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La centralità del Governo nel sistema politico. Le specificità del caso

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La centralità del Governo nel sistema politico. Le specificità del caso
La centralità del Governo nel sistema politico.
Le specificità del caso italiano
Vincenzo Lippolis
SOMMARIO: 1. La centralità del governo: uno sguardo d’insieme. – 2. L’esperienza
italiana. Le scelte della costituente. – 3. La svolta degli anni ottanta. – 4. La
fase della transizione (1992-1994). – 5. L’istituzione governo oggi. – 6. I contropoteri.
1.
La centralità del governo: uno sguardo d’insieme.
È opinione diffusa che nelle moderne democrazie il governo sia
divenuto l’elemento centrale del sistema politico (vedi per tutti,
Mény e Surel). L’ascesa del ruolo del governo nel corso del novecento è stata tale da ribaltare il modello dell’epoca liberale di una sua
subordinazione al parlamento. Il fenomeno ha riguardato sia i regimi
politici parlamentari che quelli presidenziali, anche se con non trascurabili differenze dovute alla strutturazione del potere politico, basato nel primo caso sulla fusione (rapporto di fiducia tra parlamento
e governo), nel secondo sulla separazione tra legislativo ed esecutivo.
Il tornante decisivo di questo processo può essere individuato
nel primo conflitto mondiale e nelle sue conseguenze politiche, sociali ed economiche. Società governate da oligarchie, che avevano nel
parlamento il soggetto della loro espressione politica collegata ad
una concezione dello stato che limitava al minimo, in particolare alla
tutela delle libertà individuali, il proprio raggio di azione, vengono
scompaginate dall’irrompere nell’agone politico delle masse. I partiti
politici si trasformano da raggruppamenti che si formano nelle assemblee parlamentari in organizzazioni strutturate e radicate sul territorio, i c.d. partiti di massa per l’appunto, che modificano il senso
della rappresentanza politica e dello stesso parlamento.
Il governo che nell’emergenza del conflitto bellico aveva visto
accrescere i suoi poteri anche nel campo della normazione tende a
mantenerli al ritorno della pace (Fabbrini e Vassallo). Questa ten-
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denza è rafforzata dalla trasformazione dei compiti dello stato che
interviene per fronteggiare le crisi economiche e per assicurare a tutti
i cittadini il godimento di diritti nuovi rispetto all’epoca del liberalismo classico, i diritti sociali. Questa azione non può essere svolta che
da un organo relativamente ristretto da cui dipende l’amministrazione pubblica e non da assemblee numerose come i parlamenti.
Solo per fornire qualche elemento di riflessione sul cambiamento intervenuto e dare ad esso una corretta collocazione storica, si
può ricordare che il volume di Woodrow Wilson, Congressional Governement – scritto per dimostrare la preminenza effettiva e, secondo
Wilson, voluta dai costituenti americani del congresso sul presidente
– è del 1883, mentre nel 1933 inizia la presidenza di Franklin Delano
Roosvelt che darà vita al new deal e a quel mutamento del ruolo presidenziale che porterà alla “presidenza imperiale”.
In Gran Bretagna, il rafforzamento del governo si sviluppa nel
ventennio successivo alla prima guerra mondiale e viene codificato
con il Ministers of the Crown Act del 1937 che istituzionalizza la figura del primo ministro e quella del leader dell’opposizione.
Anche in Francia, ove pure il “parlementarisme absolu”, tipico
della terza repubblica, avrà vita fino alla costituzione del 1958, la
presidenza del consiglio inizia a strutturarsi nel primo dopoguerra.
In precedenza, i presidenti del consiglio si avvalevano degli uffici del
dicastero di cui erano titolari e il problema si pose nel 1914 allorché
vi fu un presidente, Viviani, che non aveva alcun portafoglio. Il processo si consoliderà a metà degli anni trenta, con l’attribuzione di
una sede, l’Hotel Matignon, e l’emergere di una significativa organizzazione burocratica.
I governi vedono quindi accrescersi progressivamente le loro
funzioni e, di conseguenza, le risorse e il personale messo a loro disposizione. I percorsi nazionali di questo processo che ha condotto
alla centralità degli esecutivi sono stati ovviamente diversi e dipendenti dalle condizioni storiche e dalle congiunture politiche di ciascun paese. Generalizzando, si può dire che nelle democrazie avanzate esso è compiuto intorno alla metà del secolo XX.
Nei regimi parlamentari il rapporto tra parlamento e governo
subisce un’evoluzione a tutto vantaggio di quest’ultimo. Non è un
percorso sincronico in tutti i paesi, ma il punto di arrivo è nei suoi
tratti essenziali il medesimo.
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Innanzi tutto la sfiducia, il potere di provocare le dimissioni del
governo, muta i suoi caratteri con l’avvento dei partiti di massa. Questi sono contrassegnati da una rigida disciplina interna che circoscrive
la libertà di azione dei singoli parlamentari e rende più saldo il continuum maggioranza-governo. L’esecutivo non è più rovesciato per un
mutare di rapporti all’interno del parlamento, ma per decisione delle
segreterie di partito. La sfiducia tende a divenire quindi un’arma di
ultima istanza e di rarissimo impiego, se non una minaccia teorica.
Per contro i governi vengono dotati di strumenti di accelerazione e guida dei procedimenti legislativi che consentono loro di realizzare il proprio programma politico. Si pensi alla britannica ghigliottina o alla particolare disciplina della questione di fiducia e al
voto bloccato previsti dalla costituzione francese del 1958.
Lo stesso power of the purse sul quale si fonda storicamente
l’origine e l’affermarsi del potere parlamentare si è progressivamente
trasferito nelle mani dei governi e le possibilità dei parlamenti di incidere sulle decisioni di bilancio si sono ridotte a ben poca cosa.
Trova quindi una diffusa realizzazione concreta l’idea esposta
nel 1931 da Mirkine-Guetzevich che il senso del regime parlamentare risiede nella “primauté politique de l’exécutif”.
La centralità dei governi si è ulteriormente rafforzata negli ultimi decenni. Il mondo contemporaneo impone processi di decisione
rapidi e perciò concentrati in organi ristretti quali sono i governi, e
all’interno di questi, nell’organo di vertice (il leader). Ciò vale sia per
la politica interna, sia per quella estera. L’intensificarsi dei rapporti
internazionali – la globalizzazione – ha imposto ai governi nuovi
compiti (in particolare di coordinamento con i governi di altri paesi)
e li ha ulteriormente rafforzati.
Per i paesi europei, lo sviluppo dell’integrazione ha posto in
primo piano l’istituzione governo. Sono essi infatti a rappresentare
gli stati nel consiglio europeo e nel consiglio dei ministri, mentre i
parlamenti rimangono alla periferia della costruzione comunitaria,
nonostante il trattato di Lisbona ne abbia accresciuto le funzioni partecipative.
Tutto questo non significa un’onnipotenza dei governi. Permangono contropoteri interni sia di tipo istituzionale, sia di tipo politico
o sociale, come le pressioni dei partiti e dei gruppi di interesse. Per
altro verso, le stesse istituzioni del mondo globalizzato impongono li-
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miti all’azione dei governi nazionali anche all’interno degli stati. Emblematico anche sotto questo aspetto il caso dell’Unione Europea cui
sono attribuiti poteri normativi che incidono sugli ordinamenti giuridici nazionali e che sta sempre più sviluppando poteri di condizionamento delle politiche di bilancio.
