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Il mito vegetariano
Lierre Keith
Il mito vegetariano
Cibo, giustizia, sostenibilità:
non bastano le buone intenzioni
Edizione italiana e traduzione a cura di Paolo Perucci
IL MITO VEGETARIANO
Titolo originale: The Vegetarian Myth
Copyright © Lierre Keith
Copyright © 2015 by Sonzogno di Marsilio Editori® s.p.a. in Venezia
Prima edizione: ottobre 2015
ISBN 978-88-454-2605-6
www.sonzognoeditori.it
Ad Annemarie Monahan, uno dei miei animali preferiti,
e
alla memoria di Terry Lotz
Indice
IL MITO VEGETARIANO
11 Prefazione
15
30
128
180
302
1. Perché questo libro?
2. I vegetariani per motivi etici
3. I vegetariani per motivi politici
4. I vegetariani per motivi nutrizionali
5. Salvare il mondo
335 Ringraziamenti
337 Appendice. Sintomi dell’ipoglicemia
339 Risorse
343 Note
367 Bibliografia
9
Prefazione
È
davvero raro imbattersi in un libro di questa intensità e
bellezza.
Tutti gli argomenti sono impregnati di una passione e di
un coraggio, sia fisico sia intellettuale, che lascia quasi senza
parole, e coinvolge in profondità.
E gli aspetti trattati sono davvero tanti, tutti di grande rilevanza e di assoluta attualità.
Come dovremmo nutrirci per una salute ottimale?
Come e dove sarebbe giusto che ci procurassimo il cibo?
Di quali interventi ha bisogno il pianeta prima che sia troppo tardi?
Come andrebbero allevati gli animali?
L’ideologia vegetariana fornisce risposte valide?
E quella vegana?
Quale sarebbe un comportamento alimentare davvero sostenibile?
Come salvare le economie locali?
E la varietà delle specie animali e vegetali?
Come ovviare alle ingiustizie sociali provocate da una certa
distribuzione del cibo?
E alla fame nel mondo?
Come dovremmo batterci per ottenere risultati efficaci?
Non esistono risposte semplici e definitive, quasi mai.
È però indispensabile, per formarsi un’opinione degna
di questo nome – che consenta di compiere delle scelte
sagge, motivate e coraggiose – essere informati. Molto più
11
di quanto non creda di esserlo la maggioranza delle persone comuni e, purtroppo, anche una quota cospicua dei cosiddetti esperti.
Viviamo in un periodo caratterizzato da un gran parlare di
diete, di riscaldamento globale, d’inquinamento, di “nutrire il
pianeta” (vedi Expo 2015), di epidemie di obesità e altre patologie della civilizzazione, ma molto raramente viene posto
l’accento sulle questioni che sono davvero alla radice di tutti
questi problemi, e di molti altri ancora.
L’autrice, forte della sua ventennale esperienza come vegana e ambientalista, e di ricerche vaste e approfondite, ha
imparato a conoscere a fondo l’argomento, dopo aver pagato
di persona un prezzo molto elevato.
È stata costretta dalla realtà psicofisica in cui si era ridotta
ad aprire gli occhi, e a porsi le domande di sempre da un punto di vista diverso dopo aver raccolto le informazioni che le
mancavano.
Sono proprio le informazioni che fanno davvero la differenza, perché le hanno consentito di rendersi conto di quanta
ignoranza ci fosse dietro le sue scelte, di capire che aveva fondato un mondo, un’identità, su suggestioni avulse dalla realtà
naturale delle cose. Quella realtà, quel corpo e quella natura,
che così ardentemente desiderava, e desidera con tutto il cuore salvaguardare.
Chiama giustamente il nuovo stadio della sua esistenza
“conoscenza adulta”, che le è costata sacrifici enormi, ma le
ha consentito di riconciliarsi con il suo corpo e di dare una
nuova impronta alle sue fortissime motivazioni ambientaliste,
femministe e a favore dei diritti civili.
Ha ritenuto, e dovremmo essergliene tutti molto grati, di
dover condividere con il maggior numero possibile di persone
il suo percorso verso una posizione adulta e responsabile, che
fosse anche fondata sulle acquisizioni scientifiche più serie.
Sapendo quanto fuorvianti siano le indicazioni che ci vengono proposte da parte della pubblicità, dei media, delle autorità sia sanitarie sia politiche in senso lato, e dalle multinazionali del cibo e dei farmaci, ci ha voluto fornire una mole davvero notevole di strumenti che, se si ha il coraggio di utilizzar12
li, potrebbero consentirci di migliorare la nostra esistenza e
quella del pianeta.
Sono anch’io convinto che tante persone serie e impegnate commettano errori “soltanto” perché nessuno ha mai fornito loro le informazioni giuste.
In questo libro ne sono concentrate un numero tale da lasciare allibiti e affascinati al contempo.
