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PAG. 2: Racconta la solidarietà:
- Il cartellone più bello
- Il disegno più comunicativo e gioioso
PAG. 4: Oppotunità per tutti
ALTS: Camper Donna
PAG. 4: Storie vere
Aiutando a nascere!
PAG. 6 - 7: Guarire dalla dipendenza
Le emozioni al giusto posto
PAG. 8 - 9: Dignità e diritti
La notte del lavoro narrato
PAG. 10 - 11: Francesco Ascolta Onlus
Solidarietà e speranza
PAG. 11: Brevi e buone notizie
PAG. 12: Speciale vincitori Concorso
- “Shiella” - testimonianza
- “Le strade della speranza” - racconto
- “Una marina speciale” - racconto
- “Il volontario silenzio” - racconto
- “Blu come il futuro” - testimonianza
- “Le strade della speranza” - poesia
- “Liftorugi - Ho vinto” - racconto
- “Il vento contro l’uragano” - racconto
- “Diverse lande” - poesia
- I disegni più simpatici e premio per
l’impegno.
In questo numero di “Aiutando” parliamo,
ancora una volta, di solidarietà, di impegno
verso il prossimo, di aiuto concreto a chi ne
ha bisogno.
Presentiamo, inoltre, una rassegna dei migliori
racconti, disegni e poesie che hanno partecipato
al concorso letterario e artistico “Racconta
la solidarietà”, edizione 2015.
Abbiamo ricevuto tanti contributi, provenienti
da tutta Italia, sia da parte dei bambini sia
da parte degli adulti, segno che il tema di
quest’anno,“Le strade della speranza”,
ha toccato un argomento che sta a cuore a
molte persone, perché, soprattutto nei momenti
di crisi, nasce la speranza di migliorarsi e di
rendere migliore il nostro mondo!
L’intento del concorso, come sempre, è stato
quello di incoraggiare la cultura dell’amore,
dell’accoglienza, del rispetto reciproco.
Anche quest’anno, infine, invitiamo tutti a
devolvere il 5 per 1000 al Pellicano,
associazione salernitana che si adopera per
la difesa della vita e che merita il nostro aiuto.
Mirella Fuccella
Giornale periodico a distribuzione gratuita di informazione sulle
attività di volontariato e solidarietà.
Numero 28 - Giugno/Luglio 2015, Registrato presso il Tribunale di Salerno in data 10/10/2006,
registrazione N. 30/06. Sede: via Casa Greco, 1 - Coperchia (Pellezzano - SA); [email protected],
www.gruppoaiutando.net
Direttore: Mirella Fuccella
Hanno collaborato a questo numero: Rita Biggio, Franco De Domenico, Manuela Masiello
Il disegno in copertina è dell’artista Virgilio Colicino
Grafica e impaginazione: Mirella Fuccella
Ogni genere di collaborazione prestata ad “Aiutando” è a titolo gratuito. Il giornale è redatto a cura
dell’Associazione di Volontariato “Comunicazione & Solidarietà”. Attività dell’associazione, unitamente
alla pubblicazione di “Aiutando”, sono: la Concorso
creazione di una rete
di contatti tra lela
associazioni
di volontariato,
“Racconta
solidarietà”
l’organizzazione di eventi di beneficenza, convegni, mostre, promozione della cultura della solidarietà.
sezione bambini - anno 2011
L’Associazione per la Lotta ai Tumori del
Seno (ALTS) di Salerno, all’interno del
progetto “Stare bene: un’opportunità per tutti”,
organizza “Camper Donna”, con visite
senologiche gratuite, nella giornata di
sabato 13 giugno, a Salerno presso il
quartiere Matierno (in via Luciani, di fronte
alla chiesa N. S. di Lourdes). Il camper donna
è una struttura mobile attrezzata, dotata di
idonea apparecchiatura scientifica, in grado
di effettuare visite senologiche per la
prevenzione e presa in carico di situazioni
di rischio di tumore al seno. Le visite si
svolgeranno il 13 giugno, in mattinata dalle
ore 9.30 alle ore 13.30 e nel pomeriggio dalle
ore 14.30 alle ore 16.30.
E’ previsto, inoltre, uno spazio informativo,
dalle 10.30 in poi, presso il Centro “Sacco”,
per sensibilizzare tutta la cittadinanza sulla
prevenzione (non solo del tumore al seno)
e informare su nuovi stili di vita per la
salvaguardia della propria salute.
Il progetto è realizzato in collaborazione
con le associazioni Oasi, Insieme per il Sociale
e Sodalis CSV Salerno, nell’ambito delle
“Pratiche di sussidiarietà e Percorsi di progettazione
sociale”.
L’ALTS, sempre all’interno del progetto
“Stare bene: un’opportunità per tutti”, ha avviato
inoltre la sperimentazione di due consultori
di prevenzione ed educazione socio-sanitaria,
destinati a tutta la popolazione. I consultori
saranno aperti il lunedì dalle ore 16.30 alle ore
19.30, presso Casa Nazareth in Via Guariglia
(zona Pastena) e il mercoledì dalle ore 16.30 alle
ore 19.30, presso la sede dell’ALTS in via
Renato De Martino numero 40/42 (zona
Carmine).
Il progetto prevede la realizzazione di visite
specialistiche, tra le quali:
- visite senologiche, che si svolgeranno
nei giorni: mercoledì 10 giugno, dalle ore
16.30 alle ore 19.30, presso ALTS e
sabato 20 giugno, dalle ore 9.30 alle ore
12.30, presso Casa Nazareth;
- ecografie interniste, che si terranno
mercoledì 17 giugno dalle ore 16.30 alle
ore 19.30 presso ALTS.
Per ulteriori informazioni, rivolgersi all’ALTS,
telefonando al numero 329-7664902, oppure
recandosi in sede (via Renato De Martino,
40/42 , Salerno) di mercoledì pomeriggio,
dalle ore 16.30 alle ore 19.30.
Oppure contattare l’associazione tramite email, scrivendo a: [email protected] .
Sito internet: www.alts.it
Elena ha 33 anni e, quando
l’ho incontrata (circa 3 anni
fa), aveva già due figli e una
gravidanza in atto. Il marito
purtroppo da poco aveva
perso il lavoro e quindi
vivevano faticosamente
con un solo introito dato
da un impiego part-time.
“Questo figlio proprio non ci
voleva, è il momento più sbagliato
in assoluto e tutti mi consigliano di abortire”.
Il solito nodo gordiano quasi
impossibile da sciogliere.
Il colloquio però va avanti e si crea una
bella relazione tra noi. Mi rivolgo a lei con
un sorriso: “Però questo piccolo bimbo che colpa
ne ha?”. Questa è una specie di frase magica.
Crea un bello scombussolamento a livello
emotivo. Tanto che Elena scoppia in
lacrime.
“E’ proprio vero, lui non c’entra niente! Mi sento
una cattiva madre”.
A questo colloquio sono seguiti molti altri.
Sapevo che la casa di Elena era gravata
di un affitto molto dispendioso e
oltretutto aveva ricevuto lo sfratto.
Arriva una telefonata tipo S.O.S.:
“Per la paura di restare in strada con i miei tre
bambini ho chiesto di parlare con il sindaco. Mi
hanno detto che ci sarebbe un appartamentino ma
non possono assegnarcelo perché troppo piccolo per
5 persone. Ho risposto che sarebbe andato bene
comunque, ma la replica è stata dura: - Non
possiamo violare le norme vigenti. - Di
fronte alla mia tenacia,
all’assistente sociale si è come
accesa una lampadina: Avremmo
un
appartamento adatto a voi,
però tutto da ristrutturare.
Occorrono 5.000 Euro e il
Comune, proprio perché
siete brava gente, ve ne
potrebbe offrire 2.000. Ma Paola, ora dove posso trovare
ciò che manca?”.
Contemporaneamente alla telefonata,
una signora aveva portato 2.000 euro di
offerta. Si trattava quindi di completare la
cifra. Richiamo immediatamente Elena:
“Ci siamo! Ho per te tremila euro, di cui dovrai
restituirne mille, un po’ alla volta, quando potrai”.
L’assistente sociale non riusciva a credere
a questa cosa, tanto che chiede a Elena di
potermi telefonare:
“E’ proprio vero ciò che mi sta dicendo la signora
Bianchi a proposito della casa?”
Alla mia risposta affermativa soggiunge:
“Certo che siete proprio bravi! Non riesco a pensare
come possiate fare ad aiutare tanta gente”.
Elena si è data un gran da fare per trovare
idraulico, elettricista, muratore, persone
qualificate ma di poche pretese.
