Comments
Transcript
attori e attrici: sempre solo i soliti noti?
CINEMA ESPANSO Bruno Bozzetto a San Francisco Dante Ferretti a New York FOCUS Il cinema in Argentina VERSO L’OSCAR Jep Gambardella recensisce La grande bellezza TENDENZE Cosa pensano i politici del cinema italiano? dicembre 2013 5,50 € 12 numero CINEMA ITALIANO ATTORI E ATTRICI: SEMPRE SOLO I SOLITI NOTI? POLEMICHE LA DIREZIONE E LA REDAZIONE DI 8½ RINGRAZIANO TUTTI COLORO CHE NEL 2013 HANNO COLLABORATO ALLA REALIZZAZIONE DELLA RIVISTA: Mario Abis Alberto Abruzzese Corrado Adamo Roberto Andò Elisabetta Andreis Silvia Avallone Mario Balsamo Guido Barlozzetti Luca Barra Stefano Bartezzaghi Giancarlo Basili Andrea Bellavita Marco Belpoliti Ivan Beretta Luca Bernabè Paolo Bertetto Eddie Bertozzi Marco Bertozzi Tina Bianchi Bruno Bigoni Gaetano Blandini Alice Bonetti Fausto Brizzi Federico Brugia Laura Buffoni Maria Buratti Giulio Bursi Marco Buticchi Pedro Butcher Andrea Cancellato Claudio Carabba Stefania Carini Massimo Carlotto Donato Carrisi Salvatore Carrubba Riccardo Casali Paola Casella Caterina Caselli Sugar Lionello Cerri Giovanni Chiaramonte Francesca Chiocchetti Francesca Cima Mariuccia Ciotta Rodrigo Cipriani Foresio Giulia Cogoli Guido Cornara Pappi Corsicato Callisto Cosulich Alberto Crespi Silvio Danese Fulvio De Berardinis Elio De Capitani Andrea De Carlo Giancarlo De Cataldo Steve Della Casa Laura Delli Colli Goffredo De Pascale Anna Luigia De Simone Piera Detassis Adriano D’Aloia Guido Di Fraia Giorgio Diritti Federica D’Urso Paolo Di Reda Giacomo Durzi Valerio Evangelisti Roberto Faenza Giorgio Faletti Luisella Farinotti Pier Francesco Favino Davide Ferrario Fabio Ferrazza Dante Ferretti Alessandro Ferrucci Fabio Ferzetti Chiara Gamberale Chiara Gelato Iole Maria Giannattasio Mimmo Gianneri Marco Giusti Giorgio Gosetti Aldo Grasso Michela Greco Chiara Grizzaffi Peter Howell Kyung Hyun Kim Lucio Laugelli Alessandra Levantesi Luigi Lo Cascio Stefano Locati Daniele Luchetti Jan Lumhold Cristiana Mainardi Frédéric Maire Luca Malavasi Fabrizia Malgeri Mariarosa Mancuso Valerio Massimo Manfredi Franco Marineo Umberto Marino Eleonora Mazzoni Francesca Medolago Albani Enrico Menduni Paolo Mereghetti Wendy Migliaccio Magda Mihailescu Stefano Missio Rocco Moccagatta Francesca Monti Franco Montini Stefano Mordini Asia Marta Muci Serafino Murri Enzo Natta Till Neuburg Maurizio Nichetti Marino Niola Katia Nobbio Olkan Ozyurt Valerio Orsolini Johnny Palomba Angelo Pannofino Marco Lucio Papaleo Alberto Pasquale Francesco Patierno Luca Pellegrini Cecilia Penati Micheal Perkel Alberto Pezzotta Giuseppe Piccioni Giovanni Marco Piemontese Francesco Pitassio Paolo Pizzato Veronica Pravadelli Roberto Provenzano Angela Prudenzi Andrea Purgatori Leonardo Quaresima Ivan Quaroni Costanza Quatriglio Ilaria Ravarino Rolando Ravello Carlos Reviriego Rossella Rinaldi Roberta Ronconi Federico Rossin Paola Ruggiero Emanuele Sacchi Pier Luigi Sacco Sara Sagrati Severino Salvemini Daniela Sanzone Massimo Scaglioni Maurizio Sciarra Lorenza Sebastiani Mario Sesti Fabio Severino Roberto Silvestri Alessandro Spreafico Caterina Taricano Micaela Taroni Maria Sole Tognazzi Roberta Torre Bruno Torri Riccardo Tozzi Vincenzo Trione Michail Trofimenkov Daniele Vicari Elisa Vinai Marilena Vinci Andrea Vitali Mario Zanot Dario Zonta Wang Xiaolu SENZA DIMENTICARE COLLEGHI E AMICI DELLA DIREZIONE GENERALE CINEMA, LUCE-CINECITTÀ E ANICA CHE HANNO AGEVOLATO IL NOSTRO LAVORO CON PAZIENZA E SIMPATIA. EDITORIALE diGianni Canova QUELLI CHE SANNO CON CERTEZZA COSA È CINEMA E COSA NON LO È... N on c’è niente da fare. Agli intellettuali non va giù. Ai critici militanti neppure. I benpensanti radical-chic lo detestano. E non capiscono – ammesso che abbiano mai capito qualcosa – come e perché Checco Zalone piaccia tanto al “popolo” italiano. Due anni fa, quando lo invitai a incontrare gli studenti nella mia università, qualche settimana prima del successo travolgente di Che bella giornata, ricordo che ricevetti parecchie telefonate indignate di amici e colleghi (docenti universitari, scrittori di fama, giornalisti, tutti nomi in vista nel sistema mediatico nazionale) che protestavano con me: ma come? Zalone all’università? Cosa avrà mai da insegnare costui agli studenti!?! Avevano ragione: agli studenti Checco non aveva nulla da insegnare, coi ragazzi poteva tutt’al più condividere. Caso mai, aveva qualcosa da insegnare a loro. Che però erano (e sono) sordi. Impermeabili. Ora come allora. È davvero deprimente vedere come tanta parte del nostro establishment culturale – quello stesso che con il suo snobismo elitario ha impedito la nascita di una vera industria culturale nel nostro paese – non voglia vedere. Non voglia capire. Il pubblico italiano non è disamorato del cinema e dei film. È stanco e nauseato da un certo tipo di film, tutti uguali, piattamente omologati, spesso invitati ai grandi festival ma incapaci di comunicare alcunché a un pubblico abbandonato a se stesso, ma proprio per questo assolutamente bisognoso di un cinema capace almeno di trasmettere emozioni. Con il suo incredibile successo, Sole a catinelle dovrebbe aver insegnato qual- cosa. Ad esempio: nessuno o quasi ha ragionato sul fatto che per due anni Checco Zalone ha lavorato esclusivamente al film. Non ha fatto tv, teatro, pubblicità, cabaret. Mentre tanti altri nostri attori “pensosi” e “impegnati” riescono anche a girare due o tre film all’anno, e in più fanno teatro, tv, pubblicità, e così via, fino alla vertigine dell’inflazione di sé. Checco ha curato il suo film con una dedizione d’altri tempi, con una cura assoluta, avendo perfino l’intelligenza di rinviare l’uscita del nuovo film di un anno nella consapevolezza che il progetto a cui stava lavorando non era quello giusto, o non era ancora maturo. Chi altri oggi farebbe lo stesso? Chi ha questa capacità di programmare, pianificare, rischiare, senza pietire sussidi, aiuti, finanziamenti, ma facendo uscire il pubblico di casa e portandolo al cinema? Ma non è cinema!, dicono le anime belle. Beati loro che sanno con certezza talebana cosa è cinema e cosa non lo è. Checco non pretende di saperlo. Lo “sente”, sente il paese e sente anche il cinema. Come facevano, ai tempi loro, prima Totò e poi Alberto Sordi. Neanche loro, finché erano in vita, piacevano ai gendarmi del gusto e ai chierici del cinema d’autore. Sono stati riabilitati post mortem. Aveva ragione Marco Bellocchio ne Il regista di matrimoni: in Italia comandano i morti. Almeno finché non c’è qualche Checco Zalone che riporta una ventata di vitalità. Non ha salvato il cinema italiano, Sole a catinelle. Però qualche indicazione preziosa l’ha data. Chissà se questa volta qualcuno vorrà provare a coglierla, e metterà a frutto la lezione. 1 SOMMARIO EDITORIALE 01 10 PROFESSIONE CASTING DIRECTOR di Katia Nobbio 14 CARO ATTORI: SERIE A CONTRO SERIE B di Ilaria Ravarino SCENARI QUELLI CHE SANNO 04 LAVORARE CON CERTEZZA IN PROFONDITÀ. COSA È CINEMA SENZA CERTEZZE E COSA NON LO È... di Bruno Bigoni di Gianni Canova 06 08 INTERVISTA A CATERINA D’AMICO: I SOLITI NOTI E L’ECCEZIONALE CASO DI MARGHERITA BUY di Ilaria Ravarino MASTANDREA, SALEMME, ANGIOLINI E GERINI... MAI SENZA di Wendy Migliaccio 17 24 25 L'ATTORE È UN BUGIARDO AL QUALE QUI SI CHIEDE LA MASSIMA SINCERITÀ di Nicole Bianchi CANI PIETOSI, CHE TENEREZZA! di Mario Sesti NON AMO GLI ATTORI ITALIANI UNA PICCOLA APOCALISSE di Claudio Carabba COSA MI PIACE DEL CINEMA ITALIANO 26 YOSHI YATABE, PROGRAMMING DIRECTOR DEL TOKYO INTERNATIONAL FILM FESTIVAL di Michela Greco TENDENZE 28 IL GIOCO DELLE MASCHERE di Gianni Canova 30 SEI DOMANDE AI POLITICI ITALIANI di Francesca Chiocchetti 36 IL FANTASMA DELL’ONOREVOLE di Fabio Ferzetti 40 L’ARMA PIÙ FORTE di Enzo Natta 42 TRA IL TRANSATLANTICO E LA RETE, TANTO RUMORE PER NULLA di Alessandro Ferrucci NUMERI diUnità di Studi congiunta DG Cinema/ ANICA 45 DECRETO VALORE CULTURA: ITALIA ALLINEATA AI PIÙ AVANZATI PAESI EUROPEI diIole Maria Giannattasio 47 UNA RIVOLUZIONE COPERNICANA VISTA DALL'INDUSTRIA diFederica D’Urso e Francesca Medolago Albani 8½ NUMERI, VISIONI E PROSPETTIVE DEL CINEMA ITALIANO Mensile d’informazione e cultura cinematografica Iniziativa editoriale realizzata da Istituto Luce-Cinecittà in collaborazione con ANICA e Direzione Generale Cinema Direttore Responsabile Giancarlo Di Gregorio Direttore Editoriale Gianni Canova In Redazione Carmen Diotaiuti Andrea Guglielmino Vice Direttore Responsabile Cristiana Paternò Coordinamento redazionale DG Cinema Andrea Corrado Capo Redattore Stefano Stefanutto Rosa Coordinamento editoriale Nicole Bianchi 2 Hanno collaborato Guido Barlozzetti, Bruno Bigoni Claudio Carabba, Francesca Chiocchetti, Elio De Capitani, Steve Della Casa, Alessandro Ferrucci, Fabio Ferzetti, Michela Greco, Diego Lerer, Daniele Luchetti, Wendy Migliaccio, Enzo Natta, Katia Nobbio, Ilaria Ravarino, Rossella Rinaldi, Roberta Ronconi, Mario Sesti, Alessandro Spreafico Progetto Creativo 19novanta communication partners Creative Director Bruno Capezzuoli Designer Giulia Arimattei, Matteo Cianfarani, Valeria Ciardulli, Tommaso Dal Poz, Lorenzo Mauro Di Rese, Simona Merlini SOMMARIO CINEMA ESPANSO RICORDI DISCUSSIONI 61 IL CASO 58 VERSO L’OSCAR. BRUNO BOZZETTO. 54 IL SEGRETO ALLEGRO NON… DI GIGI MAGNI: E SE I PERSONAGGI ARGENTINA ...NON CHIAMATEMI LA VERA RICETTA COMINCIASSERO 62 TANTO CINEMA MAESTRO! DELLA CARBONARA A RECENSIRE di Nicole Bianchi di Steve Della Casa I FILM DI CUI PER POCO SONO INTERPRETI? PUBBLICO 52 DANTE FERRETTI. di Elio De Capitani di Roberta Ronconi IL LABIRINTO, 65 BUENOS AIRES: I LEONI E I LAMPADARI QUANTI REGISTI DI SALÒ PER METRO di Alessandro Spreafico QUADRO! di Ro. Ro. 50 NEL MONDO 56 Stampa ed allestimento Arti Grafiche La Moderna Via di Tor Cervara, 171 00155 Roma Distribuzione in libreria Joo Distribuzione Via F.Argelati,35 Milano DA PALERMO ALL’ASIA, IL VIAGGIO DELLA “CIABATTINA” COTTA di Rossella Rinaldi Registrazione presso il Tribunale di Roma n° 339/2012 del 7/12/2012 GEOGRAFIE FOCUS 66 68 ARCHEOLOGIA INDUSTRIALE E NATURA SELVAGGIA. BREVE VIAGGIO NELL’ALTO ADIGE CHE NON CONOSCE CRISI di Cristiana Paternò PUNTI DI VISTA 74 SE L'ITALIA PREFERISCE IL PROSCIUTTO AL CINEMA di Daniele Luchetti 78 DALLA SALA BUIA ALLA GHIANDOLA PINEALE di Guido Barlozzetti 80 BIOGRAFIE UNA TANGENZIALE A PIÙ CORSIE di Diego Lerer INTERNET E NUOVI CONSUMI 72 IL DIVO DELLA PORTA ACCANTO di Carmen Diotaiuti Direzione, Redazione, Amministrazione Istituto Luce-Cinecittà Srl Via Tuscolana, 1055 - 00173 Roma Tel. 06722861 fax: 067221883 [email protected] Chiuso in tipografia il 29/11/2013 3 SCENARI I soliti noti: l'inflazione degli attori nel cinema italiano , Lavorare in profondita. Senza certezze diBruno Bigoni 4 SCENARI // I soliti noti: l'inflazione degli attori nel cinema italiano “ P ortate ogni scena al massimo grado d'intensità. Ogni situazione, anche la più semplice e banale nasconde un’incognita da risolvere.” (Sergej M. Ejzenstejn). Capita spesso, quando vedo un film italiano, di avere la consapevolezza che il lavoro dell’attore non è abbastanza approfondito. Responsabilità della regia, penso. Non credo si tratti di avere attori buoni o cattivi, ma solo registi incapaci di mettere i loro attori nelle condizioni migliori per esprimersi. Certo, tenendo conto dei limiti produttivi di cui il cinema italiano soffre (soprattutto per gli esordienti) posso comprendere le infinite difficoltà a cui si va incontro, ma tutto ciò non basta a giustificare le infelici performance di molti interpreti. Credo comunque si dovrebbe approfondire il lavoro di messa in scena. Vale per tutti i film, sia drammatici che comici: viene offerta l’occasione di guardare e affrontare la vita reale, quindi di avvicinarsi alle cose vere. Allestire le scene richiede una conoscenza profonda delle intenzioni che la narrazione nasconde, una certa posizione emotiva e la consapevolezza della necessità continua di apprendimento. La recitazione non può mai essere semplicemente l’enunciazione di parole e il movimento del corpo, bensì il luogo della ricerca, lasciandosi dominare meno dalla suggestione e più dalla consapevolezza (e magari anche dal sentimento…). Forse per vedere attori più convincenti bisognerebbe ripartire dal linguaggio, ma anche dall’alfabeto su cui si basa questo linguaggio. Vale per gli attori, diventa ancor più importante per la regia. In questo modo le parole (ma anche i gesti, gli sguardi, le intenzioni) ritroverebbero il loro vero significato, il loro autentico valore, e si presenterebbero come il frutto di un pensiero profondo. Ecco, proprio questo. Lavorare in profondità: questo manca a mio avviso a molti attori del cinema italiano di oggi. Latitano quella qualità di lavoro e di tempo necessari a far diventare qualunque acting non solo uno sfondo dove immaginare le storie che si vogliono raccontare, ma anche il luogo dove apprendere il significato delle mille parole che formano l’immaginario di un interprete: partecipazione, separazione, solitudine, disagio, gioia e via dicendo. Accanto a quelle della creatività, del desiderio, del conflitto e dei mille altri aspetti della vita che ci circonda. Realizzare un acting dovrebbe significare sempre mettersi in gioco, rischiare. Per entrare nel mondo sconosciuto di un personaggio sarebbe necessario pensarlo in profondità, mettere in moto un’energia che proietti verso il centro del suo sentire il motore dell’esperienza umana, senza cancellare i conflitti interni o esterni. Per creare un’interpretazione autentica, che sappia obiettivamente guardare (e di conseguenza rispecchiare) la vita, gli attori (e i loro registi) devono “immaginare sinceramente” e muoversi di conseguenza. Il recitare deve mostrare come sono fatti l’uomo e le cose che lo circondano, non vedere il loro lato “esteriore” ma la materia. Mi pongo sovente questa domanda quando entro in un cinema: cosa cerco in un film? Prima di tutto la verità di ciò che vedo. La riconoscibilità, la verosimiglianza delle storie che mi vengono raccontate. E soprattutto la sincerità di chi mi racconta una storia. Detesto la furbizia. La non riuscita di molti film che vedo è dovuta proprio, a mio avviso, a una pessima messa in scena, a un lavoro approssimativo, a una superficialità insistita. Verità per un attore (e per il suo regista) è vedere e dire ciò che è presente, vivo, autentico. Farmi vedere ciò che veramente vede. Non quello che sembra di vedere. Raccontare la verità, per un attore, è percorrere un processo fatto di esperienze autentiche legate alla storia che sta interpretando. Solo così io spettatore potrò credergli. Sono convinto che il segreto di una buona recitazione stia soprattutto nella qualità delle domande che ci si pone. Il cinema che amo non ha ricette precotte ma solo coraggio, curiosità e duro lavoro. Molti attori che sono stati abituati a un lavoro di sole certezze precostituite, di fronte a un nuovo modo di recitare sono terrorizzati dal non avere risposte, mentre avere risposte immediate per un attore equivale ad essere morto. In diversi cercano risposte a tutto e poi si domandano come mai siano così refrattari ad essere vivi, agili, pronti e curiosi! Sono stati abituati ed educati ad avere una vita professionale fatta di risposte giuste. Ma dovranno comprendere, prima o poi, che per essere liberi e per poter recitare in modo soddisfacente, per loro e per il loro pubblico, dovranno abituarsi che a una domanda possono corrispondere molteplici risposte giuste. Riflessioni sull’acting nel cinema italiano. Servono interpreti che comprendano che una stessa domanda puo' avere molte risposte diverse. E come dice Gogol: “Gli attori sanno troppo bene la parte. Devono imparare a dimenticarla”. 5 SCENARI // I soliti noti: l'inflazione degli attori nel cinema italiano INTERVISTA A CATERINA D’AMICO: I SOLITI NOTI E L’ECCEZIONALE CASO DI MARGHERITA BUY diIlaria Ravarino Crisi e reference system rendono difficile, se non impossibile, il ricambio di talenti. Colpa della paura di rischiare e della pigrizia produttiva, secondo la preside del Centro Sperimentale. 6 S ono famosi. Sono premiati. Sono bravi. Ma sono pochissimi. Così pochi, e privilegiati, da sfiorare l’appartenenza a una categoria di questi tempi piuttosto impopolare: la casta. Assediati da un esercito di colleghi precari, gli attori che lavorano nel cinema italiano sono un’élite che non conosce crisi. Alcuni sono sulla cresta dell’onda da anni, altri lo sono diventati da poco, tutti sono richiestissimi. E (quasi) sempre nello stesso ruolo. Per Caterina D’Amico, preside del Centro Sperimentale di Cinematografia, il fenomeno non riguarda la mancanza di giovani talenti (“ce ne sono tantissimi”), quanto due sentimenti molto umani e universali: pigrizia e paura di rischiare. Perché nel cinema italiano recitano sempre i soliti noti? Di fondo c’è un problema di pigrizia da parte dei produttori. Sono spaventati perché la gente non va più al cinema e cercano certezze. Ma io non vedo niente di male nel fatto che un attore faccia tanti film all’anno: perché dovrebbe farne solo uno? Il problema semmai è che si tende a offrire a una stessa persona ruoli molto omogenei. Quando un attore ha successo con un film, ci si affretta forsennatamente a proporgli parti simili a quelle che lo hanno reso riconoscibile al pubblico. E quel disgraziato finisce col rimanere intrappolato. Colpa del produttore che non rischia, dell’autore senza fantasia o dell’attore che non dice di no? Poveri attori, loro il coraggio di dire di no ce l’hanno. Ma devono lavorare, e se gli propongono solo una cosa faranno quella per sempre. C’è qualcosa di schizofrenico nell’atteggiamento di chi se la prende con gli attori sempre uguali a se stessi, e poi si lamenta della mancanza di uno star system italiano. In fondo cos’è lo star system se non avere un attore che fa sempre la stessa cosa? E il reference system? Se un film con un cast di premiati ha maggiori possibilità di ricevere finanziamenti, non si rischia così di privilegiare sempre gli stessi attori? All’inizio succedeva di più. Prendiamo Elio Germano. Dopo aver sfondato con Mio fratello è figlio unico, avrò letto almeno cento copioni con lui. Improvvisamente non esisteva nessun altro. Era pigrizia da parte dei produttori, ma anche disperato desiderio di cavalcare quella che si credeva essere l’onda del momento. È una pulsione al sequel, al filone d’oro, che il reference system ha reso più perversa: perché se nel cast hai un attore che ha vinto un premio, fai punti. Però non esageriamo. Non è che l’attore debba aver vinto ieri: c’è un parterre ampio fra cui scegliere. Il reference system, però, non aiuta il ricambio. Ho fatto parte della prima commissione che lo ha affrontato e da allora le cose sono cambiate. Per esempio abbiamo chiesto che fosse tolto per le categorie sussidiarie, quelle in cui vincono sempre gli stessi. Dato che a tutti serviva il ”nome”, la gente andava a supplicare il vecchio maestro scenografo o costumista dicendo: tu firmi il progetto, mi dai i punti e poi il resto lo fa il tuo allievo. Un inferno. Ma ci sono altri correttivi. I punti adesso vengono attribuiti al regista, allo sceneggiatore e agli attori protagonisti, cioè quelli che hanno un peso reale. Non puoi prendere un attore, dargli un cameo e accaparrarti i suoi punti. In più esiste un punteggio assegnabile alla coerenza dell’insieme. A me è successo di dare punti a film che non avevano “nomi”, ma una compagine credibile e calzante. Poi certo, qualsiasi forma di punteggio automatico può creare danni. Ma d’altronde o ci si fida di una commissione, o si applica un metodo puramente matematico. Cioè i punti. E al botteghino? La star del momento dà i risultati sperati? No. L’ attore ormai è solo uno degli elementi di un film. Succede anche nel cinema hollywoodiano. Qualcuno va a vedere un film perché ci recita Ben Stiller? Non credo. Gli attori americani che suscitano i gridolini da red carpet, la gente non sa nemmeno come si chiamino. Sono solo facce. In Italia gli spettatori - e parlia- mo di un pubblico adulto e acculturato - escono di casa per vedere Toni Servillo perché Servillo è in un film di Paolo Sorrentino, o perché recita in una storia interessante. L’appeal del grande star system si è depauperato: è il cinema stesso ad aver perso il suo potere evocativo. È il cinema che non è più sulle copertine dei giornali: oggi c’è la moda, altri divi che la fanno da padrone. Gli attori comici funzionano ancora come calamite, ma da soli non bastano. Non basta Elio Germano o Alba Rohrwacher. Con un’unica eccezione che dura da vent’anni. E non accenna a flettere. Quale? Margherita Buy. La gente va a vedere un film con Margherita Buy perché c’è lei. E basta. Perché è bravissima, perché è molto bella, perché si trova in sintonia con una fetta riconosciuta e forte del pubblico cinematografico italiano: le donne della sua età. Che s’identificano con lei o la sentono vicina, portatrice di istanze che le riguardano tutte. L’“effetto Buy” è un’eccezione. E agli altri cosa resta? Quando ero a Rai Cinema davo un consiglio ai registi con cui avevo a che fare: mettere nei loro film, accanto all’attore di richiamo, anche un interprete che non conosce nessuno. In questo modo il nuovo attore sarà aiutato ad acquisire riconoscibilità. E un domani, magari, sarà lui a fare da traino per gli altri. 7 SCENARI // I soliti noti: l'inflazione degli attori nel cinema italiano S cegliamo come campione il trien- re solo i film usciti in sala nel triennio cinio 2011-2013 e osserviamo i cast tato, escludendo documentari, produzioni dei film italiani usciti in questo pe- straniere, fiction e film per la tv, osserviariodo nelle sale cinematografiche. mo che attori come Valerio Mastandrea, Viene dato poco spazio alle novità Claudia Gerini e Margherita Buy guadae gli attori principali sono scelti nell’Olimpo gnano il podio con ben otto film. Se però dei soliti noti, che vantano dai 5 agli 8 film includessimo anche i ruoli televisivi i nuinterpretati nel triennio preso in esame. meri aumenterebbero ulteriormente. Ad La scelta di case di produzione e casting esempio Ricky Memphis, oltre ai sei film director ricade per comodità sui nomi più per il cinema, nello stesso periodo ha preprestigiosi con la convinzione - tutta da so parte a film per la televisione come verificare - che richiamino un immediato Area Paradiso e a fiction come Notte prima sbigliettamento. Non è un caso che le lo- degli esami ‘82 e Tutti pazzi per amore 3. candine italiane tengano a sottolineare vi- I risultati del box office, non particolarmente gratificanti per i sivamente l’importanfilm italiani, dovrebbero za del cast, attraverso immagini spesso ba- Le facce che tornano in ogni aver svelato il falso mito nali e ripetitive. Si per- film, i ruoli che si ripetono, le della ricerca di successevera nell’idea che ad coppie fisse (categoria in cui so attraverso il richiamo dato dai nomi in attirare gli spettatori non siano tanto la sto- stravincono Accorsi e Buy!): auge. Eppure così non ria o la fascinazione del analisi degli interpreti italia- è, tanto che la scelta defilm quanto la popola- ni sempreverdi negli ultimi gli stessi attori genera inevitabilmente anche rità dei suoi interpreti. tre anni. gli stessi abbinamenti. I motivi per cui si rimaEsemplare è l’ormai rone ancorati a queste credenze discutibili sono tanti. Nessuno data accoppiata Stefano Accorsi - Marghevuole rischiare e spesso chi sceglie a chi rita Buy. Nel recente Viaggio sola sono due affidare i ruoli principali non ha competen- ex fidanzati che covano ancora sentimenti ze artistiche. Manca il coraggio. Manca la l’uno per l’altra. Andando a ritroso la copvoglia di sperimentare, che dovrebbe par- pia è invece sposata e in crisi in Saturno tire proprio dalla ricerca dell’attore, per in- contro mentre ne Le fate ignoranti il loro dividuare chi (famoso o no) più di altri sia legame nasce dall’amore che entrambi nuin alchimia con l’essenza dei personaggio. trono per lo stesso uomo. Questo sistema Il coraggio però non si trova. Ecco perché genera un’inconsapevole confusione. Ed è gli attori italiani hanno il loro bel daffare. quanto meno sintomo di una stanchezza Tenendo conto che si è scelto di analizza- creativa, o di una pigrizia produttiva. mastandrea, salemme, angiolini e gerini... mai senza diWendy Migliaccio 8 SCENARI // I soliti noti: l'inflazione degli attori nel cinema italiano Produzioni cinematografiche italiane 2011 - 2013 Attori Attrici 8 film: Valerio Mastandrea: Il comandante e la cicogna – Romanzo di una strage – Gli equilibristi – Padroni di casa – Viva la libertà – La mia classe – Cose dell’altro mondo – Ruggine. Vincenzo Salemme: Lezioni di cioccolato 2 – Senza arte né parte – Una donna per la vita – Mai Stati Uniti – Buona giornata – 10 regole per fare innamorare – Ex: amici come prima – Baciato dalla fortuna. Ambra Angiolini: Viva L’Italia – Immaturi Il viaggio – Mai Stati Uniti – Stai lontana da me – Anche se è amore non si vede – Ci vediamo a casa – Immaturi – Tutti al mare. Claudia Gerini Reality – Una famiglia perfetta – Com’è bello far l’amore – Il comandante e la cicogna – Amiche da morire – La leggenda di Kaspar Hauser - Tulpa – Il mio domani. Margherita Buy Magnifica Presenza – Com’è bello far l’amore – Viaggio sola – 6 sull’autobus – Mi rifaccio vivo – Il rosso e il blu – La scoperta dell’alba – Habemus papam. Cristiana Capotondi Il peggior Natale della mia vita – Amiche da morire – Amori elementari – La mafia uccide solo d’estate – La kryptonite nella borsa – La peggior settimana della mia vita – The Wholly Family – Indovina chi viene a Natale. 7 film: Giuseppe Battiston: Il comandante e la cicogna – La variabile umana – Zoran il mio nipote scemo – La prima neve – Bar Sport – Io sono Li – Senza arte né parte. 6 film: Michele Placido Viva l’Italia – Razza bastarda – Tulpa – Itaker: Vietato agli italiani – Amici miei – Manuale d’amore 3. Rocco Papaleo Viva l’Italia – È nata una star – Una piccola impresa meridionale – Che bella giornata – Finalmente la felicità – Nessuno mi può giudicare. Ricky Memphis Immaturi Il viaggio – Mai Stati Uniti – L’ultima ruota del carro – Ex: amici come prima – Immaturi – Vacanze di Natale a Cortina. Christian De Sica Colpi di fulmine – Buona giornata – Colpi di fortuna – Il principe abusivo – Amici miei – Vacanze di Natale a Cortina. Elio Germano Magnifica Presenza – Diaz – Padroni di casa – L’ultima ruota del carro – La fine è il mio inizio – Qualche nuvola. Marco Giallini Una famiglia perfetta – Posti in piedi in paradiso – Buongiorno papà – Tutti contro tutti – ACAB – Tutti al mare. Filippo Timi Com’è bello far l’amore – Asterix e Obelix – Italian Movies – Quando la notte – Ruggine – Missione di pace. Carolina Crescentini Una famiglia perfetta – Allacciate le cinture di sicurezza – Niente può fermarci – Boris Il film – Henry – L’industriale. Alba Rohrwacher Bella addormentata – Il comandante e la cicogna – Con il fiato sospeso – Via Castellana Bandiera – Missione di pace – Sorelle mai. 5 film: Raoul Bova Viva l’Italia – Immaturi Il viaggio – Buongiorno papà – Immaturi – Nessuno mi può giudicare. Fabio De Luigi Il peggior Natale della mia vita – Com’è bello far l’amore – Aspirante vedovo – Femmine contro maschi – La peggior settimana della mia vita. Toni Servillo Bella addormentata – È stato il figlio – La grande bellezza – Viva la libertà – Il gioiellino. Pierfrancesco Favino Posti in piedi in Paradiso – Romanzo di una strage – ACAB – La vita facile – L’industriale. Luca Argentero E la chiamano estate – Bianca come il latte, rossa come il sangue - Cha Cha Cha – C’è chi dice no – Lezioni di cioccolato 2. Angela Finocchiaro Benvenuto al Nord – Il sole dentro – Ci vuole un gran fisico – Bar Sport – Lezioni di cioccolato 2. Barbora Bobulova Immaturi Il viaggio – Gli equilibristi – Una piccola impresa meridionale – Immaturi – Scialla. Asia Argento Dracula 3D – Baciato dalla fortuna – Cavalli – Gli sfiorati – Isole. 