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Appunti sull`affidamento degli incarichi legali delle pubbliche

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Appunti sull`affidamento degli incarichi legali delle pubbliche
Opinioni
Appalti e lavori pubblici
Servizi legali
Appunti sull’affidamento degli
incarichi legali delle pubbliche
amministrazioni: competenza,
procedimento, forma
di Giuseppe Manfredi
Lo scritto di occupa della competenza, della procedura e della forma previste per l’affidamento degli incarichi legali da parte delle pubbliche amministrazioni, cercando di risolvere alcuni dei problemi sorti in proposito negli scorsi anni.
L’aneddotica forense sugli incarichi
delle amministrazioni
Negli ambienti forensi l’aneddotica sull’affidamento
da parte delle pubbliche amministrazioni di quelli
che comunemente vengono definiti incarichi legali
(ossia gli incarichi di rappresentanza e difesa in giudizio, di consulenza legale e di assistenza legale stragiudiziale) (1) negli ultimi tempi è particolarmente
nutrita.
Ad esempio, vi è chi racconta di avere ricevuto da
parte di amministrazioni con cui non aveva mai
avuto alcun contatto, e che hanno sede in zone del
paese lontane dal foro in cui esercita, lettere con
cui veniva sollecitato a presentare offerte per l’affidamento di questo o di quell’incarico: ma che le
sue richieste telefoniche di informazioni sulla ragione per cui era stato contattato erano state accolte
con sorpresa o con imbarazzo da parte dei funzionari dell’amministrazione da cui veniva la sollecitazione.
A voler pensar male si potrebbe immaginare che in
questi casi l’ente volesse incaricare un legale di propria fiducia, ma, ritenendo di essere obbligato a
svolgere una procedura comparativa, avesse interpellato anche altri professionisti: scegliendoli però
tra soggetti che difficilmente avrebbero presentato
un’offerta.
Altri invece racconta che i funzionari di un ente
che intendeva incaricarlo di redigere un parere legale pretendevano di fargli sottoscrivere un discipli-
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nare in cui si prevedeva l’impegno a recarsi per la
durata dell’incarico almeno una volta alla settimana presso l’ufficio tecnico dell’ente a riferire degli
sviluppi della pratica - secondo una variante dell’aneddoto, il disciplinare prevedeva l’impegno a recarsi periodicamente in un non meglio precisato
cantiere.
Qui, presumibilmente, i funzionari, non sapendo
come redigere un contratto inerente le prestazioni
di un avvocato, credevano di poter impiegare schemi contrattuali pensati per le prestazioni di ingegneri o di architetti.
E molti lamentano di essere stati costretti, per poter
riscuotere una parcella, a richiedere all’Inps e all’Inail il DURC, il documento unico di regolarità
contributiva, pur non avendo dipendenti e pur non
essendo iscritti di persona alle relative gestioni previdenziali - com’è ovvio, dato che gli avvocati del
libero foro sono iscritti alla Cassa forense.
Tutti questi episodi rivelano che la materia è oggetto di sempre maggiori incertezze: le quali, come si
vedrà, sono dovute al fatto che essa si è trovata al
crocevia tra discipline settoriali che negli ultimi
tempi sono state oggetto di mutamenti di rilievo, e
che in certi casi sono ancora lungi dall’essersi assestate, quali quella dell’organizzazione amministratiNota:
(1) Secondo la tripartizione delle attività svolte dagli avvocati
che da ultimo si evince dall’art. 2 della L. n. 247/2012, che reca
la nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense.
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Opinioni
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va, quella dei contratti pubblici, quella della disciplina delle professioni.
La competenza
Il primo punto su cui appare opportuno un chiarimento è quello della competenza a provvedere in
materia.
Regola generale è che questa competenza esula dalle funzioni di indirizzo politico-amministrativo, e
che quindi essa non può che spettare agli organi
burocratici, in forza della distinzione tra politica e
amministrazione sancita in passato dall’art. 3 del
D.Lgs. n. 29 del 1993, e ora dall’art. 4 del testo unico sul lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni n. 165 del 2001 (2).
E infatti la lett. f) dell’art. 16 del medesimo testo
unico prevede espressamente che nei compiti dei
dirigenti rientra anche quello di promuovere e di
resistere alle liti, di conciliarle e di transigerle.
La questione sembra però più complessa negli enti
locali.
Consultando qualsiasi rassegna di giurisprudenza ci si
rende conto che negli ultimi due decenni i giudici
civili e amministrativi sono stati occupati soprattutto
a esplorare le ricadute sulla questione dei mutamenti
della forma di governo delle autonomie locali.
Come noto, sulla base del testo unico della legge
comunale e provinciale ex R.D. n. 383 del 1934
Comuni e Province si connotavano per una forma
di governo di tipo assembleare; il testo originario
della L. n. 142 del 1990 aveva invece disegnato
una forma di governo di tipo parlamentare: che la
L. n. 81 del 1993 ha poi sostituito con un assetto
che presenta diversi tratti del presidenzialismo (3).
Ora, l’art.52 del testo unico della legge comunale e
provinciale prevedeva che è il Sindaco che «sta in
giudizio, per il comune, sia come attore, sia come
convenuto»: mentre nel comma 2 dell’art.36 della
legge 142 si prevedeva che «il sindaco e il presidente della provincia rappresentano l’ente», e questa
clausola è stata riprodotta senza variazioni nel comma 2 dell’art. 50 del testo unico degli enti locali ex
D.Lgs. n. 267 del 2000.
Ma a fronte della forma di governo assembleare
prevista dal testo unico della legge comunale e provinciale sino agli anni ottanta dello scorso secolo la
giurisprudenza riteneva che le decisioni in ordine
alle liti spettassero al Consiglio, che dunque doveva
autorizzare il Sindaco a stare in giudizio: in sostanza, per quanto qui interessa il Sindaco doveva limitarsi a dare esecuzione ai deliberati dell’organo rappresentativo.
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Con la sentenza n. 11064 del 1992 le Sezioni Unite
della Cassazione avevano poi affermato che in base
al testo originario della legge 142 «l’organo generale di amministrazione» era divenuto la Giunta, perché «che ad essa sia attribuita la competenza in materia di liti attive e passive è ... un corollario ‘‘naturale’’ dell’evoluzione legislativa concretatasi nel
nuovo ordinamento degli enti locali».
Di conserva la deliberazione della Giunta di autorizzazione del Sindaco costituiva «condizione d’efficacia della costituzione in giudizio degli enti pubblici, i quali, quindi, in caso di suo mancato rilascio, sono privi della capacità processuale (legitimatio ad processum). In particolare, il Sindaco, il quale
ha la rappresentanza processuale del Comune, per
proporre il ricorso per cassazione e conferire a tale
scopo la procura speciale all’avvocato, deve essere
autorizzato con deliberazione della Giunta Municipale, essendo questa la titolare della potestà di decidere se l’impugnazione sia o non opportuna» (4).
Le implicazioni del mutamento della forma di governo del 1993 sono state considerate dalle Sezioni
Unite nel decennio successivo, in particolare nella
sentenza n. 17550 del 2002, in cui si è affermato
che l’autorizzazione della Giunta municipale non è
più necessaria, perché «al Sindaco è attribuita la
rappresentanza dell’Ente, mentre la Giunta comunale ha una competenza residuale, sussistente cioè
soltanto nei limiti in cui norme legislative o statutarie non la riservino al Sindaco» (5).
Invece, nonostante le sollecitazioni che venivano
dalla dottrina (6), la giurisprudenza - probabilmente perché era concentrata sul problema dei rapporti
Note:
(2) Nell’ampia letteratura in proposito v. almeno le trattazioni
monografiche di G. Gardini, L’imparzialità amministrativa tra indirizzo e gestione. Organizzazione e ruolo della dirigenza pubblica
nell’amministrazione contemporanea, Milano, 2003, e di P. Forte, Il principio di distinzione tra politica e amministrazione, Torino, 2005, nonché, riassuntivamente, S. Battini, Il principio di separazione tra politica e amministrazione in Italia: un bilancio, in
Riv. Trim. Dir. Pubbl., 2012, 39 ss.