E finalmente, un pomeriggio:
“Paola, ho le chiavi e ho firmato il contratto. Mi
sento una regina! Le bambine più grandi continuano
a correre per la casa, che ha tre stanze, un soggiorno,
una cucina e due bagni. Per non parlare dei balconi,
dove si immaginano di poter fare mille giochi.”
Sono una psicologa clinica e di Comunità,
e in questi dieci anni di formazione ho
collaborato in diversi ambiti: asl, comunità
terapeutiche, psicologia ospedaliera, case
famiglie a Salerno e a Roma.
In quest’ultimo anno, per la conclusione
della specializzazione in psicoterapia, ho
avuto modo di fare un’esperienza di
tirocinio presso il gruppo “Il Focolare”, sito
a Salerno in via Pironti, che si occupa di
dipendenza.
E’ stata per me un’esperienza
significativa, molto intensa. Insieme
all’operatrice ho partecipato al gruppo,
seguendo un approccio psicopedagogico,
per dare sostegno alle famiglie con problemi
di dipendenza. Si lavora con la persona
dipendente secondo una prospettiva
sistemico-familiare, che la considera
all’interno di un sistema biosociale, nel
quale la persona vive e lavora, e il
comportamento specifico legato alla
dipendenza viene considerato come parte
di un sistema più complesso.
Per questi motivi, l’obiettivo, che è il
cambiamento dello stile di vita, non si
può ottenere al di fuori del contesto
familiare, che diviene fonte di ulteriore
sostegno e anche di controllo di eventuali
ricadute.
Attraverso un percorso di educazione
alle emozioni, in un primo momento si
effettuano lavori di gruppo con persone
che condividono lo stesso problema, la
persona ha così la possibilità di venire a
contatto con i propri vissuti ed emergono
le emozioni più autentiche.
L’etimo stesso della parola emozione (emovere ossia “muovere fuori”) richiama
ad un movimento da dentro (noi) verso gli
altri, dove la persona ha la possibilità di
sperimentare e di condividere emozioni,
che è la caratteristica umana alla base di
qualsiasi esperienza di relazione, con sé,
con gli altri e con il mondo.
Segue, poi, un tempo di confronto
delle stesse persone con le rispettive
famiglie. Sia nel primo che nel
secondo momento il gruppo
favorisce lo sviluppo di relazioni,
la nascita di legami
identificativi, con altre persone
del gruppo.
Si viene così a creare un contesto
di comunicazione sia verbale sia di
tipo empatico, e di qui la creazione
di una cultura comune e l’instaurarsi
di potenti meccanismi trasformativi, che
favoriscono il cambiamento dello stile di
vita rispetto alla propria persona, alla
famiglia ed ai contesti sociali che
quotidianamente la persona frequenta (vive).
Pertanto è un momento di riflessione,
un itinerario che tocca la vasta gamma di
emozioni, e coinvolge sia le persone
utenti, sia gli operatori, in cui si affrontano
e si rielaborano difficoltà familiari e
problematiche nella gestione del rapporto
con sé stessi e con gli altri componenti del
nucleo familiare, con il fine di favorire in
loro la consapevolezza e di “rimettere le
emozioni al loro posto”.
La filosofia che è alla base del mio metodo
di lavoro, che adopero sia in gruppo, sia
con i giovani, sia con i genitori e con i
bambini, è la filosofia dell’okness, che è alla
base del mio approccio psicoterapeutico,
ossia ogni persona è ok, va bene per come
è, a prescindere dal suo comportamento
anche se disfunzionale.
Ciò significa considerare ogni persona
per il suo valore, tenendo conto che ha
in sé la capacità di riscoprire le proprie
risorse e potenzialità, la capacità di
prendersi la responsabilità della propria
vita e di cambiare in qualunque
momento lo decida.
In particolare, la persona che ha una
difficoltà legata a una dipendenza ha
necessità di rimettere le emozioni al giusto
posto e di riscoprire il proprio valore, per
poter ritornare all’autenticità di sé, senza
appoggiarsi a sostanze. Deve riscoprire il
senso di sé e il valore della famiglia,
che credo sia fondamentale per ritrovare
il benessere psicofisico e di relazione
con gli altri.
La dott.ssa Manuela Masiello è psicologa clinica e di comunità,
iscritta all’Ordine Psicologi del Lazio. Si occupa di problematiche dei giovani,
degli adulti e in particolare dei bambini e del sostegno alle famiglie. Effettua
consulenze individuali e familiari. Con i bambini, per lo sviluppo delle
potenzialità, struttura dei laboratori didattici creativi ed educativi a seconda
dell’esigenza del bambino.
Cell: 320.6474635; 342.0761469 ; e-mail: [email protected]
Di solito, lavoriamo di giorno. La notte si
dorme, o ci si dedica ai divertimenti tipici
del sabato o di altri giorni, in genere prefestivi. Raro che di notte si parli di lavoro:
invece, per una notte davvero speciale, di
lavoro si è parlato, si sono visti filmati, si
sono ascoltate musiche, interviste, interventi
di ogni tipo sul mondo del lavoro.
Nella bella cornice della Sala del
Municipio, a Castel San Giorgio
(Salerno), si è svolta di recente la “Notte del
lavoro narrato”.
E’ stata una serie di spettacoli, interventi,
filmati davvero coinvolgenti, al di là delle
aspettative. Grazie agli organizzatori e ai
conduttori, abbiamo partecipato a un evento
molto “frizzante” e vario.
Ha iniziato la kermesse sul lavoro la bella
testimonianza di Antonio Zambrano,
ebanista, artista di grande esperienza
dell’intaglio su legni pregiati. Il maestro
Zambrano, alla bella età di 92 anni e
mezzo, ogni mattina si fa accompagnare
alla sua bottega, progetta e lavora nuove
creazioni. Ha raccontato tante cose sulla
sua professione: gli inizi già da ragazzino,
come apprendista a imparare il lavoro dal
mastro artigiano; la tenacia, la creatività, il
senso del dovere e del lavoro fatto bene;
l’invito ai giovani ad avere spirito di
sacrificio, a realizzare qualcosa con le proprie
forze.
Il veterinario Giuseppe Velluto
ha narrato, da un’altra prospettiva,
il lavoro appassionante di chi è
tutti i giorni, spesso anche di
notte, alle prese con i nostri
“amici a quattro zampe” o “a due
zampe”. Ha rievocato in
particolare i propri inizi, quando
ha dovuto assistere una mucca
partoriente, giovane fresco
di studi, mostrando grande dedizione al
lavoro e il significato dell’amore per gli
animali.
Bella musica folk poi, che celebrava le lotte
operaie e contadine, suonata dalla
Compagnia Daltrocanto. Con un sound
melodico ma anche aggressivo e graffiante,
i sapienti musicisti di Daltrocanto hanno
suonato canti sull’emigrazione in Svizzera,
sulla tragedia di Marcinelle in Belgio; il
lavoro che a volte diventa sofferenza anche
grave, ma che esprime solidarietà, voglia
di migliorare la vita, condivisione.
Altri interventi hanno riguardato il lavoro
degli immigrati, delle donne, dei
giovani.
Il progetto è nato da un’idea del prof.
Vincenzo Moretti, dell'Università di
Salerno, che scrive sul Sole 24 Ore.
Tutta la manifestazione si è potuta vedere
e ascoltare in str eaming sul sito:
www.lanottedellavoronarrato.org.
Chi vuole, su questo sito può trovare tanti
interventi, immagini, video, testimonianze.
“Ci piace l’Italia (...) che
dà più valore al lavoro e
meno valore ai soldi, più
valore a ciò che le persone
sanno, e sanno fare, e
meno valore a ciò che
hanno.
L’Italia che crede nel
lavoro come identità,
dignità,
diritti,
responsabilità, autonomia,
futuro e dunque non lo
considera soltanto un
mezzo, una necessità, ma
a n ch e u n f i n e , u n a
possibilità”.
(Testo tratto dal sito
lanottedellavoronarrato.
org).
Lo scorso 4 maggio si è svolta presso
il centro Sociale a Bellizzi una serata
di beneficenza dal titolo “Solidarietà e
Speranza”,
organizzata
dall’Associazione di volontariato
Francesco Ascolta Onlus, in
collaborazione con l’Associazione di
volontariato Comunicazione &
Solidarietà, in favore di profughi
minori sbarcati a Salerno e accolti a
Bellizzi presso la comunità per minori
Casa di Kim.
