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Un tranquillo pomeriggio di fuoristrada

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Un tranquillo pomeriggio di fuoristrada
Un tranquillo pomeriggio di fuoristrada
L’enduro quando non si chiamava così e non c’era ancora il cellulare
Sperando di fare cosa gradita, dedico questo breve racconto a tutti coloro che c’erano,
ringraziandoli per la compagnia e l’amicizia che mi hanno riservato.
“Sabato prossimo andremo fino al Colle di
San Zeno.”
Era gennaio del 1974 e a porgermi l’allettante
invito per una cavalcata sulle colline che da
Sud del Lago d’Iseo arrivano fino a Nord-Est
dello stesso era Mario, indiscussa guida
morale del gruppo di malati di motociclismo
fuoristrada del luogo.
Colle di San Zeno, 1434 m.s.l.m.
“Già avvisati gli altri?” gli chiesi contento all’idea di scorazzare in moto tra valli e
colline per un pomeriggio intero.
“Sì” rispose lui, “Dillo a tuo cugino.”
“D’accordo, ci penso io” lo rassicurai, “A che ora partiamo?”
“Sarà un giro lungo: passeremo da Gardone Val Trompia perciò è meglio se
partiamo all’una.”
“Ok Mario, a sabato, ciao!”
Non avevo ancora terminato di dire ciao che già la mia fantasia era proiettata al
sabato successivo. M’immaginavo i nuovi sentieri mai percorsi, le mulattiere, le difficoltà e
di certo la neve, lassù sul Colle. Fantasia, ma anche certezza di fare una bella escursione su
quelle colline, perché quando a fare strada era Mario, il divertimento era assicurato.
Al tempo Mario aveva 28 anni, sposato e padre di due
figli, il primo dei quali, Fausto, 22 anni dopo sarebbe diventato
campione mondiale di enduro della classe 125, regalandogli e
regalando a noi, suoi tifosi, una grande gioia.
Mario era ed è tuttora un motociclista a 360 gradi. Per
andare e tornare dal lavoro guidava una Guzzi, anche
d’inverno. A quel tempo, per le escursioni fuoristrada usava una
Benelli Cross 125 2 tempi. Bisognava sentire quel motore come
girava: sicuro, tranquillo ma con vigore e senza incertezze,
specchio dell’anima del suo proprietario.
Mario Scovolo, 1976
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Per inciso, qualcosa mi fa credere che il motore di una moto, dopo un certo numero
di ore di funzionamento, assuma qualche caratteristica di chi lo usa, un po’ come succede
con i cani che, si dice, “prendono” dal padrone… quando non è il padrone che “prende”
dal cane, ma questo è un altro discorso. Insomma, anche tra motore e pilota sembra che
s’instauri una sorta di simbiosi bio-meccanica, probabilmente dovuta al modo in cui il
motore viene messo a punto e poi usato.
Tralasciando la suddetta ipotesi incerta, di sicuro c’era che con quella moto, per
nulla agguerrita, Mario riusciva a far vedere i sorci verdi a tanti che avevano mezzi dalle
prestazioni più elevate.
Per quanto riguardava me, al tempo ero quasi
diciannovenne e guidavo un Gilera 50 5V Trial, ovvero un
cancello se paragonato ad altri cinquantini quali il Fantic
Motor Caballero 50, più performante, per non menzionare
il mitico Ancillotti Scarab Sachs 50, una macchina da
guerra al confronto del mio.
Per capire la mia insoddisfazione, e quella di mio cugino Gianfranco - che non
posso non menzionare poiché possedeva lo stesso modello - avreste dovuto guidarlo: era
troppo corto, con sospensioni completamente inefficienti e, diversamente da tutti gli altri
cinquantini di allora, aveva ancora la prima marcia che si innestava spostando la leva del
cambio verso l’alto.
Com’era consuetudine fare allora, subito dopo il rodaggio gli sostituii il carburatore
da 14 mm con uno da 19 e la testa con una che dava qualche cavallo in più. Il motore
girava molto meglio ed era più potente ma non ancora a sufficienza per i miei gusti. La
sospensione anteriore di serie la sostituii con un’ambitissima Ceriani con gli steli da 30 mm
di diametro - allora il top - dopo aver fatto un frontale con l’auto di un compaesano,
incidente dal quale ne uscii piangente per i gravi danni al Gilerino, ma illeso (anche l’auto
subì seri danni).
Per rimediare all’interasse troppo corto, cosa che lo rendeva poco stabile, tempo
dopo gli allungai il forcellone posteriore di quattro centimetri, mentre il mio amico
Giuliano – non posso non menzionarlo visto che era lì con me quel giorno - saldava il
cannotto di sterzo del suo Romeo Scorpion 50 P6, rottosi per il botto con una grossa radice
sporgente dal terrapieno che costeggiava una curva che stava percorrendo in seconda o
terza a gas spalancato.
