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1) Graziella Duncan Mi sto` recando all`ospedale, mio

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1) Graziella Duncan Mi sto` recando all`ospedale, mio
1) Graziella Duncan
Mi sto' recando all'ospedale, mio marito ha appena avuto un ictus, mi hanno chiamata il pronto
soccorso, i paramedici mi hanno detto di fare in fretta....
Eccomi qui, spaventata da morire, tutta sudata per la corsa a piedi e la paura che mi è dentro.
Entro al pronto soccorso e mi annuncio: sono io, la povera moglie di mio marito, ha avuto un
ictus, dove si trova, come va è....vivo? fatemelo vedere! ....e piango....
Mi portano lì, dove giace lui, mio marito, ....è sotto le macchine...cioè quello che penso che
siano...non parla, ha gli occhi chiusi, la bocca aperta ma piena di tubi...gli prendo la mano e
aspetto che qualcuno arrivi, qualcuno che mi rassicuri, qualcuno che mi dica: signora suo marito
sta bene ha solo un piccolo problema...un ictus da niente...sa signora lo teniamo solo per un
controllo poi lo mando a casa con lei.
Però niente, nessuno arriva, lascio la sua mano, è calda, e mi allontano per vedere se un medico
possa darmi spiegazioni, mi guardo intorno e mi sembra di essere sola al mondo con un marito
sulle macchine, c'è una calma angosciosa, e mi dico: un pronto soccorso senza anima
viva....possibile?
Guardo nei corridoi, nelle cabine vicine, niente di niente...sto forse sognando?...
Torno al capezzale di mio marito, le macchine fanno suoni inquietanti, però vedo che respira, gli
stringo la mano per vedere se reagisce...niente...ma respira....
Cosa faccio ora? dove sono tutti e quanti? Chi mai può aiutarci?
Mi accascio su una sedia che è lì vicina, prendo la sua mano e provo a parlargli...chissà forse mi
sente...niente, solo i lamenti di quelle maledette macchine...piango.
Sento un rumore, mi giro verso il corridoio, forse arriva qualcuno....aspetto con impazienza.....
Il rumore si fa più vicino, strano, non sono passi, cos'è mai....i miei occhi guardano là dove il
rumore e....oh dio, non riesco a credere a quello che mi sta di fronte....mi osserva, non è un
dottore, un infermiere, non è nessuno....un'anima senza corpo, avvolto in un velo trasparente,
una luce bianca e fredda lo avvolge...mi sento svenire, credo che il colore della mia pelle sia come
la luce che mi trovo davanti, stringo più forte la mano di mio marito, fredda stavolta, per un
attimo solo, tolgo lo sguardo da quella visione, e...le macchine fanno silenzio ora, il viso di mio
marito è violaceo, ha gli occhi...aperti, vitrei, le sue labbra sono nere, ha un sogghigno che non
riconosco....il suo petto...ha smesso di fare su e giù....
....mi volto d'un tratto verso la cosa, non c'è più, non capisco, mi alzo e vado fuori, nel corridoio
oramai sempre più vuoto, con passi veloci percorro tutto il pronto soccorso, arrivo all'uscita
barcollando, esco alla luce del giorno, mi volto e vedo arrivare un infermiere da dentro, mi sta
parlando, cerco con tutta me stessa di capire cosa mi sta dicendo...poi...capii,
Signora mi spiace ma è arrivata troppo tardi, suo marito è deceduto un'ora fa.
2) Marica Iannuzzi
Eclissi
Luca era arrivato all’ospedale La Carità a Locarno sabato 6 febbraio, nel cuore della notte, senza
che nessuno della sua famiglia se lo aspettasse.
Era successa la stessa cosa esattamente sei anni e quattro mesi prima. Ma tutto sembrava come se
fosse la prima volta che succedesse. Un semplice dolore, prima innocuo poi sempre più
minaccioso, fino a diventare insopportabile. Le luci nella casa Bianchi si accesero rapide come
lampi nella notte e un attimo dopo la famiglia era già a bordo del loro Peugeout grigio che si
mimetizzava nel buio. Direzione Via Ospedale 1. Posteggiato il monovolume nei posteggi del
pronto soccorso, lui scese, pallido in volto, fermo davanti a quelle maledette porte automatiche
che non volevano aprirsi. Quando finalmente il sensore si accorse della presenza dei corpi, andò
ad annunciarsi con voce tremante: – Signor Bianchi –. Fu questione di un attimo: da dietro le
violacee porti scorrevoli apparve un’infermiera con una sedia a rotelle. Gli occhi di lei si
riempirono di terrore. Ci fu solo il tempo che la mano di lei afferrasse quella di lui. E tutto si
ripeté pressoché allo stesso modo.
A Luca non piaceva affatto la camera dove era stato portato. L’odore di eucalipto,
spruzzato per togliere i cattivi odori, che aleggiava nell’aria, era troppo inteso per le sue narici e la
luce, disposta in fila sopra la sua testa, che proveniva dai neon, era troppo forte per i suoi occhi.
Il bianco del soffitto si rispecchiava nel bianco del pavimento; le grandi vetrate davano sul
corridoio, cosa che lo infastidiva parecchio, perché lo faceva sentire un animaletto rinchiuso in
una vetrina. Non gli piaceva nemmeno il compagno con cui era costretto a condividere la stanza:
lo sentiva piangere spesso, un pianto acuto e potente, una richiesta d’aiuto che veniva sempre
accolta. Lui piangeva e un esercito di persone con indosso un camice bianco – che le rendeva
tutte uguali, indistinguibili l’una dall’altra – si dirigeva in massa verso il suo letto. Lui, invece, non
era il tipo a cui piacevano troppe attenzioni: mangiava ogni giorno la stessa cosa, senza lamentarsi
e riceveva ogni giorno le stesse visite, senza mostrarsi contrariato.
La camera di lei non era né uguale né diversa, era simile a quella di Luca. L’intensità
dell’odore era anche troppo fastidiosa. Fortuna che alle 3.30 del mattino le luci erano spente. La
differenza era che dove era lei faceva meno caldo: il freddo sembrava penetrare attraverso le
mura. Ma la finestra era chiusa e la opprimeva, scese a fatica dal letto, provò ad aprirla, ma fu lo
stesso. L’unica cosa che cambiò fu che una musica riempì il vuoto nella sua stanza. “La
Stranociada…” pensò tra sé e sé “possibile che ogni volta devo venire in ospedale quando è
tempo di carnevale?” Restò per qualche attimo a fissare fuori dalla finestra: il tempo rispecchiava
il suo stato d’animo. Il vento prese all’improvviso a sputare grosse gocce di pioggia e il suo
rumore ipnotico risvegliava le ombre dei pensieri della donna che continuava ad essere una
spettatrice della sua vita, anziché diventarne la protagonista. Un fulmine squarciò il cielo in due
parti, affettandolo come una lama; l’eco di un tuono arrivò nella camera come il ruggito di un
leone. Ma la festa a carnevale sarebbe continuata lo stesso. A fatica la donna richiuse la finestra e
si rimise sdraiata sul letto. Provò a interrompere il flusso dei suoi pensieri spulciando una rivista,
senza nemmeno riuscire a vedere le immagini. Ma niente. Non riusciva a prendere sonno. Riprese
tra le mani la tazza di camomilla che aveva bevuto prima: ne rimaneva solo il fondo. Troppo
debole per rialzarsi questa volta si limitò a guardare di nuovo fuori dalla finestra: il cielo era cupo
e in alto, la luna piena risplendeva come un faro su di un palcoscenico. La donna si sforzò di
chiudere gli occhi, ma subito un tintinnio metallico glieli fece riaprire.
La porta si aprì pianissimo, quasi al rallentatore, abbastanza perché lei riuscisse a sbirciare
fuori. E vide una signora delle pulizie, parte di un esercito instancabile, armata del suo carrello
con tutto l’occorrente; entrambe, con volto stanco e sciupato, abbozzarono un sorriso
vicendevole. I passi della donna delle pulizie rimbombarono nel corridoio insieme al rumore
metallico del suo carrello. E un attimo dopo, da poche stanze più in là dalla sua, la donna sentì
provenire un pianto acuto e inarrestabile. Il rumore di una porta che si apriva e che si chiudeva
veloce in successione, dopodiché il rumore di passi furtivi questa volta rimbombava nella
direzione della sua di camera. La porta si aprì piano. Dal corridoio una luce intensa le abbagliò la
vista e il camice di quella donna che imbracciava qualcosa sulla soglia della porta si scurì non
appena fece il suo ingresso.
– Signora Bianchi – sussurrò. Le due donne si guardarono nell’oscurità. E non ci fu bisogno di
aggiungere altro. L’infermiera se ne andò lasciando la porta aperta, mentre lei si preparava a
eseguire l’ordine silenzioso che le era stato impartito.
La camera era divisa a metà: una parte era immersa nell’ombra che proveniva da fuori,
l’altra era illuminata dalla luce che proveniva dal corridoio. Sembrava fosse arrivata un’eclissi in
camera. Il suo stesso animo era diviso a metà: una parte era occupato dall’odio, l’altra dall’amore.
Si sentiva in un labirinto da cui voleva scappare, ma non sapeva in che direzione correre. La
mente le suggeriva di andarsene, ma il corpo la faceva rimanere immobile. L’unica cosa che si
mosse fu il luccichio che prima c’era nei suoi occhi e un attimo dopo bagnava le lenzuola del
letto. Si specchiò negli occhi azzurri della sua creatura, innocenti e puri e vide la sua immagine
colpevole riflessa. Invece di dare la poppata che suo figlio voleva, prese il cuscino da dietro la
schiena. E il piccolo petto smise di fare su e giù. Si abbassarono anche le sue palpebre. La morte
fu più veloce del parto. E la mano che reggeva quel cuscino era la stessa mano che prima aveva
generato Luca e che poi aveva messo fine alla sua brevissima vita.
3) Ada María Acebal Romero
Dolce finale
Ogni giorno si ripetono gli stessi gesti, gli stessi orari, gli stessi riti. Tra gli asettici muri
dell’ospedale il mondo ruota intorno a una routine collaudata, un modello comportamentale e
una tabella di marcia. Un habitus controllato per molti anni. Ogni divisione ha le sue rigide regole
e il sistema complessivo è coordinato da un'unità centrale che supervisiona non solo le procedure
mediche ma anche le relazioni tra coloro che interagiscono nel centro.
Duro lavoro quello dei professionisti medici che si confrontano quotidianamente con la malattia
e la morte. La paura dei pazienti, l'insistenza, la disperazione, l'ignoranza, l'ansia, la solitudine
presenti in situazioni di fragilità, spesso bucano l'anima come una goccia alla pietra, lasciando
un'impronta indelebile.
Nelle camere le infermiere vanno e vengono senza far rumore, in parte a causa delle sue scarpe
antiscivolo bianche di suola morbida e in parte perché transitano con la delicatezza necessaria di
chi si muove tra gli strumenti speciali, materiali biologici e persone in situazione di fragilità fisica
o psicologica. Considerando che questo ospedale è specializzato in malattie terminali è comune
trovare persone anziane affette da malattie gravi, la maggior parte di loro senza possibilità di cura.
L'attenzione fornite ai pazienti è altamente professionale, ma tra le bianche mura sorvola un
problema iniziato due anni a causa di un certo numero di morti sospette.
La statistica dei decessi richiamò l'attenzione del management, perché si riferiva solo ai malati
terminali di cancro che stavano attraversando una fase di forti dolori per cui erano inviati lì dai
loro medici di famiglia per alleviare le crisi. Il problema era che morivano tra 24 a 96 ore dopo il
ricovero. Tutti chi più chi meno, sono irrequieti. La verità è che l'ospedale si trova sotto
osservazione. La gestione commissionò la ricerca a un team medico specialista in medicina
forense. La decisione di assumere specialisti esterni si è basata sulla segretezza delle indagini,
pertanto il personale locale non sa di questo fatto. A tal fine le autopsie sono state eseguite in
molti dei morti, alcuni prima di essere sepolti o cremati e altri esumati con l'autorizzazione
giudiziaria necessaria. La cosa strana è che in tutti i casi sono state trovate tracce di cianuro.
La spiegazione fornita nel rapporto finale era che alcuni di questi pazienti, quando erano ancora
vivi, seguivano al di fuori dell'ospedale un trattamento alternativo che consisteva di alcune dosi di
B-17, una sostanza composta da due molecole di glucosio, una di benzaldeide e una di cianuro
strettamente legati. Questi ultimi due molecole legate insieme sono neutralizzati, spiegarono gli
specialisti, da un enzima presente nei tessuti sani e li trasformano in sostanze presumibilmente
benefiche per il trattamento del cancro. Questo trattamento era promosso da alcuni settori della
medicina alternativa e ovviamente i malati in preda alla disperazione si aggrappavano alla
speranza. Il problema, hanno concluso gli specialisti contrattati, è che l'enzima era assente nel
tessuto malato e di conseguenza la molecola del cianuro non neutralizzata diventava altamente
tossica in caso di sovradosaggio.
Per quanto riguarda i corpi riesumati inoltre sono state rinvenute tracce di cianuro ma hanno
sottolineato che questa sostanza viene prodotta nella decomposizione dei corpi interrati.
L'ospedale ha chiuso l'indagine dopo aver ricevuto il rapporto finale, sapendo che era legalmente
protetto dai risultati di un team così prestigioso. I responsabili hanno pensato allora che era tutto
parte della dinamica ospedaliera in una combinazione di variabili che hanno condizionato in
questo modo la statistica fatale.
Questo fine settimana l'ospedale era piuttosto tranquillo. Venerdì mattina era entrata in ricovero
una donna di 72 anni che aveva un cancro fulminante al fegato. Le restavano pochi mesi di vita.
La povera signora soffriva di forti dolori in tutto il suo corpo, dal collo ai piedi. Giaceva lì,
silenziosa, pallida, un colore bianco-giallastro in tutta la pelle e la flebo nel braccio. Nel
pomeriggio il transito infermieri si intensificò: controllavano, correggevano, ordinavano,
prendevano nota dei dati, scrivevano rapporti, misuravano la febbre e la pressione arteriosa. Era
un via vai di scarpe bianche. Poi tutto si calmò e il silenzio regnava nella stanza.
Improvvisamente, un paio di scarpe bianche si fermarono al capezzale della signora con il cancro
al fegato. La paziente sentii la presenza e aprì gli occhi. Poi sentii che l´infermiera vestita di
bianco gli disse: l´ho svegliata? Non volevo disturbarla. Volevo vedere se ha bisogno di qualcosa.
Grazie, rispose la donna. L'infermiera era ancora al suo posto, lo sguardo fisso e intenso. Questo
è durato alcuni secondi fino a quando ha chiesto: Vuole un dolce della buona notte? mentre la
sua mano tirava fuori dalla tasca del bianco grembiule un piccolo pasticcino riempito di crema. la
paziente prima sembrava sorpresa e subito i suoi occhi si incrociarono in un profondo sguardo.
Fece un lieve sorriso e accettò. L'infermiera le tenne la testa con delicatezza mentre la signora
mangiava con fatica il morbido impasto. Una volta finito il dolce le appoggiò la testa sul cuscino,
le accomodò la coperta, sorrise enigmaticamente e uscì dalla stanza. Quella notte lavorò fino alle
6 del mattino, poi andò a casa a continuare tranquillamente con la sua vita quotidiana.
4) Anna Maria Rytz
Tutta quella luce
Quella sera, 10 anni or sono, Thea si vestì con cura. Non voleva che il suo stato d'animo
trapelasse da un aspetto trascurato. Raccolse i suoi splendidi capelli e li nascose sotto il suo
cappello preferito, una cloche grigia; inforcò occhiali scuri.
Era determinata a fare finalmente la valigia, sobria ed essenziale, fosse anche solo per un viaggio
senza ritorno.
Le restava uno scampolo di vita indegna di essere vissuta, non tanto per la salute fisica, ma per la
pressione psicologica subita ormai da troppo tempo.
La sua depressione, pur tenuta sotto controllo da farmaci e sedute di psicoterapia, l'affliggeva in
maniera tale che il dolore era diventato insopportabile; la sua vita era finita.
Si era appellata ai valori della sua famiglia d'origine, rigorosi, dove però si era sempre sentita
protetta; al Dio della sua gioventù, un Padre Onnipotente severo. Temeva la gente, sempre
pronta a giudicare, la facevano sempre sentire colpevole. Silenzio, sempre tacere e deglutire
rospi. No, non era più possibile sopportare oltre la sua situazione .
Si avvicinò al cancello dell' ospedale psichiatrico senza alcuna emozione. Abbandonò l'auto con il
motore acceso e la portiera spalancata. S'incamminò nella nebbia, come in un sogno,
trascinando il trolley, senza vedere altro che la sua meta: l'ingresso della clinica. Il custode le
gridava di spostare l'auto, le urlava che non poteva entrare. Incurante, picchiò con violenza alla
porta vetrata chiusa; due infermieri aprirono. Entrò con prepotenza e si lasciò cadere su una sedia
di plastica nera, si calò il cappello sugli occhi, le luci la tormentavano. Arrivò la dottoressa di
turno. Thea le porse il suo cellulare e le disse di guardare il suo rullino delle foto. La donna trasalì:
avvertì la Polizia e chiamò rinforzi.
Arrivò il suo medico psichiatra, colui che l'aveva in cura da qualche tempo. Distesa su un lettino,
nella penombra dello studio, Thea perse ogni inibizione e cominciò a parlare, la sua mente si
alleggerì come per incanto. Non voleva più guarire, voleva solo riposare, dormire, rimuovere dal
cuore il pesante macigno, spezzare la catena che stringeva la gola, liberarsi dell'enorme pollice
grigio premuto sulla sua testa. Non volle nemmeno più pensare alla persona che l'aveva spinta
fin li , una persona rispettabile agli occhi del mondo, non ai suoi.
Se non avesse avuto il ricordo del suo passato felice, se non avesse avuto una severa educazione
religiosa, se avesse avuto il coraggio di affrontare le malelingue, avrebbe dato vita ai suoi pensieri
di morte molto prima.
Ma ora sapeva che a causa di sofferenze sia fisiche che morali non sarebbe mai stata interamente
colpevole dell'atto estremo compiuto. Persino il suo Dio ora accettava la debolezza umana e la
perdonava.
Il colpevole, la persona a lei legata dal sacro vincolo, non aveva mai usato neanche un dito per
ferirla fisicamente; l'aveva spinta su una strada di non ritorno con un'arma micidiale, devastante,
che non lascia tracce: si chiama disprezzo. Era morta dentro. Un delitto perfetto. Impunibile.
Quel pomeriggio era andata a casa della signora Agata, la donna che rendeva felice suo marito da
troppo tempo. Si era appostata vicino all'ingresso della sua casa, atteso che suo marito ne uscisse,
e suonato il campanello. Agata aprì. Con una forza fino ad allora sconosciuta l'aveva colpita a
morte con un coltello affilato, si era chinata su di lei ormai a terra e si assicurò che fosse morta
ponendo le mani sul suo collo. Aveva fotografato la scena, era tornata a casa e mostrato al marito
la sua vendetta; ora avrebbe sofferto lui per il resto dei suoi giorni a causa della stessa donna che
era stata il suo tormento.
In quel preciso momento Thea aveva deciso di varcare l'uscio di casa. Per sempre.
Lui giaceva sul pavimento in preda ad un dolore che lo paralizzava.
Ora, dopo 10 anni, avendo pagato il suo debito con la giustizia e dopo anni trascorsi nel limbo
della struttura ospedaliera dove si sentiva al riparo dai suoi tormenti, le vecchie ferite tornavano a
galla: più tentava di scacciare i fantasmi , più questi si facevano insistenti. La nebbia lasciava
spazio a lampi di luce, a tratti affioravano ricordi che non capiva, provava sentimenti che non
ricordava di avere mai conosciuto, rivedeva volti che aveva tentato di cancellare dalla memoria,
sentiva voci che non voleva sentire e ronzii fastidiosi. Approfittò di un'uscita settimanale, si vestì
con cura, calzò la sua vecchia cloche grigia, gli occhiali scuri ed eluse la vigilanza. Tornò a quella
che era stata la sua casa. Era esattamente come l'aveva lasciata. Riconobbe suo marito. Era in
giardino e stava curvo a zappettare un'aiuola di rose rosa, le sue preferite.
Si armò di un coltello che aveva notato nel cesto degli attrezzi abbandonato vicino al cancello
aperto. Fu in quel momento che vide una ragazzina, una teenager con in testa cuffiette per la
musica, intenta a giocare con un cellulare. Sorrideva.
Maxine. Maxine.
Ma certo, era sua figlia. Aveva cancellato dalla mente un evento della sua vita così importante.
Come aveva potuto ! Dove era finito il tempo ?
Maxine era bellissima, le ricordava se stessa alla sua età: stessa corporatura, stessi capelli, un'aria
felice.
Maxine era stata affidata alla signora Agata temporaneamente, per permettere a lei di riprendersi
da una grave depressione post parto. Le visite di suo marito non erano per la donna, andava a
trovare la loro bambina; figlia che lei si rifiutava di conoscere.
Thea lasciò cadere l'arma e corse via , gettò gli occhiali, il cappello volò via e i suoi capelli si
sciolsero sulle spalle. Il ronzio nelle orecchie si amplificava, un crescendo di decibel raggiunse la
soglia del dolore, quasi il rumore di un treno in corsa. La nebbia attorno a lei si diradava e la luce
, tutta quella luce .....non sentì più niente.
5 ) Giovanni Bruno
La camera ardente
Ma insomma – si chiese Pedroni infastidito – è o non è un ospedale? Chiamalo clinica,
policlinico, sanatorio, casa di cura. Chiamalo anche lazzaretto. Più o meno si capisce, no? E
invece devo presentarmi in un … Com’è che dice qui? Vediamo un po’, ecco: «… di annunciarsi
alle ore 13.00 alla ricezione del nosocomio cittadino in Via Rostand 12, producendo la
presente…». Nosocomio? Che roba è? Una specie di manicomio? Anche un manicomio è un
ospedale, d’accordo, ma che diavolo ci faccio in un manicomio? Beh, intanto non è un
manicomio ma un nosocomio. Nei manicomi ci sono i maniaci e nei nosocomi i nos… Chi ci
mettono in un nosocomio? I nostalgici? Comunque sia, a quanto pare fra i pazienti di un
nosocomio la mortalità è così alta che c’è bisogno di un obitorio sul posto. Certo, così evitano
decine o centinaia di trasporti al giorno. Infilano le salme nell’ascensore e giù, direttamente alla
camera mortuaria.
O che sia – si chiese ora dubbioso – un errore di scrittura? Forse volevano dire nasocomio. Ma
certo, nasocomio: una clinica specializzata nella cura del naso. Ma guarda cosa vanno a inventarsi.
C’è così tanta gente che deve farsi curare il naso? Tutti con la sinusite cronica? E ci lasciano le
penne? O non sarà piuttosto una clinica specializzata nella chirurgia plastica del naso? In Via
Rostand? Centinaia di migliaia di persone che un bel giorno si guardano allo specchio e si
convincono che il loro naso pende verso destra, o verso sinistra, e che bisogna correggerlo? Mah,
vedremo.
E infatti vide. Era un normalissimo ospedale. Almeno dentro. Fuori, invece, era piuttosto
insolito. Normalmente, almeno per quanto ne sapeva lui, gli ospedali avevano intorno un parco.
Con alberi, panchine, fontanelle e uccelli canterini. Questo era invece circondato da strade
trafficate. Insomma, dall’aria inquinata della strada entravi direttamente nello spazio sterilizzato
dell’ospedale. E uscendo dall’atmosfera ovattata del nosocomio – si stava affezionando alla parola
– ti ritrovavi di colpo in mezzo al traffico frenetico.
Si annunciò, come da istruzioni, alla ricezione. Presentò la lettera di raccomandazione e due
minuti dopo era seduto nell’ufficio del responsabile del reparto «Defunti», il dottor Morghera.
–
Per farla breve, signor Pedroni, il suo compito consiste nel sorvegliare le salme nella
camera ardente. Dalla lettera non risulta se ha esperienza in questo campo. Ha già avuto a che
fare con persone morte?
–
In un certo senso, sì – rispose Pedroni.
–
In che senso, scusi? – chiese Morghera. – Ha già lavorato in una stanza mortuaria, in un
obitorio?
–
No, questo no.
–
Ma allora in che senso diceva... Beh, fa lo stesso. Sarà introdotto da Carlo Simoni, un
collaboratore di lunga data. Ora lo chiamo e potete cominciare subito.
La camera ardente era nel sottosuolo dell’ospedale, accessibile da un’entrata esterna con un’area
di sosta per il carro funebre. In mezzo al locale c’era un tavolo metallico e sopra un feretro nero
ornato di ottone. Ai quattro angoli erano sistemati degli alti ceri bianchi con righe viola a spirale.
Il coperchio era appoggiato ma non avvitato. Le grosse viti dal filetto dorato, con la testa priva di
incavatura e a forma di manopola, sporgevano di qualche centimetro. Pedroni ricordò i vecchi
film con il conte Dracula, che scostava il coperchio e usciva dalla bara con la gola secca.
Nosferatu nel nosocomio.
–
Vede – gli spiegò Simoni – un paio di giorni prima della sepoltura mettiamo qui la salma
preparata. Una bella dose di cipria, in sostanza. E non solo per il naso. Lei sarà presente durante
gli orari di visita, dalle dieci alle dodici e dalle due alle quattro. Fra un quarto d’ora ha il primo
turno. Sa chi c’è in quella bara?
–
Non saprei – disse Pedroni.
–
Sam Bernardi, il boss ammazzato ieri in pieno centro. Un regolamento di conti. E dire
che lo chiamavano «il conte».
Simoni gli spiegò cosa doveva fare e se ne andò, lasciandogli le chiavi. Pedroni aprì il guardaroba,
scelse la sua taglia e si cambiò: divisa nera, camicia bianca e cravatta a righe oblique grigie e viola.
Accese i ceri, sollevò il coperchio dalla cassa e lo infilò sotto il tavolo. Poi guardò il morto.
L’espressione del conte, il volto incipriato e le mani incrociate sul ventre, pareva insieme
grottesca e serena. A dispetto della miriade di morti che aveva sulla coscienza. O che appunto
non aveva più sulla coscienza.
Alle due, secondo le informazioni della talpa, sarebbe arrivato quel bastardo di Eric Bernardi, il
fratello di Sam. Vestito così, in divisa e cravatta, non l’avrebbe riconosciuto. E per andare sul
sicuro Pedroni si era pure tagliato la folta barba. Anche se questo lo metteva a disagio: il nuovo
abbigliamento lo camuffava bene, ma l’assenza della barba lo faceva sentire esposto, allo
scoperto.
Sapeva che Eric sarebbe entrato da solo, lasciando fuori la scorta. Alle due in punto Pedroni girò
la chiave e aprì la porta. Qualche istante dopo un uomo alto sulla sessantina, con un elegante
vestito nero, entrò e si piazzò davanti al feretro, la testa china e le braccia dietro la schiena.
Pedroni gli si avvicinò lentamente di lato, tirò fuori dalla tasca un bisturi e glielo puntò sotto il
naso. Eric Bernardi fece appena in tempo a riconoscerlo che Pedroni gli tagliò la gola di netto.
Poi prese un cero e diede fuoco al rivestimento in seta della bara. Le fiamme si propagarono
subito a tutto il locale.
Con gli occhi e i bronchi irritati dal fumo, Pedroni schizzò fuori dalla camera ardente. Evitando
gli scagnozzi di Eric, finì sulla strada e venne travolto da un’ambulanza che tornava d’urgenza alla
base.
Il dottor Morghera e Carlo Simoni si ritrovarono di colpo due nuovi clienti da preparare per la
camera mortuaria del nosocomio cittadino di Via Rostand.
Uno, quasi carbonizzato, con un ghigno inciso da orecchio a orecchio. L’altro, effimero collega,
da ricomporre alla meglio. Altro che cipria.
6) Nelly Morini
Oggi a me, domani a te
Dopo aver approntato la sala per la diagnostica senologica, Elena sbirciò dalla finestra: era una
uggiosa giornata di fine gennaio, un inverno insolito quello, niente neve e tanta pioggia, tuttavia le
condizioni climatiche la lasciavano indifferente. Lei, radiologa affermata, di bella presenza,
abituata a praticare mammografie ogni giorno che Dio mandava sulla terra, si era spesso sentita al
pari di una dea che teneva in mano lo scettro del destino delle donne che varcavano la sua soglia.
Quanti seni aveva palpeggiato, quante di loro si erano soffermate in quella sala per pendere dalle
sue labbra alla fine dell’esame, in attesa del responso. Come non rammentare la loro espressione
sollevata al suo dire: “Non ho evidenziato niente di anomalo”. Cielo, quanto si sentivano
rincuorate al pensiero che, per un paio d’anni almeno, avrebbero potuto accantonare lo spettro
del tumore al seno! E il terrore che leggeva nei loro occhi quando si vedeva costretta a dir loro:
“Occorre procedere ad ulteriori esami, una biopsia… la macchina ha evidenziato una cisti
sospetta”. La macchina: quell’orribile cosa, quel mostro sconosciuto, capace di sviscerare il
peggiore dei mali, che ti schiacciava il seno in modo inumano, dolorosamente. L’inventore di
quell’aggeggio infernale doveva essere per forza un uomo.
Quella mattina era arrivata presto in ospedale ed era particolarmente nervosa. Un’agitazione folle
l’aveva invasa quando aveva letto “quel” nome sul mansionario giornaliero: la moglie di Flavio si
sarebbe presentata al suo cospetto di lì a pochi minuti per una visita di controllo! Ortensia non
sapeva di lei, non poteva saperlo. Non era al corrente del fatto che il suo prezioso marito era il
suo amante, anche se lo “marcava stretto” come soleva dire lui. Finora non era riuscita a scoprire
la loro tresca, erano stati entrambi molto cauti.
Lui rubava i loro momenti raccontando alla moglie di avere del lavoro straordinario da evadere di
sera. La sua azienda era lontana da casa e Ortensia non amava guidare di notte, cosicché era
praticamente certo che non l’avrebbe seguito. Era però raggiungibile telefonicamente e lei non si
faceva scrupolo di chiamarlo per delle futilità. Solitamente accadeva, mentre erano in piena
intimità, che il cellulare si mettesse a squillare. Flavio rispondeva sempre con voce calma e priva
di qualsiasi espressione, per non dare adito a sospetti: lo lasciasse lavorare, sarebbe tornato
appena poteva…
Quell’anno erano riusciti a ritagliarsi due giorni tutti per loro. Lui aveva trovato il pretesto di un
impegno all’estero e lei si era fatta dare due giorni di congedo. Si erano recati in un delizioso
centro termale nel Tirolo, si erano divertiti un mondo e avevano fatto l’amore più volte al
giorno, quasi a volersi rifare del “digiuno” patito.
Sorrideva fra se a quel ricordo quando sentì bussare alla porta. Andò ad aprire ed eccola li, la
nemica, colei che era d’ostacolo alla sua felicità! Istantaneamente la rabbia più feroce crebbe
dentro di lei e seppe cosa fare per sbarazzarsi della sua acerrima rivale.
Sottopose la paziente all’esame, constatando immediatamente l’assoluta perfezione dei suoi seni.
Ortensia non aveva mai cessato di blaterare confusamente, durante tutta l’indagine.
“Sa, dottoressa, alle volte il seno mi fa male e di recente mi è sembrato di sentire un gonfiore
sospetto sulla sinistra…, sono malata, lo so, lo sento”. Era ipocondriaca, si aspettava una
rassicurazione immediata, una smentita, calore umano.
Elena terminò l’esame senza proferir parola:”Si rivesta, signora, e poi venga da me”.
La rivale sbiancò: “C’è qualcosa che non va? Non mi metta paura, la prego”. Senza più pensare a
ricomporsi si diresse verso la scrivania della radiologa con gli occhi spalancati, enormi. Si era
sentita gelare a quel tono di voce che intuiva allarmato.
Elena sorrise: “Effettivamente, ho individuato una macchia sospetta al seno sinistro”. Ortensia
piombò a sedere e rimase lì, davanti a lei, nuda dalla vita in su, inerme, terrorizzata.
“Ma come, come…” la poveretta quasi non riusciva ad articolar parola, l’esatto contrario del suo
precedente sproloquio.
“Si calmi, la prego”. Elena se la godeva un mondo. Dio, quanto la odiava, era lei che la separava
da Flavio, se non fosse esistita, lei avrebbe avuto partita vinta. “Sarò franca con lei”, proseguì
fissando la sua vittima, “ho una lunga esperienza in questo campo e le debbo dire che la macchia
evidenziata ha in tutto e per tutto l’aspetto di una massa tumorale”.
Ortensia sbiancò “Mi scusi un attimo” bisbigliò. Rialzatasi, si diresse in bagno dove rimase alcuni
minuti. Si era sentita male ed aveva rovesciato nel water tutta la sua disperazione. Elena si
apprestò a riordinare la sala per la prossima paziente. Non c’era niente, assolutamente niente di
anomalo nell’esame di Ortensia ma lei le aveva inculcato il dubbio di proposito. Cosa l’aveva
spinta ad un’azione così meschina? Una rivalsa, perché si frapponeva fra lei e l’uomo amato?
Ebbene si, l’avrebbe lasciata a crogiolarsi nell’incertezza, nella costernazione di un male
incurabile. Voleva ben vedere se non si sarebbe strappata i capelli in preda allo sconforto. Alla
smentita avrebbe pensato poi.
Le disse di ripresentarsi di lì a una settimana, per un ulteriore esame più invasivo e la salutò con
simulata partecipazione.
Ortensia stava percorrendo una strada inusitata. Era sconvolta e a malapena vedeva la carreggiata.
All’improvviso si trovò dinanzi uno sbarramento segnalato da un cartello “pericolo - strada
interrotta”. Pioveva forte. Frenò, ma non servì. Il muro che chiudeva il vicolo era crollato tempo
prima a causa di un temporale e dietro la barriera c’era il nulla…
Elena diede un’ultima occhiata ai file degli ultimi esami e, prima di spegnere l’elaboratore, si
soffermò ad esaminarne uno in particolare. La colorazione della cisti segnalata denotava
chiaramente la sua natura maligna. Le sfuggì una lacrima che cadde sulla tastiera. Il nome
riportato sullo schermo era il suo!
7) Valeria Bontà Astori
Fatto di sangue
Ore 4:30: “… ultima ora: criminale multirecidivista, ricercato per omicidio colposo ucciso in un
incidente stradale. Due auto si sono scontrate all’incrocio tra via dei Frati e via Bramantino.
Entrambi i conducenti sono deceduti sul colpo mentre i passeggeri delle due auto, cinque in
tutto, sono ricoverati con ferite giudicate medio – gravi … ” “Drin Drin Drin” “Pronto? Tea,
ORL” … “Ok, prepariamo la camera e arriviamo”.
Le due infermiere spensero il televisore e raggiunsero le colleghe in ufficio.
Giulia gettò uno sguardo dalla finestra, una notte senza luna, nera come la pece. L’ospedale era
immerso in una nebbiolina invernale che la fece rabbrividire al solo guardarla.
“Giulia, incidente stradale, airbag difettoso, frattura del setto e zigomo destro. Operato, è già in
sala risveglio da un’ora, scendi tu? Io intanto preparo la camera, tieni, ti passo il telefono”.
“Ok, guarda che il signor Anton al 234 ha ricevuto una riserva per il dolore mezz’ora fa e la
signora Maria al 237 è un po’ confusa, si è strappata la via venosa, ma fa niente, domani è
dimessa”.
Giulia percorse il corridoio immerso in una luce soffusa, quasi spettrale. Sentiva solo il ronzio
della ventilazione e l’eco dei suoi passi.
Per la prima volta, sola di notte nei corridoi dell’ospedale, sentì un brivido gelido partirle dalla
nuca e scenderle lungo la spina dorsale. “Sciocchezze“ pensò dandosi una scrollata e stringendo
forte il telefono in fondo alla tasca del camice. Chiamò l’ascensore.
L’ospedale era una vecchia struttura, costruito su quello che un tempo era un campo militare ai
confini della città. Negli anni seguenti, grazie al boom economico, gli erano cresciuti attorno
quartieri operai incastrati tra l’autostrada, la linea ferroviaria e il vecchio porto.
La crisi degli ultimi anni aveva trasformato questi quartieri in un limbo nel quale la gente cercava
di sopravvivere tra povertà, criminalità e violenza. Non di rado uno di questi relitti di una società
alla deriva approdava nei corridoi dell’ospedale alla ricerca di qualche spicciolo o sostanza da
rivendere al mercato nero.
“Tlin” l’ascensore strappò Giulia dai suoi pensieri. Scese, prese in consegna il paziente ancora
immerso nei fumi dell’alcool che aveva consumato in preda alla febbre del sabato sera e dei
farmaci che gli erano stati somministrati durante l’operazione.
Giulia salì in reparto, sistemò il paziente in camera e lo attaccò al monitor. Sistemò la perfusione
sulla pianta e aggiunse un giro di benda alla via venosa. Prese i parametri. “Signor Martini, siamo
in camera ora. Si ricorda? Sono Giulia, la sua infermiera per la notte, sono scesa a prenderla in
sala risveglio. Come si sente? Che punteggio darebbe al dolore su una scala da uno a dieci, dove il
dieci è insopportabile?” Un occhio tumefatto la fissò dal fondo del letto, per risposta un grugnito:
“Sette”.
“Vado a prenderle qualcosa per il dolore, signor Martini, arrivo”. Un altro indecifrabile grugnito.
Uscì dalla porta e sbatté contro una figura scura, un odore nauseante di alcool, sudore e profumo
a buon mercato le invase le narici: “Ecco un balordo del sabato sera” pensò. “E lei? Da dove
sbuca? Che ci fa qui?” lo apostrofò Giulia. “Cerco mio fratello, è appena stato ammesso”, disse
la figura scura. “Le visite non sono permesse la notte, ritorni più tardi per favore”, Giulia lo
osservò mentre si allontanava.
La figura s’incamminò guardinga verso l’ascensore, a Giulia sembrò di vedere le sue labbra
muoversi in un sussurro “te ne pentirai”, di nuovo quel brivido gelido lungo la schiena. “Il
paziente ha male”, Giulia scrollò i riccioli bruni e si recò in farmacia a preparare una siringa di
morfina. Cercò Tea per il doppio controllo e lo scarico dello stupefacente. Qualche anno prima
un’infermiere aveva sottratto degli stupefacenti all’ospedale, per rivenderli ai poveracci del
quartiere.
Da quel giorno gli stupefacenti erano conservati sotto chiave e necessitavano di un doppio
controllo per essere somministrati.
