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AUTOBIOGRAFIA DI MALCOLM X
Nahtjak89 AUTOBIOGRAFIA DI MALCOLM X INDICE . Nota introduttiva . Autobiografia di Malcolm X . 1. Incubo . 2. Mascotte . 3. «Il concittadino» . 4. Laura . 5. Harlem . 6. Il Rosso di Detroit . 7. Trafficante . 8. In trappola . 9. Preso . 10. Satana . 11. Salvato . 12. Il salvatore . 13. Il pastore Malcolm X . 14. I Black Muslims . 15. Icaro . 16. Fuori . 17. La Mecca . 18. El-Hajj Malik El-Shabazz . 19. 1965 . Appendice . Epilogo di Alex Haley . "Malcolm X" di Ossie Davis . NOTA INTRODUTTIVA . 1. L'"Autobiografia di Malcolm X" è stata pubblicata negli Stati Uniti nel 1965: da allora si sono avute traduzioni in tutte le lingue (quella italiana, edita da Einaudi, è del 1967) che hanno suscitato grande interesse, soprattutto fra i giovani . Malcolm X aveva redatto la storia della sua vita insieme con un giornalista, Alex Haley, circa un anno prima di essere assassinato a New York, nel febbraio del 1965 . Malcolm Little (questo era il suo vero nome) era nato a Omaha, Nebraska, il 19 maggio 1925. Suo padre, attivista della UNIA, un'associazione che si batteva per il «ritorno» dei neri in Africa, fu assassinato dai razzisti quando Malcolm aveva sei anni, ma i responsabili non furono mai identificati. Abbandonò la scuola a quindici anni, dopo avere sperimentato a proprie spese l'autoritarismo e le discriminazioni a favore dei bianchi . Ebbe l'adolescenza travagliata e difficile di tutti gli abitanti del ghetto nero. A ventun anni fu imprigionato e scontò sette anni di reclusione per furto con scasso e rapina a mano armata . Fu in questo periodo che Malcolm cominciò a prendere coscienza della condizione del nero nella società americana e della necessità della sua lotta contro il bianco. Si accostò così alla Nazione dell'Islam, movimento noto anche come dei Black Muslims, dopo essere stato a lungo in corrispondenza con il loro capo, Elijah Muhammad, e dopo aver dato fondo freneticamente a libri di storia, filosofia, biologia . «Quando Malcolm aderì alla setta dei Black Muslims, che esisteva sin dal 1931, i seguaci di Elijah Muhammad erano poche centinaia, - ha scritto Roberto Giammanco nell'Introduzione alla prima edizione Einaudi di questo libro. - Fu Malcolm, con la sua azione infaticabile, le sue straordinarie doti oratorie e soprattutto con la sua capacità di dare un senso nettamente politico e combattivo alla mitologia pseudoislamica di Elijah Muhammad, che fece dei Black Muslims una forza su scala nazionale, un gruppo potenzialmente capace di attrarre a sé le forze più avanzate del nazionalismo negro» . Malcolm X fece proprio il rigorismo della setta e lo sposò all'esigenza propriamente politica di una effettiva unità tra i negri d'America. Il decennio tra il 1952, anno in cui Malcolm uscì dalla prigione, al 1963 vide Malcolm X stagliarsi sempre più nettamente come la personalità di maggior prestigio del movimento. Anche per questo, negli ultimi anni, tra Elijah Muhammad e Malcolm X sorsero dissapori, ma soprattutto divergenze sul piano della strategia politica . «Al punto in cui erano le cose nel 1963 - scrive ancora Giammanco - Elijah Muhammad doveva scegliere: o continuare nella polemica verbale restando saldamente legato ad una piattaforma religiosa, oppure trovare forme nuove di intervento nella lotta per i diritti civili ponendosi automaticamente su di un piano politico . La struttura stessa della Nazione dell'Islam, dipendente dal potere personale e da una gerarchia paternalistica, e soprattutto da interessi economici ben precisi, favoriva la tendenza conservatrice di Elijah Muhammad, prudentissimo amministratore per nulla disposto a rischiare le posizioni raggiunte. Se oggettivamente esisteva un'alternativa da cui dipendeva il futuro della setta e anche in parte lo stesso movimento negro, sul piano soggettivo non c'erano dubbi: Elijah Muhammad non avrebbe abbandonato la sua linea separatista di non impegno» . La rottura definitiva fu segnata dalla sospensione da cui Malcolm X fu colpito nel dicembre 1963, dopo un discorso politico particolarmente violento. Contrariamente alle attese di molti Malcolm X non abbandonò l'Islam, anzi sentì l'esigenza di approfondire attraverso un pellegrinaggio alla Mecca le ragioni della sua scelta religiosa e politica . «Nell'Islam - ha osservato Giammanco - Malcolm non cercava una risposta ad interrogativi esistenziali, ma la matrice psicologica adatta per unificare i negri, un legame con i popoli dell'Asia e dell'Africa in nome di una comune esigenza di liberazione. "Sto per costruire e dirigere una nuova moschea qui a New York, - dichiarava ai giornalisti il 12 marzo 1964. - si chiamerà Muslim Mosque Inc. Una tale organizzazione ci darà un fondamento religioso e la forza spirituale che occorre per liberare il nostro popolo dai vizi che distruggono la fibra morale della comunità negra... Ci sono molti tra noi che non hanno esigenze religiose e perciò la Muslim Mosque Inc. sarà organizzata in modo da consentire la partecipazione di tutti i negri... indipendentemente dalle loro credenze religiose o dal loro ateismo" . Il programma della nuova moschea era generico, una larga base organizzativo-religiosa intorno a cui raccogliere il maggior numero possibile di militanti e che, in futuro, avrebbe potuto diventare il germe per quella soluzione alternativa che Malcolm aveva già da tempo intravisto. Comunque l'accento del suo pensiero era già sulla lotta per "i diritti umani" e sulla dimensione internazionale del problema negro. Il separatismo, l'esclusione dei bianchi dalla lotta erano già superati... Il pellegrinaggio alla Mecca e i viaggi in Africa furono decisivi non solo per la chiarificazione del pensiero di Malcolm, ma per la creazione di contatti ad alto livello con i rappresentanti della classe dirigente dei vari paesi. Per la prima volta nella storia, un negro americano si presentava come rappresentante del suo popolo e stabiliva rapporti non sentimentali né formalistici con i "fratelli dell'Africa, del Medio Oriente e dell'Asia"» . Il 29 agosto 1964, dal Cairo, Malcolm X scrisse una lettera ai suoi collaboratori dell'Organizzazione per l'unità afroamericana, in cui diceva tra l'altro: «Nelle prossime settimane, a meno che non accada qualcosa di drastico che mi costringa a cambiare i miei progetti, visiterò parecchi paesi africani e avrò contatti con diversi leader politici e sociali. Presenterò loro il nostro problema senza riserve in modo che tutti comprendano la necessità di sottoporlo quest'anno alle Nazioni Unite.. . Non dubito del loro appoggio, ma ho imparato per esperienza a non dare niente per sicuro per poi disperarsi quando non si concretizza. Dobbiamo imparare che siamo padroni del nostro destino solo quando facciamo il massimo sforzo per realizzare i nostri obiettivi . Comprendete benissimo che quello che sto cercando di fare è molto pericoloso perché rappresenta una minaccia diretta a tutto il sistema internazionale dello sfruttamento razzista. E' una minaccia alla discriminazione in tutte le sue forme su scala internazionale. Per questo se muoio o se sarò assassinato prima di tornare negli Stati Uniti, siate certi che quello che ho messo in moto non sarà fermato... Il nostro problema è stato INTERNAZIONALIZZATO...» Purtroppo, I'oscura premonizione contenuta in questo brano doveva realizzarsi: tre mesi dopo il suo ritorno negli Stati Uniti, la mattina del 24 febbraio 1965 fu assassinato da sicari rimasti sconosciuti. Avrebbe dovuto ancora rivedere l'"Autobiografia", che venne invece ultimata da Haley il quale aggiunse un "Epilogo", interessante per chiarire le circostanze del lavoro in comune intorno a questo libro . 2. Oltre all'"Autobiografia", il lettore italiano ha a disposizione una raccolta degli "Ultimi discorsi di Malcolm X" (Einaudi, Torino 1968, pagine 371) che George Breitman ha scelto fra quelli pronunciati nell'ultimo anno della sua attività politica dopo la rottura coi Black Muslims e la fondazione dell'Organizzazione per l'unità afroamericana [1] . Se si vuole avvicinare Malcolm X in tutta la sua ricchezza umana e seguire l'intero sviluppo del suo pensiero politico, non si può prescindere da questi discorsi. Malcolm infatti fu soprattutto un oratore . Gli esperti politici si sono detti ammirati dalla sua capacità di comunicare al livello più chiaro ed essenziale, risvegliando la coscienza critica dei suoi uditori [2] . 3. I testi a disposizione del lettore italiano che voglia approfondire gli argomenti e i problemi connessi all'Autobiografia di Malcolm X e, più in generale, al movimento dei neri d'America sono ormai abbastanza numerosi . La tematica della fase più lontana del movimento, quella caratterizzata dalla lotta per i diritti civili, condotta soprattutto negli stati del Sud da organizzazioni come il CORE, la N.A.A.C.P. lo stesso S.N.C.C., è in parte documentata dalla cronaca di William Bradford Huie, "Tre vite per il Mississippi" (Longanesi, Milano 1968, pagine 332), che ricostruisce la vicenda di tre giovani attivisti assassinati dai razzisti bianchi, e dai due libri di Martin Luther King, il leader più prestigioso della corrente moderata e non-violenta del movimento (anch'egli assassinato dai razzisti): "La forza di amare" (Sei, Torino 1967, pagine 275) e "Il fronte della coscienza" (Sei, Torino 1968, pagine 121) . Un agile inquadramento storico-sociologico del problema dei neri d'America è fornito dal libro "Crisi in bianco e nero. Il problema negro negli Stati Uniti" (Einaudi, Torino 1965, pagine 387) del giornalista liberale Charles E. Silberman (il volume è preceduto da un'introduzione di Roberto Giammanco, il principale studioso italiano del problema). Per gli aspetti più specificamente socio-psicologici della vita nei grandi ghetti nordamericani è utile e stimolante la lettura di "Ghetto negro" dello psicologo Kenneth B. Clark (Einaudi, Torino 1969, pagine 302), un'approfondita inchiesta condotta ad Harlem. Su questo argomento, si veda anche l'opuscolo di Robert Vernon, "Il ghetto negro" (Samonà e Savelli, Roma 1968, pagine 50) . La fase del «Black Power» è ampiamente documentata dal volume curato da Roberto Giammanco: "Black Power. Potere negro. Analisi e testimonianze" (Laterza, Bari 1967, pagine 463). Oltre a una lunga e impegnativa introduzione di Giammanco ("Razzismo e colonialismo"), il libro contiene una sezione dedicata a "L'eredità di Malcolm X", un gruppo di testi dello S.N.C.C. a cura di Simonetta Piccone Stella, e infine una serie di "Documenti dal ghetto" (racconti, testimonianze, poesie, eccetera). E' stata tradotta in italiano anche l'ottima raccolta curata da Floyd B. Barbour, Il "Black Power in azione" (Sugar, Milano 1969, pagine 365). Dopo una prima parte di testi «storici» (da Nat Turner a W. E. B. Du Bois e a Marcus Garvey), il volume presenta scritti di LeRoi Jones, Robert Williams, Floyd MacKissick, Charles Hamilton, Malcolm X, Stokely Carmichael eccetera. Di Stokely Carmichael e Charles Hamilton esiste in italiano, a cura di Roberto Giammanco, anche "Strategia del Potere Negro" (Laterza, Bari 1968, pagine 245) . Di Stokely Carmichael si vedano anche: l'opuscolo "Il Potere Negro e le lotte del terzo mondo" (Libreria Feltrinelli, Milano 1967, pagine 38) e il saggio "Potere negro", contenuto nel volume miscellaneo "Dialettica della liberazione", a cura di David Cooper e con introduzione di Giovanni Jervis (Einaudi, Torino 1969, pagine 209) . Una voce molto singolare e interessante nel panorama della cultura politica dei neri d'America è quella di James Boggs, operaio gruista in una grande industria automobilistica di Detroit, autore dell'eccellente saggio "La rivoluzione americana. Dal diario di un operaio negro" («Monthly Review», edizione italiana, anno 1, numero 9, Dedalo, Bari, settembre 1968, pagine 32; ne esiste anche una traduzione curata da Jaca Book, Milano 1968). Altri articoli e saggi di Boggs sono stati raccolti sotto il titolo "Lotta di classe e razzismo" (Laterza, Bari 1968, pagine 178). Una tematica per taluni aspetti analoga a quella di Boggs si ritrova nel saggio di George Rawick, "Potere Nero e lotte operaie", tradotto nell'opuscolo "Usa . Dalle strade alle fabbriche" (Libreria Feltrinelli, Milano 1968, pagine 84), che contiene anche il saggio di Ed Clark, "Verso una strategia per il Sud" . Una grossa antologia contenente testi di Marcus Garvey, W. E. B . Du Bois, Booker T. Washington, Martin Luther King, James Forman, Robert Williams, Roy Wilkins, Malcolm X, Ossie Davis, Stokely Carmichael e molti altri è "Protesta negra". Dai primi schiavi a Luther King", documenti e analisi a cura di Joanne Grant (Mondadori, Milano 1968, pagine 454). Altri titoli recenti di notevole interesse documentario sono: "Voci negre dal carcere", raccolte da Etheridge Knight, a cura di Roberto Giammanco (Laterza, Bari 1968, pagine 206); Edgardo Pellegrini, "L'informazione negata. Controgiornale afroamericano" (Laterza, Bari 1969, pagine 277); le prediche del pastore battista nero Albert B. Cleage, raccolte sotto il titolo "Il messia negro" (Laterza, Bari 1969, pagine 268); le canzoni del Black Power, raccolte e curate da Alessandro Portelli nell'antologia dal titolo "Veleno di piombo sul muro" (Laterza, Bari 1969, pagine 293); "Ragazzi negri", testimonianze di teenagers negri sul razzismo americano a cura di Marcello Argilli (Feltrinelli, Milano 1969, pagine 116); "LeRoi Jones risponde" (Libreria Feltrinelli, Milano 1968, pagine 32). Di LeRoi Jones è molto interessante la raccolta "Sempre più nero", saggi sociali sulla condizione dei negri negli Stati Uniti d'America (Feltrinelli, Milano 1968, pagine 220). Di carattere più culturale che politico è invece l'altro suo libro tradotto in Italia, "Il popolo del blues. Sociologia dei negri americani attraverso l'evoluzione del jazz" (Einaudi, Torino 1968, pagine 233) . Meno copiosa, almeno finora, è la documentazione in lingua italiana sull'attività politica del Partito delle Pantere nere, il movimento sorto alcuni anni fa in California che ha significativamente sostituito alla parola d'ordine del «Potere nero» quella che rivendica «Tutto il potere al popolo!» In attesa che esca presso Einaudi, a cura di Alessandro Cavalli e Alberto Martinelli, una raccolta di testi e documenti sul Black Panther Party, si può vedere il libro di James Forman, "Imperialismo e pantere nere", con una introduzione di Edgardo Pellegrini (Samonà e Savelli, Roma 1969, pagine 227); nonché l'ottimo fascicolo litografato "Lotte rivoluzionarie in America . Il partito delle Pantere Nere", a cura del Collettivo C.R. di Torino (presso Sandro Sarti, via Plana 11, Torino; dicembre 1969 e febbraio 1970, pagine 42), che contiene una documentazione rigorosamente selezionata, una breve nota informativa dei curatori e testi di Bobby Seale, Eldridge Cleaver, Fred Hampton, Huey P. Newton, Connie Matthews. I saggi politico-culturali di Eldridge Cleaver - l'esponente più noto delle Pantere nere, ora rifugiato ad Algeri - sono stati raccolti sotto il titolo "Anima in ghiaccio" (Rizzoli, Milano 1969, pagine 201). Sul numero 14 di «Nuovi argomenti » (Roma, aprile-giugno 1969, pagine 3-54) è stata tradotta una lunga e interessante intervista concessa nel 1968 da Cleaver a «Playboy» . NOTE . NOTA 1: Di George Breitman si veda anche "Malcolm X. L'uomo, le idee, i miti", Samonà e Savelli. Roma 1969, pagine 109 . NOTA 2: Mentre questo volume stava andando in stampa è uscito, di Malcolm X, "Sulla storia degli afro-americani" (Samonà e Savelli, Roma 1970, pagine 64) . AUTOBIOGRAFIA DI MALCOLM X . Dedico questo libro alla mia amata Betty e alle nostre bambine . La loro comprensione e i loro sacrifici hanno reso possibile il mio lavoro . Capitolo primo . INCUBO . Quando mia madre era incinta di me, come mi disse in seguito, un gruppo di cavalieri incappucciati del Ku Klux Klan arrivò al galoppo, di notte, davanti alla nostra casa a Omaha nel Nebraska. Dopo aver circondato l'edificio, essi urlarono a mio padre di uscire: erano tutti armati di fucili e carabine. Mia madre andò alla porta principale e l'aprì. Stando in piedi, in una posizione tale che potessero vedere che era incinta, disse loro che era sola con i suoi tre bambini e che mio padre era lontano, a predicare a Milwaukee. Gli uomini del Klan urlarono minacciosi ammonendola che avremmo fatto bene a lasciare la città perché «i buoni cristiani bianchi» non erano disposti a sopportare che mio padre «facesse opera sediziosa» tra i «buoni» negri di Omaha con quelle idee di «tornare in Africa» predicate da Marcus Garvey . Mio padre, il reverendo Earl Little, era un pastore battista e uno zelante organizzatore dell'Associazione di Marcus Aurelius Garvey, l'UNIA [1]. Con l'aiuto di discepoli come mio padre, Garvey, dal suo quartier generale di Harlem a New York, alzava la bandiera della purezza negra esortando le masse a tornare alla loro patria ancestrale in Africa, causa questa che aveva fatto di lui il negro più amato e insieme più criticato di tutto il mondo . Urlando ancora le loro minacce, gli uomini del Klan spronarono alla fine i cavalli e galoppando intorno alla casa mandarono in pezzi tutti i vetri delle finestre con le canne dei fucili. Poi si allontanarono nella notte con le torce accese, rapidi com'erano venuti . Quando ritornò, mio padre andò su tutte le furie. Decise di aspettare che io nascessi - cosa che era imminente - e poi di trasferire altrove la famiglia. Non so bene perché egli prese questa decisione: non era un negro che si lasciasse facilmente spaventare come allora erano quasi tutti e come molti sono ancora oggi. Mio padre era un uomo grosso, alto quasi un metro e novanta e aveva la pelle scurissima. Era orbo e io non ho mai saputo come avesse perduto l'occhio. Era nato a Reynolds, nella Georgia, dove aveva frequentato la terza o forse la quarta elementare. Come Marcus Garvey, era convinto che i negri non potessero mai conquistarsi in America né la libertà né l'indipendenza né il rispetto di sé e che perciò dovessero lasciare l'America ai bianchi e ritornarsene in Africa alla loro terra di origine. Tra le ragioni per cui mio padre aveva deciso di correre tutti questi rischi e di dedicare la propria vita alla propagazione di questa filosofia tra la sua gente c'era il fatto che aveva visto quattro dei suoi fratelli morire di morte violenta: tre di essi erano stati uccisi dai bianchi, uno dei quali linciato. Allora mio padre non poteva sapere che dei tre fratelli rimasti, lui compreso, solo uno, lo zio Jim, sarebbe morto nel suo letto per cause naturali. Più tardi, infatti, la polizia bianca del Nord avrebbe ucciso a revolverate mio zio Oscar e, infine, mio padre sarebbe morto per mano dell'uomo bianco . Ho sempre avuto la convinzione che anch'io morirò di morte violenta ed ho fatto tutto quanto era in mio potere per prepararmi a tale evenienza . Io ero il settimo figlio di mio padre, il quale, da un matrimonio precedente, aveva avuto tre bambini: Ella, Earl e Mary, che abitavano a Boston. Aveva conosciuto e sposato mia madre a Philadelphia, dove nacque il loro primo figlio, il mio fratello maggiore Wilfred. Si trasferirono poi da Philadelphia a Omaha, dove nacquero prima Hilda e poi Philbert. Io venni dopo . Mia madre aveva ventott'anni quando, il 19 maggio 1925, io nacqui in un ospedale di Omaha. Poi ci trasferimmo a Milwaukee, dove nacque Reginald. Fin dall'infanzia, questo mio fratello fu affetto da una strana forma di ernia che lo menomò fisicamente per il resto della vita . Mia madre Louise Little, che era nata a Grenada, nelle Indie occidentali britanniche, sembrava una donna bianca (suo padre era un bianco). Aveva capelli neri lisci e il suo accento non era quello di una negra. Io non so nulla di questo suo padre bianco all'infuori della vergogna che mia madre ne provava . Ricordo di averle sentito dire che era contenta di non averlo mai visto. Naturalmente è a causa di questo nonno bianco che io ho la pelle e i capelli di color bruno-rossiccio, «da marinaio» . Nella nostra famiglia ero il bambino di carnagione più chiara . (In seguito, a Boston e a New York, fui tra quei milioni di negri che erano tanto pazzi da considerare una carnagione chiara come una sorta di simbolo di status e da giudicare fortunato chi era nato così. Ma, sempre in seguito, imparai a odiare ogni goccia del sangue di quello stupratore bianco che è in me) . La nostra famiglia rimase solo per poco tempo a Milwaukee perché mio padre voleva trovare un posto con un pezzo di terra da coltivare e forse con possibilità di iniziare un qualche commercio. L'insegnamento di Marcus Garvey insisteva sulla necessità di rendersi indipendenti dall'uomo bianco. Per qualche ragione che ignoro, subito dopo ci trasferimmo a Lansing, nel Michigan. Mio padre comprò una casa e immediatamente, com'era sua abitudine, si mise a fare il predicatore indipendente nelle locali chiese battiste negre, mentre durante la settimana andava in giro a diffondere il verbo di Marcus Garvey . Aveva cominciato a metter da parte dei risparmi per aprire il negozio che aveva sempre desiderato quando, come sempre accade, alcuni stupidi « zii Tom» [2] del posto cominciarono a raccontare ai bianchi delle storie riguardo alle sue convinzioni rivoluzionarie. Questa volta le minacce e le ingiunzioni ad andarsene vennero da un'associazione razzista del luogo chiamata la Legione nera, perché i suoi membri portavano mantelli neri invece di quelli bianchi del Ku Klux Klan. Ben presto, dovunque mio padre andava, i «legionari neri» lo definivano con disprezzo «un nigger [3] di riguardo» perché voleva aprire un negozio, perché viveva fuori del distretto negro di Lansing e perché diffondeva agitazione e dissenso fra «i buoni niggers» . Come a Omaha, mia madre rimase di nuovo incinta, questa volta della mia sorella più giovane. Nel 1929, subito dopo la nascita di Yvonne, venne la notte di incubo, che è il mio ricordo remoto più vivo. Rammento benissimo di essere stato svegliato di soprassalto da uno spaventoso frastuono di revolverate e di urla, mentre da ogni parte si alzavano fumo e fiamme. Mio padre aveva gridato e sparato dietro ai due bianchi che avevano appiccato il fuoco alla casa e stavano scappando. Intorno tutto bruciava e noi ci aggrappavamo uno all'altro, inciampavamo l'uno nell'altro, ci spingevamo nel tentativo di fuggire. Mia madre, con la piccina in braccio, riuscì a malapena a uscire in giardino prima che la casa crollasse in mezzo a un nugolo di scintille. Ricordo che restammo fuori nella notte, in pigiama, piangendo e gridando fino a farci scoppiare i polmoni. Quando i poliziotti e i vigili del fuoco bianchi arrivarono, si disposero in circolo a guardare la casa che bruciava fino alle fondamenta . Mio padre trovò alcuni amici che ci rivestirono e ci dettero alloggio temporaneamente e poi ci trasferì in un'altra casa alla periferia di East Lansing. A quell'epoca i negri non potevano entrare in città dopo il crepuscolo. Ora lì c'è l'Università statale del Michigan e quando, nel gennaio del 1963, ci andai a fare una conferenza davanti a un pubblico di studenti, raccontai tutte queste cose. (Nella stessa occasione rividi dopo molto tempo il mio fratello minore Robert che stava facendo gli studi di perfezionamento in psicologia). Dissi agli studenti come a East Lansing ci perseguitarono al punto che dovemmo trasferirci ancora, questa volta due miglia fuori della città, in aperta campagna. Mio padre costruì per noi, con le sue proprie mani, una casa di quattro stanze e questa è la dimora in cui cominciai a crescere, il luogo in cui iniziano veramente i miei ricordi . Rammento che dopo l'incendio mio padre fu convocato dalla polizia e interrogato riguardo al porto d'armi per la pistola con cui aveva sparato ai bianchi che avevano appiccato fuoco alla sua casa. Ricordo che i poliziotti venivano sempre a casa nostra, toccavano e scostavano tutto, «per dare un'occhiata» o «per cercare la pistola». L'arma che cercavano - che non riuscirono mai a trovare e per la quale del resto non gli avrebbero mai dato il permesso - era cucita dentro un guanciale. La carabina calibro 22 e la doppietta di mio padre erano invece fuori bene in vista, dato che tutti potevano tenere armi del genere per andare a caccia di uccelli, conigli e altra selvaggina . Dopo quell'episodio i miei ricordi più chiari riguardano l'attrito tra mio padre e mia madre. Sembrava che fossero sempre ai ferri corti e qualche volta mio padre la picchiava. Può darsi che c'entrasse in parte il fatto che mia madre era assai istruita. Dove avesse imparato tutte quelle cose non lo so, ma penso che una donna istruita non possa resistere alla tentazione di redarguire un uomo ignorante. Ogni tanto, quando lei lo criticava con le sue parole appropriate e taglienti, lui le metteva le mani addosso . Mio padre era anche molto aggressivo nei confronti di tutti i figli, fatta eccezione per me. Quando i più grandi infrangevano qualcuna delle sue regole - e ne aveva tante che era difficile conoscerle tutte - li picchiava quasi selvaggiamente. Quasi tutte le botte che presi io me le dette mia madre. Ho pensato molto al perché. In realtà credo che mio padre, violentemente antibianco com'era, fosse inconsciamente afflitto dal modo in cui i bianchi facevano ai negri il lavaggio del cervello da avere la tendenza a favorire quelli dalla pelle più chiara: e io ero appunto il figlio dalla pelle più chiara. A quei tempi, quasi istintivamente, la maggior parte dei genitori negri trattavano molto meglio i loro figli dalla pelle più chiara. Ciò derivava direttamente dalla tradizione della schiavitù secondo cui il «mulatto», in quanto visibilmente più vicino al bianco, era appunto «migliore» . Le altre due immagini che ho di mio padre sono fuori della nostra casa. Una riguarda la sua funzione di predicatore battista. Non fece mai il pastore in nessuna chiesa a lui assegnata: fu sempre un «predicatore itinerante». Ricordo soprattutto il suo sermone preferito: «Quel trenino nero sta arrivando... e voi fareste bene a preparare tutte le vostre cose!» Credo che queste parole alludessero al movimento per il ritorno in Africa, al «treno dei negri che tornano a casa» di Marcus Garvey. A mio fratello Philbert, quello immediatamente prima di me, piaceva andare in chiesa; io ne restavo invece confuso e sgomento. Sedevo con gli occhi spalancati a guardare mio padre che saltava e urlava durante la predica, mentre tutti i fedeli saltavano e urlavano insieme con lui, abbandonandosi anima e corpo al canto e alla preghiera. Anche quand'ero così giovane, non riuscivo a credere all'idea cristiana di Gesù creatura divina; e nessun credente, finché non ebbi passato i vent'anni - e poi in prigione -, avrebbe potuto neanche lontanamente tentare di persuadermi. Avevo pochissimo rispetto per la stragrande maggioranza dei rappresentanti della religione . Era grazie alla sua attività di predicatore che mio padre aveva il maggior numero di contatti con i negri di Lansing. Credetemi pure quando vi dico che allora quei negri stavano davvero male . Anche oggi stanno male, sebbene in modo diverso: con ciò voglio dire che non conosco nessuna città con una percentuale più alta di negri servili e disorientati della cosiddetta classe media, di quei tipici negri ossessionati dai simboli del prestigio sociale e di nient'altro desiderosi che di essere integrati nella società bianca. Poco tempo fa, mi trovavo nel palazzo delle Nazioni Unite e chiacchieravo con un ambasciatore africano e con sua moglie, quando un negro mi si avvicinò e mi chiese: «Mi conoscete?» Restai un po' imbarazzato pensando che si trattasse di qualcuno che avrei dovuto ricordare. Risultò che era uno di questi striscianti negri della classe media di Lansing, così soddisfatta di sé. Ciò non mi predispose bene nei suoi confronti. Quello era il tipo che non avrebbe mai voluto aver niente a che fare con l'Africa finché la moda di avere amici africani non diventò un simbolo di prestigio tra i negri della classe media . Tornando alla mia infanzia, i negri di Lansing «che avevano fatto strada» erano i camerieri e i lustrascarpe. Bastava essere guardiano in qualche negozio del centro per godere di un grande rispetto. La vera élite, i «pezzi grossi», le «voci della razza» erano i camerieri del Country Club [4] di Lansing e i lustrascarpe che servivano i membri dell'Assemblea legislativa dello stato. Gli unici negri che avevano davvero un po' di soldi erano quelli delle lotterie clandestine, i tenutari delle case da gioco e tutti coloro che in qualche altro modo vivevano da parassiti alle spalle dei più poveri, che costituivano la massa . A quel tempo nessun negro veniva assunto dalla grande fabbrica Oldsmobile di Lansing o dalla Reo. (Vi ricordate la Reo? Si fabbricava a Lansing e R. E. Olds, l'uomo da cui prese il nome, abitava anche lui a Lansing. Quando venne la guerra assunsero alcuni negri come custodi). La maggior parte dei negri o godevano del sussidio di disoccupazione o erano negli elenchi della W.P.A [5] . Doveva venire il giorno in cui la nostra famiglia sarebbe stata così povera che avremmo mangiato anche i buchi delle ciambelle; ma a quel tempo stavamo molto meglio della maggioranza dei negri della città. La ragione era che, abitando in campagna, ci potevamo procurare sul posto gran parte del cibo di cui avevamo bisogno. Stavamo molto meglio dei negri di città che, come predicava mio padre, aspettavano la manna dal cielo e il paradiso dopo morti, mentre l'uomo bianco aveva il suo su questa terra . Seppi che le offerte che mio padre raccoglieva dopo le prediche servivano a nutrirci e vestirci, oltre al fatto che faceva anche tanti piccoli lavori. Eppure l'immagine di lui che mi rendeva più orgoglioso erano i suoi entusiastici e fiammeggianti discorsi con le parole di Marcus Garvey. Anche piccolo com'ero, sapevo da quello che avevo vagamente udito che mio padre diceva cose che facevano di lui un «duro». Mi ricordo una vecchia che gli disse con un ghigno: «Voi spaventate a morte questi bianchi!» Una delle ragioni che mi hanno fatto sempre pensare che mio padre mi preferisse era che, per quanto mi ricordo, ero il solo dei suoi figli che portava con sé alle riunioni dcll'UNIA di Garvey che convocava senza tanta pubblicità in casa di gente sempre diversa. Ogni volta c'erano solo poche persone, al massimo venti, ma sembravano moltissime tutte stipate nel salotto di una casa privata. Notavo che in queste occasioni tutti si comportavano diversamente, anche se qualche volta era la stessa gente che in chiesa saltava e urlava. In queste riunioni sia loro che mio padre erano più impegnati e concisi, più intelligenti e più concreti e mi facevano sentire nello stesso modo . Mi ricordo di aver sentito parlare su «Adamo cacciato dall'Eden e gettato nelle caverne dell'Europa», «L'Africa agli africani», «Etiopi, svegliatevi!» Mio padre diceva che non sarebbe passato molto tempo prima che l'Africa fosse completamente governata da negri, da «uomini dalla pelle nera» secondo la frase ch'egli adoperava sempre. «Nessuno sa quando verrà l'ora della redenzione per l'Africa. E' nel vento. Sta per arrivare. Un giorno, come un uragano, arriverà» . Ricordo di aver visto passare di mano in mano le grandi, lucide fotografie di Marcus Garvey. Mio padre ne aveva una busta piena che portava sempre con sé a queste riunioni. Le fotografie mostravano folle che a me sembravano composte di milioni di negri, tutti in un grande corteo che seguiva Garvey seduto in una bella automobile, un grande uomo nero vestito di una scintillante uniforme dagli alamari d'oro, con in testa uno stupendo cappello ricoperto di lunghe piume. Ricordo di aver sentito dire che aveva seguaci non solo tra i negri degli Stati Uniti ma in tutto il mondo e che le riunioni venivano sempre chiuse da mio padre che, mentre gli altri facevano coro, ripeteva varie volte: «Su, razza poderosa, in piedi! Puoi raggiungere tutto ciò che vuoi!» Non ho mai capito perché, dopo aver sentito per così tanto tempo tutte queste cose, non riuscivo mai a pensare, allora, ai negri dell'Africa. A quel tempo l'immagine che avevo dell'Africa era quella di selvaggi nudi, di cannibali, di scimmie, tigri e giungle dagli orribili miasmi . Mio padre andava con la sua vecchia automobile nera, e qualche volta mi portava con sé, a queste riunioni che si tenevano nella zona di Lansing. Ne ricordo una che ebbe luogo di giorno (quasi tutte si svolgevano di notte) nella città di Owosso, quaranta miglia da Lansing, che i negri chiamavano «la città bianca» (il maggior titolo di Owosso è di essere la città che ha dato i natali a Thomas E. Dewey). Come a East Lansing, non era permesso ai negri di stare per le strade dopo il crepuscolo ed è per questo che la riunione veniva tenuta di giorno. In realtà, in quei giorni, molte città del Michigan erano così. In tutte c'erano alcuni negri «del posto» che abitavano lì, qualche volta si trattava di una sola famiglia, com'era nel caso della vicina Mason, capitale della contea, dove abitava una sola famiglia negra di nome Lyons. Il signor Lyons era stato un famoso campione di rugby nella squadra della scuola secondaria di Mason, godeva di un'ottima reputazione nella cittadina e di conseguenza lavorava come domestico presso diverse famiglie . In questo periodo sembrava che mia madre non facesse altro che lavorare: lavare e stirare, pulire la casa e correr dietro a noi otto figli. Come al solito, o litigava con mio padre oppure non gli rivolgeva neanche la parola. Un motivo di frizione era la sua inflessibilità riguardo a certi cibi che non voleva mangiare- e che non voleva che noi mangiassimo - tra i quali il maiale e il coniglio, che piacevano molto a mio padre. Lui era un vero negro della Georgia e credeva che si dovesse mangiare parecchio e di quei cibi che oggi a Harlem noi chiamiamo «di sostanza» [6] . Ho detto che chi mi picchiava era mia madre, almeno quando non le veniva lo scrupolo che i vicini pensassero che mi stava ammazzando. Infatti, appena faceva il gesto di alzar la mano su di me, io aprivo la bocca e lo facevo sapere a tutti. Se qualcuno passava per la strada, lei o cambiava idea o mi dava soltanto qualche schiaffo . Se ci ripenso, sono convinto che proprio come mio padre mi considerava il suo preferito perché avevo la pelle più chiara di quella degli altri suoi figli, mia madre mi puniva più aspramente per la stessa ragione. Aveva la pelle molto chiara ma preferiva quelli che l'avevano più scura: Wilfred, in modo particolare, era il suo cocco. Ricordo che mi diceva di andar fuori e di «prendere il sole in modo da scurire un po'». Faceva tutto quanto era in suo potere perché non risentissi di un complesso di superiorità derivante dal colore. Sono sicuro che mi trattava così anche perché era ossessionata dal modo in cui lei stessa aveva avuto in sorte la pelle più chiara . Imparai presto che piangendo e protestando si poteva ottenere qualcosa. I miei fratelli e la sorella più grandi stavano per andare a scuola quando, talvolta, tornavano indietro e chiedevano il biscotto imburrato con qualcos'altro e mia madre diceva loro di no con impazienza. Io invece mi mettevo a piangere e a fare le bizze finché non mi davano quel che volevo . Ricordo benissimo che mia madre mi domandava perché non ero buono come Wilfred e io dicevo tra me e me che proprio perché Wilfred era così bravo e remissivo restava spesso con la fame . Già a quell'età avevo imparato che se si vuole qualcosa bisogna in qualche modo farsi sentire . Non solo avevamo un grande orto, ma tenevamo anche le galline . Mio padre comprava dei pulcini e mia madre li allevava. A tutti noi piacevano i polli e questo era un cibo su cui non c'era mai nessuna discussione con mio padre. Mi ricordo di un piccolo episodio in seguito al quale provai gratitudine verso mia madre: fu quando le chiesi se mi concedeva il mio piccolo pezzetto da coltivare e lei mi disse di sì. Ne ero entusiasta e lo tenevo benissimo: mi piaceva particolarmente coltivare i piselli ed ero tutto orgoglioso quando si portavano in tavola. Strappavo le erbacce del mio orticello non appena cominciavano a crescere; andavo su e giù carponi tra i filari per togliere i vermi e gli insetti che uccidevo e seppellivo, e qualche volta, quando avevo pulito e messo a posto tutta la coltivazione, mi sdraiavo fra due filari, guardavo il cielo azzurro e le nuvole che passavano e pensavo a tante cose . A cinque anni anch'io cominciai ad andare a scuola. Uscivo di casa la mattina insieme a Wilfred, Hilda e Philbert. Andavamo alla Pleasant Grove School che offriva dall'asilo fino all'ottava classe. Si trovava a due miglia fuori della cinta urbana e credo che non ci fossero difficoltà di ammissione dato che noi eravamo gli unici negri della zona. A quei tempi, i bianchi del Nord solevano «adottare» alcuni negri perché non li consideravano come una minaccia. Neanche i bambini bianchi se la prendevano troppo con noi: ci chiamavano "nigger" e "darkie" e "Rastus" così spesso da farci credere che quelli fossero i nostri nomi naturali. Però loro non adopravano queste parole come insulti: semplicemente erano stati abituati a pensare così di noi . Un pomeriggio del 1931, quando Wilfred, Hilda, Philbert ed io tornammo a casa, trovammo mio padre e mia madre impegnati in uno dei loro soliti litigi. Negli ultimi tempi c'era stata parecchia tensione in casa per via delle minacce della Legione nera . Comunque mio padre aveva preso uno dei conigli che noi allevavamo e aveva ordinato a mia madre di cucinarlo. Noi allevavamo i conigli, ma per venderli ai bianchi. Mio padre ne aveva preso uno dal gabbione e gli aveva strappato la testa. Era così forte che non aveva bisogno del coltello per decapitare i polli o i conigli: con un brusco strappo delle sue grosse mani nere aveva staccato la testa del coniglio e gettato quella palla sanguinolenta ai piedi di mia madre . Mia madre piangeva. Cominciò a spellare il coniglio, prima di cucinarlo, ma mio padre era così arrabbiato che, sbattuta con forza la porta principale, s'incamminò sulla strada verso la città . Fu allora che mia madre ebbe la visione. Era sempre stata una donna strana in questo senso, dotata di una profonda intuizione per ciò che stava per succedere. Credo che in questo molti dei suoi figli le assomiglino: quando qualcosa sta per succedere, ho dei vaghi presentimenti, delle strane sensazioni. Non c'è mai stato un avvenimento prossimo che mi abbia colto completamente alla sprovvista, fatta eccezione per una sola circostanza quando, parecchi anni più tardi, seppi cose incredibili sul conto di un uomo per il quale, fino a quel momento, sarei stato felice di dare la vita . Mio padre era già lontano sulla strada quando mia madre corse gridando fuori della porta. «Early! Early!» chiamò . Tenendosi il grembiule con una mano, attraversò correndo l'orto e raggiunse la strada. Mio padre si voltò e la vide. Forse pensando a come era uscito arrabbiato, le fece cenno con la mano, ma continuò per la sua strada . Più tardi mia madre mi disse che aveva avuto la visione della fine di mio padre. Per tutto il resto del pomeriggio non fu più la stessa: piangeva, era nervosa e abbattuta. Finì di cucinare il coniglio e mise il tegame sulla parte più calda della stufa nera. Poiché mio padre non era tornato prima dell'ora in cui noi di solito andavamo a dormire, mia madre ci abbracciava e ci stringeva convulsamente a sé. Ne fummo stupiti e non sapevamo come comportarci perché non aveva mai fatto così . Ricordo di essermi svegliato alle grida e ai pianti di mia madre. Quando fui fuori del letto, vidi che in salotto c'erano dei poliziotti che cercavano di calmarla. Lei si era infilata i vestiti in fretta e furia per andare con loro, e tutti noi bambini che stavamo intorno a guardare intuimmo senza che nessuno ce lo dicesse che qualcosa di terribile era accaduto a nostro padre . La polizia accompagnò mia madre all'ospedale, in una stanza in cui si trovava il corpo di mio padre coperto da un lenzuolo. Lei non voleva guardare, aveva paura di guardare e probabilmente fu meglio così. Mi fu detto più tardi che il cranio di mio padre era completamente fracassato. I negri di Lansing hanno sempre mormorato che mio padre era stato aggredito e poi disteso sulle rotaie in modo che una vettura tramviaria potesse passare sopra di lui. Il suo corpo era quasi tagliato a metà . In quelle condizioni visse due ore e mezzo. Allora i negri, specialmente quelli della Georgia, erano più forti di quanto non lo siano ora: i negri georgiani dovevano essere forti semplicemente per poter sopravvivere . Nella mattinata anche noi bambini apprendemmo la notizia della sua morte. Avevo sei anni e mi ricordo di aver provato una vaga commozione. La casa era piena di gente che piangeva e commentava con amarezza che la Legione nera dei bianchi era riuscita, dopo tanti tentativi, a metter le mani su di lui. Mia madre era in preda a un attacco isterico. Nella camera da letto le donne le tenevano i sali sotto il naso, ma al funerale era ancora in quello stato di profonda agitazione . Non mi ricordo molto bene neanche del funerale. Stranamente, l'unica cosa che ricordo è che non si svolse in chiesa e ciò mi sorprese perché mio padre era un predicatore e io stesso ero stato presente ai sermoni funebri che pronunciava in chiesa. Il suo funerale ebbe luogo invece nella sede di un'impresa di pompe funebri . Ricordo che durante la cerimonia un grosso moscone si posò sul volto di mio padre e che Wilfred si alzò di scatto e lo cacciò via con la scarpa. Poi fece ritorno alla sua sedia - c'erano delle sedie pieghevoli per noi - con il volto rigato di lacrime. Quando ci avvicinammo alla bara, ricordo di aver avuto l'impressione che il forte, nero volto di mio padre fosse stato sbiancato con la farina e di aver desiderato che non ce ne avessero messa tanta . Per circa una settimana, nella nostra grande casa di quattro stanze, si avvicendarono molti visitatori. Erano buoni amici di famiglia, come i Lyons che venivano da Mason, lontana venti chilometri da noi, i Walker, i MacGuire, i Liscoe, i Green, i Randolph, i Turner e altri di Lansing e tanta gente che veniva da diversi paesi e che io avevo visto alle riunioni del movimento di Garvey . Noi bambini ci adattammo più facilmente di nostra madre. Non potevamo prevedere con la sua stessa chiarezza le prove che ci attendevano. Via via che le visite si facevano più rare, lei cominciò a preoccuparsi di riscuotere le due polizze di assicurazione di cui mio padre era sempre stato tanto orgoglioso. Aveva sempre detto che, in caso di morte, la famiglia doveva esser lasciata con qualche forma di protezione . Una di queste polizze, la più piccola, fu pagata senza difficoltà. Non so a quanto ammontasse, ma credo che non fosse più di mille dollari, o forse addirittura metà di tale somma . Ma dopo che ebbe riscosso questi soldi e pagato i conti del funerale e le altre spese, mia madre cominciò ad andare spesso in città. Ritornava molto avvilita. La società assicuratrice che aveva rilasciato la polizza più grossa esitava a pagare . Dicevano che mio padre si era suicidato. Avemmo nuove visite e si parlò con amarezza dei bianchi: come avrebbe potuto mio padre colpirsi in testa e poi stendersi sui binari perché il tram gli passasse sopra? Questa era la nostra situazione. Mia madre aveva trentaquattro anni, era senza marito, senza nessuno che la mantenesse, la proteggesse o l'aiutasse a tirar su i suoi otto bambini. Ma un certo tipo di vita familiare ricominciò e finché ci furono i soldi della prima polizza le cose andarono bene . Wilfred, che era un ragazzo con la testa sulle spalle, si comportava come se fosse molto più grande. Mentre noi più piccoli non capivamo queste cose, lui aveva abbastanza giudizio da prevedere quello che ci aspettava. Zitto zitto lasciò la scuola e andò in città a cercarsi un lavoro. Faceva tutti i lavori che riusciva a trovare; la sera tornava a casa stanco morto e dava a nostra madre tutto quello che aveva guadagnato . Hilda, che anche lei era sempre stata un tipo calmo, cominciò a occuparsi dei più piccoli mentre io e Philbert non contribuivamo in alcun modo. A casa non facevamo altro che azzuffarci tra di noi mentre a scuola ci univamo contro i ragazzi bianchi. Qualche volta queste lotte erano di natura razziale, ma scoppiavano per qualunque pretesto . Cominciai a prendere Reginald sotto la mia protezione. Quando ebbe passata la prima infanzia, divenimmo molto uniti. Credo che mi compiacessi molto del fatto che era il fratello immediatamente più giovane e guardava a me come alla sua guida . Mia madre cominciò a comprare a credito, un sistema al quale mio padre era sempre stato contrario. «Il credito è il primo passo verso il debito, - aveva sempre detto, - e in fondo a questa strada c'è la schiavitù». Poi mia madre cominciò a andare a lavorare a Lansing, facendo un po' di tutto (pulizie, cucito) per i bianchi. Di solito loro non si accorgevano che era una negra. Parecchi bianchi di quelle parti non volevano negri in casa . Le cose andavano bene finché, in un modo o nell'altro, i bianchi non scoprivano chi era e di chi era la vedova. Allora la mandavano via. Ricordo che tornava a casa piangendo e cercando di non farsi vedere da noi, perché aveva perduto un lavoro di cui aveva tanto bisogno . Una volta, quando uno di noi - non ricordo più chi - dovette andare a trovarla dove lavorava e i padroni lo videro e capirono che era una negra, venne licenziata su due piedi e tornò a casa piangendo, ma questa volta senza nascondersi . Quando i funzionari dell'ente assistenziale dello stato cominciarono a venire a casa nostra, noi, di ritorno dalla scuola, li trovavamo spesso a parlare con nostra madre. Le facevano mille domande. Il modo come si comportavano e come guardavano lei e noi, quel loro girar dappertutto in casa, ci faceva sentire - per lo meno a me - che non eravamo delle persone. Ai loro occhi noi eravamo delle cose e basta . Mia madre cominciò a ricevere due assegni mensili; uno veniva dall'ente di assistenza e l'altro credo che fosse quello della pensione di vedova. Quei soldi ci aiutavano, ma tanti come eravamo non ci bastavano. Quando, ai primi di ogni mese, arrivavano gli assegni, uno lo dovevamo già completamente, e tante volte non bastava, al padrone del negozio di alimentari . L'altro poi non durava molto . Cominciammo lentamente a scendere la china. Il nostro decadimento fisico non fu così rapido come quello psicologico . Malgrado tutto, mia madre era una donna molto orgogliosa e le pesava il fatto di dover accettare la carità. I suoi sentimenti influenzavano anche noi . Criticava aspramente il padrone del negozio di alimentari che metteva prezzi più alti nel conto, e gli diceva che non era ignorante e che non poteva tollerare quei sistemi. Rispondeva con durezza ai funzionari dell'ente statale di assistenza e diceva loro di essere una donna responsabile in grado di allevare i suoi figli e che perciò non c'era bisogno che loro venissero così spesso tra i piedi. A questa gente le sue risposte non piacevano . Tuttavia l'assegno mensile dell'ente di assistenza era il loro lasciapassare. Si comportavano come se fossero i nostri padroni, come se noi fossimo loro proprietà. Per quanto mia madre lo desiderasse, non riusciva a tenerli lontani. Si infuriava in modo particolare quando quei funzionari cominciarono a prender da parte noi bambini più grandi, uno alla volta, fuori in giardino o da qualche altra parte, a farci domande o a dirci cose contro nostra madre o contro gli altri fratelli . Noi non riuscivamo a capire per quale ragione, se lo stato era disposto a darci carne, sacchi di patate e frutta e barattoli contenenti altri cibi, nostra madre accettasse malvolentieri queste cose. Proprio non riuscivamo a capire. Più tardi mi resi conto che mia madre stava facendo uno sforzo disperato per difendere la sua e la nostra dignità . L'orgoglio era ormai tutto quello che avevamo da difendere poiché, nel 1934, cominciammo davvero a soffrire. Fu l'anno peggiore della depressione e nessuno di quelli che noi conoscevamo aveva abbastanza da mangiare e da vivere. Ogni tanto venivano a trovarci dei vecchi amici di famiglia e portavano un po' di roba da mangiare. Sebbene fosse carità, mia madre l'accettava . Wilfred faceva tutti i mestieri per aiutare la famiglia; quando le riusciva di trovarlo, anche mia madre si adattava a fare qualsiasi lavoro. A Lansing c'era un panificio dove, per cinque centesimi, due di noi ragazzi compravamo un grande sacco di pane e biscotti vecchi di qualche giorno. Camminavamo poi per tre chilometri portandocelo dietro fino a casa. Credo che mia madre sapesse cucinare decine di piatti a base di pane o solo di pane: pomodori stufati, per esempio, che col pane costituivano un pasto completo, oppure qualcosa di simile al toast, se c'erano delle uova, o un pudding di pane, qualche volta con l'uvetta. Se riuscivamo ad acquistare qualche polpetta, quando arrivavano in tavola era più pane che carne, mentre noi ragazzi ingoiavamo tutti interi i biscotti che trovavamo sempre nel sacco insieme col pane . Ma c'erano delle volte in cui non avevamo neanche cinque centesimi e restavamo così affamati da sentirci girare il capo . Mia madre metteva a bollire un pentolone di cicoria e si mangiava quella. Ricordo che qualche vicino dall'anima meschina mise fuori questa storia e gli altri ragazzi ci prendevano in giro dicendo che in casa nostra si mangiava «erba fritta» . Qualche volta, quando eravamo fortunati, si mangiava farinata di avena o di granturco tre volte al giorno, oppure farinata al mattino e pane di granturco la sera . Philbert ed io eravamo ora abbastanza grandi per smettere di accapigliarci uno con l'altro il tempo necessario per sparare ai conigli con la carabina calibro 22 che era stata di nostro padre. I vicini bianchi ce li compravano e ora mi rendo conto che lo facevano unicamente per aiutarci perché anche loro, come tutti gli altri, andavano a caccia di conigli. Mi ricordo che qualche volta Philbert ed io ci portavamo dietro anche il piccolo Reginald. Non era molto forte, ma era sempre molto orgoglioso di venire con noi. Mettevamo le trappole per i topi muschiati nel piccolo ruscello che scorreva dietro casa nostra e stavamo fermi in agguato finché venivano fuori delle rane ignare: noi le infilavamo con una fiocina, tagliavamo via le gambe per venderle a cinque centesimi il paio ai vicini che abitavano a nord e a sud della strada. Sembrava che i bianchi fossero meno limitati nei loro gusti gastronomici . Verso la fine del 1934, mi pare, qualcosa cominciò a muoversi . Una specie di deterioramento psicologico fece la sua apparizione nella nostra famiglia cominciando a distruggere il nostro orgoglio. Forse era il fatto continuo, tangibile e inequivocabile che noi eravamo poveri. Avevamo conosciuto altre famiglie che erano state costrette a vivere coi contributi dell'assistenza pubblica e noi ragazzi sapevamo, senza che nessuno di famiglia ce lo avesse mai detto, che avevamo troppo orgoglio per andare alla sede dell'ente assistenziale dove veniva distribuito gratuitamente da mangiare. Ora invece eravamo anche noi fra quelli. A scuola il marchio di «assistiti dalla carità pubblica» ci veniva attribuito tacitamente e talvolta anche ad alta voce . Sembrava che su tutta la roba da mangiare che c'era in casa nostra ci fosse la dicitura «vietata la vendita». Il cibo distribuito dagli enti assistenziali, infatti, portava quella dicitura per impedire che i beneficiari lo vendessero. C'è da stupirsi che noi ragazzi non fossimo arrivati a credere che «vietata la vendita» fosse la marca dei prodotti . Qualche volta, invece di tornare a casa quando uscivo da scuola, facevo a piedi le due miglia che ci separavano da Lansing e cominciavo ad andare da un negozio all'altro. Giracchiavo davanti alle vetrine dove le merci, come se fossero mele, erano lì allineate in scatole, botti e cestini e aspettavo il momento giusto per rubare qualche sorpresa. Lo sapete cos'era la sorpresa? Qualsiasi cosa! Oppure presi l'abitudine di capitare all'ora di pranzo in casa di certe famiglie che conoscevamo. Sapevo che loro immaginavano benissimo perché ero lì, ma non mi umiliarono mai facendomi andar via a mani vuote. Mi invitavano a restare per pranzo o per cena ed io mi riempivo da scoppiare . In modo particolare mi piaceva andare a far visita ai Gohanna . Erano persone piacevoli, anziane e molto religiose e quando mio padre predicava io li avevo visti tante volte tra quelli che saltavano e urlavano più di tutti. Con loro abitava un nipote che tutti chiamavano «ragazzone» e con lui io andavo parecchio d'accordo. Insieme con i Gohanna abitava anche la vecchia signora Adcock che andava con loro in chiesa. Era una donna che aveva sempre cercato di far del bene a tutti che andava a far visita ai malati e gli portava sempre qualcosa. Fu lei che, anni dopo, mi disse una cosa che ho ricordato per molto tempo: «Malcolm, c'è una cosa che mi piace di te. Sei un poco di buono, ma non fai nulla per nasconderlo. Non sei un ipocrita» . Più cominciavo a star lontano da casa, a far visita alla gente e a rubare nei negozi, e più diventavo aggressivo. Non ero disposto ad aspettare niente . Crescevo alla svelta, più fisicamente che intellettualmente e nella misura in cui cominciavo a essere riconosciuto in città diventavo consapevole del particolare atteggiamento che i bianchi avevano verso di me. Sentivo confusamente che aveva a che fare con mio padre; che era una versione adulta di quello che parecchi ragazzi bianchi avevano detto a scuola, per accenni o qualche volta apertamente, e che in realtà rifletteva quello che avevano sentito dai loro genitori: che cioè la Legione nera o il Klan avevano assassinato mio padre e che la società di assicurazione aveva imbrogliato mia madre rifiutandosi di pagarle la polizza . Quando cominciai ad esser preso perché rubacchiavo qua e là, i funzionari dell'ente di assistenza dello stato concentrarono su di me la loro attenzione. Non riesco a ricordarmi quando per la prima volta mi resi conto che essi parlavano di mandarmi lontano da casa. Ricordo che mia madre fece una vera e propria scenata urlando che sapeva benissimo allevare da sé i suoi figlioli. Mi picchiava perché rubavo e io cercavo di mettere in allarme il vicinato con le mie grida. Di una cosa sono sempre stato fiero e cioè di non avere mai alzato la mano contro mia madre . Durante le sere d'estate, oltre a tutte le altre cose che facevamo, alcuni di noi ragazzi andavamo giù per la strada o attraverso i campi di erba medica a rubare i cocomeri. I bianchi hanno sempre considerato i cocomeri come qualcosa di strettamente associato con i negri, e siccome uno dei tanti nomignoli che ci davano era quello di "coons", rubare i cocomeri diventava "cooning" [7] i cocomeri. Se i ragazzi bianchi lo facevano, voleva dire che si comportavano come negri. I bianchi hanno sempre nascosto o giustificato tutte le loro colpe rovesciandone il biasimo sui negri o ridicolizzandoli . Una sera di Halloween [8], ricordo che con altri ragazzi decidemmo di rovesciare una di quelle cabine di legno che i contadini costruivano nell'aia per adibirle a gabinetti, ma un vecchio - il quale probabilmente aveva fatto questo scherzo chissà quante volte quand'era giovane - ci preparò una bella trappola. Di solito si vien fuori dalla parte posteriore della cabina, ci si mette tutti insieme e si spinge finché non è rovesciata. Quel contadino l'aveva tirata fuori dai buchi entro cui era assicurata per mezzo di paletti e l'aveva messa proprio DAVANTI alla fossa in cui vengono raccolte le feci. Bene, noi arrivammo lì in fila indiana, al buio, e i due ragazzi bianchi che erano in testa cascarono dentro la merda fino al collo. Dopo puzzavano così tanto che noi, a malapena, riuscimmo a tirarli fuori. La cosa ci disgustò talmente che durante tutto il giorno di Halloween non facemmo più nulla. Quanto a me non caddi dentro proprio per un pelo. I bianchi erano così abituati a stare in prima fila che questa volta la loro sete di comando li aveva fatti cascare diritti nel buco . Così, in diversi modi, imparai parecchie cose. Raccoglievo fragole e sebbene non mi ricordi quanto mi davano per ogni cesta, rammento che una volta, dopo aver lavorato duramente per un giorno intero, mi ritrovai in tasca circa un dollaro, che a quei tempi era parecchio. Avevo così tanta fame che non sapevo che fare. Camminavo verso la città ossessionato dalla visione di qualcosa di buono da mangiare quando un ragazzo bianco più grande di me, Richard Dixon, mi venne incontro e mi chiese se volevo giocare a testa e croce. Lui aveva un sacco di spiccioli e mi cambiò il dollaro. In circa mezz'ora, si riprese tutti gli spiccioli compreso il mio dollaro e io, invece di andare in città a comprarmi qualcosa, tornai a casa con le mani vuote e pieno di amarezza. Ma questo fu niente paragonato a quello che provai quando, più tardi, scoprii che mi aveva imbrogliato. C'è un sistema per prendere e tenere la moneta e farla girare dalla parte che si vuole. Fu questa la prima lezione che ricevetti sul gioco d'azzardo: se vedete che qualcuno vince sempre, state sicuri che non gioca ma bara. Negli anni seguenti, se quando giocavo d'azzardo mi accorgevo di perdere in continuazione, mi mettevo a guardare attentamente cosa facevano gli altri. Ciò equivale alla situazione del negro in America che sta lì a guardare il bianco che vince sempre. Questi è un giocatore di professione: gli vengono tutte le carte e le probabilità sono sue perché ha sempre trattato con noi come chi conosce in anticipo quali carte verranno . Fu durante questo periodo che mia madre cominciò a ricevere le visite di alcuni avventisti del settimo giorno [9] che erano venuti ad abitare in una casa non lontano da noi. Parlavano con lei per ore e ore e andavano via lasciandole opuscoli e riviste . Mia madre li leggeva e li leggeva anche Wilfred, che era tornato a frequentare la scuola dopo che avevamo cominciato a ricevere l'assistenza statale. Mio fratello leggeva molto e sembrava che non alzasse mai la testa dal libro . Non passò molto tempo che mia madre cominciò a trascorrere lunghe ore con gli avventisti. Credo che sia stata soprattutto influenzata dal fatto che essi praticavano delle norme dietetiche assai più restrittive di quelle che lei ci aveva sempre insegnato e che aveva messo in pratica con noi. Gli avventisti erano contrari, come noi, a mangiare il coniglio e il maiale: erano seguaci delle leggi dietetiche di Mosè e quindi non mangiavano la carne di bestie che non avessero lo zoccolo forcuto o che non fossero ruminanti. Cominciammo a frequentare insieme a mia madre le riunioni degli avventisti che venivano tenute più all'interno, in zone isolate. Per noi ragazzi la maggiore attrazione era costituita dal buon cibo che veniva servito, ma ascoltavamo anche tutto quello che veniva detto . C'era un gruppetto di negri provenienti dalle cittadine della zona, ma direi che il novantanove per cento dei presenti era costituito da bianchi. Gli avventisti credevano che noi vivessimo alla fine della storia, e che il mondo sarebbe presto giunto al suo compimento. Erano i bianchi più gentili e cordiali che io abbia mai visto. Noi bambini osservavamo - e ne discutevamo anche tra di noi quando eravamo a casa - che essi in un certo senso erano diversi da noi, per esempio perché non facevano i loro cibi abbastanza piccanti o perché avevano un odore diverso dal nostro . Nel frattempo i funzionari degli enti assistenziali stavano alle calcagna di mia madre. Ormai lei non faceva più un segreto del fatto che li odiava e non li voleva vedere tra i piedi, ma essi, forti del loro diritto, venivano lo stesso. Infinite volte ho riflettuto sul modo che essi tenevano, nel parlare a noi fanciulli, per insinuare alla nostra mente i germi della divisione. Ci domandavano, per esempio, chi era più intelligente degli altri e a me chiedevano perché ero «così diverso» . Credo che ritenessero una delle funzioni legittime del loro mestiere quella di mandare i bambini presso genitori adottivi, e che in tal modo si sarebbero liberati di molti fastidi, qualunque fossero stati i risultati . Quando mia madre li combatteva, loro la colpivano attraverso di me. Ero il bersaglio principale perché rubavo e questo voleva dire che mia madre non si prendeva abbastanza cura di me . Tutti noi eravamo spesso turbolenti e cattivi e io più di tutti gli altri. Insieme con Philbert non facevamo che litigare e questa era solo una delle tante cose che affliggevano continuamente mia madre . Non potrei dire con esattezza né come né quando i funzionari degli enti assistenziali tirarono fuori l'idea che mia madre non aveva la testa a posto . Però mi ricordo con esattezza di aver sentito che essi adoperarono la parola «pazza» quando seppero che il contadino negro che abitava vicino a noi si era offerto di darci del maiale macellato - una bestia intera, o magari anche due - e lei aveva rifiutato. Tutti noi li sentimmo chiamare «pazza» mia madre perché aveva rifiutato della buona carne; e per loro non volle dir niente che mia madre spiegasse di non avere mai mangiato carne di maiale perché era contro le sue convinzioni religiose di avventista del settimo giorno [9] . Erano cattivi e infidi come avvoltoi e non avevano nessuna simpatia, comprensione, compassione o rispetto per mia madre. Ci dicevano: «E' pazza perché rifiuta della buona roba da mangiare». Fu proprio allora che la nostra famiglia, la nostra unità, cominciarono a disgregarsi. Attraversavamo tempi molti difficili ed io non contribuivo per nulla, ma avremmo potuto farcela, avremmo potuto restare insieme perché per quanto io fossi cattivo e per quante noie e preoccupazioni causassi a mia madre, io le volevo bene . Venimmo a sapere che i funzionari degli enti assistenziali dello stato erano andati a interpellare la famiglia Gohanna e che questa si era dichiarata disposta a prendermi in casa. Quando mia madre lo seppe ebbe una profonda crisi e per un po' quei distruttori della nostra famiglia non si fecero più vedere . Fu proprio in questo periodo che un grosso negro di Lansing cominciò a frequentare la nostra casa. Non ricordo come o dove aveva conosciuto mia madre: può darsi che sia stato attraverso amici comuni. Non ricordo neanche che mestiere faceva, anche perché nel 1935, a Lansing, i negri non esercitavano nessuno di quelli che si chiamano mestieri né tanto meno professioni . L'uomo, che era grosso e aveva la pelle molto scura, somigliava un po' a mio padre. Ricordo il suo nome, ma non c'è bisogno di riferirlo qui. Era scapolo e mia madre era una vedova di soli trentasei anni. L'uomo era indipendente ed è naturale che lei lo ammirasse per questo. Durava così tanta fatica a tenere la disciplina con noi, che la sola presenza di un uomo grande e grosso come quello le sarebbe stata di aiuto; e inoltre se avesse avuto un uomo che guadagnava, mia madre avrebbe potuto mandar via per sempre i funzionari degli enti assistenziali . Noi tutti comprendevamo senza mai dire molto, o almeno non facevamo obiezioni. Prendemmo la cosa alla leggera, persino come pretesto per divertirci tra di noi: quando l'uomo veniva, nostra madre si metteva i vestiti migliori - era ancora una bella donna -, si comportava in modo del tutto diverso, era gaia e sorridente come noi non l'avevamo più vista da anni . La cosa durò, credo, per circa un anno finché, nel 1936 o forse nel 1937, l'uomo di Lansing piantò improvvisamente mia madre . Non venne più a farle visita e, da quello che capii in seguito, non se la sentì di assumersi la responsabilità di quelle otto bocche da sfamare. Ebbe paura perché noi eravamo troppi e anche ora io penso spesso alla trappola in cui, insieme con tutti noi, era imprigionata mia madre e arrivo anche a capire perché quell'uomo si rifiutò di assumersi una così tremenda responsabilità . Per lei fu un colpo terribile, fu il principio della fine della realtà. Divenne sempre più agghiacciante vedere come mia madre parlava con se stessa mentre era seduta e mentre camminava per casa, quasi non si accorgesse che noi eravamo là vicino a lei . I funzionari degli enti assistenziali si accorsero di questo suo peggioramento e fu allora che cominciarono a prendere le misure per allontanarmi da casa. Mi spiegavano come sarebbe stato bello abitare con i Gohanna: sia i coniugi che il «ragazzone» e la signora Adcock avevano detto di aver simpatia per me e sarebbero stati contenti di avermi a casa loro . Anche a me piacevano, ma non volevo lasciare Wilfred. Imitavo e ammiravo il mio fratello maggiore e non volevo neanche lasciare Hilda che era come la mia seconda madre. Neanche Philbert, perché persino in tutto quel nostro litigare c'era un profondo sentimento di amore fraterno. Soprattutto non volevo separarmi da Reginald, così indebolito dall'ernia cronica, e che mi considerava come il suo fratello grande che lo proteggeva, allo stesso modo in cui io consideravo Wilfred. Quanto ai più piccoli, Yvonne, Wesley e Robert, non avevo proprio nulla contro di loro . Nella misura in cui mia madre parlava sempre più tra sé, si interessava sempre meno di noi e diventava sempre meno responsabile. La casa era meno pulita e noi cominciammo ad esser più trascurati in tutto. Ora era Hilda che di solito si occupava della cucina . Noi ragazzi osservavamo come la nostra ancora cominciava a cedere. Era qualcosa di terribile, che non riuscivamo ad afferrare, e che tuttavia non potevamo stornare da noi: era la sensazione che qualcosa di tremendo stava per accadere. Noi più giovani ci appoggiavamo sempre più alla forza relativa di Wilfred e di Hilda, che erano i più grandi . Alla fine, quando fui mandato a casa dei Gohanna, ne fui lieto almeno in un senso superficiale. Ricordo che quando lasciai la mia casa accompagnato da un funzionario degli enti assistenziali, mia madre disse questo: « Non fategli mangiare carne di maiale!» Da molti punti di vista era meglio in casa dei Gohanna. Io dividevo la camera con il «ragazzone» e questa soluzione era soddisfacente. Non era ovviamente come con i miei fratelli di sangue, però potevo contentarmi. I Gohanna erano molto religiosi e io e il «ragazzone» andavamo in chiesa insieme con loro. Ormai loro avevano raggiunto la salvazione e potevano considerarsi dei veri "Holy Rollers" [10]. I predicatori e i fedeli saltavano e urlavano più di quelli che avevo visto nelle chiese battiste . Essi cantavano a squarciagola, ondeggiavano avanti e indietro, piangevano e gemevano, battevano il tempo sui loro piccoli tamburi e cantavano con voce salmodiante. Quando uscivamo tutti dalla chiesa per tornarcene a casa sembrava che dappertutto ci fossero fantasmi, melodie spirituali e «spiritelli» pieni di incantesimi . Ai Gohanna e alla signora Adcock piaceva molto andare a pescare e qualche sabato anch'io e il «ragazzone» andavamo con loro. Mi ero trasferito alla scuola media inferiore di West Lansing che era situata proprio nel cuore della comunità negra. C'erano pochi scolari bianchi, ma il «ragazzone» non faceva troppa lega con i nostri compagni e io lo imitavo. Quando andavamo a pescare né a me né a lui piaceva l'idea di star lì seduti ad aspettare che il pesce tirasse il sughero sott'acqua o facesse oscillare la canna, quando pescavamo con questo sistema. Io ero sicuro che ci dovesse essere qualche altro modo più sbrigativo per catturare il pesce, anche se non riuscii mai a scoprirlo . Il signor Gohanna era amico intimo di certi uomini che di sabato, portavano me e il «ragazzone» a cacciare i conigli. Io avevo la carabina calibro 22 che era stata di mio padre e che mia madre mi aveva lasciato portare dai Gohanna. Per cacciare i conigli, i vecchi cacciatori che erano con noi si servivano di una strategia che era sempre stata la stessa . Di solito quando il cane stana il coniglio e questo fugge, quasi istintivamente correrà in una specie di circolo per tornare presto o tardi vicino al luogo dove era originariamente rintanato. Ebbene, quei vecchi cacciatori non facevano altro che star seduti, nascosti, ad aspettare che il coniglio tornasse indietro per sparargli. Io cominciai a pensare a questa faccenda e finalmente concretai un piano: mi sarei separato da loro e dal «ragazzone» per portarmi in un punto dove avevo calcolato che il coniglio, sulla via del ritorno, sarebbe passato. In questo modo lo avrei intercettato prima degli altri . L'idea funzionò come qualcosa di magico. Cominciai a prendere tre o quattro conigli prima che loro potessero ammazzarne uno solo. La cosa incredibile fu che nessuno di quei vecchi cacciatori si immaginò mai il perché. Si affannavano a ripetere che io ero un gran tiratore. Allora avevo dodici anni. Non avevo fatto altro che perfezionare la loro strategia e questo fu il principio di una lezione molto importante nella vita, che cioè ogni volta che si incontra qualcuno che ha avuto più successo di noi, specialmente se ci si trova nello stesso campo di attività, si deve sapere che quello fa qualcosa che noi non facciamo . Tornavo molto spesso a far visita a casa. Qualche volta veniva con me il «ragazzone» o uno o l'altro dei Gohanna o tutti e due, mentre qualche volta andavo da solo. Ero contento che venisse qualcuno con me perché la loro presenza rendeva più facile la prova . Ben presto i funzionari degli enti assistenziali cominciarono a preparare i loro piani per togliere a mia madre tutti i suoi figli. Ora lei parlava tra sé quasi sempre mentre era entrato in scena tutto un nuovo gruppo di bianchi che non facevano altro che delle domande. Venivano persino a cercarmi dai Gohanna e mi interrogavano sul portico di casa o mi facevano sedere accanto a loro in macchina . Alla fine mia madre ebbe una crisi completa e il tribunale sanzionò definitivamente la decisione di ricoverarla all'ospedale psichiatrico di Kalamazoo . Era distante circa cento chilometri da Lansing e per arrivarci ci voleva un'ora e mezzo di autobus. Io e tutti i miei fratelli e sorelle fummo posti sotto la tutela del giudice MacClellan di Lansing. Eravamo «figli dello stato», affidati al tribunale che aveva piena autorità su di noi. Un bianco che tiene sotto tutela i figli di un negro! Nient'altro che una forma moderna e legale di schiavitù, anche se praticata con buone intenzioni . Mia madre rimase in quell'ospedale di Kalamazoo per circa ventisei anni. Più tardi, quando io ero ancora nel Michigan, l'andavo a visitare ogni tanto e niente poteva commuovermi più della vista delle sue pietose condizioni. Nel 1963 la facemmo uscire dall'ospedale ed ora essa abita a Lansing con Philbert e la sua famiglia . Era molto peggio che se si fosse trattato d'una malattia fisica di cui si sarebbe conosciuta la causa, prescritte le medicine e stabilita la cura. Tutte le volte che andavo a farle visita, quando finalmente la portavano via - ridotta ormai a un caso, a un numero - dalla stanza dove eravamo stati seduti insieme, io mi sentivo peggio di quando ero venuto . La mia ultima visita, quando sapevo che non sarei mai più tornato là per vederla, fu nel 1952. Avevo ventisette anni. Mio fratello Philbert mi aveva detto che l'ultima volta che lui era andato a visitarla, lo aveva a malapena riconosciuto: «A tratti», aveva detto . Me non mi riconobbe affatto . Stette lì a guardarmi senza sapere chi fossi . Quando cercai di parlarle, di prenderle la mano, la sua mente era altrove. «Mamma, - le chiesi, - sapete che giorno è oggi?» «Tutti se ne sono andati», rispose con lo sguardo perduto nel vuoto . Non so descrivere quello che provai. La donna che mi aveva fatto nascere, che mi aveva nutrito, consigliato, castigato ed amato, non mi riconosceva più. Fu per me come se avessi cercato di dare la scalata a una montagna di piume. La guardai e stetti ad ascoltarla mentre «parlava», ma non potevo far niente . Credo che se mai un ente assistenziale di stato ha distrutto una famiglia, questa è la nostra. Noi volevamo stare insieme e cercammo di raggiungere quello scopo. Il nostro focolare non doveva esser distrutto, ma l'ente assistenziale, i tribunali e il loro dottore ci dettero il colpo di grazia. Inutile dire che il nostro non fu il solo caso di questo genere . Sapevo che non sarei tornato più a vedere mia madre perché ciò avrebbe potuto trasformarmi in una persona spietata e pericolosa. Sapevo che loro ci avevano considerato dei puri e semplici numeri, un caso per la loro amministrazione, e non come degli esseri umani e che mia madre era là come una cifra statistica, mentre non avrebbe dovuto esserlo, e che tutto ciò esisteva per colpa del fallimento della società, della sua ipocrisia, della sua avidità e della sua mancanza di pietà e compassione. Per questo io non ho né pietà né compassione per una società che schiaccia la gente e poi la punisce per non esser stata capace di rimanere in piedi sotto il suo peso . Solo rare volte ho parlato a qualcuno di mia madre, perché credo che avrei potuto uccidere senza esitare chiunque facesse un commento offensivo su mia madre. Perciò, di proposito, non ho mai voluto creare un'occasione del genere . Tornando al 1937, quando cioè la nostra famiglia fu distrutta, le autorità dello stato, visto che Wilfred e Hilda erano grandi abbastanza, permisero che abitassero da soli nella grande casa di quattro stanze che mio padre aveva costruito. Philbert fu affidato a un'altra famiglia di Lansing, quella di una certa signora Hackett, mentre Reginald e Wesley andarono ad abitare da certi Williams, che erano amici di mia madre. Yvonne e Robert furono affidati alla famiglia MacGuire proveniente dalle Indie occidentali . Sebbene fossimo separati, tutti noi riuscimmo a mantenerci in contatto intorno a Lansing - a scuola e fuori - tutte le volte che potevamo riunirci. Malgrado la separazione artificialmente creata e malgrado la distanza che c'era fra noi, rimanemmo sempre molto vicini l'uno all'altro . NOTE . NOTA 1: Universal Negro Improvement Association (Associazione universale per il miglioramento dei negri): organizzazione fondata da Marcus Garvey durante la prima guerra mondiale. Suo scopo era di garantire la raccolta di capitali sufficienti e di promuovere tutte le iniziative necessarie per permettere il ritorno degli afroamericani in Africa. Nel momento del suo massimo sviluppo raggiunse quasi il milione di membri . Branche e filiazioni della Universal Negro Improvement Association furono la Black Star Steamship Line (compagnia di navigazione), il Black Eagle Flying Corps (una specie di club aereo che avrebbe dovuto porre le basi per una linea aerea negra), la Universal African Legion e molti ordini nobiliari dalle insegne e cerimonie ispirate alla tradizione africana . Dopo un processo sulla cui legittimità giuridica restano ancora oggi delle densissime ombre, Garvey fu deportato nel 1927 col pretesto che non era nato negli Stati Uniti. Agli inizi degli anni '30 la UNIA cominciò a declinare fino alla sua quasi totale estinzione . NOTA 2: Lo zio Tom (protagonista del celebre romanzo di D . Beecher-Stowe) è diventato il simbolo del negro degno di compassione, ma rassegnato, obbediente e animato da sentimenti patriottici. NOTA 3: Termine spregiativo usato dai bianchi americani per designare i negri (così pure "darkie", "coon" e "Rastus") . NOTA 4: Letteralmente «circolo di campagna». Esiste in numerose città americane ed è frequentato esclusivamente dalla «buona società» bianca, che vi pratica l'equitazione e il tennis .NOTA 5: Works Progress Administration: agenzia federale di collocamento dei disoccupati in cantieri di opere pubbliche . NOTA 6: Ho tradotto "Soul food" con «cibi di sostanza». In realtà l'espressione dello slang negro ha un duplice significato: designando tutti quei cibi cucinati (miscuglio di varie specie di carne con legumi, verdure e spezie) che nel Sud erano accessibili solo ai negri meno poveri o che venivano mangiati nei soli giorni di festa, ne sottolineava la bontà, l'irraggiungibilità e, al tempo stesso, il valore nutritivo . NOTA 7: Il "coon" è il tasso americano. Nomignolo dispregiativo dato ai negri sia per il tipico criterio della psicologia razzista di associare i membri delle «razze inferiori» alle caratteristiche degli animali più infimi sia per il fatto che l'unico modo che avevano i negri del Sud per mangiar carne era di andare a caccia di tassi e roditori di vario genere . "Cooning" indica in generale un comportamento deviante attribuito ai negri . NOTA 8: Halloween è un'antica festa derivata dalla mitologia nordica che cade la vigilia d'Ognissanti. Era dedicata agli scherzi, ai travestimenti e a far rivivere lo spirito tra cupo e sfrenato dell'antico mito delle querce. Oggi è il giorno dei bambini . NOTA 9: Setta protestante . NOTA 10: Membri di una setta religiosa negra. Le loro riunioni sono caratterizzate da un'eccitazione frenetica e dalla confessione pubblica . Capitolo secondo . MASCOTTE . Il 27 giugno del 1937 Joe Louis mise K. O. James J. Braddock e divenne campione del mondo dei pesi massimi. Tutti i negri di Lansing, come quelli di tutte le altre zone degli Stati Uniti, furono pazzi di gioia e celebrarono l'avvenimento con le più grandi manifestazioni di orgoglio razziale che la nostra generazione ricordi. Ogni ragazzo negro in grado di camminare voleva diventare il successore del «bombardiere negro ». Anche mio fratello Philbert, che a scuola era già diventato un buon pugilatore, non faceva eccezione. Quanto a me, cercavo di giocare a pallacanestro. Ero alto e dinoccolato ma non sapevo giocare bene: ero troppo goffo. Nell'autunno di quell'anno, Philbert partecipò agli incontri per dilettanti che si tenevano nel Prudden Auditorium di Lansing . Fece abbastanza bene, riuscendo a qualificarsi in varie e sempre più dure eliminatorie. Io andavo alla palestra a guardarlo mentre si allenava. La cosa mi entusiasmava e forse, senza che me ne rendessi conto, cominciai a provare una segreta invidia . So benissimo che non potevo tollerare che una parte dell'ammirazione che mio fratello minore Reginald aveva avuto per me da sempre venisse ora trasferita a Philbert . Questi era lodato come un pugilatore nato, ed io pensai che siccome appartenevamo tutti e due alla stessa famiglia, forse sarei potuto diventare anch'io come lui. Perciò entrai nel ring . Credo di aver avuto tredici anni quando mi iscrissi al primo incontro, ma la mia altezza e l'ossatura vistosa mi consentirono di dichiarare che avevo sedici anni - l'età minima richiesta mentre il mio peso di circa sessanta chili mi fece classificare fra i pesi gallo . Mi fecero combattere con un ragazzo bianco, un novellino anche lui come me che si chiamava Bill Peterson. Non lo dimenticherò mai. Quando giunse il nostro turno nel campionato dilettanti, tutti i miei fratelli e sorelle erano là tra gli spettatori insieme con quasi tutti quelli che io conoscevo in città. Erano presenti non tanto per vedere me quanto per Philbert, che aveva cominciato a crearsi un gruppo abbastanza folto di tifosi, e volevano vedere cosa sarebbe stato capace di fare suo fratello . Attraversai il corridoio della platea tra due ali di pubblico che occupava tutte le sedie disponibili e montai sul ring. Fui presentato a Bill Peterson e poi l'arbitro ci chiamò tutti e due e ci borbottò in fretta e in furia le regole da osservare per condurre un incontro corretto. Poi suonò la campana e noi uscimmo dagli angoli. Sapevo di aver paura ma non mi rendevo conto, come mi disse dopo Bill Peterson, che anche il mio avversario aveva paura di me. E ne aveva così tanta che gli facessi male che io persi addirittura il conto delle volte che mi mise al tappeto . Questo fatto dette un tale colpo alla mia reputazione presso i negri della zona che praticamente dovetti scomparire dalla circolazione. Un negro non può essere riempito di cazzotti da un bianco e poi tornare a testa alta tra i suoi e ciò era vero specialmente in quei giorni in cui gli sport e, in minor misura, il mondo dello spettacolo erano gli unici campi aperti ai negri e il ring era l'unico posto in cui un negro poteva picchiare un bianco senza essere linciato. Quando tornai a farmi vedere, i negri che conoscevo mi ricevettero così male che mi resi conto che avrei dovuto fare qualcosa . Ma la peggiore delle mie umiliazioni fu l'atteggiamento del mio fratello minore Reginald il quale non parlò mai dell'incontro . Era il modo con cui mi guardava, o piuttosto con cui evitava di guardarmi. Perciò tornai alla palestra e cominciai ad allenarmi con tutte le regole: mi allenavo col sacco, saltavo alla corda, simulavo il combattimento, grugnivo e sudavo tutto il tempo . Finalmente mi impegnai per un altro incontro con Bill Peterson, questa volta nella sua città che era Alma nel Michigan . L'unico aspetto migliore di questo secondo incontro fu che quasi nessuno di quelli che conoscevo era presente. Fui particolarmente contento che Reginald non fosse venuto. Appena suonò la campana, vidi un pugno, poi vidi avvicinarsi il tappeto e dieci secondi dopo sentii che l'arbitro diceva sopra di me: «Dieci!» Si trattò probabilmente dell'incontro più breve della storia. Io stetti là sdraiato a sentire l'arbitro che contava fino a dieci, senza potermi muovere. Per la verità non sono sicuro se non potevo oppure se non volevo muovermi . Quel ragazzo bianco fu il principio e la fine della mia carriera pugilistica. Molte volte, durante questi ultimi anni da quando sono diventato un Muslim, ho pensato a quell'incontro e riflettuto sul fatto che a fermarmi fu il volere di Allah: avrei potuto finire per diventare un picchiatore . Non molto tempo dopo entrai in classe col cappello in testa. Lo feci apposta e l'insegnante, che era un bianco, mi ordinò di tenerlo in capo e di girare su e giù per la stanza finché non mi avesse detto di fermarmi. «In questo modo, - egli disse, tutti ti possono vedere. Nel frattempo noi continueremo la lezione per quelli che sono venuti qui ad imparare qualcosa» . Stavo ancora camminando su e giù quando il professore si alzò dalla cattedra e si diresse verso la lavagna per scrivere. Tutti gli scolari guardavano attenti quando, in quel preciso momento, io passai dietro la cattedra, staccai da un tabellone una puntina da disegno e la misi sulla sedia del maestro. Quando tornò in cattedra, io ero lontano dal luogo del delitto perché mi trovavo a camminare in fondo alla stanza. Si mise a sedere sulla puntina e io lo sentii strillare ed ebbi il tempo di vederlo saltar su come una molla prima che infilasse la porta a gambe levate . Dato il mio comportamento, non fui affatto sorpreso quando seppi che la direzione della scuola aveva preso la decisione di espellermi . Credo di aver avuto la vaga idea che se non dovevo andare a scuola, mi sarebbe stato permesso di stare con i Gohanna, andarmene a zonzo per la città, o forse trovarmi un lavoro per guadagnare un po' di soldi. Ma rimasi completamente annientato quando un funzionario dell'ente assistenziale che non avevo mai visto prima venne a prendermi dai Gohanna e mi portò in tribunale . Là mi dissero che sarei andato al riformatorio. Avevo appena tredici anni . Prima però dovetti andare in una casa di correzione a Mason nel Michigan, a circa venti chilometri da Lansing. Tutti i «cattivi» ragazzi e ragazze della contea di Ingham venivano tenuti là, prima di esser mandati al riformatorio e mentre si trovavano ancora sotto istruttoria . Il funzionario bianco dell'ente assistenziale di stato era un certo signor Maynard Allen, che fu con me più gentile di tutti gli altri che avevo conosciuto prima. Arrivò persino a usare espressioni di conforto per i Gohanna, la signora Adcock e il «ragazzone». Tutti piangevano all'infuori di me. Misi i miei pochi vestiti in una scatola e andammo con la sua macchina fino a Mason. Durante il viaggio l'uomo mi parlava e mi diceva che i miei voti mostravano che se avessi messo la testa a partito sarei riuscito a far qualcosa di buono. Mi disse che il riformatorio aveva una brutta reputazione e mi spiegò che cosa voleva dire la parola «riformare»: cambiare e diventare migliori. Mi disse anche che la scuola era un posto dove i ragazzi come me avevano il tempo di riconoscere i loro errori, cominciare una nuova vita e diventare persone di cui tutti avrebbero potuto essere orgogliosi. Aggiunse poi che la direttrice della casa di correzione, una certa signora Swerlin, e suo marito erano persone molto buone . Era vero. La signora Swerlin era più grossa di suo marito e io me la ricordo, questa donnona dal grande seno, robusta, che rideva sempre, mentre il signor Swerlin era magro, aveva i capelli neri, i baffetti neri e una faccia rossiccia, serena e gentile, persino nei miei confronti . Io piacqui loro subito. La signora Swerlin mi mostrò la mia stanza, una stanza tutta per me, la prima della mia vita. Era situata in uno di quegli enormi edifici tipo dormitorio dove a quei tempi, e ancora oggi in molti posti, venivano tenuti i minorenni in stato d'arresto. Subito dopo, con mia grande sorpresa, scoprii che mi era permesso di mangiare a tavola con gli Swerlin. Era la prima volta che mangiavo con dei bianchi almeno con adulti bianchi - dai tempi delle riunioni degli avventisti del settimo giorno. Naturalmente non era questo un privilegio riservato esclusivamente a me. Fatta eccezione per i ragazzi e le ragazze più turbolenti che venivano tenuti in segregazione (quelli che erano scappati, che erano stati ripresi e riportati in casa di detenzione, o roba del genere), tutti noi mangiavamo seduti in lunghe tavolate con gli Swerlin a capotavola . Ricordo che avevano come aiutante una cuoca bianca, Lucille Lathrop. (Non so neanche come faccio a ricordarmi di questi nomi a cui non ho più pensato da oltre vent'anni). Anche Lucille mi trattava bene. Suo marito si chiamava Duane Lathrop e lavorava fuori, ma veniva a passare la fine settimana con la moglie nella casa di correzione . Ancora una volta notai come l'odore dei bianchi fosse diverso dal nostro e come fosse diverso il gusto dei loro cibi, assai meno piccanti di quelli della cucina negra. Cominciai a spazzare, strusciare e spolverare in casa degli Swerlin come avevo fatto, insieme col «ragazzone», dai Gohanna . A tutti piaceva il mio atteggiamento e fu grazie alla loro simpatia per me che ben presto fui accettato da loro: ora so che mi consideravano come una mascotte. Parlavano di qualunque cosa in presenza mia, nello stesso modo in cui si parla liberamente davanti a un canarino. Parlavano anche di me o dei "niggers" come se io non ci fossi o come se non capissi il significato di quel termine. Usavano la parola "nigger" cento volte al giorno e credo che non lo facessero con l'intenzione di offendere, ma addirittura che la usassero in un senso bonario. Lo stesso valeva per la cuoca Lucille e per suo marito Duane. Ricordo che un giorno quando il signor Swerlin, così gentile com'era, tornò da Lansing dove aveva attraversato il quartiere negro, disse a sua moglie in mia presenza: «Non riesco proprio a capire come fanno quei "niggers", che sono così poveri, a essere tanto felici!» Poi raccontò che essi vivevano in baracche, ma tenevano davanti alla porta degli enormi e lucenti macchinoni . Sempre in presenza mia, la signora Swerlin disse: «I "niggers" sono fatti così...» Non ho mai potuto dimenticare quella scena . Le stesse cose succedevano con gli altri bianchi, prevalentemente uomini politici locali, che venivano a far visita agli Swerlin. Uno degli argomenti preferiti della loro conversazione di salotto erano i "niggers". Tra quei visitatori c'era il giudice alla cui tutela ero stato affidato a Lansing . Era un amico intimo degli Swerlin e quando arrivava chiedeva di me, loro mi mandavano a chiamare e allora lui mi guardava dalla testa ai piedi con un'espressione di assenso, come se stesse esaminando un bel puledro o un cagnolino di razza. Io sapevo che gli avevano detto come mi comportavo e come lavoravo . Quello che sto cercando di dire è che non passava loro neanche lontanamente per la testa l'idea che io potessi capire, che non ero un animale domestico, ma un essere umano. Essi non mi riconoscevano la stessa sensibilità, la stessa intelligenza e la stessa capacità di comprensione che avrebbero tranquillamente attribuito a un ragazzo bianco che si fosse trovato nelle mie condizioni. Ma questo, storicamente, è stato sempre l'atteggiamento dei bianchi nei confronti dei negri, per cui anche se noi possiamo essere con loro, non siamo mai stati considerati dei loro. Anche se sembrava che avessero aperta la porta, in realtà rimaneva sempre chiusa e perciò essi non riuscivano mai a vedermi . Si tratta di quella specie di bonaria condiscendenza che oggi io cerco di spiegare ai negri desiderosi unicamente dell'integrazione, quella condiscendenza dei loro amici bianchi «liberali », di quei cosiddetti «bianchi buoni », o almeno della maggior parte di loro. Non m'importa quanto uno è gentile nei tuoi confronti; quello che devi sempre ricordare è che quasi mai lui ti vede come vede se stesso o quelli della sua condizione . Può darsi che il bianco sia con noi su certe questioni, ma non su quelle veramente di fondo; e quando si giunge alla resa dei conti, ti accorgerai che la sua convinzione, talvolta magari inconscia, di essere migliore di qualunque negro è radicata in lui come la sua struttura ossea . Ma durante gli anni che passai nella casa di correzione io ero solo vagamente consapevole di questi problemi. Facevo i miei piccoli servizi in casa e tutto andava per il meglio. Ogni sabato, lasciavano che mi procurassi un passaggio per Lansing dove passavo il pomeriggio o la sera; e anche se non avevo l'età, ero certamente grande abbastanza e nessuno trovò mai da obiettare se mi vedeva per le strade del quartiere negro, anche di notte . Stavo diventando più grande persino di Wilfred e Philbert, che avevano già cominciato a conoscere ragazze ai balli della scuola o in altri posti e me ne avevano presentata qualcuna. Quelle che sembravano avere un debole per me non mi piacevano, e viceversa . In ogni caso non sapevo ballare per niente e non mi piaceva l'idea di buttar via con le ragazze quei quattro soldi che avevo. Perciò, il sabato sera, mi divertivo a girare nei bar e nei ristoranti negri. I jukebox erano pieni delle canzoni di Erskine Hawkins, come "Tuxedo Junction", e come "Flatfoot Floogie" di Slim e Slam, e altre cose del genere. Qualche volta, delle grosse orchestre di New York, di passaggio magari per una sola sera, suonavano a Lansing nei maggiori trattenimenti danzanti. Chiunque aveva un paio di gambe veniva a sentire qualsiasi musicista o cantante che portava il nome magico di New York. Fu così che ascoltai per la prima volta Lucky Thompson e Milt Jackson con i quali più tardi feci amicizia ad Harlem . Quando venne il loro turno, molti ragazzi della correzione furono mandati al riformatorio. Quando sarebbe toccato a me - e questo avvenne due o tre volte - fui sempre ignorato. Vidi nuovi detenuti andare e venire. Io ero contento e pieno di gratitudine per la signora Swerlin, alla quale tutto ciò era dovuto. Non volevo andarmene . Un giorno lei mi disse che mi avrebbero mandato alla scuola secondaria di Mason, che era l'unica della città. Nessuno dei ragazzi della casa di correzione c'era mai stato, almeno durante il periodo di detenzione. Fui ammesso alla settima classe. Oltre a me, gli unici negri che frequentavano la scuola erano alcuni dei figli dei Lyons, tutti più piccoli di me e quindi in classi inferiori. Loro ed io eravamo gli unici negri in città ed essi, come negri, godevano di molto rispetto. Il signor Lyons era un uomo intelligente e un gran lavoratore e sua moglie era una donna molto buona. Avevo sentito dire da mia madre che la signora Lyons e lei erano fra i quattro oriundi delle Indie occidentali che si trovavano in quella parte del Michigan . Scoprii che alcuni dei miei compagni di scuola bianchi avevano verso di noi un atteggiamento molto più amichevole di quello dei ragazzi di Lansing. Sebbene alcuni, compresi gli insegnanti, mi chiamassero "nigger", era facile vedere che non usavano quella parola in senso offensivo, allo stesso modo degli Swerlin. In realtà, proprio perché ero il "nigger" della mia classe, godevo di una grande popolarità, in parte dovuta, almeno credo, al fatto di essere una specie di curioso giocattolo. Tutti mi volevano e finivo per godere della precedenza. Non bisogna però dimenticare che godevo anche del particolare prestigio di essere nelle grazie di quella Donna Molto Importante della città di Mason che era la signora Swerlin. Nessuno avrebbe mai neanche lontanamente pensato di mettersi contro di lei. Non passava giorno senza che qualcuno mi corresse dietro per chiedermi di partecipare qui o di dirigere là: gruppi di discussione, la squadra di pallacanestro della scuola o qualche altra attività extrascolastica. Per parte mia non rifiutavo mai nulla . Non era molto che frequentavo la scuola quando la signora Swerlin, sapendo che mi sarebbe piaciuto spendere dei soldi miei, mi trovò un lavoro come lavapiatti in un ristorante della città. Il padrone del locale era il padre di un mio compagno di scuola bianco col quale passavo parecchio del mio tempo . Abitavamo nell'appartamento sopra il ristorante ed io ero contento di lavorare là. Il venerdì sera, quando ricevevo la paga, mi sentivo alto due metri; non ricordo quanto guadagnavo, ma mi sembrava un'enormità. Era la prima volta in tutta la mia vita che avevo per le tasche somme di una certa consistenza . Appena potei permettermelo, mi comprai un vestito verde e qualche paio di scarpe; a scuola compravo dolciumi per i miei compagni, per ricambiare almeno quanto loro facevano con me . Le materie che mi piacevano di più erano inglese e storia . Ricordo che il mio insegnante d'inglese, un certo Ostrowski, ci dava sempre consigli su come diventare qualcuno nella vita . Quello che non mi piaceva delle lezioni di storia era che l'insegnante, il professor Williams, era un fanatico delle barzellette sui "niggers". Un giorno, durante la mia prima settimana di scuola, io entrai in classe e lui cominciò a cantare, in tono scherzoso: «Laggiù lontano nel campo di cotone, c'è qualcuno che dice che un "nigger" non ruberà...» Molto divertente, vero? Mi piaceva la storia, ma dopo quell'episodio non ebbi più molta simpatia per il professor Williams. In seguito, ricordo che arrivammo alla parte del libro di testo dedicata alla storia dei negri: si trattava esattamente di un paragrafo. Il professor Williams fece praticamente una sola lunghissima risata mentre leggeva ad alta voce che i negri erano stati prima schiavi e poi liberati e che di solito erano gente pigra, sciocca e incostante. Ricordo che aggiunse una nota antropologica sua, dicendoci tra una risata e l'altra che i piedi dei negri erano «così grandi che quando camminano non lasciano orme, ma un buco nel terreno» . Mi dispiace dire che la materia che mi piaceva meno era la matematica. Ci ho ripensato e credo che la ragione fosse che la matematica non lascia posto alla discussione. Se si faceva un errore, non c'era nient'altro da aggiungere . La grande passione della mia vita era la pallacanestro. Facevo parte della squadra della scuola. Andavamo a sostenere incontri con le squadre delle città vicine, quali per esempio Howell e Charlotte e dovunque mi presentassi, il pubblico delle palestre non la finiva più di chiamarmi "nigger" e "coon". Qualcuno mi chiamava "Rastus". La cosa non dava noia né ai miei compagni di squadra né al nostro allenatore e, per la verità, seccava relativamente poco anche a me. Avevo la stessa psicologia che anche oggi spinge i negri, sebbene si sentano intimamente feriti, a lasciare che l'uomo bianco dica loro quanto «progresso» stanno facendo. Hanno sentito queste cose così tanto che ormai sono quasi condizionati a crederle, o almeno ad accettarle . Di solito, dopo le partite di pallacanestro, c'era un ballo organizzato dalla scuola. Tutte le volte che la nostra squadra entrava nella palestra di un'altra scuola per il ballo, mi sembrava che l'atmosfera si congelasse. La situazione ritornava normale non appena i presenti vedevano che io non cercavo di mescolarmi con loro, ma o stavo per conto mio o vicino a qualcuno della nostra squadra. Credo di esser riuscito a escogitare dei sistemi per far ciò senza farmene accorgere . Anche alla nostra scuola, ero in grado di avvertire come una barriera fisica, che malgrado tutti i sorrisi e i salamelecchi, impediva che la mascotte ballasse con qualcuna delle ragazze bianche . Era una specie di messaggio psichico che non veniva soltanto da loro, ma dall'intimo di me stesso. Sono orgoglioso di poter almeno dire questo di me. Stavo lì in piedi, sorridevo, parlavo, bevevo quel che c'era da bere e mangiavo sandwiches e poi trovavo qualche scusa per andarmene presto . Questi erano i tipici balli scolastici di una piccola cittadina . Qualche volta facevano venire un'orchestrina di bianchi da Lansing, ma più spesso la musica veniva da un grammofono sistemato sopra un tavolo, che suonava a pieno volume. Su dischi consumati e gracchianti, motivi come la "Moonlight Serenade" di Glenn Miller - allora la sua orchestra aveva un immenso successo- o le canzoni degli Ink Spots, anch'essi molto popolari specialmente per "If I Didn't Care" . Ero solito dedicare molto del mio tempo a pensare a una certa cosa. Molti di questi ragazzi bianchi di Mason, come del resto quelli della scuola di Lansing - specialmente se mi conoscevano bene e se stavamo parecchio insieme - mi chiamavano da parte per farmi delle proposte riguardo a certe ragazze bianche, qualche volta addirittura le loro sorelle. Mi dicevano che loro erano già stati a letto con queste ragazze - comprese le loro sorelle- o che stavano cercando di andarci senza risultato. In seguito capii di cosa si trattava: se fossero riusciti a convincere le ragazze a rompere quel terribile tabù che consisteva nel fare all'amore con me, essi avrebbero potuto tenere quella spada di Damocle sulla loro testa e ottenere da esse tutto ciò che volevano . Sembrava che i ragazzi bianchi pensassero che, essendo un negro, dovessi avere più esperienza di loro di cose sentimentali e sessuali: che cioè sapessi istintivamente meglio di loro cosa fare e dire con le loro ragazze. Io non dissi ma a nessuno che effettivamente mi piacevano alcune delle ragazze bianche e che io piacevo a loro. Esse me lo facevano capire in molti modi, ma tutte le volte che venivamo a trovarci soli a conversare o in circostanze che avrebbero potuto facilmente diventare intime, si alzava sempre come una specie di muro fra noi. Le ragazze che avrei voluto veramente erano un paio di negre che Wilfred o Philbert mi avevano presentato a Lansing. Ma con loro, chissà perché, mi mancava il coraggio . Da quello che sentivo e vedevo il sabato sera quando gironzolavo nel quartiere negro, mi accorsi che a Lansing c'era la promiscuità razziale, ma stranamente la cosa non mi faceva molto effetto. Penso che tutti i negri di Lansing sapessero che i bianchi andavano in macchina in certe strade del loro quartiere e caricavano le prostitute negre che battevano la zona. D'altro canto, c'era un ponte che separava la zona negra da quella polacca e lì venivano in macchina o a piedi donne bianche che si accompagnavano ai negri i quali, nell'attesa, gironzolavano in certi posti vicini al ponte. Anche in quei tempi le donne bianche di Lansing erano famose per correr dietro ai negri. Non mi rendevo ancora sufficientemente conto di come la maggior parte dei bianchi attribuiscano ai negri questa reputazione di prodigiosa virilità. A Lansing non sentii mai, da nessuna delle due parti, che si fosse verificato qualche incidente per tale promiscuità. Credo che tutti, come del resto facevo io, considerassero la cosa come scontata . Comunque, forte della mia esperienza alla scuola di Lansing, ero diventato molto abile nell'evitare, almeno per un altro paio di anni, la questione delle ragazze bianche . Durante il secondo semestre della settima classe, fui eletto presidente della mia sezione e la cosa mi sorprese più di quanto non sorprendesse gli altri. Ora riesco a capire perché i miei compagni mi elessero: avevo una delle più alte medie di tutta la scuola ed ero l'unico negro della mia classe, qualcosa come un barboncino rosa. Oltre a ciò ero orgoglioso; non starò qui a dire che non lo ero. Infatti a quel tempo non mi importava molto di essere negro perché cercavo in tutti i modi di essere bianco . E' questa la ragione per cui dedico tanta parte della mia vita presente a dire ai negri americani che buttano via il loro tempo cercando di «integrarsi». So cosa vuol dire questo per esperienza personale, per aver provato in tutti i modi . «Malcolm, siamo proprio orgogliosi di te!» esclamò la signora Swerlin quando seppe della mia elezione. Nel ristorante dove lavoravo tutti lo seppero e persino il funzionario degli enti assistenziali dello stato, Maynard Allen, che veniva ancora a vedermi ogni tanto, ebbe parole di lode per me. Disse di non aver mai visto nessuno dimostrare meglio e con maggiore esattezza il significato della parola «riformare». Mi piaceva il signor Allen, salvo forse per un particolare: ogni tanto faceva qualche allusione al fatto che nostra madre non aveva saputo mantenerci . Assai spesso andavo a far visita ai Lyons che ne erano felici come se fossi stato uno dei loro figli. Lo stesso sentimento e lo stesso calore lo provavo quando andavo a Lansing a far visita ai miei fratelli e sorelle e ai Gohanna . Ricordo un episodio che mi amareggiò quei giorni. Quando andai a Mason a vedere il film "Via col vento", ero l'unico negro nel cinema e quando arrivò sullo schermo l'attrice negra Butterfly MacQueen avrei voluto sprofondare . Quasi ogni sabato andavo a Lansing. Avevo quasi quattordici anni, allora. Wilfred e Hilda abitavano ancora da soli nella nostra vecchia casa di famiglia che Hilda teneva come uno specchio. Era più facile per lei che per mia madre, la quale doveva guardarci tutti e otto. Wilfred lavorava dove e come poteva e inoltre leggeva tutti i libri che gli capitavano . Quanto a Philbert, si stava facendo un nome come uno dei migliori pugilatori dilettanti di quella parte del Michigan: tutti si aspettavano che sarebbe diventato un professionista . Dopo il fiasco del mio incontro di boxe ero finalmente tornato in buoni rapporti con Reginald e fui molto contento di poter andare a far visita a lui e a Wesley a casa della signora Williams. Davo loro senza farmi vedere un paio di dollari ciascuno perché avessero in tasca qualcosa da spendere. Anche la piccola Yvonne e Robert se la passavano bene a casa di quella signora oriunda delle Indie occidentali, la MacGuire. A ognuno di loro davo di solito venticinque cents ed ero felice di vedere che crescevano bene . Nessuno di noi parlava molto di nostra madre e non rammentavamo mai nostro padre. Immagino che non sapevamo cosa dire e non volevamo neppure che altri parlasse di nostra madre. Ogni tanto andavamo a Kalamazoo a farle visita e il più delle volte noi più grandi andavamo da soli perché non faceva piacere a nessuno fare quell'esperienza in presenza di altri anche se questi erano i fratelli e le sorelle . Durante questo periodo, la visita a mia madre che ricordo di più ebbe luogo verso la fine di quell'anno scolastico in cui facevo la settima classe, quando Ella, figlia di primo letto di mio padre, venne da Boston a trovarci. Wilfred e Hilda si erano scambiati qualche lettera con Ella ed io, dietro consiglio di Hilda, le avevo scritto quando ero andato a stare con gli Swerlin. La lettera che ci annunziava il suo arrivo a Lansing ci rese tutti impazienti e felici . Credo che il principale effetto dell'arrivo di Ella, almeno su di me, fosse il fatto che era la prima donna negra veramente orgogliosa che avessi mai conosciuto in vita mia. Era fiera della sua pelle molto scura e ciò, in quei tempi e specialmente a Lansing, era qualcosa di sconosciuto tra i negri . Non sapevo bene in quale giorno sarebbe arrivata e un pomeriggio, di ritorno da scuola, la trovai ad aspettarmi. Mi abbracciò, si allontanò un momento da me per squadrarmi dalla testa ai piedi: donna autoritaria, forse anche più grossa della signora Swerlin, Ella non aveva la pelle soltanto nera ma, come mio padre, di un nero lucido e profondo. Il modo in cui si sedeva, si muoveva, parlava, faceva qualsiasi cosa, rivelava chiaramente una donna che faceva e otteneva tutto ciò che voleva. Era questa la donna che mio padre aveva tante volte esaltato per aver aiutato tanti membri della nostra famiglia a venir via dalla Georgia e a trasferirsi a Boston. Possedeva qualcosa, diceva mio padre, ed era accettata «in società». Era venuta al Nord con niente, aveva lavorato, risparmiato e investito in proprietà che aveva fatto aumentare di valore e poi aveva cominciato a mandar soldi in Georgia a un'altra sorella, a un fratello, a un cugino, a un nipote o a una nipote perché venissero a Boston. Tutto quello che avevo sentito dire si rifletteva nell'aspetto e nel comportamento di Ella. Nessuno mi aveva fatto tanta impressione. Era sposata per la seconda volta: il suo primo marito era stato un dottore . Ella fece una quantità di domande per sapere cosa facevo: aveva già sentito dire da Wilfred e Hilda che ero stato eletto presidente della mia classe. In particolare volle sapere i miei voti e io andai di corsa a prendere le pagelle. Ero uno dei primi tre della classe. Ella mi rivolse parole di lode e io le chiesi di suo fratello Earl e di sua sorella Mary. Lei mi dette la straordinaria notizia che Earl faceva il cantante, sotto il nome di Jimmy Carleton, con un'orchestra di Boston. Anche Mary stava bene . Ella mi parlò anche degli altri parenti di quel ramo della famiglia. Di molti di loro non avevo mai sentito parlare: erano quelli che lei aveva aiutato a venire su dalla Georgia e che, a loro volta, avevano aiutato altri. «Noi Little dobbiamo star tutti uniti», disse Ella . Mi entusiasmò sentirla parlare così, e soprattutto mi piacque il modo in cui lo disse. Io ero diventato una mascotte, il nostro ramo della famiglia era ridotto in pezzi e avevo quasi dimenticato di essere un Little. Lei disse che diversi membri della famiglia avevano dei buoni posti di lavoro e qualcuno aveva persino avviato una piccola attività commerciale. Quasi tutti erano proprietari delle case in cui abitavano . Quando Ella propose che tutti noi Little di Lansing l'accompagnassimo a far visita a nostra madre, le fummo profondamente grati. Sentivamo tutti che se c'era una persona che poteva far qualcosa per aiutare nostra madre a star meglio e a tornare a casa, quella era senz'altro Ella. Tutti noi, insieme per la prima volta, andammo con lei a Kalamazoo. Quando la portarono fuori, nostra madre sorrideva. Fu profondamente sorpresa di vedere Ella. Le due donne facevano un enorme contrasto, mentre si abbracciavano, una sottile e quasi bianca, l'altra grossa e con la pelle nerissima. Non ricordo molto del resto della visita, salvo che si parlò molto, che Ella tenne in pugno la situazione e che noi tutti andammo via molto più distesi e sereni di quanto non lo fossimo mai stati in quelle circostanze. So che per la prima volta ebbi l'impressione di essere andato a far visita a una persona affetta da una malattia fisica che si era protratta a lungo . Alcuni giorni dopo, visitate le case dove ciascuno di noi viveva, Ella partì da Lansing per fare ritorno a Boston. Prima di andarsene, mi disse di scriverle regolarmente e avanzò l'idea che magari mi sarebbe piaciuto trascorrere le vacanze estive a Boston con lei. Di fronte a quella possibilità io non stavo più nella pelle . Nell'estate del 1940, a Lansing, salii sull'autobus diretto a Boston con la mia valigia di cartone e con addosso il mio vestito verde. Se mi avessero messo al collo un cartello con la scritta BIFOLCO non avrei probabilmente dato altrettanto nell'occhio. A quei tempi non c'erano le autostrade e l'autobus si fermava quasi a ogni angolo. Dal mio seggiolino situato l'avete indovinato! - nella parte posteriore dell'autobus, guardavo fuori del finestrino l'America dell'uomo bianco che si snodava davanti ai miei occhi per un periodo di tempo che mi sembrò un mese ma che dev'essere stato soltanto un giorno e mezzo . Quando finalmente arrivammo, Ella mi venne incontro al terminal e mi portò a casa. Abitava in Waumbeck Street nella zona chiamata Sugar Hill del sobborgo di Roxbury, l'Harlem di Boston . Conobbi il secondo marito di Ella, Frank, che era militare, suo fratello Earl, il cantante che si faceva chiamare Jimmy Carleton, e Mary, che era molto diversa dalla sorella maggiore . E' strano come io considerassi Mary solo come sorella di Ella, invece che come mia sorellastra. Probabilmente è perché io ed Ella siamo sempre stati molto più simili come tipi: siamo gente autoritaria e Mary è stata sempre una persona mite, quieta e quasi timida . Ella si occupava di un sacco di cose. Faceva parte di non so quanti club ed era un po' la stella polare della cosiddetta «società negra» locale. A casa sua vidi e conobbi un centinaio di negri la cui parlata e i cui modi cittadini mi fecero restare a bocca aperta . Non avrei potuto fingere indifferenza neanche se mi ci fossi provato. La gente parlava di Chicago, Detroit, New York e io non sapevo che il mondo contenesse tanti negri quanti ne vedevo affollarsi di notte, specialmente di sabato nelle strade di Roxbury. E dappertutto luci al neon, locali notturni, sale da biliardo, bar e automobili guidate dai negri! Per le strade si spandeva l'odore dei ristoranti, quel ricco, grasso odore della cucina casalinga negra! I jukebox diffondevano a tutto volume le musiche di Erskine Hawkins, Duke Ellington, Cootie Williams e tanti altri. Se qualcuno mi avesse detto che un giorno avrei conosciuto di persona tutta questa gente, non l'avrei creduto . Le orchestre più grandi, come queste, suonavano al Roseland State Ballroom sulla Massachusetts Avenue di Boston, una sera per i negri e la sera dopo per i bianchi . Per la prima volta vedevo qualche coppia mista che passeggiava a braccetto e di domenica, quando Ella, Mary o qualcun altro mi portavano in chiesa avevo modo di vedere dei templi riservati ai negri quali non avevo mai visto prima. Erano cento volte più belli della chiesa bianca dove andavo anch'io a Mason nel Michigan. Là i bianchi stavano seduti e partecipavano alle funzioni religiose solo con parole, ma i negri di Boston, come tutti gli altri negri che ho visto in chiesa, s'impegnavano anima e corpo nella preghiera e, nella partecipazione attiva al servizio divino . Due o tre volte scrissi a Wilfred lettere che avrebbero potuto esser indirizzate a tutti quelli che erano rimasti a Lansing: dicevo che avrei cercato di descrivere tutto al mio ritorno . Ma scoprii che non potevo . La mia insofferenza per Mason - e per la prima volta nella mia vita un'insofferenza per dover stare intorno ai bianchi cominciò non appena fui tornato e fui ammesso all'ottava classe . Continuavo a pensare sempre a tutto quello che avevo visto a Boston e a come mi sentivo là. Ora so che si trattava per la prima volta nella mia vita, della sensazione di essere davvero parte di una massa di gente della mia stessa specie . I bianchi - i miei compagni di scuola, gli Swerlin, la gente del ristorante dove lavoravo - si accorsero del cambiamento . «Ti comporti in modo così strano, - dicevano - non sembri più neanche tu, Malcolm. Cosa ti è successo?» Intanto io mi mantenevo tra i primi della classe. Ricordo che il primato assoluto oscillava tra me, una ragazza di nome Audrey Slaugh e un ragazzo, Jimmy Cotton . Le cose andavano in questo modo, mentre io diventavo sempre più irrequieto e scontento. Un giorno, durante il primo semestre, proprio quando quelli di noi che erano stati promossi stavano per entrare nella classe dalla quale l'anno successivo, si sarebbe passati alla scuola secondaria, accadde qualcosa che sarebbe diventato la prima svolta decisiva della mia vita . Per qualche ragione ero rimasto solo in classe con il mio insegnante d'inglese, il signor Ostrowski. Era un uomo alto, dalla pelle piuttosto rossiccia e con folti baffi. Avevo avuto alcuni dei miei migliori voti proprio da lui, che mi aveva sempre fatto pensare di avere simpatia per me. Come ho già detto, era un consigliere nato, perché non perdeva occasione per dire cosa si doveva leggere, fare o pensare riguardo a qualsiasi cosa. Noi solevamo fare battute impertinenti sul suo conto: perché insegnava a Mason invece che in qualche altro posto e non cercava di ottenere lui quel «successo nella vita» di cui continuava a insegnarci le strade? Credo che fosse animato da buone intenzioni quando, quel giorno, m'impartì i suoi consigli. Non penso che volesse minimamente danneggiarmi. Era solo una conseguenza della sua natura di americano bianco. Io ero uno dei suoi migliori studenti, uno dei migliori studenti di tutta la scuola, ma egli non riusciva a vedere per me altro che quel futuro («stai al tuo posto») che quasi tutti i bianchi attribuiscono ai negri . «Malcolm, - mi disse, - dovresti cominciare a sceglierti una carriera. Ci hai mai pensato?» La verità era che non ci avevo mai pensato. Non sono mai riuscito a spiegarmi perché gli risposi: «Bene, signore, ho pensato che mi piacerebbe fare l'avvocato». A quell'epoca, a Lansing non c'erano né avvocati né dottori negri dai quali avrei potuto trarre ispirazione per crearmi un'immagine della mia futura carriera. Tutto quello che sapevo di sicuro era che un avvocato non lavava i piatti, come invece toccava fare a me . Mi ricordo che il professor Ostrowski si mostrò sorpreso, si spinse indietro con la sedia mettendosi le mani intrecciate dietro la nuca. Poi con un sorriso un po' sforzato mi disse: «Malcolm, nella vita una delle principali virtù è il senso realistico. Non mi fraintendere... sai che noi qui abbiamo tutti simpatia per te, ma devi considerare realisticamente il fatto che sei un "nigger". Quella di avvocato non è una carriera realistica per un "nigger". Devi pensare a qualche altro mestiere che PUOI fare... Lavori bene con le mani... sei molto abile e tutti ammirano i tuoi lavori di falegnameria. Perché non decidi di fare il falegname? Dal punto di vista personale, la gente ha simpatia per te... Potresti trovare facilmente qualunque lavoro» . In seguito, più ripensavo a quello che mi aveva detto e più mi sentivo insicuro. Quelle parole continuarono a girarmi nella mente . Ma ciò che davvero cominciò a irritarmi fu il consiglio che il professor Ostrowski dava ad altri studenti della mia classe, che erano tutti bianchi. La maggior parte di loro gli avevano detto che avevano intenzione di fare i contadini come i loro genitori, in modo che un giorno avrebbero potuto ereditare la fattoria di famiglia. Lui aveva incoraggiato tutti quelli che volevano fare qualcosa di diverso, di nuovo, e che mostravano un certo spirito di iniziativa. Alcuni, specialmente le ragazze, volevano diventare insegnanti, mentre altri desideravano accedere ad altre professioni, come quel ragazzo che voleva fare l'amministratore di contea, o quell'altro che aspirava a diventare veterinario o quella ragazza che aveva in mente di fare l'infermiera. Tutti questi riferirono che il professor Ostrowski li aveva incoraggiati in qualunque cosa desideravano; eppure nessuno di loro aveva mai avuto voti paragonabili ai miei . La cosa sorprendente era che non avevo mai pensato a ciò in quella prospettiva, ma mi resi conto che malgrado tutte le mie limitazioni, io ERO più intelligente di quasi tutti quei ragazzi bianchi. Tuttavia ai loro occhi non ero ancora abbastanza intelligente per poter diventare quello che IO volevo essere . Fu allora che cominciai a cambiare dentro di me . Cominciai a distaccarmi dai bianchi. Entravo in classe e rispondevo solo quando ero interrogato. Divenne una tensione fisica il solo fatto di frequentare le lezioni del professor Ostrowski . Mentre prima la parola "nigger" non mi faceva né caldo né freddo, ora quando la sentivo pronunciare mi fermavo a guardare chi la diceva e i bianchi erano stupiti che reagissi . Cominciai a non sentir dire più tanto "nigger" e «ma cos'hai?» che era proprio quello che volevo io. Nessuno, nemmeno gli insegnanti, riusciva a stabilire cosa mi era successo. Sapevo che parlavano di me . Dopo qualche settimana lo stesso successe al ristorante dove lavavo i piatti e dagli Swerlin . Qualche giorno dopo, la signora Swerlin mi fece chiamare in salotto e là ci trovai il funzionario degli enti assistenziali dello stato, Maynard Allen. Dalle loro facce mi accorsi che qualcosa stava per succedere. La signora mi disse che nessuno di loro riusciva a capire perché dopo che andavo così bene a scuola e al lavoro, dopo che abitavo con loro e che tutti a Mason avevano simpatia per me - avevo cominciato negli ultimi tempi a dar loro l'impressione di non trovarmici più bene . Mi disse che riteneva non fosse più necessario che restassi ancora nella casa di correzione e che erano stati fatti i passi necessari perché andassi a vivere con i Lyons, che avevano tanta simpatia per me . La signora Swerlin si alzò in piedi e mi tese la mano. «Credo di avertelo già chiesto cento volte, Malcolm, - disse, - ma mi vuoi dire cosa c'è che non va?» Io le strinsi la mano e dissi: «Niente, signora Swerlin». Poi uscii dalla stanza, andai a raccogliere le mie cose e tornai giù. Sulla porta del salotto la vidi che si asciugava gli occhi . Mi dispiacque molto. La ringraziai e andai a raggiungere il signor Allen che mi accompagnò dai Lyons. Anche il signor Lyons, sua moglie e i loro figli cercarono di farmi dire cosa avevo, durante tutti i due mesi che abitai con loro prima di terminare l'ottava classe. Io però, in qualche modo, evitai sempre una spiegazione anche con loro . Ogni sabato andavo a Lansing a far visita ai miei fratelli e alle mie sorelle e quasi un giorno sì e un giorno no scrivevo a Ella a Boston. Senza dirle il perché le annunciai che avrei voluto andare ad abitare con lei . Non so come riuscì a farlo, ma è un fatto che Ella si fece dare la tutela legale, il permesso di trasferirmi dal Michigan nel Massachusetts e nel corso della stessa settimana in cui finì la scuola, io presi di nuovo l'autobus per Boston . Da allora ho pensato molte volte a quel momento. Nessun trasferimento è stato mai, per le sue future ripercussioni, più fondamentale e profondo per la mia vita . Se fossi rimasto nel Michigan avrei probabilmente sposato una di quelle ragazze negre che avevo conosciuto a Lansing e che mi erano tanto piaciute, sarei potuto diventare uno di quei lustrascarpe che esercitavano il loro mestiere sugli scalini dell'Assemblea legislativa dello stato, oppure cameriere al Lansing Country Club, oppure avrei trovato lavoro come domestico presso qualche famiglia, il che, a quei tempi, sarebbe stato considerato un successo tra i negri di Lansing; oppure sarei potuto diventare falegname . Qualunque sia il valore di quello che ho fatto da allora, ho cercato sempre di riuscirci. Ho spesso pensato che se il professor Ostrowski mi avesse incoraggiato a diventare avvocato oggi forse avrei fatto parte di quella borghesia negra di professionisti che si trova in qualsiasi città, avrei passato il mio tempo a partecipare a cocktails e a indolenzirmi le mani a forza di stringerle ai bianchi, facendo la parte del portavoce della comunità e del leader delle masse negre che soffrono, mentre la mia fondamentale preoccupazione sarebbe stata di strappare qualche altra briciola dalla tavola riccamente imbandita di quei bianchi ipocriti con i quali i negri servili vogliono «integrarsi» . Se andai a Boston allora tutto il merito è di Allah: se non l'avessi fatto, probabilmente sarei ancora un cristiano negro, sottoposto al lavaggio del cervello . Capitolo terzo . «IL CONCITTADINO» . Sembravo Li'l Abner. Su tutta la mia persona stava scritto «Mason, Michigan». I miei capelli crespi e rossicci erano tagliati a spazzola e non adoperavo neanche brillantina; le maniche del vestito verde erano troppo corte e i pantaloni lasciavano scoperti almeno cinque centimetri di calzini. Avevo un cappotto, comprato bell'e fatto in un grande magazzino di Lansing, un trequarti col colletto stretto, di un verde leggermente più chiaro del vestito . Il mio aspetto era troppo persino per Ella ma, come mi disse più tardi, lei aveva visto altri membri della famiglia Little venuti su dalla Georgia vestiti ancor più da cafoni di me . Ella mi aveva preparato una piccola stanza all'ultimo piano. Era una vera negra della Georgia quando si metteva a cucinare: era quel tipo di cuoca che ti riempie il piatto di zampone di maiale, verdura, piselli, pesce fritto, cavolo, patate dolci, polpettine di farina d'avena con salsa e pane di granturco. Più uno mangiava e più lei era contenta e quanto a me, mi mettevo sempre a tavola come se fosse il mio ultimo pasto . Ella mi sembrava la stessa donna grande, nera, franca e imponente che avevo imparato a conoscere a Mason e Lansing. Solo due settimane prima che arrivassi, si era separata dal suo secondo marito, il soldato Frank che avevo conosciuto l'estate precedente, ma sembrava prendere la cosa con indifferenza . Sebbene non lo dicessi, mi rendevo perfettamente conto che qualsiasi uomo medio non avrebbe potuto vivere per molto tempo con una donna il cui istinto era di comandare tutto e tutti e di mettersi a capo di qualsiasi cosa con cui avesse a che fare, me compreso. Dopo circa due giorni che ero a Roxbury, Ella mi disse che non voleva che cominciassi subito a cercarmi un lavoro, come facevano quasi tutti i nuovi venuti. Mi disse di aver consigliato a tutti coloro che aveva fatto venire al Nord di concedersi un po' di tempo, guardarsi intorno, andare in giro sugli autobus e la metropolitana e di imparare a conoscere il ritmo della vita di Boston prima di rinchiudersi in qualche lavoro, perché poi non avrebbero mai più avuto il tempo di vedere e conoscere i vari aspetti della città in cui vivevano . Ella disse che mi avrebbe aiutato, quando fosse venuto il momento, a trovare un lavoro . Cominciai ad andare a curiosare per tutto il vicinato: quella parte di Roxbury che è compresa tra la Waumbeck e la Humboldt Avenue Hill e che somiglia un po' alla Sugar Hill di Harlem, dove avrei abitato più tardi. Ebbi modo di vedere che quei negri di Roxbury vivevano e si comportavano in modo diverso da qualsiasi altro gruppo di negri che avevo mai immaginato. Era questo un quartiere di privilegiati: gli abitanti si chiamavano «i quattrocento» e guardavano con sufficienza i negri del ghetto, o della cosiddetta zona «di città», dove abitava Mary, l'altra mia sorellastra . A Roxbury credevo di vedere dei negri di classe sociale elevata, colti, importanti, che godevano di un notevole benessere e esercitavano professioni e impieghi di prestigio. Le loro case silenziose erano circondate da prati ben tenuti. Questi negri camminavano sui marciapiedi con un portamento distaccato e dignitoso, quando si recavano al lavoro, a far le spese, in chiesa o a far visita a qualcuno. Ora so, naturalmente, che ciò che vedevo non era altro che la versione cittadina di quei lustrascarpe e uscieri negri che a Lansing «avevano fatto strada». L'unica differenza consisteva nel fatto che quelli di Boston erano stati sottoposti a un più intenso lavaggio del cervello. Si vantavano di essere incomparabilmente più colti, educati, dignitosi e ricchi dei loro fratelli negri che abitavano nel ghetto che si stendeva a un tiro di schioppo dalle loro case. Nella patetica illusione che ciò li avrebbe «migliorati», questi negri della Collina si rompevano il collo per cercare di imitare i bianchi . Qualsiasi famiglia negra che era stata a Boston abbastanza tempo per acquistare la casa in cui abitava era considerata parte della élite della Collina. Non importava se poi erano costretti a far gli affittacamere per quadrare il bilancio. Allora quelli che erano nati nella Nuova Inghilterra guardavano con disprezzo ai proprietari di case emigrati dal Sud che vivevano vicino a loro, come Ella. Un'alta percentuale degli abitanti della Collina appartenevano a questa categoria: concorrenti e intrusi che venivano dal Sud e negri delle Indie occidentali che venivano chiamati «ebrei negri» sia da quelli della Nuova Inghilterra sia dagli altri del Sud. Di solito erano quelli provenienti dal Sud e dalle Indie occidentali che non soltanto riuscivano a comprarsi le case dove abitavano, ma anche a comprarne almeno un'altra che poi affittavano. Gli altezzosi oriundi della Nuova Inghilterra di solito possedevano molto meno di loro . In quei giorni, chiunque poteva farsi chiamare professionista insegnanti, predicatori, infermiere - si considerava automaticamente superiore. I diplomatici stranieri avrebbero potuto ispirarsi per i loro modi ai postini negri, ai facchini e ai camerieri dei vagoni-ristorante di Roxbury che camminavano e si muovevano come se indossassero il frac e il cilindro . Credo che otto su dieci dei negri di Roxbury, malgrado i sonanti titoli che si attribuivano, fossero in realtà impiegati in lavori domestici e manuali. «Lavora in banca...», oppure «E' nelle assicurazioni...»: sembrava che stessero parlando di un Rockefeller o di un Mellon e non di qualche commesso di banca dai capelli grigi e dal portamento dignitoso o di un fattorino della Borsa o di qualche compagnia di assicurazioni. «Sto da una vecchia famiglia», era l'eufemismo di solito adoperato per conferire dignità ai cuochi e alle cameriere dei bianchi, tutta gente che a Roxbury parlava in modo così affettato che non si riusciva neanche a capirli. Non so quanti fattorini di quaranta e cinquant'anni scendevano dalla Collina vestiti come ambasciatori, con abiti neri e colletti inamidati, per recarsi in città ai loro impieghi «governativi», «finanziari» o «legali». Non ho mai potuto superare la sorpresa nel vedere quanti negri, allora come ora, potevano digerire la vergogna di questo modo di ingannare se stessi . Ben presto mi spinsi fuori di Roxbury e cominciai a esplorare la Boston vera e propria. Dovunque mi voltavo c'erano edifici storici, lapidi, colonne e statue che celebravano eventi e uomini famosi. Nella sala dell'Assemblea legislativa vidi una statua che mi colpì: era quella di un negro, Crispus Attucks, che era stato la prima vittima del massacro di Boston [1]. Non l'avevo mai sentito rammentare prima . Giravo dappertutto. Una volta arrivai fino all'università di Boston e un altro giorno presi per la prima volta la metropolitana. Quando tutti scesero, seguii la fiumana. Mi trovavo a Cambridge e girai tutto intorno al campus della Harvard University. Avevo già sentito parlare di Harvard da qualche parte, sebbene non ne sapessi molto. Chi mi avrebbe detto quel giorno che circa venti anni più tardi vi avrei pronunciato un discorso nella sala della facoltà di legge? Feci anche parecchie esplorazioni in città. Non riuscivo a capire perché ci fosse bisogno di due grandi stazioni ferroviarie, quella Nord e quella Sud. In tutte e due, andavo a vedere la gente che partiva e arrivava e lo stesso facevo alla stazione degli autobus dove Ella era venuta a prendermi. Le mie peregrinazioni mi portarono lungo i moli e i docks dove lessi le lapidi che parlavano di vecchi velieri che vi avevano fatto scalo . In una lettera a Wilfred, Hilda, Philbert e Reginald a Lansing, raccontai tutte queste cose, descrivendo le strade strette, serpeggianti e selciate e le case tutte attaccate una all'altra . Scrissi che nel centro di Boston c'erano i più grandi negozi che avessi mai visto e gli alberghi e ristoranti dei bianchi. Decisi che avrei visto tutti i film che sarebbero stati proiettati negli eleganti cinema con l'aria condizionata . Sulla Massachusetts Avenue, vicino a uno di questi, il Loew's State Theater, c'era l'enorme, affascinante sala da ballo Roseland State Ballroom. Dei grandi manifesti posti all'entrata annunciavano che orchestre famose in tutto il paese, sia bianche che negre, si erano esibite in quel locale. Quando passai di là per la prima volta, l'attrazione della settimana seguente («PROSSIMAMENTE QUI!») era Glenn Miller. Ricordo di aver subito pensato come, ai balli della scuola secondaria di Mason, la musica dell'intera serata era stata quella dei dischi di Glenn Miller. Mi domandavo cosa avrebbero pagato quei ragazzi per trovarsi proprio nel posto dove Glenn Miller in carne ed ossa avrebbe diretto la sua orchestra. Non sapevo ancora quanto sarei diventato di casa lì al Roseland . Ella cominciò a preoccuparsi perché, anche quando ebbi visitato ben bene la città, non stavo mai molto nella zona della Collina . Cominciò a dire che avrei dovuto far lega con «i bravi giovani della mia età» che si potevano incontrare alla drogheria-bar all'angolo, due isolati lontano dalla sua casa, e in un paio di altri posti. Ma anche prima di venire a Boston io avevo sempre considerato i miei coetanei come dei ragazzini e mi comportavo con loro come col mio fratello più piccolo Reginald. Essi avevano sempre guardato a me come se fossi stato molto più grande. Quand'ero ancora a Mason e durante i weekend quando andavo a Lansing, per non stare insieme ai bianchi giravo nel quartiere negro insieme con gli amici di Wilfred e Philbert . Sebbene tutti loro avessero diversi anni più di me io ero più grosso e dimostravo effettivamente più anni della maggior parte di loro . Non volevo deludere o addolorare Ella, ma malgrado i suoi consigli, cominciai a frequentare la zona del ghetto negro, giù in città. Quel mondo di negozi di alimentari, appartamenti al piano della strada, ristoranti da pochi soldi, sale di biliardo, bar, chiese sistemate nei negozi e banchi di prestito e pegno sembrava esercitare su di me una naturale attrazione . Questa parte di Roxbury era molto più affascinante, oltre al fatto che io mi sentivo assai più a mio agio tra negri che vivevano senza tante pretese e senza tante arie. Anche se abitavo sulla Collina il mio cuore non era mai come non lo è oggi, con coloro che si considerano migliori degli altri negri . Trascorsi il mio primo mese in città passando da una meraviglia all'altra. Ero attirato dai giovani «leoni» ben vestiti che stavano a gruppi agli angoli delle strade o nelle sale da biliardo, nei bar e nei ristoranti e che, com'era chiaro, non lavoravano. Non mi riusciva capire come potessero avere i capelli così lisci e lucenti, come quelli dei bianchi. Ella mi disse che quel sistema si chiamava "conk", una «stiratura». Non avevo mai assaggiato una goccia di liquore, né fumato una sigaretta, e qui vedevo dei bambini negri di dieci, dodici anni che giocavano d'azzardo, a carte o alla lotteria, si picchiavano tra di loro, chiedevano agli adulti di puntare uno o cinque centesimi alle corse dei cavalli, e cose del genere. Questi ragazzetti dicevano parolacce che io non avevo mai sentito prima e usavano un gergo che mi era del tutto nuovo, come per esempio «stallone», «leone», «pollastrella», e «dritto» o «marpione». La sera, quando andavo a letto, ripensavo per ore a questi nuovi