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Violazione di legge formale-procedurale:
brevi riflessioni in tema di dequotazione dei vizi e rapporti con l’articolo 21-octies, L.
241/1990.
A cura di Nicola Posteraro
La illegittimità amministrativa può essere definita come species del più ampio genus della
invalidità.
La giurisprudenza ha ormai pacificamente osservato che essa coincide con la cd. annullabilità e si
sostanzia quando l’atto amministrativo, inteso come entità formale a contenuto autoritativo, incorre
in uno di quei vizi tassativamente indicati all’articolo 21octies della legge sul procedimento
amministrativo (L. 241/1990). Dunque, in un cattivo uso del potere discrezionale –cd. eccesso di
potere-, ovvero in una incompetenza relativa; ovvero, ancora, in una violazione di legge.
Tralasciando i profili di dubbia opportunità relativamente alla distinzione del vizio della
incompetenza relativa da quello (entro cui esso si colloca) della violazione di legge, si può dire che
quest’ultimo si realizza laddove l’atto sia difforme rispetto alla relativa disciplina normativa; e,
dunque, si ponga in violazione di una norma (non necessariamente “legge” come fonte primaria)
dell’ordinamento positivo.
Esso è stato da sempre considerato come figura residuale atta a ricomprendere tutti quei vizi non
rientranti
all’interno
delle
altre
due
suddette
categorie
di
illegittimità;
e
prescinde
dall’atteggiamento psicologico (colposo, ovvero doloso) del soggetto agente.
In tale vizio rientra anche il caso della violazione di norme imperative, violazione che, invece, in
diritto civile, comporta la nullità del contratto ex 1418 c.c.. Ciò a dimostrazione di come, per il
diritto amministrativo, non abbia alcun senso la distinzione interna alla violazione di legge: l’atto,
quale che sia il portato, l’importanza o l’intensità della norma violata (benché, ad esempio, pure
comunitaria) resta annullabile e non può configurarsi come nullo, poiché la disciplina della nullità
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trova una collocazione a sé ed è ravvisabile nei soli casi espressi all’interno del numerus clausus di
cui all’art. 21 septies della stessa legge 241/1990.
L’eventuale violazione di legge così rappresentata comporta, quindi, una lesione della situazione
giuridico-soggettiva vantata dall’interessato-amministrato; ed è processualmente da quest’ultimo
censurabile tramite l’azione di annullamento ex art. 29 c.p.a.
In base a tale articolo, infatti, il soggetto interessato -in quanto portatore di interessi legittimi
pretensivi, ovvero oppositivi- è legittimato ad adire (entro sessanta giorni da quando l’atto gli è
stato notificato-comunicato, ovvero da quando di esso egli ha comunque in altro modo preso
conoscenza) il giudice amministrativo, per chiedere a quest’ultimo la caducazione del
provvedimento lesivo-viziato e, dunque, la sua eliminazione giuridica (tramite annullamento e non
semplice disapplicazione) dalla “scena del diritto”.
L’atto che viola la legge è un atto annullabile, quindi illegittimo; dunque invalido e, come tale,
eliminabile, benché efficace fino a quando non censurato dall’interessato (e, rectius, riconosciuto
come invalido dal giudice adito). È palese, quindi, come sia necessario riconoscere una tutela
processuale piena ed effettiva al soggetto interessato, quand’anche quest’ultimo da tale
provvedimento invalido reputi d’essere stato leso.
Esistono dei casi, però, in cui la violazione di legge così intesa non comporta annullabilità del
provvedimento; casi, cioè, che non riescono a rendere l’atto amministrativo annullabile, pur se
illegittimo.
Si allude, ovviamente, in primis, a quelli indicati espressamente all’articolo 21octies della L.
241/1990, il quale diminuisce l’estensione della disciplina dell’annullabilità da esso stesso
introdotta ed esclude dal catalogo dei vizi alcune specifiche ipotesi di violazioni normative.
La norma si articola in due proposizioni: nella prima le violazioni che non danno luogo ad
annullabilità vengono indicate in termini generali; si stabilisce che quelle delle norme sul
procedimento e quelle sulla forma degli atti rimangono irrilevanti nel caso sia palese che il
contenuto dispositivo
del provvedimento amministrativo vincolato non avrebbe potuto essere
diverso da quello in concreto adottato.
Nella seconda, si prevede una specifica disciplina circa il caso della mancata comunicazione di
avvio del procedimento (obbligatoria ex art. 7 della L. 241/1990): qui si precisa che ove
l’amministrazione provi in giudizio che, anche a fronte del rispetto della normativa de qua, il
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contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, la
suddetta violazione non produce annullabilità.