Qualcuno ha scritto che chiunque mangia dovrebbe leggere questo libro: è assolutamente vero. Come ci alimentiamo è
la variabile più rilevante nel determinare quanto lunga e piena di salute potrà essere la nostra vita.
Chiunque abbia a cuore il futuro del pianeta trarrà informazioni che difficilmente sono disponibili altrove.
Chi vuole opporsi ai giganti che controllano la quasi totalità dell’industria del cibo, e condizionano pesantemente le politiche nazionali, la scienza e la nostra stessa integrità fisica
– oltre a distruggere il pianeta – sarà in grado di comprenderne meglio i meccanismi e determinare quali siano le strategie
più efficaci.
Abbiamo un solo corpo e un solo ambiente, e non siamo di
solito attrezzati per sapere davvero cosa vada fatto per ovviare
a tutti i colossali problemi che si vanno evidenziando sempre
più rapidamente nelle nostre società “civilizzate”.
Dopo aver letto questo libro, sarete sicuramente muniti di
strumenti migliori per rivedere con attenzione e consapevolezza almeno alcune delle vostre posizioni.
Con grande vantaggio per tutti.
Dr. Paolo Perucci
Medico nutrizionista
www.lazona.it
Uno degli autori più citati in questo libro è Gary Taubes, con il suo atteggiamento di critica scientifica ai più comuni tra i miti dell’alimentazione e della salute. Il testo in cui sono raccolte tutte le sue fondamentali considerazioni è disponibile in italiano con il titolo: Perché si diventa
grassi (Sonzogno, 2014). Da non perdere.
13
1
Perché questo libro?
N
on è stato un libro facile da scrivere. E per molti di voi
non sarà un libro facile da leggere. Lo so. Sono stata una
vegana per quasi vent’anni. Conosco bene le ragioni che mi
hanno portato a adottare una dieta estrema, e sono onorevoli, perfino nobili. Ragioni quali la giustizia, la compassione, una bramosia disperata e onnicomprensiva di mettere a
posto il mondo. Di salvare il pianeta: gli ultimi alberi che
testimoniano il trascorrere del tempo, i pezzi di natura selvaggia che ancora consentono la sopravvivenza di specie in
via d’estinzione, silenziose nelle loro pellicce e piume. Di
proteggere chi è vulnerabile e senza voce. Di nutrire chi ha
fame. E da ultimo, di non partecipare all’orrore dell’allevamento intensivo.
Queste passioni politiche hanno avuto origine da una fame
così profonda da sconfinare nella spiritualità. O almeno questo era il mio sentire, e non è cambiato. Voglio che la mia vita
sia un grido di battaglia, una zona di guerra, una freccia puntata e scagliata verso il cuore della dominazione: la società
patriarcale, l’imperialismo, l’industrializzazione, ogni sistema
di potere sadico. Se queste immagini marziali vi disturbano,
posso riformulare il concetto: voglio che la mia vita, il mio
corpo, sia un luogo nel quale la terra è rispettata, non divorata; dove non c’è posto per il sadismo, e dove la violenza si
ferma. E voglio che il mangiare – il primo degli accudimenti –
sia un atto che dia forza anziché uccidere.
Questo libro è stato scritto per portare avanti queste passioni, questa fame.
Non è un tentativo di deridere chi sostiene i diritti degli
15
animali, né chi desidera un mondo più gentile. Al contrario, è
il tentativo di rendere omaggio ai nostri più profondi desideri
di vivere in un mondo più giusto.
Questi desideri – di compassione, di sostenibilità e di una
distribuzione più equa delle risorse – non trovano una risposta nella filosofia o nella pratica del vegetarianismo. Siamo
stati fuorviati. I Pifferai Magici vegetariani hanno le migliori
intenzioni. Anticipo qui quanto ripeterò in seguito: tutto quello che sostengono sull’allevamento intensivo è vero. È crudele, dispendioso e distruttivo.
Niente in questo libro è finalizzato a giustificare o a promuovere le pratiche adottate dalla produzione industriale di
cibo, a nessun livello.
Ma il primo errore consiste nel ritenere che l’allevamento
intensivo – una pratica utilizzata da meno di cinquant’anni –
sia l’unico modo di allevare gli animali.
I calcoli relativi al consumo di energia, alle calorie consumate, alla quantità di esseri umani non nutriti, sono tutti basati sul concetto che gli animali mangino i cereali.
Si possono anche nutrire gli animali con i cereali, ma non
è questa l’alimentazione con la quale si sono evoluti. I cereali
non esistevano fintanto che l’uomo non ha imparato a coltivare le erbe annuali, al massimo 12.000 anni fa, mentre l’uro
– il progenitore selvatico della mucca domestica – era già presente sulla terra da due milioni di anni. Per la maggior parte
della nostra storia gli erbivori non sono stati in competizione
con gli esseri umani. Mangiavano quello che non possiamo
utilizzare come cibo – la cellulosa – e la convertivano in sostanze di cui possiamo nutrirci: le proteine e i grassi. I cereali
incrementano notevolmente la velocità di crescita del bestiame (c’è un motivo per cui viene utilizzata l’espressione “ingrassato a granoturco”) e la produzione di latte delle mucche.
