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2^ EDIZ.QUANDO ANDAVAMO A SPIGOLARE .pmd
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SECONDA EDIZIONE
- EDIZIONE DIGITALE -
Palazzolo s/O 2012
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Sommario
Presentazione..............................................................................................
Introduzione...............................................................................................
Le Case Operaie negli anni ‘40.................................................................
Sirene e campane.......................................................................................
Èl dügalì........................................................................................................
La vasca.........................................................................................................
I còpò l’si ‘ndèl löc dè Giori.......................................................................
Il gruppo dei giovanotti ..............................................................................
La guerra.......................................................................................................
La grande fame............................................................................................
Custu dè ers.................................................................................................
Il segretario del Fascio................................................................................
Una cena improvvisata................................................................................
Taci, il nemico ti ascolta..............................................................................
Orticelli di guerra.........................................................................................
Il sacco di “madunine”.................................................................................
Don Marella..................................................................................................
Penne di gallina al posto della lana..............................................................
La spigolatura...............................................................................................
la mcinatura colorata....................................................................................
Per un sacco di grano...................................................................................
Mia madre....................................................................................................
Mio padre.....................................................................................................
Due storielle del patrimonio famigliare......................................................
Giornale radio..............................................................................................
La colonia elioterapica................................................................................
Manifestazioni fasciste................................................................................
Il Genio Pontieri..........................................................................................
Allarme aereo..............................................................................................
L’oscuramento.............................................................................................
Brüsò le ca operae.......................................................................................
A rubare la legna......................................................................................
A rubare l’uva..........................................................................................
L’inverno..................................................................................................
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Il mancato trasloco al Villaggio Marzoli..................................................
Dall’oro alla Patria alla requisizione delle campane...............................
La caduta del Fascismo.............................................................................
L’8 settembre - l’armistizio.....................................................................
Il soldato che fugge.................................................................................
Oronzo.....................................................................................................
Il ritrovamento di tre mitragliatrici.........................................................
Giacomo..................................................................................................
Scritte sui muri........................................................................................
La partenza dei republichini....................................................................
Il primo bombardamento.........................................................................
Altri bombardamenti...............................................................................
Sfollati al Maglio....................................................................................
La vita al Maglio....................................................................................
Le riparazioni del ponte.........................................................................
Mitragliamenti........................................................................................
Il ponte dell’autostrada...........................................................................
Mancanza di sale....................................................................................
Èl pècc dè la cavrò....................................................................................
Zia Orsola e zio Giovanni.........................................................................
La fabbrica del ghiaccio..........................................................................
Verso la Liberazione...............................................................................
I giorni della Liberazione........................................................................
Ghè che i Americà.....................................................................................
La fine della guerra..................................................................................
Ritorno alle Case Operaie........................................................................
Ghè che Tone dal soldat...........................................................................
Conclusione..............................................................................................
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Presentazione
del prof. Giovanni Zanni
Sono arrivato alle Case Fanfani nel 1952 quando avevo quasi sei anni, perché proprio
in Ottobre iniziai la prima elementare. Allora esse erano uno dei due condomini in
costruzione, appena ultimato, a tre piani a due entrate, per un totale di dodici appartamenti.
Facevano parte del Piano Fanfani, adottato anche a Palazzolo, per le costruzioni post belliche.
Era una domenica mattina: con mio padre andavamo a vedere il nostro appartamento, di
cui aveva ricevuto “le chiavi” la sera prima. Le case sorgevano proprio al di qua delle Case
Operaie, con cui confinavano mediante una muraglia di ciotoli di fiume, alla cui base scorreva
un “dùgalì”, un ruscelletto lungo e chiassoso, fino a gettarsi nel rione della seriola di Chiari.
In seguito si costruì una vasca con due lavatoi, ancora esistente in cui d’estate era permesso
ai bambini di fare il bagno, osservati puntualmente dalle mamme.
Davanti fino alla strada comunale si estendeva un grande campo su cui era costruita la
Ca’ dei Giori, casa fattoria in cui vivevano due anziani, conosciuti meglio in seguito. In
fondo, verso le Calci, un altro muro separava i campi dei Marzoli, coltivati allora a frumento.
La distesa dei campi ce lo faceva apparire in lontananza e quasi irraggiungibile. Quello fu
il primo impatto con le case operaie: un muro di separazione e l’acqua. Infatti scendendo
dai gradini di Pacì dovemmo saltare il muro divisorio, sbrecciato appena in una parte per
consentire un passaggio non ancora legittimato.
La mia prima impressione fu quasi di timore: il grigio delle case, la loro altezza, gli
sguardi interrogativi delle persone verso gli estranei che tentavano domenicalmente di
oltrepassare un limite. In effetti l’entrata per le case Fanfani proveniva dalla strada principale
davanti alla chiesa del S. Cuore, poco più oltre verso la stazione, dove inizia oggi via
Mazza Brescianini, alla villa Bertossi. Più tardi tutto mi diventò familiare. Superai il tabù
delle case operaie, in cui non era permesso a noi ragazzi di inoltrarci se non quando eravamo
accompagnati dai genitori. Venne abbattuto il muro, almeno una parte, per favorire il
passaggio, agli operai verso i Lanfranchi e i Marzoli, e alle donne, nuove abitanti, verso la
Piazza per le spese quotidiane e ai bambini verso la scuola, ancora sul Lungo Oglio. Il mio
primo amico fu un coetaneo, con cui venimmo a patti nell’estate per non impedire alle
bande di ragazzi le invasioni pacifiche dei rispettivi territori. Oggi non c’è più nessuna
separazione, sono sorte altre case ininterrottamente fino a raggiungere il rione delle Calci.
Quello che una volta era campagna, esplorabile dalla fantasia avventurosa di fanciulli,
oggi è più che un villaggio. Tuttavia i miei ricordi iniziali delle Case operaie sono legati a
quel mattino di giugno, in cui per la prima volta vidi le stanze in cui avrei trascorso la mia
infanzia e la mia giovinezza.
Leggendo i ricordi di E. Strabla si ha la possibilità di conoscere la vita alle case operaie,
soprattutto durante la guerra. “Quando chiudo gli occhi rivedo tutto il mio passato. Vi
sono due sguardi: lo sguardo del corpo e quello dell’anima; lo sguardo del corpo a volte
può cancellarsi dalla memoria, ma quello dell’anima vi rimane impresso per sempre”.
Penso che tale affermazione di A. Dumas nel “Conte di Montecristo” sia calzante a
definire l’atmosfera che avvolge la lettura dei fatti raccolti nei ricordi di un ragazzino. In
effetti l’io narrante è il ragazzino di allora, nel cui animo si sono impressi indelebilmente
ricordi puntuali ed inalterati.
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Egli narra i fatti, spogliandoli di ogni retorica e di ogni attribuzione elogiativa. Solo per
il piacere di ricordare e di comunicare. La capacità affabulatoria dell’autore fa pensare a
quei momenti di intimità familiare, quando ancora seduti al tavolo, a cui insieme si è
consumato il pranzo, si comincia a ricordare. “Ti ricordi…”. E allora il tempo trascorre
senza noia, per adulti e piccini. Le parole servono a rivivere e a rimeditare, oltre che a
consegnare ai meno grandicelli sprazzi di esperienze di vita, a goderne con inevitabile
ironia, qualche volta con un riso caloroso, talvolta con un umorismo che sollecita riflessione.
E’ un mondo che si scopre a poco a poco, che dona la sua semplicità, il buon senso di
una volta, gli affetti e la ricchezza delle relazioni interpersonali. Si affinano i ricordi
dell’anima con la frequentazione del racconto e la memoria consegna ai lettori i momenti
di difficoltà vissuti solidali nella comprensione e nell’aiuto reciproco.
E. Strabla è dotato di una capacità fascinante, pur usando un linguaggio semplice,
orale, ricco di particolari e di fatti. Non privilegia la descrizione ma il racconto. I ricordi
non risultano mai sfocati, conservano la schiettezza dei bambini che guardano le persone e
leggono le vicende con occhio disincantato. E dai ricordi freschi e vivaci le case operaie
rivivono, anche se esse hanno celebrato ormai i cento anni, nelle persone che le hanno
abitate nel tempo, nelle vicende di povertà dignitosa prodotta dalle circostanze e dai fatti
drammatici del periodo bellico. C’è una specie di necessità narrativa che esonda spontanea
dagli “sguardi dell’anima”, a volte così incisi quasi come ferite, ma a volte trasfigurati
dalla memoria e ripuliti dal dolore. Per scoprirli bisogna saperli leggere, i fatti, così come
vengono narrati, ricercando nella narrazione l’intensità emotiva, perché i fatti stessi possono
sembrare asettici, se non per lievi sfumature linguistiche. A volte alcune espressioni dialettali
danno tono popolare e rendono fresca la narrazione, senza per questo alterarne la
scorrevolezza.
Il tempo narrativo è circoscritto ad un lustro. Si inizia con la descrizione asciutta ma
precisa del luogo, dei giochi e della vita quotidiana. Raccolta in “una povertà dignitosa”,
da tutti condivisa e per questo meno pesante, perché ugualmente distribuita e accettata, la
vita alle case operaie costituiva un esercizio di solidarietà e di semplicità, condita con
l’intraprendenza spicciola che faceva fronte alle difficoltà della quotidianità. Specie quando
la famiglia era numerosa e ci si doveva arrangiare per rendere meno pungenti gli assalti
della fame. Puntuale la descrizione dei venditori ambulanti che entrano alle case operaie: i
venditori di legna e di spolverina, gli stagnari o stagnini, i venditori di verdura, il gelataio.
L’unico ad entrare, per acquistare pelli di coniglio e stracci vari, era lo straccivendolo.
Un rilievo particolare viene riservato al “brùto” e alla postina. Il primo vende articoli di
dolciumi, (ricordo lo zucco, la liquerizia da intingere nel limone, la patuna, le bustine di
farina pesta) e il suo aspetto è talmente “sgradevole” da portare un tale soprannome che ne
definisce ironicamente i lineamenti, ma non ne diminuisce la dignità, talora rivendicata
con fermezza. La seconda invece è ricordata non solo per la sollecitudine con cui recapita
alle madri in ansia la posta dei figli al fronte. Ella è personaggio eccezionale in umanità,
rigoroso e puntuale, ma partecipe con sollecita professionalità alla vita degli operai delle
Case. E poi le sirene e le campane, orologi di allora, in cui non tutti potevano disporre di
quello da polso o da taschino. Puntuali non già per il cronometro, ma per la comprensione
dei fatti: l’entrata al lavoro le prime, fatti gioiosi o luttuosi le seconde. Così come avvisarono
col loro grido prolungato dell’incendio delle Case Operaie nel 1942, il più grande mai
capitato a Palazzolo.
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I ricordi si fanno poi più familiari. Il ragazzino parla di suo padre e di sua madre. Le
due figure genitoriali rivivono nelle parole di stima del figlio, senza nessuna retorica
elogiativa, ma attraverso i fatti ed i comportamenti, incastonati nelle situazioni contingenti
di precarietà. Particolare affinità elettiva è espressa verso la sorella con cui condivide
numerose avventure, ora stemperate dalla originaria pericolosità: la spigolatura o la raccolta
di erba per i conigli. La narrazione ci istruisce anche sui modi di gestire le risorse comuni,
o per la raccolta della legna o per la raccolta delle spighe cadute dalla trebbiatura o per l’
erba raccolta sui confini dei prati. Fino al ricordo delle confessioni al povero ed amato don
Marella che assolveva il peccato di latrocinio commesso per necessità.
Infine i ricordi di guerra. La dichiarazione di guerra, alla cui proclamazione gli
atteggiamenti delle persone si differenziarono: chi si profonde in assensi osannanti di
arroganza e chi si cela in silenzi dolorosi. Soprattutto le madri di famiglia già timorose per
le sorti dei figli, prossimi alla partenza per il fronte. I bombardamenti, l’oscuramento, la
fame, la raccolta della legna e la sua distribuzione, anche per “la donna con due bambini
piccoli e il marito militare” che ebbe “il suo mucchio di legna uguale a quella di altri”,
arricchiscono la narrazione di atmosfere sospese nel tempo.
La raccolta dell’oro per la Patria, consegnato a malincuore dalla madre e la requisizione
delle campane, salvate miracolosamente. Il militare fuggitivo, “Oronzo”, ospitato dopo
l’otto settembre, di nascosto nonostante il pericolo della polizia, ritorna dopo la guerra a
sposare la ragazza di cui si era nel frattempo innamorato.
La scoperta del fratello partigiano, vissuta con ansietà dalla mamma insieme alla
preoccupazione per Antonio, lontano al fronte riconduce ad emozioni familiari. Di lui non
si seppe nulla se non al suo ritorno. Impiegò talmente tanto tempo Antonio, dal Portichetto
alle case operaie, per le fermate e gli abbracci festanti dei conoscenti, che i familiari, avvertiti
tempo prima, gli dovettero correre incontro se lo vollero vedere e riportare a casa.
Il ritrovamento di due mitragliatrici, residuo di un treno rovesciato nella campagna, di
cui non vennero mai rivelati gli scopritori, evidenzia il rammarico dei piccoli avventurosi.
Infine lo sfollamento al Maglio, presso gli zii, perché le case operaie erano diventate insicure
a causa dei bombardamenti al ponte ferroviario, la liberazione, la fine della dittatura e il
ritorno alle case operaie risparmiate. Ritenuta la Madonna legittima autrice di tale fatto
mediante la sua protezione, in suo onore si erige una statua, sotto la quale si celebra ogni
anno da allora una messa votiva. La vita riprende, con alcune piccole variazioni, tra cui i
nuovi lampioni notturni per le strade, ma con gli animi provati ed ora divisi dalle decisioni
politiche imminenti.
Si può giustamente affermare che sullo sfondo delle vicende narrate si stagliano le case
operaie. Esse appaiono il collante dei ricordi in cui famiglia, vicini, luogo, passanti
occasionali o tradizionali, diventano i protagonisti di episodi e di avventure intense per un
bambino, partecipe attento di una vita ricca di stimoli, di crescita umana e sociale. Egli
diventa testimone di un’epoca che può rivivere solo mediante la memoria, consegnata
all’oggi perché possa essere colto il senso di allora. E. Strabla sa comunicare non solo le
atmosfere, ma soprattutto rendere visibili i fatti con una proprietà di linguaggio semplice e
convincente.
Giovanni Zanni
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Piantina delle Case Operaie negli anni quaranta
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INTRODUZIONE (alla prima edizione)
Cinque anni fa mi sono deciso a scrivere queste note, sollecitato dalle mie figlie.
Mentre stavo loro raccontando alcuni episodi della mia infanzia, relativi al periodo della
guerra del ‘40 – ‘45, mi dissero: “Papà, perché queste cose, che ricordi così bene, non le
scrivi? Un giorno le potremmo leggere ai nostri figli!” .
All’inizio ritenni la cosa impossibile, per la mia inadeguata conoscenza della “lingua
Italiana”. Poi pensai che, se avessi scritto qualcosa degno di attenzione, forse mi sarebbe
stata perdonata la scarsa qualità grammaticale.
Così, un po’ alla volta, ho messo insieme queste pagine, le ho corredate con fotografie
e documenti per accrescerne l’interesse. Con l’aiuto dell’amico G.Battista Putelli e di mio
figlio Lorenzo, ho imparato ad usare il computer, quanto basta per impaginare e stampare
le prime copie di questo lavoro.
Quando mi è stato chiesto di pubblicarlo, ho accettato titubante. Voglio sperare che
anche altri, al di fuori dall’ambito familiare, trovino qualcosa di interessante in questi
miei racconti.
I fatti narrati si riferiscono in buona parte a quelli in cui viene coinvolta la mia famiglia.
Mi sono limitato a scrivere principalmente cose di cui sono stato direttamente testimone e
i pochi fatti, che riporto per sentito dire, come completamento, risultano evidenti a chi
legge.
In questa “Seconda edizione”, ho voluto riportare nel testo alcune foto di famiglia,
che al momento della stampa del libro avevo tralasciato, per dare più spazio a foto di
gruppi delle case operaie alle quali il libro veniva dedicato, mantenendo al tempo stesso
tutti gli aggiornamenti fatti, in occasione della prima edizione.
L’impaginazione è stata completamente rifatta per adattarla alle esigenze del formato digitale. Inserito nuovi documenti e attuati lievi ritocchi.
Appena uscito il libro ho ricevuto tante manifestazioni di consenso, molte persone mi
hanno telefonato complimentandosi e dicendo di essersi commossi alla lettura del libro,
di avere rivissuto momenti della propria vita e perfino di aver pianto, altre mi hanno
scritto delle lettere molto molto belle e commoventi, non pensavo di suscitare cosi tanti
sentimenti nella gente .............
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LA PRIMA FOTO CON CINQUE COMPONENTI DELLA MIA FAMIGLIA
In alto da sinistra: Una signora che non conosco, la cugina Paola “Moniga”,
Giacomo, Salvatore, mia mamma, la mamma di Salvatore, Antonio
sotto: Paola, Io nel seggiolone, una vicina di casa.
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Le Case Operaie negli anni quaranta
Abitare le case operaie in quegli anni era come vivere in un grande cascinale, con un
immenso cortile, perché in mezzo alle abitazioni non ci passavano strade come ora, ma
c’era solo un ingresso carraio all’inizio di via Marconi, un po’ più stretto di quello attuale
e la scaletta in fondo alla proprietà Moraschi.
Questo grande cortile era delimitato a nord da una muraglia, dietro la quale si estendevano campi coltivati fino al terrapieno della ferrovia; sbirciando dalla muraglia, oltre i
campi, si vedeva, a ridosso della ferrovia, la fonderia dell’ Ing. Pè, distrutta dai bombardamenti verso la fine della guerra.
All’interno di questo spazio noi ragazzi passavamo tutto il nostro tempo libero, uscivamo solo per andare a scuola, a messa, all’oratorio, o tutt’al più se mandati alla bottega a
fare qualche commissione, che eseguivamo di malavoglia, per dover interrompere il gioco.
Giocavamo da mattina a sera, si entrava in casa solo per mangiare alla svelta, eravamo
molto liberi ed i nostri genitori non si preoccupavano di sapere dove eravamo in ogni
momento della giornata
I giochi che facevamo più di frequente erano : il calcio con una palla di pezza, solo per
maschi, e caselle (una specie di baseball) con maschi e femmine.
Poi c’era il gioco con biglie, soldati, figurine, noci, ciancol, pirlo, tane, mondo e forse
qualcun’altro che non ricordo.
Per giocare a pirlo era necessario avere un pavimento liscio, allora certe volte ci spostavamo in mezzo alla strada o sul marciapiede dove c’era, qua e la, qualche pezzo di asfalto
integro. Il pirlo era una specie di piccola trottola in legno duro con una punta metallica,veniva
fatto roteare a colpi di frusta, era bravo chi lo teneva in movimento più a lungo. Il ciancol
era un bastoncino di legno di 15 cm. con le estremità a tronco di cono; il gioco consisteva nel
farlo saltare colpendolo con un bastone ad una estremità e poi con lo stesso bastone colpirlo
nuovamente mentre stava roteando in aria e scagliarlo il più lontano possibile
Eravamo tutti molto poveri, ma eravamo poveri allo stesso modo, per cui nessuno di
noi si sentiva umiliato, perché erano pochissimi quelli che avevano qualcosa più degli
altri, forse anche per questo, non si usava chiudere a chiave la porta di casa, ed i portoncini
a pianterreno, sia quelli che davano sul davanti che quelli che davano sul dietro, erano
sempre aperti, così che noi ragazzi durante i nostri giochi, potevamo passare da una parte
all’altra senza fare il giro del casamento.
Eravamo in tanti, perché in appartamenti di due stanze c’erano anche famiglie di sette, otto
persone. Noi vivevamo in due stanze ed eravamo in sette. La camera era grande perché, essendo a pianterreno, aveva in più, rispetto alla cucina, la larghezza delle scale; ci dormivamo in sei,
Giacomo dormiva in cucina in una ottomana, (una specie di divano, di colore rosa) io e Paola ,
essendo i più piccoli, dormivamo in un letto di una persona, uno dalla testa l’altro dai piedi,
c’era sempre da litigare per qualche pedata involontaria o non, che ci scambiavamo, poi Antonio e Luigina ognuno in una cuccetta ed i genitori nel letto matrimoniale.
La luce elettrica, molto scarsa, era data da lampadine (bushiti dè la lucè) da 10-25 watt al
massimo; avevamo con la società elettrica un contratto a forfait, con un limitatore che non
permetteva di prelevare più di 50 watt, per cui quando capitava di accendere contemporaneamente la luce in cucina, in camera, nel gabinetto o nel sottoscala, tutte le luci si mettevano a
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lampeggiare, allora bisognava affrettarsi a
spegnerne una. Nonostante questa poca
luce, mia mamma stava sempre alzata fino
a tardi a rammendare vestiti che, a forza di
pezze, non si sapeva più quale fosse la parte originale.
All’inizio la parte più lunga delle case
era divisa in due tronconi poi, per la necessità di costruire qualche stanza in più
per le famiglie numerose, i due pezzi vennero uniti; si ricavarono così dodici stanze, che vennero annesse agli appartamenti
vicini; questo costò ai ragazzi la perdita
di uno dei posti preferiti per i loro giochi,
e guadagnò alle case operaie l’appellativo di STATI UNITI; così ci chiamarono
per molti anni
“quelli degli stati uniti”
Più tardi la parte centrale di questo
troncone venne rialzata, ma questo non
fa parte del mio diario.
Parlando in questi giorni con
Domenico Siribelli riguardo alla data in
cui furono uniti i due tronconi delle case
mi diceva che ciò avvenne nel 1938, egli
ricorda che in quei giorni era morta la
Paola, Luigina, Enrico,1938
tabaccaia delle case operaie, la vedova
Pagani, mamma di Mauro. La ditta Siribelli che stava eseguendo i lavori, aveva da poco
acquistato, per la prima volta , un argano elettrico; nel giorno del funerale decisero di
non farne uso perché era molto rumoroso e non volevano disturbare. Mauro Pagani mi
ha confermato tutto quanto detto da Domenico Siribelli, precisandomi che sua mamma è
morta proprio nell’aprile del 1938.
Tutti quelli che entravano alle case operaie attiravano l’attenzione di noi ragazzi, se era
un forestiero lo seguivamo , nella speranza che chiedesse a noi qualche informazione; quando
entrava il carretto della legna era seguito da una scia di ragazzi desiderosi di aiutare a
scaricare e portare la legna sul solaio così si poteva rimediare 20 o 30 centesimi di mancia,
nel periodo estivo arrivavano spesso dei carretti di legna, (non durante la guerra). Alcuni
avevano dei fornitori fissi, ce n’era uno in particolare che veniva spesso col suo carretto, mi
pare che venisse dalle rive di Cividino, lo chiamavano “stort de le rie”, un’altro era
soprannominato “el bruto”. Altri contrattavano il loro carretto di legna alla pesa comunale,
che si trovava in via torre del popolo di fronte al monumento dei caduti, in questo posto si
fermavano i carretti che non avevano ancora un compratore, dopo la contrattazione il carico
di legna, veniva pesato e partiva per la casa del cliente dove scaricava la sua legna.
Una volta alla settimana passava “quello della spolverina” veniva in bicicletta da una
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località mi pare nei pressi del “San Gioan dè le furmighe”, aveva sulla bicicletta due
sacchi di una sabbia bianca e finissima, la spolverina, che la gente acquistava per pulire
pentole e piatti. Quando arrivava si faceva sentire col grido continuamente ripetuto,
“spolverinaaaa” e la gente usciva con un barattolo in mano e ne acquistava una o due
manciate. Gli straccivendoli (strasser) in realtà non vendevano niente, ma comperavano:
stracci, ossi di animali che erano stati bolliti e ripuliti a tavola della poca carne che avevano addosso, pelli di coniglio essiccate al sole e pezzi di metallo. Anche loro arrivavano in
bicicletta con dei grandi portapacchi sui
quali dei sacchi dove mettere la roba che EI bruto si adirava in un modo plateale quando
raccoglievano, essi si annunciavano lo chiamavano in quel modo, ma purtroppo a
declamando a più riprese il loro ritornello: quel tempo eravamo tanto abituati a chiamare
“straasseer, straasseer,…. strasse òss pèi la gente con il soprannome che di molte
dè conecc, è la fèramentò rotòòò”. Poi persone non si conosceva nemmeno il nome.
E così al sig. Alghisi capitava spesso che
c’erano i vari artigiani ambulanti che pas- qualcuno,senza intenzioni offensive, lo
savano urlando la loro professione, chiamasse in quel modo, lui si infuriava e
l’ombrellaio, il mulitta (l’arrotino), lo reagiva sempre nervosamente ma
scagnino (impagliatore di sedie) e ogni tan- educatamente nel riprendere il malcapitato:
to anche lo spazzacamino. Però quello che Un giorno entrato alle case operaie per
mi attraeva di più era il perolòt, ( lo sta- scaricare legna, fu avvicinato dalla signora
Ghita Cancelli, una buona e gentile signora che
gnino) anche lui faceva il giro delle case abitava sopra di noi, questa dovendogli parlare
annunciando ad alta voce la sua presenza lo chiamò cosi:
alle donne: Ghè ‘l pèrolòòòt …. ghè che “Iü siur bruto...” al chè lui si mise a tremare
èl pèrolòt doneee,…… poi dopo aver rac- dalla rabbia poi cominciò: “ la arde sciurò che
colto un certo numero di pentole da ripara- chel le le miò el me nòm, me so gnè l’bèlo
re, si sistemava li contro il muro della pri- gnè l’bruto, per favore la ma ciame piö i se,
me ma sa ciame Alghisi, töte le pèrsune le
ma casa dove ora inizia via Gramsci, met- ga el sò nòm, anche i sò scecc i ga el sò
teva per terra pentole e pentolini e sistema- nòm, giü èl sa ciamò Cesèr l’otèr Sèrafì e
va la sua semplice attrezzatura; faceva una dopo ghè èl Bèpino, èl me caal... (e qui
buchetta nel terreno, ci piazzava un tubo sottolineò fortemente caal) el sa ciamò stèlò!
con all’estremità una ventola comandata da dunque la èt che töcc i ga el sò nòm. Se le
una manovella e, con un po’ di carbonella, la öl ciamam Alghisi, la ma ciame Alghisi,
se la öl miò ciamam Alghisi, la pöl di che
formava la sua piccola fucina. Era uno spet- lòm de la legnò, ma però ga racomande
tacolo stare a vederlo lavorare: prendeva siurò Ghitò, la ma ciame pö con chel bröt
in mano un paiolo di rame, lo appoggiava nom le.” *
sul fuoco e, con una barretta di metallo che La povera donna rimase impietrita, aveva sempre
teneva in mano, otturava eventuali forellini, sentito tutti chiamarlo el bruto e non pensava
poi scioglieva all’interno del paiolo un po’ proprio di offenderlo. Comunque il sig. Alghisi
dopo aver fatto queste precisazioni, cambiò tono
di stagno e rigirandolo con abilità sopra il e sfoderando un ampio sorriso (anche se un po’
fuoco, ricopriva tutto l’interno del paiolo forzato) si pose a disposizione della donna per
con lo stagno liquido dandogli un bel colo- ricevere la sua ordinazione di legna.
re bianco lucente, intanto che eseguiva queil sig. Alghisi era originario di Chiari, per
sto lavoro teneva occupato entrambe le *questo
nel suo dialetto spiccava la “s”, come
mani, allora, certe volte, chiedeva a noi ra- pronunciata a Chiari od a Brescia
gazzi un aiuto per girare la manovella del15
la fucina, noi eravamo lì pronti ad aiutarlo, non aspettavamo altro che quello. perolòt
deriva dal nome pèröl dato ai paioli di rame
Il fruttivendolo Sèbigio arrivava con il suo carettino tirato da un cavallo, (i suoi nipoti,
oggi gestiscono un importante ingrosso di frutta e verdura, a Mura) chiamava sempre mia
mamma per proporgli un “ bòt” (un quantitativo di frutta troppo matura, o un po’ ammaccata, sulla quale faceva un prezzo a vista senza pesare), dopo una breve trattativa, vissuta
da noi con trepidazione,“l’affare” veniva sempre concluso.
I garzoni dei fornai arrivavano in bicicletta con le gerle sulle spalle, portavano pane a
tutte le ore, chi lo voleva per l’ora della colazione glie lo portavano prima delle sette e
poi facevano altri giri, secondo le esigenze e finivano l’ultimo giro verso mezzogiorno .
Verso le tre del pomeriggio, annunciato dal suono di una trombetta, arrivava “el rosho”,
con il suo veicolo a pedali carico di gelato, veniva chiamato da tutti “el rosho” perché
aveva una faccia tonda e rossa con pochi capelli rossicci anche quelli, noi correvamo tutti
a vederlo, ma raramente avevamo la possibilità di acquistare un gelatino, ed anche quando
ciò accadeva, era sempre per acquistare il più economico. Allora el Rosho prendeva in
mano il suo apparecchietto, lo regolava alla prima tacca, ci infilava un dischetto molto
grosso di ostia, quindi ti dava l’illusione di una bella palettata di gelato, ma poi rasava
inesorabilmente il gelato in eccesso e lo rimetteva nella sorbettiera, cosicché quando metteva il secondo dischetto e ti consegnava il piccolo sandwich, il gelato tra le due ostie era
ben poca cosa. Noi lo prendevamo in mano, ed anziché divorarlo con avidità come immaginavamo di fare mentre lo vedevamo nella sorbettiera, lo leccavamo molto lentamente
per farlo durare il più possibile e non finirlo prima degli altri.
Foto di gruppo nel giardino della Tabaccaia
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I gelati erano dei piccoli sandwich a forma circolare di quattro o cinque centimetri
quelli più economici, ed un pochino più grandi a forma quadrata quelli più cari. La
porzione di gelato in mezzo ai dischetti era di circa 10 mm per il più economico.
Poi c’era un personaggio molto importante che faceva il suo rapido passaggio, in
mezzo alle nostre case, la postina: questa era una brava signora che faceva molto bene il
suo lavoro: al mattino dopo aver messo in ordine la sua posta, sistemava in una borsa
quella che doveva portare più lontano e teneva nelle mani il pacco di lettere e cartoline
che incominciava a consegnare (a quei tempi erano quasi solo lettere e cartoline, non
esisteva tutta quella posta pubblicitaria del giorno d’oggi, e le varie bollette, gas, luce,
ecc. , venivano recapitate da appositi incaricati che facevano anche da esattori, però non
esistendo praticamente il telefono, si usava maggiormente la posta). Partiva a piedi dall’ufficio postale, che era allora sistemato nel palazzo comunale e portava la posta in tutto
il rione Calci , compreso la campagna. Era sua abitudine gridare ad alta voce i nomi delle
persone che avevano posta quel giorno e la sua voce squillante arrivava fino ai piani alti;
d’estate poi con le finestre aperte si spandeva in tutte le case, (non c’erano tutti quei
rumori che oggi arrivano alle nostre orecchie, non passavano macchine nè motociclette,
non c’erano aspirapolvere nè frullatori non c’era nemmeno il ronzio del frigorifero, nessun apparecchio radio nè stereo diffondeva canzonette) la gente chiamata correva giù,
così lei poteva consegnare ad ognuno la posta personalmente. Quando aveva la lettera di
un militare, sapendo con quale ansia la mamma aspettava notizie del figlio, cominciava
a chiamare quando era ancora sulla strada e sventolava con gioia la lettera, finché poteva
consegnarla alla madre che le correva incontro. Che partecipasse anch’essa alla gioia di
quelle madri lo si capiva bene e si vedeva anche com’era triste quando doveva dire ad
una madre che l’aspettava al passaggio “non c’è niente neanche oggi”. Anch’io durante
la guerra sono andato tante volte ad aspettare il passaggio della postina, quando da tanto
tempo non avevamo notizie di Antonio, non sapevamo nemmeno se fosse vivo e mia
madre mi mandava incontro ogni giorno alla postina, nella speranza che ci giungesse
finalmente una sua lettera.
Sirene e campane
Nel silenzio di quei tempi, il susseguirsi dei vari momenti della giornata, veniva scandito
da sirene e campane. Pochissimi possedevano un orologio da polso o da taschino, e solitamente lo “indossavano” solo nei giorni di festa, si trattava comunque di orologi a molla
poco precisi, come le grosse sveglie che tutti avevamo, la nostra veniva giornalmente
ricaricata da mio padre che provvedeva anche a riallinearla ogni giorno con l’orologio
della torre: allora era più sicuro affidarsi alle sirene ed alle campane.
