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AUTOBIOGRAFIA DI MALCOLM X

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AUTOBIOGRAFIA DI MALCOLM X
Nahtjak89
AUTOBIOGRAFIA DI MALCOLM X
INDICE .
Nota introduttiva .
Autobiografia di Malcolm X .
1. Incubo .
2. Mascotte .
3. «Il concittadino» .
4. Laura .
5. Harlem .
6. Il Rosso di Detroit .
7. Trafficante .
8. In trappola .
9. Preso .
10. Satana .
11. Salvato .
12. Il salvatore .
13. Il pastore Malcolm X .
14. I Black Muslims .
15. Icaro .
16. Fuori .
17. La Mecca .
18. El-Hajj Malik El-Shabazz .
19. 1965 .
Appendice .
Epilogo di Alex Haley .
"Malcolm X" di Ossie Davis .
NOTA INTRODUTTIVA .
1.
L'"Autobiografia di Malcolm X" è stata pubblicata negli Stati Uniti nel 1965: da allora si sono
avute traduzioni in tutte le lingue (quella italiana, edita da Einaudi, è del 1967) che hanno
suscitato grande interesse, soprattutto fra i giovani .
Malcolm X aveva redatto la storia della sua vita insieme con un giornalista, Alex Haley, circa
un anno prima di essere assassinato a New York, nel febbraio del 1965 .
Malcolm Little (questo era il suo vero nome) era nato a Omaha, Nebraska, il 19 maggio 1925.
Suo padre, attivista della UNIA, un'associazione che si batteva per il «ritorno» dei neri in
Africa, fu assassinato dai razzisti quando Malcolm aveva sei anni, ma i responsabili non furono
mai identificati. Abbandonò la scuola a quindici anni, dopo avere sperimentato a proprie spese
l'autoritarismo e le discriminazioni a favore dei bianchi .
Ebbe l'adolescenza travagliata e difficile di tutti gli abitanti del ghetto nero. A ventun anni fu
imprigionato e scontò sette anni di reclusione per furto con scasso e rapina a mano armata .
Fu in questo periodo che Malcolm cominciò a prendere coscienza della condizione del nero
nella società americana e della necessità della sua lotta contro il bianco. Si accostò così alla
Nazione dell'Islam, movimento noto anche come dei Black Muslims, dopo essere stato a lungo
in corrispondenza con il loro capo, Elijah Muhammad, e dopo aver dato fondo freneticamente a
libri di storia, filosofia, biologia .
«Quando Malcolm aderì alla setta dei Black Muslims, che esisteva sin dal 1931, i seguaci di
Elijah Muhammad erano poche centinaia, - ha scritto Roberto Giammanco nell'Introduzione
alla prima edizione Einaudi di questo libro. - Fu Malcolm, con la sua azione infaticabile, le sue
straordinarie doti oratorie e soprattutto con la sua capacità di dare un senso nettamente politico
e combattivo alla mitologia pseudoislamica di Elijah Muhammad, che fece dei Black Muslims
una forza su scala nazionale, un gruppo potenzialmente capace di attrarre a sé le forze più
avanzate del nazionalismo negro» .
Malcolm X fece proprio il rigorismo della setta e lo sposò all'esigenza propriamente politica di
una effettiva unità tra i negri d'America. Il decennio tra il 1952, anno in cui Malcolm uscì dalla
prigione, al 1963 vide Malcolm X stagliarsi sempre più nettamente come la personalità di
maggior prestigio del movimento. Anche per questo, negli ultimi anni, tra Elijah Muhammad e
Malcolm X sorsero dissapori, ma soprattutto divergenze sul piano della strategia politica .
«Al punto in cui erano le cose nel 1963 - scrive ancora Giammanco - Elijah Muhammad
doveva scegliere: o continuare nella polemica verbale restando saldamente legato ad una
piattaforma religiosa, oppure trovare forme nuove di intervento nella lotta per i diritti civili
ponendosi automaticamente su di un piano politico .
La struttura stessa della Nazione dell'Islam, dipendente dal potere personale e da una gerarchia
paternalistica, e soprattutto da interessi economici ben precisi, favoriva la tendenza
conservatrice di Elijah Muhammad, prudentissimo amministratore per nulla disposto a rischiare
le posizioni raggiunte. Se oggettivamente esisteva un'alternativa da cui dipendeva il futuro della
setta e anche in parte lo stesso movimento negro, sul piano soggettivo non c'erano dubbi: Elijah
Muhammad non avrebbe abbandonato la sua linea separatista di non impegno» .
La rottura definitiva fu segnata dalla sospensione da cui Malcolm X fu colpito nel dicembre
1963, dopo un discorso politico particolarmente violento. Contrariamente alle attese di molti
Malcolm X non abbandonò l'Islam, anzi sentì l'esigenza di approfondire attraverso un
pellegrinaggio alla Mecca le ragioni della sua scelta religiosa e politica .
«Nell'Islam - ha osservato Giammanco - Malcolm non cercava una risposta ad interrogativi
esistenziali, ma la matrice psicologica adatta per unificare i negri, un legame con i popoli
dell'Asia e dell'Africa in nome di una comune esigenza di liberazione. "Sto per costruire e
dirigere una nuova moschea qui a New York, - dichiarava ai giornalisti il 12 marzo 1964. - si
chiamerà Muslim Mosque Inc. Una tale organizzazione ci darà un fondamento religioso e la
forza spirituale che occorre per liberare il nostro popolo dai vizi che distruggono la fibra morale
della comunità negra... Ci sono molti tra noi che non hanno esigenze religiose e perciò la
Muslim Mosque Inc. sarà organizzata in modo da consentire la partecipazione di tutti i negri...
indipendentemente dalle loro credenze religiose o dal loro ateismo" .
Il programma della nuova moschea era generico, una larga base organizzativo-religiosa intorno
a cui raccogliere il maggior numero possibile di militanti e che, in futuro, avrebbe potuto
diventare il germe per quella soluzione alternativa che Malcolm aveva già da tempo intravisto.
Comunque l'accento del suo pensiero era già sulla lotta per "i diritti umani" e sulla dimensione
internazionale del problema negro. Il separatismo, l'esclusione dei bianchi dalla lotta erano già
superati... Il pellegrinaggio alla Mecca e i viaggi in Africa furono decisivi non solo per la
chiarificazione del pensiero di Malcolm, ma per la creazione di contatti ad alto livello con i
rappresentanti della classe dirigente dei vari paesi. Per la prima volta nella storia, un negro
americano si presentava come rappresentante del suo popolo e stabiliva rapporti non
sentimentali né formalistici con i "fratelli dell'Africa, del Medio Oriente e dell'Asia"» .
Il 29 agosto 1964, dal Cairo, Malcolm X scrisse una lettera ai suoi collaboratori
dell'Organizzazione per l'unità afroamericana, in cui diceva tra l'altro: «Nelle prossime
settimane, a meno che non accada qualcosa di drastico che mi costringa a cambiare i miei
progetti, visiterò parecchi paesi africani e avrò contatti con diversi leader politici e sociali.
Presenterò loro il nostro problema senza riserve in modo che tutti comprendano la necessità di
sottoporlo quest'anno alle Nazioni Unite.. .
Non dubito del loro appoggio, ma ho imparato per esperienza a non dare niente per sicuro per
poi disperarsi quando non si concretizza. Dobbiamo imparare che siamo padroni del nostro
destino solo quando facciamo il massimo sforzo per realizzare i nostri obiettivi .
Comprendete benissimo che quello che sto cercando di fare è molto pericoloso perché
rappresenta una minaccia diretta a tutto il sistema internazionale dello sfruttamento razzista. E'
una minaccia alla discriminazione in tutte le sue forme su scala internazionale. Per questo se
muoio o se sarò assassinato prima di tornare negli Stati Uniti, siate certi che quello che ho
messo in moto non sarà fermato... Il nostro problema è stato INTERNAZIONALIZZATO...»
Purtroppo, I'oscura premonizione contenuta in questo brano doveva realizzarsi: tre mesi dopo il
suo ritorno negli Stati Uniti, la mattina del 24 febbraio 1965 fu assassinato da sicari rimasti
sconosciuti. Avrebbe dovuto ancora rivedere l'"Autobiografia", che venne invece ultimata da
Haley il quale aggiunse un "Epilogo", interessante per chiarire le circostanze del lavoro in
comune intorno a questo libro .
2.
Oltre all'"Autobiografia", il lettore italiano ha a disposizione una raccolta degli "Ultimi discorsi
di Malcolm X" (Einaudi, Torino 1968, pagine 371) che George Breitman ha scelto fra quelli
pronunciati nell'ultimo anno della sua attività politica dopo la rottura coi Black Muslims e la
fondazione dell'Organizzazione per l'unità afroamericana [1] .
Se si vuole avvicinare Malcolm X in tutta la sua ricchezza umana e seguire l'intero sviluppo del
suo pensiero politico, non si può prescindere da questi discorsi. Malcolm infatti fu soprattutto
un oratore .
Gli esperti politici si sono detti ammirati dalla sua capacità di comunicare al livello più chiaro
ed essenziale, risvegliando la coscienza critica dei suoi uditori [2] .
3.
I testi a disposizione del lettore italiano che voglia approfondire gli argomenti e i problemi
connessi all'Autobiografia di Malcolm X e, più in generale, al movimento dei neri d'America
sono ormai abbastanza numerosi .
La tematica della fase più lontana del movimento, quella caratterizzata dalla lotta per i diritti
civili, condotta soprattutto negli stati del Sud da organizzazioni come il CORE, la N.A.A.C.P.
lo stesso S.N.C.C., è in parte documentata dalla cronaca di William Bradford Huie, "Tre vite
per il Mississippi" (Longanesi, Milano 1968, pagine 332), che ricostruisce la vicenda di tre
giovani attivisti assassinati dai razzisti bianchi, e dai due libri di Martin Luther King, il leader
più prestigioso della corrente moderata e non-violenta del movimento (anch'egli assassinato dai
razzisti): "La forza di amare" (Sei, Torino 1967, pagine 275) e "Il fronte della coscienza" (Sei,
Torino 1968, pagine 121) .
Un agile inquadramento storico-sociologico del problema dei neri d'America è fornito dal libro
"Crisi in bianco e nero. Il problema negro negli Stati Uniti" (Einaudi, Torino 1965, pagine 387)
del giornalista liberale Charles E. Silberman (il volume è preceduto da un'introduzione di
Roberto Giammanco, il principale studioso italiano del problema). Per gli aspetti più
specificamente socio-psicologici della vita nei grandi ghetti nordamericani è utile e stimolante
la lettura di "Ghetto negro" dello psicologo Kenneth B. Clark (Einaudi, Torino 1969, pagine
302), un'approfondita inchiesta condotta ad Harlem. Su questo argomento, si veda anche
l'opuscolo di Robert Vernon, "Il ghetto negro" (Samonà e Savelli, Roma 1968, pagine 50) .
La fase del «Black Power» è ampiamente documentata dal volume curato da Roberto
Giammanco: "Black Power. Potere negro. Analisi e testimonianze" (Laterza, Bari 1967, pagine
463). Oltre a una lunga e impegnativa introduzione di Giammanco ("Razzismo e
colonialismo"), il libro contiene una sezione dedicata a "L'eredità di Malcolm X", un gruppo di
testi dello S.N.C.C. a cura di Simonetta Piccone Stella, e infine una serie di "Documenti dal
ghetto" (racconti, testimonianze, poesie, eccetera). E' stata tradotta in italiano anche l'ottima
raccolta curata da Floyd B. Barbour, Il "Black Power in azione" (Sugar, Milano 1969, pagine
365). Dopo una prima parte di testi «storici» (da Nat Turner a W. E. B. Du Bois e a Marcus
Garvey), il volume presenta scritti di LeRoi Jones, Robert Williams, Floyd MacKissick,
Charles Hamilton, Malcolm X, Stokely Carmichael eccetera. Di Stokely Carmichael e Charles
Hamilton esiste in italiano, a cura di Roberto Giammanco, anche "Strategia del Potere Negro"
(Laterza, Bari 1968, pagine 245) .
Di Stokely Carmichael si vedano anche: l'opuscolo "Il Potere Negro e le lotte del terzo mondo"
(Libreria Feltrinelli, Milano 1967, pagine 38) e il saggio "Potere negro", contenuto nel volume
miscellaneo "Dialettica della liberazione", a cura di David Cooper e con introduzione di
Giovanni Jervis (Einaudi, Torino 1969, pagine 209) .
Una voce molto singolare e interessante nel panorama della cultura politica dei neri d'America
è quella di James Boggs, operaio gruista in una grande industria automobilistica di Detroit,
autore dell'eccellente saggio "La rivoluzione americana. Dal diario di un operaio negro"
(«Monthly Review», edizione italiana, anno 1, numero 9, Dedalo, Bari, settembre 1968, pagine
32; ne esiste anche una traduzione curata da Jaca Book, Milano 1968). Altri articoli e saggi di
Boggs sono stati raccolti sotto il titolo "Lotta di classe e razzismo" (Laterza, Bari 1968, pagine
178). Una tematica per taluni aspetti analoga a quella di Boggs si ritrova nel saggio di George
Rawick, "Potere Nero e lotte operaie", tradotto nell'opuscolo "Usa .
Dalle strade alle fabbriche" (Libreria Feltrinelli, Milano 1968, pagine 84), che contiene anche il
saggio di Ed Clark, "Verso una strategia per il Sud" .
Una grossa antologia contenente testi di Marcus Garvey, W. E. B .
Du Bois, Booker T. Washington, Martin Luther King, James Forman, Robert Williams, Roy
Wilkins, Malcolm X, Ossie Davis, Stokely Carmichael e molti altri è "Protesta negra". Dai
primi schiavi a Luther King", documenti e analisi a cura di Joanne Grant (Mondadori, Milano
1968, pagine 454). Altri titoli recenti di notevole interesse documentario sono: "Voci negre dal
carcere", raccolte da Etheridge Knight, a cura di Roberto Giammanco (Laterza, Bari 1968,
pagine 206); Edgardo Pellegrini, "L'informazione negata. Controgiornale afroamericano"
(Laterza, Bari 1969, pagine 277); le prediche del pastore battista nero Albert B. Cleage, raccolte
sotto il titolo "Il messia negro" (Laterza, Bari 1969, pagine 268); le canzoni del Black Power,
raccolte e curate da Alessandro Portelli nell'antologia dal titolo "Veleno di piombo sul muro"
(Laterza, Bari 1969, pagine 293); "Ragazzi negri", testimonianze di teenagers negri sul
razzismo americano a cura di Marcello Argilli (Feltrinelli, Milano 1969, pagine 116); "LeRoi
Jones risponde" (Libreria Feltrinelli, Milano 1968, pagine 32). Di LeRoi Jones è molto
interessante la raccolta "Sempre più nero", saggi sociali sulla condizione dei negri negli Stati
Uniti d'America (Feltrinelli, Milano 1968, pagine 220). Di carattere più culturale che politico è
invece l'altro suo libro tradotto in Italia, "Il popolo del blues. Sociologia dei negri americani
attraverso l'evoluzione del jazz" (Einaudi, Torino 1968, pagine 233) .
Meno copiosa, almeno finora, è la documentazione in lingua italiana sull'attività politica del
Partito delle Pantere nere, il movimento sorto alcuni anni fa in California che ha
significativamente sostituito alla parola d'ordine del «Potere nero» quella che rivendica «Tutto
il potere al popolo!» In attesa che esca presso Einaudi, a cura di Alessandro Cavalli e Alberto
Martinelli, una raccolta di testi e documenti sul Black Panther Party, si può vedere il libro di
James Forman, "Imperialismo e pantere nere", con una introduzione di Edgardo Pellegrini
(Samonà e Savelli, Roma 1969, pagine 227); nonché l'ottimo fascicolo litografato "Lotte
rivoluzionarie in America .
Il partito delle Pantere Nere", a cura del Collettivo C.R. di Torino (presso Sandro Sarti, via
Plana 11, Torino; dicembre 1969 e febbraio 1970, pagine 42), che contiene una documentazione
rigorosamente selezionata, una breve nota informativa dei curatori e testi di Bobby Seale,
Eldridge Cleaver, Fred Hampton, Huey P. Newton, Connie Matthews. I saggi politico-culturali
di Eldridge Cleaver - l'esponente più noto delle Pantere nere, ora rifugiato ad Algeri - sono
stati raccolti sotto il titolo "Anima in ghiaccio" (Rizzoli, Milano 1969, pagine 201). Sul numero
14 di «Nuovi argomenti » (Roma, aprile-giugno 1969, pagine 3-54) è stata tradotta una lunga e
interessante intervista concessa nel 1968 da Cleaver a «Playboy» .
NOTE .
NOTA 1: Di George Breitman si veda anche "Malcolm X. L'uomo, le idee, i miti", Samonà e
Savelli. Roma 1969, pagine 109 .
NOTA 2: Mentre questo volume stava andando in stampa è uscito, di Malcolm X, "Sulla storia
degli afro-americani" (Samonà e Savelli, Roma 1970, pagine 64) .
AUTOBIOGRAFIA DI MALCOLM X .
Dedico questo libro alla mia amata Betty e alle nostre bambine .
La loro comprensione e i loro sacrifici hanno reso possibile il mio lavoro .
Capitolo primo .
INCUBO .
Quando mia madre era incinta di me, come mi disse in seguito, un gruppo di cavalieri
incappucciati del Ku Klux Klan arrivò al galoppo, di notte, davanti alla nostra casa a Omaha nel
Nebraska. Dopo aver circondato l'edificio, essi urlarono a mio padre di uscire: erano tutti armati
di fucili e carabine. Mia madre andò alla porta principale e l'aprì. Stando in piedi, in una
posizione tale che potessero vedere che era incinta, disse loro che era sola con i suoi tre bambini
e che mio padre era lontano, a predicare a Milwaukee. Gli uomini del Klan urlarono minacciosi
ammonendola che avremmo fatto bene a lasciare la città perché «i buoni cristiani bianchi» non
erano disposti a sopportare che mio padre «facesse opera sediziosa» tra i «buoni» negri di
Omaha con quelle idee di «tornare in Africa» predicate da Marcus Garvey .
Mio padre, il reverendo Earl Little, era un pastore battista e uno zelante organizzatore
dell'Associazione di Marcus Aurelius Garvey, l'UNIA [1]. Con l'aiuto di discepoli come mio
padre, Garvey, dal suo quartier generale di Harlem a New York, alzava la bandiera della
purezza negra esortando le masse a tornare alla loro patria ancestrale in Africa, causa questa che
aveva fatto di lui il negro più amato e insieme più criticato di tutto il mondo .
Urlando ancora le loro minacce, gli uomini del Klan spronarono alla fine i cavalli e galoppando
intorno alla casa mandarono in pezzi tutti i vetri delle finestre con le canne dei fucili. Poi si
allontanarono nella notte con le torce accese, rapidi com'erano venuti .
Quando ritornò, mio padre andò su tutte le furie. Decise di aspettare che io nascessi - cosa che
era imminente - e poi di trasferire altrove la famiglia. Non so bene perché egli prese questa
decisione: non era un negro che si lasciasse facilmente spaventare come allora erano quasi tutti
e come molti sono ancora oggi. Mio padre era un uomo grosso, alto quasi un metro e novanta e
aveva la pelle scurissima. Era orbo e io non ho mai saputo come avesse perduto l'occhio. Era
nato a Reynolds, nella Georgia, dove aveva frequentato la terza o forse la quarta elementare.
Come Marcus Garvey, era convinto che i negri non potessero mai conquistarsi in America né la
libertà né l'indipendenza né il rispetto di sé e che perciò dovessero lasciare l'America ai bianchi
e ritornarsene in Africa alla loro terra di origine. Tra le ragioni per cui mio padre aveva deciso
di correre tutti questi rischi e di dedicare la propria vita alla propagazione di questa filosofia tra
la sua gente c'era il fatto che aveva visto quattro dei suoi fratelli morire di morte violenta: tre di
essi erano stati uccisi dai bianchi, uno dei quali linciato. Allora mio padre non poteva sapere
che dei tre fratelli rimasti, lui compreso, solo uno, lo zio Jim, sarebbe morto nel suo letto per
cause naturali. Più tardi, infatti, la polizia bianca del Nord avrebbe ucciso a revolverate mio zio
Oscar e, infine, mio padre sarebbe morto per mano dell'uomo bianco .
Ho sempre avuto la convinzione che anch'io morirò di morte violenta ed ho fatto tutto quanto
era in mio potere per prepararmi a tale evenienza .
Io ero il settimo figlio di mio padre, il quale, da un matrimonio precedente, aveva avuto tre
bambini: Ella, Earl e Mary, che abitavano a Boston. Aveva conosciuto e sposato mia madre a
Philadelphia, dove nacque il loro primo figlio, il mio fratello maggiore Wilfred. Si trasferirono
poi da Philadelphia a Omaha, dove nacquero prima Hilda e poi Philbert. Io venni dopo .
Mia madre aveva ventott'anni quando, il 19 maggio 1925, io nacqui in un ospedale di Omaha.
Poi ci trasferimmo a Milwaukee, dove nacque Reginald. Fin dall'infanzia, questo mio fratello fu
affetto da una strana forma di ernia che lo menomò fisicamente per il resto della vita .
Mia madre Louise Little, che era nata a Grenada, nelle Indie occidentali britanniche, sembrava
una donna bianca (suo padre era un bianco). Aveva capelli neri lisci e il suo accento non era
quello di una negra. Io non so nulla di questo suo padre bianco all'infuori della vergogna che
mia madre ne provava .
Ricordo di averle sentito dire che era contenta di non averlo mai visto. Naturalmente è a causa
di questo nonno bianco che io ho la pelle e i capelli di color bruno-rossiccio, «da marinaio» .
Nella nostra famiglia ero il bambino di carnagione più chiara .
(In seguito, a Boston e a New York, fui tra quei milioni di negri che erano tanto pazzi da
considerare una carnagione chiara come una sorta di simbolo di status e da giudicare fortunato
chi era nato così. Ma, sempre in seguito, imparai a odiare ogni goccia del sangue di quello
stupratore bianco che è in me) .
La nostra famiglia rimase solo per poco tempo a Milwaukee perché mio padre voleva trovare
un posto con un pezzo di terra da coltivare e forse con possibilità di iniziare un qualche
commercio. L'insegnamento di Marcus Garvey insisteva sulla necessità di rendersi indipendenti
dall'uomo bianco. Per qualche ragione che ignoro, subito dopo ci trasferimmo a Lansing, nel
Michigan. Mio padre comprò una casa e immediatamente, com'era sua abitudine, si mise a fare
il predicatore indipendente nelle locali chiese battiste negre, mentre durante la settimana andava
in giro a diffondere il verbo di Marcus Garvey .
Aveva cominciato a metter da parte dei risparmi per aprire il negozio che aveva sempre
desiderato quando, come sempre accade, alcuni stupidi « zii Tom» [2] del posto cominciarono a
raccontare ai bianchi delle storie riguardo alle sue convinzioni rivoluzionarie. Questa volta le
minacce e le ingiunzioni ad andarsene vennero da un'associazione razzista del luogo chiamata
la Legione nera, perché i suoi membri portavano mantelli neri invece di quelli bianchi del Ku
Klux Klan. Ben presto, dovunque mio padre andava, i «legionari neri» lo definivano con
disprezzo «un nigger [3] di riguardo» perché voleva aprire un negozio, perché viveva fuori del
distretto negro di Lansing e perché diffondeva agitazione e dissenso fra «i buoni niggers» .
Come a Omaha, mia madre rimase di nuovo incinta, questa volta della mia sorella più giovane.
Nel 1929, subito dopo la nascita di Yvonne, venne la notte di incubo, che è il mio ricordo
remoto più vivo. Rammento benissimo di essere stato svegliato di soprassalto da uno
spaventoso frastuono di revolverate e di urla, mentre da ogni parte si alzavano fumo e fiamme.
Mio padre aveva gridato e sparato dietro ai due bianchi che avevano appiccato il fuoco alla casa
e stavano scappando. Intorno tutto bruciava e noi ci aggrappavamo uno all'altro, inciampavamo
l'uno nell'altro, ci spingevamo nel tentativo di fuggire. Mia madre, con la piccina in braccio,
riuscì a malapena a uscire in giardino prima che la casa crollasse in mezzo a un nugolo di
scintille. Ricordo che restammo fuori nella notte, in pigiama, piangendo e gridando fino a farci
scoppiare i polmoni. Quando i poliziotti e i vigili del fuoco bianchi arrivarono, si disposero in
circolo a guardare la casa che bruciava fino alle fondamenta .
Mio padre trovò alcuni amici che ci rivestirono e ci dettero alloggio temporaneamente e poi ci
trasferì in un'altra casa alla periferia di East Lansing. A quell'epoca i negri non potevano entrare
in città dopo il crepuscolo. Ora lì c'è l'Università statale del Michigan e quando, nel gennaio del
1963, ci andai a fare una conferenza davanti a un pubblico di studenti, raccontai tutte queste
cose. (Nella stessa occasione rividi dopo molto tempo il mio fratello minore Robert che stava
facendo gli studi di perfezionamento in psicologia). Dissi agli studenti come a East Lansing ci
perseguitarono al punto che dovemmo trasferirci ancora, questa volta due miglia fuori della
città, in aperta campagna. Mio padre costruì per noi, con le sue proprie mani, una casa di
quattro stanze e questa è la dimora in cui cominciai a crescere, il luogo in cui iniziano
veramente i miei ricordi .
Rammento che dopo l'incendio mio padre fu convocato dalla polizia e interrogato riguardo al
porto d'armi per la pistola con cui aveva sparato ai bianchi che avevano appiccato fuoco alla sua
casa. Ricordo che i poliziotti venivano sempre a casa nostra, toccavano e scostavano tutto, «per
dare un'occhiata» o «per cercare la pistola». L'arma che cercavano - che non riuscirono mai a
trovare e per la quale del resto non gli avrebbero mai dato il permesso - era cucita dentro un
guanciale. La carabina calibro 22 e la doppietta di mio padre erano invece fuori bene in vista,
dato che tutti potevano tenere armi del genere per andare a caccia di uccelli, conigli e altra
selvaggina .
Dopo quell'episodio i miei ricordi più chiari riguardano l'attrito tra mio padre e mia madre.
Sembrava che fossero sempre ai ferri corti e qualche volta mio padre la picchiava. Può darsi che
c'entrasse in parte il fatto che mia madre era assai istruita. Dove avesse imparato tutte quelle
cose non lo so, ma penso che una donna istruita non possa resistere alla tentazione di redarguire
un uomo ignorante. Ogni tanto, quando lei lo criticava con le sue parole appropriate e taglienti,
lui le metteva le mani addosso .
Mio padre era anche molto aggressivo nei confronti di tutti i figli, fatta eccezione per me.
Quando i più grandi infrangevano qualcuna delle sue regole - e ne aveva tante che era difficile
conoscerle tutte - li picchiava quasi selvaggiamente. Quasi tutte le botte che presi io me le dette
mia madre. Ho pensato molto al perché. In realtà credo che mio padre, violentemente
antibianco com'era, fosse inconsciamente afflitto dal modo in cui i bianchi facevano ai negri il
lavaggio del cervello da avere la tendenza a favorire quelli dalla pelle più chiara: e io ero
appunto il figlio dalla pelle più chiara. A quei tempi, quasi istintivamente, la maggior parte dei
genitori negri trattavano molto meglio i loro figli dalla pelle più chiara. Ciò derivava
direttamente dalla tradizione della schiavitù secondo cui il «mulatto», in quanto visibilmente
più vicino al bianco, era appunto «migliore» .
Le altre due immagini che ho di mio padre sono fuori della nostra casa. Una riguarda la sua
funzione di predicatore battista. Non fece mai il pastore in nessuna chiesa a lui assegnata: fu
sempre un «predicatore itinerante». Ricordo soprattutto il suo sermone preferito: «Quel trenino
nero sta arrivando... e voi fareste bene a preparare tutte le vostre cose!» Credo che queste parole
alludessero al movimento per il ritorno in Africa, al «treno dei negri che tornano a casa» di
Marcus Garvey. A mio fratello Philbert, quello immediatamente prima di me, piaceva andare in
chiesa; io ne restavo invece confuso e sgomento. Sedevo con gli occhi spalancati a guardare
mio padre che saltava e urlava durante la predica, mentre tutti i fedeli saltavano e urlavano
insieme con lui, abbandonandosi anima e corpo al canto e alla preghiera. Anche quand'ero così
giovane, non riuscivo a credere all'idea cristiana di Gesù creatura divina; e nessun credente,
finché non ebbi passato i vent'anni - e poi in prigione -, avrebbe potuto neanche lontanamente
tentare di persuadermi. Avevo pochissimo rispetto per la stragrande maggioranza dei
rappresentanti della religione .
Era grazie alla sua attività di predicatore che mio padre aveva il maggior numero di contatti
con i negri di Lansing. Credetemi pure quando vi dico che allora quei negri stavano davvero
male .
Anche oggi stanno male, sebbene in modo diverso: con ciò voglio dire che non conosco
nessuna città con una percentuale più alta di negri servili e disorientati della cosiddetta classe
media, di quei tipici negri ossessionati dai simboli del prestigio sociale e di nient'altro
desiderosi che di essere integrati nella società bianca. Poco tempo fa, mi trovavo nel palazzo
delle Nazioni Unite e chiacchieravo con un ambasciatore africano e con sua moglie, quando un
negro mi si avvicinò e mi chiese: «Mi conoscete?» Restai un po' imbarazzato pensando che si
trattasse di qualcuno che avrei dovuto ricordare. Risultò che era uno di questi striscianti negri
della classe media di Lansing, così soddisfatta di sé. Ciò non mi predispose bene nei suoi
confronti. Quello era il tipo che non avrebbe mai voluto aver niente a che fare con l'Africa
finché la moda di avere amici africani non diventò un simbolo di prestigio tra i negri della
classe media .
Tornando alla mia infanzia, i negri di Lansing «che avevano fatto strada» erano i camerieri e i
lustrascarpe. Bastava essere guardiano in qualche negozio del centro per godere di un grande
rispetto. La vera élite, i «pezzi grossi», le «voci della razza» erano i camerieri del Country Club
[4] di Lansing e i lustrascarpe che servivano i membri dell'Assemblea legislativa dello stato. Gli
unici negri che avevano davvero un po' di soldi erano quelli delle lotterie clandestine, i tenutari
delle case da gioco e tutti coloro che in qualche altro modo vivevano da parassiti alle spalle dei
più poveri, che costituivano la massa .
A quel tempo nessun negro veniva assunto dalla grande fabbrica Oldsmobile di Lansing o dalla
Reo. (Vi ricordate la Reo? Si fabbricava a Lansing e R. E. Olds, l'uomo da cui prese il nome,
abitava anche lui a Lansing. Quando venne la guerra assunsero alcuni negri come custodi). La
maggior parte dei negri o godevano del sussidio di disoccupazione o erano negli elenchi della
W.P.A [5] .
Doveva venire il giorno in cui la nostra famiglia sarebbe stata così povera che avremmo
mangiato anche i buchi delle ciambelle; ma a quel tempo stavamo molto meglio della
maggioranza dei negri della città. La ragione era che, abitando in campagna, ci potevamo
procurare sul posto gran parte del cibo di cui avevamo bisogno. Stavamo molto meglio dei
negri di città che, come predicava mio padre, aspettavano la manna dal cielo e il paradiso dopo
morti, mentre l'uomo bianco aveva il suo su questa terra .
Seppi che le offerte che mio padre raccoglieva dopo le prediche servivano a nutrirci e vestirci,
oltre al fatto che faceva anche tanti piccoli lavori. Eppure l'immagine di lui che mi rendeva più
orgoglioso erano i suoi entusiastici e fiammeggianti discorsi con le parole di Marcus Garvey.
Anche piccolo com'ero, sapevo da quello che avevo vagamente udito che mio padre diceva cose
che facevano di lui un «duro». Mi ricordo una vecchia che gli disse con un ghigno: «Voi
spaventate a morte questi bianchi!» Una delle ragioni che mi hanno fatto sempre pensare che
mio padre mi preferisse era che, per quanto mi ricordo, ero il solo dei suoi figli che portava con
sé alle riunioni dcll'UNIA di Garvey che convocava senza tanta pubblicità in casa di gente
sempre diversa. Ogni volta c'erano solo poche persone, al massimo venti, ma sembravano
moltissime tutte stipate nel salotto di una casa privata. Notavo che in queste occasioni tutti si
comportavano diversamente, anche se qualche volta era la stessa gente che in chiesa saltava e
urlava. In queste riunioni sia loro che mio padre erano più impegnati e concisi, più intelligenti e
più concreti e mi facevano sentire nello stesso modo .
Mi ricordo di aver sentito parlare su «Adamo cacciato dall'Eden e gettato nelle caverne
dell'Europa», «L'Africa agli africani», «Etiopi, svegliatevi!» Mio padre diceva che non sarebbe
passato molto tempo prima che l'Africa fosse completamente governata da negri, da «uomini
dalla pelle nera» secondo la frase ch'egli adoperava sempre. «Nessuno sa quando verrà l'ora
della redenzione per l'Africa. E' nel vento. Sta per arrivare. Un giorno, come un uragano,
arriverà» .
Ricordo di aver visto passare di mano in mano le grandi, lucide fotografie di Marcus Garvey.
Mio padre ne aveva una busta piena che portava sempre con sé a queste riunioni. Le fotografie
mostravano folle che a me sembravano composte di milioni di negri, tutti in un grande corteo
che seguiva Garvey seduto in una bella automobile, un grande uomo nero vestito di una
scintillante uniforme dagli alamari d'oro, con in testa uno stupendo cappello ricoperto di lunghe
piume. Ricordo di aver sentito dire che aveva seguaci non solo tra i negri degli Stati Uniti ma in
tutto il mondo e che le riunioni venivano sempre chiuse da mio padre che, mentre gli altri
facevano coro, ripeteva varie volte: «Su, razza poderosa, in piedi! Puoi raggiungere tutto ciò
che vuoi!» Non ho mai capito perché, dopo aver sentito per così tanto tempo tutte queste cose,
non riuscivo mai a pensare, allora, ai negri dell'Africa. A quel tempo l'immagine che avevo
dell'Africa era quella di selvaggi nudi, di cannibali, di scimmie, tigri e giungle dagli orribili
miasmi .
Mio padre andava con la sua vecchia automobile nera, e qualche volta mi portava con sé, a
queste riunioni che si tenevano nella zona di Lansing. Ne ricordo una che ebbe luogo di giorno
(quasi tutte si svolgevano di notte) nella città di Owosso, quaranta miglia da Lansing, che i
negri chiamavano «la città bianca» (il maggior titolo di Owosso è di essere la città che ha dato i
natali a Thomas E. Dewey). Come a East Lansing, non era permesso ai negri di stare per le
strade dopo il crepuscolo ed è per questo che la riunione veniva tenuta di giorno. In realtà, in
quei giorni, molte città del Michigan erano così. In tutte c'erano alcuni negri «del posto» che
abitavano lì, qualche volta si trattava di una sola famiglia, com'era nel caso della vicina Mason,
capitale della contea, dove abitava una sola famiglia negra di nome Lyons. Il signor Lyons era
stato un famoso campione di rugby nella squadra della scuola secondaria di Mason, godeva di
un'ottima reputazione nella cittadina e di conseguenza lavorava come domestico presso diverse
famiglie .
In questo periodo sembrava che mia madre non facesse altro che lavorare: lavare e stirare,
pulire la casa e correr dietro a noi otto figli. Come al solito, o litigava con mio padre oppure non
gli rivolgeva neanche la parola. Un motivo di frizione era la sua inflessibilità riguardo a certi
cibi che non voleva mangiare- e che non voleva che noi mangiassimo - tra i quali il maiale e il
coniglio, che piacevano molto a mio padre. Lui era un vero negro della Georgia e credeva che si
dovesse mangiare parecchio e di quei cibi che oggi a Harlem noi chiamiamo «di sostanza» [6] .
Ho detto che chi mi picchiava era mia madre, almeno quando non le veniva lo scrupolo che i
vicini pensassero che mi stava ammazzando. Infatti, appena faceva il gesto di alzar la mano su
di me, io aprivo la bocca e lo facevo sapere a tutti. Se qualcuno passava per la strada, lei o
cambiava idea o mi dava soltanto qualche schiaffo .
Se ci ripenso, sono convinto che proprio come mio padre mi considerava il suo preferito perché
avevo la pelle più chiara di quella degli altri suoi figli, mia madre mi puniva più aspramente per
la stessa ragione. Aveva la pelle molto chiara ma preferiva quelli che l'avevano più scura:
Wilfred, in modo particolare, era il suo cocco. Ricordo che mi diceva di andar fuori e di
«prendere il sole in modo da scurire un po'». Faceva tutto quanto era in suo potere perché non
risentissi di un complesso di superiorità derivante dal colore. Sono sicuro che mi trattava così
anche perché era ossessionata dal modo in cui lei stessa aveva avuto in sorte la pelle più chiara .
Imparai presto che piangendo e protestando si poteva ottenere qualcosa. I miei fratelli e la
sorella più grandi stavano per andare a scuola quando, talvolta, tornavano indietro e chiedevano
il biscotto imburrato con qualcos'altro e mia madre diceva loro di no con impazienza. Io invece
mi mettevo a piangere e a fare le bizze finché non mi davano quel che volevo .
Ricordo benissimo che mia madre mi domandava perché non ero buono come Wilfred e io
dicevo tra me e me che proprio perché Wilfred era così bravo e remissivo restava spesso con la
fame .
Già a quell'età avevo imparato che se si vuole qualcosa bisogna in qualche modo farsi sentire .
Non solo avevamo un grande orto, ma tenevamo anche le galline .
Mio padre comprava dei pulcini e mia madre li allevava. A tutti noi piacevano i polli e questo
era un cibo su cui non c'era mai nessuna discussione con mio padre. Mi ricordo di un piccolo
episodio in seguito al quale provai gratitudine verso mia madre: fu quando le chiesi se mi
concedeva il mio piccolo pezzetto da coltivare e lei mi disse di sì. Ne ero entusiasta e lo tenevo
benissimo: mi piaceva particolarmente coltivare i piselli ed ero tutto orgoglioso quando si
portavano in tavola. Strappavo le erbacce del mio orticello non appena cominciavano a
crescere; andavo su e giù carponi tra i filari per togliere i vermi e gli insetti che uccidevo e
seppellivo, e qualche volta, quando avevo pulito e messo a posto tutta la coltivazione, mi
sdraiavo fra due filari, guardavo il cielo azzurro e le nuvole che passavano e pensavo a tante
cose .
A cinque anni anch'io cominciai ad andare a scuola. Uscivo di casa la mattina insieme a
Wilfred, Hilda e Philbert. Andavamo alla Pleasant Grove School che offriva dall'asilo fino
all'ottava classe. Si trovava a due miglia fuori della cinta urbana e credo che non ci fossero
difficoltà di ammissione dato che noi eravamo gli unici negri della zona. A quei tempi, i bianchi
del Nord solevano «adottare» alcuni negri perché non li consideravano come una minaccia.
Neanche i bambini bianchi se la prendevano troppo con noi: ci chiamavano "nigger" e "darkie"
e "Rastus" così spesso da farci credere che quelli fossero i nostri nomi naturali. Però loro non
adopravano queste parole come insulti: semplicemente erano stati abituati a pensare così di noi .
Un pomeriggio del 1931, quando Wilfred, Hilda, Philbert ed io tornammo a casa, trovammo
mio padre e mia madre impegnati in uno dei loro soliti litigi. Negli ultimi tempi c'era stata
parecchia tensione in casa per via delle minacce della Legione nera .
Comunque mio padre aveva preso uno dei conigli che noi allevavamo e aveva ordinato a mia
madre di cucinarlo. Noi allevavamo i conigli, ma per venderli ai bianchi. Mio padre ne aveva
preso uno dal gabbione e gli aveva strappato la testa. Era così forte che non aveva bisogno del
coltello per decapitare i polli o i conigli: con un brusco strappo delle sue grosse mani nere
aveva staccato la testa del coniglio e gettato quella palla sanguinolenta ai piedi di mia madre .
Mia madre piangeva. Cominciò a spellare il coniglio, prima di cucinarlo, ma mio padre era così
arrabbiato che, sbattuta con forza la porta principale, s'incamminò sulla strada verso la città .
Fu allora che mia madre ebbe la visione. Era sempre stata una donna strana in questo senso,
dotata di una profonda intuizione per ciò che stava per succedere. Credo che in questo molti dei
suoi figli le assomiglino: quando qualcosa sta per succedere, ho dei vaghi presentimenti, delle
strane sensazioni. Non c'è mai stato un avvenimento prossimo che mi abbia colto
completamente alla sprovvista, fatta eccezione per una sola circostanza quando, parecchi anni
più tardi, seppi cose incredibili sul conto di un uomo per il quale, fino a quel momento, sarei
stato felice di dare la vita .
Mio padre era già lontano sulla strada quando mia madre corse gridando fuori della porta.
«Early! Early!» chiamò .
Tenendosi il grembiule con una mano, attraversò correndo l'orto e raggiunse la strada. Mio
padre si voltò e la vide. Forse pensando a come era uscito arrabbiato, le fece cenno con la
mano, ma continuò per la sua strada .
Più tardi mia madre mi disse che aveva avuto la visione della fine di mio padre. Per tutto il
resto del pomeriggio non fu più la stessa: piangeva, era nervosa e abbattuta. Finì di cucinare il
coniglio e mise il tegame sulla parte più calda della stufa nera. Poiché mio padre non era tornato
prima dell'ora in cui noi di solito andavamo a dormire, mia madre ci abbracciava e ci stringeva
convulsamente a sé. Ne fummo stupiti e non sapevamo come comportarci perché non aveva
mai fatto così .
Ricordo di essermi svegliato alle grida e ai pianti di mia madre. Quando fui fuori del letto, vidi
che in salotto c'erano dei poliziotti che cercavano di calmarla. Lei si era infilata i vestiti in fretta
e furia per andare con loro, e tutti noi bambini che stavamo intorno a guardare intuimmo senza
che nessuno ce lo dicesse che qualcosa di terribile era accaduto a nostro padre .
La polizia accompagnò mia madre all'ospedale, in una stanza in cui si trovava il corpo di mio
padre coperto da un lenzuolo. Lei non voleva guardare, aveva paura di guardare e
probabilmente fu meglio così. Mi fu detto più tardi che il cranio di mio padre era
completamente fracassato. I negri di Lansing hanno sempre mormorato che mio padre era stato
aggredito e poi disteso sulle rotaie in modo che una vettura tramviaria potesse passare sopra di
lui. Il suo corpo era quasi tagliato a metà .
In quelle condizioni visse due ore e mezzo. Allora i negri, specialmente quelli della Georgia,
erano più forti di quanto non lo siano ora: i negri georgiani dovevano essere forti
semplicemente per poter sopravvivere .
Nella mattinata anche noi bambini apprendemmo la notizia della sua morte. Avevo sei anni e
mi ricordo di aver provato una vaga commozione. La casa era piena di gente che piangeva e
commentava con amarezza che la Legione nera dei bianchi era riuscita, dopo tanti tentativi, a
metter le mani su di lui. Mia madre era in preda a un attacco isterico. Nella camera da letto le
donne le tenevano i sali sotto il naso, ma al funerale era ancora in quello stato di profonda
agitazione .
Non mi ricordo molto bene neanche del funerale. Stranamente, l'unica cosa che ricordo è che
non si svolse in chiesa e ciò mi sorprese perché mio padre era un predicatore e io stesso ero
stato presente ai sermoni funebri che pronunciava in chiesa. Il suo funerale ebbe luogo invece
nella sede di un'impresa di pompe funebri .
Ricordo che durante la cerimonia un grosso moscone si posò sul volto di mio padre e che
Wilfred si alzò di scatto e lo cacciò via con la scarpa. Poi fece ritorno alla sua sedia - c'erano
delle sedie pieghevoli per noi - con il volto rigato di lacrime. Quando ci avvicinammo alla
bara, ricordo di aver avuto l'impressione che il forte, nero volto di mio padre fosse stato
sbiancato con la farina e di aver desiderato che non ce ne avessero messa tanta .
Per circa una settimana, nella nostra grande casa di quattro stanze, si avvicendarono molti
visitatori. Erano buoni amici di famiglia, come i Lyons che venivano da Mason, lontana venti
chilometri da noi, i Walker, i MacGuire, i Liscoe, i Green, i Randolph, i Turner e altri di
Lansing e tanta gente che veniva da diversi paesi e che io avevo visto alle riunioni del
movimento di Garvey .
Noi bambini ci adattammo più facilmente di nostra madre. Non potevamo prevedere con la sua
stessa chiarezza le prove che ci attendevano. Via via che le visite si facevano più rare, lei
cominciò a preoccuparsi di riscuotere le due polizze di assicurazione di cui mio padre era
sempre stato tanto orgoglioso. Aveva sempre detto che, in caso di morte, la famiglia doveva
esser lasciata con qualche forma di protezione .
Una di queste polizze, la più piccola, fu pagata senza difficoltà. Non so a quanto ammontasse,
ma credo che non fosse più di mille dollari, o forse addirittura metà di tale somma .
Ma dopo che ebbe riscosso questi soldi e pagato i conti del funerale e le altre spese, mia madre
cominciò ad andare spesso in città. Ritornava molto avvilita. La società assicuratrice che aveva
rilasciato la polizza più grossa esitava a pagare .
Dicevano che mio padre si era suicidato. Avemmo nuove visite e si parlò con amarezza dei
bianchi: come avrebbe potuto mio padre colpirsi in testa e poi stendersi sui binari perché il tram
gli passasse sopra? Questa era la nostra situazione. Mia madre aveva trentaquattro anni, era
senza marito, senza nessuno che la mantenesse, la proteggesse o l'aiutasse a tirar su i suoi otto
bambini. Ma un certo tipo di vita familiare ricominciò e finché ci furono i soldi della prima
polizza le cose andarono bene .
Wilfred, che era un ragazzo con la testa sulle spalle, si comportava come se fosse molto più
grande. Mentre noi più piccoli non capivamo queste cose, lui aveva abbastanza giudizio da
prevedere quello che ci aspettava. Zitto zitto lasciò la scuola e andò in città a cercarsi un lavoro.
Faceva tutti i lavori che riusciva a trovare; la sera tornava a casa stanco morto e dava a nostra
madre tutto quello che aveva guadagnato .
Hilda, che anche lei era sempre stata un tipo calmo, cominciò a occuparsi dei più piccoli
mentre io e Philbert non contribuivamo in alcun modo. A casa non facevamo altro che
azzuffarci tra di noi mentre a scuola ci univamo contro i ragazzi bianchi. Qualche volta queste
lotte erano di natura razziale, ma scoppiavano per qualunque pretesto .
Cominciai a prendere Reginald sotto la mia protezione. Quando ebbe passata la prima infanzia,
divenimmo molto uniti. Credo che mi compiacessi molto del fatto che era il fratello
immediatamente più giovane e guardava a me come alla sua guida .
Mia madre cominciò a comprare a credito, un sistema al quale mio padre era sempre stato
contrario. «Il credito è il primo passo verso il debito, - aveva sempre detto, - e in fondo a
questa strada c'è la schiavitù». Poi mia madre cominciò a andare a lavorare a Lansing, facendo
un po' di tutto (pulizie, cucito) per i bianchi. Di solito loro non si accorgevano che era una
negra. Parecchi bianchi di quelle parti non volevano negri in casa .
Le cose andavano bene finché, in un modo o nell'altro, i bianchi non scoprivano chi era e di chi
era la vedova. Allora la mandavano via. Ricordo che tornava a casa piangendo e cercando di
non farsi vedere da noi, perché aveva perduto un lavoro di cui aveva tanto bisogno .
Una volta, quando uno di noi - non ricordo più chi - dovette andare a trovarla dove lavorava e
i padroni lo videro e capirono che era una negra, venne licenziata su due piedi e tornò a casa
piangendo, ma questa volta senza nascondersi .
Quando i funzionari dell'ente assistenziale dello stato cominciarono a venire a casa nostra, noi,
di ritorno dalla scuola, li trovavamo spesso a parlare con nostra madre. Le facevano mille
domande. Il modo come si comportavano e come guardavano lei e noi, quel loro girar
dappertutto in casa, ci faceva sentire - per lo meno a me - che non eravamo delle persone. Ai
loro occhi noi eravamo delle cose e basta .
Mia madre cominciò a ricevere due assegni mensili; uno veniva dall'ente di assistenza e l'altro
credo che fosse quello della pensione di vedova. Quei soldi ci aiutavano, ma tanti come
eravamo non ci bastavano. Quando, ai primi di ogni mese, arrivavano gli assegni, uno lo
dovevamo già completamente, e tante volte non bastava, al padrone del negozio di alimentari .
L'altro poi non durava molto .
Cominciammo lentamente a scendere la china. Il nostro decadimento fisico non fu così rapido
come quello psicologico .
Malgrado tutto, mia madre era una donna molto orgogliosa e le pesava il fatto di dover
accettare la carità. I suoi sentimenti influenzavano anche noi .
Criticava aspramente il padrone del negozio di alimentari che metteva prezzi più alti nel conto,
e gli diceva che non era ignorante e che non poteva tollerare quei sistemi. Rispondeva con
durezza ai funzionari dell'ente statale di assistenza e diceva loro di essere una donna
responsabile in grado di allevare i suoi figli e che perciò non c'era bisogno che loro venissero
così spesso tra i piedi. A questa gente le sue risposte non piacevano .
Tuttavia l'assegno mensile dell'ente di assistenza era il loro lasciapassare. Si comportavano
come se fossero i nostri padroni, come se noi fossimo loro proprietà. Per quanto mia madre lo
desiderasse, non riusciva a tenerli lontani. Si infuriava in modo particolare quando quei
funzionari cominciarono a prender da parte noi bambini più grandi, uno alla volta, fuori in
giardino o da qualche altra parte, a farci domande o a dirci cose contro nostra madre o contro
gli altri fratelli .
Noi non riuscivamo a capire per quale ragione, se lo stato era disposto a darci carne, sacchi di
patate e frutta e barattoli contenenti altri cibi, nostra madre accettasse malvolentieri queste cose.
Proprio non riuscivamo a capire. Più tardi mi resi conto che mia madre stava facendo uno
sforzo disperato per difendere la sua e la nostra dignità .
L'orgoglio era ormai tutto quello che avevamo da difendere poiché, nel 1934, cominciammo
davvero a soffrire. Fu l'anno peggiore della depressione e nessuno di quelli che noi
conoscevamo aveva abbastanza da mangiare e da vivere. Ogni tanto venivano a trovarci dei
vecchi amici di famiglia e portavano un po' di roba da mangiare. Sebbene fosse carità, mia
madre l'accettava .
Wilfred faceva tutti i mestieri per aiutare la famiglia; quando le riusciva di trovarlo, anche mia
madre si adattava a fare qualsiasi lavoro. A Lansing c'era un panificio dove, per cinque
centesimi, due di noi ragazzi compravamo un grande sacco di pane e biscotti vecchi di qualche
giorno. Camminavamo poi per tre chilometri portandocelo dietro fino a casa. Credo che mia
madre sapesse cucinare decine di piatti a base di pane o solo di pane: pomodori stufati, per
esempio, che col pane costituivano un pasto completo, oppure qualcosa di simile al toast, se
c'erano delle uova, o un pudding di pane, qualche volta con l'uvetta. Se riuscivamo ad
acquistare qualche polpetta, quando arrivavano in tavola era più pane che carne, mentre noi
ragazzi ingoiavamo tutti interi i biscotti che trovavamo sempre nel sacco insieme col pane .
Ma c'erano delle volte in cui non avevamo neanche cinque centesimi e restavamo così affamati
da sentirci girare il capo .
Mia madre metteva a bollire un pentolone di cicoria e si mangiava quella. Ricordo che qualche
vicino dall'anima meschina mise fuori questa storia e gli altri ragazzi ci prendevano in giro
dicendo che in casa nostra si mangiava «erba fritta» .
Qualche volta, quando eravamo fortunati, si mangiava farinata di avena o di granturco tre volte
al giorno, oppure farinata al mattino e pane di granturco la sera .
Philbert ed io eravamo ora abbastanza grandi per smettere di accapigliarci uno con l'altro il
tempo necessario per sparare ai conigli con la carabina calibro 22 che era stata di nostro padre. I
vicini bianchi ce li compravano e ora mi rendo conto che lo facevano unicamente per aiutarci
perché anche loro, come tutti gli altri, andavano a caccia di conigli. Mi ricordo che qualche
volta Philbert ed io ci portavamo dietro anche il piccolo Reginald. Non era molto forte, ma era
sempre molto orgoglioso di venire con noi. Mettevamo le trappole per i topi muschiati nel
piccolo ruscello che scorreva dietro casa nostra e stavamo fermi in agguato finché venivano
fuori delle rane ignare: noi le infilavamo con una fiocina, tagliavamo via le gambe per venderle
a cinque centesimi il paio ai vicini che abitavano a nord e a sud della strada. Sembrava che i
bianchi fossero meno limitati nei loro gusti gastronomici .
Verso la fine del 1934, mi pare, qualcosa cominciò a muoversi .
Una specie di deterioramento psicologico fece la sua apparizione nella nostra famiglia
cominciando a distruggere il nostro orgoglio. Forse era il fatto continuo, tangibile e
inequivocabile che noi eravamo poveri. Avevamo conosciuto altre famiglie che erano state
costrette a vivere coi contributi dell'assistenza pubblica e noi ragazzi sapevamo, senza che
nessuno di famiglia ce lo avesse mai detto, che avevamo troppo orgoglio per andare alla sede
dell'ente assistenziale dove veniva distribuito gratuitamente da mangiare. Ora invece eravamo
anche noi fra quelli. A scuola il marchio di «assistiti dalla carità pubblica» ci veniva attribuito
tacitamente e talvolta anche ad alta voce .
Sembrava che su tutta la roba da mangiare che c'era in casa nostra ci fosse la dicitura «vietata
la vendita». Il cibo distribuito dagli enti assistenziali, infatti, portava quella dicitura per
impedire che i beneficiari lo vendessero. C'è da stupirsi che noi ragazzi non fossimo arrivati a
credere che «vietata la vendita» fosse la marca dei prodotti .
Qualche volta, invece di tornare a casa quando uscivo da scuola, facevo a piedi le due miglia
che ci separavano da Lansing e cominciavo ad andare da un negozio all'altro. Giracchiavo
davanti alle vetrine dove le merci, come se fossero mele, erano lì allineate in scatole, botti e
cestini e aspettavo il momento giusto per rubare qualche sorpresa. Lo sapete cos'era la sorpresa?
Qualsiasi cosa! Oppure presi l'abitudine di capitare all'ora di pranzo in casa di certe famiglie
che conoscevamo. Sapevo che loro immaginavano benissimo perché ero lì, ma non mi
umiliarono mai facendomi andar via a mani vuote. Mi invitavano a restare per pranzo o per
cena ed io mi riempivo da scoppiare .
In modo particolare mi piaceva andare a far visita ai Gohanna .
Erano persone piacevoli, anziane e molto religiose e quando mio padre predicava io li avevo
visti tante volte tra quelli che saltavano e urlavano più di tutti. Con loro abitava un nipote che
tutti chiamavano «ragazzone» e con lui io andavo parecchio d'accordo. Insieme con i Gohanna
abitava anche la vecchia signora Adcock che andava con loro in chiesa. Era una donna che
aveva sempre cercato di far del bene a tutti che andava a far visita ai malati e gli portava sempre
qualcosa. Fu lei che, anni dopo, mi disse una cosa che ho ricordato per molto tempo: «Malcolm,
c'è una cosa che mi piace di te. Sei un poco di buono, ma non fai nulla per nasconderlo. Non sei
un ipocrita» .
Più cominciavo a star lontano da casa, a far visita alla gente e a rubare nei negozi, e più
diventavo aggressivo. Non ero disposto ad aspettare niente .
Crescevo alla svelta, più fisicamente che intellettualmente e nella misura in cui cominciavo a
essere riconosciuto in città diventavo consapevole del particolare atteggiamento che i bianchi
avevano verso di me. Sentivo confusamente che aveva a che fare con mio padre; che era una
versione adulta di quello che parecchi ragazzi bianchi avevano detto a scuola, per accenni o
qualche volta apertamente, e che in realtà rifletteva quello che avevano sentito dai loro genitori:
che cioè la Legione nera o il Klan avevano assassinato mio padre e che la società di
assicurazione aveva imbrogliato mia madre rifiutandosi di pagarle la polizza .
Quando cominciai ad esser preso perché rubacchiavo qua e là, i funzionari dell'ente di
assistenza dello stato concentrarono su di me la loro attenzione. Non riesco a ricordarmi quando
per la prima volta mi resi conto che essi parlavano di mandarmi lontano da casa. Ricordo che
mia madre fece una vera e propria scenata urlando che sapeva benissimo allevare da sé i suoi
figlioli. Mi picchiava perché rubavo e io cercavo di mettere in allarme il vicinato con le mie
grida. Di una cosa sono sempre stato fiero e cioè di non avere mai alzato la mano contro mia
madre .
Durante le sere d'estate, oltre a tutte le altre cose che facevamo, alcuni di noi ragazzi andavamo
giù per la strada o attraverso i campi di erba medica a rubare i cocomeri. I bianchi hanno
sempre considerato i cocomeri come qualcosa di strettamente associato con i negri, e siccome
uno dei tanti nomignoli che ci davano era quello di "coons", rubare i cocomeri diventava
"cooning" [7] i cocomeri. Se i ragazzi bianchi lo facevano, voleva dire che si comportavano
come negri. I bianchi hanno sempre nascosto o giustificato tutte le loro colpe rovesciandone il
biasimo sui negri o ridicolizzandoli .
Una sera di Halloween [8], ricordo che con altri ragazzi decidemmo di rovesciare una di quelle
cabine di legno che i contadini costruivano nell'aia per adibirle a gabinetti, ma un vecchio - il
quale probabilmente aveva fatto questo scherzo chissà quante volte quand'era giovane - ci
preparò una bella trappola. Di solito si vien fuori dalla parte posteriore della cabina, ci si mette
tutti insieme e si spinge finché non è rovesciata. Quel contadino l'aveva tirata fuori dai buchi
entro cui era assicurata per mezzo di paletti e l'aveva messa proprio DAVANTI alla fossa in cui
vengono raccolte le feci. Bene, noi arrivammo lì in fila indiana, al buio, e i due ragazzi bianchi
che erano in testa cascarono dentro la merda fino al collo. Dopo puzzavano così tanto che noi, a
malapena, riuscimmo a tirarli fuori. La cosa ci disgustò talmente che durante tutto il giorno di
Halloween non facemmo più nulla. Quanto a me non caddi dentro proprio per un pelo. I bianchi
erano così abituati a stare in prima fila che questa volta la loro sete di comando li aveva fatti
cascare diritti nel buco .
Così, in diversi modi, imparai parecchie cose. Raccoglievo fragole e sebbene non mi ricordi
quanto mi davano per ogni cesta, rammento che una volta, dopo aver lavorato duramente per un
giorno intero, mi ritrovai in tasca circa un dollaro, che a quei tempi era parecchio. Avevo così
tanta fame che non sapevo che fare. Camminavo verso la città ossessionato dalla visione di
qualcosa di buono da mangiare quando un ragazzo bianco più grande di me, Richard Dixon, mi
venne incontro e mi chiese se volevo giocare a testa e croce. Lui aveva un sacco di spiccioli e
mi cambiò il dollaro. In circa mezz'ora, si riprese tutti gli spiccioli compreso il mio dollaro e io,
invece di andare in città a comprarmi qualcosa, tornai a casa con le mani vuote e pieno di
amarezza. Ma questo fu niente paragonato a quello che provai quando, più tardi, scoprii che mi
aveva imbrogliato. C'è un sistema per prendere e tenere la moneta e farla girare dalla parte che
si vuole. Fu questa la prima lezione che ricevetti sul gioco d'azzardo: se vedete che qualcuno
vince sempre, state sicuri che non gioca ma bara. Negli anni seguenti, se quando giocavo
d'azzardo mi accorgevo di perdere in continuazione, mi mettevo a guardare attentamente cosa
facevano gli altri. Ciò equivale alla situazione del negro in America che sta lì a guardare il
bianco che vince sempre. Questi è un giocatore di professione: gli vengono tutte le carte e le
probabilità sono sue perché ha sempre trattato con noi come chi conosce in anticipo quali carte
verranno .
Fu durante questo periodo che mia madre cominciò a ricevere le visite di alcuni avventisti del
settimo giorno [9] che erano venuti ad abitare in una casa non lontano da noi. Parlavano con lei
per ore e ore e andavano via lasciandole opuscoli e riviste .
Mia madre li leggeva e li leggeva anche Wilfred, che era tornato a frequentare la scuola dopo
che avevamo cominciato a ricevere l'assistenza statale. Mio fratello leggeva molto e sembrava
che non alzasse mai la testa dal libro .
Non passò molto tempo che mia madre cominciò a trascorrere lunghe ore con gli avventisti.
Credo che sia stata soprattutto influenzata dal fatto che essi praticavano delle norme dietetiche
assai più restrittive di quelle che lei ci aveva sempre insegnato e che aveva messo in pratica con
noi. Gli avventisti erano contrari, come noi, a mangiare il coniglio e il maiale: erano seguaci
delle leggi dietetiche di Mosè e quindi non mangiavano la carne di bestie che non avessero lo
zoccolo forcuto o che non fossero ruminanti. Cominciammo a frequentare insieme a mia madre
le riunioni degli avventisti che venivano tenute più all'interno, in zone isolate. Per noi ragazzi la
maggiore attrazione era costituita dal buon cibo che veniva servito, ma ascoltavamo anche tutto
quello che veniva detto .
C'era un gruppetto di negri provenienti dalle cittadine della zona, ma direi che il novantanove
per cento dei presenti era costituito da bianchi. Gli avventisti credevano che noi vivessimo alla
fine della storia, e che il mondo sarebbe presto giunto al suo compimento. Erano i bianchi più
gentili e cordiali che io abbia mai visto. Noi bambini osservavamo - e ne discutevamo anche
tra di noi quando eravamo a casa - che essi in un certo senso erano diversi da noi, per esempio
perché non facevano i loro cibi abbastanza piccanti o perché avevano un odore diverso dal
nostro .
Nel frattempo i funzionari degli enti assistenziali stavano alle calcagna di mia madre. Ormai
lei non faceva più un segreto del fatto che li odiava e non li voleva vedere tra i piedi, ma essi,
forti del loro diritto, venivano lo stesso. Infinite volte ho riflettuto sul modo che essi tenevano,
nel parlare a noi fanciulli, per insinuare alla nostra mente i germi della divisione. Ci
domandavano, per esempio, chi era più intelligente degli altri e a me chiedevano perché ero
«così diverso» .
Credo che ritenessero una delle funzioni legittime del loro mestiere quella di mandare i
bambini presso genitori adottivi, e che in tal modo si sarebbero liberati di molti fastidi,
qualunque fossero stati i risultati .
Quando mia madre li combatteva, loro la colpivano attraverso di me. Ero il bersaglio principale
perché rubavo e questo voleva dire che mia madre non si prendeva abbastanza cura di me .
Tutti noi eravamo spesso turbolenti e cattivi e io più di tutti gli altri. Insieme con Philbert non
facevamo che litigare e questa era solo una delle tante cose che affliggevano continuamente mia
madre .
Non potrei dire con esattezza né come né quando i funzionari degli enti assistenziali tirarono
fuori l'idea che mia madre non aveva la testa a posto .
Però mi ricordo con esattezza di aver sentito che essi adoperarono la parola «pazza» quando
seppero che il contadino negro che abitava vicino a noi si era offerto di darci del maiale
macellato - una bestia intera, o magari anche due - e lei aveva rifiutato. Tutti noi li sentimmo
chiamare «pazza» mia madre perché aveva rifiutato della buona carne; e per loro non volle dir
niente che mia madre spiegasse di non avere mai mangiato carne di maiale perché era contro le
sue convinzioni religiose di avventista del settimo giorno [9] .
Erano cattivi e infidi come avvoltoi e non avevano nessuna simpatia, comprensione,
compassione o rispetto per mia madre. Ci dicevano: «E' pazza perché rifiuta della buona roba
da mangiare». Fu proprio allora che la nostra famiglia, la nostra unità, cominciarono a
disgregarsi. Attraversavamo tempi molti difficili ed io non contribuivo per nulla, ma avremmo
potuto farcela, avremmo potuto restare insieme perché per quanto io fossi cattivo e per quante
noie e preoccupazioni causassi a mia madre, io le volevo bene .
