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Freud era sistemico e non lo sapeva
Year Book -2012 ©2013 Eidos s.c. – Villorba (TV) Documento ad esclusivo uso interno Gennaio 2013 2 PRESENTAZIONE Questo volume, edito esclusivamente online, inaugura una nuova iniziativa con la quale vogliamo sia promuovere lo scambio di idee fra allievi, sia incrementare il lavoro di ricerca costantemente svolto all’interno della scuola. Pur essendo sostanzialmente riservato ad una circolazione interna, viene presentato in formato pdf per renderlo disponibile anche alla volubile curiosità degli estemporanei visitatori del sito. Una volta realizzato era necessario un titolo. Abbiamo pensato ad un nome di matrice anglosassone “Year Book” non per esterofilia ma perché meglio si presta a contenere il lavoro svolto, nell’anno solare indicato in copertina. Ma torniamo alla nostra iniziativa. Lo scopo non è quello di richiamare l’idea di una rivista, aumentando il già ricco e popolato panorama italiano, ma molto più semplicemente agire per mantenere la riflessione sistemica allineata al tempo in cui viviamo ed operiamo. Il pensiero sistemico da sempre attento ai cambiamenti che interessano la nostra cultura e le trasformazioni dei sistemi umani e della famiglia, necessita di una costante riflessione su tali mutamenti, al fine di mantenere sempre aggiornata la propria capacità di lettura, di comprensione e quindi di intervento e aiuto verso le situazioni di difficoltà. Si tratta di uno strumento di riflessione, una occasione di approfondimento che ci piace pensare aperta al confronto ed al dibattito. Raccoglie alcuni dei lavori svolti dai nostri allievi del Corso di Specializzazione in Psicoterapia e presentati al Convegno di Montegrotto del 2012. I contributi sono stati inseriti in forma integrale, senza apportare alcuna modifica, così come inviati dagli autori. Buona lettura. Co-Direttore Manuela Bertocchi Co-Direttore Piero Muraro Gennaio 2013 3 4 PRESENTAZIONE .................................................................................................................... 3 LE IDENTITÁ VIRTUALI ........................................................................................................... 7 Quello che la sistemica dice e quello che non dice ............................................................... 7 Introduzione .......................................................................................................................... 7 Il Sé ........................................................................................................................................ 9 Le relazioni........................................................................................................................... 16 La metafora ......................................................................................................................... 20 Conclusioni .......................................................................................................................... 22 Bibliografia........................................................................................................................... 24 VERSO LE VALUTAZIONI DELLA MENTE: LA CO-VALUTAZIONE FORMATIVA ...................... 27 La valutazione...................................................................................................................... 28 La valutazione diagnostica .................................................................................................. 29 La valutazione dell’efficacia di un intervento ..................................................................... 31 Valutazione ed Epistemologia Sistemica ............................................................................. 35 La co-valutazione formativa ................................................................................................ 37 Conclusioni .......................................................................................................................... 42 Bibiografia ........................................................................................................................... 43 FREUD ERA SISTEMICO E NON LO SAPEVA?........................................................................ 47 Conclusioni .......................................................................................................................... 54 Bibliografia........................................................................................................................... 61 IMPRENDITORI, SUICIDIO:UNA STORIA ALTERNATIVA ....................................................... 63 Bibliografia........................................................................................................................... 75 E I BAMBINI? . . . .................................................................................................................. 77 Introduzione ........................................................................................................................ 77 Il panorama letterario ......................................................................................................... 77 Gli interventi sistemici ......................................................................................................... 80 Riflessioni per un confronto ................................................................................................ 91 Conclusioni .......................................................................................................................... 92 Bibliografia........................................................................................................................... 93 5 LE IDENTITÁ VIRTUALI Quello che la sistemica dice e quello che non dice Eugenio Bedini 1 I nostri processi di comunicazione sono influenzati dai nuovi media e un ruolo centrale in questo processo è svolto dai social network (Riva, 2010). E nel momento in cui entriamo nelle comunità virtuali, ricostruiamo le nostre identità dall’altra parte dello schermo (Turkle, 1997). Il rapporto tra individuo e virtuale tuttavia non è ancora molto chiaro (Margiotta, in Mapelli, 2010a). La sistemica, pur dedicando grande attenzione ai nostri modi di comunicare e al rapporto che creiamo con l’altro, non sembra ancora essersi occupata in modo esaustivo di come il mondo del virtuale influisca sull’esperienza del Sé dell’individuo e sul suo modo di creare nuove reti sociali, che non rispecchiano necessariamente la realtà ma ne creano un’altra all’interno del dominio virtuale (Riva, 2010). Tale lavoro si pone l’obiettivo di analizzare in che modo la letteratura si è occupata di questi aspetti relativamente recenti: partendo dalla definizione di virtuale (Lèvy, 1997; Mapelli, 2010a; Riva, 2010), si tenterà di esporre un’analisi sistemica sull’influenza che in questo senso ha il virtuale e in particolare i social network, fino a giungere alle metafore che sono state introdotte tra il virtuale e la terapia sistemico-narrativa (Giuliani e Nascimbene, 2009). Introduzione Quando si parla di virtuale, non si può non incontrare il pensiero di Pierre Levy. Questo autore (Levy, 1997), uno dei massimi studiosi dell’argomento, definisce il virtuale come la “trasformazione da una modalità dell’essere a un’altra” (pag. XIII della Prefazione), ovvero uno dei possibili modi di essere, contrapponibile non al reale ma all’attuale. In questo senso, è un modo di essere che concede margini ai processi di 1 Eidos, Sede di Treviso del Centro Milanese di Terapia della Famiglia, 7 creazione e schiude prospettive future. L’attuale risponde al virtuale inventando una soluzione, un’informazione nuova; è quindi l’acquisizione di materia da parte di una forma. Tra le due modalità di essere non c’è quindi un collegamento lineare e necessario, poiché un’attualizzazione è imprevedibile, in quanto risponde al virtuale senza esserne vincolata (Giuliani, in Barbetta, Casadio e Giuliani, 2012). In questa sede ho invece fatto riferimento alle identità virtuali intendendo come una persona rappresenta una parte di sé e si relaziona con gli altri all’interno del mondo di internet, in particolare all’interno delle chat e dei social networks come facebook, il social network più visitato e uno dei siti internet più cliccati del web. Il mio avvicinamento a questo argomento è nato per una curiosità personale e in seguito ad alcune esperienze a cui ho avuto modo di assistere direttamente e indirettamente; il mio desiderio e la mia curiosità mi hanno spinto qualche tempo fa a cercare di approfondire la tematica, ma durante la mia ricerca mi sono accorto di una cosa piuttosto curiosa: nonostante il mondo di internet sia sempre più presente nella nostra vita, in tutti i suoi aspetti, soprattutto in questi ultimi anni (Dall’Aquila, 1998; Marcucci e Lavenia, 2005; Riva, 2010), esiste una scarsissima letteratura sull’argomento! Soprattutto l’approccio sistemico-relazionale, che come sappiamo si occupa in modo particolare di relazioni e di comunicazioni (cfr. Malagoli Togliatti e Telfener [a cura di], 1983; Selvini Palazzoli, Boscolo, Cecchin e Prata, 1975; Selvini Palazzoli, Boscolo, Cecchin e Prata, 1980; Watzlawick, Beavin e Jackson, 1971), fino ad oggi ha trattato in modo molto limitato questo argomento. Osservando la letteratura ci si rende conto infatti che la maggior parte degli scritti e delle ricerche che hanno affrontato l’argomento risalgono fino alla seconda metà degli anni ’90 (cfr. ad esempio, Kiesler, Siegel, e McGuire, 1984; Levy, 1997; Spears e Lee, 1992; Turkle, 1997), principalmente perché fino a quel momento ci si era trovati di fronte alle prime chat e ai cosiddetti MUD, una sorta di giochi di ruolo eseguiti su Internet che andavano molto di moda negli anni ’80 e ’90. Dopodiché vi è una sorta di stacco fino agli anni più recenti, quando si è ricominciato a sfiorare l’argomento (cfr, ad esempio, Giuliani e Nascimbene, 2009; Mapelli, 2012; Riva, 2010), anche se il taglio della letteratura e l’oggetto di analisi si è sostanzialmente modificato. 8 Oltre a questo aspetto, la maggior parte della letteratura finora è andata ad analizzare l’aspetto patologico della comunicazione in internet, dedicandosi in particolare al Disturbo da Dipendenza da Internet (Wallace, 2000; Young, 1996), alla Depressione ad esso collegata (Huanga, Lua, Liua, Youa, Pana, et al., 2010), o, ancora, ai disturbi ses-suali legati all’utilizzo di internet e della pornografia (Baron e Staus, 1984; Elmer-Dewitt, 1995); si è accennato anche al Disturbo di Personalità Multipla (Turkle, 1997), ma su questo aspetto la letteratura pare non aver raggiunto un accordo definitivo. Di contro, sembra sia stato sostanzialmente trascurato l’aspetto diciamo funzionale o quotidiano dell’utilizzo del virtuale: in che modo rappresentiamo noi stessi all’interno di internet? Ci mostriamo per come siamo realmente oppure tendiamo a mascherarci? Come ci rapportiamo con gli altri utenti della rete? Così come siamo con le persone nella vita di tutti i giorni, così siamo anche all’interno delle chat, dei forum, delle discussioni? Per quanto riguarda questi aspetti, sembra che abbiamo ancora poche certezze (Margiotta, in Mapelli, 2010a); purtuttavia, vi sono alcuni concetti che possiamo ritrovare nella letteratura e che possono aiutarci a trovare delle risposte. Per una maggiore chiarezza e comodità, li ho suddivisi in tre categorie: il sé, le relazioni e il virtuale come metafora. Il Sé In ambito psicologico, il Sé presenta numerose definizioni, non sempre e non necessariamente coincidenti. Le varie concezioni possono inoltre essere collocate lungo un continuum che va da una concezione centrifuga a una concezione centripeta; da una visione individuale e intrapsichica a una relazionale; da un’idea del Sé come sostanza o essenza, a un’idea del Sé come processo in divenire; ancora, come un Sé unitario a un Sé molteplice e composito (Giuliani, in Barbetta, Casadio e Giuliani, 2012). In particolare, per William James (1893), è “Sé” tutto quel che sentiamo essere “nostro”: i suoi confini quindi sono non solo espansi, ma quanto mai mobili e fluidi a seconda dei 9 momenti e dei significati. Un individuo inoltre ha tanti “Sé” sociali quante sono le persone che ne hanno un’immagine in mente. Per George Mead (1934) il Sé non esiste alla nascita, ma è il risultato di un processo sociale e di interazioni nel corso delle quali l’individuo si costituisce come tale. Per Heinz Kohut (1971) il Sé si denota più come struttura che come entità ed è colto sin dalla nascita, anche se strutturato diversamente dalla vita adulta, grazie al fatto che il bambino viene considerato dalla madre e da tutte le persone del suo ambiente come dotato di Sé. Anche le teorie dell’identità sociale e della Self-Categorization Theory (Tajfel e Turner, 1986) sostengono che i soggetti non sono caratterizzati da un Sé fisso, ma da diversi Sé (self-categories), comprendenti l’identità personale e le identità sociali. L’identità personale, secondo la definizione che ne danno Spears e Lee (1992), è rappresentata dalla percezione complessiva di sé come individuo. L’identità sociale, invece, deriva dalla rappresentazione di sé come appartenenti a un gruppo o dall’assunzione di un ruolo sociale nell’interazione. Aggiungono Davies e Harrè (1990) che l’identità sociale comprende le caratteristiche della propria posizione all’interno dei gruppi sociali di riferimento di cui il soggetto fa parte. Questo ha un valore sia semantico, riconoscendo in sé stessi le caratteristiche del gruppo, sia valoriale, portando a un investimento emozionale nei confronti della categoria a cui si appartiene (Harrè, 2000). Kenneth Gergen (1985) a questo proposito parla di “costruzione sociale del Sé”. Anche i primi terapisti familiari tendevano a credere che le idee di una persona a proposito di se stessa sarebbero cambiate solo nella misura in cui cambiavano le idee delle persone che le stavano vicine (Hoffman, 1998). Gregory Bateson, in “Forma, sostanza, differenza” (in 1972) descrive l’identità come processo che si compie attraverso scambi sociali e che connette i vari archi di circuito che la costituiscono. L’identità emerge da questo circuito di comunicazione trans/personale come un processo ecologico e complesso (Barbetta, Casadio e Giuliani, 2012). Da queste definizioni emerge quindi un Sé che non è fisso, ma mutevole e complesso, legato non solo all’individuo ma al rapporto con l’altro significativo e, più in generale, con il contesto sociale e relazionale in cui la persona si trova inserita e 10 connessa. Ma all’interno di uno spazio virtuale l’individuo vive nella relazione in modo costante, osservatore fra altri osservatori, percettore fra altri percettori: è così che molteplici “Sé” virtuali si attualizzano nell’incontro con l’altro e con i compiti e le aspettative della vita sociale; per poi risalire il percorso fra attuale e virtuale e prepararsi al nuovo incontro e a nuovi compiti. E così via: dall’uno al molteplice, dal molteplice all’uno ...(Barbetta, Casadio e Giuliani, 2012). Con Sé possiamo intendere, in questo senso, quell’insieme di pensieri, definizioni, punti di vista di un soggetto, nella sua duplice posizione di io narrante e di oggetto della propria narrazione, per dirla come Giuliani (in Barbetta, Casadio e Giuliani, 2012). In questa sede ci interessa in modo particolare come la persona presenta sé stessa e la propria identità all’interno del mezzo virtuale. Ma prima di capire come questo avvenga, bisogna affrontare lo strumento attraverso cui il soggetto si può rappresentare e presentare all’altro; mentre infatti nella relazione vis-a-vis la presentazione è spontanea ed immediata, attraverso lo schermo deve avvenire utilizzando quello che il dispositivo mette a disposizione. In internet, come sappiamo, il Sé viene rappresentato principalmente attraverso il cosiddetto profilo (Figura 1), che viene costruito all’interno di qualsiasi social network utilizzando foto, informazioni personali, gusti in fatto di cinema, cultura e musica, eventualmente una frase che potrebbe rispecchiare la personalità dell’utente, e attraverso commenti e pensieri che possono essere aggiornati in qualsiasi momento e visti dagli altri utenti anche dopo un certo lasso di tempo da qualsiasi utente che ne abbia l’accesso. 