9 SCENARI // I soliti noti: l'inflazione degli attori nel cinema italiano PROFESSIONE CASTING DIRECTOR diKatia Nobbio Il mestiere, le selezioni, i condizionamenti. Luca Argentero “primo volto giusto” per Mangia, Prega, Ama accanto a Julia Roberts, Muccino che all'inizio rifiutò Vittoria Puccini, la scoperta di Bova e Scamarcio e “i bambini” di Baaria. Ma i volti nuovi faticano a emergere “perché non fanno punteggio” al reference system. 10 SCENARI // I soliti noti: l'inflazione degli attori nel cinema italiano L uchino Visconti aveva in mente un volto. Lo trovò a Stoccolma. Il volto pallido ed emaciato di Björn Andrésen, un giovane attore sconosciuto: gli restituì l’immagine di Tadzio in Morte a Venezia, come uscita dalla penna di Thomas Mann. O meglio, l‘immagine che dalle pagine del romanzo aveva preso corpo nei suoi occhi di regista. Perché proprio Björn Andrésen era Tadzio? Come si trova un volto giusto, quel volto che rispecchia il profilo tratteggiato dalla sceneggiatura? E perché spesso la faccia dell’attore ha la meglio sulle caratteristiche del personaggio? Lo abbiamo chiesto ad alcuni casting director, coloro che reggono il delicato equilibrio tra le esigenze del regista e quelle della produzione, tra l’arte e il marketing, le intuizioni, gli agenti e le agende degli attori. LILIA HARTMANN con il suo Studio-T - lavora molto per le produzioni internazionali, tra gli ultimi titoli Vatican di Ridley Scott e Mangia, Prega, Ama di Ryan Murphy; in produzione un nuovo Francesco di Liliana Cavani con interpreti stranieri. Chi è il casting director? Il mestiere del casting in Italia l’ha inventato mia madre: Isa Bartalini. Era assistente di Blasetti e fu la prima casting director in Italia, selezionò gli attori, che erano tutti italiani tranne i protagonisti, per Cos'è successo fra mio padre e tua madre di Billy Wilder (1972). Oggi, quando le produzioni internazionali mi chiamano per comporre il casting italiano dei film comincio, insieme al mio socio Gianni Laricchiuta, ad inviare dei provini oltreoceano: li carichiamo online e i registi li vedono sul telefonino, dobbiamo essere molto attenti a tutto, a partire da una buona luce, altrimenti la resa in video non rende giustizia all’attore. Tra i tanti provini online i registi scelgono in genere 5 o 6 attori che vengono a provinare in Italia. Qual è il grado di libertà concesso a chi fa il suo mestiere? Abbiamo libertà assoluta, può capitare che i producer americani ci chiedano dei volti noti, ad esempio per le serie tv che poi devono vendere alla Rai e a Mediaset, ma non impongono nomi. Per Labyrinth (Christopher Smith, 2011) abbiamo selezionato Claudia Gerini, per Crossing Lines (Dan Percival, 2012) Gabriella Pession. Il casting più difficile? Gangs of New York (2001) è stata una bella sfida. Dovevamo scegliere gli attori per tanti piccoli ruoli e Martin Scorsese voleva vederli tutti. Cercavamo attori italiani che parlassero inglese e che sembrassero irlandesi. Abbiamo cercato nei pub, nelle scuole, siamo andati a stanare attori ovunque. Per dare omogeneità visiva all’insieme, Scorsese ha chiesto l’occhio del casting director su tutti i ruoli, anche alcuni non parlanti come “The rich man”: un uomo ricco che aveva tre scene in cui non faceva nulla. All’epoca studiavo equitazione con un insegnante che assomigliava un po’ a Carlo d’Inghilterra, lo portai al provino e piacque subito. Il casting più facile? Non è mai facile, a volte può capitare che il primo volto che ti viene in mente quando leggi una sceneggiatura sia quello giusto, ad esempio Luca Argentero per Mangia, Prega, Ama. Perché si vedono sempre le stesse facce? Il sistema per la richiesta di finanziamenti da parte del Ministero per i Beni Culturali per la realizzazione di un film è un sistema a punti e la presenza nel cast di attori che abbiano vinto premi come i David di Donatello garantisce un punteggio alto: è un gatto che si morde la coda. Vengono scelti attori che hanno già ottenuto dei successi e che continueranno ad ottenerli, mentre non si riesce a far emergere volti nuovi. 11 SCENARI // I soliti noti: l'inflazione degli attori nel cinema italiano FRANCESCO VEDOVATI ha coordinato la recente costituzione dell’ “Unione Italiana Casting Directors”. Tra i suoi ultimi film Miele di Valeria Golino, Viaggio sola di Maria Sole Tognazzi, Il ragazzo invisibile di Gabriele Salvatores (in produzione). Chi è il casting director? Noi conosciamo molto bene gli attori e interpretiamo la richiesta del regista, spesso leggendo una sceneggiatura io ho già delle suggestioni ma so come procedere in base al regista con cui lavoro. In genere preferisco far vedere molti attori prima di insistere su quello “giusto”. Qual è il grado di libertà concesso a chi fa il suo mestiere? Non tantissima. Il produttore e il distributore hanno bisogno di nomi da cartellone. D’altra parte è inutile proporre grandi attori con un alto valore di mercato se i budget non permettono di pagarli. A volte le produzioni ci affidano il budget in modo che possiamo risparmiare PINO PELLEGRINO amico di Ferzan Ozpetek da trent’anni, da più di venti lavora con lui; tra gli ultimi film, oltre a quelli del regista turco, Il volto di un’altra di Pappi Corsicato, Gli equilibristi di Ivano de Matteo. Chi è il casting director? È un lavoro di aggiornamento continuo. Io vado a teatro, vedo la tv, vado al cinema e immagazzino volti e informazioni. Qual è il grado di libertà concesso a chi fa il suo mestiere? 12 su certi ruoli scegliendo attori meno noti per poi investire di più sull’attore affermato. Il casting più difficile? Tante volte è difficile, soprattutto per i ruoli femminili sui quali tutti mettono bocca. Ad esempio ci è voluto tanto tempo per trovare l’adolescente de L’ultimo bacio. Abbiamo cercato a Roma, a Milano, fatto centinaia e centinaia di provini in tutte le agenzie, poi sono finito a Firenze e ho trovato Martina Stella. Abbiamo cambiato il ruolo su di lei, trasformandolo in un personaggio toscano. Per il sequel Baciami ancora non era facile cambiare la protagonista dopo il rifiuto del ruolo da parte di Giovanna Mezzogiorno, ma io ho pensato subito a Vittoria Puccini che avevo conosciuto sul set quando ero assistente alla regia di Sergio Rubini. Con Muccino ho dovuto insistere, mi aveva detto di no quando gliel’avevo proposta per L’ultimo bacio e non voleva saperne. Alla fine, dopo aver visto moltissime attrici, ha accettato di incontrare Vittoria e dopo due provini l’ha scelta. Dipende dal progetto e dall’importanza del regista. Ho lavorato con Ferzan Ozpetek da Le fate ignoranti (2000) all’ultimo film che sta per uscire, Allacciate le cinture, e non ho mai ricevuto una raccomandazione. Il casting più difficile? Per Una mamma imperfetta (Ivan Cotroneo) insieme a Gabriella Giannattasio abbiamo visto attrici a non finire, quasi 500-600. Eravamo partiti con dei nomi poi ci siamo concentrati su volti meno noti. È stato un lavoro faticoso ma stimolante. Il casting più facile? In memoria di me di Saverio Costanzo (2007): ho pensato subito a Filippo Timi per il ruolo del seminarista, era conosciuto a teatro ma pochissimo al cinema. Timi fu la prima persona che feci incontrare a Saverio, ci abbiamo messo tre mesi ma poi siamo tornati su di lui. Dopo l’ho chiamato per proporlo a Salvatores per Come Dio comanda e poco dopo lo chiamò anche Marco Bellocchio per Vincere. Perché si vedono sempre le stesse facce? Il reference system ci porta ad accapigliarci per gli stessi 3-4 nomi di successo. Per fare un film con Valerio Mastandrea, ad esempio, bisogna aspettare il 2015. Esiste un casting di attivazione, che è virtuale, in base al quale viene presentata la domanda di finanziamento. Contano i premi: premio vinto 20 punti, nomination 10 punti. Se poi quando si realizza il film l’attore non è più disponibile dobbiamo sostituirlo con un pari merito. Il casting più facile? Non è mai facile, ogni volta c’è un attore su cui non si riesce a mettersi d’accordo. In Allacciate le cinture c’è Francesco Arca, un ex tronista: serviva un fisico come il suo ed era difficile trovare un attore noto con un fisico così. Perché si vedono sempre le stesse facce? Nei film di Ferzan, che sono corali, riusciamo sempre a mettere uno o due volti nuovi ma è sbagliata la legge del finanziamento pubblico per i film, che attribuisce i soldi in base al nome degli attori invece che alla forza della storia. SCENARI // I soliti noti: l'inflazione degli attori nel cinema italiano ADRIANA SABBATINI lavora molto per la tv, con più di cento titoli: da Il capo dei capi di Enzo Monteleone a Alcide De Gasperi e Einstein di Liliana Cavani. Chi è il casting director? È l’angelo custode degli attori, il mediatore che può far passare un interprete dall’anonimato al successo. Qual è il grado di libertà concesso a chi fa il suo mestiere? Le pressioni a volte ci sono, in tv ci sono tante voci: la produzione di appalto che è più o meno forte, il referente della rete, sono entità che hanno tante anime. Per Orgoglio (Giorgio Serafini e Vittorio De Sisti, Rai 1, 2004) il produttore Goffredo Lombardo anticipava i soldi e poi vendeva la serie alla Rai, così se voleva aggiungere una scena, sforando il budget, lo CHIARA AGNELLO conta tra gli ultimi film Salvo di Grassadonia e Piazza, Terraferma di Emanuele Crialese, Il giovane Montalbano di Gianluca Tavarelli. Chi è il casting director? È un lavoro creativo che ha per obiettivo la soddisfazione del regista. Ho iniziato con Il regista di matrimoni di Marco Bellocchio (2006) a fare il casting per i piccoli ruoli e poi mi sono inventata questo mestiere in Sicilia. Ero il punto di riferimento per le produzioni: ho provinato, per vari film, tutti gli attori siciliani. Qual è il grado di libertà concesso a chi fa il suo mestiere? faceva di tasca sua. Aveva una passione forte per il suo mestiere, ha lavorato fino all’ultimo, malato. A me per il casting aveva dato carta bianca, andavo a fargli vedere i provini in clinica, mi riceveva con le flebo ma voleva vederli tutti dalla postazione video che si era fatto allestire. Il casting più difficile? Per la serie tv Compagni di scuola (Tiziana Aristarco e Claudio Norza, Rai 2, 2001) serviva un “tenero violento”, un volto alla Matt Damon. Pensai subito al volto di Riccardo Scamarcio, lo avevo incontrato per caso, non aveva fatto nulla ma per me era lui. Lo portai alla produzione e piacque, ma la Rai non era convinta. Ho portato avanti una battaglia personale, abbiamo fatto sei provini, poi anche la regista Tiziana Aristarco si mise a lottare e alla fine prendemmo lui. Dipende dal progetto, i protagonisti spesso sono già decisi, ma per il resto del cast a volte siamo completamente liberi, come ad esempio per Faccia d’Angelo (Andrea Porporati, Sky, 2012 ) con Elio Germano, una storia ambientata nel Nordest. Sono stata a Chioggia per un mese e ho composto un cast di attori professionisti e non, tutti veneti perché sono una purista: quando si gira in un certo luogo l’attore deve essere locale. Il casting più difficile? Per Baaria ho curato il casting dei bambini. Servivano volti per interpretare lo stesso ruolo in età diverse e Tornatore teneva moltissimo alle somiglianze. Avevamo messo un annuncio sul giornale così per i provini abbia- Il casting più facile? Tre metri sopra il cielo (Luca Lucini, 2004). Scamarcio “era” Step. Non ho perso neanche un secondo, l’ho proposto alla produzione e al regista: l’hanno scelto subito. Un’altra scelta immediata per me è stato Raoul Bova. Era un nuotatore, bellissimo. Avevo visto delle foto di agenzia per le pubblicità e avevo subito pensato a lui per la fiction Una storia italiana (Stefano Reali, Rai 1, 1991) sui fratelli Abbagnale. Era così timido, non aveva mai recitato: ricordo che ho riaperto l’ufficio appositamente per lui una sera alle 6 quando si decise a fare il provino. La battaglia con la Rai poi l’ha portata avanti il regista Stefano Reali, che si era subito convinto che Raoul Bova fosse quello giusto. Perché si vedono sempre le stesse facce? In tv conta lo share. L’attore che porta un buon ascolto sarà richiamato come protagonista. mo riempito l’atrio immenso di una scuola. I bambini erano tutti in fila e io dicevo “tu sì, tu no…” ma i genitori degli esclusi prendevano i figli e li rimettevano in fila! Il casting più facile? Per Salvo ci abbiamo messo un anno a trovare la protagonista, Sara Serraiocco, ma il risultato è stato perfetto. Perché si vedono sempre le stesse facce? Molti attori non fanno i provini, ti dicono “se vuoi me mi prendi e basta”, così vengono chiamati sempre per gli stessi ruoli. 13 SCENARI // I soliti noti: l'inflazione degli attori nel cinema italiano Caro attori: serie A contro serie B diIlaria Ravarino Nel cinema italiano parlare di stipendi è quasi tabù. Ma noi di 8½ siamo riusciti a saperne qualcosa di più. Parlano la casting director Mirta Guarnaschelli, il produttore Mario Gianani, l’attore di “seconda fascia” Dino Santoro e l’agente Daniele Orazi. G li attori costano. Ma nel cinema italiano parlare di stipendi è quasi un tabù. Indelicato chiedere, fastidioso rispondere. Soprattutto in tempi di crisi. “L’aspetto economico è sempre stato fondamentale nel cinema, ma ormai è degenerato. Tutto è pensato in vista della fattibilità”. A dirlo è Mirta Guarnaschelli, celeberrima casting director e aiuto regista di Pietro Germi, ai tempi in cui “gli attori ce li cercavamo viaggiando per l’Italia, nei teatri, per strada. Ormai i film sono montati su volti predefiniti e se li hai scritti pensando a uno di loro, ti devi adattare a un certo cachet. Per i ruoli minori resta poco: non proponi nemmeno più ai registi persone che pensi non abbiano un mercato”. I privilegiati non sarebbero più di una decina. Per i tecnici sono gli “attori di prima fascia”, per il pubblico le star. Nessuno di loro guada- 14 gna quanto un Depardieu, ma il loro cachet è alto: “Le star incidono moltissimo nell’economia di un film – spiega Mario Gianani, produttore Wildside - Possono chiedere fino al 10, 15% del budget. Con un brutto film portano a casa 4 milioni di spettatori, con uno buono 10: il compenso è parametrato. Seguono la legge della domanda e dell’offerta. Sono numeri uno, producono valore. Il problema è che sono pochi: è la scarsità che fa il prezzo. E finché sarà così, saranno sempre strapagati”. Cifre che viaggiano fra i 600.000 e gli 800.000 euro a film, “e nelle commedie – continua Gianani - il divario di compenso tra il numero uno e il numero tre è impressionante. Là il problema è che le star comiche tendono a non mescolarsi: De Luigi e Bisio sono gli unici a fare i film degli altri, Siani non li fa più, Verdone nemmeno, Benigni non li ha mai fatti. Girano i loro film ogni due anni, SCENARI // I soliti noti: l'inflazione degli attori nel cinema italiano e in mezzo non si muovono per non inflazionarsi. Un discorso giusto, privatamente, ma il sistema ne soffre”. I produttori si dividono tra chi invoca un intervento calmierante, come chiese nel 2003 l’ad Medusa Giampaolo Letta, e chi come Gianani sposta il problema altrove. Puntando il dito sugli attori di seconda fascia. “La media dei compensi è troppo alta. Un film medio italiano, che costa quattro milioni e ne incassa due, paga tra i 200.000 e i 400.000 euro gli attori di seconda fascia. Bisognerebbe dargliene 50.000, ma come si fa? È come nel calcio: se Totti prende 17 milioni, l’ultimo dei panchinari ne chiede almeno 300.000. Viviamo un mercato abituato troppo bene”. Non tutti gli attori di seconda fascia, naturalmente, sposano la proposta. Anche perché non tutti si sentono esattamente dei privilegiati. Dino Santoro, bravo attore, fa questo lavoro da quindici anni. Formazione al Centro Sperimentale, lavori da comprimario al cinema, tanta fiction in mezzo (Il tredicesimo apostolo, Squadra Antimafia). E un impiego da cameriere per coprirsi le spese: «Sì, in un giorno un attore di seconda fascia guadagna quanto un operaio in un mese. Ma questo non ci rende automaticamente ricchi, perché il lavoro è saltuario e va accompagnato da spese come corsi e trasferte che non rimborsa nessuno. La posa, cioè il giorno di lavoro, è il culmine di questa attività: ma non sei tutto il mese sul set e le tasse si portano via gran parte del compenso”. La lotta per la posa è durissima, perché se le star sono poche, gli attori di seconda fascia sono un esercito. E i provini, ormai, una rarità: “Dieci anni fa, in un mese, si facevano sette-otto provini. Oggi due-tre. Ci sono pochi film indipendenti, aperti a nomi meno pesanti, mentre per gli altri i ruoli da protagonista sono già assegnati”. E i famosi 200.000 euro a film? “Mai visti 100.000 euro tutti insieme. Con il passaggio all’euro gli stipendi sono calati: quando ho cominciato si prendeva anche un milione e 200.000 lire a posa. Ora è la metà”. E poi ci sono gli esordienti, giovani under 25 al loro primo lavoro al cinema. Daniele Orazi, agente, con Officine Lab da dieci anni ha un punto d’osservazione privilegiato: “Scegliamo fino a 10 talenti all’anno, selezionati tra le 800900 proposte arrivate in agenzia. In un anno la metà di loro riesce a lavorare con continuità, non da protagonista. Un paio sbocciano”. Per loro gli stipendi viaggiano “tra i 600 e i 900 euro a posa, ma se il progetto è interessante e ha budget ridotto si accetta comunque, considerata l’età. Si arriva anche a 400 euro a posa, anche se è un danno al mercato”. In un anno i fortunati mettono da parte 20-25 pose, guadagnando fino a 3.000 euro a film. “Alcuni produttori si piegano ai compensi stratosferici delle star. Diamo 800.000 euro a qualcuno convinti che porti un rientro che magari non arriva. A questo punto, su un film da 300.000 euro, il giovane dovrebbe prendere 30.000 euro, non 3.000. I produttori si lamentano di non poter pagare gli attori di fascia media, o medio bassa, perché il protagonista si prende tutto. È questo lo sbaglio maggiore”. 15 SCENARI // I soliti noti: l'inflazione degli attori nel cinema italiano 6 interpreti eccellenti, tra i volti più presenti sul grande schermo - Battiston, Gerini, Giallini, Lodovini, Rocca e Preziosi – ci raccontano in prima persona il loro rapporto con i registi e il set e mettono in evidenza pregi e difetti della categoria. L'attore è un bugiardo al quale qui si chiede la massima sincerità (Vittorio Gassman) diNicole Bianchi 1 Secondo lei, esiste uno star system italiano? 5 La cosa che non sopporta sul set. 2 Un pregio e un difetto degli attori italiani. 6 Un film che non rifarebbe e perché. 3 4 Il regista e il metodo che le hanno consentito di dare il meglio come interprete. Ricordi quella volta che si è sentito più incompreso, sottovalutato, strumentalizzato, sottoutilizzato. 7 8 Un film che si è pentito di non aver fatto/ aver potuto fare e perché. La sua scena che vorrebbe restasse in un’ideale antologia del cinema italiano. 17 SCENARI // I soliti noti: l'inflazione degli attori nel cinema italiano 1 Esiste forse più a livello televisivo: è un po’ tutto alterato dal momento che gli opinionisti non sono più filosofi o poeti ma casalinghe o calciatori, contro i quali non ho niente, ma credo possano essere poco indicativi rispetto alla nostra realtà. Anche i nostri attori più rappresentativi li vediamo più spesso in tv che al cinema: non si tratta di una differenziazione di carattere qualitativo, ma se stiamo parlando di cinema cerco di dare una spiegazione al fenomeno; ci sono attori più rappresentativi, questo è certo, ma siamo lontani da un “sistema”, assenza che comunque non interpreto come un grande male. Pregi molti, credo che ci siano attori italiani bravissimi. Il difetto è quello, forse, di accontentarsi nel senso che, assodato comunque che bisogna anche “campare” e che il panorama generale è quello che è, nel momento in cui interpreti bene un ruolo poi cercano di affidartelo per la maggior parte della carriera. Qui c’è un concorso di colpe, da parte di registi e sceneggiatori: però ci sono anche gli attori che si prestano a interpretare sempre uno stesso ruolo, cosa che alla fine ti fa identificare solo con quello. Anche in questo caso, non è un’analisi qualitativa: un grande attore rimane comunque tale, però in questo modo diventa quasi una maschera. 2 3 6 4 7 5 8 È difficile da dire perché ho avuto la fortuna di lavorare con autori che considero straordinari: mi trovo a mio agio con chi mi permette di fare un buon lavoro e rispetto agli autori con cui ho lavorato sono davvero pochi quelli che non mi hanno messo in quelle condizioni. C’è un cinema che adesso è importante fare, quello degli autori nuovi, che ti portano nuova linfa vitale: mettere l’esperienza a disposizione di chi cerca di portare una storia al cinema. È successo, certo. E mi rifaccio un po’ alla seconda risposta: è successo perché forse anch’io ho permesso che si creasse un malinteso; ci sono registi che mi hanno chiesto di fare esattamente un ruolo che avevo fatto in passato, qualcosa che mi avevano visto fare. E io mi dico: quello l’ho fatto in un’altra storia, si deve andare altrove, ho bisogno di costruire un personaggio, di creare un “vissuto” che non può essere sempre lo stesso, la richiesta è “criminosa”. Come nella vita, non sopporto le falsità che serpeggiano sul set, che non ti vengano dette le cose fino in fondo. Non sopporto il cestino. E non sopporto la mancanza di sedie, perché sul set bisogna aspettare un casino! C’è quello che non rifarei e quello che mi sono pentito di non aver fatto, ma per correttezza, per decenza, non farò titoli. Anche perché nel percorso d’attore può capitare di trovarsi in condizioni in cui devi… girare qualcosa per forza, allora da quella forma d’imposizione in poi si “naviga” male e questo determina che si abbia uno scarso gradimento del progetto. Non si tratta solo di un fatto di gusto personale ma talvolta di circostanze. In generale penso che gran parte delle cose che ho fatto avrei potuto farle meglio, però mi capita anche di guardare film a cui ho preso parte e che mi fanno domandare: ma adesso sarei capace di farlo? E non credo… Vedi risposta precedente. In questo momento, forse anche perché mi trovo in Veneto, sto pensando a Carlo Mazzacurati e credo che la scena dell’ultima cena de La passione sia molto bella, forse anche e proprio perché corale. GIUSEPPE BATTISTON 18 SCENARI // I soliti noti: l'inflazione degli attori nel cinema italiano 1 2 Nel suo piccolo sì, è un mini star system essendo il nostro mercato molto piccolo, quasi asfittico: avere in un film un attore piuttosto che un altro fa la differenza, quindi c’è un meccanismo legato alle star ma proporzionato alle dimensioni del nostro cinema. Il discorso di avere nel cast un interprete e non un altro comunque è un po’ ambiguo: avere una star può oscurare un progetto, può essere un deterrente, quindi dipende da quello di cui si ha bisogno; a volte un progetto non ha bisogno di un grosso nome perché è ingombrante e andrebbe a catalizzare l’attenzione; altre volte invece un progetto ha proprio molto bisogno di una star: quando è piccolino, un nome molto conosciuto dà le ali al progetto, però l’attore in questione deve essere davvero particolarmente aderente al personaggio. Gli attori italiani sono molto naturali, un pregio è il saper dare un’interpretazione abbastanza realistica: danno autenticità, verità; un difetto è fare sempre lo stesso personaggio, una volta che individuano un personaggio che gli riesce non c’è niente da fare, non lo mollano più! Non rischiano abbastanza, preferiscono restare nella sicurezza. Sicuramente ci sono stati registi che mi hanno consentito questo, sì. Il metodo però è una cosa più intima per l’attore, ognuno ha il suo: un regista non ti può insegnare un metodo, ti può dare degli stimoli, delle visioni. Io seguo sempre molto le indicazioni del regista, perché reputo che sia colui che dà la paternità al progetto; in particolare posso citarne due: Tornatore, che ne La sconosciuta mi chiedeva tanto di restituire delle espressioni asciutte, fredde, quasi una fissità, un’immobilità espressiva e questo mi ha dato tantissimo perché il mio personaggio aveva bisogno di questa gravità, per cui l’essere così distaccata nelle emozioni mi ha permesso di creare il personaggio, soprattutto perché io invece ho una mimica del volto molto mobile. Poi Carlo… con Carlo Verdone è una cosa complessa da spiegare perché noi siamo proprio alchemicamente, chimicamente, animicamente uniti: ci sono anche delle chimiche attoriali, a noi basta essere messi insieme e succede qualcosa, con Carlo accade così, diventa tutto vero, tutto funziona. Lui mi ha tanto insegnato i tempi, che ho appreso standogli molto vicino, studiando il suo cinema per anni, quindi forse è più corretto dire che, più che altro, me li ha trasmessi. 