Nella stessa serata ci siamo attivati anche
per sostenere due famiglie di Salerno
e di Battipaglia, che hanno perso il
loro tetto a causa di uno sfratto
esecutivo e una terza famiglia di
Bellizzi, che è stata colpita da un
improvviso lutto, venendo a mancare
l’unico componente in grado di
sostenere economicamente la famiglia
L’evento si è svolto in un clima di
grande solidarietà e commozione, poiché
erano presenti sia le famiglie da aiutare
sia i minori profughi.
Una delle famiglie aveva due bellissime
gemelline di sei mesi, ed ora si trova
presso l’associazione Karol Woityla
a Campagna, che ha messo a loro
disposizione una casa.
Per l’altra famiglia si è attivato il
parroco di Battipaglia Don Ezio
Miceli fornendo loro un’abitazione. Alla
serata erano presenti tante persone
generose ed associazioni amiche dal
cuore grande, che hanno donato con
profonda generosità sia offerte per le
famiglie sia beni per i minori. Tra loro
l’Associazione Nazionale Andos,
l’associazione culturale La Tua Idea,
l’associazione Internazionale E ti porto
in Africa, la ludoteca Patapumfete, e
tanti cari amici come Rosalba Frasca,
Assunta Germano, Vincenzo Nobile.
L’Associazione
Francesco
Ascolta, che ha
s e m p r e
prediletto il
lavoro in rete, è
stata presente
all’evento “Incontriamoci,
Associazioni e Territorio”, organizzato
dalla Fidapa di Battipaglia presso
l’Istituto Ferrari. Presenti decine di
associazioni che operano in Italia e
all’estero.
Di recente, sempre con la Fidapa, ha
partecipato, presso la parrocchia San
Gregorio VII di Battipaglia, alla
commemorazione di Giovanni
Palatucci morto in un campo di
sterminio e per il quale è in atto un
processo di canonizzazione.
Il 20 maggio l’associazione è stata con
il Gruppo Logos e altre realtà sociali
presso il teatro Arbostella a Salerno
per un’iniziativa contro l’alcolismo.
La rappresentazione teatrale e le
testimonianze di persone ex alcoliste
hanno reso ancora più nota questa
brutta dipendenza e hanno fatto luce
sul lavoro eccellente degli operatori
del Gruppo Logos.
R.B.
Per le Organizzazioni di Volontariato
del Vallo di Diano nasce l’opportunità
di avviare percorsi di recupero per
persone in esecuzione penale, grazie
alla convenzione sottoscritta da Sodalis
CSVS con l’U.E.P.E. di Potenza e Matera
e il Piano Sociale di Zona S10 di Sala
Consilina.
La convenzione prevede percorsi di
riparazione, attraverso la partecipazione
alle attività delle organizzazioni di
volontariato, dirette al sostegno e al
reinserimento sociale di persone in
esecuzione penale oppure soggette a
seguito di ordinanza dell’Autorità
Giudiziaria.
Le associazioni interessate devono essere
iscritte al Registro Regionale del
Volontariato e avere sede legale e/o
operativa nei Comuni afferenti al Piano
di Zona S10. I comuni sono: Atena
Lucana, Auletta, Buonabitacolo, Caggiano,
Casalbuono, Monte San Giacomo, Montesano
sulla Marcellana, Padula, Pertosa, Petina,
Polla, Sala Consilina, Salvitelle, San Pietro
al Tanagro, San Rufo, SantíArsenio, Sanza,
Sassano, Teggiano.
Le OdV possono inviare la richiesta di
partecipazione entro il 15 giugno 2015
a mezzo posta elettronica certificata [email protected], a
mezzo fax 089.79.20.80 o a mano presso
lo Sportello del Vallo di Diano a Sala
C o n s i l i n a . Pe r i n f o r m a z i o n i :
www.csvsalerno.it
L’Associazione di volontariato Comunicazione &
Solidarietà ha organizzato, quest’anno per la
settima volta, il concorso letterario e artistico
Racconta la solidarietà.
Lo scopo è favorire la diffusione della
cultura dell’amore per il prossimo e
sensibilizzare le persone, in particolare
i giovani, su temi importanti, come il
rispetto dei diritti umani, la dignità della
vita, l’accoglienza dell’altro.
Il tema di quest’anno è stato: Le strade della
speranza.
La sezione adulti ha visto la partecipazione
di racconti e testimonianze giunti da tutta
Italia, di cui i migliori saranno premiati in
una premiazione pubblica, che si terrà
sabato 13 giugno, con inizio alle ore 18.00,
presso la Cappella del Rosario della Chiesa
di San Domenico, nel centro storico di
Salerno. Per i vincitori ci saranno
medaglie e pergamene e premi per i
bambini.
Oltre ai racconti ed alle poesie che
pubblichiamo in queste pagine, ce ne sono
anche altri, che ricevono un attestato di
merito, per essere stati segnalati fra i migliori
e che sono sono stati pubblicati sul nostro
sito web: www.gruppoaiutando.net.
Un grazie particolare va a tutti i membri
della Giuria letteraria, che come sempre
hanno offerto gratuitamente il loro tempo
e la loro professionalità per la buona riuscita
del concorso. I racconti e le testimonianze
sono stati giudicati in forma anonima: i
giurati non conoscevano i nomi dei
partecipanti.
Nella sezione bambini hanno partecipato
alcune scuole elementari e medie di Salerno,
una scuola di Verona e una di Quartu
Sant’Elena (Cagliari).
Ringraziamo calorosamente i bambini
e i ragazzi che hanno dimostrato molto
impegno e ringraziamo gli insegnanti che
hanno aderito a questa edizione del concorso,
offrendo ai propri alunni uno spunto per
riflettere sul tema della speranza,
testimoniando che, anche in tempi difficili
come quelli in cui viviamo, nei quali i
valori più profondi ed essenziali
sembrano essere tramontati, c’è ancora
nel cuore il desiderio di sperare nel futuro,
di conservare l’amore al prossimo, di
avere fiducia nella vita.
LA GIURIA LETTERARIA
Prof. Franco De Domenico
(bibliotecario, scrittore)
Dott.ssa Annalisa Miceli (poetessa,
scrittrice);
Prof.ssa Michela Vigilante (insegnante);
Dott.ssa Caterina Leone (ricercatrice
universitaria);
Prof.ssa Daniela Vito (insegnante);
Dott.ssa Manuela Masiello (psicologa);
Dott. Ugo Reggiani (sociologo).
Questa bellissima testimonianza arriva diritto al cuore
raccontando la gioia del donare. James è davvero fortunato,
perché, grazie all’esempio di sua sorella, conosce da vicino il
significato della parola solidarietà e sa che, per chi ama il
prossimo, la vita è più bella e più felice.
Mi chiamo James, sono un
bambino felice: ho undici anni,
vado a scuola, frequento la prima
media a Verona.
In questi giorni abbiamo ospitato
a scuola alcuni volontari,
abbiamo conosciuto Niki che ha
qualche difficoltà a parlare e
muoversi... e abbiamo parlato
di solidarietà, ma io la
conoscevo già, questa
parola!
Sì, perché mia sorella me la
insegna tutti i giorni... si
chiama Shiella e lavora in
una casa di riposo per
anziani.
Shiella, insieme ai suoi amici, ha
inventato un gruppo che aiuta gli
altri scambiandosi le cose che
servono: abbigliamento,
giocattoli e vestitini per i bambini.
Infatti tutti i sabati, dalle 9 alle
12, chi ha bisogno di
qualcosa viene a prendersela
e chi ha qualcosa da dare, la
porta a casa mia...
Mia sorella, quando finisce il suo
lavoro alla casa di riposo, va a
stirare gratis per una signora
anziana e se le resta tempo, il
sabato sera, va a tagliare le
verdure per la mensa dei
bisognosi.
Shiella sorride sempre, non
è mai stanca e dice che il
mondo è bello! Perché non
dovrei crederle?
Questa favola, scritta con stile gioioso, lineare e fantasioso, coglie
la speranza in ogni suo aspetto e sorprende per la forza morale
del messaggio trasmesso: chi perde la speranza, smette di amare,
abbandona la fede e la capacità di andare incontro agli altri. È
necessario, allora, l’esempio del bene, perché chi è nell’errore
ritorni in sé e decida di cambiare
vita, per dare nuovamente
spazio alla speranza.
Un giorno una bambina camminando
lungo la strada arrivò in un villaggio.
Le case erano tutte grigie, nel villaggio
non c’erano né fiori, né animali, né alberi,
né voci allegre.
Facendosi più attenta, la bambina notò
che in ogni casa c’era gente triste che si
disprezzava.
