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STORIA DEL LATINO
STORIA DEL LATINO Elena Malaspina Introduzione. Un'idea del latino Nella costruzione di una comunità dei popoli europei che non sia una realtà meramente economica – oggi più che mai deludente e problematica – un’identità culturale comune ci appare veicolata, lungo i secoli, dalla lingua latina, al di là delle differenze etniche o nazionali e anche al di là di un’istituzione politica unitaria. Più che in ogni altro impero multietnico e multilingue del mondo antico, nello Stato romano lo standard linguistico comune ha potuto essere diffuso nello spazio, nel tempo e anche nei diversi strati sociali grazie alla diffusione della scrittura e di una cultura di base condivisa attraverso un sistema scolastico in qualche modo presente anche in aree marginali e attraverso quei canali di latinizzazione che sono stati la rete viaria, i commerci, l’esercito, la pubblica amministrazione. Anche con la fine dell’impero romano, la continuità dell’uso del latino almeno nella sua parte occidentale ha trasmesso al Medioevo e all’età moderna uno strumento di comunicazione sovranazionale fortemente produttivo non soltanto dal punto di vista linguistico ma anche nei diversi ambiti del pensiero e della vita: lo strumento linguistico comune ha messo in contatto lungo i secoli etnie e culture diverse, alle radici della nostra civiltà europea. Se in area balcanica, medio-orientale e africana altre culture (bizantina, araba, slava) si sono sovrapposte, la romanizzazione di gran parte dell’Occidente europeo – anche nelle regioni sostanzialmente romanizzate – costituisce ancora oggi una radice culturale comune: è quanto i Romani ci hanno lasciato come frutto non tanto di un’omologazione artificialmente imposta, quanto di un’integrazione delle diverse culture nel segno di un modello greco-romano via via riconosciuto come appetibile dai diversi popoli che entravano in contatto con esso. Le stesse vicende della lingua latina, appartenente al ceppo indoeuropeo (come il greco, le lingue germaniche, celtiche, slave, baltiche, l’armeno, le lingue indiane e iraniche, oltre alle scomparse lingue italiche), sono via via l’effetto di processi ora di integrazione ora di affermazione identitaria. 1 Ancor oggi, dopo l’esaurirsi della funzione del latino come lingua di comunicazione sovranazionale, ne sono continuazione vitale le lingue romanze (portoghese, spagnolo o castigliano, catalano, francese, provenzale o occitanico, franco-provenzale, italiano, sardo, retoromanzo, l’ormai scomparso dalmatico, il rumeno). Prestiti e calchi latini ovunque presenti in lingue moderne di diversa origine (appartenenti soprattutto ai grandi gruppi indoeuropei, quali il germanico, il celtico e lo slavo) fanno del latino una “lingua residuale” vivacemente produttiva. Mentre infatti per tecnicismi più specialistici (ad es. in ambito filosofico, medico, farmaceutico, fisico) il lessico delle diverse lingue continua a far riferimento al deposito linguistico greco, come già fecero i Romani, al deposito della comune latinità di partenza attingono invece moltissimi tecnicismi che via via vengono creati per esprimere nuove tecnologie di ampia diffusione. Così per indicare, ad esempio, il computer, l’inglese ha introdotto un vocabolo di matrice latina (dal verbo computare = ‘calcolare’), ricalcato dal francese con un altro latinismo, «ordinateur»; talora poi il prestito latino, per la sua originaria utilizzazione in ambito anglofono, conserva la pronuncia inglese (ad es. per indicare i «media») anche quando il vocabolo si è ormai acclimatato in ambito italofono. In ambito giuridico la lingua latina tendeva ad essere fortemente conservativa, con l’intento di stabilire una tradizione giurisprudenziale. Può però anche accadere che i tecnicismi giuridici risultino poco perspicui – è il rischio dell’abuso del «latinorum», rimproverato da Renzo a don Abbondio (Alessandro Manzoni, I promessi sposi, cap. II) – e che si recuperino artificiosamente tecnicismi ormai disusati, come il «lodo» oggi tornato di attualità (dal vocabolo medievale laudum = ‘arbitrato’); specialmente i cosiddetti “politichese” e “burocratese” utilizzano talora espressioni latineggianti (es. «all’uopo», dove «uopo» deriva dal latino opus = ‘bisogno, necessità’) che non sono di facile comprensione per il pubblico. Schematizzando possiamo dire che la lingua latina è stata lingua dominante in gran parte dell’impero romano e lingua franca nelle relazioni fra popoli diversi sia dentro sia, talora, al di fuori di quello che era stato il territorio romano. Unica lingua letteraria, in Occidente, fino al VII-VIII secolo, nella comunicazione corrente, il latino continuò ad essere utilizzato anche al di là della fine dell’impero romano d’Occidente (476), in modo e misura differenziata a seconda delle aree e della formazione e nazionalità dei parlanti: tra VII e VIII secolo il progressivo diversificarsi delle pronunce e degli usi lessicali nelle diverse aree frammentarono via via il latino volgare o corrente, e anche dopo l’VIII secolo, cioè dopo l’inizio del bilinguismo (latino – lingue vernacolari), il latino rimase mezzo di comunicazione colta fino al XVIII, mentre rimane ancor oggi mezzo di comunicazione sovranazionale nell’ambito della Chiesa cattolica. 2 In un arco di tempo di circa quindici secoli (VII a.C. - VIII d.C.), la storia della lingua latina è storia di variabili coesistenti e interferenti, per l’interazione – ad ogni stadio sincronico dell’evoluzione linguistica – del registro standard (latino istituzionalizzato dai grammatici e impiegato sia nella comunicazione ufficiale sia nella letteratura) e del registro informale (quotidianità meno sorvegliata, con codici espressivi diversi a seconda della cultura del parlante o scrivente, dell’ambiente sociale, del luogo). Occorre inoltre tener conto dei contatti interlinguistici verificatisi (soprattutto nel lessico) in conseguenza dello stabilirsi dei Latini nel Lazio e via via del loro espandersi all’esterno con l’allargarsi dello stato romano; la romanizzazione dei diversi territori espone quindi la lingua latina anche all’azione (soprattutto a livello fonetico) del sostrato linguistico preesistente (iberico, celtico, etrusco, osco, dacico ecc.), mentre in età subromana, con l’affermarsi dell’egemonia politica di altri popoli (germanici, slavi, arabi) in aree un tempo romanizzate, la lingua latina si arricchì di vocaboli nuovi, per influsso del superstrato della lingua dei nuovi dominatori. La compresenza di più registri o livelli espressivi si verifica, in latino, non soltanto dopo la disgregazione delle istituzioni imperiali (VI-VIII secolo d.C.), e nemmeno soltanto a partire dall’età imperiale, ma dovette accompagnare tutta la storia del latino: si può quindi parlare di una continuità tra latino arcaico e latino volgare, precisando però che è ormai opportuno intendere per “volgare” non un “latino popolare” – lingua degli indotti – né un linguaggio settoriale (proprio di particolari ambiti espressivi), ma un linguaggio di uso comune, in cui confluiscono, ovviamente, anche molti tecnicismi. Per “latino volgare” dunque dobbiamo ormai intendere un linguaggio “corrente” nel senso di una comunicazione tanto verticale (fra persone di livello culturale diverso) quanto orizzontale (fra persone di uguale livello culturale), con una molteplicità di varianti diacroniche (nel tempo), diatopiche (nello spazio), diastratiche (connotazione rus tica o urbana, colta o incolta, ecc.), diafasiche (attinenti cioè ai diversi registri espressivi e stilistici) e anche diamesiche (ossia legate al diverso mezzo espressivo, scritto o parlato). Oggi si sottolinea quindi la complessità del cosiddetto “latino storico”. Si può proporre, per delineare la storia della lingua latina, uno schema di questo tipo, in cui le linee continue indicano un’evoluzione naturale mentre quelle tratteggiate indicano una discontinuità recuperata da una riforma linguistica attua ta intenzionalmente: lat. classico ---- lat. medievale - - - lat. umanistico neolatino 3 lat. arcaico lat. volgare lingue romanze In effetti, la fase iniziale di formazione della lingua indoeuropea che qui chiamiamo indistintamente “latino arcaico” corrisponde alla progressiva affermazione di Roma come identità politico-culturale autonoma e agli inizi della sua espansione in Italia. La formazione della romana res publica (letteralmente ‘cosa di tutti’, perché patrimonio dell’intera plebs o ‘popolo’) come stato multietnico e romanocentrico creò l’esigenza di una istituzionalizzazione del latino come lingua sovranazionale per la comunicazione pubblica (oratoria, epigrafia ufficiale, pubblica amministrazione, letteratura...): tra II e I sec. a.C. l’introduzione degli studi grammaticali e l’organizzazione del sistema scolastico romano contribuirono all’istituzionalizzazione della lingua parlata nella città di Roma dai ceti colti alla fine del II sec. a.C. : essa venne insegnata nelle scuole dei grammatici e retori e cristallizzandosi diventò quello standard linguistico unificato che è stato poi chiamato “latino classico”. A un livello di comunicazione più immediata e meno sorvegliata (registro informale), la lingua latina si evolve invece – in quanto latino “volgare” o corrente – con i dinamismi innescati dagli interlinguismi e dalle trasformazioni sociali, oltre che dagli influssi della lingua letteraria. Dopo la fine dell’Impero romano d’Occidente (476 d.C.) e della compagine culturale e organizzativa che esso rappresentava, il latino standard non fu più tutelato dalla scuola e diffuso dalle istituzioni (esercito, commerci, burocrazia): cessò così l’osmosi tra latino volgare e latino istituzionalizzato, nella quale quest’ultimo frenava l’evoluzione del primo. Con il venir meno della compagine imperiale, con la formazione degli stati romanobarbarici e con le difficoltà di collegamento causate dal deteriorarsi delle strade e dalla mancanza di un potere centrale, il latino “volgare” andò via via frammentandosi verso le lingue romanze. Invece dal latino standard o “classico”, non per evoluzione naturale ma per riforme linguistiche prodotte da esigenze politiche, culturali, religiose, trarranno origine via via il latino medievale (a partire dalla riforma di Alcuino – fine VIII secolo –, in funzione della compattezza dell’impero carolingio), il latino umanistico (XV-XVI secolo, conseguentemente alla rinascita dello studio degli autori classici), continuato come lingua di comunicazione colta in Europa fino al Settecento e nel moderno neolatino 1 . Una breve sintesi della storia della lingua latina è presentata, al termine del mondo antico (verso il 635 d.C.), da Isidoro di Siviglia: 1 Da non confondere con le lingue cosiddette ‘neolatine’ o romanze. 4 Isidoro, Etymologiae 9, 1, 6-7 Latinas autem linguas quattuor esse quidam Alcuni hanno detto che le lingue latine sono dixerunt, id est priscam, latinam, romanam, quattro, cioè la protostorica, la latina, la romana, mixtam. la mista. Prisca est quam vetustissimi Italiae sub La protostorica è quella usata dai più Iano et Saturno sunt usi, incondita ut se habent antichi abitanti dell’Italia, al tempo di Giano e carmina Saliorum. Saturno, rozza come sono i carmi dei Salii. Latina quam sub Latino et regibus Tusci La latina è quella parlata dagli Etruschi e et ceteri in Latio sunt locuti, ex qua fuerunt dagli altri abitanti del Lazio, al tempo di Latino e duodecim tabulae scriptae. dei re: in questa lingua furono scritte le Dodici Romana quae post reges exactos a tavole. populo Romano coepta est, quam Naevius, La romana è quella che fu iniziata dal Plautus, Ennius, Virgilius poetae, et ex oratoribus popolo romano dopo la cacciata dei re, quella che Gracchus et Cato et Cicero vel ceteri effuderunt. Mixta quae post imperium fu diffusa dai poeti Nevio, Plauto, Ennio, Virgilio latius e, fra gli oratori, da Gracco, Catone, Cicerone e promotum simul cum moribus et hominibus in altri. Romanam civitatem inrupit, integritatem verbi per soloecismos et barbarismos corrumpens. La mista è quella che dopo l’espansione dell’impero irruppe nello stato romano insieme a stili di vita e uomini, corrompendo la purezza linguistica con solecismi e barbarismi 2 . In questo schema, che Isidoro raccoglie da eruditi precedenti non identificati, autori arcaici e classici sono sorprendentemente accomunati sotto la comune etichetta di Romana lingua: di fatto la presa di distanza dagli autori arcaici, introdotta dall’alessandrinismo dei poetae novi (I secolo a.C.), fu spesso elusa dalle curiosità erudite degli arcaizzanti e comunque comportava soltanto valutazioni estetiche soggette alle diverse mode e gusti culturali, ma non poteva mettere in discussione la sostanziale unità della storia letteraria latina. L’origine del termine “classico”, con cui ormai indichiamo – sulla scia degli Umanisti – un autore considerato modello di perfezione, risale al vocabolo latino che anticamente si riferiva ai cittadini censiti per un reddito più alto, cioè appartenenti alla prima classe; Gellio (sec. II d.C.) lo Per ‘solecismo’ si intende una scorrettezza grammaticale o sintattica (come si diceva ne commettessero gli abitanti di Soli, in Cilicia); barbarismo è un difetto del linguaggio caratterizzato da pronuncia forestiera. 2 5 spiegava ai suoi contemporanei (Noctes Atticae 6, 13) e riferiva come l’erudito arcaizzante Frontone, suo contemporaneo, utilizzasse scherzosamente l’aggettivo classicus per indicare il valore degli antichi scrittori: Gellio, Noctes Atticae, 19, 8, 15 … e cohorte illa dumtaxat antiquiore vel … un oratore o un poeta della squadra limitata oratorum aliquis vel poetarum, id est classicus agli antichi, cioè uno scrittore ‘classico’ e adsiduusque aliquis scriptor, non proletarius. ‘abbiente’, non proletario. Nel tratteggiare una storia della lingua occorre distinguere ciò che è propriamente lingua – in quanto comunicazione (scritta o orale che sia) fra persone o gruppi – dal linguaggio, che è espressione soggettiva: sono linguaggi l’espressione artistica (di un poeta o di un prosatore), l’espressione idiomatica (affermazione di identità individuale) e il gergo (affermazione di identità di un gruppo), oltre naturalmente ai linguaggi non verbali. Una “storia della lingua” non dovrebbe, a rigore, occuparsi della lingua letteraria, se non in ciò che esula dalla lingua d’arte: quest’ultima è invece “linguaggio” (in francese parole) individuale e poetico. Tuttavia la lingua letteraria, per il prestigio di cui gode in una società, costituisce una fonte continua di modelli espressivi non soltanto per la comunicazione ufficiale o pubblica (registro standard) ma anche per la lingua di registro informale. 1. PROTOSTORIA DEL LATINO I Protolatini, popolazione indoeuropea con cui sembrano da ricollegarsi i Siculi (stanziati in Sicilia) e forse i Veneti, risultano presenti nel Lazio a partire dal IX secolo a.C. La lingua latina si venne dunque formando, a partire da un’identità indoeuropea transalpina, nel contatto con popoli diversi, che Isidoro ricorda genericamente come «i più antic hi abitanti dell’Italia». Tra le lingue presenti nella penisola alcune non erano indoeuropee (etrusco, retico, sardo, il cosiddetto piceno settentrionale, forse anche il ligure, il sicano, l’elimo, e anche del camuno non si ha ancora sufficiente conoscenza); altre lingue sopraggiunsero con l’immigrazione di popolazioni indoeuropee (provenienti dalla Russia meridionale) venute in Italia attraverso le Alpi (latino, 6 falisco, venetico) o dalle coste adriatiche (osco, volsco, umbro e le varie lingue sabelliche, tra cui il sabino, il marrucino, il peligno, il marso, il piceno); altre popolazioni indoeuropee insediatesi nell’Italia antica parlavano il celtico (con cui è connesso il leponzio), il messapico (lingua illirica, proveniente dalle sponde orientali dell’Adriatico) e il greco occidentale o italiota, con i diversi dialetti delle colonie elleniche, a partire dallo ionico di Ischia e di Cuma. L’avvento (secc. XII-XI a.C.) della civiltà “proto-villanoviana” – cosiddetta per distinguerla da quella “villanoviana”, che prende nome dal sito archeologico di Villanova, presso Bologna – aveva segnato nell’Italia peninsulare il passaggio da una cultura appenninica fondata su un’economia pastorale e praticante l’inumazione, a un’economia agricola e praticante l’incinerazione, forse per influsso di popolazioni indoeuropee transalpine. Il passaggio dall'età del bronzo all'età del ferro si ebbe in Italia tra X e IX secolo a.C., con l’evolversi della civiltà protovillanoviana verso quella villanoviana: quest’ultima viene oggi identificata con una cultura protoetrusca, la cui lingua non appartiene al ceppo indoeuropeo. Essa è caratterizzata da insediamenti abitativi ben difesi ed economicamente prosperi, dall’Emilia alla Toscana alla Campania, da Spina a Capua, con un’aristocrazia interessata alle relazioni commerciali con la Sardegna e l’Italia meridionale, ma anche con i Fenici e i Greci. La struttura delle loro città e l’organizzazione federale che le collegava, dal punto di vista religioso e politico, influenzarono anche l’area latina. Separata dal territorio etrusco mediante il Tevere, questa appare fin dalle sue origini caratterizzata da una cultura mista, in cui influssi villanoviani si sovrappongono alla preesistente cultura appenninica e subappeninica delle tombe a fossa, mentre nell’Umbria, nella Sabina e nelle zone sannitiche si venivano stanziando popolazioni indoeuropee provenienti dalla regione adriatica e genericamente denominate “italiche”. 1.1. Civiltà del Lazio Nel contesto plurilingue e interetnico rappresentato dal bacino del Tevere, Etruschi, SabinoItalici e Latini costituiscono i tre gruppi principali. Di tale originaria tripartizione etnico-culturale si può forse individuare una conferma nei nomi (di origine etrusca, secondo Varrone, De lingua latina 5, 55) delle tre tribù della Roma primitiva: Tities Ramnes Luceres farebbero riferimento - secondo tale ipotesi - a un sinecismo di Protosabini, Protolatini e Villanoviani o Protoetruschi. 7 Così la tradizione del “rapimento delle Sabine” allude alla fusione della stirpe protolatina con quella protosabina, e secondo la tradizione i re Tito Tazio, Numa Pompilio e Anco Marcio erano sabini, mentre Tullo Ostilio era latino. La fondazione di Roma era collocata dagli antichi nel 753 a.C., quando cioè la civiltà etrusca non aveva ancora forza irradiante. Successivamente i re etruschi (Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo) affermarono il proprio potere a Roma grazie alle loro competenze militari e alle capacità tecniche che potevano mettere a disposizione di quel giovane stato guerriero; come è noto, i Romani impararono molto dagli Etruschi non soltanto per la religione e l’agrimensura, ma anche per gli spettacoli e la musica. Ma ciò che segnò una svolta decisiva per le civiltà della penisola fu l’introduzione della scrittura: gli Etruschi appresero a leggere e a scrivere presso i coloni greci di Cuma (provenienti dalla penisola Calcidica, nel mar Egeo). L’alfabeto ionico di Cuma fu adattato dagli Etruschi alla propria lingua (non indoeuropea), verso il 700, e per lo più dagli Etruschi anche i Latini, nel VII secolo, derivarono il proprio alfabeto. 