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PAG. 2: Racconta la solidarietà: - Il cartellone più bello - Il disegno più comunicativo e gioioso PAG. 4: Oppotunità per tutti ALTS: Camper Donna PAG. 4: Storie vere Aiutando a nascere! PAG. 6 - 7: Guarire dalla dipendenza Le emozioni al giusto posto PAG. 8 - 9: Dignità e diritti La notte del lavoro narrato PAG. 10 - 11: Francesco Ascolta Onlus Solidarietà e speranza PAG. 11: Brevi e buone notizie PAG. 12: Speciale vincitori Concorso - “Shiella” - testimonianza - “Le strade della speranza” - racconto - “Una marina speciale” - racconto - “Il volontario silenzio” - racconto - “Blu come il futuro” - testimonianza - “Le strade della speranza” - poesia - “Liftorugi - Ho vinto” - racconto - “Il vento contro l’uragano” - racconto - “Diverse lande” - poesia - I disegni più simpatici e premio per l’impegno. In questo numero di “Aiutando” parliamo, ancora una volta, di solidarietà, di impegno verso il prossimo, di aiuto concreto a chi ne ha bisogno. Presentiamo, inoltre, una rassegna dei migliori racconti, disegni e poesie che hanno partecipato al concorso letterario e artistico “Racconta la solidarietà”, edizione 2015. Abbiamo ricevuto tanti contributi, provenienti da tutta Italia, sia da parte dei bambini sia da parte degli adulti, segno che il tema di quest’anno,“Le strade della speranza”, ha toccato un argomento che sta a cuore a molte persone, perché, soprattutto nei momenti di crisi, nasce la speranza di migliorarsi e di rendere migliore il nostro mondo! L’intento del concorso, come sempre, è stato quello di incoraggiare la cultura dell’amore, dell’accoglienza, del rispetto reciproco. Anche quest’anno, infine, invitiamo tutti a devolvere il 5 per 1000 al Pellicano, associazione salernitana che si adopera per la difesa della vita e che merita il nostro aiuto. Mirella Fuccella Giornale periodico a distribuzione gratuita di informazione sulle attività di volontariato e solidarietà. Numero 28 - Giugno/Luglio 2015, Registrato presso il Tribunale di Salerno in data 10/10/2006, registrazione N. 30/06. Sede: via Casa Greco, 1 - Coperchia (Pellezzano - SA); [email protected], www.gruppoaiutando.net Direttore: Mirella Fuccella Hanno collaborato a questo numero: Rita Biggio, Franco De Domenico, Manuela Masiello Il disegno in copertina è dell’artista Virgilio Colicino Grafica e impaginazione: Mirella Fuccella Ogni genere di collaborazione prestata ad “Aiutando” è a titolo gratuito. Il giornale è redatto a cura dell’Associazione di Volontariato “Comunicazione & Solidarietà”. Attività dell’associazione, unitamente alla pubblicazione di “Aiutando”, sono: la Concorso creazione di una rete di contatti tra lela associazioni di volontariato, “Racconta solidarietà” l’organizzazione di eventi di beneficenza, convegni, mostre, promozione della cultura della solidarietà. sezione bambini - anno 2011 L’Associazione per la Lotta ai Tumori del Seno (ALTS) di Salerno, all’interno del progetto “Stare bene: un’opportunità per tutti”, organizza “Camper Donna”, con visite senologiche gratuite, nella giornata di sabato 13 giugno, a Salerno presso il quartiere Matierno (in via Luciani, di fronte alla chiesa N. S. di Lourdes). Il camper donna è una struttura mobile attrezzata, dotata di idonea apparecchiatura scientifica, in grado di effettuare visite senologiche per la prevenzione e presa in carico di situazioni di rischio di tumore al seno. Le visite si svolgeranno il 13 giugno, in mattinata dalle ore 9.30 alle ore 13.30 e nel pomeriggio dalle ore 14.30 alle ore 16.30. E’ previsto, inoltre, uno spazio informativo, dalle 10.30 in poi, presso il Centro “Sacco”, per sensibilizzare tutta la cittadinanza sulla prevenzione (non solo del tumore al seno) e informare su nuovi stili di vita per la salvaguardia della propria salute. Il progetto è realizzato in collaborazione con le associazioni Oasi, Insieme per il Sociale e Sodalis CSV Salerno, nell’ambito delle “Pratiche di sussidiarietà e Percorsi di progettazione sociale”. L’ALTS, sempre all’interno del progetto “Stare bene: un’opportunità per tutti”, ha avviato inoltre la sperimentazione di due consultori di prevenzione ed educazione socio-sanitaria, destinati a tutta la popolazione. I consultori saranno aperti il lunedì dalle ore 16.30 alle ore 19.30, presso Casa Nazareth in Via Guariglia (zona Pastena) e il mercoledì dalle ore 16.30 alle ore 19.30, presso la sede dell’ALTS in via Renato De Martino numero 40/42 (zona Carmine). Il progetto prevede la realizzazione di visite specialistiche, tra le quali: - visite senologiche, che si svolgeranno nei giorni: mercoledì 10 giugno, dalle ore 16.30 alle ore 19.30, presso ALTS e sabato 20 giugno, dalle ore 9.30 alle ore 12.30, presso Casa Nazareth; - ecografie interniste, che si terranno mercoledì 17 giugno dalle ore 16.30 alle ore 19.30 presso ALTS. Per ulteriori informazioni, rivolgersi all’ALTS, telefonando al numero 329-7664902, oppure recandosi in sede (via Renato De Martino, 40/42 , Salerno) di mercoledì pomeriggio, dalle ore 16.30 alle ore 19.30. Oppure contattare l’associazione tramite email, scrivendo a: [email protected] . Sito internet: www.alts.it Elena ha 33 anni e, quando l’ho incontrata (circa 3 anni fa), aveva già due figli e una gravidanza in atto. Il marito purtroppo da poco aveva perso il lavoro e quindi vivevano faticosamente con un solo introito dato da un impiego part-time. “Questo figlio proprio non ci voleva, è il momento più sbagliato in assoluto e tutti mi consigliano di abortire”. Il solito nodo gordiano quasi impossibile da sciogliere. Il colloquio però va avanti e si crea una bella relazione tra noi. Mi rivolgo a lei con un sorriso: “Però questo piccolo bimbo che colpa ne ha?”. Questa è una specie di frase magica. Crea un bello scombussolamento a livello emotivo. Tanto che Elena scoppia in lacrime. “E’ proprio vero, lui non c’entra niente! Mi sento una cattiva madre”. A questo colloquio sono seguiti molti altri. Sapevo che la casa di Elena era gravata di un affitto molto dispendioso e oltretutto aveva ricevuto lo sfratto. Arriva una telefonata tipo S.O.S.: “Per la paura di restare in strada con i miei tre bambini ho chiesto di parlare con il sindaco. Mi hanno detto che ci sarebbe un appartamentino ma non possono assegnarcelo perché troppo piccolo per 5 persone. Ho risposto che sarebbe andato bene comunque, ma la replica è stata dura: - Non possiamo violare le norme vigenti. - Di fronte alla mia tenacia, all’assistente sociale si è come accesa una lampadina: Avremmo un appartamento adatto a voi, però tutto da ristrutturare. Occorrono 5.000 Euro e il Comune, proprio perché siete brava gente, ve ne potrebbe offrire 2.000. Ma Paola, ora dove posso trovare ciò che manca?”