Nella prima casa c’era una famiglia che
litigava furiosamente, senza ascoltare chi
aveva opinioni migliori per come fermare
quei litigi insensati.
Nella seconda casa c’era gente che non si
amava e non erano più uniti, come
dovrebbe essere una vera famiglia,
ognuno viveva da solo senza l’amore verso
il prossimo.
Nella terza casa invece non c’erano simboli
religiosi e nessuno credeva più in Dio
e in Gesù. In questa casa c’era tanto
odio e freddo che riempiva tutto.
Nella quarta casa tutti non si rispettavano
l’uno con l’altro e pensavano solo a se
stessi.
Nella quinta casa pensavano solo ai soldi
e ad avere sempre più cose belle e costose.
Nella sesta casa c’erano due vecchietti
ammalati e ormai da tanto tempo nessuno
andava a trovarli.
La bambina nel vedere queste cose
ammutolì e andò in preda alla tristezza.
Decise così di tentare di portare
l’amore, la gioia, la pace, la tranquillità
e il calore in ogni casa del villaggio.
* segue
Andò nella prima casa dove incontrò un
bambino molto triste perché i suoi genitori
stavano litigando da parecchi giorni. Così
la bambina lo portò in un altro villaggio
dove le case erano tutte colorate e tutti si
amavano e si aiutavano senza litigare. Il
bambino così tornò indietro e convinse la
sua famiglia a non litigare più.
La bambina, che si chiamava Speranza,
andò nella seconda casa dove ognuno
viveva per conto suo.
Lì incontrò una ragazza e Speranza la
condusse, attraverso una strada piena di
alberi e di cinguettii di uccelli, in un altro
villaggio pieno di fiori e animali; là
giocavano tanti bambini tutti insieme,
aiutandosi a vicenda. La ragazza decise di
avviarsi verso la sua casa e, arrivata,
raccontò quel che aveva visto e convinse
la famiglia ad amarsi di nuovo e a vivere
insieme e uniti.
In seguito Speranza andò
nella terza casa, dove non si
credeva più in Dio e in Gesù.
Là incontrò due genitori.
Speranza gli fece
percorrere una strada che
si chiama strada della
fede. La strada era piena
di luce e di gente felice.
Quella strada portava ad un
altro villaggio dove tutti
pregavano e credevano in
Dio ed erano sereni e tranquilli. I due
genitori, tornando indietro, gridarono
che si doveva credere in Dio, perché
con lui si è più forti e si prendono
decisioni migliori.
Speranza poi andò nella quarta e quinta
casa e portò gli abitanti di ogni casa in un
villaggio diverso.
Quando Speranza andò nella sesta casa e
trovò i vecchietti, corse a prendere tanti
bambini da un villaggio vicino. I bambini,
abituati a giocare con i propri nonni,
seguirono Speranza che li condusse dai
vecchietti.
I bambini giocarono tutto il giorno
con i vecchietti e fecero loro
compagnia, portando tanta allegria in
quella casa.
Da quel giorno quel villaggio cambiò:
tutti si rispettavano, le case diventarono
colorate e ricche di fiori e allegria.
Le due foto in queste pagine rappresentano il cartellone realizzato da
Valeria Canzolino, che vince anche per il miglior cartellone.
La foto a colori è a pag. 2 del giornale. Altre immagini sul sito
www.gruppoaiutando.net
Il racconto mette in scena personaggi vivi e verosimili, alle
prese con la lotta per la vita, e propone valori molto positivi
di speranza e di condivisione. Lo stile è sobrio, veloce ed efficace.
Ne risulta una narrazione affascinante, che fa riflettere sul
senso della vita e sulla necessità di donare se stessi al fine di
trovare la vera felicità.
Quel mattino d'aprile non
avevo proprio voglia
d'andare a scuola, perciò
andai in “marina”. Presi
l’autobus come tanti
miei compagni
d’istituto, ma non
riuscivo a parlare con
nessuno. Pensavano
certamente che stessi
male. Nauseato, scesi
alcune fermate prima della
scuola e mi avviai verso i giardini pubblici,
dove mi sedetti su una panchina all’ombra
di un pino. Un istante dopo un signore
abbronzato con la barbetta bianca si
accomodò proprio accanto a me. Osservai
di sottecchi il suo volto. I suoi occhi chiari
e vivaci mi mostrarono una forza interiore
non comune.
“Stanco di andare a scuola?” mi chiese senza
preamboli, illuminandosi di un sorriso.
“Non proprio. - mormorai seccato. Stavo per
rispondergli che si facesse i fatti suoi; ma
non so cosa mi prese e brontolai - “Non so
a cosa serva studiare, fare compiti, prepararsi alle
interrogazioni...”.
Emise un sospiro, e uno strano brivido
attraversò la mia schiena.
“Ho passato anch’io quello
che stai provando tu. continuò tranquillo - Ad
un certo punto della vita mi
domandai che senso avesse
tutto ciò che facevo. Ero un
po’ più grande di te, però avevo
gli stessi problemi a scuola,
a casa, con gli amici... Volevo
cambiare, buttare via il senso
di oppressione e di inutilità, di fare
cose che non capivo, finché...”.
Si trattenne un po' e chiese: "Vuoi sentire la
mia storia?"
Risposi ammaliato: “Ho tutto il tempo che
voglio...”. Allora raccontò:
“Da ragazzo sognavo di fare il pilota d'aerei,
ma non mi piaceva studiare. A scuola me la
cavavo a malapena e andavo avanti
vivacchiando.
Un giorno incontrai Renato, un giovane
dal portamento atletico e spigliato, con
lo sguardo magnetico, che sprigionava
gioia ed entusiasmo. Non capivo dove
trovasse tutta quella forza e fiducia nella vita.
Mi disse che era stato in Africa, dove
aveva costruito scuole ed ospedali.
Addirittura mi chiese
se volevo andare con
lui a provare
un'esperienza anche
solo di un mese.
Galvanizzato dal suo
fascino, accettai con
entusiasmo. A casa
riuscii a convincere i
miei genitori, che mi
aiutarono per le
vaccinazioni, i documenti e mi pagarono
persino il biglietto d’aereo.
Ai primi di settembre par tii
dall’aeroporto di Venezia, via Bruxelles,
per Duala in Camerun, dove atterrai dopo
sette ore di volo. Fui accolto da un
opprimente clima afoso, ma la vitalità di
Renato m’incoraggiò a sopportare tutto per
continuare la mia avventura con lui.
Un’auto guidata da un volontario ci aspettava
e ci portò fin dentro il quartiere. Le strade
erano di terra battuta, cosparse di buche.
Ero sempre più preoccupato: il traballante
fuoristrada sembrava voler scivolare nel
fosso. Invece Renato, più si avvicinava al
quartiere di Oyack, più era felice. La gente
lo riconosceva e lo salutava con affetto e
rispetto.
Fui alloggiato nella casa dove abitavano i
volontari, in cima ad una delle tante colline.
Ci vollero alcuni giorni per adattarmi al
caldo e al ritmo lento della vita. Ben
presto non ci pensavo più e seguivo Renato
nelle sue attività in giro per il quartiere.
Era responsabile di sei scuole materne
e passava spesso a vedere come procedevano.
Se mancava materiale didattico (quaderni,
matite, penne, gessi, colori...) se le maestre
avevano qualche problema, o c’era da
aggiustare o da comperare qualcosa , si
faceva in quattro per rimediare, e un po’ lo
aiutavo anch’io.
Nella scuola primaria di cui era fondatore e
direttore, insegnava
pure. Io stavo nel suo
ufficio a sbrigare le
pratiche. C’era molta
burocrazia, ma non
mi annoiavo, perché
succedeva sempre
qualcosa di nuovo e
di strano, come visite
di capi-villag gio,
nuovi maestri che
chiedevano lavoro, o scimmie da scacciare...
Le aule erano delimitate da un muretto
alto un metro e mezzo, su una parete di
assi la lavagna consisteva in un foglio di
legno compensato dipinto di nero.
Un giorno Renato mi chiese di entrare in
classe e mi presentò a una quarantina di
bambini come suo amico e collaboratore.
Erano sempre silenziosi e attenti, pronti a
copiare ciò che lui scriveva alla lavagna,
rispondevano correttamente quando
chiedeva loro qualcosa. Alla fine della
mattinata regalai loro una caramella ciascuno.
Mi ringraziarono con uno splendido sorriso
e, quando uscii, formavano gruppetti con
altri bambini. Stavano spezzando la
caramella in due o quattro parti per
condividerla con loro.