1.2. L’alfabetizzazione del latino L’alfabeto etrusco ha infatti influenzato la formazione degli alfabeti di varie lingue presenti nella penisola italica: umbro, osco, falisco, piceno, messapico e latino. Ricorda Livio (9, 36, 3), con riferimento ad avvenimenti svoltisi alla fine del IV secolo: «So da fonti degne di fede che allora si usava comunemente che i ragazzi romani imparassero le lettere etrusche, come oggi quelle greche» (Habeo auctores vulgo tum Romanos pueros, sicut nunc Graecis, ita Etruscis litteris erudiri solitos). Della scrittura etrusca, originariamente sinistrorsa, un alfabeto arcaico è raffigurato – probabilmente a scopo didattico – sulla tavoletta eburnea trovata a Marsiliana d’Albegna (GR). A differenza della scrittura etrusca, però, quella latina mostra più spesso un andamento destrorso oppure bustrofedico (cioè imitando il percorso dei buoi che arano un campo, andando avanti e indietro). Un esempio di scrittura latina verticale e ad andamento bustrofedico è nel cippo trovato nel Foro romano (CIL I2 2,1; VI 36840), il cosiddetto Lapis niger, che risalendo all’inizio del VI secolo è uno dei primi monumenti in latino che ci siano conservati; il testo, assai lacunoso, è di difficile interpretazione ma sembra prescrivere il rispetto di un luogo sacro. 8 1.3. Prestiti greci La cultura greca (miti, arte, tecnica) penetrò nel Lazio già in età regia, talora direttamente – da Cuma, Taranto e altri centri dell’Italia meridionale – talora attraverso mediazione etrusca. Questa è ad esempio segnalata nel vocabolo latino persona (= ‘maschera teatrale’), che probabilmente aggiunge un suffisso -ona al vocabolo etrusco phersu, deformazione del greco prósop(on); oggi si ipotizza che anche il vocabolo latino histrio (= ‘attore’, cf. ital. ‘istrione’) derivi, per mediazione etrusca, dal greco e indichi perciò – etimologicamente – una persona abile nel raccontare (cf. historia). La mediazione etrusca è poi evidente in vocaboli – del linguaggio mercantile – in cui si verifica assordamento di una consonante, ad es. in triumpus (soltanto dal I sec. si affermò la grafia ellenizzante triumphus) < gr. thríambos = ‘corteo dionisiaco’, amurca < gr. amórghe = ‘morchia’ (feccia dell’olio), cotoneum (malum) < gr. kydonion (mâlon) = ‘mela cotogna’. L’importazione di tecnologie (lavorazione dell’olio, navigazione) e oggetti dal mondo greco fin dal VI secolo si accompagna alla penetrazione di prestiti greci. Essi provenivano dalla dorica Taranto per via di terra o dalla ionica Cuma per via mare. Prestiti greci anteriori al IV secolo sono quei tecnicismi e toponimi che in latino hanno subito riduzione vocalica delle vocali brevi interne (cf. § 2.3): ad es. macina / machina (cf. sotto, § 3.1.1), dal dorico machaná. È invece probabilmente indipendente da influsso greco la centralità del culto del fuoco nella religione tradizionale di Roma, cui sembra riferirsi il vocabolo aedes (= ‘cella’ centrale di un tempio, al plurale ‘casa’ di più stanze): questo vocabolo deriva dalla radice indoeuropea AIDH- (= ‘ardere’), riconoscibile anche nel siculo Áitne (il vulcano Etna) e nel verbo greco áitho (= ‘accendere’). 1.4. Il diasistema latino delle origini (sec. VIII-VI a.C.) Alle origini di Roma sembra di poter cogliere – anche attraverso la leggenda relativa all’asilo offerto da Romolo a persone di varia provenienza – un sinecismo latino-sabino, riconoscibile nell’antica formula populus Romanus Quiritium3 . La tradizionale formula Senatus Così nelle antiche formule dei feziali che Livio (1, 32) riferisce al tempo della guerra di Anco Marcio contro gli «antichi Latini» (Prisci Latini). Il vocabolo Quirites con il significato di ‘cittadini’ è dal grammatico Festo (p. 304 3 9 Populusque Romanus (S.P.Q.R.) sembra quindi derivare da Senatus Populus Quirites Romanus: vi si intravvederebbe la primitiva distinzione tra consiglio degli anziani (senatus) e gioventù romana organizzata in reparti armati (populus), unitamente a gruppi associatisi a loro (quirites, forse da *coviri, anche se gli antichi collegavano il nome Quirites con quello della città sabina di Cures), residenti anche in altri luoghi, prima ancora della fondazione di Roma. Mentre l’etrusco fu sempre sentito come un’altra lingua e il bilinguismo latino-etrusco si conservò a lungo nelle classi alte, il persistente sinecismo originario si riflette in una diglossia latino-sabina che entrò a far parte del diasistema latino. Perciò glosse sabine venivano esemplificate dai grammatici come rappresentanti di varietà linguistiche “rustiche”, cioè extraurbane: ad es. per indicare il capro Varrone (De lingua latina 5, 97) indica il nome latino hircus quod Sabini fircus. All’influsso sabino può essere attribuita un’azione non sistematica dell’accento di intensità, tra VII e VI sec. a.C., mentre nell’accento latino sembra prevalesse fin dall’inizio la componente musicale, in continuità con l’accento indoeuropeo. La sincope o soppressione di vocali brevi interne, causate dall’intensità dell’accento, determina ad esempio la trasformazione del composto *host(i)-pot(i)s (= ‘colui che ha potere sugli stranieri’, e quindi ne è patrono e insieme garante), ridotto a *hospots > hospes: quando ormai hostis era passato a significare non più lo straniero ma il nemico, e dopo che si fu persa la percezione dei due vocaboli che formavano il composto, al significato attivo (‘colui che ospita’) si sovrappose quello passivo (‘colui che è ospitato’) e i due significati (il primo soltanto come arcaismo) coesistono sia in latino sia in italiano. Si può individuare nell’epoca dei re Tarquini (sec. VI) una forte osmosi tra cultura etrusca e culture latine e italiche: l’influsso etrusco, ormai attivo in tutta Italia, è allora fortemente presente anche a Roma, dove però la formula onomastica etrusca, ad esempio, era forse già stata recepita attraverso la mediazione protosabina: il prenome (sostantivo) e il gentilizio (aggettivo indicante la gens di appartenenza) precedevano l’eventuale patronimico (es. Marcus Tullius Quinti filius); invece i Sabini, come gli Umbri, preponevano il patronimico. Successivamente i Romani introdurranno l’uso del soprannome (cognomen) contrassegnante i membri di un determinato ramo della gens: es. M. Tullius Cicero, con allusione ai ceci; M. Porcius Cato, con allusione all’accortezza di un capostipite molto sagace (catus), e così via. Oltre agli influssi esercitati sul latino dal greco e dall’etrusco, oggi i rapporti tra il latino e le lingue italiche sono sottolineati, più che in passato, a partire dalle iscrizioni che ci documentano quello che è stato chiamato ‘italico comune’. L.) espressamente riferito al sinecismo romano-sabino: «Chiamati Quirites dopo l’alleanza stipulata da Romolo e Tazio, indicano l’unione e l’amicizia creatasi tra la popolazione» (Quirites autem dicti post foedus a Romulo et Tatio percussum, communionem et societatem populi factam indicant). 1 0 Un esempio databile fra VI e IV secolo è tratto dalla coppa di Civita Castellana (Museo di Villa Giulia, a Roma), su cui è incisa una frase influenzata dall’umbro e dal falisco: FOIED VINO PIPAFO CRA CAREFO (= hodie vinum bibam, cras carebo, cioè «oggi berrò il vino, domani farò senza»). Nel testo di Isidoro di Siviglia sopra riportato (§ 0.7) viene riferito alla fase protostorica denominata prisca lingua il carmen Saliare (recitato dai sacerdoti detti Salii). Di questo e di altri carmina – testi arcaici in prosa ritmica – ci sono giunti effettivamente brevi frammenti in citazioni di autori latini (come ad es. il Carmen lustrale tramandato da Catone, De agricultura 141: esso veniva recitato dal proprietario per l’annuale cerimonia di purificazione del campo). Per la valutazione di tale esigua tradizione indiretta occorre comunque ricordare che si trattava di formule ormai oscure per gli stessi Latini, come attesta Quintiliano (Institutio oratoria 1, 6, 39): «I carmi dei Salii sono scarsamente intelligibili per i loro stessi sacerdoti» (Saliorum carmina vix sacerdotibus suis satis intellecta). Si tratta di testi generalmente di contenuto sacrale, articolati in segmenti di struttura accentativa e allitterante, in funzione della recitazione mnemonica, nell’ambito di una cultura contadina. Alle più remote origini di illustri famiglie (gentes) romane facevano riferimento le saghe orali recitate (con o senza accompagnamento di flauto) durante i banchetti, per celebrare il padrone di casa e i suoi antenati: in esse venivano tramandati i più antichi materiali della storiografia romana delle origini. 2. IL LATINO ARCAICO, UNA LINGUA IN RAPIDA EVOLUZIONE (sec. V-III a.C.) 2.1. Una lingua in rapida evoluzione Il latino arcaico (cioè precedente alla normalizzazione urbana) sarà disprezzato come rustico dagli scrittori classici, mentre più tardi gli eruditi arcaizzanti del II secolo d.C. (soprattutto Gellio) cercheranno di recuperare il significato di parole e testi ormai poco capiti e ridotti a frammenti. 11 La scarsa documentazione del latino dei secoli VII-IV fu attribuita all’incendio di Roma del 390 a.C. (cf. Livio 6, 1, 2), ma probabilmente molti testi non furono più trascritti perché le strutture morfo- fonologiche erano diventate via via incomprensibili. L’evoluzione si arresterà (almeno a livello di registro standard) e sarà comunque frenata (a livello di registro informale) in seguito all’istituzionalizzazione del latino da parte della scuola e delle istituzioni romane (sec. II-I a.C.), come vedremo (cap. 4). Con l’affermarsi dell’importanza politico- militare di Roma, la lingua latina poté essere talora sentita come una sorta di lingua franca, parlata anche da Etruschi e altre popolazioni del Lazio, in una situazione di plurilinguismo: il latino fu dunque, in questa fase iniziale, un diasistema multiforme e instabile, che però per il dinamismo di una società in rapido sviluppo tendeva alla semplificazione fonetica e all’arricchimento lessicale. 2.2. La crisi del V secolo e l’apertura culturale del IV Dopo la fine dell’età regia e quindi della comune cultura etrusco- italica, Roma si chiuse inizialmente in se stessa, per timore di un ritorno dell’egemonia etrusca e anche perché i suoi collegamenti con la Campania erano impediti dalla discesa dei Volsci nella pianura pontina (metà del V sec.) e premevano, insieme con gli Equi, sui Colli Albani, mentre i Sabini incombevano a est della città. Ma iniziando una politica di conquiste, a partire dalla conquista dell’etrusca Veio (396), Roma si avviò a diventare una res publica plurinazionale. Il diverso statuto giuridico accordato ai vari popoli assoggettati mirava a dividerne gli interessi e a coinvolgere le personalità emergenti, promuovendo un incessante afflusso di elementi non romani nella compagine statale. Così quando alla fine del IV sec. Roma, vincendo i Sanniti, uscirà dall’isolamento, per affermare la propria identità politico-culturale comincerà anche a regolare la propria accettazione di parole forestiere, in particolare greche. 2.3. Interlinguismo e trasformazioni della lingua latina all’inizio dell’età repubblicana 1 2 Nella consapevolezza delle origini composite della lingua latina, Varrone (De lingua latina 5, 10) suddivideva le parole latine in indigene e forestiere (aliena), oltre a quelle disusate. Dionigi di Alicarnasso, storico greco vissuto a Roma in età augustea, asseriva che fin dalle sue origini Roma era stata la «città di tutti e la più ospitale» (Antichità Romane 1, 89, 1) e che pertanto il latino è una «lingua mista» che unisce le parlate di diverse stirpi provenienti dall’Italia o da fuori (ivi, 90, 1). Quintiliano (Institutio oratoria 1, 5, 55 s.) da parte sua ricorda, prima ancora che l’apporto di parole galliche, puniche, iberiche e greche, l’origine etrusca, sabina e prenestina di vocaboli ormai considerati “romani”, come ad esempio si era ormai integrata nello standard letterario la “padovanità” (Patavinitas) di Tito Livio. Accanto all’etrusco, parlato in origine a nord del Tevere ma ben radicato in Roma specialmente come lingua di cultura, in età arcaica le lingue italiche continuarono ad essere parlate e ad influenzare il latino con l’apporto di vocaboli che saranno poi talora epurati come rusticismi o arcaismi. È ad esempio riconoscibile come sabinismo dirus (in luogo di malus), conservatosi nel latino poetico e di qui, come vocabolo aulico, nell’italiano antico ‘diro’ (= ‘empio’, ‘funesto’); è inoltre sabineggiante il nome di Tarpeia (attribuito dalla tradizione alla donna che aveva fatto entrare sul Campidoglio i Sabini di Tito Tazio re di Cures, al tempo di Romolo) in contrapposizione al nome etrusco Tarkuna e a quello latino Tarquinius. L’influsso italico si coglie inoltre in vocaboli con fricativa labiovelare sorda (<f>) interna, in alternativa a forme romane in <b>: così ad esempio l’italicismo sifilare si opponeva al latino sibilare, e se quest’ultimo è prolungato dall’esito dotto italiano (‘sibilare’, appunto), la forma italica ha dato esito romanzi quali l’ital. ‘zufolare’ e il francese ‘siffler’; l’italiano a sua volta ha continuato la forma italica *bufalus invece della forma latina bubalus. Nel latino classico sono inoltre sopravvissute soltanto nella loro forma sabineggiante parole che nella forma latina presentano una <d> invece di una <l>, come avviene nel caso di solium (allotropo di *sodium = ‘seggio’, in italiano antico ‘soglio’, dalla stessa radice riconoscibile nel verbo sedeo e quindi con il significato di ‘seggio’); a tale osmosi tra sabino e latino è riconducibile anche la variazione consonantica esistente tra il sostantivo odor e il verbo olere (= ‘olezzare’), che continua nell’italiano ‘odore’ e ‘(o)lezzo’, così come l’italiano ‘cicala’ conserva la forma sabineggiante rispetto al latino cicada. L’influsso umbro inoltre si coglie nella tendenza extraurbana alla monottongazione: così ad es., per indicare la ‘pentola’, il rusticismo olla prese il sopravvento, in età classica, sull’allotropo urbano aul(l)a, ma ciò fu dovuto all’omofonia con il nuovo vocabolo aula = ‘corte’, introdotto 1 3 come prestito dal greco aule. Anche il rotacismo (sonorizzazione della /s/ e suo progressivo passaggio a /r/) è causato da influsso umbro, benché in latino esso si verifichi (fino alla metà del IV secolo) non alla fine di parola ma soltanto in posizione intervocalica. Viceversa l’identità culturale romana si manifesta con le varie forme del suo particolarismo linguistico, riconoscibile – oltre che nella tendenza urbana alla difesa dei dittonghi – nella riduzione delle vocali brevi in sillaba interna e anche finale. Tale riduzione sembra causata, nel sec. V a.C., dall’accentuarsi della componente intensiva dell’accento per influsso italico; ricaviamo così l’etimologia di parole che continuano anche in italiano: es. occidere da ob- + cadere (lett. ‘cadere giù’, ‘tramontare’; cf. ital. ‘occidente’), difficilis da dis- + facilis, indemnis da in- + damnum (lett. ‘senza danno’), insulsus da in- + salsus (lett. ‘non salato’, ‘sciapo’), ecc. Con la riduzione della vocale breve in sillaba chiusa da semiconsonante, i dittonghi si chiudono in un unico fonema lungo: es. occidere da ob- + *caidere (> caedere ; cf. l’ital. ‘uccidere’), collidere da con- + *laidere (> laedere; cf. l’ital. ‘collisione’), accusare da ad- + causare (lett. ‘chiamare in giudizio’). 2.4. La prima redazione scritta di testi giuridici All’inizio dell’età repubblicana sono stati redatti alcuni testi giuridici di cui possediamo frammenti, giunti a noi non per via epigrafica, ma per tradizione indiretta, e quindi talora modernizzati dall’utilizzazione fattane dalla giurisprudenza romana oppure alterati dalla ripetizione mnemonica, non sempre consapevole del significato originario delle parole. Così ad esempio illustrando un frammento delle cosiddette Leges regiae – attribuite dagli antichi al periodo monarchico – occorreva che gli eruditi chiarissero il significato del termine parricida, originariamente paricida, cioè uccisore di un pari’ (individuo libero della stessa comunità, non straniero o schiavo), e non ‘uccisore del padre’, come comunemente si credeva, con una accezione erronea che si è però trasmessa anche alla lingua italiana: Paolo Diacono da Pompeo Festo (che a sua volta riassumeva il De significatu verborum dell’erudito augusteo Verrio Flacco), p. 327 L. …parricida veniva detto colui che avesse …parricida non utique is qui parentem ucciso non certo il padre, ma qualunque occidisset dicebatur, sed qualemcumque persona non condannata. Che sia stato così lo hominem indemnatum. Ita fuisse indicat lex mostra la legge di Numa Pompilio formulata Numae Pompili regis his composita uerbis: con queste parole: «Se uno con l’inganno, 1 4 «Si qui hominem liberum dolo sciens morti consapevolmente, mette a morte un uomo duit, paricidas esto». libero, sia paricida». La tradizione collocava inoltre nel 451-450 a.C. la redazione scritta di antiche consuetudini in cui Roma vide un emblema della propria civiltà, tanto da farne il testo base dell’istruzione elementare, almeno fino al I secolo a.C.: si tratta delle cosiddette leggi delle XII Tavole, il cui testo ci è giunto frammentario attraverso citazioni fattane da autori antichi. Proprio a questo testo fa riferimento Isidoro (vedi sopra, § 0.7) per esemplificare la fase da lui denominata della Latina lingua, in continuità con l’età regia. Anche dalle poche citazioni pervenuteci possiamo cogliere molte caratteristiche originarie della civiltà latina. In particolare i primi quattro frammenti della Tabula III tramandati dall’erudito Aulo Gellio (20, 1, 42-45) ci mostrano, con riferimento alla punizione dei debitori insolventi, le origini del garantismo proprio del diritto romano, ma un altro frammento ci fa intravvedere anche la violenza di un arcaico linguaggio, probabilmente con funzione di deterrenza rispetto a un reato che, scoraggiando il prestito, impediva lo sviluppo economico: XII Tavole, fr. III 6 (Gell. 21, 46-52) Erat autem ius interea paciscendi, ac nisi C’era la norma di venire a patti entro un certo pacti forent habebantur in vinculis dies tempo, e se non fossero venuti a patti venivano sexaginta. Inter eos dies trinis nundinis tenuti in catene per sessanta giorni. Durante quei continuis ad praetorem in comitium giorni, in occasione di tre mercati consecutivi producebantur, venivano portati davanti al pretore nel comizio, e quantaeque pecuniae iudicati essent praedicabantur. Tertiis veniva autem nundinis capite poenas dabant aut pagamento a cui erano stati condannati. Al terzo trans Tiberim venum ibant. mercato venivano messi a morte oppure venivano Sed eam capitis poenam sanciendae, venduti al di là del Tevere. sicut horrificam Ma quella pena capitale, per assicurare l’affidabilità atrocitatis ostentu novisque terroribus – come ho detto – la resero orrenda con un apparato metuendam reddiderunt. Nam si plures di atrocità e temibile per uno spavento inusitato: forent quibus reus esset iudicatus, secare, infatti se erano più (d’uno) coloro per i quali si vellent, atque partiri corpus addicti l’accusato era stato condannato, permisero (loro) di sibi hominis permiserunt. Et quidem tagliare, se volevano, e spartirsi il corpo della dixi, fidei gratia proclamata pubblicamente l’entità del 1 5 verba ipsa legis dicam, ne existimer persona ad essi consegnata. E dirò proprio le parole invidiam me istam forte formidare: della legge, perché non si pensi che abbia paura di TERTIIS NVNDINIS PARTIS farlo: AL TERZO MERCATO TAGLINO LE SECANTO. SI MINVSVE PARTI. SE SI TROVANO AD AVER TAGLIATO PLVS SECVERVNT, SE FRAVDE ESTO. DI PIU’ O DI MENO, NON SIA REATO. Anche la redazione del cosiddetto Ius civile Flavianum (304 a.C.) costituì un segnale importante nella direzione di una democratizzazione del sapere attraverso la pubblica esposizione di un testo scritto. Sul versante della lingua letteraria, anche anteriormente a una forma scritta la lingua latina era ormai in grado di esprimere ad esempio le imprese delle antiche famiglie gentilizie nel corso dei banchetti, con antichi testi in prosa ritmica (carmina) recitati senza musica o con accompagnamento di flauto; anche i lamenti funebri (neniae) e i discorsi pronunciati in occasione di funerali (laudationes funebres) tramandavano notizie e celebravano memorie che diventavano di pubblico dominio. 