Le campane iniziavano di buonora ad avvertire che la giornata stava iniziando, alle
quattro e mezza iniziavano con l’Ave Maria poi davano il segnale della prima messa, che
era alle cinque e mezza, e poi via via le altre messe. Verso le sette e mezza cominciavano
le sirene delle fabbriche a far sentire la loro voce, per sollecitare gli operai a recarsi al
lavoro. Queste non suonavano tutte alla stessa ora, ne avevano lo stesso tono cosicché
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con il suono diverso che c’era tra una sirena e l’altra, gli operai potevano stabilire: “questa
è quella di Marzoli, manca venti”, “è già suonato Lozio, svelto manca solo un quarto” e
così via Lanfranchi, Italcementi, ecc.. Quando suonavano le ultime sirene gli operai
dovevano già essere tutti sul posto di lavoro pronti a far partire le macchine. Dopo un poco
di silenzio partiva la campana che chiamava i bambini a scuola, questa campana cominciava a suonare dal giorno in cui erano aperte le iscrizioni alla scuola e proseguiva per
tutto l’anno scolastico, ad eccezione dei giorni di vacanza. Il suo suono insistente sembrava proprio un invito a recarsi a scuola, la campana faceva : don don don , ma a noi
dicevano che la campana ci chiamava e perciò faceva : dom dom dom (andiamo ). A
mezzogiorno, dalla torre, sempre in anticipo sulle sirene, arrivava il caratteristico scampanio dell’Angelus (però si diceva che “suonava il mezzogiorno”) allora cominciava a mettersi in movimento lo stomaco, mai riempito abbastanza, (altro che aperitivo) poi, nel giro
di pochi minuti, tutte le sirene annunciavano l’uscita degli operai e le strade si riempivano
di gente che correva svelta a casa, (tutti a piedi o in bicicletta) per il rientro in fabbrica
delle ore 14 (13,30 d’inverno) si ripeteva il rito delle sirene.
La fantasia popolare abbinava spesso al suono delle campane le parole di una cantilena o filastrocca, mi ricordo che quando suonavano a festa le campane per annunciare un
battesimo, le ridicole parole che taluno abbinava erano : “porco dun asèn shet gnit al
mont a fa?” “ghè gnit al mont me padèr, sho gnit al mont po me !”
Quando era in arrivo un brutto temporale che avrebbe potuto portare tempesta, una
campana, che aveva anche una funzione propiziatrice, avvisava del pericolo imminente,
(certe volte il temporale era più svelto del campanaro) allora, se non ce ne eravamo resi
conto già prima, si correva a chiudere porte e finestre, si raccoglieva in fretta la biancheria
stesa, i contadini facevano entrare in casa pulcini e animali più piccoli, se eravamo in giro
scappavamo di corsa verso casa: “dai che shunò l’bröt tep”. La gente in genere aveva
paura del temporale; molti pregavano, alcune persone ad ogni fulmine che sentiva cadere
vicino esclamava: Gesù Giuseppe Maria. (in queste occasioni per scongiurare gravi danni ai campi si usava correre all’aperto e bruciare un mazzetto di ulivi benedetti il
giorno delle palme, mia mamma ex contadina manteneva questa tradizione. Mi ricordo
di una volta che aveva appena acceso un focherello con dei rami di ulivo benedetto,
quando arrivò una violenta tempesta che spense il fuoco e ricoprì gli ulivi sotto uno
spesso strato di grandine, passato il brutto temporale mia mamma ricuperò gli ulivi e li
tenne per un’altra occasione.
La fine di tutte le attività della giornata era segnalata ancora da una campana, questo
segnale era detto l’Ave Maria. In certi periodi dell’anno a noi ragazzi più piccoli era
concesso di rimanere fuori a giocare fino a quando suonava la campana dell’Ave Maria,
dopo, si diceva, uscivano le streghe, e noi ai primi rintocchi scappavamo tutti in casa.
Alla fine della guerra ad una campana fu assegnato un compito più triste, alla sera
prima dell’Ave Maria questa campana batteva tanti rintocchi quanti erano i soldati caduti
in guerra, ed i parenti dei caduti che sapevano a quale rintocco fosse abbinato il loro caro
contavano i rintocchi per poter dire: ecco questo è per il nostro…… . Questo rito è andato
avanti per parecchi anni.
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Èl dügalì
Un prezioso canale di acqua proveniente dalla
seriola Fusia attraversava le case proprio vicino alla
muraglia che ci divideva dai campi e si gettava poi
nella seriola di Chiari. Questo canale oltre che servire come lavatoio per i panni e per attingere acqua
per bagnare gli orti, diventava nel periodo estivo un
centro di ritrovo: poco dopo mezzogiorno tutte le
ragazze scendevano a lavare le stoviglie, una a fianco
all’altra con i piedi nell’acqua, ed i piatti appoggiati
sul muretto che faceva da sponda al canale; con un
po’ di sapone e spolverina li lucidavano bene dentro e fuori, (i piatti però non erano molto sporchi
perché già ripassati più volte a tavola) poi le ragazze si mettevano in fila ad aspettare il proprio turno
per risciacquarli alla fontana di acqua potabile che
c’era vicino al canale.
Nei mesi più caldi, verso le quattro del pomeriggio,
Ragazze al dügalì
le donne rinunciavano di buon grado per un paio d’ore
ad usare il canale e lo lasciavano a disposizione di noi
ragazzi: Allora veniva messo una chiusa nel punto dove il canale scompariva sotto terra, in
modo che l’acqua si alzasse fino a coprire la parte usata come inginocchiatoio. Ottenevamo così
una piccola piscina dove tutti noi ragazzi ci tuffavamo in un vociare infernale.
Rosi e Fortunato tornano dal dugalì, con le stoviglie lavate
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La vasca
Se sul confine Nord avevamo quel meraviglioso canalino d’acqua tanto utile, a Sud
dietro le case verso la valle dell’Oglio, ad interrompere la lunga fila di orti, c’era “la vasca”,
una vasca di circa cinque metri per tre con un muretto tutto attorno, con la parte superiore
inclinata in modo tale che le donne potevano lavare i panni stando comodamente in piedi
e un tetto molto grande permetteva di lavare anche quando pioveva. La vasca era alimentata da un cannello d’acqua proveniente dalla seriola Fusia e un foro di troppo pieno scaricava nella seriola di Chiari. Il ricambio dell’acqua era piuttosto lento per cui, a causa del
forte lavoro, l’acqua era sempre molto sporca, allora era necessario fare la coda per risciacquare sotto il rubinetto o trasferirsi al
canalino. Naturalmente
la vasca era utilizzata
maggiormente da chi
abitava li vicino.
Nelle sere d’estate
però quando veniva
svuotata pulita e riempita, anche se era già
all’imbrunire, veniva
concesso ai ragazzi più
grandi di entrare a fare
il bagno.
la Vasca nel modellino fatto da Fortunato
I còpò l’si ’ndèl löc dè Giori.
Attorno al perimetro delle nostre case c’erano altre realtà che in modo più o meno
sentito venivano a far parte della nostra vita.
Aldilà della strada c’era un altro troncone di case operaie, quelle dove abitiamo noi in
questo momento, (2000) però con queste, che chiamavamo “caopèrae dèi sciòre”, noi
avevamo poco a che fare, sia perché c’era la strada di mezzo, ma anche perché li consideravamo di un ceto sociale più elevato (quasi tutti impiegati o capi reparto) i pochi ragazzi
che vedevamo giocare sul muretto non venivano mai di qua a giocare con noi e noi non
andavamo mai dalla loro parte, quelle poche volte che ci andavamo per curiosare ci mandavano via.
La trattoria “Pacì” invece, era oggetto di molta attenzione da parte nostra: attraverso
la rete vedevamo quelli che giocavano a bocce, e qualche volta ci venivamo portati dai
nostri padri (bubà) e appena un po’ cresciuti ci siamo entrati anche noi a giocare a bocce,
quando il campo non era occupato dai grandi .
Poi oltre il confine degli orti c’era il tiro a segno, del quale parlerò in seguito, nella
parte dedicata alle manifestazioni fasciste.
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Quello che ci coinvolgeva maggiormente era la campagna e la cascina dei Giori.
Questa confinava con le nostre case tramite una muraglia che correva su tutto il lato nord,
su questa muraglia noi avevamo un punto facilmente accessibile, dal quale potevamo osservare tutto quanto avveniva al di là, così seguivamo il lavoro dei campi, quando aravano, seminavano, o mietevano, poi, quando in cascina trebbiavano il grano, (i bat èl formet)
era un avvenimento che ci impegnava ad escogitare qualche soluzione per assistervi, o da
sopra il muro o attraverso i buchi del portone. Qualcuno di noi veniva anche fatto entrare per
dare una mano. La trebbiatura produceva un polverone enorme, gli uomini che ci lavoravano
portavano un grande fazzoletto legato su naso e bocca per evitare di respirare tutta quella polvere.
Però l’avvenimento di maggior interesse era quando uccidevano il maiale. Il momento
ci veniva annunciato dalle grida strazianti che l’animale faceva quando lo prendevano e lo
legavano, il maiale gridava così forte che veniva udito in tutta la zona:
“I còpò l’si ’ndèl löc dè Giori”, la notizia si spargeva in un attimo, allora noi ragazzi
correvamo subito a cercare un posto per assistere alla scena. Quando eravamo fortunati,
facevamo in tempo a vedere il povero animale che, ancora vivo, veniva appeso a testa in
giù alla trave del portico, mentre continuava ad urlare in modo orrendo, senza smettere un
attimo. Quindi veniva sgozzato ed il sangue raccolto in un secchio, per fare “la torta”, poi
con dei pentoloni di acqua bollente veniva “sbroiato” (sbollentato) e raschiato per bene,
quindi gli aprivano la pancia e poi veniva squartato. A questo punto per noi lo spettacolo
era finito e tornavamo ai nostri giochi.
la cascina GIORI all’inizio del 900
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Il gruppo dei giovanotti
I ragazzi più grandi, quando avevano finito la quinta elementare, specialmente i maschi, andavano tutti a lavorare. Venivano mandati in piccole officine, o da artigiani dove il
più delle volte non venivano neanche pagati, tutt’al più alla fine della settimana prendevano
una mancia a discrezione del “padrone”. Però si diceva che nel frattempo avrebbero imparato un mestiere, ed in parte era vero. Poi a quattordici anni i più fortunati trovavano posto
in qualche fabbrica, o si fermavano dallo stesso artigiano che gradatamente iniziava a pagarli regolarmente.
Alle case operaie c’era un gruppo di ragazzi, o meglio di giovanotti, che avevano mediamente una decina di anni più di me e dei miei amici. I miei fratelli Antonio e Giacomo ne
facevano parte, questi giovanotti sentendosi già grandi facevano un po’ i bulletti, si trovavano tutti i giorni in fondo alla strada “nel tempo dell’ora” come si definiva l’intervallo di
lavoro, che d’estate era da mezzogiorno alle quattordici. Mangiavano in fretta e poi si
trovavano tutti al muretto che dava sulla strada, e lì ridendo e scherzando, aspettavano le
ragazze che dovevano passare sulla strada per andare a lavorare. Le più attraenti o “sofisticate” venivano sottoposte ad una vera e propria passerella, e mentre quelle passavano venivano fatti, ad alta voce, commenti sul modo di vestire o su quello di camminare, per cui le
poverette diventavano paonazze per il disagio, tanto che molte allungavano la strada anche
di molto pur di non passare davanti alle case operaie. Quando poi nevicava, le povere
ragazze venivano prese di mira con una pioggia di palle di neve. Nonostante questo comportamento scorretto, (o forse proprio per questo) noi più piccoli li ammiravamo e li vedevamo come i nostri idoli. Del resto l’abitudine
di fare scherzi e di prendere in giro la gente era
molto radicata, e non ci
si scandalizzava molto di
questi comportamenti.
Una grande burla che
fecero questo gruppo di
giovani passò alla storia
delle case operaie:
A
quei tempi, le porte di entrata nei corridoi poste sul
retro, lato orti, erano situaAntonio e Giacomo con un gruppo di amici
te all’interno rispetto ai gabinetti, per cui anche se
chiuse, i gabinetti a pianterreno restavano accessibili dall’esterno. Ebbene una notte questi
lavativi, asportarono tutti gli usci dei gabinetti a pianterreno, e li accatastarono in mezzo alle
case operaie. Immaginatevi la gente che al mattino si trovò senza la porta del gabinetto, le
proteste e le imprecazioni. Ma poi dovettero rassegnarsi e andare a riprendersi la porta, allora
si assisté ad una scena di grande comicità, tutti gli uomini indaffarati a cercare nel mucchio la
propria porta e una volta trovatala caricarsela sulle spalle e portarsela a casa.
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Il traffico stradale permetteva di sostare in strada, ed al fotografo Chiarini di scattare le sue foto.
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La Guerra
Quando per l’Italia è iniziata la seconda guerra mondiale io avevo circa sei anni, eppure di questo giorno conservo dei ricordi importanti, probabilmente si tratta di fatti continuamente richiamati nella memoria e rammentati negli anni successivi, per cui ho potuto
conservare nella memoria le cose essenziali.
Quel giorno c’era una certa animazione alle case operaie, i portavoce del regime fascista, avevano fatto circolare la notizia che alla sera il duce avrebbe fatto un importante
discorso alla radio e invitavano tutta la popolazione ad organizzarsi per poterlo seguire.
Allora il sig. Enrico Locatelli, che era forse l’unico che possedeva un apparecchio radio,
ed abitava al secondo piano, in una posizione centrale rispetto alle case, aveva sistemato
su di una finestra la sua radio per dare la possibilità a tutti di seguire il discorso.
All’approssimarsi dell’ora stabilita, che presumo fosse verso le 18 – 19 dato che c’era
ancora chiaro, ed erano già tornati quelli che lavoravano in fabbrica, andavano formandosi dei gruppetti di persone sotto la finestra e noi ragazzi giocavamo lì nei dintorni perché
capivamo che si aspettava qualcosa di eccezzionale e volevamo essere presenti.
Poi ci fu il famoso discorso del Duce, la gente tutta in piedi in silenzio ad ascoltare,
(dalle cronache possiamo sapere che si tratta del discorso del 10 giugno 1940, in cui
Mussolini dichiara l’entrata in guerra dell’Italia contro Inghilterra e Francia). Ricordo
solo che si diceva che era scoppiata la guerra, ricordo anche che alla fine non ci fu nessun
entusiasmo. Tra gli uomini prevaleva un senso di rassegnazione, ma anche di speranza,
forse, dicevano, ci sarà più lavoro per tutti, la propaganda del regime diceva che la guerra
avrebbe portato nuove terre, lavoro per tutti, ricchezza.
Ma tra le donne io ricordo un grande sconforto, nei loro discorsi c’era la preoccupazione per i figli che sarebbero partiti per la guerra, mia mamma e molte altre piangevano.
Noi ragazzi non capivamo, pensavamo che la guerra fosse una cosa divertente.
La grande fame
Da quel giorno della dichiarazione di guerra, i miei ricordi fanno un salto fino al periodo in cui la situazione alimentare toccò livelli veramente insostenibili.
Da tempo erano entrate in vigore le tessere annonarie sui generi alimentari, (ma in
seguito anche su tutti i generi di abbigliamento, perfino sigarette, sapone e legna da ardere). Ad ogni cittadino veniva data una tessera con dei bollini ogni bollino corrispondeva ad
una quantità di prodotto, la tessera del pane era molto grande con 30 – 31 bollini, la razione
giornaliera, nel periodo peggiore, per noi ragazzi e per gli adulti che non lavoravano, era di
150 grammi, che scendeva a 100 grammi se si voleva anche un pò di farina di polenta, i
lavoratori avevano un pò di più, poi c’era un supplemento per i lavori pesanti. Davvero poco
se si pensa che non si mangiava altro. Al mattino ci si recava dal fornaio con una tessera, ed
egli prendeva la forbice e tagliava tanti bollini quanti ettogrammi di pane si ritirava. Altri
prodotti, come la pasta, nera anch’essa, si ritiravano periodicamente quando arrivavano, non
ricordo quant’era la razione di pasta, però ricordo che, quando si faceva una sufficiente pastasciutta poi per parecchi giorni di pasta non se ne mangiava. Anche la carne era tesserata, ma
di questa non notammo la differenza perché anche prima del razionamento si comperava
raramente.
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Naturalmente con le razioni stabilite dal regime non era possibile campare, allora ognuno
cercava di comprare altra roba, pagandola un po’ più di quanto stabilito per quella tesserata.
Però rapidamente la merce sparì dai negozi, raggiunse cifre molto alte, e veniva venduta
solo alla cosiddetta borsa nera. Chi non aveva la possibilità di comperare a queste cifre,
doveva rassegnarsi a patire la fame. Questa era la situazione della maggior parte della
gente delle case operaie, almeno per quel che riguarda il periodo iniziale della guerra,
della quale fummo colti impreparati.
Ricordo una sera d’estate, si avvicinava l’ora di cena, mio padre e Antonio erano
appena tornati dal lavoro, mia mamma era preoccupata perché non c’era niente da mangiare, la razione di pane era stata tutta consumata tra colazione e pranzo. Io ero andato a
fare il solito giro pomeridiano dal nostro fornaio per chiedere se c’era qualche rimasuglio.
Altre volte era capitato che mi desse un po’ di pane duro spezzettato che racimolava nel
fondo dei cassoni, ma questa volta ero tornato con la borsa vuota. In casa non c’era nulla,
nè pasta nè farina. Si stette un po’ a pensare, poi Antonio disse: “provo ad andare da un
contadino, un mio amico che abita alla Valena, chissà che non riesca a rimediare qualcosa”, e inforcata la bicicletta partì. Non so quanto sia stato via, nell’attesa lo stomaco non ci
dava tregua. Intanto era arrivato anche Giacomo e si sedette con noi fuori casa sul filetto
del giardino ad aspettare, nel frattempo facevamo previsioni per lo più pessimistiche. Invece dopo un po’ vedemmo Antonio arrivare raggiante, aveva una mano sul manubrio, e
nell’altra alzata teneva stretto un fagotto che sventolava a destra e sinistra, appena fu a tiro
gli fummo addosso. Con grande gioia vedemmo che nel fagotto c’era un grosso pezzo di
Io, Luigina, Paola, e la mamma, con un gruppo di vicini di casa,
i fratelli, cugini e le zie Cancelli, sul ponte della seriola presso Casinghini
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polenta, più di metà di una grossa polenta. In casa avevamo un pò di lardo, lo avevamo
barattato con un contadino in cambio di una delle nostre tessere dello zucchero (il contadino aveva dei bambini piccoli e lo zucchero della tessera non gli bastava, mentre noi potevamo rinunciare ad una parte di zucchero in cambio di qualcosa che fosse più necessario).
In un batter d’occhio delle belle fettine di lardo friggevano nella padella, mentre mia
mamma affettava con precisione la polenta, poi fece le parti e riuscì ad accontentare tutti.
Facemmo una grande festa a quella polenta e lardo; chi preferì la polenta scaldata assieme
al lardo e chi la preferì fredda. Io ho sempre serbato un bel ricordo di quel pranzo rimediato all’ultimo momento, e anche negli anni successivi, anche ora, nonostante il colesterolo,
ho sempre gradito polenta fredda e lardo arrostito.
Lo scambio di tessere con qualche prodotto che si riteneva più utile, era prassi molto
praticata, ricordo che Giacomo cedette la propria tessera delle sigarette (lui non fumava)
ad un calzolaio, il quale in cambio gli fece un bel paio di sandali in cuoio, che a quei
tempi erano una rarità.
Custu de ers
Ci sono episodi in questo periodo di grande fame, che raccontati ora possono sembrare
esagerati o inverosimili, ma solo chi li ha vissuti può credere e valutare.
Una sera , con altri ragazzi della mia età, stavamo giocando nel nostro grande “cortile”
tutti con una grande fame addosso, e lì vicino il Sig. Bianchetti stava lavorando nel suo
orto dove aveva raccolto da pochi giorni delle verza, lasciando nel terreno la radice e il
torsolo che spuntava per una spanna e più, ad un certo punto, non so se fu una sua intuizione o se avesse ascoltato i nostri discorsi di fame, sta di fatto che ci disse: ragazzi volete
questi custù dè ers? Non ce lo facemmo dire due volte, ce li tolse dal terreno, una decina
in tutto, li ripulimmo e ce li mangiammo con grande gioia, non erano gran ché, ma pur
sempre qualcosa in più nello stomaco, e noi ragazzi di questo fatto ne parlammo molte
volte negli anni successivi.
Il segretario del Fascio
Questo episodio l’ho raccontato molte volte, lo raccontavo di solito quando sentivo
citare il famoso aneddoto sulla regina di Francia, Maria Antonietta , che alla gente affamata che chiedeva pane rispose: “se il popolo ha fame e non c’è pane, dategli le brioches”
perché credo che abbia molte analogie, e inoltre fa pensare che la regina con la sua frase
infelice, forse, non volesse fare dello spirito, ma che si trattasse di una vera ingenuità.
Un giorno di quelli del periodo più nero, alcune donne tra le più coraggiose decisero di
recarsi dalle autorità per far presente che la situazione alimentare era diventata insostenibile.
L’iniziativa venne presa da una donna “battagliera” molto conosciuta in paese all’epoca, si
chiamava Scolastica. Ella fece la proposta a mia mamma, che accettò subito e si impegnò
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a convincere alcune donne delle case operaie, la Scolastica da parte sua portò un po’ di
donne delle calci, dove abitava. Così verso sera questo gruppetto di donne si incamminava
verso mura dove c’era la casa del segretario del fascio e per fare più presa, o per sentirsi
più protette, si portarono anche un bel gruppo di bambini, ed io ero tra questi. Arrivati sul
posto aspettammo nello spazio antistante la casa che questa persona venisse a sentirci.
Nell’attesa alcune donne non nascondevano la loro paura, paura di venire trattate male, o
addirittura paura che facessero intervenire le guardie, come si sentiva dire fosse stato fatto
in altre occasioni. Quelle più coraggiose cercavano di rinfrancare le altre. Ad un certo
punto il segretario del fascio in persona uscì di casa e venne ad ascoltare le nostre ragioni,
e ascoltò con grande attenzione tutto quello che avevamo da dire, ma dopo essersi reso
conto che il problema principale era il pane, perché quella misera razione giornaliera della
tessera non era sufficiente, secondo le donne, a sfamare un ragazzo, state a sentire con che
discorso uscì questo signore:
“ma benedette donne, vi create problemi perché credete che ci sia solo il pane per
nutrirsi, ma non è vero, guardate che ci sono alimenti che hanno ben più sostanza del pane,
(a quell’epoca “valore energetico” non si usava) non è necessario rimpinzarsi di pane,
vivo anch’io con il pane della tessera, questa mattina a colazione, per esempio, mi sono
bevuto un uovo e mi sono messo da parte il panino per il pranzo, eppure sono stato bene,
allora ai vostri figli dategli delle uova, dategli della frutta, e vedrete che non vi cercheranno sempre il pane”.
Di fronte a questa sortita, le donne che da tempo non vedevano uova , si sentirono
prese in giro, (a quei tempi non esistevano gli allevamenti di galline e le poche uova erano
praticamente introvabili, comunque oggetto da mercato nero, quanto poi alla frutta non
potevamo certo permettercela) allora reagirono con rabbia, anche quelle che fino a quel
momento erano state zitte trovarono il coraggio per gridare ad alta voce la loro protesta, ed
in quel tumulto volarono anche degli insulti all’indirizzo del segretario, il quale dapprima
non riuscì a rendersi conto del perché di questa reazione, ma poi ponendo più attenzione ai
discorsi delle donne, le quali continuavano a dire che non avevano altro che il pane della
tessera da mangiare, capì meglio la situazione, e per tranquillizzare le donne promise che:
a chi si fosse presentata in Comune l’indomani, avrebbe dato dei buoni per un po’ di pasta.
Al mattino dopo, non tutte le donne erano presenti in Comune, qualcuna non si era
fatta vedere nel timore che si trattasse di un pretesto per dare una punizione a chi aveva
osato protestare, invece il segretario mantenne la parola, ed a tutti i presenti vennero dati
dei buoni per qualche chilogrammo di pasta, così per un po’ di giorni potemmo fare delle
ghiotte pastasciutte, anche se si trattava di pasta nera condita con un po’ di conserva.
In quel periodo ad alcuni ragazzi veniva una specie di gozzo,
allora a scuola ci davano delle pastiglie che contenevano iodio.
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Una cena improvvisata
Voglio raccontare anche questo piccolo episodio perché mi sembra che possa testimoniare bene come si vivesse alla giornata.
Una sera mio padre tornò dal lavoro con un pezzo di brosölò, così veniva chiamata,
era un pezzo di carne magra di maiale, penso che si trattasse di lonza o filetto, sarà stata
poco più di mezzo chilo, ma allora avere in casa un pezzo di carne di maiale era una cosa
impensabile, la “brosölò” poi era considerata una vera leccornia. Gliel’aveva regalata un
suo collega di lavoro che faceva anche il contadino, aveva ucciso il maiale e gli aveva
portato questo bel regalo. In casa non avevamo né pane né polenta, ma solo una zucca che
mio padre aveva raccolto nel nostro orto, (le zucche erano uno dei prodotti che a mio padre
riuscivano meglio nell’orto) e un po’ di farina di frumento.
Non si pensò nemmeno di aspettare il giorno dopo per avere almeno un po’ di pane da
mangiare con quella carne inaspettata, ma ci demmo subito da fare a escogitare come
utilizzare quello che avevamo in casa. Allora mia madre disse ci penso io! Prese un bel po’
di zucca la fece bollire e la schiacciò con la forchetta, quindi ci mischiò della farina di
frumento e la rimise sul fuoco in un paiolo, e la fece cuocere come una polenta. Intanto che
la polenta cuoceva anche la “brösolò” veniva tagliata a fettine e arrostita, alla fine si fece
festa, con un bel pezzo di questa strana polenta ed una fettina
di carne rosolata, succosa col suo bel intingolino.
Taci, il nemico ti ascolta
Nel periodo della guerra, e specialmente nel primo periodo era proibito dire pubblicamente che si aveva fame, perché
lamentarsi era considerato disfattismo, secondo il regime fascista si poteva favorire il nemico, il quale non doveva sapere
che eravamo ridotti alla fame. (il lamentarsi per la mancanza
di libertà, era punito da sempre con bastonature, olio di ricino, o la galera).
Nei locali pubblici (osterie) c’erano affissi degli enormi
manifesti con rappresentato un tizio con il dito indice in verticale davanti alla bocca, e sotto una grande scritta:
TACI IL NEMICO TI ASCOLTA , inoltre i gestori delle osterie per evitare grane esponevano anche degli avvisi che
dicevano:
QUI NON SI PARLA DI POLITICA
NË DI ALTA STRATEGIA .
Però alle case operaie i seguaci del regime erano pochi, e
la gente parlava di queste cose senza il rischio di venire denunciati. Clandestinamente circolavano barzellette e battutine da: “Il Popolo di Brescia”
contro il regime, che, se non altro, servivano a tirare su un
pochino il morale.
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Mi ricordo che in un certo periodo
circolava questa canzoncina, che cantavamo sotto voce sull’aria della allora celebre “Lili Marlen” :
Quando alla sera
mi siedo per mangiar
tutto è già finito
prima di cominciar
Anche stassera aspetterò
e un altro buco stringerò
sta ‘npe a culp dè ènt *
sta ‘npe a culp dè ènt
* Si sta in piedi a colpi di vento
alcuni manifesti utilizzati
nella campagna “Taci! il
nemico ti ascolta”
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Orticelli di Guerra
Nei primi tempi della guerra fummo colti di sorpresa, poi si cominciò ad escogitare
tutto il possibile per non morire di fame, la situazione non cambiò molto, però si riuscì a
rimediare qualcosa di più da mettere nello stomaco.
Tutti i pezzetti di terreno attorno alle case operaie, dove era possibile coltivare furono
vangati e trasformati in orti, il regime da parte sua faceva propaganda perché tutta la gente
si facesse un orto: l’orticello di guerra
Anche gli autori di canzonette appoggiavano questa propaganda. Una canzonetta, che
raccontava la lettera di un ragazzo al papà al fronte, faceva così:
… anch’io combatto, anch’io fò la mia guerra
con fede con amore e disciplina
desidero che frutti la mia terra
e curo l’orticello ogni mattina
l’orticello di guerra, e prego Dio
che vegli su di tè babbuccio mio.....
Nello spazio verso ponente dove ora ci sono i garage c’erano già dei bei orti, anche noi
ne avevamo uno, ma poi furono trasformati in orti tutti i giardini e tutti gli spazi dove ora
ci sono i piazzali delle macchine. Naturalmente questi nuovi spazi furono assegnati a
coloro che non avevano già un orto.
Si piantava di tutto, perfino granturco, e
più tardi qualcuno a provato a coltivare anche
girasoli per trarne dell’olio. Forse la tecnica
di spremitura dei girasoli non era molto avanzata, perché io ricordo che si faceva un olio
non molto apprezzato, nonostante che a quel
tempo ci si adattava a tutto. Fausto Bedoschi
e Vittorio Piavani, avevano una piantagione
di girasoli lì dove ora c’è la cabina del telefono. Poi negli orti si fecero recinti per galline e
conigli, recinti non molto grandi per non rubare spazio all’orto. Anche sui solai vennero
sistemate gabbie per i conigli, questo ci costrinse a convivere con profumi non molto graditi, ma ci si abituò presto.
Per noi ragazzi la vita cambiò di parecchio perché ci venne ridotto notevolmente il
tempo da dedicare al gioco, prima bisognava
pensare a procurare l’erba per i conigli. Partivamo con il nostro sacco e ci inoltravamo nella campagna anche per qualche chilometro,
14 maggio 1941, giorno della prima
perché erano molti quelli che cercavano erba,
Comunione e Cresima per Enrico e Paola
perciò non era facile trovarne nelle vicinanze;
certe volte si arrivava fino alla Spina.
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Tornavamo che era quasi sera con il nostro sacco di erba sulle spalle, anche se devo
dire che siccome si andava in gruppi di amici, strada facendo trovavamo anche il tempo
per giocare. Se non si “andava per erba” c’era
da portare acqua all’orto, mio padre prima
di andare al lavoro ci faceva il programma:
due secchi di acqua ai pomodori, uno ai cetrioli, tre alle zucchine, ecc. ecc. . Bisognava
riempire bene le buche che Lui aveva predisposto attorno alle piante; quello a cui teneva particolarmente erano le zucche: ogni
pianta aveva una sua buca dove bisognava
versare due secchi d’acqua, e non c’era da
fare i furbi perché mio padre s’accorgeva se
l’acqua era poca, e poi le zucche con le loro
enormi foglie lo dicevano da sole, quando
avevano sete si afflosciavano vistosamente.
Anche dopo la guerra mio padre coltivò
Bisogna dire però che noi avevamo le misempre con passione le zucche, eccolo con
gliori zucche di tutte le case operaie, con le altre
un esemplare di 39 Kg raccolto poco
verdure mio padre non brillava eccessivamente,
prima che gli orti venissero abbattuti per
fare posto ai garages.
ma con le zucche non lo batteva nessuno. Ap(la notizia pubblicata dal “Corriere”)
profittando del fatto che il nostro orto confinava
con il bersaglio, sfruttava la rete di cinta molto
alta per farci arrampicare le zucche, senza che la loro ombra danneggiasse alcuno perché la rete
era verso tramontana.
Quando le zucche ingrossavano ci metteva una bella mensola di sostegno e poi le stava
a rimirare e le seguiva nella crescita giorno per giorno.
Così in casa nostra si mangiava zucca in tutti i modi possibili: bollita, arrostita, in
minestra di riso e latte, o in squisiti gnocchi.
L’acqua andavamo a prenderla al “dugalì”, prendevamo due secchi cercando di non
riempirli molto, perché i secchi erano già pesanti di per se stessi, solitamente erano di
lamiera zincata o di latta, andavamo avanti e indietro finché l’orto aveva bevuto a sufficienza e lasciavamo sul terreno percorso una scia di bagnato che segnava la strada fatta, perché
i recipienti avevano sempre qualche buchino sul fondo e perdevano acqua. Però cercavamo
di fare in fretta così ci restava ancora un pò di tempo per andare a giocare fino a sera.
Il compito di bagnare l’orto e di andare a cercare erba, gravava principalmente su me
e Paola, però il grosso del lavoro veniva fatto dal babbo, alla sera, finito il lavoro alla
Marzoli, così come il sabato e la domenica, o lavorava nell’orto oppure partiva alla ricerca
di erba per i conigli. Nelle sere d’estate, tornava dal lavoro, mangiava in fretta quel poco
che c’era e partiva per la campagna, molte volte ritornava che era buio, perché di erba ne
serviva tanta, bisognava anche essicarla per l’inverno. Spesso portava anche me così mentre lo aiutavo mi faceva conoscere quale erba bisognava raccogliere e quale no. A secondo
delle stagioni l’erba si poteva trovare ai bordi dei campi, oppure tra le file del granturco;
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nei periodi di siccità bisognava spostarsi nella campagna a sud del paese, dove i campi
venivano irrigati. Quando andavamo solo noi ragazzi capitava spesso di dover faticare per
trovare un po’ di erba, invece il babbo sapeva sempre dove cercarla e dava anche a noi
indicazioni su dove recarsi di volta in volta. Non rubava l’erba nei prati, come facevano
tanti altri e voleva che neanche noi lo facessimo. Quando si è trattato di rubare un po’ di
legna dagli alberi, o di prendere un po’ di grano nei campi, fu d’accordo anche lui: la
necessità giustificava tutto. Per l’erba però insisteva col dire che si poteva sempre trovare
erba selvatica, altrettanto buona per i conigli, perciò non era necessario rubarla. Aveva
fatto il contadino fino a trent’anni quindi era molto abile col falcetto, quando trovava
l’erba giusta faceva presto a riempire il sacco.