Renato era anche responsabile di un
dispensario, cioè un piccolo ospedale nel
quartiere di Soboum con una decina di
infermiere di varie provenienze. Esse
potevano capire e parlare con le persone
anziane provenienti da tutte le parti del Paese.
Il suo compito principale era di far arrivare
i medicinali e ottenere contributi umanitari
perché la gente pagasse solo un prezzo
simbolico.
Allo stesso tempo seguiva anche la
costruzione di un altro ospedale, in periferia,
a Ndog-Passi II. Notai che gli operai erano
attenti alle sue osservazioni e suggerimenti,
*segue
anche davanti a un esperto capocantiere.
Capivo che lui possedeva la visione umana
dell’ambiente e dei bisogni delle persone.
Una domenica pomeriggio i giovani del
quartiere organizzarono una “kermesse”
con giochi a pagamento per tutti, piccoli e
grandi. Renato mi disse che il ricavanto
doveva servire per l’acquisto
di strumenti speciali e il
salario dei maestri che
restavano a scuola
il pomeriggio per
aiutare i bambini
di
strada.
Pur troppo, a
causa della
morte per Aids dei
genitori, dei fratelli
e sorelle più grandi, molti di questi
venivano sfruttati da gente senza
scrupolo, ed era necessario fare qualcosa
per loro, in modo da tirarli fuori dalla
strada.
Fui sorpreso della generosità di questi
giovani, che, pur non avevendo un lavoro
ed essendo poverissimi, s’inventavano
questi giochi per il bene dei più sfortunati.
Poi Renato mi chiese la fotocamera per una
foto particolare. C’era una ragazzina con un
bambino in braccio. Si vedeva che era a
disagio, perché se lo passava da un fianco
all’altro. Fece la foto e poi si avvicinò, prese
la manina del bambino e lo guardò con
attenzione, poi chiese:
“Tuo fratello piange, specialmente la notte?”
“Eh sì, signore, piange molto...” rispose.
“Josephine... - le disse serio e preoccupato Tuo fratello è malato. Ha la filaria. Bisogna portarlo
subito all’ospedale e fargli le analisi. Chiama la
mamma e andiamo subito”.
Durante il tragitto mi spiegò il motivo di
tanta urgenza. Bisognava iniziare la cura
al più presto, perché questa malattia tropicale
sviluppa una verminosi sottocutanea, che
tende a sfogare vicino agli occhi e, se non
si interviene subito con le medicine
adatte, spesso i bambini diventano ciechi.
Giunti in ospedale, le analisi confermarono
la diagnosi e subito iniziò il trattamento, che
doveva durare almeno dieci giorni.
Infatti due settimane dopo Josephine
arrivò nell’ufficio della scuola col
fratellino in braccio e si
vedeva bene che era
guarito. Si avvicinò a Renato
e gli porse una manciata di
arachidi dicendogli:
“Prenez, cela est pour
vous...”
(Prenda,
questo è per lei).
“E’ il tuo pranzo. affermò Renato - Non
lo voglio ... ho già
mangiato...”. Ma si
percepiva negli occhi
imploranti della ragazza
la pressante richiesta:
“Accetti questo mio dono. Mi
dia la gioia di farle un regalo,
come lei l’ha fatto a mio fratello!”
Vidi gli occhi di Renato luccicare
di commozione di fronte a tanta
riconoscenza e generosità. Così non rimasi
lì solo per un mese, bensì per sei anni.
In quel momento avevo trovato la mia strada
e, quando Renato fu rimpatriato per un grave
attacco di malaria, io portai avanti il suo
lavoro.
Caro ragazzo mio, vedi come può cambiare la vita,
quando la speranza viene da persone come queste!”
Fui profondamente scosso dal suo racconto.
Non incontrai più quell’uomo, ma tornai
a scuola motivato e ben deciso ad
impegnarmi al meglio, perché volevo
anch’io provare la gioia e la soddisfazione
di trasformare la mia vita in un dono per
gli altri.
Il racconto, scritto con notevole analisi psicologica ed esistenziale,
mette a confronto due realtà apparentemente distanti: il costante
lavoro d’ufficio di tutti i giorni e una misteriosa missione di
volontariato in India. Ne scaturisce una narrazione piana e delicata,
con personaggi molto reali e umani, e con stile poetico ed evocativo.
Ho un collega di lavoro molto schivo di
carattere, un ragazzo del Sud, decisamente
atipico vista la sua provenienza e la
proverbiale dinamicità, fisica e verbale, dei
conterranei.
Nessun brio particolare in
lui, semmai una
riservatezza profonda che
sconfinava in una sorta di
latente indifferenza.
Nutrivo stima verso la sua
persona, pur non
conoscendola bene e non
p a r l a n d o c i
quotidianamente. La sua
timidezza e i suoi silenzi, a volte, inibivano
i miei tentativi di approcciare discorsi di
circostanza tantomeno quelli più
approfonditi.
Professionalmente si distingueva, senza
clamori o enfasi tipiche di altri nostri
colleghi, per la concretezza e per la
disponibilità a risolvere problemi o dubbi
lavorativi. Il suo curriculum si era arricchito
anche di un titolo importante, quello di
ingegnere, raggiunto nonostante l’impegno
lavorativo quotidiano non indifferente.
Ingegnere... un tipo pragmatico, tecnico,
legato a un ineluttabile materialismo
moderno; freddo, preciso, poco incline alle
sfaccettature e ai rivoli del sentimento.
Questo poteva essere lo
stereotipo più prossimo
al mio collega.
Alcuni periodi
dell’anno si allontanava
dall’ufficio, per
settimane, senza
avvertire la stragrande
maggioranza dei suoi
colleghi.
chi ti narra per filo e per
segno anche le proprie informazioni più
intime e non richieste. Lui preferiva
confidarsi con poche persone. Io non
ero tra quelle e, infatti, d’improvviso notavo
la sua mancanza e mi chiedevo dove fosse
andato per tutti quei giorni. Era una mia
semplice curiosità, non pretendevo
certamente di invadere la sua sfera personale,
tant’è che non ponevo domande ai colleghi
che ritenevo gli fossero più vicini;
immaginavo che ottenesse delle “aspettative”
*segue
dal nostro ente, per curare la propria
professionalità tecnica e per incrementare
studi e curriculum.
Quando il lavoro in ufficio è considerevole,
ti impedisce anche di approfondire le
relazioni sociali più naturali e ti distrae da
confidenze e racconti che potrebbero
contribuire ad accrescere la personalità. Il
lavoro rischia così di trascinarti in un
budello di pregnante superficialità nei
confronti del prossimo di turno, il collega
e, conseguentemente, verso il prossimo poco
più distante, quello della società che ti è
intorno, e quello ancora più lontano, il
disagiato, il povero, il disabile.
Mi fa rabbia ammettere queste parole e
scriverle, perché anche se non affogato
completamente in questo isterico vortice di
scadenze, pratiche e burocrazia, rimanevo
colpito dall’altrui totale asservimento e dal
mio parziale tentativo di dar valore agli altri
aspetti della vita. Era questo solo uno fra i
milioni di casi simili in un paese come il
nostro, distratto da ingannevoli messaggi
pubblicitari, dall’ossessione dell’esteriore,
stordito dai telefoni cellulari, dalle
stupidaggini televisive e dai capricci dei
calciatori miliardari.
E l’ingegnere? Lui sembrava poco disturbato
da quel caos lavorativo, chissà... forse
estremamente ed esclusivamente interessato
ai propri sviluppi professionali esterni o
forse rinfrancato da quelle sue pause
lavorative di alcune settimane.
Un giorno in ufficio mi giungeva,
inaspettato, un messaggio di posta
elettronica, inviato proprio
dall’ingegnere.
Non ero l’unico destinatario di quel
messaggio bensì era rivolto a una moltitudine
di indirizzi di posta elettronica. Nel testo il
mio collega avvertiva di essersi appena
collocato in “aspettativa” e di essere pronto,
da lì a pochissimi giorni, a partire per la sua
periodica missione di volontario in India;
chiedeva, altresì, che chi volesse donare
qualcosa per la povera gente indiana lo
facesse in fretta prima della sua partenza.
La sorpresa era totale. Ecco cosa si
nascondeva dietro le assenze di questo
collega: l’attività più nobile, quella del
volontario, per giunta in un paese lontano,
dove il volontario è tale per tutta la giornata,
non per alcune ore, senza retribuzione,
rinunciando a quella del nostro ufficio.