Ma questo modo di alimentare gli animali finirà con l’ucciderli. Il delicato equilibrio batterico del rumine di una mucca diventa acido e si infetta.
Le galline sviluppano la steatosi epatica se alimentate
esclusivamente a cereali, e non hanno bisogno di alcun ce­
rea­le per sopravvivere. Le pecore e le capre, anch’esse rumi16
nanti, non dovrebbero mai nemmeno entrare in contatto con
quegli alimenti.
Questo malinteso nasce dall’ignoranza, un’ignoranza che
percorre in lungo e in largo il mito vegetariano, coinvolge l’essenza dell’agricoltura e quella della vita stessa. Noi siamo cittadini industrializzati e non conosciamo le origini del nostro
cibo. Ciò include i vegetariani, malgrado essi sostengano di
possedere la verità. Me compresa, per vent’anni. Chiunque
mangiasse carne commetteva un errore: solo io avevo capito
davvero come stavano le cose. Sicuramente la maggior parte
delle persone che si nutrono di carne proveniente da allevamenti intensivi non si è mai domandata che cosa sia morto, e
come. Ma, francamente, lo stesso vale per la maggior parte
dei vegetariani.
La verità è che l’agricoltura è l’attività più distruttiva che gli
esseri umani abbiano imposto al pianeta, e continuare a diffonderla non ci salverà. La verità è anche che l’agricoltura
comporta la completa distruzione d’interi ecosistemi. La verità è che la vita non è possibile senza la morte, e che – indipendentemente da ciò che mangiate – qualcuno deve morire per
alimentarvi.
Voglio un resoconto completo che vada ben oltre ciò che
di morto c’è nel vostro piatto. Voglio essere a conoscenza di
ogni cosa che è deceduta durante l’intero procedimento, ogni
cosa che è stata uccisa per portare quel cibo sulla vostra tavola. Questa è la domanda più radicale, ed è la sola domanda
che ci possa portare alla verità. Quanti fiumi sono stati interrotti da dighe o prosciugati, quante praterie arate e quante
foreste abbattute, quanto humus1 è stato ridotto in polvere
ed è volato via?
Voglio notizie di tutte le specie – non solo degli individui
ma delle intere specie – i chinook,2 il bisonte, il passero locustella, i lupi grigi. E voglio di più che il semplice conteggio di
quanti ne sono morti o andati via. Li rivoglio indietro.
Il mangiare ­soia non li farà tornare, per quanto serio e onesto possa essere chi ve l’ha detto. Il 98% delle praterie americane è scomparso per lasciar posto a monocolture di cereali
17
annuali. In Canada gli aratri hanno distrutto il 99% dell’humus originario.3 In effetti, la scomparsa dell’humus «rivaleggia col riscaldamento globale quanto a pericolo ambientale».4
Quando la foresta pluviale viene abbattuta per alimentare il
bestiame, i progressisti ne sono scandalizzati, sono consapevoli e pronti al boicottaggio. Ma il nostro attaccamento al mito vegetariano ci rende silenziosi, inquieti, e in definitiva immobilizzati, quando il responsabile è il grano, e la vittima la
prateria. Abbiamo abbracciato come un articolo di fede il vegetarianismo pensando che fosse la strada verso la salvezza,
per noi e per il pianeta. Com’è possibile che risulti contemporaneamente distruttivo?
Dobbiamo deciderci ad affrontare le risposte. Ciò che si
profila tra le ombre della nostra ignoranza, e del nostro rifiuto, è una critica alla civilizzazione stessa. Il punto di partenza
può anche essere ciò che mangiamo, ma la conclusione
dev’essere un intero modo di vivere, un’organizzazione globale del potere, e non una piccola quantità di attaccamento
personale a esso. Mi ricordo di un giorno in quarta elementare quando miss Fox scrisse due parole sulla lavagna: civilizzazione e agricoltura. Me lo ricordo per il tono della sua voce,
la solennità delle parole, la spiegazione che rasentava la retorica. Si trattava di qualcosa di Importante, con la i maiuscola,
e io avevo capito. Tutto ciò che di buono c’è nella cultura
umana ha avuto origine dall’agricoltura: tutta la tranquillità,
la grazia, la giustizia. La religione, la scienza, la medicina e
l’arte erano nate, e potevano essere vinte le battaglie senza
fine contro la fame, la malattia e la violenza; e tutto ciò perché gli esseri umani avevano trovato il modo di far crescere il
proprio cibo.
