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La ricerca ha molti aspetti, tutti interessanti, direi - SIF

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La ricerca ha molti aspetti, tutti interessanti, direi - SIF
Periodico della Società Italiana di Farmacologia - fondata nel 1939 - ANNO IX n. 36 – Dicembre 2013
Riconosciuto con D.M. del MURST del 02/01/1996 - Iscritta Prefettura di Milano n. 467 pag. 722 vol. 2°
ISSN 2039-9561
La ricerca ha molti aspetti, tutti
interessanti, direi
Jacopo Meldolesi
Professore Emerito di Farmacologia, Università Vita-Salute San Raffaele, Milano
Mi sono laureato in Medicina a Catania nel Novembre 1962.
Da studente e nei due anni dopo
la laurea ho frequentato solo la
Clinica, studiando tantissimo ma
nel modo tradizionale, sui libri
di testo e basta. Come ricerca mi
occupavo di enzimologia clinica,
facendo i miei dosaggi quotidiani
di transaminasi e di molti altri enzimi nel plasma e nelle cellule di
diversi tipi di pazienti. Una ricerca
100% fenomenologica, direi oggi.
La mia vita è cambiata quando,
nel 1964, ho vinto una borsa del
Ministero che prevedeva il trasferimento in un’altra Università. Su
consiglio autorevole sono andato
ad esplorare l’Istituto di Farmacologia di Milano e a parlare con
il Professor Trabucchi. Due mesi
dopo mia moglie Maria ed io eravamo già trasferiti in una città che
non conoscevamo per niente, alloggiati per le prime 2 settimane
in una delle stanze per ospiti che
esistevano a quel tempo nell’Istituto.
La Ricerca
1. Primo periodo a Milano: metabolismo dei farmaci; ultrastruttura di epatociti e di altre cellule
Per il Professor Trabucchi tutta la ricerca biologica e biomedica
era comunque di interesse farmacologico. Questo lasciava ai ricercatori una straordinaria libertà intellettuale e di iniziativa che mi è
servita non solo all’inizio, ma per
tutta la mia carriera. Ho anche imparato a dire di no alle richieste di
esperimenti che mi venivano fatte,
difendendo il mio diritto-dovere a
proseguire in un solo progetto di
ricerca. All’inizio temevo che il
mio atteggiamento avesse conseguenze negative, poi mi sono accorto che al Professor Trabucchi
non dispiaceva per niente.
Tenendo conto della mia esperienza in enzimologia clinica, ho
scelto di lavorare con Enzo Chiesara sul metabolismo dei farmaci.
Contemporaneamente ho imparato da Francesco Clementi ad usare il microscopio elettronico e ho
progressivamente trasferito i miei
interessi nel suo laboratorio. In
questo periodo abbiamo fatto una
serie di osservazioni che ancora
oggi considero di un certo interesse, relative soprattutto alle modifiche del reticolo endoplasmatico
negli epatociti di animali trattati
con farmaci induttori del metabolismo o con farmaci epatotossici.
Abbiamo anche osservato le prime
esocitosi nelle cellule acidofile ad
ormone della crescita dell’ipofisi.
Tutte storie che siamo riusciti a
pubblicare niente male, in giornali
(Endocrinology, Lab. Invest., Biochem. Pharmacol.) che oggi viaggiano intorno a impact factor 4-5.
2. Post-doc a New York: il membrane traffic
Nei primi giorni del ’68 la mia
vita scientifica ha avuto il secondo
cambiamento radicale. Un paio di
anni prima Clementi era andato a
lavorare sulla struttura e permeabilità dei capillari alla Rockefeller
University di New York, nel laboratorio di George Palade, un pioniere della biologia cellulare, Premio Nobel nel ’74. Un anno dopo,
però, era stato costretto a tornare
a Milano e in quell’occasione aveva convinto Palade a prendermi
al suo posto. Andare a lavorare
all’estero, a quel tempo, era cosa
ben diversa da oggi. Palade io lo
avevo intravisto ad un Congresso
in Giappone ma non ci avevo mai
parlato. Mi ero letto i suoi papers,
soprattutto quelli sul trasporto
intracellulare e la liberazione per
esocitosi degli enzimi pancreatici,
Quaderni della SIF (2013) vol. 36 - 63
ma non ero sicuro di avere capito
tutto quello che c’era da capire.
Quindi inizialmente il mio approccio alla “ricerca americana” fu
di obbedienza e di timore. Mi era
stato assegnato, come progetto,
l’identificazione del meccanismo
di concentrazione degli enzimi nei
granuli di secrezione, i così detti
granuli di zimogeno, delle cellule acinari del pancreas. In base ad
alcuni esperimenti preliminari,
Palade e Jim Jamieson, il suo Assistant Professor, erano convinti
che la concentrazione dipendesse
da una specifica ATPasi capace di
espellere ioni attraverso la membrana dei granuli.
A quell’epoca non esistevano né l’immunocitochimica, né i
western blots e neanche i gels di
poliacrilamide. Un lavoro come
quello del mio progetto poteva essere fatto solo misurando l’attività
di molteplici enzimi in frazioni
subcellulari isolate per centrifugazione differenziale e gradienti
di saccarosio, studiate in parallelo
per microscopia elettronica. Inizialmente, quindi, la mia ricerca
a New York consistette in un continuo subfrazionare omogenati di
pancreas, ripulendo i granuli di
zimogeno da contaminanti, soprattutto mitocondri. Dopo 5 mesi
la mia frazione granuli era pulita
al 99,8% (Fig. 1), e la sua ATPasi era scomparsa. Ergo, la ATPasi
era dovuta ad un contaminante
mitocondriale e la concentrazione degli enzimi non era dovuta
ad una pompa di ioni. Nei 20 anni
successivi diversi laboratori, tra
cui il nostro, hanno dimostrato
che la concentrazione, nei granuli
di zimogeno e negli altri granuli
e vescicole esocitiche, incluse le
dense-core vesicles delle catecolamine, dipende dalla interazione tra le proteine segregate che
si legano specificamente tra loro
nell’ambiente acido che esiste nel
lume.