11 Figura 1. Esempio di profilo su Facebook La pagina web, e in particolare un profilo come quello appena descritto, permette non solo di mettere nella rete i propri pensieri personali, ma anche di comunicare in un certo qual modo una parte di sé agli altri utenti. A questo proposito, gli autori (Tosoni, 2004; Turkle, 1997) sottolineano il concetto di de-individuazione: il fatto che in rete esista l’anonimato o comunque la non-visibilità tra sé stessi e gli altri utenti permette di sentire in misura minore il peso delle norme sociali e del giudizio dell’altro. In tal modo, l’utente si sente maggiormente libero di potersi esprimere secondo i propri desideri e secondo le proprie tendenze, che in questo contesto non risentono del filtro della relazione vis-a-vis che ne potrebbe limitare la rappresentazione 12 spontanea. Di conseguenza, l’identità nella rete può essere vista, secondo Tosoni (2004), come un foglio bianco, dove l’anonimato e la non visibilità consentono di staccarsi dal proprio corpo e dalla propria storia e permettono di scegliere il modo di presentarsi in base anche agli obiettivi che ci si pone nel momento in cui si decide di accedere al portale. Per dirla come la Turkle (1997), diventa così possibile essere “ciò che si è e ciò che si vuole essere” (p. 226). I modi concreti attraverso cui ci si presenta e ci si racconta agli altri, all’interno dei social network, sono principalmente foto, informazioni, link e aggiornamenti di stato; tuttavia generalmente vi è uno scarso controllo sull’autenticità dei dati immessi, in particolare in alcuni portali (si pensi a imesh, messenger, per certi versi in realtà anche facebook). In questi social network è infatti possibile accedere come una persona totalmente diversa da quella che si è, generando così i cosiddetti fake; con questo termine, ci si riferiva inizialmente a quegli utenti che si iscrivevano con il nominativo di personaggi famosi e li impersonavano nella relazione con gli altri utenti; ora, il termine viene utilizzato anche per indicare coloro che si fingono persone che nella realtà non esistono. In alcuni portali è possibile infatti iscriversi attraverso un semplice nickname e una foto profilo, ma non vi sono poi corrispondenze ad esempio con l’indirizzo mail, come può essere su altri social network; diventa così possibile inventarsi un’altra identità, un nome, una provenienza diversa da quella reale, inserire una qualsiasi foto presa da internet e da altri utenti e fingersi un’altra persona, anche dell’altro sesso; un fenomeno che la Turkle (1997) ha considerato a fondo e che Tosoni (2004) definisce cross-gendering. Già nel 1997 la Turkle riportava un notevole numero di utenti che mettevano in pratica questo mascheramento: in particolare erano uomini che si fingevano donne, ma vi erano anche alcuni casi, benché più sporadici, in cui avveniva il contrario. All’epoca dei MUD, questo avveniva perché le donne sembravano godere in misura maggiore di aiuto da parte degli altri utenti rispetto agli uomini; in tal modo, riusciva più facile ottenere agevolazioni e poter così passare a un livello successivo all’interno del gioco (Tosoni, 2004; Turkle, 1997). Ora che i MUD sono stati sostituiti da chat e social network, sarebbe interessante capire perché questo continui ad avvenire: 13 nell’esperienza di chi scrive, molto spesso questo può esser fatto risalire ad un desiderio sessuale. La Turkle (1997) parla di TinySex per indicare le discussioni che si svolgono in chat a sfondo sessuale; capita a volte che un uomo si finga donna per poter parlare più liberamente con altre ragazze e affrontare così l’argomento senza passare per pervertito o provocatore. Ecco cosa mi racconta Andrea, 27 anni: “mi sono iscritto a questa chat per conoscere gente, così, senza impegno. Però, per quanto scrivessi gentilmente a delle ragazze, nessuna mi rispondeva. Allora ho creato un profilo da ragazza, con una foto normale presa da internet. Appena mi sono connesso, una miriade di messaggi da parte di altri uomini. E quasi tutti mi facevano domande a sfondo sessuale!” Questo aspetto è tuttavia poco analizzato, ma rappresenta un caso estremo di come in internet le persone siano spesso molto diverse da quello che possono sembrare; non a caso, è questo uno dei pericoli in cui si mettono in guardia i nostri giovani quando iniziano ad accedere al web. Nel passaggio dal reale al mondo virtuale possono quindi trovare spazio anche aspetti del proprio sé che nella vita reale sono inibiti, a causa delle norme sociali oppure perché la persona nel contatto reale con l’altro non potrebbe accettarli come propri (Joinson et al, 2007). Quello che risulta è comunque un Sé frammentato, non unitario (Turkle, 1997), che viene disegnato ad arte a seconda delle esigenze e dei desideri del protagonista e a seconda dell’ambiente virtuale e quindi relazionale in cui si trova. 14 Figura 2. L’onestà nelle chat La Figura 2 può illustrare in modo riassuntivo quello che abbiamo appena visto. Una donna non particolarmente bella si descrive in chat come una modella, mentre un uomo, neanche lui particolarmente avvenente, si descrive come un ballerino e uno stilista. Questo è, sostanzialmente, un esempio neanche tanto estremo di quello che, secondo gli autori, avviene nel momento in cui ci presentiamo nell’ambiente virtuale. 15 Non esiste il vis a vis e questo ci permette di decidere autonomamente come mostrarci, anche in modo molto diverso da come siamo nella realtà. Le relazioni “Magari su facebook hai tantissimi amici.. ma gli amici veri, quelli con cui esci e che senti davvero, quelli con cui parli di tutto, sono molto meno!” (Giulia, 19 anni) “No, stasera me ne sto a casa.. Non ho molti amici con cui uscire” (Elena, 17 anni, 556 contatti su facebook, 2 profili nel social network) Collegato al Sé, vi è l’aspetto delle relazioni. In primo luogo, sottolinea Giuseppe Riva (2010), il cyberspazio e la sua naturale evoluzione, i social networks, hanno permesso di far entrare il virtuale nel mondo reale e viceversa, offrendo uno strumento molto potente per creare e/o modificare la nostra esperienza sociale. In questa interazione si produce un nuovo spazio sociale, l’interrealtà (Riva, 2009; van Kokswijk, 2003), una sorta di fusione tra reti reali e reti virtuali mediante lo scambio di informazioni tra di esse. Riva (2010) sottolinea infatti come molto spesso la rete sociale che si crei all’interno dei social networks fungano da sostegno per reti già esistenti nella realtà concreta e relazionale; questo permette non solo uno scambio maggiormente fruttifero tra le reti e i loro membri, ma anche al singolo soggetto di fare una nuova esperienza di identità sociale, riuscendo ad allargare la propria rete sociale in un modo molto più facile e 16 veloce di quello che avviene nel reale e nel quotidiano. Appare così più chiaro come le relazioni all’interno di internet non siano una cosa né coincidente né parallela alle relazioni tangibili, ma siano piuttosto intersecate! Anche se, come dice Turkle (1997), difficilmente le relazioni virtuali hanno poi uno sviluppo concreto: l’idealizzazione che attuiamo nei confronti di chi sentiamo online, dice l’autrice, ci porta a un attaccamento notevole verso l’altra persona, ma allo stesso tempo ci porta a provare terrore di fronte alla possibilità di incontrarlo. L’immagine che ce ne siamo fatti potrebbe infatti trovare una grossa delusione nel momento in cui lo conosciamo; ecco il motivo fondamentale per cui, nonostante possano nascere forti rapporti anche nel virtuale, molto spesso è nel virtuale che rimangono. Abbiamo finora visto che cosa è stato detto a proposito della rete sociale che si crea in internet. Ma che cosa avviene a livello di singoli rapporti? La deindividuazione che abbiamo appena visto porta a un diverso modo di relazionarsi con gli altri utenti della rete; la Turkle (1997) analizza questo fenomeno riportando come, all’interno della comunicazione on-line, sia molto più facile imbattersi in avances molto esplicite rivolte verso l’altro sesso (e anche in questo caso sono solitamente gli uomini ad attuare questo comportamento) che nella realtà sono molto più difficili da trovare e anche in fenomeni come il flaming; con questo termine, l’autrice intende tutte quelle discussioni fatte in rete che degenerano in veri e propri attacchi agli altri utenti, sulla base di insulti e minacce. Questo avviene proprio perché si sente meno il peso delle norme e del giudizio dell’altro e quindi la comunicazione risulta variata rispetto a una normale conversazione come quelle fatte di fronte all’interlocutore. In internet ci si sente infatti più liberi, anche di sfogare i proprio impulsi sessuali o aggressivi nei confronti degli altri utenti. In particolare, questo avviene in quelle situazioni come forum e gruppi in cui non è presente la figura del moderatore. Solitamente, quegli utenti che sembrano avere solo lo scopo di sabotare le discussioni vengono connotati col nome di troll, che vuol dire “demone maligno” o anche “stupidello”. Alessandro Gamba (2006) riprende questa visione, sottolineando come la comunicazione online, proprio per il fattore di anonimato che lo caratterizza, porti i 17 soggetti a sentirsi più aperti e liberi di esprimersi, e, secondo l’autore, sarebbe questa meravigliosa sensazione di libertà, se portata all’eccesso, la causa della dipendenza da internet. In accordo con numerosi altri autori, sottolinea tuttavia altri aspetti maggiormente relativi alla comunicazione, accostando la comunicazione online al pensiero di Bateson e di Watzlawick: nella comunicazione online è infatti impossibile metacomunicare, cioè comunicare sulla comunicazione, proprio per la scarsità di strumenti adeguati e per la totale mancanza di comunicazione analogica tra gli utenti, cioè tutto quell’aspetto non verbale della comunicazione, che molto spesso fornisce una buona fetta di informazioni sulla comunicazione che sta avvenendo; questo avviene proprio perché la comunicazione online, per definizione, è quasi esclusivamente digitale, cioè avviene attraverso le parole scritte. Questo aspetto è largamente condiviso da chi si occupa di Comunicazione Mediata da Computer (Yates, 1996; Kiesler, Siegel, e McGuire, 1984; Kiesler, 1986, Rice e Love, 1987) e pone le basi della “teoria democratica della CMC” (Herring, 1993), secondo cui la mancanza degli indicatori faccia a faccia rimuovano gli indicatori di status sociale quali razza, genere e classe, ed escludendo così il rischio di discriminazione ed esclusione. Questo aspetto è però un’altra faccia della stessa medaglia: comunque la comunicazione appare distorta e meno chiara rispetto a quella a cui l’essere umano è abituato. La mancanza di indicatori analogici, prima nei messaggi via cellulare e poi nella comunicazione online, ha contemporaneamente favorito e reso più complicato il comunicare con la persona che sta dall’altra parte del dispositivo. Gamba (2006) sottolinea tuttavia come le ultime tecnologie stiano cercando di rimediare a questa mancanza; è il caso per esempio degli emoticon o faccine, che rappresentano vari stati d’animo di chi scrive nella chat, permettendo all’utente di esprimere in modo non solo digitale le proprie emozioni. Questo, tuttavia, non ha alcuna necessaria corrispondenza con le emozioni reali, quindi la comunicazione online risente comunque di questa mancanza dell’analogico. Un altro tentativo può essere la videochat, attraverso l’utilizzo della webcam, ma non è una delle modalità più utilizzate per comunicare, benché in alcuni ambiti riscuoti un certo successo. 18 Figura 3. Come ci si relaziona in internet La figura 3 può ben rappresentare il concetto considerato: un uomo a quanto pare anche piccolo e mingherlino insulta in modo parecchio pesante (tanto è vero che si è preferito censurare le parole più forti) un individuo molto più grosso di lui, mentre la didascalia sottolinea come si sia scordato di trovarsi in una situazione reale e non in internet. Molto spesso, a quanto pare, è proprio questo che succede: online è molto più facile lasciarsi andare ad atteggiamenti disinibiti, aggressivi e provocatori, che 19 probabilmente nella vita reale verrebbero messi in gioco in modo diverso e in misura minore. Questo è, allo stesso tempo, il fascino e il limite della comunicazione online! La metafora Come ultimo punto, la letteratura di questi ultimi anni si è nuovamente interessata al virtuale, ma sotto una luce nuova. Mapelli (2010a), ad esempio, paragona il virtuale, e in particolare facebook, ad uno specchio, nel senso di un dispositivo che ci mette in relazione con noi stessi attraverso un processo di soggettivizzazione; Secondo l’autrice, attraverso l’utilizzo di un profilo creato all’interno del social network, viene data forma ai processi identitari del soggetto, trasformando i processi cognitivi, sperimentando nuove forme di comunicazione e nuove modalità narrative. Sottolinea tuttavia come il dispositivo sia un dispositivo omologante, nel senso che per quanto consenta a ciascuno di rappresentarsi secondo proprie preferenze, fornisce le strutture di base per questa presentazione e quindi spinge anche verso un’omologazione (Mapelli, 2010b); basti pensare al profilo sul social network: per molti aspetti non è l’utente a decidere cosa mostrare, ma è il social network che lo decide, chiedendo dati personali, foto, e via dicendo, persuadendoci a seguire un preciso regime di visibilità. Ad esempio, continua l’autrice, quando ci iscriviamo a facebook ci viene chiesta una foto profilo; se decidiamo di non inserire foto, sarà il social network a scegliere un’immagine per noi, oppure chiederà ai nostri contatti di proporci un’immagine per il nostro profilo. Non solo il nostro modo di presentarci, ma la modalità di relazione con gli altri, in realtà, è in un certo qual modo pre-impostata, ad esempio attraverso i commenti, i “mi piace” di facebook, la chat, i messaggi privati e via dicendo. Anche il modo in cui l’utente comunica qualcosa di sé, come il pensiero che facebook chiede di inserire nella homepage, è stabilito dall’interfaccia. Questa chiede infatti di aggiornare il proprio status ogni volta che vi entriamo, ma in più è già imposto dove andrà postato e quanto potrà essere lungo (i famosi 140 caratteri). In conclusione, sembra che in facebook si sia più soggetti costituiti che costuituenti (Mapelli, 2010b) 20 Giuliani (in Giuliani e Nascimbene, 2009) fa invece un passo ulteriore, non soffermandosi tanto sul ruolo del Sé e delle relazioni online, bensì riprendendo il concetto di Ipertesto definendolo come una rete di testi in cui le singole sotto-unità, a differenza delle pagine di un libro, sono disposte secondo un ordinamento reticolare anziché lineare, legando ogni parola che lo contiene a una pluralità di rimandi. Nello specifico, riprende Pierre Levy (1997) quando parla di “ipertesto” come approccio possibile al testo: si tratta di un “disobbedire alle istituzioni, imboccare scorciatoie, creare pieghe non autorizzate, tessere reti segrete, clandestine, fare emergere altre geografie semantiche” (pag. 26). In tal modo, lo spazio del senso non è preesistente, ma il testo viene ripiegato su se stesso, collegato ad altri testi, discorsi, immagini, affetti, all’immensa riserva fluttuante di desideri e di segni di cui siamo costituiti. Si tratta così di una costruzione del Sé continua, incompiuta, guidata dal nostro pensiero, dalla nostra visione del mondo, i nostri progetti, piaceri e sogni. Questa operazione crea un’interfaccia con noi stessi, attualizzando le nostre emozioni e rappresentazioni, in altre parole il nostro spazio mentale. Tutto questo, sottolinea Levy (1997), avviene in particolar modo per quanto riguarda il testo moderno, ovvero il cyberspazio. L’autore ne sottolinea le somiglianze con il dialogo e la conversazione: pertinenza, in funzione del momento, dei lettori e dei luoghi virtuali; concisione, grazie alla possibilità immediata di cliccare sulle parole chiave; efficienza, nel dare la possibilità al lettore di destreggiarsi in quella massa travolgente di informazioni. Inoltre, sottolinea Giuliani (in Giuliani e Nascimbene, 2009), l’ipertesto demolisce la visione occidentale della conoscenza come edificio verticale, sostituendola con una rete di interconnessioni e di descrizioni dal basso, collegandosi a ciò che dicono Luigi Boscolo e Paolo Bertrando (1993) a proposito dell’importanza di essere all’interno di una rete di teorie per vedere e agire nel mondo. Giuliani (in Giuliani e Nascimbene, 2009) utilizza quindi la metafora della pagina online con i suoi innumerevoli link con altre pagine, in cui ogni soggetto può muoversi secondo le proprie esigenze e preferenze andando a co-costruire una propria narrazione. In questo senso, la prospettiva dell’ipertesto si offre quale nuovo paradigma 21 di un Sé plurale, mutevole e complesso, perché prodotto di una narrazione costruita e riassemblata di volta in volta da più soggetti che sono al contempo lettori ed autori di questa narrazione. Internet e i social network hanno quindi permesso di creare narrazioni nuove e nuovi modi per esprimerle, e Giuliani suggerisce l’idea di utilizzare il concetto di ipertesto per un nuovo modo di considerare la narrazione in psicoterapia, sottolineandone l’aspetto multilineare. Conclusioni In conclusione, possiamo ribadire come l’aspetto del virtuale come campo per rappresentare sé stessi e relazionarsi con gli altri sia, ad oggi, solo sfiorato dalla letteratura, in particolare sistemica, e che ci sarebbe la necessità, come sottolineano alcuni autori (Mapelli, 2010; Riva, 2010; Tosoni, 2004), di approfondire la tematica e di integrare le varie correnti di pensiero sul tema in un unico filone teorico. Gli autori (Mapelli, 2010; Tosoni, 2004) riflettono infatti sulla sempre crescente presenza di questo aspetto nella nostra vita e riportano una scarsità di elementi analizzati dalla letteratura, se non attraverso molteplici filoni di indagine che risulta poi difficile integrare in un unico modello. Massimo Giuliani, inoltre, sottolinea come su questo aspetto molto spesso abbiamo più domande che risposte 2. Tuttavia appare importante, soprattutto per noi sistemici, capire che cosa avviene in questo contesto; è infatti un campo di relazioni in continuo movimento (Dall’Aquila, 1998; Riva, 2010) e sempre più diffuso, che ha ormai influenza su moltissimi ambiti della nostra vita, dalla scuola al turismo, dalla ricerca al semplice svago, e che probabilmente nei prossimi anni andrà a svilupparsi ulteriormente. Nonostante questo, non sembriamo ancora in possesso di strumenti adeguati per capire questo nuovo campo identitario e relazionale; dovremmo 2 Video “le metafore del virtuale”, pubblicato su Ibridamenti all’indirizzo http://www.ibridamenti.com/prima-pagina/2012/01/le-metafore-del-virtuale-inpsicologia-video/ 22 invece cercare un filone teorico e di ricerca che possa guidarci nel comprendere che cosa avviene e in che modo, non solo dal punto di vista della patologia ma anche da quello della funzionalità e della quotidianità. L’approccio sistemico-relazionale sembra quello più adatto a poter rispondere a molte domande: l’analisi del contesto virtuale in termini di relazioni, di feedback, di comunicazione, di retroazione e di omeostasi potrebbe facilitare l’analisi e lo studio di un mondo relazionale così vasto da potersi ormai quasi sovrapporre a quelli che sono stati finora considerati. Probabilmente il fatto che invece il mondo di internet sia stato così trascurato, soprattutto dall’approccio sistemico-relazionale, è dovuto in buona parte al fatto che è sempre considerato qualcosa di diverso rispetto agli altri campi di relazioni e non ha quindi suscitato particolare interesse nell’ambito psicologico, se non per quanto riguarda la patologia. Questo a sua volta potrebbe essere dovuto al fatto che, come abbiamo visto, nella comunicazione attraverso la rete non c’è il contatto visivo dell’altra persona e manca tutta quella parte di comunicazione che è l’analogico, una delle basi della prima teoria sistemica (Watzlawick, Beavin e Jackson, 1971). Ma in realtà il campo è molto vasto e potrebbe essere il caso di approfondirlo, anche partendo da quello che è stato visto finora. È importante affrontare l’argomento adesso, in un’epoca in cui il virtuale sta dominando buona parte della nostra vita e del nostro mondo, personale e relazionale, anche in preparazione eventualmente a un prossimo futuro, quando internet potrebbe essere ancora più presenta nella quotidianità e la ricerca o la teoria potrebbero trovarsi totalmente impreparati ad affrontare e comprendere il fenomeno così come è andato evolvendosi. Alcuni possibili stimoli da cui è possibile partire per le ricerche future possono essere, ad esempio, l’analisi del contesto virtuale, al fine di comprendere se e come è possibile analizzarlo in un modo simile a quello che utilizziamo per gli altri contesti relazionali. È possibile poi approfondire ulteriormente il concetto di Sé virtuale, quindi come noi ci rapportiamo con il mezzo e cosa vi proiettiamo della nostra identità, e il modo in cui avvengono le relazioni con gli altri utenti, anche in termini di retroazione e di feedback, per esempio. Ancora, potrebbe essere opportuno continuare il lavoro 23 iniziato da qualche anno sulle narrazioni, sia come metafora della narrazione in psicoterapia che affrontando quelle che avvengono all’interno dello spazio virtuale. Inoltre, un aspetto interessante e che non sembra ancora sufficientemente considerato è la consulenza via web; sarebbe opportuno capire se è davvero utile, fattibile e funzionale, sia per il terapeuta che per l’utente che usufruisce di questo servizio. Bibliografia 1. Barbetta, P., Casadio L., Giuliani, M. (2012). Margini. Tra sistemica e psicoanalisi. Torino: Antigone Edizioni. 