La ricerca ha molti aspetti, tutti interessanti, direi - SIF
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La ricerca ha molti aspetti, tutti interessanti, direi - SIF
Periodico della Società Italiana di Farmacologia - fondata nel 1939 - ANNO IX n. 36 – Dicembre 2013 Riconosciuto con D.M. del MURST del 02/01/1996 - Iscritta Prefettura di Milano n. 467 pag. 722 vol. 2° ISSN 2039-9561 La ricerca ha molti aspetti, tutti interessanti, direi Jacopo Meldolesi Professore Emerito di Farmacologia, Università Vita-Salute San Raffaele, Milano Mi sono laureato in Medicina a Catania nel Novembre 1962. Da studente e nei due anni dopo la laurea ho frequentato solo la Clinica, studiando tantissimo ma nel modo tradizionale, sui libri di testo e basta. Come ricerca mi occupavo di enzimologia clinica, facendo i miei dosaggi quotidiani di transaminasi e di molti altri enzimi nel plasma e nelle cellule di diversi tipi di pazienti. Una ricerca 100% fenomenologica, direi oggi. La mia vita è cambiata quando, nel 1964, ho vinto una borsa del Ministero che prevedeva il trasferimento in un’altra Università. Su consiglio autorevole sono andato ad esplorare l’Istituto di Farmacologia di Milano e a parlare con il Professor Trabucchi. Due mesi dopo mia moglie Maria ed io eravamo già trasferiti in una città che non conoscevamo per niente, alloggiati per le prime 2 settimane in una delle stanze per ospiti che esistevano a quel tempo nell’Istituto. La Ricerca 1. Primo periodo a Milano: metabolismo dei farmaci; ultrastruttura di epatociti e di altre cellule Per il Professor Trabucchi tutta la ricerca biologica e biomedica era comunque di interesse farmacologico. Questo lasciava ai ricercatori una straordinaria libertà intellettuale e di iniziativa che mi è servita non solo all’inizio, ma per tutta la mia carriera. Ho anche imparato a dire di no alle richieste di esperimenti che mi venivano fatte, difendendo il mio diritto-dovere a proseguire in un solo progetto di ricerca. All’inizio temevo che il mio atteggiamento avesse conseguenze negative, poi mi sono accorto che al Professor Trabucchi non dispiaceva per niente. Tenendo conto della mia esperienza in enzimologia clinica, ho scelto di lavorare con Enzo Chiesara sul metabolismo dei farmaci. Contemporaneamente ho imparato da Francesco Clementi ad usare il microscopio elettronico e ho progressivamente trasferito i miei interessi nel suo laboratorio. In questo periodo abbiamo fatto una serie di osservazioni che ancora oggi considero di un certo interesse, relative soprattutto alle modifiche del reticolo endoplasmatico negli epatociti di animali trattati con farmaci induttori del metabolismo o con farmaci epatotossici. Abbiamo anche osservato le prime esocitosi nelle cellule acidofile ad ormone della crescita dell’ipofisi. Tutte storie che siamo riusciti a pubblicare niente male, in giornali (Endocrinology, Lab. Invest., Biochem. Pharmacol.) che oggi viaggiano intorno a impact factor 4-5. 2. Post-doc a New York: il membrane traffic Nei primi giorni del ’68 la mia vita scientifica ha avuto il secondo cambiamento radicale. Un paio di anni prima Clementi era andato a lavorare sulla struttura e permeabilità dei capillari alla Rockefeller University di New York, nel laboratorio di George Palade, un pioniere della biologia cellulare, Premio Nobel nel ’74. Un anno dopo, però, era stato costretto a tornare a Milano e in quell’occasione aveva convinto Palade a prendermi al suo posto. Andare a lavorare all’estero, a quel tempo, era cosa ben diversa da oggi. Palade io lo avevo intravisto ad un Congresso in Giappone ma non ci avevo mai parlato. Mi ero letto i suoi papers, soprattutto quelli sul trasporto intracellulare e la liberazione per esocitosi degli enzimi pancreatici, Quaderni della SIF (2013) vol. 36 - 63 ma non ero sicuro di avere capito tutto quello che c’era da capire. Quindi inizialmente il mio approccio alla “ricerca americana” fu di obbedienza e di timore. Mi era stato assegnato, come progetto, l’identificazione del meccanismo di concentrazione degli enzimi nei granuli di secrezione, i così detti granuli di zimogeno, delle cellule acinari del pancreas. In base ad alcuni esperimenti preliminari, Palade e Jim Jamieson, il suo Assistant Professor, erano convinti che la concentrazione dipendesse da una specifica ATPasi capace di espellere ioni attraverso la membrana dei granuli. A quell’epoca non esistevano né l’immunocitochimica, né i western blots e neanche i gels di poliacrilamide. Un lavoro come quello del mio progetto poteva essere fatto solo misurando l’attività di molteplici enzimi in frazioni subcellulari isolate per centrifugazione differenziale e gradienti di saccarosio, studiate in parallelo per microscopia elettronica. Inizialmente, quindi, la mia ricerca a New York consistette in un continuo subfrazionare omogenati di pancreas, ripulendo i granuli di zimogeno da contaminanti, soprattutto mitocondri. Dopo 5 mesi la mia frazione granuli era pulita al 99,8% (Fig. 1), e la sua ATPasi era scomparsa. Ergo, la ATPasi era dovuta ad un contaminante mitocondriale e la concentrazione degli enzimi non era dovuta ad una pompa di ioni. Nei 20 anni successivi diversi laboratori, tra cui il nostro, hanno dimostrato che la concentrazione, nei granuli di zimogeno e negli altri granuli e vescicole esocitiche, incluse le dense-core vesicles delle catecolamine, dipende dalla interazione tra le proteine segregate che si legano specificamente tra