3. LA ‘LINGUA DI ROMA’ (secoli III a.C.-IV d.C.) Se nella sua affermazione politica la Roma arcaica si concepì ben presto, sul modello etrusco, come una città-stato caratterizzata da una sorta di separazione cultuale tra urbs (all’interno del pomerium) e ager (territorio circostante), la continua osmosi tra i due ambiti prolungò gli effetti dell’originario sinecismo tra le diverse popolazioni stanziate nel bacino del Tevere. L’espansione urbanistica e il diffondersi delle proprietà fondiarie (villae) appartenenti ad abitanti dell’Urbe determinarono il costituirsi di un territorio “suburbano” che si allargò poi nelle province aprendo la via alla concessione della Latinitas (cittadinanza di diritto latino) anche fuori dall’Italia e quindi via via al superamento della distinzione tra Italia e province. L’estensione della suburbanitas implicava del resto la diffusione del modello di vita urbana (attività forense, scuola, spettacoli, terme...) anche in luoghi lontani dall’Urbs. 1 6 In questo processo, illustrato dalle diverse tappe ed eventi della storia romana, la lingua parlata a Roma finì per essere istituzionalizzata come veicolo di comunicazione plurinazionale e sovranazionale (come l’inglese attuale). Del resto Isidoro di Siviglia, nel testo visto sopra (§ 0.7), parla di Romana lingua, che egli identifica con la lingua documentata dalla letteratura sia arcaica sia classica, senza distinzione. Un codice linguistico unitario è infatti espressione di una unità culturale, che nel mondo romano si può considerare raggiunta alla metà del III secolo a.C. con l’apertura delle prime scuole elementari (viene ricordato come primo esempio – Plutarco, Quaest. Rom. 59 – la scuola del liberto Spurio Carvilio, aperta a Roma intorno al 235 a.C.) e gli inizi della letteratura latina: in essa si cimentano Plauto umbro, Nevio campano, Livio Andronico tarantino, e poi Cecilio Stazio, gallo insubro originario da Milano, Ennio salentino, Pacuvio da Brindisi, Terenzio da Cartagine, e così via. Così a Nevio, nel suo epitaffio, veniva attribuita (fr. 64 Morel) l’affermazione secondo cui dopo la sua morte a Roma si sarebbe dimenticato l’uso corretto del latino (lingua Latina) ed Ennio (Annales. 525 S.) sembra accantonare la propria nazionalità originaria (da Rudiae, presso l’attuale Lecce) quando afferma con orgoglio: «siamo Romani, noi che prima fummo di Rudiae» (nos sumus Romani qui fuimus ante Rudini). La cultura letteraria latina ricevette importanti contributi dalla cultura etrusca (diritto, musica, teatro) e osca (farsa improvvisata detta “atellana”, dalla città campana di Atella), ma l’apporto decisivo fu dato dall’emulazione dei modelli greci, con i loro generi letterari, i repertori mitologici, le tecniche retoriche e metriche. La funzione del latino standard come lingua di comunicazione sovranazionale in un territorio plurilingue e pluriculturale fu stimolata così anc he dalle tecniche della traduzione artistica e letteraria (al di là del semplice interpretariato) e dall’intertestualità, cioè dai rapporti di imitazione e riecheggiamento da autori greci in testi latini: la traduzione dell’Odissea omerica (Livio Andronico) e il teatro (Plauto e Nevio) furono le prime prove della letteratura latina, che diveniva elemento di cultura nazionale esportabile, per la sua forma scritta e/o per la sua fruibilità attraverso la rappresentazione scenica, ovunque giungesse la romanizzazione. 3.1. Sforzo organizzativo verso la normalizzazione della lingua (sec. III-II a.C.) 1 7 Su strutture linguistiche in via di elaborazione (semplificazione fonetica e arricchimento del lessico) cominciò ad esercitarsi, soprattutto a partire dall’erudizione filologica di matrice ellenica, un’opera di ordinamento, selezione, classificazione, in concomitanza con le nuove esigenze politico-culturali dello Stato romano. La comunicazione pubblica esigeva infatti uno strumento linguistico sobrio ed efficace, capace di liberarsi da incrostazioni arcaiche e da varianti superflue. 3.1.1. L’accento Se lo standard latino di area urbana è caratterizzato dal prevalere della componente musicale dell’accento, in area extraurbana la componente intensiva accentuata dall’influsso delle lingue italiche continuò ad essere vitale e nel latino di registro informale è attestata in forma crescente in età imperiale (e quindi poi nelle lingue romanze, come è l’italiano) attraverso la sincope delle vocali brevi interne: così ad esempio già Augusto (lo attesta Quintiliano, Institutio oratoria 1, 6, 19) criticava come affettato lo scrivere calidus anziché caldus in una lettera familiare, ma a livello standard i grammatici continueranno a prescrivere la forma non sincopata, come fa ancora l’Appendix Probi (53-54): calida non calda, frigida non fricda. Rispetto alla libertà primitiva – per quanto riguarda la posizione dell’accento – il latino di età storica mostra una mobilità condizionata dalla quantità della penultima sillaba: diversamente infatti dal trisillabismo greco (per cui l’accento era ristretto nell’ambito delle ultime tre sillabe), l’accento latino si colloca sulla penultima o sulla terzultima sillaba in relazione alla quantità della penultima. 3.1.2. Fissazione delle strutture fonetiche e dell’ortografia L’alfabeto latino constava di 21 segni, dalla <a> alla <x>, ma per trascrivere le parole greche i grammatici introdussero, nel I sec. (cf. Cicerone, Orator 160: «gli antichi non usavano la lettera greca [<y>], ora però ne usiamo anche due» [<y> e <z>]), l’uso regolare di <y> e <z>. L’evoluzione della lingua comportava anche nella scrit tura, come riflesso delle variazioni fonetiche, varianti ortografiche che l’insegnamento scolastico cercava di normalizzare: Quintiliano, Institutio oratoria 1, 7, 11.30 ... orthographia quoque consuetudini inservit ideoque saepe mutata est. (...) Iudicium autem suum grammaticus interponat his omnibus; nam hoc valere plurimum debet. Ergo, nisi quod consuetudo Anche l’ortografia si adegua all’uso e perciò ha spesso subìto cambiamenti. (...) In mezzo a tutti questi fenomeni il grammatico applichi il proprio discernimento: è questo infatti che deve valere più di tutto. Ritengo dunque che 1 8 optinuerit, sic scribendum quidque iudico ogni parola vada scritta come suona, ad eccezione quomodo sonat. di ciò che la consuetudine ha introdotto. Poiché la consuetudine cui l’ortografia faceva riferimento era quella dell’Urbe, la monottongazione veniva ripudiata, nella pronuncia come nella grafia standard: un oratore che pronunciava il dittongo /ai/ (> /ae/) con una /e/ aperta sembrava infatti «imitare i mietitori» (messores videtur imitari), a detta di Cicerone (De oratore 3, 46). Nella sua reazione ai rusticismi, la lingua urbana tendeva a conservare le consonanti velari davanti a /e/ ed /i/ (mentre in umbro e nel registro informale dei ceti umili si andava verso la palatalizzazione, come spesso accadrà nelle lingue romanze): così ad es. macina perdura in latino nel linguaggio tecnico, ma nel registro standard si afferma la grafia grecizzante machina. Una moda passeggera affermatasi – a detta di Quintiliano (Institutio oratoria 1, 5, 20) – nel I sec. a.C. lasciò talora anche nella grafia l’uso di indicare come aspirate anche consonanti che non lo erano, come pulcher, sepulchrum, chorona, lachrima, triumphare (cf. Cicerone, Orator 160; Catullo 84, 1). L’aspirazione, debole in latino (<h>), nello standard è semplicemente un segnale che ricorda l’antica presenza di un’aspirazione (Quintiliano, Institutio oratoria 1, 4, 7), anche se originariamente aveva, in posizione iniziale, una funzione distintiva (cf. le coppie minime hos / os, hortus / ortus, hauri / auri); in posizione intervocalica <h> indica iato (es. mihi, nihil), ma può annullarsi (mi, nil). La segnalazione delle consonanti geminate o doppie potrebbe risalire alla moda ellenizzante della fine del III sec. a.C. e gli antichi attribuivano ad Ennio la sua istituzionalizzazione. A Cesare era fatta risalire invece la normalizzazione della grafia <i> anziché <u> per il «suono intermedio» fra i due fonemi di quantità breve (Quintiliano, Institutio oratoria 1, 7, 21 e 1, 4, 8): dal I sec.a.C., perciò, la grafia optumus anziché optimus si configura come arcaizzante. Non ebbe seguito invece il progetto dell’imperatore Claudio (41-54 d.C.) che, per rimediare alle lacune che i grammatici ormai rilevavano nell’alfabeto latino, si propose di introdurre l’<h> dimezzata per indicare il suono intermedio tra /i/ ed /u/, l’antisigma per indicare il digrafema <ps> e il digamma rovesciato per indicare la /u/ consonantica (cf. Suet. Claud. 41). In funzione della chiarezza della comunicazione, inoltre, il latino standard tende a ripristinare e conservare fonemi desinenziali (/m/, /nt/, /s/) che però nel latino corrente (che continua nelle lingue romanze) saranno sempre più deboli: così ad es. le forme arcaiche Cornelios e Corneliom rischiavano di essere percepiti indifferentemente come Cornelio, mentre nel latino standard il ripristino del fonema desinenziale oscura la vocale precedente (es. Cornelius e Cornelium). 1 9 Il latino standard reagiva inoltre all’insofferenza dei parlanti per lo iato e quindi alla tendenza alla sinizesi, per cui ad es. filíolus nel latino volgare era pronunciato *filiòlus (? ital. ‘figliòlo’), lintéolum nel latino volgare era pronunciato *lintiòlum (? ital. ‘lenzuòlo’) e l’attuale toponimo ‘Pozzuoli’ deriva dal latino volgare Puteólis (CIL X, 1889): contro la produzione di dittonghi ascendenti, in seguito alla consonantizzazione rispettivamente della i o della e in iato, il latino standard ne conservava invece il carattere vocalico e quindi si accentava, ad es., Putéolis. 3.1.3. Fissazione delle strutture morfologiche La flessione nominale e verbale si assesta mediante meccanismi analogici e processi di eliminazione delle varianti, che localmente sono ancora attestate soprattutto prima del I secolo a.C. Soltanto nel linguaggio formulare, ad esempio, si conserva l’antica desinenza del genitivo singolare in -as (es. pater familias) per la prima declinazione. Nella semplificazione dei casi lo strumentale era confluito nell’ablativo e anche il locativo sopravvive solo sporadicamente (es. domi = ‘in casa’ e quindi ‘in patria’ e anche ‘in tempo di pace’). Nella flessione verbale il latino standard conserva, per ragioni di eufonia, l’antica uscita in -ere della terza persona plurale del perfetto indicativo; essa però per la sua somiglianza con l’infinito era stata sostituita, nel registro informale, dall’uscita aoristica -erunt (presente nella poesia arcaica ma anc he postclassica): l’ital. ‘dìssero’ continua infatti il latino díxerunt; tuttavia nel registro standard gli analogisti (soprattutto Cesare) tendevano a generalizzare l’uscita -erunt (es. dixérunt), intermedia tra le altre due. Un intervento particolarmente incisivo dei grammatici riguardò la selezione dei verbi detti “deponenti”. In latino, fin dalle origini, molti verbi presentavano sia la diatesi attiva, sia quella media, che esprimeva la partecipazione affettiva o comunque un particolare coinvolgimento del soggetto nell’evento indicato dal verbo: ad esempio, accanto a mereo (infinito merere) = ‘io merito (qcosa)’, si usava anche la forma mereor (infinito mereri) = ‘io mi merito (qcosa)’. La forma con desinenza -r era però condivisa con l’impersonale (es. itur = ‘si va’) ed era stata adottata anche per il passivo e ciò portava, nel parlato corrente, ad attenuare la pregnanza del suo valore di medio, che venne via via espresso piuttosto con il dativo etico o con forme pronominali: così, ad es., già in Plauto (Rud. 388) si trova sese excruciare anziché excruciari (= ‘tormentarsi’), in Cicerone (Planc. 96) ferri è sostituito da se ferre e il latino corrente registrò poi verosimilmente forme del tipo *mihi recordo, laddove Prisciano, GL II, p. 396, segnala che gli antichi usavano indifferentemente 2 0 recordo e recordor. I grammatici, tuttavia, recependo la vitalità della valenza media per la forma in -r di alcuni verbi molto “soggettivi”, come nascor, morior, fruor (‘godo di qcosa’), utor (‘mi servo di qcosa’), loquor (‘mi esprimo’), vescor (‘mi nutro di qcosa’), ecc., indicarono come superflua – nella latinità standard – la loro forma attiva: questi verbi furono perciò detti “deponenti” in quanto avevano in qualche modo “deposto” sia la forma attiva, sia il significato passivo. Pertanto, anche se in Catone (agr. 151, 4) è ancora attestato nascere, nel latino standard è presente soltanto la diatesi media nasci. La forma attiva, però, continuò ad essere utilizzata nell’uso vivo, e divenne prevalente, eliminando in tal modo l’ambiguità della forma medio-passiva: se nel I sec. a.C. Varrone (De lingua latina 8, 59) sosteneva la validità solo di loquor, nel I sec. d.C. nel latino di registro informale imitato da Petronio si attesta la forma loquo (Satyricon 46, 1 Tu, qui potes loquere, non loquis); mentre nel II sec. d.C. Gellio (18, 9, 8) osserva precisamente che sequo et sequor coesistono, ma consuetudine loquendi differunt. L’ininterrotta vitalità delle forme attive è dimostrata dal fatto che solo queste sono continuate nelle lingue romanze (es. nascere). 3.1.4. Fissazione delle strutture sintattiche Come reazione alla progressiva perdita di significato dei casi, spesso polivalenti, si rafforzarono talora i normali segnali morfologici mediante procedimenti sintattici, sostituendo il caso semplice con un nesso preposizionale: così ad es. il dativo poteva essere espresso anche con ad + acc. (già in Plauto) e lo strumentale, confluito nell’ablativo di mezzo, poteva essere espresso con l’aggiunta di cum: tali forme analitiche hanno continuato ad essere vitali nelle lingue romanze, mentre nel registro standard l’essenzialità espressiva tendeva a non farvi ricorso. Un importante segnale dell’evoluzione intellettuale romana è dato dall’organizzazione della struttura ipotattica della lingua. Il periodo si fa così sempre più complesso, con il meccanismo della consecutio temporum, per cui i tempi verbali hanno valore relativo: in latino infatti il sistema verbale ha in gran parte perduto il fondamento aspettuale derivato dall’indoeuropeo, in cui era vitale la contrapposizione tra aspetto durativo, aspetto risultativo e aspetto puntuale o momentaneo (ad es. il riferimento è al momento iniziale in Cicerone, Epist. 12, 6, 2 si conservatus erit, vicimus = «se (Bruto) si sarà salvato, abbiamo bell’e vinto») dell’azione verbale. Un residuo del significato aspettuale del verbo sussiste ad esempio nei cosiddetti ‘perfetti logici’ o risultativi, per cui memini significa «ho accumulato nella memoria» e quindi “ricordo”, novi significa «ho accumulato nozioni» e quindi “so”, ecc. L’aspetto verbale è poi talora segnalato, in latino, da prefissi, suffissi o 2 1 infissi aggiunti alla radice verbale: ad es. labor = ‘scivolo’ (azione durativa; cf. ital. ‘labile’) vs. collabor = ‘crollo’ (azione momentanea; cf. ital. ‘collasso’); così la differenza tra suadeo (aspetto durativo) e persuadeo (aspetto risultativo) si coglie ancora in italiano nella differenza tra ‘suadente’ e ‘persuasivo’. 3.1.5. Arricchimento del lessico Nel suo evolversi come lingua intellettuale il latino elabora in senso metaforico vocaboli desunti dal linguaggio agricolo: pecunia (= ‘denaro’, con riferimento al pecus , ossia al bestiame, utilizzato nel pagamento in natura), ager (= ‘campo’, ma anche ‘territorio’), felix e laetus (= ‘fecondo’, ‘produttivo’, e quindi ‘lieto’; cf. laetamen = ‘letame’), locuples (lett. ‘pieno nella sua terra’, cioè ricco), frugi (= ‘da frutto’, e quindi ‘buono, onesto’), egregius (lett. ‘che si distingue dal gregge’), rivalis (lett. ‘colui che sull’altra riva’), delirare (lett. ‘uscire dal solco’), impedire (lett. ‘trattenere i piedi’), expedire (lett. ‘liberare i piedi’, da cui ‘spedire’), peccare (lett. ‘agire col piede’, e quindi ‘mettere un piede in fallo’, ‘sbagliare’). Inizialmente il latino evitava gli astratti, che però aumentarono con l’elevazione del livello intellettuale della società e per influsso del greco, che permise di acquisire anche una maggiore propensione per l’uso dei composti. Inizialmente infatti essi erano sentiti come poco perspicui a causa della componente intensiva dell’accento di influsso italico; così per divertire il suo pubblico Plauto enfatizza la moda dei composti alla greca anche con la creazione di esotismi scherzosi (es. Persa 702 ss., dove nugiepiloquides è detto di uno ‘che dice sciocchezze’). L’adattamento fonetico di parole greche in latino è via via più fedele, nel registro standard: così se in precedenza si era avuto il prestito ampora – attestato come volgarismo ancora nel III-IV sec. d.C. (Appendix Probi 227: amfora, non ampora) – e il suo diminutivo ampor(e)la > ampulla, in età classica la conoscenza della fonetica greca determinò la forma amphora, e il latino standard colaphus (dal greco kólaphos = ‘schiaffo’) si contrappone al volgarismo *col(o)pus, attestato dall’ital. ‘colpo’ (cf. Petronio 44, 5 percolopabant = ‘picchiavano sodo’). Il lessico latino si arricchì dunque di grecismi inizialmente a partire dal linguaggio corrente, a partire da tecnicismi della lingua dei mercanti, dei medici, degli artigiani ecc., come i tecnicismi relativi alla religione e agli spettacoli erano stati talora desunti dall’etrusco. Ma dal II-I secolo a.C. il purismo dei grammatici tentò di frenare, nel latino standard, l’acquisizione di neologismi e di prestiti anche provenienti dal greco: tali nuove accessioni rischiavano infatti di inquinare l’identità 2 2 linguistica romana e le élites colte preferirono allora limitarsi a citare parole o espressioni greche nella lingua originale, senza ambientarle nel sistema morfologico latino Divenendo però lingua di cultura, con l’emulazione della prestigiosa cultura greca, il latino si arricchì via via di calchi formali (per cui providentia corrispondeva al greco prónoia, qualitas a poiótes, accentus a prosodía) e di calchi di significato (per cui ars corrispondeva al greco téchne, ratio a lógos, natura a phýsis, voluptas a edone, humanus a philánthropos, decorum a prépon, causa ad aitía, locus a tópos, anima a psyche, animus a nus, mentre vari sinonimi o nessi, come ad esempio primordia o corpuscula minima, corrispondono in Lucrezio al greco átomoi. Si poneva così rimedio a quella “povertà” del lessico intellettuale latino denunciata da Lucrezio (1, 139 e 831; 3, 260) e ammessa da Seneca (Epist. 58, 1), ma smentita da Cicerone (De finibus 1, 3; 3, 34). Quest’ultimo contribuì in modo decisivo ad arricchire la lingua latina di tecnicismi filosofici, proponendo ad esempio l’introduzione dell’aggettivo moralis per indicare l’etica (gr. ethike), fino ad allora chiamata philosophia de moribus (De fato 1); a Cicerone è inoltre attribuita la creazione del vocabolo essentia (ricalcato sul greco usía), poi utilizzato dallo stoico Fabiano (Seneca, Epist. 