2. Baron, L., Staus, M. A. (1984). Sexual stratification, pornography and rape in the United States. In Malamuth, N. M., Donnerstein, E. (Eds.), Pornography and sexual aggression. New York: Academic Press, 186-210. 3. Bateson, G. (1972). Verso un’ecologia della mente. Milano: Adelphi. 4. Dall’Aquila, P. (1998). Italian virtual communitie: some observations. 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Relazione presentata al 10o convegno annuale dell’American Psychological Association, Toronto, Canada, 15 agosto 1996. 26 VERSO LE VALUTAZIONI DELLA MENTE: LA COVALUTAZIONE FORMATIVA Walter Colesso 3 Il contributo s’inserisce nell’ambito di un progetto di ricerca più ampio che vuole aprire una riflessione sul ruolo della valutazione nel pensiero sistemico. Questa riflessione è auspicata e stimolata da qualche tempo perché sentita utile nel confronto con gli interlocutori che non appartengono alla stretta cerchia dei pensatori sistemici. Precedenti esperienze hanno evidenziato che nel momento che si decide di iniziare, … si esita. Numeri e misurazioni evocano spaventosi fantasmi di tecnicismi che possono soffocare e uccidere l’arte della formazione, quella che si apprende solo “a bottega” restando al fianco del maestro. La valutazione alla fine sembra cosa utile solo alla ricerca, alla pubblicazione di articoli, alla carriera accademica e dannosa per il lavoro del clinico. Ho quindi pensato di proporre una riflessione sul concetto di “co-valutazione formativa”, un processo che coniuga valutazione e principi dell’epistemologia sistemica per scopi di intervento formativo per evidenziare che valutazione e sistemica non sono necessariamente incompatibili. Data l’apparente incongruenza tra “valutazione” e “approccio sistemico”, e la confusione con cui vengono utilizzati in maniera equivalente i termine “valutazione”, “diagnosi” e “valutazione diagnostica” nella letteratura – soprattutto quella di ispirazione sistemica – ho ritenuto necessario iniziare con delle riflessioni sul processo valutativo e le sue relazioni con la diagnosi, le Evidence Based Practice e l’epistemologia sistemica. 3 Psicologo, e-mail [email protected] 27 La valutazione Il dizionario Devoto Oli (2007) definisce “valutazione” la “determinazione del valore da assegnare a cose o fatti ai fini di un giudizio.” Tale valutazione non deve essere necessariamente l’assegnazione di un numero, ma il risultato di un confronto come Galimberti (1991) ha rilevato con riferimento all’applicazione nel campo degli interventi sociali: “La valutazione nasce essenzialmente come attività di confronto tra oggetti, azioni e individui, che tende a configurarsi come il risultato di un pensiero teso a cogliere le relazioni che tali oggetti, azioni e individui intrattengono, alla ricerca delle specificità, omogeneità-disomogeneità che li caratterizza” (p. 7). Secondo Galimberti il modello sarebbe stato esportato dal “controllo di qualità” applicato alla produzione della grande serie e delle situazioni lavorative standardizzate per arrivare ad assumere un significato di “programmazione-valutazione” focalizzato su efficienza ed efficacia. Recentemente, lo scrivente (Colesso, 2012) ha proposto un ampliamento del concetto di valutazione applicato direttamente all’azione d’intervento nel campo psicologico: esso indica un processo che si sviluppa attraverso tre fasi: (1) l’osservazione di un soggetto (individuo, coppia, famiglia o sistema) e la registrazione di dati, siano essi quantitativi e/o qualitativi; (2) l’elaborazione dei dati raccolti, attraverso il confronto con altri datiosservati nel corso della stessa osservazione (approccio idiografico; Allport, 1969; Nunnally, 1978) o con altri dati raccolti nel corso di altre osservazioni (approccio nomo tetico; Allport, 1969; Nunnally, 1978); (3) la “lettura” delle differenze rilevate al fine di agire nuove azioni, dirette o indirette, sul soggetto osservato (Figura 1). 28 Fig. 1 Il processo valutativo La valutazione diagnostica Nell’ambito della psicologia clinica, la valutazione è sempre considerata quasi esclusivamente in ottica diagnostica, al punto che i termini “valutazione” e “diagnosi” sono utilizzati in maniera interscambiabile. La diagnosi (Boscolo e Bertrando, 1996) è un processo che nasce nell’epistemologia medica, il cui scopo è la delimitazione della natura o della sede di una malattia in seguito alla rilevazione dei sintomi. Essa si sviluppa secondo le fasi di: 1. Anamnesi: raccolta delle notizie riguardanti i precedenti fisiologici e patologici personali ed ereditari del paziente stesso e dei familiari compiuta mediante l’interrogatorio del paziente stesso e dei familiari; 2. Osservazione sintomi soggettivi, raccolti attraverso l’osservazione del paziente stesso (sincronica); 3. Ipotesi di sindrome (diacronica), ossia l’individuazione nella letteratura dello specifico pattern di sintomi soggettivi osservati; 4. Diagnosi eziologica: della causa della malattia associata alla sindrome ipotizzata; 5. Decisione del trattamento (programma terapeutico) come indicato dalla letteratura sulla base di sindrome ipotizzata e diagnosi; 6. Prognosi: il giudizio clinico sull’evoluzione futura della malattia. 29 Nel campo della malattia mentale l’attuale riferimento bibliografico per le ipotesi di sindromi è il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (APA, 2001) che contiene descrizioni d’insiemi di segni e sintomi (le sindromi) associati e raggruppati per etichette . Boscolo e Bertrando (1996), sottolinenano che, nell’applicazione al campo del mentale, il processo diagnostico risente delle premesse epistemologiche di chi lo utilizza e quindi può essere attuato per distinguere: (a) la normalità dalla patologia (psicoanalisi e comportamentismo); (b) il benessere dalla sofferenza (pensiero umanistico, approccio narrativo e costruzionista); (c) il problema dalla soluzione (modello strategico di Palo Alto e modelli basati sul problem solving); (d) il problema dal non problema (distinzione fatta dal paziente e non dal terapeuta nell’orientamento strategico-sistemico). Del Corno (2005), nell’ambito della psicologia clinica, crede opportuno distinguere la “diagnosi nosografica descrittiva” di tradizione psichiatrica dalla “diagnosi funzionale.” Se la prima è volta a etichettare sindromi e associarvi protocolli terapeutici, la diagnosi di tipo funzionale si pone come obiettivo la valutazione delle aree di funzionamento del paziente: l’individuazione dei “problemi”, le preoccupazioni percepite, i punti di forza e di debolezza, la struttura difensiva e lo stile relazionale. In questa seconda proposta, cambia la prospettiva di valutazione: dal rilevamento di segni e sintomi alla valutazione delle risorse del paziente. Boscolo e Bertrando (1996) criticano il concetto di diagnosi, rilevando che essa si riduce ad un processo di attribuzione linguistica che può costruire delle “trappole” per gli interventi formativi quali: reificazione di concetti presenti solo nel linguaggio, semplificazione di realtà comunque complesse, l’appiattimento della dimensione temporale e il sostegno ad una pretesa obiettività. L’adozione di questa prospettiva come esclusiva comporta due pericoli: (a) la notevole 30 riduzione delle possibilità d’intervento definite all’interno di una logica linearecausale; (b) il rischio di etichettamento, ossia l’affissione di un’etichetta sulla “pelle psicologica” di un individuo in grado di modificare l’auto immagine e di indurre nelle persona circostanti a reagire alle etichetta e non all’individuo (Tannenbaum, 1938). Per ovviare questi pericoli, Boscolo e Bertrando propongono la diagnosi come una delle possibili punteggiature della realtà e suggeriscono l’utilizzo del processo valutativo-diagnostico in prospettiva evolutiva da connettere continuamente all’effetto terapeutico della sua indagine. Una prima conclusione parziale che possiamo trarre, funzionale agli scopi di questo contributo, è che i processi di “valutazione” e “diagnostico” possono non coincidere: se è vero che un processo diagnostico è un particolare processo valutativo, non è sempre vero il contrario. La valutazione dell’efficacia di un intervento La necessità di controllare il grado di efficacia di un intervento è oggi raggiunta attraverso la valutazione del risultato e la valutazione del processo (Kazdin & Kendall, 1998). Il fine della valutazione di risultato è il confronto tra una valutazione pre e post intervento, a loro volta raffrontati con una o più valutazioni di follow-up. Lo scopo è registrare i cambiamenti delle aree sulle quali si interviene. Questo monitoraggio non è ancora sufficiente per connettere al trattamento le differenze riscontrate. E’ necessario attuare una valutazione del processo di trattamento, definendo delle variabili indicatrici dell’azione di intervento e controllando la loro influenza. Tale monitoraggio permette di escludere l’influenza di altri fattori non controllati e quindi di attribuire i cambiamenti al processo attivato. Questi principi erano probabilmente alla base della stesura di protocolli terapeutici quali 31 la “prescrizione invariabile” adottata da Mara Palazzolo Selvini nell’ultima fase della sua attività (Selvini e Pasin, 2005). Un ulteriore livello di verifica è rappresentato dalla valutazione dell’efficienza dell’intervento, ossia del rapporto tra risultato raggiunto e risorse impiegate. La funzione è di poter massimizzare il risultati minimizzando i “costi”. Galimberti (1991) sottolinea che una valutazione rigorosa e adeguata nel settore dell’intervento psicologico può essere ricondotta sia a bisogni di ordine esterno, sia ad esigenze interne. Gli aspetti esterni rimandano a chi (enti locali, assicurazioni, associazioni, cooperative di lavoro sociale) finanzia queste attività. La crisi generalizzata del welfare e la conseguente diminuzione delle risorse destinabili al settore dei servizi sociali hanno accresciuto a vari livelli le esigenze di controllo sul grado di efficacia e di efficienza di tali servizi. Le spinte alla valutazione derivano soprattutto dalla diminuzione dei flussi di denaro investito e dalla corrispondente crescita delle esigenze di razionalizzazione degli investimenti effettuati, un doppio movimento che spinge a valutare la redditività dei servizi forniti secondo le prospettive tecnica, economica e politica. Gli aspetti interni riguardano la differenziazione dell’offerta del lavoro terapeutico, ponendo ogni gruppo di intervento (equipe terapeutica, scuola, …) di fronte all’esigenza di testare il proprio modello per coglierne la differenza specifica rispetto al variegato panorama generale. Il bisogno è quindi duplice: di riflessione sulla natura teorico-metodologica e sull’efficacia del proprio lavoro. Queste riflessioni attraversano trasversalmente il mondo scientifico e si concretizzarono negli USA nel Based Evidence Practice movement. Iniziarono nel 2001 nel mondo della medicina (Institute of Medicine, 2001; Sackett, Stratus, Richardson, Rosenberg, & Haynes, 2000), per poi estendersi anhce al campo psicologico. L’American Psychologist Association (A.P.A.) nel 2005 costituisce la Presidential Task Force on Evidence-Based Practice in Psychology (EBPP) 32 che si accorda nella seguente definizione: la pratica basata sulle evidenze in psicologia è data dall’integrazione della ricerca con la pratica clinica, nel rispetto delle caratteristiche del paziente, della sua cultura e delle sue opinioni. (“Evidence-based practice in psychology (EBPP) is the integration of the best available research with clinical expertise in the context of patient characteristics, culture, and preferences.” APA, 2006, p. 273). La EBPP è subito distinta dai Trattamenti Dimostrai Empiricamente (Empirically Supported Treatments; ESTs): se le ESTs si focalizzano sul trattamento e sulla modalità di agire su specifici disturbi in specifiche condizioni, la EBPP si interessa della persona e delle evidenze empiriche che devono giustificare il modo di agire dello psicologo con lo specifico paziente. In tale sede vengono anche definiti i tre elementi che devono caratterizzare le EBPP: validità, molteplicità della delle evidenze di validità e la pratica clinica. La validità delle pratiche deve essere sostenuta dalla più consistente ricerca disponibile, provata scientificamente e ottenuta attraverso disegni e metodologie di ricerca che attestino l’efficacia delle pratiche psicologiche. Tal efficacia deve essere provata su ampi campioni di bambini, giovani, adulti e anziani e con problematiche psicologiche, di dipendenza, di salute e relazionali. Tale validità va valutata anche in termini di riduzione di costi medici, aumentata produttività e miglioramento della soddisfazione di vita. La validità basata sulla ricerca deve essere sostenuta (Multiple Types of Research Evidence) da risultati scientifici in focalizzati sulle strategie d’intervento, problemi clinici, soggetti clinici e assessment. L’APA incoraggia che le EBPP siano sostenute da prove di validità basate su disegni di ricerca multipli che prevedano osservazioni cliniche, ricerche qualitative, studi dei casi sistematici, disegni di ricerca sperimentali di casi singoli, ricerche epidemiologiche, ricerche etnografiche, studi di processi, ricerche su interventi condotti “sul campo” e 33 ricerche di meta analisi. Quest’ultime in particolare dovrebbero sintetizzare sistematicamente più ricerche, testare le ipotesi e stimare quantitativamente le dimensioni degli effetti. Rispetto alle ricerche di valutazione su specifici interventi, l’APA raccomanda di osservare due principi come già dichiarato nelle Linee Guida dei Criteri di Valutazione dei Trattamenti (APA, 2002). Il primo è quello dell’efficacia del trattamento sostenuto da una valutazione scientifica e sistematica che determini se il trattamento funziona. Il secondo criterio è quello dell’utilità clinica, ossia la sua applicabilità e utilità nello specifico ambiente ove viene applicato e la sua generalizzazione ad altre situazioni. La pratica clinica è essenziale per integrare e verificare la validità della ricerca con i dati clinici. Tale scopo può essre raggiunto attraverso: (a) l’assessment, il giudizio diagnostico, la sistematica formulazione del caso e la pianificazione del trattamento; (b) il modo in cui è attuata la decisione per il tipo di intervento, la sua realizzazione il monitoraggio dei progressi del paziente; (c) la comprensione dell’influenza sul trattamento delle differenze individuali e culturali. Essa deve essere applicata in tutte le attività cliniche e non deve essere limitata alla fase della costituzione dell’alleanza terapeutica e dell’ingaggio. L’aspetto interessante di tutto il movimento è che la valutazione, pur nelle sue diverse applicazioni, è oramai richiesta a tutti i livelli, come confermato anche dalla più recente letteratura (Hillix & L’abate, 2012; Magnavita, 2012; Overton, 2012; L’Abate, Cusinato, Colesso, & Sweeney, accepted for pubblication ). Una prima sintesi che possiamo tracciare è che il processo valutativo nell’area dell’intervento, sia esso diagnostico o di efficacia-efficienza, definisce un processo i cui risultati restano sempre e comunque a disposizione del terapeuta che oltre a implementarne le premesse, può utilizzarli nel suo intervento direttamente o indirettamente (vedi Figura 2). 