1 Traccia n. 6 Gli accordi patrimoniali tra coniugi in
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1 Traccia n. 6 Gli accordi patrimoniali tra coniugi in
Traccia n. 6 Gli accordi patrimoniali tra coniugi in sede di separazione e divorzio e la tutela dei creditori. Tipologia, elementi strutturali e problematiche applicative (annullabilità, revocabilità del consenso, simulazione ed assoggettabilità a revocatoria ordinaria e fallimentare. 1. Gli accordi dei coniugi in sede di separazione: contenuto e limiti. In particolare i c.d. accordi omologati e gli accordi a latere (o non omologati): il problema della loro validità. -2. Gli accordi in sede di divorzio su domanda congiunta dei coniugi. -3. Gli accordi preventivi, in vista della futura separazione o del divorzio. -4. Annullabilità dell’accordo di separazione consensuale omologato e corollari applicativi. -4.1. La revocabilità del consenso e la simulazione dell’accordo di separazione omologato. -5. Il trasferimento immobiliare come contenuto eventuale degli accordi di separazione coniugale: inquadramento dogmatico e disciplina applicabile. In particolare, l’assoggettabilità degli atti traslativi a revocatoria ordinaria e fallimentare. 1. Gli accordi dei coniugi in sede di separazione: contenuto e limiti. In particolare i c.d. accordi omologati e gli accordi a latere (o non omologati): il problema della loro validità. Gli accordi dei coniugi in sede di separazione e divorzio hanno assunto un diverso e rinnovato valore a seguito, dapprima della legge sul divorzio n. 898 del 1970 (specie dopo le modifiche apportate dalla l. n. 74/1987) e in seguito della legge di riforma del diritto di famiglia. Il nuovo concetto di famiglia nucleare c.d. privatizzata, ancorata ai principi di parità e solidarietà tra coniugi (artt. 2, 3, 29 Cost.), ha valorizzato la volontà dei coniugi che sovente si esprime mediante l’accordo, sia nella fase fisiologica del rapporto, che si concreta nella scelta dell’indirizzo di vita familiare (art. 144 c.c.) e dell’amministrazione straordinaria dei beni della comunione (art. 180 c.c.); sia nella fase patologica di crisi coniugale, dove si manifesta con la domanda di separazione consensuale e di divorzio congiunto, tipiche espressioni della possibilità per i coniugi di regolamentare la crisi coniugale tanto in sede di separazione che di divorzio. In particolare, nell’ambito degli accordi di separazione grande importanza è attribuita alla separazione consensuale, riformata dalla legge n. 151/1975, in quanto rappresenta la massima espressione del concetto di negoziabilità-autonomia dei rapporti coniugali, in ossequio al menzionato obiettivo di riconoscere alla famiglia una vocazione “privatistica”, enucleabile anche dal dato letterale dell’art. 158, co. 1, c.c. e dell’art. 711, comma 4, c.p.c., nonché, dell’art. 158, co. 2, c.c. Posto il principio dell’autonomia dei coniugi è indispensabile enucleare i limiti invalicabili che il legislatore ha previsto in tale ambito. Si tratta, così come disciplinato dal’art. 160 c.c.: - dell’indisponibilità degli status familiari e dell’inderogabilità dei diritti a questi connessi (solo il giudice, in sede di omologazione, è legittimato da un lato a riconoscere lo status di separato e, dall’altro, a pronunciare la sentenza di divorzio, costitutiva dello scioglimento del vincolo negoziale); - della salvaguardia dell’interesse della prole, unico sostanziale limite, ex art. 711 c.p.c., entro il quale è consentito un penetrante sindacato del giudice, in sede di omologazione della separazione consensuale, rispetto alle scelte effettuate dai coniugi. Il contenuto specifico degli accordi di separazione è composto: - di un contenuto essenziale, c.d. convenzioni di diritto di famiglia, relative prevalentemente alla cessazione del dovere di convivenza e alla regolamentazione degli altri obblighi previsti dall’art. 143 c.c. (mantenimento del coniuge, sussistendone i presupposti; affidamento, educazione e mantenimento della prole; per alcuni, anche l’assegnazione della casa familiare), che si discostano dai principi tipici dei rapporti contrattuali, in quanto l’autonomia dei coniugi è in certa misura limitata in virtù del superiore interesse della 1 famiglia e della prole; - di un contenuto eventuale, attinente ad intese che esulano dagli elementi essenziali della separazione consensuale, in