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attori e attrici: sempre solo i soliti noti?

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attori e attrici: sempre solo i soliti noti?
CINEMA ESPANSO
Bruno Bozzetto a San Francisco
Dante Ferretti a New York
FOCUS
Il cinema in Argentina
VERSO L’OSCAR
Jep Gambardella recensisce
La grande bellezza
TENDENZE
Cosa pensano i politici
del cinema italiano?
dicembre
2013
5,50 €
12
numero
CINEMA ITALIANO
ATTORI E ATTRICI:
SEMPRE SOLO I SOLITI NOTI?
POLEMICHE
LA DIREZIONE E LA
REDAZIONE DI 8½
RINGRAZIANO TUTTI
COLORO CHE NEL 2013
HANNO COLLABORATO
ALLA REALIZZAZIONE
DELLA RIVISTA:
Mario Abis
Alberto Abruzzese
Corrado Adamo
Roberto Andò
Elisabetta Andreis
Silvia Avallone
Mario Balsamo
Guido Barlozzetti
Luca Barra
Stefano Bartezzaghi
Giancarlo Basili
Andrea Bellavita
Marco Belpoliti
Ivan Beretta
Luca Bernabè
Paolo Bertetto
Eddie Bertozzi
Marco Bertozzi
Tina Bianchi
Bruno Bigoni
Gaetano Blandini
Alice Bonetti
Fausto Brizzi
Federico Brugia
Laura Buffoni
Maria Buratti
Giulio Bursi
Marco Buticchi
Pedro Butcher
Andrea Cancellato
Claudio Carabba
Stefania Carini
Massimo Carlotto
Donato Carrisi
Salvatore Carrubba
Riccardo Casali
Paola Casella
Caterina Caselli Sugar
Lionello Cerri
Giovanni Chiaramonte
Francesca Chiocchetti
Francesca Cima
Mariuccia Ciotta
Rodrigo Cipriani Foresio
Giulia Cogoli
Guido Cornara
Pappi Corsicato
Callisto Cosulich
Alberto Crespi
Silvio Danese
Fulvio De Berardinis
Elio De Capitani
Andrea De Carlo
Giancarlo De Cataldo
Steve Della Casa
Laura Delli Colli
Goffredo De Pascale
Anna Luigia De Simone
Piera Detassis
Adriano D’Aloia
Guido Di Fraia
Giorgio Diritti
Federica D’Urso
Paolo Di Reda
Giacomo Durzi
Valerio Evangelisti
Roberto Faenza
Giorgio Faletti
Luisella Farinotti
Pier Francesco Favino
Davide Ferrario
Fabio Ferrazza
Dante Ferretti
Alessandro Ferrucci
Fabio Ferzetti
Chiara Gamberale
Chiara Gelato
Iole Maria Giannattasio
Mimmo Gianneri
Marco Giusti
Giorgio Gosetti
Aldo Grasso
Michela Greco
Chiara Grizzaffi
Peter Howell
Kyung Hyun Kim
Lucio Laugelli
Alessandra Levantesi
Luigi Lo Cascio
Stefano Locati
Daniele Luchetti
Jan Lumhold
Cristiana Mainardi
Frédéric Maire
Luca Malavasi
Fabrizia Malgeri
Mariarosa Mancuso
Valerio Massimo Manfredi
Franco Marineo
Umberto Marino
Eleonora Mazzoni
Francesca Medolago Albani
Enrico Menduni
Paolo Mereghetti
Wendy Migliaccio
Magda Mihailescu
Stefano Missio
Rocco Moccagatta
Francesca Monti
Franco Montini
Stefano Mordini
Asia Marta Muci
Serafino Murri
Enzo Natta
Till Neuburg
Maurizio Nichetti
Marino Niola
Katia Nobbio
Olkan Ozyurt
Valerio Orsolini
Johnny Palomba
Angelo Pannofino
Marco Lucio Papaleo
Alberto Pasquale
Francesco Patierno
Luca Pellegrini
Cecilia Penati
Micheal Perkel
Alberto Pezzotta
Giuseppe Piccioni
Giovanni Marco Piemontese
Francesco Pitassio
Paolo Pizzato
Veronica Pravadelli
Roberto Provenzano
Angela Prudenzi
Andrea Purgatori
Leonardo Quaresima
Ivan Quaroni
Costanza Quatriglio
Ilaria Ravarino
Rolando Ravello
Carlos Reviriego
Rossella Rinaldi
Roberta Ronconi
Federico Rossin
Paola Ruggiero
Emanuele Sacchi
Pier Luigi Sacco
Sara Sagrati
Severino Salvemini
Daniela Sanzone
Massimo Scaglioni
Maurizio Sciarra
Lorenza Sebastiani
Mario Sesti
Fabio Severino
Roberto Silvestri
Alessandro Spreafico
Caterina Taricano
Micaela Taroni
Maria Sole Tognazzi
Roberta Torre
Bruno Torri
Riccardo Tozzi
Vincenzo Trione
Michail Trofimenkov
Daniele Vicari
Elisa Vinai
Marilena Vinci
Andrea Vitali
Mario Zanot
Dario Zonta
Wang Xiaolu
SENZA DIMENTICARE
COLLEGHI E AMICI
DELLA DIREZIONE
GENERALE CINEMA,
LUCE-CINECITTÀ E ANICA
CHE HANNO AGEVOLATO
IL NOSTRO LAVORO CON
PAZIENZA E SIMPATIA.
EDITORIALE
diGianni Canova
QUELLI CHE SANNO
CON CERTEZZA COSA
È CINEMA E COSA NON LO È...
N
on c’è niente da fare. Agli intellettuali non va giù. Ai critici militanti neppure. I benpensanti radical-chic lo detestano. E non capiscono – ammesso che abbiano mai
capito qualcosa – come e perché Checco Zalone piaccia
tanto al “popolo” italiano. Due anni fa, quando lo invitai
a incontrare gli studenti nella mia università, qualche settimana prima
del successo travolgente di Che bella giornata, ricordo che ricevetti
parecchie telefonate indignate di amici e colleghi (docenti universitari, scrittori di fama,
giornalisti, tutti nomi in vista nel sistema
mediatico nazionale) che protestavano con
me: ma come? Zalone all’università? Cosa
avrà mai da insegnare costui agli studenti!?!
Avevano ragione: agli studenti Checco non
aveva nulla da insegnare, coi ragazzi poteva
tutt’al più condividere. Caso mai, aveva qualcosa da insegnare a loro. Che però erano
(e sono) sordi. Impermeabili. Ora come
allora. È davvero deprimente vedere come
tanta parte del nostro establishment culturale – quello stesso che con il suo snobismo
elitario ha impedito la nascita di una vera
industria culturale nel nostro paese – non
voglia vedere. Non voglia capire. Il pubblico
italiano non è disamorato del cinema e dei
film. È stanco e nauseato da un certo tipo
di film, tutti uguali, piattamente omologati, spesso invitati ai grandi
festival ma incapaci di comunicare alcunché a un pubblico abbandonato a se stesso, ma proprio per questo assolutamente bisognoso
di un cinema capace almeno di trasmettere emozioni. Con il suo
incredibile successo, Sole a catinelle dovrebbe aver insegnato qual-
cosa. Ad esempio: nessuno o quasi ha ragionato sul fatto che per
due anni Checco Zalone ha lavorato esclusivamente al film. Non
ha fatto tv, teatro, pubblicità, cabaret. Mentre tanti altri nostri attori “pensosi” e “impegnati” riescono anche a girare due o tre film
all’anno, e in più fanno teatro, tv, pubblicità, e così via, fino alla
vertigine dell’inflazione di sé. Checco ha curato il suo film con una
dedizione d’altri tempi, con una cura assoluta, avendo perfino l’intelligenza di rinviare l’uscita del nuovo film
di un anno nella consapevolezza che il progetto a cui stava lavorando non era quello
giusto, o non era ancora maturo. Chi altri
oggi farebbe lo stesso? Chi ha questa capacità di programmare, pianificare, rischiare,
senza pietire sussidi, aiuti, finanziamenti,
ma facendo uscire il pubblico di casa e
portandolo al cinema? Ma non è cinema!,
dicono le anime belle. Beati loro che sanno
con certezza talebana cosa è cinema e cosa
non lo è. Checco non pretende di saperlo.
Lo “sente”, sente il paese e sente anche il
cinema. Come facevano, ai tempi loro, prima Totò e poi Alberto Sordi. Neanche loro,
finché erano in vita, piacevano ai gendarmi
del gusto e ai chierici del cinema d’autore.
Sono stati riabilitati post mortem. Aveva ragione Marco Bellocchio ne Il regista di matrimoni: in Italia comandano i morti. Almeno finché non c’è qualche
Checco Zalone che riporta una ventata di vitalità. Non ha salvato il
cinema italiano, Sole a catinelle. Però qualche indicazione preziosa
l’ha data. Chissà se questa volta qualcuno vorrà provare a coglierla,
e metterà a frutto la lezione.
1
SOMMARIO
EDITORIALE
01
10
PROFESSIONE
CASTING DIRECTOR
di Katia Nobbio
14
CARO ATTORI:
SERIE A
CONTRO SERIE B
di Ilaria Ravarino
SCENARI
QUELLI CHE SANNO
04 LAVORARE
CON CERTEZZA
IN PROFONDITÀ.
COSA È CINEMA
SENZA CERTEZZE
E COSA NON LO È...
di Bruno Bigoni
di Gianni Canova
06
08
INTERVISTA
A CATERINA
D’AMICO:
I SOLITI NOTI
E L’ECCEZIONALE
CASO DI
MARGHERITA BUY
di Ilaria Ravarino
MASTANDREA,
SALEMME,
ANGIOLINI
E GERINI...
MAI SENZA
di Wendy Migliaccio
17
24
25
L'ATTORE È UN
BUGIARDO
AL QUALE
QUI SI CHIEDE
LA MASSIMA
SINCERITÀ
di Nicole Bianchi
CANI PIETOSI,
CHE TENEREZZA!
di Mario Sesti
NON AMO
GLI ATTORI
ITALIANI
UNA PICCOLA
APOCALISSE
di Claudio Carabba
COSA MI PIACE
DEL CINEMA
ITALIANO
26
YOSHI YATABE,
PROGRAMMING
DIRECTOR
DEL TOKYO
INTERNATIONAL
FILM FESTIVAL
di Michela Greco
TENDENZE
28
IL GIOCO
DELLE MASCHERE
di Gianni Canova
30
SEI DOMANDE
AI POLITICI
ITALIANI
di Francesca
Chiocchetti
36
IL FANTASMA
DELL’ONOREVOLE
di Fabio Ferzetti
40
L’ARMA PIÙ FORTE
di Enzo Natta
42
TRA IL
TRANSATLANTICO
E LA RETE,
TANTO RUMORE
PER NULLA
di Alessandro Ferrucci
NUMERI
diUnità di Studi
congiunta
DG Cinema/ ANICA
45
DECRETO VALORE
CULTURA: ITALIA
ALLINEATA AI PIÙ
AVANZATI PAESI
EUROPEI
diIole Maria
Giannattasio
47
UNA RIVOLUZIONE
COPERNICANA VISTA
DALL'INDUSTRIA
diFederica D’Urso e
Francesca Medolago
Albani
8½
NUMERI, VISIONI
E PROSPETTIVE
DEL CINEMA ITALIANO
Mensile d’informazione
e cultura cinematografica
Iniziativa editoriale realizzata
da Istituto Luce-Cinecittà
in collaborazione con ANICA
e Direzione Generale Cinema
Direttore Responsabile
Giancarlo Di Gregorio
Direttore Editoriale
Gianni Canova
In Redazione
Carmen Diotaiuti
Andrea Guglielmino
Vice Direttore Responsabile
Cristiana Paternò
Coordinamento redazionale
DG Cinema
Andrea Corrado
Capo Redattore
Stefano Stefanutto Rosa
Coordinamento editoriale
Nicole Bianchi
2
Hanno collaborato
Guido Barlozzetti, Bruno Bigoni
Claudio Carabba, Francesca
Chiocchetti, Elio De Capitani, Steve
Della Casa, Alessandro Ferrucci,
Fabio Ferzetti, Michela Greco,
Diego Lerer, Daniele Luchetti,
Wendy Migliaccio, Enzo Natta, Katia
Nobbio, Ilaria Ravarino, Rossella
Rinaldi, Roberta Ronconi, Mario
Sesti, Alessandro Spreafico
Progetto Creativo
19novanta communication partners
Creative Director
Bruno Capezzuoli
Designer
Giulia Arimattei, Matteo Cianfarani,
Valeria Ciardulli, Tommaso Dal Poz,
Lorenzo Mauro Di Rese,
Simona Merlini
SOMMARIO
CINEMA ESPANSO
RICORDI
DISCUSSIONI
61 IL CASO
58 VERSO L’OSCAR.
BRUNO BOZZETTO. 54 IL SEGRETO
ALLEGRO NON…
DI GIGI MAGNI:
E SE I PERSONAGGI
ARGENTINA
...NON CHIAMATEMI
LA VERA RICETTA
COMINCIASSERO
62 TANTO CINEMA
MAESTRO!
DELLA CARBONARA
A RECENSIRE
di Nicole Bianchi
di Steve Della Casa
I FILM DI CUI
PER POCO
SONO INTERPRETI?
PUBBLICO
52 DANTE FERRETTI.
di Elio De Capitani
di Roberta Ronconi
IL LABIRINTO,
65 BUENOS AIRES:
I LEONI
E I LAMPADARI
QUANTI REGISTI
DI SALÒ
PER METRO
di Alessandro Spreafico
QUADRO!
di Ro. Ro.
50
NEL MONDO
56
Stampa ed allestimento
Arti Grafiche La Moderna
Via di Tor Cervara, 171
00155 Roma
Distribuzione in libreria
Joo Distribuzione
Via F.Argelati,35
Milano
DA PALERMO
ALL’ASIA,
IL VIAGGIO DELLA
“CIABATTINA” COTTA
di Rossella Rinaldi
Registrazione
presso il Tribunale
di Roma n° 339/2012
del 7/12/2012
GEOGRAFIE
FOCUS
66
68
ARCHEOLOGIA
INDUSTRIALE
E NATURA
SELVAGGIA.
BREVE VIAGGIO
NELL’ALTO ADIGE
CHE NON
CONOSCE CRISI
di Cristiana Paternò
PUNTI DI VISTA
74
SE L'ITALIA
PREFERISCE
IL PROSCIUTTO
AL CINEMA
di Daniele Luchetti
78
DALLA SALA
BUIA ALLA
GHIANDOLA
PINEALE
di Guido Barlozzetti
80
BIOGRAFIE
UNA TANGENZIALE
A PIÙ CORSIE
di Diego Lerer
INTERNET E NUOVI
CONSUMI
72
IL DIVO DELLA
PORTA ACCANTO
di Carmen Diotaiuti
Direzione, Redazione,
Amministrazione
Istituto Luce-Cinecittà Srl
Via Tuscolana, 1055 - 00173 Roma
Tel. 06722861 fax: 067221883
[email protected]
Chiuso in tipografia il 29/11/2013
3
SCENARI
I soliti noti: l'inflazione degli attori
nel cinema italiano
,
Lavorare in profondita.
Senza certezze
diBruno Bigoni
4
SCENARI // I soliti noti: l'inflazione degli attori nel cinema italiano
“
P
ortate ogni scena al
massimo grado d'intensità.
Ogni situazione, anche la più semplice e
banale nasconde un’incognita da risolvere.” (Sergej M. Ejzenstejn).
Capita spesso, quando vedo un film
italiano, di avere la consapevolezza
che il lavoro dell’attore non è abbastanza approfondito. Responsabilità
della regia, penso. Non credo si tratti di avere attori buoni o cattivi, ma
solo registi incapaci di mettere i loro
attori nelle condizioni migliori per
esprimersi.
Certo, tenendo conto dei limiti produttivi di cui il cinema italiano soffre
(soprattutto per gli esordienti) posso comprendere le infinite difficoltà
a cui si va incontro, ma tutto ciò non
basta a giustificare le infelici performance di molti interpreti. Credo comunque si dovrebbe approfondire il
lavoro di messa in scena. Vale per
tutti i film, sia drammatici che comici: viene offerta l’occasione di guardare e affrontare la vita reale, quindi
di avvicinarsi alle cose vere.
Allestire le scene richiede una conoscenza profonda delle intenzioni che la narrazione nasconde, una
certa posizione emotiva e la consapevolezza della necessità continua
di apprendimento. La recitazione
non può mai essere semplicemente l’enunciazione di parole e il movimento del corpo, bensì il luogo della
ricerca, lasciandosi dominare meno
dalla suggestione e più dalla consapevolezza (e magari anche dal sentimento…). Forse per vedere attori più
convincenti bisognerebbe ripartire
dal linguaggio, ma anche dall’alfabeto su cui si basa questo linguaggio.
Vale per gli attori, diventa ancor più
importante per la regia.
In questo modo le parole (ma anche
i gesti, gli sguardi, le intenzioni) ritroverebbero il loro vero significato,
il loro autentico valore, e si presenterebbero come il frutto di un pensiero
profondo. Ecco, proprio questo.
Lavorare in profondità: questo manca a mio avviso a molti attori del cinema italiano di oggi. Latitano quella
qualità di lavoro e di tempo necessari a far diventare qualunque acting non solo uno sfondo dove immaginare le storie che si vogliono
raccontare, ma anche il luogo dove
apprendere il significato delle mille
parole che formano l’immaginario
di un interprete: partecipazione, separazione, solitudine, disagio, gioia
e via dicendo. Accanto a quelle della
creatività, del desiderio, del conflitto
e dei mille altri aspetti della vita che
ci circonda.
Realizzare un acting dovrebbe significare sempre mettersi in gioco, rischiare. Per entrare nel mondo sconosciuto di un personaggio sarebbe
necessario pensarlo in profondità,
mettere in moto un’energia che proietti verso il centro del suo sentire il
motore dell’esperienza umana, senza cancellare i conflitti interni o esterni. Per creare un’interpretazione autentica, che sappia obiettivamente
guardare (e di conseguenza rispecchiare) la vita, gli attori (e i loro registi) devono “immaginare sinceramente” e muoversi di conseguenza.
Il recitare deve mostrare come sono
fatti l’uomo e le cose che lo circondano, non vedere il loro lato “esteriore” ma la materia. Mi pongo sovente
questa domanda quando entro in un
cinema: cosa cerco in un film? Prima
di tutto la verità di ciò che vedo. La riconoscibilità, la verosimiglianza delle storie che mi vengono raccontate.
E soprattutto la sincerità di chi mi
racconta una storia. Detesto la furbizia. La non riuscita di molti film che
vedo è dovuta proprio, a mio avviso,
a una pessima messa in scena, a un
lavoro approssimativo, a una superficialità insistita.
Verità per un attore (e per il suo regista) è vedere e dire ciò che è presente, vivo, autentico. Farmi vedere
ciò che veramente vede. Non quello
che sembra di vedere. Raccontare la
verità, per un attore, è percorrere un
processo fatto di esperienze autentiche legate alla storia che sta interpretando. Solo così io spettatore potrò
credergli. Sono convinto che il segreto di una buona recitazione stia soprattutto nella qualità delle domande che ci si pone. Il cinema che amo
non ha ricette precotte ma solo coraggio, curiosità e duro lavoro. Molti attori che sono stati abituati a un
lavoro di sole certezze precostituite,
di fronte a un nuovo modo di recitare sono terrorizzati dal non avere
risposte, mentre avere risposte immediate per un attore equivale ad essere morto. In diversi cercano risposte a tutto e poi si domandano come
mai siano così refrattari ad essere
vivi, agili, pronti e curiosi! Sono stati
abituati ed educati ad avere una vita
professionale fatta di risposte giuste. Ma dovranno comprendere, prima o poi, che per essere liberi e per
poter recitare in modo soddisfacente, per loro e per il loro pubblico, dovranno abituarsi che a una domanda
possono corrispondere molteplici risposte giuste.
Riflessioni sull’acting nel cinema italiano. Servono interpreti che
comprendano che una stessa domanda puo' avere molte risposte diverse.
E come dice Gogol: “Gli attori sanno troppo bene la parte.
Devono imparare a dimenticarla”.
5
SCENARI // I soliti noti: l'inflazione degli attori nel cinema italiano
INTERVISTA A
CATERINA D’AMICO:
I SOLITI NOTI
E L’ECCEZIONALE CASO
DI MARGHERITA BUY
diIlaria Ravarino
Crisi e reference system
rendono difficile, se non
impossibile, il ricambio
di talenti. Colpa della
paura di rischiare e
della pigrizia produttiva,
secondo la preside del
Centro Sperimentale.
6
S
ono famosi. Sono premiati. Sono bravi. Ma sono
pochissimi. Così pochi, e privilegiati, da sfiorare
l’appartenenza a una categoria di questi tempi
piuttosto impopolare: la casta. Assediati da un
esercito di colleghi precari, gli attori che lavorano
nel cinema italiano sono un’élite che non conosce crisi.
Alcuni sono sulla cresta dell’onda da anni, altri lo sono
diventati da poco, tutti sono richiestissimi. E (quasi)
sempre nello stesso ruolo. Per Caterina D’Amico, preside
del Centro Sperimentale di Cinematografia, il fenomeno
non riguarda la mancanza di giovani talenti (“ce ne sono
tantissimi”), quanto due sentimenti molto umani e universali: pigrizia e paura di rischiare.
Perché nel cinema italiano recitano
sempre i soliti noti?
Di fondo c’è un problema di pigrizia
da parte dei produttori. Sono spaventati perché la gente non va più
al cinema e cercano certezze. Ma io
non vedo niente di male nel fatto che
un attore faccia tanti film all’anno:
perché dovrebbe farne solo uno? Il
problema semmai è che si tende a offrire a una stessa persona ruoli molto
omogenei. Quando un attore ha successo con un film, ci si affretta forsennatamente a proporgli parti simili a
quelle che lo hanno reso riconoscibile
al pubblico. E quel disgraziato finisce
col rimanere intrappolato.
Colpa del produttore che non rischia, dell’autore senza fantasia o
dell’attore che non dice di no?
Poveri attori, loro il coraggio di dire
di no ce l’hanno. Ma devono lavorare, e se gli propongono solo una
cosa faranno quella per sempre. C’è
qualcosa di schizofrenico nell’atteggiamento di chi se la prende con
gli attori sempre uguali a se stessi,
e poi si lamenta della mancanza di
uno star system italiano. In fondo
cos’è lo star system se non avere un
attore che fa sempre la stessa cosa?
E il reference system? Se un film
con un cast di premiati ha maggiori
possibilità di ricevere finanziamenti, non si rischia così di privilegiare
sempre gli stessi attori?
All’inizio succedeva di più. Prendiamo Elio Germano. Dopo aver sfondato con Mio fratello è figlio unico,
avrò letto almeno cento copioni con
lui. Improvvisamente non esisteva
nessun altro. Era pigrizia da parte
dei produttori, ma anche disperato
desiderio di cavalcare quella che si
credeva essere l’onda del momento.
È una pulsione al sequel, al filone
d’oro, che il reference system ha reso
più perversa: perché se nel cast hai
un attore che ha vinto un premio, fai
punti. Però non esageriamo. Non è
che l’attore debba aver vinto ieri: c’è
un parterre ampio fra cui scegliere.
Il reference system, però, non aiuta
il ricambio.
Ho fatto parte della prima commissione che lo ha affrontato e da allora
le cose sono cambiate. Per esempio
abbiamo chiesto che fosse tolto per
le categorie sussidiarie, quelle in cui
vincono sempre gli stessi. Dato che
a tutti serviva il ”nome”, la gente andava a supplicare il vecchio maestro
scenografo o costumista dicendo:
tu firmi il progetto, mi dai i punti
e poi il resto lo fa il tuo allievo. Un
inferno. Ma ci sono altri correttivi. I
punti adesso vengono attribuiti al regista, allo sceneggiatore e agli attori
protagonisti, cioè quelli che hanno
un peso reale. Non puoi prendere
un attore, dargli un cameo e accaparrarti i suoi punti. In più esiste un
punteggio assegnabile alla coerenza
dell’insieme. A me è successo di
dare punti a film che non avevano
“nomi”, ma una compagine credibile e calzante. Poi certo, qualsiasi
forma di punteggio automatico può
creare danni. Ma d’altronde o ci si
fida di una commissione, o si applica un metodo puramente matematico. Cioè i punti.
E al botteghino? La star del momento dà i risultati sperati?
No. L’ attore ormai è solo uno degli
elementi di un film. Succede anche
nel cinema hollywoodiano. Qualcuno va a vedere un film perché ci recita Ben Stiller? Non credo. Gli attori
americani che suscitano i gridolini
da red carpet, la gente non sa nemmeno come si chiamino. Sono solo
facce. In Italia gli spettatori - e parlia-
mo di un pubblico adulto e acculturato - escono di casa per vedere Toni
Servillo perché Servillo è in un film di
Paolo Sorrentino, o perché recita in
una storia interessante. L’appeal del
grande star system si è depauperato:
è il cinema stesso ad aver perso il
suo potere evocativo. È il cinema che
non è più sulle copertine dei giornali: oggi c’è la moda, altri divi che la
fanno da padrone. Gli attori comici
funzionano ancora come calamite,
ma da soli non bastano. Non basta
Elio Germano o Alba Rohrwacher.
Con un’unica eccezione che dura da
vent’anni. E non accenna a flettere.
Quale?
Margherita Buy. La gente va a vedere
un film con Margherita Buy perché
c’è lei. E basta. Perché è bravissima,
perché è molto bella, perché si trova
in sintonia con una fetta riconosciuta e forte del pubblico cinematografico italiano: le donne della sua età.
Che s’identificano con lei o la sentono vicina, portatrice di istanze che le
riguardano tutte.
L’“effetto Buy” è un’eccezione. E
agli altri cosa resta?
Quando ero a Rai Cinema davo un
consiglio ai registi con cui avevo a
che fare: mettere nei loro film, accanto all’attore di richiamo, anche un interprete che non conosce nessuno.
In questo modo il nuovo attore sarà
aiutato ad acquisire riconoscibilità. E
un domani, magari, sarà lui a fare da
traino per gli altri.
7
SCENARI // I soliti noti: l'inflazione degli attori nel cinema italiano
S
cegliamo come campione il trien- re solo i film usciti in sala nel triennio cinio 2011-2013 e osserviamo i cast tato, escludendo documentari, produzioni
dei film italiani usciti in questo pe- straniere, fiction e film per la tv, osserviariodo nelle sale cinematografiche. mo che attori come Valerio Mastandrea,
Viene dato poco spazio alle novità Claudia Gerini e Margherita Buy guadae gli attori principali sono scelti nell’Olimpo gnano il podio con ben otto film. Se però
dei soliti noti, che vantano dai 5 agli 8 film includessimo anche i ruoli televisivi i nuinterpretati nel triennio preso in esame. meri aumenterebbero ulteriormente. Ad
La scelta di case di produzione e casting esempio Ricky Memphis, oltre ai sei film
director ricade per comodità sui nomi più per il cinema, nello stesso periodo ha preprestigiosi con la convinzione - tutta da so parte a film per la televisione come
verificare - che richiamino un immediato Area Paradiso e a fiction come Notte prima
sbigliettamento. Non è un caso che le lo- degli esami ‘82 e Tutti pazzi per amore 3.
candine italiane tengano a sottolineare vi- I risultati del box office, non particolarmente gratificanti per i
sivamente l’importanfilm italiani, dovrebbero
za del cast, attraverso
immagini spesso ba- Le facce che tornano in ogni aver svelato il falso mito
nali e ripetitive. Si per- film, i ruoli che si ripetono, le della ricerca di successevera nell’idea che ad coppie fisse (categoria in cui so attraverso il richiamo dato dai nomi in
attirare gli spettatori
non siano tanto la sto- stravincono Accorsi e Buy!): auge. Eppure così non
ria o la fascinazione del analisi degli interpreti italia- è, tanto che la scelta defilm quanto la popola- ni sempreverdi negli ultimi gli stessi attori genera
inevitabilmente anche
rità dei suoi interpreti.
tre anni.
gli stessi abbinamenti.
I motivi per cui si rimaEsemplare è l’ormai rone ancorati a queste
credenze discutibili sono tanti. Nessuno data accoppiata Stefano Accorsi - Marghevuole rischiare e spesso chi sceglie a chi rita Buy. Nel recente Viaggio sola sono due
affidare i ruoli principali non ha competen- ex fidanzati che covano ancora sentimenti
ze artistiche. Manca il coraggio. Manca la l’uno per l’altra. Andando a ritroso la copvoglia di sperimentare, che dovrebbe par- pia è invece sposata e in crisi in Saturno
tire proprio dalla ricerca dell’attore, per in- contro mentre ne Le fate ignoranti il loro
dividuare chi (famoso o no) più di altri sia legame nasce dall’amore che entrambi nuin alchimia con l’essenza dei personaggio. trono per lo stesso uomo. Questo sistema
Il coraggio però non si trova. Ecco perché genera un’inconsapevole confusione. Ed è
gli attori italiani hanno il loro bel daffare. quanto meno sintomo di una stanchezza
Tenendo conto che si è scelto di analizza- creativa, o di una pigrizia produttiva.
mastandrea,
salemme,
angiolini
e gerini...
mai senza
diWendy Migliaccio
8
SCENARI // I soliti noti: l'inflazione degli attori nel cinema italiano
Produzioni cinematografiche
italiane 2011 - 2013
Attori
Attrici
8 film:
Valerio Mastandrea: Il comandante e la cicogna – Romanzo di una
strage – Gli equilibristi – Padroni di casa – Viva la libertà – La mia
classe – Cose dell’altro mondo – Ruggine.