Venimmo a sapere che i funzionari degli enti assistenziali dello stato erano andati a interpellare
la famiglia Gohanna e che questa si era dichiarata disposta a prendermi in casa. Quando mia
madre lo seppe ebbe una profonda crisi e per un po' quei distruttori della nostra famiglia non si
fecero più vedere .
Fu proprio in questo periodo che un grosso negro di Lansing cominciò a frequentare la nostra
casa. Non ricordo come o dove aveva conosciuto mia madre: può darsi che sia stato attraverso
amici comuni. Non ricordo neanche che mestiere faceva, anche perché nel 1935, a Lansing, i
negri non esercitavano nessuno di quelli che si chiamano mestieri né tanto meno professioni .
L'uomo, che era grosso e aveva la pelle molto scura, somigliava un po' a mio padre. Ricordo il
suo nome, ma non c'è bisogno di riferirlo qui. Era scapolo e mia madre era una vedova di soli
trentasei anni. L'uomo era indipendente ed è naturale che lei lo ammirasse per questo. Durava
così tanta fatica a tenere la disciplina con noi, che la sola presenza di un uomo grande e grosso
come quello le sarebbe stata di aiuto; e inoltre se avesse avuto un uomo che guadagnava, mia
madre avrebbe potuto mandar via per sempre i funzionari degli enti assistenziali .
Noi tutti comprendevamo senza mai dire molto, o almeno non facevamo obiezioni.
Prendemmo la cosa alla leggera, persino come pretesto per divertirci tra di noi: quando l'uomo
veniva, nostra madre si metteva i vestiti migliori - era ancora una bella donna -, si comportava
in modo del tutto diverso, era gaia e sorridente come noi non l'avevamo più vista da anni .
La cosa durò, credo, per circa un anno finché, nel 1936 o forse nel 1937, l'uomo di Lansing
piantò improvvisamente mia madre .
Non venne più a farle visita e, da quello che capii in seguito, non se la sentì di assumersi la
responsabilità di quelle otto bocche da sfamare. Ebbe paura perché noi eravamo troppi e anche
ora io penso spesso alla trappola in cui, insieme con tutti noi, era imprigionata mia madre e
arrivo anche a capire perché quell'uomo si rifiutò di assumersi una così tremenda responsabilità
.
Per lei fu un colpo terribile, fu il principio della fine della realtà. Divenne sempre più
agghiacciante vedere come mia madre parlava con se stessa mentre era seduta e mentre
camminava per casa, quasi non si accorgesse che noi eravamo là vicino a lei .
I funzionari degli enti assistenziali si accorsero di questo suo peggioramento e fu allora che
cominciarono a prendere le misure per allontanarmi da casa. Mi spiegavano come sarebbe stato
bello abitare con i Gohanna: sia i coniugi che il «ragazzone» e la signora Adcock avevano detto
di aver simpatia per me e sarebbero stati contenti di avermi a casa loro .
Anche a me piacevano, ma non volevo lasciare Wilfred. Imitavo e ammiravo il mio fratello
maggiore e non volevo neanche lasciare Hilda che era come la mia seconda madre. Neanche
Philbert, perché persino in tutto quel nostro litigare c'era un profondo sentimento di amore
fraterno. Soprattutto non volevo separarmi da Reginald, così indebolito dall'ernia cronica, e che
mi considerava come il suo fratello grande che lo proteggeva, allo stesso modo in cui io
consideravo Wilfred. Quanto ai più piccoli, Yvonne, Wesley e Robert, non avevo proprio nulla
contro di loro .
Nella misura in cui mia madre parlava sempre più tra sé, si interessava sempre meno di noi e
diventava sempre meno responsabile. La casa era meno pulita e noi cominciammo ad esser più
trascurati in tutto. Ora era Hilda che di solito si occupava della cucina .
Noi ragazzi osservavamo come la nostra ancora cominciava a cedere. Era qualcosa di terribile,
che non riuscivamo ad afferrare, e che tuttavia non potevamo stornare da noi: era la sensazione
che qualcosa di tremendo stava per accadere. Noi più giovani ci appoggiavamo sempre più alla
forza relativa di Wilfred e di Hilda, che erano i più grandi .
Alla fine, quando fui mandato a casa dei Gohanna, ne fui lieto almeno in un senso superficiale.
Ricordo che quando lasciai la mia casa accompagnato da un funzionario degli enti assistenziali,
mia madre disse questo: « Non fategli mangiare carne di maiale!» Da molti punti di vista era
meglio in casa dei Gohanna. Io dividevo la camera con il «ragazzone» e questa soluzione era
soddisfacente. Non era ovviamente come con i miei fratelli di sangue, però potevo contentarmi.
I Gohanna erano molto religiosi e io e il «ragazzone» andavamo in chiesa insieme con loro.
Ormai loro avevano raggiunto la salvazione e potevano considerarsi dei veri "Holy Rollers"
[10]. I predicatori e i fedeli saltavano e urlavano più di quelli che avevo visto nelle chiese
battiste .
Essi cantavano a squarciagola, ondeggiavano avanti e indietro, piangevano e gemevano,
battevano il tempo sui loro piccoli tamburi e cantavano con voce salmodiante. Quando
uscivamo tutti dalla chiesa per tornarcene a casa sembrava che dappertutto ci fossero fantasmi,
melodie spirituali e «spiritelli» pieni di incantesimi .
Ai Gohanna e alla signora Adcock piaceva molto andare a pescare e qualche sabato anch'io e il
«ragazzone» andavamo con loro. Mi ero trasferito alla scuola media inferiore di West Lansing
che era situata proprio nel cuore della comunità negra. C'erano pochi scolari bianchi, ma il
«ragazzone» non faceva troppa lega con i nostri compagni e io lo imitavo. Quando andavamo a
pescare né a me né a lui piaceva l'idea di star lì seduti ad aspettare che il pesce tirasse il sughero
sott'acqua o facesse oscillare la canna, quando pescavamo con questo sistema. Io ero sicuro che
ci dovesse essere qualche altro modo più sbrigativo per catturare il pesce, anche se non riuscii
mai a scoprirlo .
Il signor Gohanna era amico intimo di certi uomini che di sabato, portavano me e il
«ragazzone» a cacciare i conigli. Io avevo la carabina calibro 22 che era stata di mio padre e
che mia madre mi aveva lasciato portare dai Gohanna. Per cacciare i conigli, i vecchi cacciatori
che erano con noi si servivano di una strategia che era sempre stata la stessa .
Di solito quando il cane stana il coniglio e questo fugge, quasi istintivamente correrà in una
specie di circolo per tornare presto o tardi vicino al luogo dove era originariamente rintanato.
Ebbene, quei vecchi cacciatori non facevano altro che star seduti, nascosti, ad aspettare che il
coniglio tornasse indietro per sparargli. Io cominciai a pensare a questa faccenda e finalmente
concretai un piano: mi sarei separato da loro e dal «ragazzone» per portarmi in un punto dove
avevo calcolato che il coniglio, sulla via del ritorno, sarebbe passato. In questo modo lo avrei
intercettato prima degli altri .
L'idea funzionò come qualcosa di magico. Cominciai a prendere tre o quattro conigli prima che
loro potessero ammazzarne uno solo. La cosa incredibile fu che nessuno di quei vecchi
cacciatori si immaginò mai il perché. Si affannavano a ripetere che io ero un gran tiratore.
Allora avevo dodici anni. Non avevo fatto altro che perfezionare la loro strategia e questo fu il
principio di una lezione molto importante nella vita, che cioè ogni volta che si incontra
qualcuno che ha avuto più successo di noi, specialmente se ci si trova nello stesso campo di
attività, si deve sapere che quello fa qualcosa che noi non facciamo .
Tornavo molto spesso a far visita a casa. Qualche volta veniva con me il «ragazzone» o uno o
l'altro dei Gohanna o tutti e due, mentre qualche volta andavo da solo. Ero contento che venisse
qualcuno con me perché la loro presenza rendeva più facile la prova .
Ben presto i funzionari degli enti assistenziali cominciarono a preparare i loro piani per togliere
a mia madre tutti i suoi figli. Ora lei parlava tra sé quasi sempre mentre era entrato in scena
tutto un nuovo gruppo di bianchi che non facevano altro che delle domande. Venivano persino
a cercarmi dai Gohanna e mi interrogavano sul portico di casa o mi facevano sedere accanto a
loro in macchina .
Alla fine mia madre ebbe una crisi completa e il tribunale sanzionò definitivamente la
decisione di ricoverarla all'ospedale psichiatrico di Kalamazoo .
Era distante circa cento chilometri da Lansing e per arrivarci ci voleva un'ora e mezzo di
autobus. Io e tutti i miei fratelli e sorelle fummo posti sotto la tutela del giudice MacClellan di
Lansing. Eravamo «figli dello stato», affidati al tribunale che aveva piena autorità su di noi. Un
bianco che tiene sotto tutela i figli di un negro! Nient'altro che una forma moderna e legale di
schiavitù, anche se praticata con buone intenzioni .
Mia madre rimase in quell'ospedale di Kalamazoo per circa ventisei anni. Più tardi, quando io
ero ancora nel Michigan, l'andavo a visitare ogni tanto e niente poteva commuovermi più della
vista delle sue pietose condizioni. Nel 1963 la facemmo uscire dall'ospedale ed ora essa abita a
Lansing con Philbert e la sua famiglia .
Era molto peggio che se si fosse trattato d'una malattia fisica di cui si sarebbe conosciuta la
causa, prescritte le medicine e stabilita la cura. Tutte le volte che andavo a farle visita, quando
finalmente la portavano via - ridotta ormai a un caso, a un numero - dalla stanza dove eravamo
stati seduti insieme, io mi sentivo peggio di quando ero venuto .
La mia ultima visita, quando sapevo che non sarei mai più tornato là per vederla, fu nel 1952.
Avevo ventisette anni. Mio fratello Philbert mi aveva detto che l'ultima volta che lui era andato
a visitarla, lo aveva a malapena riconosciuto: «A tratti», aveva detto .
Me non mi riconobbe affatto .
Stette lì a guardarmi senza sapere chi fossi .
Quando cercai di parlarle, di prenderle la mano, la sua mente era altrove. «Mamma, - le chiesi,
- sapete che giorno è oggi?» «Tutti se ne sono andati», rispose con lo sguardo perduto nel
vuoto .
Non so descrivere quello che provai. La donna che mi aveva fatto nascere, che mi aveva
nutrito, consigliato, castigato ed amato, non mi riconosceva più. Fu per me come se avessi
cercato di dare la scalata a una montagna di piume. La guardai e stetti ad ascoltarla mentre
«parlava», ma non potevo far niente .
Credo che se mai un ente assistenziale di stato ha distrutto una famiglia, questa è la nostra. Noi
volevamo stare insieme e cercammo di raggiungere quello scopo. Il nostro focolare non doveva
esser distrutto, ma l'ente assistenziale, i tribunali e il loro dottore ci dettero il colpo di grazia.
Inutile dire che il nostro non fu il solo caso di questo genere .
Sapevo che non sarei tornato più a vedere mia madre perché ciò avrebbe potuto trasformarmi
in una persona spietata e pericolosa. Sapevo che loro ci avevano considerato dei puri e semplici
numeri, un caso per la loro amministrazione, e non come degli esseri umani e che mia madre
era là come una cifra statistica, mentre non avrebbe dovuto esserlo, e che tutto ciò esisteva per
colpa del fallimento della società, della sua ipocrisia, della sua avidità e della sua mancanza di
pietà e compassione. Per questo io non ho né pietà né compassione per una società che
schiaccia la gente e poi la punisce per non esser stata capace di rimanere in piedi sotto il suo
peso .
Solo rare volte ho parlato a qualcuno di mia madre, perché credo che avrei potuto uccidere
senza esitare chiunque facesse un commento offensivo su mia madre. Perciò, di proposito, non
ho mai voluto creare un'occasione del genere .
Tornando al 1937, quando cioè la nostra famiglia fu distrutta, le autorità dello stato, visto che
Wilfred e Hilda erano grandi abbastanza, permisero che abitassero da soli nella grande casa di
quattro stanze che mio padre aveva costruito. Philbert fu affidato a un'altra famiglia di Lansing,
quella di una certa signora Hackett, mentre Reginald e Wesley andarono ad abitare da certi
Williams, che erano amici di mia madre. Yvonne e Robert furono affidati alla famiglia
MacGuire proveniente dalle Indie occidentali .
Sebbene fossimo separati, tutti noi riuscimmo a mantenerci in contatto intorno a Lansing - a
scuola e fuori - tutte le volte che potevamo riunirci. Malgrado la separazione artificialmente
creata e malgrado la distanza che c'era fra noi, rimanemmo sempre molto vicini l'uno all'altro .
NOTE .
NOTA 1: Universal Negro Improvement Association (Associazione universale per il
miglioramento dei negri): organizzazione fondata da Marcus Garvey durante la prima guerra
mondiale. Suo scopo era di garantire la raccolta di capitali sufficienti e di promuovere tutte le
iniziative necessarie per permettere il ritorno degli afroamericani in Africa. Nel momento del
suo massimo sviluppo raggiunse quasi il milione di membri .
Branche e filiazioni della Universal Negro Improvement Association furono la Black Star
Steamship Line (compagnia di navigazione), il Black Eagle Flying Corps (una specie di club
aereo che avrebbe dovuto porre le basi per una linea aerea negra), la Universal African Legion e
molti ordini nobiliari dalle insegne e cerimonie ispirate alla tradizione africana .
Dopo un processo sulla cui legittimità giuridica restano ancora oggi delle densissime ombre,
Garvey fu deportato nel 1927 col pretesto che non era nato negli Stati Uniti. Agli inizi degli
anni '30 la UNIA cominciò a declinare fino alla sua quasi totale estinzione .
NOTA 2: Lo zio Tom (protagonista del celebre romanzo di D .
Beecher-Stowe) è diventato il simbolo del negro degno di compassione, ma rassegnato,
obbediente e animato da sentimenti patriottici. NOTA 3: Termine spregiativo usato dai bianchi
americani per designare i negri (così pure "darkie", "coon" e "Rastus") .
NOTA 4: Letteralmente «circolo di campagna». Esiste in numerose città americane ed è
frequentato esclusivamente dalla «buona società» bianca, che vi pratica l'equitazione e il tennis
.NOTA 5: Works Progress Administration: agenzia federale di collocamento dei disoccupati in
cantieri di opere pubbliche .
NOTA 6: Ho tradotto "Soul food" con «cibi di sostanza». In realtà l'espressione dello slang
negro ha un duplice significato: designando tutti quei cibi cucinati (miscuglio di varie specie di
carne con legumi, verdure e spezie) che nel Sud erano accessibili solo ai negri meno poveri o
che venivano mangiati nei soli giorni di festa, ne sottolineava la bontà, l'irraggiungibilità e, al
tempo stesso, il valore nutritivo .
NOTA 7: Il "coon" è il tasso americano. Nomignolo dispregiativo dato ai negri sia per il tipico
criterio della psicologia razzista di associare i membri delle «razze inferiori» alle caratteristiche
degli animali più infimi sia per il fatto che l'unico modo che avevano i negri del Sud per
mangiar carne era di andare a caccia di tassi e roditori di vario genere .
"Cooning" indica in generale un comportamento deviante attribuito ai negri .
NOTA 8: Halloween è un'antica festa derivata dalla mitologia nordica che cade la vigilia
d'Ognissanti. Era dedicata agli scherzi, ai travestimenti e a far rivivere lo spirito tra cupo e
sfrenato dell'antico mito delle querce. Oggi è il giorno dei bambini .
NOTA 9: Setta protestante .
NOTA 10: Membri di una setta religiosa negra. Le loro riunioni sono caratterizzate da
un'eccitazione frenetica e dalla confessione pubblica .
Capitolo secondo .
MASCOTTE .
Il 27 giugno del 1937 Joe Louis mise K. O. James J. Braddock e divenne campione del
mondo dei pesi massimi. Tutti i negri di Lansing, come quelli di tutte le altre zone degli Stati
Uniti, furono pazzi di gioia e celebrarono l'avvenimento con le più grandi manifestazioni di
orgoglio razziale che la nostra generazione ricordi. Ogni ragazzo negro in grado di camminare
voleva diventare il successore del «bombardiere negro ». Anche mio fratello Philbert, che a
scuola era già diventato un buon pugilatore, non faceva eccezione. Quanto a me, cercavo di
giocare a pallacanestro. Ero alto e dinoccolato ma non sapevo giocare bene: ero troppo goffo.
Nell'autunno di quell'anno, Philbert partecipò agli incontri per dilettanti che si tenevano nel
Prudden Auditorium di Lansing .
Fece abbastanza bene, riuscendo a qualificarsi in varie e sempre più dure eliminatorie. Io
andavo alla palestra a guardarlo mentre si allenava. La cosa mi entusiasmava e forse, senza che
me ne rendessi conto, cominciai a provare una segreta invidia .
So benissimo che non potevo tollerare che una parte dell'ammirazione che mio fratello minore
Reginald aveva avuto per me da sempre venisse ora trasferita a Philbert .
Questi era lodato come un pugilatore nato, ed io pensai che siccome appartenevamo tutti e due
alla stessa famiglia, forse sarei potuto diventare anch'io come lui. Perciò entrai nel ring .
Credo di aver avuto tredici anni quando mi iscrissi al primo incontro, ma la mia altezza e
l'ossatura vistosa mi consentirono di dichiarare che avevo sedici anni - l'età minima richiesta
mentre il mio peso di circa sessanta chili mi fece classificare fra i pesi gallo .
Mi fecero combattere con un ragazzo bianco, un novellino anche lui come me che si chiamava
Bill Peterson. Non lo dimenticherò mai. Quando giunse il nostro turno nel campionato
dilettanti, tutti i miei fratelli e sorelle erano là tra gli spettatori insieme con quasi tutti quelli che
io conoscevo in città. Erano presenti non tanto per vedere me quanto per Philbert, che aveva
cominciato a crearsi un gruppo abbastanza folto di tifosi, e volevano vedere cosa sarebbe stato
capace di fare suo fratello .
Attraversai il corridoio della platea tra due ali di pubblico che occupava tutte le sedie
disponibili e montai sul ring. Fui presentato a Bill Peterson e poi l'arbitro ci chiamò tutti e due e
ci borbottò in fretta e in furia le regole da osservare per condurre un incontro corretto. Poi
suonò la campana e noi uscimmo dagli angoli. Sapevo di aver paura ma non mi rendevo conto,
come mi disse dopo Bill Peterson, che anche il mio avversario aveva paura di me. E ne aveva
così tanta che gli facessi male che io persi addirittura il conto delle volte che mi mise al tappeto
.
Questo fatto dette un tale colpo alla mia reputazione presso i negri della zona che praticamente
dovetti scomparire dalla circolazione. Un negro non può essere riempito di cazzotti da un
bianco e poi tornare a testa alta tra i suoi e ciò era vero specialmente in quei giorni in cui gli
sport e, in minor misura, il mondo dello spettacolo erano gli unici campi aperti ai negri e il ring
era l'unico posto in cui un negro poteva picchiare un bianco senza essere linciato. Quando
tornai a farmi vedere, i negri che conoscevo mi ricevettero così male che mi resi conto che avrei
dovuto fare qualcosa .
Ma la peggiore delle mie umiliazioni fu l'atteggiamento del mio fratello minore Reginald il
quale non parlò mai dell'incontro .
Era il modo con cui mi guardava, o piuttosto con cui evitava di guardarmi. Perciò tornai alla
palestra e cominciai ad allenarmi con tutte le regole: mi allenavo col sacco, saltavo alla corda,
simulavo il combattimento, grugnivo e sudavo tutto il tempo .
Finalmente mi impegnai per un altro incontro con Bill Peterson, questa volta nella sua città che
era Alma nel Michigan .
L'unico aspetto migliore di questo secondo incontro fu che quasi nessuno di quelli che
conoscevo era presente. Fui particolarmente contento che Reginald non fosse venuto. Appena
suonò la campana, vidi un pugno, poi vidi avvicinarsi il tappeto e dieci secondi dopo sentii che
l'arbitro diceva sopra di me: «Dieci!» Si trattò probabilmente dell'incontro più breve della
storia. Io stetti là sdraiato a sentire l'arbitro che contava fino a dieci, senza potermi muovere.
Per la verità non sono sicuro se non potevo oppure se non volevo muovermi .
Quel ragazzo bianco fu il principio e la fine della mia carriera pugilistica. Molte volte, durante
questi ultimi anni da quando sono diventato un Muslim, ho pensato a quell'incontro e riflettuto
sul fatto che a fermarmi fu il volere di Allah: avrei potuto finire per diventare un picchiatore .
Non molto tempo dopo entrai in classe col cappello in testa. Lo feci apposta e l'insegnante, che
era un bianco, mi ordinò di tenerlo in capo e di girare su e giù per la stanza finché non mi
avesse detto di fermarmi. «In questo modo, - egli disse, tutti ti possono vedere. Nel frattempo
noi continueremo la lezione per quelli che sono venuti qui ad imparare qualcosa» .
Stavo ancora camminando su e giù quando il professore si alzò dalla cattedra e si diresse verso
la lavagna per scrivere. Tutti gli scolari guardavano attenti quando, in quel preciso momento, io
passai dietro la cattedra, staccai da un tabellone una puntina da disegno e la misi sulla sedia del
maestro. Quando tornò in cattedra, io ero lontano dal luogo del delitto perché mi trovavo a
camminare in fondo alla stanza. Si mise a sedere sulla puntina e io lo sentii strillare ed ebbi il
tempo di vederlo saltar su come una molla prima che infilasse la porta a gambe levate .
Dato il mio comportamento, non fui affatto sorpreso quando seppi che la direzione della scuola
aveva preso la decisione di espellermi .
Credo di aver avuto la vaga idea che se non dovevo andare a scuola, mi sarebbe stato permesso
di stare con i Gohanna, andarmene a zonzo per la città, o forse trovarmi un lavoro per
guadagnare un po' di soldi. Ma rimasi completamente annientato quando un funzionario
dell'ente assistenziale che non avevo mai visto prima venne a prendermi dai Gohanna e mi
portò in tribunale .
Là mi dissero che sarei andato al riformatorio. Avevo appena tredici anni .
Prima però dovetti andare in una casa di correzione a Mason nel Michigan, a circa venti
chilometri da Lansing. Tutti i «cattivi» ragazzi e ragazze della contea di Ingham venivano tenuti
là, prima di esser mandati al riformatorio e mentre si trovavano ancora sotto istruttoria .
Il funzionario bianco dell'ente assistenziale di stato era un certo signor Maynard Allen, che fu
con me più gentile di tutti gli altri che avevo conosciuto prima. Arrivò persino a usare
espressioni di conforto per i Gohanna, la signora Adcock e il «ragazzone». Tutti piangevano
all'infuori di me. Misi i miei pochi vestiti in una scatola e andammo con la sua macchina fino a
Mason. Durante il viaggio l'uomo mi parlava e mi diceva che i miei voti mostravano che se
avessi messo la testa a partito sarei riuscito a far qualcosa di buono. Mi disse che il riformatorio
aveva una brutta reputazione e mi spiegò che cosa voleva dire la parola «riformare»: cambiare e
diventare migliori. Mi disse anche che la scuola era un posto dove i ragazzi come me avevano il
tempo di riconoscere i loro errori, cominciare una nuova vita e diventare persone di cui tutti
avrebbero potuto essere orgogliosi. Aggiunse poi che la direttrice della casa di correzione, una
certa signora Swerlin, e suo marito erano persone molto buone .
Era vero. La signora Swerlin era più grossa di suo marito e io me la ricordo, questa donnona
dal grande seno, robusta, che rideva sempre, mentre il signor Swerlin era magro, aveva i capelli
neri, i baffetti neri e una faccia rossiccia, serena e gentile, persino nei miei confronti .
Io piacqui loro subito. La signora Swerlin mi mostrò la mia stanza, una stanza tutta per me, la
prima della mia vita. Era situata in uno di quegli enormi edifici tipo dormitorio dove a quei
tempi, e ancora oggi in molti posti, venivano tenuti i minorenni in stato d'arresto. Subito dopo,
con mia grande sorpresa, scoprii che mi era permesso di mangiare a tavola con gli Swerlin. Era
la prima volta che mangiavo con dei bianchi almeno con adulti bianchi - dai tempi delle
riunioni degli avventisti del settimo giorno. Naturalmente non era questo un privilegio riservato
esclusivamente a me. Fatta eccezione per i ragazzi e le ragazze più turbolenti che venivano
tenuti in segregazione (quelli che erano scappati, che erano stati ripresi e riportati in casa di
detenzione, o roba del genere), tutti noi mangiavamo seduti in lunghe tavolate con gli Swerlin a
capotavola .
Ricordo che avevano come aiutante una cuoca bianca, Lucille Lathrop. (Non so neanche come
faccio a ricordarmi di questi nomi a cui non ho più pensato da oltre vent'anni). Anche Lucille
mi trattava bene. Suo marito si chiamava Duane Lathrop e lavorava fuori, ma veniva a passare
la fine settimana con la moglie nella casa di correzione .
Ancora una volta notai come l'odore dei bianchi fosse diverso dal nostro e come fosse diverso
il gusto dei loro cibi, assai meno piccanti di quelli della cucina negra. Cominciai a spazzare,
strusciare e spolverare in casa degli Swerlin come avevo fatto, insieme col «ragazzone», dai
Gohanna .
A tutti piaceva il mio atteggiamento e fu grazie alla loro simpatia per me che ben presto fui
accettato da loro: ora so che mi consideravano come una mascotte. Parlavano di qualunque cosa
in presenza mia, nello stesso modo in cui si parla liberamente davanti a un canarino. Parlavano
anche di me o dei "niggers" come se io non ci fossi o come se non capissi il significato di quel
termine. Usavano la parola "nigger" cento volte al giorno e credo che non lo facessero con
l'intenzione di offendere, ma addirittura che la usassero in un senso bonario. Lo stesso valeva
per la cuoca Lucille e per suo marito Duane. Ricordo che un giorno quando il signor Swerlin,
così gentile com'era, tornò da Lansing dove aveva attraversato il quartiere negro, disse a sua
moglie in mia presenza: «Non riesco proprio a capire come fanno quei "niggers", che sono così
poveri, a essere tanto felici!» Poi raccontò che essi vivevano in baracche, ma tenevano davanti
alla porta degli enormi e lucenti macchinoni .
Sempre in presenza mia, la signora Swerlin disse: «I "niggers" sono fatti così...» Non ho mai
potuto dimenticare quella scena .
Le stesse cose succedevano con gli altri bianchi, prevalentemente uomini politici locali, che
venivano a far visita agli Swerlin. Uno degli argomenti preferiti della loro conversazione di
salotto erano i "niggers". Tra quei visitatori c'era il giudice alla cui tutela ero stato affidato a
Lansing .
Era un amico intimo degli Swerlin e quando arrivava chiedeva di me, loro mi mandavano a
chiamare e allora lui mi guardava dalla testa ai piedi con un'espressione di assenso, come se
stesse esaminando un bel puledro o un cagnolino di razza. Io sapevo che gli avevano detto
come mi comportavo e come lavoravo .
Quello che sto cercando di dire è che non passava loro neanche lontanamente per la testa l'idea
che io potessi capire, che non ero un animale domestico, ma un essere umano. Essi non mi
riconoscevano la stessa sensibilità, la stessa intelligenza e la stessa capacità di comprensione
che avrebbero tranquillamente attribuito a un ragazzo bianco che si fosse trovato nelle mie
condizioni. Ma questo, storicamente, è stato sempre l'atteggiamento dei bianchi nei confronti
dei negri, per cui anche se noi possiamo essere con loro, non siamo mai stati considerati dei
loro. Anche se sembrava che avessero aperta la porta, in realtà rimaneva sempre chiusa e perciò
essi non riuscivano mai a vedermi .
Si tratta di quella specie di bonaria condiscendenza che oggi io cerco di spiegare ai negri
desiderosi unicamente dell'integrazione, quella condiscendenza dei loro amici bianchi «liberali
», di quei cosiddetti «bianchi buoni », o almeno della maggior parte di loro. Non m'importa
quanto uno è gentile nei tuoi confronti; quello che devi sempre ricordare è che quasi mai lui ti
vede come vede se stesso o quelli della sua condizione .
Può darsi che il bianco sia con noi su certe questioni, ma non su quelle veramente di fondo; e
quando si giunge alla resa dei conti, ti accorgerai che la sua convinzione, talvolta magari
inconscia, di essere migliore di qualunque negro è radicata in lui come la sua struttura ossea .
Ma durante gli anni che passai nella casa di correzione io ero solo vagamente consapevole di
questi problemi. Facevo i miei piccoli servizi in casa e tutto andava per il meglio. Ogni sabato,
lasciavano che mi procurassi un passaggio per Lansing dove passavo il pomeriggio o la sera; e
anche se non avevo l'età, ero certamente grande abbastanza e nessuno trovò mai da obiettare se
mi vedeva per le strade del quartiere negro, anche di notte .
Stavo diventando più grande persino di Wilfred e Philbert, che avevano già cominciato a
conoscere ragazze ai balli della scuola o in altri posti e me ne avevano presentata qualcuna.
Quelle che sembravano avere un debole per me non mi piacevano, e viceversa .
In ogni caso non sapevo ballare per niente e non mi piaceva l'idea di buttar via con le ragazze
quei quattro soldi che avevo. Perciò, il sabato sera, mi divertivo a girare nei bar e nei ristoranti
negri. I jukebox erano pieni delle canzoni di Erskine Hawkins, come "Tuxedo Junction", e
come "Flatfoot Floogie" di Slim e Slam, e altre cose del genere. Qualche volta, delle grosse
orchestre di New York, di passaggio magari per una sola sera, suonavano a Lansing nei
maggiori trattenimenti danzanti. Chiunque aveva un paio di gambe veniva a sentire qualsiasi
musicista o cantante che portava il nome magico di New York. Fu così che ascoltai per la prima
volta Lucky Thompson e Milt Jackson con i quali più tardi feci amicizia ad Harlem .
Quando venne il loro turno, molti ragazzi della correzione furono mandati al riformatorio.
Quando sarebbe toccato a me - e questo avvenne due o tre volte - fui sempre ignorato. Vidi
nuovi detenuti andare e venire. Io ero contento e pieno di gratitudine per la signora Swerlin, alla
quale tutto ciò era dovuto. Non volevo andarmene .
Un giorno lei mi disse che mi avrebbero mandato alla scuola secondaria di Mason, che era
l'unica della città. Nessuno dei ragazzi della casa di correzione c'era mai stato, almeno durante il
periodo di detenzione. Fui ammesso alla settima classe. Oltre a me, gli unici negri che
frequentavano la scuola erano alcuni dei figli dei Lyons, tutti più piccoli di me e quindi in classi
inferiori. Loro ed io eravamo gli unici negri in città ed essi, come negri, godevano di molto
rispetto. Il signor Lyons era un uomo intelligente e un gran lavoratore e sua moglie era una
donna molto buona. Avevo sentito dire da mia madre che la signora Lyons e lei erano fra i
quattro oriundi delle Indie occidentali che si trovavano in quella parte del Michigan .
Scoprii che alcuni dei miei compagni di scuola bianchi avevano verso di noi un atteggiamento
molto più amichevole di quello dei ragazzi di Lansing. Sebbene alcuni, compresi gli insegnanti,
mi chiamassero "nigger", era facile vedere che non usavano quella parola in senso offensivo,
allo stesso modo degli Swerlin. In realtà, proprio perché ero il "nigger" della mia classe, godevo
di una grande popolarità, in parte dovuta, almeno credo, al fatto di essere una specie di curioso
giocattolo. Tutti mi volevano e finivo per godere della precedenza. Non bisogna però
dimenticare che godevo anche del particolare prestigio di essere nelle grazie di quella Donna
Molto Importante della città di Mason che era la signora Swerlin. Nessuno avrebbe mai
neanche lontanamente pensato di mettersi contro di lei. Non passava giorno senza che qualcuno
mi corresse dietro per chiedermi di partecipare qui o di dirigere là: gruppi di discussione, la
squadra di pallacanestro della scuola o qualche altra attività extrascolastica. Per parte mia non
rifiutavo mai nulla .
Non era molto che frequentavo la scuola quando la signora Swerlin, sapendo che mi sarebbe
piaciuto spendere dei soldi miei, mi trovò un lavoro come lavapiatti in un ristorante della città.
Il padrone del locale era il padre di un mio compagno di scuola bianco col quale passavo
parecchio del mio tempo .
Abitavamo nell'appartamento sopra il ristorante ed io ero contento di lavorare là. Il venerdì
sera, quando ricevevo la paga, mi sentivo alto due metri; non ricordo quanto guadagnavo, ma
mi sembrava un'enormità. Era la prima volta in tutta la mia vita che avevo per le tasche somme
di una certa consistenza .
Appena potei permettermelo, mi comprai un vestito verde e qualche paio di scarpe; a scuola
compravo dolciumi per i miei compagni, per ricambiare almeno quanto loro facevano con me .
Le materie che mi piacevano di più erano inglese e storia .
Ricordo che il mio insegnante d'inglese, un certo Ostrowski, ci dava sempre consigli su come
diventare qualcuno nella vita .
Quello che non mi piaceva delle lezioni di storia era che l'insegnante, il professor Williams, era
un fanatico delle barzellette sui "niggers". Un giorno, durante la mia prima settimana di scuola,
io entrai in classe e lui cominciò a cantare, in tono scherzoso: «Laggiù lontano nel campo di
cotone, c'è qualcuno che dice che un "nigger" non ruberà...» Molto divertente, vero? Mi piaceva
la storia, ma dopo quell'episodio non ebbi più molta simpatia per il professor Williams. In
seguito, ricordo che arrivammo alla parte del libro di testo dedicata alla storia dei negri: si
trattava esattamente di un paragrafo. Il professor Williams fece praticamente una sola
lunghissima risata mentre leggeva ad alta voce che i negri erano stati prima schiavi e poi liberati
e che di solito erano gente pigra, sciocca e incostante. Ricordo che aggiunse una nota
antropologica sua, dicendoci tra una risata e l'altra che i piedi dei negri erano «così grandi che
quando camminano non lasciano orme, ma un buco nel terreno» .
Mi dispiace dire che la materia che mi piaceva meno era la matematica. Ci ho ripensato e credo
che la ragione fosse che la matematica non lascia posto alla discussione. Se si faceva un errore,
non c'era nient'altro da aggiungere .
La grande passione della mia vita era la pallacanestro. Facevo parte della squadra della scuola.
Andavamo a sostenere incontri con le squadre delle città vicine, quali per esempio Howell e
Charlotte e dovunque mi presentassi, il pubblico delle palestre non la finiva più di chiamarmi
"nigger" e "coon". Qualcuno mi chiamava "Rastus". La cosa non dava noia né ai miei compagni
di squadra né al nostro allenatore e, per la verità, seccava relativamente poco anche a me.
Avevo la stessa psicologia che anche oggi spinge i negri, sebbene si sentano intimamente feriti,
a lasciare che l'uomo bianco dica loro quanto «progresso» stanno facendo. Hanno sentito queste
cose così tanto che ormai sono quasi condizionati a crederle, o almeno ad accettarle .
Di solito, dopo le partite di pallacanestro, c'era un ballo organizzato dalla scuola. Tutte le volte
che la nostra squadra entrava nella palestra di un'altra scuola per il ballo, mi sembrava che
l'atmosfera si congelasse. La situazione ritornava normale non appena i presenti vedevano che
io non cercavo di mescolarmi con loro, ma o stavo per conto mio o vicino a qualcuno della
nostra squadra. Credo di esser riuscito a escogitare dei sistemi per far ciò senza farmene
accorgere .
Anche alla nostra scuola, ero in grado di avvertire come una barriera fisica, che malgrado tutti i
sorrisi e i salamelecchi, impediva che la mascotte ballasse con qualcuna delle ragazze bianche .
Era una specie di messaggio psichico che non veniva soltanto da loro, ma dall'intimo di me
stesso. Sono orgoglioso di poter almeno dire questo di me. Stavo lì in piedi, sorridevo, parlavo,
bevevo quel che c'era da bere e mangiavo sandwiches e poi trovavo qualche scusa per
andarmene presto .
Questi erano i tipici balli scolastici di una piccola cittadina .
Qualche volta facevano venire un'orchestrina di bianchi da Lansing, ma più spesso la musica
veniva da un grammofono sistemato sopra un tavolo, che suonava a pieno volume. Su dischi
consumati e gracchianti, motivi come la "Moonlight Serenade" di Glenn Miller - allora la sua
orchestra aveva un immenso successo- o le canzoni degli Ink Spots, anch'essi molto popolari
specialmente per "If I Didn't Care" .
Ero solito dedicare molto del mio tempo a pensare a una certa cosa. Molti di questi ragazzi
bianchi di Mason, come del resto quelli della scuola di Lansing - specialmente se mi
conoscevano bene e se stavamo parecchio insieme - mi chiamavano da parte per farmi delle
proposte riguardo a certe ragazze bianche, qualche volta addirittura le loro sorelle. Mi dicevano
che loro erano già stati a letto con queste ragazze - comprese le loro sorelle- o che stavano
cercando di andarci senza risultato. In seguito capii di cosa si trattava: se fossero riusciti a
convincere le ragazze a rompere quel terribile tabù che consisteva nel fare all'amore con me,
essi avrebbero potuto tenere quella spada di Damocle sulla loro testa e ottenere da esse tutto ciò
che volevano .
Sembrava che i ragazzi bianchi pensassero che, essendo un negro, dovessi avere più esperienza
di loro di cose sentimentali e sessuali: che cioè sapessi istintivamente meglio di loro cosa fare e
dire con le loro ragazze. Io non dissi ma a nessuno che effettivamente mi piacevano alcune
delle ragazze bianche e che io piacevo a loro. Esse me lo facevano capire in molti modi, ma
tutte le volte che venivamo a trovarci soli a conversare o in circostanze che avrebbero potuto
facilmente diventare intime, si alzava sempre come una specie di muro fra noi. Le ragazze che
avrei voluto veramente erano un paio di negre che Wilfred o Philbert mi avevano presentato a
Lansing. Ma con loro, chissà perché, mi mancava il coraggio .
Da quello che sentivo e vedevo il sabato sera quando gironzolavo nel quartiere negro, mi
accorsi che a Lansing c'era la promiscuità razziale, ma stranamente la cosa non mi faceva molto
effetto. Penso che tutti i negri di Lansing sapessero che i bianchi andavano in macchina in certe
strade del loro quartiere e caricavano le prostitute negre che battevano la zona. D'altro canto,
c'era un ponte che separava la zona negra da quella polacca e lì venivano in macchina o a piedi
donne bianche che si accompagnavano ai negri i quali, nell'attesa, gironzolavano in certi posti
vicini al ponte. Anche in quei tempi le donne bianche di Lansing erano famose per correr dietro
ai negri. Non mi rendevo ancora sufficientemente conto di come la maggior parte dei bianchi
attribuiscano ai negri questa reputazione di prodigiosa virilità. A Lansing non sentii mai, da
nessuna delle due parti, che si fosse verificato qualche incidente per tale promiscuità. Credo che
tutti, come del resto facevo io, considerassero la cosa come scontata .
Comunque, forte della mia esperienza alla scuola di Lansing, ero diventato molto abile
nell'evitare, almeno per un altro paio di anni, la questione delle ragazze bianche .
Durante il secondo semestre della settima classe, fui eletto presidente della mia sezione e la
cosa mi sorprese più di quanto non sorprendesse gli altri. Ora riesco a capire perché i miei
compagni mi elessero: avevo una delle più alte medie di tutta la scuola ed ero l'unico negro
della mia classe, qualcosa come un barboncino rosa. Oltre a ciò ero orgoglioso; non starò qui a
dire che non lo ero. Infatti a quel tempo non mi importava molto di essere negro perché cercavo
in tutti i modi di essere bianco .
E' questa la ragione per cui dedico tanta parte della mia vita presente a dire ai negri americani
che buttano via il loro tempo cercando di «integrarsi». So cosa vuol dire questo per esperienza
personale, per aver provato in tutti i modi .
«Malcolm, siamo proprio orgogliosi di te!» esclamò la signora Swerlin quando seppe della mia
elezione. Nel ristorante dove lavoravo tutti lo seppero e persino il funzionario degli enti
assistenziali dello stato, Maynard Allen, che veniva ancora a vedermi ogni tanto, ebbe parole di
lode per me. Disse di non aver mai visto nessuno dimostrare meglio e con maggiore esattezza il
significato della parola «riformare». Mi piaceva il signor Allen, salvo forse per un particolare:
ogni tanto faceva qualche allusione al fatto che nostra madre non aveva saputo mantenerci .
Assai spesso andavo a far visita ai Lyons che ne erano felici come se fossi stato uno dei loro
figli. Lo stesso sentimento e lo stesso calore lo provavo quando andavo a Lansing a far visita ai
miei fratelli e sorelle e ai Gohanna .
Ricordo un episodio che mi amareggiò quei giorni. Quando andai a Mason a vedere il film
"Via col vento", ero l'unico negro nel cinema e quando arrivò sullo schermo l'attrice negra
Butterfly MacQueen avrei voluto sprofondare .
Quasi ogni sabato andavo a Lansing. Avevo quasi quattordici anni, allora. Wilfred e Hilda
abitavano ancora da soli nella nostra vecchia casa di famiglia che Hilda teneva come uno
specchio. Era più facile per lei che per mia madre, la quale doveva guardarci tutti e otto.
Wilfred lavorava dove e come poteva e inoltre leggeva tutti i libri che gli capitavano .
Quanto a Philbert, si stava facendo un nome come uno dei migliori pugilatori dilettanti di quella
parte del Michigan: tutti si aspettavano che sarebbe diventato un professionista .
Dopo il fiasco del mio incontro di boxe ero finalmente tornato in buoni rapporti con Reginald e
fui molto contento di poter andare a far visita a lui e a Wesley a casa della signora Williams.
Davo loro senza farmi vedere un paio di dollari ciascuno perché avessero in tasca qualcosa da
spendere. Anche la piccola Yvonne e Robert se la passavano bene a casa di quella signora
oriunda delle Indie occidentali, la MacGuire. A ognuno di loro davo di solito venticinque cents
ed ero felice di vedere che crescevano bene .
Nessuno di noi parlava molto di nostra madre e non rammentavamo mai nostro padre.
Immagino che non sapevamo cosa dire e non volevamo neppure che altri parlasse di nostra
madre. Ogni tanto andavamo a Kalamazoo a farle visita e il più delle volte noi più grandi
andavamo da soli perché non faceva piacere a nessuno fare quell'esperienza in presenza di altri
anche se questi erano i fratelli e le sorelle .
Durante questo periodo, la visita a mia madre che ricordo di più ebbe luogo verso la fine di
quell'anno scolastico in cui facevo la settima classe, quando Ella, figlia di primo letto di mio
padre, venne da Boston a trovarci. Wilfred e Hilda si erano scambiati qualche lettera con Ella
ed io, dietro consiglio di Hilda, le avevo scritto quando ero andato a stare con gli Swerlin. La
lettera che ci annunziava il suo arrivo a Lansing ci rese tutti impazienti e felici .
Credo che il principale effetto dell'arrivo di Ella, almeno su di me, fosse il fatto che era la
prima donna negra veramente orgogliosa che avessi mai conosciuto in vita mia. Era fiera della
sua pelle molto scura e ciò, in quei tempi e specialmente a Lansing, era qualcosa di sconosciuto
tra i negri .
Non sapevo bene in quale giorno sarebbe arrivata e un pomeriggio, di ritorno da scuola, la
trovai ad aspettarmi. Mi abbracciò, si allontanò un momento da me per squadrarmi dalla testa ai
piedi: donna autoritaria, forse anche più grossa della signora Swerlin, Ella non aveva la pelle
soltanto nera ma, come mio padre, di un nero lucido e profondo. Il modo in cui si sedeva, si
muoveva, parlava, faceva qualsiasi cosa, rivelava chiaramente una donna che faceva e otteneva
tutto ciò che voleva. Era questa la donna che mio padre aveva tante volte esaltato per aver
aiutato tanti membri della nostra famiglia a venir via dalla Georgia e a trasferirsi a Boston.
Possedeva qualcosa, diceva mio padre, ed era accettata «in società». Era venuta al Nord con
niente, aveva lavorato, risparmiato e investito in proprietà che aveva fatto aumentare di valore e
poi aveva cominciato a mandar soldi in Georgia a un'altra sorella, a un fratello, a un cugino, a
un nipote o a una nipote perché venissero a Boston. Tutto quello che avevo sentito dire si
rifletteva nell'aspetto e nel comportamento di Ella. Nessuno mi aveva fatto tanta impressione.
Era sposata per la seconda volta: il suo primo marito era stato un dottore .
Ella fece una quantità di domande per sapere cosa facevo: aveva già sentito dire da Wilfred e
Hilda che ero stato eletto presidente della mia classe. In particolare volle sapere i miei voti e io
andai di corsa a prendere le pagelle. Ero uno dei primi tre della classe. Ella mi rivolse parole di
lode e io le chiesi di suo fratello Earl e di sua sorella Mary. Lei mi dette la straordinaria notizia
che Earl faceva il cantante, sotto il nome di Jimmy Carleton, con un'orchestra di Boston. Anche
Mary stava bene .
Ella mi parlò anche degli altri parenti di quel ramo della famiglia. Di molti di loro non avevo
mai sentito parlare: erano quelli che lei aveva aiutato a venire su dalla Georgia e che, a loro
volta, avevano aiutato altri. «Noi Little dobbiamo star tutti uniti», disse Ella .
Mi entusiasmò sentirla parlare così, e soprattutto mi piacque il modo in cui lo disse. Io ero
diventato una mascotte, il nostro ramo della famiglia era ridotto in pezzi e avevo quasi
dimenticato di essere un Little. Lei disse che diversi membri della famiglia avevano dei buoni
posti di lavoro e qualcuno aveva persino avviato una piccola attività commerciale. Quasi tutti
erano proprietari delle case in cui abitavano .
Quando Ella propose che tutti noi Little di Lansing l'accompagnassimo a far visita a nostra
madre, le fummo profondamente grati. Sentivamo tutti che se c'era una persona che poteva far
qualcosa per aiutare nostra madre a star meglio e a tornare a casa, quella era senz'altro Ella.
Tutti noi, insieme per la prima volta, andammo con lei a Kalamazoo. Quando la portarono
fuori, nostra madre sorrideva. Fu profondamente sorpresa di vedere Ella. Le due donne
facevano un enorme contrasto, mentre si abbracciavano, una sottile e quasi bianca, l'altra grossa
e con la pelle nerissima. Non ricordo molto del resto della visita, salvo che si parlò molto, che
Ella tenne in pugno la situazione e che noi tutti andammo via molto più distesi e sereni di
quanto non lo fossimo mai stati in quelle circostanze. So che per la prima volta ebbi
l'impressione di essere andato a far visita a una persona affetta da una malattia fisica che si era
protratta a lungo .
Alcuni giorni dopo, visitate le case dove ciascuno di noi viveva, Ella partì da Lansing per fare
ritorno a Boston. Prima di andarsene, mi disse di scriverle regolarmente e avanzò l'idea che
magari mi sarebbe piaciuto trascorrere le vacanze estive a Boston con lei. Di fronte a quella
possibilità io non stavo più nella pelle .
Nell'estate del 1940, a Lansing, salii sull'autobus diretto a Boston con la mia valigia di cartone
e con addosso il mio vestito verde. Se mi avessero messo al collo un cartello con la scritta
BIFOLCO non avrei probabilmente dato altrettanto nell'occhio. A quei tempi non c'erano le
autostrade e l'autobus si fermava quasi a ogni angolo. Dal mio seggiolino situato l'avete
indovinato! - nella parte posteriore dell'autobus, guardavo fuori del finestrino l'America
dell'uomo bianco che si snodava davanti ai miei occhi per un periodo di tempo che mi sembrò
un mese ma che dev'essere stato soltanto un giorno e mezzo .
Quando finalmente arrivammo, Ella mi venne incontro al terminal e mi portò a casa. Abitava in
Waumbeck Street nella zona chiamata Sugar Hill del sobborgo di Roxbury, l'Harlem di Boston
.
Conobbi il secondo marito di Ella, Frank, che era militare, suo fratello Earl, il cantante che si
faceva chiamare Jimmy Carleton, e Mary, che era molto diversa dalla sorella maggiore .
E' strano come io considerassi Mary solo come sorella di Ella, invece che come mia sorellastra.
Probabilmente è perché io ed Ella siamo sempre stati molto più simili come tipi: siamo gente
autoritaria e Mary è stata sempre una persona mite, quieta e quasi timida .
Ella si occupava di un sacco di cose. Faceva parte di non so quanti club ed era un po' la stella
polare della cosiddetta «società negra» locale. A casa sua vidi e conobbi un centinaio di negri la
cui parlata e i cui modi cittadini mi fecero restare a bocca aperta .
Non avrei potuto fingere indifferenza neanche se mi ci fossi provato. La gente parlava di
Chicago, Detroit, New York e io non sapevo che il mondo contenesse tanti negri quanti ne
vedevo affollarsi di notte, specialmente di sabato nelle strade di Roxbury. E dappertutto luci al
neon, locali notturni, sale da biliardo, bar e automobili guidate dai negri! Per le strade si
spandeva l'odore dei ristoranti, quel ricco, grasso odore della cucina casalinga negra! I jukebox
diffondevano a tutto volume le musiche di Erskine Hawkins, Duke Ellington, Cootie Williams e
tanti altri. Se qualcuno mi avesse detto che un giorno avrei conosciuto di persona tutta questa
gente, non l'avrei creduto .
Le orchestre più grandi, come queste, suonavano al Roseland State Ballroom sulla
Massachusetts Avenue di Boston, una sera per i negri e la sera dopo per i bianchi .
Per la prima volta vedevo qualche coppia mista che passeggiava a braccetto e di domenica,
quando Ella, Mary o qualcun altro mi portavano in chiesa avevo modo di vedere dei templi
riservati ai negri quali non avevo mai visto prima. Erano cento volte più belli della chiesa
bianca dove andavo anch'io a Mason nel Michigan. Là i bianchi stavano seduti e partecipavano
alle funzioni religiose solo con parole, ma i negri di Boston, come tutti gli altri negri che ho
visto in chiesa, s'impegnavano anima e corpo nella preghiera e, nella partecipazione attiva al
servizio divino .
Due o tre volte scrissi a Wilfred lettere che avrebbero potuto esser indirizzate a tutti quelli che
erano rimasti a Lansing: dicevo che avrei cercato di descrivere tutto al mio ritorno .
Ma scoprii che non potevo .
La mia insofferenza per Mason - e per la prima volta nella mia vita un'insofferenza per dover
stare intorno ai bianchi cominciò non appena fui tornato e fui ammesso all'ottava classe .
Continuavo a pensare sempre a tutto quello che avevo visto a Boston e a come mi sentivo là.
Ora so che si trattava per la prima volta nella mia vita, della sensazione di essere davvero parte
di una massa di gente della mia stessa specie .
I bianchi - i miei compagni di scuola, gli Swerlin, la gente del ristorante dove lavoravo - si
accorsero del cambiamento .
«Ti comporti in modo così strano, - dicevano - non sembri più neanche tu, Malcolm. Cosa ti è
successo?» Intanto io mi mantenevo tra i primi della classe. Ricordo che il primato assoluto
oscillava tra me, una ragazza di nome Audrey Slaugh e un ragazzo, Jimmy Cotton .
Le cose andavano in questo modo, mentre io diventavo sempre più irrequieto e scontento. Un
giorno, durante il primo semestre, proprio quando quelli di noi che erano stati promossi stavano
per entrare nella classe dalla quale l'anno successivo, si sarebbe passati alla scuola secondaria,
accadde qualcosa che sarebbe diventato la prima svolta decisiva della mia vita .
Per qualche ragione ero rimasto solo in classe con il mio insegnante d'inglese, il signor
Ostrowski. Era un uomo alto, dalla pelle piuttosto rossiccia e con folti baffi. Avevo avuto alcuni
dei miei migliori voti proprio da lui, che mi aveva sempre fatto pensare di avere simpatia per
me. Come ho già detto, era un consigliere nato, perché non perdeva occasione per dire cosa si
doveva leggere, fare o pensare riguardo a qualsiasi cosa. Noi solevamo fare battute impertinenti
sul suo conto: perché insegnava a Mason invece che in qualche altro posto e non cercava di
ottenere lui quel «successo nella vita» di cui continuava a insegnarci le strade? Credo che fosse
animato da buone intenzioni quando, quel giorno, m'impartì i suoi consigli. Non penso che
volesse minimamente danneggiarmi. Era solo una conseguenza della sua natura di americano
bianco. Io ero uno dei suoi migliori studenti, uno dei migliori studenti di tutta la scuola, ma egli
non riusciva a vedere per me altro che quel futuro («stai al tuo posto») che quasi tutti i bianchi
attribuiscono ai negri .
«Malcolm, - mi disse, - dovresti cominciare a sceglierti una carriera. Ci hai mai pensato?» La
verità era che non ci avevo mai pensato. Non sono mai riuscito a spiegarmi perché gli risposi:
«Bene, signore, ho pensato che mi piacerebbe fare l'avvocato». A quell'epoca, a Lansing non
c'erano né avvocati né dottori negri dai quali avrei potuto trarre ispirazione per crearmi
un'immagine della mia futura carriera. Tutto quello che sapevo di sicuro era che un avvocato
non lavava i piatti, come invece toccava fare a me .
Mi ricordo che il professor Ostrowski si mostrò sorpreso, si spinse indietro con la sedia
mettendosi le mani intrecciate dietro la nuca. Poi con un sorriso un po' sforzato mi disse:
«Malcolm, nella vita una delle principali virtù è il senso realistico. Non mi fraintendere... sai
che noi qui abbiamo tutti simpatia per te, ma devi considerare realisticamente il fatto che sei un
"nigger". Quella di avvocato non è una carriera realistica per un "nigger". Devi pensare a
qualche altro mestiere che PUOI fare... Lavori bene con le mani... sei molto abile e tutti
ammirano i tuoi lavori di falegnameria. Perché non decidi di fare il falegname? Dal punto di
vista personale, la gente ha simpatia per te... Potresti trovare facilmente qualunque lavoro» .
In seguito, più ripensavo a quello che mi aveva detto e più mi sentivo insicuro. Quelle parole
continuarono a girarmi nella mente .
Ma ciò che davvero cominciò a irritarmi fu il consiglio che il professor Ostrowski dava ad altri
studenti della mia classe, che erano tutti bianchi. La maggior parte di loro gli avevano detto che
avevano intenzione di fare i contadini come i loro genitori, in modo che un giorno avrebbero
potuto ereditare la fattoria di famiglia. Lui aveva incoraggiato tutti quelli che volevano fare
qualcosa di diverso, di nuovo, e che mostravano un certo spirito di iniziativa. Alcuni,
specialmente le ragazze, volevano diventare insegnanti, mentre altri desideravano accedere ad
altre professioni, come quel ragazzo che voleva fare l'amministratore di contea, o quell'altro che
aspirava a diventare veterinario o quella ragazza che aveva in mente di fare l'infermiera. Tutti
questi riferirono che il professor Ostrowski li aveva incoraggiati in qualunque cosa
desideravano; eppure nessuno di loro aveva mai avuto voti paragonabili ai miei .
La cosa sorprendente era che non avevo mai pensato a ciò in quella prospettiva, ma mi resi
conto che malgrado tutte le mie limitazioni, io ERO più intelligente di quasi tutti quei ragazzi
bianchi. Tuttavia ai loro occhi non ero ancora abbastanza intelligente per poter diventare quello
che IO volevo essere .
Fu allora che cominciai a cambiare dentro di me .
Cominciai a distaccarmi dai bianchi. Entravo in classe e rispondevo solo quando ero
interrogato. Divenne una tensione fisica il solo fatto di frequentare le lezioni del professor
Ostrowski .
Mentre prima la parola "nigger" non mi faceva né caldo né freddo, ora quando la sentivo
pronunciare mi fermavo a guardare chi la diceva e i bianchi erano stupiti che reagissi .
Cominciai a non sentir dire più tanto "nigger" e «ma cos'hai?» che era proprio quello che
volevo io. Nessuno, nemmeno gli insegnanti, riusciva a stabilire cosa mi era successo. Sapevo
che parlavano di me .
Dopo qualche settimana lo stesso successe al ristorante dove lavavo i piatti e dagli Swerlin .
Qualche giorno dopo, la signora Swerlin mi fece chiamare in salotto e là ci trovai il
funzionario degli enti assistenziali dello stato, Maynard Allen. Dalle loro facce mi accorsi che
qualcosa stava per succedere. La signora mi disse che nessuno di loro riusciva a capire perché dopo che andavo così bene a scuola e al lavoro, dopo che abitavo con loro e che tutti a Mason
avevano simpatia per me - avevo cominciato negli ultimi tempi a dar loro l'impressione di non
trovarmici più bene .
Mi disse che riteneva non fosse più necessario che restassi ancora nella casa di correzione e
che erano stati fatti i passi necessari perché andassi a vivere con i Lyons, che avevano tanta
simpatia per me .
La signora Swerlin si alzò in piedi e mi tese la mano. «Credo di avertelo già chiesto cento
volte, Malcolm, - disse, - ma mi vuoi dire cosa c'è che non va?» Io le strinsi la mano e dissi:
«Niente, signora Swerlin». Poi uscii dalla stanza, andai a raccogliere le mie cose e tornai giù.
Sulla porta del salotto la vidi che si asciugava gli occhi .
Mi dispiacque molto. La ringraziai e andai a raggiungere il signor Allen che mi accompagnò dai
Lyons. Anche il signor Lyons, sua moglie e i loro figli cercarono di farmi dire cosa avevo,
durante tutti i due mesi che abitai con loro prima di terminare l'ottava classe. Io però, in qualche
modo, evitai sempre una spiegazione anche con loro .
Ogni sabato andavo a Lansing a far visita ai miei fratelli e alle mie sorelle e quasi un giorno sì
e un giorno no scrivevo a Ella a Boston. Senza dirle il perché le annunciai che avrei voluto
andare ad abitare con lei .
Non so come riuscì a farlo, ma è un fatto che Ella si fece dare la tutela legale, il permesso di
trasferirmi dal Michigan nel Massachusetts e nel corso della stessa settimana in cui finì la
scuola, io presi di nuovo l'autobus per Boston .
Da allora ho pensato molte volte a quel momento. Nessun trasferimento è stato mai, per le sue
future ripercussioni, più fondamentale e profondo per la mia vita .
Se fossi rimasto nel Michigan avrei probabilmente sposato una di quelle ragazze negre che
avevo conosciuto a Lansing e che mi erano tanto piaciute, sarei potuto diventare uno di quei
lustrascarpe che esercitavano il loro mestiere sugli scalini dell'Assemblea legislativa dello stato,
oppure cameriere al Lansing Country Club, oppure avrei trovato lavoro come domestico presso
qualche famiglia, il che, a quei tempi, sarebbe stato considerato un successo tra i negri di
Lansing; oppure sarei potuto diventare falegname .
Qualunque sia il valore di quello che ho fatto da allora, ho cercato sempre di riuscirci. Ho
spesso pensato che se il professor Ostrowski mi avesse incoraggiato a diventare avvocato oggi
forse avrei fatto parte di quella borghesia negra di professionisti che si trova in qualsiasi città,
avrei passato il mio tempo a partecipare a cocktails e a indolenzirmi le mani a forza di stringerle
ai bianchi, facendo la parte del portavoce della comunità e del leader delle masse negre che
soffrono, mentre la mia fondamentale preoccupazione sarebbe stata di strappare qualche altra
briciola dalla tavola riccamente imbandita di quei bianchi ipocriti con i quali i negri servili
vogliono «integrarsi» .
Se andai a Boston allora tutto il merito è di Allah: se non l'avessi fatto, probabilmente sarei
ancora un cristiano negro, sottoposto al lavaggio del cervello .
Capitolo terzo .
«IL CONCITTADINO» .
Sembravo Li'l Abner. Su tutta la mia persona stava scritto «Mason, Michigan». I miei capelli
crespi e rossicci erano tagliati a spazzola e non adoperavo neanche brillantina; le maniche del
vestito verde erano troppo corte e i pantaloni lasciavano scoperti almeno cinque centimetri di
calzini. Avevo un cappotto, comprato bell'e fatto in un grande magazzino di Lansing, un trequarti
col colletto stretto, di un verde leggermente più chiaro del vestito .
Il mio aspetto era troppo persino per Ella ma, come mi disse più tardi, lei aveva visto altri
membri della famiglia Little venuti su dalla Georgia vestiti ancor più da cafoni di me .
Ella mi aveva preparato una piccola stanza all'ultimo piano. Era una vera negra della Georgia
quando si metteva a cucinare: era quel tipo di cuoca che ti riempie il piatto di zampone di
maiale, verdura, piselli, pesce fritto, cavolo, patate dolci, polpettine di farina d'avena con salsa e
pane di granturco. Più uno mangiava e più lei era contenta e quanto a me, mi mettevo sempre a
tavola come se fosse il mio ultimo pasto .
Ella mi sembrava la stessa donna grande, nera, franca e imponente che avevo imparato a
conoscere a Mason e Lansing. Solo due settimane prima che arrivassi, si era separata dal suo
secondo marito, il soldato Frank che avevo conosciuto l'estate precedente, ma sembrava
prendere la cosa con indifferenza .
Sebbene non lo dicessi, mi rendevo perfettamente conto che qualsiasi uomo medio non avrebbe
potuto vivere per molto tempo con una donna il cui istinto era di comandare tutto e tutti e di
mettersi a capo di qualsiasi cosa con cui avesse a che fare, me compreso. Dopo circa due giorni
che ero a Roxbury, Ella mi disse che non voleva che cominciassi subito a cercarmi un lavoro,
come facevano quasi tutti i nuovi venuti. Mi disse di aver consigliato a tutti coloro che aveva
fatto venire al Nord di concedersi un po' di tempo, guardarsi intorno, andare in giro sugli
autobus e la metropolitana e di imparare a conoscere il ritmo della vita di Boston prima di
rinchiudersi in qualche lavoro, perché poi non avrebbero mai più avuto il tempo di vedere e
conoscere i vari aspetti della città in cui vivevano .
Ella disse che mi avrebbe aiutato, quando fosse venuto il momento, a trovare un lavoro .
Cominciai ad andare a curiosare per tutto il vicinato: quella parte di Roxbury che è compresa
tra la Waumbeck e la Humboldt Avenue Hill e che somiglia un po' alla Sugar Hill di Harlem,
dove avrei abitato più tardi. Ebbi modo di vedere che quei negri di Roxbury vivevano e si
comportavano in modo diverso da qualsiasi altro gruppo di negri che avevo mai immaginato.
Era questo un quartiere di privilegiati: gli abitanti si chiamavano «i quattrocento» e guardavano
con sufficienza i negri del ghetto, o della cosiddetta zona «di città», dove abitava Mary, l'altra
mia sorellastra .
A Roxbury credevo di vedere dei negri di classe sociale elevata, colti, importanti, che
godevano di un notevole benessere e esercitavano professioni e impieghi di prestigio. Le loro
case silenziose erano circondate da prati ben tenuti. Questi negri camminavano sui marciapiedi
con un portamento distaccato e dignitoso, quando si recavano al lavoro, a far le spese, in chiesa
o a far visita a qualcuno. Ora so, naturalmente, che ciò che vedevo non era altro che la versione
cittadina di quei lustrascarpe e uscieri negri che a Lansing «avevano fatto strada». L'unica
differenza consisteva nel fatto che quelli di Boston erano stati sottoposti a un più intenso
lavaggio del cervello. Si vantavano di essere incomparabilmente più colti, educati, dignitosi e
ricchi dei loro fratelli negri che abitavano nel ghetto che si stendeva a un tiro di schioppo dalle
loro case. Nella patetica illusione che ciò li avrebbe «migliorati», questi negri della Collina si
rompevano il collo per cercare di imitare i bianchi .
Qualsiasi famiglia negra che era stata a Boston abbastanza tempo per acquistare la casa in cui
abitava era considerata parte della élite della Collina. Non importava se poi erano costretti a far
gli affittacamere per quadrare il bilancio. Allora quelli che erano nati nella Nuova Inghilterra
guardavano con disprezzo ai proprietari di case emigrati dal Sud che vivevano vicino a loro,
come Ella. Un'alta percentuale degli abitanti della Collina appartenevano a questa categoria:
concorrenti e intrusi che venivano dal Sud e negri delle Indie occidentali che venivano chiamati
«ebrei negri» sia da quelli della Nuova Inghilterra sia dagli altri del Sud. Di solito erano quelli
provenienti dal Sud e dalle Indie occidentali che non soltanto riuscivano a comprarsi le case
dove abitavano, ma anche a comprarne almeno un'altra che poi affittavano. Gli altezzosi oriundi
della Nuova Inghilterra di solito possedevano molto meno di loro .