quanto sono semplicemente occasionate dalla crisi coniugale, e se hanno un contenuto prettamente patrimoniale, rientrano nei contratti atipici (c.d. contratti di separazione o della crisi) a cui si applica la relativa disciplina (art. 1322 c.c., in primis). Tali accordi eventuali, occasionati dalla separazione, possono essere anteriori, coevi o successivi all’omologazione, nonché possono essere omologati dal tribunale o rimanere a latere. L’omologazione degli accordi di separazione da parte del giudice è sostanzialmente dovuta quando si tratta di intese finalizzate a regolare aspetti integrativi ed accessori della separazione consensuale, poiché il principio ispiratore consiste nel rispetto dell’autonomia negoziale, naturalmente entro i limiti di inderogabilità dell’art. 160 c.c., che limita il controllo giudiziale ad un mero controllo di legittimità (sub specie di non illiceità), ovviamente salvo per il prevalente interesse della prole. In tale prospettiva la legge 8 febbraio 2006, n. 54, «Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli», introducendo l’istituto del c.d. affidamento condiviso, valorizza ulteriormente i principi cardine della nuova concezione privatistica della famiglia. Il nuovo art.155 c.c., in particolare, al comma secondo impone al giudice di «prende(re) atto, se non contrari all’interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori», e, al comma quarto, prevede che i genitori provvedano al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito «salvo accordi diversi, liberamente sottoscritti dalle parti». L’obbligo del giudice di «tener conto» dell’accordo dei coniugi sull’affidamento dei figli e sul contributo per il loro mantenimento (art. 6, c. 9, l. div.), arricchisce di contenuti la prospettiva di rafforzamento dell’autonomia dei genitori. La diversa ipotesi degli accordi a latere, non cristallizzati nel verbale sottoposto all’omologazione del tribunale, ha destato problemi esegetici circa la loro validità o meno, anche in virtù del contenuto, spesso eterogeneo, di tali intese non omologate. Gli accordi non omologati possono tendere a modificare le intese omologate relative ad una separazione consensuale ovvero i provvedimenti emessi dal giudice, all’interno di una separazione giudiziale, ovvero, possono essere diretti a delineare le condizioni di una separazione legale, o infine, possono essere finalizzati ad integrare le condizioni di una separazione legale consensuale. Un ulteriore discrimine fra le diverse tipologie di accordi c.d. a latere, può essere rinvenuto nel omento della loro redazione rispetto al provvedimento giudiziale di omologazione della separazione. Esemplificando, si può trattare di intese precedenti in cui le parti stabiliscono le linee di principio su cui verterà la futura separazione, risolvendo anticipatamente alcune delle questioni che naturalmente emergeranno in sede di separazione, come quelle relative alle proprietà comuni, ai necessari trasferimenti immobiliari, ecc.; coeve, in genere relative all’ammontare dell’assegno di mantenimento, o finalizzate a risolvere questioni di natura fiscale che i coniugi ritengono opportuno non pubblicizzare; ed infine successive, principalmente incentrate su accordi di dettaglio non contenuti nel verbale di omologazione, ovvero relative a problemi emersi solo in fase di esecuzione degli accordi di separazione. Riguardo alla validità di tali intese, è necessario ripercorrere brevemente le diverse soluzioni offerte negli anni dalla giurisprudenza che è passata dal non riconoscere validità a tali accordi, all’affermazione della loro piena efficacia, enucleando, però, le necessarie differenziazioni. L’iter giurisprudenziale in materia è in linea con l’evoluzione del concetto stesso di famiglia e, di conseguenza, del rapporto coniugale che la fonda che si è distaccato dalla forte propensione pubblicistica per valorizzare la prospettiva privatistica insita nella sua stessa essenza. Nella prima fase (anni ‘80) si assiste all’emersione della tesi restrittiva, di matrice pubblicistica, tendente a negare validità tanto agli accordi antecedenti non trasfusi nel verbale di omologazione della separazione consensuale quanto agli accordi successivi allo stesso e modificativi delle condizioni in esso fissate, in quanto l’efficacia giuridica di tali intese doveva necessariamente presupporre la loro