A questo punto io ero libero di
scegliermi un altro progetto. Avevo
sviluppato nuove tecniche per isolare frazioni di tutte le membrane
64 - Quaderni della SIF (2013) vol. 36
dei vari organuli del pancreas che
partecipano al processo secretivo
(reticolo, Golgi, granuli di zimogeno) e una frazione di membrana
plasmatica. Pensai che la cosa più
ragionevole fosse quella di analizzare queste frazioni per lipidi ed
enzimi. L’idea era quella di verificare, per la prima volta, se la composizione di queste membrane era
compatibile con la teoria del flusso, secondo la quale le membrane,
nate nel reticolo, si trasformano
di seguito in membrane del Golgi, dei granuli e nella membrana
plasmatica; oppure se le membrane, nate diverse tra loro, fossero
collegate da vescicole in continua
circolazione, dal reticolo al Golgi
alla membrane plasmatica e viceversa. I miei risultati, pubblicati
in tre articoli in successione sul J.
Cell Biol., documentarono le notevoli differenze di composizione
e funzione tra le membrane. Essi
sembravano quindi più compatibili con la seconda teoria, quella del
membrane traffic come si chiama
oggi, premiata con il Nobel pro-
prio quest’anno.
3. Il ritorno a Milano: ancora
membrane traffic
Il lavoro fatto alla Rockefeller,
incluso tutto quanto avevo imparato da Palade e dai suoi colleghi
anche attraverso il corso di Biologia Cellulare per PhD students, è
stato fondamentale per la mia vita
scientifica nei dieci anni dopo il
mio ritorno. Intanto ho avuto il
mio primo incarico di insegnamento, Biologia Generale in Farmacia. Poi ho avuto i miei primi
inviti a parlare come speaker in
congressi europei. Palade riceveva un sacco di inviti a congressi
in Europa, congressi di membrane, fisiologia, gastroenterologia.
Viaggiare non gli piaceva tanto,
quindi in diverse occasioni suggerì agli organizzatori di invitare me
come sostituto. Inoltre Francesco
Clementi, Bruno Ceccarelli ed io
abbiamo organizzato a Venezia un
congresso su membrane e secrezione, con ottimo successo.
In quel momento la linea di ricerca sul membrane traffic e sugli
Fig. 1. Microscopia elettronica della mia frazione “pulita”di granuli di zimogeno, quella che mi permise di cambiare il mio progetto di ricerca nel laboratorio
di George Palade. A sinistra i granuli sono intatti. Notate che al centro c’è ancora
un piccolo mitocondrio. Le frazioni pure al 100% non esistono! A destra compaiono solo le membrane, ottenute per gradiente di saccarosio dai granuli “esplosi”
con una soluzione moderatamente alcalina. Da Meldolesi J. Jamieson J.D. Palade
G.E., J. Cell Biol. 49: 130-149, 1971.
organuli coinvolti nella secrezione
cominciava a diventare “calda”. Io
la ho proseguita analizzando le
proteine delle quattro membrane
con i primi apparecchi per la PAGE
costruiti in casa; caratterizzando
la dinamica delle loro interazioni; dimostrando che le membrane
di reticolo, Golgi e granuli hanno
un turnover molto più lento delle
proteine secretive che contengono (un’altra evidenza in favore del
membrane traffic). Lo studio del
membrane traffic nel pancreas mi
ha portato ad occuparmi anche di
autofagocitosi e crinofagia (esocitosi dei granuli nei lisosomi).
Usando il freeze-fracture ho dimostrato che la membrana plasmatica
delle cellule acinari del pancreas è
formata da due regioni diverse, separate dalle giunzioni occludenti:
la regione baso-laterale, dove sono
i recettori, e la regione apicale,
dove avviene l’esocitosi. Gli studi
sono stati poi ampliati utilizzando le tecniche immunologiche
che cominciavano ad affermarsi,
a partire però non dalle frazioni
del pancreas (che hanno la sgradevole caratteristica di tendere alla
autodigestione) ma da quelle del
fegato. Infine ho esteso l’indagine
alle cellule dell’ipofisi secernenti
ormone della crescita e prolattina, focalizzandomi su vari aspetti
dei granuli (molteplicità anche in
singole cellule, struttura, composizione, dinamica, esocitosi).
Naturalmente tutto questo lavoro
non è stato condotto da me solo,
ma insieme a numerosi colleghi
che hanno portato contributi fondamentali. Oltre ad alcune collaborazioni specifiche ed oltre alla
partecipazione di studenti e alcuni
post-doc, mi preme ricordare, per
lo studio delle membrane, Pietro
De Camilli, il mio primo studente,
che oggi è professore alla Yale University, e Nica Borgese, oggi professore all’Università della Magna
Grecia. Il lavoro sull’autofagocitosi è stato condotto con Gabor Rez
di Budapest, e quello sulla pancreatite e la crinofagia con Mike
Steer, professore di chirurgia ad
Harvard. Sull’ipofisi ho lavorato
insieme a Giuliana Giannattasio e
Antonia Zanini, due ricercatori del
CNR. Anche in questo periodo, ho
continuato ad interagire, a discutere i risultati e a verificare ipotesi
con Francesco Clementi e Bruno
Ceccarelli.
4. L’era del Ca2+: collaborazione
con Tullio Pozzan
Alla fine degli anni ‘70 cominciai a preoccuparmi. Quasi tutti i
miei lavori, pubblicati bene o benissimo, sono stati poi citati abbondantemente e hanno lasciato
un segno nella letteratura. Eppure
avevo la sensazione di non poter
continuare a competere con lo sviluppo della ricerca sul membrane
traffic. Infatti il mio laboratorio è
sempre stato piccolo, certamente
non molto avanzato in termini di
tecnologia. Inoltre la mia amicizia
con Clementi e Ceccarelli, orientati alla neurobiologia, mi faceva
pensare che avrei avuto opportunità migliori in quel campo. Decisi
quindi di spostare il mio interesse
scegliendo, da un lato, di lavorare
soprattutto su sinaptosomi e cellule neurali; dall’altro di utilizzare
alcune tossine presinaptiche note
per i loro effetti talora devastanti,
ma mai caratterizzate in dettaglio.