termini. Mi colpiva moltissimo il fatto che in città, specialmente dopo buio, si vedevano qualche volta ragazze bianche che passeggiavano a braccetto sul marciapiede con qualche negro e coppie miste che bevevano nei bar illuminati al neon, e non come a Lansing dove si nascondevano in qualche angolo oscuro. Anche di questo scrissi a Wilfred e Philbert . Per fare una sorpresa a Ella volevo trovarmi un lavoro da solo . Un pomeriggio, qualcosa mi disse di entrare nella sala del biliardo che stavo da tempo osservando da una delle finestre . Non volevo certamente giocare perché non sapevo neanche come si tiene una stecca. Ero attirato dalla vista di quei «leoni» dall'aspetto così elegante e dal comportamento così astuto che gironzolavano nella sala o si piegavano sui grandi biliardi dal ripiano ricoperto di feltro verde, scommettevano e bocciavano le bilie multicolori mandandole in buca. Quel pomeriggio, mentre stavo guardando quello spettacolo attraverso una finestra, qualcosa mi spinse ad avventurarmi dentro e a rivolgere la parola a un tipo tozzo, con i capelli stirati che raccoglieva le palle per i giocatori di biliardo e che avevo sentito chiamare Shorty [2]. Un giorno era venuto fuori e vedendomi gironzolare intorno al locale mi aveva detto: «Ciao Rosso!» Ciò mi aveva fatto ritenere che fosse un tipo abbordabile . Facendomi notare il meno possibile, scivolai dentro e camminando lungo il muro per evitare la gente, mi diressi verso la parte interna della sala dove Shorty riempiva un recipiente d'alluminio con la polvere che i giocatori di biliardo si spargevano poi sulle mani. Mi guardò di sotto in su. Più tardi Shorty si divertiva a prendermi in giro per il fatto che, a quella prima occhiata, aveva indovinato tutto di me. «Porco cane, quel "gatto" PUZZAVA ancora di contadino! - diceva ridendo. - Aveva le gambe così lunghe e i pantaloni così corti che si vedevano i ginocchi e la testa sembrava un cespuglio di pruni!» Ma quel pomeriggio Shorty non si fece accorgere dall'espressione del volto quanto mi vedeva «bifolco» quando gli dissi che gli sarei stato riconoscente se mi avesse indicato come si faceva a procurarsi un lavoro come il suo . «Se ti riferisci al raccoglibilie, - disse Shorty, - non credo che ci sia nessun locale qui intorno che ne abbia bisogno. Vuoi dire che ti contenti di qualsiasi lavoro da schiavetto?» La parola «schiavo» voleva dire lavoro, un posto di lavoro . Mi domandò dove avevo lavorato prima. Gli dissi che avevo lavato i piatti in un ristorante di Mason nel Michigan. Poco mancò che gli cascasse di mano il recipiente della polvere. «Un mio concittadino! Un ragazzo della mia città! Che combinazione! Sono anch'io di Lansing!» Non dissi mai a Shorty né lui mai lo sospettò che avevo circa dieci anni meno di lui. Egli credette che avessimo la stessa età. Dapprima sarebbe stato imbarazzante dirglielo e in seguito non mi preoccupai più della cosa. Shorty aveva lasciato la scuola al primo anno delle medie e, partito da Lansing, era andato ad abitare per un po' di tempo con una zia e uno zio a Detroit. Gli ultimi sei anni li aveva passati a Roxbury dove abitava con un suo cugino. Ma quando ricordai luoghi e persone di Lansing egli mostrò di ricordarsene bene e subito cominciammo a parlare come se fossimo cresciuti insieme nello stesso isolato. Sentivo la gioia sincera di Shorty e non c'è bisogno che dica quanto mi considerai fortunato di aver trovato un amico dritto come quello . «Perbacco, questa è una città coi fiocchi se sai tener gli occhi aperti, - disse Shorty, - tu sei un ragazzo della mia stessa città e io ti insegnerò tutto quello che succede». Io rimasi lì in piedi sorridendo come uno scemo. «Non hai mica da andare in nessun posto ora? Bene, aspettami finché non smonto» . Quello che mi piacque subito di Shorty fu la sua sincerità . Quando gli dissi dove abitavo, mi rispose quello che già sapevo e che cioè i negri della Collina non erano simpatici a nessuno in città. Però mi disse che una sorella che mi dava una spinta, non mi faceva pagare l'affitto né mi spingeva a cercarmi qualche «lavoro da schiavetto» non era affatto da disprezzarsi. Il suo lavoro nella sala da biliardo gli bastava appena a far quadrare il bilancio, mentre studiava il sassofono. Un paio d'anni prima aveva vinto alla lotteria e si era comprato lo strumento. «L'ho messo lì nell'armadio e lo tiro fuori la sera quando vado a lezione», mi disse. Shorty andava a lezione insieme con «alcuni altri scopatori» e sognava che un giorno avrebbe messo insieme la sua brava piccola orchestra. «C'è un sacco di grana da rimediare qui a Roxbury, - mi spiegava Shorty. - Non mi piace mettermi con una grossa orchestra, star fuori in giro tutte le sere per poi dire che ho suonato con Duke, con Count o con chi ti pare». Pensai che fosse furbo e rimpiansi di non avere studiato anch'io il sassofono. Purtroppo non mi si era mai presentata tale possibilità . Per tutto il pomeriggio, quando non aveva da raccogliere le bilie su questo o quel biliardo, Shorty mi fece un sacco di confidenze. Mi indicò i vari guappi che gironzolavano intorno ai tavoli o giocavano a biliardo e mi disse che quello vendeva le «paglie», quello era appena uscito di prigione, mentre l'altro era un abile svaligiatore di appartamenti. Shorty mi disse che tutti i giorni giocava almeno un dollaro alla lotteria e che appena avesse vinto si sarebbe servito dei soldi per mettere insieme la sua orchestra . Mi vergognavo, ma dovetti ammettere di non aver mai giocato alla lotteria. «Bene, è perché non hai mai avuto un soldo da giocare,- disse scusandomi, - ma quando trovi un lavoro comincerai subito e se hai fortuna ti ritroverai un bel po' di quattrini» . Mi indicò qualche giocatore e qualche magnaccia. Alcuni vivevano alle spalle delle puttane bianche, mi bisbigliò. «Non ti dirò una bugia... io conosco delle puttane bianche da due dollari, disse Shorty, - qui di notte c'è un sacco di quella roba . Vedrai». Io dissi di aver già visto qualcosa. «Ne hai mai avuta una?» mi domandò . Il mio imbarazzo e la mia inesperienza risultarono evidenti . «Porca miseria! - disse lui. - Non ti vergognare. Prima di lasciare Lansing, ebbi a che fare con qualcuna di quelle pollastrelle polacche che venivano nel quartiere negro dall'altra parte del ponte. Qui son quasi tutte italiane e irlandesi, ma non importa di che specie sono... sono completamente diverse dalle nostre! Del resto sono uguali dappertutto perché non c'è nulla per cui vanno più matte di un bello stallone negro» . Nel corso di quel pomeriggio, Shorty mi presentò a venditori di biglietti della lotteria e a sfaccendati. «Questo ragazzo è mio concittadino, - diceva, - sta cercando un posto. Se sentite dire qualcosa fatemelo sapere». Tutti rispondevano che se ne sarebbero occupati . Alle sette, quando arrivò il raccoglibilie notturno, Shorty mi disse che doveva correre alla lezione di sassofono, ma prima di andarsene mi offrì i sei o sette dollari che, in tutto il giorno, aveva ricevuto di mancia. Erano in monete da cinque e dieci cents. «Hai abbastanza pane, concittadino?» Gli dissi che stavo bene, che avevo due dollari, ma Shorty me ne fece prendere altri tre. «E' per rimpolparti un po' le tasche», mi disse . Prima di uscire aprì l'astuccio del sassofono e mi fece vedere lo strumento. In contrasto con il velluto verde, l'ottone scintillava. Era un sassofono tenore. «Trattati bene, concittadino, e occhio! Torna domani! Qualcuno dei "gatti" ti rimedierà un lavoro» Quando tornai a casa, Ella mi disse che mi aveva telefonato un certo Shorty. Mi aveva lasciato detto che alla Roseland State Ballroom, il lustrascarpe avrebbe lasciato il posto quella sera stessa e che lui aveva detto al padrone di tenerlo per me . «Malcolm, ma tu non hai nessuna esperienza. Non le sai mica lustrare le scarpe!» mi disse Ella. Dalla sua espressione e dal tono della voce mi accorsi che non le piaceva l'idea che accettassi quel lavoro. A me non interessava molto perché ero già felicissimo al solo pensiero di trovarmi nello stesso posto dove suonavano le più grandi orchestre del mondo. Non aspettai neppure che fosse pronta la cena . Quando arrivai, la sala da ballo era tutta illuminata. Alla porta d'ingresso un tale faceva entrare i membri dell'orchestra di Benny Goodman. Io gli dissi che volevo vedere Freddie il lustrascarpe . «Sei tu il nuovo?» mi domandò. Io gli dissi di sì e lui mi rispose ridendo: «Bene, può darsi che tu vinca la lotteria e che ti faccia la Cadillac anche tu». Mi disse poi che avrei trovato Freddie al piano di sopra nella toilette per uomini . Prima di salire al secondo piano mi fermai un po' a dare un'occhiata alla sala da ballo. Non potevo credere ai miei occhi quando osservavo la vastità di quel pavimento tirato a cera! In fondo, illuminato da una luce rosea e soffusa, c'era il palco dell'orchestra con i musicisti di Benny Goodman che salivano su e giù, ridevano e parlavano fra loro, accordavano i loro strumenti e sistemavano i leggii . Al piano di sopra, nella toilette per uomini, mi salutò un tipo secco, dalla pelle marrone e dai capelli stirati. «Sei tu il concittadino di Shorty?» Io dissi di sì e lui si presentò: era Freddie . «Bravo, vecchio mio, - disse, - mi ha mandato a chiamare perché aveva sentito dire che era uscito il mio numero e si era immaginato che avrei lasciato il lavoro». Io dissi a Freddie cosa m'aveva detto il portiere riguardo alla Cadillac . «Ai bianchi gli gira le scatole quando ci tocca qualcosa di buono, - mi disse ridendo, - certo gli ho detto che mi sarei comprato una Cadillac, apposta per farli crepare d'invidia!» Poi Fred mi disse di fare attenzione perché lui sarebbe stato molto occupato ed io non dovevo mettermi tra i piedi. Per parte sua, avrebbe fatto tutto il possibile per mettermi in condizione di prendere il suo posto al prossimo ballo, un paio di giorni più tardi . Mentre Freddie si dava daffare a sistemare il cavalletto mi diceva: «Arriva presto... metti gli stracci e le spazzole vicino al cavalletto... le bottiglie di polish, la cera da scarpe, e le spazzole per il camoscio qui... ogni cosa al suo posto perché quando ti fanno fretta non devi sprecare un solo movimento...» Imparai che mentre si lustravano le scarpe si doveva anche tener d'occhio i clienti che uscivano dagli orinatoi. Bisognava precipitarsi a offrir loro un piccolo asciugamano bianco. «Ci sono parecchi tipi che non hanno nessuna intenzione di lavarsi le mani e quando si vedono davanti uno che gli dà un asciugamano restano imbarazzati. Gli asciugamani sono la tua merce migliore: paghi un cent a pezzo per farli lavare e ti dànno sempre una mancia di almeno cinque cents» . A quelli che si facevano lustrare le scarpe e a tutti gli altri clienti che, prima di abbandonare gli orinatoi, prendevano un asciugamano, si davano un paio di colpi di spazzola. «Per una mancia di cinque o dieci cents, dàgli un paio di colpetti, disse Freddie, - ma per venti cents comportati un po' da zio Tom perché a quei coglioni dei bianchi piace davvero molto. Qualche volta io li ho fatti ritornare due o tre volte durante la stessa sera» . Dal salone sottostante cominciava a venire il suono della musica. Credo che rimasi lì come ipnotizzato. «Hai mai visto un ballo in grande stile? - mi chiese Freddie. - Corri e vallo a vedere per un po'» . Sotto le luci rosee c'erano già alcune coppie che ballavano, ma ciò che mi colpì di più era la folla che si riversava nel salone. C'erano le più vistose donne bianche che avessi mai visto, vecchie e giovani, con i loro uomini che compravano i biglietti alla porta e si infilavano in tasca manciate di banconote, lasciavano al guardaroba i cappotti delle loro donne, le prendevano sottobraccio e le guidavano dentro la sala . Quando tornai su, Freddie era già occupato con alcuni clienti . Tra il lavoro al cavalletto e il porgere gli asciugamani ai clienti che si dirigevano verso i lavandini, sembrava che facesse quattro cose insieme. «Eccoti, prendi tu la spazzola, mi disse, due o tre colpettini soltanto, ma fa' in modo che li sentano» . Quando i clienti si furono un po' diradati, mi disse «Stasera non hai visto niente. Aspetta che arrivi una "spooks' dance" . Vedrai i nostri come tirano!» Quando aveva un momento libero, non tralasciava di insegnarmi tutti i trucchi del mestiere. «Le stringhe da scarpe tienile in questo cassetto qui. Siccome cominci ora, ti lascio queste di regalo. Comprale per cinque cents al paio, e quando i clienti ne hanno bisogno, diglielo subito e fagliele pagare venti cents» . Mi sembrava che dove eravamo arrivassero, una dopo l'altra, tutte le melodie e i ritmi di Benny Goodman che avevo sentito dai dischi. Durante un'altra pausa del lavoro, Freddie mi lasciò andar giù ancora ad ascoltare. Al microfono cantava Peggy Lee . Che bello! Veniva dal North Dakota ed era entrata da poco a far parte dell'orchestra. Come ci dissero alcuni clienti, la moglie di Benny Goodman l'aveva scoperta mentre faceva la solista con un gruppo di dilettanti di Chicago. Quando Peggy Lee ebbe finito la canzone, la folla scoppiò in deliranti applausi. Ebbe un enorme successo . «Anch'io quando capitai qui per la prima volta restai sbalordito, - mi disse Freddie ghignando, quando fui tornato da lui, - ma stammi a sentire, hai mai lustrato le scarpe?» Quando gli dissi di no, che non avevo mai lustrato scarpe all'infuori delle mie si mise a ridere. «Bene, mettiamoci subito al lavoro . Neanch'io le avevo mai lustrate quando venni qui per la prima volta». Freddie appoggiò il piede sul cavalletto e cominciò a lustrarsi le scarpe. Spazzola, polish liquido, poi di nuovo spazzola, cera, lustratura con lo straccio, verniciatura alla suola... passo dopo passo Freddie mi insegnò come fare . «Ma devi far molto più presto. Non puoi sprecare tutto questo tempo!» Freddie mi fece vedere sulle mie scarpe qual era il ritmo che si doveva tenere. Poi, siccome c'era una lunga pausa nel lavoro, ebbe il tempo di darmi una dimostrazione di come si fa schioccare lo straccio come un petardo. «Capisci il trucco?» mi chiese. Ripeté l'operazione lentamente. Io mi inginocchiai e provai sulle sue scarpe. Ormai avevo capito il sistema. «E' solo che devi andare più presto, - mi disse Freddie. - Deve essere come un fruscio. I clienti ti dànno mance più grosse perché pensano che tu ti stia ammazzando a strusciare!» Alla fine del ballo Freddie mi aveva già fatto lucidare le scarpe di tre o quattro ubriachi che lui aveva convinto a lasciarsi servire e io mi ero esercitato a raggiungere la velocità necessaria sulle scarpe di Freddie finché non erano diventate lustre come specchi. Dopo aver aiutato gli uomini delle pulizie a spazzare il salone da ballo buttando via carta, cicche di sigarette e bottiglie di liquore vuote, Freddie fu così gentile da accompagnarmi a casa da Ella sulla Collina con la sua Buick marrone usata che mi disse avrebbe cambiato con una Cadillac. Per tutta la strada mi parlò . «Credo sia giusto dirti di tenere sempre un paio di dozzine di preservativi che pagherai a venti cents l'uno. Hai notato alcuni dei clienti che son venuti da me verso la fine della serata? Bene, quando hanno a portata di mano delle pollastrelle nuove, vengono a chiederti i preservativi. Fatteli pagare un dollaro e di solito riceverai anche la mancia» . Mi guardò intensamente: «Ci sono delle attività per le quali tu sei troppo novellino. Qualcuno ti chiederà roba alcolica, qualcun altro le paglie, ma è meglio che tu tenga soltanto preservativi finché non sei in grado di riconoscere un poliziotto . «Puoi anche mettere insieme dieci o dodici dollari per ogni serata, se ci sai fare, - disse Freddie prima che scendessi dalla macchina davanti alla casa di Ella. - Quello che devi soprattutto ricordare è che ogni cosa nel mondo è un commercio . Ciao Rosso» . Quando trovai di nuovo Freddie ero giù in città, di sera. Mi capitò di vederlo, erano alcune settimane dopo quel nostro primo incontro, mentre era seduto nella sua Cadillac grigio perla, lustra come uno specchio. Si metteva in mostra . «Sai che mi hai insegnato bene?» gli dissi. Lui rise: sapeva cosa intendevo. Non mi ci era voluto molto per scoprire che Freddie aveva lustrato meno scarpe e offerto meno asciugamani ai clienti di quanto non avesse venduto bevande alcoliche e sigarette alla marijuana o messo i bianchi in contatto con le prostitute negre. Imparai anche che c'erano tante ragazze bianche che frequentavano le sale da ballo negre, alcune puttane che i loro protettori portavano lì per unire l'utile al dilettevole, altre che venivano con il loro ragazzo negro ed altre ancora che arrivavano sole per fare le loro libere scelte tra una turba di negri entusiasti . Alle feste da ballo dei bianchi, naturalmente, non era ammesso nessun negro ed è lì che i magnaccia delle puttane negre mettevano subito al corrente il nuovo lustrascarpe negro che avrebbe avuto una buona mancia se riusciva a passare un numero di telefono o un indirizzo a tutti quei bianchi che, alla fine della serata, si mettevano a cercare delle pollastrelle negre . La maggior parte delle serate danzanti del Roseland erano destinate ai soli bianchi e vi suonavano solo orchestre composte di bianchi. Ma l'unica di queste che abbia mai visto suonare durante una serata per negri fu quella di Charlie Barnet. Il fatto è che pochissime orchestre bianche avrebbero potuto soddisfare i ballerini negri. Il caso di Charlie Barnet era diverso: i suoi "Cherokee" e "Redskin Rhumba" spingevano quei negri alla frenesia. Affollavano la sala da ballo fino a non potersi quasi più muovere: le ragazze portavano vistosi abiti e scarpe di seta e satin e avevano i capelli acconciati in moltissimi modi, mentre gli uomini si pavoneggiavano nei loro "zoot suit" [3] mettendo in mostra le più incredibili «stirature» dei capelli e tutti facevano smorfie unti di brillantina e impregnati di odori pesanti . Alcuni degli orchestrali venivano su alla toilette verso le otto e si facevano lustrare le scarpe prima di andare al lavoro. Duke Ellington, Count Basie, Lionel Hampton, Cootie Williams, Jimmie Lunceford erano solo alcuni tra quelli che vennero a sedersi sulla mia sedia da lustrascarpe. Facevo schioccare lo straccio con un rumore che ricordava i fuochi artificiali. Il primo sassofono di Duke, Johnny Hodges, che era l'idolo di Shorty, mi deve ancora il pagamento di una lustratura. Una sera era seduto lì sulla mia sedia che discuteva amichevolmente con Sonny Greer, il batterista, che stava in piedi davanti a lui, quando io gli feci segno che era servito tamburellandogli la suola della scarpa. Hodges scese, si mise la mano in tasca per pagarmi, ma poi la ritirò fuori per fare un gesto, dimenticandosi di me e andandosene. Io non avrei mai osato seccare un uomo che suonava così bene "Daydream" per chiedergli quindici cents . Ricordo di aver avuto una piccola conversazione con Jimmie Rushing, il grande cantante di blues dell'orchestra di Count Basie, mentre gli lustravo le scarpe. Rushing era famoso per "Sent For You Yesterday", "Here You Come Today" e altre canzoni del genere. Ricordo i suoi piedi: erano grandi e dalla forma strana, non lunghi come lo sono gran parte dei piedi grandi, ma rotondi e tozzi. Comunque sia, mi presentò persino ad alcuni degli altri membri dell'orchestra Basie come Lester Young, Harry Edison, Buddy Tate, Don Byas, Dickie Wells e Buck Clayton. Dopo essi entravano nella stanza e si rivolgevano a me con un «Ciao, Rosso». Si mettevano a sedere sulla mia sedia ed io facevo schioccare il mio straccio al ritmo di tutti i motivi dei loro dischi che mi ronzavano per la testa. I musicisti non hanno mai avuto in nessuna parte del mondo un ammiratore più grande di me al tempo in cui facevo il lustrascarpe. Scrivevo a Wilfred, Hilda, Philbert e Reginald a Lansing cercando di descrivere tutte queste mie esperienze . Non ricevevo mance decenti finché non si arrivava a metà della serata, quando cioè i ballerini cominciano a sentirsi a loro agio e diventano generosi. Dopo le serate da ballo riservate ai bianchi, quando aiutavo a pulire il salone, capitava di buttar via forse una dozzina di bottiglie di liquore vuote. Ma dopo le serate dei negri, si dovevano buttar via degli scatoloni pieni di bottiglie da un litro e neanche di liquore a buon mercato, ma delle migliori marche e soprattutto di Scotch . Durante gli intervalli lassù nella toilette per uomini mi capitava qualche volta di trovare cinque minuti per andare a dare un'occhiata alle danze. I bianchi ballavano come se qualcuno li avesse addestrati - uno, due a sinistra; tre e quattro a destra - e ripetevano gli stessi passi e le stesse figure all'infinito come se fossero stati caricati. Invece i negri - nessuno al mondo sarebbe riuscito a mettere in coreografia il modo in cui essi esprimevano ciò che sentivano acchiappavano le loro partner, anche le pollastrelle bianche che si trovavano in sala. I miei fratelli negri di oggi magari mi odieranno se dico questo, ma parecchie ragazze negre erano quasi gettate in terra e calpestate da quei maschi negri che si slanciavano disordinatamente verso le donne bianche. Veniva da pensare che Dio avesse spodestato alcuni dei suoi angeli . Certamente i tempi sono cambiati. Se ciò accadesse oggi, quelle stesse ragazze negre correrebbero dietro ai loro uomini e anche alle donne bianche . Alcune delle coppie erano così sciolte nell'improvvisare passi e movimenti e nello scivolare sul pavimento in circoli vorticosi che quasi non si poteva credere ai propri occhi. Anche se io non avevo mai ballato, sentivo il ritmo fin nel midollo delle ossa . «Spettacolo!» cominciava a urlare ritmicamente il pubblico durante l'ultima ora della serata. Allora un paio di dozzine di coppie veramente scatenate restavano sulla pista, e le ragazze si mettevano scarpe basse da ginnastica. Ora l'orchestra suonava davvero al massimo della sua capacità e tutti gli altri ballerini, urlando e battendo le mani, si mettevano in circolo per seguire quella gara selvaggia che si svolgeva su circa un quarto della superficie della pista. L'orchestra, gli spettatori e i ballerini trasformavano la Roseland Ballroom in una grande nave che rollava e beccheggiava. Il riflettore passava dalla luce rosa a quella gialla, verde e blu, inquadrando le coppie che ballavano il "lindy-hop" come se fossero impazzite. «Dài, forza! Dài! Forza! Dài! Forza!» urlava la gente all'orchestra e questa ci DAVA davvero dentro, finché prima una e poi un'altra coppia perdevano le forze e, esausti e grondanti sudore, barcollavano verso la folla abbandonando la gara. Qualche volta andavo giù e mi mettevo in piedi vicino alla porta saltando su e giù nel mio giacchettone grigio con la spazzola che mi faceva capolino dalla tasca. Il manager mi veniva a urlare negli orecchi che sopra c'erano dei clienti che mi aspettavano . Non ricordo con precisione quando cominciai a bere, quando fumai la mia prima sigaretta o quando presi per la prima volta gli stupefacenti, ma so che erano tutte cose mescolate con il giocare a carte, lo scommettere alla lotteria o il puntare il mio bravo dollaro tutti i giorni al gioco clandestino sui cavalli. Tutto questo successe quando cominciai ad andare in giro la notte con Shorty e i suoi amici. Le sue storielle sul mio vecchio aspetto di cafone ci facevano ridere tutti. Ora so benissimo che in quel tempo ero ancora un cafone, ma ero felice perché mi si accettava. Andavamo tutti insieme a casa di qualcuno, di solito nell'appartamento di qualche ragazza e cominciavamo a fumare le «paglie» che ci facevano sentire la testa leggera o a bere il whisky che ci mandava la testa in fiamme. Era implicito per tutti che dovessi tenere i capelli ricciuti ancora per un po', finché non fossero diventati abbastanza lunghi da permettere a Shorty di stirarmeli. Fu una di quelle sere che io osservai di aver messo da parte circa metà della somma necessaria per comprare uno "zoot suit" . «RISPARMIARE? - Shorty non poteva crederci. - Ma, concittadino, hai mai sentito parlare del credito?» Mi disse che la mattina dopo, appena alzato, avrebbe chiamato un negozio di abbigliamento e che io avrei dovuto andarci subito dopo . Quando entrai mi venne a ricevere un giovane commesso ebreo . «Siete l'amico di Shorty?» Io dissi di sì. Mi sorprendeva che Shorty avesse tutte quelle conoscenze. Il commesso scrisse il mio nome sopra un modulo, vi aggiunse che lavoravo al Roseland e l'indirizzo di Ella dove abitavo. Come garanzia scrisse il nome di Shorty. «Shorty è uno dei nostri migliori clienti», disse il commesso . Dopo avermi preso le misure, il commesso tolse da una fila di abiti appesi uno "zoot suit" davvero incredibile: i pantaloni di un blu chiaro erano larghissimi al ginocchio e si restringevano ad angolo fino alla rovescia, mentre la giacca, attillata alla vita, mi scendeva fin sotto i ginocchi . Il commesso mi disse che il negozio mi avrebbe regalato una cintola di pelle marrone con sulla fibbia la lettera L, iniziale del mio cognome. Mi disse poi che dovevo comprarmi anche un cappello e così io feci, scegliendone uno blu con la penna infilata nella fascia altissima. Il negozio mi fece un altro regalo: una lunga catena dorata, dai grossi anelli, che ciondolavano fin sotto l'orlo della giacca. Mi ero indebitato per sempre . Quando mi misi lo "zoot" per farlo vedere a Ella, lei mi guardò a lungo e disse: «Be', credo che fosse inevitabile». Mi feci fare tre di quelle fotografie da venticinque cents, color seppia, che vengono stampate e consegnate subito. Mi misi nella posa preferita dai guappi, per «fare la bella figura», quando indossano i loro "zoots": cappello sulle ventitré, ginocchi stretti insieme, piedi divaricati, e tutti e due gli indici puntati verso il pavimento. Il giacchettone, la catena ciondolante e i calzoncini all'orientale venivano messi più in evidenza se si stava in quella posa. Firmai e spedii per via aerea una di queste fotografie ai miei fratelli e sorelle a Lansing perché vedessero come mi trovavo bene. Un'altra la detti a Ella e la terza a Shorty che ne rimase veramente commosso. Me ne accorsi dal modo in cui disse: «Grazie concittadino!» Faceva parte del nostro codice di guappi non far mostra di sentimentalismi . Ben presto Shorty decise che i miei capelli erano abbastanza lunghi per la stiratura. Mi promise di insegnarmi a fare il miscuglio necessario a un prezzo minore dei tre o quattro dollari che voleva il barbiere e poi avremmo stirato i miei capelli da noi . Andai in un negozio di commestibili con un elenco di ingredienti che Shorty mi aveva scritto in stampatello e comprai un barattolo di lisciva marca Diavolo rosso, due uova e due patate bianche di grandezza media. Poi chiesi al droghiere che aveva il negozio vicino alla sala da biliardo di darmi un grande barattolo di vasellina, un pezzo di sapone, un pettine fitto e uno coi denti molto radi, un tubo di gomma con una testa di metallo per doccia, un grembiule e un paio di guanti di gomma . «Volete darvi la prima stiratura?» mi chiese il droghiere . «Proprio così! » gli risposi con una smorfia di orgoglio . Shorty pagava sei dollari la settimana per una stanza nel cadente appartamento di suo cugino. Questi non era mai in casa . «E' come se il buco fosse mio. Lui passa tutto il tempo dalla sua donna, - disse Shorty; - ora guarda come faccio...» Sbucciò le patate e le tagliò fini fini in un vaso di vetro di quelli per conservare le frutta, poi cominciò a rimestarle con un cucchiaio di legno mentre versava lentamente più di metà del barattolo di lisciva. «Non adoprare mai un cucchiaio di metallo,- mi disse, - la lisciva lo fa diventare nero» . Dal miscuglio della lisciva con le patate venne fuori una massa gelatinosa, simile all'amido, e Shorty vi aggiunse due uova cominciando a sbattere velocemente. Teneva i suoi capelli stirati e il viso nero vicinissimi al vaso; il miscuglio cominciò a diventare di un colore giallastro. «Metti una mano qui», disse Shorty. Io appoggiai la mano sulla parete esterna del vaso, ma dovetti ritrarla subito. «Proprio così, è bollente, è l'azione della lisciva, - disse Shorty; - ora capisci perché ti brucerà quando ti ci pettinerò. Brucia parecchio, ma più puoi sopportarlo e più lisci ti diventano i capelli» . Mi fece sedere e mi legò i lacci del grembiule di gomma strettamente intorno al collo, poi pettinò quel mio cespuglio di capelli. Prese una manata di vasellina e me la sparse sui capelli e sulla cute massaggiando con forza. Mi coprì con uno spesso strato di vasellina anche il collo, gli orecchi e la fronte. «Quando arriverò a lavarti la testa, assicurati di sapermi dire con precisione se senti delle punture da qualche parte, - mi ammonì Shorty mentre si lavava le mani, infilava i guanti di gomma e stringeva i lacci del suo grembiule. - Non devi mai dimenticare che anche una piccola quantità di questo miscuglio che ti resti nella cute può provocare una piaga» . Quando Shorty cominciò a spargermelo col pettine sulla cute, il miscuglio mi sembrò appena tiepido, ma ben presto mi parve che la testa mi prendesse fuoco . Strinsi i denti e mi aggrappai con tale violenza a due lati del tavolo di cucina da dare l'impressione che volessi farli coincidere. Quando mi passava il pettine tra i capelli era come se mi strappasse la pelle brano a brano . Mi vennero le lacrime agli occhi e mi cominciò a gocciolare il naso. Non ce la facevo più a sopportare il dolore e brancolavo verso il lavandino. Maledicevo Shorty con tutte le parolacce che mi venivano in mente quando lui cominciò ad azionare la doccia e a insaponarmi la testa . Mi insaponò e risciacquò forse dieci o dodici volte, ogni volta regolando il flusso dell'acqua calda fino a risciacquarmi con quella fredda. Ciò mi fu di un certo sollievo . «Non senti pungere in nessun punto?» «No», riuscii a dire. Mi tremavano le ginocchia . «Appoggiati pure alla spalliera della seggiola. Credo che per oggi sia andata bene» . Le fiamme ritornarono quando Shorty cominciò ad asciugarmi la testa con un asciugamano molto spesso, sfregandomi con forza i capelli e la cute. «PIANO, accidenti! PIANO», continuavo a gridare . «La prima volta è sempre la peggiore. Dopo un po' ci si abitua . L'hai assorbito davvero bene, concittadino. Ti è venuta una bella stiratura» . Quando Shorty mi permise di alzarmi e guardarmi allo specchio, vidi che i miei capelli erano ridotti a un groviglio di stringhe che pendevano da tutte le parti. La cute mi bruciava, ma non così tanto come prima: ora potevo sopportare quel bruciore. Lui mi mise l'asciugamano intorno alle spalle sopra il grembiule di gomma e di nuovo cominciò a cospargermi i capelli di vasellina . Sentivo che mi pettinava con un deciso andamento all'indietro, prima col pettine dai denti radi e poi con quello fitto . Successivamente adoprò il rasoio, con grande delicatezza, per radermi la nuca e, per ultimo, pareggiò le basette . Quando mi guardai nello specchio ebbi come una specie di ricompensa per tutte quelle sofferenze. Avevo visto parecchie stirature ben riuscite, ma l'effetto è sconvolgente quando, dopo un'intera vita con i capelli ricciuti, se ne vede per la prima volta l'effetto sulla PROPRIA testa . Nello specchio vedevo Shorty dietro di me. Tutti e due eravamo sudati e facevamo delle smorfie. In cima alla testa mi vedevo dei capelli fitti, morbidi e lucenti di un color rosso, lisci come quelli di qualsiasi uomo bianco . Com'ero ridicolo! Ero abbastanza stupido da star lì ritto, perduto nell'ammirazione dei miei capelli che avevano l'aspetto di quelli dei bianchi, lì riflesso nello specchio della stanza di Shorty. Promisi a me stesso che non sarei mai rimasto senza la stiratura e infatti, per molti anni, mantenni quella promessa . Quello fu davvero il primo grande passo che feci verso l'autodegradazione: sopportai tutto quel dolore, bruciandomi letteralmente la carne con la lisciva per poter far diventare lisci i miei capelli in modo che sembrassero come quelli dei bianchi. Ero entrato anch'io a far parte di quella moltitudine di uomini e donne che, in America, sono spinti con ogni mezzo a credere che i negri sono inferiori e i bianchi superiori, fino al punto di mutilare e distorcere i loro corpi nel tentativo di sembrare «graziosi» secondo i criteri di giudizio dei bianchi . Guardatevi d'intorno anche oggi, in ogni cittadina e in ogni metropoli, dalle tavole calde da quattro soldi ai saloni «integrati» del Waldorf-Astoria, e vedrete negri con i capelli stirati e donne negre che portano parrucche verdi, rosa, viola, rosse e biondo platino. Essi sono più ridicoli dei comici delle torte in faccia e tutto ciò fa venir voglia di domandarsi se il negro ha perduto completamente il senso della sua identità, della consapevolezza di sé . Se ci fate caso, vedrete che molti negri della cosiddetta classe media superiore e, anche se citare questi mi fa molto dispiacere, troppi di coloro che operano nel mondo dello spettacolo, si stirano i capelli. Una delle ragioni per cui ho particolarmente ammirato alcuni di questi ultimi, come tra gli altri Lionel Hampton e Sidney Poitier, è che hanno mantenuto il loro aspetto naturale e sono riusciti ad arrivare al culmine della fama. Ammiro tutti quei negri che non si sono mai fatti stirare i capelli o che hanno avuto il buon senso, come feci io a un certo punto, di smettere . Non so se questo processo di autodeturpazione faccia più vergogna ai negri delle cosiddette classe media e classe media superiore che dovrebbero avere maggior giudizio, oppure ai più poveri, oppressi, ignoranti, quegli abitanti dei ghetti che guadagnano il minimo vitale, come ero io quando mi stirai per la prima volta i capelli. Generalmente è tra questi poveri illusi che si vedono uomini con un fazzoletto nero in testa, come la réclame delle frittelle Aunt Jemima: cercano di far durare la stiratura di più e quindi di andar meno dal parrucchiere. E' solo nelle grandi occasioni che la stiratura protetta dal fazzoletto viene mostrata, quando chi se l'è fatta vuol darsi arie di «dritto» e di «guappo». Il colmo dell'ironia è che non ho mai sentito una donna, bianca o negra, esprimere ammirazione per un negro con i capelli stirati. E' naturale che una donna bianca che va con un negro non pensi ai suoi capelli, ma non riesco a capire come possa fare una negra con un minimo di orgoglio per la sua razza a passeggiare per la strada accanto a un uomo con i capelli stirati, che sono il simbolo della sua vergogna di essere negro . Quando dico queste cose mi riferisco in primo luogo a me stesso, alla mia vergogna, perché non credo ci sia mai stato un altro negro che si è sottoposto a quel processo con maggior diligenza di quanto feci io. Parlo per esperienza personale quando dico che se tutti i negri che si stirano i capelli e tutte le negre che portano parrucche per sembrare bianche coltivassero il loro intelletto solo con metà della cura che dedicano ai capelli, sarebbero persone mille volte migliori . NOTE . NOTA 1: La notte del 5 marzo 1770 a Boston, durante un violento scontro tra la folla e i soldati di un reggimento britannico di linea, tre dimostranti furono uccisi e molti altri feriti. Tra i caduti ci fu appunto Crispus Attucks, un mulatto fuggito da una piantagione del Sud e arruolatosi come marinaio . NOTA 2: Bassotto . NOTA 3: "Zoot suit", termine dello slang, divenuto di uso corrente durante gli anni '30. Di origine incerta, designa un abito con la giacca fino al ginocchio, le spalle esageratamente imbottite, le tasche tagliate in diagonale, i pantaloni con la vita fin quasi sotto le ascelle, larghissimi al ginocchio e stretti alle rovesce . Il termine è usato per descrivere qualsiasi abito vistoso, stravagante, anche se non in senso dispregiativo . Capitolo quarto . LAURA . Shorty mi portava in diversi posti pieni di puttanelle e di guappi, dove con le luci abbassate e la musica del jukebox al minimo, tutti si caricavano di droga oltre il limite per poi raggiungere uno stato di frenesia e di esaltazione. Incontrai pollastrelle gradevoli e frizzanti come il vino di maggio e tipi di guappi ai quali non faceva impressione più niente . Come centinaia di migliaia di negri cresciuti in campagna e poi emigrati prima di me in un ghetto del Nord, e come tutti gli altri che sono venuti su dopo, anch'io mi adornavo di tutti gli altri orpelli di moda nel ghetto, lo "zoot suit" e la stiratura dei capelli di cui ho parlato prima, l'alcool, le sigarette e infine le paglie alla marijuana. Erano questi i mezzi di cui mi servivo per cancellare il mio passato imbarazzante. Tuttavia ero ancora oppresso da una segreta umiliazione: non sapevo ballare . Non ricordo esattamente quando imparai, cioè non mi ricordo la data specifica, ma il ballo era l'attività culminante di quelle orge, di quei "pad parties" e quindi non ho dubbi sul come e il perché ebbe luogo la mia iniziazione al "lindy-hop". Quando l'alcool o la marijuana mi rendevano la testa leggera e quella musica così eccitante gemeva con tanta sonorità dall'altoparlante di un giradischi portatile, non ci voleva molto perché il senso del ritmo, così istintivo per noi di discendenza africana, si scatenasse. Tutto quello che ricordo è che, durante una di queste feste, quando quasi tutti stavano ballando, io che me ne stavo seduto da una parte fui afferrato da una ragazza: erano loro spesso a prendere l'iniziativa e a scegliersi il partner perché nessuna ragazza avrebbe mai pensato che chi andava a feste di quel genere non sapesse ballare. Fu così che mi ritrovai sulla pista . Ero in mezzo alla folla delle coppie che si agitavano furiosamente al ritmo della musica quando d'improvviso seppi come si faceva. Fu come se improvvisamente qualcuno avesse acceso una luce. I miei istinti africani per tanto tempo repressi esplosero e si scatenarono con tutta la loro violenza . Forse perché ero stato tanto tempo in mezzo ai bianchi a Mason, avevo sempre creduto e temuto che ballare richiedesse un certo ordine o un insieme di passi e figure specifiche, così come il ballo è concepito dai bianchi. Ma qui tra la mia gente molto meno inibita di quelli, mi accorsi che si trattava semplicemente di lasciare che i piedi, le mani e tutto il corpo si abbandonassero spontaneamente a quegli impulsi che la musica stimolava . Da allora non ci fu una sola festa senza che ci andassi anch'io, magari invitandomi da solo se non potevo fare altrimenti, e in cui non ballassi freneticamente dal principio alla fine . Avevo sempre imparato rapidamente nuove cose e anche in questo caso mi rifeci del tempo perso così alla svelta che le ragazze facevano a gara per ballare con me. Le facevo faticare parecchio ed è per questo che piacevo loro così tanto . Quando lavoravo, su nella toilette per uomini al Roseland, non potevo star fermo. Facevo schioccare lo straccio al ritmo delle grandi orchestre che scuotevano la sala da ballo. Specialmente i clienti bianchi ridevano nel vedere che, ad un tratto, mentre lustravo loro le scarpe, i miei piedi si mettevano in movimento da soli e accennavano alcuni passi. I bianchi hanno ragione di credere che i negri siano dei ballerini nati. Lo sono anche i bambini, fatta eccezione per quei negri di oggi che sono così «integrati», come lo ero stato io, che i loro istinti sono inibiti. Avete mai visto quei fantocci meccanici che si caricano e ballano? Io ero come uno di quelli, con la differenza che ero vivo: la musica mi dava la carica . Quando annunciai al direttore del Roseland la mia intenzione di licenziarmi era la vigilia di un gran ballo negro con l'orchestra di Lionel Hampton . Ella, dopo aver sentito da me le ragioni per cui avevo lasciato il posto, rise fragorosamente. Le dissi che non riuscivo a trovare il tempo per lustrare le scarpe e insieme ballare. Ne fu felice perché non le era mai piaciuta l'idea che io avessi un lavoro di così poco prestigio. Quando lo dissi a Shorty, lui mi rispose che sapeva benissimo che un giorno o l'altro quel lavoro non sarebbe stato più adatto per me . Il mio amico ballava bene ma per certi suoi motivi particolari non si era mai preoccupato di frequentare le grandi feste da ballo. Gli piaceva soltanto l'aspetto musicale di esse. Lui si esercitava al sassofono e ascoltava i dischi e mi sorprendeva il fatto che non gli importasse di andare ad ascoltare le grandi orchestre. Il suo idolo era Johnny Hodges, il sassofono tenore dell'orchestra di Duke Ellington, ma diceva che troppi dei giovani musicisti non facevano altro che copiare pedissequamente i grandi solisti delle maggiori orchestre. In ogni caso, Shorty non si applicava seriamente a nessun'altra cosa più che alla musica e pensava continuamente al giorno in cui avrebbe potuto metter su la sua orchestrina e suonare nei vari locali di Boston . La mattina dopo che mi fui licenziato dal Roseland andai di buon'ora al solito negozio di abbigliamento. Il commesso dette una scorsa alla mia scheda e vide che avevo saltato solamente una rata settimanale: ero classificato tra i migliori clienti . Gli dissi che avevo appena lasciato il lavoro ma lui mi rispose che non importava: potevo saltare un paio di rate se ne avevo la necessità. Lui sapeva che avrei fatto fede ai miei impegni . Questa volta considerai con estrema attenzione tutti gli abiti della mia misura e, alla fine, scelsi il mio secondo "zoot suit". Era di un grigio pescecane, con un giacchettone lungo e i calzoni a sbuffo al punto dei ginocchi che poi si restringevano fino alle rovesce diventando così stretti che per levarmeli e mettermeli dovevo prima togliermi le scarpe. Dietro le insistenze del commesso, mi comprai un'altra camicia, un cappello e un paio di scarpe del modello che stava diventando di gran moda tra i guappi: colore arancione scuro con le suole finissime e la punta arrotondata a cupoletta. Il conto fu di settanta o ottanta dollari . Era questa una giornata di tale euforia che andai per la prima volta a farmi fare la stiratura dal barbiere. Come Shorty aveva previsto, questa volta non sentii molto dolore . Quella sera stessa, calcolai in modo da arrivare al Roseland nel momento in cui c'era il massimo afflusso di pubblico . Nell'ingresso pieno zeppo vidi che alcuni dei veri guappi di Roxbury guardavano con interesse il mio vestito mentre alcune belle donne mi facevano l'occhietto. Andai su alla toilette per uomini a bere un paio di sorsate dalla bottiglia di whisky che portavo nella tasca interna della giacca. Il mio successore era là: un povero diavolo tutto spaventato, con una faccia lunga, la pelle marrone e un aspetto da affamato. Era appena arrivato da Kansas City e quando mi riconobbe non poté trattenere l'ammirazione e la meraviglia. Io gli dissi di tenere gli occhi aperti che presto avrebbe capito come andavano le cose. Tutto procedeva bene quando scesi giù nel salone da ballo . L'orchestra di Hamp stava suonando e la pista enorme e tirata a cera era strapiena di gente che ballava freneticamente. Io acchiappai una ragazza che non avevo mai vista e un momento dopo stavamo ballando e facendoci le smorfie uno con l'altro. Non avrei potuto esser più contento . Fino ad allora avevo ballato il "lindy-hop" nei salotti di piccolissimi appartamenti e ora mi trovavo con tanto spazio per muovermi. Non appena mi fui riscaldato e sciolto, cominciai a scegliere le mie partner tra le centinaia di ragazze non accompagnate che sedevano intorno alla sala. Quasi tutte ballavano benissimo e io avevo quasi perso la testa. L'orchestra di Hamp gemeva in modo assordante e io facevo girare su se stesse le ragazze così velocemente che le loro gonne schioccavano. C'erano ragazze dalla pelle molto nera, marrone, giallastra e persino un paio di bianche. Io le facevo volare intorno ai miei fianchi, sopra le mie spalle, nell'aria. Sebbene non avessi ancora sedici anni ero alto e ben proporzionato e ne dimostravo ventuno: ero anche molto forte per la mia età . Facendo dei circoli concentrici, il tip-tap, «l'aquila» ad ali spiegate, il «canguro» e la «spaccata» le riprendevo quando venivano giù . Dopo quella volta, per tutto il tempo che rimasi a Boston non lasciai passare una sola serata di "lindy-hop" al Roseland senza esser presente . La migliore partner che, tutto considerato, ebbi mai per quel genere di ballo fu una ragazza di nome Laura. La conobbi al posto di lavoro che trovai dopo quello di lustrascarpe. Quando mi licenziai, Ella fu così contenta da mettersi lei stessa a cercarmi un lavoro, qualcosa che sarebbe stato di suo gradimento. Appena due isolati dalla sua casa il negozio di drogheria Townsend stava per sostituire il suo barista che doveva andare al college . Quando Ella me lo disse, l'idea non mi piacque. Lei sapeva che non potevo sopportare quei tipi che si trovavano sulla Collina, ma se avessi espresso con chiarezza la mia opinione l'avrei fatta arrabbiare. Per evitare ciò, mi misi la giacca bianca e cominciai a servire frappé, gelati con soda, "banana split" e tutte le altre bevande e specialità di gelateria che il negozio offriva a quei negri boriosi . Tutte le sere alle otto quando tornavo a casa Ella mi diceva: «Spero che qui a Roxbury conoscerai qualcuno di quei bravi giovani della tua età». Ma quegli spiantati che venivano dentro dandosi arie da milionari, sia i giovani che i vecchi, mi annoiavano e basta. Gente come la cameriera a tutto servizio di certi bianchi che abitavano a Beacon Hill che entrava nel locale con i suoi modi da snob («ooh, my deah») e ordinava callifughi in quel negozio di proprietà di un ebreo. Veniva poi una donna che faceva la cameriera sguattera nel "self-service" dell'ospedale. Nel giorno di permesso si sedeva lì con una pelliccetta di gatto intorno al collo per dire al proprietario che faceva la dietista, e tutti e due sapevano benissimo che era una bugia. Anche i giovani della mia età di cui parlava tanto Ella erano della stessa specie. La "soda fountain" era uno dei loro posti di ritrovo e ben presto mi avevano tanto disgustato che avevo deciso di lasciare quel lavoro. Parlavano con un accento così artefatto che se uno li avesse sentiti senza vederli non si sarebbe mai immaginato che fossero negri. Non mi passavano mai le ore fino alle otto di sera quando tornavo a casa per mangiare i deliziosi piatti di Ella; poi mi mettevo il mio "zoot suit" e me ne andavo in città a casa di certi amici a ballare il "lindy-hop" e a ubriacarmi, o a fare qualche altra cosa per rimettermi dal disgusto che mi davano quei buffoni della Collina . Non era passato molto tempo da quando avevo cominciato quel lavoro che già non riuscivo a star lì otto ore al giorno. Mi ricordo che una sera quasi mi licenziai perché avevo vinto alla lotteria con una puntata da dieci cents - era la prima volta che vincevo - su di una combinazione di numeri che avevo fatto in negozio. (Sissignore, sulla Collina c'erano parecchi galoppini che accettavano le scommesse e anche i negri più rispettabili facevano le loro brave puntate). Vinsi sessanta dollari e insieme a Shorty feci una bella bevuta per festeggiare l'avvenimento. Avrei preferito vincere con la puntata quotidiana di un dollaro che facevo sempre con il solito uomo al quale pagavo le giocate ogni settimana. Allora sì che mi sarei licenziato! Mi sarei potuto anche comprare una macchina . Laura abitava al di là della strada, in una casa posta in diagonale rispetto al negozio di drogheria. Dopo un po' di tempo, appena la vedevo entrare cominciavo a prepararle un "banana split". Ne andava pazza e tutti i pomeriggi, dopo la scuola, veniva a prenderne uno. Credo di averle messo sotto il naso quel gelato per quattro o cinque settimane prima che mi riuscisse di scoprire che era diversa dalle altre ragazze. Era certamente l'unica ragazza della Collina che veniva là e si comportava in modo spontaneo e amichevole . Portava sempre qualche libro sotto il braccio e si metteva a leggere mentre mangiava il suo "banana split" quotidiano. Tante volte ci metteva mezz'ora per finirlo. Cominciai a curiosare per vedere che genere di libri leggeva. Era quasi tutta roba pesante, testi scolastici di latino, di algebra o cose del genere. Quando la guardavo pensavo che da quando avevo lasciato Mason non avevo letto più neanche il giornale . LAURA: sentii che la chiamavano così alcuni altri giovani che erano entrati quando lei era già seduta al banco. Notai però che non la conoscevano bene: tutto quello che le dissero fu un generico «Salve». Si teneva piuttosto sulle sue e a me non disse mai più di un «grazie». Aveva una bella voce, soave e ben modulata. Mai un'altra parola. Però non si dava delle arie come gli altri, come i negri di Boston. Era se stessa . A me piaceva molto questo suo modo di comportarsi e dopo un po' riuscii ad attaccare discorso. Non ricordo su quale argomento, ma lei subito si aprì e cominciò a parlare in modo del tutto amichevole. Scoprii che faceva il penultimo anno della scuola secondaria e che era tra i primi della classe. I suoi genitori si erano divisi quando lei era ancora bambina ed era stata allevata dalla nonna, una vecchia signora che viveva di una modesta pensione e che era molto severa e religiosa. Laura aveva soltanto un'amica intima, una ragazza che abitava a Cambridge e che era stata sua compagna di scuola. Si parlavano al telefono tutti i giorni. La nonna le permetteva solo raramente di andare al cinema, per non dire degli appuntamenti con i ragazzi . Ma a Laura la scuola piaceva davvero. Diceva che voleva andare all'università. Aveva disposizione per l'algebra e voleva fare studi scientifici. Non credo che avrebbe mai immaginato che aveva un anno più di me. Me ne accorsi solo indirettamente: lei mi considerava come uno che aveva un'immensa esperienza, molto più grande della sua, il che era poi la verità. Qualche volta, quando se ne andava, io restavo molto depresso pensando come avevo voltato le spalle ai libri che mi piacevano tanto quando ero ancora nel Michigan . Ero arrivato al punto che aspettavo con impazienza il suo arrivo ogni giorno, dopo la scuola. Feci in modo che non pagasse più e le davo anche del gelato extra. Lei, da parte sua, non nascondeva che io le piacevo . Dopo un po' di tempo smise di leggere i suoi libri quando veniva nel negozio: si sedeva, mangiava e parlava con me. Ben presto cominciò a cercare di farmi parlare di me. Fui subito pentito quando una volta mi lasciai sfuggire di aver pensato di fare l'avvocato. Lei non voleva abbandonare l'argomento. «Malcolm, non c'è nessuna ragione che tu non possa riprendere da dove hai lasciato e diventare avvocato». Pensava che mia sorella Ella mi avrebbe aiutato in tutto quello che avrebbe potuto e che se avesse deciso che dipendeva da lei aiutare un membro della famiglia Little a farsi una posizione o come insegnante o come callista o qualsiasi altra cosa, sarebbe stato necessario addirittura legarla per impedirle di mettersi a lavare i panni per finanziare un simile progetto . Non parlai mai di Laura a Shorty. Sapevo che lei non lo avrebbe mai capito, né che avrebbe mai potuto stabilire un rapporto con il suo gruppo. La cosa era reciproca. Lei non era mai stata toccata, ne sono sicuro, né aveva mai bevuto un bicchiere di alcool e non sapeva neppure cosa fosse una sigaretta alla marijuana . Fu con grande sorpresa che, un pomeriggio, sentii che Laura mi disse che il "lindy-hop" «le piaceva da morire». Le chiesi come aveva potuto trovare il modo di andare a ballare e lei mi rispose che aveva imparato quel ballo la prima volta a una festa data dai genitori di un amico negro che era stato ammesso ad Harvard . Era quasi l'ora di chiudere e io le dissi che quel weekend Count Basie suonava al Roseland. Le sarebbe piaciuto andarlo a sentire? Laura rimase lì con gli occhi spalancati. Credetti di doverla sostenere tanto era agitata. Disse che non era mai stata là, ma che ne aveva sentito parlare così tanto da immaginarsi com'era, che avrebbe dato qualunque cosa per venire, ma che sua nonna sarebbe stata presa da un attacco . Allora io le dissi che forse si sarebbe potuti andare un'altra volta, ma il pomeriggio prima del ballo Laura entrò nel negozio tutta eccitata. Mi bisbigliò che non aveva mai mentito prima a sua nonna, ma che questa volta le aveva detto che doveva partecipare a una cerimonia scolastica quel pomeriggio. Sarebbe venuta con me se l'avessi riportata a casa presto, ammesso che fossi stato sempre dell'opinione di portarla a ballare . Le dissi che mi sarei dovuto fermare a casa a cambiarmi. Lei esitò ma poi disse che andava bene. Prima di mettersi in moto, telefonai a Ella per dirle che avrei portato a casa una ragazza prima di andare a ballare. Sebbene io non avessi mai fatto una cosa del genere, Ella simulò la sua sorpresa . Per molto tempo dopo risi fra me e me tutte le volte che pensavo alla scena: Ella con la bocca aperta dalla meraviglia quando io apparvi sulla porta insieme con una ben educata ragazza della Collina. Laura, quando la presentai, si mostrò sincera e cordiale e quanto a Ella sembrava che stesse lì per acchiappare il suo terzo marito . Mentre loro chiacchieravano giù in salotto, io andai a vestirmi nella mia camera. Ricordo di aver cambiato idea circa il mio vestito color grigio pescecane. Decisi invece di mettermi il primo che avevo comprato, quello blu. Sapevo di dover indossare l'abito meno vistoso che avevo . Quando scesi, Laura e Ella sembravano due vecchie amiche. Ella aveva persino preparato il tè e il suo occhio di falco mi guardò come per strapparmi di dosso lo "zoot suit" con un rastrello . Comunque sono certo che fu contenta che, almeno, mi ero messo quello blu. Conoscendo Ella immaginai subito che si fosse fatta dire da Laura l'intera storia della sua vita e che già sentisse il suono delle campane nuziali. Mentre eravamo in taxi diretti al Roseland, io ghignavo soddisfatto tra me e me perché avevo fatto vedere a Ella che, se volevo, sapevo anch'io trovarmi una delle ragazze della Collina . Laura aveva occhi grandissimi. Mi disse che quasi nessuno dei suoi conoscenti aveva conosciuto la nonna, la quale non andava in nessun posto tranne che in chiesa e che perciò non c'era pericolo che lo venisse a sapere. L'unica persona a cui l'aveva detto era la sua amica che aveva diviso con lei il suo entusiasmo . Entrammo nell'atrio del Roseland. Da tutte le parti la gente mi faceva cenni, sorrisi e mi salutava. Alcuni dicevano ad alta voce: «Amico!» e «Ciao, Rosso!», io rispondevo: «Daddy-o» . Non avevamo mai ballato insieme, ma non fu davvero un problema . Due persone che sanno ballare il "lindy-hop" separatamente, lo sanno ballare anche insieme. Noi cominciammo lì sulla pista tra tante altre coppie . Dovemmo arrivare forse a metà del primo ballo prima che mi rendessi veramente conto di come lei ballava . Se conoscete il "lindy-hop", allora capite cosa sto dicendo. Con quasi tutte le ragazze si balla di fronte, muovendosi in circolo, facendo passi laterali e guidando. Sia che il cavaliere guidi con un braccio o con l'altro, a metà piegato, le mani debbono dare quella strappatina, quella piccola spinta, toccando ora la vita, ora le spalle, ora le braccia della partner. Essa viene avanti, va indietro, si gira, fa le piroette a seconda di come la guida il cavaliere. Quando si balla con delle partner scadenti si sente tutto il loro peso. Sono lente e grevi. Ma con delle ottime ballerine basta solo un accenno, una tiratina, una lieve pressione della mano. Si lasciano guidare quasi senza sforzo, anche quando devono sollevare i piedi dal pavimento e slanciarsi in aria e la piccola figurazione del cavaliere viene fatta prima che la partner ricada giù nelle braccia di lui e poi facendo una vorticosa piroetta, tutto questo senza perdere il ritmo . Io avevo ballato con molte ottime partner, ma la cosa che improvvisamente mi stupì di Laura fu di accorgermi che mai prima avevo sentito così poco peso! Bastava che pensassi a una nuova figura e lei subito rispondeva . Ballava muovendosi rapidamente verso di me, poi distaccandosi, passandomi sotto il braccio, descrivendo un semicerchio rapidissimo intorno a me ed io guardavo ammirato il suo stile, il modo leggero e velocissimo in cui muoveva i piedi. Anche ora se chiudo gli occhi vedo quella scena, come un'immagine sfumata di balletto... Bellissimo! Era leggera come un'ombra. Se qualcuno me l'avesse chiesto, avrei detto che la partner perfetta era per me quella che seguiva con la stessa leggerezza di Laura e che, nel medesimo tempo, aveva la forza di durare per tutta una serata. Tuttavia sapevo che Laura non avrebbe avuto tale forza . Alcuni anni dopo, a Harlem, un mio amico chiamato Sammy il magnaccia mi insegnò qualcosa che sarebbe stato bene avessi saputo allora per poter scrutare la luce segreta del volto di Laura. Si trattava di un infallibile sistema, come diceva Sammy, per determinare la «vera personalità inconscia» delle donne . Dato il numero di ragazze che aveva conosciuto alle feste da ballo e poi spinto alla prostituzione, Sammy si dichiarava un esperto. Giurava che se una donna, qualunque donna, si lascia veramente trasportare dal ballo, quello che essa è veramente almeno in potenza apparirà con chiarezza sul suo volto . Non dico qui che sul volto di Laura apparve l'espressione di una donna di facili costumi, sebbene la vita le riservasse durissimi colpi, che cominciarono a cadere su di lei dopo avermi conosciuto. Quello che dico è che se avessi avuto allora l'abilità di Sammy sarei stato in grado di cogliere certe tendenze potenziali di Laura destinate poi ad attualizzarsi, che avrebbero veramente scioccato sua nonna . Un terzo circa della serata era dedicato agli a solo degli strumenti e ai vari pezzi di bravura dell'orchestra e poi veniva il momento dello show, quando soltanto i più grandi ballerini di "lindy-hop" rimanevano sulla pista e cercavano di eliminarsi a vicenda. Tutti gli altri si disponevano intorno e formavano una gigantesca U con l'orchestra all'inizio dei due bracci . Le ragazze che volevano partecipare alla gara andavano da parte e cambiavano le scarpe con i tacchi alti con quelle basse da ginnastica. Con i tacchi non avrebbero mai potuto sopravvivere alla prova. Tra di loro ce n'erano sempre quattro o cinque senza cavaliere che giravano alla ricerca di qualcuno che conoscevano come bravo ballerino . Count Basie cominciò a suonare fragorosamente la musica dello show e gli altri ballerini lasciarono la pista cercando di mettersi in una buona posizione per vedere meglio e gridando ritmicamente per incitare i loro favoriti: «Forza ora, Rosso! mi gridavano. - Sistemali per le feste, Rosso!» Fu allora che una ragazza con cui avevo ballato prima, Mamie Bevels, cameriera e ballerina fanatica, mi corse incontro mentre Laura restava lì in piedi a guardarmi. Io non sapevo bene cosa fare, ma Laura, sempre tenendo gli occhi fissi su di me, si mosse verso il gruppo degli spettatori . L'orchestra di Count suonava a pieno volume. Io afferrai Mamie e cominciammo a ballare. Era una ragazzona grande e grossa, piuttosto rozza, e ballava il "lindy-hop" come un cavallo imbizzarrito. Ricordo ancora la sera in cui si fece conoscere come una delle campionesse di show al Roseland. L'orchestra stava suonando sui toni acuti e lei gettò via le scarpe e a piedi nudi cominciò a gridare e a dimenarsi come se si trovasse in mezzo alla giungla africana a ballare una danza selvaggia; poi fece qualche figura sempre urlando ad ogni passo finché il tipo che ballava con lei fu costretto ad usare la forza per tenerla sotto controllo. Alla gente che era lì piaceva moltissimo un modo di ballare il "lindy-hop" così incontrollato da rendere lo show pittoresco e imprevedibile. Fu così che Mamie divenne famosa nell'ambiente . Io la guidavo come un cavallo, come le piaceva. Quando dopo il primo ballo lasciammo la pista, eravamo tutti e due zuppi di sudore mentre la gente urlava e ci dava grandi manate sulle spalle . Ricordo di aver lasciato presto il locale per poter accompagnare a casa Laura in tempo. Lei era molto silenziosa e, durante i sette od otto giorni seguenti, non parlò molto quando veniva al negozio. Anche allora conoscevo abbastanza bene le donne per sapere che non si deve insistere quando pensano a qualcosa: lo dicono da sé quando arriva il momento . Tutte le volte che vedevo Ella, anche quando mi lavavo i denti la mattina, mi sottoponeva a un interrogatorio di terzo grado . Quando avrei visto ancora Laura? L'avrei fatta venire a casa di nuovo? «Che brava ragazza che è!» Ella l'aveva scelta per me . Ma, in quel senso, non è che pensassi molto alla ragazza. Quando si trattava di questioni personali la mia preoccupazione fondamentale era di apparire impeccabile nel mio "zoot" appena smontavo dal lavoro e di precipitarmi in città per andare a zonzo con Shorty e gli altri della banda e con le ragazze che loro conoscevano, mille miglia lontano dalla Collina . Non pensavo a Laura neanche quando mi venne a trovare nel negozio per chiedermi di accompagnarla al prossimo ballo per negri al Roseland. Era annunciata la partecipazione dell'orchestra di Duke Ellington e lei non stava più nella pelle dall'eccitazione. Io non avevo modo di sapere che cosa sarebbe successo . Questa volta mi chiese di andarla a prendere a casa sua. Io non volevo avere alcun rapporto con la vecchia nonna che lei mi aveva descritto. Tuttavia andai lo stesso. Fu la nonna che mi venne ad aprire la porta: era una negra all'antica, dal viso rugoso e dai capelli grigi ricciuti. Mi aprì abbastanza perché potessi passare senza neanche dirmi: «Entra, cane!» Ho avuto a che fare con poliziotti armati e gangster meno ostili di lei . Ricordo il salotto con l'odore di rinchiuso, tutto pieno di vecchie immagini di Cristo, di centri con le preghiere ricamate, di statuette della crocifissione e di altri oggetti religiosi sul caminetto, sugli scaffali, sui tavoli, sui muri, dappertutto . Poiché la vecchia non mi rivolgeva la parola, neanch'io le dissi nulla. Ora però, naturalmente, la giustifico in pieno. Cosa poteva pensare di me con quei capelli stirati, quel mio "zoot" e quelle scarpe arancione? Ci avrebbe fatto un favore a tutti se si fosse precipitata urlando a chiamare la polizia. Se oggi qualcuno venisse conciato com'ero io allora a bussare alla mia porta e a chiedere di vedere una delle mie quattro figlie, so che perderei davvero la pazienza . Quando Laura entrò correndo nella stanza cercando contemporaneamente di infilarsi il cappotto, mi accorsi subito che era abbattuta, arrabbiata e imbarazzata. Nel taxi cominciò a piangere. Si era odiata per aver mentito la volta precedente e così aveva deciso di dire la verità su dove andava e ciò era stato causa di un gran litigio con la nonna. Laura le aveva detto che avrebbe cominciato a uscire quando e dove voleva oppure avrebbe piantato la scuola, si sarebbe trovata un lavoro e sarebbe andata ad abitare per conto suo. La nonna aveva avuto una fortissima crisi e Laura era venuta via . Quando arrivammo al Roseland, ballammo per la prima parte della serata insieme e con altri partner. Finalmente l'orchestra di Duke scatenò il ritmo dello show . Sapevo, e lo sapeva anche Laura, che lei non poteva misurarsi con le veterane dello show, ma mi disse che voleva partecipare alla gara. Anche lei si tolse i tacchi alti e si mise le scarpe basse da ginnastica. Io scossi la testa con un segno di diniego quando un paio di ragazze senza accompagnatore si precipitarono verso di me . Come sempre la folla batteva ritmicamente le mani e gridava a tempo con l'orchestra che suonava a pieno volume: «Vai, Rosso, vai!» Sia per la reputazione di cui godevo che per lo stile da balletto di Laura il riflettore ci inquadrava continuamente e noi due attiravamo l'attenzione degli spettatori. Non avevano mai visto una ragazza ballare il "lindy-hop" così leggera come una piuma, con uno stile così completamente diverso e quella era tutta gente che di stile se ne intendeva. Io mi lanciai nel ballo con tutte le mie forze e i piedi di Laura sembravano volare: la facevo volteggiare, ricadere, girare da una parte e da un'altra e in circolo, la facevo piegare indietro e poi di nuovo su, giù, in vorticose piroette.. . Il riflettore era quasi sempre puntato su di noi. Intravidi le altre quattro o cinque coppie, con ragazze robuste come animali della giungla che scalciavano e caricavano. Ma la piccola Laura mi dava l'ispirazione per spingermi a nuove altezze. Aveva i capelli tutti arruffati sul viso, grondava di sudore e io quasi non riuscivo a credere che avesse tanta forza. La folla urlava e batteva ritmicamente i piedi. Una nuova stella stava nascendo; intorno a noi c'era un muro di rumore. Sentii che perdeva le forze, che continuava a ballare come un pugilatore che non si regge più sulle gambe e insieme, barcollando, rientrammo tra il pubblico. L'orchestra continuava a suonare a pieno volume . Dovetti quasi trasportarla di peso: ansimava e aveva bisogno di aria fresca. Alcuni dei membri dell'orchestra applaudirono e persino Duke Ellington si alzò a metà dal panchetto del piano abbozzando un inchino . Se agli spettatori di uno show andava a genio il modo di ballare di qualcuno, all'uscita c'era da ritrovarsi schiacciati dalla folla, afferrati, stretti e percossi come i membri di una squadra che abbia vinto il campionato. Un folto gruppo di spettatori presero in mezzo Laura e la sollevarono da terra . Quanto a me, mi stavano dando grandi manate sulle spalle.. . quando incontrai gli occhi di una bella bionda... Non l'avevo mai vista tra le ragazze bianche che frequentavano le danze dei negri al Roseland. Mi guardava con desiderio . A quell'epoca, a Roxbury, come in qualunque ghetto negro d'America, avere una donna bianca che non fosse una nota, volgare puttana era, almeno per il negro medio, un simbolo di status di primissimo ordine e questa che mi stava davanti e mi guardava era quasi troppo bella per poterci credere. Aveva i capelli lunghi che le ricadevano sulle spalle, un bel personale e indossava abiti che a qualcuno dovevano essere costati molti soldi . Ho vergogna a riconoscerlo, ma io mi ero quasi dimenticato di Laura quando si liberò dalla folla e corse verso di me, con gli occhi spalancati. Credo che vide quello che c'era da vedere nel volto di quella ragazza, e anche nel mio, quando insieme avanzammo verso la pista . La chiamerò Sofia . Non ballava bene, almeno secondo il criterio di giudizio dei negri. Ma cosa me ne importava? Sentivo gli sguardi penetranti delle altre coppie intorno a noi. Parlavamo. Io le dissi che ballava bene e le chiesi dove aveva imparato. Cercavo di sapere perché era lì. La maggior parte delle donne bianche venivano ai balli negri per ragioni facilmente intuibili, ma di rado si vedevano dei tipi come questa . Mi rispose evasivamente su tutto, ma nello spazio di quel ballo, ci accordammo che avrei portato a casa Laura presto e sarei tornato di corsa con un taxi. Lei mi domandò se più tardi mi sarebbe piaciuto andare a fare una passeggiata in macchina insieme. Mi considerai molto fortunato . Riaccompagnai a casa Laura e tornai al Roseland dopo un'ora precisa. Sofia mi stava aspettando fuori . Cinque isolati più avanti, aveva parcheggiato la sua convertibile. Sapeva dove andare. Fuori di Boston, girò in una strada secondaria e di lì entrò in una viuzza deserta. Poi spense tutto all'infuori della radio . Per parecchi mesi dopo quella sera, Sofia mi veniva a prendere in città ed io la portavo a ballare e nei bar vicino a Roxbury . Andavamo in macchina dappertutto. Qualche volta era quasi giorno quando mi lasciava davanti alla casa di Ella . Io la portavo in giro per farla vedere a tutti. I negri ne erano pazzi e sembrava che a lei piacessero tutti i negri. Uscivamo insieme due o tre volte la settimana. Sofia ammetteva di uscire anche con dei bianchi «solo per salvare le apparenze», diceva . Giurava che i bianchi non potevano interessarle . Molte volte mi domandai, senza mai arrivare a una spiegazione, perché mi aveva abbordato con tanta spregiudicatezza sin dalla prima sera. Pensai che ciò derivasse da qualche sua precedente esperienza con un altro negro, ma non glielo chiesi mai né lei mai me lo disse. Non interrogate una donna sugli altri uomini della sua vita perché o vi dirà una bugia e voi resterete nell'ignoranza o, se vi dice la verità, può darsi che poi avreste preferito non sentirla . Comunque sembrava che avesse perso la testa per me. Vedevo Shorty molto di meno. Quando lo incontravo insieme con gli altri amici lui borbottava: «Guarda un po', ho pettinato i riccioli di questo mio concittadino finché gliel'ho stirati bene bene, e ora lui s'è beccata una pollastrella di Beacon Hill». In verità, siccome si sapeva che ero stato «istruito» da Shorty, il fatto che io avessi Sofia gli conferiva prestigio. Quando gliela presentai lei lo abbracciò come una sorella e questo mandò Shorty in visibilio. Il meglio che aveva avuto erano state delle puttane bianche e alcuni di quegli squallidi esemplari di operaie di fabbrica che avevano «scoperto» i negri . Fu quando cominciai a farmi vedere in città con Sofia che il mio prestigio nell'ambiente negro di Roxbury salì alle stelle. Fino ad allora ero stato uno dei tanti giovanotti dai capelli stirati e dallo "zoot suit", ma ora che avevo la più bella donna bianca che fosse mai entrata in quei bar e in quei club, ora che lei mi dava anche denaro da spendere, persino i grossi, importanti guappi e gli altri «dritti», come i direttori di club, i giocatori d'azzardo, quelli che controllavano le lotterie clandestine ed altri, mi battevano la mano sulla spalla, ci riservavano i migliori tavoli, ci servivano loro stessi da bere e mi chiamavano Rosso. Naturalmente io sapevo benissimo perché si comportavano così: avrebbero voluto prendersela loro, la mia bella donna bianca . Nel ghetto, come nelle zone residenziali suburbane, c'è la stessa lotta per il prestigio sociale che si manifesta nei tentativi di differenziarsi dagli altri per mezzo di qualche attributo esteriore. Quando avevo sedici anni non possedevo i soldi per comprarmi una Cadillac, ma lei aveva la sua ed io avevo lei, il che era anche meglio . Per tutto il tempo che continuai a lavorare al negozio, Laura non venne più. Quando la rividi era un rottame di donna, nota nel quartiere negro di Roxbury, sempre fuori e dentro dalle prigioni. Aveva terminato la scuola secondaria, ma già allora aveva preso una brutta strada. Sfidando sua nonna aveva cominciato a rientrare tardi la notte e a bere. Poi erano venuti gli stupefacenti e aveva incominciato a prostituirsi. Finì per odiare gli uomini che la compravano e divenne anche lesbica. Una delle vergogne che mi sono portato dietro per anni è che attribuisco a me stesso la colpa di tutto ciò. L'averla trattata come la trattai io per una donna bianca rese il colpo doppiamente più duro. L'unica scusa che ho è che, come molti dei miei fratelli negri di oggi, a quel tempo io ero sordo, muto e cieco . In ogni caso, non passò molto tempo da quando avevo conosciuto Sofia che Ella venne a saperlo. Una mattina presto mi vide dalla finestra mentre scendevo dalla macchina di lei. Non c'è da meravigliarsi se Ella cominciò a trattarmi come una vipera . Fu in quel tempo che il cugino di Shorty andò finalmente ad abitare con la donna di cui era pazzamente innamorato e Sofia mi dette i soldi per prendere metà dell'appartamento insieme con Shorty. Ben presto mi licenziai dal negozio di drogheria e trovai un altro lavoro. Divenni inserviente all'albergo Parker House di Boston. Portavo una giacca bianca inamidata nella sala da pranzo, dove i camerieri mettevano i piatti e le posate sporche dei clienti in grandi vassoi di alluminio che io poi portavo in cucina ai lavapiatti . Alcune settimane dopo, una domenica mattina, andai al lavoro certissimo che mi avrebbero licenziato: ero terribilmente in ritardo. Ma l'intero personale di cucina era troppo agitato e avvilito per accorgersene: aerei giapponesi avevano appena bombardato una località chiamata Pearl Harbor . Capitolo quinto . HARLEM . «Panini al prosciutto e formaggio!... Caffè!... caramelle! dolci! gelati!» Così, un giorno sì e un giorno no, per quattro ore, strillavo di vagone in vagone, tra Boston e New York, mentre lo Yankee Clipper della compagnia ferroviaria New York-New Haven e Hartford sferragliava sui binari . Il vecchio Rountree, da lungo tempo facchino e inserviente dei vagoni letto oltre che amico di Ella, mi aveva segnalato quel posto sulle ferrovie. Aveva detto a mia sorella che, a causa della guerra, molti ferrovieri erano richiamati e che, se riuscivo a far credere di avere ventun anni, lui aveva la possibilità di farmi assumere . Ella mi voleva allontanare da Boston e da Sofia. Non avrebbe desiderato altro che vedermi tra quei negri che già affollavano Roxbury in divisa kaki dell'esercito e con gli stivaletti militari, per passare a casa alcuni giorni di licenza dopo il primo addestramento. Ciò non era possibile perché avevo solo sedici anni . Io accettai quel posto in ferrovia per ragioni mie particolari . Era da tempo che volevo vedere New York City. Da quando ero arrivato a Roxbury avevo sentito parlare moltissimo della «Grande Mela», come era chiamata la metropoli dai musicisti che avevano viaggiato molto, dai marinai dei mercantili, dai commessi viaggiatori, dagli autisti delle famiglie bianche e da varie specie di trafficanti che avevo conosciuto. Persino quand'ero ancora a Lansing avevo sentito raccontare cos'era di favoloso New York e specialmente Harlem. Mio padre parlava di questo ghetto negro con orgoglio e ci faceva vedere fotografie di enormi cortei dei seguaci di Marcus Garvey. Ogni volta poi che Joe Louis vinceva un incontro con un pugile bianco, sulla prima pagina dei giornali negri come il «Chicago Defender», il «Pittsburgh Courier» e l'«Afro-American» venivano pubblicate fotografie di una marea di negri di Harlem che inneggiavano esultanti mentre il «bombardiere nero» li salutava tutti con la mano dal balcone dell'albergo Theresa di Harlem. Tutto quello che avevo sentito dire di New York City era entusiasmante: le luci di Broadway e la grande sala da ballo del Savoy e il Teatro Apollo di Harlem dove suonavano le migliori orchestre e dove nacquero canzoni famose, nuovi balli e le stelle della musica negra . Tuttavia non si poteva prendere e andare a New York da Lansing, Boston o qualsiasi altro posto se non si avevano soldi. Perciò io non avevo mai pensato sul serio a fare quel viaggio finché il modo gratuito di compierlo non mi si presentò sotto forma della conversazione che Ella ebbe col vecchio Rountree, che apparteneva alla sua stessa chiesa . Naturalmente Ella non sapeva che avrei continuato a vedere Sofia. Poteva star fuori di casa solo alcune notti la settimana, ma quando le comunicai di aver trovato quel lavoro sul treno, mi disse che si sarebbe liberata tutte le sere che io tornavo a Boston e ciò voleva dire un giorno sì e un giorno no, se mi riusciva di ottenere il turno che volevo. Sofia non voleva affatto che io accettassi però, siccome credeva che fossi già in età di leva, riteneva che quel lavoro mi avrebbe aiutato ad evitare l'arruolamento . Shorty era convinto che avevo avuto una gran fortuna. Si preoccupava moltissimo del fatto che ben presto l'avrebbero richiamato. Come centinaia di giovani del ghetto negro anche lui prendeva una certa sostanza che, si diceva, aumentava le pulsazioni cardiache e faceva credere ai medici militari che il cuore fosse difettoso . Shorty considerava la guerra nello stesso modo in cui la giudicavamo io e gran parte dei negri del ghetto: «Whitey [1] è padrone di tutto. Vuole che versiamo il nostro sangue per lui? Che si faccia la guerra da sé» . In ogni caso, nell'ufficio personale della compagnia ferroviaria giù a Dover Street, un vecchio impiegato bianco dai modi lenti mi rivolse la domanda cruciale quando venne il momento di firmare il contratto di assunzione: «La vostra età, Little?» Quando gli dissi «Ventun anni», non alzò neppure gli occhi dalle sue scartoffie. Ero sicuro di aver avuto il posto . Mi promisero che, non appena se ne fosse liberato uno, mi avrebbero dato un posto di cuoco di quarta classe sulla linea Boston-New York. Nel frattempo lavoravo al centro approvvigionamento ferroviario di Dover Street a caricare le partite di generi alimentari requisiti dalle forze armate sui treni. Sapevo benissimo che cuoco di quarta classe era un eufemismo per dire lavapiatti, ma quella non sarebbe stata la prima volta che mi succedeva una cosa simile e poi non me ne importava nulla fintanto che potevo viaggiare come volevo. In via del tutto temporanea, mi misero sul treno The Colonial, che faceva servizio tra Boston e Washington, D.C . Il personale di cucina, sotto la direzione di un cuoco delle Indie occidentali di nome Duke Vaughn, lavorava in locali ristrettissimi con un'efficienza quasi incredibile. Tra il frastuono dello sferragliare del treno, i camerieri urlavano le ordinazioni dei clienti mentre i cuochi si muovevano come macchine e una fila interminabile di pentole e piatti sporchi, bicchieri e posate veniva rumorosamente verso di me. Durante la sosta notturna, io andavo naturalmente a visitare il centro di Washington. Mi stupii di vedere che nella capitale della nazione, appena pochi isolati da Capitol Hill, migliaia di negri vivevano in condizioni peggiori di quelle che avevo visto nei quartieri più poveri di Roxbury. Qui la gente abitava in baracche col pavimento sterrato ammucchiate lungo stradette incredibilmente coperte di sudiciume e che avevano nomi come Vicolo del maiale o Vicolo della capra. Ne avevo viste molte di queste cose, ma mai mi era capitato di trovare concentrato un così gran numero di vagabondi che camminavano barcollando, venditori di stupefacenti, piccoli truffatori, venditori di biglietti delle lotterie clandestine, e persino ragazzetti che andavano in giro di notte, mezzi nudi e a piedi scalzi a chiedere l'elemosina. Alcuni dei cuochi e camerieri della ferrovia mi avevano avvertito di star bene attento perché, ogni sera, tra quei negri si verificavano aggressioni, rapine e accoltellamenti... solo pochi isolati lontano dalla Casa Bianca . Vidi anche altri negri che stavano molto meglio e abitavano in una zona tutta piena di case di mattoni abbastanza malandate . Alcuni veterani del personale del treno mi avevano detto che a Washington c'erano parecchi negri della classe media laureati alla Howard University, che lavoravano come operai, custodi, portapacchi, guardie notturne, autisti di taxi e cose del genere. Un lavoro di postino era per i negri di Washington un posto di grande prestigio . Dopo alcuni viaggi a Washington, mi si presentò l'occasione quando un giorno il capo del personale mi disse che avrei potuto temporaneamente sostituire uno del servizio ristoro sullo Yankee Clipper per New York. Prima che scendesse un solo passeggero, mi ero già messo il mio" zoot suit" . I cuochi mi portarono a Harlem in taxi. Come in una sequenza cinematografica mi passò davanti agli occhi la New York bianca e poi, tutto all'improvviso, quando lasciammo dietro di noi l'estremità settentrionale del Central Park, alla Centodecima strada, il colore della pelle della gente incominciò a cambiare . Il traffico continuo della Settima Avenue passava davanti a un posto chiamato Small's Paradise. Il personale di cucina mi aveva detto, prima che lasciassimo Boston, che quello era il loro locale notturno preferito ad Harlem e mi avevano raccomandato di andarci. Nessun locale negro mi aveva mai fatto tanta impressione. Intorno all'enorme bar circolare adorno di decorazioni lussuose, c'erano trenta o quaranta negri, in gran parte uomini, che bevevano e chiacchieravano . Credo che la cosa che subito mi colpì fosse il loro modo di vestire e le loro maniere serie e composte. Tutte le volte che avevo visto dieci negri di Boston bere insieme, facevano immancabilmente un gran chiasso. Non parliamo poi di quelli di Lansing. Invece con tutti questi negri di Harlem che bevevano e chiacchieravano, si sentiva appena un brusio sommesso. I clienti andavano e venivano e i barman sapevano, per gran parte di essi, cosa volevano da bere e glielo preparavano con gesti automatici . Davanti a qualcuno veniva messa una bottiglia . Tutti i negri che avevo conosciuto si compiacevano di far vedere i soldi che avevano in tasca, ma questi di Harlem mettevano sul banco con gesto disinvolto una banconota senza tirarne altre fuori di tasca. Bevevano e poi, con la massima naturalezza, facevano cenno ai barman di versare un bicchiere a qualche amico mentre questi, con la stessa naturalezza dei clienti, riscuotevano il denaro e restituivano il resto . Le loro maniere sembravano del tutto naturali: nessuno si dava delle arie. Io rimasi sbalordito: nei primi cinque minuti passati da Small's avevo abbandonato per sempre Boston e Roxbury . Non sapevo ancora che questi non si potevano identificare con i rappresentanti medi dei negri di Harlem. Più tardi, forse quella stessa sera, avrei scoperto che ad Harlem c'erano centinaia di migliaia di miei confratelli che parlavano ad alta voce e si comportavano nello stesso modo sguaiato dei negri di qualsiasi altro posto. Quelli che vidi da Small's erano la crema dei più vecchi e maturi trafficanti di Harlem. Le giocate alla lotteria quotidiana erano chiuse, mentre i giochi d'azzardo notturni e le altre forme di traffico non erano ancora cominciate. Gran parte di coloro che durante il giorno lavoravano erano ancora a casa a cena. A quell'ora tutti i trafficanti partecipavano al servizio delle sei, cioè erano nei loro bar preferiti sparsi per tutto il quartiere . Da Small's presi un taxi e andai al teatro Apollo. Ricordo benissimo che suonava l'orchestra di Jay MacShann perché il loro cantante, Walter Brown, quello che cantava sempre "Hooty Hooty Blues", diventò più tardi mio ottimo amico. Di lì, sul lato opposto della Centoventicinquesima Strada, all'angolo con la Settima Avenue, vidi il grande edificio grigio dell'albergo Theresa, che allora era il migliore albergo di New York City dove potevano stare i negri, parecchi anni prima che gli alberghi giù in città li accettassero. (Ora l'albergo Theresa è noto soprattutto perché vi risiedette Fidel Castro durante il periodo in cui partecipò ai lavori dell'assemblea delle Nazioni Unite, ottenendo una grossa vittoria psicologica sul Dipartimento di stato che gli aveva proibito di uscire da Manhattan senza immaginare che lui sarebbe andato a stare ad Harlem suscitando così enorme simpatia tra i negri) . Proprio nella Centoventiseiesima Strada, vicino all'entrata del palcoscenico dell'Apollo, c'era l'albergo Braddock. Sapevo che il suo bar era famoso come posto di ritrovo delle celebrità negre e quando entrai vidi, allineati lungo l'affollatissimo banco, personalità famose come Dizzy Gillespie, Billy Eckstine, Billie Holiday, Ella Fitzgerald e Dinah Washington . Mentre Dinah Washington stava andandosene in compagnia di alcuni amici, sentii che qualcuno diceva che la cantante era diretta al Savoy Ballroom dove quella sera si sarebbe esibito Lionel Hampton. Lei era la cantante della sua orchestra. Quella sala da ballo, paragonata con il Roseland di Boston, la faceva apparire piccola e di modesta categoria. Il modo di ballare era adeguato all'eleganza e alla vastità del luogo. L'orchestra di Hampton, così preparata e aggressiva, era all'altezza di grandi come Arnett Cobb, Illinois Jacquet, Dexter Gordon, Alvin Hayse, Joe Newman e George Jenkins. Io feci un paio di balli con ragazze che stavano fra il pubblico . Forse un terzo dei tavolini che erano disposti intorno alla pista erano occupati da bianchi che erano lì soprattutto per assistere ai balli dei negri: alcuni ballavano insieme e, come a Boston, un certo numero di donne bianche stavano in compagnia di negri. Tutti gridavano invitando Hamp a suonare "Flyin' Home" e alla fine egli la eseguì. (Potevo credere alla storia che avevo sentito raccontare a Boston riguardo a questo numero. Una volta, al teatro Apollo, mentre Hamp suonava "Flyin' Home", un negro che stava fumando una sigaretta alla marijuana, aveva creduto di esser davvero in grado di volare. Era seduto in seconda galleria e quando saltò giù si ruppe una gamba. Questo fatto fu più tardi immortalato nella canzone di grande successo di Earl Hines "Second Balcony Jump"). Non avevo mai visto in vita mia un modo di ballare così frenetico. Dopo che un paio di numeri lenti ebbero in certo modo raffreddato l'atmosfera, apparve Dinah Washington. Quando cantò "Salty Papa Blues", i presenti si abbandonarono a un tale entusiasmo che sembrava dovesse venir giù il tetto del Savoy. (Non molto tempo fa, si sono svolti a Chicago i funerali della povera Dinah. Ho letto che più di ventimila persone andarono a rendere omaggio alla sua salma, e anch'io avrei dovuto esserci. Povera Dinah! In quei tempi eravamo diventati grandi amici) . La sera di questa mia prima visita era dedicata al Savoy alla "Kitchen Mechanics' Night", la tradizionale sera del giovedì, giornata di libertà per i domestici. Direi che c'erano due volte più donne che uomini, e non soltanto sguattere e cameriere, ma anche mogli di richiamati e operaie delle industrie di guerra, sole e in cerca. Quando, dalla sala da ballo, uscii fuori nella strada sentii che una prostituta si lamentava bestemmiando che le professioniste non facevano più affari a causa delle dilettanti . Su e giù tra Lenox, la Settima e l'Ottava Avenue, Harlem aveva l'aspetto di un grande bazar in technicolor. Centinaia di soldati e marinai negri, goffi e giovani come me, passeggiavano sui marciapiedi. Ormai Harlem era stata ufficialmente dichiarata zona chiusa per i soldati bianchi. C'erano già stati alcuni episodi di rapina e aggressione e parecchi soldati bianchi erano stati trovati assassinati. La polizia cercava anche di scoraggiare i civili bianchi a venire nel quartiere negro, ma quelli che volevano non si lasciavano intimorire. Se un uomo camminava solo era subito abbordato dalle prostitute. «Baby, ti vuoi divertire un pochino?» I magnaccia seguivano da vicino bisbigliando: «Abbiamo ogni sorta di donne, Jack... Ti interessa una donna bianca?» I trafficanti si davano da fare in tutti i modi: «Eccoti un anello da cento dollari col diamante e poi anche un orologio da novanta dollari... Guardali! A te li do per soli venticinque dollari» . Nel giro di due anni sarei stato io a insegnare a loro, ma quella sera ero incantato. Quello era il mio mondo e fu proprio quella sera che cominciai a diventare un cittadino di Harlem . Ben presto sarei stato uno dei più depravati trafficanti e parassiti tra gli otto milioni di abitanti di New York, di cui quattro lavorano e gli altri quattro vivono alle spalle dei primi . Non potevo credere a tutto quello che avevo visto e sentito quella sera, mentre mi passavo sulla spalla la cinghia della scatola dei panini e il pesante recipiente da cinque litri in cui era contenuto il caffè per cominciare il mio giro da un vagone all'altro dello Yankee Clipper di ritorno verso Boston . Mi sarebbe piaciuto essere in migliori rapporti con Ella per poter cercare di descriverle il mio stato d'animo. Comunque ne parlai con Shorty, insistendo perché almeno andasse a vedere il mondo musicale della «Grande Mela». Anche Sofia mi stette ad ascoltare e mi disse che non sarei mai stato soddisfatto in nessun altro posto all'infuori di New York. Aveva ragione. In una sola notte New York, o meglio Harlem, mi aveva ipnotizzato . L'uomo del servizio ristoro di cui avevo preso il posto aveva poche possibilità di riprendere il lavoro. Così io continuai ad andare su e giù da un vagone all'altro. Vendevo panini, caffè, dolciumi, ciambelle e gelati più rapidamente di quanto il magazzino approvvigionamenti fosse in grado di fornire. Prima che fosse passata la settimana capii che per far comprare ai bianchi tutto quello che si voleva, bastava dare un po' spettacolo. Era come quando facevo schioccare il mio straccio da lustrascarpe. I camerieri del vagone ristorante e gli inservienti e facchini lo sapevano benissimo e si comportavano egregiamente da zii Tom per ottenere mance migliori. Vivevamo in un mondo di negri che sono insieme servi e psicologi, consapevoli del fatto che i bianchi sono così ossessionati dal loro senso di superiorità da tirar fuori soldi generosamente, da pagar cara l'impressione di essere ben serviti e divertiti . Durante ogni sosta, io andavo a Harlem, giravo dappertutto per vedere nuovi posti. Mi presi una stanza all'YMCA, perché era distante meno di un isolato dallo Small's Paradise. Poi trovai una camera più a buon mercato presso la signora Fisher, assai vicina all'YMCA, e dove stavano gran parte dei ferrovieri . Esplorai non soltanto le zone bene illuminate, ma anche i quartieri residenziali di Harlem dai migliori ai peggiori, da Sugar Hill, lassù vicino ai campi di polo dove abitavano molte celebrità, giù giù fino agli isolati dei bassifondi pieni di caseggiati infestati dai topi e dove succedeva tutto quello che può esserci di illegale e di immorale. Sudiciume, secchi della spazzatura che traboccavano o venivano rovesciati da qualcuno con un calcio, ubriachi, tossicomani, mendicanti; bar così sconquassati che sembrava dovessero venir giù da un momento all'altro, chiese sistemate in negozi da cui uscivano le voci tonanti dei predicatori, negozi che vendevano merci «d'occasione» o che facevano prestiti su pegno, agenzie di pompe funebri; sudici ristoranti dalla «cucina casalinga», saloni di bellezza tutti pieni del fumo dei capelli delle donne negre che si facevano la stiratura, barbieri che facevano la pubblicità al loro particolare sistema per raddrizzare i capelli lanosi. Da tutte le parti si vedevano Cadillac usate e nuove, che spiccavano tra le altre macchine sulla strada . Era il West Side di Lansing o il South End di Roxbury moltiplicato per mille. C'erano delle piccole sale da ballo sistemate nelle cantine con sulla porta dei cartelli di AFFITTASI, mentre certi tipi distribuivano manifestini in cui si faceva la pubblicità dei «parties per raccogliere i soldi dell'affitto». Andai a uno di questi e ci trovai trenta o quaranta negri sudati che mangiavano, bevevano, ballavano e giocavano d'azzardo in un appartamento pieno zeppo di gente e dai muri cadenti, con il giradischi che suonava a pieno volume, mentre per un dollaro a testa veniva distribuito un piatto di pollo fritto o frattaglie con insalata di patate e cavolo, e barattoli di birra o bicchieri di whisky per cinquanta cents . Gli attivisti bianchi e negri abbordavano tutti i nuovi venuti e parlando svelti svelti cercavano di fargli acquistare una copia del «Daily Worker»: «Questo giornale si batte perché i fitti non aumentino... Obbligate l'avido padrone di casa a levarvi i topi dall'appartamento... Questo giornale rappresenta l'unico partito politico che abbia mai portato un negro come candidato alla vicepresidenza degli Stati Uniti... Voglio solo che lo leggiate, non vi ci vorrà molto... Ma chi credete che si sia battuto di più per liberare quei ragazzi di Scottsboro?» [2]. Sentii dire fra i negri, mentre gli attivisti giravano dall'uno all'altro, che quel giornale era in qualche modo legato ai russi ma, a quei tempi, ciò non voleva dire molto per la mia sterile mentalità: le trasmissioni radio e i giornali erano allora pieni di articoli e discorsi sulla Russia nostra alleata e il suo popolo forte, coraggioso di contadini che si trovavano con le spalle al muro per aiutare l'America a combattere Hitler e Mussolini . Per me New York era il cielo e Harlem addirittura il settimo cielo! Gironzolavo tra Small's e il Braddock Bar così spesso che quando i barman mi vedevano entrare, versavano subito un bicchiere di Bourbon, la qualità di whisky che preferivo, mentre i clienti abituali di tutti e due quei locali, i trafficanti di Small's e i musicisti, gli attori e i cantanti da Braddock, cominciarono a chiamarmi Rosso, nomignolo del resto naturale dato il colore acceso dei miei capelli ben stirati. Ora andavo nel negozio di barbiere di Abbott e Fogey a Boston che era il migliore specialista di stirature della costa orientale, almeno secondo i famosi musicisti che me lo avevano raccomandato . Tra i miei amici c'erano ora solisti come Sonny Greer, il grande batterista di Duke Ellington, e Ray Nance, lo straordinario virtuoso del violino. E' lui quello che era solito cantare nel suo selvaggio stile "scat": «blip-blip-de-blop-deblam-blam» . Conoscevo persone come Cootie Williams e Eddie Vinson, detto «Palla di biliardo», che scherzavano con me sulla stiratura di quest'ultimo, lui che in testa non aveva altro che la pelle . Allora era al culmine della sua fama con la canzone: "Hey, Pretty Mama, Chunk Me In Your Big Brass Bed". Conoscevo anche Sy Oliver che aveva sposato una ragazza dai capelli rossi e abitava a Sugar Hill. A quel tempo Sy faceva molti arrangiamenti per Tommy Dorsey e credo che la sua melodia più famosa fosse "Yes, I indeed!" Quando l'uomo del servizio ristoro dello Yankee Clipper che io sostituivo tornò, venne destinato a un altro treno. Lui si lamentò per via dell'anzianità, ma il volume delle mie vendite spinse l'amministrazione a farlo tacere in qualche altro modo. I camerieri e i cuochi avevano cominciato a chiamarmi «Rosso, il re del sandwich» . In quel periodo avevano scommesso tra loro per scherzo che, vendite o no, non avrei resistito molto a quel posto perché ero diventato troppo aggressivo e non avevo nessun senso della sottomissione all'autorità. Bestemmiavo e usavo il linguaggio più osceno. Arrivavo persino a mandare al diavolo i clienti, specialmente se erano soldati: questi proprio non li potevo sopportare. Ricordo che una volta, quando il reclamo di un passeggero aveva provocato un'ammonizione nei miei confronti e perciò mi sforzavo di essere cauto, mentre passavo tra le due file di sedili di un vagone, un soldato grosso e grasso dalla faccia rossa si alzò in piedi davanti a me, tanto ubriaco che non poteva neanche stare in piedi e con voce tonante in modo che tutti potessero sentirlo, mi disse: «Ti spacco la faccia, "nigger"». Ricordo la tensione che ne seguì. Io gli dissi ridendo: «Certo, farò a cazzotti con te, ma hai troppa roba addosso». Indossava il pesante cappotto dell'esercito. Se lo tolse mentre io continuavo a ridere e a dirgli che era sempre troppo infagottato. Mi riuscì di convincere quel cretino a togliersi gli indumenti al punto che rimase lì, ubriaco, a torso nudo e tutti i presenti lo prendevano in giro finché non venne qualche altro soldato a portarlo via. Continuai il mio lavoro . Non avrei potuto colpire più duramente quel bianco con un bastone di quanto seppi fare con la mia intelligenza. Non lo dimenticherò mai . Molti cuochi e camerieri ancora in servizio sulla ferrovia della New Haven Line ricorderanno anche oggi il vecchio Pappy Cousins, capotreno della Yankee Clipper e, naturalmente, bianco del Maine. Tra parentesi, vorrei ricordare che sebbene i negri avessero lavorato da trenta o quarant'anni nel servizio ristoro della New Haven Line, a quel tempo nessun capotreno era negro. A Pappy Cousins piaceva molto il whisky, piacevano tutti, me compreso. Aveva lasciato cadere parecchi reclami di passeggeri nei miei confronti e si raccomandava ad alcuni dei negri più vecchi che lavoravano con me perché cercassero di calmarmi . «Accidenti, non gli si può dir niente!» esclamavano quelli. E in effetti era così. A Roxbury, quando tornavano a casa, mi vedevano pavoneggiare con Sofia tutto agghindato coi miei sfacciati "zoot suit". Mentre ero di servizio parlavo a voce alta, mezzo alticcio com'ero per i whisky o la marijuana, e mi comportavo sempre in modo aggressivo, quasi costringendo la gente a comprare i panini finché si arrivava a New York . Una volta finito il servizio, mi mescolavo con la folla della Grand Central Station nelle ore di punta del pomeriggio e molti bianchi, nel vedermi passare, si fermavano attoniti. Lo svolazzo e il taglio di uno "zoot suit" facevano figura solo se chi lo portava era molto alto ed io ero più di un metro e novanta. La stiratura dei miei capelli era rosso fuoco. Ero davvero un pagliaccio, ma nella mia ignoranza credevo di essere affascinante. Le scarpe con la punta arrotondata a cupolino, quelle orrende scarpe arancione che portavo sempre, erano marca Florsheim, che a quei tempi, nel ghetto, era considerata la Cadillac delle calzature. Alcuni calzaturifici facevano modelli così ridicoli per venderli soltanto nei ghetti negri, dove dei giovanotti ignoranti come me avrebbero pagato l'alto prezzo richiesto da quella famosa marca per avere l'illusione di entrare a far parte della classe dei ricchi. Poi, fino a che me lo permetteva la mia paga di venti o venticinque dollari, tra Small's Paradise e il Braddock Hotel ed altri posti, bevevo whisky, fumavo sigarette alla marijuana, facevo amicizia con un sacco di gente e finalmente, nella camera ammobiliata della signora Fisher, mi concedevo alcune ore di sonno prima che lo Yankee Clipper ripartisse . Era inevitabile che prima o poi avrei finito con l'essere licenziato. Il colpo di grazia mi venne dalla lettera piena d'ira di un passeggero. Anche i controllori dettero il loro contributo riferendo i reclami che avevano ricevuto e gli ammonimenti che mi erano stati fatti . A me non importava niente perché si era in tempo di guerra e lavori come quelli cui potevo aspirare io se ne trovavano a bizzeffe. Quando la New Haven Line mi liquidò decisi che sarebbe stato bello andare a trovare i miei fratelli e sorelle a Lansing, tanto più che avevo un certo numero di biglietti ferroviari gratuiti . Nessuno dei miei cari nel Michigan riusciva a credere ai propri occhi. L'unico assente era mio fratello maggiore Wilfred che era andato nell'Ohio alla Wilberforce University per specializzarsi come tecnico. Quanto a Philbert e Hilda, lavoravano a Lansing mentre Reginald, quello che mi aveva sempre considerato come il suo ideale, era diventato abbastanza grande da poter barare sull'età e aveva intenzione di arruolarsi presto nella marina mercantile. Yvonne, Wesley e Robert andavano ancora a scuola . La stiratura dei capelli e tutto il mio abbigliamento erano così sfacciatamente vistosi che si sarebbe potuto prendermi per un marziano. Fui causa di un piccolo incidente automobilistico perché un tale si voltò stupito a guardarmi e l'automobilista di dietro lo tamponò. Il mio aspetto sbalordì i giovanotti più grandi di me che una volta avevo invidiato. Allungavo la mano e dicevo loro: «Vedi un po' ora, daddy-o!» Le storie che raccontavo di New York, le sigarette di marijuana che mi rendevano euforico e pieno di vitalità facevano sì che, dovunque andassi, tutti gli sguardi fossero concentrati su di me . L'unica cosa che mi riportò a contatto con la realtà fu la visita all'ospedale psichiatrico di Kalamazoo. Mia madre, forse, si accorse vagamente della mia presenza . Andai anche a far visita alla madre di Shorty. Sapevo che ciò lo avrebbe commosso. Era una vecchia signora che fu molto lieta di sentir parlare del figlio e avere da me sue notizie. Le dissi che Shorty si trovava bene e che un giorno sarebbe stato il grande capo di un'orchestra tutta sua. Mi chiese di dirgli che le scrivesse e che le mandasse qualcosa . Feci una scappata anche a Mason per vedere la signora Swerlin, alla casa di correzione dov'ero rimasto per un paio d'anni . Quando la signora mi venne ad aprire, restò a bocca aperta. Il mio "zoot" color grigio pescecane, le scarpe lunghe strette e con la punta a cupolino e quel cappello grigio perla con la fascia alta che mi copriva i capelli stirati color rosso acceso, erano davvero troppo per la signora Swerlin. Riavutasi dallo stupore, mi invitò a entrare, ma con il mio aspetto e il mio modo di parlare la innervosii talmente e la misi così a disagio che tutti e due fummo contenti quando mi congedai . La sera prima di partire c'era un ballo nella palestra della Lincoln School. Da allora ho imparato che, se vi trovate in una città che non conoscete e volete sapere dov'è il quartiere negro, non avete da far altro che cercare nell'elenco telefonico una Lincoln School. Sarà sempre nel cuore del ghetto negro, o almeno lo era in quei giorni. Quando ero partito da Lansing non sapevo ballare, ma ora volteggiavo sulla pista della palestra facendo piroettare le ragazzine intorno ai miei fianchi o sulle mie spalle e facendo sfoggio dei passi più sorprendenti . Parecchie volte la piccola orchestra quasi smise di suonare e tutti lasciarono la pista per star lì a guardare con gli occhi sgranati. Quella sera concessi persino degli autografi firmavo «il Rosso di Harlem» -, e quando partii da Lansing ero stupito e sbattuto . Tornato a New York, ormai senza un soldo e senza mezzi per procurarmene, capii chiaramente che non sapevo fare altro che il lavoro che avevo fatto fin allora in ferrovia. Andai all'ufficio personale della Seabord Line e, poiché le ferrovie avevano bisogno disperatamente di gente da assumere, bastò che dicessi di aver lavorato per la New Haven. Due giorni dopo ero a bordo del Silver Meteor per Saint Petersburg e Miami. Noleggiavo i cuscini e mi occupavo di tener puliti i vagoni e di contentare i passeggeri bianchi nelle loro varie richieste: guadagnavo su per giù lo stesso di quando vendevo i panini . Ben presto venni a diverbio con il vicecontrollore, un cialtrone [3] della Florida, e al ritorno a New York mi dissero di trovarmi un altro lavoro. Quello stesso pomeriggio, quando fui entrato nello Small's Paradise, uno dei barman, che sapeva quanto mi piaceva New York, mi chiamò da parte e mi disse che se volevo lasciare la ferrovia avrei potuto sostituire un cameriere che era stato richiamato sotto le armi . Il padrone del bar si chiamava Ed Small. Lui e suo fratello Charlie erano inseparabili e credo che ad Harlem non ci fossero due persone più popolari e rispettate di loro. Sapevano che lavoravo in ferrovia, il che per un cameriere era la migliore raccomandazione. Nel loro ufficio fui ricevuto da Charlie Small . Avevo paura che volesse prender tempo per chiedere a qualcuno dei suoi vecchi amici ferrovieri informazioni sul mio conto. Non avrebbe certamente assunto un tipo aggressivo e insofferente . Tuttavia decise sulla base della sua impressione personale: mi aveva visto nel suo bar tante volte, seduto per conto mio e quasi in estatica ammirazione di fronte al viavai dei trafficanti che frequentavano il locale. Quando me lo chiese, gli dissi che non avevo mai avuto noie con la polizia e, fino a quel momento, era la verità. Charlie mi elencò i doveri dei dipendenti: niente ritardi, niente pigrizia, niente furti, nessuna specie di traffico con i clienti, specialmente se si trattava di gente in uniforme. Fui assunto . Si era nel 1942 e avevo appena compiuto diciassette anni . Poiché il locale di Small era praticamente il centro di tutto, servire ai tavoli là era come essere al settimo cielo sette volte. Non c'era bisogno che Charlie mi esortasse a non arrivar tardi: ero così ansioso di andarci che arrivavo sempre un'ora prima. Il mio turno veniva dopo quello della mattina. Il cameriere che mi precedeva diceva che il mio turno era il meno movimentato, con poche mance e talvolta restava un po' di tempo con me per insegnarmi varie cose, poiché non voleva che corressi il rischio di essere licenziato . Grazie a lui imparai rapidamente parecchie piccole cose utili a un cameriere nuovo per entrare nelle grazie dei cuochi e dei barman. Infatti erano questi che, a seconda del loro atteggiamento, potevano rendere la vita di un cameriere impossibile o piacevole. Io, per parte mia, mi proponevo di diventare indispensabile e in meno di una settimana ero riuscito a entrare nelle grazie di tutti. I clienti che mi avevano visto tra loro nel bar, vedendomi ora con la giacca da cameriere, furono piacevolmente sorpresi e mi dimostrarono grande affabilità. Io, da parte mia, non avrei potuto usare verso di loro maggiori riguardi . «Un altro bicchiere?... Subito signore... Desiderate cenare?.. . E' molto buono... Posso mostrarle il menu, signore?... Be', preferirebbe forse un sandwich?» Mi sembrava che non solo i barman e i cuochi che sapevano tutto su tutto, ma anche i clienti, cominciassero a insegnarmi varie cose nel corso di brevi conversazioni che quando non ero occupato si tenevano vicino al bar. Qualche volta un cliente mi parlava mentre stava mangiando e talaltra avevo delle lunghe conversazioni su tutti i possibili argomenti con i veri veterani, cioè con coloro che abitavano ad Harlem da quando c'erano andati per la prima volta i negri . Fu per me una delle più grandi sorprese sapere che Harlem non era sempre stata una comunità negra . Appresi che prima era un quartiere olandese, poi cominciarono ad arrivare a ondate successive i poveri, cenciosi emigranti dall'Europa che, mezzi morti di fame, portavano nei loro sacchi e valige tutto quello che possedevano. I primi ad arrivare furono i tedeschi, e gli olandesi fecero loro posto di modo che Harlem divenne una zona interamente abitata dagli immigrati tedeschi . Successivamente arrivarono gli irlandesi, che fuggivano dalla loro isola a causa della carestia provocata dai mancati raccolti di patate. I tedeschi sgombrarono in massa la zona, pieni com'erano di disprezzo per gli irlandesi, i quali si impadronirono così di Harlem. Poi arrivarono gli italiani. Anche qui successe la stessa cosa: gli irlandesi si trasferirono altrove e gli italiani rimasero ad Harlem finché dai bastimenti non scesero gli immigrati ebrei. Allora anche gli italiani se ne andarono dal quartiere . Oggi i discendenti di tutti questi europei fanno tutto il possibile per vivere lontani dai discendenti di quei negri che scaricarono le navi degli immigrati . Restai sorpreso quando sentii dire dai più vecchi abitanti di Harlem che nel corso di questo processo di rapida sostituzione di un gruppo all'altro, i negri erano a New York City fin dal 1683, e cioè prima dell'arrivo degli immigrati, ed erano stati costretti a vivere in ghetti in ogni parte della città. Prima li avevano spinti a concentrarsi nella zona di Wall Street e successivamente verso il Greenwich Village, per poi spostarsi verso la zona dov'è ora la Pennsylvania Station. Infine, come penultima fermata prima di Harlem, il ghetto negro era concentrato intorno alla Cinquantaduesima Strada e questo spiega come mai fu chiamata la Swing Street e acquistò quella reputazione che rimase ancora per molto tempo dopo che i negri se ne furono andati . Nel 1910, un agente immobiliare negro riuscì a infilare in un caseggiato della zona ebraica di Harlem due o tre famiglie negre. Gli ebrei scapparono da quell'edificio, poi dall'isolato e un numero sempre maggiore di negri vennero a prendere il loro posto. Poi gli ebrei abbandonarono interi isolati e masse crescenti di negri si trasferirono verso nord finché, in poco tempo, Harlem divenne quello che è ancora oggi, e cioè un quartiere praticamente tutto negro . All'inizio degli anni '20, la musica e l'avanspettacolo cominciarono a diventare delle vere e proprie industrie di Harlem, mantenute dai bianchi di New York che ci venivano ogni sera. Tutto cominciò nel periodo di tempo in cui un deciso suonatore di cornetta di New Orleans, Louis Armstrong, soprannominato Satchmo, scese dal treno a New York portando scarpe alte come quelle dei poliziotti e cominciò a suonare con l'orchestra di Fletcher Henderson. Nel 1925 lo Small's Paradise aveva aperto i battenti attirando un enorme pubblico nella zona della Settima Avenue, seguito nel 1926 dal grande Cotton Club, dove l'orchestra di Duke Ellington avrebbe suonato per ben cinque anni. Sempre nel 1926 fu inaugurata la Savoy Ballroom, un isolato di fronte a Lenox Avenue, con una pista da ballo lunga settanta metri (solo lo spazio circoscritto dai riflettori), davanti a due palchi per l'orchestra e a un palcoscenico mobile posto dietro di essa . La prestigiosa immagine di Harlem si diffuse al punto da diventare nota ai bianchi di tutto il mondo. Da ogni parte venivano autobus carichi di turisti. Il Cotton Club era riservato ai soli bianchi e centinaia di altri club, giù giù fino ai locali nascosti nelle cantine dove si serviva illegalmente l'alcool, facevano lo stesso. Alcuni dei più famosi erano il Connie's Inn, il Lenox Club, il Barron's, The Nest Club, il Jimmy's Chicken Shack e il Minton's. I saloni da ballo del Savoy, del Golden Gate e del Renaissance si contendevano enormi folle e il Savoy fu il primo a introdurre attrazioni come le serate dei Kitchen Mechanics, riservate tutti i giovedì ai domestici in permesso, concorsi di bellezza in costume da bagno e, ogni sabato, il sorteggio di un'automobile tra i frequentatori del locale. Da tutto il paese venivano orchestre in questi locali, a cui bisogna aggiungere i teatri Apollo e Lafayette. I loro direttori erano dei personaggi pittoreschi come 'Fess Williams, che portava un abito costellato di diamanti e il cappello a cilindro, e Cab Calloway con il suo "zoot suit" bianco più incredibile di qualsiasi altro abito di tale foggia, il cappello bianco dalla fascia altissima e la cravatta a spago . Scatenavano Harlem fino alla frenesia con canzoni come "Tiger Rag", "Hi-de-hi-de-ho", "Saint James Infirmary" e "Minnie the Moocher" . La città negra era piena di bianchi, di magnaccia, di puttane, di contrabbandieri d'alcool, di trafficanti di ogni specie, di personaggi pittoreschi, e di polizia e agenti addetti a far rispettare le leggi proibizionistiche. I negri ballavano come non avevano mai fatto prima e forse come non avrebbero mai più fatto dopo. Mi pare di aver sentito dire da una ventina di vecchi abitanti di Harlem, avventori di Small's, di esser stati i primi a ballare al Savoy il "lindy-hop", che era nato là nel 1927 e aveva preso il nome da Lindbergh che aveva appena compiuto il suo volo fino a Parigi . Persino i piccoli locali sistemati nelle cantine e in cui c'era posto solo per un pianoforte vedevano prodursi degli straordinari virtuosi della tastiera come Jelly Roll Morton e James P. Johnson e cantanti come Ethel Waters. Alle quattro del mattino, quando tutti i club legalmente autorizzati dovevano chiudere, arrivavano da ogni parte della città musicisti bianchi e negri che si incontravano in qualche posto prestabilito e facevano delle" jam sessions" che duravano fino al giorno dopo . Quando tutto finì con il crollo della Borsa nel 1929, Harlem si era acquistata nel mondo la reputazione di Casbah dell'America . Il locale di Small's aveva notevolmente contribuito a tutto questo: fu là che sentii i ricordi dei veterani di quella grande epoca . Tutti i giorni ascoltavo rapito i clienti che avevano voglia di parlare con me e ciò contribuì molto alla mia educazione . Assorbivo tutto come una spugna e qualche volta, nel corso di un raro sfogo pieno di confidenze, o di fronte a qualcuno che aveva bevuto un bicchiere più del solito, intuivo perfettamente qual era il particolare tipo di traffico cui si dedicava il mio interlocutore. Fui ben istruito da guappi assai esperti in traffici quali la lotteria clandestina, lo sfruttamento delle prostitute, i giochi d'azzardo di ogni specie, la vendita degli stupefacenti e ogni genere di furto, compresa la rapina a mano armata . NOTE . NOTA 1: "Whitey", termine spregiativo usato dai negri per designare tutti i bianchi in generale. Nell'uso corrente finisce per diventare un sostantivo astratto che si riferisce alla società, allo stato, a tutte le leggi e costumi dei bianchi . NOTA 2: Il famoso Scottsboro Case ebbe inizio il 25 marzo 1931 quando nove adolescenti negri furono tratti in arresto sotto l'accusa di aver violentato due donne bianche che, insieme con loro, viaggiavano su di un treno merci dell'Alabama . Due settimane più tardi otto dei nove adolescenti furono condannati alla sedia elettrica. La N.A.A.C.P. offrì la sua assistenza legale ma l'International Labor Defense ben presto si pose a capo di un vasto movimento di sdegno popolare organizzando dibattiti, manifestazioni, raccolte di firme in tutto il mondo in favore dei giovani condannati a morte con il solito processo sommario . Le deposizioni erano state estorte con la forza e in un'atmosfera di intimidazione, la giuria popolare era composta da soli bianchi e la difesa d'ufficio aveva praticamente confermato tutte le richieste della pubblica accusa . Oltre all'ovvio elemento della condanna a morte di otto adolescenti su basi indiziarie o in ogni modo chiaramente illegali, il caso dei ragazzi di Scottsboro riproponeva per l'ennesima volta e nei termini più drammatici tutta la questione dei diritti dei negri . Per quattro anni la International Labor Defense combatté con tutti i mezzi per procrastinare la data dell'esecuzione dei giovani negri e sollevare lo sdegno dell'opinione pubblica americana e mondiale in modo da ottenere mutamenti legislativi oltre all'assoluzione piena degli imputati . Nel 1935, il partito comunista americano che si era impegnato a fondo nella lotta e che attraverso la ILD ne controllava la direzione, decise di associarsi ad altri gruppi, anche per le difficoltà che incontrava nel mantenere un rapporto tra questa azione e la sua politica delle alleanze . Nacque così un nuovo Scottsboro Defense Committee che concentrò i suoi sforzi sulla assoluzione degli imputati riuscendo, nel luglio del 1937, a farne scarcerare quattro . La Corte Suprema intervenne due volte (Powell v. Alabama 287 U S. 45; Norris v. Alabama 294 U.S 45; Patterson v. Alabama 294 U S. 600) limitandosi a sottolineare infrazioni puramente procedurali. Il suo atteggiamento legalistico e conservatore rese possibile separare il caso specifico dalla pratica reale dei tribunali e dalla finalità giuridica . D'altronde, l'atteggiamento del nuovo Defense Committee non consentì di sfruttare il largo movimento di opinione pubblica suscitato in tanti anni di controversie e un compromesso suggerito dalla politica dei fronti popolari impedì di contestare il ristretto ambito legalistico in cui in America è sempre stata confinata la lotta per i diritti civili . NOTA 3: Traduco "cracker" con «cialtrone». In realtà il termine ha una sua precisa derivazione storica e una carica dispregiativa che non si riesce a rendere in italiano . "Crackers" erano i coloni bianchi del Sud poveri e millantatori, aggressivi e al tempo stesso timorosi di perdere quel poco che avevano inimicandosi i rappresentanti delle classi superiori . E' un termine molto usato in tutta la letteratura popolare del Sud e infinite sono le macchiette ispirate a quel tipo sociologico. Malcolm lo adoperava spesso nella sua accezione politica. I "Cracker Senators" sono i senato i razzisti del Sud perché, nell'uso corrente dei negri, "cracker" equivale a bianco razzista . Capitolo sesto . IL ROSSO DI DETROIT . Tutti i giorni giocavo le mance, fino a quindici e venti dollari, alla lotteria clandestina e sognavo cosa avrei fatto se avessi imbroccato il numero giusto . Vedevo cosa spendevano, dopo le grosse vincite, quelli dell'ambiente: si abbandonavano a lunghe, incontrollate orge di ogni specie. Non parlo dei trafficanti che avevano sempre soldi per le tasche, ma dei normali lavoratori, di quelli che di solito non si vedevano mai in un bar come Small's e che, dopo una vincita cospicua, si licenziavano da qualche lavoro che avevano in città alle dipendenze dei bianchi. Spesso questi fortunati si compravano una Cadillac e qualche volta, per tre o quattro giorni, pagavano da bere e offrivano bistecche a tutti i loro amici. Io mettevo insieme due tavolini e loro, tutte le volte che arrivavo col vassoio, mi gettavano mance di due o tre dollari . Ogni giorno, fatta eccezione per la domenica, centinaia di migliaia di negri di New York City giocavano da un cent fino a fortissime somme su numeri di tre cifre. Per vincere bisognava indovinare gli ultimi tre numeri del bollettino di borsa che pubblicava tutti i giorni i risultati del mercato azionario americano e delle transazioni con l'estero . Il rapporto fra puntata e vincita era di seicento a uno e perciò un cent puntato sul numero giusto dava sei dollari, un dollaro seicento e così via. Con una puntata di quindici dollari se ne vincevano novemila. Vincite famose di questo tipo avevano causato certe cointeressenze in molti bar e ristoranti di Harlem e in alcuni casi un immediato cambiamento di proprietario. La probabilità di vincere era una su mille e perciò molti giocatori puntavano «a sistema». Per esempio, sei cents consentivano di puntare un cent su ciascuna delle sei possibili combinazioni delle tre cifre. Il numero 840, visto con il criterio dei sistemisti, comprendeva 840, 804, 048, 084, 408 e 480 . Nel ghetto negro di Harlem dalla miseria, praticamente tutti giocavano ogni giorno, e, sempre ogni giorno, era probabile che qualche conoscente vincesse. Era una grande notizia per tutto il vicinato e quando la vincita era cospicua tutti si abbandonavano all'entusiasmo. Ma le vincite erano di solito molto piccole: cinque, dieci, o venticinque cents. La maggior parte cercavano di giocare un dollaro al giorno, ma suddiviso tra vari numeri e distribuito secondo le diverse combinazioni . Ad Harlem l'industria del gioco clandestino cominciava il suo brusio la mattina e continuava fino alle prime ore del pomeriggio con i galoppini che scrivevano frettolosamente i numeri scommessi dalla gente su ricevute, sui pianerottoli delle scale dei caseggiati, nei bar, nei negozi di barbiere, nelle botteghe e sui marciapiedi. I poliziotti stavano a guardare . Nessun galoppino poteva sperare di durare a lungo se, di tasca sua, non era disposto a dare un «contributo» agli agenti di servizio nella sua zona, mentre era di dominio pubblico il fatto che i banchieri della lotteria davano grosse somme alle alte gerarchie della polizia . Il piccolo esercito di galoppini percepiva il dieci per cento delle scommesse il cui importo veniva consegnato, insieme con le ricevute, ai controllori. Anche i vincitori davano una mancia del dieci per cento al galoppino. Di solito il controllore aveva alle sue dipendenze fino a cinquanta galoppini e la sua percentuale sulle scommesse raccolte era del cinque per cento . Queste venivano poi consegnate al banchiere che si incaricava di pagare le vincite, di ungere la polizia e di arricchirsi con la differenza . C'era chi giocava lo stesso numero tutto l'anno. C'erano molti che avevano l'elenco dei numeri vincenti usciti ogni giorno per anni e con essi calcolavano le probabilità di riuscita. Alcuni si servivano di altri sistemi. C'era poi chi prendeva i numeri da indirizzi, targhe di automobili di passaggio, lettere, telegrammi, ricevute della lavanderia, numeri ricavati da qualsiasi occasione e circostanza. C'erano poi, al prezzo di un dollaro, i libri dei sogni da cui si ricavavano il numero, o i numeri corrispondenti ad ogni sogno. I mistici e i predicatori che ogni domenica facevano mercato di Cristo erano sempre pronti, per un piccolo onorario, a pregare perché il vostro numero uscisse oppure a indicarvene uno fortunato . Recentemente sono usciti gli ultimi tre numeri della nuova zona postale di cui fa parte Harlem e un banchiere è stato lì lì per fallire. Lasciate che questo libro abbia una vasta diffusione nei ghetti negri della nazione e, sebbene io non sia più un giocatore, sono disposto a scommettere una piccola somma, da versare all'istituzione di beneficenza che preferite, che milioni di dollari saranno scommessi dai miei poveri, stolti fratelli e sorelle negri su, diciamo, il numero di questa pagina o il totale delle pagine di tutto il libro . Ogni giorno che passavo nel bar dello Small's Paradise era per me affascinante e, dal punto di vista di Harlem, non avrei potuto trovarmi in una situazione migliore per imparare. Alcuni dei più bravi trafficanti di tutta New York mi presero in simpatia e sapendo che, almeno secondo i loro criteri, ero inesperto, cominciarono ben presto, con sistemi paterni, a «mettere il Rosso sulla buona strada» . Si servivano di metodi indiretti. Per esempio un negro delle Indie occidentali, che aveva la pelle molto scura e sembrava un uomo d'affari, il quale veniva spesso a sedersi ad uno dei tavolini che servivo io, un giorno che gli portavo la sua solita birra mi disse: «Rosso, stai qui fermo un minuto». Mi prese rapidamente la misura con un metro di quelli gialli tascabili e scarabocchiò i numeri su di un libriccino. Quando tornai al lavoro il pomeriggio seguente, uno dei barman mi dette un pacco . Lo aprii e vi trovai un abito blu scuro, molto costoso e dal taglio tradizionale. Era un bel pensiero e, al tempo stesso, un messaggio molto chiaro . I barman mi dissero che quel cliente era uno dei maggiori dirigenti della fantastica banda dei «quaranta ladroni». Si trattava di una banda di ciarlatani organizzati che, dietro ordinazione, consegnavano in un solo giorno di tempo, contro assegno, qualsiasi capo di vestiario. Di solito i loro prezzi erano un terzo di quelli del mercato . Seppi come facevano i loro colpi in grande. Un membro della banda, molto ben vestito e con un'aria che ispirava fiducia, entrava nel negozio prescelto poco prima dell'ora di chiusura, si nascondeva da qualche parte e restava chiuso dentro il locale. In precedenza la banda si era assicurata con esattezza circa l'orario dei passaggi della polizia. Quando si faceva buio, il compare chiuso dentro metteva gli abiti dentro grandi sacchi, poi smantellava la soneria d'allarme e telefonava agli altri della banda che stavano fuori ad aspettare con un camion . Questi arrivavano proprio tra un passaggio e l'altro della polizia, caricavano l'automezzo e in pochi minuti si dileguavano. Più tardi conobbi anch'io parecchi membri della banda dei «quaranta ladroni» . Ben presto, con una strizzatina d'occhio o con un rapido cenno, mi si cominciarono a indicare gli agenti in borghese. Per i trafficanti della zona era normale riconoscere subito gli uomini della legge e anch'io avrei imparato col tempo a percepire immediatamente la presenza di un poliziotto. Verso la fine del 1942, ciascuna specialità delle forze armate aveva i suoi informatori in borghese che cercavano di raccogliere tutti i dati di un qualche interesse, come per esempio i traffici di cui ci si serviva per evitare il reclutamento, o i nomi di coloro che non si facevano trovare dai distretti militari, oppure i metodi di sfruttamento e corruzione che venivano applicati nei confronti dei militari . Gli scaricatori del porto, o certi loro emissari, venivano nei bar a vendere pistole, macchine fotografiche, profumi, orologi e cose del genere, tutta roba rubata dai magazzini del porto . Questi negri riuscivano ad appropriarsi di quello che gli scaricatori di porto bianchi risparmiavano nelle loro ruberie . Spesso i marinai delle navi mercantili portavano roba proveniente dall'estero, oggetti a buon mercato e le migliori sigarette di marijuana fatte con la "gunja" e la "kisca" che i marinai delle navi mercantili contrabbandavano dall'Africa e dalla Persia . Durante il giorno ci si comportava verso i bianchi con grande cautela, ma quelli che venivano di notte erano ricevuti assai meglio: i diversi locali notturni di Harlem che essi frequentavano erano organizzati alla perfezione per farli divertire e lusingarli in ogni modo per poi tirar loro fuori i soldi . Dato che c'erano così tanti enti legali per la protezione della «moralità» dei membri delle forze armate, quelli che venivano, ed erano molti, ottenevano ciò che chiedevano; si rispondeva loro solo se rivolgevano per primi la parola, e questo era tutto, a meno che qualcuno non sapesse che abitavano ad Harlem . Imparai la prima regola della società dei trafficanti: non fidarsi mai di nessuno che non appartenga al vostro circolo chiuso e sceglier sempre con grande attenzione e dopo parecchio tempo quelli con cui stabilire rapporti di intima amicizia . I barman mi indicavano tra i clienti abituali i prestanome e quelli che invece contavano, chi faceva parte della malavita e aveva legami con il mondo politico e la polizia della città, chi era che maneggiava davvero il denaro e chi ne guadagnava giorno per giorno; quali erano i veri giocatori e chi invece aveva avuto una piccola fortuna e infine quali erano quelli con cui non bisognava, in nessuna circostanza, mettersi in urto . Questi ultimi erano ben noti nell'ambiente di Harlem e, oltre ad essere molto temuti, godevano di grande rispetto. Si sapeva benissimo che se se la legavano al dito non ci pensavano neppure un minuto a spaccare la testa a qualcuno. Erano i vecchi del mestiere, da non confondersi con i vari giovani trafficanti, aggressivi e teste calde che cercavano di farsi un nome adoperando con facilità la pistola o il coltello. Questi vecchi duri di cui parlo erano gente come «Black Sammy», «Bub» Hulan, «King» Padmore e «West Indian Archie». Gran parte di loro avevano lavorato come guardie del corpo di Dutch Schultz quando questi si era fatto largo con la forza nell'industria del gioco clandestino di Harlem dopo che i gangster bianchi si erano resi conto delle fortune che si potevano accumulare con quell'attività che prima avevano considerato come «i centesimi dei negri». I truffatori bianchi consideravano la lotteria come «il monte premi dei negri» . Queste dure giornate erano state prima della grande inchiesta Seabury del 1931 che segnò l'inizio del declino di Dutch Schultz, finché la sua carriera non fu spezzata, nel 1934, dalla mano di un altro assassino. Sentii raccontare con quali sistemi avevano «persuaso» la gente: tubi di piombo, cemento fresco, bastoni da baseball, pugni di ferro, calci in faccia, pugni nell'addome e sfollagente con l'anima di ferro. Quasi tutti questi duri avevano fatto cose del genere, erano scomparsi dalla scena e poi erano ritornati di nuovo alla ribalta e da allora lavoravano come capi galoppini per i più grandi banchieri specializzati in cospicue giocate . Sembrava che ci fosse un tacito accordo tra questi negri e i violenti poliziotti negri. Non venivano mai a conflitto e credo che ciò derivasse dal fatto che sia gli uni sia gli altri sapevano che qualcuno avrebbe finito col rimetterci la pelle . Anche ad Harlem c'erano alcuni poliziotti negri molto cattivi. I quattro agenti a cavallo che perlustravano Sugar Hill ricordo che il peggiore di loro aveva le lentiggini costituivano davvero un quartetto di duri. Ma il peggiore di tutti, il più grosso e il più nero, era Brisbane, un oriundo delle Indie occidentali . Quando perlustrava il tratto compreso tra la Centoventicinquesima Strada e la Settima Avenue, i negri andavano dall'altra parte della strada per evitarlo. Mentre ero in prigione, qualcuno mi raccontò che Brisbane era stato ammazzato a revolverate da un ragazzo nervoso e terrorizzato che era venuto da poco dal Sud e non aveva avuto abbastanza tempo per rendersi conto di com'era cattivo quel poliziotto . Il più incredibile magnaccia del mondo era Drake, soprannominato «Cadillac». Aveva il cranio tutto pelato e lucido e la conformazione fisica di un giocatore di rugby. Era solito chiamare la sua pancia enorme «il campo di gioco di tutte le delizie». Controllava una dozzina delle più magre, derelitte prostitute bianche e negre di Harlem. Nel pomeriggio, seduti al bar, i veterani che conoscevano Cadillac abbastanza bene lo sfottevano chiedendogli come facevano delle donne che avevano l'aspetto delle sue a guadagnare abbastanza, oltre che per se stesse, per dare da mangiare anche a lui. Il magnaccia scoppiava in una fragorosa risata insieme a tutti noi e anche ora mi par di sentirlo esclamare: «Le donne brutte lavorano di più» . L'opposto esatto di Cadillac era «Sammy il magnaccia», un giovane e distinto protettore di prostitute, dai modi indipendenti. Come ho già detto, durante le grandi feste da ballo, sapeva individuare le puttane in potenza dall'espressione. Col tempo io e Sammy diventammo intimi amici . Era originario del Kentucky e aveva una grande, smisurata esperienza commerciale: il suo ramo erano le donne. Come Cadillac, anche lui si faceva mantenere da puttane bianche e negre, ma le donne di Sammy, che qualche volta venivano da Small's a cercarlo per dargli i soldi e per farsi offrire da bere, erano, almeno credo, belle come le prostitute più affascinanti che si trovavano in qualsiasi altro posto fuori di Harlem . Una delle sue donne bianche, una bionda conosciuta col nomignolo di «Pesca dell'Alabama», faceva eccitare chiunque solo col suo modo di camminare e la sua pronuncia, e persino parecchie negre che si occupavano della lotteria nell'ambiente di Small's avevano simpatia per lei. Le occorrevano tre sillabe per pronunciare la parola "nigger" e ciò faceva ridere a crepapelle parecchi avventori negri del bar. Ma di solito lei diceva: «Ah jes' lu-uv ni-uh-guhs...» («Ah sì, adoro i negri»). Dopo un paio di bicchieri, raccontava a tutti la storia della sua vita. Nata in una piccola città dell'Alabama, quale sia stata non lo ricordo ma non ha alcuna importanza, ci diceva che la prima cosa di cui ebbe consapevolezza fu che tutti si aspettavano che «odiasse i "niggers"». Poi, alle scuole elementari, cominciò a sentir bisbigliare dalle ragazze più grandi che i "niggers" erano dei giganti nelle questioni sessuali, dei veri atleti a letto, e crebbe con il desiderio segreto di fare un'esperienza del genere. Finalmente, proprio in casa, un giorno che quelli della sua famiglia erano usciti tutti, minacciò un negro che lavorava alle dipendenze di suo padre che se non avesse fatto l'amore con lei avrebbe giurato che aveva tentato di violentarla. Il poveraccio non aveva scelta: si limitò, dopo, a lasciare il lavoro. Da allora finché non prese il diploma di scuola secondaria le riuscì parecchie volte di andare a letto con altri negri e persino di venire a New York e precipitarsi subito ad Harlem. Più tardi Sammy mi disse di averla vista al Savoy: non ballava con nessuno, stava lì in piedi a guardare e lui subito capì. Una volta che l'ebbe nelle mani non ci fu più scampo. Come diceva lei stessa, i negri le piacevano davvero e, commentava Sammy, più gliene piacevano e meglio era. Non voleva aver nulla a che fare con i bianchi. Chissà cos'è successo di lei.. . C'era un magnaccia grande e grosso, soprannominato «Dollarbill» [Banconota da un dollaro] Non tralasciava occasione di mettere in mostra il suo «rotolo stile Kansas City», un fascio di cinquanta banconote, probabilmente da un dollaro, con l'ultima da venti all'interno e una da cento dalla parte esterna. Ci domandavamo sempre cosa avrebbe fatto quel tipo se qualcuno gli avesse rubato la «copertina», cioè la banconota da cento dollari . Colui che, da giovane, avrebbe potuto rubare l'intero rotolo di Dollarbill, anche con gli occhi bendati, era lo scalcagnato, ridicolo vecchio «Fewclothes» [Pochi stracci]. Negli anni '20, quando folle immense di bianchi riempivano tutte le sere Harlem, lui era stato uno dei migliori borsaioli, ma poi, durante la Depressione, lo aveva colpito una grave forma di artrite alle mani. Aveva le giunture delle dita tutte deformate e piene di nodi, al punto che a molti faceva addirittura effetto guardargli le mani. Che piovesse o che venisse giù il nevischio più gelido, tutti