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La «punciuta» di Bernardino Verro
DOMENIC A 1 AGOSTO 2004 LA SICILIA Palermo .35 Documenti La «punciuta» di Bernardino Verro Il leader dei Fasci nell’inverno del 1893 fu affiliato con il giuramento rituale DINO PATERNOSTRO Nel settembre del 1994, intervenendo al convegno per celebrare il centenario dei Fasci dei lavoratori, che si svolgeva a Piana degli Albanesi, lo storico americano John Alcorn affermò senza giri di parole che il corleonese Bernardino Verro, uno dei più prestigiosi dirigenti di quel movimento, era stato affiliato alla mafia. La sala ammutolì. Ci fu, tra gli studiosi presenti, chi pensò ad una provocazione e chi sperò, invece, in un madornale errore. Non si mostrò affatto sorpreso il prof. Francesco Renda. «In effetti – disse – la circostanza risulta da documenti degni di fede». E citò lo stesso memoriale di Bernardino Verro, riportato nella sentenza di rinvio a giudizio degli esecutori e dei mandanti del suo assassinio, emessa il 13 marzo 1917 dal Tribunale di Palermo. Quando - qualche mese prima avevo portato a Renda una copia di quella sentenza, gli chiesi: «Professore, che facciamo?». «Quello che è giusto fare: raccontare la verità», rispose. Ed eccola la verità, riportata nelle pagg. 15-21 della sentenza. Nell’inverno del 1892-93, la mafia di Corleone incaricò un suo affiliato, Calogero Gagliano, di avvicinare Bernardino Verro, «manifestandogli la propria simpatia per il movimento ed incoraggiandolo a non temere per la vita». Gli disse anche che «si riprometteva di cooperarsi (...) verso certuni che avevano grandi meriti e grande coraggio, pronti a tutto, per metterlo in relazione con una società segreta già esistente in Corleone e che vedeva bene il nuovo movimento, tanto da essere riuscito, col diniego opposto da tutti i componenti ad accettarne il mandato, ad evitare l’assassinio di esso Verro, voluto dai proprietari terrieri. Tale discorso fece abboccare all’amo il Verro, il quale intervide il possesso di un elemento che gli avrebbe custodito la vita». Accettò, quindi, di far parte di quella "società segreta" e, una mattina d’aprile del 1893, il Gagliano lo condusse nell’abitazione di Mariano Colletti, dove si svolse il cerimoniale di iniziazione, conclusosi con la classica "punciuta". Infatti, appena en- L’adesione non fermò le battaglie del sindacalista ucciso dalla mafia nel 1915 I «Fratuzzi» trato, Verro «trovò un vero sinedrio di uomini seduti attorno a un tavolo su cui eran disposte, a guisa di desco, carabine corte ed un teschio disegnato su un foglio di carta bianco. Presiedeva Giuseppe Battaglia, gli facevano corona Mariano Colletti padrone di casa, Giuseppe Ridulfo inteso Acidduzzo, Luciano Gagliano inteso Lo Forte, Bernardo Terranova, Pasquale Oronato, i fratelli Calogero e Mariano Majuri, Liggio Gaetano inteso Ficateddu ed altri individui che il Verro non nomina nel memoriale». Il capomafia "Piddu" Battaglia spiegò che quella riunione era stata indetta dai "fratuzzi" per esaminare la proposta di ammissione del Verro e invitò quest’ultimo a spiegare «la ragione del suo intervento». Verro espose il suo programma «circa il movimento sociale da lui iniziato a pro della massa proletaria», e Battaglia «pronunziò una formale di giuramento a base di reciproca solidarietà, che fu ripetuta dall’iniziando, al quale fu poscia, dietro relativo ordine presidenziale, punto con uno spillo l’indice della mano destra, risparmiandogli per deferenza la rituale puntura del labbro con un pugnale. Il sangue sgorgato dalla piccola ferita venne asciuttato con la carta su cui era disegnato il teschio, che fu subito bruciato. In presenza della fiamma, il Presidente per il primo e poi gli altri fratuzzi scambiarono col Verro il bacio fraterno. Finita la macabra cerimonia, gli si comunicava la parola d’ordine, che sfuggì dalla memoria dell’iniziato, cui però rimase bene in mente, per la sua originalità, il segno di riconoscimento consistente nel toccarsi