. Contemporaneamente alla telefonata, una signora aveva portato 2.000 euro di offerta. Si trattava quindi di completare la cifra. Richiamo immediatamente Elena: “Ci siamo! Ho per te tremila euro, di cui dovrai restituirne mille, un po’ alla volta, quando potrai”. L’assistente sociale non riusciva a credere a questa cosa, tanto che chiede a Elena di potermi telefonare: “E’ proprio vero ciò che mi sta dicendo la signora Bianchi a proposito della casa?” Alla mia risposta affermativa soggiunge: “Certo che siete proprio bravi! Non riesco a pensare come possiate fare ad aiutare tanta gente”. Elena si è data un gran da fare per trovare idraulico, elettricista, muratore, persone qualificate ma di poche pretese. E finalmente, un pomeriggio: “Paola, ho le chiavi e ho firmato il contratto. Mi sento una regina! Le bambine più grandi continuano a correre per la casa, che ha tre stanze, un soggiorno, una cucina e due bagni. Per non parlare dei balconi, dove si immaginano di poter fare mille giochi.” Sono una psicologa clinica e di Comunità, e in questi dieci anni di formazione ho collaborato in diversi ambiti: asl, comunità terapeutiche, psicologia ospedaliera, case famiglie a Salerno e a Roma. In quest’ultimo anno, per la conclusione della specializzazione in psicoterapia, ho avuto modo di fare un’esperienza di tirocinio presso il gruppo “Il Focolare”, sito a Salerno in via Pironti, che si occupa di dipendenza. E’ stata per me un’esperienza significativa, molto intensa. Insieme all’operatrice ho partecipato al gruppo, seguendo un approccio psicopedagogico, per dare sostegno alle famiglie con problemi di dipendenza. Si lavora con la persona dipendente secondo una prospettiva sistemico-familiare, che la considera all’interno di un sistema biosociale, nel quale la persona vive e lavora, e il comportamento specifico legato alla dipendenza viene considerato come parte di un sistema più complesso. Per questi motivi, l’obiettivo, che è il cambiamento dello stile di vita, non si può ottenere al di fuori del contesto familiare, che diviene fonte di ulteriore sostegno e anche di controllo di eventuali ricadute. Attraverso un percorso di educazione alle emozioni, in un primo momento si effettuano lavori di gruppo con persone che condividono lo stesso problema, la persona ha così la possibilità di venire a contatto con i propri vissuti ed emergono le emozioni più autentiche. L’etimo stesso della parola emozione (emovere ossia “muovere fuori”) richiama ad un movimento da dentro (noi) verso gli altri, dove la persona ha la possibilità di sperimentare e di condividere emozioni, che è la caratteristica umana alla base di qualsiasi esperienza di relazione, con sé, con gli altri e con il mondo. Segue, poi, un tempo di confronto delle stesse persone con le rispettive famiglie. Sia nel primo che nel secondo momento il gruppo favorisce lo sviluppo di relazioni, la nascita di legami identificativi, con altre persone del gruppo. Si viene così a creare un contesto di comunicazione sia verbale sia di tipo empatico, e di qui la creazione di una cultura comune e l’instaurarsi di potenti meccanismi trasformativi, che favoriscono il cambiamento dello stile di vita rispetto alla propria persona, alla famiglia ed ai contesti sociali che quotidianamente la persona frequenta (vive). Pertanto è un momento di riflessione, un itinerario che tocca la vasta gamma di emozioni, e coinvolge sia le persone utenti, sia gli operatori, in cui si affrontano e si rielaborano difficoltà familiari e problematiche nella gestione del rapporto con sé stessi e con gli altri componenti del nucleo familiare, con il fine di favorire in loro la consapevolezza e di “rimettere le emozioni al loro posto”. La filosofia che è alla base del mio metodo di lavoro, che adopero sia in gruppo, sia con i giovani, sia con i genitori e con i bambini, è la filosofia dell’okness, che è alla base del mio approccio psicoterapeutico, ossia ogni persona è ok, va bene per come è, a prescindere dal suo comportamento anche se disfunzionale. Ciò significa considerare ogni persona per il suo valore, tenendo conto che ha in sé la capacità di riscoprire le proprie risorse e potenzialità, la capacità di prendersi la responsabilità della propria vita e di cambiare in qualunque momento lo decida. In particolare, la persona che ha una difficoltà legata a una dipendenza ha necessità di rimettere le emozioni al giusto posto e di riscoprire il proprio valore, per poter ritornare all’autenticità di sé, senza appoggiarsi a sostanze. Deve riscoprire il senso di sé e il valore della famiglia, che credo sia fondamentale per ritrovare il benessere psicofisico e di relazione con gli altri. La dott.ssa Manuela Masiello è psicologa clinica e di comunità, iscritta all’Ordine Psicologi del Lazio. Si occupa di problematiche dei giovani, degli adulti e in particolare dei bambini e del sostegno alle famiglie. Effettua consulenze individuali e familiari. Con i bambini, per lo sviluppo delle potenzialità, struttura dei laboratori didattici creativi ed educativi a seconda dell’esigenza del bambino. Cell: 320.6474635; 342.0761469 ; e-mail: [email protected] Di solito, lavoriamo di giorno. La notte si dorme, o ci si dedica ai divertimenti tipici del sabato o di altri giorni, in genere prefestivi. Raro che di notte si parli di lavoro: invece, per una notte davvero speciale, di lavoro si è parlato, si sono visti filmati, si sono ascoltate musiche, interviste, interventi di ogni tipo sul mondo del lavoro. Nella bella cornice della Sala del Municipio, a Castel San Giorgio (Salerno), si è svolta di recente la “Notte del lavoro narrato”. E’ stata una serie di spettacoli, interventi, filmati davvero coinvolgenti, al di là delle aspettative. Grazie agli organizzatori e ai conduttori, abbiamo partecipato a un evento molto “frizzante” e vario. Ha iniziato la kermesse sul lavoro la bella testimonianza di Antonio Zambrano, ebanista, artista di grande esperienza dell’intaglio su legni pregiati. Il maestro Zambrano, alla bella età di 92 anni e mezzo, ogni mattina si fa accompagnare alla sua bottega, progetta e lavora nuove creazioni. Ha raccontato tante cose sulla sua professione: gli inizi già da ragazzino, come apprendista a imparare il lavoro dal mastro artigiano; la tenacia, la creatività, il senso del dovere e del lavoro fatto bene; l’invito ai giovani ad avere spirito di sacrificio, a realizzare qualcosa con le proprie forze. Il veterinario Giuseppe Velluto ha narrato, da un’altra prospettiva, il lavoro appassionante di chi è tutti i giorni, spesso anche di notte, alle prese con i nostri “amici a quattro zampe” o “a due zampe”. Ha rievocato in particolare i propri inizi, quando ha dovuto assistere una mucca partoriente, giovane fresco di studi, mostrando grande dedizione al lavoro e il significato dell’amore per gli animali. Bella musica folk poi, che celebrava le lotte operaie e contadine, suonata dalla Compagnia Daltrocanto. Con un sound melodico ma anche aggressivo e graffiante, i sapienti musicisti di Daltrocanto hanno suonato canti sull’emigrazione in Svizzera, sulla tragedia di Marcinelle in Belgio; il lavoro che a volte diventa sofferenza anche grave, ma che esprime solidarietà, voglia di migliorare la vita, condivisione. Altri interventi hanno riguardato il lavoro degli immigrati, delle donne, dei giovani. Il progetto è nato da un’idea del prof. Vincenzo Moretti, dell'Università di Salerno, che scrive sul Sole 24 Ore. Tutta la manifestazione si è potuta vedere e ascoltare in str eaming sul sito: www.lanottedellavoronarrato.org. Chi vuole, su questo sito può trovare tanti interventi, immagini, video, testimonianze. “Ci piace l’Italia (...) che dà più valore al lavoro e meno valore ai soldi, più valore a ciò che le persone sanno, e sanno fare, e meno valore a ciò che hanno. L’Italia che crede nel lavoro come identità, dignità, diritti, responsabilità, autonomia, futuro e dunque non lo considera soltanto un mezzo, una necessità, ma a n ch e u n f i n e , u n a possibilità”. (Testo tratto dal sito lanottedellavoronarrato. org). Lo scorso 4 maggio si è svolta presso il centro Sociale a Bellizzi una serata di beneficenza dal titolo “Solidarietà e Speranza”, organizzata dall’Associazione di volontariato Francesco Ascolta Onlus, in collaborazione con l’Associazione di volontariato Comunicazione & Solidarietà, in favore di profughi minori sbarcati a Salerno e accolti a Bellizzi presso la comunità per minori Casa di Kim. Nella stessa serata ci siamo attivati anche per sostenere due famiglie di Salerno e di Battipaglia, che hanno perso il loro tetto a causa