3 CLAUDIA GERINI 4 7 5 8 6 Sinceramente non mi viene in mente niente. Si sentono storie di rapporti conflittuali con il regista, di comportamenti aggressivi o strani giochi psicologici: a me non è mai successa questa cosa, mai. È una questione di carattere, forse: io sono abbastanza sicura di me, mi piace quello che faccio, lavoro da quando ho 13/14 anni, quindi sono proprio cresciuta con questo lavoro, per cui probabilmente ho acquistato una certa sicurezza, gestisco bene l’ansia, non mi lascio sopraffare e poi cerco di imparare da tutto, ascolto, e mi creo su ogni set la mia piccola famiglia, cercando di “portarmi a casa” il film con molta rilassatezza. Fare le prove! Io sono molto istintiva, mi piace molto sfruttare l’immediatezza di quello che mi viene in quel momento: ooodio provare, riprovare, riprovare… e togliere così naturalezza a tutto. Un film che proprio non rifarei alla fine non c’è. Per esempio c’è Lucignolo, di Massimo Ceccherini, fatto in un periodo in cui avevo un contratto con la Cecchi Gori, per cui dovevo per forza lavorare: è un film che potrebbe essere considerato quasi trash, però io con quella cifra comica sono riuscita a risultare molto bene e anche se non è un film che si fa rientrare nell’antologia indispensabile del cinema, con la sua chiave un po’ surreale, ironica, allusiva mi fa dire che mi è piaciuto come sono “uscita fuori”, il profilo del mio personaggio. Questo per dire che se anche mi è capitato di fare scene o film di qualità non altissima io non ho motivi per dire che vorrei non averli fatti. Foto di Riccardo Ghilardi Non c’è nessun clamoroso rifiuto. Mi è dispiaciuto, ma sono comunque contenta della mia scelta, per il primo Immaturi, che Genovese mi aveva offerto e non feci, non perché non credessi nel film ma perché avevo appena partorito, mia figlia era veramente piccola e non avevo nessuna voglia di rimettermi sul set; il film comunque ha fatto un grande successo, ma non per questo adesso sono pentita di non averlo fatto. Insomma, non esiste un film poi candidato agli Oscar che ho rifiutato! Beh, l’antologia di Viaggi di nozze è ormai un cult: Jessica e Ivano… Oddio, questa è una domanda difficile però, perché non vorrei sembrare presuntuosa ma ne ho tre in mente. In Grande grosso e... Verdone la scena in cui lei è arrabbiatissima e fa una specie di danza del ventre generata dalla frustrazione: è divertente perché è un misto di erotico e nervoso; poi il discorso della scena di Non ti muovere, quando la bambina è in coma e c’è la mamma sul letto; sempre con Castellitto, in Una famiglia perfetta, la scenata di gelosia. 19 SCENARI // I soliti noti: l'inflazione degli attori nel cinema italiano 4 6 1 5 7 2 8 3 Non sono proprio il tipo che si presta a essere sottovalutato: non credo che guardandomi si possa pensare che io mi faccia strumentalizzare, non ne ho il tempo! E nemmeno la prestanza fisica e il carattere credo lo lascino intendere. Oh cazzo se mi difendo! Certamente no: c’è qualche traccia ma non è più il “sistema star” di una volta. Oggi lo star system riguarda più altre categorie, come i calciatori o certi cantanti, ma io mi accontento, non mi serve lo star system: mi basta dire che è stupido sostenere che dà fastidio uscire di casa e avere il riscontro del pubblico. A me è una cosa che gratifica. Noi italiani siamo anzitutto un po’ castrati sotto il punto di vista dell’internazionalità, proprio perché non esiste uno star system, un’industria. Così, non esistendo in questo momento un sistema che ci sostiene, faccio fatica a trovare un difetto alla categoria, lo dico perché è anzitutto difficile lavorare, poterlo fare in film che ti interessano davvero. Poi dire un difetto sarebbe difficile anche perché non siamo tutti uguali, non potrei accumunare tutti. Per quanto riguarda il pregio invece credo che siamo tra i più bravi al mondo, senza piaggeria: insomma se Raoul Bova, per citarne uno, oppure Favino hanno l’opportunità di essere “vestiti da Spider Man e volare” sono credibili! Certo che quando ti lanci da decine di metri ci vuole anche meno a diventare una star! (ride) Posso dire che un po’ tutti i registi sono stati capaci di tirar fuori un buon lato di me, però di certo Marco Risi, per me uno dei primi, e Sollima, che mi ha dato la popolarità insieme a Carlo Verdone. Poi tengo a Claudio Caligari. Anche Paolo Genovese, il regista con cui ho lavorato più di recente. 20 È banale, lo so, ma non sopporto di alzarmi alle cinque di mattina. Non sopporto di vedere poco i miei figli in alcuni giorni: è retorica ma è la realtà. Non vado mai in camper, ma veramente mai, devo proprio essere stremato: preferisco fumarmi una sigaretta vicino ai macchinisti e guardare il loro lavoro, perché mi piace molto osservare qualsiasi cosa del set. Mi ricordo, bellissimi, dei cambi magazzino o di pellicola. Mi piace tutto, veramente tutto del set. marco giallini Un film che non rifarei c’è ma non farò il titolo - scusi la diplomazia, ma è anche questione di rispetto per il lavoro di tutti anche perché comunque il regista già lo sa! Il film che ho rifiutato era diretto da un regista molto conosciuto e ci rimase male, per cui anche qui non posso fare il titolo, ma non ho accettato per una questione di dignità… La scena in cui faccio cantare Little Tony ne L’odore della notte è rimasta un po’ di culto, diffusissima su YouTube: credo che anche in relazione alle modalità tecnologiche di oggi quella “sia già rimasta”, non solo per come l’ho fatta io, ma per tutte le alchimie che rendono una scena eccezionale. Poi una scena con mio figlio in A.C.A.B. di Stefano Sollima e senza dubbio una delle scene con Carlo, Favino e me in casa insieme in Posti in piedi in paradiso. Foto di FabioLovino SCENARI // I soliti noti: l'inflazione degli attori nel cinema italiano 1 2 3 Il cinema italiano di qualità oggi non punta sul divismo, chissà se è giusto o sbagliato... Non è possibile individuare un pregio e un difetto di un attore perché vanno condivisi con l’intera macchina produttiva, dalla scrittura alla regia, al montatore… Noi attori siamo un tutto unico insieme alla troupe artistica e tecnica. Credo che la dote fondamentale di un regista sia la capacità di capire la rappresentazione in modo da far vivere una scena, di darle un ritmo e di creare un’atmosfera che stimoli la creatività di tutti, quindi per la mia esperienza dico: Paolo Sorrentino. Per ciò che riguarda il metodo rispondo: tutti!!! Da Nicholas Ray a Alejandro Jodorowsky, perché credo che l’attore debba avere una certa padronanza della tecnica per aprire le porte all’ispirazione. 1 Secondo lei, esiste uno star system italiano? 5 La cosa che non sopporta sul set. 2 Un pregio e un difetto degli attori italiani. 6 Un film che non rifarebbe e perché. e il metodo che le hanno consentifilm che si è pentito di non aver fatto/ 3 Iltoregista 7 Un aver potuto fare e perché. di dare il meglio come interprete. quella volta che si è sentito più in- 8 La sua scena che vorrebbe restasse 4 Ricordi in un’ideale antologia del cinema italiano. compreso, sottovalutato, strumentalizzato, sottoutilizzato. 6 4 7 5 8 Il cinema rende importante qualsiasi incontro. Un attore deve essere un bravo attore, anche se incontra un regista che ha un cattivo carattere e idee diverse dalle sue. La mancanza di rispetto, la poca comunicazione e il pressapochismo che si respira un po’ troppo frequentemente sui set italiani. Rifarei tutto negli stessi tempi e negli stessi modi. Credo molto nel valore delle scelte. Scelgo le parti seguendo l’ago di una mia bussola interiore, a volte interpretando ruoli che non danno impulso alla mia carriera in termini di notorietà ma che mi consentono di soccombere al fascino, di cui da sempre sono vittima, del lavoro dell’attore. Quindi, nessun rimpianto. Non lo so… È come chiedere a un bambino se vuole più bene a mamma o a papà! valentina lodovini Foto di FabioLovino 21 SCENARI // I soliti noti: l'inflazione degli attori nel cinema italiano 1 2 3 Secondo lei, esiste uno star system italiano? Un pregio e un difetto degli attori italiani. Il regista e il metodo che le hanno consentito di dare il meglio come interprete. 5 6 7 La cosa che non sopporta sul set. Un film che non rifarebbe e perché. Un film che si è pentito di non aver fatto/ aver potuto fare e perché. 1 7 5 2 8 6 3 4 4 Ricordi quella volta che si è sentito più incompreso, sottovalutato, strumentalizzato, sottoutilizzato. 8 La sua scena che vorrebbe restasse in un’ideale antologia del cinema italiano. No. Il set è l’unico posto dove tutto è possibile. Forse Le ragazze del Coyote Ugly, un film americano che ha incassato ovunque. Siamo italiani… Se avessi la bacchetta magica tutte! Actors Studio per un anno, Centro Sperimentale a Roma e Jury Ashiz, pedagogo russo che lavorava con gli attori come fossero bambini. Risultato? Un grande cocktail: un pizzico di gioco, la tua memoria emotiva rielaborata, osservazione, e istinto! Non ho rimpianti, rifarei tutto. Un provino tanti anni fa dove il regista prima che uscissi disse “cancellala, questa non farà mai niente!” E invece… STEFANIA ROCCA 22 Foto di GianMarcoChieregato SCENARI // I soliti noti: l'inflazione degli attori nel cinema italiano 2 1 3 4 No, da quando Mastroianni, la Loren e altri interpreti hanno avuto la possibilità di farsi conoscere all’estero per le loro capacità e, soprattutto, per le storie che raccontavano, perché l’Italia era in quegli anni un paese straordinario da narrare, quindi il cinema italiano aveva una grande forza sul mercato perché poteva vantare dei portabandiera molto concreti, non teorici. Il presente è una fase, in cui non credo il paese necessiti di uno star system, un po’ perché anche quello americano sta facendo acqua da tutte le parti, quindi sarebbe anacronistico pensare di strutturare oggi un sistema così. Così come fa il cinema francese, c’è bisogno di raccogliere quello che sta accadendo e portarlo, da parte di un attore o un regista italiano, fuori dal confine, anche oltre l’Europa: il primo che ci riesce vince e ristabilisce il sistema! Il difetto è che a volte non accettano di “concedersi fino in fondo” - in maniera visibile, e sottolineo visibile - valorizzando la grande umanità istintiva che appartiene loro, spunto non positivo per riconoscere, invece, quanto si sia tecnicamente capaci. Uno in particolare no, quasi tutti. Essendo io un attore che si espone molto, dichiarando anche le difficoltà, le mancanze, i dubbi, le prepotenze, ogni regista ha avuto la possibilità di plasmarmi a seconda del suo punto di vista. Mi sono trovato meglio con i registi che avevano una visione della storia molto chiara e di conseguenza del personaggio, il loro possesso del soggetto mi ha aiutato molto. Non penso di essere stato sottovalutato, credo che il cinema sia una bilancia in equilibrio che tende alla perfezione e quindi se sono stato sottoutilizzato era perché la narrazione doveva essere più importante. 5 6 7 Mah… forse posso riferirmi a film per la televisione, perché per il cinema li rifarei tutti. In televisione ho ritenuto, per me, non giuste le prime puntate delle seconde serie, che ho fatto ma adesso leggo come un meccanismo contrario alla mia visione del mestiere dell’attore e della narrazione. Quello ancora da fare, intendendo la voglia di raccontare una storia, di essere dietro la macchina da presa, anche come sceneggiatore. Vorrei scoprire la possibilità di questa velleità che ho, quella che sto praticando nel teatro, ma applicata al cinema. Non tollero ridurre la lavorazione all’ultimo secondo, l’andare in straordinario quando si sta girando un momento importante, trovarmi in un passaggio topico della lavorazione con la percezione dell’urgenza di dover chiudere il set. Per come sono fatto io, per come vivo il cinema, la cultura, il discorso di Consalvo ne I Vicerè. ALESSANDRO PREZIOSI Foto di GianniFiorito 23 SCENARI // I soliti noti: l'inflazione degli attori nel cinema italiano Cani pietosi, che tenerezza! diMario Sesti Siamo tutti ugualmente responsabili e colpevoli di fronte a qualcuno che recita male. Perché non è giusto esporlo al cinismo dei critici o dei selezionatori di un festival. C ani Pietosi: era il titolo che avevo dato a un mio contributo a un volume collettivo sul cinema italiano degli Anni ’80, dedicato ai film realizzati con l’art. 28. Il curatore, credo scandalizzato, lo cambiò senza neanche avvertirmi. In realtà ho sempre provato una grande empatia per gli attori italiani lasciati soli in bicamere incolori, sigarette nervose, inquadrature trasparenti, montaggio lineare e convenzionale, musica zuccherosa o solenne, luce di involontario e stinto realismo. Come diceva Truffaut, non c’è niente di più interessante, per la macchina da presa, che un attore in difficoltà. Nulla più del cinema italiano degli ultimi trent’anni ha lavorato con la stessa determinazione, con la stessa maniacale disciplina a questo risultato. Copioni impossibili, registi mediocri, zero soldi. Come si fa a non voler bene a tutti gli attori italiani – anche ai più cani – che hanno accettato questo martirio con passione e devozione? Sono la prima linea del fuoco di fila delle attese 24 del pubblico, che può accettare uno stile d’illuminazione modesto, un set ordinario, persino un sonoro disturbato: ma non perdona una battuta inutilmente violentata da un urlo. Quante ne abbiamo sentite dalla metà degli Anni ’80 ad oggi? Ricorderò sempre un famoso critico cinematografico, oggi scomparso, che vedendo un modestissimo film d’azione, durante una proiezione per la stampa, alle grida di dolore di un’attrice sullo schermo, il cui personaggio era testimone di una scena di efferata violenza, sussurrò, accanto a me: “Che Dio ci perdoni”. Non c’è niente di più tragico del fallimento del tragico. Siamo tutti ugualmente responsabili e colpevoli di fronte ad un attore che recita come un cane. Perché non è giusto esporlo al cinismo dei critici o dei selezionatori di un festival, perché un regista che lo ha diretto in quel modo non può essere meno colpevole di lui, perché non c’è stato nessun fratello o mamma o fidanzata che ha avuto il coraggio di dirgli la verità. Dietro un attore cane c’è una società profondamente difettosa e vile. Il cinema italiano dagli Anni ’90 ad oggi non ha avuto attori peggiori della illustre stagione del dopoguerra, ma ha visto più cani di qualsiasi altra cinematografia tra quelle storiche più prestigiose. È un cinema che ha avuto talenti attoriali strepitosi, da Rubini a Servillo e un esercito sconfinato di aspiranti attori, giovani senza talento, raccomandati, appassionatissimi, mediocrissime attrici, toccanti e fragili, che sembrano uscite da una soccorrevole prosa di Cechov. La desertificazione del mercato, l’olocausto dei produttori, il mattatoio delle tv – vogliamo parlare della recitazione nelle fiction? – la militarizzazione della lottizzazione dei contributi pubblici, ha prodotto questa folla sterminata di Ed Wood attoriali in sedicesimo che ha sognato il cinema, l’ha praticato, l’ha follemente amato senza avere alcuna chance di viverlo senza farsi massacrare dagli sghignazzi del pubblico di Venezia o dalle recensioni, grondanti sarcasmo e indignazione, della critica cinefila. Io, invece, provo per loro, solo immensa tenerezza. SCENARI // I soliti noti: l'inflazione degli attori nel cinema italiano Non amo gli attori italiani Una piccola apocalisse diClaudio Carabba C ’ era una volta in Italia lo “star-system”. Roba magari autarchica e alla buona, non proprio un sistema perfetto come a Hollywood. Ma insomma, esistevano, fra gli uomini e le donne (maggiorate e no), nomi sicuri e capaci di assicurare incassi. Oggi tutto questo non c’è più, saltando i comici, che sono una “banda a parte”, come direbbe Godard. Francamente da Totò a Siani, per limitarsi a due “principi napoletani”, c’è una certa differenza, ma ahimè le cose cambiano. Alcuni danno molte colpe ai nostri presunti divi, che sarebbero pigri e presuntuosi sul set, e poco propensi a impegnarsi nelle indispensabili campagne di promozione. Un po’ è vero, ma la questione non è solo qui. È calata la produzione, la fioritura di registi (e sceneggiatori) della nuova generazione non è esplosiva, le sale rischiano il vuoto perenne. In questo quadro da piccola apocalisse, tutti rischiano di affondare lentamente. Poi ci sono ovviamente i bravi e gli scarsi. Il “parco maschile” mi sembra stia moderatamente meglio. Però, dietro al magnifico Toni Servillo (non date ascolto agli antipatizzanti), non scorgo un gruppo impetuoso. Procediamo per casi esemplari: fra i bravi di mezza età si sono smarriti Sergio Castellitto (troppo preso dalla famiglia?) e il sempre perplesso Fabrizio Bentivoglio. I più giovani sbagliano le occasioni: Pierfrancesco Favino, ottimo quando fa il celerino o il bandito di strada, è a disagio nelle commedie o (peggio) come amante in crisi. E mi aspettavo di più dai ragazzi violenti di Romanzo criminale, del film e del serial tv. È più disastrata la condizione femminile, anche a causa dei copioni e dei ruoli fissi. Non per niente la fremente Golino, per salvarsi, si sta mettendo in proprio. Altre sono rimaste prigioniere di se medesime: Margherita Buy, nevrotica forever; ora la sensibile Alba Rohrwacher è ingabbiata nei panni della “bruttina sventurata”. In definitiva ognuno ha le sue colpe, dai produttori agli autori. Così attori e attrici tendono ad Dietro al magnifico Toni Servillo, non scorgo un gruppo impetuoso. E Sabrina Ferilli sul sofà, questo proprio no. adagiarsi, a cogliere i vantaggi del presente (uno sceneggiato tv, una pubblicità a puntate) senza impegnarsi. Il simbolo di questa sventata dissipatezza mi sembra Sabrina Ferilli, che quando vuole è brava (La bella vita, La grande bellezza)ma sovente si limita a una simpatia facile da curva romanista. E poi c’è il tormentone degli spot. Così fan tanti, per carità (Clooney alla macchinetta del caffè, Banderas nel mulino dei biscotti). Ma uno slogan come “che bel sofà, beato chi se lo fa”, detto con un sorriso da ciociara stanca, questo no, proprio non vorrei vederlo. 25 COSA MI PIACE DEL CINEMA ITALIANO Yoshi Yatabe, Programming Director del TokYo International Film Festival diMichela Greco A nni felici di Daniele Luchetti, La migliore offerta di Giuseppe Tornatore e Via Castellana Bandiera di Emma Dante. Il 26esimo Tokyo International Film Festival, che si è svolto dal 17 al 25 ottobre, ha portato in sala questo tris tricolore, distribuendo il cinema italiano tra il concorso internazionale, gli Special Screening e il World Focus. Un’attenzione per la nostra produzione che è rimasta costante nel tempo, almeno negli ultimi anni in cui questo festival è diventato uno dei più grandi dell’Asia, probabilmente anche grazie al suo sapiente mix tra imponente cinema main- 26 stream e piccole opere di giovani registi che cercano nuovi linguaggi come, nel 2010, Le quattro volte di Michelangelo Frammartino. Quest’anno l’apertura è stata affidata a Captain Phillips di Paul Greengrass con Tom Hanks e il festival ha ospitato film come Bling Ring di Sofia Coppola e Behind the Candelabra di Steven Soderbergh. A rispondere alle domande di 8 ½ è Yoshi Yatabe, Programming Director del Concorso del Tiff dal 2007. Lo è diventato dopo aver lavorato nella distribuzione e promozione cinematografica, prodotto documentari, guidato il Festival du Film Français in Giappone ed essere entrato nello staff di Tokyo nel 2002. Cosa convince il Tiff a selezionare ogni anno almeno tre o quattro titoli italiani? Cosa vi piace del nostro cinema? L’Italia ha una storia del cinema lunghissima e ricca, e i suoi film sono sempre indispensabili nei festival cinematografici. La coesistenza di grandi lavori diretti da maestri e opere più piccole, fresche e stimolanti, di nuovi talenti emergenti rende il cinema italiano davvero importante e ci spinge a tenere d’occhio ogni nuovo titolo. Cosa invece vi piace meno del nostro cinema? Non posso davvero pensare a cosa non mi piace nel cinema italiano... COSA MI PIACE DEL CINEMA ITALIANO Con quali criteri il vostro comitato di selezione sceglie un film italiano piuttosto che un altro? Tendiamo a selezionare gli “art house film” di alta qualità, nei quali si rifletta in modo molto forte la personalità del regista. Vi sembra che il cinema italiano sia costituito da un’ondata di talenti giovani o sia più matura? Sono sempre sorpreso nello scoprire eccitanti nuovi talenti accanto a maestri affermati. Perciò credo che la bellezza del cinema italiano consista proprio nel fatto che contiene ed esprime le diverse generazioni, le più mature e quelle emergenti. sono sempre pienissime di persone appassionate di film e di cultura italiana. Dai cinefili agli amanti della pasta, sembra che l’Italia provochi emozioni speciali a un ampio target di giapponesi. E devo dire che lo stesso discorso non vale per i film francesi e tedeschi. Pensa che le selezioni ai grandi festival aiutino realmente la vita commerciale dei film? Assolutamente sì! È una delle nostre preoccupazioni principali. Noi non mostriamo film solo per il pubblico, ma anche per gli addetti ai lavori. Il fatto che opere relativamente piccole come Le quattro volte e Nina abbiano trovato una distribuzione giapponese e siano state portate in sala dimostra l’importanza della partecipazione ai festival. L’attenzione creata dalla proiezione al festival incoraggia i distributori a comprare i diritti del film e incrementa le sue possibilità di uscita commerciale. Anche se quest’ultima non è l’unico obiettivo della proiezione, il festival dovrebbe fare il massimo sforzo per offrire alle opere la possibilità di essere viste, nelle migliori condizioni, dai compratori. Se dovesse indicare alcuni nomi in particolare, quali segnalerebbe fra i più promettenti, tra i “registi italiani del futuro”? Ce ne sono tanti, posso fare i nomi di alcuni autori che non a caso sono passati al nostro festival negli ultimi: Saverio Costanzo, Susanna Nicchiarelli, Giuseppe Capotondi, Luca Guadagnino, Valerio Mieli, Gian Alfonso Pacinotti, Alice Rohrwacher, Elisa Fuksas, Matteo Botrugno e Daniele Coluccini. E per quel che riguarda gli attori e/o le attrici? Direi sicuramente Alba Rohrwacher e Isabella Ragonese tra le donne: tra gli uomini Michele Riondino e Luca Marinelli. Beh, forse non sono nemmeno più così “nuovi”, ma credo davvero che siano figure molto importanti per il panorama attuale del cinema italiano. Se dovesse citare le due maggiori sorprese degli ultimi anni? La solitudine dei numeri primi e Le quattro volte, tra molti altri! Il Tokyo International Film Festival sembra apprezzare sia grandi film drammatici che piccole produzioni di nuovi filmaker, come ad esempio Et in terra pax e L’ultimo pastore. È vero, perché, come dicevo prima, la mia intenzione è proprio quella di presentare questi due aspetti del cinema italiano al pubblico giapponese e asiatico, per mostrare quanto la vostra cinematografia sia ricca e variegata. A proposito di questo, fino a che punto il nostro cinema riesce a raggiungere il pubblico giapponese? L’Italian Film Festival di Tokyo, che si svolge ogni anno a maggio, è uno dei festival di maggior successo della città. Le proiezioni 27 TENDENZE Il cinema e la politica in Italia Il gioco delle maschere diGianni Canova 28 TENDENZE // Il cinema e la politica in Italia Nel rapporto fra politica e spettacolo, e ancor di più in quello fra politici e attori, c’è uno dei nodi irrisolti (e, forse, anche più contorti) della storia (non solo recente…) del nostro paese. S i prendono la scena. Interpretano un copione. Porgono le battute. Che nella società dello spettacolo i politici siano attori consumati lo si sa da tempo. Almeno dai tempi in cui Ronald Reagan è diventato presidente degli Stati Uniti d’America. Benché già nel lontano 1985 Robert Zemeckis in Ritorno al futuro ironizzasse con pungente sarcasmo sulla credibilità (futura…?) di quella presidenza, da allora non c’è politico di rango – da Bush a Obama giù giù fino a Grillo e a Berlusconi – che non sia prima di tutto un abile e astuto amministratore del proprio personaggio e dei copioni che sa recitare meglio. I politici come maschere? Non c’è dubbio. Anche il cinema li vede così. In Italia, almeno. Perché mentre il cinema americano quando mette in scena i politici li chiama sempre direttamente con nome e cognome, senza bisogno di trucchi e abiti di scena, e non teme di costruire attorno ad essi affabulazioni e drammaturgie (da JFK a Nixon, da Lincoln a Hoover, e così via…), da noi è rarissimo che il nome di un politico appaia nel titolo (tra le poche eccezioni, Anno Uno-Alcide De Gasperi di Roberto Rossellini, Mussolini ultimo atto di Carlo Lizzani e Il caso Moro di Giuseppe Ferrara). Da noi, per lo più, i politici sulla scena sono maschere (Il portaborse, Il divo…). Di volta in volta grottesche, comiche, satiriche. Quasi mai tragiche. Forse perché siamo refrattari alla tragedia. O perché anche i politici, come gli autori di cinema, sono più portati allo sberleffo e al fescennino che alla serietà e alla sobrietà. Spesso, si tratta di maschere zoomorfe. Sarà perché il pensiero politico da noi nasce – con Machiavelli – ricorrendo a fortunate metafore animali (il Principe che deve avere “la forza del lione e l’astuzia della volpe”), ma certo è che il ricorso al bestiario è una costante nella teatralizzazione della politica, sia nelle narrazioni dei cineasti (Moretti che chiama “il Caimano” Berlusconi), sia in quelle dei politici (Calderoli che descrive la ministra Kyenge come un orango), passando per le tre fiere che simboleggiano rispettivamente il potere militare, quello commerciale e quello agrario in quello splendido pamphlet brechtian-godardian-decurtisiano che è Il potere di Augusto Tretti. Maschere, sempre e comunque. Commedia, in ogni caso. Commedia dell’arte. Tra arlecchini servitori di ogni padrone e pulcinella imbattibili nell’arte di arrangiarsi. Da noi, paradossalmente, un grande film sulla politica come Lincoln di Steven Spielberg sarebbe impossibile e impensabile: troppo epico, troppo “alto”. Noi voliamo più bassi. Voliamo sulle paludi in cui la politica è la perenne arte della concertazione e della negoziazione, è sotterfugio e sottobosco, è trucco e inganno. Con una visione della politica ormai del tutto arcaica, da presa del Palazzo d’Inverno. Ma di un arcaismo che probabilmente rispecchia – ahinoi… – quello della società. Quanto ai politici, riflettono l’analfabetismo filmico del paese di cui sono espressione. Hanno del cinema – se va bene – una visione romantico-nostalgica oppure una concezione cinicamente strumentale. Ma nella maggior parte dei casi, per lo più, non lo considerano neppure. Non lo citano quasi mai né nei loro programmi né nei loro discorsi. Spesso non lo accolgono nel novero delle arti. Del resto, non c’è da stupirsi. Lasciano sprofondare o cadere a pezzi Pompei, figuriamoci se sono disposti – di questi tempi – a salvaguardare il cinema. A investire denaro per preservare un immaginario che è quasi sempre stato – almeno fino agli Anni’80 – scomodo, sconveniente, non conciliante e – soprattutto – non riconciliato. Certo, a prenderli uno per uno, i politici italiani si dichiarano tutti grandi appassionati. Se non addirittura insaziabili cinéphiles. Recitano? Mentono? Interpretano? Chissà. Certo dicono – senza sostanziali differenze di schieramento e di ideologia – di andare al cinema e di vedere i film. Ma quali sono i loro gusti? Le loro predilezioni? I loro film del cuore? Le interviste che seguono – pur senza avere alcuna pretesa di rappresentatività – provano ad aprire qualche squarcio, a suggerire qualche indicazione. E, anche, a scovare qualche contraddizione. Tutti i politici intervistati, ad esempio, dichiarano di essere consumatori di film in sala, ma poi nessuno di loro (e nessuna delle forze politiche in cui militano…) fa nulla per contrastare il declino delle sale e per favorire gli esercenti che stanno in trincea e si battono perché il cinema continui ad esistere anche nel nostro paese. Contraddittorio? Non c’è dubbio. Ma dove c’è contraddizione si può lavorare. Ci si può insinuare. Questo servizio di 8 ½ ambisce ad essere un primo passo per andare in questa direzione. Nella convinzione che proprio nel rapporto fra cinema e politica, e più ancora nel nesso fra politici e attori, ci sia uno dei nodi irrisolti del nostro paese. Del suo passato, ma anche del suo (e del nostro) futuro. 