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c`È una talpa in caSErma
mafia | Il caso C Il boss accusa: “C’è una talpa in caserma” Il boss di Brancaccio Cesare Lupo contrattacca dopo le accuse del suo presunto prestanome Luigi Chiavetta: “Una volta mi disse che ero seguito, glielo riferì un suo amico che lavora alla Lungaro” di Riccardo Lo Verso 88 s - il magazine che guarda dentro la cronaca esare Lupo non ci sta. Il boss di Brancaccio non accetta di essere accusato di estorsione. Specie se le accuse, a suo dire false, arrivano da quello che definisce un amico. E così, contro ogni regola di Cosa nostra, ha deciso di rivolgersi alla magistratura per querelare Luigi Chiavetta. Si tratta del titolare del bar all’interno dell’ospedale Buccheri La Ferla. Colui che da accusato si è trasformato in accusatore, tirando in ballo il capomafia di Brancaccio. Lupo è pronto a tutto. Persino a raccontare “la verità” ai magistrati se continueranno a credere alla versione di Chiavetta. Il 19 luglio scorso il pubblico ministero Francesca Mazzocco lo ha interrogato nel carcere Pagliarelli di Palermo, in presenza del difensore, l’avvocato Giovanni Castronovo. Facciamo un passo indietro. Nei mesi scorsi la guardia di finanza ha sequestrato a Chiavetta due bar. Quello all’interno dell’ospedale Buccheri La Ferla e il bar Ammiraglio di corso dei Mille. Secondo l’accusa, Chiavetta sarebbe il prestanome di Lupo, indicato come uno dei custodi delle ricchezze dei fratelli Graviano. Solo che Chiavetta si presenta in Procura e racconta la sua storia di vittima del racket. Da vent’anni, dice, subisce le angherie dei mafiosi a cui ha pagato il pizzo. Mette a verbale che “da quando è uscito Cesare Lupo i soldi li ho consegnati a lui. Lupo mi disse che doveva campare due famiglie e cioè la sua e quella del cognato Fabio Tranchina che si era pentito”. Apriti cielo. Lupo passa al contrattacco. È un fiume in piena: “Che io potevo capire che il signor Chiavetta che si accordava con me e mi diceva ‘sai Cesare a me mi stanno accusando ingiustamente di essere un tuo prestanome’, che non è vero. ‘Ci mettiamo d’accordo, ti accuso a te che mi fai l’estorsione e lui si sistema la cosa in quella maniera’. E in- vece lui si è creato tutto un discorso alla Lo Sicco, che sto rivivendo io il dramma Lo Sicco”. Innocenzo Lo Sicco, imprenditore edile di Brancaccio, è un testimone di giustizia. Grazie alle sue accuse, negli anni Novanta, una sfilza di boss del clan Graviano è finita alla sbarra. Tra questi c’era Lupo, che ha sempre bollato come false le accuse di Lo Sicco. Il boss di Brancaccio, che secondo gli investigatori avrebbe ripreso lo scettro del comando dopo avere scontato una lunga condanna, punta il dito contro Chiavetta. Racconta persino il retroscena dell’esistenza di una presunta talpa: “Se lei controlla le telefonate del signor Chiavetta con altre persone lui ha un amico suo che fa servizio alla caserma Lungaro. Non so se è un ispettore chi è che sia di polizia. E lui allora mi avvisò che io ero seguito in via Libertà, che c’erano indagini quando avete iniziato a fare indagini sulla mia persona: ‘Sai ti seguono, tu sei in via Libertà con tua moglie, fai degli acquisti, poi sei tornato nella macchina, poi ti sei seduto, poi sei andato lì...’. Cioè io che sono l’estorsore e lui è l’estorto. Lui che mi viene a raccontare che io sono seguito, che Lupo ha querelato Chiavetta, che lo accusa di avergli chiesto il pizzo. “Lui mi ha fatto a me quattro assegni da duemila euro o cinque assegni da duemila euro nel 2010. Ma se c’è il discorso di estorsione non è che ci sono gli assegni intestati a me” io ho delle indagini in corso già dal 2010?”. Lupo non conosce l’identità del presunto traditore dello Stato, ma è certo che “Chiavetta descrive tutta una situazione, una situazione perché non so suggerita da qualcuno, perché sicuramente suggerita da qualcuno. Non dico suggerita da... però qualcuno che l’ha consigliato, visto la situazione del procedimento fumoso delle misure di prevenzione, tu in questa maniera non te ne puoi mai uscire. Allora accusalo che ti fa l’estorsione in questa maniera tu puoi riavere le tue attività”. Poi incalza: “Perché dottoressa io ho i regali da lui, siamo sempre assieme L’articolo dedicato alle accuse di Chiavetta tre mesi fa il magazine che guarda dentro la cronaca - s 89 mafia | Il caso Una veduta di Brancaccio dalla mattina alla sera, avete le intercettazioni in ufficio che noi scherziamo, parliamo, usciamo assieme. Io