di uno sfratto esecutivo e una terza famiglia di Bellizzi, che è stata colpita da un improvviso lutto, venendo a mancare l’unico componente in grado di sostenere economicamente la famiglia L’evento si è svolto in un clima di grande solidarietà e commozione, poiché erano presenti sia le famiglie da aiutare sia i minori profughi. Una delle famiglie aveva due bellissime gemelline di sei mesi, ed ora si trova presso l’associazione Karol Woityla a Campagna, che ha messo a loro disposizione una casa. Per l’altra famiglia si è attivato il parroco di Battipaglia Don Ezio Miceli fornendo loro un’abitazione. Alla serata erano presenti tante persone generose ed associazioni amiche dal cuore grande, che hanno donato con profonda generosità sia offerte per le famiglie sia beni per i minori. Tra loro l’Associazione Nazionale Andos, l’associazione culturale La Tua Idea, l’associazione Internazionale E ti porto in Africa, la ludoteca Patapumfete, e tanti cari amici come Rosalba Frasca, Assunta Germano, Vincenzo Nobile. L’Associazione Francesco Ascolta, che ha s e m p r e prediletto il lavoro in rete, è stata presente all’evento “Incontriamoci, Associazioni e Territorio”, organizzato dalla Fidapa di Battipaglia presso l’Istituto Ferrari. Presenti decine di associazioni che operano in Italia e all’estero. Di recente, sempre con la Fidapa, ha partecipato, presso la parrocchia San Gregorio VII di Battipaglia, alla commemorazione di Giovanni Palatucci morto in un campo di sterminio e per il quale è in atto un processo di canonizzazione. Il 20 maggio l’associazione è stata con il Gruppo Logos e altre realtà sociali presso il teatro Arbostella a Salerno per un’iniziativa contro l’alcolismo. La rappresentazione teatrale e le testimonianze di persone ex alcoliste hanno reso ancora più nota questa brutta dipendenza e hanno fatto luce sul lavoro eccellente degli operatori del Gruppo Logos. R.B. Per le Organizzazioni di Volontariato del Vallo di Diano nasce l’opportunità di avviare percorsi di recupero per persone in esecuzione penale, grazie alla convenzione sottoscritta da Sodalis CSVS con l’U.E.P.E. di Potenza e Matera e il Piano Sociale di Zona S10 di Sala Consilina. La convenzione prevede percorsi di riparazione, attraverso la partecipazione alle attività delle organizzazioni di volontariato, dirette al sostegno e al reinserimento sociale di persone in esecuzione penale oppure soggette a seguito di ordinanza dell’Autorità Giudiziaria. Le associazioni interessate devono essere iscritte al Registro Regionale del Volontariato e avere sede legale e/o operativa nei Comuni afferenti al Piano di Zona S10. I comuni sono: Atena Lucana, Auletta, Buonabitacolo, Caggiano, Casalbuono, Monte San Giacomo, Montesano sulla Marcellana, Padula, Pertosa, Petina, Polla, Sala Consilina, Salvitelle, San Pietro al Tanagro, San Rufo, SantíArsenio, Sanza, Sassano, Teggiano. Le OdV possono inviare la richiesta di partecipazione entro il 15 giugno 2015 a mezzo posta elettronica certificata [email protected], a mezzo fax 089.79.20.80 o a mano presso lo Sportello del Vallo di Diano a Sala C o n s i l i n a . Pe r i n f o r m a z i o n i : www.csvsalerno.it L’Associazione di volontariato Comunicazione & Solidarietà ha organizzato, quest’anno per la settima volta, il concorso letterario e artistico Racconta la solidarietà. Lo scopo è favorire la diffusione della cultura dell’amore per il prossimo e sensibilizzare le persone, in particolare i giovani, su temi importanti, come il rispetto dei diritti umani, la dignità della vita, l’accoglienza dell’altro. Il tema di quest’anno è stato: Le strade della speranza. La sezione adulti ha visto la partecipazione di racconti e testimonianze giunti da tutta Italia, di cui i migliori saranno premiati in una premiazione pubblica, che si terrà sabato 13 giugno, con inizio alle ore 18.00, presso la Cappella del Rosario della Chiesa di San Domenico, nel centro storico di Salerno. Per i vincitori ci saranno medaglie e pergamene e premi per i bambini. Oltre ai racconti ed alle poesie che pubblichiamo in queste pagine, ce ne sono anche altri, che ricevono un attestato di merito, per essere stati segnalati fra i migliori e che sono sono stati pubblicati sul nostro sito web: www.gruppoaiutando.net. Un grazie particolare va a tutti i membri della Giuria letteraria, che come sempre hanno offerto gratuitamente il loro tempo e la loro professionalità per la buona riuscita del concorso. I racconti e le testimonianze sono stati giudicati in forma anonima: i giurati non conoscevano i nomi dei partecipanti. Nella sezione bambini hanno partecipato alcune scuole elementari e medie di Salerno, una scuola di Verona e una di Quartu Sant’Elena (Cagliari). Ringraziamo calorosamente i bambini e i ragazzi che hanno dimostrato molto impegno e ringraziamo gli insegnanti che hanno aderito a questa edizione del concorso, offrendo ai propri alunni uno spunto per riflettere sul tema della speranza, testimoniando che, anche in tempi difficili come quelli in cui viviamo, nei quali i valori più profondi ed essenziali sembrano essere tramontati, c’è ancora nel cuore il desiderio di sperare nel futuro, di conservare l’amore al prossimo, di avere fiducia nella vita. LA GIURIA LETTERARIA Prof. Franco De Domenico (bibliotecario, scrittore) Dott.ssa Annalisa Miceli (poetessa, scrittrice); Prof.ssa Michela Vigilante (insegnante); Dott.ssa Caterina Leone (ricercatrice universitaria); Prof.ssa Daniela Vito (insegnante); Dott.ssa Manuela Masiello (psicologa); Dott. Ugo Reggiani (sociologo). Questa bellissima testimonianza arriva diritto al cuore raccontando la gioia del donare. James è davvero fortunato, perché, grazie all’esempio di sua sorella, conosce da vicino il significato della parola solidarietà e sa che, per chi ama il prossimo, la vita è più bella e più felice. Mi chiamo James, sono un bambino felice: ho undici anni, vado a scuola, frequento la prima media a Verona. In questi giorni abbiamo ospitato a scuola alcuni volontari, abbiamo conosciuto Niki che ha qualche difficoltà a parlare e muoversi... e abbiamo parlato di solidarietà, ma io la conoscevo già, questa parola! Sì, perché mia sorella me la insegna tutti i giorni... si chiama Shiella e lavora in una casa di riposo per anziani. Shiella, insieme ai suoi amici, ha inventato un gruppo che aiuta gli altri scambiandosi le cose che servono: abbigliamento, giocattoli e vestitini per i bambini. Infatti tutti i sabati, dalle 9 alle 12, chi ha bisogno di qualcosa viene a prendersela e chi ha qualcosa da dare, la porta a casa mia... Mia sorella, quando finisce il suo lavoro alla casa di riposo, va a stirare gratis per una signora anziana e se le resta tempo, il sabato sera, va a tagliare le verdure per la mensa dei bisognosi. Shiella sorride sempre, non è mai stanca e dice che il mondo è bello! Perché non dovrei crederle? Questa favola, scritta con stile gioioso, lineare e fantasioso, coglie la speranza in ogni suo aspetto e sorprende per la forza morale del messaggio trasmesso: chi perde la speranza, smette di amare, abbandona la fede e la capacità di andare incontro agli altri. È necessario, allora, l’esempio del bene, perché chi è nell’errore ritorni in sé e decida di cambiare vita, per dare nuovamente spazio alla speranza. Un giorno una bambina camminando lungo la strada arrivò in un villaggio. Le case erano tutte grigie, nel villaggio non c’erano né fiori, né animali, né alberi, né voci allegre. Facendosi più attenta, la bambina notò che in ogni casa c’era gente triste che si disprezzava. Nella prima casa c’era una famiglia che litigava furiosamente, senza ascoltare chi aveva opinioni migliori per come fermare