Vincenzo Salemme: Lezioni di cioccolato 2 – Senza arte né parte –
Una donna per la vita – Mai Stati Uniti – Buona giornata – 10 regole
per fare innamorare – Ex: amici come prima – Baciato dalla fortuna.
Ambra Angiolini: Viva L’Italia – Immaturi Il viaggio – Mai Stati Uniti
– Stai lontana da me – Anche se è amore non si vede – Ci vediamo a
casa – Immaturi – Tutti al mare.
Claudia Gerini Reality – Una famiglia perfetta – Com’è bello far l’amore – Il comandante e la cicogna – Amiche da morire – La leggenda di
Kaspar Hauser - Tulpa – Il mio domani.
Margherita Buy Magnifica Presenza – Com’è bello far l’amore –
Viaggio sola – 6 sull’autobus – Mi rifaccio vivo – Il rosso e il blu – La
scoperta dell’alba – Habemus papam.
Cristiana Capotondi Il peggior Natale della mia vita – Amiche da morire – Amori elementari – La mafia uccide solo d’estate – La kryptonite
nella borsa – La peggior settimana della mia vita – The Wholly Family
– Indovina chi viene a Natale.
7 film:
Giuseppe Battiston: Il comandante e la cicogna – La variabile umana
– Zoran il mio nipote scemo – La prima neve – Bar Sport – Io sono
Li – Senza arte né parte.
6 film:
Michele Placido Viva l’Italia – Razza bastarda – Tulpa – Itaker:
Vietato agli italiani – Amici miei – Manuale d’amore 3.
Rocco Papaleo Viva l’Italia – È nata una star – Una piccola impresa
meridionale – Che bella giornata – Finalmente la felicità – Nessuno
mi può giudicare.
Ricky Memphis Immaturi Il viaggio – Mai Stati Uniti – L’ultima ruota
del carro – Ex: amici come prima – Immaturi – Vacanze di Natale a
Cortina.
Christian De Sica Colpi di fulmine – Buona giornata – Colpi di fortuna – Il principe abusivo – Amici miei – Vacanze di Natale a Cortina.
Elio Germano Magnifica Presenza – Diaz – Padroni di casa – L’ultima
ruota del carro – La fine è il mio inizio – Qualche nuvola.
Marco Giallini Una famiglia perfetta – Posti in piedi in paradiso –
Buongiorno papà – Tutti contro tutti – ACAB – Tutti al mare.
Filippo Timi Com’è bello far l’amore – Asterix e Obelix – Italian
Movies – Quando la notte – Ruggine – Missione di pace.
Carolina Crescentini Una famiglia perfetta – Allacciate le cinture di
sicurezza – Niente può fermarci – Boris Il film – Henry – L’industriale.
Alba Rohrwacher Bella addormentata – Il comandante e la cicogna
– Con il fiato sospeso – Via Castellana Bandiera – Missione di pace –
Sorelle mai.
5 film:
Raoul Bova Viva l’Italia – Immaturi Il viaggio – Buongiorno papà –
Immaturi – Nessuno mi può giudicare.
Fabio De Luigi Il peggior Natale della mia vita – Com’è bello far l’amore
– Aspirante vedovo – Femmine contro maschi – La peggior settimana
della mia vita.
Toni Servillo Bella addormentata – È stato il figlio – La grande bellezza
– Viva la libertà – Il gioiellino.
Pierfrancesco Favino Posti in piedi in Paradiso – Romanzo di una strage
– ACAB – La vita facile – L’industriale.
Luca Argentero E la chiamano estate – Bianca come il latte, rossa come
il sangue - Cha Cha Cha – C’è chi dice no – Lezioni di cioccolato 2.
Angela Finocchiaro Benvenuto al Nord – Il sole dentro – Ci vuole un
gran fisico – Bar Sport – Lezioni di cioccolato 2.
Barbora Bobulova Immaturi Il viaggio – Gli equilibristi – Una piccola
impresa meridionale – Immaturi – Scialla.
Asia Argento Dracula 3D – Baciato dalla fortuna – Cavalli – Gli sfiorati – Isole.
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SCENARI // I soliti noti: l'inflazione degli attori nel cinema italiano
PROFESSIONE
CASTING
DIRECTOR
diKatia Nobbio
Il mestiere, le selezioni, i condizionamenti. Luca Argentero “primo volto giusto”
per Mangia, Prega, Ama accanto a Julia Roberts, Muccino che all'inizio rifiutò
Vittoria Puccini, la scoperta di Bova e Scamarcio e “i bambini” di Baaria. Ma i volti
nuovi faticano a emergere “perché non fanno punteggio” al reference system.
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SCENARI // I soliti noti: l'inflazione degli attori nel cinema italiano
L
uchino Visconti aveva in mente un volto. Lo trovò a Stoccolma. Il volto pallido ed
emaciato di Björn Andrésen, un giovane attore sconosciuto: gli restituì l’immagine
di Tadzio in Morte a Venezia, come uscita dalla penna di Thomas Mann. O meglio,
l‘immagine che dalle pagine del romanzo aveva preso corpo nei suoi occhi di regista.
Perché proprio Björn Andrésen era Tadzio? Come si trova un volto giusto, quel volto
che rispecchia il profilo tratteggiato dalla sceneggiatura? E perché spesso la faccia dell’attore
ha la meglio sulle caratteristiche del personaggio?
Lo abbiamo chiesto ad alcuni casting director, coloro che reggono il delicato equilibrio tra le
esigenze del regista e quelle della produzione, tra l’arte e il marketing, le intuizioni, gli agenti
e le agende degli attori.
LILIA HARTMANN
con il suo Studio-T - lavora molto per le produzioni internazionali, tra gli ultimi titoli Vatican di Ridley Scott e Mangia, Prega, Ama di
Ryan Murphy; in produzione un nuovo Francesco di Liliana Cavani con interpreti stranieri.
Chi è il casting director?
Il mestiere del casting in Italia l’ha inventato
mia madre: Isa Bartalini. Era assistente di Blasetti e fu la prima casting director in Italia, selezionò gli attori, che erano tutti italiani tranne i
protagonisti, per Cos'è successo fra mio padre e
tua madre di Billy Wilder (1972). Oggi, quando
le produzioni internazionali mi chiamano per
comporre il casting italiano dei film comincio,
insieme al mio socio Gianni Laricchiuta, ad
inviare dei provini oltreoceano: li carichiamo
online e i registi li vedono sul telefonino, dobbiamo essere molto attenti a tutto, a partire
da una buona luce, altrimenti la resa in video
non rende giustizia all’attore. Tra i tanti provini
online i registi scelgono in genere 5 o 6 attori
che vengono a provinare in Italia.
Qual è il grado di libertà concesso a chi fa il
suo mestiere?
Abbiamo libertà assoluta, può capitare che i
producer americani ci chiedano dei volti noti,
ad esempio per le serie tv che poi devono
vendere alla Rai e a Mediaset, ma non impongono nomi. Per Labyrinth (Christopher
Smith, 2011) abbiamo selezionato Claudia
Gerini, per Crossing Lines (Dan Percival,
2012) Gabriella Pession.
Il casting più difficile?
Gangs of New York (2001) è stata una bella
sfida. Dovevamo scegliere gli attori per tanti
piccoli ruoli e Martin Scorsese voleva vederli
tutti. Cercavamo attori italiani che parlassero
inglese e che sembrassero irlandesi. Abbiamo cercato nei pub, nelle scuole, siamo
andati a stanare attori ovunque. Per dare
omogeneità visiva all’insieme, Scorsese ha
chiesto l’occhio del casting director su tutti
i ruoli, anche alcuni non parlanti come “The
rich man”: un uomo ricco che aveva tre scene in cui non faceva nulla. All’epoca studiavo
equitazione con un insegnante che assomigliava un po’ a Carlo d’Inghilterra, lo portai al
provino e piacque subito.
Il casting più facile?
Non è mai facile, a volte può capitare che il
primo volto che ti viene in mente quando leggi
una sceneggiatura sia quello giusto, ad esempio Luca Argentero per Mangia, Prega, Ama.
Perché si vedono sempre le stesse facce?
Il sistema per la richiesta di finanziamenti da
parte del Ministero per i Beni Culturali per la
realizzazione di un film è un sistema a punti
e la presenza nel cast di attori che abbiano
vinto premi come i David di Donatello garantisce un punteggio alto: è un gatto che
si morde la coda. Vengono scelti attori che
hanno già ottenuto dei successi e che continueranno ad ottenerli, mentre non si riesce a
far emergere volti nuovi.
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SCENARI // I soliti noti: l'inflazione degli attori nel cinema italiano
FRANCESCO VEDOVATI
ha coordinato la recente costituzione dell’
“Unione Italiana Casting Directors”. Tra i suoi
ultimi film Miele di Valeria Golino, Viaggio
sola di Maria Sole Tognazzi, Il ragazzo invisibile di Gabriele Salvatores (in produzione).
Chi è il casting director?
Noi conosciamo molto bene gli attori e interpretiamo la richiesta del regista, spesso
leggendo una sceneggiatura io ho già delle
suggestioni ma so come procedere in base
al regista con cui lavoro. In genere preferisco
far vedere molti attori prima di insistere su
quello “giusto”.
Qual è il grado di libertà concesso a chi fa il
suo mestiere?
Non tantissima. Il produttore e il distributore
hanno bisogno di nomi da cartellone. D’altra
parte è inutile proporre grandi attori con un
alto valore di mercato se i budget non permettono di pagarli. A volte le produzioni ci affidano
il budget in modo che possiamo risparmiare
PINO PELLEGRINO
amico di Ferzan Ozpetek da trent’anni, da più
di venti lavora con lui; tra gli ultimi film, oltre a
quelli del regista turco, Il volto di un’altra di Pappi Corsicato, Gli equilibristi di Ivano de Matteo.
Chi è il casting director?
È un lavoro di aggiornamento continuo. Io
vado a teatro, vedo la tv, vado al cinema e
immagazzino volti e informazioni.
Qual è il grado di libertà concesso a chi fa il
suo mestiere?
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su certi ruoli scegliendo attori meno noti per
poi investire di più sull’attore affermato.
Il casting più difficile?
Tante volte è difficile, soprattutto per i ruoli
femminili sui quali tutti mettono bocca. Ad
esempio ci è voluto tanto tempo per trovare
l’adolescente de L’ultimo bacio. Abbiamo cercato a Roma, a Milano, fatto centinaia e centinaia di provini in tutte le agenzie, poi sono
finito a Firenze e ho trovato Martina Stella.
Abbiamo cambiato il ruolo su di lei, trasformandolo in un personaggio toscano. Per il
sequel Baciami ancora non era facile cambiare la protagonista dopo il rifiuto del ruolo
da parte di Giovanna Mezzogiorno, ma io ho
pensato subito a Vittoria Puccini che avevo
conosciuto sul set quando ero assistente
alla regia di Sergio Rubini. Con Muccino ho
dovuto insistere, mi aveva detto di no quando gliel’avevo proposta per L’ultimo bacio e
non voleva saperne. Alla fine, dopo aver visto
moltissime attrici, ha accettato di incontrare
Vittoria e dopo due provini l’ha scelta.
Dipende dal progetto e dall’importanza del
regista. Ho lavorato con Ferzan Ozpetek da
Le fate ignoranti (2000) all’ultimo film che sta
per uscire, Allacciate le cinture, e non ho mai
ricevuto una raccomandazione.
Il casting più difficile?
Per Una mamma imperfetta (Ivan Cotroneo)
insieme a Gabriella Giannattasio abbiamo
visto attrici a non finire, quasi 500-600. Eravamo partiti con dei nomi poi ci siamo concentrati su volti meno noti. È stato un lavoro
faticoso ma stimolante.
Il casting più facile?
In memoria di me di Saverio Costanzo (2007):
ho pensato subito a Filippo Timi per il ruolo
del seminarista, era conosciuto a teatro ma
pochissimo al cinema. Timi fu la prima persona che feci incontrare a Saverio, ci abbiamo
messo tre mesi ma poi siamo tornati su di lui.
Dopo l’ho chiamato per proporlo a Salvatores
per Come Dio comanda e poco dopo lo chiamò anche Marco Bellocchio per Vincere.
Perché si vedono sempre le stesse facce?
Il reference system ci porta ad accapigliarci
per gli stessi 3-4 nomi di successo. Per fare
un film con Valerio Mastandrea, ad esempio,
bisogna aspettare il 2015. Esiste un casting
di attivazione, che è virtuale, in base al quale
viene presentata la domanda di finanziamento. Contano i premi: premio vinto 20
punti, nomination 10 punti. Se poi quando si
realizza il film l’attore non è più disponibile
dobbiamo sostituirlo con un pari merito.
Il casting più facile?
Non è mai facile, ogni volta c’è un attore su
cui non si riesce a mettersi d’accordo. In Allacciate le cinture c’è Francesco Arca, un ex tronista: serviva un fisico come il suo ed era difficile
trovare un attore noto con un fisico così.
Perché si vedono sempre le stesse facce?
Nei film di Ferzan, che sono corali, riusciamo
sempre a mettere uno o due volti nuovi ma è
sbagliata la legge del finanziamento pubblico
per i film, che attribuisce i soldi in base al nome
degli attori invece che alla forza della storia.
SCENARI // I soliti noti: l'inflazione degli attori nel cinema italiano
ADRIANA SABBATINI
lavora molto per la tv, con più di cento titoli:
da Il capo dei capi di Enzo Monteleone a Alcide De Gasperi e Einstein di Liliana Cavani.
Chi è il casting director?
È l’angelo custode degli attori, il mediatore
che può far passare un interprete dall’anonimato al successo.
Qual è il grado di libertà concesso a chi fa il
suo mestiere?
Le pressioni a volte ci sono, in tv ci sono tante voci: la produzione di appalto che è più o
meno forte, il referente della rete, sono entità
che hanno tante anime. Per Orgoglio (Giorgio
Serafini e Vittorio De Sisti, Rai 1, 2004) il produttore Goffredo Lombardo anticipava i soldi
e poi vendeva la serie alla Rai, così se voleva
aggiungere una scena, sforando il budget, lo
CHIARA AGNELLO
conta tra gli ultimi film Salvo di Grassadonia
e Piazza, Terraferma di Emanuele Crialese, Il
giovane Montalbano di Gianluca Tavarelli.
Chi è il casting director?
È un lavoro creativo che ha per obiettivo la
soddisfazione del regista. Ho iniziato con Il regista di matrimoni di Marco Bellocchio (2006)
a fare il casting per i piccoli ruoli e poi mi
sono inventata questo mestiere in Sicilia. Ero
il punto di riferimento per le produzioni: ho
provinato, per vari film, tutti gli attori siciliani.
Qual è il grado di libertà concesso a chi fa il
suo mestiere?
faceva di tasca sua. Aveva una passione forte
per il suo mestiere, ha lavorato fino all’ultimo, malato. A me per il casting aveva dato
carta bianca, andavo a fargli vedere i provini
in clinica, mi riceveva con le flebo ma voleva
vederli tutti dalla postazione video che si era
fatto allestire.
Il casting più difficile?
Per la serie tv Compagni di scuola (Tiziana
Aristarco e Claudio Norza, Rai 2, 2001) serviva un “tenero violento”, un volto alla Matt
Damon. Pensai subito al volto di Riccardo
Scamarcio, lo avevo incontrato per caso, non
aveva fatto nulla ma per me era lui. Lo portai
alla produzione e piacque, ma la Rai non era
convinta. Ho portato avanti una battaglia
personale, abbiamo fatto sei provini, poi
anche la regista Tiziana Aristarco si mise a
lottare e alla fine prendemmo lui.
Dipende dal progetto, i protagonisti spesso
sono già decisi, ma per il resto del cast a
volte siamo completamente liberi, come ad
esempio per Faccia d’Angelo (Andrea Porporati, Sky, 2012 ) con Elio Germano, una storia
ambientata nel Nordest. Sono stata a Chioggia per un mese e ho composto un cast di
attori professionisti e non, tutti veneti perché
sono una purista: quando si gira in un certo
luogo l’attore deve essere locale.
Il casting più difficile?
Per Baaria ho curato il casting dei bambini.
Servivano volti per interpretare lo stesso
ruolo in età diverse e Tornatore teneva moltissimo alle somiglianze. Avevamo messo un
annuncio sul giornale così per i provini abbia-
Il casting più facile?
Tre metri sopra il cielo (Luca Lucini, 2004).
Scamarcio “era” Step. Non ho perso neanche
un secondo, l’ho proposto alla produzione e
al regista: l’hanno scelto subito.
Un’altra scelta immediata per me è stato Raoul Bova. Era un nuotatore, bellissimo. Avevo
visto delle foto di agenzia per le pubblicità e
avevo subito pensato a lui per la fiction Una
storia italiana (Stefano Reali, Rai 1, 1991) sui
fratelli Abbagnale. Era così timido, non aveva
mai recitato: ricordo che ho riaperto l’ufficio
appositamente per lui una sera alle 6 quando
si decise a fare il provino. La battaglia con la
Rai poi l’ha portata avanti il regista Stefano
Reali, che si era subito convinto che Raoul
Bova fosse quello giusto.
Perché si vedono sempre le stesse facce?
In tv conta lo share. L’attore che porta un buon
ascolto sarà richiamato come protagonista.
mo riempito l’atrio immenso di una scuola. I
bambini erano tutti in fila e io dicevo “tu sì, tu
no…” ma i genitori degli esclusi prendevano i
figli e li rimettevano in fila!
Il casting più facile?
Per Salvo ci abbiamo messo un anno a trovare la protagonista, Sara Serraiocco, ma il
risultato è stato perfetto.
Perché si vedono sempre le stesse facce?
Molti attori non fanno i provini, ti dicono “se
vuoi me mi prendi e basta”, così vengono
chiamati sempre per gli stessi ruoli.
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SCENARI // I soliti noti: l'inflazione degli attori nel cinema italiano
Caro attori: serie A
contro serie B
diIlaria Ravarino
Nel cinema italiano parlare di stipendi è quasi tabù. Ma noi di 8½ siamo
riusciti a saperne qualcosa di più. Parlano la casting director Mirta
Guarnaschelli, il produttore Mario Gianani, l’attore di “seconda fascia”
Dino Santoro e l’agente Daniele Orazi.
G
li attori costano. Ma nel cinema
italiano parlare di stipendi è quasi un tabù. Indelicato chiedere,
fastidioso rispondere.
Soprattutto in tempi di crisi.
“L’aspetto economico è sempre stato fondamentale nel cinema, ma ormai è degenerato.
Tutto è pensato in vista della fattibilità”. A dirlo
è Mirta Guarnaschelli, celeberrima casting director e aiuto regista di Pietro Germi, ai tempi
in cui “gli attori ce li cercavamo viaggiando per
l’Italia, nei teatri, per strada. Ormai i film sono
montati su volti predefiniti e se li hai scritti
pensando a uno di loro, ti devi adattare a un
certo cachet. Per i ruoli minori resta poco: non
proponi nemmeno più ai registi persone che
pensi non abbiano un mercato”.
I privilegiati non sarebbero più di una decina.
Per i tecnici sono gli “attori di prima fascia”,
per il pubblico le star. Nessuno di loro guada-
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gna quanto un Depardieu, ma il loro cachet
è alto: “Le star incidono moltissimo nell’economia di un film – spiega Mario Gianani,
produttore Wildside - Possono chiedere fino
al 10, 15% del budget. Con un brutto film
portano a casa 4 milioni di spettatori, con
uno buono 10: il compenso è parametrato.
Seguono la legge della domanda e dell’offerta.
Sono numeri uno, producono valore. Il problema è che sono pochi: è la scarsità che fa
il prezzo. E finché sarà così, saranno sempre
strapagati”. Cifre che viaggiano fra i 600.000
e gli 800.000 euro a film, “e nelle commedie
– continua Gianani - il divario di compenso
tra il numero uno e il numero tre è impressionante. Là il problema è che le star comiche
tendono a non mescolarsi: De Luigi e Bisio
sono gli unici a fare i film degli altri, Siani non
li fa più, Verdone nemmeno, Benigni non li
ha mai fatti. Girano i loro film ogni due anni,
SCENARI // I soliti noti: l'inflazione degli attori nel cinema italiano
e in mezzo non si muovono per non inflazionarsi. Un discorso giusto, privatamente, ma il
sistema ne soffre”. I produttori si dividono tra
chi invoca un intervento calmierante, come
chiese nel 2003 l’ad Medusa Giampaolo
Letta, e chi come Gianani sposta il problema
altrove. Puntando il dito sugli attori di seconda fascia. “La media dei compensi è troppo
alta. Un film medio italiano, che costa quattro
milioni e ne incassa due, paga tra i 200.000
e i 400.000 euro gli attori di seconda fascia.
Bisognerebbe dargliene 50.000, ma come
si fa? È come nel calcio: se Totti prende 17
milioni, l’ultimo dei panchinari ne chiede almeno 300.000. Viviamo un mercato abituato
troppo bene”.
Non tutti gli attori di seconda fascia, naturalmente, sposano la proposta. Anche perché
non tutti si sentono esattamente dei privilegiati. Dino Santoro, bravo attore, fa questo
lavoro da quindici anni. Formazione al Centro
Sperimentale, lavori da comprimario al cinema, tanta fiction in mezzo (Il tredicesimo
apostolo, Squadra Antimafia). E un impiego
da cameriere per coprirsi le spese: «Sì, in un
giorno un attore di seconda fascia guadagna
quanto un operaio in un mese. Ma questo
non ci rende automaticamente ricchi, perché
il lavoro è saltuario e va accompagnato da
spese come corsi e trasferte che non rimborsa
nessuno. La posa, cioè il giorno di lavoro, è il
culmine di questa attività: ma non sei tutto il
mese sul set e le tasse si portano via gran parte del compenso”. La lotta per la posa è durissima, perché se le star sono poche, gli attori
di seconda fascia sono un esercito. E i provini,
ormai, una rarità: “Dieci anni fa, in un mese,
si facevano sette-otto provini. Oggi due-tre. Ci
sono pochi film indipendenti, aperti a nomi
meno pesanti, mentre per gli altri i ruoli da
protagonista sono già assegnati”. E i famosi
200.000 euro a film? “Mai visti 100.000 euro
tutti insieme. Con il passaggio all’euro gli
stipendi sono calati: quando ho cominciato si
prendeva anche un milione e 200.000 lire a
posa. Ora è la metà”.
E poi ci sono gli esordienti, giovani under 25
al loro primo lavoro al cinema. Daniele Orazi,
agente, con Officine Lab da dieci anni ha un
punto d’osservazione privilegiato: “Scegliamo
fino a 10 talenti all’anno, selezionati tra le 800900 proposte arrivate in agenzia. In un anno
la metà di loro riesce a lavorare con continuità,
non da protagonista. Un paio sbocciano”. Per
loro gli stipendi viaggiano “tra i 600 e i 900
euro a posa, ma se il progetto è interessante e ha budget ridotto si accetta comunque,
considerata l’età. Si arriva anche a 400 euro a
posa, anche se è un danno al mercato”. In un
anno i fortunati mettono da parte 20-25 pose,
guadagnando fino a 3.000 euro a film. “Alcuni
produttori si piegano ai compensi stratosferici delle star. Diamo 800.000 euro a qualcuno
convinti che porti un rientro che magari non
arriva. A questo punto, su un film da 300.000
euro, il giovane dovrebbe prendere 30.000
euro, non 3.000. I produttori si lamentano di
non poter pagare gli attori di fascia media, o
medio bassa, perché il protagonista si prende
tutto. È questo lo sbaglio maggiore”.
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SCENARI // I soliti noti: l'inflazione degli attori nel cinema italiano
6 interpreti eccellenti, tra i volti più presenti sul grande schermo - Battiston, Gerini,
Giallini, Lodovini, Rocca e Preziosi – ci raccontano in prima persona il loro rapporto con
i registi e il set e mettono in evidenza pregi e difetti della categoria.
L'attore è un
bugiardo al quale
qui si chiede la
massima sincerità
(Vittorio Gassman)
diNicole Bianchi
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Secondo lei, esiste uno star system italiano?
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La cosa che non sopporta sul set.
2
Un pregio e un difetto degli attori italiani.
6
Un film che non rifarebbe e perché.
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Il regista e il metodo che le hanno consentito
di dare il meglio come interprete.
Ricordi quella volta che si è sentito
più incompreso, sottovalutato,
strumentalizzato, sottoutilizzato.
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Un film che si è pentito di non aver fatto/
aver potuto fare e perché.
La sua scena che vorrebbe restasse
in un’ideale antologia del cinema italiano.
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SCENARI // I soliti noti: l'inflazione degli attori nel cinema italiano
1
Esiste forse più a livello televisivo: è un
po’ tutto alterato dal momento che gli
opinionisti non sono più filosofi o poeti ma
casalinghe o calciatori, contro i quali non
ho niente, ma credo possano essere poco
indicativi rispetto alla nostra realtà. Anche
i nostri attori più rappresentativi li vediamo
più spesso in tv che al cinema: non si tratta
di una differenziazione di carattere qualitativo, ma se stiamo parlando di cinema
cerco di dare una spiegazione al fenomeno;
ci sono attori più rappresentativi, questo è
certo, ma siamo lontani da un “sistema”,
assenza che comunque non interpreto
come un grande male.
Pregi molti, credo che ci siano attori italiani bravissimi. Il difetto è quello, forse,
di accontentarsi nel senso che, assodato
comunque che bisogna anche “campare”
e che il panorama generale è quello che è,
nel momento in cui interpreti bene un ruolo poi cercano di affidartelo per la maggior
parte della carriera. Qui c’è un concorso di
colpe, da parte di registi e sceneggiatori:
però ci sono anche gli attori che si prestano
a interpretare sempre uno stesso ruolo,
cosa che alla fine ti fa identificare solo con
quello. Anche in questo caso, non è un’analisi qualitativa: un grande attore rimane comunque tale, però in questo modo diventa
quasi una maschera.
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È difficile da dire perché ho avuto la fortuna
di lavorare con autori che considero straordinari: mi trovo a mio agio con chi mi
permette di fare un buon lavoro e rispetto
agli autori con cui ho lavorato sono davvero pochi quelli che non mi hanno messo
in quelle condizioni. C’è un cinema che
adesso è importante fare, quello degli autori nuovi, che ti portano nuova linfa vitale:
mettere l’esperienza a disposizione di chi
cerca di portare una storia al cinema.
È successo, certo. E mi rifaccio un po’
alla seconda risposta: è successo perché
forse anch’io ho permesso che si creasse
un malinteso; ci sono registi che mi hanno chiesto di fare esattamente un ruolo
che avevo fatto in passato, qualcosa che
mi avevano visto fare. E io mi dico: quello
l’ho fatto in un’altra storia, si deve andare
altrove, ho bisogno di costruire un personaggio, di creare un “vissuto” che non
può essere sempre lo stesso, la richiesta
è “criminosa”.
Come nella vita, non sopporto le falsità
che serpeggiano sul set, che non ti vengano dette le cose fino in fondo. Non
sopporto il cestino. E non sopporto la
mancanza di sedie, perché sul set bisogna
aspettare un casino!
C’è quello che non rifarei e quello che mi
sono pentito di non aver fatto, ma per correttezza, per decenza, non farò titoli. Anche
perché nel percorso d’attore può capitare
di trovarsi in condizioni in cui devi… girare
qualcosa per forza, allora da quella forma
d’imposizione in poi si “naviga” male e
questo determina che si abbia uno scarso
gradimento del progetto. Non si tratta solo
di un fatto di gusto personale ma talvolta
di circostanze. In generale penso che gran
parte delle cose che ho fatto avrei potuto
farle meglio, però mi capita anche di guardare film a cui ho preso parte e che mi fanno domandare: ma adesso sarei capace di
farlo? E non credo…
Vedi risposta precedente.
In questo momento, forse anche perché
mi trovo in Veneto, sto pensando a Carlo
Mazzacurati e credo che la scena dell’ultima cena de La passione sia molto bella,
forse anche e proprio perché corale.
GIUSEPPE
BATTISTON
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SCENARI // I soliti noti: l'inflazione degli attori nel cinema italiano
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2
Nel suo piccolo sì, è un mini star system essendo il nostro mercato molto piccolo, quasi
asfittico: avere in un film un attore piuttosto
che un altro fa la differenza, quindi c’è un meccanismo legato alle star ma proporzionato alle
dimensioni del nostro cinema. Il discorso di
avere nel cast un interprete e non un altro
comunque è un po’ ambiguo: avere una star
può oscurare un progetto, può essere un deterrente, quindi dipende da quello di cui si ha
bisogno; a volte un progetto non ha bisogno
di un grosso nome perché è ingombrante e
andrebbe a catalizzare l’attenzione; altre volte
invece un progetto ha proprio molto bisogno
di una star: quando è piccolino, un nome molto conosciuto dà le ali al progetto, però l’attore
in questione deve essere davvero particolarmente aderente al personaggio.