34 Fig. 2. Valutazione diagnostica, di efficacia ed efficienza Valutazione ed Epistemologia Sistemica Nell’ambito della valutazione della terapia familiare, l’epistemologia sistemica ha proposto l’approccio estetico (la new epistemology), in contrapposizione all’approccio empirico (Tamanza, 1991). Uno degli obiettivi dichiarati è quello di liberarsi dell’“errore pragmatico” (Allman, 1982), ossia della concezione riduttiva della famiglia in trattamento come un sistema chiuso, separato ed indipendente da altri sistemi che ripropone il riduzionismo. Tamanza ritiene che, di là dalle riflessioni indubbiamente suggestive, l’approccio estetico abbia prodotto contributi poco significativi in ambito valutativo. Giuliani (2002) propone una nuova concezione di valutazione coerente con l’epistemologia sistemica, prospettando colloqui di valutazione condotti sulla traccia dello script familiare e che puntano ad una riformulazione del problema in senso depatologizzante e quindi alla costruzione di una nuova realtà. Esso si inserisce nell’ambito dell’approccio di copione conversazionale (Giuliani, 2003) ispirato ai copioni familiari di Byng-Hall (1998). Giuliani (2003) ha l’impressione che l’insieme delle pratiche che definiamo “psicodiagnosi”, 35 “valutazione psicologica” o “valutazione di personalità”, abbiano spesso la prerogativa della comunicazione detta “monoculturale” o “etnocentrica” (con riferimento alla tassonomia di Pearce, 1998, nel senso che assomiglia a un incontro fra due culture nel quale le regole di attribuzione di significato sono proprietà di uno solo dei due partecipanti). Le premesse circa il “bene” e il “male”, la “salute” e la “malattia”, il “problema” e la “soluzione” appartengono soprattutto a uno dei due partecipanti, il terapeuta, che può ritenerle indiscutibilmente migliori, o più sane, o più attendibili e obiettive di quelle prodotte dall’altro e non si aspetta che l’altro non possa che condividerle. Su questa base Giuliani suggerisce la possibilità di immaginare il processo di valutazione diagnostica come comunicazione “cosmopolita”, ove gli altri sono definiti tutti “simili”, tutti “nativi”: non perché condividano le stesse risorse, ma perché ciascuno è parimenti formato dalla propria cultura, è diverso da chiunque altro ed è titolare di risorse e chiavi di lettura uniche della realtà. Le risorse di ciascuno non sono a rischio perché includono la possibilità di storie alternative che salvaguardano il mistero dell’incontro tra “non nativi” realizzando la loro coerenza e coordinamento. Pur con l’introduzione di importanti aspetti sistemici, la prospettiva del processo valutativo resta comunque quello diagnostico. Madonna (2003) allarga il concetto di diagnosi e valutazione dalla comune concezione (la diagnosi dell’azione formale, finalistica, orientata al futuro, sotto il primato della coscienza e valutabile secondo modalità etiche) alla diagnosi dell’azione processuale (l’azione che esiste solo nel suo svolgersi, orientata al presente, narrante e conoscibile soltanto con modalità estetiche): “produrre una metafora da immettere nel flusso della comunicazione non è solo azione terapeutica che propone la rilettura di eventi o la ridefinizione di relazioni; è 36 anche fare diagnosi, perché dischiude nuove e inimmaginate possibilità di comprensione per discorsi e comportamenti” (p. 87). Malgrado i tentativi prodotti per approcciarsi alla diagnosi, e più in generale alla valutazione, gli sforzi tentati e i risultati prodotti appaiono scarsi. Di questa situazione ne ha consapevolezza Viaro (2009) quando presenta una riflessione sulla necessità, per chi utilizza l’epistemologia sistemica a livello d’intervento, di confrontarsi con i criteri di scientificità richiesti dalle EBPP e dettati dalla Biologia che pervade il panorama scientifico: ogni intervento che si qualifichi come cura deve produrre dati che soggiacciano a criteri di scientificità definiti in modo preciso, anche perché “per convincere le agenzie che terapia è efficace, bisognerà insomma parlare un linguaggio che sia loro noto, una volta costatato che non si è riusciti a convincere gli altri ad imparare il nostro” (p. 101). La co-valutazione formativa Con questa espressione viene avanzata una proposta che possa rappresentare un ulteriore sviluppo dell’utilizzo del processo di valutazione all’interno dell’epistemologia sistemica: esso è inserito nel processo formativo, abbandonando la finalità puramente diagnostica che ne ha sempre relegato i risultati a livello di premesse per il terapeuta che ne aveva l’accesso esclusivo. Si propone di elaborare i dati osservati in un sistema e di reintrodurli in un momento successivo nel sistema stesso come stimolo per perturbarlo. Entrando nello specifico del processo, esso si sviluppa secondo i seguenti passaggi: 1. Osservazione di dati relativi aspetti relazionali più o meno specifici, che possono essere raccolti attraverso questionari self-report, focus group o altre modalità (tempo tempo 0). 37 2. I dati sono successivamente elaborati (tempo 1), ossia messi a confronto con altri dati (approccio nomo tetico) o con gli stessi all’interno dello stesso sistema (approccio idiografico). Lo scopo è far emergere ed evidenziare delle differenze. Queste prime elaborazioni sono definite “proto-informazioni”; 3. In un successivo momento (tempo 2), le proto-infomazioni vengono re-inserite nel medesimo sistema dal formatore e utilizzate secondo le seguenti modalità: a. I partecipanti alla seduta sono stimolati dal formatore ad esprimere le loro opinioni rispetto al tema oggetto anche della valutazione al tempo 0; b. I partecipanti alla seduta sono stimolati ad esprimersi rispetto gli altri partecipanti rispetto il medesimo tema (domande triangolate); c. I partecipanti sono stimolati a rilevare le differenze a livello individuali e diadiche rispetto i temi trattati. d. Il formatore presenta le proto-informazioni opportunamente introdotte e rappresentate. Deve altresì smorzare la portata “diagnostica” della valutazione enfatizzando il suo uso come mezzo formativo e della cui lettura è “esperto” soprattutto il soggetto valutato che può connetterla alla propria esperienza e storia. e. I partecipanti ancora una volta i partecipanti a confrontare le proprie posizioni rispetto le proto-informazioni (opportunamente introdotte e rappresentate ). Queste nuove informazioni sono definite “deuteroinformazioni”. 4. Il formatore partecipa attivamente alla formulazione di un’ipotesi che connetta tutte le informazioni prodotte (tempo 4). In questo processo è fondamentale il ruolo del formatore che deve avere nelle sue premesse epistemologiche un atteggiamento “costruttivista” (essere consapevole che ogni individuo è portatore in seduta di un proprio modo di costruire la realtà), 38 “costruzionista sociale” (essere consapevole che una nuova lettura della realtà può essere costruita – ipotizzata – anche nella seduta a cui partecipa anche il terapeuta), focalizzato sulla relazione e sulla circolarità. Egli partecipa alla “danza comune” che diventa, di fatto, una danza comune sulle differenze (Figura 3). Fig. 3. Il processo di co-valutazione formativa L’approccio formativo proposto rappresenta la lettura in chiave sistemica di un modello di intervento preventivo per piccoli gruppi guidati da un formatore, corroborato da anni di esperienza presso il Centro della Famiglia di Treviso nelle aree della genitorialità e del pre-marriage. Il modello formativo consolidato prevede il succedersi strutturato di più situazioni di confronto per i partecipanti rispetto specifiche tematiche: in gruppo nell’incontro di apertura della tematica; a domicilio individualmente (prima) e confrontandosi con il partner (poi) nel corso 39 della settimana seguente; in gruppo, dopo una settimana, nell’incontro di chiusura. Il metodo della co-valutazione formativa è altresì alla base del processo attivato dall’applicazione dello strumento RC-Ecomap recentemente validato (Colesso, 2012; Colesso e Garrido Fernandez, 2012) e può essere utilizzato anche con altre metodologie di rilevazioni dati concernenti l’area delle relazioni. Esso rappresenta una operazionalizzazione dell’ecomappa di Hartmann (1995), uno strumento di assessment usato nella pratica clinica per il monitoraggio degli elementi dell’ecologia umana. Essa descrive graficamente le relazioni e i sistemi sociali che le persone creano al fine di interagire più efficacemente sia con l’ambiente fisico, sia con quello sociale in cui vivono e lavorano. Pertanto essa offre al ricercatore e al clinico la prova della grandezza, struttura e funzione delle reti sociali stesse e come le relazioni si adattino e cambino col tempo dentro i sistemi sociali individuali. L’Ecomappa di Competenza Relazionale (RC-Ecomap) è la proposta per utilizzare la rappresentazione grafica delle relazioni che una persona/coppia/famiglia realizza nei propri ambienti di vita, avendo come riferimento concettuale non tanto un generico paradigma ecologico, quanto la teoria della competenza relazionale (TRC, L’Abate, 2005). Gli elementi che permettono di operazionalizzare l’ecomappa sono gli ambienti (Foa e Foa, 1974; L’Abate, 1995, 2005) – Home, Work, Survival ed Enjoiment – le relazioni e i loro contenuti (money, goods, services, information, importance, intimacy). Il processo Rc-Ecomap è realizzato attraverso (1) la raccolta dati, (2) l’elaborazione dei dati raccolti e (3) la restituzione della valutazione/diagnosi e sua lettura. La somministrazione dello strumento è proposta attraverso un’applicazione strutturata che è realizzata individualmente. Le analisi possono offrire indicazioni 40 sulla qualità dei contesti relazionali vissuti dall’individuo, coppia o famiglia e sulle priorità verticali ed orizzontali messe in atto. A livello operativo le variabili scelte sono considerate di tipo categoriale, vale a dire caratterizzate da categorie di risposta a livello di scala nominale. Allo scopo di indagare la rilevanza di ciascuna variabile e le relazioni tra esse, sono costruite delle tavole di contingenza bivariate e trivariate nelle quali sono incrociate le variabili e quindi calcolati i parametri marginali e incrociati e le relative significatività. La restituzione dei risultati prevede la loro rappresentazione in una mappa sintetica ed intuitiva comprendente le indicazioni statisticamente fondate delle priorità e del livello di competenza relazionale: la discussione e lettura che ne segue con il soggetto valutato ne rappresenta il passaggio più importante. La Figura 3 ne riporta un esempio: I quattro quadranti rappresentano i quattro tipi di ambienti: casa, lavoro, ambienti di necessità e ambienti di libera scelta di “ricreazione”. Nel rettangolo centrale è riprodotto lo schema base del genogramma. Il quadrato/cerchio più marcato indica il/i soggetti/i dell’ecomappa. I quadrati e i cerchi nei quattro quadrati rappresentano le persone (maschi o femmine) in relazione con il/i soggetto/i. 41 Fig. 4. Esempio di Rc-Ecomap di restituzione Conclusioni Lo scopo del contributo era di aprire una riflessione sul ruolo della valutazione nel pensiero sistemico. Le argomentazioni presentate hanno dimostrato che i due concetti possono essere compatibili e che accanto una lente sistemica, e una solitamente psicoanalitica, non è detto che non possa trovarvi posto anche lente valutativa: alla fin fine, una valutazione altro non è che un processo di ipotizzazione e la “co-valutazione formativa”, un esempio di come valutazione e principi dell’epistemologia sistemica possono essere coniugati a scopo di intervento. 42 Bibiografia 1. Allman, L. R. (1982). The aesthetics preference: overcoming the pragmatic error. Family Process, 21, 43-56. 2. Allport, G.W. (1965). Pattern and Growth in Personality. New York: Holt, Rinehart & Winston. 3. American Psychiatric Association (2001). Manuale diagnostic e satistico dei disturbi mentali. Texi Revisiona. Quarta edizione, Text Revision. DSM-IVTR. Milano: Masson. 4. American Psychological Association. (2006). Evidence-Based Practice in Psychology. American Psychologist, 61(4), 271-285. 5. 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Valentina ed Elettra: tra storia e mito Lina Dalle Fratte, Christina Marchetto, Sofia Mazzocco, Elisa Miglioranza, Sara Mirone, Laura Nardin, Tatiana Parma, Marika Piccinin, Sara Trevisan( 4) Il titolo prende origine da una battuta fatta durante il seminario a Milano con il dott. Cazzaniga. In quella circostanza avevamo approfondito la storia della scuola e dei suoi fondatori. Abbiamo scoperto che nei primi anni '70, in via Leopardi, Boscolo e Cecchin dal lunedì al giovedì, facevano terapie individuali psicodinamiche, mentre solo la giornata del venerdì era riservata alla terapia familiare. Sapere che a Milano si facesse psicoterapia ad orientamento psicoanalitico prima che sistemica, ha confortato una parte del nostro gruppo che, partita da un’impostazione psicodinamica, aveva affrontato non pochi impasse concettuali nel passaggio da un’epistemologia all’altra. Molte di noi sentivano forte l’esigenza di trovare un punto di contatto, di integrazione tra queste due anime, non riuscendo a compiere una scelta mutuamente esclusiva. Dalla scoperta di questa base psicoanalitica ci siamo chieste se dietro all'idea di Es, Io e SuperIo ci potessero essere degli elementi sistemici. Poteva esserci una continuità tra questi due punti di vista, qualche somiglianza? Azzardiamo con irriverenza… Può la sistemica essere considerata 4 Psicologo, Eidos s.c. - Villorba (TV) 47 un’evoluzione creativa del pensiero Freudiano? Abbiamo utilizzato il nome di Freud come rappresentante per antonomasia del pensiero psicodinamico e perché riteniamo giusto non dimenticare uno dei padri fondatori della moderna psicologia, un pensatore brillante che è necessario conoscere quando si decide di intraprendere la strada della clinica. Abbiamo cercato di gettare un ponte tra Freud e Bateson, altra colonna portante della nostra formazione, i cui scritti hanno contribuito non poco ad aprirci a nuovi modi di pensare e lavorare. Ci ha affascinato, in particolare, l’idea di ecologia della mente, creatura globale, arte… . Abbiamo provato a rispondere ai nostri interrogativi cercando di lavorare in modo sistemico, proprio come ci ha insegnato Bateson, unendo le nostre menti e integrando i contributi di ciascuna. Per Bateson l’informazione viene data dalla differenza, ma, come rileva Madonna: “anche la somiglianza è informazione. Esistono due modi di informazione alla base dalla conoscenza: per somiglianza e per differenza e la loro combinazione è preziosa non solo in psicoterapia, ma anche nella vita” (“La psicoterapia attraverso Bateson”, 2003). Cogliere isomorfismi o, come direbbero Maturana e Varela, accoppiamenti strutturali è alla base della conoscenza metaforica, per sensibilità, processuale… tutti aspetti presenti in nuce anche in Bateson. Possiamo azzardare qualche somiglianza tra Freud e Bateson? Tra psicoanalisi e sistemica? Freud, pur muovendosi in un’epistemologia di tipo lineare-deterministico, usa inconsapevolmente elementi sistemici? La prima e la seconda topica, la definizione del Complesso di Edipo, essendo composti da tre elementi possono essere considerati un sistema? Per tentare di dare una risposta a questa domanda, che resterà aperta, abbiamo scelto di utilizzare il mito greco, per metterlo in 48 relazione con una storia dei giorni nostri. Il mito permette di illustrare in modo metaforico (per isomorfismo) un dinamismo che ci connette al pensiero di Freud (Freud usava molto i miti) e tende la mano al concetto di identità sistemica, di mente come processo collettivo assunto da Bateson. Il mito, infatti, permette di vedere l'elemento di dinamicità interno a ciascun individuo e, nello stesso tempo, connette le storie individuali con le storie gruppali. Nella nostra formazione abbiamo incontrato la storia di Valentina e abbiamo pensato al mito di Elettra, come suo alter ego, perché sono due storie di donne ferite e vittime di violenza. Abbiamo notato in questi due casi che il mito è riuscito ad evolvere positivamente mentre la storia di Valentina si è cristallizzata: il mito si fa storia e la storia mito. Perché? Presentiamo il caso di Valentina e il mito di Elettra (vedi curva della vita e genogramma negli allegati 1 e 2). Valentina è una giovane ragazza di 18 anni che si trova in una situazione senza prospettiva evolutiva e con una diagnosi di Disturbo di Personalità Borderline. Spieghiamo quali sono i passaggi che portano la ragazza a questi esiti. Dalla primissima infanzia emerge un forte conflitto tra Giulio e Chiara, genitori di Valentina. I due si separano dopo un paio d’anni e Chiara ritorna nella casa casa d’origine portando con sé la figlia. Successivamente a tale evento la bambina si trova ad affrontare l’abbandono del padre e un periodo di forte depressione della madre. Quando Valentina ha circa quattro anni, Chiara viene ricoverata due volte nel reparto “Diagnosi e cura”: la prima volta per tentato suicidio con abuso di farmaci, la seconda volta per decisione dello psichiatra che la seguiva. Dopo circa un anno di presa in carico Chiara matura la necessità di riprendere ad occuparsi della figlioletta. Il disagio di Valentina inizia a manifestarsi alle scuole elementari con la comparsa di sue difficoltà scolastiche e relazionali: le insegnanti riferiscono che la bambina necessita di continui rinforzi da parte loro, anche per eseguire compiti semplici, pur non 49 presentando delle effettive difficoltà cognitive. Oltre alla forte “adesività” (compiacenza, passività) di Valentina, le sue insegnanti segnalano una sua incapacità di relazionarsi adeguatamente con i suoi pari. Questo quadro viene accentuato soprattutto a seguito della nascita di Marco, figlio del padre e della sua nuova compagna. Giulio è riuscito a ricrearsi un nuovo nucleo familiare ma non risulta capace di dare continuità al suo rapporto con la primogenita. Questa cosa si manifesta in tutte le occasioni in cui l’uomo non si presenta agli incontri fissati con Valentina, la quale lo aspetta invano, per ore, davanti alla finestra e quando, incontrandola, finisce per portarla dai nonni paterni, dedicandole meno attenzioni di quelle di cui probabilmente avrebbe bisogno. In questo periodo anche Chiara inizia una nuova relazione sentimentale, che viene ostacolata dalla bambina. Durante gli ultimi anni delle scuole elementari, al quadro già complesso di Valentina, si affiancano gli interventi del Tribunale Ordinario e quelli dei Servizi per l'Età Evolutiva: esiti sono principalmente valutativi, ma non risolutivi. Valentina priva di riferimento appare punti e di questa situazione comporta una crescita maggiore sempre della sua sofferenza. Quando frequenta Valentina le scuole medie, Chiara inizia la convivenza compagno, cambiare con il facendo nuovamente casa e paese alla ragazza. In questo periodo Valentina intraprende un percorso con uno psicoterapeuta privato. La ragazzina esprime il suo malessere in maniera sempre più intensa e il suo grido di 50 aiuto la porta ad una instabilità emotiva crescente, fino al punto di compiere una serie di atti auto-lesivi. La ragazza nel disperato tentativo di “essere vista”, si provoca ripetutamente piccole contusioni e microfratture, in seguito alle quali effettua 24 accessi al Pronto Soccorso. Dopo vari episodi di questo genere, il sistema dei Servizi Territoriali inizia ad occuparsi di Valentina. Vengono attivati costanti interventi di cura che tentano di coinvolgere anche i genitori della ragazzina, ai quali però partecipa solo la madre. Questa tipologia di presa in carico non risulta sufficiente per consentire alla ragazza di mettere in luce le proprie risorse e di farla evolvere, ma porta la situazione a cronicizzarsi. La ragazza esprime le sue difficoltà attraverso agiti pericolosi auto ed etero diretti che si manifestano con eccessi di collera-violenza, imprevedibili, comportamenti fughe vagabondaggio, da casa, costruzione di relazioni sentimentali instabili. A fronte dell'ingestibilità di Valentina da parte della famiglia e dei Servizi attuato Territoriali, l'inserimento in viene una Comunità Terapeutica che era già stato considerato all'inizio della presa in carico. Quello che poteva essere un sistema solidale sembra non aver fatto altro che cristallizzare e patologizzare maggiormente Valentina. Il decorso della sua storia l’ha portata ad essere come un “ramo secco”, poiché il sistema attorno a lei non è stato in grado di fertilizzare il terreno, bensì ha contribuito ad inaridito. 