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andavamo a mietere il grano - Leonini Aldo Racconti e poesie

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andavamo a mietere il grano - Leonini Aldo Racconti e poesie
ANDAVAMO A MIETERE IL GRANO
Ammiro, ma nello stesso tempo invidio un tantino chi, per il grado d’istruzione, per lo studio
approfondito della grammatica, ed anche per un dono di natura, riesce con quattro parole e
magnifici aggettivi ad esprimere un pensiero. Io che non ho potuto avere tale soddisfazione fatico
ad esprimermi e sono costretto a ripetermi infinite volte, tanto che, in fondo, non ci capisco più
nulla. Ma siccome sento la bramosia di scrivere e raccontare le cose del passato in generale, ed i
fatti personalmente un tempo vissuti, adesso non posso esimermi dal farlo.
. Per descrivere qui di seguito la mietitura del grano nei tempi lontani della mia giovinezza, sarò
costretto ad imbrattare tanta carta, mentre altri dotati di maggiore capacità potrebbero farlo
scrivendo solo poche righe. Pazienza. Tanto non vedo chi potrà perdere il proprio tempo prezioso,
al di fuori dello scrivente, per leggere questi miei discorsi “avvolti” costellati da decine e decine di
errori madornali da far accapponare la pelle.
Ma il mi’ babbo diceva:- “O citti, ‘un v’arrabbiate ogni vite dà il vino che può”. Hanno sempre
detto che alzarsi di buon ora a respirare l’aria mattutina è cosa benefica per la salute. Mi sembra,
però, che tale concetto non sia da tanti apprezzato poiché, chi può, semmai scende dal letto un’ora
più tardi. Noi contadini rispettavamo, per forza o per amore, tale opinione, specialmente quando i
lavori dei campi non concedevano tregua.
Mi riferisco ovviamente, ai tempi lontani della mia giovinezza, ovvero ad un sessantennio o più
anni addietro, quando il saluto del vicino di casa era una cosa importantissima e meravigliosa,
quando ci accontentavamo di mangiar carne solo per le feste comandate, o del profumo di arrosto
girato che esalava dalla cucina del palazzo padronale. Nostalgia di quei giorni? Non so, forse per
qualche verso sì.
D’Inverno erano i buoi dalla stalla che ci chiamavano a suon di colpi di corna, quando ancora
mancava molto al sorgere del sole. Avevano fame, e con quel loro modo di fare volevano farci
capire che dovevamo accudirli. E noi non potevamo ignorare quella loro esigenza, facevano, si può
ben dire, parte integrante della famiglia.
Con l’arrivo della Primavera, oltre a ciò, si accumulavano i lavori della campagna, quindi c’era da
stare poco a “cincischiare” sotto alle lenzuola. Ma specialmente nel periodo caldo della mietitura, i
cui lavori si eseguivano esclusivamente a mano e raramente con l’ausilio della vecchia falciatrice,
dovevamo sortire di casa molto presto.
Noi lavoratori della terra, quindi, godevamo del tanto osannato beneficio della frescura mattutina. ci
svegliavano i galli delle due famiglie del podere Colombaiolo, ai quali rispondevano puntualmente
quello del “Tordaio” e quello un po’ più lontano del podere Fontasciano. Bisognava scattare,
stanchi o riposati dovevamo alzarci.
Mio padre non attendeva il secondo chicchirichì di quei galli, e nel giro di pochissimi minuti,
purtroppo dovevamo essere tutti in “paletta”. Se talvolta perdevamo tempo sotto alle lenzuola ci
pensava mia madre a tirarci giù. Andiamo ragazzi- diceva Argentina- ‘Un è tempo di sta’ costì a
dormicchia’; è l’ora di anda’ ‘un l’avete sentito il gallo? Coraggio, avrete più tempo d’inverno
quando metterà la neve.