Gli attori italiani sono molto naturali, un pregio è il saper dare un’interpretazione abbastanza realistica: danno autenticità, verità; un
difetto è fare sempre lo stesso personaggio,
una volta che individuano un personaggio
che gli riesce non c’è niente da fare, non lo
mollano più! Non rischiano abbastanza, preferiscono restare nella sicurezza.
Sicuramente ci sono stati registi che mi hanno consentito questo, sì. Il metodo però è una
cosa più intima per l’attore, ognuno ha il suo:
un regista non ti può insegnare un metodo, ti
può dare degli stimoli, delle visioni. Io seguo
sempre molto le indicazioni del regista, perché reputo che sia colui che dà la paternità
al progetto; in particolare posso citarne due:
Tornatore, che ne La sconosciuta mi chiedeva
tanto di restituire delle espressioni asciutte, fredde, quasi una fissità, un’immobilità
espressiva e questo mi ha dato tantissimo
perché il mio personaggio aveva bisogno di
questa gravità, per cui l’essere così distaccata
nelle emozioni mi ha permesso di creare il
personaggio, soprattutto perché io invece
ho una mimica del volto molto mobile. Poi
Carlo… con Carlo Verdone è una cosa complessa da spiegare perché noi siamo proprio
alchemicamente, chimicamente, animicamente uniti: ci sono anche delle chimiche
attoriali, a noi basta essere messi insieme
e succede qualcosa, con Carlo accade così,
diventa tutto vero, tutto funziona. Lui mi ha
tanto insegnato i tempi, che ho appreso standogli molto vicino, studiando il suo cinema
per anni, quindi forse è più corretto dire che,
più che altro, me li ha trasmessi.
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CLAUDIA
GERINI
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Sinceramente non mi viene in mente niente. Si sentono storie di rapporti conflittuali
con il regista, di comportamenti aggressivi
o strani giochi psicologici: a me non è mai
successa questa cosa, mai. È una questione di carattere, forse: io sono abbastanza
sicura di me, mi piace quello che faccio, lavoro da quando ho 13/14 anni, quindi sono
proprio cresciuta con questo lavoro, per
cui probabilmente ho acquistato una certa
sicurezza, gestisco bene l’ansia, non mi
lascio sopraffare e poi cerco di imparare da
tutto, ascolto, e mi creo su ogni set la mia
piccola famiglia, cercando di “portarmi a
casa” il film con molta rilassatezza.
Fare le prove! Io sono molto istintiva, mi
piace molto sfruttare l’immediatezza di
quello che mi viene in quel momento:
ooodio provare, riprovare, riprovare… e
togliere così naturalezza a tutto.
Un film che proprio non rifarei alla fine non
c’è. Per esempio c’è Lucignolo, di Massimo
Ceccherini, fatto in un periodo in cui avevo
un contratto con la Cecchi Gori, per cui
dovevo per forza lavorare: è un film che potrebbe essere considerato quasi trash, però
io con quella cifra comica sono riuscita a
risultare molto bene e anche se non è un
film che si fa rientrare nell’antologia indispensabile del cinema, con la sua chiave
un po’ surreale, ironica, allusiva mi fa dire
che mi è piaciuto come sono “uscita fuori”,
il profilo del mio personaggio. Questo per
dire che se anche mi è capitato di fare scene o film di qualità non altissima io non ho
motivi per dire che vorrei non averli fatti.
Foto di Riccardo Ghilardi
Non c’è nessun clamoroso rifiuto. Mi è
dispiaciuto, ma sono comunque contenta
della mia scelta, per il primo Immaturi,
che Genovese mi aveva offerto e non feci,
non perché non credessi nel film ma perché avevo appena partorito, mia figlia era
veramente piccola e non avevo nessuna
voglia di rimettermi sul set; il film comunque ha fatto un grande successo, ma non
per questo adesso sono pentita di non
averlo fatto. Insomma, non esiste un film
poi candidato agli Oscar che ho rifiutato!
Beh, l’antologia di Viaggi di nozze è ormai
un cult: Jessica e Ivano… Oddio, questa
è una domanda difficile però, perché non
vorrei sembrare presuntuosa ma ne ho tre
in mente. In Grande grosso e... Verdone la
scena in cui lei è arrabbiatissima e fa una
specie di danza del ventre generata dalla
frustrazione: è divertente perché è un
misto di erotico e nervoso; poi il discorso
della scena di Non ti muovere, quando la
bambina è in coma e c’è la mamma sul
letto; sempre con Castellitto, in Una famiglia perfetta, la scenata di gelosia.
19
SCENARI // I soliti noti: l'inflazione degli attori nel cinema italiano
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Non sono proprio il tipo che si presta a essere sottovalutato: non credo che guardandomi
si possa pensare che io mi faccia strumentalizzare, non ne ho il tempo! E nemmeno la
prestanza fisica e il carattere credo lo lascino
intendere. Oh cazzo se mi difendo!
Certamente no: c’è qualche traccia ma
non è più il “sistema star” di una volta.
Oggi lo star system riguarda più altre categorie, come i calciatori o certi cantanti,
ma io mi accontento, non mi serve lo
star system: mi basta dire che è stupido
sostenere che dà fastidio uscire di casa
e avere il riscontro del pubblico. A me è
una cosa che gratifica.
Noi italiani siamo anzitutto un po’ castrati sotto il punto di vista dell’internazionalità, proprio perché non esiste uno
star system, un’industria. Così, non esistendo in questo momento un sistema
che ci sostiene, faccio fatica a trovare un
difetto alla categoria, lo dico perché è
anzitutto difficile lavorare, poterlo fare in
film che ti interessano davvero. Poi dire
un difetto sarebbe difficile anche perché non siamo tutti uguali, non potrei
accumunare tutti. Per quanto riguarda
il pregio invece credo che siamo tra i
più bravi al mondo, senza piaggeria: insomma se Raoul Bova, per citarne uno,
oppure Favino hanno l’opportunità di
essere “vestiti da Spider Man e volare”
sono credibili! Certo che quando ti lanci
da decine di metri ci vuole anche meno
a diventare una star! (ride)
Posso dire che un po’ tutti i registi sono
stati capaci di tirar fuori un buon lato
di me, però di certo Marco Risi, per me
uno dei primi, e Sollima, che mi ha dato
la popolarità insieme a Carlo Verdone.
Poi tengo a Claudio Caligari. Anche
Paolo Genovese, il regista con cui ho
lavorato più di recente.
20
È banale, lo so, ma non sopporto di alzarmi
alle cinque di mattina. Non sopporto di vedere poco i miei figli in alcuni giorni: è retorica
ma è la realtà. Non vado mai in camper, ma
veramente mai, devo proprio essere stremato: preferisco fumarmi una sigaretta vicino ai
macchinisti e guardare il loro lavoro, perché
mi piace molto osservare qualsiasi cosa del
set. Mi ricordo, bellissimi, dei cambi magazzino o di pellicola. Mi piace tutto, veramente
tutto del set.
marco
giallini
Un film che non rifarei c’è ma non farò il
titolo - scusi la diplomazia, ma è anche
questione di rispetto per il lavoro di tutti anche perché comunque il regista già lo sa!
Il film che ho rifiutato era diretto da un
regista molto conosciuto e ci rimase
male, per cui anche qui non posso fare
il titolo, ma non ho accettato per una
questione di dignità…
La scena in cui faccio cantare Little
Tony ne L’odore della notte è rimasta un
po’ di culto, diffusissima su YouTube:
credo che anche in relazione alle modalità tecnologiche di oggi quella “sia già
rimasta”, non solo per come l’ho fatta
io, ma per tutte le alchimie che rendono
una scena eccezionale. Poi una scena
con mio figlio in A.C.A.B. di Stefano
Sollima e senza dubbio una delle scene
con Carlo, Favino e me in casa insieme
in Posti in piedi in paradiso.
Foto di FabioLovino
SCENARI // I soliti noti: l'inflazione degli attori nel cinema italiano
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Il cinema italiano di qualità oggi non
punta sul divismo, chissà se è giusto
o sbagliato...
Non è possibile individuare un pregio e un
difetto di un attore perché vanno condivisi
con l’intera macchina produttiva, dalla
scrittura alla regia, al montatore… Noi attori
siamo un tutto unico insieme alla troupe
artistica e tecnica.
Credo che la dote fondamentale di un regista sia la capacità di capire la rappresentazione in modo da far vivere una scena, di
darle un ritmo e di creare un’atmosfera che
stimoli la creatività di tutti, quindi per la
mia esperienza dico: Paolo Sorrentino. Per
ciò che riguarda il metodo rispondo: tutti!!!
Da Nicholas Ray a Alejandro Jodorowsky,
perché credo che l’attore debba avere una
certa padronanza della tecnica per aprire le
porte all’ispirazione.
1 Secondo lei, esiste uno star system italiano? 5 La cosa che non sopporta sul set.
2 Un pregio e un difetto degli attori italiani. 6 Un film che non rifarebbe e perché.
e il metodo che le hanno consentifilm che si è pentito di non aver fatto/
3 Iltoregista
7 Un
aver potuto fare e perché.
di dare il meglio come interprete.
quella volta che si è sentito più in- 8 La sua scena che vorrebbe restasse
4 Ricordi
in un’ideale antologia del cinema italiano.
compreso, sottovalutato, strumentalizzato,
sottoutilizzato.
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Il cinema rende importante qualsiasi
incontro. Un attore deve essere un
bravo attore, anche se incontra un
regista che ha un cattivo carattere e
idee diverse dalle sue.
La mancanza di rispetto, la poca
comunicazione e il pressapochismo
che si respira un po’ troppo frequentemente sui set italiani.
Rifarei tutto negli stessi tempi e negli
stessi modi.
Credo molto nel valore delle scelte. Scelgo
le parti seguendo l’ago di una mia bussola interiore, a volte interpretando ruoli
che non danno impulso alla mia carriera
in termini di notorietà ma che mi consentono di soccombere al fascino, di cui da
sempre sono vittima, del lavoro dell’attore. Quindi, nessun rimpianto.
Non lo so… È come chiedere a un bambino se vuole più bene a mamma o a papà!
valentina
lodovini
Foto di FabioLovino
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SCENARI // I soliti noti: l'inflazione degli attori nel cinema italiano
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Secondo lei, esiste uno star system italiano?
Un pregio e un difetto degli attori italiani.
Il regista e il metodo che le hanno consentito di dare il meglio come interprete.
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La cosa che non sopporta sul set.
Un film che non rifarebbe e perché.
Un film che si è pentito di non aver fatto/
aver potuto fare e perché.
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Ricordi quella volta che si è sentito più incompreso, sottovalutato, strumentalizzato,
sottoutilizzato.
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La sua scena che vorrebbe restasse
in un’ideale antologia del cinema italiano.
No.
Il set è l’unico posto dove tutto è possibile.
Forse Le ragazze del Coyote Ugly, un film
americano che ha incassato ovunque.
Siamo italiani…
Se avessi la bacchetta magica tutte!
Actors Studio per un anno, Centro
Sperimentale a Roma e Jury Ashiz, pedagogo russo che lavorava con gli attori come fossero bambini. Risultato? Un
grande cocktail: un pizzico di gioco, la
tua memoria emotiva rielaborata, osservazione, e istinto! Non ho rimpianti, rifarei tutto.
Un provino tanti anni fa dove il regista
prima che uscissi disse “cancellala,
questa non farà mai niente!” E invece…
STEFANIA
ROCCA
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Foto di GianMarcoChieregato
SCENARI // I soliti noti: l'inflazione degli attori nel cinema italiano
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No, da quando Mastroianni, la Loren e
altri interpreti hanno avuto la possibilità
di farsi conoscere all’estero per le loro
capacità e, soprattutto, per le storie che
raccontavano, perché l’Italia era in quegli
anni un paese straordinario da narrare, quindi il cinema italiano aveva una
grande forza sul mercato perché poteva
vantare dei portabandiera molto concreti,
non teorici. Il presente è una fase, in cui
non credo il paese necessiti di uno star
system, un po’ perché anche quello americano sta facendo acqua da tutte le parti,
quindi sarebbe anacronistico pensare
di strutturare oggi un sistema così. Così
come fa il cinema francese, c’è bisogno
di raccogliere quello che sta accadendo e
portarlo, da parte di un attore o un regista italiano, fuori dal confine, anche oltre
l’Europa: il primo che ci riesce vince e
ristabilisce il sistema!
Il difetto è che a volte non accettano di
“concedersi fino in fondo” - in maniera
visibile, e sottolineo visibile - valorizzando
la grande umanità istintiva che appartiene
loro, spunto non positivo per riconoscere,
invece, quanto si sia tecnicamente capaci.
Uno in particolare no, quasi tutti. Essendo
io un attore che si espone molto, dichiarando anche le difficoltà, le mancanze, i
dubbi, le prepotenze, ogni regista ha avuto la possibilità di plasmarmi a seconda
del suo punto di vista. Mi sono trovato
meglio con i registi che avevano una visione della storia molto chiara e di conseguenza del personaggio, il loro possesso
del soggetto mi ha aiutato molto.
Non penso di essere stato sottovalutato, credo che il cinema sia una bilancia in equilibrio
che tende alla perfezione e quindi se sono
stato sottoutilizzato era perché la narrazione
doveva essere più importante.
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Mah… forse posso riferirmi a film per la televisione, perché per il cinema li rifarei tutti.
In televisione ho ritenuto, per me, non giuste
le prime puntate delle seconde serie, che ho
fatto ma adesso leggo come un meccanismo
contrario alla mia visione del mestiere dell’attore e della narrazione.
Quello ancora da fare, intendendo la voglia
di raccontare una storia, di essere dietro la
macchina da presa, anche come sceneggiatore. Vorrei scoprire la possibilità di questa
velleità che ho, quella che sto praticando nel
teatro, ma applicata al cinema.
Non tollero ridurre la lavorazione all’ultimo
secondo, l’andare in straordinario quando si
sta girando un momento importante, trovarmi in un passaggio topico della lavorazione
con la percezione dell’urgenza di dover chiudere il set.
Per come sono fatto io, per come vivo il cinema, la cultura, il discorso di Consalvo ne
I Vicerè.
ALESSANDRO
PREZIOSI
Foto di GianniFiorito
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SCENARI // I soliti noti: l'inflazione degli attori nel cinema italiano
Cani
pietosi,
che
tenerezza!
diMario Sesti
Siamo tutti ugualmente responsabili e colpevoli di fronte a qualcuno che recita male. Perché non
è giusto esporlo al cinismo dei critici o dei selezionatori di un festival.
C
ani Pietosi: era il titolo che
avevo dato a un mio contributo a un volume collettivo sul cinema italiano
degli Anni ’80, dedicato ai
film realizzati con l’art. 28. Il curatore,
credo scandalizzato, lo cambiò senza
neanche avvertirmi. In realtà ho sempre provato una grande empatia per gli
attori italiani lasciati soli in bicamere
incolori, sigarette nervose, inquadrature trasparenti, montaggio lineare e
convenzionale, musica zuccherosa o
solenne, luce di involontario e stinto
realismo. Come diceva Truffaut, non
c’è niente di più interessante, per la
macchina da presa, che un attore in
difficoltà. Nulla più del cinema italiano
degli ultimi trent’anni ha lavorato con
la stessa determinazione, con la stessa
maniacale disciplina a questo risultato.
Copioni impossibili, registi mediocri,
zero soldi. Come si fa a non voler bene
a tutti gli attori italiani – anche ai più
cani – che hanno accettato questo martirio con passione e devozione? Sono la
prima linea del fuoco di fila delle attese
24
del pubblico, che può accettare uno stile d’illuminazione modesto, un set ordinario, persino un sonoro disturbato:
ma non perdona una battuta inutilmente violentata da un urlo. Quante ne abbiamo sentite dalla metà degli Anni ’80
ad oggi? Ricorderò sempre un famoso
critico cinematografico, oggi scomparso, che vedendo un modestissimo film
d’azione, durante una proiezione per la
stampa, alle grida di dolore di un’attrice
sullo schermo, il cui personaggio era testimone di una scena di efferata violenza, sussurrò, accanto a me: “Che Dio ci
perdoni”. Non c’è niente di più tragico
del fallimento del tragico. Siamo tutti
ugualmente responsabili e colpevoli
di fronte ad un attore che recita come
un cane. Perché non è giusto esporlo
al cinismo dei critici o dei selezionatori
di un festival, perché un regista che lo
ha diretto in quel modo non può essere meno colpevole di lui, perché non
c’è stato nessun fratello o mamma o
fidanzata che ha avuto il coraggio di
dirgli la verità. Dietro un attore cane c’è
una società profondamente difettosa e
vile. Il cinema italiano dagli Anni ’90 ad
oggi non ha avuto attori peggiori della
illustre stagione del dopoguerra, ma ha
visto più cani di qualsiasi altra cinematografia tra quelle storiche più prestigiose. È un cinema che ha avuto talenti
attoriali strepitosi, da Rubini a Servillo e
un esercito sconfinato di aspiranti attori, giovani senza talento, raccomandati,
appassionatissimi, mediocrissime attrici, toccanti e fragili, che sembrano uscite da una soccorrevole prosa di Cechov.
La desertificazione del mercato, l’olocausto dei produttori, il mattatoio delle
tv – vogliamo parlare della recitazione
nelle fiction? – la militarizzazione della
lottizzazione dei contributi pubblici, ha
prodotto questa folla sterminata di Ed
Wood attoriali in sedicesimo che ha
sognato il cinema, l’ha praticato, l’ha
follemente amato senza avere alcuna
chance di viverlo senza farsi massacrare dagli sghignazzi del pubblico di
Venezia o dalle recensioni, grondanti
sarcasmo e indignazione, della critica
cinefila. Io, invece, provo per loro, solo
immensa tenerezza.
SCENARI // I soliti noti: l'inflazione degli attori nel cinema italiano
Non amo
gli attori
italiani
Una piccola apocalisse
diClaudio Carabba
C
’
era una volta in Italia lo “star-system”.
Roba magari autarchica e alla buona,
non proprio un sistema perfetto come a Hollywood.
Ma insomma, esistevano, fra gli
uomini e le donne (maggiorate e
no), nomi sicuri e capaci di assicurare incassi. Oggi tutto questo non
c’è più, saltando i comici, che sono
una “banda a parte”, come direbbe Godard. Francamente da Totò a
Siani, per limitarsi a due “principi
napoletani”, c’è una certa differenza, ma ahimè le cose cambiano.
Alcuni danno molte colpe ai nostri
presunti divi, che sarebbero pigri e
presuntuosi sul set, e poco propensi a impegnarsi nelle indispensabili
campagne di promozione. Un po’
è vero, ma la questione non è solo
qui. È calata la produzione, la fioritura di registi (e sceneggiatori) della
nuova generazione non è esplosiva,
le sale rischiano il vuoto perenne. In
questo quadro da piccola apocalisse, tutti rischiano di affondare lentamente. Poi ci sono ovviamente i
bravi e gli scarsi. Il “parco maschile” mi sembra stia moderatamente
meglio. Però, dietro al magnifico
Toni Servillo (non date ascolto agli
antipatizzanti), non scorgo un gruppo impetuoso. Procediamo per casi
esemplari: fra i bravi di mezza età
si sono smarriti Sergio Castellitto
(troppo preso dalla famiglia?) e il
sempre perplesso Fabrizio Bentivoglio. I più giovani sbagliano le occasioni: Pierfrancesco Favino, ottimo
quando fa il celerino o il bandito di
strada, è a disagio nelle commedie o
(peggio) come amante in crisi. E mi
aspettavo di più dai ragazzi violenti
di Romanzo criminale, del film e del
serial tv. È più disastrata la condizione femminile, anche a causa dei copioni e dei ruoli fissi. Non per niente
la fremente Golino, per salvarsi, si
sta mettendo in proprio. Altre sono
rimaste prigioniere di se medesime:
Margherita Buy, nevrotica forever;
ora la sensibile Alba Rohrwacher è
ingabbiata nei panni della “bruttina
sventurata”. In definitiva ognuno ha
le sue colpe, dai produttori agli autori. Così attori e attrici tendono ad
Dietro al magnifico Toni
Servillo, non scorgo
un gruppo impetuoso.
E Sabrina Ferilli sul sofà,
questo proprio no.
adagiarsi, a cogliere i vantaggi del
presente (uno sceneggiato tv, una
pubblicità a puntate) senza impegnarsi. Il simbolo di questa sventata
dissipatezza mi sembra Sabrina Ferilli, che quando vuole è brava (La
bella vita, La grande bellezza)ma sovente si limita a una simpatia facile
da curva romanista.
E poi c’è il tormentone degli spot.
Così fan tanti, per carità (Clooney
alla macchinetta del caffè, Banderas
nel mulino dei biscotti). Ma uno slogan come “che bel sofà, beato chi se
lo fa”, detto con un sorriso da ciociara stanca, questo no, proprio non
vorrei vederlo.
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COSA MI PIACE
DEL CINEMA ITALIANO
Yoshi Yatabe,
Programming Director
del TokYo International
Film Festival
diMichela Greco
A
nni felici di Daniele
Luchetti, La migliore
offerta di Giuseppe
Tornatore e Via Castellana Bandiera di
Emma Dante. Il 26esimo Tokyo International Film Festival, che si è svolto
dal 17 al 25 ottobre, ha portato in sala
questo tris tricolore, distribuendo
il cinema italiano tra il concorso internazionale, gli Special Screening e
il World Focus. Un’attenzione per la
nostra produzione che è rimasta costante nel tempo, almeno negli ultimi
anni in cui questo festival è diventato
uno dei più grandi dell’Asia, probabilmente anche grazie al suo sapiente
mix tra imponente cinema main-
26
stream e piccole opere di giovani registi che cercano nuovi linguaggi come,
nel 2010, Le quattro volte di Michelangelo Frammartino. Quest’anno l’apertura è stata affidata a Captain Phillips
di Paul Greengrass con Tom Hanks e
il festival ha ospitato film come Bling
Ring di Sofia Coppola e Behind the
Candelabra di Steven Soderbergh. A
rispondere alle domande di 8 ½ è Yoshi Yatabe, Programming Director del
Concorso del Tiff dal 2007. Lo è diventato dopo aver lavorato nella distribuzione e promozione cinematografica,
prodotto documentari, guidato il Festival du Film Français in Giappone
ed essere entrato nello staff di Tokyo
nel 2002.
Cosa convince il Tiff a selezionare ogni anno
almeno tre o quattro titoli italiani? Cosa vi
piace del nostro cinema?
L’Italia ha una storia del cinema lunghissima
e ricca, e i suoi film sono sempre indispensabili nei festival cinematografici. La coesistenza di grandi lavori diretti da maestri e opere
più piccole, fresche e stimolanti, di nuovi
talenti emergenti rende il cinema italiano
davvero importante e ci spinge a tenere d’occhio ogni nuovo titolo.
Cosa invece vi piace meno del nostro
cinema?
Non posso davvero pensare a cosa non mi
piace nel cinema italiano...
COSA MI PIACE DEL CINEMA ITALIANO
Con quali criteri il vostro comitato di selezione sceglie un film italiano piuttosto che
un altro?
Tendiamo a selezionare gli “art house film”
di alta qualità, nei quali si rifletta in modo
molto forte la personalità del regista.
Vi sembra che il cinema italiano sia costituito da un’ondata di talenti giovani o sia
più matura?
Sono sempre sorpreso nello scoprire eccitanti nuovi talenti accanto a maestri affermati.
Perciò credo che la bellezza del cinema italiano consista proprio nel fatto che contiene ed
esprime le diverse generazioni, le più mature
e quelle emergenti.
sono sempre pienissime di persone appassionate di film e di cultura italiana. Dai cinefili
agli amanti della pasta, sembra che l’Italia
provochi emozioni speciali a un ampio target
di giapponesi. E devo dire che lo stesso discorso non vale per i film francesi e tedeschi.
Pensa che le selezioni ai grandi festival aiutino realmente la vita commerciale dei film?
Assolutamente sì! È una delle nostre preoccupazioni principali. Noi non mostriamo film
solo per il pubblico, ma anche per gli addetti
ai lavori. Il fatto che opere relativamente piccole come Le quattro volte e Nina abbiano
trovato una distribuzione giapponese e siano
state portate in sala dimostra l’importanza
della partecipazione ai festival. L’attenzione
creata dalla proiezione al festival incoraggia
i distributori a comprare i diritti del film e
incrementa le sue possibilità di uscita commerciale. Anche se quest’ultima non è l’unico
obiettivo della proiezione, il festival dovrebbe
fare il massimo sforzo per offrire alle opere
la possibilità di essere viste, nelle migliori
condizioni, dai compratori.
Se dovesse indicare alcuni nomi in particolare, quali segnalerebbe fra i più promettenti, tra i “registi italiani del futuro”?
Ce ne sono tanti, posso fare i nomi di alcuni
autori che non a caso sono passati al nostro festival negli ultimi: Saverio Costanzo,
Susanna Nicchiarelli, Giuseppe Capotondi,
Luca Guadagnino, Valerio Mieli, Gian Alfonso
Pacinotti, Alice Rohrwacher, Elisa Fuksas,
Matteo Botrugno e Daniele Coluccini.
E per quel che riguarda gli attori e/o le attrici?
Direi sicuramente Alba Rohrwacher e Isabella
Ragonese tra le donne: tra gli uomini Michele
Riondino e Luca Marinelli. Beh, forse non
sono nemmeno più così “nuovi”, ma credo
davvero che siano figure molto importanti
per il panorama attuale del cinema italiano.
Se dovesse citare le due maggiori sorprese
degli ultimi anni?
La solitudine dei numeri primi e Le quattro
volte, tra molti altri!
Il Tokyo International Film Festival sembra apprezzare sia grandi film drammatici
che piccole produzioni di nuovi filmaker,
come ad esempio Et in terra pax e L’ultimo
pastore.
È vero, perché, come dicevo prima, la mia intenzione è proprio quella di presentare questi
due aspetti del cinema italiano al pubblico
giapponese e asiatico, per mostrare quanto
la vostra cinematografia sia ricca e variegata.
A proposito di questo, fino a che punto il
nostro cinema riesce a raggiungere il pubblico giapponese?
L’Italian Film Festival di Tokyo, che si svolge
ogni anno a maggio, è uno dei festival di
maggior successo della città. Le proiezioni
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TENDENZE
Il cinema e la politica in Italia
Il gioco
delle maschere
diGianni Canova
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TENDENZE // Il cinema e la politica in Italia
Nel rapporto fra politica e spettacolo, e ancor di più in quello fra politici
e attori, c’è uno dei nodi irrisolti (e, forse, anche più contorti) della storia
(non solo recente…) del nostro paese.
S
i prendono la scena. Interpretano
un copione. Porgono le battute. Che
nella società dello spettacolo i politici siano attori consumati lo si sa
da tempo. Almeno dai tempi in cui
Ronald Reagan è diventato presidente degli
Stati Uniti d’America. Benché già nel lontano
1985 Robert Zemeckis in Ritorno al futuro
ironizzasse con pungente sarcasmo sulla
credibilità (futura…?) di quella presidenza, da
allora non c’è politico di rango – da Bush a
Obama giù giù fino a Grillo e a Berlusconi –
che non sia prima di tutto un abile e astuto
amministratore del proprio personaggio e
dei copioni che sa recitare meglio. I politici
come maschere? Non c’è dubbio. Anche il
cinema li vede così. In Italia, almeno. Perché
mentre il cinema americano quando mette
in scena i politici li chiama sempre direttamente con nome e cognome, senza bisogno di trucchi e abiti di scena, e non teme
di costruire attorno ad essi affabulazioni e
drammaturgie (da JFK a Nixon, da Lincoln a
Hoover, e così via…), da noi è rarissimo che
il nome di un politico appaia nel titolo (tra le
poche eccezioni, Anno Uno-Alcide De Gasperi
di Roberto Rossellini, Mussolini ultimo atto
di Carlo Lizzani e Il caso Moro di Giuseppe
Ferrara). Da noi, per lo più, i politici sulla scena sono maschere (Il portaborse, Il divo…). Di
volta in volta grottesche, comiche, satiriche.
Quasi mai tragiche. Forse perché siamo refrattari alla tragedia. O perché anche i politici,
come gli autori di cinema, sono più portati
allo sberleffo e al fescennino che alla serietà
e alla sobrietà. Spesso, si tratta di maschere
zoomorfe. Sarà perché il pensiero politico da
noi nasce – con Machiavelli – ricorrendo a
fortunate metafore animali (il Principe che
deve avere “la forza del lione e l’astuzia della
volpe”), ma certo è che il ricorso al bestiario è
una costante nella teatralizzazione della politica, sia nelle narrazioni dei cineasti (Moretti
che chiama “il Caimano” Berlusconi), sia in
quelle dei politici (Calderoli che descrive la
ministra Kyenge come un orango), passando
per le tre fiere che simboleggiano rispettivamente il potere militare, quello commerciale
e quello agrario in quello splendido pamphlet
brechtian-godardian-decurtisiano che è Il
potere di Augusto Tretti. Maschere, sempre
e comunque. Commedia, in ogni caso.