2.
L’esperienza italiana. Le scelte della costituente.
L’Italia repubblicana non è ovviamente rimasta estranea a questo fenomeno, anche se ha seguito, e continua a seguire, un percorso
atipico.
L’istituzione governo delineata dalla costituzione del 1947 è
un’istituzione debole. Debole sotto tre aspetti: 1) per l’assenza di
meccanismi atti a garantirne la stabilità, che pure furono proposti in
sede di Seconda Sottocommissione della Commissione dei Settantacinque: Mortati prospettò un regime intermedio tra quello parlamentare e quello direttoriale, e Tosato con anticipo rispetto alla costituzione tedesca, delineò un meccanismo analogo alla mozione di
sfiducia costruttiva; 2) per la definizione dei suoi poteri (si pensi all’assenza della previsione di una riserva di regolamento e, nell’ambito
del rapporto con il parlamento, alla mancata previsione di formali ed
incisivi poteri di guida dei procedimenti parlamentari); 3) per la labile definizione dei rapporti endogovernativi che non chiarisce quale
sia l’organo, consiglio dei ministri o presidente del consiglio, cui
compete l’effettiva guida dell’indirizzo politico e che, comunque,
tende a deprimere la figura del capo del governo.
I motivi di questa scelta sono noti e sono stati oggetto di ricostruzioni storiche che li hanno ampiamente esplicitati: la “paura del
tiranno”, che discendeva dall’esperienza fascista, e l’incertezza sull’esito delle successive consultazioni elettorali che si sarebbero svolte
tra forze politiche di ispirazione ideologica antitetica e facenti riferimento ai due blocchi internazionali contrapposti, separati dalla “cortina di ferro”.
D’altra parte, non si può trascurare che, per quanto attiene in
generale alla forma di governo, il modello che appare aver influito
maggiormente sui nostri costituenti fu quello del regime parlamentare francese (fortemente sbilanciato sul versante delle assemblee legislative), sia pure filtrato dalle “razionalizzazioni” delle costituzioni
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del periodo fra le due guerre, quale quelle austriaca e cecoslovacca,
e della nuova costituzione francese del 1946. Ma certo non cambiava
l’equilibrio di fondo del rapporto parlamento-governo la razionalizzazione del rapporto fiduciario operata (sul modello del § 75 della
costituzione cecoslovacca del 1920) dall’articolo 94 della costituzione, che peraltro non ha mai concretamente operato per quanto attiene alla mozione di sfiducia.
Le norme costituzionali sull’esecutivo, tuttavia, come tutte
quelle in materia di forma di governo, erano e sono rimaste norme a
fattispecie aperta che non costringevano e non costringono l’esecutivo e il suo rapporto con il parlamento entro un modello definito e
non alterabile. Se esse non strutturavano una forte istituzione governo, non costituivano, tuttavia, un ostacolo insuperabile a che si
andasse in questa direzione. Ciò che ne determinò la concreta operatività fu la circostanza che esse erano funzionali ad una costituzione
materiale fondata su una partitocrazia proporzionalistica caratterizzata dalla presenza del più forte partito comunista dell’occidente.
Il regime politico repubblicano fu caratterizzato, nei decenni iniziali, dalla coesistenza di partiti forti e istituzioni politiche deboli. I
primi erano legittimati dalla lotta antifascista, dal ruolo svolto dal Comitato di liberazione nazionale e dalla partecipazione alla costituente.
Le seconde riprendevano vita democratica dopo l’eclissi autoritaria o
erano del tutto nuove e dovevano essere sperimentate. Il risultato fu
la prevalenza della guida partitica sugli organi istituzionali.
Per quanto riguarda il governo, questa dipendenza dai partiti si
concretizzò in diversi aspetti. I governi erano di coalizione e la scelta
del presidente del consiglio e dei ministri era saldamente nelle mani
degli organi dirigenti dei partiti e delle loro componenti interne, le
“correnti”. L’influenza partitica restava forte anche dopo la formazione dell’esecutivo e si parlava apertamente di “delegazioni dei partiti” al governo.
Il presidente del consiglio, ad eccezione del periodo degasperiano, rimase una figura sostanzialmente debole perché non si realizzò la coincidenza, tipica di altri regimi parlamentari, tra premiership governativa e leadership partitica. Non essendo il capo della
maggioranza parlamentare (il che nella situazione italiana avrebbe
voluto dire il capo del maggior partito della coalizione, la dc), il presidente del consiglio assunse le vesti di mediatore tra le diverse com-
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ponenti inter e intrapartitiche del suo ministero. Il suo ruolo era
quello di garantire l’“accordo di governo” (il cui oggetto era la formula politica, la struttura e il programma), vale a dire di mantenere
l’equilibrio del quadro politico, assorbendo le spinte centrifughe dei
partiti della coalizione e delle loro correnti interne. Può apparire una
mera curiosità, ma forse non è inutile ricordare che la presidenza del
consiglio ebbe la sua sede al Viminale, presso il ministero dell’interno, fino al 1961, anno del suo trasferimento a palazzo Chigi.
La funzione di governo però, come ha evidenziato Cassese, non
fu incentrata neanche nel consiglio dei ministri per varie ragioni: la
composizione pletorica dell’organo; la disomogeneità delle competenze dei ministri divisi tra chi aveva funzioni di indirizzo e chi compiti di natura amministrativa; la creazione di comitati interministeriali; infine, perché i ministri agivano più come rappresentanti di partiti e di correnti che come capi di amministrazioni. Vi fu insomma
una fuga del governo dal consiglio dei ministri.
Non prese corpo, quindi, né un governo a direzione monocratica, né un governo di gabinetto. I ministri delle “delegazioni dei partiti al governo” guidavano i rispettivi dicasteri con molta autonomia
essendo evanescenti i poteri di coordinamento finalizzati ad una politica unitaria. Descriveva con efficacia la situazione la formula “direzione plurima dissociata” (Cheli e Spaziante).
La presenza di un forte partito comunista ancora strettamente
collegato al blocco sovietico creava un ulteriore problema. Il pci non
poteva essere considerato e trattato quale partito antisistema, come
lo fu in Germania, perché era uno dei soggetti fondatori del patto
costituente, ma nello stesso tempo, essendo non affidabile all’interno
del sistema di alleanze internazionali cui l’Italia partecipava, gli era
di fatto precluso l’accesso al governo.
Non era però possibile ghettizzare del tutto un partito in cui si
riconosceva una parte consistente del paese e si imboccò così la
strada di un regime politico consensuale o consociativo con una caratteristica peculiare. Infatti, mentre in altri paesi (Austria, Belgio,
Paesi Bassi) il consensualismo si è basato sulla contemporanea partecipazione al governo di partiti di diversa ispirazione che hanno formato le c. d. grosse coalizioni oppure su una parziale alternanza al
governo incentrata su partiti pivot (Blondel), il consensualismo italiano si incentrò sul parlamento che divenne la sede del dialogo e del
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compromesso tra le forze politiche “di governo” e il principale partito di opposizione che al governo non poteva accedere.
3.