Ancora insonnoliti, andavamo presso l’acquaio, versavamo un po’ d’acqua nella baccinella di
coccio (non avevamo il rubinetto né il lavandino) ci davamo una sciacquatina al viso ed alle mani e
nulla di più. Mia madre appena c’eravamo asciugati la faccia, andava al cassetto della credenza,
prendeva due uova e porgendoceli diceva:- Via, citti, bevetene uno ciascuno, un ovino vi aiuterà a
ritrova’ un po’ di energia. A dire il vero uniti ad un bel sorso di grappa ritrovavamo un po’ di
spirito. Quella era grappa pura (non certo di soli 40°) fatta da noi con le vinacce, usando metodi
empirici, eludendo la legge che era molto severa.
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Ne facevamo solo qualche bottiglia e la lasciavamo esclusivamente al periodo della mietitura.
Ormai svegli mettevamo la falce “all’uncinello” applicato alla cinghia dei pantaloni, indi con una
fiasca da tre litri ciascuno, normalmente rivestita con vimini, ci recavamo alle fresche sorgenti di
Fontasciano per riempirle. Almeno l’acqua sotto il sole cocente non doveva mancare. Poco distante
(200metri) da lì avevamo l’orto “Le Macerine” ed immancabilmente vi facevamo una capatina
mattutina per sradicare tre o quattro cipolle più sviluppate.
Sapevamo che avrebbero arricchito la nostra colazione. Celebrato quel rito riprendevamo il
cammino per i nostri campi distanti da lì circa un chilometro, dove ci attendeva l’appezzamento di
grano maturo ormai da mietere. Quando, puntuale, passava il treno delle 4,20 per Chiusi, eravamo
già per la via detta “La Piaggia Del Fontone” diretti all’opera che ci attendeva. A Novembre
avevamo consegnato alla terra del seme e adesso ci accingevamo a raccogliere i frutti di tanto
lavoro. Non eravamo solo noi per quella via sterrata campestre molto sconnessa, aggiustata alla
meglio al momento della falciatura delle erbe pratensi per fieni.
C’erano altri gruppetti che procedevano nella stessa direzione. Erano quasi tutti di Grottoli (la mia
contrada) e dintorni che, come noi, avevano appezzamenti di terreno seminato a grano in quelle
zone, più o meno distanti dalle rispettive abitazioni. Ma tra questi c’era anche un contadino che
veniva dal sobborgo di “Camparboli” ed aveva qualche ettaro non lontano dalle nostre terre. Se noi
ci alzavamo al primo canto del gallo ed eravamo per quella via al passaggio del treno delle 4,20,
costui che prima di giungere dove ora eravamo aveva da percorrere più di tre chilometri a che ora
si sarà alzato? Era una domanda che ci ponevamo ogni volta ci incontravamo.
Spesso costui si sfogava con la gente dicendo:- Ma che voglia gli sarà venuta al mi’ padrone a
compra’ quel pezzo di terra, che poi cavato che il grano ’un ci viene più niente.
Al sorgere del sole o poco prima tutti quanti i gruppetti, si trovavano dove il grano maturo
attendeva la falce. Per tutti la prima importante cosa da fare consisteva nel mettere le fiasche
dell’acqua al riparo dal sole che molto presto avrebbe incominciato a riscaldaci anche più del
necessario. Allora rizzavamo a mo’ di capanno diversi covoni perché potessero, al giusto momento,
produrre un po’ di ombra.
Durante le ore assolate , che sarebbero giunte presto, un sorso di acqua ancora fresca sarebbe stata
indispensabile. Avremmo potuto con facilità privarci del mezzo bicchiere di vino, ma non di quello
di acqua. Poco dopo, (forse mezz’ora) il nostro arrivo nei campi detti “La Bandita”, apparivano per
la “Via del Fontone”, a poco più di un chilometro di distanza le prime paia di bovini con al traino la
rumoreggiante falciatrice, a quel momento privilegio per chi la poteva usare.
Scendevano verso il “Borro di Pian di Malta”, per poi proseguire per le loro varie destinazioni..