58, 6): essentia ed ens – quest’ultimo ricalcato sul greco tò on e proposto da Cesare (cf. Prisciano, Institutiones grammaticae 18, GL 3, p. 239, 7) – furono diffusi a partire dal retore Virginio Flavo (inizio I d.C.) e continueranno poi nelle lingue moderne. Alla complessità concettuale sottostante ai tecnicismi retorici e filosofici greci la lingua latina ovviò con l’impiego di endiadi e nessi nominali, come per esempio comparatio proportiove per tradurre il vocabolo greco analogía (cf. Cicerone nella sua traduzione del Timeo platonico, § 13, p. 186 Giomini). Traendo origine dall’uso ormai canonizzato dal lessico colto di età arcaica (instituto veterum), vari tecnicismi greci entrarono a far parte del lessico latino sotto forma di prestiti, come ad esempio philosophia, rhetorica, dialectica, grammatica, geometria, musica, physica (cf. Cicerone, De finibus 3, 2, 5 e Academica posteriora 1, 25). Tenendo dunque presente l’esigenza di lingue tecniche elevate quali la retorica e la filosofia, Quintiliano (Institutio oratoria 2, 14, 1-4) ammetteva l’accettazione di grecismi per evitare di ricorrere a neologismi male armonizzabili con il lessico latino. 3.2. Il registro standard o istituzionalizzato (sec. I a.C.-IV d.C.) 2 3 Con l’affermazione dello Stato romano anche al di fuori del Lazio e dell’Italia (fine del II sec. a.C.), nella comunicazione pubblica (oratoria, diritto, epigrafia ufficiale) e nella letteratura venne assunto come standard linguistico il latino parlato a Roma dai ceti colti in quel particolare momento storico, legato alla generazione di Scipione Emiliano e dei suoi amici ammiratori della grecità, ma anche a politici e oratori che, come Catone, erano piuttosto preoccupati di promuovere l’identità nazionale. Alla generazione degli Scipioni fa riferimento infatti Cicerone quando dice (Brutus 258) che «in quel tempo quasi tutti coloro che non erano vissuti fuori di questa città né erano stati intorbidati da qualche elemento forestiero penetrato all’interno, si esprimevano correttamente». Pertanto la «coloritura cittadina» (urbanitatis color) qualificava il «parlare latino» (Latine loqui) caratteristico non soltanto degli oratori ma di tutti gli abitanti di Roma (Cicerone, Brutus 171), ed esso costituiva lo standard di riferimento per tutti i cives Romani (ivi 140), in qualunque luogo dello Stato. Funzionale alla creazione di un latino standard fu l’introduzione degli studi grammaticali in Roma e la diffusione dell’insegnamento scolastico romano. Gli inizi dell’insegnamento grammaticale a Roma sono legati a modelli greci, con riferimento anzitutto alla Téchne grammatike di Dionisio Trace (sec. II a.C.), che ebbe conoscenza della grammatica sanscrita di Panini (sec. VI/IV a.C.) ma che elaborò le categorie descrittive della lingua in conformità alla gnoseologia stoica. La grammatica di Dionisio Trace servì poi da modello a Quinto Remmio Palemone (sec. I d.C.). I Romani recepirono comunque, accanto al concetto della lingua come enérgheia, cioè dinamismo dall’andamento diseguale (gr. anomalos), perseguito dagli anomalisti stoici della scuola di Pergamo (Asia Minore), anche la concezione platonica della lingua come ‘norma’ (nómos) propria dei grammatici di Alessandria d’Egitto, che avevano formulato le loro teorie sull’azione dell’analogia (= ‘secondo un criterio logico’) sull’evoluzione linguistica. Era anomalista il greco Cratete di Mallo, che nel 168 iniziò a Roma l’insegnamento della grammatica intesa come studio dei testi letterari, per coniugare la rettitudine morale con la purezza dell’eloquio; ma se inizialmente la retorica fu insegnata sulla base di testi greci, dall’inizio del I secolo a.C. l’insegnamento della retorica latina cominciò ad essere al centro degli studi superiori dei ragazzi romani. Se Cesare fu, come è noto, analogista; da parte sua Varrone, illustrando la dottrina dell’anomalia e dell’analogia (De lingua latina 8-9), riconosce l’apporto di ognuna all’evoluzione del linguaggio, mentre sottolinea la necessità dell’analogia soprattutto per regolare il linguaggio comune, distinto da quello forense e da quello artistico (ivi, 9, 1, 5), e rileva come lo sforzo 2 4 normalizzatore della scuola venisse diffuso nell’uso vivo e divulgato anche tra le masse tramite la lingua del teatro (ivi, 9, 11, 17). Cicerone (De oratore 3, 48) osservava dunque che le norme del corretto parlare latino (praecepta Latine loquendi), «trasmesse dall’insegnamento ricevuto da ragazzi e nutrite da una più accurata conoscenza metodica delle lettere oppure dall’abitudine quotidiana della conversazione domestica, sono rafforzate dai libri e dalla lettura degli antichi oratori e dei poeti». Il latino così istituzionalizzato attraverso la scuola (sostenuta dallo Stato specialmente a partire da Vespasiano, 69-79 d.C.) poté dunque diventare lingua di comunicazione sovranazionale senza alterare la propria identità e quindi la propria intelligibilità, ma frenando anche la trasformazione che la lingua naturalmente subisce nell’uso corrente e anche limitando le differenziazioni locali, finché perdurarono le istituzioni dello Stato romano e quindi i canali di trasmissione dello standard linguistico (rete viaria, esercito, pubblica amministrazione, sistema scolastico, spettacoli…). Pertanto, soprattutto a partire dall’estensione della cittadinanza romana a tutto l’Impero (constitutio Antoniniana, anno 212 d.C.), il latino portò in sé, per tutta la sua storia, germi di alterazione, che l’unità politica e culturale riusciva però a neutralizzare (nel registro standard) e frenare (nel registro informale) fino allo sfaldamento politico-amministrativo del V secolo d.C. Fino alla fine dell’impero romano d’Occidente, cioè, il latino si diffuse mediante fattori dinamici (esercito e mercanti) ma anche mediante fattori conservativi (burocrazia e scuole). Queste ultime erano attive in ogni provincia: ad esempio a Tarracona (odierna Barcellona, in Spagna), insegnava all’inizio del II secolo Annio Floro, retore africano allontanatosi da Roma per l’invidia di Domiziano, e nel suo Vergilius orator an poeta esprime la soddisfazione per la nuova professione, che non soltanto gli dava da vivere ma gli consentiva anche di comunicare ai ragazzi di quella lontana provincia i va lori della civiltà romana in cui egli si riconosceva. Così più tardi (297/298) avrà ampia risonanza, in un secolo di grave crisi dell’Impero romano, il discorso (Panegyrici Latini 9) del retore Eumene per la restaurazione delle scuole a Autun, in Gallia. La riforma di Diocleziano (293) e poi (330) il trasferimento della capitale a Bisanzio, divenuta Costantinopoli, affiancheranno il greco al latino come lingua ufficiale e ridurranno così la funzione del latino come elemento unificante. 3.2.1. Il purismo classico Verso la fine dell’età repubblicana la componente italica venne bandita dallo standard linguistico urbano (urbanitas) in quanto rusticitas, e la componente sabina venne bandita come 2 5 residuo arcaico. La sensibilità puristica era allora funzionale alla compattezza di uno Stato plurilingue, quale era ormai la res publica romana. In funzione della correttezza del linguaggio (Latinitas), l’ars grammatica si presentava come una tecnica che insegna ad evitare i difetti del linguaggio, cioè i solecismi e i barbarismi; non tanto la bellezza formale quanto la univocità e chiarezza della comunicazione sono dunque i due requisiti di un linguaggio selezionato (elegantia verborum). In una definizione di Varrone (in Diomede, Gramm. 1, 439, 15 s.) «la Latinitas è la norma del parlare puro, secondo la lingua di Roma» (Latinitas est incorrupte loquendi observatio secundum Romanam linguam). Alla base della cosiddetta “grammatica normativa” (che si studia ancor oggi nelle scuole) c’è infatti la lingua parlata nella città di Roma dai ceti colti tra la fine del II e l’inizio del I sec. a.C. Si cominciava infatti allora a temere l’inquinamento della lingua urbana, perché Roma stava diventando sempre più una città multiculturale e multietnica, una «società costituita dal confluire di nazioni» diverse (civitas ex nationum conventu constituta), come afferma un opuscolo attribuito al fratello di Cicerone, Quinto (Commentariolum petitionis 14, 54). Così ad esempio negli spettacoli teatrali promossi da Cesare gli attori venivano fatti recitare in lingue diverse (cf. Suetonio, Caes. 39, 1). Il purismo romanocentrico è dunque frutto delle aspirazioni egemoniche e della reazione urbana all’immigrazione verificatesi nel I secolo a.C. Cicerone infatti spiega (Brutus 258-259 e 261) come l’ideale della pura et incorrupta consuetudo della lingua parlata a Roma – con il rifiuto dei rusticismi e barbarismi e con il freno alle innovazioni – ed esportata come lingua della res publica romana, abbia cause politiche e demografiche: la Latinitas che era fiorita con naturalezza (quasi bonae consuetudinis) nella Roma del circolo scipionico doveva essere ormai difesa, al tempo di Cicerone, mediante l’insegnamento dei grammatici; esso era diffuso attraverso la scuola e veniva applicato nel registro standard (pubblica amministrazione, esercito, letteratura) come «criterio immutabile» (ratio quae mutari non potest) e puristico (tamquam obrussa = «come un crogiuolo») che permetteva di comprendersi in luoghi e tempi diversi, all’interno di uno Stato multinazionale, al di là delle varietà di un registro informale ormai troppo variegato e mutevole (pravissima consuetudinis regula). Il romanocentrismo dello standard letterario è evidenziato anche dal fatto che, attratti dal mecenatismo dapprima delle famiglie patrizie e poi degli imperatori, nel corso dei secoli la maggior parte dei letterati latini di cui ci è giunta notizia abbiano operato nell’Urbe: così ad esempio l’arpinate Cicerone, il veronese Catullo, il venosino Orazio, il mantovano Virgilio, il sulmone se 2 6 Ovidio, il padovano Livio, il gallo voconzio Pompeo Trogo, gli spagnoli Quintiliano, Seneca e Marziale, finché più tardi, con Apuleio e Tertulliano (II sec.), rimasti nella loro Numidia (Africa), si osserva talora un qualche decentramento della produzio ne letteraria conservataci. A partire dal I secolo a.C. le norme selettive del linguaggio furono perpetuate dalla scuola, sì che il «criterio immutabile» di cui parlava Cicerone corrisponde a quella che Consenzio, un grammatico del IV-V secolo (Gramm. 5, p. 394), chiamerà «criterio della lingua romana» (ratio Romani sermonis), e quindi corrisponde alle “regole” di funzionamento del latino “classico” tuttora insegnate nelle scuole. In realtà anche all’interno del registro standard si verificò un’evoluzione linguistica, perché il linguaggio è un processo mimetico della realtà. Ma sull’esigenza funzionale, di per sé volta all’arricchimento, in generale ha comunque la meglio l’esigenza razionalizzatrice e impoverente propria dello standard linguistico, che seleziona il materiale lessicale esistente secondo il criterio della bona consuetudo. Così, nell’intento di evitare forme forestiere, il purismo classico rifiutava la commistione anche con la lingua greca, presente nel parlato dei mercanti, degli artigiani, dei medici e così via. Sul versante della letteratura i grecismi sono presenti in autori precedenti al I secolo a.C., specie laddove viene riprodotta la vivacità del linguaggio popolare (Plauto, Terenzio, Lucilio ecc.); ma un poeta “classico” come Orazio (S ermones 1, 10, 20-30) polemizza contro l’abbondante uso dei grecismi presente un secolo prima in Lucilio, e ancor più li dice inopportuni in quella forma di comunicazione pubblica che è l’oratoria giudiziaria, in cui è assolutamente necessaria la chiarezza espressiva. Ciò è tanto più significativo se si pensa all’uso culto del grecismo immesso nella poesia latina dall’erudizione ellenistica, a partire da Catullo e dai poetae novi (I a.C.). 3.2.2. L’istituzionalizzazione della consuetudo urbana dei ceti colti Cicerone (De oratore 3, 112) osservava che un elemento di conservazione della lingua era il modello della lingua parlata all’interno delle antiche famiglie patrizie, dove «le donne conservano più facilmente intatta l’antica pronuncia perché, non essendo avvezze a conversare con molte persone, mantengono sempre l’inflessione che hanno appreso all’inizio». E siccome fino alla fine del II secolo a.C., quando cominciarono a diffondersi le scuole pubbliche, per le classi agiate l’apprendimento della lingua si svolgeva in famiglia, ancora Cesare, secondo Cicerone (Brutus 253), si distingueva fra gli altri oratori per il suo «parlare latino in modo perfettamente scelto» 2 7 (Latine loqui elegantissime), come aveva imparato dapprima in famiglia e poi anche con lo stud io della retorica: Il latino ‘classico’ ha dunque un’origine naturale, che mostra le esigenze di espressione di un pensiero complesso e di una comunicazione interculturale (un’apertura propria della romanità), ma non è una creazione artificiale: Cicerone lo rilevava quando a proposito dell’«esprimersi correttamente in latino» diceva che esso «non era frutto di una teoria scientifica ma di una consuetudine ritenuta corretta» (Brutus 258). Contro la normalizzazione operata dagli analogisti e nonostante la tendenza all’epurazione di arcaismi e rusticismi propria del suo tempo, lo stesso Cicerone aveva difeso, nelle scelte lessicali o nella flessione verbale o nominale, incoerenze che per ragioni di eufonia erano allora nell’uso vivo, come ad esempio le forme verbali contratte o il genitivo plurale in -um anziché in -orum (cf. Orator 155-158); a proposito di tale genitivo Cicerone riporta l’espressione corrente pro deum (sott. fidem), che significava ‘oh fede degli dèi!’ e che nell’italiano antico è continuato ne ll’esclamazione “affé di Dio!” (= “ah, fede di Dio!”). La priorità dell’uso vivo rispetto alle regole veniva riaffermato anche da Quintiliano (Institutio oratoria 1, 6, 16), anche se, in una Roma ormai cosmopolitica (sec. I d.C.), l’osservanza della consuetudo rischiava di esporre la lingua ad alterazioni sempre più massicce. In questo senso lo stesso retore (ivi 1, 6,43) raccomandava il iudicium, cioè la capacità di distinguere ciò che è sana consuetudine da ciò che sano non è, mentre si appellava non più semplicemente alla varroniana multorum consensio (‘consenso della maggioranza’), ma al ‘consenso degli eruditi’ (consensus eruditorum: ivi 1, 6, 45). Se però lo stesso Quintiliano mostra di percepire come estraneo all’uso vivo del ‘parlare latino’ (Latine loqui) del suo tempo l’esprimersi ‘secondo la grammatica’ (grammatice loqui), cioè facendo prevalere l’analogia (ivi 1, 6, 27), si comprende come ormai anche tra le persone colte l’uso quotidiano del Latine loqui, modello espressivo della latinità pura (Latinitas), non coincideva più con il modello teorico prescritto dai grammatici. Il progressivo distacco dello standard linguistico dal latino di uso corrente fra gli indotti contribuì a rendere via via più artificiosa, in età postclassica (sec. II-III d.C.) e tardoantica (sec. IV-VI), la lingua letteraria. 3.2.3. La lingua di Roma come strumento di affermazione politica 2 8 Nel dinamismo della romanizzazione cresce il senso dell’appartenenza al mondo “romano” e si impone via via il modello linguistico dell’urbanitas, per promuovere in tutto l’orbis Romanus l’uniformità della lingua nell’amministrazione e nella legislazione. Una base linguistica unitaria è infatti necessaria come mezzo di comunicazione in uno Stato plurilingue. Così nella fase del massimo prestigio dell’Impero (sec. I d.C.), Plinio il Vecchio celebrava l’Italia, ormai latinizzata, anche per la diffusione della sua lingua: Plinio, Naturalis historia 3, 39 ... terra omnium terrarum alumna eadem et ... terra che di tutte le terre è figlia e nello stesso parens, numine deum electa quae caelum tempo madre, eletta dal nume degli dei per ipsum cla rius faceret, sparsa congregaret rendere più luminoso il cielo stesso, per riunire imperia ritusque molliret et tot populorum imperi lontani fra loro e addolcire i costumi e discordes sermonis mettere in comunicazione fra loro attraverso il commercio contraheret ad conloquia et linguaggio lingue discordi e primitive di tanti humanitatem homini daret breviterque una popoli e dare umanità all’uomo: perché, in una cunctarum gentium in toto orbe patria parola, si formasse una sola patria di tutte le fieret. nazioni, in tutto il mondo. ferasque linguas Per i Romani, infatti, il latino in quanto lingua ufficiale è strumento di affermazione politica e di compattezza delle istituzioni: mentre sussistevano lingue subalterne per la comunicazione locale, il latino era la lingua dei cittadini romani, veniva appresa per poter accedere ai diversi servizi ed era utilizzata nella comunicazione pubblica e nel commercio. L’apprendimento della lingua di Roma era quindi reso appetibile come mezzo di integrazione nella cultura dominante e simbolo di prestigio sociale, come scrive Tacito (Agricola 21) a proposito delle strategie di romanizzazione messe in atto dal suocero Agricola in Britannia, nell’inverno del 79/80 d.C., nei confronti delle popolazioni locali di lingua celtica. In quanto lingua delle istituzioni e dell’amministrazione, il latino si contrapponeva alle altre lingue di popoli soggetti o confinanti, anche se in Africa e nelle province orientali il greco continuò ad essere lingua franca (socia lingua) per la comunicazione interetnica, come è attestato all’inizio del I secolo d.C. da Ovidio (Tristia 5, 10, 35) relegato a Tomi (presso l’attuale Costanza, in Romania), dove si conosceva poco il latino e si parlavano piuttosto il getico e il sarmatico (ivi, 12, 58). 2 9 Il bilinguismo greco- latino per tutta l’età imperiale perdurò in Oriente, dove il latino rimase seconda lingua ai livelli informali, mentre predominava ai livelli alti e ufficiali. Un celebre esempio di comunicazione pubblica bilingue, in funzione della propaganda imperiale nella nuova provincia istituita da Augusto in Galazia (odierna Turchia), sono le copie del resoconto delle imprese (Index rerum gestarum) di Augusto, il cui testo originario in latino (ora perduto) era esposto a Roma all’ingresso del mausoleo della gens Iulia: i frammenti della copia che era esposta sulle pareti del tempio della dea Roma e di Augusto ad Ankara ci restituiscono una parte cospicua del testo sia in greco (in posizione più in vista per il pubblico) sia in latino (in posizione meno esposta), mentre i frammenti trovati ad Apollonia di Pisidia e ad Antiochia ci conservano rispettivamente porzioni di testo latino (ad Antiochia) e greco (ad Apollonia di Pisidia). La mole del testo non rendeva certo agevole la lettura completa da parte dei passanti, ma la propaganda era comunque assicurata dall’effetto d’insieme fornito dall’iscrizione monumentale. 