Commedia dell’arte. Tra arlecchini servitori di
ogni padrone e pulcinella imbattibili nell’arte
di arrangiarsi. Da noi, paradossalmente, un
grande film sulla politica come Lincoln di
Steven Spielberg sarebbe impossibile e impensabile: troppo epico, troppo “alto”. Noi
voliamo più bassi. Voliamo sulle paludi in cui
la politica è la perenne arte della concertazione e della negoziazione, è sotterfugio e sottobosco, è trucco e inganno. Con una visione
della politica ormai del tutto arcaica, da presa
del Palazzo d’Inverno. Ma di un arcaismo che
probabilmente rispecchia – ahinoi… – quello
della società.
Quanto ai politici, riflettono l’analfabetismo
filmico del paese di cui sono espressione. Hanno del cinema – se va bene – una
visione romantico-nostalgica oppure una
concezione cinicamente strumentale. Ma
nella maggior parte dei casi, per lo più, non
lo considerano neppure. Non lo citano quasi
mai né nei loro programmi né nei loro discorsi. Spesso non lo accolgono nel novero delle
arti. Del resto, non c’è da stupirsi. Lasciano
sprofondare o cadere a pezzi Pompei, figuriamoci se sono disposti – di questi tempi – a
salvaguardare il cinema. A investire denaro
per preservare un immaginario che è quasi
sempre stato – almeno fino agli Anni’80 –
scomodo, sconveniente, non conciliante
e – soprattutto – non riconciliato. Certo,
a prenderli uno per uno, i politici italiani si
dichiarano tutti grandi appassionati. Se non
addirittura insaziabili cinéphiles. Recitano?
Mentono? Interpretano? Chissà. Certo dicono – senza sostanziali differenze di schieramento e di ideologia – di andare al cinema e
di vedere i film. Ma quali sono i loro gusti?
Le loro predilezioni? I loro film del cuore?
Le interviste che seguono – pur senza avere
alcuna pretesa di rappresentatività – provano
ad aprire qualche squarcio, a suggerire qualche indicazione. E, anche, a scovare qualche
contraddizione. Tutti i politici intervistati, ad
esempio, dichiarano di essere consumatori
di film in sala, ma poi nessuno di loro (e nessuna delle forze politiche in cui militano…) fa
nulla per contrastare il declino delle sale e per
favorire gli esercenti che stanno in trincea e si
battono perché il cinema continui ad esistere anche nel nostro paese. Contraddittorio?
Non c’è dubbio. Ma dove c’è contraddizione
si può lavorare. Ci si può insinuare. Questo
servizio di 8 ½ ambisce ad essere un primo
passo per andare in questa direzione. Nella
convinzione che proprio nel rapporto fra cinema e politica, e più ancora nel nesso fra
politici e attori, ci sia uno dei nodi irrisolti del
nostro paese. Del suo passato, ma anche del
suo (e del nostro) futuro.
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TENDENZE // Il cinema e la politica in Italia
SEI DOMANDE AI POLITICI ITALIANI
diFrancesca Chiocchetti
Esponenti di Pdl, Pd, Scelta Civica, M5S, Lega Nord e Sel raccontano a 8½ il loro amore per il grande schermo
tra visione personale del mondo e ideali di partito. E tra i film più amati/odiati spunta Diaz di Daniele Vicari.
Giancarlo
Galan
Pdl-FI
"Una giornata particolare di Ettore Scola è un capolavoro profondo e commovente,
due diverse disperazioni che s’incontrano all’ombra di una delle pagine più crude
della storia, il regime fascista. Habemus Papam di Nanni Moretti è invece
il classico esempio di conformismo di sinistra”, così afferma il Presidente
della VII Commissione Cultura, Scienza e Istruzione della Camera dei Deputati.
Indichi tre film che consiglierebbe agli elettori o ai sostenitori del
Pdl-FI perché esprimono bene il
vostro sentimento del mondo e
la vostra visione delle cose.
Scelgo tre film non recenti ma
ancora molto attuali. Il candidato,
1972 con Robert Redford, un film
significativo perché mostra un
giovane avvocato che decide di
entrare in politica con poche possibilità di vincere ma con l’obiettivo di far guadagnare consensi alla
causa dei diritti civili e ai problemi
dell’ecologia. Al di là di ogni aspettativa vince ma con un prezzo
molto alto, egli stesso entrerà a far
parte del circolo di corruzione che
cercava di combattere. Confesserà
al suo avversario di non avere più
idee per il futuro, la cinica replica:
questa è la condizione migliore
per un perfetto senatore.
Una giornata particolare di Ettore
Scola, con Mastroianni e la Loren,
un capolavoro profondo e com-
30
movente, due diverse disperazioni
che si incontrano, due umanità
distinte, lontane, legate da un
sentimento profondo all’ombra
di una delle pagine più crude della
storia, il regime fascista. Ed infine
Il Dottor Živago, sullo sfondo di
una drammatica storia d’amore:
la delusione, anzi la disperazione,
per quella che è stata la rivoluzione russa.
Se dovesse commissionare un
documentario sulla sua forza
politica, a quale regista italiano le
piacerebbe potersi rivolgere?
Senza dubbio ad Ettore Scola. Mi
affascina la genialità che emerge
da ogni suo film, una rara capacità di saper unire alla grandiosità
della storia e dei personaggi il
sentimento che rende grandi le
sue opere.
L’ultimo film che ha visto, l’ultimo film italiano che ha visto al
cinema, e infine – se c’è – il film
del cuore e perché.
L’ultima volta che sono stato
al cinema ho visto Bella addormentata, di Marco Bellocchio,
una tematica che mi sta particolarmente a cuore, il racconto di
una vicenda umana che ha avuto
enorme impatto nella politica italiana e soprattutto nel mio partito,
l’eutanasia, raccontata attraverso
gli occhi di un senatore che deve
scegliere se votare per una legge
che va contro la sua coscienza o
non votarla, disubbidendo alla disciplina del partito. Il film del cuore è il già citato Il Dottor Živago,
lungamente osteggiato dal regime
comunista perché invitava a pensare con la propria testa.
Il film politico che l’ha fatta più
arrabbiare e perché.
Habemus Papam di Nanni Moretti, il classico esempio di conformismo di sinistra, la scena della par-
tita di pallavolo, mutuando una
battuta di Fantozzi, mi è sembrata
come La corazzata Potëmkin, una
cagata pazzesca!
È mai andato a un festival di cinema? Se sì quale e perché?
Sono stato ospite di numerose
edizioni della Mostra del Cinema
di Venezia, prima come presidente della Regione Veneto, poi
come ministro per i Beni Culturali. Un’atmosfera affascinante,
quasi incantata.
Preferisce vedere i film al cinema,
in tv, sul tablet, in DVD, scaricarli
da internet?
Sono un romantico, preferisco
ancora il cinema. Certe emozioni
riesce a trasmetterle solo il grande
schermo. Purtroppo non ho molto
tempo libero quindi di rado riesco
a concedermi una serata al cinema, ma ne vale sempre la pena.
TENDENZE // Il cinema e la politica in Italia
Andrea
Marcucci
Pd
“Ai nostri elettori consiglio Django Unchained di Tarantino, perché è un inno al cinema
italiano. E anche Il lato positivo, perché noi del Pd abbiamo davvero bisogno di un ‘happy
end’ e di una seconda opportunità, e Amici miei, perché non bisogna prendersi troppo
sul serio”, così afferma il Presidente della Commissione Istruzione Pubblica,
Beni Culturali, Ricerca Scientifica, Spettacolo e Sport del Senato della Repubblica.
Indichi tre film che consiglierebbe agli elettori o ai sostenitori
del Pd perché esprimono bene il
vostro sentimento del mondo e
la vostra visione delle cose.
Django Unchained di Tarantino
perché, oltre ad essere un bel
film, è un inno al grande cinema italiano; Il lato positivo, perché noi del Pd abbiamo davvero
bisogno di un “happy-end” e di
una seconda opportunità, e Amici miei perché non bisogna mai
prendersi troppo sul serio.
Se dovesse commissionare un
documentario sulla sua forza
politica, a quale regista italiano
le piacerebbe potersi rivolgere?
A Paolo Sorrentino, per la sua incredibile capacità di visione. Permettetemi di fargli anche un sincero in bocca al lupo per il suo La
grande bellezza, designato come
film rappresentante del cinema
italiano nella selezione del Premio Oscar come miglior film in
lingua non inglese.
L’ultimo film che ha visto, l’ultimo film italiano che ha visto al
cinema, e infine – se c’è – il film
del cuore e perché.
L’ultimo film che ho visto è stato
Il grande Gatsby, mentre l’ultimo
film italiano che sono andato a
vedere è stato proprio La grande bellezza. Il film del cuore è La
mia Africa perché nella sua trama c’è un segreto che non ho
ancora scoperto, e poi quanto è
brava Meryl Streep!
Il film politico che l’ha fatta più
arrabbiare e perché.
Non mi sono mai arrabbiato per
un film politico, al massimo posso aver sbadigliato.
È mai andato a un festival di cinema? Se sì quale e perché?
Beh sì, sono stato diverse volte
alla Mostra di Venezia, a Cannes
e all’American Film Market.
Preferisce vedere i film al cinema, in tv, sul tablet, in DVD,
scaricarli da internet?
Ho una passione per il grande
schermo che comporta un rito
al quale non voglio rinunciare: la pizza dopo la proiezione
per scambiarsi le opinioni con
gli amici. Ma non disdegno gli
altri mezzi, purché siano legali,
alla fine conta il contenuto, non
il contenitore.
31
TENDENZE // Il cinema e la politica in Italia
Ilaria
Capua
Scelta Civica
“A Gabriele Salvatores commissionerei un documentario sul mio partito, un grande
regista premio Oscar, capace di coniugare la drammaticità delle scene con una grande
ironia e una sottile capacità descrittiva delle vicende storiche”, così afferma la deputata
di Scelta Civica, membro della Commissione Cultura, Scienza e Istruzione,
della quale è anche vicepresidente, e della Commissione Agricoltura.
Indichi tre film che consiglierebbe agli elettori o ai sostenitori di
Scelta Civica con Monti per l’Italia perché esprimono bene il
vostro sentimento del mondo e
la vostra visione delle cose.
Invictus, Le ali della Libertà,
Lezioni di piano. Sono tre film
molto diversi tra loro ma con
una forza narrativa e una visione del mondo e della vita che
rappresentano al meglio gli
ideali di libertà, di giustizia, di
amore. Invictus mette in scena,
con grande intensità, la straordinaria vita di Nelson Mandela,
un simbolo di libertà del nostro
tempo. La storia di Andy Dufresne in Le ali della libertà invita a
non demordere anche quando
le cose sembrano precipitare e
32
a mantenere sempre aperto il
cuore alla speranza. Lezioni di
piano celebra la forza dell’amore come rinascita e come possibilità di una nuova esistenza.
Se dovesse commissionare un
documentario sulla sua forza
politica, a quale regista italiano
le piacerebbe potersi rivolgere?
Gabriele Salvatores, un grande
regista premio Oscar, capace di
coniugare la drammaticità delle
scene con una grande ironia e
una sottile capacità descrittiva
delle vicende storiche.
L’ultimo film che ha visto, l’ultimo film italiano che ha visto al
cinema, e infine – se c’è – il film
del cuore e perché.
La grande bellezza di Sorrentino.
Il mio film del cuore è senz’altro
Frankenstein Junior (in versione
originale), perché è l’apoteosi
dell’ironia. Senza ironia come
potremmo vivere?!
ne di partecipare a un festival del
cinema. Mi piacerebbe poterlo
fare, ma gli impegni e le attività che svolgo non mi lasciano il
tempo di dedicarmi a queste manifestazioni come vorrei.
Il film politico che l’ha fatta più
arrabbiare e perché.
Draquila. Un film interessante,
ma troppo di parte. Al contrario,
penso che Il Caimano di Moretti abbia saputo rappresentare la
stessa vicenda in modo efficace
e senza scadere in quegli eccessi che alla fine ridimensionano la
forza di un film politico.
Preferisce vedere i film al cinema, in tv, sul tablet, in DVD,
scaricarli da internet?
Lo spettacolo della sala cinematografica è unico ma senz’altro
ho più occasioni di vedere film in
DVD. Ho pochissimo tempo per
andare al cinema e dunque scelgo la strada più semplice e quella
che mi permette di dare comunque una mano al cinema.
È mai andata a un festival di cinema? Se sì quale e perché?
No, non ho mai avuto l’occasio-
TENDENZE // Il cinema e la politica in Italia
Giuseppe
Brescia
M5S
“Non potrei non consigliare Capitalism: A Love Story, un film denuncia, tra decrescita
e democrazia, del nostro sistema malato. E poi Avatar, bellissimo sia tecnicamente
che ideologicamente, lo sguardo su un futuro diverso, anche e soprattutto nel segno
dell’ecologia”, così afferma il deputato M5S e membro della Commissione Cultura,
Scienza e Istruzione della Camera dei Deputati.
Indichi tre film che consiglierebbe
agli elettori del M5S perché esprimono la vostra visione delle cose.
Inizierei da V per Vendetta. La ribellione al potere che opprime i cittadini: “Le parole non perderanno
mai il loro potere, perché esse sono
il mezzo per giungere al significato
e, per coloro che vorranno ascoltare, all’affermazione della verità”.
Poi senz’altro Capitalism: A Love
Story. Tra decrescita e democrazia,
un film-denuncia nei confronti
del nostro sistema malato. E non
potrei mai non consigliare Avatar,
bellissimo, sia tecnicamente che
ideologicamente: lo sguardo su un
futuro diverso, anche e soprattutto
nel segno dell’ecologia.
Se dovesse commissionare un
documentario sulla sua forza
politica, a quale regista italiano
le piacerebbe potersi rivolgere?
Mi rivolgerei a Ferzan Ozpetek,
un regista straordinario, italiano
ormai acquisito, capace di narrare i piccoli e grandi fatti della vita
con sguardo lucido e intenso.
Drammatico ma al contempo
capace di essere leggero e vitale.
Se potessi guardare anche all’estero, però, sceglierei Ken Loach.
L’ultimo film che ha visto, l’ultimo film italiano che ha visto al
cinema, e infine – se c’è – il film
del cuore e perché.
È stato Il ministro, film francese
che mi ha fatto tanto pensare
alla politica, com’è e come non
la vorrei, al perché mi sono avvicinato al Movimento 5 Stelle. Lo
consiglio. L’ultimo film italiano
che ho visto al cinema è stato il
Leone d’oro Sacro GRA. Un bel
docu-film che descrive scene di
vita di tutti i giorni a Roma. Il mio
film del cuore è Dogville di Lars
Von Trier.
Il film politico che l’ha fatta più
arrabbiare e perché.
Diaz. Il motivo sta nel fatto che
quando ingiustizia e violenze
sono perpetrate dallo Stato diventano ancora più intollerabili.
Per tutti i ragazzi italiani è stato
un episodio fondamentale nella vita della nostra società. Un
evento da non dimenticare, da
analizzare a fondo.
È mai andato a un festival di cinema? Se sì quale e perché?
Sono stato al Festival Internazionale del Cinema di Lodz e al
Bari International Film Festival.
Al primo sono andato perché in
quel periodo stavo facendo l’Erasmus in Polonia, mentre Bari
è la mia città.
Preferisce vedere i film al cinema, in tv, sul tablet, in DVD,
scaricarli da internet?
Al cinema, il grande schermo resta il grande schermo.
33
TENDENZE // Il cinema e la politica in Italia
Gian Marco
Centinaio
Lega Nord
“Ai nostri elettori suggerirei 300, avvincente, entusiasmante con una bellissima
colonna sonora e immagini capaci di motivare a combattere per i propri ideali.
E poi Bloody Sunday che racconta la cosiddetta domenica di sangue avvenuta a Derry
nel 1972”, così afferma il senatore della Lega Nord e membro della Commissione
Istruzione Pubblica, Beni Culturali, Ricerca Scientifica, Spettacolo e Sport
del Senato della Repubblica.
Indichi tre film che consiglierebbe agli elettori della Lega
Nord perché esprimono la
vostra visione delle cose.
Inizierei da Braveheart, un film
bellissimo, con delle immagini
fantastiche, al quale sono profondamente legato umanamente
e politicamente, è senz’altro il
film che ben rispecchia e rappresenta la Lega Nord. 300, di Zack
Snyder e Frank Miller, avvincente,
entusiasmante con una bellissima colonna sonora e immagini
capaci di motivare a combattere
per i propri ideali. Bloody Sunday,
tratto dal libro Eyewitness Bloody
Sunday di Don Mullan, racconta
la cosiddetta domenica di sangue, avvenuta nel 1972 a Derry,
34
nell’Irlanda del Nord, una storia
che tutti dobbiamo conoscere.
Se dovesse commissionare un
documentario sulla sua forza
politica, a quale regista italiano
le piacerebbe potersi rivolgere?
Direi a Bernardo Bertolucci. Un regista semplicemente straordinario.
L’ultimo film che ha visto, l’ultimo film italiano che ha visto al
cinema, e infine – se c’è – il film
del cuore e perché.
L’ultimo film che ho visto al
cinema è Una piccola impresa
meridionale. Prima di questo
avevo visto un altro film italiano
che ha fatto molto discutere: La
grande bellezza di Sorrentino.
Il mio film del cuore è invece il
leggendario Star Wars: è stato il
primo film di fantascienza che
ho visto al cinema da bambino.
Il film politico che l’ha fatta più
arrabbiare e perché.
Senza dubbio Diaz. Questo film
ha trattato una vicenda complessa, quale quella del G8 di
Genova, con la pretesa di far
passare il messaggio che i “cattivi” fossero quelli con la divisa.
Molti amici di Genova, testimoni
oculari di quei giorni, mi hanno
raccontato di una città invasa da
orde di teppisti e delinquenti.
È mai andato a un festival di
cinema? Se sì quale e perché?
Sono stato al Festival del Cinema
di Venezia. Trovo sia una rassegna
d’assoluta eccellenza. L’atmosfera
che si crea in quei giorni è magica
e ti riporta indietro nel tempo.
Preferisce vedere i film al
cinema, in tv, sul tablet, in DVD,
scaricarli da internet?
Al cinema. Sulle poltrone del
cinema non si ha nessuna distrazione. Tutti i pensieri restano
fuori e solo così si possono
apprezzare appieno i film. La
perfezione delle immagini e
dei suoni, poi, rende tutto più
magico e più autentico.
TENDENZE // Il cinema e la politica in Italia
Celeste
Costantino
Sel
“Il film politico che mi ha fatto più arrabbiare è The Dreamers di Bertolucci,
perché non si fa carico della complessità di una generazione. Il mio film del cuore
è Il mago di Oz di Fleming, perché ha caratterizzato il mio immaginario culturale”,
così afferma il deputato di Sel e membro della Commissione Cultura, Scienza e
Istruzione della Camera dei Deputati.
Indichi tre film che consiglierebbe
agli elettori di SEL perché esprimono la vostra visione delle cose.
Goodbye, Lenin di Wolfgang Becker, Diaz di Daniele Vicari, La
sposa turca di Fatih Akin. Tre film
fantastici, per regia, immagini, sceneggiature. Tre storie, importanti,
che fanno e faranno sempre riflettere per non dimenticare.
Se dovesse commissionare un
documentario sulla sua forza
politica, a quale regista italiano
le piacerebbe potersi rivolgere?
Senz’altro a Costanza Quatriglio.
cuore è Il mago di Oz di Victor
Fleming, perché ha caratterizzato il mio immaginario culturale.
L’ultimo film che ha visto, l’ultimo film italiano che ha visto al
cinema, e infine – se c’è – il film
del cuore e perché.
L’ultimo film che ho visto è Searching for Sugar Man di Malik
Bendjelloul; l’ultimo film italiano è stato La grande bellezza di
Paolo Sorrentino. Il mio film del
Il film politico che l’ha fatta più
arrabbiare e perché.
The dreamers di Bernardo Bertolucci perché non si fa carico della
complessità di una generazione.
Cinema, quello di Taormina, Pesaro, Roma e Torino. Ho una passione per il cinema e questi eventi
sono estremamente stimolanti.
Preferisce vedere i film al cinema, in tv, sul tablet, in DVD,
scaricarli da internet?
Al cinema.
È mai andata a un festival di cinema? Se sì quale e perché?
Sono stata a numerosi festival del
35
DELL’ONOREVOLE
diFabio Ferzetti
In Italia un politico non
può essere il centro di un
film. Per atavica diffidenza
verso il potere, i suoi segreti,
i suoi apparati. Perché
il campo è già dissodato
ogni giorno da legioni di
commentatori, vignettisti,
blogger, conduttori di
talk show. Ma soprattutto
perché “politica”, oggi,
in Italia è quasi una
parolaccia.
36
TENDENZE // Il cinema e la politica in Italia
Q
uanti politici abbiamo visto
nel cinema italiano del nuovo millennio?
Quanti ministri, presidenti, sindaci, segretari, sottosegretari, quanti dibattiti parlamentari, quante votazioni a scrutinio palese o segreto hanno lasciato il segno sugli schermi,
se non nella memoria, mentre i partiti perdevano ogni prestigio, gli italiani imparavano
a odiare la casta in tutte le sue declinazioni
e la politica diventava antipolitica, come in
un film di fantascienza, senza che alla scena
pubblica di una volta si sostituisse qualcosa
in grado di raccontare tensioni e scenari del
presente, fatta eccezione per la tv, a cui da
Nanni Moretti (Aprile) a Sabina Guzzanti (W
Zapatero) è stato delegato il compito di riassumere, incarnare, dare corpo al fantasma
della politica italiana sul grande schermo?
Messa così, in termini quasi statistici, la faccenda sembra semplice. La politica è un’ossessione nazionale, non c’è film o documentario di questi anni in cui non si avverta
l’onda lunga del potere e delle sue degenerazioni, eppure raramente è diventata materia
di prima mano per il cinema, e soprattutto
lo è diventata solo a certe condizioni. I film
di argomento politico, già poco numerosi,
appartengono infatti quasi tutti a due grandi
filoni. Quello della neocommedia made in
Italy, il macrogenere oggi imperante (da non
confondere con la Commedia all’italiana di
una volta), e quello dei film che scavano nel
passato più o meno prossimo per cercarvi
radici e riflessi del presente. Al primo gruppo
appartengono titoli come Diverso da chi? di
Umberto Carteni, Buongiorno Presidente di
Riccardo Milani, Viva l’Italia di Massimiliano
Bruno. O i due film di Giulio Manfredonia
con Antonio Albanese, Qualunquemente e
il suo seguito,Tutto tutto, niente niente, che
rappresenta l’estremo esito di questa deriva
grottesco-nichilista ma del tutto esteriore,
sostanzialmente qualunquistica, e in fondo
parassitaria nei confronti delle mostruosità
da cui prende le mosse.
Nel secondo gruppo figurano film di ben
altra caratura e già ampiamente commentati come Il divo di Sorrentino, Buongiorno,
notte e Vincere di Bellocchio, il più esplicito
nell’accostare l’epoca evocata alla nostra, ma
anche Romanzo di una strage di Giordana e
Noi credevamo di Martone, che a sua volta
insiste sul cortocircuito passato/presente
con anacronismi evidenti e ricorrenti nelle
scenografie.
Naturalmente ci sono eccezioni anche
notevoli a questa schematica bipartizione.
Pensiamo a Il Caimano di Nanni Moretti,
a Viva la libertà di Roberto Andò, a Bella
addormentata di Bellocchio, che riprende
in chiave più apertamente politica intuizioni
inaugurate con L’ora di religione e Il regista di
matrimoni (“In Italia comandano i morti...”).
Ma basta accostare tutti questi lavori al francese Il ministro di Pierre Schoeller (o se vogliamo a The Queen, Il discorso del re, Frost/
Nixon, Le passeggiate del campo di Marte, e
l’elenco potrebbe continuare) per delineare i
contorni di un vuoto a dir poco sintomatico.
Oggi infatti in Italia un politico può essere
l’oggetto di un film ma mai il soggetto, la
forza propulsiva, il rappresentante di un universo in cui lo spettatore è chiamato ad avventurarsi e magari a perdersi (mai o quasi
mai: pensiamo a Il Divo, classica eccezione
che conferma la regola. Ma Andreotti portava con sé tutta una mitologia e fare un film
su di lui e la DC, elaborando un linguaggio
capace di trasfigurare e contenere un intero
periodo storico con tutte le sue ombre, era
impresa così epocale e titanica, oltre che
ammirevole, da costituire un caso a sé).
Dunque in Italia un politico non può essere
il centro di un film, per ragioni abbastanza
evidenti. Perché siamo un paese in cui i
partiti sono o sono stati forti mentre lo
Stato è sempre stato debole (di qui anche
la traduzione pedestre del film di Schoeller,
in originale L’exercice de l’Etat). Per atavica
diffidenza verso il potere, i suoi segreti, i
suoi apparati, e per tutto ciò che può sapere
anche lontanamente di propaganda.
37
TENDENZE // Il cinema e la politica in Italia
NON C’È FILM
O DOCUMENTARIO
DI QUESTI ANNI
IN CUI NON SI
A V V E R T A L’ O N D A
LU N G A D E L P O T E R E .
Perché l’esercizio quotidiano della politica è
già dissodato ogni giorno da legioni di commentatori, vignettisti, blogger, conduttori di
talk show, eccetera. Ma soprattutto perché
“politica”, oggi, in Italia è quasi una parolaccia. E nessuno dai tempi ormai remoti del
profetico Il portaborse, investirebbe idee, denaro, passione, nella costruzione di un (anti)
eroe che rappresenti quel mondo.
Eppure basta spingersi Oltralpe per trovare
un film capace di appassionarci, proprio
sprofondando in quel mondo tutt’altro che
ideale. Un giovane ministro di secondo piano, dal colore imprecisato, opportunista per
calcolo e necessità ma non per temperamento, un lottatore - e al tempo stesso un giocatore - dotato di fiuto, carisma, personalità,
dunque capace di condurci nelle retrovie del
governo facendoci sentire il lezzo animale
della competizione, ma anche il profumo
inebriante degli obiettivi e il peso spesso
tragico dell’autorità. Insomma un grande
personaggio, calato fino in fondo nel nostro
presente in quanto dotato di un corpo (prerogativa del tutto assente nei cine-politici
di casa nostra, forse perché di resa troppo
problematica) e addirittura di un inconscio
(la prima scena del film è proprio un sogno,
erotico e metaforico, del protagonista).
Dunque attraversato, fisicamente, da tutte le
mutazioni e le accelerazioni, in primo luogo
tecnologiche (social media etc.) che oggi
investono l’esercizio del potere.
Ma il film di Schoeller diventa ancora più
prezioso se paragonato a quanto si fa in casa
nostra. Presentato a Cannes nel 2011, ma
arrivato in Italia solo due anni più tardi, Il
ministro è uscito infatti un paio di mesi dopo
Viva la libertà, l’unico film italiano di questi
anni interamente dedicato a un politico
nell’esercizio delle sue funzioni. Il confronto
s’impone, tanto più che i due lavori sono
così diversi da risultare perfettamente complementari. Per dare lo scettro del suo film
a un politico, Andò ha dovuto infatti sdoppiare il personaggio del segretario di partito
interpretato da Toni Servillo. Mandando il
segretario vero a “rinascere” in esilio mentre il suo gemello filosofo, svitato e geniale,
prende trionfalmente il posto del segretario.
Il personaggio che rilascia interviste bomba,
galvanizza il partito, arringa le folle e balla il
tango con la cancelliera tedesca, tutti gesti
di assoluta e immediata rilevanza politica,
non è insomma un politico. Ma è proprio per
questo che può essere rappresentato (suscitando l’adesione dello spettatore); mentre il
fratello, spogliato di ogni delega e potere, si
“purifica” riscoprendo le radici personali e il
senso della propria missione durante il suo
soggiorno in Francia.
Inutile insistere: il senso della (felice) para-
38
TENDENZE // Il cinema e la politica in Italia
bola di Andò è evidente, ma prende un peso
ancora maggiore nel contesto cinematografico di questi anni. Che hanno visto la politica
(il corpo stesso dei politici) diventare letteralmente irrappresentabile, o quasi. Al punto
che ogni regista, ogni attore che si avventura
su questo terreno, deve ridefinire le regole del
gioco. Muovendosi entro i confini di un campo che potremmo idealmente incorniciare
usando due film collocati all’inizio e alla fine
del quindicennio, corrispondenti anche a due
diversi modi di interrogare e rimodellare la
scena della politica.