29 TENDENZE // Il cinema e la politica in Italia SEI DOMANDE AI POLITICI ITALIANI diFrancesca Chiocchetti Esponenti di Pdl, Pd, Scelta Civica, M5S, Lega Nord e Sel raccontano a 8½ il loro amore per il grande schermo tra visione personale del mondo e ideali di partito. E tra i film più amati/odiati spunta Diaz di Daniele Vicari. Giancarlo Galan Pdl-FI "Una giornata particolare di Ettore Scola è un capolavoro profondo e commovente, due diverse disperazioni che s’incontrano all’ombra di una delle pagine più crude della storia, il regime fascista. Habemus Papam di Nanni Moretti è invece il classico esempio di conformismo di sinistra”, così afferma il Presidente della VII Commissione Cultura, Scienza e Istruzione della Camera dei Deputati. Indichi tre film che consiglierebbe agli elettori o ai sostenitori del Pdl-FI perché esprimono bene il vostro sentimento del mondo e la vostra visione delle cose. Scelgo tre film non recenti ma ancora molto attuali. Il candidato, 1972 con Robert Redford, un film significativo perché mostra un giovane avvocato che decide di entrare in politica con poche possibilità di vincere ma con l’obiettivo di far guadagnare consensi alla causa dei diritti civili e ai problemi dell’ecologia. Al di là di ogni aspettativa vince ma con un prezzo molto alto, egli stesso entrerà a far parte del circolo di corruzione che cercava di combattere. Confesserà al suo avversario di non avere più idee per il futuro, la cinica replica: questa è la condizione migliore per un perfetto senatore. Una giornata particolare di Ettore Scola, con Mastroianni e la Loren, un capolavoro profondo e com- 30 movente, due diverse disperazioni che si incontrano, due umanità distinte, lontane, legate da un sentimento profondo all’ombra di una delle pagine più crude della storia, il regime fascista. Ed infine Il Dottor Živago, sullo sfondo di una drammatica storia d’amore: la delusione, anzi la disperazione, per quella che è stata la rivoluzione russa. Se dovesse commissionare un documentario sulla sua forza politica, a quale regista italiano le piacerebbe potersi rivolgere? Senza dubbio ad Ettore Scola. Mi affascina la genialità che emerge da ogni suo film, una rara capacità di saper unire alla grandiosità della storia e dei personaggi il sentimento che rende grandi le sue opere. L’ultimo film che ha visto, l’ultimo film italiano che ha visto al cinema, e infine – se c’è – il film del cuore e perché. L’ultima volta che sono stato al cinema ho visto Bella addormentata, di Marco Bellocchio, una tematica che mi sta particolarmente a cuore, il racconto di una vicenda umana che ha avuto enorme impatto nella politica italiana e soprattutto nel mio partito, l’eutanasia, raccontata attraverso gli occhi di un senatore che deve scegliere se votare per una legge che va contro la sua coscienza o non votarla, disubbidendo alla disciplina del partito. Il film del cuore è il già citato Il Dottor Živago, lungamente osteggiato dal regime comunista perché invitava a pensare con la propria testa. Il film politico che l’ha fatta più arrabbiare e perché. Habemus Papam di Nanni Moretti, il classico esempio di conformismo di sinistra, la scena della par- tita di pallavolo, mutuando una battuta di Fantozzi, mi è sembrata come La corazzata Potëmkin, una cagata pazzesca! È mai andato a un festival di cinema? Se sì quale e perché? Sono stato ospite di numerose edizioni della Mostra del Cinema di Venezia, prima come presidente della Regione Veneto, poi come ministro per i Beni Culturali. Un’atmosfera affascinante, quasi incantata. Preferisce vedere i film al cinema, in tv, sul tablet, in DVD, scaricarli da internet? Sono un romantico, preferisco ancora il cinema. Certe emozioni riesce a trasmetterle solo il grande schermo. Purtroppo non ho molto tempo libero quindi di rado riesco a concedermi una serata al cinema, ma ne vale sempre la pena. TENDENZE // Il cinema e la politica in Italia Andrea Marcucci Pd “Ai nostri elettori consiglio Django Unchained di Tarantino, perché è un inno al cinema italiano. E anche Il lato positivo, perché noi del Pd abbiamo davvero bisogno di un ‘happy end’ e di una seconda opportunità, e Amici miei, perché non bisogna prendersi troppo sul serio”, così afferma il Presidente della Commissione Istruzione Pubblica, Beni Culturali, Ricerca Scientifica, Spettacolo e Sport del Senato della Repubblica. Indichi tre film che consiglierebbe agli elettori o ai sostenitori del Pd perché esprimono bene il vostro sentimento del mondo e la vostra visione delle cose. Django Unchained di Tarantino perché, oltre ad essere un bel film, è un inno al grande cinema italiano; Il lato positivo, perché noi del Pd abbiamo davvero bisogno di un “happy-end” e di una seconda opportunità, e Amici miei perché non bisogna mai prendersi troppo sul serio. Se dovesse commissionare un documentario sulla sua forza politica, a quale regista italiano le piacerebbe potersi rivolgere? A Paolo Sorrentino, per la sua incredibile capacità di visione. Permettetemi di fargli anche un sincero in bocca al lupo per il suo La grande bellezza, designato come film rappresentante del cinema italiano nella selezione del Premio Oscar come miglior film in lingua non inglese. L’ultimo film che ha visto, l’ultimo film italiano che ha visto al cinema, e infine – se c’è – il film del cuore e perché. L’ultimo film che ho visto è stato Il grande Gatsby, mentre l’ultimo film italiano che sono andato a vedere è stato proprio La grande bellezza. Il film del cuore è La mia Africa perché nella sua trama c’è un segreto che non ho ancora scoperto, e poi quanto è brava Meryl Streep! Il film politico che l’ha fatta più arrabbiare e perché. Non mi sono mai arrabbiato per un film politico, al massimo posso aver sbadigliato. È mai andato a un festival di cinema? Se sì quale e perché? Beh sì, sono stato diverse volte alla Mostra di Venezia, a Cannes e all’American Film Market. Preferisce vedere i film al cinema, in tv, sul tablet, in DVD, scaricarli da internet? Ho una passione per il grande schermo che comporta un rito al quale non voglio rinunciare: la pizza dopo la proiezione per scambiarsi le opinioni con gli amici. Ma non disdegno gli altri mezzi, purché siano legali, alla fine conta il contenuto, non il contenitore. 31 TENDENZE // Il cinema e la politica in Italia Ilaria Capua Scelta Civica “A Gabriele Salvatores commissionerei un documentario sul mio partito, un grande regista premio Oscar, capace di coniugare la drammaticità delle scene con una grande ironia e una sottile capacità descrittiva delle vicende storiche”, così afferma la deputata di Scelta Civica, membro della Commissione Cultura, Scienza e Istruzione, della quale è anche vicepresidente, e della Commissione Agricoltura. Indichi tre film che consiglierebbe agli elettori o ai sostenitori di Scelta Civica con Monti per l’Italia perché esprimono bene il vostro sentimento del mondo e la vostra visione delle cose. Invictus, Le ali della Libertà, Lezioni di piano. Sono tre film molto diversi tra loro ma con una forza narrativa e una visione del mondo e della vita che rappresentano al meglio gli ideali di libertà, di giustizia, di amore. Invictus mette in scena, con grande intensità, la straordinaria vita di Nelson Mandela, un simbolo di libertà del nostro tempo. La storia di Andy Dufresne in Le ali della libertà invita a non demordere anche quando le cose sembrano precipitare e 32 a mantenere sempre aperto il cuore alla speranza. Lezioni di piano celebra la forza dell’amore come rinascita e come possibilità di una nuova esistenza. Se dovesse commissionare un documentario sulla sua forza politica, a quale regista italiano le piacerebbe potersi rivolgere? Gabriele Salvatores, un grande regista premio Oscar, capace di coniugare la drammaticità delle scene con una grande ironia e una sottile capacità descrittiva delle vicende storiche. L’ultimo film che ha visto, l’ultimo film italiano che ha visto al cinema, e infine – se c’è – il film del cuore e perché. La grande bellezza di Sorrentino. Il mio film del cuore è senz’altro Frankenstein Junior (in versione originale), perché è l’apoteosi dell’ironia. Senza ironia come potremmo vivere?! ne di partecipare a un festival del cinema. Mi piacerebbe poterlo fare, ma gli impegni e le attività che svolgo non mi lasciano il tempo di dedicarmi a queste manifestazioni come vorrei. Il film politico che l’ha fatta più arrabbiare e perché. Draquila. Un film interessante, ma troppo di parte. Al contrario, penso che Il Caimano di Moretti abbia saputo rappresentare la stessa vicenda in modo efficace e senza scadere in quegli eccessi che alla fine ridimensionano la forza di un film politico. Preferisce vedere i film al cinema, in tv, sul tablet, in DVD, scaricarli da internet? Lo spettacolo della sala cinematografica è unico ma senz’altro ho più occasioni di vedere film in DVD. Ho pochissimo tempo per andare al cinema e dunque scelgo la strada più semplice e quella che mi permette di dare comunque una mano al cinema. È mai andata a un festival di cinema? Se sì quale e perché? No, non ho mai avuto l’occasio- TENDENZE // Il cinema e la politica in Italia Giuseppe Brescia M5S “Non potrei non consigliare Capitalism: A Love Story, un film denuncia, tra decrescita e democrazia, del nostro sistema malato. E poi Avatar, bellissimo sia tecnicamente che ideologicamente, lo sguardo su un futuro diverso, anche e soprattutto nel segno dell’ecologia”, così afferma il deputato M5S e membro della Commissione Cultura, Scienza e Istruzione della Camera dei Deputati. Indichi tre film che consiglierebbe agli elettori del M5S perché esprimono la vostra visione delle cose. Inizierei da V per Vendetta. La ribellione al potere che opprime i cittadini: “Le parole non perderanno mai il loro potere, perché esse sono il mezzo per giungere al significato e, per coloro che vorranno ascoltare, all’affermazione della verità”. Poi senz’altro Capitalism: A Love Story. Tra decrescita e democrazia, un film-denuncia nei confronti del nostro sistema malato. E non potrei mai non consigliare Avatar, bellissimo, sia tecnicamente che ideologicamente: lo sguardo su un futuro diverso, anche e soprattutto nel segno dell’ecologia. Se dovesse commissionare un documentario sulla sua forza politica, a quale regista italiano le piacerebbe potersi rivolgere? Mi rivolgerei a Ferzan Ozpetek, un regista straordinario, italiano ormai acquisito, capace di narrare i piccoli e grandi fatti della vita con sguardo lucido e intenso. Drammatico ma al contempo capace di essere leggero e vitale. Se potessi guardare anche all’estero, però, sceglierei Ken Loach. L’ultimo film che ha visto, l’ultimo film italiano che ha visto al cinema, e infine – se c’è – il film del cuore e perché. È stato Il ministro, film francese che mi ha fatto tanto pensare alla politica, com’è e come non la vorrei, al perché mi sono avvicinato al Movimento 5 Stelle. Lo consiglio. L’ultimo film italiano che ho visto al cinema è stato il Leone d’oro Sacro GRA. Un bel docu-film che descrive scene di vita di tutti i giorni a Roma. Il mio film del cuore è Dogville di Lars Von Trier. Il film politico che l’ha fatta più arrabbiare e perché. Diaz. Il motivo sta nel fatto che quando ingiustizia e violenze sono perpetrate dallo Stato diventano ancora più intollerabili. Per tutti i ragazzi italiani è stato un episodio fondamentale nella vita della nostra società. Un evento da non dimenticare, da analizzare a fondo. È mai andato a un festival di cinema? Se sì quale e perché? Sono stato al Festival Internazionale del Cinema di Lodz e al Bari International Film Festival. Al primo sono andato perché in quel periodo stavo facendo l’Erasmus in Polonia, mentre Bari è la mia città. Preferisce vedere i film al cinema, in tv, sul tablet, in DVD, scaricarli da internet? Al cinema, il grande schermo resta il grande schermo. 33 TENDENZE // Il cinema e la politica in Italia Gian Marco Centinaio Lega Nord “Ai nostri elettori suggerirei 300, avvincente, entusiasmante con una bellissima colonna sonora e immagini capaci di motivare a combattere per i propri ideali. E poi Bloody Sunday che racconta la cosiddetta domenica di sangue avvenuta a Derry nel 1972”, così afferma il senatore della Lega Nord e membro della Commissione Istruzione Pubblica, Beni Culturali, Ricerca Scientifica, Spettacolo e Sport del Senato della Repubblica. Indichi tre film che consiglierebbe agli elettori della Lega Nord perché esprimono la vostra visione delle cose. Inizierei da Braveheart, un film bellissimo, con delle immagini fantastiche, al quale sono profondamente legato umanamente e politicamente, è senz’altro il film che ben rispecchia e rappresenta la Lega Nord. 300, di Zack Snyder e Frank Miller, avvincente, entusiasmante con una bellissima colonna sonora e immagini capaci di motivare a combattere per i propri ideali. Bloody Sunday, tratto dal libro Eyewitness Bloody Sunday di Don Mullan, racconta la cosiddetta domenica di sangue, avvenuta nel 1972 a Derry, 34 nell’Irlanda del Nord, una storia che tutti dobbiamo conoscere. Se dovesse commissionare un documentario sulla sua forza politica, a quale regista italiano le piacerebbe potersi rivolgere? Direi a Bernardo Bertolucci. Un regista semplicemente straordinario. L’ultimo film che ha visto, l’ultimo film italiano che ha visto al cinema, e infine – se c’è – il film del cuore e perché. L’ultimo film che ho visto al cinema è Una piccola impresa meridionale. Prima di questo avevo visto un altro film italiano che ha fatto molto discutere: La grande bellezza di Sorrentino. Il mio film del cuore è invece il leggendario Star Wars: è stato il primo film di fantascienza che ho visto al cinema da bambino. Il film politico che l’ha fatta più arrabbiare e perché. Senza dubbio Diaz. Questo film ha trattato una vicenda complessa, quale quella del G8 di Genova, con la pretesa di far passare il messaggio che i “cattivi” fossero quelli con la divisa. Molti amici di Genova, testimoni oculari di quei giorni, mi hanno raccontato di una città invasa da orde di teppisti e delinquenti. È mai andato a un festival di cinema? Se sì quale e perché? Sono stato al Festival del Cinema di Venezia. Trovo sia una rassegna d’assoluta eccellenza. L’atmosfera che si crea in quei giorni è magica e ti riporta indietro nel tempo. Preferisce vedere i film al cinema, in tv, sul tablet, in DVD, scaricarli da internet? Al cinema. Sulle poltrone del cinema non si ha nessuna distrazione. Tutti i pensieri restano fuori e solo così si possono apprezzare appieno i film. La perfezione delle immagini e dei suoni, poi, rende tutto più magico e più autentico. TENDENZE // Il cinema e la politica in Italia Celeste Costantino Sel “Il film politico che mi ha fatto più arrabbiare è The Dreamers di Bertolucci, perché non si fa carico della complessità di una generazione. Il mio film del cuore è Il mago di Oz di Fleming, perché ha caratterizzato il mio immaginario culturale”, così afferma il deputato di Sel e membro della Commissione Cultura, Scienza e Istruzione della Camera dei Deputati. Indichi tre film che consiglierebbe agli elettori di SEL perché esprimono la vostra visione delle cose. Goodbye, Lenin di Wolfgang Becker, Diaz di Daniele Vicari, La sposa turca di Fatih Akin. Tre film fantastici, per regia, immagini, sceneggiature. Tre storie, importanti, che fanno e faranno sempre riflettere per non dimenticare. Se dovesse commissionare un documentario sulla sua forza politica, a quale regista italiano le piacerebbe potersi rivolgere? Senz’altro a Costanza Quatriglio. cuore è Il mago di Oz di Victor Fleming, perché ha caratterizzato il mio immaginario culturale. L’ultimo film che ha visto, l’ultimo film italiano che ha visto al cinema, e infine – se c’è – il film del cuore e perché. L’ultimo film che ho visto è Searching for Sugar Man di Malik Bendjelloul; l’ultimo film italiano è stato La grande bellezza di Paolo Sorrentino. Il mio film del Il film politico che l’ha fatta più arrabbiare e perché. The dreamers di Bernardo Bertolucci perché non si fa carico della complessità di una generazione. Cinema, quello di Taormina, Pesaro, Roma e Torino. Ho una passione per il cinema e questi eventi sono estremamente stimolanti. Preferisce vedere i film al cinema, in tv, sul tablet, in DVD, scaricarli da internet? Al cinema. È mai andata a un festival di cinema? Se sì quale e perché? Sono stata a numerosi festival del 35 DELL’ONOREVOLE diFabio Ferzetti In Italia un politico non può essere il centro di un film. Per atavica diffidenza verso il potere, i suoi segreti, i suoi apparati. Perché il campo è già dissodato ogni giorno da legioni di commentatori, vignettisti, blogger, conduttori di talk show. Ma soprattutto perché “politica”, oggi, in Italia è quasi una parolaccia. 36 TENDENZE // Il cinema e la politica in Italia Q uanti politici abbiamo visto nel cinema italiano del nuovo millennio? Quanti ministri, presidenti, sindaci, segretari, sottosegretari, quanti dibattiti parlamentari, quante votazioni a scrutinio palese o segreto hanno lasciato il segno sugli schermi, se non nella memoria, mentre i partiti perdevano ogni prestigio, gli italiani imparavano a odiare la casta in tutte le sue declinazioni e la politica diventava antipolitica, come in un film di fantascienza, senza che alla scena pubblica di una volta si sostituisse qualcosa in grado di raccontare tensioni e scenari del presente, fatta eccezione per la tv, a cui da Nanni Moretti (Aprile) a Sabina Guzzanti (W Zapatero) è stato delegato il compito di riassumere, incarnare, dare corpo al fantasma della politica italiana sul grande schermo? Messa così, in termini quasi statistici, la faccenda sembra semplice. La politica è un’ossessione nazionale, non c’è film o documentario di questi anni in cui non si avverta l’onda lunga del potere e delle sue degenerazioni, eppure raramente è diventata materia di prima mano per il cinema, e soprattutto lo è diventata solo a certe condizioni. I film di argomento politico, già poco numerosi, appartengono infatti quasi tutti a due grandi filoni. Quello della neocommedia made in Italy, il macrogenere oggi imperante (da non confondere con la Commedia all’italiana di una volta), e quello dei film che scavano nel passato più o meno prossimo per cercarvi radici e riflessi del presente. Al primo gruppo appartengono titoli come Diverso da chi? di Umberto Carteni, Buongiorno Presidente di Riccardo Milani, Viva l’Italia di Massimiliano Bruno. O i due film di Giulio Manfredonia con Antonio Albanese, Qualunquemente e il suo seguito,Tutto tutto, niente niente, che rappresenta l’estremo esito di questa deriva grottesco-nichilista ma del tutto esteriore, sostanzialmente qualunquistica, e in fondo parassitaria nei confronti delle mostruosità da cui prende le mosse. Nel secondo gruppo figurano film di ben altra caratura e già ampiamente commentati come Il divo di Sorrentino, Buongiorno, notte e Vincere di Bellocchio, il più esplicito nell’accostare l’epoca evocata alla nostra, ma anche Romanzo di una strage di Giordana e Noi credevamo di Martone, che a sua volta insiste sul cortocircuito passato/presente con anacronismi evidenti e ricorrenti nelle scenografie. Naturalmente ci sono eccezioni anche notevoli a questa schematica bipartizione. Pensiamo a Il Caimano di Nanni Moretti, a Viva la libertà di Roberto Andò, a Bella addormentata di Bellocchio, che riprende in chiave più apertamente politica intuizioni inaugurate con L’ora di religione e Il regista di matrimoni (“In Italia comandano i morti...”). Ma basta accostare tutti questi lavori al francese Il ministro di Pierre Schoeller (o se vogliamo a The Queen, Il discorso del re, Frost/ Nixon, Le passeggiate del campo di Marte, e l’elenco potrebbe continuare) per delineare i contorni di un vuoto a dir poco sintomatico. Oggi infatti in Italia un politico può essere l’oggetto di un film ma mai il soggetto, la forza propulsiva, il rappresentante di un universo in cui lo spettatore è chiamato ad avventurarsi e magari a perdersi (mai o quasi mai: pensiamo a Il Divo, classica eccezione che conferma la regola. Ma Andreotti portava con sé tutta una mitologia e fare un film su di lui e la DC, elaborando un linguaggio capace di trasfigurare e contenere un intero periodo storico con tutte le sue ombre, era impresa così epocale e titanica, oltre che ammirevole, da costituire un caso a sé). Dunque in Italia un politico non può essere il centro di un film, per ragioni abbastanza evidenti. Perché siamo un paese in cui i partiti sono o sono stati forti mentre lo Stato è sempre stato debole (di qui anche la traduzione pedestre del film di Schoeller, in originale L’exercice de l’Etat). Per atavica diffidenza verso il potere, i suoi segreti, i suoi apparati, e per tutto ciò che può sapere anche lontanamente di propaganda. 37 TENDENZE // Il cinema e la politica in Italia NON C’È FILM O DOCUMENTARIO DI QUESTI ANNI IN CUI NON SI A V V E R T A L’ O N D A LU N G A D E L P O T E R E . Perché l’esercizio quotidiano della politica è già dissodato ogni giorno da legioni di commentatori, vignettisti, blogger, conduttori di talk show, eccetera. Ma soprattutto perché “politica”, oggi, in Italia è quasi una parolaccia. E nessuno dai tempi ormai remoti del profetico Il portaborse, investirebbe idee, denaro, passione, nella costruzione di un (anti) eroe che rappresenti quel mondo. Eppure basta spingersi Oltralpe per trovare un film capace di appassionarci, proprio sprofondando in quel mondo tutt’altro che ideale. Un giovane ministro di secondo piano, dal colore imprecisato, opportunista per calcolo e necessità ma non per temperamento, un lottatore - e al tempo stesso un giocatore - dotato di fiuto, carisma, personalità, dunque capace di condurci nelle retrovie del governo facendoci sentire il lezzo animale della competizione, ma anche il profumo inebriante degli obiettivi e il peso spesso tragico dell’autorità. Insomma un grande personaggio, calato fino in fondo nel nostro presente in quanto dotato di un corpo (prerogativa del tutto assente nei cine-politici di casa nostra, forse perché di resa troppo problematica) e addirittura di un inconscio (la prima scena del film è proprio un sogno, erotico e metaforico, del protagonista). Dunque attraversato, fisicamente, da tutte le mutazioni e le accelerazioni, in primo luogo tecnologiche (social media etc.) che oggi investono l’esercizio del potere. Ma il film di Schoeller diventa ancora più prezioso se paragonato a quanto si fa in casa nostra. Presentato a Cannes nel 2011, ma arrivato in Italia solo due anni più tardi, Il ministro è uscito infatti un paio di mesi dopo Viva la libertà, l’unico film italiano di questi anni interamente dedicato a un politico nell’esercizio delle sue funzioni. Il confronto s’impone, tanto più che i due lavori sono così diversi da risultare perfettamente complementari. Per dare lo scettro del suo film a un politico, Andò ha dovuto infatti sdoppiare il personaggio del segretario di partito interpretato da Toni Servillo. Mandando il segretario vero a “rinascere” in esilio mentre il suo gemello filosofo, svitato e geniale, prende trionfalmente il posto del segretario. Il personaggio che rilascia interviste bomba, galvanizza il partito, arringa le folle e balla il tango con la cancelliera tedesca, tutti gesti di assoluta e immediata rilevanza politica, non è insomma un politico. Ma è proprio per questo che può essere rappresentato (suscitando l’adesione dello spettatore); mentre il fratello, spogliato di ogni delega e potere, si “purifica” riscoprendo le radici personali e il senso della propria missione durante il suo soggiorno in Francia. Inutile insistere: il senso della (felice) para- 38 TENDENZE // Il cinema e la politica in Italia bola di Andò è evidente, ma prende un peso ancora maggiore nel contesto cinematografico di questi anni. Che hanno visto la politica (il corpo stesso dei politici) diventare letteralmente irrappresentabile, o quasi. Al punto che ogni regista, ogni attore che si avventura su questo terreno, deve ridefinire le regole del gioco. Muovendosi entro i confini di un campo che potremmo idealmente incorniciare usando due film collocati all’inizio e alla fine del quindicennio, corrispondenti anche a due diversi modi di interrogare e rimodellare la scena della politica. All’inizio c’è Aprile, con le immagini della vittoria di Berlusconi in tv, il grido disperato di Moretti (“D’Alema, dì qualcosa di sinistra!”), la constatazione dello scacco, politico e formale (che cinema fare, o non fare, in questa situazione?). Alla fine ci sono i politici “terminali” di Bella addormentata. Non tanto il pidiellino in crisi di Toni Servillo quanto i suoi colleghi corrotti, svuotati, ectoplasmatici, ridotti a mendicare comparsate in tv, senza identità, senza ideali, senza psicologia, come testimonia irridendoli il parlamentarepsichiatra Roberto Herlitzka. Senza corpo, in VIVA LA LIBERTÀ, L’ U N I C O F I L M ITALIANO RECENTE INTERAMENTE DEDICATO A UN POLITICO N E L L’ E S E R C I Z I O DELLE SUE FUNZIONI. certo modo. Organismi parassitari che per vivere, e fare politica, hanno bisogno del corpo morente di Eluana Englaro. Ed eccoci tornati all’inizio. Perché forse proprio questo ha raccontato, nel suo insieme, il cinema italiano sulla vita politica di questi anni. L’ultimo corpo politico ad essersi conquistato un posto nel nostro immaginario, in fondo, è quello di Moro in Buongiorno, notte (Moro è di gran lunga il politico più rappresentato nella storia del cinema italiano e mette i brividi pensare che era anche l’unico che capitava regolarmente di incontrare al cinema Nuovo Olimpia di Roma, dietro il Parlamento, nella prima metà degli Anni ‘70). Come se, dopo il caso Moro, la degenerazione che ha investito la classe politica avesse reso addirittura impossibile rappresentarla. E al cinema - pensiamo anche al gesto paradossale di Moretti, che ne Il Caimano si sostituisce a Berlusconi, in certo modo divorandolo - non fosse rimasto che mettere in scena, nei modi e secondo le strategie più differenti, questa impossibilità. 