(3) V., per tutti, L. Vandelli, Il sistema delle autonomie locali, Bologna, 2004, 120 ss., Id., Sindaci e miti, Bologna, 1997, 13 ss. e
passim, G. Vesperini, I poteri locali, Roma, 1999, 251 ss., G.
Baldini, La prima prova del modello neoparlamentare: il governo
delle città italiane nel decennio 1993-2002, in S. Ceccanti, S.
Vassallo (a cura di), Come chiudere la transizione. Cambiamento, apprendimento e adattamento nel sistema politico italiano,
Bologna, 2004, 151 ss.
(4) Cass. civ., Sez. Un., n. 1325/1996.
(5) Cfr. P. Sabbioni, Commento all’art.50, in C. Napoli, N. Pignatelli (a cura di), Codice degli enti locali, Roma, 2012, 559 ss.
(6) Ad es., da L. Vandelli, Ordinamento delle autonomie locali.
1990-2000, dieci anni di riforme. Commento alla legge 8 giugno
1990, n. 142, Rimini, 2000, 894.
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tra gli organi di governo - per lungo tempo non
sembra essersi interessata delle implicazioni della
distinzione tra politica e amministrazione.
Nella giurisprudenza della Cassazione il problema è
stato affrontato per la prima volta nella sentenza n.
4845/2002 della I Sezione, che ha sostenuto che
«la regola secondo cui i dirigenti di uffici dirigenziali generali promuovono e resistono alle liti ed
hanno il potere di conciliare e di transigere non
trova diretta applicazione nei confronti di un Comune, in mancanza di adeguamento del suo statuto
o regolamento alla regola medesima».
In sostanza: l’art.16 del testo unico n. 165 del 2001
non può trovare applicazione negli enti locali sino
a quando essi non provvedono all’adeguamento dei
propri ordinamenti previsto dall’art. 27 del medesimo T.U. (7).
A questa stregua però non si considera che la distinzione tra politica e amministrazione vige nell’ordinamento delle autonomie locali anche a prescindere dall’applicabilità del D.Lgs. 165, in forza dell’art. 107 del testo unico degli enti locali n. 267/
2000, che (riprendendo i contenuti dell’art. 51 della L. n. 142 del 1990), attribuisce ai dirigenti «tutti
i compiti, compresa l’adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, non ricompresi espressamente
dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo
e controllo politico-amministrativo degli organi di
governo dell’ente o non rientranti tra le funzioni
del segretario o del direttore generale», non esclusa
«la stipulazione dei contratti».
Nella sentenza n. 1949 del 2003 della III Sezione la
Cassazione ha però sostenuto che la rappresentanza
in giudizio dell’ente rientra fra le eccezioni indicate
in questa disposizione, mercé la clausola del comma
2 dell’art.50 del T.U. 267, la quale, come s’è detto,
prevede che «il sindaco e il presidente della provincia rappresentano l’ente».
E ciò in base all’assunto che in forza di questa
clausola sarebbe «palese, come del resto assolutamente incontroverso nel vigore della legge 8 giugno 1990, n. 142 (il cui art. 36 prevedeva, al primo comma, ‘‘il sindaco e il presidente della provincia rappresentano l’ente’’), e come non si era
mai dubitato - del resto - anche vigente la legge
comunale e provinciale del 1934, che solo il sindaco ... può agire in giudizio, in nome e per conto
del Comune».
La sentenza n. 1949 si spinge poi addirittura a sostenere che tale regola non sarebbe derogabile né
dai regolamenti comunali, e neppure dagli statuti.
Affermazione quest’ultima che viene però corretta
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due anni dopo dalle Sezioni Unite, nella sentenza
n. 12868 del 2005.
Questa pronunzia coglie correttamente le implicazioni della riforma costituzionale del 2001, e, in
particolare, quelle del nuovo testo dell’art. 114
Cost. e dell’art. 4 della legge cd. ‘‘La Loggia’’ n.
131 del 2003 - secondo cui gli Statuti degli enti locali sono vincolati solo al rispetto della Costituzione e dei ‘‘principi generali in materia di organizzazione pubblica’’ -, e pertanto giunge alla conclusione che riguardo all’organizzazione dell’ente locale
gli statuti possono senz’altro derogare alle previsioni
legislative di dettaglio, non escluse quelle del T.U.
n. 267 del 2000 (8).
E cosı̀ afferma che gli statuti possono senz’altro prevedere che ai dirigenti o ai responsabili dei servizi
spetti anche la rappresentanza in giudizio dell’ente
locale.
Al di fuori di questa ipotesi, la giurisprudenza sembra però tuttora convinta che la rappresentanza in
giudizio competa sempre al Sindaco: anche se da
ultimo non mancano alcuni distinguo.
Ad esempio, nella recente sentenza n. 730 del
2012 della V Sezione del Consiglio di Stato si sostiene che «il rappresentante legale dell’ente manifesta la volontà di costituirsi in un eventuale giudizio, ma non può anche provvedere (né lui né la
Giunta) alla nomina del difensore né interno, cosa
che compete sicuramente al capo dell’ufficio legale,
né esterno, vicenda che si articola, innanzitutto, in
una dichiarazione che sussistono nella specie elementi per poter affidare la difesa tecnica all’esterno
ad opera dell’ufficio legale e successiva nomina del
difensore del libero foro, che compete necessariamente al capo dell’Ufficio legale, trattandosi, niente di più e niente di meno, di un vero e proprio
contratto di prestazione intellettuale, ricadente come tale nelle attività gestionali di competenza dei
dirigenti della Amministrazione».
A questa stregua parrebbe intendersi che spetta al
dirigente o al funzionario responsabile dell’ufficio
legale (o dell’ufficio a cui lo statuto o i regolamenti
Note:
(7) «Le regioni a statuto ordinario, nell’esercizio della propria potestà statutaria, legislativa e regolamentare, e le altre pubbliche
amministrazioni, nell’esercizio della propria potestà statutaria e
regolamentare, adeguano ai principi dell’articolo 4 e del presente capo i propri ordinamenti, tenendo conto delle relative peculiarità. Gli enti pubblici non economici nazionali si adeguano, anche in deroga alle speciali disposizioni di legge che li disciplinano, adottando appositi regolamenti di organizzazione».
(8) V., per tutti, G. Parodi, Le fonti del diritto. Linee evolutive,
Milano, 2012, 361 ss., R. Bin, G. Pitruzzella, Le fonti del diritto,
Torino, 2009, 210 ss. e la dottrina ivi citata.
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attribuiscono la competenza sul contenzioso dell’ente) decidere se agire o resistere in giudizio, e
scegliere il difensore, mentre al Sindaco spetta solo
la sottoscrizione della procura al difensore.
Sicché i dirigenti dell’ente finiscono per giocare il
ruolo di decisore sostanziale che sino a un recente
passato spettava alla Giunta, e in un passato più remoto al Consiglio.
Va però detto che anche l’idea che la rappresentanza in giudizio competa al Sindaco in tutti i casi in
cui gli statuti non dispongono diversamente prima
o poi potrebbe essere rimessa in discussione - anche
se essa è estremamente radicata nel diritto vivente:
sicché se la giurisprudenza volesse abbandonarla
con tutta probabilità dovrebbe applicare le cautele
che di recente sono state elaborate per i casi di
overruling.
La lettura del comma 2 dell’art. 50 del TUEL del
2000 di cui s’è detto sembra infatti in certa misura
condizionata dagli schemi tramite i quali veniva interpretato l’art. 52 della legge comunale e provinciale del 1934.
Ma la clausola odierna in tema di rappresentanza
dell’ente locale («il sindaco e il presidente della
provincia rappresentano l’ente») è letteralmente diversa da quella del 1934, dato che è venuto meno
il riferimento testuale alla rappresentanza in giudizio.