loro nell’ambiente acido che esiste nel lume. A questo punto io ero libero di scegliermi un altro progetto. Avevo sviluppato nuove tecniche per isolare frazioni di tutte le membrane 64 - Quaderni della SIF (2013) vol. 36 dei vari organuli del pancreas che partecipano al processo secretivo (reticolo, Golgi, granuli di zimogeno) e una frazione di membrana plasmatica. Pensai che la cosa più ragionevole fosse quella di analizzare queste frazioni per lipidi ed enzimi. L’idea era quella di verificare, per la prima volta, se la composizione di queste membrane era compatibile con la teoria del flusso, secondo la quale le membrane, nate nel reticolo, si trasformano di seguito in membrane del Golgi, dei granuli e nella membrana plasmatica; oppure se le membrane, nate diverse tra loro, fossero collegate da vescicole in continua circolazione, dal reticolo al Golgi alla membrane plasmatica e viceversa. I miei risultati, pubblicati in tre articoli in successione sul J. Cell Biol., documentarono le notevoli differenze di composizione e funzione tra le membrane. Essi sembravano quindi più compatibili con la seconda teoria, quella del membrane traffic come si chiama oggi, premiata con il Nobel pro- prio quest’anno. 3. Il ritorno a Milano: ancora membrane traffic Il lavoro fatto alla Rockefeller, incluso tutto quanto avevo imparato da Palade e dai suoi colleghi anche attraverso il corso di Biologia Cellulare per PhD students, è stato fondamentale per la mia vita scientifica nei dieci anni dopo il mio ritorno. Intanto ho avuto il mio primo incarico di insegnamento, Biologia Generale in Farmacia. Poi ho avuto i miei primi inviti a parlare come speaker in congressi europei. Palade riceveva un sacco di inviti a congressi in Europa, congressi di membrane, fisiologia, gastroenterologia. Viaggiare non gli piaceva tanto, quindi in diverse occasioni suggerì agli organizzatori di invitare me come sostituto. Inoltre Francesco Clementi, Bruno Ceccarelli ed io abbiamo organizzato a Venezia un congresso su membrane e secrezione, con ottimo successo. In quel momento la linea di ricerca sul membrane traffic e sugli Fig. 1. Microscopia elettronica della mia frazione “pulita”di granuli di zimogeno, quella che mi permise di cambiare il mio progetto di ricerca nel laboratorio di George Palade. A sinistra i granuli sono intatti. Notate che al centro c’è ancora un piccolo mitocondrio. Le frazioni pure al 100% non esistono! A destra compaiono solo le membrane, ottenute per gradiente di saccarosio dai granuli “esplosi” con una soluzione moderatamente alcalina. Da Meldolesi J. Jamieson J.D. Palade G.E., J. Cell Biol. 49: 130-149, 1971. organuli coinvolti nella secrezione cominciava a diventare “calda”. Io la ho proseguita analizzando le proteine delle quattro membrane con i primi apparecchi per la PAGE costruiti in casa; caratterizzando la dinamica delle loro interazioni; dimostrando che le membrane di reticolo, Golgi e granuli hanno un turnover molto più lento delle proteine secretive che contengono (un’altra evidenza in favore del membrane traffic). Lo studio del membrane traffic nel pancreas mi ha portato ad occuparmi anche di autofagocitosi e crinofagia (esocitosi dei granuli nei lisosomi). Usando il freeze-fracture ho dimostrato che la membrana plasmatica delle cellule acinari del pancreas è formata da due regioni diverse, separate dalle giunzioni occludenti: la regione baso-laterale, dove sono i recettori, e la regione apicale, dove avviene l’esocitosi. Gli studi sono stati poi ampliati utilizzando le tecniche immunologiche che cominciavano ad affermarsi, a partire però non dalle frazioni del pancreas (che hanno la sgradevole caratteristica di tendere alla autodigestione) ma da quelle del fegato. Infine ho esteso l’indagine alle cellule dell’ipofisi secernenti ormone della crescita e prolattina, focalizzandomi su vari aspetti dei granuli (molteplicità anche in singole cellule, struttura, composizione, dinamica, esocitosi). Naturalmente tutto questo lavoro non è stato condotto da me solo, ma insieme a numerosi colleghi che hanno portato contributi fondamentali. Oltre ad alcune collaborazioni specifiche ed oltre alla partecipazione di studenti e alcuni post-doc, mi preme ricordare, per lo studio delle membrane, Pietro De Camilli, il mio primo studente, che oggi è professore alla Yale University, e Nica Borgese, oggi professore all’Università della Magna Grecia. Il lavoro sull’autofagocitosi è stato condotto con Gabor Rez di Budapest, e quello sulla pancreatite e la crinofagia con Mike Steer, professore di chirurgia ad Harvard. Sull’ipofisi ho lavorato insieme a Giuliana Giannattasio e Antonia Zanini, due ricercatori del CNR. Anche in questo periodo, ho continuato ad interagire, a discutere i risultati e a verificare ipotesi con Francesco Clementi e Bruno Ceccarelli. 