i pomeriggi alle sei Fewclothes era da Small's a raccontare le più straordinarie storie dei vecchi tempi. Faceva parte del rituale quotidiano che uno o l'altro dei clienti abituali chiedesse al barman di dargli da bere e a me di dargli da mangiare . Mi commuovo ancora pensando come tutti noi mettevamo su la nostra finzione scenica con Fewclothes. Era davvero uno spettacolo vederlo un po' alticcio per i bicchieri bevuti mettersi a sedere con dignità - lui non chiedeva l'elemosina, non faceva umilmente appello alla carità di nessuno -, aprire il tovagliolo, guardare con attenzione il menu che gli porgevo e poi ordinare. Dicevo ai cuochi che si trattava di Fewclothes e gli veniva servito il miglior cibo del locale. Tornavo e mi occupavo di lui come se fosse stato un milionario . Da allora, ho pensato molte volte al significato di questo episodio. Da un lato, eravamo tutti come rannicchiati, legati insieme alla ricerca della sicurezza, del calore e dell'appoggio reciproco e non lo sapevamo. Anche se qualcuno di noi avesse esplorato lo spazio, curato il cancro, o promosso qualche attività industriale, eravamo tutti vittime negre del sistema sociale dell'uomo bianco americano. Dall'altro, la tragedia di quello che un tempo era stato il re dei borsaioli lo aveva trasformato, agli occhi di quei trafficanti che come lui avevano partecipato della vita di altri tempi, nel simbolo di uno che, malgrado tutto, era sempre con loro. Per i lupi ancora capaci di catturare i conigli era importante che il vecchio lupo che aveva perduto i denti potesse ancora mangiare . Poi c'era «Saltaleone», lo scassinatore. Nei ghetti che ha costruito per noi, l'uomo bianco ci ha costretti a non aspirare a cose più grandi, ma a considerare la vita quotidiana come pura e semplice SOPRAVVIVENZA e, in quel genere di comunità, la sopravvivenza è l'unica cosa che è rispettata. Non sarebbe pensabile che un noto ladro si facesse vedere regolarmente in qualche bar di una qualsiasi zona bianca e si presentasse come uno degli avventori più popolari. Ma se Saltaleone stava qualche giorno senza venire da Small's, noi cominciavamo a domandare di lui . Doveva quel soprannome al fatto che, come si diceva, quando lavorava giù in città nelle zone residenziali dei bianchi, saltava da un tetto all'altro e si muoveva rapidamente sui cornicioni con incredibile sicurezza, appoggiandosi e tenendosi in equilibrio soltanto con le dita dei piedi. Se fosse caduto non avrebbe potuto mai scampare alla morte perché entrava negli appartamenti solo dalle finestre. Si diceva che fosse un tipo così freddo da entrare nelle case per rubare persino quando c'era gente. Scoprii in seguito che Saltaleone prendeva parecchia droga prima di andare al lavoro. Mi insegnò alcune cose che, più tardi, mi sarebbero state utili quando tempi difficili mi costrinsero a metter su una banda di svaligiatori . Vorrei precisare che Small's non era affatto un covo di criminali. Parlo dei trafficanti perché il loro era il mondo che mi affascinava, ma in realtà Small's era uno dei due o tre locali notturni più rispettabili di Harlem. Infatti la polizia di New York City lo raccomandava a quei bianchi che volevano l'indirizzo di un posto «sicuro» ad Harlem . La prima stanza che affittai dopo essermi licenziato dalle ferrovie era posta nell'isolato con numero 800 della Saint Nicholas Avenue. E' bene ricordare che metà degli abitanti di Harlem affittavano camere ammobiliate. Dove avevo trovato io, passando da una stanza a un'altra si poteva comprare una pelliccia di provenienza furtiva, una buona macchina fotografica, del profumo di classe, un fucile, e insomma qualunque cosa dalle donne alle automobili. In quella casa ero uno dei pochissimi abitanti di sesso maschile. Tutto ciò succedeva durante la guerra quando non si poteva accendere la radio senza sentir parlare dell'Africa settentrionale o di Guadalcanal. In parecchi degli appartamenti, le inquiline erano prostitute di professione, una minoranza si dedicava ad altre forme di traffico o di imbroglio, come la vendita degli stupefacenti, le scommesse della lotteria clandestina e la ruffianeria, e sono convinto che tutti gli abitanti di quella casa prendevano stupefacenti di qualche specie. Non sarebbe giusto, in base a quello che ho detto, giudicar troppo male gli abitanti di quella casa perché, ad Harlem, quasi tutti dovevano dedicarsi a qualche specie di traffico per sopravvivere e perciò avevano bisogno di mantenersi in uno stato di semiebbrezza che facesse loro dimenticare quello che dovevano fare appunto per sopravvivere . Fu in questa casa che imparai sulle donne più cose di quanto non mi fosse capitato in qualsiasi altra circostanza. Furono quelle puttane di professione che m'insegnarono cose che tutte le mogli e tutti i mariti dovrebbero sapere. Più tardi, furono principalmente le donne che non erano prostitute a insegnarmi di non fidarmi della maggior parte delle appartenenti al loro sesso. Sembrava che le puttane avessero un codice morale di solidarietà ben più profondo di quanto non abbiano le numerose signore che frequentano la chiesa e poi vanno a letto per divertimento con un maggior numero di uomini di quelli che dietro pagamento le puttane frequentano. Parlo sia delle bianche che delle negre. In quegli anni di guerra, molte negre si trovavano nelle stesse condizioni delle bianche e mentre i mariti combattevano oltremare, andavano a letto con altri uomini dando loro persino i soldi che mandava il marito dal fronte . Molte altre che avevano mariti e figli a New York recitavano la commedia delle buone mogli e madri mentre poi battevano il marciapiede come le puttane di professione . La prima conoscenza dell'immonda morale dell'uomo bianco l'attinsi dalla fonte migliore e più attendibile, e cioè dalle sue donne. Poi, via via che la mia vita diventava sempre più dissoluta, ebbi modo di constatare con i miei occhi che specie di moralità sia quella dell'uomo bianco. Arrivai persino a guadagnarmi da vivere aiutandolo a trovare tutte quelle cose abbiette che desiderava per soddisfarsi . Ero giovane, lavoravo nel bar e non mi occupavo di queste donne . Probabilmente risvegliavo i loro istinti materni e mi consideravano come il loro fratellino minore. Alcune venivano nella mia stanza quando non avevano niente da fare e allora si parlava e si fumava insieme sigarette alla marijuana. Ciò accadeva generalmente dopo le ore di punta della mattina, ma lasciatemi dire qualcosa su quelle ore . Per uno che abitava in un edificio pieno di prostitute era normale vedere e sentire un via vai continuo di uomini bianchi e negri a tutte le ore della notte, ma quello che mi sbalordiva era addirittura la folla che arrivava tra, diciamo, le sei e le sette e mezzo del mattino. Alle nove restavo l'unico uomo nella casa e potevo godermi la massima tranquillità . Si trattava di uomini sposati che lasciavano le loro case in tempo per fare la breve sosta nella Saint Nicholas Avenue prima di andare al lavoro. Naturalmente non erano gli stessi tutti i giorni, ma ce n'era sempre abbastanza per creare un incredibile affollamento. Tra loro ce n'erano alcuni che venivano in taxi fin dalle zone più lontane della città . Le responsabili di questa corsa al piacere così mattiniera erano quelle mogli prepotenti, piene di lamentele e di esigenze che avevano castrato psicologicamente i loro mariti. Sono donne così sgradevoli e capaci di imporre ai propri mariti una tale tensione psichica da privarli persino della soddisfazione di essere uomini. Per sfuggire a quella tensione e al sarcasmo delle loro mogli, questi uomini si alzavano presto per andare a trovare una puttana . Fa parte del mestiere della prostituta studiare la psicologia maschile. Le mie vicine mi dicevano che molti uomini passata l'età della maggiore potenza virile, andavano a letto con una donna solo per soddisfare il loro ego e siccome molte donne non lo capivano, non facevano che deprimerli e umiliarli. Anche se un uomo ha la più modesta virilità, le prostitute, almeno per un momento, gli dànno la sensazione di essere il più gran maschio del mondo. Ecco perché c'erano quegli affollamenti mattutini . Molte mogli riuscirebbero a conservare i loro mariti se si rendessero conto che il loro bisogno più profondo è di ESSERE UOMINI . Quelle donne mi raccontavano tutto: le storielle sulle differenze che riscontravano a letto tra bianchi e negri e poi le perversioni! Credevo di conoscere l'intera gamma delle stranezze sessuali finché, più tardi, non diventai io stesso un procuratore di puttane che portava i bianchi a soddisfare ogni loro più strano desiderio. Tutti nella casa ridevano di un piccolo italiano che chiamavano «L'uomo dei dieci dollari al minuto». Veniva immancabilmente tutti i giorni a mezzogiorno dal suo piccolo ristorante situato vicino ai campi di polo. La canzonatura era che non durava mai più di due minuti... ma lasciava sempre venti dollari . Le prostitute pensavano che la maggior parte degli uomini si lasciassero abbindolare troppo facilmente. Tutti i giorni sentivano dire dai loro clienti che le donne che essi mantenevano e a cui davano tutto non facevano altro che litigare e lamentarsi. Le puttane mi dicevano che la stragrande maggioranza degli uomini dovrebbe imparare dai loro protettori . Qualche volta si deve vezzeggiare la donna abbastanza per farle vedere che è amata, ma poi dev'essere trattata con fermezza . Queste donne dure mi dicevano che con LORO il sistema funzionava e tutte le donne, per loro natura, sono deboli e provano attrazione per il maschio che sentono forte . Ogni tanto Sofia veniva a trovarmi da Boston. La sua bellezza mi dava prestigio anche tra i negri di Harlem che erano come tutti gli altri, di qualsiasi altro posto. Ciò spiega perché le prostitute bianche guadagnavano così tanto. Non c'era nessuna differenza tra Lansing, Boston o New York. Ciò che i razzisti bianchi dicevano, e dicono ancora, era vero! Bastava mettere una ragazza bianca vicina a un qualsiasi negro e lui subito si eccitava. Anche la donna negra faceva brillare gli occhi dell'uomo bianco, ma lui era abbastanza astuto da saperlo nascondere . Sofia arrivava con un treno del tardo pomeriggio; veniva da Small's ed io la presentavo agli avventori. Stava lì finché non smettevo di lavorare. Le seccava molto che abitassi in mezzo alle puttane, finché non gliene feci conoscere qualcuna: cominciarono a chiacchierare e le trovò interessantissime. Le dicevano che mi tenevano in serbo per lei. Andavamo al bar dell'albergo Braddock dove s'incontravano dei musicisti che mi salutavano come se fossi un loro vecchio amico: «Ehi Rosso, ma chi ci abbiamo qui?» Facevano una gran festa alla ragazza e io non riuscivo neanche a pensare di ordinare un bicchiere. In quei tempi non c'erano negri al mondo più pazzi per le donne bianche della maggior parte di quei musicisti. E' naturale che chi lavora nel mondo dello spettacolo sia meno inibito dai tabù sociali e razziali . I razzisti bianchi non vi diranno che il criterio è valido anche a rovescio . Quando si faceva tardi, Sofia ed io andavamo in certi posti che stanno aperti illegalmente la notte e che, sempre illegalmente, servono alcool. Quando i night club di città si chiudevano, gran parte di questi locali di Harlem si riempivano di bianchi, di quei bianchi che andavano pazzi per «l'atmosfera» negra specialmente quella di certi ritrovi che si potrebbero chiamare dell'«anima negra» [1]. Qualche volta i negri raccontavano come parecchi bianchi non si sentivano mai abbastanza vicini a noi e tra di noi, in gruppo. Sembrava che tutti, uomini e donne, fossero come incantati dai negri . Ricordo, a questo proposito, un caso veramente interessante: quello di una ragazza bianca che non mancava mai a nessuna delle feste danzanti al Savoy Ballroom. Il mio amico Sammy l'aveva osservata tante volte e ne era rimasto affascinato. Ballava soltanto con i negri e sembrava che andasse addirittura in trance. Se un bianco le chiedeva un ballo rifiutava. Quando si avvicinava il momento della chiusura, alle prime ore del mattino, permetteva a un negro di accompagnarla fino all'entrata della metropolitana. Questo era tutto. Non volle mai dire a nessuno il suo nome né tanto meno rivelare dove abitava . Ora vi racconterò un altro caso interessante, sebbene assai diverso, e che mi insegnò qualcosa che da allora ho visto confermato in mille altri casi. Fu la migliore lezione per capire come l'uomo bianco si mangia il cuore e il fegato, anche se vi vuol far credere diversamente, tutte le volte che vede un negro in intimità con una delle sue donne . Alcuni bianchi che frequentavano Harlem, dei giovanotti che noi chiamavamo "hippies" [2], si comportavano più da negri dei negri stessi. Questo di cui parlo si esprimeva in gergo negro più di noi stessi. Si sarebbe scagliato addosso a chiunque gli avesse detto che sentiva una qualche differenza razziale. I musicisti che frequentavano il Braddock non riuscivano a fare un passo senza trovarselo fra i piedi. Quando lo vedevo mi diceva: «Daddy, vieni, stiamo un po' insieme!» Sammy non poteva sopportarlo: era sempre e dappertutto tra i piedi. Andava in giro persino con un vistosissimo "zoot", si ungeva i capelli col grasso per farli sembrare stirati, portava le scarpe con la punta a cupolino e la lunga, ciondolante catena: tutto come un negro. Inoltre non si sarebbe mai fatto vedere con una donna che non fosse negra e in realtà viveva con due negre nello stesso appartamentino. Non seppi mai come se la cavavano con quel tipo lì, ma avevo una mia idea in proposito . Una mattina, alle tre o alle quattro, incontrammo questo giovanotto bianco nel locale di Bill il Creolo. Era alticcio, in quello stato di eccitazione prodotto dalla marijuana. Gli presentai Sofia e poi mi allontanai un momento per salutare qualcun altro. Quando tornai Sofia aveva una espressione strana, ma non mi disse nulla finché non ce ne fummo andati. Il giovanotto le aveva chiesto: «Perché una ragazza bianca come te si butta così nella spazzatura?» Bill il Creolo, che naturalmente, come avrete immaginato, era di New Orleans, divenne mio buon amico. Quando Small's chiudeva, accompagnavo nel suo locale tutti quei bianchi disposti a spendere che ancora volevano bere qualcosa. Fu quella la mia prima esperienza di procacciatore di puttane. Il locale consisteva nell'appartamento di Bill il Creolo e credo che per ingrandire il salotto fosse stato necessario buttar giù una parete, ma l'atmosfera, oltre al cibo, ne faceva uno dei posti più affascinanti di Harlem . Da un giradischi veniva continuamente una bella musica sommessa . C'erano ogni sorta di bevande e Bill vendeva piatti della sua deliziosa e piccante cucina creola come il "gumbo" e la "jambalaya". La sua amante, una bella ragazza negra, serviva i clienti. Bill la chiamava «Brown Sugar» e alla fine tutti gli altri facevano lo stesso. Se c'erano molti clienti da servire tutti in una volta, Bill il Creolo tirava fuori le pentole, la sua ragazza portava i piatti e ad ognuno toccavano delle enormi porzioni. Poi Bill riempiva anche il suo piatto e mangiava con noi. Era un piacere vederlo mangiare: adorava le cose che cucinava e che, devo dire, erano buonissime. Preparava il riso come i cinesi, così tosto che ogni granello era completamente separato dagli altri. D'altro canto però non ho mai conosciuto un cinese che sapesse cucinare il pesce e i fagioli come Bill . Fece abbastanza soldi con quel suo localetto nell'appartamento da riuscire ad aprire un ristorante creolo che divenne famoso ad Harlem. Bill era un grande appassionato di baseball e su tutti i muri c'erano fotografie con autografi dei campioni di quello sport ed anche di alcune celebrità del mondo della politica e dello spettacolo che venivano lì a mangiare e portavano i loro amici. Chissà cosa n'è stato di Bill il Creolo! Il ristorante è stato venduto e non ho più sentito parlare di lui. Bisogna che mi ricordi di domandare a qualcuno dei veterani della Settima Avenue che certamente saprà dirmi qualcosa . Una volta che chiamai Sofia a Boston, mi rispose che non sarebbe potuta venire fino al prossimo weekend. Si era appena sposata con un ricco bianco di Boston. Lui era sotto le armi, era venuto a casa in licenza e poi sarebbe ben presto ripartito. Lei non voleva che nulla cambiasse fra noi e io le dissi che per me non faceva alcuna differenza. Naturalmente avevo presentato Sofia al mio amico Sammy e parecchie sere eravamo usciti insieme. Sammy ed io avevamo discusso a lungo la psicologia del negro e della donna bianca e dovevo a lui se ero del tutto preparato al matrimonio di Sofia . Sammy diceva che le donne bianche sono molto pratiche: ne aveva sentite parecchie esprimere sinceramente i propri sentimenti . Sapevano che il negro aveva tutto contro, che l'uomo bianco lo teneva schiacciato sotto i piedi e lo rendeva incapace di raggiungere qualsiasi posizione di autonomia. La donna bianca voleva vivere bene, godere di una buona considerazione fra quelli della sua razza, ma nello stesso tempo, voleva soddisfare il suo piacere. Perciò alcune donne sposate a un uomo bianco per ragioni di convenienza e sicurezza continuano poi a tenersi come amante un negro. Ciò non vuol dire necessariamente che siano innamorate di lui, ma piuttosto della libidine e specialmente della libidine «tabù» . Non era inconsueto che un bianco guadagnasse dieci, venti, trenta, quaranta o cinquantamila dollari all'anno, ma era veramente raro trovare un negro che arrivasse, nel mondo dell'uomo bianco, a guadagnare anche cinquemila dollari. La donna bianca andava dunque con i negri o per un amore veramente folle o per soddisfare la sua sensualità . Dopo un certo tempo che mi trovavo ad Harlem e che ormai tutti pensavano che vi sarei rimasto per sempre, mi affibbiarono un nomignolo che mi avrebbe fatto riconoscere senza fallo dai due altri «Rossi», ambedue con i capelli stirati di quel colore e ben noti nell'ambiente. Uno, chiamato «Il Rosso di Saint Louis», era specializzato in rapine a mano armata e quando andai in prigione stava scontando una condanna per tentata rapina nei confronti del capomaggiordomo del vagone ristorante di un treno della linea New York - Philadelphia. Venne poi liberato, ma ora ho sentito dire che è di nuovo in prigione per un furto di gioielli commesso a New York . L'altro era «Il Rosso di Chicago». Diventammo buoni amici in un locale dove si serviva illegalmente alcool dopo le ore di chiusura e dove più tardi fui assunto come cameriere. Era il più buffo sguattero che abbia mai conosciuto. Ora si guadagna la vita proprio perché è buffo: è diventato un comico di night club e d'avanspettacolo noto in tutto il paese. Non vedo nessuna ragione perché il vecchio «Rosso di Chicago» se la dovrebbe prendere se ora dico che il suo nome è Redd Foxx . Comunque, dopo non molto tempo, mi fu affibbiato il mio soprannome. Sapendo che venivo dal Michigan la gente mi domandava da quale città e poiché gran parte degli abitanti di New York non avevano mai sentito parlare di Lansing, io rispondevo Detroit. Poco alla volta, cominciarono a chiamarmi «Il Rosso di Detroit» e il soprannome mi rimase . Un pomeriggio, all'inizio del 1943, prima che arrivasse la folla degli avventori abituali e cioè intorno alle sei, un soldato negro venne a sedersi da solo a uno dei tavoli che io servivo . Stette lì un'ora o anche più. Aveva un aspetto patetico e istupidito e dava l'impressione di essere appena arrivato dal più profondo Sud. Dopo avergli servito quattro o cinque bicchieri, mentre passavo lo straccio sul tavolo, mi chinai vicino a lui e gli chiesi se voleva una donna . Sapevo benissimo cosa facevo. Non era una legge soltanto dello Small's Paradise, ma di tutti i bar che volevano restare in commercio: non immischiarsi mai in cose che avrebbero potuto essere considerate come «corruttrici della morale» dei membri delle forze armate, o in qualsiasi specie di traffico con loro . Moltissimi locali avevano avuto noie per questi motivi: alcuni erano stati proibiti ai militari e ad altri era stata ritirata la licenza . Mi ero messo proprio nelle mani di una spia. Certo, mi disse, che gli sarebbe piaciuto di andare con una donna, e si comportò con gratitudine arrivando persino a parlare nel più incredibile accento del Sud. Io gli detti il numero di telefono di una delle mie migliori amiche tra quelle prostitute con cui abitavo . Ma c'era qualcosa che non andava. Avevo dato a quel tipo una mezz'ora per arrivare e poi telefonai. Mi aspettavo la risposta che ricevetti e cioè che nessun soldato si era fatto vedere . Non persi neanche tempo a tornare al bar. Andai diritto nell'ufficio di Charlie Small . «Ho fatto qualcosa, Charlie, - dissi, - non so proprio perché...» Gli raccontai tutto . Charlie mi guardò: «Vorrei proprio che tu non l'avessi fatto, Rosso». Tutti e due sapevamo cosa volevano dire quelle parole . Quando entrò Joe Baker, il poliziotto delle Indie occidentali in borghese, io lo stavo aspettando. Non gli feci neanche delle domande . Trovammo il commissariato di polizia della Centotrentacinquesima Strada pieno di poliziotti in uniforme e di poliziotti militari che si erano portati dietro parecchi soldati. Fui riconosciuto anche da altri agenti che, come Joe Baker, capitavano qualche volta da Small's . C'erano due elementi in mio favore. Prima di tutto non avevo mai avuto noie con la polizia e poi quando quella spia negra aveva cercato di darmi una mancia l'avevo rifiutata dicendogli che lo facevo solo per fargli un favore. Dovevano esser d'accordo che Joe Baker si sarebbe limitato a spaventarmi . Non conoscevo abbastanza l'ambiente per valutare il fatto che non mi portarono davanti al tavolo per stendere il verbale. Joe Baker mi fece strada verso l'interno dell'edificio finché arrivammo in una stanzetta. Attraverso la parete si sentiva distintamente che stavano picchiando qualcuno. "Whop! Whop!" L'arrestato gridava: «Vi prego! vi prego! non mi picchiate sulla faccia... è con la faccia che mi guadagno la vita». Da queste parole capii che si trattava di un magnaccia. "Whop! Whop!", «Vi prego! Vi prego!» (Non molto tempo dopo sentii dire che Joe Baker era caduto in trappola nel New Jersey mentre cercava di ricattare un protettore negro e la sua prostituta bianca. Fu espulso dalla polizia di New York City e un tribunale del New Jersey lo condannò a una pena detentiva) . La cosa più amara per me fu che, oltre a essere licenziato, mi fecero capire che non avrei più dovuto frequentare Small's . Comprendevo le loro ragioni e anche se non ero quello che si potrebbe dire «un tipo pericoloso», mi avrebbero in ogni caso tenuto sotto sorveglianza. I fratelli Small dovevano pur proteggere i loro affari . Sammy dette prova di saper aiutare l'amico nel bisogno. Mi fece sapere di andar subito al suo appartamento. Non c'ero mai stato e il posto mi parve una specie di palazzotto: le sue donne lo mantenevano davvero da signore. Mentre stavamo discutendo a quale specie di traffico avrei dovuto dedicarmi, Sammy mi offrì la migliore marijuana che avessi mai sentito . Parecchi controllori della lotteria clandestina che frequentavano regolarmente il locale di Small's mi avevano offerto parecchie volte di fare il galoppino. Ciò avrebbe voluto dire guadagnare pochissimo finché non mi fossi formata una vasta clientela. Quanto al dedicarmi allo sfruttamento delle prostitute come faceva Sammy, non c'era niente da fare. Sentivo di non essere adatto per un mestiere come quello e che certamente avrei finito col morire di fame cercando inutilmente di reclutare prostitute . Ben presto Sammy ed io ci trovammo d'accordo sul fatto che per me la miglior cosa era di andare a vendere le «paglie». Era un mestiere relativamente di poco impegno, che si esercitava da solo e che dava immediati, forti guadagni. Per chi aveva soltanto un po' di cervello, non c'era bisogno di esperienza specialmente se si sapevano stabilire rapporti cordiali con la gente . Sia io che Sammy conoscevamo dei marinai mercantili e altri trafficanti che avrebbero potuto rifornirmi di marijuana sciolta. I musicisti, tra i quali avevo molte conoscenze, costituivano il mercato migliore per le «paglie» e oltre a ciò, erano i maggiori consumatori di stupefacenti, qualora più tardi avessi voluto dedicarmi alla vendita di varie specie di narcotici. Sarebbe stato più rischioso, ma anche più redditizio . Chi vendeva eroina e cocaina arrivava a guadagnare fino a cento dollari al giorno, ma occorreva parecchia esperienza con la squadra narcotici per non farsi pizzicare tutto il tempo necessario per mettere insieme grosse somme . Ero abbastanza scaltrito da riconoscere e individuare a colpo d'occhio gran parte degli agenti del corpo regolare di polizia, ma non quelli della squadra speciale narcotici. Tra i vecchi trafficanti che regolarmente venivano da Small's avevo un gran numero di conoscenze che avrebbero potuto rivelarsi molto utili . Ciò era importante perché se Sammy era in grado di fornirmi regolarmente la marijuana, un aspetto decisivo del successo in questo campo era di sapere a chi si sarebbe potuto chiedere aiuto se lui ne avesse avuto bisogno. Tale aiuto si sarebbe dovuto cercare tra i poliziotti e magari molto più in alto . Quanto a me, non avevo ancora raggiunto quello stadio e perciò Sammy mi dette, credo, una ventina di dollari . Più tardi, quella stessa sera, bussai alla sua porta, gli restituii il denaro e gli chiesi scherzosamente se aveva bisogno di un prestito da me. Quando ero uscito da lui ero andato subito dal fornitore che egli stesso mi aveva indicato, avevo acquistato un quantitativo molto piccolo di marijuana e mi ero procurato la carta per fare da me le sigarette. Siccome erano della grandezza di fiammiferi un po' grossi, ne potei fare un numero sufficiente che andai poi a vendere ai miei amici musicisti all'albergo Braddock. Con quello che incassai restituii i soldi a Sammy e mi rimase un gruzzoletto per cominciare a lavorare. Quando quei musicisti videro il loro amico e ammiratore che si era messo in quel commercio mi salutarono dicendo: «Porca miseria! E' il Rosso!» Almeno metà dei musicisti di ogni orchestra fumavano le paglie . Non farò qui i nomi perché dovrei comprendere nella lista alcune delle personalità allora più famose nel campo della musica popolare e parecchi che sono ben noti anche oggi. In ogni caso, in una delle orchestre che ancor oggi è famosa tutti i membri prendevano la marijuana. Per citare un altro esempio, parecchi musicisti vi potrebbero dire a chi mi riferisco quando ricordo che uno dei cantanti più famosi fumava le paglie attraverso un osso di pollo adattato a bocchino. Ne aveva fumate così tante che se accendeva un fiammifero davanti all'osso vuoto e ne aspirava il calore, riusciva a ottenere la «scarica» anche senza la marijuana . Il mio profitto cresceva, continuavo ad aumentare i rifornimenti e vendevo «paglie » come un forsennato. Dormivo pochissimo: ero sempre presente dove i musicisti si ritrovavano. In tasca avevo un fascio di banconote perché tutti i giorni guadagnavo cinquanta o sessanta dollari puliti. A quei tempi, e per la verità anche oggi, quella era una fortuna per un ragazzo negro di diciassette anni. Per la prima volta nella mia vita ebbi la sensazione di una grande libertà! Ora, tutto all'improvviso, ero anch'io alla pari con quegli altri giovani trafficanti che avevo tanto ammirato . Fu in questo periodo che scoprii il cinema. Qualche volta arrivavo a vedere anche cinque film in un sol giorno, sia giù in città che ad Harlem. Mi piacevano i duri, i film di azione, Humphrey Bogart in "Casablanca", e andavo in visibilio per tutti quei balli e quell'allegria di film come "Stormy Weather" e "Cabin in the Sky". Appena uscito dal cinema, prendevo contatto con i fornitori e poi facevo le sigarette e quando veniva buio cominciavo il mio giro. A quelli che me ne compravano dieci per un valore di cinque dollari, ne davo due di regalo. Non dovevo vendere e poi scappare, dato che i clienti erano anche miei amici. Spesso mi mettevo anch'io a fumare con loro e nessuno era più «carico» di marijuana di me . Ora che ero libero di fare quel che volevo, mi prese improvvisamente la voglia di andare a Boston. Naturalmente andai a far visita a Ella. Le detti un po' di soldi e le dissi che lo considerasse un gesto simbolico di riconoscenza per avermi aiutato quando ero arrivato da Lansing. Non era più la stessa . Non mi aveva ancora perdonato per la faccenda di Laura che nessuno di noi due rammentò. Eppure anche così Ella dimostrò nei miei confronti più calore di quanto non avesse fatto quand'ero partito per New York. Passammo in rassegna le vicende della famiglia. Wilfred aveva dimostrato una tale capacità che gli avevano chiesto di restare a Wilberforce come istruttore ed Ella aveva ricevuto una lettera da Reginald che finalmente era riuscito a farsi arruolare nella marina mercantile . Telefonai a Sofia dall'appartamento di Shorty e appena questi uscì per andare al lavoro lei mi venne a trovare. Avrei voluto portarla in qualcuno dei club di Roxbury, ma Shorty ci aveva detto che, come succedeva a New York, i poliziotti di Boston si servivano della guerra come pretesto per dar fastidio alle coppie miste, fermarle e poi mettersi a perseguitare il negro con un fuoco di fila di domande riguardo alla sua posizione militare. Naturalmente il fatto che Sofia era sposata ci rendeva di per sé molto più cauti . Quando lei ebbe preso il taxi per tornare a casa, io andai a sentire l'orchestra di Shorty. Sì, ora aveva un complesso tutto suo. Era riuscito a ottenere una lunga dilazione nella chiamata alle armi e ne fui molto contento per lui. Il suo complesso era tutt'altro che eccezionale, però Shorty guadagnava bene a Boston suonando in piccoli club. Tornati all'appartamento rimanemmo a chiacchierare finché non fece giorno. «Caro concittadino, continuava a dire Shorty, - ora sei anche qualcos'altro!» Gli raccontai alcune delle sregolatezze che avevo fatto ad Harlem e degli amici che avevo. Gli dissi anche la storia di Sammy il magnaccia . A Paducah nel Kentucky, sua città natale, Sammy aveva messo incinta una ragazza e i genitori di lei l'avevano presa così male che era dovuto scappare ad Harlem dove si era impiegato come cameriere in un ristorante. Quando vedeva che una donna veniva sola a mangiare e le informazioni che assumeva confermavano che era davvero sola, non sposata e che non abitava con nessuno, di solito non era difficile per l'abile Sammy farsi invitare nell'appartamento di lei. Allora insisteva per andare a prendere qualcosa da mangiare in un ristorante vicino e in quell'intervallo di tempo faceva fare un duplicato della chiave . Poi, quando sapeva che la donna era fuori, Sammy andava nell'appartamento e portava via tutte le cose di valore. A questo punto era in grado di offrire una piccola somma per aiutare la donna a rimettersi in piedi e questa era la fase iniziale di una dipendenza emotiva e finanziaria che Sammy sapeva sviluppare finché la malcapitata non diventava praticamente la sua schiava . Gli agenti della squadra narcotici che operavano ad Harlem non impiegarono molto a scoprire che vendevo le «paglie» e qualche volta uno di loro mi pedinava. Parecchi venditori di marijuana erano in prigione perché erano stati pizzicati con la roba addosso. Per evitare quell'inconveniente ebbi un'idea: la legge specificava che se l'indiziato non veniva trovato con il corpo del reato, non si poteva arrestarlo. Le scarpe con i tacchi vuoti, la doppia fodera nel cappello e cose del genere erano ormai roba vecchia per gli agenti . Portavo sotto la giacca, vicino all'ascella, un pacchettino con cinquanta sigarette di marijuana. Dovevo tenere il braccio teso lungo il fianco e quando mi muovevo, mi guardavo d'intorno. Se qualcuno mi dava una occhiata sospettosa, attraversavo rapidamente la strada, o entravo in un portone, o giravo dietro un angolo, allentando il braccio fino a far cadere giù il pacchetto. Di notte, quando come al solito andavo in giro a vendere, nessuna persona sospetta avrebbe potuto accorgersi del trucco. Se poi mi convincevo di aver sbagliato, tornavo indietro a riprendermi il pacchetto . Con questo sistema perdetti parecchia merce. Talvolta riuscii a scoraggiare qualche agente e in ogni caso ce la feci a non essere portato davanti al tribunale . Una mattina, entrando nella mia stanza, mi accorsi che c'era stato qualcuno. Immaginai subito che si fosse trattato della polizia. Avevo sentito dire troppe volte che quando non riuscivano a raccogliere prove, le creavano loro mettendo qualcosa di compromettente in posti che l'indiziato non poteva sapere e poi tornavano a «trovarlo». Non pensai due volte al da farsi. Raccolsi le mie poche cose e non mi voltai neppure indietro. Quando tornai a dormire, si trattava di un'altra stanza . Fu allora che cominciai a portare in tasca una piccola pistola automatica. Me la dette, in cambio di alcune «paglie», un tossicomane che conoscevo e che l'aveva rubata da qualche parte . La portavo infilata nella cintola proprio nel mezzo del dorso . Qualcuno mi aveva detto che quando gli agenti perquisivano rapidamente per la strada, di solito non toccavano mai là . Inoltre, se non sapevo con chi ero, evitavo sempre di trovarmi negli assembramenti. Gli agenti della squadra narcotici erano famosi per mescolarsi in mezzo alla folla, metter le mani addosso a chi avevano deciso di arrestare e, facendo finta di perquisirlo, infilargli in tasca il corpo del reato. Ero convinto che finché camminavo e stavo allo scoperto, avevo delle buone probabilità di cavarmela. Non ricordo le vere ragioni che mi spinsero a portare la pistola, ma credo che fosse perché non mi sentivo di farla passar liscia a chi avesse cercato di compromettermi in qualche situazione che avrei potuto evitare . Vendevo meno di prima perché tutte queste precauzioni mi portavano via parecchio tempo. Ogni tanto, e tutto all'improvviso, dovevo trasferirmi in un'altra stanza ammobiliata. Nessuno all'infuori di Sammy sapeva dove dormivo . Alla fine circolò nell'ambiente la notizia che la squadra narcotici di Harlem mi aveva messo nella lista dei ricercati speciali . A questo punto, quasi ogni giorno, e di solito in un locale pubblico, trovavo qualche agente che dopo aver tirato fuori il distintivo di riconoscimento, mi perquisiva. Dicevo subito loro con voce abbastanza forte perché gli altri presenti sentissero, che non avevo niente addosso e che non volevo che mi mettessero niente in tasca. Allora non ci si provavano perché ad Harlem la legge non era tenuta in gran conto e gli agenti dovevano stare attenti che una folla di negri non intervenisse con metodi sbrigativi. Ad Harlem si cominciava a sentire una forte tensione e quasi si poteva prevedere che stesse per scoppiare qualcosa, come infatti ben presto successe . Per me era una vita dura. Dovevo nascondere le «paglie» in diversi posti vicino a dove vendevo: ne mettevo cinque in un pacchetto di sigarette vuoto e lo buttavo vicino a un lampione, dietro un secchio di spazzatura o in una scatola. Dicevo ai clienti di pagarmi prima e poi indicavo loro dove dovevano raccogliere la merce . I miei clienti regolari non erano disposti a far questo: non si può pretendere che un noto musicista vada a rimestare dietro un secchio di spazzatura. Perciò cominciai a dedicarmi di più ai clienti della strada, a quelli che si vedeva lontano un miglio che erano sotto l'effetto della droga. Raccolsi parecchie scatole vuote di garze della croce rossa e le adoperai per nasconderci le sigarette di marijuana. Il sistema funzionava molto bene . Ma gli agenti della squadra narcotici di Harlem escogitarono tanti di quei trucchi per perseguitarmi che dovetti cambiare zona. Mi spostai verso l'estrema parte meridionale di Harlem, intorno alla Centodecima Strada. In quella zona i fumatori di marijuana erano più numerosi, ma si trattava dei più miserabili perché questa era la parte peggiore del ghetto, abitata dalla gente più povera, da coloro che vivono sotto il continuo effetto dei narcotici per poter sfuggire alla necessità di considerare quanto è squallida la loro esistenza. Non durai molto neanche lì. Perdevo troppa merce. Alcuni di quei fumatori di marijuana che avevano davvero una specie di istinto animalesco, mi seguivano e imparavano il mio sistema. Venivano fuori a corsa da un portone, io lasciavo cadere la roba e loro ci si buttavano sopra come le galline sul granturco. Quando si diventa animali, avvoltoi com'ero diventato io nel ghetto, si entra nel mondo degli animali e degli avvoltoi in cui vale soltanto la legge della sopravvivenza del più forte . Ben presto mi trovai a dover prendere in prestito piccole somme da Sammy e da qualcuno dei musicisti: abbastanza per rifornirmi di marijuana, fumarne io stesso e qualche volta abbastanza solo per mangiare . Poi Sammy mi dette un'idea: «Rosso, hai ancora la tua vecchia tessera di riconoscimento delle ferrovie?» Ce l'avevo ancora: non me l'avevano ritirata . «Ebbene, perché non te ne servi per fare qualche viaggetto finché non viene una schiarita?» Sammy aveva ragione . Scoprii che se camminavo deciso e mostravo al bigliettaio la mia tessera di riconoscimento delle ferrovie, il controllore anche se era un tipaccio, bastava che mi rivolgessi a lui nella maniera giusta senza raccomandarmi - mi faceva segno di salire sul treno. Una volta sopra, il controllore mi dava il biglietto per un posto riservato, valido per l'intero percorso del treno . Mi venne l'idea che, in questo modo, avrei potuto andar su e giù lungo la costa orientale a vendere «paglie» tra i miei amici che, con le loro orchestre, andavano in tournée . Avevo la tessera di riconoscimento della ferrovia di New Haven . Lavorai un paio di settimane per altre compagnie ferroviarie finché non ebbi le loro tessere di riconoscimento e così fui a posto . A New York, feci parecchie sigarette alla marijuana, le impacchettai e poi le misi in vasi di vetro sigillati. La tessera di riconoscimento funzionava a meraviglia. Bastava persuadere il controllore che ero un impiegato che doveva andare a casa per certe questioni di famiglia e lui mi faceva passare subito senza un momento di esitazione. Gran parte dei bianchi non sono disposti a riconoscere che un negro possa avere abbastanza intelligenza o coraggio per prenderli in giro . Mi fermavo nelle città dove suonavano i miei amici. «Rosso!» Ero un vecchio amico che veniva da casa. Per quello che riguardava le «paglie» ero uno che veniva dall'albergo Braddock. Avevo le sigarette di marijuana di New York e nessuno aveva mai sentito dire di un venditore di stupefacenti che viaggiava in treno . Non andavo al seguito di nessuna orchestra. I musicisti sapevano tutti quali erano gli impegni e gli orari delle varie orchestre . Quando avevo finito la merce, tornavo a New York, mi rifornivo, e poi ero di nuovo sulla piazza. La scena era quasi sempre la stessa: sale da concerto o palestre tutte illuminate, l'autobus riservato all'orchestra parcheggiato lì fuori e i ballerini del posto che entravano dentro a frotte, vestiti a festa, tutti eccitati. All'entrata dicevo di essere il fratello di qualcuno degli orchestrali e in gran parte dei casi credevano che fossi anch'io un musicista. Nel corso della serata facevo vedere ai provinciali qualche passo un po' stravagante del mio "lindy-hop", talvolta passavo la notte nella cittadina dove veniva data la festa e qualche altra volta andavo in autobus con l'orchestra fino alla successiva località della loro tournée. In certi periodi tornavo a New York e stavo fermo un po' di tempo . Ora le cose si erano un po' calmate: si era sparsa la voce che ero partito e la squadra narcotici si era accontentata di quella notizia. In qualche cittadina di provincia la gente mi saltava addirittura addosso per avere un autografo, credendomi uno dell'orchestra e una volta, a Buffalo, ne uscii col vestito quasi strappato . Un giorno che tornavo a New York trovai mio fratello Reginald ad aspettarmi. Il giorno prima la nave mercantile su cui era imbarcato aveva gettato l'ancora in un porto del New Jersey . Credendo che lavorassi ancora da Small's Reginald era andato là e i barman gli avevano dato l'indirizzo di Sammy il quale l'aveva portato da me . Fu bello rivedere mio fratello. Mi pareva impossibile che fosse lo stesso che un tempo, quand'era ragazzino, mi veniva sempre dietro. Ora Reginald misurava quasi un metro e novanta, anche se era parecchi centimetri più basso di me; aveva la pelle più scura della mia, occhi quasi verdi e una striscia bianca nei capelli che erano rossicci-scuri, quasi come i miei . Lo portai dappertutto, presentandolo ai miei amici. Mi misi a studiarlo con attenzione e mi piacque: era molto più compassato di me quando avevo sedici anni . In quel momento non avevo una stanza, ma sia io che Reginald avevamo abbastanza soldi e così andammo a stare all'albergo Saint Nicholas a Sugar-Hill. Ora non c'è più: è stato demolito . Parlavamo nottate intere ricordando gli anni di Lansing e passando in rassegna tutti i membri della nostra famiglia. Gli raccontai cose di nostro padre e di nostra madre che lui non poteva ricordare e Reginald mi mise al corrente di quello che avevano fatto e facevano i nostri fratelli e sorelle. Wilfred era ancora istruttore tecnico alla Wilberforce University mentre Hilda, che stava sempre a Lansing, si sarebbe sposata tra poco; lo stesso stava per fare Philbert . Io e Reginald venivamo subito dopo Hilda, io più grande e lui più piccolo. Quanto a Yvonne, Wesley e Robert, andavano ancora a scuola a Lansing . Ridemmo alle spalle di Philbert il quale, l'ultima volta che lo avevo visto, era diventato religiosissimo e portava uno di quei cappelli di paglia rotondi . La nave di Reginald rimase all'ancoraggio per circa una settimana dovendo effettuare delle riparazioni alle macchine . Ero molto contento di vedere che mio fratello, sebbene parlasse poco su questo argomento, ammirava la mia capacità di vivere con l'immaginazione e l'astuzia. Per i miei gusti Reginald si vestiva in maniera troppo vistosa e perciò chiesi a un mio cliente, uno che comprava da me le «paglie», di procurargli un vestito e un cappotto più rispettabili. Gli dissi di aver imparato che, per potere ottenere qualcosa, bisognava avere l'aspetto di uno che aveva già una posizione . Prima che Reginald partisse, insistetti perché lasciasse la marina mercantile: lo avrei aiutato a cominciare ad Harlem. Devo aver pensato che sarebbe stata una bella cosa se avessi potuto tenermi vicino mio fratello minore: avrei avuto due persone di cui mi potevo fidare, lui e Sammy . Reginald era un tipo freddo. Alla sua età sarei stato disposto a correr dietro al treno pur di andare a New York e a Harlem, ma lui, quando partì, si limitò a dirmi: «Ci penserò» . Non molto tempo dopo la partenza di Reginald, tirai fuori lo "zoot suit" più incredibilmente vistoso di New York. Si era nel 1943 e l'ufficio di leva di Boston mi aveva scritto all'indirizzo di Ella; visto che là ero irreperibile, aveva mandato la comunicazione all'ufficio di New York e così, all'indirizzo di Sammy, ricevetti i saluti dello zio Sam . A quel tempo c'erano soltanto tre cose al mondo che mi facevano paura: la prigione, un lavoro e l'esercito. Mancavano soltanto dieci giorni allo scadere del termine di presentazione al Centro di raccolta. Mi misi subito al lavoro. I soldati del servizio spionaggio, quelle spie negre in abiti civili, erano dappertutto ad Harlem e tenevano gli orecchi aperti per conto dell'uomo bianco che stava giù in città. Sapevo benissimo dove e quando dovevo far passare la voce e così cominciai a diffondere la notizia che volevo in tutti i modi arruolarmi... nell'esercito giapponese . Quando avevo la sensazione che le spie fossero lì ad ascoltarmi, parlavo e mi comportavo come un esaltato e un pazzo. In realtà parecchi trafficanti di Harlem, come poi più tardi io stesso, avevano raggiunto quello stato, del resto inevitabile per chi aveva preso per lungo tempo dosi sempre maggiori di stupefacenti ed era sottoposto alla dura pressione psicologica della vita del trafficante. Tiravo fuori la cartolina precetto e la leggevo ad alta voce per esser sicuro che sentissero chi ero e riferissero con esattezza il mio nome. Credo che questa fosse l'unica volta che, a quel tempo, il mio nome vero venisse pronunciato ad Harlem . Il giorno che andai al distretto militare, mi vestii come un attore. Insieme con quel vistosissimo "zoot", mi misi le scarpe gialle con la punta a cupolino e mi arrostii i capelli per ottenere la stiratura più rossa e più perfetta che avessi mai avuto . Entrai dimenandomi e accennando a passi di danza e rivolsi il mio saluto «sincopato» al soldato bianco di servizio: «Crazy-o, daddy-o, fammi far presto. Sono impaziente di indossare quella divisa...» E' probabile che il soldato non si sia ancora rimesso dallo sbigottimento che provò a quello spettacolo . Avevano ricevuto le informazioni che volevo, ma nonostante ciò mi fecero fare la trafila. In quella grande stanza c'erano quaranta o cinquanta reclute potenziali. Nessuno parlava, all'infuori di me che rovesciavo torrenti di parole senza usare mai altro che lo slang. Mi dichiaravo deciso a combattere su tutti i fronti e, prima che finisse, assicuravo che sarei diventato generale. Roba di questo genere.. . Naturalmente la maggior parte dei presenti erano bianchi e quelli dall'aspetto più mite sembravano pronti a scappare da un momento all'altro. Altri mi guardavano con lo sguardo acido di chi pensa: «Questo è un "nigger" della peggior specie». Gli altri si divertivano perché vedevano in me l'archetipo del «buffone di Harlem» . Anche alcuni dei dieci o dodici negri che erano in quello stanzone si divertivano mentre gli altri, con le facce impassibili come statue, avevano l'espressione di chi si appresta a impegnarsi per uccidere qualcuno e, sono sicuro, sarebbero stati contenti di cominciare con me . La fila scorreva lentamente. Quando toccò a me, dopo essermi spogliato, continuai a ripetere durante tutte le fasi della visita medica che ero felicissimo di arruolarmi. Tutti quelli in camice bianco che vidi mi guardavano come si guarda un riformato . Prima che mi mandassero via dovetti stare in fila più di quanto non mi sarei aspettato. Uno di quei tipi in camice bianco mi accompagnò attraverso un lungo corridoio fino all'ufficio di quello che sapevo essere l'essiccatore di teste, cioè lo psichiatra militare . A riceverci venne un'infermiera negra. Ricordo che avrà avuto poco più di vent'anni e che non era affatto brutta. Era una delle prime negre a esercitare questa professione . I miei confratelli sanno di cosa parlo. A quei tempi, durante la guerra, l'uomo bianco aveva talmente bisogno di personale che cominciava a permettere che i negri lasciassero i secchi, le scope e gli stracci da spolverare e adoperassero i lapis, lavorassero dietro a un tavolo o fossero chiamati con un titolo da quattro soldi. Non si poteva più leggere nessun giornale negro senza trovarvi enormi fotografie di negri pieni di prosopopea che erano stati ammessi per primi a esercitare un certo mestiere o professione . Lo psichiatra stava visitando qualcun altro e io non dovetti mettermi a recitare per quella ragazza negra perché lei era già disgustata di me . Quando finalmente suonò il campanello, non mi mandò dentro dal dottore, ma mi lasciò lì ed entrò lei. Sapevo benissimo cosa faceva; sapevo benissimo che mi aveva preceduto per dire chiaramente cosa pensava di me. Ancora oggi questo è uno dei grossi limiti del negro: tanti dei cosiddetti membri della classe superiore negra sono così occupati nel cercar di convincere l'uomo bianco che sono «diversi da quegli altri» da non capire che confermano la bassa opinione che i bianchi hanno di tutti i negri . Dopo aver così salvato il suo prestigio, uscì dalla stanza del dottore e mi fece cenno di entrare . Devo dire che quello psichiatra fece di tutto per essere obiettivo e, a suo modo, distaccato come è richiesto dalla sua professione. Stette lì seduto a fare disegnini con la matita mentre mi ascoltava per tre o quattro minuti . Cominciò con delle domande molto semplici per cercare di capire le ragioni della mia ansia. Non cercavo di influenzarlo, ma divagavo e eludevo ogni conclusione, stando bene attento a come lui reagiva in modo da fargli credere che erano le sue domande a farmi dire quello che lui voleva sapere. Voltavo continuamente la testa e mi agitavo sulla sedia, come se qualcuno fosse lì ad ascoltare. Sapevo benissimo che avrebbe poi fatto una ricerca per stabilire come classificare il mio caso . Improvvisamente saltai in piedi e andai a guardare sotto tutte e due le porte, quella da cui ero entrato e un'altra che probabilmente era di un armadio a muro. Poi mi piegai verso di lui e gli bisbigliai in un orecchio: «Daddy-o, detto fra di noi, siamo tutti e due del Nord qui e perciò non ditelo a nessuno.. . voglio che mi mandino nel Sud. Avete capito? Voglio organizzare quei soldati negri, rubare un po' di fucili e ammazzare i cialtroni di laggiù!» Lo psichiatra lasciò cadere il lapis e i suoi modi compassati; mi guardò come se fossi lì a covare le uova di un serpente e intanto cercava goffamente un lapis rosso. Ero sicuro di avercela fatta. Stavo uscendo ed ero ormai davanti al tavolo della «signorina prima» quando lui disse: «Basta così» . Mi arrivò per posta la cartolina che mi classificava tra i riformati e poi non ricevetti più alcuna comunicazione dall'esercito e non mi presi neanche la briga di andare a domandare perché non mi avevano dichiarato abile . NOTE . NOTA 1: L'espressione "Negro Soul" indicava tutti quei locali in cui si suonavano i blues e in genere la musica jazz. In senso più estensivo vuol dire tutto ciò che commuove «alla maniera negra» . NOTA 2: "Hip language" o "Hip talk" è il gergo del ghetto negro, più particolarmente dei trafficanti e della malavita . Capitolo settimo . TRAFFICANTE . Non sono in grado di ricordare tutti i traffici a cui mi dedicai durante i due anni seguenti trascorsi ad Harlem, dopo la brusca interruzione dei miei viaggi in treno e della mia vendita di «paglie» alle orchestre in tournée . I ferrovieri negri aspettavano di imbarcarsi sui treni nel loro grande spogliatoio situato al più basso livello della Grand Central Station. A tutte le ore lì si giocava a poker e a dadi e qualche volta si facevano delle puntate di cinquecento dollari . Un giorno un vecchio cuoco che dava le carte cercò, durante una partita, di fare il furbo ed io fui costretto a mettergli la pistola sotto il naso . La volta dopo che tornai a giocare il mio buon fiuto mi suggerì di tenere la pistola infilata nella cintola proprio sul dorso . Qualcuno aveva fatto la soffiata e infatti vennero due enormi poliziotti irlandesi dalle facce sanguigne. Mi perquisirono ma non mi trovarono l'arma che avevo messo in un posto che loro non immaginavano . I poliziotti mi dissero di non farmi trovare più nella Grand Central Station senza il biglietto ferroviario. Capii benissimo che il giorno dopo il mio nome sarebbe stato nella lista nera di tutti gli uffici personale della ferrovia e non cercai più di farmi assumere . Ero dunque di nuovo nelle strade di Harlem con tutti gli altri trafficanti. Non potevo vendere le «paglie» perché gli agenti della squadra narcotici mi conoscevano ormai troppo bene. Ero un vero trafficante, senza nessuna cultura, incapace di esercitare un qualsiasi mestiere onorevole e mi consideravo abbastanza audace e furbo da poter vivere col mio solo cervello sfruttando tutte le prede che mi capitavano tra le mani. Ero disposto a correre ogni rischio . Oggi, in tutti i ghetti delle grandi città, decine di migliaia di giovani e meno giovani, che hanno abbandonato la scuola dopo pochi anni, si mantengono in vita con qualche specie di traffico, così come facevo io allora, e inevitabilmente precipitano sempre più ai margini della società. I trafficanti incalliti non possono permettersi di fermarsi à considerare cosa stanno facendo e quali sono le loro prospettive. Come succede nella giungla, tutto il loro tempo trascorre nella consapevolezza pratica e inconscia che se si abbandonano per un momento, se rallentano la loro attività, gli altri avvoltoi, lupi, volpi e furetti affamati e insoddisfatti non esitano neanche un attimo a saltar loro addosso come a una preda . Nel corso dei successivi sei od otto mesi, feci i miei primi furti e rapine. Piccole cose e sempre in altre città vicine . Riuscii a farla franca e, come facevano i veterani, anch'io cominciai a prendere droghe molto più forti prima di compiere tali azioni. Su consiglio di Sammy mi misi a fiutare la cocaina . Normalmente, diciamo per passeggio, portavo con me una piccola pistola automatica di acciaio blu, schiacciata e che non avrebbe dato nell'occhio, ma per il lavoro tenevo armi di grosso calibro. Quando gli occhi degli aggrediti vedevano la bocca della grossa canna puntata, l'espressione dei volti era di terrore e restavano lì con la bocca aperta. Quando parlavo sembrava che ascoltassero una voce che veniva da lontano e facevano tutto quello che chiedevo . Tra una rapina e l'altra, la continua intossicazione degli stupefacenti mi impediva di esser nervoso. Spinto da impulsi improvvisi, per rassicurarmi continuamente, mi trasferivo da una stanza a un'altra (pagavo dai quindici ai venti dollari la settimana), sempre nella mia zona preferita tra la Centoquarantasettesima e Centocinquantesima Strada, lungo la Sugar-Hill . Mentre insieme con Sammy stavamo portando a termine una rapina, ce la vedemmo davvero brutta. Qualcuno ci doveva aver visto . Stavamo allontanandoci di corsa quando sentimmo le sirene . Subito ci mettemmo a camminare e quando una macchina della polizia frenò bruscamente nella strada, noi scendemmo dal marciapiede facendo dei cenni con le mani e andammo a chiedere un'indicazione. I poliziotti credettero certamente che volessimo dar loro delle informazioni e perciò ci mandarono al diavolo e continuarono la loro corsa. Ancora una volta non passò neppure per un attimo nella mente dei bianchi che dei negri potessero giocarli in questo modo . Per i vestiti che portavo, che erano i migliori, pagavo dai trentacinque ai cinquanta dollari perché era roba rubata. Avevo come regola di non cercare di procurarmi di più di quanto avevo bisogno per vivere. Qualsiasi trafficante con un po' di esperienza vi dirà che chi diventa troppo avido va a finire più presto in prigione. Tenevo presenti luoghi e situazioni adatte e passavo all'azione solo quando il fascio di banconote che tenevo in tasca cominciava a essere troppo smilzo . Certe settimane scommettevo parecchi soldi alla lotteria. Facevo le mie giocate con lo stesso galoppino con cui avevo cominciato a Small's Paradise. Giocando a sistema, c'erano delle volte che puntavo fino a quaranta dollari su due numeri nella speranza di imbroccare quella favolosa percentuale di seicento a uno. Non indovinai mai un numero pieno e non so davvero cosa sarei stato capace di fare se avessi vinto dieci o dodicimila dollari in un colpo solo. Naturalmente ogni tanto azzeccavo una piccola combinazione. Qualche volta, tutto all'improvviso, mi veniva voglia di telefonare a Sofia e la facevo venire da Boston per un paio di giorni . Ricominciai a frequentare moltissimo le sale cinematografiche e andavo a sentire i miei amici musicisti dovunque suonavano, ad Harlem, nei grandi teatri giù in città o alla Cinquantaduesima Strada . Quando la nave di Reginald tornò a New York, mio fratello ed io entrammo in grande intimità. Discutevamo della nostra famiglia e deploravamo il fatto vergognoso che il nostro fratello maggiore Wilfred, amante dei libri e della cultura com'era, non avesse mai avuto la possibilità di andare a una di quelle grandi università in cui si sarebbe certamente fatto molto onore. E ci scambiavamo pensieri che non avevamo mai esternato a nessuno . Sia pure in quel suo modo tranquillo, Reginald era un fanatico dei musicisti e della musica. La ragione per cui una mattina la sua nave salpò senza di lui fu che lo avevo introdotto nell'entusiasmante mondo musicale. Trascorremmo ore indimenticabili dietro il palcoscenico con i musicisti quando loro suonavano al Roxy o al Paramount. Dopo aver venduto tutte quelle sigarette alla marijuana alle orchestre in viaggio, ero conosciuto da quasi tutti i musicisti negri popolari a New York negli anni 1944-45 . Con Reginald andammo al Savoy Ballroom, al teatro Apollo, al bar dell'albergo Braddock, nei night club e nei locali clandestini, dovunque c'erano dei suonatori negri. La grande Billie Holiday abbracciò Reginald e lo chiamò «fratellino minore» e lui condivise la persuasione di decine di migliaia di negri secondo cui l'orchestra di Lionel Hampton era il più perfetta, il più straordinario dei maggiori complessi. Ero molto amico di parecchi membri di quell'orchestra e li presentai a Reginald . Gli feci pure conoscere lo stesso Hamp e sua moglie Gladys, che gli faceva anche da agente. Hamp è una delle persone più care che ci siano al mondo. Quelli che lo conoscono possono testimoniare sui suoi gesti generosi nei confronti di gente che appena conosceva. Nonostante tutti i soldi che Hamp ha guadagnato e ancora guadagna, lui sarebbe oggi poverissimo se ad amministrare i suoi affari non ci fosse Gladys, una delle donne più assennate che abbia mai conosciuto. Il padrone del teatro Apollo, Frank Schiffman, ne è testimone. Questi generalmente firmava un contratto con le orchestre per un certo numero di serate la settimana, ma so che una volta, in quei giorni, Gladys Hampton concluse un accordo per cui l'orchestra di Hamp avrebbe suonato a percentuale. Poi fece raddoppiare il numero consueto degli spettacoli, se non sbaglio otto al giorno invece dei soliti quattro, e così i guadagni e il prestigio di Hamp aumentarono molto. Gladys parlava molto con me e cercava di darmi dei buoni consigli: mi esortava a calmarmi e siccome sapeva bene quanto ero sfrenato, vedeva che mi aspettava una brutta fine . Una delle cose che mi piacevano di più in Reginald era che quando lo lasciavo per andare a «lavorare» lui non mi faceva mai domande. Dopo che si fu stabilito ad Harlem, intensificai la mia attività. Credo che fui spinto a metter su per la prima volta un appartamento perché non volevo che Reginald andasse in giro senza avere un luogo che potesse considerare come «casa sua» . Quel primo appartamento era di tre stanze e mi pare che l'affitto fosse intorno ai cento dollari al mese. Si trovava al pianterreno di un edificio della Centoquarantasettesima Strada tra Convent e Saint Nicholas Avenues. Nell'appartamento vicino al nostro abitava uno dei più fortunati trafficanti di narcotici di Harlem . Una volta sistemati, introdussi piano piano Reginald nell'ambiente di Bill il Creolo e di altri locali notturni di Harlem. Alle due della mattina, quando chiudevano i night club bianchi di città, Reginald ed io gironzolavamo di fronte a questo o quel locale di Harlem e io gli spiegavo cosa succedeva . Specialmente dopo la chiusura dei night club giù in città, i taxi e le grandi automobili nere portavano su ad Harlem tutti quei bianchi che non erano mai sazi dell'«atmosfera» negra. I posti maggiormente frequentati da questi nottambuli andavano dai locali famosissimi come il Jimmy's Chicken Shack e Dickie Well's ai piccoli club privati che oggi c'erano e domani non c'erano più dove alla porta bisognava di solito pagare un dollaro di «iscrizione» . In tutti questi locali l'aria era così densa di fumo da far bruciare gli occhi. Per ogni negro c'erano quattro bianchi che bevevano whisky in tazze da caffè e mangiavano pollo fritto. I bianchi, dalle facce generalmente paonazze, e le loro donne coperte di trucco e con gli occhi bistrati, si battevano le mani sulle spalle uno dell'altro, sghignazzavano sguaiatamente e applaudivano la musica. Quand'erano ubriachi, capitava spesso che parecchi si avvicinassero barcollando ai negri, camerieri, proprietari del locale o semplici avventori, prendessero loro le mani cercando addirittura di abbracciarli: «Sei bravo proprio come me... Siamo buoni tutti e due, uguali... Voglio che tu lo sappia!» Nei posti più famosi si davano convegno le celebrità bianche e negre che si divertivano molto a stare in compagnia . Una folla che alle quattro e mezzo del mattino si accalcava al Jimmy's Chicken Shack o da Dickie Well's era capace di assistere a una "jam-session" con Hazel Scott che accompagnava al piano Billie Holiday mentre cantava i blues. Tra parentesi, il Jimmy's Chicken Shack era il locale dove, più tardi, lavorai un po' di tempo come cameriere. E' lì che lavorava Redd Foxx, il lavapiatti che faceva schiantare dalle risa il personale di cucina . Dopo un po' Reginald dovette trovarsi un traffico ed io pensai a lungo quale potesse essere quello più adatto e più sicuro per lui. Una volta che avesse imparato a muoversi sarebbero stati affari suoi se voleva guadagnare di più e più presto, magari correndo dei rischi maggiori . Il traffico al quale iniziai Reginald era molto semplice: si basava sulla psicologia della giungla del ghetto. Giù in città si comprò la regolare licenza del comune per la vendita ambulante pagando la tassa di due dollari, o quant'era non ricordo. Poi lo accompagnai al magazzino di una manifattura tessile dove comprammo una partita di merce di seconda scelta a buon mercato: camicie, biancheria da uomo e anche anelli e orologi da poco e ogni specie di oggetti di facile vendita . Osservando il metodo che adopravo io ad Harlem, Reginald ben presto imparò a presentarsi dai barbieri, negli istituti di bellezza e nei bar facendo finta di esser nervoso mentre lasciava che i clienti dessero un'occhiata alla sua piccola valigia di «refurtiva». Siccome c'erano in giro tanti ladri desiderosi di liberarsi per pochi soldi di merci di ottima qualità che avevano rubate, molta gente di Harlem, solo a causa di tale condizionamento, era disposta a pagare prezzi piuttosto salati per merci di qualità inferiore la cui vendita era invece assolutamente legale. Non ci voleva mai molto tempo per liberarsi del contenuto di una valigia almeno per il doppio di quanto era costato. Se poi un poliziotto fermava Reginald, lui non faceva altro che tirar fuori di tasca la licenza di venditore ambulante e la fattura della fabbrica. L'unica cosa di cui doveva assicurarsi mio fratello era che nessuno dei suoi clienti si accorgesse che era in regola con la legge . Partivo dal presupposto che, come la maggior parte dei negri che conoscevo, anche a Reginald piacessero le donne bianche e così gliene mostravo parecchie pronte a darsi ai negri e gli spiegavo che un tipo con un po' di cervello poteva fare di loro tutto ciò che voleva. Ma devo dire a onore di Reginald che a lui non sono mai piaciute le donne bianche. Ricordo quando conobbe Sofia: si comportò così freddamente da offendere lei e compiacere me . Mio fratello si trovò una negra che credo fosse vicina alla trentina: una «vecchia colona» come si diceva a quei tempi . Faceva la cameriera in un ristorante di lusso giù in città, e spendeva per Reginald tutto quello che aveva tanto era contenta di andare a letto con un giovanotto. Gli comprava i vestiti, gli faceva da mangiare, gli lavava la biancheria e tutto il resto come se fosse un bambino . Era questa un'altra ragione che fece crescere la stima che avevo per mio fratello minore. Reginald dava prova, e spesso nei modi più sorprendenti, di avere più buon senso di molti trafficanti che avevano il doppio dei suoi anni. Allora ne aveva solo sedici, ma era alto un metro e novanta e sia per l'aspetto che per il comportamento sembrava che fosse molto più grande . Durante tutta la guerra, la situazione razziale ad Harlem non fu mai troppo incoraggiante. La tensione era giunta a un punto intollerabile. I veterani del quartiere mi dicevano che Harlem non era più stata la stessa dopo i tumulti del 1935, quando migliaia di negri, infuriati principalmente contro i commercianti bianchi che si rifiutavano di assumere gente di colore anche se i loro negozi prosperavano con gli incassi del quartiere, avevano fatto danni del valore di milioni di dollari [1] . Durante la seconda guerra mondiale, il sindaco La Guardia chiuse ufficialmente il Savoy Ballroom. Ad Harlem si disse che la vera ragione era stata quella di impedire che i negri ballassero con le bianche. Da ogni parte c'era chi ricordava che nessuno le trascinava nel quartiere, ma che ci venivano da sé. Adam Clayton Powell [2] sollevò la questione con grande spirito polemico. Lui aveva combattuto con successo contro la Consolidated Edison e la New York Telephone Company finché non erano state costrette ad assumere negri; aveva contribuito alla lotta contro l'atteggiamento dei comandi della marina militare e dell'esercito riguardo alla segregazione dei negri in uniforme . Ma Powell non poteva vincere questa battaglia: il comune tenne il Savoy chiuso per molto tempo. Fu questa un'altra di quelle azioni del «Nord liberale» che non contribuirono certo a far crescere l'amore di Harlem per l'uomo bianco . Infine circolò la voce che all'albergo Braddock un soldato negro era stato ucciso a revolverate da poliziotti bianchi. Camminavo per la Saint Nicholas Avenue quando vidi un gran numero di negri che si agitavano e correvano in direzione nord provenienti dalla Centoventicinquesima Strada. Alcuni di loro avevano le braccia cariche di roba. Ricordo che a dirmi cos'era successo fu il barman «Shorty» Henderson, nipote appunto di Fletcher Henderson . I negri stavano spaccando le vetrine dei negozi e impadronendosi di tutto quello che potevano prendere e portar via: mobili, roba da mangiare, articoli di gioielleria, vestiario e whisky. Nel corso di un'ora sembrò che tutti i poliziotti di New York fossero stati concentrati ad Harlem. Il sindaco La Guardia e l'allora segretario dell'Associazione per l'avanzamento della gente di colore (N.A.A.C.P.), il famoso Walter White, ora defunto, giravano insieme in una macchina rossa dei vigili del fuoco gridando da un altoparlante inviti, esortazioni e minacce a tutti quei negri urlanti, furibondi e scatenati perché andassero a casa e ci rimanessero . Ho incontrato Shorty Henderson poco tempo fa sulla Settima Avenue e, ricordando quei disordini, abbiamo riso insieme di un tale che in quell'occasione si guadagnò il soprannome di «Piede sinistro». In una rissa avvenuta in un negozio di scarpe da donna, lui era riuscito in fretta e furia ad agguantare cinque scarpe, tutte sinistre! Abbiamo riso insieme ricordando anche quel piccolo cinese terrorizzato il cui ristorante rimase intatto perché i dimostranti scoppiarono a ridere come pazzi quando videro il cartello che il padrone aveva messo in fretta e furia sulla porta: «Anch'io sono un uomo di colore» . Dopo i disordini, la situazione ad Harlem diventò assai difficile. Le conseguenze furono terribili per chi viveva sulla vita notturna e per tutti quei trafficanti la cui principale fonte di guadagno erano i bianchi. I disordini del 1935 avevano lasciato solo un rivoletto di quel fiume di soldi che scorreva ad Harlem durante gli anni '20 ed ora questi altri disordini venivano a porre fine anche a quello . I bianchi che visitano Harlem oggi, specialmente nelle serate del weekend, sono appena poche dozzine che ballano il twist, il frug, il Watusi e tutte le altre danze moderne allo Small's Paradise, oggi di proprietà del grande campione di pallacanestro «Wilt the Stilt» [Guglielmo il trampoliere] Chamberlain, che attira i clienti con quella sua immagine di gigantesco, sereno atleta americano. La maggior parte dei bianchi di oggi hanno fisicamente paura di venire ad Harlem e ciò non senza delle buone ragioni. Anche per i negri la vita notturna è ormai quasi finita e gran parte di quelli che hanno soldi da spendere vanno giù in città, in quell'atmosfera di ipocrita «integrazione», in locali dove prima la polizia sarebbe stata subito chiamata per venire a portar via quel negro che fosse stato abbastanza pazzo da cercare di entrare. L'uomo bianco, ormai ricco sfondato, non fa più in tempo a finir di costruire un grattacielo-albergo che tutti questi negri assetati di integrazione, che non possiedono neanche una baracca per gli arnesi, affittano subito i saloni del nuovo albergo per organizzare «cotillons» e «congressi» . Quei ricchi bianchi potevano permetterselo quando andavano ad Harlem a buttar via i loro soldi, ma i negri non possono permettersi di portare i loro soldi giù in città all'uomo bianco . Durante una rapina, io e Sammy prendemmo una bella paura e fummo lì lì per esser acchiappati. Ad Harlem la situazione era diventata così difficile che alcuni trafficanti furono costretti a mettersi a lavorare. Persino certe prostitute erano andate a servizio o avevano trovato da fare le pulizie notturne negli uffici. I profitti dei magnaccia erano tanto diminuiti che Sammy si era messo a lavorare con me. Avevamo scelto una di quelle situazioni considerate «impossibili», ma come si sa, quando ciò avviene, i guardiani diventano piano piano meno attenti e talvolta le imprese più difficili possono diventare le più facili. Fummo sfortunati: proprio nel mezzo dell'operazione una pallottola sfiorò Sammy. Riuscimmo a malapena a fuggire . Per fortuna Sammy non era ferito. Ci dividemmo, come è sempre saggio fare in questi casi e poi, prima dell'alba, andai a casa di Sammy. L'ultima arrivata delle sue donne una di quelle belle negre spagnole dalla testa calda, era là che piangeva e si disperava vicino a lui. Mi venne addosso sempre piangendo e stringendomi convulsamente con le dita: sapeva che avevamo fatto il colpo insieme. Io la spinsi da parte e non riuscendo a capire perché Sammy non l'aveva rinchiusa, le detti uno schiaffo. Con la coda dell'occhio vidi che lui metteva mano alla pistola . La reazione di Sammy per lo schiaffo che avevo dato alla sua donna fu l'unico punto debole che, amici come eravamo, potei mai scoprire in lui. La donna si mise a gridare e a fargli tutte le moine possibili: sapeva come me che quando il tuo migliore amico tira fuori la pistola, vuol dire che ha perduto completamente il controllo e che ha intenzione di sparare. Lei lo distrasse abbastanza da darmi il tempo di infilare la porta. Sammy mi rincorse per circa un isolato . Ben presto rifacemmo la pace, almeno formalmente, ma non si può più avere un rapporto di piena fiducia con chi si è visto che aveva intenzione di ucciderti . Intuimmo che per un bel po' sarebbe stato meglio stare tranquilli. Il peggio era che ci avevano visti e che certamente la polizia di quella cittadina vicina aveva già fatto circolare i nostri connotati . Proprio non riuscivo a dimenticare quell'incidente della donna di Sammy e, piano piano, cominciai a far affidamento sempre più su mio fratello Reginald come sull'unica persona del mio ambiente di cui mi potevo fidare completamente . Mi ero accorto che Reginald era pigro. Aveva ormai abbandonato completamente il suo traffico, ma a me la cosa non importava tanto perché si può esser pigri quanto si vuole, ma basta che, come faceva Reginald, si sappia adoprare il cervello. Ormai non abitava più con me, ma quando era in città stava dalla sua donna. Gli avevo anche insegnato come fare per procurarsi la tessera di riconoscimento di una compagnia ferroviaria per poi viaggiare gratis e a Reginald piaceva molto viaggiare. Parecchie volte era andato a far visita ai nostri fratelli e sorelle . Ormai si erano sparsi un po' dappertutto, in diverse città. A Boston, Reginald aveva rapporti di affetto più stretti con nostra sorella Mary piuttosto che con Ella che era sempre stata la mia preferita. Sia Reginald che Mary erano taciturni, mentre io ed Ella eravamo degli estroversi. Quanto a Shorty, aveva fatto a mio fratello un'accoglienza da re . Grazie alla mia reputazione, mi fu facile infilarmi nell'organizzazione della lotteria clandestina, che probabilmente era l'unico traffico di Harlem che non avesse subito il contraccolpo della crisi. In cambio di un favore fatto a qualche gangster bianco, il mio nuovo capo e sua moglie avevano ottenuto per sei mesi il controllo della lotteria nella zona ferroviaria del Bronx chiamata Motthaven Yards. I gangster bianchi dividevano il controllo della lotteria in zone che venivano assegnate per un certo periodo di tempo. La moglie del mio capo era stata durante gli anni '30 la segretaria di Dutch Schultz quando questi si era impadronito con la forza del controllo della lotteria ad Harlem . Il mio compito era di attraversare in autobus il ponte George Washington e di incontrarmi con un tale che mi aspettava per consegnarmi un sacco di ricevute delle giocate. Nessuno dei due parlava. Poi io attraversavo la strada e prendevo l'autobus successivo per tornare ad Harlem. Non seppi mai chi era quell'uomo né chi ritirava i soldi corrispondenti alle ricevute che mi passavano per le mani. Nell'ambiente della malavita non si facevano domande . La moglie del mio capo e Gladys Hampton erano le sole due donne che conobbi ad Harlem che avevano un vero senso degli affari. La moglie del mio capo mi raccontava parecchie cose interessanti, quando aveva tempo e voglia di parlare. Mi diceva dell'epoca di Dutch Schultz, mi descriveva le operazioni che aveva visto, le somme versate ai funzionari comunali e federali perché stessero al gioco, la corruzione della polizia e i legami misteriosi che gli avvocati dei gangster avevano tra le alte gerarchie politiche e di polizia. La sua esperienza personale le aveva insegnato che la criminalità può esistere solo nella misura in cui può contare sulla cooperazione della legge e mi fece comprendere come nell'intera struttura politica e socioeconomica del paese i criminali, gli uomini politici e i tutori della legge fossero in realtà dei partner inseparabili . Fu in questo periodo che smisi di fare le mie puntate col vecchio galoppino che mi serviva fin da quando ero entrato a lavorare allo Small's Paradise. A lui dispiacque molto perdere un cliente che puntava tanti soldi, ma capì perfettamente che ora dovevo passare le mie puntate a un galoppino dell'organizzazione di cui facevo parte. Fu così che cominciai a fare le mie puntate con Archie, il negro delle Indie occidentali che, come ho detto sopra, era davvero uno dei peggiori soggetti di Harlem, una delle ex guardie del corpo di Dutch Schultz . Non molto tempo prima che arrivassi ad Harlem Archie aveva appena finito di scontare una condanna a Sing-Sing. La moglie del mio capo lo aveva assunto non soltanto perché era una sua vecchia conoscenza, ma perché West Indian Archie aveva quel tipo di memoria fotografica che gli consentiva di essere uno dei migliori galoppini della lotteria. Non scriveva mai il numero e, persino in caso di giocate a sistema, si limitava a fare un cenno con la testa. Era in grado di ricordarsi tutti i numeri fino a quando, dopo aver consegnato il denaro delle puntate al banchiere, non doveva scriverli sulle ricevute. Tale dote faceva di lui un galoppino ideale perché i poliziotti non avrebbero mai potuto trovargli addosso le ricevute delle puntate . Ho spesso riflettuto sulla sorte di questi veterani negri del gioco clandestino. Se individui come West Indian Archie fossero vissuti in un'altra società, il loro eccezionale talento matematico avrebbe potuto essere adoperato per scopi migliori. Invece erano negri . In ogni caso, esser conosciuti come clienti di West Indian Archie conferiva molto prestigio perché lui si occupava soltanto di puntate di una certa entità. Inoltre esigeva che i suoi clienti fossero onesti e solvibili: non c'era bisogno di pagare quando si puntava, bastava saldare alla fine di ogni settimana . West Indian Archie portava sempre con sé un paio di migliaia di dollari suoi e se un cliente andava da lui e gli diceva che aveva vinto una somma non troppo alta, diciamo nell'ordine di una puntata da cinquanta cents o da un dollaro, gli contava seduta stante i trecento o i seicento dollari della vincita e più tardi se li faceva restituire dal banchiere . Tutti i weekend pagavo il mio conto che era sempre tra i cinquanta e i cento dollari, che puntavo quando mi veniva l'idea di qualche buona combinazione. Una volta o due vinsi e, come ho detto, West Indian Archie mi pagò seduta stante di tasca sua . Alla fine terminarono i sei mesi della concessione che avevano avuto il mio capo e sua moglie. Ci avevano guadagnato bene e ai loro galoppini toccarono delle ottime mance e vennero subito assunti dagli altri banchieri. Io continuai a lavorare per il mio capo e sua moglie in una casa da gioco che avevano aperto . Una mezzana che avevo conosciuto in occasione di un favore che avevo fatto a un suo amico, mi rivelò un aspetto tutto particolare della vita notturna di Harlem, qualcosa che i disordini avevano soltanto interrotto. Si trattava del mondo in cui, a porte chiuse, i negri si adoperavano per soddisfare i gusti sessuali corrotti dei bianchi . Quelli che avevo conosciuto io erano tutti contenti se potevano strofinarsi in pubblico con i negri nei club notturni e nei locali dove si serviva alcool senza licenza. D'altra parte questi erano gli stessi bianchi che non volevano si sapesse che venivano ad Harlem. I disordini avevano causato molto nervosismo in questa categoria di clienti. Infatti quando c'erano altri che venivano ad Harlem, la loro presenza passava quasi inosservata, ma ora davano più nell'occhio, oltre al fatto che avevano una gran paura della furia dei negri di Harlem che poco tempo prima si era scatenata. Perciò la mezzana mirava a salvaguardare i suoi affari in espansione quando mi offrì di fare il procuratore di puttane per gli uomini bianchi . Durante la guerra era estremamente difficile farsi installare il telefono. Un giorno la mezzana mi disse di stare in casa la mattina seguente. Parlò con qualcuno, non so chi, ma prima di mezzogiorno potei telefonare dal mio apparecchio. Naturalmente il mio numero non era nell'elenco telefonico . Questa signora era una specialista nel suo campo. Se le sue ragazze non potevano o non volevano soddisfare un cliente, lei mi mandava in un altro posto, di solito un appartamento in qualche altra zona di Harlem, dove si faceva la «specialità» richiesta . Il posto in cui procuravo i clienti era proprio all'uscita dell'albergo Astor, a quell'angolo sempre affollato fra la Quarantacinquesima Strada e Broadway. Guardavo il traffico e ben presto fui in grado di individuare il taxi o l'automobile, anche prima che rallentasse, con le ansiose facce dei bianchi che cercavano il negro alto, dalla pelle che dava sul rossiccio, che indossava un abito scuro o un impermeabile e portava un fiore bianco all'occhiello . Se venivano con la loro macchina, a meno che non avessero autista, mi mettevo io al volante e li portavo a destinazione . Se invece arrivavano in taxi, dicevo sempre al guidatore: «Al teatro Apollo ad Harlem, per favore». Tra i tassisti di New York c'è sempre una notevole percentuale di poliziotti. Una volta arrivati al teatro, prendevamo un altro taxi questa volta guidato da un negro e a lui davo l'indirizzo giusto . Quando avevo sistemato il cliente, chiamavo la signora che di solito mi faceva tornare di corsa in taxi giù in città per essere all'angolo tra la Quarantacinquesima Strada e Broadway a una data ora. Normalmente i clienti davano prove di grande puntualità e solo di rado dovetti aspettare all'angolo cinque minuti. In ogni caso sapevo come muovermi per non attirare l'attenzione di qualche poliziotto in borghese o in divisa . Con le mance, che spesso erano cospicue, arrivavo qualche volta a guadagnare più di cento dollari per sera sistemando fino a dieci clienti in modo che vedessero, facessero e si facessero fare tutto quello che volevano. Quasi mai sapevo chi erano, ma i pochi che riconobbi o dei quali sentii i nomi mi ricordano ora l'affare Profumo, lo scandalo scoppiato in Inghilterra. Gli inglesi non sono molto più avanti degli americani ricchi e potenti quando si tratta di cercare cose rare e anormali . Questi uomini, di mezza età o anche più vecchi, non erano certo studenti universitari, ma i loro padri o addirittura i loro nonni. C'erano personaggi ben noti in società, grossi uomini politici, finanzieri, amici importanti venuti da fuori, alti rappresentanti dell'amministrazione comunale, ogni specie di professionisti, artisti del cinema e del teatro, celebrità di Hollywood e, naturalmente, capi della malavita . Harlem era la caverna dei loro peccati, la riserva di caccia della loro lussuria. Venivano di nascosto tra i negri considerati tabù e lasciavano cadere quelle maschere antisettiche piene d'importanza e di sussiego che portavano abitualmente nel loro mondo bianco. Questi erano uomini che si potevano permettere il lusso di spendere grosse somme di denaro per due, tre o quattro ore durante le quali si abbandonavano alla soddisfazione dei loro strani desideri . Ma in questo oltretomba bianco e nero nessuno giudicava i clienti. Qualunque cosa dicessero, qualsiasi depravazione venisse loro in mente, qualsiasi connubio fossero in grado di descrivere, o potessero fare o volessero subire, tutto andava bene finché pagavano . Durante lo scandalo Profumo in Inghilterra, l'amica di Christine Keeler testimoniò che alcuni dei suoi clienti volevano esser frustati. Uno dei luoghi che mi venivano principalmente richiesti dai clienti era l'appartamento, situato lontano dalla casa della mezzana, di una ragazzona dalla pelle nerissima, forte come un bue, con dei muscoli come quelli di uno scaricatore di porto. Era veramente buffo vedere come i più vecchi di questi uomini bianchi - alcuni più che sessantenni ed altri persino ultrasettantenni - non avevano neppure finito di rimettersi dall'ultima fustigazione che riapparivano di nuovo all'angolo tra la Quarantacinquesima Strada e Broadway e si facevano accompagnare a quell'appartamento dove si buttavano in ginocchio a pregare e scongiurare pietà sotto la frusta di quella ragazza negra. Alcuni di loro mi davano un compenso straordinario perché stessi lì a vedere mentre si facevano frustare. La ragazza si ungeva di grasso il grande corpo di amazzone in modo che la pelle fosse più lucente e più nera . Adoperava piccole fruste intrecciate e picchiava fino a far uscire il sangue. Si faceva una piccola fortuna alle spalle di quei vecchi bianchi . Non potrei raccontare tutto quello che vedevo. Più tardi, quand'ero in prigione, mi domandavo spesso cosa avrebbe pensato uno psichiatra di tutto ciò. Molti di questi uomini avevano posizioni di responsabilità e guidavano, influenzavano e comandavano gli altri . Più tardi, sempre quand'ero in prigione, pensavo anche a un'altra cosa. Quasi tutti quei bianchi esprimevano con richieste specifiche la loro preferenza per la pelle nera, nera, «più nera è, meglio è». La mezzana, che sapeva ciò da molto tempo, teneva in casa sua solo le donne dalla pelle più nera che fosse possibile trovare . Durante tutto il tempo che trascorsi ad Harlem non vidi mai un bianco andare con una puttana bianca. Ce n'erano, di queste ultime, in parecchi locali specializzati e spesso partecipavano a esibizioni richieste dai clienti, come per esempio quella di un negro atletico e dalla pelle molto scura che si faceva una donna bianca. La ragione per cui piaceva tanto ai bianchi di assistere a questi spettacoli era forse che volevano quasi vaccinarsi nei confronti del loro più profondo timore sessuale? Alcune volte mi ritrovai ad avere a che fare con gruppi di clienti tra cui c'erano anche donne bianche che gli uomini si portavano dietro per farle assistere a quegli spettacoli. Non procurai mai uomini negri per le donne bianche, se non nei casi in cui esse venivano accompagnate dai loro uomini o quando venivano messe in contatto con me da una lesbica bianca di mia conoscenza che faceva la mezzana per pervertiti . Questa lesbica, una bella donna bianca che teneva una specie di scuderia di maschi negri, li forniva dietro ordinazione, a ricche donne bianche. Parlava con un linguaggio tutto intessuto di oscenità . Avevo visto parecchie volte questa lesbica e la sua amica bionda in giro per Harlem, che bevevano in qualche bar, sempre accompagnate da giovani negri. Chi non lo sapeva non avrebbe mai immaginato che stesse reclutando giovani maschi negri per il suo commercio. Una sera diedi alle due donne alcune «paglie» e loro dissero che erano le migliori che avessero mai fumato. Abitavano in un albergo giù in città e, dopo quella volta, mi telefonavano ogni tanto ed io portavo loro altre sigarette alla marijuana e ci fermavamo a chiacchierare . La lesbica mi raccontò come, per caso, aveva cominciato questo suo lavoro di specialista. Da frequentatrice di Harlem qual era, aveva conosciuto dei negri cui piacevano molto le donne bianche . Il suo mestiere si sviluppò a forza di sentire i discorsi che facevano le ricche e annoiatissime donne bianche in un istituto di bellezza dei quartieri orientali della città presso cui lavorava. A quelle signore, che si lamentavano dell'inadeguatezza sessuale dei loro uomini, lei diceva quello che aveva sentito «raccontare» dei maschi negri. Vedendo come si eccitavano alcune di quelle donne, cominciò a organizzare nel suo stesso appartamento degli incontri con certi negri di Harlem . Alla fine, affittò tre appartamenti nella zona compresa tra il centro della città e il quartiere negro e là le sue clienti bianche potevano incontrarsi con maschi negri per appuntamento . La cosa circolò di bocca in bocca, dalle clienti alle loro amiche e ben presto la lesbica si licenziò dall'istituto di bellezza, organizzò un sistema ben congegnato di corrieri e accompagnatori. Tutti gli incontri venivano combinati per telefono . Aveva anche osservato la preferenza per il colore e infatti non potei mai fare da sostituto in caso di bisogno: mi diceva ridendo che il colore della mia pelle era troppo chiaro. Quasi tutte le donne bianche sue clienti specificavano di volere «uno nero sul serio» e qualche volta aggiungevano «un negro reale» e non dei negri dalla pelle marrone o rossiccia . La lesbica ebbe l'idea di organizzare il servizio di corrieri perché alcune clienti volevano che i negri andassero a casa loro e talvolta gli appuntamenti venivano combinati per telefono con estrema cautela. Queste signore vivevano in zone residenziali di lusso, in palazzi con portieri vestiti come ammiragli. Comunque la società bianca non pensa mai a mettere in dubbio quello che fa un negro che si presenta nelle vesti di domestico. I portieri telefonavano su alle signore e si sentivano rispondere: «Oh sì! Fallo venire subito su, James». Poi gli ascensori di servizio portavano ai piani superiori quei corrieri negri ben vestiti in modo che potessero «consegnare» ciò che era stato ordinato da alcune tra le più privilegiate donne bianche di Manhattan . L'ironia è che quelle signore non avevano per i loro negri da monta più rispetto di quanto gli uomini bianchi abbiano mai avuto per le negre di cui si sono «serviti» sin dai tempi della schiavitù. Dal canto loro, i negri non hanno nessun rispetto per i bianchi con cui vanno a letto. Ricordo che opinione avevo di Sofia, la quale continuava a venire a New York tutte le volte che la chiamavo . Lucky Gordon, l'amico di Christine Keeler, originario delle Indie occidentali, e gli altri negri coinvolti nello scandalo Profumo debbono aver pensato allo stesso modo. Dopo che i membri della classe dirigente inglese erano stati con quelle ragazze bianche, queste, per soddisfarsi, andavano coi negri a fumare sigarette alla marijuana e a prendere in giro alcuni tra i più grandi pari d'Inghilterra chiamandoli sciocchi e cornuti. Per quanto mi riguarda, non ho nessun dubbio che Lucky Gordon conoscesse l'identità dell'«uomo mascherato» e sapesse molto di più: se avesse detto quello che le ragazze bianche gli avevano raccontato, l'Inghilterra avrebbe assistito a un altro scandalo . Tutto ciò non è diverso da quanto accade in alcuni dei circoli sociali più elevati d'America. Vent'anni fa vedevo queste cose tutte le sere con i miei occhi e le sentivo con i miei orecchi . I bianchi ipocriti parlano della «moralità corrotta» dei negri, ma chi è il più corrotto? Non soltanto sono i bianchi in generale, ma soprattutto quelli delle classi elevate! Poco tempo fa vennero resi noti i particolari riguardanti un gruppo di donne di casa e madri bianche di una zona suburbana di New York City che funzionavano come una vera e propria organizzazione di ragazze squillo professioniste. In alcuni casi quelle signore si prostituivano d'accordo con i mariti e persino servendosi della loro cooperazione tanto che alcuni di essi rimanevano a casa a occuparsi dei bambini. Per quel che riguarda i clienti, basterà citare quanto scriveva uno dei più importanti quotidiani di New York. «Sono stati trovati sedici taccuini contenenti i nomi di duecento persone, molte delle quali sono personalità in vista negli ambienti mondani, finanziari e politici» . Sempre negli ultimi tempi ho letto che alcune coppie bianche si riuniscono, i mariti gettano in un cappello le chiavi di casa e poi bendati, ciascuno a turno, estraggono una chiave che dà loro diritto a passare la notte con la moglie del proprietario di quella casa. Non ho mai sentito dire che cose del genere avvengano tra i negri, anche fra quelli che vivono nei peggiori ghetti, in baracche e fogne . Una mattina presto, ad Harlem, un negro alto dalla pelle chiara, con in testa il cappello e con il viso coperto da una calza da donna, rapinò il proprietario negro di un bar che stava contando gli incassi della notte. Come accadeva per gran parte dei bar di Harlem, i negri facevano da prestanome mentre il vero proprietario del locale era un ebreo. Infatti per ottenere una licenza bisognava conoscere qualcuno alla Commissione statale per gli alcolici e sembra che gli ebrei avessero le più efficaci aderenze in questo campo. Il gestore negro assunse alcuni vagabondi perché dessero la caccia al rapinatore e siccome la descrizione che fu fatta loro li convinse a mettermi nell'elenco dei sospetti, all'alba di quella mattina vennero a bussare alla porta del mio appartamento . Dissi che non ne sapevo niente, che non avevo niente a che fare con quella faccenda, che ero stato fuori a occuparmi del mio lavoro, portare cioè i clienti bianchi nelle case di appuntamento, forse fino alle quattro del mattino e che poi ero venuto diritto a casa e mi ero messo a letto . Quei teppisti mercenari stavano bluffando: cercavano di tirar fuori il colpevole facendo in modo che si tradisse, ma siccome avevano altri sospetti da controllare, fui salvo . Mi vestii, presi un taxi e svegliai prima la mezzana e poi Sammy. Avevo un po' di soldi, ma la signora me ne diede ancora e dissi a Sammy che sarei andato nel Michigan a trovare mio fratello Philbert. Gli detti il mio indirizzo in modo che potesse farmi sapere quando le acque si fossero calmate . Fu durante questo mio soggiorno invernale nel Michigan che, dopo essermi cosparso i capelli di lisciva liquida concentrata, mi accorsi che non veniva acqua dai rubinetti perché le tubature erano ghiacciate. Per impedire che mi venissero delle gravi ustioni al cuoio capelluto, dovetti infilare la testa nello sciacquone e poi continuare a far scorrere l'acqua finché i capelli non furono risciacquati . Passai una settimana nel gelido Michigan prima di ricevere il telegramma di Sammy: un altro negro dalla pelle rossiccia aveva confessato. Potevo tornare di nuovo ad Harlem . Non mi rimisi a fare quel lavoro e non riesco a ricordarmi perché. Credo che forse mi era venuta voglia di star lontano per un po' dai traffici, di andare in qualche locale notturno tutte le sere e di darmi un po' davvero agli stupefacenti insieme con i miei amici. Comunque non tornai più dalla mezzana . Ricordo che in questo periodo cominciai ad ammalarmi. Avevo continuamente il raffreddore, che diventò una irritazione cronica di modo che, giorno e notte, starnutivo e mi soffiavo il naso. Prendevo tali dosi di stupefacenti da vivere addirittura in un mondo di sogno. Qualche volta fumavo l'oppio con alcuni amici bianchi, certi attori che abitavano giù in città. Inoltre fumavo più «paglie» che mai e non più i soliti tubetti di marijuana della grandezza di un grosso fiammifero: ero andato così in là che ormai fumavo marijuana in fortissime dosi . Dopo un po' di tempo mi misi a lavorare giù in città alle dipendenze di un ebreo. Aveva simpatia per me perché ero riuscito a far qualcosa per lui. Si chiamava Hymie e comprava ristoranti e bar in rovina; poi li restaurava e, per celebrare la riapertura del locale, faceva una grande festa, con bandierine e riflettori all'entrata. Quando il posto era affollatissimo e nella vetrina spiccava il cartello con la scritta «Nuova gestione» venivano immancabilmente degli speculatori, di solito altri ebrei che erano in giro per trovare qualche impresa in cui investire con profitto i loro capitali . Qualche volta, anche entro la prima settimana dalla riapertura, Hymie riusciva a rivendere il locale facendoci un bel guadagno sopra . Aveva davvero simpatia per me ed io per lui. Gli piaceva chiacchierare e a me starlo a sentire. Metà delle cose che diceva riguardavano gli ebrei e i negri. Il bersaglio preferito di Hymie erano quegli ebrei che avevano anglicizzato i loro nomi: faceva l'elenco di quelli che conosceva, ogni tanto sputando per terra e atteggiando la bocca ad una smorfia di disgusto. Alcuni erano nomi famosi di gente che ben pochi avrebbero sospettato fossero ebrei . «Rosso, io sono ebreo e tu sei negro, - diceva, - a questi Gentili non siamo graditi né io né te. Se gli ebrei non fossero più intelligenti dei cristiani sarebbero trattati peggio di voialtri negri» . Hymie mi pagava bene, qualche volta anche due o trecento dollari la settimana, ed io avrei fatto qualunque cosa per lui. In realtà facevo qualunque cosa, anche se il mio compito principale era di trasportare alcool di contrabbando che Hymie procurava e distribuirlo a quei bar restaurati che aveva rivenduto a qualcuno . Andavo in macchina con un altro fino a Long Island dove c'era una grossa fabbrica clandestina di whisky. Portavamo con noi scatoloni pieni di bottiglie di whisky vuote con ancora le etichette della tassa sugli alcolici, che erano state illegalmente messe da parte dai baristi dei locali che rifornivamo. Poi compravamo dei grossi bottiglioni da cinque litri di whisky di contrabbando, riempivamo con l'imbuto le bottiglie e, secondo le istruzioni di Hymie, consegnavamo questo o quel numero di casse ai nostri clienti dei bar . Molta gente che sostiene di bere soltanto whisky di «quella» marca non è in grado di distinguere il suo prodotto preferito da quello fatto alla macchia a Long Island e invecchiato per una settimana. Gran parte degli ordinari bevitori di whisky si lasciano facilmente ingannare in questo modo. A parte, con il permesso di Hymie io rifornivo per conto mio di modeste partite di whisky di contrabbando alcuni bar di Harlem assai reputati e certi locali clandestini sempre di Harlem . Nel corso di un weekend a Long Island, accadde qualcosa in cui venne coinvolta la Commissione statale per gli alcolici. Uno dei più grossi scandali recenti dello stato di New York riguardava la denuncia delle prevaricazioni e delle pratiche illecite della Commissione. Nell'organizzazione di contrabbando in cui ero coinvolto, qualcuno molto in alto fece forse la spia, dopo aver ricevuto qualche enorme somma in compenso. Hymie e gli altri parlavano di qualche informatore all'interno della banda. Un giorno Hymie non comparve all'appuntamento con me. Non si fece più vivo... ma sentii dire che lo avevano buttato in mare e sapevo benissimo che il poveraccio non sapeva nuotare . Su nel Bronx, un negro rapinò alcuni italiani della malavita durante una partita a dadi. Seppi la cosa dal «telegrafo» di Harlem. Chiunque fosse stato, a parte il fatto che era un cretino, venne descritto come un negro «alto e dalla pelle chiara», con il volto coperto da una calza da donna. Mi sono sempre domandato se il mistero della rapina di quel bar fu davvero risolto o se un innocente fu costretto, sotto le percosse, a confessare. In ogni caso, il sospetto che era caduto su di me in passato servì di nuovo ad attrarre l'attenzione sulla mia persona . Nel bar del Grassone, sulla collina che domina i campi di polo, entrai in una cabina telefonica. Gli avventori del bar, tutta gente di Harlem, bevevano eccitati alla notizia che Branch Rickey, il proprietario della squadra dei Dodgers' di Brooklyn, aveva ingaggiato Jackie Robinson per il campionato di baseball di serie A . Nelle prime ore dello stesso pomeriggio, avevo riscosso da West Indian Archie la vincita per una puntata a sistema da cinquanta cents: mi aveva contato trecento dollari dei suoi. Stavo telefonando a Jean Parks, una delle più belle donne che si siano mai viste ad Harlem. Un tempo cantava con Sarah Vaughan nel quartetto dei Bluebonnets che si produceva con l'orchestra di Earl Hines. Da parecchio tempo Jean ed io avevamo stabilito un patto amichevole secondo cui ogni volta che uno di noi vinceva alla lotteria andavamo a cena a festeggiare l'evento. Dalla mia ultima vincita Jean mi aveva invitato due volte e insieme ridevamo al telefono del fatto che questa volta toccava a me portarla fuori. Restammo d'accordo di andare a un night club della Cinquantaduesima Strada a sentire Billie Holiday che era stata in tournée ed era appena tornata a New York . Mentre riattaccavo il ricevitore vidi i due "paisanos", magri e dall'aspetto torvo, che mi guardavano fissi . Non occorreva un intuito particolare, ma non avevo con me un'arma da fuoco. L'unica cosa che avevo in tasca era un portasigarette. Piano piano infilai la mano in tasca cercando di bluffare... e uno dei due aprì di colpo la porta della cabina telefonica. Erano italiani con la pelle olivastra e i lineamenti molto marcati. Io tenevo la mano in tasca . «Vieni fuori, ti dobbiamo giudicare!» disse uno dei due . In quel momento dalla porta principale entrò un poliziotto. I due malviventi sgattaiolarono fuori. Non sono mai stato così contento in vita mia di vedere un poliziotto come lo fui in quell'occasione . Quando arrivai a casa del mio amico Sammy il magnaccia, tremavo ancora. Lui mi disse che non molto tempo prima West Indian Archie era venuto a cercarmi . Talvolta, quando ripenso a queste cose, non so davvero come abbia potuto sopravvivere fino ad oggi. Dicono che Dio protegge i pazzi e i bambini e spesso ho pensato che davvero Allah mi proteggesse. Durante tutto questo periodo della mia vita ero davvero morto, mentalmente morto, e non sapevo di esserlo . Comunque, per ammazzare il tempo, io e Sammy ci mettemmo a fiutare un po' di cocaina finché non venne il momento di andare a prendere Jean Parks e recarsi insieme in città a sentire Billie Holiday. Il fatto che Sammy mi avesse detto che West Indian Archie mi stava cercando non voleva dir nulla per me.. . almeno in quel momento . NOTE . NOTA 1: Si trattò di uno dei peggiori tumulti razziali degli anni '30. La causa fu il criterio di assoluta discriminazione seguito dai commercianti bianchi (più del novanta per cento) ai danni del personale negro che, aggiunto al tasso di disoccupazione del quartiere (settantanove per cento) produsse lo scoppio di furore popolare . NOTA 2: Adam Clayton Powell, pastore di una delle più vaste congregazioni battiste, quella di Harlem, è rappresentante al Congresso dal 1945. Insieme con William L. Dawson dell'Illinois è dei sei rappresentanti negri al Congresso quello che ha maggiore anzianità. Dal 1870 fino alla fine del secolo furono eletti al Congresso venti rappresentanti negri e due al Senato . Dal 1901 al 1929 non andò più nessun negro al Congresso mentre l'ultimo senatore fu B. K. Bruce del Mississippi che rimase in carica dal 1875 al 1881. Da allora al novembre 1966, quando è stato eletto nel Massachusetts il candidato repubblicano Edward W. Brooke, non c'era mai più stato un senatore negro . Capitolo ottavo . IN TRAPPOLA . Qualcuno bussò alla porta. Sammy, che stava sdraiato sul letto in pigiama con sopra la vestaglia, disse: «Chi è?» Quando West Indian Archie rispose, Sammy fece scivolare lo specchio rotondo a due facce sotto il letto con sopra quella poca polvere - o meglio cristalli di cocaina che era rimasta ed io aprii la porta . «Rosso, voglio i miei soldi!» Una 7,65 è una pistola strana. E' più grossa di una 6,35, ma meno di una calibro 9. Mi ero trovato ad affrontare alcuni negri pericolosi, ma nessuno, a meno che non tenesse in nessun conto la propria pelle, avrebbe osato battibeccare con West Indian Archie . Non potevo credere ai miei occhi. Ero davvero spaventato e così incredulo di fronte a quello che stava accadendo che mi era persino difficile pronunciare delle parole . «Ma che storia è questa?» West Indian Archie mi rispose che aveva avuto qualche sospetto quando gli avevo detto di avere indovinato il numero vincente, ma che mi aveva pagato i trecento dollari lo stesso, salvo poi a controllare le ricevute delle puntate e, come aveva sospettato, non avevo puntato sul numero vincente come dicevo, ma su di un altro . «Ma sei pazzo!» dissi rapidamente. Con la coda dell'occhio vidi che la mano di Sammy si spostava lentamente sotto il cuscino dove lui teneva sempre la sua pistola militare calibro 9 lungo . «Archie, ma ti par possibile che un furbo come te pagherebbe uno che non avesse indovinato il numero giusto?» La 7,65 si mosse e Sammy rimase immobile. West Indian Archie gli disse: «A te dovrei ficcare una pallottola nell'orecchio». Poi si rivoltò verso di me e mi chiese: «Non ce li hai i soldi?» Io devo aver scosso la testa . «Ti do tempo fino a domani a mezzogiorno» . Aprì la porta senza voltarsi, tenendo la mano dietro la schiena, poi uscì camminando all'indietro sbattendo la porta dietro di sé . Questo era il classico avvertimento del codice d'onore della malavita. Il problema non era il denaro: mi erano rimasti quasi duecento dollari. Anche se poi lo fosse stato, Sammy avrebbe pensato lui a coprire la differenza e anche se non avesse avuto i soldi lì a portata di mano, le sue donne avrebbero fatto presto a procurarseli. D'altronde anche lo stesso West Indian Archie mi avrebbe prestato trecento dollari se glieli avessi chiesti, visto che delle molte migliaia di dollari miei che gli erano passate per le mani si era preso la percentuale del dieci . Una volta che aveva sentito dire che ero rimasto al verde era stato proprio lui a cercarmi e poi, mentre mi dava dei soldi, aveva borbottato: «Mettiteli in tasca» . La questione era il rapporto che il suo modo di agire aveva creato fra di noi. Nella nostra giungla da marciapiede, «salvare la faccia» e «conservare l'onore» erano cose molto importanti per un trafficante. Nessuno poteva permettersi che gli altri sapessero che era stato «fottuto», cioè preso in giro o imbrogliato. Peggio ancora, un trafficante della malavita non poteva permettersi che si dimostrasse che era stato imbrogliato, che poteva essere spaventato con una minaccia o che aveva fifa . West Indian Archie sapeva che, nel nostro mondo, i giovani acquistavano prestigio e potere quando in qualche modo riuscivano a ingannare i trafficanti più vecchi e poi a far sapere la cosa a tutti attraverso il «telegrafo» del quartiere . Credeva che cercassi di far questo . Per parte mia, sapevo che se avessi fatto sapere a tutti che lui mi minacciava avrei contribuito a rafforzare il suo prestigio . Quando stavo ad Harlem avevo conosciuto una dozzina almeno di trafficanti i quali, proprio a causa di questo codice della malavita, una volta che erano stati minacciati avevano dovuto allontanarsi dalla città, in disgrazia . Non appena la notizia fosse entrata nel giro, una ritirata da parte di uno dei due diventava assolutamente impensabile. Il «telegrafo» avrebbe atteso la cronaca dello scontro . Avevo visto almeno una dozzina di scontri in cui uno dei contendenti era finito all'obitorio e l'altro in prigione per omicidio, oppure addirittura sulla sedia elettrica . Sammy mi dette la sua 6,35, visto che avevo lasciato le mie pistole a casa. Me la misi in tasca e uscii tenendo la mano sul calcio . Non potevo nascondermi: era necessario che mi facessi vedere nei posti dove andavo di solito. Ero contento che Reginald non fosse in città perché avrebbe magari cercato di difendermi ed io non volevo davvero che West Indian Archie me lo ammazzasse con una pallottola in testa . Rimasi per un po' con la mente confusa, i pensieri aggrovigliati così tipici del tossicomane. Mi domandavo se West Indian Archie voleva farmi fare la figura dell'idiota e prendermi in giro . Certi vecchi trafficanti erano tutti contenti di far fare la figura dei fessi ai giovani. Sapevo che lui non avrebbe fatto come altri soltanto per guadagnare trecento dollari, ma tutti erano così infidi in quella giungla di Harlem, tutti pronti a ingannare i loro fratelli. Spesso i galoppini avevano imbrogliato dei tossicomani che avevano indovinato un numero vincente e che erano talmente drogati da non esser neanche sicuri se avevano effettivamente giocato un certo numero . Cominciai a domandarmi se West Indian Archie non avesse per caso ragione. Avevo davvero confuso la combinazione su cui avevo fatto la mia puntata? Sapevo quali erano i due numeri e mi ricordavo anche di avergli detto di combinare solo uno dei due . Non mi ero mica confuso prendendone uno per l'altro? Non vi è mai capitato di esser sicuri di aver fatto qualcosa a cui non avreste mai più ripensato se non vi foste stati costretti? Allora si cerca di trovare una conferma mentale e spesso si rimane in un continuo stato di dubbio . Era ormai quasi l'ora di andare a prendere Jean Parks per portarla all'Onyx Club a sentire Billie. Tutte queste cose mi si agitavano confusamente nella testa e pensai persino di telefonarle per disdire, con qualche scusa, il nostro appuntamento. Sapevo però che se fossi fuggito avrei commesso l'errore più grave e perciò andai a prendere Jean a casa sua . Con un taxi scendemmo fino alla Cinquantaduesima Strada. Fuori del locale c'erano delle enormi fotografie di Billie Holiday tutte illuminate. All'interno i tavoli erano affollatissimi e la gente stava seduta con le spalle attaccate al muro, senza poter muovere le braccia e costretta a tenere in mano i bicchieri . L'Onyx Club era un locale veramente piccolo . Ritta davanti al microfono, Billie aveva appena finito un numero quando, voltando lo sguardo, vide me e Jean. L'abito da sera che indossava scintillava sotto i riflettori, mentre la sua faccia aveva quell'aspetto tipicamente indiano e color rame: portava i capelli raccolti a coda di cavallo. Per il numero successivo scelse una delle canzoni che sapeva mi piacevano tanto: "You Don't Know What Love Is" . Quando ebbe finito i suoi numeri, Billie venne al nostro tavolo e siccome con Jean non si erano viste da lungo tempo, si abbracciarono affettuosamente. Billie si accorse che c'era qualcosa che non andava. Sapeva che ero sempre sotto l'influsso degli stupefacenti, ma mi conosceva abbastanza bene per accorgersi che c'era anche qualche altra cosa. Nel suo solito linguaggio scurrile mi chiese cosa avevo ed io, con il vocabolario tipico di quei tempi, feci finta che tutto andasse bene e così lasciai cadere la cosa . Quella sera il fotografo del night club ci ritrasse tutti e tre insieme seduti allo stesso tavolo. Quella fu l'ultima volta che vidi Billie. E' morta: gli stupefacenti e i disturbi cardiaci arrestarono quel cuore grande come una casa e quella voce che nessuno è mai più riuscito ad imitare. Lady Day cantava con l'anima dei negri e nelle sue canzoni risuonavano secoli di dolore e di oppressione. Che peccato che quella orgogliosa, intelligente e sensibile donna negra non abbia potuto vivere là dove la grandezza vera della sua razza sarebbe stata apprezzata! Nella toilette dell'Onyx Club annusai il piccolo cubetto di cocaina che mi aveva dato Sammy. Poi io e Jean prendemmo un taxi per tornare ad Harlem ma, mentre eravamo per la strada, decidemmo di fermarci a bere qualche altra cosa. Jean non sapeva cosa stava succedendo e quindi suggerì che andassimo in uno dei locali che frequentavo abitualmente e cioè il bar di La Marr Cheri all'angolo fra la Centoquarantasettesima Strada e la Saint Nicholas Avenue. Avevo in tasca la pistola e la cocaina mi dava coraggio: dissi di sì. Quando finimmo di bere ero così fuori di me che chiesi a Jean di tornarsene a casa in taxi. Non ho più visto neanche lei dopo quella sera . Da incosciente qual ero, rimasi lì seduto nel bar, voltando le spalle alla porta mentre pensavo a West Indian Archie. Mai prima di allora mi ero seduto al banco di un bar con le spalle voltate alla porta ed è certo che non mi ci siederò più. Comunque allora fu una buona cosa perché sono sicuro che se avessi visto entrare West Indian Archie gli avrei sparato con la ferma intenzione di ammazzarlo . Fui scosso dal mio torpore dalla vista di West Indian Archie che stava in piedi davanti a me, mi insultava ad alta voce tenendomi puntata contro la pistola. Voleva davvero dare spettacolo in pubblico: mi chiamava con gli epiteti più ingiuriosi e mi minacciava . I clienti e i baristi erano rimasti immobili, o seduti o in piedi, con i bicchieri a mezz'aria. Sembravano pietrificati. In fondo al locale suonava il jukebox. Prima di quella sera non avevo mai visto West Indian Archie ubriaco e mi accorsi subito che non era ubriaco di whisky. Conoscevo troppo bene il sistema dei trafficanti per darsi forza: prima di commettere qualche azione delittuosa tutti prendevano gli stupefacenti . Pensavo tra me e me: «Ora ammazzo Archie... Aspetto che si volti e poi gli scarico addosso la pistola». Sentivo la mia 6,35 contro le costole, stretta com'era tra la cintola e la camicia . Come se mi avesse letto il pensiero, West Indian Archie smise di insultarmi. Le sue parole mi lasciarono interdetto . «Stai pensando di spararmi per primo, Rosso, ma io voglio darti qualcosa su cui meditare. Ho sessant'anni... sono un vecchio, io. Sono stato a Sing-Sing. La mia vita è finita, ma tu sei giovane e se mi ammazzi sei perduto. Non ti resterebbe altro che finire in prigione» . Ripensando a quelle parole credo che West Indian Archie le dicesse per spaventarmi e farmi scappar via. In tal modo avrebbe salvato la faccia e la vita. Può darsi che si comportasse così perché era in uno stato di esaltazione dovuta alla droga . Nessuno sapeva che non avevo mai ammazzato, ma tutti quelli che mi conoscevano, compreso io stesso, non avevano alcun dubbio che l'avrei fatto . Non riesco a immaginare cosa sarebbe potuto succedere, ma secondo il codice d'onore, se West Indian Archie fosse uscito dal locale dopo avermi offeso come aveva fatto, io avrei dovuto seguirlo e la questione si sarebbe definita per la strada a revolverate . Invece alcuni suoi amici gli andarono vicino chiamandolo per nome con voce suadente: «Archie... Archie» . Lasciò che gli mettessero le mani addosso e loro lo tirarono da parte. Stetti a guardarli mentre lo spingevano davanti a me e mi rivolgevano sguardi d'intesa. Cercavano di portarlo nel retrobottega . Io, con la massima calma, scesi dal mio panchetto, gettai una banconota al barista e senza voltarmi indietro uscii . Rimasi fuori, proprio davanti alla porta del bar, per almeno cinque minuti. Tenevo la mano in tasca sul calcio della pistola . West Indian Archie non venne fuori ed io me ne andai . Dovevano essere le cinque del mattino quando, giù in città, svegliai un attore bianco mio conoscente che abitava all'albergo Howard sulla Quarantacinquesima Strada, poco lontano dalla Sesta Avenue . Sapevo di dovermi tenere sotto l'effetto della droga e francamente è quasi incredibile la quantità che ne presi durante le ore che seguirono quell'episodio. Mi feci dare dell'oppio da quel tale e poi tornai in taxi a casa e mi misi a fumarlo . Tenevo la pistola a portata di mano, pronto a sparare se avessi sentito volare una mosca . Suonò il telefono. Era la lesbica che stava giù in città: voleva che portassi a lei e alla sua amica cinquanta dollari di «paglie» . Pensai che se lo avevo sempre fatto non c'era ragione per non farlo anche allora. L'oppio mi aveva annebbiato il cervello . Avevo una bottiglia di pillole di benzedrina e ne ingoiai alcune per schiarirmi le idee. L'opposto effetto delle due droghe mi dava la sensazione di andare in due direzioni diverse . Bussai alla porta dell'appartamento vicino al mio. Il trafficante che abitava lì mi dette della marijuana sciolta a credito e vedendo che ero così ebbro e fuori di me mi aiutò a farne delle sigarette, un centinaio. Mentre arrotolavamo le cartine ne fumavamo insieme qualcuna . Ora prendevo oppio, benzedrina, marijuana, tutto insieme . Andando in città mi fermai da Sammy. Mi venne ad aprire la sua negra spagnola dagli occhi scintillanti. Sammy aveva un debole per lei. Prima non aveva mai permesso a nessuna delle sue donne di star troppo tra i piedi mentre ora lasciava che questa venisse persino a rispondere alla porta. In quel momento Sammy era completamente intossicato e sembrava persino che avesse difficoltà a riconoscermi. Era sdraiato sul letto, si mosse di qua e di là per trovare quel suo inseparabile specchio su cui teneva sempre i cristalli di cocaina. Me lo porse perché l'annusassi e io non rifiutai . Mentre andavo giù in città per consegnare le «paglie», provai sensazioni indescrivibili, tanto diverse erano le immagini che percepivo contemporaneamente. L'unica parola che mi viene a mente per descriverle è l'ATEMPORALITA': un intero giorno mi sembrava uguale a cinque minuti, oppure poteva darsi che una mezz'ora mi sembrasse lunga come una settimana . Non riesco a immaginare quale doveva essere il mio aspetto quando arrivai all'albergo. Appena la lesbica e la sua amica mi videro, mi accompagnarono davanti a un letto. Io mi ci lasciai cadere per traverso e svenni . Quella notte, quando le due donne mi svegliarono, erano già passate dodici ore dalla scadenza dell'ultimatum di Archie. Più tardi tornai su ad Harlem. La cosa si sapeva ormai nel giro e mi accorsi che certe persone che conoscevo si allontanavano cautamente. Sapevo benissimo che nessuno voleva ritrovarsi tra i nostri fuochi incrociati . Non accadde nulla, neanche il giorno successivo. Io mi limitavo a mantenermi in uno stato di ebbrezza . In un bar dovetti dare un pugno in faccia a un ragazzotto. Tornò con un coltello in mano; stavo per sparargli quando qualcuno lo acchiappò tirandolo indietro. Poi i presenti lo cacciarono via mentre lui gridava che mi voleva ammazzare . Il buon senso mi disse di liberarmi della pistola. Feci cenno a un trafficante che era seduto dall'altra parte del banco. Avevo appena fatto scivolare l'arma nelle sue tasche quando un poliziotto che avevo visto gironzolare prima entrò dall'altra porta. Teneva la mano sul calcio della pistola. Evidentemente sapeva quello che aveva diffuso il «telegrafo» ed era sicuro che fossi armato. Si avvicinò lentamente a me: sapevo benissimo che se avessi fatto anche uno starnuto mi avrebbe steso a revolverate . «Tira fuori la mano di tasca, Rosso, - mi disse. - E fallo lentamente» . Obbedii. Quando mi vide a mani vuote, tutti e due fummo più distesi. Mi fece segno di uscire camminando davanti a lui e così feci. Sul marciapiede c'era il suo compagno di ronda, davanti all'automobile parcheggiata in seconda fila, con la radio accesa. Mentre la gente si fermava a guardare loro mi perquisirono, lì sul marciapiede . «Ma cosa cercate?» domandai loro quando non ebbero trovato niente . «Rosso, ci hanno riferito che porti in tasca la pistola» . «Ne avevo una, - dissi, - ma l'ho buttata nel fiume» . Il poliziotto che era entrato nel bar mi disse: «Se fossi in te, Rosso, cambierei aria» . Tornai nel bar. L'aver detto che mi ero sbarazzato in quel modo della pistola li aveva persuasi a non farsi accompagnare a casa mia. Quello che c'era lì mi sarebbe costato più tempo in prigione di dieci pistole e loro si sarebbero guadagnati una promozione . Il cerchio mi si stava stringendo intorno e tutto sembrava congiurare contro di me. Ero in trappola da ogni parte. West Indian Archie mi voleva sparare; gli italiani mi stavano dietro perché credevano che avessi mandato a monte il loro gioco; il ragazzotto spaventato che avevo picchiato e infine i poliziotti . Fino a quel momento, per quattro lunghi anni, avevo avuto abbastanza fortuna, o ero stato abbastanza furbo, da evitare la prigione e persino l'arresto. In ogni caso potevo dire di non avere mai avuto delle noie veramente serie. Ora però sapevo che ad ogni istante sarebbe potuto accadere qualcosa . Sammy aveva fatto qualcosa per cui spesso ho desiderato di poterlo ringraziare . Quando sentii il clacson, stavo passeggiando sulla Saint Nicholas Avenue. Negli orecchi non mi rimbombavano altro che delle revolverate e perciò non pensai neanche per un minuto che quel suono fosse diretto a richiamare la mia attenzione . «Concittadino!» Mi voltai di scatto e quasi estrassi la pistola per sparare . Era Shorty, venuto apposta da Boston! Gli avevo fatto una paura da morire . «Daddy-o!» Non avrei potuto essere più felice . Una volta in macchina mi disse che Sammy gli aveva telefonato raccontandogli in quali difficoltà mi trovavo e consigliandolo di venirmi a prendere. Shorty si era incontrato con gli altri della sua orchestra, si era fatto prestare la macchina dal pianista e via, a tutta velocità, era venuto a New York . Non obiettai nulla alla proposta di partire. Shorty restò di guardia fuori del mio appartamento mentre tiravo fuori tutta la roba che volevo portarmi dietro. Sistemai ogni cosa nel baule della macchina e poi ci mettemmo subito sulla strada. Shorty non dormiva da circa trentasei ore e più tardi mi disse che durante tutto il viaggio non avevo fatto altro che chiacchierare . Capitolo nono . PRESO . Ella non poteva credere che fossi diventato così ateo e corrotto. Ero convinto che ciascuno dovesse fare tutto ciò che la sua astuzia, il suo cinismo o il suo coraggio gli permettevano di fare e che la donna non fosse altro che una merce. Ogni parola che dicevo o era scorretta o era oscena e penso che il mio vocabolario consistesse di non più di duecento parole . Persino Shorty, con cui dividevo ancora una volta l'appartamento, non si aspettava di vedermi vivere e pensare come un animale da preda. Talvolta mi accorgevo che mi osservava e mi sorvegliava . All'inizio dormivo moltissimo, anche di notte. Nei due anni precedenti avevo dormito più che altro di giorno e, appena sveglio, fumavo sigarette di marijuana. Shorty, che mi aveva insegnato per primo a far uso di quella droga, era ora sbalordito a vedere quanta ne consumavo . Nei primi tempi non avevo voglia di parlare molto. Quando ero sveglio sentivo continuamente i dischi. Le «paglie» mi davano una sensazione di contentezza e passavo ore di sogni ad occhi aperti, di abbandono all'immaginazione, di dialoghi immaginari con i miei amici musicisti di New York . In due settimane avevo dormito di più che in due mesi del periodo che avevo passato ad Harlem facendo notte e giorno il trafficante. Quando alla fine uscii per le strade di Roxbury, mi ci volle pochissimo per individuare un venditore di cocaina «neve». Fu quando riprovai quella sensazione familiare data dai cristalli che cominciai ad aver voglia di chiacchierare . Coloro che annusano i cristalli bianchi e fini come cipria della cocaina provano una sensazione di supremo benessere e una traboccante fiducia nelle loro capacità sia fisiche che mentali . Credono di poter battere il campione dei pesi massimi e di essere più intelligenti di tutti. Inoltre c'era quella sensazione di atemporalità, quegli intervalli in cui si riesce a ricordare e a passare in rassegna cose avvenute molti anni prima, e tutto ciò con una sorprendente chiarezza . Il complesso di Shorty suonava tre o quattro sere la settimana in località situate vicino a Boston. Dopo che lui era uscito per andare a lavorare veniva Sofia. Le parlavo dei miei progetti . Quando Shorty tornava, lei era già a casa da suo marito e io restavo a chiacchierare con l'amico fino all'alba. Il marito di Sofia era stato congedato dall'esercito ed ora era una specie di commesso viaggiatore. Sembra che stesse trattando un grosso affare che presto lo avrebbe obbligato a recarsi spesso sulla costa occidentale. Io non le chiedevo mai nulla, ma Sofia mi faceva spesso capire che non andavano molto d'accordo . Sapevo di non avere nessuna colpa di ciò: lui non pensava neppure che io esistessi. La donna bianca può arrivare a litigare a morte con suo marito, a strillare e ingiuriarlo con tutte le parolacce che le vengono a mente, a dire le cose più maligne per fargli male, a tirare in ballo sua madre e sua nonna, ma quello che non gli dirà mai sarà che va a letto con un negro. Per l'uomo bianco ciò è un'automatica giustificazione dell'omicidio e la sua donna lo sa . Sofia mi aveva sempre dato del denaro. Anche quando avevo per le tasche centinaia di dollari, quando lei veniva ad Harlem prendevo tutto quello che le avanzava dopo aver comprato il biglietto del treno per Boston. Sembra che a certe donne piaccia farsi sfruttare e quando non sono sfruttate, sono loro che sfruttano l'uomo. Comunque erano i soldi del marito quelli che mi dava perché lei non aveva mai lavorato. Ora io le chiedevo di più e lei mi dava di più: non so dove li prendesse. Ogni tanto, per tenerla sottomessa, le avevo fatto qualche scenata. Sembra che la donna abbia bisogno anche di questo, o addirittura lo voglia. Ma ora mi sentivo cattivo e la schiaffeggiavo molto peggio di prima, qualche sera quando Shorty non c'era. Lei piangeva, mi malediceva e giurava che non sarebbe più tornata, ma io sapevo benissimo che non ci pensava neanche a non tornare . Uno degli aspetti del mio ritorno che Shorty apprezzava di più era che Sofia veniva da noi. Come ho detto prima, non ho mai conosciuto in vita mia un negro che desiderasse le donne bianche con tanta sincerità come Shorty. Da quando lo conoscevo ne aveva avute molte ma non era mai riuscito a tenerne una per un certo periodo di tempo perché era troppo buono con loro e, come ho detto, qualsiasi donna, bianca o negra, si annoia se è trattata troppo bene . Shorty aveva appena lasciato una donna bianca quando, una sera, Sofia venne a trovarci insieme a sua sorella, una ragazza di diciassette anni. Non ho mai visto due saltarsi addosso l'uno all'altra come fecero Shorty e quella ragazza. Per lui non era soltanto una ragazza bianca, ma una bianca giovane, mentre per lei lui non era soltanto un negro, ma un musicista negro. Come aspetto era una copia ringiovanita di Sofia, che pure faceva sempre voltare gli uomini. Qualche volta accompagnavo le due ragazze in locali negri dove Shorty suonava e i presenti, quando vedevano le due bianche, facevano luminosi sorrisi. Venivano addirittura al nostro tavolo, stavano in piedi o gironzolavano là vicino. Quanto a Shorty, non si comportava molto diversamente. Mentre suonava non faceva che guardare la ragazza che lo aspettava, le faceva segni con le mani e le strizzava l'occhio. Non appena il programma era finito si apriva il varco a spintoni e si precipitava al nostro tavolo . Non ballavo più il "lindy-hop" ora. Non ci pensavo nemmeno, allo stesso modo in cui non avrei mai più indossato uno "zoot suit" . Avevo solo abiti molto seri e portavo scarpe degne di un banchiere . Rividi Laura. Fummo felici di esserci ritrovati. Ora lei era molto simile a me, una ragazza che voleva divertirsi . Chiacchierammo e ridemmo insieme. Sembrava molto più vecchia di quanto non fosse in realtà; non aveva un amico fisso e passava così da uno all'altro. Da parecchio tempo aveva lasciato la casa di sua nonna. Mi disse che aveva preso il diploma della scuola secondaria, ma che poi aveva rinunciato all'idea di andare all'università. Tutte le volte che la vedevo era ebbra anche lei: quando eravamo insieme fumavamo sigarette alla marijuana . Dopo un mese che «giacevo morto», come si soleva dire in gergo, vidi che bisognava mi trovassi una qualche specie di traffico . Un trafficante rimasto al verde ha bisogno di una somma per cominciare. Qualche sera, quando Shorty era fuori a suonare, prendevo tutti i soldi che Sofia riusciva a racimolare e cercavo di farli un po' fruttare giocando a poker nella casa da gioco di John Hughes . Quando abitavo a Roxbury prima, John Hughes era un grosso giocatore d'azzardo che non si sarebbe mai sognato di rivolgermi la parola, ma durante la guerra il «telegrafo» di Roxbury aveva riferito un sacco di cose su quel che facevo ad Harlem ed ora godevo del magico prestigio che conferiva il solo nome di New York. Tutti i trafficanti di qualunque città la pensavano allo stesso modo: se uno riusciva a sopravvivere a New York, loro erano tutti contenti di fare la sua conoscenza perché ciò conferiva prestigio. Comunque, approfittando degli anni d'oro della guerra, Hughes aveva fatto tanti quattrini da poter aprire una buona casa da gioco . Una sera John giocava insieme con me e altri due. Dopo che furono distribuite le prime due mani di carte, io scoprii un asso. L'altra carta che avevo preso era anche quella un asso . L'aver scoperto l'asso mi obbligava a puntare, ma non mi affrettai. Presi tempo . Alla fine battei le nocche sul tavolo dicendo «passo», cosicché toccò puntare al giocatore alla mia sinistra. Tale condotta di gioco implicava che sotto l'asso avessi pescato una carta da niente su cui non volevo rischiare denaro . Il giocatore alla mia sinistra abboccò e fece una grossa puntata. L'altro rilanciò e forse tutti non avevano che coppie di poco valore. Forse volevano soltanto spaventarmi prima che potessi scartare e pescare magari un altro asso. Quando venne il suo turno, John scoprì la regina e rilanciò ancora . Non si poteva immaginare che carte avesse in mano perché John era un giocatore davvero astuto, degno di misurarsi con tutti quelli che avevo conosciuto a New York . Venne di nuovo il mio turno. Dovevo puntare molti soldi per vedere. C'erano in giro sicuramente delle buone carte, ma sapevo che la mia combinazione era superiore. Tuttavia continuai a leggere, facendo finta di essere perplesso e finalmente puntai, completando il piatto . Utilizzai la stessa tecnica di gioco per tutte le mani successive e quando venne l'ultima, tirai fuori un altro asso . Tre assi. John scoprì un'altra regina . Fece una grossa puntata. Tutti gli altri si misero a leggere e per parecchio tempo nessuno parlò. Poi, uno ad uno passarono tutti ad eccezione di me. Non potevo far altro che puntare tutto quello che mi era rimasto . Se avessi avuto soldi a sufficienza, avrei potuto rilanciare di cinquecento dollari o anche più e lui sarebbe stato costretto a vedere. John non era il tipo da restare per tutta la vita senza sapere se, quella sera, io bluffavo o no con un piatto così ricco . Tirai fuori gli assi. John aveva un tris di donne. Mentre raccoglievo i soldi del piatto, un po' più di cinquecento dollari, la mia prima vera vincita a Boston, John si alzò e disse che voleva smettere. Poi rivolgendosi al manager della casa: «Tutte le volte che il Rosso viene qui e vuole qualcosa, contentatelo, - disse, - non ho mai visto un giovanotto giocare come gioca lui» . John disse «giovanotto» e lui aveva circa cinquant'anni, almeno credo, poiché non si può mai esser sicuri sull'età dei negri . Credette, come credevano quasi tutti, che io avessi circa trent'anni. A Roxbury, nessuno, fatta eccezione per le mie sorelle Ella e Mary, sospettava la mia vera età . La storia di quella partita a poker servì a far crescere il mio prestigio fra gli altri giocatori d'azzardo e trafficanti di Roxbury. Un altro fatto che accadde nella casa da gioco di John venne ad aggiungersi a quello per accrescere il mio prestigio: fu l'incidente da cui si seppe che io non portavo addosso una sola, ma diverse pistole . John aveva stabilito una regola secondo cui tutti i frequentatori della sua casa dovevano depositare all'ingresso le pistole, se ne avevano. Io ne lasciavo sempre due, ma una sera che un giocatore volle fare il furbo ne tirai fuori una terza da una fondina che portavo sotto la spalla. Questo episodio servì ad aggiungere al resto della mia reputazione la fama di essere «incosciente» e di avere «la pistola facile» . Ripensando a quei tempi, credo di esser stato davvero un po' pazzo. Consideravo gli stupefacenti allo stesso modo in cui la maggior parte dell'umanità considera il cibo; portavo addosso armi come oggi porto la cravatta e nel profondo dell'animo ero fermamente convinto che dopo aver vissuto con assoluta pienezza e avere esaurito ogni godimento, si dovesse morire di morte violenta. Allora, come del resto anche oggi, mi aspettavo di dover morire da un momento all'altro, ma a quel tempo credo di avere invitato la morte in molti modi, qualche volta addirittura da folle. Per esempio, un soldato della marina mercantile che mi conosceva per fama mi venne a trovare in un bar. Portava sotto il braccio un grosso pacco e mi fece segno di seguirlo al piano inferiore dove era la toilette. Scartò il pacco e venne fuori un fucile mitragliatore. Si trattava di roba rubata e lui voleva venderla. «Ma come posso sapere se funziona?», dissi. Lui introdusse il caricatore e mi disse che non dovevo far altro che premere il grilletto. Presi il mitragliatore, lo guardai da tutte le parti, e prima che il marinaio potesse rendersene conto si trovò l'arma puntata allo stomaco. Gli dissi che lo avrei crivellato. Camminando all'indietro uscì dalla stanza e, sempre camminando all'indietro, salì le scale, allo stesso modo in cui Bill «Bojangles» Robinson era solito ballare all'indietro . Sapeva che ero abbastanza incosciente da ammazzarlo e abbastanza pazzo da non prendere neppure in considerazione la possibilità che lui aspettasse il momento giusto per farmi la festa. Per circa un mese tenni il fucile mitragliatore a casa di Shorty: poi, appena ebbi bisogno di soldi, lo vendetti . Quando Reginald venne a trovarmi a Roxbury, era ancora sotto l'impressione di ciò che aveva sentito dire quand'era ritornato ad Harlem. Io passai un po' di tempo con lui: era ancora il mio fratellino e per lui sentivo più affetto di quanto non provassi persino per mia sorella Ella. Lei aveva ancora simpatia per me ed ogni tanto andavo a trovarla. Tuttavia non si era mai potuta consolare nel vedermi così cambiato. Molte volte, in seguito, mi ha detto che aveva il continuo presentimento che con il mio contegno mi stessi cacciando in grossi guai. Per quanto mi riguardava, avevo sempre l'impressione che ad Ella piacesse in certo modo quella mia ribellione contro il mondo perché lei, che aveva molte più energie e coraggio di tanti uomini, si sentiva spesso come defraudata per esser nata donna . Se avessi potuto decidere solo sulla base delle mie preferenze, forse avrei scelto di guadagnarmi la vita col gioco d'azzardo . Da John Hughes c'erano abbastanza giocatori