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LEZIONE “IL DIRITTO SINDACALE PROF . FRANCESCO MANICA

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LEZIONE “IL DIRITTO SINDACALE PROF . FRANCESCO MANICA
LEZIONE:
“IL DIRITTO SINDACALE”
PROF. FRANCESCO MANICA
Il diritto sindacale
Indice
1 IL SISTEMA DI RELAZIONI INDUSTRIALI ED IL DIRITTO SINDACALE --------------------------------- 3 2 IL SINDACATO: LA SUA STORIA E LA SUA STRUTTURA ORGANIZZATIVA --------------------------- 5 3 LE FORME DI RAPPRESENTANZA DEI LAVORATORI IN AZIENDA --------------------------------------- 7 4 L’ATTIVITÀ SINDACALE NEI LUOGHI DI LAVORO ------------------------------------------------------------ 10 5 LA LIBERTÀ SINDACALE. I DIRITTI SINDACALI E LA RAPPRESENTANZA SINDACALE. -------- 13 6 LA REPRESSIONE DELLA CONDOTTA ANTISINDACALE ---------------------------------------------------- 18 Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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Il diritto sindacale
1 Il sistema di relazioni industriali ed il diritto
sindacale
Il diritto sindacale è quella parte del diritto del lavoro che concerne il sistema di norme
strumentali, poste dallo Stato o dalle stesse organizzazioni dei lavoratori e degli imprenditori, che,
nelle economie di mercato, disciplinano la dinamica del conflitto di interessi derivante dalla
ineguale distribuzione dei poteri nei processi produttivi.
Il diritto sindacale ha iniziato a svilupparsi a partire dalla seconda metà del 19° secolo e
riflette, nella propria evoluzione, quella contrapposizione tra capitale e lavoro che fu una delle
prerogative della rivoluzione industriale.
Si tratta, quindi, di un fenomeno tipicamente moderno che sembrava trovare nel passato
fenomeni sociali analogicamente assimilabili.
Esso si è evoluto parallelamente alla storia del movimento operaio, con la rivoluzione
industriale, a partire dalla II° metà del XIX secolo. Si è ritenuto, in passato, di porre qualche
analogia con il diritto autonomo dei gruppi professionali del Basso Medioevo; tale analogia non
poteva reggere perché, caratteristica essenziale dell’attività economica e produttiva moderna è
l’esistenza di un “conflitto d’interessi” tra i lavoratori e gli imprenditori da cui essi dipendono.
Questi ultimi, disponendo dei mezzi di produzione e, quindi, del potere di decisione sulla loro
organizzazione ed utilizzazione, hanno, nei confronti dei lavoratori, una posizione di preminenza
per contenere e contrastare l’organizzazione sindacale. Con l’espressione di “conflitto industriale”
viene generalmente designato il conflitto tra capitale e lavoro, come elemento della lotta di classe
tra chi ha la proprietà dei mezzi di produzione e chi , non avendola, è obbligato a cedere ai primi la
propria forza-lavoro. Gli studi di diritto sindacale hanno lo stesso oggetto di un’altra disciplina che,
sorta e sviluppatosi nei paesi anglosassoni, ha preso il nome di “relazioni industriali”. Con essa si
indica l’insieme delle interrelazioni fra tre soggetti: gli imprenditori, i prestatori di lavoro
organizzati e gli organi pubblici, da cui deriva un complesso di norme dirette a regolare il sistema
produttivo. Nel diritto sindacale un importante aspetto è quello dell’effettività della norma, che
poggia sulla costanza del consenso sociale e dell’opera di mediazione politica per dare ad esso
stabilità e continuità. Vi è, dunque, una rilevante analogia con il diritto internazionale dove, anche
se la norma è garantita da sanzioni, la loro esecuzione passa attraverso una mediazione politica.
Dopo l’abrogazione dell’ordinamento corporativo (1926-1944) e l’emanazione della Costituzione
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
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(L. 22.04.1941/n. 633)
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del 1948, che ha introdotto principi fondamentali, in primo luogo la libertà sindacale (art. 39) e il
diritto di sciopero (art. 40), in Italia il legislatore ordinario si è astenuto per un lungo periodo
dall’intervenire in materia di rapporti sindacali. Solo dopo più di un ventennio è emanata la legge n.
300/1970 (cosiddetto Statuto dei lavoratori), e sono trascorsi ulteriori 20 anni per arrivare alla legge
n. 146/1990 sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali. Altri interventi legislativi si sono occupati
della materia solo per aspetti e per settori particolari. Di conseguenza grande rilievo ha assunto
l’attività di sistemazione e razionalizzazione, svolta dalla dottrina e dalla giurisprudenza.
Quest’ultima ha colmato molte lacune legislative, elaborando, ad esempio, la nozione di un
contratto collettivo di diritto comune. Esse si sono rivalse della cosiddetta “politica del diritto” per
cui, nell’interpretazione di una disposizione, venivano considerate più opzioni, in base a valutazioni
di carattere generale. Le relazioni industriali sono rette da un ordinamento che ci permette di
comprenderle nella loro evoluzione nei diversi settori produttivi, si tratta del cosiddetto
“ordinamento intersindacale”. Può accadere, comunque, che la stessa materia sia regolata sia da
norme dell’ordinamento statale, sia da norme dell’ordinamento intersindacale. Finché le due
valutazioni normative coincidono, il problema è di scarsa rilevanza; quando ciò non accade, però,
può crearsi quel conflitto di lealtà che rende ineffettiva la norma dell’uno o dell’altro ordinamento
nonostante la sua validità per l’ordinamento cui appartiene. Può, infine, accadere che le due
valutazioni normative, ancorché diverse, non siano in conflitto (per esempio il contratto collettivo è,
per l’ordinamento giuridico dello Stato, un contratto regolato, come gli altri, dal TITOLO II del
libro IV del codice civile; nell’ambito dell’ordinamento intersindacale è, invece l’atto fondamentale
che regola i rapporti tra imprenditori e sindacati). Dopo le trasformazioni del sistema produttivo, il
legislatore italiano è passato dal Garantismo individuale a quello collettivo: la legge, cioè, continua
a garantire ai lavoratori alcune tutele, ma contemporaneamente attribuisce alle parti sociali,
mediante contrattazione collettiva, la possibilità di apportarvi “deroghe”, quando ritenuto, da esse,
necessario.