4. L’era del Ca2+: collaborazione con Tullio Pozzan Alla fine degli anni ‘70 cominciai a preoccuparmi. Quasi tutti i miei lavori, pubblicati bene o benissimo, sono stati poi citati abbondantemente e hanno lasciato un segno nella letteratura. Eppure avevo la sensazione di non poter continuare a competere con lo sviluppo della ricerca sul membrane traffic. Infatti il mio laboratorio è sempre stato piccolo, certamente non molto avanzato in termini di tecnologia. Inoltre la mia amicizia con Clementi e Ceccarelli, orientati alla neurobiologia, mi faceva pensare che avrei avuto opportunità migliori in quel campo. Decisi quindi di spostare il mio interesse scegliendo, da un lato, di lavorare soprattutto su sinaptosomi e cellule neurali; dall’altro di utilizzare alcune tossine presinaptiche note per i loro effetti talora devastanti, ma mai caratterizzate in dettaglio. Le cellule prescelte furono quelle della linea PC12, con cui ho continuato a lavorare fino alla chiusura del mio laboratorio, 30 anni dopo. Le PC12, isolate nel 1976 da un feocromocitoma di ratto, erano e sono interessanti perché assomigliano molto alle cromaffini e perché, sottoposte ad un trattamento prolungato con NGF, sviluppano un fenotipo simil-neuronale. Io le avevo ricevute dal loro isolatore, Lloyd Greene, attraverso colleghi del laboratorio di Rita Levi-Montalcini. La tossina più interessante, la a-latrotossina del veleno di vedova nera, era nota per essere molto attiva come stimolatore del rilascio di neurotrasmettitori. Quello che mi interessava era il meccanismo intracellulare di questo effetto. Il primo candidato era naturalmente l’aumento del Ca2+ nel citosol. Il problema era andare a misurarlo e stabilirne la dinamica e l’origine, extra o intracellulare. Anni prima avevo provato a studiare l’omeostasi del Ca2+ nelle cellule acinari del pancreas usando il Ca45. Più recentemente, usando il Ca45 secondo protocolli stringenti nel laboratorio di David Nicholls, a quell’epoca all’Università di Dundee, avevo studiato l’effetto dell’alatrotossina nei sinaptosomi dimostrando una depolarizzazione e un forte influsso di Ca2+. Nel complesso i risultati erano stati niente male ed erano apparsi su giornali importanti. Io, però, ero sempre preoccupato dai limiti della tecnologia. Mi sembrò quindi assai interessante la notizia, comparsa in quei giorni sul J. Cell Biol., di una nuova tecnologia per la misura della concentrazione citosolica del Ca2+, la [Ca2+]i, da realizzare attraverso l’uso di un nuovo colorante, il quin2. Tra gli autori dell’articolo ce ne era uno che conoscevo, Tim Rink. Gli scrissi quindi proponendogli una collaborazione. Lui mi rispose subito osservando però che per me sarebbe stato molto più semplice collaborare con un altro autore, Tullio Pozzan, che era appena tornato a Padova dopo aver contribuito alla scoperta del quin2 durante il suo post-doctoral stage a Cambridge. Io scrissi subito a Pozzan e così cominciò un altro periodo della mia ricerca, quello del Ca2+. Inizialmente Pozzan e io ci incontravamo nel mio e nel suo laboratorio quasi tutte le settimane per fare esperimenti insieme. Il primo lavoro, uscito su PNAS nel 1984, sempre sul’azione dell’alatrotossina nei sinaptosomi e PC12, includeva anche la collaborazione con Wieland Huttner, oggi al Max Plank Institute di Dresda, e con Roger Y. Tsien, l’inventore dei coloranti del Ca2+ e di molte altre molecole “magiche”, premiato con il Nobel della Chimica nel 2004. Successivamente, insieme Quaderni della SIF (2013) vol. 36 - 65 al post-doc canadese Heimo Scheer, che oggi ha un ruolo nell’industria farmaceutica americana, continuammo a lavorare sull’alatrotossina identificando per la prima volta l’esistenza e la natura di uno specifico recettore. Inoltre, insieme a Francesco Di Virgilio e Sarino Rizzuto, (oggi Professori di Patologia uno a Ferrara, l’altro a Padova) e con Lucia Vallar (oggi associata a Milano) cominciammo a studiare altri processi legati al Ca2+, incluse l’attivazione del recettore muscarinico M1, del recettore dopaminergico D2, e di canali del Ca2+ voltaggio dipendenti. Infine, con la collaborazione di Lucia Vicentini, e con i miei studenti/post doc Atanasio Pandiella, ora Professore a Salamanca, e Michele Magni dell’Istituto Tumori di Milano, affrontammo gli effetti Ca2+-mediati dei fattori di crescita, NGF, EGF, FGF, PDGF. Contemporaneamente allargammo al patch clamp il nostro potenziale tecnologico stabilendo una collaborazione con il neurofisiologo Enzo Wanke (Professore di Fisiologia alla Bicocca); mentre con Antonio Malgaroli (ora Professore di Fisiologia nella mia Università) sostituimmo il quin-2 con il Fura-2, un colorante (fornito a Pozzan direttamente da Roger Tsien) con cui è possibile lavorare su singola cellula. Questo ci permise di avere accesso, prima di molti altri laboratori, a processi come le oscillazioni e le onde di Ca2+. Se non vi siete persi nella selva dei risultati di questo periodo, magari mi chiederete quali io consideri più importanti. Oltre alla prima dimostrazione dei recettori dell’IP3 nel reticolo endoplasmatico, una collaborazione con Sol Snyder e il suo gruppo, penso che sia stata importante la prima proposta di eterogeneità del deposito intracellulare del Ca2+ a rapido scambio. In questo caso la nostra idea (collaborazione con Pompeo Volpe di Padova e Karl Heinz Krause di Ginevra), che prevedeva l’e66 - Quaderni della SIF (2013) vol. 36 sistenza di un organello separato dal reticolo, il calciosoma, non era corretta. Però ricerche successive hanno dimostrato che una eterogeneità esiste, ed è essenziale per l’omeostasi del Ca2+, tra varie zone del reticolo. Un altro risultato importante è stata l’identificazione di una corrente di Ca2+ a rapida inattivazione nei neuroni attivati con acetilcolina attraverso un recettore M1. Infine diverse reviews scritte in questo periodo hanno avuto impatto nella letteratura, da quella che, nel 1987, proponeva per la prima volta l’esistenza di canali di superficie attivati da secondi messaggeri, a quella del 1994 che riassumeva le nostre idee sull’omeostasi del Ca2+. Quest’ultima review è stata il punto di riferimento di molti laboratori, come dimostrato dalle oltre 1000 citazioni che ha ricevuto. 