Giuliano si lamentava del fatto che il suo Scorpion aveva un angolo d’inclinazione
della forcella troppo aperto e, guarda caso, nel violento impatto contro la radice,
tralasciando la dolorosissima botta che rimediò al ginocchio sinistro, del cannotto di sterzo
si ruppe la saldatura superiore che lo unisce al montante centrale del telaio, facendolo
chiudere di qualche grado. Dopo aver constatato che il cannotto era ancora in asse col
telaio e che la forcella aveva finalmente l’inclinazione desiderata, applicò un rinforzo
nell’area della saldatura che si era aperta e poi, felice e contento, risaldò il tutto.
2
La vicenda, che ha dell’incredibile, ci dimostrò che non tutto il male vien per
nuocere.
Della ristretta cerchia dei fuoristradisti del luogo facevano parte altri coetanei e,
anche se non ebbero la fortuna di prendere parte all’escursione fuoristrada di cui sto per
raccontare, li voglio menzionare perché, comunque, erano parte attiva della compagnia di
allora.
Oltre al già menzionato Giuliano, c’era Giambattista, possessore di una superba
Beta Regolarità 125 dal serbatoio rosso fiamma e dalla marmitta a sogliola; Mario, munito
di un Fantic Motor Caballero 50; Gian Domenico, anche lui con un Caballero 50, P6 se non
ricordo male e, infine, Giuseppe, per gli amici “Primo” (non per i risultati in moto),
proprietario di una robusta Puch Regolarità 125 con la quale già gareggiava a livello
regionale mentre noi andavamo ancora a spasso.
Comunque, non eravamo esclusivisti perché della cerchia facevano parte anche due
non-fuoristradisti, Angelo e Ruggero, perfettamente integrati nel gruppo.
Il chiodo fisso era la moto, sicuramente era il filo conduttore dei nostri pensieri e
discussioni. Quando ci si trovava si parlava di garette alle quali partecipare o da andare a
vedere. Al tempo era facile prender parte a gare organizzate su campetti di motocross
improvvisati e non omologati; erano gare sempre affollate di concorrenti di ogni tipo,
alcuni davvero pittoreschi, come ad esempio il temuto “Macia” (Macchia) che guidava un
elaboratissimo Aspes Navaho 50 e vinceva quasi tutte le garette in Franciacorta.
Oggetto dei nostri discorsi erano spesso le qualità del tal pilota o
del tal altro, per noi comunque idoli a cui tributare perenne
ammirazione; si parlava del loro stile di guida, delle loro imprese
agonistiche, dei loro virtuosismi, senza dimenticare di elogiare le
caratteristiche delle loro moto che sognavamo di poter guidare; e si
sognava di poter, un giorno, diventare come loro … ovvero, io sognavo
quello e, ora che ci penso, non so cosa esattamente sognassero gli amici,
non gliel’ho mai chiesto.
Al tempo, la nostra lettura preferita, il “vangelo”, era la rivista “Motocross”, ben più
raramente “Motociclismo”. Libri-bibbia erano “Il motocross”, raccontato da Emilio
Ostorero, il più titolato motocrossista italiano di tutti i tempi e, più tardi, “Il libro del
motocross”, di Verrini e Lucchi. Me lo regalò la fidanzata al mio 21mo compleanno e lo
conservo tuttora, insieme alla fidanzata che è diventata mia moglie.
In copertina c’è il grandissimo Alessandro Gritti alla guida della Puch 250 da cross.
A metà degli anni ‘70 Gritti era l’indiscusso re della regolarità europea (ancora non si
parlava di enduro, né di campionato mondiale altrimenti sarebbe sicuramente stato
l’imperatore) e uno dei migliori motocrossisti italiani. Per me era l’idolo per eccellenza,
perché nessuno guidava meglio di lui una moto da fuoristrada.
Che Gritti sia un essere superiore, perlomeno in ambito motociclistico, l’ho
constatato di persona un giorno d’estate del 2004. Stavo girando con una vecchia KTM 250
sulla pista di motocross di Ponte Nossa. Ad un certo punto arrivò Gritti con una KTM 125.
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Durante quel caldo pomeriggio ci ritrovammo casualmente a girare insieme.
Ovviamente, mi superò come se nulla fosse (ma non è questa la prova che è superiore,
tranquilli) e poi continuò a inanellare giri veloci. Quando finimmo, io, pur avendo girato
più lento di lui e per meno tempo, ero rosso in viso, sudatissimo e cotto a puntino, lui
invece sembrava che fino a quel momento fosse stato seduto all’ombra a sorseggiarsi una
bibita fresca! Se non l’avessi visto coi miei occhi non ci avrei mai creduto.
Per completezza d’informazione aggiungo che nel 2004 avevo 49 anni - non proprio
pochi per pretendere di essere competitivo, soprattutto se si va a girare in moto una volta
ogni tanto - ma il grande Gritti quell’anno ne aveva 57!