La svolta degli anni ottanta.
Nel corso degli anni ottanta del novecento, dopo l’esaurirsi del
“compromesso storico” tra dc e pci, mutano gli equilibri politici e
inizia un processo di progressivo rafforzamento dell’istituzione governo.
La tendenza che si afferma viene riassunta nel concetto di “governabilità” (che era stata utilizzato in un rapporto della Trilaterale
del 1975, The crisis of Democracy – Report on the governability to the
Trilateral Commission) La governabilità si traduce sul piano politico
nell’autonomia della maggioranza pentapartita di centro-sinistra e
nel rafforzamento dell’azione di governo. Palazzo Chigi tende a divenire lo snodo essenziale per l’esercizio e la gestione del potere, non
solo la sede della mediazione di un potere esercitato dalle segreterie
di partito.
Due sono i cardini di questa svolta.
Il primo, di natura politica, è il superamento della “ferrea convenzione della costituzione materiale italiana che voleva una divisione di ruoli tra primo ministro e segretario di partito” (Calise).
Questo cambiamento si verifica con il primo governo a guida non
democristiana: nel 1982 diviene infatti presidente del consiglio Giovanni Spadolini, segretario del pri. Segue quindi, dal 1983 al 1987, la
presidenza del segretario del psi, Bettino Craxi. Infine, nel 1988, anche la dc compie il passo designando il proprio segretario, Ciriaco
De Mita, a ricoprire la carica di presidente del consiglio. Il rafforzamento dell’istituzione governo connesso a questo cambiamento non
è solo di immagine, ma di sostanza.
Il secondo elemento decisivo nella svolta degli anni ottanta è
rappresentato da due innovazioni legislative.
In primo luogo, l’approvazione della legge 23 agosto 1988, n.
400, “Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei ministri”. La legge dà finalmente attuazione
al terzo comma dell’articolo 95 della costituzione e “incide sulla
forma di governo”, mirando “a sostituire il modello contrattualistico” (Labriola). Essa razionalizza e rafforza l’istituzione governo al-
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l’interno del perimetro del regime parlamentare tracciato dalla costituzione, cogliendo le opportunità offerte dalla sua elasticità.
Della legge 400 mi pare essenziale, nella prospettiva che stiamo
seguendo, sottolineare tre aspetti:
1) il rafforzamento dei poteri normativi del governo. La legge
infatti non si limita a dettare regole attuative degli articoli costituzionali sulla decretazione d’urgenza (al cui abuso negli anni precedenti,
anzi, cerca di porre degli argini) e sulla delega legislativa. La parte
più significativa della legge in materia di fonti è l’art.17 che disciplina organicamente i poteri regolamentari del governo (giungendo
ad abbozzare una riserva di regolamento lì dove manca una regolazione legislativa) e introduce in via generale la delegificazione;
2) la disciplina delle attribuzioni degli organi di governo (sia di
quelli previsti in costituzione, sia di quelli da essa non contemplati) e
dei loro rapporti. L’elemento innovativo della legge è costituito dalle
opportunità che essa offre al rafforzamento del principio monocratico
(il presidente del consiglio) rispetto all’altro principio immanente nell’articolo 95, quello collegiale (il consiglio dei ministri). Pur negli
spazi angusti consentiti da governi di coalizione e con alta frammentazione delle competenze ministeriali, la legge tende a rafforzare i poteri di indirizzo politico del presidente del consiglio e lo dota di una
struttura idonea a tale compito. Viene disciplinata la figura del sottosegretario alla presidenza del consiglio, segretario del consiglio dei
ministri, e gli uffici di diretta collaborazione del presidente vengono
organizzati nel segretariato generale della presidenza del consiglio al
cui vertice è posto un segretario generale. Si avvia così un processo di
accorpamento di funzioni e di dotazione di mezzi umani e materiali
che fanno capo alla figura del capo del governo e la rendono più simile a quella di altri paesi a tradizione primo ministeriale;
3) l’istituzione della conferenza stato-regioni, collocata presso la
presidenza del consiglio e presieduta dal capo del governo. Con questa innovazione il governo ed il suo vertice vengono collocati al centro dei rapporti centro-periferia, i quali sono così incentrati sul dialogo tra esecutivi, nazionale e regionali.
Altrettanto importante è l’approvazione della legge n. 362 del
1988, la quale innova profondamente la disciplina della decisione annuale di bilancio e delle leggi infrannuali di spesa. La legge n. 362 in
particolare ha introdotto una maggiore tenuta dei procedimenti de-
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cisionali di spesa, il cui carattere poco strutturato aveva storicamente
rappresentato il principale terreno sul quale era stato costruito il modello della centralità parlamentare e, conseguentemente, della debolezza dell’esecutivo. In questa prospettiva occorre segnalare: 1) la
previsione di un documento di programmazione finanziaria, presentato dal governo al parlamento, dal quale discendono effetti vincolanti per la successiva sessione di bilancio; 2) la previsione di limiti
stringenti al contenuto della legge finanziaria, e la conseguente sanzione di inammissibilità degli emendamenti estranei per materia o recanti un peggioramento dei saldi di bilancio; 3) l’introduzione di una
rigorosa procedura per la verifica della corretta copertura delle leggi
di spesa (relazione tecnica, verifica parlamentare, carattere rinforzato
del parere della commissione bilancio).
Pur non modificando formalmente il rapporto fra governo e
parlamento, tali innovazioni rafforzano in misura significativa la funzione di guida del procedimento legislativo esercitata dal governo.
La previsione della necessaria compensatività delle iniziative emendative al disegno di legge finanziaria, così come l’introduzione dell’obbligo di relazione tecnica che certifichi l’ammontare dei maggiori
oneri e l’idoneità della clausola di copertura su tutti i progetti di
legge all’esame del parlamento, conferiscono in particolare “un formidabile vantaggio posizionale” al governo, il quale solo dispone
delle informazioni necessarie. (Perna) Il nuovo ordinamento contabilistico introduce anche importanti innovazioni negli equilibri interni
al governo. Mentre nei primi decenni di storia repubblicana il ministro del tesoro era sostanzialmente inerme di fronte alle iniziative di
spesa provenienti dall’interno della compagine governativa, dopo la
riforma del 1988 la posizione del ministro del tesoro (e successivamente quella del ministro dell’economia) risulta significativamente
rafforzata e, per il suo tramite, si rafforza anche la capacità del presidente del consiglio di esercitare la sua funzione di guida e di coordinamento della politica del governo nel suo complesso.
Le riforme dell’organizzazione del governo e della decisione di
bilancio sono il frutto di una nuova fase della vita politica italiana e
di una nuova visione degli assetti della nostra forma di governo tesa
a superare il “parlamentarismo integrale” (Miglio) degli anni precedenti. Forse sarà stata una semplice coincidenza temporale, ma è comunque significativo del nuovo modo di guardare al rapporto parla-
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mento-governo il fatto che esse vennero approvate nello stesso anno
della riforma dei regolamenti parlamentari volta a circoscrivere drasticamente l’area di utilizzo del voto segreto e a sancire la prevalenza
di quello palese (ottobre 1988 alla camera, novembre al senato). Per
decenni i “franchi tiratori”, nascosti dal voto segreto, erano stati il
tallone d’Achille del governo in parlamento. Con le riforme di quell’anno il governo vedeva, da un lato, poste le basi di una riorganizzazione che lo rafforzava, dall’altro, assumeva il controllo della sua
maggioranza parlamentare.