cristallizzazione nel provvedimento di omologazione del Tribunale (Cass., 5 gennaio1984, n. 14, per gli accordi antecedenti; Cass., 13 febbraio 1985, n. 1208 per quelli successivi, per i quali si afferma che “gli accordi con cui i coniugi modifichino, anche se migliorandole, le condizioni relative al mantenimento del nucleo familiare, includente i figli minori, sono inefficaci se non vengono omologati dal tribunale”). La fase successiva, al contrario, è caratterizzata dall’abbandono della concezione pubblicistica che viene sostituita da quella c.d. privatistica, come si evince chiaramente dalle due significative sentenze n. 2270 del 24 febbraio 1993 e n. 657 del 22 gennaio1994. In particolare, i patti successivi all’omologazione, trovando fondamento nell’art. 1322 c.c., devono essere ritenuti validi ed efficaci “in quanto meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico”, indipendentemente dal 2 procedimento di omologazione disciplinato dagli artt. 710 e 711 c.p.c., salvo gli invalicabili limiti contenuti nell’art. 160 c.c.; le pattuizioni antecedenti o coeve alla separazione consensuale omologata, e non trasfuse nel relativo verbale, al contrario, sono validi ed efficaci solo se non «non interferiscono» con quanto stabilito nell’accordo omologato, sempre previa verifica di rispondenza all’interesse tutelato, nel rispetto dei principi espressi nell’art. 158 c.c. In seguito, la Corte ha ribadito in modo uniforme tali principi (v. per es. Cass., n. 7029/97; n. 5829/1998; da ultimo n. 8516/2006; n. 9174/08; n. 2997/09). 2. Gli accordi in sede di divorzio su domanda congiunta dei coniugi. La legge n. 74/1987, di riforma della legge del 1970 ha introdotto il procedimento di divorzio ordinario contenzioso, a cui possono essere applicate le coordinate interpretative delineate per il procedimento di separazione dei coniugi, tanto in relazione all’assenza di poteri di intervento del giudice sugli accordi di contenuto patrimoniale inerenti ai rapporti tra i divorziandi, quanto nel senso dell’obbligo del giudice di «tener conto» dell’accordo dei coniugi sull’affidamento dei figli e sul contributo per il loro mantenimento (art. 6, co. 9, l. n. 898/1970, oggi sostituito dall’obbligo di «prendere atto» di siffatte intese, ex art. 155, co. 2, c.c., ai sensi dell’art. 4, cpv., l. 8 febbraio 2006, n. 54); infine l’analogia tra gli accordi di separazione e di divorzio emerge con riferimento alla disponibilità del diritto all’assegno in favore del coniuge divorziato, anche quando venga prescelta la liquidazione una tantum del predetto assegno, dietro verifica di equità da parte del tribunale (art. 5, co. 8, l. div. cit.). Il punto centrale dell’autonomia dei coniugi in sede di separazione risiede nell’accordo posto alla base della richiesta congiunta di divorzio che regolamenta i rapporti consequenziali allo scioglimento del vincolo matrimoniale e ricalca nei tratti essenziali l’accordo concluso tra coniugi in sede di separazione negoziale. I presupposti di validità e di efficacia della domanda congiunta di divorzio prevedono, la necessità di un’istanza congiunta unitamente alla compiuta indicazione delle relative condizioni anche economiche, sempre nel doveroso rispetto dell’interesse dei figli, ex art. 4, co. 13, l. div., che pone il giudice nella possibilità, a seguito del relativo vaglio di merito, di modificare le intese dei coniugi affinché rispondano efficacemente ai reali interessi della prole. 3. Gli accordi preventivi, in vista della futura separazione o del divorzio. Un discorso a parte meritano gli accordi cc.dd. preventivi, siglati dai coniugi in vista della futura proposizione della domanda di separazione o di divorzio, i quali si differenziano dagli accordi patrimoniali tra coniugi sopra esaminati, in sede di o successivamente alla separazione o al divorzio, tendendti a regolamentare profili patrimoniali discendenti dal già acquisito (o dalla contestuale acquisizione) dello status di separato o divorziato. Nel tempo si sono susseguiti divergenti orientamenti circa la qualificazione giuridica di tali intese in vista del futuro ed eventuale divorzio, che sono sfociati in una netta divaricazione tra le conclusioni della dottrina e della maggioritaria giurisprudenza. La giurisprudenza, in particolare, tende a prevedere la nullità di tali accordi per illiceità della causa e/o illiceità