In quei giorni, chiunque poteva farsi chiamare professionista insegnanti, predicatori, infermiere
- si considerava automaticamente superiore. I diplomatici stranieri avrebbero potuto ispirarsi
per i loro modi ai postini negri, ai facchini e ai camerieri dei vagoni-ristorante di Roxbury che
camminavano e si muovevano come se indossassero il frac e il cilindro .
Credo che otto su dieci dei negri di Roxbury, malgrado i sonanti titoli che si attribuivano,
fossero in realtà impiegati in lavori domestici e manuali. «Lavora in banca...», oppure «E' nelle
assicurazioni...»: sembrava che stessero parlando di un Rockefeller o di un Mellon e non di
qualche commesso di banca dai capelli grigi e dal portamento dignitoso o di un fattorino della
Borsa o di qualche compagnia di assicurazioni. «Sto da una vecchia famiglia», era l'eufemismo
di solito adoperato per conferire dignità ai cuochi e alle cameriere dei bianchi, tutta gente che a
Roxbury parlava in modo così affettato che non si riusciva neanche a capirli. Non so quanti
fattorini di quaranta e cinquant'anni scendevano dalla Collina vestiti come ambasciatori, con
abiti neri e colletti inamidati, per recarsi in città ai loro impieghi «governativi», «finanziari» o
«legali». Non ho mai potuto superare la sorpresa nel vedere quanti negri, allora come ora,
potevano digerire la vergogna di questo modo di ingannare se stessi .
Ben presto mi spinsi fuori di Roxbury e cominciai a esplorare la Boston vera e propria.
Dovunque mi voltavo c'erano edifici storici, lapidi, colonne e statue che celebravano eventi e
uomini famosi. Nella sala dell'Assemblea legislativa vidi una statua che mi colpì: era quella di
un negro, Crispus Attucks, che era stato la prima vittima del massacro di Boston [1]. Non
l'avevo mai sentito rammentare prima .
Giravo dappertutto. Una volta arrivai fino all'università di Boston e un altro giorno presi per la
prima volta la metropolitana. Quando tutti scesero, seguii la fiumana. Mi trovavo a Cambridge
e girai tutto intorno al campus della Harvard University. Avevo già sentito parlare di Harvard
da qualche parte, sebbene non ne sapessi molto. Chi mi avrebbe detto quel giorno che circa
venti anni più tardi vi avrei pronunciato un discorso nella sala della facoltà di legge? Feci
anche parecchie esplorazioni in città. Non riuscivo a capire perché ci fosse bisogno di due
grandi stazioni ferroviarie, quella Nord e quella Sud. In tutte e due, andavo a vedere la gente
che partiva e arrivava e lo stesso facevo alla stazione degli autobus dove Ella era venuta a
prendermi. Le mie peregrinazioni mi portarono lungo i moli e i docks dove lessi le lapidi che
parlavano di vecchi velieri che vi avevano fatto scalo .
In una lettera a Wilfred, Hilda, Philbert e Reginald a Lansing, raccontai tutte queste cose,
descrivendo le strade strette, serpeggianti e selciate e le case tutte attaccate una all'altra .
Scrissi che nel centro di Boston c'erano i più grandi negozi che avessi mai visto e gli alberghi e
ristoranti dei bianchi. Decisi che avrei visto tutti i film che sarebbero stati proiettati negli
eleganti cinema con l'aria condizionata .
Sulla Massachusetts Avenue, vicino a uno di questi, il Loew's State Theater, c'era l'enorme,
affascinante sala da ballo Roseland State Ballroom. Dei grandi manifesti posti all'entrata
annunciavano che orchestre famose in tutto il paese, sia bianche che negre, si erano esibite in
quel locale. Quando passai di là per la prima volta, l'attrazione della settimana seguente
(«PROSSIMAMENTE QUI!») era Glenn Miller. Ricordo di aver subito pensato come, ai balli
della scuola secondaria di Mason, la musica dell'intera serata era stata quella dei dischi di Glenn
Miller. Mi domandavo cosa avrebbero pagato quei ragazzi per trovarsi proprio nel posto dove
Glenn Miller in carne ed ossa avrebbe diretto la sua orchestra. Non sapevo ancora quanto sarei
diventato di casa lì al Roseland .
Ella cominciò a preoccuparsi perché, anche quando ebbi visitato ben bene la città, non stavo
mai molto nella zona della Collina .
Cominciò a dire che avrei dovuto far lega con «i bravi giovani della mia età» che si potevano
incontrare alla drogheria-bar all'angolo, due isolati lontano dalla sua casa, e in un paio di altri
posti. Ma anche prima di venire a Boston io avevo sempre considerato i miei coetanei come dei
ragazzini e mi comportavo con loro come col mio fratello più piccolo Reginald. Essi avevano
sempre guardato a me come se fossi stato molto più grande. Quand'ero ancora a Mason e
durante i weekend quando andavo a Lansing, per non stare insieme ai bianchi giravo nel
quartiere negro insieme con gli amici di Wilfred e Philbert .
Sebbene tutti loro avessero diversi anni più di me io ero più grosso e dimostravo effettivamente
più anni della maggior parte di loro .
Non volevo deludere o addolorare Ella, ma malgrado i suoi consigli, cominciai a frequentare la
zona del ghetto negro, giù in città. Quel mondo di negozi di alimentari, appartamenti al piano
della strada, ristoranti da pochi soldi, sale di biliardo, bar, chiese sistemate nei negozi e banchi
di prestito e pegno sembrava esercitare su di me una naturale attrazione .
Questa parte di Roxbury era molto più affascinante, oltre al fatto che io mi sentivo assai più a
mio agio tra negri che vivevano senza tante pretese e senza tante arie. Anche se abitavo sulla
Collina il mio cuore non era mai come non lo è oggi, con coloro che si considerano migliori
degli altri negri .
Trascorsi il mio primo mese in città passando da una meraviglia all'altra. Ero attirato dai
giovani «leoni» ben vestiti che stavano a gruppi agli angoli delle strade o nelle sale da biliardo,
nei bar e nei ristoranti e che, com'era chiaro, non lavoravano. Non mi riusciva capire come
potessero avere i capelli così lisci e lucenti, come quelli dei bianchi. Ella mi disse che quel
sistema si chiamava "conk", una «stiratura». Non avevo mai assaggiato una goccia di liquore,
né fumato una sigaretta, e qui vedevo dei bambini negri di dieci, dodici anni che giocavano
d'azzardo, a carte o alla lotteria, si picchiavano tra di loro, chiedevano agli adulti di puntare uno
o cinque centesimi alle corse dei cavalli, e cose del genere. Questi ragazzetti dicevano parolacce
che io non avevo mai sentito prima e usavano un gergo che mi era del tutto nuovo, come per
esempio «stallone», «leone», «pollastrella», e «dritto» o «marpione». La sera, quando andavo a
letto, ripensavo per ore a questi nuovi termini. Mi colpiva moltissimo il fatto che in città,
specialmente dopo buio, si vedevano qualche volta ragazze bianche che passeggiavano a
braccetto sul marciapiede con qualche negro e coppie miste che bevevano nei bar illuminati al
neon, e non come a Lansing dove si nascondevano in qualche angolo oscuro. Anche di questo
scrissi a Wilfred e Philbert .
Per fare una sorpresa a Ella volevo trovarmi un lavoro da solo .
Un pomeriggio, qualcosa mi disse di entrare nella sala del biliardo che stavo da tempo
osservando da una delle finestre .
Non volevo certamente giocare perché non sapevo neanche come si tiene una stecca. Ero
attirato dalla vista di quei «leoni» dall'aspetto così elegante e dal comportamento così astuto che
gironzolavano nella sala o si piegavano sui grandi biliardi dal ripiano ricoperto di feltro verde,
scommettevano e bocciavano le bilie multicolori mandandole in buca. Quel pomeriggio, mentre
stavo guardando quello spettacolo attraverso una finestra, qualcosa mi spinse ad avventurarmi
dentro e a rivolgere la parola a un tipo tozzo, con i capelli stirati che raccoglieva le palle per i
giocatori di biliardo e che avevo sentito chiamare Shorty [2]. Un giorno era venuto fuori e
vedendomi gironzolare intorno al locale mi aveva detto: «Ciao Rosso!» Ciò mi aveva fatto
ritenere che fosse un tipo abbordabile .
Facendomi notare il meno possibile, scivolai dentro e camminando lungo il muro per evitare la
gente, mi diressi verso la parte interna della sala dove Shorty riempiva un recipiente d'alluminio
con la polvere che i giocatori di biliardo si spargevano poi sulle mani. Mi guardò di sotto in su.
Più tardi Shorty si divertiva a prendermi in giro per il fatto che, a quella prima occhiata, aveva
indovinato tutto di me. «Porco cane, quel "gatto" PUZZAVA ancora di contadino! - diceva
ridendo. - Aveva le gambe così lunghe e i pantaloni così corti che si vedevano i ginocchi e la
testa sembrava un cespuglio di pruni!» Ma quel pomeriggio Shorty non si fece accorgere
dall'espressione del volto quanto mi vedeva «bifolco» quando gli dissi che gli sarei stato
riconoscente se mi avesse indicato come si faceva a procurarsi un lavoro come il suo .
«Se ti riferisci al raccoglibilie, - disse Shorty, - non credo che ci sia nessun locale qui intorno
che ne abbia bisogno. Vuoi dire che ti contenti di qualsiasi lavoro da schiavetto?» La parola
«schiavo» voleva dire lavoro, un posto di lavoro .
Mi domandò dove avevo lavorato prima. Gli dissi che avevo lavato i piatti in un ristorante di
Mason nel Michigan. Poco mancò che gli cascasse di mano il recipiente della polvere. «Un mio
concittadino! Un ragazzo della mia città! Che combinazione! Sono anch'io di Lansing!» Non
dissi mai a Shorty né lui mai lo sospettò che avevo circa dieci anni meno di lui. Egli credette
che avessimo la stessa età. Dapprima sarebbe stato imbarazzante dirglielo e in seguito non mi
preoccupai più della cosa. Shorty aveva lasciato la scuola al primo anno delle medie e, partito
da Lansing, era andato ad abitare per un po' di tempo con una zia e uno zio a Detroit. Gli ultimi
sei anni li aveva passati a Roxbury dove abitava con un suo cugino. Ma quando ricordai luoghi
e persone di Lansing egli mostrò di ricordarsene bene e subito cominciammo a parlare come se
fossimo cresciuti insieme nello stesso isolato. Sentivo la gioia sincera di Shorty e non c'è
bisogno che dica quanto mi considerai fortunato di aver trovato un amico dritto come quello .
«Perbacco, questa è una città coi fiocchi se sai tener gli occhi aperti, - disse Shorty, - tu sei un
ragazzo della mia stessa città e io ti insegnerò tutto quello che succede». Io rimasi lì in piedi
sorridendo come uno scemo. «Non hai mica da andare in nessun posto ora? Bene, aspettami
finché non smonto» .
Quello che mi piacque subito di Shorty fu la sua sincerità .
Quando gli dissi dove abitavo, mi rispose quello che già sapevo e che cioè i negri della Collina
non erano simpatici a nessuno in città. Però mi disse che una sorella che mi dava una spinta,
non mi faceva pagare l'affitto né mi spingeva a cercarmi qualche «lavoro da schiavetto» non era
affatto da disprezzarsi. Il suo lavoro nella sala da biliardo gli bastava appena a far quadrare il
bilancio, mentre studiava il sassofono. Un paio d'anni prima aveva vinto alla lotteria e si era
comprato lo strumento. «L'ho messo lì nell'armadio e lo tiro fuori la sera quando vado a
lezione», mi disse. Shorty andava a lezione insieme con «alcuni altri scopatori» e sognava che
un giorno avrebbe messo insieme la sua brava piccola orchestra. «C'è un sacco di grana da
rimediare qui a Roxbury, - mi spiegava Shorty. - Non mi piace mettermi con una grossa
orchestra, star fuori in giro tutte le sere per poi dire che ho suonato con Duke, con Count o con
chi ti pare». Pensai che fosse furbo e rimpiansi di non avere studiato anch'io il sassofono.
Purtroppo non mi si era mai presentata tale possibilità .
Per tutto il pomeriggio, quando non aveva da raccogliere le bilie su questo o quel biliardo,
Shorty mi fece un sacco di confidenze. Mi indicò i vari guappi che gironzolavano intorno ai
tavoli o giocavano a biliardo e mi disse che quello vendeva le «paglie», quello era appena
uscito di prigione, mentre l'altro era un abile svaligiatore di appartamenti. Shorty mi disse che
tutti i giorni giocava almeno un dollaro alla lotteria e che appena avesse vinto si sarebbe servito
dei soldi per mettere insieme la sua orchestra .
Mi vergognavo, ma dovetti ammettere di non aver mai giocato alla lotteria. «Bene, è perché
non hai mai avuto un soldo da giocare,- disse scusandomi, - ma quando trovi un lavoro
comincerai subito e se hai fortuna ti ritroverai un bel po' di quattrini» .
Mi indicò qualche giocatore e qualche magnaccia. Alcuni vivevano alle spalle delle puttane
bianche, mi bisbigliò. «Non ti dirò una bugia... io conosco delle puttane bianche da due dollari,
disse Shorty, - qui di notte c'è un sacco di quella roba .
Vedrai». Io dissi di aver già visto qualcosa. «Ne hai mai avuta una?» mi domandò .
Il mio imbarazzo e la mia inesperienza risultarono evidenti .
«Porca miseria! - disse lui. - Non ti vergognare. Prima di lasciare Lansing, ebbi a che fare con
qualcuna di quelle pollastrelle polacche che venivano nel quartiere negro dall'altra parte del
ponte. Qui son quasi tutte italiane e irlandesi, ma non importa di che specie sono... sono
completamente diverse dalle nostre! Del resto sono uguali dappertutto perché non c'è nulla per
cui vanno più matte di un bello stallone negro» .
Nel corso di quel pomeriggio, Shorty mi presentò a venditori di biglietti della lotteria e a
sfaccendati. «Questo ragazzo è mio concittadino, - diceva, - sta cercando un posto. Se sentite
dire qualcosa fatemelo sapere». Tutti rispondevano che se ne sarebbero occupati .
Alle sette, quando arrivò il raccoglibilie notturno, Shorty mi disse che doveva correre alla
lezione di sassofono, ma prima di andarsene mi offrì i sei o sette dollari che, in tutto il giorno,
aveva ricevuto di mancia. Erano in monete da cinque e dieci cents. «Hai abbastanza pane,
concittadino?» Gli dissi che stavo bene, che avevo due dollari, ma Shorty me ne fece prendere
altri tre. «E' per rimpolparti un po' le tasche», mi disse .
Prima di uscire aprì l'astuccio del sassofono e mi fece vedere lo strumento. In contrasto con il
velluto verde, l'ottone scintillava. Era un sassofono tenore. «Trattati bene, concittadino, e
occhio! Torna domani! Qualcuno dei "gatti" ti rimedierà un lavoro» Quando tornai a casa,
Ella mi disse che mi aveva telefonato un certo Shorty. Mi aveva lasciato detto che alla Roseland
State Ballroom, il lustrascarpe avrebbe lasciato il posto quella sera stessa e che lui aveva detto
al padrone di tenerlo per me .
«Malcolm, ma tu non hai nessuna esperienza. Non le sai mica lustrare le scarpe!» mi disse
Ella. Dalla sua espressione e dal tono della voce mi accorsi che non le piaceva l'idea che
accettassi quel lavoro. A me non interessava molto perché ero già felicissimo al solo pensiero di
trovarmi nello stesso posto dove suonavano le più grandi orchestre del mondo. Non aspettai
neppure che fosse pronta la cena .
Quando arrivai, la sala da ballo era tutta illuminata. Alla porta d'ingresso un tale faceva entrare
i membri dell'orchestra di Benny Goodman. Io gli dissi che volevo vedere Freddie il
lustrascarpe .
«Sei tu il nuovo?» mi domandò. Io gli dissi di sì e lui mi rispose ridendo: «Bene, può darsi che
tu vinca la lotteria e che ti faccia la Cadillac anche tu». Mi disse poi che avrei trovato Freddie al
piano di sopra nella toilette per uomini .
Prima di salire al secondo piano mi fermai un po' a dare un'occhiata alla sala da ballo. Non
potevo credere ai miei occhi quando osservavo la vastità di quel pavimento tirato a cera! In
fondo, illuminato da una luce rosea e soffusa, c'era il palco dell'orchestra con i musicisti di
Benny Goodman che salivano su e giù, ridevano e parlavano fra loro, accordavano i loro
strumenti e sistemavano i leggii .
Al piano di sopra, nella toilette per uomini, mi salutò un tipo secco, dalla pelle marrone e dai
capelli stirati. «Sei tu il concittadino di Shorty?» Io dissi di sì e lui si presentò: era Freddie .
«Bravo, vecchio mio, - disse, - mi ha mandato a chiamare perché aveva sentito dire che era
uscito il mio numero e si era immaginato che avrei lasciato il lavoro». Io dissi a Freddie cosa
m'aveva detto il portiere riguardo alla Cadillac .
«Ai bianchi gli gira le scatole quando ci tocca qualcosa di buono, - mi disse ridendo, - certo
gli ho detto che mi sarei comprato una Cadillac, apposta per farli crepare d'invidia!» Poi Fred
mi disse di fare attenzione perché lui sarebbe stato molto occupato ed io non dovevo mettermi
tra i piedi. Per parte sua, avrebbe fatto tutto il possibile per mettermi in condizione di prendere
il suo posto al prossimo ballo, un paio di giorni più tardi .
Mentre Freddie si dava daffare a sistemare il cavalletto mi diceva: «Arriva presto... metti gli
stracci e le spazzole vicino al cavalletto... le bottiglie di polish, la cera da scarpe, e le spazzole
per il camoscio qui... ogni cosa al suo posto perché quando ti fanno fretta non devi sprecare un
solo movimento...» Imparai che mentre si lustravano le scarpe si doveva anche tener d'occhio i
clienti che uscivano dagli orinatoi. Bisognava precipitarsi a offrir loro un piccolo asciugamano
bianco. «Ci sono parecchi tipi che non hanno nessuna intenzione di lavarsi le mani e quando si
vedono davanti uno che gli dà un asciugamano restano imbarazzati. Gli asciugamani sono la tua
merce migliore: paghi un cent a pezzo per farli lavare e ti dànno sempre una mancia di almeno
cinque cents» .
A quelli che si facevano lustrare le scarpe e a tutti gli altri clienti che, prima di abbandonare gli
orinatoi, prendevano un asciugamano, si davano un paio di colpi di spazzola. «Per una mancia
di cinque o dieci cents, dàgli un paio di colpetti, disse Freddie, - ma per venti cents comportati
un po' da zio Tom perché a quei coglioni dei bianchi piace davvero molto. Qualche volta io li
ho fatti ritornare due o tre volte durante la stessa sera» .
Dal salone sottostante cominciava a venire il suono della musica. Credo che rimasi lì come
ipnotizzato. «Hai mai visto un ballo in grande stile? - mi chiese Freddie. - Corri e vallo a
vedere per un po'» .
Sotto le luci rosee c'erano già alcune coppie che ballavano, ma ciò che mi colpì di più era la
folla che si riversava nel salone. C'erano le più vistose donne bianche che avessi mai visto,
vecchie e giovani, con i loro uomini che compravano i biglietti alla porta e si infilavano in tasca
manciate di banconote, lasciavano al guardaroba i cappotti delle loro donne, le prendevano
sottobraccio e le guidavano dentro la sala .
Quando tornai su, Freddie era già occupato con alcuni clienti .
Tra il lavoro al cavalletto e il porgere gli asciugamani ai clienti che si dirigevano verso i
lavandini, sembrava che facesse quattro cose insieme. «Eccoti, prendi tu la spazzola, mi disse, due o tre colpettini soltanto, ma fa' in modo che li sentano» .
Quando i clienti si furono un po' diradati, mi disse «Stasera non hai visto niente. Aspetta che
arrivi una "spooks' dance" .
Vedrai i nostri come tirano!» Quando aveva un momento libero, non tralasciava di insegnarmi
tutti i trucchi del mestiere. «Le stringhe da scarpe tienile in questo cassetto qui. Siccome
cominci ora, ti lascio queste di regalo. Comprale per cinque cents al paio, e quando i clienti ne
hanno bisogno, diglielo subito e fagliele pagare venti cents» .
Mi sembrava che dove eravamo arrivassero, una dopo l'altra, tutte le melodie e i ritmi di Benny
Goodman che avevo sentito dai dischi. Durante un'altra pausa del lavoro, Freddie mi lasciò
andar giù ancora ad ascoltare. Al microfono cantava Peggy Lee .
Che bello! Veniva dal North Dakota ed era entrata da poco a far parte dell'orchestra. Come ci
dissero alcuni clienti, la moglie di Benny Goodman l'aveva scoperta mentre faceva la solista
con un gruppo di dilettanti di Chicago. Quando Peggy Lee ebbe finito la canzone, la folla
scoppiò in deliranti applausi. Ebbe un enorme successo .
«Anch'io quando capitai qui per la prima volta restai sbalordito, - mi disse Freddie ghignando,
quando fui tornato da lui, - ma stammi a sentire, hai mai lustrato le scarpe?» Quando gli dissi
di no, che non avevo mai lustrato scarpe all'infuori delle mie si mise a ridere. «Bene,
mettiamoci subito al lavoro .
Neanch'io le avevo mai lustrate quando venni qui per la prima volta». Freddie appoggiò il piede
sul cavalletto e cominciò a lustrarsi le scarpe. Spazzola, polish liquido, poi di nuovo spazzola,
cera, lustratura con lo straccio, verniciatura alla suola... passo dopo passo Freddie mi insegnò
come fare .
«Ma devi far molto più presto. Non puoi sprecare tutto questo tempo!» Freddie mi fece vedere
sulle mie scarpe qual era il ritmo che si doveva tenere. Poi, siccome c'era una lunga pausa nel
lavoro, ebbe il tempo di darmi una dimostrazione di come si fa schioccare lo straccio come un
petardo. «Capisci il trucco?» mi chiese. Ripeté l'operazione lentamente. Io mi inginocchiai e
provai sulle sue scarpe. Ormai avevo capito il sistema. «E' solo che devi andare più presto, - mi
disse Freddie. - Deve essere come un fruscio. I clienti ti dànno mance più grosse perché
pensano che tu ti stia ammazzando a strusciare!» Alla fine del ballo Freddie mi aveva già fatto
lucidare le scarpe di tre o quattro ubriachi che lui aveva convinto a lasciarsi servire e io mi ero
esercitato a raggiungere la velocità necessaria sulle scarpe di Freddie finché non erano diventate
lustre come specchi. Dopo aver aiutato gli uomini delle pulizie a spazzare il salone da ballo
buttando via carta, cicche di sigarette e bottiglie di liquore vuote, Freddie fu così gentile da
accompagnarmi a casa da Ella sulla Collina con la sua Buick marrone usata che mi disse
avrebbe cambiato con una Cadillac. Per tutta la strada mi parlò .
«Credo sia giusto dirti di tenere sempre un paio di dozzine di preservativi che pagherai a venti
cents l'uno. Hai notato alcuni dei clienti che son venuti da me verso la fine della serata? Bene,
quando hanno a portata di mano delle pollastrelle nuove, vengono a chiederti i preservativi.
Fatteli pagare un dollaro e di solito riceverai anche la mancia» .
Mi guardò intensamente: «Ci sono delle attività per le quali tu sei troppo novellino. Qualcuno
ti chiederà roba alcolica, qualcun altro le paglie, ma è meglio che tu tenga soltanto preservativi
finché non sei in grado di riconoscere un poliziotto .
«Puoi anche mettere insieme dieci o dodici dollari per ogni serata, se ci sai fare, - disse
Freddie prima che scendessi dalla macchina davanti alla casa di Ella. - Quello che devi
soprattutto ricordare è che ogni cosa nel mondo è un commercio .
Ciao Rosso» .
Quando trovai di nuovo Freddie ero giù in città, di sera. Mi capitò di vederlo, erano alcune
settimane dopo quel nostro primo incontro, mentre era seduto nella sua Cadillac grigio perla,
lustra come uno specchio. Si metteva in mostra .
«Sai che mi hai insegnato bene?» gli dissi. Lui rise: sapeva cosa intendevo. Non mi ci era
voluto molto per scoprire che Freddie aveva lustrato meno scarpe e offerto meno asciugamani
ai clienti di quanto non avesse venduto bevande alcoliche e sigarette alla marijuana o messo i
bianchi in contatto con le prostitute negre. Imparai anche che c'erano tante ragazze bianche che
frequentavano le sale da ballo negre, alcune puttane che i loro protettori portavano lì per unire
l'utile al dilettevole, altre che venivano con il loro ragazzo negro ed altre ancora che arrivavano
sole per fare le loro libere scelte tra una turba di negri entusiasti .
Alle feste da ballo dei bianchi, naturalmente, non era ammesso nessun negro ed è lì che i
magnaccia delle puttane negre mettevano subito al corrente il nuovo lustrascarpe negro che
avrebbe avuto una buona mancia se riusciva a passare un numero di telefono o un indirizzo a
tutti quei bianchi che, alla fine della serata, si mettevano a cercare delle pollastrelle negre .
La maggior parte delle serate danzanti del Roseland erano destinate ai soli bianchi e vi
suonavano solo orchestre composte di bianchi. Ma l'unica di queste che abbia mai visto suonare
durante una serata per negri fu quella di Charlie Barnet. Il fatto è che pochissime orchestre
bianche avrebbero potuto soddisfare i ballerini negri. Il caso di Charlie Barnet era diverso: i
suoi "Cherokee" e "Redskin Rhumba" spingevano quei negri alla frenesia. Affollavano la sala
da ballo fino a non potersi quasi più muovere: le ragazze portavano vistosi abiti e scarpe di seta
e satin e avevano i capelli acconciati in moltissimi modi, mentre gli uomini si pavoneggiavano
nei loro "zoot suit" [3] mettendo in mostra le più incredibili «stirature» dei capelli e tutti
facevano smorfie unti di brillantina e impregnati di odori pesanti .
Alcuni degli orchestrali venivano su alla toilette verso le otto e si facevano lustrare le scarpe
prima di andare al lavoro. Duke Ellington, Count Basie, Lionel Hampton, Cootie Williams,
Jimmie Lunceford erano solo alcuni tra quelli che vennero a sedersi sulla mia sedia da
lustrascarpe. Facevo schioccare lo straccio con un rumore che ricordava i fuochi artificiali. Il
primo sassofono di Duke, Johnny Hodges, che era l'idolo di Shorty, mi deve ancora il
pagamento di una lustratura. Una sera era seduto lì sulla mia sedia che discuteva
amichevolmente con Sonny Greer, il batterista, che stava in piedi davanti a lui, quando io gli
feci segno che era servito tamburellandogli la suola della scarpa. Hodges scese, si mise la mano
in tasca per pagarmi, ma poi la ritirò fuori per fare un gesto, dimenticandosi di me e
andandosene. Io non avrei mai osato seccare un uomo che suonava così bene "Daydream" per
chiedergli quindici cents .
Ricordo di aver avuto una piccola conversazione con Jimmie Rushing, il grande cantante di
blues dell'orchestra di Count Basie, mentre gli lustravo le scarpe. Rushing era famoso per "Sent
For You Yesterday", "Here You Come Today" e altre canzoni del genere. Ricordo i suoi piedi:
erano grandi e dalla forma strana, non lunghi come lo sono gran parte dei piedi grandi, ma
rotondi e tozzi. Comunque sia, mi presentò persino ad alcuni degli altri membri dell'orchestra
Basie come Lester Young, Harry Edison, Buddy Tate, Don Byas, Dickie Wells e Buck Clayton.
Dopo essi entravano nella stanza e si rivolgevano a me con un «Ciao, Rosso». Si mettevano a
sedere sulla mia sedia ed io facevo schioccare il mio straccio al ritmo di tutti i motivi dei loro
dischi che mi ronzavano per la testa. I musicisti non hanno mai avuto in nessuna parte del
mondo un ammiratore più grande di me al tempo in cui facevo il lustrascarpe. Scrivevo a
Wilfred, Hilda, Philbert e Reginald a Lansing cercando di descrivere tutte queste mie
esperienze .
Non ricevevo mance decenti finché non si arrivava a metà della serata, quando cioè i ballerini
cominciano a sentirsi a loro agio e diventano generosi. Dopo le serate da ballo riservate ai
bianchi, quando aiutavo a pulire il salone, capitava di buttar via forse una dozzina di bottiglie di
liquore vuote. Ma dopo le serate dei negri, si dovevano buttar via degli scatoloni pieni di
bottiglie da un litro e neanche di liquore a buon mercato, ma delle migliori marche e soprattutto
di Scotch .
Durante gli intervalli lassù nella toilette per uomini mi capitava qualche volta di trovare cinque
minuti per andare a dare un'occhiata alle danze. I bianchi ballavano come se qualcuno li avesse
addestrati - uno, due a sinistra; tre e quattro a destra - e ripetevano gli stessi passi e le stesse
figure all'infinito come se fossero stati caricati. Invece i negri - nessuno al mondo sarebbe
riuscito a mettere in coreografia il modo in cui essi esprimevano ciò che sentivano
acchiappavano le loro partner, anche le pollastrelle bianche che si trovavano in sala. I miei
fratelli negri di oggi magari mi odieranno se dico questo, ma parecchie ragazze negre erano
quasi gettate in terra e calpestate da quei maschi negri che si slanciavano disordinatamente
verso le donne bianche. Veniva da pensare che Dio avesse spodestato alcuni dei suoi angeli .
Certamente i tempi sono cambiati. Se ciò accadesse oggi, quelle stesse ragazze negre
correrebbero dietro ai loro uomini e anche alle donne bianche .
Alcune delle coppie erano così sciolte nell'improvvisare passi e movimenti e nello scivolare sul
pavimento in circoli vorticosi che quasi non si poteva credere ai propri occhi. Anche se io non
avevo mai ballato, sentivo il ritmo fin nel midollo delle ossa .
«Spettacolo!» cominciava a urlare ritmicamente il pubblico durante l'ultima ora della serata.
Allora un paio di dozzine di coppie veramente scatenate restavano sulla pista, e le ragazze si
mettevano scarpe basse da ginnastica. Ora l'orchestra suonava davvero al massimo della sua
capacità e tutti gli altri ballerini, urlando e battendo le mani, si mettevano in circolo per seguire
quella gara selvaggia che si svolgeva su circa un quarto della superficie della pista. L'orchestra,
gli spettatori e i ballerini trasformavano la Roseland Ballroom in una grande nave che rollava e
beccheggiava. Il riflettore passava dalla luce rosa a quella gialla, verde e blu, inquadrando le
coppie che ballavano il "lindy-hop" come se fossero impazzite. «Dài, forza! Dài! Forza! Dài!
Forza!» urlava la gente all'orchestra e questa ci DAVA davvero dentro, finché prima una e poi
un'altra coppia perdevano le forze e, esausti e grondanti sudore, barcollavano verso la folla
abbandonando la gara. Qualche volta andavo giù e mi mettevo in piedi vicino alla porta
saltando su e giù nel mio giacchettone grigio con la spazzola che mi faceva capolino dalla tasca.
Il manager mi veniva a urlare negli orecchi che sopra c'erano dei clienti che mi aspettavano .
Non ricordo con precisione quando cominciai a bere, quando fumai la mia prima sigaretta o
quando presi per la prima volta gli stupefacenti, ma so che erano tutte cose mescolate con il
giocare a carte, lo scommettere alla lotteria o il puntare il mio bravo dollaro tutti i giorni al
gioco clandestino sui cavalli. Tutto questo successe quando cominciai ad andare in giro la notte
con Shorty e i suoi amici. Le sue storielle sul mio vecchio aspetto di cafone ci facevano ridere
tutti. Ora so benissimo che in quel tempo ero ancora un cafone, ma ero felice perché mi si
accettava. Andavamo tutti insieme a casa di qualcuno, di solito nell'appartamento di qualche
ragazza e cominciavamo a fumare le «paglie» che ci facevano sentire la testa leggera o a bere il
whisky che ci mandava la testa in fiamme. Era implicito per tutti che dovessi tenere i capelli
ricciuti ancora per un po', finché non fossero diventati abbastanza lunghi da permettere a Shorty
di stirarmeli. Fu una di quelle sere che io osservai di aver messo da parte circa metà della
somma necessaria per comprare uno "zoot suit" .
«RISPARMIARE? - Shorty non poteva crederci. - Ma, concittadino, hai mai sentito parlare
del credito?» Mi disse che la mattina dopo, appena alzato, avrebbe chiamato un negozio di
abbigliamento e che io avrei dovuto andarci subito dopo .
Quando entrai mi venne a ricevere un giovane commesso ebreo .
«Siete l'amico di Shorty?» Io dissi di sì. Mi sorprendeva che Shorty avesse tutte quelle
conoscenze. Il commesso scrisse il mio nome sopra un modulo, vi aggiunse che lavoravo al
Roseland e l'indirizzo di Ella dove abitavo. Come garanzia scrisse il nome di Shorty. «Shorty è
uno dei nostri migliori clienti», disse il commesso .
Dopo avermi preso le misure, il commesso tolse da una fila di abiti appesi uno "zoot suit"
davvero incredibile: i pantaloni di un blu chiaro erano larghissimi al ginocchio e si
restringevano ad angolo fino alla rovescia, mentre la giacca, attillata alla vita, mi scendeva fin
sotto i ginocchi .
Il commesso mi disse che il negozio mi avrebbe regalato una cintola di pelle marrone con sulla
fibbia la lettera L, iniziale del mio cognome. Mi disse poi che dovevo comprarmi anche un
cappello e così io feci, scegliendone uno blu con la penna infilata nella fascia altissima. Il
negozio mi fece un altro regalo: una lunga catena dorata, dai grossi anelli, che ciondolavano fin
sotto l'orlo della giacca. Mi ero indebitato per sempre .
Quando mi misi lo "zoot" per farlo vedere a Ella, lei mi guardò a lungo e disse: «Be', credo che
fosse inevitabile». Mi feci fare tre di quelle fotografie da venticinque cents, color seppia, che
vengono stampate e consegnate subito. Mi misi nella posa preferita dai guappi, per «fare la
bella figura», quando indossano i loro "zoots": cappello sulle ventitré, ginocchi stretti insieme,
piedi divaricati, e tutti e due gli indici puntati verso il pavimento. Il giacchettone, la catena
ciondolante e i calzoncini all'orientale venivano messi più in evidenza se si stava in quella posa.
Firmai e spedii per via aerea una di queste fotografie ai miei fratelli e sorelle a Lansing perché
vedessero come mi trovavo bene. Un'altra la detti a Ella e la terza a Shorty che ne rimase
veramente commosso. Me ne accorsi dal modo in cui disse: «Grazie concittadino!» Faceva
parte del nostro codice di guappi non far mostra di sentimentalismi .
Ben presto Shorty decise che i miei capelli erano abbastanza lunghi per la stiratura. Mi promise
di insegnarmi a fare il miscuglio necessario a un prezzo minore dei tre o quattro dollari che
voleva il barbiere e poi avremmo stirato i miei capelli da noi .
Andai in un negozio di commestibili con un elenco di ingredienti che Shorty mi aveva scritto
in stampatello e comprai un barattolo di lisciva marca Diavolo rosso, due uova e due patate
bianche di grandezza media. Poi chiesi al droghiere che aveva il negozio vicino alla sala da
biliardo di darmi un grande barattolo di vasellina, un pezzo di sapone, un pettine fitto e uno coi
denti molto radi, un tubo di gomma con una testa di metallo per doccia, un grembiule e un paio
di guanti di gomma .
«Volete darvi la prima stiratura?» mi chiese il droghiere .
«Proprio così! » gli risposi con una smorfia di orgoglio .
Shorty pagava sei dollari la settimana per una stanza nel cadente appartamento di suo cugino.
Questi non era mai in casa .
«E' come se il buco fosse mio. Lui passa tutto il tempo dalla sua donna, - disse Shorty; - ora
guarda come faccio...» Sbucciò le patate e le tagliò fini fini in un vaso di vetro di quelli per
conservare le frutta, poi cominciò a rimestarle con un cucchiaio di legno mentre versava
lentamente più di metà del barattolo di lisciva. «Non adoprare mai un cucchiaio di metallo,- mi
disse, - la lisciva lo fa diventare nero» .
Dal miscuglio della lisciva con le patate venne fuori una massa gelatinosa, simile all'amido, e
Shorty vi aggiunse due uova cominciando a sbattere velocemente. Teneva i suoi capelli stirati e
il viso nero vicinissimi al vaso; il miscuglio cominciò a diventare di un colore giallastro. «Metti
una mano qui», disse Shorty. Io appoggiai la mano sulla parete esterna del vaso, ma dovetti
ritrarla subito. «Proprio così, è bollente, è l'azione della lisciva, - disse Shorty; - ora capisci
perché ti brucerà quando ti ci pettinerò. Brucia parecchio, ma più puoi sopportarlo e più lisci ti
diventano i capelli» .
Mi fece sedere e mi legò i lacci del grembiule di gomma strettamente intorno al collo, poi
pettinò quel mio cespuglio di capelli. Prese una manata di vasellina e me la sparse sui capelli e
sulla cute massaggiando con forza. Mi coprì con uno spesso strato di vasellina anche il collo,
gli orecchi e la fronte. «Quando arriverò a lavarti la testa, assicurati di sapermi dire con
precisione se senti delle punture da qualche parte, - mi ammonì Shorty mentre si lavava le
mani, infilava i guanti di gomma e stringeva i lacci del suo grembiule. - Non devi mai
dimenticare che anche una piccola quantità di questo miscuglio che ti resti nella cute può
provocare una piaga» .
Quando Shorty cominciò a spargermelo col pettine sulla cute, il miscuglio mi sembrò appena
tiepido, ma ben presto mi parve che la testa mi prendesse fuoco .
Strinsi i denti e mi aggrappai con tale violenza a due lati del tavolo di cucina da dare
l'impressione che volessi farli coincidere. Quando mi passava il pettine tra i capelli era come se
mi strappasse la pelle brano a brano .
Mi vennero le lacrime agli occhi e mi cominciò a gocciolare il naso. Non ce la facevo più a
sopportare il dolore e brancolavo verso il lavandino. Maledicevo Shorty con tutte le parolacce
che mi venivano in mente quando lui cominciò ad azionare la doccia e a insaponarmi la testa .
Mi insaponò e risciacquò forse dieci o dodici volte, ogni volta regolando il flusso dell'acqua
calda fino a risciacquarmi con quella fredda. Ciò mi fu di un certo sollievo .
«Non senti pungere in nessun punto?» «No», riuscii a dire. Mi tremavano le ginocchia .
«Appoggiati pure alla spalliera della seggiola. Credo che per oggi sia andata bene» .
Le fiamme ritornarono quando Shorty cominciò ad asciugarmi la testa con un asciugamano
molto spesso, sfregandomi con forza i capelli e la cute. «PIANO, accidenti! PIANO»,
continuavo a gridare .
«La prima volta è sempre la peggiore. Dopo un po' ci si abitua .
L'hai assorbito davvero bene, concittadino. Ti è venuta una bella stiratura» .
Quando Shorty mi permise di alzarmi e guardarmi allo specchio, vidi che i miei capelli erano
ridotti a un groviglio di stringhe che pendevano da tutte le parti. La cute mi bruciava, ma non
così tanto come prima: ora potevo sopportare quel bruciore. Lui mi mise l'asciugamano intorno
alle spalle sopra il grembiule di gomma e di nuovo cominciò a cospargermi i capelli di vasellina
.
Sentivo che mi pettinava con un deciso andamento all'indietro, prima col pettine dai denti radi
e poi con quello fitto .
Successivamente adoprò il rasoio, con grande delicatezza, per radermi la nuca e, per ultimo,
pareggiò le basette .
Quando mi guardai nello specchio ebbi come una specie di ricompensa per tutte quelle
sofferenze. Avevo visto parecchie stirature ben riuscite, ma l'effetto è sconvolgente quando,
dopo un'intera vita con i capelli ricciuti, se ne vede per la prima volta l'effetto sulla PROPRIA
testa .
Nello specchio vedevo Shorty dietro di me. Tutti e due eravamo sudati e facevamo delle
smorfie. In cima alla testa mi vedevo dei capelli fitti, morbidi e lucenti di un color rosso, lisci
come quelli di qualsiasi uomo bianco .
Com'ero ridicolo! Ero abbastanza stupido da star lì ritto, perduto nell'ammirazione dei miei
capelli che avevano l'aspetto di quelli dei bianchi, lì riflesso nello specchio della stanza di
Shorty. Promisi a me stesso che non sarei mai rimasto senza la stiratura e infatti, per molti anni,
mantenni quella promessa .
Quello fu davvero il primo grande passo che feci verso l'autodegradazione: sopportai tutto quel
dolore, bruciandomi letteralmente la carne con la lisciva per poter far diventare lisci i miei
capelli in modo che sembrassero come quelli dei bianchi. Ero entrato anch'io a far parte di
quella moltitudine di uomini e donne che, in America, sono spinti con ogni mezzo a credere che
i negri sono inferiori e i bianchi superiori, fino al punto di mutilare e distorcere i loro corpi nel
tentativo di sembrare «graziosi» secondo i criteri di giudizio dei bianchi .
Guardatevi d'intorno anche oggi, in ogni cittadina e in ogni metropoli, dalle tavole calde da
quattro soldi ai saloni «integrati» del Waldorf-Astoria, e vedrete negri con i capelli stirati e
donne negre che portano parrucche verdi, rosa, viola, rosse e biondo platino. Essi sono più
ridicoli dei comici delle torte in faccia e tutto ciò fa venir voglia di domandarsi se il negro ha
perduto completamente il senso della sua identità, della consapevolezza di sé .
Se ci fate caso, vedrete che molti negri della cosiddetta classe media superiore e, anche se
citare questi mi fa molto dispiacere, troppi di coloro che operano nel mondo dello spettacolo, si
stirano i capelli. Una delle ragioni per cui ho particolarmente ammirato alcuni di questi ultimi,
come tra gli altri Lionel Hampton e Sidney Poitier, è che hanno mantenuto il loro aspetto
naturale e sono riusciti ad arrivare al culmine della fama. Ammiro tutti quei negri che non si
sono mai fatti stirare i capelli o che hanno avuto il buon senso, come feci io a un certo punto, di
smettere .
Non so se questo processo di autodeturpazione faccia più vergogna ai negri delle cosiddette
classe media e classe media superiore che dovrebbero avere maggior giudizio, oppure ai più
poveri, oppressi, ignoranti, quegli abitanti dei ghetti che guadagnano il minimo vitale, come ero
io quando mi stirai per la prima volta i capelli. Generalmente è tra questi poveri illusi che si
vedono uomini con un fazzoletto nero in testa, come la réclame delle frittelle Aunt Jemima:
cercano di far durare la stiratura di più e quindi di andar meno dal parrucchiere. E' solo nelle
grandi occasioni che la stiratura protetta dal fazzoletto viene mostrata, quando chi se l'è fatta
vuol darsi arie di «dritto» e di «guappo». Il colmo dell'ironia è che non ho mai sentito una
donna, bianca o negra, esprimere ammirazione per un negro con i capelli stirati. E' naturale che
una donna bianca che va con un negro non pensi ai suoi capelli, ma non riesco a capire come
possa fare una negra con un minimo di orgoglio per la sua razza a passeggiare per la strada
accanto a un uomo con i capelli stirati, che sono il simbolo della sua vergogna di essere negro .
Quando dico queste cose mi riferisco in primo luogo a me stesso, alla mia vergogna, perché
non credo ci sia mai stato un altro negro che si è sottoposto a quel processo con maggior
diligenza di quanto feci io. Parlo per esperienza personale quando dico che se tutti i negri che si
stirano i capelli e tutte le negre che portano parrucche per sembrare bianche coltivassero il loro
intelletto solo con metà della cura che dedicano ai capelli, sarebbero persone mille volte
migliori .
NOTE .
NOTA 1: La notte del 5 marzo 1770 a Boston, durante un violento scontro tra la folla e i
soldati di un reggimento britannico di linea, tre dimostranti furono uccisi e molti altri feriti. Tra
i caduti ci fu appunto Crispus Attucks, un mulatto fuggito da una piantagione del Sud e
arruolatosi come marinaio .
NOTA 2: Bassotto .
NOTA 3: "Zoot suit", termine dello slang, divenuto di uso corrente durante gli anni '30. Di
origine incerta, designa un abito con la giacca fino al ginocchio, le spalle esageratamente
imbottite, le tasche tagliate in diagonale, i pantaloni con la vita fin quasi sotto le ascelle,
larghissimi al ginocchio e stretti alle rovesce .
Il termine è usato per descrivere qualsiasi abito vistoso, stravagante, anche se non in senso
dispregiativo .
Capitolo quarto .
LAURA .
Shorty mi portava in diversi posti pieni di puttanelle e di guappi, dove con le luci abbassate e
la musica del jukebox al minimo, tutti si caricavano di droga oltre il limite per poi raggiungere
uno stato di frenesia e di esaltazione. Incontrai pollastrelle gradevoli e frizzanti come il vino di
maggio e tipi di guappi ai quali non faceva impressione più niente .
Come centinaia di migliaia di negri cresciuti in campagna e poi emigrati prima di me in un
ghetto del Nord, e come tutti gli altri che sono venuti su dopo, anch'io mi adornavo di tutti gli
altri orpelli di moda nel ghetto, lo "zoot suit" e la stiratura dei capelli di cui ho parlato prima,
l'alcool, le sigarette e infine le paglie alla marijuana. Erano questi i mezzi di cui mi servivo per
cancellare il mio passato imbarazzante. Tuttavia ero ancora oppresso da una segreta
umiliazione: non sapevo ballare .
Non ricordo esattamente quando imparai, cioè non mi ricordo la data specifica, ma il ballo era
l'attività culminante di quelle orge, di quei "pad parties" e quindi non ho dubbi sul come e il
perché ebbe luogo la mia iniziazione al "lindy-hop". Quando l'alcool o la marijuana mi
rendevano la testa leggera e quella musica così eccitante gemeva con tanta sonorità
dall'altoparlante di un giradischi portatile, non ci voleva molto perché il senso del ritmo, così
istintivo per noi di discendenza africana, si scatenasse. Tutto quello che ricordo è che, durante
una di queste feste, quando quasi tutti stavano ballando, io che me ne stavo seduto da una parte
fui afferrato da una ragazza: erano loro spesso a prendere l'iniziativa e a scegliersi il partner
perché nessuna ragazza avrebbe mai pensato che chi andava a feste di quel genere non sapesse
ballare. Fu così che mi ritrovai sulla pista .
Ero in mezzo alla folla delle coppie che si agitavano furiosamente al ritmo della musica quando
d'improvviso seppi come si faceva. Fu come se improvvisamente qualcuno avesse acceso una
luce. I miei istinti africani per tanto tempo repressi esplosero e si scatenarono con tutta la loro
violenza .
Forse perché ero stato tanto tempo in mezzo ai bianchi a Mason, avevo sempre creduto e
temuto che ballare richiedesse un certo ordine o un insieme di passi e figure specifiche, così
come il ballo è concepito dai bianchi. Ma qui tra la mia gente molto meno inibita di quelli, mi
accorsi che si trattava semplicemente di lasciare che i piedi, le mani e tutto il corpo si
abbandonassero spontaneamente a quegli impulsi che la musica stimolava .
Da allora non ci fu una sola festa senza che ci andassi anch'io, magari invitandomi da solo se
non potevo fare altrimenti, e in cui non ballassi freneticamente dal principio alla fine .
Avevo sempre imparato rapidamente nuove cose e anche in questo caso mi rifeci del tempo
perso così alla svelta che le ragazze facevano a gara per ballare con me. Le facevo faticare
parecchio ed è per questo che piacevo loro così tanto .
Quando lavoravo, su nella toilette per uomini al Roseland, non potevo star fermo. Facevo
schioccare lo straccio al ritmo delle grandi orchestre che scuotevano la sala da ballo.
Specialmente i clienti bianchi ridevano nel vedere che, ad un tratto, mentre lustravo loro le
scarpe, i miei piedi si mettevano in movimento da soli e accennavano alcuni passi. I bianchi
hanno ragione di credere che i negri siano dei ballerini nati. Lo sono anche i bambini, fatta
eccezione per quei negri di oggi che sono così «integrati», come lo ero stato io, che i loro istinti
sono inibiti. Avete mai visto quei fantocci meccanici che si caricano e ballano? Io ero come uno
di quelli, con la differenza che ero vivo: la musica mi dava la carica .
Quando annunciai al direttore del Roseland la mia intenzione di licenziarmi era la vigilia di un
gran ballo negro con l'orchestra di Lionel Hampton .
Ella, dopo aver sentito da me le ragioni per cui avevo lasciato il posto, rise fragorosamente. Le
dissi che non riuscivo a trovare il tempo per lustrare le scarpe e insieme ballare. Ne fu felice
perché non le era mai piaciuta l'idea che io avessi un lavoro di così poco prestigio. Quando lo
dissi a Shorty, lui mi rispose che sapeva benissimo che un giorno o l'altro quel lavoro non
sarebbe stato più adatto per me .
Il mio amico ballava bene ma per certi suoi motivi particolari non si era mai preoccupato di
frequentare le grandi feste da ballo. Gli piaceva soltanto l'aspetto musicale di esse. Lui si
esercitava al sassofono e ascoltava i dischi e mi sorprendeva il fatto che non gli importasse di
andare ad ascoltare le grandi orchestre. Il suo idolo era Johnny Hodges, il sassofono tenore
dell'orchestra di Duke Ellington, ma diceva che troppi dei giovani musicisti non facevano altro
che copiare pedissequamente i grandi solisti delle maggiori orchestre. In ogni caso, Shorty non
si applicava seriamente a nessun'altra cosa più che alla musica e pensava continuamente al
giorno in cui avrebbe potuto metter su la sua orchestrina e suonare nei vari locali di Boston .
La mattina dopo che mi fui licenziato dal Roseland andai di buon'ora al solito negozio di
abbigliamento. Il commesso dette una scorsa alla mia scheda e vide che avevo saltato solamente
una rata settimanale: ero classificato tra i migliori clienti .
Gli dissi che avevo appena lasciato il lavoro ma lui mi rispose che non importava: potevo
saltare un paio di rate se ne avevo la necessità. Lui sapeva che avrei fatto fede ai miei impegni .
Questa volta considerai con estrema attenzione tutti gli abiti della mia misura e, alla fine, scelsi
il mio secondo "zoot suit". Era di un grigio pescecane, con un giacchettone lungo e i calzoni a
sbuffo al punto dei ginocchi che poi si restringevano fino alle rovesce diventando così stretti
che per levarmeli e mettermeli dovevo prima togliermi le scarpe. Dietro le insistenze del
commesso, mi comprai un'altra camicia, un cappello e un paio di scarpe del modello che stava
diventando di gran moda tra i guappi: colore arancione scuro con le suole finissime e la punta
arrotondata a cupoletta. Il conto fu di settanta o ottanta dollari .
Era questa una giornata di tale euforia che andai per la prima volta a farmi fare la stiratura dal
barbiere. Come Shorty aveva previsto, questa volta non sentii molto dolore .
Quella sera stessa, calcolai in modo da arrivare al Roseland nel momento in cui c'era il
massimo afflusso di pubblico .
Nell'ingresso pieno zeppo vidi che alcuni dei veri guappi di Roxbury guardavano con interesse
il mio vestito mentre alcune belle donne mi facevano l'occhietto. Andai su alla toilette per
uomini a bere un paio di sorsate dalla bottiglia di whisky che portavo nella tasca interna della
giacca. Il mio successore era là: un povero diavolo tutto spaventato, con una faccia lunga, la
pelle marrone e un aspetto da affamato. Era appena arrivato da Kansas City e quando mi
riconobbe non poté trattenere l'ammirazione e la meraviglia. Io gli dissi di tenere gli occhi
aperti che presto avrebbe capito come andavano le cose. Tutto procedeva bene quando scesi giù
nel salone da ballo .
L'orchestra di Hamp stava suonando e la pista enorme e tirata a cera era strapiena di gente che
ballava freneticamente. Io acchiappai una ragazza che non avevo mai vista e un momento dopo
stavamo ballando e facendoci le smorfie uno con l'altro. Non avrei potuto esser più contento .
Fino ad allora avevo ballato il "lindy-hop" nei salotti di piccolissimi appartamenti e ora mi
trovavo con tanto spazio per muovermi. Non appena mi fui riscaldato e sciolto, cominciai a
scegliere le mie partner tra le centinaia di ragazze non accompagnate che sedevano intorno alla
sala. Quasi tutte ballavano benissimo e io avevo quasi perso la testa. L'orchestra di Hamp
gemeva in modo assordante e io facevo girare su se stesse le ragazze così velocemente che le
loro gonne schioccavano. C'erano ragazze dalla pelle molto nera, marrone, giallastra e persino
un paio di bianche. Io le facevo volare intorno ai miei fianchi, sopra le mie spalle, nell'aria.
Sebbene non avessi ancora sedici anni ero alto e ben proporzionato e ne dimostravo ventuno:
ero anche molto forte per la mia età .
Facendo dei circoli concentrici, il tip-tap, «l'aquila» ad ali spiegate, il «canguro» e la «spaccata»
le riprendevo quando venivano giù .
Dopo quella volta, per tutto il tempo che rimasi a Boston non lasciai passare una sola serata di
"lindy-hop" al Roseland senza esser presente .
La migliore partner che, tutto considerato, ebbi mai per quel genere di ballo fu una ragazza di
nome Laura. La conobbi al posto di lavoro che trovai dopo quello di lustrascarpe. Quando mi
licenziai, Ella fu così contenta da mettersi lei stessa a cercarmi un lavoro, qualcosa che sarebbe
stato di suo gradimento. Appena due isolati dalla sua casa il negozio di drogheria Townsend
stava per sostituire il suo barista che doveva andare al college .
Quando Ella me lo disse, l'idea non mi piacque. Lei sapeva che non potevo sopportare quei tipi
che si trovavano sulla Collina, ma se avessi espresso con chiarezza la mia opinione l'avrei fatta
arrabbiare. Per evitare ciò, mi misi la giacca bianca e cominciai a servire frappé, gelati con
soda, "banana split" e tutte le altre bevande e specialità di gelateria che il negozio offriva a quei
negri boriosi .
Tutte le sere alle otto quando tornavo a casa Ella mi diceva: «Spero che qui a Roxbury
conoscerai qualcuno di quei bravi giovani della tua età». Ma quegli spiantati che venivano
dentro dandosi arie da milionari, sia i giovani che i vecchi, mi annoiavano e basta. Gente come
la cameriera a tutto servizio di certi bianchi che abitavano a Beacon Hill che entrava nel locale
con i suoi modi da snob («ooh, my deah») e ordinava callifughi in quel negozio di proprietà di
un ebreo. Veniva poi una donna che faceva la cameriera sguattera nel "self-service"
dell'ospedale. Nel giorno di permesso si sedeva lì con una pelliccetta di gatto intorno al collo
per dire al proprietario che faceva la dietista, e tutti e due sapevano benissimo che era una
bugia. Anche i giovani della mia età di cui parlava tanto Ella erano della stessa specie. La "soda
fountain" era uno dei loro posti di ritrovo e ben presto mi avevano tanto disgustato che avevo
deciso di lasciare quel lavoro. Parlavano con un accento così artefatto che se uno li avesse
sentiti senza vederli non si sarebbe mai immaginato che fossero negri. Non mi passavano mai le
ore fino alle otto di sera quando tornavo a casa per mangiare i deliziosi piatti di Ella; poi mi
mettevo il mio "zoot suit" e me ne andavo in città a casa di certi amici a ballare il "lindy-hop" e
a ubriacarmi, o a fare qualche altra cosa per rimettermi dal disgusto che mi davano quei buffoni
della Collina .
Non era passato molto tempo da quando avevo cominciato quel lavoro che già non riuscivo a
star lì otto ore al giorno. Mi ricordo che una sera quasi mi licenziai perché avevo vinto alla
lotteria con una puntata da dieci cents - era la prima volta che vincevo - su di una
combinazione di numeri che avevo fatto in negozio. (Sissignore, sulla Collina c'erano parecchi
galoppini che accettavano le scommesse e anche i negri più rispettabili facevano le loro brave
puntate). Vinsi sessanta dollari e insieme a Shorty feci una bella bevuta per festeggiare
l'avvenimento. Avrei preferito vincere con la puntata quotidiana di un dollaro che facevo
sempre con il solito uomo al quale pagavo le giocate ogni settimana. Allora sì che mi sarei
licenziato! Mi sarei potuto anche comprare una macchina .
Laura abitava al di là della strada, in una casa posta in diagonale rispetto al negozio di
drogheria. Dopo un po' di tempo, appena la vedevo entrare cominciavo a prepararle un "banana
split". Ne andava pazza e tutti i pomeriggi, dopo la scuola, veniva a prenderne uno. Credo di
averle messo sotto il naso quel gelato per quattro o cinque settimane prima che mi riuscisse di
scoprire che era diversa dalle altre ragazze. Era certamente l'unica ragazza della Collina che
veniva là e si comportava in modo spontaneo e amichevole .
Portava sempre qualche libro sotto il braccio e si metteva a leggere mentre mangiava il suo
"banana split" quotidiano. Tante volte ci metteva mezz'ora per finirlo. Cominciai a curiosare per
vedere che genere di libri leggeva. Era quasi tutta roba pesante, testi scolastici di latino, di
algebra o cose del genere. Quando la guardavo pensavo che da quando avevo lasciato Mason
non avevo letto più neanche il giornale .
LAURA: sentii che la chiamavano così alcuni altri giovani che erano entrati quando lei era già
seduta al banco. Notai però che non la conoscevano bene: tutto quello che le dissero fu un
generico «Salve». Si teneva piuttosto sulle sue e a me non disse mai più di un «grazie». Aveva
una bella voce, soave e ben modulata. Mai un'altra parola. Però non si dava delle arie come gli
altri, come i negri di Boston. Era se stessa .
A me piaceva molto questo suo modo di comportarsi e dopo un po' riuscii ad attaccare
discorso. Non ricordo su quale argomento, ma lei subito si aprì e cominciò a parlare in modo
del tutto amichevole. Scoprii che faceva il penultimo anno della scuola secondaria e che era tra
i primi della classe. I suoi genitori si erano divisi quando lei era ancora bambina ed era stata
allevata dalla nonna, una vecchia signora che viveva di una modesta pensione e che era molto
severa e religiosa. Laura aveva soltanto un'amica intima, una ragazza che abitava a Cambridge
e che era stata sua compagna di scuola. Si parlavano al telefono tutti i giorni. La nonna le
permetteva solo raramente di andare al cinema, per non dire degli appuntamenti con i ragazzi .
Ma a Laura la scuola piaceva davvero. Diceva che voleva andare all'università. Aveva
disposizione per l'algebra e voleva fare studi scientifici. Non credo che avrebbe mai
immaginato che aveva un anno più di me. Me ne accorsi solo indirettamente: lei mi considerava
come uno che aveva un'immensa esperienza, molto più grande della sua, il che era poi la verità.
Qualche volta, quando se ne andava, io restavo molto depresso pensando come avevo voltato le
spalle ai libri che mi piacevano tanto quando ero ancora nel Michigan .
Ero arrivato al punto che aspettavo con impazienza il suo arrivo ogni giorno, dopo la scuola.
Feci in modo che non pagasse più e le davo anche del gelato extra. Lei, da parte sua, non
nascondeva che io le piacevo .
Dopo un po' di tempo smise di leggere i suoi libri quando veniva nel negozio: si sedeva,
mangiava e parlava con me. Ben presto cominciò a cercare di farmi parlare di me. Fui subito
pentito quando una volta mi lasciai sfuggire di aver pensato di fare l'avvocato. Lei non voleva
abbandonare l'argomento. «Malcolm, non c'è nessuna ragione che tu non possa riprendere da
dove hai lasciato e diventare avvocato». Pensava che mia sorella Ella mi avrebbe aiutato in tutto
quello che avrebbe potuto e che se avesse deciso che dipendeva da lei aiutare un membro della
famiglia Little a farsi una posizione o come insegnante o come callista o qualsiasi altra cosa,
sarebbe stato necessario addirittura legarla per impedirle di mettersi a lavare i panni per
finanziare un simile progetto .
Non parlai mai di Laura a Shorty. Sapevo che lei non lo avrebbe mai capito, né che avrebbe
mai potuto stabilire un rapporto con il suo gruppo. La cosa era reciproca. Lei non era mai stata
toccata, ne sono sicuro, né aveva mai bevuto un bicchiere di alcool e non sapeva neppure cosa
fosse una sigaretta alla marijuana .
Fu con grande sorpresa che, un pomeriggio, sentii che Laura mi disse che il "lindy-hop" «le
piaceva da morire». Le chiesi come aveva potuto trovare il modo di andare a ballare e lei mi
rispose che aveva imparato quel ballo la prima volta a una festa data dai genitori di un amico
negro che era stato ammesso ad Harvard .
Era quasi l'ora di chiudere e io le dissi che quel weekend Count Basie suonava al Roseland. Le
sarebbe piaciuto andarlo a sentire? Laura rimase lì con gli occhi spalancati. Credetti di doverla
sostenere tanto era agitata. Disse che non era mai stata là, ma che ne aveva sentito parlare così
tanto da immaginarsi com'era, che avrebbe dato qualunque cosa per venire, ma che sua nonna
sarebbe stata presa da un attacco .
Allora io le dissi che forse si sarebbe potuti andare un'altra volta, ma il pomeriggio prima del
ballo Laura entrò nel negozio tutta eccitata. Mi bisbigliò che non aveva mai mentito prima a sua
nonna, ma che questa volta le aveva detto che doveva partecipare a una cerimonia scolastica
quel pomeriggio. Sarebbe venuta con me se l'avessi riportata a casa presto, ammesso che fossi
stato sempre dell'opinione di portarla a ballare .
Le dissi che mi sarei dovuto fermare a casa a cambiarmi. Lei esitò ma poi disse che andava
bene. Prima di mettersi in moto, telefonai a Ella per dirle che avrei portato a casa una ragazza
prima di andare a ballare. Sebbene io non avessi mai fatto una cosa del genere, Ella simulò la
sua sorpresa .
Per molto tempo dopo risi fra me e me tutte le volte che pensavo alla scena: Ella con la bocca
aperta dalla meraviglia quando io apparvi sulla porta insieme con una ben educata ragazza della
Collina. Laura, quando la presentai, si mostrò sincera e cordiale e quanto a Ella sembrava che
stesse lì per acchiappare il suo terzo marito .
Mentre loro chiacchieravano giù in salotto, io andai a vestirmi nella mia camera. Ricordo di
aver cambiato idea circa il mio vestito color grigio pescecane. Decisi invece di mettermi il
primo che avevo comprato, quello blu. Sapevo di dover indossare l'abito meno vistoso che
avevo .
Quando scesi, Laura e Ella sembravano due vecchie amiche. Ella aveva persino preparato il tè
e il suo occhio di falco mi guardò come per strapparmi di dosso lo "zoot suit" con un rastrello .
Comunque sono certo che fu contenta che, almeno, mi ero messo quello blu. Conoscendo Ella
immaginai subito che si fosse fatta dire da Laura l'intera storia della sua vita e che già sentisse il
suono delle campane nuziali. Mentre eravamo in taxi diretti al Roseland, io ghignavo
soddisfatto tra me e me perché avevo fatto vedere a Ella che, se volevo, sapevo anch'io trovarmi
una delle ragazze della Collina .
Laura aveva occhi grandissimi. Mi disse che quasi nessuno dei suoi conoscenti aveva
conosciuto la nonna, la quale non andava in nessun posto tranne che in chiesa e che perciò non
c'era pericolo che lo venisse a sapere. L'unica persona a cui l'aveva detto era la sua amica che
aveva diviso con lei il suo entusiasmo .
Entrammo nell'atrio del Roseland. Da tutte le parti la gente mi faceva cenni, sorrisi e mi
salutava. Alcuni dicevano ad alta voce: «Amico!» e «Ciao, Rosso!», io rispondevo: «Daddy-o»
.
Non avevamo mai ballato insieme, ma non fu davvero un problema .
Due persone che sanno ballare il "lindy-hop" separatamente, lo sanno ballare anche insieme.
Noi cominciammo lì sulla pista tra tante altre coppie .