La verità è che l’agricoltura ha provocato una perdita netta
nell’ambito dei diritti e della cultura umani: schiavitù, imperialismo, militarismo, divisioni di classe, fame cronica e malattie. «Il vero problema, quindi, non è chiarire come mai alcuni popoli siano stati più lenti di altri nell’adottare l’agricoltura, serve piuttosto capire perché sia stata intrapresa, considerato che è così ovviamente brutale» scrive Colin Tudge
della London School of Economics.5 L’agricoltura è anche ri18
sultata devastante per le altre creature con le quali condividiamo la terra, e in definitiva per i sistemi di supporto della vita
del pianeta stesso. Molte sono le questioni in gioco. Se desideriamo un mondo sostenibile, dobbiamo essere disposti a
esaminare tutte le relazioni di potere che costituiscono il mito
sul quale si basa la nostra cultura. Dovessimo dimenticare
qualche aspetto saremmo destinati a fallire.
Porsi domande a questo livello è difficile per la maggioranza delle persone. In questo caso, il conflitto emotivo inevitabile quando si oppone resistenza nei confronti di qualunque egemonia è aggravato dalla nostra dipendenza dalla civilizzazione, e dall’individuale impotenza ad arrestarla. La maggior parte di noi non avrebbe alcuna probabilità di sopravvivere se le infrastrutture industriali dovessero venir meno domani. E la nostra consapevolezza è parimenti ostacolata dalla
nostra impotenza. Non troverete nell’ultimo capitolo una lista delle Dieci Semplici Cose da fare perché, in tutta onestà,
non esistono dieci semplici cose che salveranno la terra. Non
c’è una soluzione individuale. C’è piuttosto una complessa
rete di modifiche gerarchiche, vasti sistemi di potere che devono essere affrontati e demoliti. Possiamo non essere d’accordo su quale sia il modo migliore per farlo, ma dobbiamo
farlo, se vogliamo che la terra abbia una qualche possibilità di
sopravvivere.
In definitiva tutta la determinazione di questo mondo risulterà inutile in assenza di sufficienti informazioni per tracciare una rotta percorribile, sia personalmente sia politicamente. Uno dei miei obiettivi nello scrivere questo libro è di
fornire tali informazioni. La grande maggioranza della popolazione degli Stati Uniti non produce cibo, e tanto meno lo
caccia o lo raccoglie.6 Non abbiamo modo di renderci conto di
quanta morte sia contenuta in una porzione di insalata, in una
ciotola di frutta o in un piatto di carne. Abitiamo in ambienti
urbani, nell’ultimo sussurro delle foreste, migliaia di chilometri lontani dai fiumi devastati, dalle praterie, dalle paludi, e da
milioni di creature che sono morte per garantirci le nostre cene. Non abbiamo neppure idea di quali domande porci per
scoprirlo.
19
Nel suo libro Long Life, Honey in the Hearth, Martin Pretchel
scrive del popolo Maya e del loro concetto di kas-limaal, che
può essere tradotto approssimativamente come «indebitamento reciproco, contributo reciproco»,7 «Il sapere che ogni
animale, pianta, persona, vento e stagione è in debito con i
frutti di qualunque altro essere vivente è una conoscenza
adulta. Essere senza debiti significa che non vuoi essere parte
della vita, e che non vuoi crescere ed essere adulto» spiega
uno degli anziani a Pretchel.
L’unica strada per uscire dal mito vegetariano passa attraverso la ricerca del kas-limaal, della conoscenza adulta. Questo è un concetto di cui abbiamo bisogno, soprattutto coloro
tra noi che hanno a cuore le ingiustizie. Io so di averne avuto
bisogno. Nella storia della mia vita, il primo morso di carne
dopo i miei vent’anni di privazione segnò la fine della mia
giovinezza, il momento nel quale ho cominciato ad assumere
le responsabilità dell’età adulta. È stato il momento in cui ho
smesso di combattere contro il concetto di base: per qualcuno
che vive, qualcun altro deve morire. Nell’accettazione di questo dato di fatto, con tutta la sofferenza e la pena che comporta, è contenuta la possibilità di scegliere una via differente,
una via migliore.
Gli allevatori consapevoli hanno un approccio molto diverso da quello degli scrittori nel condurci lungo la strada che
dalla distruzione porta alla sostenibilità. Questi allevatori agiscono disponendo di informazioni completamente differenti.
Ho sentito attivisti vegetariani sostenere che un acro di terra8
è sufficiente per due sole galline. Joel Salatin, uno dei Grandi
Sacerdoti dell’allevamento sostenibile – che alleva veramente
galline – sostiene che il numero reale è di 250 per acro.9 A chi
preferite credere? Quanti di noi ne sanno abbastanza da poter
avere anche solo un’opinione? Frances Moore Lappé afferma
che ci vogliono da 5,5 a 7,2 chilogrammi di cereali per ogni
450 grammi di carne.10 Invece, Joel Salatin alleva bestiame
senza usare affatto i cereali, facendo ruotare i ruminanti su
pascoli dove crescono spontaneamente molte varietà di erbe
perenni, contribuendo così – anno dopo anno – alla formazione di nuovo humus.