Alle tredici di quel sabato 5 gennaio 1974,
degli amici chiamati a partecipare
all’escursione per il Colle di San Zeno
nessuno mancò all’appuntamento davanti
alla casa di Mario.
Nell’attesa c’era chi rideva, chi canzonava
l’amico vicino e chi invece sembrava
concentrato: era un allegro campionario di
giovane umanità fuoristradista, molto poco
formale. Tutti, nelle loro palesi diversità,
uniti dalla passione per la moto, tutti
impazienti di percorrere sentieri e
mulattiere, piste e carrarecce delle colline a
Est del Lago d’Iseo e che ci avrebbero
condotto fino alla meta stabilita.
E tutti ignari di quanto la sorte, quel giorno, avrebbe riservato a quattro di loro.
Oltre a Mario e a me, del gruppo quel giorno facevano parte il già menzionato
Gianfranco, il cugino sempre pronto alla battuta di spirito, col suo già criticato Gilerino 50;
quindi c’erano gli invidiati Riccardo e un altro Gianfranco, per tutti “il Finch”, entrambi su
una KTM GS 125, una signora moto da competizione; c’era poi Fabrizio, simpaticamente
svitato, che si faceva portare a spasso da un Beta 50 e, infine, Pierino, detto “Gegio”,
cugino di secondo grado, che guidava un bellissimo Ancillotti Scarab 50 Regolarità.
Mario uscì di casa, attraversò il cortile, ci salutò sorridendo e poi entrò in una stanza
adibita a officina da dove ne uscì con la sua Benelli. Dopo aver infilato il casco e i guanti,
scalciò sulla pedivella di avviamento e il motore cominciò a borbottare tranquillo,
emettendo sbuffi di fumo azzurrognolo. In un baleno, gli altri sei motori innalzarono il
loro grido di battaglia al cielo; poi, come cuccioli che seguono la mamma, ci disponemmo
diligentemente in fila indiana dietro a Mario e partimmo in direzione della prima collina.
Come gli schiavi d’Egitto al seguito di Mosè verso la Terra Promessa, anche noi
eravamo pronti a seguirlo fino al Colle e oltre.
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Faceva freddo quel pomeriggio di gennaio. Nonostante i guanti e l’abbigliamento
consono alla bisogna, nei primi metri di strada gli occhi cominciarono a piangere e, dopo
un po’, le dita delle mani a dolere. Freddo boia, che solo la passione per il fuoristrada e la
certezza che di lì a poco tutto sarebbe cambiato ci faceva affrontare.
Imboccammo il primo sentiero e, come prevedibile, ciascuno spalancò il gas; alla
prima curva i più vispi misero la moto di traverso, controllando la derapata nonostante il
freddo che irrigidiva il corpo. Poi via veloci sul primo dosso e subito dopo un secondo che
fece spiccare un salto verso la curva successiva; una frenata brusca per bloccare la ruota
posteriore e curvare più in fretta e poi ancora a gas aperto, alleggerendo il davanti per
favorire l’impennata che altrimenti non si sarebbe verificata.
Era emozionante e appagante guidare su quei sentieri, e intanto il freddo e il dolore
alle dita avevano lasciato il posto ad una piacevole sensazione di caldo in tutto il corpo,
mentre sotto il casco cominciavo a sentire le prime gocce di sudore.
Transitavamo veloci lungo sentieri che s’infilavano nei boschi, tra macchie di
castagni e robinie, sfiorando i tronchi, scalando ripide salite che ci lanciavano poi a
capofitto lungo discese che sembravano interminabili, incuranti dei sassi e saltando di qua
e di là sopra rami caduti, buche, dossi e radici d’alberi che sbucavano insidiose e
inaspettate dal terreno.
Quella era la scena che calcavamo da attori protagonisti quel pomeriggio, in un
teatro scelto dal nostro regista per farci recitare e vivere l’eccitante essenza delle escursioni
fuoristrada: libertà di esprimere le proprie capacità, superando ostacoli offerti dalla
natura, uno diverso dall’altro, in una sequenza mai noiosa e che ci teneva costantemente
all’erta.
Raggiungemmo Gardone e poi su ancora
verso Pezzaze per imboccare il sentiero che porta
al Colle di San Zeno. Dopo alcuni minuti di
salita, uscimmo da un bosco trovandoci davanti
ad una radura esposta al vento e nascosta al sole,
interamente ricoperta da una spessa lastra di
ghiaccio; al di là della radura e del ghiaccio c’era
il sentiero innevato, quasi invisibile sotto la
coltre bianca, che avremmo dovuto imboccare
per proseguire verso il colle.
Fermi al limitare del lastrone ghiacciato, ci guardammo l’un l’altro, silenziosi e
tentennanti per l’ostacolo che ci si parava davanti. L’espressione dei nostri volti, gli sguardi
dubbiosi semi nascosti dagli occhialoni e dal casco dentro al quale frullavano pensieri
facili da intuire, rimanevano celati l’uno all’altro.