“Drin Drin Drin” di nuovo il telefono.“Pronto? Giulia ORL”, “Giulia, sono Elena dal
laboratorio. Il signor Martini è registrato come donatore di sangue e il suo gruppo è A+, la
persona che hai appena recuperato in sala è del gruppo 0-, dovresti rifare un prelievo di controllo
ma puzza di marcio, stai attenta”.
Il cuore le balzò in gola. Di nuovo quel brivido, gelido. Interruppe la comunicazione, chiuse gli
occhi e respirò profondamente. Il cuore rallentò, le idee si schiarirono: “Il paziente ha male”.
In quel momento avvertì una presenza alle sue spalle, si girò di soprassalto. Il vassoio metallico le
cadde di mano mandano in mille pezzi la fialetta di morfina. Il paziente era lì, di fronte a lei, le
medicazioni sanguinolente e nell’occhio tumefatto uno sguardo d’acciaio.
Il colpo la colse di sorpresa, le sembrò che il soffitto intero le fosse crollato addosso. Si accasciò.
Nella sua testa i battiti del suo cuore rimbombavano come tamburi impazziti, il suo respiro si fece
affannoso e d’improvviso fu come se la nebbia avesse lasciato le strade della città per insinuarsi
tra le intercapedini delle finestre e invadere la sua mente.
Dalla sua fronte un filo di sangue scorreva macchiando il camice immacolato, le sue labbra si
socchiusero per liberare un urlo, ma uscì solo un rantolo soffocato e, lentamente, il brivido di
gelo s’impadronì del suo corpo inerme.
8) Carlo Simonelli
Quando l’ammalato sentì il rumore della porta alzò lo sguardo e vide entrare l’infermiera, seguita
da un vecchio con la faccia scarna e gli occhi spenti. Anche il piantone, seduto in un angolo, si
fece attento, ma fu subito rassicurato dalle parole della donna. Il nuovo paziente era appena stato
ricoverato e assegnato a quella stanza. Dopo che l’infermiera se ne fu andata, il vecchio sistemò le
sue cose nell’armadio e si mise a letto, disteso, le braccia lungo i fianchi, gli occhi fissi alla parete.
Sembrava stanco, triste, forse depresso. Quando il piantone uscì sulla porta a sgranchirsi le
gambe, il sorvegliato chiese al nuovo arrivato come mai fosse lì, che aveva? Quello, dopo qualche
minuto di silenzio, si lamentò con parole confuse di sentire un peso al petto, che il medico aveva
detto che aveva uno scompenso cardiaco e che sarebbe dovuto rimanere in ospedale sotto
osservazione, poi, come risvegliatosi da quell’apatia – Chi è quello? – chiese aggrottando le
sopracciglia, a voce bassa, mentre indicava nella direzione del piantone. – È un poliziotto. È qui
per proteggermi.
Era vero. Era stato minacciato di morte quando aveva fatto i nomi dei complici della rapina alla
posta, quella di qualche mese prima, diversi milioni di refurtiva che non erano stati mai ritrovati.
Ma il poliziotto aveva anche il compito di controllare che non fuggisse, perché era in arresto in
attesa del processo. E lui aveva avuto l’idea buona a darsi per malato, prima o poi si sarebbe
presentata l’occasione giusta e addio ospedale. Via, a godersi il frutto del suo ingegno. La
continua presenza del poliziotto un poco l’opprimeva, ma era contento che ci fosse. Quei suoi
compari gli avevano giurato che gliel’avrebbero fatta pagare e alla prima occasione avrebbero
mantenuto la promessa.
Alle sue parole, il vecchio non sembrò avere paura, anzi parve sollevato. Certo non si rendeva
conto, conosceva solamente le poche cose che gli aveva raccontato il suo vicino di letto. Se
avesse saputo che qualcuno si sarebbe potuto presentare sparando all’impazzata su tutto ciò che
si muovesse in quella stanza forse non sarebbe sembrato così sereno e avrebbe chiesto
immediatamente di essere spostato di camera.
Appena fu buio venne l’infermiera e portò il nuovo paziente con sé, avrebbe cenato nel ristorante
dell’ospedale. Dette un’occhiata al piantone e questi la guardò di rimando, erano giorni che si
facevano gli occhi teneri, se n’era accorto già da un pezzo, meglio, poteva tornare utile prima o
poi.
Come ogni sera, al detenuto e al poliziotto la cena fu servita in camera e mentre mangiavano, il
primo chiese al suo guardiano: Che è uno scompenso cardiaco? – È qualcosa al cuore, perché? –
Per il vecchio – disse indicando il letto vuoto. – Ma quale scompenso cardiaco! Quello soffre di
demenza, scappa di casa, si perde, non riconosce nemmeno i suoi parenti. Magari ha anche
qualcosa al cuore visto che l’hanno portato qui. Ma è come dico io, mi sono informato, devo
sapere chi c’è in camera.
Sul tardi il piantone uscì ancora una volta, il vecchio era nel letto a fissare il muro, a un certo
momento si guardò attorno. Alzò la mano secca, senza un tremito, indicò se stesso e battendo sul
petto, come se raccontasse un segreto, sussurrò sgranando gli occhi: Anche a me vogliono fare
del male. Mi vogliono uccidere. Per i soldi. Quando si hanno soldi si è sempre in pericolo,
sarebbe meglio liberarsene. Ah, mai mettere figli al mondo! Ancora sei in tempo, se non ne hai. –
Sarà un’eredità importante, allora! – rispose con un sorriso il detenuto stando al gioco, ma
quell’allusione lo turbò. Poi tornò l’infermiera e informò gli altri due che di notte avrebbero
somministrato una medicina al nuovo venuto, che ora dormiva, che avrebbero cercato di non
svegliarli e di non disturbare nessuno. Il poliziotto le sorrise e annuì, come se avesse capito di più
di quello che lei aveva detto.
Durante la notte il detenuto fu svegliato un paio di volte dai lamenti del vicino che si rigirava nel
letto, sembrava non avere pace. A un certo punto si svegliò di nuovo, aveva sentito qualcosa. Alla
luce fioca della stanza cercò il vecchio che dormiva accanto, ma questa volta non era lui, poi
guardò nella direzione del piantone, ma non c’era. Sentiva rumori in corridoio, come una
colluttazione, qualche mugolio soffocato, qualche gemito sordo.
Sapeva che se fossero stati quelli della banda non avrebbe avuto il tempo di scappare. Forse
avevano mandato un sicario, erano ricercati e non certo stupidi. Doveva giocare d’astuzia, per
potersi salvare non gli rimaneva che sacrificare il vecchio. Si alzò in fretta, scambiò le cartelle
cliniche che si trovavano appese ai piedi dei letti e si rimise sotto le coperte, tirando il lenzuolo a
coprirsi il volto alla meglio. Intanto i mugolii sembravano finiti e si sentiva solo un cigolio. Aprì
gli occhi di poco e vide un medico entrare col carrello, lentamente, su di esso una piccola
lampada illuminava il ripiano, non riusciva a scorgerlo in volto, ma alla luce si vedevano bene le
mani. Il medico si avvicinò al vecchio, era di schiena, aprì una fiala e con una siringa ne aspirò il
contenuto. Fece un sospiro di sollievo, era un medico vero. Il piantone s’era allontanato per
qualche motivo, o era in corridoio, come accadeva spesso. Il dottore alzò la siringa con le bianche
mani di lattice, poi esitò un momento, tornò ai piedi del letto, illuminò con la torcia una cartella
clinica, poi l’altra. Il detenuto chiuse gli occhi, non si voleva fare scorgere, il medico ritornò in
mezzo ai due letti, si avvicinò al vecchio e voltandosi all’improvviso piantò l’ago nel collo del
detenuto, che dopo un grido lentamente perdeva conoscenza, mentre l’altro gli sussurrava piano:
Pensavi che saremmo dovuti diventare vecchi per l’eredità? Muori! Per poco uccidevo la persona
sbagliata – prima di allontanarsi a passi rapidi. Nell’altro letto, ora il vecchio sembrava dormire
sereno, i tratti del volto erano distesi e le labbra chiuse come in sorriso appena accennato.
9) Curio Bernasconi
La finestra
È tornata –.
L’odiosa, volgare voce roca del mio compagno di cella mi giunse dall’altra parte della parete di
separazione, attraverso la griglia in alto.
Ha fatto la spesa, speriamo che si cambi ed esca a zappare le aiuole dei fiori, in bikini
bianco, come ieri –.
Da sempre - un anno ? un mese ? chissà? Oramai avevo perso la nozione del tempo - la voce di
Brenno m’informava di cosa succedeva la fuori. Lui aveva la fortuna d‘avere una finestra, con le
sbarre, ma pur sempre un’apertura verso il cielo, con la vista della vita esterna e della libertà.
Io no, vivevo tra quattro pareti imbottite: quella di separazione, comunicante con l’altra metà del
locale, con l’apertura in alto, per darmi un po’ d’aria e pochissima luce. Doveva essere una
camera individuale, divisa per ottenere due spazi separati. Nel soffitto luci sempre accese.
Un letto, una sedia di vimini, un tavolino avvitato al pavimento, nell’angolo un wc e un lavabo.
Mi avevano portato in questo posto, non ricordo quando, quella volta che avevo il mio mal di
testa e mia moglie continuava a parlare con voce stridula che aumentava i miei dolori e mi
trapanava il cranio con delle fitte insopportabili.
Le dicevo di stare zitta, ma lei continuava a parlare….. continuava …., continuava, io le urlavo di
stare zitta, niente, lei continuava… allora le ho chiuso la bocca con una mano, poi le ho stretto
l’esile collo con tutte e due. Non volevo farle del male, volevo solo che stesse zitta. Finalmente
tacque, era diventata pallida, la chiamavo e lei non rispondeva. Rimasi inebetito a fissarla per ore.
Poi arrivò diversa gente, certi erano poliziotti, altri erano vestiti di bianco, volevano
immobilizzarmi, mi dibattevo e urlavo. Mi tennero fermo e mi fecero un’iniezione, la vista
divenne tutta nera, mi svegliai in questa camera, supino sul letto, legato con cinghie, non potevo
muovermi.
Urlai, chiamai aiuto, giunsero altri uomini vestiti di bianco, non dissero niente, mi alzarono le
palpebre e diressero una luce negli occhi, poi un’altra iniezione. Mi addormentai, quando mi
risvegliai, rifecero l’iniezione, in seguito molte altre ancora, le ripeterono per giorni e giorni.
Finalmente arrivò qualcuno che mi rivolse la parola, mi disse che era un medico, doveva curarmi
perché ero molto ammalato.
Se stavo calmo, mi avrebbero slegato.
Per parecchio tempo fui tenuto immobilizzato sul letto e tranquillo con iniezioni. A poco a poco
fui più calmo e non mi venne più quel maledetto mal di testa, un mattino mi liberarono dai lacci,
ma dovetti rimanere sempre in camera, mi davano tante pastiglie. Una volta al giorno, in due, mi
accompagnavano nel cortile, chiuso in ogni lato da muri alti e grigi, a camminare, sempre
tenendomi sottobraccio. Vedevo altri come me, tutti accompagnati
Alle mie domande non rispondevano mai, quando chiedevo di mia moglie facevano finta di non
sentire.
L’unico contatto umano, era con Brenno il convivente dell’altra metà del locale, anche lui
ammalato non sapevo di cosa, non lo avevo mai visto. Sentivo solo la sua voce oltre la parete, mi
riferiva di cosa succedeva all’esterno. I suoi racconti mi permettevano di gingillarmi con la
fantasia e di riempire il pauroso vuoto delle giornate e quello delle insonni ore notturne.
Mi sembrava di conoscere da sempre la famiglia che abitava accanto al nostro ospedale. Per la
donna, che Brenno descriveva giovane e bella, dai lunghi capelli neri, avevo scelto un nome, che
tenevo per me: Carmen, quello di mia moglie.
Sognavo d’andare a spasso con lei nel bosco, di fermarmi lungo un ruscello dove, in una piccola
radura ci fermavamo a fare all’amore. Ormai mi ero perdutamente innamorato ed ero
insofferente ai commenti salaci di Brenno che la vedeva in bikini o calzoncini. Mi descriveva le
bellissime gambe, i seni alti, la sua camminata da indossatrice, la tenerezza che aveva per i due
bambini. Di come giocava felice con il grosso cane bianco tra le aiuole fiorite, di come coccolava
il bellissimo gatto tigrato.
La mia invidia per il vicino che beneficiava della finestra, a poco a poco si trasformò in odio. Lo
odiavo per la sua fortuna, per come si godeva immeritatamente la vista di Carmen e della sua
famiglia, per i suoi commenti irriguardosi e spesso volgari.
Mi descriveva com’era pettinata, dei vestiti che indossava, mi struggevo d’amore per lei e il mio
odio per Brenno ingigantiva sempre più, mi dava quasi una sofferenza fisica.
Uno dei passatempi preferiti - quando non pensavo a Carmen - era di immaginare come avrei
potuto avere l’occasione di ucciderlo per subentrargli nella parte di camera con la finestra. La
modalità d’assassinarlo l’avevo già trovata.
Purtroppo erano solo fantasticherie senza la speranza d’essere
realizzate : ero prigioniero
nel mio piccolo spazio.
Era comunque bello crogiolarmi nel pensiero d’ammazzarlo e, ancora più piacevole, quello con le
crudeltà da infiggergli.
D’idee circa le sevizie più efficaci e dolorose, ne avevo moltissime, venivano da lontano. Quando
ero bambino in casc’era il “Nuovissimo Melzi, del 1930”, che sfogliavo spesso, con molte pagine
illustrate e una, la mia preferita, mostrava con disegnini le numerose torture antiche e medioevali:
dal cerchio a vite per stringere la testa fino a farla scoppiare, ai pentoloni pieni d’olio bollente in
cui immergere le persone. C’erano poi i quattro cavalli, legati uno per ogni arto, per squartare il
condannato quando, frustati, si scatenavano nella corsa.
Avevo letto, che i boia cinesi più apprezzati dagli imperatori riuscivano a trafiggere il corpo di un
uomo con un palo senza lederne le parti vitali, cosicché la vittima restava in vita, esposto in
piazza, a soffrire per giorni.
Era di solito quest’ultima la prescelta per punire Brenno.
Ogni sera mi propinavano un sonnifero e mi controllavano due-tre volte per notte.
Mi ero fatto furbo, imparai a fingere d’inghiottire la pillola per restare desto e dare sfogo alle mie
fantasie con Carmen e con quelle per vendicarmi di Brenno.
- Uhh, se tu vedessi che minigonna rossa che ha oggi – sghignazzava l’infame – viene il capogiro
a vedere l’orlo che si alza a ogni passo, è eccitante, sembra che danzi. E’ semplicemente divina -.
Io ribollivo di gelosia e rabbia repressa, digrignavo i denti. Spesso tornavano il terribile mal di
testa e il vomito.
Poi venne il colpo di fortuna: dopo il primo controllo di metà notte, fingevo di dormire, il
sorvegliante, sbadatamente, accostò la porta della mia cella senza abbassare il chiavistello.
Felice per l’insperata opportunità, in un attimo fui in piedi, sbirciai fuori, il corridoio era deserto,
tutto era silenzioso non si sentivano nemmeno le abituali urla dei pazienti. Cautamente uscii,
sapendo che le celle erano chiuse dall’esterno con un semplice saliscendi.
Ansando e con il cuore in gola mi diressi verso quella del vicino, facevo fatica a credere di poter
finalmente realizzare quello che avevo immaginato innumerevoli volte. Ero in un bagno di
sudore. Adagio sbloccai la porta e la aprii. Alla fioca luce della lampada notturna individuai la
sagoma del dormiente, mi avvicinai tenendo fra le mani un cuscino e di colpo lo premetti sulla
sua faccia.
La poca luce mi aveva permesso di vedere il viso di un vecchio rinsecchito, calvo che russava a
bocca aperta.
Fu una faccenda rapida: per un attimo si dibatté, inutilmente perché era legato, poi si afflosciò.
Aspettai un attimo per essere sicuro che fosse veramente morto, poi mi allontanai e tornai nella
mia cella, a poco a poco il mio respiro divenne normale, mi sentivo sollevato e sereno: ce l’avevo
fatta, ero libero.
Inghiottii il sonnifero e bevvi golosamente l’acqua del bicchiere posato sul tavolino. Tornai sotto
le coperte e mi addormentai felice.
Il mattino seguente fui svegliato dalle voci provenienti dall’altra parte della parete. Parlavano di
crisi cardiaca, ci fu un grande andirivieni e capii che portavano fuori il corpo, qualcuno diede
istruzioni per trasportarlo nella camera mortuaria sotterranea.
Mi accorsi con sollievo che, evidentemente in occasione del secondo controllo notturno, la
guardia aveva chiuso la porta della mia cella con il chiavistello.
Quando arrivarono gli infermieri per portarmi alla doccia m’informai e, alla notizia del decesso di
Brenno, finsi un grande dispiacere.
Mi addolora, eravamo diventati amici, era l’unico con cui potessi parlare – dissi con
mestizia farisaica.
Non ti preoccupare, ne arriverà un altro – risposero – era vecchio e cardiopatico -.
Lasciai passare due giorni poi chiesi del capo reparto, arrivò subito.
Mi scusi – dissi umilmente – poiché il mio povero vicino è morto, non potreste darmi
quella che era la sua parte di cella che, al contrario della mia, ha una finestra ? –
Vedremo – fu l’annoiata risposta evasiva.
Il giorno dopo ritornai alla carica, divenni insistente e dopo tre giorni m’informarono che la
richiesta era stata accolta. Dovevano disinfettare il locale, dopo sarei stato trasferito.
Ero eccitato, tremavo e non riuscivo a stare fermo, feci delle flessioni per calmarmi. Fui ben
contento di prendere il sonnifero e mi addormentai pensando a Carmen, ai suoi due figli, al
giardino fiorito, al grosso cane e al bellissimo gatto. Tutti, finalmente, solo miei.
Magari sarà in giardino in bikini – mormorai beato, prima di cadere nel sonno.
L’indomani di primo mattino vennero a prelevarmi e mi portarono nell’altra metà del locale che,
nella mia mente eccitata, sembrava spaziosa e accogliente. Vidi subito che dalla finestra - non
tanto grande e piuttosto in alto – entrava il sole. Per osservare l’esterno avrei dovevo mettermi
ritto sul letto.
Appena solo, vi salii e mi misi faticosamente in piedi.
Per pregustare l’attimo chiusi gli occhi.
Cercai tentoni il bordo del davanzale, mi misi in posizione. Il cuore batteva fortissimo.
Attesi un istante con un tremito in tutto corpo, aprii gli occhi: guardai, in un primo momento
incredulo, la vista
mi si annebbiò, fu come se mi avessero dato un pugno nello stomaco.
Niente non c’era assolutamente nulla.
La fuori c’erano solo un prato spelacchiato, un alto muro di cemento e, dietro, una desolata,
brulla, sassosa pianura deserta che si perdeva all’infinito nell’orizzonte.
Assolutamente zero. Tutto quello che Brenno mi descriveva, era solo frutto delle fantasie di un
vecchio pazzo ed io vivevo da sempre di quelle, partecipando e arricchendole con le mie.
Mi misi a singhiozzare disperato, mi aggredì un improvviso e tremendo mal di capo, urlai la mia
rabbia e la mia dolorosa delusione, fui preso da un capogiro. Caddi rovinosamente sul
pavimento. Tutto fu buio.
Quando ripresi conoscenza, ero sul letto, legato, attorniato dagli infermieri e dal medico:
Cosa ti è venuto in mente di arrampicarti ? – mi chiese.
Volevo vedere Carmen – singhiozzai.
Carmen era tua moglie, è morta, l’hai strangolata quando hai avuto una delle tue crisi. Fu
un incidente di tanto tempo fa – fu la risposta tranquilla del medico – calmati, ora ti faremo
un’iniezione -.
Da allora mi tengono legato, ho sempre quella terribile martellante emicrania.
Quando parlo di Carmen, del cane bianco e del gatto tigrato che sono la fuori, gli infermieri
annuiscono, mi guardano in silenzio, se ne vanno, lasciandomi solo con l’infinita, lancinante
disperazione, che artiglia e corrode incessantemente la mia povera anima.
Tutti i ricordi sono evaporati, lasciando solo della melma nera nel mio cervello inerte.
Vivo una solitudine angosciosa, senza speranze.
A farla diventare ogni giorno più tetra è la certezza di non avrò più neppure la possibilità di
riempirla con la fantasia, l’ho uccisa con Brenno e con lei sono morto anch’io.
Salvo che……..
Ora ho un nuovo coinquilino, occupa l’altra parte della camera, dov’ero io prima. Sto pensando
che potrei torturarlo con racconti fantastici, come Brenno ha malvagiamente tormentato me.
Forse ritornerei a vivere.
10) Nada Minoli
Alla fine si era lasciato convincere: una risonanza magnetica avrebbe chiarito le cause di quel
fastidioso dolore che lo tormentava da mesi, soprattutto di notte. Ugo aveva da poco passato la
settantina, era vedovo e i figli vivevano all’estero con le loro famiglie.
All’ospedale, fu introdotto in una grande sala dove al centro era collocata l’apparecchiatura di
risonanza magnetica. Il personale medico gli fece indossare un camice e lo invitò a sdraiarsi su un
lettino mobile, che poi scivolò all’interno di una sorta di cilindro aperto. Ma poco dopo, la
macchina si arrestò: si trattava di un guasto - dissero - che si sarebbe risolto in una decina di
minuti.
Lo fecero accomodare in una grande camera con tre letti, tutti liberi e separati gli uni dagli altri da
tendaggi bianchi. Si sdraiò con piacere; la notte non aveva dormito e, in quell’ambiente ovattato,
cominciò a rilassarsi. Poco alla volta, lasciò correre liberamente i suoi pensieri finché fu
richiamato alla realtà da rumori e voci sommesse. Era arrivato un nuovo paziente, proprio nella
cella vicino alla sua. Lo colpì il nome sussurrato dall’infermiere, ma soprattutto il timbro
inconfondibile della voce. Com’era possibile? Quando ci fu di nuovo silenzio, si fece coraggio e,
titubante, si rivolse al vicino: sei tu Ciro? Immediatamente la tenda venne scostata e, sì, era
proprio l’amico che da tempo aveva perso di vista.
Dopo i soliti convenevoli, si raccontarono i motivi per i quali si trovavano in ospedale. Ciro
soffriva di scompensi cardiaci, che tuttavia riusciva a tenere sotto controllo. Ma quel giorno la
crisi era stata più forte e, preoccupato, si era precipitato al Pronto Soccorso. Era in attesa di
essere sottoposto ad elettrocardiogramma.
Cominciarono a chiacchierare del più e del meno. Ciro era sempre stato un uomo affascinante,
molto ammirato, ricco, le donne impazzivano per lui. Non aveva figli, ma una moglie bellissima e
soprattutto paziente. Vivere con Ciro non era facile. La sua bellezza e il suo carisma lo avevano
poco alla volta portato a convincersi di essere un uomo superiore, il più intelligente e il più dotato
di tutti. Una superiorità che aveva fatto pesare anche nei suoi confronti, con il malcelato
sottinteso: tu Ugo sei goffo, non hai classe, non sai vestirti, non sai comportarti, dovresti sentirti
onorato della mia amicizia! Vicino a lui, Ugo si era sempre sentito inadeguato.
Furono interrotti da un infermiere che li informò che avrebbero dovuto attendere qualche po’
perché i problemi tecnici non erano ancora stati risolti.
Ciro disse che la moglie non sapeva nulla della sua crisi; era andata a Zurigo a trovare un’amica e
lui non aveva voluto inquietarla. Poi, con accondiscendenza, gli chiese dei suoi figli. Aveva
sempre nutrito nei loro confronti, se non un palese disprezzo, una sorta di scetticismo e di
incredulità. Poi ci fu silenzio. I due uomini si assopirono, ognuno per conto proprio, con le loro
certezze, con i loro dubbi.
Alla mente di Ugo riaffiorarono penosi ricordi: le umiliazioni che Ciro gli aveva inflitto, mentre
erano soli o in presenza di amici e persino di estranei. Le derisioni, le offese, le cattiverie gratuite
nei suoi confronti e dei suoi figli. Come in un film, rivide i momenti in cui era stato ferito nei suoi
affetti più cari da colui che gli si professava amico; avvertì lo stesso dolore sofferto in quelle
occasioni, quando le sferzate verbali gli stringevano il cuore in una morsa.
Ma poi si disse, no, sono ingiusto; Ciro mi ha comunque dimostrato comprensione e
partecipazione in alcuni momenti difficili della mia vita. Cercò di concentrarsi sulla parte buona di
Ciro, di vederlo com’era anche nei confronti degli altri. Cercò di pensare solo ai suoi atti di
generosità verso le persone meno fortunate di lui, finché all’improvviso vide tutto chiaramente.
Ciro era sì generoso, ma nello stesso tempo esigeva da coloro che aveva aiutato la più completa
devozione e sottomissione fino a rinfacciare il bene fatto se il beneficiato fosse venuto meno alle
sue aspettative.
E non era stato così anche con lui? Ciro gli era stato vicino nel momento più triste della sua vita,
salvo dimostrarsi quasi infastidito quando la sua situazione aveva cominciato a migliorare. Né
aveva esitato a tradire le sue confidenze, come argomento salace di conversazione in una cena
con amici.
Eppure Ugo aveva fatto del suo meglio per dimostrargli la sua gratitudine, lo aveva assecondato
in tutto, fino al punto di essere tacciato di servilità da alcuni colleghi.
Perché Ciro, che era stato baciato dalla buona sorte e aveva tutto per essere l’uomo più sereno del
mondo, si comportava così? Perché quel continuo astio, perché quell’arroganza e quella
sprezzante aria di superiorità nei suoi confronti e di altre persone che nessun torto gli avevano
fatto? Cercò di liberare la mente da ogni pensiero negativo; si sentì meschino, i suoi giudizi gli
sembrarono troppo severi, ma il rapporto conflittuale con l’amico d’un tempo tornò a
tormentarlo.
A un tratto sentì un gemito di dolore; spostò la tenda e lo vide pallido, le mani contratte sul petto.
Che hai Ciro? Ma non vedi, sto male, non lo capisci, fai qualcosa, chiama l’infermiere! Sei il solito
incapace!
Ugo si sentì soffocare, la bocca gli era diventata improvvisamente secca, senza una goccia di
saliva. Ripiombò nel suo tormentato rapporto con l’amico; lo guardò e lo vide inacidito, il volto
sfigurato da rughe minacciose, contratto in una smorfia di odio e di cattiveria. Cercò di muoversi,
di fare qualcosa; Ciro continuava a imprecare, ma lui rimaneva incollato al pavimento e così
rimase per lungo tempo finché i gemiti s’affievolirono. Infine si scosse e, con mano incerta,
benedì quella bocca arrogante. Riaccostò la tenda, si sdraiò sul letto e si addormentò.
Quando l’infermiere entrò per informarlo che poteva sottoporsi alla risonanza magnetica perché
il guasto era stato riparato, dormiva ancora.
Il giorno seguente, nei giornali apparve la notizia: Morte sospetta in ospedale.
11) Mattia Frigerio
Il testimone pallido
Sono fermo. Immobile. Resto fermo. Immobile.
Sorge la luna, pallida a falce o piena. Tramonta il sole, rosso, vermiglio o ardente. Le stelle
compiono il proprio giro emettendo fiochi bagliori prima di spegnersi, svanendo nel tetro
lenzuolo di sera. L’aurora sbrilluccica nei cieli cristallini sorretti da colline di vetro, sferzate da
brezze inargentate dall’autunno sbuffante. Le onde si gonfiano spumeggiando le mattine più pigre
e la risacca, come sempre, giunge e va.
Sono fermo. Immobile. Resto fermo. Immobile.
Se potessi uscire a sgranchirmi le gambe mi godrei ogni singolo attimo di vita. Mi farei
accarezzare dai raggi del sole. Strapperei un bacio alla luna. Ascolterei il frusciare melodioso delle
foglie danzatrici del vento. Sarebbe fantastico uscire.
Le mie orbite vuote bramano verdi colli e levigate maree. I buchi piatti che stanno laddove ci fu
un naso vogliono esser pervasi da mughetti, violette, fiori di ciliegio e fiori di pesco. Le mie
falangi sottili e fragili come bicchieri in vetro soffiato desiderano sfiorare vita, intrecciarsi con
altre dita, stringersi, chiudersi e poi schiudersi come crisalide.
Sono fermo. Immobile. Resto fermo. Immobile.
Qui non succede mai niente di strano. Le persiano sono sempre costantemente semiaperte. La
pianta grassa che mi fa compagnia sulla sinistra è sempre lì. Se non fosse per quella buona anima
di Angelina, nessuno la annaffierebbe. Brava Angelina, gentile e delicata. Ha un occhio di
riguardo pure per me. Ogni tanto spolvera tutta la polvere che mi si deposita fra le costole e le
vertebre. Angelina è sempre stata gentile con tutti. Anche con quel burbero idiota del primario, il
dottor Eugenio Maldisposto. Un autentico imbecille.
Sono fermo. Immobile. Resto fermo. Immobile.
Apparentemente morto. Non è vero! Fermo e immobile sì, ma vi vedo! Guardo poliziotti
sconcertati rovistare la stanza da cima a fondo. Rovesciare quei pallosissimi i saggi di medicina:
“Cardiologia e mille ingegni: come saldare un cuore”, “Il bicipite femorale non sta bene se poi
cade”, “Rotule e polmoni: per i duri di spirito”, “Lo sterno del diavolo”. Negli anni trascorsi in
questo ufficcino dalle modestissime dimensioni, modeste quanto le capacità intellettive
dell’esimio dottor Maldisposto, giuro solennemente che non ho mai visto il caro dottore aprire un
singolo volume. Preferiva trascorrere il tempo davanti al computer, un portatile dalla tastiera
consumata e appiccicosa. Ebbene sì, ho visto cose che voi pezzi di carne non potete immaginare.
O forse sì? Sorvoliamo, direi che è meglio. Non voglio giudicare. Io osservo e basta.
Sono fermo. Immobile. Resto fermo. Immobile.
Non mi è mai piaciuto il dottor Maldisposto. Arroganza e maleducazione tenuti insieme dalla
brillantina per capelli e il forte dopobarba. No. Non mi piaceva proprio. Poco importa, se ne è
andato. Intendiamoci, non è uscito dalla porta. Cioè sì, è uscito, ma non sulle sue gambe. È stato
sollevato, depositato sulla barella e trasportato fuori dal suo ufficino modestissimo. Quindi se né
andato, ma non perché ne avesse voglia. Se fosse stato per il dottor Maldisposto, a quest’ora
sarebbe ancora seduto con le chiappe strette sulla seggiola e gli occhi fissi sullo schermo del
portatile. I libri negli scaffali sempre più tristi. Un libro ha bisogno di attenzioni, di riguardo. Il
dottore non lo ha mai capito. Non capiva proprio niente.
Io sarò fermo e immobile e potrò sembrare solo un vecchio cumulo d’ossa esposto, dall’utilità di
una barca a vela in collina. Sarò fermo e immobile, è palese. Ma non sono stupido.
La gente parlava caro dottore. Se non con le parole, gli sguardi erano eloquenti. Non li hai saputi
leggere. Direi proprio di no, altrimenti ora non ti ritroveresti sotto tre metri di terra. Amico che
brutta fine. E questi buzzurri in divisa spostano la pianta grassa, rovesciando il vaso e facendo un
gran fracasso. Aprono il tuo portatile e scoprono segretucci che era meglio se rimanevano tali.
Sono fermo. Immobile. Resto fermo. Immobile.
Ero lì quel giorno. Dove sarei dovuto essere? Il giorno del cambiamento, il giorno dello
stravolgimento. Tu eri fuori a fare chissà cosa. Spero fosse utile a qualcuno, la tua professione
prevede l’occuparsi degli altri e tu non eri proprio un esperto. Ti ho notato per anni e fammelo
dire, eri una vera frana. Non te ne fregava un cazzo di niente di nessuno. C’eri solo tu e i tuoi
problemi.
Quella mattina avevi esagerato. I toni si sono alzati e sai come funziona, le parole feriscono più
della spada. Una porta sbattuta, un sigaro acceso e via. Non ti importava nulla. Una baracconata,
una scena da film. Più che un primario sembravi uno scaricatore di porto.
Si vede che doveva andare così. Un sorseggio galeotto e puff, ti sei ritrovato steso sul portatile.
Gli occhi rivoltati all’indietro e la bava alla bocca. Non una buona morte. Affatto.
Qui non succede più nulla. La porta è chiusa, la stanza sotto indagine. Questi poveri poliziotti si
chiedono come sia potuto accadere. Chi è il colpevole? Cosa è accaduto nell’ufficio del primario?
Chi c’era con lui?
C’ero io. Io sono sempre qui. Fermo e immobile. Presente.
Vorrei poter esser d’aiuto, ma la mia bocca è sigillata in un macabro sorriso.
Sono fermo. Immobile. Resto fermo. Immobile.
12) Arianna Rezzonico
L’ospedale delle anime
Le stelle sono gelide e brillano con indifferenza nel cielo oscuro. Come dame insuperbite dalla
loro stessa bellezza, non sembrano prestare attenzione alla follia del mondo.
Il corridoio dell’ospedale è vuoto, le luci sono spente. Elias chiude la porta della stanza. Lo fa
lentamente, per non svegliare la sua ragazza. Il giovane è nervoso, si stropiccia l’orlo della giacca
con le dita, sposta il peso da un piede all’altro e si guarda attorno. Il suo viso è colmo di
preoccupazione e paura, le occhiaie dovute alla mancanza di sonno gli infossano gli occhi castani.
Con uno scatto esausto, Elias si avvicina al lettino d’ospedale e guarda la sua ragazza. Eva. Lei sta
dormendo, il suo corpo seminudo si è già ricoperto di lividi violacei, la pelle bianca sembra
riflettere la luce delle candele che Elias ha acceso per non restare al buio. Elias detesta il buio, gli
fa paura, gli ricorda un abisso profondo quanto quello del Tartaro, un terrore primordiale che gli
impedisce di dormire.
Accanto al lettino di Eva è posata una rosa rossa. Elias l’ha scelta con attenzione, perché fosse
perfetta. Dà un tocco romantico alla stanza, che altrimenti risulta tristemente spoglia.
- Se solo tu non avessi… - mormora il ragazzo, rivolto alla giovane dormiente. Non finisce la
frase. Non sa cosa dire. E dopotutto, probabilmente lei non puó sentirlo. È comunque bellissima,
pensa, contemplando i capelli biondi tagliati alla moda, i lineamenti distesi nel coma, le dita
pallide dalle unghie rotte e sanguinanti. Elias distoglie lo sguardo. Si sente colpevole per ció che è
accaduto e inizia a tormentarsi le mani. Vorrebbe rivelarle il suo dolore, confidarsi come quando
erano bambini, ma lei non puó sentirlo. Le accarezza la pelle morbida del braccio per tutta la sua
lunghezza fino al polso, dove la corda ruvida è avvolta cosí stretta da lasciare il segno. Una
precauzione necessaria, che peró gli lacera il cuore. Le dita di Elias salgono fino alla spalla di Eva,
per poi sfiorarle il seno attraverso la canottiera stracciata. Si sente inebriato da questo contatto, in
un modo che neppure lui sa spiegare. Elias non ha mai fatto l’amore con una donna. Gli tornano
in mente tutte le bugie dette a Jason, tutte le storie inventate a riguardo. Ma non avrebbe mai
potuto essere sincero con l’amico. Jason non avrebbe potuto capire. Non avrebbe mai accettato
di condividere Eva con qualcuno. Eppure Elias non aveva mai avuto bisogno di toccare Eva, fino
a questo momento. Lei è sempre stata mia. I nostri cuori sono gemelli tanto quanto i nostri volti.
Il pavimento dell’ospedale è bianco, ma impolverato al punto da sembrare grigio; una siringa
giace accanto alla parete ricoperta di graffiti, quasi si confonde tra i frammenti di intonaco.
Guardandosi attorno, Elias ha l’impressione di trovarsi da qualche parte tra Inferno e Paradiso.
Dove c’è peccato puó esserci redenzione?
Eva respira lentamente, un rivolo di sangue rappreso si è formato vicino all’attaccatura dei capelli.
Elias sente un nodo afferrargli la gola. Non sarebbe mai dovuta andare in questo modo, ma le
cose gli sono sfuggite di mano. Fin dalla nascita lui e Eva si erano amati come nessun altro
avrebbe mai potuto comprendere. Quando lei si era innamorata, Elias era stato felice che ci fosse
Jason a fotterla al posto suo. Non era mai stato geloso. Non aveva mai avuto bisogno di toccare
Eva, per amarla. La loro era da sempre una perfetta simbiosi, anche se forse lei non l’aveva
ancora capito. Ma lei ha rovinato tutto.
Quando il loro bambino era morto, Elias aveva perduto un pezzetto di se stesso. Un dolore
insostenibile.
Sarebbe stato un bel bambino, Eva, con gli occhi di Jason e i tuoi capelli. I miei capelli. Sarei stato
suo padre, e lui non l’avrebbe mai saputo. Gli avrei insegnato ad andare in bicicletta e a recitare
l’alfabeto. Invece non è mai nato, strappato alla vita prima ancora di respirare il suo primo
respiro. Mentre osserva la sorella in coma, Elias sente il cuore riempirsi di rabbia e disperazione.
Suo figlio è morto. Il loro bambino perfetto. Il bambino di Jason e di Eva, il figlio della sua
ragazza, gemella amata, copia perfetta.
Elias si china sulla giovane. Le bacia la fronte, le labbra, il collo, il seno. La abbraccia, stendendosi
goffamente su di lei. Elias non ha mai fatto l’amore con una donna e non lo farà adesso, non con
lei. La rispetta troppo per farlo. Peró sente il bisogno di avvertire il suo corpo contro quello di lei,
l’odore dei capelli di Eva mischiato all’odore dei suoi capelli. In fin dei conti, lo stesso odore.
Senza staccarsi dalla gemella, Elias tira fuori la pistola dalla tasca della giacca. Sta piangendo ora,
le lacrime scivolano copiose lungo le sue guance.
- Lo capisci, Eva, non è vero? – mormora, togliendo la sicura. La pistola è caricata con due
pallottole.
- Dobbiamo riparare al tuo gesto. Dobbiamo riunirci al nostro bambino. – sussurra ancora Elias
– Riconosci questo posto? È qui che siamo nati, Eva. Qui è cominciato tutto, e qui deve anche
finire. – aggiunge. Scruta il volto della sua ragazza, ripensando al modo in cui l’ha aggredita sotto
casa sua quando lei si è rifiutata di seguirlo all’ospedale. Ancora pallida dopo l’aborto, aveva
cercato di lottare, ma non aveva mai avuto alcuna chance contro la forza del fratello. Elias stringe
la presa sull’arma.