gli vado a controllare la merce che gli viene scaricata il sabato quando lui è fuori, partito a Cuba o con sua moglie o per i fatti suoi a divertirsi. Un bar assieme, se l’è venduto, l’ha gestito per 10 anni, 12 anni e ancora devo avere dei soldi da lui dottoressa che non mi ha mai dato. Lui poi mi ha fatto a me quattro assegni da duemila euro o cinque assegni da duemila euro nel 2010 che partivano ad agosto, settembre, ottobre, A catturare l’attenzione degli investigatori è soprattutto l’anticipazione di “verità” da rivelare: “Può anche darsi che io esco pazzo e poi gliela racconto io la situazione. Se non la dice lui può anche darsi che tra qualche mese la dico io la situazione com’è” novembre e dicembre. Ma se c’è il discorso di estorsione non è che ci sono gli assegni intestati a me. Che poi me li sono fatti cambiare? Cioè non è che perché io mi chiamo Lupo Cesare chiunque arriva mi si accusa di una cosa e allora la cosa è oro colato. Cioè questa è la difesa che posso fare io”. Ad un certo punto le dichiarazioni del mafioso di Brancaccio prendono una direzione che non ti aspetti: “Cioè lui completamente queste discussioni non esistono completamente, il signor Chiavetta la situazione la sa, se la faccia raccontare”. Lupo dice e non dice, ma lascia intendere che dietro la storia dei bar ci sia dell’altro: “Che può anche darsi che io esco pazzo e poi gliela racconto io la situazione. Se non la dice lui può anche darsi che tra qualche mese la dico io la situazione com’è che è. Ecco e non c’entra niente né io né lui né... cioè lui la sa la situazione dottoressa, e so solo non ne ha, e lui lo sa per i fatti suoi. Lui non ne può avere mai fatti suoi. Se la faccia dire da lui”. Il pubblico ministero lo incalza. “Che dichiarazioni vorrebbe fare?”, gli chiede il pm della Direzione distrettuale antimafia. “E poi vediamo dottoressa. Se lui insiste ad accusarmi così e lui non dice le cose per come stanno - risponde infastidito Lupo -. È normale non è che posso essere io investito di cose che non ho mai fatto. Perché un discorso è che a me mi si accusa da parte della Procura, da parte dell’autorità giudiziaria perché vengono travisate le intercettazioni, o perché ci siano... Ma uno che è una persona amica, molto vicina, Lupo e Tranchina “Mio cognato? Una brutta testa” Cesare Lupo non ha una grande considerazione di Fabio Tranchina. Quando nell’interrogatorio viene fatto il nome del cognato, il boss sbotta: “Quella è una persona brutta testa... è mio cognato, lo so io quanto ci costa, quanto c’è costato, quanto c’è costato perché non voleva mai lavorare. A mia madre l’ha dilapidata completamente, e lui lo sa, perfino la macchina prima di morire mia madre. Lui non voleva mai lavorare. E le dico un’altra cosa. Quello che io siccome no l’ho potuto dire perché a Roma non sono potuto andare all’udienza delle misure di prevenzione”. Lupo non teme le dichiarazioni di Tranchina. Se le avesse davvero temute, avrebbe pure avuto l’occasione di metterlo a tacere. Anche il successivo passaggio non è chiaro, ma è fortemente allusivo: “Dottoressa vede che il signor Tranchina quando è stato rilasciato, l’avvocato lo sa, è sceso con mio fratello, mia sorella e l’avvocato Scanio da Firenze. Non è che il Tranchina è rimasto con l’autorità giudiziaria per cui non... non era. Era assieme a mio fratello. Lei pensa che se era, se il discorso è 90 s - il magazine che guarda dentro la cronaca quasi un fratello, che stiamo sempre assieme, che gli ho fatto del bene che e... e poi si vuole ricostruire una certa verginità a danno mio”. Nel passaggio successivo dell’interrogatorio fa capolino il nome di Fabio Tranchina, cognato di Lupo e tra gli ultimi mafiosi a scegliere la strada della collaborazione. Lupo ne ha una considerazione molto bassa, come dimostra il passaggio che pubblichiamo in un altro articolo in queste pagine, ma il suo chiodo fisso è un altro. Il chiodo fisso di Lupo si chiama Francesco Chiavetta. Su di lui si concentra l’ultima parte delle dichiarazioni rese al pm: “Io se lei lo vuole interrogare io gli sto facendo la querela tramite l’avvocato. Gliela farò avere. E la faccio io. Farò la querela. Dopodiché lei glielo dice mi racconti la verità che la sa. Se gliela vuole raccontare... cioè si viene fatto il sequestro dei beni di cose che non sono mie, a parte la casa dove io abitavo in cooperativa... di denari, di cose che non sono mie. Tutte cose sono mie. Va bene. A posto, mi Delle dichiarazioni che verranno Lupo dice poco: “Non c’entra