4.
La fase della transizione (1992-1994).
Il momento di svolta del percorso che stiamo analizzando si è
avuto con il cambio di regime politico realizzatosi nel periodo 19921994, che ha portato a quella che viene comunemente definita seconda repubblica.
Il cambiamento derivò, sul piano politico, dal crollo del sistema
partitico strutturatosi dalla caduta del fascismo in poi e, sul piano dei
meccanismi istituzionali, dal passaggio da un sistema elettorale proporzionale ad uno maggioritario, sia pure misto. Si tratta di fenomeni
noti e diffusamente esaminati, il che consente di procedere solo per
brevi accenni.
È opportuno solo ricordare che la dissoluzione del blocco sovietico fece venir meno la conventio ad excludendum nei confronti
del partito comunista; che i partiti e l’intera classe politica ebbero un
crollo di credibilità e di autorevolezza di fronte all’opinione pubblica
per l’emergere di numerosi scandali di natura finanziaria e il sorgere
di una questione morale, sfociati in varie inchieste giudiziarie; che il
desiderio di cambiamento da parte del corpo elettorale si manifestò
con il referendum del 1993, il cui obiettivo era l’introduzione di una
nuova legge elettorale maggioritaria.
Volendo fissare una cronologia si può dire che l’avvento della
seconda repubblica si è realizzato con la prima applicazione del
nuovo sistema elettorale nella primavera del 1994 e che la XI legislatura, dalla primavera del 1992 a quella del 1994, ha costituito la fase
di transizione.
In questa fase l’istituzione governo si rafforza considerevolmente
proprio in conseguenza degli sconvolgimenti del sistema politico.
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Il crollo della “casa comune partitocratica” (Manzella) produce
una separatezza del governo dai partiti screditati agli occhi dell’opinione pubblica. Se è improprio, o comunque eccessivo, parlare dei
due governi di quel biennio, Amato e Ciampi, come di governi del
presidente della Repubblica, perché essi contavano su una base parlamentare definita, è certo che essi, proprio a causa della debolezza
dei partiti, acquistarono una autonomia prima di allora inimmaginabile. E ciò, sia pure con gradazioni e sfumature diverse, per quanto
attiene alla valorizzazione della premiership del presidente del consiglio, alla composizione della compagine ministeriale e alla determinazione dell’indirizzo politico.
Come è stato notato (Pitruzzella), l’istituzione governo in questa
fase di crisi accentua la sua caratterizzazione di “governo della Repubblica”, ossia di tutti gli italiani, e diviene il vero soggetto dell’innovazione politica e istituzionale. Si realizzano importanti riforme: in
campo economico, con la dismissione e la privatizzazione del sistema
delle partecipazioni pubbliche (il che porta alla soppressione del ministero delle partecipazioni statali); nel settore della sanità e della
previdenza sociale; nel settore del pubblico impiego, con la privatizzazione del rapporto di lavoro.
È in questa fase che il governo coglie le potenzialità insite nella
legge 400, rafforzando la propria funzione di produzione normativa
a fronte di un parlamento in crisi di legittimazione, riflesso della crisi
che travolge progressivamente i partiti storici della repubblica. La legislazione delegata diviene strumento determinante di questo
profondo cambiamento, non solo per l’importanza degli oggetti per
i quali viene utilizzata, ma anche per l’affermarsi di tipologie di delega che rafforzano la posizione del governo, vale a dire le deleghe
plurime e le deleghe con previsione di decreti legislativi correttivi
che consentono più di un intervento all’interno della stessa delega.
Con la legge n. 537 del 1993, poi, si consolida e si amplia la possibilità di interventi di delegificazione.
5.
L’istituzione governo oggi.
Nel periodo della seconda repubblica, che si apre con le elezioni
politiche del 1994, si consolida il trend di rafforzamento dell’istituzione governo e si afferma la sua centralità nel quadro istituzionale.
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I fattori che hanno determinato questo processo sono vari e
hanno interagito fra loro nel corso di questi anni.
1) In primo luogo, deve essere presa in considerazione la diretta
derivazione elettorale del governo e del presidente del consiglio, determinata dalle leggi elettorali maggioritarie del 1993 e confermata
dalla legge n. 270 del 2005 che è proporzionale, ma con effetto maggioritario.
Questa legislazione consente, in teoria ad un solo un partito, ma
nella concreta realtà italiana ad una coalizione di forze politiche, di
ottenere la maggioranza dei seggi in parlamento. Per essere vincente
la coalizione deve presentarsi come tale alla prova elettorale e ha la
necessità politica di avere un programma e un leader comuni. Questo aspetto è formalizzato dalla legge n. 270 del 2005: ciascun partito, se concorre da solo, o i partiti tra loro collegati, nel caso di coalizioni, all’atto della presentazione delle liste sono tenuti a depositare
un programma elettorale nel quale dichiarano il nome della persona
da loro indicata come capo della forza politica o della coalizione
(vedi art. 14-bis d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361). Ecco quindi che i tre
elementi della combinazione governativa, che in precedenza erano il
prodotto di trattative postelettorali condizionate dalla forza parlamentare conquistata autonomamente da ciascun partito, vengono direttamente presentati al giudizio degli elettori.
Anche se le procedure costituzionali di formazione del governo
non sono state modificate e rimangono intatti i poteri del presidente
della repubblica e del parlamento stabiliti negli articoli 92 e 94 della
costituzione, è evidente che la volontà del corpo elettorale ha un immediato riflesso nella formazione dell’esecutivo. Non si tratta certo
di un’elezione del governo o del presidente del consiglio – cosa che
nel linguaggio politico o giornalistico viene spesso impropriamente
detta – ma è indubbio che il collegamento tra volontà del corpo elettorale e governo sia più stretto e che la legittimazione di quest’ultimo
ne risulti accresciuta. E se il governo deriva strettamente dalla volontà del popolo, la conseguenza è che esso deve essere messo in
grado di poter attuare il suo programma al quale gli elettori hanno
dato il loro consenso.
È pur vero che la legislazione elettorale non garantisce in assoluto la realizzazione dello schema sinteticamente descritto e che,
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stante il nostro bicameralismo paritario, potrebbe al contrario realizzarsi l’ipotesi di maggioranze diverse nelle due camere. Ciò, tanto
più in considerazione del fatto che al senato il premio di maggioranza è attribuito regione per regione e non a livello nazionale come
alla camera dei deputati. Ed è anche vero che la costituzione non
esclude crisi di governo nel corso della legislatura e la formazione di
nuovi ministeri anche con formule politiche diverse e diversi presidenti del consiglio (il che è avvenuto nella XII legislatura con la formazione del governo Dini nel 1995 e nella XIV legislatura con la formazione dei governi D’Alema e Amato, nel 1998 e nel 2000). Tuttavia, se si guarda alla linea di tendenza complessiva della fase che si è
aperta nel 1994, è corretto dire che il sistema ha realizzato la diretta
derivazione elettorale del governo e del suo premier.