- Questo ospedale ci ha dato la vita. Avrei voluto che nostro figlio nascesse qui, invece tu l’hai
ucciso. – dice.
Un colpo di pistola rimbomba nei corridoi dell’ospedale abbandonato. Un secondo sparo lo
segue immediatamente. Attorno al vecchio edificio si accendono le luci di alcuni appartamenti.
Nella stanza d’ospedale il pavimento non è piú né bianco né grigio, bensí rosso scuro. La brezza
passa sussurrando attraverso i vetri incrinati, le candele si spengono, l’abisso si apre. A terra giace
Elias, la pistola ancora stretta tra le dita pallide. Sopra alla divisa, un distintivo brilla alla luce delle
stelle.
Forse, finalmente, la loro attenzione è stata destata.
13) Prisca Gilardi – Herber
Il manutentore
L’aveva visto nascere, crescere ed essere inaugurato!
Da quaranta anni, ogni mattina, quando le prime luci del giorno cambiano i colori del cielo sopra
il monte Caprino, Lui timbrava il cartellino di presenza. Anche dopo molti anni guardava l’alto
edificio con una strana sensazione.
Forse il “Civico” non gli perdonava di sapere tutto di lui; tutti i suoi segreti! Anche quel mattino,
prima di infilare la vettura nel sotterraneo, il manutentore Giacomo Cantelli guardò con aria di
sfida il suo luogo di lavoro; sebbene il giorno non aveva ancora conquistato il dono della luce, là
molte finestre erano già illuminate. Lì la notte è difficile sia per chi ne è ospite sia per chi ci
lavora. Giacomo timbrò il cartellino e si recò nel piccolo ufficio. Su una bacheca c’erano tante
richieste da parte dei vari reparti; rubinetti da cambiare, bombole della sala operatoria da
sostituire, qualche problema all’impianto di aereazione ed altre incombenze eseguite innumerevoli
volte. Poi, come da sua abitudine, volle vedere se c’era qualche cliente partito durante la notte per
l’ultimo viaggio. Ebbe un momento di incredulità e poi tutto si svolse in un attimo…
Il responsabile della manutenzione del Civico si stupì che uno dei suoi collaboratori, sempre tra i
primi a giungere sul posto di lavoro, non fosse ancora arrivato. Sicuramente avrebbe telefonato.
Poi il lavoro gli fece scordare per un po’ l’assenza di Giacomo. Il caso volle che dovette scendere
nel parcheggio e notare così che la vettura del suo collaboratore era regolarmente parcheggiata.
Cercò di chiamarlo al cellulare, ma non ebbe nessuna risposta. Chiamò gli altri collaboratori, gli
uffici dei piani e pure i punti di ristoro per chiedere se l’avessero visto. Tutti lo conoscevano, ma
nessuno, quel mattino aveva visto Giacomo! La direzione controllò se avesse timbrato il
cartellino. La sua presenza era certa! Nessun immagine “strana” dalle telecamere. Si telefonò ai
parenti che si allarmarono, ma non poterono dare ragguagli utili; Giacomo viveva da solo. Infine
fu chiamata la polizia. Si aveva bisogno di aiuto per le ricerche soprattutto nei molti locali di
servizio ed anche nei luoghi limitrofi in cui Giacomo avrebbe potuto trovarsi e probabilmente
aver bisogno di aiuto. Il commissario Bernasconi, per quasi tutti il “Berna”, fu incaricato di
recarsi al Civico per il caso. Lui chiamò subito il suo amico “Rezza” all’anagrafe Tarcisio
Rezzonico, proprietario o meglio conduttore di Ask, il cane molecolare addestrato per la ricerca
di persone scomparse, il quale dopo aver aspirato con il suo nasone buona parte dell’entrata di
servizio, trovò il cellulare in un ascensore. Rotto, nessuna impronta a parte quelle di Giacomo.
Più le ore passavano più la ricerca diventava difficile. Pure al domicilio di Giacomo si cercò
qualcosa che poteva essere un indizio. All’ospedale invece si doveva procedere con riservatezza
per non allarmare chi già aveva altri seri problemi. Nessuno, quel giorno, a parte la polizia poté
accedere ai sotterranei, unica concessione per gli addetti di un’impresa di onoranze funebri che
dovevano prendersi in consegna una defunta, già preparata per l’ultimo viaggio la sera
precedente.
La notizia della strana scomparsa si divulgò rapidamente. Telecamere e giornalisti arrivarono
presto! Neppure l’angosciata famiglia di Giacomo fu risparmiata da domande imbarazzanti.
Trascorsero così più di 24 ore dalla scomparsa del manutentore.
Non molto lontano un’altra famiglia piangeva una mamma e nonna alla quale si stava rendendo
gli ultimi onori.
Fuori dalla chiesa il responsabile della ditta di onoranze funebri, era particolarmente pensieroso.
Lui medesimo aveva proceduto a sistemare nella bara un esile donnina, perché ora la bara gli
sembrava così pesante? Certamente era un po’ di acciacco mattutino che gli faceva sembrare
pesante ciò che non lo era! Ebbe ancora quella sensazione salendo gli scalini del crematorio. Di
solito in quel momento si comunicava discretamente all’addetto del posto se la persona era
corpulenta o meno. Durante l’esecuzione dei brani musicali i dubbi sugli acciacchi mattutini del
necroforo si fecero più inquietanti. Un pensiero si fece largo nella sua mente! La scomparsa del
manutentore che lui conosceva bene da molti anni e quel peso della bara che gli sembrava
strano…
Doveva fermare l’incenerimento!
Mentre le note di “Va’, pensiero” risuonavano nel tempio lui chiamò il Berna. Tutto fu fatto in
modo molto discreto. La bara fu aperta! Giacomo era là, in compagnia. Causa della morte:
Rottura dell’osso del collo. Iniziarono così le indagini che da subito si dimostrarono assai
complicate. Tante le persone che tutti i giorni entrano all’ospedale e senza grandi difficoltà anche
nei locali di servizio. La vita di Giacomo e quella dei suoi colleghi furono scandagliate
all’inverosimile. Nessun indizio valido! Dopo molto tempo e tante indagini il “Berna” dichiarò il
caso irrisolto.
Alcuni mesi dopo, un uomo fu ricoverato per l’ennesima volta e forse per l’ultima. Là, mesi
prima, aveva appreso di essere un malato inguaribile. Aveva accolto la notizia con incredulità ed
angoscia. Mai nella sua vita si era confrontato con la malattia e la morte. Mai aveva voluto vedere
un cadavere e nemmeno un funerale. Ma come era un morto? Voleva vederlo, toccarlo! Era quasi
giorno, trovò e si infilò un camice, scese nei sotterranei, trovò la camera mortuaria: c’era una
bara, ebbe il coraggio di aprirla. Mentre toccava l’esile defunta fu scoperto. Giacomo,
scambiandolo per un necrofilo lo aggredì. Una spinta, una caduta sul bordo del tavolo di marmo.
Poi silenzio. Gli occhi sbarrati ed immobili di Giacomo guardavano il soffitto. Un’idea folgorò la
mente dell’uomo. Mettere l’esile uomo in tuta, il camice ed i guanti nella bara e richiuderla.
Dopo molte sofferenze, l’uomo oramai allo stremo delle forze, decise che era giunto il momento
di liberare la sua anima da quel segreto. Lo fece e per un ultimo attimo si sentì finalmente guarito!
14) Marco Ortelli
Chi ha ucciso Barba Gianni?
Prologo
Mi hanno chiamato Gianni Barba e mi rado di rado (Nomen
omen?).
Parte prima
Cammino sorridente, sereno, ipdante lungo le corsie del
malatorium che è la mia città: “♪♫ Questo mondo mi ha rotto i
coglioni, mi ha rotto i coglioni, mi ha rotto i coglioni, corrono in
cerchio equivoche soluzioni, equivoche soluzioni, equivoche
soluzioni, sale la lira, il franco va giù, sparisce il denaro, sparisci
anche tu… ♬♩”. Uno dei miei rapper preferiti. Potrei descrivere quel
che vedo, ma non ne ho voglia, sono in vacanza, e poi l’hanno già
fatto autorevoli narratori e anche tutti gli altri prima di me. E
durante. Davanti a una pasticceria, una torta di fragole mi guarda.
M’invita a entrare. “6 franchi”. Non trovo il portamonete. Frugo in
tutte le tasche a disposizione. Niente. Sudo. Impallidisco. Né la
cassiera né il cliente vicino possono o vogliono farmi credito. O un
regalo. Saluto imbarazzato. Mi ritrovo on the road. Ripercorro
mentalmente le tappe dello smarrimento. O del furto? Letto.
Sveglia. Bagno. Doccia. Barba. Vestizione. Ascensore. Strada… Le
ripercorro: Letto. Sveglia. COMODINO! Sì, eccolo lì! Mi
tranquillizzo. Decido di proseguire la giornata senza
portamonete. Succede che cammino per strada senza potere fare
qualcosa se non camminare per strada. O entrare in negozi e
supermercati e guardare senza toccare. Due uomini della sicurezza
consegnano un giovanotto a un poliziotto. Lo stomaco segnala fame.
La pasta al pomodoro un’astrazione. Ciao Platone. Cammino.
Incrocio impiegati. Una donna ingioiellata e ‘in età’ con un uomo di
mezza età. Un chiosco. Un ragazzo gioca al Lotto. Mi siedo su una
panchina all’ombra di una banca in fiore. Un barbone (senza barba,
sorrido) fruga in un cestino per i rifiuti. Torno sui miei passi.
Ingresso di casa. Bucalettere. Una lettera.
Parte seconda
… Bla bla bla… con la presente le comunichiamo… bla bla bla…
LICENZIAMENTO! Sbando. Mi siedo. Mi alzo. Panico. Rabbia. Un
coltello da cucina giapponese. Lo afferro. Mi precipito. Mi fermo. Mi
siedo. Inspiro, Espiro. Inspiro. Espiro. "♪♫Questo mondo mi ha rotto
i coglioni, mi ha rotto i coglioni, corrono in cerchio equivoche
soluzioni, equivoche soluzioni, equivoche soluzioni, sale la lira il
franco va giù, sparisce il denaro sparisci anche tu”♬♩”. L’affitto? La
cassa malati? L’assicurazione? Il cibo? La vita. Vivere dipende
dalla presenza o meno del denaro. V=f(pd). Domani è un altro
giorno si vedrà... Sveglia. Letto. Domani è un altro giorno... Sveglia.
Letto. Domani è un altro giorno... Sveglia. Letto. Domani è un altro
giorno... Sveglia. Letto. Una rapina in banca? La vedova allegra!
L’ufficio disoccupazione? La ricerca di un impiego! Domani è un
altro giorno... Sveglia. Letto. Domani è un altro giorno... Sveglia.
Letto. Lettere. La cassa malati. L’assicurazione. L’immobiliare
Parte terza
f ra
S
ttat !
o
Vivo on the road. La luna. I falò. Le pattumiere i miei supermercati.
Tra i diversi piatti principali proposti dalla carta dei modi di vivere
del mondo in cui vivo (“Impiegato”, “Disoccupato”, “Mantenuto”,
“Ladro”, ...), ho scelto “Barbone”. E per dessert il deserto. Forse era
già tutto scritto. Nome cognome professione del padre. Nevica.
Piove. Luce. Buio. Dormo. Sogno…
Parte quarta
G
n
n
i
a
B
r
b
a
a
Parte quinta
“Rinvenuto in avanzata fase di decomposizione il corpo di un uomo.
Si ignorano al momento le cause del decesso”.
CHI HA UCCISO BARBA GIANNI?
FINE
♪♫
Questo mondo
mi ha rotto i coglioni
mi ha rotto i coglioni
mi ha rotto i coglioni
Corrono in cerchio
equivoche soluzioni
equivoche soluzioni
equivoche soluzioni
Sale la lira
il franco va giù
sparisce il denaro
sparisci anche tu
♬♩
15) Elisa Signorelli
Non era un segreto di stato che negli ospedali ci fosse un problema riguardo il sovraffollamento.
Se una persona si recava al pronto soccorso in un giorno festivo in preda ad un calcolo renale
particolarmente doloroso doveva mettere in conto di ritrovarsi stipato in una minuscola stanza
impregnata di quello stomachevole puzzo di disinfettante insieme ad altre due o tre lagnosi e
petulanti pazienti con le più fantasiose particolarità.
Quel giorno, però, Thomas Mail non aveva minimamente messo in conto di ritrovarsi come
compagno di stanza un avvenente giovane muscoloso e tatuato con un polso ammanettato al
bordo del letto.
“È una situazione d’emergenza, non possiamo fare altrimenti” aveva risposto l’infermiera quando
Thomas aveva chiesto delucidazioni riguardo la faccenda, altro non era riuscito a scucire, né a lei
né alla guardia carceraria che sorvegliava la porta costantemente da quando era arrivato imbottito
di antidolorifici.
Doveva essere operato la mattina successiva salvo un precipitoso peggioramento che lo avrebbe
fatto balzare in cima alla lista delle emergenze, ma per il momento i farmaci stavano svolgendo
discretamente il loro lavoro. Di tutt’altra prognosi era il suo compagno di stanza, reso loquace
dalla morfina, e che in alcuni momenti di delirio si era permesso di raccontare a Thomas qualche
stralcio della sua vita: Gregory Hogs, 32 anni, un’infanzia travagliata, cattivi amici e cattive
abitudini che l’avevano portato a otto anni di carcere (di cui ne aveva scontati già sei, e che
sperava si riducessero a sette per buona condotta) per aver ucciso la figlia tredicenne di un
“cliente” troppo lento nel pagare. Il particolare più raccapricciante, e che aveva più volte ripetuto
con fierezza, era di non essere minimamente pentito dei suoi trascorsi, specialmente il motivo
della sua condanna. Forse il karma aveva iniziato a dare un minimo del suo contributo siccome si
era ritrovato il giorno prima in balia di una violenta appendicite, che l’aveva portato in quella
stanza d’ospedale. Fortunatamente (nonostante Thomas lo credeva un gran peccato) l’operazione
era andata egregiamente, e nel giro di due giorni al massimo Mr. Hobs sarebbe, parole sue,
tornato nel suo regno dietro quelle sbarre inesistenti a spassarsela ancora un po’ per poi ritornare
in pista appena rilasciato.
Thomas per tutto il tempo era rimasto in religioso silenzio.
La notte si era lentamente sostituita al giorno, e con estremo sollievo di Thomas l’infermiera del
turno di notte era arrivata per spegnere le luci, insieme all’ultima dose di medicamenti che
finalmente fecero addormentare il suo inquietante compagno di stanza, mentre sfortunatamente
per lui i farmaci non fecero lo stesso effetto, lasciandolo insonne a fissare il soffitto.
Mr. Hobs , se non per qualche raro grugnito sommesso, non dava segni di volersi alzare per
commettere altri omicidi, fortunatamente. Non si scompose nemmeno quando Thomas sentì
delle voci appena fuori dalla camera. Bisbigliavano talmente a bassa voce da non riuscire a capire
neanche una parola, ma poteva cogliere una certa tensione nell’aria.
Passarono pochi minuti e la porta lentamente si aprì, proiettando una lama di luce sul pavimento,
e Thomas convenne che era meglio fingere immediatamente di dormire. Chiuse gli occhi,
tendendo al massimo le orecchie, sentendo i passi di diverse persone farsi strada verso il letto di
Mr. Hobs… e non solo.
Una mano gentile si appoggiò sulla sua spalla scuotendolo debolmente, e Thomas inscenò un
finto risveglio da manuale.
-Signor Mail, è sveglio?- disse dolcemente l’infermiera del turno di notte, una ragazzina dal viso
pulito e visibilmente teso.
Il resto accadde talmente in fretta che per Thomas inizialmente fu difficile capire: l’infermiera
tanto carina gli aveva annunciato, con voce palesemente impostata come se stesse leggendo le
battute di un copione, che le sue ultime analisi non erano per niente rassicuranti, e che per quel
motivo il medico aveva insistito per operarlo d’urgenza immediatamente.
Mentre trasportavano il suo letto fuori dalla stanza vide una scena abbastanza insolita: un medico,
con siringa alla mano, due infermieri piuttosto robusti e la guardia carceraria erano disposti tutti
intorno al letto di Mr. Hobs, ora sveglio, e con una espressione che lo sorprese: puro terrore.
La mattina dopo, quando Thomas si svegliò di nuovo nella sua stanza intontito dall’anestesia, ma
con decisamente meno dolori, per qualche istante si stupì di trovare nel letto di fronte al suo un
adorabile ottantenne con la testa fasciata da un consistente bendaggio, e non il decisamente più
tonico Mr. Hobs. Fece qualche domanda alla giovane infermiera carina della scorsa notte, e lei
blaterò soltanto qualche parola come “infezione e resistenza ai batteri” o “la vita a volte è troppo
fragile”, insomma, quel tanto che bastava a far capire che il carcerato era passato a miglior vita.
Più volte Thomas fissò il telefono accanto al letto, chiedendosi se fosse una buona cosa chiamare
la polizia e raccontare quello che aveva visto, lo sguardo di terrore di Mr. Hobs che sembrava
chiedere pietà alle persone attorno al suo letto difficilmente se lo sarebbe scordato, ed era più che
sicuro che quella non fosse l’espressione di una persona in punto di morte, o almeno non
consapevolmente. No, decisamente non doveva essere stata una fatalità così come gliel’avevano
raccontata. Quei pensieri lo tormentarono per tutto il giorno, tanto che la sera, quando portarono
l’arzillo ottantenne a fare una passeggiata per i corridoi, Thomas alzò la cornetta, pronto a
digitare il 911 per denunciare l’accaduto. Fu prima di digitare l’ultimo numero, però, che gli
vennero in mente le parole di Mr. Hobs. Ricordò la sua soddisfazione nel raccontare della
ragazzina di tredici anni.
Thomas dopo qualche secondo d’attesa cancellò il numero precedente e compose quello di sua
moglie, per raccontargli il tragico destino del suo ormai ex compagno di stanza. L’appendicite
non si doveva mai sottovalutare.
16) Roger Annen
Donazione involontaria
Lo sbaglio dei medici, la terra ricopre!
Mentre aprivo la porta della stanza, ricordai una delle citazioni preferite del nonno, in genere
declamata davanti ad un quotidiano aperto alla pagina “dei morti”, con una tazza di caffè in mano
e gli occhiali puntati come testimoni dell'accusa sull'elenco dei defunti recenti, alla ricerca dei
decessi “sospetti”.
Lui era già lì.
Incrociai il suo sguardo, scoprendo che la tristezza colpiva anche le persone più forti.
Mi salutò, prima di tornare a concentrarsi sul corpo esanime della nonna, sul letto d'ospedale.
Lacrime di pioggia rigavano la finestra.
Ero accorso appena mi aveva chiamato. Mi ero precipitato lì guidando come un pazzo (anche se
di solito i defunti non scappano), per non lasciarlo solo. Temevo che avrebbe fatto una scenata.
Non era un tipo iroso, ma sospettoso sì. E in questo caso potevo capirlo.
Nonna Marta era stata ricoverata la notte prima per una semplice infezione al pollice procurata
dal morso del suo gatto. Né io né il nonno ne avevamo capito il motivo. Sarebbe bastato un
antibiotico e poi a casa, no? Marta non metteva piede in ospedale da quasi 40 anni ed aveva
sempre avuto una salute formidabile.
La sera prima il personale del pronto soccorso si era meravigliato dello stato dei suoi valori.
Pressione perfetta, vista d'aquila. I risultati delle analisi avevano generato espressioni stupite: a 70
anni la nonna aveva l'aspetto di una sessantenne e la salute di una giovane.
Eppure era stata ricoverata. Ordine del medico.
«Per sicurezza», aveva spiegato. «Ad una certa età non si sa mai»
La sagoma immobile adagiata sul letto pareva dormire, i bianchi capelli confusi nel candore del
cuscino, il profilo delicato inciso nel marmo. I suoi genitori avevano coltivato per lei l'illusione di
una carriera nel cinema. Ma poi lei aveva conosciuto il nonno.
Mi pareva di vederli. Lei bellissima e gioviale e lui un giovane poliziotto pieno di adorazione e di
ambizione, in un'epoca e in un luogo nei quali il futuro appariva come una mela succosa pronta
per essere addentata.
Avevano avuto una vita felice ed ora lei era morta. Così, senza preavviso.
Il nonno stava in piedi, immobile e imponente nel suo mantello scuro. Niente a che vedere col
tenente Colombo. Piuttosto un generale in pensione che osserva il risultato di un'azione di guerra
malriuscita, mentre riflette su come punire il colpevole.
Le parole sciolsero il nodo che avevo in gola e riuscii a chiedere: «Si sa come sia successo? Stava
così bene»
Incrociai il suo sguardo color del ghiaccio e, dietro la patina di dolore, scorsi dell'altro. Un abisso
nel quale fremeva una rabbia repressa, a stento controllata. Non avrei voluto essere presente
quando la lava che ribolliva in quelle profondità fosse eruttata in superficie. Ero felice che non
circolasse più armato. Oppure sì? Forse gli investigatori in pensione potevano farlo.
Voleva dire qualcosa. Potevo avvertire, dietro l'ampia fronte, gli ingranaggi in movimento. Stava
per condividere un segreto.
La porta si spalancò ed entrò un'infermiera con un carrello carico di oggetti misteriosi. Ci rivolse
un saluto di efficiente empatia e si avvicinò al letto. Il nonno la osservava attento.
Volsi lo sguardo verso l'uscio e vidi una giovane donna in camice da medico, molto carina. Ci
rivolse un saluto ed avanzò di qualche passo, stringendomi la mano. Aveva stupendi occhi verdi.
«Condoglianze», disse, con voce profonda e dolcissima. Un angelo, pensai.
Ero già conquistato. Notai che al polso portava un braccialetto colorato, un po' kitsch, che
contrastava con l'aria di austera professionalità. Nessuna fede all'anulare sinistro.
La dottoressa (con mio grande disappunto) si rivolse al nonno, che la fissava, scuro in volto.
«Mi spiace per la sua perdita, signor Ferri», disse, in tono professionale, «Ma dobbiamo occuparci
subito dei trapianti. Come saprà, in questi casi bisogna agire con urgenza»
Le labbra del nonno divennero una linea sottile.
«Di cosa sta parlando?», ringhiò.
La giovane fece un passo indietro.
«Nonno...», dissi, ma lui mi fulminò con lo sguardo.
La dottoressa si ricompose.
«Sua moglie è... mi scusi... era una donatrice di organi e...»
«Donatrice? Che cosa sta dicendo?», la interruppe lui.
«Abbiamo trovato una tessera nei suoi effetti personali, dobbiamo agire subito. C'è un paziente
che aspetta un trapianto di reni»
Mio nonno strinse gli occhi ed ero certo che stesse per piangere. Invece estrasse un cellulare dalla
tasca e mormorò: «Potete venire»
«Se ci faceste la cortesia di uscire, noi...», disse la dottoressa.
Il nonno non si mosse, ed io non volevo lasciarlo solo. Permettemmo al silenzio di calare su ogni
cosa, enfatizzando i suoni ospedalieri. Voci nella corsia. Passi strascicati, frettolosi, titubanti,
decisi, in avvicinamento...
La porta si spalancò di nuovo ed entrarono due poliziotti, che rivolsero al nonno un cenno
d'intesa.
«Arrestatela! Ha ucciso Marta», disse questi, indicando la dottoressa. «Ora conosco sia il movente
che il colpevole. Questa donna riceve dei compensi in cambio di organi sani, uccidendo i
degenti».
Lo fissai allibito. Doveva essere impazzito.
«La prova è qui», continuò il nonno, mostrando una piccola videocamera. «L'avevo lasciata sul
comodino, collegata alla rete wireless, rivolta verso mia moglie. Volevo essere certo che stesse
bene. Negli ultimi cinquant'anni abbiamo sempre dormito assieme ed era un modo per esserle
vicino. Quando sono arrivato ho guardato il filmato e...»
Rivolse lo schermo verso i due poliziotti. Mi spostai per vedere. La nonna dormiva in posizione
supina, illuminata da una tenue luce. Una forma confusa si avvicinò al letto. Un camice. Una tasca
da cui sbucava uno stetoscopio.
Una mano avvicinò una siringa al tubo per la fleboclisi e vi iniettò qualcosa. Forse solo aria.
Sarebbe bastato. Un dettaglio mi turbò. Un braccialetto colorato circondava il polso delicato di
un angelo.
17) Giorgio Romano
Il trapianto
Correva l`anno 21… John abitava in una grande città in California. Era scapolo. Suo fratello Sam
in vece era stato sposato, aveva divorziato e si era trasferito al Nord, sulla costa occidentale.
Nessuno dei due aveva figli. John riuscì ad alzare le palpebre con fatica. Si sentiva immerso in una
nube. Una foschia frammista ad una luce accecante gli arrivavano direttamente negli occhi ora
semi-aperti. “ John, John apra bene gli occhi. Forza. Okay .Mi sente. Ha avuto un grave
incidente. L`aero-mobile che lo portava al lavoro è esploso al decollo. Numerosi passeggeri sono
morti, ma lei e altri si sono salvati. E`stato in coma. Ora si trova all`ospedale di San Diego. Non
può muoversi, né parlare perché è sedato e intubato. I suoi polmoni sono stati gravemente
danneggiati dai gas sprigionati dallo scoppio. Se ha capito faccia un segno con le mani “. Fu a
qual momento che John si rese conto di una oppressione dolorosa a livello del torace e che era
impedito di respirare liberamente. Mosse le mani lentamente. Gli infermieri si davano il turno ad
accudirlo e tre o quattro volte al giorno sentiva ripetere quelle parole ….. incidente …. scoppio
…. ospedale --- polmoni … Lentamente realizzò cosa era successo e dove si trovava. Dopo una
settimana tolsero il tubo e lo trasferirono in reparto sotto una tenda ad ossigeno. L` infermiere di
notte prese tempo e gli spiegò lo stato esatto dei suoi polmoni. Il danno era stato notevole e
irrimediabile. L`unica possibilità di sopravvivenza era un trapianto di entrambi, il polmone
destro e il polmone sinistro. La mattina seguente il medico di turno confermò quanto già sapeva
aggiungendo che bisognava far presto. In quelle condizioni poteva tirar avanti al massimo
qualche settimana. Ma trovare un donatore non era cosa facile, comunque avrebbero fatto il
possibile. Intanto doveva rimanere in ospedale sotto la tenda. Seguirono ore di disperazione e
sconforto : angosce e speranze si alternavano nella mente di John, momenti di panico lo
assalivano all`improvviso. Lo stesso infermiere la notte seguente lo informò sulla penuria di
organi. Le guerre imperversavano da decenni in tutti i paesi per accaparrarsi le materie prima e
l`acqua. Le risorse energetiche pure scarseggiavano. Bande di criminali spadroneggiavano in tutti
gli ambiti. La corruzione dilagava ad ogni livello. La sicurezza delle persone non esisteva più. Gli
organi disponibili per i trapianti erano pochi ed aspramente contesi. Un mercato sotterraneo in
mano alla mafia prelevava gli organi dai corpi di soldati morti in guerra, ma anche in altro modo,
senza scrupoli. Non indietreggiavano davanti a nulla. Procurarsi un organo sano che fosse poi
anche compatibile con chi lo doveva ricevere era costoso. Ci voleva tempo e denaro. Almeno
200.000 dollari. Lui poteva aiutarlo se voleva a reperire i polmoni adatti. L`ospedale non avrebbe
fatto storie sulla provenienza. Un chirurgo che tenesse la bocca chiusa, anche questo si trovava.
John impiegò 3 giorni tra dubbi, scrupoli di coscienza, paure e timori, ripensamenti per
decidere. Poi acconsenti. Tutto filò liscio, l`intervento riuscì e una ventina di giorni dopo John
poté lasciare l`ospedale e rientrare a casa. I numerosi robot di cui era dotata l`abitazione si
rilevarono molto utili. La terapia anti-rigetto funzionava bene e le forze stavano ritornando. Si
sentiva meglio, i sensi di colpa erano quasi scomparsi e si compiaceva a volte di quello che aveva
fatto, dove altri avrebbero avuto paura e desistito. Al lavoro sarebbe andato dopo due mesi. Si
ricordò che il fratello l`aveva sentito una delle prime settimane in ospedale, poi più nulla. Lo
cercò per teefono, visto che abitava sulla costa occidentale degli Stati Uniti , ma nessuno
rispondeva. Aveva gli indirizzi di qualche amico comune, li contattò ma anche loro non avevano
notizie di Sam. Iniziò a preoccuparsi temendo che durante la sua malattia al fratello fosse
successo qualcosa di grave. Al lavoro non lo avevano più visto da un mese. Da un giorno all`altro
era svanito nel nulla. Sulla sua scrivania vi erano ancora i dossiers inevasi. John si mise in ansia.
La notte non dormi e il mattino dopo chiamò gli ospedali, le case di cura, la polizia, ovunque
potessero dargli delle informazioni utili. Invano. Alcuni giorni dopo che aveva iniziato le ricerche
sul giornale locale apparve la notizia che era stato ritrovato il corpo di uno sconosciuto, a pochi
miglia dall`ospedale di San Diego, in avanzato stato di decomposizione, in un fosso a lato della
strada, in mezzo agli arbusti con un foro di proiettile in testa. La particolarità era che al corpo
mancavano cuore e polmoni. La polizia supponeva o che fossero stati asportati da qualche
animale randagio o che l`uomo fosse rimasto vittima di delinquenti specializzati in traffici di
organi che operavano spesso in vicinanza di ospedali. Già in altri uomini e donne erano stati
ritrovati mancanti di qualche organo. John in un primo momento non fece caso alla notizia poi
improvvisamente una grande paura lo assali. Si senti invadere da un gran caldo che dal basso
saliva verso l`alto fino ad riempirgli la testa. E se quel cadavere fosse di suo fratello ? No.
Assurdo. Impossibile. Sam abitava sull`altra costa del paese, lontano molte miglia. Ci volle più di
una ora prima che si decidesse a telefonare alla polizia ed esprimere i suoi dubbi. Diede l
`indirizzo del fratello. Che andassero a controllare. Le ore che seguirono, in attesa di una
chiamata, lo misero in un stato di agitazione estrema e di sgomento. Quando il telefono squillò
John esitò ad alzare la cornetta poi si decise. “ Si, abbiamo verificato. Purtroppo il corpo ritrovato
è proprio quello di suo fratello Sam. Ci dispiace. Deve essere rimasto vittima di trafficanti di
organi, prelevato da casa e trasportato vicino all `ospedale di San Diego e li ucciso. Dovrebbe
passare, da noi , al commando di polizia, sezione omicidi…
18) Daniele Gervasoni
Il prezzo della fiducia
“Numerose ferite d’arma contundente, possibili trauma cranico ed emorragia interna servono
subito …”
“Lo stiamo perdendo, ancora, ne serve ancora…”
Frammenti senza senso di frasi concitate ronzavano nell’aria intorno a lui mentre perdeva e
riprendeva conoscenza a intermittenza, come un vecchio tubo al neon giunto alla fine dei suoi
giorni che si accende e si spegne, si accende e si…
Ma nulla di tutto ciò aveva importanza, ricordi confusi gli danzavano all’interno della scatola
cranica, troppo veloci perché lui riuscisse a riacciuffarli così da rimettere in sesto quel puzzle
frantumato che era la sua memoria. Doveva ricordare, qualcosa di importante era successo, lui
doveva ricordare lui DOVEVA rimettere insieme i pezzi.
Il dolore. Il dolore era la sua unica certezza. Avvolgeva ogni singolo arto del suo corpo come un
bozzolo stritolandolo in spire sempre più strette, come se un gigantesco ragno invisibile
stringesse sempre di più la trama, curioso di sapere quando la pressione avrebbe fatto saltare gli
occhi fuori dalle orbite.
Perse conoscenza. Quando si risvegliò era buio, gli sembrava di non possedere più un corpo, gli
sembrava di galleggiare sospeso nel vuoto. Era una sensazione piacevole, un dolce tepore lo
cullava invitandolo a cadere nuovamente fra le braccia di Morfeo.
Ma non poteva permetterselo, ora che il dolore non ottenebrava più la sua mente doveva
sforzarsi di ricordare, di rimettere assieme i pezzi in modo che avessero quantomeno una
parvenza di senso. Si chiamava Sean Ottisfield, Agente segreto Britannico sotto copertura in
Ungheria. Stava conducendo delle indagini sulla mafia locale, una soffiata aveva rivelato che
alcuni fra i più temuti nemici di Sua Maestà la regina si nascondevano tra quei pigri tagliagole da
due soldi. Uno in particolare aveva catturato la sua attenzione, ma non ricordava perché ,
ricordava solo una lotta, molto violenta. I malviventi avevano colto lui e la sua squadra di
sorpresa. Lo scontro era stato intenso, Sean era riuscito a fuggire da quella mattanza e a
trascinarsi all’ospedale più vicino prima di crollare. Si sentiva distrutto, disarmato, non era riuscito
a salvare i suoi uomini e ora l’intera missione era compromessa. Poteva solo sperare che i
criminali avessero perso le sue tracce . Provò a muoversi ma il solo tentativo gli strappò un
gemito di dolore. Odiava quella sensazione, non il dolore, a quello era abituato. Odiava essere
inerme, detestava l’idea di aver fallito, di non essere stato abbastanza scaltro da prevedere
l’attacco dei mafiosi. Ma più di ogni altra cosa odiava il fatto di averli delusi, di averli delusi tutti: i
suoi uomini e soprattutto le loro famiglie. Anche se fosse sopravvissuto come avrebbe fatto a
dire loro che i loro padri e mariti erano periti grazie alla sua inettitudine? Sean e i suoi erano al
servizio della giustizia, ma non c’era niente di giusto in ciò che era capitato ai suoi ragazzi. Certo,
conoscevano i rischi ma queste sono solo parole vuote. Fredde frasi di rito dette nel vano
tentativo di consolare le vedove, e loro annuivano, convenendo su quanto valoroso fosse stato il
defunto. Ma la verità era scritta con parole fiammeggianti e indelebili nei loro occhi: erano state
derubate, loro e i loro figli. Derubati di qualcosa che niente e nessuno potrà mai restituire.
L’unica cosa che veniva data loro in cambio era una medaglia, un freddo pezzo di metallo, così
simile ad una moneta, come se si volesse risarcire o peggio ancora comprare la vita ormai perduta
dei loro cari.
Sean non sapeva quando si fosse riaddormentato, ma quando si risvegliò era notte fonda. C’era
una figura accanto a lui, riusciva a intravederla nella penombra che avvolgeva la stanza.
“Bene bene, guarda un po’ chi si è svegliato.” Disse l’uomo.
Nel momento in cui Sean riconobbe quella voce ricordò tutto.
“TU! Fra tutti, tu eri quello da cui non me lo sarei mai aspettato.” Disse con un filo di voce
tremolante, per via dell’odio e del disprezzo che rischiavano di sopraffarlo.
“He he, vedo che anche i potenti cadono in basso. Cos’è hai dimenticato i tuoi preziosi
insegnamenti?”
“Ho avuto un’amnesia, ma qui non sono io quello che deve ricordare.”
“Ah no vecchio? Se non sbaglio sei tu quello che mi ha insegnato a non fidarmi mai di nessuno,
per nessun motivo. Come penso ben sai l’unica regola è uccidere o essere uccisi.”
“Tu eri il mio allievo preferito, è vero ti ho insegnato a non fidarti di nessuno ma questa è una
regola che passa in secondo piano rispetto alle altre cose che pensavo di averti insegnato.
Uccidere o essere uccisi dici, la legge delle bestie, come ti dissi all’epoca un soldato senza una
ragione per combattere è solamente un macellaio ma evidentemente non stavi ascoltando quel
giorno.”
“Risparmiami i tuoi sproloqui sull’onore e sulla giustizia non ho tempo da perdere con simili
sciocchezze.”
“allora perché mi stai facendo il discorso? Pensi di essere in un film di Hollywood?”
“Lo faccio perché è dannatamente divertente sbatterti il tuo fallimento in faccia e perché a
differenza dei film Hollywoodiani, la cosiddetta cavalleria non arriverà a salvarti all’ultimo
secondo. Tu hai perso e io ho vinto conta solo questo, fattene una ragione mentre crepi.” Detto
questo punse Sean con una siringa e se ne andò.
Sean rimase di nuovo solo con i suoi pensieri e con la certezza della morte per iniezione letale.
Ironico che dovesse morire così, stava morendo per mano di un criminale di una morte che negli
stati uniti era riservata appunto a quelli come lui. Ma tutto questo non contava, non più ormai.
Lui aveva fallito come agente, e peggio ancora aveva fallito come insegnante di vita. Aveva
commesso degli errori e ora ne stava pagando il prezzo.
Quello fu il suo ultimo pensiero prima di morire in quell’anonima stanza d’ospedale.
Stava pagando il prezzo più alto di tutti.
Il prezzo della fiducia.
19) Marco Faré
Delitto all’obitorio
Erano le 23 di un martedì quando il cellulare di servizio squillò. Ero in auto fermo di fronte al
lago. Accanto a me, Simona iniziava a scaldarsi come un uovo nel tegamino. Più si scaldava, più si
spogliava. Simona, o forse Serena, l’avevo appena rimorchiata in un bar.
Alice, la mia donna da quindici anni, se n’era appena andata lasciandomi in bocca il gusto amaro
di un calzino sporco. Mi aveva lasciato, per la seconda volta. Quest’anno.
La giornata era cominciata male: avevo ricevuto due cazzotti da uno spacciatore. E stava per
concludersi peggio. Risposi al telefono.
— Ispettore Brusati! — era Balmelli, il mio vice. — Avremmo bisogno di lei, all’Ospedale Santa
Maria: c’è un cadavere all’obitorio.
Arrivato all’ospedale mi diressi verso la sala d’attesa del pronto soccorso. Ad aspettare c’erano un
tossico sporco di vomito che si era pisciato addosso, una donna orientale con tre bambini, due
ragazzini con un’amica ubriaca, una ragazza che non faceva la suora e il suo protettore. Lei si
accarezzava la pancia.
Il freddo dell’obitorio mi sferzò la faccia come la frusta di un domatore. Oltre a Balmelli, c’erano
tre persone. E sette cadaveri. — Perché siamo qui?
Balmelli indicò il corpo di una ragazza di colore con un occhio pesto e delle escoriazioni.
Dall’abito capii che era una sgualdrina.
— Poveretta — mormorai.
— Poveretto, — mi corresse. — La signorina si chiamava Alfredo Rodrigues Dos Santos, in arte
Cereja. Botte e overdose.