o impossibilità dell’oggetto, sulla base di una serie di argomentazioni giuridiche. In ordine di tempo è opportuno partire dalla prospettiva pubblicistica tipica degli orientamenti più risalenti secondo cui la nullità per illiceità della causa derivava dalla violazione dell’art. 160 c.c., intesa come massima espressione della totale indisponibilità dei diritti e dei doveri che scaturiscono dal matrimonio, ed in particolare dello status coniugalis. Inoltre, la possibilità per i coniugi di revocare o modificare l’assegno post-matrimoniale, in forza dell’art. 9 l. 898 del 1970, era ritenuta una forma di tutela sufficientemente efficace da rendere superfluo il ricorso agli accordi pre-divorzio (Cass., 4 giugno 1992, n. 6857). Successivamente è emerso l’orientamento incentrato sulla primaria e inviolabile libertà insita nella scelta dello status matrimoniale unitamente al fondamentale diritto di difesa nel processo di divorzio, fino a sostenere che “gli accordi preventivi possono condizionare il comportamento delle parti non solo per i profili economici preconcordati ma - quando sono accettati in funzione di prezzo o contropartita per il consenso al divorzio - anche per quanto attiene alla volontà stessa di divorziare” (Cass. civ., 18 febbraio 2000, n. 1810). Si tratterebbe, in sostanza, di un accordo tendente a configurare una “transazione sullo status matrimoniale” (Cass. civ., 11 giugno 1997, n. 5244); e ancora, “gli accordi preventivi tra i coniugi sul regime economico del divorzio hanno sempre l’effetto, se non anche lo scopo, di condizionare il comportamento delle parti nel giudizio concernente uno status; in una sfera, cioè, in cui la libertà di scelta ed il diritto di difesa esigono invece di essere indeclinabilmente garantiti” (Cass. civ., 11 agosto 1992, n. 9494; Cass. civ., 28 ottobre 1994, n. 8912; Cass. civ., 7 settembre 1995, n. 9416; Cass. civ., 11 giugno 1997, n. 5244; Cass. civ., 20 marzo 1998, n. 2955). La dottrina maggioritaria, invece, si è mostrata favorevole a riconoscere validità a tali accordi, contestando in toto le argomentazioni addotte dalla giurisprudenza a sostegno della nullità di dette intese, 3 sottolineando come l’oggetto degli accordi non è determinare lo status, ma regolare i rapporti economici che da questo discendono, nel rispetto della piena autonomia delle parti di optare per una soluzione transattiva della controversia, sempre che si tratti dei profili patrimoniali e non già degli status. In altre parole, la scure della nullità riguarda i soli accordi inerenti lo status coniugalis, dovendosi concludere per la piena validità delle intese tese a regolamentare i diritti disponibili di natura patrimoniale, in ossequio alla valorizzazione della concezione privatistica della famiglia, corroborata altresì, dai principi costituzionali di uguaglianza e solidarietà tra i coniugi (artt. 2, 3 e 29 Cost) e dal nuovo impianto privatistico dell’assetto dei loro interessi per effetto delle leggi successive (in particolare, della legge sul divorzio, come riformata nel 1987; e della legge di riforma del diritto di famiglia del 1975). Inoltre, numerose applicazioni dei suddetti principi possono essere rinvenute tanto in tema di separazione consensuale e divorzio, specie se congiunto (artt. 157 e 158 c.c.; art. 711 c.p.c.; artt. 4, co. 13, e 5, co. 8, l. n. 898/1970 e succ. mod.), quanto in materia di riconoscimento degli accordi non omologati, in sede di separazione consensuale, ovvero contenuti nel ricorso di divorzio congiuntivo, nonché, infine, nelle recenti aperture a favore della validità di accordi patrimoniali nelle separazioni di fatto (ancorché inidonei a produrre gli effetti della separazione legale: cfr. per tutte Cass., 17 giugno 1992, n. 7470); 4. Annullabilità dell’accordo di separazione consensuale omologato e corollari applicativi Il presupposto fondante della corretta qualificazione giuridica degli accordi omologati in sede di separazione consensuale consiste nell’individuazione della natura giuridica e della funzione del decreto di omologazione. Il procedimento di omologazione è composto da due momenti: - uno privatistico, consistente nell’accordo fra i coniugi, teso a porre fine alla convivenza e a regolamentare, eventualmente anche sotto il profilo patrimoniale, i conseguenti rapporti familiari; - e uno pubblicistico, rappresentato dal decreto di