All’interno di questo quadro complessivo la figura istituzionale
che si rafforza in modo specifico tanto da mutare completamente la
sua fisionomia e caratura politica rispetto al periodo della prima repubblica è quella del presidente del consiglio. Egli non è più caratterizzato dall’essere il mediatore di una coalizione che si fonda sulla
forza dei partiti, ma diviene il leader che deve condurre alla vittoria
elettorale l’alleanza che in lui si riconosce. L’aspirante presidente del
consiglio instaura un rapporto diretto con l’elettorato e al suo carisma è affidata una buona parte delle possibilità di vittoria della coalizione che in lui riconosce la sua guida. È una trasformazione che,
come si è detto prima, ha trovato una sua formalizzazione nella
stessa legge elettorale del 2005. Anche se i governi restano di coalizione e ciò rende inevitabile la ricerca di punti di mediazione tra le
esigenze politiche delle diverse componenti dell’alleanza, la figura
del presidente del consiglio trova una nuova caratterizzazione in un
ruolo di direzione politica e di impulso dell’azione governativa.
In definitiva, la nuova legislazione elettorale produce non solo
l’esito generale di spostare l’equilibrio tra parlamento e governo a favore di quest’ultimo, che trae maggiore autorità politica dall’essere
espressione diretta della volontà del corpo elettorale e non più il
frutto di una trattativa fra i partiti basata sulla loro forza parlamentare, ma produce anche il risultato di spostare l’equilibrio tra gli organi che compongono l’istituzione governo a vantaggio del presidente del consiglio. Già da qualche tempo si parla di “presidenzializzazione” del nostro regime politico (Calise) in consonanza con una
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tendenza generale delle democrazie avanzate (Poguntke e Webb).
Per quanto riguarda l’Italia, tuttavia, il concetto non è giuridicamente determinato. Esso coglie la novità del rafforzamento dell’esecutivo e del suo capo, ma non si può dire se l’evoluzione sarà nel
senso dell’adozione del modello statunitense, che è quello presidenziale in senso proprio; oppure se si risolverà in una realizzazione del
c. d. premierato, vale a dire della variante del regime parlamentare
con predominanza del vertice dell’esecutivo, distinto però dalla figura del presidente della repubblica.
Trova così conferma quanto era stato sottolineato in dottrina già
anni addietro circa la stretta connessione tra il procedimento di formazione del governo e la sua struttura e il suo funzionamento. Si
erano, infatti, evidenziati due circuiti dell’indirizzo politico, uno organizzatorio, che si pone come originario e attiene alla fase dell’investitura o dell’organizzazione del governo, e l’altro operativo, che si
pone come derivato dal primo. Tra i due circuiti vi è intima connessione, e perciò interdipendenza: se il circuito operativo deriva dal
primo, si svolge e sussiste solo sulla base del primo, è anche vero che
le vicende del secondo circuito, quello operativo e derivato, reagiscono e si ripercuotono sul primo, rinsaldandolo o interrompendolo.
Si era inoltre notato (Pitruzzella) come l’assetto dei rapporti endogovernativi fosse condizionato dalle modalità di formazione del governo. Ampliando la prospettiva, si può dire che le modalità di formazione del governo condizionano la sua posizione complessiva nell’equilibrio dei rapporti istituzionali.
2) La novità costituita dal mutamento di legislazione elettorale
si è saldata con il dissolversi del vecchio sistema partitico (di cui si è
già fatto cenno al paragrafo 4) e con una trasformazione profonda
della stessa forma partito.
Antichi partiti scompaiono e nuovi se ne costituiscono. Ma non
si tratta solo di cambi di etichetta. I nuovi soggetti politici sorgono
su basi e con caratteri del tutto differenti rispetto al passato sotto
due aspetti.
In primo luogo, il tramonto delle ideologie che avevano caratterizzato il novecento provoca una diffusa frammentazione sociale e l’eclisse dei partiti novecenteschi, dotati di una precisa connotazione
ideologica, di una forte struttura organizzativa e un saldo radica-
VINCENZO LIPPOLIS
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mento sociale. Questa forma partito, che svolgeva il duplice ruolo di
rappresentanza e di filtro delle domande sociali, è tramontata insieme
al declino delle identità collettive che essi erano chiamati a rappresentare. I partiti politici tendono, cioè, a perdere di fatto il loro carattere, riconosciuto in vari testi costituzionali, a cominciare dall’articolo
49 della nostra costituzione, di enti intermedi tra istituzioni e cittadini, che, riflettendo, interpretando e plasmando la volontà politica di
questi, la canalizzano in sedi istituzionali. Non rappresentano più,
come era stato nel secolo scorso, “il principale organo di mediazione
tra la società e la politica” (Calise). Essi perdono la loro natura identitaria e tendono sempre più a divenire macchine elettorali per convogliare il consenso sulla base di orientamenti d’opinione spesso volatili, mutevoli e condizionati dall’uso massiccio delle nuove tecnologie di comunicazione. Gli interessi socioeconomici si parcellizzano, si
corporativizzano o si coagulano intorno a singles issues. I rappresentanti di questi interessi non hanno alcun vantaggio ad identificarsi con
uno specifico partito, saltano la mediazione partitica e trattano direttamente con il governo (Calandra, Niccolai).
La perdita di identità ideologica provoca, a sua volta, una mutazione della strutturazione partitica che in Italia ha assunto caratteri
peculiari. Non si è infatti affermato il modello statunitense del “partito di opinione” e si è andati verso forme di c.d.“partito leggero” incentrato sulla figura del leader. Si è giustamente parlato di “partiti
personali” (Calise) o “presidenziali” (Fabbrini), per evidenziare l’identità tra leader e forma partitica.
È un fenomeno che va ben al di là della personalizzazione della
leadership diffusa in altri sistemi politici. I partiti inglesi cambiano
leader e affidano le loro sorti a personalità più o meno carismatiche,
ma conservano una loro identità di fondo di conservatori, laburisti o
liberali. E lo stesso accade in Germania e in Francia. Da noi, la perdita di precise identità valoriali e programmatiche delle forze politiche sta determinando sempre più una situazione in cui è solo il leader
a creare il partito, che senza di lui non esisterebbe. I contrasti interni
non vengono risolti con il formarsi di maggioranze e minoranze, ma
con l’abbandono del partito e la creazione di uno nuovo attorno alla
figura del leader che sentiva di non avere spazi politici adeguati restando nel partito di precedente appartenenza. È evidente che tutto
ciò costituisce un forte fattore di frammentazione e instabilità, ma è lo
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stesso sistema elettorale a spingere verso una competizione di figure
carismatiche in grado di mobilitare l’elettorato, più che di partiti programmatici.
Per quel che rileva ai nostri fini, la conseguenza di tutto questo
complesso fenomeno è che non sono più le segreterie dei partiti, i
quali hanno ormai cambiato la loro natura e si sono indeboliti, ad essere il centro di decisioni che il governo deve portare ad attuazione.
Il luogo delle decisioni politiche reali si è spostato all’interno dell’istituzione governo della quale tendono a far parte i leaders dei partiti di maggioranza e i loro esponenti più influenti.
3) Prosegue e si consolida il rafforzamento del potere normativo
governativo.