inesperti perché uno bravo potesse viver bene alle loro spalle, e poi era tutta gente che di solito aveva un lavoro. Bastava farli giocare i giorni di paga. Inoltre John Hughes mi aveva offerto di fare il cartaio della casa, ma io non ne avevo alcuna intenzione . Non pensavo soltanto per me: volevo cominciare qualcosa che potesse aiutare anche Shorty. Avevamo parlato dei suoi affari ed io ero molto addolorato per lui. Era la stessa vecchia storia di tutti i musicisti. La gente pensava che conducessero una vita brillante, ma in realtà guadagnavano abbastanza per pagarsi l'affitto, da mangiare, per procurarsi le sigarette alla marijuana e far fronte ad altre spesucce, senza che avanzasse niente. In più c'erano i debiti. Come poteva fare Shorty a metter da parte qualcosa? Avevo passato degli anni, sia ad Harlem che in giro dappertutto, con i musicisti più popolari, persino con i grandi nomi, quelli che davvero guadagnavano molto per la loro professione, e nessuno aveva niente . Lo stesso valeva per me. Con tutte le migliaia di dollari che avevo maneggiato, ora non avevo più un soldo. Solo per soddisfare il vizio della cocaina mi ci volevano circa venti dollari al giorno; altri cinque dollari mi occorrevano per le sigarette di marijuana e quelle di tabacco normale. Infatti, oltre a prendere gli stupefacenti, fumavo circa quattro pacchetti di sigarette al giorno. Se volete sapere la mia opinione attuale, vi dirò che il tabacco, in tutte le sue forme, è una schiavitù come tutti gli altri narcotici . Quando discutevo con Shorty di qualche traffico a cui volevo dedicarmi, cercavo di convincerlo ad accettare la mia idea, di cui lui stesso era una prova vivente, per cui soltanto gli scemi potevano credere di fare un po' di soldi col lavoro . Quando parlai di quello che mi era venuto in mente, e cioè di dedicarmi a svaligiare gli appartamenti, Shorty, che era sempre stato un tipo abbastanza posato, mi sbalordì per la rapidità con cui fu d'accordo. Non sapeva assolutamente niente di come si svaligia una casa . Quando cominciai a spiegargli come si faceva, Shorty disse che voleva far partecipare anche un suo amico di nome Rudy, che anch'io avevo conosciuto e che mi era rimasto simpatico . Rudy era di madre italiana e di padre negro. Era di Boston, di bassa statura, dalla pelle chiara, il tipo del damerino . Lavorava regolarmente per un'agenzia che forniva i camerieri per i ricevimenti di lusso. Oltre a ciò si occupava di un'attività che mi riportò ai vecchi tempi in cui facevo l'accompagnatore ad Harlem. Una volta alla settimana Rudy andava a casa di un vecchio aristocratico, un ricchissimo bostoniano di sangue blu, una vera colonna della società. Rudy era pagato per spogliarsi, spogliare il vecchio, prendere poi quest'ultimo come un bambino, sdraiarlo sul letto e cospargerlo tutto di BOROTALCO . Rudy diceva che il vecchio raggiungeva il massimo del godimento proprio per questo . Io raccontavo a lui e a Shorty le cose che avevo visto. Rudy mi diceva che, almeno per quanto ne sapeva lui, a Boston non c'erano case d'appuntamenti specializzate nei vari tipi di perversione sessuale, ma soltanto dei singoli bianchi ricchi che si facevano soddisfare i loro desideri da negri che andavano a domicilio travestiti da autisti, cameriere, camerieri o in qualche altro modo comunemente accettabile. Come a New York, si trattava di gente ricca, delle classi più alte, specialmente di vecchi che, avendo ormai passata l'età adatta per poter avere rapporti sessuali normali, erano alla ricerca di sempre nuove sensazioni e raffinatezze . Ricordo che Rudy ci raccontava di un vecchio bianco il quale pagava una coppia di negri per poter assistere mentre essi facevano all'amore nel suo letto. Un altro era così «sensibile» da pagare per restar seduto fuori della stanza dove c'era una coppia di amanti: godeva immaginando quello che succedeva al di là della porta . Sapevo che in una buona banda di svaligiatori ci vuole un «informatore», cioè uno che individui le abitazioni in cui si possano fare dei colpi redditizi. Poi c'è bisogno di stabilire con esattezza come si può entrare, le migliori vie di ritirata eccetera. Rudy era il tipo adatto per ambedue questi incarichi . Siccome andava nelle case dei ricchi per lavoro, nessuno lo avrebbe sospettato quando guardava la roba di casa per accertarne il valore e studiava con attenzione la pianta, mentre si dava da fare con la sua brava giacca di cameriere addosso . Quando gli dicemmo quali erano i nostri progetti, la reazione di Rudy fu pressappoco di questo tipo: «Allora quando cominciamo?» Non volevo affrettarmi prima che tutto fosse a posto. Sapevo dalla mia esperienza e dai vecchi del mestiere com'era importante essere attenti e fare dei piani precisi. Il furto con scasso, se eseguito a regola d'arte, pur con certi pericoli offriva il massimo di probabilità di successo con il minimo rischio. Se si riusciva a portare a termine il colpo senza incontrare le vittime, c'erano poche probabilità di dovere aggredire o uccidere qualcuno, oltre al fatto che se per qualche svista si cadeva nelle mani della polizia, non c'erano testimoni oculari . E' anche importante scegliere una specializzazione e dedicarsi esclusivamente a quella. Tra gli scassinatori ci sono specialisti soltanto in appartamenti, in case isolate, in negozi o magazzini, mentre altri non si occupano che di casseforti o di stanze blindate . All'interno della categoria degli svaligiatori di case ci sono altre specializzazioni: alcuni agiscono di giorno, altri sono specializzati nelle ore dei pasti e del teatro, mentre altri ancora operano soltanto di notte. Qualsiasi poliziotto che abbia esperienza del lavoro in città può dirvi che molto di rado si trovano degli svaligiatori che lavorano in ore diverse. Per esempio Saltaleone ad Harlem era uno specialista nello svaligiamento notturno di appartamenti e sarebbe stato difficile persuaderlo a lavorare di giorno anche se un milionario fosse uscito per andare a mangiare fuori lasciando spalancata la porta della sua casa . A parte le mie preferenze, c'era una ragione pratica che mi spingeva a non voler lavorare di giorno. Ero troppo facilmente riconoscibile e di giorno mi sarei presto perduto. Sentivo già la gente che avrebbe detto: «Un negro dalla pelle marrone sul rossiccio, alto un metro e novanta». Sarebbe bastata un'occhiata . Siccome volevo preparare un'operazione perfetta, pensai bene di far partecipare le ragazze bianche per due motivi. Prima di tutto perché mi rendevo conto che se ci fossimo limitati soltanto ai posti dove Rudy lavorava come cameriere avremmo fatto troppo poco. Infatti non è che lui fosse chiamato in molte case e quindi dopo breve tempo avremmo esaurito le occasioni di lavoro. Inoltre, quando si fosse trattato di trovare altri posti nelle zone residenziali dei ricchi bianchi, dei negri che gironzolavano tra le case avrebbero dato sicuramente nell'occhio, mentre le ragazze bianche avrebbero facilmente trovato il modo di farsi invitare dove volevano . Non mi piaceva l'idea di servirmi di troppa gente, ma Shorty e la sorella di Sofia erano amanti, io e Sofia sembrava che si fosse insieme da cinquant'anni e, quanto a Rudy, era un tipo entusiasta e molto freddo. Nessuno avrebbe soffiato perché tutti correvamo lo stesso rischio: saremmo stati come una famiglia . Non avevo mai dubitato che Sofia partecipasse. Lei faceva tutto quello che le dicevo e, quanto a sua sorella, le avrebbe senz'altro obbedito. Accettarono tutte e due. Il marito di Sofia era partito per uno dei suoi viaggi all'Ovest quando rivelai alle due donne le mie intenzioni . Sapevo benissimo che la maggior parte degli scassinatori non vengono arrestati mentre rubano, ma quando cercano di vendere la refurtiva. Perciò fummo veramente fortunati a trovare il ricettatore che trovammo. Ci accordammo circa il piano operativo. Il ricettatore non aveva rapporti diretti con noi, ma si serviva di un suo rappresentante, un ex galeotto, che trattava soltanto con me. Oltre al suo commercio normale, era padrone di diversi garage e di piccoli magazzini intorno a Boston. Stabilimmo che prima di ogni colpo avrei avvertito il rappresentante dandogli un'idea generale di quale sarebbe stata la refurtiva e lui, dal canto suo, mi avrebbe indicato in quale garage o magazzino avremmo dovuto depositarla. Una volta in suo possesso, il rappresentante avrebbe esaminato i vari oggetti rubati togliendo da ognuno di essi qualsiasi possibile segno di riconoscimento. Poi avrebbe chiamato il ricettatore che sarebbe venuto per valutare lui stesso la refurtiva. Il giorno successivo il rappresentante si sarebbe incontrato con me in un posto prestabilito e mi avrebbe versato la somma, in contanti . Ricordo un particolare. Il ricettatore ci mandava sempre delle banconote nuove. Era furbo perché ciò aveva un decisivo effetto psicologico su tutti noi che, dopo aver fatto un colpo, ci trovavamo con le tasche piene di bei fogli nuovi. Può darsi che lo abbia fatto anche per altre ragioni . Avevamo bisogno di una base di operazioni ma non a Roxbury e così le ragazze affittarono un appartamento sulla Harvard Square. A differenza dei negri, loro potevano andare in giro a studiare la situazione portandoci poi le informazioni che volevamo. L'appartamento era al pian terreno di modo che noi, nei nostri andirivieni notturni, non davamo nell'occhio . In tutte le organizzazioni ci vuole un capo e anche se uno lavora da solo deve essere il capo di se stesso . Durante la prima riunione della banda che facemmo nell'appartamento si discusse sui metodi di lavoro. Le ragazze sarebbero andate nelle case per compiere i necessari rilievi . Per introdursi sarebbe bastato che si qualificassero come venditrici, incaricate di qualche analisi statistica, studentesse che facevano un'inchiesta, o qualsiasi altra qualifica adatta. Una volta entrate, si sarebbero guardate intorno più che potevano, ma senza dar troppo nell'occhio. Poi, una volta tornate da noi, ci avrebbero detto con precisione quali oggetti di valore avevano visto e dove. Per facilitarci il compito noi tre uomini volevamo che ci disegnassero una piantina, ma restammo d'accordo che le ragazze non avrebbero partecipato all'operazione altro che in casi veramente speciali in cui ci potevano essere di qualche utilità. Di solito saremmo andati noi tre uomini: due avrebbero fatto il colpo mentre il terzo sarebbe rimasto ad aspettarci in macchina col motore acceso . Mentre discutevamo i nostri piani, mi ero seduto a bella posta su un letto lontano da loro. All'improvviso estrassi la pistola, tirai fuori dal tamburo cinque cartucce e ce ne rimisi solo una . Poi feci girare con forza il tamburo e mi puntai la canna alla tempia . «Ora voglio vedere se avete del fegato», dissi . Feci a tutti una smorfia. Loro stavano lì a bocca aperta. Tirai il grilletto e tutti sentimmo distintamente "click" . «Ora lo rifaccio» . Mi scongiurarono di smetterla. Vedevo che Shorty e Rudy avevano intenzione di saltarmi addosso per immobilizzarmi . Sentimmo tutti che il cane, battendo a vuoto, faceva un altro "click" . Le donne erano addirittura in preda a una crisi isterica, mentre Rudy e Shorty mi scongiuravano di farla finita: «Senti.. . Rosso... smettila!... Fermati, su!» Tirai un'altra volta il grilletto . «Faccio questo per farvi vedere che non ho nessuna paura di morire, - dissi, - non è prudente provocare un uomo che non ha paura di morire... ed ora mettiamoci al lavoro!» Dopo quell'episodio non ebbi mai nessuna difficoltà nei rapporti con loro. Sofia si comportava verso di me con estrema soggezione e sua sorella mi chiamava «signor Rosso». Shorty e Rudy non furono più gli stessi nei miei confronti. Non rammentarono mai più quell'episodio: pensavano che fossi pazzo e avevano paura di me . Quella stessa sera facemmo il primo colpo: svaligiammo l'appartamento del vecchio che pagava Rudy perché lo cospargesse di borotalco. Dopo che avemmo finito non ci sarebbe stato bisogno neanche dell'uomo delle pulizie. Tutto funzionò a puntino e il ricettatore fu generoso di complimenti e ce lo provò con un mazzo di quelle sue banconote nuove. Più tardi il vecchio disse a Rudy che una squadra di investigatori era stata a casa sua: gli avevano detto che il colpo aveva tutte le caratteristiche per essere attribuito a una banda che da circa un anno era attiva nei dintorni di Boston e in città . Ben presto sviluppammo una tecnica assai efficiente. Le ragazze andavano in giro per le ricche zone residenziali e raccoglievano i dati: poi noi facevamo il colpo che talvolta durava solo dieci minuti. Di solito eravamo Shorty ed io a portar via la roba, mentre Rudy ci aspettava in macchina col motore acceso . Se i proprietari non erano in casa, ci servivamo di una chiave universale per aprire le serrature normali e di un piè di porco se si trattava di serrature di sicurezza. Qualche volta entravamo dalle finestre passando dal tetto o dalle scale antincendio. C'erano poi certe signore credulone che facevano visitare alle ragazze la loro casa per la soddisfazione di sentirle lodare l'arredamento. Con l'aiuto dei disegni di Sofia e di sua sorella, nonché di una potentissima lampadina tascabile, raggiungevamo facilmente gli oggetti che ci interessavano . Qualche volta le vittime erano a letto addormentate. Può sembrare che ci volesse molta audacia a far ciò, ma in realtà era piuttosto facile. La prima cosa da fare quando c'era gente in casa era di aspettare immobili e seguire attentamente il ritmo del respiro dei dormienti. Quelli che russavano rendevano tutto più facile. Entravamo nelle camere senza scarpe e muovendoci rapidamente come ombre, portavamo via abiti, orologi, portafogli, borsette e scatole di gioielli . La stagione natalizia era per noi una vera manna perché la gente teneva doni molto costosi sparsi un po' dappertutto per la casa, oltre al fatto che aveva presso di sé più denaro contante del solito. C'erano casi in cui, lavorando in ore meno tarde del consueto, svaligiavamo anche case in cui non avevamo compiuto i soliti rilievi. Se le veneziane erano abbassate, tutte le luci spente e non c'era nessuna risposta al ripetuto scampanellare di una delle ragazze, tentavamo la sorte e forzavamo la porta . Vi do un buon consiglio se volete tenere lontani i ladri da casa vostra. Una luce accesa è il miglior mezzo di protezione e l'ideale è lasciare accesa tutta la notte una lampada nel bagno . Infatti questa è la stanza in cui ci può sempre essere qualcuno, a qualsiasi ora della notte e per qualunque periodo di tempo, e potrebbe quindi udire un rumore strano. Sapendo ciò il ladro non si azzarda ad entrare. Questo sistema è anche la difesa meno costosa: è più a buon mercato la luce che la roba di valore che avete in casa . Diventammo efficientissimi. Qualche volta il ricettatore ci dava forti mance perché gli portavamo della refurtiva particolarmente buona. Fu così che per un certo periodo, uno dei più fiorenti per noi, ci specializzammo in tappeti orientali. Ho sempre sospettato che il ricettatore li rivendesse poi a coloro a cui noi li rubavamo. Comunque sia, non avevamo la minima idea di cosa potessero valere. Ricordo che per uno piccolo ci dette mille dollari. Immaginatevi quanto ci prese il ricettatore . Tutti i ladri sanno che i ricettatori li derubano molto di più di quanto essi non derubino le loro vittime . L'unica volta che fummo lì lì per essere arrestati fu quando stavamo per andarcene, tutti e tre seduti davanti con il sedile di dietro pieno di roba. All'improvviso vedemmo una macchina della polizia svoltare dall'angolo, dirigersi verso di noi e passarci davanti. Stavano pattugliando la zona ma quando nello specchio retrovisore vedemmo che facevano una svolta ad U, pensammo subito che ci avrebbero fermati. Nel passare si erano accorti che eravamo dei negri e, a quell'ora, in quella zona, i negri non avevano motivo di esserci . Passammo un brutto momento. Era un periodo in cui venivano compiuti molti furti e noi non eravamo certamente l'unica banda . Ma io sapevo che è difficile trovare un uomo bianco che pensi di poter essere preso in giro da un negro. Perciò prima che ci facessero segnale con la luce intermittente, dissi a Rudy di fermarsi. Ripetei quello che avevo già fatto un'altra volta: saltai fuori dalla macchina, feci loro segno di fermare e mi diressi deciso verso di loro. Quando si furono fermati, mi precipitai al finestrino chiedendo dov'era una certa strada di Roxbury. Balbettavo proprio come un negro confuso e intimidito . Mi dettero l'informazione e poi ciascuno di noi se ne andò in direzioni opposte . Le cose andavano bene. Mettevamo insieme una bella somma e poi per un po' stavamo calmi. Shorty suonava ancora con la sua orchestra, Rudy continuava ad occuparsi del suo vecchio dalla raffinata sensibilità o faceva il cameriere ai ricevimenti di lusso e le ragazze continuavano la loro normale vita di famiglia . Qualche volta le portavo nei posti dove suonava Shorty o in altri locali. Spendevo il denaro come se stesse per esser messo fuori corso, e le ragazze venivano tutte ingioiellate e con addosso pellicce che sceglievamo dal nostro bottino. Nessuno sapeva che traffico facevamo, ma era chiaro che le cose ci andavano bene. Le ragazze venivano spesso o a casa di Shorty a Roxbury o nel nostro appartamento di Harvard Square soltanto per fumare sigarette alla marijuana e fare un po' di musica. E' una vergogna dover dire questo di un uomo, ma Shorty era così ossessionato da quella ragazza bianca che quando le luci erano spente, tirava su la veneziana per vedere il biancore di quella carne al riflesso del lampione della strada . La sera presto quando, fra un colpo e l'altro ce la prendevamo comoda, andavo spesso al night club di Massachusetts Avenue chiamato il Savoy. Sofia mi telefonava lì puntualmente. Anche quando facevamo i colpi, partivo da quel club e poi ci ritornavo subito dopo. La ragione di tutto ciò era che, in caso di necessità, gli avventori avrebbero potuto testimoniare che mi avevano visto circa all'ora in cui era avvenuto il colpo. In ogni caso era difficile che dei negri interrogati dai poliziotti potessero dire l'ora con assoluta esattezza . A quell'epoca c'erano a Boston due detective negri. Da quando mi ero ripresentato sulla scena di Roxbury, uno di questi due agenti, un tipo dalla pelle marrone scuro che si chiamava Turner, non mi aveva mai potuto soffrire. L'antipatia era reciproca. Diceva a tutti cosa mi avrebbe voluto fare ed io, tutte le volte che lo sentivo, mettevo nel giro del «telegrafo» la mia risposta. Dal modo in cui si comportava cominciai a esser sicuro che le mie risposte fossero arrivate a destinazione . Tutti sapevano che giravo armato e lui aveva il buonsenso di credere che non avrei esitato ad adoperare la pistola contro di lui, anche se era un detective . Quella sera ero al Savoy quando, alla solita ora, suonò il telefono di una cabina proprio mentre l'agente Turner stava entrando dalla porta d'ingresso. Vide che mi alzavo e indovinò subito che la chiamata era per me. Tuttavia entrò nella cabina e rispose lui . Mentre mi guardava fisso, sentii che diceva: «Pronto, pronto, pronto». Sapevo benissimo che Sofia, appena aveva sentito una voce sconosciuta, aveva riabbassato il ricevitore . «Non era per me quella chiamata?» chiesi a Turner . Lui disse di sì . «Ebbene, - replicai io, - perché non me l'avete detto?» Mi dette una risposta brusca. Sapevo che voleva fossi io a fare la prima mossa. Tutti e due eravamo impazienti: tutti e due ci volevamo ammazzare a vicenda, ma nessuno dei due voleva fare un passo falso. Turner si guardava bene dal dire qualcosa che, se ripetuto, gli avrebbe creato una cattiva reputazione mentre io, da parte mia, non volevo dire niente che potesse essere interpretato come una minaccia a un poliziotto . Ricordo con esattezza ciò che gli dissi, alzando a bella posta la voce perché gli avventori del bar potessero sentirmi: «Voi Turner fate di tutto per passare alla storia. Ma non sapete che se mi stuzzicate passerete certamente alla storia perché dovrete ammazzarmi?» Turner mi guardò, poi si mosse e uscì. Immagino che non fosse ancora pronto per passare alla storia . Ero arrivato al punto che camminavo sulla mia stessa bara . E' una legge della malavita che tutti i criminali si aspettino di esser catturati e che cerchino quindi di ritardare quel momento il più possibile . Gli stupefacenti mi aiutavano a cacciar via dalla mente quel pensiero. Ora erano la cosa fondamentale della mia vita. Ero arrivato al punto di prendere tutti i giorni tali dosi di marijuana, di cocaina o di tutt'e due da dimenticare qualsiasi preoccupazione e ansietà. Se qualche pensiero riusciva ad affiorare alla mia coscienza, lo ributtavo indietro fino all'indomani e poi fino al giorno successivo . Ma mentre prima potevo fumare le «paglie» e fiutare i cristalli di cocaina senza che se ne vedessero gli effetti, ora non mi riusciva più con tanta facilità . Un giorno, durante una settimana di riposo dopo un grosso colpo, ero completamente ebbro e giravo da un night club all'altro . Quando entrai in uno di questi locali, mi resi conto dall'espressione del barista e dal modo in cui mi disse «Ciao, Rosso» che c'era qualcosa che non andava. Non gli chiesi nulla . Infatti ho sempre avuto come regola di non chiedere mai niente a nessuno in circostanze del genere: sono gli altri che di solito ti dicono cosa vogliono che tu sappia. Però in questo caso il barista, anche se ne aveva l'intenzione, non ebbe la possibilità di dirmi nulla. Quando mi sedetti sullo sgabello e ordinai da bere, vidi Sofia e la sorella sedute a un tavolo, vicino alla pista da ballo, insieme con un uomo bianco . Non so come mi venne in mente di fare l'errore che feci. Avrei potuto parlarle dopo. Non sapevo chi era quel bianco e non me ne importava proprio nulla. Fu la cocaina che m'impose di alzarmi . Non era il marito di Sofia, ma il suo migliore amico. Erano stati in guerra insieme e poiché il marito della donna era fuori città, lui l'aveva invitata a cena insieme alla sorella. Poi, mentre giravano in macchina dopo cena, gli era venuto in mente di venire nel ghetto negro . Qualsiasi persona di colore che abiti in città ha visto migliaia di volte un tipo come quello, il cretino del Nord che trova gusto nell'andare in giro a "niggertown" per divertirsi alle spalle dei "coons" . Le ragazze, che erano ben conosciute nei locali negri di Roxbury, avevano cercato di dissuaderlo, ma lui aveva insistito . Perciò, trattenendo il respiro, erano entrate in quel club dove erano già state centinaia di volte. Avevano guardato il barista e i camerieri con gli occhi freddi e assenti: quelli avevano capito e si comportavano come se non le avessero mai viste prima. Ora stavano al tavolo con i bicchieri davanti a loro atterrite all'idea che qualche negro che le conosceva potesse avvicinarsi . Poi arrivai io. Ricordo che le chiamai «Baby». Diventarono bianche come cenci e l'uomo arrossì di rabbia . Quella stessa sera, nell'appartamento di Harvard Square, mi sentii davvero male. Non era tanto una malattia fisica quanto piuttosto l'accumulazione di tutto ciò che era successo in quegli ultimi cinque anni. Ero a letto in pigiama, mezzo addormentato, quando sentii che qualcuno bussava alla porta . Pensai subito che c'era qualcosa che non andava perché tutti noi avevamo la chiave e nessuno bussava mai. Mi rotolai giù fin sotto il letto: avevo la testa così confusa che non mi venne neanche l'idea di prender la pistola che tenevo sul cassettone . Mentre ero sotto il letto sentii girare la chiave e vidi le scarpe e le rovesce dei pantaloni di quello che era entrato. Le seguii mentre si spostavano per la stanza, poi vidi che si fermavano e ogni volta sapevo dove guardavano gli occhi. Prima che lo facesse, ero sicuro che si sarebbe abbassato e avrebbe guardato sotto il letto. Infatti fu così. Era l'amico del marito di Sofia. Il suo viso era a mezzo metro dal mio e aveva un'espressione gelida . «Ah! ah! ah!, ve l'ho fatta eh?» dissi. Non c'era proprio niente da ridere. Venni fuori da sotto il letto facendo ancora finta di ridere. Lui, devo dirlo, non scappò: fece qualche passo indietro e mi guardò come se fossi stato un serpente . Non cercai di nascondere quello che già sapeva. Le ragazze tenevano alcuni capi di vestiario negli armadi e altri erano sparsi un po' dappertutto. Lui li aveva visti. Parlammo per un po', io gli dissi che le ragazze non c'erano e poi lui se ne andò. La cosa che mi atterrì fu ripensare a come mi ero messo in trappola con le mie stesse mani, sotto il letto e senza la pistola. Stavo proprio diventando un rammollito . Avevo portato un orologio rubato a riparare in una gioielleria . Fu due giorni dopo, quando andai per riprenderlo, che tutto crollò . Come ho detto la pistola faceva parte del mio abbigliamento come la cravatta. La portavo sempre sotto la giacca in una fondina legata all'ascella . Il proprietario dell'orologio, che noi avevamo derubato, aveva descritto dettagliatamente alla polizia di che genere di riparazione aveva bisogno. Era un orologio di gran prezzo ed è per questo che me l'ero tenuto. Tutti gli orologiai di Boston ne avevano ricevuto la descrizione . L'ebreo proprietario del negozio aspettò che lo pagassi prima di mettere l'orologio sul banco. Quello fu il segnale: un tale uscì all'improvviso dal retrobottega e si diresse verso di me tenendo la mano in tasca. Mi resi immediatamente conto che si trattava di un poliziotto . «Venite nel retrobottega», mi disse a voce bassa . Mentre mi muovevo per obbedire, entrò un povero diavolo di negro innocente. Ricordo di aver sentito dire più tardi che, proprio quello stesso giorno, era stato congedato . Il poliziotto, credendo che quello fosse con me, si rivoltò bruscamente. Io tirai fuori la pistola mentre l'agente parlava col negro voltandomi la schiena. Oggi credo che Allah mi fu vicino anche in quell'occasione perché non cercai di sparare e così mi salvai la vita . Ricordo che il poliziotto si chiamava Slack. Alzai il braccio e tesi la pistola dicendo: «Ecco, prendetela!» Notai l'espressione del suo volto: era sbalordito. Per l'improvvisa apparizione dell'altro negro non aveva neppure pensato che io avessi una pistola e il fatto che non avevo cercato di ucciderlo lo aveva commosso . Poi, tenendo in mano la mia pistola, fece un segnale e altri due poliziotti vennero fuori da dove erano appostati. Avevano le pistole puntate contro di me e se avessi fatto un solo movimento falso mi avrebbero freddato . Avrei avuto parecchio tempo in prigione per pensare a tutto questo . Se non fossi stato arrestato allora, sarei molto probabilmente morto in qualche altro modo. L'amico del marito di Sofia gli aveva detto tutto di me e quello, che era appena tornato la mattina, era andato a cercarmi nel mio appartamento, armato di pistola. Era là proprio mentre i poliziotti mi portavano al commissariato . Mi interrogarono incessantemente, ma non mi picchiarono, non mi toccarono neanche con un dito. Sapevo che si comportavano così perché non avevo cercato di ammazzare il loro collega . Riuscirono a scoprire il mio indirizzo da certe carte che mi trovarono addosso. Ben presto le ragazze furono arrestate e, quanto a Shorty, lo andarono a prendere proprio sul palco dell'orchestra quella stessa sera. Le ragazze avevano fatto anche il nome di Rudy ma, fino ad oggi, mi sono sempre domandato come lui abbia potuto saperlo in tempo. Devono averlo informato immediatamente perché riuscì ad allontanarsi e la polizia non lo ha mai più catturato . Ho ripensato tante volte come quel giorno sfuggii alla morte in due occasioni. E' per questo che credo che tutto sia scritto . I poliziotti trovarono nell'appartamento tutte le prove che volevano: pellicce, un po' di gioielli, altri piccoli oggetti oltre ai ferri del mestiere, piè di porco, tagliavetro, cacciaviti speciali, lampadine tascabili dal raggio sottilissimo, chiavi false... e il mio piccolo arsenale di pistole . Le ragazze ottennero la libertà provvisoria dietro una cauzione molto bassa. Dopo tutto, facessero o no parte di una banda di svaligiatori, erano sempre bianche. Il loro delitto maggiore fu considerato quello di essersi legate a dei negri. Viceversa, per me e per Shorty la cauzione fu fissata a diecimila dollari ciascuno: una somma, lo sapevano benissimo, che noi non saremmo mai stati in grado di procurarci . Gli assistenti sociali ci presero sotto le loro cure. Erano ossessionati soprattutto dal fatto che delle donne bianche si fossero messe insieme ai negri, specialmente poi perché quelle ragazze non erano delle puttane o delle straccione, ma appartenevano a una classe agiata e di notevole prestigio sociale. Ciò dava noia più di ogni altra cosa sia agli assistenti sociali che ai giudici . Dove, quando, come le avevo conosciute? Ero andato a letto con loro? Nessuno voleva sapere niente dei furti: tutti volevano esser sicuri se noi avevamo posseduto le donne dell'uomo bianco . Io guardavo in faccia gli assistenti sociali: «Ebbene, dicevo, ditemi piuttosto voi cosa pensate» . Persino gli impiegati e gli ufficiali giudiziari dicevano: «Delle ragazze bianche per bene... Questi fottuti "niggers"». Le stesse cose ci furono dette persino dai nostri difensori d'ufficio quando, sotto scorta, fummo portati di fronte al giudice istruttore. Prima che il magistrato entrasse, io dissi a un avvocato: «Mi sembra che ci vogliano condannare soltanto a causa di quelle ragazze». Lui diventò rosso come un gambero e mescolando nervosamente le sue carte replicò: «Non avevate nessun diritto di mettervi con delle ragazze bianche!» Più tardi, quando ormai avevo appreso tutta la verità sull'uomo bianco, ho riflettuto molte volte sul fatto che una condanna per furto con scasso, com'era quella che ci fu inflitta, non superava di solito mai i due anni. Noi però non saremmo stati condannati sulla base della media e nemmeno per il nostro reato . Prima di continuare, voglio dire che non ho mai raccontato a nessuno tutti i particolari del mio sordido passato. Quello che ho scritto qui non dev'essere interpretato come se io fossi orgoglioso di com'ero allora corrotto e perverso . Ma la gente si domanda continuamente: perché sono come sono? Per dare una risposta a tale interrogativo bisogna che ciascuno passi in rassegna tutti gli avvenimenti della sua vita, fin dalla nascita. L'insieme delle nostre esperienze si fonde nella nostra personalità e tutto quanto ci accade diventa una componente di essa . Oggi, allorché ogni azione della mia vita è compiuta sotto lo stimolo di una febbrile urgenza, non avrei certamente sciupato una sola ora per scrivere un libro che avesse l'ambizione di solleticare la curiosità dei lettori. Dedico molto del mio tempo ad esso perché credo che il modo migliore sia di raccontare l'intera storia così come io l'ho vista e compresa, io che ero caduto toccando il fondo della società dell'americano bianco quando, come ora vedremo, in prigione trovai Allah e la religione dell'Islam che trasformarono completamente la mia vita . Capitolo decimo . SATANA . Shorty non conosceva il significato della parola «cumulativo» . A gran fatica la vecchia madre di Shorty era riuscita a mettere insieme i soldi per pagarsi il viaggio in autobus da Lansing a Boston. «Figlio mio, leggi i libri della Rivelazione e prega Dio», aveva continuato a dire a Shorty tutte le volte che gli era andata a far visita e una volta l'aveva detto anche a me, mentre eravamo in attesa di giudizio. Shorty aveva letto le pagine della Rivelazione e si era inginocchiato a pregare come un diacono della chiesa battista negra . Poi ci trovammo di fronte al giudice nel tribunale della contea di Middlesex. Credo che i quattordici reati di cui eravamo imputati li avessimo commessi in quella contea. La madre di Shorty stava seduta con la testa bassa e singhiozzava pregando; vicini c'erano Ella e Reginald. Shorty fu il primo a essere chiamato . «Per il primo reato da otto a dieci anni...» «Per il secondo reato da otto a dieci anni...» «Per il terzo reato...» E alla fine: «La sentenza è cumulativa» . Shorty sudava talmente che la sua faccia nera sembrava fosse coperta di grasso e siccome non capiva il significato della parola «cumulativa», probabilmente aveva contato almeno cento anni di prigione da scontare. Scoppiò in singhiozzi e si sarebbe rotolato per terra se le guardie non lo avessero sorretto . In otto o dieci secondi Shorty era diventato ateo come io ero stato fin da principio . Mi dettero dieci anni . Le ragazze ebbero da uno a cinque anni da scontarsi nel riformatorio femminile di Framingham nel Massachusetts . Ciò accadeva nel febbraio del 1946. Non avevo ancora ventun anni e non avevo ancora cominciato a farmi la barba sul serio . Shorty ed io, ammanettati insieme, fummo condotti alla prigione statale di Charlestown . Non ricordo i miei numeri di matricola in prigione. Sembra strano, anche dodici anni dopo che sono uscito, perché il numero di matricola che dànno in prigione diventa parte di noi stessi . Non si viene mai chiamati per nome, ma soltanto per numero, e questo è impresso su tutti i capi di vestiario, su tutti gli oggetti che si adoperano. Alla fine è come se fosse addirittura impresso nel cervello del carcerato . Tutti coloro che dicono di provare interesse per gli altri esseri umani dovrebbero meditare a lungo prima di dare il loro voto affinché altri uomini siano rinchiusi dietro le sbarre, in gabbia. Non voglio dire che non ci dovrebbero essere le prigioni, ma solo che non ci dovrebbero essere sbarre perché dietro di esse nessuno si ravvede. Nessun uomo potrà mai dimenticare, potrà mai cancellare dalla propria mente il ricordo delle sbarre . Quando esce, tenta di annullare il ricordo di quell'esperienza, ma non ci riesce. Ho parlato con molti ex carcerati ed era molto interessante vedere come tutti noi avevamo rimosso dalla nostra mente molti particolari degli anni trascorsi in prigione ma, in nessun caso, potevamo dimenticarci delle sbarre . Mi trovavo a Charlestown come un «novellino» ("fish", come si dice nel gergo dei carcerati) e soffrivo molto fisicamente fino a diventare velenoso come un serpente, trovandomi improvvisamente senza stupefacenti. Nelle celle non c'era acqua corrente. La prigione era stata costruita nel 1805, ai tempi di Napoleone, e l'avevano persino copiata dalla Bastiglia. La mia cella era sporca e soffocante e quando stavo sdraiato sul pagliericcio toccavo tutti e due i muri. Per le nostre necessità corporali c'era il bugliolo. Per quanto si possa essere forti, non si riuscirà mai a sopportare il puzzo delle feci di un intero corridoio di celle . Lo psicologo della prigione volle esaminarmi e fu investito da tutti gli insulti e le espressioni scurrili che mi vennero in mente. Al cappellano della prigione successe anche di peggio . Ricordo che la prima lettera che ricevetti veniva da mio fratello Philbert di Detroit il quale, religioso com'era, mi diceva che la sua «santa» chiesa avrebbe pregato per me. Io gli risposi in un modo tale che oggi me ne vergogno solo a pensarci . La prima persona che venne a farmi visita fu Ella. Ricordo di aver notato un momento di angoscia nei suoi occhi, poi di aver visto che cercava di sorridermi quando mi presentai di fronte a lei nella divisa scolorita con sopra impresso il numero di matricola. Né lei né io sapevamo cosa dire e a un certo punto desiderai perfino che non fosse venuta a trovarmi. Poliziotti armati sorvegliavano circa cinquanta carcerati e visitatori . Sentii che molti degli ultimi arrivati, quando tornavano nelle loro celle, dicevano bestemmiando che la prima cosa che avrebbero fatto, una volta liberi, sarebbe stato di stender morte quelle guardie del parlatorio. Spesso tutto l'odio si concentrava proprio su di loro . La prima volta a Charlestown che potei intossicarmi di nuovo, fu quando riuscii a procurarmi della noce moscata. Il mio compagno di cella faceva parte di un gruppo di almeno cento persone che, per denaro o in cambio di sigarette, compravano dai carcerati addetti alla cucina scatolette di fiammiferi piene di noce moscata rubata. Presi una scatola come se fosse una libbra di stupefacenti molto forti. Sciolto in un bicchiere di acqua fredda, il contenuto di una di queste scatolette da fiammiferi faceva lo stesso effetto di tre o quattro «paglie» . Con un po' di soldi che mi mandava Ella, riuscii finalmente a comprare della roba migliore dalle guardie. Mi procurai sigarette alla marijuana, nembutal e benzedrina. I secondini arrotondavano lo stipendio vendendo di nascosto ai carcerati, e chi è stato in prigione sa di dove vengono i guadagni del personale di custodia . Rimasi in prigione per sette anni. Ora, quando cerco di pensare a quel periodo di poco più di un anno che trascorsi a Charlestown, mi si presenta alla memoria un quadro confuso in cui ci sono la noce moscata e gli altri narcotici, secondini che bestemmiano, io che butto fuori ogni cosa contenuta nella mia cella, che mi rifiuto di far la fila, lascio cadere il vassoio nel refettorio, non dico il mio numero di matricola sostenendo di averlo dimenticato e altre cose del genere . Preferivo la cella d'isolamento a cui venivo destinato per il mio modo di comportarmi. Passeggiavo su e giù per ore come un leopardo in gabbia, maledicendo me stesso ad alta voce e bestemmiando. I miei bersagli preferiti erano Dio e la Bibbia . C'erano però dei limiti fissati dal regolamento: non si poteva tenere un carcerato in cella d'isolamento più di un certo tempo . Alla fine quelli del mio corridoio mi dettero il soprannome di «Satana» a causa del mio atteggiamento antireligioso . La prima persona che incontrai in prigione capace di suscitare in me una qualche reazione positiva fu un carcerato detto «Bimbi». Lo conobbi nel 1947 a Charlestown. Era un negro dalla pelle chiara, quasi rossiccia come la mia; era pressappoco della mia statura e aveva il viso pieno di lentiggini. Bimbi era un veterano degli scassinatori ed era stato in parecchie prigioni . Nell'officina dove il nostro gruppo faceva targhe di automobili, lui era addetto alla macchina che stampava i numeri. Quanto a me, stavo lungo la catena di montaggio dove si verniciavano le targhe . Bimbi era il primo carcerato negro da me conosciuto che non rispondesse quando gli dicevano: «Come va, Daddy?» Spesso, quando avevamo finito il numero di targhe che dovevamo fare ogni giorno, ci sedevamo in circolo, in una quindicina, a sentire quel che diceva Bimbi. Normalmente i carcerati bianchi non pensavano neppure a dare ascolto alle opinioni di quelli negri ma, nel caso di Bimbi, persino le guardie gironzolavano intorno per stare a sentire quel che diceva . Sapeva tenere desta l'attenzione della gente in modo straordinario, spesso parlando di argomenti strani a cui non si sarebbe mai pensato. Approfondendo certi aspetti della scienza del comportamento umano, ci dimostrava che l'unica differenza esistente tra noi e la gente di fuori consisteva nel fatto che noi eravamo stati arrestati. Gli piaceva molto parlare di fatti e figure della storia. Quando ci raccontava la storia di Concord, dove in seguito sarei stato trasferito, sembrava che ne avesse ricevuto l'incarico dalla Camera di commercio di quella città, ed io non fui certo il primo tra i carcerati che non aveva mai sentito parlare di Thoreau finché Bimbi non ce ne descrisse l'opera. Bimbi era noto come il miglior cliente della biblioteca. Quello che mi affascinava in lui era il fatto che fosse il primo uomo da me conosciuto che riuscisse a guadagnarsi il rispetto di tutti... con le sole parole . Raramente Bimbi parlava a lungo con me. Era scontroso nei rapporti individuali ma mi accorsi che gli piacevo. Cercai la sua amicizia principalmente dopo che lo sentii discutere di religione. Mi consideravo al di là dell'ateismo: io ero Satana . Bimbi, per così dire, mise la filosofia ateistica nel suo contesto e ciò mi fece smettere gli attacchi blasfemi. In confronto al suo, il mio atteggiamento sembrava molto debole perché lui non usava mai una parola oscena . Come un fulmine a ciel sereno, Bimbi mi disse un giorno, a freddo com'era sua abitudine, che avrei avuto delle qualità intellettuali se me ne fossi servito. Io volevo la sua amicizia e non un consiglio di quel genere. Avrei potuto mandare al diavolo qualsiasi altro carcerato, ma nessuno insultava Bimbi . Mi disse che avrei dovuto approfittare della biblioteca e dei corsi per corrispondenza consentiti in prigione . Quando avevo finito l'ottavo anno di scuola a Mason nel Michighan, era stata l'ultima volta che avevo pensato di studiare qualcosa che non avesse una connessione diretta con qualcuno dei miei traffici. La vita di strada aveva spazzato via tutto quello che avevo imparato a scuola ed ero arrivato al punto che non avrei riconosciuto un verbo da una casa. Mia sorella Hilda mi aveva scritto consigliandomi che, se mi fosse stato possibile, avrei dovuto studiare in prigione inglese e composizione. Quando vendevo le sigarette di marijuana per la strada, lei era riuscita a malapena a leggere un paio di cartoline che le avevo mandato . Così, pensando a tutto il tempo che avevo a mia disposizione, decisi di cominciare un corso per corrispondenza in inglese . Quando gli elenchi ciclostilati dei libri disponibili venivano passati da una cella all'altra, scrivevo il mio numero di matricola accanto a quei titoli che mi incuriosivano e che già non erano stati prenotati da altri . Grazie agli esercizi e alle lezioni per corrispondenza, certi meccanismi della grammatica cominciarono piano piano a tornarmi a mente . Dopo circa un anno, mi pare, fui in grado di scrivere lettere decenti e leggibili. Fu a questo punto che, stimolato anche da quello che avevo sentito spesso da Bimbi sulle derivazioni delle parole, cominciai zitto zitto un altro corso per corrispondenza, questa volta in latino . Sempre sotto la tutela di Bimbi avevo organizzato tutta una serie di piccoli imbrogli. Riuscivo a vincere chiunque a domino e siccome la posta era costituita da sigarette, io ne avevo sempre parecchie stecche nella mia cella. Come si sa, in prigione, le sigarette erano un oggetto di scambio di valore quasi uguale al denaro. Puntavo sigarette e soldi su incontri di pugilato e di baseball e raccoglievo le scommesse degli altri . Non dimenticherò mai la sensazione che creò fra i carcerati la notizia di quel giorno dell'aprile 1947 quando Jackie Robinson venne ingaggiato dai Dodgers. Io ero uno dei suoi più fanatici ammiratori e quando lui giocava, tenevo l'orecchio incollato alla radio e non c'era partita che finisse senza che io non avessi calcolato con esattezza tutte le percentuali dei punti realizzati dal mio campione . Nel 1948, un giorno dopo che ero stato trasferito alla prigione di Concord, mio fratello Philbert, sempre alla ricerca di qualcosa a cui aderire, mi scrisse che finalmente aveva scoperto la «religione naturale dei negri». Mi diceva di appartenere ora a un'organizzazione chiamata la Nazione dell'Islam e che avrebbe «pregato Allah per la mia liberazione». Risposi, con una lettera che, sebbene scritta in un inglese migliore, era più volgare dell'altra risposta che gli avevo mandato quando mi aveva scritto che la sua «santa» chiesa avrebbe pregato per me . Quando ricevetti una lettera da Reginald, non pensai neppure di ricollegarla con l'altra, sebbene sapessi che Reginald aveva trascorso parecchio tempo a Detroit con Wilfred, Hilda e Philbert. Questa lettera era densa di notizie e conteneva l'invito a non mangiare carne di maiale e a non fumare più. «Ti mostrerò, - concludeva Reginald, - come uscire di prigione» . La mia reazione immediata fu di pensare che questa frase si riferisse a qualche modo per imbrogliare le autorità e organizzare l'evasione. Andai a letto pensando a cosa potesse essere e tale pensiero mi tornò subito alla mente appena sveglio. Qualche espediente psicologico, come quello che avevo messo in atto all'ufficio di leva di New York? Se stavo un po' di tempo senza mangiare carne di maiale e senza fumare avrei potuto accusare qualche disturbo fisico per cui mi avrebbero dimesso dal carcere? «Uscire di prigione». Queste parole mi risuonavano nella mente . Volevo proprio andarmene . Ecco, pensavo di consultarmi con Bimbi al riguardo, ma un istinto prepotente mi diceva di non metterne a parte nessuno . Non sarebbe stato difficile smettere di fumare. Per giorni e giorni, quando ero nella cella d'isolamento, ero rimasto senza sigarette. D'altronde, quali che fossero le prospettive, ero deciso a non lasciarmele sfuggire. Quando ebbi terminato di leggere quella lettera, finii il pacchetto di sigarette che avevo aperto e da allora, cioè dal 1948, fino ad oggi non ho più fumato . Tre o quattro giorni dopo ci venne servita carne di maiale a pranzo. Quando mi sedetti al lungo tavolo del refettorio non pensavo neanche al maiale. In prigione la regola era di sedersi, prendere quel che c'era, ingozzarlo in un baleno poi alzarsi e filar via. Perciò quando mi passarono il piatto con la carne, non sapevo neanche di che qualità fosse (di solito non si poteva stabilire), ma ebbi la sensazione che la frase "non mangiare più carne di maiale" fosse stata proiettata su uno schermo proprio davanti a me . Esitai e restai col piatto a mezz'aria; poi lo passai al mio vicino. Questi cominciò a servirsi ma poi, improvvisamente, si fermò. Ricordo di averlo visto voltarsi e guardarmi con un'espressione stupita . «Non mangio carne di maiale», gli dissi . Il vassoio continuò a essere passato fino all'estremo della tavola . La cosa più buffa fu la reazione a quel mio gesto e il modo come si diffuse. In prigione, dove la monotonia delle abitudini è interrotta così raramente, le cose più piccole provocano commenti a non finire. A sera, in tutte le celle del mio braccio, si diceva che Satana non mangiava carne di maiale . La cosa, sia pure in modo piuttosto strano, mi rendeva orgoglioso. Generalmente, sia in prigione che fuori, si pensava che una delle cose che i negri non potevano fare era di vivere senza mangiare carne di maiale. Fui contento di vedere come il fatto che io non la mangiassi aveva particolarmente stupito i carcerati bianchi . In seguito, quando lessi e studiai in modo approfondito la religione dell'Islam, appresi che inconsciamente si era manifestata in questo modo la mia prima professione di fede preislamica. Per la prima volta avevo messo in pratica l'insegnamento musulmano: «Se farai un passo verso Allah, Allah farà due passi verso di te» . I miei fratelli e le mie sorelle di Detroit e Chicago si erano tutti convertiti a quella religione che si insegnava loro a considerare come «naturale» per i negri e di cui mi aveva scritto Philbert. Tutti loro pregavano perché mi convertissi mentre ero in prigione, ma dopo che Philbert ebbe raccontato con quanta volgarità avevo risposto, discussero tra loro quale fosse la miglior cosa da fare. Decisero che Reginald, che era stato l'ultimo a convertirsi e per il quale avevo più affetto, fosse quello che conosceva meglio il modo di avvicinarmi, dato anche che mi era stato vicino nella vita di strada . Indipendentemente da tutto questo, mia sorella Ella si era occupata attivamente di farmi trasferire allo stabilimento di pena di Norfolk, nel Massachusetts, che era un istituto sperimentale di riabilitazione. Nelle altre prigioni i carcerati dicevano spesso che se uno era ricco o aveva le amicizie adatte poteva farsi trasferire a quello stabilimento di pena, i cui sistemi erano così miti da non sembrare neanche veri. Non so come, ma alla fine del 1948 gli sforzi di Ella furono coronati da successo: venni trasferito a Norfolk . Paragonato agli altri questo stabilimento di pena era sotto certi aspetti un paradiso. C'erano gli sciacquoni con l'acqua corrente, non esistevano sbarre ma solo muri e all'interno dei muri c'era molta più libertà. Inoltre, siccome non era in città, l'aria era molto migliore . Se ben ricordo c'erano ventiquattro blocchi separati, e in ciascuno stavano cinquanta uomini. Ciò vorrebbe dire che il numero totale dei carcerati era milleduecento. Ciascun blocco aveva tre piani e, fatto più positivo di tutti, ognuno di noi aveva la sua stanza . I negri costituivano il quindici per cento e ce n'erano da cinque a nove in ogni blocco . Lo stabilimento di pena di Norfolk rappresentava la forma più illuminata tra i sistemi di detenzione di cui ho sentito parlare. Al posto di quell'atmosfera di velenosi pettegolezzi, di perversione, di furto, di secondini pieni di odio, c'era una relativa «cultura», almeno come può essere interpretata tale parola in prigione. Parecchi detenuti dello stabilimento di pena di Norfolk avevano interessi «intellettuali», facevano parte di gruppi di discussione, organizzavano dibattiti e cose del genere. Gli insegnanti dei corsi di riabilitazione venivano dalla Harvard University, dall'università di Boston e da altre istituzioni accademiche della zona. I regolamenti, molto più miti di quelli di altre prigioni, permettevano visite quasi ogni giorno e i visitatori potevano trattenersi per due ore. Era permesso scegliere tra sedersi fianco a fianco o uno di fronte all'altro . Uno degli aspetti migliori dello stabilimento di pena di Norfolk era la biblioteca. Era stata lasciata in eredità dal milionario Parkhurst, il quale probabilmente aveva preso interesse al programma di riabilitazione dei detenuti. I suoi settori di specializzazione erano la storia e le religioni. Negli scaffali c'erano migliaia di volumi e nel retro della sala casse e scatole piene di libri per i quali non c'era posto. Con uno speciale permesso, a Norfolk si poteva andare in biblioteca, girare liberamente tra gli scaffali e prendere i libri. C'erano centinaia di vecchi volumi, alcuni dei quali probabilmente molto rari. Io leggevo a casaccio finché imparai a seguire un certo criterio, a leggere con uno scopo preciso . Per un po' di tempo dopo che fui trasferito a Norfolk non avevo ricevuto notizie di Reginald, ma già quando ero venuto a questo penitenziario non fumavo più e non mangiavo più carne di maiale . Ciò aveva causato un po' di risentimento e stupore. Ben presto ricevetti una lettera in cui Reginald mi comunicava che sarebbe venuto a farmi visita e quando venne io ero estremamente ansioso di sentire che specie di trucco voleva svelarmi . Reginald conosceva bene come funzionava il mio cervello di trafficante di strada e ciò spiega l'efficacia del suo approccio . Mi ero sempre vestito bene ed ora, quando lui venne a farmi visita, mi ero messo tutto in ghingheri. Non riuscivo a resistere alla curiosità di sapere cosa voleva dire quel rebus: «niente carne di maiale e niente sigarette», ma lui parlava della famiglia e di quello che succedeva a Detroit o che era successo ad Harlem prima che venisse via. Non ho mai avuto l'abitudine d'insistere se qualcuno non voleva dirmi subito certe cose e la spigliatezza di Reginald mi faceva pensare che ben presto sarebbe venuto fuori qualcosa di grosso . Infatti, alla fine, mi disse come se gli fosse venuto in mente lì per lì: «Malcolm, se un uomo sapesse tutto quello che c'è da sapere chi sarebbe?» Quando eravamo ancora ad Harlem, lui aveva spesso adoperato questo modo indiretto per arrivare a dire qualcosa, ma a me non era mai molto piaciuto perché ho sempre preferito i metodi diretti. «Bene, - gli dissi guardandolo in faccia, - dovrebbe essere una qualche specie di dio...» «C'è un UOMO che sa tutto», replicò Reginald . «E chi è? » domandai . «Dio è un uomo, - disse Reginald. - Il suo vero nome è Allah» . Mi ricordavo di questa parola dalla lettera di Philbert: era la prima traccia che avevo per stabilire una connessione. Ma Reginald continuò e mi disse che Dio aveva trecentosessanta gradi di conoscenza e che questi rappresentavano «la somma universale della conoscenza» . Dire che ero confuso è poco. Conoscete benissimo i miei precedenti e capirete in quale prospettiva ponevo quello che mio fratello Reginald mi diceva. Ascoltavo sapendo benissimo che prendeva tempo per confidarmi qualcosa. E se qualcuno sta cercando di confidarti qualcosa, bisogna pure ascoltare . «Il diavolo ha soltanto trentatré gradi di conoscenza, noti come la massoneria», disse Reginald. Ricordo chiaramente le frasi esatte perché, più tardi, le avrei insegnate tante volte agli altri. «Il diavolo si serve della massoneria per dominare gli altri» . Mi disse che questo Dio era venuto in America e che si era rivelato a un uomo di nome Elijah, «un negro proprio come noi» . Questo Dio aveva informato Elijah, continuava Reginald, che «il tempo concesso al diavolo era finito» . Non sapevo cosa pensare. Mi limitavo ad ascoltare . «Il diavolo è anche un uomo», disse Reginald . «Cosa vuoi dire?» Con un leggero movimento della testa, Reginald indicò alcuni carcerati bianchi che, dall'altra parte della stanza, stavano parlando con i loro visitatori . «Loro, - disse. - L'uomo bianco è il diavolo» . Mi disse che tutti i bianchi sapevano di essere dei diavoli, «specialmente i massoni» . Non me ne dimenticherò mai: senza volerlo passavo mentalmente in rassegna tutti i bianchi che avevo conosciuto e non so perché fermai l'attenzione su Hymie, l'ebreo che era stato così buono con me . Un paio di volte Reginald era venuto con me a Long Island dove compravo l'alcool di contrabbando imbottigliandolo poi per conto di Hymie . «Senza eccezioni?» domandai . «Senza eccezioni» . «Ma che pensi allora di Hymie?» «Che merito c'è se ti faccio guadagnare cinquecento dollari per poterne poi guadagnare diecimila io?» Quando Reginald se ne fu andato, mi misi a pensare per ore e ore. Non riuscivo a vedere in forma coerente quello che mi aveva detto . Tutti i bianchi che avevo conosciuto sin dall'inizio della mia vita cominciarono a sfilarmi davanti agli occhi. C'erano i funzionari degli enti statali di beneficenza che venivano sempre in casa nostra dopo che altri bianchi a me ignoti avevano assassinato mio padre... quelli che chiamavano continuamente mia madre «pazza» davanti a me e ai miei fratelli e sorelle, finché, alla fine, fu portata all'ospedale psichiatrico di Kalamazoo da altri bianchi... il giudice e gli altri che avevano separato noi bambini... gli Swerlin e gli abitanti di Mason... I miei compagni di scuola e gli insegnanti specialmente quello che, alla fine dell'ottava classe, mi disse di «fare il falegname» perché per un negro anche soltanto pensare di fare l'avvocato era follia.. . I volti di tutti questi bianchi mi si accavallavano nella mente . Rivedevo quelli di Boston durante le serate danzanti riservate a loro al Roseland Ballroom quando facevo il lustrascarpe... al ristorante Parker House dove portavo i loro piatti sudici in cucina... il personale del treno e i passeggeri... Sofia.. . Mi tornavano alla mente i bianchi di New York City, i poliziotti e i criminali con i quali avevo avuto a che fare... quelli che si accalcavano nei locali notturni clandestini per assaporare l'ANIMA negra... le donne bianche che volevano andare a letto con i negri... i bianchi che avevo accompagnato alle case d'appuntamento «specializzate» dove trovavano i negri che volevano.. . Il ricettatore di Boston e l'ex galeotto suo rappresentante... i poliziotti di Boston... l'amico del marito di Sofia e suo marito, che non avevo mai visto ma del quale sapevo molte cose... la sorella di Sofia... l'orologiaio ebreo che aveva collaborato al mio arresto... gli assistenti sociali... il giudice e gli altri membri del tribunale della contea di Middlesex... il magistrato che mi dette dieci anni... i detenuti che avevo conosciuto, le guardie e i funzionari.. . Tra gli ospiti dello stabilimento di pena di Norfolk godeva di grande prestigio un ricco paralitico, piuttosto anziano che si chiamava John. Aveva ucciso il suo bambino, uno di quei casi di eutanasia. Era il tipico pezzo grosso, altero, che teneva sempre a ricordare di essere un trentatré della massoneria e a descrivere il potere dei massoni: solo loro erano stati presidenti degli Stati Uniti e quando si trovavano in difficoltà potevano avvertire segretamente i giudici ed altri massoni che si trovavano in posizioni di potere . Continuavo a pensare a quello che mi aveva detto Reginald e volli averne la riprova da John. Andai a trovarlo nella scuola della prigione dove gli avevano affidato un lavoretto leggero . «John, - gli dissi, - di quanti gradi è la circonferenza del circolo?» «Trecentosessanta», rispose . Allora io disegnai un quadrato. «Quanti gradi ci sono in questo?» Lui rispose che ce n'erano trecentosessanta . Io gli chiesi allora se tale numero fosse il massimo dei gradi di qualunque cosa. Lui rispose di sì . «Ebbene, allora perché i massoni arrivano soltanto a trentatré gradi?» gli chiesi . Non mi dette una risposta soddisfacente, ma per me la risposta era che la massoneria è soltanto trentatré gradi della religione dell'Islam che è la proiezione completa, in eterno negata ai massoni, anche se essi sanno che esiste . Quando, dopo alcuni giorni, Reginald tornò a farmi visita, poté facilmente vedere dal mio atteggiamento l'effetto che avevano avuto su di me le sue parole. Mi sembrò che ne fosse molto contento. Poi, in tutta serietà, mi parlò per due ore buone del «diavolo dell'uomo bianco» e del «negro sottoposto a un continuo lavaggio del cervello» . Quando Reginald se ne andò, rimasi in preda ai primi pensieri veramente seri che abbia mai avuto in vita mia: che l'uomo bianco stava rapidamente perdendo il suo potere di opprimere e sfruttare la gente di colore, che questa, come aveva fatto in passato, cominciava a insorgere per dominare il mondo e che l'universo dell'uomo bianco era vicino alla decadenza e al tramonto . «Non sai neanche chi sei, - mi aveva detto Reginald, - non sai neanche, poiché i diavoli bianchi te lo hanno nascosto, che appartieni a una razza che dette vita ad antiche civiltà ricche di oro e di re. Non sai neanche il vero nome della tua famiglia e non sapresti riconoscere, se ti capitasse di sentirla, la tua vera lingua. Il diavolo bianco ti ha impedito ogni vera conoscenza dei tuoi simili; sei stato la vittima della sua malvagità sin da quando ti strappò alla tua terra natia, assassinandoti e usandoti violenza nei tuoi antenati». Cominciai a ricevere almeno due lettere al giorno dai miei fratelli e sorelle di Detroit. Mi scrivevano Wilfred e la sua prima moglie Bertha, la madre dei suoi due figli (dopo la morte di Bertha, Wilfred sposò Ruth, la sua moglie attuale), Philbert e mia sorella Hilda. Reginald veniva a farmi visita e restava a Boston un po' di tempo prima di tornare a Detroit: qui si era convertito anche lui, ultimo in ordine di tempo dei miei fratelli. Erano tutti musulmani, seguaci di un uomo che chiamavano «il molto onorevole Elijah Muhammad», una persona piccola e dolce che talvolta indicavano con l'espressione «il Messaggero di Allah». Era, mi dicevano, «un negro come tutti noi». Nato in America in una fattoria della Georgia, si era trasferito con la famiglia a Detroit e là aveva conosciuto un certo signor Wallace D. Fard che a suo dire era «Dio in persona». Questo signor Wallace D. Fard aveva dato a Elijah Muhammad il messaggio di Allah per i negri che costituivano «la perduta e ritrovata Nazione dell'Islam qui in questo deserto dell'America del Nord» . Tutti insistevano perché io accettassi «gli insegnamenti del molto onorevole Elijah Muhammad». Reginald mi spiegava che i seguaci della religione dell'Islam non mangiavano carne di maiale e che l'astenersi dal fumo era una regola dei seguaci del molto onorevole Elijah Muhammad, perché essi si rifiutavano di ingerire sostanze nocive come gli stupefacenti, il tabacco o l'alcool. Continuamente leggevo e sentivo dire che «il segreto del vero musulmano è la sottomissione, l'accordo assoluto con il volere di Allah» . Quanto poi a quella che essi definivano «la vera conoscenza del negro» di cui erano in possesso i seguaci del molto onorevole Elijah Muhammad, cominciai a vederla coerentemente nelle loro lunghe lettere, a cui talvolta erano acclusi degli stampati . «La vera conoscenza», che qui ricostruisco con maggior brevità di come la ricevetti io, era che la storia, nei libri dell'uomo bianco, era stata distorta in suo favore e che al negro, per centinaia di anni, «era stato fatto il lavaggio del cervello» . L'uomo originario era negro, nel continente chiamato Africa dove la razza umana era apparsa per la prima volta sulla terra . Quest'uomo negro originario aveva costruito grandi imperi, civiltà e culture mentre l'uomo bianco viveva ancora nelle caverne. Per tutta la storia «il diavolo dell'uomo bianco», proprio per la sua natura diabolica, aveva depredato, assassinato, stuprato e sfruttato tutte le razze di colore . Il più grande delitto della storia umana era il traffico di carne nera che ebbe inizio quando il diabolico uomo bianco fece la sua apparizione in Africa. Milioni di uomini, donne e bambini negri furono assassinati e strappati alle loro terre per essere trasportati, sulle navi negriere, ad Occidente, incatenati, frustati e torturati come schiavi . Il diabolico uomo bianco aveva impedito alla gente negra qualsiasi conoscenza della loro stirpe e dei loro simili, della loro lingua, religione e cultura passata finché il negro americano non era diventato la sola razza sulla terra che ignori completamente la propria vera identità . Nel corso di una generazione, in America, le schiave negre erano state violentate dai padroni bianchi finché cominciò a diffondersi una razza artificialmente generata, condizionata psicologicamente, che non aveva neanche più il suo vero colore e che ignorava persino il proprio nome di famiglia. Il padrone li costrinse a prendere il suo nome, e cominciò a chiamare «il negro» questa razza mista a causa degli stupri . A questo negro si insegnò che nella sua Africa nativa non c'erano che pagani e selvaggi che, come le scimmie, saltavano di albero in albero: egli accettò queste cose come tutto quello che gli diceva il suo padrone e che aveva come scopo di costringerlo ad accettare, obbedire e adorare l'uomo bianco . Mentre le religioni di tutti gli altri popoli della terra insegnavano ai loro fedeli a credere in un Dio con cui potevano identificarsi, un Dio che almeno somigliasse a uno della loro stirpe, il padrone inculcò la sua religione cristiana nell'animo di questo negro. Gli fu insegnato ad adorare un Dio straniero che aveva gli stessi capelli biondi, la stessa pelle bianca e gli stessi occhi azzurri del suo padrone . Questa religione insegnò al negro che il colore che aveva era una maledizione; gli insegnò a odiare tutto ciò che era nero, compreso se stesso; gli insegnò che qualunque cosa bianca era buona, degna di ammirazione, rispetto ed amore; lo persuase a ritenersi superiore se la sua pelle rivelava tracce più cospicue delle eiaculazioni del padrone. Inoltre questa religione cristiana dell'uomo bianco aveva ingannato e persuaso il «negro» a porger sempre l'altra guancia, a fare smorfie, a inchinarsi quasi strisciando, a essere umile, a cantare e a pregare e ad accettare qualunque cosa gli venisse propinata dal diabolico uomo bianco. Soprattutto lo aveva persuaso ad aspettare la ricompensa nell'altra vita, mentre qui sulla terra il suo padrone bianco si godeva il paradiso . Molte volte, guardandomi indietro, ho cercato di ricordare quali furono le mie prime reazioni a tutto ciò. Tutti gli istinti che avevo sviluppato nella giungla delle strade del ghetto, tutte le mie astuzie di trafficante e il senso criminale del lupo che mi avrebbero fatto deridere e respingere qualunque altra cosa, erano come paralizzati. Fu come se tutta quella mia vita precedente fosse lì inerte, incapace di esercitare qualsiasi influenza. Ricordo che un po' più tardi leggendo la Bibbia nella biblioteca dello stabilimento di pena di Norfolk, giunsi all'episodio di Paolo sulla via di Damasco. Rilessi tante volte il racconto dell'ebreo di Tarso che, al sentire la voce di Cristo, fu talmente scosso da cadere da cavallo in uno stato di semincoscienza. Né allora né ora vorrei paragonarmi a Paolo, però devo dire che capisco la sua esperienza . Da quel momento ho imparato, e ciò mi ha aiutato a capire che cosa cominciava allora a succedere nel mio animo, che la verità può essere accolta soltanto dal peccatore che riconosce di essere colpevole di molti peccati. Detto con altre parole: solo il riconoscimento della colpa rende possibile l'accettazione della verità. E ancora, come dicono le Scritture cristiane: gli unici che Cristo non poteva aiutare erano i farisei perché erano convinti di non aver bisogno di aiuto . Fu proprio l'enormità delle colpe della mia vita precedente che mi preparò ad accettare la verità. Dovettero passare alcuni mesi prima che fossi in grado di applicare la verità direttamente a me stesso in quanto negro. Per ora, era come una luce accecante . Reginald partì da Boston per tornare a Detroit. Sedevo nella mia cella con gli occhi fissi nel vuoto e, nel refettorio mangiavo pochissimo e bevevo solo acqua. Mi ero quasi ridotto al digiuno completo tanto che gli altri detenuti e i secondini mi domandavano preoccupati cosa avevo. Mi consigliarono di andare da un dottore, ma io non ci andai. Avvertirono il medico, il quale venne a visitarmi. Non so quale fosse la sua diagnosi, ma probabilmente disse che stavo recitando qualche commedia . Stavo attraversando la prova più dura, e anche quella più grande, a cui può esser sottoposto un essere umano: accettare quello che ha già nell'animo . Seppi più tardi che i miei fratelli e sorelle di Detroit avevano tutti contribuito a pagare il viaggio a Hilda perché venisse a farmi visita. Lei mi disse che quando il molto onorevole Elijah Muhammad veniva a Detroit era ospite in casa di Wilfred, che abitava nella MacKay Street. Hilda insistette perché scrivessi a Muhammad: egli avrebbe compreso cosa voleva dire trovarsi nella prigione dell'uomo bianco perché lui stesso, non molto tempo prima, era stato dimesso dal penitenziario federale di Milan nel Michigan, dove aveva scontato una pena di cinque anni per essersi rifiutato di prestare il servizio militare . Hilda mi disse che il molto onorevole Elijah Muhammad era andato a Detroit per riorganizzare il suo tempio numero uno che, mentre lui era in prigione, si era disgregato, ma che abitava a Chicago dove aveva iniziato la costruzione del tempio numero due . Fu Hilda che mi domandò: «Vorresti sentire come l'uomo bianco è apparso sulla terra?» Mi espose la lezione centrale degli insegnamenti di Elijah Muhammad chiamata la "Storia di Yacub" (più tardi seppi che era la demonologia propria di tutte le religioni). Elijah Muhammad insegna ai suoi seguaci che dapprima la luna si separò dalla terra; poi i primi esseri umani, l'uomo originario, che erano gente di colore, fondarono la città santa della Mecca . Tra questo popolo negro c'erano ventiquattro sapienti, uno dei quali, in conflitto con gli altri, formò la tribù negra di Shabazz, particolarmente forte, da cui discendono i cosiddetti negri americani . Circa seimilaseicento anni fa, quando il settanta per cento del popolo era soddisfatto e il trenta per cento insoddisfatto, nacque tra questi ultimi un certo Yacub. Era venuto per provocare confusione, turbare la pace e uccidere. Aveva la testa insolitamente grossa: a quattro anni incominciò ad andare a scuola. All'età di diciotto anni, Yacub aveva finito tutti i corsi impartiti dalle università della sua nazione. Era noto come «lo scienziato dalla testa grossa » e, tra le molte altre cose, aveva imparato a produrre scientificamente le razze [1] . Yacub, questo scienziato dalla testa grossa, si dette a predicare per le strade della Mecca facendo un tal numero di adepti che le autorità, sempre più preoccupate, finirono con l'esiliarlo insieme ai suoi 59999 seguaci nell'isola di Patmo, che le scritture cristiane dicono sia stato il luogo dove Giovanni ricevette il messaggio del Nuovo Testamento . Sebbene fosse un negro, Yacub, sdegnato com'era nei confronti di Allah, decise, per vendicarsi, di creare sulla terra una razza diabolica, di esseri dalla pelle chiara, una razza di bianchi . Dai suoi studi lo scienziato dalla testa grossa aveva imparato che nei negri c'erano due geni, uno nero e l'altro marrone e che quest'ultimo, che era il più chiaro dei due ed anche il più debole, restava inattivo. Per mutare la legge della natura, Yacub concepì l'idea di servirsi di quella che noi oggi chiamiamo la struttura dei geni recessivi in modo da separare i due geni uno dall'altro e forzare quello marrone a percorrere stadi progressivamente più chiari e più deboli. Sapeva benissimo che gli esseri umani che sarebbero derivati da tale processo sarebbero stati di pelle più chiara e più deboli, e anche sempre più suscettibili di esser preda della malignità e cattiveria. In tal modo egli avrebbe ottenuto quella razza di diavoli bianchi che aveva vagheggiato . Yacub sapeva che, per passare dal nero al bianco, ci sarebbero voluti molti stadi e così cominciò la sua opera stabilendo, sull'isola di Patmo, la sua legge eugenetica . Circa un terzo dei bambini che nascevano tra i 59999 seguaci di Yacub rivelavano qualche traccia di marrone. Quando diventavano adulti erano permessi i matrimoni di chi aveva la pelle marrone, oppure dei negri molto scuri con quelli dalla pelle marrone. La legge di Yacub imponeva che se il nato era di pelle molto scura, la levatrice gli infilasse un ago nel cervello e consegnasse poi il corpo al crematorio. Alla madre poi si diceva che era stato un «angioletto» salito in cielo per preparare un posto per lei . Alle madri dei bambini dalla pelle chiara veniva raccomandato di averne cura . Yacub insegnò ai suoi assistenti questi metodi perché continuassero la sua opera e alla sua morte, avvenuta sull'isola all'età di centocinquantadue anni, lasciò leggi e regolamenti su cui dovevano basarsi i suoi successori. Secondo gli insegnamenti di Elijah Muhammad, Yacub non vide mai, oltre che nella sua immaginazione, la razza dalla pelle schiarita che i suoi metodi e le sue leggi avrebbero creato . Passarono duecento anni prima che sull'isola di Patmo non ci fossero più esseri dalla pelle nera e vi rimanessero soltanto persone con la pelle marrone . Dopo altri duecento anni si passò da questi alla razza rossa e, sempre dopo lo stesso periodo, questa lasciò il posto alla razza gialla. Finalmente, dopo altri duecento anni, fece la sua apparizione la razza bianca . Sull'isola di Patmo c'erano soltanto questi diavoli biondi, dalla pelle chiara e dagli occhi celesti; dei selvaggi nudi e senza alcun senso di vergogna, pelosi come animali, che passeggiavano su quattro zampe e vivevano sugli alberi . Passarono altri seicento anni prima che questa razza ritornasse sul continente tra i negri originari . Elijah Muhammad insegna ai suoi seguaci che, nel giro di sei mesi, servendosi di menzogne che spinsero i negri a combattersi uno con l'altro, questa razza di diavoli aveva trasformato quello che era stato un paradiso terrestre in un inferno dilaniato dalle lotte e dai contrasti . Finalmente i negri originari si resero conto che i loro guai improvvisi erano stati prodotti da questa razza di diavoli bianchi che Yacub era riuscito a creare. Perciò li circondarono e li misero in catene e, dopo aver coperte loro le reni con dei perizoma che ne nascondevano la nudità, condussero questa razza di diavoli attraverso il deserto arabico fino alle caverne dell'Europa . La pelle d'agnello e la gomena che vengono oggi adoprati nei riti massonici simboleggiano il modo in cui fu coperta la nudità dell'uomo bianco quando venne incatenato e condotto attraverso le sabbie roventi del deserto . Elijah Muhammad insegna inoltre che la razza dei diavoli bianchi viveva nelle caverne d'Europa una vita del tutto selvaggia. Gli animali cercavano di uccidere quest'uomo primitivo e lui si arrampicava sugli alberi che erano davanti all'entrata della caverna, faceva delle clave con i rami nel tentativo di proteggere la famiglia dalle bestie feroci che cercavano di penetrare nel suo abitacolo . Quando questa razza diabolica ebbe passato duemila anni nelle caverne, Allah suscitò Mosè perché li civilizzasse e li portasse fuori, all'aperto. Fu scritto che essa avrebbe dominato il mondo per seimila anni . I Libri di Mosè sono andati perduti e ciò spiega perché non si sa che lui, come gli altri, veniva dalle caverne . Quando si manifestò, i primi di quei diavoli ad accettare i suoi insegnamenti, i primi che egli guidò fuori delle caverne, furono quelli che noi oggi chiamiamo gli ebrei . Secondo gli insegnamenti di questa "Storia di Yacub", quando nella Bibbia è scritto che «Mosè levò in alto il serpente nel deserto», si deve intendere il serpente come il simbolo di quella razza di diavoli bianchi che Mosè trasse fuori dalle caverne dell'Europa insegnando loro la civiltà . Era scritto che dopo seimila anni - cioè fino al nostro tempo durante i quali la razza bianca di Yacub avrebbe dominato il mondo, l'originaria razza negra avrebbe dato i natali a un uomo la cui saggezza, sapienza e potere sarebbero stati infiniti . Era scritto che molti dei negri originari dovessero essere portati come schiavi nell'America del Nord affinché imparassero, per esperienza diretta, a comprendere la vera natura del diavolo bianco, nei tempi moderni . Elijah Muhammad insegna che il dio più grande e potente che sia mai apparso sulla terra fu il maestro W. D. Fard che venne dall'Oriente verso l'Occidente, facendo la sua apparizione nell'America del Nord in un tempo in cui la profezia scritta stava avviandosi al compimento, quando i popoli di colore di tutto il mondo avevano cominciato a insorgere e la civiltà bianca, condannata da Allah, stava, proprio per la sua stessa natura diabolica, autodistruggendosi . Il maestro W. D. Fard era mezzo negro e mezzo bianco ed era stato fatto in questo modo affinché potesse essere accettato dai negri d'America e guidarli, mentre, nello stesso tempo, avrebbe potuto muoversi indisturbato tra i bianchi e capire e giudicare la vera natura dei nemici del negro . Nel 1931, il maestro W. D. Fard, che si era camuffato da venditore ambulante di sete, conobbe Elijah Muhammad a Detroit nel Michigan. Gli dette il messaggio di Allah e la sua divina guida affinché salvasse la perduta e ritrovata nazione dell'Islam, cioè i cosiddetti negri, qui in «questo deserto dell'America del Nord» . Quando mia sorella Hilda finì di raccontarmi questa "Storia di Yacub", se ne andò. Io restai esterrefatto e non so neanche se fui in grado di salutarla . In seguito avrei saputo che le favole di Elijah Muhammad, come questa di Yacub, avevano fatto infuriare i musulmani dell'Oriente. Quando andai alla Mecca volli ricordare ad essi che era colpa loro poiché non avevano fatto abbastanza per far conoscere in Occidente la vera dottrina dell'Islam. Il loro silenzio aveva permesso l'esistenza di un vuoto in cui poteva inserirsi qualsiasi falso profeta e imbroglione e condurli sulla strada sbagliata . NOTE . NOTA 1: Sarà forse di un certo interesse integrare questo passo con un altro episodio che appare nella versione ufficiale di Elijah Muhammad . «Com'è noto, là dove c'è l'aspirazione o la richiesta di qualche mutamento, la natura crea l'uomo capace di tradurla in atto . Allah mi insegnò che la percentuale degli insoddisfatti è oggi del novantotto per cento, la quasi totalità. In queste condizioni si verificherà di sicuro un mutamento radicale. Yacub non cambiò le cose al cento per cento ma quasi al novanta per cento. Allah mi disse: «"Yacub aveva sei anni quando, un giorno, mentre stava giocando con due pezzi di acciaio, osservò che si attraevano a vicenda . Si rivolse a suo zio esclamando: - Quando sarò vecchio creerò della gente che vi sottometterà! - Lo zio rispose: - Creerai qualcosa che provocherà lutti e spargimento di sangue? - Non importa, zio, - rispose Yacub. - Io conosco quello che voi ignorate" . «Fu in quel momento che, per la prima volta, il ragazzo Yacub acquistò consapevolezza di sé, di esser nato per seminare lo scompiglio, interrompere la pace, uccidere la sua gente con un nemico della nazione negra artificialmente creato. Conobbe il proprio futuro giocando con l'acciaio. E' con questo metallo che ha sempre giocato la razza che egli creò. L'acciaio è diventato il metallo più utile . «Yacub ne vide la capacità di attrazione magnetica... e concepì un essere umano, improbabile ma creato per attrarre gli altri che, dotato di una sicura conoscenza di tutti gli espedienti e di tutte le menzogne, avrebbe sottomesso il negro originario...» (ELIJAH MUHAMMAD, "Message to the Blackman in America", Muhammad Mosque of Islam numero 2, Chicago 1965, pagine 111-12) . Capitolo undicesimo . SALVATO . Scrissi a Elijah Muhammad. A quel tempo abitava a Chicago al 6116 della South Michigan Avenue. Devo aver riscritto almeno venticinque volte quella prima lettera di una pagina, nel tentativo di renderla il più possibile chiara e comprensibile . Mi vergogno persino a ricordarlo, ma praticamente non riuscivo a leggere la mia calligrafia: la grammatica e l'ortografia erano altrettanto insufficienti, se non addirittura peggiori. Comunque scrissi come potevo che i miei fratelli e sorelle mi avevano parlato di lui e che mi scusavo di scrivere così male . Muhammad mi rispose con una lettera battuta a macchina. Vedere la firma «Il Messaggero di Allah» mi fece un effetto straordinario. Dopo avermi dato il benvenuto nel mondo della «vera conoscenza», mi offriva alcuni argomenti da meditare. Il carcerato negro, diceva, era il simbolo del crimine compiuto dalla società bianca nel tenere i negri oppressi, poveri e ignoranti, nel non consentire loro di avere un lavoro decente e, infine, nel trasformarli in criminali . Mi esortava ad avere coraggio e accludeva persino dei soldi per me, una banconota da cinque dollari. Forse anche oggi Muhammad manda denaro a tutti i detenuti che gli scrivono . Quelli della mia famiglia mi scrivevano continuamente: «volgiti verso Allah... prega con la faccia rivolta ad oriente» . La prova più dura che dovetti superare durante la mia vita fu la preghiera. Si capisce perché, per valutare e accettare gli insegnamenti di Elijah Muhammad, c'era bisogno solo di un'adesione intellettuale. «E' giusto! », mi dicevo; oppure: «Non ci avevo mai pensato!» Però, mettermi in ginocchio a pregare - l'ATTO in sé - bene, mi ci volle una settimana per farlo . Sapete qual era stata la mia vita. Fino ad allora, le uniche volte che mi ero messo in ginocchio erano state per scassinare qualche serratura . Dovetti letteralmente fare forza su me stesso, perché un'ondata di vergogna e di imbarazzo mi risospingeva verso la posizione eretta . La cosa più difficile del mondo è che il cattivo si inginocchi, riconosca le sue colpe e implori il perdono di Dio. E' facile per me dire queste cose ora, ma in quel momento, quando ero la personificazione del male, lottavo disperatamente per mettermi nella posizione prescritta per la preghiera; quando finalmente ci riuscii, non sapevo cosa dire ad Allah . Negli anni successivi che passai nello stabilimento di pena di Norfolk, vissi quasi da eremita. Non sono mai stato così attivo in vita mia. Sono sorpreso ancora oggi se penso con quale rapidità il mio modo di pensare precedente scomparve, come la neve che si scioglie sul tetto. Era come se quello che era vissuto di imbrogli e di delitti fosse stato un altro, uno qualsiasi di mia conoscenza e tante volte restavo esterrefatto quando mi accorgevo che stavo pensando alla mia vita passata in modo così distaccato, quasi che si trattasse di un'altra persona . Ero incapace, e in modo veramente patetico, di esprimere quello che sentivo nella lettera di una pagina che mandavo ogni giorno a Elijah Muhammad. Scrivevo almeno un'altra lettera ogni giorno per rispondere ai miei fratelli e sorelle i quali, ogni volta che mi scrivevano, aggiungevano qualcosa alla mia conoscenza degli insegnamenti di Muhammad. Sedevo a lungo a guardare con estrema attenzione le sue fotografie . L'inattività non mi è mai piaciuta. Sono sempre stato uno che ha cercato di tradurre in pratica le idee di cui era convinto e questa è forse la ragione per cui, non potendo far altro, cominciai a scrivere alle mie conoscenze della malavita, a Sammy il magnaccia, a John Hughes, il padrone della casa da gioco, al ladro Saltaleone e a parecchi venditori di stupefacenti. Parlavo loro di Allah, dell'Islam e di Elijah Muhammad. Non avevo la minima idea di dove abitassero e perciò spedivo le lettere presso i bar o i club di Harlem o di Roxbury che essi frequentavano . Non ricevetti mai nessuna risposta. Il trafficante e il criminale medio era di solito troppo ignorante per scrivere. Ho conosciuto dei guappi astutissimi e dall'aspetto intelligente che avreste preso per dei veri banchieri e che, in privato, si facevano leggere da altri le lettere che ricevevano. Oltre a ciò neanch'io avrei mai risposto a chi mi avesse scritto cose come «l'uomo bianco è il diavolo» . Certamente il «telegrafo» di Harlem e di Roxbury avrà riferito che il Rosso di Detroit era impazzito o che cercava di giocare qualche tiro mancino all'amministrazione del penitenziario . Durante gli anni che trascorsi nello stabilimento di pena di Norfolk, nessun funzionario mi disse mai niente direttamente riguardo a quelle lettere anche se, come è normale, passavano tutte attraverso la censura della prigione. In ogni caso sono sicuro che riportavano quello che io scrivevo negli schedari che tutti i penitenziari statali e federali tengono sui detenuti negri convertiti dagli insegnamenti di Elijah Muhammad. A quel tempo, invece, credevo che la vera ragione fosse da ricercarsi nel fatto che l'uomo bianco sapeva di essere il diavolo . Più tardi, arrivai persino a scrivere al sindaco di Boston, al governatore del Massachusetts e a Harry S. Truman. Nessuno di questi mi rispose: probabilmente non videro neanche le mie lettere. Avevo scritto nella mia calligrafia stentata che la società dell'uomo bianco era responsabile delle condizioni in cui vivono i negri in questo deserto che è l'America del Nord . Fu grazie alle lettere che cominciai a sentire il bisogno di darmi un'istruzione. Mi sentivo sempre più frustrato per non esser capace di esprimere quello che volevo, specialmente quando scrivevo a Elijah Muhammad. Per la strada, ero stato il guappo più loquace: mi stavano a sentire con attenzione quando avevo da dire qualcosa. Ma ora che cercavo di scrivere anche le espressioni più semplici, non soltanto non ero persuasivo, ma neppure chiaro. Non potevo certamente scrivere il gergo nel modo in cui, a voce, me ne servivo con tanta efficacia . Coloro che oggi mi sentono parlare di persona o alla televisione, o che leggono quello che ho detto, crederanno che sia andato a scuola ben oltre l'ottava classe. Tale impressione è dovuta interamente agli studi che ho fatto in prigione . Avevo già sentito questa esigenza nella prigione di Charlestown quando Bimbi, per la prima volta, mi aveva fatto provare invidia per tutto quello che sapeva. Lui era sempre l'anima di qualsiasi conversazione e io avevo cercato di emularlo, ma in qualunque libro che mi mettevo a leggere trovavo frasi intere che, per quello che ne capivo io, avrebbero anche potuto essere scritte in cinese. Naturalmente, quando saltavo tutti i termini che non conoscevo, finivo il libro senza aver capito bene di cosa si trattasse. Anche quando arrivai allo stabilimento di pena di Norfolk leggevo in quel modo così approssimativo e ben presto avrei abbandonato anche quei miei impulsi alla lettura se non avessi avuto lo stimolo che ebbi . Considerai che la miglior cosa da fare fosse di procurarmi un dizionario e di studiare e imparare alcune parole. Ebbi anche la fortuna di arrivare a comprendere che avrei dovuto migliorare la grafia. Era una cosa triste: non riuscivo neanche a scrivere allineato. Furono queste due idee che mi spinsero a fare richiesta alla scuola dello stabilimento penale di Norfolk di un dizionario, alcuni quaderni e lapis . Per due giorni vagai incerto tra le pagine del dizionario. Non avevo mai pensato che potessero esistere tante parole! Non sapevo QUALI parole avrei dovuto imparare e alla fine tanto per far qualcosa, cominciai a copiare. Con la mia lenta, goffa e informe grafia, copiai sul quaderno tutto quello che c'era nella prima pagina, persino la punteggiatura . Credo che mi ci volle un giorno intero. Poi rilessi ad alta voce tutto quello che avevo scritto sul quaderno e, per molte altre volte di seguito, rilessi ancora la mia grafia . La mattina dopo mi svegliai pensando a quelle parole, infinitamente orgoglioso perché avevo scritto così tanto in una sola volta e soprattutto perché si trattava di parole di cui ignoravo l'esistenza. Inoltre, facendo un piccolo sforzo, riuscivo anche a ricordare il significato di molte di esse. Poi ripassai quelle di cui non ricordavo il significato. E' strano che ora, se penso a quella prima pagina del dizionario, mi torna subito a mente la parola "aardvark" [orso formichiere]. Sul dizionario c'era una figurina che rappresentava questo mammifero africano dalla lunga coda e dalle lunghe orecchie, il quale vive mangiando le termiti che acchiappa tirando fuori la lunga lingua . Ne fui così affascinato che continuai a copiare la pagina seguente del dizionario e, quando studiai questa, feci la stessa esperienza. Ad ogni nuova pagina imparavo a conoscere popoli, località e avvenimenti della storia poiché il dizionario è come un'enciclopedia in miniatura. Quando finii la lettera A, che mi aveva preso un intero quaderno, passai alla B e piano piano, finii per copiare tutto il dizionario. Con la pratica che venivo acquistando, migliorai moltissimo la grafia e devo dire che tra quello che scrivevo sul quaderno e le lettere avrò scritto, durante il rimanente periodo che trascorsi in prigione, un milione di parole . Era inevitabile, penso, che, via via che aumentavo la conoscenza lessicale, fossi in grado di leggere un libro e cominciare a capire cosa c'era scritto. Coloro che hanno letto molto sono in grado di capire quali orizzonti mi si aprirono allora. Da quel momento fino a quando non uscii di prigione, in ogni ritaglio di tempo quando non ero in biblioteca a leggere, stavo sdraiato sulla brandina con un libro in mano. Non mi avrebbero strappato alla lettura neanche con la forza. Tra gli insegnamenti di Muhammad, la corrispondenza, i visitatori - di solito Ella e Reginald e la lettura, mi passavano i mesi senza che neppure mi venisse in mente che ero in prigione. Infatti, fino a quel momento, non ero mai stato così libero in vita mia . La biblioteca dello stabilimento di pena di Norfolk era situata nell'edificio della scuola dove insegnanti provenienti dalla Harvard University e dall'università di Boston impartivano vari corsi. In quell'edificio si tenevano anche i dibattiti settimanali che venivano organizzati tra gruppi di detenuti . Sarete esterrefatti al pensiero di detenuti che discutevano su argomenti come «si devono nutrire i bambini col latte?» Nella biblioteca della prigione c'erano libri di qualsiasi argomento generale. Gran parte della grande collezione privata che Parkhurst aveva lasciato in eredità alla prigione era ancora chiusa in una quantità di casse ammucchiate nel retro della sala: migliaia di vecchi volumi. Alcuni avevano l'aspetto di edizioni molto antiche, con i frontespizi scoloriti e le rilegature in pergamena. Come ho già detto, sembrava che i principali interessi di Parkhurst fossero stati storici e religiosi. Era ricco e aveva interesse a procurarsi molti libri che comunemente non si trovano in giro. Qualsiasi biblioteca universitaria si sarebbe considerata fortunata di possedere una collezione simile . E' facile immaginare, specialmente se si tien conto che nelle prigioni si pone più che altro l'accento sulla riabilitazione del carcerato, come può esser considerato con sarcasmo quel detenuto che dimostri un insolito, profondo interesse per i libri. C'erano parecchi che avevano letto molto, specialmente tra coloro che si erano acquistati una certa popolarità nei dibattiti. Di molti si diceva che erano delle vere e proprie enciclopedie ambulanti e quasi passavano per delle celebrità . Non esiste università che esiga dai suoi studenti di divorare tanti libri quanti ne divoravo io quando mi si aprì questo nuovo mondo, quando cioè fui in grado di leggere e di CAPIRE . Leggevo più nella mia cella che in biblioteca. I detenuti che avevano fama di essere degli avidi lettori potevano prendere in prestito più volumi del numero stabilito e io preferivo leggere nell'isolamento totale della mia cella . Quando passai ad opere veramente serie, ogni sera alle dieci mi arrabbiavo perché spengevano tutte le luci. Sembrava che quell'ora mi sorprendesse sempre a metà di qualche problema appassionante . Per fortuna, proprio fuori della mia porta, c'era una delle lampade del corridoio che proiettava un certo chiarore nella mia cella. Una volta che i miei occhi ci si furono abituati, quel chiarore era sufficiente per leggere, e così quando veniva l'ora in cui tutte le luci dovevano essere spente, mi sedevo sul pavimento e continuavo a leggere . Ogni ora le guardie notturne passavano davanti alla porta di ciascuna cella e quando sentivo i loro passi che si avvicinavano, saltavo nel letto e facevo finta di dormire . Appena la ronda era passata, tornavo a sedermi sul pavimento, e continuavo a leggere a quel chiarore per altri cinquantotto minuti, finché la ronda non passava di nuovo. Facevo così fino alle tre o alle quattro del mattino. Dormivo soltanto tre o quattro ore per notte, ma mi bastava. Spesso, durante gli anni della mia vita di strada, avevo dormito molto meno . Gli insegnamenti di Muhammad insistevano sul fatto che la storia era stata distorta, «sbiancata», perché quelli che avevano scritto i libri di storia erano bianchi e il negro era stato lasciato completamente fuori. Niente avrebbe potuto colpirmi di più. Non avevo mai dimenticato che, quando insieme con i miei compagni bianchi studiavamo storia americana nella settima classe, a Mason, arrivammo all'unico paragrafo che trattava la storia dei negri. L'insegnante era scoppiato in una grande risata e aveva tirato fuori la sua battuta: «I piedi dei negri sono così grandi che, quando camminano, lasciano dei buchi per terra» . E' questa una ragione che spiega come gli insegnamenti di Muhammad si siano diffusi rapidamente per tutti gli Stati Uniti, tra TUTTI i negri, anche tra quelli che non sono poi diventati suoi seguaci. Per ogni negro quelle parole risuonano come la verità. E' molto difficile trovare un adulto americano, sia negro che bianco, che abbia imparato dai libri di storia una valutazione veritiera circa il ruolo svolto dai negri. Per quanto mi riguarda, non appena sentii parlare della «gloriosa storia del popolo negro» mi preoccupai di cercare in biblioteca dei libri in grado di insegnarmi i particolari di tale storia . Ricordo benissimo i primi volumi che esercitarono su di me una grande impressione. In seguito li comprai e li tengo in casa per le mie bambine quando saranno grandi. E' una collana intitolata «Meraviglie del mondo»: ogni volume è pieno di illustrazioni di ritrovamenti archeologici e di statue, principalmente di popoli non europei . In biblioteca trovai libri come "Story of Civilization" di Will Durant e "Outline of History" di H. G. Wells. "Souls of Black Folk" di W. E. B. Du Bois mi dette un'idea della storia dei negri prima che arrivassero in questo paese, mentre il volume di Carter G. Woodson, "Negro History", mi aprì gli occhi riguardo all'esistenza di grandi imperi africani prima che gli schiavi fossero portati negli Stati Uniti, e sulle circostanze della lotta dei negri per la libertà . Nei tre volumi "Sex and Race" di J. A. Rogers trovai un'esposizione della mescolanza razziale precedente all'età di Cristo: lessi che Esopo era un negro; imparai la storia dei faraoni d'Egitto e dei grandi imperi copti, dell'Etiopia, che è la più antica civiltà negra ininterrotta della terra, così come quella cinese è la più antica civiltà ininterrotta in assoluto . Gli insegnamenti di Muhammad su come era stato creato l'uomo bianco mi spinsero a leggere "Findings in Genetics" di Gregor Mendel. Avevo imparato il significato della parola «genetica» mentre copiavo la lettera G del dizionario. La ripetuta lettura di questo libro, e specialmente di certi suoi capitoli, mi aiutò a capire che si può produrre un bianco partendo da un negro, ma non viceversa, perché il cromosoma bianco è recessivo. Poiché nessuno sembra mettere in dubbio che ci sia stato un solo tipo di uomo originario, la conclusione è evidente . Nel corso dell'ultimo anno circa, nel «New York Times», Arnold Toynbee, per descrivere l'uomo bianco si servì della parola «schiarito». Ecco le sue parole: «Gli esseri umani bianchi (cioè schiariti) di origine nordeuropea...» Toynbee si riferiva anche all'area geografica dell'Europa come a un'appendice peninsulare dell'Asia e diceva che l'Europa è un concetto astratto. Se si guarda il mappamondo si vede chiaramente che l'America non è altro che un'estensione dell'Asia. (Nello stesso tempo, Toynbee appartiene al numero di quegli storici che hanno «schiarito» la storia. E' lui che ha scritto che l'Africa è l'unico continente che non ha mai fatto storia, ma non credo che lo scriverà ancora perché, giorno per giorno, la verità si fa strada) . Non dimenticherò mai l'impressione che mi fece il leggere le descrizioni degli orrori della schiavitù. Questo argomento mi colpì talmente che, in seguito, quando diventai pastore della religione di Muhammad, esso fu uno dei miei temi preferiti . Sembra quasi impossibile credere a questo massimo crimine della storia del mondo, alle colpe e al sangue di cui sono macchiate le mani dell'uomo bianco. Libri come quello di Frederick Olmstead mi rivelarono gli orrori a cui furono sottoposti gli schiavi quando sbarcarono negli Stati Uniti. Un'europea, Fannie Kimball, che aveva sposato un sudista padrone di schiavi, ci ha lasciato la vivida descrizione di come venivano abbrutiti tutti quegli esseri umani. Naturalmente lessi "La capanna dello zio Tom" e anzi credo che quello sia stato l'unico romanzo che ho letto da quando ho cominciato a dedicarmi alle letture serie . Nella collezione di Parkhurst c'erano anche delle raccolte di opuscoli dell'Associazione antischiavista della Nuova Inghilterra. Lessi in quelle pagine le più incredibili descrizioni di atrocità e vidi le illustrazioni di schiave negre legate e frustate, di madri negre a cui venivano strappati i loro bambini, che non avrebbero mai più riveduto, di grossi cani lanciati all'inseguimento degli schiavi evasi e dei malvagi uomini bianchi che li inseguivano armati di fruste, bastoni, catene e fucili. Lessi del predicatore negro Nat Turner, che seppe suscitare il timor di Dio nel padrone di schiavi bianco . Nat non andava certo in giro a predicare la ricompensa nell'altra vita e la libertà «non violenta» per il negro: nel 1831, in Virginia, Nat Turner e altri sette schiavi cominciarono dalla casa del suo padrone e, per tutta la notte, andarono da una dimora di proprietari di piantagioni all'altra uccidendo. La mattina dopo cinquantasette bianchi erano morti e Nat aveva un seguito di settanta schiavi. I bianchi, terrorizzati, lasciarono le loro case, si asserragliarono negli edifici pubblici o si nascosero nei boschi, mentre alcuni lasciarono addirittura lo stato. Ci vollero due mesi prima che un piccolo esercito di soldati riuscisse a catturare e impiccare Nat Turner. Ho letto da qualche parte che l'esempio dato da Turner sembra abbia ispirato circa trent'anni dopo John Brown nel suo tentativo di invadere la Virginia e attaccare Harper's Ferry con tredici bianchi e cinque negri . Lessi Erodoto, «il padre della storia», o meglio lessi dei libri su di lui; e poi le storie di vari paesi che, prima lentamente e poi con una prospettiva sempre più larga, mi rivelarono che tutti gli uomini bianchi si erano davvero comportati come dei diavoli, saccheggiando, stuprando, sfruttando e succhiando il sangue di tutto il mondo abitato da non bianchi. Ricordo per esempio libri come "The Story of Oriental Civilization" di Will Durant e le memorie del Mahatma Gandhi sulla lotta per cacciare gli inglesi dall'India . Un libro dopo l'altro mi aiutava a comprendere i sistemi con cui l'uomo bianco aveva imposto il suo sfruttamento ai negri, ai pellirossa e ai popoli gialli. Imparai come, fin dal secolo sedicesimo, i cosiddetti mercanti cristiani avevano corso i mari per soddisfare la loro avidità di ricchezze, potere e conquista in Asia e in Africa e come l'uomo bianco non andò mai tra gli altri popoli portando la croce nel vero spirito degli insegnamenti di Cristo e cioè con umiltà e fratellanza . Mi resi conto da queste letture che l'uomo bianco collettivamente non era stato altro che un opportunista predatore capace di servirsi di diabolici intrighi per aprire la strada alle sue conquiste criminali con il cristianesimo . Dapprima, sempre «da un punto di vista religioso», definiva come pagani e infedeli civiltà e culture non bianche e poi, una volta preparata la scena, si scagliava su di esse con le armi della guerra . Lessi che nel 1759 gli inglesi entrarono in India - MEZZO MILIARDO circa di gente molto religiosa dalla pelle scura - e mediante promesse, imbrogli e intrighi di ogni genere, arrivarono a controllare gran parte del paese attraverso la East India Company. L'amministrazione britannica, questo meccanismo parassitario, cominciò ad allungare i suoi tentacoli su circa metà di questo sottocontinente e, nel 1857, una parte del disperato popolo dell'India finalmente si ammutinò. Fatta eccezione per il mercato degli schiavi africani, mai nella storia si trova un esempio peggiore di inutili, bestiali e spietate carneficine come quelle compiute dagli inglesi per reprimere la rivolta del popolo dell'India . Nell'intero periodo della tratta degli schiavi, circa centoquindici milioni di negri africani furono assassinati o ridotti in schiavitù, numero molto vicino alla popolazione degli Stati Uniti nel 1930. Quando il commercio degli schiavi ebbe saturato il mercato, le nazioni cannibalistiche dell'Europa si precipitarono ad occupare e trasformare in loro colonie le più ricche zone del continente nero. Durante tutto il secolo successivo, le cancellerie dell'Europa giocarono la loro partita di sfruttamento e di potere dal Capo Horn fino al Cairo . Neanche dieci secondini mi avrebbero potuto strappare a quei libri. Neanche Elijah Muhammad sarebbe riuscito più persuasivo di loro nell'offrirmi le prove indiscutibili che l'uomo bianco, collettivamente, si era comportato come un diavolo in quasi tutte le circostanze in cui era venuto a contatto con gente non del suo colore. Oggi, se si ascolta la radio, si guarda la televisione o si leggono i giornali, si sente dappertutto la paura e la tensione collettiva dell'uomo bianco di fronte alla Cina. Quando i bianchi dichiarano di non capire perché i cinesi li odiano, mi viene subito in mente quello che leggevo quand'ero in prigione circa i metodi con cui gli antenati dei bianchi di oggi devastarono e saccheggiarono la Cina al tempo in cui essa era inerme e fiduciosa. I mercanti cristiani avevano mandato in Cina milioni di chilogrammi di oppio e, nel 1839, gli intossicati erano così tanti che il governo, giunto alla disperazione, distrusse ventimila casse della micidiale droga . L'uomo bianco dichiarò immediatamente la prima guerra dell'oppio. Pensate un po'! Dichiarar GUERRA a chi rifiuta di farsi avvelenare dai narcotici! I cinesi furono duramente sconfitti con la polvere da sparo che avevano inventato . Il trattato di Nanchino costrinse la Cina a risarcire gli inglesi del costo dell'oppio distrutto, aprì i principali porti del paese al commercio britannico, costrinse la Cina a cedere Hongkong e stabilì dazi doganali così bassi che i più scadenti prodotti inglesi poterono cominciare a essere introdotti in massa, impedendo così lo sviluppo industriale del paese . Dopo la seconda guerra dell'oppio, i trattati di Tientsin legalizzarono il turpe commercio e il controllo delle dogane cinesi da parte di americani, britannici e francesi. La Cina cercò di ritardare la ratifica del trattato e subito Pechino fu saccheggiata e bruciata . «A morte i diavoli bianchi!» fu il grido di battaglia della ribellione dei Boxer nel 1901. Ancora una volta sconfitti, i cinesi furono cacciati dalle zone più belle di Pechino e i crudeli, arroganti vincitori misero dappertutto i famosi cartelli che dicevano: «Vietato l'ingresso ai cinesi e ai cani» . Dopo la seconda guerra mondiale, la Cina comunista chiuse le porte ai bianchi occidentali. Persino in un libro recentemente pubblicato dalla rivista «Life» si trovano descritti i colossali sforzi che i cinesi stanno compiendo nel campo agricolo, scientifico e industriale. Alcuni osservatori che hanno vissuto a lungo nella Cina comunista riferiscono che mai prima si era registrata una campagna di odio contro i bianchi come quella che viene condotta oggi in questo paese. Se continuerà il presente tasso di crescita della popolazione, in altri cinquant'anni i cinesi costituiranno la metà degli abitanti della terra e sembra anche, grazie ai recenti esperimenti nucleari coronati da successo, che i cinesi otterranno straordinari risultati . Guardiamo in faccia la realtà. Vediamo che alle Nazioni Unite si sta lentamente formando un nuovo ordine mondiale sulla base del colore, un'alleanza tra le nazioni non bianche. Adlai Stevenson, ambasciatore degli Stati Uniti presso le Nazioni Unite, si lamentava non molto tempo fa che in quel supremo consesso si giocasse «una partita basata sul colore della pelle». Aveva ragione: lui guardava in faccia la realtà. E' vero che si sta giocando «una partita basata sul colore della pelle», ma l'ambasciatore Stevenson faceva come Jesse James che accusava lo sceriffo di portare la pistola. Infatti chi mai in tutta la storia umana ha giocato più dell'uomo bianco «la partita basata sul colore della pelle»? Elijah Muhammad, al quale scrivevo tutti i giorni, non aveva idea di quali orizzonti mi si fossero aperti grazie ai miei sforzi di trovare nei libri conferma e documentazione ai suoi insegnamenti . Quando ebbi scoperto la filosofia, cercai di accostarmi alle opere principali della storia del pensiero e, piano piano, lessi gran parte degli antichi filosofi, sia occidentali che orientali. Arrivai a preferire i secondi fino a rafforzarmi nell'impressione che gran parte della filosofia occidentale fosse derivata dai pensatori dell'Oriente. Per esempio Socrate andò in Egitto e certe fonti ci dicono che fu iniziato ad alcuni dei misteri egiziani. E' chiaro comunque che molta della sua sapienza derivava dai saggi dell'Oriente . Ho spesso riflettuto sui nuovi orizzonti che la lettura mi aveva aperto e, già quando ero in prigione, mi ero accorto che aveva mutato per sempre il corso della mia vita. Oggi mi rendo conto che l'essermi messo in grado di leggere risvegliò in me un desiderio sepolto di essere vivo intellettualmente. Non aspiravo ad una laurea, cioè a quel modo in cui un istituto di istruzione accademica conferisce ai suoi studenti un simbolo di prestigio . Ero un autodidatta e ogni libro in più che leggevo diventavo sempre più sensibile circa la sordità, la stupidità e la cecità che affliggevano i negri d'America. Non molto tempo fa, uno scrittore inglese mi telefonò da Londra per chiedermi delle informazioni. Una di queste riguardava l'università che avevo frequentato. Io gli risposi che l'unica mia scuola erano stati i libri. E' impossibile, quando ho un quarto d'ora libero, che non mi metta subito a studiare qualcosa che penso possa servire ad aiutare il negro . Ieri ho fatto una conferenza a Londra e sia nel viaggio d'andata che in quello di ritorno attraverso l'Atlantico ho studiato un documento col quale le Nazioni Unite si propongono di tutelare i diritti umani delle minoranze oppresse nel mondo. Il negro americano è l'esempio più vergognoso che esista di una minoranza oppressa. Quello che li fa pensare di non essere altro che un problema interno degli Stati Uniti è una formuletta verbale fatta di due sole parole: «diritti civili». Come potrà il negro ottenere i «diritti civili» prima che riesca a veder tutelati i suoi diritti UMANI? Se comincerà a pensare ai suoi diritti UMANI e solo successivamente a considerarsi parte di una delle grandi nazioni del mondo, il negro americano si accorgerà che il suo caso riguarda le Nazioni Unite . Non riesco a immaginare un caso migliore! Quattrocento anni di sangue e sudore negri investiti qui in America e ancora l'uomo bianco che ci costringe a implorare per ottenere ciò che qualsiasi immigrato, appena sceso dalla nave, considera un suo diritto . Ma io sto facendo troppe digressioni. Dicevo a quell'inglese che la mia università erano stati i libri, una buona biblioteca . Quando vado in aereo mi porto sempre dietro un libro da leggere e, dato che viaggio continuamente, ciò vuol dire che leggo parecchi libri. Se non dovessi impiegare le mie giornate a combattere l'uomo bianco, potrei trascorrere il resto della vita a leggere, a soddisfare la mia curiosità, perché io sono curioso di tutto. Credo che ben pochi abbiano tratto giovamento come me dall'essere stati in prigione. Infatti ciò mi consentì di studiare con maggiore intensità di quanto avrei fatto se la mia vita fosse stata diversa e se avessi frequentato l'università . Penso che uno dei grossi limiti dei college sia dato dal fatto che ci sono troppe distrazioni, troppe associazioni studentesche, troppe incursioni nei dormitori femminili e perdite di tempo di ogni genere. Dove, fuorché in prigione, avrei potuto combattere la mia ignoranza studiando qualche volta fino a quindici ore al giorno? Lessi naturalmente Schopenhauer, Kant, Nietzsche, ma devo dire che non ho alcun rispetto per loro (sto cercando di ricordarmi qualche pensatore le cui teorie meditai a lungo in quegli anni) . Si dice che questi tre furono in qualche modo i precursori delle concezioni fasciste e naziste. Non ho molto rispetto per loro perché mi sembra che sprecarono gran parte del loro tempo a discutere di cose che non avevano molta importanza. Mi ricordano tanti cosiddetti «intellettuali» negri con cui ho avuto a che fare, i quali stanno sempre a discutere di cose perfettamente inutili . Rimasi assai colpito dal fatto che Spinoza era un ebreo spagnolo dalla pelle nera. Gli ebrei lo scomunicarono perché sosteneva una dottrina panteistica, qualcosa come la «totalità di Dio» o «Dio è in tutte le cose». Essi gli fecero il funerale, volendo significare con ciò che, per quanto li riguardava, era morto. La sua famiglia fu cacciata dalla Spagna e finì in Olanda . Vi dirò che secondo me l'intero corso della filosofia occidentale è ora finito in un vicolo cieco. L'uomo bianco ha perpetrato su se stesso, oltre che sul negro, una frode talmente gigantesca da trovarsi rinchiuso in una trappola, ed ha fatto ciò per il suo bisogno nevrotico di nascondere il vero ruolo del negro nella storia . Oggi l'uomo bianco si trova a dover affrontare gli avvenimenti del continente nero, dell'Africa. Si stanno scoprendo continuamente le prove che il negro aveva creato delle grandi civiltà, quando ancora i bianchi vivevano nelle caverne e, sotto le sabbie del Sahara, negli stessi luoghi dove gli antenati dei negri americani vennero rapiti, si stanno scavando esempi meravigliosi di artigianato, sculture ed altri oggetti quali l'uomo moderno ha visto raramente. Alcuni di essi sono ora esposti nei musei, come per esempio nel Museo di arte moderna di New York City. Si tratta di lavori di oreficeria di tale raffinatezza e precisione da non temere confronti, di oggetti fabbricati anticamente da mani di negri e perfezionati da quelle stesse mani in modo ineguagliabile . La storia è stata così «schiarita» dall'uomo bianco che anche i professori negri non sapevano molto di più dei loro confratelli più ignoranti riguardo alle splendide civiltà e culture create dal popolo negro migliaia di anni fa. Ho parlato molte volte nei college negri e alcuni dei laureati, vittime di un sistematico condizionamento, magari carichi di titoli accademici, sono corsi ai giornali dell'uomo bianco a denunciarmi come «fanatico negro». Molti di loro sono rimasti indietro di mezzo secolo. Se fossi presidente di uno di questi college, chiuderei se necessario il campus per mandare un gruppo di studenti negri a scavare in Africa alla ricerca di un sempre maggior numero di prove della grandezza storica della razza negra. L'uomo bianco oggi in Africa scava e compie ricerche; e se un elefante africano inciampa, casca regolarmente addosso a un bianco che sta lì con la vanga. Praticamente tutte le settimane si legge di nuovi grandi ritrovamenti relativi alle perdute civiltà dell'Africa. Quello che c'è di nuovo è l'atteggiamento degli scienziati bianchi. Le antiche civiltà negre sono state sepolte tutto questo tempo nel continente nero . Ecco un esempio. L'antropologo inglese Louis S. B. Leakey fa vedere alcune ossa fossili - di un piede, di una mano, mascelle e frammenti di cranio - e in base a queste sostiene che è ormai tempo di riscrivere completamente la storia delle origini dell'uomo . L'uomo appartenente a questa specie visse 1818036 anni prima di Cristo. Le sue ossa furono trovate nel Tanganica, nel continente nero . E' delittuosa la menzogna che è stata fatta credere a generazioni sia di negri che di bianchi. Innocenti bambini negri, nati da genitori che credevano che la loro razza non avesse storia, si accorgono, prima ancora di essere in grado di parlare, che i membri della loro famiglia si considerano inferiori. Quei bambini innocenti cresceranno, vivranno la loro vita, moriranno da vecchi, sempre con la vergogna di essere negri. La verità comincia però a farsi strada . Durante la mia permanenza nello stabilimento di pena di Norfolk mi si aprirono due altri campi di esperienza. Prima di tutto cominciai ad aprire gli occhi ai miei fratelli negri riguardo a certe verità sulla nostra gente e poi, quando ebbi letto abbastanza da essere in grado di farlo, mi iscrissi ai dibattiti settimanali che avevano luogo nel penitenziario. Questo fu il mio battesimo per quel che riguarda il parlare in pubblico . Devo ammettere qualcosa di veramente triste e per me vergognoso . Mi era talmente piaciuto stare in mezzo ai bianchi che in prigione quasi non potevo sopportare il modo in cui i detenuti negri stavano così tanto insieme, ma quando gli insegnamenti di Muhammad ebbero rovesciato il mio atteggiamento verso quei miei fratelli negri, con un profondo senso di colpa mi detti a cercare qualsiasi occasione per reclutare adepti al movimento dei Black Muslims . Bisogna insegnare la verità con molta cautela al negro che in precedenza non ha mai sentito come stanno davvero le cose per quanto riguarda lui, la sua gente e l'uomo bianco. Mio fratello Reginald mi aveva detto che tutti gli attivisti di Muhammad avevano fatto questa esperienza. Il negro è stato sottoposto a un tale lavaggio del cervello per secoli che può magari ribellarsi quando sente per la prima volta la verità. Reginald consigliava che si dovesse dirla poco per volta ed aspettare, prima di fare il passo successivo, che le cose dette fossero state assorbite . Prima di tutto cominciai a parlare ai miei fratelli detenuti della storia gloriosa dei negri, cose queste che non avevano mai neppure sognato. Dissi loro le terribili verità sulla tratta degli schiavi, verità a loro del tutto sconosciute. Quando parlavo di queste cose osservavo i loro volti. L'uomo bianco era riuscito a cancellare completamente il ricordo di quel passato di schiavitù: il negro americano non conosce il suo vero nome di famiglia e neppure quello della tribù da cui discende: i Mandingo, gli Uolof, i Serer, i Ful, i Fanti, gli Ashanti, o altre. Dicevo loro che alcuni schiavi portati dall'Africa parlavano l'arabo e seguivano la religione dell'Islam. Parecchi di questi detenuti negri non ci volevano credere finché non sentivano dire queste cose dall'uomo bianco e perciò, spesso, leggevo loro dei passi scelti tratti da libri scritti dai bianchi. Spiegavo che la verità era ben nota ad alcuni di essi, cioè agli studiosi, ma che per generazioni e generazioni c'era stata una vera e propria congiura per tenere i negri all'oscuro . Guardavo con attenzione come ciascuno di loro reagiva alle mie parole. Dovevo stare molto attento perché poteva darsi il caso che qualche sciocco col cervello annebbiato, qualche zio Tom di professione, mi facesse un segno di assenso per poi andar di corsa a riferire tutto ai bianchi. Quando mi accorgevo che qualcuno era maturo, lo portavo lontano dagli altri e gli dicevo quello che Muhammad insegnava: «L'uomo bianco è il diavolo» . Quest'affermazione turbava molti di essi, finché non cominciavano a pensarci sopra . Il sistema carcerario americano di oggi deve fare i conti col fatto che gli insegnamenti dei Muslims, diffusi tra tutti i negri del paese, convertono molti detenuti negri e la percentuale dei negri in prigione è assai maggiore della percentuale dei negri liberi rispetto alla popolazione degli Stati Uniti . La ragione di ciò è che, tra tutti i negri, il detenuto è il più preparato ad ascoltare le parole «l'uomo bianco è il diavolo» . Ditelo a qualsiasi negro. Fatta eccezione per quei cosiddetti «intellettuali» ansiosi di ottenere 1'«integrazione» e che sono relativamente pochi, oppure per quegli altri negri che per vie diverse riescono ad esser grassi, felici, sordomuti e ciechi divorando le briciole della ricca mensa dell'uomo bianco, quando si dicono quelle parole è come se si toccasse il centro nevralgico del negro americano. Può darsi che per reagire gli ci voglia un giorno, un mese o magari un anno; può darsi anche che non reagisca mai apertamente, ma si può essere sicuri di una cosa: che quando pensa alla sua vita, si accorgerà che l'uomo bianco si è certamente comportato nei suoi confronti in modo diabolico . Come dicevo, il detenuto, più di tutti gli altri negri, sarà in grado di constatare quella verità, lui che è rinchiuso dietro le sbarre, probabilmente per anni, tenuto dentro dall'uomo bianco . Di solito egli viene da quei diseredati, da quegli strati di negri che passano tutta la loro vita presi a calci, trattati come bambini, gente che non ha mai conosciuto un bianco senza che questi lo abbia derubato o gli abbia fatto qualcosa di male . Fate in modo, come successe a me quando per la prima volta ascoltai gli insegnamenti di Elijah Muhammad, che questo negro in gabbia cominci a pensare, fate in modo che cominci a meditare sul fatto che, se quand'era giovane e ambizioso fosse vissuto in condizioni diverse, anche lui avrebbe potuto essere avvocato, dottore, scienziato o qualunque altra cosa. Fate in modo, come facevo io, che questo negro in gabbia cominci a rendersi conto che dal momento in cui la prima nave negriera toccò le sponde americane, i milioni di negri vissuti in questo paese sono stati come pecore nella tana dei lupi. E' questa la ragione per cui i carcerati negri diventano così presto seguaci di Elijah Muhammad non appena i suoi insegnamenti cominciano a filtrare attraverso le sbarre delle loro gabbie ad opera di altri detenuti già convertiti. L'espressione «l'uomo bianco è il diavolo» non è altro che l'eco esatta dell'esperienza di tutta la vita di quei carcerati negri . Dicevo prima che, nello stabilimento di pena di Norfolk i dibattiti erano un avvenimento di ogni settimana. Le letture avevano trasformato la mia mente in una caldaia sotto pressione: in qualche modo dovevo cominciare a dire in faccia all'uomo bianco tutto ciò che lo riguardava. Pensai che potevo farlo partecipando a quei dibattiti . Mai, nel corso della mia vita precedente, mi sarebbe passato per la testa di alzarmi e parlare davanti a un pubblico. Per le strade, quando mi dedicavo a ogni specie di traffici, a vendere stupefacenti o a compiere rapine, una libbra di hashish mi faceva sognare cose grandiose, ma mai sarei arrivato a pensare che un giorno avrei parlato in anfiteatri e campi sportivi, nelle più grandi università americane, alla radio e alla televisione, senza contare i miei giri di conferenze, in Egitto, Africa e Inghilterra . Devo dire che là in prigione, i dibattiti e i discorsi davanti a tutti i detenuti mi entusiasmavano come mi aveva entusiasmato la scoperta che, attraverso la lettura, avevo fatto del sapere . Stavo là in piedi con tutti gli occhi fissi su di me, con i pensieri che mi si trasformavano in parole mentre cercavo nella mia mente un'argomentazione migliore da far seguire a quella che stavo sviluppando, e se riuscivo con un ragionamento ineccepibile a trascinare gli altri dalla mia parte, avevo vinto. Una volta in ballo dovevo ballare, e qualunque fosse la parte dell'argomento scelto che mi veniva assegnata, mi mettevo con diligenza a studiare tutto quello che trovavo in proposito . Cercavo di mettermi nei panni del mio avversario e pensavo a come avrei cercato di vincere se fossi stato lui. Poi mi sforzavo di trovare il sistema di smantellare i suoi argomenti e, non appena si presentava la minima occasione, mettevo nel mio discorso qualche accenno alla cattiveria dell'uomo bianco . Ricordo che, inaspettatamente, una buona occasione mi fu offerta da un dibattito su questo argomento: «Servizio militare obbligatorio o no?» Il mio contraddittore alzava lamenti sugli abissini che scagliavano pietre e lance contro gli aerei italiani, credendo così di «provare» la necessità del servizio militare obbligatorio. Io ribattevo che la carne nera degli abissini era stata spappolata contro gli alberi dalle bombe che il papa di Roma aveva benedetto e che essi avrebbero scagliato persino i loro corpi contro gli aeroplani perché si erano accorti che stavano combattendo contro il diavolo incarnato . Il pubblico rispose disapprovando perché avevo introdotto il problema razziale nel dibattito. Risposi che non si trattava di questo, ma di un fatto storico, e che avrebbero dovuto leggere "Days of Our Years" di Pierre van Paassen. Non mi sorprese minimamente il fatto che, subito dopo il dibattito, quel libro sparì dalla biblioteca della prigione. Fu nel penitenziario che decisi di dedicare il resto della mia vita a dire all'uomo bianco chi era. Se non lo avessi fatto mi sarei sentito come morto. Durante un dibattito sull'argomento: «Omero è esistito o no?» gettai in faccia ai bianchi la teoria secondo cui Omero era il simbolo del modo in cui gli europei avevano rapito i negri africani, accecandoli poi affinché non potessero più ritornare alla loro gente. (Omero, Omar e Moro sono termini correlativi . E' come dire Pietro, Pedro e Petra, che tutti e tre vogliono dire pietra). A questi mori accecati gli europei insegnarono a cantare le loro proprie glorie e io spiegai chiaramente che si trattava di un'idea molto gradita al diabolico uomo bianco. Un altro esempio sono le favole di Esopo, nome greco di un etiope . Ricordo un altro dibattito assai animato a cui partecipai, sul problema dell'identità di Shakespeare. Qui il colore non c'entrava per niente: fui affascinato dal dilemma shakespeariano. La traduzione della Bibbia di re Giacomo è considerata come la più grande opera letteraria in lingua inglese: il suo stile rappresenta la perfezione suprema. Ebbene, la lingua di Shakespeare e quella della Bibbia di re Giacomo sono la stessa cosa. Dicono che dal 1604 al 1611 il re Giacomo assumesse dei poeti per tradurre la Bibbia. Ora, se Shakespeare è veramente esistito, era uno dei maggiori poeti del suo tempo, ma nessuna fonte lo cita in connessione con la Bibbia. Se esistette, perché re Giacomo non si servì di lui? E se si servì di lui perché la cosa è rimasta un segreto? So che molti dicono che Francesco Bacone era Shakespeare. Se ciò fosse vero, perché Bacone avrebbe dovuto tenerlo segreto? Lui non era di sangue reale, dato che i discendenti di quelle illustri stirpi talvolta usavano pseudonimi perché non stava bene dedicarsi all'arte o al teatro. Ma Bacone cosa avrebbe avuto da perdere? In realtà mi pare che avrebbe avuto tutto da guadagnare . Nei dibattiti che facevamo al penitenziario, sostenevo la teoria che lo stesso re Giacomo era il poeta che si servì dello pseudonimo Shakespeare. Era un uomo di brillante ingegno, il più gran re che mai si sia seduto sul trono britannico. Chi altri tra le stirpi reali del suo tempo possedeva il genio per scrivere le opere di Shakespeare? Fu lui che presentò poeticamente la Bibbia che, in se stessa e nella versione di re Giacomo, ha reso schiavo il mondo . Quando mio fratello Reginald veniva a farmi visita gli esponevo le nuove prove che trovavo a conferma degli insegnamenti musulmani. Avevo letto il "Paradiso perduto" di Milton. Il diavolo, cacciato dal paradiso cercava di riprender possesso della sua dignità e si serviva delle forze dell'Europa, impersonate dai papi, da Carlo Magno, da Riccardo Cuor di Leone e da altri cavalieri. Interpretavo tutto ciò come una prova che gli europei erano spinti e guidati dal diavolo, o dalla sua personificazione. Milton e Elijah Muhammad dicevano in realtà la stessa cosa . Non potevo credere ai miei orecchi quando Reginald cominciò a parlar male di Elijah Muhammad. Non posso dire precisamente quello che affermava. Si trattava più che altro di allusioni nei confronti di Muhammad e, più che in quel che diceva, le critiche di Reginald erano contenute nel tono della sua voce o nel suo sguardo . La cosa mi colse alla sprovvista gettandomi in uno stato di smarrimento. Reginald, il mio fratello di sangue nel quale avevo tanta fiducia e che stimavo profondamente, lui che mi aveva introdotto nella Nazione dell'Islam! Non potevo crederlo perché per me l'Islam valeva più di qualsiasi altra cosa che avessi conosciuto nella mia vita: l'Islam e Elijah Muhammad avevano cambiato l'intera mia esistenza! Seppi che Reginald era stato sospeso dalla Nazione dell'Islam da Elijah Muhammad perché non aveva saputo tenere un contegno morale. Dopo aver imparato e accettato la verità e le leggi musulmane, Reginald aveva continuato ad avere una relazione con l'allora segretaria del tempio di New York. Alcuni altri Muslims lo avevano saputo e avevano denunciato Reginald a Muhammad a Chicago. Questi lo aveva sospeso . Quando mio fratello se ne andò, rimasi in uno stato di angoscia e quella stessa sera scrissi a Muhammad cercando di difendere Reginald e di perorare la sua causa. Gli spiegavo cosa quel ragazzo significava per me . Misi la lettera nella cassetta del censore della prigione e, per tutto il resto della notte, pregai Allah. Non credo che si sarebbe potuto pregare con più sincerità: chiedevo ad Allah che mi illuminasse . La notte seguente, mentre stavo sdraiato sul letto, mi accorsi improvvisamente che accanto a me, seduto sulla sedia, c'era un uomo. Ricordo che portava un vestito nero. Lo vedevo benissimo: non era un negro e neppure un bianco, ma aveva una pelle marrone chiaro, il contegno tipico degli asiatici e capelli neri oleosi . Lo guardai in faccia. Non ero spaventato. Sapevo di non sognare e non mi potevo muovere; non parlavo e lui non parlava. Non avrei potuto definirlo dal punto di vista razziale: l'unica cosa che potevo dire era che si trattava di un non europeo. Non avevo la minima idea di chi fosse. Sapevo solo che era seduto lì. Poi così come era venuto se ne andò . Muhammad mi rispose subito a proposito di Reginald. «Se hai creduto una volta alla verità, scriveva, - ed ora incominci a dubitarne, vuol dire che non hai mai davvero creduto. Che cosa, oltre alla tua debolezza, potrebbe infatti farti dubitare della verità?» Queste parole mi colpirono. Reginald non faceva la vita disciplinata che è richiesta a un Black Muslim. Sapevo che Elijah Muhammad aveva ragione e che mio fratello aveva torto perché non c'è una via di mezzo: o si ha ragione o si ha torto . Allora non avrei mai pensato che sarebbe venuto il giorno in cui Elijah Muhammad sarebbe stato accusato dai suoi stessi figli di quegli atti immorali per i quali aveva giudicato Reginald e tanti altri . Ma a quel tempo tutti i miei dubbi e la mia confusione furono dissipati; l'influenza che mio fratello esercitava su di me cessò e, da quel giorno in poi, tutto quello che ha fatto mio fratello Reginald è per me sbagliato . Ma lui continuò a venire a farmi visita. Finché era stato un Black Muslim andava vestito in modo impeccabile, ma ora portava magliette, pantaloni grinzosi e scarpe da ginnastica. Quando parlava lo ascoltavo con freddezza, ma lo ascoltavo. Era pur sempre il mio fratello di sangue . Poco alla volta vidi che il castigo di Allah, quello che i cristiani chiamerebbero la «maledizione», cadeva su Reginald . Elijah Muhammad diceva che ciò sarebbe successo perché chiunque sfidava lui sarebbe stato castigato da Allah. L'Islam ci insegnava che finché non si conosceva la verità si viveva nelle tenebre, ma una volta che essa era accettata e riconosciuta, si viveva nella luce e chiunque fosse andato contro il vero sarebbe stato punito da Allah . Muhammad insegnava che la stella a cinque punte simboleggiava la giustizia e, insieme, i cinque sensi dell'uomo e che Allah applica la giustizia influendo sui cinque sensi di coloro che si ribellano al suo messaggero, ossia alla sua verità. Ci veniva insegnato che questo era il modo seguito da Allah per far conoscere ai suoi seguaci che si degnava di difendere il suo messaggero contro qualsiasi opposizione, finché questi non si fosse allontanato dal sentiero della verità. Ci veniva insegnato anche che Allah precipitava i transfughi nella confusione mentale. Allora io credetti che fosse Allah a far questo a mio fratello . In una lettera, credo scritta da Philbert, mi si diceva che Reginald era con loro a Detroit. Non seppi più niente di lui fino a quando, molte settimane più tardi, Ella mi venne a far visita e mi disse che Reginald era a casa sua a Roxbury che dormiva. Mi raccontò che aveva sentito bussare, era andata alla porta e aveva visto Reginald tutto stravolto. «Da dove vieni?» gli aveva domandato. Reginald le aveva risposto che veniva da Detroit. «In che modo sei arrivato?» gli aveva chiesto Ella. Lui aveva risposto di aver fatto il viaggio a piedi . Son sicuro che era vero. Credevo in Elijah Muhammad e lui ci aveva convinto che il castigo di Allah si era manifestato con un'influenza sulla mente di Reginald tale da fargli perdere il senso dello spazio e del tempo. Qui in Occidente noi non conosciamo una certa dimensione del tempo e Elijah Muhammad diceva che, sotto la pressione punitiva di Allah, i cinque sensi di un uomo possono essere così sconvolti da coloro che hanno un potere mentale superiore che, in cinque minuti, i capelli gli possono diventare tutti bianchi, oppure può trovarsi a camminare per miglia e miglia credendo di aver percorso solo cinque isolati . In prigione, dopo che ero diventato un Muslim, mi lasciai crescere la barba e quando Reginald venne a farmi visita, si agitava nervosamente sulla sedia: mi disse che ogni pelo della mia barba era un serpente. Vedeva serpenti dappertutto . Poi cominciò a credere di essere lui il «Messaggero di Allah» . Come mi riferì Ella, andava per le strade di Roxbury dicendo a tutti che aveva poteri divini. Da questo passò poi a dire che era Allah e, finalmente, che era più grande dello stesso Allah . Reginald venne fermato e rinchiuso in un ospedale psichiatrico . Gli specialisti non riuscirono a spiegarsi la causa delle sue condizioni: non potevano capire il castigo di Allah. Così venne rilasciato, e successivamente ripreso e affidato a un altro ospedale psichiatrico. Ora si trova ricoverato là, ma io, pur sapendolo, non dirò dov'è perché non voglio provocargli più guai di quelli che ha già avuto . Oggi credo che fosse scritto che Reginald dovesse servire per un solo scopo: come esca per raggiungermi in quell'immenso oceano di oscurità, per salvarmi. Non riesco a spiegarmelo diversamente . Quando, in seguito, lo stesso Elijah Muhammad fu accusato di grave immoralità, mi persuasi che nel caso di Reginald non si trattava affatto di castigo divino, ma la causa era stata il dolore che egli provò quando tutta la sua famiglia si schierò contro di lui dalla parte di Elijah Muhammad. Fu per quel dolore che Reginald si rivoltò in modo insano contro il Messaggero di Allah . E' impossibile sognare, vedere o avere una visione di qualcuno che non si è mai visto prima e vederselo davanti esattamente com'è. Una cosa del genere si chiama anticipazione visiva . Più tardi mi convinsi che in quella visione che ho raccontato prima mi era apparso il maestro W. D. Fard, il Messia, colui dal quale Elijah Muhammad diceva di esser stato nominato suo ultimo Messaggero presso il popolo negro dell'America settentrionale . Passai il mio ultimo anno di detenzione nella prigione di Charlestown. La voce si era sparsa anche tra i detenuti bianchi poiché alcuni di quei negri succubi parlavano troppo. So che i censori avevano fatto un rapporto sulla mia corrispondenza e che i funzionari dello stabilimento di pena di Norfolk erano preoccupati. Come motivo del mio trasferimento addussero il fatto che mi ero rifiutato di farmi fare certe iniezioni, somministrare un vaccino o cose del genere . L'unica cosa che mi preoccupava era che non avevo più molto tempo prima di poter esser preso in considerazione per la libertà provvisoria. Però pensai che essi avrebbero potuto vedere sotto altra luce la mia propaganda e il mio proselitismo in favore dell'Islam: invece di tenermi dentro, poteva darsi che mi preferissero fuori . Quando ero entrato in prigione la mia vista era perfetta ma all'epoca del mio trasferimento a Charlestown avevo letto così tanto nella mia cella al chiarore della lampada del corridoio da diventare astigmatico. Fu allora che mi misi per la prima volta gli occhiali che poi ho sempre portato . Nella prigione di Charlestown i regolamenti più severi limitavano il mio margine di manovra, ma quando mi accorsi che molti negri frequentavano un corso sulla Bibbia ci andai anch'io . L'insegnante era uno studente del seminario di Harvard alto, biondo, con gli occhi azzurri, un «diavolo» perfetto. Faceva la sua lezione e poi si esibiva nel rispondere alle domande degli studenti. Non so chi di noi due avesse letto più volte la Bibbia, ma devo dargli credito del fatto che era veramente ferrato in questioni religiose. Mi spremetti addirittura il cervello per trovare un modo di metterlo in difficoltà e dare così ai negri presenti qualche argomento a cui pensare, su cui discutere e da far circolare . Alla fine alzai la mano e lui assentì. Aveva parlato di Paolo . Mi alzai in piedi e gli chiesi: «Di che colore era Paolo?» Poi continuai a dire, con alcune pause: «Doveva essere di pelle nera... perché era un ebreo... e gli ebrei originari erano di pelle nera... non è vero?» L'insegnante era diventato tutto rosso, come succede ai bianchi . Rispose di sì . Ma io non avevo ancora finito. «Di che colore era Gesù... Anche lui era ebreo... Non è vero?» Sia i detenuti bianchi sia quelli negri era come se fossero seduti sui carboni accesi. Non importa quanto fossero duri, se erano dei cristiani negri dal cervello ottenebrato o dei cristiani bianchi, «diavoli», ma nessuno di loro era preparato a sentir dire che Gesù non era bianco. L'insegnante camminava su e giù. Non avrebbe dovuto prendersela così. Negli anni successivi non ho mai conosciuto un bianco intelligente che cercasse di insistere sul fatto che Gesù era bianco. Del resto come avrebbero potuto? «Gesù aveva la pelle marrone», disse . Lasciai che se la cavasse con quel compromesso . Proprio come avevo previsto, i detenuti bianchi e negri di Charlestown cominciarono immediatamente a discutere su questa storia e dovunque andavo sentivo i loro mormorii di approvazione. Tutte le volte che mi si presentava la possibilità di scambiare quattro parole con un fratello negro che indossava la casacca a strisce gli dicevo: «Amico, non hai mai sentito parlare di un certo Elijah Muhammad?» Capitolo dodicesimo . IL SALVATORE . Durante la primavera del 1952 scrissi entusiasticamente a Elijah Muhammad e alla mia famiglia che la Commissione per la libertà provvisoria dello stato del Massachusetts aveva votato per la mia scarcerazione. Tuttavia ci sarebbero voluti ancora alcuni mesi prima che si fosse risolta tutta la procedura burocratica connessa con la concessione della libertà provvisoria sotto la tutela del mio fratello maggiore Wilfred che ora, a Detroit, faceva il direttore di un negozio di mobili. Wilfred aveva persuaso il proprietario ebreo a firmare una dichiarazione che, alla mia scarcerazione, mi avrebbe assunto immediatamente . Dal «telegrafo» della prigione seppi che anche Shorty era candidato alla libertà provvisoria, ma che aveva difficoltà nel trovare una persona di una certa reputazione che fosse disposta a garantire per lui. (In seguito seppi che Shorty si era messo a studiare composizione mentre era in carcere e che aveva fatto tali progressi da arrivare a scrivere alcuni pezzi, uno dei quali intitolato "Il concerto della Bastiglia") . La decisione di andare a Detroit invece che ad Harlem o a Boston fu influenzata dall'orientamento della mia famiglia, che traspariva da tutte le loro lettere. Specialmente mia sorella Hilda aveva molto insistito che, sebbene io credessi di aver compreso gli insegnamenti di Elijah Muhammad, avevo ancora molto da imparare e quindi avrei dovuto andare a Detroit per diventare membro di un tempio di Muslims praticanti . Fu in agosto che mi fecero una ramanzina, mi dettero un vestito da quattro soldi alla Li'l Abner, una piccola somma di denaro e mi fecero uscire dai cancelli. Non mi guardai indietro, come del resto fanno e hanno fatto i milioni di detenuti che si sono lasciati la prigione dietro le spalle . La mia prima fermata fu a un bagno turco per togliermi la sensazione fisica di avere addosso l'odore della prigione. Ella, a casa della quale passai la notte, era d'accordo che fosse meglio che ricominciassi a Detroit. In una nuova città la polizia non ce l'avrebbe avuta con me: questa era l'opinione di Ella, ma non quella dei Muslims, di cui lei non sapeva che farsene. Sia Hilda che Reginald avevano cercato di convincerla, ma lei, con la sua volontà di ferro, non si era lasciata convertire. Mi disse di credere che si poteva essere qualunque cosa, avventisti del settimo giorno, Holy Rollers, ma che lei non sarebbe mai diventata una Muslim . La mattina seguente Hilda mi dette dei soldi e, prima di partire, ricordo bene che andai fuori a comprare tre cose: prima di tutto un paio di occhiali migliori di quelli che mi avevano dato in prigione e poi una valigia e un orologio da polso . Qualche volta ho pensato che, senza saperlo, stavo allora preparandomi per quella che sarebbe diventata la mia nuova vita . Infatti quelli sono i tre oggetti che ho adoperato di più. Gli occhiali correggono l'astigmatismo che mi è venuto da tutto quel leggere in prigione; viaggio così tanto che mia moglie tiene sempre pronte due valige in modo che, quando è necessario, ce n'è sempre una a portata di mano. Inoltre non c'è nessuno che ha il senso del tempo più di me: guardo sempre l'orologio per esser sicuro di arrivare puntuale a tutti gli appuntamenti. Anche quando sono al volante, guido seguendo più l'orologio che il contachilometri. Per me il tempo è più importante della distanza . Presi un autobus per Detroit. Il negozio di mobili che mio fratello Wilfred dirigeva era proprio nel cuore del ghetto negro. E' meglio che non faccia il nome di quel negozio, dato che sto parlando del modo in cui i proprietari derubavano i negri. Wilfred mi presentò ad essi: erano degli ebrei. Come d'accordo, mi assunsero in qualità di commesso . Grandi annunci pubblicitari che assicuravano vendite a rate «senza anticipo» attiravano i negri poveri in quel negozio come la carta moschicida. Era una vergogna vederli pagare i mobili tre o quattro volte più del loro reale costo solo perché quegli ebrei facevano credito. La loro merce era quella stessa specie di robaccia da quattro soldi, di gusto orribile, che si vede oggi in qualsiasi negozio di mobili dei ghetti negri. Le tappezzerie dei divani erano fissate con le cucitrici e dappertutto si vedevano coperte da letto «imitazione leopardo», tappeti di finta pelle di tigre e altre cose del genere. Vedevo tante mani callose, indurite dal lavoro ed esitanti, che scarabocchiavano firme sui contratti, impegnandosi in tal modo a pagare interessi particolarmente esosi, elencati in pagine stampate in caratteri piccolissimi che nessuno legge mai . Trovavo nella vita reale la conferma allo spirito di una barzelletta che, come riferiva la rivista «Jet», il senatore Barry Goldwater aveva raccontato da qualche parte durante la campagna presidenziale del 1964. A un bianco, a un negro e a un ebreo era stata concessa la facoltà di esprimere un desiderio che sarebbe poi stato esaudito. Il bianco aveva chiesto dei titoli azionari, il negro una grossa somma in contanti e l'ebreo dei gioielli falsi e «l'indirizzo di quei ragazzi di colore» . Durante tutti gli anni della mia vita di strada avevo visto lo sfruttamento che ora, per la prima volta, comprendevo. Vedevo i miei fratelli che si invischiavano negli artigli economici dell'uomo bianco il quale, ogni sera, se ne andava a casa con un altro sacco di denaro pompato fuori dal ghetto. Invece di aiutare il negro, quel denaro serviva ad arricchire i mercanti bianchi che di solito abitavano in zone «riservate» dove era meglio che un negro non si facesse mai trovare, a meno che non lavorasse alle dipendenze di qualche bianco . Wilfred mi invitò ad abitare a casa sua ed io accettai con gratitudine. Per me il calore di una casa e di una famiglia rappresentava un benefico cambiamento rispetto alla prigione . Credo che quasi tutti i detenuti appena liberati provino vera commozione di fronte a un'esperienza simile. In particolare, l'atmosfera di questa famiglia di Muslims mi rendeva così riconoscente verso Allah da farmi spesso cadere in ginocchio per ringraziarlo. Nelle lettere che ricevevo dalla mia famiglia quand'ero in prigione si descriveva il modo di vita dei seguaci dell'Islam, ma per apprezzarlo veramente era necessario viverne il ritmo quotidiano. Mio fratello Wilfred mi spiegava con pazienza e gentilezza ogni atto e il suo significato . La confusione mattutina che c'è in quasi tutte le famiglie, in quella casa non esisteva. Wilfred, il padre, colui che proteggeva e manteneva la famiglia, era il primo ad alzarsi. «Il padre prepara la strada per la sua famiglia», diceva. Prima lui e poi io facevamo le abluzioni mattutine. Dopo venivano la moglie di Wilfred, Ruth, e i figli . «Nel nome di Allah compio questa abluzione», diceva ad alta voce il Muslim prima di lavarsi la mano destra e successivamente la sinistra. Poi si lavava i denti e si risciacquava tre volte la bocca. Anche le narici venivano risciacquate tre volte. La doccia coronava la purificazione di tutto il corpo, che era così preparato alla preghiera . Tutti i membri della famiglia, anche i bambini, quando si incontravano per la prima volta al mattino, si salutavano a bassa voce e dolcemente: «As-Salaam-Alaikum » (in arabo: «La pace sia con te »). «Wa-Alaikum-Salaam» («E la pace sia anche con te»), rispondeva l'altro. Il Muslim ripeteva mentalmente molte volte: «Allahu-Akbar, Allahu-Akbar » («Allah è il più grande») . Wilfred stendeva il tappeto della preghiera mentre il resto della famiglia si purificava. Mi spiegarono che la preghiera doveva essere recitata quando il sole era vicino all'orizzonte e, qualora fosse passato tale momento, doveva esser rimandata finché il sole non era al di là dell'orizzonte. «I musulmani non sono adoratori del sole. Preghiamo col volto rivolto ad oriente per sentirci uniti agli altri settecentoventicinque milioni di fratelli e sorelle che formano l'intero mondo dell'Islam» . Tutta la famiglia, con indosso delle tuniche, era allineata rivolta ad oriente. All'unisono, lasciavamo le nostre pantofole per metterci in piedi sul tappeto della preghiera . Oggi dico in arabo con la mia famiglia la preghiera che imparai in inglese: «Recito la preghiera del mattino dedicandola ad Allah, il Sommo. Allah è il più grande. Gloria sia a Te, Allah, perché Tua è la lode, benedetto è il Tuo Nome e gloriosa la Tua Maestà. Io testimonio che niente merita di essere servito e adorato all'infuori di Te» . A colazione non prendevamo nessun cibo solido: solo succhi di frutta e caffè. Poi io e Wilfred andavamo al lavoro e là, a mezzogiorno e di nuovo alle tre del pomeriggio, senza che nessuno ci vedesse, lì nel negozio di mobili, ci sciacquavamo le mani, il viso e la bocca e meditavamo . Lo stesso facevano i bambini a scuola; le mogli e le madri dei Muslims interrompevano le loro occupazioni per unirsi ai settecentoventicinque milioni che, in tutto il mondo, comunicavano con Allah . Le riunioni del tempio numero uno di Detroit, che era relativamente piccolo, avevano luogo tutti i mercoledì, i venerdì e le domeniche. Vicino al tempio, che in realtà aveva delle porte che davano direttamente sulla strada come un negozio, c'erano tre mattatoi per suini. Durante le riunioni del mercoledì e del venerdì le strida dei maiali che venivano macellati filtravano attraverso le finestre. Sto descrivendo la condizione in cui, all'inizio degli anni '50, ci trovavamo noi Black Muslims . Mi pare che l'indirizzo del tempio numero uno fosse 1470 Frederick Street. Il primo tempio fu fondato proprio a Detroit nel Michigan nel lontano 1931 dal maestro W. D. Fard. Non avevo mai visto dei negri cristiani comportarsi come questi Muslims, sia individualmente che come famiglie. Gli uomini erano vestiti con gusto severo e sobrio; le donne portavano abiti lunghi fino ai piedi, erano senza trucco e tenevano la testa coperta con un velo; i bambini, vestiti in modo irreprensibile, si comportavano educatamente non soltanto nei confronti degli adulti, ma anche fra di loro . Non avrei mai sognato che potesse esistere un'atmosfera come quella che c'era tra negri che avevano imparato ad essere orgogliosi del colore della loro pelle e ad amare gli altri negri invece di esserne invidiosi e sospettosi. Ero entusiasta del modo come noi Muslims ci stringevamo tutte e due le mani, ci salutavamo con sorrisi aperti e sinceri manifestando la nostra felicità di rivedere un confratello negro. Le sorelle musulmane, sia sposate che nubili, godevano di un rispetto che non avevo mai visto tra i negri e le loro donne e devo dire che questa mi sembrò una cosa meravigliosa. I saluti che ci scambiavamo erano cordiali, pieni di reciproco rispetto e di un profondo senso della dignità: «Fratello... Sorella... Signora... Signore» . Perfino i bambini, quando parlavano tra di loro, adoperavano questi termini. Che cosa bella! Il pastore del tempio numero uno era Lemuel Hassan . «As-Salaikum», ci diceva salutandoci. «Wa-Salaikum», rispondevamo noi. Il pastore Lemuel stava in piedi davanti a noi, vicino a una lavagna su cui era dipinta, con vernice indelebile, da una parte la bandiera degli Stati Uniti con sotto le parole «Schiavitù, Sofferenze e Morte», e poi la parola «Cristianesimo» insieme col segno della Croce. Sotto questa c'era il disegno di un negro impiccato ad un albero. Dall'altra parte era raffigurata quella che ci insegnavano essere la bandiera musulmana, la mezzaluna e la stella sul fondo rosso con le parole «Islam: Libertà, Giustizia, Eguaglianza» e sotto: «Chi sopravviverà alla battaglia di Armageddon?» Per più di un'ora il pastore Lemuel ci parlava degli insegnamenti di Elijah Muhammad. Io, rapito, ascoltavo ogni sua parola e seguivo ogni suo gesto. Spesso dava un'illustrazione grafica di ciò che stava dicendo con parole o frasi chiave che scriveva sulla lavagna . Trovavo intollerabile che il nostro piccolo tempio avesse ancora delle sedie vuote e mi lamentai con Wilfred dicendogli che ciò non doveva succedere quando tutte le strade vicine erano piene dei nostri fratelli e sorelle negri, dalla mente ottenebrata, che bevevano, bestemmiavano, si azzuffavano fra loro, ballavano, gozzovigliavano e prendevano gli stupefacenti, proprio tutte le cose che, come insegnava Muhammad, contribuiscono, qui in America, a mantenere il negro sotto il tallone del bianco . Da quanto riuscii a capire, l'atteggiamento del tempio di fronte al problema del proselitismo non andava al di là di una passiva attesa... la fiducia che Allah ci portasse più Muslims. Per parte mia ritenevo che Allah fosse molto più propenso ad aiutare quelli che si aiutavano da sé. Per anni avevo vissuto nelle strade del ghetto e conoscevo benissimo i negri di quelle zone . Harlem o Detroit non erano diverse. Dissi agli altri membri del tempio che non ero d'accordo con quel sistema, che ritenevo si dovesse andare per le strade e reclutare più Muslims tra la massa. Come sapete, ero stato un attivista per tutta la mia vita, ero stato sempre impaziente. Mio fratello Wilfred mi esortava ad aver pazienza e ciò mi diventava più facile per il fatto che ben presto avrei visto e forse conosciuto l'uomo che veniva chiamato «il Messaggero», Elijah Muhammad in persona . Oggi ho appuntamenti con personaggi famosi in tutto il mondo, persino con capi di stato, ma allora, nel 1952, desiderai che arrivasse quella domenica precedente la festa del lavoro con un'intensità che non ho più provato. I Muslims nel tempio numero uno di Detroit andavano con una carovana, credo di dieci automobili, a visitare il tempio numero due di Chicago e a sentire un discorso di Elijah Muhammad . Da quando era finita la mia adolescenza non ero mai stato così ansioso come lo fui durante il viaggio che facemmo nella macchina di Wilfred. Da allora, ai grandi raduni dei Black Muslims ho visto e sentito decine di migliaia di negri che applaudivano freneticamente, ma quella domenica pomeriggio, quando i nostri due piccoli templi si riunirono, e tutti e due insieme eravamo forse duecento Muslims, con quelli di Chicago che davano il benvenuto calorosamente a noi di Detroit, provai dei brividi di commozione che mai più ho sentito . Ero del tutto impreparato all'effetto che il Messaggero Elijah Muhammad avrebbe avuto sulle mie reazioni emotive. Dal fondo del tempio numero due egli avanzò verso la tribuna. Quel suo viso piccolo, sensibile, dall'espressione dolce e dal colorito bruno, quello stesso viso che tante volte avevo visto in fotografia fino al punto di sognarlo, era quasi immobile mentre il Messaggero camminava, circondato dalle guardie del corpo del Frutto dell'Islam. Paragonato a quei giovani, sembrava fragile, addirittura minuto. Sia lui che quelli del Frutto dell'Islam erano vestiti con abiti neri, camicie bianche e cravatte a fiocco. Il Messaggero portava un fez ricamato in oro . Guardavo sbalordito il grand'uomo che aveva trovato il tempo di scrivermi quando ero un detenuto del quale non sapeva niente . Ero di fronte a colui che, come mi avevano detto, aveva passato molti anni della sua vita nella sofferenza e nei sacrifici per guidare noi, il popolo negro, perché ci amava tanto. Quando sentii la sua voce, mi sedetti tutto piegato in avanti, come ipnotizzato dalle sue parole. Cercherò qui di ricostruire il discorso di Elijah Muhammad poiché, da allora, l'ho sentito parlare centinaia di volte . «Durante gli ultimi ventun anni non mi sono fermato neanche un giorno. Quando sono stato libero, e persino quando ero in catene, ho predicato di fronte a voi, durante tutti questi ventun anni. Per aver insegnato questa verità ho trascorso tre anni e mezzo in un penitenziario federale e più di un anno nella prigione locale. Per sette lunghi anni fui anche privato del mio amore di padre per la famiglia quando fuggivo dagli ipocriti e da altri nemici di questa parola e della rivelazione di Dio, il quale vi darà la vita e vi metterà allo stesso livello di tutte le altre nazioni e popoli civili e indipendenti di questo nostro pianeta...» Elijah Muhammad raccontò come in questo deserto che è l'America del Nord «il diabolico uomo bianco dagli occhi azzurri» aveva per secoli, e con ogni mezzo, fatto il lavaggio del cervello al «cosiddetto negro». Ci disse che, come risultato, il negro americano era morto «dal punto di vista mentale, morale e spirituale». Il Messaggero ci disse che l'uomo originario era negro, che era stato rapito dalla sua patria e privato della sua lingua, della sua cultura, della sua struttura familiare, del suo nome, finché il negro americano non era arrivato al punto di non sapere neppure quale fosse la sua identità . Ci mostrò il modo in cui i suoi insegnamenti della vera conoscenza di noi stessi avrebbero sollevato il negro dal fondo della società bianca e lo avrebbero riportato al punto da cui aveva iniziato la sua parabola storica, e cioè alla civiltà . Giunto alla conclusione, quando fece una pausa per riprendere fiato, mi chiamò per nome . Per me fu come una scossa elettrica. Senza guardarmi direttamente, mi chiese di alzarmi in piedi . Poi disse all'uditorio che ero appena uscito di prigione aggiungendo che, durante tutto quel tempo, ero stato molto «forte». «Tutti i giorni, - disse, - per anni, il fratello Malcolm mi ha scritto una lettera ed io gli ho risposto regolarmente come potevo» . Stavo là in piedi con gli occhi dei duecento Muslims fissi su di me, mentre lui raccontava una parabola ispirata alle mie vicende . Quando Dio si vantava della fedeltà di Giobbe, disse Elijah Muhammad, il diavolo gli rispose che ciò dipendeva soltanto dalla siepe con cui lo stesso Dio lo aveva circondato per proteggerlo. «Leva quella cintura di protezione, disse il diavolo a Dio, - ed io farò in modo che Giobbe ti maledica apertamente» . Muhammad disse che il diavolo avrebbe potuto sostenere che l'Islam mi aveva fatto comodo solo perché mi ero trovato in prigione, e che ora, una volta fuori, sarei tornato a ubriacarmi, a fumare, a prendere gli stupefacenti e alla mia vita criminosa . «Ebbene, la siepe che circondava il nostro buon fratello Malcolm non c'è più. Vedremo come si comporta, - disse Muhammad. - Io credo che resterà fedele» . Allah mi dette il privilegio di restare fedele alla mia fede nell'Islam malgrado molte dure prove, ed anche quando gli eventi provocarono la crisi tra noi due, dissi a Elijah Muhammad fin dall'inizio della rottura, con tutta la sincerità di cui ero capace, che credevo ancora in lui molto più di quanto non ci credesse lui stesso . Muhammad ed io non siamo più insieme oggi, solo a causa di invidie e gelosie. Io ebbi più fede in lui di quanta avrei potuto avere in qualunque altra persona . Ricorderete certamente che, quand'ero in prigione, Muhammad era ospitato a casa di mio fratello Wilfred tutte re volte che veniva a visitare il tempio numero uno di Detroit. Tutti i Muslims dicevano che non si poteva fare per Muhammad più di quanto lui faceva per gli altri. Quella domenica, dopo la riunione, invitò tutta la nostra famiglia e il pastore Lemuel Hassan a cena nella sua nuova casa . Muhammad disse che erano stati i suoi figli e seguaci ad insistere perché si trasferisse in questa casa molto più bella e più grande - diciotto stanze - situata al 4847 di Woodlawn Avenue a Chicago. Credo che si fossero trasferiti proprio quella stessa settimana e, quando arrivammo, Muhammad ci fece vedere il lavoro di verniciatura che aveva fatto fino ad allora. Dovetti frenare l'impulso di andare a prendere una sedia per il Messaggero di Allah. In realtà, come avevo sentito dire che avrebbe fatto, fu lui a preoccuparsi che mi sistemassi comodamente . Avevamo sperato che durante la cena ci illuminasse con la sua sapienza, ma invece incoraggiò noi a parlare. Pensavo a come il nostro tempio di Detroit stava lì passivamente ad aspettare che Allah ci portasse nuovi adepti e, oltre a ciò, pensavo ai milioni di negri in tutta l'America che non avevano mai sentito parlare di quegli insegnamenti che avrebbero potuto scuoterli, risvegliarli e farli risorgere. Fu lì, a tavola con Muhammad, che seppi trovare le parole. In fondo sono sempre stato capace di dire quel che penso . Durante una pausa della conversazione, chiesi a Muhammad quanti Muslims avrebbero dovuto esserci nel nostro tempio numero uno di Detroit . «Dovrebbero essercene delle migliaia», disse lui . «Sissignore, - replicai, - qual è la vostra opinione circa il sistema migliore per reclutare migliaia di nuovi proseliti?» «Avvicinate i giovani, - rispose. - Quando li avrete con voi, i vecchi li seguiranno se non altro per vergogna» . Decisi che avremmo dovuto seguire quel consiglio e, quando tornammo a Detroit, parlai con mio fratello Wilfred e offrii la mia opera al pastore del nostro tempio, Lemuel Hassan . Questi condivise la mia decisione di mettere in pratica la formula di Muhammad per una grossa campagna di proselitismo . Cominciando da quel giorno, tutte le sere quando uscivo dal lavoro nel negozio di mobili, andavo in giro, come più tardi noi Muslims avremmo detto, «a pesca». Conoscevo il modo di pensare e il gergo che si parla nelle strade del ghetto: «Amico mio, lascia che ti stuzzichi con qualcosa...» Naturalmente avevo fatto la domanda e fu durante questo periodo che ricevetti da Chicago la mia «X», simbolo tra noi Muslims del suo vero nome africano che nessun negro ha mai conosciuto. Per quanto mi riguardava, la mia «X» sostituiva il nome del padrone di schiavi bianco Little, che qualche diavolo dagli occhi azzurri aveva imposto ai miei antenati paterni. Tale atto significava che da allora in poi, nella Nazione dell'Islam, io sarei stato conosciuto come Malcolm X. Muhammad insegnava che avremmo mantenuto la «X» finché lo stesso Allah non sarebbe tornato a darci, con le sue stesse parole, un nome santo . Mentre compivo la mia opera di proselitismo nei bar, nelle sale da biliardo e agli angoli delle strade del ghetto di Detroit, mi accorgevo che i miei fratelli negri, poveri, ignoranti, intontiti, erano in gran parte troppo sordi, muti e ciechi, sia dal punto di vista mentale sia da quello morale e spirituale, per rispondere. Quello che mi faceva infuriare era che solo una volta ogni tanto qualcuno mostrava una certa curiosità per gli insegnamenti che avrebbero fatto risorgere il popolo negro . Pregavo e scongiuravo questi pochi di venire alla nostra prossima riunione al tempio numero uno, ma poi neanche la metà di quelli che dicevano di sì ci venivano davvero . Piano piano riuscii a interessarne un certo numero così che, ogni mese, qualche automobile in più veniva ad aggiungersi alle nostre carovane dirette a Chicago in visita al tempio numero due. Ma anche dopo aver visto e sentito Elijah Muhammad in persona, solo pochissimi dei visitatori facevano domanda ufficiale a Muhammad per essere accettati come membri della Nazione dell'Islam . Comunque, dopo un po' di mesi di questo lavoro di scavo, il nostro tempio numero uno triplicò i suoi membri. La cosa fu così gradita a Muhammad che ci fece l'onore di una visita . Il Messaggero mi lodò con calore quando sentì dal pastore Lemuel Hassan quanto mi ero dato da fare per la causa dell'Islam . Le nostre carovane continuavano a ingrossarsi. Ricordo con quale orgoglio ci mettemmo alla testa di una fila di venticinque automobili dirette a Chicago e, tutte le volte che si andava, ci veniva fatto l'onore di essere invitati a cena a casa di Muhammad. Da quello che diceva, capivo che gli interessavano molto le mie possibilità . Io lo adoravo . Agli inizi del 1953, mi licenziai dal negozio di mobili . Guadagnavo un po' di più lavorando alla Gar Wood di Detroit dove si facevano le carrozzerie per grossi camion destinati ai servizi di nettezza urbana. Il mio compito consisteva nel portar via i rifiuti delle saldature dopo che ciascuna carrozzeria era terminata . In questo periodo Muhammad ci diceva a tavola che una delle cose di cui aveva più bisogno era un maggior numero di giovani disposti a lavorare intensamente per mettersi poi in condizioni di assumersi le responsabilità del suo ministero. Diceva che gli insegnamenti avrebbero dovuto essere diffusi in misura maggiore di quanto non era stato fatto e che si dovevano fondare templi anche in altre città . Non avevo mai pensato di poter diventare anch'io un pastore: non avevo mai neanche lontanamente considerato me stesso in grado di rappresentare direttamente Muhammad e se qualcuno mi avesse chiesto di diventare pastore sarei rimasto sbalordito e avrei risposto che ero felice e desideroso di servire Muhammad anche con l'incarico più umile . Non so se fu per consiglio del Messaggero o se si trattò di una decisione del pastore Lemuel Hassan del nostro tempio numero uno, ma il fatto è che questi mi incoraggiò a parlare all'assemblea dei fratelli e delle sorelle. Ricordo che testimoniai del significato che l'insegnamento di Muhammad aveva avuto per me: «Se vi dicessi che genere di vita era la mia, voi non ci credereste... Quando parlo dell'uomo bianco non mi riferisco a qualcuno che non conosco...» Poco tempo dopo quella prima prova, il pastore Lemuel Hassan insistette perché improvvisassi un discorso davanti ai fratelli e alle sorelle. Ero incerto ed esitante, ma siccome avevo partecipato a tanti dibattiti quando ero in prigione, decisi che avrei fatto del mio meglio. (E' ovvio che non posso ricordarmi esattamente quello che dissi, ma so che il tema preferito dei miei primi discorsi era il cristianesimo e gli orrori della schiavitù, argomento su cui mi sentivo ben preparato grazie a tutti i libri che avevo letto in prigione) . «Miei cari fratelli e sorelle, la religione cristiana del nostro padrone di schiavi bianco ha insegnato a noi negri, qui in questo deserto che è l'America del Nord, che quando moriamo ci crescono le ali e voliamo in cielo dove Dio ci ha riservato un posto speciale chiamato paradiso. Questa è la religione cristiana dell'uomo bianco che viene adoperata per rimbecillire noi negri! Noi l'abbiamo accettata, l'abbiamo fatta nostra, l'abbiamo creduta e l'abbiamo praticata! Mentre facevamo ciò, questo diavolo dagli occhi azzurri ha modellato il suo cristianesimo in modo da poterci tenere il piede sul collo... da far sì che noi pensassimo alle delizie celesti dell'altra vita... mentre lui gode il suo paradiso qui... su questa terra... in questa vita» . Oggi, dopo essermi trovato di fronte a migliaia di Muslims ed altri ascoltatori, aver avuto come pubblico alla radio e alla televisione addirittura milioni di persone, sono sicuro di poter affermare che assai di rado ho sentito tanta elettricità come quella che produssero in me i volti di quei settantacinque o cento Muslims, cui vanno aggiunti altri pochi visitatori, che sedevano davanti a me nel nostro tempio, mentre dal vicino mattatoio dei suini venivano le strida dei maiali macellati . Nell'estate del 1953 fui nominato assistente pastore del tempio numero uno di Detroit: tutta la lode è dovuta ad Allah . Tutti i giorni, quando uscivo dal lavoro, andavo «a pesca» di proseliti potenziali nel ghetto negro di Detroit. Vedevo i lineamenti africani dei miei fratelli e sorelle che il diabolico uomo bianco aveva rimbecillito; vedevo capelli come erano stati i miei per anni, stirati con la lisciva finché non restavano lisci e diritti come quelli dei bianchi. Molte volte gli insegnamenti di Muhammad venivano respinti con fastidio e persino ridicolizzati: «Via, amico, levati di torno, voi "niggers" siete matti!» Qualche volta mi andava il sangue alla testa sia per la rabbia sia per la compassione che provavo verso i miei poveri fratelli negri così ciechi. Non vedevo l'ora che il pastore Lemuel Hassan mi desse il permesso di parlare: «Fratelli e sorelle, noi non siamo sbarcati sul promontorio di Plymounth, ma è questo che è caduto addosso a noi!»... «Date TUTTO quel che potete per il programma di indipendenza per l'uomo negro che il Messaggero Elijah Muhammad sta mettendo in atto!... L'uomo bianco ci ha sempre dominati costringendoci ad andare da lui a chiedere: "Per favore, signorino, per favore, signor uomo bianco padrone, volete buttarmi un'altra briciola dal vostro tavolo che scricchiola per come è carico di ricchezze?".. . «... miei BEI fratelli e sorelle negri! E quando diciamo negro, vogliamo dire tutto ciò che non è bianco... GUARDATE la vostra pelle! Per l'uomo bianco noi siamo tutti neri, ma in realtà siamo di mille colori. Guardatevi intorno, guardatevi uno con l'altro! Qual è la sfumatura che la mescolanza di sangue africano e di quello del diabolico uomo bianco ha dato alla vostra pelle? Guardatemi! Ebbene, nelle strade erano soliti chiamarmi il Rosso di Detroit. Sì, quel diavolo dai capelli rossi, quello stupratore, era mio NONNO. Così vicino, domanderete voi? Proprio così. Era il padre DI MIA MADRE. Lei non voleva parlarne e sarebbe forse giusto biasimarla per questo? Diceva di non averlo mai guardato e di esserne FELICE . Sono CONTENTO per lei! Se potessi tirar fuori il suo sangue che avvelena il MIO corpo e la MIA pelle lo farei, perché odio ogni goccia del sangue di quello stupratore che mi scorre nelle vene! «Non sono solo io, ma TUTTI noi! Durante la schiavitù, pensateci bene, era molto raro che una delle nostre nonne negre, o bisnonne o trisavole riuscisse a sfuggire alla violenza stupratrice del padrone bianco. Fu lui che svirilizzò l'uomo negro... con le minacce e con il terrore... fino al punto che, persino oggi, esso vive con il timore dell'uomo bianco nel cuore, ancora oggi sotto il suo tallone! «PENSATE, pensate a quello schiavo negro pieno di timore e d'angoscia che sente le grida di sua moglie, di sua madre, di sua figlia che vengono VIOLENTATE là nel granaio, in cucina, tra i cespugli. PENSATECI, miei cari fratelli e sorelle! PENSATE alle voci di queste mogli, madri e figlie che vengono VIOLENTATE. Anche voi siete stati paralizzati dal TIMORE al punto da non poter reagire! I frutti della sua libidine animalesca furono chiamati dall'uomo bianco con termini come "mulatto", "meticcio" o "quadrone" e tutti gli altri epiteti che ci rivolge - a voi e a me ora - quando non ci chiama "nigger"! «Guardatevi intorno, fratelli e sorelle, guardatevi l'uno con l'altro e PENSATE a questo! Voi ed io, di tanti diversi colori tutti mescolati e questo diavolo che ha l'arroganza e la sfacciataggine di pensare che noi, le sue vittime, dovremmo amarlo!» Qualche volta la commozione mi soffocava talmente che poi dovevo camminare per le strade fino a tardi, oppure non parlavo a nessuno per ore pensando tra me e me cosa aveva fatto l'uomo bianco alla nostra povera gente qui in America . Un giorno, alla fabbrica Gar Wood dove lavoravo, venne da me il sorvegliante con un'aria piuttosto nervosa. Mi disse che mi volevano in ufficio . Il bianco che trovai là in piedi mi annunciò di essere un agente dell'F.B.I. Come fanno di solito per spaventare, mi squadernò davanti il libretto di pelle nera con la tessera di riconoscimento e mi disse di seguirlo senza specificare per cosa . Andai con lui. All'ufficio dell'F.B.I. volevano sapere perché non mi ero presentato per registrarmi presso l'ufficio leva. Si era ai tempi della guerra di Corea . «Sono appena uscito di prigione, - dissi. - Non sapevo che prendeste anche degli ex detenuti» . Credettero davvero che fossi convinto che gli ex detenuti non avevano il dovere di registrarsi. Mi fecero molte domande e fui felice perché non mi chiesero se ero disposto ad indossare l'uniforme dell'uomo bianco. Per parte mia non lo ero, ma essi dettero per scontato che lo fossi. Mi dissero che non mi avrebbero mandato in carcere per omissione dei doveri militari, che sarebbero stati comprensivi, ma che dovevo andarmi a registrare immediatamente . Di là andai diritto all'ufficio leva e quando mi dettero un modulo da riempire, scrissi nella parte apposita che ero un Muslim e quindi un obiettore di coscienza . Consegnai il modulo. Quel diavolo di mezz'età dall'aria seccata che lo lesse, mi guardò da sotto in su, poi si alzò dirigendosi verso un altro ufficio per andare evidentemente a consultarsi con qualcuno dei suoi superiori. Dopo un po' ritornò e mi fece segno di entrare . Mi pare che in quella stanza, seduti dietro tavoli diversi, ci fossero tre di quei diavoli un po' più anziani tutti con l'espressione tipica del bianco che si trova di fronte al «"nigger" rompiscatole». Io li guardavo con aria di sfida come se negli occhi avessi scritto «diavoli bianchi». Mi chiesero in base a che cosa sostenevo di essere musulmano. Dissi loro che Elijah Muhammad era il Messaggero di Allah e che tutti i suoi seguaci qui in America si consideravano musulmani. Sapevo che avevano già sentito parlare di queste cose da qualcuno dei giovani fratelli del tempio numero uno che erano stati lì prima di me . Mi chiesero se sapevo cosa voleva dire «obiettore di coscienza» . Dissi loro che quando l'uomo bianco mi chiedeva di partire per andare a combattere e forse morire in difesa del modo con cui trattava i negri in America, la mia coscienza si ribellava . Mi dissero che il mio era un caso da lasciare «in sospeso» . Comunque mi fecero passare la visita e poi mi mandarono una scheda con il tipo di classifica che mi era stata attribuita . Ciò accadeva nel 1953 e per sette anni non ricevetti più alcuna comunicazione. Quando mi arrivò la nuova scheda che tengo sempre nel portafoglio, portava la data del 21 novembre 1960. Il numero di matricola è 20 219 251 377 e la classificazione è «5 A». Sul retro del tesserino c'è scritto: «Ufficio leva del Michigan n . 219, Wayne County, 3604 South Wayne Road, Wayne, Michigan» . Tutte le volte che parlavo nel nostro tempio numero uno avevo sempre la voce roca dall'ultima volta. Mi ci volle parecchio tempo prima di abituare la gola a questo ritmo . «Sapete PERCHE' l'uomo bianco veramente vi odia? Perché tutte le volte che vede il vostro volto, vede uno specchio dei suoi delitti e la sua cattiva coscienza non può sopportarlo! «Ogni bianco americano, quando guarda un negro negli occhi, dovrebbe cadere in ginocchio e dire: "Mi dispiace, mi dispiace . Quelli della mia specie hanno commesso contro il tuo popolo il più grande delitto della storia. Mi darai la possibilità di riparare?" Ma, fratelli e sorelle, vi aspettate davvero di trovare un uomo bianco che faccia una cosa simile? NO, LO SAPETE fin troppo bene! E perché ciò non è possibile? Perché l'uomo bianco NON PUO': è stato CREATO per essere un diavolo, per portare il caos su questa terra...» In questo periodo lasciai la fabbrica Gar Wood e fui assunto dall'industria automobilistica Ford come operaio di una delle catene di montaggio dello stabilimento Lincoln-Mercury . Nella mia qualità di giovane pastore andavo a Chicago a far visita a Elijah Muhammad ogni volta che potevo liberarmi. Lui mi incoraggiava a farlo e devo dire che ero trattato come se fossi stato uno dei figli di Muhammad e della sua ottima moglie dalla pelle molto scura, la sorella Clara Muhammad. Solo qualche volta vedevo i loro figli. In quegli anni la maggior parte di essi lavoravano intorno a Chicago facendo vari mestieri: lavori di fatica, autisti di piazza o cose del genere. In casa abitava anche la cara madre di Muhammad, Marie . Passavo altrettanto tempo con lei che con Muhammad. Mi piaceva moltissimo sentirla ricordare le circostanze dell'infanzia e dell'adolescenza di suo figlio Elijah quando abitavano a Sandersville nella Georgia, dove lui era nato nel 1897 . Muhammad stava a parlare con me per delle ore. Dopo aver mangiato l'ottimo e sano cibo musulmano ci trattenevamo a tavola a chiacchierare oppure andavo in macchina con lui quando faceva il suo giro quotidiano dei pochi negozi di alimentari che allora i Muslims controllavano a Chicago. Questi negozi erano l'esempio migliore per far vedere ai negri cosa potevano fare da sé assumendo i loro fratelli di colore, commerciando solo con essi ed eliminando in tal modo lo sfruttamento dell'uomo bianco . Nel negozio di alimentari e drogheria situato tra Wentworth e la Trentunesima Strada, di proprietà dei Muslims, Muhammad spazzava il pavimento e faceva altri lavori di questo tipo. Era per dare l'esempio ai suoi seguaci ai quali insegnava che la pigrizia e l'ozio erano tra i peggiori peccati che il negro potesse commettere contro se stesso. Avrei voluto togliere la scopa dalle mani di Muhammad perché pensavo che un uomo del suo valore non si dovesse mettere a spazzare il pavimento, ma lui non mi consentiva di far altro che star lì ad ascoltarlo mentre mi dava consigli sui sistemi migliori per diffondere il suo messaggio . Il nostro rapporto reciproco mi faceva pensare a Socrate il quale, seduto sui gradini del teatro di Atene, illuminava i discepoli con la sua sapienza, oppure a uno di questi discepoli, Aristotele, che a sua volta, mentre camminava su e giù nel Liceo, era seguito da giovani avidi di sapere . Ricordo che un giorno sul banco c'era un bicchier d'acqua sporco. Accanto a quello Muhammad ne mise uno pulito. «Vuoi sapere come diffondere i miei insegnamenti? disse indicando col dito i due bicchieri. - Non condannare colui che ha un bicchiere sporco, ma fagli vedere quello pulito che hai tu. Se lo guardano con attenzione non avrai bisogno di dire che il tuo è migliore». Di tutte le cose che Muhammad mi avrebbe poi insegnato, non so perché, ma questa mi è rimasta ancora in mente, sebbene non abbia sempre messo in pratica tale precetto. Mi piace troppo la lotta, e se vedo qualcuno con un bicchiere sporco, non posso fare a meno di dirglielo . Quando Muhammad aveva da fare, la madre Marie mi raccontava dell'adolescenza e della prima giovinezza di suo figlio in Georgia . I suoi racconti cominciavano quando lei aveva sette anni. Mi diceva che aveva avuto il presentimento che un giorno sarebbe stata la madre di un grand'uomo. Aveva poi sposato un pastore battista, il reverendo Poole, che lavorava nelle fattorie e nelle segherie vicino a Sandersville. Tra i loro tredici figli, mi raccontava, il piccolo Elijah era stato subito diverso fin da quando aveva cominciato a camminare e a parlare . Di solito quel ragazzo piccolo e minuto faceva da mediatore nelle dispute fra i suoi fratelli e le sue sorelle più grandi e, giovane com'era, era da essi considerato come il loro leader . Quando fu in età scolare, cominciò a dar prova di una forte coscienza razziale ma, dopo la quarta classe, siccome la sua famiglia era tanto povera, Elijah dovette lasciare la scuola e trovarsi un lavoro. Una delle sorelle più grandi gli faceva lezione di sera, quando poteva . La madre Marie mi raccontava che Elijah passava ore intere a leggere la Bibbia mentre gli occhi gli si riempivano di lacrime . Più tardi lo stesso Muhammad mi disse che da ragazzo era convinto che le parole della Bibbia fossero una porta chiusa che poteva essere aperta solo conoscendone il segreto e che perciò lui piangeva per questo suo desiderio frustrato di capire . Diventò un adolescente di costituzione minuta che dava prova di un amore intenso e piuttosto raro per la sua razza. Come diceva la madre, invece di condannare i difetti dei negri, il giovane Elijah cercava sempre di darne una spiegazione razionale . Marie è morta da tempo. Credo che ebbe un funerale grandioso quale si era visto raramente a Chicago perché non soltanto i Muslims, ma anche gli altri sapevano quale profondo legame esistesse tra il Messaggero Elijah e sua madre . «Non mi vergogno di dire che ho ricevuto un'istruzione limitatissima, - mi disse Muhammad. - Il fatto che non abbia continuato ad andare a scuola oltre la quarta classe è una prova che non posso sapere nient'altro che la verità che mi è stata insegnata da Allah. E' lui che mi ha insegnato la matematica e che, a me che usavo un linguaggio scorretto e sgradevole, ha insegnato a pronunciare le parole» . Muhammad mi diceva che allora non poteva sopportare il modo in cui i coltivatori bianchi di Sandersville, i sorveglianti della segheria o gli altri datori di lavoro bianchi offendevano abitualmente gli operai negri rivolgendosi a loro con un linguaggio scurrile. Mi diceva che aveva preso l'abitudine di chiedere gentilmente a coloro presso i quali lavorava di non insultarlo. «Dicevo loro di licenziarmi se non erano soddisfatti del mio lavoro, ma di non insultarmi». Quando parlava in pubblico, Muhammad si esprimeva come durante la normale conversazione. Non era eloquente, almeno nel senso in cui viene intesa l'eloquenza, ma qualunque cosa dicesse esercitava un fascino su di me che oratori agguerriti non riuscivano a suscitare. Muhammad aggiungeva che nei posti dove era stato assunto aveva sempre lavorato con tale onestà che di solito gli veniva affidata la sorveglianza degli altri negri . Agli inizi del 1923, dopo che si era sposato con la sorella Clara e che erano nati i loro primi due figli, un datore di lavoro bianco insultò Muhammad, che allora era Elijah Poole . Deciso ad evitare guai, si trasferì con la famiglia a Detroit . Aveva venticinque anni. In quella città gli sarebbero nati altri cinque figli, mentre l'ultimo vide la luce a Chicago . Fu a Detroit, nel 1931, che Muhammad conobbe il maestro W. D . Fard . Dappertutto le conseguenze della depressione erano terribili, ma nel ghetto negro erano addirittura al di là di ogni immaginazione. Muhammad mi diceva che, in quell'ambiente di profonda miseria, un uomo piccolo, dalla pelle marrone chiaro, andava da una porta all'altra degli appartamenti dei negri vendendo sete e altri tessuti e qualificandosi come «un fratello venuto dall'Oriente» . Quest'uomo cominciò a dire ai negri che erano venuti da una terra lontana, li ammoniva a non mangiare «l'immondo suino» ed altri «cibi sbagliati» che essi abitualmente prediligevano . Con chi era disposto ad ascoltarlo, cominciò a tenere delle piccole riunioni in quelle povere case. Insegnava sia il Corano che la Bibbia e tra i suoi discepoli c'era Elijah Poole . Quest'uomo diceva che il suo nome era W. D. Fard, che era nato nella tribù Koreish di Muhammad ibn Adbullah, il profeta arabo . Il venditore di drapperie W. D. Fard conosceva la Bibbia meglio di qualsiasi negro educato nella religione cristiana . In breve, egli insegnava che il vero nome di Dio era Allah, che l'Islam era la sua vera religione e che i popoli che la seguivano si chiamavano musulmani . Inoltre insegnava che i negri americani discendevano direttamente da un popolo seguace di quella religione, che erano la «pecora smarrita», perduta da quattrocento anni per la Nazione dell'Islam e che lui, W. D. Fard, era venuto per salvarli e restituirli alla vera religione . Insegnava anche che non esistevano né l'inferno né il paradiso ma che erano definibili con tali termini solo le condizioni in cui la gente viveva su questo pianeta. Il negro americano era stato all'inferno per quattrocento anni e lui W. D. Fard, era venuto per farlo tornare là dove c'era il suo paradiso, nella sua patria, tra la sua gente . Se l'inferno era in terra, insegnava il maestro Fard, anche il diavolo era in terra: il diavolo era la razza bianca derivata, seimila anni prima, dall'uomo originario negro, con lo scopo di trasformare la terra in un inferno per i prossimi seimila anni . Il popolo negro, i figli di Allah, erano degli dèi essi stessi e il maestro Fard insegnava che tra di loro ce n'era uno, anch'egli un essere umano come tutti gli altri, che era il Dio di tutti gli dèi, il più grande, il più potente, l'essere supremo e che il suo vero nome era Allah . Nel 1931, a Detroit, il maestro W. D. Fard insegnava al piccolo gruppo dei suoi primi proseliti che tutte le religioni affermano che, prima del giorno del giudizio o della fine del tempo, Dio verrà per far risorgere la «pecora smarrita», per separare il suo popolo dai nemici e restituirlo a se stesso e aggiungeva che la profezia si riferiva a Colui che avrebbe trovato e salvato la «pecora smarrita», al Figlio dell'Uomo o Dio in persona, fonte di vita, Redentore o Messia che sarebbe venuto come un fulmine dall'Oriente per apparire in Occidente. Gli ebrei lo chiamavano il Messia, i cristiani il Cristo e i musulmani il Mahdi . Come galvanizzato stavo a sentire Muhammad: mi raccontava quella che io allora credevo fosse la vera storia della nostra religione, la vera religione per il negro. Lui mi diceva che una sera aveva avuto la rivelazione che il maestro W. D. Fard incarnava il compimento della profezia: «Gli chiesi, - disse Muhammad, - chi era e qual era il suo vero nome. Lui mi rispose: "Sono Colui che il mondo ha aspettato durante gli ultimi duemila anni"» . «Ma qual è il tuo vero nome?» mi diceva di avergli chiesto Muhammad. «Il mio nome è Mahdi e sono venuto per guidarti sulla giusta strada» . Elijah Muhammad mi diceva che lo aveva ascoltato con il cuore aperto e la mente serena, così come io ascoltavo lui, e che non aveva mai messo in dubbio neppure una delle parole che il «Salvatore» gli aveva insegnato . Quando cominciò a organizzarsi, il maestro W. D. Fard mise su una classe per preparare i pastori necessari a diffondere i suoi insegnamenti tra i negri d'America. Quando dette i nomi a questi primi pastori il maestro Fard chiamò Elijah Poole «Elijah Karriem» . Successivamente, sempre nel 1931, egli fondò a Detroit un'università dell'Islam in cui, tra le altre cose, si tenevano corsi di matematica per aiutare i poveri negri a non farsi imbrogliare dalla contabilità fasulla dei «diavoli bianchi dagli occhi azzurri» . Aprire una scuola in quelle condizioni voleva dire non disporre di insegnanti qualificati, ma bisognava cominciare in qualche modo e così Elijah Karriem levò i suoi figli dalle scuole pubbliche di Detroit perché l'università dell'Islam potesse avere il primo nucleo di studenti . Muhammad mi disse poi che la mancanza di un'educazione formale di cui soffrivano i suoi figli maggiori rifletteva il loro sacrificio necessario allora per costituire il nucleo di quelle università dell'Islam che oggi, sia a Detroit che a Chicago, hanno insegnanti assai meglio qualificati . Il maestro W. D. Fard scelse Elijah Karriem come il pastore supremo, con autorità su tutti gli altri. Tra questi scoppiò la gelosia. Erano tutti più istruiti di lui, oltre al fatto che sapevano parlare molto meglio e, persino in sua presenza, dicevano infuriati: «Ma perché dobbiamo inchinarci davanti a uno che è meno qualificato di noi?» Ma Elijah Karriem venne ribattezzato «Elijah Muhammad» e il maestro W. D. Fard, per i tre anni e mezzo seguenti, gli dette degli insegnamenti privati. In quel momento, mi diceva Muhammad, aveva «sentito cose che non erano mai state rivelate a nessuno» . Fu in questo periodo che Elijah Muhammad e il maestro W. D. Fard andarono a Chicago e fondarono il tempio numero due; inoltre crearono a Milwaukee le premesse per la costituzione di un tempio numero tre . Nel 1934, il maestro W. D. Fard scomparve senza lasciar traccia . Elijah Muhammad mi raccontava che vi erano stati diversi attentati alla sua vita perché la gelosia degli altri pastori era giunta al parossismo e che a causa di questi «ipocriti» era dovuto fuggire a Chicago. Il tempio numero due divenne il suo quartier generale finché gli «ipocriti» non lo perseguitarono anche là costringendolo di nuovo a fuggire. A Washington, egli fondò il tempio numero quattro e mentre era là, alla Biblioteca del Congresso, si mise a studiare certi libri in cui, come gli aveva detto il maestro W. D. Fard, c'erano frammenti della verità che quei diabolici uomini bianchi avevano registrato, ma che non includevano nei libri generalmente a disposizione del pubblico . Essendo, come diceva, sempre perseguitato dagli «ipocriti», Muhammad fuggì da una città all'altra senza mai fermarsi troppo nello stesso posto. Ogni tanto, quando poteva, andava a casa a rivedere la moglie e gli otto figli che erano mantenuti da altri poveri Muslims i quali dividevano con loro il poco che avevano . Persino i primi seguaci che Muhammad aveva raccolto a Chicago non sapevano che era a casa perché lui dice che gli «ipocriti» cercavano in tutti i modi di assassinarlo . Nel 1942, Muhammad fu arrestato. Dice che furono dei negri «alla zio Tom» a fare la spia a quel diavolo dell'uomo bianco riguardo ai suoi insegnamenti e che venne accusato di sottrarsi agli obblighi di leva, sebbene fosse ormai troppo vecchio per essere richiamato. Fu condannato a cinque anni. Per tre anni e mezzo Muhammad rimase nel penitenziario federale di Milan nel Michigan. Poi fu messo in libertà provvisoria e, nel 1946, ritornò al suo lavoro per togliere i paraocchi al popolo negro, qui in questo deserto che è l'America del Nord . Mi sembra ancora di sentirmi quando, in piedi davanti al leggio del nostro piccolo tempio, mi rivolgevo appassionatamente ai miei fratelli e sorelle negri: «Questo piccolo, dolcissimo uomo, il molto onorevole Elijah Muhammad che proprio in questo momento, laggiù a Chicago, insegna ai nostri fratelli e alle nostre sorelle! Il Messaggero di Allah, qualifica questa che fa di lui il negro più potente d'America! Per voi e per me quest'uomo ha sacrificato sette anni della sua vita per sfuggire a degli ipocriti immondi ed ha passato altri tre anni e mezzo in prigione! Fu incarcerato dal diabolico uomo bianco il quale non vuole che il molto onorevole Elijah Muhammad faccia risvegliare il gigante addormentato che siamo voi ed io e tutti quelli del nostro popolo che vivono, ignoranti e rimbecilliti, in questo paradiso dell'uomo bianco e inferno del negro, qui nel deserto che è l'America del Nord! «Mi sono seduto ai piedi del nostro Messaggero per ascoltare la verità dalla sua stessa bocca. Ho fatto solenne promessa ad Allah, inginocchiato davanti a lui, di dire in faccia all'uomo bianco quali sono i suoi crimini e al negro di palesare i veri insegnamenti del nostro molto onorevole Elijah Muhammad. Non m'importa se ciò dovesse costarmi la vita.. » Questo era il mio atteggiamento, le mie parole prive di ogni compromesso che, senza esitazione né timore, pronunciavo dappertutto. Ero il suo servo più fedele e oggi so che credevo in lui più fermamente di quanto egli non credesse in se stesso . Negli anni seguenti avrei dovuto affrontare una crisi psicologica e spirituale . Capitolo tredicesimo . IL PASTORE MALCOLM X . Lasciai il mio lavoro presso lo stabilimento Lincoln-Mercury della Ford. Mi sembrava chiaro che a Muhammad erano necessari dei pastori per diffondere i suoi insegnamenti, per fondare altri templi tra i ventidue milioni di negri che abitavano, rimbecilliti e sonnolenti, le città dell'America del Nord . Presi la mia decisione relativamente presto. Sono sempre stato un attivista e forse fu proprio la rapidità delle mie reazioni che mi fece raggiungere quello stadio di vocazione più presto di quanto non succedesse ad altri pastori della Nazione dell'Islam . Ma ciascuno di essi, a suo tempo, a suo modo e nel segreto della propria anima, giungeva alla convinzione che fosse scritto che tutta la sua vita precedente non era altro che la preparazione per diventare discepoli di Muhammad . L'Islam insegna che tutto ciò che accade è scritto . Muhammad mi invitava a fargli visita a Chicago più spesso possibile mentre, per mesi, mi preparava con i suoi insegnamenti . Mai in prigione avevo studiato e assorbito con tanta intensità come facevo ora sotto la sua guida. Ero immerso nei rituali del culto, in quelle che, come ci insegnava lui, erano le vere nature degli uomini e delle donne; nelle procedure organizzative e amministrative; nei reali significati e nelle interrelazioni ed usi della Bibbia e del Corano . Ogni sera andavo a letto sempre più stupito. Se non Allah, chi era che aveva infuso tanta sapienza in quell'umile agnello, in quel piccolo uomo della Georgia, che aveva fatto solo la quarta elementare e veniva dalle segherie e dai campi di cotone? Avevo preso quell'analogia dell'«umile agnello» dalla profezia contenuta nei libri profetici di un agnello simbolico con in bocca una spada a due tagli. La spada a due tagli di Muhammad erano i suoi insegnamenti che tagliavano con un duplice fendente il legame di dipendenza del negro rispetto al bianco . La mia adorazione per Muhammad aumentò, proprio nel senso della parola latina "adorare" che significa molto di più del senso che attribuiamo ad essa nell'uso comune. La mia adorazione per lui era così estatica che lo consideravo il primo uomo che avevo temuto, non col timore che si prova nei confronti di qualcuno che ti punta la pistola, ma con quello che si ha per la potenza del sole . Quando mi giudicò all'altezza, Muhammad mi permise di andare a Boston. Là c'era il fratello Lloyd X che invitò a sentirmi coloro che era riuscito a interessare all'Islam. La riunione si svolse nel salotto di casa sua . Citerò quello che dissi all'inizio e poi in seguito in altri posti, così come riesco alla meglio a ricordarmi la struttura generale dei discorsi che facevo a quel tempo. Mi rammento che allora non rinunciavo mai a cominciare con la mia analogia preferita di Muhammad . «Allah ha dato a Muhammad una verità tagliente, - dicevo. - E' come una spada a due tagli che penetra dentro di noi, che ci provoca grande dolore ma che, se si è in grado di accogliere la verità, ci cura e ci salva da quella che, altrimenti, sarebbe una morte certa» . Poi non sprecavo altro tempo prima di incominciare ad aprir gli occhi del mio pubblico su quel diavolo dell'uomo bianco: «So che non vi rendete conto dell'enormità degli orrori commessi dal cosiddetto uomo bianco CRISTIANO.. . «Neanche nella Bibbia ci sono delitti simili! Dio nella sua ira colpì col fuoco i colpevoli di crimini molto MINORI! CENTO MILIONI di noi negri! I vostri e i miei antenati, tutti ASSASSINATI da quest'uomo bianco. Per portare qui quindici milioni di noi perché fossimo i suoi schiavi, egli ha assassinato durante tutto il percorso cento milioni della nostra gente! Vorrei potervi mostrare il fondo del mare in quei tempi: i corpi dei negri, il sangue, le ossa spezzate dai pesanti stivali e dai bastoni, le negre incinte che venivano gettate in mare se si ammalavano, gettate in mare ai pescecani i quali avevano imparato che il sistema migliore per ingrassare era seguire le navi negriere! «Gli stupri che l'uomo bianco faceva delle donne negre cominciarono proprio lì, sulle navi negriere! Il diavolo dagli occhi azzurri non seppe nemmeno aspettare che arrivassero qui . Fratelli e sorelle, il mondo civile non ha ancora conosciuto una simile orgia di avidità, di lussuria, di assassini!» Questo modo di drammatizzare la schiavitù non mancava mai di turbare e sdegnare i negri che, per la prima volta, sentivano parlare di questi orrori. E' incredibile quanti uomini e donne negri si siano lasciati ingannare dall'uomo bianco al punto da avere un'idea quasi romantica dei giorni della schiavitù. Una volta che avevo acceso gli animi, cominciavo a parlare direttamente di loro . «Quando lasciate questa stanza, vorrei che cominciaste a vedere tutto ciò ogni volta che vi trovate ad avere a che fare con questo diavolo dell'uomo bianco. Proprio così! E' un diavolo! Voglio solo che cominciate a osservarlo, in quei posti dove non vi vuole fra i piedi; che vediate la sua falsità, il suo esclusivismo, i suoi atteggiamenti vanitosi mentre continua a tenere soggiogati voi e me . «Tutte le volte che vedete un uomo bianco pensate che è il diavolo! Pensate al modo in cui COSTRUI' quest'impero che oggi è il più ricco di tutte le nazioni alle spalle dei VOSTRI antenati schiavi, col loro sangue e col loro sudore. La sua crudeltà e la sua ingordigia gli attirano addosso l'odio di tutto il mondo!» A ogni riunione tornavano quelli che erano presenti la volta prima portando altri amici. Nessuno di loro aveva mai sentito smascherare l'uomo bianco a quel modo e, tra il pubblico di quelle riunioni nella casa del fratello Lloyd, situata al numero 5 di Wellington Street, non ricordo di aver mai visto un solo negro che non si alzasse in piedi quando, dopo la mia conferenza, chiedevo: «Coloro che CREDONO a tutto ciò che hanno sentito, vogliono per favore alzarsi in piedi?» La domenica sera alcuni si alzavano mentre vedevo che altri non erano ancora maturi quando rivolgevo al mio pubblico questa domanda: «Quanti di voi vogliono FARSI SEGUACI del molto onorevole Elijah Muhammad?» Se ne alzarono abbastanza da poter aprire, dopo tre mesi, un piccolo tempio. Ricordo la nostra felicità quando andammo a noleggiare alcune sedie pieghevoli. Non stavo più in me dalla gioia quando fui in grado di dare a Muhammad l'indirizzo del nuovo tempio . Fu quando aprimmo questa piccola moschea che mia sorella Ella cominciò a venirmi ad ascoltare. Sedeva esterrefatta come se non potesse credere che ero io e stava là immobile anche quando chiedevo a tutti quelli che credevano alle mie parole di alzarsi in piedi. Faceva la sua offerta quando si passava per la colletta. La sua presenza non mi infastidiva né mi incoraggiava: non pensai mai a convertirla poiché sapevo com'era cocciuta e prudente quando si trattava di aderire a qualcosa. Quasi pensavo che ci volesse lo stesso Allah per convertirla . Dichiaravo chiusa la riunione come Muhammad mi aveva insegnato di fare: «Nel nome di Allah, il benefico, il misericordioso, tutta la lode è dovuta ad Allah, Signore del mondo, il benefico, il misericordioso padrone del giorno del giudizio in cui noi viviamo ora. Te solo noi serviamo e a Te soltanto noi chiediamo aiuto. Guidaci sulla giusta strada, sulla strada di coloro ai quali Tu hai dispensato i tuoi favori, non di coloro sui quali cade la tua ira. Non sulla strada di coloro che si perdono dopo aver ascoltato i tuoi insegnamenti. Porto testimonianza che non c'è altro Dio all'infuori di Te e che il molto onorevole Elijah Muhammad è il Tuo servo ed apostolo». Credevo davvero che Muhammad fosse stato mandato al nostro popolo dal volere divino dello stesso Allah . Alzavo la mano per dichiarare chiusa la nostra riunione: «Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te. Cerca la pace e non essere mai l'aggressore, ma se qualcuno ti attacca noi non ti insegnamo a porgere l'altra guancia. Che Allah ti benedica perché ogni cosa che tu fai sia coronata dal successo e dalla vittoria» . Fatta eccezione per quell'unico giorno che, quando tornai da Detroit dopo essere uscito di prigione, passai a casa di Ella, non ero stato da sette anni nelle strade della vecchia Roxbury . Ci tornai per ritrovarmi con Shorty . Quando mi vide, Shorty rimase interdetto. Dal «telegrafo» aveva saputo che ero in città e che ero affetto da una qualche specie di «mania religiosa». Non sapeva se facessi sul serio oppure se anch'io fossi diventato uno di quei predicatori trafficanti e mantenuti dalle puttane che si trovano in tutti i ghetti negri, con delle piccole chiese sistemate in qualche negozio e tenute da donne di mezza età, che lavorano molto per mantenere il loro grazioso giovane predicatore ben vestito con abiti vistosi e al volante di una bella macchina. Dissi subito a Shorty qual era la mia serietà nei confronti dell'Islam ma poi, riprendendo a parlare col vecchio gergo, lo misi ben presto a suo agio e il nostro incontro fu bellissimo. Ridemmo fino alle lacrime quando Shorty rievocava le sue reazioni alle parole del giudice: «Per la prima imputazione dieci anni. Per la seconda imputazione dieci anni...» Osservammo insieme che il fatto di aver avuto con noi quelle ragazze bianche era stato il motivo di una condanna a dieci anni, laddove in prigione avevamo visto dei criminali molto peggiori condannati a pene assai più lievi . Shorty aveva ancora una piccola orchestrina e le cose gli andavano abbastanza bene. Era a buon diritto molto fiero di aver studiato musica in prigione. Io gli dissi abbastanza dell'Islam per accorgermi dalle sue reazioni che non aveva molto desiderio di starmi a sentire. In prigione gli avevano detto cose poco lusinghiere sulla nostra religione e così mi costrinse a cambiare argomento con una battuta. Mi disse che ancora non aveva avuto abbastanza braciole di maiale e donne bianche. Non so se ora la pensi allo stesso modo. Comunque so che è sposato con una donna bianca... e che è grasso come un maiale a forza appunto di mangiare maiale . Rividi anche John Hughes, il padrone della casa da gioco, e alcuni altri miei conoscenti che stavano ancora a Roxbury. Il «telegrafo» aveva sparso sul mio conto notizie che li mettevano piuttosto in imbarazzo, ma la consueta cordialità del mio atteggiamento ci permise almeno di fare conversazione. Con la maggior parte di loro non rammentai neppure l'Islam perché, giudicando da come ero io quando facevo parte dell'ambiente, sapevo benissimo in che misura erano condizionati dal rimbecillimento loro imposto dall'uomo bianco . Rimasi solo poco tempo come pastore del tempio numero undici perché quando, nel marzo del 1954, l'ebbi organizzato, lo lasciai sotto la guida del pastore Ulysses X e il Messaggero mi trasferì a Philadelphia . I negri della Città dell'amore fraterno reagivano più rapidamente di quanto non avessero fatto i bostoniani quando venivano messi di fronte alla verità sull'uomo bianco. Alla fine di maggio, fu fondato il tempio numero dodici di Philadelphia . C'erano voluti meno di tre mesi . Subito dopo, a causa di questi successi di Boston e di Philadelphia, Muhammad mi nominò pastore del tempio numero sette, nella città di vitale importanza, New York City . Non sono in grado di descrivervi il tumulto delle mie emozioni . Perché gli insegnamenti di Muhammad potessero davvero far risorgere i negri d'America, era ovvio che l'Islam doveva crescere e diventare un grande movimento. In nessun'altra città americana esistevano delle condizioni potenziali di sviluppo come nelle cinque ripartizioni della città di New York, dove c'erano più di un milione di negri . Erano passati nove anni da quando West Indian Archie ed io avevamo battuto le strade aspettando di spararci uno contro l'altro come cani . «ROSSO!.. Amico mio!... Rosso!, ma è IMPOSSIBILE che sia proprio tu !» Sapevo di avere un aspetto molto diverso ora. Portavo i miei capelli rosso rame tagliati a spazzola, al posto di quella zazzera lunga, liscia e stirata con la quale tutti mi avevano conosciuto prima . «Fatti un po' vedere amico... qui a bere con noi, barista.. . Cosa vuoi? Oh, HAI SMESSO! Ma via, lascia perdere queste idee!» Mi faceva veramente piacere vedere tanta gente che avevo conosciuto così bene prima. Capirete cos'era per me. Tuttavia quelli che cercavo, prima di qualsiasi altro, erano West Indian Archie e Sammy il magnaccia. Il primo duro colpo lo ebbi riguardo a Sammy. Aveva smesso di sfruttare le puttane, si era fatto un'ottima posizione nella lotteria e guadagnava molto bene. Si era persino sposato con una ragazza giovane e di manica larga. Subito dopo il matrimonio, fu trovato una mattina morto sul letto, dicevano, con venticinquemila dollari in tasca. Tra parentesi, vorrei osservare che di solito la gente non crede alle somme che maneggiano anche i pesci piccoli del mondo della malavita. Ebbene, state a sentire. Nel marzo del 1964 morì Lawrence Wakefield che aveva una piccola «ruota della fortuna» a cui si facevano puntate di cinque e dieci cents. Nel suo appartamento, contenuti in sacchi e borse, furono trovati settecentosessantamila dollari in contanti... tutti presi ai negri poveri. E poi ci meravigliamo perché siamo così poveri . Ancora profondamente addolorato per Sammy, giravo da un bar all'altro chiedendo notizie di West Indian Archie ai veterani del quartiere. Il «telegrafo» non aveva mai annunciato la sua morte né che vivesse altrove, ma sembrava che nessuno fosse in grado di dire dov'era. Sentii parlare della solita fine fatta da tanti altri trafficanti: una pallottola, qualche coltellata, la prigione, gli stupefacenti, le malattie, la pazzia, l'alcolismo . Credo che si trattasse di qualcosa del genere. Molti dei sopravvissuti che avevo conosciuti crudeli come jene e lupi facevano ora pietà. Avevano affrontato tutte le situazioni, ma sotto quella crosta erano rimasti dei negri poveri, ignoranti, senza né arte né parte. La vita li aveva pian piano abbandonati e beffati. Incontrai circa venticinque di questi veterani che avevo conosciuto bene e che, nello spazio di nove anni, si erano ridotti al livello di trafficanti e imbroglioni di terz'ordine che si dànno da fare per guadagnare piccole somme per l'affitto e per mangiare. Alcuni lavoravano persino in città come fattorini, portieri e cose del genere. Fui riconoscente ad Allah per esser diventato un Muslim e aver potuto così sfuggire al loro destino . C'era Cadillac Drake. Quando facevo il cameriere allo Small's Paradise lui era uno sfruttatore di puttane grosso, allegro, sempre col sigaro in bocca e vestito alla maniera più vistosa, cliente fisso del bar per l'intero pomeriggio. Ebbene, lo riconobbi mentre camminava goffamente verso di me. Sentii dire che l'avevano acchiappato con l'eroina. Era il mendicante più sporco e trasandato che avessi mai visto. Accelerai il passo perché, se mi avesse riconosciuto, saremmo rimasti imbarazzati tutti e due. Ero il ragazzino al quale lui era solito gettare un dollaro di mancia . Il «telegrafo» si mise all'opera per scoprire dove si nascondeva West Indian Archie. Quando vuole, il «telegrafo» diventa una specie di sintesi tra polizia segreta federale e il servizio telegrafico della Western Union. Alla fine di una delle mie prime riunioni al tempio numero sette, un vecchio trafficante, al quale avevo dato alcuni dollari, mi venne a dire che West Indian Archie era ammalato e abitava in una camera ammobiliata nel Bronx . Presi un taxi diretto a quell'indirizzo. West Indian Archie mi aprì e restò lì ritto nel suo pigiama spiegazzato, a piedi nudi, guardandomi con occhi imbambolati . Avete mai visto qualcuno che sembra il fantasma della persona che avete conosciuto un tempo? Gli ci vollero alcuni secondi prima di ritrovarmi nella sua memoria. Poi, con voce roca, esclamò: «Rosso! Son così contento di vederti!» Non abbracciai il vecchio: era debole e malato. Lo aiutai a tornare nella stanza e si sedette sulla sponda del letto. Mi misi sull'unica sedia che c'era e gli dissi che l'avermi costretto ad andarmene da Harlem mi aveva salvato la vita perché mi aveva condotto all'Islam . «Mi sei sempre piaciuto, Rosso», mi disse. Poi aggiunse che non aveva mai avuto davvero intenzione di uccidermi. Gli raccontai che mi erano venuti molte volte i brividi a pensare come eravamo stati vicini ad ammazzarci reciprocamente. Aggiunsi che ero sinceramente convinto di avere indovinato quella combinazione che mi assicurava la vittoria dei trecento dollari che lui mi aveva pagato. Archie disse che più tardi gli era venuto il dubbio di aver fatto un errore, visto che ero pronto addirittura a morire per quella faccenda. Poi convenimmo che non valeva la pena di parlarne perché non voleva più dir nulla. Mentre parlavamo di tutte queste cose, interrompeva spesso la conversazione per dirmi che era tanto felice di rivedermi . Gli feci qualche cenno circa gli insegnamenti di Muhammad, e come avevo scoperto che tutti noi che eravamo stati per le strade dovevamo esser considerate vittime della società dell'uomo bianco. Dissi ad Archie cosa avevo pensato di lui mentre ero in prigione: che il suo cervello, capace di registrare centinaia di combinazioni di numeri al giorno, avrebbe potuto esser messo al servizio della matematica o della scienza. Ricordo che lui soggiunse: «Rosso, è veramente qualcosa da pensarci su!» Ma né io né lui dicemmo che non era troppo tardi. Ho l'impressione che sapesse che la fine era vicina. Io ero troppo commosso nel vedere come si era ridotto un uomo che era stato quello che era stato Archie e non mi sentii di restare più a lungo. Non avevo molti soldi e lui non voleva accettare quel poco che volevo dargli. Tuttavia riuscii a farglieli prendere . Devo sempre ricordarmi che allora, nel giugno del 1954, il tempio numero sette di New York City era in un piccolo negozio . Sembra quasi incredibile che tutti i Muslims della grande metropoli entrassero allora in un solo autobus. Persino tra i nostri fratelli di colore del ghetto di Harlem solo uno su mille avrebbe saputo rispondere alla domanda chi erano i Muslims. Per quanto riguarda i bianchi, fatta eccezione per quegli sparuti gruppetti che controllano certi schedari della polizia o delle prigioni, neanche cinquecento persone in tutta l'America sapevano della nostra esistenza. Cominciai a martellare con gli insegnamenti di Muhammad i membri del tempio di New York e i pochi amici che essi riuscivano a trascinare alle nostre riunioni. Ogni volta però cresceva il mio scoraggiamento perché ad Harlem, soffocata dalla massa dei negri poveri e ignoranti che soffrivano per tutti quei mali che l'Islam era in grado di curare, quando parlavo con tutto il mio cuore e chiedevo poi a coloro che volevano farsi seguaci di Muhammad di alzarsi in piedi, solo due o tre rispondevano. Talvolta, devo ammetterlo, neanche quei pochi si facevano avanti . Credo che la mia rabbia nei confronti dell'incapacità che dimostravo fosse maggiore proprio perché conoscevo la vita di strada. Dovetti riprendere coraggio e considerare attentamente il problema. E' chiaro che il nostro limite maggiore era costituito dal fatto di essere solo una delle tante voci del malcontento negro che si facevano sentire in qualunque angolo affollato di Harlem. I diversi gruppi nazionalisti, i fautori del boicottaggio dei mercanti bianchi ed altri rappresentanti di vari movimenti, tutti avevano dozzine di oratori che cercavano di aumentare il numero dei seguaci. Non è che avessi nulla contro chi cercava di incoraggiare l'indipendenza e l'unità dei negri, ma il fatto è che tutto ciò rendeva difficile far sentire la voce di Muhammad . Il mio primo tentativo per superare questa stasi fu di stampare alcuni volantini. Non ci fu una sola strada, un solo angolo frequentato di Harlem che io e cinque o sei buoni fratelli Muslim tralasciammo. Andavamo davanti a un negro o a una negra che camminavano sul marciapiede di modo che dovevano per forza prendere il nostro volantino, e se esitavano un solo secondo, non potevano evitare di sentirci dire cose che attraevano l'attenzione, come per esempio: «State a sentire come l'uomo bianco ha rapito, derubato e stuprato il nostro popolo negro...» In seguito, cominciammo ad andare «a pesca» in certi angoli di Harlem, tenendoci ai margini delle riunioni dei gruppi nazionalisti. Oggi quel metodo ha molte sottigliezze, ma allora consisteva nel far pressioni su coloro che stavano ai margini dei gruppi di ascoltatori che altri erano riusciti ad attrarre . Chi prendeva parte a un comizio nazionalista, aveva interesse per la rivoluzione della razza negra. Cominciammo a ottenere risultati tangibili quasi subito dopo la distribuzione di manifestini tra la gente: «Venite a sentire anche noi, fratelli, il molto onorevole Elijah Muhammad ci insegna a guarire le malattie spirituali, mentali, morali, economiche e politiche del negro» . Vidi delle facce nuove alle riunioni del nostro tempio numero sette e fu allora che scoprimmo che i posti migliori per andare «a pesca», l'uditorio meglio preparato per assorbire gli insegnamenti di Muhammad era quello delle chiese cristiane . Tenevamo le nostre funzioni domenicali alle due del pomeriggio . A quell'ora, in tutta Harlem, le chiese cristiane avevano terminato i loro servizi religiosi da un'ora o due . Tralasciavamo le chiese più grandi perché la maggioranza dei fedeli che le frequentavano era costituita dai cosiddetti negri della classe media, così pieni di prosopopea e desiderosi di acquistare uno status da non sognarsi neanche di venire nel nostro piccolo locale . Andavamo invece «a pesca» furiosamente quando quelle piccole chiese evangeliche sistemate anch'esse in negozi aprivano le porte per far uscire i loro trenta o cinquanta fedeli. «Venite, veniteci a sentire, fratelli e sorelle. Non avrete sentito niente finché non conoscerete gli insegnamenti del molto onorevole Elijah Muhammad». Queste congregazioni erano di solito composte da immigrati dal Sud, gente di mezza età che sarebbe andata in capo al mondo pur di sentire quella che essi chiamavano «una buona predica». Erano queste le chiese che mettono fuori dei cartelli in cui si annuncia la vendita di pollo fritto e cene a base di frattaglie per poter così raccogliere un po' di fondi. Tre o quattro sere la settimana i fedeli andavano in chiesa a provare i cori per la domenica successiva, credo cantando gli inni accompagnati dallo scuotio, dal rullio e dal tintinnio delle loro chitarre e tamburelli . Non so se lo sapete, ma esiste tutta una categoria di cantanti professionisti di inni che si è formata in queste piccole chiese dei ghetti urbani o è venuta dal Sud. Sono gente come la sorella Rosetta Tharpe, i Clara Ward Singers e ce ne devono essere almeno cinquecento di minor rinomanza. La più grande di tutte, Mahalia Jackson, era la figlia di un predicatore della Louisiana. Andò a Chicago dove lavorava come cuoca e donna di fatica per i bianchi e poi come operaia in una fabbrica: contemporaneamente cantava nelle chiese negre con lo stile "gospel" [1] che, quando venne di moda, fece di lei la prima negra portata alla fama dai negri. Vendette centinaia di migliaia di dischi tra i negri prima che i bianchi sapessero chi era. Comunque ricordo di aver letto una volta che Mahalia dichiarava, tutte le volte che poteva, di andare in incognito in qualche piccola chiesa del ghetto a cantare con la sua gente . Considera queste chiese sistemate nei locali dei negozi le sue «stazioni di rifornimento» . I cristiani negri che riuscivamo a «pescare» e a far venire nel nostro tempio erano condizionati, come ben presto mi accorsi, dalla sorpresa dolorosa che provavano quando dicevo loro cosa era successo ai nostri antenati che pure adoravano un dio dai capelli biondi e dagli occhi azzurri. Sapevo quale tempio avrei potuto metter su se fossi riuscito a convertire quei cristiani e perciò adattavo gli insegnamenti alla loro psicologia . Cominciavo a parlare e talvolta ero così teso emotivamente da dover spiegare la mia condizione: «Vedete le mie lacrime, fratelli e sorelle... non avevo più pianto da quando ero ragazzo, ma non posso farne a meno ora che sento su di me tutta la responsabilità di aiutarvi finalmente a comprendere il male che questa religione dell'uomo bianco che noi chiamiamo cristianesimo ci ha FATTO.. . «Fratelli e sorelle, che siete venuti qui per la prima volta, vi prego, non lasciatevi spaventare da tutto ciò. So che voi non ve l'aspettavate perché quasi nessuno di noi negri ha pensato che forse commettevamo un errore a non domandarci se, da qualche parte, non esisteva una religione speciale per noi, una religione speciale per il negro . «Ebbene, una tale religione ESISTE: si chiama Islam. Lasciate che vi detti questa parola lettera per lettera: I-s-l-a-m! ISLAM! Ma ora aspettiamo... vi parlerò dell'Islam tra poco. E' necessario capire certe cose sul cristianesimo prima che possiate comprendere perché la RISPOSTA ai nostri problemi è l'Islam . «Fratelli e sorelle, l'uomo bianco ha fatto un continuo lavaggio del cervello a noi negri perché concentrassimo il nostro sguardo estatico su Gesù dai capelli biondi e dagli occhi azzurri. Noi adoriamo questo Gesù che neppure ci SOMIGLIA. Sì, proprio così! Ora seguitemi, ascoltate gli insegnamenti del Messaggero di Allah, il molto onorevole Elijah Muhammad. Pensateci! L'uomo bianco dai capelli biondi e dagli occhi azzurri ha insegnato a voi e a me ad adorare un Gesù BIANCO, a gridare, cantare e pregare questo SUO Dio, il Dio dell'uomo bianco. Ci ha insegnato a gridare, cantare e pregare finché MORIAMO, ad aspettare fino alla MORTE per essere ammessi in un fantastico mondo dell'aldilà, quando saremo MORTI, mentre quest'uomo bianco ha il suo latte e miele qui per le strade selciate con l'oro dei dollari, proprio qui su questa terra! «Non volete credere a quello che vi sto dicendo, fratelli e sorelle? Ebbene, ve lo dico io cosa dovete fare. Andate fuori e date un'occhiata intorno, dove abitate. Guardate non soltanto come voi vivete, ma anche come vivono tutti quelli che CONOSCETE. In questo modo sarete sicuri di non essere un'eccezione, un prodotto accidentale della sfortuna, e quando avrete finito di guardare dove VOI abitate, fate una passeggiata attraverso il Central Park e date un po' un'occhiata a quello che questo Dio bianco ha portato all'uomo bianco. Voglio dire, andate un po' a vedere come vivono i bianchi! «Ma non fermatevi qui. Infatti, anche se voleste, non vi sarebbe possibile per molto tempo perché i suoi portieri vi diranno di circolare. Prendete la metropolitana e andate giù in centro . Dovunque vogliate scendere, GUARDATE gli appartamenti dell'uomo bianco, i suoi negozi, le sue banche! Andate giù fino all'estrema punta dell'isola di Manhattan che questo diabolico uomo bianco ha rubato per ventiquattro dollari agli ingenui indiani! Guardate gli edifici dell'amministrazione comunale, guardate le banche della sua Wall Street. Guardate voi stessi e guardate il SUO Dio!» Imparai presto una cosa importante e cioè di insegnare sempre in una forma comprensibile alla maggioranza. Inoltre, mentre i nazionalisti che avevamo «pescato» erano quasi tutti uomini, tra i cristiani delle sette evangeliche le cui chiese erano sistemate in negozi, le donne erano in grande maggioranza e io avevo abbastanza intuito da offrir loro qualcosa di diverso . «BELLE donne negre! Il molto onorevole Elijah Muhammad ci insegna che il negro esige rispetto: ebbene, non avrà mai il rispetto di nessuno finché non impara a rispettare le sue donne! E' necessario che cominci SUBITO a liberarsi dalle debolezze che gli sono state imposte dal suo ex padrone bianco! Il negro deve cominciare subito a proteggere e RISPETTARE le sue donne! » Alla mia domanda: «Quanti CREDONO a ciò che hanno sentito?» il cento per cento delle donne si alzavano senza esitazioni. Però mai più di pochissimi si alzavano al mio invito: «Coloro che vogliono FARSI SEGUACI del molto onorevole Elijah Muhammad si alzino in piedi!» Sapevo che gran parte dei simpatizzanti trovavano il nostro rigido codice morale e la nostra disciplina inaccettabili. Io battevo su questo punto, sulle ragioni per cui avevamo quel codice morale: «L'uomo bianco VUOLE che i negri rimangano sporchi, immorali e ignoranti perché fino a quando saremo in queste condizioni, ci troveremo costretti a raccomandarci a lui e lui ci dominerà. Non riusciremo mai ad assicurarci libertà, giustizia ed uguaglianza finché non faremo qualcosa per migliorare noi stessi! » E' ovvio che si doveva spiegare il nostro codice etico a tutti coloro che avevano intenzione di diventare Muslims e ben presto si sparse la voce tra i membri di tutte quelle chiesette evangeliche, e ciò spiega perché venivano ad ascoltarmi senza però farsi seguaci di Muhammad. Nella Nazione dell'Islam erano proibiti tutti i rapporti sessuali illeciti, il consumo della carne dell'immondo suino e di altri cibi dannosi o malsani, del tabacco, dell'alcool e degli stupefacenti. Nessun Muslim seguace di Elijah Muhammad doveva andare a ballare, giocare d'azzardo, andar fuori la sera con rappresentanti dell'altro sesso, al cinema, praticare degli sport insieme con i bianchi, o prendersi delle lunghe vacanze. I Muslims non dormivano più del necessario per la salute e tra di loro non erano permessi i litigi in famiglia e le scortesie, specialmente nei confronti delle donne . Non era ammessa la menzogna ed ogni genere di furto veniva severamente condannato: quanto all'insubordinazione nei confronti dell'autorità civile era ammessa soltanto se giustificata dagli obblighi religiosi . Le nostre leggi morali venivano fatte rispettare dal Frutto dell'Islam, un corpo di Muslims capaci, fedeli e ben addestrati . Le infrazioni venivano punite con la sospensione decretata da Muhammad o con l'isolamento per certi periodi di tempo o persino, quando si trattava di trasgressioni più gravi, con l'espulsione «dall'unico gruppo che veramente si prende cura di te» . Il tempio numero sette cresceva poco a poco ad ogni riunione, ma il processo era sempre troppo lento perché ne fossi soddisfatto . Durante la settimana viaggiavo in treno e in autobus: il venerdì insegnavo al tempio numero dodici di Philadelphia e mi recavo a Springfield nel Massachusetts cercando di fondarvi un nuovo tempio. Ad esso Muhammad dette il nome di tempio numero tredici: la sua fondazione fu possibile per l'aiuto del fratello Osborne X il quale aveva sentito parlare dell'Islam per la prima volta da me quando eravamo ancora in prigione. Una signora che era venuta ad una di queste riunioni a Springfield mi chiese di andare ad Hartford dove lei abitava. Specificò che avrei dovuto recarmi in quella località il giovedì successivo e disse che avrebbe riunito alcuni amici. Ci andai . Tradizionalmente il giovedì è il giorno di libertà dei domestici. Questa sorella aveva radunato nel suo appartamento circa quindici camerieri, cuochi, autisti e domestici che lavoravano alle dipendenze dei bianchi di Hartford. Ebbene, voi tutti conoscete il proverbio secondo cui nessuno è un eroe per il suo cameriere. Quei negri che servivano e riverivano i ricchi bianchi erano in grado di aprire gli occhi più alla svelta di qualsiasi altro e quando essi cominciarono ad andare «a pescare» un certo numero di elementi tra i domestici e tra gli altri negri che abitavano ad Hartford e nei dintorni, non passò molto tempo che Muhammad poté proclamare quella cittadina sede del tempio numero quattordici. Ci andavo ad insegnare ogni giovedì . Durante le mie visite a Chicago, Muhammad mi contraddiceva quasi ogni volta su certi punti. Non riuscivo a nascondere la mia convinzione che con dei pastori forti del suo messaggio, la Nazione dell'Islam avrebbe dovuto espandersi molto più rapidamente. La pazienza e la saggezza che egli mostrava nel riprendermi, mi facevano sentire profondamente umile. Una volta mi disse che il vero capo non imponeva ai suoi seguaci un peso maggiore di quello che potevano portare e non esigeva che tenessero un ritmo troppo veloce a cui non avrebbero potuto adeguarsi . «E' opinione comune, - mi diceva Muhammad, - quando si vede un tale al volante di una vecchia automobile che procede a bassa velocità, credere che quel tizio non voglia correre. In realtà egli sa benissimo che se andasse a velocità maggiore, la sua automobile non reggerebbe allo sforzo. Dategli un mezzo veloce e vedrete che andrà molto più presto». Ricordo un'altra volta quando mi lamentavo dell'inefficienza del pastore di una delle moschee: «Preferisco, - mi disse, - avere un mulo di cui mi posso fidare anziché un cavallo da corsa che non dia affidamento» . Sapevo che Muhammad VOLEVA mettersi al volante di un'automobile più veloce ed oggi non credo che si potrebbero reclutare tanti fedeli fratelli e sorelle della Nazione dell'Islam disposti ad andare «a pescare» con lo stesso entusiasmo di quelli che contribuirono a far sviluppare i templi di Boston, Philadelphia, Springfield, Hartford e New York. Naturalmente mi limito a ricordare quelli che conoscevo bene per diretta esperienza personale. Tutto questo accadeva nel 1955, che fu anche l'anno in cui feci il mio primo viaggio di una certa importanza: andai a collaborare all'apertura, ad Atlanta nella Georgia, del tempio che oggi ha il numero quindici . E' naturale che tutti i Muslims che per ragioni personali si trasferivano da una città all'altra venissero esortati a gettare i semi dell'insegnamento di Muhammad. Il fratello James X, uno dei maggiori esponenti del nostro tempio numero dodici, aveva preso contatti con un sufficiente numero di negri di Atlanta . Quando Muhammad lo seppe mi disse di andare a tenere la prima riunione. Credo di aver contribuito in un modo o nell'altro alla fondazione di quasi tutti i templi di Muhammad, ma non dimenticherò mai l'esperienza di Atlanta . L'unico locale abbastanza grande che il fratello James X poteva permettersi di affittare era un'agenzia di pompe funebri. A quei tempi tutto quello che la Nazione dell'Islam faceva, da Muhammad in giù, era fatto nella più stretta economia. Quando arrivammo tutti noi, stavano appena terminando il funerale di un negro cristiano e perciò si dovette aspettare un po' di tempo prima che i convenuti sfollassero la sala . «Vedete come questi piangono per la morte fisica del loro congiunto, - dissi a quelli del nostro gruppo dopo che fummo entrati, - ma la Nazione dell'Islam gioisce sopra di voi che siete morti dal punto di vista mentale. Questo che vi dico vi sorprenderà e vi farà anche male, ma - proprio così ! - voi non vi rendete conto in che misura tutta la nostra razza negra qui in America è morta dal punto di vista spirituale. Siamo qui oggi per esporvi gli insegnamenti di Elijah Muhammad che fanno risorgere il negro dalla morte...» Parlando di funerali, dovrei ricordare che, tutte le volte che dei negri, familiari ed amici di un Muslim defunto, assistevano alla nostra breve commovente cerimonia funebre facevamo sempre dei nuovi adepti. Tale cerimonia illustrava l'insegnamento di Muhammad secondo cui «i cristiani fanno i loro funerali per i superstiti, mentre i nostri sono destinati soltanto ai defunti» . Nella mia qualità di pastore di diversi templi, mi capitava qualche volta di dover celebrare tali cerimonie. Come mi aveva insegnato Muhammad, cominciavo col leggere sulla bara del defunto fratello o sorella una preghiera ad Allah. Poi leggevo un semplice necrologio e, successivamente, alcune pagine di solito nel settimo e nel quattordicesimo capitolo del "Libro di Giobbe", quando questi parla che non c'è vita dopo la morte [2] . Poi leggevo anche un altro passo in cui David, alla morte del figlio, diceva anche lui che non esiste alcuna vita dopo la morte . Ai fedeli spiegavo perché non si dovessero versare lacrime, perché nelle nostre cerimonie non c'erano fiori, non si cantava e non si suonava l'organo: «Abbiamo versato lacrime per nostro fratello, gli abbiamo dato la nostra musica e le nostre lacrime quand'era vivo. Se nessuno ha pianto per lui, se non ha potuto godere della nostra musica e dei fiori quand'era vivo, ebbene non ce n'è più bisogno perché ora non si accorge più di queste cose. Daremo invece alla sua famiglia il denaro che avremmo dovuto spendere per le onoranze funebri» . Delle sorelle Muslim appositamente incaricate facevano passare piccoli vassoi da cui ciascuno prendeva una pasticca rotonda di menta. Al mio segnale i presenti se la mettevano in bocca. «Ed ora passeremo in fila per dare un ultimo sguardo al nostro fratello. Non piangeremo così come non si piange per la pasticca che abbiamo appena preso. Allo stesso modo in cui questa si dissolverà lasciando nelle nostre bocche un sapore dolce, la gentilezza del nostro fratello di cui abbiamo goduto quand'era in vita si dissolverà nel nostro ricordo lasciando una traccia di dolcezza» . Ho sentito da almeno duecento Muslims che proprio l'aver partecipato a uno dei nostri funerali era stato il fattore decisivo a spingerli verso Allah. Più tardi avrei imparato che quello che Muhammad insegnava sulla morte e sulle cerimonie funebri musulmane era poi in netta contraddizione con ciò che l'Islam insegna in Oriente . Nel 1956 avevamo raggiunto un numero rispettabile. Ciascun tempio aveva «pescato» con discreti risultati di modo che, specialmente nelle metropoli come Detroit, Chicago e New York, c'erano molti più Muslims di quanti un osservatore esterno non potesse credere. Infatti, come ben sapete, nelle città grandi, se una grossa organizzazione non dà nell'occhio con manifestazioni pubbliche, può passare quasi del tutto inosservata . Ma più che limitarsi ad un aumento numerico, la versione che Muhammad dava dell'Islam cominciava ad influenzare altre categorie della popolazione negra. Iniziò un certo flusso di gente abbastanza istruita, sia laureati che tecnici e diplomati e persino alcuni che avevano certe «posizioni» nel mondo dei bianchi. Tutto ciò era un buon punto di partenza che avrebbe consentito a Muhammad di procurarsi quell'automobile veloce che tanto desiderava. Per esempio, vennero con noi degli impiegati delle amministrazioni pubbliche, delle infermiere, dei sorveglianti e capireparto e dei commessi dei grandi magazzini . Uno dei risultati più apprezzabili fu che alcuni fratelli di quest'ultima categoria diventarono degli abili, capaci e aggressivi giovani pastori del movimento di Muhammad . Sacrificai molto del mio sonno per meritare le sue crescenti prove di fiducia negli sforzi che facevo per contribuire alla costruzione della nostra Nazione dell'Islam. Nel 1956, Muhammad fu in grado di autorizzare il tempio numero sette a comprare una Chevrolet nuova che mi venne assegnata. Tra parentesi vorrei ricordare che la macchina apparteneva alla Nazione dell'Islam . Non avevo niente di mio all'infuori degli abiti, dell'orologio da polso e della valigia. Come accadeva per tutti gli altri pastori della Nazione dell'Islam, mi venivano pagate tutte le spese e ricevevo piccole somme per gli imprevisti quotidiani . Mentre prima non c'era stato niente che non avrei fatto per i soldi, ora questo era diventato l'ultimo dei miei pensieri . Comunque, quando Muhammad mi comunicò l'assegnazione della macchina mi disse che sapeva quanto ero contento di poter girare dappertutto per trovare proseliti o fondare nuovi templi e che perciò non voleva legarmi in un posto solo . In cinque mesi feci trentamila miglia con quella macchina, tutte per andare «a pescare». Una sera tardi mentre, in compagnia di un fratello, attraversavo Weathersfield nel Connecticut, dovetti fermarmi davanti a un semaforo rosso. Un'altra macchina mi tamponò violentemente: ebbi un piccolo choc ma nessuna ferita . Quel diavolo esaltato aveva con sé una donna che si nascondeva la faccia. Capii benissimo che non era sua moglie. Stavamo scambiandoci i nomi e gli indirizzi - lui abitava a Meriden nel Connecticut - quando arrivò la polizia e dal loro modo di comportarsi capii subito che si trattava di qualcuno importante . Più tardi seppi che era uno degli uomini politici più in vista del Connecticut. Non dirò qui il suo nome. Comunque, su consiglio di un avvocato, il tempio numero sette accettò di comporre amichevolmente la vertenza e col denaro che ricevemmo fu acquistata una Oldsmobile, la marca di automobile che da allora ho sempre avuto . Avevo sempre posto la massima attenzione nell'evitare qualsiasi rapporto personale troppo intimo con qualcuna delle sorelle Muslim. La mia totale devozione all'Islam esigeva che eliminassi tutti gli altri interessi e specialmente le donne. Quasi dovunque, nei templi dove andavo, almeno una delle sorelle non sposate mi faceva capire di essere convinta che mi ci volesse una moglie ed io, per parte mia, avevo sempre fatto capire chiaramente che ero troppo occupato per poter pensare al matrimonio . Tutti i mesi, quando andavo a Chicago, trovavo che qualche sorella aveva scritto a Muhammad lamentandosi che parlavo con troppa durezza delle donne quando tenevo i nostri corsi speciali sulla diversa natura dei due sessi. Ora bisogna ricordare che l'Islam ha leggi e insegnamenti assai severi per quel che riguarda le donne: il nocciolo di essi è che la vera natura dell'uomo è di essere forte, mentre quella della donna è di essere debole. L'uomo deve sempre rispettare la sua donna ma, nello stesso tempo, deve sapere che è necessario dominarla se vuole essere da lei rispettato . A quel tempo avevo le mie buone ragioni personali per considerare impossibile di innamorarmi. Avevo avuto troppa esperienza giungendo alla conclusione che le donne erano infide, ingannatrici, indegne di fiducia. Avevo visto troppi uomini rovinati, o almeno asserviti, o in qualche modo messi in una posizione difficile dalle donne. Parlavano troppo, secondo me . Dire a una donna di non chiacchierare era come dire a Jesse James di non portare la pistola o a una gallina di non chiocciare. Ve lo immaginate voi Jesse James senza la pistola o una gallina che non chioccia? Inoltre, per chiunque si trovi in una posizione in vista, com'era la mia, la cosa peggiore è di sposare la donna non adatta. Persino Sansone, l'uomo più forte del mondo, fu rovinato dalla donna che dormiva con lui: furono le parole di lei a distruggerlo . Avevo veramente molta esperienza in questo campo. Mi ero trovato a parlare nella massima libertà con moltissime prostitute e amanti di altri uomini. Esse sapevano molto più di quegli uomini delle loro mogli le quali gli riempivano talmente le orecchie con le loro lamentele, che quelli andavano a raccontare i loro problemi e segreti intimi alle prostitute e alle amanti. Queste si facevano vedere preoccupate, li confortavano, e del conforto faceva parte anche il fatto stesso di ascoltare, e così quelli raccontavano tutto . Comunque, erano dieci anni che non pensavo più a farmi un'amante ed ora poi, come pastore, pensavo ancora meno a trovar moglie . Lo stesso Muhammad mi incoraggiava a restar scapolo . Le sorelle del tempio numero sette solevano dire ai fratelli: «Voi restate scapoli perché il pastore Malcolm non guarda le donne». Per parte mia non facevo un segreto con nessuna delle sorelle di come la pensavo e devo dire che consigliavo ai fratelli di stare molto, molto attenti . Nel 1956, una sorella diventò membro del tempio numero sette. Mi accorsi di lei, ma senza, devo dire, il minimo interesse. L'anno successivo notai la sua presenza. Lei non avrebbe neanche lontanamente pensato che potessi interessarmi a lei e probabilmente era convinta che non sapessi neanche il suo nome . Era la sorella Betty X, alta, con la pelle più scura della mia e gli occhi castani . Seppi che era nata a Detroit e che aveva studiato pedagogia all'istituto Tuskegee nell'Alabama. Era a New York dove frequentava una delle grandi scuole per infermiere annesse agli ospedali; faceva lezione di igiene e medicina alle ragazze e alle donne Muslim . Devo dire che ogni giorno della settimana, nei templi della Nazione dell'Islam, si tiene un corso o qualche manifestazione . Il lunedì sera c'è l'addestramento dei membri del Frutto dell'Islam. La gente crede che si tratti di preparazione militare, judo, karate o cose del genere, che effettivamente costituiscono una parte di tale addestramento. In realtà i membri del Frutto dell'Islam dedicano molto più tempo a conferenze e discussioni su problemi riguardanti uomini che imparano a diventare tali. Questi argomenti sono: le responsabilità del marito e del padre; cosa ci si deve aspettare dalle donne, i diritti della donna che non devono essere conculcati dal marito; l'importanza della figura paterna in una famiglia sana; gli avvenimenti contemporanei; le ragioni per cui l'onestà e la castità sono doti vitali dell'individuo, della famiglia, della comunità, della nazione e di una civiltà; perché si debba fare il bagno almeno una volta al giorno; i fondamenti della vita commerciale e cose di questo genere . Il martedì sera, in ogni tempio Muslim, è la sera dell'unità: fratelli e sorelle trascorrono il tempo conversando; vengono serviti rinfreschi di biscotti e dolci e succhi di frutta. Il mercoledì sera, alle otto, è dedicato alla registrazione degli studenti, cioè ai corsi in cui si discutono i principi fondamentali dell'Islam. Questi corsi sono in un certo senso equivalenti alle lezioni di catechismo dei cattolici . Il giovedì sera è dedicato all'M.G.T. (Muslim Girls' Training) e al G.C.C. (General Civilization Class) in cui si insegna alle donne e alle ragazze dell'Islam a tener bene la casa, ad allevare i bambini, a curare il benessere dei mariti, a cucinare, a cucire, a comportarsi bene in patria e all'estero ed altre cose importanti per essere una buona sorella, madre e moglie Muslim . La sera del venerdì è chiamata «sera della civiltà » perché vengono tenuti corsi per i fratelli e le sorelle nel campo delle relazioni domestiche, mettendo l'accento sulla necessità che i coniugi comprendano e rispettino le esigenze reciproche. Il sabato sera è libero per tutti i Muslims e normalmente è dedicato a scambiarsi le visite. La domenica in ogni tempio Muslim si tengono le funzioni religiose . Qualche volta, il giovedì sera, quando si tenevano i corsi M.G.T. e G.C.C., andavo a visitare le classi, magari quelle di sorella Betty, così come del resto facevo per le classi di altri fratelli. Da principio le chiedevo notizie sui progressi delle allieve o cose sempre riguardanti l'insegnamento. Lei mi rispondeva che andavano bene ed io mi limitavo a dirle grazie . Dopo un po' di tempo, per dar l'impressione di essere più cordiale, mi intrattenevo con lei in brevi conversazioni . Un giorno pensai che sarebbe stato di aiuto alle classi femminili se l'avessi accompagnata, dato che lei era un'insegnante, al Museo di storia naturale; volevo mostrarle un'esposizione particolare riguardante il processo evolutivo, cosa che le sarebbe stata molto utile per le sue conferenze . Avrei potuto così mostrarle le prove degli insegnamenti di Muhammad secondo cui l'immondo suino non è altro che un grosso roditore. Muhammad ci insegnava che il maiale è un ibrido tra il topo, il gatto e il cane. Quando espressi la mia idea alla sorella Betty X le dissi chiaramente che ciò poteva servire ad aiutarla nell'insegnamento. Ero arrivato persino a convincermi che questa era l'unica ragione . Poco prima dell'ora in cui avevamo deciso di incontrarci, le telefonai per dirle che dovevo rimandare perché mi era capitato un contrattempo. «Be', fratello pastore, avete aspettato proprio all'ultimo momento per avvertirmi. Stavo per uscire di casa» . Allora le dissi che venisse pure ed io, quanto a me, avrei cercato di andarci lo stesso: l'avvertii però che non avrei avuto molto tempo . Quando fummo al museo le feci parecchie domande di tutti i generi. Volevo farmi un'idea di come la pensava, voglio dire se era capace di pensare. Ebbi una buona impressione sia della sua intelligenza che della sua cultura. A quei tempi, tra i membri del nostro tempio, Betty era una delle poche persone che avessero frequentato il college . Subito dopo quel pomeriggio, una delle sorelle più anziane mi confidò il problema personale della sorella Betty X. Fui molto sorpreso del fatto che, sebbene ne avesse avuto la possibilità, lei non ne aveva fatto parola con me. Tutti i pastori Muslim devono sempre sentire i problemi che hanno i giovani i cui genitori si oppongono alla loro adesione alla Nazione dell'Islam. Ebbene, quando la sorella Betty X disse ai suoi genitori adottivi che la mantenevano agli studi di essere una Muslim, essi la posero di fronte alla scelta: o lasciare i Muslims oppure la scuola di specializzazione per infermiere . Era giunta quasi alla fine del corso, ma lei volle restar fedele all'Islam e così cominciò a fare la baby sitter per le famiglie dei dottori che abitavano vicino all'ospedale dove studiava . Nella mia posizione non avrei mai fatto un movimento senza pensare quale ne sarebbe stato l'effetto sull'organizzazione dell'Islam nel suo insieme . Cominciai a rimuginare quest'idea nella mia mente. Cosa sarebbe successo se, a un certo momento, mi fosse per caso passato per la mente di sposarmi: per esempio, la sorella Betty X, sebbene potesse anche trattarsi di qualsiasi altra sorella in qualsiasi altro tempio; ma per l'appunto la sorella Betty X aveva proprio l'altezza giusta per uno alto come me e inoltre aveva anche l'età giusta . Elijah Muhammad ci aveva insegnato che se un uomo alto sposava un donna troppo bassa, o viceversa non erano ben assortiti e facevano una strana figura; che l'età ideale della moglie era metà di quella dell'uomo più sette; che le donne sono fisiologicamente più sviluppate degli uomini; che nessun matrimonio poteva considerarsi riuscito se la donna non aveva rispetto per l'uomo e che questi doveva avere qualche qualità superiore a quelle della moglie perché lei potesse appoggiarsi al marito e trarne sicurezza psicologica . Rimasi assai colpito quando mi resi conto a CHE COSA stavo pensando e subito smisi di andare dovunque potessi trovarmi vicino alla sorella Betty X o dove sapevo che l'avrei trovata . Se veniva nel nostro ristorante ed io ero là me ne andavo altrove. Ero contento che non avesse la benché minima idea di quello che stavo pensando. Del resto il fatto che non le rivolgevo la parola avrebbe contribuito a non darle il minimo motivo di pensarlo poiché, anche se per caso Betty avesse PENSATO qualcosa, tra di noi non c'era stato un solo discorso a carattere strettamente personale . Mi posi il problema: se mi FOSSE successo di chiederle di sposarmi come avrebbe reagito? Non le avrei dato la minima possibilità di mettermi in imbarazzo: avevo sentito troppe donne vantarsi di aver mandato al diavolo i loro pretendenti e avevo troppa esperienza, di quella che consiglia all'uomo la cautela . Sapevo una buona cosa di lei: che aveva pochi parenti . Consideravo negativa ogni parentela acquistata e proprio tra i Muslims del tempio numero sette avevo visto moltissimi matrimoni mandati in malora dai suoceri, di solito anti Muslim . Non avrei certamente usato quelle espressioni insipide che i film d'amore prodotti ad Hollywood o dalla televisione hanno inzeppato nella testa delle donne: se avessi fatto qualcosa lo avrei fatto direttamente, a modo MIO, e perché IO volevo farlo, non per il fatto che avevo visto altri o avevo letto qualche libro o l'avevo visto rappresentato in qualche film . Quando andai a far visita a Muhammad a Chicago, durante quello stesso mese, gli dissi che pensavo di fare un passo molto serio . Lui sorrise quando sentì di cosa si trattava. Gli dissi che ci stavo soltanto pensando e Muhammad replicò che avrebbe avuto piacere di conoscere questa sorella . Ormai la Nazione dell'Islam era in condizioni finanziarie per pagare le spese alle sorelle insegnanti dei diversi templi che erano invitate a Chicago a frequentare i corsi del tempio numero due e, mentre erano là, a conoscere di persona il molto onorevole Elijah Muhammad. Naturalmente la sorella Betty X sapeva queste cose per cui non aveva motivo di insospettirsi quando le fu annunciato il suo viaggio a Chicago. Come tutte le altre sorelle insegnanti che venivano in visita, anche lei fu ospite in casa del Messaggero e della sorella Clara Muhammad . Il nostro maestro mi disse che la sorella Betty X era molto brava . Quando si pensa di fare una cosa, bisognerebbe decidersi subito per il sì o per il no. Una domenica sera, dopo la riunione al tempio numero sette, presi la macchina e imboccai l'autostrada per Detroit. Avevo deciso di andare a trovare mio fratello Wilfred il quale, l'anno prima, e cioè nel 1957, era stato pastore del tempio numero uno di Detroit. Non l'avevo visto da un bel pezzo, come del resto non avevo visto gli altri membri della mia famiglia . Erano quasi le dieci della mattina quando arrivai a Detroit. Mi fermai a fare benzina e di lì dal distributore telefonai alla sorella Betty X. Prima dovetti domandare alla signorina delle informazioni il numero della residenza delle infermiere. Di solito ricordavo a memoria quasi tutti i numeri che mi servivano, ma in questo caso mi ero sempre imposto di dimenticarlo. Finalmente qualcuno andò a cercarla e la fece venire al telefono. «Pronto, fratello pastore...» Io le dissi subito: «Di' un po', mi vuoi sposare?» Naturalmente lei fece credere di essere sorpresa e sbigottita . Ma più ci penso e più credo che facesse davvero finta perché le donne queste cose le sanno sempre . Com'ero sicuro che avrebbe fatto, mi rispose di sì. Allora io le dissi che non avevo molto tempo e che sarebbe stato meglio se avesse preso subito un aereo per Detroit . Lei venne subito. Conobbi i suoi genitori adottivi che abitavano a Detroit e che ormai si erano rappacificati con lei. Furono molto espansivi e piacevolmente sorpresi della notizia, o almeno fecero finta di esserlo . Poi presentai la sorella Betty X alla famiglia di Wilfred. Avevo già chiesto a mio fratello dove ci si poteva sposare senza troppe complicazioni e senza dover aspettare e lui mi aveva detto di andare nello stato dell'Indiana . La mattina dopo, di buon'ora, andai a prendere Betty a casa dei suoi genitori adottivi. Andammo in macchina fino alla prima città dell'Indiana e ci informarono che alcuni giorni prima avevano cambiato la legge dello stato e che perciò per sposarsi bisognava aspettare un certo tempo . Era il 14 gennaio 1958, un martedì. Siccome non eravamo troppo lontani da Lansing dove abitava mio fratello Philbert, mi diressi là. Quando ci fermammo davanti alla sua casa, lui era ancora al lavoro. La moglie di Philbert e Betty stavano parlando quando seppi per telefono che, se insistevamo, avremmo potuto sposarci in un giorno . Facemmo l'analisi del sangue richiesta per legge e poi ottenemmo il nullaosta. Dove il modulo diceva «religione», io scrissi «Muslim». Poi andammo dal giudice di pace . Un bianco, vecchio e mezzo gobbo, ci unì in matrimonio. Tutti i testimoni erano bianchi. Dicemmo sì tutte le volte che si doveva. Loro ci stavano tutti intorno sorridenti e seguivano con attenzione ogni nostro movimento. Il vecchio diavolo ci disse: «Vi dichiaro marito e moglie» e poi: «Baciate la sposa» . La portai via di là. Tutta quella roba ridicola di Hollywood! Come quelle donne che vogliono che gli uomini le portino in braccio attraverso la porta di casa e poi sono magari di quelle che pesano più dei loro mariti. Non so quanti matrimoni falliti sono provocati proprio da queste donne infatuate dalla mitologia della radio e della televisione che si aspettano sempre di ricevere fiori, di essere abbracciate e sbaciucchiate e portate via come Cenerentola, a cena o a ballare e che poi si arrabbiano quando il povero marito, che ritorna stanco e sudato dal lavoro di una giornata intera, cerca da mangiare . Cenammo a casa di Philbert a Lansing. «Ho una sorpresa per te», gli dissi quando entrammo. «Non hai nessuna sorpresa», replicò . Quando era tornato a casa dal lavoro e aveva sentito dire che ero stato là con una sorella Muslim, si era subito immaginato che o mi fossi già sposato o mi trovassi sul punto di farlo . Gli impegni di Betty alla scuola per infermiere la richiamavano immediatamente a New York: solo dopo quattro giorni sarebbe potuta tornare a Detroit. Lei dice di non aver detto a nessuno del tempio numero sette che ci eravamo sposati . Quella domenica Muhammad sarebbe venuto al tempio numero uno di Detroit ad insegnare. Ormai avevo un assistente a New York: gli telefonai di sostituirmi. Il sabato Betty tornò e, dopo il suo discorso della domenica, il Messaggero dette l'annuncio del nostro matrimonio. Il fatto che mi ero sempre tenuto lontano da tutte le sorelle era ben noto anche nel Michigan e così nessuno poteva credere alla mia decisione . Tornammo insieme in macchina a New York. La notizia mise davvero sottosopra tutti al tempio numero sette. Certi fratelli giovani mi guardavano come se li avessi traditi, ma tutti gli altri ghignavano come dei matti. Quanto alle sorelle, sembrava che volessero divorare Betty. Non dimenticherò mai di averne sentita una esclamare: «L'hai accalappiato, eh!» E' proprio come vi dicevo io prima: questa è la NATURA delle donne. Mi aveva ACCALAPPIATO... Questa è in parte la ragione per cui non mi sono mai completamente liberato dal sospetto che Betty sapesse qualcosa sin dal principio... Chissà, forse mi accalappiò davvero! Durante i due anni e mezzo successivi abitammo nel quartiere di Queens, in una casetta di due piccoli appartamenti, uno dei quali era occupato dal fratello John Ali e da sua moglie. Ora lui è segretario nazionale a Chicago . La nostra figlia maggiore Attilah nacque nel novembre del 1958 . Le detti quel nome in ricordo di Attila, il re degli Unni. Dopo la sua nascita ci trasferimmo nella nostra casa di sette stanze nel quartiere negro di Queens a Long Island . Un'altra bambina, Kubla, alla quale detti questo nome in onore di Kubla Khan, nacque il giorno di Natale del 1960, mentre nel luglio del 1962 vide la luce Ilyasah (in arabo Ilyas vuol dire Elijah). Nel 1964 arrivò la nostra quarta figlia Amilah . Ora posso dire di amare Betty. E' l'unica donna che abbia mai pensato di amare e una delle pochissime - non più di quattro di cui mi sono fidato. Betty è un'ottima donna e moglie Muslim . L'Islam è l'unica religione che dà sia al marito sia alla moglie una vera comprensione di cosa è l'amore. Se si considera il concetto occidentale dell'amore, ci si accorge che non è altro che libidine. Invece l'amore trascende il puro rapporto fisico: è comprensione, modo di comportarsi, atteggiamento verso la vita, pensieri, preferenze e repulsioni, tutte cose che rendono adorabile la donna, la moglie. E' questa la bellezza che non sfiorisce mai. Nella civiltà occidentale si vede dappertutto che quando finisce la bellezza fisica, una donna perde ogni attrazione per il marito, ma l'Islam insegna a noi a guardare nell'animo della donna e a lei a guardare nel nostro . Betty fa questo e mi capisce. Vorrei dire che non riesco ad immaginare molte altre donne che potrebbero sopportare il mio modo di vivere. Betty capisce che per poter svegliare questo negro dalla mente ottenebrata e dire a questo diabolico e arrogante bianco la verità sul suo conto, occorrono tutto il mio tempo e le mie energie. Se quando sono a casa, quel poco tempo che posso starci, ho del lavoro da fare, lei mi lascia la tranquillità di cui ho bisogno. E' raro che sia a casa più di metà della settimana: sono stato lontano anche cinque mesi di fila. Non ho quasi mai la possibilità di portarla in qualche posto e so che a lei piace molto stare con suo marito. E' abituata che le telefono sempre dall'aeroporto, dovunque mi trovi, da Boston o San Francisco, da Miami o Seattle oppure, come è successo recentemente, a ricevere miei telegrammi dal Cairo, da Akkra o dalla Città santa della Mecca. Una volta durante una conversazione telefonica interurbana, Betty espresse il suo pensiero con una frase stupenda: «Quando sei lontano sei sempre qui con me» . Più tardi, quello stesso anno, dopo che ci fummo sposati, profusi tutte le mie energie nel tentativo di esser dappertutto nello stesso tempo, cercando di contribuire allo sviluppo della Nazione dell'Islam. Quando fui invitato come ospite a parlare al tempio di Boston e finii il mio discorso, come sempre, con la domanda se qualcuno desiderava farsi seguace del molto onorevole Elijah Muhammad, non so dirvi la mia sorpresa, il mio sbalordimento nel vedere che tra coloro che si erano alzati in piedi c'era mia sorella Ella. Abbiamo un proverbio che dice che i migliori Muslims sono coloro che si convincono dopo molto tempo. Ad Ella c'erano voluti cinque anni . Ricorderete che ho detto che in una grande città una grossa organizzazione può restare praticamente sconosciuta a meno che non accada qualcosa che attiri su di essa l'attenzione del pubblico. Ebbene nessuno della Nazione dell'Islam avrebbe mai immaginato quello che sarebbe successo una sera ad Harlem . Nel disperdere un gruppo di negri che erano venuti alle mani per la strada, due poliziotti bianchi ordinarono agli altri passanti negri di circolare. Tra questi c'erano due fratelli Muslim, Johnson Hinton e un altro del tempio numero sette, che non si spaventarono né cominciarono a correre come i poliziotti avrebbero voluto. Saltarono addosso al fratello Hinton con gli sfollagente e gli fecero una grossa ferita nel cuoio capelluto, poi venne la macchina della polizia e lo portarono al commissariato più vicino . L'altro fratello telefonò al nostro ristorante. Con qualche chiamata, in meno di mezz'ora avevamo radunato fuori del commissariato circa cinquanta uomini del Frutto delI'Islam del tempio numero sette che stavano lì pronti, schierati in formazione di battaglia . Altri curiosi negri giunsero a corsa e si affollarono dietro i Muslims. I poliziotti, affacciatisi alla finestra, non potevano credere ai loro occhi. Come pastore del tempio numero sette, entrai nel commissariato e chiesi di vedere il nostro fratello . Prima i poliziotti mi risposero che non era lì, poi ammisero che c'era, ma dissero che non potevo vederlo. Replicai che finché non ce lo facevano vedere e non eravamo sicuri che gli fossero prestate le cure mediche, i Muslims sarebbero rimasti dov'erano . I poliziotti erano nervosi e spaventati dalla folla crescente che si ammassava davanti alla porta del commissariato. Quando vidi il nostro fratello Hinton dovetti trattenermi: aveva quasi perso i sensi, e la testa, il volto e le spalle erano coperti di sangue. Mi auguro di non dover vedere ancora un altro esempio come quello di pura e semplice brutalità della polizia . Dissi al tenente di servizio: «Quell'uomo dev'essere mandato all'ospedale». Chiamarono un'ambulanza, e mentre il fratello Hinton veniva portato all'ospedale di Harlem, noi Muslims gli andammo dietro, non in formazione, per circa quindici isolati lungo Lenox Avenue, che probabilmente è l'arteria più affollata di Harlem. I negri, che non avevano mai visto niente di simile, venivano fuori dai negozi, dai ristoranti e dai bar e si univano alla folla che ci seguiva . Era una folla enorme, infuriata, quella che tumultuava dietro i Muslims davanti all'ospedale di Harlem. Da molto tempo i negri del quartiere erano stanchi della brutalità della polizia e non avevano mai visto nessuna organizzazione negra agire con la fermezza di cui davamo prova noi . Un alto funzionario di polizia venne da me e mi disse: «Fate allontanare questa gente!» Io replicai che i nostri fratelli tenevano un contegno pacifico, erano perfettamente disciplinati e non facevano male a nessuno. Lui ribatté che gli altri, quelli dietro di loro, non erano disciplinati e io gli feci osservare molto gentilmente che quello era un problema che riguardava lui . Quando i medici ci assicurarono che il fratello Hinton avrebbe ricevuto le cure necessarie, detti l'ordine ai Muslims di sciogliersi. L'atteggiamento degli altri negri era decisamente ostile, ma anche loro si dispersero quando ce ne andammo noi . Solo più tardi apprendemmo che i chirurghi avevano dovuto mettere una placca di acciaio nella calotta cranica del fratello Hinton. Dopo quell'operazione, la Nazione dell'Islam gli dette l'aiuto legale necessario per far causa alla polizia. I giudici condannarono l'amministrazione di New York City a pagare al danneggiato settantamila dollari, una condanna che si può considerare la più severa inflitta alla polizia per brutalità . NOTE . NOTA 1: Il cosiddetto stile "gospel" è basato sull'inserimento negli inni tradizionali delle chiese protestanti di ritmi e variazioni elaborati nei "revivals" e rimasti, spesso di padre in figlio, come modelli aperti di espressione musicale. Non sarebbe forse arbitrario dire che corrispondono ai blues, sia pure con le enormi differenze di contenuto e di spirito che li separano da quelli . Lo stile gospel è religioso e tipicamente rurale. Esprime la realtà e le esigenze psicologiche degli ex schiavi del Sud, il loro modo diretto di rivolgersi a Dio e l'utilizzazione di una parte della struttura della musica delle chiese protestanti . I blues rivelano la loro parentela col gospel nella libertà della variazione, nella linea melodica e nel trattamento della voce . NOTA 2: «L'uomo nato di donna vive pochi giorni e, sazio d'affanni, spunta come un fiore, poi è reciso: fugge come un'ombra e non dura.. . «Per l'albero almeno c'è speranza; se è tagliato rigermoglia e continua a metter rampolli. Quando la sua radice è invecchiata sotto terra, e il suo tronco muore nel suolo, a sentir l'acqua, rinverdisce e mette rami come una pianta nuova . «Ma l'uomo muore e perde ogni forza; il mortale spira e... dov'è egli? Le acque del lago se ne vanno, il fiume viene meno e si prosciuga, così l'uomo giace, e non risorge più...» (Giobbe 7, 123) . Capitolo quattordicesimo . I BLACK MUSLIMS . Nella primavera del 1959, alcuni mesi prima che il caso del fratello Johnson Hinton richiamasse su di noi l'attenzione del ghetto di Harlem, un giornalista negro, Louis Lomax, che allora viveva a New York, mi chiese una mattina se noi della Nazione dell'Islam saremmo stati disposti a concedere a Mike Wallace, titolare di un programma televisivo che si occupava di argomenti scottanti, di fare un servizio su di noi. Risposi a Lomax che, naturalmente, una cosa del genere doveva essere discussa col molto onorevole Elijah Muhammad e lui prese l'aereo e andò a Chicago. Dopo avergli fatto parecchie domande e averlo avvertito circa gli argomenti di cui non voleva si parlasse, Muhammad dette il suo consenso a Lomax . Gli operatori cominciarono a riprendere degli esterni fuori delle moschee della Nazione dell'Islam a New York Chicago e Washington, furono fatte delle registrazioni dei discorsi di Muhammad e di alcuni pastori, tra cui c'ero anch'io, nei quali si insegnava la verità sul diabolico uomo bianco e si parlava del lavaggio del cervello subito dai negri . Quasi nello stesso periodo, C. Eric Lincoln, uno studioso negro che stava allora lavorando alla sua tesi di dottorato presso l'università di Boston, aveva scelto come argomento la Nazione dell'Islam. Il suo interesse era nato l'anno precedente quando insegnava al Clark College di Atlanta nella Georgia. Uno dei suoi studenti di religione aveva fatto un saggio la cui introduzione cito ora dal libro di Lincoln. Era la semplice esposizione dei principi in cui credeva uno dei numerosi studenti negri che spesso frequentavano il nostro tempio numero quindici di Atlanta «La religione cristiana è incompatibile con le aspirazioni dei negri americani alla dignità e all'eguaglianza, - aveva scritto lo studente. - Essa ha rappresentato un ostacolo invece che un aiuto; è stata evasiva quando sarebbe stata moralmente tenuta ad assumere atteggiamenti chiari; ha accettato che tra i suoi fedeli si praticasse la discriminazione in base al colore della pelle, sebbene avesse dichiarato che la sua missione era quella di stabilire una fratellanza universale sotto Gesù Cristo . L'amore cristiano è l'amore dell'uomo bianco per se stesso e per la sua razza. Per chi non è bianco l'Islam rappresenta la speranza di giustizia e di eguaglianza nel mondo che dovremo costruire in futuro» . Dopo una sommaria ricerca preliminare il professor Lincoln si rese conto qual era la natura dell'argomento e, ottenuti diversi contributi per le ricerche, trovò anche un editore che lo incoraggiò a trasformare la sua tesi in libro . E' naturale che per il «telegrafo» della nostra relativamente piccola Nazione, queste due novità - il programma televisivo e un libro su di noi - facessero molta sensazione. Ogni Muslim già prevedeva entusiasticamente che fra poco, grazie ai potenti mezzi di comunicazione di massa dell'uomo bianco, i nostri fratelli e sorelle negri dalle menti ottenebrate, ed anche i bianchi di tutti gli Stati Uniti, avrebbero visto, sentito e letto gli insegnamenti di Muhammad che tagliavano come una spada a due tagli . Avevamo già fatto i nostri sforzi, molto limitati, per servirci della stampa. Un po' di tempo prima ero andato a parlare con James Hicks direttore del giornale «Amsterdam News» che si pubblicava ad Harlem. Aveva detto che secondo lui qualsiasi voce che si levava nella comunità aveva il diritto di essere ascoltata e così, ben presto, il suo giornale cominciò a pubblicare ogni settimana una colonnina scritta da me . Successivamente Muhammad accettò di riempire lui quel prezioso spazio che ci veniva concesso dall'«Amsterdam News» e perciò la mia colonna venne passata ad un altro quotidiano negro, lo «Herald Dispatch» di Los Angeles . Per parte mia, volevo in qualche modo riuscire a pubblicare un giornale tutto nostro, che sarebbe stato unicamente dedicato alle notizie della Nazione dell'Islam . Nel 1957 Muhammad mi mandò a organizzare un tempio a Los Angeles. Dopo aver fatto ciò, poiché mi trovavo nella città in cui si pubblicava un giornale negro come lo «Herald Dispatch», approfittai dell'occasione per andare a lavorare nei loro uffici: mi lasciavano vedere come si mette insieme un giornale . Sono sempre stato fortunato nel senso che, se vedo fare una cosa una volta, di solito riesco a farla anch'io. Questa rapidità imitativa fu probabilmente il fattore determinante della mia sopravvivenza quando facevo la vita di strada . Quando tornai a New York acquistai una macchina fotografica di seconda mano. Non so quanti rotolini di pellicola dovetti sciupare prima di essere in grado di fare delle fotografie utilizzabili. Tutte le volte che se ne presentava l'occasione, scrivevo qualche piccolo pezzo sugli avvenimenti più interessanti all'interno della Nazione dell'Islam. Un giorno al mese mi rinchiudevo in una stanza per mettere insieme i miei scritti e le fotografie che portavo poi in tipografia. Chiamai il giornale «Muhammad Speaks» («Parla Muhammad») e i fratelli Muslim lo vendevano per le strade del ghetto. Non avrei allora potuto immaginare che più tardi, quando l'invidia prevalse tra le gerarchie della Nazione dell'Islam, il giornale che io avevo fondato non avrebbe più neanche rammentato il mio nome . Comunque quando Muhammad mi mandò per tre settimane in Africa, la Nazione dell'Islam godeva già di una crescente rinomanza nazionale. Per quanto il nostro movimento fosse allora piccolo, alcune personalità africane e asiatiche avevano fatto sapere in privato a Muhammad che seguivano con compiacimento gli sforzi che faceva per risvegliare e mettere in piedi il popolo negro americano. Talvolta fui io il latore di quei messaggi: in veste di emissario di Muhammad andai in Egitto, in Arabia, nel Sudan, in Nigeria e nel Ghana . Oggi si sente spesso dire da parecchi leader negri che i Muslims poterono acquistare rinomanza internazionale grazie alla stampa, alla radio, alla televisione e ad altri mezzi di comunicazione di massa dell'uomo bianco. Non nego certamente tali affermazioni che sono giuste. Ebbene, nella Nazione dell'Islam, nessuno di noi poteva neanche lontanamente prevedere cosa sarebbe accaduto . Il programma televisivo andò in onda verso la fine del 1959. Il titolo "L'odio che ha prodotto l'odio" appariva sullo sfondo di un caleidoscopio di immagini «sconvolgenti»... Muhammad, io ed altri mentre parlavamo... I membri del nostro Frutto dell'Islam dall'espressione seria e decisa... Sorelle Muslim di tutte le età con i loro veli bianchi e i lunghi abiti... Muslims nei nostri ristoranti e in altri locali... Altri negri che entravano e uscivano dalle nostre moschee . Ogni frase era studiata per accrescere il timore degli spettatori e credo che, com'era intenzione dei produttori, alla fine del programma chi l'aveva visto restasse allibito . In un certo senso la reazione del pubblico fu simile a quella che si ebbe nel 1938 quando Orson Welles terrorizzò l'America con un programma radiofonico che descriveva, come se stesse realmente accadendo, un'invasione di marziani . Questa volta nessuno si buttò giù dalla finestra, ma a New York City si ebbe subito una tumultuosa reazione del pubblico. Credo che la ragione principale fosse in quella contrapposizione della parola «odio» ripetuta due volte nel titolo. Centinaia di migliaia di abitanti di New York bianchi e negri, esclamavano: «Ma avete sentito? Avete visto? Questa gente predica L'ODIO contro l'uomo bianco!» Questo è uno dei più caratteristici modelli di comportamento del bianco quando si tratta dei negri. Ama se stesso al punto da restare allibito se scopre che le sue vittime non condividono la vanitosa opinione che ha di sé. Per secoli le cose erano andate lisce in America finché i negri oppressi, trattati e sfruttati con la massima brutalità avevano fatto smorfie di sottomissione, comportandosi come tanti zii Tom e rivolgendosi al bianco con l'espressione «Sissignore, sì, signor padrone». Ora le cose erano diverse. Prima cominciarono i quotidiani bianchi: «Allarmante»... «Messaggeri dell'odio»... «Una minaccia ai buoni rapporti tra le razze»... «Segregazionisti negri»... «Fautori della supremazia negra » e cose del genere . L'inchiostro dei quotidiani non si era ancora asciugato quando cominciarono a tuonare i settimanali: «Propagandisti dell'odio»... «Adoratori della violenza»... «Razzisti negri».. . «Fascisti negri»... «Anticristiani»... «Probabilmente ispirati dai comunisti».. . Tutta questa roba uscì dalle rotative del peggior diavolo che abbia mai conosciuto la storia dell'umanità. Poi, sdegnato, l'uomo bianco fece la sua seconda mossa . Fino dai tempi della schiavitù, l'americano bianco ha sempre consentito a certi gruppetti scelti di negri di vivere molto meglio delle masse di braccianti che soffrivano e lavoravano nei campi sotto il sole cocente. Teneva questi negri «da casa» e «da cortile» come domestici particolari; gettava loro una maggior quantità di briciole dalla sua ricca mensa e arrivava persino a permettere che mangiassero nella sua cucina. L'uomo bianco sapeva di poter sempre contare su questi servi per mantenere la sua immagine di «buon padrone» così «generoso » e «giusto». «Il buon padrone» sentiva sempre quello che voleva sentire da questi negri «da casa» e «da cortile». «Siete un padrone così BUONO! Oh, signor padrone, quei vecchi "niggers" che lavorano da braccianti laggiù nei campi sono felici così come stanno; perché, signor padrone, non sono abbastanza intelligenti da giustificare i vostri sforzi per farli star meglio, signor padrone...» Ebbene, l'unica differenza tra i tempi della schiavitù e quelli presenti è che i negri «da casa» e «da cortile» erano più raffinati. Ora quando l'uomo bianco prendeva il telefono per chiamare questi negri «da casa» e «da cortile» non c'era più neppure bisogno che desse istruzioni ai suoi burattini ben addestrati. Avevano visto il programma televisivo; avevano letto i giornali; stavano già scrivendo i loro articoli e sapevano cosa fare . Non farò nomi, ma se prendete un elenco di quelli che, nel 1960, erano i cosiddetti leader negri più importanti, avrete tutti i nomi di coloro che cominciarono ad attaccarci per le nostre pazzesche affermazioni, per il nostro modo sconveniente di parlare del «buon padrone» . «In nessun modo questi Muslims rappresentano le masse negre». Fu questa la prima loro preoccupazione, rassicurare «il buon padrone» che non c'era motivo di preoccuparsi dei suoi braccianti confinati laggiù nei ghetti. «Un irresponsabile culto dell'odio»... «Un'immagine controproducente del negro, proprio quando la situazione razziale è in miglioramento».. . Facevano a gara per farsi citare: «Un deplorevole razzismo a rovescio»... «Dei ridicoli predicatori dell'antica dottrina dell'Islam»... «Un anticristianesimo intessuto di eresie» . Nel nostro piccolo ristorante del tempio numero sette il telefono a forza di suonare si era quasi staccato dal muro . Tenevo il ricevitore all'orecchio cinque ore al giorno: ascoltavo e scrivevo sul taccuino quello che mi dicevano i giornalisti, i cronisti radiofonici e televisivi, tutti che insistevano per conoscere la reazione dei Muslims agli attacchi di questi leader negri; oppure facevo lunghe chiamate interurbane a Chicago per leggere i miei appunti a Muhammad e chiedergli istruzioni sul da farsi . Non riuscivo a capire come facesse il Messaggero a conservare la calma e la pazienza di fronte a quello che gli riferivo. Per parte mia riuscivo a malapena a trattenermi . Non so come riuscirono a farsi dare il mio numero telefonico di casa che non avevo fatto mettere sull'elenco. Mia moglie Betty non faceva in tempo a riabbassare il ricevitore che il telefono cominciava a suonare di nuovo. Sembrava che dovunque andavo i telefoni squillassero . Siccome a New York City ci sono le sedi centrali dei principali mezzi di comunicazione di massa ed io ero il pastore della moschea di Muhammad, tutte le chiamate erano per me: da San Francisco al Maine, perfino da Londra, da Stoccolma e da Parigi . Al ristorante un fratello Muslim mi passava il ricevitore appena entravo e così faceva Betty a casa: cercavano di tenere un contegno indifferente e anch'io stentavo a credere a una tale persecuzione. Durante questo periodo così agitato, una cosa mi colpì particolarmente: gli europei non insistevano mai sulla questione dell'«odio», mentre il bianco americano era ossessionato e perseguitato dall'idea di essere «odiato». Si sentiva così colpevole lui di odiare i negri! «Signor Malcolm X, perché predicate la supremazia negra e l'odio?» Tutte le volte che mi facevano questa domanda mi pareva di vedere davanti agli occhi una bandiera rossa ed era come se nella mia mente si compisse una reazione chimica. Quando noi Muslims parlavamo di quel «diavolo dell'uomo bianco» ci riferivamo a qualcosa di relativamente astratto, a qualcuno con cui avevamo di rado contatti, ma ora egli era al telefono, quel diavolo in carne e ossa con tutti i suoi inganni, il suo spirito calcolatore, la sua freddezza, la sua sfacciataggine e la sua malignità. Le voci che mi rivolgevano quelle domande erano per me dei diavoli viventi, che respiravano . Cercavo di rispondere con delle bordate di fuoco: «L'uomo bianco ha un tale senso di colpa ed è così colpevole di aver praticato e di far praticare la supremazia bianca, che non riesce a nasconderlo con l'espediente di accusare il molto onorevole Elijah Muhammad di insegnare la supremazia negra e l'odio . Quello che fa Muhammad è cercare di elevare la mentalità e le condizioni sociali ed economiche del negro in questo paese . «L'uomo bianco colpevole e ipocrita non sa decidere CHE COSA vuole. I nostri antenati schiavi sarebbero stati messi a morte se avessero sostenuto la cosiddetta integrazione con l'uomo bianco. Ora, quando Muhammad parla di "separazione", i bianchi ci chiamano "propagandisti dell'odio" e "fascisti"! «L'uomo bianco non VUOLE i negri, non VUOLE un parassita sul suo corpo, non VUOLE questo negro la cui presenza e condizione qui negli Stati Uniti lo smaschera davanti a tutto il mondo! Allora perché attaccate Muhammad?» SENTIVO che la mia voce era dura e minacciosa . «Che il bianco chieda al negro se è vero che questi lo odia