Ed ecco apparire al ponte Ferroviario detto “Il ponte al Fascio”, in cima all’erta via del Fontone,
mio padre con le vacchine di cui una mancante di un corno, ma ugualmente brava per il lavoro e per
prolificare. Angiolino, mio padre, si riconosceva bene soprattutto perché al suo seguito c’erano le
donne che ogni anno ci davano una mano nel periodo critico delle faccende e specialmente nella
mietitura del grano o di altri cereali.
Salvo cause di forza maggiore, non potevano mancare. Erano tanti anni ormai che le impegnavamo.
Giacomina, la Bionda, Gina, e le due zie Gesuina e Concetta dunque, scendevano per la via del
Fontone, seguendo mio padre, per poi prendere quel tratto di sentiero per giungere dove mio fratello
ed io già ci trovavamo. Zia Gesuina si distingueva bene anche da una certa distanza perché portava
sulla testa la “paniera” con la colazione. Argentina aveva affidato a lei tale compito perché era la
più giovane tra le due zie, poi quella più anziana soffriva molto di dolori, perciò non voleva
sacrificarla.
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Quel giorno occorreva essere un bel branchetto poiché avevamo a disposizione, tutta per noi, la
falciatrice, e con tale attrezzo moltiplicavano il numero di “manne” (covoni) da legare e sistemare.
Se il grano era nato e cresciuto senza sofferenze fino a raggiungere l’altezza di un metro, l’addetto
a fare le manne, non aveva un solo istante di tregua, ne poteva scodellare anche una ogni due metri.
Le donne che seguivano mio padre e che tra dieci minuti ci avrebbero raggiunti, erano persone
volenterose e instancabili, che operavano senza alcuna malizia e che consideravamo facenti parte
della nostra famiglia. ma il rapido susseguirsi di covoni avrebbe messo chiunque in difficoltà.
proprio per tale motivo dovevamo essere un discreto branchetto al seguito di quel mezzo. Dunque
quando stavano per irradiarci i primi raggi del sole ( io e mio fratello eravamo già lì da un pezzo),
giungeva anche mio padre con a seguito il bel nucleo di donne.
Non c’era da star lì a perdere tempo prezioso, bisognava darsi da fare perché le ore che precedevano
la bramata colazione erano certamente le migliori della mattinata. Mio fratello prendeva posto nel
sedile riservato a chi faceva le manne, mio padre, invece , in quello del guidatore ubicato nella parte
posteriore dell’attrezzo, e via con il primo giro.
Spesso era impossibile sistemare a modo e legare tutti i covoni per proseguire col giro successivo,
allora ci davano una mano anche gli addetti alla macchina. Intanto le nostre vacchine che poi non
avevano una robusta mole, riprendevano fiato.
Per ciò che era accaduto qualche anno prima avevamo imparato che non si dovevano lasciare le
manne sciolte. Qualche anno addietro per non voler tenere ferma la falciatrice, lasciammo sciolto un
campo intero di covoni , la notte poi si scatenò una bufera di venti che sconvolse tutto. Mio padre
nel vedere quel lavoro sospirando soggiunse:- Meglio ‘un ci poteva anda’- ora ci sarà da tribola’
una settimana per rimette’ il male; tanto ci si sta bene col groppone al sole. Allora ce si deve fa’?
Bisognerà arrangiarsi. ciò ad indicare che il lavoro della mietitura non andava preso tanto alla
leggera. le insidie del tempo erano sono e saranno sempre in agguato.
Quando vedevamo transitare dal “Ponte al Fascio” il treno delle 7,20 proveniente da Chiusi per
Siena, con già un po’ di languore nello stomaco ci apprestavamo alla colazione. Se c’era vicino il
vecchio capanno di mattoni, ci sedevamo alla sua ombra, altrimenti ci dovevamo accontentare di
quella che ci poteva regalare un “mucchiolo”, o sedere su dei covoni a pieno sole.
