei notabili (1998) la XVIII edizione del Premio Nazionale
di Cultura “Frontino-Montefeltro”. Ha fondato e presiede l’Associazione di Storia Contemporanea
che conta oltre 300 soci in tutto il mondo. È l’ideatore e il curatore, fin dalla sua istituzione (2005),
della Rassegna di storia contemporanea di Senigallia che giungerà tra un mese alla sua IX edizione. Suoi principali temi di ricerca sono stati la storia politica italiana dell’Otto e Novecento, la
Repubblica Romana del 1849, la crisi dello Stato liberale e l’avvento del fascismo, la storia di
genere. Tra i suoi ultimi lavori, La Repubblica romana del 1849 (2011), Dieci donne. Storia delle
prime elettrici italiane (2012, 2013), Giovani ribelli (2014) e Il filo sottile (2015).
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ALESSANDRA GHIDOLI (1950) laureatasi con il massimo dei voti in Storia dell’Arte
Moderna, relatore Giulio Carlo Argan, e perfezionati gli studi storico artistici e paleografici,
nel 1980 entrava come funzionario direttivo nei ruoli del Ministero per i Beni Culturali. Dopo
una prima assegnazione a Napoli presso il Museo Nazionale di Capodimonte, ha lavorato a
Roma nel Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo dove ha collaborato alla organizzazione di
importanti esposizioni tra le quali, nel 1989, l’imponente mostra “Fragmenta Picta” dedicata
ai grandi cicli decorativi della Roma medievale. Dal 1992 al 2015 ha prestato servizio presso
la Presidenza della Repubblica dove ha realizzato numerose iniziative tra cui la catalogazione
scientifica della collezione di porcellane (circa 38.000 pezzi), pubblicata nel 1999 in un volume
monografico. Nel maggio 2001 scopriva, con saggi effettuati personalmente, la secentesca
decorazione della Galleria di Alessandro VII Chigi, realizzata al Quirinale sotto la direzione di
Pietro da Cortona, e ne avviava il restauro. Autrice di circa 200 contributi scientifici anche di
carattere storico, sta attualmente approfondendo il periodo relativo alla Grande Guerra quando,
per volontà della Regina Elena, la Reggia d’Italia fu interamente trasformata in Ospedale della
Croce Rossa. All’attività per il Ministero e per la Presidenza della Repubblica ha sempre affiancato la didattica come titolare della cattedra di Storia dell’Arte alla LUMSSA di Roma e
successivamente di quelle di Storia delle Arti Applicate e dell’Oreficeria nel Medioevo e di
Storia dell’Arte per il Restauro all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. È Socio
Corrispondente della Deputazione di Storia Patria delle Marche, Socio dell’Accademia
Raffaello di Urbino, Socio Onorario del Nobil Collegio S. Eligio di Roma, Membro Scientifico
dell’Associazione Amici del Palazzo Reale di Torino.
GILBERTO PICCININI (1951) ha insegnato Storia contemporanea nella Facoltà di Lettere e
Filosofia dell’Università di Urbino “Carlo Bo”, dove è stato anche docente di Storia del
Risorgimento; ha diretto l’Istituto Interfacoltà di Storia “F. Cusin” della stessa Università.
Presiede dal 1997 la Deputazione di Storia Patria per le Marche, il più longevo istituto storico
della regione. Dal 1995 è presidente del Comitato provinciale di Ancona dell’Istituto per la
Storia del Risorgimento Italiano. È Sovrintendente del Museo della Battaglia di Castelfidardo
ed è autore di oltre duecento opere tra saggi e pubblicazioni, tra le quali ricordiamo: La
Deputazione di Storia patria per le Marche nei primi centocinquant’anni di attività, in La
Storia della Storia Patria. Società, Deputazioni e Istituti Storici Nazionali nella costruzione
dell’Italia (2012); Il Pontificato di Leone XII. Restaurazione e Riforme nel governo della
Chiesa e dello Stato (2012); Cento anni della Banca di Credito Cooperativo di Falconara
Marittima. 1912-2012 (2012); Pesaro tra Sette e Ottocento (1797-1815), in Pesaro tra
Risorgimento e Regno unitario (2013); Marchigiani alla guerra di Libia: Dino Brunori di
Castignano (2013); Ancona giacobina. Scritti di Werther Angelini ripubblicati nel centenario
della nascita (2014); Prefazione al volume di M. Baleani La Grande Guerra nella letteratura
dialettale delle Marche, n. 36 degli Studi e Testi della Deputazione di Storia Patria per le
Marche; Introduzione al volume I fratelli De Minicis, storici, archeologi e collezionisti del
Fermano, (a cura di G. Paci), Atti del Convegno di Fermo (26 sett. 2014), n. 35 degli Studi e
Testi della Deputazione di Storia Patria per le Marche (2015).