omologazione emesso dal Tribunale. La valorizzazione dell’uno o dell’altro momento porta naturalmente verso divergenti soluzioni circa la natura e la funzione dell’omologa e di conseguenza dell’accordo dei coniugi Tra le diverse ricostruzioni, tre in particolare hanno delineato le tappe fondamentali dell’evoluzione interpretativa in materia, incentrandosi rispettivamente: 1) sulla prevalenza del momento pubblicistico della procedura, che assegna al provvedimento il valore di fatto costitutivo della separazione, in relazione al quale, dunque, l’accordo delle parti funge da mero presupposto volontario che dà l’avvio alla procedura, mancante di ogni contenuto negoziale e, quindi, avulso dall’applicazione della disciplina sui vizi del consenso. 2) sulla equidistanza fra il momento privatistico e quello pubblicistico che tende a valorizzare lo scopo unitario sotteso alla complessa fattispecie della separazione consensuale, in cui l’accordo dei coniugi corrisponde al presupposto del regolamento concordato tra i coniugi, il provvedimento di omologa funge da condizione di efficacia e al contempo svolge una funzione di controllo della legittimità dell’accordo (e merito, nei limiti dell’art. 151 c.c.) nonché del rispetto della libertà e regolarità del consenso, con la conseguenza che un eventuale vizio del consenso è di fatto prevenuto o sanato dall’omologa. 3) sulla valorizzazione del momento privatistico della separazione, quindi dell’accordo tra i coniugi al quale è riconosciuta natura negoziale, con la conseguenza che il provvedimento di omologazione si atteggia a mera condizione sospensiva (legale) di efficacia, avendo detto provvedimento la funzione, da un lato, di verificare che la convenzione sia compatibile con le norme cogenti ed i principi di ordine pubblico e, dall’altro, di operare un pregnante controllo a tutela dell’interesse dei figli. Resta, dunque, impregiudicata, anche dopo l’avvenuta omologazione, la facoltà delle parti di esperire nei confronti della convenzione l’azione di annullamento per vizi della volontà, in base alle regole generali del contratto (estensibili ai negozi giuridici non patrimoniali, genus al quale appartengono quelli di diritto di famiglia: Cass., 29 marzo 2005, n. 6625; Cass., 4 settembre 2004, n. 17902; Cass., 20 novembre 2003, n. 17607; Cass., 5 marzo 2001, n. 3149). In questi termini si è recentemente espressa Cass. civ., sez. I, 22 novembre 2007, n. 24321, precisando, inoltre, sotto il versante processuale, che è preclusa la possibilità per uno dei coniugi di ottenere l’annullamento dell’accordo (o la sua nullità) attraverso il procedimento camerale disciplinato dall’art. 710 c.p.c.. Tale impostazione è stata, recentemente, confermata da Cass. civ., 20 marzo 2008, n. 7450. 4.1. La revocabilità del consenso e la simulazione dell’accordo di separazione omologato. La soluzione della questione inerente l’ammissibilità di una revoca unilaterale del consenso manifestato alla separazione e alle relative condizioni prima che intervenga l’omologazione da parte del Tribunale, è fortemente influenzata dai principi cardine dell’orientamento oggi prevalente che sottolinea la natura negoziale dell’accordo. Su tali basi, dunque, non dovrà ritenersi ammissibile una revoca del consenso da parte di un solo 4 coniuge, nel caso in cui tale revoca abbia ad oggetto i soli rapporti patrimoniali e non già la domanda giudiziale di separazione, ciò anche alla luce del principio dell’irretrattabilità degli accordi patrimoniali secondo cui è necessario il consenso congiunto delle parti ex art. 1372 c.c. per far venir meno l’accordo, purché ciò avvenga in sede di udienza presidenziale (in tal senso Cass., n. 6664/1998). Nell’ipotesi in cui, al contrario, la revoca del consenso riguardi la domanda di separazione in senso stretto, l’ammissibilità è condizionata dalla sua proposizione prima dell’udienza presidenziale, nel rispetto dei requisiti di forma della rinuncia alla domanda giudiziale. Le medesime considerazioni valgono per l’accordo posto alla base della richiesta congiunta di divorzio, sempre nell’ottica della valorizzazione della natura negoziale dello stesso, tanto che il Tribunale non può emettere, in questa procedura, una sentenza difforme rispetto alla volontà delle parti, purché siano rispettati tutti i presupposti previsti ex lege. Partendo dalle esposte premesse si può