è come se lo stupratore chiedesse alla VITTIMA o il lupo all'AGNELLO: "mi odi?" L'uomo bianco non è nella POSIZIONE morale di accusare nessun altro! «Quando tutti i miei antenati sono stati morsi dal serpente ed io pure, se avverto i miei figli di tenersi lontani dai serpenti, che figura ci fa il serpente che MI accusa di predicare l'odio?» «Signor Malcolm X, - mi chiedevano quei diavoli, - perché insegnate lo judo e il karate ai membri del vostro Frutto dell'Islam?» L'immagine dei negri che imparavano a difendersi sembrava atterrire il bianco. Rovesciavo così la loro domanda: «Ma perché lo judo e il karate diventano così pericolosi appena i negri cominciano a praticarli? In tutta l'America i boy scouts, l'Associazione cristiana dei giovani e persino quella delle giovani e tante altre organizzazioni sportive e ricreative tengono corsi di judo! Va tutto bene, non c'è niente da dire finché anche i negri non si mettono a insegnarlo! Persino alle bambine delle classi elementari viene insegnato a difendersi...» «Quanti sono i membri della vostra organizzazione, signor Malcolm X? Il vescovo Pincopallino dice che avete soltanto un gruppetto di seguaci...» «Chi vi dice quanti sono i Muslims non lo sa e chi lo sa non ve lo dice» . I vari vescovi Pincopallino venivano spesso citati a proposito del nostro «anticristianesimo». Io rispondevo così al fuoco: «Il cristianesimo è la religione dell'uomo bianco. La Bibbia e le sue interpretazioni hanno rappresentato l'arma ideologica più formidabile a disposizione dell'uomo bianco per rendere schiavi milioni di esseri umani di colore. In ogni paese che ha conquistato con le armi, l'uomo bianco si è aperta la strada e ha soddisfatto la sua coscienza portandosi dietro le scritture e interpretandole in modo da chiamare i conquistati "pagani" e "infedeli". Prima arriva coi cannoni e poi manda i missionari a ripulire il terreno...» I giornalisti bianchi ci chiamavano con voci piene d'ira «demagoghi» e io cercavo di tenermi pronto dopo che mi era stata fatta la stessa domanda due o tre volte . «Ebbene, rifacciamoci ai greci e forse così imparerete il significato della parola "demagogo" che vuol dire "maestro del popolo". Consideriamo alcuni di questi demagoghi. Socrate, il più grande di tutti i greci, fu ucciso come "demagogo" e Gesù Cristo morì sulla croce perché i farisei dei suoi tempi rispettavano la lettera, ma non lo spirito della legge. I moderni farisei cercano di distruggere Muhammad chiamandolo demagogo, pazzo e fanatico. Che cosa dobbiamo dire allora di Gandhi? Di quell'uomo che Churchill chiamava "il piccolo fachiro nudo" e che faceva lo sciopero della fame in una prigione britannica? Trecento milioni di indiani si strinsero dietro a lui e torsero la coda al leone britannico! E che dire di Galileo che davanti ai suoi inquisitori disse che la terra si muoveva, o di Martin Lutero che affisse le sue tesi sulle porte della cattedrale di Wittenberg contro l'onnipotente Chiesa cattolica che lo scomunicò come "eretico"? Noi seguaci del molto onorevole Elijah Muhammad siamo oggi confinati nei ghetti come lo erano gli antichi cristiani nelle catacombe e nelle grotte... Ed essi preparavano la tomba al potente impero romano!» Ricordo come se fosse ieri tutte quelle movimentate conversazioni telefoniche. I giornalisti si arrabbiavano e io pure; quando tiravo in ballo la storia, loro facevano di tutto per riportarmi al presente; lasciavano stare l'intervista, ignoravano il loro lavoro per difendere loro stessi; tiravano in ballo Lincoln e la liberazione degli schiavi ed io, per parte mia, dicevo loro quello che il presidente dell'Emancipazione aveva detto in pubblico CONTRO i negri. Loro tiravano fuori la sentenza della Corte suprema del 1954 sull'integrazione scolastica . «Fu uno dei trucchi da prestigiatore più straordinari che si siano mai visti in America, replicavo loro. - Volete davvero dirmi che nove giudici della Corte suprema, dei veri maestri dell'uso della terminologia giuridica, non avrebbero potuto dare alla sentenza valore di LEGGE? No, fu solo magia ed inganno per dire ai negri che la segregazione era finita - urrah! urrah! e, nello stesso tempo, per indicare ai bianchi tutte le possibili scappatoie» . I giornalisti facevano del loro meglio per tirar fuori qualche «buon» bianco che non avrei potuto criticare. Non dimenticherò mai come uno arrivò quasi a perdere la voce. Mi chiese se ritenevo che NESSUN uomo bianco avesse fatto qualcosa per il negro in America. «Sì, - gli dissi, - credo che ce ne siano due: Hitler e Stalin. Fino all'avvento del primo, nessun negro americano riusciva a trovare un lavoro decente nelle fabbriche e fu solo per merito della pressione che quello esercitò sull'America e che Stalin successivamente mantenne... Non importa quali argomenti adoperavo nelle mie interviste: quasi mai stampavano le cose che dicevo. Imparavo a mie spese come la stampa, se vuole, può distorcere e travisare. Se avessi detto: «Maria aveva un agnellino», avrebbero probabilmente stampato: «Malcolm X infila Maria con la fiocina» . Eppure l'amarezza che mi dava la stampa bianca non era nulla in confronto di quella che provavo a causa dei leader negri che continuavano ad attaccarci. Muhammad ci diceva di fare del nostro meglio per non contrattaccare pubblicamente quei leader perché uno degli espedienti dell'uomo bianco era di tener divisa la razza negra e far sì che ci combattessimo l'un l'altro . Insisteva sul fatto che era stato proprio quel sistema a impedire al popolo negro di raggiungere l'unità che, in America, era la cosa di cui esso aveva più bisogno . Invece di mitigare i loro attacchi, quei fantocci negri continuavano a scagliarsi con violenza contro Muhammad e la Nazione dell'Islam finché cominciammo a dare l'impressione di aver paura di rispondere per le rime a quei negri «importanti» . Fu allora che Muhammad cominciò a perdere la pazienza ed io, con la sua approvazione, risposi al fuoco . «Lo zio Tom di oggi non porta il fazzoletto annodato sulla testa. Spesso questa moderna versione del ventesimo secolo del nostro zio Tommaso porta il cilindro, è di solito ben vestito e ha una certa istruzione, spesso è addirittura la personificazione della raffinatezza e della cultura. Qualche volta lo zio Tommaso del ventesimo secolo parla con l'accento di Yale o di Harvard ed è conosciuto come professore, dottore, giudice, reverendo e persino come reverendissimo dottore. Questo zio Tommaso del ventesimo secolo è un PROFESSIONISTA negro... e con ciò voglio dire che la sua professione è di essere un negro al servizio del bianco» . Mai prima in America questi cosiddetti leader mercenari erano stati attaccati pubblicamente in questo modo. Alla verità reagirono anche più rabbiosamente di quanto non facesse il diabolico uomo bianco. Cominciarono i loro attacchi sul piano istituzionale: invece di parlare a titolo puramente personale fecero sì che Muhammad fosse attaccato dalle loro organizzazioni, che portarono nella lotta tutto il peso di un lungo prestigio . «Corpi di negri con testa di bianchi!» li definivo io. Tutte quelle organizzazioni che si occupavano del «progresso negro» avevano la stessa struttura. Davanti al pubblico c'erano i leader negri, quelli che dovevano farsi vedere dai loro confratelli per conto dei quali avevano il mandato di combattere l'uomo bianco, ma all'oscuro, dietro le quinte, c'era sempre qualche padrone bianco, o un presidente, o un consigliere delegato o qualche altra eminenza grigia che tirava i fili . Sia sulla stampa bianca che su quella negra apparvero articoli scottanti. Le riviste «Life», «Look», «Newsweek» e «Time» pubblicarono servizi su di noi e qualche quotidiano cominciò a stampare non un articolo ma una serie di tre, quattro o cinque «radiografie» della Nazione dell'Islam. Il «Reader's Digest», che ha una tiratura in tutto il mondo di ventiquattro milioni di copie in tredici lingue, pubblicò un articolo intitolato "Muhammad parla", scritto dalla stessa persona a cui sto raccontando questo libro e che diede inizio a una serie di servizi su di noi pubblicati da altre riviste mensili . Non molto tempo dopo, i dirigenti delle stazioni radio e televisive cominciarono a chiedermi di partecipare a discussioni e dibattiti in difesa della nostra Nazione dell'Islam. Dovevo misurarmi con degli studiosi scelti, sia bianchi che negri, laureati di quella specie «da casa» e «da cortile» che ci avevano così tanto attaccato. Ogni giorno mi irritavo sempre più per il modo in cui gli insegnamenti di Muhammad venivano generalmente distorti e travisati. Credo che non mi passò neanche una volta per la mente di non essere mai entrato prima in una stazione radio o televisiva, né tantomeno di essermi trovato di fronte a un uditorio di milioni di persone. La mia unica esperienza oratoria con un pubblico non di Muslims erano stati i dibattiti in prigione . Dalla mia vecchia esperienza di trafficante sapevo che in ogni cosa c'è il trucco. Dai dibattiti che facevamo in prigione avevo imparato gli espedienti per mettere a disagio i miei oppositori, per coglierli in fallo quando meno se l'aspettavano. Sapevo che ci dovevano essere dei trucchi che non conoscevo anche nelle discussioni trasmesse per radio o televisione . Sapevo anche che se avessi osservato attentamente quello che facevano gli altri, avrei potuto imparare in breve tempo cose che mi avrebbero aiutato a difendere Muhammad e i suoi insegnamenti . Andavo negli studi televisivi e trovavo i diavoli e i loro fantocci negri laureati che si comportavano con la massima cordialità tra di loro: si muovevano da integrati, ridevano e si chiamavano per nome. Era una tale menzogna che ne provavo un immenso disgusto. Cercavano persino di comportarsi amichevolmente con me quando tutti sapevano che mi avevano invitato per schiacciarmi sotto i piedi. Mi offrivano il caffè ed io rispondevo loro: «No, grazie» chiedendo che mi dicessero dove dovevo sedermi. Qualche volta il microfono era sul tavolo davanti a noi, altre volte ce ne mettevano uno più piccolo e di forma cilindrica intorno al collo. Sin dal principio preferii questi ultimi perché non mi dovevo continuamente preoccupare, come succedeva quando il microfono era sul tavolo, di mantenere la giusta distanza . I moderatori cominciavano di solito con un preambolo non religioso, decisamente provocatorio, dedicato a me. Dicevano cose di questo genere: «... abbiamo oggi con noi Malcolm X, l'aggressivo e polemico capo dei Black Muslims di New York...» Io facevo la mia presentazione: di solito me l'ero ripetuta a casa o mentre venivo in macchina finché riuscivo ad interrompere il moderatore della radio o della televisione e a presentarmi . «Rappresento Elijah Muhammad, il capo spirituale del gruppo di Muslims che sta crescendo più rapidamente di qualsiasi altro nell'emisfero occidentale. Noi, che siamo suoi seguaci, sappiamo che i suoi insegnamenti derivano da Dio e che è stato mandato da Lui tra di noi. Crediamo che il miserevole destino dei ventidue milioni di negri americani rappresenti il compimento della profezia divina e crediamo pure che la presenza odierna in America del molto onorevole Elijah Muhammad, dei suoi insegnamenti diffusi fra i cosiddetti negri e della sua chiara denuncia del trattamento che questi subiscono nella società americana, siano tutte cose che rappresentano il compimento della divina profezia. Ho il privilegio di essere il pastore del nostro tempio numero sette, qui a New York City, che fa parte della Nazione dell'Islam sotto la guida divina del molto onorevole Elijah Muhammad...» Mi voltavo a guardare quei diavoli e le loro scimmie negre ammaestrate mentre riprendevo fiato: avevo trovato il tono giusto . Essi facevano a gara l'uno con l'altro nel saltarmi addosso, nel colpire con tutti gli argomenti possibili Muhammad, me e la Nazione dell'Islam. Sapete bene quali sono i bersagli di quei negri «ubriachi di integrazione»... Ma PERCHE' i Muslims non riuscivano a CAPIRE che l'unica risposta ai problemi dei negri americani era appunto l'integrazione? Facevo il possibile per mandare in pezzi la loro tesi . «Non c'è un solo negro CON LA TESTA A POSTO che voglia davvero l'integrazione! Del resto qualsiasi bianco CON LA TESTA A POSTO la pensa nello stesso modo. Nessun negro con un briciolo di cervello crede che il bianco gli darà mai qualcosa di più di una integrazione puramente simbolica. No, no! il molto onorevole Elijah Muhammad insegna che l'unica soluzione ai problemi dei negri americani è la separazione completa dall'uomo bianco» . Chi mi ha ascoltato alla radio o alla televisione sa che la mia tecnica è quella del torrente, cioè di non fermarmi finché non riesco a dire quello che voglio. Allora stavo sviluppando quel sistema . «Il molto onorevole Elijah Muhammad ci insegna che da quando la società occidentale ha iniziato la sua decadenza è stata sempre più sommersa dall'immoralità: Dio la giudicherà e la distruggerà. L'unico modo di salvarsi che hanno i negri prigionieri di questa società non è quello di INTEGRARSI in questa società corrotta, ma di SEPARARSI da essa, in una terra che sia NOSTRA, dove possiamo riformare noi stessi, migliorare i nostri modelli di comportamento morale e cercare di vivere secondo la legge divina. I più preparati diplomatici del mondo occidentale non hanno saputo risolvere questo grave problema razziale e così pure hanno fallito i suoi giuristi, i suoi sociologi, i suoi uomini politici, i suoi leader civili. Poiché NESSUNO di questi E' RIUSCITO a risolvere il problema razziale, è tempo che NOI cominciamo a RAGIONARE. Saremo costretti a riconoscere, ne sono sicuro, che ci vuole DIO STESSO per risolvere questo gravissimo dilemma razziale» . Ogni volta che mi servivo della parola «separazione» alcuni di loro saltavano su a dire che noi Muslims sostenevamo la stessa cosa dei razzisti e dei demagoghi bianchi. Io spiegavo loro la differenza: «No! Noi siamo contro la SEGREGAZIONE in modo più attivo di voi. Vogliamo la SEPARAZIONE, che non è la stessa cosa. Il molto onorevole Elijah Muhammad ci insegna che c'è SEGREGAZIONE quando la nostra vita e libertà sono controllate e regolate DA QUALCUN ALTRO. Segregare vuol dire controllare e la segregazione è un principio imposto dai superiori agli inferiori. Ma la SEPARAZIONE è compiuta volontariamente tra eguali, per il bene di tutti e due! Il molto onorevole Elijah Muhammad ci insegna che finché qui in America la nostra gente dipenderà dall'uomo bianco, noi elemosineremo sempre da lui lavoro, cibo, vestiario e abitazioni e lui controllerà le nostre vite e disporrà del potere per tenerci segregati. Il negro qui in America è stato trattato come un bambino, che sta nel ventre della madre fino al momento della nascita e che quando giunge quel momento dev'esserne separato, altrimenti DISTRUGGERA' se stesso e la madre. Questa non può tenerlo dentro di sé dopo che è finita la gestazione: il bambino piange e vuole una vita sua!» Chi mi ha sentito parlare allora dovrà riconoscere che credevo in Elijah Muhammad e lo rappresentavo in tutto: non cercai mai di attribuirmi alcun merito . Non ci fu una sola di quelle discussioni in cui non saltasse fuori qualcuno ad accusarmi di «incitare i negri alla violenza» . Non c'era bisogno di una specifica preparazione per rispondere a ciò . «Il più grande miracolo compiuto dal cristianesimo qui in America è che, nelle mani dei cristiani bianchi, il negro non è diventato violento. E' UN MIRACOLO se ventidue milioni di negri non si sono RIBELLATI ai loro oppressori, cosa che sarebbe stata giustificata da qualsiasi principio morale e perfino dalla tradizione democratica! E' un miracolo che una nazione di negri abbia continuato con tanto fervore a credere nella filosofia del "porgi l'altra guancia" e del "paradiso dopo la morte"! E' UN MIRACOLO se i negri americani sono rimasti un popolo pacifico dopo tutti i secoli di inferno che hanno subito qui nel paradiso dell'uomo bianco! Il MIRACOLO è che i leader negri, queste marionette dell'uomo bianco, i pastori e i negri colti carichi di lauree e tutti gli altri cui è stato permesso di sfruttare a sangue i loro poveri fratelli, siano riusciti fino ad oggi a tenere a freno le masse negre» . Vi assicuro che ogni volta che mi sono trovato negli studi della radio e della televisione con quei fantocci negri vittime del lavaggio del cervello e «ubriachi di integrazione», tra quei diavoli infidi che cercavano di farmi a pezzi, ho sempre fatto del mio meglio, finché la luce rossa che annunciava «trasmissione» restava accesa, per rappresentare Elijah Muhammad e la Nazione dell'Islam . Il libro di C. Eric Lincoln fu pubblicato tra discussioni e polemiche su noi Muslims proprio nello stesso periodo in cui cominciavamo a organizzare le nostre prime manifestazioni di massa . Nello stesso modo in cui il programma televisivo "L'odio che ha prodotto l'odio" aveva creato un'immagine di noi come «propagandisti di odio», ora la stampa s'impadronì del titolo del libro di Lincoln "The Black Muslims in America" . L'espressione «Black Muslims» apparve in tutte le recensioni che di solito erano fatte lodando il testo di Lincoln e citando solo i passi critici nei nostri confronti . L'attenzione del pubblico si fissò sull'espressione Black Muslims che, da Muhammad fino all'ultimo membro della Nazione dell'Islam, dispiacque a tutti. Per almeno due anni cercai di contrastare l'uso di quel «Black Muslims» dicendo a tutti i giornalisti e davanti a qualsiasi microfono: «NO! Noi siamo UOMINI negri qui in America e la nostra RELIGIONE è l'Islam. Il nostro vero nome è Muslims ». Malgrado ciò, quella definizione rimase . Fin dal principio le nostre manifestazioni di massa ebbero uno strepitoso successo. Laddove in passato il piccolo tempio numero uno di Detroit era orgoglioso se riusciva a organizzare una carovana di dieci automobili per andare a Chicago a sentire Muhammad, ora dai templi della costa orientale - dai più vecchi come dai più recenti che tutta quella massiccia pubblicità aveva contribuito a far sorgere - centocinquanta, duecento e persino trecento autobus partivano diretti alle località dove, di volta in volta, Muhammad parlava. Su ciascun autobus erano di servizio due membri del Frutto dell'Islam e sulle fiancate venivano posti due striscioni con l'emblema della Nazione in modo che tutti quelli che transitavano sull'autostrada e le migliaia e migliaia di persone delle città attraversate potessero vederlo . Altre centinaia di Muslims e di negri curiosi venivano con le loro automobili mentre Muhammad partiva da Chicago sul suo aereo a reazione personale. Il seguito di automobili che accompagnava Muhammad dall'aeroporto al luogo della manifestazione era scortato da automezzi della polizia con le sirene spiegate. I rappresentanti della legge che in passato avevano definito i membri della Nazione dell'Islam come degli «esaltati negri», ora facevano di tutto per impedire che qualche «esaltato bianco» potesse provocare degli incidenti . In America non si erano mai visti dei raduni di negri così poderosi. Per venire ad ascoltare Elijah Muhammad, diecimila e più negri arrivavano con mezzi pubblici e privati ed affollavano le grandi sale che la Nazione prendeva in affitto, come per esempio la Saint Nicholas Arena di New York City, il Coliseum di Chicago e la Uline Arena di Washington . Ai bianchi era proibito l'ingresso: era la prima volta che i negri americani potevano permettersi una cosa del genere e ciò naturalmente ci attirò nuovi attacchi da parte dei bianchi e dei loro fantocci negri. «Segregazionisti negri... razzisti!»: che coraggio scagliare contro di NOI tali accuse quando in tutta l'America i divieti posti dai bianchi ai danni dei negri erano prassi normale! Diverse centinaia di persone arrivavano troppo tardi per trovare da sedere e perciò eravamo costretti a sistemare altoparlanti all'esterno del locale. Un'atmosfera addirittura elettrica eccitava le grandi e mobili masse dei negri. I membri del Frutto dell'Islam si tenevano in contatto tra loro con radiotelefoni portatili per mantenere in perfetto ordine le lunghe file che, allineate per tre o quattro, essi formavano davanti all'entrata della sala. Nell'atrio altri uomini del Frutto dell'Islam e sorelle Muslim con il lungo abito bianco e il velo perquisivano accuratamente tutti gli uomini, le donne e i bambini che cercavano di entrare. Dovevano esser consegnati all'entrata bevande alcoliche, tabacco e articoli da fumo oltre a qualsiasi oggetto che potesse essere adoperato per far del male a Muhammad. Sembrava che il Messaggero avesse una paura mortale degli attentati e insisteva perché tutti fossero perquisiti . Oggi capisco bene perché . Le centinaia di uomini del Frutto dell'Islam costituivano i contingenti che arrivavano la mattina presto dai loro templi delle città più vicine. Alcuni facevano da maschere e si preoccupavano di accompagnare una parte degli ascoltatori in platea in posti già assegnati, mentre le gallerie e circa metà delle poltrone erano occupate dal grosso del pubblico. Davanti a questo c'erano i settori riservati ai Muslims: le belle sorelle negre tutte vestite di bianco e i fratelli che indossavano abiti scuri e camicie immacolate. Un settore speciale nelle prime file era riservato ai cosiddetti «dignitari» negri. Ne venivano invitati molti e tra di loro c'erano i nostri avversari, i fantocci e i pappagalli negri, quegli intellettuali e professionisti per i quali Muhammad si addolorava così tanto perché loro che erano colti avrebbero dovuto trovarsi in prima fila nella lotta per far uscire dal labirinto della miseria e della disperazione i loro fratelli negri poveri. Non volevamo che perdessero una sola sillaba delle verità che Muhammad in persona diceva . Nel settore riservato alla stampa c'erano giornalisti e fotografi che rappresentavano la stampa negra o che lavoravano per i giornali, le riviste, la radio e la televisione dei bianchi. Gli scrittori negri americani dovrebbero fare un monumento a Muhammad perché per molti di essi scrivere sulla Nazione dell'Islam rappresentò la via al successo . Sulla tribuna centrale noi pastori e altri dirigenti della Nazione sedevamo in cinque o sei file dietro la grande sedia riservata a Muhammad. Alcuni dei pastori avevano viaggiato centinaia e centinaia di miglia per essere presenti. Ci voltavamo sorridendo, ci stringevamo le mani scambiandoci il saluto con la sincera gioia di rivederci: «As-Salaam-Alaikum» e «WaAlaikum-Salaam» . Ogni volta parecchi nuovi pastori di piccoli templi di recente fondazione venivano per conoscere noi veterani al servizio di Muhammad. I miei fratelli Wilfred e Philbert erano rispettivamente pastori dei templi di Detroit e Lansing; Jeremiah X era a capo del tempio di Atlanta; John X di quello di Los Angeles; il figlio del Messaggero, Wallace Muhammad, del tempio di Philadelphia; Woodrow X dirigeva il tempio di Atlantic City. Alcuni dei nostri pastori venivano da esperienze diverse e avevano un passato insolito. Lucius X, del tempio di Washington, era stato un avventista del settimo giorno e aveva fatto parte della massoneria; il pastore George X del tempio di Camden nel New Jersey era un patologo; David X era stato precedentemente pastore di una chiesa cristiana di Richmond nella Virginia . Insieme con una parte notevole dei suoi fedeli era diventato Muslim cosicché la congregazione si scisse e la maggioranza trasformò la chiesa nel nostro tempio. Il giovane e brillante pastore del tempio di Boston, Louis X, che era stato un noto e promettente cantante soprannominato «l'incantatore» aveva scritto la prima canzone popolare dedicata a noi e intitolata "Il paradiso dell'uomo bianco è l'inferno del negro". Lo stesso Louis X aveva scritto il nostro primo lavoro teatrale, "Orgena" («A Negro» scritto all'incontrario) il cui tema centrale era costituito dal processo fatto da giudici negri a un simbolico uomo bianco per tutti i delitti da esso compiuti nei confronti delle razze di colore di tutto il mondo. Riconosciuto colpevole e condannato a morte, veniva trascinato via mentre gridava tutto ciò che «di buono» aveva fatto per i negri . Ancora più giovani del nostro geniale Louis X erano alcuni nuovi pastori come per esempio Thomas J. X del tempio di Hartford e Robert J. X del tempio di Buffalo . Avevo fondato oppure organizzato la maggior parte dei templi rappresentati a queste riunioni e perciò salutare i pastori era per me un riportare alla memoria le immagini di quell'andare «a pesca» per le strade e di porta in porta, dovunque ci fossero dei negri. Mi ricordavo delle innumerevoli riunioni fatte nei salotti di case private in cui sette persone erano già da considerarsi una folla e poi lo sviluppo graduale, fino ad affittare le sedie pieghevoli da sistemare in sudici negozi che i Muslims ripulivano fino a farli diventare immacolati e degni di ospitare il nostro tempio . Noi tutti insieme sulla tribuna di quelle enormi sale e il grande pubblico davanti a noi eravamo, ai miei occhi, la miracolosa manifestazione dell'incomprensibile potere di Allah . Per la prima volta capivo veramente quello che Muhammad mi aveva detto: che quando affrontava le dure prove impostegli dal dover sfuggire, di città in città gli ipocriti negri, Allah gli aveva spesso mandato visioni di grandi folle che un giorno avrebbero ascoltato i suoi insegnamenti. Muhammad mi diceva anche che tali visioni lo avevano assalito quando, per anni, era stato rinchiuso nella prigione dell'uomo bianco . Il continuo parlottio della folla cessava e si avvicinava al microfono il segretario della Nazione dell'Islam John Ali, oppure il pastore Louis X del tempio di Boston, i quali animavano l'atmosfera parlando dei nuovi orizzonti che la Nazione dell'Islam stava schiudendo al negro. La sorella Tynetta Dynear descriveva con belle parole i forti vitali contributi delle donne Muslim e il ruolo che esse svolgevano nel quadro dell'azione generale dei seguaci di Muhammad per elevare le condizioni fisiche, mentali, morali, sociali e politiche dei negri americani . Poi prendevo la parola io con lo scopo preciso di preparare il pubblico alle parole di Muhammad che era venuto in aereo da Chicago per parlarci di persona . Alzavo la mano dicendo: «As-Salaikum-Salaam» . «Wa-Alaikum-Salaam!» era la poderosa risposta della grande folla dei Muslims . C'era uno schema generale che seguivo in queste occasioni: «Miei fratelli e sorelle negri di tutte le credenze religiose o di nessuna fede, noi abbiamo in comune il più grande legame che esista... siamo tutti NEGRI! «Non dedicherò tutto il giorno a descrivervi la grandezza del molto onorevole Elijah Muhammad, ma vi dirò soltanto qual è il suo merito PIU' GRANDE. Egli è il PRIMO, il SOLO leader negro che abbia saputo indicare a voi e a me CHI è il nostro nemico! «Il molto onorevole Elijah Muhammad è il primo leader negro tra di noi che abbia il CORAGGIO di dirci in pubblico quello che, se ci pensate nell'intimità della vostra casa, vi accorgerete che noi negri abbiamo sempre PORTATO con noi, abbiamo VISTO, abbiamo SOFFERTO durante tutta la nostra vita! «IL NOSTRO NEMICO E' L'UOMO BIANCO! «Ma perché Muhammad ci insegna una cosa tanto grande? Perché quando si conosce il proprio nemico questi non può più tenerci divisi, in lotta tra di noi, un fratello contro l'altro. Perché quando si RICONOSCE il nemico questi non può più servirsi dell'inganno, delle promesse, dell'ipocrisia e della crudeltà per mantenerci sordi, muti e ciechi . «Quando si riconosce il nemico questi non può più farci il lavaggio del cervello, non può più bendarvi gli occhi perché non vediate che, mentre LUI su questa terra vive in PARADISO, voi siete all'INFERNO! Questo nemico vi dice che sia lui che voi dovete adorare lo stesso Dio cristiano bianco che, vi viene raccontato, vuole le stesse cose per TUTTI gli uomini! «Quel diavolo è il nostro nemico ed io ve lo PROVERO'. Prendete qualsiasi quotidiano e leggete tutte le false accuse che vengono scagliate contro il nostro amato leader. Ciò dimostra soltanto che i bianchi non vogliono che altri negri all'infuori dei loro fantocci o scimmie ammaestrate parlino alla nostra gente. Questo diabolico negriero di razza caucasica non vuole che lo lasciamo, però quando siamo qui in mezzo a lui fa di tutto per tenerci al LIVELLO PIU' BASSO della sua società! «L'uomo bianco è sempre stato CONTENTISSIMO quando ha potuto tenerci in disparte, lontani dagli occhi di tutti, clandestini, ed è per questo che ha avuto sempre UN DEBOLE per quei leader negri ai quali poteva domandare: "Bene, come vanno le cose laggiù da voi?" Ma poiché Elijah Muhammad assume una posizione di intransigenza nei suoi confronti l'uomo bianco lo ODIA e quando sentite dire ciò anche voi che non comprendete la profezia biblica, a torto chiamate Muhammad razzista, seminatore di odio, nemico dei bianchi e fautore della supremazia negra...» A questo punto il pubblico cominciava ad agitarsi sulle sedie.. . Muhammad veniva a passi rapidi dal fondo della sala fino al centro della tribuna, allo stesso modo in cui era solito entrare nelle nostre piccole moschee. Quest'uomo che noi consideravamo come il dolce, mansueto agnello dalla pelle bruna, procedeva a passi rapidi tra le guardie del Frutto dell'Islam, uomini poderosi, scelti e disciplinatissimi che formavano un circolo attorno a lui. Muhammad portava il suo sacro Corano, mentre sul piccolo fez che gli copriva il capo scintillavano ricamati in oro la bandiera dell'Islam, il sole la luna e le stelle. I Muslims manifestavano la loro adorazione e il loro saluto con le grida di: «Agnellino! ... As-Salaikum- Salaam! ... Sia lodato Allah» . Oltre a me c'era molta gente che aveva le lacrime agli occhi . Muhammad mi aveva salvato quand'ero detenuto, mi aveva istruito nella sua casa come se fossi stato suo figlio e credo che le maggiori commozioni della mia vita, almeno fino a poco tempo fa, siano state quando le guardie del Frutto dell'Islam si fermavano ponendosi in una rigida posizione di attenti mentre Muhammad saliva i gradini della tribuna e i suoi pastori, tra cui c'ero anch'io, gli andavano incontro, lo abbracciavano e gli stringevano ambedue le mani.. . Riprendevo il microfono per non far aspettare quelle enormi folle negre che erano venute ad ascoltarlo . «Miei fratelli e sorelle negri, NESSUNO saprà CHI siamo finché non lo sappiamo noi stessi. Non potremo mai muoverci in una direzione finché non sappiamo dove siamo. Il molto onorevole Elijah Muhammad ci dà una vera identità, una chiara posizione e questa è la prima volta che al negro americano si offre una simile prospettiva! «Si può essere vicini a quest'uomo e non arrivare mai a immaginare dalle sue azioni quali siano il suo potere e la sua autorità... » (Dietro di me, credetemi, SENTIVO IL POTERE di Muhammad) . «Egli NON FA SFOGGIO DEL SUO POTERE, NON LO METTE IN PIAZZA, ma non c'è nessun altro leader negro in America che abbia seguaci disposti a offrire la vita a un suo cenno. Non mi riferisco a questa specie di non violenti che chiedono l'elemosina all'uomo bianco... a tutti quei sit-ins, a quel cercare di infilarsi nelle piscine, nei ristoranti, nei locali pubblici dei bianchi... «Miei fratelli e sorelle negri, siete venuti per ascoltare IL NEGRO PIU' SAGGIO dell'America, IL PIU' CORAGGIOSO, IL PIU' AUDACE. Ecco, ora lo ascolterete, ascolterete il NEGRO PIU' POTENTE che esista in questo deserto che è l'America del Nord!» Muhammad si avvicinava al microfono guardando il pubblico ora perfettamente silenzioso, per pochi secondi, con il suo viso dolce immobile. Poi diceva: «As-Salaikum-Salaam » . «WA-ALAIKUM-SALAAM!» tuonavano i Muslims in attesa di ascoltare . Per esperienza il pubblico sapeva che per due ore Muhammad avrebbe fatto balenare la sua spada della verità a due tagli . Infatti tutti, conoscendo la gravità della sua asma bronchiale, si preoccupavano dello sforzo che la lunghezza dei suoi discorsi gli imponeva . «Non ho una laurea come ce l'hanno molti di voi che mi state a sentire, ma la storia non si preoccupa delle lauree . «L'uomo bianco vi ha inculcato da sempre il terrore di sé, sin da quando eravate bambini, e così siete sopraffatti dal più grande nemico che l'uomo possa avere, dalla paura. So che tra di voi c'è chi ha paura di ascoltare la verità perché siete cresciuti tra il timore e la menzogna, ma io vi dirò la verità finché non vi sarete liberati dalla paura.. . «Il vostro padrone vi trascinò qui in catene e ogni traccia del vostro passato fu distrutta. Oggi voi non conoscete più la vostra vera lingua. Da quale tribù provenite? Non sapreste riconoscerne il nome se qualcuno ve lo dicesse. Non sapete niente della vostra vera cultura e non conoscete neppure il vostro vero nome di famiglia. Portate il nome di un UOMO BIANCO, del padrone di schiavi che vi ODIA! «Siete un popolo che crede di sapere tutto sulle Sacre Scritture, sul cristianesimo e arrivate persino alla suprema stoltezza di credere che non ci sia niente di GIUSTO all'infuori del cristianesimo! «Voi siete, unico al mondo, il solo gruppo di gente che non conosce se stessa, i propri fratelli, la sua vera storia e il suo nemico! Sapete soltanto ciò che il vostro padrone bianco decide di dirvi e lui, da parte sua, vi ha sempre detto solo quel che faceva comodo a lui e alla sua specie. Vi ha insegnato, nel suo esclusivo interesse, che voi siete il cosiddetto "negro" indifferente, inetto, impotente . «Ho usato la parola "cosiddetto" perché voi non siete "negri" . Non esiste una razza di NEGRI. Voi siete membri della nazione asiatica e provenite dalla tribù di Shabazz! Il termine "negro" è una falsa etichetta che vi è stata appiccicata dal padrone bianco, il quale ci ha imposto ogni cosa, a voi, a me e a tutti i nostri fratelli, fin da quando portò su queste coste la prima nave carica di schiavi... » Quando Muhammad si fermava, i Muslims davanti a lui gridavano: «Agnellino!... Sia lodato Allah!... INSEGNACI, Messaggero!» Ed egli così continuava: «L'IGNORANZA di noi negri qui in America, l'ODIO che abbiamo per noi stessi, sono perfetti esempi di quello che il padrone bianco ha deciso per noi. Siamo capaci forse, come qualsiasi altro popolo sul nostro pianeta, di dar prova del più semplice buon senso unendoci tra di noi? No. Ci umiliamo, facciamo i sit-ins, andiamo a mendicare l'integrazione con il padrone di schiavi . Non riesco a immaginare niente di più ridicolo. Ogni giorno, in mille modi, l'uomo bianco vi dice: "Non potete abitare qui, è vietato l'ingresso, è proibito mangiare qui, bere, camminare, lavorare, è proibito passare in macchina, giocare, studiare". Ma non avete avuto abbastanza prove che non ha nessuna intenzione di UNIRSI con voi? «Avete coltivato i suoi campi, gli avete cucinato il cibo, gli avete lavato la roba, avete avuto cura di sua moglie e dei suoi figli quando lui non c'era e, in molti casi, lo avete persino ALLATTATO. Siete stati di gran lunga cristiani migliori di questo padrone di schiavi che vi INSEGNO' il suo cristianesimo! «Avete sudato sangue per aiutarlo a costruire un paese così ricco che oggi si può permettere di distribuire milioni di dollari persino ai suoi NEMICI e quando questi hanno ricevuto abbastanza da essere in grado di attaccarlo, voi lo avete difeso coraggiosamente e siete MORTI per esso. Durante i cosiddetti periodi di pace, siete sempre stati i suoi più fedeli servitori.. . «EPPURE, questo americano bianco cristiano non ha saputo trovare in se stesso abbastanza COMPRENSIONE, abbastanza senso di GIUSTIZIA per riconoscere ed accettare noi negri che abbiamo fatto così tanto per lui come esseri umani!» «Proprio così!»... «UM-HUH!»... «INSEGNA, Messaggero».. . «DIGLIELO»... «Hai RAGIONE!»... «Non ti affannare troppo, piccolo Messaggero »... «PROPRIO COSI'! » Oltre i Muslims anche altri gridavano: noi eravamo assai meno estroversi dei negri cristiani. A questo punto il raduno prendeva l'aspetto di una riunione di pionieri intorno ai fuochi del bivacco . «Perciò noi negri SEPARIAMOCI da questo padrone di schiavi che ci disprezza tanto! Voi mendicate da lui un po' della cosiddetta INTEGRAZIONE, ma guardate un po' cosa va dicendo questo bianco STUPRATORE! Che lui non vuole integrarsi con noi perché il sangue negro IMBASTARDIREBBE la sua razza. LUI dice questo e guardiamoci un po' tra di noi, voltate la testa e guardatevi bene uno con l'altro. Questo padrone di schiavi bianco ci ha già INTEGRATI al punto che tra di noi si trovano ormai pochissimi fratelli con il colore ebano dei nostri antenati!» «Per Dio, ha ragione!»... «INSEGNA, Messaggero»... «ASCOLTATELO! ASCOLTATELO!» «Ha lasciato in noi così poco nero, - continuava Muhammad, che ora ci disprezza al punto da dirci che, GIURIDICAMENTE, se abbiamo nelle vene UNA SOLA GOCCIA di sangue nero, ciò significa che siamo completamente negri dal punto di vista delle sue leggi! Lui ci disprezza perché disprezza SE STESSO per tutto ciò che ci ha FATTO. Se tutto quello che ci è rimasto è quella goccia di sangue nero, ebbene noi la rivendichiamo!» Si vedeva chiaramente che le sue deboli forze lo stavano abbandonando, ma Muhammad proseguiva: «SEPARIAMOCI da questo uomo bianco e per la stessa ragione che lui dice, cioè fin che siamo in tempo per salvarci da ogni ulteriore INTEGRAZIONE . «Per quale ragione quest'uomo bianco che ama chiamarsi buono e generoso, che finanzia persino i suoi nemici, NON DOVREBBE mantenere uno stato separato, un territorio a sé per noi negri che siamo stati i suoi fedeli schiavi e servitori? Un territorio separato in cui noi potremmo vivere abbandonando per sempre gli slums e in cui non avremmo più bisogno della sua BENEFICENZA . Perfino per QUELLI che si lamentano che gli costiamo troppo ciò rappresenterebbe un sollievo, perché saremmo in grado di aiutarci DA SOLI! Non abbiamo mai fatto quello che AVREMMO POTUTO, perché siamo stati condizionati e indottrinati così bene dal padrone di schiavi bianco da esser convinti di dover andare da lui a chiedere in elemosina il soddisfacimento dei nostri bisogni...» Dopo circa un'ora e mezzo, tutti i pastori che sedevano dietro Muhammad dovevano trattenersi dallo slanciarsi vicino a lui e pregarlo di smettere. Egli stringeva i bordi del leggio sulla tribuna per sostenersi . «Noi negri non SAPPIAMO cosa siamo capaci di fare. Di nessuna cosa si può dire quali saranno le sue possibilità finché non sia lasciata LIBERA di agire e manifestarsi. Se avete un gatto che carezzate e vezzeggiate, dovrete liberarlo, lasciare che se la cavi da sé nei boschi prima di stabilire se il gatto abbia o no le doti di procurarsi da sé cibo e rifugio! «Noi negri qui in America non siamo mai stati LIBERI di scoprire cosa realmente siamo in grado di FARE. Abbiamo conoscenze ed esperienze da mettere insieme per potercela cavare da soli . Siamo stati da secoli contadini e siamo quindi in grado di produrre il cibo che ci occorre, possiamo creare delle fabbriche che producano le merci che ci abbisognano. metter su altre forme di attività commerciale e diventare indipendenti come altri popoli civili.. . «Possiamo RIFIUTARE il lavaggio del cervello, liberarci dall'odio verso noi stessi e vivere insieme come FRATELLI.. . «... un po' di terra tutta PER NOI!... qualcosa PER NOI!.. . lasciare a se stesso questo padrone di schiavi bianco...» Muhammad si fermava sempre d'improvviso quando non ce la faceva più a parlare. L'ovazione del pubblico, come un vero e proprio muro del suono, continuava senza interruzioni . In piedi sulla tribuna, agitando le braccia, riuscivo finalmente a far star zitto il pubblico mentre gli uomini del Frutto dell'Islam appositamente incaricati cominciavano a passare in platea con dei grandi secchi di carta cerata in cui raccoglievano le offerte. Poi parlavo io: «Da quello che avete appena sentito capirete che il molto onorevole Elijah Muhammad e il suo programma non sono finanziati dal denaro bianco. I soldi i bianchi glieli darebbero per "consigliarlo" e "fermarlo". Il programma del Messaggero di Allah e i suoi seguaci non sono "integrati"; la nostra organizzazione è COMPLETAMENTE negra . «Noi siamo l'UNICA organizzazione negra finanziata SOLO da negri. Le cosiddette organizzazioni "per il progresso negro" sono un insulto alla vostra intelligenza perché sostengono di battersi nel vostro interesse, di conquistare un'eguaglianza di diritti che voi chiedete e... di COMBATTERE l'uomo bianco che si rifiuta di riconoscere i vostri diritti. Ebbene, queste organizzazioni SONO SOSTENUTE dall'uomo bianco. I membri pagano due, tre o cinque dollari all'anno, ma CHI è che fa ad esse delle donazioni di due, tre o cinquemila dollari? L'uomo BIANCO! E' lui che le ALIMENTA; è lui che le controlla; è lui che fa da CONSIGLIERE e ne ARRESTA ogni slancio. Adoperate il vostro buon senso: non è forse vero che si dànno consigli, si controllano e si frenano tutti coloro che, come per esempio i nostri figli, manteniamo? «L'uomo bianco sarebbe contentissimo di finanziare Elijah Muhammad perché se Muhammad dovesse basarsi su quell'aiuto potrebbe DAR CONSIGLI a Muhammad. Fratelli e sorelle negri, è solo perché il VOSTRO denaro, il denaro NEGRO lo sostiene che Muhammad può organizzare questi raduni nelle varie città e dire a noi negri la VERITA'! Ecco perché noi chiediamo il vostro appoggio, L'APPOGGIO soltanto dei negri!» Le banconote, quasi sempre molto più grosse di un dollaro, colmavano i secchielli di carta cerata che gli uomini del Frutto dell'Islam vuotavano e riempivano rapidamente. L'atmosfera tra il pubblico era come se la gente fosse ipnotizzata. Quanto alle collette, servivano a pagare le spese dei raduni e quello che avanzava veniva investito nell'ulteriore sviluppo della Nazione dell'Islam . Dopo parecchi grandi raduni, Muhammad dette istruzioni perché ammettessimo la stampa bianca. Gli uomini del Frutto dell'Islam perquisivano accuratamente i giornalisti, come del resto facevano con tutti gli altri, guardavano i loro taccuini, le macchine fotografiche, gli astucci e tutti gli altri oggetti che avevano addosso. Più tardi Muhammad disse che TUTTI i bianchi che volevano sentir la verità potevano esser presenti ai nostri raduni pubblici e ben presto organizzammo un piccolo settore separato per loro, sempre strapieno . La maggior parte dei bianchi che venivano erano studenti e studiosi. Guardavo i loro volti tesi e congestionati mentre fissavano Muhammad che diceva: «L'uomo bianco sa che il suo modo di agire è quello di un diavolo!» Guardavo anche l'espressione di quei professionisti negri, di quei cosiddetti intellettuali che ci attaccavano. Avevano la preparazione accademica, le conoscenze tecniche e scientifiche con le quali avrebbero potuto aiutare la massa dei loro fratelli negri poveri ad uscire da quella condizione, ma tutti questi intellettuali e professionisti non sembravano preoccuparsi di altro che di umiliarsi, di chieder l'elemosina nel tentativo di integrarsi con il cosiddetto uomo bianco liberale che diceva loro: «Col tempo... tutto andrà bene col tempo... aspettate pazientemente!» Questi intellettuali e professionisti negri non potevano adoperare la loro cultura al servizio dei fratelli poveri semplicemente perché non erano uniti neanche tra di loro. Se lo fossero stati, se si fossero sentiti tutt'uno con gli uomini della loro specie, avrebbero aiutato in maniera decisiva tutti i popoli di colore del mondo! Guardavo i volti di quegli intellettuali e professionisti negri che, messi al cospetto della verità, diventavano tesi e impenetrabili . Eravamo sorvegliati; i nostri telefoni erano sotto controllo ed anche oggi se dicessi dal mio telefono di casa: «Vado a far saltare in aria l'Empire State Building», vi garantisco che in cinque minuti l'edificio sarebbe circondato. Quando parlavo in pubblico indovinavo immediatamente quali erano gli agenti dell'F.B.I. mescolati tra la folla, o i membri di qualche altro corpo di polizia. Questi agenti ci venivano spesso a far visita rivolgendoci precise e insistenti domande. «Non ho paura di loro, - diceva Muhammad, posseggo tutto ciò di cui ho bisogno: la verità» . Molto spesso mi svegliavo la notte pensando con meraviglia a come gli insegnamenti di quella spada a due tagli potevano turbare, confondere e preoccupare un governo formato di uomini esperti in tutte le scienze moderne. Mi pareva di poter concludere che ciò non sarebbe mai potuto accadere a meno che lo stesso Allah, che è somma sapienza, non avesse dato qualcosa di particolare al piccolo Messaggero che aveva fatto solo la quarta elementare . Furono mandati degli agenti negri ad infiltrarsi nella nostra organizzazione, ma spesso le spie «segrete» dell'uomo bianco si sentivano prima di tutto negri. Non dico TUTTI, anche perché non c'è modo di saperlo, ma alcuni di loro, dopo essersi fatti membri della Nazione dell'Islam e aver ascoltato, visto e sentito la verità, ci rivelarono perché e da chi erano stati mandati. Alcuni dettero le dimissioni dal corpo di polizia da cui dipendevano e si misero a lavorare per noi; altri invece rimasero al loro posto per fare il controspionaggio e rivelarci le intenzioni e i piani dei bianchi nei confronti della Nazione dell'Islam . Riuscimmo in tal modo a sapere che ciò che interessava maggiormente la polizia era di sapere quello che accadeva nei nostri templi. Subito dopo le autorità poliziesche avevano la preoccupazione, che ancor oggi rimane una delle maggiori che turba gli esperti di problemi penali in America, per la proporzione sempre crescente dei detenuti negri che abbracciavano la causa dell'Islam . Generalmente gli adepti che facciamo tra i detenuti si preparano a seguire le leggi morali della Nazione dell'Islam mentre sono ancora in prigione e, come accadde a me, quando escono entrano in un tempio per iscriversi regolarmente all'organizzazione . Infatti questi detenuti convertiti erano di solito meglio preparati dei numerosi Muslims potenziali che non erano mai stati in prigione . Entrare da noi non era così facile come diventare membri di una chiesa cristiana. Non bastava dichiararsi seguaci di Muhammad e poi continuare a condurre la stessa vita immorale di prima . Prima di tutto il Muslim doveva modificare la sua personalità fisica e morale per conformarsi alle nostre regole severe e poi, se voleva restar tale, doveva continuare a rispettarle . Per esempio, c'erano poche riunioni nei nostri templi in cui il pastore non vedesse tra il pubblico le teste da poco rasate di nuovi fratelli Muslim i quali avevano per sempre rinunciato a quei capelli falsi, stirati, dai riflessi metallici o, come qualcuno li chiama oggi, alla «stiratura permanente». Mi addolora vedere un po' dovunque, sulle teste di molti negri, questo simbolo dell'ignoranza e dell'odio verso se stessi. So che quanto dico addolorerà alcuni dei miei buoni amici non Muslim i quali continuano a stirarsi i capelli, ma se si considera con attenzione la personalità dei negri che si sottopongono a tale trattamento, di solito si scopre che sono degli ignoranti. Qualunque sia la posizione di cui si vanta, i suoi capelli stirati per «avere l'aria del bianco» dicono chiaramente che si vergogna di essere un negro. Come successe a me, anch'egli si accorgerà improvvisamente di esser progredito dal punto di vista mentale quando troverà in sé abbastanza orgoglio per tagliarsi tutta quella chioma appiccicosa e far ricrescere i capelli naturali che Dio ha dato ai negri . Un'altra delle nostre regole era che il Muslim non deve fumare . Alcuni aspiranti membri della Nazione dell'Islam trovarono più difficile smettere di fumare di quanto non lo fosse per coloro che dovevano liberarsi dell'abitudine di prendere gli stupefacenti. Tuttavia sia gli uomini che le donne negre smettevano più facilmente quando consigliavamo loro di considerare il fatto che il governo dell'uomo bianco si preoccupava molto meno della salute pubblica che non dei MILIARDI di dollari che l'industria del tabacco gli portava sotto forma di tasse. «Cosa paga un membro delle forze armate per una stecca di sigarette?» chiedevamo all'aspirante Muslim . Questa domanda lo aiutava a capire che su ogni stecca di sigarette da lui acquistata il governo dell'uomo bianco prendeva non sul valore del tabacco, ma solo di tasse, circa due dollari, due dollari sudati dal negro . Forse avrete letto, anche perché molto è stato scritto sull'argomento, i fenomenali risultati ottenuti dalla Nazione dell'Islam nel guarire un grandissimo numero di tossicomani incalliti. Una volta il «New York Times» pubblicò un articolo in cui si diceva che alcune organizzazioni di assistenza sociale si erano rivolte ai rappresentanti del programma Muslim per consulenze di carattere clinico . Il programma Muslim partiva dalla premessa che esiste un preciso rapporto tra il colore della pelle e l'uso degli stupefacenti . Non è un caso che in tutto l'emisfero occidentale il luogo di maggior concentrazione di tossicomani sia proprio Harlem . Il primo e più importante elemento della nostra cura era costituito dal paziente lavoro di Muslims che, precedentemente, erano stati pure loro dediti all'uso degli stupefacenti . Nella giungla dei tossicomani del ghetto, i Muslims disintossicati andavano «a pesca» delle loro vecchie conoscenze e poi, con una incredibile pazienza che durava da pochi mesi fino ad addirittura un anno, si adopravano per guidare i malati attraverso le sei fasi del nostro processo terapeutico . Per prima cosa si spingeva il tossicomane a riconoscersi e considerarsi tale. Poi gli si insegnava perché prendeva gli stupefacenti e successivamente gli si faceva vedere che esisteva un modo per arrestare l'assuefazione. Il quarto punto consisteva nel rafforzare e ricostruire l'immagine indebolita che il tossicomane aveva di se stesso fino a fargli riconoscere che aveva dentro di sé la forza per porre fine alla sua schiavitù . La quinta fase consisteva nella decisione volontaria dell'intossicato di sospendere tutto d'un colpo l'uso dei narcotici. Il sesto stadio era raggiunto quando, finalmente guarito, l'ex cocainomane completava il ciclo andando «a pesca» di altri da lui conosciuti e contribuendo al loro ricupero . Quest'ultimo stadio eliminava automaticamente quello che è uno degli ostacoli più insormontabili per gli enti di assistenza sociale e cioè l'ostilità e il sospetto dei pazienti. Il cocainomane che veniva «pescato» sapeva che il Muslim che lo andava a cercare aveva avuto fino a poco tempo prima lo stesso vizio, e che aveva consumato anche lui ogni giorno narcotici per un valore dai quindici ai trenta dollari. Poteva darsi magari che fossero stati amici inseparabili i quali prima trafficavano insieme nella stessa giungla degli stupefacenti, oppure ladri nella stessa banda. Il tossicomane aveva visto il suo amico Muslim che si addormentava in piedi appoggiato a un muro o che, se c'era una pagliuzza sul marciapiede, alzava la gamba tanto quanto sarebbe stato necessario per scavalcare un tronco d'albero. Inoltre il Muslim adoperava lo stesso linguaggio della giungla degli intossicati . Come l'alcolizzato, il tossicomane non può mai cominciare a curarsi finché non riconosce e accetta la sua vera condizione . Il Muslim gli sta appresso come una mignatta continuando a ripetergli: «Sei attaccato all'amo, amico!» Può darsi che ci vogliano dei mesi prima che l'intossicato si ponga il problema e infatti il programma di cura non incomincia mai davvero fino a quel momento . La fase successiva è quella in cui il tossicomane si rende conto del motivo per cui prende gli stupefacenti. Sempre alle costole del suo uomo, nel vecchio ambiente della giungla, in posti inimmaginabili, il Muslim riesce spesso a mettere insieme gruppi di una dozzina di intossicati che lo ascoltano soltanto perché sanno che quell'uomo pieno di dignità e dall'aspetto così distinto era prima uno dei loro . Egli spiega che chi prende gli stupefacenti lo fa per evadere da qualcosa, che gran parte dei tossicomani negri tentano di drogarsi per dimenticare di essere negri nell'America dell'uomo bianco, ma in realtà, facendo così, aiutano l'uomo bianco a «dimostrare» che il negro non è niente . Il Muslim parla chiaramente, trattando con la massima confidenza il suo interlocutore: «Daddy, tu sai che so come la pensi. Ma non sono stato anch'io con voi? Mi grattavo come una scimmia, puzzavo, vivevo male, sempre affamato, a rubare, a scappare e nascondermi perché "Whitey" non mi acciuffasse. Ma per cos'altro credi che noi negri compriamo gli stupefacenti di "Whitey" se non perché lui diventi più ricco mentre noi ci ammazziamo con le nostre stesse mani?» Il Muslim è in grado di dire quando la sua «preda» è pronta a ricevere la dimostrazione che il modo migliore per smettere di prendere gli stupefacenti è di entrare a far parte della Nazione dell'Islam. Allora il tossicomane viene condotto nel ristorante Muslim della zona, oppure viene messo a contatto con Muslims puliti e pieni di dignità che dimostrano affetto reciproco e rispetto invece dell'ostilità che si trova per le strade del ghetto. Per la prima volta da anni si sente chiamare normalmente e senza nessuna affettazione «fratello», «signore», mentre nessuno si preoccupa del suo passato. Può darsi che capiti di parlare della sua intossicazione, ma se ciò accade è solo per indicare un ostacolo particolarmente difficile da superare . Tutti quelli che incontra si mostrano fiduciosi che riuscirà a liberarsi dal vizio . Via via che il tossicomane viene costruendo questa nuova immagine di sé, è inevitabile che cominci a pensare di poter rompere la sua abitudine. Per la prima volta sente su di sé gli effetti dell'orgoglio di essere negro . Questa è una potente combinazione di fattori positivi per chi è vissuto nel fango della società: una volta che abbia trovato una motivazione, nessuno può cambiare più radicalmente di chi è stato nella feccia. Porto me stesso ad esempio di ciò . Viene poi il momento in cui il tossicomane decide volontariamente di smettere. Ciò vuol dire sopportare l'agonia fisica di rinunciare all'improvviso agli stupefacenti . Quando questo accade, i Muslims ex tossicomani organizzano dei turni, ventiquattr'ore su ventiquattro, per assistere l'intossicato che vuole guarire e che ha iniziato il processo che lo porterà a diventare anche lui un Muslim . Quando comincia il ritiro e il tossicomane grida, maledice e si raccomanda: «Fammi un'iniezione, una sola, amico!» i Muslims sono lì vicini e gli parlano nel gergo del vizio: «Baby, scrollati di dosso quella scimmia! Caccia via quel vizio a calci! Levati di dosso "Whitey"!» Il tossicomane è attanagliato dal dolore, gli cola il naso, gli lacrimano gli occhi e suda abbondantemente dalla testa ai piedi; cerca di battere la testa contro il muro, agita le braccia e prova a scagliarsi contro quelli che lo assistono, vomita ed è affetto da continua diarrea. «Non tenere niente! Lascia uscire da te "Whitey", Baby! Vedrai come starai in piedi, che figura farai! Ti vedo già nel Frutto dell'Islam!» Quando la terribile prova è finita e la morsa della droga è spezzata, i Muslims confortano l'ex tossicomane che è diventato debolissimo e gli dànno minestre e brodo ristretto per rimetterlo in piedi. Egli non dimenticherà mai questi fratelli che lo hanno assistito in quelle drammatiche ore; non dimenticherà mai che è al programma della Nazione dell'Islam che deve di essersi salvato dall'inferno della droga. Quel fratello negro (o sorella, che sarà stata assistita dalle sorelle Muslim) molto difficilmente tornerà a prendere gli stupefacenti e invece, quando si troverà pulito, dignitoso e rinnovato non vedrà l'ora di tornare nella stessa giungla da cui è uscito per «pescare» qualche suo vecchio amico e salvarlo . Se qualche bianco o qualche negro «approvato» avesse creato un programma per il recupero degli intossicati altrettanto efficace di quello organizzato sotto l'egida dei Muslims, il governo l'avrebbe subito finanziato, colmato di lodi, e i giornali e la televisione gli avrebbero dato il massimo rilievo. Invece noi eravamo sottoposti a continui attacchi. Perché si dovrebbero finanziare i Muslims per risparmiare migliaia di dollari all'anno al governo e alle amministrazioni comunali? Non conosco il costo su scala nazionale dei reati commessi dagli intossicati da stupefacenti ma si dice che, a New York City, si tratti di miliardi. Nella sola Harlem, dodici milioni di dollari all'anno scompaiono in seguito a furti . Il tossicomane non lavora per alimentare il suo vizio. Eppure i narcotici gli costano da dieci a cinquanta dollari al giorno . Come potrebbe mai guadagnare una tale somma? Ruba e si dedica ad altri loschi traffici; come un falco o un avvoltoio depreda gli altri esseri umani, proprio come facevo io. E' molto probabile che abbia abbandonato la scuola dopo due o tre anni, che sia stato scartato dall'esercito, psicologicamente inadatto, com'ero io, per il lavoro anche se gliene viene offerto uno . Le donne che hanno questo vizio rubano nei negozi o si prostituiscono. Le sorelle Muslim usano parole dure con le prostitute negre che cercano di smettere di prendere gli stupefacenti per qualificarsi moralmente sì da essere ammesse nella Nazione dell'Islam. «Siete voi che aiutate l'uomo bianco a considerare il vostro corpo come un secchio di spazzatura...» In parecchi servizi giornalistici sulla Nazione dell'Islam si insinuava malignamente che i seguaci di Muhammad erano in gran parte ex detenuti ed ex tossicomani. E' vero. Nei primi anni, i convertiti provenienti dagli strati più bassi della società costituivano una parte notevole della base della Nazione dell'Islam. Muhammad ci esortava sempre: «Andate a cercare il negro nel fango». Spesso, egli diceva, i migliori Muslims erano proprio quei convertiti . Poco alla volta cominciammo a reclutare altri negri, i «buoni cristiani » che «pescavamo» dalle loro chiese. Successivamente aumentò la percentuale dei negri colti o con una qualifica tecnica. Ad ogni raduno riuscivamo ad attrarre nei vari templi gruppi sempre più numerosi di quei negri della cosiddetta classe media urbana, del tipo di coloro che prima avevano bollato noi Muslims come «demagoghi», «seminatori di odio», «razzisti negri» e con tutti gli altri epiteti. Un sempre maggior numero di giovani e di ragazze negri venivano nelle nostre file attirati dalle verità Muslim che avevano ascoltato attentamente e su cui avevano a lungo meditato. La Nazione dell'Islam aveva molti posti da offrire a coloro che avevano talento e una qualche specializzazione . C'erano alcuni Muslims che non avrebbero mai rivelato ad altri che ai loro confratelli di appartenere alla Nazione dell'Islam e ciò a causa delle posizioni che occupavano nel mondo dell'uomo bianco. So che ce n'erano alcuni la cui appartenenza era nota soltanto ai loro pastori e a Elijah Muhammad . Nel 1961 la nostra Nazione prosperava. Il giornale «Muhammad Speaks» pubblicava a pagina piena il progetto di un Centro islamico del valore di venti milioni di dollari da costruirsi a Chicago con i contributi di tutti i Muslims. Il progetto comprendeva una bella moschea, una scuola, una biblioteca, un ospedale e un museo che doveva documentare la gloriosa storia dei negri . Muhammad fece un viaggio nei paesi musulmani e al suo ritorno dette istruzioni perché chiamassimo i nostri templi «moschee» . A questo punto si ebbe anche un notevole aumento del numero di negozi e piccole imprese commerciali di proprietà Muslim. Tali iniziative miravano a dimostrare al popolo negro quello che avrebbe potuto fare se si fosse unito, avesse commerciato, dove era possibile, con i negri, e assunto solo personale negro. In questo modo avrebbe potuto impedire che il denaro negro uscisse dalle nostre comunità, così come facevano tutte le altre minoranze nazionali . Le stazioni radio minori trasmettevano ora in tutta l'America registrazioni dei discorsi di Muhammad, mentre a Detroit e a Chicago i bambini Muslim in età scolare frequentavano le nostre due università dell'Islam. Quella di Chicago impartiva corsi fino al diploma di scuola media superiore e quella di Detroit fino al diploma di scuola media inferiore. Sin dall'asilo i bambini Muslim studiavano la gloriosa storia dei negri e a partire dalla terza classe imparavano la nostra lingua originaria, l'arabo . Gli otto figli di Muhammad erano tutti impegnati in posizioni chiave nella Nazione dell'Islam. Io ero molto orgoglioso di aver avuto parte in tutto ciò, almeno in alcuni casi, anni addietro . Quando Muhammad mi aveva preso al suo servizio come pastore, mi convinsi che era una vergogna che i suoi figli lavorassero, come alcuni di loro facevano, per conto dell'uomo bianco nelle fabbriche, in imprese di costruzioni, facendo i conducenti di taxi e cose del genere. Sentivo di dover lavorare per la famiglia di Muhammad con altrettanta sincerità di come lavoravo per lui e perciò insistetti che mi lasciasse organizzare una speciale raccolta di fondi nelle nostre poche e modeste moschee in modo da far sì che quelli dei suoi figli che lavoravano per l'uomo bianco potessero essere impiegati all'interno della nostra Nazione. Muhammad accettò, la raccolta dei fondi diede buoni risultati e poco alla volta i suoi figli cominciarono a lavorare per la Nazione. Il maggiore, Emanuel, è oggi direttore della lavanderia; la sorella Ethel (Muhammad) Sharrieff è l'istruttore capo delle sorelle Muslim, mentre suo marito, Raymond Sharrieff, è il capo del Frutto dell'Islam; la sorella Lottie Muhammad dirige le due università dell'Islam; Nathaniel Muhammad aiuta Emanuel nella direzione della lavanderia; Herbert Muhammad pubblica ora «Muhammad Speaks», il giornale che io fondai, Elijah Muhammad junior è il vicecapo del Frutto dell'Islam. Wallace Muhammad era il pastore della moschea di Philadelphia finché venne sospeso dalla Nazione dell'Islam insieme con me, per le ragioni che dirò in seguito. Hakbar Muhammad, il figlio minore, frequenta l'università del Cairo a El-Azhar e anche lui ha rotto i rapporti col padre . Credo che fosse proprio quella strenua maratona di lunghi discorsi che Muhammad faceva ai nostri raduni a provocare improvvisamente un aggravarsi della sua asma bronchiale cronica . Anche quando conversava normalmente, si metteva d'improvviso a tossire e la tosse diventava sempre più insistente fino a scuotere dolorosamente il suo fragile corpo . Qualche volta Muhammad si piegava in due dal dolore e ben presto dovette mettersi a letto. Per quanto cercasse di evitarlo, per quanto la cosa lo addolorasse, dovette rinunciare a presentarsi a dei grandi raduni che erano stati annunciati da lungo tempo . Migliaia di persone rimasero deluse per dover ascoltare me o altri mediocri sostituti di Muhammad . I membri della Nazione dell'Islam erano molto preoccupati; i dottori raccomandavano un clima asciutto e così noi Muslims acquistammo per Muhammad una casa a Phoenix, nell'Arizona. Una delle prime volte che andai a fargli visita, scesi dall'aeroplano e mi trovai di fronte a macchine fotografiche e al lampo di numerosi flash. Capii subito che si trattava di funzionari della sezione spionaggio dello stato dell'Arizona. Il «telegrafo» della nostra Nazione dell'Islam portò a tutti i Muslims la gioiosa notizia che il clima dell'Arizona aveva alleviato moltissimo le sofferenze del Messaggero. Da allora trascorre gran parte dell'anno a Phoenix . Malgrado il fatto che Muhammad, convalescente com'era, non poteva più lavorare a lungo come faceva di solito a Chicago, era sempre assillato dalle gravi decisioni che doveva prendere e dai suoi doveri amministrativi. La Nazione dell'Islam aveva avuto, sotto ogni rispetto, una grossa espansione sia interna che esterna. Muhammad non poteva più dedicare il tempo di prima ai discorsi in pubblico, alle richieste delle stazioni radio e televisive che riteneva di dover accettare e a tutti quei problemi organizzativi che io gli avevo sempre sottoposto o perché mi desse un consiglio o perché prendesse una decisione . Muhammad indicò con chiarezza la fiducia che aveva in me: mi disse di decidere io stesso su quelle questioni di cui ho parlato, che potevo ispirarmi a criteri decisi da me e da nessun altro, e che quello che ritenevo giusto sarebbe stato nell'interesse generale della nostra Nazione dell'Islam . «Fratello Malcolm, voglio che diveniate famoso, - mi disse un giorno Muhammad, - perché se lo sarete voi lo sarò anch'io . «Ma, fratello Malcolm, dovete prepararvi, quando sarete famoso, ad essere odiato perché è normale che la gente sia invidiosa di chi raggiunge la notorietà» . Niente di quanto mi avesse mai detto Muhammad fu più profetico di queste parole . Capitolo quindicesimo . ICARO . Più erano le occasioni in cui rappresentavo Muhammad alla televisione, alla radio, nei college o altrove e più numerose erano le lettere che ricevevo dai miei ascoltatori. Per il novantacinque per cento si trattava di lettere scritte da bianchi . Solo alcune rientravano nella categoria delle lettere minatorie o di quelle che cominciavano con «Caro Nigger X». Nella maggior parte dei casi saltavano fuori i due principali motivi di timore dei bianchi. Il primo veniva dalla credenza soggettiva che Dio, nella sua ira, avrebbe distrutto la presente civiltà, mentre il secondo, più allucinante, derivava dall'immagine che l'uomo bianco aveva del negro che penetrava nel corpo della donna bianca . Tra i bianchi che mi scrivevano sorprendente era la percentuale di quelli che erano perfettamente d'accordo sull'analisi che Muhammad faceva del problema, ma non sulla soluzione. In certe lettere si notava una strana ambivalenza: mentre da un lato veniva manifestato un accordo completo con le posizioni di Muhammad, dall'altro ci si arrestava di fronte all'espressione «diavoli bianchi». Cercai di spiegare tali reazioni nei miei discorsi successivi: «A meno che non ci rivolgiamo direttamente con l'appellativo di "diavolo" a un uomo bianco SINGOLO, non parliamo di nessun uomo bianco in particolare, ma della tradizione STORICA dell'uomo bianco COLLETTIVO. Con quel termine ci riferiamo alle crudeltà, alle perfidie e all'avidità che hanno caratterizzato il COMPORTAMENTO diabolico di quest'uomo bianco collettivo nei confronti delle altre razze. Non c'è una sola persona intelligente, onesta e obiettiva che non arrivi a capire che sono stati il commercio degli schiavi e le successive azioni diaboliche dell'uomo bianco a PROVOCARE non soltanto la PRESENZA del negro qui in America, ma soprattutto la CONDIZIONE in cui esso si trova oggi. Non esiste UN SOLO negro, non importa chi sia, che non abbia ricevuto in qualche modo un grave danno personale dal comportamento diabolico dell'uomo bianco collettivo!» Quasi tutti i giorni apparivano su alcuni giornali articoli polemici nei confronti dei Black Muslims e il bersaglio era sempre più quello che aveva detto «quel demagogo di Malcolm X» . Mi arrabbiavo molto quando leggevo attacchi violenti contro Muhammad, mentre per quel che mi riguardava non me ne curavo . Gli assistenti sociali e i sociologi cercarono di farmi letteralmente a pezzi: specialmente i negri, per evidenti ragioni, prima fra tutte quella che gli assegni che ricevevano erano firmati dall'uomo bianco. Secondo questa gente, se «non riuscivo a considerare la comunità nelle sue varie componenti» voleva dire che avevo dato «un giudizio sbagliato sulla situazione razziale» oppure in certi miei discorsi avevo «generalizzato troppo». Quando poi avevo detto cose assolutamente vere, allora essi scrivevano che «Malcolm X ha accuratamente deformato...» Una volta, uno dei miei fratelli della moschea numero sette che lavorava con dei giovani in un ben noto centro sociale di Harlem mi fece vedere un rapporto riservato. Da questo risultava che un assistente sociale anziano, un negro, era stato mandato un mese in missione perché facesse un'indagine sui Black Muslims della zona di Harlem. Ad ogni frase dovevo andare a guardare nel vocabolario e forse credo che questa sia stata la ragione per cui non ho mai dimenticato le parole che mi riguardavano. State bene a sentire: «Gli interstizi dinamici della sottocultura di Harlem sono stati schematizzati e distorti da Malcolm X allo scopo di perseguire i suoi interessi» . Chi di noi conosceva meglio quella sottocultura del ghetto di Harlem? La conoscevo meglio io, che per anni avevo fatto il trafficante in quelle strade, oppure quell'assistente sociale negro, pieno di boria ed educato a venerare i simboli di status? Ma ciò non è importante. Secondo me, invece, il fatto molto importante è che tra i ventidue milioni di negri americani sono pochissimi quelli che hanno avuto abbastanza fortuna da poter fare studi universitari e che chi scriveva quelle parole era uno di quei fortunati. Eccolo, dicevo tra me, uno di quei negri «colti» che non hanno mai capito il vero scopo, la destinazione e l'uso della cultura; ecco uno degli esempi di conoscenze cristallizzate impiegate al solo scopo di fare sfoggio di tanti paroloni! Vi rendete conto che questo è uno dei principali motivi per cui il bianco americano ha imbrigliato ed oppresso il negro con tanta facilità? Perché, fino a pochissimo tempo fa soltanto una infinitesima percentuale dei negri colti applicava la propria cultura, come devo dire fa invece l'uomo bianco, alla ricerca e al pensiero creativo, a migliorare loro stessi e i loro fratelli in questo mondo concorrenziale, materialistico, in cui ognuno è costretto a sbranare il proprio simile, in questo mondo dell'uomo bianco. Per intere generazioni i cosiddetti negri «colti» hanno «guidato» i loro fratelli ripetendo le idee dell'uomo bianco, tutte naturalmente in funzione dei suoi obiettivi di sfruttamento . L'uomo bianco, bisogna riconoscerlo, è dotato di una straordinaria intelligenza e di una formidabile astuzia. Il suo mondo è pieno di prove in tal senso: non c'è nulla che l'uomo bianco non sappia fare, non c'è nessun problema scientifico che non sia in grado di risolvere. Guardate come riesce a mandare i suoi astronauti nello spazio e a farli tornare a terra sani e salvi! Però nel campo dei rapporti con gli esseri umani, l'intelligenza dell'uomo bianco procede come zoppicando e, se tali esseri umani non appartengono poi alla sua razza, ogni capacità critica gli si oscura. Le sue emozioni prevalgono ed egli, così prigioniero del suo complesso di «superiorità bianca», finisce per comportarsi nei confronti dei non bianchi nelle forme e con le azioni più emotive . Dove fu sganciata la prima bomba atomica... «per salvare vite americane»? L'uomo bianco sarà così ingenuo da sottovalutare le conseguenze di tale gesto e credere che possa esser dimenticato dai due terzi non bianchi della popolazione del globo? Prima che la bomba fosse sganciata, proprio qui negli Stati Uniti vennero messi in campo di concentramento, dietro il filo spinato, centomila cittadini americani di origine giapponese assolutamente innocenti. D'altro lato, quanti furono gli americani di origine tedesca internati in campi di concentramento? Nessuno, perché questi erano BIANCHI . Storicamente il colore diverso della pelle ha sempre rivelato e stuzzicato il «diavolo» nella natura dell'uomo bianco . Cos'altro se non un «diavolo» emotivo poté accecare l'intelligenza bianca al punto di non capire che milioni di schiavi negri, prima «liberati» e poi ammessi a fruire di un'istruzione anche limitatissima, non si sarebbero un giorno sollevati come un mostro terrificante, proprio nel cuore dell'America bianca? Il cervello dell'uomo bianco, che oggi gli consente di esplorare gli spazi, avrebbe dovuto dire al padrone di schiavi che questi, una volta istruiti, non avranno più paura di lui. La storia dimostra che lo schiavo istruito prima chiede e poi esige l'uguaglianza col suo padrone . Oggi, sotto molti aspetti, il negro capisce di più l'uomo bianco collettivo qui in America di quanto non faccia l'uomo bianco stesso e i ventidue milioni di negri si rendono sempre più conto che, dal punto di vista fisico, politico, economico e in certa misura anche sociale, l'uomo negro che si è risvegliato può creare un vero e proprio caos nei gangli vitali dell'America bianca, senza parlare poi del danno che può arrecare all'immagine degli Stati Uniti di fronte al mondo . Non volevo divagare, ma solo raccontare come, nel 1963, cercavo di controbattere i giornali, la radio e la televisione mediante i quali i bianchi facevano di tutto per annullare gli effetti degli insegnamenti di Muhammad . Ero arrivato ad equiparare i giornalisti a dei furetti, sempre pronti a seguire le piste, a scappare velocemente da una parte e dall'altra, sempre alla ricerca di qualche espediente per ingannarmi, per mettermi alle corde durante le interviste . Bastava che un leader dei diritti civili facesse qualche dichiarazione non gradita alla struttura di potere bianco e i giornalisti, nello sforzo di riportarlo nei ranghi, cercavano di servirsi di me. Eccovi un esempio: «Signor Malcolm X - era una delle domande che mi facevano, - voi avete spesso pubblicamente disapprovato i sit-ins e analoghe forme di protesta negra. Qual è la vostra opinione sul boicottaggio che si sta facendo in questi giorni a Montgomery sotto la guida del dottor Martin Luther King?» Per parte mia, ritenevo che sebbene i leader del movimento dei diritti civili attaccassero i Muslims, erano sempre negri, erano sempre nostri fratelli e quindi che sarebbe stata vera follia permettere all'uomo bianco di servirsi di me per manovrare contro di loro . Quando mi domandavano del boicottaggio di Montgomery, facevo diligentemente la storia delle circostanze che lo avevano determinato. La signora Rosa Parks tornava a casa in autobus quando, ad una fermata, quel cialtrone dell'autista le ordinò di alzarsi e cedere il posto a un passeggero bianco che era appena salito. «Ecco, - dicevo, - IMMAGINATEVI un po' la scena! Questa donna negra, lavoratrice, devota cristiana, che ha pagato il biglietto e sta lì seduta al suo posto... Solo perché è NEGRA le chiedono di alzarsi! Qualche volta anch'io, persino io, stento a credere all'arroganza dell'uomo bianco!» Oppure dicevo: «Nessuno saprà mai con precisione quale fu la molla emotiva che poté trasformare, agli occhi dei negri di Montgomery, questo incidente relativamente secondario in una miccia. Per secoli interi i negri del Sud avevano subito i peggiori oltraggi: stupri, bastonature, linciaggi, fucilazioni... Ma, come voi sapete, i grandi movimenti storici sono spesso provocati da incidenti apparentemente secondari. Una volta un piccolo, sconosciuto avvocato indiano fu costretto a scendere dal treno e, stanco di sopportare le ingiustizie, fece un nodo alla coda del leone britannico. IL SUO NOME era Mahatma Gandhi!» Oppure imitavo un trucco di cui avevo visto servirsi gli avvocati, sia nella vita di tutti i giorni che alla televisione: riguardava il modo in cui riescono a sottoporre ai giurati qualche cosa che altrimenti non sarebbe accolto. (Sia detto incidentalmente, credo che forse ce l'avrei fatta a diventare avvocato come dissi una volta a quel mio maestro di Mason nel Michigan che poi mi consigliò di fare il falegname). Il sistema era di sorvolare la domanda del giornalista e di metterlo di fronte all'imbarazzante, logica conseguenza di essa . «Ebbene, signore, credo che lo stesso tipo di boicottaggio dovrebbe valere anche per i negri che vengono richiamati alle armi. Perché noi dovremmo andare a morire in qualche terra lontana per difendere una cosiddetta "democrazia" che a un immigrato bianco appena arrivato concede di più che non al negro che ha servito questo paese e vi ha lavorato da schiavo per quattrocento anni?» I bianchi avrebbero preferito cinquanta boicottaggi locali al fatto che ventidue milioni di negri potessero cominciare a pensare a quello che ho appena detto. E' inutile ricordare che queste mie dichiarazioni non furono mai stampate nella versione giusta. Vedevo chiaramente quando i giornalisti bianchi si erano messi d'accordo perché smettevano di farmi certe domande . Se, quando mi trovavo a registrare per la radio o per la televisione, arrivavo a sviluppare un buon argomento, cercavo di approfittare di qualsiasi appiglio per esporlo. Facevo finta di «scivolare» e ricordavo alcuni recenti «progressi» del movimento per i diritti civili: qualche gigantesco monopolio che aveva assunto dieci negri per la mostra, qualche grande catena di ristoranti che aveva cominciato a guadagnare di più accettando di far servire anche i negri; qualche università del Sud che aveva permesso l'iscrizione a una matricola negra senza bisogno dell'intervento della Guardia nazionale, o cose del genere . Quando «scivolavo» il moderatore si buttava entusiasta su quell'esca: «Ah! Signor Malcolm X, non vorrete mica negare che tutto ciò sia un progresso per la vostra razza?» Allora io tiravo la canna: «Da tutte le parti sento parlare di "progressi nei diritti civili". Sembra che i bianchi credano che noi negri dovremmo esser pazzi di gioia. Per quattrocento anni il bianco ci ha tenuto piantato nella schiena un coltello lungo trenta centimetri ed ora che comincia a TIRARLO FUORI di due o tre centimetri noi dovremmo essergli RICONOSCENTI. Anche se tirasse FUORI tutta la lama resterebbe sempre la CICATRICE!» Allo stesso modo, bastava che il sindaco di qualche città si vantasse di non avere «nessun problema negro» perché tutti i giornali ne parlassero e mi sbattessero in faccia quell'esempio . Rispondevo che non c'era bisogno che mi dicessero dov'era perché sapevo benissimo che si trattava di un esiguo gruppetto di negri abitanti in quella città. Ciò è vero in tutto il mondo. Prendete la «democratica» Inghilterra: quando arrivarono centomila negri dalle Indie occidentali, il governo chiuse l'immigrazione negra . La Finlandia ha bene accolto un ambasciatore negro degli Stati Uniti. Ebbene, fatelo seguire da parecchi altri e poi vedrete! In Russia, quando Chruscev era al potere, minacciò di togliere i visti agli studenti africani che con la loro dimostrazione antirazzista avevano fatto capire al mondo che «anche la Russia...» Generalmente la stampa bianca del profondo Sud mi ignorava, ma metteva in prima pagina le mie opinioni sui bianchi del Nord e sui Freedom Riders che andavano nel Sud a fare dimostrazioni. Io chiamavo tutto ciò «ridicolo». I loro ghetti del Nord, proprio lì intorno a casa, contenevano abbastanza topi e piattole da tenere occupati tutti i Freedom Riders. Dicevo che la ultraliberale città di New York aveva più problemi di integrazione del Mississippi. Se i Freedom Riders del Nord volevano fare di più, potevano affrontare alla radice i problemi tipici del ghetto come la presenza dei bambini per le strade a mezzanotte con le chiavi dell'appartamento legate al collo mentre i loro padri e madri erario in giro a ubriacarsi, a prendere gli stupefacenti, a rubare, a prostituirsi. Oppure quei Freedom Riders del Nord avrebbero potuto accendere qualche fuoco sotto i palazzi delle amministrazioni comunali, dei sindacati e delle maggiori industrie del Nord per obbligarle a dare più posti di lavoro ai negri in modo da toglierli dalla disoccupazione e dalle liste degli enti assistenziali, condizione che genera la pigrizia nonché la decadenza e la progressiva inabitabilità dei ghetti. Tutto questo è l'assoluta verità. C'è forse bisogno di DIRLO? I liberali mi facevano più ribrezzo della vista di un serpente . E' vero, volevo strappare quell'aureola che adorna il capo del liberale che dedica così tanti dei suoi sforzi a far credere agli altri di agire nel loro interesse! I liberali del Nord hanno puntato per tanto tempo il loro dito accusatore contro il Sud riuscendo ad evitare le stesse accuse, che ora sono sconvolti quando qualcuno li denuncia al mondo come i peggiori ipocriti . Credo che la mia vita RISPECCHI in pieno i risultati di questa ipocrisia. Io non so nulla del Sud: sono una creazione dell'uomo bianco del Nord e del suo atteggiamento ipocrita nei confronti del negro . Al bianco del Sud Muhammad aveva detto quel che si meritava, ma di lui si può affermare una cosa: che è onesto. Mostra i denti al negro e gli dice in faccia che non accetterà mai una falsa integrazione. Si spinge anche più in là fino a dirgli che è sua intenzione di contendere al negro il passo palmo a palmo, persino contro la cosiddetta «integrazione simbolica». Il vantaggio di ciò è che il negro del Sud non si è mai fatto illusioni sull'opposizione che deve affrontare . Si può dire che, individualmente, parecchi bianchi del Sud hanno aiutato in modo paternalistico un buon numero di negri sul piano strettamente individuale. Quanto al bianco del Nord, è pieno di sorrisi e dalla sua bocca escono le espressioni più ingannevoli e tutte le menzogne possibili sull'eguaglianza e l'integrazione . Quando un giorno, in tutta l'America, si sentì toccare la spalla e voltatosi vide un negro che gli diceva: «Anch'io...», allora quel liberale del Nord si allontanò con lo stesso senso di colpa e di terrore di qualsiasi bianco del Sud . In realtà il più pericoloso e minaccioso negro dell'America è quello che è stato tenuto in gabbia nei ghetti del Nord da quella struttura di potere bianco che continua a parlare di democrazia mentre tiene i negri nascosti, invisibili . La parola «integrazione» fu inventata da un liberale del Nord . Mi pare che non abbia nessun significato. Infatti nel senso razziale in cui viene adoperata oggi, qualunque sia il tipo di integrazione cui ci si vuol riferire, come può essere definita con precisione? La verità è che l'integrazione è un'immagine, un'abile cortina fumogena di cui si servono i liberali del Nord per nascondere la vista dei veri bisogni del negro americano. In questi cinquanta stati dell'America del Nord, tutti razzisti o neorazzisti, la parola «integrazione» rende milioni di bianchi confusi e furibondi perché credono, del tutto a torto, che le masse dei negri vogliano vivere mescolate con loro. Questo è il caso soltanto di quel pugno di negri «pazzi per l'integrazione» . Sto parlando di quei negri «simbolicamente integrati» che si staccano dai loro fratelli poveri e reietti, dal loro odio per se stessi, che è poi la vera cosa che cercano di fuggire. Sto parlando di quei negri che non sembrano averne mai abbastanza di strusciarsi all'uomo bianco. Essi, questi «pochi eletti», hanno più dei bianchi la mentalità bianca e sono più nemici della loro gente di quanto non lo sia lo stesso uomo bianco . Diritti umani! Rispetto in quanto esseri UMANI! Questo è ciò che vogliono le masse negre d'America. Questo è il vero problema. Le masse negre non vogliono essere isolate come se fossero composte di lebbrosi; non vogliono esser murate nei bassifondi, nei ghetti, come animali, ma vogliono vivere in una società libera e aperta dove si possa camminare tutti, uomini e donne, a testa alta! Pochissimi bianchi si rendono conto che, oggi, a molti negri non piace di stare insieme con loro più di quanto non sia necessario. Questa immagine dell'integrazione, come viene comunemente interpretata, ha convinto milioni di bianchi sciocchi ed esaltati che i negri vogliano addirittura stare nello stesso letto con loro. Questa è una menzogna! Un'altra è quella per cui non si può neppure cercar di convincere il bianco medio che il maggior desiderio del negro non è di fare all'amore con una donna bianca. Come mi diceva recentemente un fratello negro: «Non hai mai sentito come puzzano quando sono bagnate?» Le masse negre preferiscono la compagnia dei loro simili . Persino i membri di quella borghesia snobistica, quando tornano a casa dai loro cocktail «integrati», la prima cosa che fanno e di levarsi le scarpe e parlare dei liberali bianchi con cui si trovavano poco tempo prima come di cani. Probabilmente i liberali bianchi fanno la stessa cosa: non son sicuro di questo perché non li frequento mai in privato, ma quando dico così della borghesia negra so il fatto mio . Dico le cose come sono: non dovete pensare che mi morda la lingua per non parlare se so qualcosa di vero. Quello che proprio ci vorrebbe in questo paese è uno scambio di verità nude e crude tra i negri e i bianchi in modo da purificare l'aria dai miracoli razziali, dai luoghi comuni e dalle menzogne con cui è stata avvelenata durante gli ultimi quattrocento anni . In molte comunità, specialmente in quelle piccole, i bianchi sono riusciti a presentarsi come benefattori animati da «buona volontà nei confronti dei nostri negri», ogni volta che un «negro locale» comincia a dir loro la verità e cioè che non sopporta più di essere escluso, trattato come un cittadino di seconda classe e privato dei più elementari diritti. E' allora che si sente dire quasi con tristezza da quei bianchi: «Disgraziatamente ora, a causa di ciò, i nostri bianchi di buona volontà cominciano a rivoltarsi contro i negri... E' spiacevole... si stavano facendo dei progressi... ma ora i rapporti di comunicazione tra le due razze si sono interrotti!» Ma di cosa stanno parlando? Non c'è mai stata nessuna COMUNICAZIONE. Fino a dopo la seconda guerra mondiale non c'era una sola comunità in tutti gli Stati Uniti in cui i bianchi sentissero dai leader locali negri la verità sulle condizioni in cui i loro confratelli erano costretti a vivere da quegli stessi bianchi . Volete qualche prova? Ebbene, perché quando i negri cominciarono a ribellarsi in tutta l'America, praticamente tutti i bianchi restarono sorpresi e addirittura allibiti? Non vorrei davvero comandare un esercito che fosse così male informato come lo è stato l'americano bianco nei confronti del negro . Questa è la situazione che ha consentito di trasformare lentamente il fermento fino a un punto addirittura rivoluzionario senza che i bianchi se ne rendessero conto. In ogni parte dell'America i leader locali negri, per poter rimanere tali, rassicuravano l'uomo bianco dicendogli che tutto andava bene, «tutto va bene padrone!» Quando il leader voleva qualcosa di più per la sua gente: «Ebbene, padrone, qualcuno dice che sì, insomma avremmo bisogno di una scuola un po' meglio, padrone». E se i negri del posto non avevano provocato nessun «disturbo», allora poteva darsi che il «benevolo» uomo bianco facesse un cenno di assenso e concedesse una scuola o alcuni posti di lavoro . I bianchi che fanno parte della struttura di potere in migliaia di comunità sparse per tutta l'America sanno benissimo che ho ragione! Sanno che quello che sto descrivendo è sempre stato il modello classico delle cosiddette «comunicazioni» tra i bianchi di buona volontà e i negri. E' stato un modello, questo, creato dai bianchi autoritari e tutti imbevuti del loro potere: la sua caratteristica struttura ha permesso loro di sentirsi «nobili» perché buttavano le briciole al negro invece di sentirsi colpevoli per l'esistenza, in ogni comunità, di meccanismi tutti volti al più crudele sfruttamento dei negri . Vorrei aggiungere qualcos'altro. Questo modello, questo «sistema» creato dal bianco di insegnare ai negri a nascondergli la verità dietro i sorrisi untuosi, i «sissignore, signor padrone», ad agitare con imbarazzo i piedi e grattarsi la testa, quel sistema ha fatto più danno all'americano bianco di un esercito invasore . Perché dico queste cose? Perché questa dimensione ha sempre incoraggiato l'americano bianco a nutrire nel profondo dell'animo la convinzione di essere superiore. In quante comunità certi bianchi che non hanno neppure terminato la scuola media guardano dall'alto in basso i leader negri locali che hanno lauree universitarie, sono presidi, insegnanti, dottori o professionisti in altri campi? Il sistema dell'uomo bianco è stato imposto, in tutto il mondo, alla gente di colore e questa è la ragione per cui laddove ci sono dei non bianchi i governi amministrati dai bianchi si trovano in difficoltà e in pericolo sempre crescenti . Guardiamo in faccia la verità, i fatti, e sia che l'uomo bianco sia in grado di farlo oppure no, di cogliere cioè le vere cause dei suoi problemi, ciò sarà l'elemento determinante per decidere se egli dovrà o no sopravvivere . Oggi assistiamo alla rivoluzione dei popoli di colore che, solo pochi anni fa, sarebbero rimasti impietriti dal terrore appena le potenze bianche avessero aggrottato le sopracciglia. Quello che è successo è che i negri, i meticci, i rossi e i gialli dopo centinaia di anni di sfruttamento, di imposta «inferiorità» e di maltrattamenti, si sono finalmente stancati di tenere sul collo il tallone del bianco . Come può sperare il governo americano di vendere «democrazia» e «fratellanza» ai popoli di colore? Basta che questi leggano e ascoltino che cosa succede tutti i giorni qui in America e vedano le fotografie, ciascuna più efficace di mille parole, dell'americano bianco che nega «democrazia» e «fratellanza» persino ai cittadini americani di pelle nera. La gente di colore di tutto il mondo sa come i negri americani hanno amato i bianchi, hanno lavorato per loro, li hanno assistiti e persino allevati. Hanno indossato l'uniforme e sono andati a morire tutte le volte che l'America ha avuto a che fare con dei nemici bianchi e non bianchi. Eppure un suddito così fedele e leale come questo deve sopportare che l'America bianca lo attacchi con le bombe, gli aizzi contro i cani poliziotti, usi contro di lui gli idranti antincendio, lo metta in prigione insieme a migliaia di suoi fratelli, lo bastoni a sangue e compia ai suoi danni ogni specie di delitti . E' chiaro che queste cose, ben note e tutti i giorni rievocate al mondo della gente di colore, costituiscono un elemento determinante nel provocare l'incendio delle automobili di ambasciatori, le sassaiole, le dimostrazioni e le devastazioni di ambasciate e consolati, le grida di «uomo bianco vattene a casa!», gli attacchi contro missionari cristiani bianchi, i lanci di bombe e gli insulti alla bandiera yankee . Apparirà ora chiaro perché ho affermato che l'odioso complesso di superiorità dell'americano bianco lo ha danneggiato di più di un esercito invasore . Il negro americano dovrebbe concentrare tutti i suoi sforzi nell'organizzazione di un suo commercio e nella costruzione di case degne di uomini civili. Come hanno fatto altri gruppi etnici, consentiamo anche ai negri, laddove e quando è possibile, di comprare solo nei negozi gestiti dai loro fratelli, di assumere gente di pelle nera e cominciare così a creare per la nostra razza la possibilità di diventare indipendente. E' questo l'unico modo che ha il negro americano per poter ottenere rispetto. Infatti una cosa che il bianco non potrà mai dargli sarà proprio il rispetto per se stesso. Il negro non potrà mai diventare indipendente ed essere riconosciuto come un essere umano veramente uguale agli altri finché non abbia fatto anche lui quello che gli altri hanno fatto e finché non sia in grado di aiutarsi da sé . Per esempio, i negri dei ghetti devono dedicarsi a correggere i loro difetti materiali, morali e spirituali, dare inizio a un loro programma di lotta contro l'alcolismo, l'uso degli stupefacenti e la prostituzione. Il negro americano deve elevare il suo senso dei valori . Solo poche migliaia di negri, davvero un numero assai ristretto, partecipano in qualche modo dell'integrazione. Di nuovo si tratta di quei pochi borghesi che si affrettano a sperperare i loro mezzi limitati negli alberghi di lusso, negli affollati locali notturni e nei costosi ed eleganti ristoranti riservati all'uomo bianco. Al contrario dei clienti abituali di questi locali, i negri che vedete là, o almeno una gran parte di loro, non possono permettersi quelle spese. Che cosa spinge alcuni di questi negri, talmente carichi di debiti da esser ogni mese sull'orlo del disastro, ad andare a cena in centro, sorridendo a qualche capocameriere che ha più soldi di loro? Questi borghesi che si coprono le ginocchia con tovaglioli grandi come tovaglie e ordinano quaglie e stufato di lumache, mentre si sa bene che ai negri non piacciono le lumache, sono una prova vivente del fatto di essere integrati . Se si vogliono toccare con mano i veri risultati di questa cosiddetta integrazione si deve giungere alla diffusione dei matrimoni misti . Sono d'accordo CON i bianchi del Sud quando dicono che non si può avere la cosiddetta integrazione, almeno non per lungo tempo, senza un aumento dei matrimoni misti. Ma quale vantaggio possono portare? Guardiamo in faccia la realtà. In un mondo in cui l'ostilità al colore della pelle è tanto forte, cosa credono di fare uomini e donne bianchi e negri a cercarsi un coniuge dell'altra razza? Certamente i bianchi hanno dimostrato abbastanza ostilità alla presenza di negri nelle loro famiglie e in quelle dei vicini e, se si considera il modo in cui reagiscono i negri oggi, la coppia mista arriva probabilmente ad accorgersi che le famiglie e le comunità negre le sono ancora più ostili dei bianchi . Cos'altro dovranno aspettarsi coloro che contraggono dei matrimoni integrati se non di essere disprezzati, malvisti e considerati come dei «falliti» in qualsiasi posto in cui intendano vivere? Il risultato è che, da un punto di vista sociale, l'integrazione non va bene per nessuno perché, alla fine, significherebbe la distruzione della razza bianca... e della razza negra . Il modo in cui l'uomo bianco ha «integrato» le donne negre ha già cambiato la pelle e le caratteristiche della nostra razza in America. Cosa dimostrano quei «negri» dalla pelle «più bianca» di molti degli stessi «bianchi»? Mi dicono che oggi, in America, ci sono da due a cinque milioni di «negri bianchi» i quali «stanno passando» nella società bianca. Immaginate la loro tortura! Vivere nel continuo timore che qualche negro loro conoscente possa individuarli e svelare il loro segreto . Immaginate vivere continuamente nella menzogna, sentir parlare il marito, la moglie o i figli bianchi di «quei niggers»! Non credo che in America sia concepibile contro i bianchi un risentimento maggiore di quello che ho potuto riscontrare in alcuni casi, ma vi dirò che, senza dubbio, le più violente diatribe di questo genere le ho sentite da negri che «stavano passando», che vivevano come i bianchi, tra i bianchi, tutti i giorni costretti a sentire quello che dicevano dei negri, cose che un negro riconosciuto non accetterebbe mai di ascoltare. Se ci fosse una guerra razziale, questi negri che «stanno passando» diventerebbero le più preziose spie ed alleati nostri all'interno della società bianca . In Europa, i figli dei soldati negri, ora diventati giovanotti e ragazze che hanno cominciato a sposarsi e a metter su famiglia, hanno forse provato, con le esperienze della loro vita, che hanno lasciato incancellabili cicatrici, che l'integrazione è un fatto positivo? Se si tratta di qualche gruppo etnico bianco, allora l'integrazione è chiamata «assimilazione» e coloro che vogliono difendere l'eredità del loro passato la combattono con le unghie e coi denti. Pensate un po' come gli irlandesi cacciarono fuori dalla loro patria gli inglesi perché sapevano che prima o poi li avrebbero assimilati. Guardate con quale fanatismo si batte la minoranza francese del Canada per conservare la propria identità nazionale! Il più tragico risultato di una identità etnica mescolata e perciò diluita e indebolita è stato quello subito da un gruppo etnico bianco, gli ebrei tedeschi . Essi avevano contribuito al benessere e alla grandezza della Germania molto più di quanto non avessero fatto i tedeschi; metà dei premi Nobel assegnati alla Germania erano andati agli ebrei che erano alla testa di ogni movimento culturale, pubblicavano il più grande quotidiano, avevano i maggiori artisti, poeti, compositori, scenografi. Eppure fecero l'errore fatale di lasciarsi assimilare . Nel periodo compreso tra la prima guerra mondiale e l'ascesa al potere di Hitler, gli ebrei tedeschi avevano in sempre maggior misura contratto matrimoni misti; molti avevano cambiato nome e si erano convertiti ad altre religioni. Essi addormentarono e recisero le loro ricche radici etniche, religiose e culturali fino a considerarsi dei veri e propri tedeschi . Poi Hitler passò dalle birrerie al potere supremo, con le sue teorie epidermiche sulla «razza ariana padrona» e là a portata di mano, c'era come capro espiatorio l'ebreo che si era indebolito con le sue stesse mani illudendosi di poter essere considerato un tedesco . La cosa più misteriosa è che questi ebrei con tutta la loro intelligenza e tutto il loro potere in ogni settore della vita tedesca, rimasero come ipnotizzati a guardare il graduale formarsi di quel piano mostruoso che contemplava la loro distruzione . Si erano autoillusi a tal punto che, non molto tempo dopo, quando venivano avviati verso le camere a gas, parecchi di loro ancora dicevano che tutto ciò non poteva essere vero . Se Hitler avesse conquistato il mondo come aveva intenzione di fare, cosa sarebbe successo a tutti gli ebrei? E' un pensiero terrorizzante che gli ebrei superstiti hanno ancora oggi . Essi non dimenticheranno mai quella lezione; il servizio di spionaggio di Israele sorveglia attentamente le organizzazioni neonaziste e, subito dopo la guerra, il gruppo Haganah cercò di accelerare i negoziati da lungo tempo intrapresi con la Gran Bretagna. Nello stesso tempo, la banda Stern sparava contro gli inglesi i quali alla fine cedettero e aiutarono gli ebrei a usurpare la Palestina agli arabi, legittimi possessori. Poi fu formato Israele, la nazione ebraica che tutti nel mondo rispettano e capiscono . Non molto tempo fa al negro americano fu somministrata un'altra dose di quella cosiddetta integrazione, che in realtà serve solo a indebolirlo, ingannarlo e rammollirlo. Si trattò di quella che io chiamo la «farsa su Washington» . L'idea originaria di una massa di negri che marciano su Washington era venuta a A. Philip Randolph della Società di mutuo soccorso del personale dei vagoni-letto. Per vent'anni o più l'idea di una marcia su Washington aveva attirato parecchi negri e, tutto all'improvviso e spontaneamente, attaccò . Negri del Sud rurale in blue-jeans, negri provenienti dalle piccole città, dai ghetti del Nord e persino migliaia di negri «alla zio Tom», cominciarono a parlare della «Marcia» . Dai tempi di Joe Louis non c'era stato più niente che avesse galvanizzato in quel modo le masse negre. Si parlava di andare a Washington con ogni mezzo: su vecchie macchine traballanti, con gli autobus, con l'autostop oppure, se fosse stato necessario, a piedi. Si vedevano già turbe di migliaia di fratelli negri che convergevano su Washington, si accampavano per le strade, sulle piste dell'aeroporto o davanti agli edifici governativi chiedendo al Congresso e alla Casa Bianca di agire concretamente per far applicare i diritti civili . L'amarezza era di tutti: degli attivisti, dei disorganizzati e privi di guida. In gran parte si trattò di giovani negri, decisi a sfidare qualunque conseguenza, stanchi di sentirsi il tallone dell'uomo bianco sul collo . I bianchi avevano molte ragioni per preoccuparsi. La scintilla adatta avrebbe potuto, per qualche imprevedibile reazione emotiva, fare scoppiare una rivolta negra. Il governo sapeva che migliaia di negri furibondi e tumultuanti non soltanto avrebbero potuto devastare completamente Washington, ma provocare addirittura un'eruzione . Allora la Casa Bianca si affrettò a invitare i più importanti leader negri del Movimento per i diritti civili ai quali fu chiesto di fermare la Marcia in questione. Essi risposero sinceramente di non esserne stati gli iniziatori, di non avere alcun controllo su quell'idea che era nazionale, spontanea, disorganizzata e senza capi. In altre parole si trattava di un barile di polvere da sparo . Chiunque voglia studiare il modo in cui l'integrazione può indebolire il movimento negro, trova in questo caso un esempio prezioso . Preceduta da una fanfara di pubblicità internazionale, la Casa Bianca «approvò», «si fece mallevadrice» e «salutò con calorosa simpatia» la Marcia su Washington. A quel tempo le grandi organizzazioni per i diritti civili stavano litigando pubblicamente riguardo alla questione delle donazioni e il «New York Times» aveva rivelato i retroscena della faccenda . L'Associazione nazionale per l'avanzamento della gente di colore (N.A.A.C.P.) aveva accusato altre organizzazioni di essersi servite di raduni e riunioni massicciamente pubblicizzati per accaparrarsi la parte più consistente delle donazioni fatte ai vari gruppi in lotta per i diritti civili, mentre essa, che pure si occupava di trovare i fondi per le cauzioni e l'assistenza legale ai dimostranti imprigionati, era rimasta indietro . Fu come al cinematografo. La scena successiva vide «i sei grandi», i leader negri del Movimento per i diritti civili, riuniti a New York insieme al presidente bianco di una grossa organizzazione filantropica. Fu detto loro che quella pubblica disputa riguardo alla raccolta di fondi li danneggiava di fronte al pubblico e fu donata una somma di ottocentomila dollari alla segreteria della United Civil Rights Leadership che fu prontamente fondata dai «sei grandi» . Che cosa aveva prodotto questa improvvisa unità tra i negri? Il denaro dell'uomo bianco. Qual era la contropartita chiesta in cambio di tale denaro? La possibilità di dare consigli. Non solo fu fatta quella donazione, ma si promise un'altra somma della stessa entità da versarsi dopo la Marcia... naturalmente se tutto fosse andato bene . La Marcia su Washington che originariamente era stata concepita «con ira» stava per essere trasformata in qualcosa del tutto diverso . I «sei grandi» furono presentati da una massiccia campagna di stampa internazionale come i leader della Marcia su Washington . Ciò apparve quasi miracoloso a quei negri di provincia che si erano entusiasmati all'idea e che probabilmente pensarono che i famosi leader li approvassero e si fossero messi dalla loro parte . Successivamente furono invitati a unirsi alla marcia quattro grossi personaggi bianchi: un cattolico, un ebreo, un protestante e un dirigente sindacale . Nella massiccia campagna di stampa si faceva discretamente notare che i «dieci grandi» avrebbero «sorvegliato» l'atmosfera in cui si sarebbe svolta la marcia su Washington e la «direzione» che avrebbe preso . I quattro personaggi bianchi cominciarono a dare la loro approvazione. Si sparse ben presto la voce tra i cosiddetti «liberali» cattolici, ebrei, protestanti, e nell'ambiente sindacale, che fosse «democratico» aderire alla Marcia negra e ben presto i bianchi, che prima erano assai preoccupati, cominciarono ad annunciare la loro partecipazione . Fu come se una scarica elettrica fosse passata attraverso le file della borghesia negra, proprio dei membri di quella cosiddetta classe media e classe media superiore che in un primo tempo avevano deplorato l'idea di una Marcia su Washington quando ne parlavano i negri delle classi inferiori . Ma ora avrebbero marciato anche i bianchi . Qualcuno di quei negri cenciosi, disoccupati e affamati rischiò di essere calpestato perché gli altri, quelli «pazzi per l'integrazione», si precipitarono a corsa l'uno sull'altro, alla ricerca dei comitati a cui aderire. Improvvisamente la Marcia dei «negri arrabbiati» era stata trasformata in un avvenimento mondano, qualcosa di molto simile al gran Derby del Kentucky . Per il cacciatore di prestigio diventò un simbolo di status ed anche oggi si sente domandare: «Ma tu c'eri?» Era diventata una merenda sull'erba, una gita domenicale . La mattina della Marcia le macchine traballanti dei negri affamati, polverosi e coperti di sudore che venivano dai paesini furono letteralmente sommerse dalla massa di aerei a reazione, vagoni ferroviari ed autobus con l'aria condizionata. Quella che originariamente era stata concepita come una furiosa ondata di protesta fu, come disse giustamente un giornale inglese, «una placida inondazione» . Negri e bianchi si trovarono integrati come il sale e il pepe . Nessun aspetto logistico restò incontrollato . Ai partecipanti alla Marcia fu data istruzione di non portare cartelli, che venivano invece distribuiti sul posto, fu detto loro di cantare un sola canzone, "We Shall Overcome"; fu spiegato con la massima precisione COME, QUANDO e DOVE avrebbero dovuto arrivare, DOVE dovevano riunirsi quando avrebbe avuto inizio la Marcia e qual era L'ITINERARIO. Furono sistemati con criteri strategici i posti di pronto soccorso: si sapeva persino dove si doveva SVENIRE! Anch'io ci andai, a vedere quel circo equestre. Chi ha mai sentito dire che dei rivoluzionari arrabbiati possano cantare tutti insieme "We Shall Overcome... Some Day..." mentre si strusciano e procedono a braccetto proprio con quelli contro cui dovrebbero ribellarsi? Chi ha mai sentito dire che dei rivoluzionari arrabbiati possano ballare a piedi nudi nei prati del parco insieme ai loro oppressori, cantando i "gospels" al suono delle chitarre, o ascoltare discorsi edificanti? Le masse negre americane, allora come ora, vivevano in un incubo . Questi «rivoluzionari arrabbiati» obbedirono persino all'ultima istruzione che era stata loro data e cioè di andarsene presto . Di tutte quelle migliaia e migliaia di «rivoluzionari arrabbiati» ne rimasero così pochi che la mattina successiva l'Associazione albergatori di Washington annunciò una grossa perdita per tutte le camere che erano rimaste vuote . Hollywood non avrebbe potuto far meglio . Da una successiva inchiesta fatta dalla stampa risultò che dei senatori e rappresentanti al Congresso contrari alle leggi sui diritti civili neanche uno aveva cambiato opinione. Ma cosa ci si aspettava? Come avrebbe potuto un picnic integrato della durata di un giorno influenzare questi rappresentanti di un pregiudizio così profondamente radicato nell'animo dell'americano bianco da quattrocento anni? Proprio il fatto che milioni di bianchi e di negri abbiano potuto credere in questa farsa monumentale costituisce un altro esempio di quanto, qui negli Stati Uniti, si preferisca muoversi alla superficie, inventare delle forme di evasione invece di affrontare con coraggio i problemi . La Marcia su Washington ebbe come unico risultato di far cullare i negri per un po' nelle loro illusioni, ma era inevitabile che le masse negre si rendessero ben presto conto di essere state abilmente giocate dall'uomo bianco. Era anche inevitabile che l'ira dei negri si riaccendesse, più acuta che mai, e che cominciasse ad esplodere nelle varie città, in quella «lunga, calda estate» del 1964 di crisi razziali mai viste prima . Circa un mese prima della «farsa su Washington», il «New York Times», basandosi su un'inchiesta fatta nei campus dei college e delle università, mi dava secondo nella lista degli oratori più richiesti dal mondo accademico. Il primo era il senatore Barry Goldwater . Credo che una simile popolarità mi derivasse dalla pubblicazione del libro di Lincoln "The Black Muslims" in America che era diventato una lettura obbligatoria in numerosi corsi universitari. Inoltre c'era stata una lunga imparziale intervista fattami dalla rivista «Playboy», la più venduta nei campus. Così molti studenti, che avevano prima studiato il libro e poi letto l'intervista, volevano sentire e vedere in carne e ossa questo cosiddetto «focoso Black Muslim» . Quando fu pubblicata l'inchiesta del «New York Times», io avevo parlato in più di cinquanta college e università come Brown, Harvard, Yale, Columbia e Rutgers, alla Ivy League, ed altre in tutto il paese. Ora ho inviti da Cornell, Princeton e da un'altra decina di istituzioni accademiche; ci andrò non appena ci saremo messi d'accordo sulle date. Per quanto riguarda i college negri, allora avevo già parlato all'università di Atlanta, al Clark College sempre ad Atlanta, alla Howard University di Washington e in parecchi altri con un minor numero di studenti . Fatta eccezione per il pubblico composto esclusivamente da negri, preferivo parlare a studenti universitari. Qualche volta i dibattiti duravano da due a quattro ore. Provocazioni, critiche e argomenti contraddittori mi venivano rivolti da studenti "undergraduate" e "graduate" e dai loro professori, tutti di solito obiettivi, vivaci, e interessati alla discussione. I dibattiti nei college erano sempre entusiasmanti e contribuivano a migliorare le mie conoscenze. Non ricordo di uno solo che non mi offrisse nuovi modi per migliorare il mio linguaggio e per difendere gli insegnamenti di Muhammad. Qualche volta, durante un dibattito o in un gruppo di discussione di fronte a un pubblico numerosissimo, mi capitava di trovare cinque o sei studenti e due o tre professori, presidi delle facoltà di sociologia, psicologia, filosofia, storia e religione, tutti pronti a misurarsi contro di me ciascuno nel suo campo . All'inizio, avevo l'abitudine di dire ai miei compagni di discussione: «Signori, ho fatto l'ottava classe a Mason nel Michigan. La mia scuola media superiore è stata il ghetto negro di Roxbury nel Massachusetts; ho compiuto gli studi universitari nelle strade di Harlem e in prigione ho preso la laurea; Muhammad mi ha insegnato a non aver paura di nessuno che cerchi di difendere o giustificare il passato criminale dell'uomo bianco nei confronti della gente di colore, specialmente quello che il bianco americano ha fatto contro il negro qui in questo paese» Era come essere su di un campo di battaglia, su cui però fischiavano pallottole intellettuali e filosofiche. Il contrasto delle idee era entusiasmante e giunsi al punto di indovinare l'umore del mio pubblico. Ho parlato con altri oratori e tutti erano d'accordo nel dire che tale dote è innata per coloro che hanno il "mass appeal", cioè il dono di interessare e commuovere la gente. E' come un radar psichico, come il dottore che, prendendo il polso dell'ammalato, sente le pulsazioni del suo cuore. Quando mi trovo di fronte al pubblico anch'io sento la reazione a quello che sto dicendo . Credo che potrei parlare con gli occhi bendati e dopo cinque minuti essere in grado di dire se quello che mi sta davanti è un pubblico interamente composto di negri o di bianchi. C'è una differenza fondamentale tra i due perché un pubblico negro è più caldo. C'è in esso, almeno per me quasi un ritmo musicale, anche se reagisce silenziosamente . Il contraddittorio è un'altra forma di contatto col pubblico durante il quale, anche se avessi gli occhi bendati, sarei in grado di dire l'origine etnica di ciascuna domanda. Con qualunque pubblico, quello che più facilmente sono in grado di riconoscere è l'ebreo e, in un pubblico integrato, il borghese negro . La chiave per comprendere l'origine delle domande fatte dagli ebrei è che di tutti gli altri gruppi etnici è quello che esprime i suoi pensieri e le sue preoccupazioni nel modo più soggettivo, oltre ad essere di solito ipersensibile. Voglio dire che non si può neppure pronunciare la parola «ebreo» senza che lui vi accusi subito di antisemitismo. Non importa a quale categoria professionale appartenga, se sia dottore, mercante, donna di casa o studente: prima di tutto lui, o lei, pensa da ebreo . Capisco l'ipersensibilità degli ebrei. Per duemila anni si sono scatenati contro di loro pregiudizi religiosi e personali altrettanto forti di quelli che i bianchi nutrono nei confronti della gente di colore. Però so che, sia che se ne rendano conto o meno, i cinque milioni e mezzo di ebrei americani, due milioni dei quali sono concentrati nella sola New York, considerano la faccenda in modo abbastanza pratico: se tutto il fanatismo e l'odio si scaricano sui negri la pressione nei loro confronti è minore . A dimostrazione di quanto sto dicendo ricorderò che le ditte più grosse che operano nei ghetti negri sono di proprietà degli ebrei. Ogni sera i proprietari di quei negozi tornano a casa con denaro della comunità negra e ciò contribuisce a mantenere il ghetto nella miseria. Tuttavia non ricordo di avere esposto questa innegabile verità in pubblico senza che qualche ebreo non reagisse violentemente accusandomi di antisemitismo. Ma perché? Scommetto di aver risposto ad almeno cinquecento di quei miei contraddittori ebrei che essi, come gruppo, non si contenterebbero di star lì a guardare che qualche altra minoranza succhiasse sistematicamente le risorse della loro comunità, senza reagire in qualche modo. Ho sempre detto che esporre la nuda verità non vuol dire essere antisemiti, ma soltanto che sono contrario allo sfruttamento . Il liberale bianco resterà un po' contrariato nell'apprendere che mai da un pubblico negro ho sentito una sola domanda che suonasse a difesa dell'uomo bianco. Ciò vale anche per i casi in cui erano presenti tra il pubblico molti membri della «borghesia negra», di quei «pazzi per l'integrazione». Tutti ammettevano il passato criminale dell'uomo bianco: anche se non conoscono i particolari che so io, hanno un'idea precisa del quadro complessivo . A questo punto vorrei aggiungere una considerazione piuttosto significativa. Proprio questa stessa borghesia negra che tra gli altri fratelli di colore non si esporrebbe mai al ridicolo per cercare di difendere l'uomo bianco, guardatela un po' come si comporta quando il pubblico è misto e quando sa che il suo amato «Mister Charlie» è lì vicino a sentire. E' in quell'occasione che dovreste sentire come quei negri mi attaccano e cercano di giustificare o perdonare i crimini dell'uomo bianco. E' questa gente che, più di ogni altro, mi spinge quasi al punto di infrangere uno dei miei fondamentali principi, cioè di non abbandonarmi mai troppo alle reazioni emotive e all'ira. Eppure qualche volta mi è venuta voglia di saltar giù dalla tribuna e aggredire FISICAMENTE qualcuno di questi strumenti dell'uomo bianco, di questi pappagalli inebetiti, di questi fantocci senza cervello. Durante i dibattiti nei college mi servo di solito di un'obiezione di questo genere: «Siete uno studente di legge, o un avvocato, non è vero?» Possono rispondere solo sì o no . «Credevo che lo foste, - replico io, - perché difendete quel criminale dell'uomo bianco con più accanimento di quanto lui, affetto com'è da un profondo senso di colpa, non difenda se stesso» . Non dimenticherò mai un professore negro di una certa università «simbolicamente integrata». Mi fece così arrabbiare che mi andò il sangue alla testa. Mentre i nostri ventidue milioni di negri privi di istruzione hanno bisogno dell'aiuto di chiunque abbia un po' di talento, quello lì faceva la figura, tra i suoi «colleghi» bianchi, di una mosca nel latte e per di più cercava di MANGIARMI. Blaterava definendomi un «demagogo che voleva dividere i bianchi dai negri», un «razzista alla rovescia». Dopo essermi spremuto il cervello per trovare il modo di infilzare quello stolto, alzai la mano e lo interruppi: «Sapete come i razzisti bianchi chiamano un negro laureato?» Lui mi rispose pressappoco così: «Non credo di esserne al corrente» . Il tono era quello di uno di quei negri che parlano in modo ultraforbito. Allora io gli buttai in faccia la parola a voce alta: «NIGGER!» Riferivo a Muhammad che le conferenze e i dibattiti nei college e nelle università erano utili per la Nazione dell'Islam perché era in quelle istituzioni che venivano istruite e sviluppate le menti migliori dei diabolici uomini bianchi. Eppure, per qualche motivo che non potei comprendere fino a molto tempo dopo, Muhammad non era molto favorevole a quella mia attività . In seguito avrei saputo dai suoi stessi figli che Muhammad era invidioso perché si sentiva incapace di parlare di fronte a un pubblico universitario. Malgrado ciò, a quest'epoca, per conto del Messaggero, venivo piano piano scoprendo che quegli uditori così intelligenti erano straordinariamente aperti e obiettivi nel ricevere le dure, nude verità che dicevo loro: «In infinite occasioni, la gente di razza negra, rossa, gialla ha potuto constatare che l'uomo bianco non è in grado di comprendere le più semplici note spirituali. Sembra sordo di fronte al suono globale dell'orchestra di tutta l'umanità. Ogni giorno, sulle prime pagine dei suoi giornali, ci viene descritto il mondo da lui creato . «L'ira e il giudizio di Dio stanno per cadere su questo uomo bianco che inciampa e cammina alla cieca nell'oscurità della sua perfidia . «Oggi restano soltanto due gigantesche nazioni bianche, l'America e la Russia, ciascuna delle quali ha il suo stuolo di satelliti infidi e titubanti. L'America controlla la maggior parte di quello che resta del mondo bianco, mentre i francesi, i belgi, gli olandesi, i portoghesi, gli spagnoli ed altre nazioni bianche sono gradatamente divenuti più deboli nella misura in cui gli asiatici e gli africani hanno potuto recuperare i loro territori . «L'America finanzia i resti del prestigio e della forza di quella che un tempo fu la potentissima Gran Bretagna. Il sole è tramontato per sempre sul colonialista col casco e il monocolo, occupato a centellinare il tè in compagnia di una delicata lady nelle colonie sistematicamente sfruttate e spogliate di qualsiasi risorsa. Oggi l'inutile monarchia e nobiltà britanniche sopravvivono con i soldi richiesti ai turisti per poter visitare i loro aviti castelli e con il ricavato della vendita delle loro memorie, autografi, profumi, titoli e persino di se stessi . «Il mondo intero sa benissimo che l'uomo bianco non può sopravvivere a un'altra guerra. Se uno dei due giganti dovesse premere il bottone, la civiltà bianca scomparirebbe! «Ancora una volta ci accorgiamo che non sono le ideologie, ma la razza e il colore a tenere uniti gli esseri umani. E' una pura coincidenza a far sì che mentre i comunisti cinesi visitano i paesi dell'Africa e dell'Asia, Russia e America si stanno avvicinando l'una all'altra sempre di più? «La storia dell'uomo bianco collettivo non ha lasciato altra alternativa ai popoli di colore che quella di avvicinarsi sempre più l'uno all'altro. E' caratteristico, come sempre, che al diabolico uomo bianco manchi la forza morale e il coraggio di liberarsi della sua arroganza. Oggi vuole "comprarsi" amici fra la gente di colore e cerca di nascondere il suo passato. Non ha l'umiltà per ammettere le sue colpe, per espiare i suoi delitti: ha avvilito e distorto il semplice messaggio di amore che il profeta Gesù disse e insegnò durante la sua vita» . Il pubblico sembrava sorpreso quando parlavo di Gesù ed allora spiegavo che noi Muslims crediamo nel profeta Gesù il quale, insieme a Mosè e Maometto, è uno dei tre profeti più importanti dell'Islam. A Gerusalemme ci sono dei santuari musulmani dedicati al profeta Gesù. Spiegavo ai miei uditori che era nostra convinzione che il cristianesimo non avesse attuato gli insegnamenti di Cristo e, a questo proposito, citavo sempre la distinzione che, di fronte a un pubblico africano, aveva fatto anche Billy Graham: «Credo in Cristo, ma non nel cristianesimo» . Non dimenticherò mai quella piccola studentessa bionda di un college della Nuova Inghilterra dove ero stato a parlare. Doveva essere venuta da New York con l'aereo successivo a quello che presi io. Trovò il ristorante Muslim ad Harlem e capitò che io fossi proprio lì quando lei entrava. Il suo modo di vestire e di camminare, il suo accento rivelavano chiaramente l'educazione e la ricchezza tipici del profondo Sud. Parlando al college che lei frequentava avevo detto che il padrone di schiavi bianco, prima della guerra civile, aveva ingannato diabolicamente anche le sue donne convincendole che erano «troppo pure» per i suoi bassi «istinti animaleschi ». In questo modo, con questa «nobile» menzogna, aveva indotto la propria moglie a tollerare le sue ovvie preferenze per le negre «animalesche» e così quella «delicata padrona» stava lì seduta a guardare i piccoli bastardi messi al mondo con le schiave della piantagione da suo padre, da suo marito, dai suoi fratelli e dai suoi figli. Avevo detto di fronte al pubblico di quel college che nel senso di colpa degli americani bianchi c'era la consapevolezza che, odiando i negri, essi odiavano, rigettavano e negavano il loro stesso sangue . Non ho mai visto nessuno più colpito dalle mie parole di questa giovane studentessa. Mi chiese con fare concitato: «Ma siete proprio convinto che non ci siano dei bianchi BUONI?» Non volevo ferirla e perciò le risposi: «Signorina, io guardo le AZIONI della gente e non le parole» . «Cosa posso FARE io?» esclamò. «Niente», replicai. Lei scoppiò in lacrime e corse fuori sulla Lenox Avenue a cercare un taxi . Ogni volta che andavo a trovarlo a Chicago o a Phoenix, Muhammad mi incoraggiava con le sue espressioni di fiducia e di approvazione. Quando andò in pellegrinaggio alla città santa della Mecca, mi lasciò a capo della Nazione dell'Islam . Credevo così fermamente in lui che, se fosse stato necessario, gli avrei fatto senza esitazione scudo del mio corpo . Una coincidenza mi convinse che c'era qualcosa ancora più grande della mia devozione a Muhammad: lo sbigottimento di fronte alla ragione che avevo per venerarlo . Ero stato invitato a parlare a un seminario organizzato dalla facoltà di scienze giuridiche della Harvard University. Mi capitò di guardare attraverso una finestra e subito mi resi conto che stavo guardando in direzione dell'edificio che, insieme alla mia banda di scassinatori, avevo scelto come quartier generale . Tutto mi tornò davanti agli occhi sommergendomi come un'immensa ondata; mi balenarono davanti innumerevoli scene della mia vita così depravata di un tempo, di quando vivevo e pensavo come un animale . Cominciai allora a rendermi conto fino a che punto la religione dell'Islam era penetrata in me per salvarmi dalla condizione che ormai mi era inevitabile, e cioè quella di un criminale inchiodato nella bara, oppure, se fossi stato ancora vivo, di un detenuto di trentasette anni, indurito, amareggiato, chiuso in un penitenziario o in qualche manicomio criminale. Se mi fosse andata bene, sarei stato un vecchio Rosso di Detroit, sulla via della decadenza, che trafficava e rubava abbastanza per procurarsi il cibo e gli stupefacenti e che sarebbe caduto preda di più giovani e ambiziosi trafficanti, come era stato prima lui . Invece Allah mi aveva consentito di conoscere la religione dell'Islam che mi aveva messo in condizione di tirarmi fuori dalla melma e dai miasmi di quel mondo marcio . Ero là, invitato a fare una conferenza ad Harvard . Mentre pensavo a queste cose mi tornò a mente una leggenda che avevo letto in prigione quando avevo preso interesse alla mitologia greca. Era la leggenda di Icaro. Ve la ricordate? Il padre di Icaro aveva costruito un paio di ali tenute insieme con la cera. «Non volare troppo in alto con queste ali», aveva detto. Ma Icaro, volteggiando di qui e di là, era così lieto che cominciò a credere che se volava era solo per merito suo. Volò sempre più in alto, sempre più in alto, finché il calore del sole non sciolse la cera che teneva insieme le ali. E così Icaro cadde al suolo . Là, in piedi, vicino a quella finestra della Harvard University, promisi in cuor mio ad Allah che non avrei mai dimenticato che le ali che avevo, quali che esse fossero, mi erano state date dalla religione dell'Islam. E non l'ho mai dimenticato.. . Capitolo sedicesimo . FUORI . Nel 1961, le condizioni di Muhammad peggiorarono improvvisamente. Quando andavo a fargli visita e parlava con me o con altri, veniva preso da attacchi di tosse sempre più convulsa finché tremava con tutto il corpo e si contorceva al punto che era difficile sopportarne la vista. Poi Muhammad doveva mettersi a letto . Finché fu possibile, noi dirigenti della Nazione dell'Islam e i membri della sua famiglia cercammo di tenere la cosa segreta . Alcuni altri Muslims si accorsero delle condizioni di Muhammad quando, all'ultimo momento, si dovette annullare la sua partecipazione personale ad alcuni grandi raduni che erano stati annunciati da tempo. I Muslims sapevano che solo ragioni veramente serie impedivano al Messaggero di mantenere la sua promessa di partecipare a quei raduni. Si dovette rispondere alle loro domande e così, ben presto, la notizia della malattia del nostro leader si sparse per tutta la Nazione dell'Islam . Chi non è Muslim non può immaginarsi che cosa avrebbe voluto dire per i suoi seguaci la scomparsa di Muhammad. Per noi egli era la Nazione dell'Islam, e il legame che ci teneva insieme nella migliore organizzazione che i negri americani avessero mai avuto era la devozione di tutti per Muhammad, considerato come il riformatore morale, intellettuale e spirituale dell'America negra . In altre parole, noi Muslims ci consideravamo degli esempi morali e spirituali per gli altri negri americani perché seguivamo l'esempio di Muhammad. Le comunità negre discutevano rispettosamente le misure di sospensione che venivano prese nei confronti dei Muslims che mentivano, giocavano d'azzardo, imbrogliavano o fumavano. Per reati di immoralità, quali la fornicazione e l'adulterio, Muhammad proclamava lui stesso sentenze da uno a cinque anni di «isolamento», quando non prescriveva addirittura l'espulsione dalla Nazione dell'Islam. I suoi collaboratori più in alto nella gerarchia erano puniti con più rigore dei più recenti proseliti perché, come egli diceva, tradivano lui e la sua posizione di leader e di esempio di tutti gli altri Muslims. Per ogni membro della Nazione dell'Islam impegnato nel respingere le tentazioni dell'immoralità, Muhammad era la luce. Tutti erano convinti che, senza di lui, saremmo rimasti nelle tenebre . Come ho detto prima, i medici raccomandarono un clima secco per migliorare le condizioni di Muhammad. Immediatamente si misero gli occhi, a Phoenix, sulla casa del sassofonista Louis Jordan che fu acquistata con i fondi della Nazione dell'Islam. Il Messaggero si trasferì subito là . Soltanto se invece di uno avessi potuto dividermi in due, mi sarebbe stato possibile lavorare di più al servizio della Nazione dell'Islam. Avevo tutte le soddisfazioni che volevo perché col mio contributo si era realizzato un tale progresso e raggiunta una tale rinomanza nazionale che nessuno avrebbe potuto accusarci di mentire quando definivamo Muhammad il negro più potente d'America. Avevo aiutato il Messaggero e gli altri suoi pastori a rivoluzionare il modo di pensare del negro americano, ad aprirgli gli occhi perché non considerasse più l'uomo bianco con lo stesso timore e abbietta adorazione. Avevo preso parte alla diffusione delle verità che avevano tanto contribuito a liberare il negro americano dal miraggio che la razza bianca fosse formata di esseri «superiori»; ero in parte responsabile di avere introdotto un elemento nuovo nel profondo dell'anima negra . Se c'era qualcosa che in certo modo mi deludeva era la convinzione che se avessimo AGITO di più, la nostra Nazione dell'Islam sarebbe potuta diventare una forza ancora più grande nel quadro della lotta dei negri americani. Con questo voglio dire che ero convinto della necessità di modificare o addirittura di abbandonare la nostra politica del non impegno . Ritenevo che dovunque i negri erano impegnati, fosse a Little Rock, a Birmingham o in altri posti, dei Muslims disciplinati avrebbero dovuto esser presenti perché tutti li vedessero, li rispettassero e parlassero di loro . Sentivo sempre più che tra i negri circolavano commenti di questo genere: «Quei Muslims usano parole dure, ma non fanno mai niente, a meno che qualcuno non vada a molestarli». Frequentavo gente estranea alla Nazione dell'Islam più di quasi tutti gli altri dirigenti Muslim ed ero convinto che, considerando l'esplosiva irrequietezza delle masse negre, l'etichetta attribuitaci di «parlare soltanto» potesse un giorno tagliarci fuori, pur con tutta la nostra potenza, dalla battaglia combattuta dai negri . Ma a parte quest'unica preoccupazione personale, non avrei potuto chiedere ad Allah di ricompensare i miei sforzi più di quanto non avesse fatto. A New York l'Islam cresceva più rapidamente che in qualsiasi altra parte dell'America: iniziando con la piccola moschea che Muhammad mi aveva originariamente affidato, avevo costruito tre delle più potenti e aggressive moschee della Nazione, la numero sette A di Harlem a Manhattan, la numero sette B di Corona nel quartiere di Queens e la numero sette C a Brooklyn. Su scala nazionale, avevo direttamente fondato o contribuito a fondare la maggior parte delle cento e più moschee esistenti nei cinquanta stati e, talvolta anche quattro volte la settimana, attraversavo da un estremo all'altro gli Stati Uniti. Spesso le uniche ore di sonno che mi concedevo erano in aereo; tenevo un ritmo addirittura da maratoneta per quanto riguardava gli impegni con la stampa, la radio, la televisione e i dibattiti pubblici. L'unico modo per essere all'altezza del mio compito al servizio di Muhammad era di volare con le ali che lui mi aveva dato . Fin dal 1961, quando la malattia di Muhammad subì un peggioramento, avevo sentito degli apprezzamenti negativi nei miei confronti. Si trattava di allusioni velate e mi ero anche accorto da alcuni piccoli segni che intorno a me si stavano addensando l'invidia e la gelosia, come Muhammad aveva profetizzato. Per esempio si diceva che «il pastore Malcolm X cerca di impadronirsi della Nazione dell'Islam», che «tutto il merito» degli insegnamenti di Muhammad me lo prendevo io e che facevo di tutto per «crearmi un impero». Si sussurrava anche che a me piaceva fare la parte del «signor pezzo grosso che viaggia su e giù per il paese» . Quando sentii questi apprezzamenti, devo dire che non me la presi troppo. In realtà essi mi aiutavano a rinsaldare la mia decisione di non permettere che tali menzogne potessero diventare vere. Mi ricordavo sempre che Muhammad mi aveva profetizzato questa invidia e gelosia e ciò mi aiutava ad ignorarla perché sapevo che appena avesse sentito queste dicerie lui avrebbe capito . Una malignità assai comune tra i non Muslims era che «Malcolm X sta facendo un mucchio di quattrini». Almeno i Muslims sapevano come stavano le cose in questo senso! Io far quattrini? Tutte le polizie segrete e il controspionaggio degli Stati Uniti messi insieme non riuscirebbero a trovare nient'altro di mio oltre alla macchina che guido e alla casa di sette stanze in cui abito. (Ora poi la Nazione dell'Islam sta cercando con feroce accanimento di togliermi persino la casa). Certo che maneggiavo dei quattrini! Elijah Muhammad mi autorizzava a prelevare qualsiasi somma che avessi chiesto, ma lui, come tutti gli altri dirigenti Muslim sapeva benissimo che tutto, fino all'ultimo centesimo, serviva ad espandere la Nazione dell'Islam . Il mio atteggiamento nei confronti del denaro fu la causa dell'unico litigio che ho avuto con la mia amata moglie Betty . Quando cominciammo ad avere diversi figli, lei mi suggerì di mettere da parte qualcosa per il futuro. Io rifiutai e alla fine arrivammo a litigare. Mi impuntai davvero. Sapevo di avere in Betty una moglie che, all'occasione avrebbe sacrificato la vita per me, ma nonostante ciò le dissi che troppe organizzazioni erano state distrutte da leader che cercavano un vantaggio personale e che spesso erano spinti a ciò dalle loro mogli. In seguito a questo litigio arrivammo quasi a una rottura, ma alla fine convinsi Betty che se mi fosse successo qualcosa la Nazione dell'Islam avrebbe pensato a lei per il resto della sua vita e