Inoltre in campagna il babbo raccoglieva tutto quello che era commestibile, e in questo
non era stato spinto solo dalla guerra, ma era un’abitudine che aveva anche prima (o forse
una necessità). In primavera “andava per asparagi”, una volta si trovavano quegli asparagi
selvatici tanto saporiti, oggi scomparsi. Mi portava spesso con sé, io camminavo ai bordi
delle siepi, lui si inoltrava nel mezzo e quando ne avvistavo qualcuno dovevo chiamarlo e
lui veniva a coglierli. Dopo un temporale estivo partiva a cercare lumache, certe volte
andava di notte, allora si faceva prestare da mio zio Battista una lampada ad acetilene; oltre
a tutto questo raccoglieva ravanelli e cicorie, e alla fine della stagione estiva andava alla
ricerca di funghi chiodini, faceva passare rive e “musnè” in mezzo ai rovi, tra le robinie, e
interminabili file di gelsi che una volta erano disseminati in tutti i campi. Io camminavo su
di una fila e lui nell’altra, che solitamente correva a quaranta – cinquanta metri, se avvistavo
un bel ciuffetto di chiodini lo chiamavo e lui correva a raccoglierli, “questi del gelso sono
i più buoni” diceva. Non tornava mai a mani vuote da queste sue camminate in campagna,
per male che andasse il suo bel sacco pieno di erba lo portava sempre.
Uno scorcio dei nostri orti negli anni 60, sullo sfondo, a destra, la ex conceria Nulli
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La prima tessera
distribuita nel 1940,
ancora prima dello
scoppio della guerra,
inizialmente solo per
il caffè, e per lo zucchero. più tardi sarà
estesa a tutti i generi
alimentari, vestiario,
legna,ecc.
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Il sacco di “madunine”
Un giorno io e mia sorella Paola siamo partiti in bicicletta alla ricerca di erba, diretti in
località Gardale. Avevamo in famiglia una bicicletta da uomo e quando dovevamo andare
lontano ce ne veniva concesso l’uso, a pedalare era Paola perché io allora più piccolo, non
ero in grado di farlo e me ne stavo seduto sulla canna, però nemmeno Paola era in grado di
stare sulla sella e doveva pedalare infilando una gamba sotto la canna, così, un po’ dondolando, siamo giunti sul posto. Lì poco distante dalla cascina Gardale, alcuni contadini, i
Mombelli, stavano estirpando delle erbacce dal grano, le “madunine”, (si tratta di quelle
erbe che poi maturando sbocciano in papaveri) vedendoci passare ci dissero: ragazzi se ci
date una mano in questo lavoro, vi lasciamo portare via tutta l’erba che verrà raccolta sia
da voi che da noi. Accettammo con entusiasmo, e così dopo aver camminato su e giù per
quel campo per non so quanto tempo, ci trovammo con un enorme mucchio di “madonnine”
Avevamo un grande sacco, che mia mamma aveva cucito con della tela ricuperata da
una vecchia tenda e cercammo di farci stare più erba possibile pigiandola in modo tale che
il sacco, più largo che lungo, si era gonfiato come un pallone, al limite della rottura. A
questo punto si trattava di tornare a casa, e partimmo. Non fu facile: io seduto sul canotto
tenevo come potevo il sacco tra il manubrio e la mia faccia e non vedevo nient’altro che il
sacco, Paola, alla guida del veicolo, riusciva a vedere a malapena la strada al disopra del
sacco, cosicché ad un certo punto trovammo probabilmente una buca nella strada e siccome procedevamo molto adagio, non riuscimmo a superarla, la bicicletta si bloccò, stemmo
per una attimo fermi in equilibrio, poi lentamente ci adagiammo sopra una siepe di spine.
Rimanemmo per qualche secondo immobili, perché non sapevamo dove appoggiarci per
rialzarci, poi Paola mise un piede tra i rovi e trovò un appoggio, mi tirò su, sanguinavamo
per i graffi alle gambe e alle braccia, e litigavamo dandoci la colpa a vicenda per l’accaduto. Procedemmo un po’ a piedi con il sacco sulla bicicletta perché per ripartire Paola aveva
bisogno di un tratto di strada piano e senza buche onde poter acquistare la velocità necessaria per avere il tempo di infilare la gamba sotto la canna, infine trovammo il posto
adatto, e ripartimmo, ma arrivati in località Cortevazzo il sacco, che fino a quel momento
aveva resistito, esplose spargendo tutta l’erba in mezzo alla strada, e noi cademmo nuovamente dalla bicicletta finendo con essa sopra il mucchio dell’erba. Passato qualche minuto
di sconforto, raccogliemmo l’erba e la mettemmo sotto alla statua della “Madonnina” che
esiste tuttora su quella curva, e decidemmo che Paola sarebbe tornata a casa a prendere un
altro sacco mentre io restavo di guardia all’erba. Fortunatamente Paola non aveva ancora
fatto cento metri che incontrò il babbo, il quale tornato dal lavoro, saputo che eravamo
ancora in giro, si era preoccupato e preso in prestito la bicicletta di un vicino stava venendo a cercarci
Dopo aver visto ciò che era successo, il babbo, tornò a casa a prendere un nuovo sacco
per poterci mettere tutta l’erba che avevamo raccolto, e poi insieme, tornammo a casa
contenti, nonostante tutto, della nostra difficile impresa conclusasi bene.
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Don Marella
Gli orticelli di guerra, i conigli e le galline, potevano darci un aiuto, ma non erano
sufficienti a supplire la carenza di cibo, allora bisognava escogitare altro. Nel periodo
della mietitura si andava tutto il giorno a spigolare, poi per legna, e si raccoglieva tutto
quanto i campi offrivano, molte volte fummo costretti anche a rubare. Però noi non ci
sentivamo dei ladri, perché rubavamo per necessità, si rubava solo nei campi e solo roba
da mangiare o al massimo un po’ di legna, oltretutto avevamo una paura tremenda e se non
era proprio necessario o se riuscivamo a trovare d’altro, eravamo più contenti.
Comunque, per tranquillizzare coscienza, andavamo a confessarci, ma sceglievamo
tutti lo stesso confessore, che sapevamo di manica larga e molto comprensivo su questo
problema, il buon Don Pietro Marella. Ad ogni peccato che si confessava annuiva con la
testa bassa e diceva: se…. se…. se…., quando si arrivava al punto cruciale e si diceva: ho
rubato del grano, oppure l’uva, o altro, alzava la testa e chiedeva calmo: ghet robat pèr
mangià? al nostro si, lui diceva va be! E questo per noi corrispondeva ad una autorizzazione divina.
Penne di gallina al posto della lana
Già prima della guerra la dotazione di vestiario che avevamo era piuttosto misera, ma
ora si andava ulteriormente riducendo, sia per i prezzi altissimi, ma anche perché i pochi
soldi del bilancio familiare dovevano servire principalmente a procurarsi da mangiare. Per
quel che riguarda le scarpe cercavamo di farle durare il più possibile, tenendole assieme
con pezze, bolli e chiodi. Quando eravamo costretti a comperarne un paio nuove, potevamo permetterci solo scarpe con suole di uno speciale cartone chiamato “cuoital”. A me
comprarono un paio di queste scarpe in occasione della mia prima comunione. Mi sembravano tanto belle ed ero orgoglioso di portarle; tutto andò bene finché durò la stagione
asciutta, ma quando cominciò a piovere, purtroppo, si deteriorarono rapidamente.
Anche i vestiti dovevamo mantenerli in vita a lungo, rammendandoli e rivoltandoli,
solo raramente si acquistava qualcosa di nuovo.
Invece, per procurarci qualche indumento di lana, ricorremmo alla lana dei materassi.
Quasi tutti avevano in casa uno o più materassi di lana, magari ereditato dalla madre, così
cominciammo a togliere un po’ di lana dal materasso per farla filare, poi quando i materassi a furia di prelevare lana furono svuotati, li riempimmo con penne di gallina.
Per ottenere lana filata andavamo i bicicletta fino a Marone dove c’era una filatura che
in cambio della nostra lana ci dava un filato ruvido, peloso e spinoso; poi qui a Palazzolo
sulla Riva c’era la tintoria Cadei, che si era attrezzata apposta e ci colorava le nostre
matasse di lana nei colori desiderati, quindi le nostre mamme e sorelle confezionavano
delle belle, anche se spinose, maglie e golfini. Mia sorella Luigina che era molto abile e
veloce con i “ferri”, provvedeva a questo compito per tutta la famiglia e talvolta lo faceva
anche per altri, racimolando qualche lira.
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La spigolatura
Quando cominciarono a scarseggiare i generi alimentari, il grano nei campi era già
stato raccolto, ma nell’approssimarsi la mietitura dell’anno successivo eravamo tutti pronti per entrare nei campi a spigolare. Purtroppo quell’anno sembrava che il grano fosse più
lento del solito a maturare, probabilmente era la nostra impazienza che ci faceva pensare
questo, così appena si seppe che il primo contadino aveva cominciato a tagliare il grano, ci
siamo precipitati per le campagne. Ma la maggior parte dei campi non erano stati ancora
mietuti, perché il frumento non era secco al punto giusto. Allora si cominciò a rubare un
po’ di spighe nei campi non ancora tagliati, spighe ancora verdognole che poi essiccavamo
a casa, si partiva con un paio di forbici ed un sacchetto di tela bianco, ricavato da una
vecchia federa di cuscino, ci mettevamo accovacciati ai bordi dei campi, nascosti tra la
siepe ed il frumento, tagliavamo solo le spighe vicino alla siepe perché avevamo paura ad
inoltrarci nel campo, ed in caso di necessità era più facile scappare, le tagliavamo senza il
gambo così occupavano meno spazio.
Una volta abbiamo cercato di rubare un covone, ma ci è andata male. Il campo confinava con la “Miola” e c’erano tanti covoni appena tagliati, tra questi ce n’era uno che era
stato depositato sul bordo della Miola, cosicché a noi parve che stando nascosti dentro il
canale, che come sempre era asciutto, avremmo potuto trascinare dentro il covone senza
farci notare, così facemmo, lo trascinammo fin sotto un ponticello che era lì a pochi metri
e ci accingemmo, se pur con grande paura, forbici alla mano a tagliare le spighe e metterle
nei sacchetti. Eravamo in sei: io, le mie sorelle Luigina e Paola, e tre vicine di casa, Mari
e Teresa che avranno avuto una 13 e l’altra 17 anni, poi c’era Anna della mia stessa età.
Avevamo appena cominciato a tagliare le prime spighe, quando sentimmo il contadino,
che purtroppo aveva visto tutto da lontano, urlare come un ossesso, mentre correva verso
di noi agitando una grossa frusta che faceva schioccare nell’aria, noi ci liberammo subito
delle poche spighe rovesciandole per terra, e fuggimmo a gambe levate abbandonando sul
posto anche la forbice. Paola e Teresa fuggirono nella Miola, mentre io con Luigina, Mari
ed Anna scappammo sulla strada che passava sul ponticello, il contadino in un primo
tempo pensò di rincorrere Paola e Teresa, ma poi giudicando forse più facile prendere noi,
lanciò una serie di ingiurie al loro indirizzo e si diresse verso di noi : “chèi la i còpe”, e si
lanciò nella nostra direzione con la frusta che fendeva l’aria. Noi eravamo terrorizzati,
Mari e Luigina correvano tenendo Anna praticamente appesa per le braccia, tanto che
Anna faceva il movimento per correre ma toccava terra ogni cinque o sei metri, a causa di
questa posizione e un po’ per la paura, Anna stava con la bocca aperta e la respirazione
apparentemente bloccata, Mari se ne accorse e pur continuando a correre urlava in continuazione: aiuto ma mör la s-cetò (mi muore la bambina). Per fortuna nelle vicinanze
c’era una cascina di bravi contadini, i Gris , una donna ci ha fatto entrare in fretta e
nascosti nella camera da letto, (venite, quello lì è esagerato, ci disse) fino a quando il
contadino infuriato non se ne fu andato, e noi ancora tremolanti, potemmo tornare a casa.
In quei giorni così rischiosi, quello che raccogliemmo è stato alquanto modesto. Però
fu l’inizio per cominciare a portare a casa qualcosa.
Poi ci fu il vero, grande, periodo della spigolatura.
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Partivamo al mattino in gruppo, io ero tra i più piccoli, ma c’erano anche ragazze che
penso avranno avuto 15 – 18 anni. Il nostro solito gruppo era composto da ragazzini di 712 anni, maschi e femmine, e poi solo da ragazze più grandi perché i ragazzi di quell’età
erano a lavorare in fabbrica o presso artigiani. Io ero sempre con le mie sorelle Luigina e
Paola. Anche quando Luigina cominciò a lavorare alla Lanfranchi, al reparto tintoria, nel
periodo della mietitura, certi giorni, si assentava con una scusa, perché valeva molto di più
il frumento che si spigolava, dei pochi soldi che prendeva in fabbrica.
Nei primi giorni si spigolava nei campi vicini, da via Attiraglio fino alla ferrovia, ma
poi quando in questi campi non si trovava più niente, e ciò avveniva rapidamente, ci si
spingeva sempre più lontano, fino nelle proprietà del conte Maggi. Questi campi iniziavano aldilà della Miola, (un piccolo torrente che scende dalle colline di Capriolo e si getta
nella seriola di Rovato poco prima del crocevia di Cologne) ed arrivavano fino alla Spina.
I campi del conte Maggi sono stati poi in seguito per sempre i nostri preferiti, tant’è vero
che se venivamo a sapere che lì avevano iniziato la mietitura, non ci fermavamo nei campi
vicini, ma andavamo direttamente in quelli, perché i contadini dei campi vicino a noi
erano tutti proprietari o fittavoli, di piccoli appezzamenti, prima di permetterci di entrare
a spigolare ci passavano loro a raccogliere quelle spighe che erano sfuggite nel legare i
covoni o si erano spezzate nel caricarli, cosicché quello che poi restava era sempre poca
cosa. Inoltre qui vicino c’era sempre molta gente a spigolare ed in poco tempo il campo
veniva pulito.
Invece non erano molti quelli che si spingevano fino nei campi del Conte, inoltre quei
contadini erano mezzadri, del raccolto glie ne spettava solo una parte, i campi erano molto
estesi e poi soprattutto erano gran brava gente. Ci permettevano di entrare a spigolare quando
c’erano ancora i covoni nel campo, ci raccomandavano solo di raccogliere le spighe per terra
e non nei covoni, e di spighe nei campi del Conte se ne trovavano molte, perché in quegli
anni erano gli unici contadini, tra quelli che io ho visto, che tagliavano il grano con una
macchina trainata dal
trattore, tutti gli altri usavano delle macchine
semplici, trainate dai
buoi, che tagliavano il
grano lasciandolo a terra,
poi i contadini legavano
a mano il grosso fascio di
spighe, e lo spostavano
quel tanto che occorreva
per lasciar passare macchina e buoi nella prossima tornata. Mentre la
macchina che usavano i
contadini del Conte, che
senz’altro era una novità assoluta per quel periodo, faceva tutto da
Una contadina con un covone
sola: raggiunto la giusta
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quantità di spighe le legava ed espelleva il covone con forza, scagliandolo a due o tre
metri, per lasciare lo spazio al trattore nel prossimo passaggio. Questo sistema che permetteva di impiegare un numero inferiore di uomini, aveva però un inconveniente, nell’urto col terreno qualche spiga si spezzava e cadeva a terra, specialmente se il grano era
troppo secco: naturalmente questo era manna per noi.
C’erano poi dei contadini molto buoni e comprensivi, questi quando passava il fattore del Conte con il calesse a controllare, ci dicevano : “ragazzi non fatevi vedere vicino ai
covoni” mentre loro nel frattempo si facevano vedere a tirare un grosso rastrello (rèstèlòt)
che aveva la funzione di raccogliere le spighe sparse per terra, ma poi, appena il fattore se
n’era andato, lasciavano a noi anche quel poco che avevano rastrellato.
Per andare a spigolare nei campi del Conte Maggi, il più delle volte dovevamo stare via
tutto il giorno, allora ci portavamo qualcosa da mangiare, un po’ di pane, qualche patata
bollita, (patate cotte con la buccia, che spellavamo al momento di mangiarle), oppure a
turno, qualcuno verso mezzogiorno veniva a casa a prendere da mangiare per tutti. Un
giorno siamo arrivati sul posto che avevano appena mietuto un bel campo molto esteso,
questo campo si trovava appena dopo la cascina “Colomberotto “, sempre nelle proprietà
del Conte, a fianco di una grande uccellanda che c’è tuttora (1996). Abbiamo visto subito
che sul terreno si trovavano molte spighe per cui ci siamo messi di buona lena a camminare
su e giù per il campo, e gli “spigoli” (quei mazzetti di spighe che quando raggiungono una
dimensione da non stare più in mano vengono legati) cominciavano ad accumularsi. Verso
le undici valutando che nel campo c’era ancora tanto da raccogliere, decidemmo di mandare qualcuno a prendere da mangiare in modo da proseguire il lavoro anche nel pomeriggio.
Una delle prime macchine che tagliavano il grano e lo legavano in covoni
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Partimmo io e Luigina con la bicicletta, che ci eravamo portati prevedendo tale evenienza.
A casa raccogliemmo i pentolini di tutti i nostri compagni, per lo più pastasciutta, o patate
bollite, mettemmo tutto in due borse di paglia appese ai lati del manubrio e ripartimmo.Come
sempre io stavo sulla canna, a pedalare era Luigina, che, tra l’altro, non è mai stata molto
esperta in bicicletta, però nonostante le strade di allora, sassose e segnate dai solchi profondi delle ruote dei carri, il tragitto avvenne senza incidenti. Quando arrivammo in vista
dei nostri amici incominciammo a gridare per richiamare la loro attenzione. Purtroppo in
quel momento si trovavano tutti all’altra estremità del campo, nel vederci arrivare corsero
subito verso di noi perché sapevano che Luigina, non molto alta di statura e con me sulla
canna, non era in grado di fermarsi se non trovava un appoggio per il piede, oppure qualcuno che ci afferrasse. Ma quando arrivarono in fondo al campo non riuscirono a trovare
subito un varco nella siepe e perciò non fecero in tempo ad intercettarci, anche perché
Luigina che pure gridava ciapim ciapim, continuava a pedalare con vigore per non perdere
l’equilibrio. Gli amici affamati vedendo il loro pasto allontanarsi presero a rincorrerci, ma
noi facemmo ancora un bel pezzo di strada fino a quando, nei pressi di una cascina sulla
sinistra (l’unica a quei tempi) trovammo un enorme sasso e potemmo finalmente fermarci. Poi siamo tornati indietro a piedi assieme agli amici che, nel frattempo, ci avevano
raggiunto e ci siamo sistemati all’ombra dell’uccellanda a consumare il nostro modesto
pasto, con a fianco un bel po’ di mazzetti di spighe che, in nostra assenza, Paola lavorando
sodo aveva aumentato anche per noi. Dopo aver esplorato questa grande uccellanda per
soddisfare la nostra curiosità, abbiamo ripreso a spigolare fino a sera, tornando a casa con
una gran quantità di grano da mostrare orgogliosi ai nostri genitori.
La macinatura colorata
Terminato il periodo della spigolatura ed essiccato bene il grano, bisognava trovare al
più presto il modo per ricavarne del pane, e qui ognuno si ingegnò con metodi propri. Si
prendevano le spighe si battevano, si sfregavano nelle mani, in modo da dividere i chicchi
di grano, che si raccoglievano frammisti alla loro pellicina che li aveva ricoperti. Ricordo
che poi mio padre, prendeva un piatto colmo di questo miscuglio e lo lanciava, con una
certa abilità, a due o tre metri di distanza facendogli fare una bella parabola. Si metteva in
una certa posizione rispetto al vento cosicché il grano più pesante cadeva piatto dopo
piatto e si ammucchiava tutto in un posto, mentre le pellicine volavano da un’altra parte.
Dopo di ciò il problema più grosso era farlo macinare perché, se si portava al mulino,
si correva il rischio di venire intercettati dai militi fascisti, che lo sequestravano. Erano dei
fascisti in borghese, gente del paese, che si prestava per questo servizio. Essi avrebbero
dovuto avere il compito di combattere la borsa nera, ma in effetti si limitavano a sostare
sulle piste che portavano ai mulini e sequestrare dei miseri sacchetti di pochi chili di
frumento o farina a quei poveracci che si avventuravano e poi, anziché consegnarli al
consorzio, come avrebbero dovuto, si presume che tenessero per loro buona parte del
grano, perché di quelli che conoscevamo personalmente sappiamo che, in casa loro, il
pane non è mai mancato.
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Allora qualcuno provò a macinare il grano con il macinino del caffè (quei pochi che
possedevano un macinino, naturalmente a manovella), ma mi pare che dopo qualche tentativo abbiano rinunciato.
Mio padre sperimentò un sistema personale. Avevamo nel sottoscala un lavandino di
pietra e pensò di utilizzarlo come pietra da macina; si procurò un altro pezzo di pietra e
poi, cominciò a strusciare questa pietra sul lavandino, facendo passare sotto un po’ di
frumento per volta, lavorò sodo per mezza giornata, sudava come una bestia, alla fine
dopo aver setacciato quello che aveva macinato, si trovò si e no con due chili di farina che
aveva uno strano colore azzurrino, perché un po’ di pietra del lavandino si era macinata
assieme al grano. Non potevamo certo permetterci di buttarla via, con quello che ci era
costata e con la fame che avevamo; mia mamma impastò subito una grossa pagnotta, il
tempo di farla lievitare e poi nel fuoco a cuocere. Alla sera mangiammo la nostra prima
pagnotta ottenuta dal grano spigolato: era buonissima, il colore azzurrino dopo la cottura
non si notava più.
Però il babbo non ripeté più questo lavoro sul lavandino, preferì rischiare andando ai
mulini; andava di sera con piccole quantità per volta, facendo stradine secondarie e tornava sempre a casa con la farina.
Per un sacco di grano
La scorta di grano fatta con lo spigolare, se pur consistente, non poteva bastare fino al
prossimo raccolto, allora si cercò di integrarla acquistando un po’ di grano e granturco dai
contadini, che solitamente non lo consegnavano tutto all’ammasso, ma ne tenevano un po’
nascosto da vendere alla borsa nera.
Ricordo che una volta io e mia madre andammo a fare un lungo giro in campagna, nella
speranza di trovare dei contadini che ci vendessero un po’ di grano. Era un pomeriggio
d’estate, partimmo a piedi sotto il sole e ci recammo in via Gonzere, una strada che partiva
pressappoco di fronte alla chiesa di S. Alberto e si inoltrava nella campagna verso Pontoglio.
Lei aveva in mente un itinerario ben preciso che prevedeva di visitare alcune famiglie di
sua conoscenza, e come primo tentativo siamo entrati nella cascina detta “Ca del ca”, che
una volta era situata all’inizio della via, ora con la costruzione del viale Europa questa
cascina è rimasta isolata e via Gonzere inizia al di là della nuova strada. Purtroppo questi
contadini ci dissero subito che non avevano più nulla da vendere, si dimostrarono dispiaciuti, ma ci congedarono a mani vuote. Restammo delusi e un po’ scoraggiati, ma riprendemmo il cammino e, dopo aver camminato ancora molto, arrivammo alla cascina
“Lucerta”, qui c’erano molti contadini che la mamma conosceva perché, aveva abitato in
fondo a via “Piantada” (cascina Gardellotto) fino a quando si era sposata e quei campi
confinavano con questi, (non sempre era vantaggioso essere amico del contadino, perché
certi preferivano vendere ad uno sconosciuto, così non si vergognavano a chiedere dei
prezzi esosi ) questi contadini ci accolsero molto bene, ci invitarono in casa e ci offrirono
acqua fresca del pozzo, che gradimmo molto. Dopo essersi scambiati notizie sulla salute, sui figli ed aver rammentato i vecchi tempi, mia madre arrivò al dunque facendo
presente il motivo della visita; loro non si mostrarono per nulla sorpresi della richiesta,
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probabilmente l’avevano già capito, si consultarono un momento tra di loro, poi decisero
che: una famiglia ci avrebbe venduto 50 chilogrammi di grano, e l’altra altrettanti di granturco; il prezzo richiestoci fu molto onesto rispetto ai prezzi che venivano praticati. Fummo molto contenti di questa offerta, nel congedarsi mia mamma non finiva più di ringraziare e salutare; la strada del ritorno l’abbiamo fatta volando. Alla sera il babbo con alcuni
viaggi in bicicletta, portò a casa subito tutto.
Insomma col frutto della spigolatura, e con un po’ di roba comprata qua e là dai contadini, potemmo mettere insieme una discreta scorta che opportunamente razionata, ci poteva durare fino al raccolto successivo.
Mia Madre
E fu a questo punto che mia madre ebbe modo di dimostrare la sua abilità, derivatagli
dalla sua origine contadina, nel maneggiare la farina. D’estate faceva il pane in unica
grossa pagnotta che cuoceva nel fuoco (caminetto), lo metteva in una casseruola con sopra
il coperchio, lo immergeva nella cenere calda con attorno le brace, che ogni tanto muoveva o rinnovava e, al momento giusto, estraeva dal fuoco delle splendide pagnotte. Nel
periodo invernale invece cuoceva il pane nel forno della stufa, perché quella veniva accesa
anche per riscaldare la cucina, allora si sbizzarriva con forme di pane più piccole. Non
c’erano termostati, e la legna nella stufa si aggiungeva ad occhio, eppure il pane veniva
sempre cotto a puntino. A fare le tagliatelle era di una abilità incredibile, aveva un asse di
legno lunga e stretta sulla quale, in pochi minuti, stendeva una sfoglia su tutta la lunghezza, quindi la avvolgeva a spirale sul mattarello, e con un solo taglio otteneva un pacchetto
di pasta che tagliava rapidamente a striscioline, e poi
le cuoceva in pastasciutta, od in minestra di verdure e
spesso anche in minestra di latte, (questa a me per la
verità non è mai piaciuta molto) inoltre faceva degli
ottimi gnocchi, faceva i brofadei (una specie di
polentina fatta con farina di frumento, molto liquida,
che si mangiava a cucchiaiate nel latte freddo), i
chishoi , specie di frittelloni che si potrebbero paragonare a focacce dolci. Naturalmente in tavola compariva spesso la polenta, e quando non c’era di meglio, un ottimo piatto unico era rappresentato da polenta e latte. Poi si faceva arrostita in padella o abbrustolita sul fuoco, ed anche in una minestra di latte, il
lèò-boi : fatto con dadini di polenta fredda infarinati e
bolliti nel latte, a me non piaceva tanto, ma mio padre
ne era ghiotto. Alla domenica la polenta si mangiava
spesso con un coniglio del nostro allevamento, e quando in casa non c’era condimento, mia mamma lo faceva
Mia madre negli anni ‘60
arrostire con un poco di latte, e veniva buono lo stesso.
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Cucinava il coniglio in tanti modi diversi: ripieno cotto al forno, ripieno bollito, in umido, ecc. . Non ricordo se per Pasqua o per un Natale, mio padre una volta aveva scelto in
anticipo uno dei più bei conigli e lo aveva messo in una gabbia da solo, e qui sacrificando un
po’ di granturco e qualche pezzetto di pane, nonostante il dissenso di mia madre, lo fece
ingrassare tanto bene che quando giunse il tempo di mangiarlo aveva raggiunto dimensioni
eccezionali. La mamma lo cucinò ripieno cotto nel forno della stufa, e quel giorno ne mangiammo a sufficienza dimenticando momentaneamente le tessere.
Permettetemi di parlare ancora un pochino di mia madre, era nata nel 1903, aveva
fatto la terza elementare ed aveva una calligrafia piuttosto brutta, ma se la cavava bene se
doveva scrivere una lettera, le è sempre piaciuto molto leggere, anche negli ultimi anni di
vita leggeva giornali e libri ed era sempre informata su tutto quanto accadeva nel mondo.
Quando noi eravamo piccoli lei era sempre molto indaffarata, perché oltre che pensare a
noi cinque, aveva tenuto a balia la Santina Piantoni, e più tardi Salvatore Bedoschi che poi
restò per anni in custodia da noi, mentre sua mamma lavorava.
Inoltre per guadagnare qualcosa che permettesse di tirare avanti ha fatto anche la
lavandaia, era pagata a ore in questo lavoro perciò avrebbe potuto prendersela con comodo, invece era costretta a fare tutto in fretta, per correre a casa dove l’attendevano altri
lavori. Poi ogni tanto andava, se pur di malavoglia a fare il trasporto dei morti
Prima che si adottasse il carro funebre, tutti i morti venivano portati dalla casa del
defunto alla Parrocchiale e da questa al cimitero, a braccia. Sotto la bara venivano applicate delle stanghe di legno che sporgevano ai lati quel tanto da poterle afferrare con le
mani e portarla così fino al cimitero. Quando non si trovavano tra i parenti e amici almeno due squadre di portatori, ( certe volte anche una sola ) si dovevano procurare dei
portatori ai quali poi si dava un compenso. Era tradizione che gli uomini venissero portati
da uomini, e le donne da donne, ( salvo qualche eccezione per le giovinette ).
Un funerale dell’epoca
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Però quando Luigina e Paola poterono badare alla casa, abbandonò questi lavori così
gravosi e poco redditizi ed andò per qualche anno a lavorare nel bottonificio Pelucchi: uno
stabilimento che c’era dove ora si trova l’oratorio del Sacro Cuore. Lavorava ai torni che
tagliavano i bottoni in legno, non esisteva la minima aspirazione della polvere su quelle
macchine, me la ricordo quando tornava a casa con un fazzoletto sulla testa, completamente ricoperta di finissima polvere bianca. Poi quando Luigina trovò lavoro alla
Lanfranchi, stette definitivamente a casa.
Nonostante i numerosi impegni che aveva era molto disponibile con i vicini. Spesso
c’era qualche vicina che dovendo andare dal dottore a farsi visitare, chiedeva a mia madre
di accompagnarla, perché dicevano che lei era più brava a far capire al dottore il loro
problema. Un’altra attività nella quale mia madre era molto richiesta, era nel tirare il collo
alle galline: spessissimo si presentavano delle donne con una gallina in mano a chiedere il
favore, lei non le lasciava neanche finire di parlare ed in un attimo prendeva con una mano
la gallina per le zampe, con l’altra la prendeva per il collo, gli faceva fare una torsione e
contemporaneamente dava uno strattone con le due mani ed il povero animale aveva finito
di vivere, consegnava alla proprietaria il pollo che sbatteva ancora le ali, lei ringraziava e
se ne andava contenta .
Una volta venne una signora con in mano un pollo e con la solita richiesta, ma mia
madre non era in casa, c’era però mio zio Angelo, fratello di mia mamma, lavorava alla
Società Elettrica Bresciana (SEB) e, quando per ragioni di lavoro si trovava nei pressi di
casa nostra, veniva sempre a farci visita. La donna chiese allo zio se anche lui sapesse
tirare il collo al pollo, lui forse per non sfigurare disse di si, prese in mano il pollo e
cominciò a fargli girare il collo a destra ed a sinistra e lo tirava dalla testa alle zampe, il
povero pollo sbatteva le ali terrorizzato e mandava penne dappertutto, finché approfittando di un momento che lo zio aveva allentato la presa, riuscì a svincolarsi e scappare nel
cortile, lo zio lo rincorse, e aiutato anche da noi, riuscì a chiuderlo in un angolo e qui lo
riprese, allora lo afferrò per la testa e gliela tirò con tale rabbia che gliela staccò. Il pollo
dimenandosi ancora per un poco spruzzò sangue e penne tutto attorno. Non so se alla fine
rimase più male lo zio o quella donna con il pollo, però capii che non era così facile
quell’operazione che mia mamma faceva con tanta semplicità.
Passati i tempi grami della guerra mia madre poté continuamente ampliare il suo repertorio culinario, ma il punto di maggior prestigio è sempre stata la sua abilità nel maneggiare la pasta fresca. Tutti i nipoti si ricorderanno le sue padelle di lasagne e cannelloni,
che preparava con tanta rapidità e senza apparente difficoltà.
Certe volte per procurarsi un po’ di burro, si prendeva il latte e gli si levava quella
poca panna che aveva, poi questa si metteva in un fiasco e si continuava a sbattere fino a
quando improvvisamente nel fiasco si formavano dei pezzettini di burro. Quando noi ragazzi eravamo incaricati a fare questo lavoro, andavamo fuori all’aperto,con i nostri
fiaschi in mano, così mentre si sbatteva il latte, continuavamo i nostri discorsi con gli
amici.
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Il bottonificio Pelucchi
Mio Padre
A questo punto devo dire ancora qualcosa su mio padre, poi chiudo il discorso sui
genitori. Mio padre era nato nel 1894, mi pare che abbia fatto la seconda elementare,
sapeva leggere e scrivere. Quando la situazione economica glielo permise (dopo la guerra) cominciò a leggere regolarmente il giornale, tenendolo ad una distanza sempre maggiore allungando le braccia, finché si decise a mettere gli occhiali. Figlio di contadini, ha
fatto il contadino fino a quando si è sposato, abitava con la sua famiglia in una cascina in
via Ponte Fusia (erano affittuari) poi in questa cascina subentrò la famiglia Pagani (Règurdi)
attuali proprietari. In seguito entrò in fonderia alla Marzoli, prima come manovale e poi
come “formatore” e ci rimase fino alla pensione.