5. Intermezzo Intorno al 1992-1993 la collaborazione con il laboratorio di Pozzan cominciò ad allentarsi. A Padova avevano continuato ad affinare le tecniche del Ca2+, raggiungendo risultati eccellenti a cui io non potevo contribuire in modo significativo. Naturalmente abbiamo continuato a sviluppare insieme alcune ricerche che però, nel laboratorio, si sono affiancate ad altre iniziative. Sul Ca2+ e su sviluppi della microscopia elettronica ho collaborato con il gruppo di Fabio Grohovaz, ora Professore di Fisiologia nella nostra Università, e con Pompeo Volpe, associato a Padova. Emilio Clementi (oggi Professore di Farmacologia a Milano), all’inizio un mio studente di dottorato, ha prima sviluppato ricerche sul Ca2+ per poi passare, dopo il suo stage nel laboratorio di Salvador Moncada a Londra, allo studio dell’NO, che ha poi proseguito in modo indipendente. In questo periodo l’iniziativa di maggiore impatto è stata l’introduzione nella letteratura del concetto di kiss-and-run, un nuovo modo di concepire la dinamica ultrarapida della liberazione di neurotrasmettitori da parte di neuroni e cellule neurali. Per noi il concetto non era nuovo, anzi negli anni precedenti lo aveva sostenuto soprattutto Bruno Ceccarelli (Fig. 2), che però purtroppo era mancato nel 1988. Di conseguenza nella letteratura non era entrato. Discutendo con gli allievi di Ceccarelli, che dopo la sua morte si erano collegati al mio laboratorio, Dino Fesce, oggi Professore di Fisiologia all’Università dell’Insubria, Flavia Valtorta, oggi Professore di Farmacologia nella mia Università, e Fabio Grohovaz, ci rendemmo conto che rischiavamo di farci soffiare il concetto. La nostra review (vedi lo schema nella Fig. 2), basata sull’evidenza complessiva accumulata negli anni, ebbe subito molto successo. Rapidamente kiss-and-run diventò un concetto generalmente accettato, esteso (seppure in modo distorto) anche all’immunologia. Oggi non tutti si ricordano che, per primi, lo abbiamo introdotto noi. Naturalmente noi siamo contenti lo stesso, anzi forse ancora di più. Nel frattempo era successo un evento inaspettato. Le cellule PC12 hanno l’inconveniente di essere eterogenee. Per risolvere il problema Emilio Clementi aveva isolato un gran numero di cloni che poi erano stati caratterizzati da lui e da Daniele Zacchetti, oggi ricercatore del San Raffaele. Tra questi cloni Emilio e Daniele identificarono il numero 27 che era incapace di accumulare dopamina, non esprimeva le proteine delle dense-core vesicles e non rispondeva alle stimolazioni con la liberazione di neurotrasmettitori. All’inizio (1992) questo clone sembrò semplicemente “pigro”. Qualche anno dopo, però, uno studio approfondito dimostrò che al clone mancava spontaneamente la neurosecrezione. Questo dimostrava che la competenza per la neurosecrezione è indipendente da altre caratteristiche del fenotipo delle cellule neurosecernenti. Il clone PC12-27 diventò da allora il focus principale della ricerca del mio laboratorio. 6. Le cellule PC12-27: dalla elettrofisiologia alla biologia cellulare, alla farmacologia e alla geno- mica Un clone difettivo come PC1227 non era unico. Infatti, un clone simile era già stato pubblicato, e altri due sono stati riportati in seguito, uno da noi. Unica era invece la specificità per le PC12. In nes- Fig. 2. (figura sopra) Immagini di microscopia elettronica della placca neuromuscolare di rana preincubata con perossidasi (per marcare lo spazio extracellulare) e poi stimolata, ottenute da Bruno Ceccarelli nel 1973, che suggerivano per la prima volta un riciclo diretto delle vescicole esocitate. La vescicola in A, dopo la fusione, sembra inserirsi nella membrane plasmatica in un ciclo eso-endocitico convenzionale. Quelle in B e C sembrano riciclare senza che avvenga l’allargamento del loro exocytic neck. A questo secondo processo abbiamo poi attribuito la definizione di kiss-and-run. Da Ceccarelli B., Hurlbut W.P., Mauro A., J. Cell Biol. 57: 499-524, 1973. Il modello in basso descrive in modo scherzoso i due tipi di ciclo exo-endocitico, a sinistra quello convenzionale, a destra kiss-and-run. Il primo ricicla la membrana della vescicola inserita nella membrana plasmatica per mezzo di una coated vesicle; il secondo attraverso la cattura rapida e diretta della vescicola esocitata, che non si mescola con la membrane plasmatica. Il rossetto suggerisce che per procedere nel ciclo di destra sia necessario uno specifico priming superficiale della vescicola. Da Fesce R., Meldolesi J., Nature Cell Biol. 1: E3-E4, 1999. sun altra linea neurale, infatti, era ed è mai stata riportata l’esistenza di cloni spontaneamente difettivi della neurosecrezione come il 27. Da questo punto di vista, quindi, occuparsi del PC12-27 ci assicurava un vantaggio notevole rispetto ai nostri competitori. Inoltre il difetto del clone riguarda la neurosecrezione, il processo di nostro maggiore interesse. Attraverso il suo studio si potevano avanzare molte domande originali: nelle PC12-27 manca solo la secrezione o è alterato tutto il membrane traffic? E l’endocitosi? Quale è il meccanismo che controlla l’espressione della neurosecrezione? Non è che queste cellule esprimono processi che mancano nelle PC12 wild type? E così via. D’altro canto la decisione di impegnare il laboratorio su questo tema poteva essere assai