Le cellule prescelte furono quelle
della linea PC12, con cui ho continuato a lavorare fino alla chiusura
del mio laboratorio, 30 anni dopo.
Le PC12, isolate nel 1976 da un
feocromocitoma di ratto, erano e
sono interessanti perché assomigliano molto alle cromaffini e perché, sottoposte ad un trattamento
prolungato con NGF, sviluppano
un fenotipo simil-neuronale. Io le
avevo ricevute dal loro isolatore,
Lloyd Greene, attraverso colleghi
del laboratorio di Rita Levi-Montalcini.
La tossina più interessante, la
a-latrotossina del veleno di vedova
nera, era nota per essere molto attiva come stimolatore del rilascio
di neurotrasmettitori. Quello che
mi interessava era il meccanismo
intracellulare di questo effetto. Il
primo candidato era naturalmente
l’aumento del Ca2+ nel citosol. Il
problema era andare a misurarlo e
stabilirne la dinamica e l’origine,
extra o intracellulare. Anni prima
avevo provato a studiare l’omeostasi del Ca2+ nelle cellule acinari
del pancreas usando il Ca45. Più
recentemente, usando il Ca45 secondo protocolli stringenti nel
laboratorio di David Nicholls, a
quell’epoca all’Università di Dundee, avevo studiato l’effetto dell’alatrotossina nei sinaptosomi dimostrando una depolarizzazione e
un forte influsso di Ca2+. Nel complesso i risultati erano stati niente
male ed erano apparsi su giornali
importanti. Io, però, ero sempre
preoccupato dai limiti della tecnologia. Mi sembrò quindi assai interessante la notizia, comparsa in
quei giorni sul J. Cell Biol., di una
nuova tecnologia per la misura
della concentrazione citosolica del
Ca2+, la [Ca2+]i, da realizzare attraverso l’uso di un nuovo colorante,
il quin2. Tra gli autori dell’articolo
ce ne era uno che conoscevo, Tim
Rink. Gli scrissi quindi proponendogli una collaborazione. Lui mi
rispose subito osservando però
che per me sarebbe stato molto
più semplice collaborare con un
altro autore, Tullio Pozzan, che
era appena tornato a Padova dopo
aver contribuito alla scoperta del
quin2 durante il suo post-doctoral
stage a Cambridge. Io scrissi subito a Pozzan e così cominciò un
altro periodo della mia ricerca,
quello del Ca2+.
Inizialmente Pozzan e io ci incontravamo nel mio e nel suo laboratorio quasi tutte le settimane
per fare esperimenti insieme. Il
primo lavoro, uscito su PNAS nel
1984, sempre sul’azione dell’alatrotossina nei sinaptosomi e
PC12, includeva anche la collaborazione con Wieland Huttner, oggi
al Max Plank Institute di Dresda,
e con Roger Y. Tsien, l’inventore
dei coloranti del Ca2+ e di molte
altre molecole “magiche”, premiato con il Nobel della Chimica nel
2004. Successivamente, insieme
Quaderni della SIF (2013) vol. 36 - 65
al post-doc canadese Heimo Scheer, che oggi ha un ruolo nell’industria farmaceutica americana,
continuammo a lavorare sull’alatrotossina identificando per la
prima volta l’esistenza e la natura
di uno specifico recettore. Inoltre,
insieme a Francesco Di Virgilio e
Sarino Rizzuto, (oggi Professori
di Patologia uno a Ferrara, l’altro a Padova) e con Lucia Vallar
(oggi associata a Milano) cominciammo a studiare altri processi
legati al Ca2+, incluse l’attivazione
del recettore muscarinico M1, del
recettore dopaminergico D2, e di
canali del Ca2+ voltaggio dipendenti. Infine, con la collaborazione di
Lucia Vicentini, e con i miei studenti/post doc Atanasio Pandiella,
ora Professore a Salamanca, e Michele Magni dell’Istituto Tumori
di Milano, affrontammo gli effetti
Ca2+-mediati dei fattori di crescita,
NGF, EGF, FGF, PDGF.
Contemporaneamente
allargammo al patch clamp il nostro
potenziale tecnologico stabilendo
una collaborazione con il neurofisiologo Enzo Wanke (Professore
di Fisiologia alla Bicocca); mentre con Antonio Malgaroli (ora
Professore di Fisiologia nella mia
Università) sostituimmo il quin-2
con il Fura-2, un colorante (fornito a Pozzan direttamente da Roger
Tsien) con cui è possibile lavorare
su singola cellula. Questo ci permise di avere accesso, prima di
molti altri laboratori, a processi
come le oscillazioni e le onde di
Ca2+.
Se non vi siete persi nella selva dei risultati di questo periodo,
magari mi chiederete quali io consideri più importanti. Oltre alla
prima dimostrazione dei recettori
dell’IP3 nel reticolo endoplasmatico, una collaborazione con Sol
Snyder e il suo gruppo, penso che
sia stata importante la prima proposta di eterogeneità del deposito
intracellulare del Ca2+ a rapido
scambio. In questo caso la nostra
idea (collaborazione con Pompeo
Volpe di Padova e Karl Heinz Krause di Ginevra), che prevedeva l’e66 - Quaderni della SIF (2013) vol. 36
sistenza di un organello separato
dal reticolo, il calciosoma, non era
corretta. Però ricerche successive
hanno dimostrato che una eterogeneità esiste, ed è essenziale per
l’omeostasi del Ca2+, tra varie zone
del reticolo. Un altro risultato importante è stata l’identificazione di
una corrente di Ca2+ a rapida inattivazione nei neuroni attivati con
acetilcolina attraverso un recettore M1. Infine diverse reviews scritte in questo periodo hanno avuto
impatto nella letteratura, da quella che, nel 1987, proponeva per la
prima volta l’esistenza di canali di
superficie attivati da secondi messaggeri, a quella del 1994 che riassumeva le nostre idee sull’omeostasi del Ca2+. Quest’ultima review
è stata il punto di riferimento di
molti laboratori, come dimostrato
dalle oltre 1000 citazioni che ha
ricevuto.