In casa faceva di tutto: oltre ad avere l’impegno dell’orto e dei conigli, di cui ho già
parlato, aggiustava le scarpe per tutti noi, aveva gli attrezzi necessari (piede di ferro e
coltello da calzolaio) ed oltre a rifarci tacchi, punte e metterci dei bolli al centro delle suole
bucate, usava tagliare alle scarpe che erano diventate troppo corte, la punta della tomaia e
parte del tallone così da poterle portare ancora un poco. A volte le trasformava in veri e
propri sandaletti, questo lavoro lo faceva specialmente per me che essendo l’ultimo figlio
non avevo nessuno a cui passarle. Era anche molto bravo a fare oggettini in legno, aveva
solo una pialla, un paio di scalpelli e una sega, ma con questi pochi attrezzi costruiva degli
oggetti importanti. Quando noi eravamo piccoli costruiva i giocattoli da regalarci per
Santa Lucia, aspettava che andassimo a dormire, poi iniziava il suo lavoro, ricordo ancora
una cameretta che aveva fatto a Paola il cui robusto armadio e durato per molti anni, ed un
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carrettino verde che fece per me del tutto simile a quelli grandi da trasporto. Comprarono
un cavallino di cartapesta da attaccarci alle stanghe e me lo fecero trovare per Santa Lucia.
Questo carrettino, senza le ruote, lo conservo ancora oggi in solaio.
Quando lavorava aveva uno strano modo di zufolare, tentava di fischiettare un motivo
conosciuto, ma il più delle volte emetteva solo un soffio di aria.
Due storielle del patrimonio famigliare
Tra gli episodi che ho sentito raccontare riguardo alla vita di mio padre da ragazzo, ne
ricordo due in particolare che ora vi racconto.
Da parecchio tempo insisteva con sua mamma perché gli accorciasse una camicia che
gli entrava per più di mezzo metro nei pantaloni e gli arrivava fino alle ginocchia, come si
usava a quei tempi. Ma sua mamma la tirava per le lunghe con delle scuse, allora lui pensò
di farlo da solo, prese la camicia la attorcigliò in modo da poterla stringere in una mano,
la appoggiò sul ceppo dove si spaccava la legna e con la scure zac un bel colpo netto e la
camicia fu accorciata. Il profilo non sarà stato molto diritto però aveva ottenuto lo scopo
di non avere tanta roba nei pantaloni. Sua madre quando lo seppe andò su tutte le furie,
minacciandolo di una severa punizione, al ché
lui cercò di girare al largo per tutta la giornata. Verso sera gli si presentò l’occasione per
farsi perdonare. La mamma lo chiamava: Bigio, Bigio aiutami ho un moscerino in un occhio corri, lei teneva divaricato l’occhio con
le due mani e diceva: soffia, dai fa presto.
Lui felice di aver avuto questa opportunità
corse verso di lei, inspirò più aria che poté,
poi con la faccia gonfia di aria andò vicinissimo all’occhio, ma mentre si apprestava a
soffiare, sua madre mollò l’occhio e gli diede un ceffone così forte che lui, anche per la
sorpresa, non tentò neanche di scappare, ma
stette lì impassibile a prendere il resto.
Un’altra storiella che ho sentito tante volte raccontare, è la seguente: come ho già detto la famiglia di mio padre abitava in una
cascina di campagna; una sera d’inverno mio
padre e mio zio Giovanni, di qualche anno
più vecchio di lui, vengono mandati sulla
Quando andò in pensione, mio padre
loggia a prendere una fascina di legna, c’era
riprese ad allevare conigli.
Qui negli anni ‘60 con due esemplari
buio e non c’era illuminazione, ma c’era la
luna in cielo che rischiarava un po’ la scena.
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Lo zio Giovanni teneva la scala a pioli e incitava mio padre a salire, lui salì di malavoglia
perché sopra c’era tutto buio ed aveva paura, gli pareva di vedere l’ombra di una persona
accanto alla catasta delle fascine, (ghè la giü) zio Giovanni però insistette e disse “dai
sbrigati che fa freddo”, allora lui fece lentamente ancora qualche gradino, ma quando fu
quasi arrivato in cima alla scala, gli parve che quell’ombra si muovesse verso di lui, allora
incominciò a tornare lentamente indietro, quando stava mettendo il piede sul secondo
gradino lo zio Giovanni alzò la testa e vedendo che stava scendendo urlò : “ ardò chèl ve
zo! chèl can dè la madoiò !” Mio padre credendo che, zio Giovanni, si riferisse all’uomo
dell’ombra, preso dal panico, saltò giù dalla scala sulle spalle di suo fratello e tutti e due,
assieme alla scala, rotolarono nel cortile.
Giornale Radio
In tutte le aule delle scuole elementari, in alto, alle spalle del maestro vi erano installati degli altoparlanti, sotto c’era il crocefisso e poi i ritratti del Re e del Duce che dominavano la parete. Gli altoparlanti erano collegati con la direzione, e qualche volta venivano utilizzati per comunicazioni di carattere generale; tutti i giorni invece venivano attivati
per farci ascoltare il giornale radio, ovviamente in primo piano i successi che le nostre
truppe riportavano nella guerra. Poco prima delle ore tredici il maestro ci faceva mettere
tutto in cartella, in modo che quando partiva il classico segnale: tuut – tuut – tuuuuut,
che annunciava l’inizio del giornale radio, fossimo pronti a scattare in piedi sull’attenti.
Il giornale radio, all’inizio dava subito le notizie sulla guerra: “le forze dell’asse ...
…..” cominciava sempre così ! Si trattava sempre di notizie esaltanti, e noi sempre sull’attenti e zitti, fino a quando, finite le notizie sui vari fronti (che occupavano quasi tutto il
giornale radio) veniva spenta la radio e noi potevamo correre via. Non capivamo molto di
quello che dicevano e poi non stavamo volentieri fermi sull’attenti a quell’ora, aspettavamo solo che finisse per correre a mangiare.
Nel corridoio, al pianterreno del palazzo scolastico, era stata ricavata una specie di
mensa, si chiamava refezione scolastica, in mezzo al corridoio c’era una lunga tavola con
dei buchi per infilarvi delle grosse scodelle in alluminio e delle panche per sedersi. Qui
prima di tornare a casa passavamo a mangiare una scodella di minestra, che ci veniva
data, nel periodo scolastico, in aggiunta a quello fornitoci con le tessere, perciò anche se
era solo minestrone faceva comodo. Coloro che avevano di meglio a casa non si fermavano a mangiare questi minestroni, ma noi delle case operaie c’eravamo tutti. Prima di
cominciare a mangiare, tutti in piedi sull’attenti, si faceva il segno della croce e si recitava
la breve preghiera che diceva: Signore benedici il cibo che stiamo per prendere e il
Duce che ce l’ha dato. Poi ci buttavamo sulla scodella in un attimo la vuotavamo e di
corsa a casa dove, di solito c’era ancora qualche cosina da mangiare.
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La colonia elioterapica
Durante le vacanze estive funzionava la colonia elioterapica, nei mesi di luglio e agosto c’era la possibilità di frequentare per un mese, a turno, “ i bagni “ (come li chiamavamo noi) . Ci andavamo volentieri perché ci davano colazione pranzo e merenda, della
nostra famiglia eravamo ammessi io e Paola (in base all’età) e siccome eravamo famiglia
numerosa, uno andava gratis e l’altro pagava.
Partivamo al mattino con un sacchetto di tela a tracolla, nel quale ci portavamo una
salvietta e le mutandine di ricambio, per quando si faceva il bagno.
In fondo al lungo Oglio l’edificio della colonia era bello, tenuto molto bene, l’Oglio,
che gli passava accanto ancora in tutta la sua bellezza era il dominatore della scena e noi
stavamo spesso ad osservare dalla rete di recinzione l’acqua del fiume scivolare sulla
cascata che c’era lì sotto.
Il regime fascista teneva molto a questa colonia, perché oltre a fare esercizio fisico e
bagni di sole, che avrebbero dovuto migliorare la qualità delle “nuove generazioni “, buona parte della giornata veniva utilizzata per la propaganda fascista.
Si iniziava con l’alza bandiera: tutti sull’attenti e poi il saluto al Duce. Dipinte sul
muro c’erano due enormi teste del Duce e del Re alte cinque o sei metri, raffigurati con
l’elmetto e una scritta a carattere cubitali (tratta da un discorso del Duce) inneggiava al
regime. Al cancello d’entrata una decina di ragazzi vestiti da balilla montavano la guardia
e quando entrava qualche persona importante davano il segnale con tamburelli e trombe,
a taluni veniva fatto anche il “presentat – arm” con i moschetti che avevano in dotazione.
C’erano le ore previste per prendere il sole, tutti sdraiati ben allineati, un po’ di schiena
un po’ di pancia ma tutti sempre dalla stessa parte, le ragazze sul terrazzo, noi ragazzi al
pianterreno nella sabbia. Poi c’erano i momenti per la ginnastica, anche questa era molto
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curata, si usavano attrezzi come : bastoni, clave, appoggi, ecc. e bisognava impararla bene
perché a fine mese si faceva “IL SAGGIO” alla presenza di autorità e genitori.
Al momento del pranzo, tutti sull’attenti, si recitava la solita preghiera (Signore benedici il cibo che stiamo per prendere e il Duce che ce l’ha dato) poi al pomeriggio nelle
ore più calde si stava all’ombra sotto delle grosse piante (le ragazze avevano un “boschetto” a nord ora distrutto) dove ci facevano imparare delle canzoncine quasi sempre
inneggianti alla guerra, prese dagli inni militari, alcune delle quali le avremmo poi cantate
al momento del “saggio”. Ricordo ancora qualche strofa tra le più assurde :
colpir e seppellir ogni nemico che si incontra sul cammino
è così che vive il marinar ………..
e poi :
vincere vincere vincere
noi vinceremo in cielo in terra in mare
è la parola d’ordine
d’una suprema volontà
vincere vincere vincere ……
Noi però tutto sommato ci divertivamo, inoltre verso le quattro ci facevano fare il
bagno nell’Oglio. Era solo un rettangolino recintato dove ci facevano entrare per pochissimo tempo, ma per noi era un grande momento. Se poi il tempo non lo permetteva , allora
si faceva la doccia, in uno stanzone tutti in fila le mani sulle spalle del compagno davanti,
facevamo due o tre giri sotto un tubo forato che dal soffitto ci erogava zampilli di acqua
fresca. Dopo ci davano la merenda e tutti a casa.
Ogni tanto veniva a farci visita il Signor Lanfranchi, uno dei titolari della fabbrica di
bottoni, la sua visita era sempre preceduta dal carettino del gelato che prima della merenda
ci veniva distribuito. Poi quando il signor Lanfranchi veniva in mezzo a noi per salutarci,
la nostra direttrice ci faceva eseguire una canzoncina di ringraziamento.
Partiva lei e diceva :
E per il signor Giacinto Lanfranchi
nostro grande benefattoreeeeeeee
le ragazze:
paaaaace
i ragazzi:
giooooia
tutti insieme:
fe li ci taaaaaaaaaaaa
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COLONIA ELIOTERAPICA
a fianco: il momento dell’alza bandiera
e saluto al Duce.
sotto: il picchetto dei balilla schierato
all’entrata della colonia, sullo sfondo
l’enorme, testa di Mussolini con elmetto,
poco distante c’era quella del Re
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Sopra, la terrazza dove prendevano il sole, e facevano ginnastica, le ragazze.
Sotto, nella sabbia,lo spazio dei ragazzi
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Manifestazioni Fasciste
Nelle manifestazioni che si svolgevano in paese, per le feste nazionali (4 novembre,
28 ottobre, ecc.), ma anche per quelle di carattere locale, i ragazzi delle scuole dovevano
partecipare con la divisa fascista.
Per ogni fascia di età c’era la divisa adatta, così i ragazzi più piccoli erano vestiti da
“figli della lupa”, quelli più grandi da “balilla”, le ragazze da “piccole italiane” e così via.
Io non ho mai potuto indossare uno di questi vestiti, perché bisognava acquistarlo ed in
casa non avevamo la possibilità; come famiglia numerosa una divisa ci veniva data gratis
dal patronato scolastico, ma di questa ne usufruiva già mia sorella Paola, ed i miei genitori
non pensavano certo di fare un sacrificio per comprarmi la divisa. Anche se ora potrei
vantarmi di non aver mai indossato una divisa fascista, devo confessare che quando avevo
otto – nove anni questo mi dispiaceva molto, perché a non possedere la divisa eravamo
non più di due o tre ragazzi per ogni classe e nelle sfilate ci mettevano in fondo alla fila.
Nelle manifestazioni importanti come il 28 ottobre c’erano tutte le categorie della
popolazione, dopo i balilla c’erano gli “avanguardisti”, giovani dai 14 ai 18 anni vestiti ed
addestrati come militari, le “massaie rurali” e poi gli operai delle fabbriche con la tuta da
lavoro. Gli operai avevano la giornata interamente pagata, ma per averne diritto dovevano
presentarsi al mattino in fabbrica, ritirare la medaglia con il proprio numero e consegnarla
nel cortile del Dopolavoro, dove dopo aver ascoltato i discorsi delle varie autorità, verso
mezzogiorno si concludeva la manifestazione. Capirete che in questo modo gli operai per
non perdere la giornata erano costretti ad andare tutti alla manifestazione, perciò erano
sempre molto affollate.
Il regime faceva ogni sforzo per incanalare i giovani verso le proprie idee e per prepararli alla vita militare. A questo scopo era stata istituita la “pre militare” , alla quale tutti i
giovani prossimi alla chiamata di leva erano obbligati a partecipare. Il sabato e la domenica
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mattina venivano addestrati affinché al momento della chiamata alle armi fossero già pronti
per andare al fronte. Alla domenica mattina di solito si esercitavano a sparare col fucile nel
tiro a segno (il bersaglio lo chiamavamo noi) che c’era tra le case operaie e la seriola di
Chiari, (vi sono ancora i resti). Noi ragazzi stando affacciati alla rete presso “la vasca”
potevamo osservare i bersagli della prima trincea che era proprio lì sotto, non vedevamo i
giovani che sparavano, ma sentivamo gli spari e vedevamo i buchini che si facevano man
mano sul cartellone, oppure la polvere che si sollevava da terra quando il tiratore sbagliava il bersaglio.
Il Genio Pontieri
Nei primi anni della guerra qui a Palazzolo vennero dislocati, per un certo tempo, dei
soldati del Genio Pontieri; si erano sistemati nei locali della vecchia “manifattura”, situata
appena dopo i “due ponti”, a nord della stazione ferroviaria. Al mattino passavano qui
sulla strada marciando e cantando, mentre andavano a fare le loro esercitazioni sul fiume
Oglio. Costruivano dei bellissimi ponti di barche e poi, a opera finita, li disfavano per
ricostruirli, il giorno dopo, in un altro posto. Per fare questo lavoro, di solito, si recavano
nei campi di fronte alla colonia elioterapica o nei “prati d’Oglio”, una volta però li vidi
costruire il loro ponte anche sul ramo dell’Oglio, vicino all’ospedale, tra lo “sguash” che
c’era di fianco alla proprietà ex Nulli e l’isola.
Alcuni di questi militari avevano trovato,
alle case operaie, delle famiglie che lavavano
loro gli indumenti, anche mia mamma li lavava
ad uno di essi. Questo soldato si era fatto amico
di mio fratello Antonio allora ogni tanto alla domenica veniva invitato a pranzo, in queste occasioni, consapevole della situazione alimentare, portava sempre una pagnotta.
Anche altri soldati avevano fatto amicizia
con ragazzi e ragazze delle case operaie, allora
quando erano in libera uscita venivano qui e si
sedevano tutti assieme attorno ad una panchina
e passavano la sera in compagnia parlando e
scherzando, certe volte cantavano, canzoni in
voga a quel tempo, fino all’ora della ritirata; tra
di loro ce n’erano di molto bravi , ma anche tra
i nostri ragazzi, c’era chi cantava bene, in particolare la Natalina, che con la sua voce trascinava tutto il gruppo.
Uno di questi soldati si innamorò di una raLuigina con una borsa di scarfòi,
assiema all’amica Lina,
gazza delle nostre case e, dopo che la sua comsul
lungolago di Sarnico
pagnia fu trasferita in altra sede, ottenne una
licenza e venne a sposarla.
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Allarme aereo
Ad un certo punto, la guerra che sembrava così lontana cominciò a farsi sentire più da
vicino. Della guerra avevamo già provato la fame e ancor di più ne avevano avvertito la
triste realtà quelle famiglie che avevano un loro caro al fronte. Ma ora sempre più di frequente si sentiva il rombo del motore degli aerei che passavano per andare a bombardare le
grandi città. Noi non potevamo sapere che intenzioni avessero, sentivamo di case bombardate e di persone rimaste sepolte vive sotto cumuli di macerie, allora quando suonava
l’allarme antiaereo scappavamo tutti fuori dalle case verso la campagna.
L’allarme all’inizio suonava soprattutto di notte, nel silenzio delle notti di allora, l’urlo
della sirena lanciato dall’alto della torre penetrava nelle case portando il panico, era un
fuggi fuggi generale e, prima che la sirena avesse terminato l’ultimo ululato, eravamo tutti
sulla strada della campagna. La gente prendeva sulle spalle materassi e coperte, i bambini
in braccio e di corsa verso i campi lontani dalle case, qui ci sistemavamo assieme a famiglie amiche, e certe volte ci si dormiva e si passava la notte (finché la stagione lo consentì
).
Mentre stavamo sdraiati sotto le stelle sentivamo passare sopra di noi gli aerei che
andavano a bombardare chissà dove (il più delle volte si sentiva poi dire di bombardamenti
su Milano). Dal rumore si capiva che dovevano essere numerosi e di grosse dimensioni,
quando poi arrivavano sopra l’aeroporto di Orio al Serio, vedevamo i fasci di luce della
contraerea che scrutava il cielo ed i colpi sparati che esplodevano in aria, ma gli aerei probabilmente volavano alti e sembrava che non s’accorgessero nemmeno di questa reazione.
L’oscuramento
La luce che illuminava il paese era già molto scarsa, di lampade per le strade ce
n’era una ogni cento duecento metri e di poca potenza, ma nonostante ciò quando
venne imposto l’oscuramento, i lampioni vennero coperti in modo che proiettassero solo un debole cerchio sulla strada. I fanali delle poche automobili, camion e
biciclette vennero mascherati in modo che solo una piccola fessura rettangolare
lasciasse passare la luce. All’interno delle persiane avevamo incollato della carta
scura perché non doveva uscire il minimo spiraglio di luce, altrimenti gli incaricati dell’UNPA, che tutte le sere passavano a controllare, davano dei forti pugni
sulle persiane per farsi sentire e poi gridavano: “spegnete la luce”. (questo servizio era svolto da volontari fascisti che portavano una fascia al braccio con scritto
UNPA Unione Nazionale Protezione Antiaerea).In tal modo si pensava di rendere
le città difficilmente individuabili dall’alto, nelle ore notturne.
Nei sotterranei del castello di Palazzolo furono ricavati dei rifugi antiaerei, i
locali vennero ripuliti e illuminati in modo da renderli confortevoli. I “Signori” si
erano fatti dei rifugi antiaerei nelle loro ville, anche nelle fabriche furono costruiti rifugi, ma molti operai preferivano scappare all’aperto ogni volta che suonava
l’allarme. Nelle scuole furono rinforzati alcuni locali a pianterreno, inserendo numerose
colonne supplementari in legno sotto il soffitto e vennero usati come rifugio antiaereo.
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Quando non si riusciva a scappare in campagna o non si aveva il tempo per raggiungere un rifugio, ci si riparava in qualche casa dai grossi muri con il soffitto a volta, (la
famiglia di mia moglie, i Giori, abitavano in quella casa che si trova al centro del bivio tra
via Pontoglio e via Cortevazzo, dove ha avuto sede anche la mutua aziendale Marzoli, qui
avevano a pianterreno una grande camera con dei muri larghi più di un metro ed un robusto soffitto a volta, mi raccontavano che durante gli allarmi aerei, molte volte gli operai
che scappavano dalla Marzoli, (la porta Carraia era a 100 metri) si sono rifugiati in quella
camera e per trovarvi posto, si cacciavano perfino sotto il letto).
Noi alle case operaie ci precipitavamo a pianterreno, e ci stringevamo gli uni agli altri
nei vani delle porte
Mi ricordo di una notte che aveva appena iniziato a suonare l’allarme, già si sentiva
sopra di noi il rumore di aerei e quasi contemporaneamente si udì il fragore dello scoppio
di una bomba. Mio padre ci trascinò fuori dal letto senza darci nemmeno il tempo di
vestirci (lo facemmo poi strada facendo) e via a correre in campagna. Quando stavamo
attraversando le case operaie, una luce bianca accecante apparve in cielo, da principio
sembrò che stesse ferma, poi si capì che stava scendendo lentamente verso terra. Una
grande paura ci colse perché non sapevamo cosa fosse, non si era mai visto niente di
simile, abituati all’oscurità totale quella luce sembrò ancora più potente di quanto sarà
stata nella realtà, illuminava ogni angolo come fosse giorno. Non so quanto sarà durata,
noi intanto continuavamo a correre, poi la luce lentamente si spense e rimase solo un
lumicino che cadde a terra, non so dove. Camminammo ancora un po’ verso la campagna, ma
poco dopo il rumore dell’aereo si allontanò e ci
fu assoluto silenzio fino a che la sirena suonò
“il cessato allarme” e lentamente tornammo a
casa ancora impauriti senza sapere cosa era successo. Il giorno dopo parlando dell’accaduto
sentivo molte persone ripetere “si poteva raccogliere un ago per terra”. Io non riuscivo a capire perché tutti dicessero così dato che di aghi
non ne avevo visto neanche uno, e non sapevo
che fosse un modo di dire per sottolineare la
potenza di quella luce.
Si seppe poi che l’aereo che aveva creato
tutto quello scompiglio era solo un ricognitore,
aveva visto la luce ad acetilene di un contadino
che stava irrigando un campo, il quale sentendo
l’aereo istintivamente rivolse la lampada verso
l’alto. L’aereo subito lasciò cadere una bomba, poi,
per rendersi conto di cosa si trattasse tornò sui suoi
passi e lanciò il bengala, visto che era solo campagna, se ne andò per i fatti suoi.
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Brüsò le ca-operae
Penso che l’incendio che colpì le case operaie nel 1942 sia stato il più grande incendio di
questi anni a Palazzolo. Io, fino ad oggi, non ne ho visto un altro di questa gravità. Ora vi
racconto come ho vissuto questo evento.
Una mattina d’estate io ed il mio amico Eugenio Pezzoni eravamo andati in piazza (a
piedi nudi come sempre in questa stagione) alla ferramenta Offredi a fare una commissione per qualcuno che non ricordo. Avevamo appena iniziato la strada del ritorno, quando
fummo colti dal suono della sirena. Pensando ad un allarme ci prese subito un po’ di paura
perché lontani da casa non sapevamo che cosa fare, allora decidemmo di rifugiarci presso
una mia zia che abitava in quella che ora si chiama via Bissolotti (sotto la torre, nel portone dove ora c’è il corniciaio).
Arrivati di corsa nei pressi del portone ci rendemmo conto che la sirena aveva smesso
di suonare dopo il primo segnale, ciò significava che non si trattava di un allarme aereo,
ma di un incendio. Difatti l’allarme veniva dato con la stessa sirena, ma con tre suoni
brevi, per il preallarme (o piccolo allarme) e tre suoni prolungati per il grande allarme.
Tranquillizzati, riprendemmo la strada per casa, giunti nei pressi del palazzo comunale
notammo in cielo un fumo nero che si spandeva, gente che correva e sentimmo dire :
“brüsò le caopèrae”. in quel momento l’autopompa stava uscendo dal deposito (situato
nel palazzo comunale) suonando a tutto spiano. Alquanto preoccupati ci mettemmo a correre verso casa, man mano nell’aria il fumo si faceva sempre più forte, quando arrivammo
alla curva dell’ospedale ci si presentò uno spettacolo amaro. Dalle nostre case si alzavano
colonne altissime di fumo e di fiamme, proprio nel tratto lungo dove abitavamo noi.
Facemmo la salita d’un fiato, arrivati in cima vedemmo che l’incendio iniziato nella parte
centrale si stava rapidamente estendendo alle due estremità.
C’era una gran confusione, gente che correva in tutte le direzioni, chi urlava, altri che
piangevano vedendo la loro poca roba andare in fumo, altri cercavano di portare all’esterno il mobilio, dalle finestre buttavano materassi sedie e vestiti. Sulla strada una folla di
curiosi tenuta lontana dai carabinieri ostacolava i movimenti dei pompieri. Arrivarono a
casa di corsa gli uomini, che erano stati avvertiti sul posto di lavoro, e cercarono di salvare
il più possibile nei piani dove il fuoco non era ancora arrivato. Fausto Bedoschi, nonostante i pompieri cercassero di impedirglielo, entrò nell’appartamento del suo amico Villa, che
in quel momento era in servizio militare, e riuscì a portare all’esterno un po’ di roba, poi
rientrò per un secondo tentativo, ma le fiamme erano ormai troppo vicine. Gli cadde addosso il soffitto in fiamme, procurandogli delle gravissime scottature per cui venne ricoverato in ospedale dove stette parecchi giorni in condizioni preoccupanti.
I pompieri di Palazzolo avevano attaccato le loro pompe, oltre che alle condutture
dell’acqua, nel canale che passava in mezzo alle case, ma poi arrivarono i pompieri di
molti paesi vicini: Chiari, Rovato ed Ospitaletto, e poi anche Brescia e Bergamo, a questo
punto l’acqua del canalino non bastava più e venne presto prosciugato. Allora tirarono i
tubi attraverso la strada, fino alla seriola Fusia, ma l’ incendio alimentato da tanto legno di
cui erano fatti i tetti ed i pavimenti dei solai, oltre al fieno e legna da ardere contenuti negli
stessi, sembrava non volersi fermare. Allora un gruppo di pompieri, armati di asce, tentò
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di tagliare una striscia di tetto trasversalmente, in modo da isolare l’ultimo tratto delle due
portine verso Sud. Lavorarono in modo frenetico per finire il lavoro prima che arrivassero
le fiamme, nel frattempo altri pompieri continuavano a scaricare ettolitri di acqua sul
fuoco ed alla fine i pompieri vinsero la battaglia: le fiamme si arrestarono poco prima di
arrivare alla parte isolata. Dall’altra estremità però l’incendio arrivò fino in fondo, si salvarono comunque tutti gli appartamenti del primo piano e del pianterreno, anche se un po’
malconci per tutta l’acqua che era filtrata dai soffitti. Distrutti invece furono gli appartamenti del secondo piano e tutti i fienili, con la legna per chi l’aveva già acquistata (o
“procurata”) per il prossimo inverno, inoltre molti tenevano conigli sul solaio, al sig. Ceco
Bona bruciarono più di trenta conigli. Noi fortunatamente, abitando l’ultimo appartamento a pianterreno abbiamo avuto bruciato solo il solaio sul quale avevamo poca legna e
segatura ed un po’ di fieno che mio padre stava preparando per l’inverno (i conigli li
tenevamo nell’orto).
Era passato mezzogiorno, i pompieri stavano ancora spegnendo qua e là gli ultimi
focolai, nessuno di noi aveva ancora mangiato e le case erano quasi tutte inagibili. A
questo punto arrivò un funzionario del comune a dire che tutti i ragazzi potevano recarsi alla
colonia elioterapica, dove gli
stavano preparando qualcosa da
mangiare. Non ce lo facemmo
ripetere due volte e ci incamminammo subito verso di essa. Per
l’occasione vennero ammessi
anche ragazzi più grandi di quelli
che frequentavano la colonia,
venne perciò anche mia sorella
Luigina ed altre ragazze della
sua età, Paola si trovava già nel
turno alla colonia. Quando arrivammo, i ragazzi alla colonia avevano già pranzato, allora la direttrice ci fece preparare una bella
tavolata sulla terrazza, da lì vedevamo quel che restava delle nostre povere case, da cui ancora si
alzava del fumo bianco. Sulla tavola era pronto un bel pranzetto e
noi non vedevamo l’ora di cominciare, ma la Direttrice si
soffermò un poco ad esternarci il
suo rincrescimento per quanto ci
era accaduto, poi ci fece recitare
la preghiera di prammatica,
L’articolo del “Giornale di Brescia” del 22 agosto 1942
( incendio il 18 agosto )
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Enrico Paola Luigina 1941
1943 Paola e Luigina in un gruppo di ragazze
di ritorno dal bagno al Sarioletto
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Signore benedici il cibo che stiamo per prendere e il Duce che ce l’ha dato, sul muro
dietro al tavolo un grande quadro del Duce ci fissava col suo sguardo truce, a questo punto
una delle ragazze più grandi mormorò qualcosa all’orecchio della vicina, a commento di
quel quadro e della preghiera recitata, e tutto il gruppo delle ragazze più grandi scoppiò a
ridere. La Direttrice offesa, montò su tutte le furie, e ci fece un discorso dove parlava di
poca riconoscenza verso chi ci stava aiutando e minacciò di mandarci a casa a pancia
vuota, ma poi tutti in silenzio potemmo finalmente mangiare.
A sera purtroppo molte famiglie si trovarono senza casa e dovettero trovare alloggio
presso parenti o in case messe a disposizione dal comune.
A rubare la legna
Anche la legna da ardere aveva raggiunto prezzi proibitivi, allora si cercò di sopperire
in modi diversi, in casa mia si faceva molto uso di segatura, probabilmente era il combustibile più economico. Devo però dire che molti altri alle case operaie usavano questo
combustibile, perché si vedeva spesso arrivare qualche carretto a scaricare segatura; chissà dove andava a prendere tanta segatura.
D’estate per fare la polenta sul fuoco si prendeva una “tolina” (recipiente di latta)
opportunamente predisposta con un foro presso la base e si riempiva di segatura, che
andava pressata con un cilindretto di legno man mano che se ne aggiungeva altra, avendo
l’avvertenza di mettere al centro, in verticale, un cilindro di legno in modo che poi estraendolo lasciasse un bel foro passante di cinque sei centimetri, dopo di ché si scavava un
tunnel sul fondo e si introduceva un pezzo di carta per l’accensione. Se la segatura era ben
pressata bruciava lentamente e durava il tempo necessario per preparare il pranzo.
C’era un nostro vicino che aveva il solaio sopra la nostra camera,al mattino verso le
sei e mezza, prima di andare al lavoro, saliva sul solaio a riempire le toline di segatura
pressata, così con quel continuo tam tam ci dava la sveglia in anticipo.
D’inverno invece la segatura si pressava direttamente nella stufa, poi quando era quasi
tutta bruciata e crollava, si introduceva legna fino a sera.
Ad un certo punto divenne difficile anche comprare segatura. Mi diceva l’amico Fortunato che lui andava
a Mura, dal “Rosh Calèpe”, a comperarne un sacco alla
volta, ma qui solitamente doveva fare anche mezz’ora
di fila, e poi se di segatura ne arrivava poca, per accontentare tutti, gliene davano solo mezzo sacco; il giorno
dopo ritornava col suo sacco sulle spalle, a fare la fila,
con la speranza di essere più “fortunato”
Per procurarsi legna si cominciò ad andare in campagna a raccogliere rami secchi e “taper” (schegge di fondi
di piante) ma di gente in cerca di legna ce n’era tanta e
questo tipo di legna diventò sempre più difficile da trotolina di segatura pressata
vare, allora si pensò di tagliare (rubare) un pò di legna
dalle tante piante che c’erano in campagna e se poi non
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si faceva in tempo a farla essicare, la bruciavamo così. La legna verde nella stufa faceva
strani rumori, pigolava sembrava che piangesse, ed alle estremità faceva delle bolle d’acqua mandando fuori l’umidità.
Anch’io con i miei amici, all’età di 8-9 anni, provai ad andare a rubare un po’ di legna,
però almeno in questo primo periodo, la nostra attività si esaurì in due sole spedizioni.
Il vecchio mercato, piazzale Dante Alighieri, aveva un fondo erboso con tanti pilastrini
di pietra dove una volta ci attaccavano i bovini , difatti era nato come mercato del bestiame
(foro boario o mèrcat di bò). Nel suo perimetro, verso nord e verso est, era contornato da
un canalino d’acqua che ne segnava il confine, al di là del quale c’erano dei bei campi
coltivati ad erba (la gabbiana). Sui bordi di questo canalino c’erano delle piante di platano, erano vicine a casa allora noi pensammo che fosse il posto giusto per procurarsi un po’
di legna, armati di roncole, aiutandosi l’un l’altro, ci siamo arrampicati sulle piante, cercando di scegliere le più basse, abbiamo tagliato in fretta un paio di grossi rami ciascuno e
poi di corsa a casa trascinando i rami sulla strada, ancora con tutte le loro foglie, a casa li
abbiamo sezionati e fatto dei fasci da mettere a seccare. I genitori dicevano “state attenti e
pericoloso” però ci lasciavano fare perché quel pochino di legna faceva comodo.
Visto che c’era andata bene, il giorno dopo pensammo di recarci nello stesso posto per
prenderne altra. Ero appena salito a fatica sul “mio” albero e stavo dando i primi colpi di
roncola ad un bel ramo che avevo adocchiato stando a terra, quando dall’erba, dove si era
acquattato, saltò fuori il contadino proprietario del campo. Con la falce in mano e correndo minaccioso verso di noi gridava : “va còpe, shè va ciape va tèe zo l’co” a quella vista,
io che già facevo tutto con una gran fifa, preso dallo spavento mi calai a terra con un salto,
ma nell’impatto col terreno mi si conficcò in una gamba, appena sopra la caviglia, la parte
terminale di un bastone tagliato di sbieco che spuntava dal terreno. Era tanta la paura che
mi aveva messo il contadino, che non mi accorsi subito dell’accaduto, sentii solo un gran
bruciore ma non persi nemmeno tempo a guardare e mi misi subito a correre, a piedi nudi,
verso casa con gli altri.