La zia Gesuina si occupava per sveltamente apparecchiare in qualche modo, ed eravamo già tutti
pronti a cercar di placare l’appetito. Tolte le scodelle e le posate dalla paniera ci accingevamo alla
ricca abbuffata.
Ragazzi- diceva la zia- Stamattina ‘un si scherza, panzanella abbondante per tutti. E ci porgeva le
scodelle con la grossa porzione già pronta da mangiare. Volendo potevamo anche fare il bis, c’era a
volontà. Magari no eccessivamente condita con l’olio, ma di aceto e sale non difettava. In casa ne
avevamo a volontà. Cos’altro volevamo se c’era pane e salute? In effetti la colazione non efra poi
tanto povera perché in quella stagione avevamo l’abitudine di avviare la spalla del suino macellato a
gennaio, quindi una o due fette ciascuno non potevano mancare.
E le cipolle sradicate al mattino nell’orto delle “Macerine” non dovevamo farle avvizzire, perciò
le mangiavamo a fine colazione con il pane inzuppato nel vino. Mio padre, invece, non riusciva a
portare alla bocca un pezzettino di quella saporosa carne d maiale. Preferiva cento volte cibarsi di
solo pane e cipolla. Ma di mietitura con il lavoro stressante non poteva nutrirsi in quel modo,
occorreva miglior trattamento.
Come abitudine nel maggio giungeva il regalo del Galanti possedente di un nutrito gregge ed
abitante non tanto lontano dalla contrada di Grottoli. Poiché sovente pascolava le pecore anche nei
nostri campi delle piagge, a Primavera inoltrata ci ricompensava con due forme di formaggio
pecorino fresco ed una ricotta ancora calda.
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Per me è grazia di Dio- diceva Angiolino- e’ un la cambierei con nessun’altra cosa. io ‘un gli levo
neanche la crosta, faccio come i barrocciai ci soffio e basta, ci ridete? Voi mangiate la spalla e io
questo pezzettino di formaggio.
Nessuno si sarebbe permesso di privarlo di quella soddisfazione. Noi potevamo mangiare anche
altre cose. Dopo quella lauta colazione, era ormai tempo di riprendere il lavoro nel campo assolato.
Lasciare quella poca ombra e tornare col groppone al sole fino mezzogiorno era davvero cosa triste.
le tenere e alquanto saporose cipolle mangiate poco prima con la zuppa nel vino stimolavano la
sonnolenza. Comunque anche se un po’ stancamente riprendevamo il nostro arnese ed il posto di
lavoro. Purtroppo nessuno ce lo poteva risparmiare.
Gli addetti alla falciatrice riprendevano a girare intorno al campo di grano lasciando centinaia di
covoni, e noi compivamo l’altra dura opera. Scambiavamo qualche parola con la persona più vicina,
sarebbe stato difficile e avvilente restare in silenzio tutta la mattinata. Verso le 10 puntualmente ci
giungeva ben distinto il rombo di un aereo che volava ad una certa altezza sopra di noi. Notavamo il
suo avvicinarsi poi si allontanava fino a non udire più nulla.
Pensavamo, e forse non sbagliavamo, che fosse il postale che attraversava il cielo dal Nord al Sud.
Veniva l’istinto di alzare per un momento gli occhi verso quel rumore ma non scorgevamo nulla. A
qualcuno veniva spontaneo dire:- Almeno voi lassù ‘un sentite questo calore, noi ‘un si sa quanto si
pagherebbe se si potesse ave’ un po’ di codesto frescolino.
Intanto, piuttosto lentamente, scorrevano le ore tra una manna e l’altra da legare, tergendoci spesso
la fronte dal sudore. Il cappello di paglia che portavamo in testa serviva ben poco nelle ore di sole
battente. A cercare di raddolcire un tantino l’ambiente ed a rialzarci il morale, c’era la zia Gesuina
con la sua voce melodiosa. Ella, ogni tanto, malgrado la calura, intonava le canzoni dell’epoca e
quelle più antiche di suo gradimento. Alcune la riportavano ai tempi della sua giovane età. Cantava
dolcemente senza alzare la testa dal suo lavoro.