All’inizio c’è Aprile, con le immagini della
vittoria di Berlusconi in tv, il grido disperato
di Moretti (“D’Alema, dì qualcosa di sinistra!”), la constatazione dello scacco, politico
e formale (che cinema fare, o non fare, in
questa situazione?). Alla fine ci sono i politici
“terminali” di Bella addormentata. Non tanto
il pidiellino in crisi di Toni Servillo quanto i
suoi colleghi corrotti, svuotati, ectoplasmatici, ridotti a mendicare comparsate in tv,
senza identità, senza ideali, senza psicologia,
come testimonia irridendoli il parlamentarepsichiatra Roberto Herlitzka. Senza corpo, in
VIVA LA LIBERTÀ,
L’ U N I C O F I L M
ITALIANO RECENTE
INTERAMENTE
DEDICATO A
UN POLITICO
N E L L’ E S E R C I Z I O
DELLE SUE
FUNZIONI.
certo modo. Organismi parassitari che per vivere, e fare politica, hanno bisogno del corpo
morente di Eluana Englaro.
Ed eccoci tornati all’inizio. Perché forse proprio questo ha raccontato, nel suo insieme,
il cinema italiano sulla vita politica di questi
anni. L’ultimo corpo politico ad essersi conquistato un posto nel nostro immaginario,
in fondo, è quello di Moro in Buongiorno,
notte (Moro è di gran lunga il politico più
rappresentato nella storia del cinema italiano
e mette i brividi pensare che era anche l’unico che capitava regolarmente di incontrare
al cinema Nuovo Olimpia di Roma, dietro il
Parlamento, nella prima metà degli Anni ‘70).
Come se, dopo il caso Moro, la degenerazione che ha investito la classe politica avesse
reso addirittura impossibile rappresentarla.
E al cinema - pensiamo anche al gesto paradossale di Moretti, che ne Il Caimano si
sostituisce a Berlusconi, in certo modo divorandolo - non fosse rimasto che mettere in
scena, nei modi e secondo le strategie più
differenti, questa impossibilità.
39
TENDENZE // Il cinema e la politica in Italia
di Enzo Natta
Dalla nascita dell’Istituto Luce voluto da Mussolini ai VHS di Walter Veltroni
passando per i “film atipici” di Aldo Moro e i panni sporchi di Giulio Andreotti.
Così gli uomini di Stato hanno dichiarato pubblicamente la propria passione
(a volte non disinteressata) per il grande schermo.
A
vvicinato da un cronista mentre
stava girando I sogni muoiono
all’alba, Indro Montanelli allontanò subito il sospetto che avesse goduto di riguardo da parte di
cultori di cinema prestati alla politica. Anche
perché, disse all’incirca Montanelli, una
cosa è il tornaconto immediato e l’altra è la
passione per il grande schermo.
Eravamo ai tempi del muto quando si manifestarono le prime avvisaglie di un’attenzione che non andava oltre l’interesse immediato. Il Luce, nato con finalità educative nel
1924, è subito assorbito dalla mano pubblica
e trasformato in strumento propagandistico di regime. Prima che animale politico,
Mussolini era un giornalista che aveva intuito la potenzialità mediatica delle immagini
e la forza dei cinegiornali. Infischiandosene
di plagiare Lenin, il Duce non esita a definire
il cinema “l’arma più forte”, slogan tradotto
in un progetto mastodontico: una Direzione
Generale per la Cinematografia che metterà
le mani sull’intero sistema e costruirà la “città del cinema”, affiancando all’Istituto Luce
gli studi di Cinecittà e il Centro Sperimentale
di Cinematografia.
È vero che quando la sera si ritirava a Villa
Torlonia il suo passatempo consisteva nella
visione di film, ma le scelte difficilmente
andavano oltre le comiche di Stanlio e Ollio
40
e la commedia leggera. Ben altra attenzione
era invece dedicata ai cinegiornali.Eppure
quelle parentesi di puro divertimento lasciarono un segno profondo nel figlio Vittorio,
che spinse la sua cinefilia fino alla direzione
della rivista “Cinema”, in cui si fece i muscoli il miglior cinema italiano. Sarà proprio in
quella redazione che la passione si tradurrà
in impegno politico e viceversa. Fra i collaboratori della rivista figurava Mario Alicata,
arrivato all’esperienza politica attraverso
l’azione culturale. La sua firma si alternava a
quelle di Carlo Lizzani, Giuseppe De Santis,
Gianni Puccini, Massimo Mida, poi tutti approdati alla regia. Del gruppo faceva parte
anche Pietro Ingrao, che ci ha lasciato il libro
Mi sono tanto divertito – Scritti sul cinema
(1936-2003).
Li chiamavano “fascisti di sinistra”, “corporativisti impazienti” per dirla con Gentile:
Ingrao, Alicata e sodali erano operatori culturali che cercavano le chiavi di una nuova
estetica in grado di determinare istanze di
cambiamento.
Come loro anche per Aldo Moro il Cineguf (la
sezione cinema dei Gruppi universitari fascisti)
fu l’officina in cui forgiò il passaggio dall’impegno culturale a quello politico. Un’esperienza
vissuta da un’intera generazione.
Non era raro che Ingrao, Alicata e Moro s’incontrassero al Cinema Quirinetta, non tanto
TENDENZE // Il cinema e la politica in Italia
perché vicino a Montecitorio, quanto perché
pioniere nello svolgere attività d’essai.
Aldo Moro era anche un frequentatore del
Rialto, dove svolgeva la sua attività un circolo d’avanguardia come il Charlie Chaplin.
I gusti raffinati di Moro erano oggetto di
frecciatine da parte di Giulio Andreotti, che
canzonava l’amico di partito con un’inconfondibile espressione per definire il film
d’autore: “Moro direbbe che questo è un
film atipico”.
Passato alla storia come l’uomo di potere
che più di ogni altro ha legato la sua carriera
politica alle vicende del cinema italiano (sottosegretario allo Spettacolo non ancora trentenne, artefice della legge sul doppiaggio,
coinvolto nella polemica sul Neorealismo
dopo aver affermato che “i panni sporchi si
lavano in famiglia”), Andreotti era più spettatore di quantità che di qualità. Amico di don
Francesco Angelicchio, consulente ecclesiastico del Centro Cattolico Cinematografico,
quasi tutte le sere lasciava il suo appartamento di Corso Vittorio Emanuele II e arrivava a Borgo Sant’Angelo, dove al numero
9, sotto l’Auditorium di Palazzo Pio, era ubicata la saletta di proiezione del CCC. Là lo
aspettavano don Angelicchio e un film che la
commissione del CCC nel pomeriggio aveva
revisionato al fine di redigere le classifiche
morali che consentivano o vietavano la proiezione nelle sale parrocchiali.
Altro appassionato di cinema è il Presidente
della Repubblica, Giorgio Napolitano: una
passione per il cinema coltivata ai tempi del
Cineguf e tenuta in caldo, come dimostrano
i suoi interventi su “l’Unità” negli Anni ‘70,
quando si batteva perché i film di nicchia
distribuiti dal gruppo pubblico non fossero
condizionati dalla gabbia tarpa-ali del “criterio di economicità”.
Cinefilo per eccellenza è Walter Veltroni,
cresciuto con merende di pellicola consumate prevalentemente al Filmstudio e nei
cineclub romani. Diventato direttore de
“l’Unità” nel 1992 promosse una campagna
intesa a diffondere il cinema e affinare il
gusto del pubblico, allegando al quotidiano
VHS di film d’indiscusso prestigio. E infine
ha promosso la Casa del Cinema di Villa
Borghese, laboratorio culturale operoso attraverso rassegne, mostre, manifestazioni,
incontri, con annessa libreria specializzata.
Chi il cinema lo aveva letteralmente nel
sangue era Giorgio Almirante, figlio e nipote d’arte. Il padre Mario fu regista del
muto; gli zii paterni Giacomo, Ernesto
e Luigi, attori; la cugina Ilaria Almirante
Manzini una diva dell’epoca. A sua volta lui
fu direttore di doppiaggio.
Ma tornando all’intervista citata all’inizio, a
un certo punto il cronista disse a Montanelli
che se la percentuale dei politici cultori
della decima musa era molto bassa, probabilmente lo si doveva al fatto che, citando
Marco Aurelio, i poeti frequentatori dei palazzi del potere sono piuttosto scarsi.
“E ancora di più lo sono i cineasti”, fu la
risposta.
41
TENDENZE // Il cinema e la politica in Italia
Tra il Transatlantico e la rete,
tanto rumore per nulla
diAlessandro Ferrucci
Il grande schermo
strapazzato a suon di
citazioni, spesso sbagliate,
nel linguaggio “dei palazzi”,
da Fantozzi a Totò.
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I
nternazionale, non c’è dubbio. Distribuita
su più generazioni, altro dato sensibile.
Non schiacciata su un genere specifico,
dal comico basso, poi alto, al comico
casereccio fino al dramma shakesperiano, con qualche inflessione giovanilistica.
È la sintesi della cultura cinematografica
proposta in questi anni nei discorsi ufficiali
dei nostri politici, attenti nel cercare la frase
ad effetto, la suggestione giusta, la metafora
colta, lo stupore negli occhi di chi ascolta,
il titolo di giornale, la pacca sulla spalla dal
collega. Certo, a volte, sarebbe utile verificare
prima di osare, ma la società della comunicazione istantanea non sempre offre i giusti
tempi davanti all’ambito microfono. Quindi,
et voilà lo scivolone, con Luisa Bossa, deputata Pd con un curriculum da insegnante di
latino e greco, secondo la quale Tanto rumore
per nulla è un film, mentre si tratta di Molto
rumore per nulla, celeberrima commedia di
Shakespeare e film di Branagh ad essa ispirato. Poi ripensamenti, qualcuno potrebbe
42
parlare di opportunismo politico travestito
da pragmatismo esistenziale: in questo
caso in cima al podio sale Oliviero Diliberto,
rivoluzionario nello scaricare un caposaldo
della cultura comunista come La corazzata
Potemkin, definita noiosa in un’intervista al
“Corriere della sera”, a favore della comicità
“di Boldi, Aldo, Giovanni e Giacomo, Banfi,
Villaggio-Fantozzi, De Sica”. No a Wenders
e Antonioni: “Forse che le masse popolari
vanno a vedere Ejzenstejn?”. Non sia mai.
Ma in quel tempo era ministro. Altra storia
nel 2007 nella rossissima Livorno: durante
un cineforum La Corazzata improvvisamente ritornò “un capolavoro! Non è un film di
propaganda. Un film politico. Propaganda,
semmai, sono certi film assai più recenti”. Fulminante e coerente la risposta del
Villaggio-Fantozzi: dalla “boiata pazzesca”
del 1976, rispose con “meglio la galera”,
sempre nel 2007. Compromessi. Gli stessi ai
quali è stato costretto il verdissimo Roberto
Calderoli, leghista amante delle provocazio-
TENDENZE // Il cinema e la politica in Italia
ni, ma “costretto” a rincorrere una celebre
battuta del romano Alberto Sordi in Il presidente del Borgorosso Football Club per sollecitare gli allora alleati della Casa delle Libertà a
scendere in piazza accanto a Umberto Bossi:
“Chi si estranea dalla lotta è un gran figlio
di mignotta... E fa anche rima...” (20 ottobre
2006). Con cosa fa rima? Mistero. Enorme
soddisfazione per il democratico Roberto Di
Giovan Paolo, ragazzone di cinquant’anni,
cresciuto a pane e commedia americana, di
qualità sia ben chiaro, lesto nello sfruttare
una delle sue passioni giovanili per un lancio
d’agenzia: “Io li odio i nazisti dell’Illinois!’’.
Citazione del famoso The Blues Brothers per
denunciare nell’aula del Senato di essere stato inserito in una lista del sito “Stormfront
Italia”, in qualità di nemico dei neonazisti
suprematisti bianchi legati al Ku Klux Klan
americano (8 febbraio 2012).
Immancabile. Richiamato. Riciclato.
Utilizzato per frasi, slogan, manifesti elettorali. Parodie. È il principe Antonio de Curtis
con il megafono in mano, appollaiato dietro una finestra per racimolare voti al suo
Antonio la Trippa in Gli onorevoli. A utilizzare
il dialogo è Domenico Scilipoti nel 2010,
tutto pubblicato sulla home page del suo
sito: “In Parlamento tre voti possono essere
determinanti per salvare un governo... noi
applichiamo il do ut des: io do tre voti a te
e tu dai tre appalti a me”; “Scusate la mia
ignoranza, ma io so che il deputato deve fare
gli interessi dell’elettore, di chi gli ha dato
la fiducia, il voto...”; “Cose d’altri tempi...”;
“Roba passata, sormontata... così funziona,
secondo voi: i gonzi, gli imbecilli, i burini mi
danno i voti e noi tre ci facciamo una bella
pappata”. “Bravo! Lei ha capito tutto”. “Io ho
capito troppo”. Giusto. Era l’8 dicembre del
2010. Pochi giorni dopo lo stesso Scilipoti
passò dal partito di Di Pietro al sostegno del
governo Berlusconi.
Momenti di tenerezza con un tocco di nostalgia nel racconto dell’onorevole Massimo
Brutti. Era il 26 luglio del 2002, centro-sini-
stra e berlusconiani lottavano contro il decreto legge “Cirami” a botte di ostruzionismo.
Sedute lunghe. Estenuanti. Per inquadrare
tutto va benissimo citare il film di Gabriele
Muccino Come te nessuno mai, per confessare di essersi in fondo anche divertito:
“Quella di questa notte è stata un’esperienza
che ci ha fatto ringiovanire”. Passioni vere.
Come quella di Walter Veltroni per il cinema,
coraggioso nel 1994 a riabilitare pellicole
come Quel gran bel pezzo dell’Ubalda, o la
pitonessa Daniela Santanché a gridare sorridente a tutti “Io ballo da sola”, alla faccia
di chi nel 2006 le faceva la guerra dentro la
defunta Alleanza Nazionale. Poi però esistono anche le leggi del contrappasso, delle
forme di meta-politica pirandelliana, quando
è il cinema a uscire dallo schermo, a salire
su un palco e urlare ai militanti: “Con questi
dirigenti non vinceremo mai”. Lui era Nanni
Moretti, era il 2002, e nei momenti di crisi i
leader democratici ancora se lo rinfacciano
reciprocamente.
43
Il dossier economico di DG Cinema e ANICA
DECRETO VALORE CULTURA: ITALIA
ALLINEATA AI PIÙ AVANZATI PAESI EUROPEI
diIole Maria Giannattasio / Centro Studi DG Cinema-MiBACT
Con il provvedimento, il tax credit, oltre a diventare permanente, è stato anche esteso ai produttori
indipendenti di opere audiovisive, con una copertura finanziaria di 110 milioni l’anno. Del resto nei
programmi d’intervento dell’Unione Europea è già operativa una disciplina unitaria che regolamenta il
prodotto audiovisivo nel suo insieme comprendendo film, tv-movie, documentari, cortometraggi, serie
tv, serie web e videogiochi.
Tax credit permanente, estensione ai produttori indipendenti di audiovisivi e incremento
a 110 milioni di euro. Con queste novità di rilievo il Decreto Valore Cultura (D.L. 91/2013) è
diventato definitivamente norma dello Stato,
dopo la conversione nella Legge 112/2013,
avvenuta il 7 ottobre.
Il Decreto Legge 91/2013 era stato deliberato nel Consiglio dei ministri del 2 agosto
scorso come misura urgente per la tutela e
la valorizzazione del patrimonio culturale
italiano e per il rilancio del cinema, delle
attività musicali e dello spettacolo dal vivo.
Nel testo approvato in agosto le disposizioni
in ambito cinematografico si concentravano in particolare sul credito d’imposta (tax
credit), introdotto dalla Legge Finanziaria n.
244/2007 ed entrato in vigore nelle sue varie
forme tra il 2009 e il 2010, con validità soggetta a rinnovo.
L’urgenza di un intervento in tal senso era
dovuta al precedente rinnovo del tax credit
disposto nel Decreto del fare (L. 98/2013) che
nel mese di giugno aveva prorogato la validità della misura, in scadenza a fine anno, per
il solo anno 2014 e con una copertura finanziaria dimezzata da 90 a 45 milioni di euro.
Il DL Valore Cultura, deliberato in agosto e
convertito in legge in ottobre, incide in tal
senso con una sostanziale riforma.
Il primo grande risultato per il consolidamento del settore è, infatti, contenuto nell’art. 8
comma 1 che ha reso permanente il tax credit
per il cinema, garantendo all’industria cinematografica uno strumento ormai rodato e
conosciuto che, liberato dalla minaccia di un
mancato rinnovo, rappresenta un fattore di
stabilità e serenità per la programmazione
delle attività degli operatori.
L’elemento rivoluzionario è stato però inserito nel corso della conversione in legge avvenuta ad ottobre, con la L. 112/2013.
45
NUMERI // Il dossier economico di DG Cinema e ANICA
Il tax credit, infatti, oltre ad essere stabilizzato
è stato anche esteso ai produttori indipendenti
di opere audiovisive, con una copertura finanziaria incrementata da 90 a 110 milioni di euro
l’anno (art. 8 c. 2-3).
L’allargamento delle agevolazioni fiscali a tutto il settore delle produzioni audiovisive è un
passo decisivo e necessario in uno scenario di
convergenza dei servizi di media e delle conseguenti trasformazioni dei modelli di produzione, diffusione e fruizione del prodotto. Già
nel 1999 con il D.lgs. n. 300 erano attribuite
al ministero dei Beni culturali le competenze
per la “promozione delle produzioni cinematografiche, radiotelevisive e multimediali” ma,
di fatto, in questi anni l’area funzionale in cui
il ministero ha esercitato la sua azione è stata
circoscritta al comparto cinematografico.
L’estensione delle norme di agevolazione fiscale anche alle opere destinate a tv e web apre
ora la strada verso una inevitabile integrazione
dell’intero comparto che favorisce anche l’allineamento del nostro paese ai sistemi adottati
all’estero. Nei più avanzati paesi europei e nei
programmi d’intervento dell’Unione Europea,
infatti, è già utilizzata una disciplina unitaria
che regolamenta il prodotto audiovisivo nel
suo insieme comprendendo film cinematografici, tv-movie, documentari, cortometraggi,
serie tv, serie web, videogiochi e altro ancora.
L'ANOMALIA ITALIANA
L’anomalia italiana consiste quindi nell’assenza
di un soggetto di riferimento per i prodotti destinati a canali prioritari di sfruttamento diversi
dalla sala. Per gli audiovisivi non cinematografici
non sono previste chiare definizioni e criteri di
attribuzione della nazionalità, elementi che saranno contenuti nella disciplina di dettaglio. Di
conseguenza non sono stati attuabili, sino ad
oggi, schemi di sostegno dedicati a contenuti
televisivi e web, come invece avviene per le opere cinematografiche.
46
La distinzione basata sul canale primario di
distribuzione del prodotto non solo è destinata
ad affievolirsi in un contesto in cui le barriere
tra luoghi della fruizione sono sempre più labili,
ma finisce anche per separare mondi produttivi
spesso comuni. In genere, infatti, le figure professionali che lavorano su entrambe le tipologie
di contenuti sono le stesse.
Sempre più ambigui appaiono, poi, i confini
in termini di sviluppi narrativi e di sperimentazione di linguaggi con, da un lato, i film
che assimilano le caratteristiche seriali delle
opere televisive (film series) e, dall’altro, serie tv e web realizzate con qualità e standard
cinematografici. Le differenze si individuano
piuttosto negli schemi di finanziamento e reperimento delle risorse e nell’eterogeneità dei
cicli produttivi.
Da tempo, quindi, in molti altri paesi europei la
distinzione è stata superata con l’adozione di
misure d’incentivo fiscale destinate al comparto audiovisivo nel suo insieme. L’allargamento
delle agevolazioni fiscali all’intero comparto
della produzione audiovisiva consente, quindi,
anche in Italia un sistema in grado di mettere in
atto strategie organiche per lo sviluppo e il potenziamento del settore, oltre che agevolazioni
all’accesso dei nostri prodotti sui mercati esteri
e l’attrazione di investimenti stranieri sul nostro
territorio.
Nei decreti attuativi della legge 112/2013 - da
adottare entro il 7 gennaio 2014 di concerto
con il ministro dell’Economia e delle Finanze,
sentito il ministro dello Sviluppo Economico
- l’operazione più delicata consisterà quindi
nel chiarire il perimetro sia dei prodotti sia dei
produttori ammessi al beneficio. Per questi
ultimi, solo ai fini delle agevolazioni fiscali, la
definizione che il decreto dà di produttori indipendenti (art.8 comma 5) è la stessa contenuta
nel cosiddetto decreto Romani del 2010 (“operatori non controllati da o collegati a emittenti,
anche analogiche, che per un periodo di tre
anni non destinino almeno il 90% della propria produzione a una sola emittente”), ma
particolarmente importante appare l’ulteriore
specificazione in base alla quale essi debbano
detenere “i diritti relativi alle opere sulle quali
sono richiesti i benefici”.
La ratio di tale specifica risiede nella necessità
di evitare che il beneficio venga “traslato” direttamente alle emittenti televisive e non resti,
invece, in capo alle produzioni indipendenti,
ossia a quei soggetti che, dotati di maggiore
autonomia finanziaria ed editoriale, possono
sviluppare progetti che facciano da traino
all’evoluzione e all’internazionalizzazione della
produzione audiovisiva italiana.
L’adozione delle nuove misure rappresenta
quindi un’opportunità di crescita e ripensamento per il settore oltre che un atteso riconoscimento da parte degli organi governativi del
valore strategico delle industrie culturali per lo
sviluppo e il rilancio del paese.
NUMERI // Il dossier economico di DG Cinema e ANICA
UNA RIVOLUZIONE COPERNICANA
VISTA DALL'INDUSTRIA
diFederica D’Urso e Francesca Medolago Albani / Ufficio Studi ANICA
In attesa a gennaio dei decreti attuativi della legge di
convenzione del D.L. Valore Cultura, l’estensione delle
agevolazioni fiscali a tutto l’audiovisivo porta alla
ridefinizione del perimetro del settore, e costituisce
una svolta decisiva nel rapporto fra Stato e industria
cinematografica. La produzione audiovisiva, finora
mai esplicitamente attribuita alla competenza di alcun
Ministero, trova finalmente nel MiBACT una sede
amministrativa di riferimento.
Dal punto di vista dell’industria audiovisiva,
il sofferto DL Valore Cultura (D.L. n.91/2013)
e la relativa Legge di conversione (Legge n.
112/2013) rappresentano un momento di
svolta nella storia del settore, per certi versi
una vera e propria rivoluzione copernicana
che si completerà con i decreti attuativi attesi
entro gennaio 2014. I testi fanno emergere
spunti di riflessione nuovi e aprono questioni
mai affrontate nella produzione normativa,
le cui risposte possibili non paiono univoche
né immediate e su cui lo Stato sarà chiamato
a esprimersi, consapevole di toccare temi
decisivi per il futuro e di poter proporre una
visione a lungo termine per la produzione
culturale del nostro paese.
Dopo anni di battaglie per il rinnovo della misura fiscale che, pur in modo progressivo e
talvolta scomposto, ha stimolato una oggettiva maturazione del comparto industriale, la
stabilizzazione costituisce una vittoria epocale nel dialogo con il Governo. La certezza di
poter usufruire degli incentivi - a partire dal
“tax credit interno” - con una visibilità temporale superiore a uno o due anni consente
infatti ai produttori di programmare la propria
attività in modo più certo e di impostare piani
di produzione pluriennali, innovazione di vitale importanza, soprattutto in un’epoca in cui
le risorse provenienti da altre fonti si riducono
e il rischio sul singolo prodotto aumenta.
Il processo industriale che porta dallo sviluppo alla realizzazione e distribuzione
dell’opera cinematografica richiede infatti
un tempo di preparazione lungo: l’incertezza della disponibilità dei benefici fiscali nel
medio-lungo termine non poteva che frenare
entusiasmi e, soprattutto, investimenti. Una
maggiore diffusione del fenomeno dell’investimento in produzione da parte di imprese
non appartenenti alla filiera - inoltre previsto
dal tax credit cosiddetto “esterno” accanto al
già consolidato product placement - è uno
degli altri aspetti su cui la stabilizzazione della misura potrebbe influire in modo positivo.
A fortiori vale il medesimo discorso per il tax
credit “internazionale”, quello attraverso il
quale è tornata a crescere negli ultimi anni
la capacità attrattiva dell’Italia per le grandi
produzioni globali (vedi il Dossier dedicato
alla produzione sul numero di settembre di
8½). Il venir meno dell’incertezza per una misura di provata efficacia - il tam tam positivo
è la migliore delle garanzie - toglie un ostacolo dalla strada che porta verso le location
italiane, che si confermano economicamente
competitive e apprezzate dal punto di vista
naturalistico e storico-artistico. Il significativo valore generato dagli investimenti esteri,
accanto alla continuità di lavoro per esecutivi
e maestranze, offre anche possibilità di diversificazione e apertura sia per i talenti sia per
gli stessi produttori italiani.
L’industria quindi non può che accogliere
con entusiasmo la definitiva conferma degli
incentivi fiscali al settore, anche alla luce del
fatto che questi stanno progressivamente
sostituendo per peso e valore il tradizionale
sostegno diretto derivante dal FUS.
47
NUMERI // Il dossier economico di DG Cinema e ANICA
STABILIZZAZIONE ED ESTENSIONE
DEL TAX CREDIT
La questione dell’estensione del tax credit
all’audiovisivo è invece più ricca di sfumature
e chiaroscuri. Le modalità di attuazione che
saranno indicate (su cui lo Stato dovrà cimentarsi bilanciando e coordinando competenze
e risorse considerate storicamente separate)
porteranno inevitabilmente alla ridefinizione
del perimetro del settore. Certamente questa
novità della norma, peraltro inserita con un
emendamento in fase di conversione in legge
del Decreto e quindi non contenuta nel testo
originario del DL Valore Cultura, rappresenta
una svolta decisiva nel rapporto fra Stato e
industria cinematografica. Proviamo a individuare di seguito alcuni aspetti essenziali.
Innanzitutto, è la prima volta nella storia della normativa di settore che lo Stato decide di
erogare aiuti al comparto della produzione di
audiovisivo non cinematografico, unificando
competenza amministrativa e gestione delle
risorse presso il ministero dei Beni e delle
Attività Culturali e del Turismo. Alla luce di
ciò, l’immediata preoccupazione che il settore cinematografico tradizionale è legittimato
a porsi (produzione, distribuzione, esercizio)
riguarda proporzioni e modalità con cui i
benefici verranno distribuiti fra cinema e
audiovisivo.
Più in generale, tuttavia, sembra che la vera
portata di questo emendamento riguardi
non tanto l’estensione del tax credit in sé,
quanto piuttosto il principio sottostante, che
costituisce un punto di non ritorno: la produzione audiovisiva, finora mai esplicitamente
attribuita alla competenza di alcun ministero,
trova finalmente una sede amministrativa di
riferimento. Se i futuri interventi legislativi e
regolamentari confermassero questa tendenza, si tratterebbe di un momento storico per
il ministero ma anche per il settore economico della produzione.
48
I produttori audiovisivi indipendenti inizieranno, da un lato, a godere di benefici e
dall’altro a sottostare a vincoli già previsti per
la produzione cinematografica (benefici di
legge, contributi diretti e indiretti ma anche
vincoli di denuncia inizio lavorazione, lingua,
nazionalità, revisione - i.e. censura - interesse
culturale)? Come questo si declinerà sulle
coproduzioni e sulle produzioni estere girate
in Italia? Il discrimine dell’indipendenza dei
produttori riguarderà il sistema proprietario
solo nazionale? Solo il tax credit alla produzione o anche quello per la distribuzione?
Cosa si intende per distribuzione di un prodotto audiovisivo non cinematografico?
Superato lo storico steccato del prioritario
sfruttamento, sembra impossibile immaginare che se ne possano porre altri legati
al canale di diffusione: non più solo la sala
cinematografica, ma non solo la distribuzione televisiva. Si aprono infatti le sterminate
praterie delle produzioni nate per il web.
DEFINIZIONE DI “OPERA AUDIOVISIVA”
Una serie di domande che spinge a riportare
quindi la questione ancora più a monte, al
prodotto. È necessario interrogarsi in modo
più tecnico su che cosa si dovrà intendere
per “audiovisivo”, o meglio, citando la norma (art. 8 c. 2), per “produttori indipendenti
di opere audiovisive”. Rispetto al concetto di
“indipendenza” del produttore si rimanda al
paragrafo successivo, mentre è opportuno
prima soffermarsi sulla definizione di “opera
audiovisiva”, rinviata a un apposito decreto
del MiBACT, da definirsi in concerto con il
MEF, sentito il MISE.
Non esistono precedenti definizioni di “opera audiovisiva” nella normativa primaria,
nemmeno europea, ove l’attenzione è posta
(Direttiva Servizi Media Audiovisivi) sull’ag-
gettivo più che sul sostantivo. Il più recente
e vicino riferimento può essere rintracciato
nel Regolamento AGCom contenuto nella
Delibera 30/2011/CSP, relativo alla limitazione temporale dei diritti secondari. Ma tale
definizione non sembra utile ai fini attuali,
anche perché essa ricomprende al suo interno la stessa opera cinematografica in quanto
declinazione dell’ambito più ampio dell’opera audiovisiva.