alle nostre bambine finché non fossero diventate grandi. Non avrei potuto essere più stupido di così! Durante ogni trasmissione radio o televisiva, ogni intervista concessa ai giornali, dichiaravo sempre senza equivoci che parlavo come RAPPRESENTANTE di Muhammad. Chi mi ha sentito pronunciare un discorso in pubblico in quel periodo sa che, almeno una volta al minuto, dicevo: «Il molto onorevole Elijah Muhammad insegna...» Rifiutavo di parlare con chiunque cercasse di fare dello spirito su quel mio continuo riferimento a Muhammad e quando qualcuno diceva o scriveva «Malcolm X, il numero due dei Black Muslims», reagivo con violenza. In varie occasioni chiamavo al telefono in altre città giornalisti e redattori dei programmi radio e televisivi per chiedere loro di non usare più quell'espressione e per dire che «TUTTI i Muslims sono numero due dopo Muhammad» . Portavo la borsa piena di fotografie del Messaggero che distribuivo ai fotografi che ritraevano me. Poi telefonavo ai direttori dei giornali chiedendo di pubblicare quelle invece delle mie e quando, con mia grande gioia, Muhammad accettò di concedere interviste a degli scrittori bianchi, io raramente parlai con uno di loro, o con qualche scrittore negro, senza insistere perché andassero a far visita a Muhammad a Chicago . «Andate a ricevere la verità dal Messaggero in persona», dicevo loro, e molti andarono effettivamente a intervistarlo . Sia i bianchi che i negri, compresi anche i Muslims, mi mettevano in imbarazzo attribuendomi gran parte del merito per il continuo progresso che stava compiendo la Nazione dell'Islam . «Tutto il merito spetta ad Allah, - dicevo a tutti, - e per ciò che di positivo faccio io spetta a Elijah Muhammad» . Credo che nessuno nella Nazione dell'Islam avrebbe conquistato la fama internazionale cui giunsi io con le ali che Muhammad mi aveva dato, oltre alla libertà che mi aveva concesso di prendere qualsiasi iniziativa, restando al tempo stesso un servo fedele e disinteressato come rimasi io . Fu nel 1962, direi, che cominciai ad accorgermi che lo spazio a me dedicato dal giornale della Nazione dell'Islam «Muhammad Speaks» diminuiva progressivamente. Seppi che il direttore, uno dei figli di Muhammad, Herbert, aveva dato istruzioni che si parlasse di me il meno possibile. In effetti il giornale Muslim dedicava più spazio ai leader negri integrazionisti che a me, mentre la stampa europea, asiatica e africana mi riservava maggiore attenzione . Non è che vada matto per la pubblicità, tanto più che ne avevo avuta in misura maggiore di tante celebrità mondiali. Tuttavia mi dispiaceva che il giornale dei Muslims negasse ai suoi lettori le notizie di importanti iniziative che venivano prese nel loro interesse solo per il fatto che ero stato io a prenderle. Organizzavo raduni di massa allo scopo di diffondere gli insegnamenti di Muhammad e, a causa della gelosia e dell'ottusità, giunsi ad essere totalmente ignorato perché, a questo punto, era stato dato l'ordine che il mio nome non dovesse più apparire sul giornale. Per esempio, parlai a ottomila studenti dell'università della California e la stampa mise in grande evidenza quello che avevo detto del potere e del programma di Muhammad. Ma quando tornai a Chicago aspettandomi almeno una reazione favorevole e qualche articolo sul mio discorso, mi trovai di fronte a un muro di freddezza. Lo stesso accadde quando organizzai un raduno ad Harlem a cui parteciparono settemila persone. In quel tempo il quartier generale di Chicago era giunto fino a scoraggiarmi dall'organizzare grossi raduni, ma la settimana successiva riuscii a farne un altro ad Harlem ancora più grande e che ebbe molto più successo del primo. Ciò ebbe come unico risultato di accrescere l'invidia dei dirigenti di Chicago . Quando queste cose accadevano, cercavo di togliermele dalla mente, almeno per quanto mi era umanamente possibile. Non voglio farmi passare per giusto e nobile: dico solo la verità. AMAVO la Nazione dell'Islam e Muhammad e vivevo unicamente per loro . Il fatto che mie fotografie apparissero molto spesso sulla stampa quotidiana suscitò la gelosia di altri dirigenti Muslim i quali volevano ignorare che ciò accadeva per il fervore con cui mi battevo al servizio di Muhammad. Non avevano il buon senso di pensare che data la vulnerabilità della Nazione dell'Islam di fronte alla distorsione delle notizie e alle più sfacciate menzogne, avevamo bisogno di un nostro portavoce che controbattesse continuamente. Il buon senso avrebbe suggerito a quei dirigenti che Muhammad non poteva percorrere in lungo e in largo tutto il paese e che quindi chiunque egli designasse come suo portavoce non avrebbe potuto evitare la notorietà . Tutte le volte che provavo un senso di risentimento, mi vergognavo di me stesso poiché lo giudicavo una prova della mia debolezza. Sapevo che almeno Muhammad aveva la certezza che la mia vita era interamente dedicata a rappresentarlo . Ma durante il 1963 non potei più evitare di sentirmi ferito dai dirigenti della Nazione dell'Islam che mi criticavano. Smisi di scegliere alcuni fratelli di New York e di dar loro del denaro perché andassero a fondare delle nuove moschee in altre città, visto che circolavano voci allusive intorno ai «pastori di Malcolm». In un momento in cui, in America, era della massima importanza che la voce di un negro combattivo fosse ascoltata dalle grandi masse, rifiutai la proposta della rivista «Life» di pubblicare la mia storia personale e così feci anche con la rivista «Newsweek» e con la proposta fattami dal programma televisivo «Incontro con la stampa» di partecipare a una loro trasmissione come ospite d'onore. Tutti questi rifiuti furono una perdita per i negri in generale e, in particolare, per la Nazione dell'Islam. Rifiutai queste proposte a causa dell'atteggiamento dei dirigenti di Chicago: erano gelosi perché ero stato solo io ad essere invitato . Quando la scarica di un fucile di grosso calibro dilaniò la schiena del segretario della N.A.A.C.P. del Mississippi, Medgar Evers, volevo dire le crude verità che dovevano esser dette . Quando, a Birmingham nell'Alabama, una bomba lanciata in una chiesa cristiana negra uccise quattro belle bambine negre, feci dei commenti senza dire quello che avrebbe dovuto esser detto riguardo all'atmosfera di odio che il bianco americano provocava e manteneva. Più si permetteva lo scoppio di quell'odio quando c'erano dei modi per arrestarlo, e più esso sarebbe divampato fino ad avvolgere e consumare persino gli stessi bianchi, compresi i loro capi. Per esempio, a Dallas nel Texas, l'allora vicepresidente Johnson e sua moglie furono fatti oggetto degli insulti più volgari mentre l'ambasciatore degli Stati Uniti presso le Nazioni Unite, Adlai Stevenson, fu fatto bersaglio di sputi e colpito in testa da una donna bianca . Muhammad mi nominò primo pastore nazionale e ad un raduno tenutosi a Philadelphia verso la fine del 1963, abbracciandomi davanti al pubblico disse: «Questo è il mio pastore più fedele e quello che lavora di più. Mi seguirà fino alla morte» . Il Messaggero non aveva mai fatto un simile complimento a nessun Muslim e nessuna lode di qualsiasi altra persona sulla terra sarebbe stata più importante per me . Questa fu l'ultima volta che Muhammad ed io apparimmo insieme in pubblico . Non molto tempo prima, mentre stavo partecipando al programma radio di Jerry Williams a Boston, qualcuno mi aveva passato un comunicato che era stato appena trasmesso dalle telescriventi dell'Associated Press. Lessi che la sezione della Louisiana del Citizens Council aveva offerto diecimila dollari di ricompensa per la mia morte . Tuttavia la minaccia di morte mi veniva da molto più vicino . Vi sto dicendo la verità. Quando scoprii chi altri mi voleva morto, vi posso assicurare che diventai quasi pazzo . Nei dodici anni durante i quali fui pastore della Nazione dell'Islam, avevo insegnato i problemi morali con tanta veemenza che molti Muslims mi accusarono addirittura di essere «misogino». Il pilastro dei miei insegnamenti, e al tempo stesso la mia convinzione personale più profonda, era che Elijah Muhammad rappresentava, in ogni aspetto della sua esistenza, un simbolo della riforma morale, intellettuale e spirituale dei negri americani. Per dodici anni avevo insegnato che la mia metamorfosi costituiva, nell'ambito della Nazione dell'Islam, il miglior esempio che conoscevo del potere di Muhammad di riformare la vita dei negri. Da quando entrai in prigione fino al mio matrimonio, dodici anni più tardi, non avevo toccato una donna proprio grazie all'influenza che Muhammad esercitava su di me . Ma verso il 1963, come qualcuno avrà notato, cominciai a parlare sempre meno di religione: insegnavo ai Muslims la dottrina sociale, gli avvenimenti contemporanei e i problemi politici, ma mi tenevo lontano dall'argomento della moralità . La ragione di ciò fu che la mia fede era stata scossa in un modo che non riuscirò mai a descrivere pienamente. Avevo scoperto che i Muslims erano stati traditi dallo stesso Elijah Muhammad . Mi limiterò a parlare di tale questione quanto basta perché ne possano risultare chiari il mio atteggiamento e le mie reazioni . Per quel che riguarda il dilemma tra rivelare queste cose oppure no, non c'è più bisogno di tormentarsi perché ormai si tratta di notizie di dominio pubblico. Per dirla nella maniera più concisa, mi limiterò a citare una notizia così come apparve testualmente sui giornali di tutti gli Stati Uniti e fu poi trasmessa dalla radio e dalla televisione: «Los Angeles, 3 luglio (UPI). Elijah Muhammad, il leader sessantasettenne del movimento dei Black Muslims, è stato oggi denunciato da due sue ex segretarie che lo hanno accusato di essere il padre dei loro quattro bambini... Tutte e due le donne hanno un'età compresa fra i venti e i trent'anni... Miss Rosary e Miss Williams hanno dichiarato di aver avuto rapporti intimi con Elijah Muhammad dal 1957 fino a quest'anno. Miss Rosary ha dichiarato che egli è il padre dei suoi due figli ed ha aggiunto di essere incinta per la terza volta... L'altra querelante ha dichiarato che Muhammad è il padre della sua bambina...» Già fin dal I 955 avevo sentito fare delle allusioni, ma dovete credermi quando vi dico che il solo pensiero di dar credito a qualcosa che potesse minimamente scalfire il comportamento morale di Muhammad mi faceva tremare di terrore. Perciò la mia mente si rifiutava di credere a un'accusa così grottesca come quella dell'adulterio che veniva attribuito a Muhammad . ADULTERIO! Qualsiasi Muslim colpevole di tale mancanza cadeva automaticamente in disgrazia. Uno degli scandali della Nazione dell'Islam che erano stati più rigorosamente tenuti segreti era la successione di segretarie personali di Muhammad che erano rimaste incinte. Venivano portate davanti ai tribunali Muslim, accusate di adulterio ed esse confessavano. Umiliate di fronte a tutti, venivano condannate da uno a cinque anni di «isolamento», il che voleva dire non avere più alcun contatto con gli altri Muslims . Non credo di poter portare prova migliore della profondità della mia fede in Muhammad del fatto che respingevo in maniera totale ed assoluta i dati che mi forniva la mia stessa intelligenza. Mi rifiutavo di credere. Non volevo che Allah «bruciasse il mio cervello», come credevo che fosse accaduto a mio fratello Reginald, per concepire pensieri cattivi riguardo a Elijah Muhammad. L'ultima volta che avevo visto Reginald era stato un giorno che egli era venuto al ristorante della moschea numero sette. Lo vidi mentre entrava, gli andai incontro e guardandolo negli occhi gli dissi che non era benvenuto tra i Muslims. Egli voltò la schiena e uscì e da allora non l'ho più visto. Feci questo al mio fratello di sangue perché, anni addietro, Muhammad lo aveva condannato all'«isolamento» da tutti gli altri Muslims ed io, prima che fratello di Reginald, mi consideravo un Muslim . Nessuno al mondo mi avrebbe convinto che Muhammad poteva tradire la devozione che avevano per lui tutte le moschee piene di quei poveri, fiduciosi Muslims che raccoglievano soldo dopo soldo i fondi necessari a mantenere la Nazione dell'Islam, quando molti di questi fedeli erano appena in grado di pagare l'affitto di casa . Ma verso la fine del 1962, seppi da fonti degne di fede che numerosi Muslims stavano abbandonando la moschea numero due di Chicago. La notizia sconfortante si spargeva con rapidità anche tra i negri non Muslim e quando pensavo all'accanimento con cui la stampa era alla caccia di pretesti per screditare la Nazione dell'Islam, tremavo all'idea che queste cose potessero raggiungere gli orecchi di qualche giornalista bianco o negro . In realtà cominciai ad avere degli incubi... vedevo dei GROSSI TITOLI DI GIORNALE. Vivevo sotto il peso continuo del timore mentre continuavo a far fronte ai miei impegni pubblici in tutto il paese. Tutte le volte che un giornalista mi si avvicinava, mi sembrava che dicesse: «E' vero, signor Malcolm X, quello che abbiamo sentito...?» Cosa avrei risposto? Non ci fu mai un momento particolare in cui ammisi a me stesso la situazione. Come solo può fare la mente umana, riuscivo a passar sopra al fatto di ammettere a me stesso tale ripugnante realtà, anche se cominciavo ad affrontarla . Sia a New York che a Chicago i miei conoscenti non Muslim cominciarono a dirmi per vie traverse che avevano sentito dire, oppure mi chiedevano se io per caso non fossi al corrente. Mi comportavo come se non avessi la minima idea di ciò a cui si riferivano ed ero loro grato quando evitavano di dirmi chiaramente cosa sapevano. Ero perfettamente conscio del fatto che, di fronte a loro, passavo per un completo imbecille e anch'io mi sentivo tale, lì a predicare tutti i giorni e a dar l'impressione di non sapere cosa succedeva sotto il mio naso, nella mia organizzazione, fatti in cui era coinvolto proprio colui che lodavo tanto. Questo far la parte dell'imbecille riportò alla luce reazioni che non avevo più avuto dai tempi in cui facevo il trafficante ad Harlem. Nel mondo della malavita la cosa peggiore è quella di essere stupido . Vi farò un esempio. Un giorno, dietro il palcoscenico del teatro Apollo di Harlem, il comico Dick Gregory mi guardò in faccia e mi disse: «Amico, Muhammad non è nient'altro che...» Non posso dire la parola che adoperò, bam!, così all'improvviso. Il mio istinto di Muslim mi disse di saltare addosso a Dick Gregory, ma invece mi sentii debole e vuoto. Credo che Dick si accorgesse di quanto ero addolorato e lasciò cadere il discorso. Conoscevo Dick, nativo di Chicago, con quella sua saggezza tipica della gente di strada e la sua franchezza nel parlare; volevo pregarlo di non dire a nessun altro quello che aveva detto a me, ma non potei: sarei stato io stesso a doverlo ammettere . Non riesco a descrivere il mio tormento. In tempi passati, in qualunque circostanza particolare, prendevo il primo aereo per andare da Muhammad. Era lui che mi aveva praticamente resuscitato dalla morte e tutto quanto di positivo c'era in me era opera sua. Ritenni che, a qualunque costo, non dovevo staccarmi da lui . Non c'era nessuno a cui avrei potuto confidare questo problema, fatta eccezione per lo stesso Muhammad e, infatti, era da lui che sarei dovuto andare alla fine. Però prima andai a Chicago a parlare con il suo secondogenito Wallace Muhammad. Lo consideravo, tra i figli del Messaggero, quello che aveva una più forte spiritualità e una visione più obiettiva: eravamo stati sempre molto vicini e tra di noi c'era una profonda stima reciproca . Quando mi vide Wallace immaginò subito perché ero andato a trovarlo. «Lo so», mi disse. Gli esposi la mia convinzione che dovessimo unirci per aiutare suo padre, ma lui replicò che suo padre non avrebbe gradito una cosa del genere. Tra me e me pensai che Wallace doveva essere impazzito . Successivamente trasgredii alla regola secondo cui nessun Muslim deve avere contatti con un suo confratello condannato all'«isolamento». Andai a parlare con tre delle ex segretarie di Muhammad. Dalla loro viva voce seppi tutte le circostanze e l'identità del padre dei loro bambini. Appresi che Muhammad aveva detto loro che io ero il migliore, il più grande pastore che lui avesse mai avuto, ma che, qualche giorno, lo avrei lasciato, mi sarei rivolto contro di lui e per questo ero «pericoloso». Seppi da queste ex segretarie che mentre Muhammad mi lodava davanti, dietro le spalle mi faceva a pezzi . Tutto ciò mi ferì profondamente . Ogni giorno facevo scrupolosamente fronte ai miei impegni con la stampa, la radio e la televisione e con la mia moschea numero sette, ma ero come fuori di me . Finalmente riuscii a oggettivare la cosa. Mi persuasi che star lì senza far niente equivaleva a tradire, che finché rimanevo così paralizzato non potevo aiutare Muhammad: c'era bisogno di qualcuno che prendesse posizione . Fu così che una sera scrissi al Messaggero del veleno che veniva sparso intorno a lui. Mi telefonò a New York e mi disse che avremmo discusso la faccenda al nostro prossimo incontro . Cercavo disperatamente un modo, quasi un ponte, su cui, ero certo, fosse possibile salvare la Nazione dell'Islam dall'autodistruzione. Avevo fede nel nostro movimento: noi non eravamo il solito gruppo di negri cristiani che ballano, urlano in chiesa e poi sono pieni di peccati! Pensai a una via d'uscita da impiegare se e quando la sconvolgente notizia fosse diventata di dominio pubblico. Si poteva insegnare ai fedeli Muslims che ciò che l'uomo realizza nella sua vita compensa largamente le sue debolezze personali e umane. Wallace Muhammad mi aiutò a cercare la documentazione nel Corano e nella Bibbia. Sulla bilancia della storia, l'adulterio di David con Betsabea per esempio, ha un peso minore del fatto positivo che egli uccise Golia. Quando si pensa a Lot, non si pensa all'incesto, ma al fatto che salvò il suo popolo dalla distruzione di Sodoma e Gomorra; e quando ci rappresentiamo Noè non lo vediamo ubriaco, ma mentre costruisce l'Arca e insegna agli uomini a salvarsi dal diluvio. Mosè lo ricordiamo per aver guidato gli ebrei fuori della schiavitù e non per i suoi rapporti adulterini con le donne etiopi. In tutti questi casi che io andai a riscoprire, il positivo superava di gran lunga il negativo . Cominciai a insegnare nella moschea numero sette di New York che quello che un uomo riesce a compiere nella vita compensa largamente le sue debolezze personali e umane, che le buone azioni pesano di più delle cattive e non feci più cenno agli argomenti, prima di consuetudine, dell'adulterio, della fornicazione e dell'immoralità . Quasi per miracolo, questa storia che era così largamente diffusa a Chicago sembrava che fosse appena trapelata a Boston, Detroit e New York e, apparentemente, non aveva raggiunto le altre moschee del paese. Sentii dire che a Chicago un sempre maggior numero di Muslims abbandonava la moschea numero due e che molti non Muslims che erano stati simpatizzanti della Nazione dell'Islam erano ora apertamente contrari ad essa. Nel febbraio del 1963 pronunciai il discorso per il conferimento dei diplomi all'università dell'Islam e quando presentai i vari membri della famiglia di Muhammad sentii come un brivido di freddezza che dal pubblico si trasmetteva a loro . Nell'aprile del 1963 Muhammad mi invitò ad andarlo a trovare a Phoenix . Come sempre ci abbracciammo e quasi subito lui mi portò fuori e cominciammo a passeggiare nei pressi della piscina . Quest'uomo, il Messaggero di Allah, mi aveva salvato quando ero un carcerato sciocco e vizioso, tanto cattivo che gli altri mi avevano soprannominato Satana; era lui che mi aveva istruito e che mi aveva trattato come se fossi del suo sangue; lui che mi aveva dato le ali per volare, per fare cose che, in altre circostanze, non avrei neppure sognato. Mentre passeggiavamo ero preso come in un vortice di pensieri contrastanti . «Ebbene figliolo, - disse Muhammad, - cos'è che ti turba?» Con estrema chiarezza e sincerità, senza nessun infingimento, dissi a Muhammad cosa si diceva e, senza aspettare che mi rispondesse, aggiunsi che con l'aiuto di suo figlio Wallace avevo trovato nel Corano e nella Bibbia quello che, se fosse stato necessario, si sarebbe potuto insegnare ai Muslims come il compimento della profezia . «Figliolo, non sono affatto sorpreso, - disse Elijah Muhammad; tu hai sempre compreso la profezia delle cose spirituali e quindi sei in grado di riconoscere in tutto questo proprio la profezia. Hai la qualità di saggezza che solo i vecchi possiedono . «Io sono David e quando leggi che lui prese la moglie di un altro, ebbene pensa che io sono quel David. Quando leggi di Noè che si ubriacava, ebbene quello sono io. Quando leggi di Lot che andava a letto con le proprie figlie, ebbene pensa che io sono colui che deve compiere tutte queste cose» . Mi ricordavo che quando un'epidemia sta per scatenarsi la gente viene vaccinata con alcuni di quegli stessi germi che ci si aspetta entreranno presto nel sangue. Tale procedimento li prepara a resistere al virus che sta per arrivare . Decisi che era meglio preparare altri sei dirigenti Muslim della costa occidentale che io stesso avevo scelto . Li misi al corrente di tutto e poi dissi loro perché lo facevo, e cioè che ritenevo non dovessero esser colti di sorpresa se fosse stato dato loro incarico di insegnare ai Muslims, nelle loro rispettive moschee, il «compimento della profezia». Trovai che alcuni di loro sapevano già tutto ed anzi il pastore Louis X di Boston ne aveva sentito parlare sette mesi prima. Tutti erano stati lacerati dallo stesso dilemma . Non pensai che i dirigenti Muslim di Chicago avrebbero fatto di tutto per dare l'impressione che, anziché acqua, gettassi benzina sul fuoco, per mostrare all'opinione pubblica che, invece di vaccinare i fedeli contro un'epidemia, ero io quello che l'aveva iniziata . A Chicago l'orientamento era di distogliere l'attenzione dei Muslims dall'epidemia e di concentrarla invece su di me. Per gente di fede discutibile l'odio verso di me sarebbe diventato la causa del loro restare uniti . I negri non Muslim che mi conoscevano bene e persino alcuni dei giornalisti bianchi con i quali avevo dei contatti regolari, mi dicevano quasi dovunque andavo: «Malcolm X, hai l'aspetto stanco. Hai bisogno di riposo» . Eppure essi non conoscevano che una piccola parte della situazione. Da quando facevo parte della Nazione dell'Islam questa era la prima volta che dei bianchi si rivolgevano a me in via personale. Sapevo che alcuni di loro erano davvero onesti e sinceri ed uno, il cui nome non citerò per non sottoporlo al rischio di perdere il posto, mi disse: «Malcolm X, i bianchi hanno bisogno della vostra voce molto più dei negri». Ricordo bene questa frase perché fu pronunciata la prima volta in cui, da quando ero diventato Muslim, avevo parlato con un bianco a lungo di argomenti diversi dalla Nazione dell'Islam e dalla lotta del negro americano contemporaneo . Non ricordo come o perché lui rammentò i Rotoli del Mar Morto . Io gli risposi con una frase di questo genere: «Sì, quei manoscritti toglieranno Gesù dalle vetrate e dagli affreschi delle chiese dove è stato sempre rappresentato con la pelle bianca come un giglio per riportarlo nel vero corso della storia in cui Gesù fu uomo di colore». Il giornalista fu sorpreso ed io continuai dicendogli che i Rotoli del Mar Morto avrebbero convalidato il fatto che Gesù era membro di quel sodalizio di indovini egiziani detti esseni, fatto già conosciuto da Filone, il famoso storico egiziano dell'epoca di Cristo. Quel giornalista ed io ci intrattenemmo a parlare per due ore buone di archeologia, storia e religione. Fu una conversazione piacevolissima che, per quel breve tempo, mi fece quasi dimenticare le gravi preoccupazioni che mi assillavano. Rammento che finimmo con l'esser d'accordo che nell'anno duemila si insegnerà agli scolaretti qual era il vero colore dei grandi uomini dell'antichità . Ho detto che mi aspettavo da un momento all'altro una campagna di stampa, ma certamente non quella che si verificò . Non c'è bisogno di ricordare chi fu assassinato a Dallas nel Texas il 22 novembre 1963 . Poche ore dopo l'attentato - vi sto dicendo la pura verità tutti i pastori Muslim ricevettero da Elijah Muhammad un ordine, anzi DUE ordini: non si dovevano fare apprezzamenti di sorta sull'assassinio e inoltre Muhammad ci dette istruzioni perché, se ci avessero richiesto con insistenza di fare dei commenti, rispondessimo con un secco: «No comment» . Durante i tre giorni successivi, in cui non si sentivano altre notizie all'infuori di quelle riguardanti il presidente assassinato, Muhammad avrebbe dovuto parlare al Manhattan Center di New York in una manifestazione già da tempo organizzata . Invece annunciò che non sarebbe venuto e siccome non ci avrebbero restituito il denaro che avevamo già pagato per l'affitto della sala, mi incaricò di prendere il suo posto . Da allora ho riguardato molte volte gli appunti che adoprai per il discorso di quel giorno e che avevo preparato almeno una settimana prima dell'assassinio. Il titolo del mio discorso era "Dio giudica l'America bianca" e toccava il tema a me familiare del «chi semina vento raccoglie tempesta», il modo in cui l'ipocrita americano bianco raccoglie quello che ha seminato . Poi ci furono le domande del pubblico e, inevitabilmente, qualcuno mi chiese: «Qual è la vostra opinione sull'assassinio del presidente Kennedy?» Senza un momento di esitazione dissi quello che in tutta onestà pensavo e cioè che si trattava di un caso tipico di «chi la fa l'aspetti». Dissi che l'odio dei bianchi non era soddisfatto dall'assassinio di negri indifesi, ma che, una volta che si era permesso che si scatenasse senza freni, aveva colpito anche la massima autorità di questa nazione. Dissi che la stessa cosa era accaduta a Medgar Evers, a Patrice Lumumba, al marito della signor Nhu . I titoli dei comunicati stampa riferirono immediatamente: «Malcolm X dei Black Muslims: "chi la fa l'aspetti"» . Se ripenso a tutta la faccenda mi viene il disgusto. In tutta l'America, in tutto il mondo, alcune tra le personalità più importanti dicevano in modi diversi, ma più chiaramente di quanto non avessi fatto io, che la colpa della morte del presidente era da attribuirsi al clima di odio esistente in questo paese. Eppure quando Malcolm X diceva la stessa cosa si scatenava lo sdegno . Il giorno successivo era quello della mia abituale visita mensile a Muhammad. Quando salii sull'aereo ebbi la strana sensazione che qualcosa sarebbe accaduto. Ho sempre avuto intuizioni di questo genere . Ci abbracciammo come al solito, ma sentii che la cordialità di Muhammad nei miei confronti non era più la stessa. Quanto a me, cosa abbastanza indicativa, mi sentii preso da un'improvvisa tensione. Per anni ero stato orgogliosamente convinto di esser così vicino a Muhammad che per sapere cosa provava lui bastasse sentire quello che provavo io. Se era nervoso, anch'io ero nervoso; se era disteso, anch'io ero disteso. Ed ora avvertivo quella TENSIONE.. . Seduti in salotto, parlammo prima di altre cose e poi lui mi domandò: «Hai visto i giornali di stamane?» «Sì, signore, li ho visti », risposi . «E' stata una frase molto infelice, - disse. - Tutto il paese lo amava. Tutto il paese è in lutto... E' stata una frase molto intempestiva che potrebbe render la vita difficile a tutti i Muslims» . Poi, come se la sua voce venisse da lontano, udii che Muhammad diceva queste parole: «Bisognerà che ti imponga il silenzio per tre mesi in modo che tutti i Muslims vengano dissociati dal tuo errore» . Restai impietrito . Ma ero un seguace di Muhammad. Avevo detto tante volte ai mei collaboratori che chiunque si trova nella posizione di imporre ad altri una disciplina dev'essere in grado prima di tutto di accettarla lui stesso . «Signore, - dissi a Muhammad, - sono d'accordo con voi e mi sottometto completamente» . Ripresi l'aereo per New York cercando di prepararmi psicologicamente a dire ai miei collaboratori della moschea numero sette che ero stato sospeso, o «messo a tacere». Ma con mia immensa sorpresa, quando arrivai seppi che erano già stati informati . La cosa che mi sbalordì di più fu di apprendere che era stato mandato un telegramma a tutti i giornali di New York City e alle stazioni radio e televisive. Non avevo mai visto i dirigenti di Chicago organizzare una campagna pubblicitaria più rapida ed efficiente . Tutti i telefoni dove mi si poteva raggiungere squillavano in continuazione. Londra, Parigi, l'Associated Press, la UPI, tutte le stazioni radiotelevisive e tutti i giornali chiamavano. Io dissi: «Ho disobbedito a Muhammad. Mi sottometto completamente alla sua saggezza. Sì, riprenderò a parlare fra tre mesi» . I titoli dei giornali dicevano: «Malcolm X messo a tacere!» La mia preoccupazione principale era che se entro quei tre mesi fosse scoppiato uno scandalo nella Nazione dell'Islam, io sarei stato con le mani legate proprio quando ci sarebbe stato bisogno di me, che ero il Muslim con più esperienza di quei mezzi di comunicazione di massa che avrebbero potuto sfruttare qualsiasi scandalo a dovere . Più tardi seppi che l'«avermi messo a tacere» era molto più grave di quanto non pensassi perché non solo mi si proibiva di fare dichiarazioni alla stampa, ma anche di insegnare nella mia moschea numero sette . Successivamente fu diffuso un annuncio all'interno della Nazione dell'Islam in cui si diceva che sarei stato reintegrato nelle mie funzioni entro tre mesi «se fa atto di sottomissione» . Per la prima volta quelle parole mi resero sospettoso. Mi ero sottomesso completamente, eppure, a bella posta, si dava l'impressione ai Muslims che mi fossi ribellato . Non avevo bazzicato gli ambienti di strada così tanti anni per nulla: sapevo benissimo cosa mi stavano preparando . Tre giorni dopo mi fu riferito che un dirigente della moschea numero sette, che era stato uno dei miei più intimi collaboratori, aveva detto a certi fratelli: «Se sapeste cos'ha fatto il vostro pastore andreste voi stessi ad ammazzarlo» . Allora tutto mi fu chiaro. Come qualsiasi dirigente della Nazione dell'Islam avrebbe immediatamente immaginato, era chiaro che non si sarebbe potuto accennare al mio assassinio se non con l'approvazione, o addirittura l'incoraggiamento, di un'unica persona . Mi pareva che la testa mi sanguinasse internamente; mi sentivo come se avessi avuto una ferita al cervello. Andai perciò a farmi visitare dalla dottoressa Leona A. Turner che per anni è stata il nostro medico di famiglia e che ha lo studio a East Elmhurst nel Long Island. Le chiesi di farmi una visita neurologica completa. Lei mi esaminò e disse che ero in preda a una grave tensione e che avevo bisogno di riposo . Oggi Cassius Clay ed io non siamo più insieme, ma gli serbo sempre gratitudine perché, proprio in quel momento, mi invitò con Betty ed i bambini per celebrare il sesto anniversario del nostro matrimonio a Miami dove si stava allenando per un incontro con Sonny Liston . Avevo conosciuto Cassius Clay a Detroit nel 1962. Entrava con suo fratello Rudolph nel piccolo ristorante per studenti vicino alla moschea di Detroit dove Elijah Muhammad stava per parlare in occasione di un grande raduno. Tutti i Muslims presenti furono ammirati dal portamento e dall'espressione di sincerità di questi due atletici, stupendi pugilatori. Cassius mi si avvicinò, mi prese la mano e si presentò a me come più tardi si sarebbe presentato al mondo intero: «Sono Cassius Clay». Si comportava come se fossi obbligato a sapere chi era ed io lo assecondai sebbene, fino a quel momento, non avessi mai sentito parlare di lui. I nostri erano due mondi completamente diversi: infatti Elijah Muhammad ci insegnava a respingere qualsiasi forma di sport . Mentre Elijah Muhammad parlava, i due fratelli Clay furono quasi sempre quelli che applaudivano per primi facendosi notare per la loro sincerità. Una riunione di Muslims era senz'altro l'ultimo posto al mondo per cercarvi dei tifosi della boxe . In seguito sentii dire ogni tanto che Cassius era andato a visitare moschee e ristoranti Muslim di varie città e se mi capitava di parlare in qualche località facilmente raggiungibile, lui veniva sempre a sentirmi. Cassius mi piaceva . Aveva una certa comunicatività che me lo fece includere tra le poche persone che invitavo a casa mia. Piaceva anche a Betty e le nostre bambine, poi, andavano pazze per lui. Cassius era un giovane amabile, cortese, sincero e pratico. Da molti piccoli particolari notavo la sua vivacità intellettuale e mi venne subito il sospetto che il suo gigionismo in pubblico fosse voluto. Lui stesso mi confermò che stava facendo il possibile per condizionare psicologicamente Sonny Liston a venire sul ring arrabbiato, poco allenato e pieno di eccessiva fiducia in se stesso, certo di vincere ancora una volta l'incontro ai primi round. Cassius non soltanto accettava i consigli, ma li sollecitava. Prima di tutto cercai di inculcargli il principio che il successo di una personalità dipende dalla misura in cui conosce la vera natura e le vere motivazioni della gente che gli sta intorno. Lo misi in guardia contro le «volpi», termine con cui egli definiva le giovani, belle e aggressive femmine che gli si affollavano intorno, e gli dissi che invece di «volpi» erano lupi . Questa era la prima vacanza per Betty, da quando ci eravamo sposati. Le nostre tre bambine stavano continuamente alle costole del loro peso massimo per giocare con lui . Non so cosa avrei fatto se fossi rimasto a New York in questo periodo cruciale, assediato dal continuo squillare dei telefoni, dalla stampa e da tutta quella gente così ansiosa di speculare, fare illazioni e «commiserare» . Ero in uno stato di choc emotivo; ero come uno che è stato felicemente sposato per dodici anni e improvvisamente, la mattina a colazione, si vede buttare sul tavolino i fogli del divorzio . Mi sembrava che qualcosa della NATURA si fosse arrestato, come se non brillassero più il sole o le stelle. Per me si verificò quell'incredibile fenomeno, qualcosa di troppo stupendo per essere concepito. Non ho nessuna indulgenza per me stesso. Nel campo di allenamento di Cassius Clay, intorno all'Hampton House Motel dove eravamo alloggiati noi, parlavo con mia moglie e con altra gente, ma in realtà quelle parole erano per me solo dei suoni senza significato. Quello che dicevo era controllato da un piccolo angolo della mia mente mentre il resto si riempiva di una successione di migliaia di scene diverse degli ultimi dodici anni... nelle moschee Muslim... con Muhammad e la sua famiglia... con i Muslims separatamente, come uditori e alle nostre feste sociali... di fronte a un pubblico di bianchi e alla stampa . Camminavo, parlavo e mi muovevo. Nel campo di allenamento di Cassius Clay ripetei ai vari cronisti sportivi quella che poco alla volta mi ero persuaso fosse una bugia e cioè che entro tre mesi sarei stato reintegrato nelle mie funzioni. Tuttavia, sul piano psicologico, non riuscivo ancora ad affrontare quello che sapevo e cioè che tra me e la Nazione dell'Islam era avvenuto il divorzio fisico. Capite cosa intendo dire? La firma di un giudice su un pezzo di carta può concedere ad una coppia il divorzio fisico, ma per uno di loro, o forse per tutti e due, se il matrimonio ha avuto dei momenti felici, ci vorranno magari degli anni prima che si sentano separati del tutto SUL PIANO PSICOLOGICO . Ma nel divorzio fisico non potevo sfuggire alla strategia e alla congiura che si stava intessendo a Chicago per eliminarmi dalla Nazione dell'Islam... se non addirittura dal mondo. Ero convinto di percepire addirittura il meccanismo stesso della congiura . Tutti i Muslims avrebbero immaginato che la mia frase «chi la fa l'aspetti» non era stata altro che una scusa per far scattare il piano per eliminarmi. Il primo passo era già stato fatto: si era data ai membri della Nazione dell'Islam l'impressione che mi fossi ribellato contro Muhammad. Ora prevedevo quale sarebbe stato il secondo passo: mi avrebbero «sospeso » (e più tardi «isolato») a tempo indeterminato. Il terzo passo sarebbe stato o di convincere qualche Muslim che non conosceva la verità ad assumersi il compito di assassinarmi come «dovere religioso» oppure di isolarmi in modo che piano piano sarei scomparso dalla scena pubblica . L'unica persona che sapeva era mia moglie. Non avrei mai pensato che avrei avuto bisogno di appoggiarmi ad una donna così come facevo ora con Betty. Tra di noi non c'era uno scambio: Betty non diceva niente, con la sua profondissima comprensione e la forza d'animo che la caratterizza, però io sentivo perfettamente quanto mi era vicina. Sapevo che era una fedele serva di Allah come me e che, qualunque cosa fosse accaduta, sarebbe stata sempre al mio fianco . L'oscura minaccia della morte non mi faceva paura. Durante i dodici anni che avevo passato a fianco di Muhammad ero stato pronto, in qualsiasi circostanza, ad offrire la mia vita per lui. Per me la cosa peggiore della morte era il tradimento . Arrivavo a concepire quella ma non questo, non il tradimento della fedeltà che avevo dato alla Nazione dell'Islam e a Muhammad. Durante i precedenti dodici anni, se Muhammad avesse commesso qualsiasi reato punibile con la morte, avrei fatto di tutto per provare che il colpevole ero io, per salvarlo, e sarei andato alla sedia elettrica come suo servo . Là a Miami, ospite di Cassius Clay, cercavo disperatamente di allontanare dalla mente tutti i miei problemi per concentrarmi su quelli della Nazione dell'Islam. Lottavo ancora per persuadermi che Muhammad aveva realizzato la profezia, perché avevo veramente creduto che se non era Dio, certamente veniva subito dopo . La mia fede cominciò ad essere scossa dal fatto che, per quanto mi sforzassi, non riuscivo a celarmi che Muhammad, invece di affrontare a viso aperto quello che aveva fatto di fronte ai suoi seguaci o confessando la sua debolezza umana o presentandola come il compimento della profezia, cosa quest'ultima che credo i Muslims avrebbero capito o almeno accettato, aveva preferito far di tutto per nascondere e camuffare le sue azioni . Questo fu per me il colpo più duro e fu allora che cominciai a capire di aver creduto in Muhammad più di quanto lui credeva in se stesso . Fu così che, dopo dodici anni durante i quali non avevo mai pensato a me stesso, riuscii finalmente a trovare la calma, la forza per cominciare a guardare in faccia alla realtà, a pensare di me . Lasciai per un po' la Florida per riaccompagnare Betty e le bambine alla nostra casa di Long Island. Appresi che i dirigenti Muslim di Chicago si erano ulteriormente arrabbiati con me a causa degli articoli apparsi sui giornali in cui si descriveva la mia vita al campo di allenamento di Cassius Clay. Erano convinti che Cassius non avesse nessuna probabilità di vincere e che quelli della Nazione dell'Islam non avrebbero ricavato altro che imbarazzo dal saperci insieme. (Vorrei dire incidentalmente, anche se non so se al campione importa oggi ricordarlo, che la maggior parte dei giornali d'America avevano mandato i loro inviati al campo di allenamento, quasi tutti all'infuori di «Muhammad Speaks». Anche se Cassius era un fratello Muslim, il giornale della Nazione dell'Islam non giudicò l'incontro che stava per sostenere degno di un articolo) . Tornai in aereo a Miami convinto che fosse nei disegni di Allah servirsi di me per aiutare Cassius a provare di fronte al mondo la superiorità dell'Islam, dimostrando che l'intelligenza può prevalere su di una montagna di muscoli. Inutile che vi ricordi come tutti scartavano la possibilità che Cassius Clay potesse battere Liston . Questa volta mi portai dietro da New York alcune fotografie di Floyd Patterson e Sonny Liston in allenamento con dei preti bianchi che facevano la parte dei «consiglieri spirituali». Dato che Cassius Clay era un Muslim non c'era bisogno di dirgli come il cristianesimo bianco aveva trattato il negro americano . «Questo incontro è la VERITA', - dissi a Cassius - La croce combatte la mezzaluna su di un ring, per la prima volta. E' come una moderna crociata, con un cristiano e un musulmano l'uno di fronte all'altro, davanti agli obiettivi della televisione che trasmetterà l'avvenimento a tutto il mondo via Telstar! Credi che Allah abbia suscitato tutto questo perché tu lasci il ring senza aver conquistato il titolo?» (Ricorderete che al peso Cassius gridava frasi di questo genere: «Il mio successo è stato profetizzato! Non posso perdere!») Gli allenatori e i consiglieri di Sonny Liston lo spinsero a dedicare più energie per integrarsi che non per allenarsi al combattimento con Cassius. Finalmente Liston era riuscito ad affittare una grossa villa in una zona residenziale di bianchi ricchi. Per darvi un'idea, il proprietario della villa vicina era il padrone del club di baseball New York Yankees, Dan Topping. Nel pomeriggio, quando Cassius ed io andavamo a passeggiare nei quartieri negri, la gente ci guardava a bocca aperta per la sorpresa di vederlo tra di loro invece che tra i bianchi, come preferivano gran parte dei pugilatori negri . Cassius sbalordiva quei nostri confratelli dicendo loro: «Voi siete la mia gente. La forza mi viene dal trovarmi fianco a fianco con i miei fratelli negri» . In realtà Sonny Liston stava per affrontare una delle più sconvolgenti situazioni di terrore che si possano immaginare, stava per misurarsi con un fedele di Allah, con un uomo del tutto senza paura . Tra gli ottomila spettatori convenuti nella grande Convention Hall di Miami io ebbi il biglietto numero 7. Questo è sempre stato il mio numero preferito che mi ha seguito per tutta la vita. Considerai questa coincidenza come un segno di Allah che mi confermava la vittoria di Cassius. Ero molto più preoccupato per come avrebbe fatto il fratello di Cassius, Rudolph, che disputava il suo primo incontro fuori campionato. Rudolph vinse dopo quattro round un negro della Florida chiamato «Chip» Johnson; Cassius stava in piedi in fondo alla sala vestito con uno smoking nero. Dopo tutti quei mesi di allenamento, dopo la scena che aveva fatto al peso, la calma di cui dava ora prova Cassius deve avere insospettito alcuni dei cronisti sportivi che avevano pronosticato una sua clamorosa sconfitta . Poi Cassius andò a vestirsi per l'incontro con Liston e, come eravamo rimasti d'accordo, mi unii a lui in silenziosa preghiera per chiedere la benedizione di Allah. Alla fine, quando i due contendenti si presentarono agli opposti angoli del ring, incrociai le braccia e feci il possibile per assumere l'aspetto più indifferente di cui ero capace. In televisione uno che fa il tifo a un incontro di pugilato può apparire addirittura come un pagliaccio . Fatta eccezione per qualche sostanza che gli entrò negli occhi e lo accecò temporaneamente durante il quarto e il quinto round, il combattimento si svolse secondo il piano di Cassius. Riuscì ad evitare i potenti diretti di Liston e al terzo round questi, già in su con gli anni, cominciò a stancarsi anche perché si era allenato nella matematica sicurezza di non dover superare i primi due round. Poi, disperato, Liston perse. Il segreto di uno dei più grandi crolli psicologici nella storia della boxe va cercato nel fatto che, molti mesi prima di quella sera, Clay aveva già vinto Liston col pensiero . Probabilmente non c'è mai stata una celebrazione più semplice di quella vittoria. Il re del ring dall'aspetto di un adolescente venne al motel dov'eravamo noi; mangiò un gelato, bevve del latte, stette a parlare con il campione di rugby Jimmy Brown, altri amici e qualche giornalista. Quando gli prese il sonno, Cassius fece un pisolino sul mio letto e poi tornò a casa . La mattina dopo facemmo colazione insieme, subito prima della conferenza stampa nel corso della quale, con la massima calma, Cassius annunciò che restava un Black Muslim. La notizia fu riportata dalla stampa di tutto il mondo . Lasciate che aggiunga qualcosa riguardo a ciò. Cassius non si proclamò mai membro di alcuna setta di Black Muslims. I giornalisti ricavarono tale affermazione da quello che lui aveva detto e cioè, nelle sue testuali parole: «Credo nella religione dell'Islam, cioè credo che non c'è altro Dio all'infuori di Allah e che Maometto è il suo profeta. Questa è la stessa religione in cui credono più di settecento milioni di persone di pelle scura in Africa e in Asia» . Di tutto il clamore che seguì, niente fu più ridicolo dell'annuncio di Floyd Patterson che, come cattolico, voleva incontrarsi con Cassius Clay per impedire che il titolo mondiale dei pesi massimi fosse detenuto da un musulmano. Fu questo l'esempio patetico di un cristiano negro disorientato dal lavaggio del cervello e pronto a combattere per il bianco che non vuole aver niente a che fare con lui. Infatti, tre settimane dopo, apparve sui giornali di Yonkers, New York, che Patterson offriva in vendita la sua casa da centoquarantamila dollari a ventimila dollari in meno. Si era integrato in una zona residenziale di bianchi che gli avevano reso la vita impossibile. Nessuno era gentile con loro, gli altri bambini chiamavano "niggers" i figli di Patterson; un vicino ammaestrò il suo cane perché andasse a fare i suoi bisogni nel giardino del pugilatore, mentre un altro fece costruire un alto muro di cinta perché gli nascondesse la vista dei negri. «Ho provato, ma non ha funzionato», dichiarò Patterson alla stampa . Il primo ordine diretto di assassinarmi fu dato attraverso un dirigente della moschea numero sette che prima era uno dei miei più stretti collaboratori. A un altro, anche lui molto vicino a me, fu dato l'incarico di occuparsi dell'esecuzione materiale . Questi era un fratello che aveva pratica di esplosivi: gli fu chiesto di mettere della dinamite nella mia automobile collegandola con l'accensione. Quando avessi messo in moto sarei saltato in aria. Invece questo fratello, che conosceva troppo bene la mia completa fedeltà nei confronti della Nazione dell'Islam, non se la sentì di eseguire l'ordine e me lo venne a dire. Lo ringraziai per avermi salvato la vita e gli raccontai cosa stava succedendo a Chicago. Egli rimase allibito . Questo fratello era molto amico di altri del gruppo della moschea numero sette che presumibilmente avrebbero potuto essere interpellati dopo di lui perché si assumessero il compito di eliminarmi. Mi disse che si sarebbe preoccupato di metterli al corrente in modo che essi non si prestassero al gioco . Questo primo ordine diretto di assassinarmi contribuì in maniera decisiva a determinare il mio divorzio psicologico dalla Nazione dell'Islam . Dovunque andassi, per la strada, nei locali pubblici, sugli ascensori, sui marciapiedi e persino dalle macchine che passavano, cominciai a vedere sui visi dei Muslims che conoscevo l'espressione di chi avrebbe aspettato il momento opportuno per tentare di assassinarmi . Mi spremevo addirittura il cervello. Cosa avrei fatto? Avevo impegnato tutta la mia vita nella lotta del negro americano ed ero comunemente considerato come un leader. Per anni avevo criticato i difetti di tanti dei cosiddetti leader negri, e ora dovevo chiedermi onestamente che cosa potevo offrire, quali erano le mie qualifiche per aiutare la gente di colore a vincere la sua battaglia per i diritti umani. Avevo abbastanza esperienza per sapere che se si vuol diventare un buon organizzatore di qualcosa di cui si attende il successo, ivi compreso lo stesso individuo singolo, è necessario analizzare i fatti con precisione quasi matematica . A mio vantaggio c'era il fatto di essere conosciuto in tutto il mondo e questa era una cosa che nessuna somma di denaro avrebbe potuto comprare. Sapevo che se avessi detto qualcosa di un certo interesse per la stampa, probabilmente sarebbe stata letta o discussa, a seconda di cosa si trattava, in tutto il mondo. A New York City, dove avevo la mia naturale base di operazioni, potevo contare su di un vasto, diretto seguito di non Muslims che si era venuto accrescendo fin da quando avevo guidato i Muslims nella drammatica protesta contro la polizia, quando questa aveva usato la violenza contro il nostro fratello Hinton . Centinaia di negri di Harlem avevano visto e centinaia di migliaia avevano più tardi sentito dire come noi eravamo stati capaci di dimostrare che se i negri avessero saputo affrontare i bianchi senza paura, non c'erano limiti a quello che avremmo potuto ottenere. Tutta Harlem aveva potuto constatare come, da allora, la polizia aveva rispettato i Muslims. (Ciò era accaduto nel periodo in cui il commissario capo della ventottesima sezione di polizia aveva detto di me: «Nessuno dovrebbe disporre di tanto potere») . Negli anni successivi avevo avuto diverse prove che una vasta percentuale dei negri di New York City reagiva favorevolmente a quello che io dicevo. Tra di essi ve ne erano molti che non avrebbero mai mostrato pubblicamente il loro assenso. Per esempio, tutte le volte che parlavo nel corso di qualche comizio che tenevamo per la strada, il mio pubblico era da dieci a dodici volte più numeroso di quello che andava a sentire gran parte dei cosiddetti leader negri. Sapevo che in qualsiasi società il vero leader è colui che sa guadagnarsi e meritarsi l'appoggio dei suoi seguaci, i quali vengono da sé, per loro volontà e seguendo il proprio impulso. Sapevo che il vero limite di gran parte dei leader negri più grossi era la loro mancanza di un qualsiasi genuino rapporto con i negri del ghetto. Infatti come avrebbero potuto stabilire tale rapporto se passavano quasi tutto il loro tempo a integrarsi con i bianchi? Sapevo che gli abitanti del ghetto erano sicuri che, in spirito, non li avevo mai abbandonati e che anche fisicamente non me ne ero allontanato se non quando era stato necessario. Avevo l'istinto del ghetto e per esempio, di fronte a un pubblico di quel tipo, ero in grado di sentire se c'era più tensione del solito. Ero in grado di parlare e di capire la lingua del ghetto. Tutte le volte che sentivo qualche leader negro dei più grossi dichiarare che «parlava a nome» dei negri del ghetto, mi veniva sempre a mente un esempio . Dopo un comizio in una strada di Harlem, uno di questi leader che veniva da giù in città stava parlando con me quando ci venne vicino un trafficante del quartiere. Non ricordavo di averlo mai visto prima e lui mi disse pressappoco così: «Hey, baby! I dig you holding this all-originals scene at the track... I'm going to lay a vine under the Jew's balls for a dime-got to give you a play... Got the shorts out here trying to scuffle up on some bread... Well, my man, I'll get on, got to go peck a little, and cop me some z's-». E il trafficante se ne andò verso la Settima Avenue . Non avrei neanche pensato alla faccenda se non avessi visto che il leader stava lì allibito a sentire parlare quel trafficante come se la lingua che adoperava fosse il sanscrito. Mi chiese che cosa aveva detto ed io glielo spiegai. Il trafficante aveva detto di sapere che i Muslims tenevano un bazar riservato soltanto ai negri al Rockland Palace, che è specialmente una sala da ballo. Aveva intenzione di impegnare un vestito per dieci dollari («butto quel mio straccio sotto le palle di qualche rigattiere ebreo») in modo da essere in grado di andare al bazar e contribuire. Aveva poco denaro ma cercava di procurarsene un po' con tutti i mezzi: prima sarebbe andato a mangiare e poi avrebbe fatto un sonnellino («vado a dare una beccata e poi a fare un po' zzzzz... ») Quello che voglio dire è che, come leader, ero in grado di parlare ai microfoni delle principali stazioni radio, ad Harvard oppure a Tuskegee, con i negri della cosiddetta classe media e con quelli del ghetto (mentre gli altri leader parlavano DI questi ultimi). Inoltre, poiché ero stato anch'io un trafficante, sapevo meglio di tutti i bianchi e di quasi tutti i leader negri che il negro più pericoloso d'America è il trafficante del ghetto. Perché dico questo? Perché nelle giungle dei ghetti si ha molto meno rispetto per la struttura di potere bianca di quanto non ne abbiano gli altri negri d'America. Il trafficante del ghetto non ha nessuna inibizione psicologica; non ha religione; non ha nessun concetto morale, nessun senso di responsabilità civile, nessuna paura... niente. Per sopravvivere è sempre lì in agguato pronto a sbranare il suo simile, all'erta come un furetto per speculare su qualsiasi debolezza umana. Il trafficante del ghetto è perennemente frustrato, inquieto e sempre in attesa di agire. Qualunque cosa si metta a fare, s'impegna in maniera completa, assoluta . Quello che rende il trafficante del ghetto ancora più pericoloso è l'immagine romantica che ha di lui il ragazzo che abbandona la scuola ai primi anni. Questi adolescenti vedono l'inferno in cui si trovano imprigionati i loro genitori che lottano per sopravvivere o la loro rinuncia a battersi nel mondo pieno di pregiudizi e di intolleranza dell'uomo bianco. Decidono che è meglio essere come i trafficanti che si fanno vedere in giro vestiti di tutto punto, con le tasche piene di quattrini, senza rispetto per niente e per nessuno. Così i ragazzi del ghetto vengono attratti da quel mondo di stupefacenti, furti, prostituzione, reati e immoralità di ogni genere . La prima volta che vidi davvero il pericolo che possono rappresentare questi adolescenti del ghetto se vengono spinti alla violenza, ne rimasi spaventato. In un bollente pomeriggio di estate partecipai ad un raduno in una strada di Harlem a cui erano presenti molti di questi giovani. Ero stato invitato da alcuni leader negri «responsabili» che normalmente non mi rivolgevano mai la parola. Sapevo che si erano serviti del mio nome per attirare un uditorio numeroso e più ci pensavo durante la strada e più la cosa mi faceva arrabbiare. Quando salii sulla tribuna, dissi al pubblico che in verità non ero desiderato a quella manifestazione e che ci si era serviti del mio nome, poi scesi dal palco . Ma perché decisi di fare una cosa del genere? Quei teenagers negri si arrabbiarono e cominciarono a correr di qua e di là urlando e mettendo in imbarazzo gli ascoltatori più adulti. Il traffico fu bloccato in tutte e quattro le direzioni da una folla il cui stato d'animo diventò ben presto così turbolento che ne fui preoccupato. Allora salii sul tetto di un'automobile e agitando le braccia gridai a quei ragazzi di calmarsi. Mi obbedirono e allora chiesi loro di disperdersi. Mi obbedirono anche in questo . Ciò accadeva quando si cominciava a dire che io ero l'unico negro in America che «poteva fermare o dare inizio a una rivolta razziale». Non so se potrei fare e l'una e l'altra cosa, ma so che quell'episodio mi aveva insegnato, in pochi minuti, a nutrire un grande rispetto per il fermento che è compresso nell'animo dei trafficanti e dei loro giovani ammiratori che abitano nei ghetti dove, da un secolo, l'uomo bianco del Nord ha rinchiuso il negro . La «lunga calda estate» del 1964 ad Harlem, Rochester e in altre città ha dato un'idea di quello che potrebbe succedere, ed è solo un'idea. Tutti questi tumulti rimasero confinati ad alcune località specifiche. Fate che alcuni di questi insopportabili ghetti ricevano la scintilla giusta, prendano fuoco, esplodano e si riversino fuori dei loro confini nelle zone dove abitano i bianchi! A New York City, lasciate che i negri infuriati si riversino fuori di Harlem attraverso il Central Park e si spargano dentro i tunnel della Quinta Avenue, di Madison, Lexington e Park Avenue; oppure prendete il South Side di Chicago, una zona di bassifondi ancora più vecchi e più orribili, e lasciate che i suoi abitanti negri si riversino in città! Pensate un po' che cosa succederebbe se i negri esasperati di Washington si dirigessero in massa sulla Pennsylvania Avenue! A Detroit si è già visto un raduno pacifico di più di CENTOMILA NEGRI. Pensate un po'. In qualunque città, a Cleveland, Philadelphia, San Francisco, Los Angeles c'è la dinamite della condizione sociale dei negri e là ribolle l'ira della nostra gente . Ho divagato su alcuni incidenti e situazioni da cui ho imparato a rispettare il pericolo che si nasconde nei ghetti e ho cercato di spiegare in che modo, e onestamente, valutavo le mie capacità per presentarmi come leader indipendente tra i negri . Alla fine pensai che la decisione fosse già stata presa per me . Le masse del ghetto mi avevano già identificato con l'immagine di uno dei loro capi e sapevo che esse concedono istintivamente la loro fiducia solo a chi abbia dimostrato che non le venderà mai all'uomo bianco. Non solo io non avevo simili intenzioni, ma il tradimento non fa parte della mia natura . Mi sentii come sfidato a pensare e costruire un'organizzazione che potesse contribuire a eliminare la malattia del negro americano a causa della quale si è lasciato finora schiacciare sotto il tallone dell'uomo bianco . Il negro americano era mentalmente malato per quella sua accettazione supina della cultura bianca; spiritualmente malato perché per secoli aveva accettato il cristianesimo dell'uomo bianco che chiedeva al cosiddetto cristiano negro non di aspettarsi una vera fratellanza tra gli uomini, ma di sopportare tutte le crudeltà dei cosiddetti cristiani bianchi. Questa religione aveva confuso, annebbiato e distorto il modo di pensare della nostra gente, ci aveva insegnato a credere che se non avevamo scarpe ed eravamo affamati «avremmo avuto scarpe, e latte e miele e pesce fritto in paradiso» . Il negro americano è economicamente malato e ciò appare chiaro da un semplice fatto. Come consumatore riceve meno della parte che gli spetta, mentre contribuisce meno di tutti al settore produttivo. Oggi il negro americano incarna alla perfezione l'immagine del parassita, vive nell'illusione di poter progredire solo perché si trova fra le pieghe della enorme pancia di questa enorme vacca che è l'America bianca. Per esempio, i negri spendono ogni anno più di tre miliardi di dollari in automobili, ma in America ci saranno due o tre concessionari negri. Ancora, il quaranta per cento del whisky scozzese più costoso che si consuma in America va giù per la gola dei negri affamati di prestigio sociale, ma le sole distillerie di proprietà dei negri sono nelle vasche da bagno o in qualche capanna sperduta nei boschi. Un altro esempio, forse il più scandaloso, lo abbiamo qui a New York City dove, con più di un milione di negri, le imprese commerciali di proprietà negra con più di dieci dipendenti non arrivano a venti. La nostra gente non può stabilizzare la vita delle nostre comunità perché non possiede né controlla le imprese commerciali al dettaglio . Più che in tutto il resto, poi, il negro americano è malato politicamente. Infatti lascia che l'uomo bianco lo divida facendogli accettare sciocchezze come quella di essere «democratico» negro, «repubblicano» negro, «conservatore» negro, oppure «liberale» negro, quando un blocco di dieci milioni di votanti negri potrebbe decidere l'equilibrio di potere nella politica americana, visto che il voto dell'uomo bianco è quasi sempre diviso in proporzioni uguali. Le urne elettorali sono un terreno in cui ogni negro potrebbe combattere con dignità per la causa della sua gente e con il potere e gli strumenti che l'uomo bianco capisce, rispetta, teme e di cui si serve. Sentite un po' cosa vi dico! Se un comitato di rappresentanti del blocco negro andasse a dire al peggiore «odiatore di "niggers"» di Washington: «Noi rappresentiamo dieci milioni di voti», ebbene, quello farebbe un salto sulla sedia e direbbe: «Davvero? Ma allora entrate!» Se i negri del Mississippi votassero compatti, Eastland farebbe finta di essere più liberale di Jacob Javits, oppure non riuscirebbe a mantenere il suo seggio. Altrimenti quale sarebbe la ragione per cui i politicanti razzisti si battono per tenere i negri lontani dalle urne? Tutte le volte che un gruppo può votare in blocco e decidere l'esito delle elezioni e tuttavia non lo fa, allora vuol dire che quel gruppo è politicamente malato. Ci fu un momento in cui gli immigrati fecero di Tammany Hall il più potente gruppo di potere della politica americana; nel 1880 fu eletto il primo sindaco cattolico irlandese di New York e nel 1960 l'America ebbe il suo primo presidente cattolico e irlandese. Se il negro americano votasse in blocco potrebbe disporre di una forza ancora maggiore . Negli Stati Uniti la vita politica è dominata da gruppi di pressione (lobbies) per la tutela degli interessi settoriali . Qual è quel gruppo che ha un interesse più urgente, che ha più bisogno delle pressioni di una lobby del negro? Le organizzazioni sindacali posseggono a Washington uno degli edifici più grandi tra quelli non di proprietà del governo, situato a un tiro di schioppo dalla Casa Bianca, e nessuna mossa politica viene fatta senza tener conto della loro opinione. Fu una lobby a far ottenere alle grandi società petrolifere l'esenzione fiscale per «prossimo esaurimento» e se oggi in America i coltivatori costituiscono il gruppo di pressione maggiormente sussidiato dal governo ciò è dovuto al fatto che milioni di agricoltori non votano come democratici, repubblicani, liberali o conservatori, ma come agricoltori . I medici hanno la miglior lobby di Washington e con la loro influenza riescono ad impedire che si voti un programma sociale di assistenza medica che milioni di persone vogliono e di cui hanno bisogno. Esiste una lobby dei produttori di barbabietola, dei commercianti di grano, degli allevatori di bestiame, una lobby della Cina e piccole nazioni che nessuno sente mai rammentare hanno a Washington le loro lobbies per la tutela dei loro particolari interessi . Il governo ha vari ministeri per trattare coi vari gruppi di pressione che si fanno sentire. Il dipartimento dell'Agricoltura si occupa dei bisogni dei coltivatori; c'è un dipartimento della Sanità, dell'Istruzione e dell'Assistenza pubblica, un dipartimento dell'Interno che si occupa anche degli indiani . Qual è il maggior problema dell'America di oggi? E' l'agricoltore, il medico oppure l'indiano? No, è il negro. Ci dovrebbe essere a Washington un dipartimento grande quanto il Pentagono che si occupasse delle infinite articolazioni del problema negro . Ventidue milioni di negri che hanno dato all'America quattrocento anni di fatiche, che hanno versato il loro sangue e sacrificato la loro vita su tutti i campi di battaglia fin dai tempi della Rivoluzione, che erano in America prima dei Pellegrini e molto tempo prima delle masse di immigrati e che ancora oggi sono inferiori a tutti! Ebbene, questi ventidue milioni di negri dovrebbero dare domani un dollaro a testa per costruire a Washington un grattacielo per la loro "lobby". Tutte le mattine, ogni membro del Congresso dovrebbe ricevere una comunicazione riguardo a ciò che il negro americano si aspetta, vuole e di cui ha bisogno. La voce della "lobby" negra dovrebbe martellare le orecchie dei parlamentari quando è in discussione una legge . I pilastri su cui si basa il funzionamento di questo paese sono la forza e il potere politicoeconomico. Il negro non ha la forza economica e ci vorrà del tempo perché possa procurarsela, ma ora ha quella politica e quindi il potere di cambiare il suo destino da un momento all'altro . Era un grosso compito quello di organizzare, come facevo io nella mia mente, un movimento che potesse contribuire a spingere il negro americano alla conquista dei suoi diritti umani e a curare le sue malattie mentali, spirituali, economiche e politiche. E' evidente però che se si vuol fare qualcosa di buono è necessario cominciare con un buon piano . In sostanza, l'organizzazione che speravo di creare sarebbe stata diversa dalla Nazione dell'Islam in quanto avrebbe accolto negri di ogni fede e messo in pratica le cose che quella aveva solo predicato . Circolavano voci, particolarmente nelle città della costa orientale, su che cosa avrei potuto fare. Ebbene, la prima doveva essere quella di attrarre gente più decisa di me. Ogni giorno i fratelli più audaci ed attivi che avevano lavorato con me nella moschea numero sette annunciavano, in sempre maggior numero, che abbandonavano la Nazione dell'Islam per venire con me, mentre, in un modo o nell'altro, venivo a sapere di poter contare sull'appoggio di negri non Muslim, ivi compreso un sorprendente numero di membri della classe media e della classe media superiore che erano stanchi del giochetto del prestigio sociale. Mi si chiedeva sempre più a gran voce quando avrei convocato una riunione, quando avrei cominciato a dar vita a un'organizzazione . Per tenere una prima riunione trattai l'affitto della sala da ballo Carver dell'albergo Theresa, situato all'angolo tra la Centoventicinquesima Strada e la Settima Avenue, angolo che potrebbe esser chiamato uno dei quadri di controllo di Harlem . Il giornale «Amsterdam News» riferì dell'intenzione di convocare tale riunione e molti lettori interpretarono la notizia come se noi volessimo aprire la nostra moschea nell'albergo Theresa. Da tutto il paese mi giunsero telegrammi, lettere e chiamate telefoniche lì all'albergo; tutti esprimevano la convinzione che si trattasse di una mossa che la gente aspettava da tempo . Ricevetti espressioni addirittura commoventi di fiducia da parte di sconosciuti e molti mettevano in rilievo che si erano tenuti lontani dalla Nazione dell'Islam a causa delle sue esagerate prescrizioni morali e che ora erano dispostissimi ad unirsi a me . Un medico, proprietario di una piccola clinica, mi telefonò da un'altra città per comunicarmi la sua adesione; molti altri mandarono il loro contributo anche prima che avessimo espresso pubblicamente il nostro programma. Molti Muslims mi scrissero da altre città che si sarebbero uniti a me e nelle loro lettere si trovavano continui riferimenti al fatto che «la Nazione dell'Islam non è abbastanza attiva... si muove troppo lentamente» . Un sorprendente numero di bianchi telefonò e scrisse offrendo contributi o chiedendo se potevano aderire. La risposta fu no: i membri della nostra organizzazione avrebbero dovuto essere tutti negri, ma se si sentivano solidali in coscienza avrebbero potuto contribuire finanziariamente per sostenere il nostro atteggiamento costruttivo di fronte ai problemi razziali dell'America . Ricevetti inviti a tenere conferenze e dibattiti, ventidue nella posta di un solo lunedì mattina, e rimasi assai sorpreso di constatare che un insolito numero di tali inviti veniva da gruppi di pastori cristiani bianchi . Convocai una conferenza stampa. Mi trovai circondato da microfoni, mentre balenavano i lampi dei fotografi e i giornalisti, uomini e donne, bianchi e negri, che rappresentavano mezzi di comunicazione di massa capaci di raggiungere tutto il mondo, stavano seduti davanti a me con i loro taccuini aperti e i lapis pronti . Feci la seguente dichiarazione: «Ho intenzione di organizzare e dirigere a New York City una nuova moschea, chiamata Muslim Mosque Inc., che costituirà la base religiosa e ci darà la forza spirituale necessaria per liberare la nostra gente dai vizi che distruggono la fibra morale della nostra comunità . «La Muslim Mosque Inc. avrà la sua sede temporanea all'albergo Theresa di Harlem. Essa costituirà la piattaforma di partenza per un programma di azione volto ad eliminare l'oppressione politica ed economica e la degradazione sociale di cui sono quotidianamente vittime ventidue milioni di afroamericani» . Poi i giornalisti cominciarono il fuoco di fila delle domande . Non fu tutto così semplice come può sembrare a sentirlo raccontare. Pochi erano i posti che frequentavo in cui non provassi la continua consapevolezza che molti dei miei ex fratelli erano convinti di diventare eroi della Nazione dell'Islam se mi avessero ucciso. Sapevo come la pensavano i seguaci di Elijah Muhammad: io stesso avevo insegnato a molti di loro a pensare. Sapevo che nessuno ucciderebbe più rapidamente di un Muslim convinto che quella sia la volontà di Allah . C'era anche un'altra importante fase della mia preparazione che sapevo di dover compiere: ci avevo pensato da lungo tempo, come servo di Allah. Per questo ci volevano dei soldi che non avevo . Presi l'aereo per Boston. Ancora una volta mi rivolgevo a mia sorella Ella. Sebbene fosse stata talvolta provocata da me, in fondo in fondo, da quando ero andato da lei come un giovane vagabondo che veniva dal Michigan, Ella non mi aveva mai voltato le spalle . «Voglio fare il pellegrinaggio alla Mecca », le dissi . «Di quanto hai bisogno?» rispose Ella . Capitolo diciassettesimo . LA MECCA . Il pellegrinaggio alla Mecca, conosciuto come "Hajj", è un obbligo religioso che ogni maomettano ortodosso adempie, se è umanamente possibile, almeno una volta nella sua vita . Il Corano dice che «il pellegrinaggio alla Ka'ba è un dovere che gli uomini hanno verso Dio: quelli che possono fanno il viaggio» . Allah disse: «Proclamate il pellegrinaggio tra gli uomini: essi verranno da te a piedi e cavalcando i magri cammelli; verranno da ogni gola profonda» . Di solito, dopo aver parlato in questo o in quel college o università, nelle riunioni informali che seguivano il mio discorso venivano a presentarsi come arabi, africani del Nord o mediorientali dei musulmani dalla pelle bianca che si trovavano ad abitare negli Stati Uniti oppure c'erano in visita o per studio. Essi mi avevano detto che, malgrado le mie denunce contro i bianchi, ritenevano che fossi sincero nel considerarmi un musulmano e che se avessi avuto modo di conoscere quella che loro chiamavano la «vera religione dell'Islam», l'avrei capita ed abbracciata. Automaticamente, come seguace di Elijah Muhammad, avevo reagito tutte le volte che mi si dicevano queste cose . Eppure, dopo parecchie di queste esperienze, mi domandavo nell'intimità della mia mente: se si è sinceri nel professare una religione, perché non si dovrebbe allargare la propria conoscenza di essa? Una volta, nel corso di una conversazione con il figlio di Elijah Muhammad, Wallace, lasciai trapelare questo mio dubbio e lui mi rispose che sì, certamente, era dovere di tutti i musulmani cercar d'imparare tutto quanto potevano sull'Islam . Avevo sempre tenuto in grande considerazione le opinioni di Wallace Muhammad . Tutti i musulmani ortodossi che avevo conosciuto, tutti, uno dopo l'altro, avevano insistito perché andassi a conoscere il dottor Mahmoud Youssef Shawarbi. Me ne avevano parlato come di un musulmano colto e illustre, laureato presso l'università del Cairo e quella di Londra, insigne conferenziere sui problemi dell'Islam, consulente delle Nazioni Unite e autore di molti libri. Era professore ordinario all'università del Cairo ed aveva temporaneamente lasciato l'insegnamento per venire a New York come direttore della Federazione delle associazioni islamiche degli Stati Uniti e del Canada. Parecchie volte, quando mi ero trovato a passare in macchina da quella parte della città, avevo resistito all'impulso di entrare nella sede della FIA, posta in un edificio di pietra al numero 1 di Riverside Drive. Poi, un giorno, il dottor Shawarbi ed io ci conoscemmo attraverso un giornalista . Fu molto cordiale e mi disse di aver seguito le mie attività attraverso la stampa. Per parte mia gli riferii quello che avevo sentito di lui e conversammo per quindici o venti minuti. Poi dovemmo lasciarci perché ambedue avevamo degli impegni, ma, mentre eravamo sul punto di stringerci la mano, mi disse qualcosa che non avrei dimenticato. «Nessuno può credere in maniera perfetta finché non desidera per il suo fratello ciò che desidera per se stesso» . Poi c'era mia sorella Ella. Non riuscivo a scordare quello che aveva fatto. Come ho detto prima, è una negra della Georgia grande e grossa, e i suoi modi da dominatrice l'avevano fatta espellere dalla moschea numero undici di Boston della Nazione dell'Islam. Poi la ripresero, ma lei se ne andò definitivamente da sé. Aveva cominciato a studiare sotto i musulmani ortodossi di Boston e poi aveva fondato una scuola dove si insegnava l'arabo. Siccome non riusciva a parlarlo, aveva assunto degli insegnanti. Ella è fatta così: si occupa di compra-vendita di immobili e poi mette da parte i soldi per fare il pellegrinaggio! Rimanemmo tutta la notte nel salotto di casa sua a discutere. Lei mi disse che non c'erano questioni: era molto più importante che andassi io. Durante il mio volo di ritorno a New York non feci che pensare a Ella. Una donna davvero forte che aveva annichilito tre mariti, poiché era più attiva e dinamica di tutti loro messi insieme. Aveva avuto una parte decisiva nella mia vita. Nessun'altra donna era mai stata forte abbastanza per dirmi in che direzione dovevo muovermi: anzi ero sempre stato io a dirigere. Se Ella aveva abbracciato l'Islam, era per merito mio ed ora era lei che mi dava i soldi per andare alla Mecca . Quando si è con Allah, lui vi offre sempre dei segni per farvi capire che è con voi . Mentre facevo la domanda per ottenere il visto per la Mecca dal consolato dell'Arabia Saudita l'ambasciatore mi disse che a nessun musulmano convertito in America era concesso di compiere il pellegrinaggio "Hajj" senza l'approvazione scritta del dottor Mahmoud Shawarbi. Non era che il primo dei segni di Allah . Quando telefonai al dottor Shawarbi egli si mostrò stupito: «Stavo proprio per mettermi in contatto con voi, - mi disse; ma certo, venite subito!» Quando arrivai nel suo ufficio, il dottor Shawarbi mi dette la lettera firmata in cui mi veniva concesso il permesso di fare lo "Hajj" alla Mecca e un libro, "L'eterno messaggio di Maometto" di Abd ar-Rahman Azzam . Il dottor Shawarbi mi disse che l'autore aveva spedito la copia del suo libro per me, che si trattava di un cittadino arabo nato in Egitto, statista internazionale e collaboratore fra i più intimi del principe Faisal, il capo dell'Arabia. «Vi ha seguito con molta attenzione sulla stampa». Mi riuscì difficile crederlo . Il dottor Shawarbi mi dette il numero del telefono di suo figlio Muhammad, studente al Cairo ed anche quello del figlio dell'autore del libro Omar Azzam che abitava a Gedda («la vostra ultima fermata prima della Mecca. Chiamateli tutti e due per favore!») Lasciai New York in incognito, senza minimamente prevedere il mio clamoroso ritorno. Pochi erano stati informati della mia partenza. Non volevo che, all'ultimo minuto il dipartimento di Stato o qualcun altro mi mettesse i bastoni fra le ruote. Solo mia moglie Betty, le mie tre bambine e alcuni collaboratori mi accompagnarono all'aeroporto internazionale Kennedy. Quando il jet della Lufthansa decollò, i miei due vicini ed io ci presentammo. Un altro segno! Erano tutti e due musulmani: uno andava come me al Cairo e l'altro a Gedda dove sarei arrivato dopo pochi giorni . Durante tutto il viaggio fino a Francoforte parlai con i miei vicini o lessi il libro che mi era stato dato. Quando atterrammo, il fratello che andava a Gedda si congedò calorosamente da me e dall'altro fratello diretto al Cairo . Prima di prendere la coincidenza ci fu una sosta di alcune ore che decidemmo di dedicare a una visita di Francoforte . Nella toilette dell'aeroporto incontrai il primo americano che mi riconobbe, uno studente bianco di Rhode Island. Prima mi guardò con insistenza a lungo e poi mi venne incontro. «Siete X? » Io risi e dissi sì. Nessuno mi si era mai rivolto in quel modo. Lui esclamò: «Non può essere! Perbacco, nessuno mi crederà quando lo racconterò!» Poi mi disse che studiava in Francia . Il fratello musulmano ed io fummo colpiti dal cordiale senso di ospitalità della gente di Francoforte. Entrammo in parecchi negozi più per curiosare che per comprare e ogni volta i commessi o i padroni ci salutavano. Gente che non ci aveva mai visto prima e che sapeva che eravamo stranieri! Quando ce ne andavamo senza aver comprato nulla, venivamo salutati con la medesima cordialità. In America si entra in un negozio, si spendono cento dollari e quando si esce si è sempre estranei . Sia il cliente che i venditori agiscono come se si facessero un favore reciproco, mentre gli europei si comportano in modo molto più umano. Il fratello musulmano, che parlava tedesco abbastanza per farsi capire, spiegava che eravamo seguaci della religione dell'Islam e allora notavo la reazione che avevo già visto in America quando mi si guardava come un musulmano e non come un negro. Era come se la gente mi considerasse un essere umano e i loro sguardi, il loro modo di parlare e tutto il loro contegno erano diversi. In un piccolo negozio di Francoforte, il proprietario si appoggiò al banco e indicando i passanti con la mano disse: «Un giorno da questa parte e un altro giorno da quest'altra...» Il fratello musulmano mi spiegò che quello voleva dire che i tedeschi avrebbero di nuovo alzato la testa . Tornati all'aeroporto di Francoforte prendemmo un aereo delle United Arab Airlines diretto al Cairo. Una grande folla composta di musulmani provenienti da ogni parte e diretti in pellegrinaggio si abbracciava con effusione. Era gente di ogni colore e l'atmosfera era cordiale e amichevole: ebbi la sensazione che non esistesse alcun problema di colore e per me fu come se fossi uscito di prigione . Avevo detto al fratello musulmano che volevo stare un paio di giorni al Cairo da turista prima di continuare per Gedda. Mi diede il suo numero di telefono e mi disse di chiamarlo perché voleva che mi unissi a un gruppo di suoi amici che parlavano inglese, che sarebbero andati in pellegrinaggio e che quindi mi avrebbero conosciuto volentieri. Al Cairo passai due giorni felici da turista. Rimasi piacevolmente sorpreso nel vedere scuole moderne, grandi complessi di edilizia popolare, autostrade e zone industriali . Avevo letto e sentito dire che l'amministrazione del presidente Nasser aveva creato uno dei paesi più industrializzati del continente africano, ma credo che la cosa che mi sorprese di più fu che al Cairo si fabbricassero automobili ed anche autobus . Andai a far visita al figlio del dottor Shawarbi, Muhammad Shawarbi, un giovane di diciannove anni che studiava economia e scienze politiche all'università del Cairo. Mi disse che il sogno di suo padre era di costituire un'università dell'Islam negli Stati Uniti . Quelli che conobbi restarono sbalorditi quando appresero che ero un musulmano proveniente dall'America. Tra di essi c'era uno scienziato egiziano che con sua moglie stava andando alla Mecca in pellegrinaggio, e che insistette perché andassi a cena con loro in un ristorante di Eliopoli, un quartiere periferico del Cairo. Era una coppia molto intelligente ed estremamente bene informata. Lo scienziato mi disse che il processo di industrializzazione in corso in Egitto era una delle ragioni per cui le potenze occidentali erano così ostili al suo paese, che serviva da modello alle altre nazioni africane. Sua moglie mi chiese: «Perché nel mondo c'è tanta gente che muore di fame quando l'America ha tanti prodotti agricoli in sovrappiù? Cosa fanno, buttano tutto a mare quello che non possono vendere?» «Sì, - risposi io, - ma ne caricano una parte nelle stive delle navi o in granai appositamente affittati e in magazzini refrigeranti, lasciano tutta quella roba lì, con un piccolo esercito di custodi, finché diventa immangiabile. Poi un altro esercito di spazzini ripulisce i locali per far posto alla prossima mandata di prodotti agricoli eccedenti». Mi guardò quasi con aria incredula: probabilmente pensava che stessi scherzando, ma i contribuenti americani sanno che questa è la verità. Non mi spinsi fino a dirle che, proprio negli Stati Uniti ci sono tanti affamati . Telefonai al mio amico musulmano e fui accolto dal gruppo dei suoi amici che stavano per partire per il pellegrinaggio . Eravamo in otto e tra di noi c'erano un giudice e un funzionario del ministero della Pubblica Istruzione. Parlavano tutti un ottimo inglese e mi accolsero come un fratello. Considerai ciò come un altro segno di Allah perché dovunque mi rivolgevo, trovavo sempre qualcuno pronto ad aiutarmi e a guidarmi . In arabo il significato letterale della parola "Hajj" è «muoversi verso un obiettivo ben definito». Nella legge islamica vuol dire dirigersi verso la Ka'ba, la Casa Sacra, e adempiere i riti del pellegrinaggio. All'aeroporto del Cairo i gruppi dei partecipanti all'"Hajj" diventavano "Muhrim", pellegrini, poiché entravano nello stato di "Ihram", premessa d'una condizione spirituale e fisica consacrata. Seguii il consiglio di lasciare al Cairo tutto il mio bagaglio e quattro macchine fotografiche di cui una da ripresa. Avevo comprato una valigetta grande abbastanza per contenere un vestito, delle camicie, due ricambi di biancheria e un paio di scarpe. Mentre andavamo in macchina all'aeroporto, cominciai a innervosirmi sapendo che da quel momento avrei dovuto guardare quello che facevano gli altri e cercare di imitarli . Entrando nello stato di "Ihram", ci togliemmo gli abiti e ci coprimmo con due asciugamani bianchi, uno, l'"Izar", avvolto intorno alle reni, e l'altro, il "Rida", gettato sul collo e sulle spalle in modo che il braccio e la spalla destra restassero nudi. Un paio di semplici sandali, i "na'l", lasciavano scoperte le caviglie. Sopra l'"Izar" che ci fasciava le reni portavamo una cintola per mettere il denaro, mentre una borsa come quelle delle donne, provvista di una lunga cinghia, serviva a portare il passaporto e gli altri documenti importanti, tra i quali c'era la lettera che mi aveva dato il dottor Shawarbi . All'aeroporto tutte le migliaia di persone in procinto di partire per Gedda erano vestite in questo modo. Non si poteva distinguere un re da un contadino e alcune potenti personalità, che mi vennero indicate con discrezione, avevano addosso gli stessi indumenti che avevo io. Quando fummo così abbigliati, cominciammo tutti insieme a scandire la parola: «Labbayka! Labbayka!» (Eccomi, o Signore). L'aeroporto risuonava delle voci dei "Muhrim" che esprimevano la loro intenzione di compiere il viaggio dello "Hajj" . Ogni pochi minuti decollavano aerei carichi di pellegrini, ma all'aeroporto ce n'erano sempre di più, circondati dai loro amici e parenti che erano venuti ad accompagnarli. Quelli che non partivano chiedevano agli altri di pregare per loro alla Mecca. Eravamo già in volo quando seppi per la prima volta che, a causa dell'affollamento, non ci sarebbe stato posto per me, ma che erano state fatte delle pressioni e qualcuno era stato escluso perché non si voleva deludere un musulmano americano. La mia reazione fu un misto di dispiacere per aver causato involontariamente danno a chi era stato escluso per far posto a me e insieme di grande umiltà e riconoscenza per essere stato fatto segno di un tale onore e rispetto . Nell'aereo, tutti stretti insieme, c'erano bianchi, negri, rossi, gialli, gente dalla pelle scura, dagli occhi azzurri e dai capelli biondi e i miei capelli rosso rame, tutti insieme, tutti fratelli, tutti lì per onorare lo stesso Allah, ciascuno rispettando in egual misura gli altri! Partita da qualcuno del nostro gruppo, si sparse rapidamente la voce che ero un musulmano venuto dall'America e molti si voltarono verso di me con sorrisi di saluto. Fu passata una scatola piena di roba da mangiare e mentre consumavamo il pasto, ai membri dell'equipaggio fu detto che ero un musulmano americano . Il capitano venne allora a fare la mia conoscenza. Era un egiziano con la pelle più scura della mia: avrebbe potuto passeggiare ad Harlem senza esser notato da nessuno. Si disse entusiasta di conoscere un musulmano americano e quando mi invitò a visitare la cabina di comando fui lietissimo di una tale possibilità . Il secondo pilota aveva la pelle ancora più scura della sua. Non so dirvi l'impressione che mi fece: non avevo mai visto un negro guidare un aereo a reazione. Guardavo il quadro degli strumenti: come doveva essere difficile sapere a cosa servivano tutti quei quadranti e quelle lancette! Ambedue i piloti mi sorridevano e mi trattavano con lo stesso rispetto cui ero stato fatto segno da quando avevo lasciato l'America. Rimasi là con gli occhi fissi a guardare, attraverso il vetro, il cielo davanti a noi . In America avevo volato probabilmente più di qualsiasi altro negro, ma non ero mai stato invitato nella cabina di comando mentre qui ero accanto a due compagni di viaggio musulmani, uno che veniva dall'Egitto e l'altro dall'Arabia, potevo andare nella cabina del pilota e tutti noi ci sentivamo uniti dal comune legame della nostra partecipazione al pellegrinaggio verso la Mecca. Sapevo che Allah era con me . Tornai al mio posto. Per tutto il viaggio, che durò circa un'ora, noi pellegrini gridavamo: «Labbayka! Labbayka!» L'aeroplano atterrò a Gedda, che è un porto del Mar Rosso, il punto di arrivo e di sbarco per tutti i pellegrini che vanno in Arabia per recarsi alla Mecca, quaranta miglia ad oriente di essa, verso l'interno . L'aeroporto di Gedda mi apparve anche più affollato di quello del Cairo. Il nostro gruppo si unì all'enorme massa di gente in cui erano rappresentate tutte le razze. Ognuno, sia isolato che in gruppo, cercava di aprirsi il varco verso la lunga fila di gente che aspettava di passare la dogana. Prima di compiere le operazioni doganali, a ciascun gruppo di pellegrini veniva assegnato un "Mutawaf", a cui competeva la responsabilità di farli arrivare da Gedda alla Mecca. Alcuni pellegrini gridavano «Labbayka!» mentre altri, che talvolta facevano parte di grossi gruppi, cantavano all'unisono una preghiera che tradurrò così: «Non mi sottometto a nessun altro all'infuori di Te, o Allah, non mi sottometto a nessun altro. Mi sottometto a Te perché non dividi il Tuo potere con nessuno. Tutte le lodi e le benedizioni vengono da Te e Tu sei solo nel Tuo regno». L'essenza di questa preghiera è l'unicità di Dio . Solo i funzionari non portavano l'acconciatura "Ihram" né le candide papaline o le lunghe tuniche bianche che sembravano quasi delle camicie da notte e le ciabattine dei "Mutawaf" che, come ho detto, erano quelli che guidavano ogni gruppo di pellegrini, e i loro collaboratori. In arabo il suono "mmm" preposto a un verbo lo trasforma in sostantivo verbale, per cui «Mutawaf » vuol dire «colui che guida» i pellegrini nel "Tawaf", che è la deambulazione intorno alla Ka'ba, alla Mecca . Ero nervoso mentre camminavo strascicando i piedi al centro del nostro gruppo che faceva la fila in attesa del controllo passaporti. Ero in uno stato di apprensione. «Guardate cosa do a questa gente, - pensavo. - Sono nel mondo musulmano, proprio a due passi dalla Sorgente e mostro loro il passaporto americano che significa proprio l'opposto di tutto ciò per cui si batte l'Islam» . Il giudice che faceva parte del mio gruppo si accorse del mio stato di tensione e mi batté sulla spalla. Dappertutto, verso chiunque mi voltassi, avevo quasi una sensazione fisica di amore, umiltà e vera fratellanza. Poi il nostro gruppo arrivò davanti agli impiegati che esaminavano con attenzione passaporti e bagagli e facevano cenno col capo a ciascun pellegrino di passare . Ero così nervoso che quando andai per girare la chiavetta nella serratura della mia valigia e la trovai bloccata, forzai addirittura la chiusura per paura che potessero credere che portavo qualcosa di proibito. L'impiegato prese il mio passaporto americano, lo guardò attentamente alzando gli occhi verso di me e disse qualcosa in arabo. Gli amici che mi circondavano cominciarono anche loro a parlare in arabo, a gesticolare e indicarmi col dito, nel tentativo di intercedere per me. Il giudice mi chiese in inglese di mostrare la lettera del dottor Shawarbi e la diede all'impiegato che la lesse . Questi la restituì protestando: ero sicuro di poterlo dire . Intorno a me si stava discutendo di me ed io mi sentivo come uno stupido, incapace di dire una parola e persino di comprendere cosa si diceva. Alla fine, il giudice si rivolse a me con aria triste . Mi spiegò che dovevo presentarmi davanti alla "Mahgama Sharia" che era il tribunale musulmano incaricato di esaminare tutti i convertiti, probabilmente non autentici, alla religione islamica che cercavano di entrare alla Mecca. Era assolutamente fuori discussione che un non musulmano potesse recarsi in pellegrinaggio . I miei amici dovevano dunque proseguire per la Mecca senza di me. Sembravano assai preoccupati per la mia sorte e anch'io lo ero. Riuscii a trovare le parole da dir loro: «Non vi preoccupate. Tutto andrà bene. Allah mi guida». Dissero che avrebbero pregato ogni ora per me. Il "Mutawaf" col barracano bianco insisteva perché andassero, in modo da non interrompere il ritmo del flusso umano all'aeroporto. Stetti a guardarli mentre si allontanavano. Ci salutammo fino all'ultimo agitando la mano . Erano circa le tre di un venerdì mattina. Non avevo mai visto un simile affollamento di gente, ma non mi ero mai sentito più solo e impotente da quando non ero più bambino. Il peggio era che, nel mondo musulmano, il venerdì è un po' l'equivalente della domenica per i cristiani. Il venerdì tutti i membri di una comunità musulmana si riuniscono per pregare insieme e ciò è chiamato "yaum al-jumu'a", il giorno della riunione. Voleva dire che i tribunali erano chiusi e che avrei dovuto aspettare almeno fino al sabato . Un funzionario fece cenno a un giovane arabo, collaboratore di un "Mutawaf". In un inglese stentato mi spiegò che mi avrebbero condotto a un posto vicino all'aeroporto e che avrei dovuto lasciare il passaporto alla dogana. Avrei voluto obiettare qualcosa, dato che il primo principio di chi è in viaggio è di non separarsi mai dal proprio passaporto, ma tacqui. Tutto avvolto negli asciugamani e con i piedi calzati dai sandali, seguii l'aiuto guida che indossava la bianca papalina, una lunga tunica candida e pantofole. Credo che il solo vederci fosse uno spettacolo. La gente che ci passava accanto parlava tutte le lingue ed io non ero in grado di parlare la lingua di nessuno . Mi trovavo proprio nei guai . Appena fuori dell'aeroporto c'era una moschea e sopra l'aeroporto un immenso edificio tipo dormitorio a quattro piani . Poco prima dell'alba era quasi buio e gli aerei che partivano e atterravano con regolarità illuminavano le piste con le loro luci e il cielo era punteggiato dai fanali di coda a luce intermittente. Pellegrini provenienti dal Ghana, dall'Indonesia, dal Giappone e dalla Russia, per limitarci a rammentare solo alcuni, entravano e uscivano dal dormitorio verso cui mi stavano accompagnando. Non credo che le macchine da presa abbiano mai colto uno spettacolo umano più pittoresco di quello che videro i miei occhi. Arrivati al dormitorio, salimmo su fino al quarto piano incontrando dappertutto rappresentanti di ogni razza . C'erano cinesi, indonesiani, afgani; molti non si erano ancora acconciati alla "Ihram" e portavano i loro costumi nazionali . Era un po' come sfogliare dei numeri della rivista «National Geographic» . Giunti al quarto piano, la mia guida mi indicò un compartimento in cui c'erano una quindicina di persone che, in gran parte, dormivano arrotolate sui loro tappeti. Riconobbi tra di esse alcune donne che avevano la testa e i piedi coperti. Un vecchio musulmano russo e sua moglie erano svegli e mi guardarono con franchezza; due musulmani egiziani e un persiano si alzarono in piedi a guardare mentre la mia guida si dirigeva verso un angolo del locale. A gesti mi fece capire che mi avrebbe insegnato le posizioni rituali della preghiera. Immaginate un po' essere un pastore Muslim, un leader della Nazione dell'Islam di Elijah Muhammad e ignorare il rituale della preghiera! Cercai di imitare quello che faceva lui, ma ero cosciente di non farlo bene. Sentivo su di me gli occhi degli altri musulmani. Le membra di un uomo dell'Occidente non possono fare quello che le membra dei musulmani hanno fatto per tutta la vita. Per sedersi gli asiatici si accoccolano, mentre gli occidentali stanno impettiti sulle sedie. Quando la mia guida si metteva in una data posizione cercavo di fare il possibile per mettermici anch'io ma mi muovevo goffamente, ero troppo rigido. Dopo circa un'ora la mia guida se ne andò facendomi capire che sarebbe tornata più tardi . Non pensai neanche a dormire. Sotto gli sguardi degli altri musulmani continuai a esercitarmi nelle posizioni della preghiera. Facevo di tutto per non pensare a come loro mi dovevano trovare ridicolo. Comunque, dopo un po' di tempo, imparai un piccolo trucco che mi permetteva di piegarmi proprio a contatto col pavimento, ma dopo due o tre giorni cominciarono a gonfiarmi le caviglie . Allo spuntar dell'alba, via via che i musulmani addormentati si svegliavano, si accorgevano subito di me: ci osservavamo con sguardo attento mentre loro si preparavano ad andarsene. Fu allora che cominciai a capire l'importanza del tappeto nella vita culturale dei musulmani. Ciascuno aveva un piccolo tappeto da preghiera mentre marito e moglie, o gruppi di persone, ne avevano uno più grande in comune. Là in quel compartimento del dormitorio i musulmani pregavano sui loro tappeti, poi vi stendevano una tovaglia e mangiavano in modo che il tappeto faceva da sala da pranzo. Una volta tolti i piatti e la tovaglia, sedevano sul tappeto che faceva da sala di soggiorno e, finalmente, si arrotolavano e ci dormivano sopra, così che il tappeto finiva per fare anche da camera da letto. In quel compartimento prima di andarmene, capii per la prima volta perché i ricettatori avevano pagato un prezzo così alto per i tappeti orientali che avevo rubato quando facevo lo scassinatore a Boston. Il motivo andava ricercato nell'enorme cura che occorre per tessere dei buoni tappeti in paesi in cui vengono adoperati per usi così molteplici e culturalmente significativi . Più tardi, alla Mecca, vidi che il tappeto serviva anche ad un altro uso: quando si verificava una disputa, qualche personalità degna del massimo rispetto o che era estranea ad essa si sedeva su di un tappeto con i litiganti intorno a lei, il che trasformava il tappeto in un tribunale. In altri casi serviva anche da aula scolastica . Uno dei musulmani egiziani, in particolare, continuava a guardarmi con la coda dell'occhio. Gli sorrisi, lui si alzò e mi venne vicino. «Hello!» mi disse con fraterna solennità . Gli ricambiai sorridendo lo stesso saluto e poi gli chiesi come si chiamava. «Nome? Nome?...» Cercava disperatamente, ma non gli veniva. Tentammo di dirci qualche altra parola, ma credo che il suo vocabolario inglese consistesse in neanche una ventina di vocaboli. Ciò bastava per scoraggiarmi. Cercavo di fargli capire almeno qualche parola. «Cielo» e col dito gli facevo segno verso l'alto. Lui sorrideva. «Cielo», gli ripetevo facendogli segno che ripetesse anche lui la parola. Mi obbediva. «Aeroplano.. . tappeto... piede... sandalo... occhi...» e via di seguito. Poi accadde qualcosa di straordinario. Ero così contento di essere riuscito a stabilire una qualche comunicazione con un essere umano che dicevo tutto quello che mi veniva in mente. «Muhammad Ali Clay», dissi. Tutti i musulmani che mi ascoltavano si illuminarono come un albero di natale. «Voi? Voi?...», e il mio amico puntava il dito verso di me. Scossi la testa: «No, no, Muhammad Ali Clay è mio amico, A-M-ICO!» Mi capirono solo a metà e anzi alcuni di loro non mi capirono affatto tanto è vero che cominciò a circolare la voce che Cassius Clay, il campione del mondo dei pesi massimi, ero io. Più tardi avrei saputo che praticamente tutti gli uomini, le donne e i bambini del mondo musulmano avevano sentito dire del modo in cui Sonny Liston, che per essi aveva l'immagine di una specie di orco mangia uomini, era stato battuto, nel corso di un combattimento simile a quello tra David e Golia, da Cassius Clay il quale, allora, di fronte al mondo, aveva proclamato che il suo nome era Muhammad Ali, l'Islam la sua religione e che doveva ad Allah la sua vittoria . L'aver stabilito questo rapporto era la miglior cosa che avrebbe potuto accadermi in tali circostanze. Il fatto di essere un musulmano americano fece sì che gli altri non si limitassero a guardarmi, ma cercassero di venirmi vicino e di comunicare con me. Tutti si misero a sorridermi e ci guardavamo intensamente con franchezza e interesse. Mi consideravano con curiosità dalla testa ai piedi, con interesse da amici. Era come se fossi un marziano . L'aiuto del "Mutawaf" ritornò facendomi capire che dovevo seguirlo. Mi indicò dalla finestra la moschea e capii che era venuto a prendermi per accompagnarmi alla preghiera mattutina, "El Sobh", che si fa sempre prima del sorgere del sole. Lo seguii e passammo attraverso enormi folle di pellegrini che parlavano tutte le lingue tranne l'inglese. Ero risentito verso me stesso per non aver dedicato più tempo, prima di partire dall'America, per imparare più cose sul rito ortodosso della preghiera. Nella Nazione dell'Islam di Elijah Muhammad non si pregava in arabo. Dodici anni prima, o forse anche di più, quand'ero in prigione, un membro del movimento musulmano ortodosso di Boston, che si chiamava Abdul Hamed, era venuto a farmi visita e più tardi mi aveva mandato delle preghiere in arabo. A quel tempo le avevo imparate foneticamente, ma da allora non le avevo più recitate . Decisi di lasciare che la guida facesse tutto prima e di limitarmi ad osservarla. Non era difficile visto che era ben disposto. Proprio fuori della moschea c'era un lungo camminamento con una fila di rubinetti. Prima di pregare si dovevano fare le abluzioni e questo lo sapevo. Eppure, anche guardando il collaboratore del "Mutawaf", non le feci bene. Il musulmano ortodosso ha un modo ben preciso di lavarsi, che è molto importante . Lo seguii nella moschea, a distanza di appena un passo, stando bene attento a tutti i suoi movimenti. Si prostrò fino a toccare con la testa il pavimento. «Bi-smi-llahi-r-Rahmain-rRahim» (Nel nome di Allah, il Benefico, il Misericordioso). Tutte le preghiere musulmane cominciano così. Dopo può darsi che non borbottassi le parole giuste, ma una cosa è certa: borbottavo . Non vorrei che quello che sto dicendo sembrasse uno scherzo. Per me era diverso. Chi fosse stato lì a guardarmi si sarebbe accorto che non dicevo quello che dicevano gli altri . Dopo la preghiera dell'alba, la mia guida mi accompagnò di nuovo al quarto piano del dormitorio. A cenni mi disse che sarebbe tornato entro tre ore e poi se ne andò . Dalla nostra finestra si godeva una splendida vista della zona dell'aeroporto. In piedi davanti al davanzale, guardavo gli aerei che partivano e atterravano a intermittenze regolari . Migliaia e migliaia di persone provenienti da ogni parte del mondo formavano pittoresche macchie in movimento. Vidi gruppi che partivano per la Mecca in autobus, camion, automobile; alcuni che si apprestavano a coprire il percorso di quaranta miglia a piedi. Desiderai di poter fare lo stesso anch'io . Almeno quello ero in grado di farlo! Avevo paura di pensare a cosa sarebbe potuto succedere in futuro. Non mi avrebbero accettato come pellegrino? Mi domandavo in che cosa sarebbe consistita la prova e quando avrei potuto presentarmi al tribunale musulmano . Il persiano che stava nel compartimento con noi mi venne vicino, mi salutò e con una certa esitazione mi disse: «Amer.. . americano?» Mi fece segno di andare sul suo tappeto a far colazione con lui e la moglie. Sapevo che quella era una offerta addirittura straordinaria: non si prende il tè con la moglie di un musulmano. Non volevo disturbare e non so se il persiano lo capì quando sorridendo scossi la testa come per dire «No, grazie». Mi portò un po' di tè e dei biscotti. Fino a quel momento non avevo neppure pensato a mangiare . Gli altri mi facevano dei gesti. Mi venivano vicino, mi sorridevano e mi facevano cenni col capo. Il mio primo amico, quello che parlava un po' d'inglese, se n'era andato. Io non lo sapevo ma lui stava spargendo la voce che al quarto piano c'era un musulmano americano. Il movimento divenne più intenso nel nostro compartimento: musulmani con l'acconciatura alla "Ihram" o ancora nei loro costumi nazionali passavano intorno lentamente, sorridendo. La cosa durò finché fui lì ma, per parte mia, non sapevo ancora di essere io l'attrazione . Sono sempre stato un tipo inquieto e curioso. Il collaboratore del "Mutawaf" non tornò entro tre ore come promesso ed io mi innervosii. Temevo che mi volesse lasciar perdere perché mi considerava refrattario ad ogni aiuto. A questo punto cominciavo anche a sentir fame davvero. Tutti i musulmani del compartimento mi avevano offerto da mangiare ed io avevo rifiutato. Devo ammetterlo, la ragione fu che non conoscevo il loro modo di mangiare: tutto era contenuto in un solo recipiente posto al centro del tappeto e vedevo che prendevano il cibo con le mani . Rimasi lì in piedi sulla balaustra ad osservare il cortile sottostante e poi decisi di fare un giretto esplorativo per conto mio. Andai giù fino al primo piano, poi pensai che forse non avrei dovuto allontanarmi tanto perché poteva darsi che qualcuno mi venisse a cercare. Perciò tornai al nostro compartimento, ma dopo circa tre quarti d'ora scesi di nuovo giù. Questa volta ero sicuro di potermi orientare e perciò mi spinsi più lontano. Vidi che nel grande cortile c'era un piccolo ristorante e, una volta entrato, lo trovai affollatissimo. Vi risuonavano le lingue più diverse ed io, a gesti, riuscii a comprare un pollo intero arrosto e qualcosa come delle patate fritte a pezzi molto grossi. Tornai nel cortile e, servendomi delle mani, feci a pezzi il pollo. Del resto tutti i musulmani intorno a me facevano la stessa cosa. Vidi degli uomini di almeno settant'anni che si accovacciavano con le gambe incrociate fin quasi a diventare addirittura un nodo umano e che mangiavano con tale dignità e soddisfazione come se si trovassero in un ristorante di lusso serviti da uno stuolo di camerieri. Tutti mangiavano e dormivano come se fossero Uno; l'atmosfera del pellegrinaggio sottolineava, in ogni suo aspetto, l'Unità dell'Uomo sotto un Solo Dio . Durante il giorno feci diversi viaggi tra il compartimento e il cortile, ogni volta curiosando sempre più in angoli che non avevo ancora visto. A un dato momento vidi due negri insieme . Feci loro un cenno col capo e quasi mi venne da gridare di gioia quando uno di essi mi rivolse la parola in inglese. Aveva uno spiccato accento britannico. Prima che arrivasse il loro gruppo che era pronto a partire per la Mecca, avemmo modo di informarci sulle rispettive nazionalità: erano etiopi. Ero disperato: ora che finalmente avevo trovato due musulmani che parlavano l'inglese, ecco che se ne andavano. I due etiopi avevano studiato al Cairo ed ora abitavano a Ryadh, la capitale politica dell'Arabia. Più tardi, con mia sorpresa, avrei scoperto che dieci dei diciotto milioni di abitanti dell'Etiopia sono musulmani. In generale si pensa che questo sia un paese cristiano, ma in realtà lo è solo il suo governo che le potenze occidentali hanno sempre aiutato a restare al potere . Avevo finito di dire la preghiera del tramonto, "El Maghrib", e stavo sdraiato sul mio lettino al quarto piano nel solito compartimento, sentendomi triste, quando, improvvisamente, fu come se la luce squarciasse le tenebre . In realtà fu un pensiero improvviso. In una delle mie scorrerie giù nel cortile avevo notato quattro funzionari seduti davanti a un tavolo su cui c'era un telefono. Associando la loro immagine e quella del telefono mi venne a mente che, a New York, il dottor Shawarbi mi aveva dato il numero del figlio dell'autore del libro. Omar Azzam abitava proprio qui a Gedda . In pochi secondi fui giù a pianterreno e mi diressi verso il luogo dove avevo visto i quattro funzionari. Uno di essi parlava inglese abbastanza da farsi capire ed io, tutto eccitato, gli mostrai la lettera del dottor Shawarbi che lui prima lesse e poi rilesse ad alta voce per gli altri tre suoi colleghi. «Un musulmano americano!» Quasi mi riusciva di vedere dipinto sui loro volti il modo in cui questa notizia colpiva la loro immaginazione e curiosità. Chiesi a quello che parlava inglese se per favore poteva telefonare al dottor Omar Azzam al numero che avevo. Lui fu contento di farlo e, quando dall'altra parte del filo giunse una risposta, conversò a lungo in arabo . Il dottor Omar Azzam venne subito all'aeroporto e, con grande gioia dei quattro funzionari, mi diede un caloroso benvenuto . Era giovane, alto e dalla corporatura muscolosa: direi che sarà stato un metro e novantacinque di altezza. Aveva modi estremamente fini: in America sarebbe stato preso per un bianco, ma, e la cosa mi colpì subito, dal modo in cui si comportava non riuscivo a considerarlo come un uomo bianco. «Perché non mi avete chiamato prima?» mi domandò. Poi fece vedere un documento ai quattro funzionari e si servì del loro telefono per chiamare qualche dirigente dell'aeroporto. «Venite con me», disse . In meno di mezz'ora mi fece rilasciare, andammo a prendere la mia valigia e il mio passaporto alla dogana e attraversammo la città di Gedda con la sua automobile. Io ero sempre vestito con l'acconciatura "Ihram" e i sandali ed ero sbalordito di fronte all'atteggiamento di quest'uomo e alla sensazione fisica che tra di noi, come esseri umani, non c'era nessuna differenza. Per anni avevo sentito parlare dell'ospitalità musulmana, ma un simile calore non avrei mai potuto immaginarlo. Cominciai a fargli delle domande. Il dottor Azzam si era laureato in ingegneria in Svizzera e si occupava di urbanistica. Il governo dell'Arabia Saudita lo aveva rilevato dalle Nazione Unite per fargli dirigere tutto il lavoro di ricostruzione dei luoghi sacri del paese. La sorella del dottor Azzam era la moglie del figlio del principe Faisal. Io ero dunque in automobile con il cognato del figlio del capo dell'Arabia e Allah non si era limitato a fare soltanto questo. «Mio padre sarà felicissimo di conoscervi», disse il dottor Azzam. Avrei parlato con l'autore che mi aveva mandato il suo libro in omaggio . Gli feci delle domande su suo padre. Abd ar-Rahman Azzam era conosciuto come Azzam Pasha, o Lord Azzam fino alla rivoluzione egiziana, quando il presidente Nasser abolì tutti i titoli nobiliari. «Dovrebbe essere a casa mia quando arriviamo disse il dottor Azzam, - sta gran parte dell'anno a New York impegnato presso le Nazioni Unite e vi ha sempre seguito con grande interesse» . Restai ammutolito dallo stupore . Quando arrivammo a casa del dottor Azzam era l'alba, eppure c'erano lì ad aspettarci suo padre con il fratello, un chimico e un altro amico. Tutti mi abbracciarono come se fossi stato un figlio dopo lungo tempo ritrovato. Non avevo mai visto questi uomini prima eppure mi trattavano con grande riguardo: mai in tutta la mia vita ero stato così onorato, mai mi era stata offerta un'ospitalità tanto sincera . Un cameriere ci portò tè e caffè e poi scomparve. Insistettero perché mi mettessi in libertà. Da nessuna parte si vedevano donne e, in Arabia, verrebbe facilmente fatto di pensare che non ce ne fossero. Il dottor Abd ar-Rahman Azzam dominava la conversazione. Perché non avevo chiamato prima? Non riuscivano a capirlo. Stavo bene? Sembravano imbarazzati dal fatto che avevo dovuto passare quel po' di tempo all'aeroporto, per quel contrattempo che aveva ritardato il mio viaggio alla Mecca. Per quanto protestassi energicamente che stavo benissimo e non avevo subito alcun danno da quell'inconveniente, loro non mi davano retta. Il dottor Azzam mi disse che dovevo riposare e andò di là a telefonare . Non potevo certamente immaginare cosa stava facendo quest'uomo insigne e quando mi si disse che mi avrebbero riaccompagnato quella sera per cena e che nel frattempo dovevo tornare alla macchina, come avrei potuto immaginarmi che stavo per vedere il compendio dell'ospitalità musulmana? Quand'era in patria, Abd ar-Rahman Azzam abitava in un appartamento all'albergo Palace di Gedda. Siccome ero arrivato con una lettera di presentazione di un amico egli sarebbe stato a casa di suo figlio e mi avrebbe lasciato il suo appartamento all'albergo finché non fossi partito per la Mecca . Quando mi accorsi di tutto ciò era ormai inutile protestare: ero già nell'appartamento, il dottor Azzam figlio se n'era andato e non c'era quindi nessuno con cui protestare. L'appartamento di tre stanze aveva un bagno grande il doppio di una camera matrimoniale all'albergo Hilton di New York e aveva persino una grande terrazza da cui si godeva un magnifico panorama dell'antica città del Mar Rosso. Il numero dell'appartamento era 214 . Mai prima di allora avevo provato un impulso tanto forte a pregare, cosa che feci prostrato sul tappeto del salotto . Niente, nessuna delle mie due esistenze di negro in America era servita a infondermi tendenze idealistiche. Istintivamente, quasi per una reazione automatica, analizzavo le ragioni, i motivi che poteva avere chi faceva per me qualcosa che non sarebbe stato obbligato a fare. Sempre, durante tutta la mia vita, se si trattava di un bianco avevo visto nelle sue azioni delle ragioni egoistiche . Ma là, quella mattina, in quell'albergo, dopo quella telefonata e a poche ore di distanza dall'essere sdraiato sul lettino al quarto piano del dormitorio, mi trovai, come mi era successo pochissime volte, talmente sbigottito da non poter più opporre alcuna resistenza. Quell'uomo bianco, o che almeno sarebbe stato considerato tale in America, parente del capo dell'Arabia e suo consigliere intimo, un uomo veramente cosmopolita che non aveva davvero nulla da guadagnare, aveva lasciato il suo appartamento per consentirmi di stare più comodamente. Non aveva NULLA da guadagnare e non aveva bisogno di me; possedeva tutto quello che voleva e in verità aveva molto di più da perdere che da guadagnare. Attraverso la stampa americana aveva seguito tutti i miei passi e certamente sapeva che su di me c'era un marchio d'infamia. Mi attribuivano caratteri diabolici; ero un «razzista», ero «antibianco» e lui sembrava proprio un bianco . Si diceva che io fossi un criminale e non soltanto ciò, ma tutti arrivavano persino ad accusarmi di servirmi della sua religione dell'Islam per camuffare le mie teorie e le mie azioni criminali. Anche se avesse avuto qualche ragione per servirsi di me, sapeva che ormai mi ero diviso da Elijah Muhammad e dalla Nazione dell'Islam che, secondo la stampa americana, era stata la mia «piattaforma operativa». L'unica organizzazione a cui potevo appoggiarmi era nata poche settimane prima; non avevo un lavoro né dei soldi e per poter arrivare dov'ero avevo dovuto farmi prestare i soldi da mia sorella . Quella mattina cominciai, per la prima volta, a considerare sotto altra luce l'«uomo bianco», a sentire che l'espressione «uomo bianco», così com'è usata comunemente, si riferisce solo in misura secondaria al colore della pelle e riguarda invece in primo luogo gli atteggiamenti e le azioni. In America «uomo bianco» voleva dire certi atteggiamenti e certe azioni specifiche nei confronti del negro e di tutta la restante popolazione di colore, ma nel mondo musulmano, avevo potuto constatare che gli uomini con la pelle bianca si comportavano, nei confronti degli altri, più fraternamente di chiunque avessi mai conosciuto . Quella mattina segnò l'inizio di un mutamento radicale in tutto il mio modo di considerare i bianchi . A questo punto è meglio che citi quello che scrissi sul mio taccuino, circa a mezzogiorno, nell'albergo: «Non riesco a descrivere la mia agitazione mentre sto qui aspettando di presentarmi davanti alla commissione dello "Hajj". La finestra dà sul mare a ponente; le strade sono piene di pellegrini che vengono da ogni parte del mondo; ogni preghiera è rivolta ad Allah e i versetti del Corano sono in bocca a tutti. Non ho mai visto uno spettacolo così bello, non ho mai assistito a una cosa simile né ho mai sentito un'atmosfera come questa. Sebbene sia agitato, mi sento sicuro e protetto, lontano come sono migliaia di miglia dalla vita completamente diversa che ho vissuto finora. Pensate che ventiquattr'ore fa ero in una stanza al quarto piano del dormitorio sopra l'aeroporto, circondato da gente con la quale non potevo comunicare, solo e incerto del futuro. Poi, seguendo le indicazioni del dottor Shawarbi, ho fatto quell'unica telefonata e così ho conosciuto uno degli uomini più potenti del mondo musulmano. Presto dormirò nel suo letto qui all'albergo Palace di Gedda. So di essere circondato da amici di cui posso toccare con mano la sincerità e il fervore religioso. Devo pregare ancora Allah per ringraziarlo di questa benedizione e perché mia moglie e le mie bambine rimaste in America siano sempre benedette per tutti i loro sacrifici» . Come avevo detto nel mio diario, recitai ancora due preghiere, poi dormii per circa quattro ore finché non suonò il telefono. Era il giovane dottor Azzam che tra un'ora sarebbe venuto a riprendermi per portarmi a cena. Balbettai parecchie parole di ringraziamento per esprimere la gratitudine che provavo, ma lui mi interruppe dicendo: «Ma sha' Allah», che vuol dire «E' il volere di Allah» . Colsi l'occasione per andar giù nell'entrata e dare un'occhiata in giro ancora prima che arrivasse il dottor Azzam. Quando aprii la porta, proprio dall'altra parte del corridoio vidi un uomo che, vestito da cerimonia e circondato dai suoi aiutanti, si dirigeva anche lui al piano inferiore. Li seguii prima per le scale e poi attraverso il salone d'ingresso. Fuori c'era una piccola carovana di automobili in attesa. Il mio vicino uscì dalla porta principale dell'albergo Palace di Gedda e una folla gli si raccolse intorno per baciargli la mano. Seppi che era il gran muftì di Gerusalemme. Più tardi, nell'albergo, avrei avuto occasione di parlare con lui per una mezz'ora. Era un uomo di grande dignità, dai modi molto cordiali, al corrente su tutte le questioni internazionali, compresi gli ultimi sviluppi della situazione americana . Non dimenticherò mai quella cena a casa degli Azzam. Di nuovo cito dal mio diario: «Non potevo neppure pensare che questi fossero "bianchi" perché i più giovani si comportavano come se fossero miei fratelli e l'anziano dottor Azzam come se fosse mio padre. Si capiva subito che era un diplomatico di straordinaria abilità, dalla mente molto aperta e con un atteggiamento senza pregiudizi verso tutte le cose; era al corrente dei problemi mondiali così come certa gente lo è su quanto accade nel salotto di casa sua . «Più parlavamo e più mi sembrava che la gamma delle sue conoscenze fosse illimitata. Ci diceva della successione razziale dei discendenti di Maometto il Profeta dimostrandoci che erano sia bianchi che negri e poi sottolineava il fatto che il colore, i complessi problemi accentrati intorno al colore che esistono nel mondo musulmano, esistono soltanto in quelle zone che in misura maggiore hanno subito l'influenza dell'Occidente . Diceva che le differenze nell'atteggiamento verso il colore della pelle erano direttamente proporzionali alla misura dell'influenza occidentale» . Mentre eravamo a cena seppi che il tribunale del comitato per lo "Hajj" era stato messo al corrente del mio caso e che avrei dovuto presentarmi la mattina dopo . Il giudice era lo sceicco Muhammad Harkon. Il tribunale era vuoto: gli unici due presenti eravamo io e una sorella che veniva dall'India, che prima era stata protestante e poi si era convertita all'Islam e che, come me, cercava di compiere il pellegrinaggio. Era una donna dalla pelle bruna con un volto piccolo, quasi completamente coperto dal velo. Il giudice Harkon era una persona gentile che colpiva per la sua dignità . Parlammo, mi fece parecchie domande sulla sincerità delle mie intenzioni e io gli risposi con tutta la franchezza di cui ero capace. Non soltanto mi riconobbe come un vero musulmano, ma mi diede due libri, uno in inglese ed uno in arabo; poi scrisse il mio nome nel Sacro Registro dei veri musulmani. Mentre ci apprestavamo a congedarci mi disse: «Spero che diventerete un grande predicatore dell'Islam in America». Gli risposi di condividere quella stessa speranza e che avrei fatto del mio meglio per cercare di trasformarla in realtà . Gli Azzam furono molto contenti di sentire che ero stato riconosciuto idoneo per andare alla Mecca. Facemmo colazione al Palace di Gedda e poi dormii ancora per parecchie ore finché non mi svegliò il telefono . Era Muhammad Abdul Azziz Maged, l'assistente all'ufficio cerimoniale del principe Faisal, il quale mi disse: «Un'automobile speciale sarà messa a vostra disposizione per accompagnarvi alla Mecca subito dopo cena». Mi consigliò poi di mangiare, abbondantemente e con serenità poiché il rito dello "Hajj" richiede molte energie . A questo punto rimasi davvero sbalordito . Due giovani arabi mi accompagnarono alla Mecca e il viaggio fu reso assai facile dalla modernissima e ben illuminata autostrada. Ogni pochi chilometri gli agenti della polizia della strada guardavano l'automobile, ma l'autista faceva un segno e quelli ci facevano passare senza neanche dover rallentare. Ero eccitato e mi sentivo, nello stesso tempo, importante, umile e riconoscente . Quando arrivammo, la Mecca mi sembrò antica come il tempo . L'automobile procedeva lentamente attraverso le stradette tortuose, piene di negozi da tutti e due i lati mentre si vedevano dappertutto autobus, automobili e camion carichi di migliaia di pellegrini provenienti da ogni parte del mondo . Ci fermammo brevemente in un posto dove mi stava aspettando un "Mutawaf". Portava la papalina bianca e la lunga, candida tunica che avevo visto all'aeroporto; era un arabo basso dalla pelle bruna che si chiamava Muhammad e non sapeva neanche una parola d'inglese . Parcheggiammo vicino alla Grande Moschea, facendo le nostre abluzioni e poi entrammo. C'erano così tanti pellegrini, sdraiati, a sedere, che dormivano, pregavano o passeggiavano da dare l'impressione che fossero tutti uno sopra l'altro . Non ho parole per descrivere la nuova moschea che si stava costruendo intorno alla Ka'ba. Mi entusiasmai al pensiero che quello era solo uno dei colossali progetti di ricostruzione che dirigeva il giovane dottor Azzam, lo stesso di cui ero appena stato ospite. Quando sarà finita, la Grande Moschea della Mecca supererà per bellezza architettonica il Taj Mahal dell'India . Seguii il "Mutawaf" portando in mano i sandali. Poi vidi la Ka'ba, un'enorme pietra nera nel mezzo della Grande Moschea . Intorno ad essa passeggiavano migliaia e migliaia di pellegrini in preghiera, gente di ambo i sessi, di tutte le dimensioni, le forme, i colori e le razze del mondo. Conoscevo la preghiera che deve dire il pellegrino quando i suoi occhi si posano per la prima volta sulla Ka'ba. Tradotta suona così: «Oh Allah, Tu sei la pace, e la pace deriva da Te. Salutaci, o Signore, con la pace». Quando il pellegrino entra nella Moschea dovrebbe cercare, se è possibile, di baciare la Ka'ba, ma se la folla gli impedisce di avvicinarsi, allora basta che la tocchi e se non è possibile neanche quello, deve alzare la mano e gridare «Takbir!» (Allah è grande). Io non riuscii ad accostarmi più di una decina di metri dalla Ka'ba. «Takbir!» Là nella Casa di Allah mi sentii come intorpidito. Il mio "Mutawaf" mi guidava tra la folla dei pellegrini che pregavano, cantavano e giravano sette volte intorno alla Ka'ba. Alcuni erano rattrappiti e incartapecoriti dall'età e la loro era una vista che non si dimentica. Quelli che non potevano muoversi erano trasportati da altri: tutti avevano sul volto la luce della fede. Dopo il settimo giro intorno alla Ka'ba pronunciai due "Rak'a" prostrandomi con la faccia sul pavimento. Alla prima genuflessione, pronunciai il verso del Corano: «Egli è il solo e unico Dio», e alla seconda: «Voi miscredenti, vi dico che non adoro quello che voi adorate...» Mentre facevo le mie genuflessioni, il "Mutawaf" teneva lontani i pellegrini per impedire che mi calpestassero . Poi, insieme con la mia guida, andai a bere l'acqua del pozzo di Zem Zem e corremmo tra le due colline Safa e Marwa dove Agar vagò in cerca di acqua per suo figlio Ismaele . Dopo questa visitai la Grande Moschea e camminai intorno alla Ka'ba altre tre volte. Il giorno seguente, subito dopo il sorgere del sole, migliaia di noi si misero in cammino verso il monte Arafat, tutti gridando lamentosamente all'unisono: «Labbayka! Labbayka!» e «Allah Akbar!» La Mecca è circondata dalle montagne più squallide che si possano immaginare. Sembrano fatte con le scorie degli altiforni e su di esse non cresce un filo d'erba. Arrivammo a mezzogiorno e fino al tramonto pregammo e cantammo, recitando le speciali preghiere dell'"Asr" (pomeriggio) e del "Maghrib" (tramonto) . Alla fine alzammo le mani con gesti di implorazione e ringraziamento, ripetendo le parole di Allah: «Non c'è altro Dio che Allah. Egli non divide il Suo potere con nessuno. Suoi sono l'autorità e il merito. Tutto il bene viene da Lui ed Egli ha potere su tutte le cose» . La visita al monte Arafat concludeva i riti fondamentali richiesti a chi faceva il pellegrinaggio alla Mecca. Chi mancava di adempiere quest'ultimo dovere non poteva considerarsi un pellegrino . L'"Hiram" era finito. Gettammo le sette pietre tradizionali al diavolo; alcuni si fecero tagliare i capelli e la barba; io, per parte mia, decisi che me la sarei lasciata. Mi domandavo cosa mia moglie Betty e le nostre bambine avrebbero detto quando, di ritorno a New York, mi avrebbero visto con la barba. Mi sembrava che New York fosse lontana un milione di miglia. Da quando ero partito non avevo visto un giornale che avrei potuto leggere e non avevo idea di cosa succedeva là. La polizia aveva scoperto un club negro per tiratori scelti che esisteva da più di dodici anni ad Harlem e si strombazzava a tutti i venti che io «avevo a che fare con esso». La Nazione dell'Islam di Elijah Muhammad mi aveva citato in tribunale per costringermi a lasciare la casa di Long Island in cui abitavo con la mia famiglia . Le principali stazioni radio e televisive e i maggiori giornali americani avevano al Cairo i loro inviati che cercavano dappertutto di stabilire un contatto con me per intervistarmi circa il furore che avevo presumibilmente provocato a New York . Io non ne sapevo niente. Sapevo soltanto quello che avevo lasciato in America e come fosse in contrasto con quello che avevo trovato nel mondo musulmano. Una ventina di noi che avevamo finito lo "Hajj" stavamo seduti in una enorme tenda sul monte Arafat ed io, per il fatto di essere un musulmano americano, ero al centro dell'attenzione. Mi chiedevano qual era l'aspetto dello "Hajj" che più mi aveva fatto impressione. Uno dei molti che parlavano inglese mi faceva le domande e poi tutti traducevano le mie risposte per gli altri. A quella domanda risposi non direttamente come loro si sarebbero aspettato, ma me ne servii per sottolineare il concetto che più mi interessava . «LA FRATELLANZA! - dissi. - Popoli di tutte le razze, di ogni colore, che vengono da tutto il mondo insieme, come se fossero una cosa sola! Ciò mi ha provato il potere dell'Unico Dio» Può darsi che non sia stato di buon gusto, ma quella domanda mi dette la possibilità di far loro un piccolo discorso sul razzismo dell'America e sui mali che da esso derivano . Mi accorsi ben presto in che misura ne restarono colpiti . Sapevano che la sorte del negro americano era «brutta», ma non erano consapevoli che fosse disumana, che si trattasse di una vera e propria castrazione psicologica. Questa gente che veniva da altre parti del mondo rimase allibita. In quanto musulmani si sentivano portati a sostenere tutti i disgraziati e a coltivare nobili sentimenti di verità e giustizia e da tutto quello che io dicevo si accorsero ben presto del criterio che adoperavo per misurare ogni cosa: che per me il più esplosivo e pernicioso male del mondo è il razzismo, l'incapacità, specialmente nel mondo occidentale, delle creature di vivere in unità . Da allora ho riflettuto sulla circostanza che la lettera che mi misi finalmente a scrivere aveva già inconsciamente preso forma nella mia mente . Il DISINTERESSE per il colore della pelle che notavo sia nella società religiosa che in quella umana del mondo musulmano esercitò su di me una influenza quotidiana sempre maggiore e mi persuase sempre di più a cambiare il mio modo precedente di pensare . Naturalmente la prima lettera che scrissi fu per mia moglie Betty. Non avevo dubitato neppure per un momento che, dopo un'iniziale meraviglia, ella sarebbe stata d'accordo con me . Avevo avuto migliaia di prove che la sua fiducia in me era assoluta e sapevo che avrebbe visto quello che avevo visto io e cioè che, nella terra di Maometto e di Abramo, Allah mi aveva concesso di comprendere la vera religione dell'Islam e di penetrare meglio l'intero meccanismo del dilemma razziale dell'America . Dopo aver scritto a mia moglie, buttai giù un'altra lettera quasi uguale nelle linee generali indirizzandola a mia sorella Ella. Sapevo come la pensava: aveva messo da parte i soldi per fare lei stessa un pellegrinaggio alla Mecca . Scrissi anche al dottor Shawarbi che con la sua fiducia nella mia sincerità mi aveva consentito di ottenere un passaporto per la Mecca . Trascorsi tutta la notte a copiare analoghe, lunghe lettere per altri che mi erano molto vicini. Tra di essi il figlio di Elijah Muhammad, Wallace, che mi aveva espresso la convinzione che l'unico modo possibile per salvare la Nazione dell'Islam fosse di farle accettare e diffondere un miglior modo di intendere il pensiero islamico ortodosso . Poi scrissi ai miei fedeli collaboratori della Muslim Mosque Inc. di Harlem da poco fondata, aggiungendo in calce la richiesta di distribuire alla stampa la mia lettera . Sapevo che quando, in America, quella mia lettera fosse diventata di dominio pubblico, molti dei miei cari, dei miei amici ed anche nemici, sarebbero rimasti sbalorditi e non meno di loro lo sarebbero stati i milioni di persone che non conoscevo e che, durante i dodici anni che avevo passato con Elijah Muhammad, si erano formati l'immagine di Malcolm X «seminatore di odio» . Anch'io ero sbalordito, ma nella mia vita c'era un precedente: era stata sempre una successione di CAMBIAMENTI . Ecco cosa scrissi, proprio strappando queste parole dal fondo del mio cuore: «Non ho mai visto tanta sincera ospitalità e un così travolgente spirito di vera fratellanza quali sono praticati dai popoli di ogni colore e di tutte le razze qui in questa antica Terra Santa, patria di Abramo, Maometto e di tutti gli altri profeti delle Sacre Scritture. Durante quest'ultima settimana son rimasto addirittura senza parole di fronte alla gentilezza che, intorno a me, dimostrano i popoli DI OGNI COLORE . «Ho goduto del privilegio di visitare la Città Santa della Mecca; ho compiuto i miei sette giri intorno alla Ka'ba sotto la guida di un giovane "Mutawaf" di nome Muhammad; ho bevuto l'acqua dal pozzo di Zem Zem; ho corso sette volte su e giù tra le colline di Al-Safa e AlMarwah; ho pregato nell'antica città di Mina e sul monte Arafat . «C'erano decine di migliaia di pellegrini provenienti da ogni parte del mondo, gente di ogni colore, dai biondi cogli occhi azzurri agli africani dalla pelle color mogano, ma tutti prendevano parte allo stesso rito dando prova di uno spirito di unità e fratellanza che le mie esperienze in America mi avevano portato a credere non potesse mai esistere tra bianchi e uomini di colore . «L'America ha bisogno di comprendere l'Islam perché questa è l'unica religione capace di cancellare il problema razziale da quella società. Durante i miei viaggi nel mondo musulmano, ho conosciuto, ho parlato ed ho persino mangiato con gente che in America sarebbe stata considerata bianca, eppure l'atteggiamento e i complessi dell'uomo bianco erano stati rimossi dalle loro menti grazie alla religione dell'Islam. Non ho mai visto prima una fratellanza così sincera, sentita da tutti, indipendentemente dal colore della pelle . «Può darsi che queste mie parole vi facciano una profonda impressione, ma quello che ho visto e sperimentato durante questo mio pellegrinaggio mi ha costretto a rivedere molte delle mie posizioni precedenti e a scartare alcune delle mie conclusioni. Per me questo non è stato molto difficile perché, malgrado la fermezza delle mie convinzioni ho sempre cercato di guardare i fatti e di accettare la realtà della vita così come viene sviluppandosi attraverso nuove esperienze e una nuova consapevolezza. Ho sempre cercato di tenere aperta la mente, cosa questa necessaria per garantire quella flessibilità che è inseparabile da qualsiasi forma di intelligente ricerca del vero . «Durante gli ultimi undici giorni che ho passato qui nel mondo musulmano, ho mangiato nello stesso piatto, bevuto dallo stesso bicchiere e dormito nello stesso letto, o sullo stesso tappeto, mentre pregavamo lo STESSO DIO, con fratelli musulmani che avevano gli occhi più azzurri, i capelli più biondi e la pelle più bianca di tutti gli uomini bianchi che ho conosciuto. Eppure nelle PAROLE, nei GESTI e nelle AZIONI di questi musulmani bianchi ho trovato la stessa sincerità che ho potuto riscontrare tra i musulmani della Nigeria, del Sudan e del Ghana . «Eravamo VERAMENTE tutti fratelli perché la loro fede in un solo Dio aveva cancellato il "bianco" dalle loro MENTI, dal loro MODO DI COMPORTARSI e di affrontare la realtà . «Partendo da questa esperienza arrivai a pensare che forse se i bianchi d'America potessero accettare l'unicità di Dio, allora potrebbero magari accettare anche l'unità dell'uomo e smetterla di misurare, opprimere e danneggiare gli altri a causa del diverso colore della pelle . «Poiché il razzismo infetta l'America come un cancro incurabile, il cuore del cosiddetto cristiano bianco dovrebbe essere più aperto di fronte a un mezzo capace di risolvere un problema tanto distruttivo. Forse ci potrebbe essere ancora tempo per salvare l'America dal disastro imminente, dalla stessa distruzione che il razzismo portò sulla Germania e, alla fine, rovinò gli stessi tedeschi . «Ogni ora che trascorro qui nella Terra Santa mi aiuta a capire con maggior profondità cosa sta succedendo in America tra bianchi e negri. Non si può condannare il negro americano per la sua animosità razziale poiché non fa altro che reagire a quattrocento anni di razzismo coscientemente applicato dai bianchi americani. Ma mentre il razzismo porta l'America sulla strada del suicidio, posso dire basandomi sulle esperienze che ho avuto, di nutrire la speranza che i bianchi della giovane generazione, gli studenti dei college e delle università capiranno le cause del problema e molti di loro si metteranno sulla strada SPIRITUALE della VERITA', L'UNICA rimasta all'America se vuole evitare la catastrofe verso cui il razzismo inevitabilmente la conduce . «Non ho mai ricevuto onori così grandi e non mi sono mai sentito più umile e indegno. Chi crederebbe a tutte le benedizioni che sono state concesse a un NEGRO AMERICANO? Poche sere fa un uomo che in America sarebbe chiamato "bianco", un diplomatico presso le Nazioni Unite, un ambasciatore, un amico di re, mi ha dato il suo appartamento di albergo, il suo letto. Attraverso