20
Noi che apparteniamo alle culture urbane industrializzate
non abbiamo nessun rapporto con i cereali, le galline, le mucche, e tanto meno con l’humus. Non abbiamo le basi, fondate
sull’esperienza, per controbattere alle argomentazioni dei vegetariani per motivi politici. Non abbiamo alcuna idea di cosa
si nutrano le piante, gli animali o il terreno, e in quali quantità. Il che significa che non abbiamo la più pallida idea di cosa
noi stessi stiamo mangiando.
Affrontare le verità relative all’allevamento intensivo – che
comporta un trattamento degli animali crudele, e un pesante
pedaggio ambientale – è stato per me, all’età di 16 anni, un
fatto di profonda importanza. Sapevo che la terra stava morendo. Era un’emergenza giornaliera contro la quale mi sarei
battuta per sempre. Sono nata nel 1964. Il silenzio senza vita
e l’annuale rinascita della natura erano per me concetti inseparabili. L’inferno era qui, nelle raffinerie di petrolio del Nord
del New Jersey, nello sviluppo tentacolare dell’asfalto nelle
periferie, nella crescente ondata di esseri umani che stava sommergendo il pianeta. Ho pianto con Iron Eyes Cody, desiderato ardentemente la sua canoa silenziosa e un continente
incontaminato ricco di fiumi e paludi, uccelli e pesci. Mio fratello e io ci arrampicavamo su un vecchio melo selvatico nel
parco locale, e fantasticavamo su come avremmo potuto comprare un’intera montagna. Nessun altro era ammesso, non
servivano discussioni. Chi avrebbe potuto vivere in quel posto? Gli scoiattoli, era la sola risposta che avrei potuto fornire.
Lettore, non ridere. Non considerando Bobby, il nostro criceto, gli scoiattoli erano gli unici animali che avessi mai visto.
Mio fratello, dando sfogo alla sua mascolinità, cominciò a
torturare gli insetti e a tirare con la fionda ai passeri. Io divenni vegana.
Sì, ero una bambina particolarmente sensibile. La mia canzone preferita a cinque anni – e qui siete autorizzati a ridere –
era Those Were the Days di Mary Hopkin. Per quale tragico e
romantico passato avrò mai potuto piangere all’età di cinque
anni? Ma quella canzone era così triste, così intensa: potevo
ascoltarla in continuazione fino a ritrovarmi esausta per il
gran piangere.
21
D’accordo, è buffo. Ma non posso ridere del dolore che
provavo per essere una testimone impotente della distruzione del mio pianeta. Quello era un fatto reale, e mi opprimeva. E i vegetariani politici mi offrirono un conforto irresistibile. Senza alcuna comprensione della natura dell’agricoltura, della natura della natura o – in definitiva – della natura
della vita stessa, non avevo alcun modo per sapere che, per
quanto oneste fossero le loro motivazioni, la ricetta proposta
conduceva alla stessa distruzione che desideravo ardentemente bloccare.
Questo genere di motivazioni, abbinate alla mancanza di
adeguata conoscenza, sono proprie del mito vegetariano.
Per due anni, dopo essere tornata a mangiare carne, mi sentii obbligata a seguire le conversazioni tra vegani sulla rete.
Non so dire perché. Non stavo cercando uno scontro. Non
ho mai scritto nulla di mio. Molte sottoculture piccole e appassionate sono pervase da elementi che rasentano il culto,
e il veganesimo non fa eccezione. È possibile che questo mio
impulso fosse in relazione col mio stato confusionale: spirituale, politico, personale. Forse stavo tornando a visitare il
luogo dell’incidente: era qui che avevo distrutto il mio corpo.
Oppure mi ponevo delle domande, e volevo capire se ero in
grado di tener testa alle risposte che una volta avevo convintamente condiviso, risposte che erano sembrate corrette,
mentre adesso apparivano vuote. O forse non ne conosco il
perché. Questo mi lasciava ansiosa, arrabbiata e disperata
ogni volta.
Un intervento in particolare segnò un punto di svolta. Un
vegano propose la sua idea di prevenire che gli animali fossero uccisi, non dagli esseri umani ma dagli altri animali.
Qualcuno avrebbe dovuto costruire una recinzione nel mezzo del Serengeti e dividere così i predatori dalle prede. Uccidere è sbagliato, e nessun animale dovrebbe mai morire;
quindi i grossi felini e i canidi selvatici dovrebbero essere confinati da una parte, mentre gli gnu e le zebre dovrebbero vivere dall’altra. Costui sosteneva di sapere che i carnivori sarebbero stati bene perché non avevano bisogno di essere tali.