La discrezione del mio collega era veramente
notevole, al punto da nascondere questa
generosa attività. Vallo a spiegare ai tanti
personaggi famosi, ai VIP che sbandierano
ai quattro venti il loro impegno sociale
consistente nel cedere un proprio cimelio
per raccogliere fondi!
L’e-mail che mi era giunta era la più
importante che mi fosse arrivata negli
ultimi tempi, a differenza di quegli stupidi
messaggi che ci scambiamo quotidianamente
utilizzando Internet, o quei martellanti (e
spesso disgustosi) messaggi pubblicitari che
invadono le nostre caselle di posta elettronica.
Il mio collega sarebbe tornato tre mesi
dopo, dimagrito di qualche chilo, tra il saluto
poco più accorato del solito da parte della
maggioranza degli altri colleghi, ben più
interessati al quotidiano nevrotico
svolgimento di pratiche e incartamenti.
L’insegnamento espresso dal discreto
comportamento del mio collega era
veramente di alta levatura. Mi preparava,
innanzi tutto, a non generalizzare, a
considerare che dietro un’apparente figura
o titolo c’è una persona, e sì perché
l’apparenza inganna veramente, seduce
e stordisce il mondo moderno, ma non
possiede l’uomo realmente probo.
Dietro colui che può sembrare un figlio del
nostro sistema moderno può nascondersi
un missionario della bontà e, viceversa, nel
volontario più strombazzante si può
nascondere un interesse poco nobile. La
discrezione è virtù assai da lodare, forse in
questo caso da limitare, se non altro per una
sorta di buona pubblicità, di coinvolgimento
di altre coscienze forse solo intorpidite e
pronte invece a scatenarsi in una sana
emulazione.
Ci descriveva le sofferenze della povera gente
indiana e ce ne rendeva partecipi, lui sì che
le aveva vissute e ne portava anche i segni
nel fisico molto esile e negli occhi provati.
Lo sguardo era però quello di chi era pronto
a tornare di nuovo in India, anche il giorno
dopo, tra quella gente per nulla inebetita da
progresso, tecnologia e burocrazia.
L’uomo agisce per un naturale senso di
egoismo, di soddisfacimento dei propri
bisogni, da quelli più vitali a quelli più
superflui; è nella natura umana. Lo stesso
uomo deve però ricordarsi che la propria
azione non è riconducibile esclusivamente
al tornaconto personale, che ci può essere
uníazione mossa anche dalla gratuità del
gesto stesso. Si può vivere anche per un
ideale, per contribuire a soddisfare i
bisogni di chi ti è accanto.
La gratuità del gesto... quale motto è più alto
di questo, del muoversi nell’assoluta
dedizione a un gesto a fondo perduto, dal
quale ricavare “solo” il sorriso di un bimbo
prima in difficoltà.
Caro collega ti formulo la mia più grande
ammirazione. Complimenti. E io che ti
credevo in una sala ipertecnologica di
un’assetata multinazionale, tra telefoni
cellulari, cravatte, doppio petto e
ventiquattrore di pelle. Invece ti trovavi tra
case approssimate, tra vicoli senza cemento
e gente semplice ammantata di candide vesti
bianche.
Complimenti, perché la voce e le urla di
q u e l l a p ove r a g e n t e e n t r ava n o
prepotentemente nelle mie orecchie, quanto
più forti di un martellante messaggio
pubblicitario, forse perché accompagnate
dal tuo discreto silenzio e da quelle tue poche
e misurate parole, frutto di musica lontana,
di genti lontane, di un altro modo di vivere.
Complimenti al benefattore venuto da
lontano, a colui che non vende fumo né
fucili, armato della gloria e della gioia
della vita, anche di quella che in
Occidente può apparire di basso prezzo.
E, invece, ha l’alto prezzo di chi non
monetizza miseria e dolore, ma attende per
un anno intero il regalo più bello: l’arrivo
dell’angelo, l’ingegnere che dal suo aereo
piomba sugli amici impazienti.
Il tributo più grande a chi porta negli
occhi lo sguardo dei bambini felici, del
suo arrivo, delle sue attenzioni, dei giocattoli
scartati dai nostri bambini viziati per portarli
a chi ne ha visti pochi.
L’omaggio più sentito a chi, quindi,
abituato a studiare dati, numeri e calcoli,
della propria vita non ha fatto un calcolo
personale.
Grazie Michele.
Questa testimonianza apre una finestra viva e concreta sulla
disabilità giovanile, vista con l’occhio della quotidiana normalità.
Ragazzi come gli altri e al tempo stesso anche “risorse sociali”,
in grado di arricchire tutti con le proprie capacità e competenze,
ma soprattutto desiderosi di progettare con speranza e credere
nel futuro.
Sono le 8.30 e
finalmente siamo
arrivate alla stazione
metro B di Piramide. Io
e la mia allieva del
quinto anno della scuola
superiore scendiamo e,
con una certa ansia,
cerchiamo di capire
dalla mia mappa sfocata sullo smartphone
dove dobbiamo andare. Siamo dirette al
centro di formazione professionale di
Roma “Simonetta Tosi”, che offre corsi sia
per i normodotati sia per i ragazzi con
disabilità.
L’attesa è tanta, perché questo centro dà la
possibilità ai ragazzi disabili di effettuare un
orientamento e in seguito un tirocinio presso
altre strutture, utile al loro inserimento
lavorativo. E’ la prima volta che visito un
centro di formazione e penso che
finalmente qualcosa di concreto si stia
attuando anche per i disabili. Infatti anche
loro, proprio come tutti, hanno fame di
speranza e di futuro, vogliono sentirsi
utili e impegnati nella loro quotidianità,
sognano di lavorare e di essere
indipendenti.
La scuola ha il compito
non solo di accogliere
chi ha una disabilità, ma
è anche un ponte
verso la società, verso
il mondo esterno, è un
luogo educativo di
conoscenza di sé di
preparazione alla vita, è
promotrice di speranza e di futuro. La mia
allieva, Giada, è un po’ impaurita, perché
il nuovo spaventa tutti, ma allo stesso
tempo curiosa di lasciarsi coinvolgere
in questa nuova avventura. Entriamo in
una struttura spaziosa ed accogliente e subito
ci colpisce il sorriso e l’armonia di tutto il
personale. Ci fanno entrare nell’aula blu,
dove altri ragazzi degli ultimi anni con
i loro docenti attendono l’inizio del corso.
Anche loro sono piuttosto tesi e intimiditi
dalla situazione, tant’è che, ad una mia
domanda lanciata per rompere il ghiaccio,
nessuno risponde. I banchi e le sedie sono
disposti ad U, per cui tutti guardano tutti:
abbiamo la possibilità di studiarci con lo
sguardo, le ragazze “adocchiano” con
una moderata intensità i ragazzi e
viceversa.
Nell’aula c’è già la prof.ssa responsabile del
corso, che fa presentare tutti chiedendo il
nome e la scuola di provenienza ed illustra
ai presenti lo svolgimento del corso: sette
incontri fino a maggio al centro per iniziare
un tirocinio da settembre in poi.
Io, che sono una ossessivo-compulsiva della
scrittura, inizio a prendere appunti. Non
tutti saranno ammessi al tirocinio, spiega,
ma potranno, dopo il diploma di maturità,
seguire dei corsi di consolidamento o
acquisizione di certe abilità, per poter
eventualmente iniziare il tirocinio l’anno
successivo.
Queste prestazioni lavorative presso le
strutture sono erogate dai ragazzi in modo
gratuito, ma sono utili sia a mettersi in gioco,
acquisendo nuove competenze, sia a farsi
conoscere dalla struttura che li accoglie
(mensa scolastica, supermercato, ristorante,
ufficio pubblico), tanto da offrire
opportunità di lavoro retribuite in
seguito. Quest’ultima situazione si è già
verificata varie volte, tutto sta ad affrontare
con senso di responsabilità il lavoro svolto
e a trovarsi al posto giusto nel momento
favorevole.
Durante i sette incontri gli allievi faranno
dei test di comprensione e attitudinali, in
modo da poter essere indirizzati verso un
tirocinio idoneo alle loro potenzialità. La
mia allieva è entusiasta, mi lancia un
sorriso; per capirci ci basta uno
sguardo, perché andiamo molto
d’accordo. Dopo un po’ di tempo
qualche allievo inizia a distrarsi col
cellulare, ordinaria amministrazione...
Ciò che mi piace di questi ragazzi è
proprio la loro “speciale normalità”, il
loro essere adolescenti come gli altri
combinato ad una grande umanità.