Inoltre l’art.50 del T.U. del 2000, al pari di ogni disposizione del nostro ordinamento, va interpretato
in modo sistematico ed evolutivo: e, quindi, va letto alla luce delle altre disposizioni dell’ordinamento, e la sua lettura è suscettibile di modificarsi al
mutare di queste disposizioni.
Ora, la clausola sulla rappresentanza dettata dall’art.
52 del R.D. n. 383 del 1934 si inseriva in un contesto in cui al Sindaco venivano attribuite tutte le
competenze gestionali dell’ente, non esclusa l’emanazione dei provvedimenti puntuali e la stipula dei
contratti (9).
Invece nell’odierno contesto ordinamentale tutte le
competenze di questo tipo pertengono senz’altro
agli organi burocratici.
Ecco dunque perché, già mentre era vigente la legge 142, attenta dottrina aveva rilevato che «dalla
previsione dell’elezione diretta del sindaco, e, soprattutto, dal consolidarsi della distinzione tra governo e gestione con conseguente mutamento del
ruolo e dei compiti dei dirigenti, alla nuova formulazione dell’art. 51, comma 3, L. n. 142 del 1990,
in base al quale ai dirigenti spettano tutti i compiti
che la legge e lo statuto non riservino agli organi di
governo, compresa l’adozione di atti che ‘‘impegna-
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no l’amministrazione verso l’esterno’’, emerge il superamento del principio dell’unitarietà della rappresentanza dell’ente, occorrendo distinguere gli atti in
relazione alla natura delle funzioni esercitate: il sindaco continua a rappresentare il comune, ma solo
per quanto attiene le funzioni di indirizzo e controllo» (10).
In ottica sistematica ed evolutiva l’art.50 del testo
unico potrebbe dunque essere letto nel senso che al
Sindaco spetta solo la rappresentanza cosiddetta
istituzionale, o politica: ma non la rappresentanza
legale, neppure per quanto riguarda i giudizi dell’ente (11).
Fermo però restando che l’ultima parola in materia
spetta senz’altro allo statuto dell’ente, perché le
scelte del legislatore ordinario sulla rappresentanza
legale (quali che siano) senz’altro non attengono ai
«principi generali in materia di organizzazione pubblica», e quindi possono essere derogate in via statutaria.
Non va poi dimenticato che, comunque, anche
aderendo all’orientamento della Cassazione non pare che possa revocarsi in dubbio che gli incarichi
legali di consulenza e di assistenza stragiudiziale
rientrano senz’altro nelle competenze degli organi
burocratici.
Qui infatti non entra in gioco la rappresentanza
Note:
(9) Il testo originario dell’art. 52 del R.D. n. 383/1934 recitava:
«Il podestà: 18 rappresenta il comune, ne firma gli atti ed assiste
agli incanti; 28 sovrintende a tutti gli uffici ed istituzioni comunali; 38 sta in giudizio, per il comune, sia come attore, sia come
convenuto; 48 promuove gli atti conservatori dei diritti del comune; 58 convoca e presiede la consulta municipale, stabilendo gli
affari da trattarsi nelle singole adunanze; 68 conclude e stipula i
contratti comunali; 78 veglia al regolare andamento dei servizi
municipali; 88 attende alle operazioni censuarie secondo il disposto delle leggi; 98 provvede all’osservanza dei regolamenti; 108
forma i ruoli dei tributi e delle entrate patrimoniali del comune;
118 esercita le attribuzioni commessegli dalla legge in materia di
leva e cura sotto la propria responsabilità l’esatto adempimento
delle relative operazioni; 128 provvede alla compilazione e all’aggiornamento dei documenti relativi alla precettazione e requisizione di quadrupedi e veicoli; 138 dichiara, a norma delle disposizioni vigenti, i prezzi delle vetture di piazza, delle barche e degli
altri veicoli di servizio pubblico permanente interno; 148 dichiara
i prezzi delle prestazioni d’opera dei servitori di piazza, fattorini e
simili, quando non vi sia una particolare convenzione; 158 rilascia
attestati di notorietà pubblica, stati di famiglia, certificati di povertà ed altre attestazioni comunali. La firma del podestà, quando tali atti debbano prodursi fuori della circoscrizione della provincia, deve essere legalizzata dal prefetto».
(10) M. Sica, Sindaco, voce in Dig. Disc. Pubbl., XIV, Torino,
1999, 255.
(11) Su queste due nozioni v. L. Giovenco, A. Romano, L’ordinamento comunale, Milano, 1994, 645 s., G. Griffini, R. Maccapani, Commento all’art.12, in V. Italia, M. Bassani (a cura di), L’elezione diretta del Sindaco. Commento alla legge 25 marzo 1993,
n. 81, Milano, 1993, 290 s.
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dell’ente, dato che piuttosto si tratta solo di stipulare uno di quei contratti che l’art. 107 del TUEL attribuisce senz’altro alla competenza dirigenziale.
Il procedimento
Il secondo punto che merita alcuni chiarimenti è
quello della obbligatorietà o meno di un qualche tipo di procedura comparativa per la scelta del legale.
Negli ultimi anni si è infatti ampiamente diffusa la
prassi di assoggettare a procedure siffatte l’affidamento di tutti gli incarichi in parola, non esclusi
quelli di rappresentanza e difesa in giudizio.
Va detto incidentalmente che qui l’applicazione del
principio di concorsualità non è scevra da difficoltà.
Per scegliere tra diversi avvocati concorrenti i regolamenti di molte amministrazioni prevedono la valutazione dei rispettivi curricula: solo che i dati che
vengono riportati in questi documenti difficilmente
possono servire per accertare l’effettiva competenza
di un legale.
A tal fine paiono ad esempio scarsamente adeguate
le pubblicazioni: come ognun sa, è facile vedere
pubblicati anche scritti non eccelsi (e la situazione
non è certo migliorata dopo la proliferazione delle
riviste on line), né si può pretendere che gli uffici di
un’amministrazione si avventurino in valutazioni
sulla qualità delle pubblicazioni che spesso mettono
in difficoltà anche le commissioni dei concorsi universitari.
Vero è che esiste almeno un sistema di classificazione delle riviste, cartacee e on line, che dovrebbe dare garanzie sulla serietà degli scritti che vi sono ospitati: è quello dell’Anvur, l’Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca,
che ha classificato anche le riviste giuridiche in diverse fasce a seconda della rilevanza scientifica.
È ovvio però che il valore scientifico di uno scritto
non vale automaticamente a dimostrare che il suo
autore ha un’effettiva competenza in tema di prestazioni di consulenza o di difesa giudiziale: magari
perché (restando nel settore del diritto pubblico) si
tratta di uno studio sugli amministrativisti preorlandiani, o sull’applicazione del Freedom of information
act negli Stati Uniti, che sono sı̀ temi di sicuro interesse scientifico, ma non hanno nessuna diretta
attinenza all’applicazione degli istituti del nostro diritto positivo.
Non pare poi che la questione possa essere facilmente risolta neppure prendendo in considerazione
il possesso di titoli accademici, la partecipazione a
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corsi di specializzazione, et similia: a questa stregua
dovrebbero risultare sempre vincitori gli avvocati
che sono anche docenti universitari di ruolo a tempo definito - e i professori di prima fascia dovrebbero sempre prevalere su quelli di seconda fascia, i
quali a loro volta dovrebbero prevalere sui professori aggregati.
Ma è innegabile che vi sono ottimi avvocati che
non si sono mai dedicati alla carriera accademica,
non hanno mai frequentato master, e non hanno
mai pubblicato alcunché.