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Il diritto sindacale
2 Il sindacato: la sua storia e la sua struttura
organizzativa
Nell’ultimo quarto del diciannovesimo secolo, le profonde trasformazioni economiche e
sociali determinate dalla rivoluzione industriale posero in primo piano l’esigenza di una disciplina
specifica del contratto e del rapporto di lavoro, per i quali fino ad allora si riteneva sufficiente il
diritto comune dei contratti.
Il Codice Civile dell’ottocento si limitava a vietare l’assunzione sine die dell’obbligo di
lavorare (art. 1628 del Codice Civile del 1865), mentre al fenomeno del lavoro subordinato erano
tradizionalmente applicate, per analogia, le disposizione dettate per il contratto di locazione, ad una
specie del quale – la locazione di opere – veniva, appunto, ricondotto il contratto di lavoro (cfr. art.
1627 Codice Civile del 1865).
Eppure, anche da noi, il crescente fenomeno dell’industrializzazione rendeva sempre più
acuto il conflitto tra gli interessi inevitabilmente contrapposti di chi detiene i mezzi di produzione e
di chi, invece, deve lavorare per vivere.
In questa situazione, l’ordinamento giuridico mancò di assolvere a qualsiasi funzione
equilibratrice, assumendo un atteggiamento che privilegiava gli interessi pubblici (equilibrio del
mercato) e non la tutela dei lavoratori.
Orbene, tale tutela fu realizzata mediante la spontanea coalizione degli stessi interessati e,
cioè, mediante l’associazionismo operaio. Ed infatti, ben presto i lavoratori si resero conto che la
debolezza economica e sociale che caratterizzava la posizione di ognuno di loro nei confronti del
proprio datore di lavoro poteva essere superata esclusivamente con una azione collettiva.
Nacque così, anche da noi, il sindacato che è appunto, tradizionalmente, la volontaria, e per
ciò libera, associazione dei lavoratori alla quale è affidata la tutela degli interessi collettivi di questi.
Dopo la sua costituzione, il sindacato italiano, mediante il ricorso alla sciopero, riuscì ad
imporre il suo riconoscimento alla propria controparte.
Lo sciopero rappresentava l’unico mezzo per consentire ai sindacati di affermare il proprio
ruolo. Si trattava di uno strumento particolarmente duro che non trovava spazio nel nostro
ordinamento il quale lo considerava un vero e proprio reato.
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Anche alla luce delle descritte implicazioni, lo sciopero non deve essere visto in chiave
assolutamente negativa, dovendosi, al contrario, sottolineare lo spirito e l’obbiettivo che i sindacati
intendevano perseguire.
Lo scopo ultimo era quello di giungere alla stipulazione del contratto collettivo, quale
strumento per l’affermazione di un regime di tutela minima e di sostanziale equilibrio tra datori e
prestatori.
Inizialmente non è stato facile per i sindacati assolvere a questa funzione.
Il principio oggi sancito dall’art. 1372 c.c., secondo cui il contratto collettivo, come res inter
alios acta, non era idoneo a produrre effetti nella sfera giuridica dei soggetti che non ne sono parte,
impediva l’applicazione del contratto collettivo alla globalità dei rapporti di lavoro. Il predetto
contratto, poteva estendersi ai soli soggetti firmatari diretti o, più verosimilmente, agli aderenti alle
associazioni firmatarie.
Tutti coloro che non avevano, direttamente o indirettamente, aderito al contratto collettivo
non vi erano soggetti e potevano regolamentare il proprio rapporto lavorativo secondo le modalità
ritenute più idonee a soddisfare i propri interessi.
Detta possibilità era riconosciuta anche ai soggetti firmatari, i quali potevano modificare (sia
in meglio che in peggio), mediante il contratto individuale, le statuizioni del contratto collettivo.
L’applicazione parziale del contratto collettivo, oltre alla possibilità di derogarvi, sembra
andare contro alla ratio ed alla funzione del contratto stesso. A tal fine è necessario che la sua
efficacia si eserciti nei confronti di tutti i lavoratori nell’interesse dei quali è stato stipulato.
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Il diritto sindacale
3 Le forme di rappresentanza dei lavoratori in
azienda
I lavoratori si organizzano a fini di autotutela dei propri interessi, sia fuori dei luoghi di
lavoro, come all’interno di questi. L’esigenza di un’adeguata organizzazione interna all’azienda, fin
dai primi anni del ‘900, fu la creazione di un canale di rappresentanza, separato da quello dei
sindacati. Il cosiddetto doppio canale di rappresentanza, contrapposto al canale unico, cioè ai
sistemi di organizzazione della rappresentanza sindacale. L’espressione più antica di rappresentanza
dei lavoratori in azienda, è data dalle commissioni interne che furono regolate, per la prima volta,
nel 1906. Durante il periodo fascista vennero soppresse, ma ripristinate, immediatamente dopo la
caduta del regime fascista (nel 1943) con un accordo che attribuiva loro un compito di
contrattazione collettiva a livello aziendale. Nel corso degli anni 68-69 nacquero e rapidamente si
affermarono nuove strutture di rappresentanza dei lavoratori all’interno delle imprese: i delegati e il
consiglio di fabbrica. Queste strutture sostituirono le commissioni interne, da cui si differenziavano
per la maggiore articolazione, che consentiva uno più stretto rapporto fra rappresentanti e
rappresentanti. Le tre maggiori confederazioni, allora riunite in una Federazione, riconobbero,
infatti, queste organismi come la propria struttura di base all’interno dei luoghi di lavoro, questa
forma di rappresentanza non è riconducibile interamente né al modello del doppio canale, né a
quello del canale unico, ma è un compromesso tra i due. Il delegato rappresenta i lavoratori
appartenenti ad uno stesso “gruppo omogeneo”, cioè ad un gruppo individuato dalla sua
collocazione nel processo produttivo e, dunque, da un elevato grado di omogeneità di interessi (i
lavoratori di uno stesso reparto , di uno stesso ufficio, ecc.). la sua elezione era libera da ogni
vincolo sindacale esterno. Il consiglio di fabbrica (o dei delegati) era formato da tutti i delegati di
una certa unità produttiva. Anche questa forma di rappresentanza, nel corso degli anni ’80, fu
sottoposta alla pressione per il cambiamento. Si ricordano anche le sezioni sindacali aziendali
(S.A.S.), erano, invece, degli organi che riproducevano, all’interno delle imprese, il principio