Si afferma una assoluta predominanza dell’iniziativa legislativa
governativa rispetto a quella parlamentare anche in relazione alla
particolare congiuntura economica che, determinando una contrazione delle risorse disponibili, rende decisivo, il ruolo del ministero
dell’economia. È da questo dicastero che finisce per dipendere in ultima istanza l’allocazione delle scarse risorse in relazione agli andamenti di finanza pubblica e all’esigenza di mantenere un equilibrio
imposto dalle regole dell’Unione Europea.
Ma il governo utilizza in maniera sempre più intensa ed incisiva
decretazione d’urgenza e delega legislativa.
È stato evidenziato (Zampetti), che il ricorso al decreto-legge assume almeno per i grandi interventi, specie in materia economico finanziaria, un carattere sistematico e si calcola che circa il 95% delle
decisioni di spesa adottate in parlamento dal 2006 al 2010 sia passato
per disposizioni contenute in decreti-legge.
Parallelamente il ricorso alla delega legislativa nell’ultimo quindicennio ha registrato una tumultuosa espansione non solo per numero, ma anche per ampiezza ed importanza di oggetto. La delegazione legislativa, resa molto flessibile dalle pratiche delle deleghe plurime e dei decreti correttivi, è stato il principale strumento mediante
il quale governi di schieramenti diversi hanno veicolato le riforme.
In questa legislatura, la XVI, alla data del 6 maggio 2011, all’interno delle 226 leggi approvate sono contenute 282 disposizioni di
delega. Nella XIII legislatura le disposizioni di delega sono state 516
su 906 leggi approvate, nella XIV legislatura 712 su 686 leggi e nella
VINCENZO LIPPOLIS
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XV, durata solo due anni, 160 su 112 leggi. Alla stessa data del 6
maggio 2011, nella XVI legislatura, i decreti delegati sono stati 139;
nella XIII legislatura, 378; nella XIV, 288, nella XV, 114. Ma non è
tutto perché, a volte, gli stessi decreti delegati rinviano la piena attuazione della delega a decreti del governo, limitandosi a prevedere
la procedura per la loro adozione.
Questi dati dipendono in buona parte dal fatto che la legislazione delegata è lo strumento principale di attuazione delle direttive
dell’Unione Europea ed infatti se si scompone il dato relativo ai decreti delegati di questa legislatura, sempre alla data del 6 maggio
2011, risulta che ben 107 sono dovuti alla trasposizione di norme europee. Tuttavia, non si può trascurare l’importanza delle deleghe non
collegate a tale fenomeno, che potremmo chiamare “nazionali”. Nel
suo complesso l’utilizzazione della delegazione legislativa risponde
ad una precisa strategia dell’esecutivo di controllo e governo della
normazione.
Vi è stato un vasto ricorso alla delegificazione. Le leggi (o atti
equiparati) che prevedono l’autorizzazione alla delegificazione sono
state: 74 nella XIII legislatura, 40 nella XIV, 12 nella XV e 24 nella
XVI (al 6 maggio 2011). Ma lo stesso modello di delegificazione previsto dalla l. 400 del 1988 viene aggirato demandando al governo la
facoltà di intervenire su materie disciplinate con legge mediante propri decreti.
Si è infine creata una nuova figura di delega per la redazione di
testi unici di notevole importanza, che sembra sfuggire al disposto
dell’art. 76 della costituzione.(Per maggiori indicazioni su tutti questi aspetti, rinvio a Lippolis e Pitruzzella)
La tendenza al rafforzamento del potere normativo del governo
sembra poi aver toccato il suo zenith con la previsione delle ordinanze di emergenza, provvedimenti amministrativi cui è attribuita la
forza attiva di derogare a leggi vigenti. Il fondamento normativo è
costituito dalla legge sulla protezione civile, la n. 225 del 1992, che è
stata successivamente estesa dalla legge n. 401 del 2001 anche ad
eventi non calamitosi, definiti “grandi eventi”, la cui concreta determinazione è rimessa alla volontà del governo.
4) L’opera di riorganizzazione dell’istituzione governo, iniziata
con la legge n. 400 del 1988, viene portata avanti con la legge n. 59
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IL FILANGIERI - QUADERNO 2010
del 1997 e i successivi decreti legislativi di attuazione del 1999, n.
300, recante la riforma dei ministeri, e n. 303, relativo alla riforma
della presidenza del consiglio.
L’idea di fondo era quella di ridurre il numero dei ministeri accorpandoli con criteri di maggiore organicità e di rafforzare il ruolo
della presidenza quanto all’esercizio delle funzioni di indirizzo e coordinamento, liberandola nel contempo di funzioni gestionali che nel
tempo si erano venute a concentrare al suo interno (Pajno e Torchia).
Non tutte le finalità di questa riforma possono dirsi realizzate. Il
numero e le competenze dei ministeri nel corso degli anni sono variate “a soffietto” in relazione ad esigenze politiche contingenti dipendenti dall’equilibrio della assegnazione dei dicasteri tra le diverse
componenti della coalizione governativa.
La presidenza del consiglio, per altro verso, non appare sgravata
di compiti gestionali riguardo a settori ritenuti strategici e trasversali
(ad esempio, la protezione civile). È fuor di dubbio comunque che,
grazie al susseguirsi di questi interventi riformatori, al presidente del
consiglio viene a far capo un ormai imponente apparato amministrativo mediante il quale egli può, avvalendosi dei ministri senza portafoglio e del segretariato generale, agire sia in funzione propulsiva e
di coordinamento dell’azione di governo, sia intervenire in settori
importanti e caratterizzanti la politica generale dell’esecutivo. L’esigenza, semmai, è quella di alleggerire la presidenza di compiti gestionali e far concentrare la sua azione sull’indirizzo e il coordinamento, funzioni per il cui esercizio i poteri attribuiti dall’articolo 5
della legge n. 400 al presidente del consiglio appaiono incisivi e adeguati (si pensi ai poteri di direttiva e di sospensione degli atti ministeriali e la loro rimessione al consiglio dei ministri).
In definitiva, fermo restando l’attuale quadro normativo, si può
dire che l’effettivo ruolo del presidente del consiglio dipende in maniera decisiva da come egli concretamente esercita i suoi poteri.
Rispetto al tentativo di configurare la presidenza del consiglio
come una effettiva cabina di regia unitaria, spicca la posizione del
ministero dell’economia che, grazie ai suoi poteri in materia economico-finanziaria, può condizionare la politica generale del governo.
In tutti i ministeri sono infatti presenti uffici della ragioneria generale dello stato che dipendono funzionalmente dal ministero dell’economia, essendo la ragioneria un dipartimento di tale ministero.
VINCENZO LIPPOLIS
25
Questo ha una centralità anche all’interno delle procedure legislative
quanto all’accertamento delle coperture finanziarie. L’art. 17 della
nuova legge di contabilità, la n. 196 del 2009, prevede, tra l’altro,
l’aggiornamento della relazione tecnica ad ogni passaggio di un progetto di legge da una camera a l’altra. Poiché la relazione tecnica
deve giustificare la copertura degli oneri finanziari e viene vistata
dalla ragioneria, si può comprendere come il ministero dell’economia abbia la possibilità di condizionare l’iter parlamentare di tutti i
progetti di legge.
Resta infine da dire del rapporto tra governo e amministrazione.