Le veniva spontaneo, ed era bello ascoltarla. Benché siano trascorsi ormai quasi settanta anni
ricordo molto bene i motivi che amava di più e che cantava per sé e per noi. Tra i suoi preferiti
rammento: “Violino Zigano, Parlami d’amore, La bella Romanina, Bombolo”, e tanti altri che non
sto ad elencare. Insomma quelle sue ariette servivano a farci sembrare un tantino più veloci le ore
nel campo di grano con “febo” infuocato.
Che ci avvicinassimo sempre più al momento di staccare era chiaro, ma senza l’orologio era
impossibile sapere l’ora esatta.. Però se ci trovavamo nel “campo della Bandita” potevamo contare
su un punto di riferimento che fungeva da meridiana. Quando l’ombra arrivava a coprire una data
finestra del caseggiato di Capo Grottoli esposta piuttosto a levante, mancava un quarto a
mezzogiorno, ed era l’ora di staccare.
Per primo partiva Angiolino con le vacchine (naturalmente a piedi se doveva lasciare l’attrezzo nel
campo) e dopo pochi minuti anche noi prendevamo la via di casa. Avevamo da ripercorrere la
strada percorsa al mattino, ma questa volta tutta in salita. Dopo la fatica e la calura sofferta in
mezzo alle spighe di grano da mietere, l’ultima salitaccia ci dava il colpo di grazia. Veniva
spontaneo rimpiangere i tempi del gelo e della tramontana.
Giunti in cima dove erano i frondosi “Pioppi del Fontone” riprendevamo fiato.. Quasi ogni giorno ci
incontravamo con coloro che percorrevano un’altra via detta “delle Mancine”, e che come noi
rientravano per desinare. Con costoro scambiavamo al fresco qualche parola, ed in quei brevi
momenti molto puntuale transitava il treno delle 12,15 per Chiusi.
Ripartivamo per gli ultimi 300 metri che percorrevamo all’ombra di magnifiche e frondose querce.
Giunti a casa Colombaiolino, posavamo le falci su quel bancone ove mio padre nei mesi invernali
lavorava tronchetti di legno per costruire zoccoli per tutta la famiglia.
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Le donne salivano in cucina per lavarsi la faccia e per dare , all’occorrenza, una mano alla massaia.
Noi, invece, avevamo ancora qualcosa da fare alla stalla. Le bestie andavano governate. Avevano
gli stessi bisogni e diritti che avevamo tutti noi. Anzi, le vacchine, avendo molto faticato a trainare
la falciatrice per tutta la mattinata andavano ben rifocillate. Ora dovevamo far sì che potessero
riacquistare le forze perdute. Insomma queste mansuete e obbedienti bestiole, come ho detto altre
volte, facevano parte della famiglia, e come tali dovevamo trattarle.
Era un preciso nostro dovere. Finalmente anche noi uomini o giovinastri salivamo, e, dopo una
rinfrescata all’acquaio, ci sedevamo al tavolo per cercare di placare l’appetito che, ringraziando
Iddio , non ci mancava. Già si faceva sentire da qualche ora.
Durante la mietitura o altre impegnative fatiche faccende, mia madre cercava, nel limite del
possibile, di migliorare il mangiare. Ella conosceva molto bene per esperienza vissuta, i sacrifici e
le fatiche di chi doveva lavorare l’intera giornata sotto i riflessi del sole cocente. L’esperienza ha
sempre insegnato a vivere. Quel pentolone fumante sul focolare, emetteva un profumino davvero
stuzzicante. Cosa c’era di tanto speciale?
Erano i tagliolini fatti da Argentina con le proprie mani, che stavano cuocendo nel brodo di verdure
arricchito un tantino con un “dado di carne Arrigoni”. Era una minestra molto frequente e molto
apprezzata in casa dei contadini. Si potrebbe dire:- Ma dopo tanti sacrifici e dispendio di energie
sarebbe stato meglio mangiar pastasciutta e carne per ristabilire in qualche modo l’equilibrio. Il
ragionamento è certamente sano, ma tante cose non erano possibili in gran parte di famiglie di
contadini. La pastasciutta non era da tutti i giorni.