Ognuno di noi immaginò in un attimo cosa sarebbe potuto succedere sopra quella
lastra trasparente e in cuor suo sperò di riuscire a superarla velocemente, così da evitare la
beffa maggiore, ben più dolorosa di cento contusioni rimediate cadendo sulla dura
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superficie: la derisione dei compagni di avventura quando, più avanti, ci saremmo
ritrovati a ricordare quell’escursione invernale.
In quel frangente, nel quale si decideva la personale reputazione di fuoristradisti
duri e puri, pensammo al passo successivo, ma nessuno di noi sembrava volersi muovere
per primo; ognuno aspettava di vedere come se la sarebbe cavata l’altro, anche per poter
trarre insegnamento da un suo eventuale errore.
Manco a dirlo, a rompere gli indugi fu proprio Mario che, dosando il gas con
precisione millimetrica, mise le ruote sul ghiaccio. Il motore del suo mezzo, quasi
silenziosamente, scaricò dolcemente la sua potenza e in un batter d’occhio si ritrovò
dall’altra parte della lucida lastra.
La nostra meraviglia non fu poca: l’impresa della nostra guida sarebbe stata
elogiata nelle nostre successive discussioni al bar centrale. Sicuro, leggero, perfino elegante
Mario portò la moto oltre lo scoglio della paura, quasi avesse, al posto degli pneumatici
tassellati, quelli chiodati. Quando lo vedemmo dall’altra parte, per noi ancora di qua dalla
barriera ghiacciata, fu come per i fedeli partenopei vedere il sangue di San Gennaro che
comincia a sciogliersi.
Il suo successo nell’attraversare la zona produsse un duplice effetto sulle nostre
giovani menti: un’aumentata ammirazione per Mario, accompagnata da un accresciuto
timore di fallire la prova.
Probabilmente memore del detto “fuori il dente,
fuori il dolore”, Riccardo ingranò la prima,
muovendosi guardingo per la paura di cadere,
per poi, una volta rincuoratosi, lasciarsi andare
alla sua indole irruente. A un quarto del tragitto,
la sua KTM 125 ebbe uno scarto e sbandò, ma lui
riuscì a riprenderla; la raddrizzò e proseguì
sbandando nuovamente, ma stavolta in senso
opposto, riuscendo però ancora una volta,
miracolosamente, a reggersi in piedi.
Ripreso il controllo del mezzo, a metà percorso il nostro resisteva ancora ma, dalla
sua andatura incerta e ondivaga, si poteva capire che era ormai in preda alla classica crisi
esistenziale che assale chi si trova in grave difficoltà e che fa balenare nella mente
l’altrettanto classica domanda: “Ma chi me l’ha fatto fare?!”
Ciò nonostante, Ric resistette, anche assistito da una certa quantità di fortuna con la
“C” maiuscola e dalle ottime caratteristiche tecniche della KTM; caratteristiche che hanno
aiutato il nostro amico a guadagnare la sponda opposta e che hanno fatto la fortuna del
concessionario italiano della KTM che, in quei mitici anni ’70, riuscì a vendere decine di
migliaia di modelli della gloriosa casa austriaca. Diversamente, non si spiegherebbero la
performance del primo e le immatricolazioni del secondo.
Ric giunse dall’altra parte imboccando il sentiero innevato con eccessiva foga e
piombando addosso alla Benelli di Mario che, con rassegnata pazienza, scosse la testa.
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La scena, in un momento diverso, avrebbe scatenato le nostre più irrispettose risate,
ma la preoccupazione per la prova che ci attendeva imponeva di non lasciarci andare al
facile scherno, in ossequio al popolare detto che “Ride bene chi ride ultimo” … anche se
qualche sorrisetto maligno si vide sul volto di qualcuno.
Mentre vagavo emotivamente dall’ilarità repressa alla preoccupazione non
espressa, inaspettatamente sentii urlare i motori dei cinquantini.
Rincuorati
dall’inaspettato buon esito della traversata del Ric, gli altri compagni di ventura si
lanciarono decisi sulla dura e scivolosa superficie per raggiungere la sponda opposta
Non badando a chi stava al loro fianco, si mossero sul ghiaccio senza nessuna
preventiva coordinazione e incrociando le rotte. La scena a cui assistetti ricordava i gironi
dell’inferno dantesco, solo che la commedia era tutt’altro che Divina.
Il rombo dei motori si trasformò in ululato a causa delle improvvide scivolate e
conseguenti cadute in cui incapparono tutti.
Fermo ancora di qua dal ghiaccio guardavo indeciso quel tratto insidioso,
osservando preoccupato il groviglio di mezzi meccanici e umani che si era formato poco
più in là.
