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25 scheda Torneranno i prati OLMI - Il cineforum "Il posto delle
25° film “Cineforum
Il posto delle fragole”
21° edizione
2015
TORNERANNO I PRATI di Ermanno Olmi
Con Claudio Santamaria, Alessandro
Sperduti, Francesco Formichetti, Andrea Di
Maria. Camillo Grassi, Niccolò
Senni, Domenico Benett, Carlo
Stefani,Niccolò Tredese, Franz Stefani.
durata 80 min. - Italia 2014. - 01
Distribution
La paura e la neve Paolo Vecchi dalla
rivista Cineforum
Come segnalano i titoli di coda, Torneranno i prati prende spunto dall’impressionante La paura, scritto
da Federico De Roberto nel 1921, Dall’autore dei Viceré, uno dei grandi romanzi della nostra letteratura,
Ermanno Olmi, oltre naturalmente all’ambientazione di trincea, eredita la progressione drammatica che
porta un giovane tenente a sacrificare in sequenza i suoi uomini in una missione insensata, fino a quando
uno di loro, un decorato della guerra di Libia, in preda al terrore, dapprima si rifiuta pur sapendo di andare
incontro alla fucilazione, poi, strappatisi di dosso i nastrini, si uccide in maniera orribile . Olmi sposta la
stagione dei fatti narrati, dal «primo chiarore di un’alba d’agosto» a un inverno gelido e nevoso, per il
quale pare che la troupe coordinata da Maurizio Zaccaro abbia avuto non pochi problemi nel corso della
lavorazione, dovendo – felicemente, detto a posteriori – modificare scenografia e in parte sceneggiatura a
causa delle abbondanti precipitazioni. Come De Roberto, anche il regista bergamasco insiste sulla babele
linguistica di un’Italia fatta solo sulla carta, a partire dal conduttore di muli napoletano che si esibisce,
apprezzato anche dall’altra parte del fronte, in Tu ca nun chiagne e nella belliniana Fenesta ca lucive. Al
tenentino, caratterizzato qui in maniera più evidente come un intellettuale dalla formazione umanistica,
affianca un maggiore che lo accompagna nella trincea a portare ordini oltre che a fare esperienza, un
capitano gravemente malato nel corpo e nell’anima e un sergente paternamente vicino ai propri soldati,
tanto da sentirsi in colpa per averli mobilitati di fronte a un ipotetico assalto nemico invece di metterli al
riparo dall’imminente bombardamento. Come nel racconto dello scrittore catanese e a differenza di altri
classici dello schermo, il film non innesca una vera e propria dialettica tra i vari gradi dell’esercito regio, e
tra essi e la truppa. L’insipienza, l’insensatezza, il cinismo di chi invia al macello uomini fatti di carne e
sangue come fossero pedine di un maldestro gioco di scacchi appartengono all’alto comando e a chi lo
gestisce a livello politico-istituzionale, entità così lontane da risultare impalpabili e senza volto. Per questo
sono in un certo senso equiparabili al nemico, che pure non si vede mai, sia quando il suo incombere
sembra segnalato dai campanacci legati al filo spinato che quando più concretamente spara sui soldati o
devasta la trincea a colpi di mortaio.
L’idea forte del film ci sembra tuttavia quella di giustapporre un dentro e un fuori alternandoli secondo
un infallibile dosaggio. Dentro ci sono i camminamenti e gli alloggi, luogo del freddo, della paura e di
un’epidemia che viene dai Balcani al pari di tutti i guai più recenti, come afferma con amara ironia il
capitano. Dove il ricordo di casa è tenuto vivo dalle fotografie attaccate al soffitto, addomesticare
un’arvicola seminando briciole di mollica sulla sponda della cuccetta funziona da esorcismo contro la
cosiddetta fine del topo sepolto nella propria tana, il momento della posta unisce alla gioia di ricevere
notizie dai congiunti la tristezza delle lettere che non è possibile consegnare per la morte del destinatario. Il
fuori è la natura di implacabile splendore dell’Altopiano dei Sette Comuni e dell’Ortigara coperti da
quattro metri e mezzo di neve, di foreste di abeti che quasi beffardamente alludono al Natale, di una Luna
enorme che troneggia sopra la linea delle montagne. «Nell’orrore della natura l’orrore della guerra», scrive
De Roberto nell’incipit del racconto. Per Olmi il rapporto è differente e più complesso. Vi si coglie certo la
pasoliniana «straziante e meravigliosa bellezza del creato». Ma a leggere con maggiore precisione il suo
punto di vista aiuta forse il titolo bellissimo del suo bellissimo film. Torneranno i prati alla fine,
dell’inverno e del conflitto bellico. Ma non per coloro che sono morti, vittime di quella che Sartre
chiamava perdita secca – di vita, amore, bellezza. E cancellati dalla memoria, come afferma in conclusione
uno dei soldati, fin qui sempre presente ma attonito e muto.