3.2.4. Il ritmo prosastico Per agevolare la comunicazione di fronte a un pubblico numeroso, in mancanza di tecniche di amplificazione della voce (quali i moderni microfoni, megafoni, altoparlanti ecc.), gli oratori latini nella comunicazione pubblica (oratoria giudiziaria e forense) dal I secolo a.C. cominciarono ad adottare una dizione ritmica, sottolineando cioè mediante una clausola (conclusio) o cadenza metrica la parte finale di una frase o segmento recitativo. Cicerone (Orator 166-171) testimonia che tale uso non esisteva, fra i Romani, prima dell’età sua, mentre egli stesso nei suoi discorsi giovanili per rendere ritmico l’eloquio si era limitato a servirsi di antitesi e simili parallelismi, che anche naturalmente – senza voluto impegno retorico – producevano concinnitas, ossia una dizione armoniosa realizzata mediante simmetrie e corrispondenze espressive, quali antitesi, parallelismi, anafora, chiasmi ecc. In età più arcaica invece la prosa ritmica era stata strutturata con tecniche più rudimentali, quali l’allitterazione, l’assonanza, nessi bimembri o trimembri, e così via. La retorica latina soltanto al tempo di Cicerone aveva ormai avviato una riflessione consapevole circa il ricorso alla sottolineatura di un segmento espressivo mediante il ritmo, e Cicerone la espone nel terzo libro del De oratore (173 ss.) per bocca di Crasso. Ma gli atticisti criticavano l’oratoria ritmicamente compaginata (cf. Cicerone, Orator 168) e vedevano nell’intromissione del ritmo (numerus) nella sobrietà della comunicazione pubblica (dicere) un 3 0 insidioso allettamento dell’uditorio e quindi uno strumento di manipolazione del consenso (ivi, 170). Il ritmo oratorio era effettivamente finalizzato ad ottenere una comunicazione efficace, e poteva essere utilizzato nella comunicazione pubblica orale proprio perché faceva leva su una sensibilità che accomunava non solo gli intellettuali ma anche le masse, come attesta espressamente Cicerone (Orator 173; De oratore 3, 198). Ben presto però l’imitazione del modello ciceroniano fece dell’uso delle clausole metriche una tecnica estetica in cui si esibivano più o meno volutamente non solo oratori ma anche storici, epistolografi, trattatisti, e non soltanto nell’ambito della prosa latina ma anche in quella italiana, almeno fino al secolo scorso, a causa della studiata frequentazione di modelli classici: di qui la costruzione latineggiante del periodo in molti autori della letteratura italiana. Infatti a partire dal III secolo d.C. le cadenze più frequenti nel modello ciceroniano sono state riprodotte non più mediante sequenze quantitative, ma mediante la loro imitazione accentativa (cursus), secondo la mutata sensibilità di età tardoantica: la percezione della quantità vocalica come segnale distintivo cominciò infatti allora a scomparire, a cominciare dalle persone non colte di aree periferiche. Così anche in poesia il verso quantitativo dello standard letterario recepì un ritmo accentativo a partire dall’esametro di Commodiano (probabilmente III sec.) e dall’ottonario trocaico del Psalmus contra partem Donati di Agostino (fine IV sec.): la poesia di età medievale e moderna proseguirà in tale direzione. 4. IL LATINO ‘VOLGARE’ O CORRENTE 4.1. L’ osmosi dialettica fra latino volgare e registro standard Il latino fu lingua di comunicazione generale per la massa della popolazione all’incirca fino al VI secolo,ma certo questa condizione andò via via scemando, benché si tentasse di tenere uniti i due livelli, della parlata popolare e della lingua scritta della tradizione utilizzando in più occasioni un latino in forme “rustiche”, cioè del parlato regionale. La parabola si concluse tra l’VIII e il IX secolo quando, come vedremo più avanti, una restaurazione della tradizione colta confinò il latino 3 1 alla funzione esclusiva di comunicazione tra i dotti. Per comprendere questo processo dobbiamo risalire a un’epoca ben più antica. In età arcaica il registro corrente o ‘volgare’ (cioè comune a tutti) rientrava nel diasistema latino in un continuo interagire con il livello colto della norma codificata. Questa regolava e frenava l’innovazione linguistica, attraverso il modello imposto dalla scuola alla lingua corrente. Ma anche se nel registro standard la lingua veniva cristallizzata secondo quello che abbiamo visto definito da Cicerone (Brutus 74, 258) «criterio immutabile», tuttavia anche in età classica non mancò la consapevolezza del mutare della lingua, giacché – osservava Varrone (De lingua latina 9, 17) «la lingua d’uso è in movimento» (consuetudo loquendi est in motu). Con l’espandersi dello Stato romano, il sermo cotidianus si allontanò progressivamente dal linguaggio della comunicazione ufficiale e della letteratura, differenziandosi nello spazio e nel tempo e a seconda del ceto sociale e del livello culturale dei parlanti. D’altra parte già per Cicerone era naturale (cf. Epist. 9, 21) che ci fosse una differenza espressiva tra il registro informale (della conversazione familiare e della corrispondenza epistolare) e il registro standard adottato nella comunicazione pubblica (oratoria giudiziaria e oratoria forense). Tendenzialmente il linguaggio corrente – scritto o orale – è caratterizzato dall’abbondanza della paratassi, da pleonasmi e ripetizioni, dall’uso del dativo etico, dalla presenza di frequentativi e diminutivi in sostituzione dei verbi e sostantivi corrispondenti (così ad es. canere è sostituito da cantare, che continua nelle lingue romanze), auris è sostituito da auricula, che continua nell’italiano ‘orecchio’ e in altri esiti romanzi); anacoluti e ipercorrettismi sono frequenti specialmente nel linguaggio informale di persone poco colte. 4.2. Documentazione del latino ‘volgare’ Il latino ‘volgare’ – inteso come ampio spettro del linguaggio corrente e quotidiano in tutte le sue varietà, dalle prime manifestazioni (scritte) del latino al protoromanzo – è in parte attingibile mediante testi non letterari, sia nell’epigrafia non ufficiale (funeraria o votiva) sia attraverso la tradizione manoscritta. Si possono anche utilizzare, ai fini della conoscenza del latino volgare, i manuali tecnici (di agronomia, di medicina, di veterinaria, ecc.) e l’imitazione del latino parlato presente in testi letterari (ad es. Plauto e Petronio, ma qua e là anche passi redatti in stile diatribico, ad esempio in Seneca). Dati interessanti possono essere poi forniti dalla lexis letteraria di livello 3 2 ‘umile’ e familiare di età cristiana, presente ad esempio nel diario di viaggio di Egeria (o Eteria) che scrisse intorno al 400, e grande immediatezza mostrano gli appunti annotati in carcere da Perpetua, martire a Cartagine nel 203 d.C., o i verbali dei processi contro i cristiani. Offre documentazione del registro informale anche la trascrizione del parlato nell’omiletica: infatti alcuni fra i testi ad esempio di Ambrogio e di Agostino furono ricavati dagli appunti stenografati da ascoltatori presenti e sono stati pubblicati per lo più senza una revisione formale da parte dell’autore, a differenza dell’oratoria ufficiale. Per la conoscenza della lingua parlata possiamo inoltre utilizzare anche le testimonianze di grammatici e retori, come la già ricordata Appendix Probi. Le particolarità fonetiche del latino volgare si riflettono particolarmente nelle deviazioni riscontrabili rispetto all’ortografia normalizzata dall’insegnamento scolastico, e sono riconoscibili in iscrizioni, papiri, ostraka (frammenti di coccio), tavolette, cioè in documenti autografi, non alterati dalla tradizione manoscritta. Così a Pompei (e quindi prima del 79 d.C., anno dell’eruzione del Vesuvio) due graffiti, di mano diversa, tramandano lo stesso distico: quisquis amat valeat, pereat qui nescit amare; / bis tanto pereat quisquis amare vetat (Diehl 593). quisquis ama valia, peria qui nosci amare, / bis tanti peria quisquis amare vota (Diehl 594). Traduzione: «Chi ama, stia bene, perisca chi non sa amare; / due volte tanto perisca chi vieta di amare». La redazione qui riportata per prima è in latino standard, grammaticalmente e ortograficamente corretta; la seconda presenta fenomeni fonetici a volte preludenti al protoromanzo. Un altro esempio pompeiano (CIL IV 3494e.f) è lo scambio di battute su un affresco raffigurante due persone che giocano a dadi: uno dei due dice exsi (= «Sono uscito») e l’altro protesta Non tria, duas est (= «Non è un tre, è un due!»). Sui muri di Pompei le scritte erano tanto abbondanti che uno spir itoso ha lasciato scritto su una parete: Diehl, Pompeianische Wandinschriften, Bonn 1910, 668 Admiror, pariens, te non cecidisse ruinis, qui tot scriptorum taedia sustineas! Mi meraviglio che non sei ancora caduta a pezzi, o parete, che devi sopportare tanti scribacchini! 3 3 Si tratta di un distico elegiaco (un esametro e un pentametro, metricamente corretti), in cui pariens è ipercorrettismo per paries e cecidisse ruinis è espressione pleonastica. Come esempio della lexis di registro informale di una persona colta, rimanendo in età classica, possiamo utilizzare anche le lettere di Cicerone, non pensate per la pubblicazione, ma scritte – come Cicerone stesso dichiara – in un «linguaggio comune» (plebeio sermone); un esempio: Cicerone, Fam. 14, 8 (da Brind isi, 2 giugno 47 a.C.) Tullius Terentiae suae salutem. Si vales, bene est; ego valeo. Valetudinem tuam velim cures diligentissime. Nam mihi et scriptum et nuntiatum est te in febrim subito incidisse. Quod celeriter me fecisti de Caesaris litteris certiorem, fecisti mihi gratum. Item posthac, si quid opus erit, si quid acciderit novi, facies ut sciam. Cura ut valeas. Vale. Ante diem quartum Nonas Iunias. Tullio saluta la sua Terenzia. Se stai bene, bene! io sto bene. La tua salute vorrei che tu la curassi con molta attenzione: mi è stato scritto e riferito che ti è venuta una febbre improvvisa. Mi hai fatto un gran piacere a farmi sapere in fretta della lettera di Cesare: allo stesso modo, per il futuro, se ci sarà bisogno di qualcosa, se succederà qualcosa di nuovo, me lo farai sapere. Cerca di star bene. Saluti. 2 giugno. Quanto alle lettere autografe di Augusto, a carattere privato, lo storico Suetonio (II sec. d.C.) poté ancora visionarle, menzionandone colloquialismi e forme dialettali, oltre che idioletti ed espressioni caratteristiche del principe, di cui descrive anche l’ortografia e le abitudini scrittorie; Suetonio osserva tra l’altro: Suetonio, Aug. 87 Cotidiano sermone quaedam frequentius et notabiliter usurpasse eum, litterae ipsius autographae ostentant, in quibus identidem, cum aliquos numquam soluturos significare vult, «ad Kalendas Graecas soluturos» ait; et cum hortatur ferenda esse praesentia, qualiacumque sint, «contenti simus hoc Catone», et ad exprimendam festinatae rei velocitatem, «celerius quam asparagi cocuntur». Che nella conversazione quotidiana Augusto abbia usato con una certa frequenza e in modo caratteristico alcune espressioni, lo mostrano i suoi scritti autografi, in cui costantemente, quando vuole parlare di persone che no n pagheranno mai, dice: «pagheranno alle calende greche»; e quando esorta a sopportare la situazione presente, qualunque essa sia, dice: «contentiamoci di questo Catone», e per indicare la velocità di una cosa rapida: «più velocemente di quanto cuocciano gli asparagi». Per epoche diverse le fonti disponibili ci tramandano, qua e là, termini usati nel registro informale, contrassegnandoli spesso con indicazioni del tipo quod vulgo dicitur, dove vulgo si contrappone a Latine, riferito al registro standard. Così per indicare il ‘pappataci’ (una zanzara che 3 4 molesta il bestiame) Isidoro (inizio VII sec.) menziona il vocabolo corrente tabanus accanto allo standard asilus: Isidoro, Etymologiae 12, 8,15 …oestrus autem Graecum est, qui Latine asilus, vulgo tabanus vocatur… … óistros è termine greco: latinamente si chiama asilus e nel linguaggio corrente tabanus. Tabanus è attestato già in Varrone (Res rusticae 2, 5, 14), e Seneca (Epist. 58, 2) da parte sua ricordava come disusato il vocabolo “romano” asilus. Il termine di registro informale è in genere quello che ha esito romanzo; nel caso del ‘pappataci’, però, l’italiano e altre lingue o dialetti ereditano il vocabolo dalla variante (allotropo) rustica *tafanus, ma con uno spostamento semantico (l’ital. ‘tafano’ indica un insetto diverso); da parte sua il vocabolo standard (Latine) asil(l)us dà esito dotto con l’italiano ‘assillo’, mentre il grecismo ‘estro’ passa a significare l’ispirazione che improvvisamente sollecita l’artista. Se nel registro informale (latino volgare) continuava il bilinguismo greco- latino, esso si accentuò in età cristiana a causa del forte influsso di elementi orientali, e molti grecismi sintattici, oltre che lessicali, penetrarono in latino a partire da testi di traduzione (soprattutto la Bibbia) e da autori bilingui (specie africani); alcuni volgarismi latini penetrarono anche nel latino letterario per influsso del greco parlato: così ad es. la proposizione oggettiva resa con un costrutto congiunzionale (quod, quia, quoniam, con l’ind. o con il cong.) attestato una volta già in Plauto (Asinaria 52) e poi a partire dal I secolo a.C. La lingua di uso corrente è arricchita dagli apporti delle lingue settoriali (tecniche) e dei gerghi. Alcune lingue tecniche come quella giuridica e quella sacrale/liturgica sono fortemente conservative, perché legate a una tradizione collettiva transgenerazionale. Tra le lingue tecniche il latino cristiano è quello che è più ampiamente penetrato ed ha maggiormente inciso sulla lingua corrente; così ad esempio in Francia e in Italia un volgarismo di origine biblica, par(abo)lare, si sovrappone a fabulari, che è verbo attestato a partire da Plauto e poi nello spagnolo hablar e nel friulano favelà. 4.3. Il ‘latino cristiano’ 3 5 La creazione di neologismi cristiani prima in greco e poi in latino, nel periodo iniziale della cristianizzazione, viene attribuita (dalla scuola di Nimega, prima metà del secolo ventesimo), ai cristiani comuni, in quanto nuovi vocaboli si rendevano necessari per la comunicazione pratica; letterati come Tertulliano e Minucio Felice (fine II secolo) contribuirono poi a canonizzare e diffondere molti cristianismi. Anche le anonime traduzioni bibliche in latino (dette collettivamente Vetus Latina ?cioè versio?), contribuirono a innovare la lingua latina diffondendo nel registro informale molti cristianismi lessicali e sintattici di origine soprattutto greca, e talvolta anche semitica. Di quelle traduzioni san Girolamo curò una revisione che costituì la Vulgata (versio), cioè una traduzione ‘ufficiale’, meno discordante dallo standard del latino letterario e più aderente al testo originale (greco o ebraico). L’opera gli era stata commissionata da papa Damaso (360-382), che introdusse definitivamente il latino nella liturgia romana, fino ad allora prevalentemente in greco, che era la lingua della comunità giudaica e cristiana della capitale. Un primo tentativo di introdurre il latino nella liturgia romana era stato attuato durante il pontificato di Vittore I († 203), di origine africana; alla metà del III secolo fu introdotto l’uso del latino per le letture bibliche, mentre la preghiera eucaristica rimase in greco fino alla comparsa del Canone romano (sec. IV); la liturgia romana si arricchì poi di nuovi testi specialmente ad opera di papa Leone Magno († 461). Dalla Palestina (dove nel I secolo d.C. si parlava non più l’ebraico, ma un’altra lingua semitica, l’aramaico) il cristianesimo si era diffuso nelle città della diaspora ebraica e via via anche tra i non ebrei; lingua di ampia comunicazione era allora, nel Mediterraneo orientale, il greco popolare (koine) e nell’Africa nordoccidentale e in Occidente il latino. I cristiani, come ricorda intorno al 200 d.C. l’anonimo autore dell’Epistola a Diogneto (5, 2), non parlavano una lingua diversa dagli altri: non si può quindi parlare del greco e del latino cristiano come di “lingue speciali” in quanto gerghi ristretti al gruppo dei cristiani, ma in quanto veicoli di formulazione e comunicazione di contenuti nuovi. Pertanto la lingua dei cristiani si differenziava da quella dei loro concittadini non cristiani soltanto per i neologismi lessicali utilizzati per esprimere i concetti nuovi introdotti dal cristianesimo: ciò avveniva con la creazione di nuovi vocaboli (generalmente prestiti o calchi dal greco o dall’ebraico) o con l’arricchimento semantico di vocaboli già presenti in latino, particolarmente nel registro informale. Sono cristianismi, ad esempio, mens e anima (calco semantico del greco psyché, che a sua volta ricalcava l’ebraico nefeš) – nel senso di anima spirituale –, dilectio e caritas (che acquisiscono il significato specifico del greco agápe o amore appreziativo, e sono inizialmente preferiti a amor, 3 6 corrispondente al greco éros), humilitas, confessio e confessor (ad indicare chi ‘riconosce’ Cristo nella propria coscienza, e quindi la ‘professa’ pubblicamente), ieiunium, vigilia. Gentes (e poi gentiles) traduceva il greco biblico éthne (ad indicare le nazioni non giudaiche e quindi poi i non cristiani), e soltanto occasionalmente è sostituito dal prestito ethnici. Tuttavia per indicare istituzioni o oggetti concreti, e anche per indicare azioni specifiche, risultava più funzionale e non equivoco il prestito, come i grecismi ecclesia (calco semantico dall’ebraico qehal = ‘convocazione, comunità di persone convocate’), eucharistia (lett. ‘ringraziamento’), evangelium (lett. ‘buona notizia’), evangelizare, catechizare (lett. ‘suscitare risonanza’), scandalizare (lett. ‘provocare inciampo’), baptisma/baptismum/baptismus (lett. ‘immersione’), martyr (lett. ‘suscitare risonanza’), presbyter (lett. ‘anziano’, inizialmente preferito al pagano sacerdos), episcopus (lett. ‘sovrintendente’, preferito al pagano antistes), diaconus (lett. ‘servitore’, preferito al meno perspicuo minister). Sono invece prestiti dall’ebraico gehenna, satanas, rabbi, sabbatum; è vocabolo ebraico, ma erroneamente sentito come grecismo (dal verbo greco páschein = ‘soffrire’), anche il sostantivo Pascha (in ebraico = ‘passaggio’). Trinitas è attestato a partire da Tertulliano (fine II sec.), incarnatio a partire da Novaziano (III sec.). Volgarismi come salvare, salvatio e salvator (attestato a partire dalla Vetus Latina) entrano anche nella lingua letteraria cristiana soltanto a partire dalla prima metà del IV secolo, mentre in precedenza le remore del purismo letterario ne avevano ostacolato l’impiego letterario. Termini come sacramentum e paganus vengono dal linguaggio dei militari (dove indicavano rispettivamente il giuramento e ‘il civile’ o ‘borghese’, ossia il non militare); sacramentum venne scelto per evitare, almeno inizialmente, il grecismo mysterium, ancora compromesso con i riti misterici. Il vocabolo missa inizialmente indicava – probabilmente – il congedo (in latino standard dimissio) dei militari, e quindi una formula di congedo in pubbliche cerimonie; in ambito cristiano missa indicò così dapprima un rito di conclusione, un servizio liturgico in genere (= oratio), e soltanto dal V/VI sec. indica la celebrazione eucaristica (= oblatio): in essa dopo le letture e l’omelia venivano dapprima congedati i catecumeni (missa catechumenorum) e dopo la liturgia eucaristica venivano congedati i fedeli (missa fidelium): per questo in età tardoantica e medievale si parla spesso di missarum sollemnia nel senso di ‘messa’ (letteralmente ‘riti dei congedi’, al plurale). Per esigenze didattiche il cristianesimo introdusse nel registro standard (e quindi anche nella lingua letteraria) vocaboli e solecismi del registro informale, come attesta Agostino: 3 7 Agostino, De doctrina christiana 3, 3, 7 …plerumque loquendi consuetudo vulgaris utilior est significandis rebus quam integritas litterata. … per lo più l’uso comune del parlare è più utile ad esprimere le cose che non la correttezza grammaticale. 