5. Intermezzo
Intorno al 1992-1993 la collaborazione con il laboratorio di
Pozzan cominciò ad allentarsi.
A Padova avevano continuato ad
affinare le tecniche del Ca2+, raggiungendo risultati eccellenti a
cui io non potevo contribuire in
modo significativo. Naturalmente
abbiamo continuato a sviluppare
insieme alcune ricerche che però,
nel laboratorio, si sono affiancate
ad altre iniziative. Sul Ca2+ e su
sviluppi della microscopia elettronica ho collaborato con il gruppo
di Fabio Grohovaz, ora Professore
di Fisiologia nella nostra Università, e con Pompeo Volpe, associato
a Padova. Emilio Clementi (oggi
Professore di Farmacologia a Milano), all’inizio un mio studente
di dottorato, ha prima sviluppato
ricerche sul Ca2+ per poi passare,
dopo il suo stage nel laboratorio di
Salvador Moncada a Londra, allo
studio dell’NO, che ha poi proseguito in modo indipendente. In
questo periodo l’iniziativa di maggiore impatto è stata l’introduzione nella letteratura del concetto di
kiss-and-run, un nuovo modo di
concepire la dinamica ultrarapida
della liberazione di neurotrasmettitori da parte di neuroni e cellule
neurali. Per noi il concetto non era
nuovo, anzi negli anni precedenti lo aveva sostenuto soprattutto
Bruno Ceccarelli (Fig. 2), che però
purtroppo era mancato nel 1988.
Di conseguenza nella letteratura
non era entrato. Discutendo con
gli allievi di Ceccarelli, che dopo la
sua morte si erano collegati al mio
laboratorio, Dino Fesce, oggi Professore di Fisiologia all’Università
dell’Insubria, Flavia Valtorta, oggi
Professore di Farmacologia nella
mia Università, e Fabio Grohovaz,
ci rendemmo conto che rischiavamo di farci soffiare il concetto.
La nostra review (vedi lo schema
nella Fig. 2), basata sull’evidenza complessiva accumulata negli
anni, ebbe subito molto successo.
Rapidamente kiss-and-run diventò un concetto generalmente accettato, esteso (seppure in modo
distorto) anche all’immunologia.
Oggi non tutti si ricordano che,
per primi, lo abbiamo introdotto
noi. Naturalmente noi siamo contenti lo stesso, anzi forse ancora di
più.
Nel frattempo era successo
un evento inaspettato. Le cellule PC12 hanno l’inconveniente di
essere eterogenee. Per risolvere il
problema Emilio Clementi aveva
isolato un gran numero di cloni
che poi erano stati caratterizzati da lui e da Daniele Zacchetti,
oggi ricercatore del San Raffaele.
Tra questi cloni Emilio e Daniele
identificarono il numero 27 che
era incapace di accumulare dopamina, non esprimeva le proteine
delle dense-core vesicles e non
rispondeva alle stimolazioni con
la liberazione di neurotrasmettitori. All’inizio (1992) questo clone
sembrò semplicemente “pigro”.
Qualche anno dopo, però, uno
studio approfondito dimostrò che
al clone mancava spontaneamente
la neurosecrezione. Questo dimostrava che la competenza per la
neurosecrezione è indipendente
da altre caratteristiche del fenotipo delle cellule neurosecernenti.
Il clone PC12-27 diventò da allora
il focus principale della ricerca del
mio laboratorio.
6. Le cellule PC12-27: dalla elettrofisiologia alla biologia cellulare, alla farmacologia e alla geno-
mica
Un clone difettivo come PC1227 non era unico. Infatti, un clone
simile era già stato pubblicato, e
altri due sono stati riportati in seguito, uno da noi. Unica era invece
la specificità per le PC12. In nes-
Fig. 2. (figura sopra) Immagini di microscopia elettronica della placca neuromuscolare di rana preincubata con perossidasi (per marcare lo spazio extracellulare) e poi stimolata, ottenute da Bruno Ceccarelli nel 1973, che suggerivano per
la prima volta un riciclo diretto delle vescicole esocitate. La vescicola in A, dopo
la fusione, sembra inserirsi nella membrane plasmatica in un ciclo eso-endocitico
convenzionale. Quelle in B e C sembrano riciclare senza che avvenga l’allargamento del loro exocytic neck. A questo secondo processo abbiamo poi attribuito la
definizione di kiss-and-run. Da Ceccarelli B., Hurlbut W.P., Mauro A., J. Cell Biol.
57: 499-524, 1973.
Il modello in basso descrive in modo scherzoso i due tipi di ciclo exo-endocitico, a sinistra quello convenzionale, a destra kiss-and-run. Il primo ricicla la
membrana della vescicola inserita nella membrana plasmatica per mezzo di una
coated vesicle; il secondo attraverso la cattura rapida e diretta della vescicola esocitata, che non si mescola con la membrane plasmatica. Il rossetto suggerisce che
per procedere nel ciclo di destra sia necessario uno specifico priming superficiale
della vescicola. Da Fesce R., Meldolesi J., Nature Cell Biol. 1: E3-E4, 1999.
sun altra linea neurale, infatti, era
ed è mai stata riportata l’esistenza
di cloni spontaneamente difettivi
della neurosecrezione come il 27.
Da questo punto di vista, quindi,
occuparsi del PC12-27 ci assicurava un vantaggio notevole rispetto
ai nostri competitori. Inoltre il
difetto del clone riguarda la neurosecrezione, il processo di nostro
maggiore interesse. Attraverso il
suo studio si potevano avanzare
molte domande originali: nelle
PC12-27 manca solo la secrezione o è alterato tutto il membrane
traffic? E l’endocitosi? Quale è il
meccanismo che controlla l’espressione della neurosecrezione?
Non è che queste cellule esprimono processi che mancano nelle
PC12 wild type? E così via.