Ad un certo punto Salvatore, che mi correva accanto, guardando la mia caviglia esclamò piagnucolando: “madonò Rico còshò ta ghet fat !”. Io allora, senza fermarmi guardai
giù e solo allora mi resi conto dello squarcio che avevo nella gamba, e capii che quel
pizzicolìo che sentivo in mezzo alle dita era il sangue che mi colava dalla ferita. A questo
punto cominciai a sentire un gran male e impressionato da quella visione presi anch’io a
piagnucolare correndo senza fermarmi fino a casa. Mia mamma e tutte le donne del vicinato
che accorsero cercarono di medicarmi, ma videro subito che era necessario portarmi in
ospedale, dove mi ricucirono e stetti una settimana con la gamba sulla sedia.
Per un po’ di tempo, per noi ragazzi, non si parlò più di andare per legna. Di questo
episodio conservo ancora a ricordo, una grossa cicatrice sopra la caviglia destra.
A procurare la legna necessaria ci pensarono quelli più grandi, qui nelle nostre case si
era formato un gruppo di giovanotti di 18 – 20 anni, tra cui mio fratello Giacomo, ed anche
da uomini più anziani. Partivano di notte armati di seghe ed accette, si inoltravano nella
campagna, tagliavano una o due piante dove le trovavano più comode e lontane dalle case
dei contadini, le ripulivano dai rami e poi se le portavano a casa a spalle, certe volte anche
con una carretta tirata a mano. Le piante venivano tutte accatastate in un angolo dietro le
case operaie, poi al sabato, armati di seghe, cavalletti, mazze, cunei, tutti insieme a tagliare
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e spezzettare la legna per ridurla a dimensione giusta da mettere nella stufa (“stelle”),
sembrava un grande cantiere. Finito il lavoro fecero tanti mucchi quante erano le famiglie
che avevano partecipato. Purtroppo coloro che, per paura o perché potevano permettersi
di comprare la legna non erano andati a tagliare le piante, non furono inclusi nella divisione, però c’era una donna con due bambini piccoli che aveva il marito militare, alla quale
nel fare le parti, si decise di comune accordo di fare un mucchio di legna uguale a quello
degli altri.
A rubare l’uva
Un giorno io e Paola assieme ad altre due ragazze vicine di casa, mentre stavamo
gironzolando in campagna alla ricerca di erba, ci siamo trovati davanti dei bei filari di uva
bella matura pronta per essere colta. La zona si trovava in aperta campagna lontana da
qualsiasi cascina, (eravamo quasi alla Spina), di contadini nemmeno l’ombra; la tentazione era troppo forte, cercammo un varco nella siepe e ci prendemmo tre o quattro grappoli
ognuno, li nascondemmo nel sacco dell’erba e via a casa. Arrivati agli “stati” mostrammo
ai vicini qui bei grappoli e, quando seppero che erano lì, a portata di mano, vollero unirsi
a noi per una nuova spedizione. Così il giorno dopo partimmo in sette od otto, ci recammo
ancora nello stesso posto e siccome era il punto più vicino all’entrata prendemmo di mira
lo stesso filare e prendemmo cinque o sei grappoli ognuno, lasciando così un evidente
segno del nostro passaggio. Tutto filò ancora liscio e quando arrivammo a casa, altri vicini
vennero ad ammirare la “nostra vendemmia” e chiesero di unirsi a noi nella prossima
spedizione. La sera successiva il gruppo era composto da quindici o venti persone, quasi
tutte donne, ci eravamo portati delle borse per sistemare meglio i grappoli, qualcuno addirittura dei cestini di vimini, cerano anche ragazze più grandi e donne sposate; anche mia
sorella Luigina si era unita a noi per questa terza spedizione. Si decise di partire un po’ più
tardi un modo da arrivare sul posto all’imbrunire, e così fu.
Prevedendo che i contadini stanchi di queste ruberie, ci potessero sorprendere, decidemmo di mettere uno di guardia in un posto strategico, e siccome della mia famiglia
eravamo in tre, la scelta cadde su di me che ero anche il più piccolo. Fui posto sul ponte
della Miola a circa duecento metri dal campo d’uva (l’unico punto dove il contadino avrebbe
potuto arrivare senza essere visto), con la consegna che se fosse passato un contadino
avrei lanciato il segnale di pericolo convenuto: “a.. aaaaa a.. aaaaa ………”.
Avevo appena preso possesso del mio posto e stavo osservando quel gruppo che
sciamava nel campo dall’unica apertura, quando all’improvviso mi si parò davanti un
giovane contadino sbucato da una siepe a due metri da dove mi trovavo, che subito, senza
badare a me, si mise a correre verso i miei compagni.
Per un momento rimasi come paralizzato dalla paura, non mi aspettavo di trovarmelo
così vicino, aspettai che si allontanasse di qualche passo e poi cominciai a gridare con
quanto fiato avevo, e contemporaneamente mi misi a correre a grande velocità attraverso
i campi nella direzione opposta al campo d’uva: a.. aaaaa - a.. aaaaa scapiii s’cète
scapiiiii Biginò Paulinò scapiiiii a.. aaaaa - a.. aaaaa scapiii s’cèteeeee...scapiiiii...
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Gridavo e correvo, a piedi nudi, in un campo appena arato, ad una velocità tale che mi
pareva di passare sopra quelle grosse zolle senza quasi toccarle, le ragazze sentivano la
mia voce angosciata che si allontanava diventando man mano sempre più debole.
Seppi poi che il contadino arrivò sul posto quando tutti stavano abbandonando il campo, con le borse ancora completamente vuote, cercò inutilmente di inveire contro di loro,
minacciando denunce, perché tutte quelle donne con la loro dialettica, ribattevano dicendo
che loro non avevano nulla nella borsa e che lui non le aveva trovate nel campo. Allora
vista la partita persa disse: “shè ciape chel gnaro ga ‘npièneshe l’cul dè pèshade”, e
partì di corsa nella direzione dove io ero scappato, inseguito dalle mie sorelle Luigina e
Paola che cercavano di fermarlo. Ma io ero già sulla strada di casa, nel frattempo si era
fatto buio e, se pur con tanta fifa arrivai a casa un bel pò prima di loro.
Quella fu l’ultima spedizione, in gruppo, a caccia di uva.
L’inverno
Quel mattino mio fratello Antonio era partito per il militare, mia mamma seduta vicino alla finestra guardava all’esterno e piangeva in silenzio, fuori nevicava, dei grossi
fiocchi di neve molto radi che nel toccare il suolo si scioglievano.
Questo flash è l’unica scena di una nevicata che io ricordi di quei primi anni di guerra
passati alle case operaie.
Ricordo però molto bene le conseguenze del freddo di quegli inverni, in primo luogo
i “geloni” (piosèi) di cui io soffrivo particolarmente. Mi colpivano prima di tutto le dita
delle mani, sulla seconda e terza falange, queste si gonfiavano fino a che la pelle si rompeva e formava delle piaghe, poi mi prendevano le dita dei piedi, e certe volte anche le
ginocchia. Così passavamo tutto l’inverno con bende e pomate.
L’inverno per noi ragazzi non era molto allegro, perché chiusi in casa con quella poca
luce, le sere erano cortissime, dopo la breve cena, anche per risparmiare legna, non ci
restava che andare a letto. Per me e Paola, la cena era una cosa molto rapida, perché
avevamo già fatto la merenda alle quattro, allora ci spettava solo una scodella di caffelatte
oppure una o due fondine di minestra. Poi quando il freddo si faceva più forte e le lenzuola sul letto diventavano gelate, si scaldava il letto con la cosiddetta “monega” . un aggeggio di legno che teneva sollevate le coperte, e nel quale si infilava uno “scaldaletto” riempito con le brace che si toglievano dalla stufa. Mio padre al momento opportuno inseriva
nella stufa un bel pezzo di legna
adatto allo scopo. Questo rito prevedeva naturalmente dei turni, e nessuno avrebbe voluto essere nel primo, così da poter stare alzato ancora un po’, ma alla fine dopo inutili
lamentele e proteste, nel primo turno finivamo sempre io e Paola che
La monega
eravamo i più piccoli. Se non altro
questo ci dava il vantaggio di prendere sempre il letto più caldo perché le brace erano al
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massimo. E che bello infilarsi nelle lenzuola che certe volte scottavano così tanto al contatto con la pelle.
Solo la notte di Natale mio padre teneva acceso la stufa fino a tardi, e poi prima di
coricarsi metteva dentro un ceppo di legna molto grosso, che aveva scelto in tempo e si era
messo da parte, con quello, diceva, che a mezzanotte quando Gesù Bambino sarebbe venuto a farci visita per portarci i regali, avrebbe trovato ancora la stufa che ardeva e si
sarebbe fermato volentieri un pochino a scaldarsi.
Anche se di soldi ne avevamo pochi, mia madre faceva in modo che “Gesù Bambino”
lasciasse sempre qualche cosina, noi poi ci accontentavamo di pochissimo. Ricordo che un
Natale facemmo grande festa nel trovare al mattino una nuova pentola di alluminio (che sarebbe
poi servita per la minestra) piena di mandarini.
Il babbo si alzava presto, accendeva la stufa così che quando noi ci alzavamo trovavamo la cucina ben calda per la colazione. Poi al momento di mettere le scarpe, prendeva
dalla stufa una bella brace ardente la infilava in una scarpa, la scuoteva facendola scorrere
avanti e indietro per una decina di secondi, poi la versava nell’altra scarpa e ripeteva
l’operazione, quindi la rimetteva nella stufa. Noi infilavamo le scarpe così riscaldate che
ci tenevano i piedi caldi per un po’. Ricordo un inverno particolarmente freddo, del quale
ho presente una scena che al giorno d’oggi potrebbe sembrare frutto della fantasia. Abitavamo, come già detto, in un appartamento di due stanze a pianterreno e siccome era l’ultimo verso nord aveva la parete che dava all’esterno sempre molto fredda. In cucina sull’unica stufa si cucinava, si scaldava l’acqua per lavarsi, (mio padre tornava molto sporco
dalla fonderia e tutte le sere scaldava un paiolo di acqua e si lavava in un mastello) una
“perolina” incorporata nella stufa produceva in continuazione acqua calda. Tutto questo
faceva sì che in cucina ci fosse sempre un’aria molto umida, e così ogni volta che si apriva la
porta della camera, un pò di questa umidità andava a condensarsi sulla parete più fredda.
Nella camera che non era per nulla riscaldata, prima i vetri si coprirono di ghiaccio formando
Una nevicata del 1940
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dei disegni come arabeschi, poi sulla parete più fredda si cominciarono a vedere dei riflessi che nella scarsa luce brillavano come stelline, finché tutta la parete si ricoprì di finissima
brina. Un giorno mia madre con una paletta provò a raschiarla, ne raccolse due catini, in
pratica era come dormire in un frigorifero. Le coperte non erano sufficienti, allora si buttava sui letti tutto quello che si aveva: il mantello del babbo, i paltò , giacche, ecc. ecc. e
sotto questa pesante copertura, nonostante tutto, si aveva un caldo sufficiente.
Il mancato trasloco al Villaggio Marzoli
Da qualche anno la ditta Marzoli stava costruendo case per i propri dipendenti, : “il villaggio Marzoli”. Le prime villette ultimate erano state assegnate a capi reparti e impiegati, ma
anche a qualche operaio. Mio padre senza troppe speranze aveva fatto domanda, eravamo in
sette in due stanze e ne avevamo i titoli, un bel giorno dopo essere stato a parlare con uno dei
Sigg. Marzoli, facendo presente che eravamo oramai tutti grandi e le due stanze ci stavano
strette, ottenne l’assegnazione di un appartamento al villaggio Marzoli.
La notizia ci riempì subito di gioia e ci buttammo a fare progetti su come sistemarci nel
nuovo appartamento; poi però noi ragazzi cominciammo a pensare che avremmo dovuto lasciare i nostri amici per andare ad abitare in mezzo a sconosciuti. Anche ai genitori dispiaceva
lasciare i vicini con i quali condividevamo così bene la nostra miseria, ma purtroppo la necessità
di allargarsi non concedeva ripensamenti, oltretutto un appartamento al villaggio Marzoli sarebbe stato allora una sistemazione ambita per chiunque.
Questo stato d’animo non durò a lungo, perché dopo pochi giorni il babbo fu chiamato in
ufficio alla Marzoli e gli venne comunicato che la nostra assegnazione era stata annullata. Cosa
era successo? L’appartamento che in un primo tempo era stato a noi assegnato, veniva invece
dato ad un impiegato della Marzoli, un nostro vicino di casa , il Sig. Enrico Locatelli che aveva
avuto distrutto l’appartamento nell’incendio delle case operaie e viveva con la famiglia in un
appartamento di fortuna. Però ci veniva garantito che, d’accordo con i responsabili della “Direzione delle case operaie”, sarebbe stato assegnato a noi l’appartamento che era del Locatelli,
appena terminata la ricostruzione degli appartamenti bruciati. Fummo tutti molto contenti di
questo cambiamento, perché l’appartamento del Locatelli era grande, quattro stanze al secondo
piano con un bel balcone e nello stesso tempo restavamo ancora con gli stessi amici e vicini.
Così dopo alcuni mesi, nella primavera del quarantatré, ci trasferimmo nel nuovo appartamento, dall’ampio balcone si poteva godere un bel panorama sulla valle dell’Oglio e le rive del
Cividino. Ci pareva un sogno, nelle due camerine più piccole vennero sistemati in una, i letti di
Antonio e Giacomo e nell’altra di Luigina e Paola; io restavo nella camera più grande assieme
ai genitori, però in un letto tutto mio, una “turca” contro il muro fatta con una “rete metallica”
alla quale il babbo aveva attaccato quattro gambe di legno.
Mi ricordo che ogni volta che veniva un parente a farci visita lo portavamo subito sul
balcone a fargli ammirare il panorama, poi mostravamo le camere e loro dicevano tutti: che
bello, quattro stanze, una che va nell’altra e il gabinetto solo per voi. Per capire meglio questa
espressione bisogna tenere presente che a quel tempo molti avevano ancora la cucina a pianterreno e la camera al primo piano e quanto al gabinetto, era abbastanza frequente che quattro o
cinque famiglie disponessero di un solo gabinetto, oltretutto all’esterno nel cortile.
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Dall’oro alla Patria alla requisizione delle campane
Nel 1935 il regime fascista per fare fronte alle sanzioni impostegli dalle nazioni unite,
in seguito alla guerra d’Africa, chiese a tutte le donne d’Italia di rinunciare al proprio
anello nuziale, la fede, per donarla alla patria (gli uomini non portavano la fede). Io avevo
solo un anno, ma questo fatto l’ho sentito tante volte commentare da mia mamma, specialmente nei momenti in cui le cose andavano peggio diceva: “come siamo state stupide noi
donne a correre tutte a versare la nostra fede”. In effetti però anche se doveva essere un
atto spontaneo non era stato possibile sottrarsi; la propaganda fascista aveva dato grande
importanza a questo fatto, manifesti e giornali incitavano le donne a dare il loro oro alla
Patria, venivano organizzate grandi manifestazioni dove le mogli dei gerarchi fascisti erano le prime a sfilarsi pubblicamente l’anello. Qui a Palazzolo la manifestazione venne
fatta nel cortile del dopolavoro, le donne tutte in fila andarono a depositare la propria fede
in un contenitore sopra il palco, tra gli applausi di tutti i presenti e qui, con la scusa di
rilasciare una ricevuta, venivano registrate su di un elenco, per cui nessuna donna (o forse
pochissime) aveva avuto il coraggio di astenersi dal compiere questo gesto. Mia madre
l’aveva fatto a malincuore, era l’unico oggetto d’oro che possedeva, in cambio gli diedero
una fede in ottone e solo qualche anno dopo la fine della guerra riuscì a ricomprarsene una
in oro.
Negli anni della guerra scarseggiavano i metalli per costruire cannoni e carri armati,
allora venne imposto a tutti i proprietari di ville e case con recinti in ferro, di levarli e
sostituirli con manufatti in cemento, o muretti. La villa Lanfranchi, ora sede della biblioteca, aveva una bella cinta in ferro, io mi ricordo quando la tagliarono con la fiamma
ossidrica, al suo posto ci fecero quel muro che c’è tuttora, e così avvenne per molte altre
ville del paese, ad eccezione delle ville dei kupher e Niggeler che essendo cittadini Svizzeri non erano soggetti a tale obbligo.
La villa Lanfranchi con la sua bella inferriata
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Oltre al ferro veniva chiesto di
versare alla Patria tutti gli oggetti
in rame: secchi, paioli, ecc. Noi avevamo un bel secchio in rame, che
tenevamo pieno d’acqua appeso ad
un gancio sopra il lavello, era la
scorta di acqua potabile, quando si
voleva bere si prendeva direttamente dal secchio l’acqua con un mestolo che vi era appeso, (nessuno
alle case operaie, pochissimi in paese, avevano l’acqua in casa, quando serviva si andava con secchi a
prenderla alle due fontane che c’erano in mezzo al cortile). Questo
secchio mia mamma non lo volle
consegnare, era l’unico oggetto di
un certo valore che avevamo in casa,
oltretutto vi era affezionata perché
era un ricordo di famiglia, lo tenemmo sempre ben lucidato a fare il suo
servizio fino a quando ci misero
l’acqua in casa, qualche anno dopo
la fine della guerra.
Verso la fine del conflitto quando oramai non restava più nulla, toccò alle campane, da tutti i campanili furono tolte le campane per fonderle e farne cannoni. Anche dalla
nostra torre furono smontate e calate a terra tutte le campane (ce ne lasciarono una per battere le ore). Fortuna volle che le campane caricate
su dei carri, si trovavano ancora nei
paraggi in attesa di essere inviate in qualche fonderia, quando avvenne l’armistizio del 8
settembre 1943, così i soldati di guardia le abbandonarono. Il nostro Arciprete don Piccinelli
si diede subito da fare per recuperarle, vennero nascoste in una cascina di campagna sotto
un mucchio di fieno, e qui rimasero fino alla fine della guerra, senza che in paese nessuno
sapesse del fatto, una campana si era rotta nel calarla dalla torre, per cui a guerra finita si
decise di togliere anche l’ultima che era rimasta sulla torre, e rifonderle tutte per fare le
nuove campane che tuttora ci rallegrano nei giorni di festa.
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Le campane vengono calate
dalla torre e caricate sui carri
per portarle nelle fonderie
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La caduta del Fascismo
Il 25 luglio del 1943 inaspettatamente il regime fascista crollò, e Mussolini fu costretto a dimettersi. È vero che la guerra andava male su tutti i fronti e gli Americani erano già
sbarcati in Sicilia, ma non ci si aspettava di certo che il Duce venisse cacciato da un giorno
all’altro.
Di quella storica giornata questo è quello che io ricordo.
Ci eravamo trasferiti da poco nel nuovo appartamento al secondo piano, noi ragazzi
eravamo nel periodo delle vacanze estive. Mia sorella Paola stava facendo il suo turno alla
colonia elioterapica, io ero ancora a letto e mi godevo la mia “turca”, saranno state almeno
le nove perché il sole era già alto, mi trovavo a casa da solo. Improvvisamente fui sbalzato
dal letto da mia mamma che, tornando a casa dall’essere andata a fare la spesa, era entrata
in casa sbattendo la porta gridando qualcosa che non capii subito, poi corse in camera, e
mentre varcava la porta mi diceva ad alta voce: “Rico shaltò n’pe, i ga botat zo l’Duce” e
così dicendo sventolava un giornale, era la prima volta che in casa mia entrava un giornale.
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Aveva in mano “IL CORRIERE DELLA SERA” sul quale un titolo a tutta pagina annunciava la fine del governo fascista di Mussolini. “Guarda” diceva mia madre tutta contenta,
il Duce non c’è più, ora finirà la guerra e Antonio potrà tornare presto a casa”. La mamma
era convinta, come molti quel giorno, che la fine di Mussolini fosse anche la fine della
guerra.
Man mano che la notizia si diffondeva la gente usciva dalle case e si formavano dei
gruppetti qua e là, a commentare la bella notizia; poi desiderosa di conoscere gli sviluppi
della situazione, la gente si spostava verso la strada nella speranza che i passanti fossero
più informati, o comunque di avere notizie all’arrivo dei treni.
Nelle città la notizie circolavano più facilmente, poi arrivavano in paese tramite la gente
che si recava in città per lavoro o per affari. Quando arrivava un treno, la gente scendeva a
piedi dalla stazione tutti in fila poi qui si divideva, parte andava verso la “piazza” altri sulla
riva, allora quando passava un gruppo di persone con borse e valige dicevamo “è arrivato il
treno delle …………” .
Quel giorno c’era molta gente delle case operaie ad aspettare “quelli del treno”, ed essi
ci raccontarono eccitati di quello che era successo a Brescia.
Dopo che in città si era diffusa la notizia, la folla aveva invaso la sede del fascio e
l’aveva devastata, mobili e quadri erano stati buttati dalla finestra, ricordo che un signore
mostrava orgoglioso una cornice rotta e diceva che era appartenuta ad un quadro del Duce
che era stato fatto a pezzi.
La gente era contenta e pensava che tutto fosse oramai finito, invece arrivò presto la
grande delusione, il maresciallo Badoglio nominato dal Re al posto di Mussolini dichiarò
subito “la guerra continua”, e per un po’ le cose andarono avanti ancora come prima.
In questo periodo passò un venditore ambulante con quadri di Badoglio, cosicché chi
aveva tolto il quadro del Duce dalla parete accanto a quello del Re, lo poteva sostituire con
Badoglio. Alle case operaie penso che siano stati pochi quelli che tenevano certi quadri, io
non ne ho mai visti nella mia casa e nemmeno in quelle dei miei amici.
L ’ 8 settembre, l’armistizio
Poi arrivò l’8 settembre, non ricordo come ci giunse la notizia ma ricordo bene alcuni
avvenimenti di quei giorni.
La gente accolse con grande gioia l’annuncio dell’armistizio, ancora una volta ci si
illuse che fosse tutto finito: guerra, dittatura e fame.
Nel pomeriggio sentimmo giungere dalla strada dei canti, noi ragazzi fummo i primi
ad accorrere, e vedemmo un corteo formato solo da ragazzi, dagli 8 ai 15 anni, guidati da
un personaggio estroso, molto noto in paese, lo Zambelli, titolare di una piccola fonderia,
soprannominato “ Mat Zambèl “ , che era l’unico adulto presente. In testa al corteo c’era
una grande bandiera rossa, ed i ragazzi incitati ed istruiti dallo Zambelli cantavano “ Avanti
popolo alla riscossa bandiera rossa trionferà ………”
Arrivati davanti alle case operaie, lo Zambelli con un ampio gesto del braccio ci invitò
a seguirlo e noi emozionatissimi ci buttammo subito nel corteo, e così accadde anche alle
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calci (all’inizio di via ponte fusia), altri ragazzi si unirono ed il corteo andava man mano
ingrossandosi. Arrivati all’osteria di “Cioti”, (duecento metri dopo il sottopassaggio ferroviario verso S. Pancrazio) ci fece sedere chi sulle sedie e chi per terra, e offrì a tutti delle
gassose, poi ripartimmo tornando verso il paese sempre cantando. Lungo la strada altri
ragazzi si unirono; a Mura ci fermammo all’osteria “Da Culumbì” (si trovava alla confluenza di via Schivardi con via Buffoli) dove fece portare ancora da bere per tutti, pagò
sempre di tasca sua, poi ci congedò con l’impegno di ritrovarsi la mattina dopo in piazza
Roma.
L’indomani mattina noi delle case operaie eravamo in pochi ad avviarci verso la piazza, molti genitori avevano proibito ai propri figli di partecipare, per timore che potesse
succedere qualche incidente. Arrivati in piazza vedemmo che anche da altre parti del paese la partecipazione era scarsa, la piazza però era gremita da adulti che formavano gruppetti
e discutevano. Noi ragazzi ci sedemmo un po’ per terra e sui gradini, altri più grandi ai
tavoli della trattoria “la vedova”, dove lo Zambelli, sempre con la sua bandiera rossa, ci
fece portare da bere ancora altre gassose. Riprendemmo anche a cantare “ bandiera rossa”
stando seduti davanti alla trattoria nella speranza che arrivassero altri ragazzi.
Ad un certo momento arrivò una automobile che si fermò al centro della piazza, la gente
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si fece da parte silenziosa e tutti concentrarono l’attenzione sulla macchina, (era abbastanza raro vedere un’automobile) . Dall’auto scese un militare, senz’altro un ufficiale, alto di
statura con un viso magro e pallido, si diresse verso il portico dalla parte dove eravamo
noi, appena giunto sul gradino iniziò subito un breve discorso con una voce gelida e decisa. Del discorso ricordo queste parole : “ Oggi non è un giorno di festa, oggi è un giorno
di lutto, non si fa festa quando la patria perde una guerra……….. tornate alle vostre
case e meditate”.
Nessuno dei presenti osò dire una parola, la gente pian piano lasciò la piazza, lo Zambelli
ripiegò preoccupato la sua bandiera rossa e ci disse: ragazzi andate a casa oggi niente
corteo. Non ricordo se lo stesso giorno o il giorno dopo arrivarono in paese i militari
Tedeschi, con camion e cingolati girarono un po’ per le strade con i fucili spianati, poi
lasciarono un presidio. Alla Marzoli i Tedeschi entrarono di notte scavalcando il muro di
cinta, provocarono una grande paura ai pochi operai presenti che se li videro davanti con
il mitra puntato. Occuparono la fabbrica dissero per garantirsi da sabotaggi.
Poi con l’aiuto dei Tedeschi si ricostituì il regime fascista, ora con la connotazione
Repubblicana (P. F. R. partito fascista repubblicano) e la vita riprese con gli stessi problemi di prima.
Credo che la manifestazione dello Zambelli, anche se fatta con tutti ragazzini, sia stata
a Palazzolo l’unica parentesi negli anni della dittatura fascista prima della liberazione.
Il soldato che fugge
In seguito all’armistizio dell’ 8 settembre, la fuga del Re a Brindisi e la conseguente
disfatta dell’esercito, molti militari che si trovavano in servizio in quei giorni abbandonarono le caserme prima dell’arrivo dei Tedeschi e fuggirono verso casa. Vagarono per diversi giorni, alcuni per mesi, specialmente quelli che al momento dell’armistizio si trovavano lontani dai loro paesi. Alcuni vennero catturati e posti di fronte all’alternativa: o
entrare nell’esercito fascista repubblicano, oppure venire inviati nei campi di concentramento in Germania; altri nell’impossibilità di raggiungere casa si unirono alle formazioni
partigiane che si stavano organizzando sulle montagne. Tra coloro che riuscirono a raggiungere casa, molti vissero nascosti fino alla fine della guerra, rischiando la fucilazione
dopo i vari “ultimatum” dati ai “disertori”, qualcheduno decise di consegnarsi, altri partirono per la montagna per unirsi ai gruppi partigiani.
Un pomeriggio, mentre con i miei amici stavamo giocando nel nostro “cortile” con
una palla di stracci, uno sconosciuto ci passò in mezzo in bicicletta senza curarsi di noi,
poi proseguì zig – zagando come un ubriaco, fino a che andò a cadere a pochi metri dal
canale. Fu subito soccorso, portarono dell’aceto per farlo rinvenire, gli pulirono gli abiti e
medicarono le ferite che si era fatto nella caduta, poi fu fatto sedere in un angolo verso gli
orti in modo che fosse meno visibile da eventuali passanti e noi tutti attorno a semicerchio
stavamo ad osservarlo. Raccontò di essere un militare in fuga verso casa, non ricordo da
dove venisse e dove era diretto, disse che da qualche parte gli avevano dato quella bicicletta sgangherata e degli abiti borghesi, non mangiava da diversi giorni.
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Benché avessimo tutti poco o niente da mangiare, ogni famiglia gli portò qualcosa,
così il povero soldato potè sfamarsi e ripartire anche con una piccola scorta per un po’ di
giorni. Noi ragazzi fummo molto colpiti da questo episodio e ne parlammo poi molto negli
anni successivi definendolo come quello de “Il soldato che fugge”.
Questo problema dei soldati che disertavano fu poi anche sfruttato da piccoli furfanti
che per sbarcare il lunario imbrogliavano la gente fingendosi soldati in fuga, così ogni
tanto capitava uno che si fingeva morto di fame, anche con relativo svenimento, la gente
solitamente si impietosiva ed anche se aveva qualche dubbio gli dava lo stesso qualcosa
da mangiare, magari privandosi loro stessi del poco che avevano. Le donne, specialmente
le mamme che avevano dei figli in guerra e li pensavano bisognosi di tutto, soccorrendo
questi sbandati veri o falsi che fossero, immaginavano che qualcun altro da qualche altra
parte forse stava aiutando il loro figlio.
Oronzo
Fu in questo periodo che ci capitò di ospitare un giovane soldato che aveva disertato
dall’esercito “Repubblichino”.
Successe che un ragazzo di Bari che si trovava a fare il militare nel bresciano, dopo l’8
settembre decise di disertare e, non potendo raggiungere la famiglia, troppo distante e
divisa dal fronte, pensò di rifugiarsi presso una famiglia che abitava sotto di noi, dato che
tempo prima aveva fatto amicizia con una delle figlie. Questa famiglia composta da padre
madre e tre figlie non aveva posto per far dormire questo “pericoloso” ospite, allora si
azzardarono a chiedere ai miei genitori se potevano ospitarlo durante la notte. Sapevano di
poter contare sul posto vuoto lasciato da Antonio che era militare chissà dove, ma sapevano soprattutto di potersi fidare ben conoscendo le idee dei nostri genitori e la loro disponibilità verso gli altri. Difatti babbo e mamma pur consapevoli del rischio che correvano ad
ospitare un disertore (si rischiava la fucilazione) accettarono che Oronzo, così si chiamava
il giovanotto, dormisse in casa nostra. Al mattino mia mamma, tagliando un po’ delle
nostre già magre razioni, gli preparava una scodella di caffellatte con un panino, poi senza
farsi vedere da nessuno del vicinato, Oronzo scendeva la scala e stava tutto il giorno
nascosto nell’appartamento della famiglia Cadei. Nessuno alle case operaie seppe mai di
questa presenza, se non alla fine della guerra, noi ragazzi messi al corrente del rischio che
correvano le nostre famiglie, non ne facemmo mai parola con gli amici.
Molte volte dalla finestra della mia camera, che era proprio sopra la camera dove lui
stava nascosto di giorno, lo intravedevo dietro le persiane socchiuse che passava le giornate a sbirciare attraverso le fessure.Si trattenne uno o due mesi, poi, mi dissero che, con
l’aiuto di famiglie amiche, ottenne documenti falsi e se ne andò.
Alla fine del conflitto Oronzo tornò a Palazzolo, sposò la ragazza che lo aveva ospitato e si trasferirono entrambi a Bari dove la famiglia di Oronzo aveva una fabbrica di
cappelli e berretti.
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Il ritrovamento di tre mitragliatrici
Un giorno alla stazione di Palazzolo arrivò un lungo treno merci carico di carrarmati e
cingolati danneggiati in combattimento. Venivano inviati da qualche parte per le necessarie riparazioni per poi, appena pronti tornare al fronte.
Il treno in attesa di proseguire per la sua destinazione, fu messo per alcuni giorni su di
un binario morto, precisamente il binario di destra che parte dalla stazione in direzione
Brescia e termina poco prima del primo passaggio a livello, i vagoni occupavano tutto il
binario fino oltre il sottopassaggio del Vanzeghetto.
Appena si sparse la voce, il treno fu preso d’assalto da numerosi curiosi che salivano
sui vagoni, entravano nei carrarmati a vedere come erano fatti, aprivano sportelli, giravano
levette e volantini. I pochi Tedeschi di guardia avevano il loro da fare a mandare via la
gente, ma erano dei soldati anziani e non sembravano cattivi cosicché non venivano presi
sul serio, quando loro erano da una parte le persone salivano dall’altra e viceversa.
La gente raccontava che alcuni avevano trovato nei carri degli oggetti abbandonati e se
li erano portati via: binocoli, gavette, e roba del genere. Sentendo parlare di queste cose, il
giorno dopo anche io e mia sorella Paola corremmo a vedere il treno, e riuscimmo a salirci.
Fu una bella emozione entrare in un carrarmato e toccare qua e là, però di oggetti abbandonati non c’era neanche l’ombra, probabilmente eravamo arrivati tardi.
Dopo essere andati un po’ in su ed in giù per il treno, salendo e scendendo dai carri, si
era fatto tardi e decidemmo di tornare a casa, perciò scendemmo dalla scarpata della ferrovia e ci incamminammo sul sentiero che passa in fondo ad essa. Paola che era già un po’
più avanti di me tornò indietro trafelata: “Enrico corri a vedere, lì nella siepe ho visto delle
cose fatte così, come dei tubi con delle cose attaccate” non riusciva a spiegarmi bene perché non sapeva di cosa si trattasse, io mi precipitai e nel vedere quegli oggetti pensai subito
che si trattasse di mitragliatrici, le avevo viste sulle figurine “i soldati” che usavamo per
giocare. Nascoste in mezzo ad un folto cespuglio di rovi, in fondo alla scarpata della ferrovia, cinquanta /cento metri oltre il sottopassaggio del Vanzeghetto, c’erano nascoste tre
mitragliatrici. Probabilmente qualcuno era riuscito a smontarle dai carri e le aveva nascoste con il proposito di portarle via alla notte; in quel punto c’era solo una cascina poco
distante e poi tutta campagna.