associativo proprio delle organizzazioni sindacali esterne, cioè era una esempio di modello di
rappresentanza a canale unico, poco diffuso. L’art. 19 dello S.d.l. attribuisce i diritti sindacali del
titolo III a generiche rappresentanze sindacali aziendali (R.S.A), senza regolarne la struttura, se
costituite ad iniziativa dei lavoratori nell’ambito dei sindacati individuati. I soli Requisiti richiesti,
perché si produca l’effetto della titolarità dei diritti sindacali, sono: 1) che la costituzione della
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Il diritto sindacale
rappresentanza sindacale aziendale avvenga “ ad iniziativa dei lavoratori”; 2) che essa operi
nell’ambito delle organizzazioni che rispondono ai requisiti indicati dall’art. 19. Numerosi contratti
collettivi riconobbero a questi organismi la titolarità dei diritti sindacali, sia quelli previsti dalla
legge, sia quelli ulteriori regolati dai contratti stessi. Dopo vari tentativi andati a vuoto, la
mediazione tra queste diverse istanze è stata trovata nelle Rappresentanze sindacali unitarie
(R.S.U.), previste dal protocollo tra Governo e parti sociali nel 23-07-93 e analiticamente regolate
da un accordo delle tre confederazioni con la confindustria nel dicembre dello stesso anno. Esse
possono istituirsi anche presso unità produttive minori (cioè con meno di 15 dipendenti). L’accordo
prevede che le organizzazioni sindacali firmatarie, o che vi abbiano successivamente aderito,
acquistino il diritto di promuovere la formazione delle R.S.U. rinunziando alla costituzione di
proprie R.S.A.. Così, da un lato, la R.S.U. subentra alla r.s.a. “nella titolarità dei diritti, permessi e
libertà sindacali” del TITOLO III dello Statuto. Dall’altro, un sindacato firmatario può revocare il
proprio riconoscimento della R.S.U. in un determinato luogo di lavoro – e costituire una propria
R.S.A. – solo dando disdetta dell’intero accordo interconfederale. L’iniziativa della costituzione
delle R.S.U. e del rinnovo, di regola ogni tre anni, può essere presa, anche disgiuntamente, dalla
R.S.U. di cui sta per scadere il mandato, da ciascuna delle associazioni sindacali firmatarie del
Protocollo e dell’accordo interconfederale e sindacati che aderiscono all’accordo e raccolgono un
numero di firme non inferiore al 5% dei lavoratori aventi diritto al voto. L’esclusione di gruppi
occasionali di lavoratori, serve ad evitare che le elezioni per le R.S.U. siano occasionali per regolare
eventuali contingenti dissidi interni alle organizzazioni stesse: il gruppo dissenziente di un
sindacato, infatti, per poter presentare una propria lista, dovrà formalizzare la propria uscita dallo
stesso attraverso la costituzione di una diversa associazione sindacale. Tra le forme di controllo, per
prevenire rischi di incoerenza nell’attività di contrattazione collettiva, vi è il fatto per cui solo 2/3
dei seggi sono ripartiti tra tutte le liste regolarmente presentate in proporzione ai voti conseguiti;
sull’altro 3° concorrono solo le liste presentate dai sindacati firmatari del contratto collettivo
nazionale applicato nell’unità produttiva. Il protocollo 23-7-93 spiega la sua efficacia sia nei
confronti del lavoro privato, sia di quello pubblico e ciò vale anche per l’impegno a costituire in
tutti i luoghi di lavoro le R.S.U. . Se nel settore privato l’accordo del 1993 è ancora vigente, nel
settore pubblico, la materia è stata regolata per legge, dal D. Lgs. n. 165/2001. Il decreto afferma
l’applicabilità anche all’interno delle pubbliche amministrazioni delle norme in tema di liberà ed
attività sindacale contenute nello S.d.l. e, tra esse viene, dunque, riconosciuto ai sindacati
maggiormente rappresentativi del settore pubblico il diritto a costituire proprie R.S.A., però,
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Il diritto sindacale
dichiara anche obbligatoria la costituzione di R.S.U. “in ciascuna amministrazione, ente o struttura
amministrativa”, che abbia almeno 15 dipendenti. Ciò implica che ciascun sindacato abbia la
facoltà, non l’obbligo, di partecipare alle elezioni delle R.S.U. o di rinunciarvi, mantenendo il
diritto di costituire la propria R.S.A., godendo direttamente dei relativi diritti sindacali. La
disciplina delle R.S.U. , rispettivamente, nel settore pubblico e in quello privato sono simili. L’art.
46 C., prevede il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione dell’impresa, ma è stata del
tutto carente la pressione delle forze sociali e politiche per l’emanazione di una legge che vi desse
attuazione. In un primo momento, tale mancata attuazione è stata dovuta alla ferma opposizione da
parte degli imprenditori ma, successivamente, anche alla acquisita convinzione, da parte dei
sindacati italiani, della inopportunità che rappresentanti dei lavoratori dipendenti fossero presenti
negli organi di gestione delle imprese. La rinunzia ad esercitare una pressione in questa direzione,
non ha impedito la ricerca di strumenti per far pesare in qualche misura gli interessi dei lavoratori
nei processi decisionali dell’impresa. ciò è avvenuto attribuendo ai lavoratori il diritto ad essere
informati preventivamente delle decisioni che l’imprenditore intende assumere su alcune materie o
di ricevere periodicamente informazioni complessive su dati come l’andamento occupazionale, gli
investimenti, ecc. A tal proposito, si ricordi il Protocollo IRI dell’’84, che ha rafforzato il diritto
d’informazione e creato procedure di consultazione del sindacato sulle scelte gestionali più
importanti. Vari sono stati i tentativi di introdurre una normativa comunitaria su uno statuto di
società europea nei cui organi vi fossero rappresentanze dei lavoratori. Fino ad oggi questi tentativi
hanno prodotto solo la Direttiva N. 45/’94 che ha ad oggetto, appunto, il diritto d’informazione e
alla consultazione dei lavoratori, ma limitatamente alle imprese e ai gruppi d’imprese “di
dimensioni comunitarie” (cioè con almeno 1000 lavoratori dipendenti nella Comunità e 150 per
Stato membro in almeno due Stati membri). In queste imprese, o gruppi d’imprese, la direzione
centrale deve negoziare, con una delegazione speciale in rappresentanza dei lavoratori, l’istituzione
di un comitato aziendale europeo con un’equivalente procedura d’informazione e consultazione,
decisa dalla delegazione speciale, composta da almeno un componente per ogni Stato membro in
cui opera l’impresa.