MASSIMO TEODORI (1938) Ordinario di Storia e istituzioni degli Stati Uniti, saggista e
collaboratore di radio, tv e giornali nazionali ed esteri. Eletto alla Camera per il Partito
Radicale nel 1979, 1983, 1987 e al Senato nel 1992, ha fondato nel 2011 “Libera Italia”. È
autore di quaranta volumi di storia contemporanea e americana e di sociologia politica tra cui:
New Left: a Documentary History (New York, 1969), Storia delle nuove sinistre in Europa (Il
Mulino, 1976), i bestseller Maledetti americani (Mondadori, 2002) e Benedetti americani
(Mondadori, 2003) e più recentemente Laici. L’imbroglio italiano (Marsilio, 2006), Storia
degli Stati Uniti e sistema politico americano (Newton Compton, 2008), Pannunzio. Dal
“Mondo” al Partito radicale: vita di un intellettuale del Novecento (Mondadori, 2010),
Vaticano rapace (Marsilio, 2013), Complotto! Come i politici ci ingannano, con Massimo
Bordin (Marsilio, 2014), Il vizietto cattocomunista (Marsilio, 2015) e Obama il grande con una
indispensabile guida alle elezioni presidenziali (Marsilio, 2016). Ha vinto numerosi premi
(“Estense”, “Saint Vincent”, “Ignazio Silone”, “Roma”…), è stato il primo italiano a ricevere
la “Menorah d’oro” per avere ideato l’Israele Day e, nel 2015, è stato insignito di un’alta onorificenza della Repubblica dal Presidente Giorgio Napolitano.
DANIELE DIOTALLEVI (1948) storico dell’Arte, studioso di storia militare, numismatica,
sfragistica e archivistica, è docente di Legislazione dei Beni Culturali nell’Accademia di Belle
Arti di Macerata. Esperto per le armi antiche presso Soprintendenze del Ministero dei Beni,
delle Attività culturali e del Turismo, e membro del Portale Numismatico dello Stato, ha ricoperto l’incarico di Direttore delle Sezioni Numismatica, Armi e Pittura dell’800 nella Galleria
nazionale delle Marche di Urbino. È vicepresidente del Comitato di Pesaro e Urbino dell’Istituto Italiano per la Storia del Risorgimento. Il suo curriculum annovera, inoltre, la Direzione
del Museo della Linea dei Goti a Montegridolfo e del Museo della Liberazione di Ancona ad
Offagna. È socio dell’Accademia Raffaello, dell’Istituto Italiano dei Castelli - Sezione Marche,
nonché Socio Deputato della Deputazione di Storia Patria delle Marche.
VITTORIO LAUREATI (1923) ha completato gli studi classici presso il Liceo Ginnasio
Francesco Stabili di Ascoli Piceno, conseguendo la maturità nell’anno accademico 1942/43.
Iscritto alla facoltà di Medicina e Chirurgia all’Università di Bologna, ha conseguito la laurea
dopo un periodo di interruzione degli studi a causa della guerra in atto; ha frequentato l’Istituto del Radio “Luigi Galvani” diretto dal Prof. Giuseppe Palmieri, specializzandosi in
Radiologia Medica. Successivamente si è perfezionato anche in Tisiologia. Ha sempre svolto
attività specialistica in Ambiente Ospedaliero fino a raggiungere la qualifica di Primario presso
l’Ospedale Civile di Casoli (Chieti). Parallelamente ha svolto saltuaria attività lavorativa presso la Casa di Cura privata “Villa Anna” di San Benedetto del Tronto (per un biennio) e, in seguito, presso il Poliambulatorio I.N.A.M. di Fermo. Ha concluso la propria attività lavorativa
in qualità di Primario Radiologo presso l’Ospedale Civile di Montegiorgio, dove ha prestato
servizio fino al raggiungimento dell’età pensionabile, mantenendo ancora per alcuni anni l’incarico presso l’I.N.A.M. di Fermo. Al termine della sua attività lavorativa è tornato a vivere
stabilmente a Grottammare, nella storica residenza di famiglia.
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Finito di stampare nel dicembre 2015
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