Quando la mamma ce la preparava, la condiva con gli aromi naturali dell’orto e non con i fegatini
di piccione o di coniglio. Quegli animali, seppure con molta tristezza, li vendeva per comperare le
cose utili per la casa. Ma non esuliamo dal desinare di quei momenti della mietitura in casa Leonini.
Dunque con quel piatto ricolmo di tagliolini già ci sentivamo meglio, ma certo non sufficientemente
sazi.. Però Argentina certe cose le comprendeva. Non aveva bisogno di suggerimenti in tal senso.
Infatti dopo il buon primo piatto, non mancava una ricca saporosa frittata di patate o di zucchine.
Per contorno immancabilmente una scodella di insalata romana. Tutta roba genuina e fresca di
nostra produzione colta il mattino stesso dalla massaia. Per terminare il desinare non mancava il
graditissimo affettato, ovvero la carne della spalla del suino che mai veniva disdegnata anche se
mangiata più volte durante la giornata.
Ma come si dice, il convento non aveva grandi cose da offrire. Angiolino, invece, quando veniva
messo in tavola il piatto dell’affettato, chiedeva ad Argentina una cipolla per fare la zuppa nel vino.
In poco più di un’ora dal momento che c’eravamo seduti, avevamo già consumato il desinare. Ci
poteva sortire così un pisolino. Il bisogno no mancava.
Mio padre, invece, aveva il suo bel da fare. Mentre Argentina e le zie rassettavano la casa e noi
giovani schiacciavamo il sonnellino, Angiolino tornava alla stalla. Doveva ancora assistere le
vacchine e rendere le falci taglienti, passandole tra incudine e martello. A costui mancava il tempo
per distendersi dieci minuti. Insomma toccava proprio a lui ad essere, come sempre, il più
sacrificato. Ma per il bene che voleva ai suoi figli, preferiva comportarsi così, come d’altronde
avrebbe fatto ogni buon padre. Verso le tre, quando il sole era ancor più rovente del mattino.
ripartivamo per quel campo, ove ci attendeva il lavoro lasciato qualche ora prima. Spesso anche le
povere vacchine dovevano tornare a faticare là dove andavamo noi.
La falciatrice era di proprietà della fattoria, ma la usavamo in tre contadini, e la tenevamo a
disposizione un giorno ciascuno. Ovviamente ognuno di noi quando era il proprio turno, cercava di
sfruttarla al meglio e le prime a risentirne erano le pacate instancabili bestiole ce la dovevano
trainare. Ancor prima di avere la falciatrice della fattoria, una “Laverda”, spesso ci rivolgevamo al
contadino della “Fontasciano”, pregandolo di prestarci per qualche ora quell’indispensabile
attrezzo. A dire il vero non c’era mai stato rifiutato, naturalmente nei momenti che non serviva a
costui. .
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Veniva il bifolco, Santi Benocci, che si adoperava anche ad usare il rastrellino per fare le manne.
Non occorrevano i denari, era impossibile averne tanti da spendere. Ma in qualche maniera
restituivamo il favore. Quando costoro, intendo la famiglia Benocci, erano a corto di braccia, per
eseguire un certo lavoro, noi accorrevamo in aiuto. Dunque i pomeriggi della mietitura erano più
assolati ed afosi delle mattinate, di conseguenza anche più faticosi e stressanti.