Il fumo di scarico dei motori si alzava al cielo insieme all’urlo delle moto sdraiate
sul ghiaccio che, col gas rimasto spalancato, avevano le ruote posteriori che giravano
istericamente. Non più fortunata era la sorte dei piloti: chi era sdraiato su un fianco,
aggrappato al manubrio di una moto che voleva andarsene per conto proprio, chi invece
stava lottando contro la forza di gravità e l’impossibilità di reggersi in piedi; i quattro
amici sembravano pesci intrappolati in una rete della quale, goffamente e in modo
confuso, volevano liberarsi.
Non potevo più aspettare, la tensione aveva raggiunto l’apice così mi apprestai ad
affrontare l’insidiosa prova.
Guardai un’ultima volta gli amici che lottavano contro
se stessi e le leggi della fisica per uscire dalla trappola
scivolosa e partii prudente. Superai il Beta di Fabrizio che si
era adagiato sulla KTM del Finch mentre i due amici,
abbracciati, barcollavano sgraziati per sorreggersi l’un l’altro.
Passai oltre l’Ancillotti indegnamente sdraiato su un
fianco, mentre il Gegio si stava rigirando sul ghiaccio come un
gatto che si gratta la schiena.
La fine della temuta prova stava a pochi metri.
Proseguii superando il Gilera del cugino che, dopo
essere caduto, stava audacemente cercando di aiutare il Gegio
a rialzarsi, riuscendo a ottenere il risultato di sdraiarsi con lui.
Luigi Brambani, 1976
Essendo parenti avrei dovuto fermarmi ad aiutarli, invece, insensibile al richiamo
del sangue, tirai dritto. Arrivato al sentiero pensai che era ora che la FMI decidesse a quale
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santo dovrebbe votarsi un fuoristradista nei momenti di grave difficoltà e, mentre mi
compiacevo per la prova superata, vidi che Riccardo e Mario si erano già riavviati.
Esitando sul da farsi, mi voltai per capire a che punto erano gli altri, ma la scena sul
ghiaccio non era migliorata rispetto al momento in cui l’avevo attraversato. Guardai avanti
e notai che i primi due si stavano allontanando sempre di più.
Dovevo decidere: fermarmi ad aiutare i compagni in difficoltà, con l’incognita di
come sarebbe andata a finire, o partire per raggiungere Mario e Riccardo, certo che, così
facendo, sarei arrivato a casa in tempo per la cena?
Misi il bavaglio alla coscienza e scelsi la seconda ipotesi. Partii accelerando, senza
volgere più lo sguardo all’indietro e, seguendo il solco lasciato dagli amici, superai di
slancio i primi gradini naturali, m’inerpicai sul sentiero e raggiunsi i due che, imperterriti,
proseguivano senza sosta. Dopo una mezzora, Mario si fermò annunciandoci soddisfatto
che eravamo vicinissimi alla meta e che prima di raggiungerla avremmo aspettato gli altri.
Spegnemmo i motori e ci togliemmo i caschi, in attesa che gli altri
ci raggiungessero. Dopo esserci complimentati per aver superato
brillantemente il test ghiacciato, tendemmo l’orecchio a valle,
cercando di cogliere qualche segnale dei nostri amici, ma non si
sentiva nulla, nessuna moto stava percorrendo il lungo il sentiero.
Il silenzio più completo avvolgeva il versante della montagna e la
valle sottostante.
Eravamo ormai al crepuscolo e da lì a poco si sarebbe fatto buio.
Poiché il tempo passava e gli altri tardavano ad arrivare,
cominciammo a urlare a gran voce i nomi degli amici, ma solo l’eco
rispondeva ai nostri richiami.
A quel punto ci ponemmo un limite: ancora dieci minuti di attesa,
trascorsi i quali, se non ancora arrivati avremmo deciso cosa fare. I
dubbi vennero alla fine sciolti da Mario dicendo che ormai
dovevamo riprendere il viaggio, convinto dal buio ormai prossimo
e dalla quasi certezza che gli altri, attardati della trappola di
ghiaccio, dovevano essere tornati indietro. Il nostro ritorno a valle
non sarebbe servito.
Il suo ragionamento ci sembrò sensato. Aspettammo ancora qualche minuto, poi,
rimesso il casco e risaliti in moto, proseguimmo alla volta della cima del Colle di San Zeno
e, da lì, giù verso la Val Palot.
Si fece buio e così accedemmo i fanali che però facevano poca luce ma, per fortuna,
Mario conosceva ogni curva, ogni pietra, ogni buca anche del percorso di ritorno. Io e
Riccardo lo seguimmo senza la minima esitazione e, dopo altre due ore di fuoristrada,
intorno alle 19 stavo parcheggiando il Gilerino in garage.
E gli altri, direte voi? Beh, quello fu l’ultimo dei miei pensieri, convinto com’ero che
ormai anche loro se ne stavano beati e pacifici al caldo delle loro casette. L’ottimismo misto
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ad una certa incoscienza che caratterizzano l’adolescenza mi convinsero che doveva essere
così, quindi andai a letto per abbandonarmi al sonno dei giusti.