argomentare, ulteriormente, sulla natura negoziale degli accordi di contenuto patrimoniale, i quali possono essere qualificati, a parere della dottrina maggioritaria, come veri e propri contratti di divorzio con conseguente applicazione della disciplina del contratto nei limiti di compatibilità. In tale ottica può essere interpretato il ruolo del Tribunale, di fatto limitato all’accertamento di un «diritto soggettivo potestativo di divorzio» in capo ai coniugi, purché sussistano le condizioni di legge. Inoltre, gli effetti d’ordine patrimoniale derivano direttamente dal contratto di divorzio concluso dai coniugi, rispetto al quale la pronuncia del tribunale assume il mero carattere di omologa emessa all’esito di un procedimento di controllo sul rispetto delle norme inderogabili del vigente ordinamento, nel pieno rispetto della concezione c.d. “privatistica” della separazione consensuale che identifica l’accordo di separazione alla stregua di atto di natura negoziale, rispetto al quale l’omologazione giudiziale è mera condicio iuris di efficacia. A fronte dell’impostazione c.d. privatistica della procedura prodromica all’omologa dell’accordo di separazione consensuale, emerge una questione problematica connessa all’esperibilità o meno, in tale ambito, dell’azione di simulazione di cui all’art. 1414 c.c., nell’ipotesi in cui i coniugi abbiano simulato il raggiungimento di un accordo di separazione, in realtà non rispondente alla loro reale volontà. Le tesi sul tappeto possono enuclearsi in due opposti orientamenti. Secondo l’orientamento prevalente in dottrina è ammessa l’esperibilità dell’azione di simulazione, sulla base della logica connessa alla natura negoziale dell’accordo e alla funzione di condizione di efficacia dell’omologa, evidenziando come lo stesso art. 123 c.c., nell’ammettere expressis verbis l’azione di simulazione relativa all’atto costitutivo del rapporto (il matrimonio), non può non riconoscere il medesimo diritto rispetto all’atto modificativo del rapporto originario. Inoltre, gli effetti dell’omologa giudiziale, e quindi della stessa separazione a norma dell’art. 157 c.c., possono cessare sul presupposto di un’espressa dichiarazione in tal senso dei coniugi ovvero di una riconciliazione per facta concludentia. La giurisprudenza prevalente è, invece, di contrario avviso, come esemplificato da una serie di pronunce di legittimità, fra le quali emerge per importanza la sentenza n. 17607/2003, con la quale la Suprema Corte, mantenendo ferma la natura negoziale dell’accordo che funge da presupposto fondante della separazione consensuale tra coniugi, e al contempo riconoscendo all’omologa una condicio iuris di efficacia, esclude, comunque, l’impugnabilità per simulazione dell’accordo di separazione una volta omologato, non in ragione della natura giuridica dell’accordo o del decreto di omologazione (come tali compatibili con l’azione de qua), quanto piuttosto avuto riguardo agli effetti che l’ordinamento attribuisce al provvedimento giudiziale. Nel caso di specie non si può parlare di vizio della volontà, in quanto i coniugi vogliono conseguire un determinato status giuridico (di separati), dal quale derivano effetti irretrattabili (salva la riconciliazione o il divorzio) tra di loro e nei confronti dei terzi. In tale prospettiva la manifestazione di volontà diretta ad ottenere l’omologa della separazione presuppone l’accettazione degli effetti giuridici che ne discendono e, di conseguenza, non rileva un eventuale precedente accordo simulatorio che viene quindi superato dall’omologazione della separazione, posto che le parti non possono contestualmente richiedere il provvedimento e non accettare la condizione di separati che naturalmente discende dall’omologa della separazione. In altre parole, anche in presenza di un accordo di separazione fittiziamente voluto, la conseguente domanda dei coniugi finalizzata ad ottenere l’omologazione non può che essere manifestazione della reale volontà di ottenere lo status di separati, con conseguente superamento del precedente accordo simulatorio. L’art. 123 c.c., inoltre, viene interpretato dalla Suprema Corte in senso restrittivo, alla stregua di norma che limita l’esperimento dell’azione di simulazione ai soli casi espressamente previsti dall’ordinamento, in cui, se vi rientra l’atto di matrimonio, certamente non quello relativo al provvedimento di separazione. 