Pensammo subito che doveva trattarsi di qualcosa di molto importante, perciò io e
Paola non facemmo parola con nessuno, e corremmo a casa aspettando impazienti il ritorno di Giacomo dal lavoro. Anche se nessuno ce ne aveva parlato, sapevamo che Giacomo
aveva in qualche modo a che fare con i partigiani, appena potemmo lo informammo di
quanto avevamo visto. Lui si fece indicare per bene dove era il nascondiglio, e ci raccomandò di non dire niente a nessuno.
Appena fu buio, con un gruppetto di amici, si recò sul posto, trovarono solo due mitragliatrici, probabilmente chi le aveva sottratte ai carri era già stato a prenderne una. Le
portarono in qualche casa, non la nostra, le smontarono e poi una domenica un gruppetto di
amici delle case operaie fece una gita in bicicletta ad Adrara (con una grande fifa addosso
per i pacchetti che si portavano appresso). Fu così che fecero arrivare le mitragliatrici ad
una formazione partigiana delle vicine montagne.
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Questo ci disse Giacomo, ma a guerra finita sapemmo che in realtà ad Adrara arrivò
solo una mitragliatrice, l’altra che era stata trovata priva del treppiede, restò nascosta in
paese dove un artigiano la completò, e venne poi utilizzata nei giorni della liberazione,
piazzata sulle mura del castello.
L’episodio delle due mitragliatrici è citato nel volumetto “ANTIFASCISMO E LOTTA DI LIBERAZIONE A PALAZZOLO (anni 1943 – 1945)” ma con grande delusione
mia e di Paola, nessun accenno è stato fatto a chi le ha ritrovate.
Manifesto affisso
sui muri di Palazzolo
ed in tutta la provincia
nell’ottobre del 1943
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Giacomo
Mio fratello Giacomo aveva avuto la fortuna di venire assunto dalla “MINGANTI”,
una ditta sfollata da Bologna per sfuggire ai bombardamenti, come altre ditte che si trasferirono a Palazzolo tipo “LA VOCE DEL PADRONE” che veniva da Milano, (in seguito
però risultò che nemmeno qui fossero proprio al sicuro, quando cominciarono i bombardamenti al ponte). La Minganti venne ospitata nei saloni di montaggio della Marzoli,
portò da Bologna un certo numero di operai ed altri li assunse in paese o le vennero ceduti
dalla stessa Marzoli. Lavorava per l’esercito perciò Giacomo, come altri giovani che ci
lavoravano, ottenne l’esonero dal servizio militare. Ma lui a diciotto anni era già inserito
in un gruppo di partigiani che operavano a Palazzolo e nei paesi vicini con azioni di sabotaggio, furti di armi, volantinaggio e scritte notturne sui muri contro il regime; i famosi
G A P (gruppi di azione partigiana) .
A me e Paola cercarono di tenerlo nascosto il più possibile, per paura che cedessimo
alla tentazione di raccontarlo a qualche amico. Del resto anche i miei genitori ne erano
stati all’oscuro per un po’ di tempo, anche se mia mamma era sempre comunque molto
preoccupata perché lo vedeva molte volte tornare tardi alla sera, nonostante il coprifuoco.
Finché un giorno mio padre nello spostare un mucchio di fieno sul solaio vi trovò
nascosti due fucili. Noi capimmo dalla forte preoccupazione dei genitori che era successo
qualcosa di grave. Se qualcuno l’avesse visto portarli a casa e ci fosse stata una perquisizione ci poteva essere la fucilazione o nel migliore dei casi il carcere e la deportazione sia
per Giacomo che per il babbo. Giacomo rassicurò dicendo che di lì ad un paio di giorni le
armi avrebbero cambiato posto.
Manifesto del maggio 1944
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Questo fatto coinvolse sempre più anche i nostri genitori, e seppi poi a guerra finita
che in altre occasioni (anche quando eravamo sfollati al Maglio) Giacomo arrivò a casa
nottetempo con delle armi in attesa di poterle collocare in posti più sicuri.
Una volta a Cologne fu fermato da due militi, mentre assieme ad un compagno era andato
in bicicletta, di mattino presto, a prendere dei volantini a Coccaglio. Per loro fortuna un gruppo
di donne che usciva dalla chiesa, si fece loro attorno protestando e insultando i militi. Le donne
erano molto arrabbiate perché in quel posto il giorno prima due giovani erano stati fucilati dai
fascisti. I due militi, che forse non erano dei peggiori, ebbero un attimo di esitazione così Giacomo e l’amico ne approfittarono per fuggire.
Scritte sui muri
Siccome era proibito parlare male del regime in pubblico, l’unico modo per criticare e
denunciare soprusi era quello di scriverlo di notte sui muri. Così capitava spesso di trovare
IL FASCIO, BASTA CON LA GUERRA,
al mattino scritte del tipo: IL DUCE,
FASCISTI ASSASSINI, W I PARTIGIANI - ecc. ecc. , che le autorità si affrettavano
a far sparire con una mano di vernice. E le scritte spiccavano molto meglio allora perché i
muri non erano tutti imbrattati come ora da scritte e manifesti. C’erano sì le scritte propagandistiche del regime, ma quelle grandissime, dominavano in alto sui muri delle case .
Venivano fatte nei punti strategici del paese in modo che si potessero vedere da lontano,
scritte a lettere cubitali fatte da imbianchini professionisti, erano sempre delle frasi tratte
da discorsi di Mussolini. Una che occupava tutta la facciata di una grande casa diceva:
NELLA LOTTA DEI CONTINENTI E DELLE NAZIONI NON CI SI PUÒ’ FERMARE
- CHI SI FERMA È PERDUTO - Mussolini, un’altra: CREDERE OBBEDIRE COMBATTERE, ecc. .
Ma la scritta fatta da ignoti durante la notte, che ricordo meglio, anche per l’eccezionalità delle dimensioni, fu quella che apparve un mattino a Mura all’inizio di via Garibaldi,
ai tempi della Repubblica di Salò, quando il partito fascista aveva cambiato il nome da
PNF (partito nazionale fascista) a PFR ( partito fascista repubblicano)
La scritta partiva 50 metri più avanti della farmacia Mori (ora Cottinelli), sul muro di
fronte, e proseguiva per almeno 15 o 20 metri, su di una sola riga. Lettere grandissime
graffiate profondamente nel muro dicevano :
SAPETE COSA VUOL DIRE P F R ? POCHI FARABUTTI RIMASTI !
La voce si sparse rapidamente per il pese e molta gente passò di lì fingendo indifferenza
per sbirciare la scritta, anch’io ci andai, essendo un ragazzo non correvo alcun rischio. Poi
la scritta venne presto cancellata.
Oggi certe cose possono sembrare di poco conto, ma allora erano per noi molto
importanti, facevano sentire la forte presenza di gente che la pensava diversamente.
Una volta Luigina, assieme alla sua amica Palmira, andò di nascosto a scrivere,con il
gesso, sul muro di cinta del cimitero: “VENTO, VENTO PORTA IL DUCE QUA DENTRO”
la frase l’avevano sentita dal padre di Palmira il quale l’aveva letta sul muro del cimitero
di Brescia, città dove lavorava. (sulle note di una canzone in voga allora, vento vento
portami via con te)
W
W
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La partenza dei republichini
Una mattina sono stato testimone di uno degli ultimi atti di prepotenza da parte dei
Fascisti.
Nell’ultimo anno di guerra, il regime fascista aveva creato dei battaglioni di soldati
formati da ragazzi giovanissimi, penso che alcuni di loro avranno avuto non più di 14 – 15
anni, con un massimo di 17 per i più grandi, si trattava di volontari che, magari non tutti
per convinzione, ma piuttosto per risolvere il problema della fame, avevano scelto questa
strada. Non ricordo se c’era anche qualche ragazzo del nostro paese, mi pare fossero tutti
forestieri. Sta di fatto che un paio di plotoni di questi “repubblichini” furono addestrati qui
a Palazzolo. ( repubblichini venivano chiamati i fascisti della Repubblica di Salò , per
sottolineare la pochezza di questo esercito al servizio dei Tedeschi, ancor di più si meritavano l’appellativo questi ragazzini vestiti da soldati )
Alloggiavano alla “colonia elioterapica” e poi facevano le loro esercitazioni in vari
posti del paese; con altri ragazzi delle case operaie, assistetti molte volte sul piazzale del
vecchio mercato, che allora aveva il fondo erboso, al loro indottrinamento ed alle esercitazioni antiguerriglia (ricordo che un mattino insegnavano: come conoscere e disarmare un
partigiano).
Si spostavano da un posto all’altro marciando e cantando inni di guerra, poi nelle ore
di libera uscita facevano i bulletti girando per le strade del paese. Finito il loro addestramento furono mandati a combattere, si diceva, contro i partigiani.
Il mattino della loro partenza mi trovai per caso sulla loro strada, era una domenica
mattina ed io ero andato dal fornaio Rossi a prendere il pane(in via Marconi, bivio
Italcementi). Sulla via del ritorno quando mi trovavo sul marciapiede di fronte alla salumeria Cucchi, incrociai il plotone dei Repubblichini proveniente dalla piazza e diretto alla
stazione, in testa staccato di qualche metro c’era un Repubblichino con il gagliardetto
fascista, e dietro tutti gli altri inquadrati, che cantavano a squarciagola, e marciando battevano fortemente gli scarponi chiodati sulla strada. Tutto ad un tratto due repubblichini,
sempre cantando e mantenendo il passo del plotone, uscirono dal gruppo e si diressero
verso due persone che erano sulla porta del calzolaio Lancini ad osservare il passaggio
dell’improvviso corteo. Questo negozio (che vendeva scarpe e articoli per calzolai) era
proprio di fronte a Cucchi (confinava con la villa Ariotti) ed aveva anche un recinto ed un
cancelletto, perciò distava qualche metro dalla strada. Ebbene i due fascisti senza mai
smettere di cantare assieme agli altri, entrarono nel cancelletto si avvicinarono agli ignari
spettatori e gli mollarono due sonore sberle sulla faccia, a destra ed a sinistra con quanta
forza avevano, poi, come niente fosse, sempre cantando e marciando, rientrarono nel gruppo riprendendo il loro posto. Le persone malmenate rimasero come impietrite, non si rendevano conto del perché di quella prepotenza, anch’io ero rimasto turbato da quella scena
e mentre mi stavo chiedendo perché fosse successo un fatto del genere, ripresi la strada
verso casa. Quando arrivai al vicolo dove ora c’è l’INAIL , (che allora era un vicolo cieco)
stava transitando il secondo plotone, anche questo preceduto di qualche metro dal gagliardetto. Lì, oltre a me, c’erano tre giovanotti, fermi ad osservare il passaggio dei fascisti,
allora uscirono dal gruppo tre repubblichini, ognuno prese di mira un giovane e si ripetè
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la scena di poco prima, uno mi passò talmente vicino che in un primo momento pensai che
ce l’avesse con me, posò il suo scarpone a pochi centimetri dal mio piede ed io, che ero a
piedi nudi, temetti anche per quello.
I tre giovani picchiati ebbero un accenno di reazione, ma subito dal plotone uscirono
altri repubblichini, allora uno dei giovani chiese: “Ma perché? Cosa abbiamo fatto?” “Non
avete salutato il nostro gagliardetto” fu la risposta che gli urlò un Repubblichino.
Seppi poi che sul tragitto dalla piazza alla stazione molti altri erano stati picchiati,
perché pochi avevano fatto il saluto romano al gagliardetto fascista, oramai questo obbligo, che nei primi anni della dittatura fascista veniva fatto rigorosamente rispettare, negli
ultimi tempi era stato un po’ dimenticato.
Il primo bombardamento
Nella settimana che precedette il primo bombardamento, i passaggi di aerei Americani
andavano facendosi sempre più frequenti, l’allarme suonava molte volte durante la giornata. I bombardamenti sulle città del nord si intensificavano e noi, quando suonava l’allarme, scappavamo in campagna. Negli ultimi tempi la mia famiglia aveva scelto di rifugiarsi
presso mio zio Francesco (Cico), fratello di mia mamma, che abitava nella cascina dei
Bertoletti (ora Recenti) al Vanzeghetto.
Era sabato, dopo aver passato buona parte della giornata al Vanzeghetto, quando oramai era tardo pomeriggio, ci siamo incamminati verso casa. Sulla strada del ritorno siamo
stati continuamente accompagnati dal rumore di aerei che passavano sopra di noi altissimi
in numerosi stormi, poi dei cacciabombardieri passarono veloci a bassa quota e poco dopo
si udirono delle esplosioni molto lontane, ciò nonostante giungemmo alle case operaie.
Avevamo da poco cenato, quando uno stormo di cacciabombardieri piombò all’improvviso, sorvolò a bassissima quota il ponte ferroviario ed il paese, il rumore degli aerei,
che pareva sfiorassero i tetti, era molto forte, faceva vibrare i vetri e metteva addosso la
tremarella. Fummo molto spaventati da questa incursione e ci rifugiammo di corsa a pianterreno Quando fu tutto finito, i miei genitori decisero che io e mia sorella Paola saremmo
ritornati subito al Vanzeghetto dallo zio Cico e lì avremmo passato la notte. Cominciava a
scendere la sera, allora ci accompagnò il babbo, portando alternativamente un po’ l’uno un
po’ l’altro sulla canna della bicicletta. Gli zii avevano una camera spaziosa, ci dormivano
loro con i tre figli e c’era ancora tanto spazio per stendere comodamente a terra due materassi uno per me e l’altro per Paola.
Al mattino fummo svegliati da forti esplosioni che ci fecero sobbalzare sul materasso
e dalla voce della zia Maria che ci chiamava, e spingendoci verso l’esterno gridava, “scappiamo ragazzi, fuori, fuori”. In quell’istante ci fu uno scoppio più vicino, e più forte degli
altri, e ci rendemmo subito conto che questa volta il bombardamento era proprio sopra di
noi. Usciti all’esterno due colonne di fumo salivano verso il cielo non molto distanti dalla
nostra cascina, (più tardi siamo andati a vedere, due bombe erano cadute nei pressi del
passaggio a livello, il primo verso Brescia, lasciando nel terreno due grossi crateri) Tutti
gli abitanti della cascina correvano all’esterno nella convinzione di porsi in salvo, (mentre,
col senno di poi, sarebbero stati più sicuri nelle loro case dai muri spessi e con i soffitti a
volta) io e Paola, con gli zii i cugini e molte altre persone della cascina, abbiamo raggiunto di
corsa una “musna” che era ad un centinaio di metri dalla cascina, ero a piedi nudi ed in
mutande, come gli altri ragazzi che si trovavano ancora a letto al momento dell’incursione,
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L’attacco al ponte e al treno passeggeri nel primo bombardamento su Palazzolo (23 luglio 1944 )
publicato sul paginone illustrato della “DOMENICA DEL CORRIERE” del 6 agosto 1944
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ma di questo ce ne accorgemmo solo quando fu tutto finito. Accovacciati ai bordi della “musna”
guardavamo terrorizzati le evoluzioni dei cacciabombardieri, e ubbidendo senza fiatare agli
ordini di un anziano che sembrava più esperto degli altri, ci spostavamo di qua o di là, a
secondo di come ci passavano sopra gli aerei, in modo da mettersi al riparo da eventuali
raffiche di mitraglia. Per fortuna gli aerei non si curavano per niente di noi, così dalla nostra
postazione potemmo vedere gli aerei che facendo dei larghi giri, passavano sopra di noi, poi
si buttavano in picchiata nella direzione del ponte ferroviario, sentivamo il crepitio della
mitraglia mentre scomparivano dietro le piante, e poi il tuono delle bombe e contemporaneamente le colonne di fumo che salivano rapide verso il cielo. Il ricordo più vivo che ho di
quel mattino, sono le colonne di fumo che salivano in vari punti e gli aerei che volteggiavano
fra esse.
All’improvviso l’attacco cessò e gli aerei sparirono all’orizzonte, noi stemmo lì ancora
un po’ per accertarci che fosse davvero tutto finito, poi pian piano, con gli occhi e le orecchie
rivolte al cielo ritornammo alla cascina. (musna, è una specie di duna, di sassi e pietre, ai
bordi dei campi, dove sono cresciute piante e rovi).
Più tardi arrivò mio padre in bicicletta per sapere come era andata da noi, ma anziché
portarci a casa come speravamo, chiese agli zii se potevano ospitarci tutti, perché non si
fidavano a restare alle case operaie così vicine al ponte ferroviario dopo l’attacco subito. Egli
ci raccontò cosa era successo al mattino: Gli aerei avevano attaccato oltre al ponte, la stazione ed un treno passeggeri che si era fermato nei pressi di Quintano. Nel treno bombardato e
mitragliato, purtroppo avevano trovato la morte otto persone, ed altre trenta erano state ferite.
Il ponte però era rimasto intatto, solo un pezzo di binario nei pressi del treno bombardato era
stato danneggiato, perciò si pensò che i bombardamenti sarebbero continuati fino alla distruzione del ponte, per cui tutti quelli che abitavano vicini al ponte cercavano di rifugiarsi in
posti più sicuri.
Alle case operaie come fu vissuto il primo bombardamento? (dal racconto dei miei familiari e da quello che sentii raccontare nei giorni e negli anni successivi) Tutta la gente fu colta
di sorpresa, la maggior parte delle persone si trovavano ancora a letto perché il bombardamento è iniziato alle ore sette del mattino, ed oltretutto era domenica. Gli aerei giunsero
all’improvviso senza che suonasse l’allarme, perciò molti furono svegliati dallo scoppio delle prime bombe, ed in preda al panico sono scappati fuori casa mezzo nudi come si trovavano
a letto (faceva molto caldo perché eravamo in piena estate). Gente in mutande correva per le
strade cercando scampo all’aperto mentre gli aerei passavano a bassa quota mitragliando e
sganciando bombe. Molti si rifugiarono nel canale che passava una volta nei campi attorno al
foro boario, (ora piazzale Dante Alighieri ) esponendosi ancora di più nel correre allo scoperto, alle schegge ed alle pallottole che arrivavano da tutte le parti. Altri che più giustamente si
rifugiarono ai piani inferiori delle case, nei vani dei muri più spessi, (come da tempo ci
veniva raccomandato) dissero poi che quando scoppiavano le bombe, e sentivano le case
tremare che sembrava gli crollassero addosso, gli prendeva una gran paura di rimanere sepolti sotto macerie, molti non resistettero e fuggirono all’aperto.
Bisogna dire che i morti e feriti tra la gente del paese sono stati pochi se si tiene conto
di tutta la gente che correva per le strade. Pensate che una persona è morta colpita da una
pallottola vagante, nel giardino della propria casa, situata in via Brescia di fronte al campo
sportivo, perciò ben lontana dalla zona bombardata.
Dopo questo primo bombardamento capimmo che al momento dell’attacco aereo era
meno rischioso stare riparati in casa piuttosto che uscire allo scoperto.
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Per qualche giorno restammo tutti al Vanzeghetto, Giacomo però dopo cena tornava a
casa e dormiva alle case operaie. Mio padre prima di recarsi al lavoro passava da casa, dava
da mangiare ai conigli e poi nell’uscire dalla Marzoli veniva direttamente al Vanzeghetto. Ci
furono ancora due incursioni, poi mi pare che a metà settimana il ponte fu colpito, allora
tornammo tutti a casa perché si pensava che i bombardamenti sarebbero cessati, e così fu. Ma
il danno al ponte era molto lieve ed in poco tempo fu riparato, i bombardamenti ripresero e
noi tornammo nuovamente in campagna.
Altri bombardamenti
Ricordo di un giorno che ci sorpresero a casa, forse stavano ancora ultimando la riparazione del ponte e noi non ci aspettavamo una ripresa immediata dei bombardamenti. Nel
sentire la sirena gli aerei ci erano già sulla testa, Paola ed io, sollecitati da nostra madre,
siamo partiti come frecce per scappare in campagna, ma, mentre stavamo attraversando la
strada, davanti alla chiesa del Sacro Cuore, cominciarono a cadere le prime bombe. Noi
allora ci rannicchiammo contro il muro del bottonificio Pelucchi (attualmente Oratorio Sacro
Cuore, proprio lì dove ora affiggono i manifesti), per fortuna un gruppo di operai che usciva
di corsa dallo stabilimento ci videro e ci strattonarono, trascinandoci dall’altra parte della
strada, dietro il muretto del terrapieno del sagrato della chiesa, che, anche se più basso, era in
posizione più adatta rispetto al ponte. Proprio
in quell’istante una pioggia si sassi e schegge
passò sopra di noi e andò a finire dall’altra parte della strada, lo spostamento d’aria provocato dalle bombe mandò in frantumi i vetri della
chiesa che ci caddero quasi addosso, tant’è vero
che la Bigina Morandi, che si era riparata lì assieme a noi, nel fare un passo per scappare, si
procurò un bel taglio alla caviglia.
Per un po’ di tempo si andò avanti così :
stavamo a casa fintanto che il ponte era
inutilizzabile, poi quando le squadre di specialisti avevano terminato di ripararlo ed i treni
riprendevano a passare, ritornavamo al
Vanzeghetto. Qui c’erano altre famiglie delle
case operaie, alla sera verso il tramonto si stava
sdraiati nell’erba ad osservare gli aerei che passavano, certe sere centinaia di aerei passavano
sopra di noi in formazioni così fitte da coprire
parte del cielo, man mano che i primi sparivano
all’orizzonte altri ne spuntavano dalla parte opposta, a volte lasciavano dietro di loro tante
strisce bianche di vapore che poi si sormontavano le une alle altre coprendo tutto . Gli “uoBombardieri Americani
simili a quelli che bombardavano il ponte
mini” dicevano che tutti quegli aerei andavano
a bombardare la Germania.
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Sfollati al Maglio
Oramai si era tutti convinti che a Palazzolo l’unico obiettivo fosse il ponte ferroviario.
C’era si un certo timore anche per le fabbriche, specialmente la Marzoli (qui era stato
istituito un servizio di avvistamento, due o tre persone stazionavano tutto il giorno sui
tetti, ed al minimo rumore di aerei davano il segnale e tutti gli operai abbandonavano il
posto di lavoro e scappavano nei rifugi interni o fuori dai cancelli verso la campagna) però
finora non c’erano stati attacchi in questa direzione.
Allora noi pensammo che non era più necessario rifugiarsi fino al Vanzeghetto, ma si
poteva essere sicuri anche in paese purché ci si allontanasse dal ponte. Così decidemmo di
rifugiarsi presso la zia Orsola che abitava al Maglio, di fronte alla filanda Guzzi. Con gli
zii Giovanni e Orsola, lui fratello di mio padre e lei sorella di mia mamma, e con la cugina
Paola che consideravamo come una sorella, eravamo sempre stati come una famiglia, e
furono ben lieti di accoglierci. Così il babbo era vicino alla Marzoli, e Luigina alla
Lanfranchi, inoltre io e Paola potevamo frequentare con più facilità la scuola. Paola stava
frequentando “l’Avviamento professionale” (scuole medie inferiori) alle scuole “nuove“
di Mura, mentre io in quel periodo frequentavo la quinta elementare. La mia classe era
dislocata in quelle che allora erano chiamate le scuole vecchie, situate in un vecchio edificio, ora adibito ad abitazione, che aveva l’entrata da vicolo Consonni (dietro Piazza Roma)
e confinava con la seriola di Chiari. Questa scuola aveva a pianterreno un portico con il
soffitto a volta, il quale era stato rinforzato con pali di legno che fungevano da colonne
supplementari e quando c’era un allarme aereo uscivamo tutti dalle classi e ci sistemavamo in questo “rifugio”. Poi negli ultimi mesi della guerra la nostra classe è stata spostata in
posto più sicuro all’oratorio di S. Sebastiano.
Dalla zia Orsola ci stavamo di giorno poi a sera tornavamo alle case operaie. Anche se
suonava l’allarme di notte, non scappavamo più perché oramai si sapeva che agli “Americani” interessava solo il ponte a Palazzolo e quello potevano bombardarlo solo di giorno. Non che a letto si stesse sempre tranquilli, capitava spesso di venire svegliati dalla
sirena, allora si stava con l’orecchio teso, certe volte non succedeva niente, altre invece si
sentiva subito dopo il caratteristico ronzio degli aerei che passavano numerosi ad alta
quota, poi il rumore di bombardamenti più o meno lontani, il tremolio dei vetri allo scoppio delle bombe. La contraerea di Orio che entrava in azione quando gli aerei passavano
nei pressi del campo. Il rumore dei bombardamenti, anche se lontani, creava sempre un
po’ di angoscia, mia mamma ogni volta diceva: poveretti quelli che si trovano in mezzo.
Quando il ponte veniva colpito bene noi tornavamo per un po’ di giorni alle case operaie, perché sapevamo che fintanto che il ponte era inservibile i bombardamenti non sarebbero ripresi, e se poi si combinavano anche dei giorni piovosi, la permanenza veniva prolungata. Certe volte bastava che ci fosse un giorno di pioggia per farci tornare, anche se per
poche ore, alle nostre case: era bello perché si trovava sempre qualche vicino che aveva
avuto la stessa idea, allora potevamo incontrare qualche amico.
Poi successe che un giorno ci fu un bombardamento tra i più disastrosi, le bombe
caddero vicinissime alle case operaie, e due bombe, forse per errore, caddero nel cortile
dell’ospedale. Noi tornammo a casa per starci un po’ di giorni perché il ponte era stato
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colpito bene, ma trovammo le case malconce; tutti i vetri delle finestre e della porta che
dava sul balcone erano andati in frantumi e sparsi sul pavimento, i tetti erano bucati in
più punti da sassi e schegge che erano piovuti numerosi. Faceva freddo e mio padre
cercò di riparare alla meno peggio le finestre, incollando e inchiodando fogli di giornale al posto dei vetri.
Era già buio e noi eravamo seduti a tavola, quando uno scoppio enorme ci fece sobbalzare sulle sedie, lo spostamento d’aria fece volare dalle finestre i “vetri” di carta. Si pensò
subito di scappare credendo in un nuovo attacco aereo, ma poi dopo esserci precipitati giù
dalle scale, capimmo che non c’era rumore di aerei e a quel primo scoppio non ne seguirono altri, allora ritornammo in casa e ci mettemmo a rammendare i “vetri”, in quel mentre
alcuni incaricati del comune passarono con un megafono a dire che: nell’ultimo bombardamento erano state lanciate delle bombe a scoppio ritardato, con lo scopo di ritardare i
lavori di riparazione del ponte, che solitamente iniziavano subito dopo il bombardamento.
Raccomandavano di non uscire di casa e di ripararsi ai piani inferiori. Noi abitavamo al
secondo piano, che allora era anche l’ultimo e dopo la ricostruzione dall’incendio, il soffitto che fungeva anche da pavimento del solaio, era stato fatto con travi in legno a vista
con sopra solamente dei foratoni di quattro-cinque centimetri di spessore, perciò quando
arrivava qualche sasso o scheggia forava facilmente le tegole, il soffitto e ci finiva in casa.
Decidemmo così che non si poteva restare, allora arrotolati due materassi e preso un
po’ di coperte tornammo dalla zia Orsola, mio padre e Giacomo con un materasso ciascuno sulle spalle, Luigina con due cuscini sotto braccio, mia mamma con un rotolo di coperte, io e Paola con una borsa ciascuno. Camminavamo svelti per paura di altri scoppi.
Anche la zia tolse due materassi dal letto, ne aveva due di crine e due di lana come si usava
allora, e ci preparò da dormire sul pavimento in legno della sua enorme camera, (la camera
di zia Orsola sarà stata almeno di otto per otto metri, dopo aver sistemato i quattro materassi c’era ancora tanto spazio).
Giacomo, venuto con noi per aiutarci a portare il materasso, se ne tornò poi spavaldamente a casa, nonostante le preghiere di mia madre, sostenendo che non avrebbe corso
pericolo. Quella notte scoppiarono altre bombe ad intervalli irregolari, due enormi sassi
trapassarono facilmente le tegole ed il soffitto, piombarono in casa, uno nella camera da
letto dei miei genitori (e mia) finì proprio in mezzo al letto matrimoniale, l’altro sasso finì
in cucina. Giacomo prese un tale spavento che passò buona parte della notte rannicchiato
nel vano di una porta, per fortuna le nostre case avevano i muri di un grosso spessore, e
quindi anche il vano della porta era piuttosto ampio. Le bombe continuarono a scoppiare
ad intervalli imprevedibili fino al giorno successivo.
In seguito a quest’ultima incursione le case operaie furono incluse nella zona
“sinistrata”, gli abitanti vennero invitati a cercarsi un posto in altre zone del paese, oppure
nei paesi vicini. Noi per il momento ci eravamo sistemati in qualche modo da zia Orsola,
poi il Podestà fece un appello a tutti quei cittadini che avevano qualche stanza in più
perché la cedessero agli “sfollati”, (mi pare che ci fosse anche una minaccia di requisizione). Una energica “sollecitazione” la fece anche il buon Don Pietro Marella, nell’omelia che teneva ogni domenica alle undici nella chiesa di S. Rocco, si rivolse in modo
deciso ai benestanti della zona invitandoli a rinunciare ai loro “salotti e salottini” per
metterli a disposizione degli sfollati. Quello stesso giorno vennero ad offrirci ospitalità
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due famiglie vicine di casa della zia Orsola, fummo ben felici di queste offerte e le accettammo entrambe.
Il sig. Abramo Corridori ci mise a disposizione una grande stanza al primo piano, praticamente sopra l’appartamento della zia Orsola, la stanza aveva una entrata, indipendente,
dal balcone, e lì facemmo la camera. La signora Irma Belotti Riva, ci diede una stanza con
lavello adatta per fare la cucina, abitava in una villetta dall’altra parte della strada, 30 – 40
metri più avanti verso Brescia, nella proprietà Guzzi, per entrare in casa dovevamo usufruire del loro stesso ingresso, passare nel salottino e salire al piano superiore, dove potevamo usare anche il loro unico bagno. Questi signori Riva erano di una disponibilità eccezionale, mostravano di nutrire nei nostri confronti la più ampia fiducia, a volte si assentavano
per giorni lasciando tutte le porte aperte e le chiavi in mano nostra.
Certo avevamo la camera distante dalla cucina, ma eravamo al sicuro e vicini a zia
Orsola, che faceva anche da collegamento tra le due stanze. Traslocammo in fretta perché
di mobili e vestiti allora se ne possedevano pochissimi e ci stabilimmo lì fino alla fine
della guerra.
La vita al Maglio
La vita al Maglio non ci diede alcun problema, Paola ed io conoscevamo già i ragazzi
del luogo perché andavamo spesso a trovare gli zii e ci fermavamo a giocare con loro,
anche i nostri genitori erano già conosciuti dalla gente del posto. Gli zii Orsola e Giovanni
abitavano nel casamento situato tra la villa Marzoli ed il deposito di legname, di fronte
all’entrata dello stabilimento Guzzi, entrando dal portone verde avevano a sinistra la grande cucina ed a destra l’enorme camera (con in mezzo il portone) di modo che erano come
i guardiani del grande casamento. Erano in ottimi rapporti con tutte le famiglie che vi
abitavano, dalle quali erano molto stimati, per cui anche noi fummo accolti con simpatia.
Dopo un po di giorni, nel “nostro” casamento, vennero ospitate altre due famiglie sfollate
dalle case operaie, tra
le quali quella del cugino, e amico Salvatore, questo ci rese
ancora più soddisfatti della nuova sistemazione.
All’interno di
questo casamento c’era
un ampio cortile e noi
passavamo qui buona
parte della giornata,
nelle giornate più fredde stavamo volentieri
in casa di zia Orsola
che oltre ad avere una
stufa sempre ben calda,
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Gli amici del “ Maglio”
aveva un grande caminetto con due nicchie laterali per sedersi al caldo e, a volte, accendeva
anche quello per bruciare dei ritagli di legno che zio Giovanni portava dalla Marzoli.
L’inverno che passammo al Maglio fu di un freddo incredibile, avevamo la camera sopra la
volta del portone di entrata ed era freddissima. Portavamo un po’ di brace dalla stufa che avevamo
in cucina, ed un altro poco ce la dava zia Orsola perché sennò non sarebbe stata sufficiente a
scaldare tutti i letti, poi buttavamo sui letti tanta di quella roba: tutte le coperte e le trapunte
disponibili, il mantello del babbo, i cappotti, le giacche, e tutto quello che poteva appesantire le
coperte, tanto che quasi non riuscivamo neanche a muoverci.
La neve che era caduta sulla strada si era gelata man mano che cadeva (non si usava certo il
sale) formando uno spesso crostone che durò per tanto tempo, finché fu rimosso a picconate da
operai ingaggiati dal comune.