Con buona probabilità il legislatore ha avuto in mente di intendere l’opera audiovisiva
come opera televisiva, ovvero destinata alla
prima diffusione sulla piattaforma televisiva
in modalità broadcasting, di genere fiction
o comunque che implichi uno sviluppo narrativo. Ci si chiede tuttavia se, alla luce della
rapida evoluzione del mercato dei contenuti
e della conseguente crisi dei modelli di business tradizionali che hanno governato i diversi mercati dei media - tenendoli peraltro separati - fino ad ora, non sia invece opportuno
considerare un confine dell’opera audiovisiva
che preveda un altro tipo di paletti, svincolati
dalla piattaforma di distribuzione in quanto
tale e dalla modalità di fruizione lineare.
In altre parole, con una visione a medio termine, è presumibile che la definizione di contenuto audiovisivo debba essere individuata
indipendentemente dalle licenze di sfruttamento per i vari canali di diffusione, primaria o
secondaria cha sia. La proporzione in termini di
potere di mercato e quindi di forza contrattuale
vedrà probabilmente nel volgere di pochi anni
la tv tradizionale lasciare il passo agli operatori
rilevanti sul web, per il quale verosimilmente si
saranno individuati modelli di business più efficaci di quanto non avvenga nel mercato attuale.
Occorrerà dunque identificare gli elementi caratteristici dell’opera audiovisiva, ripartendo dai
principi cardine contenuti nella legge 633/41 sul
diritto d’autore, anche se depurati dalle specifiche tecnologiche oramai superate dal corso
della storia.
NUMERI // Il dossier economico di DG Cinema e ANICA
Tante domande da porre al legislatore sulla
delicatezza della definizione di “opera audiovisiva” e sulla complessità delle conseguenze
che questa può avere sul mercato. Inevitabile
peraltro ricordare che probabilmente, una volta definita l’opera audiovisiva, lo Stato si dovrà
occupare anche della ormai obsoleta definizione di “opera cinematografica” contenuta
nel D. lgs n. 28/2004, improntata sulla natura
della piattaforma di diffusione del contenuto
più che sulla natura del contenuto stesso.
DEFINIZIONE DI
“PRODUTTORE INDIPENDENTE”
Da ultimo, merita attenzione la definizione di
“produttore indipendente (di opera audiovisiva)”, chiamato in causa dall’art. 8 c. 5 della
legge di conversione del DL. Per la prima
volta, altro traguardo raggiunto nella storia
della regolamentazione italiana del settore,
nella definizione di produttore indipendente, oltre ai classici vincoli relativi all’assetto
proprietario e alla non esclusiva della committenza, viene introdotto il criterio relativo
alla proprietà dei diritti di sfruttamento
sull’opera per cui sono stati chiesti i benefici (criterio peraltro previsto sin dall’origine
nella Direttiva Europea Televisione senza
Frontiere del 1989, da cui discendono tutte le
norme nazionali). Anche del maggiore approfondimento di questo dovrà trattare il decreto
attuativo previsto dalla legge.
Quello della proprietà dei diritti di sfruttamento sulle opere è un tema storicamente
cruciale per i produttori italiani, non solo e
non tanto quelli specializzati in opere cinematografiche, quanto piuttosto quelli maggiormente impegnati sul fronte televisivo. Il
modello di mercato che si è consolidato nel
comparto televisivo ha finora di fatto impedito ai produttori indipendenti di mantenere la
titolarità dei diritti, anche parziale, sulle opere
finanziate dai broadcaster e quindi di arricchire
le proprie library nel tempo, con conseguente
impossibilità di accrescere patrimonio e redditività d’impresa. Come conseguenza delle
prassi di mercato, la regolamentazione fino
ad ora si è sempre limitata a definire l’indipendenza del produttore in base ai soli primi due
criteri (assetto proprietario e non esclusiva),
tralasciando il terzo pilastro identificato invece
nelle norme europee.
Se la nuova e attesa definizione di produttore indipendente che discenderà dal Decreto
Valore Cultura interverrà anche in quest’area,
sarà probabilmente destinata a ridefinire
gli equilibri nei rapporti di forza che finora
hanno condizionato il mercato della produzione televisiva, oltre che in parte di quella
cinematografica.
PRIME RISPOSTE
NEI DECRETI ATTUATIVI
Dopo aver presentato in queste pagine le
novità normative del Decreto Valore Cultura
e della legge di conversione, illustrate dal
Centro Studi DG Cinema, e dopo aver ospitato le riflessioni del comparto industriale cinematografico, in particolare l'Anica, il lavoro
di elaborazione sull’intera materia è evidentemente iniziato e, come appare evidente dal
tipo di questioni che emergono a una prima
riflessione, troverà alcune risposte nei decreti
attuativi cui il Decreto Valore Cultura rinvia.
È probabile e presumibile che il dibattito si
apra e tenda a coinvolgere anche altri temi
strutturali, non strettamente riferibili alle norme in questione.
A questo proposito giunge con tempismo
perfetto la Conferenza Nazionale del Cinema,
progetto lanciato dal ministro Massimo
Bray nel corso del Festival di Cannes 2013
e sviluppatasi in due sessioni, tavoli di lavoro prima e seduta plenaria poi, durante
il Festival Internazionale del Film di Roma.
L’intero mondo degli addetti ai lavori - industria e Amministrazione - è coinvolto in
un processo di riflessione e ridefinizione che
dovrà necessariamente portare a proposte
innovative sotto il profilo della policy e della
gestione di un settore che, soprattutto, oggi
è chiamato a partecipare direttamente e a
portare contributi positivi per la costruzione
del proprio futuro.
49
CINEMA ESPANSO
T
itolo della mostra è Bruno
Bozzetto: Animation Maestro!
Chi la conosce un po’ sa bene
che non sopporta proprio essere
chiamato “maestro”: come mai
questa parola campeggia in testa a una celebrazione a lei dedicata?
(ride molto divertito) Odio la parola maestro! Come al solito… queste idee arrivano
da chi cura la produzione. Siccome c’è un
legame del mio Allegro non troppo con la
musica classica, in questo caso la parola è
funzionale e ha un doppio senso: maestro
d’orchestra e d’animazione. Ma lo ripeto:
a me non piace! Certo, dopo le mie diverse
esternazioni contro questa parola, è quasi
comico ma, al di là di questo, l’iniziativa è
molto bella, senza dubbio molto… più della
parola maestro!
Com’è nata questa mostra e perché è stato
scelto di incentrarla “solo” su Allegro non
troppo e non su una più ampia esposizione
delle sue creazioni?
Sono stato l’anno scorso negli Stati Uniti e
ho visitato il museo della famiglia Disney e
la figlia, Diane, diceva di aver intenzione di
aprire il Museo anche a mostre esterne: io la
cosa l’ho ascoltata volentieri ma mi è entrata
da un orecchio e mi è
uscita dall’altro. Ma evidentemente l’interesse
c’era e una volta rientrati in Italia sono tornati
alla carica, incontrando
anche la disponibilità e
l’entusiasmo di Federico
Fiecconi, curatore di
questa mostra, che era
con me in quell’occasione:
probabilmente
l’incontro
personale
ha soltanto sollecitato
un’intenzione che era in
fieri. La concentrazione
su Allegro è dovuta a due motivi: probabilmente in America è il mio film più conosciuto, ha avuto una importante diffusione, mentre West and Soda e Vip li conoscono poco, o
niente probabilmente; secondo, ha un legame stretto con Fantasia di Disney, soprattutto per La sagra della primavera di Stravinskij.
C’è anche un terzo motivo: i miei film non
Bruno Bozzetto.
Allegro non...
...non chiamatemi
Maestro!
diNicole Bianchi
50
sono pensati per bambini, infatti abbiamo
avuto qualche problema nel selezionare i
cartoni inizialmente perché io parlo di cose
cattive, la società, la guerra… che possono
essere anche proposte ai piccoli ma io le
racconto in maniera diretta. Questo per
spiegare perché abbiamo dovuto scartare
diversi film possibili e comunque rispettare
l’essere ospiti in “casa Disney”.
Racconti lei cosa si può vedere esposto
e se ci sia per caso qualcosa di inedito…
La maggior parte sono disegni visti in altre
mostre, ma non tutti: sono state selezionate anche cose nuove. Ci sono disegni a
matita, schizzi, qualcosa dello storyboard:
il materiale era tutto buono, per cui che
fosse scelto un disegno piuttosto che un
altro non mi creava problemi, ho lasciato
massima libertà di selezione. Non ci sono
“inediti”, anche perché… per fare quel film
non abbiamo scartato nulla! Ci sono degli
schizzi di lavorazione che naturalmente
non sono rientrati nel film, ecco l’inedito!
Cosa ne pensa del cinema nei musei?
Crede che gli ambienti museali possano
prestarsi bene ad ospitare il cinema e se
sì qual è il modo migliore per non farlo
risultare statico e garantirgli la magia del
dinamismo?
La cosa più bella del cinema in un museo
è avere il film e la materia con cui questo
è stato realizzato, così diventa più vivo
perché uno spettatore passa dal disegno
statico, che vede lì davanti agli occhi, al
disegno in movimento: la magia la crea chi
guarda, con la fantasia, supportato dal poter
“toccare con mano” il disegno. È la stessa
sensazione che si avrebbe se ci fosse lì in
carne ed ossa l’attore di un film. Trovo che il
cinema nei musei sia un’opportunità molto positiva, anche per una questione di
“dimensioni”: una persona vede il disegno
originale e il suo ingombro, poi lo guarda
adattato al film e questo è significativo per la
percezione del passaggio fisico da una cosa
statica creata su un foglio allo schermo.
Certo, l’animazione in particolare si presta a
questo discorso perché nel cinema dal vero
al massimo si possono esporre oggetti,
props, costumi ma non è come il disegno,
che invece rappresenta l’intera scena poi
visibile esattamente uguale in movimento.
CINEMA ESPANSO
La famiglia Disney
ha voluto dedicare
una personale a Bruno
Bozzetto, in mostra
al Walt Disney Family
Museum di San Francisco
fino ad aprile del
prossimo anno.
Noi l’abbiamo
intervistato.
Allegro non troppo, in virtù della tecnica
mista, ha visto la partecipazione dal vero
di alcuni importanti interpreti del cinema
italiano, uno per tutti Maurizio Nichetti.
Che ricordo ha del lavoro sul set e perché
scelse proprio lui?
Nichetti faceva parte del mio studio da
anni, su di lui abbiamo un po’ costruito il
personaggio del disegnatore: era arrivato
per sbaglio, era venuto a proporsi come
interprete di un film pubblicitario, ma
rendendosi conto che avevamo già scelto,
come dice lui “uno molto più bello”, stava
per andarsene quando gli venne in mente di
dirmi che scriveva sceneggiature. Io vedendo una persona sveglia, simpatica e spiritosa gli ho proposto di collaborare: facendo
architettura masticava un po’ la tecnica
del disegno e tutto questo era sommato a
quel tipo di spirito surreale che serviva a
me, capace di battute anche mimiche. Gli
devo anche riconoscere di avermi rimesso
in circolo il germe del film dal vero, con
cui ho iniziato la mia carriera e che adoro:
tant’è che Allegro è un film in tecnica mista
e il lavoro di Maurizio è stato di grande
aiuto… infatti è stato (anche) aiuto regista!
Una genialità che però voglio riconoscere
anche a Guido Manuli, sceneggiatore e
animatore strepitoso: l’idea dell’orchestra
di vecchiette è venuta proprio a loro due!
Il mio ricordo della lavorazione del film?
È stato un lavoro tranquillo, nato giorno
per giorno, fatto tutti insieme: giravamo al
teatro Donizetti di Bergamo, io abitavo al
di là della strada, quindi uscivo, andavo a
lavorare e tornavo a casa. Insomma è nato
in una tale tranquillità che non poteva che
essere allegro!
In poco più di un anno è stato invitato
negli USA da eccellenze dell’animazione,
alla Pixar da Lasseter e poi dalla famiglia
Disney: qual è il valore aggiunto che ha
l’animazione italiana di Bruno Bozzetto?
Non lo so proprio, la persona più stupita
sono io. Ci dev’essere qualcosa nella semplicità e nell’umorismo: il dover arrangiarmi, come è successo a me, con pochi mezzi ma riuscendo ogni tanto a far qualcosa
di importante forse li ha colpiti. La prima
cosa che mi ha detto Lasseter quando ci
siamo incontrati è stata: mi ricordo la zanzara di Self Service (1974)! Quindi sono le
trovate necessarie al dover lavorare con
poco che li fanno ridere, perché spesso mi
hanno parlato di “umorismo”, forse simile
al loro, come succede in Nemo, dove gli
squali vanno alla riunione degli alcolisti,
che è un livello di lettura diverso da quello
del bambino a cui si rivolge principalmente
il film. Probabilmente gli piaccio perché
facciamo lo stesso tipo di cinema: il mio
Vip e Gli invincibili hanno molto in comune
in fondo. Questa è l’unica spiegazione che
trovo, perché altrimenti non capisco come
possa io essere interessante per loro.
51
CINEMA ESPANSO
DANTE FERRETTI.
IL LABIRINTO, I LEONI
E I LAMPADARI DI SALÒ
diAlessandro Spreafico
“Se ti sei mai chiesto dove vengono
creati i tuoi sogni, guardati attorno,
vengono creati qui.”
(Hugo Cabret)
“D
ove vivi?” chiede Isabelle.
Hugo la guarda per un minuto, poi si volta e indica il
grande orologio nella stazione dopo il ponte: “là”.
È proprio uno dei sette orologi di grandi dimensioni costruiti per la colossale produzione di Hugo Cabret di Martin Scorsese (2011)
ad invitare all’immersione nell’universo “ferrettiano”, ricreato nella retrospettiva che il
MoMA di New York e Luce Cinecittà dedicano a Dante Ferretti, maestro della scenografia
cinematografica contemporanea.
Si potrebbe raccontare la mostra come un
compendio di progettazione per il cinema
illustrato dai lavori di Ferretti, un artista che
52
nel corso della sua carriera ha saputo dare a
quello che era un semplice mestiere artigiano
un ruolo strutturale nel processo collaborativo col cinema d’autore. Nei suoi progetti
ogni scenografia diventa un universo unico e
si pone in un rapporto dinamico e dialettico
con l'immaginazione del regista, contribuendo così a imprimere una precisa impronta
stilistica a tutto il film.
I lavori di Ferretti sono sempre concepiti ad
uso e consumo del pubblico cinematografico
e, va detto, possono essere apprezzati al meglio solo se visti nella loro collocazione originale, all’interno del film proiettato su grande
schermo. Per questo il 25 settembre scorso è
stata inaugurata da Martin Scorsese la rassegna Dante Ferretti: progettando per il grande
schermo nel teatro del museo, in cui vengono
proiettati integralmente i 22 film più rappresentativi dell’arte di Ferretti, tra cui The Aviator
e Hugo Cabret, diretti dallo stesso Scorsese,
e Sweeney Todd - Il diabolico barbiere di Fleet
Street di Tim Burton, valsi allo scenografo tre
premi Oscar come miglior art direction.
La mostra Dante Ferretti: Progettazione e
costruzione per il Cinema ospita diversi pezzi
originali recuperati dai set, tra cui spiccano i lampadari di Salò o le 120 giornate di
Sodoma di Pier Paolo Pasolini (1975) e i leoni d’oro creati per la Mostra del Cinema di
Venezia, oltre a numerosi disegni e bozzetti
che guidano il visitatore attraverso il processo
creativo dell'artista di Macerata. Il vero cuore
dell'esposizione è però la labirintica installa-
CINEMA ESPANSO
zione di 12 schermi alla Roy and Niuta Titus
Gallerie Hall, dove vengono proiettati alcuni
estratti delle più grandi produzioni scenografate da Ferretti, uno spazio ipnotico e onirico:
cinema che narra altro cinema e dunque il
racconto visivo si enfatizza in quello che comunemente possiamo definire metacinema,
qui arte visiva all’ennesima potenza.
Ispirato dalla tradizione del cinema classico
italiano e portato a creare su vasta scala, dal
1969 Ferretti ha lavorato come scenografo in
oltre 50 film, 24 produzioni operistiche e più
di una dozzina di altre tra televisione, musei,
moda e festival, collaborando con artisti di
calibro internazionale come l'icona della
moda Valentino, ma soprattutto con i maestri del grande schermo: Pier Paolo Pasolini,
Federico Fellini, Martin Scorsese. Lo stesso
Ferretti durante l’opening della mostra ha
raccontato di quanto debba a Pasolini, che
nel ‘64 lo assunse come assistente scenografo nel leggendario Il Vangelo Secondo
Matteo.
Oltre ai nomi già citati - questa non è una
lista ma un "alfabeto" di eccellenze - Ferretti
ha collaborato con Liliana Cavani, David
Cronenberg, Luigi Comencini, Marco Ferreri,
Elio Petri, Sergio Citti, Mario Camerini, Franco
Zeffirelli, Ettore Scola, Dino Risi, Marco
Bellocchio, Luigi Zampa, Franco Brusati,
Luciano Salce, Brian DePalma, Terry Gilliam,
Julie Taymor, Jean-Jacques Annaud, Martin
Brest, Neil Jordan e Anthony Minghella.
Lavorando in Italia, Gran Bretagna e Nord
America, ha vinto nel corso della sua carrie-
ra 4 David di Donatello, 13 Nastri d’Argento,
3 BAFTA, oltre a i già citati 3 Oscar (su 7
nomination).
Allestire una mostra come questa in anni in
cui la tecnologia digitale ha ormai definitivamente cambiato il processo di realizzazione di
un film, scenografie in primis, significa celebrare il tramonto dell’arte scenica in grande scala
dopo oltre un secolo di meraviglioso servizio.
Un evento lungo sei mesi in uno dei templi
dell’arte mondiale, il MoMA, rappresenta la
chiara intenzione di valorizzare il contributo
artistico della scenografia e più in generale
di tutti quei ruoli, solitamente considerati di
“secondo piano”, che trasformano la visione
di un regista in realtà. Dante Ferretti diventa
quindi una sorta di eroe del cinema, capace
di portare la grande arte scenica italiana
in tutto il mondo: non solo dà orgoglio al
nostro paese, ma ci fa riflettere su quanto
siano importanti (e complessi) l’interpretazione di un’idea e il processo che porta a
concretizzarla.
"Se ti sei mai chiesto dove vengono creati i
tuoi sogni, guardati attorno, vengono creati
qui." (Hugo Cabret)
Il suggestivo immaginario dello scenografo di Macerata
è in mostra al MoMA di New York fino al 9 febbraio 2014
in collaborazione con Luce Cinecittà.
53
RICORDI
Il segreto di
Gigi Magni:
la vera ricetta
della carbonara
diSteve Della Casa
Era maniacalmente affezionato al
concetto di romanità, che si può
sintetizzare nella preferenza per il
guanciale rispetto all’anglosassone
bacon e all’italiana pancetta.
54
RICORDI
N
essun altro
regista rappresenta lo
spirito romano come Gigi
Magni. E, al tempo stesso,
Gigi Magni ha una storia
comune con tutti coloro
che, più o meno con i suoi
anni, hanno iniziato a fare
il cinema di commedia in
Italia negli Anni ‘50.
Sembra una contraddizione, non è così. Gigi era
maniacalmente affezionato
al concetto di romanità, al
punto da bollare come “burino” chi abitava fuori dalle
mura, cioè dal nucleo storico della città oggi espansa
per chilometri e chilometri
in tutte le direzioni. In questa sua puntuale richiesta
di informazioni (“Tu che
dici di esse de Roma, ‘ndo
abiti?”) ricordava un po’
l’Ennio Flaiano degli ultimi
tempi, quello che guardava
i mille faccendieri che popolano il bar Rosati, tempio una volta della grande
generazione dei cinematografari, e commentava con
l’amico Vaime: “Guardali,
credono di essere noi”.
Nella carriera fa tanta gavetta, proprio come gli altri,
e poi ha un rapporto quasi
esclusivo proprio con un
“burino”, Nino Manfredi,
con il quale lavora per tanti
film smettendo poi di fare
il regista proprio quando
Manfredi muore. Tra questi
due poli ruota tutta la sua
carriera. La sua scrittura,
quando è sceneggiatore,
è chiara e lineare, le gag
che scrive per i film di Totò
sono scoppiettanti ma gli
interessa di più il fatto che
siano veramente immediate (e infatti Monicelli
lo citava come esempio di
prosa piana ed efficace, e
ripeteva sempre che l’insegnamento da dare a chi
si avvicina oggi alla scrittura è molto chiaro: “Scrivi
come Magni”). Ma anche
la sua voglia di raccontare
la Roma capitale di due poteri spesso fusi in uno solo
è al tempo stesso un atto di
sfida verso il potere temporale dei Papi (che secondo
Magni non si è esaurito
con la fine dello Stato pontificio) come anche un’attenzione quasi certosina
per le fonti di creatività romana, dal Belli a Pasquino,
che con quel potere hanno
sempre avuto una dialettica intensa. Chiamato una
volta in radio per una trasmissione monografica su
di lui, Magni annunciò per
tutta l’ora di trasmissione
che alla fine avrebbe svelato
il suo vero segreto, il tesoro
che consegnava alle future
generazioni. Alla fine effettivamente lo svelò. Si trattava
della vera ricetta della carbonara, quella che nacque
in via delle Fornaci in un’epoca imprecisata e che mai
avrebbe utilizzato l’anglosassone bacon e neanche
la più nostrana pancetta. Ci
voleva il guanciale, simbolo
di una cucina povera ma fascinosa, come storicamente
era quella romana “prima
che i barbari venuti dalle
campagne la distruggessero”. Un colpo di scena, ma
anche una filosofia di vita.
55
NEL MONDO
Pechino
Da Palermo all’Asia,
il viaggio della
“ciabattina” Cotta
diRossella Rinaldi
Elena Cotta, la vincitrice della Coppa Volpi a Venezia per Via Castellana Bandiera di Emma Dante,
è stata protagonista di una lunga tournée in Estremo Oriente.
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NEL MONDO
Tokyo
Busan
V
ia Castellana Bandiera (A Street
in Palermo il titolo internazionale) è stato uno dei film italiani più presenti nei maggiori
festival autunnali: solo a ottobre l’esordio di Emma Dante è stato in programmazione al BFI London Film Festival e
nei più lontani Busan e Tokyo International
Film Festival.
La regista palermitana, impegnata nelle prove
del Feuersnot al Teatro Massimo di Palermo,
ha affidato la promozione “asiatica” del film
alla coprotagonista e vincitrice della Coppa
Volpi Elena Cotta, non nuova all’Estremo
Oriente, nonché alle lunghe trasferte intercontinentali. Nella sua carriera cinquantennale,
l’attrice ha girato un film in Australia, Terza
generazione (del 2000), dove interpretava la
madre di Greta Scacchi; mentre la compagnia
fondata con il marito Carlo Alighiero la portò
per la prima volta in tournée in Cina con uno
spettacolo teatrale italiano, Arlecchino servitore
di due padroni di Goldoni.
Elena Cotta è stata un’assidua frequentatrice
della Cina per circa 30 anni perché la figlia,
Barbara Alighiero, al suo fianco in questo tour,
è un’eccellente sinologa e fino a due anni fa ha
diretto l’Istituto Italiano di Cultura di Pechino.
Ora l’attrice ottantaduenne è volata a Busan
e a Tokyo, passando per Pechino, dove è
stata protagonista di una conferenza stampa
proprio all’Istituto Italiano di Cultura. Perfetta
viaggiatrice, curiosa e aperta alle differenze
dell’Oriente, dal cibo alle tradizioni, a Tokyo
Elena ha sfilato sul green carpet (il tappeto verde realizzato con bottiglie di plastica riciclate,
che conferma la vocazione ecologista di questo festival), al fianco di Tom Hanks, Francis
Ford e Sofia Coppola e del primo ministro
Shinzo Abe; a Busan invece è stata ospite d’onore del direttore del Festival, Lee Yong-kwan,
assieme a Gianfranco Rosi, l’autore di Sacro
GRA, anche lui ospite dei coreani, e ha partecipato alla tradizionale photosession organizzata
da European Film Promotion assieme agli altri
personaggi europei.
L’attrice ha incontrato il pubblico e ha
approfondito i temi del film raccontando
dettagli della lavorazione nel torrido agosto
palermitano: “Ero completamente rilassata e
nemmeno il caldo mi ha rovinato il piacere.
Ero seduta in macchina, con il mio tè, i miei
libri, le mie sigarette”. Quindi ha spiegato: “Il
nostro mestiere è artigianato. Faccio sempre
l’esempio del ciabattino, che fa in maniera
eccellente una cosa che noi non sapremmo
mai fare, ribattere i chiodi. Anche gli attori,
dopo tanti anni, diventano bravissimi nel loro
mestiere, ed io dopo cinquant’anni di carriera
mi sento una brava ciabattina”.
“La Coppa Volpi? Sicuramente non mi aspettavo questo riconoscimento, ma mentirei
se dicessi che non lo speravo. Ho iniziato a
pensarci subito dopo la proiezione stampa,
quando durante l’incontro con i critici ho
avuto un applauso straordinario, uno dei
più belli della mia vita. Sto vivendo un momento magico, che un mese fa non avrei mai
immaginato”.
Elena Cotta non ha perso occasione di ricordare con orgoglio la realtà che ha costruito
con il marito Carlo Alighiero, con cui gestisce (con un terzo di comproprietà) il Teatro
Manzoni di Roma: “Una realtà privata che si
mantiene egregiamente con il proprio cartellone, senza aiuti statali, forte di ben 7.000
abbonamenti”. Il palcoscenico, però, lo ha
accantonato per un anno in vista di alcuni
progetti cinematografici.
Poi domande più specifiche e analitiche su Via
Castellana Bandiera, sull’ampliarsi della strada
nel corso del film (al termine diventa una via
larghissima in cui potrebbero passare almeno
due macchine): “Durante la lavorazione la scenografa Emita Frigato allargava gradatamente
lo spazio, che alla fine era sufficiente per fare
passare tutti. Il motivo del conflitto, per cui
c’era stato un morto, non sussisteva. È una
metafora dell’assurdità della guerra”.
Un attimo di commozione il giorno prima
della partenza da Tokyo, e poi, a due giorni
dal ritorno in Europa, Elena Cotta è ripartita
per il Festival di Zagabria.
57
DISCUSSIONI
VERSO L’OSCAR.
E SE I PERSONAGGI
COMINCIASSERO
A RECENSIRE
I FILM DI CUI
SONO INTERPRETI?
diElio De Capitani
Jep Gambardella prende le distanze, ma in fin dei conti disvela (disgela anzi)
il confessabile segreto che ci ammala de La grande bellezza...
58
DISCUSSIONI
L’APPARATO UMANO
Jep Gambardella
EDIZIONI
A
me il film non è piaciuto troppo.
Ne ho parlato anche con Toni,
che pure è bravissimo, concordo.” (voce off ) “Ma che dici
Jep? Non ti è piaciuto?”
“Siiiiiiiii maaaaaa.... no! Alla fine fine fine no!
Come dire? Non è un film su oggi, su Roma, su
di noi, se non tangenzialmente.
È su di noi perché ha gli stessi ‘nostri’ difetti
come opera. Ma non come materia dell’opera:
anche se, palesemente, ambisce a quello.”
“È un ‘omaggio’ a Fellini, a Scola e a tanti,
tanti altri, e ne risulta una specie di metafilm,
fin troppo voluto nei suoi compiacimenti.
59
DISCUSSIONI
È una pratica che non reggo più tanto.”
“Anche se l’estetica lo fa apparire altro, è
sostanzialmente un film meravigliosamente
retrò nel suo essere elegantemente postmoderno - ma ancor più sostanzialmente tardoromantico fino al decadentismo partecipe
- pur ambendo, con impeto ammirevole,
all’aura del capolavoro d’altri tempi: intendendo aura in senso stretto, alla Benjamin
(pronunciato all’inglese, è Jep che parla)...
all’ apparenza, La grande bellezza lancia un
ponte tra Roma... o - se vogliamo - La Città
delle donne di Fellini e la Commedia all’Italiana con la stessa imprevedibile, affascinante
e spiazzante intuizione con cui Tarantino - in
Django Unchained - ha saputo trasformare
il mito di Sigfrido di Wagner in uno spaghetti
western del XXI secolo. Anche se i ragazzini
che lo vedono, manco sanno chi è Sigfrido e se
sono di Milano pensano a Wagner come una
fermata del metrò e basta”.
Maledettamente sornione, vagolante ma
all’apparenza sicuro e soprattutto assai
autoindulgente - Jep Gambardella in persona
ci dice queste cose, languido sul divano del suo
salotto, geniale critico capace di autocompiacersi soprattutto nell’ autostroncarsi.
“La grande bellezza. Un film autoindulgente
come il suo protagonista: a mio avviso doppiamente autoindulgente.
Ma proprio per questo, paradossalmente, il
bersaglio grosso lo centra, centra la malattia più diffusa nel nostro paese: noi ci dilaniamo, ma al tempo stesso siamo indulgenti
con noi stessi, con la nostra incapacità di fare
e la nostra abilità di parlarne, anche spietatamente: è lo scrittore che non scrive più, è Jep il
cortocircuito del film. Cioè, modestamente, io
stesso e nessun altro.”