gl’incisivi superiori, accennando ad un mal di denti». Che la mafia avrebbe aiutato i contadini nella lotta contro gli agrari si rivelò un’illusione. Essa, infatti, ostacolò in ogni modo (anche «coi fucili a portata di mano») lo sciopero promosso dal Fascio per l’applicazione dei «Patti di Corleone». E a nulla valsero le «rimostranze» di Verro, che d’allora in poi combatté con determinazione e coraggio i "fratuzzi", fino all’estremo sacrificio della sua vita. Fu assassinato, infatti, il 3 novembre 1915, in via Tribuna, oggi a lui intitolata. Il processo fu liquidato in poche battute (d.p.) Il processo contro gli assassini di Bernardino Verro si concluse in poche battute nel 1918. Infatti lo stesso pubblico ministero, commendator Edmondo Wancolle, chiese l’assoluzione con formula piena di tutti gli imputati. Per volontà di Costantino Lazzari, segretario nazionale del PSI e col contributo dei municipi socialisti d’Italia, il 1° maggio 1917 fu collocato in piazza Nascè un busto bronzeo di Bernardino Verro. Ma - originale caso di "lupara bianca" scomparve nel 1925. A Milano da anni c’é una via dedicata a Verro, mentre a Corleone solo nel 1985 il comune ha fatto realizzare un busto, collocandolo stavolta in villa comunale, e una lapide sul luogo dell’assassinio. Da pochi mesi a Verro è dedicata anche la sala consiliare del comune di Corleone. In alto da sinistra Bernardino Verro con alcuni amici socialisti, la lapide che ricorda il sacrificio del sindacalista e la via Tribuna, dove Bernardino Verro fu ammazzato Al centro una foto del leader dei Fasci siciliani. La notizia che si lasciò intrappolare dai «fratuzzi» e che prestò rituale giuramento viene fuori dalla sentenza del processo per il suo assassinio (d.p.) «Fratuzzi» era il nome con cui si chiamavano i mafiosi di Corleone. Era lo stesso nome che si erano dati a Bagheria, a riprova che certi legami nascono e si mantengono vivi negli anni. Infatti, ancora oggi Cosa Nostra bagherese è strettamente legata ai "corleonesi" di Bernardo Provenzano. I mafiosi di Monreale e di altre zone della provincia di Palermo, invece, si chiamavano «Stuppagghieri». In quel lontano 1917, alcuni giudici del Regio Tribunale di Palermo scrivevano in sentenza che «risulta accertata, in modo non dubbio, l’esistenza in Corleone di una vera e propria associazione di malfattori, denominata dei fratuzzi, composta di mafiosi, avente il fine di commettere reati contro le persone e contro la proprietà.Questa associazione - scrivevano ancora i giudici ha capi, gregari, parola d’ordine e segni di riconoscimento». E aggiungeva il capitano dei Reali Carabinieri, Saverio Guarino: «Non solo a Corleone, ma in parecchi paesi della Sicilia la mafia si presenta come un’organizzazione vera e propria». Da quelle carte giudiziarie risultano anche i nomi degli associati all’organizzazione dei "fratuzzi". Tra la fine dell’800 e i primi del ’900, capomafia di Corleone era tale Giuseppe "Piddu" Battaglia, circondato da fedeli gregari, quali Mariano Colletti, Giuseppe Ridulfo inteso "Acidduzzo", i fratelli Angelo, Calogero e Luciano Gagliano intesi "Lo Forte", Gaetano Liggio inteso "Ficateddu", Salvatore Cutrera, Gennaro Michelangelo (che qualche anno dopo sarebbe diventato capomafia), Bernardo Terranova, Pasquale Oronato, i fratelli Calogero, Mariano e Pietro Majuri, Filippo Gennaro, Francesco Scalisi, Saverio Montalbano, Placido Paternostro, Luciano Crapisi, Marco Maggiore, Biagio Ciancimino, Antonino e Calogero Lo Jacono, Giovanni Pennino Cammarata, Francesco Mancuso, Angelo Palazzo ed altri. A parte qualche "discontinuità", si tratta dei cognomi del "ghota" mafioso corleonese, che si ripeteranno anche negli anni successivi. La lotta dei contadini il principio dell’antimafia LA STORIA. IL BUSTO DI PIAZZA NASCÈ CHE È STATO TRAFUGATO I gabelloti non potevano tollerare che la loro intermediazione venisse eliminata Oggi si può restare sconcertati di fronte alla scelta di Bernardino Verro di affiliarsi ai "fratuzzi" di