Poi indicò le tre persone in piedi: — Il primo da sinistra — disse, — è Jacinto Carvalho Gomes,
detto Nata, amico e collega della vittima. Quello ammanettato si chiama Ravi Srivastava, lavora
come inserviente qui all’ospedale ed è il principale sospettato dell’omicidio.
Ravi eccetera cercò di protestare.
— Il dottor Maggini — continuò Balmelli, — è il responsabile del reparto. Il signor Srivastava lo
accusa dell’omicidio.
Guardai i tre negli occhi. L’unico a sostenere lo sguardo fu il dottore.
— Signora Nata — dissi, — mi dispiace per il suo amico. Mi dica che cosa è successo.
— Dei ragazzi — rispose fra le lacrime, — ci hanno pestate. Cereja aveva male all’occhio così
siamo venute qui. L’hanno fatta entrare, poi mi hanno detto che era morta. Ma noi non ci
droghiamo!
— Grazie. Signor… Ravi, lei cosa mi dice?
— La ragazza, la transessuale, è arrivata in obitorio sul lettino ed era viva. Il dottore le ha fatto
un’iniezione, le ha messo un cuscino sulla faccia. Lei si dimenava, poi è morta! Il dottore se n’è
andato, così ho telefonato alla polizia.
— Grazie anche a lei. Dottore, la sua versione?
— Ispettore, ho portato il signor Rodrigues Dos Santos in obitorio per questioni di sicurezza:
era confuso e agitato, sotto l’effetto di qualche sostanza stupefacente. Era necessario isolarlo e di
sopra non c’erano più sale visita libere. Gli ho iniettato un calmante, poi purtroppo sono dovuto
salire perché il signore qui, l’altro travestito, dava in escandescenze. Quando sono tornato, il
signor Rodrigues era morto e qui con lui c’era Ravi. Soltanto Ravi.
— Quindi lei nega di aver ucciso la vittima?
— Suvvia, ispettore, perché mai avrei dovuto ucciderlo?
Guardai l’inserviente, che gridò: — Perché lui odia i gay!
Il dottore intervenne. — Ma che dice? Ispettore, le assicuro, sono un professionista serio.
— E mi pare di capire, dottore, che lei accusa il signor Ravi.
Il dottore annuì e l’inserviente di nuovo protestò. — E io? — disse rivolto al dottore. — Perché
l’avrei ucciso?
Guardai il dottore, rigirandogli la domanda.
— Si sa che Ravi è gay, ispettore. Probabilmente ha cercato di approfittare della vittima, ma
quello ha reagito ed è finita male.
— E lei, dottore, lei non ha approfittato della vittima?
— Ispettore! Lei mi offende. Non sono omosessuale, non lo sarò mai!
Trassi le mie conclusioni. — Signor… signora Nata, un agente la accompagnerà a casa. Signor
Ravi, lei viene con noi in centrale. Ha il diritto di rimanere in silenzio eccetera, Balmelli faccia lei,
e non dimentichi il protocollo THX.
— Sissignore!
L’obitorio si svuotò come un autobus al capolinea. Restammo io e il dottore, e sette cadaveri.
Il camice del dottor Maggini era in ordine come un prato da golf il sabato mattina. Il suo era lo
sguardo di uno abituato a dare ordini, ma la sua voce tradiva la propensione a sbraitare.
— Che spreco di soldi! — dissi, ma il dottore sembrò non capire.
— Questa indagine — spiegai. — Il mio tempo, quello degli agenti. Soldi pubblici sprecati per
una lite tra finocchi. Io passo le mie giornate con spacciatori, prostitute e transessuali. Lei non ha
idea di quanto tempo buttiamo via per metterli dentro. E loro escono subito e ricominciano a
battere e a spacciare.
— È veramente scandaloso.
— Guardi, non dovrei dirlo, ma per me questa indagine significa una cosa sola: un trans in meno!
Se potessi, mi congratulerei con l’assassino. Quel Ravi, se solo non fosse un finocchio anche lui,
ci ha fatto un favore.
— Ha ragione.
— Ma davvero non è stato lei? Sa che l’ho sperato. Mi sarebbe piaciuto se la pulizia, diciamo,
fosse stata opera di un uomo come lei.
— Ispettore, io non so se…
— Adesso può dirlo, e le stringerò la mano. Il nostro colpevole l’abbiamo già arrestato: non ce ne
serve un altro.
— Beh, se insiste, effettivamente, ho fatto la mia parte.
— Cioè? Prima l’ha stordito e poi l’ha soffocato? E l’ha messo all’obitorio? Un morto all’obitorio!
Geniale!
— Sì, grazie. È stata una cosa improvvisata, un’idea così. Mi è venuta e l’ho fatto.
La porta si riaprì ed entrò Balmelli con due agenti. Raccolse il suo telefono, nascosto sotto una
pila di lenzuoli puliti.
— Ha registrato tutto? — Gli chiesi.
— Certo, ispettore. Protocollo THX.
Guardai il dottore. Aveva lo sguardo di un cane a cui hai appena tirato una fetta di limone.
Erano le due di notte e avevo appena messo dentro un altro bastardo. Il giorno dopo chiamai
Alice. Le chiesi di sposarmi. Di nuovo.
20) Tanja Rianda
Malore improvviso, sudorazione, dolore al petto, incredulità e svenimento. Joy giace semi
incosciente su un letto che non è il suo. Tutto gli appare annebbiato e in lontananza sente solo
delle voci concitate, cosa sta succedendo? Dove si trova?
Una ragazza si avvicina, gli parla dolcemente: andrà tutto bene gli dice. Vorrebbe risponderle ma
nessuna parola esce dalla sua bocca; è come se un macigno si fosse posato sul suo petto
impedendo all’aria di passare.
Lentamente si lascia trasportare da quei rumori soffocati e cade in un sonno profondo interrotto
solamente dai “bip” dei macchinari.
Contemporaneamente diverse persone sono al suo capezzale.
-“Presto, bisogna preparare subito la sala operatoria, bisogna mettergli un bypass altrimenti lo
perdiamo”!In poco tempo uno staff specializzato si ritrova nella fredda sala operatoria, pronta ad intervenire
sul corpo del malato. Oggi è fortunato gli dicono, perché ad operarlo ci sarà il miglior cardiochirurgo, il luminare della scienza stessa che conosce il cuore come nessun altro: il Dottor Aron
Schuld.
Joy ora si trova in una dimensione che non gli appartiene: un placido limbo che lo invita a restare
mentre di tutt’altro parere è la sua coscienza. Riesce ad alzare debolmente una palpebra ma
l’unica cosa che vede sono due occhi blu che lo fissano. Il chirurgo con fare professionale dà
un’occhiata all’anamnesi del paziente: niente di impossibile per lui. Ma non può permettersi il
lusso di gongolarsi nel proprio ego, così con calma e destrezza introduce il bisturi nel petto di
Joy.
Sospeso in quell’oblio, Joy vede materializzarsi davanti ai suoi occhi fotogramma dopo
fotogramma, la sua vita: un mosaico di tante immagini dove lui è lo spettatore.
Si rivede bambino. Primogenito di un’importante famiglia era amato e vezzeggiato da tutti
soprattutto dal padre.
L’adolescenza e la gioventù, periodo molto difficile fatto di incomprensioni verso quei genitori
che non lo capivano.
La ribellione e l’inizio di una vita assai caotica di serate lecite e non, abusi smoderati di alcoolici,
donne e droghe.
Rivede suo padre disperato, affranto e sconfitto ma sempre pronto a proteggere in ogni
occasione quel figlio ingrato, togliendolo da ogni sorta di guaio.
Joy sulle prime pagine dei giornali scandalistici abbracciato a bellissime ragazze sempre diverse,
spiegava che per lui la vita era come un gioco dove a suo piacimento muoveva le pedine.
Focalizza un viso: Nora. Nora, facile preda del suo gioco perverso. Le aveva fatto credere di
amarla alla follia, poi dopo averla resa un burattino inerme appesa ai fili che lui stesso tirava e
mollava a suo piacimento quando voleva, l’aveva lasciata. Nora, che giorno dopo giorno perdeva
tutta la sua lucentezza spegnendo adagio adagio anche il blu dei suoi occhi che la rendevano
speciale e raggiante.
Poi di nuovo donne, alcool e droghe. Questo era Joy: un uomo incapace di amare.
Fino ad oggi.
E’ sempre sospeso in quel sonno innaturale, la sua mente continua a scavare nei meandri più
profondi e remoti del suo essere. Vorrebbe fermare le immagini, le sensazioni che prova ma è
prigioniero dei suoi ricordi.
Per la prima volta si rende conto che è solo; vicino a lui non c’è nessuno a rincuorarlo, a fargli
compagnia confortandolo tenendogli la mano. Trema, ha freddo. No! Non è il freddo, è paura!
Paura di cosa? Prova una sgradevole sensazione…Il Dottore! Lo conosce?
No, perché lui non è mai stato ricoverato; ma allora…quegli occhi… Di colpo gli appare il viso
squadrato di Nora. Ma…
E’ vivo o è morto? E Nora? Perché pensa a lei? Non l’ha più rivista da quando l’ha lasciata, che
fine avrà fatto? Che sia morta? Ma allora è morto anche lui? Forse si trova all’inferno. Prova una
grande vergogna per tutto il male che è riuscito a seminare nella sua vita terrena ed i rimorsi di
coscienza fanno capolino struggendolo ancora di più. Lacrime amare gli scendono ora lungo le
guance. E’ la fine! Si dice.
Poi…quando meno se lo aspetta sente attorno a lui delle voci. Apre lentamente gli occhi e vede
una luce soffusa. Si guarda attorno e ancora un po’ intontito e con stupore si rende conto di
essere in un letto di ospedale ed è vivo! Entra un’infermiera e gli spiega che ha avuto un infarto
ed è stato salvato grazie alla prontezza del chirurgo Schuld.
Joy non crede alle proprie orecchie. Tutti quei brutti pensieri di morte altro non erano che cose
astratte, esistite solo nella sua mente.
Dopo qualche settimana di assoluto riposo, Joy lascia l’ospedale. Ad attenderlo c’è Tom il suo
fedele autista.
Nel frattempo dall’ultimo piano, il dottor Schuld osserva dalla finestra il paziente Joy lasciare
l’ospedale. Il viso cambia espressione e con grande tristezza ripensa ad un mattino di tanti anni
prima, quando lui giovane medico trova nella grande casa di campagna dei suoi genitori, il corpo
senza vita di sua sorella, morta suicida sparandosi un colpo dritto al cuore. Vicino a lei solo un
bigliettino sporco di sangue con poche righe scritte: “Joy mi ha strappato il cuore”.
La sua amata sorella Nora, era tutto per lui! Il legame che unisce due gemelli monozigoti è
qualcosa di inspiegabile ma soprattutto indissolubile.
Il Dottor Schuld ha avuto un lasso di tempo assai lungo per pianificare. Con la vita sregolata che
Joy conduceva, prima o poi sarebbe arrivato da lui. La nano chirurgia può fare davvero miracoli e
per lui mettere un nanogrammo di esplosivo nel bypass è un gioco.
Con calma guarda il suo polso sinistro dove c’è un orologio con un grande quadrante. Nessuna
esitazione, schiaccia due bottoncini e…click!
In una frazione di secondo Joy sente un grande calore attraversargli il petto, il battito cardiaco
impazzisce e infine il cuore scoppia. Incredulo si porta le mani allo sterno, cade a terra e muore
all’istante con gli occhi strabuzzanti verso l’ospedale. A niente valgono i soccorsi: aneurisma
dell’aorta, può succedere dopo un bypass, dicono.
Giustizia è fatta! Joy aveva preso il cuore di Nora, Aron ha preso il cuore di Joy!
21) Genny Pedrinis
La barricata
L’ambulanza sfrecciava a gran velocità sulla strada cantonale poco trafficata, lasciando una scia di
fredda luce blu sul paesaggio circostante. L’eco delle sirene rimbalzava tra le case rade. Dario, il
paramedico al volante, avvicinò la radio al mento e prese contatto con il pronto soccorso: –
Uomo, 58 anni, ferita lacero-contusa con importante emorragia carotidea… –. Intanto Vanessa, il
secondo paramedico, controllava preoccupata i parametri vitali mentre veniva sballottata qua e là
nell’abitacolo posteriore. – Resisti, ancora due curve e ci siamo! – sussurrò all’uomo privo di
sensi. Dario non era preparato alla scena che vide appena svoltò verso l’ospedale: in mezzo alla
strada c’erano due gruppi di manifestanti, forse un paio di centinaia di persone. Si erano messi a
ridosso delle alte barricate di ferro che gli agenti della Polcom avevano posizionato in fretta e
furia, in modo da non lasciar avvicinare nessuno all’edificio. I poliziotti se ne stavano a presidiare
l’unico spazio di accesso in tenuta anti-sommossa, aspettando rinforzi dai colleghi della cantonale.
I dimostranti fischiavano agitando bandiere rosso-blu e gridavano infervorati gli slogan scritti
sugli striscioni, a favore o contro la probabile chiusura dell’ospedale. I megafoni erano le armi di
questa guerra di parole. – Che casino! – imprecò Dario sottovoce, individuandone poi una
ventina coperti in volto che dopo aver acceso dei fumogeni, riuscirono a rovesciare una barricata
addosso ad un gruppo di contestatori pacifici. Il paramedico constatò che il passaggio verso il
pronto soccorso era ormai ostruito. – Muoviti Dario, ci restano pochi minuti! – gli intimò
Vanessa, che cercava di comprimere il più possibile il collo dell’uomo con delle garze pulite, ma
che subito venivano intrise di sangue.
All’interno dell’ospedale, il personale curante stava vivendo nell’incertezza. Il protocollo di
sicurezza diceva chiaro e tondo che in caso di pericolo esterno bisognava attivare l’allarme, cosa
che tra l’altro comportava il blocco immediato delle porte automatiche del pronto soccorso. La
capo-reparto e il medico di pronto soccorso stavano battibeccando su come e quando reagire ai
disordini che lì fuori stavano degenerando. L’infermiera Elsa, mentre completava le cartelle degli
ultimi pazienti, disprezzava la loro indecisione. Del suo corso era stata la migliore: motivata,
impegnata e molto preparata, si sentiva pronta per fare grandi cose. Elsa era rimasta delusa
quando cominciò a lavorare: dov’erano i politraumi, le overdose, gli incidenti della circolazione?
Al massimo lì arrivavano operai con un dito da suturare, casalinghe con una caviglia slogata,
anziani con l’influenza. Niente di eccitante, insomma. Lei invece viveva per la scarica di
adrenalina che l’attraversava quando sentiva le sirene. Fissò per un momento lo schermo della
telecamera di sicurezza: era molto soddisfatta di come si stavano mettendo le cose. – Beh, prima
chiudono i battenti, prima me ne vado da qui… – pensò. Le barricate, i tafferugli tra dimostranti
e la polizia coi manganelli erano infatti una pessima pubblicità per i suoi datori di lavoro e inoltre
mettevano ulteriore pressione sulle spalle di chi era chiamato a decidere le sorti della struttura
ospedaliera.
Nell’ambulanza, Renzo stava delirando a causa dello shock e riviveva le immagini dell’incidente: il
mazzo di pali di legno che veniva caricato a fatica sulle spalle, il grosso chiodo sporgente, il
rumore della sua carne lacerata, il fiotto di sangue caldo sulla camicia, il pascolo che si richiudeva
su di lui. Le voci concitate dei paramedici lo riportarono poi ad un momento di lucidità.
All’improvviso Dario ebbe un’idea: fece una rapida inversione e girò attorno all’edificio con uno
stridìo di gomme. Si era ricordato che gli addetti della manutenzione entravano da una porta
secondaria situata sul lato posteriore dell’ospedale. – Vane, preparati, usciamo! –. Con gesti
esperti, sollevarono velocemente il lettino e corsero nel corridoio buio verso l’accesso secondario.
Dario spinse la porta con una spalla, sentendo subito che faceva resistenza: con sgomento vide
attraverso il vetro che era stata lucchettata dall’interno. Un urlo di frustrazione echeggiò nel corto
tunnel. Poi Vanessa disse ansimando: – Dario, lo stiamo perdendo! Dobbiamo riprovare dall’altra
parte! –.
Il corpo disteso sulla barella era ormai circondato da stracci macchiati di rosso. A passo di corsa, i
paramedici riuscirono a passare le barricate, seguiti da un mare di persone che non era più
possibile arginare. Mancavano pochi metri all’entrata, quando scattò l’allarme che bloccò le porte
del pronto soccorso. Renzo vide che Dario batteva i pugni sul vetro opaco gridando a
squarciagola: – Codice rosso! Aprite subito! –, poi si mise a spintonare i curiosi per tenerli lontani.
Il bel viso di Vanessa di colpo cambiò espressione: da determinato diventò rassegnato, triste,
quasi colpevole. Allora il pastore capì che non ci sarebbero state trasfusioni di sangue o sacche di
plasma, non c’era più tempo. Proprio lui, che di barricate conosceva solo quelle per i recinti delle
pecore, lui che aveva vissuto di spazi aperti e di silenzi, se andò imprigionato tra una barricata e
una folla invadente, in un fiume di parole gridate, insapori.
A fine turno, Elsa controllò il suo smartphone: la notizia del pastore di pecore che era schiattato
davanti alle porte chiuse del pronto soccorso era già virale. I commenti sui social network erano
impietosi e non facevano che anticipare quello che la politica avrebbe poi deciso. Pregustando il
suo futuro prossimo, l’infermiera inforcò la bicicletta, che da qualche ora era sprovvista di
lucchetto di sicurezza, e si allontanò senza fretta nella sera.
22) Tiziano Allio
Una vita serena
Si svegliò in un anonimo letto d’ospedale.
Il rumore ritmico e ossessivo dell’inquietante macchinario collegato al braccio destro le penetrava
nella testa, che pulsava di dolore.
Era spaventata e non ricordava nulla.
“Buongiorno signorina Magdala, ben svegliata”, la voce di un’infermiera piuttosto attempata e
dalle forme arrotondate, “stia tranquilla, il peggio è passato, si riprenderà presto, fra poco arriverà
il Dr. Velasco, traumatologo, specialista in traumi cranici. Ha dovuto partecipare al funerale di un
collega. Non esiti a chiamare in caso di bisogno”.
Il volto professionalmente cordiale e ostentatamente gentile dell’infermiera si allontanò lasciando
la ragazza di nuovo sola. Le ore, i minuti passavano lenti, il forte dolore si affievoliva, Magdala
reagiva positivamente ai medicamenti, recuperando le forze.
“Eccomi, signorina, mi scusi per averla fatta attendere, ma sa, a volte gli imprevisti sono
all’ordine del jorno”, esordì il medico, un uomo alto di mezza età, fisico asciutto, capelli radi
pettinati con un orrendo riporto, espressione gioviale e ammiccante, sul volto abbronzato una
sorta di baldanza, quasi di spavalderia. “Si è presa proprio una bella botta” proseguì in modo
confidenziale mentre la visitava, “ma stia tranquilla, entro pochi giorni sarà rimessa a nuovo e
verrà dimessa. La sua ferita alla cabeza si è rivelata fortunatamente molto meno grave di quello
che temevamo”.
Si lavò velocemente le mani, lasciandosi sfuggire un’espressione contrariata: “Madre de Dios,
questo sapone sa di olio de bacalao”, allontanandosi, sempre di buon umore e con passo
affrettato, controllando l’orologio mentre la salutava con un “adios, ci rivedremo presto”.
Piano piano i ricordi cominciarono a riaffiorarle alla mente, anche se in modo offuscato e
confuso, e gli ultimi avvenimenti riprendevano forma.
Marco, medico psichiatra amico di lunga data che aveva in cura il fratello Tobia, era morto a
causa di un inspiegabile e sinistro incidente domestico, scivolando sulle scale, che sembra fossero
cosparse di olio per motori ...
La folle corsa con la vecchia auto sgangherata, l’uscita di strada, quel maledetto albero … poi il
nulla.
Si sentiva sola e impaurita: la madre, disperata, se ne era andata quando lei e il gemellino erano
ancora in tenera età. Magdala si ritrovò così a vivere un’infanzia triste, nell’indigenza e con la
paura di un padre violento e alcolizzato. Era riuscita a costruirsi una vita dignitosa, un lavoro
onesto come cameriera ad ore nell’unica osteria del paese, e nutriva una malcelata ossessione per
Marco, il quale però non corrispondeva all’intenso sentimento d’amore che lei provava da sempre
nei suoi confronti.
Tobia, più sfortunato di lei, non ce l’aveva fatta. La sua vita era costellata di insuccessi e delusioni:
la sua carriera scolastica si era dimostrata un vero disastro ed era culminata con l’espulsione dal
collegio per atti violenti nei confronti dei docenti.
Il mondo del lavoro si era rivelato ancora peggio: le poche attività a cui si era dedicato non lo
avevano soddisfatto, come del resto il suo atteggiamento non aveva convinto i datori di lavoro.
Dopo essere stato licenziato in più di un’occasione, viveva ormai di espedienti non sempre onesti
che non gli garantivano una vita decente.
Ora sembrava stesse un po’ meglio, da quando era stato ricoverato in quella clinica specializzata
per persone in difficoltà. Il medico curante, il Dr. Marco Favini, gli aveva dato una certa stabilità
e l’aveva aiutato ad acquisire un po’ di fiducia nella vita.
Tobia entrò in camera correndo, visibilmente alterato. Urlando come un folle faceva discorsi
sconnessi, irrazionali.
Era sempre così: il suo carattere labile non gli permetteva di controllare le proprie ansie ed
emozioni. “Li faccio fuori tutti, li ammazzo come cani. Specialisti del cavolo, meritano una
lezione come si deve!”. Uscì di corsa, come era entrato, seminando il panico in corsia fra i
collaboratori dell’ospedale e lasciando allibiti visitatori e degenti.
Nonostante questo spiacevole evento, la notte seguente trascorse per Magdala in un sonno
tranquillo e profondo. Fortunatamente la pastiglia rossa somministratale dall’infermiera aveva
indotto questo riposo artificiale e aveva impedito alla sua mente di arrovellarsi per ore pensando
al povero Tobia.
Il risveglio però si era rivelato tragico e spaventoso. Nella notte era avvenuto un efferato delitto
proprio nel reparto dove si trovava ricoverata. Un’anziana infermiera era stata assalita
brutalmente ed era stata uccisa barbaramente con non meno di quindici pugnalate alla schiena, al
collo e all’addome. La poveretta era stata trovata senza vita solo il mattino seguente, all’arrivo del
carrello delle colazioni, in un lago di sangue. Nessuno riuscì a dare spiegazioni sul movente del
delitto e gli inquirenti archiviarono il caso in breve tempo.
Il maggiore indiziato, un certo Tobia Beni, un disgraziato ben noto alle autorità, si era tolto la vita
lo stesso giorno gettandosi in un canale. La povera sorella dell’assassino era ancora ricoverata e le
fu dovuto un sostegno psicologico.
Il Dr. Rafael Velasco fu sostituito nei giorni seguenti da un nuovo medico. Da voci non
controllate sembra sia stato colpito da una singolare e sconosciuta forma allergica, in cui una
sostanza chimica allo stato liquido, penetrata attraverso la pelle, ne avrebbe devastato il cervello,
rendendolo inerme e assolutamente incapace di assemblare la benché minima forma di pensiero.
Lo stato di salute della ragazza nel frattempo migliorò, tanto che i medici decisero la sua
dimissione a breve.
Per il suo stato emotivo, per contro, ci sarebbe voluto molto più tempo.
Quando tutto fu finalmente finito, Magdala decise di portare i propri vestiti in lavanderia per
lasciarsi alle spalle il passato e iniziare una vita finalmente serena.
Infilò le mani nelle tasche, che trovò imbrattate di olio lubrificante, le svuotò dai fazzoletti, da
una provetta contenente uno strano liquido giallognolo, un coltello a serramanico e una
pastiglietta rossa.
23) Giovanna Broggini
Omicidio in corsia
⁃
Presto signor Procopio c'è un caso per lei! Un assassinio in corsia! - Urlò la sua segretaria.
- Ha chiamato una donna molto spaventata dicendo che si sta per compiere un assassinio in
corsia! Presto!
⁃
In corsia? Dove? All'Ospedale S. Onofrio?
⁃
E dove se no?
La segretaria faceva di tutto. Infatti, tanto per dirne una, mentre aveva il compito di rispondere al
telefono, cucinava la peperonata per la cena di Salvatore Procopio, detective per piacere e scapolo
per vocazione.
Procopio si fiondò quindi all'ospedale S. Onofrio. Montò sull'Ape Piaggio che quando era
stagione riempiva di arance e olive abbandonando momentaneamente le indagini, e si inerpicò in
cima alla collina, dove troneggiava il vecchio ospedale S. Onofrio, fatiscente e sempre in attesa di
restauri.
Entrò da una porta laterale e chiese di poter parlare con il primario il Dott. Brandi che, come tutti
nel paese, conosceva di vista. Uomo freddo, come i tavoli dell'obitorio nel seminterrato, e del
quale si narravano cose non proprio edificanti.
⁃
Desidera?
L'investigator Procopio malgrado l'esperienza non aveva idea di cosa chiedere. Sapeva che un
omicidio si stava per compiere nelle corsie dell'ospedale, ma da dove avrebbe dovuto cominciare?
Lo sguardo del dott. Brandi si fece ancora più truce.
⁃
Le ripeto. Desidera? Non ho tempo da perdere.
⁃
Vorrei fare un giro tra le corsie – gli disse mostrando la tessera di detective.
⁃
Per quale motivo?
⁃
Mi permetta, ma non posso rivelarlo, come lei sa bene, anche nel mio lavoro vige il
segreto professionale.
⁃
Quindi mi immagino sappia che anch'io non potrò rispondere a tutte le sue domande.
⁃
Certo, ma per favore mi lasci fare un giro nel suo ospedale.
⁃
Basta che non intralci il lavoro.
⁃
Sarò invisibile.
Il Dott. Brandi fissò il telefono, la porta dell'ufficio e l'armadietto delle medicine. Un gioco di
sguardi che non passò inosservato all'investigatore.
Procopio iniziò il suo giro di ispezione, si aggirò nel primo piano, spiato dall'onnipresente
primario che in realtà dimostrava di non aver molto da fare, come invece gli aveva appena
dichiarato.
Visitò i bagni, il locale del personale, ed entrò nella camera 101.
Da solo in una camera grande con tre letti vuoti, riconobbe il sindaco del paese. “Una camera
tutta per sé, con la lista d'attesa di pazienti!” Pensò. Il sindaco, che era notoriamente di una
corrente politica opposta a quella del primario e aveva da sempre intralciato i fondi per i restauri
dell'ospedale, giaceva pallido e immobile, con gli occhi chiusi e collegato a un'infinità di tubi; al
polso un'infusione che gocciolava lenta. Procopio si avvicinò per leggerne la composizione.
Udì la porta aprirsi lentamente, e dietro a sé percepì l'alito umido del primario che si posava sul
suo collo.
⁃
Lo lasci stare. Dorme! Esca da qui! - Gli ordinò in tono perentorio.
Uscendo dalla camera si scontrò con gli occhi sbarrati di una giovane infermiera.
⁃
Buongiorno! Ho forse qualcosa di strano che mi guarda così?
⁃
No no, è che in quella camera non si può entrare.
⁃
Per quale motivo?
⁃
Paziente contagioso, molto contagioso, dice il dottor Brandi.
Ma l'infermiera non le parve molto convinta.
“Che sia lei la donna che ha chiamato il suo ufficio?” Pensò.
⁃
E chi si occupa di questo paziente?
⁃
Esclusivamente il dottor Brandi.
Il primario uscì dalla camera.
⁃
Cosa fa lei, qui davanti? - chiese all'infermiera e se ne andò.
Procopio lo seguì, tre passi indietro, poi gli chiese:
⁃
Scusi. Ma i farmaci particolari, la morfina, per esempio, dove li tenete? Sono accessibili a
tutti?
Il dottore si irrigidì.
⁃
No di sicuro! Sono nell'armadietto del mio ufficio, solo io ho le chiavi.
⁃
Potrei vederlo?
⁃
Sì, ma non subito, se mi dice dove va, vengo io a chiamarla - gli rispose infilando
velocemente la mano in tasca, come per stringere qualcosa.
A quel punto Procopio fu sicuro che il medico avesse qualcosa da nascondere.
⁃
Mi interesserebbe vedere il reparto chirurgia.
⁃
Terzo piano.
Si diresse verso le scale di sicurezza visto che, da sempre, aveva qualche difficoltà nel prendere il
lift: claustrofobia, coltivata da una vita intera. Salì le scale e al terzo piano aprì la porta scorrevole.
O almeno avrebbe voluto. Maniglia bloccata. Scese al secondo, maniglia bloccata. Ritornò al
primo piano. Anche lì maniglia bloccata. Lui che non riusciva a prendere il lift perché aveva paura
dei luoghi chiusi si trovò intrappolato nelle scale di sicurezza. Si spensero le luci e con il cuore
che gli batteva forte impiegò alcuni minuti per raggiungere l'interruttore debolmente illuminato.
Era evidente: qualcuno non voleva che indagasse. Il quadro si faceva chiaro. Il sindaco aveva
bloccato per anni i finanziamenti per il rinnovo dell'ospedale. Eliminato lui, il prossimo eletto
forse avrebbe stanziato il credito necessario per riattare il Sant'Onofrio ... e allora sì che il dottor
Brandi avrebbe acquistato prestigio! Aveva capito tutto.
Provò ancora a girare la maniglia, ma non riuscì. Non c'era tempo. Doveva uscire da quella
situazione e salvare il povero sindaco. Fece per lanciare un urlo, fu colto dal panico e sentì come
due mani che gli stringevano la gola e la voce rimase lì, impigliata tra le corde vocali.
E nel preciso istante che le luci dell'indagine sembravano farsi chiare, all'interno del nuovissimo
stadio, nella seconda corsia che orlava il campo di calcio, spirava l'ing. Carlo Verdaschi direttore
dei lavori, riverso sul pavimento di tartan noir appena posato, in una pozza di sangue.
L'investigator Procopio uscì dalle scale, senza clamore. Semplicemente, preso dal panico per via
della sua annale claustrofobia, girava la maniglia al contrario. L’indomani lesse come tutti il titolo
“Omicidio in corsia” sulla prima pagina del giornale e si vergognò moltissimo per non aver
azzeccato la giusta corsia.
Il sindaco fu dimesso il giorno stesso, dopo la sua consueta sbornia in solitaria, che nessuno però
doveva sapere.
24) Boris Cambrosio
Una folle Pasqua
La domenica di Pasqua Darco Giovanna avrebbe voluto passarla in famiglia. Tuttavia prima
avrebbe dovuto recarsi presso il reparto Quadrifoglio dell’Ospedale psichiatrico di Mendrisio.
Già, che fortuna, pensò ironicamente.
Non si era ancora abituato alle visite presso l’ospedale psichiatrico, che suo cugino di Agrigento
si ostinava a pronunciare pissichiatrico. L’odore di sudore stantio, sottolineato dalle tute da
ginnastica, ma che lui a differenza del cugino chiama trening, indossate dai degenti ospiti e la
cenere delle sigarette fumate una dietro l’altra lo mettevano a disagio. Ogni volta era un fastidio
che poi allontanava comprando dei fiori per la sua amata.
Era lì per Ugo Coppina, il suo pupillo. La visita nel giorno della resurrezione di Gesù si era resa
necessaria in quanto Ugo aveva esaurito l’importo mensile a sua disposizione. Per quei pochi
giorni che restavano sino a fine mese, la Pasqua quest’anno cadeva il giorno 27 di marzo, Arco
aveva deciso di accordargli un piccolo supplemento. Curioso, pensò Arco, che la
commemorazione della resurrezione cada. Poi, penso che Gesù fosse rigenerante; è resort… e
rise alla sua battuta.
Entrando nel padiglione della clinica la prima persona che incontrò fu l’infermiera di turno. Una
bella donna. Il camice le dava un leggero sex-appeal. Lo indossava con naturalezza e il suo essere
attraente era una conseguenza naturale del suo essere serena, e bella.
“Buongiorno, e buona Pasqua.”
“Buongiorno.” Rispose lei. “Anche a lei una serena Pasqua. Cosa ci fa qui?”
“Sono venuto per il Coppina. Ugo. Sono il suo curatore e devo sbrigare una questione urgente.
Lo trovo in camera?”
“No. Ugo si è svegliato presto stamane. È rimasto per una buona ora fuori seduto all’ombra del
cedro argentato che abbiamo qui fuori. Ora dovrebbe essere in sala comune.”
“Grazie, buona giornata.” Non sapeva se fosse più attratto dal cedro argentato o dall’infermiera.
Sapeva che entrambi avrebbero potuto dargli ristoro, e momenti lieti.
Ugo era proprio là. Insieme a lui vi erano altri due ospiti. Un uomo tutto scompigliato di mezza
età, almeno in apparenza, seduto ad un tavolo. Sul tavolo vi erano una tazza piena a metà di caffè
non fumante, ed una scacchiera con i pezzi disposti. Una partita già iniziata, ma dei due giocatori
ce n’era solo uno: l’uomo di mezza età. Dopo poco egli mosse uno dei due alfieri bianchi. Tutto
soddisfatto si appoggiò allo schienale della sedia e guardò con aria di sfida l’immaginario sfidante
che aveva davanti a sé. Sfidante che prese forma quando lui stesso cambiò di posto e si sedette
sulla sedia dinanzi a sé.
Poi lo sguardo di Arco si pose sulle cinque sedie-poltrone disposte ad angolo dinanzi al
televisore. Su di una il suo pupillo Ugo, sull’altra un altro ospite immerso nel guardare quanto
trasmetteva lo schermo. La televisione era sintonizzata sulla messa del Papa in Roma, Piazza San
Pietro, ma non ancora iniziata. Nel sedersi accanto ad Ugo salutò l’altro ospite il quale,
ipnotizzato dallo schermo, non ricambiò il saluto.
Ad Ugo chiese se desiderava un caffè ed egli rispose “Si, e una paglia.”
“Bene, allora aspetta che poi ti dò anche un piccolo argent de poche per arrivare a fine mese.”
“Cos’è che mi dai? Già non capisco una mazza quando mi parli in italiano pensa te in un’altra
lingua.”
… Arco ritornò con il caffè.
Nel frattempo nella sala l’uomo di mezza età continuava a misurarsi contro sé stesso giocando a
scacchi e, è il caso di dirlo, da un momento all’altro Arco si sarebbe aspettato che la partita finisse
con uno scacco matto.
L’ipnotizzato dalla televisione era sempre più ipnotizzato. Chissà quali pensieri e turbe psichiche
attraversavano la sua testa. Nel momento in cui si chiese ciò, sullo schermo apparve il Papa. Fu in
quel preciso istante che l’uomo si scagliò con una violenta quanto estrema reazione sul televisore.
Prese l’elettrodomestico, lo staccò con forza dalla parete e lo gettò a terra. Poi con altrettanta
foga, forza e violenza, prese una delle sedie-poltrone e la fracassò colpendo più volte il televisore
ormai rotto a terra. Nel mentre proferiva insulti ed imprecazioni ad alta voce. Accorse
immediatamente l’infermiera, ma nell’atto di intervenire per far desistere l’indemoniato dal suo
gesto violento venne anch’essa scaraventata a terra.
Ugo guardava divertito la scena. Gli ansiolitici che lo tenevano quieto lo schermavano dal reagire
prontamente alla violenta scena e oltre a ciò, con paglia e caffè in mano aveva soddisfatti tutti i
suoi momentanei bisogni.
Lo scacchista, imperterrito, continuava con la sua partita. Era proprio partito.
Arco invece dovette far fronte alla situazione perché non degenerasse, e ad istintiva protezione
dell’infermiera. Afferrò da dietro le spalle l’esagitato. Ancora in preda alla sua rabbiosa foga
proferiva parole irripetibili verso il pontefice, le massime istanze liturgiche e la chiesa tutta. Non
si aspettava di incontrare tanta resistenza. Il folle aveva una incontenibile forza e non senza fatica
Arco ebbe la meglio su di lui, e quindi chiamò i rinforzi che poi accorsero nelle persone di due
infermieri ed il medico psichiatra di turno.
Spossato, stanco e confuso si concesse una sigaretta, rigorosamente scroccata al suo pupillo,
all’ombra del cedro argentato.
Lo raggiunse l’infermiera e le chiese se sapeva il motivo di quanto successe. Si, gli disse.
Il folle era arrabbiato con la chiesa. Era geloso di lei.
Si era innamorato perdutamente di una ragazza. Lei lo rifiutò per dedicarsi alla vita monastica. Lui
ne uscì distrutto. Aveva riposto in lei tutte le sue speranze per creare una famiglia. Il fatto che lei
avesse risposto alla chiamata del Signore, aveva scatenato in lui una folle gelosia nei confronti di
Dio e di tutto ciò che lo rappresentasse. Tutta la sua rabbia nei confronti del Creatore era stata
riversata quel giorno di Pasqua sull’autorità suprema che lo rappresenta sulla terra.
Arco avrebbe di nuovo comprato dei fiori, però quel giorno per la bella infermiera.
Anche lui si era innamorato.
25) Mattia Lepori
Tutta la vita…dietro.
Si dice che prima di morire le persone vedono sfilare in un rapido flash-back la loro vita o
almeno gli aspetti più significativi dell’esistenza. A Marcello, questo capita un po’prima, quando
capisce comunque che il conto alla rovescia è iniziato anche per lui. E’ infatti uscendo dalla sala
operatoria, ancora intontito dall’anestesia che sente un medico sussurrare al collega:
“Questa volta ce l’ha fatta, ma mi sa che è l’ultima, con quelle arterie sarà difficile che sopravviva
a un’altra crisi.”
Conosceva bene la condanna cui l’aveva costretto una carriera da fumatore accanito cominciata a
tredici anni. E sapeva che prima o poi qualcuno avrebbe emesso un verdetto finale, adesso
mancava solo la data dell’esecuzione.
Il primo ricordo vola subito a quella sera di marzo di quindici anni fa. Vuotava lo zaino e
riponeva corde e ramponi dopo l’ascensione invernale del Finsteraarhorn ascoltando quel “Köln
Concert” che ormai conosce anche chi ignora cosa sia il jazz. Lui lo considerava da sempre “Il
capolavoro assoluto”. Il poliziotto suonò alla porta e chiese di seguirlo. Obbedì, era una vita che
obbediva a tutti senza discutere. Al tepore dell’auto di servizio il viaggio fino allo stagno sotto la
curva della strada fu breve. Riconoscere Francesca, in quel corpo seminudo a faccia riversa
nell’acqua gelida fu facile. Il tatuaggio sulla spalla, quella farfalla ormai sbiadita, era
inequivocabile. L’ispettore gli parlò dei segni di violenza sul collo, delle mani legate dietro la
schiena dicendo che per il resto niente di insolito, rispetto a casi analoghi, ma non c’era stato
modo di ritrovare la scarpa destra della vittima. Mentre alla sinistra la All Star nera era ancora
allacciata con un doppio nodo.