Però al calare del sole prendeva ad alitare anche se leggermente, il marinello, (venticello da Ovest)
allora cominciavamo a respirare discretamente, e la zia Gesuina intonava nuovamente quei suoi
motivetti. Se nei campi non lontani dai nostri c’erano a mietere il grano i vicini della famiglia
Lorenzoni, udivamo distintamente la voce possente e baritonale di Nello che erta riconoscibile tra
mille persone. Non udivamo, invece, la voce di coloro che stavano conversando con lui. Era un suo
modo di parlare, e quando anch’egli cantava qualche motivo era un piacere ascoltarlo. Anche i
vignaioli che avevano i loro piccoli possedimenti nella zona di Grottoli, erano come noi intenti a
mietere il proprio campicello di grano. Giungevano con le somarelle e con il biroccetto, indi
lasciavano le loro bestiole legate all’ombra delle piante.
Lì rimanevano tranquille ad attendere l’ora del rientro. Erano le somarelle di Gagliano Granai, di
Tamarro, di Pesca, del Gattavecchi, e di Paparotto. Come la zia Gesuina con l’alitare di quel
venticello da ponente cominciava a canticchiare alcune delle su indicate somarelle iniziavano a
ragliare. Si chiamavano e si rispondevano, intonavano insomma la loro serenata. Man mano che il
sole calava verso il tramonto, il nostro lavoro seppure faticoso, diveniva sopportabile, ma
cominciava a farsi sentire l’appetito.
Il cibo introdotto nello stomaco col desinare, era stato ormai digerito. Veniva quindi, spontaneo di
guardare se per la” via del Fontone” appariva Argentina con la ormai bramata merenda da
consumare lì tra i covoni un po’ prima del tramonto. Non pensavamo alla qualità del cibo, a noi
interessava placare l’appetito. Al momento che la vedevamo apparire, le andavamo incontro.
Sarebbe stato troppo sacrificio per lei portare il peso della merenda fino a lì. Non sto adesso a
descrivere ciò che conteneva la “paniera” che ella portava sul capo, mi limiterò a dire che, come
ogni sera, mangiavamo robetta leggera ma genuina.
Quindi niente carne cotta in qualche maniera. Argentina diceva:- Gente, quando si farà la
“benfinita” là nei presoni, dovrete mangia’ a crepapelle. ‘un dovrà manca’ la pastasciutta e due o tre
qualità di carne. L’ultimo giorno di mietitura lo facevamo sempre nella vigna vicino a Pozzolino,
ovvero nel bel piano di Grottoli. Ma di ciò parleremo un po’ più avanti. Al tramontare del sole
avevamo già “merendato” e francamente ci sentivamo come ringiovaniti.
Anche se non avevamo trangugiato pietanze a base di carne arrosto o simile, eravamo ugualmente
soddisfatti e sazi. Malgrado la stanchezza accumulata durante l’intera giornata, ora avevamo voglia
di parlare e di scherzare.
Mio padre dopo consumato la merenda, ornava a casa, e le vacchine vi trainavano anche la
falciatrice. Il giorno successivo era il turno di un altro.
Riprendevamo il lavoro fino verso le nove, talvolta facevamo anche più tardi. Quando avevamo da
radunare le manne, specialmente con il chiaro di luna, succedeva di rincasare anche dopo le dieci.
Le zie, poverette, una volta giunte al Colombaiolino, avevano da percorrere ancora un bel tratto di
strada per giungere alla loro abitazione in paese. Perciò se al mattino giungevano nel campo insieme
a mio padre, erano pienamente giustificate. Non potevamo disconoscere il loro maggior sacrificio,
sarebbe stato da persone incoscienti. Ma finalmente , dopo tanto sudore perso là in quei campi
collinari lontani da casa, dove era persino impossibile trovare un po’ di ombra per riprendere fiato,
giungevamo nel “piano di Grottoli”. Eravamo in quel terreno tra filari di viti ed alte piante da frutto,
definito il “giardino di Asciano”, per la freschezza dell’acqua sorgiva, e per la sua stupenda e
rigogliosa vegetazione. Ricchezza che purtroppo mancava nelle zone circostanti
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Nelle nostre terre del piano, il frumento e gli altri cereali crescevano più rigogliosi che nelle zone
collinari, ne avevamo prova ogni anno. Conseguentemente anche le manne, al momento della
mietitura venivano “scodellate” ad una distanza che quasi si toccavano. In tale occasione, però, non
era sufficiente il gruppo di lavoratori o lavoratrici di ogni giorno, ovvero di quando mietevamo in
collina. Occorreva altra gente e ci rivolgevamo, come ogni anno a Giacomina, a Tosca, al Tordaio.