Corleone. Spiega, però, Giuseppe Carlo Marino nella sua «Storia della mafia», che l’ambiente siciliano di fine ’800 era talmente intriso di spirito di mafiosità, che districarsene diventava un’impresa tutt’altro che facile. «In quest’inferno – scrisse Cammareri Scurti, uno dei leader dell’antimafia contadina – per contare ed assicurarsi l’esistenza occorreva farsi diavolo». Secondo Marino era «scontata la rischiosa esposizione a possibilità di inquinamento mafioso» da parte dei Fasci. Ma «essi costituirono oggettivamente, per i loro obiettivi, per le qualità politiche e culturali dei loro dirigenti e per il loro seguito di massa, un grande movimento contro la mafia». E Bernardino Verro, dopo l’ingenuità iniziale, fu uno dei suoi più lucidi e coraggiosi avversari. I Fasci furono sciolti d’autorità dal governo Crispi nel gennaio 1894. Pochi anni dopo, però, il movimento contadino riuscì nuovamente ad or- NERO GIALLO CIANO MAGENTA ganizzarsi e intraprese la lotta per le "affittanze collettive". L’obiettivo era l’eliminazione dell’intermediazione parassitaria dei gabelloti mafiosi, ottenendo direttamente dagli agrari l’affitto degli ex feudi. Una vera e propria rivoluzione, che rischiava di mettere in pericolo l’ordine sociale esistente, di fronte alla quale i "fratuzzi" reagirono duramente, assassinando due importanti dirigenti contadini, amici e compagni del Verro. Il bracciante agricolo Luciano Nicoletti il 14 ottobre 1905, e il medico Andrea Orlando il 13 gennaio 1906. Ma le lotte non si fermarono. Anzi, la cooperativa socialista «Unione agricola», fondata nel 1906 (aveva la sede nella «Casa del Popolo», costruita qualche anno prima, con le pietre che i contadini portavano ogni giorno a dorso di mulo), in pochi anni riuscì ad ottenere in affitto nove ex feudi: Rubina, Drago, Piano di Scala, Piano di Galera, Sant’Elena, Cerasa, Torrazza, Pirrello, Malvello, oltre a Zuccarrone che gestiva da tempo. In tutto circa 2.500 ettari terra, divisa in 1.289 quo- te ed assegnate ad altrettanti contadini, che così realizzavano il sogno di affrancarsi dalla schiavitù dei gabelloti. «Cotesti antichi gabelloti mafiosi – spiegò Verro il 31 gennaio 1911 – finché erano stati soli a pretendere in affitto gli ex feudi, avevano potuto imporre ai proprietari ed ai contadini le condizioni più favorevoli ai loro interessi, mentre invece col sorgere della cooperativa agricola e coi relativi scioperi dei contadini erano venuti a trovarsi di fronte ad una concorrenza formidabile, in quanto che la cooperativa offriva ai proprietari delle terre estagli più elevati di quelli imposti dai gabelloti mafiosi. Da qui l’odio profondo di costoro, che venivano lesi nei loro interessi». Colpire Verro e distruggere la cooperativa agricola diventarono, quindi, gli obiettivi prioritari dei "fratuzzi" corleonesi, che già avevano rapporti consolidati con alcuni pezzi del mondo cattolico, tramite la Cassa rurale «S. Leoluca», fondata proprio per contrastare il movimento socialista. In quegli anni, tra l’altro, si era consu- mata la rottura tra Bernardino Verro, leader dei contadini socialisti, e il cattolico Gaetano Vinci, che era stato eletto sindaco nel 1908, grazie ad un’alleanza di centrosinistra ante-litteram. Ad uccidere Verro i mafiosi ci provarono una prima volta la sera del 6 novembre 1910. Allora, però, i killer lo ferirono solo al braccio sinistro. «Per questa volta i picciotti fecero fumo…», fu il suo sarcastico commento. Poi tentarono di distruggerlo moralmente, facendolo arrestare con la montatura delle cambiali false. Anche stavolta Verro reagì e i contadini gli diedero fiducia, tanto da eleggerlo sindaco di Corleone e consigliere provinciale nel giugno del 1914. Ma il 3 novembre 1915, mentre saliva da via Tribuna per ritornare a casa dalla sua compagna, Maria Rosa Angelastri, e dalla figlioletta di pochi mesi, Giuseppina Pace Umana, fu assassinato con 11 colpi di pistola, 4 dei quali sparatigli a bruciapelo alla testa. Aveva 49 anni. D.P. C M Y N