Il grande cortile che c’era al Maglio era quanto di meglio si potesse desiderare, perché
nessuno degli inquilini del caseggiato, tranne gli zii, abitava a pianterreno, per cui noi ragazzi
avevamo ampia libertà di movimento. Sul lato nord e quello ad est c’era l’altissimo caseggiato,
ma gli altri due lati erano delimitati solo dalla muraglia del parco della villa Marzoli. Avevamo
perciò a disposizione una bella porzione di cielo e potevamo seguire, pur stando relativamente
al sicuro, gli aerei Americani quando venivano a bombardare il ponte. Nelle giornate serene, se
il ponte era in funzione, stavamo molto attenti ad ogni rumore di aereo perché non volevamo
perderci lo “spettacolo”. Il primo che avvertiva il rumore degli aerei, esclamava iè che! e subito
altri confermavano iè che, difficilmente ci si sbagliava perchè volavano quasi esclusivamente
aerei “Americani”. I cacciabombardieri scendevano bassi sul ponte a sganciare le bombe, allora
li vedevamo solo volteggiare nei giri che facevano per prepararsi a picchiare, ma poi sentivamo
solo il rumore della picchiata e lo scoppio delle bombe. Invece i grossi bombardieri che facevano
il cosiddetto bombardamento a tappeto (i più disastrosi per il ponte) sganciavano le loro bombe
tutte assieme, ad alta quota. Quasi sempre arrivavano da sud, (probabilmente per la posizione
del sole) le bombe venivano sganciate molto lontano dal ponte, a noi sembrava che le sganciassero
sopra la nostra testa, ma probabilmente anche più lontano, tanto che una volta ci fu una pioggia
di “eliche” (che erano dei dispositivi di sicurezza delle bombe che si staccavano durante la
caduta) in un campo a fianco del campo sportivo, anch’io ne raccolsi una e la tenni come
cimelio per anni. Non li perdevamo di vista un istante, man mano che si avvicinavano, sotto gli
aerei comparivano tutti assieme dei grappoli di bombe, che al momento sembravano piccole e
luccicanti al sole, poi rapidamente si abbassavano ingrossandosi e assumendo un colore più
scuro, correvano verso nord più veloci degli stessi aerei, così a noi sembrava perché avvicinandosi
sparivano per prime dietro l’alto caseggiato. Poco dopo il frastuono dello scoppio annunciava
che avevano toccato terra, noi nel frattempo avevamo fatto di corsa tutto il cortile; prima ci
mettevamo verso sud perché si vedeva meglio lo sgancio e la caduta delle bombe, ma poi
correvamo in fretta dalla parte opposta vicini al fabbricato per metterci al sicuro, difatti era già
capitato che qualche sasso o scheggia arrivasse fino al nostro cortile. Poi stavamo ansiosi ad
spettare notizie sul risultato del bombardamento.
La gente in generale parteggiava per gli Americani, eravamo contenti quando venivamo a
sapere che il ponte era stato colpito bene; un po’ perché fintanto che il ponte era rotto si poteva
circolare tranquilli, un po’ per l’avversione che avevamo per il regime che ci comandava e si
pensava che l’unico modo perché finisse la guerra, e con essa il regime, era che gli americani
avanzassero velocemente.
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Il ponte prima dei bombardamenti. Sotto la quarta arcata da destra,
la vecchia centrale dell’Italcementi e il canale di scarico
Dopo una serie di bombardamenti
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Un treno passa sul ponte, riparato dopo i primi bombardamenti
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Le riparazioni del ponte
Della riparazione dei danni al ponte causati dai bombardamenti, se ne occupavano i Tedeschi,
e bisogna dire che in questo lavoro erano molto efficienti. Avevano dislocato un gruppo di soldati
specializzati in questo lavoro, con i quali lavoravano anche dei civili Italiani, (si chiamava organizzazione TODT, noi li chiamavamo quelli della Tot). Per questo gruppo di persone avevano requisito delle stanze a pianterreno nelle case operaie trasformandole in camere e magazzini, poi nei
pressi della “vasca” avevano installato una cucina da campo che forniva il rancio per tutti.
Quando il ponte veniva danneggiato iniziavano subito il lavoro, molte volte dovevano costruire interi piloni. Per guadagnare tempo buona parte del pilone veniva fatto con travi in legno,
mentre le arcate venivano sostituite da enormi putrelle. Appena il ponte era praticabile, passavano
subito tutti i treni merci che si erano accumulati sulla linea, e se nel frattempo era stato colpito
anche il ponte di Calcio, venivano dirottati di qui anche tutti i treni della Milano Venezia, allora
finché il ponte restava in piedi, se non c’erano guasti sulla linea, passavano treni giorno e notte.
Anche se il ponte veniva ricostruito con grande perizia, i treni ci passavano sopra a passo
d’uomo perché era pur sempre una soluzione d’emergenza e molti passeggeri non fidandosi a
passare sul ponte in quelle condizioni, preferivano fare tutto il giro del paese a piedi fino al Cividino,
oppure scendere per un sentiero la riva fino al livello del fiume e lì passare su di un ponticello di
fortuna in legno, ed aspettare il treno sulla riva opposta, (ancor di più quando il ponte era fuori uso
la gente era costretta a fare questi giri e prendere un altro treno che veniva da Bergamo e si fermava
al Cividino).
Certe volte, quando il ponte sembrava meno sicuro del solito, neanche il macchinista si fidava
a passare sul ponte assieme al treno, allora lo precedeva camminando sul ponte e ci voleva comunque del coraggio perché il ponte era ridotto al solo binario sulle due putrelle, con in mezzo delle
tavole in legno che permettevano questo “passaggio pedonale”. Poi in stazione altri avviavano il
treno ad una velocità minima così che dall’altra parte in zona sicura il macchinista poteva facilmente saltarci sopra; anche alcuni passeggeri molto coraggiosi sono stati visti passare sul ponte,
con in mano le loro valige, prima del passaggio del treno.
Gli Americani tenevano d’occhio quotidianamente l’andamento dei lavori sul ponte, perciò
tutti i giorni passava indisturbato un ricognitore, volava ad alta quota, noi lo chiamavamo Pippo
(quando si sentiva il suo rumore caratteristico si diceva: “ghè che Pippo”). Cosicché quando le
riparazioni erano ultimate i treni riprendevano a passare per due o tre giorni al massimo, dopo
arrivavano i bombardieri. Certe volte però ai Tedeschi andava un po’ meglio, perché gli aerei
sbagliavano il bersaglio o procuravano dei danni lievi che non impedivano il passaggio dei treni,
oppure se capitavano dei giorni di pioggia o nuvolosi, la vita del ponte veniva prolungata.
I Tedeschi ad un certo punto escogitarono uno stratagemma per cercare di sfruttare un po’ di
più il lavoro che gli costava tanta fatica; una volta finito il ponte lasciavano un’arcata incompiuta,
poi con il “carro ponte” appositamente attrezzato per posare le gigantesche putrelle, completavano
l’arcata mancante alla sera all’imbrunire, quindi per tutta la notte passavano i treni merci che
durante il giorno si erano ammassati mimetizzati nelle stazioni vicine, all’alba le putrelle venivano rimosse, così quando passava “Pippo” il ponte appariva ancora intransitabile.
Per qualche giorno il trucchetto funzionò, poi probabilmente gli Americani si saranno
insospettiti di questo lavoro lasciato troppo a lungo incompiuto, sta di fatto che una mattina
alle prime luci dell’alba, mentre i Tedeschi stavano smontando il ponte, Pippo giunto stranamente in anticipo, li colse sul fatto. La notizia si diffuse subito nel paese e tutti ci aspettavamo
un imminente ripresa dei bombardamenti, che difatti puntuale avvenne il giorno dopo. In
seguito mi pare che i Tedeschi non abbiano più ripetuto questo giochetto.
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Il carro ponte al lavoro
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Mitragliamenti
Nei periodi in cui il ponte era fuori uso, non è che stessimo sempre tranquilli, perché
ogni tanto passava qualche aereo a mitragliare treni in sosta, autocarri di passaggio, ma
anche qua e là senza un obiettivo ben preciso.
Noi eravamo convinti che dopo l’otto settembre gli Americani fossero da considerare
nostri amici e che i bombardamenti sarebbero stati diretti solo ad obiettivi strategici e non
sulle popolazioni civili; quando capitava che venivano colpiti dei civili, noi, specialmente
noi contrari al regime, eravamo pronti a giustificare lo sbaglio. Anche quando colpirono
la scuola di Gorla a Milano dove morirono sotto le macerie 250 bambini, ed i fascisti
sfruttarono questo drammatico fatto con una grande propaganda per mostrarci la vera
natura dei “Liberatori”, noi, giustificavamo il bombardamento attribuendo ai Tedeschi la
maggior responsabilità perché pensavamo che senz’altro dovevano esserci dei depositi
militari vicino alla scuola, (mentre in effetti si era veramente trattato di un grosso errore
da parte degli alleati). Di questo fatto ricordo che il mio maestro in quinta elementare ne
aveva parlato con tanta rabbia, addossando agli Angloamericani la colpa di tante stragi che
lui diceva fatte tutte di proposito per cattiveria e malvagità, io ne parlai a casa, ma nessuno
ci credeva, si pensava alla solita propaganda fascista. E sì che Brescia fu pesantemente
bombardata più volte, non solo obiettivi militari o fabbriche ma molto spesso abitazioni
civili. Anche sul lago d’Iseo fu mitragliato un battello di linea carico di persone che si
recavano al lavoro, ne morirono una trentina. Era difficile per noi allora ammettere che gli
americani che aspettavamo come liberatori ci sparassero addosso senza una ragione. Non
saprei dire se i mitragliamenti sulla popolazione siano stati atti proditori di qualche pilota
incosciente oppure frutto di azioni programmate. Probabilmente certi piloti che avevano
il compito di setacciare la zona a caccia di convogli o anche di automezzi militari isolati,
quando non trovavano nulla, prima di ritornare alla base, scaricavano le loro armi su qualsiasi automezzo che capitava a tiro, senza preoccuparsi troppo della gente che si trovava
a bordo.
Una mattina in pieno inverno, in cui il fondo stradale era coperto da uno spesso
crostone di ghiaccio, due cacciabombardieri di passaggio videro un autocarro civile
sulla strada nei pressi del campo sportivo, lo presero di mira e scesero ripetutamente in
picchiata a mitragliarlo. Fu un momento di grande paura perché questa volta non miravano al ponte, ma l’obbiettivo era solo a duecento metri da noi. Eravamo nella nostra
cucina al maglio, al primo piano con le finestre che davano direttamente sulla strada, non
ci rendevamo conto di cosa stesse succedendo, gli aerei passavano radenti alla casa e
sembrava che ad ogni passaggio la loro ombra oscurasse la luce che entrava dalle
finestre, il rumore della picchiata e le raffiche delle mitragliatrici erano assordanti.
Eravamo in casa Paola mia mamma ed io, la mamma ci strinse a sé e ci fece rannicchiare
a terra, ad ogni passaggio ci stringeva più forte e ci faceva pregare, fino a quando gli
aerei se ne andarono. Passata la paura ci affacciammo alla finestra, un camion bruciava sulla strada gelata e sapemmo che l’autista si era salvato buttandosi nel canale che
correva a fianco della strada, per fortuna in quel periodo era vuoto.
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Un’altra volta Paola ed io fummo coinvolti in un mitragliamento aereo. Stavamo tornando a casa dopo essere stati in campagna a raccogliere dell’erba, eravamo finiti in un
campo nei pressi di S. Alberto, quando suonò l’allarme e un gruppo di “caccia” piombò
sul paese, poco distante da noi verso Pontoglio, si erano fermati dei camion ed i caccia li
presero subito di mira, scendendo in picchiata a mitragliarli. Noi ci trovavamo appena
dopo lo stabilimento Marzoli di fronte alla cascina Berghelli, lì c’erano degli operai Bolognesi usciti di corsa fuori dalla Minganti e, visto che noi non sapevamo cosa fare, ci fecero
entrare con loro in una trincea scavata a pochi metri dalla strada, (si trovavano spesso
lungo le strade di queste trincee, scavate a zic zac, che venivano previste proprio per ripararsi dai numerosi mitragliamenti aerei cui erano sottoposti camion e automobili).
Terrorizzati stavamo rannicchiati nella trincea e ubbidivamo prontamente quando quegli
operai ci facevano spostare di qua o di là a seconda della direzione in cui venivano gli
aerei. I caccia ci passarono più volte sulla testa e noi sempre svelti a spostarci da una parte
all’altra, per fortuna non ce
l’avevano con noi, perché nessun colpo è stato sparato nella
nostra direzione, ma solo contro i camion. Non ricordo nemmeno se i camion siano stati colpiti perché eravamo molto spaventati, e appena i caccia si allontanarono gli operai ci dissero: correte a casa ragazzi; partimmo di corsa senza nemmeno voltarci indietro.
Manifesto fascista di propaganda
per la strage nel bombardamento
alla scuola di Gorla.
( Milano ) 20 ottobre 1944
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Il ponte dell’autostrada
Anche il ponte dell’autostrada è stato colpito più volte, ma quando è stata demolita
una arcata, non è più stato riparato fino alla fine della guerra.
I Tedeschi fecero costruire subito una strada a monte che scendeva fino al livello
dell’Oglio e qui fecero un solido ponte che resistette fino alla fine della guerra e oltre.
Il ponte dell’autostrada con un’arcata distrutta
Mancanza di sale
Fra i nostri coinquilini, nella casa “al Maglio”, c’erano famiglie di operai e famiglie di
benestanti. Fra questi ultimi la signora Annetta moglie di un “caporione” fascista. Nella
sua casa non mancava nulla da mangiare, perché oltre al fatto che lui portava a casa tutto il
necessario, non avevano figli. Così lei quando avanzava loro qualcosa mi chiamava di
nascosto dal marito e mi dava un piatto di pastasciutta o un pentolino di minestra, certe
volte mi chiamava dal suo balcone su all’ultimo piano, mi mandava in bottega a prendergli
qualcosa, e quando le portavo ciò che le avevo comperato mi dava un pane bianco. Il
marito non voleva che lei ci desse quello che avanzava, preferiva buttarlo via, per non far
sapere che loro disponevano di tanta roba.
Quando facevano la pastasciutta, per fortuna di frequente, mi chiamava per darmi la
pentola con l’acqua salata dove aveva cotto la pasta, ed io correvo felice a portarla a casa.
Mia mamma prendeva quest’acqua lattiginosa come fosse manna, e la usava per fare la
polenta, perché in quel periodo il sale costava molto caro, e non sempre potevamo permetterci
di comperarlo. (dire che l’acqua dove si bolliva la pasta era lattiginosa, è dire poco, perché
la pasta di allora lasciava molta farina nell’acqua tanto che ne risultava un brodo denso).
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Il prezzo del sale aveva raggiunto cifre proibitive, mi pare che si parlasse di 800 o più
di 1000 lire al chilo, so che la paga di un mese di Luigina non bastava a comperarne un
chilogrammo. Si mangiava tutto con poco sale e certe volte anche senza del tutto; se è vero
che il sale provoca l’ipertensione arteriosa penso che pochissimi allora avranno avuto di
questi problemi. Costava un po’ meno usare i dadi per brodo, che avevano la forma di
cubetti grandi come i dadi da gioco, erano molto scadenti, ma con un alta percentuale di
sale, sono stati usati anche per fare la polenta. Noi compravamo, quando potevamo permettercelo, un tipo di sale che costava un po’ meno ma valeva anche poco perché era
molto sporco e frammisto a terra. Per poterlo usare si metteva nell’acqua di cottura della
pasta, o della polenta, un sacchettino di tela legato con un filo in modo che nel bollire
uscisse il sale e non la terra, oppure per avere un po’ di sale fino bisognava sciogliere il
sale nell’acqua calda, filtrarla e poi bollirla fino a che l’acqua fosse tutta evaporata, si
raccoglieva così un poco di sale finissimo sul fondo del pentolino.
Mi ricordo che mia mamma una volta fece la polenta usando per il sale il sistema del
sacchettino, ma al momento di versare la farina si dimenticò di levarlo, perciò restò a
cuocere con la polenta. Ad un certo punto nel tagliare la polenta con il filo (come si usava)
mio padre ci trovò di mezzo il sacchettino che nella polenta non fece certo un bel effetto,
ciò naturalmente non ci impedì di divorare rapidamente tutta la polenta.
Èl pècc dè la cavrò
L’episodio “del pècc de la cavrò” è uno di quelli entrato nella storia della famiglia e
raccontato un’infinità di volte: al maglio nel pomeriggio andavamo spesso nella campagna vicina in cerca di erba o legna, di solito eravamo Paola ed io con una ragazza, anche
lei sfollata, di nome Ines di un paio d’anni più vecchia di noi molto abile ad arrampicarsi
sugli alberi.
Un giorno eravamo in via Gavazzino, nella zona dove ora parte via Nazario Sauro
(dietro al centro commerciale) allora c’erano tutti campi e proprio lì c’era un campo con
delle file di gelsi spogli, con dei bei rami grossi facili da tagliare. Questi rami da noi
chiamati “ramèle” (ramelle) sono corti con una parte finale molto grossa, bastava tagliarne uno nel punto più stretto vicino al tronco infilarlo nel sacco e scappare a casa.
Dopo un po’ di esitazione io Paola ed Ines, visto che nei paraggi non c’era nessuno, ci
siamo aperti un varco nella siepe e siamo corsi verso il gelso più vicino, incominciando
subito velocemente il lavoro. Stavamo tagliando con il segaccio (furètò) la nostra “ramella”,
quando abbiamo visto passare sulla strada una ragazza che abitava nella zona. La vedevamo spesso pascolare due capre, quel giorno se ne tornava a casa con le sue capre un po’
frettolosamente, a noi venne qualche sospetto, però cercammo solo di finire alla svelta il
nostro lavoro. La ramella era caduta a terra e stavamo ripulendola dai piccoli rametti per
metterla nel sacco, e lo stesso stava facendo Ines, quando in fondo al campo comparve il
contadino che urlava e minacciava. Allora noi mollammo tutto e fuggimmo a gambe levate, arrivammo a casa senza nessun danno ma con il sacco vuoto.
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Eravamo convinti che fosse stata la ragazza delle capre a fare la spia e questo non ci
andava giù, perché sapevamo che, se pur abitava vicino al contadino, anche lei era figlia
di operai e, secondo noi, avrebbe dovuto essere più solidale, allora meditavamo di dirle
qualcosa al primo incontro.
Dopo qualche giorno io e Paola ci trovavamo sempre lì in via Gavazzino, nel punto
dove ora inizia Via Mons. Piccinelli e incontrammo quella ragazza con le capre, da come
cercò di evitarci avemmo conferma dei nostri sospetti. Io allora la accusai: “Sei stata tu a
fare la spia al contadino !”e lei per nulla intimorita mi rispose: “Si ho fatto bene!” Allora
io per non lasciar cadere la cosa, buttai lì una blanda minaccia: “A si ? allora sai cosa io ti
farò ? Taglierò le mammelle alla tua capra” e così dicendo gli mostravo il falcetto che
avevo in mano (ga taèro zo èl pècc a la tò cavrò). Non so perché mi era venuta in mente
quella frase, però mi sembrava chiaro che la cosa sarebbe finita lì, perché io non mi ero
avvicinato nè alla ragazza nè alla capra. La ragazza chinò la testa e se ne andò a casa, io e
Paola ci fermammo lì a raccogliere erba sul bordo di un canale asciutto che passava vicino
alla strada.
Poco dopo vedemmo arrivare un omone enorme, sembrava un gigante, (nella realtà si
trattava di un uomo molto alto, almeno 1,90 con delle grandi spalle) che si avvicinava con
lunghi passi e quando fu vicino disse: “Sei stato tu che hai detto a mia figlia taglierò il pècc
della tua capra ?” “Si sono stato io ma…. l’ho detto per scherzo” risposi io intimorito
“Certe cose non si dicono né per scherzo né per davvero” ribatté l’omone e così dicendo
mi afferrò per un braccio e tenendomi quasi sollevato da terra incominciò a darmi una
serie di calci nel sedere, tanto che appeso al braccio dell’omone ondeggiavo come un
pendolo ad ogni colpo. Paola vedendo quella scena tentò con tutte le forze di difendermi,
gli si aggrappò alla giacca urlando: “lü còsò fal el mat ? lei cosa fa è matto?” Lui con uno
spintone la allontanò da sé facendola cadere per terra e le urlò: “fa shito te, vilanò (sta
zitta te villana)”.
Arrivammo a casa piangenti, mia mamma sentito ciò che era accaduto, benché solitamente non era tipo che prendesse facilmente le nostre difese, si precipitò subito con noi da
quell’uomo. Lui non ci lasciava nemmeno parlare, ci interrompeva beffeggiandoci con un
gne gne gne , era un tipo grossolano ed ignorante, mia madre glie ne disse tante, ma lui non
si smosse dalla sua posizione: “shèrte robe shai dish, gnè per gregnà, gnè dèl bu” .
Allora lo affrontarono mio padre e Giacomo; alla fine ammise di aver esagerato e si
scusò, però sostenne ancora che certe cose non sarebbero da dire neanche per scherzo.
Avremmo potuto denunciarlo perché io mi sono portato i lividi in fondo alla schiena per
parecchi giorni, ma a quei tempi non si pensava a denunce per queste cose.
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Zia Orsola e zio Giovanni
Zia Orsola era una donna arguta e di carattere forte, voleva molto bene alla nostra
famiglia e quando poteva ci aiutava. Loro erano solo in tre e la cugina Paola lavorava alla
Marzoli, perciò avevano meno problemi economici di noi.
Per noi la zia è sempre stata, anche negli anni successivi, un punto di riferimento
importante, se avevamo qualche problema andavamo a confidarci da Lei. Usciva poco di
casa, aveva avuto in giovane età (dopo la nascita di Paola) la rottura di un femore e purtroppo a quei tempi non era stato fatto nulla per sistemarlo, per cui il suo zoppicare andava
peggiorando di anno in anno. Era di una abilità incredibile a cucinare torte e biscotti,
faceva tutto nella stufa a legna. Per il matrimonio della figlia Paola preparò dei biscotti che
(purtroppo) ebbero elogi da parte di tutti gli invitati, così che ne rimasero pochissimi per
noi ragazzi. Attualmente conserviamo ancora la ricetta di una sua torta che è molto apprezzata da tutti e che infatti chiamiamo “Torta zia Orsola”.
Noi la chiamavamo anche zia scatètola, perché con degli scatti rapidi di poche, ma
decise parole riusciva sempre a zittire lo zio Giovanni quando brontolava, e lo faceva
spesso per qualsiasi motivo. Lei lo lasciava sfogare un bel po’, dopo partiva con la sua
scarica: ta..ta..tac !, e lui non aveva più nulla da dire.
Zio Giovanni noi lo chiamavamo zio cüramèlò, lavorava come giardiniere nella villa
del signor Carlo Marzoli che confinava con il nostro cortile (Marzoli era anche proprietario di tutto lo stabile), accudiva anche polli,
conigli e perfino una mucca, che i suoi signori tenevano in una stalla in un angolo del grandissimo parco. Era un tipo molto espansivo e
cordiale, faceva presto a farsi degli amici, i
vicini di casa gli volevano bene e non ha mai
avuto nulla da ridire con nessuno. Scappava
spesso, senza farsi vedere dalla zia, (lei però
lo sapeva) all’osteria dell’Angelina, al
portichetto; beveva un calice di vino e poi subito tornava a casa. Però in casa era un gran
brontolone, brontolava per le cose più insignificanti, se gli spostavano di pochi centimetri
un suo attrezzo, o se non trovava un indumento al posto giusto: “Ecco, io l’avevo messo qui,
adesso è là, se una cosa ha il suo posto qui
perché deve trovarsi la” diceva, e andava avanti di questo passo fino a quando zia Orsola,
che era stata zitta fino a quel momento, non
ne poteva più e scoppiava nella sua breve ma
decisa risposta e tutto finiva lì.
Una volta zio Giovanni non riusciva a
Gli zii Orsola e Giovanni,
trovare la sua famosa “coramella”, un attrezin una foto del dopoguerra
zo di cuoio che usava per affilare il rasoio,
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allora cominciò a cercarla con il solito brontolamento, ma non la trovava e chiedeva a
tutti: “ghet vest la me cüramèlò ?” “Chi ma töt sho la me cüramèlò ?” Nessuno però ne
sapeva niente, oltretutto sapendolo così geloso della sua coramella nessuno all’infuori di
lui avrebbe osato toccarla (mio padre il rasoio lo affilava con la cinghia dei pantaloni). La
faccenda andò avanti per un po’ di giorni e tutti ci chiedevamo : “Hai visto la coramella
dello zio ?”, “Hai forse spostato la coramella”. Noi eravamo anche preoccupati perché, lui
sicuramente, pensava che noi ragazzi potevamo esserne in qualche modo responsabili.
Finché un giorno lui stesso, ricordandosi di avergli cambiato posto, la ritrovò. Cercò di
giustificarsi facendo un’altra brontolata, ma la zia che era stata fino allora molto contenuta, scoppiò come era nel suo stile e mise fine alla storia. Da allora noi lo abbiamo
soprannominato zio cüramèlò, e fino agli ultimi anni della sua lunga vita per noi è sempre
stato il caro zio cüramèlò.
Il cancello Guzzi poco prima dell’abbattimento
e la casa della Sig.ra Irma, dove avevamo la cucina da sfollati
La fabbrica del ghiaccio
Al Maglio, di fronte alla finestra della nostra cucina da sfollati, c’era la fabbrica del
ghiaccio. (il mio ricordo su questa attività scomparsa non è strettamente legato al periodo da
sfollati, che è stato soprattutto d’inverno, ma piuttosto alle giornate estive che si passava da
zia Orsola)
Questa “fabbrica” era situata pressappoco dove ora c’e “L’eliografia Palazzolese”, un
fabbricato basso, composto da due o tre locali bui ai quali si accedeva da una porticina in
legno direttamente da via Matteotti. Dalla porticina si scendevano dei gradini in pietra per
un paio di metri in quanto i locali erano seminterrati ed erano quasi completamente occupati
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da vasche coperte da tavole in legno, tutta l’attrezzatura era molto vecchia. L’unico addetto era un uomo anziano ma robusto, portava sempre, anche in estate una giacca pesante
tutta piena di toppe e rammendi. Quest’uomo infilava delle tavole di legno in apposite
guide per dividere le vasche in modo da ottenere quando l’acqua gelava, delle bellissime
stecche di ghiaccio a forma di parallelepipedo dalle dimensioni, circa di cm. 20 x 20 x 1
metro. Poi dopo aver levato tutte le stecche di ghiaccio, riponeva le tavole divisorie, riempiva le vasche di acqua e faceva ripartire nuovamente il processo di congelamento.
L’uomo del ghiaccio aveva una specie di grosso uncino che conficcava con forza nelle
stecche per poterle sollevare, poi, con l’aiuto di un sacco di iuta, perché non gli scivolasse
e anche per tenerla a contatto con le mani, la metteva sulle spalle e la portava all’esterno
per aiutare il compratore a caricarsela su di un carrettino o una carriola, c’era chi comprava molte stecche ma anche chi ne comprava solo mezza e lui gliela tagliava con precisione.
I compratori erano generalmente bottegai o baristi, che d’estate mettevano il ghiaccio
in un cassonetto (ghiacciaia) e ci mettevano tutt’intorno le bibite da tenere fresche, poi
c’erano i venditori di granite che tenevano sul banchetto la loro stecca, avvolta in sacchi di
iuta, e all’occorrenza con un apposito pialletto grattavano il ghiaccio necessario e quindi
riavvolgevano la stecca per farla durare il più possibile.
Qualche anno dopo la guerra la fabbrica del ghiaccio venne demolita per fare posto
alla nuova costruzione, allora per un po’ di tempo il ghiaccio veniva portato da Chiari con
un camion. L’incaricato prendeva le prenotazioni il giorno prima e poi passava a fare le
consegne, fino a che l’avvento dei frigoriferi segnò la fine di questa attività.
Verso la Liberazione
Nel periodo che precedette la liberazione andava sempre più crescendo la sfiducia nel
regime fascista, l’esercito alleato si avvicinava di giorno in giorno e non era più possibile
raccontare storie sulle imprese dei “nostri” soldati. L’unica speranza che sosteneva ancora
i fedelissimi del regime, era la promessa da parte germanica, che si stava preparando un
arma micidiale (era chiamata “l’arma segreta”) che avrebbe in pochi giorni capovolto le
sorti della guerra.
Nel casamento dove eravamo sfollati abitava una donna convinta sostenitrice del regime fascista, non parlava molto con noi, io la vedevo solo quando usciva per andare al
lavoro e quando rientrava. Mentre attraversava il cortile veniva spesso interpellata da un
nostro coinquilino, un certo “S-cèpina”, il quale in tono provocatorio gli diceva : “Allora
Marta? Gli Americani avanzano e questa benedetta arma segreta?” Lei sempre tranquilla
rispondeva: “Ancora pochi giorni e sarà pronta, i nostri alleati Tedeschi ce lo hanno garantito”. Nessuno ci credeva più e forse anche lei non era più così convinta. Invece a guerra
finita si seppe che la Germania stava davvero preparando un’arma micidiale, la bomba
atomica (come stavano facendo gli Stati Uniti), per fortuna è arrivata prima la fine della
guerra.
A incentivare questo clima di sfiducia si aggiungeva il fatto che gli aerei Americani
erano oramai, i padroni assoluti del cielo, andavano e venivano senza che nessun aereo
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italiano o tedesco osasse affrontarli e ogni tanto lanciavano anche dei manifestini nei quali
invitavano i militari Repubblichini a disertare e annunciavano l’imminente liberazione
dalla dittatura fascista. Per rispondere a queste provocazioni, anche i fascisti lanciarono
con un aereo dei volantini, noi ragazzi rincorrevamo tutti i volantini anche per chilometri
se l’aria li portava lontani, perché era per noi importante prenderne almeno uno da portare
a casa. Il volantino fascista lo ricordo ancora bene, aveva la forma di una banconota da un
dollaro Americano, sul retro era stampata questa frase: (credo di ricordarla ancora per
intero) “LE PROMESSE AMERICANE - SONO SEMPRE STATE VANE – SONO BALLE BELLE E BUONE – SONO BOLLE DI SAPONE – COME QUESTE BANCONOTE”.
Un altro fatto di questo periodo che ricordo bene, perché mi aveva molto colpito è
questo. Venivo dalla piazza per tornare al maglio, probabilmente tornavo da scuola, passando davanti alla vecchia portineria della Marzoli, che allora era situata nel vicolo Duranti, mi sono trovato davanti tutti gli operai che erano fuori dalla fabbrica per uno sciopero. Molti erano seduti sulla gradinata della villa Duranti e la occupavano tutta, altri erano
in piedi al di qua o al di là della strada o seduti sui muretti. Questo fatto dello sciopero
della Marzoli era una cosa eccezionale, si trattava dei primi scioperi in paese dopo vent’anni
di dittatura fascista, io vedevo per la prima volta uno sciopero e, per come si parlava in
famiglia di questi argomenti, ne ero contento e tanto emozionato. Poi mentre passavo
davanti agli operai seduti sulla gradinata, sbucò all’improvviso uno sconosciuto che proveniva in bicicletta dalla parte opposta alla mia e gettò in aria una manciata di volantini.
Rivedo ancora come fosse oggi quel giovane, con una mano sul manubrio della bicicletta,
e con l’altra che lanciava in alto dei minuscoli volantini mentre gridava con quanto fiato
aveva: “Compagniii compattiiiii”, poi chinandosi a pedalare e sparire nella curva della
discesa. I volantini erano delle strisce di carta velina, scritti a macchina, grandi circa quattro o cinque centimetri per dieci, non ricordo il testo scritto nelle poche righe, ma so che
invitava gli operai a tenersi pronti perché la fine del fascismo era imminente.
Non ho mai saputo chi fosse quel coraggioso, non certo uno del paese perché uno
conosciuto non avrebbe rischiato tanto. Alla fine del conflitto ho chiesto a Giacomo, ma
nemmeno lui sapeva chi fosse quel giovane.
I giorni della Liberazione
Il giorno 26 aprile 1945 la direzione della scuola elementare, prevedendo gli eventi
che stavano maturando, ci aveva messo in vacanza, mentre Paola che frequentava “l’Avviamento” era andata regolarmente a scuola. Quel mattino, avendo bisogno di un quaderno, mi recai in un negozietto di cartoleria che era all’angolo del “Portichetto” (il famoso
negozio della “Büsilinò”). Sul breve tragitto dal Maglio al Portichetto ebbi la sensazione
che ci fosse una strana atmosfera. Le poche persone che c’erano sulla strada camminavano
svelte, un camion di soldati Tedeschi proveniente da Brescia girò in un primo tempo verso
Pontoglio, ma giunto al bivio del Cortevazzo si fermò titubante e scesero dei soldati, io mi
soffermai al Portichetto ad osservarli, parlarono tra di loro poi risalirono, il camion tornò
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indietro e prese per Bergamo. Ritornai svelto a casa , su quel tratto di strada incontrai
ancora automezzi Tedeschi, motociclette e camion che passavano veloci in direzione di
Bergamo. Poco dopo arrivò a casa Paola, era trafelata perché aveva fatto tutta la strada di
corsa e disse: “È entrato in classe il bidello e ci ha detto: oggi vacanza, ma dovete correre
a casa senza fermarvi” e così lei era partita di corsa.
Più tardi arrivò Giacomo. Aveva in mano un fucile e indossava delle giberne militari,
ci disse: “Non uscite più di casa, i partigiani si apprestano a prendere il controllo del paese,
abbiamo catturato il presidio Tedesco ed i fascisti di Palazzolo, ma ci sono ancora tanti
Tedeschi in fuga, ora facciamo un posto di blocco al Portichetto, potrebbe essere pericoloso uscire”. Questa apparizione di Giacomo armato creò in me e Paola una grande agitazione, le raccomandazioni e la giusta preoccupazione di mia mamma, mi sembrava guastassero in quel momento quell’atmosfera così emozionante.