Forse a tal fine potrebbero avere una qualche utilità
i titoli di specializzazione forensi, di cui si è preso a
discutere da qualche tempo: ma allo stato il Regolamento per il riconoscimento del titolo di avvocato specialista che era stato approvato dal Consiglio nazionale forense nel 2010 è stato dichiarato nullo dal
TAR Lazio (12), e le norme in tema di specializzazioni dettate dall’art. 9 della L. n. 247 del 2012
non sono ancora state attuate - senza poi considerare che se esse fossero attuate probabilmente ci si
troverebbe di fronte al problema di dover scegliere
tra più avvocati ugualmente specializzati, e tra questi e i docenti universitari di prima, di seconda fascia, etc.
Ma soprattutto i curricula possono documentare
punto o poco le attività di consulenza, assistenza e
difesa che il professionista ha svolto in passato, e,
quindi, la sua esperienza: per tacer d’altro, perché
l’art. 17 del vigente Codice deontologico forense
vieta all’avvocato di «rivelare al pubblico i nomi
dei propri clienti, ancorché questi vi consentano».
Non pare dunque casuale che molte amministrazioni per decidere tra più offerte concorrenti preferiscano fare ricorso tout court al criterio del prezzo più
basso.
È ovvio però che l’impiego di questo criterio non
vale a garantire che l’ente riceva prestazioni di qualità adeguata, perché nulla vieta che a questa stregua finiscano per risultare preferiti legali che non
hanno esperienza nel settore a cui afferiscono le
prestazioni richieste dall’ente, oppure che (invece
di comportarsi come certi avvocati di cui raccontava Calamandrei) (13), non hanno remore a offrire
Note:
(12) In proposito sia permesso rinviare al mio L’attività normativa degli ordini professionali incontra il principio di legalità, in Foro Amm. TAR, 2011, 3297 ss.
(13) «Alla fine di un giorno ozioso, in cui nessun cliente era venuto a bussare alla sua porta, l’avvocato uscı̀ dallo studio fregandosi le mani con aria felice, e disse ‘‘buona giornata: nessuno è
venuto a chiedermi di anticipargli le spese’’», P. Calamandrei,
Elogio dei giudici scritto da un avvocato, Milano, 2012, 130.
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prezzi bassissimi, magari per finalità di accaparramento di clientela, senza avere tempo o voglia di
impegnarsi seriamente a tutela dell’ente - d’altro
canto gli incarichi legali che vengono assegnati più
di frequente riguardano la difesa nei giudizi amministrativi ove vengono impugnati i provvedimenti
emanati dall’amministrazione: ossia un’attività che
ben difficilmente può essere fonte di responsabilità
professionale, dato che l’amministrazione resistente
per lo più non ha l’onere di sollevare eccezioni in
senso proprio.
Vi è dunque ragione di dubitare che qui la concorsualità possa condurre a risultati migliori di quelli
che vengono dalla scelta dei legali intuitu personae:
e dunque che possa adempiere a quella funzione di
«emulare e riprodurre le dinamiche del mercato» (14), che dovrebbe connotare le aste pubbliche.
Lasciando però da parte questo genere di considerazioni, va detto che le prassi in parola si ricollegano
a orientamenti giurisprudenziali che vogliono basarsi o sulle norme che negli ultimi anni, soprattutto
per ragioni di contenimento della spesa pubblica
(oltre che di moralizzazione), hanno inteso limitare
il ricorso da parte delle amministrazioni agli incarichi esterni, oppure su quelle del codice dei contratti pubblici.
Le prime si rinvengono nell’art. 7 del D.Lgs. n. 165
del 2001.
Il testo originario di questa disposizione si limitava
a riprendere la formula del comma 6 dell’art. 7 del
D.Lgs. n. 29/1993 («ove non siano disponibili figure professionali equivalenti, le amministrazioni pubbliche possono conferire incarichi individuali ad
esperti di provata competenza, determinando preventivamente durata, luogo, oggetto e compenso
della collaborazione»), ma negli ultimi anni essa è
stata oggetto di ripetute modifiche e interpolazioni
al fine di perseguire gli intenti di moralizzazione e
di contenimento di spesa cui s’è appena detto, sino
a divenire decisamente pletorica e sovrabbondante (15).
In esito a una di queste modifiche il comma 6-bis
prevede che «le amministrazioni pubbliche disciplinano e rendono pubbliche, secondo i propri ordinamenti, procedure comparative per il conferimento
degli incarichi di collaborazione».
Ora, diverse pronunzie della Corte dei conti affermano che gli incarichi di consulenza legale sarebbero riconducibili agli ‘‘incarichi di collaborazione’’
che sono oggetto di questa disciplina, e che anch’essi potrebbero essere affidati solo in esito a una
procedura comparativa (16).
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Si tratta però di una conclusione opinabile.
Nell’art. 7 vi sono vari dati testuali che inducono a
dubitare che questa disposizione possa essere applicata anche alle consulenze legali: ad esempio, la
formula della lettera c), secondo cui «l’eventuale
proroga dell’incarico originario è consentita, in via
Note:
(14) M. Cafagno, Lo Stato banditore, Milano, 2001, 122 - a cui si
deve un’ampia ed esaustiva trattazione della funzione delle aste
anche dal punto di vista dell’analisi economica. Sui benefici dell’attuazione o meno della concorsualità in tema di contratti pubblici cfr. almeno anche G. D. Comporti, Lo Stato in gara: note
sui profili evolutivi di un modello, in Dir. Econ., 2007, 231 ss.
(15) Sull’evoluzione di questa disciplina v., per tutti, G. Ricci, Gli
incarichi professionali e i rapporti di collaborazione nelle pubbliche amministrazioni, in Lav. P.A., 2008, 249 ss.
I commi 6 e seguenti dell’art. 7 ora dispongono: «Per esigenze
cui non possono far fronte con personale in servizio, le amministrazioni pubbliche possono conferire incarichi individuali, con
contratti di lavoro autonomo, di natura occasionale o coordinata
e continuativa, ad esperti di particolare e comprovata specializzazione anche universitaria, in presenza dei seguenti presupposti di legittimità: a) l’oggetto della prestazione deve corrispondere alle competenze attribuite dall’ordinamento all’amministrazione conferente, ad obiettivi e progetti specifici e determinati e
deve risultare coerente con le esigenze di funzionalità dell’amministrazione conferente; b) l’amministrazione deve avere preliminarmente accertato l’impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse umane disponibili al suo interno; c) la prestazione deve
essere di natura temporanea e altamente qualificata; non è ammesso il rinnovo; l’eventuale proroga dell’incarico originario è
consentita, in via eccezionale, al solo fine di completare il progetto e per ritardi non imputabili al collaboratore, ferma restando
la misura del compenso pattuito in sede di affidamento dell’incarico; d) devono essere preventivamente determinati durata,
luogo, oggetto e compenso della collaborazione. Si prescinde
dal requisito della comprovata specializzazione universitaria in
caso di stipulazione di contratti di collaborazione di natura occasionale o coordinata e continuativa per attività che debbano essere svolte da professionisti iscritti in ordini o albi o con soggetti
che operino nel campo dell’arte, dello spettacolo, dei mestieri
artigianali o dell’attività informatica nonché a supporto dell’attività didattica e di ricerca, per i servizi di orientamento, compreso
il collocamento, e di certificazione dei contratti di lavoro di cui al
D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, purché senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, ferma restando la necessità di accertare la maturata esperienza nel settore. Il ricorso
a contratti di collaborazione coordinata e continuativa per lo
svolgimento di funzioni ordinarie o l’utilizzo dei collaboratori come lavoratori subordinati è causa di responsabilità amministrativa per il dirigente che ha stipulato i contratti. Il secondo periodo
dell’art. 1, comma 9, del D.L. 12 luglio 2004, n. 168 convertito,
con modificazioni, dalla L. 30 luglio 2004, n. 191, è soppresso.