rischiosa. Mentre molti ricercatori sono interessati al Ca2+, chi mai si sarebbe interessato ad un clone difettivo? Purtroppo questa considerazione è risultata vera. La nostra storia sulle PC12-27 ha ricevuto molte meno citazioni delle storie precedenti. Io la considero una storia che nessuno avrebbe scelto in paesi come gli USA, dove la performance dei laboratori è valutata quantitativamente ogni anno. Per noi è stata una sfida che secondo me è finita in modo favorevole. In fondo essa ci ha permesso di chiarire una serie di aspetti precedentemente oscuri o completamente sconosciuti. Nei nostri studi il clone PC12-27 non è mai stato analizzato da solo ma sempre in confronto parallelo con un clone wild type. Riassumiamo qui i risultati ottenuti elencati in base agli approcci utilizzati. Elettrofisiologia. In collaborazione con il gruppo di Haruo Kasai in Giappone abbiamo analizzato le cellule per platch clamping. Abbiamo trovato che il PC 12-27, seppur privo di neurosecrezione, risponde a molte stimolazioni con una intensa esocitosi di vescicole Quaderni della SIF (2013) vol. 36 - 67 che però sono diverse dalle dense-core vesicles. Sono chiare, più grandi delle vescicole synaptic-like, non sembrano contenere proteine, la loro esocitosi è insensibile alle tossine tetanica e botulinica. Queste caratteristiche, insieme a risultati altrui, ci hanno permesso di concludere che l’esocitosi regolata è un processo molteplice, che coinvolge vari tipi di vescicole, diverse per caratteri specifici come, per esempio, le proteine SNARE della loro fusione. Biologia Cellulare. Partendo dai risultati del patch clamping siamo andati a caccia di marcanti delle nostre vescicole esocitiche misteriose. Lavorando insieme a due studenti di dottorato, Barbara Borgonovo ed Emanuele Cocucci, i marcanti delle vescicole li abbiamo trovati. L’immunocitochimica ha mostrato la loro distribuzione, in puntini dispersi nel citoplasma quando le cellule sono a risposo, concentrati alla superficie dopo stimolazione, quando la superficie cellulare è ampliata dall’esocitosi. Per questa ragione abbiamo chiamato le vescicole enlargosomi. Quali cellule esprimono gli enlargosomi? Molte cellule, ma non i neuroni maturi. A cosa servono? La loro funzione sembra essere molteplice: guarigione delle ferite di origine meccanica che sono inferte a tutte le cellule; rapido ampliamento della superficie necessario in molte condizioni (per esempio, crescita di neuriti, stellation degli astrociti ecc.); liberazione di ectosomi (chiamati anche shedding vesicles) dalla membrana plasmatica. Farmacologia. Lo studio parallelo dei cloni di PC12 ha messo in evidenza notevoli differenze. Le PC12-27 non rispondono all’acetilcolina, ma mantengono una risposta all’ATP e al glutammato. Le risposte in termini di [Ca2+] rivelano che le cellule defettive i mancano soprattutto di recettori e di canali della membrana plasma68 - Quaderni della SIF (2013) vol. 36 tica. Genomica. Quale è il meccanismo che comanda la competenza o meno delle cellule neurali per la neurosecrezione? Questo è stato il problema fondamentale che ci siamo posti non appena ci siamo resi conto delle caratteristiche delle cellule PC12-27. In queste cellule non mancano solo le proteine, ma anche i mRNA di membrane e cargoes della neurosecrezione. Ne abbiamo dedotto che il difetto doveva essere localizzato a livello trascrizionale. Nel laboratorio, Maria Luisa Malosio, oggi ricercatore del CNR, studiò senza successo il possibile coinvolgimento di una serie di fattori di trascrizione. Il successo arrivò solo nel 2006, quando divennero disponibili anticorpi contro un ben noto repressore della trascrizione, REST altrimenti detto NRSF. L’espressione di questo fattore varia molto tra cellule nervose e non-nervose. L’alto livello di REST nelle cellule non-nervose preclude l’espressione di molti geni neuro-specifici. Questi ultimi sono invece espressi durante il differenziamento neurale quando REST diminuisce per digestione proteasomica fino a livelli pressoché impercettibili. Dai nostri dati REST appariva come un ottimo candidato per spiegare il fenotipo delle cellule PC12-27. In questo caso, però, prima di riuscire a pubblicare i nostri dati iniziali, siamo stati bruciati da due gruppi inglesi. Il lavoro condotto da Rosalba D’Alessandro, oggi ricercatore in un IRCCS in Puglia, ci ha permesso comunque di dimostrare la scomparsa delle dense-core vesicles e di altre caratteristiche neurali nelle cellule PC12 wild-type trasfettate con REST; e la ricomparsa delle vescicole nelle PC12-27 down-regolate per il repressore (Fig. 3). Risultati che dimostrano definitivamente il ruolo chiave di REST nell’espressione del fenotipo neurosecretivo. 7. Ultime iniziative: ancora PC12- 27 Negli ultimi anni il nostro modello sperimentale PC12 wild type/ PC12-27 ci ha permesso di chiarire alcuni aspetti funzionali delle cellule neurali. Collaborando con il gruppo di Anna Mondino del San Raffaele abbiamo dimostrato l’importanza di REST per la proliferazione cellulare, spiegando come mai il fattore sia alto in molti tumori del sistema nervoso. Con Sara Negrini e Rosalba D’Alessandro abbiamo dimostrato che il difetto delle PC12-27 in termini di differenziamento indotto da NGF dipende dalla repressione, da parte di REST, del p75NTR, il recettore comune alle neurotrofine. Inoltre abbiamo ripreso lo studio della trascrizione, condotto oltre 10 anni fa dalla Malosio con la tecnica del microarray, ampliandolo con il RNA-Seq (collaborazione con J. Garcia Manteiga e E. Stupka). Ne sono emersi nuovi aspetti dipendenti da REST che spiegano, tra l’altro, le differenze di segnalazione e di dinamica delle cellule defettive. Ci resta da completare lo studio dell’attività di splicing dei cloni, un aspetto interessante perché abbiamo già identificato alcuni fattori specifici espressi in modo differenziale dalle PC12 wild type e defettive. Il laboratorio, però è stato chiuso il febbraio scorso. Quindi posso ancora pensare, ma non fare esperimenti. 