Paola ed io anziché stare rintanati in casa, nella cucina di zia Orsola, ogni tanto scappavamo di nascosto al portone a spiare ciò che succedeva in strada e soprattutto verso il
Portichetto, dove avevano costruito una barricata mobile. Su di un carretto avevano messo
dei lunghi tronchi di albero e lo avevano piazzato al centro dell’incrocio,
con l’intento di sbarrare la strada a coloro che venivano da Brescia, se invece doveva
passare qualche macchina o motocicletta di partigiani, spostavano a mano il carretto e
liberavano la strada. Noi quando sentivamo il rumore di qualche camion o macchina in
arrivo, (gli automezzi allora erano molto rumorosi) ci tenevamo nascosti dietro le ante del
portone finché l’automezzo era passato, poi quando lo ritenevamo abbastanza lontano ci
azzardavamo a spiare, e così potevamo seguire le manovre del carretto che fungeva da
barricata.
In varie parti del paese si combatteva, a noi giungeva l’eco degli spari. Il partigiano
Guido Sgrazzutti è stato ucciso quel giorno in uno scontro con i tedeschi, al Portichetto, ed
un’altra persona è stata falciata dalla mitraglia di una camionetta sul ponte dell’Oglio.
Nel pomeriggio si diffuse la notizia di una colonna di fascisti e Tedeschi che avrebbero tentato di forzare i blocchi per cercare rifugio in Svizzera, allora i partigiani si prepararono ad affrontarli. Cominciarono col piazzare sui finestroni della filanda Guzzi, proprio
lì a cinquanta metri da noi, tanti sacchetti di sabbia, e dietro ad ogni finestrone si appostarono i partigiani con i fucili spianati. Nel nostro cortile c’era un grosso mucchio di sabbia
e lì vennero a riempire i sacchetti. Io, Paola e altri ragazzi fummo chiamati a tenere aperti
i sacchetti, mentre i partigiani con rapide badilate li riempivano. Il lavoro di “fortificazione”
durò fino a sera, noi eravamo contenti ci sentivamo partecipi di quella situazione, gli
adulti invece erano preoccupati al pensiero che potesse nascere una battaglia in mezzo
all’abitato.
Poi arrivò un ordine, una macchina passò più volte avanti e in dietro, su di essa un
partigiano con megafono ripeteva pressappoco questo messaggio: “Questa notte passerà
una colonna di Tedeschi e fascisti, proveniente da Brescia e diretta a Bergamo. È composta da camion e mezzi cingolati, armata con mitragliatrici e lanciafiamme. Bisogna lasciarla passare, nessuno osi sparare, una reazione da parte loro potrebbe causare la distruzione del paese. La colonna fascista verrà sicuramente fermata più avanti da formazioni
partigiane più numerose e meglio armate”.
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Sul paese calò un silenzio profondo e si andò a dormire con tanta paura in corpo, forse
più da parte dei nostri genitori che si rendevano maggiormente conto del grave pericolo
che correvamo, sarebbe bastato che qualche sconsiderato osasse sparare un colpo per scatenare il finimondo. Noi avevamo la camera al primo piano proprio sulla strada, quella che
ora si chiama via Matteotti, e tutto quello che passava per il paese passava lì sotto la
finestra. Non ricordo se ci siamo addormentati, ma so che ad una certa ora della notte
quando la colonna cominciò a passare, eravamo tutti svegli. Nessuno fiatava, il rumore dei
camion e soprattutto dei cingolati faceva tremare i vetri e metteva una grande paura, lo
stomaco si rattrappiva, non so quanto tempo è durato il susseguirsi di questi automezzi,
sembrava non finissero più. Quando si ebbe la sensazione che l’ultimo camion fosse passato si ripiombò nel silenzio, ma durò solo pochi minuti e fu rotto da spari di fucile e
mitraglia. Giacomo era fuori e mia mamma non riusciva a darsi pace.
Al mattino sapemmo che i partigiani, con opportune segnalazioni, riuscirono a bloccare
gli ultimi mezzi della colonna: parte nei pressi del castello, altri sulla salita di via Garibaldi,
e altri ancora alla Cesarina. Il bottino fu di molti automezzi e numerosi prigionieri.
Purtroppo nella stessa mattinata giunse anche una triste notizia, a Coccaglio la colonna
fascista aveva sorpreso un gruppo di giovanissimi partigiani del gruppo “Fiamme Verdi”.
Dodici di questi ragazzi erano stati presi e fucilati al centro del paese.
Giacomo era al posto di blocco al Portichetto e all’ora di pranzo bisognava portargli
qualcosa da mangiare, il compito fu affidato a me e Paola, quel giorno ci andai io, quando
fu l’ora partii portandomi una borsa con dentro due panini ed un pentolino di pastasciutta
calda. Mia mamma mi raccomandò di stare attento e di fare presto, feci di corsa i duecento
metri che ci separavano perché anche se sembrava tutto tranquillo, poteva sempre capitare
qualche sbandato, il giorno prima c’erano state delle sparatorie proprio li al portichetto.
Chiesi dove si trovava mio fratello, dissi il nome, mi fecero entrare nel portone del fornaio
Trebeschi e mi fecero salire al piano superiore. Giacomo e un altro partigiano si trovavano
in una camera da letto; Lui era seduto per terra, vicino alla finestra con balconcino che si
affacciava sulla strada e dominava l’incrocio, sul balconcino vi era piazzato un fucile
mitragliatore, accanto, sparsi sul
pavimento, c’erano diversi
caricatori ed un altro fucile. Mi
disse di aspettare così avrei
portato a casa il pentolino, in un
attimo divorò la pastasciutta. Nei
brevi istanti in cui rimasi ad
aspettare, scrutai avidamente
quelle armi sparse per terra, ed
ero orgoglioso di trovarmi in
mezzo ai combattenti. Subito
però Giacomo mi riconsegnò il
pentolino e mi disse: “Corri a
La lapide a Coccaglio ricorda il luogo dove
casa, non fermarti”, volai a casa,
furono fucilati i 12 ragazzi di Pontoglio
ero agitatissimo.
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il 26 aprile escono i giornali dei partiti dopo tanti anni di clandestinità
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Partigiani a Palazzolo
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Ghè che i-Americà
Poi arrivarono gli Americani (per noi gli alleati erano tutti Americani). L’avanzata
americana in tutto il nord, favorita anche dall’insurrezione partigiana, fu molto rapida, al
punto da sorprendere gli stessi comandi alleati. Infatti a Palazzolo erano già arrivate le
avanguardie, i primi carri armati transitavano in paese, la gente esultante si preparava a
festeggiare i “liberatori”, quando improvvisamente arrivò una squadriglia di cacciabombardieri. Passavano a bassa quota sulle case, noi li vedevamo appena con delle brevi apparizioni tra i tetti e sentivamo il rombare assordante dei motori quando ci passavano sopra,
poi cominciarono a mitragliare, attaccarono anche i carri armati, ci fu un fuggi fuggi in
preda al terrore. Tutti credevamo che fossero aerei Tedeschi, non potevano essere Americani se sparavano sugli Americani. Invece poi dai carri vennero sparati dei razzi gialli, gli
aerei capirono l’errore e se ne andarono.
Quando il grosso della colonna Americana proveniente da Brescia, giunse al maglio,
era stata preceduta da staffette partigiane che ne annunciavano l’imminente arrivo. Allora
tutti corremmo fuori in strada gridando: “Ghè che i’americà, ghè che i’americà”. Mio
zio “coramella” si stava facendo la barba, e in casa tutti lo sollecitavano: “dai! Giovanni
che stanno arrivando” così lui per non perdere quel primo momento, uscì in strada con
metà barba tagliata e con l’altra metà faccia ancora insaponata. Uscendo dal portone saltò
in mezzo alla strada ad una decina di metri dal primo carro armato che stava sfilando, e
agitando in alto il rasoio che teneva ancora in mano urlò: “Era tanto tempo che vi aspettiamo”. Noi avemmo tutti un attimo di paura, temendo che il gesto dello zio fosse scambiato per una minaccia. Ma i militari che avanzavano tranquilli seduti all’esterno del carro
armato, non ebbero dubbi sulle intenzioni dello zio, lo salutarono allegramente, e mentre
lui si scansava per lasciarli passare, gli gettarono un pacchetto di sigarette.
La colonna era interminabile, carri armati, camion, jeep. Passarono per ore ed ore tra
due ali di gente che applaudiva, ogni tanto i soldati ci buttavano cioccolato, sigarette, e
gomme da masticare che vedevamo per la prima volta (fortunati quelli che riuscivano a
prendere qualcosa).
Quando la colonna ebbe finito di passare, sentimmo che avevano lasciato un presidio
al campo sportivo, io e Paola corremmo subito a vedere, anche perché sentivamo dire che
lì qualche ragazzo aveva avuto un po’ di cioccolato.
Il campo sportivo era tutto coperto di militari sdraiati nel prato, e tutt’intorno camion
e jeep, c’era tanta gente, ma specialmente ragazzi, spinti dalla curiosità e dalla speranza di
ottenere qualcosa. Dopo aver gironzolato un po’ tra gli automezzi ed i soldati sbracati per
terra, Paola ed io, riuscimmo finalmente ad ottenere qualche costina di cioccolato. La cosa
però che mi colpì, fu che, mentre i militari erano seduti o sdraiati in modo disordinato e
cercavano di parlare con la gente del posto, ad un certo punto passò in mezzo a loro un
generale di grado molto elevato, (così sentii dire dagli adulti presenti) ma essi rimasero
dove si trovavano senza dare troppa importanza al fatto. Degli adulti che avevano fatto il
militare nel nostro esercito dissero meravigliati: “Hai visto, è passato in mezzo a loro un
generale e nessuno è scattato sull’attenti”. Mi parve che a questo episodio fosse dato una
grande importanza, forse come un segno di libertà che da noi non c’era.
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I primi carri armati Americani entrano in Palazzolo
Alle case operaie si festeggia l’arrivo degli Americani
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La fine della guerra
I partigiani proseguirono ancora per qualche giorno l’opera di rastrellamento di fascisti e Tedeschi sbandati, che si erano rifugiati nelle campagne. I prigionieri erano stati
sistemati allo stadio e nelle scuole, mentre gli automezzi, tra cui anche dei cingolati e dei
pullman militari, vennero per la maggior parte sistemati nel cortile della filanda Guzzi, il
cui cancello di entrata era praticamente di fronte al nostro portone. Così potevamo assistere al continuo via vai di camion con partigiani sul predellino, fucile in spalla, che andavano e venivano dal cancello.
Oltre ai partigiani scesi dalla montagna e ai GAP che operavano già in paese, nei
giorni della liberazione si unirono ad essi tanti altri. Venne poi formato un comitato con
rappresentanti di tutti i partiti, che ritornavano alla luce dopo tanti anni di clandestinità e
venne nominato un Sindaco provvisorio fino alle elezioni.
Dopo qualche giorno dall’arrivo degli Americani ci fu l’annuncio ufficiale che la guerra
era finita. (8 maggio, la resa della Germania ) La sirena della torre suonò a lungo, la sirena
che per tanti anni ci aveva messo paura, questa volta suonava per darci la bella notizia.
Non so per quanto tempo abbia suonato, non voglio azzardare nessuna cifra, so che ha
suonato molto. Mentre la sirena suonava, un gruppo di Partigiani usciti dalla filanda entrò
nel nostro cortile e tutti assieme si misero a sparare in aria in segno di festa, i caricatori si
vuotavano rapidamente e subito venivano sostituiti, i bozzoli rimbalzavano nel cortile. In
molte altre parti del paese si sentiva sparare e la sirena continuava a suonare, la gente
uscita dalle case invadeva le strade a godersi questo momento di grande gioia; la guerra
era veramente finita.
Mia madre un po’ in disparte, seppur contenta, sembrava non condividere appieno
questo momento di allegria. Antonio dal settembre del 1943 era rimasto nell’Italia occupata, prigioniero degli Americani, ora sarebbe tornato a casa, ma chissà dove si trovava in
quel momento, da tanto tempo non avevamo sue notizie, non sapevamo nemmeno se fosse
in vita. Mia mamma con gli occhi lucidi disse solo: “Tone ‘ndo sharal ?”
In quel clima di euforia si pensò di far pagare ai fascisti nostrani il conto dei vent’anni
durante i quali avevano spadroneggiato con arroganza, bastonando e costringendo a bere
olio di ricino tutti quelli che osavano dissentire. Qui devo citare al riguardo l’episodio del
cugino Fausto Bedoschi, che nei primi tempi del fascismo, dopo essere stato bastonato e
costretto a bere olio, fu rinchiuso per una notte in un tombino della fogna, solo alle quattro
del mattino per intercessione di un suo “amico” che militava tra i fascisti venne fatto
uscire. (Fausto poi dopo aver militato nei GAP lo troviamo in prima fila nei giorni dell’insurrezione) Di questi episodi, anche di più gravi, ne erano successi tanti in paese nei vent’anni di dittatura, perciò erano in molti quelli che avevano dei conti in sospeso, allora lo
stesso giorno della fine della guerra, o forse il giorno dopo, vennero prelevati i fascisti da
dove erano stati rinchiusi e li costrinsero a girare in corteo per le vie del paese.
Io segui per un po’ questo corteo, ricordo che il gruppo dei fascisti era tutto unito al
centro del corteo, con a fianco, a destra ed a sinistra due file di partigiani armati di fucile,
che avrebbero avuto il compito di proteggerli dalla folla. Lo scopo principale era quello di
umiliare i fascisti di fronte al paese, difatti mentre marciavano furono costretti a cantare
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“bandiera rossa”, e se non cantavano forte si prendevano schiaffi e pugni. Poi dovettero
salutare col pugno chiuso, (il saluto comunista) marciavano cantando bandiera rossa e
tenendo alzato il braccio con il pugno chiuso. Io li ho seguiti sul tratto tra il “bar speranza”
fino in fondo a piazza Roma, ho visto che ogni tanto c’era uno della folla che passava
attraverso il cordone di protezione prendeva di mira un fascista e gli diceva: “non sei
degno di cantare bandiera rossa” e gli mollava un pugno sul muso. Un altro invece gli
urlava canta più forte e giù una sberla, poi c’era quello che diceva: “per le bastonate che
mi hai dato alla sede del fascio” e gli dava una scarica di pugni. I partigiani che avevano il
compito di proteggerli non è che si dessero molto da fare, si limitavano a bloccare solo i
più esagerati e talvolta erano i partigiani stessi che colpivano i fascisti.
Il corteo girò per tutto il paese, sentii poi dire che quando arrivarono in via torre del
popolo, i fascisti vennero tutti allineati contro il muro del castello, davanti a loro i partigiani si disposero come un plotone di esecuzione che aspettava l’ordine di sparare. Lo scopo
della finta fucilazione era solo quello di spaventare i fascisti e immagino che con il clima
che c’era attorno avranno certamente pensato che si stava facendo sul serio. Dopo questo
spavento furono riportati in prigione e quando gli animi si furono calmati poterono tornare
alle loro attività, alcuni preferirono cambiare paese e non ritornarono più.
Quando assistetti a queste scene rimasi turbato, mi fecero pena quegli uomini costretti
ad umiliarsi a quel modo, molti sanguinavano per i colpi ricevuti.
Ripensandoci ora, credo che se dovessimo mettere in conto quello che loro avevano
fatto in vent’anni, con quello che hanno subito quel pomeriggio, non dovrebbero aver
motivo di lamentarsi.
Poi fu la volta delle donne fasciste, che furono rapate a zero al centro della piazza
(piazza Roma). Non ricordo quante fossero, penso circa una decina. Si trattava di donne
che avevano svolto qualche attività nel partito fascista, o avevano collaborato con i
repubblichini. Vennero portate in piazza Roma e qui fatte salire una alla volta su quel
balcone che si trova dirimpetto al ponte dell’Oglio. La piazza era gremita di gente, e loro
sistemate su di una sedia al centro del balcone. Il lavoro di rasatura venne affidato al noto
barbiere Quarantini, il quale iniziava il taglio passando il suo apparecchio nel mezzo della
capigliatura partendo dalla fronte, la divideva in due parti uguali con una striscia rasata al
centro, poi proseguiva, striscia dopo striscia una a destra e una a sinistra, fino a quando la
testa era completamente rasata. Quindi passava ad un’altra, tra lo scherno della gente che
anche così sentiva di riscattare tanti
anni di privazioni.
Tra le donne rapate c’era anche
quella signorina Marta che abitava nel
nostro casamento. (quella dell’arma
segreta) Alla gente del posto dispiacque per questo fatto, perché in fondo
non era cattiva. Lei per un po’ non parlò più con nessuno, portò un fazzoletto
in testa fino a quando le furono
ricresciuti i capelli.
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Ritorno alle Case Operaie
Anche se la guerra era oramai finita non potemmo ritornare subito alle case operaie,
perché bisognava aspettare che venissero riparati i danni provocati dai bombardamenti.
Noi avevamo due soffitti danneggiati ed i tetti pieni di buchi, inoltre ci avevano rubate
tutte le maniglie delle porte, gli interruttori della luce, e ci mancavano tutti i vetri.
Di quegli ultimi giorni di dopoguerra passati al maglio, ricordo il ritorno dell’illuminazione stradale. Gli operai della “Bresciana” (società elettrica Bresciana) procedevano
sostituendo i vecchi lampioni dell’oscuramento con altri, per quei tempi, molto luminosi,
così una sera ci mettemmo tutti fuori dal portone ad ammirare tre lampioni che brillavano,
dal portichetto su verso via Matteotti, e la sera dopo il cambio dei lampioni era arrivato
fino oltre il nostro portone. Tutta la via sembrava illuminata per una festa, dopo tanti anni
di buio la gente passeggiava in mezzo alla strada, i bambini giocavano sotto quella luce
così forte, anche se paragonandola a quella che abbiamo ora sulle strade, era senz’altro
poca cosa, però per quei giorni era eccezionale e motivo di grande gioia.
La gente delle case operaie aveva tanta voglia di rientrare, così man mano che i lavori
procedevano rientrarono subito quelli che abitavano ai piani inferiori che erano i meno
danneggiati, poi, un pò alla volta, tutti gli altri.
Il ritrovarsi con tutti gli amici fu una cosa molto bella, potevamo riprendere i vecchi
giochi, e avevamo tutti qualcosa da raccontare dei mesi passati lontani dalle nostre case.
Anche gli adulti si trovavano fuori alla sera a rammentare gli episodi più drammatici della
guerra appena finita, e quei fatti che ci avevano coinvolti tutti, dalla fame ai bombardamenti, vennero ricordati e ripetuti un’infinità di volte negli anni successivi.
Il nostro appartamento era diventato più luminoso, difatti avevamo messo il contatore,
come quello che si usa ora, al posto del vecchio “forfait”, così in cucina potemmo installare una lampada di “ben” 40 watt e nelle camere mettemmo tutte lampade da 25 watt.
L’opera di ricostruzione del ponte era agli inizi, stavano ancora ripulendo la zona
attorno al ponte delle tante bombe inesplose. Capitava ogni tanto di sentire passare una
macchina con megafono ad avvisare che ad una certa ora avrebbero fatto esplodere una
bomba: “….. si raccomanda a tutti di stare nelle case, da 15 minuti prima dell’ora indicata
fino all’avvenuto scoppio”. Noi ragazzi sapevamo che al massimo potevano arrivare qualche sasso o scheggia sulla testa, allora nonostante la proibizione dei genitori, ci piazzavamo dietro la muraglia a nord delle case, e lì sbirciando sopra di essa attendavamo il momento dello scoppio. Appena vedevamo il fumo dello scoppio che si alzava rapido in
cielo, abbassavamo sveltamente la testa dietro la muraglia, prima che arrivasse il tuono e
poi una pioggia di sassi.
Proprio in questi giorni che sto scrivendo queste note, è stata ritrovata nei pressi del
ponte una bomba che probabilmente era sfuggita ai controlli di allora. Purtroppo la zona
che prima era occupata solo da campi o da case distrutte è ora densamente popolata, quindi per precauzione tutti i cittadini di Palazzolo e Cividino che abitano nel raggio di mille
metri (circa diecimila persone) sono stati fatti evacuare. L’imponente operazione è durata
dalle sette del mattino di domenica 23 febbraio (1997) fino alle 15 del pomeriggio. Alle
6,30 carabinieri e vigili hanno suonato a tutte le porte invitando la gente a lasciare le case
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La ricostruzione del ponte
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Il ponte ricostruito
27 maggio 1946, Il primo treno passa sul ponte ricostruito
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entro mezzora, venne inoltre tolto luce acqua e gas, così “quelli delle case operaie” cinquant’anni dopo la fine della guerra hanno dovuto nuovamente sfollare. I superstiti hanno
riprovato un po’ delle emozioni passate, mentre i giovani hanno potuto partecipare un
pochino a fatti che avevano sentito tante volte nei nostri forse noiosi racconti.
Questa volta però la bomba è stata calata in una buca profonda 10 metri, ricoperta di
sabbia e quindi fatta brillare, per cui alla fine non si è sentito neanche lo scoppio.
Un pò di delusione c’è stata per chi si aspettava il botto, ma un grande sospiro di
sollievo per tutti coloro che si erano fatti la casa vicino al ponte.
Ghè che Tone dal soldat
Mio fratello Antonio era sempre stato il più buono di tutti noi, non si lamentava mai anche
quando qualcosa gli andava storto. Quando a tavola c’era qualche lamentela per il cibo non
perfetto, mia mamma chiedeva: “E tu Antonio cosa dici” e lui immancabilmente diceva “Buono!”, l’unica cosa che poteva metterlo di malumore era la scarsa quantità di cibo. Era amico di
tutti, una volta mi è capitato di percorrere un tratto di strada assieme a lui fino in piazza, tutti
quelli che incontravamo lo salutavano “ciao Tone” , “ciao Antonio”. Io gli chiedevo “chi è?”, la
risposta era sempre “un mio amico” . Gli piaceva qualche bicchiere di vino, amava cantare e fu
membro del coro della “Rocchetta” fino a pochi anni prima della morte.
Partito per il militare, a diciannove anni, non aveva più fatto ritorno a casa. Era stato arruolato in marina nei battaglioni da sbarco, prima a La Spezia, poi a Taranto dove era di servizio al
centralino. Scriveva spesso a casa, fin che ha potuto, ricordo ancora le sue cartoline postali con
il mittente: …Centralino MARIDEPO Taranto.
Dopo l’8 settembre del 1943, prigioniero degli americani, prese una decisione coraggiosa,
anzichè stare tranquillo a fare il prigioniero, scelse di combattere come volontario nel corpo
Italiano, a fianco degli stessi americani, Questo naturalmente lo venimmo a sapere solo al suo
ritorno, perché per tutto quel periodo non avemmo nessuna notizia.
Ed ora stava tornado a casa.
Era un pomeriggio di sole, la guerra era finita da un mese o due. Paola ed io eravamo seduti
al canalino con gli amici, quando arrivò un uomo in bicicletta, si fermò davanti alla nostra
portina e senza scendere dalla bicicletta, gridò: “Strabla, vostro figlio Antonio sta arrivando, sta
venendo su a piedi dalla Riva” (da via Zanardelli ). “ Ghè che Tone dal soldat !” (sta tornando
a casa Antonio dalla guerra). Questa frase rimbalzò subito da una casa all’altra, di finestra in
finestra, in un attimo tutta la gente delle case operaie o era alle finestre o si era precipitata da
basso ad aspettare Antonio. Noi tutti siamo partiti da casa per andargli incontro, quando siamo
arrivati in fondo alla strada Antonio era ancora a metà viale.
In qualche modo era arrivato con il treno a Chiari, qui aveva trovato un contadino con un
barroccio che gli aveva dato un passaggio fino a Palazzolo, lasciandolo al portichetto. Ora stava
venendo verso casa, ma procedeva lentamente perché ogni tanto incontrava qualche persona,
allora lasciava a terra i bagagli che aveva nelle due mani, per abbracciare e stringere la mano. Poi
riprendeva, ma fatti pochi passi incontrava qualcun altro e la scena si ripeteva. Noi impazienti gli
siamo andati incontro tutti assieme, quando ha visto mia mamma non ha più guardato nessuno, ha
lasciato cadere a terra la valigia e un fagotto che aveva nell’altra mano ed è corso ad abbracciarla.
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Poi salutò tutti noi, poi la gente delle case
operaie che gli era andata incontro e poi
tutti quelli che lo aspettavano in mezzo alle
case operaie. Ci volle molto tempo prima
che arrivasse in casa.
Nei giorni che seguirono ci parlò a lungo di come aveva passato quegli anni, e di
cose da raccontare ne aveva tante e anche
drammatiche. Il suo reggimento era stato
impiegato a Montecassino, in quella lunghissima battaglia aveva visto morire molti
dei suoi amici. Nel suo raccontare alternava momenti drammatici ad altri di grande
comicità, come era nel suo stile.
La sua venuta a casa non era definitiva,
difatti, dopo la breve licenza, dovette ripartire e solo dopo qualche mese ebbe il congedo.
Non si può finire il discorso su Antonio senza raccontare l’episodio “dell’anguria livellata”, anche se i nipoti l’avranno
sentito raccontare centinaia di volte.
(è chè la oltò chè Tone èl ga ‘ngualat
l’ingöriò ?) Anch’io l’ho sentito raccontare in molte occasioni, perché successe quanAntonio con il suo commilitone
do io ero piccolissimo. Abitavamo in un picSorlini di Brescia e Giacomo
colo casolare in via Attiraglio, subito dopo
la fabbrica Casenghini.
Un giorno ad Antonio e Giacomo venne concesso di andare a comperare una fetta di
anguria, una fetta in due. Allora presero la bicicletta del babbo e si recarono all’anguriera che si
trovava pressappoco dove ora c’è il centro polivalente. Acquistata la fetta di anguria si avviarono verso casa, uno pedalava e l’altro seduto sulla canna teneva la fetta. Ma improvvisamente a
Giacomo venne un bisogno corporale, allora entrò in un campo di granoturco (a quei tempi in
quella zona c’erano solo campi) Nel frattempo Antonio stava sulla strada con la bicicletta e
l’anguria, goloso com’era non resistette alla tentazione di dare un morso, ma poi perché Giacomo non se ne accorgesse pensò di (‘ngualalò) livellarla, però si accorse che risultava più bassa
da una parte, allora le diede rapidamente un’altra livellata, e poi un’altra, finché a furia di
livellare pensò che oramai era rimasta ben poca cosa, e decise che tanto valeva mangiarsela
tutta. Benché possa sembrare incredibile, quando Giacomo furibondo gli chiese conto dell’anguria, rispose candido: “ Pòtò, go shèrcat dè ‘ngualalò “ (Ho cercato di livellarla) .
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Conclusione
Con il ritorno di Antonio il mio diario di guerra finisce, ma credo opportuno parlare
brevemente di come abbiamo vissuto quei primi anni di dopo guerra.
In molti posti nel paese si suonava e si ballava. A Mura funzionava tutte le sere una
grande balera (ricavata in un vecchio capannone) denominata “dei disocupacc” perché
era gestita da un gruppo di giovani disoccupati. Anche alle case operaie si trovò il posto
adatto per ballare, al centro delle case dal lato degli orti, dove il marciapiede è più largo.
Qui spesso si ballava, accompagnati da una fisarmonica e da qualche altro strumento, la
fisarmonica veniva suonata da Angiolino Del Tom, il tabaccaio. La “balera” era proprio
sotto il nostro balcone, tanto che avevamo calato da casa nostra un cavo con una lampadina per illuminare la “pista”.
Dal lato economico, la cosa più importante fu che si ebbe subito pane a sufficienza per
tutti, poi un po’ alla volta arrivarono le altre cose.
Gli americani ci inviarono forti quantitativi di frumento per aiutarci a risolvere il problema della fame, questo frumento arrivava in sacchetti di tela bianca stampati con disegnini
colorati, (fiorellini, pallini, o quadretti) così poi i sacchetti (venduti a parte) venivano
utilizzati per confezionare grembiuli camice e camicette.
Sulla spinta delle lotte sindacali, il potere d’acquisto degli operai andava gradatamente
migliorando, così si cominciò col comprarsi scarpe con suole in cuoio, al posto di quelle in
cuoital (cartone), ed a farsi un po’ di guardaroba, dato che eravamo ridotti a zero. Poi più
tardi in molti riuscirono a comprarsi anche la seconda bicicletta, anche noi potemmo comperare a rate una bici da donna, una Taurea, per Luigina e Paola; col sistema delle rate il
ciclista Pacì (Moraschi) diffondeva Tauree in tutto il paese.
Subito iniziarono le competizioni elettorali, sia le elezioni comunali che quelle nazionali erano molto seguite dalla gente. Quando c’era un comizio, era sufficiente che l’oratore provenisse da Brescia, (ma certe volte anche un concittadino) perché la gente partecipasse così numerosa da riempire piazza Roma. Anche i comizi che venivano fatti nei
quartieri, in mezzo alle case operaie, erano sempre affollati; la gente, dopo che era stato
proibito per tanti anni, partecipava volentieri al dibattito politico.
I manifesti elettorali venivano attaccati dappertutto, certe case in posti strategici erano
praticamente tappezzate. Una mattina alle case operaie ci trovammo dipinte, con vernice
rossa, tante falci e martello una a destra e una a sinistra di ogni portina; durante la notte
qualcuno aveva fatto questo lavoro, probabilmente con una sagoma di cartone perché erano
tutte uguali e ben fatte. Non tutti certo saranno stati d’accordo ad avere questo simbolo sulla
porta, ma nessuno pensò di cancellarli, così rimasero sul muro per tanto tempo.
Quando però i “compagni” delle case operaie in occasione del referendum, vinto, per
la Repubblica, issarono sul tetto una enorme bandiera rossa con una lunga asta, una donna
ebbe invece il coraggio di salire di notte a toglierla. Ebbene questa donna, la Tognina, alla
quale evidentemente non andava di avere sopra la propria casa una bandiera rossa, salì di
notte sul tetto spostando due tegole, camminò per una ventina di metri sulla sommità del
tetto, una volta raggiunta la bandiera la staccò e la portò via. Fu sorpresa mentre,con
l’aiuto di una vicina, stava scendendo le scale del solaio con la bandiera attorcigliata sotto
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il braccio, ne venne fuori un caso clamoroso con minacce di denunce e contro denunce;
intervennero anche dirigenti e Onorevoli provinciali, ma alla fine si aggiustò tutto.
La situazione politica fece trovare le famiglie, che per anni avevano affrontato assieme i
gravi problemi della guerra, schierate su fronti contrapposti, ma nonostante tutto penso di
poter dire che, si mantenne sempre una ottima amicizia.
Per iniziativa della gente delle nostre tre ultime “portine” facemmo costruire una nicchia
per una Madonnina, come ringraziamento per la protezione della Madonna, più volte invocata, durante i bombardamenti. Una epigrafe sotto la statuetta recita: “Queste case sfiorate da
quaranta bombardamenti, tremarono ma non crollarono, grazie a Maria Santissima.” Per l’inaugurazione si fece una messa, e poi tutta la sera si ballò con la compagnia di una allegra
orchestrina, e da quel giorno tutti gli anni l’8 di settembre fino ai giorni nostri questa messa è
sempre stata puntualmente celebrata, con la partecipazione di noi “superstiti” anche se sempre meno numerosi. Sul numero dei bombardamenti ci sono diverse versioni, noi alle case
operaie ne abbiamo contati quaranta, perciò teniamo buona questa cifra che oramai è stata
scolpita nel marmo della Madonnina.
Antonio, dopo un po’ di tempo, venne finalmente ripreso alla Marzoli. Paola finì brillantemente l’Avviamento ed entrò anche lei subito a lavorare alla Marzoli. Io feci per due anni il
calzolaio, poi dal momento che la situazione economica della famiglia era sensibilmente
migliorata, mi fecero riprendere la scuola (specialmente mia mamma ci teneva molto). Andai
all’Avviamento dove, nonostante i due anni persi, trovai tanti miei coetanei che avevano
ripetuto uno o due anni o che avevano perso un anno per la guerra. Affrontai la scuola con
impegno e la terminai con un buon risultato.
Nel 1952 il nostro dugalì venne interrato, in cambio ci
costruirono, in un angolo, questo bel lavatoio coperto
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1946 processione di S. Fedele, Enrico vestito da boy-scout
1951 Un matrimonio sfila per la Parrochiale, sullo sfondo la tabaccheria Del Ton, i giardinetti,
una volta utilizzati come orticelli e le nostre case prima che venissero allungate e rialzate
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1942 un gruppo di giovanotti
1953 il gruppo dei nuovi giovanotti
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Vicino alle Case Operaie c’era lo studio del fotografo Chiarini,
che ci ha lasciato, belle foto di gruppo di ogni epoca
Un gruppo di amici in fondo alla strada (in mezzo in alto, con cappello il cosi detto “mat Zambel”)
1937
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1947
1949
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1951 La mia famiglia al completo, più la cognata Rosi, la nipote Mirella
e Maddalena, una bambina di Lecce nostra ospite
mio Padre e mia Madre, negli anni 50
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Antonio muore nel 1978
in un trafiletto
sulla “Voce del Popolo”
viene tracciato un profilo
della sua personalità
nel 1986 muore Giacomo
i Compagni lo ricordano
sul giornale “Partecipazione”
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Recensioni e lettere
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