niente né io né lui né... cioè lui la sa la situazione dottoressa, e so solo non ne ha, e lui lo sa per i fatti suoi. Lui non ne può avere mai fatti suoi. Se la faccia dire da lui” sta bene. Il Chiavetta buttato fuori dal palco in mezzo a una strada. Io per due volte gli do soldi che io c’ho in tasca. Neanche posso mettere la benzina nella macchina, sono senza soldi, sono rovinato, sono così... per due volte. Dopodiché a me mi arrestano. Dopo che a me mi arrestano, il Chiavetta a gennaio o a febbraio suggerito da qualcuno, non so da chi! Viene a fare, viene a rendere dichiarazioni e viene a costruire tutto questo, questo specchietto bello e buono. Insomma questo è il discorso. Però lui ha aspettato che a me mi arrestassero dottoressa, non è come pensa lei o come pensate voi, noi abbiamo il Tranchina tra le mani e cose da temere a dire ‘senti porta a questo in altro posto...’”. Erano i giorni in cui Tranchina, fermato in un albergo a Firenze, prima decideva di pentirsi, poi faceva marcia indietro e infine ritornava sui suoi passi, scegliendo di collaborare con la giustizia: “È ritornato con mio fratello in aeroporto e c’è stata la beffa che poi lo hanno arrestato in aeroporto. Ma arrestato come dottoressa? Stavano scendendo in aereo per venirsi a presentare per andare il mercoledì a Palermo e poi a Caltanissetta. Non è che Tranchina è venuto con... scortato o per i fatti suoi. È stato accompagnato fino all’aeroporto di Palermo. Dico è sceso con mio fratello. Anzi pensavano che ero io. E il Tranchina un mese prima di venire ehm... di andarsi a consegnare poi non s’è capito, hanno trovato... è venuto a casa di sera, io stavo dormendo. Dissi ‘ciao, cosa c’è?’. ‘Sai Cesare io sono pedinato. Ho visto di domenica mattina, mi fumavo una sigaretta, ho visto un fuori strada verde che faceva fotografie nei campanelli’. ‘E che mi stai dicendo?’. ‘Ma sicuramente, non so...’. ‘Fabio ma cosa vuoi da me? Pure io sono pedinato’. Ci dissi: ‘Io non mi vedo pure dalla mattina alla sera motori, macchine, e persone ferme. E qual è il problema tuo? Tu non fai caso al lavoro...’ poi che lui l’ha fatto subito. Dottoressa io le dico una cosa. Se lei a me mi fa un’accusa perché lei interpreta le intercettazioni in maniera come li vuole interpretare o la polizia li interpreta, va bene. Io mi sottopongo a processo. Ma se lei ha una persona a cui tiene come un fratello che io ripeto impazzisco... poi guardo e leggo qua, leggo... le dichiarazioni sia riassuntive che integrale, e mi metto a ridere e dico ma questo è ‘un pezzo di...’. Le sto dicendo: io un altro Lo Sicco non sarò nei miei confronti stia tranquilla. A me mi è bastato Lo Sicco nel ‘97, sapendolo tutti, avendo detto cinque collaboratori Brusca, avendo detto altri che questo era un prestanome dei Graviano, però a noi ci hanno condannato a tutti. A me undici anni e mezzo, a quello nove anni e mezzo, a quello otto anni. In più lui si è arricchito con la disgrazia nostra. Dottoressa! Poi io gliel’ho detto sono disponibile anche a un confronto con il signor Chiavetta. Lei se ha modo di sentirlo, lo risente e glielo dice”. andava sempre a lavorare fuori, mancava una settimana, mancava un mese, mancava tre settimane. Dice ‘ah, va bene. Ma io questo lavoro devo fare?’. ‘Ma il tuo lavoro quale?’. Che poi gli davano 2 mila mio cugino che lavorava da mio cugino. Ma a mia sorella gli diceva che guadagnava mille euro. Cioè mille euro saltavano. Dice ‘ma io questa vita devo fare?’. ‘E che vita devi fare?’. ‘Ma non posso stare accanto a te?’. ‘Ma vedi che io vado a lavorare. Io la mattina scendo e vado a lavorare. Qual è che devi stare accanto a me’. E se n’è andato. Dopo una settimana, due settimane, tre settimane è successo quello ch’è successo”. Secondo Lupo, il cognato ha motivi di risentimento nei suoi confronti: “Tranchina lo dice lui stesso dottoressa. Voi leggete i verbali per quello che vi dice. Il Tranchina per me non ha... io non lo posso vedere da quando lui mi ha detto che si doveva fare fidanzato con mia sorella. E qua io gli ho alzato le mani, quando lui aveva diciotto, diciannove anni o vent’anni non lo so. Mi ha fermato, io neanche lo conoscevo. ‘Sai sei Cesare?’. ‘Sì, e tu chi sei?’. ‘Sono Fabio’. ‘Sai io avrei intenzioni con tua sorella’, ehm... e io. Siccome ero un po’ geloso delle mie sorelle. Dopodiché si è fatto fidanzato, si è sposato. Il Tranchina questo è dottoressa. E poi lui stesso lo dice che non gli davo confidenza”. il magazine che guarda dentro la cronaca - s 91