Si applicano le disposizioni previste dall’art. 36, comma 3, del
presente decreto. 6-bis. Le amministrazioni pubbliche disciplinano e rendono pubbliche, secondo i propri ordinamenti, procedure comparative per il conferimento degli incarichi di collaborazione. 6-ter. I regolamenti di cui all’art. 110, comma 6, del testo
unico di cui al D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, si adeguano ai
principi di cui al comma 6. 6-quater. Le disposizioni di cui ai
commi 6, 6-bis e 6-ter non si applicano ai componenti degli organismi di controllo interno e dei nuclei di valutazione, nonché
degli organismi operanti per le finalità di cui all’art. 1, comma 5,
della L. 17 maggio 1999, n. 144».
(16) V., in particolare, le sentenze Corte Conti, sez. autonomie,
14 marzo 2008; sez. Veneto, 14 gennaio 2009, che possono leggersi entrambe in www.corteconti.it.
Urbanistica e appalti 8-9/2013
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Appalti e lavori pubblici
eccezionale, al solo fine di completare il progetto e
per ritardi non imputabili al collaboratore», o quella della lettera d), per cui «devono essere preventivamente determinati durata, luogo, oggetto e compenso della collaborazione», che lasciano intendere
che il legislatore intende disciplinare contratti di
durata.
Ma quello che riguarda la redazione di un parere sicuramente non è tale - ovviamente dovrebbe giungersi a conclusioni diverse per gli incarichi con cui
si affida a un professionista un’attività di assistenza
o di consulenza non limitata a una singola questione, ma continuativa.
Ma non solo: a ben vedere si può ugualmente dubitare che l’attività di consulenza possa rientrare nella
nozione di ‘‘collaborazione’’ che vi viene enunciata,
perché la giurisprudenza della Cassazione che si è
occupata di definire il concetto al fine di determinare i confini della parasubordinazione ha rilevato
che non vi può rientrare ogni tipo di prestazione,
ma solo le attività che «implica(no), in caso di unicità dell’opus, una interazione fra le parti, dopo la
conclusione del contratto, non limitata ai momenti
dell’accettazione dell’opera e del versamento del
corrispettivo» (17).
Interazione che può verificarsi anche in numerose
attività che vengono svolte da liberi professionisti
(basti pensare agli incarichi di redazione degli strumenti urbanistici, i quali per lo più presuppongono
un’interazione tra i professionisti incaricati e l’ufficio tecnico comunale), ma che in genere manca
nelle singole prestazioni di consulenza legale, ove
l’avvocato si limita a redigere il parere richiestogli
nel proprio studio per poi trasmetterlo al cliente.
Invece la Corte dei conti in genere ha affermato
che dall’ambito di applicazione dell’art. 7 del
D.Lgs. 165 esulano gli incarichi di difesa in giudizio, dato che essi hanno natura affatto diversa rispetto a quella dell’attività di consulenza.
Ma alcune pronunzie del giudice contabile sostengono che «appare possibile ricondurre la rappresentanza/patrocinio legale nell’ambito dell’appalto di
servizi, dovendosi fare in generale riferimento alla
tipologia dei ‘‘servizi legali’’ di cui all’allegato II B
del D.Lgs. n. 163/2006, che costituisce, ai sensi dell’art. 20 del decreto, uno dei contratti d’appalto dei
servizi cosiddetti ‘‘esclusi’’, assoggettato alle sole
norme del codice dei contratti pubblici richiamate
dal predetto art. 20, nonché ai principi indicati dal
successivo art. 27 (trasparenza, efficacia, non discriminazione)» (18).
E cosı̀ anche qui rientra in gioco la concorsualità,
dato che l’art. 27 del codice dei contratti prevede
Urbanistica e appalti 8-9/2013
che «l’affidamento deve essere preceduto da invito
ad almeno cinque concorrenti, se compatibile con
l’oggetto del contratto».
Questa conclusione anche di recente è stata però
messa in discussione da parte di altre decisioni della
Corte dei conti, e, da ultimo, dal Consiglio di Stato.
In particolare, nella sentenza n. 2730 del 2012 la V
Sezione del Consiglio di Stato ha rilevato che sussiste una ‘‘differenza ontologica’’ tra il «singolo incarico di patrocinio legale, occasionato da puntuali
esigenze di difesa dell’ente locale», e «l’attività di
assistenza e consulenza giuridica, caratterizzata dalla
sussistenza di una specifica organizzazione, dalla
complessità dell’oggetto e dalla predeterminazione
della durata».
E, pertanto, ha affermato che tali diversità «consentono ... di concludere che, diversamente dall’incarico di consulenza e di assistenza a contenuto
complesso, inserito in un quadro articolato di attività professionali organizzate sulla base dei bisogni
dell’ente, il conferimento del singolo incarico episodico, legato alla necessità contingente, non costituisca appalto di servizi legali ma integri un contratto d’opera intellettuale che esula dalla disciplina
codicistica in materia di procedure di evidenza pubblica» (19).
Questa posizione è stata però criticata da alcuni
autori, principalmente sulla base di tre argomenti.
In primo luogo sostenendo che pure gli avvocati
rientrerebbero nella nozione di imprenditore ai sensi del comma 19 dell’art.3 del codice dei contratti
pubblici - «i termini ‘‘imprenditore’’, ‘‘fornitore’’ e
‘‘prestatore di servizi’’ designano una persona fisica,
o una persona giuridica, o un ente senza personalità
giuridica, ivi compreso il gruppo europeo di interesse economico (GEIE) costituito ai sensi del D.Lgs.
23 luglio 1991, n. 240, che offra sul mercato, rispettivamente, la realizzazione di lavori o opere, la fornitura di prodotti, la prestazione di servizi».
In secondo luogo, che anche il singolo incarico di
Note:
(17) Cosı̀ Cass. civ., sez. lav., n. 14722/1999.
(18) Corte Conti, sez. autonomie, 14 marzo 2008, cit.
(19) Questa sentenza è pubblicata in questa Rivista, 2012, 1181
ss., con una informatissima nota di C. Mucio, Legittimità dell’affidamento del patrocinio legale senza gara a cui si rinvia per
puntuali riferimenti giurisprudenziali e dottrinali, ricordando solo
che questa posizione del Consiglio di Stato è tutt’altro che isolata, dato che trova diversi precedenti in altre decisioni del medesimo organo (ad esempio, Cons. Stato, sez. IV, n. 263/2008), e
riprende alcuni dei contenuti della deliberazione n. 19 del 2009
della Sezione Regionale di Controllo per la Basilicata della Corte
dei conti, che può leggersi anch’essa in www.corteconti.it.
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Opinioni
Appalti e lavori pubblici
difesa in giudizio rientrerebbe comunque nella nozione di appalto mercé le definizioni dei servizi legali dettate dal CPV, il Common Procurement Vocabulary, o Vocabolario comune degli appalti, dettato
dal Regolamento CE 2195 del 2002 come modificato dal Regolamento 213/2007, perché esso contempla anche codici inerenti attività di difesa giudiziale, quale il codice QB32-2, ‘‘Per il diritto in
materia di recupero crediti’’, il codice QB18-0, ‘‘Per
la procedura di appello’’, et cetera (20).
In terzo luogo, che la riconducibilità della attività
di difesa giudiziale alla nozione di servizio presa in
considerazione dal codice dei contratti pubblici deriverebbe dalla definizione di servizio e di prestatore
di servizio sancita nell’art. 8 del D.Lgs. n. 59/2010,
attuativo della direttiva cd. Bolkenstein, 123 del
2006 - che per servizio intende «qualsiasi prestazione anche a carattere intellettuale svolta in forma
imprenditoriale o professionale, fornita senza vincolo di subordinazione e normalmente fornita dietro
retribuzione», e per prestatore «qualsiasi persona fisica avente la cittadinanza di uno Stato membro o
qualsiasi soggetto costituito conformemente al diritto di uno Stato membro o da esso disciplinato, a
prescindere dalla sua forma giuridica, stabilito in
uno Stato membro, che offre o fornisce un servizio» (21).
Detto incidentalmente, queste opinioni in definitiva sembrano accomunate dalla preoccupazione di
interpretare il diritto comunitario (o il diritto italiano che attua il diritto comunitario) magis ut valeat,
e quindi paiono ricollegarsi a quella deferenza nei
confronti di ogni manifestazione dei processi di integrazione europea che connota ampi settori della
nostra cultura giuridica (22).