L’articolo, dunque, affronta il problema –già emerso nel tempo in giurisprudenza- dei vizi
meramente formali dell’atto amministrativo; di quei vizi, cioè, che, pur comportando violazioni di
norme di per se stesse cogenti, non danno luogo in concreto ad un possibile annullamento del
provvedimento viziato.
Sono provvedimenti che il giudice può ben porre a fondamento delle proprie valutazioni, operando
un legittimo confronto tra atto e legge (rectius, tra contenuto sostanziale dell’atto, ovvero realtà
concretamente incisa dall’atto stesso e parametri di legittimità prescritti dalla legge violata).
La giurisprudenza, prima dell’azione positiva del legislatore, si era già occupata delle non
invalidanti violazioni formali. Essa le aveva classificate, di volta in volta, come non rilevanti ai fini
della annullabilità del provvedimento viziato 1) o perché riconoscibili come vizi marginali, tanto
marginali da dar luogo solo ad una mera irregolarità dell’atto; 2) o perché inidonee ad alterare lo
scopo cui era in astratto preordinata la norma violata (scopo in altro modo raggiunto); 3) o perché,
ancora, non incidenti sull’esercizio del potere in quanto tale, essendo quest’ultimo, ancorché
relativamente ad un atto imperfetto nella sua forma, stato esercitato in un modo che non sarebbe
apparso comunque differente nel caso le norme violate fossero state rispettate; e che, quindi, non
avrebbe potuto dare origine ad atto amministrativo -legittimo- con contenuto differente da quello –
illegittimo- macchiatosi di tale -formale- vizio di legittimità.
Rispetto alla prima categoria, si tratta di quei casi in cui vi sono sì delle imperfezioni di forma o
procedura, ma queste non risultano in contrasto con elementi normativi essenziali, ovvero con la
formazione della decisione amministrativa; sono vizi che sono tali a priori, ex ante riconosciuti
come marginali e ricavabili dalle interpretazioni giurisprudenziali intervenute nel tempo,
coincidenti (a titolo esemplificativo) con la mancata indicazione dell’autorità cui proporre ricorso e
del relativo termine per poterlo fare (ex art. 3, ultimo comma, L. proc. Amm.), ovvero con la mera
lacunosità della comunicazione d’avvio del procedimento (perché priva di alcuni di quegli elementi
indicati espressamente all’articolo 8 della l. 241/1990).
Rispetto alla seconda categoria, invece, si tratta di casi in cui le norme a carattere procedimentale
sono state sì violate, ma hanno comunque raggiunto il loro scopo, facendo sì che la violazione
stessa sia irrilevante (cd. strumentalità delle forme). È un giudizio che il giudice, ex post, realizza
quando viene adito, accertando caso per caso la irrilevanza della violazione ed il raggiungimento
comunque avvenuto dello scopo della norma violata: si pensi al caso d’una mancata comunicazione
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di avvio del procedimento, dunque d’una violazione dell’articolo 7 della legge 241/1990; e si
immagini pure, però, che il soggetto interessato sia comunque venuto a conoscenza del
procedimento amministrativo in tempi utili per potervi partecipare: ebbene, in questo caso è come
se il principio della partecipazione fosse stato comunque rispettato; ed è per questo che il
provvedimento appare non annullabile concretamente pur rimanendo illegittimo sul piano formale,
non essendovi traccia di un procedimento di secondo grado atto ad attualizzare alcuna sanatoria del
vizio in parola.
Relativamente alla terza categoria, si tratta di ipotesi in cui il potere è stato esercitato, l’atto è
illegittimo, la violazione c’è stata, non si tratta di mera irregolarità, lo scopo della norma violata non
è stato in nessun altro modo raggiunto, ma il giudice, in un giudizio postumo –al pari di quanto
avviene nella seconda categoria- si accorge di come comunque, anche laddove l’atto fosse stato
legittimo, il suo contenuto non sarebbe stato diverso da quello che ora, in concreto, possiede. E
come, dunque, l’idea della violazione formale non valga a sostanziare annullabilità del
provvedimento. Si pensi al caso della mancata comunicazione dell’avvio del procedimento, anche
qui: ebbene, laddove il giudice accerti che la partecipazione -in concreto mancante né resa
possibile- non sarebbe valsa a modificare il contenuto dell’atto disposto, ben potrà ritenere la
violazione come irrilevante ai fini della annullabilità dell’atto amministrativo illegittimo; così
chiaramente accertando ex post che, davvero, nulla sarebbe cambiato, anche laddove le norme
fossero state pedissequamente rispettate. Il potere sarebbe stato esercitato allo stesso modo. E nulla
si sarebbe palesato come differente.
Quest’ultimo orientamento è stato molto criticato in dottrina, in quanto è apparso contrastante con
le garanzie di tutela e di partecipazione collaborativa-difensiva espressamente previste dalla
Costituzione e dalla CEDU.