5. Il trasferimento immobiliare come contenuto eventuale degli accordi di separazione coniugale: inquadramento dogmatico e disciplina applicabile. In particolare, l’assoggettabilità degli atti traslativi a revocatoria ordinaria e fallimentare. 5 Posta la natura negoziale dell’accordo di separazione consensuale omologata, gli interpreti tendono a qualificarlo come un negozio giuridico bilaterale a carattere non contrattuale, nel cui nucleo primario o necessario non si rinviene il carattere della “patrimonialità”, diversamente rispetto al contenuto eventuale in cui il dato patrimoniale riveste una grande importanza pratica. In particolare, i coniugi possono optare per il trasferimento di beni immobili in adempimento all’obbligo di mantenimento e in luogo della prestazione periodica (in tal senso, Cass., 11 novembre 1992, n. 12110, Cass., 15 maggio 1997, n. 4306 e Cass., 17 giugno 2004, n.11342) ovvero con particolare riguardo ai riflessi fiscali (Cass., 20 maggio 2005, n. 11458; Cass., 22 maggio 2002, n. 7493); ovvero costituire diritti reali minori, tra cui, il diritto di abitazione (cfr., in tal senso, già la remota Cass., 12 giugno 1963, n. 1594). Se non sorgono dubbi sulla validità ed efficacia dei suddetti accordi patrimoniali facenti parte del contenuto c.d. eventuale dell’accordo di separazione, i maggiori problemi sono emersi nel tentativo di delineare la natura giuridica di tali fattispecie traslative. La tesi dell’atipicità della causa e, dunque, del contratto, prevalente in giurisprudenza fino al 2004, valorizza la natura negoziale, con forte caratterizzazione di atipicità di dette clausole a contenuto patrimoniale, qualificandole come espressioni di autonomia contrattuale delle parti interessate (cfr. Cass., 2 dicembre 1991, n. 12897), che producono veri e propri contratti atipici, perfettamente leciti in quanto diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela ai sensi dell’art. 1322 c. c. (Cass., 17 giugno 2004, n. 11342; Cass., 11 novembre 1992, n. 12110; Cass., 21 dicembre 1987, n. 9500; Cass., 27 ottobre 1972, n. 3299; con riguardo a clausola inserita in un accordo per la separazione di fatto, Cass., 17 giugno 1992, n. 7470). Le peculiari finalità di tali intese patrimoniali non possono essere ricondotte nè all’interno del paradigma delle convenzioni matrimoniali (essendo a contenuto patrimoniale), né di quello della donazione (essendo evidente l’animus solvendi e non donandi), ma sono di volta in volta piegate alle esigenze dei coniugi al fine di comporre al meglio i reciproci interessi che emergono nella gestione della crisi del rapporto coniugale. In tal senso, la sentenza Cass. civ., sez. II, 17 giugno 2004, n. 11342, ha previsto la possibilità che, in sede di separazione consensuale, il coniuge tenuto a provvedere al mantenimento del figlio minore, possa impegnarsi a trasferire in favore della prole la piena proprietà di un bene immobile, al fine di adempiere all’obbligo di mantenimento nei confronti di quest’ultimo, precisando, inoltre, come tale pattuizione non sia assoggettabile nè alla risoluzione per inadempimento, a norma dell’art. 1453 cod. civ., nè all’eccezione d’inadempimento, ai sensi dell’art. 1460 cod. civ., non essendo ravvisabile, in un siffatto accordo solutorio sul mantenimento della prole, quel rapporto di sinallagmaticità tra prestazioni che è fondamento dell’una e dell’altra, posto che il mantenimento della prole costituisce obbligo ineludibile di ciascun genitore, imposto dal legislatore e non derivante, con vincolo di corrispettività, dall’accordo di separazione tra i coniugi, che può al più contribuire a regolamentare le concrete modalità di adempimento dell’inderogabile obbligo al mantenimento della prole. La tesi della tipicità della causa, invece, trae fondamento dalla pretesa unitarietà della causa, come elemento unificante delle diverse fattispecie negoziali inerenti gli accordi di separazione volti a “ definire gli aspetti patrimoniali della crisi coniugale”. In tal senso sembra esprimersi la Suprema Corte, nella sentenza n. 5473, del 14 marzo 2006, che qualifica i negozi traslativi di diritti durante la crisi coniugale come negozi tipici rispondenti “ad un più specifico e più proprio originario spirito di sistemazione dei rapporti in occasione dell’evento di “separazione consensuale” (il fenomeno