Ma anche a prescindere da ciò, nessuno dei tre argomenti di cui s’è detto appare interamente convincente.
Cominciando dal richiamo alle definizioni del decreto attuativo della Direttiva Bolkenstein, pare abbastanza ovvio che non è corretto impiegare automaticamente e meccanicamente le definizioni di un
testo normativo che persegue l’obiettivo dell’integrazione del mercato interno dei servizi per interpretare le disposizioni di una disciplina di settore
che persegue finalità in parte diverse, quale il codice dei contratti pubblici.
E infatti l’art. 8 del D.Lgs. 59 si apre precisando
che le definizioni ivi esposte valgono ‘‘ai fini del
presente decreto’’.
Entrambi gli altri argomenti sembrano invece non
considerare un dato che non può essere superato
dai richiami al CPV, etc.: ossia che il codice dei
884
contratti pubblici non fornisce una definizione di
contratto di appalto diversa da quella che si rinviene nel diritto italiano.
E nel diritto italiano vigente contratto di appalto è
solo quello in cui sulla attività personale del prestatore prevale l’organizzazione aziendale (23).
In mancanza di tale prevalenza si rientra nell’ambito di applicazione della figura del contratto di lavoro autonomo: di cui il contratto di prestazione d’opera intellettuale come noto costituisce una species (24).
Il che, detto incidentalmente, vale anche a escludere che agli avvocati debba (o possa) essere richiesto
il DURC.
L’art. 1 del decreto del Ministero del lavoro e della
previdenza sociale del 24 ottobre 2007 prevede infatti che il documento unico di regolarità contributiva dev’essere richiesto «ai datori di lavoro ed ai
lavoratori autonomi nell’ambito delle procedure di
appalto di opere, servizi e forniture pubblici e nei
Note:
(20) Mi pare che questi primi due argomenti siano stati esposti
per la prima volta, a fronte della citata deliberazione della Sezione lucana della Corte dei conti, da L. Oliveri, Incarichi ad avvocati: sono servizi ex allegato IIB al Codice dei contratti. Non persuade il parere della Corte dei Conti, Sezione regionale di controllo per la Basilicata, secondo il quale si tratta di contratti totalmente esclusi, in www.lexitalia.it. In seguito sono stati ripresi
anche da G. Naimo, I servizi legali: nozione e cenni sulla disciplina di affidamento, in www. osservatorioappalti.unitn.it.
(21) Questa tesi viene prospettata ad es. da M. Nesi, Gli incarichi legali, incarichi fiduciari o incarichi clientelari?, in www.ambientediritto.it.
(22) Cfr. M. Cartabia, Cultura dei giuristi e processi di integrazione europea, in L. Paggi (a cura di), Un’altra Italia in un’altra Europa. Mercato e interesse nazionale, Roma, 2011, 98 ss. Peraltro
atteggiamenti siffatti talora hanno condotto anche a equivoci sugli obblighi derivanti dal diritto comunitario: tipicamente, nel caso dei servizi pubblici - v., in proposito, almeno le lucide considerazioni di F. Trimarchi Banfi, Procedure concorrenziali e regole
di concorrenza nel diritto dell’Unione e nella Costituzione (all’indomani della dichiarazione di illegittimità delle norme sulla gestione dei servizi pubblici economici), in Riv. It. Dir. Pub. Com.,
2012, 723 ss. Non può escludersi neppure che qui giochino un
ruolo anche le suggestioni che vengono dalla assimilazione dell’attività dei professionisti all’attività di impresa che ha ispirato
parte delle recenti riforme delle libere professioni di cui si dice
anche in seguito nel testo.
(23) V., per tutti, L. V. Moscarini, L’appalto nel codice civile e
nel codice dei contratti pubblici, in M.A. Sandulli, R. De Nictolis,
R. Garofoli (a cura di), Trattato sui contratti pubblici, Milano,
2008, I, 68 ss. Peraltro spingendo alle estreme conseguenze logiche le tesi - per cosı̀ dire ‘‘panappaltistiche’’ - di cui si dice nel
testo, si dovrebbe giungere alla conclusione che all’applicazione
del codice dei contratti pubblici non sfuggono neppure gli stessi
rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni.
(24) Per cui le definizioni del Common Procurement Vocabulary
in ordine all’attività di difesa giudiziale probabilmente sono destinate a essere impiegate solo laddove questa attività venga svolta tramite un’organizzazione di tipo aziendale.
Urbanistica e appalti 8-9/2013
Opinioni
Appalti e lavori pubblici
lavori privati dell’edilizia»: ma qui, come s’è appena visto, si esula dal contesto delle procedure di
appalto.
La forma
Non mancano poi perplessità anche in relazione ad
alcuni altri aspetti.
Innanzitutto per quanto riguarda la necessità o meno di una precisa quantificazione dei costi della
causa nell’atto di incarico: questione che si intreccia con quella dell’obbligo o meno per il professionista di fornire un preventivo dei suoi compensi
prima di ricevere l’incarico.
Ora, nell’ordinamento della contabilità pubblica è
regola generale che le spese possono essere effettuate solo se sussiste il previo impegno contabile: riguardo agli enti locali questa regola era posta già
nell’art. 284 della legge comunale e provinciale del
1934, e ora la si ritrova nell’art. 191 del T.U. n.
267/2000 (25).
E anche quando mancava un’espressa previsione in
tal senso (come quella che figurava nel testo originario del comma 5 dell’art.55 della L. n. 142 del
1990) (26), la giurisprudenza in genere è stata univoca nell’affermare la nullità degli atti che comportano impegni di spesa privi dell’attestazione della
copertura contabile.
Durante gli anni ottanta dello scorso secolo la giurisprudenza si era poi divisa in due orientamenti: il
primo affermava che la nullità dell’atto unilaterale
privo di attestazione si comunica al contratto stipulato in base a esso, mentre il secondo lo negava, in
base alla considerazione del rilievo meramente interno delle norme di contabilità pubblica.
Il contrasto è stato risolto dalle Sezioni Unite con
la sentenza n. 13831 del 2005, che ha affermato che
la nullità (o la mancanza) di tale atto «si riflette necessariamente sulla validità del contratto, perché la
volontà dell’ente non si può ritenere ritualmente
formata nella sede propria e, sul piano negoziale, il
contratto viene ad essere stipulato in contrasto con
una norma imperativa ... con le conseguenze di cui
all’art. 1418, primo comma, c.c.» (27).
Dopo questa pronunzia, la giurisprudenza è solita
affermare che in via generale l’atto di incarico di
un professionista è «valid(o) e vincolante nei confronti dell’ente soltanto se sia indicato l’importo
dovuto al professionista e se il relativo impegno di
spesa sia accompagnato dalla attestazione, da parte
del responsabile del servizio finanziario, della copertura finanziaria. L’inosservanza di tale disposizione
determina la nullità della delibera, che si estende al
Urbanistica e appalti 8-9/2013
contratto di prestazione d’opera professionale, comportando l’esclusione di qualsiasi responsabilità od
obbligazione dell’ente pubblico in ordine alle spese
assunte senza il suddetto adempimento» (28).
Peraltro il comma 4 dell’art. 191 del TUEL (riprendendo una regola che era stata dettata già dall’art.
23 del D.L. n. 66 del 1989) prevede che «nel caso
in cui vi è stata l’acquisizione di beni e servizi in
violazione dell’obbligo indicato nei commi 1, 2 e 3,
il rapporto obbligatorio intercorre, ai fini della controprestazione e per la parte non riconoscibile ai
sensi dell’art. 194, comma 1, lett. e), tra il privato
fornitore e l’amministratore, funzionario o dipendente che hanno consentito la fornitura. Per le esecuzioni reiterate o continuative detto effetto si
estende a coloro che hanno reso possibili le singole
prestazioni».