51 La storia di Valentina ricorda per certi aspetti il mito di Elettra. La versione del mito da noi utilizzata è quella di Sofocle, composta nel V secolo a.C. Elettra è figlia di Agamennone e Clitennestra, ha due sorelle, Crisotemide ed Ifigenia, e un fratello minore, Oreste. Anche lei, fin dall’infanzia, è coinvolta in un forte conflitto fra i genitori. Questa situazione sfocia, tra le varie cose, nell’uccisione di Agamennone da parte di Clitennestra e il suo nuovo compagno Egisto. Elettra, come Valentina, vive l’esperienza di abbandono da parte del padre. Agamennone, infatti, essendo a capo dell'esercito greco, era dovuto partire per la guerra di Troia e, inoltre, per propiziarsi il favore della dea della caccia, Artemide, prima di partire aveva deciso di immolare la figlia Ifigenia in favore della vittoria degli Atridi. Mentre Agamennone conduce la spedizione a Troia, Egisto, amante usurpa di il Clitennestra, trono. Come gli era successo per Valentina, anche Elettra si trova a dover quindi ad accettare un nuovo compagno per la madre. Nel mito si aggiunge comunque una fine nefasta al padre della ragazza, che, al suo ritorno vittorioso da Troia, viene assassinato da Clitennestra e il suo amante. Durante il susseguirsi di questi fatti, Elettra intuisce di dover proteggere il fratello Oreste, erede legittimo al trono di Argo e decide di affidarlo alla custodia del suo precettore che ne annuncia una finta morte. Ella sviluppa un forte desiderio di vendetta nei confronti della madre aggravato dal 52 vedere Clitennestra rifarsi una nuova famiglia, alla quale non sente di appartenere. Elettra appare priva di punti di riferimento genitoriali e questa situazione comporta una crescita sempre maggiore della sua sofferenza e la porta a maturare profondi sentimenti di odio. Il decorso della vita di Elettra ha un esito migliore di quello di Valentina, poiché nei suoi fratelli trova degli alleati e dunque una rete di sostegno: in particolare, con la sorella Crisotemide si confida e trova conforto sul fatto di non potere avere una prole, erede al trono, finché Egisto vivrà a causa del suo desiderio di eliminare i futuri discendenti di Agamennone; con Oreste si sente rispecchiata nell’odio e nel dolore sviluppati per uccidere Clitennestra ed Egisto. In seguito all’omicidio della madre e del nuovo compagno e ad un lungo periodo di espiazione e redenzione, Elettra riesce ad evolvere costruendo una nuova famiglia con Pilade, amico fraterno di Oreste. Elettra ha trovato un sistema solidale che ha riequilibrato la sua famiglia e la sua crescita. La fine del mito racconta che i fratelli si riuniranno e Oreste regnerà come legittimo erede di Argo. Elettra è la personificazione dell’odio, del desiderio di vendetta, della violenza, di sentimenti incestuosi, subiti ed agiti in modo ricorsivo, che la porteranno ad uccidere sua madre e ad idealizzare il padre. Riesce tuttavia, dopo un lungo percorso, a redimersi, andando a sbloccare il loop di coazioni a ripetere in cui era entrata. Il dinamismo della sua vita riprende. Valentina ricorda per molti aspetti Elettra, ma il suo decorso è meno fortunato, perché la sua storia è come un “vecchio ritornello”, continua a ripetersi in modo parossistico, proprio come succede nei miti e nelle profezie. Valentina non viene “vista” né dai familiari né dai servizi… e si cronicizza. La storia di Valentina diventa un “caso” clinico, si fa mito: perde la sua dinamicità interna, diviene una narrazione allegorica, destinata a ripetersi; perde soprattutto una prospettiva temporale: Valentina appare bloccata in un eterno presente, di cui si fatica a ricordare il passato e di cui non si riesce a immaginare il futuro. Valentina diventa un 53 “caso” clinico senza tempo, un mito. Per contro il mito di Elettra, da una narrazione fatta a posteriori, si trasforma in una storia, un racconto privato, flessibile, recupera la sua dimensione temporale: è nel passato che è possibile ritrovare le premesse del dolore e della violenza che subisce oggi Elettra e semina per trovare redenzione nel suo futuro. Elettra può rinarrare la sua vicenda, può contestualizzarla e agire per cambiarla. Il mito di Elettra diventa storia riscrivibile, rinarrabile. Conclusioni Confrontando il mito di Elettra e la storia di Valentina ci chiediamo, come sistemici, che cos'è che ha davvero fatto la differenza? Noi pensiamo che la differenza stia nel cogliere e nel lavorare sulle connessioni all'interno della storia individuale di queste due donne. E come possiamo integrare tutto ciò con l'eredità di Freud? In che senso possiamo ipotizzare che Freud fosse sistemico senza saperlo? Noi riteniamo che lavorare per connessioni sia un modo di procedere sistemico e Freud lavorava per connessioni intrapsichiche. Queste stesse connessioni psicoanalitiche non possono non avere un effetto significativo nel nostro pensare e fare terapia sistemica: tale effetto si potrebbe definire il “non detto”. Quindi, per noi, lavorare in modo sistemico significa integrare il pensiero freudiano legato al sistema-individuo con una prospettiva che tenga conto del sistema di relazioni che lo connette ai suoi simili. E con ciò intendiamo mettere in relazione il sistema persona, il sistema famiglia, il sistema famiglia-terapeuti, il sistema sociale e il sistema dei sistemi. Questo per permettere al sistema, qualunque esso sia, di rendere floride le proprie risorse e potenzialità. Quindi, l’importante è vedere la persona nella sua globalità relazionale, in connessione con il suo sistema e gli altri sistemi. E, citando “Terapia individuale sistemica”, riconosciamo che “le nuove consapevolezze ci permettono di leggere in maniera diversa le teorie precedenti, trovandovi stimoli nuovi: si tratta di una 54 prospettiva epigenetica che si costruisce per apposizione e non per negazione di quanto è venuto prima”. 55 Allegato 1: genogramma e curva della vita di Valentina La storia di Valentina 56 Allegato 2: genogramma e curva della vita di Elettra Il mito di Elettra 57 Glossario: Accoppiamento Strutturale: Termine usato da Maturana e Varela, indica un processo di ricorsiva interazione fra due sistemi che fa sì che essi co-evolvano plasticamente, rimodellando i propri stati di coerenza interna in modo da creare un nuovo stato di reciproca coerenza. Borderline: le persone con una organizzazione di personalità borderline tendono ad avere difficoltà relazionali ricorrenti, incapacità di intimità emotiva, problemi lavorativi, periodi di angoscia e di grave depressione e una vulnerabilità all’abuso di sostanze e ad altre dipendenze come quella da gioco d’azzardo, dai furti, dal cibo, dal sesso compulsivo, dai videogiochi o da internet. Sono personea elevato rischio auto 58 lesivo per comportamenti spericolati, inclusi comportamenti auto mutilanti, o sessualmente rischiosi, indebitamenti eccessivi e altre attività autodisruttive (Manuale Diagnostico Psicodinamico, Raffaello Cortina Editore, Milano 2008). Complesso di Edipo (Ödipuscomplex): Nell'Enciclopedia della psicoanalisi, Laplanche e Pontalis definiscono il complesso di Edipo come "insieme organizzato di desideri amorosi e ostili che il bambino prova nei confronti dei suoi genitori." Assume una forma detta positiva quando si presenta come desiderio di morte del rivale dello stesso sesso: in sostanza il figlio che desidera nelle sue fantasie la morte del padre, o la figlia che desidera la morte della madre. Si può manifestare anche in forma negativa, come amore per il genitore dello stesso sesso e odio geloso per il genitore dell'altro sesso. Secondo Freud questo complesso si manifesta tra i tre e i cinque anni, durante la fase fallica, declina nel periodo detto di latenza, tra i sei e i dieci anni, e ritorna durante la pubertà. Creatura globale: Termine usato da Bateson per descrivere il funzionamento della creatura vivente, intesa come il mondo dei processi mentali sia tautologici che ecologici. Cronicizzare: Proporre interventi ortopedici, che sono quegli interventi che tendono a bloccare la situazione, ne diminuiscono la complessità, creano un accordo invisibile tra richiedente e curante, pongono il clinico nella posizione di dottor omeostata, portano alla reificazione del problema e della sua gravità, creano una situazione di non ritorno spesso “disperata” ( Apprendere i contesti. Strategie per inserirsi in nuovi ambiti lavorativi. Raffaello Cortina Editore, 2011) Curva della vita: Strumento ideato dalla Dottoressa U. Telfener, consistente nel raccontare, all’interno di una curva diacronica, i fatti e gli eventi significativi da un punto di vista biografico e relazionale di un individuo. Mito: etimologicamente deriva dalla parola greca mythòs, il cui significato originario è “parola efficace, discorso, narrazione. Un mito rappresenta una storia che incarna e definisce le credenze indiscusse di una persona o di un gruppo sulla natura delle cose. essere racchiuso, stare chiuso in se stesso. Narrazione allegorica in cui ogni persona può ritrovarsi, rispecchiarsi. Narrazione già data, che si ripete. Rigido, assoluto. 59 Il mito va distinto da altre forme di racconto tradizionale, quali la leggenda, la fiaba, il racconto storico o la genealogia familiare o clinica (storia individuale), anche se in molti casi i confini che separano questi diversi generi possono rilevarsi difficilmente riconoscibili. Storia: Narrazione, privata, personale, sempre diversa, narrazione flessibile, dinamica, in evoluzione. Topica: Il termine greco ‘topos’ fa riferimento al concetto di ‘luogo’, Freud cerca di ordinare le strutture fisiche dando loro una collocazione sia funzionale, sia temporale (successione di attivazione delle varie funzionalità). Prima topica: in ‘L’interpretazione dei sogni’ (1900) Freud divide i luoghi dell’agire psichico in: conscio, preconscio e inconscio. Secondo questa teoria, la psiche ha una struttura simile a quella di un Iceberg, dove la parte sommersa è ben più estesa di quella visibile a livello del mare. Conscio è ciò che affiora, la superficie della psiche dove risiedono tutti i processi di cui siamo consapevoli e l’ordinaria percezione delle idee. Il Preconscio è una zona di confine di cui non siamo sempre consci, ma che possiamo richiamare alla nostra attenzione facilmente. Vi ritroviamo ricordi e desideri o emozioni ad essi associati. L’Inconscio è la parte più grande della psiche che si trova sommersa poiché non è accessibile alla coscienza. Qui si ritrovano quell’insieme di pulsioni ed esperienze che sono spiacevoli o del tutto in contrapposizione con la nostra parte logica e conscia. Seconda topica: non soddisfatto di come la prima topica rendesse conto del funzionamento della mente, Freud ne “L’Io e l’Es” ne ideò una seconda. La seconda topica, nonostante il nome non è più organizzata per luoghi, bensì per Istanze psichiche, responsabili dei processi mentali. Le tre Istanze sono: Es è la forma primaria di vita psichica (vicina all’inconscio) in cui risiedono le pulsioni e che opera in base ai desideri; Io, è la struttura che media tra le esigenze dell’Es e quelle della realtà. Garantisce la stabilità della persona e la sua identità; Super-Io assolve la funzione morale dell’individuo e vigila sul comportamento. La prima e la Seconda topica non si escludono né sono tra loro speculari, ma si completano e sono intrinsecamente legate tra di loro. 60 Bibliografia 1. Bateson, G., (1977), “Verso un’ecologia della mente”, Adelphi, Milano. 2. Bateson, G., Bateson, M.C., (1989) “Dove gli angeli esitano”, Adelphi, Milano. 3. 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La prima fa riferimento ai recenti fatti di cronaca che descrivono un aumento del numero di suicidi di imprenditori in Italia e in particolare, in Veneto. Inoltre, stiamo vivendo un periodo di crisi sia sul piano economico che sul piano lavorativo. Di fronte a questo sembrano emergere almeno due punti di vista. Da una parte c’è la posizione di chi sostiene “non c’è nessuna emergenza suicidi dovuta alla crisi economica, non ci sono [neppure] evidenze scientifiche che provino un qualche aumento (Marzio Barbagli citato da Tonacci 2012)”. D’altra parte, c’è chi mette in luce una possibile connessione tra suicidio e crisi economica. Noi abbiamo scelto di seguire questo secondo punto di vista. Ebbene, secondo la Confederazione Generale Imprese Artigiane (CGIA) di Mestre infatti, tra il 2008 e il 2010 i suicidi per motivi economici sarebbero aumentati del 24.6 % e i tentati suicidi, sempre per difficoltà economiche, si sarebbero incrementati del 20%. Inoltre, nel 2012 il Veneto risulterebbe la regione più colpita con 10 suicidi di piccoli imprenditori nel periodo compreso tra il 1 gennaio e il 2 maggio. La seconda premessa al nostro lavoro fa riferimento ad un progetto di ricerca condotto dalla dott.ssa Manuela Bertocchi e dal dott. Piero Muraro del centro di Terapia Familiare Eidos di Treviso in collaborazione con la Confartigianato di Asolo e Montebelluna dal titolo “Crisi e cambiamento nella realtà artigiana”(Bertocchi e Muraro, 2011). È una ricerca che è stata condotta attraverso l’utilizzo della tecnica del focus group evidenziando due modalità interessanti e tra loro diverse di guardare alla crisi da parte degli imprenditori. Alcuni dei risultati di questa ricerca saranno ripresi anche in questo lavoro. 5 Psicologo, Eidos s.c. - Villorba (TV) 63 Ci siamo resi conto che di fronte all’atto del suicidio di questi imprenditori sono nate diverse interpretazioni, per esempio c’è chi lo attribuisce ad una questione di fragilità personale dell’imprenditore, chi invece predilige una lettura più di tipo finanziario. Così è nata anche in noi la curiosità di provare a comprendere questo fenomeno attraverso una lente sistemica. L’obiettivo di questo nostro lavoro è quindi quello di cercare di comprendere questo fenomeno nella sua complessità da un punto di vista ecologico ovvero con una fondamentale consapevolezza di una interdipendenza di tutti i fenomeni, nonchè da un punto di vista sistemico, che si impegna a considerare ogni evento nel contesto di un insieme più ampio. Lo strumento privilegiato è stata l’ipotesi, che sappiamo essere uno degli strumenti sistemici per eccellenza. A tal proposito, il Gruppo di Milano (1980) scrive: “L’ipotesi, in quanto tale, non è né vera né falsa, ma solo più o meno utile” (Selvini Palazzoli, Boscolo, Cecchin, Prata 1980); inoltre, agendo nel senso dell’informazione (entropia), l’ipotesi permette di introdurre nuove idee, variabili, differenze e fare scaturire nuove soluzioni che possono derivare dalle molteplici combinazioni dei nuovi elementi facendo superare la rigidità del sistema. La metodologia utile per condurre il tutto e dalla quale sono anche nate le nostre ipotesi è stata la lettura di quotidiani locali e nazionali, una riflessione sui risultati della ricerca di Bertocchi e Muraro “Crisi e cambiamento nella realtà artigiana” (Bertocchi e Muraro, 2011) precedentemente menzionata e, come auto osservatori, diciamo anche la considerazione dei nostri personali pregiudizi. Una prima ipotesi che ci è venuta in mente l’abbiamo chiamata suicidio e peso del contesto socio-economico in Veneto. Osservando le statistiche, una domanda che ci siamo posti infatti, è perché la crisi si sia manifestata in Veneto con un così alto numero di suicidi a differenza di altre regioni. Come è da tradizione sistemica, a questa domanda ci siamo risposti facendoci un’altra domanda: pensando all’importanza del ruolo del contesto nel dare significato ad un 64 fenomeno, ci siamo chiesti se la crisi economica in Veneto possa essere nutrita di significati diversi derivanti da specifiche premesse di natura economico e sociale. A tale proposito, ci siamo documentati prendendo in considerazione il pensiero di due esponenti della cultura Veneta. Un primo esponente è Giorgio Roverato, professore presso l’ Università di Padova nel corso di laurea in “Economia Internazionale”. Egli descrive, dal suo punto di vista, come l’approdo del Veneto alla piccola impresa risalga tra gli anni 80 e 90 del 1800 con una più intensa diffusione alla fine dell’ottocento e come nel corso del 1900 l’economia veneta si sia via via sempre più definita capace di coniugare apertura internazionale e radicamento locale grazie anche alla convivenza di una grande industria laniera con migliaia di piccole e piccolissime imprese, creando nel tempo una quota crescente del valore aggiunto nazionale; inoltre, dal 1990, spiega Roverato, il Veneto si sarebbe definito come regione dove il lavoro dipendente sarebbe in gran