39 TENDENZE // Il cinema e la politica in Italia di Enzo Natta Dalla nascita dell’Istituto Luce voluto da Mussolini ai VHS di Walter Veltroni passando per i “film atipici” di Aldo Moro e i panni sporchi di Giulio Andreotti. Così gli uomini di Stato hanno dichiarato pubblicamente la propria passione (a volte non disinteressata) per il grande schermo. A vvicinato da un cronista mentre stava girando I sogni muoiono all’alba, Indro Montanelli allontanò subito il sospetto che avesse goduto di riguardo da parte di cultori di cinema prestati alla politica. Anche perché, disse all’incirca Montanelli, una cosa è il tornaconto immediato e l’altra è la passione per il grande schermo. Eravamo ai tempi del muto quando si manifestarono le prime avvisaglie di un’attenzione che non andava oltre l’interesse immediato. Il Luce, nato con finalità educative nel 1924, è subito assorbito dalla mano pubblica e trasformato in strumento propagandistico di regime. Prima che animale politico, Mussolini era un giornalista che aveva intuito la potenzialità mediatica delle immagini e la forza dei cinegiornali. Infischiandosene di plagiare Lenin, il Duce non esita a definire il cinema “l’arma più forte”, slogan tradotto in un progetto mastodontico: una Direzione Generale per la Cinematografia che metterà le mani sull’intero sistema e costruirà la “città del cinema”, affiancando all’Istituto Luce gli studi di Cinecittà e il Centro Sperimentale di Cinematografia. È vero che quando la sera si ritirava a Villa Torlonia il suo passatempo consisteva nella visione di film, ma le scelte difficilmente andavano oltre le comiche di Stanlio e Ollio 40 e la commedia leggera. Ben altra attenzione era invece dedicata ai cinegiornali.Eppure quelle parentesi di puro divertimento lasciarono un segno profondo nel figlio Vittorio, che spinse la sua cinefilia fino alla direzione della rivista “Cinema”, in cui si fece i muscoli il miglior cinema italiano. Sarà proprio in quella redazione che la passione si tradurrà in impegno politico e viceversa. Fra i collaboratori della rivista figurava Mario Alicata, arrivato all’esperienza politica attraverso l’azione culturale. La sua firma si alternava a quelle di Carlo Lizzani, Giuseppe De Santis, Gianni Puccini, Massimo Mida, poi tutti approdati alla regia. Del gruppo faceva parte anche Pietro Ingrao, che ci ha lasciato il libro Mi sono tanto divertito – Scritti sul cinema (1936-2003). Li chiamavano “fascisti di sinistra”, “corporativisti impazienti” per dirla con Gentile: Ingrao, Alicata e sodali erano operatori culturali che cercavano le chiavi di una nuova estetica in grado di determinare istanze di cambiamento. Come loro anche per Aldo Moro il Cineguf (la sezione cinema dei Gruppi universitari fascisti) fu l’officina in cui forgiò il passaggio dall’impegno culturale a quello politico. Un’esperienza vissuta da un’intera generazione. Non era raro che Ingrao, Alicata e Moro s’incontrassero al Cinema Quirinetta, non tanto TENDENZE // Il cinema e la politica in Italia perché vicino a Montecitorio, quanto perché pioniere nello svolgere attività d’essai. Aldo Moro era anche un frequentatore del Rialto, dove svolgeva la sua attività un circolo d’avanguardia come il Charlie Chaplin. I gusti raffinati di Moro erano oggetto di frecciatine da parte di Giulio Andreotti, che canzonava l’amico di partito con un’inconfondibile espressione per definire il film d’autore: “Moro direbbe che questo è un film atipico”. Passato alla storia come l’uomo di potere che più di ogni altro ha legato la sua carriera politica alle vicende del cinema italiano (sottosegretario allo Spettacolo non ancora trentenne, artefice della legge sul doppiaggio, coinvolto nella polemica sul Neorealismo dopo aver affermato che “i panni sporchi si lavano in famiglia”), Andreotti era più spettatore di quantità che di qualità. Amico di don Francesco Angelicchio, consulente ecclesiastico del Centro Cattolico Cinematografico, quasi tutte le sere lasciava il suo appartamento di Corso Vittorio Emanuele II e arrivava a Borgo Sant’Angelo, dove al numero 9, sotto l’Auditorium di Palazzo Pio, era ubicata la saletta di proiezione del CCC. Là lo aspettavano don Angelicchio e un film che la commissione del CCC nel pomeriggio aveva revisionato al fine di redigere le classifiche morali che consentivano o vietavano la proiezione nelle sale parrocchiali. Altro appassionato di cinema è il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano: una passione per il cinema coltivata ai tempi del Cineguf e tenuta in caldo, come dimostrano i suoi interventi su “l’Unità” negli Anni ‘70, quando si batteva perché i film di nicchia distribuiti dal gruppo pubblico non fossero condizionati dalla gabbia tarpa-ali del “criterio di economicità”. Cinefilo per eccellenza è Walter Veltroni, cresciuto con merende di pellicola consumate prevalentemente al Filmstudio e nei cineclub romani. Diventato direttore de “l’Unità” nel 1992 promosse una campagna intesa a diffondere il cinema e affinare il gusto del pubblico, allegando al quotidiano VHS di film d’indiscusso prestigio. E infine ha promosso la Casa del Cinema di Villa Borghese, laboratorio culturale operoso attraverso rassegne, mostre, manifestazioni, incontri, con annessa libreria specializzata. Chi il cinema lo aveva letteralmente nel sangue era Giorgio Almirante, figlio e nipote d’arte. Il padre Mario fu regista del muto; gli zii paterni Giacomo, Ernesto e Luigi, attori; la cugina Ilaria Almirante Manzini una diva dell’epoca. A sua volta lui fu direttore di doppiaggio. Ma tornando all’intervista citata all’inizio, a un certo punto il cronista disse a Montanelli che se la percentuale dei politici cultori della decima musa era molto bassa, probabilmente lo si doveva al fatto che, citando Marco Aurelio, i poeti frequentatori dei palazzi del potere sono piuttosto scarsi. “E ancora di più lo sono i cineasti”, fu la risposta. 41 TENDENZE // Il cinema e la politica in Italia Tra il Transatlantico e la rete, tanto rumore per nulla diAlessandro Ferrucci Il grande schermo strapazzato a suon di citazioni, spesso sbagliate, nel linguaggio “dei palazzi”, da Fantozzi a Totò. Globe Postal Service Srl Via Petronio, 13 Genzano - Rm (italy) PI.12120241000 - 00145 I nternazionale, non c’è dubbio. Distribuita su più generazioni, altro dato sensibile. Non schiacciata su un genere specifico, dal comico basso, poi alto, al comico casereccio fino al dramma shakesperiano, con qualche inflessione giovanilistica. È la sintesi della cultura cinematografica proposta in questi anni nei discorsi ufficiali dei nostri politici, attenti nel cercare la frase ad effetto, la suggestione giusta, la metafora colta, lo stupore negli occhi di chi ascolta, il titolo di giornale, la pacca sulla spalla dal collega. Certo, a volte, sarebbe utile verificare prima di osare, ma la società della comunicazione istantanea non sempre offre i giusti tempi davanti all’ambito microfono. Quindi, et voilà lo scivolone, con Luisa Bossa, deputata Pd con un curriculum da insegnante di latino e greco, secondo la quale Tanto rumore per nulla è un film, mentre si tratta di Molto rumore per nulla, celeberrima commedia di Shakespeare e film di Branagh ad essa ispirato. Poi ripensamenti, qualcuno potrebbe 42 parlare di opportunismo politico travestito da pragmatismo esistenziale: in questo caso in cima al podio sale Oliviero Diliberto, rivoluzionario nello scaricare un caposaldo della cultura comunista come La corazzata Potemkin, definita noiosa in un’intervista al “Corriere della sera”, a favore della comicità “di Boldi, Aldo, Giovanni e Giacomo, Banfi, Villaggio-Fantozzi, De Sica”. No a Wenders e Antonioni: “Forse che le masse popolari vanno a vedere Ejzenstejn?”. Non sia mai. Ma in quel tempo era ministro. Altra storia nel 2007 nella rossissima Livorno: durante un cineforum La Corazzata improvvisamente ritornò “un capolavoro! Non è un film di propaganda. Un film politico. Propaganda, semmai, sono certi film assai più recenti”. Fulminante e coerente la risposta del Villaggio-Fantozzi: dalla “boiata pazzesca” del 1976, rispose con “meglio la galera”, sempre nel 2007. Compromessi. Gli stessi ai quali è stato costretto il verdissimo Roberto Calderoli, leghista amante delle provocazio- TENDENZE // Il cinema e la politica in Italia ni, ma “costretto” a rincorrere una celebre battuta del romano Alberto Sordi in Il presidente del Borgorosso Football Club per sollecitare gli allora alleati della Casa delle Libertà a scendere in piazza accanto a Umberto Bossi: “Chi si estranea dalla lotta è un gran figlio di mignotta... E fa anche rima...” (20 ottobre 2006). Con cosa fa rima? Mistero. Enorme soddisfazione per il democratico Roberto Di Giovan Paolo, ragazzone di cinquant’anni, cresciuto a pane e commedia americana, di qualità sia ben chiaro, lesto nello sfruttare una delle sue passioni giovanili per un lancio d’agenzia: “Io li odio i nazisti dell’Illinois!’’. Citazione del famoso The Blues Brothers per denunciare nell’aula del Senato di essere stato inserito in una lista del sito “Stormfront Italia”, in qualità di nemico dei neonazisti suprematisti bianchi legati al Ku Klux Klan americano (8 febbraio 2012). Immancabile. Richiamato. Riciclato. Utilizzato per frasi, slogan, manifesti elettorali. Parodie. È il principe Antonio de Curtis con il megafono in mano, appollaiato dietro una finestra per racimolare voti al suo Antonio la Trippa in Gli onorevoli. A utilizzare il dialogo è Domenico Scilipoti nel 2010, tutto pubblicato sulla home page del suo sito: “In Parlamento tre voti possono essere determinanti per salvare un governo... noi applichiamo il do ut des: io do tre voti a te e tu dai tre appalti a me”; “Scusate la mia ignoranza, ma io so che il deputato deve fare gli interessi dell’elettore, di chi gli ha dato la fiducia, il voto...”; “Cose d’altri tempi...”; “Roba passata, sormontata... così funziona, secondo voi: i gonzi, gli imbecilli, i burini mi danno i voti e noi tre ci facciamo una bella pappata”. “Bravo! Lei ha capito tutto”. “Io ho capito troppo”. Giusto. Era l’8 dicembre del 2010. Pochi giorni dopo lo stesso Scilipoti passò dal partito di Di Pietro al sostegno del governo Berlusconi. Momenti di tenerezza con un tocco di nostalgia nel racconto dell’onorevole Massimo Brutti. Era il 26 luglio del 2002, centro-sini- stra e berlusconiani lottavano contro il decreto legge “Cirami” a botte di ostruzionismo. Sedute lunghe. Estenuanti. Per inquadrare tutto va benissimo citare il film di Gabriele Muccino Come te nessuno mai, per confessare di essersi in fondo anche divertito: “Quella di questa notte è stata un’esperienza che ci ha fatto ringiovanire”. Passioni vere. Come quella di Walter Veltroni per il cinema, coraggioso nel 1994 a riabilitare pellicole come Quel gran bel pezzo dell’Ubalda, o la pitonessa Daniela Santanché a gridare sorridente a tutti “Io ballo da sola”, alla faccia di chi nel 2006 le faceva la guerra dentro la defunta Alleanza Nazionale. Poi però esistono anche le leggi del contrappasso, delle forme di meta-politica pirandelliana, quando è il cinema a uscire dallo schermo, a salire su un palco e urlare ai militanti: “Con questi dirigenti non vinceremo mai”. Lui era Nanni Moretti, era il 2002, e nei momenti di crisi i leader democratici ancora se lo rinfacciano reciprocamente. 43 Il dossier economico di DG Cinema e ANICA DECRETO VALORE CULTURA: ITALIA ALLINEATA AI PIÙ AVANZATI PAESI EUROPEI diIole Maria Giannattasio / Centro Studi DG Cinema-MiBACT Con il provvedimento, il tax credit, oltre a diventare permanente, è stato anche esteso ai produttori indipendenti di opere audiovisive, con una copertura finanziaria di 110 milioni l’anno. Del resto nei programmi d’intervento dell’Unione Europea è già operativa una disciplina unitaria che regolamenta il prodotto audiovisivo nel suo insieme comprendendo film, tv-movie, documentari, cortometraggi, serie tv, serie web e videogiochi. Tax credit permanente, estensione ai produttori indipendenti di audiovisivi e incremento a 110 milioni di euro. Con queste novità di rilievo il Decreto Valore Cultura (D.L. 91/2013) è diventato definitivamente norma dello Stato, dopo la conversione nella Legge 112/2013, avvenuta il 7 ottobre. Il Decreto Legge 91/2013 era stato deliberato nel Consiglio dei ministri del 2 agosto scorso come misura urgente per la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale italiano e per il rilancio del cinema, delle attività musicali e dello spettacolo dal vivo. Nel testo approvato in agosto le disposizioni in ambito cinematografico si concentravano in particolare sul credito d’imposta (tax credit), introdotto dalla Legge Finanziaria n. 244/2007 ed entrato in vigore nelle sue varie forme tra il 2009 e il 2010, con validità soggetta a rinnovo. L’urgenza di un intervento in tal senso era dovuta al precedente rinnovo del tax credit disposto nel Decreto del fare (L. 98/2013) che nel mese di giugno aveva prorogato la validità della misura, in scadenza a fine anno, per il solo anno 2014 e con una copertura finanziaria dimezzata da 90 a 45 milioni di euro. Il DL Valore Cultura, deliberato in agosto e convertito in legge in ottobre, incide in tal senso con una sostanziale riforma. Il primo grande risultato per il consolidamento del settore è, infatti, contenuto nell’art. 8 comma 1 che ha reso permanente il tax credit per il cinema, garantendo all’industria cinematografica uno strumento ormai rodato e conosciuto che, liberato dalla minaccia di un mancato rinnovo, rappresenta un fattore di stabilità e serenità per la programmazione delle attività degli operatori. L’elemento rivoluzionario è stato però inserito nel corso della conversione in legge avvenuta ad ottobre, con la L. 112/2013. 45 NUMERI // Il dossier economico di DG Cinema e ANICA Il tax credit, infatti, oltre ad essere stabilizzato è stato anche esteso ai produttori indipendenti di opere audiovisive, con una copertura finanziaria incrementata da 90 a 110 milioni di euro l’anno (art. 8 c. 2-3). L’allargamento delle agevolazioni fiscali a tutto il settore delle produzioni audiovisive è un passo decisivo e necessario in uno scenario di convergenza dei servizi di media e delle conseguenti trasformazioni dei modelli di produzione, diffusione e fruizione del prodotto. Già nel 1999 con il D.lgs. n. 300 erano attribuite al ministero dei Beni culturali le competenze per la “promozione delle produzioni cinematografiche, radiotelevisive e multimediali” ma, di fatto, in questi anni l’area funzionale in cui il ministero ha esercitato la sua azione è stata circoscritta al comparto cinematografico. L’estensione delle norme di agevolazione fiscale anche alle opere destinate a tv e web apre ora la strada verso una inevitabile integrazione dell’intero comparto che favorisce anche l’allineamento del nostro paese ai sistemi adottati all’estero. Nei più avanzati paesi europei e nei programmi d’intervento dell’Unione Europea, infatti, è già utilizzata una disciplina unitaria che regolamenta il prodotto audiovisivo nel suo insieme comprendendo film cinematografici, tv-movie, documentari, cortometraggi, serie tv, serie web, videogiochi e altro ancora. L'ANOMALIA ITALIANA L’anomalia italiana consiste quindi nell’assenza di un soggetto di riferimento per i prodotti destinati a canali prioritari di sfruttamento diversi dalla sala. Per gli audiovisivi non cinematografici non sono previste chiare definizioni e criteri di attribuzione della nazionalità, elementi che saranno contenuti nella disciplina di dettaglio. Di conseguenza non sono stati attuabili, sino ad oggi, schemi di sostegno dedicati a contenuti televisivi e web, come invece avviene per le opere cinematografiche. 46 La distinzione basata sul canale primario di distribuzione del prodotto non solo è destinata ad affievolirsi in un contesto in cui le barriere tra luoghi della fruizione sono sempre più labili, ma finisce anche per separare mondi produttivi spesso comuni. In genere, infatti, le figure professionali che lavorano su entrambe le tipologie di contenuti sono le stesse. Sempre più ambigui appaiono, poi, i confini in termini di sviluppi narrativi e di sperimentazione di linguaggi con, da un lato, i film che assimilano le caratteristiche seriali delle opere televisive (film series) e, dall’altro, serie tv e web realizzate con qualità e standard cinematografici. Le differenze si individuano piuttosto negli schemi di finanziamento e reperimento delle risorse e nell’eterogeneità dei cicli produttivi. Da tempo, quindi, in molti altri paesi europei la distinzione è stata superata con l’adozione di misure d’incentivo fiscale destinate al comparto audiovisivo nel suo insieme. L’allargamento delle agevolazioni fiscali all’intero comparto della produzione audiovisiva consente, quindi, anche in Italia un sistema in grado di mettere in atto strategie organiche per lo sviluppo e il potenziamento del settore, oltre che agevolazioni all’accesso dei nostri prodotti sui mercati esteri e l’attrazione di investimenti stranieri sul nostro territorio. Nei decreti attuativi della legge 112/2013 - da adottare entro il 7 gennaio 2014 di concerto con il ministro dell’Economia e delle Finanze, sentito il ministro dello Sviluppo Economico - l’operazione più delicata consisterà quindi nel chiarire il perimetro sia dei prodotti sia dei produttori ammessi al beneficio. Per questi ultimi, solo ai fini delle agevolazioni fiscali, la definizione che il decreto dà di produttori indipendenti (art.8 comma 5) è la stessa contenuta nel cosiddetto decreto Romani del 2010 (“operatori non controllati da o collegati a emittenti, anche analogiche, che per un periodo di tre anni non destinino almeno il 90% della propria produzione a una sola emittente”), ma particolarmente importante appare l’ulteriore specificazione in base alla quale essi debbano detenere “i diritti relativi alle opere sulle quali sono richiesti i benefici”. La ratio di tale specifica risiede nella necessità di evitare che il beneficio venga “traslato” direttamente alle emittenti televisive e non resti, invece, in capo alle produzioni indipendenti, ossia a quei soggetti che, dotati di maggiore autonomia finanziaria ed editoriale, possono sviluppare progetti che facciano da traino all’evoluzione e all’internazionalizzazione della produzione audiovisiva italiana. L’adozione delle nuove misure rappresenta quindi un’opportunità di crescita e ripensamento per il settore oltre che un atteso riconoscimento da parte degli organi governativi del valore strategico delle industrie culturali per lo sviluppo e il rilancio del paese. NUMERI // Il dossier economico di DG Cinema e ANICA UNA RIVOLUZIONE COPERNICANA VISTA DALL'INDUSTRIA diFederica D’Urso e Francesca Medolago Albani / Ufficio Studi ANICA In attesa a gennaio dei decreti attuativi della legge di convenzione del D.L. Valore Cultura, l’estensione delle agevolazioni fiscali a tutto l’audiovisivo porta alla ridefinizione del perimetro del settore, e costituisce una svolta decisiva nel rapporto fra Stato e industria cinematografica. La produzione audiovisiva, finora mai esplicitamente attribuita alla competenza di alcun Ministero, trova finalmente nel MiBACT una sede amministrativa di riferimento. Dal punto di vista dell’industria audiovisiva, il sofferto DL Valore Cultura (D.L. n.91/2013) e la relativa Legge di conversione (Legge n. 112/2013) rappresentano un momento di svolta nella storia del settore, per certi versi una vera e propria rivoluzione copernicana che si completerà con i decreti attuativi attesi entro gennaio 2014. I testi fanno emergere spunti di riflessione nuovi e aprono questioni mai affrontate nella produzione normativa, le cui risposte possibili non paiono univoche né immediate e su cui lo Stato sarà chiamato a esprimersi, consapevole di toccare temi decisivi per il futuro e di poter proporre una visione a lungo termine per la produzione culturale del nostro paese. Dopo anni di battaglie per il rinnovo della misura fiscale che, pur in modo progressivo e talvolta scomposto, ha stimolato una oggettiva maturazione del comparto industriale, la stabilizzazione costituisce una vittoria epocale nel dialogo con il Governo. La certezza di poter usufruire degli incentivi - a partire dal “tax credit interno” - con una visibilità temporale superiore a uno o due anni consente infatti ai produttori di programmare la propria attività in modo più certo e di impostare piani di produzione pluriennali, innovazione di vitale importanza, soprattutto in un’epoca in cui le risorse provenienti da altre fonti si riducono e il rischio sul singolo prodotto aumenta. Il processo industriale che porta dallo sviluppo alla realizzazione e distribuzione dell’opera cinematografica richiede infatti un tempo di preparazione lungo: l’incertezza della disponibilità dei benefici fiscali nel medio-lungo termine non poteva che frenare entusiasmi e, soprattutto, investimenti. Una maggiore diffusione del fenomeno dell’investimento in produzione da parte di imprese non appartenenti alla filiera - inoltre previsto dal tax credit cosiddetto “esterno” accanto al già consolidato product placement - è uno degli altri aspetti su cui la stabilizzazione della misura potrebbe influire in modo positivo. A fortiori vale il medesimo discorso per il tax credit “internazionale”, quello attraverso il quale è tornata a crescere negli ultimi anni la capacità attrattiva dell’Italia per le grandi produzioni globali (vedi il Dossier dedicato alla produzione sul numero di settembre di 8½). Il venir meno dell’incertezza per una misura di provata efficacia - il tam tam positivo è la migliore delle garanzie - toglie un ostacolo dalla strada che porta verso le location italiane, che si confermano economicamente competitive e apprezzate dal punto di vista naturalistico e storico-artistico. Il significativo valore generato dagli investimenti esteri, accanto alla continuità di lavoro per esecutivi e maestranze, offre anche possibilità di diversificazione e apertura sia per i talenti sia per gli stessi produttori italiani. L’industria quindi non può che accogliere con entusiasmo la definitiva conferma degli incentivi fiscali al settore, anche alla luce del fatto che questi stanno progressivamente sostituendo per peso e valore il tradizionale sostegno diretto derivante dal FUS. 47 NUMERI // Il dossier economico di DG Cinema e ANICA STABILIZZAZIONE ED ESTENSIONE DEL TAX CREDIT La questione dell’estensione del tax credit all’audiovisivo è invece più ricca di sfumature e chiaroscuri. Le modalità di attuazione che saranno indicate (su cui lo Stato dovrà cimentarsi bilanciando e coordinando competenze e risorse considerate storicamente separate) porteranno inevitabilmente alla ridefinizione del perimetro del settore. Certamente questa novità della norma, peraltro inserita con un emendamento in fase di conversione in legge del Decreto e quindi non contenuta nel testo originario del DL Valore Cultura, rappresenta una svolta decisiva nel rapporto fra Stato e industria cinematografica. Proviamo a individuare di seguito alcuni aspetti essenziali. Innanzitutto, è la prima volta nella storia della normativa di settore che lo Stato decide di erogare aiuti al comparto della produzione di audiovisivo non cinematografico, unificando competenza amministrativa e gestione delle risorse presso il ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo. Alla luce di ciò, l’immediata preoccupazione che il settore cinematografico tradizionale è legittimato a porsi (produzione, distribuzione, esercizio) riguarda proporzioni e modalità con cui i benefici verranno distribuiti fra cinema e audiovisivo. Più in generale, tuttavia, sembra che la vera portata di questo emendamento riguardi non tanto l’estensione del tax credit in sé, quanto piuttosto il principio sottostante, che costituisce un punto di non ritorno: la produzione audiovisiva, finora mai esplicitamente attribuita alla competenza di alcun ministero, trova finalmente una sede amministrativa di riferimento. Se i futuri interventi legislativi e regolamentari confermassero questa tendenza, si tratterebbe di un momento storico per il ministero ma anche per il settore economico della produzione. 