quei litigi insensati. Nella seconda casa c’era gente che non si amava e non erano più uniti, come dovrebbe essere una vera famiglia, ognuno viveva da solo senza l’amore verso il prossimo. Nella terza casa invece non c’erano simboli religiosi e nessuno credeva più in Dio e in Gesù. In questa casa c’era tanto odio e freddo che riempiva tutto. Nella quarta casa tutti non si rispettavano l’uno con l’altro e pensavano solo a se stessi. Nella quinta casa pensavano solo ai soldi e ad avere sempre più cose belle e costose. Nella sesta casa c’erano due vecchietti ammalati e ormai da tanto tempo nessuno andava a trovarli. La bambina nel vedere queste cose ammutolì e andò in preda alla tristezza. Decise così di tentare di portare l’amore, la gioia, la pace, la tranquillità e il calore in ogni casa del villaggio. * segue Andò nella prima casa dove incontrò un bambino molto triste perché i suoi genitori stavano litigando da parecchi giorni. Così la bambina lo portò in un altro villaggio dove le case erano tutte colorate e tutti si amavano e si aiutavano senza litigare. Il bambino così tornò indietro e convinse la sua famiglia a non litigare più. La bambina, che si chiamava Speranza, andò nella seconda casa dove ognuno viveva per conto suo. Lì incontrò una ragazza e Speranza la condusse, attraverso una strada piena di alberi e di cinguettii di uccelli, in un altro villaggio pieno di fiori e animali; là giocavano tanti bambini tutti insieme, aiutandosi a vicenda. La ragazza decise di avviarsi verso la sua casa e, arrivata, raccontò quel che aveva visto e convinse la famiglia ad amarsi di nuovo e a vivere insieme e uniti. In seguito Speranza andò nella terza casa, dove non si credeva più in Dio e in Gesù. Là incontrò due genitori. Speranza gli fece percorrere una strada che si chiama strada della fede. La strada era piena di luce e di gente felice. Quella strada portava ad un altro villaggio dove tutti pregavano e credevano in Dio ed erano sereni e tranquilli. I due genitori, tornando indietro, gridarono che si doveva credere in Dio, perché con lui si è più forti e si prendono decisioni migliori. Speranza poi andò nella quarta e quinta casa e portò gli abitanti di ogni casa in un villaggio diverso. Quando Speranza andò nella sesta casa e trovò i vecchietti, corse a prendere tanti bambini da un villaggio vicino. I bambini, abituati a giocare con i propri nonni, seguirono Speranza che li condusse dai vecchietti. I bambini giocarono tutto il giorno con i vecchietti e fecero loro compagnia, portando tanta allegria in quella casa. Da quel giorno quel villaggio cambiò: tutti si rispettavano, le case diventarono colorate e ricche di fiori e allegria. Le due foto in queste pagine rappresentano il cartellone realizzato da Valeria Canzolino, che vince anche per il miglior cartellone. La foto a colori è a pag. 2 del giornale. Altre immagini sul sito www.gruppoaiutando.net Il racconto mette in scena personaggi vivi e verosimili, alle prese con la lotta per la vita, e propone valori molto positivi di speranza e di condivisione. Lo stile è sobrio, veloce ed efficace. Ne risulta una narrazione affascinante, che fa riflettere sul senso della vita e sulla necessità di donare se stessi al fine di trovare la vera felicità. Quel mattino d'aprile non avevo proprio voglia d'andare a scuola, perciò andai in “marina”. Presi l’autobus come tanti miei compagni d’istituto, ma non riuscivo a parlare con nessuno. Pensavano certamente che stessi male. Nauseato, scesi alcune fermate prima della scuola e mi avviai verso i giardini pubblici, dove mi sedetti su una panchina all’ombra di un pino. Un istante dopo un signore abbronzato con la barbetta bianca si accomodò proprio accanto a me. Osservai di sottecchi il suo volto. I suoi occhi chiari e vivaci mi mostrarono una forza interiore non comune. “Stanco di andare a scuola?” mi chiese senza preamboli, illuminandosi di un sorriso. “Non proprio. - mormorai seccato. Stavo per rispondergli che si facesse i fatti suoi; ma non so cosa mi prese e brontolai - “Non so a cosa serva studiare, fare compiti, prepararsi alle interrogazioni...”. Emise un sospiro, e uno strano brivido attraversò la mia schiena. “Ho passato anch’io quello che stai provando tu. continuò tranquillo - Ad un certo punto della vita mi domandai che senso avesse tutto ciò che facevo. Ero un po’ più grande di te, però avevo gli stessi problemi a scuola, a casa, con gli amici... Volevo cambiare, buttare via il senso di oppressione e di inutilità, di fare cose che non capivo, finché...”. Si trattenne un po' e chiese: "Vuoi sentire la mia storia?" Risposi ammaliato: “Ho tutto il tempo che voglio...”. Allora raccontò: “Da ragazzo sognavo di fare il pilota d'aerei, ma non mi piaceva studiare. A scuola me la cavavo a malapena e andavo avanti vivacchiando. Un giorno incontrai Renato, un giovane dal portamento atletico e spigliato, con lo sguardo magnetico, che sprigionava gioia ed entusiasmo. Non capivo dove trovasse tutta quella forza e fiducia nella vita. Mi disse che era stato in Africa, dove aveva costruito scuole ed ospedali. Addirittura mi chiese se volevo andare con lui a provare un'esperienza anche solo di un mese. Galvanizzato dal suo fascino, accettai con entusiasmo. A casa riuscii a convincere i miei genitori, che mi aiutarono per le vaccinazioni, i documenti e mi pagarono persino il biglietto d’aereo. Ai primi di settembre par tii dall’aeroporto di Venezia, via Bruxelles, per Duala in Camerun, dove atterrai dopo sette ore di volo. Fui accolto da un opprimente clima afoso, ma la vitalità di Renato m’incoraggiò a sopportare tutto per continuare la mia avventura con lui. Un’auto guidata da un volontario ci aspettava e ci portò fin dentro il quartiere. Le strade erano di terra battuta, cosparse di buche. Ero sempre più preoccupato: il traballante fuoristrada sembrava voler scivolare nel fosso. Invece Renato, più si avvicinava al quartiere di Oyack, più era felice. La gente lo riconosceva e lo salutava con affetto e rispetto. Fui alloggiato nella casa dove abitavano i volontari, in cima ad una delle tante colline. Ci vollero alcuni giorni per adattarmi al caldo e al ritmo lento della vita. Ben presto non ci pensavo più e seguivo Renato nelle sue attività in giro per il quartiere. Era responsabile di sei scuole materne e passava spesso a vedere come procedevano. Se mancava materiale didattico (quaderni, matite, penne, gessi, colori...) se le maestre avevano qualche problema, o c’era da aggiustare o da comperare qualcosa , si faceva in quattro per rimediare, e un po’ lo aiutavo anch’io. Nella scuola primaria di cui era fondatore e direttore, insegnava pure. Io stavo nel suo ufficio a sbrigare le pratiche. C’era molta burocrazia, ma non mi annoiavo, perché succedeva sempre qualcosa di nuovo e di strano, come visite di capi-villag gio, nuovi maestri che chiedevano lavoro, o scimmie da scacciare... Le aule erano delimitate da un muretto alto un metro e mezzo, su una parete di assi la lavagna consisteva in un foglio di legno compensato dipinto di nero. Un giorno Renato mi chiese di entrare in classe e mi presentò a una quarantina di bambini come suo amico e collaboratore. Erano sempre silenziosi e attenti, pronti a copiare ciò che lui scriveva alla lavagna, rispondevano correttamente quando chiedeva loro qualcosa. Alla fine della mattinata regalai loro una caramella ciascuno. Mi ringraziarono con uno splendido sorriso e, quando uscii, formavano gruppetti con altri bambini. Stavano spezzando la caramella in due o quattro parti per condividerla con loro. Renato era anche responsabile di un dispensario, cioè un piccolo ospedale nel quartiere di Soboum con una