È una menzogna messa in giro dall’industria della carne. Lui
22
stesso aveva visto il proprio cane mangiare l’erba, e quindi i
cani – diceva – possono vivere di erba.
Nessuno fece obiezioni. Anzi, altri si accodarono. «Anche
il mio gatto mangia l’erba» scrisse una donna piena di entusiasmo. «Anche il mio lo fa!» aggiunse qualcun altro. Tutti
concordavano sul fatto che erigere una recinzione sarebbe
stata la soluzione per evitare la morte degli animali.
È bene notare che il luogo in cui si sarebbe dovuto realizzare questo progetto salvifico era l’Africa. Nessuno fece menzione del fatto che sia i carnivori sia i ruminanti sono stati
fatti sparire dalle praterie del Nord America per far posto alle
coltivazioni dei cereali di cui si nutrono i vegetariani. Tornerò
sull’argomento nel capitolo 3.
Ne sapevo abbastanza per capire quanto ciò fosse folle. Ma
nessun altro in quel contesto era stato in grado di intravedere
qualche errore in questo schema. Quindi, partendo dal presupposto che molti lettori manchino delle conoscenze che
servono per giudicare questo piano, mi accingo ad accompagnarvi in questa critica.
I carnivori non sono in grado di sopravvivere nutrendosi di
cellulosa. È possibile che occasionalmente mangino erba, ma
ne fanno un uso medicinale, solitamente come purgante per
liberare dai parassiti il loro apparato digerente. I ruminanti,
invece, si sono evoluti per mangiare erba. Dispongono di un
rumine (da cui deriva il termine ruminante), il primo di una
serie di stomaci che agiscono da contenitori per la fermentazione. Ciò che effettivamente avviene all’interno di una mucca, o di una zebra, è che i batteri mangiano l’erba, e gli animali mangiano i batteri.
I leoni, le iene e gli esseri umani non dispongono dell’apparato digerente dei ruminanti. In realtà, dai nostri denti fino
al retto, siamo fatti per mangiare carne.11 Non abbiamo alcun
meccanismo che ci consenta di digerire la cellulosa.
E quindi, dalla parte della recinzione dove sono relegati i
carnivori, tutti gli animali saranno destinati alla fame. Alcuni
potranno sopravvivere più a lungo di altri, e costoro finiranno
i loro giorni come cannibali. I saprofagi potranno godere di
una festa da Martedì Grasso, ma – quando tutte le ossa saran23
no state ripulite – patiranno la fame anche loro. E il cimitero
non si ferma qui: senza gli erbivori che brucano l’erba, la terra
finirà per diventare un deserto.
Perché? Perché in assenza degli erbivori che mantengono
livellati i campi, le piante perenni crescono e mettono in ombra la propria base. In un ambiente fragile quale il Serengeti,
la decomposizione è prevalentemente fisica (agenti atmosferici) e chimica (ossidativa), non batterica e biologica come in
un ambiente umido. In realtà, i ruminanti sono responsabili
della maggior parte delle funzioni biologiche del terreno digerendo la cellulosa e restituendo i nutrienti, ora di nuovo
disponibili, sotto forma di urine e feci.
Senza i ruminanti, la vegetazione tenderà a crescere in eccesso, poi ridurrà la crescita e infine inizierà a uccidere le
piante. La nuda terra è a questo punto esposta al vento, al
sole e alla pioggia, i minerali vengono lavati via e la struttura
del terreno distrutta. Nel nostro tentativo di salvare gli animali avremo ucciso ogni cosa.
Dalla parte della recinzione dove sono stati relegati i ruminanti, gli gnu e i loro amici si riprodurranno con la stessa efficacia di sempre. Ma senza la selezione dei predatori, ci saranno rapidamente più erbivori che erba. Gli animali saranno
troppi per la loro fonte di cibo, mangeranno le piante fino
alla base e finiranno col morire di fame, lasciandosi dietro un
pae­sag­gio seriamente degradato.
La lezione qui è ovvia, sebbene sia abbastanza profonda da
ispirare una religione: noi abbiamo bisogno di essere mangiati tanto quanto di mangiare. Gli erbivori hanno bisogno della
loro cellulosa giornaliera, ma anche l’erba necessita degli animali: del concime, che contiene azoto, minerali e batteri; del­
l’azio­ne meccanica del brucare; e richiede anche quelle risorse
accumulate nei corpi degli animali che vengono liberate dai
processi di putrefazione quando gli animali muoiono.
L’erba e gli erbivori hanno bisogno gli uni degli altri, così
come i predatori e le prede. Non esistono correlazioni a senso
unico, e neanche situazioni di dominanza e subordinazione.
Mangiando non ci stiamo sfruttando gli uni con gli altri. Stiamo semplicemente facendo i turni.