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Il diritto sindacale
4 L’attività sindacale nei luoghi di lavoro
Il Titolo III “dell’attività sindacale” (artt. 19… 27) prevede delle norme applicabili non
all’impresa, ma all’unità produttiva “ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio e reparto autonomo
che occupa più di 15 dipendenti”. In esso, il legislatore ha predisposto “misure di sostegno”
all’attività sindacale nei luoghi di lavoro che danno vita, in testa al soggetto tutelato, a pretese
configurabili come diritti soggettivi verso un altro soggetto, l’imprenditore, sul quale gravano gli
obblighi corrispondenti. L’art. 20 dispone che i lavoratori hanno diritto di riunirsi nell’unità
produttiva in cui prestano la loro opera. La riunione, nella forma dell’assemblea ha ricevuto una
disciplina specifica in quanto, a differenza di altri mezzi di espressione del pensiero, il suo
svolgimento implica la “collaborazione del datore di lavoro”. Questi, infatti, deve mettere a
disposizione quanto è necessario, affinché l’assemblea possa svolgersi: il locale o lo spazio idoneo,
il libero accesso ad esso, l’illuminazione, ecc.. Una riunione di altra natura (a scopo politico,
ricreativo, ecc.) non sarebbe, comunque, fuori dal campo di applicazione della legge e dovrebbe
ritenersi, anzi, legittima, purché non turbi il normale svolgimento dell’attività produttiva. Non
godrebbe, però, della copertura e delle agevolazioni previste per le riunioni di cui all’art. 20. il
diritto di riunirsi in assemblea incontra comunque, una serie di limiti: le assemblee si svolgono, di
regola, fuori dall’orario di lavoro; tuttavia esse possono aver luogo anche durante lo stesso, nei
limiti di 10 ore annue, per le quali va corrisposta la normale retribuzione, per favorire la
partecipazione dei lavoratori. Per impedire un uso poco responsabile del diritto di assemblea, la
norma prevede che le riunioni siano convocate dalle R.S.A., dandone comunicazione al datore di
lavoro. Le riunioni devono essere indette con ordine del giorno su “materie d’interesse sindacale e
del lavoro”, non necessariamente relative a problemi particolari del sindacato nell’azienda; ad esse
possono partecipare “dirigenti esterni” del sindacato cui fa capo la R.S.A., che convoca l’assemblea,
purché vi sia il preavviso di ciò al datore di lavoro. Quest’ultimo, invece, non ha diritto di
partecipare ad essa, alvo che vi sia invitato dalla stessa. La contrattazione non può derogare “in
plejus” alla norma legale sui punti della fruibilità concreta del diritto, ma può introdurre limitazioni
dirette a limitare l’esercizio del diritto, consentendo all’amministrazione di differire l’assemblea,
quando ricorrano “condizioni eccezionali e motivate” e purché tale differimento sia comunicato
almeno 48 ore prima, e disponendo la continuità delle prestazioni indispensabili anche durante
l’assemblea. L’art. 21 dispone, a carico del datore di lavoro l’obbligo di consentire, nell’ambito
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Il diritto sindacale
aziendale e fuori dell’orario di lavoro, lo svolgimento di Referendum tra la generalità dei prestatori
di lavoro dell’unità produttiva o tra i lavoratori appartenenti ad una stessa categoria. Anche per il
referendum la legge pone alcune condizioni all’esercizio del diritto: il referendum deve svolgersi
fuori dell’orario e deve riguardare materie inerenti all’attività sindacale; inoltre, esso dev’essere
indetto unitariamente da tutte le R.S.A., con ciò, il legislatore ha voluto evitare che potessero
sorgere nelle singole R.S.A. tentazioni di ricorrere isolatamente alla consultazione della base
servendosene come strumento di rivalità e di sfida. Anche se lo svolgimento del referendum è
previsto fuori da dell’orario di lavoro, esso, come l’assemblea, coinvolge la collaborazione
dell’imprenditore per la disponibilità dei locali, l’accesso ad essi, l’uso dei servizi, ecc.. Nel mondo
sindacale permane il contrasto tra le posizioni che privilegiano il referendum, e quella, sul versante
opposto, che privilegiano i fattori di stabilità e governabilità del sistema e tendono perciò ad
attribuire al ricorso al referendum, un carattere eccezionale. Al fine di agevolare le R.S.A. nello
svolgimento dell’attività sindacale, il legislatore ha riconosciuto ai dirigenti di esse il diritto a
permessi (retribuiti e non) per svolgere attività sindacale: il diritto cioè di assentarsi dal lavoro per
tale motivo entro limiti stabiliti dalla legge. Gli artt. 23 e 24, infatti, prevedono che un determinato
numero di dirigenti delle R.S.A. abbia diritto a permessi, rispettivamente retribuiti e non, per un
dato numero di ore per ciascuna R.S.A., regolarmente costituita. “Dirigenti delle R.S.A.” devono
essere considerati coloro che sono stati nominati, secondo le procedure previste dallo statuto
dell’organizzazione. La nomina, però, per produrre gli effetti voluti dalle norme, dev’essere
comunicata al datore di lavoro o altrimenti conosciuta dallo stesso. Il diritto a permessi retribuiti
(art. 23) viene riconosciuto ai dirigenti per l’espletamento del loro mandato e cioè per lo
svolgimento delle attività proprie delle R.S.A.. Il lavoratore che intenda esercitare tale diritto deve
darne comunicazione scritta al datore di lavoro, di regola 24 ore prima, tramite la R.S.A., al fine di
consentire al datore di lavoro di sostituirlo. Il diritto a permessi non retribuiti (art. 24) viene,
invece, riconosciuto per la partecipazione a trattative, sindacali o a congressi e convegni di natura
sindacale. Anche per l’esercizio di tale diritto la norma prevede che si dia comunicazione scritta al
datore di lavoro, di regola 3 giorni prima, tramite le R.S.A. la scelta tra i due tipi di permessi è,
nella sostanza, operata dalla R.S.A. richiedente. La giurisprudenza ha negato al datore di lavoro la
possibilità sia di sindacare l’uso dei permessi, sia di subordinarne il godimento alle esigenze
aziendali. In forza dell’art. 30, i componenti degli organi direttivi provinciali o nazionali dei
sindacati maggiormente rappresentativi hanno diritto a permessi retribuiti per la partecipazione alle
riunioni degli organi stessi. In base all’art. 31 i lavoratori, chiamati a ricoprire cariche sindacali
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nazionali o provinciali, a richiesta, possono essere collocati in aspettativa non retribuita, per la
durata del mandato; il rapporto di lavoro, dunque, viene sospeso ed essi possono riprendere il posto
quando cesseranno dalla carica ricoperta. L’art. 25 riconosce alle R.S.A. il diritto di affiggere,
all’interno dell’unità produttiva, pubblicazioni, testi e comunicati inerenti a materie di interesse
sindacale e del lavoro. Il datore di lavoro ha l’obbligo di predisporre a ciascuna R.S.A., gli spazi per
l’affissione e tali spazi devono trovarsi in luoghi accessibili a tutti i lavoratori. La responsabilità per
il contenuto delle affissioni grava sulle persone che agiscono per conto delle R.S.A.; ciò comporta
che la provenienza delle affissioni debba essere identificabile. Il diritto di affissione trova un limite
nel fatto che le comunicazioni e di documenti da affiggere devono attenere a materie d’interesse
sindacale. Vi è, poi, il riconoscimento alle R.S.A. del diritto alla utilizzazione di un locale (art.