parte assicurato dalla performance delle imprese minori (Roverato, 2008). L’altro esponente da noi considerato è Ilvo Diamanti, docente alla facoltà di Sociologia dell’Università di Urbino. In un suo articolo afferma: “…a differenza di altrove, le aspettative di reddito e di carriera non erano affidate al lavoro dipendente – nella grande fabbrica o nel pubblico impiego. Ma al lavoro in-dipendente. Al passaggio da operaio ad autonomo. “Paroni a casa nostra”, in Veneto, non significa solo indipendenza territoriale. Ma vocazione all’indipendenza personale e familiare” (Diamanti, 2012). Quindi, si può ipotizzare che queste premesse storico - economiche - sociali del Veneto, ovvero lo sviluppo dominante di piccole imprese e una vocazione all’indipendenza, abbiano un’influenza sulla definizione di come viene costruito il significato della crisi economica in Veneto? Una nostra seconda ipotesi l’abbiamo definita suicidio e relazione impresa-famiglia, suddividendola in tre sottoipotesi, a , b e c. Per quanto concerne l’ipotesi a, partendo dalla ricerca “Crisi e cambiamento nella realtà artigiana”, condotta dal Centro Eidos di Treviso, è emerso come gli imprenditori, di 65 fronte a momenti di crisi, ritengono la famiglia una risorsa fondamentale (Bertocchi e Muraro, 2011). Questa infatti contribuisce a sviluppare un supporto e un confronto costante in un clima emozionale di serenità e positività diffusa. Alla luce di queste considerazioni ci siamo domandati se la mancanza di supporti affettivi di tipo strettamente familiare possa portare ad una situazione di tristezza, isolamento e solitudine, così da creare una possibile premessa a scelte estreme. La sotto ipotesi b prende spunto dalla lettura di un articolo di Ilvo Diamanti, sociologo, politologo e saggista italiano, nel quale si considera come gran parte delle aziende in Veneto siano sorte e si siano sviluppate attraverso rapporti personali (Diamanti, 2012). Secondo l’autore le aspettative lavorative e di guadagno non erano connesse a una tipologia di lavoro dipendente ma piuttosto indipendente tali per cui si è determinato il passaggio da lavoratore operaio ad autonomo e a una indipendenza personale e familiare. La domanda che ci siamo posti è stata se può essere ipotizzabile che, in alcuni casi, i rapporti familiari affettivi siano stati “custoditi” da quelli aziendali al punto che quando questi ultimi si sono incrinati ne hanno sofferto anche i primi. Sempre rispetto alla connessione tra suicidio e relazione impresa famiglia abbiamo sviluppato la sotto ipotesi c. Questa nostra riflessione è nata dalle considerazioni di Gigi Copiello, opinionista e commentatore, autore del libro “Bruno da Cittadella, dottore in malta”, sul fatto che il lavoro è una parte importante dell’ identità di un uomo (Copiello, 2012). In uno scenario in cui cambia il ruolo sociale del lavoratore il protagonista non si propone più come semplice artigiano ma anche come specialista e tecnico del proprio lavoro. Da questo pensiero di Copiello, la domanda che ci siamo posti è stata: “È ipotizzabile che a volte il valore personale possa venire a coincidere con il valore e il successo aziendale a tale punto che quando l’azienda entra in difficoltà viene meno anche il valore della propria esistenza?” 66 La nostra terza ipotesi mette in relazione suicidio e visione lineare del tempo. Boscolo e Bertrando ne “I tempi del tempo” , a partire dal pensiero di S. Agostino, descrivono come passato, presente e futuro siano uniti in un unico anello ricorsivo in cui ciascuno riceve i suoi significati dagli altri due. In particolare, si può dire che il modo in cui guardiamo al presente ha degli effetti sul nostro modo di considerare il passato e di guardare al futuro. Il modo di pensare al futuro interviene a modificare la nostra interpretazione del presente e del passato. Infine, la nostra descrizione del passato contribuisce a definire i significati degli eventi presenti e futuri (Boscolo e Bertrando, 1993). Gli autori inoltre sottolineano come il presente abbia una particolare posizione nell’anello autoriflessivo, infatti riprendendo il pensiero di Sant’ Agostino nessun problema esiste fuori dal presente “Né il futuro né il passato esistono. Ciò è ora molto chiaro (…) forse sarebbe meglio dire che i tempi sono: il presente del passato; il presente del presente; il presente del futuro. Ed essi sono nell’anima; altrove non li vedo. Il presente del passato è la memoria, il presente del presente è l’intuito, il presente del futuro è l’attesa. Se mi è permesso esprimermi in tal maniera, vedo tre tempi e ammetto che ce ne sono tre . (…) In che modo, però, diminuisce e si consuma il futuro che non ancora esiste? O come cresce il passato che più non è, se non perché nell’anima, che è la causa, esistono tre stati? Essa infatti attende, porge attenzione, ricorda; di modo che ciò che aspetta diventa prima oggetto dell’attenzione, poi della memoria” (Le Confessioni, libro XI, 20,28). In una concezione del tempo di tipo circolare non c’è un determinismo che affida al tempo passato più potere per cui solo modificando ciò che viene prima si può cambiare ciò che viene dopo. Inoltre, tutte le istanze temporali hanno lo stesso potenziale nell’innescare il cambiamento. Ma come affermano Boscolo e Bertrando alcuni particolari eventi, come nel nostro caso potrebbe essere la crisi della propria azienda per un imprenditore, possono avere degli effetti totalizzanti e vincolare in modo rigido le prospettive future. In questo modo l’anello autoriflessivo viene sostituito da una catena lineare e deterministica in cui il 67 passato esercita una potente influenza sul presente e sul futuro senza però esserne a sua volta modificato. (Boscolo e Bertrando, 1993). Detto questo, è possibile che un imprenditore che adotti una visione lineare del tempo interpreti la crisi della propria azienda come un evento che non passerà e che chiude ogni possibilità futura? Dal progetto di ricerca “Crisi e cambiamento nella realtà artigiana” è emerso come ci siano due modalità diverse di approcciarsi alla crisi da parte degli imprenditori. Nella ricerca infatti emerge come, dai focus group condotti con alcuni imprenditori della zona di Asolo-Montebelluna, alcuni di essi, gli imprenditori resilienti, cioè coloro la cui azienda sta affrontando la crisi con risultati positivi, considerino la crisi come un momento di passaggio, una fase di vita che prima o poi doveva capitare, un’occasione per fermarsi a riflettere e migliorare, ovvero un momento possibile. Gli imprenditori in difficoltà invece, vedono la crisi come una perdita del benessere precedente e una impossibilità di prospettive future, un evento inaspettato a cui non sono preparati a rispondere (Bertocchi e Muraro, 2011). Sulla base di questi risultati abbiamo formulato un’ulteriore ipotesi: le scelte estreme possono essere ipoteticamente legate al non essersi preparati alla crisi della propria azienda, ovvero al non aver contemplato questa possibilità? Si potrebbe ipotizzare che questi imprenditori abbiano diverse premesse anche riguardo il concetto di tempo. Sembrerebbe infatti che gli imprenditori in difficoltà adottino una visione lineare del tempo, in cui il passato è rappresentato dall’idea che il lavoro duro e costante fosse garanzia di successo, ciò nel presente si è perso; il presente per loro è una perdita della sicurezza del passato, lavoro duro e costante non è più garanzia di successo e la crisi aziendale è vista come qualcosa che non passerà, definendo così inesistente il futuro. Il loro sguardo è rivolto al passato, e le emozioni che scaturiscono da questi pensieri sono disorientamento, stupore, rabbia e impotenza, stati d’animo che non aiutano ad 68 affrontare in modo propositivo problemi che derivano dalla crisi perché tendono a bloccare il pensiero piuttosto che ad aprirlo. Gli imprenditori resilienti adottano invece, una visione che noi definiremo più circolare hanno lo sguardo rivolto al futuro, infatti, nel passato hanno sempre contemplato la possibilità che prima o poi ci sarebbe stata una crisi e questo pensiero li ha portati a pensare a delle strategie per essere preparati ad affrontarla qualora si fosse presentata. Nel presente invece questi imprenditori vedono la crisi come una fase di passaggio verso un futuro possibile. Le emozioni, in questo caso, sono di sfida, curiosità, fiducia nelle proprie possibilità, emozioni utili ad aprire il pensiero verso alternative possibili ed a stimolare la creatività (vedi tabella 1). 69 Tabella 1 Premesse Passato Presente Futuro Emozione Tempo Lavoro duro e Lavoro duro e costante ≠ da Inesistente Disorientamento, stupore, lineare costante = successo successo impotenza, rabbia Perdita sicurezza del passato/ irreversibilità Tempo Contempla la Crisi come momento di circolare possibilità di una passaggio. Possibile Sfida, curiosità, fiducia nelle proprie possibilità crisi 70 Ragionando in questi termini il tempo è inteso come quello che dai greci era definito kairos, ovvero il tempo dell’esperienza interiore, dotato di un significato soggettivo che si contrappone al chronos, ovvero il tempo oggettivo, distinguibile e frammentabile, il tempo della scienza. Nel kairos il tempo assume un significato soggettivo perché le persone astraggono e ordinano i dati che provengono dal mondo esterno attraverso diversi schemi cognitivi che conducono alla costruzione di molteplici realtà, ognuna con il proprio concetto di tempo, quindi il tempo della realtà esterna è differente dal tempo delle molteplici realtà interne (Boscolo e Bertrando, 1993). La nostra quarta e ultima ipotesi collega suicidio e mito del potere. Un nostro pregiudizio è che uno dei fattori ipotizzabili di fronte ad un atto suicidario sia il senso di colpa, un senso di colpa così grande e soffocante da non permettere ad una persona di lasciarsi vivere. Il senso di colpa può essere legato al concetto di “potere”? Come ci dice Gregory Bateson il mito del potere è un mito potentissimo, è un mito che, se tutti ci credono, si autoconvalida; dice anche che l’uomo al potere dipende dall’informazione che riceve dall’esterno. Quindi, spiega che, se pensiamo che esista questo potere unilaterale, noi commettiamo una follia epistemologica e ci conduciamo verso dei disastri. Per Bateson il potere fa parte della categoria che egli cataloga come valori semplici, dove l’uomo tende a massimizzare assieme a denaro, prestigio. Tali variabili semplici vengono per lo più imposte ai singoli individui in società competitive. Alla base del potere c’è la coscienza che ci permette di raggiungere in breve tempo ciò che vogliamo e non ci permette di agire con la massima saggezza per vivere ma di seguire la via più furba per raggiungere il nostro obiettivo. Nel senso comune c’è il pregiudizio che il potere corrompa ma secondo Bateson è l’idea di potere che corrompe e accettando questa premessa ne deduciamo che il potere corrompe più rapidamente quelli che credono in esso (Bateson, 1978). 71 Detto questo si può supporre che i suicidi di questi imprenditori si contestualizzino all’interno di un’idea dove è si concepisce in sé il potere unilaterale di risollevare la propria azienda da un momento di crisi? E ancora, nel momento in cui ciò non si realizzasse, è ipotizzabile che la persona cada preda di sensi di colpa al punto di togliersi la vita? Continuando, Bateson ci suggerisce di provare a considerare i sistemi che coinvolgono l’organismo e il suo ambiente come un’unità di coevoluzione dove il tutto è sempre in una meta relazione con le sue parti. (Bateson, 1978) Parlare di coevoluzione ci induce a ragionare nei termini di complessità chiamando in causa il principio dell’equifinalità secondo cui uno stesso scopo può essere perseguito in modi diversi e partendo da basi diverse. Quanto più un sistema è adattivo e flessibile, tanto maggiori saranno le strade percorribili per giungere alla stessa meta. Ne consegue anche che uno stesso punto di arrivo può essere il frutto di scopi diversi, pertanto, nell'interpretare l'agire di una persona o di un sistema sociale dobbiamo procedere con cautela e avere la consapevolezza che uno stesso comportamento messo in atto da due persone (o sistemi sociali) può avere motivazioni anche molto diverse. Inoltre, lo stato di un sistema aperto è (relativamente) indipendente dal suo stato iniziale; ne consegue, come sostengono Watzlawick et al. (1967, 122) che “quando analizzeremo come le persone si influenzano a vicenda, considereremo l'organizzazione in corso del processo interattivo molto più importante degli elementi specifici costituiti dalla genesi e dal risultato”. Molto importante è considerare le idee di controllo ipotizzate da Bateson, egli ritiene che tali idee partono da false premesse concernenti la natura del sé e la sua relazione con gli altri e da tali pregiudizi possono con altrettanta sicurezza scaturire distruzione e bruttezza. Un essere umano in relazione con un altro ha un controllo molto limitato su ciò che accade nella relazione. Nel nostro caso è come se non esistesse una relazione deterministica tra ciò che mette in atto l’imprenditore e il risultato, perché l’imprenditore è una parte del sistema. 72 A questo punto possiamo considerare una connessione tra potere, senso di colpa e (introducendo una nuova dimensione) responsabilità, possiamo ipotizzare che se il potere è connesso alla colpa, si favorisca una situazione in cui sembra impossibile il cambiamento, d’altra parte se il potere è connesso all’ idea di responsabilità il cambiamento sembra possibile, poiché l’imprenditore si concepisce come parte del sistema e non accentra il potere tutto nelle sue mani. L’imprenditore che parla in termini di responsabilità, e non di colpa, aiuta a separare la propria autostima dagli affetti degli eventi. Inoltre se l’imprenditore agisce secondo il principio della responsabilità può contare su una mente libera dalla emozioni negative (tipiche, invece, del senso di colpa) e può approcciarsi al problema con un pensiero lucido e positivo. In questo modo la mente libera risulta essere più creativa e l’imprenditore anche se di fronte alla difficoltà oggettiva riesce ad avere di fronte a sé più scelte possibili. Il concetto di responsabilità può essere anche paragonato al concetto di umiltà delineato da Bateson, egli non la propone come principio morale ma semplicemente come filosofia scientifica. Nel periodo della rivoluzione industriale il disastro più grande fu forse l’enorme aumento dell’arroganza scientifica dove l’evoluzione era la storia di come gli organismi apprendevano stratagemmi per controllare l’ambiente e questi stratagemmi inventati dall’uomo erano migliori di qualsiasi altra creatura. Ma Bateson ci invita a sostituire questa idea con la scoperta che l’uomo è solo una parte dei più vasti sistemi. Dopo aver lavorato sulle ipotesi appena presentate, ci siamo chiesti cosa si potrebbe fare di operativo se fossimo chiamati ad intervenire. La prima idea che ci è venuta in mente è che sarebbe importante lavorare sulla creazione di alternative possibili, favorendo il passaggio dall’idea esclusiva di famiglia azienda dove i rapporti affettivi sono custoditi da quelli aziendali ad un’idea di famiglia che sappia essere anche altro, ovvero risorsa emozionale in grado di fornire supporti affettivi di fronte a momenti di crisi. 73 È ipotizzabile un intervento dove si faccia leva sui diversi ruoli che ha la persona all’interno della famiglia, non solo come imprenditore ma anche come figlio/a,fratello,marito,moglie, padre,madre,sorella. Una seconda idea operativa potrebbe essere incoraggiare l’’idea di evoluzione lavorando sul tempo: ciò significa per esempio, favorire una percezione ricorsiva del tempo attraverso l’uso di domande circolari e ipotetiche , favorire una connotazione positiva del momento di difficoltà presente, evidenziare le competenze/risorse dell’imprenditore così da renderlo attivo e propenso a sperare di nuovo in un futuro possibile. Sempre attraverso gli stessi strumenti sistemici si potrebbe perturbare l’idea del senso di colpa e del potere, aiutando l’imprenditore a spostare l’attenzione da un’ottica esclusivamente lineare verso anche un’ottica più di tipo circolare. Noi crediamo sia importante anche creare un lavoro di rete collaborando con le risorse del territorio, che più di frequente hanno contatti con gli imprenditori. Vogliamo ricordare, a questo punto, il pensiero di Von Foerster secondo cui è importante lavorare per aumentare il numero di scelte possibili (Von Foerster, 1987). Infatti siamo una specie che ha bisogno di certezze. Mal tolleriamo di non sapere come stanno esattamente le cose. A questo punto di rassicurazione sacrifichiamo spesso la ricerca che potrebbe generare vie nuove e soluzioni vantaggiose. L’aspetto più critico di questa tendenza sta nel fatto che siamo prevalentemente orientati a semplificare e a ridurre ad un’unica prospettiva tutto ciò che si presenta come complesso. La nostre esigenza di certezze però non produce scelte migliori e spesso si cerca la soluzione unica con la S maiuscola. Infine concludiamo con il pensiero di Albert Einstein sul significato della crisi "Non possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose. La crisi è la più grande benedizione per le persone e le nazioni, perché la crisi porta progressi. 74 La creatività nasce dall'angoscia come il giorno nasce dalla notte oscura. E' nella crisi che sorge l'inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi supera sé stesso senza essere 'superato'. Chi attribuisce alla crisi i suoi fallimenti e difficoltà, violenta il suo stesso talento e dà più valore ai problemi che alle soluzioni. La vera crisi, è la crisi dell'incompetenza. L' inconveniente delle persone e delle nazioni è la pigrizia nel cercare soluzioni e vie di uscita. Senza crisi non ci sono sfide, senza sfide la vita è una routine, una lenta agonia. Senza crisi non c'è merito. E' nella crisi che emerge il meglio di ognuno, perché senza crisi tutti i venti sono solo lievi brezze. Parlare di crisi significa incrementarla, e tacere nella crisi è esaltare il conformismo. Invece, lavoriamo duro. Finiamola una volta per tutte con l'unica crisi pericolosa, che è la tragedia di non voler lottare per superarla." (Einstein, 1955). Bibliografia 1. Bateson, G. (1972) Steps to an Ecology of Mind. San Francisco, Chandler Publishing Company (trad. it. Verso un’Ecologia della Mente. Milano, Adelphi, 1978). 