24
Quella è stata la mia ultima visita ai forum vegani. Mi sono
resa conto in quel momento che persone così profondamente
ignoranti della natura della vita – con il suo ciclo minerale e lo
scambio di carbonio, il suo equilibrio intorno a un’antica rotazione di produttori, consumatori e organismi che degradino – non sarebbero state in grado di farmi da guida, o di
prendere una qualsiasi decisione utile a una cultura umana
sostenibile. Allontanandosi dalla conoscenza adulta, la conoscenza che prevede che la morte sia radicata nel sostentamento di qualunque creatura – dai batteri ai grizzly – non
saranno mai in grado di nutrire la fame emotiva e spirituale
che mi provocava dolore da quando avevo accettato quel sapere. Può darsi che alla fine questo libro sia un tentativo di
lenire questa mia sofferenza.
*
Ho altri motivi per scrivere questo libro. Uno è la noia.
Sono stanca di sostenere le stesse discussioni, specialmente
quando non sono facili da condurre. I vegetariani possono
sintetizzare il loro programma in poche semplici parole – la
carne è un omicidio – e soluzioni che si spiegano da sole, come quella che riguarda i 7,2 chilogrammi di grano. Io potrei
controbattere con i miei slogan (le monocolture sono un omicidio? La marcia del milione di microbi?), ma non sono comprensibili per il normale pubblico. Debbo partire dal principio,
dalle prime proteine che si organizzano per dare adito alla
vita, passando poi alla fotosintesi, alle piante, agli animali, ai
batteri, al suolo, per arrivare all’agricoltura. Io chiamo questa
chiacchierata «microbi, concime e monocolture» e mi servono
trenta minuti buoni per la premessa, che è essenzialmente
un’educazione di base sulla natura della vita. È vero, queste
sono informazioni – materiali, emotive, spirituali – che noi
tutti avremmo dovuto ricevere prima dei quattro anni di età.
Ma chi è rimasto che possa insegnarcele? E non è forse vero
che tutto ciò che c’è di sbagliato in questa cultura è contenuto
in quella domanda?
Ma non è solo la quantità d’informazioni che rende diffi25
cile la discussione. Spesso l’interlocutore non le vuole sentire,
e la resistenza può essere estrema. Il termine “vegetariano”
non riguarda soltanto ciò che mangi e neppure ciò in cui credi. Concerne il chi sei ed è un’identità totalizzante. Io non sto
mettendo in discussione soltanto una filosofia, o un insieme
di comportamenti alimentari. Io sto minacciando l’idea che
un vegetariano ha di se stesso. La maggior parte di voi reagirà
mettendosi sulla difensiva e arrabbiandosi. Ho ricevuto lettere piene di odio ancora prima di aver cominciato questo libro.
E no, grazie, non ho bisogno di riceverne altre.
Ma sto anche scrivendo questo libro perché sia una storia
che serva da ammonimento. Una dieta vegetariana – soprattutto una versione a basso contenuto di grassi, e in modo particolare una dieta vegana – non fornisce un’alimentazione
sufficiente per il mantenimento in buone condizioni del corpo
umano nel lungo periodo. Per parlar chiaro: vi danneggerà. Io
lo so. Dopo due anni da quando ho intrapreso la dieta vegana la mia salute è peggiorata, e l’ha fatto in modo catastrofico. Ho sviluppato una patologia degenerativa delle articolazioni che mi accompagnerà per il resto della vita. È cominciata quella primavera come uno strano, fastidioso dolore profondo in una sede che non sapevo potesse risultare sensibile.
Per la fine dell’estate sembrava che ci fossero delle schegge
nella mia spina dorsale.
Seguirono anni di dolore sempre crescente, e anche più
frustranti visite da vari specialisti. Ci sono voluti quindici anni
per avere una diagnosi al posto di una pacca sulla testa. La
spina dorsale di una teenager non cade a pezzi senza una ragione eppure, malgrado la mia perfetta descrizione dei sintomi, nessuno dei medici prese in considerazione la discopatia
degenerativa.
Adesso ho le radiografie e mi viene prestata attenzione. La
mia spina dorsale assomiglia a un incidente aereo.
Dal punto di vista nutrizionale questo è quanto è successo.
Dopo sei settimane di dieta vegana sperimentai il mio primo episodio d’ipoglicemia, sebbene non abbia imparato come classificarla prima che fossero passati diciotto anni, e fosse
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diventata parte della mia vita. Dopo tre mesi di dieta le mie
mestruazioni cessarono, il che avrebbe dovuto costituire un
indizio del fatto che probabilmente non si era trattato di una
buona scelta. Nello stesso periodo cominciò anche la spossatezza, e continuò a peggiorare insieme alla sempre presente
sensazione di freddo. La mia pelle era così secca che si desquamava, e durante l’inverno mi doleva così tanto da tenermi sveglia la notte. All’età di ventiquattro anni ho sviluppato
la gastroparesi, che – ancora una volta – non è stata diagnosticata né curata fino all’età di trentotto anni, quando mi affidai a un medico che si occupava del recupero dei vegani. Sono stati quattordici anni di nausea costante, e ancora adesso
non posso mangiare dopo le cinque del pomeriggio.