Dovemmo arrivare forse a metà del primo ballo prima che mi rendessi veramente conto di
come lei ballava .
Se conoscete il "lindy-hop", allora capite cosa sto dicendo. Con quasi tutte le ragazze si balla di
fronte, muovendosi in circolo, facendo passi laterali e guidando. Sia che il cavaliere guidi con
un braccio o con l'altro, a metà piegato, le mani debbono dare quella strappatina, quella piccola
spinta, toccando ora la vita, ora le spalle, ora le braccia della partner. Essa viene avanti, va
indietro, si gira, fa le piroette a seconda di come la guida il cavaliere. Quando si balla con delle
partner scadenti si sente tutto il loro peso. Sono lente e grevi. Ma con delle ottime ballerine
basta solo un accenno, una tiratina, una lieve pressione della mano. Si lasciano guidare quasi
senza sforzo, anche quando devono sollevare i piedi dal pavimento e slanciarsi in aria e la
piccola figurazione del cavaliere viene fatta prima che la partner ricada giù nelle braccia di lui e
poi facendo una vorticosa piroetta, tutto questo senza perdere il ritmo .
Io avevo ballato con molte ottime partner, ma la cosa che improvvisamente mi stupì di Laura
fu di accorgermi che mai prima avevo sentito così poco peso! Bastava che pensassi a una nuova
figura e lei subito rispondeva .
Ballava muovendosi rapidamente verso di me, poi distaccandosi, passandomi sotto il braccio,
descrivendo un semicerchio rapidissimo intorno a me ed io guardavo ammirato il suo stile, il
modo leggero e velocissimo in cui muoveva i piedi. Anche ora se chiudo gli occhi vedo quella
scena, come un'immagine sfumata di balletto... Bellissimo! Era leggera come un'ombra. Se
qualcuno me l'avesse chiesto, avrei detto che la partner perfetta era per me quella che seguiva
con la stessa leggerezza di Laura e che, nel medesimo tempo, aveva la forza di durare per tutta
una serata. Tuttavia sapevo che Laura non avrebbe avuto tale forza .
Alcuni anni dopo, a Harlem, un mio amico chiamato Sammy il magnaccia mi insegnò qualcosa
che sarebbe stato bene avessi saputo allora per poter scrutare la luce segreta del volto di Laura.
Si trattava di un infallibile sistema, come diceva Sammy, per determinare la «vera personalità
inconscia» delle donne .
Dato il numero di ragazze che aveva conosciuto alle feste da ballo e poi spinto alla
prostituzione, Sammy si dichiarava un esperto. Giurava che se una donna, qualunque donna, si
lascia veramente trasportare dal ballo, quello che essa è veramente almeno in potenza apparirà con chiarezza sul suo volto .
Non dico qui che sul volto di Laura apparve l'espressione di una donna di facili costumi,
sebbene la vita le riservasse durissimi colpi, che cominciarono a cadere su di lei dopo avermi
conosciuto. Quello che dico è che se avessi avuto allora l'abilità di Sammy sarei stato in grado
di cogliere certe tendenze potenziali di Laura destinate poi ad attualizzarsi, che avrebbero
veramente scioccato sua nonna .
Un terzo circa della serata era dedicato agli a solo degli strumenti e ai vari pezzi di bravura
dell'orchestra e poi veniva il momento dello show, quando soltanto i più grandi ballerini di
"lindy-hop" rimanevano sulla pista e cercavano di eliminarsi a vicenda. Tutti gli altri si
disponevano intorno e formavano una gigantesca U con l'orchestra all'inizio dei due bracci .
Le ragazze che volevano partecipare alla gara andavano da parte e cambiavano le scarpe con i
tacchi alti con quelle basse da ginnastica. Con i tacchi non avrebbero mai potuto sopravvivere
alla prova. Tra di loro ce n'erano sempre quattro o cinque senza cavaliere che giravano alla
ricerca di qualcuno che conoscevano come bravo ballerino .
Count Basie cominciò a suonare fragorosamente la musica dello show e gli altri ballerini
lasciarono la pista cercando di mettersi in una buona posizione per vedere meglio e gridando
ritmicamente per incitare i loro favoriti: «Forza ora, Rosso! mi gridavano. - Sistemali per le
feste, Rosso!» Fu allora che una ragazza con cui avevo ballato prima, Mamie Bevels, cameriera
e ballerina fanatica, mi corse incontro mentre Laura restava lì in piedi a guardarmi. Io non
sapevo bene cosa fare, ma Laura, sempre tenendo gli occhi fissi su di me, si mosse verso il
gruppo degli spettatori .
L'orchestra di Count suonava a pieno volume. Io afferrai Mamie e cominciammo a ballare. Era
una ragazzona grande e grossa, piuttosto rozza, e ballava il "lindy-hop" come un cavallo
imbizzarrito. Ricordo ancora la sera in cui si fece conoscere come una delle campionesse di
show al Roseland. L'orchestra stava suonando sui toni acuti e lei gettò via le scarpe e a piedi
nudi cominciò a gridare e a dimenarsi come se si trovasse in mezzo alla giungla africana a
ballare una danza selvaggia; poi fece qualche figura sempre urlando ad ogni passo finché il tipo
che ballava con lei fu costretto ad usare la forza per tenerla sotto controllo. Alla gente che era lì
piaceva moltissimo un modo di ballare il "lindy-hop" così incontrollato da rendere lo show
pittoresco e imprevedibile. Fu così che Mamie divenne famosa nell'ambiente .
Io la guidavo come un cavallo, come le piaceva. Quando dopo il primo ballo lasciammo la
pista, eravamo tutti e due zuppi di sudore mentre la gente urlava e ci dava grandi manate sulle
spalle .
Ricordo di aver lasciato presto il locale per poter accompagnare a casa Laura in tempo. Lei era
molto silenziosa e, durante i sette od otto giorni seguenti, non parlò molto quando veniva al
negozio. Anche allora conoscevo abbastanza bene le donne per sapere che non si deve insistere
quando pensano a qualcosa: lo dicono da sé quando arriva il momento .
Tutte le volte che vedevo Ella, anche quando mi lavavo i denti la mattina, mi sottoponeva a un
interrogatorio di terzo grado .
Quando avrei visto ancora Laura? L'avrei fatta venire a casa di nuovo? «Che brava ragazza che
è!» Ella l'aveva scelta per me .
Ma, in quel senso, non è che pensassi molto alla ragazza. Quando si trattava di questioni
personali la mia preoccupazione fondamentale era di apparire impeccabile nel mio "zoot"
appena smontavo dal lavoro e di precipitarmi in città per andare a zonzo con Shorty e gli altri
della banda e con le ragazze che loro conoscevano, mille miglia lontano dalla Collina .
Non pensavo a Laura neanche quando mi venne a trovare nel negozio per chiedermi di
accompagnarla al prossimo ballo per negri al Roseland. Era annunciata la partecipazione
dell'orchestra di Duke Ellington e lei non stava più nella pelle dall'eccitazione. Io non avevo
modo di sapere che cosa sarebbe successo .
Questa volta mi chiese di andarla a prendere a casa sua. Io non volevo avere alcun rapporto con
la vecchia nonna che lei mi aveva descritto. Tuttavia andai lo stesso. Fu la nonna che mi venne
ad aprire la porta: era una negra all'antica, dal viso rugoso e dai capelli grigi ricciuti. Mi aprì
abbastanza perché potessi passare senza neanche dirmi: «Entra, cane!» Ho avuto a che fare con
poliziotti armati e gangster meno ostili di lei .
Ricordo il salotto con l'odore di rinchiuso, tutto pieno di vecchie immagini di Cristo, di centri
con le preghiere ricamate, di statuette della crocifissione e di altri oggetti religiosi sul
caminetto, sugli scaffali, sui tavoli, sui muri, dappertutto .
Poiché la vecchia non mi rivolgeva la parola, neanch'io le dissi nulla. Ora però, naturalmente,
la giustifico in pieno. Cosa poteva pensare di me con quei capelli stirati, quel mio "zoot" e
quelle scarpe arancione? Ci avrebbe fatto un favore a tutti se si fosse precipitata urlando a
chiamare la polizia. Se oggi qualcuno venisse conciato com'ero io allora a bussare alla mia
porta e a chiedere di vedere una delle mie quattro figlie, so che perderei davvero la pazienza .
Quando Laura entrò correndo nella stanza cercando contemporaneamente di infilarsi il
cappotto, mi accorsi subito che era abbattuta, arrabbiata e imbarazzata. Nel taxi cominciò a
piangere. Si era odiata per aver mentito la volta precedente e così aveva deciso di dire la verità
su dove andava e ciò era stato causa di un gran litigio con la nonna. Laura le aveva detto che
avrebbe cominciato a uscire quando e dove voleva oppure avrebbe piantato la scuola, si sarebbe
trovata un lavoro e sarebbe andata ad abitare per conto suo. La nonna aveva avuto una
fortissima crisi e Laura era venuta via .
Quando arrivammo al Roseland, ballammo per la prima parte della serata insieme e con altri
partner. Finalmente l'orchestra di Duke scatenò il ritmo dello show .
Sapevo, e lo sapeva anche Laura, che lei non poteva misurarsi con le veterane dello show, ma
mi disse che voleva partecipare alla gara. Anche lei si tolse i tacchi alti e si mise le scarpe basse
da ginnastica. Io scossi la testa con un segno di diniego quando un paio di ragazze senza
accompagnatore si precipitarono verso di me .
Come sempre la folla batteva ritmicamente le mani e gridava a tempo con l'orchestra che
suonava a pieno volume: «Vai, Rosso, vai!» Sia per la reputazione di cui godevo che per lo stile
da balletto di Laura il riflettore ci inquadrava continuamente e noi due attiravamo l'attenzione
degli spettatori. Non avevano mai visto una ragazza ballare il "lindy-hop" così leggera come
una piuma, con uno stile così completamente diverso e quella era tutta gente che di stile se ne
intendeva. Io mi lanciai nel ballo con tutte le mie forze e i piedi di Laura sembravano volare: la
facevo volteggiare, ricadere, girare da una parte e da un'altra e in circolo, la facevo piegare
indietro e poi di nuovo su, giù, in vorticose piroette.. .
Il riflettore era quasi sempre puntato su di noi. Intravidi le altre quattro o cinque coppie, con
ragazze robuste come animali della giungla che scalciavano e caricavano. Ma la piccola Laura
mi dava l'ispirazione per spingermi a nuove altezze. Aveva i capelli tutti arruffati sul viso,
grondava di sudore e io quasi non riuscivo a credere che avesse tanta forza. La folla urlava e
batteva ritmicamente i piedi. Una nuova stella stava nascendo; intorno a noi c'era un muro di
rumore. Sentii che perdeva le forze, che continuava a ballare come un pugilatore che non si
regge più sulle gambe e insieme, barcollando, rientrammo tra il pubblico. L'orchestra
continuava a suonare a pieno volume .
Dovetti quasi trasportarla di peso: ansimava e aveva bisogno di aria fresca. Alcuni dei membri
dell'orchestra applaudirono e persino Duke Ellington si alzò a metà dal panchetto del piano
abbozzando un inchino .
Se agli spettatori di uno show andava a genio il modo di ballare di qualcuno, all'uscita c'era da
ritrovarsi schiacciati dalla folla, afferrati, stretti e percossi come i membri di una squadra che
abbia vinto il campionato. Un folto gruppo di spettatori presero in mezzo Laura e la sollevarono
da terra .
Quanto a me, mi stavano dando grandi manate sulle spalle.. .
quando incontrai gli occhi di una bella bionda... Non l'avevo mai vista tra le ragazze bianche
che frequentavano le danze dei negri al Roseland. Mi guardava con desiderio .
A quell'epoca, a Roxbury, come in qualunque ghetto negro d'America, avere una donna bianca
che non fosse una nota, volgare puttana era, almeno per il negro medio, un simbolo di status di
primissimo ordine e questa che mi stava davanti e mi guardava era quasi troppo bella per
poterci credere. Aveva i capelli lunghi che le ricadevano sulle spalle, un bel personale e
indossava abiti che a qualcuno dovevano essere costati molti soldi .
Ho vergogna a riconoscerlo, ma io mi ero quasi dimenticato di Laura quando si liberò dalla
folla e corse verso di me, con gli occhi spalancati. Credo che vide quello che c'era da vedere nel
volto di quella ragazza, e anche nel mio, quando insieme avanzammo verso la pista .
La chiamerò Sofia .
Non ballava bene, almeno secondo il criterio di giudizio dei negri. Ma cosa me ne importava?
Sentivo gli sguardi penetranti delle altre coppie intorno a noi. Parlavamo. Io le dissi che ballava
bene e le chiesi dove aveva imparato. Cercavo di sapere perché era lì. La maggior parte delle
donne bianche venivano ai balli negri per ragioni facilmente intuibili, ma di rado si vedevano
dei tipi come questa .
Mi rispose evasivamente su tutto, ma nello spazio di quel ballo, ci accordammo che avrei
portato a casa Laura presto e sarei tornato di corsa con un taxi. Lei mi domandò se più tardi mi
sarebbe piaciuto andare a fare una passeggiata in macchina insieme. Mi considerai molto
fortunato .
Riaccompagnai a casa Laura e tornai al Roseland dopo un'ora precisa. Sofia mi stava
aspettando fuori .
Cinque isolati più avanti, aveva parcheggiato la sua convertibile. Sapeva dove andare. Fuori di
Boston, girò in una strada secondaria e di lì entrò in una viuzza deserta. Poi spense tutto
all'infuori della radio .
Per parecchi mesi dopo quella sera, Sofia mi veniva a prendere in città ed io la portavo a
ballare e nei bar vicino a Roxbury .
Andavamo in macchina dappertutto. Qualche volta era quasi giorno quando mi lasciava davanti
alla casa di Ella .
Io la portavo in giro per farla vedere a tutti. I negri ne erano pazzi e sembrava che a lei
piacessero tutti i negri. Uscivamo insieme due o tre volte la settimana. Sofia ammetteva di
uscire anche con dei bianchi «solo per salvare le apparenze», diceva .
Giurava che i bianchi non potevano interessarle .
Molte volte mi domandai, senza mai arrivare a una spiegazione, perché mi aveva abbordato
con tanta spregiudicatezza sin dalla prima sera. Pensai che ciò derivasse da qualche sua
precedente esperienza con un altro negro, ma non glielo chiesi mai né lei mai me lo disse. Non
interrogate una donna sugli altri uomini della sua vita perché o vi dirà una bugia e voi resterete
nell'ignoranza o, se vi dice la verità, può darsi che poi avreste preferito non sentirla .
Comunque sembrava che avesse perso la testa per me. Vedevo Shorty molto di meno. Quando
lo incontravo insieme con gli altri amici lui borbottava: «Guarda un po', ho pettinato i riccioli di
questo mio concittadino finché gliel'ho stirati bene bene, e ora lui s'è beccata una pollastrella di
Beacon Hill». In verità, siccome si sapeva che ero stato «istruito» da Shorty, il fatto che io
avessi Sofia gli conferiva prestigio. Quando gliela presentai lei lo abbracciò come una sorella e
questo mandò Shorty in visibilio. Il meglio che aveva avuto erano state delle puttane bianche e
alcuni di quegli squallidi esemplari di operaie di fabbrica che avevano «scoperto» i negri .
Fu quando cominciai a farmi vedere in città con Sofia che il mio prestigio nell'ambiente negro
di Roxbury salì alle stelle. Fino ad allora ero stato uno dei tanti giovanotti dai capelli stirati e
dallo "zoot suit", ma ora che avevo la più bella donna bianca che fosse mai entrata in quei bar e
in quei club, ora che lei mi dava anche denaro da spendere, persino i grossi, importanti guappi e
gli altri «dritti», come i direttori di club, i giocatori d'azzardo, quelli che controllavano le
lotterie clandestine ed altri, mi battevano la mano sulla spalla, ci riservavano i migliori tavoli, ci
servivano loro stessi da bere e mi chiamavano Rosso. Naturalmente io sapevo benissimo perché
si comportavano così: avrebbero voluto prendersela loro, la mia bella donna bianca .
Nel ghetto, come nelle zone residenziali suburbane, c'è la stessa lotta per il prestigio sociale
che si manifesta nei tentativi di differenziarsi dagli altri per mezzo di qualche attributo
esteriore. Quando avevo sedici anni non possedevo i soldi per comprarmi una Cadillac, ma lei
aveva la sua ed io avevo lei, il che era anche meglio .
Per tutto il tempo che continuai a lavorare al negozio, Laura non venne più. Quando la rividi
era un rottame di donna, nota nel quartiere negro di Roxbury, sempre fuori e dentro dalle
prigioni. Aveva terminato la scuola secondaria, ma già allora aveva preso una brutta strada.
Sfidando sua nonna aveva cominciato a rientrare tardi la notte e a bere. Poi erano venuti gli
stupefacenti e aveva incominciato a prostituirsi. Finì per odiare gli uomini che la compravano e
divenne anche lesbica. Una delle vergogne che mi sono portato dietro per anni è che attribuisco
a me stesso la colpa di tutto ciò. L'averla trattata come la trattai io per una donna bianca rese il
colpo doppiamente più duro. L'unica scusa che ho è che, come molti dei miei fratelli negri di
oggi, a quel tempo io ero sordo, muto e cieco .
In ogni caso, non passò molto tempo da quando avevo conosciuto Sofia che Ella venne a
saperlo. Una mattina presto mi vide dalla finestra mentre scendevo dalla macchina di lei. Non
c'è da meravigliarsi se Ella cominciò a trattarmi come una vipera .
Fu in quel tempo che il cugino di Shorty andò finalmente ad abitare con la donna di cui era
pazzamente innamorato e Sofia mi dette i soldi per prendere metà dell'appartamento insieme
con Shorty. Ben presto mi licenziai dal negozio di drogheria e trovai un altro lavoro. Divenni
inserviente all'albergo Parker House di Boston. Portavo una giacca bianca inamidata nella sala
da pranzo, dove i camerieri mettevano i piatti e le posate sporche dei clienti in grandi vassoi di
alluminio che io poi portavo in cucina ai lavapiatti .
Alcune settimane dopo, una domenica mattina, andai al lavoro certissimo che mi avrebbero
licenziato: ero terribilmente in ritardo. Ma l'intero personale di cucina era troppo agitato e
avvilito per accorgersene: aerei giapponesi avevano appena bombardato una località chiamata
Pearl Harbor .
Capitolo quinto .
HARLEM .
«Panini al prosciutto e formaggio!... Caffè!... caramelle! dolci! gelati!» Così, un giorno sì e un
giorno no, per quattro ore, strillavo di vagone in vagone, tra Boston e New York, mentre lo
Yankee Clipper della compagnia ferroviaria New York-New Haven e Hartford sferragliava sui
binari .
Il vecchio Rountree, da lungo tempo facchino e inserviente dei vagoni letto oltre che amico di
Ella, mi aveva segnalato quel posto sulle ferrovie. Aveva detto a mia sorella che, a causa della
guerra, molti ferrovieri erano richiamati e che, se riuscivo a far credere di avere ventun anni, lui
aveva la possibilità di farmi assumere .
Ella mi voleva allontanare da Boston e da Sofia. Non avrebbe desiderato altro che vedermi tra
quei negri che già affollavano Roxbury in divisa kaki dell'esercito e con gli stivaletti militari,
per passare a casa alcuni giorni di licenza dopo il primo addestramento. Ciò non era possibile
perché avevo solo sedici anni .
Io accettai quel posto in ferrovia per ragioni mie particolari .
Era da tempo che volevo vedere New York City. Da quando ero arrivato a Roxbury avevo
sentito parlare moltissimo della «Grande Mela», come era chiamata la metropoli dai musicisti
che avevano viaggiato molto, dai marinai dei mercantili, dai commessi viaggiatori, dagli autisti
delle famiglie bianche e da varie specie di trafficanti che avevo conosciuto. Persino quand'ero
ancora a Lansing avevo sentito raccontare cos'era di favoloso New York e specialmente
Harlem. Mio padre parlava di questo ghetto negro con orgoglio e ci faceva vedere fotografie di
enormi cortei dei seguaci di Marcus Garvey. Ogni volta poi che Joe Louis vinceva un incontro
con un pugile bianco, sulla prima pagina dei giornali negri come il «Chicago Defender», il
«Pittsburgh Courier» e l'«Afro-American» venivano pubblicate fotografie di una marea di negri
di Harlem che inneggiavano esultanti mentre il «bombardiere nero» li salutava tutti con la mano
dal balcone dell'albergo Theresa di Harlem. Tutto quello che avevo sentito dire di New York
City era entusiasmante: le luci di Broadway e la grande sala da ballo del Savoy e il Teatro
Apollo di Harlem dove suonavano le migliori orchestre e dove nacquero canzoni famose, nuovi
balli e le stelle della musica negra .
Tuttavia non si poteva prendere e andare a New York da Lansing, Boston o qualsiasi altro
posto se non si avevano soldi. Perciò io non avevo mai pensato sul serio a fare quel viaggio
finché il modo gratuito di compierlo non mi si presentò sotto forma della conversazione che
Ella ebbe col vecchio Rountree, che apparteneva alla sua stessa chiesa .
Naturalmente Ella non sapeva che avrei continuato a vedere Sofia. Poteva star fuori di casa
solo alcune notti la settimana, ma quando le comunicai di aver trovato quel lavoro sul treno, mi
disse che si sarebbe liberata tutte le sere che io tornavo a Boston e ciò voleva dire un giorno sì e
un giorno no, se mi riusciva di ottenere il turno che volevo. Sofia non voleva affatto che io
accettassi però, siccome credeva che fossi già in età di leva, riteneva che quel lavoro mi avrebbe
aiutato ad evitare l'arruolamento .
Shorty era convinto che avevo avuto una gran fortuna. Si preoccupava moltissimo del fatto che
ben presto l'avrebbero richiamato. Come centinaia di giovani del ghetto negro anche lui
prendeva una certa sostanza che, si diceva, aumentava le pulsazioni cardiache e faceva credere
ai medici militari che il cuore fosse difettoso .
Shorty considerava la guerra nello stesso modo in cui la giudicavamo io e gran parte dei negri
del ghetto: «Whitey [1] è padrone di tutto. Vuole che versiamo il nostro sangue per lui? Che si
faccia la guerra da sé» .
In ogni caso, nell'ufficio personale della compagnia ferroviaria giù a Dover Street, un vecchio
impiegato bianco dai modi lenti mi rivolse la domanda cruciale quando venne il momento di
firmare il contratto di assunzione: «La vostra età, Little?» Quando gli dissi «Ventun anni», non
alzò neppure gli occhi dalle sue scartoffie. Ero sicuro di aver avuto il posto .
Mi promisero che, non appena se ne fosse liberato uno, mi avrebbero dato un posto di cuoco di
quarta classe sulla linea Boston-New York. Nel frattempo lavoravo al centro
approvvigionamento ferroviario di Dover Street a caricare le partite di generi alimentari
requisiti dalle forze armate sui treni. Sapevo benissimo che cuoco di quarta classe era un
eufemismo per dire lavapiatti, ma quella non sarebbe stata la prima volta che mi succedeva una
cosa simile e poi non me ne importava nulla fintanto che potevo viaggiare come volevo. In via
del tutto temporanea, mi misero sul treno The Colonial, che faceva servizio tra Boston e
Washington, D.C .
Il personale di cucina, sotto la direzione di un cuoco delle Indie occidentali di nome Duke
Vaughn, lavorava in locali ristrettissimi con un'efficienza quasi incredibile. Tra il frastuono
dello sferragliare del treno, i camerieri urlavano le ordinazioni dei clienti mentre i cuochi si
muovevano come macchine e una fila interminabile di pentole e piatti sporchi, bicchieri e
posate veniva rumorosamente verso di me. Durante la sosta notturna, io andavo naturalmente a
visitare il centro di Washington. Mi stupii di vedere che nella capitale della nazione, appena
pochi isolati da Capitol Hill, migliaia di negri vivevano in condizioni peggiori di quelle che
avevo visto nei quartieri più poveri di Roxbury. Qui la gente abitava in baracche col pavimento
sterrato ammucchiate lungo stradette incredibilmente coperte di sudiciume e che avevano nomi
come Vicolo del maiale o Vicolo della capra. Ne avevo viste molte di queste cose, ma mai mi
era capitato di trovare concentrato un così gran numero di vagabondi che camminavano
barcollando, venditori di stupefacenti, piccoli truffatori, venditori di biglietti delle lotterie
clandestine, e persino ragazzetti che andavano in giro di notte, mezzi nudi e a piedi scalzi a
chiedere l'elemosina. Alcuni dei cuochi e camerieri della ferrovia mi avevano avvertito di star
bene attento perché, ogni sera, tra quei negri si verificavano aggressioni, rapine e
accoltellamenti... solo pochi isolati lontano dalla Casa Bianca .
Vidi anche altri negri che stavano molto meglio e abitavano in una zona tutta piena di case di
mattoni abbastanza malandate .
Alcuni veterani del personale del treno mi avevano detto che a Washington c'erano parecchi
negri della classe media laureati alla Howard University, che lavoravano come operai, custodi,
portapacchi, guardie notturne, autisti di taxi e cose del genere. Un lavoro di postino era per i
negri di Washington un posto di grande prestigio .
Dopo alcuni viaggi a Washington, mi si presentò l'occasione quando un giorno il capo del
personale mi disse che avrei potuto temporaneamente sostituire uno del servizio ristoro sullo
Yankee Clipper per New York. Prima che scendesse un solo passeggero, mi ero già messo il
mio" zoot suit" .
I cuochi mi portarono a Harlem in taxi. Come in una sequenza cinematografica mi passò
davanti agli occhi la New York bianca e poi, tutto all'improvviso, quando lasciammo dietro di
noi l'estremità settentrionale del Central Park, alla Centodecima strada, il colore della pelle
della gente incominciò a cambiare .
Il traffico continuo della Settima Avenue passava davanti a un posto chiamato Small's
Paradise. Il personale di cucina mi aveva detto, prima che lasciassimo Boston, che quello era il
loro locale notturno preferito ad Harlem e mi avevano raccomandato di andarci. Nessun locale
negro mi aveva mai fatto tanta impressione. Intorno all'enorme bar circolare adorno di
decorazioni lussuose, c'erano trenta o quaranta negri, in gran parte uomini, che bevevano e
chiacchieravano .
Credo che la cosa che subito mi colpì fosse il loro modo di vestire e le loro maniere serie e
composte. Tutte le volte che avevo visto dieci negri di Boston bere insieme, facevano
immancabilmente un gran chiasso. Non parliamo poi di quelli di Lansing. Invece con tutti
questi negri di Harlem che bevevano e chiacchieravano, si sentiva appena un brusio sommesso.
I clienti andavano e venivano e i barman sapevano, per gran parte di essi, cosa volevano da bere
e glielo preparavano con gesti automatici .
Davanti a qualcuno veniva messa una bottiglia .
Tutti i negri che avevo conosciuto si compiacevano di far vedere i soldi che avevano in tasca,
ma questi di Harlem mettevano sul banco con gesto disinvolto una banconota senza tirarne altre
fuori di tasca. Bevevano e poi, con la massima naturalezza, facevano cenno ai barman di
versare un bicchiere a qualche amico mentre questi, con la stessa naturalezza dei clienti,
riscuotevano il denaro e restituivano il resto .
Le loro maniere sembravano del tutto naturali: nessuno si dava delle arie. Io rimasi sbalordito:
nei primi cinque minuti passati da Small's avevo abbandonato per sempre Boston e Roxbury .
Non sapevo ancora che questi non si potevano identificare con i rappresentanti medi dei negri
di Harlem. Più tardi, forse quella stessa sera, avrei scoperto che ad Harlem c'erano centinaia di
migliaia di miei confratelli che parlavano ad alta voce e si comportavano nello stesso modo
sguaiato dei negri di qualsiasi altro posto. Quelli che vidi da Small's erano la crema dei più
vecchi e maturi trafficanti di Harlem. Le giocate alla lotteria quotidiana erano chiuse, mentre i
giochi d'azzardo notturni e le altre forme di traffico non erano ancora cominciate. Gran parte di
coloro che durante il giorno lavoravano erano ancora a casa a cena. A quell'ora tutti i trafficanti
partecipavano al servizio delle sei, cioè erano nei loro bar preferiti sparsi per tutto il quartiere .
Da Small's presi un taxi e andai al teatro Apollo. Ricordo benissimo che suonava l'orchestra di
Jay MacShann perché il loro cantante, Walter Brown, quello che cantava sempre "Hooty Hooty
Blues", diventò più tardi mio ottimo amico. Di lì, sul lato opposto della Centoventicinquesima
Strada, all'angolo con la Settima Avenue, vidi il grande edificio grigio dell'albergo Theresa, che
allora era il migliore albergo di New York City dove potevano stare i negri, parecchi anni prima
che gli alberghi giù in città li accettassero. (Ora l'albergo Theresa è noto soprattutto perché vi
risiedette Fidel Castro durante il periodo in cui partecipò ai lavori dell'assemblea delle Nazioni
Unite, ottenendo una grossa vittoria psicologica sul Dipartimento di stato che gli aveva proibito
di uscire da Manhattan senza immaginare che lui sarebbe andato a stare ad Harlem suscitando
così enorme simpatia tra i negri) .
Proprio nella Centoventiseiesima Strada, vicino all'entrata del palcoscenico dell'Apollo, c'era
l'albergo Braddock. Sapevo che il suo bar era famoso come posto di ritrovo delle celebrità
negre e quando entrai vidi, allineati lungo l'affollatissimo banco, personalità famose come
Dizzy Gillespie, Billy Eckstine, Billie Holiday, Ella Fitzgerald e Dinah Washington .
Mentre Dinah Washington stava andandosene in compagnia di alcuni amici, sentii che
qualcuno diceva che la cantante era diretta al Savoy Ballroom dove quella sera si sarebbe
esibito Lionel Hampton. Lei era la cantante della sua orchestra. Quella sala da ballo, paragonata
con il Roseland di Boston, la faceva apparire piccola e di modesta categoria. Il modo di ballare
era adeguato all'eleganza e alla vastità del luogo. L'orchestra di Hampton, così preparata e
aggressiva, era all'altezza di grandi come Arnett Cobb, Illinois Jacquet, Dexter Gordon, Alvin
Hayse, Joe Newman e George Jenkins. Io feci un paio di balli con ragazze che stavano fra il
pubblico .
Forse un terzo dei tavolini che erano disposti intorno alla pista erano occupati da bianchi che
erano lì soprattutto per assistere ai balli dei negri: alcuni ballavano insieme e, come a Boston,
un certo numero di donne bianche stavano in compagnia di negri. Tutti gridavano invitando
Hamp a suonare "Flyin' Home" e alla fine egli la eseguì. (Potevo credere alla storia che avevo
sentito raccontare a Boston riguardo a questo numero. Una volta, al teatro Apollo, mentre
Hamp suonava "Flyin' Home", un negro che stava fumando una sigaretta alla marijuana, aveva
creduto di esser davvero in grado di volare. Era seduto in seconda galleria e quando saltò giù si
ruppe una gamba. Questo fatto fu più tardi immortalato nella canzone di grande successo di
Earl Hines "Second Balcony Jump"). Non avevo mai visto in vita mia un modo di ballare così
frenetico. Dopo che un paio di numeri lenti ebbero in certo modo raffreddato l'atmosfera,
apparve Dinah Washington. Quando cantò "Salty Papa Blues", i presenti si abbandonarono a un
tale entusiasmo che sembrava dovesse venir giù il tetto del Savoy. (Non molto tempo fa, si sono
svolti a Chicago i funerali della povera Dinah. Ho letto che più di ventimila persone andarono a
rendere omaggio alla sua salma, e anch'io avrei dovuto esserci. Povera Dinah! In quei tempi
eravamo diventati grandi amici) .
La sera di questa mia prima visita era dedicata al Savoy alla "Kitchen Mechanics' Night", la
tradizionale sera del giovedì, giornata di libertà per i domestici. Direi che c'erano due volte più
donne che uomini, e non soltanto sguattere e cameriere, ma anche mogli di richiamati e operaie
delle industrie di guerra, sole e in cerca. Quando, dalla sala da ballo, uscii fuori nella strada
sentii che una prostituta si lamentava bestemmiando che le professioniste non facevano più
affari a causa delle dilettanti .
Su e giù tra Lenox, la Settima e l'Ottava Avenue, Harlem aveva l'aspetto di un grande bazar in
technicolor. Centinaia di soldati e marinai negri, goffi e giovani come me, passeggiavano sui
marciapiedi. Ormai Harlem era stata ufficialmente dichiarata zona chiusa per i soldati bianchi.
C'erano già stati alcuni episodi di rapina e aggressione e parecchi soldati bianchi erano stati
trovati assassinati. La polizia cercava anche di scoraggiare i civili bianchi a venire nel quartiere
negro, ma quelli che volevano non si lasciavano intimorire. Se un uomo camminava solo era
subito abbordato dalle prostitute. «Baby, ti vuoi divertire un pochino?» I magnaccia seguivano
da vicino bisbigliando: «Abbiamo ogni sorta di donne, Jack... Ti interessa una donna bianca?» I
trafficanti si davano da fare in tutti i modi: «Eccoti un anello da cento dollari col diamante e poi
anche un orologio da novanta dollari... Guardali! A te li do per soli venticinque dollari» .
Nel giro di due anni sarei stato io a insegnare a loro, ma quella sera ero incantato. Quello era il
mio mondo e fu proprio quella sera che cominciai a diventare un cittadino di Harlem .
Ben presto sarei stato uno dei più depravati trafficanti e parassiti tra gli otto milioni di abitanti
di New York, di cui quattro lavorano e gli altri quattro vivono alle spalle dei primi .
Non potevo credere a tutto quello che avevo visto e sentito quella sera, mentre mi passavo sulla
spalla la cinghia della scatola dei panini e il pesante recipiente da cinque litri in cui era
contenuto il caffè per cominciare il mio giro da un vagone all'altro dello Yankee Clipper di
ritorno verso Boston .
Mi sarebbe piaciuto essere in migliori rapporti con Ella per poter cercare di descriverle il mio
stato d'animo. Comunque ne parlai con Shorty, insistendo perché almeno andasse a vedere il
mondo musicale della «Grande Mela». Anche Sofia mi stette ad ascoltare e mi disse che non
sarei mai stato soddisfatto in nessun altro posto all'infuori di New York. Aveva ragione. In una
sola notte New York, o meglio Harlem, mi aveva ipnotizzato .
L'uomo del servizio ristoro di cui avevo preso il posto aveva poche possibilità di riprendere il
lavoro. Così io continuai ad andare su e giù da un vagone all'altro. Vendevo panini, caffè,
dolciumi, ciambelle e gelati più rapidamente di quanto il magazzino approvvigionamenti fosse
in grado di fornire. Prima che fosse passata la settimana capii che per far comprare ai bianchi
tutto quello che si voleva, bastava dare un po' spettacolo. Era come quando facevo schioccare il
mio straccio da lustrascarpe. I camerieri del vagone ristorante e gli inservienti e facchini lo
sapevano benissimo e si comportavano egregiamente da zii Tom per ottenere mance migliori.
Vivevamo in un mondo di negri che sono insieme servi e psicologi, consapevoli del fatto che i
bianchi sono così ossessionati dal loro senso di superiorità da tirar fuori soldi generosamente,
da pagar cara l'impressione di essere ben serviti e divertiti .
Durante ogni sosta, io andavo a Harlem, giravo dappertutto per vedere nuovi posti. Mi presi
una stanza all'YMCA, perché era distante meno di un isolato dallo Small's Paradise. Poi trovai
una camera più a buon mercato presso la signora Fisher, assai vicina all'YMCA, e dove stavano
gran parte dei ferrovieri .
Esplorai non soltanto le zone bene illuminate, ma anche i quartieri residenziali di Harlem dai
migliori ai peggiori, da Sugar Hill, lassù vicino ai campi di polo dove abitavano molte celebrità,
giù giù fino agli isolati dei bassifondi pieni di caseggiati infestati dai topi e dove succedeva
tutto quello che può esserci di illegale e di immorale. Sudiciume, secchi della spazzatura che
traboccavano o venivano rovesciati da qualcuno con un calcio, ubriachi, tossicomani,
mendicanti; bar così sconquassati che sembrava dovessero venir giù da un momento all'altro,
chiese sistemate in negozi da cui uscivano le voci tonanti dei predicatori, negozi che vendevano
merci «d'occasione» o che facevano prestiti su pegno, agenzie di pompe funebri; sudici
ristoranti dalla «cucina casalinga», saloni di bellezza tutti pieni del fumo dei capelli delle donne
negre che si facevano la stiratura, barbieri che facevano la pubblicità al loro particolare sistema
per raddrizzare i capelli lanosi. Da tutte le parti si vedevano Cadillac usate e nuove, che
spiccavano tra le altre macchine sulla strada .
Era il West Side di Lansing o il South End di Roxbury moltiplicato per mille. C'erano delle
piccole sale da ballo sistemate nelle cantine con sulla porta dei cartelli di AFFITTASI, mentre
certi tipi distribuivano manifestini in cui si faceva la pubblicità dei «parties per raccogliere i
soldi dell'affitto». Andai a uno di questi e ci trovai trenta o quaranta negri sudati che
mangiavano, bevevano, ballavano e giocavano d'azzardo in un appartamento pieno zeppo di
gente e dai muri cadenti, con il giradischi che suonava a pieno volume, mentre per un dollaro a
testa veniva distribuito un piatto di pollo fritto o frattaglie con insalata di patate e cavolo, e
barattoli di birra o bicchieri di whisky per cinquanta cents .
Gli attivisti bianchi e negri abbordavano tutti i nuovi venuti e parlando svelti svelti cercavano di
fargli acquistare una copia del «Daily Worker»: «Questo giornale si batte perché i fitti non
aumentino... Obbligate l'avido padrone di casa a levarvi i topi dall'appartamento... Questo
giornale rappresenta l'unico partito politico che abbia mai portato un negro come candidato alla
vicepresidenza degli Stati Uniti... Voglio solo che lo leggiate, non vi ci vorrà molto... Ma chi
credete che si sia battuto di più per liberare quei ragazzi di Scottsboro?» [2]. Sentii dire fra i
negri, mentre gli attivisti giravano dall'uno all'altro, che quel giornale era in qualche modo
legato ai russi ma, a quei tempi, ciò non voleva dire molto per la mia sterile mentalità: le
trasmissioni radio e i giornali erano allora pieni di articoli e discorsi sulla Russia nostra alleata e
il suo popolo forte, coraggioso di contadini che si trovavano con le spalle al muro per aiutare
l'America a combattere Hitler e Mussolini .
Per me New York era il cielo e Harlem addirittura il settimo cielo! Gironzolavo tra Small's e il
Braddock Bar così spesso che quando i barman mi vedevano entrare, versavano subito un
bicchiere di Bourbon, la qualità di whisky che preferivo, mentre i clienti abituali di tutti e due
quei locali, i trafficanti di Small's e i musicisti, gli attori e i cantanti da Braddock, cominciarono
a chiamarmi Rosso, nomignolo del resto naturale dato il colore acceso dei miei capelli ben
stirati. Ora andavo nel negozio di barbiere di Abbott e Fogey a Boston che era il migliore
specialista di stirature della costa orientale, almeno secondo i famosi musicisti che me lo
avevano raccomandato .
Tra i miei amici c'erano ora solisti come Sonny Greer, il grande batterista di Duke Ellington, e
Ray Nance, lo straordinario virtuoso del violino. E' lui quello che era solito cantare nel suo
selvaggio stile "scat": «blip-blip-de-blop-deblam-blam» .
Conoscevo persone come Cootie Williams e Eddie Vinson, detto «Palla di biliardo», che
scherzavano con me sulla stiratura di quest'ultimo, lui che in testa non aveva altro che la pelle .
Allora era al culmine della sua fama con la canzone: "Hey, Pretty Mama, Chunk Me In Your
Big Brass Bed". Conoscevo anche Sy Oliver che aveva sposato una ragazza dai capelli rossi e
abitava a Sugar Hill. A quel tempo Sy faceva molti arrangiamenti per Tommy Dorsey e credo
che la sua melodia più famosa fosse "Yes, I indeed!" Quando l'uomo del servizio ristoro dello
Yankee Clipper che io sostituivo tornò, venne destinato a un altro treno. Lui si lamentò per via
dell'anzianità, ma il volume delle mie vendite spinse l'amministrazione a farlo tacere in qualche
altro modo. I camerieri e i cuochi avevano cominciato a chiamarmi «Rosso, il re del sandwich»
.
In quel periodo avevano scommesso tra loro per scherzo che, vendite o no, non avrei resistito
molto a quel posto perché ero diventato troppo aggressivo e non avevo nessun senso della
sottomissione all'autorità. Bestemmiavo e usavo il linguaggio più osceno. Arrivavo persino a
mandare al diavolo i clienti, specialmente se erano soldati: questi proprio non li potevo
sopportare. Ricordo che una volta, quando il reclamo di un passeggero aveva provocato
un'ammonizione nei miei confronti e perciò mi sforzavo di essere cauto, mentre passavo tra le
due file di sedili di un vagone, un soldato grosso e grasso dalla faccia rossa si alzò in piedi
davanti a me, tanto ubriaco che non poteva neanche stare in piedi e con voce tonante in modo
che tutti potessero sentirlo, mi disse: «Ti spacco la faccia, "nigger"». Ricordo la tensione che ne
seguì. Io gli dissi ridendo: «Certo, farò a cazzotti con te, ma hai troppa roba addosso».
Indossava il pesante cappotto dell'esercito. Se lo tolse mentre io continuavo a ridere e a dirgli
che era sempre troppo infagottato. Mi riuscì di convincere quel cretino a togliersi gli indumenti
al punto che rimase lì, ubriaco, a torso nudo e tutti i presenti lo prendevano in giro finché non
venne qualche altro soldato a portarlo via. Continuai il mio lavoro .
Non avrei potuto colpire più duramente quel bianco con un bastone di quanto seppi fare con la
mia intelligenza. Non lo dimenticherò mai .
Molti cuochi e camerieri ancora in servizio sulla ferrovia della New Haven Line ricorderanno
anche oggi il vecchio Pappy Cousins, capotreno della Yankee Clipper e, naturalmente, bianco
del Maine. Tra parentesi, vorrei ricordare che sebbene i negri avessero lavorato da trenta o
quarant'anni nel servizio ristoro della New Haven Line, a quel tempo nessun capotreno era
negro. A Pappy Cousins piaceva molto il whisky, piacevano tutti, me compreso. Aveva lasciato
cadere parecchi reclami di passeggeri nei miei confronti e si raccomandava ad alcuni dei negri
più vecchi che lavoravano con me perché cercassero di calmarmi .
«Accidenti, non gli si può dir niente!» esclamavano quelli. E in effetti era così. A Roxbury,
quando tornavano a casa, mi vedevano pavoneggiare con Sofia tutto agghindato coi miei
sfacciati "zoot suit". Mentre ero di servizio parlavo a voce alta, mezzo alticcio com'ero per i
whisky o la marijuana, e mi comportavo sempre in modo aggressivo, quasi costringendo la
gente a comprare i panini finché si arrivava a New York .
Una volta finito il servizio, mi mescolavo con la folla della Grand Central Station nelle ore di
punta del pomeriggio e molti bianchi, nel vedermi passare, si fermavano attoniti. Lo svolazzo e
il taglio di uno "zoot suit" facevano figura solo se chi lo portava era molto alto ed io ero più di
un metro e novanta. La stiratura dei miei capelli era rosso fuoco. Ero davvero un pagliaccio, ma
nella mia ignoranza credevo di essere affascinante. Le scarpe con la punta arrotondata a
cupolino, quelle orrende scarpe arancione che portavo sempre, erano marca Florsheim, che a
quei tempi, nel ghetto, era considerata la Cadillac delle calzature. Alcuni calzaturifici facevano
modelli così ridicoli per venderli soltanto nei ghetti negri, dove dei giovanotti ignoranti come
me avrebbero pagato l'alto prezzo richiesto da quella famosa marca per avere l'illusione di
entrare a far parte della classe dei ricchi. Poi, fino a che me lo permetteva la mia paga di venti o
venticinque dollari, tra Small's Paradise e il Braddock Hotel ed altri posti, bevevo whisky,
fumavo sigarette alla marijuana, facevo amicizia con un sacco di gente e finalmente, nella
camera ammobiliata della signora Fisher, mi concedevo alcune ore di sonno prima che lo
Yankee Clipper ripartisse .
Era inevitabile che prima o poi avrei finito con l'essere licenziato. Il colpo di grazia mi venne
dalla lettera piena d'ira di un passeggero. Anche i controllori dettero il loro contributo riferendo
i reclami che avevano ricevuto e gli ammonimenti che mi erano stati fatti .
A me non importava niente perché si era in tempo di guerra e lavori come quelli cui potevo
aspirare io se ne trovavano a bizzeffe. Quando la New Haven Line mi liquidò decisi che
sarebbe stato bello andare a trovare i miei fratelli e sorelle a Lansing, tanto più che avevo un
certo numero di biglietti ferroviari gratuiti .
Nessuno dei miei cari nel Michigan riusciva a credere ai propri occhi. L'unico assente era mio
fratello maggiore Wilfred che era andato nell'Ohio alla Wilberforce University per
specializzarsi come tecnico. Quanto a Philbert e Hilda, lavoravano a Lansing mentre Reginald,
quello che mi aveva sempre considerato come il suo ideale, era diventato abbastanza grande da
poter barare sull'età e aveva intenzione di arruolarsi presto nella marina mercantile. Yvonne,
Wesley e Robert andavano ancora a scuola .
La stiratura dei capelli e tutto il mio abbigliamento erano così sfacciatamente vistosi che si
sarebbe potuto prendermi per un marziano. Fui causa di un piccolo incidente automobilistico
perché un tale si voltò stupito a guardarmi e l'automobilista di dietro lo tamponò. Il mio aspetto
sbalordì i giovanotti più grandi di me che una volta avevo invidiato. Allungavo la mano e
dicevo loro: «Vedi un po' ora, daddy-o!» Le storie che raccontavo di New York, le sigarette di
marijuana che mi rendevano euforico e pieno di vitalità facevano sì che, dovunque andassi, tutti
gli sguardi fossero concentrati su di me .
L'unica cosa che mi riportò a contatto con la realtà fu la visita all'ospedale psichiatrico di
Kalamazoo. Mia madre, forse, si accorse vagamente della mia presenza .
Andai anche a far visita alla madre di Shorty. Sapevo che ciò lo avrebbe commosso. Era una
vecchia signora che fu molto lieta di sentir parlare del figlio e avere da me sue notizie. Le dissi
che Shorty si trovava bene e che un giorno sarebbe stato il grande capo di un'orchestra tutta sua.
Mi chiese di dirgli che le scrivesse e che le mandasse qualcosa .
Feci una scappata anche a Mason per vedere la signora Swerlin, alla casa di correzione dov'ero
rimasto per un paio d'anni .
Quando la signora mi venne ad aprire, restò a bocca aperta. Il mio "zoot" color grigio
pescecane, le scarpe lunghe strette e con la punta a cupolino e quel cappello grigio perla con la
fascia alta che mi copriva i capelli stirati color rosso acceso, erano davvero troppo per la
signora Swerlin. Riavutasi dallo stupore, mi invitò a entrare, ma con il mio aspetto e il mio
modo di parlare la innervosii talmente e la misi così a disagio che tutti e due fummo contenti
quando mi congedai .
La sera prima di partire c'era un ballo nella palestra della Lincoln School. Da allora ho
imparato che, se vi trovate in una città che non conoscete e volete sapere dov'è il quartiere
negro, non avete da far altro che cercare nell'elenco telefonico una Lincoln School. Sarà sempre
nel cuore del ghetto negro, o almeno lo era in quei giorni. Quando ero partito da Lansing non
sapevo ballare, ma ora volteggiavo sulla pista della palestra facendo piroettare le ragazzine
intorno ai miei fianchi o sulle mie spalle e facendo sfoggio dei passi più sorprendenti .
Parecchie volte la piccola orchestra quasi smise di suonare e tutti lasciarono la pista per star lì a
guardare con gli occhi sgranati. Quella sera concessi persino degli autografi firmavo «il Rosso
di Harlem» -, e quando partii da Lansing ero stupito e sbattuto .
Tornato a New York, ormai senza un soldo e senza mezzi per procurarmene, capii chiaramente
che non sapevo fare altro che il lavoro che avevo fatto fin allora in ferrovia. Andai all'ufficio
personale della Seabord Line e, poiché le ferrovie avevano bisogno disperatamente di gente da
assumere, bastò che dicessi di aver lavorato per la New Haven. Due giorni dopo ero a bordo del
Silver Meteor per Saint Petersburg e Miami. Noleggiavo i cuscini e mi occupavo di tener puliti
i vagoni e di contentare i passeggeri bianchi nelle loro varie richieste: guadagnavo su per giù lo
stesso di quando vendevo i panini .
Ben presto venni a diverbio con il vicecontrollore, un cialtrone [3] della Florida, e al ritorno a
New York mi dissero di trovarmi un altro lavoro. Quello stesso pomeriggio, quando fui entrato
nello Small's Paradise, uno dei barman, che sapeva quanto mi piaceva New York, mi chiamò da
parte e mi disse che se volevo lasciare la ferrovia avrei potuto sostituire un cameriere che era
stato richiamato sotto le armi .
Il padrone del bar si chiamava Ed Small. Lui e suo fratello Charlie erano inseparabili e credo
che ad Harlem non ci fossero due persone più popolari e rispettate di loro. Sapevano che
lavoravo in ferrovia, il che per un cameriere era la migliore raccomandazione. Nel loro ufficio
fui ricevuto da Charlie Small .
Avevo paura che volesse prender tempo per chiedere a qualcuno dei suoi vecchi amici
ferrovieri informazioni sul mio conto. Non avrebbe certamente assunto un tipo aggressivo e
insofferente .
Tuttavia decise sulla base della sua impressione personale: mi aveva visto nel suo bar tante
volte, seduto per conto mio e quasi in estatica ammirazione di fronte al viavai dei trafficanti che
frequentavano il locale. Quando me lo chiese, gli dissi che non avevo mai avuto noie con la
polizia e, fino a quel momento, era la verità. Charlie mi elencò i doveri dei dipendenti: niente
ritardi, niente pigrizia, niente furti, nessuna specie di traffico con i clienti, specialmente se si
trattava di gente in uniforme. Fui assunto .
Si era nel 1942 e avevo appena compiuto diciassette anni .
Poiché il locale di Small era praticamente il centro di tutto, servire ai tavoli là era come essere
al settimo cielo sette volte. Non c'era bisogno che Charlie mi esortasse a non arrivar tardi: ero
così ansioso di andarci che arrivavo sempre un'ora prima. Il mio turno veniva dopo quello della
mattina. Il cameriere che mi precedeva diceva che il mio turno era il meno movimentato, con
poche mance e talvolta restava un po' di tempo con me per insegnarmi varie cose, poiché non
voleva che corressi il rischio di essere licenziato .
Grazie a lui imparai rapidamente parecchie piccole cose utili a un cameriere nuovo per entrare
nelle grazie dei cuochi e dei barman. Infatti erano questi che, a seconda del loro atteggiamento,
potevano rendere la vita di un cameriere impossibile o piacevole. Io, per parte mia, mi
proponevo di diventare indispensabile e in meno di una settimana ero riuscito a entrare nelle
grazie di tutti. I clienti che mi avevano visto tra loro nel bar, vedendomi ora con la giacca da
cameriere, furono piacevolmente sorpresi e mi dimostrarono grande affabilità. Io, da parte mia,
non avrei potuto usare verso di loro maggiori riguardi .
«Un altro bicchiere?... Subito signore... Desiderate cenare?.. .
E' molto buono... Posso mostrarle il menu, signore?... Be', preferirebbe forse un sandwich?» Mi
sembrava che non solo i barman e i cuochi che sapevano tutto su tutto, ma anche i clienti,
cominciassero a insegnarmi varie cose nel corso di brevi conversazioni che quando non ero
occupato si tenevano vicino al bar. Qualche volta un cliente mi parlava mentre stava mangiando
e talaltra avevo delle lunghe conversazioni su tutti i possibili argomenti con i veri veterani, cioè
con coloro che abitavano ad Harlem da quando c'erano andati per la prima volta i negri .
Fu per me una delle più grandi sorprese sapere che Harlem non era sempre stata una comunità
negra .
Appresi che prima era un quartiere olandese, poi cominciarono ad arrivare a ondate successive
i poveri, cenciosi emigranti dall'Europa che, mezzi morti di fame, portavano nei loro sacchi e
valige tutto quello che possedevano. I primi ad arrivare furono i tedeschi, e gli olandesi fecero
loro posto di modo che Harlem divenne una zona interamente abitata dagli immigrati tedeschi .
Successivamente arrivarono gli irlandesi, che fuggivano dalla loro isola a causa della carestia
provocata dai mancati raccolti di patate. I tedeschi sgombrarono in massa la zona, pieni
com'erano di disprezzo per gli irlandesi, i quali si impadronirono così di Harlem. Poi arrivarono
gli italiani. Anche qui successe la stessa cosa: gli irlandesi si trasferirono altrove e gli italiani
rimasero ad Harlem finché dai bastimenti non scesero gli immigrati ebrei. Allora anche gli
italiani se ne andarono dal quartiere .
Oggi i discendenti di tutti questi europei fanno tutto il possibile per vivere lontani dai
discendenti di quei negri che scaricarono le navi degli immigrati .
Restai sorpreso quando sentii dire dai più vecchi abitanti di Harlem che nel corso di questo
processo di rapida sostituzione di un gruppo all'altro, i negri erano a New York City fin dal
1683, e cioè prima dell'arrivo degli immigrati, ed erano stati costretti a vivere in ghetti in ogni
parte della città. Prima li avevano spinti a concentrarsi nella zona di Wall Street e
successivamente verso il Greenwich Village, per poi spostarsi verso la zona dov'è ora la
Pennsylvania Station. Infine, come penultima fermata prima di Harlem, il ghetto negro era
concentrato intorno alla Cinquantaduesima Strada e questo spiega come mai fu chiamata la
Swing Street e acquistò quella reputazione che rimase ancora per molto tempo dopo che i negri
se ne furono andati .
Nel 1910, un agente immobiliare negro riuscì a infilare in un caseggiato della zona ebraica di
Harlem due o tre famiglie negre. Gli ebrei scapparono da quell'edificio, poi dall'isolato e un
numero sempre maggiore di negri vennero a prendere il loro posto. Poi gli ebrei abbandonarono
interi isolati e masse crescenti di negri si trasferirono verso nord finché, in poco tempo, Harlem
divenne quello che è ancora oggi, e cioè un quartiere praticamente tutto negro .
All'inizio degli anni '20, la musica e l'avanspettacolo cominciarono a diventare delle vere e
proprie industrie di Harlem, mantenute dai bianchi di New York che ci venivano ogni sera.
Tutto cominciò nel periodo di tempo in cui un deciso suonatore di cornetta di New Orleans,
Louis Armstrong, soprannominato Satchmo, scese dal treno a New York portando scarpe alte
come quelle dei poliziotti e cominciò a suonare con l'orchestra di Fletcher Henderson. Nel 1925
lo Small's Paradise aveva aperto i battenti attirando un enorme pubblico nella zona della
Settima Avenue, seguito nel 1926 dal grande Cotton Club, dove l'orchestra di Duke Ellington
avrebbe suonato per ben cinque anni. Sempre nel 1926 fu inaugurata la Savoy Ballroom, un
isolato di fronte a Lenox Avenue, con una pista da ballo lunga settanta metri (solo lo spazio
circoscritto dai riflettori), davanti a due palchi per l'orchestra e a un palcoscenico mobile posto
dietro di essa .
La prestigiosa immagine di Harlem si diffuse al punto da diventare nota ai bianchi di tutto il
mondo. Da ogni parte venivano autobus carichi di turisti. Il Cotton Club era riservato ai soli
bianchi e centinaia di altri club, giù giù fino ai locali nascosti nelle cantine dove si serviva
illegalmente l'alcool, facevano lo stesso. Alcuni dei più famosi erano il Connie's Inn, il Lenox
Club, il Barron's, The Nest Club, il Jimmy's Chicken Shack e il Minton's. I saloni da ballo del
Savoy, del Golden Gate e del Renaissance si contendevano enormi folle e il Savoy fu il primo a
introdurre attrazioni come le serate dei Kitchen Mechanics, riservate tutti i giovedì ai domestici
in permesso, concorsi di bellezza in costume da bagno e, ogni sabato, il sorteggio di
un'automobile tra i frequentatori del locale. Da tutto il paese venivano orchestre in questi locali,
a cui bisogna aggiungere i teatri Apollo e Lafayette. I loro direttori erano dei personaggi
pittoreschi come 'Fess Williams, che portava un abito costellato di diamanti e il cappello a
cilindro, e Cab Calloway con il suo "zoot suit" bianco più incredibile di qualsiasi altro abito di
tale foggia, il cappello bianco dalla fascia altissima e la cravatta a spago .
Scatenavano Harlem fino alla frenesia con canzoni come "Tiger Rag", "Hi-de-hi-de-ho", "Saint
James Infirmary" e "Minnie the Moocher" .
La città negra era piena di bianchi, di magnaccia, di puttane, di contrabbandieri d'alcool, di
trafficanti di ogni specie, di personaggi pittoreschi, e di polizia e agenti addetti a far rispettare le
leggi proibizionistiche. I negri ballavano come non avevano mai fatto prima e forse come non
avrebbero mai più fatto dopo. Mi pare di aver sentito dire da una ventina di vecchi abitanti di
Harlem, avventori di Small's, di esser stati i primi a ballare al Savoy il "lindy-hop", che era nato
là nel 1927 e aveva preso il nome da Lindbergh che aveva appena compiuto il suo volo fino a
Parigi .
Persino i piccoli locali sistemati nelle cantine e in cui c'era posto solo per un pianoforte
vedevano prodursi degli straordinari virtuosi della tastiera come Jelly Roll Morton e James P.
Johnson e cantanti come Ethel Waters. Alle quattro del mattino, quando tutti i club legalmente
autorizzati dovevano chiudere, arrivavano da ogni parte della città musicisti bianchi e negri che
si incontravano in qualche posto prestabilito e facevano delle" jam sessions" che duravano fino
al giorno dopo .
Quando tutto finì con il crollo della Borsa nel 1929, Harlem si era acquistata nel mondo la
reputazione di Casbah dell'America .
Il locale di Small's aveva notevolmente contribuito a tutto questo: fu là che sentii i ricordi dei
veterani di quella grande epoca .
Tutti i giorni ascoltavo rapito i clienti che avevano voglia di parlare con me e ciò contribuì
molto alla mia educazione .
Assorbivo tutto come una spugna e qualche volta, nel corso di un raro sfogo pieno di
confidenze, o di fronte a qualcuno che aveva bevuto un bicchiere più del solito, intuivo
perfettamente qual era il particolare tipo di traffico cui si dedicava il mio interlocutore. Fui ben
istruito da guappi assai esperti in traffici quali la lotteria clandestina, lo sfruttamento delle
prostitute, i giochi d'azzardo di ogni specie, la vendita degli stupefacenti e ogni genere di furto,
compresa la rapina a mano armata .
NOTE .
NOTA 1: "Whitey", termine spregiativo usato dai negri per designare tutti i bianchi in
generale. Nell'uso corrente finisce per diventare un sostantivo astratto che si riferisce alla
società, allo stato, a tutte le leggi e costumi dei bianchi .
NOTA 2: Il famoso Scottsboro Case ebbe inizio il 25 marzo 1931 quando nove adolescenti
negri furono tratti in arresto sotto l'accusa di aver violentato due donne bianche che, insieme
con loro, viaggiavano su di un treno merci dell'Alabama .
Due settimane più tardi otto dei nove adolescenti furono condannati alla sedia elettrica. La
N.A.A.C.P. offrì la sua assistenza legale ma l'International Labor Defense ben presto si pose a
capo di un vasto movimento di sdegno popolare organizzando dibattiti, manifestazioni, raccolte
di firme in tutto il mondo in favore dei giovani condannati a morte con il solito processo
sommario .
Le deposizioni erano state estorte con la forza e in un'atmosfera di intimidazione, la giuria
popolare era composta da soli bianchi e la difesa d'ufficio aveva praticamente confermato tutte
le richieste della pubblica accusa .
Oltre all'ovvio elemento della condanna a morte di otto adolescenti su basi indiziarie o in ogni
modo chiaramente illegali, il caso dei ragazzi di Scottsboro riproponeva per l'ennesima volta e
nei termini più drammatici tutta la questione dei diritti dei negri .
Per quattro anni la International Labor Defense combatté con tutti i mezzi per procrastinare la
data dell'esecuzione dei giovani negri e sollevare lo sdegno dell'opinione pubblica americana e
mondiale in modo da ottenere mutamenti legislativi oltre all'assoluzione piena degli imputati .
Nel 1935, il partito comunista americano che si era impegnato a fondo nella lotta e che
attraverso la ILD ne controllava la direzione, decise di associarsi ad altri gruppi, anche per le
difficoltà che incontrava nel mantenere un rapporto tra questa azione e la sua politica delle
alleanze .
Nacque così un nuovo Scottsboro Defense Committee che concentrò i suoi sforzi sulla
assoluzione degli imputati riuscendo, nel luglio del 1937, a farne scarcerare quattro .
La Corte Suprema intervenne due volte (Powell v. Alabama 287 U S. 45; Norris v. Alabama
294 U.S 45; Patterson v. Alabama 294 U S. 600) limitandosi a sottolineare infrazioni puramente
procedurali. Il suo atteggiamento legalistico e conservatore rese possibile separare il caso
specifico dalla pratica reale dei tribunali e dalla finalità giuridica .
D'altronde, l'atteggiamento del nuovo Defense Committee non consentì di sfruttare il largo
movimento di opinione pubblica suscitato in tanti anni di controversie e un compromesso
suggerito dalla politica dei fronti popolari impedì di contestare il ristretto ambito legalistico in
cui in America è sempre stata confinata la lotta per i diritti civili .
NOTA 3: Traduco "cracker" con «cialtrone». In realtà il termine ha una sua precisa derivazione
storica e una carica dispregiativa che non si riesce a rendere in italiano .
"Crackers" erano i coloni bianchi del Sud poveri e millantatori, aggressivi e al tempo stesso
timorosi di perdere quel poco che avevano inimicandosi i rappresentanti delle classi superiori .
E' un termine molto usato in tutta la letteratura popolare del Sud e infinite sono le macchiette
ispirate a quel tipo sociologico. Malcolm lo adoperava spesso nella sua accezione politica. I
"Cracker Senators" sono i senato i razzisti del Sud perché, nell'uso corrente dei negri, "cracker"
equivale a bianco razzista .
Capitolo sesto .
IL ROSSO DI DETROIT .
Tutti i giorni giocavo le mance, fino a quindici e venti dollari, alla lotteria clandestina e
sognavo cosa avrei fatto se avessi imbroccato il numero giusto .
Vedevo cosa spendevano, dopo le grosse vincite, quelli dell'ambiente: si abbandonavano a
lunghe, incontrollate orge di ogni specie. Non parlo dei trafficanti che avevano sempre soldi per
le tasche, ma dei normali lavoratori, di quelli che di solito non si vedevano mai in un bar come
Small's e che, dopo una vincita cospicua, si licenziavano da qualche lavoro che avevano in città
alle dipendenze dei bianchi. Spesso questi fortunati si compravano una Cadillac e qualche volta,
per tre o quattro giorni, pagavano da bere e offrivano bistecche a tutti i loro amici. Io mettevo
insieme due tavolini e loro, tutte le volte che arrivavo col vassoio, mi gettavano mance di due o
tre dollari .
Ogni giorno, fatta eccezione per la domenica, centinaia di migliaia di negri di New York City
giocavano da un cent fino a fortissime somme su numeri di tre cifre. Per vincere bisognava
indovinare gli ultimi tre numeri del bollettino di borsa che pubblicava tutti i giorni i risultati del
mercato azionario americano e delle transazioni con l'estero .
Il rapporto fra puntata e vincita era di seicento a uno e perciò un cent puntato sul numero giusto
dava sei dollari, un dollaro seicento e così via. Con una puntata di quindici dollari se ne
vincevano novemila. Vincite famose di questo tipo avevano causato certe cointeressenze in
molti bar e ristoranti di Harlem e in alcuni casi un immediato cambiamento di proprietario. La
probabilità di vincere era una su mille e perciò molti giocatori puntavano «a sistema». Per
esempio, sei cents consentivano di puntare un cent su ciascuna delle sei possibili combinazioni
delle tre cifre. Il numero 840, visto con il criterio dei sistemisti, comprendeva 840, 804, 048,
084, 408 e 480 .