Gli spiegarono come la sua compagna fosse stata trovata da un vecchio che compiva con il suo
setter irlandese la consueta passeggiata serale.
La sua deposizione fu breve: Francesca era uscita come tutti i martedì sera per andare a Berna da
sua sorella. Sarebbe rimasta fino al venerdì. Li lavorava come commessa part-time presso una
libreria. Una vita così, in bilico tra il richiamo della grande città e la campagna dove Marcello
aveva il suo studio di veterinario.
La conclusione degli inquirenti fu rapida e confermata dall’autopsia: la donna era stata uccisa
dopo aver subito violenza. Ma il suo carnefice non fu mai scovato e “l’affaire” classato dopo dieci
anni di ricerche infruttuose.
Un’infermiera entra nella camera proprio quando il suo ricordo si sta spostando a quel
pomeriggio di settembre di sedici anni prima. Dopo il rapido cambio della medicazione, i pensieri
riprendono a veleggiare, indifferenti ai suoni e alle luci che animano un reparto di terapia
intensiva anche nel cuore della notte.
Una piovosa domenica d’autunno quando con Francesca scelsero con solo apparente
noncuranza, di fiondarsi dentro al cinema Ariston con l’intenzione di godersi per l’ennesima volta
“Belle de Jour”. Quel Buñuel che tanto piaceva ad entrambi. Quel misto di follia e finezza
estetica che dai tempi del liceo, quando neanche si conoscevano, li aveva stregati.
Avevano meno di trent’anni e si frequentavano da poco, ma Marcello covava neanche troppo in
silenzio, la convinzione che Francesca fosse per lui la “scelta ultima e definitiva” dopo una
gioventù che se non proprio spericolata, meritava perlomeno l’appellativo di tumultuosa.
Così ritirando i biglietti non si accorse subito del volto di Marie, la cassiera. Ma durante tutto il
film quel volto gli apparve di continuo, confondendosi e sovrapponendosi a quello della mitica
Catherine Deneuve nel ruolo di Séverine.
Il seguito della storia sembra da romanzo rosa di serie B: l’incontro casuale sull’autobus, lo
scambio dei numeri di telefono e poi la passione travolgente e l’insinuarsi di quella relazione
parallela e proibita, nella sua storia con Francesca. Quella storia che solo alcune settimane prima
sembrava poter resistere anche a uno tsunami.
Di nuovo un’interruzione, stavolta l’anestesista di turno, che dopo aver verificato i parametri sul
monitor se ne va dicendo più a se stesso che al paziente:
“Tutto bene, buona notte.”
Parla a voce alta ma Marcello non risponde; i suoi pensieri corrono a quel fine settimana a
Chamonix. Lui e Marie, soli nel rifugio deserto, come lo sono le capanne alpine in novembre,
quando scalatori e alpinisti, deposti corde e moschettoni attendono che il suolo si presti ad essere
calpestato da sci e racchette. Così all’ombra delle Grandes Jorasse e dell’Aiguille du Midi avevano
vissuto spensierati e forse un po’ ingenuamente si erano promessi cose che sapevano di non
poter mantenere, inventandosi un futuro che non esisteva né nelle loro stesse menti, né
tantomeno nella realtà.
I ricordi si fermano. Dei quindici anni seguenti alla morte di Francesca c’è comunque poco da
dire o da ricordare, quanto a Marie chissà dov’è adesso e con chi.
E’ vero dopo Marcello si era sposato con Sophie, assecondando anche, malgrado lui avesse già 43
anni, il suo desiderio di maternità. Poi lei, stanca di attendere il ritorno dalle cime delle montagne,
dove lui rincorreva chissà cosa, se n’era tornata, con il piccolo Paul, nella sua Camargue.
Quando il primario entra nella sua stanza, Marcello ha un sussulto, è già mattina. Lo guarda dal
suo letto e pensa:
“Speriamo che lui sia più competente del suo collega Patologo legale, che ai tempi manco notò
l’incipiente gravidanza di Francesca. Così se tutto va bene tornerò a casa tra alcuni giorni, giusto il
tempo di far sparire per sempre quella scarpa destra. Allora il conto alla rovescia potrà iniziare
davvero, senza che importi più a nessuno della data dell’esecuzione.”
Il primario si chiede, ma solo per un momento, cosa sia il senso di quella smorfia sorridente e
quasi maliziosa, sul volto di quel paziente ancora fresco di sala operatoria. Ma preso dal suo
lavoro non ci bada più di tanto e si mette a leggere con stile professionale la cartella clinica che
l’infermiera gli tende.
Il sole comincia a rischiarare i vetri del reparto.
26) Davide Laini
Ravioli
La giornata bigia con la nebbia del primo mattino aveva dato a Giuseppe Rivioli la certezza che
sarebbe stata una giornata speciale: magnifici funghi dal profumo di terra sarebbero spuntati nei
posti impervi che conosceva solo lui. E solo lui li avrebbe presi, anche testa in giù, disteso
sull’orlo del dirupo. Talmente disteso che sarebbe scivolato nel grigio del mattino ancora
nebbioso, giù, giù fino al rumore sordo nella sua testa, frenata pesante su un sasso. Lì lo
avrebbero trovato i soccorritori, chiamati dai parenti a metà mattina, preoccupati per il suo
ritardo.
L’ambulanza arriva decisa al Pronto Soccorso, annunciata dalla sirena, e uomini in divisa
spingono veloci la barella con il corpo in fin di vita di Giuseppe, fino al reparto delle cure intense.
I parenti, appena arrivati in sala d’attesa, respirano in silenzio aria di domande tristi, aspettando di
sapere, sperando di capire, desiderosi di tornare a sorridere.
Diverso è l’ambiente in cucina, a due piani da lì, dove Tito spadella nel rumore di piatti tra voci
che gridano.
- Pere cotte, pureati e frullati! Uno come me, qui dentro, è sprecato!
Accettare di seguire le disposizioni del menu ospedaliero, non è proprio scontato per un tipo
estroso come lui! Avrebbe potuto fare grandi cose nelle cucine di ristoranti stellati in tutto il
mondo, ma, a scuola, lettere e numeri si confondevano davanti ai suoi occhi. Aule e banchi sono
sempre ambienti nemici per lui. Tra i fornelli, al contrario, sapeva esprimere le sue doti
preparando pietanze divine. Peccato che sul suo cammino abbia sempre trovato davanti a sé
qualcuno più bravo di lui a scuola, ma meno in cucina! Per questo non aveva fatto la carriera che
desiderava e per questo, dopo anni d’insuccessi e d’innumerevoli posti di lavoro, da due
settimane, era finito a lavorare all’ospedale come addetto di cucina, a eseguire gli ordini di un
giovane e scalpitante sous-chef.
- Mi fa fare quello che a lui non piace! - brontola e sbuffa Tito - Mi ha mandato in cucina di
produzione a prendere i ravioli che ha fatto lui e che non sono certo buoni come i miei!
Si muove nervoso per mezzo ospedale alla ricerca della cucina di produzione, ci è andato solo
una volta da quando lavora all’ospedale, e non ricorda la strada per arrivarci. Nella cella frigorifera
i ravioli devono essere indicati con un’etichetta. Mugugna:
- Cucina di produzione …Nella cella frigorifera ci sono i ravioli, ravioli …sì … appena trovo la
scritta o il cartello!
Intanto, nelle cure intense, l’attesa dei parenti dura poco, il tempo di sperare il risveglio di
Giuseppe che però muore in meno di un’ora. Il suo corpo viene portato nella camera mortuaria,
in attesa delle pompe funebri. Un cartello con il suo nome, Giuseppe Rivioli, fuori dalla porta,
saluta chi entra. La camera mortuaria è fredda. Nella parte superiore delle pareti, alcune finestre,
stretti rettangoli di vetro, lasciano filtrare una luce discreta che accarezza il corpo disteso di
Giuseppe. Fuori, sul piazzale d’entrata delle merci, c’è un via vai di furgoni con uomini che
caricano sacchi, portano pacchi: guadagnano la vita.
Esploratore arrabbiato tra i corridoi dell’ospedale, Tito cerca furioso la cucina di produzione.
- Vita … Vita … che vita è se non posso decidere io cosa cucinare e come voglio?
Oggi ha una strana luce nera negli occhi. Finalmente dopo aver girato tre piani d’ospedale, trova
la scritta che cercava. La vede in mezzo ad altre lettere sulla porta di fianco alla rampa d’accesso
per i fornitori e gli accende un’idea magica.
- Ecco il cartello come mi aveva detto! RA …VIO … LI! Adesso tocca a me! Oggi cucino io!
Altro che i suoi ravioli!
Apre la porta ed entra nel locale buio. Il corpo di Giuseppe giace sul lettino coperto da un telo.
Quel locale in ombra e freddo gli ricorda la cantina dove sua nonna Angela teneva la carne.
- Se hai fame e intelligenza puoi cucinare ogni cosa! In tempo di guerra mangiavamo gatti e merli.
- Gli diceva la nonna con il coltellaccio in mano.
Si ricorda bene di come scuoiava i conigli! Lui era l’unico bambino che non scappava, anzi
l’aiutava a tagliare. Sezionava, divideva, stappava tessuti, tendini e carne. Il sangue sulle mani non
lo spaventava
Questo gli fu poi d’aiuto quando, da ragazzo, aiutava Pietro il macellaio.
- Ogni carne ha il suo tempo di frollatura, chi tanto chi niente! - gli spiegava Pietro tra i quarti
bue, al freddo della cella frigorifera.
- Oggi non c’è il tempo per la frollatura! No, faccio a modo mio… - si convince Tito al freddo
straniero di quella diversa cella frigorifera, stranamente vuota.
Un lampo alieno malefico illumina i sotterranei bui della sua mente e, col coltello che tiene
sempre in tasca, Tito taglia, e lascia scorrere quel rivolo rosso di ricordi. Si lascia cadere
accarezzato da quel flusso colorato di vita e, in un gesto di arte estrema, sogna e crea i suoi ultimi
e personali ravioli, secondo la ricetta della nonna che non darà mai più a nessuno.
- Ma dov’è finito Tito? - Urla impaziente il sous-chef, non vedendolo tornare in cucina.
- Qualcuno vada a cercarlo! Fra venti minuti inizia il servizio in mensa e mancano i ravioli!
Non sono certo i ravioli, quello che si aspettano di trovare i due impiegati delle pompe funebri
nella camera mortuaria, ma nemmeno quello che vedono, appena aprono la porta del locale
vicino alla rampa!
Giuseppe riposa sul lettino di ferro sulla destra del locale, il suo braccio sinistro, scoperto dal telo,
penzola verticale verso il pavimento, quasi a indicare il corpo di Tito senza vita, accasciato a terra
nella pozza del suo stesso sangue.
Il dottor Froc e la sua assistente hanno avuto una notte di lavoro difficile: due interventi
d’urgenza con complicazioni.
- Sono in piedi da ieri mattina. Ma, ti dirò - ammette stanco il dottore - ho più fame che sonno.
Cosa c’è sul menu?
- Ravioli di carne ai funghi.
- Bene! Oggi il cuoco si è sbizzarrito!
27) Giuseppe Plebani
Vita nuova
"Signora Vinci la ringrazio di cuore! La sua donazione in memoria del suo defunto marito ci
permetterà di rinnovare completamente in nostro reparto di chirurgia. A nome di tutto l'ospedale
le rinnovo le mie più sentite condoglianze. E mi raccomando: non esiti a contattarmi per qualsiasi
cosa dovesse aver bisogno" queste le parole del direttore dell'ospedale stringendo la mano a
Marinella Vinci, 25 anni, moglie, o meglio vedova, dell'architetto GianAlberto Vinci; proprio nel
momento in cui il feretro contenente la salma del marito inizia il suo cammino uscendo dalla
Chiesa al termine della cerimonia funebre.
"Direttore, per me è un dovere morale sostenere la vostra struttura dopo tutto quello che avete
fatto per mio marito. A volte è terribile e incredibile come anche un intervento così banale come
un'ernia inguinale possa avere tragiche conseguenze. Sono cose che, mi rendo conto, possono
accadere anche in un ospedale eccellente come il vostro. Per questo motivo non si preoccupi:
non è mia intenzione procedere per vie legali contro di voi." rispose Marinella.
"Signora, lei è una gran donna! È straordinario come anche in una situazione così tragica lei riesca
ad essere forte e coraggiosa" aggiunse il direttore.
Con un ultimo cenno del capo Marinella si congedò dal direttore avviandosi a ricevere le
condoglianze dal Professor Dr. De Paoli, rinomato anestesista, che purtroppo nulla potè per
salvare il povero GianAlberto.
----Nebbia. Nebbia ovunque, nebbia nei miei pensieri.
Ma che cosa è successo? Dove sono?
Sento le palpebre incollate, la testa sembra di cemento, i pensieri di piombo, piombo fuso, tanto
sono pesanti e tanto sono dolorosi.
Mi sento cadere, mi sembra di precipitare nel vuoto ma devo resistere, non devo lasciarmi andare,
devo reagire.
Sento che mi sta prendendo il panico, calma, calma, calma… devo cercare di respirare piano,
lentamente, profondamente, in fin dei conti è quello che mi hanno sempre insegnato; devo
riprendere il controllo.
Forse va meglio, ma non riesco a muovermi, non ce la faccio ad aprire gli occhi, sono nel buio
assoluto.
Mi sembra di percepire delle immagini, come dei lampi nell'oscurità dei miei occhi.
Un flash bianco da cui emergono contorni sfocati… una camera… una camera d'ospedale. Ora
ricordo, sono io in quella camera, seduto sul letto. Qualcuno mi sta parlando, un camice bianco,
un medico? Sì un medico che mi sta parlando. Mi dice di non preoccuparmi, mi parla di un
intervento, qualcosa di routine…
Mi sento di nuovo sprofondare, devo resistere… Un suono mi scuote, ma che cos'è? Il rintocco
sordo di una campana mi rimbomba nella testa, mi fa riemergere dalla nebbia…
Sento delle voci in lontananza, ma chi sono? Non capisco quello che dicono, mi devo sforzare,
ecco forse adesso…
Una voce femminile "Ne sei proprio sicuro?"
Una voce maschile "Non preoccuparti amore mio, non ci saranno problemi!"
"Ho paura!"
"Fidati di me!"
"Ma tu pensi che non avranno sospetti? Un uomo di 40 anni che muore in seguito ad un banale
intervento, come minimo chiederanno l'autopsia!"
"Tesoro, i farmaci che ho somministrato a tuo marito non l'hanno ucciso, ma semplicemente
fatto sprofondare in una specie di catalessi… Anche un luminare dell’anestesista come me, a
volte può commettere un piccolo errore, eccedere nei dosaggi, e anche un uomo giovane a volte
può rivelarsi fragile. E poi ti ho già spiegato cosa fare…"
"Sì lo so, il vostro ospedale ha bisogno di fondi per rinnovare urgentemente un reparto…"
"Esatto, una piccola donazione in cambio di una nuova vita insieme…, il nostro futuro Tesoro."
Ma chi sono? E che cos'è questo ronzio? Mi sembra che tutto attorno a me si muova…
E cos'è questo caldo? fa caldo qui!! Molto caldo!! Troppo caldo!!
--Con un rumore secco lo sportello si chiuse.
Fernando Cortelezzi, 58 anni, impiegato comunale da oltre 35 anni presso il cimitero di Santa
Maria della Neve, diede un ultimo sguardo attraverso l'oblò e, accertatosi che tutto fosse in
ordine, in particolare che l'entrata del feretro era avvenuta senza intoppi e lo stesso era
correttamente posizionato sulla griglia del forno crematorio; premette il bottone rosso di
accensione pensando "Ora del caffè, tanto ci vorranno almeno tre ore per completare la
cremazione…".
28) Andrea Bertagni
Occhi che non vedono
L'ispettore Nardoni guardò ancora per qualche istante le piccole macchie di sangue per terra. Poi,
con passo stanco, uscì dalla sala operatoria, chiudendo dietro di se la porta bianca. Poco lontano,
in prossimità dell'ascensore di servizio, il sergente Stanič stava interrogando l'ausiliare di pulizia
che aveva dato l'allarme. Era passata circa un'ora da quando una donna anziana, di cui nessuno
conosceva le generalità e che non avrebbe dovuto trovarsi in quella sala operatoria, aveva perso la
vita, ma niente era cambiato. I due poliziotti continuavano a brancolare nel buio. A non capire
come fosse possibile che una donna, per di più anziana, si fosse introdotta in un ospedale, si
fosse fatta operare e infine fosse morta, senza che nessuno sapesse niente o se ne fosse accorto.
Qualcuno aveva per forza visto. Aiutato. Ucciso. Si trattava solo di ricomporre, una dopo l'altra,
le tessere del puzzle. Ecco perché, prima di interrogare l'inserviente che per primo, verso le 02.00
di notte, aveva trovato il corpo, i due poliziotti avevano parlato al telefono con il direttore
dell'istituto, dopo aver scoperto che in quell'ospedale nessuno, né all'accettazione, né nel reparto
o tra i medici e gli infermieri di turno, aveva mai visto o conosceva quella donna.
Trattenendo a stento un forte bisogno di fumare, Nardoni si avvicinò a Stanič, che aveva appena
congedato il testimone. La sua espressione, già piena di rughe per l'età e, forse, per qualche
bicchiere di troppo, non prometteva nulla di buono.
- Scoperto qualcosa? - domandò l'ispettore, senza troppe speranze.
- No, purtroppo - confermò il sergente, socchiudendo gli occhi.
- Usciamo a fumare - tagliò corto Nardoni, maledicendo il fatto di essere di turno, quella notte.
Fuori, l'aria era insolitamente gelida per essere primavera. Tra non molto, quella stessa porta
d'entrata sarebbe stata attraversata da giornalisti, politici, alti funzionari e dirigenti. Tutti occupati
a commentare e a deplorare quanto accaduto nel più importante e grande ospedale del Cantone.
Che facessero pure, rifletté Nardoni. A lui importava solo venire a capo del caso, il più complesso
della sua lunga carriera. Insieme a Stanič formavano in effetti la coppia più anziana, o meglio
d'esperienza, dell'intera sezione. Ancora un anno e sarebbero andati tutti e due in pensione. Cosa
avrebbero fatto dopo? Beh, lui si sarebbe occupato della vigna. Stanič invece sarebbe tornato nei
Balcani, dove aveva costruito, stando ai suoi racconti, una splendida casa sul mare. Gente fiera,
quella slava, pensò l'ispettore, schiacciando la cicca nel portacenere attaccato al muro. Quando si
voltò vide una donna con una borsa a tracolla venirgli incontro. A poca distanza notò che aveva
anche due grosse occhiaie e un'espressione contrita, che aveva visto già molte volte.
- Siete poliziotti? - domandò la donna una volta giunta a pochi passi.
- Sì, lei chi è? - chiese Nardoni.
- Mi chiamo Livia Anselmini - rispose senza tendere la mano - e ho paura di credere di essere
stata complice di un omicidio.
***
Rosso, come di solito lo è al tramonto, quella mattina il sole stava invece albeggiando, quando
Livia Anselmini, scortata dai due poliziotti, si sedette su una seggiola dall'area visitatori del
reparto chirurgia 3. E raccontò come sua mamma, Maria Pia Rusconi, di anni 73, tre giorni prima
avesse dato 15'000 franchi a un medico per farsi operare d'urgenza, quella stessa notte. Anzi, si
era proprio indebitata per saltare la lista d'attesa.
- Mi scusi - l'aveva subito interrotta Nardoni, prima che continuasse a raccontare - ma è proprio
sicura che sua madre si sarebbe dovuta operare questa notte, in questo ospedale?
- La ringrazio per il tatto, ispettore. Ma so già che mia madre non ce l'ha fatta - aveva risposto la
donna, abbassando gli occhi verso il pavimento bianco cangiante illuminato dai neon.
A operazione conclusa, aveva spiegato la Anselimini, sua madre sarebbe dovuta tornare subito a
casa, accompagnata da quegli stessi chirurghi che l'avevano portata in ospedale e poi operata.
Non vedendola arrivare, la figlia aveva subito capito che qualcosa era andato storto. E si era
precipitata al nosocomio.
- Ha detto chirurghi? - chiese a bruciapelo l'ispettore.
- Sì - aveva risposto la Anselimini, asciugandosi il volto dalle lacrime.
Nardoni e Stanič si erano subito scambiati uno sguardo d'intesa. Come avevano immaginato, i
colpevoli erano più d'uno. Del resto, per portare una donna in ospedale senza farsi vedere da
nessuno e sparire, quando le cose si sono messe male, molto male, servono soprattutto occhi che
non vedono e teste che si voltano dalla parte opposta. In una parola, complici. Tra i medici, ma
anche tra gli infermieri e gli inservienti. Forse anche più in alto. Poco importa, rifletté l'ispettore,
guardando il volto sfatto e senza più lacrime della Anselimini. Le indagini, presto o tardi,
avrebbero fatto luce su tutto. E uno a uno, tutti quelli che avevano taciuto o collaborato,
sarebbero caduti di fronte alle testimonianze, come birilli. Il primo della lista era ovviamente il
medico che aveva agganciato la donna e le aveva proposto di farsi operare in cambio di soldi.
Stanato lui, con un po' di fortuna, avrebbero preso anche tutti gli altri. A patto che fosse lui la
mente, il pesce grosso. In caso contrario sciogliere la rete degli ingranaggi sarebbe stato un po'
più difficile. Ma non impossibile.
- Come si chiama il primo medico che ha preso contatto con sua madre? - domandò quindi
Nardoni, sperando che la Anselimini se lo ricordasse.
- Enea Ponti - rispose sicura, la donna.
Proprio in quel momento il sole da rosso divenne giallo, riempiendo di luce la stanza. Sì, pensò
l'ispettore, voltandosi verso le finestre. Quella notte era stata un incubo, ma il nuovo giorno
aveva tutta l'aria di iniziare con il piede giusto.
29) Dario Turconi
Lugubri apparenze
Era una mattina come tante altre, e la paciosa infermiera del servizio trasfusionale era pronta a
recarsi al suo adorato posto di lavoro.
Birgitte salutò i suoi gatti e si recò serena e felice nell’enorme Ospedale della città di Borg.
Anche oggi avrebbe messo in scena il suo grande spettacolo; infatti Birgitte non adorava il suo
lavoro per il suo svolgimento normale, ma era in particolare affascinata da una sua particolare
collezione.
Birgitte collezionava morti.
Nonostante questo Birgitte era da sempre considerata la migliore infermiera di tutto l’ospedale e
addirittura quest’anno concorreva ad essere la migliore infermiera di tutta la Nazione.
Mai un incidente, mai una lamentela, tutti vedendola, anche per il suo aspetto burroso, sembrava
riacquistassero serenità.
I colleghi e i suoi responsabili la ritenevano un esempio di dedizione ed affabilità, ma Lei fin da
piccola aveva affinato questa sua recita per soddisfare i Suoi veri desideri.
La piccola Birgitte era proprio una bimba adorabile, educata, con riccioli biondi, ricordava
vagamente Shirley Temple, un’attrice bambina che aveva dominato le scene cinematografiche
americane tra le due guerre mondiali.
Birgitte aveva un’altra cosa in comune con Shirley, a parte l’aspetto, era un’attrice dotata di
talento naturale che fin dalla tenera età sfruttava per ottenere quello che desiderava.
All’inizio erano piccoli desideri da bimbi, un giocattolo, un vestitino, un dolce, ma un giorno
Birgitte giocando con un gattino randagio che per noia nutriva, guadagnandosi anche per questo
altri complimenti e ulteriore ammirazione, si vide confrontata per la prima volta con la Sua vera
Natura.
Mentre lo nutriva, pensava che a Lei i gatti non piacevano ed in particolare quel gatto randagio
l’aveva sempre infastidita, non gli piaceva il Suo colore, il Suo modo di miagolare, Nulla.
Seguendo i suo pensieri si diresse verso un dirupo vicino alla casa di famiglia, seguita dal gatto
adorante e giunta sull’orlo del precipizio, diede un calcione al felino che sbatté il povero
corpicino sulle rocce appuntite perdendo la vita.
Dapprima Birgitte rimase sconvolta da questo suo gesto, ma subito dopo fu invasa da un piacere
profondo, come mai aveva provato, tanto da farne la Via Maestra della propria Vita.
Il suo piacere accrebbe ancora, nei giorni seguenti, quando nessuno la ritenne responsabile del
delitto, ma anzi, quando la morte fu scoperta, fu sommersa da ulteriori manifestazioni d’affetto
per la scomparsa del felino randagio.
Birgitte aveva capito che, per collezionare morti, doveva anche non farsi scoprire.
Essendo molto bella e longilinea decise che per essere rassicurante avrebbe dovuto ingrassare e
per essere maggiormente in grado di soddisfare i suoi bisogni decise di intraprendere lo studio di
una professione sanitaria.
Molte volte nel corso dei suoi studi i docenti la proposero per borse di studio per prestigiose
scuole di medicina, ma lei, con in mente il suo diabolico obbiettivo, declinava con timidezza alle
offerte per non essere troppo sotto i riflettori che avrebbero potuto illuminare la Sua vera Natura.
Divenne quindi la miglior infermiera del servizio trasfusioni dell’ospedale di Borg.
La sua arma del delitto non era infettare gli inconsapevoli donatori e tantomeno i pazienti che
quel sangue lo dovevano ricevere.
Birgitte aveva notato che la maggior parte dei donatori, anche se con le migliori intenzioni,
avevano scarso tempo per donare il proprio sangue, magari ricavavano il loro tempo da una
pausa in ufficio o addirittura rinunciando alla pausa pranzo.
Volta per volta allora Birgitte allungava, con la sua strabordante giovialità, i tempi necessari alla
donazione.
Dopo qualche volta il povero donatore, che magari subiva il rimbrotto del capoufficio per il
ritardo o trovava la cena fredda a casa, si vedeva, suo malgrado, messo nella condizione di non
rispondere ai solleciti per le donazioni ed agli appelli che comparivano sui media senza neanche
pensare che potesse essere vittima al folle disegno della burrosa Birgitte.
Tornando a casa quel giorno con la Sua targa quale miglior infermiera della Nazione, Birgitte
accese il televisore e subito riconobbe in video il suo Responsabile che dichiarava: “I nostri
frigoriferi sono vuoti, i ritmi del lavoro impediscono allo zoccolo duro dei nostri storici donatori
di continuare nel loro encomiabile gesto di generosità; si calcola che solo quest’anno a seguito di
questa carenza di emoderivati siano morti solo nella zona di Borg 3000 persone che potevano
essere salvate se….”
Birgitte spense il televisore, una grande soddisfazione la pervase e si mise ad accarezzare uno dei
suoi gatti randagi…. impagliati.
30) Angela Troise
Non capisco cosa ci faccia quella giovane lì fuori. Vuole attirare la mia attenzione?
Io sono qua malata e lei sembra divertirsi nell’attorcigliarsi la ciocca guardando dentro la mia
stanza.
Mi sembra familiare. Ha capelli biondi spenti, occhi vuoti ma divertiti, labbra con rossetto
sbiadito, corpo minuto, un anello di legno al dito.
Cerco di distrarmi ma i miei occhi ricadono continuamente su di lei. Le ho fatto più volte segno
per attirare il suo sguardo ma non mi guarda.
Chi sei, vieni da me. Dimmi cosa vuoi.
Il bel dottore entra con quella sua voce roca a darmi il benvenuto nell’ospedale. Non capisco cosa
ci sia di buono nell’essere in un ospedale. Piuttosto ridicolo. Io gli sorrido e lo ringrazio per
questo pensiero gentile. Lui descrive la mia situazione a chi è entrato in stanza con lui: due signori
importanti, si vede dalla loro postura ma anche dalla loro puzza sotto al naso. Saranno due esperti
che sono venuti per trattare la mia malattia insieme al dottore.
Quando ha finito di descrivere il mio malessere come se io non capissi alcuna delle parole
pronun-ciate da lui, gli pongo una domanda:
“Chi è la ragazza fuori dalla mia finestra?” Lui mi guarda, sbalordito dal fatto che io sia in
condizioni di porre domande. Guarda fuori dalla finestra alla ricerca di ciò che sto reclamando.
La ragazza lo guarda fisso, ancora immobile dinnanzi alla mia finestra eppure lui la sta cercando
fuori dal cortile. Si avvicina alla finestra e mi dice che è una ragazza che si occupa del giardino. A
me viene subito di dire che quella giovane sta facendo tutto fuorché lavorare, ma evito, non
voglio passare per la paziente che si lamenta di ogni cosa.
Comunque io quella ragazza la conosco. Non so da dove, non so per cosa, ma io so chi è.
Chi sei, vieni da me. Dimmi cosa vuoi.
L'odore di disinfettante oggi lo sento più del solito. Mi fa pizzicare il naso incredibilmente. Non
posso credere di essere qua dentro. Mi alzo e vado alla finestra. Di fronte a me si apre un enorme
prato e in lontananza vedo il recinto di metallo attorcigliato che circonda l'ospedale. Come ho
fatto. Ci sono riuscita bene. Mamma mi ha sempre detto di essere una manipolatrice, che inganna
con una facilità impressionante. Lei credeva di insultarmi ma si sbagliava. Lo considero tuttora un
complimento. Sciocca.
Noto che la primavera è iniziata perché ci sono margherite qua e là. Passo al setaccio tutto il
cortile fino ad arrivare sotto la mia finestra ma mi interrompono degli occhi velati di grigio che
mi stanno guardando insistentemente. È lei. Mi guarda. Oso nell'osservarla e noto sul suo collo
dei lividi che sembrano di dita. Il suo anello di legno ha due iniziali A.T.
Tutto questo mi dice qualcosa.
Chi sei, vieni da me. Dimmi cosa vuoi.
"Lo sa che non può stare alla finestra, si tolga immediatamente da lì"
"Buongiorno anche a lei dottore", gli porgo un sorriso immenso accogliendolo come se non
aspettassi altro se non vederlo, mentre mi allontano dalla finestra. Lui mi guarda incerto, poi
sorride abbassando lo sguardo sulla mia cartella medica. Facile.
"Questo sarà il suo psicologo durante il corso del suo soggiorno qui. Dica il suo nome"
"Mi chiamo Andrea Thorne", mi inchino teatralmente allo psicologo e lui mi guarda serioso.
Questo sarà difficile da convincere.
"Senta dottore, è sicuro che la giardiniera stia facendo il suo lavoro?"
"A questo proposito, non vogliamo che si agiti perciò verrà a farle visita per presentarsi durante il
pomeriggio. Le va bene?"
"Certo, grazie mille. Sa, mi stavo preoccupando alquanto. È gentile a rassicurarmi"
"È il suo lavoro, signorina Thorne e il mio è quello di verificare se esiste effettivamente un
problema, così da risolverlo. Sempre se esiste" ribatte seccamente quello che dovrebbe essere il
mio psicologo, un uomo con evidenti problemi di fiducia nel prossimo. Lui scherza, io soffro:
sento puzza di marcio continuamente, il cibo è discutibile, le infermiere incapaci, sento urla dalla
mattina alla sera, ho mal di testa a causa dei miei stessi urli, per non parlare della mia mandibola
che deve essere puntualmente pronta in un ammagliante sorriso per quell'idiota, senza nominare
l'insistenza con la quale ci obbligano a prendere quelle pastiglie; a volte riesco a nasconderle ma
altre no.
Di nuovo lei, ora ci siamo quasi scambiate i ruoli: io la guardo mentre lei, sempre attorcigliandosi
la ciocca, guarda in basso, il vuoto.
Dentro la stanza sento entrare con passo pesante una giovane. Ha capelli biondi spenti, occhi
vuoti ma divertiti, labbra con rossetto sbiadito, corpo minuto. Mi sorride.
"Salve, io sono la giardiniera. Mi hanno detto di venire a farle visita.." la riguardo.
"Non hai l'anello"
"Come?" guardo fuori dalla finestra e lei ora ci sta guardando.
"PERCHÈ NON HAI L’ANELLO?!"
Ho capito chi sei. Ma tu sei morta, non è possibile. Vado alla finestra e le chiedo spiegazioni con
più fiato abbia in gola. Lei mi guarda seria, piega il volto prima da un lato e poi dall'altro.
"Vieni, dimmi come hai fatto!" Entrano i dottori in camera e cercano di calmarmi.
"Ti ho guardata morire! Eri morta, il tuo battito si era fermato, non è possibile! Le vedi quelle dita
stupida? Le vedi? Sono le mie, solo le mie, per sempre saranno mie!"
Mi sono evitata il carcere grazie alla mia astuzia. Sono in quest'ospedale circondata da mediocri
persone che credono di potermi tenere a bada. Credono che io sia pazza sai, ma io so di non esserlo. Li avevo fregati tutti, partendo da quell'idiota.
Ma tu, vieni e spiegami.
Dimmi perché non mi volevi. L'anello io te l'avevo dato. Non hai detto sì però.
Vieni da me.
Io non sono pazza.
Io non ero pazza.
Vieni da me.
Sento un freddo gelido. Ora sono calma. Evidentemente la morfina ha fatto il suo dovere. Sono
pronta per iniziare una nuova giornata, ora che l'ho affrontata, posso continuare la mia recita.
Respiro profondamente. Scricchio il collo prima a destra e poi a sinistra. Apro gli occhi.
Degli occhi velati di grigio mi stanno guardando insistentemente.
“Eccomi".
31) Paolo Rossetti
I raggi del sole entrarono dall’ampia finestra e s’infilarono nelle ferite del suo viso. Gli occhi si
aprirono di scatto. Lo sguardo andò a sbattere contro la roccia. Sembrava che la montagna
volesse crollargli addosso, tanto era vicina e minacciosa. Era una caratteristica di quella valle:
stretta e incuneata fra due imponenti pareti rocciose. Una spumeggiante cascata compariva come
per incanto da sotto un magnifico ponte romanico. Una chiesetta si aggrappava con forza e fede
alla roccia.
La testa gli doleva ancora tremendamente. Era così ad ogni risveglio. Sembrava passata
un'eternità da quando lo avevano ricoverato. Il macchinista del diretto per Basilea aveva visto un
uomo sui binari ed aveva attivato il freno d'emergenza. Il treno gli era passato sopra con tutti i
vagoni. Il macchinista era balzato giù dalla locomotiva e aveva corso lungo tutto il treno
cercandolo sotto ogni vagone. L’aveva trovato steso fra i binari: vivo, il convoglio non l’aveva
travolto. Febo ricordava che quel vigliacco di Robi l'aveva sbattuto fuori dal treno sul quale erano
in fuga dopo il furto alla banca. Ora era lì, inchiodato ad un letto d'ospedale con una ragnatela di
tubi che gli penzolavano attorno. Se l'era cavata a buon mercato però: commozione cerebrale, un
piede rotto, qualche costola incrinata e quei profondi tagli sul viso. Ad ogni risveglio, Febo
rifletteva su come vendicarsi "di quell’assassino!"
Un giorno, mentre sonnecchiava, sentì la conversazione fra due infermiere. Un uomo era
ricoverato in una camera accanto. Aveva fatto a botte in prigione. A quanto pare, l'avevano
conciato male. Ora stava meglio e passava le sue giornate e serate nel locale televisione guardando
cartoni animati. Febo riconobbe subito quel bamboccio di Robi e la sua collera si inasprì: “questa
è un’occasione da sfruttare!"
Si conoscevano da quando erano bambini. Non si può dire che fossero amici. Erano uno
l’opposto dell’altro: Febo timido, Robi spaccone; Febo era studioso, Robi preferiva guardare i
cartoni animati, la sua passione anche da adulto. Febo giocava per divertirsi, mentre Robi voleva
sempre vincere e umiliare gli altri, e considerava Febo un debole, un perdente.
Nonostante le differenze, si trovavano con gli altri ragazzi del quartiere a giocare. Quando Robi si
sbucciava un ginocchio cadendo o si tagliava giocando con un chiodo, correva piangendo dalla
mamma. Gli altri bambini lo prendevano in giro. Gli davano del piagnone e della femminuccia.
Febo non rideva mai di lui, perché sapeva. “Sono emofiliaco: il mio corpo non cicatrizza le
ferite", gli aveva confidato una volta Robi. A casa la mamma gli doveva subito iniettare una
medicina affinché non morisse dissanguato.
Febo se ne volle di aver provato compassione per quell’individuo. Ora doveva vendicarsi!
Ma come? Lui non era un assassino. Certo, non era nemmeno uno stinco di santo. Era
consumatore e piccolo spacciatore di droga. Aveva compiuto qualche furtarello. Il colpo più
grosso era stato la recente rapina in banca, un’idea di Robi. Ma non aveva mai fatto del male a
nessuno.
Stava di nuovo guardando la parete rocciosa. Poi rivolse lo sguardo all’interno della camera.
Erano tutte uguali, osservò: poltrona, tavolino con due sedie, crocefisso alla parete, letto e
comodino. Lì erano posate la sveglia e delle siringhe di Fraxiparina: un anticoagulante per
prevenire le trombosi quando si sta a lungo a letto e con un arto immobile. “Ecco l’idea! Se riesco
ad iniettarne una a Robi il cui sangue non coagula e gli procuro una ferita, lo uccido!”
s’immaginò. “Agirò questa sera e lo sorprenderò nel locale televisione. Ci sarà sicuramente.”
La giornata fu interminabile. Le infermiere passavano a prendersi cura di lui: cambio delle
medicazioni, giornale, due chiacchiere. Poi portarono la cena che Febo appena toccò.“Mi trattano
come un malato, non come un delinquente” si compiacque.
Quando l’infermiera spense la luce augurandogli maternamente la buona notte, era nervoso.
Aspettò ancora un momento, poi strappò i fili e i tubicini dal suo corpo. Si mise con fatica a
sedere sul bordo del letto e si alzò. La testa riprese a fargli male. Prese una siringa e con l’aiuto di
una stampella uscì dalla camera. Il poliziotto di guardia nel corridoio stava sonnecchiando sulla
sedia. Non si vedeva nessun altro. Zoppicando cautamente, Febo raggiunse il locale televisione.
La porta era socchiusa. Ne uscivano una debole luce e la voce inconfondibile di Gatto Silvestro.
Spinse la porta ed entrò in silenzio. Appoggiò la stampella alla parete e sfilò con cura il cappuccio
dall’ago della siringa. Improvvisamente la porta sbatté alle sue spalle. Il televisore si spense e tutto
piombò in una profonda oscurità.
Le notti in ospedale non offrono riposo a tutti. I pazienti dovrebbero dormire, ma sono svegliati
dalle periodiche visite del personale medico, che viene ad accertarsi che tutto vada bene. Le
infermiere per tenersi sveglie alternano un caffè ad una visita. E così trascorrono le ore, in
religioso silenzio.