2. 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Roma, Astrolabio, 1971). 76 E I BAMBINI? . . . Celardo, M., Feltrin, A., Marchetto, C., 6 Introduzione A partire dal 2011 presso la sede di Treviso del CMTF è stato attivato il gruppo di ricerca: “I bambini in terapia familiare”. Sin dai primi incontri, i membri del gruppo (allieve della scuola ed ex allieve) si sono confrontate sulle proprie esperienze di intervento con i minori, alcune delle quali vissute presso i Servizi per l’Infanzia presenti sul territorio, ed anche su quali eventuali “linee guida” potessero emergere dal lavoro di ricerca, spendibili in un contesto terapeutico pubblico e/o privato. Si è poi cominciato a ragionare su quale potesse essere il metodo di lavoro migliore per approfondire l’argomento; si è quindi deciso di partire da quanto era già stato pubblicato sull’argomento in chiave sistemica. Il panorama letterario Una lunga e attenta ricerca bibliografica ha permesso di elaborare una lista degli articoli, dei riferimenti e di quant’altro fosse presente nelle riviste della scuola: “Connessioni” e “Terapia Familiare”. Fin da subito, ci si è rese conto di quanto fosse complesso l’argomento e di come un bambino potesse essere coinvolto in terapia a fronte di diverse situazioni; sono stati, infatti, trovati articoli su svariati argomenti: consultorio familiare, reflecting team, incesto, diverse culture, figli unici, patologie infantili, abusi, minori stranieri, tossicodipendenza ed altri ancora. E’ subito stato chiaro che si era di fronte ad un panorama di contributi ampio, variegato e non strutturato e, purtroppo, all’assenza di una metodologia di intervento condivisa dagli psicoterapeuti sistemici. 6 Eidos sc Centro terapia Familiare di Treviso. Coordinamento: Federica Bastianello, Cristina Pellizzaroli 77 In questo, autori come Viaro e Sorrentino sono stati tra i primi ad evidenziare una scarsa “presenza” sistemica nei Servizi dedicati all’età evolutiva e ad ipotizzarne anche le cause. Nel suo articolo “Perché i bambini scompaiono dalle sedute familiari?” Anna Maria Sorrentino, (2005) riconosce che, sia sul piano teorico che su quello pratico, l’approccio sistemico sembra rimanere marginale all’argomento. La rivista Terapia Familiare, la più accreditata nel panorama italiano, ha pubblicato pochi articoli che trattano il tema dei bambini in terapia familiare. Eccezione va fatta per i temi del maltrattamento e dell’abuso, dove il bambino è argomento di importanti pubblicazioni. “Se osserviamo la prassi dei servizi psicosociali che si occupano di tutela dei minori vediamo troppo spesso da un lato bambini osservati senza i loro “cattivi genitori” da cui devono essere protetti, vista la loro incapacità di fornire cure e protezione, quasi affidati per una sorta di ri-allevamento ad operatori tanto volenterosi quanto per lo più ingenuamente schierati alla loro difesa, e dall’altro, genitori, separati dai loro bambini, sottoposti a processo di valutazione sulla propria recuperabilità genitoriale, che devono dare prova della loro competenza in un “altrove”, al di fuori della seduta coi loro figli, lontano dagli occhi di quegli stessi operatori che dovrebbero esprimere un giudizio su di loro”. 7 La stessa metodologia viene impiegata nei servizi che si occupano in generale di disagio evolutivo (che si esprime in disturbi del comportamento, della socializzazione e degli apprendimenti) in cui i bambini vengono valutati, mediante un approccio testistico e individuale che, secondo l’autrice, rischia di essere fonte di etichettamento improduttivo. La Sorrentino suppone che “la nostra cultura influenzi i giovani terapeuti, come i giovani adulti, ad avere paura dei bambini; paura di generarli, di allevarli e quindi di curarli.[…] Il terapeuta dovrebbe porsi di fronte al paziente bambino come di fronte ad un adulto, con disponibilità e apertura empatica, con rispetto, curiosità ed 7 cit: Sorrentino A. M. (2005), Perché i bambini scompaiono dalle sedute familiari? Terapia Familiare, 77. Pagina 2 – Franco Angeli 78 interesse, così da scoprire di essere programmato geneticamente per trattarlo. Le piccole facilitazioni, quali il gioco, il disegno, le fiabe, le metafore, sgorgheranno naturalmente in lui, se solo questo terapeuta si sperimenta”. 8 Viaro allarga la sua analisi considerando anche le pubblicazioni e quindi la posizione della Neuropsichiatria Infantile nei confronti dell’approccio e della metodologia sistemico-relazionale. Citando un suo articolo del 1994, Viaro già segnalava che “una rassegna degli articoli pubblicati negli ultimi 20 anni dal Giornale di Neuropsichiatria dell’Età Evolutiva, organo ufficiale della Sinpi (n.d.a. Società Italiana di Neuropsichiatria Infantile) mostrava come la terapia familiare [sistemica o non] fosse pressoché ignorata dalla rivista”. 9 Inoltre, “gli articoli che suggerivano indicazioni specifiche proponevano quasi invariabilmente il medesimo intervento: la psicoterapia individuale di orientamento analitico del bambino, più o meno regolarmente affiancata da altri interventi, (prevalentemente sulla coppia parentale)”. 10 Uno sguardo alla prassi attuale ci conferma che i servizi di neuropsichiatria infantile rappresentano l’approdo principale delle richieste di intervento nell’ambito dei disturbi in età evolutiva. “Vi sono oggi diversi servizi che intervengono sui minori, estranei alla neuropsichiatria infantile, aventi una connotazione psicologica e non medica […], l’intervento individuale sul bambino, affiancato o meno ad altri interventi sul contesto allargato (genitori, insegnanti, educatori…) sembra essere il più praticato. La novità, rispetto ad un tempo, consiste nel fatto che il modello psicodinamico non domina più incontrastato: è stato infatti affiancato a quello cognitivo- comportamentale”. 11 Secondo Viaro il movimento della terapia familiare sistemica ha tardato a 8 Ibidem - Pagina 8 9 cit: Viaro M. (2003), È possibile salvare alcuni bambini dalla terapia individuale? Connessioni, 12. Pagina 26 10 Ibidem - Pagina 26 11 Ibidem - Pagina 27 79 recepire il mutamento di clima culturale che […] richiedeva alla psicoterapia di uniformarsi, almeno in parte, al metodo quantitativo delle scienze naturali. Egli riconosce come comune a molti terapeuti sistemici l’insofferenza a ogni studio di esito che sia condotto con metodi della ricerca standard. “Il modello cognitivocomportamentale si pone invece come modello forte scientificamente, come una costruzione articolata e coerente ma, al tempo stesso, dotata di una grande capacità di assimilazione nei confronti dei modelli concorrenti”. Nell’articolo “I bambini servono perché ci sono i grandi a spiegare le cose” (1994) Viaro aveva già gettato le basi per degli approfondimenti di carattere sistemico, in quanto menzionava tre tipi di considerazioni che, a suo parere, potrebbero sollecitare un maggior interesse reciproco tra chi si occupa di disturbi del bambino e della famiglia: considerazioni relative alla tecnica terapeutica; considerazioni di tipo culturale e pedagogico e considerazioni di tipo macrosistemico (o politico). Egli solleva il dubbio che “il progressivo e apparentemente inarrestabile trasferimento dei compiti educativi dalla famiglia ad agenzie sociali in concorrenza tra loro, con la conseguente iperspecializzazione risponda, nel caso dei Servizi per l’Età Evolutiva, come quello della Scuola, ad esigenze che meno hanno a che fare con quelle del bambino e molto con quelle di chi dei bambini si occupa per professione”. 12 Gli interventi sistemici Per potersi districare in questo mare magnum di articoli e riflessioni, il gruppo di ricerca ha deciso di focalizzare l’attenzione sull’evoluzione che ha interessato l’approccio del terapeuta sistemico con i bambini e di compiere, dunque, un’analisi longitudinale lungo una immaginaria linea del tempo. L’excursus ha preso il via da “Paradosso e contro paradosso”, in cui L. Boscolo, G. Cecchin, M. Selvini Palazzoli e G. Prata raccontano alcune terapie, tra quelle da loro 12 Ibidem - Pagina 27 80 condotte, nelle quali erano presenti bambini ed adolescenti. I minori erano accolti nella stanza di terapia indipendentemente dalla loro età, poichè si voleva osservare l’interazione, il comportamento non verbale, lo scandirsi di azioni e retroazioni tra i membri della famiglia e questo atteggiamento ha caratterizzato nel tempo l’attività terapeutica dei quattro fondatori del Gruppo di Milano. Dopo la scissione del gruppo di Milano, gli interventi con i minori si sono differenziati, per cui, come si evince dall’articolo di M. Garbellini, A proposito di continuità e discontinuità nelle ricerche di Mara Selvini Palazzoli (1989) (che si rifà a “I giochi psicotici nella famiglia”), la stessa Selvini Palazzoli definisce una connessione tra il tipo di disturbo della relazione di coppia ed i comportamenti sintomatici del figlio e, in queste famiglie problematiche, approda ad una “prescrizione invariabile”. L’intervento si articola come segue: • ingaggio terapeutico della famiglia estesa in prima seduta: si richiede la presenza di tutti i membri, significativi e non, della famiglia; • seconda seduta di consultazione solo con la famiglia nucleare (durante la quale viene data l’indicazione della terapia e vengono congedati i figli); • terza seduta con consegna del segreto ai genitori; • quarta seduta con nomina dei genitori a co-terapisti (prescrizione delle sparizioni serali); • quinta seduta e successive con sparizione del sintomo in virtù del cambiamento del gioco familiare. Se in prima seduta, dunque, è convocata l’intera famiglia allargata, già durante la successiva i bambini vengono “congedati”; “l’obiettivo è disimmischiare il minore lanciandogli il messaggio «sai badare a te stesso» e contemporaneamente istituire la coppia che si trova ad accettare «un’alleanza per»”. Di fatto, i genitori vengono coinvolti sempre di più fungendo da co-terapeuti e stabilendo un’alleanza (terapeutica) per il bene del figlio. Un altro punto di vista è offerto da M. White, il quale, a partire dal lavoro svolto con bambini encopretici, struttura un intervento basato sulla differenziazione tra 81 "problema" e bambino, sulla ridefinizione positiva di sè e sul raggiungimento di nuovi obiettivi, coinvolgendo in questo percorso l’intero sistema famiglia. E’ opportuno ricordare che per questo autore, il disagio personale è il frutto della discrepanza tra la storia che ciascuno narra di sé e quella che ne narrano le altre persone, oppure della discrepanza tra la storia che la persona narrava un tempo di sé e quella narrata attualmente. A partire da quella che egli definisce “situazione unica”, dunque, M. White riesce a “riscrivere” le storie e orientarle verso una nuova chiave di lettura. Naturalmente, si riportano poi anche le posizioni di Luigi Boscolo e Gianfranco Cecchin. Boscolo considera il bambino come una risorsa in terapia, in quanto, avendo questi uno sguardo meno filtrato, più candido, riesce a vedere cose che gli adulti non sono più in grado di vedere e a fornire sempre nuove informazioni. Il terapeuta deve saper tenere aperto lo scambio con il bambino senza smettere di coinvolgerlo. Deve mantenerlo al centro delle interazioni, riconoscerlo nella sua funzione di soggetto, togliendolo dal ruolo di oggetto problematico. Solo in questo modo egli diventa attivo e collaborativo. Le indicazioni sul suo lavoro con i bambini sono ben illustrate in due articoli che riportano delle conversazioni con Luigi Boscolo su questo tema (Bozzetto, Boscolo 2003, Quadrino, Boscolo 2005). Tentando di definire una modalità di lavoro, possiamo riconoscere alcuni punti fermi: 1. L’accoglienza. Quando il terapeuta entra nella stanza comincia subito il colloquio rivolgendosi ai bambini: indaga sulle informazioni che hanno ricevuto e se non le hanno o sono insufficienti gliele fornisce. Si informa sullo stato d’animo con cui sono arrivati all’incontro e chiede se secondo loro i genitori hanno fatto bene a intraprendere la terapia. Cerca di cogliere subito il non verbale, in particolare è attento agli sguardi che il piccolo cliente rivolge ai genitori. 2. Il rispetto per le regole della famiglia. Gli sguardi che il bambino rivolge ai genitori prima di rispondere alle domande 82 del terapeuta, ci dicono che egli ha bisogno di sentirsi autorizzato a parlare. In questo caso è sempre utile chiedere ai genitori di dare al bambino il permesso di rispondere alle domande del professionista. 3. Parlare con il bambino. Molto utile e produttivo risulta il capovolgimento del quadro: invece di parlare del comportamento o del problema del bambino, si comincia a parlare con il bambino, di come lui vede il papà, la mamma, i fratelli. Questo è inatteso, sia per lui che per i genitori e proprio perché inatteso riaccende l’attenzione e permette che emergano nuove informazioni, oltre a diminuire il peso del ruolo di “bambino fonte di problemi”. 4. Il comportamento analogico ha più effetto di quello verbale. Attraverso il fare si comunica molto più chiaramente con il bambino. Ciò significa che, sia in forma di gioco, che con semplici gesti è possibile comunicare al bambino le proprie intenzioni e la propria posizione nei suoi confronti. Ad esempio, con soggetti iperattivi che tendono a sfidare le regole e ad entrare in simmetria, creando disturbo, Boscolo pone delle regole alla cui violazione fa seguire, con coerenza, l’uscita dalla sala. È in grado poi di recuperare la relazione segnalando al bambino con la chiarezza di un gesto, come una semplice carezza, la riappacificazione. Tradotto nel linguaggio verbale: “ti ho mandato fuori perché mi disturbavi, ma non sono arrabbiato con te, adesso che sei qui possiamo di nuovo volerci bene”. 5. Utilizzo di prescrizioni e rituali. Si collega al punto precedente perché riguarda sempre la modalità dell’agire. L’utilizzo dei rituali si dimostra molto utile e Boscolo ne ha fatto frequentemente ricorso. Quando ci sono problemi pedagogici ed emerge un conflitto su come svolgere il ruolo di genitore, il bambino viene preso di mezzo e ne soffre perché non capisce quale posizione può e deve prendere. Prescrivere il rituale dei “giorni pari e giorni dispari”, in cui cioè i genitori si alternano e si danno il turno nello svolgere il loro lavoro educativo, permette loro di sperimentare che è un errore pensare che uno abbia il metodo giusto e l’altro sbagliato. È una prescrizione che connette tutti i membri della famiglia, con lo scopo di creare delle emozioni che li lega, mettendoli allo stesso livello. 83 Il compito ingloba anche il figlio, al quale spetta la consegna di osservare e segnalare le trasgressioni dei genitori. Questa era ed è una caratteristica del Milan Approach: capovolgere la gerarchia mettendo i figli in una posizione di controllo dei genitori (Bozzetto, Boscolo, 2003). 6. Agire con l’idea dell’apprendimento per modello. I genitori osservano le modalità messe in atto dal terapeuta e le confrontano con le proprie. L’intervento rappresenta una specie di modello di comunicazione sulle regole, le infrazioni e le punizioni. 7. L’uso della metafora della co-evoluzione dei tempi. Il metodo di Milano utilizza la “lente del tempo” e sostiene che le famiglie che non hanno problemi co - evolvono con i tempi, mentre quando è presente qualche difficoltà, essa è correlata a problemi con il tempo. 8. Ancorare i pazienti designati ai fratelli. Un valido aiuto nel ridurre l’effetto dell’amplificazione delle differenze, definito schismogenesi, per cui un fratello diventa sempre di più (più bravo, più competente, più sano) e l’altro sempre di meno (meno bravo, meno competente, meno sano), consiste nella convocazione del sottosistema fratelli che mette il paziente alla stregua con gli altri; ciò impedisce anche che il sintomo diventi etichettamento, in quanto viene “ridistribuito” tra i pari. Anche Cecchin si è espresso in questo senso, ridando competenza al minore e prestandogli un sincero ascolto. Bozzetto, nel suo libro “Sawubona ‘ti vedo’. Conversazione (postuma) con Gianfranco Cecchin”, evidenzia come Cecchin conducesse una conversazione in un clima di fiducia e di rispetto verso il minore (senza porsi né come insegnante, né come educatore) e il suo intervento era impostato sul desiderio di dare al mondo dei bambini analoga dignità a quello degli adulti. Attraverso un atteggiamento “alla pari”, egli faceva domande chiare ai bambini ed ai ragazzi, avvalendosi di un linguaggio semplice e diretto, mai giudicante né offensivo. 84 Si possono riconoscere degli “obiettivi” comuni ai suoi interventi terapeutici: • ascrivere al minore la sua competenza; • ascoltare non solo la sua parte sintomatica ma anche quella “intelligente”; • descrivere i forti pregiudizi sociali di cui i bambini sono oggetto (medicalizzazione, istruzione, educazione); • riconoscere al bambino il “lavoro” svolto (per il benessere dell’intera famiglia). Appare evidente come il dar voce anche al bambino, sia l’esplicazione ad hoc del concetto di “neutralità” elaborato da L.Boscolo e G. Cecchin. Gli Autori definiscono la neutralità come una “posizione terapeutica ben definita: il terapeuta accetta le soluzioni della famiglia come le sole possibili, logiche e appropriate per la famiglia in quel momento” 13. Mantenendo una sana curiosità verso tutti (grandi e piccini) ed un atteggiamento neutrale, non moralistico né giudicante, si accetta il sistema familiare così come è giunto nella stanza di terapia, con le sue regole, le sue triangolazioni e le sue rigidità, per poi riuscire, non accettando aprioristicamente nessuna delle verità portate dagli astanti, ad avere una visuale completa di tutte le relazioni intrafamiliari e a perturbare la famiglia attivandone le capacità autocurative. Tra gli autori sistemici che hanno tratto profitto dalla presenza dei bambini nella sala di terapia, troviamo M. Andolfi. La premessa che guida il suo approccio è che “la famiglia sia […] un sistema dinamico in costante evoluzione; tra problemi antichi, stati di sofferenza e di contraddizioni attuali da un lato e risorse individuali e di gruppo dall’altro”. 