Nel ghetto negro di Harlem dalla miseria, praticamente tutti giocavano ogni giorno, e, sempre
ogni giorno, era probabile che qualche conoscente vincesse. Era una grande notizia per tutto il
vicinato e quando la vincita era cospicua tutti si abbandonavano all'entusiasmo. Ma le vincite
erano di solito molto piccole: cinque, dieci, o venticinque cents. La maggior parte cercavano di
giocare un dollaro al giorno, ma suddiviso tra vari numeri e distribuito secondo le diverse
combinazioni .
Ad Harlem l'industria del gioco clandestino cominciava il suo brusio la mattina e continuava
fino alle prime ore del pomeriggio con i galoppini che scrivevano frettolosamente i numeri
scommessi dalla gente su ricevute, sui pianerottoli delle scale dei caseggiati, nei bar, nei negozi
di barbiere, nelle botteghe e sui marciapiedi. I poliziotti stavano a guardare .
Nessun galoppino poteva sperare di durare a lungo se, di tasca sua, non era disposto a dare un
«contributo» agli agenti di servizio nella sua zona, mentre era di dominio pubblico il fatto che i
banchieri della lotteria davano grosse somme alle alte gerarchie della polizia .
Il piccolo esercito di galoppini percepiva il dieci per cento delle scommesse il cui importo
veniva consegnato, insieme con le ricevute, ai controllori. Anche i vincitori davano una mancia
del dieci per cento al galoppino. Di solito il controllore aveva alle sue dipendenze fino a
cinquanta galoppini e la sua percentuale sulle scommesse raccolte era del cinque per cento .
Queste venivano poi consegnate al banchiere che si incaricava di pagare le vincite, di ungere la
polizia e di arricchirsi con la differenza .
C'era chi giocava lo stesso numero tutto l'anno. C'erano molti che avevano l'elenco dei numeri
vincenti usciti ogni giorno per anni e con essi calcolavano le probabilità di riuscita. Alcuni si
servivano di altri sistemi. C'era poi chi prendeva i numeri da indirizzi, targhe di automobili di
passaggio, lettere, telegrammi, ricevute della lavanderia, numeri ricavati da qualsiasi occasione
e circostanza. C'erano poi, al prezzo di un dollaro, i libri dei sogni da cui si ricavavano il
numero, o i numeri corrispondenti ad ogni sogno. I mistici e i predicatori che ogni domenica
facevano mercato di Cristo erano sempre pronti, per un piccolo onorario, a pregare perché il
vostro numero uscisse oppure a indicarvene uno fortunato .
Recentemente sono usciti gli ultimi tre numeri della nuova zona postale di cui fa parte Harlem
e un banchiere è stato lì lì per fallire. Lasciate che questo libro abbia una vasta diffusione nei
ghetti negri della nazione e, sebbene io non sia più un giocatore, sono disposto a scommettere
una piccola somma, da versare all'istituzione di beneficenza che preferite, che milioni di dollari
saranno scommessi dai miei poveri, stolti fratelli e sorelle negri su, diciamo, il numero di questa
pagina o il totale delle pagine di tutto il libro .
Ogni giorno che passavo nel bar dello Small's Paradise era per me affascinante e, dal punto di
vista di Harlem, non avrei potuto trovarmi in una situazione migliore per imparare. Alcuni dei
più bravi trafficanti di tutta New York mi presero in simpatia e sapendo che, almeno secondo i
loro criteri, ero inesperto, cominciarono ben presto, con sistemi paterni, a «mettere il Rosso
sulla buona strada» .
Si servivano di metodi indiretti. Per esempio un negro delle Indie occidentali, che aveva la
pelle molto scura e sembrava un uomo d'affari, il quale veniva spesso a sedersi ad uno dei
tavolini che servivo io, un giorno che gli portavo la sua solita birra mi disse: «Rosso, stai qui
fermo un minuto». Mi prese rapidamente la misura con un metro di quelli gialli tascabili e
scarabocchiò i numeri su di un libriccino. Quando tornai al lavoro il pomeriggio seguente, uno
dei barman mi dette un pacco .
Lo aprii e vi trovai un abito blu scuro, molto costoso e dal taglio tradizionale. Era un bel
pensiero e, al tempo stesso, un messaggio molto chiaro .
I barman mi dissero che quel cliente era uno dei maggiori dirigenti della fantastica banda dei
«quaranta ladroni». Si trattava di una banda di ciarlatani organizzati che, dietro ordinazione,
consegnavano in un solo giorno di tempo, contro assegno, qualsiasi capo di vestiario. Di solito i
loro prezzi erano un terzo di quelli del mercato .
Seppi come facevano i loro colpi in grande. Un membro della banda, molto ben vestito e con
un'aria che ispirava fiducia, entrava nel negozio prescelto poco prima dell'ora di chiusura, si
nascondeva da qualche parte e restava chiuso dentro il locale. In precedenza la banda si era
assicurata con esattezza circa l'orario dei passaggi della polizia. Quando si faceva buio, il
compare chiuso dentro metteva gli abiti dentro grandi sacchi, poi smantellava la soneria
d'allarme e telefonava agli altri della banda che stavano fuori ad aspettare con un camion .
Questi arrivavano proprio tra un passaggio e l'altro della polizia, caricavano l'automezzo e in
pochi minuti si dileguavano. Più tardi conobbi anch'io parecchi membri della banda dei
«quaranta ladroni» .
Ben presto, con una strizzatina d'occhio o con un rapido cenno, mi si cominciarono a indicare
gli agenti in borghese. Per i trafficanti della zona era normale riconoscere subito gli uomini
della legge e anch'io avrei imparato col tempo a percepire immediatamente la presenza di un
poliziotto. Verso la fine del 1942, ciascuna specialità delle forze armate aveva i suoi informatori
in borghese che cercavano di raccogliere tutti i dati di un qualche interesse, come per esempio i
traffici di cui ci si serviva per evitare il reclutamento, o i nomi di coloro che non si facevano
trovare dai distretti militari, oppure i metodi di sfruttamento e corruzione che venivano applicati
nei confronti dei militari .
Gli scaricatori del porto, o certi loro emissari, venivano nei bar a vendere pistole, macchine
fotografiche, profumi, orologi e cose del genere, tutta roba rubata dai magazzini del porto .
Questi negri riuscivano ad appropriarsi di quello che gli scaricatori di porto bianchi
risparmiavano nelle loro ruberie .
Spesso i marinai delle navi mercantili portavano roba proveniente dall'estero, oggetti a buon
mercato e le migliori sigarette di marijuana fatte con la "gunja" e la "kisca" che i marinai delle
navi mercantili contrabbandavano dall'Africa e dalla Persia .
Durante il giorno ci si comportava verso i bianchi con grande cautela, ma quelli che venivano
di notte erano ricevuti assai meglio: i diversi locali notturni di Harlem che essi frequentavano
erano organizzati alla perfezione per farli divertire e lusingarli in ogni modo per poi tirar loro
fuori i soldi .
Dato che c'erano così tanti enti legali per la protezione della «moralità» dei membri delle forze
armate, quelli che venivano, ed erano molti, ottenevano ciò che chiedevano; si rispondeva loro
solo se rivolgevano per primi la parola, e questo era tutto, a meno che qualcuno non sapesse che
abitavano ad Harlem .
Imparai la prima regola della società dei trafficanti: non fidarsi mai di nessuno che non
appartenga al vostro circolo chiuso e sceglier sempre con grande attenzione e dopo parecchio
tempo quelli con cui stabilire rapporti di intima amicizia .
I barman mi indicavano tra i clienti abituali i prestanome e quelli che invece contavano, chi
faceva parte della malavita e aveva legami con il mondo politico e la polizia della città, chi era
che maneggiava davvero il denaro e chi ne guadagnava giorno per giorno; quali erano i veri
giocatori e chi invece aveva avuto una piccola fortuna e infine quali erano quelli con cui non
bisognava, in nessuna circostanza, mettersi in urto .
Questi ultimi erano ben noti nell'ambiente di Harlem e, oltre ad essere molto temuti, godevano
di grande rispetto. Si sapeva benissimo che se se la legavano al dito non ci pensavano neppure
un minuto a spaccare la testa a qualcuno. Erano i vecchi del mestiere, da non confondersi con i
vari giovani trafficanti, aggressivi e teste calde che cercavano di farsi un nome adoperando con
facilità la pistola o il coltello. Questi vecchi duri di cui parlo erano gente come «Black
Sammy», «Bub» Hulan, «King» Padmore e «West Indian Archie». Gran parte di loro avevano
lavorato come guardie del corpo di Dutch Schultz quando questi si era fatto largo con la forza
nell'industria del gioco clandestino di Harlem dopo che i gangster bianchi si erano resi conto
delle fortune che si potevano accumulare con quell'attività che prima avevano considerato come
«i centesimi dei negri». I truffatori bianchi consideravano la lotteria come «il monte premi dei
negri» .
Queste dure giornate erano state prima della grande inchiesta Seabury del 1931 che segnò
l'inizio del declino di Dutch Schultz, finché la sua carriera non fu spezzata, nel 1934, dalla
mano di un altro assassino. Sentii raccontare con quali sistemi avevano «persuaso» la gente:
tubi di piombo, cemento fresco, bastoni da baseball, pugni di ferro, calci in faccia, pugni
nell'addome e sfollagente con l'anima di ferro. Quasi tutti questi duri avevano fatto cose del
genere, erano scomparsi dalla scena e poi erano ritornati di nuovo alla ribalta e da allora
lavoravano come capi galoppini per i più grandi banchieri specializzati in cospicue giocate .
Sembrava che ci fosse un tacito accordo tra questi negri e i violenti poliziotti negri. Non
venivano mai a conflitto e credo che ciò derivasse dal fatto che sia gli uni sia gli altri sapevano
che qualcuno avrebbe finito col rimetterci la pelle .
Anche ad Harlem c'erano alcuni poliziotti negri molto cattivi. I quattro agenti a cavallo che
perlustravano Sugar Hill ricordo che il peggiore di loro aveva le lentiggini costituivano
davvero un quartetto di duri. Ma il peggiore di tutti, il più grosso e il più nero, era Brisbane, un
oriundo delle Indie occidentali .
Quando perlustrava il tratto compreso tra la Centoventicinquesima Strada e la Settima Avenue,
i negri andavano dall'altra parte della strada per evitarlo. Mentre ero in prigione, qualcuno mi
raccontò che Brisbane era stato ammazzato a revolverate da un ragazzo nervoso e terrorizzato
che era venuto da poco dal Sud e non aveva avuto abbastanza tempo per rendersi conto di
com'era cattivo quel poliziotto .
Il più incredibile magnaccia del mondo era Drake, soprannominato «Cadillac». Aveva il cranio
tutto pelato e lucido e la conformazione fisica di un giocatore di rugby. Era solito chiamare la
sua pancia enorme «il campo di gioco di tutte le delizie». Controllava una dozzina delle più
magre, derelitte prostitute bianche e negre di Harlem. Nel pomeriggio, seduti al bar, i veterani
che conoscevano Cadillac abbastanza bene lo sfottevano chiedendogli come facevano delle
donne che avevano l'aspetto delle sue a guadagnare abbastanza, oltre che per se stesse, per dare
da mangiare anche a lui. Il magnaccia scoppiava in una fragorosa risata insieme a tutti noi e
anche ora mi par di sentirlo esclamare: «Le donne brutte lavorano di più» .
L'opposto esatto di Cadillac era «Sammy il magnaccia», un giovane e distinto protettore di
prostitute, dai modi indipendenti. Come ho già detto, durante le grandi feste da ballo, sapeva
individuare le puttane in potenza dall'espressione. Col tempo io e Sammy diventammo intimi
amici .
Era originario del Kentucky e aveva una grande, smisurata esperienza commerciale: il suo ramo
erano le donne. Come Cadillac, anche lui si faceva mantenere da puttane bianche e negre, ma le
donne di Sammy, che qualche volta venivano da Small's a cercarlo per dargli i soldi e per farsi
offrire da bere, erano, almeno credo, belle come le prostitute più affascinanti che si trovavano in
qualsiasi altro posto fuori di Harlem .
Una delle sue donne bianche, una bionda conosciuta col nomignolo di «Pesca dell'Alabama»,
faceva eccitare chiunque solo col suo modo di camminare e la sua pronuncia, e persino
parecchie negre che si occupavano della lotteria nell'ambiente di Small's avevano simpatia per
lei. Le occorrevano tre sillabe per pronunciare la parola "nigger" e ciò faceva ridere a crepapelle
parecchi avventori negri del bar. Ma di solito lei diceva: «Ah jes' lu-uv ni-uh-guhs...» («Ah sì,
adoro i negri»). Dopo un paio di bicchieri, raccontava a tutti la storia della sua vita. Nata in una
piccola città dell'Alabama, quale sia stata non lo ricordo ma non ha alcuna importanza, ci
diceva che la prima cosa di cui ebbe consapevolezza fu che tutti si aspettavano che «odiasse i
"niggers"». Poi, alle scuole elementari, cominciò a sentir bisbigliare dalle ragazze più grandi
che i "niggers" erano dei giganti nelle questioni sessuali, dei veri atleti a letto, e crebbe con il
desiderio segreto di fare un'esperienza del genere. Finalmente, proprio in casa, un giorno che
quelli della sua famiglia erano usciti tutti, minacciò un negro che lavorava alle dipendenze di
suo padre che se non avesse fatto l'amore con lei avrebbe giurato che aveva tentato di
violentarla. Il poveraccio non aveva scelta: si limitò, dopo, a lasciare il lavoro. Da allora finché
non prese il diploma di scuola secondaria le riuscì parecchie volte di andare a letto con altri
negri e persino di venire a New York e precipitarsi subito ad Harlem. Più tardi Sammy mi disse
di averla vista al Savoy: non ballava con nessuno, stava lì in piedi a guardare e lui subito capì.
Una volta che l'ebbe nelle mani non ci fu più scampo. Come diceva lei stessa, i negri le
piacevano davvero e, commentava Sammy, più gliene piacevano e meglio era. Non voleva aver
nulla a che fare con i bianchi. Chissà cos'è successo di lei.. .
C'era un magnaccia grande e grosso, soprannominato «Dollarbill» [Banconota da un dollaro]
Non tralasciava occasione di mettere in mostra il suo «rotolo stile Kansas City», un fascio di
cinquanta banconote, probabilmente da un dollaro, con l'ultima da venti all'interno e una da
cento dalla parte esterna. Ci domandavamo sempre cosa avrebbe fatto quel tipo se qualcuno gli
avesse rubato la «copertina», cioè la banconota da cento dollari .
Colui che, da giovane, avrebbe potuto rubare l'intero rotolo di Dollarbill, anche con gli occhi
bendati, era lo scalcagnato, ridicolo vecchio «Fewclothes» [Pochi stracci]. Negli anni '20,
quando folle immense di bianchi riempivano tutte le sere Harlem, lui era stato uno dei migliori
borsaioli, ma poi, durante la Depressione, lo aveva colpito una grave forma di artrite alle mani.
Aveva le giunture delle dita tutte deformate e piene di nodi, al punto che a molti faceva
addirittura effetto guardargli le mani. Che piovesse o che venisse giù il nevischio più gelido,
tutti i pomeriggi alle sei Fewclothes era da Small's a raccontare le più straordinarie storie dei
vecchi tempi. Faceva parte del rituale quotidiano che uno o l'altro dei clienti abituali chiedesse
al barman di dargli da bere e a me di dargli da mangiare .
Mi commuovo ancora pensando come tutti noi mettevamo su la nostra finzione scenica con
Fewclothes. Era davvero uno spettacolo vederlo un po' alticcio per i bicchieri bevuti mettersi a
sedere con dignità - lui non chiedeva l'elemosina, non faceva umilmente appello alla carità di
nessuno -, aprire il tovagliolo, guardare con attenzione il menu che gli porgevo e poi ordinare.
Dicevo ai cuochi che si trattava di Fewclothes e gli veniva servito il miglior cibo del locale.
Tornavo e mi occupavo di lui come se fosse stato un milionario .
Da allora, ho pensato molte volte al significato di questo episodio. Da un lato, eravamo tutti
come rannicchiati, legati insieme alla ricerca della sicurezza, del calore e dell'appoggio
reciproco e non lo sapevamo. Anche se qualcuno di noi avesse esplorato lo spazio, curato il
cancro, o promosso qualche attività industriale, eravamo tutti vittime negre del sistema sociale
dell'uomo bianco americano. Dall'altro, la tragedia di quello che un tempo era stato il re dei
borsaioli lo aveva trasformato, agli occhi di quei trafficanti che come lui avevano partecipato
della vita di altri tempi, nel simbolo di uno che, malgrado tutto, era sempre con loro. Per i lupi
ancora capaci di catturare i conigli era importante che il vecchio lupo che aveva perduto i denti
potesse ancora mangiare .
Poi c'era «Saltaleone», lo scassinatore. Nei ghetti che ha costruito per noi, l'uomo bianco ci ha
costretti a non aspirare a cose più grandi, ma a considerare la vita quotidiana come pura e
semplice SOPRAVVIVENZA e, in quel genere di comunità, la sopravvivenza è l'unica cosa
che è rispettata. Non sarebbe pensabile che un noto ladro si facesse vedere regolarmente in
qualche bar di una qualsiasi zona bianca e si presentasse come uno degli avventori più popolari.
Ma se Saltaleone stava qualche giorno senza venire da Small's, noi cominciavamo a domandare
di lui .
Doveva quel soprannome al fatto che, come si diceva, quando lavorava giù in città nelle zone
residenziali dei bianchi, saltava da un tetto all'altro e si muoveva rapidamente sui cornicioni con
incredibile sicurezza, appoggiandosi e tenendosi in equilibrio soltanto con le dita dei piedi. Se
fosse caduto non avrebbe potuto mai scampare alla morte perché entrava negli appartamenti
solo dalle finestre. Si diceva che fosse un tipo così freddo da entrare nelle case per rubare
persino quando c'era gente. Scoprii in seguito che Saltaleone prendeva parecchia droga prima di
andare al lavoro. Mi insegnò alcune cose che, più tardi, mi sarebbero state utili quando tempi
difficili mi costrinsero a metter su una banda di svaligiatori .
Vorrei precisare che Small's non era affatto un covo di criminali. Parlo dei trafficanti perché il
loro era il mondo che mi affascinava, ma in realtà Small's era uno dei due o tre locali notturni
più rispettabili di Harlem. Infatti la polizia di New York City lo raccomandava a quei bianchi
che volevano l'indirizzo di un posto «sicuro» ad Harlem .
La prima stanza che affittai dopo essermi licenziato dalle ferrovie era posta nell'isolato con
numero 800 della Saint Nicholas Avenue. E' bene ricordare che metà degli abitanti di Harlem
affittavano camere ammobiliate. Dove avevo trovato io, passando da una stanza a un'altra si
poteva comprare una pelliccia di provenienza furtiva, una buona macchina fotografica, del
profumo di classe, un fucile, e insomma qualunque cosa dalle donne alle automobili. In quella
casa ero uno dei pochissimi abitanti di sesso maschile. Tutto ciò succedeva durante la guerra
quando non si poteva accendere la radio senza sentir parlare dell'Africa settentrionale o di
Guadalcanal. In parecchi degli appartamenti, le inquiline erano prostitute di professione, una
minoranza si dedicava ad altre forme di traffico o di imbroglio, come la vendita degli
stupefacenti, le scommesse della lotteria clandestina e la ruffianeria, e sono convinto che tutti
gli abitanti di quella casa prendevano stupefacenti di qualche specie. Non sarebbe giusto, in
base a quello che ho detto, giudicar troppo male gli abitanti di quella casa perché, ad Harlem,
quasi tutti dovevano dedicarsi a qualche specie di traffico per sopravvivere e perciò avevano
bisogno di mantenersi in uno stato di semiebbrezza che facesse loro dimenticare quello che
dovevano fare appunto per sopravvivere .
Fu in questa casa che imparai sulle donne più cose di quanto non mi fosse capitato in qualsiasi
altra circostanza. Furono quelle puttane di professione che m'insegnarono cose che tutte le
mogli e tutti i mariti dovrebbero sapere. Più tardi, furono principalmente le donne che non
erano prostitute a insegnarmi di non fidarmi della maggior parte delle appartenenti al loro sesso.
Sembrava che le puttane avessero un codice morale di solidarietà ben più profondo di quanto
non abbiano le numerose signore che frequentano la chiesa e poi vanno a letto per divertimento
con un maggior numero di uomini di quelli che dietro pagamento le puttane frequentano. Parlo
sia delle bianche che delle negre. In quegli anni di guerra, molte negre si trovavano nelle stesse
condizioni delle bianche e mentre i mariti combattevano oltremare, andavano a letto con altri
uomini dando loro persino i soldi che mandava il marito dal fronte .
Molte altre che avevano mariti e figli a New York recitavano la commedia delle buone mogli e
madri mentre poi battevano il marciapiede come le puttane di professione .
La prima conoscenza dell'immonda morale dell'uomo bianco l'attinsi dalla fonte migliore e più
attendibile, e cioè dalle sue donne. Poi, via via che la mia vita diventava sempre più dissoluta,
ebbi modo di constatare con i miei occhi che specie di moralità sia quella dell'uomo bianco.
Arrivai persino a guadagnarmi da vivere aiutandolo a trovare tutte quelle cose abbiette che
desiderava per soddisfarsi .
Ero giovane, lavoravo nel bar e non mi occupavo di queste donne .
Probabilmente risvegliavo i loro istinti materni e mi consideravano come il loro fratellino
minore. Alcune venivano nella mia stanza quando non avevano niente da fare e allora si parlava
e si fumava insieme sigarette alla marijuana. Ciò accadeva generalmente dopo le ore di punta
della mattina, ma lasciatemi dire qualcosa su quelle ore .
Per uno che abitava in un edificio pieno di prostitute era normale vedere e sentire un via vai
continuo di uomini bianchi e negri a tutte le ore della notte, ma quello che mi sbalordiva era
addirittura la folla che arrivava tra, diciamo, le sei e le sette e mezzo del mattino. Alle nove
restavo l'unico uomo nella casa e potevo godermi la massima tranquillità .
Si trattava di uomini sposati che lasciavano le loro case in tempo per fare la breve sosta nella
Saint Nicholas Avenue prima di andare al lavoro. Naturalmente non erano gli stessi tutti i
giorni, ma ce n'era sempre abbastanza per creare un incredibile affollamento. Tra loro ce
n'erano alcuni che venivano in taxi fin dalle zone più lontane della città .
Le responsabili di questa corsa al piacere così mattiniera erano quelle mogli prepotenti, piene
di lamentele e di esigenze che avevano castrato psicologicamente i loro mariti. Sono donne così
sgradevoli e capaci di imporre ai propri mariti una tale tensione psichica da privarli persino
della soddisfazione di essere uomini. Per sfuggire a quella tensione e al sarcasmo delle loro
mogli, questi uomini si alzavano presto per andare a trovare una puttana .
Fa parte del mestiere della prostituta studiare la psicologia maschile. Le mie vicine mi
dicevano che molti uomini passata l'età della maggiore potenza virile, andavano a letto con una
donna solo per soddisfare il loro ego e siccome molte donne non lo capivano, non facevano che
deprimerli e umiliarli. Anche se un uomo ha la più modesta virilità, le prostitute, almeno per un
momento, gli dànno la sensazione di essere il più gran maschio del mondo. Ecco perché c'erano
quegli affollamenti mattutini .
Molte mogli riuscirebbero a conservare i loro mariti se si rendessero conto che il loro bisogno
più profondo è di ESSERE UOMINI .
Quelle donne mi raccontavano tutto: le storielle sulle differenze che riscontravano a letto tra
bianchi e negri e poi le perversioni! Credevo di conoscere l'intera gamma delle stranezze
sessuali finché, più tardi, non diventai io stesso un procuratore di puttane che portava i bianchi
a soddisfare ogni loro più strano desiderio. Tutti nella casa ridevano di un piccolo italiano che
chiamavano «L'uomo dei dieci dollari al minuto». Veniva immancabilmente tutti i giorni a
mezzogiorno dal suo piccolo ristorante situato vicino ai campi di polo. La canzonatura era che
non durava mai più di due minuti... ma lasciava sempre venti dollari .
Le prostitute pensavano che la maggior parte degli uomini si lasciassero abbindolare troppo
facilmente. Tutti i giorni sentivano dire dai loro clienti che le donne che essi mantenevano e a
cui davano tutto non facevano altro che litigare e lamentarsi. Le puttane mi dicevano che la
stragrande maggioranza degli uomini dovrebbe imparare dai loro protettori .
Qualche volta si deve vezzeggiare la donna abbastanza per farle vedere che è amata, ma poi
dev'essere trattata con fermezza .
Queste donne dure mi dicevano che con LORO il sistema funzionava e tutte le donne, per loro
natura, sono deboli e provano attrazione per il maschio che sentono forte .
Ogni tanto Sofia veniva a trovarmi da Boston. La sua bellezza mi dava prestigio anche tra i
negri di Harlem che erano come tutti gli altri, di qualsiasi altro posto. Ciò spiega perché le
prostitute bianche guadagnavano così tanto. Non c'era nessuna differenza tra Lansing, Boston o
New York. Ciò che i razzisti bianchi dicevano, e dicono ancora, era vero! Bastava mettere una
ragazza bianca vicina a un qualsiasi negro e lui subito si eccitava. Anche la donna negra faceva
brillare gli occhi dell'uomo bianco, ma lui era abbastanza astuto da saperlo nascondere .
Sofia arrivava con un treno del tardo pomeriggio; veniva da Small's ed io la presentavo agli
avventori. Stava lì finché non smettevo di lavorare. Le seccava molto che abitassi in mezzo alle
puttane, finché non gliene feci conoscere qualcuna: cominciarono a chiacchierare e le trovò
interessantissime. Le dicevano che mi tenevano in serbo per lei. Andavamo al bar dell'albergo
Braddock dove s'incontravano dei musicisti che mi salutavano come se fossi un loro vecchio
amico: «Ehi Rosso, ma chi ci abbiamo qui?» Facevano una gran festa alla ragazza e io non
riuscivo neanche a pensare di ordinare un bicchiere. In quei tempi non c'erano negri al mondo
più pazzi per le donne bianche della maggior parte di quei musicisti. E' naturale che chi lavora
nel mondo dello spettacolo sia meno inibito dai tabù sociali e razziali .
I razzisti bianchi non vi diranno che il criterio è valido anche a rovescio .
Quando si faceva tardi, Sofia ed io andavamo in certi posti che stanno aperti illegalmente la
notte e che, sempre illegalmente, servono alcool. Quando i night club di città si chiudevano,
gran parte di questi locali di Harlem si riempivano di bianchi, di quei bianchi che andavano
pazzi per «l'atmosfera» negra specialmente quella di certi ritrovi che si potrebbero chiamare
dell'«anima negra» [1]. Qualche volta i negri raccontavano come parecchi bianchi non si
sentivano mai abbastanza vicini a noi e tra di noi, in gruppo. Sembrava che tutti, uomini e
donne, fossero come incantati dai negri .
Ricordo, a questo proposito, un caso veramente interessante: quello di una ragazza bianca che
non mancava mai a nessuna delle feste danzanti al Savoy Ballroom. Il mio amico Sammy
l'aveva osservata tante volte e ne era rimasto affascinato. Ballava soltanto con i negri e
sembrava che andasse addirittura in trance. Se un bianco le chiedeva un ballo rifiutava. Quando
si avvicinava il momento della chiusura, alle prime ore del mattino, permetteva a un negro di
accompagnarla fino all'entrata della metropolitana. Questo era tutto. Non volle mai dire a
nessuno il suo nome né tanto meno rivelare dove abitava .
Ora vi racconterò un altro caso interessante, sebbene assai diverso, e che mi insegnò qualcosa
che da allora ho visto confermato in mille altri casi. Fu la migliore lezione per capire come
l'uomo bianco si mangia il cuore e il fegato, anche se vi vuol far credere diversamente, tutte le
volte che vede un negro in intimità con una delle sue donne .
Alcuni bianchi che frequentavano Harlem, dei giovanotti che noi chiamavamo "hippies" [2], si
comportavano più da negri dei negri stessi. Questo di cui parlo si esprimeva in gergo negro più
di noi stessi. Si sarebbe scagliato addosso a chiunque gli avesse detto che sentiva una qualche
differenza razziale. I musicisti che frequentavano il Braddock non riuscivano a fare un passo
senza trovarselo fra i piedi. Quando lo vedevo mi diceva: «Daddy, vieni, stiamo un po'
insieme!» Sammy non poteva sopportarlo: era sempre e dappertutto tra i piedi. Andava in giro
persino con un vistosissimo "zoot", si ungeva i capelli col grasso per farli sembrare stirati,
portava le scarpe con la punta a cupolino e la lunga, ciondolante catena: tutto come un negro.
Inoltre non si sarebbe mai fatto vedere con una donna che non fosse negra e in realtà viveva con
due negre nello stesso appartamentino. Non seppi mai come se la cavavano con quel tipo lì, ma
avevo una mia idea in proposito .
Una mattina, alle tre o alle quattro, incontrammo questo giovanotto bianco nel locale di Bill il
Creolo. Era alticcio, in quello stato di eccitazione prodotto dalla marijuana. Gli presentai Sofia
e poi mi allontanai un momento per salutare qualcun altro. Quando tornai Sofia aveva una
espressione strana, ma non mi disse nulla finché non ce ne fummo andati. Il giovanotto le aveva
chiesto: «Perché una ragazza bianca come te si butta così nella spazzatura?» Bill il Creolo, che
naturalmente, come avrete immaginato, era di New Orleans, divenne mio buon amico. Quando
Small's chiudeva, accompagnavo nel suo locale tutti quei bianchi disposti a spendere che ancora
volevano bere qualcosa. Fu quella la mia prima esperienza di procacciatore di puttane. Il locale
consisteva nell'appartamento di Bill il Creolo e credo che per ingrandire il salotto fosse stato
necessario buttar giù una parete, ma l'atmosfera, oltre al cibo, ne faceva uno dei posti più
affascinanti di Harlem .
Da un giradischi veniva continuamente una bella musica sommessa .
C'erano ogni sorta di bevande e Bill vendeva piatti della sua deliziosa e piccante cucina creola
come il "gumbo" e la "jambalaya". La sua amante, una bella ragazza negra, serviva i clienti.
Bill la chiamava «Brown Sugar» e alla fine tutti gli altri facevano lo stesso. Se c'erano molti
clienti da servire tutti in una volta, Bill il Creolo tirava fuori le pentole, la sua ragazza portava i
piatti e ad ognuno toccavano delle enormi porzioni. Poi Bill riempiva anche il suo piatto e
mangiava con noi. Era un piacere vederlo mangiare: adorava le cose che cucinava e che, devo
dire, erano buonissime. Preparava il riso come i cinesi, così tosto che ogni granello era
completamente separato dagli altri. D'altro canto però non ho mai conosciuto un cinese che
sapesse cucinare il pesce e i fagioli come Bill .
Fece abbastanza soldi con quel suo localetto nell'appartamento da riuscire ad aprire un
ristorante creolo che divenne famoso ad Harlem. Bill era un grande appassionato di baseball e
su tutti i muri c'erano fotografie con autografi dei campioni di quello sport ed anche di alcune
celebrità del mondo della politica e dello spettacolo che venivano lì a mangiare e portavano i
loro amici. Chissà cosa n'è stato di Bill il Creolo! Il ristorante è stato venduto e non ho più
sentito parlare di lui. Bisogna che mi ricordi di domandare a qualcuno dei veterani della Settima
Avenue che certamente saprà dirmi qualcosa .
Una volta che chiamai Sofia a Boston, mi rispose che non sarebbe potuta venire fino al
prossimo weekend. Si era appena sposata con un ricco bianco di Boston. Lui era sotto le armi,
era venuto a casa in licenza e poi sarebbe ben presto ripartito. Lei non voleva che nulla
cambiasse fra noi e io le dissi che per me non faceva alcuna differenza. Naturalmente avevo
presentato Sofia al mio amico Sammy e parecchie sere eravamo usciti insieme. Sammy ed io
avevamo discusso a lungo la psicologia del negro e della donna bianca e dovevo a lui se ero del
tutto preparato al matrimonio di Sofia .
Sammy diceva che le donne bianche sono molto pratiche: ne aveva sentite parecchie esprimere
sinceramente i propri sentimenti .
Sapevano che il negro aveva tutto contro, che l'uomo bianco lo teneva schiacciato sotto i piedi e
lo rendeva incapace di raggiungere qualsiasi posizione di autonomia. La donna bianca voleva
vivere bene, godere di una buona considerazione fra quelli della sua razza, ma nello stesso
tempo, voleva soddisfare il suo piacere. Perciò alcune donne sposate a un uomo bianco per
ragioni di convenienza e sicurezza continuano poi a tenersi come amante un negro. Ciò non
vuol dire necessariamente che siano innamorate di lui, ma piuttosto della libidine e
specialmente della libidine «tabù» .
Non era inconsueto che un bianco guadagnasse dieci, venti, trenta, quaranta o cinquantamila
dollari all'anno, ma era veramente raro trovare un negro che arrivasse, nel mondo dell'uomo
bianco, a guadagnare anche cinquemila dollari. La donna bianca andava dunque con i negri o
per un amore veramente folle o per soddisfare la sua sensualità .
Dopo un certo tempo che mi trovavo ad Harlem e che ormai tutti pensavano che vi sarei
rimasto per sempre, mi affibbiarono un nomignolo che mi avrebbe fatto riconoscere senza fallo
dai due altri «Rossi», ambedue con i capelli stirati di quel colore e ben noti nell'ambiente. Uno,
chiamato «Il Rosso di Saint Louis», era specializzato in rapine a mano armata e quando andai in
prigione stava scontando una condanna per tentata rapina nei confronti del capomaggiordomo
del vagone ristorante di un treno della linea New York - Philadelphia. Venne poi liberato, ma
ora ho sentito dire che è di nuovo in prigione per un furto di gioielli commesso a New York .
L'altro era «Il Rosso di Chicago». Diventammo buoni amici in un locale dove si serviva
illegalmente alcool dopo le ore di chiusura e dove più tardi fui assunto come cameriere. Era il
più buffo sguattero che abbia mai conosciuto. Ora si guadagna la vita proprio perché è buffo: è
diventato un comico di night club e d'avanspettacolo noto in tutto il paese. Non vedo nessuna
ragione perché il vecchio «Rosso di Chicago» se la dovrebbe prendere se ora dico che il suo
nome è Redd Foxx .
Comunque, dopo non molto tempo, mi fu affibbiato il mio soprannome. Sapendo che venivo
dal Michigan la gente mi domandava da quale città e poiché gran parte degli abitanti di New
York non avevano mai sentito parlare di Lansing, io rispondevo Detroit. Poco alla volta,
cominciarono a chiamarmi «Il Rosso di Detroit» e il soprannome mi rimase .
Un pomeriggio, all'inizio del 1943, prima che arrivasse la folla degli avventori abituali e cioè
intorno alle sei, un soldato negro venne a sedersi da solo a uno dei tavoli che io servivo .
Stette lì un'ora o anche più. Aveva un aspetto patetico e istupidito e dava l'impressione di essere
appena arrivato dal più profondo Sud. Dopo avergli servito quattro o cinque bicchieri, mentre
passavo lo straccio sul tavolo, mi chinai vicino a lui e gli chiesi se voleva una donna .
Sapevo benissimo cosa facevo. Non era una legge soltanto dello Small's Paradise, ma di tutti i
bar che volevano restare in commercio: non immischiarsi mai in cose che avrebbero potuto
essere considerate come «corruttrici della morale» dei membri delle forze armate, o in qualsiasi
specie di traffico con loro .
Moltissimi locali avevano avuto noie per questi motivi: alcuni erano stati proibiti ai militari e ad
altri era stata ritirata la licenza .
Mi ero messo proprio nelle mani di una spia. Certo, mi disse, che gli sarebbe piaciuto di andare
con una donna, e si comportò con gratitudine arrivando persino a parlare nel più incredibile
accento del Sud. Io gli detti il numero di telefono di una delle mie migliori amiche tra quelle
prostitute con cui abitavo .
Ma c'era qualcosa che non andava. Avevo dato a quel tipo una mezz'ora per arrivare e poi
telefonai. Mi aspettavo la risposta che ricevetti e cioè che nessun soldato si era fatto vedere .
Non persi neanche tempo a tornare al bar. Andai diritto nell'ufficio di Charlie Small .
«Ho fatto qualcosa, Charlie, - dissi, - non so proprio perché...» Gli raccontai tutto .
Charlie mi guardò: «Vorrei proprio che tu non l'avessi fatto, Rosso». Tutti e due sapevamo
cosa volevano dire quelle parole .
Quando entrò Joe Baker, il poliziotto delle Indie occidentali in borghese, io lo stavo
aspettando. Non gli feci neanche delle domande .
Trovammo il commissariato di polizia della Centotrentacinquesima Strada pieno di poliziotti in
uniforme e di poliziotti militari che si erano portati dietro parecchi soldati. Fui riconosciuto
anche da altri agenti che, come Joe Baker, capitavano qualche volta da Small's .
C'erano due elementi in mio favore. Prima di tutto non avevo mai avuto noie con la polizia e
poi quando quella spia negra aveva cercato di darmi una mancia l'avevo rifiutata dicendogli che
lo facevo solo per fargli un favore. Dovevano esser d'accordo che Joe Baker si sarebbe limitato
a spaventarmi .
Non conoscevo abbastanza l'ambiente per valutare il fatto che non mi portarono davanti al
tavolo per stendere il verbale. Joe Baker mi fece strada verso l'interno dell'edificio finché
arrivammo in una stanzetta. Attraverso la parete si sentiva distintamente che stavano picchiando
qualcuno. "Whop! Whop!" L'arrestato gridava: «Vi prego! vi prego! non mi picchiate sulla
faccia... è con la faccia che mi guadagno la vita». Da queste parole capii che si trattava di un
magnaccia. "Whop! Whop!", «Vi prego! Vi prego!» (Non molto tempo dopo sentii dire che Joe
Baker era caduto in trappola nel New Jersey mentre cercava di ricattare un protettore negro e la
sua prostituta bianca. Fu espulso dalla polizia di New York City e un tribunale del New Jersey
lo condannò a una pena detentiva) .
La cosa più amara per me fu che, oltre a essere licenziato, mi fecero capire che non avrei più
dovuto frequentare Small's .
Comprendevo le loro ragioni e anche se non ero quello che si potrebbe dire «un tipo
pericoloso», mi avrebbero in ogni caso tenuto sotto sorveglianza. I fratelli Small dovevano pur
proteggere i loro affari .
Sammy dette prova di saper aiutare l'amico nel bisogno. Mi fece sapere di andar subito al suo
appartamento. Non c'ero mai stato e il posto mi parve una specie di palazzotto: le sue donne lo
mantenevano davvero da signore. Mentre stavamo discutendo a quale specie di traffico avrei
dovuto dedicarmi, Sammy mi offrì la migliore marijuana che avessi mai sentito .
Parecchi controllori della lotteria clandestina che frequentavano regolarmente il locale di
Small's mi avevano offerto parecchie volte di fare il galoppino. Ciò avrebbe voluto dire
guadagnare pochissimo finché non mi fossi formata una vasta clientela. Quanto al dedicarmi
allo sfruttamento delle prostitute come faceva Sammy, non c'era niente da fare. Sentivo di non
essere adatto per un mestiere come quello e che certamente avrei finito col morire di fame
cercando inutilmente di reclutare prostitute .
Ben presto Sammy ed io ci trovammo d'accordo sul fatto che per me la miglior cosa era di
andare a vendere le «paglie». Era un mestiere relativamente di poco impegno, che si esercitava
da solo e che dava immediati, forti guadagni. Per chi aveva soltanto un po' di cervello, non c'era
bisogno di esperienza specialmente se si sapevano stabilire rapporti cordiali con la gente .
Sia io che Sammy conoscevamo dei marinai mercantili e altri trafficanti che avrebbero potuto
rifornirmi di marijuana sciolta. I musicisti, tra i quali avevo molte conoscenze, costituivano il
mercato migliore per le «paglie» e oltre a ciò, erano i maggiori consumatori di stupefacenti,
qualora più tardi avessi voluto dedicarmi alla vendita di varie specie di narcotici. Sarebbe stato
più rischioso, ma anche più redditizio .
Chi vendeva eroina e cocaina arrivava a guadagnare fino a cento dollari al giorno, ma occorreva
parecchia esperienza con la squadra narcotici per non farsi pizzicare tutto il tempo necessario
per mettere insieme grosse somme .
Ero abbastanza scaltrito da riconoscere e individuare a colpo d'occhio gran parte degli agenti
del corpo regolare di polizia, ma non quelli della squadra speciale narcotici. Tra i vecchi
trafficanti che regolarmente venivano da Small's avevo un gran numero di conoscenze che
avrebbero potuto rivelarsi molto utili .
Ciò era importante perché se Sammy era in grado di fornirmi regolarmente la marijuana, un
aspetto decisivo del successo in questo campo era di sapere a chi si sarebbe potuto chiedere
aiuto se lui ne avesse avuto bisogno. Tale aiuto si sarebbe dovuto cercare tra i poliziotti e
magari molto più in alto .
Quanto a me, non avevo ancora raggiunto quello stadio e perciò Sammy mi dette, credo, una
ventina di dollari .
Più tardi, quella stessa sera, bussai alla sua porta, gli restituii il denaro e gli chiesi
scherzosamente se aveva bisogno di un prestito da me. Quando ero uscito da lui ero andato
subito dal fornitore che egli stesso mi aveva indicato, avevo acquistato un quantitativo molto
piccolo di marijuana e mi ero procurato la carta per fare da me le sigarette. Siccome erano della
grandezza di fiammiferi un po' grossi, ne potei fare un numero sufficiente che andai poi a
vendere ai miei amici musicisti all'albergo Braddock. Con quello che incassai restituii i soldi a
Sammy e mi rimase un gruzzoletto per cominciare a lavorare. Quando quei musicisti videro il
loro amico e ammiratore che si era messo in quel commercio mi salutarono dicendo: «Porca
miseria! E' il Rosso!» Almeno metà dei musicisti di ogni orchestra fumavano le paglie .
Non farò qui i nomi perché dovrei comprendere nella lista alcune delle personalità allora più
famose nel campo della musica popolare e parecchi che sono ben noti anche oggi. In ogni caso,
in una delle orchestre che ancor oggi è famosa tutti i membri prendevano la marijuana. Per
citare un altro esempio, parecchi musicisti vi potrebbero dire a chi mi riferisco quando ricordo
che uno dei cantanti più famosi fumava le paglie attraverso un osso di pollo adattato a
bocchino. Ne aveva fumate così tante che se accendeva un fiammifero davanti all'osso vuoto e
ne aspirava il calore, riusciva a ottenere la «scarica» anche senza la marijuana .
Il mio profitto cresceva, continuavo ad aumentare i rifornimenti e vendevo «paglie » come un
forsennato. Dormivo pochissimo: ero sempre presente dove i musicisti si ritrovavano. In tasca
avevo un fascio di banconote perché tutti i giorni guadagnavo cinquanta o sessanta dollari
puliti. A quei tempi, e per la verità anche oggi, quella era una fortuna per un ragazzo negro di
diciassette anni. Per la prima volta nella mia vita ebbi la sensazione di una grande libertà! Ora,
tutto all'improvviso, ero anch'io alla pari con quegli altri giovani trafficanti che avevo tanto
ammirato .
Fu in questo periodo che scoprii il cinema. Qualche volta arrivavo a vedere anche cinque film
in un sol giorno, sia giù in città che ad Harlem. Mi piacevano i duri, i film di azione, Humphrey
Bogart in "Casablanca", e andavo in visibilio per tutti quei balli e quell'allegria di film come
"Stormy Weather" e "Cabin in the Sky". Appena uscito dal cinema, prendevo contatto con i
fornitori e poi facevo le sigarette e quando veniva buio cominciavo il mio giro. A quelli che me
ne compravano dieci per un valore di cinque dollari, ne davo due di regalo. Non dovevo
vendere e poi scappare, dato che i clienti erano anche miei amici. Spesso mi mettevo anch'io a
fumare con loro e nessuno era più «carico» di marijuana di me .
Ora che ero libero di fare quel che volevo, mi prese improvvisamente la voglia di andare a
Boston. Naturalmente andai a far visita a Ella. Le detti un po' di soldi e le dissi che lo
considerasse un gesto simbolico di riconoscenza per avermi aiutato quando ero arrivato da
Lansing. Non era più la stessa .
Non mi aveva ancora perdonato per la faccenda di Laura che nessuno di noi due rammentò.
Eppure anche così Ella dimostrò nei miei confronti più calore di quanto non avesse fatto
quand'ero partito per New York. Passammo in rassegna le vicende della famiglia. Wilfred
aveva dimostrato una tale capacità che gli avevano chiesto di restare a Wilberforce come
istruttore ed Ella aveva ricevuto una lettera da Reginald che finalmente era riuscito a farsi
arruolare nella marina mercantile .
Telefonai a Sofia dall'appartamento di Shorty e appena questi uscì per andare al lavoro lei mi
venne a trovare. Avrei voluto portarla in qualcuno dei club di Roxbury, ma Shorty ci aveva
detto che, come succedeva a New York, i poliziotti di Boston si servivano della guerra come
pretesto per dar fastidio alle coppie miste, fermarle e poi mettersi a perseguitare il negro con un
fuoco di fila di domande riguardo alla sua posizione militare. Naturalmente il fatto che Sofia era
sposata ci rendeva di per sé molto più cauti .
Quando lei ebbe preso il taxi per tornare a casa, io andai a sentire l'orchestra di Shorty. Sì, ora
aveva un complesso tutto suo. Era riuscito a ottenere una lunga dilazione nella chiamata alle
armi e ne fui molto contento per lui. Il suo complesso era tutt'altro che eccezionale, però Shorty
guadagnava bene a Boston suonando in piccoli club. Tornati all'appartamento rimanemmo a
chiacchierare finché non fece giorno. «Caro concittadino, continuava a dire Shorty, - ora sei
anche qualcos'altro!» Gli raccontai alcune delle sregolatezze che avevo fatto ad Harlem e degli
amici che avevo. Gli dissi anche la storia di Sammy il magnaccia .
A Paducah nel Kentucky, sua città natale, Sammy aveva messo incinta una ragazza e i genitori
di lei l'avevano presa così male che era dovuto scappare ad Harlem dove si era impiegato come
cameriere in un ristorante. Quando vedeva che una donna veniva sola a mangiare e le
informazioni che assumeva confermavano che era davvero sola, non sposata e che non abitava
con nessuno, di solito non era difficile per l'abile Sammy farsi invitare nell'appartamento di lei.
Allora insisteva per andare a prendere qualcosa da mangiare in un ristorante vicino e in
quell'intervallo di tempo faceva fare un duplicato della chiave .
Poi, quando sapeva che la donna era fuori, Sammy andava nell'appartamento e portava via tutte
le cose di valore. A questo punto era in grado di offrire una piccola somma per aiutare la donna
a rimettersi in piedi e questa era la fase iniziale di una dipendenza emotiva e finanziaria che
Sammy sapeva sviluppare finché la malcapitata non diventava praticamente la sua schiava .
Gli agenti della squadra narcotici che operavano ad Harlem non impiegarono molto a scoprire
che vendevo le «paglie» e qualche volta uno di loro mi pedinava. Parecchi venditori di
marijuana erano in prigione perché erano stati pizzicati con la roba addosso. Per evitare
quell'inconveniente ebbi un'idea: la legge specificava che se l'indiziato non veniva trovato con il
corpo del reato, non si poteva arrestarlo. Le scarpe con i tacchi vuoti, la doppia fodera nel
cappello e cose del genere erano ormai roba vecchia per gli agenti .
Portavo sotto la giacca, vicino all'ascella, un pacchettino con cinquanta sigarette di marijuana.
Dovevo tenere il braccio teso lungo il fianco e quando mi muovevo, mi guardavo d'intorno. Se
qualcuno mi dava una occhiata sospettosa, attraversavo rapidamente la strada, o entravo in un
portone, o giravo dietro un angolo, allentando il braccio fino a far cadere giù il pacchetto. Di
notte, quando come al solito andavo in giro a vendere, nessuna persona sospetta avrebbe potuto
accorgersi del trucco. Se poi mi convincevo di aver sbagliato, tornavo indietro a riprendermi il
pacchetto .
Con questo sistema perdetti parecchia merce. Talvolta riuscii a scoraggiare qualche agente e in
ogni caso ce la feci a non essere portato davanti al tribunale .
Una mattina, entrando nella mia stanza, mi accorsi che c'era stato qualcuno. Immaginai subito
che si fosse trattato della polizia. Avevo sentito dire troppe volte che quando non riuscivano a
raccogliere prove, le creavano loro mettendo qualcosa di compromettente in posti che l'indiziato
non poteva sapere e poi tornavano a «trovarlo». Non pensai due volte al da farsi. Raccolsi le
mie poche cose e non mi voltai neppure indietro. Quando tornai a dormire, si trattava di un'altra
stanza .
Fu allora che cominciai a portare in tasca una piccola pistola automatica. Me la dette, in
cambio di alcune «paglie», un tossicomane che conoscevo e che l'aveva rubata da qualche parte
.
La portavo infilata nella cintola proprio nel mezzo del dorso .
Qualcuno mi aveva detto che quando gli agenti perquisivano rapidamente per la strada, di solito
non toccavano mai là .
Inoltre, se non sapevo con chi ero, evitavo sempre di trovarmi negli assembramenti. Gli agenti
della squadra narcotici erano famosi per mescolarsi in mezzo alla folla, metter le mani addosso
a chi avevano deciso di arrestare e, facendo finta di perquisirlo, infilargli in tasca il corpo del
reato. Ero convinto che finché camminavo e stavo allo scoperto, avevo delle buone probabilità
di cavarmela. Non ricordo le vere ragioni che mi spinsero a portare la pistola, ma credo che
fosse perché non mi sentivo di farla passar liscia a chi avesse cercato di compromettermi in
qualche situazione che avrei potuto evitare .
Vendevo meno di prima perché tutte queste precauzioni mi portavano via parecchio tempo.
Ogni tanto, e tutto all'improvviso, dovevo trasferirmi in un'altra stanza ammobiliata. Nessuno
all'infuori di Sammy sapeva dove dormivo .
Alla fine circolò nell'ambiente la notizia che la squadra narcotici di Harlem mi aveva messo
nella lista dei ricercati speciali .
A questo punto, quasi ogni giorno, e di solito in un locale pubblico, trovavo qualche agente che
dopo aver tirato fuori il distintivo di riconoscimento, mi perquisiva. Dicevo subito loro con
voce abbastanza forte perché gli altri presenti sentissero, che non avevo niente addosso e che
non volevo che mi mettessero niente in tasca. Allora non ci si provavano perché ad Harlem la
legge non era tenuta in gran conto e gli agenti dovevano stare attenti che una folla di negri non
intervenisse con metodi sbrigativi. Ad Harlem si cominciava a sentire una forte tensione e quasi
si poteva prevedere che stesse per scoppiare qualcosa, come infatti ben presto successe .
Per me era una vita dura. Dovevo nascondere le «paglie» in diversi posti vicino a dove
vendevo: ne mettevo cinque in un pacchetto di sigarette vuoto e lo buttavo vicino a un
lampione, dietro un secchio di spazzatura o in una scatola. Dicevo ai clienti di pagarmi prima e
poi indicavo loro dove dovevano raccogliere la merce .
I miei clienti regolari non erano disposti a far questo: non si può pretendere che un noto
musicista vada a rimestare dietro un secchio di spazzatura. Perciò cominciai a dedicarmi di più
ai clienti della strada, a quelli che si vedeva lontano un miglio che erano sotto l'effetto della
droga. Raccolsi parecchie scatole vuote di garze della croce rossa e le adoperai per nasconderci
le sigarette di marijuana. Il sistema funzionava molto bene .
Ma gli agenti della squadra narcotici di Harlem escogitarono tanti di quei trucchi per
perseguitarmi che dovetti cambiare zona. Mi spostai verso l'estrema parte meridionale di
Harlem, intorno alla Centodecima Strada. In quella zona i fumatori di marijuana erano più
numerosi, ma si trattava dei più miserabili perché questa era la parte peggiore del ghetto, abitata
dalla gente più povera, da coloro che vivono sotto il continuo effetto dei narcotici per poter
sfuggire alla necessità di considerare quanto è squallida la loro esistenza. Non durai molto
neanche lì. Perdevo troppa merce. Alcuni di quei fumatori di marijuana che avevano davvero
una specie di istinto animalesco, mi seguivano e imparavano il mio sistema. Venivano fuori a
corsa da un portone, io lasciavo cadere la roba e loro ci si buttavano sopra come le galline sul
granturco. Quando si diventa animali, avvoltoi com'ero diventato io nel ghetto, si entra nel
mondo degli animali e degli avvoltoi in cui vale soltanto la legge della sopravvivenza del più
forte .
Ben presto mi trovai a dover prendere in prestito piccole somme da Sammy e da qualcuno dei
musicisti: abbastanza per rifornirmi di marijuana, fumarne io stesso e qualche volta abbastanza
solo per mangiare .
Poi Sammy mi dette un'idea: «Rosso, hai ancora la tua vecchia tessera di riconoscimento delle
ferrovie?» Ce l'avevo ancora: non me l'avevano ritirata .
«Ebbene, perché non te ne servi per fare qualche viaggetto finché non viene una schiarita?»
Sammy aveva ragione .
Scoprii che se camminavo deciso e mostravo al bigliettaio la mia tessera di riconoscimento
delle ferrovie, il controllore anche se era un tipaccio, bastava che mi rivolgessi a lui nella
maniera giusta senza raccomandarmi - mi faceva segno di salire sul treno. Una volta sopra, il
controllore mi dava il biglietto per un posto riservato, valido per l'intero percorso del treno .
Mi venne l'idea che, in questo modo, avrei potuto andar su e giù lungo la costa orientale a
vendere «paglie» tra i miei amici che, con le loro orchestre, andavano in tournée .
Avevo la tessera di riconoscimento della ferrovia di New Haven .
Lavorai un paio di settimane per altre compagnie ferroviarie finché non ebbi le loro tessere di
riconoscimento e così fui a posto .
A New York, feci parecchie sigarette alla marijuana, le impacchettai e poi le misi in vasi di
vetro sigillati. La tessera di riconoscimento funzionava a meraviglia. Bastava persuadere il
controllore che ero un impiegato che doveva andare a casa per certe questioni di famiglia e lui
mi faceva passare subito senza un momento di esitazione. Gran parte dei bianchi non sono
disposti a riconoscere che un negro possa avere abbastanza intelligenza o coraggio per prenderli
in giro .
Mi fermavo nelle città dove suonavano i miei amici. «Rosso!» Ero un vecchio amico che
veniva da casa. Per quello che riguardava le «paglie» ero uno che veniva dall'albergo Braddock.
Avevo le sigarette di marijuana di New York e nessuno aveva mai sentito dire di un venditore
di stupefacenti che viaggiava in treno .
Non andavo al seguito di nessuna orchestra. I musicisti sapevano tutti quali erano gli impegni e
gli orari delle varie orchestre .
Quando avevo finito la merce, tornavo a New York, mi rifornivo, e poi ero di nuovo sulla
piazza. La scena era quasi sempre la stessa: sale da concerto o palestre tutte illuminate,
l'autobus riservato all'orchestra parcheggiato lì fuori e i ballerini del posto che entravano dentro
a frotte, vestiti a festa, tutti eccitati. All'entrata dicevo di essere il fratello di qualcuno degli
orchestrali e in gran parte dei casi credevano che fossi anch'io un musicista. Nel corso della
serata facevo vedere ai provinciali qualche passo un po' stravagante del mio "lindy-hop",
talvolta passavo la notte nella cittadina dove veniva data la festa e qualche altra volta andavo in
autobus con l'orchestra fino alla successiva località della loro tournée. In certi periodi tornavo a
New York e stavo fermo un po' di tempo .
Ora le cose si erano un po' calmate: si era sparsa la voce che ero partito e la squadra narcotici si
era accontentata di quella notizia. In qualche cittadina di provincia la gente mi saltava
addirittura addosso per avere un autografo, credendomi uno dell'orchestra e una volta, a
Buffalo, ne uscii col vestito quasi strappato .
Un giorno che tornavo a New York trovai mio fratello Reginald ad aspettarmi. Il giorno prima
la nave mercantile su cui era imbarcato aveva gettato l'ancora in un porto del New Jersey .
Credendo che lavorassi ancora da Small's Reginald era andato là e i barman gli avevano dato
l'indirizzo di Sammy il quale l'aveva portato da me .
Fu bello rivedere mio fratello. Mi pareva impossibile che fosse lo stesso che un tempo,
quand'era ragazzino, mi veniva sempre dietro. Ora Reginald misurava quasi un metro e
novanta, anche se era parecchi centimetri più basso di me; aveva la pelle più scura della mia,
occhi quasi verdi e una striscia bianca nei capelli che erano rossicci-scuri, quasi come i miei .
Lo portai dappertutto, presentandolo ai miei amici. Mi misi a studiarlo con attenzione e mi
piacque: era molto più compassato di me quando avevo sedici anni .
In quel momento non avevo una stanza, ma sia io che Reginald avevamo abbastanza soldi e
così andammo a stare all'albergo Saint Nicholas a Sugar-Hill. Ora non c'è più: è stato demolito .
Parlavamo nottate intere ricordando gli anni di Lansing e passando in rassegna tutti i membri
della nostra famiglia. Gli raccontai cose di nostro padre e di nostra madre che lui non poteva
ricordare e Reginald mi mise al corrente di quello che avevano fatto e facevano i nostri fratelli e
sorelle. Wilfred era ancora istruttore tecnico alla Wilberforce University mentre Hilda, che
stava sempre a Lansing, si sarebbe sposata tra poco; lo stesso stava per fare Philbert .
Io e Reginald venivamo subito dopo Hilda, io più grande e lui più piccolo. Quanto a Yvonne,
Wesley e Robert, andavano ancora a scuola a Lansing .
Ridemmo alle spalle di Philbert il quale, l'ultima volta che lo avevo visto, era diventato
religiosissimo e portava uno di quei cappelli di paglia rotondi .
La nave di Reginald rimase all'ancoraggio per circa una settimana dovendo effettuare delle
riparazioni alle macchine .
Ero molto contento di vedere che mio fratello, sebbene parlasse poco su questo argomento,
ammirava la mia capacità di vivere con l'immaginazione e l'astuzia. Per i miei gusti Reginald si
vestiva in maniera troppo vistosa e perciò chiesi a un mio cliente, uno che comprava da me le
«paglie», di procurargli un vestito e un cappotto più rispettabili. Gli dissi di aver imparato che,
per potere ottenere qualcosa, bisognava avere l'aspetto di uno che aveva già una posizione .
Prima che Reginald partisse, insistetti perché lasciasse la marina mercantile: lo avrei aiutato a
cominciare ad Harlem. Devo aver pensato che sarebbe stata una bella cosa se avessi potuto
tenermi vicino mio fratello minore: avrei avuto due persone di cui mi potevo fidare, lui e
Sammy .
Reginald era un tipo freddo. Alla sua età sarei stato disposto a correr dietro al treno pur di
andare a New York e a Harlem, ma lui, quando partì, si limitò a dirmi: «Ci penserò» .
Non molto tempo dopo la partenza di Reginald, tirai fuori lo "zoot suit" più incredibilmente
vistoso di New York. Si era nel 1943 e l'ufficio di leva di Boston mi aveva scritto all'indirizzo
di Ella; visto che là ero irreperibile, aveva mandato la comunicazione all'ufficio di New York e
così, all'indirizzo di Sammy, ricevetti i saluti dello zio Sam .
A quel tempo c'erano soltanto tre cose al mondo che mi facevano paura: la prigione, un lavoro
e l'esercito. Mancavano soltanto dieci giorni allo scadere del termine di presentazione al Centro
di raccolta. Mi misi subito al lavoro. I soldati del servizio spionaggio, quelle spie negre in abiti
civili, erano dappertutto ad Harlem e tenevano gli orecchi aperti per conto dell'uomo bianco che
stava giù in città. Sapevo benissimo dove e quando dovevo far passare la voce e così cominciai
a diffondere la notizia che volevo in tutti i modi arruolarmi... nell'esercito giapponese .
Quando avevo la sensazione che le spie fossero lì ad ascoltarmi, parlavo e mi comportavo
come un esaltato e un pazzo. In realtà parecchi trafficanti di Harlem, come poi più tardi io
stesso, avevano raggiunto quello stato, del resto inevitabile per chi aveva preso per lungo tempo
dosi sempre maggiori di stupefacenti ed era sottoposto alla dura pressione psicologica della vita
del trafficante. Tiravo fuori la cartolina precetto e la leggevo ad alta voce per esser sicuro che
sentissero chi ero e riferissero con esattezza il mio nome. Credo che questa fosse l'unica volta
che, a quel tempo, il mio nome vero venisse pronunciato ad Harlem .
Il giorno che andai al distretto militare, mi vestii come un attore. Insieme con quel vistosissimo
"zoot", mi misi le scarpe gialle con la punta a cupolino e mi arrostii i capelli per ottenere la
stiratura più rossa e più perfetta che avessi mai avuto .
Entrai dimenandomi e accennando a passi di danza e rivolsi il mio saluto «sincopato» al
soldato bianco di servizio: «Crazy-o, daddy-o, fammi far presto. Sono impaziente di indossare
quella divisa...» E' probabile che il soldato non si sia ancora rimesso dallo sbigottimento che
provò a quello spettacolo .
Avevano ricevuto le informazioni che volevo, ma nonostante ciò mi fecero fare la trafila. In
quella grande stanza c'erano quaranta o cinquanta reclute potenziali. Nessuno parlava,
all'infuori di me che rovesciavo torrenti di parole senza usare mai altro che lo slang. Mi
dichiaravo deciso a combattere su tutti i fronti e, prima che finisse, assicuravo che sarei
diventato generale. Roba di questo genere.. .
Naturalmente la maggior parte dei presenti erano bianchi e quelli dall'aspetto più mite
sembravano pronti a scappare da un momento all'altro. Altri mi guardavano con lo sguardo
acido di chi pensa: «Questo è un "nigger" della peggior specie». Gli altri si divertivano perché
vedevano in me l'archetipo del «buffone di Harlem» .
Anche alcuni dei dieci o dodici negri che erano in quello stanzone si divertivano mentre gli
altri, con le facce impassibili come statue, avevano l'espressione di chi si appresta a impegnarsi
per uccidere qualcuno e, sono sicuro, sarebbero stati contenti di cominciare con me .
La fila scorreva lentamente. Quando toccò a me, dopo essermi spogliato, continuai a ripetere
durante tutte le fasi della visita medica che ero felicissimo di arruolarmi. Tutti quelli in camice
bianco che vidi mi guardavano come si guarda un riformato .
Prima che mi mandassero via dovetti stare in fila più di quanto non mi sarei aspettato. Uno di
quei tipi in camice bianco mi accompagnò attraverso un lungo corridoio fino all'ufficio di
quello che sapevo essere l'essiccatore di teste, cioè lo psichiatra militare .
A riceverci venne un'infermiera negra. Ricordo che avrà avuto poco più di vent'anni e che non
era affatto brutta. Era una delle prime negre a esercitare questa professione .
I miei confratelli sanno di cosa parlo. A quei tempi, durante la guerra, l'uomo bianco aveva
talmente bisogno di personale che cominciava a permettere che i negri lasciassero i secchi, le
scope e gli stracci da spolverare e adoperassero i lapis, lavorassero dietro a un tavolo o fossero
chiamati con un titolo da quattro soldi. Non si poteva più leggere nessun giornale negro senza
trovarvi enormi fotografie di negri pieni di prosopopea che erano stati ammessi per primi a
esercitare un certo mestiere o professione .
Lo psichiatra stava visitando qualcun altro e io non dovetti mettermi a recitare per quella
ragazza negra perché lei era già disgustata di me .
Quando finalmente suonò il campanello, non mi mandò dentro dal dottore, ma mi lasciò lì ed
entrò lei. Sapevo benissimo cosa faceva; sapevo benissimo che mi aveva preceduto per dire
chiaramente cosa pensava di me. Ancora oggi questo è uno dei grossi limiti del negro: tanti dei
cosiddetti membri della classe superiore negra sono così occupati nel cercar di convincere
l'uomo bianco che sono «diversi da quegli altri» da non capire che confermano la bassa
opinione che i bianchi hanno di tutti i negri .
Dopo aver così salvato il suo prestigio, uscì dalla stanza del dottore e mi fece cenno di entrare .