8. Summing-up sulla mia ricerca Se avete avuto la pazienza e la tenacia di leggervi tutta la mia storia magari vi domanderete (come peraltro hanno fatto molti prima di voi): ma questo Meldolesi è uno che cambia interessi troppo spesso, è un superficiale che con la sua ricerca non può avere impatto. Personalmente non sono d’accordo. Da quando sono diventato un “ricercatore professionista” il processo che mi ha sempre interessato è stata la secrezione regolata, vista soprattutto dal punto di vista delle interazioni tra membrane. Questo processo sono andato a studiarlo da molti punti di vista, in molti tipi di cellule, con molte tecnologie. È vero che il mio approccio non è stato privo di rischi, e che non sempre me ne sono reso conto. È vero che un paio di volte ho mancato importanti risultati. È anche vero che diversi risultati sono rimasti finora senza riscontro nella letteratura, e che da un punto di vista tecnologico ed applicativo il mio laboratorio è sempre stato debole. D’altro canto credo che la mia ricerca, nel suo complesso, sia stata libera, originale e di buon successo (>100 inviti per seminari e presentazioni a Congressi; >18.000 citazioni; HI 74), tre cose che mi piacciono molto. Se fossi stato negli USA avrei dovuto avere più disciplina e “profondità”. In Italia me la sono cavata. Non sempre ho avuto abbastanza general vision dei problemi. Beh, sono sereno lo stesso. Per fare questa ricerca ho preferito avere un laboratorio piccolo, che richiedeva finanziamenti modesti e mi permetteva di seguire direttamente tutti gli esperimenti. Come avete visto dalle citazioni ho avuto la fortuna di crescere molti ricercatori brillanti, italiani e stranieri. Quando sono diventati grandi, con esperienza internazionale, io ho sempre preferito che si mettessero in proprio, come ricerca e come carriera. Oltre che delle poche ed eccellenti collaborazioni di cui vi ho parlato il laboratorio è vissuto del lavoro di studenti, universitari e di dottorato, e di postdoc. La continuità è stata assicurata da due tecniche bravissime, prima Giuliana Gatti, poi Gabriella Racchetti, che partecipavano direttamente alle ricerche e firmavano i lavori. Quando il laboratorio si è chiuso tutti hanno trovato altrove una collocazione adeguata per continuare la loro ricerca. sato di più in tutta la mia carriera. In parallelo, però, ho lavorato anche all’Università di Milano, come Assistente dal 1966, Professore Incaricato dal 1971, Professore Ordinario dal 1981. Ho già accennato al fatto che la mia prima didattica è stata l’insegnamento della Biologia Generale nella Facoltà di Farmacia. Poi, nel 1976 sono passato ad insegnare la Farmacologia in Medicina e poi, per due anni, la Chemioterapia. Nel 1984 l’Istituto San Raffaele, un IRCCS che all’epoca ospitava una sezione della Medicina di Milano, ha richiesto un Professore Ordinario per insegnare la nostra disciplina. I miei colleghi con maggiore anzianità non erano interessati, così sono andato io, e nel 1987 ho trasportato al San Raffaele anche il mio laboratorio. Qui sono successe molte cose che vi racconterò in un capitolo successivo. Nel 1998 il San Raffaele ha aperto la Facoltà di Medicina della sua Università privata, l’Università Vita-Salute San Raffaele, sviluppata secondo un piano elaborato da un gruppo di docenti, me compreso. Logicamente io ho chiesto il trasferimento ed ho continuato ad insegnare fino al 2010. Al momento sono un Professore Emerito, quindi compaio nell’Annuario e basta. Con l’insegnamento ho chiuso, ho deciso di averne fatto abbastanza. Questo non perché non mi piacesse, anzi. Mi è piaciuto soprattutto cercare di capire e di farmi capire dagli studenti, stabilire con loro rapporti seri e senza fronzoli, cercare di insegnare “bene”, essere disponibile. Per chi, come me, lavora in prossimità dell’Ospedale della propria Università l’incontro con ex-studenti è quasi quotidiano. Beh, spesso è anche piacevole. Cosa ho fatto all’Università? Lavoro editoriale e di valutazione; riconoscimenti Finora vi ho parlato soltanto della mia ricerca. Mi sembra giusto perché è la cosa che mi ha interes- Il lavoro editoriale mi ha sempre interessato, anche perché sono convinto che faccia parte del lavo- ro di ricerca. Ho cominciato alla fine degli anni ’70 come membro dell’Editorial Board di Exp. Cell Res. per passare poi al J. Cell Biol. che mantengo ancora. Con lo stesso ruolo ho lavorato per il Brit. J. Pharmacol., per EMBO J., per Trends in Pharmacol. Sci. Nel complesso a gestire i lavori inviati per la pubblicazione si impara. Inoltre si acquisisce una visione obbiettiva, si è utili al giornale e, nel piccolo, allo sviluppo della scienza: quindi si tratta di un lavoro che vale senz’altro la pena di fare. Nella valutazione della ricerca mi sono impegnato parecchio. In Italia sono stato per 3 anni nella Commissione PRIN appena insediata, quando c’era molto da lavorare e anche da inventare. Per