Le riforme degli anni recenti hanno avuto un duplice obiettivo. Da
un lato, si è teso a separare la politica dall’amministrazione, rendendo quest’ultima direttamente responsabile della gestione sulla
base delle direttive del ministro (art. 3, d.lgs. n. 29 del 1993). Dall’altro lato, si è voluto attribuire ai ministri il potere di selezionare discrezionalmente i vertici della dirigenza (d.lgs. n. 165 del 2001, modificato dalla legge n.145 del 2002). Si è cioè introdotto un meccanismo che riecheggia lo spoil system statunitense. Gli effetti di queste
riforme non sono ancora oggi facilmente valutabili sia perché è problematico individuare l’esatto punto di cesura tra indirizzo politico e
amministrazione e distinguere le relative responsabilità, sia perché
l’avvicendamento della dirigenza non ha sempre concretamente seguito l’alternanza al governo dei diversi schieramenti politici e vi è
stata una sorta di continuità nei vertici dell’amministrazione che ha
limitato l’effetto innovativo.
5) La conferenza stato-regioni, istituita dalla legge n. 400 del
1988, si è qualificata come uno snodo sempre più importante nel
rapporto tra centro e periferia a seguito delle riforme costituzionali
che, da un lato, hanno accresciuto le competenze delle regioni e, dall’altro, hanno fatto delle giunte regionali, e in particolare dei loro
presidenti, l’organo guida dell’istituzione regionale.
Il sistema è stato poi completato con la creazione della conferenza stato-città ed autonomie locali, di cui fanno parte rappresentanti degli esecutivi degli enti locali, e con la previsione di una conferenza unificata per le materie di interesse comune (d.lgs. n. 281 del
1997).
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IL FILANGIERI - QUADERNO 2010
Il sistema delle conferenze, sede di confronto tra gli esecutivi in
ambiti materiali sempre più significativi è divenuto l’organo di concertazione di decisioni di cui il parlamento il più delle volte deve
prendere atto e trasformare in legge, o che addirittura lo aggirano.
Come è stato detto (Niccolai), è intorno al governo, e non intorno al
parlamento, che ruota il sistema delle autonomie.
6) Correlativamente al rafforzamento del ruolo del governo si è
verificata una progressiva marginalizzazione del ruolo del parlamento, un’atrofizzazione delle funzioni che lo avevano collocato al
centro del sistema politico-istituzionale nel periodo della prima repubblica (Lippolis e Pitruzzella).
Il parlamento ha visto ridimensionata per effetto della legislazione elettorale la funzione di investitura del governo, che di fatto
(almeno all’inizio della legislatura) si è trasferita nelle mani del corpo
elettorale. Esso ha perso il ruolo di protagonista della mediazione legislativa proprio del periodo della consociazione, riducendosi spesso
a registrare orientamenti governativi imposti mediante il ben noto
marchingegno dei maxiemendamenti uniti alla questione di fiducia,
spesso utilizzato per la conversione di decreti-legge. È una sorta di
surrogato del vote bloqué previsto dalla costituzione francese che annichilisce il dibattito parlamentare. Questa procedura è, a volte, giustificata dalla lentezza del procedimento legislativo. Infatti, per i disegni di legge ordinari (esclusi cioè quelli di conversione dei decretilegge e di autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali) nei
primi tre anni della XVI legislatura il tempo medio di approvazione
è stato di 278 giorni. Ma in altri casi è un comodo rifugio per il governo che, raggiunto un difficile accordo tra le componenti della
coalizione, non vuole correre il rischio di vederlo rimesso in discussione nel dibattito parlamentare.
Per altro verso, il parlamento non è ancora riuscito ad affermare
pienamente il proprio ruolo in spazi che pure gli sarebbero congegnali in una democrazia maggioritaria e bipolare. In primo luogo, la
grande legislazione sui temi che attraversano gli schieramenti politici,
come i diritti civili. In secondo luogo, l’esercizio del controllo sull’azione del governo e la valutazione delle politiche pubbliche. Ciò nonostante la previsione di innovativi strumenti e procedure in alcune
leggi recenti, come la n. 42 del 2009, in tema di federalismo fiscale, e
VINCENZO LIPPOLIS
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la n. 196 del 2009, di riforma del sistema di contabilità, e la previsione di nuove forme di collaborazione con la corte dei conti, contenute nelle leggi finanziarie 2007 e 2008 e nella legge n. 15 del 2009
(su quest’ultimo aspetto vedi più diffusamente Lippolis).
Paradossalmente, le indebolite camere del sistema maggioritario
bipolare hanno acquisito l’esercizio di un potere a loro attribuito dall’articolo 94 della costituzione, ma mai esercitato durante la prima
repubblica, caratterizzata da crisi extraparlamentari, e cioè quello di
far cadere i governi con una formale votazione fiduciaria. Il che è avvenuto con il voto contrario sulle questioni di fiducia poste dal
primo e dal secondo governo Prodi rispettivamente alla camera dei
deputati il 9 ottobre 1998 e al senato il 25 gennaio 2008. Una conferma di questa nuova centralità del voto parlamentare all’interno
del rapporto fiduciario si è avuta il 14 dicembre 2010 allorché è stata
respinta una mozione di sfiducia al quarto governo Berlusconi, solo
per pochi voti di scarto e con un esito incerto fino all’ultimo momento. Il fenomeno appare paradossale perché la maggioranza parlamentare emerge direttamente dalle urne e non da mutevoli combinazioni parlamentari. In realtà, questo nuovo ruolo del parlamento è
la spia di un’incompiutezza del bipolarismo italiano basato su coalizioni eterogenee e rissose al loro interno che possono sfaldarsi nel
corso della legislatura. Non è comunque sufficiente questo pur decisivo ruolo, che è ovviamente esercitato saltuariamente, a correggere
la tendenza complessiva al rovesciamento di precedenti equilibri e all’affermarsi di una subordinazione del parlamento alla primazia politica del governo.
6.
I contropoteri
L’Italia sembra dunque aver seguito il percorso di altre grandi
democrazie occidentali nelle quali il governo ha assunto una posizione centrale nella trama dei rapporti con gli altri organi costituzionali e con i soggetti rappresentativi della società civile e del mondo
economico.
A parte le considerazioni svolte circa il rapporto con il parlamento, si deve comunque evidenziare che il sistema non manca di
poteri di interdizione o di condizionamento dell’azione governativa,
28
IL FILANGIERI - QUADERNO 2010
dei quali è necessario tener conto per una comprensione più esatta di
questa conquistata centralità dell’esecutivo.
Innanzi tutto, si deve richiamare quanto si è detto nel paragrafo
1 in riferimento ai governi di ogni paese, e cioè che le istituzioni del
mondo globalizzato se, da un lato, rafforzano la posizione degli esecutivi perché sono essi a rappresentare al loro interno gli stati, dall’altro, impongono limiti e condizionamenti alle politiche nazionali.
E ciò vale ancora di più per i paesi, come il nostro, che fanno parte
dell’Unione Europea.