Devo dire che quello psichiatra fece di tutto per essere obiettivo e, a suo modo, distaccato
come è richiesto dalla sua professione. Stette lì seduto a fare disegnini con la matita mentre mi
ascoltava per tre o quattro minuti .
Cominciò con delle domande molto semplici per cercare di capire le ragioni della mia ansia.
Non cercavo di influenzarlo, ma divagavo e eludevo ogni conclusione, stando bene attento a
come lui reagiva in modo da fargli credere che erano le sue domande a farmi dire quello che lui
voleva sapere. Voltavo continuamente la testa e mi agitavo sulla sedia, come se qualcuno fosse
lì ad ascoltare. Sapevo benissimo che avrebbe poi fatto una ricerca per stabilire come
classificare il mio caso .
Improvvisamente saltai in piedi e andai a guardare sotto tutte e due le porte, quella da cui ero
entrato e un'altra che probabilmente era di un armadio a muro. Poi mi piegai verso di lui e gli
bisbigliai in un orecchio: «Daddy-o, detto fra di noi, siamo tutti e due del Nord qui e perciò non
ditelo a nessuno.. .
voglio che mi mandino nel Sud. Avete capito? Voglio organizzare quei soldati negri, rubare un
po' di fucili e ammazzare i cialtroni di laggiù!» Lo psichiatra lasciò cadere il lapis e i suoi modi
compassati; mi guardò come se fossi lì a covare le uova di un serpente e intanto cercava
goffamente un lapis rosso. Ero sicuro di avercela fatta. Stavo uscendo ed ero ormai davanti al
tavolo della «signorina prima» quando lui disse: «Basta così» .
Mi arrivò per posta la cartolina che mi classificava tra i riformati e poi non ricevetti più alcuna
comunicazione dall'esercito e non mi presi neanche la briga di andare a domandare perché non
mi avevano dichiarato abile .
NOTE .
NOTA 1: L'espressione "Negro Soul" indicava tutti quei locali in cui si suonavano i blues e in
genere la musica jazz. In senso più estensivo vuol dire tutto ciò che commuove «alla maniera
negra» .
NOTA 2: "Hip language" o "Hip talk" è il gergo del ghetto negro, più particolarmente dei
trafficanti e della malavita .
Capitolo settimo .
TRAFFICANTE .
Non sono in grado di ricordare tutti i traffici a cui mi dedicai durante i due anni seguenti
trascorsi ad Harlem, dopo la brusca interruzione dei miei viaggi in treno e della mia vendita di
«paglie» alle orchestre in tournée .
I ferrovieri negri aspettavano di imbarcarsi sui treni nel loro grande spogliatoio situato al più
basso livello della Grand Central Station. A tutte le ore lì si giocava a poker e a dadi e qualche
volta si facevano delle puntate di cinquecento dollari .
Un giorno un vecchio cuoco che dava le carte cercò, durante una partita, di fare il furbo ed io
fui costretto a mettergli la pistola sotto il naso .
La volta dopo che tornai a giocare il mio buon fiuto mi suggerì di tenere la pistola infilata nella
cintola proprio sul dorso .
Qualcuno aveva fatto la soffiata e infatti vennero due enormi poliziotti irlandesi dalle facce
sanguigne. Mi perquisirono ma non mi trovarono l'arma che avevo messo in un posto che loro
non immaginavano .
I poliziotti mi dissero di non farmi trovare più nella Grand Central Station senza il biglietto
ferroviario. Capii benissimo che il giorno dopo il mio nome sarebbe stato nella lista nera di tutti
gli uffici personale della ferrovia e non cercai più di farmi assumere .
Ero dunque di nuovo nelle strade di Harlem con tutti gli altri trafficanti. Non potevo vendere le
«paglie» perché gli agenti della squadra narcotici mi conoscevano ormai troppo bene. Ero un
vero trafficante, senza nessuna cultura, incapace di esercitare un qualsiasi mestiere onorevole e
mi consideravo abbastanza audace e furbo da poter vivere col mio solo cervello sfruttando tutte
le prede che mi capitavano tra le mani. Ero disposto a correre ogni rischio .
Oggi, in tutti i ghetti delle grandi città, decine di migliaia di giovani e meno giovani, che hanno
abbandonato la scuola dopo pochi anni, si mantengono in vita con qualche specie di traffico,
così come facevo io allora, e inevitabilmente precipitano sempre più ai margini della società. I
trafficanti incalliti non possono permettersi di fermarsi à considerare cosa stanno facendo e
quali sono le loro prospettive. Come succede nella giungla, tutto il loro tempo trascorre nella
consapevolezza pratica e inconscia che se si abbandonano per un momento, se rallentano la loro
attività, gli altri avvoltoi, lupi, volpi e furetti affamati e insoddisfatti non esitano neanche un
attimo a saltar loro addosso come a una preda .
Nel corso dei successivi sei od otto mesi, feci i miei primi furti e rapine. Piccole cose e sempre
in altre città vicine .
Riuscii a farla franca e, come facevano i veterani, anch'io cominciai a prendere droghe molto
più forti prima di compiere tali azioni. Su consiglio di Sammy mi misi a fiutare la cocaina .
Normalmente, diciamo per passeggio, portavo con me una piccola pistola automatica di acciaio
blu, schiacciata e che non avrebbe dato nell'occhio, ma per il lavoro tenevo armi di grosso
calibro. Quando gli occhi degli aggrediti vedevano la bocca della grossa canna puntata,
l'espressione dei volti era di terrore e restavano lì con la bocca aperta. Quando parlavo
sembrava che ascoltassero una voce che veniva da lontano e facevano tutto quello che chiedevo
.
Tra una rapina e l'altra, la continua intossicazione degli stupefacenti mi impediva di esser
nervoso. Spinto da impulsi improvvisi, per rassicurarmi continuamente, mi trasferivo da una
stanza a un'altra (pagavo dai quindici ai venti dollari la settimana), sempre nella mia zona
preferita tra la Centoquarantasettesima e Centocinquantesima Strada, lungo la Sugar-Hill .
Mentre insieme con Sammy stavamo portando a termine una rapina, ce la vedemmo davvero
brutta. Qualcuno ci doveva aver visto .
Stavamo allontanandoci di corsa quando sentimmo le sirene .
Subito ci mettemmo a camminare e quando una macchina della polizia frenò bruscamente nella
strada, noi scendemmo dal marciapiede facendo dei cenni con le mani e andammo a chiedere
un'indicazione. I poliziotti credettero certamente che volessimo dar loro delle informazioni e
perciò ci mandarono al diavolo e continuarono la loro corsa. Ancora una volta non passò
neppure per un attimo nella mente dei bianchi che dei negri potessero giocarli in questo modo .
Per i vestiti che portavo, che erano i migliori, pagavo dai trentacinque ai cinquanta dollari
perché era roba rubata. Avevo come regola di non cercare di procurarmi di più di quanto avevo
bisogno per vivere. Qualsiasi trafficante con un po' di esperienza vi dirà che chi diventa troppo
avido va a finire più presto in prigione. Tenevo presenti luoghi e situazioni adatte e passavo
all'azione solo quando il fascio di banconote che tenevo in tasca cominciava a essere troppo
smilzo .
Certe settimane scommettevo parecchi soldi alla lotteria. Facevo le mie giocate con lo stesso
galoppino con cui avevo cominciato a Small's Paradise. Giocando a sistema, c'erano delle volte
che puntavo fino a quaranta dollari su due numeri nella speranza di imbroccare quella favolosa
percentuale di seicento a uno. Non indovinai mai un numero pieno e non so davvero cosa sarei
stato capace di fare se avessi vinto dieci o dodicimila dollari in un colpo solo. Naturalmente
ogni tanto azzeccavo una piccola combinazione. Qualche volta, tutto all'improvviso, mi veniva
voglia di telefonare a Sofia e la facevo venire da Boston per un paio di giorni .
Ricominciai a frequentare moltissimo le sale cinematografiche e andavo a sentire i miei amici
musicisti dovunque suonavano, ad Harlem, nei grandi teatri giù in città o alla
Cinquantaduesima Strada .
Quando la nave di Reginald tornò a New York, mio fratello ed io entrammo in grande intimità.
Discutevamo della nostra famiglia e deploravamo il fatto vergognoso che il nostro fratello
maggiore Wilfred, amante dei libri e della cultura com'era, non avesse mai avuto la possibilità
di andare a una di quelle grandi università in cui si sarebbe certamente fatto molto onore. E ci
scambiavamo pensieri che non avevamo mai esternato a nessuno .
Sia pure in quel suo modo tranquillo, Reginald era un fanatico dei musicisti e della musica. La
ragione per cui una mattina la sua nave salpò senza di lui fu che lo avevo introdotto
nell'entusiasmante mondo musicale. Trascorremmo ore indimenticabili dietro il palcoscenico
con i musicisti quando loro suonavano al Roxy o al Paramount. Dopo aver venduto tutte quelle
sigarette alla marijuana alle orchestre in viaggio, ero conosciuto da quasi tutti i musicisti negri
popolari a New York negli anni 1944-45 .
Con Reginald andammo al Savoy Ballroom, al teatro Apollo, al bar dell'albergo Braddock, nei
night club e nei locali clandestini, dovunque c'erano dei suonatori negri. La grande Billie
Holiday abbracciò Reginald e lo chiamò «fratellino minore» e lui condivise la persuasione di
decine di migliaia di negri secondo cui l'orchestra di Lionel Hampton era il più perfetta, il più
straordinario dei maggiori complessi. Ero molto amico di parecchi membri di quell'orchestra e
li presentai a Reginald .
Gli feci pure conoscere lo stesso Hamp e sua moglie Gladys, che gli faceva anche da agente.
Hamp è una delle persone più care che ci siano al mondo. Quelli che lo conoscono possono
testimoniare sui suoi gesti generosi nei confronti di gente che appena conosceva. Nonostante
tutti i soldi che Hamp ha guadagnato e ancora guadagna, lui sarebbe oggi poverissimo se ad
amministrare i suoi affari non ci fosse Gladys, una delle donne più assennate che abbia mai
conosciuto. Il padrone del teatro Apollo, Frank Schiffman, ne è testimone. Questi generalmente
firmava un contratto con le orchestre per un certo numero di serate la settimana, ma so che una
volta, in quei giorni, Gladys Hampton concluse un accordo per cui l'orchestra di Hamp avrebbe
suonato a percentuale. Poi fece raddoppiare il numero consueto degli spettacoli, se non sbaglio
otto al giorno invece dei soliti quattro, e così i guadagni e il prestigio di Hamp aumentarono
molto. Gladys parlava molto con me e cercava di darmi dei buoni consigli: mi esortava a
calmarmi e siccome sapeva bene quanto ero sfrenato, vedeva che mi aspettava una brutta fine .
Una delle cose che mi piacevano di più in Reginald era che quando lo lasciavo per andare a
«lavorare» lui non mi faceva mai domande. Dopo che si fu stabilito ad Harlem, intensificai la
mia attività. Credo che fui spinto a metter su per la prima volta un appartamento perché non
volevo che Reginald andasse in giro senza avere un luogo che potesse considerare come «casa
sua» .
Quel primo appartamento era di tre stanze e mi pare che l'affitto fosse intorno ai cento dollari al
mese. Si trovava al pianterreno di un edificio della Centoquarantasettesima Strada tra Convent e
Saint Nicholas Avenues. Nell'appartamento vicino al nostro abitava uno dei più fortunati
trafficanti di narcotici di Harlem .
Una volta sistemati, introdussi piano piano Reginald nell'ambiente di Bill il Creolo e di altri
locali notturni di Harlem. Alle due della mattina, quando chiudevano i night club bianchi di
città, Reginald ed io gironzolavamo di fronte a questo o quel locale di Harlem e io gli spiegavo
cosa succedeva .
Specialmente dopo la chiusura dei night club giù in città, i taxi e le grandi automobili nere
portavano su ad Harlem tutti quei bianchi che non erano mai sazi dell'«atmosfera» negra. I posti
maggiormente frequentati da questi nottambuli andavano dai locali famosissimi come il
Jimmy's Chicken Shack e Dickie Well's ai piccoli club privati che oggi c'erano e domani non
c'erano più dove alla porta bisognava di solito pagare un dollaro di «iscrizione» .
In tutti questi locali l'aria era così densa di fumo da far bruciare gli occhi. Per ogni negro
c'erano quattro bianchi che bevevano whisky in tazze da caffè e mangiavano pollo fritto. I
bianchi, dalle facce generalmente paonazze, e le loro donne coperte di trucco e con gli occhi
bistrati, si battevano le mani sulle spalle uno dell'altro, sghignazzavano sguaiatamente e
applaudivano la musica. Quand'erano ubriachi, capitava spesso che parecchi si avvicinassero
barcollando ai negri, camerieri, proprietari del locale o semplici avventori, prendessero loro le
mani cercando addirittura di abbracciarli: «Sei bravo proprio come me... Siamo buoni tutti e
due, uguali... Voglio che tu lo sappia!» Nei posti più famosi si davano convegno le celebrità
bianche e negre che si divertivano molto a stare in compagnia .
Una folla che alle quattro e mezzo del mattino si accalcava al Jimmy's Chicken Shack o da
Dickie Well's era capace di assistere a una "jam-session" con Hazel Scott che accompagnava al
piano Billie Holiday mentre cantava i blues. Tra parentesi, il Jimmy's Chicken Shack era il
locale dove, più tardi, lavorai un po' di tempo come cameriere. E' lì che lavorava Redd Foxx, il
lavapiatti che faceva schiantare dalle risa il personale di cucina .
Dopo un po' Reginald dovette trovarsi un traffico ed io pensai a lungo quale potesse essere
quello più adatto e più sicuro per lui. Una volta che avesse imparato a muoversi sarebbero stati
affari suoi se voleva guadagnare di più e più presto, magari correndo dei rischi maggiori .
Il traffico al quale iniziai Reginald era molto semplice: si basava sulla psicologia della giungla
del ghetto. Giù in città si comprò la regolare licenza del comune per la vendita ambulante
pagando la tassa di due dollari, o quant'era non ricordo. Poi lo accompagnai al magazzino di
una manifattura tessile dove comprammo una partita di merce di seconda scelta a buon mercato:
camicie, biancheria da uomo e anche anelli e orologi da poco e ogni specie di oggetti di facile
vendita .
Osservando il metodo che adopravo io ad Harlem, Reginald ben presto imparò a presentarsi dai
barbieri, negli istituti di bellezza e nei bar facendo finta di esser nervoso mentre lasciava che i
clienti dessero un'occhiata alla sua piccola valigia di «refurtiva». Siccome c'erano in giro tanti
ladri desiderosi di liberarsi per pochi soldi di merci di ottima qualità che avevano rubate, molta
gente di Harlem, solo a causa di tale condizionamento, era disposta a pagare prezzi piuttosto
salati per merci di qualità inferiore la cui vendita era invece assolutamente legale. Non ci voleva
mai molto tempo per liberarsi del contenuto di una valigia almeno per il doppio di quanto era
costato. Se poi un poliziotto fermava Reginald, lui non faceva altro che tirar fuori di tasca la
licenza di venditore ambulante e la fattura della fabbrica. L'unica cosa di cui doveva assicurarsi
mio fratello era che nessuno dei suoi clienti si accorgesse che era in regola con la legge .
Partivo dal presupposto che, come la maggior parte dei negri che conoscevo, anche a Reginald
piacessero le donne bianche e così gliene mostravo parecchie pronte a darsi ai negri e gli
spiegavo che un tipo con un po' di cervello poteva fare di loro tutto ciò che voleva. Ma devo
dire a onore di Reginald che a lui non sono mai piaciute le donne bianche. Ricordo quando
conobbe Sofia: si comportò così freddamente da offendere lei e compiacere me .
Mio fratello si trovò una negra che credo fosse vicina alla trentina: una «vecchia colona» come
si diceva a quei tempi .
Faceva la cameriera in un ristorante di lusso giù in città, e spendeva per Reginald tutto quello
che aveva tanto era contenta di andare a letto con un giovanotto. Gli comprava i vestiti, gli
faceva da mangiare, gli lavava la biancheria e tutto il resto come se fosse un bambino .
Era questa un'altra ragione che fece crescere la stima che avevo per mio fratello minore.
Reginald dava prova, e spesso nei modi più sorprendenti, di avere più buon senso di molti
trafficanti che avevano il doppio dei suoi anni. Allora ne aveva solo sedici, ma era alto un metro
e novanta e sia per l'aspetto che per il comportamento sembrava che fosse molto più grande .
Durante tutta la guerra, la situazione razziale ad Harlem non fu mai troppo incoraggiante. La
tensione era giunta a un punto intollerabile. I veterani del quartiere mi dicevano che Harlem non
era più stata la stessa dopo i tumulti del 1935, quando migliaia di negri, infuriati principalmente
contro i commercianti bianchi che si rifiutavano di assumere gente di colore anche se i loro
negozi prosperavano con gli incassi del quartiere, avevano fatto danni del valore di milioni di
dollari [1] .
Durante la seconda guerra mondiale, il sindaco La Guardia chiuse ufficialmente il Savoy
Ballroom. Ad Harlem si disse che la vera ragione era stata quella di impedire che i negri
ballassero con le bianche. Da ogni parte c'era chi ricordava che nessuno le trascinava nel
quartiere, ma che ci venivano da sé. Adam Clayton Powell [2] sollevò la questione con grande
spirito polemico. Lui aveva combattuto con successo contro la Consolidated Edison e la New
York Telephone Company finché non erano state costrette ad assumere negri; aveva contribuito
alla lotta contro l'atteggiamento dei comandi della marina militare e dell'esercito riguardo alla
segregazione dei negri in uniforme .
Ma Powell non poteva vincere questa battaglia: il comune tenne il Savoy chiuso per molto
tempo. Fu questa un'altra di quelle azioni del «Nord liberale» che non contribuirono certo a far
crescere l'amore di Harlem per l'uomo bianco .
Infine circolò la voce che all'albergo Braddock un soldato negro era stato ucciso a revolverate
da poliziotti bianchi. Camminavo per la Saint Nicholas Avenue quando vidi un gran numero di
negri che si agitavano e correvano in direzione nord provenienti dalla Centoventicinquesima
Strada. Alcuni di loro avevano le braccia cariche di roba. Ricordo che a dirmi cos'era successo
fu il barman «Shorty» Henderson, nipote appunto di Fletcher Henderson .
I negri stavano spaccando le vetrine dei negozi e impadronendosi di tutto quello che potevano
prendere e portar via: mobili, roba da mangiare, articoli di gioielleria, vestiario e whisky. Nel
corso di un'ora sembrò che tutti i poliziotti di New York fossero stati concentrati ad Harlem. Il
sindaco La Guardia e l'allora segretario dell'Associazione per l'avanzamento della gente di
colore (N.A.A.C.P.), il famoso Walter White, ora defunto, giravano insieme in una macchina
rossa dei vigili del fuoco gridando da un altoparlante inviti, esortazioni e minacce a tutti quei
negri urlanti, furibondi e scatenati perché andassero a casa e ci rimanessero .
Ho incontrato Shorty Henderson poco tempo fa sulla Settima Avenue e, ricordando quei
disordini, abbiamo riso insieme di un tale che in quell'occasione si guadagnò il soprannome di
«Piede sinistro». In una rissa avvenuta in un negozio di scarpe da donna, lui era riuscito in fretta
e furia ad agguantare cinque scarpe, tutte sinistre! Abbiamo riso insieme ricordando anche quel
piccolo cinese terrorizzato il cui ristorante rimase intatto perché i dimostranti scoppiarono a
ridere come pazzi quando videro il cartello che il padrone aveva messo in fretta e furia sulla
porta: «Anch'io sono un uomo di colore» .
Dopo i disordini, la situazione ad Harlem diventò assai difficile. Le conseguenze furono
terribili per chi viveva sulla vita notturna e per tutti quei trafficanti la cui principale fonte di
guadagno erano i bianchi. I disordini del 1935 avevano lasciato solo un rivoletto di quel fiume
di soldi che scorreva ad Harlem durante gli anni '20 ed ora questi altri disordini venivano a
porre fine anche a quello .
I bianchi che visitano Harlem oggi, specialmente nelle serate del weekend, sono appena poche
dozzine che ballano il twist, il frug, il Watusi e tutte le altre danze moderne allo Small's
Paradise, oggi di proprietà del grande campione di pallacanestro «Wilt the Stilt» [Guglielmo il
trampoliere] Chamberlain, che attira i clienti con quella sua immagine di gigantesco, sereno
atleta americano. La maggior parte dei bianchi di oggi hanno fisicamente paura di venire ad
Harlem e ciò non senza delle buone ragioni. Anche per i negri la vita notturna è ormai quasi
finita e gran parte di quelli che hanno soldi da spendere vanno giù in città, in quell'atmosfera di
ipocrita «integrazione», in locali dove prima la polizia sarebbe stata subito chiamata per venire
a portar via quel negro che fosse stato abbastanza pazzo da cercare di entrare. L'uomo bianco,
ormai ricco sfondato, non fa più in tempo a finir di costruire un grattacielo-albergo che tutti
questi negri assetati di integrazione, che non possiedono neanche una baracca per gli arnesi,
affittano subito i saloni del nuovo albergo per organizzare «cotillons» e «congressi» .
Quei ricchi bianchi potevano permetterselo quando andavano ad Harlem a buttar via i loro
soldi, ma i negri non possono permettersi di portare i loro soldi giù in città all'uomo bianco .
Durante una rapina, io e Sammy prendemmo una bella paura e fummo lì lì per esser
acchiappati. Ad Harlem la situazione era diventata così difficile che alcuni trafficanti furono
costretti a mettersi a lavorare. Persino certe prostitute erano andate a servizio o avevano trovato
da fare le pulizie notturne negli uffici. I profitti dei magnaccia erano tanto diminuiti che Sammy
si era messo a lavorare con me. Avevamo scelto una di quelle situazioni considerate
«impossibili», ma come si sa, quando ciò avviene, i guardiani diventano piano piano meno
attenti e talvolta le imprese più difficili possono diventare le più facili. Fummo sfortunati:
proprio nel mezzo dell'operazione una pallottola sfiorò Sammy. Riuscimmo a malapena a
fuggire .
Per fortuna Sammy non era ferito. Ci dividemmo, come è sempre saggio fare in questi casi e
poi, prima dell'alba, andai a casa di Sammy. L'ultima arrivata delle sue donne una di quelle
belle negre spagnole dalla testa calda, era là che piangeva e si disperava vicino a lui. Mi venne
addosso sempre piangendo e stringendomi convulsamente con le dita: sapeva che avevamo
fatto il colpo insieme. Io la spinsi da parte e non riuscendo a capire perché Sammy non l'aveva
rinchiusa, le detti uno schiaffo. Con la coda dell'occhio vidi che lui metteva mano alla pistola .
La reazione di Sammy per lo schiaffo che avevo dato alla sua donna fu l'unico punto debole
che, amici come eravamo, potei mai scoprire in lui. La donna si mise a gridare e a fargli tutte le
moine possibili: sapeva come me che quando il tuo migliore amico tira fuori la pistola, vuol
dire che ha perduto completamente il controllo e che ha intenzione di sparare. Lei lo distrasse
abbastanza da darmi il tempo di infilare la porta. Sammy mi rincorse per circa un isolato .
Ben presto rifacemmo la pace, almeno formalmente, ma non si può più avere un rapporto di
piena fiducia con chi si è visto che aveva intenzione di ucciderti .
Intuimmo che per un bel po' sarebbe stato meglio stare tranquilli. Il peggio era che ci avevano
visti e che certamente la polizia di quella cittadina vicina aveva già fatto circolare i nostri
connotati .
Proprio non riuscivo a dimenticare quell'incidente della donna di Sammy e, piano piano,
cominciai a far affidamento sempre più su mio fratello Reginald come sull'unica persona del
mio ambiente di cui mi potevo fidare completamente .
Mi ero accorto che Reginald era pigro. Aveva ormai abbandonato completamente il suo
traffico, ma a me la cosa non importava tanto perché si può esser pigri quanto si vuole, ma
basta che, come faceva Reginald, si sappia adoprare il cervello. Ormai non abitava più con me,
ma quando era in città stava dalla sua donna. Gli avevo anche insegnato come fare per
procurarsi la tessera di riconoscimento di una compagnia ferroviaria per poi viaggiare gratis e a
Reginald piaceva molto viaggiare. Parecchie volte era andato a far visita ai nostri fratelli e
sorelle .
Ormai si erano sparsi un po' dappertutto, in diverse città. A Boston, Reginald aveva rapporti di
affetto più stretti con nostra sorella Mary piuttosto che con Ella che era sempre stata la mia
preferita. Sia Reginald che Mary erano taciturni, mentre io ed Ella eravamo degli estroversi.
Quanto a Shorty, aveva fatto a mio fratello un'accoglienza da re .
Grazie alla mia reputazione, mi fu facile infilarmi nell'organizzazione della lotteria clandestina,
che probabilmente era l'unico traffico di Harlem che non avesse subito il contraccolpo della
crisi. In cambio di un favore fatto a qualche gangster bianco, il mio nuovo capo e sua moglie
avevano ottenuto per sei mesi il controllo della lotteria nella zona ferroviaria del Bronx
chiamata Motthaven Yards. I gangster bianchi dividevano il controllo della lotteria in zone che
venivano assegnate per un certo periodo di tempo. La moglie del mio capo era stata durante gli
anni '30 la segretaria di Dutch Schultz quando questi si era impadronito con la forza del
controllo della lotteria ad Harlem .
Il mio compito era di attraversare in autobus il ponte George Washington e di incontrarmi con
un tale che mi aspettava per consegnarmi un sacco di ricevute delle giocate. Nessuno dei due
parlava. Poi io attraversavo la strada e prendevo l'autobus successivo per tornare ad Harlem.
Non seppi mai chi era quell'uomo né chi ritirava i soldi corrispondenti alle ricevute che mi
passavano per le mani. Nell'ambiente della malavita non si facevano domande .
La moglie del mio capo e Gladys Hampton erano le sole due donne che conobbi ad Harlem che
avevano un vero senso degli affari. La moglie del mio capo mi raccontava parecchie cose
interessanti, quando aveva tempo e voglia di parlare. Mi diceva dell'epoca di Dutch Schultz, mi
descriveva le operazioni che aveva visto, le somme versate ai funzionari comunali e federali
perché stessero al gioco, la corruzione della polizia e i legami misteriosi che gli avvocati dei
gangster avevano tra le alte gerarchie politiche e di polizia. La sua esperienza personale le
aveva insegnato che la criminalità può esistere solo nella misura in cui può contare sulla
cooperazione della legge e mi fece comprendere come nell'intera struttura politica e
socioeconomica
del paese i criminali, gli uomini politici e i tutori della legge fossero in realtà dei
partner inseparabili .
Fu in questo periodo che smisi di fare le mie puntate col vecchio galoppino che mi serviva fin
da quando ero entrato a lavorare allo Small's Paradise. A lui dispiacque molto perdere un
cliente che puntava tanti soldi, ma capì perfettamente che ora dovevo passare le mie puntate a
un galoppino dell'organizzazione di cui facevo parte. Fu così che cominciai a fare le mie
puntate con Archie, il negro delle Indie occidentali che, come ho detto sopra, era davvero uno
dei peggiori soggetti di Harlem, una delle ex guardie del corpo di Dutch Schultz .
Non molto tempo prima che arrivassi ad Harlem Archie aveva appena finito di scontare una
condanna a Sing-Sing. La moglie del mio capo lo aveva assunto non soltanto perché era una sua
vecchia conoscenza, ma perché West Indian Archie aveva quel tipo di memoria fotografica che
gli consentiva di essere uno dei migliori galoppini della lotteria. Non scriveva mai il numero e,
persino in caso di giocate a sistema, si limitava a fare un cenno con la testa. Era in grado di
ricordarsi tutti i numeri fino a quando, dopo aver consegnato il denaro delle puntate al
banchiere, non doveva scriverli sulle ricevute. Tale dote faceva di lui un galoppino ideale
perché i poliziotti non avrebbero mai potuto trovargli addosso le ricevute delle puntate .
Ho spesso riflettuto sulla sorte di questi veterani negri del gioco clandestino. Se individui come
West Indian Archie fossero vissuti in un'altra società, il loro eccezionale talento matematico
avrebbe potuto essere adoperato per scopi migliori. Invece erano negri .
In ogni caso, esser conosciuti come clienti di West Indian Archie conferiva molto prestigio
perché lui si occupava soltanto di puntate di una certa entità. Inoltre esigeva che i suoi clienti
fossero onesti e solvibili: non c'era bisogno di pagare quando si puntava, bastava saldare alla
fine di ogni settimana .
West Indian Archie portava sempre con sé un paio di migliaia di dollari suoi e se un cliente
andava da lui e gli diceva che aveva vinto una somma non troppo alta, diciamo nell'ordine di
una puntata da cinquanta cents o da un dollaro, gli contava seduta stante i trecento o i seicento
dollari della vincita e più tardi se li faceva restituire dal banchiere .
Tutti i weekend pagavo il mio conto che era sempre tra i cinquanta e i cento dollari, che
puntavo quando mi veniva l'idea di qualche buona combinazione. Una volta o due vinsi e, come
ho detto, West Indian Archie mi pagò seduta stante di tasca sua .
Alla fine terminarono i sei mesi della concessione che avevano avuto il mio capo e sua moglie.
Ci avevano guadagnato bene e ai loro galoppini toccarono delle ottime mance e vennero subito
assunti dagli altri banchieri. Io continuai a lavorare per il mio capo e sua moglie in una casa da
gioco che avevano aperto .
Una mezzana che avevo conosciuto in occasione di un favore che avevo fatto a un suo amico,
mi rivelò un aspetto tutto particolare della vita notturna di Harlem, qualcosa che i disordini
avevano soltanto interrotto. Si trattava del mondo in cui, a porte chiuse, i negri si adoperavano
per soddisfare i gusti sessuali corrotti dei bianchi .
Quelli che avevo conosciuto io erano tutti contenti se potevano strofinarsi in pubblico con i
negri nei club notturni e nei locali dove si serviva alcool senza licenza. D'altra parte questi
erano gli stessi bianchi che non volevano si sapesse che venivano ad Harlem. I disordini
avevano causato molto nervosismo in questa categoria di clienti. Infatti quando c'erano altri che
venivano ad Harlem, la loro presenza passava quasi inosservata, ma ora davano più nell'occhio,
oltre al fatto che avevano una gran paura della furia dei negri di Harlem che poco tempo prima
si era scatenata. Perciò la mezzana mirava a salvaguardare i suoi affari in espansione quando mi
offrì di fare il procuratore di puttane per gli uomini bianchi .
Durante la guerra era estremamente difficile farsi installare il telefono. Un giorno la mezzana
mi disse di stare in casa la mattina seguente. Parlò con qualcuno, non so chi, ma prima di
mezzogiorno potei telefonare dal mio apparecchio. Naturalmente il mio numero non era
nell'elenco telefonico .
Questa signora era una specialista nel suo campo. Se le sue ragazze non potevano o non
volevano soddisfare un cliente, lei mi mandava in un altro posto, di solito un appartamento in
qualche altra zona di Harlem, dove si faceva la «specialità» richiesta .
Il posto in cui procuravo i clienti era proprio all'uscita dell'albergo Astor, a quell'angolo sempre
affollato fra la Quarantacinquesima Strada e Broadway. Guardavo il traffico e ben presto fui in
grado di individuare il taxi o l'automobile, anche prima che rallentasse, con le ansiose facce dei
bianchi che cercavano il negro alto, dalla pelle che dava sul rossiccio, che indossava un abito
scuro o un impermeabile e portava un fiore bianco all'occhiello .
Se venivano con la loro macchina, a meno che non avessero autista, mi mettevo io al volante e
li portavo a destinazione .
Se invece arrivavano in taxi, dicevo sempre al guidatore: «Al teatro Apollo ad Harlem, per
favore». Tra i tassisti di New York c'è sempre una notevole percentuale di poliziotti. Una volta
arrivati al teatro, prendevamo un altro taxi questa volta guidato da un negro e a lui davo
l'indirizzo giusto .
Quando avevo sistemato il cliente, chiamavo la signora che di solito mi faceva tornare di corsa
in taxi giù in città per essere all'angolo tra la Quarantacinquesima Strada e Broadway a una data
ora. Normalmente i clienti davano prove di grande puntualità e solo di rado dovetti aspettare
all'angolo cinque minuti. In ogni caso sapevo come muovermi per non attirare l'attenzione di
qualche poliziotto in borghese o in divisa .
Con le mance, che spesso erano cospicue, arrivavo qualche volta a guadagnare più di cento
dollari per sera sistemando fino a dieci clienti in modo che vedessero, facessero e si facessero
fare tutto quello che volevano. Quasi mai sapevo chi erano, ma i pochi che riconobbi o dei quali
sentii i nomi mi ricordano ora l'affare Profumo, lo scandalo scoppiato in Inghilterra. Gli inglesi
non sono molto più avanti degli americani ricchi e potenti quando si tratta di cercare cose rare e
anormali .
Questi uomini, di mezza età o anche più vecchi, non erano certo studenti universitari, ma i loro
padri o addirittura i loro nonni. C'erano personaggi ben noti in società, grossi uomini politici,
finanzieri, amici importanti venuti da fuori, alti rappresentanti dell'amministrazione comunale,
ogni specie di professionisti, artisti del cinema e del teatro, celebrità di Hollywood e,
naturalmente, capi della malavita .
Harlem era la caverna dei loro peccati, la riserva di caccia della loro lussuria. Venivano di
nascosto tra i negri considerati tabù e lasciavano cadere quelle maschere antisettiche piene
d'importanza e di sussiego che portavano abitualmente nel loro mondo bianco. Questi erano
uomini che si potevano permettere il lusso di spendere grosse somme di denaro per due, tre o
quattro ore durante le quali si abbandonavano alla soddisfazione dei loro strani desideri .
Ma in questo oltretomba bianco e nero nessuno giudicava i clienti. Qualunque cosa dicessero,
qualsiasi depravazione venisse loro in mente, qualsiasi connubio fossero in grado di descrivere,
o potessero fare o volessero subire, tutto andava bene finché pagavano .
Durante lo scandalo Profumo in Inghilterra, l'amica di Christine Keeler testimoniò che alcuni
dei suoi clienti volevano esser frustati. Uno dei luoghi che mi venivano principalmente richiesti
dai clienti era l'appartamento, situato lontano dalla casa della mezzana, di una ragazzona dalla
pelle nerissima, forte come un bue, con dei muscoli come quelli di uno scaricatore di porto. Era
veramente buffo vedere come i più vecchi di questi uomini bianchi - alcuni più che sessantenni
ed altri persino ultrasettantenni - non avevano neppure finito di rimettersi dall'ultima
fustigazione che riapparivano di nuovo all'angolo tra la Quarantacinquesima Strada e Broadway
e si facevano accompagnare a quell'appartamento dove si buttavano in ginocchio a pregare e
scongiurare pietà sotto la frusta di quella ragazza negra. Alcuni di loro mi davano un compenso
straordinario perché stessi lì a vedere mentre si facevano frustare. La ragazza si ungeva di
grasso il grande corpo di amazzone in modo che la pelle fosse più lucente e più nera .
Adoperava piccole fruste intrecciate e picchiava fino a far uscire il sangue. Si faceva una
piccola fortuna alle spalle di quei vecchi bianchi .
Non potrei raccontare tutto quello che vedevo. Più tardi, quand'ero in prigione, mi domandavo
spesso cosa avrebbe pensato uno psichiatra di tutto ciò. Molti di questi uomini avevano
posizioni di responsabilità e guidavano, influenzavano e comandavano gli altri .
Più tardi, sempre quand'ero in prigione, pensavo anche a un'altra cosa. Quasi tutti quei bianchi
esprimevano con richieste specifiche la loro preferenza per la pelle nera, nera, «più nera è,
meglio è». La mezzana, che sapeva ciò da molto tempo, teneva in casa sua solo le donne dalla
pelle più nera che fosse possibile trovare .
Durante tutto il tempo che trascorsi ad Harlem non vidi mai un bianco andare con una puttana
bianca. Ce n'erano, di queste ultime, in parecchi locali specializzati e spesso partecipavano a
esibizioni richieste dai clienti, come per esempio quella di un negro atletico e dalla pelle molto
scura che si faceva una donna bianca. La ragione per cui piaceva tanto ai bianchi di assistere a
questi spettacoli era forse che volevano quasi vaccinarsi nei confronti del loro più profondo
timore sessuale? Alcune volte mi ritrovai ad avere a che fare con gruppi di clienti tra cui c'erano
anche donne bianche che gli uomini si portavano dietro per farle assistere a quegli spettacoli.
Non procurai mai uomini negri per le donne bianche, se non nei casi in cui esse venivano
accompagnate dai loro uomini o quando venivano messe in contatto con me da una lesbica
bianca di mia conoscenza che faceva la mezzana per pervertiti .
Questa lesbica, una bella donna bianca che teneva una specie di scuderia di maschi negri, li
forniva dietro ordinazione, a ricche donne bianche. Parlava con un linguaggio tutto intessuto di
oscenità .
Avevo visto parecchie volte questa lesbica e la sua amica bionda in giro per Harlem, che
bevevano in qualche bar, sempre accompagnate da giovani negri. Chi non lo sapeva non
avrebbe mai immaginato che stesse reclutando giovani maschi negri per il suo commercio. Una
sera diedi alle due donne alcune «paglie» e loro dissero che erano le migliori che avessero mai
fumato. Abitavano in un albergo giù in città e, dopo quella volta, mi telefonavano ogni tanto ed
io portavo loro altre sigarette alla marijuana e ci fermavamo a chiacchierare .
La lesbica mi raccontò come, per caso, aveva cominciato questo suo lavoro di specialista. Da
frequentatrice di Harlem qual era, aveva conosciuto dei negri cui piacevano molto le donne
bianche .
Il suo mestiere si sviluppò a forza di sentire i discorsi che facevano le ricche e annoiatissime
donne bianche in un istituto di bellezza dei quartieri orientali della città presso cui lavorava. A
quelle signore, che si lamentavano dell'inadeguatezza sessuale dei loro uomini, lei diceva quello
che aveva sentito «raccontare» dei maschi negri. Vedendo come si eccitavano alcune di quelle
donne, cominciò a organizzare nel suo stesso appartamento degli incontri con certi negri di
Harlem .
Alla fine, affittò tre appartamenti nella zona compresa tra il centro della città e il quartiere
negro e là le sue clienti bianche potevano incontrarsi con maschi negri per appuntamento .
La cosa circolò di bocca in bocca, dalle clienti alle loro amiche e ben presto la lesbica si
licenziò dall'istituto di bellezza, organizzò un sistema ben congegnato di corrieri e
accompagnatori. Tutti gli incontri venivano combinati per telefono .
Aveva anche osservato la preferenza per il colore e infatti non potei mai fare da sostituto in
caso di bisogno: mi diceva ridendo che il colore della mia pelle era troppo chiaro. Quasi tutte le
donne bianche sue clienti specificavano di volere «uno nero sul serio» e qualche volta
aggiungevano «un negro reale» e non dei negri dalla pelle marrone o rossiccia .
La lesbica ebbe l'idea di organizzare il servizio di corrieri perché alcune clienti volevano che i
negri andassero a casa loro e talvolta gli appuntamenti venivano combinati per telefono con
estrema cautela. Queste signore vivevano in zone residenziali di lusso, in palazzi con portieri
vestiti come ammiragli. Comunque la società bianca non pensa mai a mettere in dubbio quello
che fa un negro che si presenta nelle vesti di domestico. I portieri telefonavano su alle signore e
si sentivano rispondere: «Oh sì! Fallo venire subito su, James». Poi gli ascensori di servizio
portavano ai piani superiori quei corrieri negri ben vestiti in modo che potessero «consegnare»
ciò che era stato ordinato da alcune tra le più privilegiate donne bianche di Manhattan .
L'ironia è che quelle signore non avevano per i loro negri da monta più rispetto di quanto gli
uomini bianchi abbiano mai avuto per le negre di cui si sono «serviti» sin dai tempi della
schiavitù. Dal canto loro, i negri non hanno nessun rispetto per i bianchi con cui vanno a letto.
Ricordo che opinione avevo di Sofia, la quale continuava a venire a New York tutte le volte che
la chiamavo .
Lucky Gordon, l'amico di Christine Keeler, originario delle Indie occidentali, e gli altri negri
coinvolti nello scandalo Profumo debbono aver pensato allo stesso modo. Dopo che i membri
della classe dirigente inglese erano stati con quelle ragazze bianche, queste, per soddisfarsi,
andavano coi negri a fumare sigarette alla marijuana e a prendere in giro alcuni tra i più grandi
pari d'Inghilterra chiamandoli sciocchi e cornuti. Per quanto mi riguarda, non ho nessun dubbio
che Lucky Gordon conoscesse l'identità dell'«uomo mascherato» e sapesse molto di più: se
avesse detto quello che le ragazze bianche gli avevano raccontato, l'Inghilterra avrebbe assistito
a un altro scandalo .
Tutto ciò non è diverso da quanto accade in alcuni dei circoli sociali più elevati d'America.
Vent'anni fa vedevo queste cose tutte le sere con i miei occhi e le sentivo con i miei orecchi .
I bianchi ipocriti parlano della «moralità corrotta» dei negri, ma chi è il più corrotto? Non
soltanto sono i bianchi in generale, ma soprattutto quelli delle classi elevate! Poco tempo fa
vennero resi noti i particolari riguardanti un gruppo di donne di casa e madri bianche di una
zona suburbana di New York City che funzionavano come una vera e propria organizzazione di
ragazze squillo professioniste. In alcuni casi quelle signore si prostituivano d'accordo con i
mariti e persino servendosi della loro cooperazione tanto che alcuni di essi rimanevano a casa a
occuparsi dei bambini. Per quel che riguarda i clienti, basterà citare quanto scriveva uno dei più
importanti quotidiani di New York. «Sono stati trovati sedici taccuini contenenti i nomi di
duecento persone, molte delle quali sono personalità in vista negli ambienti mondani, finanziari
e politici» .
Sempre negli ultimi tempi ho letto che alcune coppie bianche si riuniscono, i mariti gettano in
un cappello le chiavi di casa e poi bendati, ciascuno a turno, estraggono una chiave che dà loro
diritto a passare la notte con la moglie del proprietario di quella casa. Non ho mai sentito dire
che cose del genere avvengano tra i negri, anche fra quelli che vivono nei peggiori ghetti, in
baracche e fogne .
Una mattina presto, ad Harlem, un negro alto dalla pelle chiara, con in testa il cappello e con
il viso coperto da una calza da donna, rapinò il proprietario negro di un bar che stava contando
gli incassi della notte. Come accadeva per gran parte dei bar di Harlem, i negri facevano da
prestanome mentre il vero proprietario del locale era un ebreo. Infatti per ottenere una licenza
bisognava conoscere qualcuno alla Commissione statale per gli alcolici e sembra che gli ebrei
avessero le più efficaci aderenze in questo campo. Il gestore negro assunse alcuni vagabondi
perché dessero la caccia al rapinatore e siccome la descrizione che fu fatta loro li convinse a
mettermi nell'elenco dei sospetti, all'alba di quella mattina vennero a bussare alla porta del mio
appartamento .
Dissi che non ne sapevo niente, che non avevo niente a che fare con quella faccenda, che ero
stato fuori a occuparmi del mio lavoro, portare cioè i clienti bianchi nelle case di appuntamento,
forse fino alle quattro del mattino e che poi ero venuto diritto a casa e mi ero messo a letto .
Quei teppisti mercenari stavano bluffando: cercavano di tirar fuori il colpevole facendo in
modo che si tradisse, ma siccome avevano altri sospetti da controllare, fui salvo .
Mi vestii, presi un taxi e svegliai prima la mezzana e poi Sammy. Avevo un po' di soldi, ma la
signora me ne diede ancora e dissi a Sammy che sarei andato nel Michigan a trovare mio
fratello Philbert. Gli detti il mio indirizzo in modo che potesse farmi sapere quando le acque si
fossero calmate .
Fu durante questo mio soggiorno invernale nel Michigan che, dopo essermi cosparso i capelli
di lisciva liquida concentrata, mi accorsi che non veniva acqua dai rubinetti perché le tubature
erano ghiacciate. Per impedire che mi venissero delle gravi ustioni al cuoio capelluto, dovetti
infilare la testa nello sciacquone e poi continuare a far scorrere l'acqua finché i capelli non
furono risciacquati .
Passai una settimana nel gelido Michigan prima di ricevere il telegramma di Sammy: un altro
negro dalla pelle rossiccia aveva confessato. Potevo tornare di nuovo ad Harlem .
Non mi rimisi a fare quel lavoro e non riesco a ricordarmi perché. Credo che forse mi era
venuta voglia di star lontano per un po' dai traffici, di andare in qualche locale notturno tutte le
sere e di darmi un po' davvero agli stupefacenti insieme con i miei amici. Comunque non tornai
più dalla mezzana .
Ricordo che in questo periodo cominciai ad ammalarmi. Avevo continuamente il raffreddore,
che diventò una irritazione cronica di modo che, giorno e notte, starnutivo e mi soffiavo il naso.
Prendevo tali dosi di stupefacenti da vivere addirittura in un mondo di sogno. Qualche volta
fumavo l'oppio con alcuni amici bianchi, certi attori che abitavano giù in città. Inoltre fumavo
più «paglie» che mai e non più i soliti tubetti di marijuana della grandezza di un grosso
fiammifero: ero andato così in là che ormai fumavo marijuana in fortissime dosi .
Dopo un po' di tempo mi misi a lavorare giù in città alle dipendenze di un ebreo. Aveva
simpatia per me perché ero riuscito a far qualcosa per lui. Si chiamava Hymie e comprava
ristoranti e bar in rovina; poi li restaurava e, per celebrare la riapertura del locale, faceva una
grande festa, con bandierine e riflettori all'entrata. Quando il posto era affollatissimo e nella
vetrina spiccava il cartello con la scritta «Nuova gestione» venivano immancabilmente degli
speculatori, di solito altri ebrei che erano in giro per trovare qualche impresa in cui investire
con profitto i loro capitali .
Qualche volta, anche entro la prima settimana dalla riapertura, Hymie riusciva a rivendere il
locale facendoci un bel guadagno sopra .
Aveva davvero simpatia per me ed io per lui. Gli piaceva chiacchierare e a me starlo a sentire.
Metà delle cose che diceva riguardavano gli ebrei e i negri. Il bersaglio preferito di Hymie
erano quegli ebrei che avevano anglicizzato i loro nomi: faceva l'elenco di quelli che
conosceva, ogni tanto sputando per terra e atteggiando la bocca ad una smorfia di disgusto.
Alcuni erano nomi famosi di gente che ben pochi avrebbero sospettato fossero ebrei .
«Rosso, io sono ebreo e tu sei negro, - diceva, - a questi Gentili non siamo graditi né io né te.
Se gli ebrei non fossero più intelligenti dei cristiani sarebbero trattati peggio di voialtri negri» .
Hymie mi pagava bene, qualche volta anche due o trecento dollari la settimana, ed io avrei
fatto qualunque cosa per lui. In realtà facevo qualunque cosa, anche se il mio compito
principale era di trasportare alcool di contrabbando che Hymie procurava e distribuirlo a quei
bar restaurati che aveva rivenduto a qualcuno .
Andavo in macchina con un altro fino a Long Island dove c'era una grossa fabbrica clandestina
di whisky. Portavamo con noi scatoloni pieni di bottiglie di whisky vuote con ancora le
etichette della tassa sugli alcolici, che erano state illegalmente messe da parte dai baristi dei
locali che rifornivamo. Poi compravamo dei grossi bottiglioni da cinque litri di whisky di
contrabbando, riempivamo con l'imbuto le bottiglie e, secondo le istruzioni di Hymie,
consegnavamo questo o quel numero di casse ai nostri clienti dei bar .
Molta gente che sostiene di bere soltanto whisky di «quella» marca non è in grado di
distinguere il suo prodotto preferito da quello fatto alla macchia a Long Island e invecchiato per
una settimana. Gran parte degli ordinari bevitori di whisky si lasciano facilmente ingannare in
questo modo. A parte, con il permesso di Hymie io rifornivo per conto mio di modeste partite di
whisky di contrabbando alcuni bar di Harlem assai reputati e certi locali clandestini sempre di
Harlem .
Nel corso di un weekend a Long Island, accadde qualcosa in cui venne coinvolta la
Commissione statale per gli alcolici. Uno dei più grossi scandali recenti dello stato di New
York riguardava la denuncia delle prevaricazioni e delle pratiche illecite della Commissione.
Nell'organizzazione di contrabbando in cui ero coinvolto, qualcuno molto in alto fece forse la
spia, dopo aver ricevuto qualche enorme somma in compenso. Hymie e gli altri parlavano di
qualche informatore all'interno della banda. Un giorno Hymie non comparve all'appuntamento
con me. Non si fece più vivo... ma sentii dire che lo avevano buttato in mare e sapevo
benissimo che il poveraccio non sapeva nuotare .
Su nel Bronx, un negro rapinò alcuni italiani della malavita durante una partita a dadi. Seppi
la cosa dal «telegrafo» di Harlem. Chiunque fosse stato, a parte il fatto che era un cretino, venne
descritto come un negro «alto e dalla pelle chiara», con il volto coperto da una calza da donna.
Mi sono sempre domandato se il mistero della rapina di quel bar fu davvero risolto o se un
innocente fu costretto, sotto le percosse, a confessare. In ogni caso, il sospetto che era caduto su
di me in passato servì di nuovo ad attrarre l'attenzione sulla mia persona .
Nel bar del Grassone, sulla collina che domina i campi di polo, entrai in una cabina telefonica.
Gli avventori del bar, tutta gente di Harlem, bevevano eccitati alla notizia che Branch Rickey, il
proprietario della squadra dei Dodgers' di Brooklyn, aveva ingaggiato Jackie Robinson per il
campionato di baseball di serie A .
Nelle prime ore dello stesso pomeriggio, avevo riscosso da West Indian Archie la vincita per
una puntata a sistema da cinquanta cents: mi aveva contato trecento dollari dei suoi. Stavo
telefonando a Jean Parks, una delle più belle donne che si siano mai viste ad Harlem. Un tempo
cantava con Sarah Vaughan nel quartetto dei Bluebonnets che si produceva con l'orchestra di
Earl Hines. Da parecchio tempo Jean ed io avevamo stabilito un patto amichevole secondo cui
ogni volta che uno di noi vinceva alla lotteria andavamo a cena a festeggiare l'evento. Dalla mia
ultima vincita Jean mi aveva invitato due volte e insieme ridevamo al telefono del fatto che
questa volta toccava a me portarla fuori. Restammo d'accordo di andare a un night club della
Cinquantaduesima Strada a sentire Billie Holiday che era stata in tournée ed era appena tornata
a New York .
Mentre riattaccavo il ricevitore vidi i due "paisanos", magri e dall'aspetto torvo, che mi
guardavano fissi .
Non occorreva un intuito particolare, ma non avevo con me un'arma da fuoco. L'unica cosa che
avevo in tasca era un portasigarette. Piano piano infilai la mano in tasca cercando di bluffare... e
uno dei due aprì di colpo la porta della cabina telefonica. Erano italiani con la pelle olivastra e i
lineamenti molto marcati. Io tenevo la mano in tasca .
«Vieni fuori, ti dobbiamo giudicare!» disse uno dei due .
In quel momento dalla porta principale entrò un poliziotto. I due malviventi sgattaiolarono
fuori. Non sono mai stato così contento in vita mia di vedere un poliziotto come lo fui in
quell'occasione .
Quando arrivai a casa del mio amico Sammy il magnaccia, tremavo ancora. Lui mi disse che
non molto tempo prima West Indian Archie era venuto a cercarmi .
Talvolta, quando ripenso a queste cose, non so davvero come abbia potuto sopravvivere fino ad
oggi. Dicono che Dio protegge i pazzi e i bambini e spesso ho pensato che davvero Allah mi
proteggesse. Durante tutto questo periodo della mia vita ero davvero morto, mentalmente
morto, e non sapevo di esserlo .
Comunque, per ammazzare il tempo, io e Sammy ci mettemmo a fiutare un po' di cocaina
finché non venne il momento di andare a prendere Jean Parks e recarsi insieme in città a sentire
Billie Holiday. Il fatto che Sammy mi avesse detto che West Indian Archie mi stava cercando
non voleva dir nulla per me.. .
almeno in quel momento .
NOTE .
NOTA 1: Si trattò di uno dei peggiori tumulti razziali degli anni '30. La causa fu il criterio di
assoluta discriminazione seguito dai commercianti bianchi (più del novanta per cento) ai danni
del personale negro che, aggiunto al tasso di disoccupazione del quartiere (settantanove per
cento) produsse lo scoppio di furore popolare .
NOTA 2: Adam Clayton Powell, pastore di una delle più vaste congregazioni battiste, quella di
Harlem, è rappresentante al Congresso dal 1945. Insieme con William L. Dawson dell'Illinois è
dei sei rappresentanti negri al Congresso quello che ha maggiore anzianità. Dal 1870 fino alla
fine del secolo furono eletti al Congresso venti rappresentanti negri e due al Senato .
Dal 1901 al 1929 non andò più nessun negro al Congresso mentre l'ultimo senatore fu B. K.
Bruce del Mississippi che rimase in carica dal 1875 al 1881. Da allora al novembre 1966,
quando è stato eletto nel Massachusetts il candidato repubblicano Edward W. Brooke, non c'era
mai più stato un senatore negro .
Capitolo ottavo .
IN TRAPPOLA .
Qualcuno bussò alla porta. Sammy, che stava sdraiato sul letto in pigiama con sopra la
vestaglia, disse: «Chi è?» Quando West Indian Archie rispose, Sammy fece scivolare lo
specchio rotondo a due facce sotto il letto con sopra quella poca polvere - o meglio cristalli di cocaina che era rimasta ed io aprii la porta .
«Rosso, voglio i miei soldi!» Una 7,65 è una pistola strana. E' più grossa di una 6,35, ma meno
di una calibro 9. Mi ero trovato ad affrontare alcuni negri pericolosi, ma nessuno, a meno che
non tenesse in nessun conto la propria pelle, avrebbe osato battibeccare con West Indian Archie
.
Non potevo credere ai miei occhi. Ero davvero spaventato e così incredulo di fronte a quello
che stava accadendo che mi era persino difficile pronunciare delle parole .
«Ma che storia è questa?» West Indian Archie mi rispose che aveva avuto qualche sospetto
quando gli avevo detto di avere indovinato il numero vincente, ma che mi aveva pagato i
trecento dollari lo stesso, salvo poi a controllare le ricevute delle puntate e, come aveva
sospettato, non avevo puntato sul numero vincente come dicevo, ma su di un altro .
«Ma sei pazzo!» dissi rapidamente. Con la coda dell'occhio vidi che la mano di Sammy si
spostava lentamente sotto il cuscino dove lui teneva sempre la sua pistola militare calibro 9
lungo .
«Archie, ma ti par possibile che un furbo come te pagherebbe uno che non avesse indovinato il
numero giusto?» La 7,65 si mosse e Sammy rimase immobile. West Indian Archie gli disse:
«A te dovrei ficcare una pallottola nell'orecchio». Poi si rivoltò verso di me e mi chiese: «Non
ce li hai i soldi?» Io devo aver scosso la testa .
«Ti do tempo fino a domani a mezzogiorno» .
Aprì la porta senza voltarsi, tenendo la mano dietro la schiena, poi uscì camminando
all'indietro sbattendo la porta dietro di sé .
Questo era il classico avvertimento del codice d'onore della malavita. Il problema non era il
denaro: mi erano rimasti quasi duecento dollari. Anche se poi lo fosse stato, Sammy avrebbe
pensato lui a coprire la differenza e anche se non avesse avuto i soldi lì a portata di mano, le sue
donne avrebbero fatto presto a procurarseli. D'altronde anche lo stesso West Indian Archie mi
avrebbe prestato trecento dollari se glieli avessi chiesti, visto che delle molte migliaia di dollari
miei che gli erano passate per le mani si era preso la percentuale del dieci .
Una volta che aveva sentito dire che ero rimasto al verde era stato proprio lui a cercarmi e poi,
mentre mi dava dei soldi, aveva borbottato: «Mettiteli in tasca» .
La questione era il rapporto che il suo modo di agire aveva creato fra di noi. Nella nostra
giungla da marciapiede, «salvare la faccia» e «conservare l'onore» erano cose molto importanti
per un trafficante. Nessuno poteva permettersi che gli altri sapessero che era stato «fottuto»,
cioè preso in giro o imbrogliato. Peggio ancora, un trafficante della malavita non poteva
permettersi che si dimostrasse che era stato imbrogliato, che poteva essere spaventato con una
minaccia o che aveva fifa .
West Indian Archie sapeva che, nel nostro mondo, i giovani acquistavano prestigio e potere
quando in qualche modo riuscivano a ingannare i trafficanti più vecchi e poi a far sapere la cosa
a tutti attraverso il «telegrafo» del quartiere .
Credeva che cercassi di far questo .
Per parte mia, sapevo che se avessi fatto sapere a tutti che lui mi minacciava avrei contribuito a
rafforzare il suo prestigio .
Quando stavo ad Harlem avevo conosciuto una dozzina almeno di trafficanti i quali, proprio a
causa di questo codice della malavita, una volta che erano stati minacciati avevano dovuto
allontanarsi dalla città, in disgrazia .
Non appena la notizia fosse entrata nel giro, una ritirata da parte di uno dei due diventava
assolutamente impensabile. Il «telegrafo» avrebbe atteso la cronaca dello scontro .
Avevo visto almeno una dozzina di scontri in cui uno dei contendenti era finito all'obitorio e
l'altro in prigione per omicidio, oppure addirittura sulla sedia elettrica .
Sammy mi dette la sua 6,35, visto che avevo lasciato le mie pistole a casa. Me la misi in tasca e
uscii tenendo la mano sul calcio .
Non potevo nascondermi: era necessario che mi facessi vedere nei posti dove andavo di solito.
Ero contento che Reginald non fosse in città perché avrebbe magari cercato di difendermi ed io
non volevo davvero che West Indian Archie me lo ammazzasse con una pallottola in testa .
Rimasi per un po' con la mente confusa, i pensieri aggrovigliati così tipici del tossicomane. Mi
domandavo se West Indian Archie voleva farmi fare la figura dell'idiota e prendermi in giro .
Certi vecchi trafficanti erano tutti contenti di far fare la figura dei fessi ai giovani. Sapevo che
lui non avrebbe fatto come altri soltanto per guadagnare trecento dollari, ma tutti erano così
infidi in quella giungla di Harlem, tutti pronti a ingannare i loro fratelli. Spesso i galoppini
avevano imbrogliato dei tossicomani che avevano indovinato un numero vincente e che erano
talmente drogati da non esser neanche sicuri se avevano effettivamente giocato un certo numero
.
Cominciai a domandarmi se West Indian Archie non avesse per caso ragione. Avevo davvero
confuso la combinazione su cui avevo fatto la mia puntata? Sapevo quali erano i due numeri e
mi ricordavo anche di avergli detto di combinare solo uno dei due .
Non mi ero mica confuso prendendone uno per l'altro? Non vi è mai capitato di esser sicuri di
aver fatto qualcosa a cui non avreste mai più ripensato se non vi foste stati costretti? Allora si
cerca di trovare una conferma mentale e spesso si rimane in un continuo stato di dubbio .
Era ormai quasi l'ora di andare a prendere Jean Parks per portarla all'Onyx Club a sentire
Billie. Tutte queste cose mi si agitavano confusamente nella testa e pensai persino di telefonarle
per disdire, con qualche scusa, il nostro appuntamento. Sapevo però che se fossi fuggito avrei
commesso l'errore più grave e perciò andai a prendere Jean a casa sua .
Con un taxi scendemmo fino alla Cinquantaduesima Strada. Fuori del locale c'erano delle
enormi fotografie di Billie Holiday tutte illuminate. All'interno i tavoli erano affollatissimi e la
gente stava seduta con le spalle attaccate al muro, senza poter muovere le braccia e costretta a
tenere in mano i bicchieri .
L'Onyx Club era un locale veramente piccolo .
Ritta davanti al microfono, Billie aveva appena finito un numero quando, voltando lo sguardo,
vide me e Jean. L'abito da sera che indossava scintillava sotto i riflettori, mentre la sua faccia
aveva quell'aspetto tipicamente indiano e color rame: portava i capelli raccolti a coda di cavallo.
Per il numero successivo scelse una delle canzoni che sapeva mi piacevano tanto: "You Don't
Know What Love Is" .
Quando ebbe finito i suoi numeri, Billie venne al nostro tavolo e siccome con Jean non si erano
viste da lungo tempo, si abbracciarono affettuosamente. Billie si accorse che c'era qualcosa che
non andava. Sapeva che ero sempre sotto l'influsso degli stupefacenti, ma mi conosceva
abbastanza bene per accorgersi che c'era anche qualche altra cosa. Nel suo solito linguaggio
scurrile mi chiese cosa avevo ed io, con il vocabolario tipico di quei tempi, feci finta che tutto
andasse bene e così lasciai cadere la cosa .
Quella sera il fotografo del night club ci ritrasse tutti e tre insieme seduti allo stesso tavolo.
Quella fu l'ultima volta che vidi Billie. E' morta: gli stupefacenti e i disturbi cardiaci arrestarono
quel cuore grande come una casa e quella voce che nessuno è mai più riuscito ad imitare. Lady
Day cantava con l'anima dei negri e nelle sue canzoni risuonavano secoli di dolore e di
oppressione. Che peccato che quella orgogliosa, intelligente e sensibile donna negra non abbia
potuto vivere là dove la grandezza vera della sua razza sarebbe stata apprezzata! Nella toilette
dell'Onyx Club annusai il piccolo cubetto di cocaina che mi aveva dato Sammy. Poi io e Jean
prendemmo un taxi per tornare ad Harlem ma, mentre eravamo per la strada, decidemmo di
fermarci a bere qualche altra cosa. Jean non sapeva cosa stava succedendo e quindi suggerì che
andassimo in uno dei locali che frequentavo abitualmente e cioè il bar di La Marr Cheri
all'angolo fra la Centoquarantasettesima Strada e la Saint Nicholas Avenue. Avevo in tasca la
pistola e la cocaina mi dava coraggio: dissi di sì. Quando finimmo di bere ero così fuori di me
che chiesi a Jean di tornarsene a casa in taxi. Non ho più visto neanche lei dopo quella sera .
Da incosciente qual ero, rimasi lì seduto nel bar, voltando le spalle alla porta mentre pensavo a
West Indian Archie. Mai prima di allora mi ero seduto al banco di un bar con le spalle voltate
alla porta ed è certo che non mi ci siederò più. Comunque allora fu una buona cosa perché sono
sicuro che se avessi visto entrare West Indian Archie gli avrei sparato con la ferma intenzione
di ammazzarlo .
Fui scosso dal mio torpore dalla vista di West Indian Archie che stava in piedi davanti a me, mi
insultava ad alta voce tenendomi puntata contro la pistola. Voleva davvero dare spettacolo in
pubblico: mi chiamava con gli epiteti più ingiuriosi e mi minacciava .
I clienti e i baristi erano rimasti immobili, o seduti o in piedi, con i bicchieri a mezz'aria.
Sembravano pietrificati. In fondo al locale suonava il jukebox. Prima di quella sera non avevo
mai visto West Indian Archie ubriaco e mi accorsi subito che non era ubriaco di whisky.
Conoscevo troppo bene il sistema dei trafficanti per darsi forza: prima di commettere qualche
azione delittuosa tutti prendevano gli stupefacenti .
Pensavo tra me e me: «Ora ammazzo Archie... Aspetto che si volti e poi gli scarico addosso la
pistola». Sentivo la mia 6,35 contro le costole, stretta com'era tra la cintola e la camicia .
Come se mi avesse letto il pensiero, West Indian Archie smise di insultarmi. Le sue parole mi
lasciarono interdetto .
«Stai pensando di spararmi per primo, Rosso, ma io voglio darti qualcosa su cui meditare. Ho
sessant'anni... sono un vecchio, io. Sono stato a Sing-Sing. La mia vita è finita, ma tu sei
giovane e se mi ammazzi sei perduto. Non ti resterebbe altro che finire in prigione» .
Ripensando a quelle parole credo che West Indian Archie le dicesse per spaventarmi e farmi
scappar via. In tal modo avrebbe salvato la faccia e la vita. Può darsi che si comportasse così
perché era in uno stato di esaltazione dovuta alla droga .
Nessuno sapeva che non avevo mai ammazzato, ma tutti quelli che mi conoscevano, compreso
io stesso, non avevano alcun dubbio che l'avrei fatto .