Questa dicotomia dentro-fuori solo per brevi momenti trova una sua ricomposizione, memoriale e
fantasmatica, nei discorsi di qualcuno che guarda
le immagini rubate attraverso le feritoie: la lepre e
la volpe sulla neve che suggeriscono l’idea che gli
animali si parlino fra di loro (un ricordo del
sottovalutato Il segreto del bosco vecchio
[1993]?), il larice che in autunno diventa d’oro e
che, colpito da una granata, arderà come il roveto
biblico.
Duro fino alla bestemmia verso un Dio che
consente questo orrore e che sarà pure dove lo si
cerca, come afferma un soldato, ma neppure il
Papa sa dove sia, come controbatte un altro, il
cattolico Olmi termina il suo percorso nella
trincea con la lettera del giovane ufficiale alla
madre, che per intensità e commozione ricorda quella del protagonista al suo capitano in L’arpa birmana
(Biruma no tategoto, 1956). La guerra mi ha fatto diventare vecchio in un’ora, dice il ragazzo, fratello
dell’Ivan tarkovskijano persosi in un altro conflitto che verrà. Perchè, come recita in chiusura una massima
di Toni Lunardi, pastore, indimenticabile protagonista dello straordinario I recuperanti (1970), la guerra è
una brutta bestia che gira sempre e non si ferma mai.
Quasi in appendice, il regista tira poi fuori il proprio fondo anarcoide, concludendo il film con materiale
di repertorio che, dopo gli assalti alla baionetta negati dalla finzione, si sofferma su corpi e luoghi
martoriati, prosegue con i festeggiamenti della vittoria per chiudere con la desolazione di croci sghembe.
Se a De Roberto lo accomuna l’atteggiamento etico, la sua cifra stilistica, lo sappiamo bene, ha ben poco
di verista o realista che dir si voglia. Il suo è infatti un film sussurrato. L’understatement caratterizza la
recitazione di attori dal volto anonimo a esclusione di Claudio Santamaria, il commento musicale
calibratissimo ed essenziale di Paolo Fresu, la magistrale fotografia di Fabio Olmi, con il colore che
implode in un biancoenero più “morale” che suggestivo, segno di uno sguardo che rifiuta
pregiudizialmente ogni leziosità filologica. Il suo pudore espressivo, una compattezza che si esprime anche
nell’impeccabile scelta dei tempi, perfino nella stringatezza della durata di soli ottanta minuti, fanno
risaltare l’orrore per contrasto più di qualsiasi urlo, perorazione o proclama.
Alberto Farassino sosteneva che il cinema di Olmi racconta quasi sempre la stessa cosa, cioè un
passaggio d’epoca colto attraverso i mutamenti della cultura materiale. Ci sembra che la considerazione
possa valere anche per Torneranno i prati, che dello spazio angusto di una trincea riesce a fare
microcosmo di provenienze geografiche e sociali, anime e destini, luogo e momento di svolta per un’intera
Nazione. Se con La grande guerra (1959) Monicelli riusciva – scandalosamente, per i tempi – a
contaminare l’enormità della tragedia con i modi della commedia, il regista bergamasco ne coglie l’essenza
sul piano della dignità umana ferita ma anche della dolorosa costruzione di una koiné, chiudendo più di
cinquant’anni dopo il cerchio di un dittico da consegnare alla storia della Settima arte.
Prossimo film giovedì
30 apriIe 2015
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