decina di infermiere di varie provenienze. Esse potevano capire e parlare con le persone anziane provenienti da tutte le parti del Paese. Il suo compito principale era di far arrivare i medicinali e ottenere contributi umanitari perché la gente pagasse solo un prezzo simbolico. Allo stesso tempo seguiva anche la costruzione di un altro ospedale, in periferia, a Ndog-Passi II. Notai che gli operai erano attenti alle sue osservazioni e suggerimenti, *segue anche davanti a un esperto capocantiere. Capivo che lui possedeva la visione umana dell’ambiente e dei bisogni delle persone. Una domenica pomeriggio i giovani del quartiere organizzarono una “kermesse” con giochi a pagamento per tutti, piccoli e grandi. Renato mi disse che il ricavanto doveva servire per l’acquisto di strumenti speciali e il salario dei maestri che restavano a scuola il pomeriggio per aiutare i bambini di strada. Pur troppo, a causa della morte per Aids dei genitori, dei fratelli e sorelle più grandi, molti di questi venivano sfruttati da gente senza scrupolo, ed era necessario fare qualcosa per loro, in modo da tirarli fuori dalla strada. Fui sorpreso della generosità di questi giovani, che, pur non avevendo un lavoro ed essendo poverissimi, s’inventavano questi giochi per il bene dei più sfortunati. Poi Renato mi chiese la fotocamera per una foto particolare. C’era una ragazzina con un bambino in braccio. Si vedeva che era a disagio, perché se lo passava da un fianco all’altro. Fece la foto e poi si avvicinò, prese la manina del bambino e lo guardò con attenzione, poi chiese: “Tuo fratello piange, specialmente la notte?” “Eh sì, signore, piange molto...” rispose. “Josephine... - le disse serio e preoccupato Tuo fratello è malato. Ha la filaria. Bisogna portarlo subito all’ospedale e fargli le analisi. Chiama la mamma e andiamo subito”. Durante il tragitto mi spiegò il motivo di tanta urgenza. Bisognava iniziare la cura al più presto, perché questa malattia tropicale sviluppa una verminosi sottocutanea, che tende a sfogare vicino agli occhi e, se non si interviene subito con le medicine adatte, spesso i bambini diventano ciechi. Giunti in ospedale, le analisi confermarono la diagnosi e subito iniziò il trattamento, che doveva durare almeno dieci giorni. Infatti due settimane dopo Josephine arrivò nell’ufficio della scuola col fratellino in braccio e si vedeva bene che era guarito. Si avvicinò a Renato e gli porse una manciata di arachidi dicendogli: “Prenez, cela est pour vous...” (Prenda, questo è per lei). “E’ il tuo pranzo. affermò Renato - Non lo voglio ... ho già mangiato...”. Ma si percepiva negli occhi imploranti della ragazza la pressante richiesta: “Accetti questo mio dono. Mi dia la gioia di farle un regalo, come lei l’ha fatto a mio fratello!” Vidi gli occhi di Renato luccicare di commozione di fronte a tanta riconoscenza e generosità. Così non rimasi lì solo per un mese, bensì per sei anni. In quel momento avevo trovato la mia strada e, quando Renato fu rimpatriato per un grave attacco di malaria, io portai avanti il suo lavoro. Caro ragazzo mio, vedi come può cambiare la vita, quando la speranza viene da persone come queste!” Fui profondamente scosso dal suo racconto. Non incontrai più quell’uomo, ma tornai a scuola motivato e ben deciso ad impegnarmi al meglio, perché volevo anch’io provare la gioia e la soddisfazione di trasformare la mia vita in un dono per gli altri. Il racconto, scritto con notevole analisi psicologica ed esistenziale, mette a confronto due realtà apparentemente distanti: il costante lavoro d’ufficio di tutti i giorni e una misteriosa missione di volontariato in India. Ne scaturisce una narrazione piana e delicata, con personaggi molto reali e umani, e con stile poetico ed evocativo. Ho un collega di lavoro molto schivo di carattere, un ragazzo del Sud, decisamente atipico vista la sua provenienza e la proverbiale dinamicità, fisica e verbale, dei conterranei. Nessun brio particolare in lui, semmai una riservatezza profonda che sconfinava in una sorta di latente indifferenza. Nutrivo stima verso la sua persona, pur non conoscendola bene e non p a r l a n d o c i quotidianamente. La sua timidezza e i suoi silenzi, a volte, inibivano i miei tentativi di approcciare discorsi di circostanza tantomeno quelli più approfonditi. Professionalmente si distingueva, senza clamori o enfasi tipiche di altri nostri colleghi, per la concretezza e per la disponibilità a risolvere problemi o dubbi lavorativi. Il suo curriculum si era arricchito anche di un titolo importante, quello di ingegnere, raggiunto nonostante l’impegno lavorativo quotidiano non indifferente. Ingegnere... un tipo pragmatico, tecnico, legato a un ineluttabile materialismo moderno; freddo, preciso, poco incline alle sfaccettature e ai rivoli del sentimento. Questo poteva essere lo stereotipo più prossimo al mio collega. Alcuni periodi dell’anno si allontanava dall’ufficio, per settimane, senza avvertire la stragrande maggioranza dei suoi colleghi. chi ti narra per filo e per segno anche le proprie informazioni più intime e non richieste. Lui preferiva confidarsi con poche persone. Io non ero tra quelle e, infatti, d’improvviso notavo la sua mancanza e mi chiedevo dove fosse andato per tutti quei giorni. Era una mia semplice curiosità, non pretendevo certamente di invadere la sua sfera personale, tant’è che non ponevo domande ai colleghi che ritenevo gli fossero più vicini; immaginavo che ottenesse delle “aspettative” *segue dal nostro ente, per curare la propria professionalità tecnica e per incrementare studi e curriculum. Quando il lavoro in ufficio è considerevole, ti impedisce anche di approfondire le relazioni sociali più naturali e ti distrae da confidenze e racconti che potrebbero contribuire ad accrescere la personalità. Il lavoro rischia così di trascinarti in un budello di pregnante superficialità nei confronti del prossimo di turno, il collega e, conseguentemente, verso il prossimo poco più distante, quello della società che ti è intorno, e quello ancora più lontano, il disagiato, il povero, il disabile. Mi fa rabbia ammettere queste parole e scriverle, perché anche se non affogato completamente in questo isterico vortice di scadenze, pratiche e burocrazia, rimanevo colpito dall’altrui totale asservimento e dal mio parziale tentativo di dar valore agli altri aspetti della vita. Era questo solo uno fra i milioni di casi simili in un paese come il nostro, distratto da ingannevoli messaggi pubblicitari, dall’ossessione dell’esteriore, stordito dai telefoni cellulari, dalle stupidaggini televisive e dai capricci dei calciatori miliardari. E l’ingegnere? Lui sembrava poco disturbato da quel caos lavorativo, chissà... forse estremamente ed esclusivamente interessato ai propri sviluppi professionali esterni o forse rinfrancato da quelle sue pause lavorative di alcune settimane. Un giorno in ufficio mi giungeva, inaspettato, un messaggio di posta elettronica, inviato proprio dall’ingegnere. Non ero l’unico destinatario di quel messaggio bensì era rivolto a una moltitudine di indirizzi di posta elettronica. Nel testo il mio collega avvertiva di essersi appena collocato in “aspettativa” e di essere pronto, da lì a pochissimi giorni, a partire per la sua periodica missione di volontario in India; chiedeva, altresì, che chi volesse donare qualcosa per la povera gente indiana lo facesse in fretta prima della sua partenza. La sorpresa era totale. Ecco cosa si nascondeva dietro le assenze di questo collega: l’attività più nobile, quella del volontario, per giunta in un paese lontano, dove il volontario è tale per tutta la giornata, non per alcune ore, senza