Non riesco a immaginare cosa sarebbe potuto succedere, ma secondo il codice d'onore, se West
Indian Archie fosse uscito dal locale dopo avermi offeso come aveva fatto, io avrei dovuto
seguirlo e la questione si sarebbe definita per la strada a revolverate .
Invece alcuni suoi amici gli andarono vicino chiamandolo per nome con voce suadente:
«Archie... Archie» .
Lasciò che gli mettessero le mani addosso e loro lo tirarono da parte. Stetti a guardarli mentre
lo spingevano davanti a me e mi rivolgevano sguardi d'intesa. Cercavano di portarlo nel
retrobottega .
Io, con la massima calma, scesi dal mio panchetto, gettai una banconota al barista e senza
voltarmi indietro uscii .
Rimasi fuori, proprio davanti alla porta del bar, per almeno cinque minuti. Tenevo la mano in
tasca sul calcio della pistola .
West Indian Archie non venne fuori ed io me ne andai .
Dovevano essere le cinque del mattino quando, giù in città, svegliai un attore bianco mio
conoscente che abitava all'albergo Howard sulla Quarantacinquesima Strada, poco lontano dalla
Sesta Avenue .
Sapevo di dovermi tenere sotto l'effetto della droga e francamente è quasi incredibile la
quantità che ne presi durante le ore che seguirono quell'episodio. Mi feci dare dell'oppio da quel
tale e poi tornai in taxi a casa e mi misi a fumarlo .
Tenevo la pistola a portata di mano, pronto a sparare se avessi sentito volare una mosca .
Suonò il telefono. Era la lesbica che stava giù in città: voleva che portassi a lei e alla sua amica
cinquanta dollari di «paglie» .
Pensai che se lo avevo sempre fatto non c'era ragione per non farlo anche allora. L'oppio mi
aveva annebbiato il cervello .
Avevo una bottiglia di pillole di benzedrina e ne ingoiai alcune per schiarirmi le idee. L'opposto
effetto delle due droghe mi dava la sensazione di andare in due direzioni diverse .
Bussai alla porta dell'appartamento vicino al mio. Il trafficante che abitava lì mi dette della
marijuana sciolta a credito e vedendo che ero così ebbro e fuori di me mi aiutò a farne delle
sigarette, un centinaio. Mentre arrotolavamo le cartine ne fumavamo insieme qualcuna .
Ora prendevo oppio, benzedrina, marijuana, tutto insieme .
Andando in città mi fermai da Sammy. Mi venne ad aprire la sua negra spagnola dagli occhi
scintillanti. Sammy aveva un debole per lei. Prima non aveva mai permesso a nessuna delle sue
donne di star troppo tra i piedi mentre ora lasciava che questa venisse persino a rispondere alla
porta. In quel momento Sammy era completamente intossicato e sembrava persino che avesse
difficoltà a riconoscermi. Era sdraiato sul letto, si mosse di qua e di là per trovare quel suo
inseparabile specchio su cui teneva sempre i cristalli di cocaina. Me lo porse perché l'annusassi
e io non rifiutai .
Mentre andavo giù in città per consegnare le «paglie», provai sensazioni indescrivibili, tanto
diverse erano le immagini che percepivo contemporaneamente. L'unica parola che mi viene a
mente per descriverle è l'ATEMPORALITA': un intero giorno mi sembrava uguale a cinque
minuti, oppure poteva darsi che una mezz'ora mi sembrasse lunga come una settimana .
Non riesco a immaginare quale doveva essere il mio aspetto quando arrivai all'albergo. Appena
la lesbica e la sua amica mi videro, mi accompagnarono davanti a un letto. Io mi ci lasciai
cadere per traverso e svenni .
Quella notte, quando le due donne mi svegliarono, erano già passate dodici ore dalla scadenza
dell'ultimatum di Archie. Più tardi tornai su ad Harlem. La cosa si sapeva ormai nel giro e mi
accorsi che certe persone che conoscevo si allontanavano cautamente. Sapevo benissimo che
nessuno voleva ritrovarsi tra i nostri fuochi incrociati .
Non accadde nulla, neanche il giorno successivo. Io mi limitavo a mantenermi in uno stato di
ebbrezza .
In un bar dovetti dare un pugno in faccia a un ragazzotto. Tornò con un coltello in mano; stavo
per sparargli quando qualcuno lo acchiappò tirandolo indietro. Poi i presenti lo cacciarono via
mentre lui gridava che mi voleva ammazzare .
Il buon senso mi disse di liberarmi della pistola. Feci cenno a un trafficante che era seduto
dall'altra parte del banco. Avevo appena fatto scivolare l'arma nelle sue tasche quando un
poliziotto che avevo visto gironzolare prima entrò dall'altra porta. Teneva la mano sul calcio
della pistola. Evidentemente sapeva quello che aveva diffuso il «telegrafo» ed era sicuro che
fossi armato. Si avvicinò lentamente a me: sapevo benissimo che se avessi fatto anche uno
starnuto mi avrebbe steso a revolverate .
«Tira fuori la mano di tasca, Rosso, - mi disse. - E fallo lentamente» .
Obbedii. Quando mi vide a mani vuote, tutti e due fummo più distesi. Mi fece segno di uscire
camminando davanti a lui e così feci. Sul marciapiede c'era il suo compagno di ronda, davanti
all'automobile parcheggiata in seconda fila, con la radio accesa. Mentre la gente si fermava a
guardare loro mi perquisirono, lì sul marciapiede .
«Ma cosa cercate?» domandai loro quando non ebbero trovato niente .
«Rosso, ci hanno riferito che porti in tasca la pistola» .
«Ne avevo una, - dissi, - ma l'ho buttata nel fiume» .
Il poliziotto che era entrato nel bar mi disse: «Se fossi in te, Rosso, cambierei aria» .
Tornai nel bar. L'aver detto che mi ero sbarazzato in quel modo della pistola li aveva persuasi a
non farsi accompagnare a casa mia. Quello che c'era lì mi sarebbe costato più tempo in prigione
di dieci pistole e loro si sarebbero guadagnati una promozione .
Il cerchio mi si stava stringendo intorno e tutto sembrava congiurare contro di me. Ero in
trappola da ogni parte. West Indian Archie mi voleva sparare; gli italiani mi stavano dietro
perché credevano che avessi mandato a monte il loro gioco; il ragazzotto spaventato che avevo
picchiato e infine i poliziotti .
Fino a quel momento, per quattro lunghi anni, avevo avuto abbastanza fortuna, o ero stato
abbastanza furbo, da evitare la prigione e persino l'arresto. In ogni caso potevo dire di non avere
mai avuto delle noie veramente serie. Ora però sapevo che ad ogni istante sarebbe potuto
accadere qualcosa .
Sammy aveva fatto qualcosa per cui spesso ho desiderato di poterlo ringraziare .
Quando sentii il clacson, stavo passeggiando sulla Saint Nicholas Avenue. Negli orecchi non
mi rimbombavano altro che delle revolverate e perciò non pensai neanche per un minuto che
quel suono fosse diretto a richiamare la mia attenzione .
«Concittadino!» Mi voltai di scatto e quasi estrassi la pistola per sparare .
Era Shorty, venuto apposta da Boston! Gli avevo fatto una paura da morire .
«Daddy-o!» Non avrei potuto essere più felice .
Una volta in macchina mi disse che Sammy gli aveva telefonato raccontandogli in quali
difficoltà mi trovavo e consigliandolo di venirmi a prendere. Shorty si era incontrato con gli
altri della sua orchestra, si era fatto prestare la macchina dal pianista e via, a tutta velocità, era
venuto a New York .
Non obiettai nulla alla proposta di partire. Shorty restò di guardia fuori del mio appartamento
mentre tiravo fuori tutta la roba che volevo portarmi dietro. Sistemai ogni cosa nel baule della
macchina e poi ci mettemmo subito sulla strada. Shorty non dormiva da circa trentasei ore e più
tardi mi disse che durante tutto il viaggio non avevo fatto altro che chiacchierare .
Capitolo nono .
PRESO .
Ella non poteva credere che fossi diventato così ateo e corrotto. Ero convinto che ciascuno
dovesse fare tutto ciò che la sua astuzia, il suo cinismo o il suo coraggio gli permettevano di
fare e che la donna non fosse altro che una merce. Ogni parola che dicevo o era scorretta o era
oscena e penso che il mio vocabolario consistesse di non più di duecento parole .
Persino Shorty, con cui dividevo ancora una volta l'appartamento, non si aspettava di vedermi
vivere e pensare come un animale da preda. Talvolta mi accorgevo che mi osservava e mi
sorvegliava .
All'inizio dormivo moltissimo, anche di notte. Nei due anni precedenti avevo dormito più che
altro di giorno e, appena sveglio, fumavo sigarette di marijuana. Shorty, che mi aveva insegnato
per primo a far uso di quella droga, era ora sbalordito a vedere quanta ne consumavo .
Nei primi tempi non avevo voglia di parlare molto. Quando ero sveglio sentivo continuamente
i dischi. Le «paglie» mi davano una sensazione di contentezza e passavo ore di sogni ad occhi
aperti, di abbandono all'immaginazione, di dialoghi immaginari con i miei amici musicisti di
New York .
In due settimane avevo dormito di più che in due mesi del periodo che avevo passato ad
Harlem facendo notte e giorno il trafficante. Quando alla fine uscii per le strade di Roxbury, mi
ci volle pochissimo per individuare un venditore di cocaina «neve». Fu quando riprovai quella
sensazione familiare data dai cristalli che cominciai ad aver voglia di chiacchierare .
Coloro che annusano i cristalli bianchi e fini come cipria della cocaina provano una sensazione
di supremo benessere e una traboccante fiducia nelle loro capacità sia fisiche che mentali .
Credono di poter battere il campione dei pesi massimi e di essere più intelligenti di tutti. Inoltre
c'era quella sensazione di atemporalità, quegli intervalli in cui si riesce a ricordare e a passare in
rassegna cose avvenute molti anni prima, e tutto ciò con una sorprendente chiarezza .
Il complesso di Shorty suonava tre o quattro sere la settimana in località situate vicino a
Boston. Dopo che lui era uscito per andare a lavorare veniva Sofia. Le parlavo dei miei progetti
.
Quando Shorty tornava, lei era già a casa da suo marito e io restavo a chiacchierare con l'amico
fino all'alba. Il marito di Sofia era stato congedato dall'esercito ed ora era una specie di
commesso viaggiatore. Sembra che stesse trattando un grosso affare che presto lo avrebbe
obbligato a recarsi spesso sulla costa occidentale. Io non le chiedevo mai nulla, ma Sofia mi
faceva spesso capire che non andavano molto d'accordo .
Sapevo di non avere nessuna colpa di ciò: lui non pensava neppure che io esistessi. La donna
bianca può arrivare a litigare a morte con suo marito, a strillare e ingiuriarlo con tutte le
parolacce che le vengono a mente, a dire le cose più maligne per fargli male, a tirare in ballo
sua madre e sua nonna, ma quello che non gli dirà mai sarà che va a letto con un negro. Per
l'uomo bianco ciò è un'automatica giustificazione dell'omicidio e la sua donna lo sa .
Sofia mi aveva sempre dato del denaro. Anche quando avevo per le tasche centinaia di dollari,
quando lei veniva ad Harlem prendevo tutto quello che le avanzava dopo aver comprato il
biglietto del treno per Boston. Sembra che a certe donne piaccia farsi sfruttare e quando non
sono sfruttate, sono loro che sfruttano l'uomo. Comunque erano i soldi del marito quelli che mi
dava perché lei non aveva mai lavorato. Ora io le chiedevo di più e lei mi dava di più: non so
dove li prendesse. Ogni tanto, per tenerla sottomessa, le avevo fatto qualche scenata. Sembra
che la donna abbia bisogno anche di questo, o addirittura lo voglia. Ma ora mi sentivo cattivo e
la schiaffeggiavo molto peggio di prima, qualche sera quando Shorty non c'era. Lei piangeva,
mi malediceva e giurava che non sarebbe più tornata, ma io sapevo benissimo che non ci
pensava neanche a non tornare .
Uno degli aspetti del mio ritorno che Shorty apprezzava di più era che Sofia veniva da noi.
Come ho detto prima, non ho mai conosciuto in vita mia un negro che desiderasse le donne
bianche con tanta sincerità come Shorty. Da quando lo conoscevo ne aveva avute molte ma non
era mai riuscito a tenerne una per un certo periodo di tempo perché era troppo buono con loro e,
come ho detto, qualsiasi donna, bianca o negra, si annoia se è trattata troppo bene .
Shorty aveva appena lasciato una donna bianca quando, una sera, Sofia venne a trovarci
insieme a sua sorella, una ragazza di diciassette anni. Non ho mai visto due saltarsi addosso
l'uno all'altra come fecero Shorty e quella ragazza. Per lui non era soltanto una ragazza bianca,
ma una bianca giovane, mentre per lei lui non era soltanto un negro, ma un musicista negro.
Come aspetto era una copia ringiovanita di Sofia, che pure faceva sempre voltare gli uomini.
Qualche volta accompagnavo le due ragazze in locali negri dove Shorty suonava e i presenti,
quando vedevano le due bianche, facevano luminosi sorrisi. Venivano addirittura al nostro
tavolo, stavano in piedi o gironzolavano là vicino. Quanto a Shorty, non si comportava molto
diversamente. Mentre suonava non faceva che guardare la ragazza che lo aspettava, le faceva
segni con le mani e le strizzava l'occhio. Non appena il programma era finito si apriva il varco a
spintoni e si precipitava al nostro tavolo .
Non ballavo più il "lindy-hop" ora. Non ci pensavo nemmeno, allo stesso modo in cui non
avrei mai più indossato uno "zoot suit" .
Avevo solo abiti molto seri e portavo scarpe degne di un banchiere .
Rividi Laura. Fummo felici di esserci ritrovati. Ora lei era molto simile a me, una ragazza che
voleva divertirsi .
Chiacchierammo e ridemmo insieme. Sembrava molto più vecchia di quanto non fosse in
realtà; non aveva un amico fisso e passava così da uno all'altro. Da parecchio tempo aveva
lasciato la casa di sua nonna. Mi disse che aveva preso il diploma della scuola secondaria, ma
che poi aveva rinunciato all'idea di andare all'università. Tutte le volte che la vedevo era ebbra
anche lei: quando eravamo insieme fumavamo sigarette alla marijuana .
Dopo un mese che «giacevo morto», come si soleva dire in gergo, vidi che bisognava mi
trovassi una qualche specie di traffico .
Un trafficante rimasto al verde ha bisogno di una somma per cominciare. Qualche sera, quando
Shorty era fuori a suonare, prendevo tutti i soldi che Sofia riusciva a racimolare e cercavo di
farli un po' fruttare giocando a poker nella casa da gioco di John Hughes .
Quando abitavo a Roxbury prima, John Hughes era un grosso giocatore d'azzardo che non si
sarebbe mai sognato di rivolgermi la parola, ma durante la guerra il «telegrafo» di Roxbury
aveva riferito un sacco di cose su quel che facevo ad Harlem ed ora godevo del magico
prestigio che conferiva il solo nome di New York. Tutti i trafficanti di qualunque città la
pensavano allo stesso modo: se uno riusciva a sopravvivere a New York, loro erano tutti
contenti di fare la sua conoscenza perché ciò conferiva prestigio. Comunque, approfittando
degli anni d'oro della guerra, Hughes aveva fatto tanti quattrini da poter aprire una buona casa
da gioco .
Una sera John giocava insieme con me e altri due. Dopo che furono distribuite le prime due
mani di carte, io scoprii un asso. L'altra carta che avevo preso era anche quella un asso .
L'aver scoperto l'asso mi obbligava a puntare, ma non mi affrettai. Presi tempo .
Alla fine battei le nocche sul tavolo dicendo «passo», cosicché toccò puntare al giocatore alla
mia sinistra. Tale condotta di gioco implicava che sotto l'asso avessi pescato una carta da niente
su cui non volevo rischiare denaro .
Il giocatore alla mia sinistra abboccò e fece una grossa puntata. L'altro rilanciò e forse tutti non
avevano che coppie di poco valore. Forse volevano soltanto spaventarmi prima che potessi
scartare e pescare magari un altro asso. Quando venne il suo turno, John scoprì la regina e
rilanciò ancora .
Non si poteva immaginare che carte avesse in mano perché John era un giocatore davvero
astuto, degno di misurarsi con tutti quelli che avevo conosciuto a New York .
Venne di nuovo il mio turno. Dovevo puntare molti soldi per vedere. C'erano in giro
sicuramente delle buone carte, ma sapevo che la mia combinazione era superiore. Tuttavia
continuai a leggere, facendo finta di essere perplesso e finalmente puntai, completando il piatto
.
Utilizzai la stessa tecnica di gioco per tutte le mani successive e quando venne l'ultima, tirai
fuori un altro asso .
Tre assi. John scoprì un'altra regina .
Fece una grossa puntata. Tutti gli altri si misero a leggere e per parecchio tempo nessuno parlò.
Poi, uno ad uno passarono tutti ad eccezione di me. Non potevo far altro che puntare tutto
quello che mi era rimasto .
Se avessi avuto soldi a sufficienza, avrei potuto rilanciare di cinquecento dollari o anche più e
lui sarebbe stato costretto a vedere. John non era il tipo da restare per tutta la vita senza sapere
se, quella sera, io bluffavo o no con un piatto così ricco .
Tirai fuori gli assi. John aveva un tris di donne. Mentre raccoglievo i soldi del piatto, un po' più
di cinquecento dollari, la mia prima vera vincita a Boston, John si alzò e disse che voleva
smettere. Poi rivolgendosi al manager della casa: «Tutte le volte che il Rosso viene qui e vuole
qualcosa, contentatelo, - disse, - non ho mai visto un giovanotto giocare come gioca lui» .
John disse «giovanotto» e lui aveva circa cinquant'anni, almeno credo, poiché non si può mai
esser sicuri sull'età dei negri .
Credette, come credevano quasi tutti, che io avessi circa trent'anni. A Roxbury, nessuno, fatta
eccezione per le mie sorelle Ella e Mary, sospettava la mia vera età .
La storia di quella partita a poker servì a far crescere il mio prestigio fra gli altri giocatori
d'azzardo e trafficanti di Roxbury. Un altro fatto che accadde nella casa da gioco di John venne
ad aggiungersi a quello per accrescere il mio prestigio: fu l'incidente da cui si seppe che io non
portavo addosso una sola, ma diverse pistole .
John aveva stabilito una regola secondo cui tutti i frequentatori della sua casa dovevano
depositare all'ingresso le pistole, se ne avevano. Io ne lasciavo sempre due, ma una sera che un
giocatore volle fare il furbo ne tirai fuori una terza da una fondina che portavo sotto la spalla.
Questo episodio servì ad aggiungere al resto della mia reputazione la fama di essere
«incosciente» e di avere «la pistola facile» .
Ripensando a quei tempi, credo di esser stato davvero un po' pazzo. Consideravo gli
stupefacenti allo stesso modo in cui la maggior parte dell'umanità considera il cibo; portavo
addosso armi come oggi porto la cravatta e nel profondo dell'animo ero fermamente convinto
che dopo aver vissuto con assoluta pienezza e avere esaurito ogni godimento, si dovesse morire
di morte violenta. Allora, come del resto anche oggi, mi aspettavo di dover morire da un
momento all'altro, ma a quel tempo credo di avere invitato la morte in molti modi, qualche
volta addirittura da folle. Per esempio, un soldato della marina mercantile che mi conosceva per
fama mi venne a trovare in un bar. Portava sotto il braccio un grosso pacco e mi fece segno di
seguirlo al piano inferiore dove era la toilette. Scartò il pacco e venne fuori un fucile
mitragliatore. Si trattava di roba rubata e lui voleva venderla. «Ma come posso sapere se
funziona?», dissi. Lui introdusse il caricatore e mi disse che non dovevo far altro che premere il
grilletto. Presi il mitragliatore, lo guardai da tutte le parti, e prima che il marinaio potesse
rendersene conto si trovò l'arma puntata allo stomaco. Gli dissi che lo avrei crivellato.
Camminando all'indietro uscì dalla stanza e, sempre camminando all'indietro, salì le scale, allo
stesso modo in cui Bill «Bojangles» Robinson era solito ballare all'indietro .
Sapeva che ero abbastanza incosciente da ammazzarlo e abbastanza pazzo da non prendere
neppure in considerazione la possibilità che lui aspettasse il momento giusto per farmi la festa.
Per circa un mese tenni il fucile mitragliatore a casa di Shorty: poi, appena ebbi bisogno di
soldi, lo vendetti .
Quando Reginald venne a trovarmi a Roxbury, era ancora sotto l'impressione di ciò che aveva
sentito dire quand'era ritornato ad Harlem. Io passai un po' di tempo con lui: era ancora il mio
fratellino e per lui sentivo più affetto di quanto non provassi persino per mia sorella Ella. Lei
aveva ancora simpatia per me ed ogni tanto andavo a trovarla. Tuttavia non si era mai potuta
consolare nel vedermi così cambiato. Molte volte, in seguito, mi ha detto che aveva il continuo
presentimento che con il mio contegno mi stessi cacciando in grossi guai. Per quanto mi
riguardava, avevo sempre l'impressione che ad Ella piacesse in certo modo quella mia ribellione
contro il mondo perché lei, che aveva molte più energie e coraggio di tanti uomini, si sentiva
spesso come defraudata per esser nata donna .
Se avessi potuto decidere solo sulla base delle mie preferenze, forse avrei scelto di
guadagnarmi la vita col gioco d'azzardo .
Da John Hughes c'erano abbastanza giocatori inesperti perché uno bravo potesse viver bene alle
loro spalle, e poi era tutta gente che di solito aveva un lavoro. Bastava farli giocare i giorni di
paga. Inoltre John Hughes mi aveva offerto di fare il cartaio della casa, ma io non ne avevo
alcuna intenzione .
Non pensavo soltanto per me: volevo cominciare qualcosa che potesse aiutare anche Shorty.
Avevamo parlato dei suoi affari ed io ero molto addolorato per lui. Era la stessa vecchia storia
di tutti i musicisti. La gente pensava che conducessero una vita brillante, ma in realtà
guadagnavano abbastanza per pagarsi l'affitto, da mangiare, per procurarsi le sigarette alla
marijuana e far fronte ad altre spesucce, senza che avanzasse niente. In più c'erano i debiti.
Come poteva fare Shorty a metter da parte qualcosa? Avevo passato degli anni, sia ad Harlem
che in giro dappertutto, con i musicisti più popolari, persino con i grandi nomi, quelli che
davvero guadagnavano molto per la loro professione, e nessuno aveva niente .
Lo stesso valeva per me. Con tutte le migliaia di dollari che avevo maneggiato, ora non avevo
più un soldo. Solo per soddisfare il vizio della cocaina mi ci volevano circa venti dollari al
giorno; altri cinque dollari mi occorrevano per le sigarette di marijuana e quelle di tabacco
normale. Infatti, oltre a prendere gli stupefacenti, fumavo circa quattro pacchetti di sigarette al
giorno. Se volete sapere la mia opinione attuale, vi dirò che il tabacco, in tutte le sue forme, è
una schiavitù come tutti gli altri narcotici .
Quando discutevo con Shorty di qualche traffico a cui volevo dedicarmi, cercavo di
convincerlo ad accettare la mia idea, di cui lui stesso era una prova vivente, per cui soltanto gli
scemi potevano credere di fare un po' di soldi col lavoro .
Quando parlai di quello che mi era venuto in mente, e cioè di dedicarmi a svaligiare gli
appartamenti, Shorty, che era sempre stato un tipo abbastanza posato, mi sbalordì per la rapidità
con cui fu d'accordo. Non sapeva assolutamente niente di come si svaligia una casa .
Quando cominciai a spiegargli come si faceva, Shorty disse che voleva far partecipare anche
un suo amico di nome Rudy, che anch'io avevo conosciuto e che mi era rimasto simpatico .
Rudy era di madre italiana e di padre negro. Era di Boston, di bassa statura, dalla pelle chiara,
il tipo del damerino .
Lavorava regolarmente per un'agenzia che forniva i camerieri per i ricevimenti di lusso. Oltre a
ciò si occupava di un'attività che mi riportò ai vecchi tempi in cui facevo l'accompagnatore ad
Harlem. Una volta alla settimana Rudy andava a casa di un vecchio aristocratico, un
ricchissimo bostoniano di sangue blu, una vera colonna della società. Rudy era pagato per
spogliarsi, spogliare il vecchio, prendere poi quest'ultimo come un bambino, sdraiarlo sul letto e
cospargerlo tutto di BOROTALCO .
Rudy diceva che il vecchio raggiungeva il massimo del godimento proprio per questo .
Io raccontavo a lui e a Shorty le cose che avevo visto. Rudy mi diceva che, almeno per quanto
ne sapeva lui, a Boston non c'erano case d'appuntamenti specializzate nei vari tipi di
perversione sessuale, ma soltanto dei singoli bianchi ricchi che si facevano soddisfare i loro
desideri da negri che andavano a domicilio travestiti da autisti, cameriere, camerieri o in
qualche altro modo comunemente accettabile. Come a New York, si trattava di gente ricca,
delle classi più alte, specialmente di vecchi che, avendo ormai passata l'età adatta per poter
avere rapporti sessuali normali, erano alla ricerca di sempre nuove sensazioni e raffinatezze .
Ricordo che Rudy ci raccontava di un vecchio bianco il quale pagava una coppia di negri per
poter assistere mentre essi facevano all'amore nel suo letto. Un altro era così «sensibile» da
pagare per restar seduto fuori della stanza dove c'era una coppia di amanti: godeva
immaginando quello che succedeva al di là della porta .
Sapevo che in una buona banda di svaligiatori ci vuole un «informatore», cioè uno che
individui le abitazioni in cui si possano fare dei colpi redditizi. Poi c'è bisogno di stabilire con
esattezza come si può entrare, le migliori vie di ritirata eccetera. Rudy era il tipo adatto per
ambedue questi incarichi .
Siccome andava nelle case dei ricchi per lavoro, nessuno lo avrebbe sospettato quando
guardava la roba di casa per accertarne il valore e studiava con attenzione la pianta, mentre si
dava da fare con la sua brava giacca di cameriere addosso .
Quando gli dicemmo quali erano i nostri progetti, la reazione di Rudy fu pressappoco di questo
tipo: «Allora quando cominciamo?» Non volevo affrettarmi prima che tutto fosse a posto.
Sapevo dalla mia esperienza e dai vecchi del mestiere com'era importante essere attenti e fare
dei piani precisi. Il furto con scasso, se eseguito a regola d'arte, pur con certi pericoli offriva il
massimo di probabilità di successo con il minimo rischio. Se si riusciva a portare a termine il
colpo senza incontrare le vittime, c'erano poche probabilità di dovere aggredire o uccidere
qualcuno, oltre al fatto che se per qualche svista si cadeva nelle mani della polizia, non c'erano
testimoni oculari .
E' anche importante scegliere una specializzazione e dedicarsi esclusivamente a quella. Tra gli
scassinatori ci sono specialisti soltanto in appartamenti, in case isolate, in negozi o magazzini,
mentre altri non si occupano che di casseforti o di stanze blindate .
All'interno della categoria degli svaligiatori di case ci sono altre specializzazioni: alcuni
agiscono di giorno, altri sono specializzati nelle ore dei pasti e del teatro, mentre altri ancora
operano soltanto di notte. Qualsiasi poliziotto che abbia esperienza del lavoro in città può dirvi
che molto di rado si trovano degli svaligiatori che lavorano in ore diverse. Per esempio
Saltaleone ad Harlem era uno specialista nello svaligiamento notturno di appartamenti e sarebbe
stato difficile persuaderlo a lavorare di giorno anche se un milionario fosse uscito per andare a
mangiare fuori lasciando spalancata la porta della sua casa .
A parte le mie preferenze, c'era una ragione pratica che mi spingeva a non voler lavorare di
giorno. Ero troppo facilmente riconoscibile e di giorno mi sarei presto perduto. Sentivo già la
gente che avrebbe detto: «Un negro dalla pelle marrone sul rossiccio, alto un metro e novanta».
Sarebbe bastata un'occhiata .
Siccome volevo preparare un'operazione perfetta, pensai bene di far partecipare le ragazze
bianche per due motivi. Prima di tutto perché mi rendevo conto che se ci fossimo limitati
soltanto ai posti dove Rudy lavorava come cameriere avremmo fatto troppo poco. Infatti non è
che lui fosse chiamato in molte case e quindi dopo breve tempo avremmo esaurito le occasioni
di lavoro. Inoltre, quando si fosse trattato di trovare altri posti nelle zone residenziali dei ricchi
bianchi, dei negri che gironzolavano tra le case avrebbero dato sicuramente nell'occhio, mentre
le ragazze bianche avrebbero facilmente trovato il modo di farsi invitare dove volevano .
Non mi piaceva l'idea di servirmi di troppa gente, ma Shorty e la sorella di Sofia erano amanti,
io e Sofia sembrava che si fosse insieme da cinquant'anni e, quanto a Rudy, era un tipo
entusiasta e molto freddo. Nessuno avrebbe soffiato perché tutti correvamo lo stesso rischio:
saremmo stati come una famiglia .
Non avevo mai dubitato che Sofia partecipasse. Lei faceva tutto quello che le dicevo e, quanto
a sua sorella, le avrebbe senz'altro obbedito. Accettarono tutte e due. Il marito di Sofia era
partito per uno dei suoi viaggi all'Ovest quando rivelai alle due donne le mie intenzioni .
Sapevo benissimo che la maggior parte degli scassinatori non vengono arrestati mentre rubano,
ma quando cercano di vendere la refurtiva. Perciò fummo veramente fortunati a trovare il
ricettatore che trovammo. Ci accordammo circa il piano operativo. Il ricettatore non aveva
rapporti diretti con noi, ma si serviva di un suo rappresentante, un ex galeotto, che trattava
soltanto con me. Oltre al suo commercio normale, era padrone di diversi garage e di piccoli
magazzini intorno a Boston. Stabilimmo che prima di ogni colpo avrei avvertito il
rappresentante dandogli un'idea generale di quale sarebbe stata la refurtiva e lui, dal canto suo,
mi avrebbe indicato in quale garage o magazzino avremmo dovuto depositarla. Una volta in suo
possesso, il rappresentante avrebbe esaminato i vari oggetti rubati togliendo da ognuno di essi
qualsiasi possibile segno di riconoscimento. Poi avrebbe chiamato il ricettatore che sarebbe
venuto per valutare lui stesso la refurtiva. Il giorno successivo il rappresentante si sarebbe
incontrato con me in un posto prestabilito e mi avrebbe versato la somma, in contanti .
Ricordo un particolare. Il ricettatore ci mandava sempre delle banconote nuove. Era furbo
perché ciò aveva un decisivo effetto psicologico su tutti noi che, dopo aver fatto un colpo, ci
trovavamo con le tasche piene di bei fogli nuovi. Può darsi che lo abbia fatto anche per altre
ragioni .
Avevamo bisogno di una base di operazioni ma non a Roxbury e così le ragazze affittarono un
appartamento sulla Harvard Square. A differenza dei negri, loro potevano andare in giro a
studiare la situazione portandoci poi le informazioni che volevamo. L'appartamento era al pian
terreno di modo che noi, nei nostri andirivieni notturni, non davamo nell'occhio .
In tutte le organizzazioni ci vuole un capo e anche se uno lavora da solo deve essere il capo di
se stesso .
Durante la prima riunione della banda che facemmo nell'appartamento si discusse sui metodi di
lavoro. Le ragazze sarebbero andate nelle case per compiere i necessari rilievi .
Per introdursi sarebbe bastato che si qualificassero come venditrici, incaricate di qualche analisi
statistica, studentesse che facevano un'inchiesta, o qualsiasi altra qualifica adatta. Una volta
entrate, si sarebbero guardate intorno più che potevano, ma senza dar troppo nell'occhio. Poi,
una volta tornate da noi, ci avrebbero detto con precisione quali oggetti di valore avevano visto
e dove. Per facilitarci il compito noi tre uomini volevamo che ci disegnassero una piantina, ma
restammo d'accordo che le ragazze non avrebbero partecipato all'operazione altro che in casi
veramente speciali in cui ci potevano essere di qualche utilità. Di solito saremmo andati noi tre
uomini: due avrebbero fatto il colpo mentre il terzo sarebbe rimasto ad aspettarci in macchina
col motore acceso .
Mentre discutevamo i nostri piani, mi ero seduto a bella posta su un letto lontano da loro.
All'improvviso estrassi la pistola, tirai fuori dal tamburo cinque cartucce e ce ne rimisi solo una
.
Poi feci girare con forza il tamburo e mi puntai la canna alla tempia .
«Ora voglio vedere se avete del fegato», dissi .
Feci a tutti una smorfia. Loro stavano lì a bocca aperta. Tirai il grilletto e tutti sentimmo
distintamente "click" .
«Ora lo rifaccio» .
Mi scongiurarono di smetterla. Vedevo che Shorty e Rudy avevano intenzione di saltarmi
addosso per immobilizzarmi .
Sentimmo tutti che il cane, battendo a vuoto, faceva un altro "click" .
Le donne erano addirittura in preda a una crisi isterica, mentre Rudy e Shorty mi
scongiuravano di farla finita: «Senti.. .
Rosso... smettila!... Fermati, su!» Tirai un'altra volta il grilletto .
«Faccio questo per farvi vedere che non ho nessuna paura di morire, - dissi, - non è prudente
provocare un uomo che non ha paura di morire... ed ora mettiamoci al lavoro!» Dopo
quell'episodio non ebbi mai nessuna difficoltà nei rapporti con loro. Sofia si comportava verso
di me con estrema soggezione e sua sorella mi chiamava «signor Rosso». Shorty e Rudy non
furono più gli stessi nei miei confronti. Non rammentarono mai più quell'episodio: pensavano
che fossi pazzo e avevano paura di me .
Quella stessa sera facemmo il primo colpo: svaligiammo l'appartamento del vecchio che
pagava Rudy perché lo cospargesse di borotalco. Dopo che avemmo finito non ci sarebbe stato
bisogno neanche dell'uomo delle pulizie. Tutto funzionò a puntino e il ricettatore fu generoso di
complimenti e ce lo provò con un mazzo di quelle sue banconote nuove. Più tardi il vecchio
disse a Rudy che una squadra di investigatori era stata a casa sua: gli avevano detto che il colpo
aveva tutte le caratteristiche per essere attribuito a una banda che da circa un anno era attiva nei
dintorni di Boston e in città .
Ben presto sviluppammo una tecnica assai efficiente. Le ragazze andavano in giro per le ricche
zone residenziali e raccoglievano i dati: poi noi facevamo il colpo che talvolta durava solo dieci
minuti. Di solito eravamo Shorty ed io a portar via la roba, mentre Rudy ci aspettava in
macchina col motore acceso .
Se i proprietari non erano in casa, ci servivamo di una chiave universale per aprire le serrature
normali e di un piè di porco se si trattava di serrature di sicurezza. Qualche volta entravamo
dalle finestre passando dal tetto o dalle scale antincendio. C'erano poi certe signore credulone
che facevano visitare alle ragazze la loro casa per la soddisfazione di sentirle lodare
l'arredamento. Con l'aiuto dei disegni di Sofia e di sua sorella, nonché di una potentissima
lampadina tascabile, raggiungevamo facilmente gli oggetti che ci interessavano .
Qualche volta le vittime erano a letto addormentate. Può sembrare che ci volesse molta audacia
a far ciò, ma in realtà era piuttosto facile. La prima cosa da fare quando c'era gente in casa era
di aspettare immobili e seguire attentamente il ritmo del respiro dei dormienti. Quelli che
russavano rendevano tutto più facile. Entravamo nelle camere senza scarpe e muovendoci
rapidamente come ombre, portavamo via abiti, orologi, portafogli, borsette e scatole di gioielli .
La stagione natalizia era per noi una vera manna perché la gente teneva doni molto costosi
sparsi un po' dappertutto per la casa, oltre al fatto che aveva presso di sé più denaro contante del
solito. C'erano casi in cui, lavorando in ore meno tarde del consueto, svaligiavamo anche case
in cui non avevamo compiuto i soliti rilievi. Se le veneziane erano abbassate, tutte le luci spente
e non c'era nessuna risposta al ripetuto scampanellare di una delle ragazze, tentavamo la sorte e
forzavamo la porta .
Vi do un buon consiglio se volete tenere lontani i ladri da casa vostra. Una luce accesa è il
miglior mezzo di protezione e l'ideale è lasciare accesa tutta la notte una lampada nel bagno .
Infatti questa è la stanza in cui ci può sempre essere qualcuno, a qualsiasi ora della notte e per
qualunque periodo di tempo, e potrebbe quindi udire un rumore strano. Sapendo ciò il ladro non
si azzarda ad entrare. Questo sistema è anche la difesa meno costosa: è più a buon mercato la
luce che la roba di valore che avete in casa .
Diventammo efficientissimi. Qualche volta il ricettatore ci dava forti mance perché gli
portavamo della refurtiva particolarmente buona. Fu così che per un certo periodo, uno dei più
fiorenti per noi, ci specializzammo in tappeti orientali. Ho sempre sospettato che il ricettatore li
rivendesse poi a coloro a cui noi li rubavamo. Comunque sia, non avevamo la minima idea di
cosa potessero valere. Ricordo che per uno piccolo ci dette mille dollari. Immaginatevi quanto
ci prese il ricettatore .
Tutti i ladri sanno che i ricettatori li derubano molto di più di quanto essi non derubino le loro
vittime .
L'unica volta che fummo lì lì per essere arrestati fu quando stavamo per andarcene, tutti e tre
seduti davanti con il sedile di dietro pieno di roba. All'improvviso vedemmo una macchina della
polizia svoltare dall'angolo, dirigersi verso di noi e passarci davanti. Stavano pattugliando la
zona ma quando nello specchio retrovisore vedemmo che facevano una svolta ad U, pensammo
subito che ci avrebbero fermati. Nel passare si erano accorti che eravamo dei negri e, a
quell'ora, in quella zona, i negri non avevano motivo di esserci .
Passammo un brutto momento. Era un periodo in cui venivano compiuti molti furti e noi non
eravamo certamente l'unica banda .
Ma io sapevo che è difficile trovare un uomo bianco che pensi di poter essere preso in giro da
un negro. Perciò prima che ci facessero segnale con la luce intermittente, dissi a Rudy di
fermarsi. Ripetei quello che avevo già fatto un'altra volta: saltai fuori dalla macchina, feci loro
segno di fermare e mi diressi deciso verso di loro. Quando si furono fermati, mi precipitai al
finestrino chiedendo dov'era una certa strada di Roxbury. Balbettavo proprio come un negro
confuso e intimidito .
Mi dettero l'informazione e poi ciascuno di noi se ne andò in direzioni opposte .
Le cose andavano bene. Mettevamo insieme una bella somma e poi per un po' stavamo calmi.
Shorty suonava ancora con la sua orchestra, Rudy continuava ad occuparsi del suo vecchio
dalla raffinata sensibilità o faceva il cameriere ai ricevimenti di lusso e le ragazze continuavano
la loro normale vita di famiglia .
Qualche volta le portavo nei posti dove suonava Shorty o in altri locali. Spendevo il denaro
come se stesse per esser messo fuori corso, e le ragazze venivano tutte ingioiellate e con
addosso pellicce che sceglievamo dal nostro bottino. Nessuno sapeva che traffico facevamo, ma
era chiaro che le cose ci andavano bene. Le ragazze venivano spesso o a casa di Shorty a
Roxbury o nel nostro appartamento di Harvard Square soltanto per fumare sigarette alla
marijuana e fare un po' di musica. E' una vergogna dover dire questo di un uomo, ma Shorty era
così ossessionato da quella ragazza bianca che quando le luci erano spente, tirava su la
veneziana per vedere il biancore di quella carne al riflesso del lampione della strada .
La sera presto quando, fra un colpo e l'altro ce la prendevamo comoda, andavo spesso al night
club di Massachusetts Avenue chiamato il Savoy. Sofia mi telefonava lì puntualmente. Anche
quando facevamo i colpi, partivo da quel club e poi ci ritornavo subito dopo. La ragione di tutto
ciò era che, in caso di necessità, gli avventori avrebbero potuto testimoniare che mi avevano
visto circa all'ora in cui era avvenuto il colpo. In ogni caso era difficile che dei negri interrogati
dai poliziotti potessero dire l'ora con assoluta esattezza .
A quell'epoca c'erano a Boston due detective negri. Da quando mi ero ripresentato sulla scena
di Roxbury, uno di questi due agenti, un tipo dalla pelle marrone scuro che si chiamava Turner,
non mi aveva mai potuto soffrire. L'antipatia era reciproca. Diceva a tutti cosa mi avrebbe
voluto fare ed io, tutte le volte che lo sentivo, mettevo nel giro del «telegrafo» la mia risposta.
Dal modo in cui si comportava cominciai a esser sicuro che le mie risposte fossero arrivate a
destinazione .
Tutti sapevano che giravo armato e lui aveva il buonsenso di credere che non avrei esitato ad
adoperare la pistola contro di lui, anche se era un detective .
Quella sera ero al Savoy quando, alla solita ora, suonò il telefono di una cabina proprio mentre
l'agente Turner stava entrando dalla porta d'ingresso. Vide che mi alzavo e indovinò subito che
la chiamata era per me. Tuttavia entrò nella cabina e rispose lui .
Mentre mi guardava fisso, sentii che diceva: «Pronto, pronto, pronto». Sapevo benissimo che
Sofia, appena aveva sentito una voce sconosciuta, aveva riabbassato il ricevitore .
«Non era per me quella chiamata?» chiesi a Turner .
Lui disse di sì .
«Ebbene, - replicai io, - perché non me l'avete detto?» Mi dette una risposta brusca. Sapevo
che voleva fossi io a fare la prima mossa. Tutti e due eravamo impazienti: tutti e due ci
volevamo ammazzare a vicenda, ma nessuno dei due voleva fare un passo falso. Turner si
guardava bene dal dire qualcosa che, se ripetuto, gli avrebbe creato una cattiva reputazione
mentre io, da parte mia, non volevo dire niente che potesse essere interpretato come una
minaccia a un poliziotto .
Ricordo con esattezza ciò che gli dissi, alzando a bella posta la voce perché gli avventori del
bar potessero sentirmi: «Voi Turner fate di tutto per passare alla storia. Ma non sapete che se mi
stuzzicate passerete certamente alla storia perché dovrete ammazzarmi?» Turner mi guardò,
poi si mosse e uscì. Immagino che non fosse ancora pronto per passare alla storia .
Ero arrivato al punto che camminavo sulla mia stessa bara .
E' una legge della malavita che tutti i criminali si aspettino di esser catturati e che cerchino
quindi di ritardare quel momento il più possibile .
Gli stupefacenti mi aiutavano a cacciar via dalla mente quel pensiero. Ora erano la cosa
fondamentale della mia vita. Ero arrivato al punto di prendere tutti i giorni tali dosi di
marijuana, di cocaina o di tutt'e due da dimenticare qualsiasi preoccupazione e ansietà. Se
qualche pensiero riusciva ad affiorare alla mia coscienza, lo ributtavo indietro fino all'indomani
e poi fino al giorno successivo .
Ma mentre prima potevo fumare le «paglie» e fiutare i cristalli di cocaina senza che se ne
vedessero gli effetti, ora non mi riusciva più con tanta facilità .
Un giorno, durante una settimana di riposo dopo un grosso colpo, ero completamente ebbro e
giravo da un night club all'altro .
Quando entrai in uno di questi locali, mi resi conto dall'espressione del barista e dal modo in cui
mi disse «Ciao, Rosso» che c'era qualcosa che non andava. Non gli chiesi nulla .
Infatti ho sempre avuto come regola di non chiedere mai niente a nessuno in circostanze del
genere: sono gli altri che di solito ti dicono cosa vogliono che tu sappia. Però in questo caso il
barista, anche se ne aveva l'intenzione, non ebbe la possibilità di dirmi nulla. Quando mi sedetti
sullo sgabello e ordinai da bere, vidi Sofia e la sorella sedute a un tavolo, vicino alla pista da
ballo, insieme con un uomo bianco .
Non so come mi venne in mente di fare l'errore che feci. Avrei potuto parlarle dopo. Non
sapevo chi era quel bianco e non me ne importava proprio nulla. Fu la cocaina che m'impose di
alzarmi .
Non era il marito di Sofia, ma il suo migliore amico. Erano stati in guerra insieme e poiché il
marito della donna era fuori città, lui l'aveva invitata a cena insieme alla sorella. Poi, mentre
giravano in macchina dopo cena, gli era venuto in mente di venire nel ghetto negro .
Qualsiasi persona di colore che abiti in città ha visto migliaia di volte un tipo come quello, il
cretino del Nord che trova gusto nell'andare in giro a "niggertown" per divertirsi alle spalle dei
"coons" .
Le ragazze, che erano ben conosciute nei locali negri di Roxbury, avevano cercato di
dissuaderlo, ma lui aveva insistito .
Perciò, trattenendo il respiro, erano entrate in quel club dove erano già state centinaia di volte.
Avevano guardato il barista e i camerieri con gli occhi freddi e assenti: quelli avevano capito e
si comportavano come se non le avessero mai viste prima. Ora stavano al tavolo con i bicchieri
davanti a loro atterrite all'idea che qualche negro che le conosceva potesse avvicinarsi .
Poi arrivai io. Ricordo che le chiamai «Baby». Diventarono bianche come cenci e l'uomo
arrossì di rabbia .
Quella stessa sera, nell'appartamento di Harvard Square, mi sentii davvero male. Non era tanto
una malattia fisica quanto piuttosto l'accumulazione di tutto ciò che era successo in quegli
ultimi cinque anni. Ero a letto in pigiama, mezzo addormentato, quando sentii che qualcuno
bussava alla porta .
Pensai subito che c'era qualcosa che non andava perché tutti noi avevamo la chiave e nessuno
bussava mai. Mi rotolai giù fin sotto il letto: avevo la testa così confusa che non mi venne
neanche l'idea di prender la pistola che tenevo sul cassettone .
Mentre ero sotto il letto sentii girare la chiave e vidi le scarpe e le rovesce dei pantaloni di
quello che era entrato. Le seguii mentre si spostavano per la stanza, poi vidi che si fermavano e
ogni volta sapevo dove guardavano gli occhi. Prima che lo facesse, ero sicuro che si sarebbe
abbassato e avrebbe guardato sotto il letto. Infatti fu così. Era l'amico del marito di Sofia. Il suo
viso era a mezzo metro dal mio e aveva un'espressione gelida .
«Ah! ah! ah!, ve l'ho fatta eh?» dissi. Non c'era proprio niente da ridere. Venni fuori da sotto il
letto facendo ancora finta di ridere. Lui, devo dirlo, non scappò: fece qualche passo indietro e
mi guardò come se fossi stato un serpente .
Non cercai di nascondere quello che già sapeva. Le ragazze tenevano alcuni capi di vestiario
negli armadi e altri erano sparsi un po' dappertutto. Lui li aveva visti. Parlammo per un po', io
gli dissi che le ragazze non c'erano e poi lui se ne andò. La cosa che mi atterrì fu ripensare a
come mi ero messo in trappola con le mie stesse mani, sotto il letto e senza la pistola. Stavo
proprio diventando un rammollito .
Avevo portato un orologio rubato a riparare in una gioielleria .
Fu due giorni dopo, quando andai per riprenderlo, che tutto crollò .
Come ho detto la pistola faceva parte del mio abbigliamento come la cravatta. La portavo
sempre sotto la giacca in una fondina legata all'ascella .
Il proprietario dell'orologio, che noi avevamo derubato, aveva descritto dettagliatamente alla
polizia di che genere di riparazione aveva bisogno. Era un orologio di gran prezzo ed è per
questo che me l'ero tenuto. Tutti gli orologiai di Boston ne avevano ricevuto la descrizione .
L'ebreo proprietario del negozio aspettò che lo pagassi prima di mettere l'orologio sul banco.
Quello fu il segnale: un tale uscì all'improvviso dal retrobottega e si diresse verso di me tenendo
la mano in tasca. Mi resi immediatamente conto che si trattava di un poliziotto .
«Venite nel retrobottega», mi disse a voce bassa .
Mentre mi muovevo per obbedire, entrò un povero diavolo di negro innocente. Ricordo di aver
sentito dire più tardi che, proprio quello stesso giorno, era stato congedato .
Il poliziotto, credendo che quello fosse con me, si rivoltò bruscamente. Io tirai fuori la pistola
mentre l'agente parlava col negro voltandomi la schiena. Oggi credo che Allah mi fu vicino
anche in quell'occasione perché non cercai di sparare e così mi salvai la vita .
Ricordo che il poliziotto si chiamava Slack. Alzai il braccio e tesi la pistola dicendo: «Ecco,
prendetela!» Notai l'espressione del suo volto: era sbalordito. Per l'improvvisa apparizione
dell'altro negro non aveva neppure pensato che io avessi una pistola e il fatto che non avevo
cercato di ucciderlo lo aveva commosso .
Poi, tenendo in mano la mia pistola, fece un segnale e altri due poliziotti vennero fuori da dove
erano appostati. Avevano le pistole puntate contro di me e se avessi fatto un solo movimento
falso mi avrebbero freddato .
Avrei avuto parecchio tempo in prigione per pensare a tutto questo .
Se non fossi stato arrestato allora, sarei molto probabilmente morto in qualche altro modo.
L'amico del marito di Sofia gli aveva detto tutto di me e quello, che era appena tornato la
mattina, era andato a cercarmi nel mio appartamento, armato di pistola. Era là proprio mentre i
poliziotti mi portavano al commissariato .
Mi interrogarono incessantemente, ma non mi picchiarono, non mi toccarono neanche con un
dito. Sapevo che si comportavano così perché non avevo cercato di ammazzare il loro collega .
Riuscirono a scoprire il mio indirizzo da certe carte che mi trovarono addosso. Ben presto le
ragazze furono arrestate e, quanto a Shorty, lo andarono a prendere proprio sul palco
dell'orchestra quella stessa sera. Le ragazze avevano fatto anche il nome di Rudy ma, fino ad
oggi, mi sono sempre domandato come lui abbia potuto saperlo in tempo. Devono averlo
informato immediatamente perché riuscì ad allontanarsi e la polizia non lo ha mai più catturato .
Ho ripensato tante volte come quel giorno sfuggii alla morte in due occasioni. E' per questo che
credo che tutto sia scritto .
I poliziotti trovarono nell'appartamento tutte le prove che volevano: pellicce, un po' di gioielli,
altri piccoli oggetti oltre ai ferri del mestiere, piè di porco, tagliavetro, cacciaviti speciali,
lampadine tascabili dal raggio sottilissimo, chiavi false... e il mio piccolo arsenale di pistole .
Le ragazze ottennero la libertà provvisoria dietro una cauzione molto bassa. Dopo tutto,
facessero o no parte di una banda di svaligiatori, erano sempre bianche. Il loro delitto maggiore
fu considerato quello di essersi legate a dei negri. Viceversa, per me e per Shorty la cauzione fu
fissata a diecimila dollari ciascuno: una somma, lo sapevano benissimo, che noi non saremmo
mai stati in grado di procurarci .
Gli assistenti sociali ci presero sotto le loro cure. Erano ossessionati soprattutto dal fatto che
delle donne bianche si fossero messe insieme ai negri, specialmente poi perché quelle ragazze
non erano delle puttane o delle straccione, ma appartenevano a una classe agiata e di notevole
prestigio sociale. Ciò dava noia più di ogni altra cosa sia agli assistenti sociali che ai giudici .
Dove, quando, come le avevo conosciute? Ero andato a letto con loro? Nessuno voleva sapere
niente dei furti: tutti volevano esser sicuri se noi avevamo posseduto le donne dell'uomo bianco
.
Io guardavo in faccia gli assistenti sociali: «Ebbene, dicevo, ditemi piuttosto voi cosa pensate»
.
Persino gli impiegati e gli ufficiali giudiziari dicevano: «Delle ragazze bianche per bene...
Questi fottuti "niggers"». Le stesse cose ci furono dette persino dai nostri difensori d'ufficio
quando, sotto scorta, fummo portati di fronte al giudice istruttore. Prima che il magistrato
entrasse, io dissi a un avvocato: «Mi sembra che ci vogliano condannare soltanto a causa di
quelle ragazze». Lui diventò rosso come un gambero e mescolando nervosamente le sue carte
replicò: «Non avevate nessun diritto di mettervi con delle ragazze bianche!» Più tardi, quando
ormai avevo appreso tutta la verità sull'uomo bianco, ho riflettuto molte volte sul fatto che una
condanna per furto con scasso, com'era quella che ci fu inflitta, non superava di solito mai i due
anni. Noi però non saremmo stati condannati sulla base della media e nemmeno per il nostro
reato .
Prima di continuare, voglio dire che non ho mai raccontato a nessuno tutti i particolari del mio
sordido passato. Quello che ho scritto qui non dev'essere interpretato come se io fossi
orgoglioso di com'ero allora corrotto e perverso .
Ma la gente si domanda continuamente: perché sono come sono? Per dare una risposta a tale
interrogativo bisogna che ciascuno passi in rassegna tutti gli avvenimenti della sua vita, fin
dalla nascita. L'insieme delle nostre esperienze si fonde nella nostra personalità e tutto quanto ci
accade diventa una componente di essa .
Oggi, allorché ogni azione della mia vita è compiuta sotto lo stimolo di una febbrile urgenza,
non avrei certamente sciupato una sola ora per scrivere un libro che avesse l'ambizione di
solleticare la curiosità dei lettori. Dedico molto del mio tempo ad esso perché credo che il modo
migliore sia di raccontare l'intera storia così come io l'ho vista e compresa, io che ero caduto
toccando il fondo della società dell'americano bianco quando, come ora vedremo, in prigione
trovai Allah e la religione dell'Islam che trasformarono completamente la mia vita .
Capitolo decimo .
SATANA .
Shorty non conosceva il significato della parola «cumulativo» .
A gran fatica la vecchia madre di Shorty era riuscita a mettere insieme i soldi per pagarsi il
viaggio in autobus da Lansing a Boston. «Figlio mio, leggi i libri della Rivelazione e prega
Dio», aveva continuato a dire a Shorty tutte le volte che gli era andata a far visita e una volta
l'aveva detto anche a me, mentre eravamo in attesa di giudizio. Shorty aveva letto le pagine
della Rivelazione e si era inginocchiato a pregare come un diacono della chiesa battista negra .
Poi ci trovammo di fronte al giudice nel tribunale della contea di Middlesex. Credo che i
quattordici reati di cui eravamo imputati li avessimo commessi in quella contea. La madre di
Shorty stava seduta con la testa bassa e singhiozzava pregando; vicini c'erano Ella e Reginald.
Shorty fu il primo a essere chiamato .
«Per il primo reato da otto a dieci anni...» «Per il secondo reato da otto a dieci anni...» «Per il
terzo reato...» E alla fine: «La sentenza è cumulativa» .
Shorty sudava talmente che la sua faccia nera sembrava fosse coperta di grasso e siccome non
capiva il significato della parola «cumulativa», probabilmente aveva contato almeno cento anni
di prigione da scontare. Scoppiò in singhiozzi e si sarebbe rotolato per terra se le guardie non lo
avessero sorretto .
In otto o dieci secondi Shorty era diventato ateo come io ero stato fin da principio .
Mi dettero dieci anni .
Le ragazze ebbero da uno a cinque anni da scontarsi nel riformatorio femminile di Framingham
nel Massachusetts .
Ciò accadeva nel febbraio del 1946. Non avevo ancora ventun anni e non avevo ancora
cominciato a farmi la barba sul serio .
Shorty ed io, ammanettati insieme, fummo condotti alla prigione statale di Charlestown .
Non ricordo i miei numeri di matricola in prigione. Sembra strano, anche dodici anni dopo che
sono uscito, perché il numero di matricola che dànno in prigione diventa parte di noi stessi .
Non si viene mai chiamati per nome, ma soltanto per numero, e questo è impresso su tutti i capi
di vestiario, su tutti gli oggetti che si adoperano. Alla fine è come se fosse addirittura impresso
nel cervello del carcerato .
Tutti coloro che dicono di provare interesse per gli altri esseri umani dovrebbero meditare a
lungo prima di dare il loro voto affinché altri uomini siano rinchiusi dietro le sbarre, in gabbia.
Non voglio dire che non ci dovrebbero essere le prigioni, ma solo che non ci dovrebbero essere
sbarre perché dietro di esse nessuno si ravvede. Nessun uomo potrà mai dimenticare, potrà mai
cancellare dalla propria mente il ricordo delle sbarre .
Quando esce, tenta di annullare il ricordo di quell'esperienza, ma non ci riesce. Ho parlato con
molti ex carcerati ed era molto interessante vedere come tutti noi avevamo rimosso dalla nostra
mente molti particolari degli anni trascorsi in prigione ma, in nessun caso, potevamo
dimenticarci delle sbarre .
Mi trovavo a Charlestown come un «novellino» ("fish", come si dice nel gergo dei carcerati) e
soffrivo molto fisicamente fino a diventare velenoso come un serpente, trovandomi
improvvisamente senza stupefacenti. Nelle celle non c'era acqua corrente. La prigione era stata
costruita nel 1805, ai tempi di Napoleone, e l'avevano persino copiata dalla Bastiglia. La mia
cella era sporca e soffocante e quando stavo sdraiato sul pagliericcio toccavo tutti e due i muri.
Per le nostre necessità corporali c'era il bugliolo. Per quanto si possa essere forti, non si riuscirà
mai a sopportare il puzzo delle feci di un intero corridoio di celle .
Lo psicologo della prigione volle esaminarmi e fu investito da tutti gli insulti e le espressioni
scurrili che mi vennero in mente. Al cappellano della prigione successe anche di peggio .
Ricordo che la prima lettera che ricevetti veniva da mio fratello Philbert di Detroit il quale,
religioso com'era, mi diceva che la sua «santa» chiesa avrebbe pregato per me. Io gli risposi in
un modo tale che oggi me ne vergogno solo a pensarci .
La prima persona che venne a farmi visita fu Ella. Ricordo di aver notato un momento di
angoscia nei suoi occhi, poi di aver visto che cercava di sorridermi quando mi presentai di
fronte a lei nella divisa scolorita con sopra impresso il numero di matricola. Né lei né io
sapevamo cosa dire e a un certo punto desiderai perfino che non fosse venuta a trovarmi.
Poliziotti armati sorvegliavano circa cinquanta carcerati e visitatori .
Sentii che molti degli ultimi arrivati, quando tornavano nelle loro celle, dicevano bestemmiando
che la prima cosa che avrebbero fatto, una volta liberi, sarebbe stato di stender morte quelle
guardie del parlatorio. Spesso tutto l'odio si concentrava proprio su di loro .
La prima volta a Charlestown che potei intossicarmi di nuovo, fu quando riuscii a procurarmi
della noce moscata. Il mio compagno di cella faceva parte di un gruppo di almeno cento
persone che, per denaro o in cambio di sigarette, compravano dai carcerati addetti alla cucina
scatolette di fiammiferi piene di noce moscata rubata. Presi una scatola come se fosse una libbra
di stupefacenti molto forti. Sciolto in un bicchiere di acqua fredda, il contenuto di una di queste
scatolette da fiammiferi faceva lo stesso effetto di tre o quattro «paglie» .
Con un po' di soldi che mi mandava Ella, riuscii finalmente a comprare della roba migliore
dalle guardie. Mi procurai sigarette alla marijuana, nembutal e benzedrina. I secondini
arrotondavano lo stipendio vendendo di nascosto ai carcerati, e chi è stato in prigione sa di dove
vengono i guadagni del personale di custodia .
Rimasi in prigione per sette anni. Ora, quando cerco di pensare a quel periodo di poco più di un
anno che trascorsi a Charlestown, mi si presenta alla memoria un quadro confuso in cui ci sono
la noce moscata e gli altri narcotici, secondini che bestemmiano, io che butto fuori ogni cosa
contenuta nella mia cella, che mi rifiuto di far la fila, lascio cadere il vassoio nel refettorio, non
dico il mio numero di matricola sostenendo di averlo dimenticato e altre cose del genere .
Preferivo la cella d'isolamento a cui venivo destinato per il mio modo di comportarmi.
Passeggiavo su e giù per ore come un leopardo in gabbia, maledicendo me stesso ad alta voce e
bestemmiando. I miei bersagli preferiti erano Dio e la Bibbia .
C'erano però dei limiti fissati dal regolamento: non si poteva tenere un carcerato in cella
d'isolamento più di un certo tempo .
Alla fine quelli del mio corridoio mi dettero il soprannome di «Satana» a causa del mio
atteggiamento antireligioso .
La prima persona che incontrai in prigione capace di suscitare in me una qualche reazione
positiva fu un carcerato detto «Bimbi». Lo conobbi nel 1947 a Charlestown. Era un negro dalla
pelle chiara, quasi rossiccia come la mia; era pressappoco della mia statura e aveva il viso pieno
di lentiggini. Bimbi era un veterano degli scassinatori ed era stato in parecchie prigioni .
Nell'officina dove il nostro gruppo faceva targhe di automobili, lui era addetto alla macchina
che stampava i numeri. Quanto a me, stavo lungo la catena di montaggio dove si verniciavano
le targhe .
Bimbi era il primo carcerato negro da me conosciuto che non rispondesse quando gli dicevano:
«Come va, Daddy?» Spesso, quando avevamo finito il numero di targhe che dovevamo fare
ogni giorno, ci sedevamo in circolo, in una quindicina, a sentire quel che diceva Bimbi.
Normalmente i carcerati bianchi non pensavano neppure a dare ascolto alle opinioni di quelli
negri ma, nel caso di Bimbi, persino le guardie gironzolavano intorno per stare a sentire quel
che diceva .
Sapeva tenere desta l'attenzione della gente in modo straordinario, spesso parlando di
argomenti strani a cui non si sarebbe mai pensato. Approfondendo certi aspetti della scienza del
comportamento umano, ci dimostrava che l'unica differenza esistente tra noi e la gente di fuori
consisteva nel fatto che noi eravamo stati arrestati. Gli piaceva molto parlare di fatti e figure
della storia. Quando ci raccontava la storia di Concord, dove in seguito sarei stato trasferito,
sembrava che ne avesse ricevuto l'incarico dalla Camera di commercio di quella città, ed io non
fui certo il primo tra i carcerati che non aveva mai sentito parlare di Thoreau finché Bimbi non
ce ne descrisse l'opera. Bimbi era noto come il miglior cliente della biblioteca. Quello che mi
affascinava in lui era il fatto che fosse il primo uomo da me conosciuto che riuscisse a
guadagnarsi il rispetto di tutti... con le sole parole .
Raramente Bimbi parlava a lungo con me. Era scontroso nei rapporti individuali ma mi accorsi
che gli piacevo. Cercai la sua amicizia principalmente dopo che lo sentii discutere di religione.
Mi consideravo al di là dell'ateismo: io ero Satana .
Bimbi, per così dire, mise la filosofia ateistica nel suo contesto e ciò mi fece smettere gli
attacchi blasfemi. In confronto al suo, il mio atteggiamento sembrava molto debole perché lui
non usava mai una parola oscena .
Come un fulmine a ciel sereno, Bimbi mi disse un giorno, a freddo com'era sua abitudine, che
avrei avuto delle qualità intellettuali se me ne fossi servito. Io volevo la sua amicizia e non un
consiglio di quel genere. Avrei potuto mandare al diavolo qualsiasi altro carcerato, ma nessuno
insultava Bimbi .
Mi disse che avrei dovuto approfittare della biblioteca e dei corsi per corrispondenza consentiti
in prigione .
Quando avevo finito l'ottavo anno di scuola a Mason nel Michighan, era stata l'ultima volta che
avevo pensato di studiare qualcosa che non avesse una connessione diretta con qualcuno dei
miei traffici. La vita di strada aveva spazzato via tutto quello che avevo imparato a scuola ed
ero arrivato al punto che non avrei riconosciuto un verbo da una casa. Mia sorella Hilda mi
aveva scritto consigliandomi che, se mi fosse stato possibile, avrei dovuto studiare in prigione
inglese e composizione. Quando vendevo le sigarette di marijuana per la strada, lei era riuscita
a malapena a leggere un paio di cartoline che le avevo mandato .
Così, pensando a tutto il tempo che avevo a mia disposizione, decisi di cominciare un corso per
corrispondenza in inglese .
Quando gli elenchi ciclostilati dei libri disponibili venivano passati da una cella all'altra,
scrivevo il mio numero di matricola accanto a quei titoli che mi incuriosivano e che già non
erano stati prenotati da altri .