27), per unità produttive con almeno 200 dipendenti, messo a disposizione del datore di lavoro, in
modo permanente, all’interno dell’unità produttiva. Per le unità produttive con meno di 200
dipendenti, la norma non impone l’obbligo di destinare un locale in permanenza alle R.S.A., bensì
che ne debba essere posta a disposizione una ogni volta che queste ne facciano richiesta per le
riunioni. L’art. 26 riconosce ai lavoratori la libertà di svolgere opera di proselitismo (propaganda,
orale o scritta, raccolta di contributi ed iscrizioni, ecc.) in favore delle proprie organizzazioni
sindacali all’interno dei luoghi di lavoro ma senza pregiudizio del normale svolgimento dell’attività
aziendale. Un aspetto regolato da tale art. è relativo ai contributi sindacali. Questi sono quote che
ciascun iscritto è obbligato a versare all’associazione sindacale per costituire il fondo comune
dell’associazione. Si tratta, pertanto, di un’obbligazione liberamente assunta con l’iscrizione. In
passato vi era l’obbligo dei datori di lavoro di trattenere, dalla busta paga dei lavoratori che
rilasciassero apposita delega, il contributo sindacale e di versarlo all’organizzazione scelta dal
lavoratore stesso. Tali norme sono state abrogate, però, nel ’95.
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Il diritto sindacale
5 La libertà sindacale. I diritti sindacali e la
rappresentanza sindacale.
Il sindacato è una libera organizzazione di lavoratori (subordinati o autonomi) o di datori di
lavoro, avente come fine la tutela degli interessi collettivi degli associati. Il principio della libertà
sindacale è sancito dall’art. 39 C. il quale stabilisce che “l’organizzazione sindacale è libera”:
possono perciò costituirsi sindacati in numero illimitato per ogni categoria di lavoratori (pluralismo
sindacale) e ciascun sindacato rappresenta i propri iscritti; inoltre ogni lavoratore è libero di aderire
all’uno o all’altro sindacato o di non iscriversi ad alcuno (facoltatività dell’iscrizione). Oltre che
dal punto di vista delle organizzazioni sindacali, il principio della libertà sindacale, si coglie anche
dal punto di vista del singolo lavoratore; ciò significa “in positivo” libertà, per ogni lavoratore, di
iscriversi al sindacato che preferisce; “in negativo” libertà di non iscriversi ad alcun sindacato,
senza, per questo, subire un trattamento discriminatorio. Solo “i sindacati registrati acquistano la
personalità giuridica” e possono, quindi, concludere contratti collettivi di lavoro, efficaci nei
confronti dei loro iscritti. Tuttavia, non essendosi provveduto, fino ad oggi, all’emanazione di un
apposita normativa per l’attuazione del sistema sindacale, previsto dall’art. 39, per mantenere una
posizione di autonomia nei confronti dei pubblici poteri, i sindacati hanno sempre osteggiato
l’attuazione di tale ART.; di conseguenza, i principi costituzionali sono rimasti inapplicati. I
sindacati, infatti, hanno preferito continuare ad operare come “associazioni non riconosciute”, per
cui i loro atti vincolano solo gli iscritti dalle categorie alle quali il contratto si riferisce. Per tali
associazioni vigono gli artt. 36-37-38 c.c. per cui l’ordinamento interno e l’amministrazione delle
associazioni non riconosciute sono regolate da accordi tra gli associati. Fatta questa premessa
bisogna precisare che al sindacato, dunque, deve essere riconosciuta una sfera di autonomia propria
e non derivata da quella individuale dei singoli lavoratori.
La responsabilità per le obbligazioni assunte in nome di essa, non incombe sui soci, ma sul
“FONDO COMUNE”, in solidarietà con coloro che hanno agito in nome e per conto
dell’associazione; il fondo comune, peraltro, è “indivisibile” ed il socio recedente non ha diritto di
pretendere la propria quota. Tale associazione può stare, in più, in giudizio nella persona del
presidente. È possibile un confronto tra l’art. 39 e l’art. 18 C. il quale stabilisce che “i cittadini
hanno diritto di associarsi liberamente”. Un primo aspetto su cui soffermarsi, riguarda il confronto
tra la norma in comune e l’art. 18 C., che garantisce, appunto, la libertà di associazione. Il
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vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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Il diritto sindacale
fenomeno sindacale è ben più complesso del fenomeno associativo, e pertanto il riconoscimento
della libertà sindacale non è riconducibile a quello della libertà d’associazione. Inoltre, quest’ultima
non è incondizionata e viene meno quando l’associazione persegua fini vietati ai singoli dalla legge
penale. Invece il fine sindacale viene riconosciuto come lecito direttamente dall’art. 39 e perciò non
potrebbe cadere sotto l’imperio di una norma penale ordinaria. Una marcata differenza emerge,
inoltre, nell’impiego del termine “organizzazione”, in luogo di associazione; ciò implica una
nozione più ampia del fenomeno sindacale, tale da comprendere forme organizzative diverse da
quella associativa, purché idonea a ricevere la qualificazione di “sindacali”. Per sindacale s’intende
un atto o un’attività diretti all’autotutela d’interessi, connessi a relazioni giuridiche in cui sia
dedotta l’attività di lavoro. La qualificazione sindacale presuppone anche un’aggregazione di
soggetti e da ciò deriva che l’oggetto del riconoscimento costituzionale non è tanto
l’organizzazione, ma l’attività a questa finalizzata. L’ordinamento dell’Unione Europea detta una
normativa significante in materia di rapporti collettivi di lavoro. La Carta dei diritti fondamentali
(Nizza/2000) contempla la libertà sindacale, all’informazione e alla consultazione (nell’ambito
dell’impresa) e allo sciopero; però, la libertà sindacale è considerata come semplice libertà di
associazione. La Carta, non essendo introdotta nei trattati dell’Unione Europea, in quanto è solo una
dichiarazione, non ha alcun valore vincolante per gli Stati membri. Rimane valido, quindi, il
principio per cui “si esclude, dalla competenza normativa comunitaria, la libertà sindacale ed il
diritto allo sciopero”. Esso contrasta, però, con la competenza comunitaria, invece, per quanto
riguarda “la rappresentanza e la difesa collettiva degli interessi dei lavoratori e dei datori di lavoro”.