“... Jep Gambardella, il sottoscritto, che qui,
accettando di parlarvi del film come mai
aveva voluto fare prima d’ora, postmodernamente, parodizzandosi nell’ auto-dilaniarsi, si
auto-cita come in un specchio in loop all’infinito - giù, sempre più giù a spirale, fino a sfiorare l’ auto-epigonalalità assoluta del Gizmo,
ah ah ah!“ (?.... boh! A volte Jep spara a casaccio, tanto conta il suono, nessuno obietta, al
giorno d’oggi.)
“Palesa il nostro (Sorrentino intendo) in questo film - tanto per citare e scusate la noia - il
must d’ogni salotto ovvero Harold Bloom - la
sua angoscia dell’influenza.
Ahimè però quella ‘in tono minore’, quella di
chi possiede un certa dose di consapevolezza
e molta deferenza, addirittura venerazione,
una venerazione quasi patologica, per l’universo immaginativo dei grandi artisti del passato che lo hanno preceduto, ma non sa prodursi nel supremo slancio del superamento, nel
creare l’altro radicalmente nuovo, e nuovo al
punto da cancellare i maestri, da vanificare il
tentativo di discernere imprestiti o lezioni: perché tutto è qui, finalmente, in un modo... anzi,
in un mondo totalmente nuovo, radicalmente
60
altro, mozzafiato.”
“Gesù, ho perso il filo...
Che stav’ a rice?
Ah ecco:... incapace di altrettanta “grande bellezza”, per sentirsi all’altezza, l’epigono cita.
Il genio, non cita, mai.
Ruba ancora più spietatamente!
Ma trasforma a tal punto che si potrà quasi
dire, con grande efficacia d’immagine pur
paradossale, che ci pare persino vero che è
stato chi lo ha preceduto ad aver copiato lui, e
non il contrario.
Certo, paradossale, paradossale, un’ucronia, se
mi è concesso, o più semplicemente un’iperbole.
Ma rende l’idea, non vi pare?
E se non vi pare, chissenefutte, come diceva
mia zia, ah ah ah ah!”
“Concludo.
Se il passato non ti genera e invece sei tu ad
illuminarlo, ti fai beffe del passato e sei tu a
riaprire il canone, aggiungendo anche una sola
opera, ma che supera tutte le precedenti.
Ma pruvamme a cambià o titolo e... che so’...
Il naufragio della bellezza... e non faccio il
verso a caso al quadro di David - lo vorrei avere
io, lo metterei, eh eh, in camera da letto, ma
non mi equivocate ih ih ih ih... - che stavo...
ah, sì, il naufragio della bellezza: così torna
tutto e si capisce che non è un film da capire
e non basta neppure definirlo un film in cui
naufragare, come pur genialmente ha fatto il
collega carissimo, l’amico Gianni Canova. No,
non basta la sua descrizione pur efficacissima
del naufragar m’è dolce in questo mare. Va
spiegato il perché è dolce naufragarci.”
“Ve lo dice Jep il perché è dolce ‘sto cazz’e film:
è il film della dolce consapevolezza, solo di
poco nascosta, sviata.
Sviata eppur pulsante consapevolezza dell’ irrimediabile nostra colpa, dolce certezza che il
disastro è già accaduto, che la vita è andata
e non c’è grandezza se non nell’estetica del
naufragio... ‘Qui troviamo un’immagine tragica bloccata nell’attimo che segue il disastro’. Tutt’al contrario della brulicante disperazione della contorsione dei corpi, ancora
carica di speranza, de La Zattera di Medusa
di Gericault. Nella morsa dei ghiacci spezzati
di David ‘Non c’è disperazione, né sorpresa,
né rancore contro il destino che si presenta a
reclamare, con un evento violento, l’ineluttabilità delle cose. È calma del sapere che ormai
non c’è niente da fare e che le cose non sarebbero potute andare che così’ (Ué, nun’ é robba
mia, cito, l’ho letto inte nu blog su David, e me
pare bbuone assaje)”.
Mo’ concludo davvero. In una parola è il film
del “simme futtute” ma anche del “quanto
ci piace colliquare-collimare assieme” nella
nostra Roma-tomba d’eros e thanatos, il Todestribe: detto così, saltando, noi ormai ex-altrilibertini, la cavallina, tra Freud e la Valduga.
così colliquare-collimare e non
avere alcun futuro finché
non sia arrivato
il tempo di te il tempo
della fine di me in
me nuovo novità essere
altrove in un luogo
bizantino anzi barocco
recuperare il barocco
vivendo in barocco
essere limen
accettare
tutto
la mancanza
l’impossibilità
Mo’ ve siete beccate David, cripticamente
Tondelli, e Freud, e la Valduga e pure Bloom,
n’ata vota! “
“Bloom, Bloom, yes, rivisitato da Jep Gambardella, cari miei.
Bisogna, bisogna tirar fuori il vecchio Harold
Bloom per capire Sorrentino: non ha creato il
capolavoro ma un’opera assai epigonale, pur
con tocchi qua e là di genialità indiscussa!
Ma perché ci piace? Perché ci ammala? L’ironia, la critica sociale, nel film, è solo apparenza. È l’inconfessata adesione il segreto del
film (infatti fallisce nei personaggi dove non
c’è possibile adesione, come nel cardinale,
inefficace, inefficace, pura macchietta, nessuna grandezza, come nella suora e nel suo
devoto: essi sono nella magia d un altrove solo
apparentemente messo alla berlina, ma non
divaghiamo). Sono io stesso, Jep, il cortocircuito. Spiego meglio: è Il film del nostro permanente, già accaduto, naufragio - l’istantanea
in motion picture d’uno sturm un drang ormai
naufragato, di un’ epoca italica post resistenziale, post sessantottina e poi post-comunista - che, credendo d’essere post-moderna fu
immaturamente, permanentemente, infantilmente, tardo-romantica senza saperlo... auroralmente in perenne tramonto, bell’ossimoro,
eh? Siamo dei tardo-romanticoni: o dei tardoni romantici ah ah ah!
Anzi, ancora meglio, senza scherzi: il film della
‘bellezza del naufragio’, il naufragio di una
vita e quello d’un epoca, contemplato in un’
estasi di autoindulgenza. Mandando affanculo
‘sta cazz’ e ‘angoscia dell’influenza’... se non
quella noiosissima dell’infreddatura stagionale... ah ah ah ah! Scusate, è più forte di me,
ucciderei mia madre per una battuta.”
“Anche se, permettetemi il compiacimento
finale: ma chi cazz’è ‘stu Bloom c’aimme tutt’e
cità. Ci stava già tutto quanto in Nietzsche. E,
se vulimme volà basse, pure in Croce.
E pur’io, nel mio indimenticato L’Apparato umano, se vogliamo, modestamente...
pur’io... pur’io...
E se permettete, ‘modestamente’ un beneamato cazzo. So’ nu’ genie io! Ah ah ah!”
FOCUS
IL CASO
ARGENTINA
Superficie
2.780.403 km2
Popolazione totale
40.412.376 ab.
Capitale
BUENOS AIRES
Densità
15 ab./km2
Forma di Governo
REPUBBLICA
PRESIDENZIALE
FEDERALE
Valuta
PESO ARGENTINO
Presidente
CRISTINA ELIZABETH
FERNANDEZ
de KIRCHNER
Lingua ufficiale
SPAGNOLO
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FOCUS // Dove il cinema sta meglio
Tanto cinema
per poco pubblico
diRoberta Ronconi
Il cinema argentino vive all’interno di una dicotomia.
Ad una fortissima produzione nazionale - per numeri e qualità - corrisponde
una bassissima percentuale di pubblico. Dovuta alla presenza di poche sale,
alla troppa concorrenza nordamericana, al vecchio pregiudizio degli spettatori
per i titoli di casa. E a una politica di finanziamenti statali a pioggia che in
molti osservatori chiedono di rivedere.
Q
uando Mondo Grua
portò le sue immagini
sgranate in bianco e
nero alla Settimana
della critica di Venezia
(vincendone l'edizione '99) in molti
sentirono che lì batteva un cuore
nuovo. Era l'opera prima di Pablo
Trapero, da subito diventato uno
dei nomi simbolo del nuovo cinema
argentino. Quel tango antico sulla
metropoli sventrata di Buenos Aires,
vista dall'alto della gru di Rulo - un
cinquantenne ex rockettaro, ora in
cerca di lavoro per sfamare sé, suo
figlio e la madre - diceva tutto di un
paese che stava per essere "ricostruito" secondo le leggi del neoliberismo
sostenuto dal presidente Menem, e
che lasciava ai margini cultura originaria e umanità di un intero popolo.
Il cinema contemporaneo argentino è
ancora oggi sospinto da quell'onda di
forza e novità nata in quella metà degli
Anni '90. Fino ad allora, nonostante
62
la fine della dittatura militare (197683), poco era successo nel cinema, a
parte le eccezioni di Fernando Solanas
(El exilio de Gardel, 1985, Sur, 1998) e
Luis Puenzo (La Historia oficial, Oscar
miglior film straniero 1984) sostenuti
entrambi dalle coproduzioni internazionali. Il cinema per il mercato interno
era da mezzo secolo dominato da pellicole “costumbriste” ed “escapiste”
(di maniera, di svago) che servivano a
intrattenere gli argentini, prive di qualsiasi sollecitazione politica o sociale.
La fine della dittatura aveva dato nuove speranze al paese, non supportate
però da nuove politiche economiche.
Al contrario, il decennio del modernismo di Menem (1989-99) ha rappresentato economicamente un’assoluta
continuità con il decennio precedente
e anzi ha completato brutalmente la
cessione nelle mani del modello nordamericano: l'Argentina viene messa
letteralmente in vendita, i ministeri
finiscono nelle mani delle multina-
FOCUS // Dove il cinema sta meglio
zionali e persino lo Stato si trasforma in
un'impresa, riluttante - di conseguenza
- ad investire i propri soldi in sanità, istruzione e cultura pubbliche.
Per il cinema argentino è però alle porte
una svolta, inaspettata quanto radicale. È il
1994 quando una riforma del sistema audiovisivo nazionale (la legge 24.377, ancora vigente) trasforma l’ex Istituto Nacional
del Cinema (INC) in Instituto Nacional de
Cine y Artes Audiovisuales (INCAA) che
decreta l’aumento del 300% delle fonti
di introito dell’Istituto (aumento delle
percentuali su biglietti, video-cassette e
pubblicità televisiva) e decide di investire
grandi somme nella promozione del cinema nazionale, sia quello degli autori già
affermati, che delle nuove generazioni.
È grazie all’INCAA se nel 1996 arriva nelle
sale del paese una strana collettanea di corti firmati da sconosciuti. Historias Breves
porta per la prima volta sugli schermi i
nomi di Adrian Caetano, Bruno Stagnaro,
Sandra Gugliotta, Jorge Gaggero, Tristan
Gicovate, Pablo Ramos, Daniel Burman,
Lucrecia Martel, Ulises Rosell e Andrés
Tambornino. Tra loro questi giovani autori
sembrano non avere molto in comune,
se non la scelta di una rottura netta con il
passato cinematografico tutto, sia quello
“costumbrista”, sia quello dei padri nobili,
degli “auteurs” come Solanas, Subiela,
Aristarain, Gallettini che si ritrovano improvvisamente accomunati sotto la comune definizione di “dinosauri”, registi che
ormai “si sono allontanati dalla strada, dal
quotidiano”, dirà di loro Lucrecia Martel.
È lì invece, nell'anonimato delle periferie
di Buenos Aires, che nascono i nuovi personaggi e le nuove storie. Piccoli eventi,
apparentemente insignificanti, realizzati
con mezzi poveri (quasi tutto in 16mm e
in bianco e nero) e con attori sconosciuti.
La lingua è quella della strada, gli eventi
quelli della strada. Historias Breves avrà
in sala un successo non eclatante, ma significativo, che si rafforzerà e consoliderà
con l'arrivo del lungometraggio-manifesto
del Nuovo Cinema Argentino Pizza, birra,
faso di Bruno Stagnaro e Adrian Caetano
(1997), storia di un gruppo di ragazzotti
anonimi, figli della marginalità, che decidono di forzare il lucchetto di ingresso
dell'Obelisco (la torre-simbolo della nuova Buenos Aires) per andare a godersi la
vista della città dell'alto. Una presa della
Bastiglia, una dichiarazione di intenti, la
rivendicazione di una nuova centralità
dello sguardo. Dopo decenni di manierismi e falsità, nel cinema argentino la
realtà si riprende il suo spazio e da allora
non si dimostrerà più disposto a cederlo.
In quella metà dei Novanta si gettano le
basi dell'oggi. Si formano i nuovi registi,
i nuovi produttori, i nuovi critici, le nuove scuole e persino i nuovi festival. Oltre
alla riapertura del Festival di Mar del Plata
(1996) sotto la gestione dell'INCAA, nel
2000 nasce anche il Bafici (Festival del
cinema indipendente di Buenos Aires).
In un decennio, l'Argentina si posiziona in
testa ai paesi latino-americani (affiancata
da Brasile e Messico) per produzioni annue e visibilità internazionale. I due Oscar
per La historia oficial (1985) e El secreto de
sus ojos (2009) sono lì a dimostrarlo.
Forte di un sostegno statale che ha pochi
pari nel mondo, il cinema argentino nel
2012 ha raggiunto il record di titoli nazionali giunti in sala: 145 pellicole, di cui 90 di
nuova produzione (le altre sono rimasterizzazioni o ritorni in sala), ben il 42% dei
titoli complessivi (339), percentuale che
difficilmente trova eguali nei mercati occidentali. Anche lo sbigliettamento 2012 è
più che lusinghiero: 46.811.755 gli ingressi
registrati, per una popolazione di circa 42
milioni di abitanti.
L’INCAA ha - per legge e volontà governativa - la supervisione, la gestione della
promozione e del sovvenzionamento del
prodotto cinematografico nazionale. È
fortissimo il suo legame con il governo
della “presidenta" Cristina Fernandez de
Kirchner (la cui figlia, tra l'altro, studia
cinema) che da sempre è promotrice di
una forte politica di sostegno alla cultura
nazionale, a discapito dell'invasione di
contenuti nordamericani e delle multinazionali. Ne è recentissimo esempio
(dicembre 2012) la battaglia parlamentare
per l’approvazione della Ley de Servicios
de Comunicacion Audiovisual, intrapresa
dal governo Kirchner contro il principale
gruppo monopolistico editoriale del paese,
il Clarin, un vero potentato della comunicazione, capace di enorme influenza (con
tv e giornali), trasformatosi nel primo polo
63
FOCUS // Dove il cinema sta meglio
di opposizione al governo di centro-sinistra
della presidenta. Una legge necessaria per sostituire vecchie norme risalenti alla dittatura e
garantire spazi pubblici e plurali nei media,
che ha trovato strenua opposizione anche da
parte di un gruppo di giudici legati al Clarin,
che sono riusciti a rimandarne l’attuazione.
Ma qui finiscono i dati positivi. Al record di
produzione nazionale fa infatti da contraltare
la bassissima percentuale di pubblico dei titoli nazionali. Un deficit dovuto in buona parte
alla combinazione di mancanza di sale, quantità di blockbuster e titoli stranieri di grande
richiamo, la endemica diffidenza del pubblico
argentino verso i film di casa propria (storica
rimane la battura di Darin ne El secreto de
sus ojos: “Argentino no veo”). Nel 2012 sono
stati infatti circa 6 i nuovi titoli per settimana,
un ricambio continuo che non permette al
“passaparola” di prendere piede. Il film di
maggiore successo dell’anno, la commedia
di Diego Kaplan Dos mas dos ha avuto meno
di un milione di spettatori, seguito da Elefante
Blanco di Pablo Trapero e Atraco! di Eduardo
Cortés: in totale 1 milione e 500mila spettatori!
I loro risultati sommati rappresentano il 54%
del pubblico argentino che ha optato nell’anno
per una visione nazionale. Le restanti 87 nuove produzioni raggiungono con fatica qualche
decina di migliaia di ingressi, la maggior parte
attestandosi sotto i 5000. Gli schermi nel
paese sono in totale 829 - aumentati di 37
unità rispetto al 2011 - raggruppati in 269 sale,
appartenenti a circa 183 imprese. Ma oltre il
50% di queste appartiene a tre compagnie
straniere: Hoyts, Cinemark e Village (circa il
63% di pubblico), mentre il primo esercente
nazionale lo troviamo al 5° posto, la Riocin S.A.
(con il 2,14% di pubblico). Quattro distributori
raccolgono il 75% degli spettatori: al primo
posto la United International Pictures, seguita
dalla Walt Disney Argentina, dalla Fox Film e
dalla Warner Bros., a cui è in mano anche la
distribuzione delle principali pellicole nazionali che devono rispondere quindi alle politiche
di tenuta delle multinazionali straniere.
Questa la grande contraddizione che vive il
cinema argentino in questo momento. La
politica di finanziamento statale dell’INCAA
(nel 2012 sono stati elargiti circa 41 milioni di
pesos – 8 milioni di dollari – per 41 progetti di
varia natura) che prevede sostegni a pioggia
a qualunque progetto abbia una minima presenza in sala (da cui produttori che producono un solo film) sta da una parte consentendo
a molti di sperimentare, ma allo stesso tempo
disperde risorse e promozioni in mille rivoli,
non tutti meritevoli. Per questo in molti osservatori del settore chiedono una revisione della
legge di erogazione dei fondi, nella speranza
che un finanziamento mirato permetta a più
di 3-4 pellicole per anno di raggiungere un
maggiore pubblico e maggiori entrate.
Rimane comunque il dato positivo di un’
incredibile quantità di nuovi prodotti. Per
questo l'onda del Nuovo Cinema Argentino
non si arresta e anzi continua a "figliare". Tra
i titoli degli ultimi tre anni, da menzionare almeno il bellissimo El estudiante opera prima
di Santiago Mitre (vincitore del Bafici 2011),
Un cuento chino di Sebastian Borensztein che
ha avuto un notevole riscontro internazionale
e La mujer sin cabeza di Lucrecia Martel.
“Il cinema argentino in questo momento vive
un fenomeno estremamente interessante.
– ci dice Cecilia Barrionuevo, critica cinematografica e selezionatrice del Festival Mar del
Plata - Non troviamo un movimento unico,
ma molte nuove tendenze disomogenee tra
loro. Si stanno inoltre creando gruppi di lavoro, registi che cooperano dando vita a un
cinema nuovo ed estremamente vitale, come
il trio di Santiago Loza, Ivàn Fund e Eduardo
Crespo o l'altro formato da Mariano Llinas,
Santiago Mitre e Alejandro Fadel. Da nominare, infine, l’apparizione dello strano “ufo”
della filmografia, José Celestino Campusano
con la sua casa di produzione Cine Bruto, e
i nomi dell’ultimissima generazione di cineasti, tra cui Gastòn Solnicki, Gonzalo Castro,
Matias Pineiro.
Nota: Per i dati e le informazioni si ringraziano la segreteria dell’INCAA, i critici argentini Diego Lerer, Cecilia Barrionuevo e il critico dell’Ansa per il cinema latinoamericano Ernesto
Peres. Tra le pubblicazioni consultate: Il cinema argentino contemporaneo e l’opera di Leonardo Favio, pubblicato nel 2006 dalla Mostra del cinema di Pesaro.
64
FOCUS // Dove il cinema sta meglio
Buenos Aires: quanti
registi per metro quadro!
diRo. Ro.
L
a metà degli Anni '90 in
Argentina vede l’esplodere delle
scuole di cinema. Se fino ad allora lavorare nella settima arte per
il popolo argentino rappresentava un' attività per pochi creativi, con l’incremento dei fondi statali e dell’attenzione
internazionale, si trasforma per giovani e
famiglie in un vero e proprio sbocco lavorativo. Accanto alla prestigiosa ENERC
(Escuela Nacional de Experimentacion
y Realizacion Cinematografica, ramo
didattico dell’INCAA, 350 studenti, di cui
il 5% provenienti dal resto dell’America
Latina), scuola triennale gratuita con
fortissima selezione iniziale, spuntano
nuove accademie e indirizzi universitari.
Appaiono così La Fundacion Universidad
del Cine (FUC), il Centro de Investigacion
Cinematografica (CIC), il Centro del
Investigacion y Experimentacion en Video
y Cine (CIEVYC), mentre le facoltà di
Architettura, Filosofia e Lettere dell'università di Buenos Aires (UBA) creano i
loro dipartimenti di cinema, che vanno
così ad unirsi alle vecchie scuole di Santa
Fé e alla Universidad de la Plata. Lo stesso fanno le Facoltà di Architettura e lo
IUNA (Instituto Universitario Nacional
de Arte) che aprono corsi di Educazione
all’Immagine e al Suono.
Oggi parliamo in tutta l’Argentina di 11
tra istituti e scuole, che accolgono oltre
12mila studenti. Un numero abnorme,
se si pensa che in tutto il mondo gli studenti di cinema sono circa 80mila. Una
cifra tanto elevata da far dire al regista e
sceneggiatore Carlos Sorin che “…l’unica
industria prospera in Argentina è quella
del cinema. Credo che Buenos Aires sia la
città al mondo con la più alta concentrazione di registi per metro quadro”.
Dietro la macchina da
presa nella capitale
Argentina: breve storia
della formazione nelle
scuole di cinema negli
ultimi 20 anni.
65
FOCUS // Dove il cinema sta meglio
Una tangenziale
a più corsie
diDiego Lerer
Filo diretto da Buenos Aires.
Il punto di vista critico.
N
egli ultimi venti anni il cinema
argentino ha vissuto un rinnovamento estetico e generazionale
che ha rappresentato un vero
punto di non ritorno. Dall’inizio
dei Novanta, la nostra industria cinematografica è passata da una produzione di circa 15
pellicole l’anno alle attuali 140, la presenza nei
festival internazionali, prima minima, ora è
evidente e generalizzata, mentre le scuole di
cinema vedono ogni anno migliaia di nuovi
studenti. Ma se si chiede in giro agli specialisti
del settore, il giudizio è unanime: il cinema
argentino è in crisi. Come è possibile, con
questi dati?
Per chi guarda all'industria, la crisi è data
dal semplice fatto che pochissime pellicole
nazionali hanno una buona riuscita in sala.
Ogni anno, solo uno o due titoli figurano
nella top ten. A parte El secreto de sus hojos,
che nel 2009 ha raggiunto livelli di pubblico
da titolo hollywoodiano con oltre 3 milioni di
spettatori, normalmente è difficilissimo per
un film argentino raggiungere quota 1 milione
di ingressi. Alcuni titoli contano numeri che
si aggirano tra le 50 e le 100mila presenze,
ma il 90% della produzione nazionale ha un
pubblico assai più ridotto.
Per coloro che guardano non all’industria,
ma alla qualità delle pellicole in sé, la sensazione è che la presenza nei festival internazionali negli ultimissimi anni sia andata
diminuendo. Nel 2008, per esempio, solo
a Cannes figuravano due titoli in concorso
(La mujer sin cabeza di Lucrecia Martel e
Leonera di Pablo Trapero) e vari altri erano
presenti nelle sezioni collaterali. Negli ultimi
tre-quattro anni, i titoli in concorso sono diminuiti e si fa fatica a trovare film argentini
anche nelle altre sezioni.
66
FOCUS // Dove il cinema sta meglio
La crisi, per noi che guardiamo al cinema
argentino da molto vicino, è dunque chiara.
Ma allo stesso tempo bisogna riconoscere
che è una crisi dettata da uno sguardo superficiale, condizionato da indicazioni che si
basano solo sui dati classici del numero di
spettatori e di presenza nei festival. Forse,
la domanda che varrebbe la pena farsi è
un'altra, ovvero: quanto è buono il cinema
argentino in questo momento?
A questa semplice domanda ci sono diverse
risposte. Il cinema argentino dei Novanta e
del primo decennio del Duemila era nuovo,
originale, vedeva in campo giovani cineasti caratterizzati da una certa omogeneità estetica,
tanto da permetterci di definirlo come Nuovo
Cinema Argentino. Titoli come Mondo Grua
e il Bonaerense di Trapero, La Cienaga e La
mujer sin cabeza di Martel, La libertad e Los
muertos di Lisandro Alonso, Bolivia di Adrian
Caetano, Silvia Prieto di Martin Reytman hanno reso possibile un fenomeno compatto e
un suo riconoscimento cinefilo. Un'ondata di
novità riconoscibile che ha continuato a crescere per diverso tempo fino ad ampliarsi al
punto da perdere di definizione. I successivi
giovani cineasti non hanno ricevuto lo stesso
favore né da parte della critica né dai festival
internazionali, anche perché le mode degli osservatori cambiano e in un attimo l'attenzione
può passare dall’Argentina a nuovi fenomeni
regionali, magari in Messico o in Cile.
Di fatto, in questi ultimi anni in Argentina
si è continuato a fare buon cinema, ma in
modo talmente differenziato da non permettere alcuna etichettatura unidirezionale.
Del resto, come trovare un’unica definizione
per un titolo multinarrativo come Historias
Extraordinarias di Mariano Llinas e l’asciutto
e minimalista Los Salvajes di Alejandro Fadel?
Cosa hanno in comune il thriller classico El
estudiante di Santiago Mitre, il documentario
Papirosen di Gaston Solnicki e l’adattamento
shakespeariano di Matias Pineiro con Viola?
Poco, quasi nulla. Ma tale varietà andrebbe
valutata come un merito, piuttosto che come
un problema.
La crisi comunque esiste e si può constatare quotidianamente. Una produzione di
140 pellicole l'anno, con oltre 100 che non
saranno particolarmente buone e di scarso
successo: un numero non indifferente di
pellicole “da festival”, sovvenzionate da
comitati e fondi internazionali che cercano
di dettare i canoni “giusti” per far trionfare
all’estero una “pellicola latinoamericana”;
una tendenza a un cinema “facile”, che non
va oltre il prodotto professionale, incapace
però di svolgere la funzione base, ovvero
portare in sala gli spettatori.
In conclusione: se la democratizzazione tecnologica e i sovvenzionamenti statali sono
serviti a qualcosa, è perché oggi il cinema
argentino possa esistere non solo per essere in opposizione al vecchio cinema o per
formare un nuovo movimento, ma anche
per disperdersi in decine di corsie diverse e
magari opposte.
È vero: oggi nessuno sa esattamente cosa sia
il cinema argentino di questi anni. Ma non è
detto che questa sia una cattiva notizia.
67
68
GEOGRAFIE
Archeologia industriale
e natura selvaggia.
Breve viaggio nell’Alto Adige
che non conosce crisi
diCristiana Paternò
68
GEOGRAFIE
A
rcheologia industriale e natura
sublime in Alto Adige, tra Val
Venosta e Val Martello e fino a
Bolzano. Le rovine di un albergo di lusso, l’Hotel Paradiso,
progettato nel 1933 dal celebre architetto
Giò Ponti, occupato dall’esercito tedesco
nel ‘43, abbandonato dagli Anni ’50 e inagibile, nonostante vari progetti di ristrutturazione. Un luogo magico e inquietante,
degno dell’Overlook Hotel di Shining, oggi
inaccessibile ma pur sempre maestoso.
Potrebbe diventare un set se qualcuno dei
produttori italiani, tedeschi e austriaci che
hanno partecipato al location tour PLACES
#2 all’inizio di ottobre se ne innamoreranno. È il secondo anno consecutivo che la
BL S, Film Fund & Commission organizza
questo interessante appuntamento con la
geografia del territorio (l’anno scorso la
visita era dedicata ai castelli). Un’iniziativa
finalizzata a far conoscere a produttori,
registi, location scout, organizzatori generali la varietà e singolarità degli scenari
della regione con la guida di esperti come
Wittfrieda Mitterer, docente di Architettura
presso l’Università di Innsbruck ed esperta
di monumenti risalenti all’epoca austriaca
e al fascismo.
Architettura razionale e scorci pittoreschi,
resi ancor più estremi dalla straordinaria
nevicata che per un giorno ha interrotto le
comunicazioni tra la Val Venosta, campo
base del tour, e il resto del mondo facendo
saltare elettricità e internet. Quasi a voler
riportare i viaggiatori indietro nel tempo,
agli inizi del secolo scorso. Quando la valle
più occidentale dell’Alto Adige era famosa
presso i “nordici” per il clima stabile e temperato e veniva visitata, come ancora oggi,
per la presenza della vetta più elevata del
Sud Tirolo, nel gruppo dell’Ortles. Selvaggi
scenari alpini dove ancora si vive in un maso
collegato alla vallata solo da una teleferica,
una vecchia officina ferroviaria nel centro
storico di Bolzano, una diga mozzafiato e
un lago artificiale in Val Martello, un’antica
centrale idroelettrica, quella di Tel, nei pressi
di Merano, ancora pienamente funzionante
ma con la possibilità di fermare gli impianti
per agevolare la presenza di una troupe, un
rifugio antiaereo a Bolzano, reperto della
seconda guerra mondiale che ha scosso con
violenza un territorio “geneticamente” di
confine. BLS Film Fund & Commission ha
messo a disposizione un fondo di 5 milioni
di euro per il 2013 garantendo un finanziamento alla produzione per un massimo di 1,5
milioni di euro a progetto. Ma vi sono anche
finanziamenti alla pre-produzione e allo sviluppo delle sceneggiature per un massimo di
50.000 euro a progetto. Tra i film che hanno
trovato casa qui anche Il principe abusivo
di Alessandro Siani (prodotto da Cattleya),
scelta non banale per un napoletano. Per la
responsabile Christiana Wertz: “L’Alto Adige
non è la location più scontata per il cinema
e l’audiovisivo, tuttavia lo spirito imprenditoriale forte e creativo, la solidità economica e
il coraggio di cambiare della politica parlano
a nostro favore e il bilancio del 2012, il primo
anno effettivamente operativo, è positivo con
500 giornate di riprese e un effetto territoriale
del 163%”. Del resto la regione, in una fase di
crisi come quella attuale, praticamente non
conosce disoccupazione.