Ma non ero nel giusto perché, anche per me, si stava aprendo la porta di un girone
dantesco: il girone dei negligenti.
Verso le nove di quella domenica mattina venni svegliato da mio padre che,
guardandomi di traverso e porgendomi la cornetta, disse: “E’ la zia Teresa, vuole te.”
“Ciao zia, cosa succede?” esordii io.
“Cosa succedeee?! Si può sapere dov’è Gianfrancooo?!” urlò
trapanandomi il timpano e svegliandomi del tutto.
“Ma… non è a casa?” le risposi interrogandola e
interrogandomi contemporaneamente.
“No, non è ancora tornato e tu eri in giro con lui, ieri!” disse
minacciosa.
Il mondo parve crollarmi addosso. All’improvviso realizzai che io, avendo due anni
più di mio cugino ed essendo pure maggiorenne, ero da lei ritenuto responsabile della sua
incolumità. Non sapevo più che cosa dire. Provai a buttar lì un’altra risposta che sortì
l’effetto di far alzare ancora di più la voce alla madre del cugino disperso,
scaraventandomi nel baratro del rimorso.
“E’ vero, zia, era con me… Vengo da te e vediamo cosa fare.” le dissi nel tentativo di
tranquillizzarla. Mi rendevo conto che dopo la nostra telefonata lei era più preoccupata di
prima.
Sentendo l’apprensione di sua sorella, mio padre mi guardò accigliato, facendomi
sentire indagato per omesso soccorso.
“No, niente…” gli dissi, “Gianfranco non è tornato dall’escursione in moto… ieri…
ma…” e me ne scappai via per sottrarmi alle domande indagatrici che mi avrebbero fatto
aumentare la sudorazione. La situazione non era bella.
Corsi dalla zia che abitava poco distante. Le raccontai i fatti accaduti, quelli che
vivemmo fino a quando, tutti insieme, arrivammo alla lastra di ghiaccio e quelli successivi,
dei quali il cugino non faceva più parte perché abbandonato al suo destino.
Come ogni domenica, anche quella mattina lo zio andò a messa e incontrò Mario, al
quale espresse il suo biasimo per aver abbandonato quattro ragazzi in mezzo ai monti. Al
ritorno dalla messa lo zio cercò di tranquillizzare la moglie che voleva denunciare la
scomparsa del figlio ai carabinieri.
“Teresa, aspettiamo ancora un po’” la rincuorò, “Gianfranco, anche se giovane, non
è uno sprovveduto, vedrai che si sarà fermato a dormire da qualche parte, con gli altri”.
“Ammesso che sia riuscito a passare la notte in un albergo, perché non ha
telefonato, allora?” lo aggredì lei.
“Ma sì, sono ragazzi e non ci avranno pensato” rispose lo zio cercando di mostrarsi
fiducioso in un lieto fine.
Il mattino trascorse senza alcuna notizia. Più le ore passavano e più il mio senso di
colpa diventava opprimente. Non sapevo più a che santo votarmi e, in quel momento,
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nemmeno l’eventuale patrono scelto dalla FMI sarebbe stato d’aiuto… però, chissà, forse
San Zeno…
In preda allo sconforto, scrutando continuamente e sempre più ansiosamente
l’orologio, verso le sedici udimmo un rumore familiare: la serranda del garage si aprì per
richiudersi poco dopo. Ci guardammo increduli, con un senso di rinnovata speranza.
Finalmente, il portoncino di casa si spalancò e, come un guerriero che torna dalla
battaglia, fece il suo ingresso il disperso che, a prima vista, appariva sano.
Tirai un lungo sospiro di sollievo.
Non aveva ancora messo piede in casa che la madre lo
incalzò con una serie di domande miste a insulti di vario
tipo.
Invece di rispondere, il cugino si voltò verso di me e,
senza profferir parola, guardandomi dritto negli occhi, mi
comunicò il suo biasimo per quanto avevo fatto, anzi per
quanto non avevo fatto. Poi si rivolse ai genitori.
Gianfranco Archetti, 1975
“Ma di che cosa vi siete preoccupati?” chiese loro, “Non vi hanno avvisati ieri sera
che non saremmo riusciti a rientrare e che ci eravamo fermati a dormire in un albergo in
Val Palot?”
I due si guardarono stupiti, poi volsero lo sguardo verso di me, come se io dovessi
sapere qualcosa.
“E chi avrebbe dovuto avvisarci?” chiesero a loro volta meravigliati.
“Quando siamo riusciti a passare oltre la lastra di ghiaccio” riprese il cugino
guardandomi, “è venuta la parte più difficile del percorso. Il sentiero innevato è diventato
per noi una trappola peggiore del ghiaccio. Dopo parecchi minuti di salita non siamo più
stati capaci di procedere, nonostante ci aiutassimo a vicenda nello spingere le moto e così
ci siamo fermati.”