D’altro canto la decisione di
impegnare il laboratorio su questo
tema poteva essere assai rischiosa.
Mentre molti ricercatori sono interessati al Ca2+, chi mai si sarebbe
interessato ad un clone difettivo?
Purtroppo questa considerazione
è risultata vera. La nostra storia
sulle PC12-27 ha ricevuto molte
meno citazioni delle storie precedenti. Io la considero una storia
che nessuno avrebbe scelto in paesi come gli USA, dove la performance dei laboratori è valutata
quantitativamente ogni anno. Per
noi è stata una sfida che secondo
me è finita in modo favorevole.
In fondo essa ci ha permesso di
chiarire una serie di aspetti precedentemente oscuri o completamente sconosciuti. Nei nostri
studi il clone PC12-27 non è mai
stato analizzato da solo ma sempre in confronto parallelo con un
clone wild type. Riassumiamo qui
i risultati ottenuti elencati in base
agli approcci utilizzati.
Elettrofisiologia. In collaborazione con il gruppo di Haruo Kasai
in Giappone abbiamo analizzato
le cellule per platch clamping.
Abbiamo trovato che il PC 12-27,
seppur privo di neurosecrezione,
risponde a molte stimolazioni con
una intensa esocitosi di vescicole
Quaderni della SIF (2013) vol. 36 - 67
che però sono diverse dalle dense-core vesicles. Sono chiare, più
grandi delle vescicole synaptic-like, non sembrano contenere proteine, la loro esocitosi è insensibile
alle tossine tetanica e botulinica.
Queste caratteristiche, insieme a
risultati altrui, ci hanno permesso
di concludere che l’esocitosi regolata è un processo molteplice, che
coinvolge vari tipi di vescicole, diverse per caratteri specifici come,
per esempio, le proteine SNARE
della loro fusione.
Biologia Cellulare. Partendo dai
risultati del patch clamping siamo andati a caccia di marcanti
delle nostre vescicole esocitiche
misteriose. Lavorando insieme a
due studenti di dottorato, Barbara
Borgonovo ed Emanuele Cocucci,
i marcanti delle vescicole li abbiamo trovati. L’immunocitochimica
ha mostrato la loro distribuzione,
in puntini dispersi nel citoplasma
quando le cellule sono a risposo,
concentrati alla superficie dopo
stimolazione, quando la superficie
cellulare è ampliata dall’esocitosi.
Per questa ragione abbiamo chiamato le vescicole enlargosomi.
Quali cellule esprimono gli enlargosomi? Molte cellule, ma non i
neuroni maturi. A cosa servono?
La loro funzione sembra essere
molteplice: guarigione delle ferite di origine meccanica che sono
inferte a tutte le cellule; rapido
ampliamento della superficie necessario in molte condizioni (per
esempio, crescita di neuriti, stellation degli astrociti ecc.); liberazione di ectosomi (chiamati anche
shedding vesicles) dalla membrana plasmatica.
Farmacologia. Lo studio parallelo dei cloni di PC12 ha messo in
evidenza notevoli differenze. Le
PC12-27 non rispondono all’acetilcolina, ma mantengono una
risposta all’ATP e al glutammato.
Le risposte in termini di [Ca2+]
rivelano che le cellule defettive
i
mancano soprattutto di recettori e
di canali della membrana plasma68 - Quaderni della SIF (2013) vol. 36
tica.
Genomica. Quale è il meccanismo che comanda la competenza
o meno delle cellule neurali per la
neurosecrezione? Questo è stato il
problema fondamentale che ci siamo posti non appena ci siamo resi
conto delle caratteristiche delle
cellule PC12-27. In queste cellule non mancano solo le proteine,
ma anche i mRNA di membrane
e cargoes della neurosecrezione.
Ne abbiamo dedotto che il difetto
doveva essere localizzato a livello trascrizionale. Nel laboratorio,
Maria Luisa Malosio, oggi ricercatore del CNR, studiò senza successo il possibile coinvolgimento di
una serie di fattori di trascrizione.
Il successo arrivò solo nel 2006,
quando divennero disponibili
anticorpi contro un ben noto repressore della trascrizione, REST
altrimenti detto NRSF. L’espressione di questo fattore varia molto
tra cellule nervose e non-nervose.
L’alto livello di REST nelle cellule
non-nervose preclude l’espressione di molti geni neuro-specifici.
Questi ultimi sono invece espressi
durante il differenziamento neurale quando REST diminuisce per
digestione proteasomica fino a livelli pressoché impercettibili. Dai
nostri dati REST appariva come
un ottimo candidato per spiegare
il fenotipo delle cellule PC12-27.
In questo caso, però, prima di riuscire a pubblicare i nostri dati
iniziali, siamo stati bruciati da due
gruppi inglesi. Il lavoro condotto
da Rosalba D’Alessandro, oggi ricercatore in un IRCCS in Puglia,
ci ha permesso comunque di dimostrare la scomparsa delle dense-core vesicles e di altre caratteristiche neurali nelle cellule PC12
wild-type trasfettate con REST; e
la ricomparsa delle vescicole nelle
PC12-27 down-regolate per il repressore (Fig. 3). Risultati che dimostrano definitivamente il ruolo
chiave di REST nell’espressione
del fenotipo neurosecretivo.
7. Ultime iniziative: ancora PC12-
27
Negli ultimi anni il nostro modello sperimentale PC12 wild type/
PC12-27 ci ha permesso di chiarire alcuni aspetti funzionali delle
cellule neurali. Collaborando con
il gruppo di Anna Mondino del
San Raffaele abbiamo dimostrato l’importanza di REST per la
proliferazione cellulare, spiegando come mai il fattore sia alto in
molti tumori del sistema nervoso.
Con Sara Negrini e Rosalba D’Alessandro abbiamo dimostrato che
il difetto delle PC12-27 in termini di differenziamento indotto da
NGF dipende dalla repressione,
da parte di REST, del p75NTR, il recettore comune alle neurotrofine.