A tutto ciò si sommavano la depressione e l’ansia. Discendo da una lunga e venerabile progenie di alcolisti depressi,
quindi – ovviamente – non ho ereditato la migliore genetica
per la salute mentale. L’ultima cosa di cui avevo bisogno era
la malnutrizione. Il veganesimo non è stata la sola causa della
mia depressione, ma certamente ha contribuito in modo rilevante. Sono trascorsi lunghi anni durante i quali il mondo era
costituito da un peso grigio e inutile, sempre uguale a se stesso, costellato esclusivamente da occasionali attacchi di panico. Ero frequentemente annientata dall’impotenza. Se non
riuscivo a trovare le chiavi di casa, mi accasciavo sul pavimento del soggiorno, immobilizzata sull’orlo dell’abisso. Come
potevo andare avanti? Che voglia ne avevo? Le chiavi erano
perse e io con loro, insieme al mondo e all’intero cosmo. Tutto era crollato, vuoto, privo di significato, quasi ripugnante.
Sapevo che non era un atteggiamento razionale, ma non riuscivo a uscirne fintanto che non aveva fatto il suo corso. E
adesso so perché. La serotonina è prodotta a partire dall’aminoacido triptofano. Inoltre, tutto il triptofano del mondo non
comporterà alcun miglioramento in assenza di grassi saturi,
che sono necessari per consentire ai neurotrasmettitori di
funzionare. Tutti quegli anni di collasso emotivo non erano
dovuti a un fallimento personale; avevano una spiegazione
biochimica, per quanto autoinflitta.
C’è qualcosa di altrettanto noioso dei problemi di salute di
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altre persone? Cercherò di rendere sintetico questo elenco. La
mia spina dorsale non è guarita, ma il passare a una dieta costituita da prodotti di animali alimentati a erba ha consentito
un parziale recupero, e alleviato moderatamente i livelli del
dolore. I miei recettori per l’insulina non sono ancora in numero adeguato, ma le proteine e i grassi mantengono la mia
glicemia stabile e contenta. Negli ultimi cinque anni ho avuto
mestruazioni molto regolari, sebbene abbia sviluppato un tumore agli organi riproduttivi del quale attribuisco la responsabilità alla s­ oia. Il mio stomaco funziona bene – non alla grande, ma discretamente – fintanto che assumo betaina cloridrato a ogni pasto. Grazie alle mie pratiche spirituali, e alla dieta
densa di nutrienti, mi sono liberata della depressione, e ogni
giorno ringrazio il cielo. Ma la sensazione di freddo e la spossatezza sono costanti. In alcuni giorni il solo respirare richiede
più energia di quanta non ne abbia.
Non dovete sperimentare su voi stessi: vi è consentito apprendere dai miei errori. Tutti gli amici della mia giovinezza
erano radicali, virtuosi e di forti sentimenti. Il vegetarianismo
era la strada ovvia, e il veganesimo il passo successivo. Coloro
tra noi che lo hanno praticato per un periodo prolungato hanno finito con l’esserne danneggiati. Se sto mettendo in discussione il vostro stile di vita, la vostra identità, potreste provare confusione, paura e rabbia leggendo questo libro. Ma
datemi ascolto, se non volete fare la mia stessa fine. Vi sto
chiedendo di tenere duro, di leggere questo libro e di analizzare i contenuti dell’Appendice. Per favore. Soprattutto se
avete bambini o desiderate averne. Il mio orgoglio non mi impedisce di supplicarvi.
nitiva, preferisco essere utile che ritenermi nel giusto. Soprattutto considerando il futuro con il quale dovremo confrontarci e l’importanza della posta in gioco. I valori sottesi al vegetarianismo – giustizia, compassione e sostenibilità – sono i
soli che possono contribuire a creare un mondo di relazioni
paritarie invece che di dominazione; un mondo dove gli esseri umani sono vicini a ogni creatura – ogni roccia, ogni goccia di pioggia, e a tutti i nostri fratelli con una pelliccia o le
piume – con umiltà, deferenza e rispetto: l’unico mondo che
abbia una possibilità di sopravvivere a quell’abuso chiamato
civilizzazione. È con la speranza che questo mondo sia possibile che metto a disposizione questo libro.
*
I fumatori vi confermeranno che non c’è niente di paragonabile a un ex fumatore. Il bisogno di fare proseliti sembra
essere una conseguenza inevitabile del conseguimento della
salvezza o, forse nel loro caso, dell’ossigeno. Ho fatto del mio
meglio per evitare un tono di superiorità morale e punto piuttosto al coinvolgimento. Mi auguro di esserci riuscita. In defi28
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