acquista ancora maggiore tipicità normativa nella distinta sede del divorzio congiunto)”. In altre parole, la finalità di sistemazione dei rapporti patrimoniali, restando ontologicamente distinta dai principi insiti negli atti di liberalità a carattere donativo, nonché dai negozi traslativi di diritti reali, è caratterizzata da una sua “tipicità “ propria che, di volta in volta, può arricchirsi di elementi di obiettiva onerosità, ovvero di gratuità, in base alla specifica finalità avuta di mira dai coniugi. La questione dell’esperibilità dell’azione revocatoria degli atti di disposizione compiuti da un coniuge in adempimento dell’accordo di separazione consensuale omologata, è stata positivamente risolta dalla giurisprudenza di legittimità, tanto con riferimento alla revocatoria ordinaria (Cass., 23 maggio 2004, n. 5741 e Cass. n.5473/2006 cit.) quanto con riguardo alla revocatoria fallimentare (Cass., 12 aprile 2006, n. 8516). Le argomentazioni su cui si basa la soluzione propensa ad ammettere la revocatoria tanto ordinaria che fallimentare degli accordi patrimoniali integranti l’accordo di separazione dei coniugi, traggono origine: - dalla natura negoziale degli accordi patrimoniali tra coniugi in sede di separazione consensuale, anche dopo l’intervento del decreto di omologa, il quale funge da mera condicio iuris di efficacia, rispetto agli accordi stessi; - dalla piena validità delle clausole che, all’interno della regolamentazione dei rapporti consequenziali alla separazione, prevedano il trasferimento di beni immobili o la costituzione di diritti reali minori; - dalla concreta possibilità di lesione dell’interesse dei creditori all’integrità della garanzia patrimoniale del 6 coniuge obbligato, in conseguenza dell’adempimento degli accordi di natura prettamente patrimoniale. Con particolare riguardo alla revocatoria ordinaria, la sentenza n. 5741 del 2004, precisa che ai fini della qualificazione dell’atto a titolo oneroso, anziché a titolo gratuito, è necessaria una stringente verifica volta ad accertare, in concreto, la sussistenza della funzione solutorio-compensativa, come ad es. il pagamento di un preesistente e ben individuato credito maturato dal coniuge (in termini anche la già citata sentenza n. 5473/2006). La sentenza della S.C. n. 8516 del 2006, inoltre, statuisce che in tanto l’azione revocatoria può essere agevolmente esperita, in quanto sia finalizzata ad aggredire ogni lesione alle legittime pretese dei creditori, senza però mettere in discussione la sussistenza dell’obbligo in sé che sussista, per espressa volontà della legge, in capo ai coniugi. In altre parole, ciò che può divenire oggetto di revocatoria ordinaria o fallimentare riguarda unicamente le modalità di assolvimento degli obblighi dei coniugi, quali stabilite dagli stessi nell’ambito dell’autonomia negoziale che connota le intese c.d. eventuali dell’accordo di separazione. Un ulteriore argomento, infine, riguarda l’equivoco sorto in merito alla pretesa inscindibilità della pattuizione attributiva di beni immobili (in quanto correlata all’adempimento dell’obbligo di mantenimento, oggetto del contenuto necessario dell’accordo) dal complesso delle altre condizioni della separazione, poiché, in realtà, non è corretto discutere di revocatoria “della” separazione, bensì di revocatoria “nella” separazione. In particolare, vengono colpiti dall’azione revocatoria solo gli atti, insiti nella separazione ma comunque autonomi rispetto agli altri segmenti che concorrono a delineare il complesso degli accordi di separazione, capaci di creare un vulnus alle aspettative e alle ragioni dei creditori. Inoltre, anche espungendo dall’accordo determinati accordi di natura patrimoniale, dichiaratamente lesivi degli interessi del ceto creditorio, non viene meno l’equilibrio dei rapporti fra i coniugi separati, di cui l’accordo di separazione costituisce la massima espressione. Il coniuge che possa provare di aver subito una modifica peggiorativa della propria posizione a seguito del vittorioso esperimento dell’azione revocatoria, potrà, comunque, agire per la modifica delle condizioni di separazione allegando la suddetta modifica quale fatto sopravvenuto idoneo a legittimare la revisione delle residue condizioni della separazione, a norma dell’art. 711 c.p.c., comma 5” (in termini, da ultimo, Cass. civ., 13 maggio 2008, n.11914). 7