Inoltre abbiamo ripreso lo studio
della trascrizione, condotto oltre
10 anni fa dalla Malosio con la tecnica del microarray, ampliandolo
con il RNA-Seq (collaborazione
con J. Garcia Manteiga e E. Stupka). Ne sono emersi nuovi aspetti
dipendenti da REST che spiegano,
tra l’altro, le differenze di segnalazione e di dinamica delle cellule
defettive. Ci resta da completare
lo studio dell’attività di splicing
dei cloni, un aspetto interessante perché abbiamo già identificato alcuni fattori specifici espressi
in modo differenziale dalle PC12
wild type e defettive. Il laboratorio, però è stato chiuso il febbraio
scorso. Quindi posso ancora pensare, ma non fare esperimenti.
8. Summing-up sulla mia ricerca
Se avete avuto la pazienza e la
tenacia di leggervi tutta la mia storia magari vi domanderete (come
peraltro hanno fatto molti prima
di voi): ma questo Meldolesi è uno
che cambia interessi troppo spesso, è un superficiale che con la sua
ricerca non può avere impatto.
Personalmente non sono d’accordo. Da quando sono diventato un
“ricercatore professionista” il processo che mi ha sempre interessato è stata la secrezione regolata,
vista soprattutto dal punto di vista
delle interazioni tra membrane.
Questo processo sono andato a
studiarlo da molti punti di vista,
in molti tipi di cellule, con molte
tecnologie. È vero che il mio approccio non è stato privo di rischi,
e che non sempre me ne sono reso
conto. È vero che un paio di volte
ho mancato importanti risultati.
È anche vero che diversi risultati
sono rimasti finora senza riscontro nella letteratura, e che da un
punto di vista tecnologico ed applicativo il mio laboratorio è sempre stato debole. D’altro canto
credo che la mia ricerca, nel suo
complesso, sia stata libera, originale e di buon successo (>100
inviti per seminari e presentazioni a Congressi; >18.000 citazioni;
HI 74), tre cose che mi piacciono
molto. Se fossi stato negli USA
avrei dovuto avere più disciplina e
“profondità”. In Italia me la sono
cavata. Non sempre ho avuto abbastanza general vision dei problemi. Beh, sono sereno lo stesso.
Per fare questa ricerca ho preferito avere un laboratorio piccolo,
che richiedeva finanziamenti modesti e mi permetteva di seguire
direttamente tutti gli esperimenti.
Come avete visto dalle citazioni ho
avuto la fortuna di crescere molti ricercatori brillanti, italiani e
stranieri. Quando sono diventati
grandi, con esperienza internazionale, io ho sempre preferito che si
mettessero in proprio, come ricerca e come carriera. Oltre che delle
poche ed eccellenti collaborazioni
di cui vi ho parlato il laboratorio è
vissuto del lavoro di studenti, universitari e di dottorato, e di postdoc. La continuità è stata assicurata da due tecniche bravissime,
prima Giuliana Gatti, poi Gabriella Racchetti, che partecipavano
direttamente alle ricerche e firmavano i lavori. Quando il laboratorio si è chiuso tutti hanno trovato
altrove una collocazione adeguata
per continuare la loro ricerca.
sato di più in tutta la mia carriera.
In parallelo, però, ho lavorato anche all’Università di Milano, come
Assistente dal 1966, Professore Incaricato dal 1971, Professore Ordinario dal 1981. Ho già accennato
al fatto che la mia prima didattica
è stata l’insegnamento della Biologia Generale nella Facoltà di Farmacia. Poi, nel 1976 sono passato
ad insegnare la Farmacologia in
Medicina e poi, per due anni, la
Chemioterapia. Nel 1984 l’Istituto
San Raffaele, un IRCCS che all’epoca ospitava una sezione della
Medicina di Milano, ha richiesto
un Professore Ordinario per insegnare la nostra disciplina. I miei
colleghi con maggiore anzianità
non erano interessati, così sono
andato io, e nel 1987 ho trasportato al San Raffaele anche il mio
laboratorio. Qui sono successe
molte cose che vi racconterò in un
capitolo successivo.
Nel 1998 il San Raffaele ha
aperto la Facoltà di Medicina della
sua Università privata, l’Università
Vita-Salute San Raffaele, sviluppata secondo un piano elaborato da
un gruppo di docenti, me compreso. Logicamente io ho chiesto
il trasferimento ed ho continuato
ad insegnare fino al 2010. Al momento sono un Professore Emerito, quindi compaio nell’Annuario
e basta. Con l’insegnamento ho
chiuso, ho deciso di averne fatto
abbastanza. Questo non perché
non mi piacesse, anzi. Mi è piaciuto soprattutto cercare di capire e di farmi capire dagli studenti,
stabilire con loro rapporti seri e
senza fronzoli, cercare di insegnare “bene”, essere disponibile. Per
chi, come me, lavora in prossimità
dell’Ospedale della propria Università l’incontro con ex-studenti
è quasi quotidiano. Beh, spesso è
anche piacevole.
Cosa ho fatto all’Università?
Lavoro editoriale e di
valutazione; riconoscimenti
Finora vi ho parlato soltanto
della mia ricerca. Mi sembra giusto
perché è la cosa che mi ha interes-
Il lavoro editoriale mi ha sempre interessato, anche perché sono
convinto che faccia parte del lavo-
ro di ricerca. Ho cominciato alla
fine degli anni ’70 come membro dell’Editorial Board di Exp.
Cell Res. per passare poi al J. Cell
Biol. che mantengo ancora. Con
lo stesso ruolo ho lavorato per il
Brit. J. Pharmacol., per EMBO J.,
per Trends in Pharmacol. Sci. Nel
complesso a gestire i lavori inviati per la pubblicazione si impara.
Inoltre si acquisisce una visione
obbiettiva, si è utili al giornale
e, nel piccolo, allo sviluppo della
scienza: quindi si tratta di un lavoro che vale senz’altro la pena di
fare.