48 I produttori audiovisivi indipendenti inizieranno, da un lato, a godere di benefici e dall’altro a sottostare a vincoli già previsti per la produzione cinematografica (benefici di legge, contributi diretti e indiretti ma anche vincoli di denuncia inizio lavorazione, lingua, nazionalità, revisione - i.e. censura - interesse culturale)? Come questo si declinerà sulle coproduzioni e sulle produzioni estere girate in Italia? Il discrimine dell’indipendenza dei produttori riguarderà il sistema proprietario solo nazionale? Solo il tax credit alla produzione o anche quello per la distribuzione? Cosa si intende per distribuzione di un prodotto audiovisivo non cinematografico? Superato lo storico steccato del prioritario sfruttamento, sembra impossibile immaginare che se ne possano porre altri legati al canale di diffusione: non più solo la sala cinematografica, ma non solo la distribuzione televisiva. Si aprono infatti le sterminate praterie delle produzioni nate per il web. DEFINIZIONE DI “OPERA AUDIOVISIVA” Una serie di domande che spinge a riportare quindi la questione ancora più a monte, al prodotto. È necessario interrogarsi in modo più tecnico su che cosa si dovrà intendere per “audiovisivo”, o meglio, citando la norma (art. 8 c. 2), per “produttori indipendenti di opere audiovisive”. Rispetto al concetto di “indipendenza” del produttore si rimanda al paragrafo successivo, mentre è opportuno prima soffermarsi sulla definizione di “opera audiovisiva”, rinviata a un apposito decreto del MiBACT, da definirsi in concerto con il MEF, sentito il MISE. Non esistono precedenti definizioni di “opera audiovisiva” nella normativa primaria, nemmeno europea, ove l’attenzione è posta (Direttiva Servizi Media Audiovisivi) sull’ag- gettivo più che sul sostantivo. Il più recente e vicino riferimento può essere rintracciato nel Regolamento AGCom contenuto nella Delibera 30/2011/CSP, relativo alla limitazione temporale dei diritti secondari. Ma tale definizione non sembra utile ai fini attuali, anche perché essa ricomprende al suo interno la stessa opera cinematografica in quanto declinazione dell’ambito più ampio dell’opera audiovisiva. Con buona probabilità il legislatore ha avuto in mente di intendere l’opera audiovisiva come opera televisiva, ovvero destinata alla prima diffusione sulla piattaforma televisiva in modalità broadcasting, di genere fiction o comunque che implichi uno sviluppo narrativo. Ci si chiede tuttavia se, alla luce della rapida evoluzione del mercato dei contenuti e della conseguente crisi dei modelli di business tradizionali che hanno governato i diversi mercati dei media - tenendoli peraltro separati - fino ad ora, non sia invece opportuno considerare un confine dell’opera audiovisiva che preveda un altro tipo di paletti, svincolati dalla piattaforma di distribuzione in quanto tale e dalla modalità di fruizione lineare. In altre parole, con una visione a medio termine, è presumibile che la definizione di contenuto audiovisivo debba essere individuata indipendentemente dalle licenze di sfruttamento per i vari canali di diffusione, primaria o secondaria cha sia. La proporzione in termini di potere di mercato e quindi di forza contrattuale vedrà probabilmente nel volgere di pochi anni la tv tradizionale lasciare il passo agli operatori rilevanti sul web, per il quale verosimilmente si saranno individuati modelli di business più efficaci di quanto non avvenga nel mercato attuale. Occorrerà dunque identificare gli elementi caratteristici dell’opera audiovisiva, ripartendo dai principi cardine contenuti nella legge 633/41 sul diritto d’autore, anche se depurati dalle specifiche tecnologiche oramai superate dal corso della storia. NUMERI // Il dossier economico di DG Cinema e ANICA Tante domande da porre al legislatore sulla delicatezza della definizione di “opera audiovisiva” e sulla complessità delle conseguenze che questa può avere sul mercato. Inevitabile peraltro ricordare che probabilmente, una volta definita l’opera audiovisiva, lo Stato si dovrà occupare anche della ormai obsoleta definizione di “opera cinematografica” contenuta nel D. lgs n. 28/2004, improntata sulla natura della piattaforma di diffusione del contenuto più che sulla natura del contenuto stesso. DEFINIZIONE DI “PRODUTTORE INDIPENDENTE” Da ultimo, merita attenzione la definizione di “produttore indipendente (di opera audiovisiva)”, chiamato in causa dall’art. 8 c. 5 della legge di conversione del DL. Per la prima volta, altro traguardo raggiunto nella storia della regolamentazione italiana del settore, nella definizione di produttore indipendente, oltre ai classici vincoli relativi all’assetto proprietario e alla non esclusiva della committenza, viene introdotto il criterio relativo alla proprietà dei diritti di sfruttamento sull’opera per cui sono stati chiesti i benefici (criterio peraltro previsto sin dall’origine nella Direttiva Europea Televisione senza Frontiere del 1989, da cui discendono tutte le norme nazionali). Anche del maggiore approfondimento di questo dovrà trattare il decreto attuativo previsto dalla legge. Quello della proprietà dei diritti di sfruttamento sulle opere è un tema storicamente cruciale per i produttori italiani, non solo e non tanto quelli specializzati in opere cinematografiche, quanto piuttosto quelli maggiormente impegnati sul fronte televisivo. Il modello di mercato che si è consolidato nel comparto televisivo ha finora di fatto impedito ai produttori indipendenti di mantenere la titolarità dei diritti, anche parziale, sulle opere finanziate dai broadcaster e quindi di arricchire le proprie library nel tempo, con conseguente impossibilità di accrescere patrimonio e redditività d’impresa. Come conseguenza delle prassi di mercato, la regolamentazione fino ad ora si è sempre limitata a definire l’indipendenza del produttore in base ai soli primi due criteri (assetto proprietario e non esclusiva), tralasciando il terzo pilastro identificato invece nelle norme europee. Se la nuova e attesa definizione di produttore indipendente che discenderà dal Decreto Valore Cultura interverrà anche in quest’area, sarà probabilmente destinata a ridefinire gli equilibri nei rapporti di forza che finora hanno condizionato il mercato della produzione televisiva, oltre che in parte di quella cinematografica. PRIME RISPOSTE NEI DECRETI ATTUATIVI Dopo aver presentato in queste pagine le novità normative del Decreto Valore Cultura e della legge di conversione, illustrate dal Centro Studi DG Cinema, e dopo aver ospitato le riflessioni del comparto industriale cinematografico, in particolare l'Anica, il lavoro di elaborazione sull’intera materia è evidentemente iniziato e, come appare evidente dal tipo di questioni che emergono a una prima riflessione, troverà alcune risposte nei decreti attuativi cui il Decreto Valore Cultura rinvia. È probabile e presumibile che il dibattito si apra e tenda a coinvolgere anche altri temi strutturali, non strettamente riferibili alle norme in questione. A questo proposito giunge con tempismo perfetto la Conferenza Nazionale del Cinema, progetto lanciato dal ministro Massimo Bray nel corso del Festival di Cannes 2013 e sviluppatasi in due sessioni, tavoli di lavoro prima e seduta plenaria poi, durante il Festival Internazionale del Film di Roma. L’intero mondo degli addetti ai lavori - industria e Amministrazione - è coinvolto in un processo di riflessione e ridefinizione che dovrà necessariamente portare a proposte innovative sotto il profilo della policy e della gestione di un settore che, soprattutto, oggi è chiamato a partecipare direttamente e a portare contributi positivi per la costruzione del proprio futuro. 49 CINEMA ESPANSO T itolo della mostra è Bruno Bozzetto: Animation Maestro! Chi la conosce un po’ sa bene che non sopporta proprio essere chiamato “maestro”: come mai questa parola campeggia in testa a una celebrazione a lei dedicata? (ride molto divertito) Odio la parola maestro! Come al solito… queste idee arrivano da chi cura la produzione. Siccome c’è un legame del mio Allegro non troppo con la musica classica, in questo caso la parola è funzionale e ha un doppio senso: maestro d’orchestra e d’animazione. Ma lo ripeto: a me non piace! Certo, dopo le mie diverse esternazioni contro questa parola, è quasi comico ma, al di là di questo, l’iniziativa è molto bella, senza dubbio molto… più della parola maestro! Com’è nata questa mostra e perché è stato scelto di incentrarla “solo” su Allegro non troppo e non su una più ampia esposizione delle sue creazioni? Sono stato l’anno scorso negli Stati Uniti e ho visitato il museo della famiglia Disney e la figlia, Diane, diceva di aver intenzione di aprire il Museo anche a mostre esterne: io la cosa l’ho ascoltata volentieri ma mi è entrata da un orecchio e mi è uscita dall’altro. Ma evidentemente l’interesse c’era e una volta rientrati in Italia sono tornati alla carica, incontrando anche la disponibilità e l’entusiasmo di Federico Fiecconi, curatore di questa mostra, che era con me in quell’occasione: probabilmente l’incontro personale ha soltanto sollecitato un’intenzione che era in fieri. La concentrazione su Allegro è dovuta a due motivi: probabilmente in America è il mio film più conosciuto, ha avuto una importante diffusione, mentre West and Soda e Vip li conoscono poco, o niente probabilmente; secondo, ha un legame stretto con Fantasia di Disney, soprattutto per La sagra della primavera di Stravinskij. C’è anche un terzo motivo: i miei film non Bruno Bozzetto. Allegro non... ...non chiamatemi Maestro! diNicole Bianchi 50 sono pensati per bambini, infatti abbiamo avuto qualche problema nel selezionare i cartoni inizialmente perché io parlo di cose cattive, la società, la guerra… che possono essere anche proposte ai piccoli ma io le racconto in maniera diretta. Questo per spiegare perché abbiamo dovuto scartare diversi film possibili e comunque rispettare l’essere ospiti in “casa Disney”. Racconti lei cosa si può vedere esposto e se ci sia per caso qualcosa di inedito… La maggior parte sono disegni visti in altre mostre, ma non tutti: sono state selezionate anche cose nuove. Ci sono disegni a matita, schizzi, qualcosa dello storyboard: il materiale era tutto buono, per cui che fosse scelto un disegno piuttosto che un altro non mi creava problemi, ho lasciato massima libertà di selezione. Non ci sono “inediti”, anche perché… per fare quel film non abbiamo scartato nulla! Ci sono degli schizzi di lavorazione che naturalmente non sono rientrati nel film, ecco l’inedito! Cosa ne pensa del cinema nei musei? Crede che gli ambienti museali possano prestarsi bene ad ospitare il cinema e se sì qual è il modo migliore per non farlo risultare statico e garantirgli la magia del dinamismo? La cosa più bella del cinema in un museo è avere il film e la materia con cui questo è stato realizzato, così diventa più vivo perché uno spettatore passa dal disegno statico, che vede lì davanti agli occhi, al disegno in movimento: la magia la crea chi guarda, con la fantasia, supportato dal poter “toccare con mano” il disegno. È la stessa sensazione che si avrebbe se ci fosse lì in carne ed ossa l’attore di un film. Trovo che il cinema nei musei sia un’opportunità molto positiva, anche per una questione di “dimensioni”: una persona vede il disegno originale e il suo ingombro, poi lo guarda adattato al film e questo è significativo per la percezione del passaggio fisico da una cosa statica creata su un foglio allo schermo. Certo, l’animazione in particolare si presta a questo discorso perché nel cinema dal vero al massimo si possono esporre oggetti, props, costumi ma non è come il disegno, che invece rappresenta l’intera scena poi visibile esattamente uguale in movimento. CINEMA ESPANSO La famiglia Disney ha voluto dedicare una personale a Bruno Bozzetto, in mostra al Walt Disney Family Museum di San Francisco fino ad aprile del prossimo anno. Noi l’abbiamo intervistato. Allegro non troppo, in virtù della tecnica mista, ha visto la partecipazione dal vero di alcuni importanti interpreti del cinema italiano, uno per tutti Maurizio Nichetti. Che ricordo ha del lavoro sul set e perché scelse proprio lui? Nichetti faceva parte del mio studio da anni, su di lui abbiamo un po’ costruito il personaggio del disegnatore: era arrivato per sbaglio, era venuto a proporsi come interprete di un film pubblicitario, ma rendendosi conto che avevamo già scelto, come dice lui “uno molto più bello”, stava per andarsene quando gli venne in mente di dirmi che scriveva sceneggiature. Io vedendo una persona sveglia, simpatica e spiritosa gli ho proposto di collaborare: facendo architettura masticava un po’ la tecnica del disegno e tutto questo era sommato a quel tipo di spirito surreale che serviva a me, capace di battute anche mimiche. Gli devo anche riconoscere di avermi rimesso in circolo il germe del film dal vero, con cui ho iniziato la mia carriera e che adoro: tant’è che Allegro è un film in tecnica mista e il lavoro di Maurizio è stato di grande aiuto… infatti è stato (anche) aiuto regista! Una genialità che però voglio riconoscere anche a Guido Manuli, sceneggiatore e animatore strepitoso: l’idea dell’orchestra di vecchiette è venuta proprio a loro due! Il mio ricordo della lavorazione del film? È stato un lavoro tranquillo, nato giorno per giorno, fatto tutti insieme: giravamo al teatro Donizetti di Bergamo, io abitavo al di là della strada, quindi uscivo, andavo a lavorare e tornavo a casa. Insomma è nato in una tale tranquillità che non poteva che essere allegro! In poco più di un anno è stato invitato negli USA da eccellenze dell’animazione, alla Pixar da Lasseter e poi dalla famiglia Disney: qual è il valore aggiunto che ha l’animazione italiana di Bruno Bozzetto? Non lo so proprio, la persona più stupita sono io. Ci dev’essere qualcosa nella semplicità e nell’umorismo: il dover arrangiarmi, come è successo a me, con pochi mezzi ma riuscendo ogni tanto a far qualcosa di importante forse li ha colpiti. La prima cosa che mi ha detto Lasseter quando ci siamo incontrati è stata: mi ricordo la zanzara di Self Service (1974)! Quindi sono le trovate necessarie al dover lavorare con poco che li fanno ridere, perché spesso mi hanno parlato di “umorismo”, forse simile al loro, come succede in Nemo, dove gli squali vanno alla riunione degli alcolisti, che è un livello di lettura diverso da quello del bambino a cui si rivolge principalmente il film. Probabilmente gli piaccio perché facciamo lo stesso tipo di cinema: il mio Vip e Gli invincibili hanno molto in comune in fondo. Questa è l’unica spiegazione che trovo, perché altrimenti non capisco come possa io essere interessante per loro. 51 CINEMA ESPANSO DANTE FERRETTI. IL LABIRINTO, I LEONI E I LAMPADARI DI SALÒ diAlessandro Spreafico “Se ti sei mai chiesto dove vengono creati i tuoi sogni, guardati attorno, vengono creati qui.” (Hugo Cabret) “D ove vivi?” chiede Isabelle. Hugo la guarda per un minuto, poi si volta e indica il grande orologio nella stazione dopo il ponte: “là”. È proprio uno dei sette orologi di grandi dimensioni costruiti per la colossale produzione di Hugo Cabret di Martin Scorsese (2011) ad invitare all’immersione nell’universo “ferrettiano”, ricreato nella retrospettiva che il MoMA di New York e Luce Cinecittà dedicano a Dante Ferretti, maestro della scenografia cinematografica contemporanea. Si potrebbe raccontare la mostra come un compendio di progettazione per il cinema illustrato dai lavori di Ferretti, un artista che 52 nel corso della sua carriera ha saputo dare a quello che era un semplice mestiere artigiano un ruolo strutturale nel processo collaborativo col cinema d’autore. Nei suoi progetti ogni scenografia diventa un universo unico e si pone in un rapporto dinamico e dialettico con l'immaginazione del regista, contribuendo così a imprimere una precisa impronta stilistica a tutto il film. I lavori di Ferretti sono sempre concepiti ad uso e consumo del pubblico cinematografico e, va detto, possono essere apprezzati al meglio solo se visti nella loro collocazione originale, all’interno del film proiettato su grande schermo. Per questo il 25 settembre scorso è stata inaugurata da Martin Scorsese la rassegna Dante Ferretti: progettando per il grande schermo nel teatro del museo, in cui vengono proiettati integralmente i 22 film più rappresentativi dell’arte di Ferretti, tra cui The Aviator e Hugo Cabret, diretti dallo stesso Scorsese, e Sweeney Todd - Il diabolico barbiere di Fleet Street di Tim Burton, valsi allo scenografo tre premi Oscar come miglior art direction. La mostra Dante Ferretti: Progettazione e costruzione per il Cinema ospita diversi pezzi originali recuperati dai set, tra cui spiccano i lampadari di Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini (1975) e i leoni d’oro creati per la Mostra del Cinema di Venezia, oltre a numerosi disegni e bozzetti che guidano il visitatore attraverso il processo creativo dell'artista di Macerata. Il vero cuore dell'esposizione è però la labirintica installa- CINEMA ESPANSO zione di 12 schermi alla Roy and Niuta Titus Gallerie Hall, dove vengono proiettati alcuni estratti delle più grandi produzioni scenografate da Ferretti, uno spazio ipnotico e onirico: cinema che narra altro cinema e dunque il racconto visivo si enfatizza in quello che comunemente possiamo definire metacinema, qui arte visiva all’ennesima potenza. Ispirato dalla tradizione del cinema classico italiano e portato a creare su vasta scala, dal 1969 Ferretti ha lavorato come scenografo in oltre 50 film, 24 produzioni operistiche e più di una dozzina di altre tra televisione, musei, moda e festival, collaborando con artisti di calibro internazionale come l'icona della moda Valentino, ma soprattutto con i maestri del grande schermo: Pier Paolo Pasolini, Federico Fellini, Martin Scorsese. Lo stesso Ferretti durante l’opening della mostra ha raccontato di quanto debba a Pasolini, che nel ‘64 lo assunse come assistente scenografo nel leggendario Il Vangelo Secondo Matteo. Oltre ai nomi già citati - questa non è una lista ma un "alfabeto" di eccellenze - Ferretti ha collaborato con Liliana Cavani, David Cronenberg, Luigi Comencini, Marco Ferreri, Elio Petri, Sergio Citti, Mario Camerini, Franco Zeffirelli, Ettore Scola, Dino Risi, Marco Bellocchio, Luigi Zampa, Franco Brusati, Luciano Salce, Brian DePalma, Terry Gilliam, Julie Taymor, Jean-Jacques Annaud, Martin Brest, Neil Jordan e Anthony Minghella. Lavorando in Italia, Gran Bretagna e Nord America, ha vinto nel corso della sua carrie- ra 4 David di Donatello, 13 Nastri d’Argento, 3 BAFTA, oltre a i già citati 3 Oscar (su 7 nomination). Allestire una mostra come questa in anni in cui la tecnologia digitale ha ormai definitivamente cambiato il processo di realizzazione di un film, scenografie in primis, significa celebrare il tramonto dell’arte scenica in grande scala dopo oltre un secolo di meraviglioso servizio. Un evento lungo sei mesi in uno dei templi dell’arte mondiale, il MoMA, rappresenta la chiara intenzione di valorizzare il contributo artistico della scenografia e più in generale di tutti quei ruoli, solitamente considerati di “secondo piano”, che trasformano la visione di un regista in realtà. Dante Ferretti diventa quindi una sorta di eroe del cinema, capace di portare la grande arte scenica italiana in tutto il mondo: non solo dà orgoglio al nostro paese, ma ci fa riflettere su quanto siano importanti (e complessi) l’interpretazione di un’idea e il processo che porta a concretizzarla. "Se ti sei mai chiesto dove vengono creati i tuoi sogni, guardati attorno, vengono creati qui." (Hugo Cabret) Il suggestivo immaginario dello scenografo di Macerata è in mostra al MoMA di New York fino al 9 febbraio 2014 in collaborazione con Luce Cinecittà. 53 RICORDI Il segreto di Gigi Magni: la vera ricetta della carbonara diSteve Della Casa Era maniacalmente affezionato al concetto di romanità, che si può sintetizzare nella preferenza per il guanciale rispetto all’anglosassone bacon e all’italiana pancetta. 54 RICORDI N essun altro regista rappresenta lo spirito romano come Gigi Magni. E, al tempo stesso, Gigi Magni ha una storia comune con tutti coloro che, più o meno con i suoi anni, hanno iniziato a fare il cinema di commedia in Italia negli Anni ‘50. Sembra una contraddizione, non è così. Gigi era maniacalmente affezionato al concetto di romanità, al punto da bollare come “burino” chi abitava fuori dalle mura, cioè dal nucleo storico della città oggi espansa per chilometri e chilometri in tutte le direzioni. In questa sua puntuale richiesta di informazioni (“Tu che dici di esse de Roma, ‘ndo abiti?”) ricordava un po’ l’Ennio Flaiano degli ultimi tempi, quello che guardava i mille faccendieri che popolano il bar Rosati, tempio una volta della grande generazione dei cinematografari, e commentava con l’amico Vaime: “Guardali, credono di essere noi”. Nella carriera fa tanta gavetta, proprio come gli altri, e poi ha un rapporto quasi esclusivo proprio con un “burino”, Nino Manfredi, con il quale lavora per tanti film smettendo poi di fare il regista proprio quando Manfredi muore. Tra questi due poli ruota tutta la sua carriera. La sua scrittura, quando è sceneggiatore, è chiara e lineare, le gag che scrive per i film di Totò sono scoppiettanti ma gli interessa di più il fatto che siano veramente immediate (e infatti Monicelli lo citava come esempio di prosa piana ed efficace, e ripeteva sempre che l’insegnamento da dare a chi si avvicina oggi alla scrittura è molto chiaro: “Scrivi come Magni”). Ma anche la sua voglia di raccontare la Roma capitale di due poteri spesso fusi in uno solo è al tempo stesso un atto di sfida verso il potere temporale dei Papi (che secondo Magni non si è esaurito con la fine dello Stato pontificio) come anche un’attenzione quasi certosina per le fonti di creatività romana, dal Belli a Pasquino, che con quel potere hanno sempre avuto una dialettica intensa. Chiamato una volta in radio per una trasmissione monografica su di lui, Magni annunciò per tutta l’ora di trasmissione che alla fine avrebbe svelato il suo vero segreto, il tesoro che consegnava alle future generazioni. Alla fine effettivamente lo svelò. Si trattava della vera ricetta della carbonara, quella che nacque in via delle Fornaci in un’epoca imprecisata e che mai avrebbe utilizzato l’anglosassone bacon e neanche la più nostrana pancetta. Ci voleva il guanciale, simbolo di una cucina povera ma fascinosa, come storicamente era quella romana “prima che i barbari venuti dalle campagne la distruggessero”. Un colpo di scena, ma anche una filosofia di vita. 55 NEL MONDO Pechino Da Palermo all’Asia, il viaggio della “ciabattina” Cotta diRossella Rinaldi Elena Cotta, la vincitrice della Coppa Volpi a Venezia per Via Castellana Bandiera di Emma Dante, è stata protagonista di una lunga tournée in Estremo Oriente. 56 NEL MONDO Tokyo Busan V ia Castellana Bandiera (A Street in Palermo il titolo internazionale) è stato uno dei film italiani più presenti nei maggiori festival autunnali: solo a ottobre l’esordio di Emma Dante è stato in programmazione al BFI London Film Festival e nei più lontani Busan e Tokyo International Film Festival. La regista palermitana, impegnata nelle prove del Feuersnot al Teatro Massimo di Palermo, ha affidato la promozione “asiatica” del film alla coprotagonista e vincitrice della Coppa Volpi Elena Cotta, non nuova all’Estremo Oriente, nonché alle lunghe trasferte intercontinentali. Nella sua carriera cinquantennale, l’attrice ha girato un film in Australia, Terza generazione (del 2000), dove interpretava la madre di Greta Scacchi; mentre la compagnia fondata con il marito Carlo Alighiero la portò per la prima volta in tournée in Cina con uno spettacolo teatrale italiano, Arlecchino servitore di due padroni di Goldoni. Elena Cotta è stata un’assidua frequentatrice della Cina per circa 30 anni perché la figlia, Barbara Alighiero, al suo fianco in questo tour, è un’eccellente sinologa e fino a due anni fa ha diretto l’Istituto Italiano di Cultura di Pechino. Ora l’attrice ottantaduenne è volata a Busan e a Tokyo, passando per Pechino, dove è stata protagonista di una conferenza stampa proprio all’Istituto Italiano di Cultura. Perfetta viaggiatrice, curiosa e aperta alle differenze dell’Oriente, dal cibo alle tradizioni, a Tokyo Elena ha sfilato sul green carpet (il tappeto verde realizzato con bottiglie di plastica riciclate, che conferma la vocazione ecologista di questo festival), al fianco di Tom Hanks, Francis Ford e Sofia Coppola e del primo ministro Shinzo Abe; a Busan invece è stata ospite d’onore del direttore del Festival, Lee Yong-kwan, assieme a Gianfranco Rosi, l’autore di Sacro GRA, anche lui ospite dei coreani, e ha partecipato alla tradizionale photosession organizzata da European Film Promotion assieme agli altri personaggi europei. L’attrice ha incontrato il pubblico e ha approfondito i temi del film raccontando dettagli della lavorazione nel torrido agosto palermitano: “Ero completamente rilassata e nemmeno il caldo mi ha rovinato il piacere. Ero seduta in macchina, con il mio tè, i miei libri, le mie sigarette”. Quindi ha spiegato: “Il nostro mestiere è artigianato. Faccio sempre l’esempio del ciabattino, che fa in maniera eccellente una cosa che noi non sapremmo mai fare, ribattere i chiodi. Anche gli attori, dopo tanti anni, diventano bravissimi nel loro mestiere, ed io dopo cinquant’anni di carriera mi sento una brava ciabattina”. “La Coppa Volpi? Sicuramente non mi aspettavo questo riconoscimento, ma mentirei se dicessi che non lo speravo. Ho iniziato a pensarci subito dopo la proiezione stampa, quando durante l’incontro con i critici ho avuto un applauso straordinario, uno dei più belli della mia vita. Sto vivendo un momento magico, che un mese fa non avrei mai immaginato”. Elena Cotta non ha perso occasione di ricordare con orgoglio la realtà che ha costruito con il marito Carlo Alighiero, con cui gestisce (con un terzo di comproprietà) il Teatro Manzoni di Roma: “Una realtà privata che si mantiene egregiamente con il proprio cartellone, senza aiuti statali, forte di ben 7.000 abbonamenti”. Il palcoscenico, però, lo ha accantonato per un anno in vista di alcuni progetti cinematografici. Poi domande più specifiche e analitiche su Via Castellana Bandiera, sull’ampliarsi della strada nel corso del film (al termine diventa una via larghissima in cui potrebbero passare almeno due macchine): “Durante la lavorazione la scenografa Emita Frigato allargava gradatamente lo spazio, che alla fine era sufficiente per fare passare tutti. Il motivo del conflitto, per cui c’era stato un morto, non sussisteva. È una metafora dell’assurdità della guerra”. Un attimo di commozione il giorno prima della partenza da Tokyo, e poi, a due giorni dal ritorno in Europa, Elena Cotta è ripartita per il Festival di Zagabria. 57 DISCUSSIONI VERSO L’OSCAR. E SE I PERSONAGGI COMINCIASSERO A RECENSIRE I FILM DI CUI SONO INTERPRETI? diElio De Capitani Jep Gambardella prende le distanze, ma in fin dei conti disvela (disgela anzi) il confessabile segreto che ci ammala de La grande bellezza... 58 DISCUSSIONI L’APPARATO UMANO Jep Gambardella EDIZIONI A me il film non è piaciuto troppo. Ne ho parlato anche con Toni, che pure è bravissimo, concordo.” (voce off ) “Ma che dici Jep? Non ti è piaciuto?” “Siiiiiiiii maaaaaa.... no! Alla fine fine fine no! Come dire? Non è un film su oggi, su Roma, su di noi, se non tangenzialmente. È su di noi perché ha gli stessi ‘nostri’ difetti come opera. Ma non come materia dell’opera: anche se, palesemente, ambisce a quello.” “È un ‘omaggio’ a Fellini, a Scola e a tanti, tanti altri, e ne risulta una specie di metafilm, fin troppo voluto nei suoi compiacimenti. 59 DISCUSSIONI È una pratica che non reggo più tanto.” “Anche se l’estetica lo fa apparire altro, è sostanzialmente un film meravigliosamente retrò nel suo essere elegantemente postmoderno - ma ancor più sostanzialmente tardoromantico fino al decadentismo partecipe - pur ambendo, con impeto ammirevole, all’aura del capolavoro d’altri tempi: intendendo aura in senso stretto, alla Benjamin (pronunciato all’inglese, è Jep che parla)... all’ apparenza, La grande bellezza lancia un ponte tra Roma... o - se vogliamo - La Città delle donne di Fellini e la Commedia all’Italiana con la stessa imprevedibile, affascinante e spiazzante intuizione con cui Tarantino - in Django Unchained - ha saputo trasformare il mito di Sigfrido di Wagner in uno spaghetti western del XXI secolo. Anche se i ragazzini che lo vedono, manco sanno chi è Sigfrido e se sono di Milano pensano a Wagner come una fermata del metrò e basta”. Maledettamente sornione, vagolante ma all’apparenza sicuro e soprattutto assai autoindulgente - Jep Gambardella in persona ci dice queste cose, languido sul divano del suo salotto, geniale critico capace di autocompiacersi soprattutto nell’ autostroncarsi. “La grande bellezza. Un film autoindulgente come il suo protagonista: a mio avviso doppiamente autoindulgente. Ma proprio per questo, paradossalmente, il bersaglio grosso lo centra, centra la malattia più diffusa nel nostro paese: noi ci dilaniamo, ma al tempo stesso siamo indulgenti con noi stessi, con la nostra incapacità di fare e la nostra abilità di parlarne, anche spietatamente: è lo scrittore che non scrive più, è Jep il cortocircuito del film. Cioè, modestamente, io stesso e nessun altro.” “... Jep Gambardella, il sottoscritto, che qui, accettando di parlarvi del film come mai aveva voluto fare prima d’ora, postmodernamente, parodizzandosi nell’ auto-dilaniarsi, si auto-cita come in un specchio in loop all’infinito - giù, sempre più giù a spirale, fino a sfiorare l’ auto-epigonalalità assoluta del Gizmo, ah ah ah!