4.4. Penetrazione del registro informale nello standard e legittimazione del barbarismo Tra IV e VI secolo, infatti, il solecismo e il barbarismo non contraddicevano più la chiarezza della comunicazione (come invece avveniva in età classica), anzi la facilitavano: il primato della chiarezza espositiva, ricercata per esigenze pastorali, induceva spesso i predicatori a trascurare le prescrizioni dei grammatici e ad adeguarsi al linguaggio del pubblico presente. Due esempi: Girolamo, Commento a Ezechiele 47, 1 ss, CCL 75, p. 712 Quod cubitos ge nere masculino et non neutrali cubita dicimus iuxta regulam grammaticorum, et in superioribus docui nos non ignorantia hoc facere, sed consuetudine propter simplices quosque et indoctos, quorum in congregatione ecclesiae maior est numerus… Riguardo al fatto che diciamo cubiti al maschile e non cubita al neutro secondo la regola grammaticale, anche qui sopra ho spiegato che lo faccio non per ignoranza, ma secondo l’uso, in funzione dei semplici e indotti, che nella comunità ecclesiale sono la maggioranza… Agostino, De doctrina christiana 2, 19 ...soloecismus qui dicitur, nihil est aliud quam ut verba non ea lege sibi coaptantur, qua coaptaverunt qui priores nobis non sine auctoritate aliqua locuti sunt. Utrum enim ‘inter homines’ an ‘inter hominibus’ dicatur, ad rerum non pertinet cognitorem. Item barbarismus quid aliud est nisi verbum non eis litteris vel sono enuntiatum, quo ab eis qui ante nos latine locuti sunt enuntiari solet? Utrum autem ‘ignoscere’ producta an correpta tertia syllaba dicatur, non multum curat qui peccatis suis Deus ut ignoscat petit, quolibet modo illud verbum sonare potuerit. Quid est ergo integritas locutionis, nisi alienae consuetudinis conservatio, loquentium veterum auctoritate firmatae? …quello che si chiama solecismo non è altro che la connessione di parole fatta non nel modo praticato da coloro che prima di noi hanno parlato con autorità: se si debba dire inter homines o inter hominibus non interessa chi vuol conoscere l’argomento di cui si parla. Analogamente, che altro è il barbarismo se non la pronuncia di una parola non con le lettere o il suono con cui la pronunciavano quelli che hanno parlato latino prima di noi? Se si debba dire ignoscere con la terza sillaba lunga o breve, non interessa molto chi implora Dio di perdonargli i propri peccati, quale che sia stato il modo con cui ha pronunciato questa parola. Che altro è la purezza del parlare se non il mantenimento di una consuetudine ormai estranea, avvalorata dall’autorità degli antichi parlanti? 3 8 La stessa esigenza di chiarezza nella comunicazione – in un tempo in cui la lingua latina di registro standard stava diventando sempre più artificiosa (cf. § 5.2) – spingerà papa Gregorio Magno a trascurare le minute prescrizioni dei grammatici (di cui Elio Donato era il modello); così nel 595, presentando a Leandro, vescovo di Siviglia, il proprio commento al libro di Giobbe, Gregorio scrive: Gregorio Magno, Epist. 5, 53a, CCL 143, p. 7 ...et ipsam loquendi artem, quam magisteria disciplinae exterioris insinuant, servare despexi. Nam sicut huius quoque epistolae tenor enuntiat, non metacismi collisionem fugio, non barbarismi confusionem devito, situs modosque etiam et praepositionum casus servare contemno, quia indignum vehementer existimo, ut verba caelestis oraculi restringam sub regulis Donati. Neque enim haec ab ullis interpretibus in Scripturae Sacrae auctoritate servata sunt. ...e non mi sono curato di osservare, tale e quale, l’arte del dire, insegnata dai maestri dell’insegnamento esteriore. Come manifesta infatti lo stile anche di questa lettera, non fuggo la cacofonia del metacismo 4 , non evito la mescolanza del barbarismo, trascuro di osservare le regole sui complementi di luogo, di modo, e i casi corrispondenti alle preposizioni, perché ritengo gravemente indegno coartare le parole della profezia divina sotto le regole di Donato. Queste norme infatti non sono osservate da alcun traduttore nel testo della Sacra Scrittura. A partire dalla divulgazione culturale promossa dal cristianesimo la lingua latina fu profondamente trasformata, a causa dell’uso massiccio della lingua corrente anche nei testi letterari. In aree di persistente tradizione latinofona, dove le immigrazioni germaniche furono fortemente minoritarie benché politicamente egemoni, ancora nel VI secolo autori pastoralmente impegnati, quali Gregorio Magno in Italia, Cesario di Arles nella Gallia Narbonense, Martino di Braga e Isidoro di Siviglia nella penisola iberica, Fulgenzio di Ruspe in Africa, erano ancora in grado di esprimersi con naturalezza in un latino corretto ed elegante: la loro prosa rimase così in osmosi con il latino di registro informale, secondo la grande tradizione patristica del sermo humilis elevato a lingua letteraria per le esigenze dell’evangelizatio pauperum. 4.5. Il latino volgare come 'lingua mista' 4 Il metacismo è la pronuncia - considerata cacofonica - della -m quando la parola che segue inizia per vocale. 3 9 Isidoro, come abbiamo visto (§ 0.7) definiva “mista” quella fase del latino che si manifesta «dopo l’espansione dell’impero», con la penetrazione di popoli diversi nella compagine dello stato. Il moltiplicarsi di fenomeni di interferenza linguistica modificò la lingua corrente soprattutto nella pronuncia (e ortografia) e nel lessico, mentre la morfologia e la sintassi rimasero per lo più inalterate finché perdurò il sistema scolastico romano. 4.5.1. Persistenza delle 'lingue di sostrato' in età imperiale La romanizzazione non soppresse bruscamente le lingue di sostrato; nel registro informale sono ad esempio attestati come persistenti, ancora in età imperiale, il gallico e il punico. D’altra parte oggi – anche al di là di recenti fenomeni di interferenza linguistica – sono riscontrabili residui latini nei dialetti berberi, nel basco, nelle lingue celtiche, nell’albanese, e così via. Nel registro standard la reazione classicistica del IV sec. d.C. comportò anche – da un punto di vista linguistico – una reazione alla parziale creolizzazione del latino, che tendeva ad assumere forme diverse nella misura in cui era fatto proprio da parlanti allofoni: così ad es. il grecofono Ammiano Marcellino (originario di Antiochia) scrive le sue Res gestae (a continuazione delle Historiae di Tacito) in un latino retoricamente elaborato. 4.5.2. Verso il decentramento politico e linguistico (V-VI sec.) Dopo la fine dell’Impero romano d’Occidente (ufficialmente: 476 d.C.), la Romània latina – cioè il territorio che era stato romano –non ebbe più un sistema scolastico capace di difendere l’integrità del latino di registro standard; l’Occidente latino si ritrovò politicamente e culturalmente frammentato nei vari regni romanobarbarici, e via via si avviarono a prendere il sopravvento le specificità linguistiche locali, da sempre sopravvissute nel registro informale. Un’analoga situazione di dissolvimento della capacità accentratrice del latino standard si era verificata in una provincia molto meno romanizzata rispetto all’area continentale, e cioè nella Britannia abbandonata dai Romani dopo il 410: qui, con il decadere del latino istituzionalizzato, il latino di registro informale poté essere ancora utilizzato per qualche decennio, con un forte influsso dell’interferenza della lingua locale (il britannico), rimanendo comunque l’unico mezzo di comunicazione scritta a causa del carattere orale delle lingue celtiche. Ne è testimone diretto il britanno-romano Patrizio (V sec.), che divenuto missionario in Irlanda – isola mai occupata dai Romani – adottò come lingua parlata il celtico protoirlandese, ma scrisse, pur con molta difficoltà, in latino. 4 0 In area continentale la massiccia presenza di immigrati allofoni accentuò i fenomeni di interferenza linguistica, con l’acquisizione di prestiti e calchi dalle lingue germaniche o comunque barbariche. Così ad es. il germanico ‘guidrigildo’ (wergeld, = ‘prezzo di un uomo libero’) è reso in latino dal prestito weregildum oppure dal calco capitale (= ‘prezzo del caput’, ossia della vita), un vocabolo che tanta fortuna ha poi avuto nelle lingue moderne. Il latino, pur deteriorato ormai dal punto di vista fonetico-ortografico, rimaneva lingua di comunicazione sovranazionale, ma la convivenza con parlanti allofoni che ne avevano scarso dominio dovette causare anche problemi di comprensione reciproca. Così ad esempio la perdita della percezione della differenza semantica esistente in latino classico tra vir (= ‘uomo maschio’) e homo (= ‘essere umano’) causò nel 585 una discussione tra vescovi, come è riferito da Gregorio di Tours (Historiae 8, 20). Al di là del lessico, le difficoltà di comprensione erano causate soprattutto dalle differenti pronuncie del latino e dalle incertezze ortografiche. Così dopo la fine del sistema scolastico romano Cassiodoro contrapponeva l’ormai avvenuta normalizzazione dell’ortografia greca alla situazione sempre oscillante dell’ortografia latina: Cassiodoro, Institutiones, Praef. 9 …orthographia siquidem apud Graecos plerumque sine ambiguitate probatur expressa; inter Latinos vero sub ardua difficultate relicta monstratur, unde etiam modo studium magnum lectoris inquirit. …l’ortografia presso i Greci è precisata senza ambiguità, mentre fra i Latini rimane molto difficile, per cui anche adesso richiede molta attenzione in chi legge. Se la gente comune e quindi anche i monaci (latini, goti, bizantini) del Vivarium (presso l’odierna Squillace, in Calabria) aveva difficoltà non solo nell’ortografia ma anche nell’ortoepia latina, Cassiodoro – nel De orthographia da lui dedicato, intorno al 570 d.C., ai copisti del monastero – documenta fra l’altro la scelta dell’ortografia classica (ormai canonizzata, per garantire una ortoepia univoca) e l’abbandono di varianti ortografiche arcaizzanti: Cassiodoro, De orthographia, GLK VII, pp. 144 s. Erit itaque propositum nostrum quae competenter modernae consuetudini ab antiquis tradita sunt quasi in unam coronam redigere et usui celeberrimo deputare. Illa vero quae antiquitati magis conveniunt expedit sine dubitatione relinquere, ne labor adsumatur incongruus, qui praesenti saeculo videtur inutilis. Pertanto sarà nostro proposito raccogliere in una sola ghirlanda, per così dire, e assegnare all’uso generalizzato le norme che gli antichi hanno trasmesso in modo adatto alla consuetudine di noi moderni. Invece le norme che si addicono piuttosto all’antichità, senza dubbio è bene lasciarle, per non caricarsi di uno sforzo inopportuno, che sembra inutile al secolo presente. 4 1 Proprio questo opuscolo cassiodoreo sarà dunque utilizzato al tempo della riforma linguistica voluta da Carlo Magno e illustrata dal De orthographia di Alcuino (§ 5.6). E, ancora più tardi, gli Umanisti adatteranno l’ortografia classica al criterio della moderna consuetudo del loro tempo. 4.5.3. Trasformazioni della lingua: nel tempo e nello spazio Le varietà regionali del latino sono per noi difficilmente documentabili, ma non mancano testimonianze di autori latini (di epoche diverse) relative a vocaboli latini usati in questa o quella provincia o a cadenze regionali riscontrabili nella pronuncia. Così ad esempio Cicerone (Brutus 171) rivolgendosi a Bruto gli fa notare che in Gallia avrebbe sentito anche parole non consuete a Roma; quanto alla pronuncia, Quintiliano osserva: Quintiliano, Institutio oratoria 1, 5, 33 Sunt etiam proprii quidam et inenarrabiles soni, quibus nonnumquam nationes deprehendimus Ci sono anche suoni particolari e indescrivibili, grazie ai quali talvolta si riconosce la nazionalità (del parlante). Nel 386 san Girolamo mostrava precisa consapevolezza delle trasformazioni – nel tempo e nello spazio – non soltanto per quanto riguardava la diversificazione del punico rispetto al fenicio, ma anche a proposito delle alterazioni della Latinitas, che qui non è più, dunque, uno standard immutabile per effetto dell’istituzionalizzazione operata dalla scuola, ma è la realtà vivente del latino di registro informale: Girolamo, Comm. in epist. ad Gal. 2, 3, PL 26, 382 ...Galatas excepto sermone Graeco, quo omnis oriens loquitur, propriam linguam eamdem paene habere quam Treviros, nec referre, si aliqua exinde corruperint, cum et Afri Phoenicum linguam nonnulla ex parte mutaverint, et ipsa Latinitas et regionibus quotidie mutetur et tempore ... ...i Galati ? senza tener conto del greco, parlato in tutto l’Oriente ? hanno una propria lingua, che è la stessa degli abitanti di Treviri, e non importa se si è modificata, dal momento che anche gli indigeni dell’Africa in qualche cosa hanno cambiato la lingua fenicia, e così anche la stessa latinità muta a seconda delle regioni e del tempo... Una differenziazione preromanza del latino è riscontrabile già tra il secolo III e la prima metà del VI, con fenomeni di trasformazione del sistema, tra cui la sparizione dell’opposizione 4 2 vocalica basata sulla quantità, la debolezza delle consonanti finali di parola, la palatalizzazione della velare davanti a /e/ ed /i/, l’alterazione del sistema vocalico (arricchito da vocali intermedie rispetto alle 5 dello standard) e l’oscillazione tra /b/ e /v/, la riduzione del sistema casuale a un sistema sostanzialmente bicasuale (nominativo e caso obliquo) o tricasuale (nominativo, accusativo, caso obliquo); anche l’uso di locuzioni preposizionali come segnali morfologici della declinazione, la diffusione di forme verbali perifrastiche, l’abbondanza della paratassi e la recezione di volgarismi lessicali nella lingua standard (ad es. portare invece di ferre, vadere invece di ire, plorare invece di flere) sono aspetti caratteristici del latino volgare. Il grammatico Consenzio, operante probabilmente a Narbona (Gallia meridionale) nel IV-V secolo, dando notizia di errori di pronuncia «che possiamo notare nel parlato quotidiano, se ascoltiamo con un po’ più di attenzione» (quae in usu cotidie loquentium animadvertere possumus, si paulo ea curiosius audiamus, GLK V, p. 391), segnalava l’esistenza di errori caratteristici nel parlare latino da parte delle diverse nazioni (p. 395). Via via, nei tre o quattro secoli successivi alla disgregazione dell’Impero d’occidente, la dialettalizzazione del latino si accentuò e si formarono le lingue “romanze” o neolatine, con dinamiche di interferenza del latino corrente con le lingue di superstrato (generalmente germaniche o slave) ed eventualmente di sostrato (ad es. celtiche). Nelle aree poco romanizzate e poi massicciamente occupate da popolazioni allofone l’eredità latina fu progressivamente cancellata dall’uso vivo, ma lasciò residui e continuò ad esercitare un suo influsso attraverso la cultura scritta: così ad es. in parte della Britannia celtica o in territori germanici a est del Reno e anche nelle lingue balcaniche occidentali, come l’albanese. Analoga fu la vicenda dei territori romanizzati dell’Africa occidentale mediterranea, dove le lingue berbere, pur dopo la scomparsa dei superstrati punico e latino e l’affermarsi – dopo la dominazione vandalica e la riconquista bizantina – dell’arabo, hanno conservato tracce di latinità. In sintesi, da un certo punto in poi, con il diminuire dei collegamenti e degli interscambi tra le varie parti del territorio latinizzato, ebbe inizio la vera e propria frammentazione del latino corrente: segnalata già nel IV secolo, come abbiamo detto sopra, ma divenuta irreversibile nell’VIII secolo. Nel secolo IX appaiono già testi scritti in alcuni idiomi romanzi ben caratterizzati. 4.6. Dalla diglossia (sec. VI-VII) al bilinguismo (sec. IX) 4 3 L’ortografia merovingica riproduce la pronuncia del latino in uso in Francia tra VI e VIII secolo. Con la fine del sistema scolastico romano, infatti, entra in crisi l'ortografia tradizionale, e ci si avvicina sempre più alla trascrizione fonetica delle parole così come esse venivano di volta in volta pronunciate. Gregorio di Tours (In gloria confessorum, praef.) si scusò di essersi adeguato, negli scritti agiografici, ai registri espressivi del sermo rusticus; lo scambio dei generi grammaticali, l'uso improprio delle preposizioni, lo scambio tra accusativo e ablativo, espressamente menzionati da Gregorio, erano manifestazioni di un degrado linguistico che si era via via prodotto nel parlato per le esigenze della “comunicazione verticale”: tale degrado penetrava comunque ormai anche nella lingua scritta alterandone l'ortografia e quindi anche la morfologia e la sintassi, mentre l'influsso del parlato condizionava le scelte lessicali di testi scritti specialmente nei registri più umili o più attenti a una comunicazione rivolta a un pubblico di cultura eterogenea, come nel caso dei predicatori (es. Cesario di Arles). Perfino nell'epistolografia ufficiale indirizzata alla corte di Costantinopoli occorreva utilizzare un linguaggio consueto non immune da vitia espressivi, se si voleva rendere il testo intelligibile agli interpreti: all’inizio del VI secolo Avito, vescovo di Vienne, lo ricorda (Epist. 49) al re burgundo Sigismondo, che si serviva della sua collaborazione per la preparazione di documenti. La scomparsa del sistema romano delle scuole comportò un progressivo abbassamento del livello generale della cultura. Al di là delle scuole funzionanti presso le corti, presso le cattedrali e presso i monasteri, l’istruzione dei futuri chierici era talora affidata, nelle chiese rurali, ai sacerdoti. Mentre l’ignoranza delle norme grammaticali, a cominciare dall’ortografia, comportava il frequente ricorso ad allografie e incoerenze morfologiche e sintattiche, ormai i diversi livelli linguistici, delle persone colte e degli indotti, si avvicinavano l’uno all’altro. Così fra latinofoni di aree diverse c'era ancora possibilità di comunicare anche se non c’era uguaglianza di pronuncia. Un individuo di media cultura poteva inoltre essere in grado di usare due sistemi linguistici gerarchicamente ordinati (uno per i livelli superiori di comunicazione, l’altro per la sfera familiare e informale): così il concetto sociolinguistico di “diglossia” è stato applicato all’età precarolingia, per la quale in passato si preferiva parlare già di bilinguismo (latino / lingue romanze). Alla fine del VI secolo si poteva ancora trovare una via di mezzo tra parlata elevata e parlata degli indotti, nell'adattare – per la predicazione e quindi oralmente – omelie di età patristica. Ma nel corso del VII secolo anche la pronuncia del latino andò differenziandosi, tra registri diversi, a seconda della preparazione culturale dei parlanti. 