Sicché è dubbio pure che in tale ipotesi il professionista possa agire nei confronti dell’amministrazione
ex art. 2041 c.c., data la natura sussidiaria dell’azione di indebito arricchimento (29).
Note:
(25) Sull’impegno di spesa nell’ordinamento contabile in generale v., per tutti, A. Brancasi, L’ordinamento contabile, Torino,
2005, 261 ss. Sull’art. 191 del TUEL v. i commenti di M. Consito, in R. Cavallo Perin, A. Romano (a cura di), Commentario breve al testo unico sulle autonomie locali, Padova, 2006, 866 ss.,
e di F. Zotti, in V. Domenichelli (a cura di), L’ordinamento degli
enti locali, Bologna, 2002, 686 ss.
(26) «Gli impegni di spesa non possono essere assunti senza
attestazione della relativa copertura finanziaria da parte del responsabile del servizio finanziario. Senza tale attestazione l’atto
è nullo di diritto».
(27) A questo orientamento delle Sezioni Unite forse non sono
del tutto estranee neppure pulsioni extragiuridiche, date le esigenze di contenimento della spesa pubblica e di moralizzazione dell’azione amministrativa cui già s’è accennato nel testo.
In questa sede ovviamente non ci si può soffermare sulla questione dei rapporti tra gli atti unilaterali dell’evidenza pubblica e
il negozio di diritto privato, dato che essa ci porterebbe fin
troppo lontano: in proposito comunque non si possono non ricordare almeno le trattazioni monografiche di A. Bardusco, La
struttura dei contratti delle pubbliche amministrazioni. Atti amministrativi e negozio di diritto privato, Milano, 1974, e di G.
Greco, I contratti dell’amministrazione tra diritto pubblico e privato. I contratti ad evidenza pubblica, Milano, 1986, ed è quasi
inutile ricordare che da ultimo la questione è ridivenuta particolarmente attuale riguardo all’efficacia delle sentenze di annullamento dell’aggiudicazione sul contratto stipulato in esito alla
medesima aggiudicazione (problematica su cui si è formata
una letteratura molto ampia, ma v. almeno lo studio di S.S.
Scoca, Evidenza pubblica e contratto: profili sostanziali e processuali, Milano, 2008), e in relazione all’esercizio del potere
di revoca ex art. 21-quinquies, comma 1-bis - figura su cui sia
permesso rinviare al mio Revoca e modelli di tutela dell’affidamento nei commi 1-bis e 1-ter dell’art. 21-quinquies della legge n. 241 del 1990, in AA.VV., Il procedimento e le responsabilità, Padova, 2013, 301 ss.
(28) Cosı̀ Cass. civ., sez. III, n. 27406/2008.
(29) Tant’è che la Corte costituzionale nella sentenza n. 446/
(segue)
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Opinioni
Appalti e lavori pubblici
Ovvio dunque che questa regola e i suoi corollari
trovano applicazione anche agli incarichi di consulenza e di assistenza legale.
Il problema si pone invece in termini diversi per
quanto riguarda le prestazioni di difesa giudiziale.
Anche quando in via teorica si sia convinti che la
giurisprudenza abbia (o debba avere) natura dichiarativa anziché creativa, è difficile negare che in
concreto è tutt’altro che agevole prevedere l’esito
di un giudizio, ancora meno quale sarà il suo svolgimento e quale la sua durata, e men che meno (soprattutto in questi tempi di crisi economica) se la
parte vittoriosa avrà la possibilità di recuperare le
spese legali liquidate a suo favore - sempre che le
vengano liquidate, dato che è ampiamente noto
che soprattutto i giudici amministrativi impiegano
il potere di compensazione delle spese con molta
larghezza.
Del che sembra avere tenuto conto la giurisprudenza della Cassazione, la quale da tempo si è attestata
sull’affermazione che «la nullità disposta dalla legge
per la mancata previsione della spesa e della sua copertura non concerne anche le delibere relative alla
partecipazione a controversie giudiziarie, sia perché
è incerta l’incidenza del relativo onere economico
(che è condizionato alla soccombenza), sia perché,
nel bilancio dell’ente, è di norma presentare una
voce generale nella quale possono essere inserite le
prevedibili spese di lite» (30).
V’è però da chiedersi se la questione non vada rimessa in discussione dopo le recenti modifiche dell’ordinamento professionale forense.
All’inizio dello scorso anno il legislatore sembrava
infatti intenzionato a portare a termine il percorso
iniziato con il decreto-legge cd. Bersani n. 223 del
2006, che aveva eliminato l’obbligatorietà delle
tariffe professionali: nell’art.9 del D.L. cd. crescitalia 1 del 2012, dopo aver sancito nel primo
comma l’abrogazione delle ‘‘tariffe delle professioni regolamentate nel sistema ordinistico’’, aveva
previsto che «il compenso per le prestazioni professionali é pattuito, nelle forme previste dall’ordinamento, al momento del conferimento dell’incarico professionale», soggiungendo che «in ogni
caso la misura del compenso é previamente resa
nota al cliente con un preventivo di massima» (31).
Ma a fine anno per quanto qui interessa è intervenuta la legge di riforma della professione forense
247 del 2012, evidentemente ispirata da intenti in
parte diversi.
L’art.13 della legge 247 nel comma 2 dispone che
«il compenso spettante al professionista è pattuito
886
di regola per iscritto all’atto del conferimento dell’incarico professionale», e nel comma 5 che «il
professionista è tenuto, nel rispetto del principio di
trasparenza, a rendere noto al cliente il livello della
complessità dell’incarico, fornendo tutte le informazioni utili circa gli oneri ipotizzabili dal momento
del conferimento alla conclusione dell’incarico; a
richiesta è altresı̀ tenuto a comunicare in forma
scritta a colui che conferisce l’incarico professionale
la prevedibile misura del costo della prestazione, distinguendo fra oneri, spese, anche forfetarie, e compenso professionale».
Ma questo stesso articolo nel comma 6 prevede anche che «quando all’atto dell’incarico o successivamente il compenso non sia stato determinato in
forma scritta», e «in ogni caso di mancata determinazione consensuale», devono trovare applicazione
i parametri stabiliti con decreto del Ministro della
giustizia su proposta del Consiglio nazionale forense, i quali dovrebbero sostituire quelli dettati nel
D.M. n. 140 del 2012, attuativo della riforma di
qualche mese prima.
Sicché in base al testo complessivo dell’art. 13 sembrerebbe intendersi che l’inciso ‘‘di regola’’ viene ad
avere una valenza meramente ottativa - o, magari,
pone una di quelle norme che i romani avrebbero
definito imperfecta, perché priva di sanzione, e che
adesso magari verrebbe ricondotta a una qualche
forma di soft law.
Dato che il compenso dell’avvocato può anche non
essere pattuito anticipatamente, si è dunque tornati
al sistema anteriore al gennaio del 2012, quando le
tariffe forensi erano ancora vigenti, ma, posto che il
D.L. n. 223 del 2006 ne aveva eliminato la obbligaNote:
(segue nota 29)
1995, chiamata a pronunziarsi sulla legittimità dell’art. 23 del
D.L. n. 66, nel rigettare la questione di costituzionalità aveva però suggerito che in tale ipotesi «il contraente privato è legittimato, utendo iuribus del funzionario (o amministratore) suo debitore, ad agire contro la pubblica amministrazione - anche contestualmente alla proposizione della domanda per il pagamento
del prezzo nei confronti di costui - in via surrogatoria ex art.
2900 c.c. ‘‘per assicurare che siano soddisfatte o conservate le
sue ragioni’’ quando il patrimonio del funzionario (o amministratore) non offra adeguata garanzia»: ma sul punto si rinvia ai citati
commenti di M. Consito e di F. Zotti.
(30) Cass. civ., sez. I, n. 8646/1993. Questa affermazione viene
comunque ripresa anche nella giurisprudenza più recente: ad
es., in Cass. civ., sez. II, nn.13963/2006 e 8500/2004.