Qualche volta insieme alle zie giungeva una loro amica, certa Dinda, che abitava in Piazza del
Grano. Non posso non ricordare che in quei filari di viti dei nostri presoni, crescevano due
rigogliose piante di albicocco, piantate da mio fratello. Ora davano dolci frutto che maturavano
proprio nei giorni della mietitura. Perciò non mancavano momenti che li potevamo gustare con
soddisfazione. Ricordo molto bene quell’anno che in seguito ad un temporale con grandine e vento,
il grano venne sconvolto dall’impeto e non rimase in piedi, quindi lo dovemmo mietere a mano
fino l’ultimo filo. Fu una mietitura lunga e faticosa che si protrasse per molti giorni oltre al normale.
Venne a darci una mano pure lo zio Brandisio, uomo di una capacità e potenza eccezionale. La falce
che adoperava era molto più grande di quelle che usavamo tutti noi. Mentre noi riuscivamo appena
a legare una manna lui ne legava due. Però di quelle sue capacità non ne faceva vanto. Dal
momento che fu messo a riposo (lavorava a Medane) fu presente ogni anno per darci un aiuto, e noi
ne eravamo felici…Il giorno della “benfinita” facevamo merenda al campo, e mia madre,
mantenendo la promessa cercava di arricchirla. In tale occasione non mancavano la pastasciutta con
i fegatini di coniglio con la cui carne in umido con patatine novelle, seguite dalla sua specialità
costituita da “frittata rifatta col pomodoro”. Quell’anno che c’era anche lo zio Brandisio eravamo
un bel branchetto intorno alla tovaglia distesa per terra dalle zie e da Argentina. Tutto doveva essere
a puntino per festeggiare la benfinita. Intanto zio Brandisio tra un boccone e l’altro, accompagnati
da sorsi di vin bianco vergine, ci raccontava le sue vicende della passata guerra 1915-18 combattuta
nel Carso da bravo bersagliere. Una volta sistemato lo stomaco, in modo perfetto, riprendevamo il
lavoro refrigerati dalla brezza della sera. Eravamo felici perché sapevamo che quelle erano le ultime
battute della lunga e faticosa mietitura. Accadeva persino di doversi trattenere nel campo dei
“Presoni” fino a quando dalla “Torre dell’Orologio” non udivamo, ben marcate, battere le ventitre .
Ed allora anche se i lavori non erano completati, decidevamo di staccare. Lavoravamo ormai da
quasi 20 ore quindi un po’ di riposo era più che meritato. Se rimanevano delle piccolezze, come ,ad
esempio, delle mucchie da costruire, avremmo provveduto mio fratello ed io il giorno successivo.
Era questa la mietitura al Colombaiolino in Grottoli, ai tempi lontani della mia giovinezza. Sono
sicurissimo che non differenziava neanche di un minimo particolare da quella degli altri poderi della
mia zona. Desidero mettere in evidenza che, quando per la prima volta mettevamo la falce appesa
all’uncinello per andare a dare inizio alla mietitura, non eravamo grassi, ma al suo finire eravamo
striminziti come baccalà e scuri in volto e nel dorso come africani. A noi non occorrevano 15 giorni
al mare per prendere la tintarella. E dopo tanto lavorare, se il raccolto era scarso e deludente da non
permetterci neppure di poter acquistare un paio di scarpe nuove ciascuno, non sapevamo quale
Santo ringraziare. In tutto questo, nulla di più o nulla di meno consisteva la mietitura della quale,
malgrado tutto, sento anche oggi a tanta distanza di tempo un po’ di nostalgia.
Siena 16.04.2012
A. Leonini
Da “I miei racconti e rime strampalate”
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