Nella valutazione della ricerca
mi sono impegnato parecchio. In
Italia sono stato per 3 anni nella
Commissione PRIN appena insediata, quando c’era molto da lavorare e anche da inventare. Per darvi un’idea, abbiamo inserito per la
prima volta la revisione da pari, di
cui al Ministero non avevano mai
sentito parlare.
In quell’occasione ho messo insieme un panel di 6000 ricercatori
internazionali disponibili a fare i
revisori, che poi è scomparso nelle
voragini della burocrazia. Considero il PRIN una delle esperienze più eccitanti della mia attività
valutativa. Scegliere i revisori con
obbiettività ed equilibrio, interpretare le loro opinioni, evitare gli
imbrogli, sono state imprese non
da poco. Se poi le cose del PRIN si
sono deteriorate non è dipeso dal
nostro lavoro iniziale.
Il PRIN non è stata la mia sola
esperienza valutativa in Italia.
Sempre al MIUR, ho lavorato per
due anni in una Commissione
per la valutazione delle iniziative
imprenditoriali di docenti, le così
dette spin-off. Sono stato in varie
Commissioni di valutazione della
ricerca condotta in Istituti di Università, del CNR, e di Regioni; nel
Comitato di Valutazione dell’Università di Ferrara; nelle Commissioni di Banche e di Fondazioni,
pubbliche private. Le esperienze
sono state assai variabili. Certe
volte si aveva l’impressione di parlare, parlare, parlare senza incideQuaderni della SIF (2013) vol. 36 - 69
re minimamente sulla situazione.
Altre volte, invece, le cose andavano meglio o davvero bene. La
migliore esperienza è stata forse
quella, triennale, di responsabile
della Biologia e Medicina alla Banca CARIPARO di Padova.
Con i colleghi che avevo coinvolto abbiamo fatto un lavoro serio, approfondito e molto apprezzato. Nel complesso la mia opinione sul lavoro di valutazione in Italia è abbastanza positiva. Potrebbe
migliorare ancora moltissimo, anche perché i modelli avanzati oggi
ci sono, appunto in alcune Fondazioni, bancarie e no, a Telethon e
in qualche altra istituzione.
A livello europeo ho lavorato
nelle Commissioni di finanziamento della EU e di singoli stati;
in Commissioni per la verifica del
lavoro fatto da Istituti e da intere
Facoltà in Francia, Austria, Germania, Svizzera. Inoltre sono stato nei Comitati triennali di valutazione dell’Università di Losanna
e del Neuroscience Institute di
Gottingen. Qui naturalmente la
situazione è molto migliore della
nostra. Di conseguenza l’importanza della mia partecipazione era
probabilmente minore.
Quanto ai riconoscimenti, io
ho un’opinione diciamo scaramantica. Mi piacciono quelli che
arrivano inattesi, perché chi ti ha
appoggiato magari non lo conosci
neanche.
Così mi è successo per l’elezione all’EMBO (1984), all’Accademia del Lincei (1991), alla European Academy of Sciences (1992);
per il Golgi Neuroscience Award
della Fidia Research Foundation
(Washington, 1990); il Premio
Feltrinelli dell’Accademia dei
Lincei (1994); il Purkinje Award
della Czech Academy of Sciences
(1995); la Medaglia d’Oro del Presidente della Repubblica ai Benemeriti della Cultura e della Scienza (1998). Un paio di altre volte ho
cercato di farmi un po’ di campagna elettorale, e non sono stato
eletto/premiato. Quindi è meglio
evitare, secondo me.
70 - Quaderni della SIF (2013) vol. 36
I “lavori di servizio”
Voglio concludere con le Presidenze di Società scientifiche
e le Direzioni di Istituti, che mi
sembra giusto raggruppare sotto
questa denominazione. Io infatti
ho sempre cercato di defilarmi da
questi “lavori”, così diversi dalla
ricerca. Comunque non li ho rifiutati, anzi in questo momento mi
piacciono molto più di prima.
Sono stato Presidente della
SINS, Società Italiana di Neuroscienze (1999-2001) e della FISV,
Federazione Italiana Scienze della Vita (2003-2008). Una Società
multidisciplinare che raggruppa
biologi cellulari/molecolari, morfologi, fisiologi, farmacologi, neurologi e psichiatri, e una Federazione che, sotto la mia Presidenza,
includeva 14 Società. Oltre che
per la gestione e per la strategia,
quindi, il Presidente doveva impegnarsi a mediare tra i differenti
interessi e le diverse culture dei
ricercatori/società afferenti. Per
questo, secondo me, è stato importante mostrarsi equilibrato e
corretto. Se alla fine si fanno le
scelte giuste non ci saranno ragioni di conflitto e le Società/Federazioni funzioneranno bene. Nel
complesso, quindi, si è trattato di
esperienze positive.
Nel 1987, al momento del mio
trasferimento al San Raffaele, un
Ospedale di alto livello, riconosciuto dal Ministero della Salute
come IRCCS, mi trovai ad essere
il solo ricercatore senior non clinico. Questo mi pose in una situazione di responsabilità, soprattutto quando il Presidente Don Luigi
Verzé decise di costruire, accanto
all’Ospedale, un Istituto di ricerca
preclinico, il DIBT, Dipartimento
Biologico e Tecnologico, per ospitare numerosi gruppi di ricerca,
di base e transazionali, insieme a
gruppi di ricerca di industrie, biotec e spin-off companies, nonché
i servizi (mensa, stabulario) e le
facilities, scientifiche e no, di supporto alla ricerca (esempi: bioimaging, microsequencing, brevetti,
trasferimento tecnologico ecc.).
Si trattava insomma di un Parco
Scientifico strettamente focalizzato sulla ricerca biomedica.
Dopo avere verificato quanto
fosse difficile trovare, all’esterno del San Raffaele, un Direttore
Scientifico impegnato sulla strategia di eccellenza ed efficienza
che avevamo sviluppato, decisi
di accettare l’offerta di diventare il Direttore Scientifico del DIBIT, ponendo però due condizioni
sempre rispettate da Don Verzé:
nessun condizionamento extrascientifico al mio lavoro e un Consiglio Scientifico composto da 3
scienziati di altri paesi europei.