La libertà sindacale è menzionata anche nelle convenzioni nn. 87 e 98 dell’O.I.L.(Organizzazione
Internazionale del Lavoro che promuove, a livello internazionale, il miglioramento delle condizioni
dei lavoratori, mediante accordi [queste convenzioni] resi esecutivi dagli Stati membri), sotto due
distinti profili: la n. 87 s’intitola la “libertà sindacale”, garantita dallo Stato, per essa i lavoratori e
i datori di lavoro, senza discriminazioni, hanno diritto di costituire organizzazioni di lavoratori e di
aderire alle stesse; esclude, invece, che le organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro,
possano venire sottoposte a provvedimenti amministrativi di scioglimento o di sospensione; la n. 98
s’intitola al “diritto di organizzazione e di contrattazione collettiva”. Essa stabilisce che i
lavoratori debbano godere di una protezione adeguata contro qualsiasi atto di discriminazione
antisindacale, posto in essere dai datori di lavoro. L’ONU (nata a New York nel 1945 e a cui
partecipano la maggior parte degli Stati del mondo, al fine di garantire la pace, la sicurezza, la
cooperazione economica, sociale ed il rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali) ha promosso il
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Il diritto sindacale
“Patto internazionale dei diritti economici, sociali e culturali” reso esecutivo in Italia nel ’77 e
prevede, tra l’altro, l’impegno , per gli Stati, di garantire, oltre la libertà sindacale, il diritto di
sciopero. La “Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta
fondamentali del 1950 prevede l’”obbligo” per gli Stati membri firmatari, di garantire il diritto di
associazione sindacale; la “carta sociale europea” (Torino ’65) nella quale non solo viene ribadito
il principio di libertà di organizzazione sindacale, ma lo stesso viene svolto nel riconoscimento del
diritto alla contrattazione collettiva e, anche se con dei limiti, del diritto all’autotutela, quindi,
compreso il diritto allo sciopero. Un problema particolarmente dibattuto è quello della libertà
sindacale degli imprenditori. Il problema sorge perché, mentre l’attività sindacale dei lavoratori è
sempre riferita ad un termine collettivo, e perciò è l’attività organizzata, l’imprenditore può agire
come singolo, nei confronti dell’organizzazione dei lavoratori. L’interpretazione generale,
comunque, non nega che anche gli imprenditori godano della libertà di organizzarsi a fini sindacali,
ma indica come suo fondamento, non l’art. 39 C., ma gli artt. 18 e 41 C., i quali predispongono una
tutela meno intensa. In particolare l’art. 41 dispone che “l’iniziativa economica privata può
svolgersi liberamente, purché non contrasti con l’utilità sociale, o in modo da recar danno alla
sicurezza, alla libertà e alla dignità umana”.
Al sindacato, dunque, deve essere riconosciuta una sfera di autonomia propria e non derivata
da quella individuale dei singoli lavoratori.
Con la rappresentanza, il rappresentante agisce in nome e nell’interesse del soggetto
rappresentato; invece, il sindacato agisce in nome proprio, perseguendo l’interesse collettivo di cui
è titolare. Diversa, invece, è la cosiddetta rappresentatività definibile come “la capacità
dell’organizzazione di unificare i comportamenti dei lavoratori, in modo che gli stessi operino non
ciascuno secondo scelte proprie, ma appunto come gruppo”. Il legislatore dello Statuto dei
lavoratori, ha riconosciuto l’applicabilità delle norme del Titolo III°, alle organizzazioni sindacali
“maggiormente rappresentative”, consistenti nel riconoscimento (ad esse) di diritti che favoriscono
il rapporto tra l’organizzazione e i lavoratori rappresentati, implicando un intromissione nella sfera
giuridica dell’imprenditore: ad es., esercitare il diritto di assemblea (art. 20) significa permanere nei
locali di pertinenza dell’imprenditore per svolgere un’attività estranea al rapporto di lavoro.
Appaiono evidenti, quindi, le ragioni per le quali tali diritti non sono riconosciuti a tutti, ma solo
alle organizzazioni effettivamente rappresentative, sarebbe, infatti, eccessivo riconoscerli a tutti.
Dopo lo Statuto, una nutrita serie di altre leggi ha presentato un’analoga esigenza di selezione tra i
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Il diritto sindacale
sindacati attraverso la qualificazione di alcuni di essi come maggiormente rappresentativi. Tali leggi
possono dividersi in due categorie:
1. riguarda il potere, attribuito ai sindacati maggiormente rappresentativi, di
designare i rappresentanti dei lavoratori in organi collegiali espressivi degli
interessi delle parti sociali (es. più rilevante è il Consiglio Nazionale
dell’Economia e Lavoro);
2. riguarda norme di legge che riservano ai sindacati maggiormente rappresentativi
la legittimazione a stipulare particolari tipi di contratti collettivi (es. più rilevante
è la regolamentazione della contrattazione collettiva nel pubblico impiego che
attribuisce ai sindacati maggiormente rappresentativi la competenza a negoziare
in rappresentanza dei dipendenti pubblici).
La
genericità
delle
espressioni
“sindacati
maggiormente
rappresentativi”
(o
confederazioni maggiormente rappresentative) ha posto il problema dei criteri per individuare le
organizzazioni che meritassero tale qualificazione. La dottrina e la giurisprudenza ha individuato
questi indici:
•
consistenza del numero degli iscritti;
•
equilibrata presenza in un ampio arco di settori produttivi;
•
svolgimento un’attività di contrattazione e, in genere, di autotutela con
caratteri di effettività, continuità e sistematicità.