darvi un’idea, abbiamo inserito per la prima volta la revisione da pari, di cui al Ministero non avevano mai sentito parlare. In quell’occasione ho messo insieme un panel di 6000 ricercatori internazionali disponibili a fare i revisori, che poi è scomparso nelle voragini della burocrazia. Considero il PRIN una delle esperienze più eccitanti della mia attività valutativa. Scegliere i revisori con obbiettività ed equilibrio, interpretare le loro opinioni, evitare gli imbrogli, sono state imprese non da poco. Se poi le cose del PRIN si sono deteriorate non è dipeso dal nostro lavoro iniziale. Il PRIN non è stata la mia sola esperienza valutativa in Italia. Sempre al MIUR, ho lavorato per due anni in una Commissione per la valutazione delle iniziative imprenditoriali di docenti, le così dette spin-off. Sono stato in varie Commissioni di valutazione della ricerca condotta in Istituti di Università, del CNR, e di Regioni; nel Comitato di Valutazione dell’Università di Ferrara; nelle Commissioni di Banche e di Fondazioni, pubbliche private. Le esperienze sono state assai variabili. Certe volte si aveva l’impressione di parlare, parlare, parlare senza incideQuaderni della SIF (2013) vol. 36 - 69 re minimamente sulla situazione. Altre volte, invece, le cose andavano meglio o davvero bene. La migliore esperienza è stata forse quella, triennale, di responsabile della Biologia e Medicina alla Banca CARIPARO di Padova. Con i colleghi che avevo coinvolto abbiamo fatto un lavoro serio, approfondito e molto apprezzato. Nel complesso la mia opinione sul lavoro di valutazione in Italia è abbastanza positiva. Potrebbe migliorare ancora moltissimo, anche perché i modelli avanzati oggi ci sono, appunto in alcune Fondazioni, bancarie e no, a Telethon e in qualche altra istituzione. A livello europeo ho lavorato nelle Commissioni di finanziamento della EU e di singoli stati; in Commissioni per la verifica del lavoro fatto da Istituti e da intere Facoltà in Francia, Austria, Germania, Svizzera. Inoltre sono stato nei Comitati triennali di valutazione dell’Università di Losanna e del Neuroscience Institute di Gottingen. Qui naturalmente la situazione è molto migliore della nostra. Di conseguenza l’importanza della mia partecipazione era probabilmente minore. Quanto ai riconoscimenti, io ho un’opinione diciamo scaramantica. Mi piacciono quelli che arrivano inattesi, perché chi ti ha appoggiato magari non lo conosci neanche. Così mi è successo per l’elezione all’EMBO (1984), all’Accademia del Lincei (1991), alla European Academy of Sciences (1992); per il Golgi Neuroscience Award della Fidia Research Foundation (Washington, 1990); il Premio Feltrinelli dell’Accademia dei Lincei (1994); il Purkinje Award della Czech Academy of Sciences (1995); la Medaglia d’Oro del Presidente della Repubblica ai Benemeriti della Cultura e della Scienza (1998). Un paio di altre volte ho cercato di farmi un po’ di campagna elettorale, e non sono stato eletto/premiato. Quindi è meglio evitare, secondo me. 70 - Quaderni della SIF (2013) vol. 36 I “lavori di servizio” Voglio concludere con le Presidenze di Società scientifiche e le Direzioni di Istituti, che mi sembra giusto raggruppare sotto questa denominazione. Io infatti ho sempre cercato di defilarmi da questi “lavori”, così diversi dalla ricerca. Comunque non li ho rifiutati, anzi in questo momento mi piacciono molto più di prima. Sono stato Presidente della SINS, Società Italiana di Neuroscienze (1999-2001) e della FISV, Federazione Italiana Scienze della Vita (2003-2008). Una Società multidisciplinare che raggruppa biologi cellulari/molecolari, morfologi, fisiologi, farmacologi, neurologi e psichiatri, e una Federazione che, sotto la mia Presidenza, includeva 14 Società. Oltre che per la gestione e per la strategia, quindi, il Presidente doveva impegnarsi a mediare tra i differenti interessi e le diverse culture dei ricercatori/società afferenti. Per questo, secondo me, è stato importante mostrarsi equilibrato e corretto. Se alla fine si fanno le scelte giuste non ci saranno ragioni di conflitto e le Società/Federazioni funzioneranno bene. Nel complesso, quindi, si è trattato di esperienze positive. Nel 1987, al momento del mio trasferimento al San Raffaele, un Ospedale di alto livello, riconosciuto dal Ministero della Salute come IRCCS, mi trovai ad essere il solo ricercatore senior non clinico. Questo mi pose in una situazione di responsabilità, soprattutto quando il Presidente Don Luigi Verzé decise di costruire, accanto all’Ospedale, un Istituto di ricerca preclinico, il DIBT, Dipartimento Biologico e Tecnologico, per ospitare numerosi gruppi di ricerca, di base e transazionali, insieme a gruppi di ricerca di industrie, biotec e spin-off companies, nonché i servizi (mensa, stabulario) e le facilities, scientifiche e no, di supporto alla ricerca (esempi: bioimaging, microsequencing, brevetti, trasferimento tecnologico ecc.). Si trattava insomma di un Parco Scientifico strettamente focalizzato sulla ricerca biomedica. Dopo avere verificato quanto fosse difficile trovare, all’esterno del San Raffaele, un Direttore Scientifico impegnato sulla strategia di eccellenza ed efficienza che avevamo sviluppato, decisi di accettare l’offerta di diventare il Direttore Scientifico del DIBIT, ponendo però due condizioni sempre rispettate da Don Verzé: nessun condizionamento extrascientifico al mio lavoro e un Consiglio Scientifico composto da 3 scienziati