retribuzione, rinunciando a quella del nostro ufficio. La discrezione del mio collega era veramente notevole, al punto da nascondere questa generosa attività. Vallo a spiegare ai tanti personaggi famosi, ai VIP che sbandierano ai quattro venti il loro impegno sociale consistente nel cedere un proprio cimelio per raccogliere fondi! L’e-mail che mi era giunta era la più importante che mi fosse arrivata negli ultimi tempi, a differenza di quegli stupidi messaggi che ci scambiamo quotidianamente utilizzando Internet, o quei martellanti (e spesso disgustosi) messaggi pubblicitari che invadono le nostre caselle di posta elettronica. Il mio collega sarebbe tornato tre mesi dopo, dimagrito di qualche chilo, tra il saluto poco più accorato del solito da parte della maggioranza degli altri colleghi, ben più interessati al quotidiano nevrotico svolgimento di pratiche e incartamenti. L’insegnamento espresso dal discreto comportamento del mio collega era veramente di alta levatura. Mi preparava, innanzi tutto, a non generalizzare, a considerare che dietro un’apparente figura o titolo c’è una persona, e sì perché l’apparenza inganna veramente, seduce e stordisce il mondo moderno, ma non possiede l’uomo realmente probo. Dietro colui che può sembrare un figlio del nostro sistema moderno può nascondersi un missionario della bontà e, viceversa, nel volontario più strombazzante si può nascondere un interesse poco nobile. La discrezione è virtù assai da lodare, forse in questo caso da limitare, se non altro per una sorta di buona pubblicità, di coinvolgimento di altre coscienze forse solo intorpidite e pronte invece a scatenarsi in una sana emulazione. Ci descriveva le sofferenze della povera gente indiana e ce ne rendeva partecipi, lui sì che le aveva vissute e ne portava anche i segni nel fisico molto esile e negli occhi provati. Lo sguardo era però quello di chi era pronto a tornare di nuovo in India, anche il giorno dopo, tra quella gente per nulla inebetita da progresso, tecnologia e burocrazia. L’uomo agisce per un naturale senso di egoismo, di soddisfacimento dei propri bisogni, da quelli più vitali a quelli più superflui; è nella natura umana. Lo stesso uomo deve però ricordarsi che la propria azione non è riconducibile esclusivamente al tornaconto personale, che ci può essere uníazione mossa anche dalla gratuità del gesto stesso. Si può vivere anche per un ideale, per contribuire a soddisfare i bisogni di chi ti è accanto. La gratuità del gesto... quale motto è più alto di questo, del muoversi nell’assoluta dedizione a un gesto a fondo perduto, dal quale ricavare “solo” il sorriso di un bimbo prima in difficoltà. Caro collega ti formulo la mia più grande ammirazione. Complimenti. E io che ti credevo in una sala ipertecnologica di un’assetata multinazionale, tra telefoni cellulari, cravatte, doppio petto e ventiquattrore di pelle. Invece ti trovavi tra case approssimate, tra vicoli senza cemento e gente semplice ammantata di candide vesti bianche. Complimenti, perché la voce e le urla di q u e l l a p ove r a g e n t e e n t r ava n o prepotentemente nelle mie orecchie, quanto più forti di un martellante messaggio pubblicitario, forse perché accompagnate dal tuo discreto silenzio e da quelle tue poche e misurate parole, frutto di musica lontana, di genti lontane, di un altro modo di vivere. Complimenti al benefattore venuto da lontano, a colui che non vende fumo né fucili, armato della gloria e della gioia della vita, anche di quella che in Occidente può apparire di basso prezzo. E, invece, ha l’alto prezzo di chi non monetizza miseria e dolore, ma attende per un anno intero il regalo più bello: l’arrivo dell’angelo, l’ingegnere che dal suo aereo piomba sugli amici impazienti. Il tributo più grande a chi porta negli occhi lo sguardo dei bambini felici, del suo arrivo, delle sue attenzioni, dei giocattoli scartati dai nostri bambini viziati per portarli a chi ne ha visti pochi. L’omaggio più sentito a chi, quindi, abituato a studiare dati, numeri e calcoli, della propria vita non ha fatto un calcolo personale. Grazie Michele. Questa testimonianza apre una finestra viva e concreta sulla disabilità giovanile, vista con l’occhio della quotidiana normalità. Ragazzi come gli altri e al tempo stesso anche “risorse sociali”, in grado di arricchire tutti con le proprie capacità e competenze, ma soprattutto desiderosi di progettare con speranza e credere nel futuro. Sono le 8.30 e finalmente siamo arrivate alla stazione metro B di Piramide. Io e la mia allieva del quinto anno della scuola superiore scendiamo e, con una certa ansia, cerchiamo di capire dalla mia mappa sfocata sullo smartphone dove dobbiamo andare. Siamo dirette al centro di formazione professionale di Roma “Simonetta Tosi”, che offre corsi sia per i normodotati sia per i ragazzi con disabilità. L’attesa è tanta, perché questo centro dà la possibilità ai ragazzi disabili di effettuare un orientamento e in seguito un tirocinio presso altre strutture, utile al loro inserimento lavorativo. E’ la prima volta che visito un centro di formazione e penso che finalmente qualcosa di concreto si stia attuando anche per i disabili. Infatti anche loro, proprio come tutti, hanno fame di speranza e di futuro, vogliono sentirsi utili e impegnati nella loro quotidianità, sognano di lavorare e di essere indipendenti. La scuola ha il compito non solo di accogliere chi ha una disabilità, ma è anche un ponte verso la società, verso il mondo esterno, è un luogo educativo di conoscenza di sé di preparazione alla vita, è promotrice di speranza e di futuro. La mia allieva, Giada, è un po’ impaurita, perché il nuovo spaventa tutti, ma allo stesso tempo curiosa di lasciarsi coinvolgere in questa nuova avventura. Entriamo in una struttura spaziosa ed accogliente e subito ci colpisce il sorriso e l’armonia di tutto il personale. Ci fanno entrare nell’aula blu, dove altri ragazzi degli ultimi anni con i loro docenti attendono l’inizio del corso. Anche loro sono piuttosto tesi e intimiditi dalla situazione, tant’è che, ad una mia domanda lanciata per rompere il ghiaccio, nessuno risponde. I banchi e le sedie sono disposti ad U, per cui tutti guardano tutti: abbiamo la possibilità di studiarci con lo sguardo, le ragazze “adocchiano” con una moderata intensità i ragazzi e viceversa. Nell’aula c’è già la prof.ssa responsabile del corso, che fa presentare tutti chiedendo il nome e la scuola di provenienza ed illustra ai presenti lo svolgimento del corso: sette incontri fino a maggio al centro per iniziare un tirocinio da settembre in poi. Io, che sono una ossessivo-compulsiva della scrittura, inizio a prendere appunti. Non tutti saranno ammessi al tirocinio, spiega, ma potranno, dopo il diploma di maturità, seguire dei corsi di consolidamento o acquisizione di certe abilità, per poter eventualmente iniziare il tirocinio l’anno successivo. Queste prestazioni lavorative presso le strutture sono erogate dai ragazzi in modo gratuito, ma sono utili sia a mettersi in gioco, acquisendo nuove competenze, sia a farsi conoscere dalla struttura che li accoglie (mensa scolastica, supermercato, ristorante, ufficio pubblico), tanto da offrire opportunità di lavoro retribuite in seguito. Quest’ultima situazione si è già verificata varie volte, tutto sta ad affrontare con senso di responsabilità il lavoro svolto e a trovarsi al posto giusto nel momento favorevole. Durante i sette incontri gli allievi faranno dei test di comprensione e attitudinali, in modo da poter essere indirizzati verso un tirocinio idoneo alle loro potenzialità. La mia allieva è entusiasta, mi lancia un sorriso; per capirci ci basta uno sguardo, perché