Si deve tener conto, poi, che in Italia, a partire dagli ultimi anni
del secolo scorso, è stato avviato un trasferimento di funzioni dal
centro alla periferia che ha avuto il momento di sua massima espressione nel 2001 con la riforma dell’intero titolo V della costituzione e
che sta proseguendo con l’attuazione a livello di legislazione ordinaria dei principi di tale riforma. Si è parlato in proposito di federalismo anche se non si può ancora dire che si sia dato vita ad un vero e
proprio stato federale. Poiché si tratta di un processo tuttora in
corso e dagli esiti non del tutto scontati, non è facile dire se esso si
concluderà con un ridimensionamento dell’esecutivo nazionale.
Sul piano dei controlli, va sottolineato il ruolo della corte costituzionale. Essa ha avuto una funzione importante quanto alla definizione dei confini dell’esercizio di poteri governativi come, ad esempio, la decretazione d’urgenza. È sufficiente ricordare la sentenza sul
divieto di reiterazione (n. 360 del 1996) e quelle di annullamento di
disposizioni contenute in decreti, anche dopo la conversione in
legge, per manifesta insussistenza dei requisiti di necessità e urgenza
(n. 171 del 2007 e n. 138 del 2008). La corte, inoltre, esercitando il
suo potere di annullamento delle leggi e degli atti aventi forza di
legge, può influire sugli indirizzi di politica legislativa della maggioranza di governo. Si possono ricordare, in proposito, le sentenze che
hanno colpito le varie norme volte ad evitare la sottoposizione a processi penali del presidente del consiglio in carica (n. 24 del 2004, n.
262 del 2009 e n. 23 del 2011) e le tre sentenze (n. 226 e 249 del
2010 e n. 164 del 2011) che hanno colpito aspetti cruciali del c. d.
pacchetto sicurezza (d.l. n. 11 del 2009, convertito dalla l. n. 38 del
2009, e l. n. 94 del 2009). Orientamenti giurisprudenziali che hanno
sollevato polemiche, anche aspre, da parte di esponenti governativi
ed in particolare del presidente del consiglio.
VINCENZO LIPPOLIS
29
Gli anni della seconda repubblica che, come si è visto, hanno
registrato la nuova centralità dell’istituzione governo, hanno anche
esaltato la figura del presidente della repubblica che ha significativamente accresciuto il proprio ruolo di controllo in funzione di garanzia. È un fenomeno in contraddizione con la tendenza generale dei
regimi parlamentari, nel corso del secondo dopoguerra, nei quali l’ascesa del governo ha significato anche l’accresciuta influenza del
capo del governo in relazione al capo dello stato, presidente o monarca (Fabbrini e Vassallo).
Le ragioni di questo fenomeno sono da individuarsi nell’instabilità del quadro politico (Lippolis e Pitruzzella). Il presidente della repubblica italiana, infatti, può essere definito il supremo regolatore del
sistema costituzionale. Egli vigila ed opera affinché tale sistema funzioni nel senso voluto dalla costituzione. Ma lo spettro della sua
azione può essere molto ampio. Giustamente si è parlato di un suo
ruolo “a fisarmonica” destinato a restringersi in presenza di corretti
rapporti tra maggioranza e opposizione e di una maggioranza coesa
che esprime un governo stabile ed un indirizzo politico omogeneo,
mentre è destinato ad allargarsi nella situazione opposta. Le caratteristiche del bipolarismo conflittuale, la rissosità e la fragilità interna alle
coalizioni e la mancata legittimazione reciproca dei due poli, hanno
invece esaltato il ruolo del Presidente e lo hanno portato ad ampliare
la sua sfera di intervento e a svolgere la sua azione di “moderazione”
ed “intermediazione politica” (Baldassarre) anche con modalità sconosciute in passato. Insomma è stata confermata la regola che la turbolenza del sistema politico chiama in campo la figura del presidente.
In una situazione nella quale gli opposti poli contestano finanche l’aderenza ai valori costituzionali e la stessa democraticità della parte avversa, il presidente è divenuto l’istanza di riferimento dell’opposizione di turno contro vere o presunte violazioni di principi costituzionali ad opera della maggioranza. Il presidente è cioè divenuto per
l’opposizione la garanzia più immediata contro la tirannia (incostituzionale) della maggioranza e come tale chiamato in causa.
Il potere di rinvio delle leggi è stato al centro di questo passaggio. Ma per evitare, o comunque contenere, il ricorso ad un intervento così incisivo, più spesso i presidenti hanno fatto uso del loro
potere di moral suasion per indurre informalmente la maggioranza a
modificare progetti di legge all’esame delle camere, in particolare al
30
IL FILANGIERI - QUADERNO 2010
fine di eliminare aspetti valutati incostituzionali. Infine, è stata forgiata la nuova figura della “promulgazione dissenziente” o “con riserva”, allorché il capo dello stato nel promulgare una legge ne ha
evidenziato criticità, sottolineando anche l’opportunità di successivi
interventi correttivi.
Anche la decretazione d’urgenza non è sfuggita al penetrante
controllo presidenziale, con la richiesta di modifiche a decreti adottati dal consiglio dei ministri e con l’episodio del rifiuto di emanazione del decreto sul fine vita, relativo alla vicenda Englaro. Come è
stato osservato (Salerno), l’esperienza costituzionale dimostra che in
determinate circostanza il potere tende a concentrarsi nelle mani del
presidente della repubblica quando questi risulti capace di agire in
modo più efficace del governo, anche ricorrendo al prestigio e all’autorità connessi alla sua carica.
A questi interventi nel campo della normazione si deve aggiungere un’utilizzazione del potere di esternazione che spesso incide sul
terreno dell’indirizzo politico un tempo ritenuto riservato al raccordo governo-parlamento e tocca anche importanti aspetti di politica estera.
In definitiva, in questi anni il governo e la sua maggioranza
hanno trovato limiti e condizionamenti significativi alla loro azione
nel capo dello stato. Ai fini di questa indagine quel che rileva è registrare questo dato, non essendo certo questa la sede per una valutazione analitica della fondatezza di tali interventi presidenziali, che,
comunque, vengono di norma motivati da esigenze di tutela di valori
costituzionali.
Mi interessa invece sottolineare un altro aspetto attinente al rapporto presidente-governo. Esso si è modellato nella maniera descritta
in un arco temporale nel quale nella maggior parte del tempo il capo
dello stato proveniva da uno schieramento politico diverso da quello
governativo e non è stato un leader di partito. Come evolverà il sistema ove queste due condizioni dovessero venir meno? È un’analisi
che esce dall’ambito di questo scritto, ma che andrebbe approfondita
perché ove una tale eventualità si verificasse il nostro regime politico
potrebbe mutare profondamente anche a costituzione invariata.
Lascio per ultimo un elemento non istituzionale, ma che si conferma decisivo per la definizione della posizione dell’esecutivo nell’equilibrio istituzionale: la fragilità della base politico-partitica dei go-
VINCENZO LIPPOLIS
31
verni. La frammentazione, la mancanza di omogeneità delle coalizioni governative e, perfino, degli stessi partiti al loro interno, rimane
il freno che oppone la maggiore resistenza al dispiegarsi dei poteri
governativi.
Sia per questo elemento di natura politica, sia perché non si è
realizzato un consolidamento a livello di disciplina costituzionale dei
fattori di rafforzamento dell’istituzione governo, si può concludere
che, se la sua centralità appare chiaramente delineata, nondimeno
essa non ha ancora assunto contorni del tutto definiti.
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