di altri paesi europei. Quest’ultimo strumento, che non era mai esistito al San Raffaele, fu poi essenziale per il successo del DIBIT, soprattutto per la continua valutazione della ricerca e per rendere possibili decisioni impopolari che di tanto in tanto si resero necessarie. La mia impresa di Direzione del DIBIT cominciò nel 1990 e durò fino al 1998, quando fui sostituito da un altro Direttore, secondo una politica di turnover che al San Raffaele è la regola. Le decisioni in tema di attrezzature, struttura dei laboratori, organizzazione del trasferimento tecnologico, incontri con scienziati e imprenditori interessati a venire ecc. vennero sempre prese insieme al Direttore Operativo Antonio Siccardi. L’aspetto più delicato, e quello di maggior successo del nostro lavoro, fu la selezione dei ricercatori. Anche se l’Istituto non funzionava ancora fummo in grado di selezionare alcune decine di ottimi scienziati che entrarono a fare parte dell’impresa fidandosi della nostra parola. Molti sono ancora qui, e lavorano con lo stesso impegno dell’inizio, e con molta più esperienza. L’inaugurazione del DIBIT nel 1992 rimane tra i miei ricordi più belli. Si trattò di una cerimonia scientifica, con pochissime formalità e pochissima politica. Tra gli invitati c’era anche George Palade che fece un discorso molto incoraggiante. Articoli sulla cerimonia apparvero sui maggiori giornali scientifici compresa Nature. Insomma, il debutto del DIBIT fu un evento davvero memorabile. Fin dall’inizio le regole per la gestione dell’Istituto furono molto stringenti. I fondi disponibili alla Direzione erano molto modesti, utili soltanto per occasioni di emergenza. Per il resto i gruppi si basarono, e hanno continuato a farlo fino ad ora, sui propri grants. Mettemmo subito in opera uno straordinario programma di seminari, tenuti sia da colleghi esterni invitati da singoli ricercatori, sia dai ricercatori interni che si impegnarono a presentare il loro lavoro almeno una volta all’anno. Tutti i seminari erano, e sono ancora, tenuti in inglese per sottolineare, soprattutto ai giovani, che la lingua è uno strumento indispensabile della ricerca. Un altro aspetto, per me molto importante fu lo sviluppo del Parco Scientifico. Il training cui fui costretto per capire, programmare, sviluppare un lavoro che non avevo mai fatto prima fu considerevole, ma mi permise di ampliare la mia visione del mondo della scienza. Un processo che oggi, per me, è risultato prezioso. Dopo essere andato in pensione come docente nel 2010, un evento che fu festeggiato da un Meeting straordinario, organizzato dai miei amici, con speakers eccellenti tra cui 3 Premi Nobel e quasi 1000 partecipanti, avevo già in programma di chiudere il mio laboratorio. Dato che lavorare mi piace ancora, e molto, mi domandavo cosa avrei fatto quando avessi esaurito gli ultimi risultati e le ultime reviews che mi proponevo di scrivere. Quasi due anni or sono, dopo avere spiegato in pubblico la mia visione della ricerca in Italia, fui avvicinato dall’On. Patriciello, Presidente dell’IRCCS Neuromed di Pozzilli (IS), un Ospedale ed un Centro di ricerca di alto profilo specializzati in Neuroscienze, localizzati tra Napoli e Roma. Patriciello mi offrì di occuparmi, da un punto di vista scientifico, degli sviluppi che prevedeva per il suo Istituto. Da quel momento ho un nuovo, eccitante lavoro. Non mi aspettavo che l’esperienza scientifica e la conoscenza, anche critica, della comunità dei ricercatori avessero un’importanza strategica ed operazionale così grande. Mi sono inserito benissimo al Neuromed, non solo nella governance, ma anche nel sistema scientifico. Abbiamo già avuto diversi successi, e abbiamo progetti in tutte le direzioni: collegamenti sinergici con Università e altri Istituti, sviluppo di facilities, miglioramento dell’immagine dell’Istituto. Quando, nei prossimi mesi, presenteremo a Bruxelles questa mia ultima avventura spero di poter concludere che la scienza è necessaria per sviluppare iniziative di alto profilo; e che queste iniziative, se esistono le “persone giuste”, sono possibili non solo in Lombardia, dove ho lavorato finora, ma in (quasi) tutta Italia. Questa “storia” è dedicata a tutti quelli che, negli anni, hanno lavorato/collaborato/interagito con il mio laboratorio, dal Prof. Trabucchi all’ultimo studente. Una menzione particolare a Francesco Clementi (Cone per gli amici), che mi ha insegnato come, lavorando, ci si può anche divertire; a Bruno Ceccarelli, che mi ha introdotto alla neurobiologia; e a Tullio Pozzan, che ha affinato i miei concetti di dinamica, equilibrio ecc. ecc. ■ Fig. 3. Ricomparsa della neurosecrezione di vescicole esocitiche nelle cellule difettive ad alto REST in cui il livello e l’attività del repressore sono stati ridotti. Dopo la trasfezione del domain di REST che lega il DNA la cellula difettiva mostra la ricomparsa nel citoplasma di punti positivi per la cromogranina B e la sinaptotagmina1 (pannello c). Dopo stimolazione con uno ionoforo del Ca2+ le due proteine compaiono in superficie come atteso dopo esocitosi di vescicole densecore (frecce nei pannelli g ed h). Queste vescicole sono visibile nelle cellule trasfettate anche al microscopio elettronico (frecce nei pannelli d ed e). La immunocitochimica con particelle di oro conferma la presenza di cromogranina B al loro interno (pannello f). Da D’Alessandro et al., J. Neurochem. 105: 1369-1383, 2008. Quaderni della SIF (2013) vol. 36 - 71