Nonostante questo, esso è stato totalmente accolto dal suddetto articolo 21 octies della legge
241/1990 secondo comma, il quale ultimo positivizza l’ipotesi di non annullabilità dell’atto
amministrativo illegittimo nel caso in cui questo, benché invalidato dalla violazione di regole
formale risulti presentare quella connotazione che comunque avrebbe presentato anche laddove le
norme formali e procedurali fossero state legittimamente seguite.
Nel primo periodo, si tratta di tutte quelle violazioni che, benché esistenti, laddove si tratti di atto
vincolato non valgono a renderlo annullabile. Nel secondo periodo, invece, si tratta della cd.
mancata comunicazione, che viene considerata dalla norma come una violazione di carattere
formale inadatta a produrre annullabilità in un numero più ampio di casi rispetto a quelli previsti a
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proposito delle altre violazioni a carattere formale indicate al primo periodo: in questa ipotesi,
infatti, la norma non circoscrive la specie di provvedimenti non annullabili a quelli a carattere
vincolato; ma va al di là di essi, perché consente di applicare la previsione –così sembrerebbe
doversi desumere dal “comunque” usato nell’articolo- anche al caso di provvedimento
discrezionale.
Questa affermazione crea con non pochi consequenziali problemi interpretativi: la stessa norma,
infatti, addossa l’onere di sostanzializzazione, dunque di allegazione dei fatti atti a dimostrare la
necessità della previa mancata comunicazione di avvio, al privato ricorrente pena l’inammissibilità
della domanda stessa. Ed assicura, così, all’interessato, un vero e proprio vantaggio, poiché gli
consente di definire, con l’allegazione, il thema decidendum della controversia.
Ma stabilisce, poi, un onere probatorio in capo alla p.a. resistente, chiarendo che essa ha l’obbligo
di dimostrare la irrilevanza della –in astratto dovuta- comunicazione stessa per attestare la non
annullabilità dell’illegittimo atto impugnato.
Così facendo, però, la disposizione attribuisce alla stessa pubblica amministrazione la facoltà
(pericolosa) di arricchire l’aspetto procedurale in corso di giudizio, e va a scardinare la sequenza
(”sacra”) procedimento-processo. Applicando la norma, infatti, viene lasciata alla p.a. chiamata in
giudizio (rectius –e peggio- all’avvocato che la difende) la possibilità di colmare le lacune del
procedimento discrezionale con segmenti di istruttoria all’interno di una fase prettamente
processuale; fase che, di regola, deve rimanere assolutamente distinta e separata da quella –
precedente- procedurale.
Occorre rilevare, inoltre, come tale positivizzato assetto incida pure sugli strumenti –meglio, poteri
in senso tecnico- di autotutela (specificamente, su quello di convalida) della p.a. coinvolta:
l’irrilevanza di certi vizi, infatti, porta in molti casi a rendere superflua la convalida dell’atto;
dunque a sconvolgere, in qualche modo, l’opportuno modo di agire della pubblica amministrazione.
Essa, a fronte di tali previsioni, a ragione si sente tutelata, dunque legittimata a “non fare” (rectius,
a fare non rispettando) e dimentica di essere comunque sempre obbligata -quantomeno nel principio
generale- a dover rispettare gli obblighi che la legge, ancorché formali o procedurali, le impone.
L’argomento, inoltre, sembra deporre a favore di quelle teorie dottrinali che vorrebbero ravvedere
nella evoluzione positiva della normativa de qua un modo per giudicare come tacitamente abrogato
l’art. 6 della L. 249/1968, a mente del quale “alla convalida degli atti viziati di incompetenza (e
solo di quelli!) può provvedersi anche in pendenza di gravame in sede amministrativa e
giurisdizionale”.
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In altre parole, così ragionando, a cosa servirebbe vietare la convalida in corso di giudizio per casi
diversi da quelli afferenti all’incompetenza, se poi, invero, il vizio non convalidato non è comunque
atto a rendere annullabile l’atto illegittimo?
In questo modo, la dequotazione dei vizi procedurali e formali degli atti della p.a. sembra
evidentemente mettere in forse la tutela apprestata nei confronti dei cittadini-amministratiinteressati, poiché rende poco aggredibile la pubblica amministrazione a fronte di violazioni che, ad
ogni modo, esistono e rimangono tali.
Ma, contestualmente –è innegabile-, in quell’inevitabile scontro “garanzie-celerità” che caratterizza
il sistema amministrativo nel suo complesso, provvede anche far trovare esplicito accoglimento al
principio di buon andamento della p.a. ex art. 97 Cost. ed a quello di buona amministrazione ex art.
41 Carta Europea dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea. Oltre che, è chiaro, ai declinati
principi di efficienza, economicità e non aggravamento ex art. 1 della Legge sul procedimento
amministrativo.
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