“ (?.... boh! A volte Jep spara a casaccio, tanto conta il suono, nessuno obietta, al giorno d’oggi.) “Palesa il nostro (Sorrentino intendo) in questo film - tanto per citare e scusate la noia - il must d’ogni salotto ovvero Harold Bloom - la sua angoscia dell’influenza. Ahimè però quella ‘in tono minore’, quella di chi possiede un certa dose di consapevolezza e molta deferenza, addirittura venerazione, una venerazione quasi patologica, per l’universo immaginativo dei grandi artisti del passato che lo hanno preceduto, ma non sa prodursi nel supremo slancio del superamento, nel creare l’altro radicalmente nuovo, e nuovo al punto da cancellare i maestri, da vanificare il tentativo di discernere imprestiti o lezioni: perché tutto è qui, finalmente, in un modo... anzi, in un mondo totalmente nuovo, radicalmente 60 altro, mozzafiato.” “Gesù, ho perso il filo... Che stav’ a rice? Ah ecco:... incapace di altrettanta “grande bellezza”, per sentirsi all’altezza, l’epigono cita. Il genio, non cita, mai. Ruba ancora più spietatamente! Ma trasforma a tal punto che si potrà quasi dire, con grande efficacia d’immagine pur paradossale, che ci pare persino vero che è stato chi lo ha preceduto ad aver copiato lui, e non il contrario. Certo, paradossale, paradossale, un’ucronia, se mi è concesso, o più semplicemente un’iperbole. Ma rende l’idea, non vi pare? E se non vi pare, chissenefutte, come diceva mia zia, ah ah ah ah!” “Concludo. Se il passato non ti genera e invece sei tu ad illuminarlo, ti fai beffe del passato e sei tu a riaprire il canone, aggiungendo anche una sola opera, ma che supera tutte le precedenti. Ma pruvamme a cambià o titolo e... che so’... Il naufragio della bellezza... e non faccio il verso a caso al quadro di David - lo vorrei avere io, lo metterei, eh eh, in camera da letto, ma non mi equivocate ih ih ih ih... - che stavo... ah, sì, il naufragio della bellezza: così torna tutto e si capisce che non è un film da capire e non basta neppure definirlo un film in cui naufragare, come pur genialmente ha fatto il collega carissimo, l’amico Gianni Canova. No, non basta la sua descrizione pur efficacissima del naufragar m’è dolce in questo mare. Va spiegato il perché è dolce naufragarci.” “Ve lo dice Jep il perché è dolce ‘sto cazz’e film: è il film della dolce consapevolezza, solo di poco nascosta, sviata. Sviata eppur pulsante consapevolezza dell’ irrimediabile nostra colpa, dolce certezza che il disastro è già accaduto, che la vita è andata e non c’è grandezza se non nell’estetica del naufragio... ‘Qui troviamo un’immagine tragica bloccata nell’attimo che segue il disastro’. Tutt’al contrario della brulicante disperazione della contorsione dei corpi, ancora carica di speranza, de La Zattera di Medusa di Gericault. Nella morsa dei ghiacci spezzati di David ‘Non c’è disperazione, né sorpresa, né rancore contro il destino che si presenta a reclamare, con un evento violento, l’ineluttabilità delle cose. È calma del sapere che ormai non c’è niente da fare e che le cose non sarebbero potute andare che così’ (Ué, nun’ é robba mia, cito, l’ho letto inte nu blog su David, e me pare bbuone assaje)”. Mo’ concludo davvero. In una parola è il film del “simme futtute” ma anche del “quanto ci piace colliquare-collimare assieme” nella nostra Roma-tomba d’eros e thanatos, il Todestribe: detto così, saltando, noi ormai ex-altrilibertini, la cavallina, tra Freud e la Valduga. così colliquare-collimare e non avere alcun futuro finché non sia arrivato il tempo di te il tempo della fine di me in me nuovo novità essere altrove in un luogo bizantino anzi barocco recuperare il barocco vivendo in barocco essere limen accettare tutto la mancanza l’impossibilità Mo’ ve siete beccate David, cripticamente Tondelli, e Freud, e la Valduga e pure Bloom, n’ata vota! “ “Bloom, Bloom, yes, rivisitato da Jep Gambardella, cari miei. Bisogna, bisogna tirar fuori il vecchio Harold Bloom per capire Sorrentino: non ha creato il capolavoro ma un’opera assai epigonale, pur con tocchi qua e là di genialità indiscussa! Ma perché ci piace? Perché ci ammala? L’ironia, la critica sociale, nel film, è solo apparenza. È l’inconfessata adesione il segreto del film (infatti fallisce nei personaggi dove non c’è possibile adesione, come nel cardinale, inefficace, inefficace, pura macchietta, nessuna grandezza, come nella suora e nel suo devoto: essi sono nella magia d un altrove solo apparentemente messo alla berlina, ma non divaghiamo). Sono io stesso, Jep, il cortocircuito. Spiego meglio: è Il film del nostro permanente, già accaduto, naufragio - l’istantanea in motion picture d’uno sturm un drang ormai naufragato, di un’ epoca italica post resistenziale, post sessantottina e poi post-comunista - che, credendo d’essere post-moderna fu immaturamente, permanentemente, infantilmente, tardo-romantica senza saperlo... auroralmente in perenne tramonto, bell’ossimoro, eh? Siamo dei tardo-romanticoni: o dei tardoni romantici ah ah ah! Anzi, ancora meglio, senza scherzi: il film della ‘bellezza del naufragio’, il naufragio di una vita e quello d’un epoca, contemplato in un’ estasi di autoindulgenza. Mandando affanculo ‘sta cazz’ e ‘angoscia dell’influenza’... se non quella noiosissima dell’infreddatura stagionale... ah ah ah ah! Scusate, è più forte di me, ucciderei mia madre per una battuta.” “Anche se, permettetemi il compiacimento finale: ma chi cazz’è ‘stu Bloom c’aimme tutt’e cità. Ci stava già tutto quanto in Nietzsche. E, se vulimme volà basse, pure in Croce. E pur’io, nel mio indimenticato L’Apparato umano, se vogliamo, modestamente... pur’io... pur’io... E se permettete, ‘modestamente’ un beneamato cazzo. So’ nu’ genie io! Ah ah ah!” FOCUS IL CASO ARGENTINA Superficie 2.780.403 km2 Popolazione totale 40.412.376 ab. Capitale BUENOS AIRES Densità 15 ab./km2 Forma di Governo REPUBBLICA PRESIDENZIALE FEDERALE Valuta PESO ARGENTINO Presidente CRISTINA ELIZABETH FERNANDEZ de KIRCHNER Lingua ufficiale SPAGNOLO 61 FOCUS // Dove il cinema sta meglio Tanto cinema per poco pubblico diRoberta Ronconi Il cinema argentino vive all’interno di una dicotomia. Ad una fortissima produzione nazionale - per numeri e qualità - corrisponde una bassissima percentuale di pubblico. Dovuta alla presenza di poche sale, alla troppa concorrenza nordamericana, al vecchio pregiudizio degli spettatori per i titoli di casa. E a una politica di finanziamenti statali a pioggia che in molti osservatori chiedono di rivedere. Q uando Mondo Grua portò le sue immagini sgranate in bianco e nero alla Settimana della critica di Venezia (vincendone l'edizione '99) in molti sentirono che lì batteva un cuore nuovo. Era l'opera prima di Pablo Trapero, da subito diventato uno dei nomi simbolo del nuovo cinema argentino. Quel tango antico sulla metropoli sventrata di Buenos Aires, vista dall'alto della gru di Rulo - un cinquantenne ex rockettaro, ora in cerca di lavoro per sfamare sé, suo figlio e la madre - diceva tutto di un paese che stava per essere "ricostruito" secondo le leggi del neoliberismo sostenuto dal presidente Menem, e che lasciava ai margini cultura originaria e umanità di un intero popolo. Il cinema contemporaneo argentino è ancora oggi sospinto da quell'onda di forza e novità nata in quella metà degli Anni '90. Fino ad allora, nonostante 62 la fine della dittatura militare (197683), poco era successo nel cinema, a parte le eccezioni di Fernando Solanas (El exilio de Gardel, 1985, Sur, 1998) e Luis Puenzo (La Historia oficial, Oscar miglior film straniero 1984) sostenuti entrambi dalle coproduzioni internazionali. Il cinema per il mercato interno era da mezzo secolo dominato da pellicole “costumbriste” ed “escapiste” (di maniera, di svago) che servivano a intrattenere gli argentini, prive di qualsiasi sollecitazione politica o sociale. La fine della dittatura aveva dato nuove speranze al paese, non supportate però da nuove politiche economiche. Al contrario, il decennio del modernismo di Menem (1989-99) ha rappresentato economicamente un’assoluta continuità con il decennio precedente e anzi ha completato brutalmente la cessione nelle mani del modello nordamericano: l'Argentina viene messa letteralmente in vendita, i ministeri finiscono nelle mani delle multina- FOCUS // Dove il cinema sta meglio zionali e persino lo Stato si trasforma in un'impresa, riluttante - di conseguenza - ad investire i propri soldi in sanità, istruzione e cultura pubbliche. Per il cinema argentino è però alle porte una svolta, inaspettata quanto radicale. È il 1994 quando una riforma del sistema audiovisivo nazionale (la legge 24.377, ancora vigente) trasforma l’ex Istituto Nacional del Cinema (INC) in Instituto Nacional de Cine y Artes Audiovisuales (INCAA) che decreta l’aumento del 300% delle fonti di introito dell’Istituto (aumento delle percentuali su biglietti, video-cassette e pubblicità televisiva) e decide di investire grandi somme nella promozione del cinema nazionale, sia quello degli autori già affermati, che delle nuove generazioni. È grazie all’INCAA se nel 1996 arriva nelle sale del paese una strana collettanea di corti firmati da sconosciuti. Historias Breves porta per la prima volta sugli schermi i nomi di Adrian Caetano, Bruno Stagnaro, Sandra Gugliotta, Jorge Gaggero, Tristan Gicovate, Pablo Ramos, Daniel Burman, Lucrecia Martel, Ulises Rosell e Andrés Tambornino. Tra loro questi giovani autori sembrano non avere molto in comune, se non la scelta di una rottura netta con il passato cinematografico tutto, sia quello “costumbrista”, sia quello dei padri nobili, degli “auteurs” come Solanas, Subiela, Aristarain, Gallettini che si ritrovano improvvisamente accomunati sotto la comune definizione di “dinosauri”, registi che ormai “si sono allontanati dalla strada, dal quotidiano”, dirà di loro Lucrecia Martel. È lì invece, nell'anonimato delle periferie di Buenos Aires, che nascono i nuovi personaggi e le nuove storie. Piccoli eventi, apparentemente insignificanti, realizzati con mezzi poveri (quasi tutto in 16mm e in bianco e nero) e con attori sconosciuti. La lingua è quella della strada, gli eventi quelli della strada. Historias Breves avrà in sala un successo non eclatante, ma significativo, che si rafforzerà e consoliderà con l'arrivo del lungometraggio-manifesto del Nuovo Cinema Argentino Pizza, birra, faso di Bruno Stagnaro e Adrian Caetano (1997), storia di un gruppo di ragazzotti anonimi, figli della marginalità, che decidono di forzare il lucchetto di ingresso dell'Obelisco (la torre-simbolo della nuova Buenos Aires) per andare a godersi la vista della città dell'alto. Una presa della Bastiglia, una dichiarazione di intenti, la rivendicazione di una nuova centralità dello sguardo. Dopo decenni di manierismi e falsità, nel cinema argentino la realtà si riprende il suo spazio e da allora non si dimostrerà più disposto a cederlo. In quella metà dei Novanta si gettano le basi dell'oggi. Si formano i nuovi registi, i nuovi produttori, i nuovi critici, le nuove scuole e persino i nuovi festival. Oltre alla riapertura del Festival di Mar del Plata (1996) sotto la gestione dell'INCAA, nel 2000 nasce anche il Bafici (Festival del cinema indipendente di Buenos Aires). In un decennio, l'Argentina si posiziona in testa ai paesi latino-americani (affiancata da Brasile e Messico) per produzioni annue e visibilità internazionale. I due Oscar per La historia oficial (1985) e El secreto de sus ojos (2009) sono lì a dimostrarlo. Forte di un sostegno statale che ha pochi pari nel mondo, il cinema argentino nel 2012 ha raggiunto il record di titoli nazionali giunti in sala: 145 pellicole, di cui 90 di nuova produzione (le altre sono rimasterizzazioni o ritorni in sala), ben il 42% dei titoli complessivi (339), percentuale che difficilmente trova eguali nei mercati occidentali. Anche lo sbigliettamento 2012 è più che lusinghiero: 46.811.755 gli ingressi registrati, per una popolazione di circa 42 milioni di abitanti. L’INCAA ha - per legge e volontà governativa - la supervisione, la gestione della promozione e del sovvenzionamento del prodotto cinematografico nazionale. È fortissimo il suo legame con il governo della “presidenta" Cristina Fernandez de Kirchner (la cui figlia, tra l'altro, studia cinema) che da sempre è promotrice di una forte politica di sostegno alla cultura nazionale, a discapito dell'invasione di contenuti nordamericani e delle multinazionali. Ne è recentissimo esempio (dicembre 2012) la battaglia parlamentare per l’approvazione della Ley de Servicios de Comunicacion Audiovisual, intrapresa dal governo Kirchner contro il principale gruppo monopolistico editoriale del paese, il Clarin, un vero potentato della comunicazione, capace di enorme influenza (con tv e giornali), trasformatosi nel primo polo 63 FOCUS // Dove il cinema sta meglio di opposizione al governo di centro-sinistra della presidenta. Una legge necessaria per sostituire vecchie norme risalenti alla dittatura e garantire spazi pubblici e plurali nei media, che ha trovato strenua opposizione anche da parte di un gruppo di giudici legati al Clarin, che sono riusciti a rimandarne l’attuazione. Ma qui finiscono i dati positivi. Al record di produzione nazionale fa infatti da contraltare la bassissima percentuale di pubblico dei titoli nazionali. Un deficit dovuto in buona parte alla combinazione di mancanza di sale, quantità di blockbuster e titoli stranieri di grande richiamo, la endemica diffidenza del pubblico argentino verso i film di casa propria (storica rimane la battura di Darin ne El secreto de sus ojos: “Argentino no veo”). Nel 2012 sono stati infatti circa 6 i nuovi titoli per settimana, un ricambio continuo che non permette al “passaparola” di prendere piede. Il film di maggiore successo dell’anno, la commedia di Diego Kaplan Dos mas dos ha avuto meno di un milione di spettatori, seguito da Elefante Blanco di Pablo Trapero e Atraco! di Eduardo Cortés: in totale 1 milione e 500mila spettatori! I loro risultati sommati rappresentano il 54% del pubblico argentino che ha optato nell’anno per una visione nazionale. Le restanti 87 nuove produzioni raggiungono con fatica qualche decina di migliaia di ingressi, la maggior parte attestandosi sotto i 5000. Gli schermi nel paese sono in totale 829 - aumentati di 37 unità rispetto al 2011 - raggruppati in 269 sale, appartenenti a circa 183 imprese. Ma oltre il 50% di queste appartiene a tre compagnie straniere: Hoyts, Cinemark e Village (circa il 63% di pubblico), mentre il primo esercente nazionale lo troviamo al 5° posto, la Riocin S.A. (con il 2,14% di pubblico). Quattro distributori raccolgono il 75% degli spettatori: al primo posto la United International Pictures, seguita dalla Walt Disney Argentina, dalla Fox Film e dalla Warner Bros., a cui è in mano anche la distribuzione delle principali pellicole nazionali che devono rispondere quindi alle politiche di tenuta delle multinazionali straniere. Questa la grande contraddizione che vive il cinema argentino in questo momento. La politica di finanziamento statale dell’INCAA (nel 2012 sono stati elargiti circa 41 milioni di pesos – 8 milioni di dollari – per 41 progetti di varia natura) che prevede sostegni a pioggia a qualunque progetto abbia una minima presenza in sala (da cui produttori che producono un solo film) sta da una parte consentendo a molti di sperimentare, ma allo stesso tempo disperde risorse e promozioni in mille rivoli, non tutti meritevoli. Per questo in molti osservatori del settore chiedono una revisione della legge di erogazione dei fondi, nella speranza che un finanziamento mirato permetta a più di 3-4 pellicole per anno di raggiungere un maggiore pubblico e maggiori entrate. Rimane comunque il dato positivo di un’ incredibile quantità di nuovi prodotti. Per questo l'onda del Nuovo Cinema Argentino non si arresta e anzi continua a "figliare". Tra i titoli degli ultimi tre anni, da menzionare almeno il bellissimo El estudiante opera prima di Santiago Mitre (vincitore del Bafici 2011), Un cuento chino di Sebastian Borensztein che ha avuto un notevole riscontro internazionale e La mujer sin cabeza di Lucrecia Martel. “Il cinema argentino in questo momento vive un fenomeno estremamente interessante. – ci dice Cecilia Barrionuevo, critica cinematografica e selezionatrice del Festival Mar del Plata - Non troviamo un movimento unico, ma molte nuove tendenze disomogenee tra loro. Si stanno inoltre creando gruppi di lavoro, registi che cooperano dando vita a un cinema nuovo ed estremamente vitale, come il trio di Santiago Loza, Ivàn Fund e Eduardo Crespo o l'altro formato da Mariano Llinas, Santiago Mitre e Alejandro Fadel. Da nominare, infine, l’apparizione dello strano “ufo” della filmografia, José Celestino Campusano con la sua casa di produzione Cine Bruto, e i nomi dell’ultimissima generazione di cineasti, tra cui Gastòn Solnicki, Gonzalo Castro, Matias Pineiro. Nota: Per i dati e le informazioni si ringraziano la segreteria dell’INCAA, i critici argentini Diego Lerer, Cecilia Barrionuevo e il critico dell’Ansa per il cinema latinoamericano Ernesto Peres. Tra le pubblicazioni consultate: Il cinema argentino contemporaneo e l’opera di Leonardo Favio, pubblicato nel 2006 dalla Mostra del cinema di Pesaro. 64 FOCUS // Dove il cinema sta meglio Buenos Aires: quanti registi per metro quadro! diRo. Ro. L a metà degli Anni '90 in Argentina vede l’esplodere delle scuole di cinema. Se fino ad allora lavorare nella settima arte per il popolo argentino rappresentava un' attività per pochi creativi, con l’incremento dei fondi statali e dell’attenzione internazionale, si trasforma per giovani e famiglie in un vero e proprio sbocco lavorativo. Accanto alla prestigiosa ENERC (Escuela Nacional de Experimentacion y Realizacion Cinematografica, ramo didattico dell’INCAA, 350 studenti, di cui il 5% provenienti dal resto dell’America Latina), scuola triennale gratuita con fortissima selezione iniziale, spuntano nuove accademie e indirizzi universitari. Appaiono così La Fundacion Universidad del Cine (FUC), il Centro de Investigacion Cinematografica (CIC), il Centro del Investigacion y Experimentacion en Video y Cine (CIEVYC), mentre le facoltà di Architettura, Filosofia e Lettere dell'università di Buenos Aires (UBA) creano i loro dipartimenti di cinema, che vanno così ad unirsi alle vecchie scuole di Santa Fé e alla Universidad de la Plata. Lo stesso fanno le Facoltà di Architettura e lo IUNA (Instituto Universitario Nacional de Arte) che aprono corsi di Educazione all’Immagine e al Suono. Oggi parliamo in tutta l’Argentina di 11 tra istituti e scuole, che accolgono oltre 12mila studenti. Un numero abnorme, se si pensa che in tutto il mondo gli studenti di cinema sono circa 80mila. Una cifra tanto elevata da far dire al regista e sceneggiatore Carlos Sorin che “…l’unica industria prospera in Argentina è quella del cinema. Credo che Buenos Aires sia la città al mondo con la più alta concentrazione di registi per metro quadro”. Dietro la macchina da presa nella capitale Argentina: breve storia della formazione nelle scuole di cinema negli ultimi 20 anni. 65 FOCUS // Dove il cinema sta meglio Una tangenziale a più corsie diDiego Lerer Filo diretto da Buenos Aires. Il punto di vista critico. N egli ultimi venti anni il cinema argentino ha vissuto un rinnovamento estetico e generazionale che ha rappresentato un vero punto di non ritorno. Dall’inizio dei Novanta, la nostra industria cinematografica è passata da una produzione di circa 15 pellicole l’anno alle attuali 140, la presenza nei festival internazionali, prima minima, ora è evidente e generalizzata, mentre le scuole di cinema vedono ogni anno migliaia di nuovi studenti. Ma se si chiede in giro agli specialisti del settore, il giudizio è unanime: il cinema argentino è in crisi. Come è possibile, con questi dati? Per chi guarda all'industria, la crisi è data dal semplice fatto che pochissime pellicole nazionali hanno una buona riuscita in sala. Ogni anno, solo uno o due titoli figurano nella top ten. A parte El secreto de sus hojos, che nel 2009 ha raggiunto livelli di pubblico da titolo hollywoodiano con oltre 3 milioni di spettatori, normalmente è difficilissimo per un film argentino raggiungere quota 1 milione di ingressi. Alcuni titoli contano numeri che si aggirano tra le 50 e le 100mila presenze, ma il 90% della produzione nazionale ha un pubblico assai più ridotto. Per coloro che guardano non all’industria, ma alla qualità delle pellicole in sé, la sensazione è che la presenza nei festival internazionali negli ultimissimi anni sia andata diminuendo. Nel 2008, per esempio, solo a Cannes figuravano due titoli in concorso (La mujer sin cabeza di Lucrecia Martel e Leonera di Pablo Trapero) e vari altri erano presenti nelle sezioni collaterali. Negli ultimi tre-quattro anni, i titoli in concorso sono diminuiti e si fa fatica a trovare film argentini anche nelle altre sezioni. 66 FOCUS // Dove il cinema sta meglio La crisi, per noi che guardiamo al cinema argentino da molto vicino, è dunque chiara. Ma allo stesso tempo bisogna riconoscere che è una crisi dettata da uno sguardo superficiale, condizionato da indicazioni che si basano solo sui dati classici del numero di spettatori e di presenza nei festival. Forse, la domanda che varrebbe la pena farsi è un'altra, ovvero: quanto è buono il cinema argentino in questo momento? A questa semplice domanda ci sono diverse risposte. Il cinema argentino dei Novanta e del primo decennio del Duemila era nuovo, originale, vedeva in campo giovani cineasti caratterizzati da una certa omogeneità estetica, tanto da permetterci di definirlo come Nuovo Cinema Argentino. Titoli come Mondo Grua e il Bonaerense di Trapero, La Cienaga e La mujer sin cabeza di Martel, La libertad e Los muertos di Lisandro Alonso, Bolivia di Adrian Caetano, Silvia Prieto di Martin Reytman hanno reso possibile un fenomeno compatto e un suo riconoscimento cinefilo. Un'ondata di novità riconoscibile che ha continuato a crescere per diverso tempo fino ad ampliarsi al punto da perdere di definizione. I successivi giovani cineasti non hanno ricevuto lo stesso favore né da parte della critica né dai festival internazionali, anche perché le mode degli osservatori cambiano e in un attimo l'attenzione può passare dall’Argentina a nuovi fenomeni regionali, magari in Messico o in Cile. Di fatto, in questi ultimi anni in Argentina si è continuato a fare buon cinema, ma in modo talmente differenziato da non permettere alcuna etichettatura unidirezionale. Del resto, come trovare un’unica definizione per un titolo multinarrativo come Historias Extraordinarias di Mariano Llinas e l’asciutto e minimalista Los Salvajes di Alejandro Fadel? Cosa hanno in comune il thriller classico El estudiante di Santiago Mitre, il documentario Papirosen di Gaston Solnicki e l’adattamento shakespeariano di Matias Pineiro con Viola? Poco, quasi nulla. Ma tale varietà andrebbe valutata come un merito, piuttosto che come un problema. La crisi comunque esiste e si può constatare quotidianamente. Una produzione di 140 pellicole l'anno, con oltre 100 che non saranno particolarmente buone e di scarso successo: un numero non indifferente di pellicole “da festival”, sovvenzionate da comitati e fondi internazionali che cercano di dettare i canoni “giusti” per far trionfare all’estero una “pellicola latinoamericana”; una tendenza a un cinema “facile”, che non va oltre il prodotto professionale, incapace però di svolgere la funzione base, ovvero portare in sala gli spettatori. In conclusione: se la democratizzazione tecnologica e i sovvenzionamenti statali sono serviti a qualcosa, è perché oggi il cinema argentino possa esistere non solo per essere in opposizione al vecchio cinema o per formare un nuovo movimento, ma anche per disperdersi in decine di corsie diverse e magari opposte. È vero: oggi nessuno sa esattamente cosa sia il cinema argentino di questi anni. Ma non è detto che questa sia una cattiva notizia. 67 68 GEOGRAFIE Archeologia industriale e natura selvaggia. Breve viaggio nell’Alto Adige che non conosce crisi diCristiana Paternò 68 GEOGRAFIE A rcheologia industriale e natura sublime in Alto Adige, tra Val Venosta e Val Martello e fino a Bolzano. Le rovine di un albergo di lusso, l’Hotel Paradiso, progettato nel 1933 dal celebre architetto Giò Ponti, occupato dall’esercito tedesco nel ‘43, abbandonato dagli Anni ’50 e inagibile, nonostante vari progetti di ristrutturazione. Un luogo magico e inquietante, degno dell’Overlook Hotel di Shining, oggi inaccessibile ma pur sempre maestoso. Potrebbe diventare un set se qualcuno dei produttori italiani, tedeschi e austriaci che hanno partecipato al location tour PLACES #2 all’inizio di ottobre se ne innamoreranno. È il secondo anno consecutivo che la BL S, Film Fund & Commission organizza questo interessante appuntamento con la geografia del territorio (l’anno scorso la visita era dedicata ai castelli). Un’iniziativa finalizzata a far conoscere a produttori, registi, location scout, organizzatori generali la varietà e singolarità degli scenari della regione con la guida di esperti come Wittfrieda Mitterer, docente di Architettura presso l’Università di Innsbruck ed esperta di monumenti risalenti all’epoca austriaca e al fascismo. Architettura razionale e scorci pittoreschi, resi ancor più estremi dalla straordinaria nevicata che per un giorno ha interrotto le comunicazioni tra la Val Venosta, campo base del tour, e il resto del mondo facendo saltare elettricità e internet. Quasi a voler riportare i viaggiatori indietro nel tempo, agli inizi del secolo scorso. Quando la valle più occidentale dell’Alto Adige era famosa presso i “nordici” per il clima stabile e temperato e veniva visitata, come ancora oggi, per la presenza della vetta più elevata del Sud Tirolo, nel gruppo dell’Ortles. Selvaggi scenari alpini dove ancora si vive in un maso collegato alla vallata solo da una teleferica, una vecchia officina ferroviaria nel centro storico di Bolzano, una diga mozzafiato e un lago artificiale in Val Martello, un’antica centrale idroelettrica, quella di Tel, nei pressi di Merano, ancora pienamente funzionante ma con la possibilità di fermare gli impianti per agevolare la presenza di una troupe, un rifugio antiaereo a Bolzano, reperto della seconda guerra mondiale che ha scosso con violenza un territorio “geneticamente” di confine. BLS Film Fund & Commission ha messo a disposizione un fondo di 5 milioni di euro per il 2013 garantendo un finanziamento alla produzione per un massimo di 1,5 milioni di euro a progetto. Ma vi sono anche finanziamenti alla pre-produzione e allo sviluppo delle sceneggiature per un massimo di 50.000 euro a progetto. Tra i film che hanno trovato casa qui anche Il principe abusivo di Alessandro Siani (prodotto da Cattleya), scelta non banale per un napoletano. Per la responsabile Christiana Wertz: “L’Alto Adige non è la location più scontata per il cinema e l’audiovisivo, tuttavia lo spirito imprenditoriale forte e creativo, la solidità economica e il coraggio di cambiare della politica parlano a nostro favore e il bilancio del 2012, il primo anno effettivamente operativo, è positivo con 500 giornate di riprese e un effetto territoriale del 163%”. Del resto la regione, in una fase di crisi come quella attuale, praticamente non conosce disoccupazione. 