andiamo molto d’accordo. Dopo un po’ di tempo qualche allievo inizia a distrarsi col cellulare, ordinaria amministrazione... Ciò che mi piace di questi ragazzi è proprio la loro “speciale normalità”, il loro essere adolescenti come gli altri combinato ad una grande umanità. Durante la ricreazione io e la responsabile ci allontaniamo per lasciarli socializzare un po’; al nostro ritorno scopriamo che si sono già scambiati i numeri di telefono e che stanno nascendo delle amicizie, tant’è che alcuni iniziano a cambiarsi di posto per rafforzare le alleanze formatesi. Questi ragazzi sanno stare con gli altri molto più di noi, non conoscono pregiudizi, non ergono barriere, il loro modo di amare è puro: è formativo osservare i loro comportamenti, perché hanno tanto da insegnarci. Verso le 12.00 la responsabile invita tutti ad uscire dall’aula blu per visitare le strutture del centro. Iniziamo questo piacevole percorso e, oltre alle aule ispirate ai colori occupate dagli allievi dei corsi precedenti, ciò che mi colpisce sono i laboratori: di arte creativa, del riciclo, di botanica, di artigianato, di cucina. I ragazzi del corso di formazione professionale valido per assolvere l’obbligo scolastico stanno cucinando qualcosa di buono... si sente nell’aria un profumo che stuzzica l’appetito, ma resta solo un profumo. Il corridoio è arricchito da cartelloni realizzati dai ragazzi con frasi simpatiche e spontanee, relative alle loro emozioni o a ciò che hanno appreso al centro, che la mia discrezione non può ripetere. Ogni tanto incrociamo i ragazzi dei corsi attivi, i quali si mostrano sereni e a loro agio. *segue All’improvviso vedo una figura familiare che mi sfiora: è Leonardo, un mio allievo di quattro anni fa, che non mi riconosce, anche perché sono stata la sua insegnante per circa venti giorni. Leonardo è un bel ragazzo alto e cammina con il busto dritto, sicuro di sé, ha uno sguardo consapevole e deciso, quasi non lo riconoscevo. Pensare che durante una visita didattica si divertiva a colpirmi alla testa con una bottiglina di plastica vuota...! E’ cresciuto tanto da allora, la fine del percorso scolastico ha rappresentato per lui non un chiudersi nelle quattro mura domestiche, ma un nuovo inizio, proprio come deve essere. Il punto è che i primi a credere nella loro possibilità di integrarsi dobbiamo essere noi insegnanti insieme ai genitori, poi anche il territorio deve offrire percorsi validi e iniziative utili alla loro effettiva inclusione. La responsabile del corso insiste col dirci che devono imparare a spostarsi da soli per arrivare al centro, anche perché Roma è una metropoli e, prima o poi, dovranno fare i conti con le distanze e con i tempi dei mezzi pubblici. Questa sarebbe stata la prima ed ultima volta che noi insegnanti li avremmo accompagnati. Chi è educatore non deve essere troppo protettivo con loro, perché si rischia di compromettere il loro percorso verso l’autonomia sociale. L’eccesso di premure è un errore che non possiamo permetterci, altrimenti si rischia di lasciarli bambini e indifesi per sempre. Sono passata un’altra volta al centro solo per consegnare un documento: c’era Giada tutta sorridente, un volto sereno dalla carnagione scura contornato da un groviglio di capelli lisci e lunghi. Giada ha intuito il valore della possibilità che le è stata data ed è anche felice di aver trovato dei nuovi amici. A scuola non fa altro che parlarmi di loro, lei che in genere è piuttosto silenziosa... Cosa succederà dopo il diploma? Nessuno lo sa. La speranza è un racconto sempre aperto, senza fine. L’importante è fare qualche passo, costruire possibilità, darsi da fare. Per chi lavora con le persone con disabilità non c’è spazio né per il pessimismo, che paralizza qualsiasi tentativo, né per l’ottimismo, che si abbandona alle inutili elucubrazioni dei giocolieri di parole. Bisogna, invece, essere realisti, che è l’atteggiamento di chi bussa alle porte, non si ferma all’aula didattica e “travalica” il cancello della scuola, si dà da fare per questi ragazzi speciali. I realisti non sognano, non aspettano, ma “aggiustano le vele”. Si dice che il verde sia il colore della speranza, ma io credo che la speranza sia blu. Blu come l’aula blu del centro di formazione “Simonetta Tosi”, blu come il futuro, blu come il mare che attende solo di essere solcato. Vai Giada, prendi il largo! Questa bellissima poesia è carica di gioia e di speranza. Spiega il suo senso profondo, con parole semplici ma estremamente efficaci, che riscaldano l’anima e sanno arrivare al cuore del lettore. Speranza d'or è ricamata negli animi è l'arcobaleno dopo il temporale è la fune che ti tiene mentre stai per cadere la finestra che vedi nell'oscurità il motivo per cui ti alzi ogni mattina e vivi la tua vita è bellissimo il suo ricamo profuma di domani è il tuo continuo cercare il perché il suo ricamo nella vita ti accompagna e sollevar dalle tue ferite intagliate attorno al cuore sono... Un bellissimo racconto quello di Jessica, scritto in forma di diario, molto realistico e intenso, che affronta il tema estremamente attuale dell’immigrazione. Colpisce la ricchezza dei particolari, che fa pensare davvero ad un’esperienza vissuta in prima persona e porta il lettore a immedesimarsi nella vicenda narrata. Opa, 12 marzo 2015 Caro diario, mi chiamo Promise, ho 16 anni e tu sarai il mio diario. Ti affiderò tutti i miei pensieri e le mie speranze e ti metterò al corrente della mia vita perché ho bisogno di sfogarmi, perché la mia vita è particolare e non è come tutte le altre. Sono nigeriana e più precisamente vengo da Opa. La mia famiglia è povera quindi lavoriamo tutti molto duramente. Sono la promessa sposa di un uomo più vecchio di me. Le nozze sono state fissate per il 25 settembre. Però io non ci sto. Voglio avere la possibilità di scegliere la mia vita e chi sposare. Opa, 13 marzo 2015 Caro diario, la mia migliore amica si chiama Kaduna. Lei mi ha detto che vuole raggiungere l’Italia e mi ha spiegato come ha deciso di andar via. Io impulsivamente le ho chiesto se posso scappare con lei. Che gioia ho letto nei suoi occhi nel momento in cui mi ha detto di sì, ma non sarà una cosa semplice perché i pericoli sono tanti e ci vogliono molti soldi per affrontare il viaggio. Opa, 20 marzo 2015 Caro diario, è passato tanto dall’ultima volta che ti ho scritto ma non ho avuto molto tempo libero. Ho deciso di lavorare ancora più duramente per poter pagare il viaggio, perché ho deciso di partire. Alla fine ho raccontato tutto a mia madre: i miei dispiaceri, le mie speranze, la mia voglia di scappare. Lei mi ha posato una mano sulla guancia con gli occhi velati di lacrime. Sorrideva triste perché con la bocca voleva dirmi che era felice per me, ma gli occhi piangevano. Sapeva che, se fossi riuscita a fuggire, non mi avrebbe vista forse mai più. Agadez, 29 aprile 2015 Caro diario, è arrivato il grande giorno, così io e Kaduna ci siamo date appuntamento in una radura vicina al villaggio dove abbiamo aspettato che venissero a prenderci. La prima parte del viaggio è durata un giorno e poi finalmente siamo arrivate ad Agadez in Niger. Abbiamo fatto i turni per dormire per paura che ci rubassero i soldi. Le persone che hanno preso accordi con noi ci avevano garantito che avremmo dormito al sicuro, in dei luoghi comodi e accoglienti. Invece, siamo circondate da catapecchie e tutto è sporco e squallido. I camion che sono venuti a prenderci per attraversare il deserto sono troppo piccoli e noi siamo in tanti. Sarà difficile scrivere d’ora in poi perché a malapena posso muovermi ogni volta che si riprende il cammino. Ciao caro diario. Murzuch, 5 maggio 2015 Caro diario, siamo arrivate finalmente in Libia, sono stanca e affamata perché non mangiamo bene da tempo ma sono anche tanto felice. Certe volte piango perché mi mancano le risate di mio fratello e gli abbracci della mamma, però grazie a Kaduna ho trovato sempre la forze per continuare. Per questo e per mille altre cose le sono immensamente riconoscente. Golfo di Gabès, 7 maggio 2015 Caro diario, non so di preciso dove ci troviamo. So solo che siamo nascoste fra i cespugli lungo la costa libica in attesa di superare l’ultimo grande ostacolo: attraversare il mare con un barcone che sta per venire a prenderci. Meno male c’è Kaduna a rincuorarmi con le sue parole. Lampedusa, 8 maggio 2015 Caro diario, siamo salite su una specie di barcone, se così si può chiamare una gigantesca zattera galleggiante, e l’agonia è iniziata. Per la prima volta in vita mia ho avuto paura di morire. Le grida e i pianti delle persone che viaggiavano con noi mi risuonano ancora nelle orecchie. Io e Kaduna ci tenevamo per mano quando abbiamo toccato terra e abbiamo urlato al vento: “Liftorugi!!!”