L’art. 19 dello Statuto dei lavoratori (S.D.L.) dispone che: “le rappresentanze sindacali
aziendali (R.S.A) possono essere costituite ad iniziativa di lavoratori in ogni unità produttiva,
nell’ambito:
a) delle
associazioni
aderenti
alle
confederazioni
maggiormente
rappresentative sul piano nazionale;
b) delle associazioni sindacali, non affiliate alle predette confederazioni,
che siano firmatarie di contratti collettivi (nazionali o provinciali) di
lavoro, applicati nell’unità produttiva”.
L’art. 19 ha posto delicati problemi di legittimità costituzionale in relazione all’ art. 39 C.
infatti, sembra concedere (con il termine ”Possono”) il diritto di costituire R.S.A. solo ai sindacati
indicati nella norma e, quindi, precludere agli altri sindacati la possibilità di costituire r.s.a. ,
alterando il regime di libertà sindacale. Venne subito rilevato che l’art. 19 C. non è una norma di
carattere “permissivo” (cioè limitativa della libertà di costituire R.S.A., ad opera di sindacati
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Il diritto sindacale
diversi da quelli maggiormente rappresentativi), ma ha un carattere “definitorio” (perché mira solo
ad identificare i soggetti titolari delle posizioni attive previste dal TITOLO III). La Corte
costituzionale, di conseguenza, rigettò le eccezioni di incostituzionalità, ma invitò anche il
legislatore a modificare l’assetto legale”per garantire una più piena attuazione, in materia, dei
principi costituzionali”. I Referendum del 1995 modificarono l’art. 19 nel senso che la funzione di
sostegno dell’attività sindacale non è più data dalle confederazioni maggiormente rappresentative,
ma solo dai sindacati firmatari dei contratti collettivi, applicati nell’unità produttiva. Con
l’abrogazione della lettera a) però, il corpo elettorale sembra aver voluto contemporaneamente la
conferma e la modifica dell’art. 19; è stato quindi un caso atipico perché si sono avute due idee
divergenti dallo stesso corpo elettorale, anche se valenza maggiore è quella dell’effetto abrogativo.
Con il D. Lgs. del ’97, il legislatore delegato ha disposto l’ammissione, alla contrattazione collettiva
nazionale, dei sindacati con un indice di rappresentatività non inferiore al 5%. Recentemente, poi, è
stato introdotto il concetto di Sindacato comparativamente più rappresentativo. Si tratta di
ipotesi in cui la legge assume il contratto collettivo, stipulato dai sindacati comparativamente più
rappresentativi, come fatto produttivo di effetti giuridici, da lei stessa determinati (per es.
condiziona all’applicazione del contratto collettivo la concessione di un beneficio…).
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Il diritto sindacale
6 La repressione della condotta antisindacale
Al fine di rendere effettivi il principio di libertà sindacale e tutte le posizioni giuridiche
attive dei prestatori di lavoro esaminate in precedenza il Legislatore ha elaborato uno strumento
disciplinato dall’articolo 28 dello Statuto dei Lavoratori intitolato, per l’appunto, “repressione della
condotta antisindacale”.
La mera esistenza di una norma giuridica non è elemento sufficiente per adeguare il dato
reale allo schema normativo. Tutto ciò è particolarmente vero in relazione al diritto sindacale, in
quanto questo regola rapporti conflittuali o potenzialmente tali. Da una simile condizione deriva che
il mutevole equilibrio dei rapporti di forza condizioni la stessa effettività delle norme di condotta
(collettive o statuali), ove le stesse non siano assistite da un adeguato apparato di norme secondarie
(sanzionatorio, sull’azione e processuali). Il datore di lavoro, anche nella fase di esecuzione del
contratto, resta il contraente forte, in grado di sovvertire tutte quelle situazioni giuridiche che, se pur
poste a tutela del lavoratore, non sono dotate di una forza tale da renderle sempre e comunque
applicabili.
In relazione alla descritta situazione, il Legislatore dello Statuto dei Lavoratori non si è
appagato di obbligare il datore di lavoro a non interferire nella libertà e nell’attività sindacale,
nonché nel diritto di sciopero, ma ha anche predisposto, a sua tutela, un particolare strumento
giudiziario e una particolare strumentazione sanzionatoria.
L’art. 28 dispone che, di fronte ad un comportamento del datore di lavoro diretto ad
impedire o a limitare l’esercizio della libertà e della attività sindacale, nonché del diritto di sciopero,
gli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse possano proporre
ricorso al Tribunale, in funzione di Giudice del Lavoro, del ove è stato posto in essere il
comportamento, per chiedere che quest’ultimo cessi e che i suoi effetti vengano rimossi. Il Giudice,
entro i due giorni successivi, convocate le parti ed assunte sommarie informazioni, qualora ritenga
che il comportamento denunciato sia effettivamente antisindacale, con provvedimento motivato ed
immediatamente esecutivo, ordina al datore di lavoro di cessare dal comportamento illegittimo e di
rimuoverne gli effetti. Contro il decreto le parti, entro quindici giorni dalla comunicazione dello
stesso, possono proporre opposizione davanti allo stesso Giudice (legge 8 novembre 1977, n. 847).
Questa seconda fase del procedimento, meramente eventuale, non sospende l’efficacia del decreto e
quest’ultimo non può essere revocato fino alla sentenza con cui è definito il giudizio. Nella fase di
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Il diritto sindacale
opposizione, come in grado di appello o nel ricorso per Cassazione, il giudizio si svolge secondo le
regole generali del processo del lavoro.
Effettuati questi brevi cenni sulle regole processuali applicabili al procedimento de quo,
passiamo ad analizzare alcuni aspetti salienti dell’istituto e della relativa procedura.
1.
La condotta antisindacale.