Durante la ricreazione io e la
responsabile ci allontaniamo per lasciarli
socializzare un po’; al nostro ritorno
scopriamo che si sono già scambiati i numeri
di telefono e che stanno nascendo delle
amicizie, tant’è che alcuni iniziano a cambiarsi
di posto per rafforzare le alleanze formatesi.
Questi ragazzi sanno stare con gli altri molto
più di noi, non conoscono pregiudizi, non
ergono barriere, il loro modo di amare è
puro: è formativo osservare i loro
comportamenti, perché hanno tanto da
insegnarci.
Verso le 12.00 la responsabile invita tutti ad
uscire dall’aula blu per visitare le strutture
del centro. Iniziamo questo piacevole
percorso e, oltre alle aule ispirate ai colori
occupate dagli allievi dei corsi precedenti,
ciò che mi colpisce sono i laboratori: di
arte creativa, del riciclo, di botanica, di
artigianato, di cucina. I ragazzi del corso
di formazione professionale valido per
assolvere l’obbligo scolastico stanno
cucinando qualcosa di buono... si sente
nell’aria un profumo che stuzzica l’appetito,
ma resta solo un profumo.
Il corridoio è arricchito da cartelloni
realizzati dai ragazzi con frasi simpatiche
e spontanee, relative alle loro emozioni
o a ciò che hanno appreso al centro, che
la mia discrezione non può ripetere. Ogni
tanto incrociamo i ragazzi dei corsi attivi, i
quali si mostrano sereni e a loro agio.
*segue
All’improvviso vedo una figura
familiare che mi sfiora: è
Leonardo, un mio allievo di
quattro anni fa, che non mi
riconosce, anche perché sono
stata la sua insegnante per circa
venti giorni. Leonardo è un
bel ragazzo alto e cammina
con il busto dritto, sicuro di
sé, ha uno sguardo
consapevole e deciso, quasi
non lo riconoscevo. Pensare
che durante una visita
didattica si divertiva a
colpirmi alla testa con una bottiglina di
plastica vuota...! E’ cresciuto tanto da
allora, la fine del percorso scolastico ha
rappresentato per lui non un chiudersi nelle
quattro mura domestiche, ma un nuovo
inizio, proprio come deve essere. Il punto
è che i primi a credere nella loro possibilità
di integrarsi dobbiamo essere noi insegnanti
insieme ai genitori, poi anche il territorio
deve offrire percorsi validi e iniziative utili
alla loro effettiva inclusione.
La responsabile del corso insiste col dirci
che devono imparare a spostarsi da soli
per arrivare al centro, anche perché Roma
è una metropoli e, prima o poi, dovranno
fare i conti con le distanze e con i tempi dei
mezzi pubblici. Questa sarebbe stata la
prima ed ultima volta che noi insegnanti
li avremmo accompagnati. Chi è
educatore non deve essere troppo protettivo
con loro, perché si rischia di compromettere
il loro percorso verso l’autonomia sociale.
L’eccesso di premure è un errore che
non possiamo permetterci, altrimenti si
rischia di lasciarli bambini e indifesi per
sempre.
Sono passata un’altra volta al centro solo
per consegnare un documento: c’era Giada
tutta sorridente, un volto sereno dalla
carnagione scura contornato da un groviglio
di capelli lisci e lunghi. Giada ha intuito il
valore della possibilità che le è stata data
ed è anche felice di aver trovato dei nuovi
amici. A scuola non fa altro che parlarmi
di loro, lei che in genere è piuttosto
silenziosa... Cosa succederà dopo il
diploma? Nessuno lo sa. La speranza è
un racconto sempre aperto, senza fine.
L’importante è fare qualche passo, costruire
possibilità, darsi da fare.
Per chi lavora con le persone con disabilità
non c’è spazio né per il pessimismo, che
paralizza qualsiasi tentativo, né per
l’ottimismo, che si abbandona alle inutili
elucubrazioni dei giocolieri di parole.
Bisogna, invece, essere realisti, che è
l’atteggiamento di chi bussa alle porte,
non si ferma all’aula didattica e “travalica”
il cancello della scuola, si dà da fare per
questi ragazzi speciali.
I realisti non sognano, non aspettano, ma
“aggiustano le vele”. Si dice che il verde sia
il colore della speranza, ma io credo che
la speranza sia blu.
Blu come l’aula blu del centro di
formazione “Simonetta Tosi”, blu come il
futuro, blu come il mare che attende
solo di essere solcato.
Vai Giada, prendi il largo!
Questa bellissima poesia
è carica di gioia e di
speranza. Spiega il suo
senso profondo, con
parole semplici ma
estremamente efficaci, che
riscaldano l’anima e
sanno arrivare al cuore
del lettore.
Speranza d'or è ricamata negli animi
è l'arcobaleno dopo il temporale
è la fune che ti tiene mentre stai per cadere
la finestra che vedi nell'oscurità
il motivo per cui ti alzi ogni mattina
e vivi la tua vita
è bellissimo il suo ricamo
profuma di domani
è il tuo continuo cercare il perché
il suo ricamo nella vita ti accompagna
e sollevar dalle tue ferite intagliate
attorno al cuore sono...
Un bellissimo racconto quello di Jessica, scritto in forma di
diario, molto realistico e intenso, che affronta il tema
estremamente attuale dell’immigrazione. Colpisce la ricchezza
dei particolari, che fa pensare davvero ad un’esperienza
vissuta in prima persona e porta il lettore a immedesimarsi
nella vicenda narrata.
Opa, 12 marzo 2015
Caro diario,
mi chiamo Promise, ho 16 anni e tu sarai
il mio diario. Ti affiderò tutti i miei pensieri
e le mie speranze e ti metterò al corrente
della mia vita perché ho bisogno di
sfogarmi, perché la mia vita è particolare
e non è come tutte le altre.
Sono nigeriana e più precisamente
vengo da Opa. La mia famiglia è povera
quindi lavoriamo tutti molto duramente.
Sono la promessa sposa di un uomo più
vecchio di me. Le nozze sono state fissate
per il 25 settembre. Però io non ci sto.
Voglio avere la possibilità di scegliere la
mia vita e chi sposare.
Opa, 13 marzo 2015
Caro diario,
la mia migliore amica si chiama
Kaduna. Lei mi ha detto che vuole
raggiungere l’Italia e mi ha spiegato come
ha deciso di andar via. Io impulsivamente
le ho chiesto se posso scappare con lei.
Che gioia ho letto nei suoi occhi nel
momento in cui mi ha detto di sì, ma
non sarà una cosa semplice perché i pericoli
sono tanti e ci vogliono molti soldi per
affrontare il viaggio.
Opa, 20 marzo 2015
Caro diario,
è passato tanto dall’ultima volta che ti ho
scritto ma non ho avuto molto tempo
libero. Ho deciso di lavorare ancora più
duramente per poter pagare il viaggio,
perché ho deciso di partire.
Alla fine ho raccontato tutto a mia madre:
i miei dispiaceri, le mie speranze, la mia
voglia di scappare. Lei mi ha posato una
mano sulla guancia con gli occhi velati
di lacrime. Sorrideva triste perché con la
bocca voleva dirmi che era
felice per me, ma gli occhi
piangevano. Sapeva che, se
fossi riuscita a fuggire, non
mi avrebbe vista forse mai
più.
Agadez, 29 aprile 2015
Caro diario,
è arrivato il grande giorno,
così io e Kaduna ci siamo date
appuntamento in una radura
vicina al villaggio dove abbiamo
aspettato che venissero a prenderci. La
prima parte del viaggio è durata un giorno
e poi finalmente siamo arrivate ad Agadez
in Niger. Abbiamo fatto i turni per
dormire per paura che ci rubassero i
soldi. Le persone che hanno preso accordi
con noi ci avevano garantito che avremmo
dormito al sicuro, in dei luoghi comodi e
accoglienti. Invece, siamo circondate da
catapecchie e tutto è sporco e squallido.
I camion che sono venuti a prenderci per
attraversare il deserto sono troppo piccoli
e noi siamo in tanti. Sarà difficile scrivere
d’ora in poi perché a malapena posso
muovermi ogni volta che si riprende il
cammino. Ciao caro diario.
Murzuch, 5 maggio 2015
Caro diario,
siamo arrivate finalmente in Libia, sono
stanca e affamata perché non mangiamo
bene da tempo ma sono anche tanto felice.
Certe volte piango perché mi mancano
le risate di mio fratello e gli abbracci
della mamma, però grazie a Kaduna ho
trovato sempre la forze per continuare. Per
questo e per mille altre cose le sono
immensamente riconoscente.