quest'uomo, il principe Faisal che governa questa Terra Santa fu avvertito della mia presenza qui a Gedda e la mattina seguente il figlio del principe Faisal in persona mi informava che per volontà e decisione del suo degno padre io sarei stato ospite dello stato . «Lo stesso assistente al cerimoniale mi accompagnò davanti al tribunale dello "Hajj" e lo sceicco Muhammad Harkon dette il suo beneplacito per la mia visita alla Mecca, mi regalò due libri sull'Islam con il suo personale sigillo ed autografo dicendomi che pregava perché diventassi un predicatore dell'Islam in America. Sono state messe a mia disposizione un'automobile con l'autista e una guida perché possa viaggiare a mio piacimento in questa Terra Santa. Dovunque vado, il governo mi mette a disposizione un appartamento con l'aria condizionata e servizio . Mai avrei potuto sognare, io che sono negro, di poter ricevere simili onori che in America verrebbero concessi soltanto a un re . «Tutto il merito è di Allah, il Signore di tutti i mondi . «Con affetto El-Hajj Malik El-Shabazz (Malcolm X)» Capitolo diciottesimo . EL-HAJJ MALIK EL-SHABAZZ . Il principe Faisal, il sovrano assoluto dell'Arabia, mi aveva elevato al rango di ospite dello stato. Tra le cortesie e privilegi che tale condizione comportava, preferivo in particolar modo e lo dico senza vergogna - l'automobile con l'autista, il quale mi portava in giro per la Mecca facendomi da guida in tutti i luoghi di una qualche importanza. Una parte della Città Santa sembrava antichissima, mentre altri quartieri avevano l'aspetto di un sobborgo di Miami. Non riesco a descrivere cosa provai quando posi le mani a contatto con la stessa terra su cui, quattromila anni prima, avevano camminato i grandi profeti . «Il musulmano americano » suscitava dovunque grande curiosità ed interesse. Molte volte fui scambiato per Cassius Clay e un giornalista locale pubblicò una fotografia di noi due insieme alle Nazioni Unite. Tramite il mio autista-guida-interprete mi furono fatte decine di domande su Cassius. Persino i bambini avevano sentito parlare di lui e lo amavano. Là nel mondo musulmano e, in seguito a massicce richieste, in tutta l'Asia e l'Africa, era stato proiettato il film del suo incontro. In quella fase della sua carriera, il giovane Cassius era riuscito a colpire l'immaginazione di tutto il mondo di colore e ad assicurarsene l'appoggio . Mi recai in automobile al monte Arafat e a Mina per partecipare alla recita di speciali preghiere. Muoversi su quelle strade era quanto di più caotico avessi mai visto: un traffico da incubo, un continuo strider di freni, automobili che slittavano da tutte le parti e un infernale strombettio di clackson. Fra parentesi, ho l'impressione che nella Terra Santa tutti guidino nel nome di Allah. Avevo cominciato ad imparare le preghiere in arabo e ora la principale difficoltà era quella fisica. La posizione di preghiera a cui non ero abituato mi aveva fatto gonfiare l'alluce, che mi faceva male . Tuttavia le abitudini del mondo musulmano non mi sembravano più strane. Ora riuscivo a prendere con le mani il cibo dal piatto comune posto al centro del tappeto; bevevo senza esitazioni dallo stesso bicchiere degli altri, mi lavavo nella stessa caraffetta di acqua e dormivo, insieme ad altri otto o dieci, su di un tappeto all'aria aperta. Mi svegliavo talvolta circondato da fratelli musulmani che dormivano e mi accorgevo che i pellegrini di ogni parte del mondo, di ogni colore, classe e grado, alti funzionari e mendicanti, tutti russavano nella stessa lingua . Credo che in quelle parti della Terra Santa che visitai venissero consumate un milione di bottiglie di bibite e dieci milioni di sigarette. Particolarmente i musulmani arabi fumavano in continuazione persino durante il pellegrinaggio. Il vizio del fumo non era stato inventato ai tempi del profeta Maometto perché altrimenti credo che lui lo avrebbe certamente proibito . Più tardi mi si disse che quello era stato il più grande pellegrinaggio della storia contemporanea. Kasem Gulick, membro del parlamento turco, mi informò tutto raggiante che dalla sola Turchia erano partiti seicento autobus con più di cinquemila musulmani. Gli dissi che sognavo il giorno in cui navi ed aerei carichi di musulmani americani sarebbero venuti alla Mecca per lo "Hajj" . In queste enormi folle c'erano delle specifiche determinazioni di colore. Appena mi capitò di osservare questo fenomeno, prestai la massima attenzione per meglio individuarlo, anche perché il fatto di essere americano mi rendeva assai sensibile al problema del colore. Vidi che la gente dello stesso tipo si attirava e in gran parte dei casi stava unita. Tutto ciò era assolutamente volontario, senza alcun'altra ragione, ma gli africani stavano con gli africani, quelli del Pakistan con i loro compatrioti e così via. Mi proposi di ricordarmi questo fatto e, una volta tornato in America, di dire a tutti questa mia osservazione che là dove esisteva una vera fratellanza tra gente di ogni colore, là dove nessuno si sentiva segregato, dove non c'era nessun complesso di «superiorità» o di «inferiorità», allora volontariamente, come reazione del tutto naturale, la gente si sentiva attirata da quelli con cui aveva più caratteristiche in comune . La prossima volta che farò il pellegrinaggio, è mia intenzione di imparare l'arabo almeno abbastanza per farmi capire . Ignorante e tagliato fuori com'ero da ogni comunicazione cogli altri, fui fortunato di trovare nella Terra Santa degli amici pazienti che mi fecero da interpreti. Mai prima nella mia vita mi ero sentito così sordo e muto come quando non c'era vicino un interprete per tradurmi quello che si diceva intorno a me o di me, o quello che mi dicevano gli altri musulmani prima di sapere che «il musulmano americano» conosceva solo alcune preghiere in arabo e, oltre a ciò, sapeva solo sorridere e fare cenni col capo . Però, oltre a quei gesti, pensavo e riflettevo secondo i modelli tipici della cultura americana. Ritenevo che, in tutto il mondo, le conversioni all'Islam avrebbero potuto raddoppiare o triplicare se il carattere pittoresco e la vera spiritualità del pellegrinaggio "Hajj" fossero stati fatti conoscere e propagandati dappertutto. Mi accorsi che gli arabi non capiscono molto bene la psicologia dei non arabi e l'importanza delle relazioni pubbliche. Dicevano: «insha Allah» (se Allah vuole) e poi aspettavano che la gente si convertisse. Eppure anche così l'Islam era in sviluppo, ma ero convinto che con dei metodi di proselitismo più adatti il numero dei convertiti avrebbe potuto essere trasformato in milioni . Dovunque andavo mi si facevano sempre domande sulla discriminazione razziale in America e persino io, con il mio passato, mi meravigliavo nel constatare la misura in cui l'immagine degli Stati Uniti veniva identificata con la discriminazione . In centinaia di conversazioni che ebbi nella Terra Santa con musulmani di opposte condizioni sociali e di tutti i paesi del mondo, come più tardi successe quando andai nell'Africa Nera, devo dire di non essermi mai morso la lingua o di aver perduto una sola occasione per dire la verità sui delitti, le nefandezze e le turpitudini commesse ai danni del negro americano . Attraverso l'interprete non lasciai mai sfuggire un'occasione per far conoscere la vera realtà della nostra vita. Dissi queste cose sulla montagna ad Arafat, nell'affollato salone d'ingresso dell'albergo Palace di Gedda indicando questo e quello col dito per rendere più convincenti le mie argomentazioni: «Voi.. . voi... voi, a causa della vostra pelle bruna, in America sareste chiamato "negro" e sempre per il colore della vostra pelle potreste esser dilaniato da una bomba, crivellato di pallottole, picchiato con le fruste elettriche e investito dai getti violentissimi delle pompe antincendio» . Stavano a sentirmi predicare queste cose alcuni dei pellegrini più poveri ma anche alcune delle personalità più importanti del Mondo Santo. Parlai a lungo con Hussein Amini, gran muftì di Gerusalemme, un uomo dagli occhi azzurri e dai capelli biondi al quale fui presentato sul monte Arafat da Kasem Gulick del parlamento turco. Ambedue erano persone molto colte ed assai bene al corrente sulle questioni americane. Kasem Gulick mi chiese perché avevo rotto i rapporti con Elijah Muhammad ed io gli risposi che, nell'interesse dell'unità dei negri americani, preferivo non discutere troppo sulle nostre divergenze. Ambedue capirono le ragioni di quella mia posizione. Parlai con lo sceicco Abdullah Eraif, sindaco della Mecca, che quando era giornalista aveva criticato i metodi dell'amministrazione comunale. Il principe Faisal lo aveva nominato sindaco per vedere se sapeva far meglio lui e non c'era nessuno che non riconoscesse le sue qualità di ottimo amministratore. Un documentario intitolato "Il musulmano americano" fu fatto da Ahmed Horyallah e dal suo collaboratore Essid Muhammad della stazione televisiva di Tunisi. In passato, a Chicago, Ahmed Horyallah aveva intervistato Elijah Muhammad . Nel salone d'ingresso dell'albergo Palace di Gedda ebbi occasione di trovarmi di fronte, in modo del tutto informale, a grossi gruppi di uomini importanti di diversi paesi che erano curiosi di ascoltare il «musulmano americano». Conobbi molti africani che o erano stati un po' di tempo in America oppure avevano saputo da altri come sono trattati i negri americani . Ricordo che davanti a un folto pubblico un ministro di uno dei paesi dell'Africa nera che era al corrente della situazione mondiale contemporanea più di chiunque altro abbia mai conosciuto, mi disse di avere viaggiato a bella posta negli Stati Uniti, sia nel Nord che nel Sud senza il suo costume nazionale. Il solo ricordo delle umiliazioni e turpitudini a cui era stato esposto come negro sembrava sufficiente a far scattare questo uomo politico così colto e pieno di dignità. «Ma perché,disse con gli occhi scintillanti d'ira e agitando le mani, il negro americano tollera di farsi calpestare così? Perché non COMBATTE per diventare un essere umano?» Un funzionario del governo sudanese mi disse abbracciandomi: «Voi siete il campione dei negri americani!» Un indiano piangeva di compassione al pensiero dei «miei fratelli nella vostra terra». Ho riflettuto infinite volte sul modo in cui il negro americano è stato così completamente indottrinato da non riuscire a considerarsi, come invece dovrebbe, parte dei popoli di colore di tutto il mondo. Egli non ha un'idea della sollecitudine che le centinaia di milioni di uomini di colore hanno per lui; non ha un'idea dei loro sentimenti di fratellanza nei suoi confronti . Fu là nella Terra Santa e più tardi in Africa che mi si venne formando la convinzione che il requisito fondamentale di qualsiasi leader negro d'America dovrebbe essere quello di aver viaggiato tra i popoli di colore di tutto il mondo e aver avuto contatti con le classi dirigenti di quei paesi. Vi garantisco che se questo leader fosse onesto e di idee aperte non potrebbe tornare a casa senza pensare a soluzioni alternative del problema del negro americano. Soprattutto si accorgerebbero che molti uomini politici di colore, specialmente africani, sono disposti a impegnarsi, magari in privato, a esercitare tutto il loro peso in favore della causa negra alle Nazioni Unite o in altri modi. Però questi stessi uomini politici ritengono, e con ragione, che il negro americano è così confuso e diviso da non saper lui stesso qual è la sua causa. Ancora una volta, furono soprattutto gli africani che, in vari modi, mi dissero di non volersi mettere in una posizione imbarazzante per aiutare un fratello che non dava nessuna seria prova di volersi fare aiutare e che non sembrava disposto a cooperare neppure nel suo esclusivo interesse . Il limite più grave dei leader negri americani è la loro mancanza di immaginazione. In ogni circostanza, o almeno come premessa di fondo, essi pensano, elaborano, se ne hanno, i loro piani strategici partendo da ciò che l'uomo bianco approva o consiglia loro. La prima cosa che la struttura di potere degli Stati Uniti vuole evitare è che i negri comincino a pensare SU SCALA INTERNAZIONALE . Credo che l'errore peggiore commesso dalle organizzazioni dei negri americani e dai loro leader sia stato quello di non essere riusciti a stabilire un diretto rapporto di comunicazione e fratellanza con le nazioni indipendenti dell'Africa. Perché, ogni giorno, i capi di stato africani non ricevono rapporti diretti sugli ultimi sviluppi della lotta che il negro americano combatte per la decolonizzazione, piuttosto che i comunicati del dipartimento di Stato in cui è sempre implicita l'idea che il problema negro si sta «risolvendo»? Due scrittori americani, le cui opere sono dei best-seller nella Terra Santa, hanno contribuito a diffondere e approfondire la preoccupazione per lo stato in cui si trova il negro americano . Enorme impressione avevano fatto le traduzioni dei libri di James Baldwin e di "Black Like Me" di John Griffin. Se non lo conoscete vi dirò che in questo libro si racconta come il bianco Griffin si fece diventare la pelle nera e viaggiò per due mesi attraverso l'America; poi descrisse le esperienze che aveva vissuto. «Un'esperienza spaventosa!» sentii dire molte volte nella Terra Santa da gente che aveva letto quel libro popolare, ma mai sentii un tale apprezzamento senza che chi lo faceva aggiungesse: «Se è stata un'esperienza spaventosa per uno che ha fatto finta di esser negro per sessanta giorni, pensate cosa devono provare i veri negri americani che subiscono queste cose da quattrocento anni!» Mi fu concesso un onore per cui avevo pregato: il principe Faisal mi concesse un'udienza particolare . Quando entrai nella sua stanza, il principe Faisal, alto e bello, si alzò dal suo tavolo per venirmi incontro. Non dimenticherò mai il mio pensiero di quell'istante: uno degli uomini più importanti del mondo era lì davanti a me con quel suo fare dignitoso e insieme sinceramente umile. Mi fece segno di prender posto su di una sedia davanti a lui. Ci faceva da interprete il capo dell'ufficio cerimoniale Muhammad Abdul Azziz Maged, un arabo nato in Egitto, che aveva l'aspetto di un negro di Harlem . Il principe Faisal fece un gesto d'impazienza quando cominciai, cercando affannosamente le parole, ad esprimergli la mia gratitudine per il grande onore che mi aveva concesso di essere ospite dello stato. Mi rispose che si trattava soltanto dell'ospitalità di un musulmano verso un altro e che io poi ero un caso poco comune, dato che venivo dall'America. Poi aggiunse che voleva fossi certo che tutto quello che aveva fatto era un piacere per lui e che non c'erano altri motivi di sorta . Mentre il principe Faisal parlava, un cameriere, quasi scivolando sul pavimento, venne a servirci due diverse qualità di tè. Suo figlio, Muhammad Faisal, che aveva frequentato un'università della California del Nord, mi aveva visto alla televisione americana, mentre lo stesso principe Faisal aveva letto vari articoli di giornalisti egiziani sui Black Muslims . «Se è vero quello che dicono questi corrispondenti, i Black Muslims seguono una versione sbagliata dell'Islam», mi disse. Io gli spiegai il ruolo che, nei dodici anni precedenti, avevo avuto nell'organizzazione e nella creazione della Nazione dell'Islam e gli dissi che lo scopo del mio pellegrinaggio era di comprendere la vera natura della religione dell'Islam. Il principe Faisal approvò non senza sottolineare che c'era una vastissima letteratura in inglese sull'Islam per cui non si poteva giustificare l'ignoranza né il fatto che persone sincere permettessero di farsi guidare sulla strada sbagliata . Alla fine di aprile del 1964, andai in aereo a Beirut, il porto capitale del Libano. Lasciavo una parte di me nella Città Santa della Mecca ma, al tempo stesso, portavo con me per sempre una parte di essa . Mi dirigevo ora verso la Nigeria e, successivamente, verso il Ghana, ma alcuni amici che mi ero fatto nella Terra Santa avevano insistito perché mi fermassi lungo il viaggio e io avevo acconsentito. Per esempio avevano combinato una mia conferenza di fronte a studenti e professori dell'università americana di Beirut . Per la prima volta da quando avevo lasciato l'America, mi concessi il lusso di un lungo sonno all'albergo Palm Beach di Beirut. Poi andai a fare una passeggiata e, fresco com'ero di un soggiorno di alcune settimane nella Terra Santa, fui immediatamente colpito dai modi e dall'eleganza delle donne libanesi. Nella Terra Santa avevo visto le donne arabe così modeste e femminili e ora osservavo il contrasto con le donne libanesi, mezzo francesi e mezzo arabe che, per i loro abiti e per il modo in cui si comportavano per strada, davano l'impressione di essere molto più libere e audaci. Vidi chiaramente l'influenza europea sulla cultura libanese e ciò mi fece capire come la forza morale di un paese, o la sua debolezza, si possano in certo modo misurare dal comportamento delle sue giovani donne. Là dove i valori spirituali sono stati soffocati, se non addirittura distrutti, dall'importanza eccessiva attribuita ai beni materiali, le donne riflettono invariabilmente tale processo. Ne sono testimoni in America, dove i valori morali sono quasi del tutto scomparsi, le donne sia giovani che vecchie. Sembra che in quasi tutti i paesi si propenda verso l'uno o l'altro estremo. Il vero paradiso si avrebbe se si potesse stabilire un equilibrio tra il progresso materiale e i valori spirituali . All'università di Beirut dissi la verità sulle condizioni del negro americano. Ho già detto prima che qualsiasi oratore con una certa esperienza è in grado di sentire le reazioni del suo pubblico. Mentre parlavo percepivo le reazioni soggettive e difensive degli studenti americani bianchi che erano fra il pubblico, ma ben presto, a poco a poco, la loro ostilità si venne indebolendo via via che presentavo i fatti incontestabili . Quanto agli studenti di origine africana posso dire solo che mi ha sempre sbalordito vedere come sanno esprimere i loro sentimenti . Più tardi appresi con meraviglia che la stampa americana aveva pubblicato articoli in cui si diceva che il mio discorso di Beirut aveva provocato un «tumulto». Ma che specie di tumulto? Non so come un giornalista, che non fosse in assoluta malafede, abbia potuto telegrafare in America una tale notizia. Il «Daily Star» di Beirut, nel suo articolo di prima pagina dedicato al mio discorso, non faceva cenno a nessun «disordine» semplicemente perché non era successo niente. Quando ebbi finito di parlare, gli studenti africani mi circondarono per farsi dare l'autografo e alcuni, addirittura, mi abbracciarono. Mai, neppure da un uditorio negro, ho ricevuto in America delle accoglienze come quelle che ebbi reiteratamente dai meno inibiti e più concreti africani . Da Beirut tornai in aereo al Cairo e di lì presi il treno per Alessandria. Durante le brevi fermate feci molte fotografie. Poi presi l'aereo diretto in Nigeria . Durante le sei ore del volo, quando non chiacchieravo con il pilota che aveva partecipato alle Olimpiadi del 1960 come nuotatore sedevo accanto a un africano ardente di passione politica. Nel suo entusiasmo quasi gridava: «Quando la gente vive in un'atmosfera stagnante e si cerca di tirarli fuori, non c'è TEMPO per le elezioni!» Il suo argomento fondamentale era che a nessuna nuova nazione africana che cercava di decolonizzarsi poteva esser utile un sistema politico che permettesse divisioni e contese. «La gente non sa cosa vuol dire votare! E' compito dei leader più illuminati elevare la capacità di comprensione del popolo!» A Lagos fui salutato dal professor Essien-Udom dell'università Ibadan. Fummo ambedue contenti di rivederci. Ci eravamo conosciuti negli Stati Uniti quando lui faceva le sue ricerche sulla Nazione dell'Islam per il suo libro "Black Nationalism" . Quella sera, a casa sua, fu offerta una cena in mio onore a cui parteciparono altri professori e professionisti. Mentre eravamo a tavola, un giovane dottore mi chiese se sapevo che la stampa di New York City era in agitazione a causa del recente assassinio ad Harlem di una donna bianca, assassinio di cui, almeno indirettamente, davano la colpa a me. Una coppia di bianchi anziani, proprietari di un negozio di abbigliamento ad Harlem, era stata aggredita da parecchi giovani negri e la moglie pugnalata a morte. Alcuni degli aggressori, arrestati dalla polizia, avevano detto di appartenere ad un'organizzazione chiamata Blood Brothers. Sembra che quei giovanotti avessero detto o fatto capire di avere legami con i Black Muslims e che avevano lasciato la Nazione dell'Islam per seguirmi . Dissi ai miei commensali che quella era la prima volta che sentivo parlare di ciò, ma che non mi stupivo affatto quando la violenza esplodeva in uno qualunque dei molti ghetti negri d'America, perché quelle zone erano piene di gente stipata come animali e trattata come lebbrosi. Dissi che l'accusa contro di me era tipica dell'atteggiamento dell'uomo bianco, sempre alla ricerca di un capro espiatorio: quando qualcosa che non gli piace accade nella comunità negra, l'attenzione del pubblico bianco viene immancabilmente convogliata non sulle cause ma contro un capro espiatorio scelto in fretta . Per quanto riguardava i Blood Brothers, dissi che consideravo tutti i negri miei «fratelli di sangue» e che gli sforzi compiuti dall'uomo bianco per fare del mio nome anatema avevano avuto come unico risultato quello di farmi considerare da milioni di negri come un nuovo Joe Louis . Parlando nella Trenchard Hall dell'università Ibadan, insistetti perché le nazioni indipendenti dell'Africa considerassero la necessità di portare davanti alle Nazioni Unite il problema degli afroamericani e dissi che, come l'ebreo americano è in contatto armonico con il sionismo internazionale sia dal punto di vista politico sia da quello economico e culturale, ero convinto fosse giunto ormai il tempo che gli afroamericani si unissero al movimento panafricano di tutto il mondo. Dissi che se gli afroamericani potevano anche restare fisicamente in America e combattere per i loro diritti costituzionali, dal punto di vista filosofico e culturale era necessario che «ritornassero» in Africa e sviluppassero un'unità operante nel quadro della causa panafricana . Giovani africani mi fecero delle domande più pertinenti e politicamente acute di quelle che si sentono tare dagli adulti in America. Poi, quando un vecchio negro delle Indie occidentali si alzò e cominciò ad attaccarmi e a difendere l'America, si ebbe una reazione straordinaria. Gli studenti gli gridavano di star zitto, facevano versi di disapprovazione e fischiavano. Il vecchio delle Indie occidentali assunse un atteggiamento di sfida aperta nei confronti degli studenti, i quali, improvvisamente, si alzarono e cominciarono a rincorrerlo . Riuscì a malapena a sfuggire alla loro caccia ed essi, gridandogli dietro, lo fecero allontanare dal campus. Non ho mai visto niente di simile. Più tardi seppi che il vecchio negro delle Indie occidentali era sposato con una donna bianca e stava cercando di farsi dare un posto in un ufficio controllato dai bianchi. Allora capii la ragione per cui era venuto lì a farmi il contraddittorio . Non fu questa l'ultima volta che ebbi modo di constatare la decisione quasi fanatica con la quale gli africani esprimono le loro reazioni politiche . Dopo, nella sede dell'Unione studentesca, mi vennero rivolte un gran numero di domande e fui nominato membro onorario della Società nigeriana degli studenti musulmani. Ho ancora qui nel portafoglio la tessera con su scritto: «Alhadji Malcolm X Numero di matricola M-138». Oltre ad essere nominato membro onorario, mi fu dato un nuovo nome, Omowale, che nella lingua Yoruba vuol dire «il figlio che è tornato a casa». Ero sincero quando dissi loro che non avevo mai ricevuto un onore più gradito . Seppi che in Nigeria c'erano seicento membri del Peace Corps: alcuni di essi, con i quali ebbi modo di parlare, dimostravano apertamente il loro imbarazzo di fronte alle colpe commesse dalla loro razza in America. Fra i venti negri che facevano parte del Corpo e con i quali ebbi modo di parlare, mi colpì particolarmente Larry Jackson, diplomato del Morgan State College di Fort Lauderdale nella Florida, il quale si era arruolato nel 1962. Parlai alla radio e alla televisione nigeriane. Provo ancora un brivido di compiacimento al ricordo di quei negri che facevano funzionare i loro mezzi di comunicazione di massa. Tra i giornalisti che m'intervistarono c'era un negro di nome Williams che lavorava per la rivista americana «Newsweek» il quale, durante i suoi viaggi attraverso il continente, aveva poco prima intervistato anche il primo ministro Nkrumah . Parlando con me in privato, un gruppo di dirigenti nigeriani mi descrissero con quanta abilità l'Ufficio informazioni degli Stati Uniti cercava di diffondere tra gli africani l'impressione che i negri americani progredivano continuamente e che ben presto il problema razziale sarebbe stato risolto. Uno di loro mi disse: «Le informazioni che giungono ai nostri leader da molte, molte altre fonti ci dicono diversamente». Poi aggiunse che dietro la facciata diplomatica di tutti i rappresentanti africani presso le Nazioni Unite c'era la chiara consapevolezza dell'enorme ipocrisia dei bianchi e della loro congiura per tenere i popoli di origine africana separati l'uno dall'altro, sia fisicamente che ideologicamente . «Nel vostro paese quanti sono i negri che pensano che nell'America settentrionale, centrale e meridionale ci sono più di OTTANTA MILIONI di persone di origine africana?» mi chiese . «Il corso del mondo cambierà il giorno in cui i popoli di origine africana si uniranno come fratelli!» Da nessun negro americano avevo mai sentito esprimere una visione così globale . Da Lagos nella Nigeria andai in aereo ad Accra nel Ghana. Credo che in nessuna parte del continente negro la ricchezza e la naturale bellezza del suo popolo appaiano meglio che nel Ghana, a buona ragione orgoglioso di essere la fonte della causa panafricana . La prima cosa che mi capitò scendendo dall'aereo fu di ricevere una proposta offensiva. Un bianco americano dalla faccia rossastra mi riconobbe ed ebbe il coraggio di venirmi a prendere la mano e a dirmi con un tono subdolo e mellifluo che era originario dell'Alabama e che voleva invitarmi a cena a casa sua! La sala da pranzo del mio albergo, quando scesi per la colazione, era piena di bianchi di quel tipo che discutevano sulle ricchezze non sfruttate dell'Africa come se i camerieri africani fossero sordi. Mi rovinai quasi il pasto a pensare che mentre in America aizzavano contro i negri i cani poliziotti, tiravano bombe nelle chiese negre e chiudevano l'accesso delle loro alla gente di colore, i bianchi erano ancora una volta qui nella stessa terra dove i loro antenati erano venuti a far razzia di gente per ridurla in schiavitù . Quella mattina a colazione decisi che, finché ero in Africa, ogni volta che avrei aperto bocca avrei duramente attaccato l'uomo bianco che stava ancora una volta depredando l'Africa delle sue risorse naturali, così come prima aveva sfruttato le sue risorse umane . Sapevo che il mio modo di reagire non era in contrasto con gli ideali di fratellanza che avevo acquisito nella Terra Santa . Come potei constatare, i musulmani dalla pelle bianca che mi avevano fatto cambiare opinione mettevano in pratica la vera fratellanza ed io sapevo che era molto difficile che un bianco americano, malgrado tutte le sue profferte, si comportasse fraternamente nei confronti del negro . Ebbi l'impressione che lo scrittore Julian Mayfield fosse il leader della piccola colonia di afroamericani espatriati nel Ghana perché, appena gli telefonai, combinò le cose in modo che in pochissimo tempo ero a casa sua con tutti gli altri negri americani, circa una quarantina, che aspettavano da tempo il mio arrivo. Tra di essi c'erano professionisti e commercianti, come i coniugi Lee, ambedue dentisti di Brooklyn, i quali avevano rinunciato alla cittadinanza americana, ed altri come Alice Windom, Maya Angelou Make, Victoria Garvin e Leslie Lacy che avevano persino formato un Comitato per Malcolm X allo scopo di organizzare il mio vorticoso calendario di incontri e apparizioni in pubblico . Ho qui nella borsa alcuni articoli apparsi sulla stampa africana quando si venne a sapere la notizia che ero in viaggio: «Per gli abitanti del Ghana il nome di Malcolm X è quasi altrettanto noto dei cani del Sud, dei getti degli idranti, delle fruste elettriche, degli sfollagente e delle brutte facce dei bianchi contorte dall'odio...» «La decisione di Malcolm X di entrare decisamente nella lotta offre il promettente segno di uno sviluppo diverso dallo spettacolo squallido e rivoltante della resistenza passiva, della non violenza, che finiscono con l'accettare qualsiasi brutalità...» «Un fatto di estrema importanza è che Malcolm X sia il primo leader afroamericano di statura nazionale a compiere, di sua iniziativa, un viaggio in Africa dopo quello che il dottor Du Bois fece nel Ghana. Può darsi che questo sia l'inizio di una nuova fase nella nostra lotta. Assicuriamoci di non attribuire ad essa un valore inferiore a quello che certamente gli attribuisce il dipartimento di Stato» . E un altro: «Malcolm X è uno dei nostri leader più coraggiosi e significativi. Siamo in guerra e si farà di tutto per screditarlo e coprirlo di calunnie...» Stentavo a credere che in paesi lontani cinquemila miglia dall'America mi si potesse fare un'accoglienza simile. I direttori dei giornali si erano persino messi d'accordo per pagarmi le spese di soggiorno e inutili furono le mie insistenze. Tra di essi c'erano T. D. Baffoe, direttore del «Ghanaian Times», G. T. Anim, vicedirettore dell'Agenzia di stampa del Ghana, Kofi Batsa, direttore di «Spark», il segretario generale dell'Unione panafricana dei giornalisti, il signor Cameron Duodu e altri. Non mi restò che ringraziarli . Poi, durante la magnifica cena che ci aveva preparato Ana Livia, la graziosa moglie portoricana di Julian Mayfield che dirigeva i servizi sanitari del distretto di Accra, fui bombardato di domande da quei negri che avevano lasciato l'America per tornare alla madre Africa e che avevano un profondo interesse per questo problema . Vorrei che tutti i negri americani avessero potuto sentire, vedere con me e provare le mie stesse emozioni durante la girandola di incontri organizzati nel Ghana intorno alla mia persona. Dico questo per far vedere che non si trattò di un'accoglienza riservata a una persona di cui avevano sentito parlare, bensì di un'accoglienza riservatami per il fatto di esser considerato un simbolo del negro americano in lotta . Nel corso di un'affollatissima conferenza stampa mi pare che la prima domanda che mi fu rivolta riguardasse le ragioni della mia rottura con Elijah Muhammad e la Nazione dell'Islam. Gli africani avevano sentito delle dicerie quali quella secondo cui Muhammad si era costruito un palazzo nell'Arizona. Io smentii tale falsità ed evitai qualsiasi critica. Dissi ai giornalisti che il mio disaccordo con Elijah Muhammad si riferiva all'orientamento politico e alla partecipazione nella lotta extra-religiosa per i diritti umani; che rispettavo la Nazione dell'Islam perché era stato un movimento capace di rivitalizzare i negri dal punto di vista psicologico, una fonte di riforme morali e sociali e che l'influenza di Elijah Muhammad sui negri americani era stata decisiva . Sottolineai di fronte ai rappresentanti riuniti della stampa la necessità di stabilire rapporti di comunicazione e reciproco aiuto tra gli africani e gli afroamericani perché la lotta degli uni era strettamente legata a quella degli altri. Ricordo che adoperai la parola «negro» e che fui corretto con fermezza. «Non usiamo volentieri codesta parola, signor Malcolm X. Il termine "afroamericano" ha un maggior significato e più dignità». Mi scusai sinceramente e credo di non avere mai più pronunciato la parola «negro» finché rimasi in Africa. Dissi che i ventidue milioni di afroamericani potevano diventare una grande forza positiva per l'Africa mentre, a loro volta, le nazioni africane dovevano e potevano esercitare pressioni al livello diplomatico contro la discriminazione razziale che c'è in America. «Tutta l'Africa, - dissi, - si unisce contro l'apartheid del Sudafrica e l'oppressione del colonialismo portoghese, ma perdete il vostro tempo se non vi rendete conto che Verwoerd, Salazar, la Gran Bretagna e la Francia non sarebbero in grado di resistere un solo giorno se non fosse per l'aiuto degli Stati Uniti. Perciò finché non denunciate la politica americana non concluderete mai nulla» . Sapevo che il sottosegretario per gli Affari africani del dipartimento di Stato, G. Mennen Williams era in visita ufficiale in Africa e perciò dissi: «Prendetemi in parola e diffidate di tutti questi rappresentanti americani che vengono qui in Africa a farvi tutti quei sorrisetti che non fanno a noi in America». Dissi loro che mio padre era stato assassinato dai bianchi in quello stesso stato del Michigan di cui, poco tempo prima, G. Mennen Williams era stato governatore . Al Ghana Club fui festeggiato da altri rappresentanti della stampa e dignitari dello stato. Poi fui ospite a casa della figlia del defunto scrittore negro americano Richard Wright . Snella, bellissima, dalla voce vellutata, Giulia è sposata a un giovane francese che pubblica un quotidiano del Ghana. Più tardi, a Parigi, avrei incontrato Ellen, la vedova di Richard Wright e Rachel, la sua figlia più giovane. Parlai con diversi ambasciatori nelle loro sedi diplomatiche . Quello dell'Algeria mi colpì particolarmente per la sua totale dedizione alla lotta, alla rivoluzione mondiale concepita come l'unico modo per risolvere i problemi delle masse oppresse di tutto il mondo. La sua visione non era soltanto limitata agli algerini, ma comprendeva gli afroamericani e tutti gli altri oppressi di ogni parte del mondo. L'ambasciatore cinese, signor Huang Hua, uomo sensibile e anche lui deciso, insistette sugli sforzi compiuti dall'Occidente per dividere gli africani dai popoli fratelli che vivono in altri continenti. L'ambasciatore della Nigeria era molto preoccupato per la sorte degli afroamericani, anche perché aveva visto di persona le loro sofferenze avendo vissuto e studiato a Washington. Lo stesso poteva dirsi dell'ambasciatore del Mali che era stato a New York rappresentante presso le Nazioni Unite. Feci colazione con il dottor Makonnen della Guiana Britannica e discussi con lui la necessità di dar vita a una forma di unità panafricana che comprendesse anche gli afroamericani. Inoltre discussi a fondo i problemi afroamericani con Nana Nketsia, ministro della Cultura del Ghana . Una sera, quando tornai al mio albergo, trovai un appuntamento telefonico con New York City richiesto da Mal Goode dell'American Broadcasting. Quando ci fu data la comunicazione mi fece delle domande sui Blood Brothers di Harlem, sui club di tiratori organizzati tra i negri e su altri argomenti che la stampa americana metteva in stretto rapporto col mio nome . Mentre parlavo, sentivo dall'altra parte del filo il fruscio del registratore . Nel salone dell'università del Ghana, parlai di fronte al pubblico più numeroso che abbia mai avuto in Africa, composto in gran parte di africani tra cui però c'erano anche numerosi bianchi. Cercai di fare del mio meglio per smantellare la falsa immagine dei rapporti razziali che sapevo esser diffusa dall'Ufficio informazioni degli Stati Uniti e di imprimere nella mente dei miei ascoltatori la verità sulla sorte degli afroamericani per mano dell'uomo bianco. Mi rivolsi ai bianchi che erano tra il pubblico: «Non ho mai visto tanti bianchi così gentili nei confronti di tanti negri come lo siete voi qui in Africa. In America, gli afroamericani combattono per l'integrazione, ma dovrebbero venire qui in Africa e vedere i sorrisetti che voi fate agli africani. Qui c'è davvero l'integrazione! Ma potete dire agli africani che in America fate gli stessi sorrisetti ai negri? No, non potete! E onestamente non è che questi africani vi piacciano di più: quello che EFFETTIVAMENTE vi piace sono le RICCHEZZE MINERARIE che l'Africa nasconde nel suo sottosuolo...» I bianchi presenti diventarono rossi e violacei in volto . Sapevano che dicevo la verità. «Non sono antiamericano e non sono venuto qui per CONDANNARE l'America, - dissi loro; voglio che ciò sia ben chiaro! Son venuto qui per dire la verità e se è la VERITA' a condannare l'America, ebbene, che essa stia sul banco degli accusati!» Una sera, a un ricevimento che fu offerto in mio onore da Kofi Baako, ministro della Difesa del Ghana e presidente dell'Assemblea nazionale, incontrai la maggior parte della classe dirigente del Ghana, tutti quelli con i quali avevo già avuto modo di parlare ed altri ancora. Mi dissero che questa era la prima volta che un simile onore veniva concesso a uno straniero da quando il dottor W. E. B. Du Bois era venuto nel Ghana. C'era musica, si ballava e veniva servito dell'ottimo cibo locale. C'era chi rideva raccontando come, ad un ricevimento offerto quello stesso giorno, l'ambasciatore degli Stati Uniti Mahomey aveva fatto i salti mortali per mostrarsi straordinariamente gioviale e amichevole. Alcuni ritenevano che avesse compiuto quel grande sforzo per controbilanciare le verità che dicevo sull'America tutte le volte che mi se ne presentava l'occasione . Poi ricevetti un invito che superava le mie speranze più ambiziose. Non avrei mai immaginato di avere la possibilità di pronunciare un discorso davanti ai membri del parlamento del Ghana . Parlai brevemente ma con forza: «Come potete condannare il Portogallo e il Sudafrica mentre la nostra gente di pelle nera là in America viene morsa dai cani e massacrata a bastonate?» Dissi di esser sicuro che l'unica ragione per cui gli africani, i nostri fratelli dalla pelle nera, erano così reticenti a denunciare quello che accadeva in America era da attribuirsi al fatto che le organizzazioni di propaganda del governo americano facevano di tutto per informarli male . Alla fine del mio discorso sentii queste grida: «Sì! Noi appoggiamo gli afroamericani... moralmente, fisicamente e se è necessario anche materialmente!» Il più grande onore che ebbi nel Ghana, e in tutta l'Africa nera, fu l'udienza concessami dal dottor Kwame Nkrumah . Prima di essere ammesso alla sua presenza, fui accuratamente perquisito. Apprezzai la protezione che gli abitanti del Ghana garantiscono al loro leader perché mi fece rispettare ancora di più lo spirito di indipendenza dei negri. Quando entrai nella grande stanza del dottor Nkrumah, egli si alzò dal suo tavolo posto in fondo, di fronte all'entrata. Portava un abito comune, aveva le mani tese e un aperto sorriso illuminava il suo volto sensibile. Gli strinsi forte la mano e poi ci sedemmo su un divano a parlare. Sapevo che era particolarmente bene informato sulle condizioni degli afroamericani perché per anni aveva vissuto e studiato in America. Discutemmo dell'unità degli africani e dei popoli di discendenza africana e fummo d'accordo nell'indicare in un'organizzazione panafricana la chiave per risolvere i problemi dei popoli di tale origine. Potei apprezzare la cordialità, l'amabilità e la concretezza del dottor Nkrumah. Purtroppo il tempo che passai con lui fu troppo breve. Mi congedai promettendo solennemente che quando sarei tornato negli Stati Uniti, avrei portato agli afroamericani i suoi più calorosi auguri . Quello stesso pomeriggio, a Winneba, a trentanove miglia di distanza, parlai all'Istituto ideologico Kwame Nkrumah, in cui duecento studenti ricevevano l'istruzione e la preparazione necessarie per portare avanti la rivoluzione intellettuale del Ghana. Anche qui mi capitò di assistere ad una di quelle clamorose manifestazioni di fervore politico tipiche dei giovani africani. Dopo che ebbi finito di parlare, mentre mi venivano fatte delle domande da parte del pubblico, un giovane afroamericano, che nessuno sembrava conoscere, si alzò. «Sono un negro americano», si presentò. Poi difese l'uomo bianco americano con argomentazioni generiche. Allora gli studenti africani cominciarono a urlare e a stringerglisi intorno e poi, quando la riunione fu finita, ad attaccarlo con insulti di ogni genere: «Sei un agente di Rockefeller?... Smettila di corrompere i nostri bambini! » Quel giovane era un insegnante nella locale scuola media, ed era stato messo a quel posto da un'organizzazione americana. «Vieni a imparare qualcosa in questo istituto!» Per un momento un insegnante riuscì a sottrarlo alla folla, ma subito gli studenti lo ripresero e lo spinsero fuori gridando: «Servo!... Stipendiato dallo spionaggio americano!... Agente degli Stati Uniti!» L'ambasciatore cinese e la signora Huang Hua offrirono un pranzo ufficiale in mio onore. Tra gli ospiti c'erano gli ambasciatori di Cuba e dell'Algeria e fu lì che conobbi la signora Du Bois . Dopo un'ottima cena furono proiettati tre film. Uno, a colori mostrava le celebrazioni del quattordicesimo anniversario della Repubblica popolare cinese. In esso si faceva vedere con grande evidenza l'afroamericano della Carolina del Nord, Robert Williams, che ha dovuto lasciare gli Stati Uniti e rifugiarsi a Cuba per aver sostenuto che i negri americani devono armarsi per difendersi. Il secondo film era dedicato all'appoggio del popolo cinese alla lotta degli afroamericani. Si vedeva il presidente Mao Tse-tung mentre pronunciava le sue dichiarazioni di solidarietà e c'erano poi alcune scene che dipingevano in modo drammatico la brutalità della polizia e dei cittadini bianchi nei confronti degli afroamericani che dimostravano in varie città degli Stati Uniti per ottenere i diritti civili. Il terzo film era un drammatico documentario della rivoluzione algerina . Dall'ambasciata cinese il Comitato per Malcolm X mi fece raggiungere in gran fretta il Circolo della stampa dove si teneva una serata in mio onore. Era la prima volta che vedevo gente del Ghana ballare balli occidentali. Tutti si divertivano . Insistettero perché facessi un breve discorso. Ancora una volta ritornai sul bisogno che c'era di un'unità fra africani e afroamericani e gridai con tutto il cuore: «Ballate e cantate pure, ma ricordate Mandela e Sobokwe! Ricordate Lumumba che giace là nella sua tomba! Ricordatevi dei sudafricani che sono in prigione! «Vi domandate perché IO non ballo? - aggiunsi. - Perché voglio che vi ricordiate dei ventidue milioni di afroamericani degli Stati Uniti!» Però avevo anch'io una gran voglia di ballare! Quella gente del Ghana sapeva i passi più indiavolati e li eseguiva in maniera davvero scatenata. Una graziosa ragazza africana cantò "Blue Moon" come Sarah Vaughan. In certi momenti l'orchestra somigliava a quella di Milt Jackson, in altri a quella di Charlie Parker . La mattina seguente, un sabato, sentii dire che Cassius Clay era arrivato con il suo seguito. All'aeroporto gli fecero un enorme ricevimento. Pensai che se ci fossimo incontrati, Cassius avrebbe certamente provato imbarazzo, dato che aveva scelto di restare fedele alla versione dell'Islam che dava Elijah Muhammad. Per parte mia non avevo nessuna difficoltà ad incontrarlo, ma sapevo che a Cassius era stato proibito di avere rapporti con me, che lui sapeva che io ero stato al suo fianco, lo avevo sostenuto, avevo creduto in lui quando quelli che più tardi lo abbracciavano erano sicuri che non avesse nessuna probabilità di vincere. Decisi di evitarlo per non metterlo a disagio . Quel pomeriggio Sua Eccellenza Alhadji Isa Wali, l'incaricato di affari della Nigeria, offrì un pranzo in mio onore. Era un uomo basso, portava gli occhiali e si comportava in modo estremamente cordiale e riguardoso. Aveva abitato due anni a Washington. Dopo il pranzo Isa Wali parlò agli ospiti di ciò che aveva visto in America e delle amicizie che aveva intrecciato con gli afroamericani riaffermando i legami degli africani con essi . Alhadji Isa Wali spiegò davanti agli ospiti una copia della rivista americana «Horizon» alla pagina in cui c'era un articolo sulla Nazione dell'Islam scritto dal dottor Morroe Berger dell'università di Princeton. Un'intera pagina era occupata da una mia fotografia e sulla pagina opposta c'era una bella illustrazione a colori di un re della Nigeria, musulmano negro, bello e fiero, vissuto centinaia di anni fa . «Quando guardo queste due fotografie so che questi due uomini sono uno solo, - disse Alhadji Isa Wali. - L'unica differenza è nel loro abbigliamento e nel fatto che uno è nato in America e l'altro in Africa . «Perché tutti sappiano che io lo considero come un fratello, darò a Alhadji Malcolm X un abito come quello indossato dal nigeriano dell'illustrazione» . Restai vivamente sorpreso dalla bellezza della tunica blu e del turbante arancione che Alhadji Isa Wali mi offrì in dono. Mi piegai perché lui, che era molto basso, potesse mettermi il turbante. L'incaricato d'affari nigeriano mi dette anche una traduzione in due volumi del Corano . Dopo questo pranzo indimenticabile, la signora Shirley Graham Du Bois mi accompagnò in macchina a casa sua in modo che potessi vedere dove il suo famoso marito, il dottor W. E. B. Du Bois, aveva trascorso i suoi ultimi giorni. La signora, che era una scrittrice, dirigeva la televisione del Ghana che aveva scopi unicamente educativi. Quando il dottor Du Bois, mi disse sua moglie, era arrivato nel Ghana, Nkrumah aveva fatto al vecchio, grande e coraggioso scrittore afroamericano delle accoglienze regali dandogli tutto quanto poteva desiderare. Quando Du Bois fu irrimediabilmente malato, Nkrumah andò a fargli visita e i due uomini si salutarono, ambedue sapendo che la morte del vecchio era vicina. Nkrumah si era allontanato piangendo . L'ultimo incontro al quale partecipai nel Ghana fu un bellissimo ricevimento dato in mio onore da Sua Eccellenza Armando Entralbo Gonzales, ambasciatore di Cuba presso il governo del Ghana. La mattina seguente, una domenica, il Comitato per Malcolm X aspettava al completo fuori del mio albergo per accompagnarmi all'aeroporto. Appena usciti, incontrammo Cassius Clay che, con alcune persone del suo seguito, ritornava dalla passeggiata mattutina di allenamento. Lì per lì restò incerto e poi disse qualche parola, con ritmo quasi monosillabico... «Come stai?» Mi venne a mente come in un baleno quanto eravamo stati amici prima del combattimento che aveva mutato il corso della sua vita. Gli risposi che stavo bene e che speravo lo stesso fosse per lui, cosa che sinceramente pensavo. Più tardi gli mandai un telegramma in cui dicevo di sperare che si rendesse conto di quanto era amato dai musulmani dovunque andasse e che non permettesse a nessuno di strumentalizzarlo e di fargli dire e fare cose che potessero danneggiare la sua reputazione . Stavo congedandomi dai membri del Comitato per Malcolm X all'aeroporto di Accra quando arrivò un piccolo corteo di automobili con cinque ambasciatori venuti a salutarmi . Restai ammutolito dalla gioia e dallo stupore . Sull'aereo diretto a Monrovia nella Liberia, dove contavo di fermarmi un giorno, ebbi la certezza che, dopo le mie esperienze in Terra Santa, il ricordo più incancellabile che avrei portato con me in America sarebbe stato quello dell'Africa che si stava affacciando ad una seria consapevolezza di sé, della sua potenza, delle sue ricchezze e del ruolo mondiale che era destinata a svolgere . Da Monrovia andai in aereo fino a Dakar nel Senegal . All'aeroporto, quando seppero che c'era il musulmano americano, molti senegalesi si misero in fila per stringermi la mano. A parecchi detti l'autografo. «Il nostro popolo non parla l'arabo, ma abbiamo l'Islam nel cuore», mi disse un senegalese. Io replicai affermando che ciò valeva esattamente anche per i loro fratelli musulmani afroamericani . Da Dakar andai in volo fino al Marocco dove trascorsi una giornata da turista. Visitai la famosa Casbah, il ghetto che era stato costituito quando i francesi che dominavano il paese si erano rifiutati di permettere agli abitanti dalla pelle bruna di abitare in certe zone della città di Casablanca. Migliaia e migliaia di indigeni soggiogati furono ammassati nel ghetto allo stesso modo in cui, a New York City, Harlem divenne la Casbah dell'America . Quando arrivai ad Algeri era martedì 19 maggio 1964, il giorno del mio trentanovesimo compleanno. Molta acqua era passata sotto i ponti durante quegli anni e, da certi punti di vista, avevo avuto più esperienze di una dozzina di persone messe insieme . Mentre mi accompagnava all'albergo Aletti, il tassista mi descrisse le atrocità commesse dai francesi e quello che lui aveva fatto per vendicarsi. Poi passeggiai per le strade di Algeri e dappertutto, da parte dell'uomo della strada, sentii espressioni di odio nei confronti dell'America per l'appoggio che aveva dato ai loro oppressori. Gli algerini erano dei veri rivoluzionari, che non avevano paura della morte. Per molto tempo l'avevano dovuta guardare in faccia . Il jet della Pan American che mi riportò a casa atterrò all'aeroporto Kennedy di New York il 21 maggio alle quattro e mezza del pomeriggio. Mentre noi passeggeri uscivamo in fila dall'aereo dirigendoci verso la dogana vidi una folla di cinquanta o sessanta giornalisti e fotografi e devo dire in tutta onestà che mi domandai quale personaggio c'era a bordo del nostro aereo . Invece ero io il «cattivo» che erano venuti a ricevere . Specialmente ad Harlem, e anche in altre città degli Stati Uniti, le previste esplosioni di quella lunga calda estate del 1964 erano cominciate. La stampa bianca, con un articolo dopo l'altro, mi aveva eretto a simbolo, se non addirittura a responsabile, della cosiddetta rivolta e violenza dei negri americani, dovunque esplodesse . Durante la più grande conferenza stampa cui abbia mai partecipato, i giornalisti mi bombardarono di domande tra gli incessanti lampi dei flash . «Signor Malcolm X, che cosa potete dirci di quei Blood Brothers che si dice facessero parte della vostra organizzazione, che si dice fossero stati addestrati alla violenza e che hanno ucciso dei bianchi innocenti?»... «Signor Malcolm X, cosa avete da dirci circa la vostra affermazione secondo cui i negri dovrebbero esercitarsi al tiro a segno e formare degli appositi club?» Risposi a queste domande. Sapevo di esser di nuovo in America e di dovere quindi ascoltare le domande tipiche dell'uomo bianco, soggettive e sempre rivolte a trovare un capro espiatorio. Se i giovani bianchi di New York uccidevano qualcuno, questo era un problema «sociologico». Ma quando dei giovani negri facevano lo stesso, allora la struttura di potere si metteva alla caccia di gente da incriminare. Quando dei negri erano stati linciati o assassinati a sangue freddo in altro modo si era sempre detto che «le cose andranno meglio» e quando si scopriva che i bianchi tenevano armi in casa, allora si faceva appello alla costituzione che dava loro il diritto di proteggere se stessi e le loro abitazioni. Se invece i negri si azzardavano soltanto a parlare di tenere in casa delle armi, allora ciò era «spaventoso» . Insinuai ai giornalisti qualcosa che non si aspettavano. Dissi loro che per il negro americano era fondamentale smettere di pensare a ciò che l'uomo bianco gli aveva insegnato e cioè di non avere altra alternativa che quella di raccomandarsi per ottenere i suoi cosiddetti «diritti civili». Dissi che occorreva che il negro americano si rendesse conto che aveva un motivo giuridico veramente chiaro e indiscutibile per portare come imputato il governo degli Stati Uniti di fronte alle Nazioni Unite sotto l'accusa formale di «negazione dei diritti umani» e che se l'Angola e il Sudafrica erano stati precedentemente considerati in tal senso non sarebbe stato facile per gli Stati Uniti evitare una censura, proprio per la sua situazione interna . Come prevedevo, i giornalisti fecero di tutto perché lasciassi cadere quell'argomento. Mi chiesero della mia «lettera dalla Mecca» ed io risposi con un discorso a cui avevo già pensato: «Spero che una volta per tutte il mio "Hajj" alla Città Santa della Mecca abbia chiaramente stabilito l'autentica affiliazione religiosa della nostra Muslim Mosque con i settecentocinquanta milioni di musulmani del mondo islamico ortodosso. Mi sono reso conto una volta per tutte che i negri africani considerano i ventidue milioni di negri americani come fratelli da lungo tempo perduti! Essi ci AMANO! Essi SEGUONO con grande attenzione la nostra lotta per la libertà. Erano così CONTENTI di sentire che ci stiamo svegliando dal nostro lungo sonno, dopo che la cosiddetta America bianca cristiana ci aveva insegnato a VERGOGNARCI dei nostri fratelli e della nostra patria africana . «Sì, ho scritto una lettera dalla Mecca. Voi mi domandate se è vero che ho detto di accettare ora gli uomini bianchi come fratelli. Ebbene, la mia risposta è che, nel mondo musulmano, ho visto, ho sentito e ho scritto a casa come il mio modo di pensare si era aperto a nuovi orizzonti. Come scrivevo, ho avuto modo di condividere un vero, fraterno affetto con molti musulmani bianchi che non pensavano mai minimamente alla razza, al colore della pelle di un altro musulmano . «Il mio pellegrinaggio mi ha aperto nuove strade, mi ha illuminato consentendomi di sviluppare una nuova capacità di comprendere. In due settimane passate in Terra Santa ho visto quello che non avevo mai visto in trentanove anni qui in America. Ho visto tutte le RAZZE, gente di tutti i colori, dai biondi con gli occhi azzurri agli africani color ebano, tutti VERAMENTE fratelli, uniti, che vivevano insieme come una sola persona, che pregavano insieme come una sola persona! Non c'erano segregazionisti, non c'erano liberali. Essi non saprebbero come interpretare il significato di tali parole . «E' vero che in passato ho lanciato roventi accuse contro TUTTI i bianchi. Non mi macchierò più di tale colpa poiché ora so che alcuni bianchi sono veramente sinceri, e capaci di comportarsi fraternamente nei confronti dei negri. La vera fede dell'Islam mi ha mostrato che una condanna totale nei confronti di tutti i bianchi è altrettanto sbagliata di quella che molti di questi fanno nei confronti dei negri . Sì, mi sono convinto che ALCUNI americani bianchi vogliono contribuire a sopprimere il feroce razzismo che STA PER DISTRUGGERE questo paese! «E' stato nella Terra Santa che è cambiato il mio atteggiamento, a causa delle mie esperienze là e della fratellanza che vi ho visto praticare, non solo nei miei confronti, ma nei confronti di tutti gli uomini, di qualsiasi nazionalità e colore della pelle. Ed ora che sono tornato in America, il mio atteggiamento nei confronti dell'uomo bianco di qui deve esser determinato dalle esperienze che i miei fratelli negri e io abbiamo in questo paese, da quello che vediamo, dalle manifestazioni di fratellanza che si hanno qui. Il problema, qui in America, è che si incontrano dei gruppi così ristretti di bianchi cosiddetti "buoni" o "fraterni". Malgrado questi pochi, qui negli Stati Uniti i ventidue milioni di negri concepiti IN BLOCCO devono affrontare IL BLOCCO dei centocinquanta milioni di bianchi . «Qui in America le radici del razzismo sono così profonde nel corpo della società bianca nel suo complesso, la convinzione della loro "superiorità" è tale che tutti questi elementi fanno parte del subconscio nazionale dei bianchi. Molti di loro non sono in realtà consapevoli del loro razzismo finché non vengono messi alla prova e allora quella dimensione viene fuori in un modo o nell'altro . «Ascoltate! Il razzismo dei bianchi nei confronti dei negri qui in America è la causa delle difficoltà che questo paese ha in tutto il mondo con gli altri popoli di colore. Il bianco non può liberarsi dall'idea che chi non ha il suo stesso colore di pelle, non importa chi sia, porta automaticamente un marchio d'infamia. I popoli di colore di tutto il mondo sono stanchi del paternalismo dell'uomo bianco! Ecco perché vi trovate in difficoltà in paesi come il Vietnam. Proprio qui nell'emisfero occidentale, probabilmente cento milioni di uomini di origine africana sono divisi, spinti dall'uomo bianco a odiarsi reciprocamente e a non fidarsi l'uno dell'altro. Nelle Indie occidentali, a Cuba, nel Brasile, nel Venezuela, in tutto il Sudamerica, nell'America centrale, tutti questi paesi sono pieni di gente nelle cui vene scorre sangue africano! Persino sul continente africano l'uomo bianco ha manovrato in modo da dividere il negro africano dall'arabo dalla pelle bruna, il cosiddetto "cristiano africano" dal seguace dell'Islam. Cercate di immaginarvi cosa potrebbe accadere, o meglio cosa certamente accadrà, se tutti questi popoli di origine africana diventano CONSAPEVOLI dei loro legami di sangue, se si rendono conto che hanno tutti uno scopo comune e se SI UNISCONO!» Quel giorno i giornalisti furono contenti di liberarsi di me e credo che i fratelli negri che da poco avevo lasciato là in Africa sarebbero stati contenti del modo in cui trattai l'argomento. Per quasi tutta la notte il telefono di casa mia continuò a squillare. I miei fratelli e sorelle negri di New York e di altre città chiamavano per congratularsi con me per quello che avevano sentito nelle trasmissioni radio e televisive mentre altri, in maggioranza bianchi, volevano sapere se sarei stato disposto a parlare in altri posti . Il giorno seguente ero in macchina sull'autostrada quando, mentre aspettavo davanti a un semaforo, un'altra automobile mi si accostò. Al volante c'era una donna bianca e accanto a lei e quindi vicino a me un bianco. «MALCOLM X! » chiamò, e quando mi voltai mi tese la mano attraverso il finestrino con un sorriso di derisione: «Vi dispiace stringer la mano a un uomo bianco?» Immaginatevi la scena! Proprio mentre il semaforo segnava il verde, io gli dissi: «Non ho nessuna difficoltà a stringere la mano agli esseri umani. Ma voi lo siete davvero?» Capitolo diciannovesimo . 1965 . Devo esser franco. I negri, gli afroamericani, non hanno mostrato di avere molta furia nel rivolgersi alle Nazioni Unite per chiedere che sia fatta giustizia per loro qui in America . Sapevo in anticipo che sarebbe stato così. Il bianco americano ha indottrinato il negro con tale cura da convincerlo a considerarsi un puro e semplice problema nazionale di «diritti civili» al punto che probabilmente ci vorrà più tempo di quanto non me ne sia concesso, prima che i negri americani vedano la loro lotta in una dimensione internazionale . Sapevo anche che i negri non sarebbero venuti a frotte dietro di me, alla fede ortodossa dell'Islam che mi aveva dato modo di capire come negri e bianchi potrebbero veramente essere fratelli. I negri americani, specialmente quelli più vecchi, sono irrimediabilmente intrisi dell'ipocrisia oppressiva del cristianesimo . Perciò nelle riunioni «a invito» che cominciai a tenere ogni domenica pomeriggio o sera nella ben nota Audubon Ballroom di Harlem, di fronte a un pubblico composto in prevalenza da negri non musulmani, non cercavo di discutere subito l'Islam, ma di toccare invece tutti quelli che mi stavano di fronte: «Non parlo né ai musulmani né ai cristiani, né ai cattolici né ai protestanti... né ai battisti né ai metodisti, né ai democratici né ai repubblicani, né ai massoni né ai membri dell'ordine degli Elks [1]! Mi rivolgo invece al popolo negro d'America e ai negri di tutto il mondo, perché è collettivamente che noi siamo stati privati non soltanto dei nostri diritti civili, ma persino dei nostri diritti umani, del diritto alla dignità umana...» Per le strade, dopo i miei discorsi, vedevo nelle facce della gente che incontravo, anche di quelli che mi stringevano calorosamente la mano e mi chiedevano l'autografo, l'espressione tipica di chi sta a vedere. Sentivo e capivo che questa gente era ancora incerta riguardo alle mie posizioni. Sin dai tempi della «libertà» seguita alla guerra civile, il negro ha camminato inutilmente su molti sentieri e in gran parte, nella maggioranza dei casi, i suoi leader non sono stati all'altezza delle sue aspettative. La religione cristiana lo ha egualmente tradito lasciandolo con le sue cicatrici, cauto e timoroso di prendere una posizione . Ora capivo tutto ciò molto meglio di prima. In Terra Santa, lontano dal problema razziale dell'America, avevo avuto modo, per la prima volta, di pensare con chiarezza alle fondamentali divisioni esistenti fra i bianchi e al modo in cui i loro atteggiamenti e i loro interessi si collegavano con i negri e proiettavano su di essi la loro influenza. Dovevo arrivare al mio trentanovesimo compleanno e andare alla Città Santa della Mecca per sentirmi per la prima volta un essere umano completo al cospetto di Allah . In quella pace della Terra Santa - proprio la notte che ho ricordato, quando mi svegliai circondato dai miei fratelli pellegrini che russavano sonoramente - tornai a ricordi personali che credevo fossero scomparsi per sempre, a ricordi della mia infanzia, di quando avevo otto o nove anni. Dietro alla nostra casa, nella campagna vicino a Lansing nel Michigan, c'era una vecchia, erbosa «collina di Ettore», come la chiamavamo noi, che forse è ancora là. In Terra Santa mi venne a mente che ero solito sdraiarmi in cima a quella collina e guardare il cielo, le nuvole che mi passavano sopra e sognare tante cose ad occhi aperti. Poi, in una strana confusione di ricordi, mi venne in mente che, parecchi anni più tardi, quando ero in prigione, ero solito giacere sul mio lettuccio, cosa che accadeva specialmente quando ero in cella di rigore, quella che noi detenuti chiamavamo «il buco», e immaginarmi che pronunciavo discorsi di fronte a grandi folle. Non ho idea del perché avevo simili previsioni, e se allora ne avessi parlato con qualcuno mi avrebbero creduto pazzo. Neanch'io avevo la più pallida idea che si potessero avverare . Alla Mecca, avevo passato in rassegna i dodici anni trascorsi con Elijah Muhammad come se davanti a me si proiettasse un film . Credo che nessuno possa arrivare a capire come la mia fiducia in quest'uomo fosse stata completa. Credevo in lui non soltanto come si crede a un leader nell'ordinario senso UMANO, ma addirittura come a un capo DIVINO. Credevo che non avesse debolezze o limiti umani e che perciò non potesse commettere errori né fare del male. Là sulla collina della Terra Santa, mi resi conto di quanto sia pericoloso elevare un essere umano a tale livello, considerare chicchessia come «guidato e protetto da Dio» . Alla Mecca mi si era aperta la mente. Nelle lunghe lettere che scrivevo agli amici, cercavo di comunicare loro il mio nuovo modo di intendere la lotta e i problemi dei negri americani insieme con le profondità della mia ricerca di verità e giustizia . «Ne ho abbastanza della propaganda degli altri, - avevo scritto a questi amici; - sono per la verità, non importa chi la dice . Sono per la giustizia, non importa chi è in favore o contro . Prima di tutto sono un essere umano e come tale sono per chiunque contribuisca a emancipare l'umanità NEL SUO INSIEME» . In generale la stampa americana bianca rifiutò di divulgare che io stavo ora cercando di insegnare ai negri una nuova strada . Dato che la «lunga, calda estate» del 1964 era continuamente caratterizzata da nuovi incidenti, fui accusato di «sobillare i negri». Ogni volta che mi trovavo davanti a un microfono mi si chiedeva se «sobillavo i negri» o li «incitavo alla violenza» . Allora mi infuriavo . «Non c'è bisogno che qualcuno sobilli questa dinamite sociologica che nasce dalla disoccupazione, dalle case inabitabili e dall'istruzione pessima e insufficiente che ci sono già nei ghetti. Questa condizione così carica di esplosiva criminalità è esistita da lungo tempo e non ha certo bisogno di una miccia. Si accende da sé, per autocombustione...» Mi chiamavano «il negro più arrabbiato d'America» ed io non respingevo quest'epiteto. Parlavo esattamente come sentivo «CREDO nell'ira. La Bibbia dice che c'è anche un TEMPO per l'ira». Mi chiamavano «maestro e fomentatore di violenze». Io ribattevo con chiarezza: «E' una menzogna. Non sono favorevole alla violenza sporadica, sono per la giustizia. Ritengo che se i bianchi fossero attaccati dai negri, se le forze dell'ordine si rivelassero incapaci, insufficienti o riluttanti a proteggere i bianchi dai negri, allora quelli si difenderebbero da sé servendosi delle armi se fosse necessario. Ritengo che quando la legge non offre protezione ai negri dagli attacchi dei bianchi, quelli, se necessario, debbano usare le armi per difendersi» . «Malcolm X è fautore dell'armamento dei negri! » Cosa c'era di male? Ve lo dico io cosa c'era di male: stavo parlando di difesa fisica dei negri contro l'uomo bianco. A questi è consentito linciare, bruciare, far saltare in aria con le bombe e picchiare i negri. «Abbiate pazienza... le abitudini sono radicate... la situazione va migliorando» . Ritengo che sia un delitto per chi è stato trattato con brutalità continuare a subire senza far nulla per difendersi. Se è in questo senso che si deve interpretare la filosofia «cristiana»; se è ciò che insegna la filosofia di Gandhi, ebbene allora non esito a definirle delle filosofie criminali . In tutti i discorsi cercai di render chiara la mia nuova posizione nei confronti dei bianchi. «Non parlo contro i bianchi sinceri, ben disposti e di buon cuore. Ho imparato che ce ne sono alcuni, che non tutti i bianchi sono dei razzisti. Io parlo e combatto contro questi e credo fermamente che i negri abbiano il diritto di lottare contro gente del genere con tutti i mezzi che si rendano necessari » . Ma i giornalisti bianchi volevano con insistenza identificarmi con la parola «violenza» e non credo di aver avuto una sola intervista in cui non mi dovessi difendere da tale accusa . «SONO FAVOREVOLE alla violenza se non violenza vuol dire continuare a rimandare la soluzione del problema dei negri americani soltanto per evitare la violenza. Non sono favorevole alla non violenza se questa significa anche una soluzione differita che per me equivale a una non soluzione. Lasciatemelo dire in un altro modo: se è necessaria la violenza per far sì che in questo paese i negri conquistino i loro diritti umani, io sono per la violenza esattamente come voi sapete che lo sarebbero gli irlandesi, i polacchi o gli ebrei se dovessero essere vittime, in modo tanto flagrante, della discriminazione . Sono proprio come sarebbero loro in un caso simile, e state sicuri che sarebbero per la violenza, senza badare alle conseguenze, senza pensare a chi ne sarebbe danneggiato» . La società bianca non vuol sentir parlare nessuno, e tanto meno un negro, dei crimini perpetrati dall'uomo bianco ai danni della gente di colore. Ecco perché sono stato chiamato così spesso «un rivoluzionario». Sembra che abbia commesso qualche delitto! Ebbene, può darsi che il negro americano debba trovarsi coinvolto in una vera rivoluzione. In tedesco rivoluzione si dice "Umwälzung", che vuol dire rovesciamento, cambiamento completo. Un esempio di vera rivoluzione è la cacciata di re Faruk dall'Egitto e la successione del presidente Nasser. Quella parola vuol dire la distruzione di un vecchio sistema e la sua sostituzione con uno nuovo. Un altro esempio è la rivoluzione algerina guidata da Ben Bella, che cacciò i francesi che erano lì da più di cent'anni. Che cosa vuol dire chi parla dei negri in America come di un popolo che sta facendo una «rivoluzione»? Sì, essi condannano un sistema ma non si adoperano per cercare di rovesciarlo o di distruggerlo. La cosiddetta «rivolta» dei negri è soltanto la richiesta per essere accettati nel sistema esistente. Per esempio, una vera rivolta negra potrebbe contemplare la lotta per ottenere dei territori negri separati all'interno di questo paese, cosa che è stata sostenuta da parecchi gruppi ed individui, molto tempo prima che Elijah Muhammad apparisse sulla scena . Quando l'uomo bianco venne in questo paese non dette certo dimostrazione di praticare la non violenza. Proprio la stessa persona il cui nome è il simbolo della non violenza oggi ha fatto queste dichiarazioni: «La nostra nazione nacque dal genocidio quando accettò la dottrina secondo cui l'americano originario, il pellerossa, era una razza inferiore. Anche prima c'erano parecchi negri su questo territorio e lo sfregio dell'odio razziale aveva già reso orribile il volto della società coloniale. Dal secolo sedicesimo in poi, scorse il sangue in battaglie per la supremazia razziale. Forse noi siamo l'unica nazione che ha tentato, elevando il principio a politica nazionale, di spazzar via le sue popolazioni indigene, oltre al fatto che abbiamo presentato quella tragica esperienza come una nobile crociata. Persino oggi non siamo riusciti a respingere con orrore o a sentire rimorso per quella vergognosa vicenda. Anzi la troviamo esaltata nella letteratura, nei film, nelle opere teatrali e nel folklore e si insegna ancora ai nostri bambini a rispettare la violenza che ha ridotto un popolo dalla pelle rossa di antica cultura in pochi gruppi dispersi rinchiusi in poverissime riserve» . «Coesistenza pacifica!» Ecco un altro slogan che l'uomo bianco è stato prontissimo a tirar fuori. Benissimo! Ma quali sono state le sue azioni? Durante tutto il suo cammino attraverso la storia, egli ha sventolato con una mano le insegne del cristianesimo mentre con l'altra roteava la spada . Basta rifarci proprio alle origini del cristianesimo. Il cattolicesimo con la sua gerarchia fu concepito in Africa da quelli che la chiesa cristiana chiama «i padri del deserto» . Quando la Chiesa entrò in Europa fu subito coperta dalla lebbra del razzismo. Ritornata in Africa all'ombra della croce, insegnò la supremazia bianca con la conquista, l'assassinio, lo sfruttamento, il saccheggio, lo stupro, la provocazione e le percosse. E' in questo modo che l'uomo bianco si assicurò la posizione di guida nel mondo mediante l'uso del puro e semplice potere fisico. Eppure, dal punto di vista spirituale, egli era del tutto inadeguato. La storia dell'umanità ha dimostrato, da un'epoca all'altra, che il vero criterio per giudicare ogni supremazia è spirituale. Gli uomini sono attratti dallo spirito e costretti dalla forza. E' lo spirito che crea l'amore e la forza genera solo la paura . Sono d'accordo al cento per cento con quei razzisti che dicono che la fratellanza non può essere imposta da nessuna legge . L'unica vera soluzione mondiale oggi è quella di avere dei governi veramente guidati da una forza spirituale. Sono convinto che qui, in quest'America lacerata dalle lotte razziali, sia necessaria, particolarmente per i negri, la religione dell'Islam. Basta che il negro pensi che è stato il cristiano più fervente d'America e si domandi poi a che cosa ciò lo ha portato. Infatti nelle mani dell'uomo bianco e nello spirito della sua interpretazione, dov'è che il cristianesimo ha condotto questo MONDO? Ha spinto i due terzi della popolazione della terra composti di non bianchi alla ribellione e oggi dire due terzi della popolazione umana equivale a dire all'altro terzo costituito dall'uomo bianco: «fuori!» E l'uomo bianco se ne va e appena partito, vediamo che gli indigeni ritornano alle loro religioni originarie che il conquistatore aveva bollato come pagane. Una sola religione, l'Islam, ha avuto la forza di fronteggiare e combattere il cristianesimo per mille anni e solo essa è riuscita a tenerlo a bada . Gli africani ritornano all'Islam e ad altre religioni indigene, mentre gli asiatici ritornano all'Induismo, al Buddismo e all'Islam . Allo stesso modo in cui, una volta, le crociate dei cristiani si diressero verso Oriente, oggi la crociata islamica si muove verso Occidente. Con l'Asia ormai chiusa per il cristianesimo, con gran parte dell'Africa che rapidamente sta diventando musulmana, con un'Europa indifferente, è oggi opinione generale che la civiltà «cristiana» dell'America che sostiene la razza bianca in tutto il mondo sia il più forte bastione rimasto al Cristianesimo . Ebbene, se le cose stanno così, se il cosiddetto cristianesimo che si pratica oggi in America incarna il meglio di ciò che questa religione può offrire, chiunque si trovi nel pieno possesso delle sue facoltà mentali non dovrebbe aver bisogno di altre prove per capire che la FINE del cristianesimo è molto vicina . Ma vi rendete conto che alcuni teologi protestanti, riferendosi al nostro tempo, usano nei loro scritti l'espressione «èra postcristiana»? Qual è la ragione fondamentale del fallimento della Chiesa cristiana? La sua incapacità di combattere il razzismo. E' la solita storia. Chi semina vento raccoglie tempesta: la Chiesa cristiana ha seminato indegnamente il razzismo ed ora lo raccoglie . In quest'anno di grazia 1965, immaginatevi che tutte le domeniche mattina la «coscienza cristiana» dei fedeli è protetta sbarrando le porte ai negri che vorrebbero entrare. Ad essi si dice: «E' vietato l'ingresso in QUESTA casa di Dio!» C'è una triste ironia nel fatto che la città di Saint Augustine, nella Florida, che prese nome dal santo africano negro che salvò il cattolicesimo dall'eresia, sia stata recentemente teatro di sanguinosi tumulti razziali . Credo che ora Dio stia concedendo alla cosiddetta società bianca cristiana l'ultima occasione per pentirsi ed espiare i suoi delitti: avere sfruttato e reso schiavi i popoli di colore di tutto il mondo. E' proprio come quando Dio diede al Faraone la possibilità di pentirsi, ma questi rimase fermo nel suo rifiuto di far giustizia in favore di quelli che aveva oppresso e, come sapete, Dio distrusse il Faraone . Ma l'America bianca prova realmente dolore per i suoi crimini contro i negri? Ha la capacità di pentirsi e di rimediare alle sue colpe? E tale capacità esiste in una maggioranza, in una metà o almeno in un terzo della società americana bianca? Molti negri, le vittime, di fatto la maggior parte dei negri, vorrebbero poter dimenticare e perdonare quei delitti, ma la maggioranza degli americani bianchi non ha nessuna intenzione di rendere giustizia al negro . In realtà, che risarcimento potrebbe esserci all'aver ridotto in schiavitù, all'aver usato violenza, all'aver maltrattato per secoli milioni di esseri umani? Quale espiazione chiederebbe il dio della giustizia per aver defraudato i negri della loro fatica, delle loro vite, della loro vera identità, cultura, storia e persino della stessa dignità umana? Una tazza di caffè, un posto a teatro, la possibilità di accedere ai gabinetti pubblici, concessioni che coprono l'intera gamma dell'ipocrita integrazione, non costituiscono certo un risarcimento . Dopo un po' di tempo trascorso in America, tornai all'estero e questa volta rimasi per diciotto settimane nel Medio Oriente e in Africa . Tra i leader con i quali ebbi conversazioni private questa volta c'erano il presidente dell'Egitto Gamal Abdel Nasser; il presidente della Tanzania Julius K. Nyerere; il presidente della Nigeria Nnamoi Azikiwe; il dottor Kwame Nkrumah del Ghana, il presidente della Guinea Sékou Touré; il presidente del Kenya Jomo Kenyatta e il primo ministro dell'Uganda dottor Milton Obote . Incontrai anche leader religiosi africani, arabi, asiatici, musulmani e non musulmani e in tutti questi paesi ebbi modo di parlare con afroamericani e bianchi di diversa origine e professione . In un paese africano l'ambasciatore americano più rispettato dell'intero continente era un bianco e sono lieto di ricordare che ciò mi fu detto da uno dei leader più influenti. Parlammo per un intero pomeriggio e, basandomi su quanto avevo sentito dire di lui, gli credetti quando affermò che finché era in Africa non pensava mai in termini razziali, ma trattava con esseri umani senza accorgersi del loro colore. Mi disse di cogliere assai più chiaramente le differenze linguistiche e che notava le differenze di colore solo quando tornava in America . «Quello che mi state dicendo, - replicai, - equivale ad affermare che non è l'americano bianco ad essere razzista, ma L'ATMOSFERA politica, economica e sociale dell'America che automaticamente produce una psicologia razzista nell'uomo bianco». Fu d'accordo . Convenimmo anche sul fatto che la società americana rende quasi impossibile che si possa trattare da uomo a uomo senza un'immediata consapevolezza della differenza di colore e che se si potesse eliminare il razzismo, l'America potrebbe costruire una società in cui ricchi e poveri sarebbero veramente in grado di vivere come esseri umani. Quella discussione con il diplomatico mi fece capire, e devo dire con mio grande piacere, che l'uomo bianco non è intrinsecamente cattivo, ma che a spingerlo ad azioni nefande è la società razzista americana, quella stessa società che ha prodotto e alimenta una psicologia capace di scatenare i più vili e bassi istinti dell'uomo . Con un altro bianco che incontrai in Africa e che ai miei occhi apparve come l'esatta personificazione di ciò che avevo discusso con l'ambasciatore, ebbi un colloquio di natura assai diversa . Durante tutto il viaggio sapevo benissimo di essere sotto una costante sorveglianza. L'agente era un tale dall'aspetto odioso che si notava facilmente. Non so a quale corpo appartenesse perché non lo lasciò trapelare, altrimenti lo direi. In ogni caso mi cominciò a seccare quando mi accorsi di non poter consumare un pasto nell'albergo senza vedermelo da qualche parte fra i piedi. Mi sembrava di essere John Dillinger o qualcuno del genere . Una mattina mi alzai dal tavolo, andai verso di lui e gli dissi di sapere benissimo che mi stava seguendo e che se voleva sapere qualcosa non capivo perché non me la chiedeva direttamente. Lui prese il tipico atteggiamento di sufficienza, così gli dissi in faccia che era un imbecille, che non mi conosceva e non sapeva per quale causa io mi battevo e che lui era uno di quelli che lasciano agli altri il compito di pensare. Aggiunsi che, indipendentemente dal posto che un uomo ha, dovrebbe almeno esser capace di pensare di testa sua. Queste parole colpirono il segno e lui aprì la valvola . Mi disse che ero antiamericano, sovversivo, che incitavo alla sedizione e che probabilmente ero comunista. Gli risposi che quello che stava dicendo non era che la dimostrazione di quanto poco capisse il mio pensiero e che l'unica accusa che mi avrebbero potuto fare l'F.B.I. o la CIA o chiunque altro era di essere di idee aperte. Gli dissi che cercavo la verità e che mi sforzavo di considerare obiettivamente ogni cosa in se stessa, che ero contro ogni modo di pensare chiuso e contro ogni società basata sulla costrizione, che rispettavo il diritto di ciascuno a credere quanto la sua intelligenza gli fa considerare valido ed esigevo che gli altri rispettassero anche in me tale diritto . Poi il supersegugio cominciò a parlare delle mie credenze religiose di Black Muslim. Gli chiesi se i suoi capi non si fossero neanche presi la briga di informarlo del cambiamento avvenuto nelle mie credenze e gli dissi che ora credevo nell'Islam così come veniva insegnato alla Mecca, che non c'era altro Dio al di fuori di Allah e che Muhammad ibn Abdullah che era vissuto nella Città Santa della Mecca circa millequattrocento anni fa era l'ultimo Messaggero di Allah . Fin dal primo momento avevo cercato di indovinare qualcosa e feci un tentativo che scosse davvero il mio supersegugio. Dal soggettivismo che avevo notato in tutte le sue domande e nei suoi discorsi avevo dedotto un'ipotesi. «Sapete, - gli dissi, credo che voi siate un ebreo con un nome anglicizzato». Dalla sua espressione capii di avere colpito nel segno. Mi domandò come lo sapevo ed io gli risposi che ormai avevo così tanta esperienza sul modo in cui gli ebrei mi attaccavano che di solito ero in grado di riconoscerli. Aggiunsi che l'unico risentimento che provavo contro gli ebrei era che molti di essi si comportavano da ipocriti quando affermavano di essere amici del negro americano e che mi faceva molto arrabbiare di esser così frequentemente accusato di antisemitismo quando dicevo cose assolutamente vere nei confronti degli ebrei. Gli dissi che riconoscevo loro il merito di essere i più attivi, i più capaci di esprimersi tra tutti gli altri bianchi «liberali» che guidavano e finanziavano il movimento per i diritti civili dei negri, ma, al tempo stesso, gli ricordai che gli ebrei prendevano tali posizioni per un calcolato motivo strategico e cioè che più i pregiudizi dei gentili si concentravano sui negri e più loro sarebbero stati lasciati in pace. Gli dissi che secondo me la prova che tutti gli atteggiamenti in favore dei diritti civili tipici di tanti ebrei non erano affatto sinceri era la semplice constatazione che nel Nord i peggiori segregazionisti erano proprio gli ebrei. Per esempio, considerate tutte le attività e i locali in cui il negro cerca di integrarsi. Se gli ebrei non ne sono i proprietari o ne detengono il controllo economico, hanno almeno la partecipazione azionaria o comunque sono in grado di esercitare una profonda influenza. Si può dire che sinceramente facciano ciò? No! Dissi che, secondo me, una prova ancora più schiacciante di come gli ebrei considerano i negri era quello che invariabilmente accadeva tutte le volte che un negro si trasferiva in una zona residenziale bianca abitata prevalentemente da ebrei. Questi si mettevano di solito alla testa dell'esodo. Generalmente in tali situazioni alcuni bianchi rimangono, ma di rado tra essi ci sono degli ebrei. Si tratta di irlandesi cattolici o di italiani ed è una vera ironia il fatto che gli ebrei siano spesso «accettati» con grande difficoltà . So che quando faccio queste affermazioni mi vengono rovesciate addosso da tutte le parti accuse di antisemitismo, ma la verità è la verità . La lotta politica era in pieno fervore in America mentre io, a quel tempo, mi trovavo in viaggio all'estero. Al Cairo e poi di nuovo ad Accra ricevetti telegrammi e telefonate dagli organi di stampa americani che volevano sapere per chi parteggiavo, se per Johnson o per Goldwater . Risposi che per quel che riguardava il negro americano quei due candidati erano praticamente la stessa cosa. Ritenevo che fosse solo una questione di scegliere tra Johnson la volpe e Goldwater il lupo . Nella vita politica americana il termine «conservatorismo» vuol dire «teniamo i "niggers" al loro posto» mentre «LIBERALISMO» vuol dire: «teniamo i negretti al loro posto, ma diciamogli che li tratteremo un po' meglio. Prendiamoli un altro po' in giro con le promesse». Dati i termini della scelta, ritenevo che il negro americano non potesse che decidere da chi esser divorato, se dalla volpe «liberale» o dal lupo «conservatore», dato che ambedue l'avrebbero divorato . Non preferivo Goldwater a Johnson, salvo per il fatto che nella tana del lupo avrei saputo con chiarezza cosa aspettarmi. Mi sarei guardato con più attenzione dal lupo famelico che non dall'astuta volpe: il suo ringhiare minaccioso mi avrebbe tenuto in guardia pronto a combattere per la vita, mentre AVREI POTUTO essere ingannato e distratto dall'insidiosa volpe. Vi descriverò i sistemi della volpe. Quando Johnson divenne presidente in seguito all'assassinio di Dallas quale fu la prima persona che mandò a chiamare? Fu il suo miglior amico, «Dicky»; Richard Russell della Georgia. Johnson dichiarava a tutti che i diritti civili erano «un problema morale» mentre il suo migliore amico era lo stesso razzista del Sud che guidava l'opposizione ai diritti civili. Che impressione vi farebbe uno sceriffo che si dichiarasse contrario agli svaligiatori di banche e poi avesse come suo migliore amico Jesse James? Rispettavo Goldwater come uomo perché esponeva chiaramente le sue convinzioni, cosa ormai rarissima nella vita politica di oggi. Non mormorava nell'orecchio ai razzisti mentre sorrideva agli integrazionisti e perciò ritenni che, se non avesse avuto delle profonde convinzioni Goldwater non avrebbe rischiato l'impopolarità. Disse chiaro e tondo ai negri che non era dalla loro parte e a questo punto bisogna considerare che sempre la gente di colore ha fatto dei progressi quando si è trovata a doversi ribellare a un sistema che vedeva chiaramente stretto a difesa contro i negri. Davanti alle continue ninnananne cantate dagli astutissimi liberali, il negro del Nord diventò un mendicante mentre quello del Sud, che si trovava a dover fronteggiare dei bianchi che apertamente lo deridevano, affrontò la lotta per la sua libertà molto tempo prima che lo stesso accadesse nel Nord . Comunque non è che pensassi che per i negri Goldwater fosse meglio di Johnson o viceversa. Durante le elezioni non mi trovavo negli Stati Uniti, ma anche se ci fossi stato non avrei votato per nessuno dei due candidati alla presidenza né lo avrei consigliato ad altri negri. Alla Casa Bianca c'è andato Johnson e i voti negri hanno costituito il fattore decisivo della sua vittoria, proprio come lui voleva. Se avesse prevalso Goldwater, dico soltanto che i negri avrebbero almeno saputo di avere a che fare con un lupo che ringhia apertamente anziché con una volpe che prima che se ne siano accorti li ha mangiati quasi a metà . Continuavo a incontrare grosse difficoltà nel mio tentativo di sviluppare l'organizzazione nazionalista negra che intendevo mettere al servizio dei negri d'America. Ma perché proprio il nazionalismo negro? Ebbene, come è possibile che nella società americana basata su di una spietata concorrenza, esista la solidarietà fra bianchi e negri se prima non si riesce a suscitarla tra i negri? Se vi ricordate, durante la mia infanzia avevo avuto modo di venire a contatto con gli insegnamenti del nazionalista negro Marcus Garvey che, sapevo benissimo, erano stati la causa dell'assassinio di mio padre. Anche quando ero seguace di Elijah Muhammad, ero stato sempre profondamente consapevole della capacità delle teorie politiche e socio-economiche dei nazionalisti negri di infondere nel nostro popolo la dignità razziale, lo stimolo e la fiducia di cui abbiamo oggi bisogno per sollevarci, camminare con le nostre gambe, liberarci dalle cicatrici e prendere posizione . Una delle più grandi difficoltà che incontravo nello sviluppo dell'organizzazione da me voluta, e cioè di un organismo interamente composto di negri che aveva come scopo finale quello di contribuire a creare una società fondata su di una vera fratellanza tra bianchi e negri, era il fatto che la mia precedente immagine, la cosiddetta immagine del Black Muslim, continuava a caratterizzarmi. Cercavo lentamente di modificarla, di compiere una svolta decisiva che mi proponesse diversamente di fronte al pubblico, specialmente a quello dei negri. Non ero meno infuriato di prima, ma la vera fratellanza che avevo avuto modo di vedere nella Terra Santa mi aveva portato a riconoscere che l'ira può spesso accecare gli uomini . Approfittavo di ogni momento libero per parlare con gente influente di Harlem e pronunciai moltissimi discorsi di questo tipo: «La vera fede dell'Islam mi ha insegnato che per rendere complete la famiglia umana e la società ci vogliono tutte le caratteristiche, tutti gli ingredienti religiosi, politici, economici, psicologici e razziali . «Da quando ho imparato la VERITA' alla Mecca, tra i miei più cari amici ci sono persone di tutte le specie: cristiani, ebrei, buddisti, induisti, agnostici e persino atei. Ho amici tra i capitalisti, i socialisti e comunisti; alcuni sono moderati, altri conservatori o estremisti e altri ancora hanno la mentalità da zio Tom. Oggi i miei amici sono di pelle nera, bruna, rossa, gialla ed anche BIANCA!» Dicevo al mio pubblico delle strade di Harlem che solo quando l'umanità si fosse sottomessa all'unico Dio avrebbe raggiunto quella «pace» di cui si sentiva tanto parlare mentre nessuno muoveva neanche un dito per assicurarla . Dicevo che allo stato attuale della situazione razziale in America, si doveva considerare la lotta del negro contro il razzismo dell'uomo bianco come un problema umano e che era necessario lasciar perdere tutte le ipocrisie politiche e propagandistiche: ambedue le razze, in quanto composte da esseri umani, avevano l'obbligo e la responsabilità di contribuire a cambiare la situazione umana dell'America . Dicevo che i bianchi di intenzioni oneste dovevano battersi, con coraggio e direttamente, contro il razzismo degli altri bianchi e che i negri dovevano raggiungere una maggiore consapevolezza del fatto che, insieme con l'eguaglianza di diritti, ci sarebbe stato anche il peso dell'eguaglianza di responsabilità . Meglio della maggior parte dei negri, sapevo come molti bianchi desideravano vedere risolti i problemi razziali dell'America, e come molti di essi erano frustrati al pari dei negri. Credo che ricevessi ogni giorno almeno cinquanta lettere di bianchi. A conclusione di riunioni o discorsi che tenevo in pubblico, molti bianchi mi si affollavano intorno per chiedermi: «Cosa può fare uno di noi che sia animato da sincere intenzioni?» Quando dico queste cose mi viene a mente quella studentessa universitaria di cui vi ho già parlato, che partì in aereo dal suo college della Nuova Inghilterra fino a New York per venirmi a cercare nel ristorante della Nazione dell'Islam ad Harlem . Allora le dissi che non avrebbe potuto far niente e me ne dispiace molto. Vorrei conoscere il nome di quella ragazza per poterle telefonare o scrivere e dirle ciò che dico ora ai bianchi quando vengono da me in tutta sincerità e mi chiedono, in un modo o nell'altro, la stessa cosa che mi chiese lei . Prima di tutto dico loro che, almeno per quel che riguarda la mia organizzazione nazionalista negra, l'Organizzazione dell unità afroamericana, essi non possono entrare a farne parte . Sono profondamente convinto che i bianchi vogliano entrare nelle organizzazioni negre solo perché quella è la via più facile per mettersi a posto la coscienza. Con la loro presenza fisica essi «provano» di essere con noi, ma la dura verità è che ciò non contribuisce a risolvere il problema razziale dell'America. Non sono i negri ad essere razzisti e perciò i bianchi veramente sinceri devono dar prova di se stessi non tra le vittime negre ma sul fronte di battaglia dove c'è veramente il razzismo e cioè nelle loro comunità, perché in America il razzismo è solo tra i bianchi. E' appunto lì che quelle persone sinceramente intenzionate a contribuire in qualche modo devono lavorare . A parte ciò, non intendo offendere nessuno di quei bianchi di sincere intenzioni quando dico che se essi diventano membri di organizzazioni negre le rendono, con la loro sola presenza, meno efficaci. Persino i migliori di questi membri bianchi rallenteranno la scoperta che i negri devono fare di ciò di cui hanno bisogno e particolarmente di quanto sono in grado di fare per loro stessi, lavorando da sé, tra la loro gente, nelle loro comunità . Non voglio davvero offendere nessuno, ma arriverò persino a dire che non ho mai avuto fiducia in quei bianchi sempre così desiderosi di stare in mezzo ai negri, di mescolarsi nelle comunità negre. Non mi fido di quei bianchi che non desiderano altro che circondarsi di negri. Può darsi che questa mia opinione sia ancora un residuo degli anni in cui facevo il trafficante ad Harlem e del ricordo di tutti quei bianchi ubriachi e con la faccia paonazza che, la notte, nei club, si attaccavano sempre a qualche negro per dirgli: «Voglio che tu sappia che sei proprio uguale a me». Poi riprendevano i taxi e le loro grosse vetture nere, se ne andavano giù in città nei posti dove abitavano e lavoravano e là era meglio che nessun negro, che non fosse un servitore, si facesse vedere. Comunque so che tutte le volte che i bianchi aderiscono ad una organizzazione negra, si nota subito che i negri si appoggiano ad essi e prima che non si creda, anche se un negro detiene apparentemente il potere, i bianchi, grazie al loro denaro, controllano l'organismo . «Lavorate in stretto contatto con noi, - dico ai bianchi di sincere intenzioni. - Che ciascuno di noi lavori tra la sua gente». Che i bianchi sinceri trovino altri che la pensano come loro; che diano vita ai loro gruppi tutti composti di gente della loro razza per lavorare insieme a convertire gli altri bianchi che pensano e agiscono da razzisti; che quei bianchi di sincere intenzioni insegnino la non violenza ai loro confratelli! Rispetteremo coloro che lavorano in stretto contatto con noi . Meritano ogni riconoscimento e noi glielo daremo. Nel frattempo lavoreremo tra la nostra gente, nelle nostre comunità negre, dimostrando e insegnando, in quelle forme che solo noi conosciamo, che il negro deve aiutarsi da sé. I bianchi di sincere intenzioni e i negri che lavorano separatamente, in realtà poi non fanno altro che lavorare insieme . Nella nostra reciproca sincerità saremo forse in grado di mostrare all'America la strada per salvarsi. Ciò può accadere soltanto se i diritti e la dignità umani sono estesi pienamente anche ai negri. Solo quelle azioni concrete ed efficaci sinceramente prodotte da un profondo senso di umanità e responsabilità morale possono toccare le vere radici che producono le esplosioni razziali nell'America di oggi. Senza tali azioni, i disordini diventeranno sempre peggiori. Vorrei dire che niente sarà risolto con l'attribuire a me e ad altri cosiddetti «estremisti» e «demagoghi» negri la colpa per il razzismo che c'è in America. Qualche volta ho osato sognare che forse un giorno la storia dirà che la mia voce levatasi contro l'arroganza, la prosopopea e il narcisismo dell'uomo bianco, ha contribuito a salvare l'America da una catastrofe grave e forse persino fatale . L'obiettivo è sempre stato lo stesso, anche se per realizzarlo si assumono atteggiamenti tanto diversi come il mio e quello delle marce non violente del dottor Martin Luther King, che pure contribuiscono a porre l'accento sulla brutalità e la cattiveria dell'uomo bianco nei confronti di negri indifesi. Oggi, nel clima razziale di questo paese, si può facilmente capire quale dei due atteggiamenti «estremi» per la risoluzione dei problemi dei negri è destinato ad una fatale catastrofe, se sia il «non violento» dottor King oppure il «violento» Malcolm . Considero urgente tutto quello che faccio oggi. A nessuno è concesso tanto tempo per portare a termine quello che è lo scopo della sua vita e la mia in particolare non è mai rimasta ferma sulla stessa posizione per un periodo molto lungo. Avete visto con quale frequenza ho vissuto mutamenti drastici e inaspettati . Non faccio altro che guardare ai fatti quando dico di sapere che in ogni momento, di giorno o di notte, può raggiungermi la morte. Ciò è particolarmente vero da quando sono tornato dall'ultimo mio viaggio all'estero nel corso del quale ho avuto modo di vedere la natura delle cose che stanno succedendo e di ottenere informazioni da fonti degne di fede . Pensare alla morte non mi disturba come può succedere ad altri . Non ho mai creduto di poter arrivare alla vecchiaia e anche prima di diventare un Muslim, quando facevo il trafficante nella giungla del ghetto e poi quand'ero detenuto in prigione, ho sempre avuto l'idea fissa che sarei morto di morte violenta . Dopotutto, nella mia famiglia questa è diventata una tradizione: mio padre e la maggior parte dei suoi fratelli morirono di morte violenta e mio padre fu assassinato per le idee in cui credeva . Per chiarire meglio, se considero le cose in cui credo e il temperamento che ho, più la mia totale dedizione ai principi di cui sono convinto, non posso non pensare che ci siano tutti gli elementi per impedirmi di giungere alla tarda età . Ho dedicato a questo libro così tanta parte di quel tempo che ancora mi resta perché ritengo e spero che se racconto interamente e con assoluta onestà la storia della mia vita, può darsi che un giorno, se sarà letta con spirito obiettivo, possa diventare una testimonianza di qualche valore sociale . Credo che un lettore obiettivo sia in grado di capire che per uno come me vissuto da giovane, da negro, in una società come questa, finire in prigione fosse inevitabile. E' una cosa che accade a migliaia e migliaia di giovani negri . Credo che lo stesso lettore obiettivo sia in grado di capire l'inevitabilità della mia reazione quando sentii proclamare che «l'uomo bianco è il diavolo», quando ricordai quelle che erano state le mie esperienze personali. I successivi dodici anni della mia vita furono dedicati alla propagazione di quel principio tra i negri . Spero e credo che quel lettore obiettivo, nel seguire la mia vita che non è altro che la vita di un negro fatto dal ghetto, possa acquisire un quadro più chiaro di quello che aveva prima dei ghetti in cui si forgiano il modo di vivere e di pensare di quasi tutti i ventidue milioni di negri d'America . In quei ghetti il tipo di adolescente com'ero io, con i suoi falsi eroi e le compagnie sbagliate, diventa ogni anno sempre più comune. Non voglio dire che tutti diventino dei parassiti com'ero io: fortunatamente gran parte evitano tale destino. Però il piccolo gruppo di quelli che seguono tale strada viene ad aggiungersi ad un totale generale sempre più consistente di pericolosi delinquenti minorili. Non molto tempo fa l'F.B.I . pubblicò un rapporto sull'impressionante aumento della criminalità in ognuno degli anni posteriori alla fine della seconda guerra mondiale. L'aumento era dal dieci al dodici per cento ogni anno. In quel rapporto ciò non era affermato con chiarezza, ma lo dico io qui: la maggioranza di quell'aumento della criminalità si verifica nei ghetti negri che la società razzista americana permette ancora che esistano. Nella «lunga, calda estate» del 1964, nei disordini avvenuti nelle città maggiori degli Stati Uniti, la gioventù negra dei ghetti, gli esclusi dalla vita sociale, furono sempre in prima linea . In quest'anno 1965, sono sicuro che scoppieranno disordini più numerosi e più gravi in più città, malgrado la legge sui diritti civili fatta unicamente per salvare la faccia. La ragione di ciò è che la causa di quei disordini, la persistenza del razzismo in America, è stata per troppo tempo trascurata . Credo che sarebbe quasi impossibile trovare, qui in America, un negro che abbia vissuto più di me nel fango della società, che sia stato più ignorante di me, che abbia sofferto più angosciosamente di me. E' solo dopo la più profonda oscurità che può sorgere la luce più grande; le gioie maggiori vengono solo dopo gli immensi dolori e soltanto dopo aver sofferto la schiavitù e la prigione si può apprezzare più compiutamente la libertà . Credo di aver combattuto per la libertà dei miei ventidue milioni di fratelli e sorelle negri qui in America meglio che sapevo e meglio che ho potuto, pur con tutti i limiti, che sono molti . Credo che la mia maggiore manchevolezza sia stata di non aver ricevuto la cultura accademica che avrei desiderato di avere, diventare per esempio avvocato. Ritengo che avrei potuto essere un buon avvocato perché mi è sempre piaciuta la lotta verbale, la sfida. Mi dovete credere quando vi dico che se ora ne avessi il tempo, non mi vergognerei affatto di mettermi a frequentare una scuola pubblica di New York City ricominciando dalla nona classe per arrivare fino alla laurea. Tutto ciò perché sono ben lontano dall'avere una cultura che mi consenta di coltivare tutti gli interessi che ho. Per esempio, mi piacciono molto le lingue e vorrei essere competente in questo campo. Non conosco niente di più demoralizzante che trovarsi con gente che dice cose che non capisco, specialmente quando si tratta di persone della mia stessa razza. In Africa sentivo parlare lingue madri come lo Haussa e lo Swahili e stavo lì in piedi come un ragazzino ad aspettare che qualcuno mi traducesse quello che era stato detto. Non dimenticherò mai la sensazione di ignoranza che ho provato . Oltre ai fondamentali dialetti africani, vorrei cercare d'imparare il cinese, che sembra sarà la lingua politica più poderosa del futuro. Già ho cominciato a studiare l'arabo che ritengo debba diventare la lingua spirituale più importante del futuro . Mi piacerebbe studiare, voglio dire imparare, questioni e fatti appartenenti a diversi campi perché ho una mente aperta e un vivo interesse per moltissimi argomenti. E' questa la ragione per cui mi piacciono come individui alcuni dei moderatori dei programmi radio e televisivi a cui ho partecipato e li rispetto poiché, anche se erano quasi sempre in disaccordo con me sul problema razziale, sapevano mantenere una posizione aperta ed obiettiva di fronte alla verità degli avvenimenti mondiali. Alla gente piacciono Irv Kupcinet di Chicago, e Barry Farber, Barry Gray e Mike Wallace di New York ed essi mi fecero chiaramente intendere che mi rispettavano in una misura che non avrebbero mai sospettato. Spesso chiedevano un mio parere su argomenti estranei al problema razziale e qualche volta, dopo il programma, ci sedevamo a parlare per un'ora o più degli avvenimenti contemporanei e di altre cose. Vedete come gran parte dei bianchi, anche quando riconoscono che un negro ha una certa intelligenza, continuano a pensare che l'unica cosa di cui può discutere è il problema razziale e che non possa quindi contribuire in nessun altro campo del pensiero. Avrete certamente osservato quanto è raro che dei bianchi chiedano ai negri la loro opinione su problemi mondiali della sanità o sulla gara spaziale per portare l'uomo sulla luna . Ogni mattina, quando mi sveglio, mi pare che quello che sta per cominciare sia un altro giorno guadagnato. In tutte le città dove vado a parlare, a presiedere le riunioni della mia organizzazione o a occuparmi di altri affari, certi negri seguono ogni mio movimento aspettando l'occasione per assassinarmi. Ho detto molte volte in pubblico di sapere con esattezza che sono stati impartiti ordini precisi. Chi non crede a quello che dico non conosce i Muslims della Nazione dell'Islam . Però godo anche del privilegio di avere dei fedeli seguaci che, credo, mi sono devoti come una volta lo ero io a Elijah Muhammad. Coloro che vanno a caccia di un uomo devono ricordarsi che nella giungla vi sono anche quelli che vanno a caccia dei cacciatori . So anche che potrei morire improvvisamente per mano di qualche razzista bianco o di qualche negro assoldato dai bianchi, oppure per mano di qualche negro col cervello talmente imbottito da agire di sua iniziativa credendo che, eliminandomi, aiuterebbe i bianchi visto che io parlo così male di loro . Comunque ora vivo ogni giorno come se fossi già morto e vi dico che cosa vorrei che faceste. Quando sarò morto - e parlo così perché da quello che so non mi aspetto di vivere abbastanza per leggere questo libro nella sua stesura definitiva - voglio che controlliate se quello che dico ora sarà o no confermato dai fatti: vedrete che la stampa dei bianchi mi identificherà con «l'odio» . I bianchi si serviranno di me morto allo stesso modo in cui mi hanno strumentalizzato da vivo, presentandomi come un comodo simbolo di odio e ciò per sfuggire alla verità riflessa come in uno specchio da tutte le mie azioni intese a mostrare la storia dei crimini innominabili che la razza bianca ha commesso contro la mia . Vedrete. Mi appiccicheranno, se va bene, l'etichetta di negro «irresponsabile». Riguardo a questa accusa, ho sempre pensato che il leader negro che i bianchi giudicano «responsabile» è sempre quello che non riesce a ottenere nulla. Per ottenere qualcosa in quanto negro bisogna esser considerati «irresponsabili» dai bianchi. Questo è un principio che avevo imparato sin da bambino e poiché sono stato in qualche modo anch'io un leader dei negri qui in questa società razzista d'America, mi sono sentito riconfortato tutte le volte che i bianchi mi resistevano o mi attaccavano con maggiore violenza perché in ogni caso ciò mi faceva sentire più sicuro di essere schierato in difesa degli interessi del negro americano . L'opposizione dei razzisti mi faceva automaticamente sapere che avevo fatto qualcosa di valido per i negri . Sì, è vero, ho amato il mio ruolo di «demagogo». So benissimo che spesso la società ha ucciso coloro che avevano contribuito a cambiarla e se mi sarà dato di morire dopo aver portato una luce, aver rivelato qualche importante verità che valga a distruggere il cancro razzista che divora il corpo dell'America, ebbene, tutto ciò sarà dovuto ad Allah. Miei rimarranno solo gli errori . NOTE . NOTA 1: Il Benevolent and Protective Order of the Elks è una delle numerosissime «confraternite» che, come sostiene Charles Ferguson ("Fifty Million Brothers: A Panorama of American Lodges and Clubs", New York 1937), nacquero e prosperarono per la mancanza di una «vita di gruppo» in America. Pur con diverse colorazioni e sfumature di interessi, i Knights of Pythias, le Daughters of the American Revolution, la Eastern Star, le logge negre, gli Elks eccetera fungono da gruppi di pressione, da centri di collegamento per certi interessi economici e strati sociali che spesso si configurano come gruppi etnici . APPENDICE . EPILOGO di Alex Haley . Nel 1959, quando in seguito alla trasmissione televisiva "L'odio che genera l'odio" l'opinione pubblica cominciava ad esser consapevole dell'esistenza dei Black Muslims, ero a San Francisco e stavo per andare in pensione dopo venti anni di servizio prestato nella Guardia costiera degli Stati Uniti . Un'amica, di ritorno da una visita alla sua famiglia che abitava a Detroit, mi parlò di una sorprendente religione «del negro», la Nazione dell'Islam, alla quale con sua grande sorpresa si erano convertiti tutti i suoi parenti. Ascoltai con incredulità il sistema seguito da «uno scienziato pazzo», un certo Yacub, per ottenere geneticamente la razza bianca da un originario popolo negro. Il capo dell'organizzazione era chiamato il molto onorevole Elijah Muhammad, mentre il suo capo di stato maggiore sembrava che fosse un certo pastore Malcolm X . Quando entrai nella vita civile e mi misi a fare lo scrittore a New York City, raccolsi ad Harlem parecchio materiale interessante e proposi al «Reader's Digest» un articolo su quella setta. Andai al ristorante Muslim di Harlem e chiesi come avrei potuto conoscere il pastore Malcolm X. Mi indicarono la cabina telefonica in cui egli stava parlando. Ben presto uscì fuori. Era un tipo molto alto, dall'andatura felina e dal colore bruno rossiccio, a quell'epoca intorno ai trentacinque anni di età. Quando gli ebbi spiegato il mio proposito, mi sembrò che i suoi occhi mi fulminassero da dietro gli occhiali e mi disse con tono irato: «Voi siete uno di quegli strumenti di cui l'uomo bianco si serve per spiarci!» Risposi che avevo avuto un normale incarico per scrivere un articolo e gli mostrai la lettera della rivista in cui mi si chiedeva che il pezzo fosse obiettivo e che ristabilisse l'equilibrio tra quello che i Muslims dicevano di se stessi e le critiche loro rivolte dagli avversari. Malcolm X disse con sarcasmo che le promesse dei bianchi non valevano la carta su cui erano scritte e che avrebbe avuto bisogno di un po' di tempo per decidere se cooperare o no. Nel frattempo mi consigliò di partecipare ad alcune riunioni della moschea numero sette di Harlem che era aperta anche ai negri non Muslim . Nei pressi del ristorante dei Muslims incontrai alcuni convertiti, tutti con abiti impeccabili e dai modi tanto gentili da essere quasi imbarazzanti. Il loro comportamento e la loro etichetta rispecchiavano la disciplina spartana richiesta dall'organizzazione e tutti non facevano altro che ripetere i soliti cliché della Nazione dell'Islam. Persino il bel tempo era considerato come una benedizione di Allah con annesso riconoscimento al «molto onorevole Elijah Muhammad» . Alla fine il pastore Malcolm X mi disse che non voleva prendersi la responsabilità di decidere e che dovevo parlare dell'articolo con Elijah Muhammad in persona. Io mi dichiarai disposto, mi venne fissato un appuntamento e partii in volo per Chicago . Elijah Muhammad era una persona molto fragile, dai modi timidi e dalla voce soave. Mi invitò a cena a casa sua e potei mangiare a tavola con tutta la sua famiglia. Mi rendevo benissimo conto che mi si considerava con la massima attenzione mentre egli parlava dell'F.B.I. e dell'ufficio delle imposte dirette che sorvegliavano da vicino la sua organizzazione e di un'inchiesta del Congresso che si diceva stesse per avere inizio. «Tuttavia disse Elijah Muhammad, - io non ho nessuna paura di loro perché ho tutto ciò che mi occorre, e cioè la verità». Non so come, ma nel corso di quella nostra conversazione non fu fatto il minimo cenno alla circostanza che avrei dovuto scrivere un articolo, però, quando tornai, Malcolm X si dimostrò assai meglio disposto ad aiutarmi . Stava seduto con me davanti a uno dei tavoli bianchi del ristorante Muslim e rispondeva con cautela alle domande che gli rivolgevo, quasi continuamente interrotto dalle telefonate dei giornalisti di New York. Quando gli domandai se era possibile assistere alle attività dei Muslims in qualche altra città, lui si mise d'accordo con altri pastori in modo che potessi partecipare a riunioni nei templi di Detroit, Washington e Philadelphia . Il mio articolo intitolato "Muhammad parla" apparve agli inizi del 1960 e fu il primo pezzo dedicato al fenomeno da una rivista di varietà. Ricevetti una lettera da Muhammad in cui mi manifestava la sua soddisfazione per l'obiettività dell'articolo, mentre Malcolm X mi telefonò per congratularsi con me in modo analogo. Proprio in questo periodo fu pubblicato il libro di Eric Lincoln "The Black Muslims in America" e la Nazione dell'Islam divenne un argomento di sempre crescente interesse. Nel 1961 e '62 la «Saturday Evening Post» mi dette l'incarico insieme allo scrittore bianco Al Balk, di scrivere un articolo e successivamente intervistai Malcolm X per la rivista «Playboy» che si era impegnata a pubblicare integralmente qualsiasi risposta che avrebbe dato alle mie domande. Durante quest'ultima intervista, che durò parecchi giorni, Malcolm X esclamò parecchie volte, particolarmente dopo aver fatto affermazioni assai violente contro il cristianesimo e contro i bianchi: «Sapete benissimo che quel diavolo non pubblicherà di certo queste cose!» Rimase davvero sbalordito quando la rivista «Playboy» mantenne la promessa . Malcolm X cominciò ad avere verso di me un atteggiamento più cordiale. Sapeva benissimo qual era l'influenza della stampa periodica e mi considerava, anche se ancora con sospetto, come un mezzo per prendere contatto con l'opinione pubblica. Qualche volta mi telefonava comunicandomi le date dei discorsi e dei dibattiti che faceva in pubblico, alla radio o alla televisione o mi invitava ad assistere a qualche manifestazione pubblica dei Black Muslims . I miei rapporti con Malcolm X, che spesso, nel corso delle trasmissioni radiotelevisive, si autodefiniva «il negro più arrabbiato d'America», erano a questo punto quando, agli inizi del 1963, il mio agente letterario mi mise in contatto con un editore al quale, leggendo l'intervista di «Playboy», era venuta l'idea di un'autobiografia di Malcolm X. Mi fu chiesto se ritenevo di poter convincere questo esponente politico, ormai di statura nazionale, a raccontare i più intimi dettagli della sua vita. Risposi che non lo sapevo, ma che glielo avrei chiesto e allora il direttore editoriale mi chiese se ero in grado di indicare alcuni spunti fondamentali per un libro del genere . Quando cominciai a parlarne mi accorsi come, malgrado tutte le mie interviste, conoscessi poco quell'uomo. Aggiunsi che la domanda mi aveva fatto pensare a quanta cura Malcolm X aveva messo nel minimizzare la sua opera e nel magnificare quella del suo leader Elijah Muhammad . Dissi che tutto quello che sapevo era di aver sentito parlare Malcolm X della sua vita di criminale e di detenuto prima di diventare un Black Muslim e che parecchie volte mi aveva detto: «Non credereste al mio passato». Aggiunsi che avevo sentito dire da altri che un tempo era stato spacciatore di droga, ruffiano e che aveva commesso rapine a mano armata . Sapevo che Malcolm X era ossessionato dal tempo in modo addirittura fanatico. «Chi non porta l'orologio mi è insopportabile più di chiunque altro, perché si tratta di una persona che non dà importanza al tempo, - mi aveva detto una volta. - In tutte le nostre azioni il valore e il rispetto per il tempo sono i fattori che determinano il successo o il fallimento». Sapevo che era voce corrente che il numero dei Black Muslims aumentava tutte le volte che Malcolm X faceva un discorso e quanto egli fosse orgoglioso che detenuti negri scoprissero la religione musulmana come l'aveva scoperta lui quando era in prigione. Sapevo inoltre come egli affermasse di mangiare solo cibo cucinato da Black Muslims, preferibilmente da sua moglie Betty, e che beveva un numero enorme di tazze di caffè cui aggiungeva un po' di latte con questo sarcastico commento: «Il caffè è l'unica cosa che mi piace integrata» . Mentre facevamo colazione insieme, raccontai al direttore editoriale e al mio agente come Malcolm X sapeva mettere a disagio i non Muslims. Per esempio, quando una volta si offrì di accompagnarmi in macchina fino alla metropolitana ed io accesi una sigaretta, aveva osservato con tono pungente: «Sarete la prima persona che ha fumato in questa automobile» . Malcolm X mi guardò stupito quando gli chiesi se sarebbe stato disposto a raccontare la storia della sua vita per poi pubblicarla. Fu una delle poche volte che lo vidi indeciso . «Bisognerà che pensi molto a questo libro», disse alla fine. Due giorni dopo mi telefonò dandomi appuntamento di nuovo al ristorante Black Muslim. «Sono d'accordo, - disse, - credo che la storia della mia vita possa aiutare la gente ad apprezzare meglio il modo in cui Elijah Muhammad salva i negri. Però non voglio che nessuno mi attribuisca intenzioni che non corrispondono alla verità e quindi voglio che ogni soldo che potrei ricavare da questo libro vada alla Nazione dell'Islam» . Naturalmente aggiunse che sarebbe stato necessario che Muhammad desse il suo benestare e che avrei dovuto chiederglielo di persona . Fu così che andai di nuovo a trovare Muhammad, ma questa volta a Phoenix nell'Arizona, dove la Nazione dell'Islam gli aveva comprato una casa perché potesse trarre giovamento da quel clima caldo e secco sì da guarirlo dalla sua gravissima asma bronchiale. Questa volta fummo soli. Mi disse come la sua organizzazione aveva ottenuto grandi successi con Muslims in gran parte non istruiti e che i negri avrebbero potuto fare dei passi giganteschi se avesse potuto contare sull'aiuto di alcuni degli ingegni che la razza negra aveva prodotto. «Gli scrittori sono quelli di cui abbiamo maggiormente bisogno», mi disse senza però insistere per ottenere una risposta. Improvvisamente cominciò a tossire e ben presto il suo stato peggiorò finché mi alzai preoccupato e gli andai vicino. Mi fece segno di allontanarmi dicendomi tra un colpo di tosse e l'altro che sarebbe stato meglio e che Allah approvava l'idea del libro . «Malcolm, - egli disse, - è uno dei miei pastori più bravi» . Dopo aver dato l'incarico al suo autista di riportarmi all'aeroporto di Phoenix, Muhammad si congedò da me frettolosamente e uscì dalla stanza tossendo . Tornato a New York, mostrai a Malcolm X il contratto. Lo lesse con attenzione, lo firmò e poi trasse dal portafoglio un pezzo di carta su cui spiccava la sua nervosa calligrafia. «Questa è la dedica al libro», disse. Io lessi: «Dedico questo libro al molto onorevole Elijah Muhammad che mi trovò qui in America, affondato nel luridume e nel liquame della più sporca società di questo mondo, e me ne trasse fuori, mi purificò, mi insegnò a camminare con le mie gambe e fece di me quello che sono oggi» . Il contratto conteneva la clausola che tutti i diritti spettanti a Malcolm X «dovessero esser pagati alla moschea numero due di Muhammad ». Egli ritenne che tale clausola non bastasse e mi dettò una lettera che avrebbe firmato appena fosse stata battuta a macchina: «Tutti i diritti che mi spettano per contratto dovranno essere versati dall'agente letterario alla moschea numero due di Muhammad. Gli assegni dovranno essere spediti al seguente indirizzo: Mister Raymond Sharrieff, 4947 Woodlawn Avenue, Chicago 15, Illinois» . Poi dettò un'altra lettera contenente un accordo fra me e lui: «In questo libro non ci potrà essere nulla che non abbia detto né si dovrà lasciar fuori niente di ciò che voglio vi appaia» . Per parte mia chiesi a Malcolm X di firmarmi una promessa personale secondo la quale, indipendentemente dagli impegni che aveva, mi avrebbe concesso una porzione privilegiata del suo tempo per mettere insieme il libro di centomila parole in cui avrebbe raccontato dettagliatamente tutta la sua vita. Alcuni mesi più tardi, in un momento di tensione fra di noi, gli chiesi il permesso, che mi accordò, di scrivere alla fine del libro i miei commenti su di lui senza che fosse necessario il suo consenso . Malcolm cominciò a venire a casa mia per due o tre ore al giorno. Parcheggiava la sua Oldsmobile blu davanti allo studio che allora avevo nel Greenwich Village: arrivava sempre verso le nove o le dieci di sera con la sua cartella di pelle marrone che insieme ai suoi modi da intellettuale, lo facevano rassomigliare a un avvocato. Dopo una giornata di incessante attività era sempre stanco, ma qualche volta era addirittura esausto . Cominciammo piuttosto male. Per usare un termine che a lui piaceva, credo che tutti e due fossimo un pochino «svaniti». Lì di fronte a me c'era il focoso Malcolm X che sapeva essere acido verso i negri che lo facevano arrabbiare allo stesso modo in cui lo era nei confronti dei bianchi in generale. L'avevo spesso sentito attaccare duramente alla televisione, nelle conferenze stampa e ai raduni dei Muslims, gli altri scrittori negri che lui chiamava «zii Tom», «negri da cortile», «negri vestiti di bianco». Davanti a lui c'ero io che gli proponevo di dedicare un anno a tirare fuori tutti i suoi segreti più intimi, a lui che aveva sviluppato una vera e propria ossessione per la riservatezza durante gli anni in cui era stato criminale e quelli trascorsi nella Nazione dell'Islam. I vent'anni che avevo passato sotto le armi e la mia fede cristiana non erano un elemento positivo: egli aveva spesso sbeffeggiato in pubblico tali cose. Sebbene ora, sia pure indirettamente, insistesse perché scrivessi sui Muslims per riviste di diffusione nazionale, mi aveva detto parecchie volte in varie forme che «voi negri con qualifiche professionali vi sveglierete uno di questi giorni e scoprirete che è necessario unirvi sotto la guida del molto onorevole Elijah Muhammad per la vostra salvezza». Malcolm X era anche convinto che l'F.B.I. avesse sistemato microfoni nel mio studio e probabilmente sospettava che ciò fosse stato fatto con la mia cooperazione. Per parecchie settimane, al principio dei nostri rapporti, non entrò mai nella stanza senza esclamare: «Prova, prova... uno, due, tre...» Si verificarono anche degli incidenti. Una sera Malcolm X arrivò un po' più presto e si incontrò faccia a faccia nel corridoio con un mio amico bianco che stava uscendo dal mio studio. Il comportamento di Malcolm durante tutto il tempo che passammo insieme quella sera mi dette l'impressione che fosse convinto di aver trovato finalmente conferma ai suoi peggiori dubbi . Un'altra volta, mentre pronunciava un'arringa sulle glorie dell'organizzazione Muslim e faceva grandi gesti tenendo in mano il passaporto, si accorse che cercavo di leggere il numero perforato del documento: improvvisamente me lo gettò davanti mentre gli si arrossava il collo dalla rabbia: «Copiate bene il numero, ma non servirà a nulla perché il diavolo bianco lo sa già benissimo. E' stato lui a concedermi il passaporto» . Per circa un mese ebbi paura che il libro non sarebbe mai venuto fuori. Malcolm X si rivolgeva a me con un compassato «Signore!» e nel mio taccuino non c'era altro che la filosofia dei Black Muslims, le lodi di Muhammad e le «nefandezze» commesse dai «diavoli bianchi». Si arrabbiava quando mi provavo a ricordargli che il libro era sulla sua vita. Pensavo che avrei forse dovuto avvertire l'editore che non potevo realizzare il mio proposito, quando si presentò il primo segno di speranza. Avevo osservato che mentre parlava, Malcolm X scarabocchiava con la sua penna rossa su qualunque pezzo di carta gli capitasse sotto mano . Qualche volta era il margine di un giornale, qualche altra i foglietti di una rubrica che portava sempre dietro. Cominciai a lasciare sul tavolo davanti a lui due tovaglioli di carta bianca tutte le volte che gli portavo il caffè e il mio trucchetto funzionò molto bene, tanto che riuscii a recuperare alcuni degli scarabocchi che faceva. Ecco alcuni esempi: «Qui giace un Y.M., ucciso da un B.M. che combatteva per il W.M . il quale ha ucciso tutti i RM ». (Non mi fu difficile decifrare queste sigle, soprattutto perché conoscevo Malcolm X. «Y.M.» stava per "yellow man", uomo giallo; «B.M.» per "black man", uomo negro; «W.M.» per "white man", uomo bianco e «R.M.» per red man, pellerossa) . «Non accade mai niente senza una causa. W.M. non affronterà mai la causa della condizione di B.M. W.M. è ossessionato dal bisogno di nascondere la sua colpevolezza» . «Se il cristianesimo si fosse fatto decisamente sentire in Germania sarebbero state risparmiate le vite di sei milioni di ebrei» . «W.M. è sempre pronto a dire a B.M.: "Guarda cosa ho fatto PER TE". No! Guarda cosa hai fatto A noi» . «B.M. tratta con W.M. che ci ha cavato gli occhi e che ora ci critica perché non possiamo vedere» . «I soli uomini che veramente cambiarono la storia sono quelli che seppero cambiare il modo in cui gli altri giudicavano se stessi: Hitler come Gesù, Stalin come Budda... Elijah Muhammad...» Fu attraverso un cenno contenuto in questi scarabocchi che alla fine riuscii a gettare a Malcolm X un'esca a cui abboccò. «La donna piange sempre, - aveva scarabocchiato, - solo perché sa che piangendo riesce sempre a cavarsela». Tirai in ballo l'argomento delle donne e subito, tra una tazza di caffè e l'altra, mentre scarabocchiava le sue osservazioni e faceva disegnini su tutti i pezzi di carta che trovava, manifestò la sua critica e il suo scetticismo riguardo alle donne. «Non ci si può mai fidare veramente di una donna, - mi disse. - La mia è l'unica tra quelle che ho conosciuto di cui mi posso fidare al settantacinque per cento. Gliel'ho detto, gliel'ho detto come lo dico a voi che ho visto troppi uomini rovinati dalle mogli o dalle donne . «Non mi fido COMPLETAMENTE di nessuno, - continuò, - neanche di me stesso. Ho visto troppe persone rovinarsi con le loro stesse mani. Di altre persone, come per esempio del molto onorevole Elijah Muhammad, non mi fido mai abbastanza». Poi Malcolm X mi guardò fisso dicendo: «Di voi mi fido al venticinque per cento» . Nel tentativo di farlo continuare, mi misi a scandagliare il più possibile l'argomento donne. Con aria trionfante egli esclamò: «Lo sapete chi fece di Benedict Arnold un traditore? Una donna!... Una donna può essere tutto quel che si vuole, ma la sua prima caratteristica sarà sempre la vanità. Ve lo dimostrerò con un esempio che potete constatare quando volete: so di cosa parlo perché l'ho fatto. Pensate alla donna più dura, più maligna che conoscete, di quelle che non sorridono mai. Ebbene, tutte le volte che la vedete guardatela fissa negli occhi e ditele che è molto bella. Poi state a vedere cosa succede. Può darsi che il primo giorno vi cacci via in malo modo e che anche il secondo vi maledica, ma state a vedere e continuate: dopo un po' comincerà a sorridere appena vi vede» . Quando quella sera Malcolm X se ne andò, recuperai i suoi scarabocchi scritti su un tovagliolino di carta che dimostravano come era in grado di parlare di una cosa e pensare a un'altra: «I negri hanno un senso di giustizia troppo spiccato. W.M. dice: "Voglio questo pezzo di terra. Come faccio a cacciarne via quei duemila B.M.? "» «Ho una moglie che capisce o che, se non capisce, per lo meno fa finta» . «La lotta dei B.M. non è apertamente sostenuta dall'estero né può ricevere l'appoggio di cui ha bisogno finché i B.M. non formano un fronte unito» . «Sediamoci, parliamo con gente intelligente che stimo. Tutti noi vogliamo la stessa cosa, un acceso confronto e conflitto di idee» . «Sbalordirebbe tutti la rivelazione dei nomi di quei leader dei B.M. che segretamente si sono incontrati con T.H.E.M. ». (Le lettere maiuscole stavano per il molto onorevole Elijah Muhammad) . Una sera Malcolm X arrivò quasi distrutto dalla stanchezza e per due ore camminò su e giù per la stanza facendo una tirata contro i leader negri che attaccavano lui e Elijah Muhammad. Non so come mi venne l'ispirazione di chiedergli, durante una pausa del suo dire, che mi raccontasse qualcosa di sua madre . Improvvisamente smise di camminare su e giù e dal modo in cui mi guardò capii che la domanda lo aveva profondamente toccato . Quando ripenso a tutto questo, mi convinco di averlo colto in un momento in cui era talmente debole fisicamente da essere vulnerabile . Lentamente Malcolm X cominciò a parlare e riprese a camminare in un cerchio assai ristretto: «Stava sempre a trafficare in cucina cercando di far bastare quel poco che avevamo da mangiare . Avevamo tanta fame che ci veniva il capogiro. Ricordo il colore dei vestiti che portava... una specie di grigio scolorito...» Continuò a parlare fino all'alba, così stanco che, in certi momenti, sembrava dovesse quasi inciampare e cadere sul pavimento. Da questo improvviso scoppio torrenziale dei suoi ricordi trassi l'intelaiatura per i capitoli iniziali di questo libro: "Incubo" e "Mascotte". Dopo quella sera non ebbe più alcuna esitazione a raccontarmi i dettagli più intimi della sua vita. L'aver parlato di sua madre aveva fatto scattare una molla segreta . Quando ricordava la sua infanzia, l'umore di Malcolm X variava da malinconico a risentito. Ricordo una sua osservazione sul modo in cui aveva imparato uno dei fondamentali principi che l'accompagnarono poi per tutta la vita: «E' il cardine che cigola quello a cui viene dato il grasso». Quando la sua narrazione arrivò al trasferimento a Boston in casa della sorellastra Ella Malcolm X si mise a ridere ripensando a che razza di «tonto» era quando si era trovato per le strade del ghetto. «Vedete, - esclamava, - vi dico cose a cui non avevo più ripensato da allora!» Quando ricordava i primi tempi trascorsi ad Harlem, Malcolm X si lasciava veramente trascinare dal racconto e una sera all'improvviso, saltò su come una molla dalla sedia e, cosa quasi incredibile, il demagogo negro capace di incutere tanta paura si mise a cantare in sincopato facendo schioccare le dita, «re-bop-de-bop-blap-blam», e poi, afferrato un tubo con una mano come se fosse una ragazza, cominciò gioiosamente a ballare il "lindy-hop". La giacca, le lunghe gambe e i piedi volavano come in quei vecchi tempi di Harlem . Poi, all'improvviso, Malcolm X si ricompose, tornò a sedere e per tutto il resto della serata stette lì immusonito. Più tardi, sempre nel corso del suo racconto dei tempi di Harlem, divenne di nuovo triste. «L'unica cosa che consideravo sbagliata era di essere colto in fallo. Avevo la mentalità della giungla, vivevo in una giungla e tutto quello che facevo lo facevo spinto dall'istinto della sopravvivenza». Insistette di non avere rimorsi per quei suoi delitti «perché non erano altro che il risultato di quanto accade a migliaia e migliaia di negri nel mondo cristiano dell'uomo bianco» . Cominciò di nuovo a dar segni di gioia quando mi raccontava il periodo che aveva trascorso in prigione: «Voglio dirvi come riuscivo a far fare a quei diavoli bianchi dei detenuti e dei secondini tutto quello che volevo. Bisbigliavo loro nell'orecchio che se non facevano una data cosa, avrei diffuso la diceria che "voi siete in realtà un negro dalla pelle chiara che si fa passare per bianco". Ciò dimostra cosa pensa il diavolo bianco del negro. Preferirebbe piuttosto morire che essere considerato negro!» Mi raccontò delle letture che aveva potuto fare in prigione: «Non sapevo cosa facevo, ma, per istinto, mi piacevano i libri pieni di vitamine intellettuali» . E un'altra volta: «Nel ritmo convulso del mondo di oggi non c'è tempo per la meditazione, per approfondire i pensieri. I detenuti dispongono di tempo che possono adoperare per una buona causa. Classificherei la prigione subito dopo l'università nella graduatoria dei posti più adatti a chi voglia pensare. Se è spinto da FORTI MOTIVAZIONI, l'uomo può cambiare la sua vita in prigione» . Un'altra volta Malcolm X fece questa riflessione: «Chi è stato in prigione non considera più se stesso e gli altri allo stesso modo di prima. Gli stolti a cui tutte le cose sono andate sempre bene arricciano il naso davanti a un ex detenuto, ma questi riesce a restare a galla quando quelli affondano» . Quella sera scarabocchiò: «Questo W.M. ha inventato la bomba atomica e l'ha sganciata sui non bianchi. W.M. ora chiama gli altri "rossi" e vive nel terrore che un altro W.M. di sua conoscenza possa bombardarci». (Conservo ancora i miei blocchi per appunti e i tovaglioli di carta con la data) . Ed anche: «Imparate la saggezza dalla pupilla dell'occhio che vede tutte le cose e che pure è cieco nei confronti di se stesso. Poeta persiano» . Ogni tanto Malcolm X si faceva premura di sottolineare: «Non voglio che in questo libro appaia nulla che dia l'impressione che mi ritengo una persona importante». Lo assicuravo che avrei fatto del mio meglio e che in ogni caso egli avrebbe visto il manoscritto pagina per pagina e poi anche le bozze. Altre volte, al termine di uno dei suoi attacchi contro l'uomo bianco, mentre mi guardava prendere appunti, esclamava: «Quel diavolo non pubblicherà mai queste cose, indipendentemente da quel che dice ora!» Io insistevo sul fatto che gli editori avevano firmato un contratto impegnativo e anticipato una somma notevole, ma Malcolm X replicava: «Voi vi fidate di loro e io no; voi avete studiato a scuola ciò che l'uomo bianco voleva che imparaste su di lui, ma io l'ho studiato per le strade e in prigione, dove si vede la verità» . Le esperienze che Malcolm X aveva avuto durante il giorno davano spesso al nostro colloquio il sapore particolare dell'intervista. Di solito gli aneddoti più delicati e malinconici mi furono raccontati nei giorni in cui si era commosso a qualche avvenimento. Per esempio una volta mi disse di aver saputo che una coppia di Harlem, non Black Muslims, aveva messo nome Malcolm al proprio figlio. «Ma cosa sapete voi di QUESTE COSE?» continuava ad esclamare. Fu quella sera che rievocò la sua infanzia ricordandomi che era solito sdraiarsi in cima alla collina di Ettore e pensare. Anche quella sera disse: «Non mi dimenticherò mai il giorno in cui mi elessero presidente della classe. A nominarmi fu una ragazza che si chiamava Audrey Slaugh il cui padre era proprietario di un'officina meccanica . La nomina fu approvata da un ragazzo che si chiamav