(31) Cfr., in proposito, tra gli altri, L. Minervini, La lunga agonia
delle tariffe professionali: tra spinte nazionali di liberalizzazione e
giurisprudenza della Corte di Giustizia, in Foro Amm. CdS, 2012,
2197 ss., e, in generale, sulle tendenze di riforma delle professioni, gli scritti pubblicati in G. Della Cananea (a cura di), Professioni e concorrenza, Milano, 2003, 3 ss.
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Appalti e lavori pubblici
torietà, erano destinate a trovare applicazione in
via sussidiaria, in mancanza di un diverso accordo
tra cliente e avvocato.
In sostanza dopo la legge 247 i nuovi parametri dovrebbero adempiere all’identica funzione svolta in
passato dalle vecchie tariffe.
Sicché l’amministrazione che intende incaricare un
legale di un’attività di difesa giudiziale ben può pattuire ex ante il compenso, oppure chiedere un preventivo in forma scritta.
Non è però chiara l’efficacia di quest’ultimo documento: ovverosia se esso sia vincolante per le future
richieste di compenso del professionista, oppure se
abbia una valenza meramente informativa dei costi
presumibili.
Come noto la regola che si ricava dagli artt. 1173 e
1987 c.c. è nel senso che in diritto civile gli atti
unilaterali possono essere fonte di obbligazione nei
soli casi previsti dalla legge: e prima delle riforme
del 2012 la Cassazione affermava che il professionista può chiedere la liquidazione di parcelle di importo maggiore addirittura rispetto alla prima nota
inviata al cliente dopo la conclusione dell’incarico (32).
Ora però il riferimento alla determinazione ‘‘in forma scritta’’ del compenso che si rinviene nel comma 6 dell’art.13 della legge 247 potrebbe essere letto come inteso anche al preventivo: l’incuria che
da tempo caratterizza il linguaggio legislativo (e che
non risparmia neppure la legge di riforma della professione forense) consiglia però di non sopravvalutare questo dato - soprattutto se si considera anche
che il D.L. n. 1 del 2012 pareva orientato a non attribuire efficacia vincolante al documento in questione, laddove usava la formula ‘‘preventivo di
massima’’.
Ma l’amministrazione può tuttora evitare di pattuire il compenso, o di richiedere il preventivo in forma scritta, perché in questo caso trova automaticamente applicazione il sistema tariffario (che magari
qualcuno ora vorrà definire parametrario) previsto
nei decreti ministeriali.
A oggi pertanto, dopo le due riforme di diverso segno del 2012, sembra che non vi siano dati normativi che - se intesi rettamente - possano indurre a
un revirement giurisprudenziale sul punto che qui
interessa.
Un’ultima questione a cui vale la pena di accennare è se all’atto unilaterale con cui l’amministrazione
delibera l’incarico deve o meno seguire la stipula di
un contratto.
Il problema si era posto in generale per ogni tipo di
incarico legale sulla base del D.L. n. 1/2012, ma,
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come s’è visto, sempre in via generale può essere risolto in senso negativo in base alla legge 247.
Quanto invece alle regole speciali che regolano
l’attività delle pubbliche amministrazioni, occorre
ricordare che la giurisprudenza civile è costante nel
sostenere che in base agli artt. 16 e 17 della legge
di contabilità dello Stato ex R.D. n. 2440 del 1923
gli incarichi ai professionisti devono essere «consacrat(i) in un unico documento contenente l’indicazione specifica di tutte le clausole disciplinanti il
rapporto», perché l’accordo delle parti non può derivare neppure dall’accettazione da parte del privato
della deliberazione a contrarre, «costituente atto interno del comune».
Precisando pure che nei rapporti con i liberi professionisti non può trovare applicazione la previsione
dell’art. 17 della legge di contabilità che ammette
che i contratti della p.a. possono essere stipulati
«per mezzo di corrispondenza, secondo l’uso del
commercio, quando sono conclusi con ditte commerciali», siccome espressiva di una norma eccezionale rispetto alla regola della forma pubblica amministrativa o della scrittura privata ‘‘unitaria’’.
Che in quanto tale è inapplicabile al di fuori dei
rapporti con le imprese, e quindi anche nei rapporti
con i professionisti (33), e ciò, si potrebbe aggiungere, con buona pace delle tendenze dottrinali (e
normative) che vogliono assimilare in tutto e per
tutto i professionisti alle imprese.
Ma per quanto riguarda gli incarichi che qui interessano anche di recente la Cassazione, nella sentenza n. 2266 del 2012 della VI Sezione, ha ricordato che «la procura alla lite ... quale negozio unilaterale di conferimento della rappresentanza in
giudizio, si distingue sı̀ dal contratto di patrocinio,
negozio bilaterale, con il quale viene conferito l’incarico al professionista».
Nondimeno, ha tenuto conto di ciò che potremmo
definire la natura delle cose in subiecta materia, e
Note:
(32) Cfr. Cass. civ., sez. II, n. 6454 del 2008: «l’avvocato, dopo
avere presentato al proprio cliente una parcella per il pagamento
dei compensi spettantigli redatta in conformità ai minimi tabellari, richieda, successivamente, per le stesse attività un pagamento maggiore sulla base di una nuova parcella redatta sempre nel
rispetto dei minimi tabellari, il giudice del merito, richiesto della
liquidazione, salva l’ipotesi in cui la prima parcella abbia carattere vincolante in quanto conforme ad un pregresso accordo o
espressamente accettata dal cliente (ed è il caso che ne occupa), ben può valutare se esistono elementi - discrezionalmente
apprezzabili - che facciano ritenere giustificata e legittima la
maggiore richiesta ...».
(33) Lo si legge da ultimo in Cass. civ., sez. I, n. 1167 del 2013,
che peraltro contiene ampi richiami ai precedenti della Suprema
Corte.
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Opinioni
Appalti e lavori pubblici
quindi ha evitato di attardarsi con questo distinguo (34), affermando che quando la procura «conferita per iscritto dal cliente, ai sensi dell’art. 83
c.p.c., è accettata dal professionista con il concreto
esercizio della rappresentanza giudiziale tramite atto
difensivo sottoscritto, può configurare il contratto
di patrocinio tra ente pubblico e professionista, soddisfacendone anche il requisito della forma scritta
ad substantiam, perché del contratto di patrocinio
con la pubblica Amministrazione sono presenti tutti i requisiti necessari».
Nota:
(34) Il distinguo tra la procura ad litem e il contratto di patrocinio
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viene enunciato con molta chiarezza da ultimo da Cass. civ.,
sez. II, n. 10454/2002: «la prima costituisce un negozio unilaterale con il quale il difensore viene investito del potere di rappresentare la parte in giudizio, il secondo costituisce un negozio bilaterale (cosiddetto ‘‘contratto di patrocinio’’) col quale il professionista viene incaricato, secondo lo schema negoziale che è
proprio del mandato, di svolgere la sua opera professionale in
favore della parte» - cfr., in dottrina, L. P. Comoglio, Procura
(dir. proc. civ.), voce in Enc. Dir., aggiornamento, IV, Milano,
2000, 1052 s., C. Mandrioli, Diritto processuale civile, I, Torino,
2000, 279 ss., e G. Pezzano, Patrocinio (nozioni), voce in Enc.
Dir., XXXII, Milano, 1982, 430 ss. Si tratta però di un distinguo
che nell’odierno esercizio dell’attività forense ormai ha quasi
perso importanza perché riflette le diverse funzioni che in passato venivano svolte dalle due professioni forensi, quella dell’avvocato e quella del procuratore (ma la distinzione tra le due professioni come noto - dopo essersi attenuata per la cumulabilità delle funzioni - è venuta meno sin dagli anni novanta del secolo
scorso), e può avere un qualche rilievo concreto solo quando
l’affidamento dell’incarico viene da un soggetto diverso dalla
parte del processo.
Urbanistica e appalti 8-9/2013
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