4 4 E’ difficile accertare i tempi e i modi della resistenza del latino standard come lingua intesa dai comuni parlanti. Guardando alle prese di posizione e ai testi già romanzi che appaiono nella prima metà del secolo IX, bisogna ammettere che una marcata diversificazione tra lo standard e la lingua corrente doveva essere avvenuta qualche secolo prima e che anche la ramificazione geografica del parlato, cioè l’avvio dei diversi idiomi romanzi, va collocata abbastanza indietro rispetto alle testimonianze della coscienza esplicita di quei fatti. Tutto dev’essere avvenuto in quella lunga epoca di diglossia che abbiamo già descritto. Tra l’altro, bisognerebbe tener conto di situazioni molto diverse da area ad area del territorio romanizzato: pensiamo, ad esempio, al forte isolamento di alcune regioni, come la Sardegna e l’area danubiana dell’antica Dacia, dove si conservò, attraverso vicende molto complesse e pochissimo note, la popolazione romanizzata che ha dato vita al romeno. Siamo meglio informati, invece, sulle situazioni dei territori centrali della Romània. Il Concilio di Tours dell’813 (canone 179) prese atto, infatti, del deterioramento del latino come lingua di comunicazione di massa quando prescrisse ai vescovi «di tradurre (transferre) con chiarezza» le omelie (ereditate in latino dall’età patristica) «in lingua romanza (romana rustica) o in lingua tedesca, perché tutti possano comprendere più facilmente quanto viene detto»: si trattava probabilmente del passaggio impercettibile da una trasposizione fonetica alla vera e propria traduzione in una lingua diversa. Anche nelle aree più romanizzate, dunque, il latino della tradizione colta diventa via via più incomprensibile dalle masse popolari. I secoli VII e VIII sono veramente un lungo periodo di crisi, che viene comunemente definita di “diglossia”. Per esigenze pratiche o di comunicazione in cerimonie pubbliche o religiose si attuano compromessi, con i quali si cerca di conciliare una forma linguistica esteriore di tipo tradizionale con un lessico e una sintassi fortemente improntati al parlato. È questa una tradizione che è attestata negli atti notarili e in testi come la Vita di san Farone, le Laudes regiae di Soissons e nella curiosa Parodia della Lex Salica; allo stesso genere possiamo attribuire l’Indovinello veronese e anche il Graffito romano della Catacomba di Commodilla (molto breve, ma anche più decisamente volgare). Finché, con il graduale effetto delle iniziative di restauro del latino di tradizione colta, avviate da Carlo Magno negli ultimi decenni del secolo VIII, si giunge alla rottura del compromesso, e il latino restaurato, da una parte, e gli idiomi romanzi parlati, dall’altra parte, prendono due strade diverse. Il primo documento di questo deciso bilinguismo è dato dai Giuramenti di Strasburgo, dell’842: Carlo il Calvo e suo fratello Ludovico il Germanico, alleati contro il terzo fratello Lotario, giurano i patti (scambiandosi le lingue per essere compresi dagli astanti dei due schieramenti) l’uno in teudisca lingua (una varietà di francone 4 5 renano) e l’altro in romana lingua (una varietà di francese forse pittavino), e nelle due lingue, ma ciascuno nella propria, passano a giurare subito dopo i due eserciti. L’anno successivo, a Verdun, viene anche sancita la tripartizione del Sacro romano impero, tra Carlo, Ludovico e Lo tario. 5. LA 'LINGUA DI ROMA' DOPO ROMA (sec. V-VIII) 5.1. La difesa del latino standard come mezzo di comunicazione sovranazionale La conoscenza del latino, almeno come competenza passiva, si era propagata nell’Impero romano in quanto lingua di comunicazione fra litterati (imparata a scuola), sì che l’aggettivo Latinus indicava chiarezza, facile comprensibilità. Ma l’emulazione di quell’esprimersi «in latino forbito» che per i Romani era naturale divenne via via più laboriosa per chi riceveva la propria istruzione fuori Roma: lo afferma ad esempio l’oratore galloromano che pronunciò a Treviri, nel 313, un panegirico in onore di Costantino (Panegyrici Latini 9, 1, 2). Il latino dovrà contribuire a difendere l’ideale della civiltà romana anche dopo la fine dell’Impero, «affinché almeno la lingua viva nel mondo», come afferma il poeta Venanzio Fortunato (Carmina, Praef. 2), trasferitosi dall’Italia a Poitiers, in territorio franco: lingua indica qui il latino inteso come lingua franca utilizzata nei rapporti fra le diverse nazioni allora presenti in Europa, ed è quindi lingua della cultura, lingua ecclesiastica e lingua della diplomazia e della pubblica amministrazione. In area insulare, anche dopo il ritiro dei Romani dalla Britannia (410 ca.) e in seguito all’insediamento degli Anglosassoni, a quelle popolazioni germaniche il collegamento con la Roma cristiana fece percepire il latino come mezzo di comunicazione colta, al di là delle parlate nazionali, anche se nella predicazione i contenuti cristiani erano espressi anche in lingua anglica (una lingua 4 6 germanica), britannica e scota (lingue celtiche) e pittica, ma la lingua latina dotta usata nell’esegesi, precisa Beda (Storia ecclesiastica degli Angli 1, 1), era «diventata comune a tutti gli altri popoli a causa dello studio della Bibbia». Gli Anglosassoni si affrancarono ben presto dalla dipendenza culturale che avevano avuto nei confronti dei dotti irlandesi, da cui inizialmente avevano imparato il latino. Infatti in Irlanda, che non era mai stata provincia romana, dal VI secolo gli interessi grammaticali erano stati coltivati da maestri secolari e lo studio del latino patristico e dell’esegesi biblica veniva coltivato dalle scuole monastiche: si era affinato così un mezzo linguistico (ibernolatino ) ampiamente produttivo nel campo dell’esegesi, dell’agiografia, della trattatistica erudita. Con la diffusione dell’alfabeto latino ad opera del cristianesimo si rese poi possibile una letteratura scritta in lingua irlandese, per noi documentata soltanto a partire dall’VIII secolo. 5.2. Il latino letterario e curiale Tra V e VI secolo molti autori latini (ad es. in Italia Ennodio, Boezio e Cassiodoro, in Gallia Sidonio Apollinare, Avito di Vienne e Ruricio di Limoges, oltre all’italiano Venanzio Fortunato) offrono esempio di un’elitaria “prosa d’arte” con cui si tentava di conservare lo standard normativo del latino istituzionalizzato: si trattava di un’eredità della civiltà romana che andava al di là anche della fine dell’unità politica dello Stato romano. Così la retorica poteva fornire un importante strumento per le relazioni diplomatiche (anche tra l’Occidente romanobarbarico e i Bizantini), mentre il culto della poesia latina era sentito come unica barriera contro la barbarie delle lotte fratricide che dividevano le diverse nazioni. Con la collaborazione di esperti romani, anche le cancellerie dei diversi regni romanobarbarici (Ostrogoti, Visigoti, Burgundi, Franchi, Alemanni, Longobardi) a partire dal V secolo promossero la codificazione scritta – inizialmente (tra V e VII secolo) in latino – del proprio diritto consuetudinario e formularono via via nuove leggi. In Italia è celebre l’editto del re longobardo Rotari (643). Nonostante l’ufficialità di questi testi la lingua in cui sono redatti mostra via via il deterioramento del latino rispetto allo standard classico, pur nella cura della precisione espressiva. 4 7 5.3. Il latino merovingico Ma dopo la scomparsa di Venanzio Fortunato e di quella generazione di letterati galloromani, nel latino scritto si ebbe – dal VII secolo – un’involuzione sia nello standard letterario sia nella tecnica di composizione (dictatio) delle cancellerie regie o ecclesiastiche, sia nei registri più dimessi (ad es. dei documenti notarili). Così nelle Formulae di Marculfo (sec. VII/VIII) è ancora segnalata l'esistenza di esperti nella composizione di documenti (ad dictandum), anche se ad esempio lui e lei sostituiscono, nel modello di formulario, il nome personale (cf. la nostra abbreviazione N.): ad es. donat igitur illi honeste puelle, norae suae lei...villa (85, 5) = «dona dunque a quella fanciulla di condizione nobile, sua nuora N., ... la tenuta...»); Constat me tibi vindedisse...campo iuris mei...qui subiungit a latere uno lui, ab alio latere lui... (90,14) = «Risulta che io ti ho venduto... il campo di mia proprietà... che confina da un lato con N., dall’altro con N....»). In realtà l’adattamento del genitivo e del dativo di ille per precisare il genere maschile o femminile (cf. ital. ‘lui’, ‘lei’) è già riscontrabile in iscrizioni di età imperiale: es. CIL X, 2564 (Napoli) quoi non licuit in suis manibus ultimum illui spiritum ut exciperet (= «cui non fu lecito raccogliere il di lui spirito nelle sue mani») e CIL VI, 14484 (Roma) Nicaon amator illeius (= «Nicaone di lei innamorato »), mentre in Sardegna, Iberia e Italia meridionale hanno fortuna i tipi de illu(m), de illa(m) Il latino merovingico testimonia comunque uno sforzo di adeguamento agli standard della latinità classica. 5.4. Il latino 'isperico' (sec. VI-VIII) In Irlanda e nelle colonie irlandesi della vicina Britannia celtica (oggi Galles e Cornovaglia) si coltivò un latino scolastico basato sullo studio della grammatica e dei glossari. L’impiego di parole e costrutti nuovi e perfino di grecismi è espressione del gusto detto ‘isperico’ in quanto rappresentato specialmente dagli Hisperica famina (= ‘brani retorici occidentali’), ma si ritrova anche in Gildas († 570) – nato in Scozia e vissuto nel Galles, con la parentesi di un viaggio in Irlanda – e meno in autori irlandesi come Adomnán († 597) e Colombano (morto a Bobbio nel 615), il monaco irlandese che con i suoi compagni iniziò la rievangelizzazione dell’Europa, oltre che in autori continentali del VI e VII secolo. Per tutti questi scrittori di ambiente monastico, d’altra parte, il latino (vedi sopra, § 5.1) era comunque lingua franca usata nella vita quotidiana in contesti di plurilinguismo. 4 8 Sembra collegata al gusto isperico l’opera di Virgilio Marone detto il Grammatico, che fu attivo alla metà del VII secolo: probabilmente con una satira degli eccessi cui giungeva l’artificiosa retorica dei contemporanei dell’autore, egli fa riferimento a un latino ridotto ormai a un gioco di erudizione ma non più mezzo di comunicazione, «per evitare che tutti i segreti iniziatici, che devono essere rivelati soltanto ai sapienti, siano facilmente scoperti, indiscriminatamente, da gente dappoco e ignorante...» (Epitomi 10,1). 5.5. La latinità anglosassone (sec. VII-VIII) Nel VII secolo le scuole irlandesi erano frequentate anc he da giovani anglosassoni provenienti dalla vicina Inghilterra. Ma via via il conservatorismo irlandese si imbarbarisce e viene contestato dalla cultura latina di ambito anglosassone: questa continuò infatti a dipendere culturalmente dalla latinità romana, anche dopo l’iniziale evangelizzazione del Kent ad opera dei missionari inviati da Roma da Gregorio Magno (596). Il prestigio della latinità coltivata dagli Anglosassoni fece sì che perfino un irlandese di area continentale, Cellano di Perrona, celebrasse (in Aldelmo, Epist. 9) la latinitas dei discorsi del sassone Aldelmo († 709) «per la limpida bellezza dell’eloquente Romània» in cui questi viveva: ma tale Romania era Malmesbury, e quindi maestra di latinità “romana” appariva allora la Britannia anglosassone! Qui nel secolo VIII il latino, non più lingua parlata, veniva studiato su testi che – a partire dagli insegnamenti della scuola di Canterbury – erano nel filone della tradizione classica e patristica più che irlandese. E tuttavia più a nord Beda già nel 732 denunciava l’ignoranza del latino non soltanto tra i laici ma anche tra gli ecclesiastici, impegnandosi personalmente nel tradurre per loro in lingua anglica il Credo e il Padre nostro (cf. Epist. ad Ecbertum, 5). Così nel 747 il Concilio di Clovesho (canone 10) raccomandò l’uso del volgare per la spiegazione di queste due preghiere, come anche dei formulari della liturgia eucaristica e battesimale. 5.6. Alle origini del latino medievale: la riforma carolingia (780/800) 4 9 Se dunque per l’omiletica e la catechesi erano ormai in uso le lingue vernacole, il latino rimaneva lingua della liturgia e questa costituiva pertanto un importante mezzo di coesione anche linguistica e di conservazione di una competenza passiva del latino, sia pure minima e comunque ormai alterata secondo la pronuncia locale o “rustica”. La necessità di una lingua di comunicazione sovranazionale all’interno del regno franco, che si preparava a diventare Sacro Romano Impero, e l’esigenza di disporre, per il suo governo, di competenze adeguate per la pubblica amministrazione, la giurisdizione, la diplomazia, a partire almeno dal 781 suggerirono a Carlo Magno la necessità di una promozione della conoscenza del latino sulla base dello standard di età patristica. Questo ripristino, naturalmente, funzionava soltanto a livello di scrittura- lettura visiva, mentre certamente la pronuncia creava ormai, da luogo a luogo, diversità soltanto in parte normalizzabili. Documento di quella che viene generalmente chiamata la “riforma carolingia” è l’Admonitio generalis, un capitolare emesso da Carlo Magno il 23 marzo 789; in esso il capitolo 11 è particolarmente rivolto al clero, cui raccomanda di curare l’istruzione del popolo e una migliore qualità della produzione libraria: Carlo Magno, Admonitio generalis, cap. 11 (BNF ms.lat. 10758, p. 50) ...et ut scholae legentium fiant, psalmus notas cantus computus gramaticus, per … che si fondino scuole per gli studi – sui salmi, singula sulla stenografia, sul canto, sul calcolo, sulla monasteria vel episcopia. Et libros catholicos grammatica – in ogni monastero ed episcopio. E bene emendate, quia saepe dum bene aliqui correggete bene i libri ecclesiastici, perché deinceps rogare cupiunt, sed per inemendatos spesso quando qualcuno si propone di pregare, libros male rogant. Et pueros vestros non sinite per colpa di libri non corretti prega male. E non vel legendo vel scribendo corrumpere; et si opus permettete che i vostri ragazzi leggendo o est evangelium psalmisterium et missale scrivendo alterino i testi ; se bisogna copiare un scribere, perfectae aetatis homines scribant cum vangelo, un salterio, un messale, lo facciano, con omni diligentia. grande attenzione, persone di età matura. Poco tempo dopo Carlo in una lettera circolare (De litteris colendis) indirizzata a vescovi ed abati ribadiva la necessità di curare anche una corretta pronuncia del latino in ambito liturgico, a beneficio del popolo, evidentemente per ottenere almeno una lettura più fedele al testo scritto, anche se necessariamente intrisa della fonetica delle lingue vive. L’uniformità della liturgia fu sostenuta anche mediante la revisione della Vulgata, e la stessa ortografia si rivelò preziosa per insegnare non soltanto a scrivere ma anche a pronunciare 5 0 correttamente, a cominciare dall’uso liturgico. Tra i consiglieri e collaboratori di Carlo furono attivi specialmente Alcuino, maestro della scuola della cattedrale di York, Pietro da Pisa e il longobardo Paolo Diacono, divenuto monaco benedettino dapprima nel Comasco e poi a Montecassino. Le Institutiones grammaticae di Prisciano (V-VI sec.) divennero il manuale per l'insegnamento superiore, mentre l’Ars di Donato (IV sec.) continuò ad essere il testo base per principianti e il modello dell’insegnamento grammaticale anche per le lingue moderne. 5.7. Il latino nell’Europa medievale Con la riforma carolingia riprese dunque forza la normalizzazione classicheggiante, ma come semplice ripetizione di dottrine del passato: il latino non era più lingua parlata dalle masse, ma era conservata dall’insegnamento scolastico impartito nei monasteri e nelle scuole attive presso le cattedrali e presso le corti: un celebre manuale sarà il De eruditione seu modo instruendorum filiorum regalium (o nobilium) di Vincenzo di Beauvais (ca. 1250), precettore presso la corte di Luigi IX, re di Francia. Ma anche tra le persone incolte la liturgia rimaneva veicolo di una qualche forma di competenza passiva del latino in tutto l’Occidente e nelle aree settentrionali di nuova cristianizzazione, mentre in Oriente resistette, accanto alla pluralità delle forme liturgiche, il pluralismo linguistico delle diverse chiese (greco nelle chiese di rito greco, siriaco in Siria e Palestina, copto in Egitto, armeno e georgiano nelle rispettive regioni, slavo dalla Slovenia alla Bulgaria alla Russia…). Nel latino liturgico e specialmente nei testi eucologici (cioè nei formulari di preghiera che possono essere cantati, quali le collette, i prefazi, le preghiere eucaristiche) le esigenze della dizione e soprattutto del canto resero spesso necessario l’uso del cursus, cioè un ritmo basato su clausole accentative che riproducevano le clausole metriche di età classica: in età tardoantica, invece, esse erano state riprese da clausole miste, in parte quantitative in parte ritmiche. Nella canc elleria pontificia, a Roma, lo stile curiale rinacque, nei secoli X-XII, ad opera specialmente dei monaci di Montecassino, che si rifacevano come modello alla prosa di Leone Magno (440-461). Via via il cursus venne insegnato dai maestri medievali dell’ars dictandi (= ‘tecnica del comporre’), utilizzata anche al fine di distinguere i documenti autentici da quelli falsi. Il latino rimaneva dunque lingua di comunicazione sovranazionale nel Sacro Romano Impero e lingua di comunicazione internazionale nei rapporti diplomatici con altri Stati. Nella sua 5 1 forma istituzionalizzata sulla base del latino biblico e patristico, rimase lingua di comunicazione pubblica utilizzata dalle cancellerie regie ed ecclesiastiche (latino curiale) e di comunicazione fra persone colt e, inizialmente soprattutto chierici e poi, con il sorgere delle università (ufficialmente dal XIII secolo, ma già in funzione dal sec. XI), anche laici (latino della Scolastica). Nella didattica – scritta o orale – e nei quotidiani contatti fra professori e studenti di varia provenienza, il latino permetteva una comunicazione efficace: così ad esempio Tommaso d’Aquino, dopo aver ricevuto una prima istruzione presso il monastero di Montecassino e allo Studium di Napoli, fu allievo del tedesco Alberto Magno a Colonia, per poi insegnare lui stesso a Parigi, Roma e Napoli. 6. IL RECUPERO DELLO STANDARD CLASSICO: IL LATINO UMANISTICO E IL 'NEOLATINO' 6.1. Il latino secondo Dante Sulla base della situazione del suo tempo Dante (De vulgari eloquentia 1, 1, 2-4; 9, 1-11) riteneva che il latino fosse sempre stato una lingua convenzionale, creato, al di là delle differenziazioni spazio-temporali, dagli inventori della grammatica, che è “una certa inalterabile identità di lingua pur nella diversità dei tempi e dei luoghi” e non è, si badi, la lingua madre degli idiomi romanzi. Quando traccia un quadro dell’intera Europa linguistica, Dante afferma che dalla biblica Torre di Babele sarebbero nate dapprima tre grandi famiglie linguistiche, una che occupa l’Europa settentrionale (popolazioni germaniche e slave), una che occupa l’Europa orientale e parti dell’Asia (area dominata dal greco) e una che occupa quel che resta dell’Europa. La famiglia linguistica che occupa quest’ultimo territorio è a sua volta divisa in tre rami: la lingua del sic (italiano), la lingua d’oc (occitanica) e la lingua d’oïl (francese). Dante vede la parentela tra queste tre lingue e la documenta con una serie di parole molto simili tra loro (Dio, cielo, amore, mare, terra, ecc.), ma non riconduce questa parentela alla comune derivazione dal latino. Questo è altra cosa: è una lingua creata dai dotti, al di sopra delle lingue parlate. Se il volgare si impara naturalmente dai genitori – osserva Dante – il latino è regolato da norme convenzionali e può quindi essere conosciuto soltanto da chi può studiarlo: pertanto esso era ormai avvertito come poco utilizzabile quale mezzo di comunicazione ‘familiare’ e popolare, anche se lo era stato al tempo dei Romani. 