“Ormai era sceso il buio e non riuscivamo più a vedere bene il sentiero che, tra
l’altro, non conoscevamo. Così abbiamo deciso di abbandonare le moto e di proseguire a
piedi perché sarebbe stato più sicuro e perfino più veloce.”
“Dopo una lunga e faticosa camminata, abbiamo scorto una luce in lontananza.
Rincuorati ci siamo diretti a passo svelto verso quel lume, convinti di trovare un albergo e
un telefono per avvisare, invece era il rifugio del colle, un locale senza camere e, cosa
peggiore, senza un telefono.”
“I proprietari ci hanno consigliato di scendere in Val Palot, informandoci che ci
aspettavano altri sei o sette chilometri di camminata. Ci hanno prestato una torcia e,
facendoci coraggio, abbiamo ripreso il cammino. Ma, invece di seguire la strada normale,
abbiamo imboccato un sentiero lucido e trasparente per il ghiaccio che lo ricopriva.”
Io e i due zii lo ascoltavamo a bocca aperta.
“Dopo diversi scivoloni e relative botte, finalmente siamo arrivati a destinazione.
Siamo entrati nell’albergo temendo che non ci fosse più nessuna camera libera, ma
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fortunatamente una era ancora disponibile. Solo che …” si fermò sospirando, “… in
quattro avevamo in tasca un totale di dieci mila lire, ben poca cosa per dormire e
mangiare.”
“A quel punto la fortuna, quella che ci aveva voltato le spalle, è arrivata in soccorso,
incaricando Fabrizio di toglierci dai guai. Lo conoscete Fabrizio, no?…” affermò mio
cugino.
Annuimmo, invitandolo e continuare il racconto.
“In mezzo alla gente che affollava il bar dell’albergo, quel bel tipo di Fabrizio ha
riconosciuto uno delle nostre parti. Quando ce lo ha indicato, la prima cosa che abbiamo
pensato, ovviamente, è stata di chiedere i soldi mancanti a quel tizio, solo che nessuno di
noi aveva il coraggio di farlo.”
“E allora?” chiese la zia impaziente mentre lo zio, come suo solito, sorrideva
divertito.
“Allora, Fabrizio, con una bella dose di faccia tosta glieli
ha chiesti! Raccontandogli che avevamo abbandonato le moto
dall’altra parte del Colle di San Zeno, che ci dovevamo fermare a
dormire in Val Palot per tornare l’indomani mattina a riprendere
i mezzi e che non avevamo soldi a sufficienza per tutti, è riuscito
a farsi prestare la somma che mancava.”
“Poi, uno di noi ha telefonato a casa per avvisare i suoi genitori, ma non vi dico chi
è stato. Gli era stato dato l’incarico di dire ai suoi di avvisare anche i nostri rispettivi
genitori ma, evidentemente, non lo ha fatto, probabilmente limitandosi a dire loro che lui
stava bene e che sarebbe tornato l’indomani. Forse i suoi genitori non sapevano che
insieme a lui c’eravamo anche noi, quindi nessuno vi ha chiamato.”
“Dopo quella telefonata, convinti che tutto fosse sistemato, e dopo aver mangiato
un panino perché la cucina era ormai chiusa, siamo andati in camera. Vi posso garantire
che in quattro in una stanza, due nel letto matrimoniale e due nei letti a castello, non
abbiamo fatto altro che ridere e scherzare, facendo le ore piccole.”
“La mattina dopo ci siamo alzati assonnati e stanchi. Subito dopo aver fatto
colazione ci siamo incamminati verso il Colle di San Zeno. Di nuovo altri 8/9 Km a piedi
per raggiungere le moto.”
“Giunti sul Colle abbiamo incontrato due guardie forestali, arrivate fin là con una
Campagnola. Stavano nel rifugio dove siamo entrati per riconsegnare la torcia che i
proprietari ci avevano prestato la sera prima e si stavano gustando un buon caffè. I due,
stupiti, ci hanno chiesto che cosa ci facevamo lì, d’inverno, vestiti come motociclisti ma
senza moto.”
“Di fronte alle divise è difficile scherzare, così gli ho raccontato la nostra
disavventura. Dopo avermi ascoltato con apparente interesse, ma forse pensando che
eravamo affetti da qualche disturbo mentale non ancora riconosciuto dalla psichiatria, e
per questo ancora liberi di circolare per montagne innevate, si sono offerti di aiutarci. Ho
pensato che sei persone avrebbero fatto più di quattro e quindi ci siamo riavviati fiduciosi
lungo il sentiero innevato.”
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“Finalmente giunti alle moto abbiamo cercato di riavviarle ma, a causa del freddo,
non ne volevano sapere di accendersi. Ci siamo guardati in preda allo sconforto e dopo
altri numerosi tentativi infruttuosi di far partire quei motori gelati, abbiamo fatto una
pausa perché eravamo stremati dalla fatica. A quel punto i due forestali, rassegnati, hanno
preso ognuno una moto e, esibendo una forza sovrumana, mentre noi quattro spingevano
le altre due moto, ci hanno aiutato a portarle fino al Colle di San Zeno.”