Un terribile urlo squarciò la notte. Le luci di chiamata sopra le porte delle camere si accesero una
dopo l’altra, illuminando i corridoi come piste d’atterraggio. Le infermiere vi si riversarono
correndo e gridando come indemoniate. L’ospedale stava vivendo un incubo, dal quale nessuno
sembrava in grado di destarsi.
Finalmente si diffuse la notizia e tutto cessò con la rapidità con cui era iniziato: nel reparto dove
c’erano i due malviventi, un’infermiera era scivolata in un lago di sangue mentre entrava nel locale
televisione ed era finita sopra un corpo inerte.
Era ormai l’alba quando arrivò la polizia.
Il corpo era ancora lì, steso sulla pancia, la testa sfondata da una stampella e girata verso la
portafinestra. Gli occhi erano aperti ma spenti. Sembravano fissare per l’eternità la rocciosa
montagna.
Come ai tempi dell’infanzia quando giocavano insieme, aveva vinto di nuovo Robi.
Febo, di indole buona e fragile, aveva perso anche la partita più importante: quella per la vita.
32) Franca Raineri
La talpa ignorante
La morale non è mai stata il mio forte, e la legge nemmeno. Non mi è mai neanche venuto in
mente di consultarla, meglio restare ignoranti. Agire non solo senza pensare alle conseguenze, ma
nemmeno conoscerle, le conseguenze.
Lavoro in ospedale. Questo dicevo quando ancora bighellonavo nei locali della città. Il loro
sguardo si accendeva, di cosa ti occupi, mi chiedevano. Sono nel ramo della ricerca, rispondevo
aggiustandomi gli occhiali. Balle. In quel laboratorio passavo ogni sera alle cinque precise,
spingendo un carrello. Due enormi sacchi, uno per la carta e uno per il resto, alcool, secchio e
spazzettone.
L'unica cosa che è cambiata in due anni è che adesso di lì ci passo alle sei e quindici. Ogni tanto i
dottori non ci sono, spesso invece sono ancora attaccati alle loro macchine a scoprire chissà cosa.
Bofonchiano un buona sera e si dimenticano di me.
A volte un dottore, di solito quello sporco dai capelli giallognoli, alza la testa dal suo schermo e
inizia ad inveire. Alcuni si avvicinano allo schermo, altri si limitano a girare lo sgabello. Turbati,
scossi, visi rossi, occhi chiusi, massaggio alla tempia. Ognuno ha la sua reazione, nessuna positiva.
Quelli di Stoccolma hanno fatto questo e quello, maledetti, solo perché hanno più soldi di noi. E
Boston? Anche noi ci stiamo lavorando, la nostra strada è più lenta, ma più efficace.
Ero trasparente, non mi vedevano nemmeno, i dottori. Respirando tutta quella competizione mi
rendevo finalmente conto che i bastardi fanno la gara a chi ci arriva per primo. Il segreto per
prevenire le malattie è un nostro segreto. La guarigione è importante, ma solo se avviene grazie a
noi. Curare, insomma, è un effetto collaterale.
E io cosa c'entro? Se il mondo è malato, pure io dovrò guadagnarci qualcosa. Non si vive certo
come dei pascià spingendo il carrellino. Mi avevano confinato alle pulizie dei laboratori dopo
avermi pizzicato a sottrarre morfina e pastigliette varie dalle cure intense. Anche i polli sanno che
le contano e le sorvegliano, ma, come detto prima, alle conseguenze non ci penso. Senza
guadagni accessori, dopo un paio d'anni di cinghia tirata, eccomi al verde.
I miei dottori venderebbero l’anima per la gloria di una scoperta, poco importa se altrui.
Immagino sia un pensiero comune a tutti quelli come loro. Ruberò le loro scoperte e le spaccerò
ai loro nemici come la più preziosa delle merci.
Da dove partire? Non posso certo chiamare il numero verde di una multinazionale a caso e
proporre una cosa del genere. Sono tutti onesti se c'è un filtro.
Il congresso! Se ne sono andati tutti, quella volta. E sono tornati con tante belle cartelline e tanti
bei biglietti da visita. Tutti colleghi stimati, se c'è un filtro. Ho l'imbarazzo della scelta, sono
tantissimi. Ma devo scegliere un italiano, altre lingue non le so. Ne sono rimasti quattro, ospedale
o azienda? Scelgo l'azienda, avranno più soldi. Mando una mail con allegato e scrivo “ne vuoi
ancora?”. Sì, poi pensano che è una di quelle spam delle prostitute. Forse la apriranno proprio per
questo!
Nelle ultime settimane c'è un gran fermento attorno ad un malloppo di fogli. L'unica scritta
comprensibile sulla prima pagina è “rapporto provvisorio”. Fotografo quella, basterà. Click, invia.
La risposta è arrivata dopo due giorni di febbrile attesa. Un paio di domande, un numero di conto
e via, sono una talpa. Non l'avrei mai pensata tanto facile.
Il “rapporto provvisorio” è ormai esaurito, devo trovare qualcosa di nuovo. Di meglio, magari.
L'altro giorno quando sono entrato alcuni dottori erano chinati attorno ai capelli giallognoli.
Parlavano a bassa voce, hanno sussultato al rumore del carrellino. Il dottore grasso ha preso un
foglio e l'ha discretamente chiuso in un cassetto.
Oggi il laboratorio è deserto. Nessuno sforzo, nessuna abilità da scassinatore. Caro il mio
scienziato, serve a tanto mettersi la chiave del cassetto in tasca se poi si lascia il camice in
laboratorio.
Niente, non ci capisco niente. Non so nemmeno in che lingua sia scritto, questo maledetto foglio.
Ma non ha importanza: se è così segreto da nasconderlo addirittura a me, ne ricaverò un sacco di
soldi.
Dal nulla, il buio. Mi risveglio imbavagliato e legato ad una sedia da ufficio. Ingegnosi, hanno
usato i cavi del computer. Ho mal di testa e mi fischia un orecchio, chissà cosa mi hanno tirato in
testa. I dottori sono agitati, mi camminano attorno nervosamente. Si consultano, non sanno cosa
fare di me. A quanto pare anche la loro coscienza non è pulita, dicono che se parlo perdono tutti
il posto di lavoro, o peggio.
Di cosa mai potrò parlare! Ma ormai è troppo tardi, stanno confessando, inconsapevoli, i loro
peccati. Ora so tutto, sono dei corrotti ed io, dicono, ho trovato le prove.
Hanno studiato, loro. Guarda te se decidevano di spararmi e buttarmi nel lago. No, la loro
brillante soluzione è farmi sentire male. Un dottore viene a studiarmi da vicino, mi osserva le
mani e gli occhi, sente il polso e sentenzia che potrei essere un buon candidato per un infarto.
Chissà che vita fa uno così, un bell’infarto è proprio credibile. Il loro piano è iniettarmi qualcosa,
slegarmi e fingere di salvarmi. Il piano comprende anche un necrologio sul giornale da parte del
laboratorio e dei fiori alla mia famiglia, sempre che uno così ne abbia una.
Di nuovo buio, di nuovo apro gli occhi. Questa volta in bocca non ho uno straccio, ma un tubo,
e altri tubi sbucano dal mio corpo. Sono ancora in pericolo? Qualcuno mi ha salvato? Ho paura,
possono tornare, alla fine lavorano qui. Maledette conseguenze, proprio adesso devo iniziare a
pensarci.
33) Christine Agatoni
Quando la signora Raimondi si svegliò, era nel letto singolo della camera privata dell' Ospedale
Civico, ma ancora non lo sapeva.
Confusa cercò di guardarsi intorno, ma aveva la testa pesante, la vista sfocata. Poteva scorgere
solo una lieve luce polverosa che filtrava dalle tapparelle abbassate. Meglio richiudere gli occhi.
Si sentiva debole, con un accenno di nausea, le membra pesanti. La pelle grinzosa le tirava nel
viso e sul corpo, se la sentiva secca.
Che cosa diavolo era successo?
Ripensò alla giornata precedente. Nonostante la fastidiosa debolezza che l'accompagnava da
qualche tempo, come tutti i giovedì era scesa al Münger per un pranzetto e quattro chiacchiere,
poi al Portofino per un massaggio completo e la sera al concerto (da quando avevano aperto il
LAC era ancora più emozionante). Come mai si sentiva così male? Non aveva preso un grammo
di freddo, con la pelliccia buona, sempre al calduccio perché si spostava in taxi. Il cibo al Münger
era stato eccellente e leggero, una fetta di torta salata e una limonata. La cena? Una delle delizie di
François: delicato flan al formaggio su un letto di insalata mista, espresso liscio e un cioccolatino.
Dove sono? Dov'è François?
Ieri sembrava nervoso e impaziente, sicuramente a causa della partita. Di origine svizzera
francese, fumatore di cigarillos, amava la barca a vela e il biliardo. Cinquantasei anni ben portati,
erano sposati da dieci. Il primo marito della signora Raimondi era morto quando lei aveva
cinquantotto anni, dopo una vita insieme di amore sincero. I figli non erano arrivati, ma avevano
passato trent'anni goderecci e felici. Alla sua morte le aveva lasciato una cospicua eredità, ma le
era mancato moltissimo. Dopo un anno di lutto e depressione si era lasciata convincere da una
conoscente ad andare in crociera per un periodo di sei mesi. La varietà di paesaggi, l'esoticità e le
nuove conoscenze l'avevano spinta a riprendere la vita in mano e all'aeroporto di Ginevra aveva
conosciuto François, che tornava a Lugano. Era a Ginevra per firmare le carte del suo divorzio.
Dopo una frequentazione di due anni circa si erano sposati. Se Giacomo era stato divertente e
brillante, François era molto affettuoso e comprensivo, la faceva sentire una regina con i
numerosi regali, mazzi di fiori, cioccolatini e cenette prelibate. La differenza di età non era mai
stata un problema, avevano interessi diversi ma la stessa passione per l'arte, il cibo raffinato e i
viaggi.
Ospedale. Ne sentiva l'odore. A tentoni la signora Raimondi cercò il pulsante per chiamare
l'infermiera e, sollevata nel trovarlo, lo premette varie volte. Dopo neanche un minuto una
ragazza piccola, bionda e svelta bussò gentilmente ed entrò. “Buongiorno signora Raimondi, ha
bisogno di qualcosa? Come si sente?”. “Buongiorno, non capisco, perché sono qui? Che cosa è
successo?” “Non si ricorda? Ha vomitato e poi è svenuta ieri sera durante la pausa del concerto, e
l'ambulanza l'ha portata qui. Abbiamo fatto le analisi del sangue, le radiografie alla spalla, dove ha
battuto, e anche una TAC. Il dottore sarà da lei fra poco e le spiegherà tutto”.
“Mi ricordo qualcosa, mi sento confusa... sto ancora male... dov'è mio marito?” “Abbiamo già
avvertito suo marito durante la notte signora. Ha bisogno di qualcosa? Ecco un po' di acqua.
Meglio che si riposi...”.
*
La signora Raimondi socchiuse gli occhi. C'era qualcuno nella stanza spoglia. “François?” chiese
debolmente. “No signora, buongiorno, sono il medico, mi dispiace svegliarla ma vorrei scambiare
due parole con lei. Ieri notte dopo il suo malessere le abbiamo fatto le analisi del sangue, una
radiografia alla spalla e una TAC. Lei era semi incosciente e molto debole.” “Adesso ricordo di
essermi sentita male..”. Stava riacquistando la sua abituale lucidità. “Signora Raimondi, mi
piacerebbe sapere come si sentiva negli ultimi tempi e ho bisogno di avere i dettagli sulla sua
giornata di ieri: che cosa ha fatto, dove è andata e cosa ha mangiato”. Glielo disse, cercando di
essere il più precisa possibile. Il dottore si incupì un poco, un luccichio attento negli occhi castani.
“Mi racconta a grandi linee come passa le sue giornate? Ha delle abitudini precise?” Stupita, gli
espose concisamente il programma della settimana, gli incontri fissi con gli amici, le partite a
bridge, il teatro di Como, il giretto al Parco Ciani, novembre alle Canarie, e altri impegni che si
era imposta per non invecchiare. “Lei ha un marito, giusto? Figli, nipoti che la vengono a trovare
regolarmente?” “No, siamo solo noi due. Tre volte alla settimana viene la donna delle pulizie, ma
a François piace cucinare, quindi lo fa lui”. Il dottore sospirò. Lei si allarmò, perché era un
sospiro triste. “Signora Raimondi, quello che le sto per dirle sarà un duro colpo. Attraverso le
analisi del sangue abbiamo riscontrato una sostanza anomala, la causa del suo malessere e
debolezza degli ultimi tempi. Ieri sera, attraverso il cibo, ne ha ricevuta una dose più forte. Grazie
al vomito l'ha espulsa poco dopo, ma gli esami sono chiarissimi: da un po' di tempo lei viene
avvelenata...”.
34) Gabriele Moro
Samuele era stato trasportato all’ospedale civico in ambulanza. Aveva riportato un trauma
toracico con contusione polmonare e la frattura di quattro costole, ma i medici prevedevano una
guarigione senza ripercussioni a lungo termine. Era trascorso qualche giorno da quando era stato
sistemato nella sua stanza. Nonostante la mascherina dell’ossigeno, aveva potuto rispondere alle
domande degli inquirenti, e aveva appreso che l’incidente stradale che l’aveva visto terminare la
corsa contro un salice aveva avuto esito mortale. Per Liliana infatti non c’era stato nulla da fare:
l’impatto era stato troppo violento.
Samuele ricordava a stento. Dopo lo schianto aveva gridato il suo nome, ma la ragazza, seduta
accanto a lui, non aveva risposto. L’aria sembrava non voler più tornare a gonfiargli i polmoni.
Aveva inspirato affannosamente e una fitta gli aveva percorso il torace; aveva tossicchiato
sputacchiando sangue sull’airbag e il dolore lo aveva anestetizzato. Da lì in poi solo il buio.
Sì, la notte dell’incidente aveva bevuto. Ora si prospettavano tempi duri per il giovane Samuele: la
riabilitazione in solitudine, le conseguenze penali, e Liliana che non c’era più. Non ci poteva
credere! Come avrebbe voluto fumarsi una bella sigaretta in sua compagnia, come facevano
quando andava a prenderla al termine delle lezioni universitarie!
Il padre di Liliana era fuori di sé per il dolore e la rabbia. Samuele non l’aveva mai visto prima
dell’incidente, ma la ragazza le aveva parlato di lui. Era un uomo molto stressato per il lavoro e a
volte persino manesco. Niente di grave, gli aveva assicurato. Altrimenti Samuele non ci avrebbe
pensato due volte prima di dargli una lezione, soprattutto se avesse coinvolto Liliana. Lei però
glielo aveva garantito: non alzava le mani su di lei né minacciava di farlo, era l’unica figlia che
aveva e le voleva solo un gran bene. Le minacce invece le ricevette lui, minacce dettate dalla
frustrazione, dall’impotenza e dal lutto che l’uomo stava vivendo a causa sua.
− Riccardo, temo per la mia vita – confidò un giorno al fratello, venutolo a trovare.
− Stai tranquillo, i dottori hanno detto che non c’è più nessun pericolo – lo rassicurò lui, ma
Samuele non intendeva un peggioramento di carattere clinico.
− Il padre di Liliana è un medico. È un tipo violento – gli confidò attraverso la maschera
d’ossigeno. – È fuori di sé, potrebbe uccidermi! – ansimò.
Samuele era un tipo sveglio, coi piedi per terra, e Riccardo era sempre stato il suo punto di
riferimento. Non si sarebbe mai inventato una storia senza fondamento, non con lui.
Ciononostante riteneva che una vendetta all’antica fosse un’ipotesi remota.
− Il dottor Hermann è conosciuto a livello nazionale. Dubito che getterà la sua vita e tanti anni di
carriera in questo modo – lo rassicurò.
Aveva ragione, ma i timori di Samuele erano altri:
−
Potrebbe farlo sembrare un incidente o un peggioramento delle condizioni. È un dottore:
sa come vanno le cose qui!
Potevano parlare liberamente perché la camera era privata. Contrarre una polmonite durante la
cura di una contusione polmonare poteva portare alla morte, e il rischio con la presenza di un
secondo ricoverato era troppo alto. Inoltre era di primaria importanza disinfettarsi le mani, e
anche per questi motivi Riccardo riconobbe che il dottor Hermann, in via prettamente teorica,
avrebbe avuto la possibilità di ucciderlo e di nascondere la sua colpevolezza.
− Cosa possiamo fare? – domandò allora.
Samuele voltò il capo entro i limiti concessigli dalla strumentazione.
− Mi serve che passi dall’officina e mi porti una cosa.
Gli spiegò di cosa aveva bisogno e si salutarono. Era solo una precauzione, e Riccardo era
disposto ad aiutarlo. Si disinfettò con cura le mani ed uscì dalla stanza lasciandolo solo.
Passarono un paio di giorni. Il dottor Hermann era appena rientrato da un importante convegno
estero quando raggiunse la stanza di Samuele a notte fonda. Lui non si mosse di un millimetro,
finse di star dormendo. Gli si avvicinò con cautela ed estrasse una siringa. La iniettò nella flebo
attraverso un apposito connettore: avrebbe compromesso le sue condizioni di salute senza
destare sospetti. Ritrasse la mano e si allontanò nel silenzio. Dopo aver tirato la tendina si
disinfettò con cura le mani e lasciò la stanza.
Samuele attese solo qualche secondo, poi si sollevò a fatica. Ignorò il dolore che le costole
scheggiate gli procuravano ed osservò per un istante quel liquido incolore che goccia dopo goccia
lo avrebbe ucciso. Afferrò le forbici che teneva tra le coperte, l’unica difesa di cui disponeva, e
recise il tubicino.
−
Se anche riuscissi ad impedirgli di ucciderti, non potrai evitare che ci riprovi – l’aveva
ammonito il fratello quando gli aveva chiesto di portargli le forbici.
Aveva ragione, per quello serviva altro. L’etere dietilico veniva usato nei motori Diesel
dell’officina in cui lavorava. Era un liquido incolore, altamente infiammabile e immiscibile con
l’acqua. Aveva un odore caratteristico e perciò poteva essere riconosciuto, ma Samuele si era
assicurato che l’odore penetrante del disinfettante lo celasse. L’aveva fatto inserire nel dispenser
che stava sul lavandino, e senza saperlo il dottor Hermann se n’era cosparse le mani.
Il padre di Liliana lasciò l’edificio alle sue spalle: avrebbe perdonato Samuele solo nel momento in
cui l’avesse visto nella bara. Estrasse una sigaretta dal pacchetto e se la portò alla bocca.
Siamo certi che il dottor Hermann fumi? – aveva domandato Riccardo.
Samuele ne era certo: − Il vizio di Liliana le era stato trasmesso da suo padre. Fu lei a dirmelo
aveva risposto il ragazzo.
Coprì la sigaretta con le mani per evitare che le raffiche interferissero e fece scattare la rotella
dell’accendino: l’etere prese fuoco in un’esplosione di luce. Con le mani avvolte dalle fiamme, le
sue urla si udirono per tutto l’istituto. Non si spensero finché il liquido non fu consumato.
35) Mauro Collova
Eccomi qui, ancora ventiquattro ore, e poi sarà finita la mia vita lavorativa. Chissà se i miei
colleghi mi avranno preparato una festa a sorpresa. Sanno benissimo che non le amo, ma se non
lo avessero fatto, probabilmente ci rimarrei male. Ma questo probabilmente succederà domani.
Adesso sono qui per il mio ultimo turno di notte, per finire ciò che ho iniziato più di trent’anni
fa. Dopo anni a salvare vite, a curare le persone, sono pronto a iniziare un nuovo capitolo della
mia storia di uomo. Uno dei tanti. Negli ultimi vent’ anni i turni notturni erano stati una costante.
Ne ho avuto bisogno per far si che la stanchezza mi obbligasse a dormire. Già, dormire, che
fatica, soprattutto quando avevo i giorni di libero. Purtroppo i miei pensieri giornalmente
tornavano a quella sera del 16 febbraio del 1996. Probabilmente, in realtà la mia vita è finita li, a
quel passaggio pedonale fuori casa nostra. Ricordo come fosse ancora oggi. Lo stridio dei
pneumatici per la frenata, e il rumore dell’impatto. Essere un medico, un chirurgo e non aver
potuto far nulla per mia moglie e mia figlia, mi tormenta ancora oggi, anche se la colpa era stata
di quell’uomo e dell’alcool che aveva in corpo. Bussarono alla porta, “Avanti!” entrò l’infermiera
Anselmi, mia fidata collaboratrice e capo reparto.
“Dottor Merli, mi scusi, ma credo che questa sua ultima notte di lavoro non sarà tranquilla”, disse
“E appena giunto un codice rosso, per un incidente stradale, possibile intervento d’urgenza”.
“Grazie”, le risposi, “mi preparo. il team è pronto?”
“Si, stanno già andando in sala operatoria”
Quante volte, era successo!, e anche per questa ultima notte il destino non mi voleva lasciare
stare.
Le finestre aperte del mio studio situato all’ultimo piano dell’ospedale, dal quale potevo ammirare
il parco cittadino e le luci della notte, e quella sera i nuvoloni che minacciavano un temporale, mi
fecero percepire il suono lontano delle sirene, che annunciavano l’imminente arrivo
dell’ambulanza. La foto delle mie care sono li a guardarmi anche questa volta, e la voce di mia
figlia sembrava arrivarmi ancora, mentre da piccola diceva ai suoi compagni di scuola, “il mio
papi salva le persone”. E come sempre, prima di uscire accarezzai la foto. L’ascensore sembrava
non arrivare mai al primo piano sotterraneo, dove si trovavano le sale operatorie. La Anselmi e gli
altri infermieri erano già pronti.
“Dunque, cosa abbiamo?” chiesi.
“Il paziente è appena entrato al pronto soccorso, a breve sarà qui da noi, alcuni testimoni hanno
raccontato che per evitare un cane che si trovava in mezzo alla strada, lo sfortunato autista, con
la sua auto è finito contro un cipresso, l’urto ha provocato la rottura di alcune costole, una delle
quali sembra abbia perforato un polmone, e altre lesioni interne”
“Difficoltà respiratorie?”
“Si, il paziente è stato intubato”
Si aprirono le porte della sala operatoria, i colleghi del pronto soccorso accompagnati dai
paramedici, misero l’uomo sul letto, e uno di loro disse robotico, “uomo, 42 anni, polmone
perforato”, mentre le sue scarpe lasciavano impronte umide sul pavimento, probabilmente aveva
iniziato a piovere.
Guardai il volto tumefatto dell’uomo, e pensai a come doveva essere stato tremendo lo schianto.
“Dottor Merli?”
La Anselmi mi distolse dai miei pensieri.
“Certo, eccomi”.
L’anestesista stava procedendo alla narcosi. Poi una volta aperto avremmo dovuto valutare come
procedere se realmente una costola abbia perforato un polmone e capire come operare. asportarla
senza che il paziente collassasse.
Proprio in quel momento si senti un fortissimo boato, un fulmine doveva essere arrivato molto
vicino, e qualche istante dopo saltò la corrente, i macchinari si spensero. Nella sala salì la
tensione, anche se sapevamo che i generatori di riserva a breve sarebbero ripartiti, ma così non
fù.
“Dottor Merli, cosa facciamo?”
Il respiratore non funzionava, e potevamo fare poco. Uno degli infermieri si ricordò di una torcia
e a tentoni raggiunse l’armadio, dove pensava che fosse. Fortunatamente la trovo le batterie erano
cariche.
“Il paziente respira malissimo, e se nel breve non torna la corrente dovremo procedere ad una
tracheotomia” disse la Anselmi.
Mandai uno degli infermieri fuori dalla sala per cercare di prendere contatto con il resto del
personale, al suo rientro disse che stavano facendo il possibile. Ma il tempo passava. Presi quindi
la decisione di praticare la tracheotomia anche se sapevo che un piccolo errore poteva essere
fatale, recidere la trachea, avrebbe portato al soffocamento, e con la sola torcia a illuminare, il
rischio era alto.
Ordinai di portare la torcia e Anselmi fece luce sull’uomo. Con una forbice tagliai il collo della
camicia. Spostandolo ebbi un sussulto e la mano che teneva il bisturi tremò un istante, istante che
sembrò lungo un’eternità. Riportato nuovamente al presente dalla voce dell’Anselmi, che mi
diceva “Dottore, dobbiamo fare presto”, non esitai.
Qualche ora dopo, mi trovavo nel mio studio a guardare fuori dalla finestra, il temporale con
tutte le sue nuvole aveva già fatto spazio alle stelle, tra le quali si trovavano le mie due. Ripensavo
a quello che era successo poco prima. Bussarono alla porta, era la Anselmi, che stava entrando
lentamente.
“Entri pure!”, mi guardava intimidita, ed era forse la prima volta che succedeva da quando la
conoscevo, e la esortai a parlare
“Sa dottor Merli, quell’uomo che non c’è la fatta e con quella poca luce poteva succedere, mi
sembrava di averlo già visto. Il volto tumefatto però non mi aveva permesso di riconoscerlo
subito, ma dopo aver visto il tatuaggio del boccale di birra sul collo e in seguito leggendone il
nome sulla cartella clinica, ho capito dove l’avevo già visto” Si interruppe un istante, prese fiato e
continuò
“Era l’uomo che ha travolto con l’auto sua moglie e sua figlia! I casi della vita a volte, e proprio
nell’ultimo suo giorno di lavoro”
“Già, cara Anselmi, a volte i casi della vita…”
36) Emanuele Prati
Un improvviso sibilo gli perforò i timpani. Corse in corridoio e vide che tutti gli allarmi del piano
si erano attivati. Si precipitò nella prima stanza e trovò il paziente a letto che si premeva il cuscino
sulle orecchie, per cercare di attutire il fastidiosissimo rumore. Il giovane medico spaventato e
confuso suppose che per qualche oscuro motivo il sistema di allarme fosse scattato
inavvertitamente.
Sogghignò pensando che il terzo piano dell’ospedale era nel caos, e scatenarlo era stato un gioco
da ragazzi: il sistema tecnico era stato progettato da dilettanti. Ora doveva agire. Era
profumatamente pagato per compiere la sua missione. Premette dei pulsanti sul suo PC e si
preparò a trasformare la corsia in un parco acquatico.
Controllava tutte le stanze per accertarsi che nessuno dei suoi pazienti fosse in pericolo.
Fortunatamente tutti stavano apparentemente bene e lo imploravano soltanto di fare smettere
l’insopportabile frastuono. Purtroppo, non aveva idea di come avrebbe potuto fare. Dopo pochi
istanti fu investito da un sottile spruzzo d’acqua: anche il sistema antincendio si era attivato.
Compose frettolosamente il numero del servizio tecnico.
Sospirò, pensando che avrebbe dovuto affrontare la nottata da solo, senza potersi appoggiare
sull’aiuto degli infermieri.
“Sono accorso all’istante, cercherò di sistemare il guaio” disse con voce profonda l’uomo con una
folta barba bruna.
“Sia rapido, la prego!”
L’imponete figura si diresse a passi decisi lungo il corridoio, seguito dallo sguardo speranzoso del
medico.
La 304, eccola. Il suo obiettivo. Tutta quella messa in scena per recuperare un insignificante
oggetto, e il peggio doveva ancora venire. Ma gli ordini non si discutono, si eseguono. Inspirò
profondamente e spinse la porta.
Il paziente blaterò qualche insulto relativo al sibilo. Prontamente il brontolio fu soffocato, poiché
attraverso una maschera fu costretto a inalare una buona dose di monossido di carbonio. Lo
aveva ucciso asfissiandolo.
Un’operazione chirurgica molto particolare stava per venir eseguita.
Era subissato da chiamate provenienti da altri reparti che lo interrogavano su tutto quel
trambusto. Trasalì sentendo bussare alla porta. Vide un omino in tuta da operaio che gli
comunicava di essere giunto per mettere fine al problema idraulico e fonico. Il giovane medico si
accigliò sorpreso, pensando che quasi venti minuti prima era già arrivato un tecnico.
Il bisturi aveva proceduto senza difficoltà, incidendo prima la pelle e poi le viscere. Doveva
recuperare l’oggetto. Con un taglio netto aprì l’intestino.
Il sibilo cessò immediatamente e dal soffitto smise di cadere la pioggerellina. Quando da lì a poco
comparve il piccolo tecnico, il dottore gli sorrise riconoscente.
“Nessun guasto, qualcuno ha volontariamente manomesso il sistema!”
Il medico impallidì e sentì passare lungo la schiena un brivido di paura. “Dove è finito l’immenso
uomo barbuto? Cos’era venuto a fare?”
Non ebbe tempo di rimuginare le sue preoccupazioni, perché il suo cerca-persone iniziò a
suonare insistentemente. Lo volevano immediatamente al Pronto Soccorso.
Trovò quello che cercava, lo infilò in una sacchetto di plastica. Si sbarazzò degli indumenti e della
barba finta. Indossò la divisa dei medici e si tolse i guanti: lasciare tracce non faceva parte del suo
repertorio. Era il migliore e non era da lui commettere errori da principianti.
“Giusto in tempo” pensò e con piglio deciso uscì in corridoio.
Il paziente della 311, che aveva sviluppato un accumulo di liquidi a livello polmonare, continuava
a tartassarlo con chiamate, ma contemporaneamente era richiesto d’urgenza, per un giovane in
pericolo di vita. Vide uno sconosciuto collega in corridoio: “Finalmente un colpo di fortuna”
pensò, agitando le braccia per attirare la sua attenzione.
“Mi attendono al Pronto Soccorso, occupati per favore del versamento pleurico alla 311.”
Lo ringraziò e si precipitò al Pronto Soccorso.
“Mi è andata bene, quell’imbecille mi ha scambiato per un medico” rimuginò uscendo
dall’ospedale.
Trovò nel posteggio l’utilitaria nera, aperta e con le chiavi nel cruscotto.
“Un’organizzazione impeccabile” pensò, guidando concentrato verso la periferia.
Ripensando alle parole del giovane medico si mise a ridere: non aveva assolutamente afferrato il
suo blaterale tecnico, aveva però colto il termine “versamento pleurico”. Non aveva la più pallida
idea di cosa fosse; l’unico “versamento” che conosceva era quello che avrebbe a breve
rimpolpato il suo conto bancario.
Compose il numero di telefono, per annunciare al suo contatto che il recupero era riuscito senza
intoppi, come da copione.
“È un piacere sentirti Thomas, suppongo tu abbia recuperato l’oggetto, e che ora sia in tuo
possesso”.
Si trovava sul suo yacht, al largo delle isole Cayman e si rallegrò sentendo la risposta affermativa.
“Un eccellente lavoro: farò in modo che quanto pattuito ti sia immediatamente recapitato.
Dobbiamo festeggiare con il botto!” e premette un tasto sul suo Tablet.
Gli giunse un fragoroso boato: aveva risolto quella spinosissima faccenda. Purtroppo, aveva
dovuto sacrificare il suo miglior uomo. L’ordigno che aveva fatto deflagrare da migliaia di
chilometri di distanza, era stato accuratamente celato sotto l’auto nera. Ma la morte del sicario era
un male necessario.
La carogna, che Thomas aveva tagliuzzato, aveva rubato dati sensibili dalla centrale informatica
della sua banca. Aveva poi minacciato di rivelare il contenuto ai media. Successivamente, aveva
inspiegabilmente rifiutato qualsiasi forma di indennizzo, in cambio del suo silenzio: “Un pazzo
idealista”. Dopodiché, aveva ingenuamente supposto di aver trovato un nascondiglio per
proteggere le sue prove, ingoiando la chiavetta USB. Sentendosi braccato, si era poi fatto
ricoverare in ospedale.
Da pochi minuti la piccola memoria informatica era andata distrutta. In un colpo solo aveva così
cancellato tutte le prove.
Vide la baia dove aveva deciso di attraccare. Ora poteva godersi spensierato la sua nuotata
quotidiana.
37) Andrea Panichi
Adesso vi racconto io come sono andate quella notte le cose all’ospedale San Cirillo.
Probabilmente non tutti mi crederanno; qualcuno sì, altri no… come vi pare.
Si sa che ci sono bambini malati di Aids, ragazzi con il fegato devastato dall’epatite,
emofiliaci che muoiono ogni anno in silenzio, ma pochi sanno perché, qual è la loro colpa. Ve lo
spiego io: hanno avuto bisogno di trasfusioni di sangue! Sì, proprio così. Trasfusioni di sangue;
sangue infetto venduto da aziende senza scrupoli e autorizzato senza i controlli prescritti dalla
legge rendendo così deleterio l’intervento di medici capaci e scrupolosi. Come al solito, per una
questione di soldi.
Quando è morto a nove anni il mio unico nipote, dopo quattro anni di sofferenze, per aver
contratto l’Aids in seguito a una trasfusione di sangue infetto, ebbene quel giorno ho giurato che
l’avrei vendicato. E ora, finalmente, il destino mi aveva casualmente portato vicino a uno dei
principali imputati: l’ex direttore del San Cirillo.
Io sono affetto da epatite C ed ero ricoverato proprio in quell’ospedale. Parecchi anni fa
ho avuto un incidente con la moto e a causa delle gravi ferite riportate ho avuto bisogno di una
trasfusione di sangue. E anche quello era sangue infetto. Sono guarito, sono stato bene per anni,
ma il virus HCV che mi portavo dentro, silente per anni, si è risvegliato e ha cominciato a
distruggere il mio fegato.
Il direttore era stato sì condannato, ma poi la pena era stata ridotta in appello e infine azzerata
con l’indulto; e ora poteva godersi nel lusso la sua vecchiaia. La salute però non la si compra con i
soldi. L’emerito direttore aveva bisogno di essere operato alla prostata e ovviamente si era
ricoverato nel “suo” ospedale. Ero venuto a saperlo per caso ascoltando i discorsi di due giovani
infermieri accanto al mio letto. Uno dei due, un po’ sghignazzando, aveva pure accennato alla
camera che aveva scelto, la 501, e ai conforts che aveva preteso vi fossero installati.
Bene, ora avevo finalmente la possibilità di attuare il mio proponimento. Dovevo farlo subito
perché il giorno dopo sarei stato dimesso. Non dovete credere che non fossi preoccupato, io non
avevo mai fatto del male a nessuno, però dovevo farlo; per mio nipote, per me, per tutte le
persone che avevano sofferto e che erano morte. Mi alzai dal letto indossai la vestaglia e uscii nel
corridoio. Presi l’ascensore e salii all’ultimo piano. Al momento volevo solo sapere dov’era la
camera 501. Non mi ci volle molto a trovarla. Dopo aver gironzolato un po’ lì attorno tornai in
camera mia.
Nell’armadietto aveva uno zainetto sul cui doppio fondo tenevo una pistola. Da quando ho
subito un’aggressione, la porto sempre con me: mi dà sicurezza. È una calibro 7,62, con il
silenziatore. L’ho comprata anni fa da un Cossovaro. Ovviamente non l’ho mai denunciata e fino
a quel giorno l’avevo usata solo per esercitarmi. Non era poi così silenziosa come si potrebbe
immaginare: quando sparavo faceva un rumore simile a quello prodotto dal tappo di una bottiglia
di Champagne quando viene sturata.
A notte inoltrata, quando ritenni fosse giunto il momento propizio, mi alzai dal letto e andai a
prendere la pistola. Avvitai il silenziatore, inserii il caricatore e misi un colpo in canna. Indossai la
vestaglia, ficcai l’arma in tasca e uscii nel corridoio. Mi muovevo adagio, come chi va un po’ a
camminare perché non riesce a dormire. Salii all’ultimo piano e raggiunsi la camera 501. Non
avevo incontrato nessuno. Mi fermai un attimo davanti alla porta. Mi guardai attorno. Non vidi
nessuno. Entrai. Nella stanza c’era il chiarore soffuso di una lampada notturna tenuta accesa al
minimo. Mi avvicinai al letto e mi accertai che l’uomo che dormiva fosse la persona che io
cercavo. Era lui. Più vecchio e più brutto di come appariva nelle foto sui giornali. Dormiva a
bocca aperta, sdraiato sulla schiena. Russava. Estrassi la pistola, tolsi la sicura e ficcai la canna del
silenziatore dentro la sua bocca. Il vecchio bastardo, svegliato di soprassalto, sgranò gli occhi,
fece per spostare la testa. Spinsi più a fondo la canna del silenziatore. Volevo fargli male e volevo
che si rendesse conto che stava per morire. Mugolava. – Per tutto il male che hai fatto, per tutte
le persone che hanno sofferto e sono morte o che moriranno… - mentre gli dicevo queste cose
mi resi conto che non mi seguiva: era troppo spaventato per capire. Premetti il grilletto. La sua
testa e il corpo ebbero un sobbalzo. Estrassi la pistola dalla sua bocca. Lo guardai. Gli occhi
erano rimasti sbarrati, il volto devastato. Non era bello da vedere. Ripulii la canna del silenziatore
sulle lenzuola del letto e rimisi l’arma in tasca.
Vi ho già detto che la mia pistola non è poi così silenziosa. Qualcuno doveva aver udito qualcosa.
Da fuori bussavano. Mi appiatti contro il muro, vicino alla porta, dalla parte dei cardini. Vidi la
porta aprirsi piano. Entrò, titubante, un’infermiera. Voi cosa avreste fatto? Non potevo lasciarmi
scoprire, anche se… La colpii alla testa col calcio della pistola. Scivolò a terra senza un lamento.
Uscii, richiusi la porta.
Ero frastornato, confuso, privo di energie, era come se non fossi più io. Ma tanto voi non potete
capire. No, se non avete mai ucciso, non potete capire.
Raggiunsi la mia camera e mi sdraiai sul letto. Mi dispiaceva per l’infermiera. Era stata una
coincidenza sfortunata. Per lei, intendo: si era trovata nel posto sbagliato nel momento sbagliato.
Comunque seppi più tardi che se l’era cavata con alcuni punti di sutura e un forte mal di testa.
*
Sono passati diversi mesi, ma la polizia non è ancora riuscita risolvere il caso. Non sarà facile:
sono centinaia le persone che avevano motivo per far fuori quell’uomo che era venuto meno ai
suoi doveri di sorveglianza in cambio di prebende e mazzette! Se poi dovessero arrivare fino a
me… ebbene, non mi importa più di tanto. Per quello che mi resta di questa inutile vita!