. Oggi posso dire che ho lottato per avere una vita migliore e lo farò sempre perché vivere significa lottare. Questo racconto, ricco di freschezza e di desiderio di libertà, è molto interessante perché evoca sentimenti intensi, forti, drammatici, ma al tempo stesso si apre alla speranza, alla fantasia, all’accoglienza dell’ignoto. E la mia storia inizia da qui. Beh, non proprio da qui. C’è un prima, anzi c’era. Perché di quel prima, ormai, non resta niente. Tutto si è frantumato in pochi istanti. E ora a farmi compagnia c’è un vuoto che resterà tale per sempre. Sono seduta nel salone di casa, rannicchiata, la testa tra le ginocchia. Il portone si apre. Non ho la forza di alzarmi. Non ci riesco, ma capisco che è lui. Si siede vicino a me, mi abbraccia. Ed è in quel momento, appoggiata alla sua spalla, che riesco a liberare tutto il dolore che provo per la morte dei nostri genitori. Con le lacrime bagno la sua giacca, ma lui non parla, mi sta vicino in silenzio. Paul ha diciassette anni, io uno in meno. Un anno fa, dopo una lite con papà e mamma, partì a Roma dai nonni. Lo odiai tanto per questo, mi aveva lasciata sola. “Perdonami” sussurra. La lettera del Tribunale dei minori non tarda ad arrivare. Nessun barlume di interesse per quel foglio di carta. I miei occhi rimangono fissi su ricordi lontani. Incantati. Una settimana dopo ci ritroviamo davanti al giudice. Quest’ultimo semplifica l’accaduto quasi fossimo piccoli. Gira intorno alla questione con fare irritante ed io ascolto in silenzio. Poi la sentenza: “Non abbiamo trovato nessuno a cui affidarvi, ragazzi. Neppure i vostri nonni possono tenervi a causa dei loro problemi di salute”. Tengo il capo chino e osservo mio fratello. E’ teso, si agita impaziente. Forse ha capito. Io no. Non ancora. “Perciò, l’unica soluzione è l’orfanotrofio fino alla maggior età”. Alzo lo sguardo, non dico niente. Fisso i miei occhi grigi sul giudice, mentre Paul cerca di trovare una soluzione. “Orfanotrofio? Mi scusi non c’è alternativa?” La sua voce è sbalordita, risuona nella stanza, rimbalza nelle pareti illuminate dalla luce arancione del tramonto. “Mi spiace deluderla, ma le pratiche sono già state avviate. Sarete trasferiti all’Istituto Provinciale qui a Torino. Dovrete essere lì dopodomani”. Non ci fa parlare. Ma si sa che in certe circostanze le vittime non hanno voce. Ci tende la mano e, quello che prima pareva un uomo gentile, torna a essere un giudice distaccato. Il giorno dopo è come gli altri. Non mi alzo. Non mangio. Non faccio niente. Fisso la parete della stanza senza guardare. Non sento più neanche la musica. Solo silenzio, silenzio fino a sera. L’ultima in cui dormirò nel mio letto, con i miei cuscini. Poi, Paul chiede di entrare, si siede e mi dice: “Ascolta Amy, non dobbiamo permettere che ci rinchiudano. Stando in quel posto cambieremo. Moriremo!” Alzo lo sguardo disillusa, quasi ironica. “Chi ti ha detto che voglio vivere?”. Questa frase lo spiazza. Ancor più il tono che ho usato, il tono di chi non ha più niente. Lo so, ma continuo: “Mamma e papà non ci sono più”. Una lacrima silenziosa gli bagna il viso, ma respira, si calma. “Ed io non ho la forza di scappare, perché la mia vita senza di loro non ha più senso e sapere che non ci saranno quando raggiungerò i miei traguardi... Perciò Paul, un posto vale l’altro, non serve vivere, mi basta sopravvivere”. Mi fermo. Ho detto tutto in un fiato, senza emozione. Ora lui se ne andrà, abbandonerà le speranze proprio come ho fatto io, e domani saremo lì, in quell’edificio alto, grigio, rigido. Mi guarda, non si arrende. “Invece no, non devi pensare così. Abbiamo la vita davanti e dobbiamo viverla. Perché capita a tutti di cadere, farsi male anche tanto, ma poi è il rialzarsi la cosa più importante. Rialzarsi e scoprire che siamo più forti, pronti a ricominciare. Non devi smettere di credere nei tuoi sogni, mamma e papà non vorrebbero. è la solita frase ma è la verità perché, dopo la tempesta, arriva sempre il Sole”. Si alza, accetta il mio “no”, sta andando a dormire. E sono quelle parole a scuotermi, così finalmente la vera Amélie torna a galla. Libera. “Aspetta Paul”. Si volta, ha gli occhi stanchi. “Vengo con te domani!” Glielo dico col sorriso sulle labbra, quel sorriso che lui è riuscito a far tornare. Mi corre incontro, mi abbraccia. All’alba incappucciati e ben coperti ci avviamo alla stazione. Abbiamo due borsoni con noi, uno viola, il mio, uno blu, di Paul. Con le provviste da una parte, i soldi e gli oggetti più importanti dall’altra. I biglietti sono pronti, ci sediamo e attendiamo. Vogliamo andare in Francia perché qui ormai non possiamo più restare. La polizia ci cercherà e noi non vogliamo rischiare. Non ci importa se vivremo come fuggiaschi, ogni giorno sarà una sorpresa, tutto da decidere. Il treno si ferma davanti a noi e via all’interno. Corriamo tra le carrozze come pazzi, rubando pezzi di cibo dal vagone ristorante e ci fermiamo davanti al finestrino. Lo abbassiamo e urliamo: “Addio Italia!” Insieme siamo pronti a iniziare un nuovo capitolo della nostra vita. Ricordo ancora tutti i dettagli di Parigi: le colazioni al bar, le giornate ricche di esperienze circondati da luoghi importanti e attrazioni spettacolari, le notti coi sacchi a pelo passate a contare le stelle. Dopo tanto tempo la polizia ci intercettò, ma ormai Paul era maggiorenne, lavorava e poteva occuparsi di me. Ora sono grande, ho una famiglia a cui badare, ma non dimenticherò mai quegli anni e soprattutto la frase che inventammo una sera. Diceva: “Siamo stati il vento contro l’uragano, ci abbiamo creduto e siamo andati lontano!” Amélie Petit Con un linguaggio ricco di metafore e immagini, la poesia mette in scena i valori dell’amore e della speranza in modo originale ed efficace. Riesce così a rispecchiare un dilemma tipico dei giorni nostri: tra amarezza e gioia, tra delusioni e speranze. Amore, policromo frutto dai milleuno sapori, nasci sì spesso in un sorriso di gioia ma altrettanto perisci in sordido dolore. E’ dunque vana ogni speranza? Casuale incrocio ricongiunge oggi diverse lande. Sono due strade consunte dalle buche. Destini e desideri usati. Io oso esistere ancora, specchio e alveolo di speranza altrui, campo di grano che attende esser mietuto. E chissà non sia questa alfine, la recita che scroscerà di vita? Roberta ha realizzato una vera e propria tesina di undici pagine sulla serie televisiva Braccialetti rossi. La tesina, divisa in capitoli, contiene tanti disegni, tutti molto verosimili e simpatici! info e contatti: 089-220425 (ore serali) [email protected]