5 2 Dante, De vulgari eloquentia 1, 1, 2-4; 1, 9, 6-11 ...vulgarem locutionem appellamus eam qua infantes assuefiunt ab assistentibus cum primitus distinguere voces incipiunt; vel, quod brevius dici potest, vulgarem locutionem asserimus quam sine omni regula nutricem imitantes accipimus. Est et inde alia locutio secundaria nobis, quam Romani gramaticam vocaverunt. Hanc quidem secundariam Graeci habent et alii, sed non omnes: ad habitum vero huius pauci perveniunt, quia non nisi per spatium temporis et studii assiduitatem regulamur et doctrinamur in illa. Harum quoque duarum nobilior est vulgaris: tum quia prima fuit humano generi usitata; tum quia totus orbis ipsa perfruitur, licet in diversas prolationes et vocabula sit divisa; tum quia naturalis est nobis, cum illa potius artificialis existat. (...) Dicimus ergo quod nullus effectus superat suam causam, in quantum effectus est, quia nil potest efficere quod non est. Cum igitur omnis nostra loquela — preter illam homini primo concreatam a Deo — sit a nostro beneplacito reparata post confusionem illam que nil aliud fuit quam prioris oblivio, et homo sit instabilissimum atque variabilissimum animal, nec durabilis nec continua esse potest, sed sicut alia que nostra sunt, puta mores et habitus, per locorum temporumque distantias variari oportet. (...) Si ergo per eandem gentem sermo variatur, ut dictum est, successive per tempora, nec stare ullo modo potest, necesse est ut disiunctim abmotimque morantibus varie varietur, ceu varie variantur mores et habitus, qui nec natura nec consortio confirmantur, sed humanis beneplacitis localique congruitate nascuntur. Hinc moti sunt inventores gramatice facultatis: que quidem gramatica nichil aliud est quam quedam inalterabilis locutionis ydemptitas diversis temporibus atque locis. Hec cum de …chiamo ‘parlata volgare’ quella a cui gli infanti sono abituati ad opera di chi sta loro vicino, quando all’inizio essi cominciano ad articolare i suoni; ovvero, più in breve, definisco ‘volgare’ quel parlare che facciamo nostro imitando la nutrice, senza riguardo a regole. Abbiamo anche, nato dopo il primo e sul presupposto di quello, un altro tipo di lingua, cui i Romani dettero il nome di ‘grammatica’. Questa lingua secondaria hanno pure i Greci e altri, ma non tutti (i popoli): al suo possesso pochi pervengono, perché delle sue regole e della sua arte non ci impadroniamo senza dispendio di tempo e costanza nello studio. Delle due, più nobile è la volgare: perché fu usata per prima dal genere umano; perché tutto il mondo si serve di lei, anche se è divisa per varietà di forme e vocaboli; perché è nostra per natura, mentre quell’altra è piuttosto prodotto d’arte. (...) Diciamo dunque che nessun effetto, in quanto è un effetto, può andare al di là della propria causa, perché nessuna cosa può produrre ciò che essa non è. Poiché dunque ogni nostro linguaggio – e non parlo di quella concreato da Dio con il primo uomo – è stato rifatto a nostro piacimento dopo quella confusione che fu, in effetti, oblìo della lingua precedente, e poiché l’uomo è un animale oltremodo instabile e variabile, segue che il linguaggio non può essere durevole e uniforme, ma come altre cose di noi uomini, per esempio costumi e mode, non può non variare per distanze di spazio e di tempo. (...) Se dunque la lingua parlata da uno stesso popolo varia, come s’è detto, in successione di tempo, né può in alcun modo restare immobile, ne consegue di necessità che essa muti e varii fra quanti vivono separati e lontani, così come mutano e variano i costumi e le mode, che non sono fissati dalla natura né da una convenzione, ma nascono per umano arbitrio e si diffondono per prossimità nello spazio. Da questa situazione presero le mosse gli inventori del mezzo grammaticale; e la grammatica non è altro che una certa identità linguistica, inalterabile attraverso tempi e luoghi diversi. Essendo stata costruita sulla 5 3 comuni consensu multarum gentium fuerit regulata, nulli singulari arbitrio videtur obnoxia, et per consequens nec variabilis esse potest. Adinvenerunt ergo illam ne, propter variationem sermonis arbitrio singularium fluitantis, vel nullo modo vel saltim imperfecte antiquorum actingeremus autoritates et gesta, sive illorum quos a nobis locorum diversitas facit esse diversos. base di regole convenute di comune accordo fra molte genti, non soggiace all’arbitrio individuale e per conseguenza non può nemmeno cambiare . E la inventarono appunto per evitare che, a causa della variazione della lingua, fluttuante ad arbitrio degli individui, ci fosse impedita in tutto o in parte la conoscenza dei pensieri e delle azioni degli ant ichi e di coloro che sono separati da noi per la distanza geografica. 6.2. Il latino umanistico (sec. XV-XVI) L’opposizione dantesca tra grammatica e linguaggio materno sarà poi ripresa nell’ambito del dibattito umanistico accesosi nel Quattrocento intorno all’ipotesi che nell’antichità gli indotti avessero parlato non latino ma un volgare molto simile all’italiano. Circa le discussioni iniziate su tale argomento tra i segretari di papa Eugenio IV prese posizione Flavio Biondo nell’epistola De verbis Romanae locutionis inviata nel 1435 a Leonardo Bruni, e questi gli rispose pochi giorni dopo, il 7 maggio (Epist. 6, 10 nell’ed. fiorentina del 1741). A tale dibattito parteciparono poi altri umanisti, tra cui Leon Battista Alberti, Poggio Bracciolini e Guarino Guarini (che si allinearono sulla posizione del Biondo), mentre Lorenzo Valla riprese la tesi del Bruni. Il Biondo sottolineava la discontinuità tra il latino classico e quello medievale, frutto della frantumazione causata dalle invasioni barbariche rispetto al monolinguismo degli antichi: a suo giudizio il volgare è frutto di tale inquinamento, mentre il latino poteva essere ormai recuperato soltanto come lingua dotta, come dovevano ormai fare con fatica gli addetti alla cancelleria papale, provenienti da diversi Paesi europei. Nella sua risposta il Bruni ribadiva invece il pregiudizio dantesco secondo cui il latino, lingua grammaticalmente razionale, non poteva essere usata dal volgo e nell’antichità si era avuto quindi un regime che oggi diremmo di diglossia: nella visione di una continuità ideale tra la repubblica di Firenze e l’antica Roma repubblicana, Bruni sosteneva così la continuità tra l’antica e la moderna lingua parlata dal volgo, parallelamente alla continuità tra l’antica e la moderna lingua dei letterati, cioè il latino. Con la rinascita dell’interesse per lo studio dei classici gli umanisti aspirarono a recuperare il latino istituzionalizzato in senso puristico sulla base dei modelli letterari dell’antichità. Solo per quanto riguarda l’ortografia, però, la consuetudine umanistica si differenziava dall’uso classico 5 4 e si rifaceva a modelli più recenti. Fra questi, ad es., Leonardo Bruni (Epist. 8, 2) considerava auctores Dante, Petrarca, Boccaccio e Coluccio Salutati, rivendicando all’usus moderno la stessa libertà dalla norma analogistica che anche gli antichi avevano avuto; d’altra parte già Cassiodoro, nel VI secolo, aveva sostenuto la necessità di adattare l’ortografia classica alla moderna consuetudo (vedi sopra, § 4.5.2). Anche il latino curiale adoperato nei documenti ecclesiastici, adeguandosi maggiormente allo standard classico, diventa più chiaro ed efficace, pur nel periodare complesso destinato a rendere più autorevoli i testi stessi. Non soltanto in sede letteraria, ma anche come mezzo di comunicazione tra i dotti europei, da Petrarca in poi si cercò di imitare la lingua e lo stile di Cicerone non solo nei documenti ufficiali o nella letteratura, ma anche nelle lettere che i dotti di tutta Europa si scrivevano tra loro. Scienziati, giuristi, medici, cultori di ogni disciplina liberale scrivevano in latino, e con una lingua e uno stile il più possibilmente consoni al modello classico; così pure per la comunicazione pubblica orale l’eloquenza classica era ritenuta essenziale nella formazione dei giovani. Nel 1448, e cioè tre anni dopo la conclusione del concilio di Firenze, che aveva apparentemente sancito la riunificazione tra Greci e Latini, Lorenzo Valla nel celebrare quella che, a suo dire, era la superiorità del latino sul greco, evidenziò una mentalità paneuropea nel segno della comune eredità latina: Lorenzo Valla, Elegantiae linguae Latinae, praef. ...exteri nobiscum loquendo … gli stranieri si accordano con noi nel linguaggio, consentiunt; Graeci inter se consentire mentre i Greci non possono accordarsi tra loro, e non possunt, nedum alios ad sermonem tanto meno possono sperare di portare gli altri alla suum se perducturos sperent. Varie apud propria lingua. Da loro gli autori si esprimono in eos loquuntur auctores: attice aeolice, varie lingue: attico, eolico, ionico, dorico, lingua ionice, dorice, koinos; apud nos, id est comune; da noi, che siamo una molteplicità di apud nisi nazioni, tutti si esprimono nella lingua di Roma, la Romane , in qua lingua disciplinae lingua che comprende tutte le discipline liberali, cunctae dignae come presso i Greci sono espresse nella propria continentur, sicut in sua multiplici apud molteplice lingua; e chi ignora che finché la lingua Graecos; qua vigente quis ignorat studia romana è prospera, tutti gli studi e le discipline omnia disciplinasque vigere, occidente prosperano, mentre quando decade, essi decadono? occidere? Qui enim summi philosophi Quali furono i più grandi filosofi, i più grandi multas in nationes, libero nemo homine 5 5 fuerunt, summi summi oratori, i più grandi giureconsulti, insomma i più iurisconsulti, summi denique scriptores? grandi scrittori? quelli che più degli altri ebbero a nempe cuore la perfezione del dire... ii qui oratores, bene loquendi studiosissimi... Pochi anni dopo, nel 1453, con la caduta di Costantinopoli in mano ai Turchi, si consumerà la separazione tra Oriente e Occidente. Nella ricerca di modelli del glorioso passato, Lorenzo Valla, in polemica con Poggio Bracciolini e contro il ciceronianismo ampiamente diffuso in Italia (da Coluccio Salutati a Leonardo Bruni a Guarino Guarini), osò anteporre Quintiliano a Cicerone. Successivamente propugnarono (come già Petrarca) l’eclettica emulazione di più modelli sia Poliziano nella sua disputa con Paolo Cortesi sia, vent’anni dopo (1512-1513), Gianfrancesco Pico in disputa con Pietro Bembo. Quest’ultimo, alla corte di Leone X e Clemente VII, redigeva in prosa ciceroneggiante anche i brevi papali. Contro il ciceronianismo a oltranza degli ambienti romani Erasmo da Rotterdam scrisse il dialogo Ciceronianus (1527-28), in cui prende posizione contro l’antistorica assolutizzazione del modello ciceroniano. Nessuno degli umanisti di ogni parte d’Europa (dal Portogallo alla Russia), di cui Erasmo fa le lodi, poteva ormai dirsi perfetto imitatore di Cicerone, perché il mondo era cambiato, e per parlare di cose nuove occorreva poter usare parole nuove, che al tempo di Cicerone non esistevano; una civiltà ormai cristiana non poteva fare a meno della terminologia introdotta dalla latinità patristica e scolastica e doveva essere aperta all’introduzione di ulteriori neologismi. In quanto fautore di una latinità classicheggiante ma dinamicamente aperta ai neologismi cristiani o tecnici, Erasmo si mostrava convinto che il latino fosse ancora in grado di essere strumento per la comunicazione pubblica in Europa e quindi anche per la comunicazione privata tra persone colte. Ma mentre biasima la preferenza del ciceronianista belga Cristoforo Longueil per l’uso del francese e del fiammingo ne lle conversazioni quotidiane, quasi che egli lo facesse «per non contaminare la lingua sacra con argomenti profani e volgari» (Ciceronianus 551-554 Gambaro), Erasmo osserva anche che «lo stile ciceroniano a stento s’accorda con la precisione tecnica dei matematici» (ivi 3635). In definitiva i ciceronianisti con il loro culto di un latino ancorato al grande passato avevano in realtà preso atto del fatto che quella lingua ormai artificialmente stilizzata era adoperabile soltanto per celebrazioni o comunque circostanze ufficiali, mentre per la comunicazione anche fra persone colte conveniva maggiormente l’uso delle lingue volgari. 5 6 A Erasmo si opposero umanisti autorevoli, come Giulio Cesare Scaligero, Étienne Dolet e Gaudenzio Merula, ma l’antistorico ripiegamento verso il classicismo finì per degenerare in una lingua sterile e non più aderente ai contenuti da comunicare. Nemmeno l’enfasi barocca riuscì a rivitalizzarla. Così nella seconda decade del ‘700 si aprirà a Lipsia un dibattito sul ciceronianismo che rischiava di impastoiare la divulgazione scientifica, oltre che lo sviluppo della cultura europea in generale. Da parte sua la Historia critica Latinae linguae, pubblicata dal Walchius nel 1716, inserendo la historia linguarum nell’ambito della historia litteraria sottolineava lo sviluppo diacronico della lingua, parlando espressamente di «storia della lingua latina». 6.3. Il latino come strumento di comunicazione colta (sec. XVII-XVIII) Al di là dell’artificiosità dell’ambito letterario e cancelleresco, fino alla fine del secolo XVIII – quando con la rivoluzione francese cominciò a cambiare profondamente l’assetto politico e socioculturale dell’Europa – il latino contribuì alla formazione dell’unità culturale europea – come abbiamo anche letto in Lorenzo Valla (§ 6.2) –, soprattutto in quanto lingua di comunicazione colta. I leibniziani progetti “razionalisti” di lingue artificiali ed universali adeguate alla formazione di un sapere unitario e globale e la proiezione del latino in un modello ideale, avulso dai dati empirici, ad opera della Grammatica di Port Royal (1660), influirono a lungo sull’educazione linguistica europea. Ancora Leopardi (Zibaldone 1045) osservava che una lingua universale deve «essere modellata e regolata in tutto e perfettamente dalla ragione appunto perché questa è comune a tutti ed uguale ed uniforme a tutti». La lingua latina fu dunque strumento efficace di comunicazione colta (epistolare, trattatistica, memorialistica, ecc.) nella forma essenziale nella quale era stato istituzionalizzata in età classica ed era ben posseduta da tutte le persone colte, in Europa e poi anche in America. Viene continuata così la tradizione della comunicazione scientifica, che nel Medioevo era stata coltivata ad esempio da un Alberto Magno (scienziato oltre che teologo) e in età umanistica ad esempio da Leon Battista Alberti con il suo De re aedificatoria (1450). I polacchi Copernico († 1543) e Spinoza († 1677), il matematico austriaco Johannes Kepler († 1630), il francese Cartesio († 1650), gli inglesi Bacone († 1294), Hobbes († 1679) e Newton († 1727), il naturalista svedese Karl af Linné († 1778), detto il Linnaeus, hanno scritto per la gran parte in latino. 5 7 Così Galileo nel 1610 con il suo Sidereus nuncius pubblicizzò in latino le sue scoperte astronomiche, per le quali aveva usato il canocchiale, da lui perfezionato sulla base dei primi tentativi fatti da tecnici olandesi. Scrivendo in latino, Galileo poteva essere letto da scienziati di tutta Europa, ad es. da Keplero, che utilizzando il canocchiale inviato da Galileo all’Elettore di Colonia riuscì poi a vedere i satelliti di Giove. Quando però le circostanze non suggerivano il ricorso alla lingua latina, Galileo preferì scrivere in volgare. Del resto, per quanto riguarda la divulgazione scientifica, proprio allora il matematico belga Simon Stevin sosteneva la necessità delle lingue nazionali, e nell’ambito del dibattito pedagogico il ceco Jan Amos Komenský (Comenio, † 1670) proponeva un’istruzione in lingua vernacolare per tutti i bambini fino ai dieci anni e l’apprendimento delle lingue straniere tra i 10 e i 12 anni, mentre soltanto ai ragazzi che proseguivano gli studi doveva essere riservato l’apprendimento del latino e di tutte le discipline (umanistiche e scientifiche) insegnate in quella lingua. Fino a tutto l’Illuminismo, tuttavia, perdurò l’uso del latino come lingua di comunicazione scientifica non soltanto fra i grandi scienziati ma anche nell’uso quotidiano ad esempio per prognosi, ricette e ‘cartelle cliniche’ e nelle lezioni universitarie. Dalla seconda metà del Settecento, però, comparvero sempre più spesso pubblicazioni scientifiche nelle lingue nazionali, che via via partendo dal latino (e dai suoi grecismi tecnici) elaborarono un vocabolario tecnico autonomo. Se dunque con l’insorgere della nuova sensibilità per il “genio” delle lingue nazionali e il diffondersi della letteratura di consumo il latino perse via via la sua funzione di lingua di comunicazione internazionale, in essa fu sostituito dapprima dal francese e poi dall’inglese. 6.4. Il 'neolatino' In tempi più recenti il latino è stato ed è oggetto di sperimentazione letteraria (cf. ad es. Arthur Rimbaud, 1854-1891; Giovanni Pascoli, 1855-1912; Joseph Tusiani, 1924- e Michele Sovente, 1948-), ma è anche utilizzato per la comunicazione colta: continua infatti anche in età moderna l’epigrafia latina di modello umanistico, sepolcrale e/o memorialistico-celebrativa. Il latino ecclesiastico è inoltre ancora strumento di comunicazione, nell’ambito di un organismo sovranazionale qual è la Chiesa cattolica. Ma se in documenti scritti ci si può attenere alle “regole” del latino standard, nella dizione orale – utilizzata ormai quasi esclusivamente nella liturgia – la diversità delle pronunce nazionali facilmente vanifica l’universalità del mezzo 5 8 linguistico: pertanto negli anni 1910-1912 (mentre si ipotizzava anche l’adozione dell’esperanto come lingua franca nel mondo) Pio X raccomandava di privilegiare, nell’uso ecclesiastico, la pronuncia italiana tradizionale rispetto a quella “ripristinata” (restituta) dai filologi secondo il modello classico. Quest’ultima viene invece convenzionalmente adottata dagli specialisti e nell’insegnamento scolastico fuori d’Italia. Lo stile curiale continua ancor oggi ad essere utilizzato – a vari livelli – nei diversi dicasteri e uffici vaticani, con morfologia e sintassi classicheggianti, ma con un periodare generalmente semplice e ricalcato sulle lingue moderne; anche l’uso del cursus medievale è stato via via abbandonato. L’uso del latino è però ormai limitato all’edizione ufficiale (typica) dei documenti soprattutto di contenuto teologico o filosofico, per il quale il lessico può attingere preferibilmente ai grandi autori di età patristica (latino classicheggiante ma con apertura ai neologismi cristiani), talora con scelte più legate al modello ciceroniano. All’esigenza di esprimere concetti nuovi rispetto all’Antichità si sopperisce talora con neologismi coniati sulla base del latino classico o del greco, talora invece con perifrasi descrittive: trattandosi di nuovi scenari storico-sociali, il linguaggio non può non cambiare, come già osservava Erasmo. Ma in mancanza di un effettivo riscontro nell’uso vivo, difficoltà sempre maggiori si riscontrano nell’introdurre nella lingua latina neologismi corrispondenti a una terminologia moderna in rapida evoluzione nell’ambito del plurilinguismo contemporaneo. Così per quanto riguarda documenti vaticani di argomento tecnico non specificamente filosofico o religioso – quali il commercio delle armi, le biotecnolo gie, la pubblicità, questioni economico-sociali ecc. – in questi ultimi anni l’edizione tipica è stata, con sempre maggiore frequenza, in lingua italiana o in altra lingua moderna. Anche nell’ambito dell’Unione Europea, riservando all’inglese il ruolo di lingua franca, in tempi recenti si è talora auspicata l’utilizzazione del latino come lingua ufficiale: non mancano pertanto, specialmente in Paesi del nord Europa, iniziative volte a recuperare il latino a fini pratici (campi estivi di full immersion, trasmissioni radiofoniche, pubblicazioni divulgative, siti internet). D’altra parte la valorizzazione di tutte le lingue vitali nel continente sembra indispensabile in ordine alle particolari caratteristiche dell’Europa e della sua storia, e il riconoscimento della loro pari dignità viene oggi sentito come istanza irrinunciabile per la salvaguardia delle molteplici esperienze culturali del continente. L’incontro ravvicinato che si realizza tra gli individui in virtù della mobilità attuale rende più che mai necessario un mezzo linguistico efficace e il latino non sembra realisticamente adatto a sostituire – come lingua di comunicazione sovranazionale – una lingua moderna, mentre può ben essere un tratto genetico specifico della cultura europea 5 9 permettendone il radicamento identitario anche nella prospettiva di un autentico dialogo tra le culture. 6 0