38) Serena Dittmer
Ho un ricordo piuttosto limpido di quando ero bambina. Quando andavo in bicicletta mamma
mi raccomandava sempre di mettere casco e ginocchiere, e qualora mi fosse capitato di cadere,lei
era pronta a soccorrermi con disinfettante, un bel bacio schioccante ed un cerottino colorato con
dei disegnini simpatici come orsacchiotti sorridenti o fragole multicolori. Ci fu una volta in cui
Sabrina mi sfidò a fare una gara su una stradina che portava al nucleo della città vecchia, chi fosse
arrivata per ultima avrebbe dovuto fare una penitenza. Non ho mai amato perdere, e l’idea di
doverle portare la cartella pesante durante ogni tragitto per andare a scuola mi spaventava molto.
Immaginarmi invece con un peso in meno per poterle rinfacciare che ero la più veloce mi
stimolava, mi immaginavo sul podio con un sorriso soddisfatto. Siamo partite entrambe motivate,
sudavamo freddo dall’emozione e desideravamo entrambe la vittoria, finchè Sabrina perse
l’equilibrio dopo una curva particolarmente stretta, mi fermai appena sentii il capitombolo finale.
Misi il cavalletto alla bici e corsi a vedere il danno; lei piangeva più per lo spavento che per il
dolore in sè ed io mi guardavo intorno alla ricerca di un eventuale soccorritore. Un signore pelato
dagli occhiali rotondi e dalla camminata lenta, si è avvicinato a noi per chiedere a Sabrina quanto
fosse forte il suo dolore in scala da 1 a 10. Lei ha mimato un sei con le dita e lui con prontezza ha
tirato fuori un fazzoletto di stoffa.
«Soffiaci dentro, soffiaci più forte che puoi.» Capii che cercava di distrarla. Sabrina allora ha
gonfiato le guancie, sembrava un pesce palla. «Adesso sputaci sopra!» Sabrina si stava quasi
divertendo, prendeva questi ordini come un gioco. Dopo averci sputato, il soccorritore ha
poggiato il fazzoletto stropicciato sopra il ginocchio sbucciato di Sabrina, che aveva smesso di
sanguinare. «La nostra saliva è un ottimo disinfettante», disse lui con disinvoltura. Io ho osservato
la sua espressione di assoluta calma, la prontezza di riflessi e gli ho chiesto con voce flebile chi
fosse. Lui ha fatto un mezzo sorriso, mi ha guardata di traverso e ha risposto «sono un medico».
Quella è stata la svolta, come un fulmine a ciel sereno, quel giorno che mi ha fatto capire cosa
volessi diventare da grande, quale mestiere mi avrebbe dato gioia e autocompiacimento. Anch’io
volevo avere la stessa prontezza, la stessa maniera per curare gli altri : veloce e sicura di sé.
Volevo diventare un medico pure io.
Il mio periodo di stage come medico assistente è cominciato da poche settimane, mi sto
ambientando seppur fatico a ricordare quale ‘’x ‘’stanza corrisponda a ’’x’’ paziente. Il mio
capoclinica si chiama Antonio Ventura, ogni tanto mi pone quesiti di medicina per valutare le mie
reazioni e la mia prontezza. Fortunatamente i professori dell’università avevano già preso questa
abitudine nei miei confronti, ragion per la quale io non mi sono mai lasciata intimidire. Con i miei
colleghi c’è un rapporto molto ambivalente, mi guardano come se non fossi capace di fare niente
e fossi solo d’intralcio, non esitano a spiegarmi le cose più volte, e questo mi fa credere che, o si
preoccupano di perdere tempo oppure mi considerano una stupida novellina incapace di fare.
Dopo aver assistito il Dottor Ventura per un controllo generico dopo un intervento niente meno
che alla moglie del signor Guidotti, politico democratico, durante la pausa pranzo ho incrociato
lo sguardo con una signora palesemente scossa, che mi ha fissata con occhi sgranati.
«Perché non siete potuti intervenire prima? » chiese lei a voce bassa. Mi sono domandata se
stesse parlando da sola o se si fosse rivolta a me, la novellina dell’ospedale. Mi ha lanciato uno
sguardo freddo e carico di emozione, io mi sono guardata i piedi e ho aspettato una sua reazione.
Come mi sarei dovuta comportare? Ho guardato la signora come se parlasse una lingua appena
inventata. Mi disse che suo figlio Joseph,un bambino di 9 anni appena compiuti era ruzzolato
dalle scale della palestra,ed era in coma da qualche ora. La signora aveva saputo da un articolo di
cronaca online che la signora Guidotti era sì all’ospedale, stava bene e non aveva riportato danni
cerebrali.
Ascoltai a bocca asciutta, la sua inquietudine mi si è appiccicata addosso come uno spiffero. Stavo
per indagare più a fondo, quando il dottor Ventura mi ha incaricata di verificare la stabilità di un
paziente nella stanza 327. Mi sono scusata con la signora, che scoprii chiamarsi Selma, e mi sono
avviata verso la sala. Intanto sbirciai nella 332, dove stava la signora Guidotti. Possibile che la
precedenza è stata data ad una persona solo per il suo status sociale?
Nella stanza 327 regnava il silenzio, solo i respiri affannati del paziente di cui non ricordo alcun
dato. Lavorai con scarso interesse, la mia mente vagava alla ricerca di una risposta valida.
Essendo una clinica privata, i nostri pazienti vengono trattati con più premure rispetto ad un
ospedale pubblico. Eppure qualcosa non quadrava. I dettagli scabrosi di quei pochi minuti di
conversazione mi hanno fatto venire tanti dubbi. Volevo assolutamente verificarli.
Stando alla cartella clinica con annessi orari di arrivo, scoprii che il piccolo Joseph è stato portato
qui alle 15.45, mentre la signora Guidotti è arrivata verso le 16.05 dello stesso pomeriggio.
Joseph Mayer, 9 anni, trauma cerebrale causato da una prepotente caduta dalle scale.
Francesca Guidotti, 48 anni, appendicite acuta.
Questa è una questione di etica e di rispetto. Avrei tanto voluto intervenire prima, avrei voluto
saperne di più per poter agire di conseguenza. Tanti passi veloci hanno interrotto i miei pensieri
di stagista praticante alla continua ricerca di giustizia. «Riunione urgente, tutti i medici del quarto
e quinto piano sono pregati di raggiungere l’aula magna!»
La signora Guidotti era scomparsa, lasciando solo il vuoto ed una traccia di sangue lontana da
noi, lontana da tutti.
39) Katiuscia Cidali
Il cervello è come una cipolla. Gli strati più esterni sono quelli che consentono di svolgere le
funzioni più complesse, come calcolare l’area del cerchio, risolvere un’equazione, suonare uno
strumento o compilare le tasse. Più ci si addentra negli strati profondi e più le funzioni diventano
semplici, fino ad arrivare a quelle primarie che mantengono il corpo in vita. Raggiungendo lo
strato più interno, si arriva alla corteccia, dove sono custodite le funzioni vitali come la
respirazione, la lacrimazione o il battito del cuore. Dove risiedono però esattamente i sentimenti e
la capacità di distinguere il bene dal male non è dato saperlo.
Con l’immagine della cipolla, il dottor Schulz, primario di cardiologia, aveva cercato di spiegare
alla moglie del signor Weber gli scenari possibili che poteva attendersi al risveglio del marito.
– Signora – disse schiarendosi la voce e abbastando il tono – ora è troppo presto per avere un
quadro completo. Sappiamo che dopo l’arresto, il cuore è stato fermo per diversi minuti, durante
i quali il cervello è rimasto senza ossigeno. Ora, non sappiamo quali danni possa aver subìto.
Dovremo fare le valutazioni di giorno in giorno. Adesso forza, rientri a casa tranquilla e domani
ci troveremo per fare il punto della situazione.
La donna si alzò, si sentiva pesante e il pavimento le pareva molle e appiccicoso. Le era sembrato
che quel medico leggesse un copione collaudato negli anni, chiaro, diretto, essenziale. Troppo.
Forse aveva visto così tanta sofferenza lì dentro da non farci più caso. Le pareva incredibile che
solo alcune ore prima, con suo marito stava organizzando una festa per Paul, l’affezionato amico
di famiglia; un uomo delizioso, allegro, rimasto purtroppo disabile a causa di un incidente in
automobile. Quando erano sul punto di scegliere il vino d’acquistare, suo marito gli si era
accasciato in grembo. La signora Weber aveva lanciato un urlo e dopo il primo momento di choc
era riuscita ad avvisare i soccorsi. Suo marito aveva avuto un arresto cardiaco. Il cuore era
ripartito ma ora lui era lì, disteso su quel letto del reparto di cure intense dove sembrava dormire
profondamente.
La notte calava, tutto s’acquietava, tranne quel reparto che continuava a vivere con medici che
andavano e venivano a ogni ora. C’erano pazienti che si riprendevano piuttosto in fretta, altri che
rimanevano stabili e alcuni che andavano incontro lentamente al loro destino. E c’erano medici
che credevano di poter controllare ogni cosa, persino quel destino.
– Te l’ho già detto, un accanimento terapeutico non ha più alcun senso – aveva sbottato il
primario mentre controllava i monitor di un paziente.
– Eppure talvolta basta dare un po’ di tempo e notiamo dei miglioramenti – aveva ribattuto un
altro medico.
– D’accordo, mettiamo che questo qui migliori... Però lo sappiamo come va in questi casi, l’ho già
detto, mezzi uomini non ne vogliamo.
– Non siamo noi a decidere, questo spetta alla famiglia.
– E quante ne abbiamo viste di famiglie? Dimmene una di quelle che si è ritrovata con un figlio,
un marito, la cui essenza è evaporata, dove è rimasto solo un corpo... Per la miseria, dimmene
solo una che ora è felice? – domandò col volto paonazzo il primario.
– Non saprei, è difficile dirlo – rispose l’altro strofinando le mani sul camice.
– Vedi? Evitiamo loro altro dolore. Ne ho d’esperienza alle spalle, lavoro qui da una vita e ti
garantisco che a un certo punto, qualunque persona desidera andare avanti e chiudere con il
passato. Anche se non lo ammetterà mai. Che senso ha lasciargli qualcuno in stato vegetativo,
lasciare che se ne prendano cura, ma che in fondo, ne desiderano soltanto la morte?
– Noi, non possiamo permetterci di fare queste scelte. Cos’è giusto o cos’è sbagliato non lo so,
ma lascio fare a te. D’altronde sei tu il primario qua – disse l’altro medico con un filo di voce.
Nel frattempo il signor Weber era pian piano uscito dal torpore della sedazione e iniziava ad
avvertire il suo corpo. Non riusciva a muoversi ma era in grado di ragionare e di capire. E quello
scambio di battute l’aveva sentito, eccome se l’aveva sentito. Quegli uomini decidevano la sorte
dei pazienti e lo avrebbero fatto pure con la sua. Doveva trovare il modo di avvertire sua moglie
e di farsi portare via al più presto.
Il giorno dopo, di buon ora la signora Weber era nel reparto delle cure intense e prima che
arrivassero gli infermieri ad accoglierla, era già accanto al marito. Quasi non ci credette quando lui
aprì gli occhi e sottovoce la implorò di portarlo via. Lei non capiva, ma obbedì. Aspettò una
buona mezz’ora prima di trovare il momento giusto, doveva essere certa che non vi fosse
nessuno troppo vicino. A un certo punto si decise, spinse il letto e in una corsa grottesca riuscì a
correre fuori dal reparto infilandosi nell’ascensore. I coniugi raggiunsero il reparto di neurologia
al piano superiore. Dopo una lunga discussione, la moglie riuscì a convincere uno dei medici a
tenere il marito in quel reparto.
Erano ormai passate tre settimane dal ricovero del signor Weber, e ora che aveva ripreso le forze,
avevano deciso di organizzare la festa per l’amico Paul. La casa era stata addobbata con palloncini
e fiori. Alle venti in punto Paul suonò il campanello e il signor Weber andò ad aprire la porta.
Quando lo vide, rimase impietrito e dalla sua bocca non uscì nessun suono. La moglie accorse
alle sue spalle.
– È Paul, te lo ricordi vero caro?
Il signor Weber non proferì parola tutta la sera. La moglie pensò che suo marito avesse qualcosa
che non andava, d’altronde i medici l’avevano avvisata che col tempo avrebbe potuto notare
comportamenti diversi dal solito.
Il cervello è come una cipolla. Dove risiede la capacità di discernimento tra il bene e il male?
Cos’è giusto e cos’è sbagliato? Il signor Weber, ora era convinto di saperlo e da quando aveva
aperto la porta a Paul, aveva capito che per quell’uomo non era giusto vivere così. E lui l’avrebbe
aiutato.
40) Roberto Revellado
Mi chiamo Angelo. Almeno è come adesso mi chiamano tutti. Come mi chiamavo una volta me
lo sono voluto dimenticare. Non è che sia importante, poi. Non importa a me e non importa agli
altri. Io non esisto.
Vivo qui, in questo ospedale, da tanti anni oramai. Conosco tutti i reparti, mi salutano quasi tutti i
dottori, gli infermieri, qualcuno sa il mio nome-ciao Angelo, mi dicono- e anche qualche paziente
che regolarmente viene ricoverato. E poi i vari piani, i corridoi, il giardino, dove passo sempre
più tempo e dove ora scrivo queste righe per chi vorrà leggerle.
In giardino è dove succede, la gente lo capisce, lo so, vedo gli infermieri bisbigliare a vecchi con
gli occhi chiusi, li vedo poi sorridere. Sorrisi orizzontali, a labbra strette, serrate, che lentamente si
rilasciano.
Io i sorrisi li capisco, da sempre, e poi in questo posto non sono mai gratuiti. Sono sorrisi di vita e
di morte perché qui non si regala niente.
Tutto è cominciato con un sorriso così, il sorriso del 302, tanti anni fa. Io avevo fatto un
controllo per dei dolori al basso ventre, sospetta appendicite risoltasi in niente, come tutto quello
che facevo a quell’epoca. Attraversavo i lunghi corridoi per distrarre la voglia di fumare -fuori
pioveva- e vedevo le gocce di acqua scorrere veloci sulle vetrate. Poi successe. Il 302. Passai
davanti alla sua camera, la porta era socchiusa, sentii ansimare raucamente. Incuriosito entrai. Lo
vidi. Sdraiato, composto, la pelle pallida e trasparente, solcata da vene blu. Vidi i capelli fini, radi,
ed un piede bianco, ribelle, fuori dal lenzuolo. Sentii ancora il suo respiro, fragile ora, che
gonfiava quello che era stato un petto e il frusciare del lenzuolo. Poi tutto smise. Solo un lungo
silenzio. Secondi. Mi avvicinai e misi una mano sulla fronte dell’uomo, fredda. Solo allora vidi le
sue mani chiuse ad artiglio, come scolpite nel marmo, e le unghie troppo lunghe; le spalle
sporgenti, scomposte, e la sua testa, vecchia e squadrata, ossuta. Sollevai la mano dalla fronte e
immediatamente gli occhi si aprirono, due cristalli azzurri e umidi che mi fissarono,
attraversandomi. Rimasi così, come sospeso. Poi udii ancora il suo respirare, quel rantolo
lontano che pareva venisse da un altro locale, mentre i suoi occhi viscosi lasciavano cadere delle
scie umide sul cuscino ingiallito. Quindi la sua mano si mosse, uscii dal lenzuolo, prese il mio
polso, lo strinse forte e mi sembrò innaturale. Sorrise. Le labbra strette. Delicatamente guidò la
mia mano sulla sua bocca ed il suo naso e spinse, disse qualcosa che non capii, continuò a
premere, io chiusi gli occhi. Aspettai. Ci fu come un sussulto del corpo, breve, e poi tutto fu
finito. Ritrassi la mano e guardai. Il sorriso sul volto. Sentii un tuono in lontananza, lo scroscio
dell’acqua sui tetti, qualcuno che parlava al telefono in una stanza vicina. Voci su voci. Paura.
Poi non ricordo, esplose il rimorso. Ci fu lo scappare giù per le scale, la corsa nelle cantine, il
rendersi conto che non sapevo dove andare e che non ci sarebbe stata più nessuna fuga. Poi
l’accasciarsi contro un muro del corpo, come se non fosse il mio, e le nocche contro le tempie a
trattenere i pensieri. Ansimavo come un animale. Il cuore, il suo rimbombo sui muri in cemento
armato. Infine l’arresa. Il pianto. A singhiozzi, rabbioso, liberatorio, fino al silenzio assoluto. La
pace.
Rimasi cosi per non so quanto tempo, inerme nel limbo dello scantinato. Poi ripresi forze, trovai
una porta aperta, entrai in un locale qualsiasi ed esausto mi addormentai. Un sonno senza sogni.
Mi svegliò un rumore, il chiudersi di una porta. Aprii gli occhi. Nessuno. Mi alzai, cercai
l’interruttore ed accesi la luce. Trovai una coperta piegata sul pavimento ed un panino imballato.
Mangiai avidamente, senza chiedermi nulla, poi uscii, raggiunsi il corridoio e presi a camminare
senza meta. Lucido. Nessuno pareva notarmi. Incrociavo infermieri persi nel proprio cellulare. Mi
accorsi che fuori aveva smesso di piovere. Cercai la camera 302, entrai e trovai la stanza vuota.
Nessuna traccia del vecchio. Ricordai il suo ultimo sorriso, chiusi la porta e me ne andai. Uscii
dallo stabile e raggiunsi il mio appartamento, misi in un sacco qualche effetto personale e tornai
all’ospedale prima della fine dell’orario delle visite.
Mi nascosi per giorni in un locale in disuso dove dormivo e tenevo le mie cose, i miei quaderni,
dentro un sacco di plastica nera. Quasi subito qualcuno mi fece trovare un materasso e delle
lenzuola che scoprii mi venivano cambiate regolarmente. Poi dei vestiti puliti. Ogni tanto delle
sigarette. Dopo qualche settimana il personale prese a salutarmi- ciao, Angelo- e alla mensa
cominciarono a servirmi il pranzo e la cena senza dovere presentare alcun giustificativo. Allora
non mi sono nascosto più. Non sono più tornato nel mio appartamento, sono sparito, da allora
esisto solo qui dentro.
Adesso passo le giornate con i pazienti. Giochiamo a scacchi. In giardino mi raccontano le loro
vite e io invento la mia. C’è sempre tanto da ascoltare. Mi raccontano le loro infanzie, le amicizie
che sono durate, gli amori perduti e quelli mai nati. Quello che si sono presi e quello che hanno
dato. I rimorsi, i dubbi, le incomprensioni. Del fardello che si è stato felici di portare e delle cose
inutili che ancora pesano. Ridiamo molto e qualche volta si piange. Mi raccontano per giornate
intere la loro storia fino a quando non rimane più nulla da essere detto. Allora chiudono gli occhi
e mi sorridono. Poi mi dicono il numero della stanza. Qualcuno mi dice anche grazie, Angelo.
41) Katia Bresciani
OGGI:
Dan Roos, chirurgo estetico, giace senza vita sul pavimento del suo studio all’interno
dell’ospedale. Taglio netto alla vena giugulare. Tumefazioni sul viso. Dalla bocca penzola un
fischietto e, fra la melma di sangue, si distingue la sagoma di un coltellino. Dai primi
accertamenti, potrebbe trattarsi dell’arma del delitto. La polizia non si spiega tale brutalità.
- Che mistero ci nascondi, Dr. Roos? – chiede il commissario Bruk davanti al corpo esanime.
Dalle testimonianze raccolte, risulta che Dan, noto chirurgo, era stimato e benamato, in particolar
modo dal mondo femminile. Fisicamente prestante e carismatico, poteva destare invidia da parte
degli uomini, ma non da spingerli a commettere un gesto così estremo.
Aveva ottenuto molti riconoscimenti professionali. Specializzato nella chirurgia del viso, i suoi
motti erano: “Il tuo viso ti dona l’ingresso nel mondo” ; “Un bel viso non necessita di parola”.
Con le mani imponenti e agili, sapeva districarsi alla perfezione sulla mappa facciale dei pazienti.
Ricostruiva minuziosamente ogni singolo tratto, dandogli nuova linfa e personalità.
Quelle mani tanto abili nel donare bellezza al volto, erano anche in grado di distruggerlo?
In situazione di forte pressione e stress, Dan perdeva velocemente il controllo. Batteva i pugni su
ogni dove e scagliava ovunque gli strumenti di lavoro. Scatti d’ira, nevrosi, insulti. A volte
spaventava il personale e questo se ne stava in disparte affinché si fosse calmato.
Ma tutto ciò scivolava in secondo piano, perché la sua bellezza, al di sopra di ogni aspettativa
umana, aveva sempre la meglio. Scapolo di lunga data, amava le donne affascinanti e la vita agiata.
Nessuna osava entrare nella sua sfera privata. Charme e arroganza erano binomi che indossava
perfettamente. Le donne ottenevano l’oggetto dei desideri, e questo bastava loro.
IERI:
Sam Tango è ricoverato nel reparto traumatologia. Leggera commozione cerebrale, deve rimanere
in osservazione per la notte. Ragazzo particolarmente curioso. Paragona l’ambiente ospedaliero
ad un formicaio: caotico se lo osservi da lontano, ma perfettamente strutturato se lo guardi da
vicino.
Ora si sente parte di quel caos organizzato. Interpreta il suo ricovero come un segno del destino.
Oggi è il grande giorno. Gli piace giocare e questa notte giocherà. Chi sarà il prescelto?
Sam, da piccolo, adorava una donna in particolare. Le sue urla strazianti lo attiravano e lo
ferivano. Divenuto maestro nel nascondersi, la spiava silenziosamente. La mente di lui lo
rimproverava:
- Non farti vedere Sam, sennò tuo padre te le dà di santa ragione. Sai che non
ti è consentito intrometterti negli affari altrui. Non riusciva a fare a meno di disubbidire al
proprio padre.
Quatto quatto nel suo rifugio, senza fiatare né muoversi, seguiva incredulo le mani di quell’uomo.
Così possenti da emettere un sordo tonfo quando si scaraventavano sul viso della donna che, dal
dolore, urlava. Come si poteva sfigurare un volto con il solo ausilio delle mani? Sam non capiva.
Avrebbe voluto uscire dal suo nascondiglio per andare in soccorso della donna o consigliarle:
- Perché gli dai quella soddisfazione e non vai a nasconderti come faccio io?, ma era solo un
bambino e nulla poteva contro quell’uomo. Disperato e bisognoso di sfogarsi con qualcuno, era
certo che nessuno avrebbe dato credito alle parole di un ragazzino, per di più ficcanaso.
Poi c’era quel rumore stridulo di fischietto che il mostro portava con sé nei momenti di rabbia.
Fischiava e brandiva un coltellino davanti al viso della donna che, terrorizzata, cadeva a terra
piangendo. Nella stanza riecheggiava la solita frase: - Lo vedi questo fischietto? Quando lo suono
è per richiamarti all’ordine. E questo coltellino sta a significare di tagliare corto e di smetterla con
i tuoi piagnistei. Sono stato chiaro?.
Per anni continuò a sbirciare inosservato le percosse che la donna subiva da parte del marito. Era
un film già visto troppe volte. Il suo piccolo cuore piangeva per lei, fino al giorno in cui apprese
che i due avevano divorziato. Che gioia, finalmente non era più obbligato a nascondersi. Si
prospettavano momenti felici, ma qualcosa ancora lo turbava: quelle mani…quella frase! Erano
saldi nella sua mente! Come fare per rimuovere tanto odio accumulato?
OGGI:
I corridoi pullulano di poliziotti. Sam viene dimesso dall’ospedale. Si sente leggero e la testa non
duole più. Passando davanti all’accettazione, si presenta alla segretaria e le chiede il motivo di
tanta polizia in giro. Lei, timidamente, spiega che il Dr. Roos è stato trovato morto nel suo
studio. La saluta con un cenno di capo e si avvia all’uscita. Le porte automatiche, aprendosi,
creano un vortice d’aria. Questa si fa strada e, prepotentemente, s’intrufola nella tasca di Sam,
ignaro, sottraendogli una foto a lui preziosa che volteggia, svolazza e infine si posa sull’enorme
tappeto d’entrata. La segretaria, vedendo la scena, si precipita a raccoglierla. Prima di chiamare
Sam, le dà una sbirciatina: è sbiadita e logora. Vi sono un adulto in compagnia di un ragazzino,
sicuramente il figlio. Che carini, un fotogramma estrapolato da un momento di vita comune.
Dietro a questa c’è una dedica. La sua curiosità è all’apice dell’impazienza. Non può non leggerla:
“Al mio piccolo Sam, ricordati che è l’uomo ad avere il potere nelle mani! Fanne tesoro. Un
abbraccio da tuo papà.” Firmato “Dan Roos”.
Il cuore le batte selvaggiamente nel petto. Corre al computer per verificare le generalità di Sam,
ma soprattutto per far tacere un brutto presentimento che le si è imposto nella mente.
- Come sospettavo, ha ripreso il cognome della madre! – si dice allibita.
Trema davanti a quanto scoperto. Un brivido violento si scatena nelle sue mani, le quali stringono
ancora la prova schiacciante, quasi avessero paura di perderla. Preme il tasto del citofono e
manda un appello che fa eco nei corridoi:
- A tutta la polizia, recarsi urgentemente all’uscita, l’assassino ha appena lasciato l’ospedale!
42) Roberto Viviano
Dalla fine all’inizio. Le pantofole rossocrociate.
Sul pavimento le pantofole rosse crociate di bianco e di nuovo crociate di rosso. Il commissario
Bernasconi si fa largo fra i curiosi mentre i suoi fedeli agenti disperdono i presenti. I colleghi in
disparte interpretano la scena. Intorno alla giovane rapidamente un nugolo di preoccupate e
curiose colleghe. Sul posto l’agente Giovanni trova la ragazza che fissa il pavimento L’apprendista
mormora due parole e la pattuglia impiega poco ad accendere le sue sirene. La voce tremolante si
confonde con il suono vibrante della lavanderia dell’ospedale. L’ora, in piena luce, non grida
l’accaduto. Uno strillo di telefono proviene dall’ospedale.
43) Massimiliano Piricone
Era una notte buia e tenebrosa, e John…, famoso giornalista della periferia di New York, stava
tornando a casa, quando… all’improvviso si trova alle sue spalle un Oxyuranus microlepidotus
che lo morse mettendolo in gravi condizioni di vita.
Un uomo, di passaggio per caso, lo vide steso a terra, lo aiutò e lo portò all’ospedale.
Arrivato davanti all’ospedale, gli occhi si appannarono quasi del tutto, la testa gli girava e i
muscoli delle gambe ad un tratto cedettero e si accasciò a terra chiamando aiuto con l’ultimo
sospiro rimasto in gola. Con una voce così esile e fragile, pareva quella di un neonato .
Nel frattempo il mortale veleno LD/50, lentamente e impietoso, scorreva nelle vene della vittima
facendo ancora più effetto. Infine un collasso respiratorio lo colse inerme.
Ci vollero mesi per far tornare la respirazione regolare, John nel frattempo perse la vista, e
l’ultima cosa che vide e che rimase impressa nella sua mente fu quello che c’era oltre la finestra
così linda della stanza n°828 da far notare i minimi dettagli delle case fuori che non avrebbe più
visto per il resto dei suoi anni.
Quando Mr. Bu venne al corrente che John era sopravvissuto miracolosamente all’attentato
grazie a un passante che lo aiutò salvandogli la vita, si adirò. E cosi i guai per John non finirono,
Mr. Bu si addentrò per le vie della periferia di New York con una borsa nera per finire quanto
cominciato due anni orsono.
Intanto in ospedale le porte si erano bloccate, le finestre sbarrate e pure le telecamere andarono
in tilt, ad una a una le luci gelide si spensero. A quel punto i medici andarono a fare un controllo
nelle stanze per capire cosa fosse successo e come se non bastasse le linee telefoniche tagliate non
permettevano di comunicare con il mondo esterno.
Questa volta Mr. Bu non venne da solo, chiamò cinque altri suoi “colleghi” ma questa volta non
si accontentò di semplice rettile, ma portarono con se dei kalashnikov. Un dottore, prima di
essere assassinato gridò aiuto.
Allora nell’ospedale iniziò ad addentrarsi il panico, però John, essendo stato tanti anni in
ospedale, conosceva molto bene ogni angolo. Pur essendo cieco si muoveva con destrezza nei
corridoi, si alzò con affanno, il cuore li batteva all’impazzata, era la prima volta che lui si alzava
senza aiuto dopo due anni ma la memoria era ancora buona.
John aveva i minuti contati. Mentre nell’altra ala dell’ospedale una strage si stava realizzando, i
killer stavano setacciando camera dopo camera, ormai c’era poca gente ancora viva in quel
palazzo di cemento, si camminava in mezzo al sangue sparso sul pavimento e sui muri, schizzi da
tutte le parti. Uomini morti invano senza motivo, però loro volevano John che ormai si era
dileguato dalla sua stanza.
Tutto d’un tratto un silenzio calò, niente più urla, si sentivano solo alcuni respiri affannati.
Ma torniamo a John, che pur avendo paura, o forse meglio terrore, non si arrese per quanto
poteva esser crudele il suo destino.
Si incamminò fino alla fine del corridoio lungo e stretto, svoltò a sinistra con convinzione di
quello che faceva, era sicuro di se, ma tutto ad un tratto John si stancò e si mise sotto un lettino,
si sdraiò e aspettò di recuperare le forze perse in quella camminata veloce ed allo stesso momento
faticosa e stancante.
John era lì pronto ad intervenire, si era promesso che se fosse uscito vivo da quel massacro non
avrebbe più scritto articoli sulla mafia cinese.
Intanto la ricerca a John continuava, cercavano nelle stanze, negli armadi, ovunque.
Recuperate le energie John era più determinato e convinto, tornò nella sua stanza, aprì la finestra
da cui aveva visto l’ultima casa la n°828, e preferì piuttosto che finire nelle mani di Mr. Bu si
lasciò cadere nel vuoto.
44) Cinzia Iametti
Un urlo agghiacciante risvegliò tutto il reparto quella mattina del 2 febbraio. Erano le 6.45 di quel
maledetto martedì, un giorno apparentemente uguale a molti altri, tranne per quello che si
sarebbe scoperto di lì a poco.
Di sicuro la capo reparto mai si sarebbe aspettata una consegna di turno di quel genere. Difatti
non appena entrò nella sala infermieri si trovò davanti una scena che non dimenticherà mai.
Riversa a terra, una delle sue migliori collaboratrici, Marina Maringardi, 27 anni, senza vita, rigida
con la bocca aperta e ricoperta di schiuma.
Avrebbe voluto scappare e correre a casa, ma nemmeno a farlo apposta il personale era ridotto
all’osso da un Norovirus che da qualche giorno aveva colpito l’intero Ospedale.
Alle 7.15 finalmente arrivò pure il primario, allarmato dal centralino, al quale non restò altro da
fare che certificarne la morte. Un compito difficile per lui, dal momento che da qualche mese
intratteneva una relazione clandestina con la vittima. Dovette fingere di provare un normale
dolore, mentre dentro di lui provava il vuoto completo. La ragazza era riuscita a ridargli la gioia di
vivere che da tempo aveva perso.
Alle 7.30 arrivò pure il capo della scientifica, l’ispettore Gian Patrizio Finarzi che, avvicinandosi al
viso della vittima, riuscì a sentire un insolito odore di mandorla.
Gli unici probabili testimoni erano gli ospiti del quinto piano, che però soffrivano di Alzheimer e
quindi non ritenuti idonei per un interrogatorio.
L’ispettore interrogò il primario, il quale non faceva altro che raccontare del bene su Marina, di
quanto fosse competente sul lavoro e non capiva chi avesse potuto odiarla così tanto. Di sicuro
lui l’amava, ma questo non glielo riferì.
Allora l’ispettore convocò tutto il personale del nosocomio il giorno seguente e munitosi di
mascherina iniziò ad interrogarlo ad uno ad uno.
Alla fine parlò con Berta, che era la più anziana del reparto e sapeva tutto di tutti, la quale gli
raccontò che da tempo si era accorta che alcune sue colleghe sparlavano alle spalle di Marina.
Berta sapeva bene cosa spingeva quelle pettegole a farlo,erano invidiose. Marina, infatti era
bellissima, capelli neri, occhi chiari, fisico atletico e asciutto e con un’intelligenza oltre la media.
Parlò anche con la squadra della manutenzione e da uno di loro, Adalgisio, scoprì che da qualche
mese c’erano state diverse morti di pazienti al quinto piano. Morti che potevano sembrare
naturali, ma che lo avevano un po’ insospettito. Difatti uno di loro era suo zio Udobaldo, che si
trovava in ospedale per una convalescenza dopo la frattura del femore a seguito di una caduta
dalle scale. Lo zio, a parte l’immobilità e le sue perdite importanti di memoria dovute alla malattia
stava bene di salute e quindi la sua morte non lo convinceva.
Tutti gli indizi portavano a Marina, che durante le morti sospette era sempre di turno.
L’ispettore Finarzi, il giorno seguente ricevette la telefonata che aspettava con ansia. Era il
laboratorio che gli confermò che la vittima era morta per avvelenamento da cianuro.
Gian Patrizio non riusciva più a venirne a capo. Passarono i giorni e le settimane, ma il suo istinto
gli suggeriva che doveva indagare più a fondo. Non si capacitava che una ragazza così bella e
intelligente potesse essere un’assassina.
Una mattina, per caso, incontrò al bar sotto il suo ufficio una sua vecchia amica, che tra una
chiacchiera e l’altra gli chiese come stava. Lui le confidò che stava lavorando ad un caso di
omicidio all’Ospedale vallerano. Lei allora si ricordò che qualche mese prima lì era morta la
mamma di un noto ex Consigliere di Stato, che a suo tempo era a capo del Dipartimento della
Sanità e della Socialità e che stando ad alcune indiscrezioni pare che non avesse accettato tale
morte, anzi ne era ossessionato convincendosi che non si fosse trattato di morte naturale.
Gian Patrizio Finarzi cambiò direzione alle sue indagini e interrogò parte del personale
amministrativo che aveva lavorato fianco a fianco dell’ex Consigliere. Non ne ricavò un. Dopo
qualche giorno però ricevette una telefonata. Si trattava di un impiegato che gli chiedeva un
appuntamento per l’indomani. Una volta giunto all’incontro Venanzio Ferradini confidò granché
all’ispettore che era testimone di telefonate misteriore tra il suo capo e un’infermiera, una certa
Maddalena, dalle quali aveva intuito che c’era sotto qualcosa di losco.
L’ispettore interrogò allora l’infermiera Maddalena Inverni, che dopo diverse ore d’interrogatorio
non ce la fece più e confessò. Raccontò che il figlio della signora trovata morta nel suo letto
d’ospedale, l’ex-Consigliere, l’aveva contattata e voleva che uccidesse l’infermiera che lavorava al
piano dove era ricoverata sua madre. Inoltre l’aveva obbligata ad eliminare qualche ospite per
poter far cadere la colpa su Marina. In cambio le avrebbe garantito un avanzamento di carriera ed
un bel gruzzoletto. Lei che ne era molto innamorata cedette al ricatto, anche perché lui in caso
contrario avrebbe rivelato al marito la loro relazione, che durava da quasi un anno.
Così, durante i turni di Marina, Maddalena si nascondeva nel reparto e quando era sicura che
nessun la vedesse, riempiva d’aria le flebo di alcuni pazienti.
Dopo qualche mese lui la ricontattò per il colpo finale, ma Maddalena non voleva più uccidere
nessuno e gli disse che se voleva eliminarla, avrebbe dovuto pensarci lui.
L’ispettore si recò a casa dell’ex Consigliere e lo interrogò. All’inizio negò tutto, ma poi ad un
tratto sul suo viso comparve una strana espressione e freddamente iniziò a confessare che una
notte di inizio febbraio si era chiuso nel bagno di servizio e quando Marina si recò nella stanza
503 per aiutare un paziente, lui si intrufolò nella saletta delle infermiere e trovata la Thermos di tè
la aprì e gli mise dentro la pastiglia di cianuro. Poi durante tutto il trambusto dovuto al
ritrovamento del corpo uscì di soppiatto senza farsi notare da nessuno.
Il resto lo sapeva già.
45) Patrick Acquadro
Noir all’ospedale; Giallo in corsia; Allarme rosso al nosocomio. I media avevano già iniziato a
colorire la notizia. Che in realtà era solo una: l’uccisione di un anziano paziente. Qualcuno aveva
staccato la spina. Eutanasia dunque? No, impossibile. Il malato stava lottando con tutte le sue
forze ed era in fase di miglioramento. A breve sarebbe riuscito a respirare da solo. A breve, ma
non subito, purtroppo. E così, privato dell’aiuto delle macchine, era rimasto senza ossigeno per
troppo tempo. Non c’era stato nulla da fare.
Chi dunque aveva potuto ordire un tale delitto in una cittadina tranquilla e pacifica come quella?
Nessuno sapeva darsi una risposta. L’orario di visita era passato da un paio d’ore, perciò qualsiasi
intruso sarebbe stato notato immediatamente. I principali sospetti non potevano che concentrarsi
su pazienti e personale dell’ospedale. Gli inquirenti si affrettarono a visionare le videocamere di
sorveglianza. E a sentire i presenti. Per primi si rivolsero alla capo infermiera, la signora Dossi.
“Dunque la vittima era suo padre?” le chiesero sorpresi.
“Esattamente. Mai avrei pensato di dovermene occupare proprio io.”
“Non c’era nessun’altro che poteva farlo al suo posto?”
“Certamente, ma volevo tenere sotto controllo la situazione. Perciò, quando si è stabilizzato,
sono andata a prendere mia figlia a scuola e siamo tornate qua il prima possibile. Io non capisco,
stava migliorando, ero sicura che…”
“Lei dove si trovava quando è scattato l’allarme?”
“Stavo riordinando un po’ di vecchie cartelle. Sa, avevo del tempo ed è una di quelle cose che si
rimandano sempre…”
“Capisco. E sua figlia era con lei?”
“No, sa, Pia voleva restare col nonno. Gli voleva molto bene. Era l’unico parente rimastole, oltre
a me ovviamente. Si è messa con la sedia vicino a lui a giocare con il telefonino. Era tranquilla.”
“Eppure al momento dell’allarme sua figlia non c’era, nessuno l’ha notata.”
“Fortunatamente no, era nel bagno della stanza. Per lo meno si è risparmiata quella scena orribile.
A otto anni ne sarebbe rimasta sconvolta.”
“Le ha per caso detto se ha visto o sentito qualcosa prima che arrivassero le infermiere?”
“Mi ha confermato di no. E se lo dice è perché è vero. Pia non sa nulla.”
“Va bene, per ora abbiamo finito. La ringraziamo signora Dossi.”