69
GEOGRAFIE
Tra le più affascinanti
location visitate nel corso di
PLACES #2 il leggendario
Hotel Paradiso, la centrale
idroelettrica di Tel, una
vecchia officina ferroviaria
nel centro di Bolzano, una
diga mozzafiato e un lago
artificiale in Val Martello.
70
PREMIO
DOMENICO
MECCOLI
“ScriverediCinema” 2013 a 8½
MOTIVAZIONE PREMIAZIONE
A 8½ è stato quest’anno conferito il premio
Domenico Meccoli “ScriverediCinema”,
consegnato ad Assisi durante la XXXII edizione
della storica rassegna Primo Piano sull’Autore.
La giuria, composta da 60 tra giornalisti e critici
ha così motivato la scelta: “Per la particolare
angolazione con cui questa nuova rivista di
cinema riesce a catturare l’attenzione degli
addetti ai lavori e del pubblico, focalizzandola
non soltanto sulle immagini tradizionali, ma
principalmente sulla lettura dei numeri, che
sono alla base dell’industria cinematografica.”
Domenico Meccoli, assisano di nascita, è stato un
importante giornalista e critico cinematografico,
inviato di “Epoca a Parigi”, direttore della Mostra
di Venezia, fondatore del Sindacato Nazionale
Giornalisti Cinematografici in Italia, sceneggiatore,
membro della giuria a Cannes e Berlino.
90°
90°
90°
INTERNET E
NUOVI CONSUMI
Il divo
della
porta
accanto
diCarmen Diotaiuti
72
INTERNET E NUOVI CONSUMI
S
empre più attori e celebrities raccontano su Instagram, il popolare social
network di condivisione
foto, gli aspetti più intimi della loro vera o presunta quotidianità. Autoscatti e immagini dalla
vita di tutti i giorni, affidati al web
con una breve descrizione. Per raccontare pubblicamente quelle emozioni private e quei momenti di vita
personale che fanno percepire allo
spettatore, per riconoscimento e
identificazione, il divo come persona comune. Le foto sono commentabili e a loro volta condivisibili sui
profili personali, secondo il principio della libera circolazione dei
contenuti sulle reti sociali. Il pubblico sbircia nella
vita dei suoi idoli ed entra a far
parte della loro
quotidianità. Può
avvallarsi il diritto di commentare o criticare le
sue scelte in un
rapporto d’interazione che si fa
paritario e ribalta l’immaginario
della star: non più
divinità asettica e
distante, ma soggetto vicino, che
diventa significativo proprio per
il suo essere ordinario, quotidiano, irrilevante. È
nell’avvicinamento e nell’annullamento della distanza che può
trapelare per lo
spettatore la natura privata, altrimenti sfuggente, dell’attore. Tra le star italiane più attive, Asia
Argento conta quasi 33mila seguaci e ben 1600 immagini pubblicate: autoscatti, foto di famiglia, retroscena dal set del suo ultimo film,
Incompresa. Immagini per lo più
provocatorie, condite da commenti irriverenti, per un profilo che racconta tanto della vita privata, ma
che è anche in linea con l’immagine pubblica che la rappresenta. La
narrazione costante del sé permette di superare la distanza col personaggio e diventa per l’attrice possibilità di espressione della natura
più autentica, testimone dell’identità e della sua storia personale. Ma,
per non stravolgere il ruolo pubblico costruito sul suo personaggio, deve rimanere inevitabilmente
coerente all’identità sociale e a ciò
che lo spettatore si aspetta da lei. Preferiscono, invece, promuovere
e salvaguardare principalmente la
loro immagine sociale Luca Argentero e Fabio Volo, entrambi con un
elevato numero di fan su Instagram
a cui scelgono però di non rivelare così tanto del loro privato. All’autoscatto preferiscono la formula
meno intima del reportage dai luoghi visitati, paesaggi urbani in cui
raramente compaiono, lasciando
intuire solo una certa personale
passione per i viaggi e per la fotografia naturalistica.
test lanciato in occasione della 32a
edizione delle Giornate del Cinema
Muto di Pordenone, per la creazione di video ispirati a scene da film
muto, pubblicati sul web utilizzando l’hashtag #silentfilmscenes32.
Ma non sono solo gli attori ad affidare al web le istantanee della quotidianità privata. A tre anni dalla nascita, Instagram conta 150 milioni
di utenti attivi. Reporter provetti
che invadono il web con ogni sorta di immagini, spesso prive di alcuna suggestione, che non rispettano i principi della composizione
fotografica e finiscono col ritrarre
compulsivamente momenti di vita
del tutto irrilevanti. E se per la star
la pubblica condivisione può essere un gesto
di distruzione e
oltrepassamento del mito collettivo costruito
sulla propria immagine sociale,
per il soggetto
comune diventa
bisogno ossessivo di testimoniare ogni momento della storia
personale, che
diventa apprezzabile e dotata di senso solo
se affidata alla
collettività. Un
flusso ininterrotto e schizofrenico di fotografie, un’epidemia
delle
immagini che richiama quella peste
del linguaggio
già descritta, trent’anni fa, da Italo Calvino nelle sue Lezioni americane: “Viviamo sotto una pioggia ininterrotta di immagini; i più
potenti media non fanno che trasformare il mondo in immagini e
moltiplicarlo attraverso una fantasmagoria di giochi di specchi: immagini che sono gran parte prive
della necessità interna che dovrebbe caratterizzare ogni immagine,
come forma e significato, come
forza d’imporsi all’attenzione,
come ricchezza di significati possibili. Gran parte di questa nuvola
d’immagini si dissolve immediatamente come i sogni che non lasciano traccia nella memoria”.
Instagram e gli attori: lo scatto
social-casalingo che rende il
personaggio celebre a portata di
click. Asia Argento “si spoglia”
anche sul network fotografico;
Argentero e Volo, invece, lasciano
solo tracce del loro passaggio.
Dallo scorso giugno Instagram ha
introdotto la possibilità di pubblicare video della durata massima
di quindici secondi e questa ulteriore opportunità espressiva lo ha
reso interessante anche per l’industria cinematografica. Dopo appena un mese, infatti, è apparso il primo profilo dedicato a un film, @
jobsthefilm, la pellicola con Ashton
Kutcher nei panni di Steve Jobs,
dove è stato anche pubblicato il primo trailer creato appositamente
per Instagram. La possibilità, inoltre, di catalogare e ricercare contenuti tramite marcatori semantici
permette di utilizzare il social network anche per la creazione di concorsi ed eventi. Come il video con-
73
PUN
TI DI
Se l'Italia
preferisce
il prosciutto
al cinema
diDaniele Luchetti
74
VISTA
Il regista di Anni felici ha
fatto parte della delegazione
di cineasti europei inviati
a Strasburgo per difendere
l’eccezione culturale. Ora ci
regala il suo diario ironico
di quella spedizione.
PUNTI DI VISTA
D
urante la settimana cerco di distrarmi dal lavoro,
e quindi consulto sempre
Facebook. Scrivo numerosi messaggi satirici verso il
M5S ma li cancello tutti.
Capisco che ho solo voglia di sfogarmi
con qualcuno, ma con loro è troppo facile.
Quindi accetto la peggiore rogna che mi
sia capitata quest’anno: occuparmi per
conto dei 100autori di andare in una
delegazione di colleghi a Strasburgo
per fare una cosa che non so fare, difendere l’eccezione culturale, che però
so abbastanza bene cos’è.
Quindi facendo finta di capire cosa c’è
a Strasburgo, accetto (consulto Wikipedia per sicurezza), e quindi prendo
un aereo, un treno, un taxi e arrivo al
Parlamento Europeo che infatti si trova
lì come Wikipedia aveva promesso. La
differenza con il Parlamento Italiano è
che i commessi, quando ti accolgono,
sono gentili, non hanno la puzza sotto
il naso,e quando dici che vai da qualcuno ti credono, e non ti chiedono manco
i documenti.
Siccome andavo da Barroso (il boss:
fonte Wikipedia) si sono fidati e mi hanno fatto entrare senza battere ciglio. Se
uno dice che va dal capo dev’essere
vero, anche se è italiano. Lì si fidano,
ed è una sensazione molto strana che
non avevo mai sperimentato prima.
I corridoi sono di linoleum scollato, ma
poi c’è un atrio enorme tutto a vetri,
con piante che scendono dal soffitto e
molte scolaresche che si fanno fotografare davanti alle bandiere. Mentre il nostro Parlamento sembra una cassa da
morto decorata da Sartorio - parlo solo
di apparenza - questo sembra una sede
della Nestlè o un aeroporto da cui non
si parte mai.
Mi riunisco finalmente a una delegazione di colleghi molto più cazzuti di me,
che vengono da nazioni particolarmente disastrate, o più cazzute della nostra, o anche semplicemente più convinti che la democrazia sia un bene da
difendere anche a brutto muso. Quindi andiamo a parlare con questo Mr.
Barroso che tutti conoscono ed infatti
ci indicano l’ufficio. All’inizio stringe
la mano a tutti, poi fa il cattivo, poi il
buono. In sintesi la sua cultura politica
sembra appartenere alla grande corrente: “io sono io, voi non siete un cazzo”.
Però lo fa elogiandoci, dimostrando
che ama molto il cinema, nominando
molti film, ma tutti di registi morti. L’unico vivo che nomina è un suo connazionale di 105 anni che non rompe più
le palle e infatti si vogliono molto bene,
almeno così dice lui: De Oliveira non
sappiamo se è d’accordo.
Costa Gavras è il nostro capo supremo,
per proiettare i suoi film al cineclub
del liceo sono stato odiato dai compagni e schiaffeggiato dai fasci. Ma tutti
lo adoriamo, e lui dice a Barroso cose
tipo “a fijo de ‘na mignotta, ma davvero
vuoi che la cultura sia in una trattativa
commerciale? Sei pazzo?”. Però lo dice
in maniera educata che non si capisce
molto bene la parolaccia, solo la rabbia.
Lui è greco, la democrazia l’ha inventata, e lo sa dire benissimo tanto che Barroso capisce e si incazza lo stesso. Le
sue posizioni sono talmente lontane
dalle nostre che dice sempre: lo vedete
che sono d’accordo con voi? Noi diciamo: che cazzo dici - sempre con educazione estrema - e lui dice: sono contento che siamo d’accordo. Ad un certo
punto si tradisce. Da una frase si capisce che tutto è perduto per noi, e che
si sta attaccando da mezz’ora ad una
frase ambigua che spera che non abbiamo capito. Gli chiediamo spiegazioni, e
all’improvviso lui dice che il tempo è finito e che ha una delegazione di non so
cosa (mi pare minatori, o trivellatori o
birrai, non so). Siamo delusi ed incazzati. Radu Mihăileanu vorrebbe aggredirlo
fisicamente, ma Barroso è circondato
da segretarie vestite di ruvidi vestiti apparentemente Chanel, ma sicuramente
di materiali corrosivi, e anelli con lame
segrete. Christian Mungiu vorrebbe fargli vedere un film su alcune suore rumene per ipnotizzarlo, ma lui sguscia fuori
dove c’è già un drappello di giornalisti
a cui dichiara: sono fiero di aver rassicurato i registi europei, e infatti siamo
della stessa idea. Io e loro siamo pappa e ciccia e infatti ho visto molti film
in bianco e nero di registi morti e anche
uno di cui ora non ricordo il titolo, però
era bellissimo.
Schiumiamo rabbia, anche perché nello stesso istante era già in rete una dichiarazione che diceva lo stesso.
Veniamo quindi ricevuti da una de-
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PUNTI DI VISTA
legazione di deputati europei che
aveva capitanato la grande maggioranza che si era schierata a favore dell’eccezione culturale. Sperano che gli si diano belle notizie,
ma noi siamo intontiti come pugili suonati. Loro dicono: Barroso
vuole fare un favore agli americani perché tra un anno gli finisce il
mandato e vuole andare a fare il
pensionato a Central Park,
magari con un incarico all’ONU.
Ripetiamo gli stessi interventi fatti
poco prima a Barroso anche se ai
suddetti deputati non gliene frega
un granché perché effettivamente
loro sono d’accordo con noi. Ma
noi siamo una compagnia di giro,
oramai, al secondo debutto, e non
vogliamo che si dica che non facciamo bene il nostro lavoro. Bérénice
Bejo dice che è scappata dall’Argentina a tre anni con i genitori, e che
hanno trovato in Francia una patria della cultura e delle arti, e che
è fiera eccetera. Io ripeto una battuta apparentemente arguta sullo squilibrio tra peso commerciale americano e fragilità del nostro
audiovisivo e li faccio ridere perché
sembra che abbia studiato e che abbia esemplificato con astuzia problemi complessi, ma in realtà li ho
solo esemplificati avendoli studiati
poco. Radu fa il compagno duro e
puro e le donne lo ammirano, e così
via. Mungiu sparisce e non lo troviamo più. Però è scomparsa anche
la sua borsa e quindi speriamo che
sia semplicemente partito e non sia
cacciato nei guai.
Poi veniamo catapultati in una conferenza stampa dove dobbiamo ripetere le stesse cose. Però ci siamo
stancati, e quindi io dico di essere
una esule argentina, Bérénice dice
76
le mie battute e così via, Costa Gavras resta fine e cazzuto, fino a scatenare gli applausi di una platea di
giornalisti abituati a ben altre performance, e non ad un drappello di
gente che nella vita sembra spassarsela, come pensano di noi sbagliando di grosso.
Poi in treno tutti assieme, come
dopo una partita che si è perduta.
Tutti al telefono, a cercare di parlare con ministri, sottosegretari,
presidenti di qualunque cosa, anche della squadra della parrocchia.
Chiunque abbia un po’ di potere,
purché ci appoggi e ci voglia ascoltare. A ministri e parroci arrivano
le nostre telefonate esaltate, ogni
tanto passo personaggi che probabilmente si stavano cucinando una
minestrina a casa a Belvaux, che
perora la nostra causa senza sapere con chi esattamente.
Ma nessuno sa o capisce di cosa
stiamo parlando. Questo sciagurato accordo potrebbe far chiudere
Rai, Mediaset, Sky, impoverire stabilmente le risorse alla cultura di
tutta Europa, e renderci semplicemente un mercato per il prodotto
americano. Che tutti noi adoriamo,
ma che riteniamo possa avere anche un concorrente innocuo come
noi, che fa bene al pubblico europeo, che ci premia con il 40% degli incassi, ma anche agli americani,
che così non si sentono troppo soli
nella conquista del mondo.
Solo in Italia l’audiovisivo fattura
quasi 16 miliardi: il doppio del traffico aereo.
E la campagna pubblicitaria della
destra ci ha fatti apparire come dei
morti di fame alla ricerca di sussidi
pubblici, quando per ogni euro che
lo Stato ci concede gliene tornano 4
in forma di tasse. E con questa legge che potrebbe venire, invece, si
permetterebbe agli USA di farci ve-
PUNTI DI VISTA
dere tutto il cinema che si vuole via internet, pagando le tasse in Irlanda, e senza
lasciare una lira qui.
Insomma, mentre torno mi arriva un
sms. La posizione ufficiale dell’Italia è: ci
abbandona. In cambio del commercio di
prosciutti e formaggi in USA ha deciso di
chiudere con l’audiovisivo. Dice che siamo tutelati abbastanza dalle clausole di
garanzia che sono nell’accordo.
Io non vi tedio con questo dettaglio. MA
sappiate che è come dire: facciamo la trattativa, la mia casa la metto dentro la trattativa ma non si tocca. Gli americani la
trattativa la fanno ma quello che davvero
ritengono intoccabile lo hanno lasciato
fuori: il sistema bancario. E hanno detto
che se si toglie l’audiovisivo salta tutto.
Ma insomma, perché ci tengono tanto
questi statunitensi a mettere l’audiovisivo in una trattativa di commercio estero se sanno che non si può toccare? (Mi
rendo conto che dico cose che potreste
non capire, sappiate solo che in questo
momento ho saputo di aver perduto tutto: me lo dice l’sms).
Non ho il coraggio di dirlo ai colleghi
francesi, che nel frattempo invece stanno
ricevendo il sostegno dal loro governo,
che cambia posizione e decide di sostenere la nostra: ringraziando per la difesa
della cultura della patria, viva la Francia,
e viva la cultura europea! Festeggiano
con sidro analcolico sul TGV mentre io
fischietto guardando fuori dal finestrino
perché so che l’Italia è l’ago della bilancia e potrebbe essere per noi che si affonda tutti, francesi compresi.
Dormo in un albergo di Parigi dove arrivo
a notte fonda. È un albergo automatico,
senza portiere e senza istruzioni. Riesco
ad arrivare in stanza ma non ad accendere la luce perché l’albergo è ecologico
e per una ragione che mi sfugge prendo
molte ginocchiate al buio.
Parto all’alba e il giorno dopo ricomincia
il mix, ma io non riesco a darmi pace. Telefono senza vergogna a chiunque, più su
che posso, sarei disposto anche a parlare con qualche grillino se facesse parte di
questo pianeta, e a sorpresa ottengo qualche udienza insperata estremamente prestigiosa. Entro in un palazzo minaccioso
dove mi vengono chiesti molti documenti. Entro in uffici dove la scultura più allegra è quella di un milite cieco morente.
Parlo con un LUI importante, simpatico,
competente, empatico, intelligente, ma mi
accorgo che anche a livelli molto alti non
si sa con esattezza di cosa si stia parlando. Prego, imploro, divento spiritoso, faccio il morto, il cagnolino, racconto barzellette, mi metto la mano sul cuore, sciorino
cifre, faccio ragionamenti impeccabili che
mi sorprendo addirittura io stesso, ma mi
viene detto: non posso promettervi nulla.
Cazzo, ha ragione, il mio momento è finito: finisce il tempo della consultazione, comincia quello della politica, della decisione. Tocca a loro, adesso. Però ora so che
hanno capito bene tutti i termini della questione. Ed anche io ho capito quali sono
le forze in gioco. Per ogni me che entra in
quegli uffici, c’è un Obama che manda a
dire, che raccomanda, che bonariamente
spera, si auspica. Ci spacca il culo, Obama,
con questa storia, e noi siamo pure contenti. E lo sapete perché? Perché loro hanno il cinema. E se decidono di fare il culo
a qualcuno noi stiamo sempre dalla parte
loro, anche se il culo lo fanno a noi: perché
noi stiamo sempre dalla parte dei film.
Fateci caso: gli USA dal ‘45 non hanno mai
dichiarato guerra a una nazione che producesse bei film. Perché chi produce film
ha una faccia e un’anima: come si fa a
bombardare? E invece se io che bombardo sono lo stesso di quel film bellissimi, in
fondo di che ti lamenti?
Torno a lavorare. Spedisco questo post
senza sapere come hanno votato oggi.
Incrocio le dita. Non tanto per me, ma
per quelli che ancora non hanno cominciato a fare film: attori, scrittori, registi, tecnici. Che meritano di crescere in
un’Europa che non ha svenduto il loro talento prima che nascesse. Domani leggerò sui giornali questa storia come se non
mi riguardasse più. Ce l’ho messa tutta, e
per due giorni ho fatto l’unico lavoro che
mi sembra più bello di quello del regista:
quello della democrazia.
Buonanotte, non rileggo,
perdonatemi se qualcosa
non si capirà.
77
PUNTI DI VISTA
Dalla sala
buia alla
ghiandola
pineale
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diGuido Barlozzetti
PUNTI DI VISTA
S
ono nato in una sala buia e
chiedermi se il cinema possa
farne a meno è francamente
una provocazione. Ma come
tutte le provocazioni va presa
sul serio, perché non possiamo far
finta che la Terra continui a stare al
centro dell’universo, quando intorno
abbiamo scoperto pianeti, galassie e
soli a non finire. Voglio dire che una
volta al centro della metropoli c’era
la sala buia e oggi, intorno ad essa,
andiamo a ritrovarci con un esercito
di maxischermi domestici da alimentare con uno shopping in rete, senza
nemmeno passare più per quella cosa
obsoleta e ancora orribilmente materiale del DVD, analogica nel corpo pur
essendo digitale nello spirito.
Dunque, la tecnologia sta chiudendo
un cerchio. Cataloghi immensi da
consultare nella cassettiera web, da
ordinare e scaricare in tempo reale,
per essere visti subito sulla parete a
cristalli liquidi del salotto hi-tech.
D’altronde, anche la televisione qualche trasformazione la sta subendo.
Una volta ci sedevamo davanti al
televisore, spettatori di un palinsesto
che metteva in fila i programmi in verticale, nella giornata, e in orizzontale,
nella settimana. Gli appuntamenti erano fissi e se perdevi un programma,
addio. Poi, è cominciato un tragitto
all’insegna di una partecipazione via
via più intensa: il telecomando ha consentito di scegliere tra i programmi e
di saltare da un canale all’altro, mentre
i canali aumentavano in quantità e in
qualità, fino a moltiplicarsi come i pani
e i pesci con l’avvento del digitale.
Così sono arrivate le reti tematiche in
chiaro e poi quelle a pagamento, veri
e propri bouquet dedicati, sempre più
affollati, con annessi reggimenti di
canali affiliati. E in più i pixel dell’alta
definizione che stanno mandando in
pensione il mistero della pellicola.
Serviva un nuovo strumento per gestire tutta questa offerta. È arrivato
anche quello, un super-telecomando
capace di fare tutto, non solo selezionare i canali, ma anche interrompere
la linearità della trasmissione e saltare
nel tempo astratto e parallelo reward
e forward, registrare programmi e,
ultimo passaggio, acquistarli da un
catalogo e vederli quando ci pare.
Il cinema è un protagonista di questa
storia. Nel tempo del monopolio, lo
mettevano il lunedì e non a caso, perché quella era la serata in cui i cinema
erano chiusi o l’incasso era più basso.
Nessuna concorrenza doveva fare il servizio pubblico televisivo al cinema delle
sale, due territori rigorosamente distinti.
E quando sul secondo canale il cinema
conquista un’altra posizione si tratta di
film particolari, d’autore come si diceva,
e non di grande impatto popolare come
quelli del lunedì, in ogni caso tirati fuori
dalle cineteche o dagli archivi polverosi
delle major americane e nostrane.
La svolta arriva con la tv commerciale
che fa razzia dei cataloghi delle library
italiche e USA e rimpinza i palinsesti di
film. È da allora che comincia lo scollamento. Da una parte il cinema, quello
della sala, perché nella sala ci vai per
vedere un film, ma in realtà, come continua pervicacemente a succedere a me,
perché voglio andare al cinema; dall’altro, i film, compressi nel tubo catodico e
spezzettati dalla pubblicità.
Poi, nel nuovo regime della quantità
dell’offerta, arrivano le pay che mettono
in valore l’appeal e la qualità dei contenuti e così i film trasmigrano in toto
o quasi dalla tv generalista nel nuovo
scaffale, da cui lo spettatore sceglie a
piacimento pescando in un’offerta multigenere spalmata su più canali H24.
Naturalmente, più questo processo
avanza, crea e acquisisce mercato, più
la finestra temporale tra i film al cinema
e i film in televisione si riduce. Il prossimo passo sarà la cancellazione di ogni
intervallo e la trasmissione, meglio la
selezione da casa fra le prime visioni.
Mi sembra un destino, che riguarda,
ci metto un forse, anche il consumo
nella massa immersa nel buio che va
a implodere nella cellula living room. Il
mercato deciderà e, chissà, solo qualche conventicola di cinefili si riunirà in
cripte per iniziati.
A questo punto torno alla mia nascita.
Nella sala buia, dicevo. Meglio, davanti
allo schermo di un’arena cinematografica estiva su cui davano le finestre di
casa mia. I film li guardavo ma non li
vedevo, le immagini mi entravano in
testa e, in qualche caso, dopo anni le
ho ritrovate e hanno acceso un cortocircuito che forse non hanno provato
nemmeno gli spettatori dei Lumière sul
Boulevard des Capucines. Fiume rosso,
La legge del Signore. Poi, dalla metà
dei ‘50, ho cominciato a soggiornare
quotidianamente nella sala buia. Tende
logore, sedili di legno scricchiolanti,
fumo di sigarette.
È chiaro che il mio desiderio non mi
permette di abbandonarla. L’inconscio
Dal rito del film
al cinema
all’on demand tv,
fino alla fruizione
su piccoli supporti
portatili.
Ma un giorno
anche le nuove
generazioni
avranno nostalgia.
non si separa facilmente dal liquido amniotico, specie quando il simbolico si è
allocato in una sala buia. Forse, le ultime
generazioni non avendo avuto questa
frequentazione con la caverna, possono
senza problemi disperdere il loro nella
navigazione web e nel prêt à porter di film
- e partite e musica e reality… - sui canali
real time della tv oppure basta un’application sull'iPad o, peggio/meglio ancora,
sul telefonino.
Anche a loro, voglio crederlo, un giorno
capiterà di avere nostalgia, quando qualcuno gli proporrà di infilare nella testa un
chip e di vedere tutto direttamente dalla
ghiandola pineale dove Cartesio metteva
la sede dell’anima.
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BIOGRAFIE
BIOGRAFIE
GUIDO
BARLOZZETTI
L
aureato in filosofia, già professore a contratto in Sociologia dei processi
culturali e Teorie e tecniche del linguaggio radiotelevisivo presso l’Università La Sapienza di Roma e l’Università di Perugia, lavora per la Rai come
autore e conduttore di programmi televisivi. Si è occupato di organizzazione di circuiti cinematografici, ha collaborato con la Mostra del Nuovo
Cinema di Pesaro e scritto libri sulla didattica del cinema, sugli sceneggiati tv, sulle
major, sui media event e su Don Giovanni.
Il suo articolo è a pag. 78
N
el 1972 è tra i soci fondatori del Teatro dell’ Elfo con cui lavora per
anni come attore. Nel 1979 è tra gli ideatori e fondatori della rassegna
Film-Maker di Milano. Nel corso degli anni ha realizzato numerosi film
e documentari. Dal 1987 si dedica con sempre maggiore attenzione al
cinema documentario di carattere sociale. Da sempre alterna la sua
attività di regista con l’insegnamento e la formazione.
BRUNO
BIGONI
ELIO
DE CAPITANI
Il suo articolo è a pag. 4
A
ttore e regista il cui nome è indissolubilmente legato a quello del Teatro
dell’Elfo di Milano: prima diretto da Gabriele Salvatores, diviene poi lui
stesso regista stabile, esordendo con Nemico di classe (1982), che gli
ha dato credibilità e visibilità nazionale. Il suo ruolo cinematografico
più conosciuto è quello di Silvio Berlusconi ne Il caimano, diretto da
Nanni Moretti. Dal 2005 si dedica anche all’insegnamento universitario della Storia
del Teatro, presso lo IULM di Milano.
Il suo articolo è a pag. 58
D
iego Lerer è stato critico cinematografico del quotidiano “El Clarin”
(il più venduto quotidiano nazionale argentino), dal 1999 al 2012.
Attualmente è delegato del Festival del cinema di Roma per l’America
Latina e scrive critiche per diverse pubblicazioni del settore. Molto seguito il suo blog “Microspia”.
DIEGO
LERER
Il suo articolo è a pag. 66
I
nizia la carriera come assistente alla regia, conoscendo Nanni Moretti e affiancandolo in Bianca (1984): diventa aiuto regista ne La messa è finita. La
Sacher, casa di produzione di Moretti, produce anche l’esordio di Luchetti alla
regia, Domani accadrà (1988), con cui vince il Donatello come miglior film
esordiente. Di 12 regie cinematografiche realizzate fino ad ora, la più recente
è Anni felici, autobiografia della sua famiglia.
DANIELE
LUCHETTI
80
Il suo articolo è a pag. 74
SUL PROSSIMO NUMERO IN USCITA
A FEBBRAIO 2014.
SCENARI
Cinema e musei
INNOVAZIONI
I nuovi autori italiani di colonne sonore
PROVOCAZIONI Il Leone d'oro a Sacro Gra ha fatto bene o male al cinema italiano? CINEMA ESPANSO
Un intero film in un solo fotogramma
L’attore è un tizio
che se non parli di lui,
non ascolta
Marlon Brando
Jean-Paul Belmondo
ISSN 2281-5597
9 772281 559003
30012
Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale -70% - Aut. GIPA/C/RM/04/2013
Il piacere del successo per un attore è niente rispetto
a quello che gli procura l’insuccesso di un collega
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