14 Queste risorse, secondo Andolfi, possono essere attivate proprio partendo dagli elementi apparentemente più deboli, i bambini, che egli considera esperti di relazione, “pensatori sistemici autodidatti”. Questi, anche nelle situazioni familiari 13 cit: L. Boscolo, G. Cecchin, L. Hoffman e P. Penn – (2004) Clinica sistemica - Bollati Boringhieri (pag.113). 14 cit: Andolfi M., Falcucci M., Mascellani A., Santona A., Sciamplicotti F. (2007), Il bambino come risorsa nella terapia familiare. I seminari di Maurizio Andolfi. Accademia di psicoterapia della Famiglia, Roma (pag.1). 85 più disgregate e difficili, offrono sempre una prospettiva positiva; è raro che non portino un pensiero di speranza e di cambiamento. Anche questo terapeuta ritiene che i bambini siano poco coinvolti e poco ascoltati nella realtà quotidiana, come nella sala di terapia, dove si tende più a parlare del bambino che con il bambino. Andolfi propone dieci punti chiave per trattare la malattia-disturbo del bambino: 1) Il problema di un bambino è sempre un problema familiare. Non ha senso quindi osservare il bambino staccato dalle sue connessioni affettive fondamentali. Da questa considerazione ne deriva che non c’è tanto bisogno di esperti di bambini, quanto di esperti della famiglia e dei suoi processi di sviluppo. È possibile che un bambino possa contrarre malattie organiche, psicosomatiche, relazionali e che possa presentare disturbi psicologici anche severi; nel trattare questi disturbi non è corretto delegare ad un esperto ed escludere i familiari dal processo di conoscenza e di acquisizione di competenza. 2) Le risorse si possono ritrovare all’interno del problema stesso per cui viene richiesta la terapia. Il bambino problematico diventa così un bambino “competente”, che guida il terapeuta nel suo mondo relazionale. Se si sollecita la parte competente del bambino, quest’ultimo può superare meglio la sua impasse e, attraverso il problema del bambino si aiutano gli adulti a superare le loro difficoltà. 3) Il bambino guida il terapeuta nel mondo relazionale della famiglia. 4) Genitori, fratelli, famiglia estesa e contesto sociale (amici, vicini, ecc.) sono le principali risorse per la diagnosi, la cura e la riabilitazione del bambino. Attraverso l’allargamento del contesto e la rilettura del sintomo all’interno della storia familiare, dei suoi miti e dei conseguenti mandati, il terapeuta può ricostruire i diversi significati relazionali di quel dato problema e utilizzarli nella terapia, decentrando il piccolo paziente e permettendo alla famiglia nucleare di recuperare e mobilitare le proprie potenzialità. 86 5) Tutte le malattie/disturbi infantili hanno un incredibile potenziale di autorecupero e sono fortemente influenzate dal contesto familiare e sociale (positivo o negativo). Troppo spesso le famiglie preferiscono la negazione o minimizzazione di una malattia “per il bene dei bambini” finendo in questo modo per privare il bambino delle sue straordinarie capacità adattative ad eventi traumatici o invalidanti. 6) La diagnosi della malattia infantile dev’essere flessibile e dinamica e non può essere descritta come “il caso di….”, ciò per evitare che diventi un’etichetta molto pericolosa. È utile una diagnosi nosografia come pure una diagnosi relazionale, per ampliare il campo di indagine, ma devono essere entrambe flessibili. 7) In ogni malattia infantile è necessario comprendere la connessione circolare che esiste tra le componenti biologiche e quelle relazionali. È necessario poter disporre di tutti gli strumenti utili, compresi quelli che non appartengono alla propria formazione di base o intervenire con un lavoro di equipe che permetta di trovare un raccordo tra componenti bio-psico-sociali per ciò che concerne sia la diagnosi che la terapia. 8) Il concetto di disturbo cronico dell’infanzia è un paradosso evolutivo e si trova più nella testa dei professionisti dell’infanzia che nelle difficoltà del bambino. Definire cronico il disturbo di un bambino significa negare quelle capacità auto terapeutiche prima citate. Il concetto di cronicità può rappresentare un grave pregiudizio con cui accostarsi alle difficoltà di un bambino. 9) La malattia infantile non può essere curata senza coinvolgimento attivo della famiglia. La famiglia di fronte ad una difficoltà manifestata dal bambino tende a rivolgersi ad un terapeuta individuale, così può delegare all’esperto il problema senza sentirsi in colpa o senza doversi assumere eventuali responsabilità. Il terapeuta dovrebbe cercare di favorire un coinvolgimento attivo della famiglia, in senso collaborativo e propositivo. Deve quindi acquisire un pensiero non giudicante e non pedagogico e costruire una motivazione congiunta. Tenere 87 presente e sottolineare la differenza tra il concetto di responsabilità e quello di colpa, può aiutare nell’obiettivo di coinvolgere la famiglia. 10) Un modello strutturale di famiglia. L’ascensore sale e scende. Ciascun membro della famiglia appartiene al suo piano generazionale. Andolfi utilizza la metafora della casa a tre piani con l’ascensore, per osservare i confini tra una generazione e l’altra e gli spostamenti che in esse avvengono. Ciò dà una lettura della famiglia in termini strutturali. Per osservare invece ogni piano e quindi il sistema coppia, quello dei figli e quello dei nonni bisogna acquisire un pensiero evolutivo ed esplorare i diversi momenti di transizione del ciclo vitale e osservare come la famiglia reagisce ai vari eventi (nascite, aborti, separazioni, uscite di casa, ecc.). Le modalità dell’approccio di Andolfi sono da lui ben delineate e strutturate. La sua lunga e ricca attività clinica con le famiglie con bambini, gli ha permesso di affinare i suoi “strumenti” e di individuare delle precise e ricorrenti “configurazioni familiari distorte”. Egli individua anche degli strumenti diagnostici e di intervento che ritiene fondamentali, non solo nei confronti del bambino, ma dell’intero sistema familiare: • Le domande relazionali, che esplorano le qualità dei rapporti; • L’area del “non verbale”; • L’uso di un linguaggio simbolico; • Il gioco in seduta; • Il fare concreto in seduta; • Il genogramma in seduta; • Umorismo e creatività. Dunque, una proposta e una prassi nel lavoro di Andolfi è quella di coinvolgere in terapia anche i bambini molto piccoli, i neonati, o ancora prima, quando si trovano nella pancia della mamma. Questo perché si è riconosciuto che, già dal concepimento, il bambino svolge importanti funzioni relazionali in quanto viene investito di significati 88 attribuiti dai genitori e dai familiari. Il coinvolgimento del bambino in terapia consente di trasmettere dei contenuti agli adulti, intrecciando domande e ascolto del bambino. Inoltre quando c’è un bambino è più facile introdurre il gioco, il linguaggio ludico, fatto di pensiero magico, simbolico e metaforico, facendo qualcosa con lui per arrivare agli adulti. Il gioco, quindi, rappresenta una forma di comunicazione alternativa al linguaggio verbale attraverso cui il bambino può sentirsi libero di esplicitare dinamiche familiari attuali o pregresse che lo hanno emotivamente coinvolto. A tal proposito, diversi autori sistemici hanno evidenziato l’utilità di strumenti diagnostici o test (“importati” da altri approcci terapeutici) per entrare in relazione con bambini piccoli o portatori di handicap. Ad esempio, Gandolfi e Martinelli hanno avvertito la necessità di disporre di uno strumento idoneo a cogliere e mobilitare le risorse della famiglia atte ad innescare i processi di cambiamento, non in forma eteroindotta e prescrittiva, ma autoprodotta, anche se grazie ad un orientamento perturbativo offerto dal consulente terapeutico. Con questo intento, hanno ideato uno strumento, il “Test delle relazioni familiari GM”, che prevede l’applicazione dello Sceno-test di Gerdhild von Staabs, secondo una revisione operata dagli autori coerentemente con le tecniche di intervento elaborate dalla Scuola di Milano e con la revisione costruttivista dell’approccio sistemico. I. Bozzetto, nel suo lavoro con le famiglie, partendo dalla constatazione che, più i bambini sono piccoli, più le loro espressioni vengono veicolate attraverso modalità linguistiche semplici, o attività quali il gioco e il disegno, suggerisce di utilizzare questi strumenti per permettere ai piccoli interlocutori di partecipare attivamente alla costruzione narrativa della storia familiare. “Il disegno rappresenta una modalità di comunicazione, poiché costituisce una rielaborazione di dati e informazioni che il bambino trae dal mondo esterno ed interno. Nell’attribuire forme e colori, nello stabilire rapporti spazio-temporali, nell’esprimere movimenti e stato d’animo, il bambino illustra esperienze che difficilmente saprebbe esprimere con il linguaggio. Il disegno della propria famiglia racconta molto del bambino e del suo mondo e offre uno spunto prezioso per conversare con lui. Lo stesso si può dire della rappresentazione della 89 propria famiglia attraverso il gioco con gli animali o altri con personaggi reali o fantastici.” 15 Bozzetto trova molto utile anche costruire il genogramma familiare coinvolgendo tutti i membri. “Il genogramma familiare, elaborato da M. Bowen, è un diagramma o una mappa trigenerazionale delle persone che formano una famiglia e include tutti i dati che il terapista ritiene necessari (nascite, morti, divorzi, sentimenti, miti, eventi significativi…). Esso offre una panoramica del sistema allargato che facilita la comprensione delle molteplici forze che agiscono sullo sviluppo e sul funzionamento dell’individuo, della coppia e del sistema familiare. La collaborazione dei bambini permette di raccogliere informazioni su più livelli: è un indicatore delle conoscenze che il bambino ha sulla sua storia familiare e sui rapporti tra i membri del sistema allargato. Informa poi sullo sviluppo del pensiero del bambino, sulla sua capacità di uscire dall’egocentrismo e assumere la prospettiva altrui, accrescendo la consapevolezza delle relazioni in famiglia e nei contesti più ampi.” 16 Questi sono solo alcuni degli strumenti che appartengono ad altre teorie, ma possono essere prese in prestito dai terapeuti sistemici per far emergere il “non detto”. Essi possono, in alcuni momenti, essere affiancate al modello teorico di riferimento con l’obiettivo di offrire nuove informazioni e di permettere a chi è in difficoltà di esprimere la propria visione del mondo. L’introduzione di test e strumenti diagnostici rappresenta una novità rispetto all’approccio sistemico classico e contemporaneamente un plus valore in quanto permette, non di fornire una diagnosi cristallizzata, statica del bambino (e della sua famiglia), ma di rilevare i processi in atto ed individuare una cornice condivisibile tra terapeuta e sistema familiare idonea a spiegare i comportamenti. L’importante è non dimenticare che si sta operando secondo una epistemologia operativa, ossia un modo di operare attraverso cui la conoscenza si costruisce nel momento dell’osservazione. Ogni strumento (anche di tipo diagnostico) offre una visione parziale, una descrizione sì frammentata ma in grado comunque di aggiungere ulteriori informazioni 15 16 cit: Bozzetto I. (1996), “Disegno anche me?” Connessioni, 13-14 Ibidem 90 a quelle già acquisite dal terapeuta, al fine di costruire una rappresentazione complessa del problema. [...]Non ci opporremo a diagnosi cliniche fatte da colleghi o riportate dai clienti. Rispetteremo i vari punti di vista diagnostici, sia perché nessun punto di vista nel campo dei disturbi del comportamento può essere dato statuto di verità incontrovertibile, sia perché più punti di vista rendono giustizia alla complessità delle teorie e dei linguaggi dei componenti di un dato sistema terapeutico. 17 Riflessioni per un confronto E’ possibile attivare una comparazione tra i suddetti autori in base a molteplici criteri, tra cui la presenza del minore nella stanza di terapia e la depatologizzazione dello stesso. In relazione al primo criterio, si può ipotizzare un continuum che, partendo dalla posizione di M. Selvini Palazzoni che, a partire dalla terza seduta prevedeva la costante assenza del bambino, arriva sino a quella, opposta, di M. Andolfi, il quale invece richiede la presenza fissa del bambino, considerato chiaramente non solo un elemento competente del sistema, non solo un co-terapeuta, ma addirittura un “formatore”, in grado di tradurre i messaggi interni alla famiglia e di istruire i terapeuti sulle modalità comunicative e relazionali. Lungo questo continuum si collocano gli esponenti del Milan Approach, i quali hanno operato decidendo di volta in volta se e per quanto tempo il minore dovesse essere presente, e M. White, che di fatto accetta la definizione del problema che ne danno i genitori e che propone un intervento individuale. Le modalità di procedere appaiono tutte utili e interessanti. Alcune coinvolgono il bambino solo nella fase di conoscenza e valutazione, altre invece lo coinvolgono per tutta la durata del trattamento. Alcune ritengono utile affiancare agli incontri congiunti degli incontri individuali. Altre ancora propongono di fare alcuni incontri dividendo i sottosistemi. Le ipotesi che guidano queste scelte sono diverse, ma appaiono tutte plausibili e, soprattutto, sembrano rispondere ad obiettivi comuni: trasformare il 17 cit: L. Boscolo, P. Bertrando (1996) Terapia Sistemica Individuale. 91 problema del bambino in un problema familiare, sottraendolo dal ruolo di “paziente designato”, e aiutare le famiglie ad uscire da un’impasse costruendo insieme nuove storie e possibilità. Considerando poi il secondo criterio, si possono osservare le diverse forme attraverso cui il minore viene depatologizzato: M. Selvini Palazzoli riconduce il comportamento sintomatico a problemi nella coppia genitoriale/coniugale, Boscolo e Cecchin allargano il cono dell’attenzione sull’intero sistema-famiglia, M. White opera scindendo il bambino dal problema che lo caratterizza; M. Andolfi, infine, ridà competenza al minore assegnandogli nuovi “profili”. Questa depatologizzazione offre non solo il vantaggio immediato di cancellare gli etichettamenti e di ridistribuire eventualmente il sintomo, ma anche quello di deresponsabilizzare il bambino al quale viene restituita la legittimazione di vivere la sua età nel modo più sereno e libero. Conclusioni Gli esiti di questo percorso di ricerca hanno mosso il gruppo verso un prossimo obiettivo: definire delle linee – guida e riconoscere ed illustrare i criteri in base ai quali nell’ambito del Milan Approach viene stabilita la presenza o l’assenza del minore; appare indubbiamente interessante potersi confrontare con altre tipologie di intervento (sia in contesti privati che pubblici) e con diverse realtà territoriali. 92 Bibliografia 1. Andolfi M. (1994), Come restituire l’infanzia ai bambini. Terapia Familiare, 46. 2. Andolfi M., Falcucci M., Mascellani A., Santona A., Sciamplicotti F. (2007), Il bambino come risorsa nella terapia familiare. I seminari di Maurizio Andolfi. Accademia di Psicoterapia della Famiglia, Roma. 3. Andolfi M. (2009), Introduzione. Il bambino ritrovato. Terapia Familiare, 91. 4. Andolfi M. (2009), Come restituire la voce e la competenza al bambino attraverso la terapia familiare. Terapia Familiare, 91. 5. Boscolo L., Bertrando P.(1996) Terapia Sistemica Individuale. Raffaello Cortina Editore. 6. Boscolo L., Cecchin G., Hoffman L. e Penn P. (2004) Clinica sistemica. Dialoghi a quattro sull’evoluzione del modello di Milano. Edizione italiana a cura di P. Bertrando. Bollati Boringhieri. 7. Bozzetto I., Ballardin D., Trevisan M. (1995), Bambini in terapia familiare. Connessioni, 11. 8. Bozzetto I. (1996), “Disegno anche me?” Connessioni, 13-14. 9. Bozzetto I., Boscolo L. (2003), A proposito di Davide, Marella, Francesca… Conversazione con Luigi Boscolo. Connessioni, 12 pp. 85-104. 10. Bozzetto I. (2010), Sawubona “ti vedo”. Conversazione (postuma) con Gianfranco Cecchin. Edizione Unipress 11. Garbellini M., A proposito di continuità e discontinuità nelle ricerche di Mara Selvini Palazzoli (1989) Bollettino n°18 12. Gandolfi M., Martinelli F. (1990), Il bambino nella terapia della famiglia: una revisione sistemica dello sceno-test. Terapia Familiare, 34. 13. Gandolfi M., Martinelli F. (2004), Il comportamento fobico del bambino: disturbo evolutivo o precursore di patologia nell’età adulta? Ipotesi per una diagnosi differenziale. Terapia Familiare, 75. 14. Gandolfi M., Martinelli F. (2008), Il bambino nella terapia. Approccio integrato alla diagnosi e al trattamento con la famiglia. Edizioni Erickson . 15. Gandolfi M., Martinelli F. (2009), La conversazione ritrovata. Esperienze di terapia familiare con bambini autistici e le loro famiglie. Terapia familiare, 91. 93 16. Quadrino S., Boscolo L. (2005), Alla ricerca dei genitori competenti. Una conversazione di Silvana Quadrino con Luigi Boscolo. La Parola e la Cura, autunno 2005. Edizioni Change. 17. Selvini Palazzoli M., (1986), Verso un modello generale dei giochi psicotici nella famiglia. Tr. It. in Terapia Familiare, 21 pp 5-21 18. Selvini Palazzoli M., Cirillo S., Sorrentino A.M., Selvini M. (1988) I giochi psicotici nella famiglia. R. Cortina 19. Sorrentino A. M. (2005), Perché i bambini scompaiono dalle sedute familiari? Terapia Familiare, 77. 20. Viaro M. (1973), Non lasciate che i pargoli vengano a me. Terapia Familiare, 11 pp. 57-59. 21. Viaro M. (1994), I bambini servono perché ci sono i grandi che spiegano le cose. Terapia Familiare, 44 pp. 65-70. 22. Viaro M. (2003), È possibile salvare alcuni bambini dalla terapia individuale? Connessioni, 12. 23. Viaro M. (2007), Bambini e terapia familiare. Terapia Familiare, 85. 24. White M. (1992), La terapia come narrazione. Proposte cliniche. A cura di U. Telfner. Casa Editrice Astrolabio. 94 95