La condotta antisindacale può essere posta in essere dai soggetti che, nella gerarchia
dell’impresa, svolgono attività imputabile al datore di lavoro, in quanto agiscono in base a deleghe
di poteri da parte di quest’ultimo. Ciò che rileva è che il soggetto che pone in essere il
comportamento eserciti i poteri del datore di lavoro, anche se formalmente non è parte del contratto
di lavoro subordinato. La norma non fornisce una definizione dettagliata del comportamento
antisindacale ma contiene una previsione indeterminata che individua il comportamento illegittimo
in base alla sua idoneità a ledere i beni protetti. Il legislatore, infatti, era consapevole che, nella
realtà del conflitto industriale, questi beni possono essere lesi in una varietà di modi difficilmente
tipizzabili a priori in un testo di legge. La forma concreta della lesione è, pertanto, varia potendo
riguardare sia un interesse di pertinenza esclusiva del sindacato che un interesse individuale (del
singolo lavoratore) per il quale già sussiste un diverso strumento di tutela giudiziaria. In questo
senso si è affermata una giurisprudenza secondo la quale la facoltà dei singoli lavoratori di agire in
giudizio per le vie ordinarie a tutela del proprio interesse non esclude che contro lo stesso
comportamento, agisca il sindacato attraverso lo strumento privilegiato previsto nell’art. 28. (Es. :
licenziamento per ragioni discriminatoria di un attivista sindacale). A tal proposito si è parlato di
plurioffensività del comportamento, nel senso che questo è idoneo ad incidere, nello stesso
momento, sull’interesse individuale e sull’interesse collettivo, ambedue protetti, ancorché da norme
differenti; nulla esclude, quindi, che il sindacato agisca autonomamente per la difesa di
quest’ultimo. Alla diversità degli interessi tutelati dal diritto positivo, corrisponde una diversità
delle azioni attraverso le quali attivare le diverse tutele (Cass. S.U. 17.02.1992 n 1916, Cass.
21.10.1997 n. 10339).
Circa la qualificazione di antisindacalità si può affermare, riportandosi ad una oramai
consolidata elaborazione, che tale qualificazione deve essere riferita all’attività di autotutela
organizzativa dei lavoratori. Ad essere tutelato non è, infatti, l’interesse dei lavoratori a maggiori
salari ed a migliori condizioni di lavoro, ma l’interesse ad organizzarsi ed ad agire collettivamente
per perseguirli.
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Il diritto sindacale
Una delle questioni che più ha fatto discutere la giurisprudenza è se elemento costitutivo
della fattispecie della condotta antisindacale sia uno specifico intento lesivo dei beni protetti da
parte del datore di lavoro. Sul punto è insorto un contrasto giurisprudenziale tra una soluzione
negativa (Cass. 01.12.1999 n. 13383, Cass. 22.06.1998 n. 6193) ed una intermedia che lo ritiene
necessario quando la condotta antisindacale sia atipica, ma non quando sia in violazione di un
diritto sindacale riconosciuto all’ordinamento (Cass. 19.07.1955 n. 7833, Cass. 08.09.1995 n.
9501). Il conflitto è stato risolto dalle sezioni unite (Cass. S.U. 12.06.1997 n. 5295) nel senso
negativo che appare più coerente con la natura inibitoria dell’azione in discorso.
2.
La legittimazione attiva.
Legittimato alla proposizione dell’azione è il sindacato.
Il Legislatore ha precisato che questa legittimazione spetta agli organismi locali delle
associazioni sindacali nazionali; ne sono esclusi, pertanto, da un lato i singoli lavoratori, dall’altro
tutte quelle forme di organizzazione dell’autotutela dei lavoratori prive di rappresentatività
nazionale. Infatti, anche nell’art. 28, come nell’art. 19, il Legislatore ha voluto selezionare tra i
soggetti sindacali quelli dotati di particolari requisiti. Il criterio di selezione, però, è notevolmente
diverso, essendo sufficiente che si tratti di una associazione che abbia una estensione nazionale.
Il limite alla legittimazione attiva ha posto delicati problemi di legittimità costituzionale, in
particolare in ordine all’esclusione dei singoli lavoratori e degli altri sindacati e con riferimento alla
violazione degli articoli 3, 24 e 39 della Costituzione. Al riguardo la Corte con la sentenza n. 54 del
6 marzo 1974 ha escluso la violazione dei principi costituzionali, confermando la piena rispondenza
dell’art. 28 alle norme fondamentali del nostro ordinamento.
3.
L’interesse ad agire.
L’art. 28 consente di promuovere la relativa azione a tutte le associazioni che vi abbiano
interesse. Ad una prima analisi tale inciso sembrerebbe limitativo della possibilità di azione del
sindacato, poiché sembra fare riferimento ad un interesse qualificato, quale potrebbe essere quello
connesso alla presenza dello stesso sindacato nella azienda e perciò alla lesione dell’interesse
collettivo dei propri membri. Questa tesi è stata respinta, poiché nella realtà dei rapporti non è
escluso che un sindacato abbia interesse a far rimuovere un comportamento antisindacale che
riguardi lavoratori non aderenti o, anche, aderenti ad un altro sindacato. L’interesse tutelato dall’art.
28 non è solo quello alla propria libertà sindacale, bensì quello alla libertà di tutti i lavoratori e di
tutti i sindacati (Cass. N. 4839 del 22.04.1992).
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Il diritto sindacale
Alla luce di quanto esposto in precedenza, la carenza di interesse risulterà di rara ricorrenza.
L’esempio più tipico potrebbe essere dato dall’ipotesi di azione contro comportamenti lesivi della
libertà o attività sindacale nei confronti di soggetti estranei al gruppo professionale proprio del
sindacato ricorrente. Non può, invece, ritenersi carente di interesse l’organismo territoriale
intercategoriale.
Un ultimo spunto la giurisprudenza lo offre in ordine al momento di inizio dell’azione,
stabilendo che non vi carenza di interesse, allorquando, la procedura sia avviata con notevole ritardo
rispetto ai fatti, sempre che siano ancora attuali i loro effetti lesivi (Cass. N. 11741 del 06.06.2005).
4.
L’apparato sanzionatorio.
Un altro elemento peculiare è l’apparato sanzionatorio. Il processo si conclude, se il Giudice
ritiene fondata l’azione promossa dal sindacato, con una condanna del datore a ripristinare la
situazione di pieno godimento delle libertà sindacali e del diritto di sciopero.
In questa fase il Legislatore mira solo a ripristinare lo staus quo ante. Sennonché, allo scopo
di superare le difficoltà connesse ad un eventuale esecuzione coattiva dell’ordinanza giudiziale,
operazione maggiormente complessa in questa materia, il Legislatore ha introdotto un sistema di
coazione indiretta e, cioè, un meccanismo idoneo a costringere il condannato a adeguarsi all’ordine
del Giudice. Il datore di lavoro che non ottempera all’ordinanza è, infatti, puniyo a norma dell’art.
650 c.p., con l’ulteriore aggravio della pubblicazione della sentenza penale di condanna a norma
dell’art. 36 c.p. . di recente, a norma dell’art. 7 comma 7 legge 23 dicembre 2000 n. 388, è stata
introdotta una nuova ed ulteriore sanzione che prevede la revoca delle agevolazioni fiscali di
incentivazione di nuova occupazione a danno del datore di lavoro condannato, con provvedimento
definitivo, per condotta antisindacale.
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