69 GEOGRAFIE Tra le più affascinanti location visitate nel corso di PLACES #2 il leggendario Hotel Paradiso, la centrale idroelettrica di Tel, una vecchia officina ferroviaria nel centro di Bolzano, una diga mozzafiato e un lago artificiale in Val Martello. 70 PREMIO DOMENICO MECCOLI “ScriverediCinema” 2013 a 8½ MOTIVAZIONE PREMIAZIONE A 8½ è stato quest’anno conferito il premio Domenico Meccoli “ScriverediCinema”, consegnato ad Assisi durante la XXXII edizione della storica rassegna Primo Piano sull’Autore. La giuria, composta da 60 tra giornalisti e critici ha così motivato la scelta: “Per la particolare angolazione con cui questa nuova rivista di cinema riesce a catturare l’attenzione degli addetti ai lavori e del pubblico, focalizzandola non soltanto sulle immagini tradizionali, ma principalmente sulla lettura dei numeri, che sono alla base dell’industria cinematografica.” Domenico Meccoli, assisano di nascita, è stato un importante giornalista e critico cinematografico, inviato di “Epoca a Parigi”, direttore della Mostra di Venezia, fondatore del Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici in Italia, sceneggiatore, membro della giuria a Cannes e Berlino. 90° 90° 90° INTERNET E NUOVI CONSUMI Il divo della porta accanto diCarmen Diotaiuti 72 INTERNET E NUOVI CONSUMI S empre più attori e celebrities raccontano su Instagram, il popolare social network di condivisione foto, gli aspetti più intimi della loro vera o presunta quotidianità. Autoscatti e immagini dalla vita di tutti i giorni, affidati al web con una breve descrizione. Per raccontare pubblicamente quelle emozioni private e quei momenti di vita personale che fanno percepire allo spettatore, per riconoscimento e identificazione, il divo come persona comune. Le foto sono commentabili e a loro volta condivisibili sui profili personali, secondo il principio della libera circolazione dei contenuti sulle reti sociali. Il pubblico sbircia nella vita dei suoi idoli ed entra a far parte della loro quotidianità. Può avvallarsi il diritto di commentare o criticare le sue scelte in un rapporto d’interazione che si fa paritario e ribalta l’immaginario della star: non più divinità asettica e distante, ma soggetto vicino, che diventa significativo proprio per il suo essere ordinario, quotidiano, irrilevante. È nell’avvicinamento e nell’annullamento della distanza che può trapelare per lo spettatore la natura privata, altrimenti sfuggente, dell’attore. Tra le star italiane più attive, Asia Argento conta quasi 33mila seguaci e ben 1600 immagini pubblicate: autoscatti, foto di famiglia, retroscena dal set del suo ultimo film, Incompresa. Immagini per lo più provocatorie, condite da commenti irriverenti, per un profilo che racconta tanto della vita privata, ma che è anche in linea con l’immagine pubblica che la rappresenta. La narrazione costante del sé permette di superare la distanza col personaggio e diventa per l’attrice possibilità di espressione della natura più autentica, testimone dell’identità e della sua storia personale. Ma, per non stravolgere il ruolo pubblico costruito sul suo personaggio, deve rimanere inevitabilmente coerente all’identità sociale e a ciò che lo spettatore si aspetta da lei. Preferiscono, invece, promuovere e salvaguardare principalmente la loro immagine sociale Luca Argentero e Fabio Volo, entrambi con un elevato numero di fan su Instagram a cui scelgono però di non rivelare così tanto del loro privato. All’autoscatto preferiscono la formula meno intima del reportage dai luoghi visitati, paesaggi urbani in cui raramente compaiono, lasciando intuire solo una certa personale passione per i viaggi e per la fotografia naturalistica. test lanciato in occasione della 32a edizione delle Giornate del Cinema Muto di Pordenone, per la creazione di video ispirati a scene da film muto, pubblicati sul web utilizzando l’hashtag #silentfilmscenes32. Ma non sono solo gli attori ad affidare al web le istantanee della quotidianità privata. A tre anni dalla nascita, Instagram conta 150 milioni di utenti attivi. Reporter provetti che invadono il web con ogni sorta di immagini, spesso prive di alcuna suggestione, che non rispettano i principi della composizione fotografica e finiscono col ritrarre compulsivamente momenti di vita del tutto irrilevanti. E se per la star la pubblica condivisione può essere un gesto di distruzione e oltrepassamento del mito collettivo costruito sulla propria immagine sociale, per il soggetto comune diventa bisogno ossessivo di testimoniare ogni momento della storia personale, che diventa apprezzabile e dotata di senso solo se affidata alla collettività. Un flusso ininterrotto e schizofrenico di fotografie, un’epidemia delle immagini che richiama quella peste del linguaggio già descritta, trent’anni fa, da Italo Calvino nelle sue Lezioni americane: “Viviamo sotto una pioggia ininterrotta di immagini; i più potenti media non fanno che trasformare il mondo in immagini e moltiplicarlo attraverso una fantasmagoria di giochi di specchi: immagini che sono gran parte prive della necessità interna che dovrebbe caratterizzare ogni immagine, come forma e significato, come forza d’imporsi all’attenzione, come ricchezza di significati possibili. Gran parte di questa nuvola d’immagini si dissolve immediatamente come i sogni che non lasciano traccia nella memoria”. Instagram e gli attori: lo scatto social-casalingo che rende il personaggio celebre a portata di click. Asia Argento “si spoglia” anche sul network fotografico; Argentero e Volo, invece, lasciano solo tracce del loro passaggio. Dallo scorso giugno Instagram ha introdotto la possibilità di pubblicare video della durata massima di quindici secondi e questa ulteriore opportunità espressiva lo ha reso interessante anche per l’industria cinematografica. Dopo appena un mese, infatti, è apparso il primo profilo dedicato a un film, @ jobsthefilm, la pellicola con Ashton Kutcher nei panni di Steve Jobs, dove è stato anche pubblicato il primo trailer creato appositamente per Instagram. La possibilità, inoltre, di catalogare e ricercare contenuti tramite marcatori semantici permette di utilizzare il social network anche per la creazione di concorsi ed eventi. Come il video con- 73 PUN TI DI Se l'Italia preferisce il prosciutto al cinema diDaniele Luchetti 74 VISTA Il regista di Anni felici ha fatto parte della delegazione di cineasti europei inviati a Strasburgo per difendere l’eccezione culturale. Ora ci regala il suo diario ironico di quella spedizione. PUNTI DI VISTA D urante la settimana cerco di distrarmi dal lavoro, e quindi consulto sempre Facebook. Scrivo numerosi messaggi satirici verso il M5S ma li cancello tutti. Capisco che ho solo voglia di sfogarmi con qualcuno, ma con loro è troppo facile. Quindi accetto la peggiore rogna che mi sia capitata quest’anno: occuparmi per conto dei 100autori di andare in una delegazione di colleghi a Strasburgo per fare una cosa che non so fare, difendere l’eccezione culturale, che però so abbastanza bene cos’è. Quindi facendo finta di capire cosa c’è a Strasburgo, accetto (consulto Wikipedia per sicurezza), e quindi prendo un aereo, un treno, un taxi e arrivo al Parlamento Europeo che infatti si trova lì come Wikipedia aveva promesso. La differenza con il Parlamento Italiano è che i commessi, quando ti accolgono, sono gentili, non hanno la puzza sotto il naso,e quando dici che vai da qualcuno ti credono, e non ti chiedono manco i documenti. Siccome andavo da Barroso (il boss: fonte Wikipedia) si sono fidati e mi hanno fatto entrare senza battere ciglio. Se uno dice che va dal capo dev’essere vero, anche se è italiano. Lì si fidano, ed è una sensazione molto strana che non avevo mai sperimentato prima. I corridoi sono di linoleum scollato, ma poi c’è un atrio enorme tutto a vetri, con piante che scendono dal soffitto e molte scolaresche che si fanno fotografare davanti alle bandiere. Mentre il nostro Parlamento sembra una cassa da morto decorata da Sartorio - parlo solo di apparenza - questo sembra una sede della Nestlè o un aeroporto da cui non si parte mai. Mi riunisco finalmente a una delegazione di colleghi molto più cazzuti di me, che vengono da nazioni particolarmente disastrate, o più cazzute della nostra, o anche semplicemente più convinti che la democrazia sia un bene da difendere anche a brutto muso. Quindi andiamo a parlare con questo Mr. Barroso che tutti conoscono ed infatti ci indicano l’ufficio. All’inizio stringe la mano a tutti, poi fa il cattivo, poi il buono. In sintesi la sua cultura politica sembra appartenere alla grande corrente: “io sono io, voi non siete un cazzo”. Però lo fa elogiandoci, dimostrando che ama molto il cinema, nominando molti film, ma tutti di registi morti. L’unico vivo che nomina è un suo connazionale di 105 anni che non rompe più le palle e infatti si vogliono molto bene, almeno così dice lui: De Oliveira non sappiamo se è d’accordo. Costa Gavras è il nostro capo supremo, per proiettare i suoi film al cineclub del liceo sono stato odiato dai compagni e schiaffeggiato dai fasci. Ma tutti lo adoriamo, e lui dice a Barroso cose tipo “a fijo de ‘na mignotta, ma davvero vuoi che la cultura sia in una trattativa commerciale? Sei pazzo?”. Però lo dice in maniera educata che non si capisce molto bene la parolaccia, solo la rabbia. Lui è greco, la democrazia l’ha inventata, e lo sa dire benissimo tanto che Barroso capisce e si incazza lo stesso. Le sue posizioni sono talmente lontane dalle nostre che dice sempre: lo vedete che sono d’accordo con voi? Noi diciamo: che cazzo dici - sempre con educazione estrema - e lui dice: sono contento che siamo d’accordo. Ad un certo punto si tradisce. Da una frase si capisce che tutto è perduto per noi, e che si sta attaccando da mezz’ora ad una frase ambigua che spera che non abbiamo capito. Gli chiediamo spiegazioni, e all’improvviso lui dice che il tempo è finito e che ha una delegazione di non so cosa (mi pare minatori, o trivellatori o birrai, non so). Siamo delusi ed incazzati. Radu Mihăileanu vorrebbe aggredirlo fisicamente, ma Barroso è circondato da segretarie vestite di ruvidi vestiti apparentemente Chanel, ma sicuramente di materiali corrosivi, e anelli con lame segrete. Christian Mungiu vorrebbe fargli vedere un film su alcune suore rumene per ipnotizzarlo, ma lui sguscia fuori dove c’è già un drappello di giornalisti a cui dichiara: sono fiero di aver rassicurato i registi europei, e infatti siamo della stessa idea. Io e loro siamo pappa e ciccia e infatti ho visto molti film in bianco e nero di registi morti e anche uno di cui ora non ricordo il titolo, però era bellissimo. Schiumiamo rabbia, anche perché nello stesso istante era già in rete una dichiarazione che diceva lo stesso. Veniamo quindi ricevuti da una de- 75 PUNTI DI VISTA legazione di deputati europei che aveva capitanato la grande maggioranza che si era schierata a favore dell’eccezione culturale. Sperano che gli si diano belle notizie, ma noi siamo intontiti come pugili suonati. Loro dicono: Barroso vuole fare un favore agli americani perché tra un anno gli finisce il mandato e vuole andare a fare il pensionato a Central Park, magari con un incarico all’ONU. Ripetiamo gli stessi interventi fatti poco prima a Barroso anche se ai suddetti deputati non gliene frega un granché perché effettivamente loro sono d’accordo con noi. Ma noi siamo una compagnia di giro, oramai, al secondo debutto, e non vogliamo che si dica che non facciamo bene il nostro lavoro. Bérénice Bejo dice che è scappata dall’Argentina a tre anni con i genitori, e che hanno trovato in Francia una patria della cultura e delle arti, e che è fiera eccetera. Io ripeto una battuta apparentemente arguta sullo squilibrio tra peso commerciale americano e fragilità del nostro audiovisivo e li faccio ridere perché sembra che abbia studiato e che abbia esemplificato con astuzia problemi complessi, ma in realtà li ho solo esemplificati avendoli studiati poco. Radu fa il compagno duro e puro e le donne lo ammirano, e così via. Mungiu sparisce e non lo troviamo più. Però è scomparsa anche la sua borsa e quindi speriamo che sia semplicemente partito e non sia cacciato nei guai. Poi veniamo catapultati in una conferenza stampa dove dobbiamo ripetere le stesse cose. Però ci siamo stancati, e quindi io dico di essere una esule argentina, Bérénice dice 76 le mie battute e così via, Costa Gavras resta fine e cazzuto, fino a scatenare gli applausi di una platea di giornalisti abituati a ben altre performance, e non ad un drappello di gente che nella vita sembra spassarsela, come pensano di noi sbagliando di grosso. Poi in treno tutti assieme, come dopo una partita che si è perduta. Tutti al telefono, a cercare di parlare con ministri, sottosegretari, presidenti di qualunque cosa, anche della squadra della parrocchia. Chiunque abbia un po’ di potere, purché ci appoggi e ci voglia ascoltare. A ministri e parroci arrivano le nostre telefonate esaltate, ogni tanto passo personaggi che probabilmente si stavano cucinando una minestrina a casa a Belvaux, che perora la nostra causa senza sapere con chi esattamente. Ma nessuno sa o capisce di cosa stiamo parlando. Questo sciagurato accordo potrebbe far chiudere Rai, Mediaset, Sky, impoverire stabilmente le risorse alla cultura di tutta Europa, e renderci semplicemente un mercato per il prodotto americano. Che tutti noi adoriamo, ma che riteniamo possa avere anche un concorrente innocuo come noi, che fa bene al pubblico europeo, che ci premia con il 40% degli incassi, ma anche agli americani, che così non si sentono troppo soli nella conquista del mondo. Solo in Italia l’audiovisivo fattura quasi 16 miliardi: il doppio del traffico aereo. E la campagna pubblicitaria della destra ci ha fatti apparire come dei morti di fame alla ricerca di sussidi pubblici, quando per ogni euro che lo Stato ci concede gliene tornano 4 in forma di tasse. E con questa legge che potrebbe venire, invece, si permetterebbe agli USA di farci ve- PUNTI DI VISTA dere tutto il cinema che si vuole via internet, pagando le tasse in Irlanda, e senza lasciare una lira qui. Insomma, mentre torno mi arriva un sms. La posizione ufficiale dell’Italia è: ci abbandona. In cambio del commercio di prosciutti e formaggi in USA ha deciso di chiudere con l’audiovisivo. Dice che siamo tutelati abbastanza dalle clausole di garanzia che sono nell’accordo. Io non vi tedio con questo dettaglio. MA sappiate che è come dire: facciamo la trattativa, la mia casa la metto dentro la trattativa ma non si tocca. Gli americani la trattativa la fanno ma quello che davvero ritengono intoccabile lo hanno lasciato fuori: il sistema bancario. E hanno detto che se si toglie l’audiovisivo salta tutto. Ma insomma, perché ci tengono tanto questi statunitensi a mettere l’audiovisivo in una trattativa di commercio estero se sanno che non si può toccare? (Mi rendo conto che dico cose che potreste non capire, sappiate solo che in questo momento ho saputo di aver perduto tutto: me lo dice l’sms). Non ho il coraggio di dirlo ai colleghi francesi, che nel frattempo invece stanno ricevendo il sostegno dal loro governo, che cambia posizione e decide di sostenere la nostra: ringraziando per la difesa della cultura della patria, viva la Francia, e viva la cultura europea! Festeggiano con sidro analcolico sul TGV mentre io fischietto guardando fuori dal finestrino perché so che l’Italia è l’ago della bilancia e potrebbe essere per noi che si affonda tutti, francesi compresi. Dormo in un albergo di Parigi dove arrivo a notte fonda. È un albergo automatico, senza portiere e senza istruzioni. Riesco ad arrivare in stanza ma non ad accendere la luce perché l’albergo è ecologico e per una ragione che mi sfugge prendo molte ginocchiate al buio. Parto all’alba e il giorno dopo ricomincia il mix, ma io non riesco a darmi pace. Telefono senza vergogna a chiunque, più su che posso, sarei disposto anche a parlare con qualche grillino se facesse parte di questo pianeta, e a sorpresa ottengo qualche udienza insperata estremamente prestigiosa. Entro in un palazzo minaccioso dove mi vengono chiesti molti documenti. Entro in uffici dove la scultura più allegra è quella di un milite cieco morente. Parlo con un LUI importante, simpatico, competente, empatico, intelligente, ma mi accorgo che anche a livelli molto alti non si sa con esattezza di cosa si stia parlando. Prego, imploro, divento spiritoso, faccio il morto, il cagnolino, racconto barzellette, mi metto la mano sul cuore, sciorino cifre, faccio ragionamenti impeccabili che mi sorprendo addirittura io stesso, ma mi viene detto: non posso promettervi nulla. Cazzo, ha ragione, il mio momento è finito: finisce il tempo della consultazione, comincia quello della politica, della decisione. Tocca a loro, adesso. Però ora so che hanno capito bene tutti i termini della questione. Ed anche io ho capito quali sono le forze in gioco. Per ogni me che entra in quegli uffici, c’è un Obama che manda a dire, che raccomanda, che bonariamente spera, si auspica. Ci spacca il culo, Obama, con questa storia, e noi siamo pure contenti. E lo sapete perché? Perché loro hanno il cinema. E se decidono di fare il culo a qualcuno noi stiamo sempre dalla parte loro, anche se il culo lo fanno a noi: perché noi stiamo sempre dalla parte dei film. Fateci caso: gli USA dal ‘45 non hanno mai dichiarato guerra a una nazione che producesse bei film. Perché chi produce film ha una faccia e un’anima: come si fa a bombardare? E invece se io che bombardo sono lo stesso di quel film bellissimi, in fondo di che ti lamenti? Torno a lavorare. Spedisco questo post senza sapere come hanno votato oggi. Incrocio le dita. Non tanto per me, ma per quelli che ancora non hanno cominciato a fare film: attori, scrittori, registi, tecnici. Che meritano di crescere in un’Europa che non ha svenduto il loro talento prima che nascesse. Domani leggerò sui giornali questa storia come se non mi riguardasse più. Ce l’ho messa tutta, e per due giorni ho fatto l’unico lavoro che mi sembra più bello di quello del regista: quello della democrazia. Buonanotte, non rileggo, perdonatemi se qualcosa non si capirà. 77 PUNTI DI VISTA Dalla sala buia alla ghiandola pineale 78 diGuido Barlozzetti PUNTI DI VISTA S ono nato in una sala buia e chiedermi se il cinema possa farne a meno è francamente una provocazione. Ma come tutte le provocazioni va presa sul serio, perché non possiamo far finta che la Terra continui a stare al centro dell’universo, quando intorno abbiamo scoperto pianeti, galassie e soli a non finire. Voglio dire che una volta al centro della metropoli c’era la sala buia e oggi, intorno ad essa, andiamo a ritrovarci con un esercito di maxischermi domestici da alimentare con uno shopping in rete, senza nemmeno passare più per quella cosa obsoleta e ancora orribilmente materiale del DVD, analogica nel corpo pur essendo digitale nello spirito. Dunque, la tecnologia sta chiudendo un cerchio. Cataloghi immensi da consultare nella cassettiera web, da ordinare e scaricare in tempo reale, per essere visti subito sulla parete a cristalli liquidi del salotto hi-tech. D’altronde, anche la televisione qualche trasformazione la sta subendo. Una volta ci sedevamo davanti al televisore, spettatori di un palinsesto che metteva in fila i programmi in verticale, nella giornata, e in orizzontale, nella settimana. Gli appuntamenti erano fissi e se perdevi un programma, addio. Poi, è cominciato un tragitto all’insegna di una partecipazione via via più intensa: il telecomando ha consentito di scegliere tra i programmi e di saltare da un canale all’altro, mentre i canali aumentavano in quantità e in qualità, fino a moltiplicarsi come i pani e i pesci con l’avvento del digitale. Così sono arrivate le reti tematiche in chiaro e poi quelle a pagamento, veri e propri bouquet dedicati, sempre più affollati, con annessi reggimenti di canali affiliati. E in più i pixel dell’alta definizione che stanno mandando in pensione il mistero della pellicola. Serviva un nuovo strumento per gestire tutta questa offerta. È arrivato anche quello, un super-telecomando capace di fare tutto, non solo selezionare i canali, ma anche interrompere la linearità della trasmissione e saltare nel tempo astratto e parallelo reward e forward, registrare programmi e, ultimo passaggio, acquistarli da un catalogo e vederli quando ci pare. Il cinema è un protagonista di questa storia. Nel tempo del monopolio, lo mettevano il lunedì e non a caso, perché quella era la serata in cui i cinema erano chiusi o l’incasso era più basso. Nessuna concorrenza doveva fare il servizio pubblico televisivo al cinema delle sale, due territori rigorosamente distinti. E quando sul secondo canale il cinema conquista un’altra posizione si tratta di film particolari, d’autore come si diceva, e non di grande impatto popolare come quelli del lunedì, in ogni caso tirati fuori dalle cineteche o dagli archivi polverosi delle major americane e nostrane. La svolta arriva con la tv commerciale che fa razzia dei cataloghi delle library italiche e USA e rimpinza i palinsesti di film. È da allora che comincia lo scollamento. Da una parte il cinema, quello della sala, perché nella sala ci vai per vedere un film, ma in realtà, come continua pervicacemente a succedere a me, perché voglio andare al cinema; dall’altro, i film, compressi nel tubo catodico e spezzettati dalla pubblicità. Poi, nel nuovo regime della quantità dell’offerta, arrivano le pay che mettono in valore l’appeal e la qualità dei contenuti e così i film trasmigrano in toto o quasi dalla tv generalista nel nuovo scaffale, da cui lo spettatore sceglie a piacimento pescando in un’offerta multigenere spalmata su più canali H24. Naturalmente, più questo processo avanza, crea e acquisisce mercato, più la finestra temporale tra i film al cinema e i film in televisione si riduce. Il prossimo passo sarà la cancellazione di ogni intervallo e la trasmissione, meglio la selezione da casa fra le prime visioni. Mi sembra un destino, che riguarda, ci metto un forse, anche il consumo nella massa immersa nel buio che va a implodere nella cellula living room. Il mercato deciderà e, chissà, solo qualche conventicola di cinefili si riunirà in cripte per iniziati. A questo punto torno alla mia nascita. Nella sala buia, dicevo. Meglio, davanti allo schermo di un’arena cinematografica estiva su cui davano le finestre di casa mia. I film li guardavo ma non li vedevo, le immagini mi entravano in testa e, in qualche caso, dopo anni le ho ritrovate e hanno acceso un cortocircuito che forse non hanno provato nemmeno gli spettatori dei Lumière sul Boulevard des Capucines. Fiume rosso, La legge del Signore. Poi, dalla metà dei ‘50, ho cominciato a soggiornare quotidianamente nella sala buia. Tende logore, sedili di legno scricchiolanti, fumo di sigarette. È chiaro che il mio desiderio non mi permette di abbandonarla. L’inconscio Dal rito del film al cinema all’on demand tv, fino alla fruizione su piccoli supporti portatili. Ma un giorno anche le nuove generazioni avranno nostalgia. non si separa facilmente dal liquido amniotico, specie quando il simbolico si è allocato in una sala buia. Forse, le ultime generazioni non avendo avuto questa frequentazione con la caverna, possono senza problemi disperdere il loro nella navigazione web e nel prêt à porter di film - e partite e musica e reality… - sui canali real time della tv oppure basta un’application sull'iPad o, peggio/meglio ancora, sul telefonino. Anche a loro, voglio crederlo, un giorno capiterà di avere nostalgia, quando qualcuno gli proporrà di infilare nella testa un chip e di vedere tutto direttamente dalla ghiandola pineale dove Cartesio metteva la sede dell’anima. 79 BIOGRAFIE BIOGRAFIE GUIDO BARLOZZETTI L aureato in filosofia, già professore a contratto in Sociologia dei processi culturali e Teorie e tecniche del linguaggio radiotelevisivo presso l’Università La Sapienza di Roma e l’Università di Perugia, lavora per la Rai come autore e conduttore di programmi televisivi. Si è occupato di organizzazione di circuiti cinematografici, ha collaborato con la Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro e scritto libri sulla didattica del cinema, sugli sceneggiati tv, sulle major, sui media event e su Don Giovanni. Il suo articolo è a pag. 78 N el 1972 è tra i soci fondatori del Teatro dell’ Elfo con cui lavora per anni come attore. Nel 1979 è tra gli ideatori e fondatori della rassegna Film-Maker di Milano. Nel corso degli anni ha realizzato numerosi film e documentari. Dal 1987 si dedica con sempre maggiore attenzione al cinema documentario di carattere sociale. Da sempre alterna la sua attività di regista con l’insegnamento e la formazione. BRUNO BIGONI ELIO DE CAPITANI Il suo articolo è a pag. 4 A ttore e regista il cui nome è indissolubilmente legato a quello del Teatro dell’Elfo di Milano: prima diretto da Gabriele Salvatores, diviene poi lui stesso regista stabile, esordendo con Nemico di classe (1982), che gli ha dato credibilità e visibilità nazionale. Il suo ruolo cinematografico più conosciuto è quello di Silvio Berlusconi ne Il caimano, diretto da Nanni Moretti. Dal 2005 si dedica anche all’insegnamento universitario della Storia del Teatro, presso lo IULM di Milano. Il suo articolo è a pag. 58 D iego Lerer è stato critico cinematografico del quotidiano “El Clarin” (il più venduto quotidiano nazionale argentino), dal 1999 al 2012. Attualmente è delegato del Festival del cinema di Roma per l’America Latina e scrive critiche per diverse pubblicazioni del settore. Molto seguito il suo blog “Microspia”. DIEGO LERER Il suo articolo è a pag. 66 I nizia la carriera come assistente alla regia, conoscendo Nanni Moretti e affiancandolo in Bianca (1984): diventa aiuto regista ne La messa è finita. La Sacher, casa di produzione di Moretti, produce anche l’esordio di Luchetti alla regia, Domani accadrà (1988), con cui vince il Donatello come miglior film esordiente. Di 12 regie cinematografiche realizzate fino ad ora, la più recente è Anni felici, autobiografia della sua famiglia. DANIELE LUCHETTI 80 Il suo articolo è a pag. 74 SUL PROSSIMO NUMERO IN USCITA A FEBBRAIO 2014. SCENARI Cinema e musei INNOVAZIONI I nuovi autori italiani di colonne sonore PROVOCAZIONI Il Leone d'oro a Sacro Gra ha fatto bene o male al cinema italiano? CINEMA ESPANSO Un intero film in un solo fotogramma L’attore è un tizio che se non parli di lui, non ascolta Marlon Brando Jean-Paul Belmondo ISSN 2281-5597 9 772281 559003 30012 Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale -70% - Aut. GIPA/C/RM/04/2013 Il piacere del successo per un attore è niente rispetto a quello che gli procura l’insuccesso di un collega