“Una volta arrivati, affaticati e col fiato corto, ci siamo appoggiati ad una
staccionata. Il sole tiepido e il cielo limpido ci stavano rinfrancando. E lì, mentre
rimiravamo la valle e il pendio che avevamo così faticosamente risalito spingendo le moto,
non ci siamo accorti del sopraggiungere delle due guardie.”
“Silenziosi e rapidi come due felini a caccia, ci hanno rifilato un calcione nel sedere,
a ciascuno di noi. E quando ci siamo voltati per protestare, quelli, puntandoci contro il dito
che sembrava la canna di una pistola, ci hanno detto: ‘La prossima volta, pensateci bene
prima di salire fin quassù con la neve!’ E poi si sono allontanati visibilmente compiaciuti.
“Noi, invece, con le mani sul fondoschiena e lo sguardo basso per l’umiliazione, ci
siamo diretti sconsolati verso il rifugio perché ormai era ora di pranzo. Solo il profumo e la
vista del coniglio arrosto, delle patate al forno e della fumante polenta ci ha risollevato il
morale, facendoci tornare il buon umore.”
“Però abbiamo fatto un errore: non abbiamo offerto il pranzo alle due guardie
forestali per ripagarle dell’aiuto datoci, benché i proprietari del rifugio ce l’avessero
consigliato. Ma temevamo di non avere soldi a sufficienza… e poi, quel calcio in culo ci
rodeva non poco.”
“Finito il pranzo, con la temperatura ben più alta, abbiamo ridato vita alle moto,
favoriti anche dal fatto che le potevamo spingere lungo l’ampia discesa. Siamo quindi
ridiscesi verso la Val Palot e da lì abbiamo raggiunto Pisogne dove abbiamo deciso di
proseguire lungo la conosciuta e comoda strada asfaltata che costeggia il Lago d’Iseo.”
“Arrivati all’imbocco della galleria ‘Trentapassi’,
ho fermato gli altri perché l’unico che aveva il
faro anteriore funzionante era il Beta di Fabrizio,
mentre l’unico col fanalino posteriore ok era il
mio Gilera; sia l’Ancillotti del Gegio che il Kappa
del Finch avevano la fanaleria out. Ci siamo
disposti in ordine, raccomandando a Fabrizio di
non correre: lui ad aprire la fila, io a chiuderla.
“Ma, lo sapete com’è fatto Fabrizio, no?”. Annuimmo ancora.
“Invece di andare piano, quello, che sembrava essere stato morso da una tarantola,
è partito come un razzo, facendosi inghiottire dal buio della galleria, senza pensare
minimamente ai noi tre dietro senza luce. Vi assicuro che era peggio che andare sul
ghiaccio!”
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“A nulla sono valsi i tentativi di chiamarlo: il rumore dei motori, amplificato dal
chiuso della galleria, copriva le nostre voci. C’è stato un momento in cui ho temuto
davvero il peggio: non vedevo nulla, non capivo dove stessi andando.”
“Mi sono detto che dovevo uscire intero dalla ‘Trentapassi’ per fare a pezzi il Beta di
Fabrizio ma, alla fine, mi è bastato rivedere il sole per far sbollire del tutto la rabbia. Ed
eccomi qua!”
Dopo esserci guardati ridemmo per il lieto fine e, con il pensiero rivolto anche agli
altri tre rientrati all’ovile, mi alzai per dare qualche pacca sulla spalla del ritrovato cugino,
mentre la zia era già in assetto per la preparazione del tè con i biscotti.
Morale: nessuno sarebbe stato abbandonato o
i genitori sarebbero stati avvisati prontamente se al
tempo fossero esistiti i cellulari. La nostra
negligenza fu dovuta ad una certa dose di
incoscienza giovanile, la stessa che ci faceva pensare
che tutto ci era permesso, anche di scherzare con la
nostra stessa vita.
Fausto Scovolo, campione del mondo 1996
Ma avevamo anche qualità che tutti vorremmo poter conservare fino all’ultimo dei
nostri giorni: la voglia di vivere e di scoprire, la sete di esperienze e di emozioni che ci
inducevano a sfidare la sorte e i nostri limiti.
E poi c’era il valore aggiunto della passione per la moto e per il fuoristrada, una
passione che ci ha fatto condividere escursioni e gare, gioie e dolori, sogni e delusioni; che
ci ha fatto creare una piccola pista di motocross sulla quale abbiamo organizzato alcune
gare per raccogliere fondi da usare per la ristrutturazione e riapertura dell’oratorio di
Provezze; una passione che si è radicata anche in altri venuti dopo di noi, facendo avviare
all’enduro agonistico un giovane che è poi diventato campione del mondo della disciplina.
Luigi Brambani
con la qualificata collaborazione di
Gianfranco Archetti
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