Golfo di Gabès, 7 maggio 2015
Caro diario,
non so di preciso dove ci troviamo. So solo
che siamo nascoste fra i cespugli lungo
la costa libica in attesa di superare l’ultimo
grande ostacolo: attraversare il mare con
un barcone che sta per venire a
prenderci. Meno male c’è Kaduna a
rincuorarmi con le sue parole.
Lampedusa, 8 maggio 2015
Caro diario,
siamo salite su una specie di barcone, se
così si può chiamare una gigantesca zattera
galleggiante, e l’agonia è iniziata. Per la
prima volta in vita mia ho avuto paura di
morire. Le grida e i pianti delle persone
che viaggiavano con noi mi risuonano
ancora nelle orecchie.
Io e Kaduna ci tenevamo per mano quando
abbiamo toccato terra e abbiamo urlato al
vento: “Liftorugi!!!”.
Oggi posso dire che ho lottato per avere
una vita migliore e lo farò sempre
perché vivere significa lottare.
Questo racconto, ricco di freschezza e di desiderio di libertà, è
molto interessante perché evoca sentimenti intensi, forti,
drammatici, ma al tempo stesso si apre alla speranza, alla
fantasia, all’accoglienza dell’ignoto.
E la mia storia inizia da
qui. Beh, non proprio
da qui.
C’è un prima, anzi c’era.
Perché di quel prima,
ormai, non resta niente.
Tutto si è frantumato
in pochi istanti.
E ora a farmi
compagnia c’è un
vuoto che resterà tale per
sempre.
Sono seduta nel salone di casa, rannicchiata,
la testa tra le ginocchia.
Il portone si apre. Non ho la forza di alzarmi.
Non ci riesco, ma capisco che è lui.
Si siede vicino a me, mi abbraccia.
Ed è in quel momento, appoggiata alla sua
spalla, che riesco a liberare tutto il dolore che
provo per la morte dei nostri genitori. Con
le lacrime bagno la sua giacca, ma lui non
parla, mi sta vicino in silenzio.
Paul ha diciassette anni, io uno in meno.
Un anno fa, dopo una lite con papà e mamma,
partì a Roma dai nonni. Lo odiai tanto per
questo, mi aveva lasciata sola.
“Perdonami” sussurra.
La lettera del Tribunale dei minori non
tarda ad arrivare. Nessun barlume di
interesse per quel foglio
di carta. I miei
occhi rimangono
fissi su ricordi
lontani. Incantati.
Una settimana
dopo ci ritroviamo
davanti al giudice.
Quest’ultimo
semplifica
l’accaduto quasi
fossimo piccoli.
Gira intorno alla questione con fare irritante
ed io ascolto in silenzio.
Poi la sentenza: “Non abbiamo trovato nessuno
a cui affidarvi, ragazzi. Neppure i vostri nonni
possono tenervi a causa dei loro problemi di salute”.
Tengo il capo chino e osservo mio fratello.
E’ teso, si agita impaziente. Forse ha capito.
Io no. Non ancora.
“Perciò, l’unica soluzione è l’orfanotrofio fino alla
maggior età”.
Alzo lo sguardo, non dico niente.
Fisso i miei occhi grigi sul giudice, mentre
Paul cerca di trovare una soluzione.
“Orfanotrofio? Mi scusi non c’è alternativa?”
La sua voce è sbalordita, risuona nella stanza,
rimbalza nelle pareti illuminate dalla luce
arancione del tramonto.
“Mi spiace deluderla, ma le pratiche sono già state
avviate. Sarete trasferiti all’Istituto Provinciale qui
a Torino. Dovrete essere lì dopodomani”.
Non ci fa parlare. Ma si sa che in certe
circostanze le vittime non hanno voce.
Ci tende la mano e, quello che prima pareva
un uomo gentile, torna a essere un giudice
distaccato.
Il giorno dopo è come gli altri. Non mi alzo.
Non mangio. Non faccio niente. Fisso la
parete della stanza senza guardare. Non sento
più neanche la musica. Solo silenzio, silenzio
fino a sera.
L’ultima in cui dormirò nel mio letto, con i
miei cuscini.
Poi, Paul chiede di entrare, si siede e mi dice:
“Ascolta Amy, non dobbiamo permettere che ci
rinchiudano. Stando in quel posto cambieremo.
Moriremo!”
Alzo lo sguardo disillusa, quasi ironica.
“Chi ti ha detto che voglio vivere?”.
Questa frase lo spiazza. Ancor più il tono
che ho usato, il tono di chi non ha più niente.
Lo so, ma continuo: “Mamma e papà non ci
sono più”.
Una lacrima silenziosa gli bagna il viso,
ma respira, si calma.
“Ed io non ho la forza di scappare, perché la mia
vita senza di loro non ha più senso e sapere che non
ci saranno quando raggiungerò i miei traguardi...
Perciò Paul, un posto vale l’altro, non serve vivere,
mi basta sopravvivere”.
Mi fermo. Ho detto tutto in un fiato, senza
emozione. Ora lui se ne andrà, abbandonerà
le speranze proprio come ho fatto io, e
domani saremo lì, in quell’edificio alto, grigio,
rigido.
Mi guarda, non si arrende.
“Invece no, non devi pensare così. Abbiamo la vita
davanti e dobbiamo viverla. Perché capita a tutti di
cadere, farsi male anche tanto, ma poi è il rialzarsi
la cosa più importante. Rialzarsi e scoprire che siamo
più forti, pronti a ricominciare. Non devi smettere
di credere nei tuoi sogni, mamma e papà non
vorrebbero. è la solita frase ma è la verità perché,
dopo la tempesta, arriva sempre il Sole”.
Si alza, accetta il mio “no”, sta andando a
dormire.
E sono quelle parole a scuotermi, così
finalmente la vera Amélie torna a galla.
Libera.
“Aspetta Paul”.
Si volta, ha gli occhi stanchi.
“Vengo con te domani!”
Glielo dico col sorriso sulle labbra, quel
sorriso che lui è riuscito a far tornare. Mi
corre incontro, mi abbraccia.
All’alba incappucciati e ben coperti ci avviamo
alla stazione. Abbiamo due borsoni con noi,
uno viola, il mio, uno blu, di Paul. Con le
provviste da una parte, i soldi e gli oggetti
più importanti dall’altra. I biglietti sono pronti,
ci sediamo e attendiamo.
Vogliamo andare in Francia perché qui ormai
non possiamo più restare. La polizia ci
cercherà e noi non vogliamo rischiare. Non
ci importa se vivremo come fuggiaschi, ogni
giorno sarà una sorpresa, tutto da
decidere.
Il treno si ferma davanti a noi e via all’interno.
Corriamo tra le carrozze come pazzi,
rubando pezzi di cibo dal vagone ristorante
e ci fermiamo davanti al finestrino. Lo
abbassiamo e urliamo: “Addio Italia!”
Insieme siamo pronti a iniziare un nuovo
capitolo della nostra vita.
Ricordo ancora tutti i dettagli di Parigi: le
colazioni al bar, le giornate ricche di esperienze
circondati da luoghi importanti e attrazioni
spettacolari, le notti coi sacchi a pelo passate
a contare le stelle.
Dopo tanto tempo la polizia ci intercettò,
ma ormai Paul era maggiorenne, lavorava e
poteva occuparsi di me.
Ora sono grande, ho una famiglia a cui badare,
ma non dimenticherò mai quegli anni e
soprattutto la frase che inventammo una sera.
Diceva: “Siamo stati il vento contro l’uragano, ci
abbiamo creduto e siamo andati lontano!”
Amélie Petit
Con un linguaggio ricco di metafore e immagini, la poesia mette
in scena i valori dell’amore e della speranza in modo originale
ed efficace. Riesce così a rispecchiare un dilemma tipico dei giorni
nostri: tra amarezza e gioia, tra delusioni e speranze.
Amore, policromo frutto
dai milleuno sapori,
nasci sì spesso
in un sorriso di gioia
ma altrettanto perisci
in sordido dolore.
E’ dunque vana
ogni speranza?
Casuale incrocio
ricongiunge oggi
diverse lande.
Sono due strade
consunte dalle buche.
Destini e desideri usati.
Io oso esistere
ancora, specchio
e alveolo di speranza
altrui, campo di grano
che attende esser mietuto.
E chissà non sia questa
alfine, la recita
che scroscerà di vita?
Roberta ha realizzato una vera
e propria tesina di undici pagine
sulla serie televisiva Braccialetti
rossi. La tesina, divisa in capitoli,
contiene tanti disegni, tutti molto
verosimili e simpatici!
info e contatti: 089-220425 (ore serali)
[email protected]
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