Gli interrogatori si susseguirono uno dopo l’altro per ore, senza che se ne ricavasse niente di
interessante. Per qualche momento gli inquirenti avevano posto la loro attenzione sulla signora
Dossi, l’unica che avesse un vero legame con la vittima. Avevano chiesto informazioni alle
colleghe, le quali avevano ammesso che sì, un paio di anni prima aveva passato un brutto
periodo, ma ne era uscita proprio grazie al padre. Per lei era un punto di riferimento, soprattutto
dopo la prematura morte del marito. Uno strano incidente, quello: era rimasto fulminato mentre
preparava la vasca da bagno alla figlia. Ma Pia miracolosamente ne era uscita illesa. Una brutta
storia, di certo, ma che non forniva alcun movente. Anzi.
E neppure i filmati di sorveglianza erano risultati utili. Pareva proprio che fosse stato un
fantasma. Intanto i giornalisti insistevano nel proporre i loro titoli sensazionalistici: La polizia
brancola nel buio; Si riuscirà mai a fare luce sull’accaduto?; Tra noi, nella penombra, c’è un
assassino.
La signora Dossi era seduta con le mani fra i lunghi capelli ingrigitisi prima del tempo. Faceva di
no con la testa, incredula. La figlia le si avvicinò piagnucolante: “Mammina, mammina. Non
posso più giocare,” singhiozzò indicando il telefonino. “È di nuovo morto. Non è giusto.”
“Ma Pia, tesoro, basta ricaricarlo. Prima ti ho dato il cavo, no?”
“Sì ma è rimasto nel bagno del nonno. E la stanza è chiusa.”
“Nel bagno? Come mai l’hai attaccato proprio là?”
“Perché vicino al letto del nonno non riuscivo a metterlo…”
La signora Dossi sbiancò all’istante. Si irrigidì, persa nel vuoto dei suoi pensieri. Quindi, di scatto,
prese la figlia per mano, un po’ troppo energicamente, e barcollando la accompagnò all’ascensore.
“Dove andiamo, mammina?”
“A prendere un po’ d’aria, tesoro. Una cosa veloce.”
Arrivarono fin su al terrazzo dell’ultimo piano. Madre e figlia rabbrividirono insieme, forse per
via della leggera brezza. O forse no. Si avvicinarono alla ringhiera, guardando sotto di loro la città
illuminata dai lampioni. Ora piangevano entrambe.
“Pia, tesoro, ti voglio bene.” La strinse forte a sé e chiuse gli occhi.
46) Greta Maggioni
2064
Il paziente numero 6894 era oramai ricoverato da molto tempo. Ma la sua situazione stava
migliorando. Presto sarebbe stato dimesso.
Tempo prima era stato coinvolto in un incidente stradale nel quale aveva perso molto sangue,
perciò era stato necessario effettuare una trasfusione. Era per questo che si trovava lì, nell’unico
ospedale che le effettuava ancora. Un ospedale enorme e importante, che si era ingrandito
sempre di più negli anni, fino a ricoverare gente proveniente da ogni angolo del Paese.
Alla continua ricerca di personale. In effetti numero 6894 l’aveva notato, le infermiere che si
occupavano di lui erano sempre diverse, non ne aveva mai vista una per più di due o tre volte. Ma
lui non ci aveva mai dato importanza.
Finché per l’ennesima volta, aprendo il giornale, vide un annuncio di scomparsa di una giovane
donna. E come sempre nessuna foto. Niente di nuovo. Questa però aveva un nome familiare. Sì,
aveva sentito questo nome tra i corridoi dell’ospedale. Era un’infermiera, e si era pure occupata di
lui per un paio di giorni. Ma poi non l’aveva più vista. Ed ora ecco il suo nome sul giornale.
Almeno aveva scoperto come mai non l’aveva più vista. Anche se in fondo un po’ gli dispiaceva,
era così giovane… Ma poi non ci pensò più.
Un paio di giorni dopo però trovò l’annuncio di scomparsa di un’altra infermiera. Com’era
possibile? Nel giro di pochi giorni due impiegate dello stesso ospedale erano sparite… ma forse si
trattava solo di una coincidenza. In fondo erano in molte a lavorare lì.
Però non riusciva a mandare giù questa cosa. Erano solamente due, ma di quelle di cui lui
conosceva il nome. Quindi potevano essercene altre. Ma non doveva saltare a conclusioni
affrettate. Magari era davvero solo un caso.
Purtroppo però nei giorni seguenti i suoi dubbi si rivelarono fondati. Ma lui si rifiutava di
crederci. Sembrava esserci un collegamento tra la continua assunzione di nuovo personale da
parte dell’ospedale e la scomparsa giornaliera di giovani donne.
Numero 6894 era torturato dai dubbi. Se davvero l’ospedale era implicato in tutte quelle
sparizioni qualcuno oltre a lui doveva già essersene accorto. Non ci voleva molto a notare che
tutte le ragazze scomparse erano impiegate nello stesso posto. Allora come mai nessuno era
ancora intervenuto? C’era qualcosa che ancora gli sfuggiva.
Diventò molto più attento, e vagava per l’ospedale con la speranza di veder riapparire qualcuna
delle infermiere scomparse. Senza successo. Notò però che ce n’erano alcune che incrociava
anche per più di una settimana di fila. Anche se diventavano sempre più pallide, deboli e apatiche.
Fino a sparire, pure loro. Ma non riusciva ancora a spiegarsi né dove né perché. E nemmeno
com’era possibile che nessuno avesse ancora denunciato niente.
Finché un giorno vide una targhetta, appesa a una parete, che ringraziava il principale
contributore economico dell’ospedale. E improvvisamente tutto gli fu più chiaro. Si trattava del
governo del Paese.
Qualunque cosa stesse succedendo in quell’ospedale era coperta dallo Stato. Ecco perché non era
ancora stata sporta nessuna denuncia. Oppure era stata prontamene smentita. Chissà in quanti
prima di lui avevano scoperto ed erano stati soppressi per questo. Si sentiva impotente di fronte
alle dimensioni di ciò che aveva scoperto. Avrebbe dovuto portarsi dietro per sempre il peso della
sua scoperta, senza poter confidare niente a nessuno. Perché se l’avesse denunciato o
semplicemente raccontato a qualcuno, sarebbe diventato un ostacolo alla continuazione di questa
macchinazione dello Stato, e la sua esistenza sarebbe stata in pericolo. Doveva mantenere il
segreto per non mettere in pericolo la sua stessa vita.
Restava una domanda. Cosa era successo a tutte quelle infermiere?
Una sera, mentre stava vagando per i corridoi, vide una porta socchiusa che non aveva mai
notato prima. Incuriosito si avvicinò, si guardò attorno ed entrò nella stanza.
La vista di ciò che si trovò davanti lo sconvolse profondamente. Dopo un attimo di esitazione si
decise a riaprire gli occhi e ad andare avanti. Davanti a lui file e file di scaffali si estendevano
nell’enorme stanza. In effetti erano l’unica cosa presente.
Respirò profondamente una boccata d’aria gelida. Sembravano tante bambine addormentate nei
loro letti a castello. Ma non erano bambine, bensì infermiere. Ed erano morte. Si aggirò nel
locale. Accanto ad ogni pallidissimo corpo c’era una targhetta che ne riportava nome, cognome,
data di nascita e gruppo sanguigno.
La cosa peggiore era che tra quell’infinità di infermiere ne riconosceva alcune che si erano
occupate di lui durante la sua lunga degenza in quel terribile ospedale. E magari il sangue che gli
avevano trasfuso era appartenuto a qualcuna di loro… Ora finalmente riusciva a spiegarsi come
mai quello era l’unico ospedale ad effettuare ancora delle trasfusioni. Ma non riusciva a spiegarsi
l’aria gelida e i cristalli di ghiaccio presenti nella stanza. Ma sì, serviva sicuramente a conservare i
corpi senza doverli far uscire dall’ospedale. Serviva a mantenere il segreto.
Continuò a girare tra gli scaffali, e ne trovò alcuni ancora vuoti. Chissà quante altre giovani
infermiere piene di speranze sarebbero ancora state uccise brutalmente per soddisfare i fini di
persone senza scrupoli… e lui non poteva fare niente per fermarli.
Improvvisamente un rumore frantumò quel silenzio di morte, interrompendo il filo dei suoi
pensieri. Il paziente numero 6894 si voltò per fuggire da quel mostruoso cimitero.
L’ultima cosa che vide fu un coltello insanguinato calare su di lui.
47) Dennis Pellanda
Con il mento appoggiato sulle mani, fissavo con sguardo vacuo la sedia vuota di fronte a me. Da
quando ero entrato nella sala d’attesa non avevo avuto la capacità di fare altro se non sedermi su
una sedia e attendere. Per quanto tempo ero rimasto lì, seduto nella mia disperazione? Cercai
nuovamente con lo sguardo un orologio e, non trovandolo per l’ennesima volta, mi rassegnai
lasciandomi sprofondare nell’imbottitura della sedia.
Il mio braccio fu scosso leggermente e mi svegliai senza capire dove mi trovavo. Speravo si fosse
trattato solamente di un incubo, ma la donna vestita con un camice bianco di fronte a me negava
la mia ipotesi.
“Come sta?” Fu l’unica cosa che riuscii a biascicare con la bocca ancora impastata dal sonno.
“È stabile, per ora. Ha passato tutto questo tempo qui?”
La donna mi fissava con uno sguardo misto a compassione e sgomento.
“Io credo… credo di sì…” Dissi alzandomi dalla sedia. “Può dirmi che ore sono?”
“Mi spiace, non ho con me l’orologio” rispose sbrigativa. “Allora, vuole seguirmi?”
Mi alzai e la seguii.
A parer mio dovremmo aver camminato per almeno una decina di minuti; dietro a ogni porta se
ne presentava un’altra, seguita da una rampa di scale, un altro corridoio, un ascensore e poi
ancora scale, porte e corridoi.
“Credevo di essere vicino alla sala operatoria” sbottai cercando di tenere il passo.
“Beh vede, in effetti lo era. Ma qui i pazienti vengono trasferiti con una rapidità che lei a stento
può immaginare, mi creda.” Disse girandosi verso di me e guardandomi, una traccia di un sorriso
era appena visibile sul suo volto. “Del resto, come potrebbe venir gestito altrimenti un ospedale
di queste dimensioni?”
“Ah sì, certo. Capisco. Però mi era stato detto che appena avrebbero finito sarei stato informato.
Come hanno fatto a spostarla così velocemente?” Rimbeccai sempre più confuso nella mia
ignoranza.
“Dormiva…” Aggiunse di sfuggita con tono vago.
Arrivammo finalmente davanti alla sua camera e oltre ogni mia aspettativa, lei era sveglia e mi
stava aspettando.
Al mia vista, il suo sguardo si riempì di lacrime e cominciò a singhiozzare. Vani furono i miei
tentativi di placarla.
“Ma cosa c’è ancora? Va tutto bene, va tutto bene. Si aggiusterà tutto, vedrai. Andrà tutto bene,
non devi piangere, non più.”
Le carezzavo con dolcezza il viso, le braccia, i capelli. Ma lei non accennava a smettere.
“Dimmi cosa c’è, ti prego! Voglio aiutarti! Non devi piangere.” Aggiunsi nuovamente, sempre
toccandola dolcemente.
Emise un rantolo strozzato, poi cercò di dirmi qualcosa. Le sue parole erano però qualcosa di
incomprensibile. Sembrava ripetere la stessa frase come un mantra e sembrava ignorare la mia
presenza.
“Senti, se non mi dici cosa c’è che non va, non ti posso aiutare. Per favore, permettimi di aiutarti.
Devi dirmi cosa c’è che ti tormenta.” Aggiunsi con tono serio.
Dal momento che le mie parole non avevano sortito nessun effetto, aggiunsi “Se non vuoi che ti
aiuti, allora io esco un attimo e ti lascio un po’ sola per pensarci…”
Pronunciate queste parole mi afferrò di colpo il braccio e lo strinse con tutta la forza che aveva,
implorandomi di non lasciarla più sola.
“Tu non puoi capire… ma quello che ho visto… non puoi capire…”
Le sue parole avevano poco se non nessun senso per me.
“Cosa hai visto? E quando? Prima dell’incidente?”
Lei scosse la testa singhiozzando.
“Prima di essere operata…” Biascicò. La bocca aperta e lo sguardo vacuo davano l’impressione
che si trovasse in uno stato di trance.
“Cosa hai visto prima di essere operata? C’era qualcosa di particolare?” Continuai la mia serie di
domande assecondandola, sperando di capire cosa avesse che non riusciva a dirmi.
“C’era… sangue. Tanto sangue… E… Quell’uomo terrificante…”
Vagavo per i corridoi alla ricerca di quella sala operatoria, cerando di seguire le informazioni
scritte sulle placchette appese ai muri. Non credevo a una singola parola del suo racconto, e così
l’avevo lasciata in balia di se stessa mentre piangeva e mi implorava di rimanere con lei. Tutti i
corridoi erano deserti, così come ogni camera e ogni rampa di scale. Ma dove erano finiti tutti?
Ma poi, c’era mai stato qualcuno? Cercai di sforzarmi e di ricordare se avessi incontrato qualcuno
al di fuori di quella donna in camice bianco. Come ci ero arrivato in ospedale io? Tutte queste
domande mi confondevano la testa e non mi permettevano di ragionare lucidamente.
Riuscii finalmente a ritrovare la sala d’attesa, ancora deserta. Qualche porta più avanti trovai la
sala operatoria, deserta anch’essa. Attraverso le porte a vetro che separano l’area per la
disinfezione, riuscivo a vedere l’interno della sala stessa. E ciò vidi non mi piacque per nulla.
Aveva ragione, non so cosa fosse successo ma aveva ragione. La sala era in gran parte ricoperta
interamente da quello che si sarebbe detto sangue.
Uscii tremando di paura dalla sala operatoria e varcai una porta, girando poi a destra in un
corridoio. Solo allora mi accorsi del fatto che non ci fossero finestre in tutta la struttura.
Rimuginando su quello che apprendevo minuto dopo minuto scesi una rampa di scale ed entrai
in un altro corridoio, con tutti i sensi all’erta. Mi fermai appena girato l’angolo, guardando ciò che
avevo davanti. Un uomo vestiva un camice bianco e mi dava le spalle. Fino a qui andava tutto
bene, non fosse per il fatto che il suo camice era zuppo di sangue. Lentamente si voltò verso di
me, in volto un ghigno strano e in mano un coltello gocciolante. Rimasi paralizzato dov’ero,
mentre lui cominciò a correre verso di me con il coltello levato verso l’alto. Nel momento in cui il
freddo acciaio toccò il mio viso, vidi una luce abbagliante che mi accecava e chiusi gli occhi.
“È cosciente” sentii dire. “Riesce a sentirmi? Signore può sentirmi?”
Aprì gli occhi e vidi che mi trovavo su un ambulanza, mia moglie mi stava accanto con gli occhi
colmi di lacrime e un medico era chino su di me, intento ad accertare il mio stato di salute dopo
l’incidente.
48) Samuela Pfund
Era una splendida domenica del mese di luglio, la canicola imperversava da giorni ormai in tutto
il Paese. Il sole non dava segno di tregua, la gente cercava un angolo di fresco dove poteva,
rimanendo al chiuso in casa, altri si appartavano all’ombra di un albero, che con la chioma
generosa offriva un leggero sollievo al sole cocente, c’era chi, invece, approfittava dei corsi
d’acqua di montagna, rinfrescanti come il ghiaccio sulla pelle calda come il fuoco.
Arturo Carambola decise di concedersi un bel fine settimana al mare, dove la brezza marina e
l’acqua cristallina donavano pace ai sensi.
Quella mattina il mare era leggermente mosso, le increspature della superficie si ripetevano
all’infinito fino all’orizzonte, ma questo non impedì ad Arturo di farsi una bella nuotata. L’acqua
fresca sferzava sulla sua faccia ad ogni bracciata. Ad un certo punto un dolore lancinante si fa
largo sulla gamba sinistra, il muscolo si irrigidisce, rendendogli faticoso nuotare. Inizialmente
pensa sia un crampo, finché un’altra fitta appare sull’avanbraccio estendendosi fino al torace.
Chiama chiedendo aiuto. Due signori vengono in suo soccorso, portandolo fino alla spiaggia,
dopodiché perde i sensi.
Il rumore di alcuni “bit- biit” lo riportano da un mondo lontano. Con molta fatica apre gli occhi,
una fioca luce filtra da una tenda tirata illuminando la piccola stanza nella quale si trova. Una
giovane infermiera gli si avvicina. Mentre gli cambia la flebo lui chiede con voce rauca:
- Che cosa mi è successo?
Con un tono gentile gli risponde:
- Signor Carambola, mentre stava nuotando in mare, si è imbatutto in un gruppo di meduse. La
gran quantità di neurotossine che le hanno rilasciato in corpo le hanno fatto perdere i sensi.
- Sono grave?
- Il molto veleno in corpo, ha scatenato una reazione allergica importante. La stiamo tenendo
sotto stretto controllo.- dopodiché annota qualche cifra su di una cartelletta ed esce dalla stanza.
Il panico lo pervade quando un forte dolore al torace lo opprime, come un macigno che con il
suo peso impedisce ai polmoni di incamerare abbastanza aria. Con un grande sforzo allunga un
braccio fino a schiacciare il pulsante rosso dell’allarme, giusto prima di svenire.
Una calda luce batte sul suo viso risvegliandolo. Sentendosi la gola secca e le gambe indolenzite,
decide di farsi una piccola passeggiatina all’interno dell’ospedale. I lunghi muri bianchi, sono
ritmati dalle porte colorate di azzurro delle camere. In fondo al corridoio, a destra, le scale lo
portano qualche piano più sotto, dove in un angolo trova con grande piacere una macchina del
caffè e un distributore di bibite. Dopo aver inserito alcune monetine schiaccia il bottone per
ottenere un’acqua minerale. Presa la bottiglietta si siede su di una sedia rossa li accanto.
Un signore alto e un po’ stempiato, vestito con un camice bianco si avvicina alla macchinetta.
Con il caffè fumante si siede accanto ad Arturo.
– Salve
- Salve - risponde distratto Arturo.
–Lei è un’ospite?- domanda il signore dal camice bianco.
–Ospite?- chiede Arturo perplesso.
–Si, è qui in cura? Mi scusi, che maleducato, non mi sono nemmeno presentato. Sono il Dottor
Mauro Bianchini. – risponde con un sorriso un po’ sbilenco.
– Sono stato ricoverato a causa delle numerose scottature delle meduse.
Il Dottor Bianchini annuisce chiedendo:
– Immagino che l’alto tasso di veleno in circolo nel suo corpo abbia scatenato una reazione
allergica. Arturo annuisce chinando il capo. D’un tratto si rivolge al suo vicino di sedia:
- Lei lavora qui? –
- Diciamo di si, ma al momento mi sono preso un momento di pausa.
Arturo, beve un sorso dalla bottiglietta e si alza dalla sedia.
- Se ne sta andando?
- Si sto ritornando in camera mia, mi sento molto stanco e indolenzito.
- Posso chiederle un favore? Nella camera 402, c’è un paziente molto critico, può riferire ai
dottori quel che c’è scritto su questo biglietto? È una possibile cura…- “biit” viene interrotto dal
suono del cerca persone- Mi scusi ma devo scappare è urgente! Mi raccomando non si dimentichi
del biglietto! È molto importante. - Corre via scomparendo dietro l’angolo.
Disteso nel suo letto Arturo rilegge il foglietto. Fuori nel corridoio si sente un gran trambusto di
dottori diretto verso una camera poco distante. Rimette il foglietto nel cassetto del comodino.
L’infermiera che aveva cambiato la flebo qualche ora prima rientra accompagnata da un giovane
dottore.
-Salve, sono il Dottor Moro. Siamo venuti a vedere se le sue condizioni sono di nuovo stabili.
- Mi sento un po’ indolenzito e ho un leggero male al torace.
- È normale
- Ah! Quasi dimenticavo, un dottore mi ha detto di riferirvi una cura per un paziente, a quanto
pare molto critico, che si trova nella camera 402. Purtroppo è dovuto scappare d’urgenza, perché
aveva ricevuto una chiamata d’intervento.- detto ciò illustrò nei dettagli quello che gli era stato
riferito dal dottore vicino alla macchinetta del caffè.
Finito il racconto l’infermiera e il dottor Moro si guardano l’un l’altro con l’aria meravigliata.
L’infermiera esce di corsa per riferire la cosa al dottore responsabile della 402.
Il dottor Moro inizia con aria un po’ titubante:
- Siamo molto sorpresi dal suo racconto; potrebbe per favore descrivermi la persona da cui ha
avuto queste informazioni? Il nome se lo ricorda?
- Mi sembra abbia detto fosse il Dottor Bianchini. – poi si allunga verso il cassetto per prendere il
foglietto.
- Mi scusi, ma… è impossibile che lei abbia davvero parlato con lui.
- Era un uomo alto, stempiato, con un sorriso un po’ sbilenco. Mi aveva conseganto un biglietto,
ma non riesco a trovarlo… eppure ero sicuro di averlo messo…
- La persona che lei descrive corrisponde effettivamente al Dottor Bianchini – esita un momento
prima di continuare, si guarda in giro come a cercare qualcuno nella stanza, poi continua con
voce spezzata - Il fatto è che il paziente della 402, per il quale ci ha fornito una possibile cura, è il
Dottor Bianchini, il quale però, si trova in coma da ben due mesi.
49) Robin Pellanda
«Lei aveva notato qualcosa di strano?»
«No, mi sembrava tutto normale.»
«Il dottor Perko le è sembrato diverso?»
«No, anche lui sembrava normale.»
«Conosceva bene il dottor Perko?»
«Come collega… niente di più.»
«Cosa sapeva del suo passato?»
«Solo che aveva studiato negli Stati Uniti alla fine degli anni ’40 ma non sapevo che avesse
assistito il dottor Freeman nei suoi interventi.»
«Di cosa si occupava esattamente il dottor Freeman?»
«Era un neurologo. Si era interessato in particolar modo alle malattie psichiatriche.»
«In cosa consistevano i suoi interventi?»
«È stato un grande sostenitore della lobotomia transorbitale.»
«È un’operazione al cervello, vero?»
«Sì, si tratta della recisione della corteccia prefrontale dall’encefalo.»
«Lei poteva immaginare una cosa simile?»
«No, assolutamente.»
C’era un pungente odore di disinfettante. Un odore così chimico che faceva male al naso. La
camera era però invasa da qualcosa che non si poteva facilmente definire. La finestra era aperta e
le tende a lamelle sbattevano tra loro incitate dal vento. La stanza era inondata dall’effluvio della
notte. Un misto di umidità e paura che si stendeva nel locale. Tranne la finestra spalancata era
tutto a posto. Sul letto un corpo celato da un lenzuolo bianco. La morte all’ospedale si presenta in
molte sfaccettature ma alla fine saluta sempre da un letto con la biancheria candida. Gli unici
oggetti che non sembravano abituali erano ben allineati su un tavolino accanto al letto.
Rilucevano di una macabra luce argentea. Insieme a questi tristi utensili c’erano un tesserino
plastificato dell’ospedale e un anello d’argento.
«Conosceva il paziente?»
«No.»
«Quando è arrivato in ospedale?»
«Stamattina.»
«Per quale motivo è stato ricoverato?»
«È tutto scritto nella sua cartella.»
«Lo so. Io però vorrei sentirlo da lei.»
«Non c’è bisogno che glielo ripeta credo, lo può leggere.»
«Va bene, è stato ricoverato… Ma c’è scritto anche che doveva subire un intervento.»
«Sì.»
«Secondo lei il paziente aveva davvero bisogno di un simile intervento?»
«No.»
Tutto il secondo piano era tanto silenzioso da sembrare spento, in disuso. Il corridoio sovrastato
da un silenzio grave era appena disturbato dal ritmico suono che segnava la vita e la morte dei
pazienti sui monitor. Un bip bip incessante che non lascia spazio alla fantasia; ritmico, continuo,
quasi tristemente monotono. I passi del dottor Perko ruppero questo equilibrio. Davanti alla
porta si fermò un attimo. Riguardò il nome sulla cartella che teneva in mano. Alzò lo sguardo:
236. Entrò senza bussare e richiuse subito la porta. Il secondo piano ritornò alla monotonia
sonora di pochi istanti prima.
«Lei ha visitato il paziente?»
«Sì.»
«Perché allora è stato visitato anche dal dottor Perko?»
«Non saprei, probabilmente il dottor Perko riteneva importante una seconda visita o un
consulto.»
«In questo caso però lei ne sarebbe stato informato.»
«Sì.»
«Ma lei non ha saputo nulla.»
«No.»
«È possibile che fosse per un interesse personale del dottor Perko?»
«Non lo so… ma lo escluderei.»
«Ne è sicuro?»
«No.»
Il reparto di neurologia era deserto. I pochi pazienti erano sistemati in camere monocromatiche
dall’odore di disinfettante. I corridoi erano stati abbandonati alla luce dei neon e l’unico ufficio
del personale ancora occupato era quello del dottor Perko. Stava riguardando le cartelle dei
pazienti ricoverati in giornata. Quando prese in mano la seconda cartella rimase di stucco. Una
cartella americana. Era da un po’ che non ne vedeva una. Non riusciva a pensare a un caso di
omonimia o a una coincidenza. Il nome del medico curante negli Stati Uniti era: Walter Freeman.
Subito si alzò e si diresse alla camera 236.
«Dov’è la cartella clinica del paziente degli ospedali americani?»
«Non lo so.»
«Sono stati trovati solo la cartella del vostro ospedale e gli “attrezzi” da lavoro ma non la vecchia
cartella del paziente. Lei l’ha letta?»
«Sì.»
«Può confermare che i dati del paziente siano esatti?»
«Sì, io stesso ho riportato i suoi dati nella nostra cartella.»
«Quindi il paziente è stato in cura dal dottor Freeman?»
«Sì, è stato un suo paziente alla fine degli anni ‘40.»
«Si può quindi supporre che forse il dottor Perko conoscesse già il paziente?
«Potrebbe essere probabile….»
«D’accordo… Lei è stato il primo ad entrare nella stanza 236, vero?»
«Sì, sono stato il primo.»
«Potrebbe raccontarmi quello che ha visto?»
«Sì.»
La figura del morto teneva la situazione in un curioso stato di stallo. Ad attirare l’attenzione erano
però proprio gli strumenti sul tavolino. Il primo, uno slanciato martelletto di metallo lucido,
appariva molto resistente e pesante nonostante le dimensioni ridotte. Il secondo era una forma
curiosa, allungata, sottile. Ricordava un punteruolo rompighiaccio. Era un orbitoclasto, il lugubre
scettro della lobotomia. Oltre alla macabra attrezzatura c’erano un anello d’argento e un tesserino
plastificato intestato al Dott. Perko, Jožef Ladislav. Neurologia. con una foto in bianco e nero del
neurologo cancellata da una croce rossa e dalla scritta “lobotomizzato”.
«Riconosce questo anello?»
«Sì.»
«È stato tolto alla vittima. Era sul tavolino.»
«È l’anello del dottor Perko, ci sono incise le sue iniziali.»
«Si sieda. Devo farle qualche domanda.»
Era uscito dalla finestra senza problemi. Si era lasciato alle spalle anche quella vecchia e scomoda
cartella medica americana. Ora in un attimo sarebbe sparito dalla città. C’erano voluti anni, ma
alla fine ce l’aveva fatta! Freeman era già morto da molto tempo e quel giovane e ambizioso
studente che aveva assistito alla sua operazione nel ’49 si era nascosto abilmente, ma non
abbastanza… Ora anche Jožef Ladislav Perko aveva pagato per la sua presunta onnipotenza.
50) Monica Delucchi-Di Marco
Giaceva sul letto tra i fili e gli aghi e le macchine che seguendo gli algoritmi delle scienze più
esatte, pompando e iniettando, la tenevano ancora legata alla vita. Nella stanza fluttuavano
l’odore dell’igiene assoluta che deriva dall’assenza di spinta vitale e la luce bluastra e a tratti
giallina che ogni uomo immagina di trovare alla fine del tunnel.
A scadenze regolari un volto attento ai dati si accostava al catafalco sopra cui era stata adagiata
con cautela: tastando e analizzando, quasi sempre senza lasciare trasparire nulla, si allontanava
dopo avere eseguito in tempi perfetti il rituale necessario alla prognosi. Anche il tocco leggero
della fronte e la presa del polso erano svuotati di ogni tenerezza, di ogni significato umano.
Erano lì per lei, eppure così distanti, irraggiungibili. Indifferenti.
Pioveva obliquo. Le gocce colpivano decise le finestre della stanza mentre un uomo con
l’impermeabile e il cappello tentava di raggiungere in tempo l’entrata del Pronto soccorso
lottando contro le dita di una mano che gli serravano i polmoni. Nella fretta che di poco precede
il panico, la sua mente registrò l’immagine di un transatlantico pronto per la partenza. Contò le
finestre illuminate del terzo piano inspirando ed espirando. Uno, due, tre, quattro.
Un gancio avvitato al muro sporgeva come un osso rotto dalla rete imbiancata della stanza.
L’infermiera del turno pomeridiano vi aveva appeso distrattamente il cappotto di lana pesante che
nel momento dell’incidente teneva probabilmente sull’avambraccio destro, complice la schiarita
nel cielo che aveva permesso al sole di scaldare coi suoi tardi raggi i corpi fradici degli impiegati e
dei turisti che affollavano le strade del centro. Le tasche, frugate alle ricerca di un dato qualunque,
erano vuote.
Poco distante dal letto, sopra un tavolino amovibile accuratamente allineato contro la parete,
lontano dai fili e dai macchinari, era posata la cartella di cuoio che le avevano trovato a tracolla e
che l’urto dell’auto pirata aveva spinto sotto di lei, attutendo così lo schianto seguito al volo che
l’aveva scaraventata al di là dello spartitraffico, lanciando la sua corsa verso l’eternità. I poliziotti
che l’aveva accompagnata in ospedale si erano preoccupati di controllarne il contenuto, alla
ricerca di qualcosa che potesse farli risalire all’identità della vittima. Nessun documento, nessun
portafoglio, o mazzo di chiavi o agenda o cellulare. L’unico dato utile era la lettera sigillata che in
una grafia minuta e accurata recava le iniziali del destinatario, senza indirizzo:
Al signor R. H.
Prima di smontare dal turno il poliziotto Richard von August, di lontane origini nobiliari e con
una spiccata passione per le grafie aggraziate, aveva consegnato il documento ancora chiuso nelle
mani del collega Fedoroski, incaricandolo di trovare i parenti più prossimi della donna senza
nome per trasmettere loro la notizia dell’incidente. L’uomo con l’impermeabile e il cappello riuscì
ad arrivare al bancone dietro il quale un dipendente con una strana cravatta a strisce gialle e blu
attendeva malati e visitatori per smistarli a questo o a quel reparto, e poi scivolò a terra, senza
respiro. Udì grida e sentì braccia che lo trasportavano verso la possibile salvezza da cui si sarebbe
svegliato - ancora una volta - di lì a qualche ora. Intanto poteva riposare, protetto dalla tenue luce
del neon che filtrava dalla porta, aspettando che i suoi polmoni si liberassero dagli ultimi strappi
della morsa che li aveva serrati. Si addormentò rasserenato, sognando un transatlantico che lo
portava lontano, in salvo dal male che aveva perpetrato e che presto avrebbe ancora commesso,
per un’ultima volta.
In un ufficio che puzzava di sigarette spente nei fondi del caffè e di abiti bagnati, le mani da
contadino dell’Est dell’agente Fedoroski si accingevano ad aprire con inconsueta delicatezza la
busta. Dentro vi era una cartolina con una citazione del filosofo Vladimir Jankélévitch:
Padre, non li perdonare, perché sanno quello che fanno.
L’agente Fedoroski sorrise, colpito dall’intimità che quel nome gli svegliava dentro: a ottobre sua
figlia Olga avrebbe discusso la tesi di laurea sui tre cardini del pensiero di Jankélévitch, il tempo,
l’amore e la morte... Olga ci stava lavorando da quasi tre anni con una dedizione che rasentava
l’estasi. Seduta al tavolo da lavoro nell’atrio del piccolo trilocale che dividevano, tra la cucina
inabitabile e la sala da pranzo, di tanto in tanto sollevava gli occhi dai libri per condividere col
padre un pensiero, una teoria. Il suo professore, esasperato e anche ammirato da una minuzia che
superava la sua, le aveva intimato di concludere e di procedere senza altri indugi all’esame finale.
Fedoroski sorrise intenerito, e pensò che il dopo sarebbe stato solo un pallido rivivere l’intensità
di quei momenti, e che nulla avrebbe mai più ridato ad Olga lo stesso fervore. Sospirò
rumorosamente.
Le sue dita ruvide girarono la cartolina. Sul verso la stessa mano aveva compilato una lista di
nomi:
Niklaus Kleinmünzen
Robert Hochnäsig
Stephan Feigermensch
Sophie Am Besten
Eduard Taubeohren
In quel momento l’infermiere che le prese i dati mentre giaceva distesa nell’anticamera della bara
sollevò il lenzuolo che la copriva e le guardò i piedi, che stavano diventando neri. Pensò che
entro breve la vita sarebbe uscita da quel corpo immobile e indifferente che qualcuno avrebbe
pianto e reclamato. Per un istante si rivide bambino, al tempo in cui sua nonna era moribonda nel
letto e le donne della famiglia si affaccendavano al suo capezzale bisbigliando a mezza voce
segreti di piedi neri e morte incombente. Poi guardò l’orologio e sorrise al pensiero del turno
ormai finito e del giorno di riposo che stava per cominciare, e se ne andò più leggero, gettando
un ultimo sguardo distratto al volto inespressivo della donna morente.
In un reparto al quarto piano, l’uomo con l’impermeabile e il cappello si svegliò. A poco a poco
gli occhi si abituarono a vedere nella penombra della camera. Fermo nel letto, recuperò in fretta i
ricordi e la capacità di pensiero. Sapeva perché era lì, per la missione da compiere e il malore che
lo aveva sorpreso. Un bel colpo di fortuna, in fondo: era entrato in ospedale con tutti i diritti di
un uomo bisognoso di cure.
L’agente Fedoroski sollevò gli occhi dal computer: non ci era voluto molto per trovare
informazioni utili sui nomi scritti nella cartolina. Dopo alcuni tentativi, la ricerca in rete lo aveva
indirizzato all’ufficio governativo che si occupava di risorse umane. Ebbe un gesto di stizza: non
sopportava l’insolenza di quell’espressione che sviliva gli individui riducendoli a merce, a capitale,
a forza lavoro. Non voleva che Olga fosse costretta a entrare in un mondo che disumanizzava le
persone trasformandole in materia prima. Immaginò che la donna senza nome che attendeva la
morte distesa in un letto d’ospedale fosse anche lei un’addetta alla cernita, all’assegnazione e allo
smaltimento di risorse umane a questo o a quel luogo del segmento produttivo che reggeva la
burocrazia statale, e non provò alcuna simpatia. Ma il lavoro andava fatto: egli doveva dare un
nome alla vittima, affinché qualcuno procedesse a riconoscerla e a decidere della sua vita o della
sua morte. Qualche minuto dopo fu in grado di comporre un numero di telefono. Una voce
maschile gli rispose.
La donna morente fluttuava in un mondo liquido di sogni e di pensieri. Ricordava la sua vita, gli
anni - dapprima molto lenti - di impegno e passione, le paure e le insicurezze nel lavoro che si
erano poi appianate grazie agli apprezzamenti e all’affetto che era riuscita a raccogliere attorno a
sé. Poi il cambio ai vertici dell’ufficio. L’arrivo di colleghi più giovani e sfacciati, che lei non
capiva e che si rifiutava di approvare. I dispetti, le umiliazioni, la denigrazione pubblica, in un
crescendo sinfonico da tragedia che aveva portato all’isolamento, alle minacce di licenziamento e
infine al trasferimento in un ufficio isolato dove lei, perdendo le radici e la forza interiore, si era
piegata ad un destino di infelicità che le aveva rovinato la vita.
All’ingresso dell’ospedale l’uomo con la cravatta gialla e blu ricevette una delegazione di cinque
persone – quattro uomini e una donna – che recavano sul viso un’espressione di stupore e di
sonno interrotto bruscamente. Al citofono rispose un infermiere indaffarato che accompagnò i
cinque visitatori in una sala per le visite d’emergenza, promettendo di ritornare entro breve con
informazioni più chiare di quelle che era riuscito a dare. Trascinando i piedi lungo il corridoio, fu
distratto dal suono di un campanello proveniente da una camera nell’ala opposta del reparto, e si
dimenticò dei cinque ospiti. Del resto, lui era nuovo lì: pochi giorni prima era stato trasferito
d’ufficio dall’ospedale pediatrico - dove aveva lavorato con gioia e dedizione - a causa
dell’antipatia che il nuovo caporeparto nutriva nei suoi confronti. L’ufficio delle risorse umane
non aveva voluto sentire ragioni, e lui si era dovuto rassegnare.
L’uomo con l’impermeabile e il cappello si alzò con cautela e si rivestì. In un fagotto raccolse
tutto ciò che aveva toccato, e uscì nel corridoio vuoto. Senza essere visto né sentito infilò un paio
di guanti di lattice, sottrasse un bisturi affilato e impugnò il martelletto rompighiaccio che aveva
portato con sé - Ricordo del Matterhorn, recava inciso. Si diresse verso il reparto in cui giaceva la
donna morente, e cauto e silenzioso iniziò la caccia, esplorando ogni stanza. Per qualche minuto
si trattenne nella camera 324, da cui riemerse con un respiro leggermente alterato per continuare
tuttavia la sua ricerca. L’infermiere distratto di turno nel reparto quella notte trascorse quasi
quarantacinque minuti a chiacchierare col malato che aveva suonato il campanello. Nella vita da
sano egli faceva il sindacalista, e l’infermiere non volle rinunciare all’occasione di raccontargli la
tremenda ingiustizia che lo aveva colpito.
Nessuno si accorse di niente fino alle prime luci dell’alba. Li trovarono riversi, accartocciati,
maciullati e intrecciati tra loro in un bagno di sangue, le ossa rotte e i tratti del volto ridotti ad una
poltiglia di carne. L’assassino aveva messo degli asciugamani lungo le fessure della porta per
impedire al sangue di colare nel corridoio.
A pochi metri da lì, il medico in servizio quella mattina notificava la morte della paziente senza
nome che nessuno aveva reclamato. Il medico fu attratto dall’impercettibile somiglianza della
defunta con la sorella maggiore che non vedeva da diciassette anni, e forse per questo notò un
lieve sorriso che increspava le labbra di un volto altrimenti inespressivo e inequivocabilmente
morto.
L’uomo con il cappello ma senza impermeabile uscì dall’ospedale, e nessuno gli fece domande.
Aveva eseguito le ultime volontà della sua Lena e risolto un’altra piccola faccenda personale.
Era tempo di cambiare vita.
Senza voltarsi, proseguì deciso: svoltò un angolo e scomparve per sempre.
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