Quest’ultimo strumento, che non
era mai esistito al San Raffaele, fu
poi essenziale per il successo del
DIBIT, soprattutto per la continua
valutazione della ricerca e per rendere possibili decisioni impopolari
che di tanto in tanto si resero necessarie.
La mia impresa di Direzione del
DIBIT cominciò nel 1990 e durò
fino al 1998, quando fui sostituito da un altro Direttore, secondo
una politica di turnover che al San
Raffaele è la regola. Le decisioni in
tema di attrezzature, struttura dei
laboratori, organizzazione del trasferimento tecnologico, incontri
con scienziati e imprenditori interessati a venire ecc. vennero sempre prese insieme al Direttore Operativo Antonio Siccardi. L’aspetto
più delicato, e quello di maggior
successo del nostro lavoro, fu la
selezione dei ricercatori. Anche
se l’Istituto non funzionava ancora fummo in grado di selezionare
alcune decine di ottimi scienziati
che entrarono a fare parte dell’impresa fidandosi della nostra parola.
Molti sono ancora qui, e lavorano
con lo stesso impegno dell’inizio,
e con molta più esperienza. L’inaugurazione del DIBIT nel 1992
rimane tra i miei ricordi più belli.
Si trattò di una cerimonia scientifica, con pochissime formalità e
pochissima politica. Tra gli invitati
c’era anche George Palade che fece
un discorso molto incoraggiante.
Articoli sulla cerimonia apparvero
sui maggiori giornali scientifici
compresa Nature. Insomma, il debutto del DIBIT fu un evento davvero memorabile.
Fin dall’inizio le regole per la
gestione dell’Istituto furono molto stringenti. I fondi disponibili
alla Direzione erano molto modesti, utili soltanto per occasioni di
emergenza. Per il resto i gruppi
si basarono, e hanno continuato a
farlo fino ad ora, sui propri grants.
Mettemmo subito in opera uno
straordinario programma di seminari, tenuti sia da colleghi esterni
invitati da singoli ricercatori, sia
dai ricercatori interni che si impegnarono a presentare il loro lavoro
almeno una volta all’anno. Tutti i
seminari erano, e sono ancora,
tenuti in inglese per sottolineare,
soprattutto ai giovani, che la lingua è uno strumento indispensabile della ricerca.
Un altro aspetto, per me molto importante fu lo sviluppo del
Parco Scientifico. Il training
cui fui costretto per capire, programmare, sviluppare un lavoro
che non avevo mai fatto prima fu
considerevole, ma mi permise di
ampliare la mia visione del mondo della scienza. Un processo che
oggi, per me, è risultato prezioso.
Dopo essere andato in pensione
come docente nel 2010, un evento che fu festeggiato
da un Meeting straordinario, organizzato
dai miei amici, con
speakers
eccellenti
tra cui 3 Premi Nobel
e quasi 1000 partecipanti, avevo già in
programma di chiudere il mio laboratorio. Dato che lavorare mi piace ancora, e
molto, mi domandavo
cosa avrei fatto quando avessi esaurito gli
ultimi risultati e le
ultime reviews che
mi proponevo di scrivere. Quasi due anni
or sono, dopo avere
spiegato in pubblico la mia visione
della ricerca in Italia, fui avvicinato dall’On. Patriciello, Presidente
dell’IRCCS Neuromed di Pozzilli
(IS), un Ospedale ed un Centro
di ricerca di alto profilo specializzati in Neuroscienze, localizzati
tra Napoli e Roma. Patriciello mi
offrì di occuparmi, da un punto
di vista scientifico, degli sviluppi
che prevedeva per il suo Istituto.
Da quel momento ho un nuovo,
eccitante lavoro. Non mi aspettavo che l’esperienza scientifica e la
conoscenza, anche critica, della
comunità dei ricercatori avessero
un’importanza strategica ed operazionale così grande. Mi sono
inserito benissimo al Neuromed,
non solo nella governance, ma
anche nel sistema scientifico. Abbiamo già avuto diversi successi, e abbiamo progetti in tutte le
direzioni: collegamenti sinergici
con Università e altri Istituti, sviluppo di facilities, miglioramento
dell’immagine dell’Istituto.
Quando, nei prossimi mesi,
presenteremo a Bruxelles questa
mia ultima avventura spero di
poter concludere che la scienza è
necessaria per sviluppare iniziative di alto profilo; e che queste
iniziative, se esistono le “persone
giuste”, sono possibili non solo in
Lombardia, dove ho lavorato finora, ma in (quasi) tutta Italia.
Questa “storia” è dedicata a tutti quelli che, negli anni, hanno lavorato/collaborato/interagito con
il mio laboratorio, dal Prof. Trabucchi all’ultimo studente.
Una menzione particolare a
Francesco Clementi (Cone per gli
amici), che mi ha insegnato come,
lavorando, ci si può anche divertire; a Bruno Ceccarelli, che mi ha
introdotto alla neurobiologia; e
a Tullio Pozzan, che ha affinato i
miei concetti di dinamica, equilibrio ecc. ecc.
■
Fig. 3. Ricomparsa della neurosecrezione di vescicole esocitiche nelle cellule
difettive ad alto REST in cui il livello e l’attività del repressore sono stati ridotti.
Dopo la trasfezione del domain di REST che lega il DNA la cellula difettiva
mostra la ricomparsa nel citoplasma di punti positivi per la cromogranina B e la
sinaptotagmina1 (pannello c). Dopo stimolazione con uno ionoforo del Ca2+ le due
proteine compaiono in superficie come atteso dopo esocitosi di vescicole densecore (frecce nei pannelli g ed h). Queste vescicole sono visibile nelle cellule trasfettate anche al microscopio elettronico (frecce nei pannelli d ed e). La immunocitochimica con particelle di oro conferma la presenza di cromogranina B al loro
interno (pannello f). Da D’Alessandro et al., J. Neurochem. 105: 1369-1383, 2008.
Quaderni della SIF (2013) vol. 36 - 71
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