Grazie agli esercizi e alle lezioni per corrispondenza, certi meccanismi della grammatica
cominciarono piano piano a tornarmi a mente .
Dopo circa un anno, mi pare, fui in grado di scrivere lettere decenti e leggibili. Fu a questo
punto che, stimolato anche da quello che avevo sentito spesso da Bimbi sulle derivazioni delle
parole, cominciai zitto zitto un altro corso per corrispondenza, questa volta in latino .
Sempre sotto la tutela di Bimbi avevo organizzato tutta una serie di piccoli imbrogli. Riuscivo
a vincere chiunque a domino e siccome la posta era costituita da sigarette, io ne avevo sempre
parecchie stecche nella mia cella. Come si sa, in prigione, le sigarette erano un oggetto di
scambio di valore quasi uguale al denaro. Puntavo sigarette e soldi su incontri di pugilato e di
baseball e raccoglievo le scommesse degli altri .
Non dimenticherò mai la sensazione che creò fra i carcerati la notizia di quel giorno dell'aprile
1947 quando Jackie Robinson venne ingaggiato dai Dodgers. Io ero uno dei suoi più fanatici
ammiratori e quando lui giocava, tenevo l'orecchio incollato alla radio e non c'era partita che
finisse senza che io non avessi calcolato con esattezza tutte le percentuali dei punti realizzati dal
mio campione .
Nel 1948, un giorno dopo che ero stato trasferito alla prigione di Concord, mio fratello
Philbert, sempre alla ricerca di qualcosa a cui aderire, mi scrisse che finalmente aveva scoperto
la «religione naturale dei negri». Mi diceva di appartenere ora a un'organizzazione chiamata la
Nazione dell'Islam e che avrebbe «pregato Allah per la mia liberazione». Risposi, con una
lettera che, sebbene scritta in un inglese migliore, era più volgare dell'altra risposta che gli
avevo mandato quando mi aveva scritto che la sua «santa» chiesa avrebbe pregato per me .
Quando ricevetti una lettera da Reginald, non pensai neppure di ricollegarla con l'altra, sebbene
sapessi che Reginald aveva trascorso parecchio tempo a Detroit con Wilfred, Hilda e Philbert.
Questa lettera era densa di notizie e conteneva l'invito a non mangiare carne di maiale e a non
fumare più. «Ti mostrerò, - concludeva Reginald, - come uscire di prigione» .
La mia reazione immediata fu di pensare che questa frase si riferisse a qualche modo per
imbrogliare le autorità e organizzare l'evasione. Andai a letto pensando a cosa potesse essere e
tale pensiero mi tornò subito alla mente appena sveglio. Qualche espediente psicologico, come
quello che avevo messo in atto all'ufficio di leva di New York? Se stavo un po' di tempo senza
mangiare carne di maiale e senza fumare avrei potuto accusare qualche disturbo fisico per cui
mi avrebbero dimesso dal carcere? «Uscire di prigione». Queste parole mi risuonavano nella
mente .
Volevo proprio andarmene .
Ecco, pensavo di consultarmi con Bimbi al riguardo, ma un istinto prepotente mi diceva di non
metterne a parte nessuno .
Non sarebbe stato difficile smettere di fumare. Per giorni e giorni, quando ero nella cella
d'isolamento, ero rimasto senza sigarette. D'altronde, quali che fossero le prospettive, ero deciso
a non lasciarmele sfuggire. Quando ebbi terminato di leggere quella lettera, finii il pacchetto di
sigarette che avevo aperto e da allora, cioè dal 1948, fino ad oggi non ho più fumato .
Tre o quattro giorni dopo ci venne servita carne di maiale a pranzo. Quando mi sedetti al lungo
tavolo del refettorio non pensavo neanche al maiale. In prigione la regola era di sedersi,
prendere quel che c'era, ingozzarlo in un baleno poi alzarsi e filar via. Perciò quando mi
passarono il piatto con la carne, non sapevo neanche di che qualità fosse (di solito non si poteva
stabilire), ma ebbi la sensazione che la frase "non mangiare più carne di maiale" fosse stata
proiettata su uno schermo proprio davanti a me .
Esitai e restai col piatto a mezz'aria; poi lo passai al mio vicino. Questi cominciò a servirsi ma
poi, improvvisamente, si fermò. Ricordo di averlo visto voltarsi e guardarmi con un'espressione
stupita .
«Non mangio carne di maiale», gli dissi .
Il vassoio continuò a essere passato fino all'estremo della tavola .
La cosa più buffa fu la reazione a quel mio gesto e il modo come si diffuse. In prigione, dove la
monotonia delle abitudini è interrotta così raramente, le cose più piccole provocano commenti a
non finire. A sera, in tutte le celle del mio braccio, si diceva che Satana non mangiava carne di
maiale .
La cosa, sia pure in modo piuttosto strano, mi rendeva orgoglioso. Generalmente, sia in
prigione che fuori, si pensava che una delle cose che i negri non potevano fare era di vivere
senza mangiare carne di maiale. Fui contento di vedere come il fatto che io non la mangiassi
aveva particolarmente stupito i carcerati bianchi .
In seguito, quando lessi e studiai in modo approfondito la religione dell'Islam, appresi che
inconsciamente si era manifestata in questo modo la mia prima professione di fede preislamica.
Per la prima volta avevo messo in pratica l'insegnamento musulmano: «Se farai un passo verso
Allah, Allah farà due passi verso di te» .
I miei fratelli e le mie sorelle di Detroit e Chicago si erano tutti convertiti a quella religione che
si insegnava loro a considerare come «naturale» per i negri e di cui mi aveva scritto Philbert.
Tutti loro pregavano perché mi convertissi mentre ero in prigione, ma dopo che Philbert ebbe
raccontato con quanta volgarità avevo risposto, discussero tra loro quale fosse la miglior cosa
da fare. Decisero che Reginald, che era stato l'ultimo a convertirsi e per il quale avevo più
affetto, fosse quello che conosceva meglio il modo di avvicinarmi, dato anche che mi era stato
vicino nella vita di strada .
Indipendentemente da tutto questo, mia sorella Ella si era occupata attivamente di farmi
trasferire allo stabilimento di pena di Norfolk, nel Massachusetts, che era un istituto
sperimentale di riabilitazione. Nelle altre prigioni i carcerati dicevano spesso che se uno era
ricco o aveva le amicizie adatte poteva farsi trasferire a quello stabilimento di pena, i cui
sistemi erano così miti da non sembrare neanche veri. Non so come, ma alla fine del 1948 gli
sforzi di Ella furono coronati da successo: venni trasferito a Norfolk .
Paragonato agli altri questo stabilimento di pena era sotto certi aspetti un paradiso. C'erano gli
sciacquoni con l'acqua corrente, non esistevano sbarre ma solo muri e all'interno dei muri c'era
molta più libertà. Inoltre, siccome non era in città, l'aria era molto migliore .
Se ben ricordo c'erano ventiquattro blocchi separati, e in ciascuno stavano cinquanta uomini.
Ciò vorrebbe dire che il numero totale dei carcerati era milleduecento. Ciascun blocco aveva tre
piani e, fatto più positivo di tutti, ognuno di noi aveva la sua stanza .
I negri costituivano il quindici per cento e ce n'erano da cinque a nove in ogni blocco .
Lo stabilimento di pena di Norfolk rappresentava la forma più illuminata tra i sistemi di
detenzione di cui ho sentito parlare. Al posto di quell'atmosfera di velenosi pettegolezzi, di
perversione, di furto, di secondini pieni di odio, c'era una relativa «cultura», almeno come può
essere interpretata tale parola in prigione. Parecchi detenuti dello stabilimento di pena di
Norfolk avevano interessi «intellettuali», facevano parte di gruppi di discussione,
organizzavano dibattiti e cose del genere. Gli insegnanti dei corsi di riabilitazione venivano
dalla Harvard University, dall'università di Boston e da altre istituzioni accademiche della zona.
I regolamenti, molto più miti di quelli di altre prigioni, permettevano visite quasi ogni giorno e i
visitatori potevano trattenersi per due ore. Era permesso scegliere tra sedersi fianco a fianco o
uno di fronte all'altro .
Uno degli aspetti migliori dello stabilimento di pena di Norfolk era la biblioteca. Era stata
lasciata in eredità dal milionario Parkhurst, il quale probabilmente aveva preso interesse al
programma di riabilitazione dei detenuti. I suoi settori di specializzazione erano la storia e le
religioni. Negli scaffali c'erano migliaia di volumi e nel retro della sala casse e scatole piene di
libri per i quali non c'era posto. Con uno speciale permesso, a Norfolk si poteva andare in
biblioteca, girare liberamente tra gli scaffali e prendere i libri. C'erano centinaia di vecchi
volumi, alcuni dei quali probabilmente molto rari. Io leggevo a casaccio finché imparai a
seguire un certo criterio, a leggere con uno scopo preciso .
Per un po' di tempo dopo che fui trasferito a Norfolk non avevo ricevuto notizie di Reginald,
ma già quando ero venuto a questo penitenziario non fumavo più e non mangiavo più carne di
maiale .
Ciò aveva causato un po' di risentimento e stupore. Ben presto ricevetti una lettera in cui
Reginald mi comunicava che sarebbe venuto a farmi visita e quando venne io ero estremamente
ansioso di sentire che specie di trucco voleva svelarmi .
Reginald conosceva bene come funzionava il mio cervello di trafficante di strada e ciò spiega
l'efficacia del suo approccio .
Mi ero sempre vestito bene ed ora, quando lui venne a farmi visita, mi ero messo tutto in
ghingheri. Non riuscivo a resistere alla curiosità di sapere cosa voleva dire quel rebus: «niente
carne di maiale e niente sigarette», ma lui parlava della famiglia e di quello che succedeva a
Detroit o che era successo ad Harlem prima che venisse via. Non ho mai avuto l'abitudine
d'insistere se qualcuno non voleva dirmi subito certe cose e la spigliatezza di Reginald mi
faceva pensare che ben presto sarebbe venuto fuori qualcosa di grosso .
Infatti, alla fine, mi disse come se gli fosse venuto in mente lì per lì: «Malcolm, se un uomo
sapesse tutto quello che c'è da sapere chi sarebbe?» Quando eravamo ancora ad Harlem, lui
aveva spesso adoperato questo modo indiretto per arrivare a dire qualcosa, ma a me non era mai
molto piaciuto perché ho sempre preferito i metodi diretti. «Bene, - gli dissi guardandolo in
faccia, - dovrebbe essere una qualche specie di dio...» «C'è un UOMO che sa tutto», replicò
Reginald .
«E chi è? » domandai .
«Dio è un uomo, - disse Reginald. - Il suo vero nome è Allah» .
Mi ricordavo di questa parola dalla lettera di Philbert: era la prima traccia che avevo per
stabilire una connessione. Ma Reginald continuò e mi disse che Dio aveva trecentosessanta
gradi di conoscenza e che questi rappresentavano «la somma universale della conoscenza» .
Dire che ero confuso è poco. Conoscete benissimo i miei precedenti e capirete in quale
prospettiva ponevo quello che mio fratello Reginald mi diceva. Ascoltavo sapendo benissimo
che prendeva tempo per confidarmi qualcosa. E se qualcuno sta cercando di confidarti qualcosa,
bisogna pure ascoltare .
«Il diavolo ha soltanto trentatré gradi di conoscenza, noti come la massoneria», disse Reginald.
Ricordo chiaramente le frasi esatte perché, più tardi, le avrei insegnate tante volte agli altri. «Il
diavolo si serve della massoneria per dominare gli altri» .
Mi disse che questo Dio era venuto in America e che si era rivelato a un uomo di nome Elijah,
«un negro proprio come noi» .
Questo Dio aveva informato Elijah, continuava Reginald, che «il tempo concesso al diavolo era
finito» .
Non sapevo cosa pensare. Mi limitavo ad ascoltare .
«Il diavolo è anche un uomo», disse Reginald .
«Cosa vuoi dire?» Con un leggero movimento della testa, Reginald indicò alcuni carcerati
bianchi che, dall'altra parte della stanza, stavano parlando con i loro visitatori .
«Loro, - disse. - L'uomo bianco è il diavolo» .
Mi disse che tutti i bianchi sapevano di essere dei diavoli, «specialmente i massoni» .
Non me ne dimenticherò mai: senza volerlo passavo mentalmente in rassegna tutti i bianchi
che avevo conosciuto e non so perché fermai l'attenzione su Hymie, l'ebreo che era stato così
buono con me .
Un paio di volte Reginald era venuto con me a Long Island dove compravo l'alcool di
contrabbando imbottigliandolo poi per conto di Hymie .
«Senza eccezioni?» domandai .
«Senza eccezioni» .
«Ma che pensi allora di Hymie?» «Che merito c'è se ti faccio guadagnare cinquecento dollari
per poterne poi guadagnare diecimila io?» Quando Reginald se ne fu andato, mi misi a pensare
per ore e ore. Non riuscivo a vedere in forma coerente quello che mi aveva detto .
Tutti i bianchi che avevo conosciuto sin dall'inizio della mia vita cominciarono a sfilarmi
davanti agli occhi. C'erano i funzionari degli enti statali di beneficenza che venivano sempre in
casa nostra dopo che altri bianchi a me ignoti avevano assassinato mio padre... quelli che
chiamavano continuamente mia madre «pazza» davanti a me e ai miei fratelli e sorelle, finché,
alla fine, fu portata all'ospedale psichiatrico di Kalamazoo da altri bianchi... il giudice e gli altri
che avevano separato noi bambini... gli Swerlin e gli abitanti di Mason... I miei compagni di
scuola e gli insegnanti specialmente quello che, alla fine dell'ottava classe, mi disse di «fare il
falegname» perché per un negro anche soltanto pensare di fare l'avvocato era follia.. .
I volti di tutti questi bianchi mi si accavallavano nella mente .
Rivedevo quelli di Boston durante le serate danzanti riservate a loro al Roseland Ballroom
quando facevo il lustrascarpe... al ristorante Parker House dove portavo i loro piatti sudici in
cucina... il personale del treno e i passeggeri... Sofia.. .
Mi tornavano alla mente i bianchi di New York City, i poliziotti e i criminali con i quali avevo
avuto a che fare... quelli che si accalcavano nei locali notturni clandestini per assaporare
l'ANIMA negra... le donne bianche che volevano andare a letto con i negri... i bianchi che
avevo accompagnato alle case d'appuntamento «specializzate» dove trovavano i negri che
volevano.. .
Il ricettatore di Boston e l'ex galeotto suo rappresentante... i poliziotti di Boston... l'amico del
marito di Sofia e suo marito, che non avevo mai visto ma del quale sapevo molte cose... la
sorella di Sofia... l'orologiaio ebreo che aveva collaborato al mio arresto... gli assistenti sociali...
il giudice e gli altri membri del tribunale della contea di Middlesex... il magistrato che mi dette
dieci anni... i detenuti che avevo conosciuto, le guardie e i funzionari.. .
Tra gli ospiti dello stabilimento di pena di Norfolk godeva di grande prestigio un ricco
paralitico, piuttosto anziano che si chiamava John. Aveva ucciso il suo bambino, uno di quei
casi di eutanasia. Era il tipico pezzo grosso, altero, che teneva sempre a ricordare di essere un
trentatré della massoneria e a descrivere il potere dei massoni: solo loro erano stati presidenti
degli Stati Uniti e quando si trovavano in difficoltà potevano avvertire segretamente i giudici ed
altri massoni che si trovavano in posizioni di potere .
Continuavo a pensare a quello che mi aveva detto Reginald e volli averne la riprova da John.
Andai a trovarlo nella scuola della prigione dove gli avevano affidato un lavoretto leggero .
«John, - gli dissi, - di quanti gradi è la circonferenza del circolo?» «Trecentosessanta»,
rispose .
Allora io disegnai un quadrato. «Quanti gradi ci sono in questo?» Lui rispose che ce n'erano
trecentosessanta .
Io gli chiesi allora se tale numero fosse il massimo dei gradi di qualunque cosa. Lui rispose di
sì .
«Ebbene, allora perché i massoni arrivano soltanto a trentatré gradi?» gli chiesi .
Non mi dette una risposta soddisfacente, ma per me la risposta era che la massoneria è soltanto
trentatré gradi della religione dell'Islam che è la proiezione completa, in eterno negata ai
massoni, anche se essi sanno che esiste .
Quando, dopo alcuni giorni, Reginald tornò a farmi visita, poté facilmente vedere dal mio
atteggiamento l'effetto che avevano avuto su di me le sue parole. Mi sembrò che ne fosse molto
contento. Poi, in tutta serietà, mi parlò per due ore buone del «diavolo dell'uomo bianco» e del
«negro sottoposto a un continuo lavaggio del cervello» .
Quando Reginald se ne andò, rimasi in preda ai primi pensieri veramente seri che abbia mai
avuto in vita mia: che l'uomo bianco stava rapidamente perdendo il suo potere di opprimere e
sfruttare la gente di colore, che questa, come aveva fatto in passato, cominciava a insorgere per
dominare il mondo e che l'universo dell'uomo bianco era vicino alla decadenza e al tramonto .
«Non sai neanche chi sei, - mi aveva detto Reginald, - non sai neanche, poiché i diavoli
bianchi te lo hanno nascosto, che appartieni a una razza che dette vita ad antiche civiltà ricche
di oro e di re. Non sai neanche il vero nome della tua famiglia e non sapresti riconoscere, se ti
capitasse di sentirla, la tua vera lingua. Il diavolo bianco ti ha impedito ogni vera conoscenza
dei tuoi simili; sei stato la vittima della sua malvagità sin da quando ti strappò alla tua terra
natia, assassinandoti e usandoti violenza nei tuoi antenati». Cominciai a ricevere almeno due
lettere al giorno dai miei fratelli e sorelle di Detroit. Mi scrivevano Wilfred e la sua prima
moglie Bertha, la madre dei suoi due figli (dopo la morte di Bertha, Wilfred sposò Ruth, la sua
moglie attuale), Philbert e mia sorella Hilda. Reginald veniva a farmi visita e restava a Boston
un po' di tempo prima di tornare a Detroit: qui si era convertito anche lui, ultimo in ordine di
tempo dei miei fratelli. Erano tutti musulmani, seguaci di un uomo che chiamavano «il molto
onorevole Elijah Muhammad», una persona piccola e dolce che talvolta indicavano con
l'espressione «il Messaggero di Allah». Era, mi dicevano, «un negro come tutti noi». Nato in
America in una fattoria della Georgia, si era trasferito con la famiglia a Detroit e là aveva
conosciuto un certo signor Wallace D. Fard che a suo dire era «Dio in persona». Questo signor
Wallace D. Fard aveva dato a Elijah Muhammad il messaggio di Allah per i negri che
costituivano «la perduta e ritrovata Nazione dell'Islam qui in questo deserto dell'America del
Nord» .
Tutti insistevano perché io accettassi «gli insegnamenti del molto onorevole Elijah
Muhammad». Reginald mi spiegava che i seguaci della religione dell'Islam non mangiavano
carne di maiale e che l'astenersi dal fumo era una regola dei seguaci del molto onorevole Elijah
Muhammad, perché essi si rifiutavano di ingerire sostanze nocive come gli stupefacenti, il
tabacco o l'alcool. Continuamente leggevo e sentivo dire che «il segreto del vero musulmano è
la sottomissione, l'accordo assoluto con il volere di Allah» .
Quanto poi a quella che essi definivano «la vera conoscenza del negro» di cui erano in
possesso i seguaci del molto onorevole Elijah Muhammad, cominciai a vederla coerentemente
nelle loro lunghe lettere, a cui talvolta erano acclusi degli stampati .
«La vera conoscenza», che qui ricostruisco con maggior brevità di come la ricevetti io, era
che la storia, nei libri dell'uomo bianco, era stata distorta in suo favore e che al negro, per
centinaia di anni, «era stato fatto il lavaggio del cervello» .
L'uomo originario era negro, nel continente chiamato Africa dove la razza umana era apparsa
per la prima volta sulla terra .
Quest'uomo negro originario aveva costruito grandi imperi, civiltà e culture mentre l'uomo
bianco viveva ancora nelle caverne. Per tutta la storia «il diavolo dell'uomo bianco», proprio
per la sua natura diabolica, aveva depredato, assassinato, stuprato e sfruttato tutte le razze di
colore .
Il più grande delitto della storia umana era il traffico di carne nera che ebbe inizio quando il
diabolico uomo bianco fece la sua apparizione in Africa. Milioni di uomini, donne e bambini
negri furono assassinati e strappati alle loro terre per essere trasportati, sulle navi negriere, ad
Occidente, incatenati, frustati e torturati come schiavi .
Il diabolico uomo bianco aveva impedito alla gente negra qualsiasi conoscenza della loro stirpe
e dei loro simili, della loro lingua, religione e cultura passata finché il negro americano non era
diventato la sola razza sulla terra che ignori completamente la propria vera identità .
Nel corso di una generazione, in America, le schiave negre erano state violentate dai padroni
bianchi finché cominciò a diffondersi una razza artificialmente generata, condizionata
psicologicamente, che non aveva neanche più il suo vero colore e che ignorava persino il
proprio nome di famiglia. Il padrone li costrinse a prendere il suo nome, e cominciò a chiamare
«il negro» questa razza mista a causa degli stupri .
A questo negro si insegnò che nella sua Africa nativa non c'erano che pagani e selvaggi che,
come le scimmie, saltavano di albero in albero: egli accettò queste cose come tutto quello che
gli diceva il suo padrone e che aveva come scopo di costringerlo ad accettare, obbedire e
adorare l'uomo bianco .
Mentre le religioni di tutti gli altri popoli della terra insegnavano ai loro fedeli a credere in un
Dio con cui potevano identificarsi, un Dio che almeno somigliasse a uno della loro stirpe, il
padrone inculcò la sua religione cristiana nell'animo di questo negro. Gli fu insegnato ad
adorare un Dio straniero che aveva gli stessi capelli biondi, la stessa pelle bianca e gli stessi
occhi azzurri del suo padrone .
Questa religione insegnò al negro che il colore che aveva era una maledizione; gli insegnò a
odiare tutto ciò che era nero, compreso se stesso; gli insegnò che qualunque cosa bianca era
buona, degna di ammirazione, rispetto ed amore; lo persuase a ritenersi superiore se la sua pelle
rivelava tracce più cospicue delle eiaculazioni del padrone. Inoltre questa religione cristiana
dell'uomo bianco aveva ingannato e persuaso il «negro» a porger sempre l'altra guancia, a fare
smorfie, a inchinarsi quasi strisciando, a essere umile, a cantare e a pregare e ad accettare
qualunque cosa gli venisse propinata dal diabolico uomo bianco. Soprattutto lo aveva persuaso
ad aspettare la ricompensa nell'altra vita, mentre qui sulla terra il suo padrone bianco si godeva
il paradiso .
Molte volte, guardandomi indietro, ho cercato di ricordare quali furono le mie prime reazioni a
tutto ciò. Tutti gli istinti che avevo sviluppato nella giungla delle strade del ghetto, tutte le mie
astuzie di trafficante e il senso criminale del lupo che mi avrebbero fatto deridere e respingere
qualunque altra cosa, erano come paralizzati. Fu come se tutta quella mia vita precedente fosse
lì inerte, incapace di esercitare qualsiasi influenza. Ricordo che un po' più tardi leggendo la
Bibbia nella biblioteca dello stabilimento di pena di Norfolk, giunsi all'episodio di Paolo sulla
via di Damasco. Rilessi tante volte il racconto dell'ebreo di Tarso che, al sentire la voce di
Cristo, fu talmente scosso da cadere da cavallo in uno stato di semincoscienza. Né allora né ora
vorrei paragonarmi a Paolo, però devo dire che capisco la sua esperienza .
Da quel momento ho imparato, e ciò mi ha aiutato a capire che cosa cominciava allora a
succedere nel mio animo, che la verità può essere accolta soltanto dal peccatore che riconosce
di essere colpevole di molti peccati. Detto con altre parole: solo il riconoscimento della colpa
rende possibile l'accettazione della verità. E ancora, come dicono le Scritture cristiane: gli unici
che Cristo non poteva aiutare erano i farisei perché erano convinti di non aver bisogno di aiuto .
Fu proprio l'enormità delle colpe della mia vita precedente che mi preparò ad accettare la
verità. Dovettero passare alcuni mesi prima che fossi in grado di applicare la verità direttamente
a me stesso in quanto negro. Per ora, era come una luce accecante .
Reginald partì da Boston per tornare a Detroit. Sedevo nella mia cella con gli occhi fissi nel
vuoto e, nel refettorio mangiavo pochissimo e bevevo solo acqua. Mi ero quasi ridotto al
digiuno completo tanto che gli altri detenuti e i secondini mi domandavano preoccupati cosa
avevo. Mi consigliarono di andare da un dottore, ma io non ci andai. Avvertirono il medico, il
quale venne a visitarmi. Non so quale fosse la sua diagnosi, ma probabilmente disse che stavo
recitando qualche commedia .
Stavo attraversando la prova più dura, e anche quella più grande, a cui può esser sottoposto un
essere umano: accettare quello che ha già nell'animo .
Seppi più tardi che i miei fratelli e sorelle di Detroit avevano tutti contribuito a pagare il
viaggio a Hilda perché venisse a farmi visita. Lei mi disse che quando il molto onorevole Elijah
Muhammad veniva a Detroit era ospite in casa di Wilfred, che abitava nella MacKay Street.
Hilda insistette perché scrivessi a Muhammad: egli avrebbe compreso cosa voleva dire trovarsi
nella prigione dell'uomo bianco perché lui stesso, non molto tempo prima, era stato dimesso dal
penitenziario federale di Milan nel Michigan, dove aveva scontato una pena di cinque anni per
essersi rifiutato di prestare il servizio militare .
Hilda mi disse che il molto onorevole Elijah Muhammad era andato a Detroit per riorganizzare
il suo tempio numero uno che, mentre lui era in prigione, si era disgregato, ma che abitava a
Chicago dove aveva iniziato la costruzione del tempio numero due .
Fu Hilda che mi domandò: «Vorresti sentire come l'uomo bianco è apparso sulla terra?» Mi
espose la lezione centrale degli insegnamenti di Elijah Muhammad chiamata la "Storia di
Yacub" (più tardi seppi che era la demonologia propria di tutte le religioni). Elijah Muhammad
insegna ai suoi seguaci che dapprima la luna si separò dalla terra; poi i primi esseri umani,
l'uomo originario, che erano gente di colore, fondarono la città santa della Mecca .
Tra questo popolo negro c'erano ventiquattro sapienti, uno dei quali, in conflitto con gli altri,
formò la tribù negra di Shabazz, particolarmente forte, da cui discendono i cosiddetti negri
americani .
Circa seimilaseicento anni fa, quando il settanta per cento del popolo era soddisfatto e il trenta
per cento insoddisfatto, nacque tra questi ultimi un certo Yacub. Era venuto per provocare
confusione, turbare la pace e uccidere. Aveva la testa insolitamente grossa: a quattro anni
incominciò ad andare a scuola. All'età di diciotto anni, Yacub aveva finito tutti i corsi impartiti
dalle università della sua nazione. Era noto come «lo scienziato dalla testa grossa » e, tra le
molte altre cose, aveva imparato a produrre scientificamente le razze [1] .
Yacub, questo scienziato dalla testa grossa, si dette a predicare per le strade della Mecca
facendo un tal numero di adepti che le autorità, sempre più preoccupate, finirono con l'esiliarlo
insieme ai suoi 59999 seguaci nell'isola di Patmo, che le scritture cristiane dicono sia stato il
luogo dove Giovanni ricevette il messaggio del Nuovo Testamento .
Sebbene fosse un negro, Yacub, sdegnato com'era nei confronti di Allah, decise, per
vendicarsi, di creare sulla terra una razza diabolica, di esseri dalla pelle chiara, una razza di
bianchi .
Dai suoi studi lo scienziato dalla testa grossa aveva imparato che nei negri c'erano due geni,
uno nero e l'altro marrone e che quest'ultimo, che era il più chiaro dei due ed anche il più
debole, restava inattivo. Per mutare la legge della natura, Yacub concepì l'idea di servirsi di
quella che noi oggi chiamiamo la struttura dei geni recessivi in modo da separare i due geni uno
dall'altro e forzare quello marrone a percorrere stadi progressivamente più chiari e più deboli.
Sapeva benissimo che gli esseri umani che sarebbero derivati da tale processo sarebbero stati di
pelle più chiara e più deboli, e anche sempre più suscettibili di esser preda della malignità e
cattiveria. In tal modo egli avrebbe ottenuto quella razza di diavoli bianchi che aveva
vagheggiato .
Yacub sapeva che, per passare dal nero al bianco, ci sarebbero voluti molti stadi e così
cominciò la sua opera stabilendo, sull'isola di Patmo, la sua legge eugenetica .
Circa un terzo dei bambini che nascevano tra i 59999 seguaci di Yacub rivelavano qualche
traccia di marrone. Quando diventavano adulti erano permessi i matrimoni di chi aveva la pelle
marrone, oppure dei negri molto scuri con quelli dalla pelle marrone. La legge di Yacub
imponeva che se il nato era di pelle molto scura, la levatrice gli infilasse un ago nel cervello e
consegnasse poi il corpo al crematorio. Alla madre poi si diceva che era stato un «angioletto»
salito in cielo per preparare un posto per lei .
Alle madri dei bambini dalla pelle chiara veniva raccomandato di averne cura .
Yacub insegnò ai suoi assistenti questi metodi perché continuassero la sua opera e alla sua
morte, avvenuta sull'isola all'età di centocinquantadue anni, lasciò leggi e regolamenti su cui
dovevano basarsi i suoi successori. Secondo gli insegnamenti di Elijah Muhammad, Yacub non
vide mai, oltre che nella sua immaginazione, la razza dalla pelle schiarita che i suoi metodi e le
sue leggi avrebbero creato .
Passarono duecento anni prima che sull'isola di Patmo non ci fossero più esseri dalla pelle nera
e vi rimanessero soltanto persone con la pelle marrone .
Dopo altri duecento anni si passò da questi alla razza rossa e, sempre dopo lo stesso periodo,
questa lasciò il posto alla razza gialla. Finalmente, dopo altri duecento anni, fece la sua
apparizione la razza bianca .
Sull'isola di Patmo c'erano soltanto questi diavoli biondi, dalla pelle chiara e dagli occhi
celesti; dei selvaggi nudi e senza alcun senso di vergogna, pelosi come animali, che
passeggiavano su quattro zampe e vivevano sugli alberi .
Passarono altri seicento anni prima che questa razza ritornasse sul continente tra i negri
originari .
Elijah Muhammad insegna ai suoi seguaci che, nel giro di sei mesi, servendosi di menzogne
che spinsero i negri a combattersi uno con l'altro, questa razza di diavoli aveva trasformato
quello che era stato un paradiso terrestre in un inferno dilaniato dalle lotte e dai contrasti .
Finalmente i negri originari si resero conto che i loro guai improvvisi erano stati prodotti da
questa razza di diavoli bianchi che Yacub era riuscito a creare. Perciò li circondarono e li
misero in catene e, dopo aver coperte loro le reni con dei perizoma che ne nascondevano la
nudità, condussero questa razza di diavoli attraverso il deserto arabico fino alle caverne
dell'Europa .
La pelle d'agnello e la gomena che vengono oggi adoprati nei riti massonici simboleggiano il
modo in cui fu coperta la nudità dell'uomo bianco quando venne incatenato e condotto
attraverso le sabbie roventi del deserto .
Elijah Muhammad insegna inoltre che la razza dei diavoli bianchi viveva nelle caverne
d'Europa una vita del tutto selvaggia. Gli animali cercavano di uccidere quest'uomo primitivo e
lui si arrampicava sugli alberi che erano davanti all'entrata della caverna, faceva delle clave con
i rami nel tentativo di proteggere la famiglia dalle bestie feroci che cercavano di penetrare nel
suo abitacolo .
Quando questa razza diabolica ebbe passato duemila anni nelle caverne, Allah suscitò Mosè
perché li civilizzasse e li portasse fuori, all'aperto. Fu scritto che essa avrebbe dominato il
mondo per seimila anni .
I Libri di Mosè sono andati perduti e ciò spiega perché non si sa che lui, come gli altri, veniva
dalle caverne .
Quando si manifestò, i primi di quei diavoli ad accettare i suoi insegnamenti, i primi che egli
guidò fuori delle caverne, furono quelli che noi oggi chiamiamo gli ebrei .
Secondo gli insegnamenti di questa "Storia di Yacub", quando nella Bibbia è scritto che «Mosè
levò in alto il serpente nel deserto», si deve intendere il serpente come il simbolo di quella razza
di diavoli bianchi che Mosè trasse fuori dalle caverne dell'Europa insegnando loro la civiltà .
Era scritto che dopo seimila anni - cioè fino al nostro tempo durante i quali la razza bianca di
Yacub avrebbe dominato il mondo, l'originaria razza negra avrebbe dato i natali a un uomo la
cui saggezza, sapienza e potere sarebbero stati infiniti .
Era scritto che molti dei negri originari dovessero essere portati come schiavi nell'America del
Nord affinché imparassero, per esperienza diretta, a comprendere la vera natura del diavolo
bianco, nei tempi moderni .
Elijah Muhammad insegna che il dio più grande e potente che sia mai apparso sulla terra fu il
maestro W. D. Fard che venne dall'Oriente verso l'Occidente, facendo la sua apparizione
nell'America del Nord in un tempo in cui la profezia scritta stava avviandosi al compimento,
quando i popoli di colore di tutto il mondo avevano cominciato a insorgere e la civiltà bianca,
condannata da Allah, stava, proprio per la sua stessa natura diabolica, autodistruggendosi .
Il maestro W. D. Fard era mezzo negro e mezzo bianco ed era stato fatto in questo modo
affinché potesse essere accettato dai negri d'America e guidarli, mentre, nello stesso tempo,
avrebbe potuto muoversi indisturbato tra i bianchi e capire e giudicare la vera natura dei nemici
del negro .
Nel 1931, il maestro W. D. Fard, che si era camuffato da venditore ambulante di sete, conobbe
Elijah Muhammad a Detroit nel Michigan. Gli dette il messaggio di Allah e la sua divina guida
affinché salvasse la perduta e ritrovata nazione dell'Islam, cioè i cosiddetti negri, qui in «questo
deserto dell'America del Nord» .
Quando mia sorella Hilda finì di raccontarmi questa "Storia di Yacub", se ne andò. Io restai
esterrefatto e non so neanche se fui in grado di salutarla .
In seguito avrei saputo che le favole di Elijah Muhammad, come questa di Yacub, avevano
fatto infuriare i musulmani dell'Oriente. Quando andai alla Mecca volli ricordare ad essi che era
colpa loro poiché non avevano fatto abbastanza per far conoscere in Occidente la vera dottrina
dell'Islam. Il loro silenzio aveva permesso l'esistenza di un vuoto in cui poteva inserirsi
qualsiasi falso profeta e imbroglione e condurli sulla strada sbagliata .
NOTE .
NOTA 1: Sarà forse di un certo interesse integrare questo passo con un altro episodio che
appare nella versione ufficiale di Elijah Muhammad .
«Com'è noto, là dove c'è l'aspirazione o la richiesta di qualche mutamento, la natura crea
l'uomo capace di tradurla in atto .
Allah mi insegnò che la percentuale degli insoddisfatti è oggi del novantotto per cento, la quasi
totalità. In queste condizioni si verificherà di sicuro un mutamento radicale. Yacub non cambiò
le cose al cento per cento ma quasi al novanta per cento. Allah mi disse: «"Yacub aveva sei
anni quando, un giorno, mentre stava giocando con due pezzi di acciaio, osservò che si
attraevano a vicenda .
Si rivolse a suo zio esclamando: - Quando sarò vecchio creerò della gente che vi sottometterà!
- Lo zio rispose: - Creerai qualcosa che provocherà lutti e spargimento di sangue? - Non
importa, zio, - rispose Yacub. - Io conosco quello che voi ignorate" .
«Fu in quel momento che, per la prima volta, il ragazzo Yacub acquistò consapevolezza di sé,
di esser nato per seminare lo scompiglio, interrompere la pace, uccidere la sua gente con un
nemico della nazione negra artificialmente creato. Conobbe il proprio futuro giocando con
l'acciaio. E' con questo metallo che ha sempre giocato la razza che egli creò. L'acciaio è
diventato il metallo più utile .
«Yacub ne vide la capacità di attrazione magnetica... e concepì un essere umano, improbabile
ma creato per attrarre gli altri che, dotato di una sicura conoscenza di tutti gli espedienti e di
tutte le menzogne, avrebbe sottomesso il negro originario...» (ELIJAH MUHAMMAD,
"Message to the Blackman in America", Muhammad Mosque of Islam numero 2, Chicago
1965, pagine 111-12) .
Capitolo undicesimo .
SALVATO .
Scrissi a Elijah Muhammad. A quel tempo abitava a Chicago al 6116 della South Michigan
Avenue. Devo aver riscritto almeno venticinque volte quella prima lettera di una pagina, nel
tentativo di renderla il più possibile chiara e comprensibile .
Mi vergogno persino a ricordarlo, ma praticamente non riuscivo a leggere la mia calligrafia: la
grammatica e l'ortografia erano altrettanto insufficienti, se non addirittura peggiori. Comunque
scrissi come potevo che i miei fratelli e sorelle mi avevano parlato di lui e che mi scusavo di
scrivere così male .
Muhammad mi rispose con una lettera battuta a macchina. Vedere la firma «Il Messaggero di
Allah» mi fece un effetto straordinario. Dopo avermi dato il benvenuto nel mondo della «vera
conoscenza», mi offriva alcuni argomenti da meditare. Il carcerato negro, diceva, era il simbolo
del crimine compiuto dalla società bianca nel tenere i negri oppressi, poveri e ignoranti, nel non
consentire loro di avere un lavoro decente e, infine, nel trasformarli in criminali .
Mi esortava ad avere coraggio e accludeva persino dei soldi per me, una banconota da cinque
dollari. Forse anche oggi Muhammad manda denaro a tutti i detenuti che gli scrivono .
Quelli della mia famiglia mi scrivevano continuamente: «volgiti verso Allah... prega con la
faccia rivolta ad oriente» .
La prova più dura che dovetti superare durante la mia vita fu la preghiera. Si capisce perché,
per valutare e accettare gli insegnamenti di Elijah Muhammad, c'era bisogno solo di
un'adesione intellettuale. «E' giusto! », mi dicevo; oppure: «Non ci avevo mai pensato!» Però,
mettermi in ginocchio a pregare - l'ATTO in sé - bene, mi ci volle una settimana per farlo .
Sapete qual era stata la mia vita. Fino ad allora, le uniche volte che mi ero messo in ginocchio
erano state per scassinare qualche serratura .
Dovetti letteralmente fare forza su me stesso, perché un'ondata di vergogna e di imbarazzo mi
risospingeva verso la posizione eretta .
La cosa più difficile del mondo è che il cattivo si inginocchi, riconosca le sue colpe e implori il
perdono di Dio. E' facile per me dire queste cose ora, ma in quel momento, quando ero la
personificazione del male, lottavo disperatamente per mettermi nella posizione prescritta per la
preghiera; quando finalmente ci riuscii, non sapevo cosa dire ad Allah .
Negli anni successivi che passai nello stabilimento di pena di Norfolk, vissi quasi da eremita.
Non sono mai stato così attivo in vita mia. Sono sorpreso ancora oggi se penso con quale
rapidità il mio modo di pensare precedente scomparve, come la neve che si scioglie sul tetto.
Era come se quello che era vissuto di imbrogli e di delitti fosse stato un altro, uno qualsiasi di
mia conoscenza e tante volte restavo esterrefatto quando mi accorgevo che stavo pensando alla
mia vita passata in modo così distaccato, quasi che si trattasse di un'altra persona .
Ero incapace, e in modo veramente patetico, di esprimere quello che sentivo nella lettera di una
pagina che mandavo ogni giorno a Elijah Muhammad. Scrivevo almeno un'altra lettera ogni
giorno per rispondere ai miei fratelli e sorelle i quali, ogni volta che mi scrivevano,
aggiungevano qualcosa alla mia conoscenza degli insegnamenti di Muhammad. Sedevo a lungo
a guardare con estrema attenzione le sue fotografie .
L'inattività non mi è mai piaciuta. Sono sempre stato uno che ha cercato di tradurre in pratica le
idee di cui era convinto e questa è forse la ragione per cui, non potendo far altro, cominciai a
scrivere alle mie conoscenze della malavita, a Sammy il magnaccia, a John Hughes, il padrone
della casa da gioco, al ladro Saltaleone e a parecchi venditori di stupefacenti. Parlavo loro di
Allah, dell'Islam e di Elijah Muhammad. Non avevo la minima idea di dove abitassero e perciò
spedivo le lettere presso i bar o i club di Harlem o di Roxbury che essi frequentavano .
Non ricevetti mai nessuna risposta. Il trafficante e il criminale medio era di solito troppo
ignorante per scrivere. Ho conosciuto dei guappi astutissimi e dall'aspetto intelligente che
avreste preso per dei veri banchieri e che, in privato, si facevano leggere da altri le lettere che
ricevevano. Oltre a ciò neanch'io avrei mai risposto a chi mi avesse scritto cose come «l'uomo
bianco è il diavolo» .
Certamente il «telegrafo» di Harlem e di Roxbury avrà riferito che il Rosso di Detroit era
impazzito o che cercava di giocare qualche tiro mancino all'amministrazione del penitenziario .
Durante gli anni che trascorsi nello stabilimento di pena di Norfolk, nessun funzionario mi
disse mai niente direttamente riguardo a quelle lettere anche se, come è normale, passavano
tutte attraverso la censura della prigione. In ogni caso sono sicuro che riportavano quello che io
scrivevo negli schedari che tutti i penitenziari statali e federali tengono sui detenuti negri
convertiti dagli insegnamenti di Elijah Muhammad. A quel tempo, invece, credevo che la vera
ragione fosse da ricercarsi nel fatto che l'uomo bianco sapeva di essere il diavolo .
Più tardi, arrivai persino a scrivere al sindaco di Boston, al governatore del Massachusetts e a
Harry S. Truman. Nessuno di questi mi rispose: probabilmente non videro neanche le mie
lettere. Avevo scritto nella mia calligrafia stentata che la società dell'uomo bianco era
responsabile delle condizioni in cui vivono i negri in questo deserto che è l'America del Nord .
Fu grazie alle lettere che cominciai a sentire il bisogno di darmi un'istruzione. Mi sentivo
sempre più frustrato per non esser capace di esprimere quello che volevo, specialmente quando
scrivevo a Elijah Muhammad. Per la strada, ero stato il guappo più loquace: mi stavano a
sentire con attenzione quando avevo da dire qualcosa. Ma ora che cercavo di scrivere anche le
espressioni più semplici, non soltanto non ero persuasivo, ma neppure chiaro. Non potevo
certamente scrivere il gergo nel modo in cui, a voce, me ne servivo con tanta efficacia .
Coloro che oggi mi sentono parlare di persona o alla televisione, o che leggono quello che ho
detto, crederanno che sia andato a scuola ben oltre l'ottava classe. Tale impressione è dovuta
interamente agli studi che ho fatto in prigione .
Avevo già sentito questa esigenza nella prigione di Charlestown quando Bimbi, per la prima
volta, mi aveva fatto provare invidia per tutto quello che sapeva. Lui era sempre l'anima di
qualsiasi conversazione e io avevo cercato di emularlo, ma in qualunque libro che mi mettevo a
leggere trovavo frasi intere che, per quello che ne capivo io, avrebbero anche potuto essere
scritte in cinese. Naturalmente, quando saltavo tutti i termini che non conoscevo, finivo il libro
senza aver capito bene di cosa si trattasse. Anche quando arrivai allo stabilimento di pena di
Norfolk leggevo in quel modo così approssimativo e ben presto avrei abbandonato anche quei
miei impulsi alla lettura se non avessi avuto lo stimolo che ebbi .
Considerai che la miglior cosa da fare fosse di procurarmi un dizionario e di studiare e
imparare alcune parole. Ebbi anche la fortuna di arrivare a comprendere che avrei dovuto
migliorare la grafia. Era una cosa triste: non riuscivo neanche a scrivere allineato. Furono
queste due idee che mi spinsero a fare richiesta alla scuola dello stabilimento penale di Norfolk
di un dizionario, alcuni quaderni e lapis .
Per due giorni vagai incerto tra le pagine del dizionario. Non avevo mai pensato che potessero
esistere tante parole! Non sapevo QUALI parole avrei dovuto imparare e alla fine tanto per far
qualcosa, cominciai a copiare. Con la mia lenta, goffa e informe grafia, copiai sul quaderno
tutto quello che c'era nella prima pagina, persino la punteggiatura .
Credo che mi ci volle un giorno intero. Poi rilessi ad alta voce tutto quello che avevo scritto sul
quaderno e, per molte altre volte di seguito, rilessi ancora la mia grafia .
La mattina dopo mi svegliai pensando a quelle parole, infinitamente orgoglioso perché avevo
scritto così tanto in una sola volta e soprattutto perché si trattava di parole di cui ignoravo
l'esistenza. Inoltre, facendo un piccolo sforzo, riuscivo anche a ricordare il significato di molte
di esse. Poi ripassai quelle di cui non ricordavo il significato. E' strano che ora, se penso a
quella prima pagina del dizionario, mi torna subito a mente la parola "aardvark" [orso
formichiere]. Sul dizionario c'era una figurina che rappresentava questo mammifero africano
dalla lunga coda e dalle lunghe orecchie, il quale vive mangiando le termiti che acchiappa
tirando fuori la lunga lingua .
Ne fui così affascinato che continuai a copiare la pagina seguente del dizionario e, quando
studiai questa, feci la stessa esperienza. Ad ogni nuova pagina imparavo a conoscere popoli,
località e avvenimenti della storia poiché il dizionario è come un'enciclopedia in miniatura.
Quando finii la lettera A, che mi aveva preso un intero quaderno, passai alla B e piano piano,
finii per copiare tutto il dizionario. Con la pratica che venivo acquistando, migliorai moltissimo
la grafia e devo dire che tra quello che scrivevo sul quaderno e le lettere avrò scritto, durante il
rimanente periodo che trascorsi in prigione, un milione di parole .
Era inevitabile, penso, che, via via che aumentavo la conoscenza lessicale, fossi in grado di
leggere un libro e cominciare a capire cosa c'era scritto. Coloro che hanno letto molto sono in
grado di capire quali orizzonti mi si aprirono allora. Da quel momento fino a quando non uscii
di prigione, in ogni ritaglio di tempo quando non ero in biblioteca a leggere, stavo sdraiato sulla
brandina con un libro in mano. Non mi avrebbero strappato alla lettura neanche con la forza.
Tra gli insegnamenti di Muhammad, la corrispondenza, i visitatori - di solito Ella e Reginald e la lettura, mi passavano i mesi senza che neppure mi venisse in mente che ero in prigione.
Infatti, fino a quel momento, non ero mai stato così libero in vita mia .
La biblioteca dello stabilimento di pena di Norfolk era situata nell'edificio della scuola dove
insegnanti provenienti dalla Harvard University e dall'università di Boston impartivano vari
corsi. In quell'edificio si tenevano anche i dibattiti settimanali che venivano organizzati tra
gruppi di detenuti .
Sarete esterrefatti al pensiero di detenuti che discutevano su argomenti come «si devono nutrire
i bambini col latte?» Nella biblioteca della prigione c'erano libri di qualsiasi argomento
generale. Gran parte della grande collezione privata che Parkhurst aveva lasciato in eredità alla
prigione era ancora chiusa in una quantità di casse ammucchiate nel retro della sala: migliaia di
vecchi volumi. Alcuni avevano l'aspetto di edizioni molto antiche, con i frontespizi scoloriti e le
rilegature in pergamena. Come ho già detto, sembrava che i principali interessi di Parkhurst
fossero stati storici e religiosi. Era ricco e aveva interesse a procurarsi molti libri che
comunemente non si trovano in giro. Qualsiasi biblioteca universitaria si sarebbe considerata
fortunata di possedere una collezione simile .
E' facile immaginare, specialmente se si tien conto che nelle prigioni si pone più che altro
l'accento sulla riabilitazione del carcerato, come può esser considerato con sarcasmo quel
detenuto che dimostri un insolito, profondo interesse per i libri. C'erano parecchi che avevano
letto molto, specialmente tra coloro che si erano acquistati una certa popolarità nei dibattiti. Di
molti si diceva che erano delle vere e proprie enciclopedie ambulanti e quasi passavano per
delle celebrità .
Non esiste università che esiga dai suoi studenti di divorare tanti libri quanti ne divoravo io
quando mi si aprì questo nuovo mondo, quando cioè fui in grado di leggere e di CAPIRE .
Leggevo più nella mia cella che in biblioteca. I detenuti che avevano fama di essere degli avidi
lettori potevano prendere in prestito più volumi del numero stabilito e io preferivo leggere
nell'isolamento totale della mia cella .
Quando passai ad opere veramente serie, ogni sera alle dieci mi arrabbiavo perché spengevano
tutte le luci. Sembrava che quell'ora mi sorprendesse sempre a metà di qualche problema
appassionante .
Per fortuna, proprio fuori della mia porta, c'era una delle lampade del corridoio che proiettava
un certo chiarore nella mia cella. Una volta che i miei occhi ci si furono abituati, quel chiarore
era sufficiente per leggere, e così quando veniva l'ora in cui tutte le luci dovevano essere spente,
mi sedevo sul pavimento e continuavo a leggere .
Ogni ora le guardie notturne passavano davanti alla porta di ciascuna cella e quando sentivo i
loro passi che si avvicinavano, saltavo nel letto e facevo finta di dormire .
Appena la ronda era passata, tornavo a sedermi sul pavimento, e continuavo a leggere a quel
chiarore per altri cinquantotto minuti, finché la ronda non passava di nuovo. Facevo così fino
alle tre o alle quattro del mattino. Dormivo soltanto tre o quattro ore per notte, ma mi bastava.
Spesso, durante gli anni della mia vita di strada, avevo dormito molto meno .
Gli insegnamenti di Muhammad insistevano sul fatto che la storia era stata distorta,
«sbiancata», perché quelli che avevano scritto i libri di storia erano bianchi e il negro era stato
lasciato completamente fuori. Niente avrebbe potuto colpirmi di più. Non avevo mai
dimenticato che, quando insieme con i miei compagni bianchi studiavamo storia americana
nella settima classe, a Mason, arrivammo all'unico paragrafo che trattava la storia dei negri.
L'insegnante era scoppiato in una grande risata e aveva tirato fuori la sua battuta: «I piedi dei
negri sono così grandi che, quando camminano, lasciano dei buchi per terra» .
E' questa una ragione che spiega come gli insegnamenti di Muhammad si siano diffusi
rapidamente per tutti gli Stati Uniti, tra TUTTI i negri, anche tra quelli che non sono poi
diventati suoi seguaci. Per ogni negro quelle parole risuonano come la verità. E' molto difficile
trovare un adulto americano, sia negro che bianco, che abbia imparato dai libri di storia una
valutazione veritiera circa il ruolo svolto dai negri. Per quanto mi riguarda, non appena sentii
parlare della «gloriosa storia del popolo negro» mi preoccupai di cercare in biblioteca dei libri
in grado di insegnarmi i particolari di tale storia .
Ricordo benissimo i primi volumi che esercitarono su di me una grande impressione. In seguito
li comprai e li tengo in casa per le mie bambine quando saranno grandi. E' una collana intitolata
«Meraviglie del mondo»: ogni volume è pieno di illustrazioni di ritrovamenti archeologici e di
statue, principalmente di popoli non europei .
In biblioteca trovai libri come "Story of Civilization" di Will Durant e "Outline of History" di
H. G. Wells. "Souls of Black Folk" di W. E. B. Du Bois mi dette un'idea della storia dei negri
prima che arrivassero in questo paese, mentre il volume di Carter G. Woodson, "Negro
History", mi aprì gli occhi riguardo all'esistenza di grandi imperi africani prima che gli schiavi
fossero portati negli Stati Uniti, e sulle circostanze della lotta dei negri per la libertà .
Nei tre volumi "Sex and Race" di J. A. Rogers trovai un'esposizione della mescolanza razziale
precedente all'età di Cristo: lessi che Esopo era un negro; imparai la storia dei faraoni d'Egitto e
dei grandi imperi copti, dell'Etiopia, che è la più antica civiltà negra ininterrotta della terra, così
come quella cinese è la più antica civiltà ininterrotta in assoluto .
Gli insegnamenti di Muhammad su come era stato creato l'uomo bianco mi spinsero a leggere
"Findings in Genetics" di Gregor Mendel. Avevo imparato il significato della parola «genetica»
mentre copiavo la lettera G del dizionario. La ripetuta lettura di questo libro, e specialmente di
certi suoi capitoli, mi aiutò a capire che si può produrre un bianco partendo da un negro, ma
non viceversa, perché il cromosoma bianco è recessivo. Poiché nessuno sembra mettere in
dubbio che ci sia stato un solo tipo di uomo originario, la conclusione è evidente .
Nel corso dell'ultimo anno circa, nel «New York Times», Arnold Toynbee, per descrivere
l'uomo bianco si servì della parola «schiarito». Ecco le sue parole: «Gli esseri umani bianchi
(cioè schiariti) di origine nordeuropea...» Toynbee si riferiva anche all'area geografica
dell'Europa come a un'appendice peninsulare dell'Asia e diceva che l'Europa è un concetto
astratto. Se si guarda il mappamondo si vede chiaramente che l'America non è altro che
un'estensione dell'Asia. (Nello stesso tempo, Toynbee appartiene al numero di quegli storici che
hanno «schiarito» la storia. E' lui che ha scritto che l'Africa è l'unico continente che non ha mai
fatto storia, ma non credo che lo scriverà ancora perché, giorno per giorno, la verità si fa strada)
.
Non dimenticherò mai l'impressione che mi fece il leggere le descrizioni degli orrori della
schiavitù. Questo argomento mi colpì talmente che, in seguito, quando diventai pastore della
religione di Muhammad, esso fu uno dei miei temi preferiti .
Sembra quasi impossibile credere a questo massimo crimine della storia del mondo, alle colpe e
al sangue di cui sono macchiate le mani dell'uomo bianco. Libri come quello di Frederick
Olmstead mi rivelarono gli orrori a cui furono sottoposti gli schiavi quando sbarcarono negli
Stati Uniti. Un'europea, Fannie Kimball, che aveva sposato un sudista padrone di schiavi, ci ha
lasciato la vivida descrizione di come venivano abbrutiti tutti quegli esseri umani. Naturalmente
lessi "La capanna dello zio Tom" e anzi credo che quello sia stato l'unico romanzo che ho letto
da quando ho cominciato a dedicarmi alle letture serie .
Nella collezione di Parkhurst c'erano anche delle raccolte di opuscoli dell'Associazione
antischiavista della Nuova Inghilterra. Lessi in quelle pagine le più incredibili descrizioni di
atrocità e vidi le illustrazioni di schiave negre legate e frustate, di madri negre a cui venivano
strappati i loro bambini, che non avrebbero mai più riveduto, di grossi cani lanciati
all'inseguimento degli schiavi evasi e dei malvagi uomini bianchi che li inseguivano armati di
fruste, bastoni, catene e fucili. Lessi del predicatore negro Nat Turner, che seppe suscitare il
timor di Dio nel padrone di schiavi bianco .
Nat non andava certo in giro a predicare la ricompensa nell'altra vita e la libertà «non violenta»
per il negro: nel 1831, in Virginia, Nat Turner e altri sette schiavi cominciarono dalla casa del
suo padrone e, per tutta la notte, andarono da una dimora di proprietari di piantagioni all'altra
uccidendo. La mattina dopo cinquantasette bianchi erano morti e Nat aveva un seguito di
settanta schiavi. I bianchi, terrorizzati, lasciarono le loro case, si asserragliarono negli edifici
pubblici o si nascosero nei boschi, mentre alcuni lasciarono addirittura lo stato. Ci vollero due
mesi prima che un piccolo esercito di soldati riuscisse a catturare e impiccare Nat Turner. Ho
letto da qualche parte che l'esempio dato da Turner sembra abbia ispirato circa trent'anni dopo
John Brown nel suo tentativo di invadere la Virginia e attaccare Harper's Ferry con tredici
bianchi e cinque negri .
Lessi Erodoto, «il padre della storia», o meglio lessi dei libri su di lui; e poi le storie di vari
paesi che, prima lentamente e poi con una prospettiva sempre più larga, mi rivelarono che tutti
gli uomini bianchi si erano davvero comportati come dei diavoli, saccheggiando, stuprando,
sfruttando e succhiando il sangue di tutto il mondo abitato da non bianchi. Ricordo per esempio
libri come "The Story of Oriental Civilization" di Will Durant e le memorie del Mahatma
Gandhi sulla lotta per cacciare gli inglesi dall'India .
Un libro dopo l'altro mi aiutava a comprendere i sistemi con cui l'uomo bianco aveva imposto
il suo sfruttamento ai negri, ai pellirossa e ai popoli gialli. Imparai come, fin dal secolo
sedicesimo, i cosiddetti mercanti cristiani avevano corso i mari per soddisfare la loro avidità di
ricchezze, potere e conquista in Asia e in Africa e come l'uomo bianco non andò mai tra gli altri
popoli portando la croce nel vero spirito degli insegnamenti di Cristo e cioè con umiltà e
fratellanza .
Mi resi conto da queste letture che l'uomo bianco collettivamente non era stato altro che un
opportunista predatore capace di servirsi di diabolici intrighi per aprire la strada alle sue
conquiste criminali con il cristianesimo .
Dapprima, sempre «da un punto di vista religioso», definiva come pagani e infedeli civiltà e
culture non bianche e poi, una volta preparata la scena, si scagliava su di esse con le armi della
guerra .
Lessi che nel 1759 gli inglesi entrarono in India - MEZZO MILIARDO circa di gente molto
religiosa dalla pelle scura - e mediante promesse, imbrogli e intrighi di ogni genere, arrivarono
a controllare gran parte del paese attraverso la East India Company. L'amministrazione
britannica, questo meccanismo parassitario, cominciò ad allungare i suoi tentacoli su circa metà
di questo sottocontinente e, nel 1857, una parte del disperato popolo dell'India finalmente si
ammutinò. Fatta eccezione per il mercato degli schiavi africani, mai nella storia si trova un
esempio peggiore di inutili, bestiali e spietate carneficine come quelle compiute dagli inglesi
per reprimere la rivolta del popolo dell'India .
Nell'intero periodo della tratta degli schiavi, circa centoquindici milioni di negri africani furono
assassinati o ridotti in schiavitù, numero molto vicino alla popolazione degli Stati Uniti nel
1930. Quando il commercio degli schiavi ebbe saturato il mercato, le nazioni cannibalistiche
dell'Europa si precipitarono ad occupare e trasformare in loro colonie le più ricche zone del
continente nero. Durante tutto il secolo successivo, le cancellerie dell'Europa giocarono la loro
partita di sfruttamento e di potere dal Capo Horn fino al Cairo .
Neanche dieci secondini mi avrebbero potuto strappare a quei libri. Neanche Elijah
Muhammad sarebbe riuscito più persuasivo di loro nell'offrirmi le prove indiscutibili che
l'uomo bianco, collettivamente, si era comportato come un diavolo in quasi tutte le circostanze
in cui era venuto a contatto con gente non del suo colore. Oggi, se si ascolta la radio, si guarda
la televisione o si leggono i giornali, si sente dappertutto la paura e la tensione collettiva
dell'uomo bianco di fronte alla Cina. Quando i bianchi dichiarano di non capire perché i cinesi
li odiano, mi viene subito in mente quello che leggevo quand'ero in prigione circa i metodi con
cui gli antenati dei bianchi di oggi devastarono e saccheggiarono la Cina al tempo in cui essa
era inerme e fiduciosa. I mercanti cristiani avevano mandato in Cina milioni di chilogrammi di
oppio e, nel 1839, gli intossicati erano così tanti che il governo, giunto alla disperazione,
distrusse ventimila casse della micidiale droga .
L'uomo bianco dichiarò immediatamente la prima guerra dell'oppio. Pensate un po'! Dichiarar
GUERRA a chi rifiuta di farsi avvelenare dai narcotici! I cinesi furono duramente sconfitti con
la polvere da sparo che avevano inventato .
Il trattato di Nanchino costrinse la Cina a risarcire gli inglesi del costo dell'oppio distrutto, aprì
i principali porti del paese al commercio britannico, costrinse la Cina a cedere Hongkong e
stabilì dazi doganali così bassi che i più scadenti prodotti inglesi poterono cominciare a essere
introdotti in massa, impedendo così lo sviluppo industriale del paese .
Dopo la seconda guerra dell'oppio, i trattati di Tientsin legalizzarono il turpe commercio e il
controllo delle dogane cinesi da parte di americani, britannici e francesi. La Cina cercò di
ritardare la ratifica del trattato e subito Pechino fu saccheggiata e bruciata .
«A morte i diavoli bianchi!» fu il grido di battaglia della ribellione dei Boxer nel 1901. Ancora
una volta sconfitti, i cinesi furono cacciati dalle zone più belle di Pechino e i crudeli, arroganti
vincitori misero dappertutto i famosi cartelli che dicevano: «Vietato l'ingresso ai cinesi e ai
cani» .
Dopo la seconda guerra mondiale, la Cina comunista chiuse le porte ai bianchi occidentali.
Persino in un libro recentemente pubblicato dalla rivista «Life» si trovano descritti i colossali
sforzi che i cinesi stanno compiendo nel campo agricolo, scientifico e industriale. Alcuni
osservatori che hanno vissuto a lungo nella Cina comunista riferiscono che mai prima si era
registrata una campagna di odio contro i bianchi come quella che viene condotta oggi in questo
paese. Se continuerà il presente tasso di crescita della popolazione, in altri cinquant'anni i cinesi
costituiranno la metà degli abitanti della terra e sembra anche, grazie ai recenti esperimenti
nucleari coronati da successo, che i cinesi otterranno straordinari risultati .
Guardiamo in faccia la realtà. Vediamo che alle Nazioni Unite si sta lentamente formando un
nuovo ordine mondiale sulla base del colore, un'alleanza tra le nazioni non bianche. Adlai
Stevenson, ambasciatore degli Stati Uniti presso le Nazioni Unite, si lamentava non molto
tempo fa che in quel supremo consesso si giocasse «una partita basata sul colore della pelle».
Aveva ragione: lui guardava in faccia la realtà. E' vero che si sta giocando «una partita basata
sul colore della pelle», ma l'ambasciatore Stevenson faceva come Jesse James che accusava lo
sceriffo di portare la pistola. Infatti chi mai in tutta la storia umana ha giocato più dell'uomo
bianco «la partita basata sul colore della pelle»? Elijah Muhammad, al quale scrivevo tutti i
giorni, non aveva idea di quali orizzonti mi si fossero aperti grazie ai miei sforzi di trovare nei
libri conferma e documentazione ai suoi insegnamenti .
Quando ebbi scoperto la filosofia, cercai di accostarmi alle opere principali della storia del
pensiero e, piano piano, lessi gran parte degli antichi filosofi, sia occidentali che orientali.
Arrivai a preferire i secondi fino a rafforzarmi nell'impressione che gran parte della filosofia
occidentale fosse derivata dai pensatori dell'Oriente. Per esempio Socrate andò in Egitto e certe
fonti ci dicono che fu iniziato ad alcuni dei misteri egiziani. E' chiaro comunque che molta della
sua sapienza derivava dai saggi dell'Oriente .
Ho spesso riflettuto sui nuovi orizzonti che la lettura mi aveva aperto e, già quando ero in
prigione, mi ero accorto che aveva mutato per sempre il corso della mia vita. Oggi mi rendo
conto che l'essermi messo in grado di leggere risvegliò in me un desiderio sepolto di essere vivo
intellettualmente. Non aspiravo ad una laurea, cioè a quel modo in cui un istituto di istruzione
accademica conferisce ai suoi studenti un simbolo di prestigio .
Ero un autodidatta e ogni libro in più che leggevo diventavo sempre più sensibile circa la
sordità, la stupidità e la cecità che affliggevano i negri d'America. Non molto tempo fa, uno
scrittore inglese mi telefonò da Londra per chiedermi delle informazioni. Una di queste
riguardava l'università che avevo frequentato. Io gli risposi che l'unica mia scuola erano stati i
libri. E' impossibile, quando ho un quarto d'ora libero, che non mi metta subito a studiare
qualcosa che penso possa servire ad aiutare il negro .
Ieri ho fatto una conferenza a Londra e sia nel viaggio d'andata che in quello di ritorno
attraverso l'Atlantico ho studiato un documento col quale le Nazioni Unite si propongono di
tutelare i diritti umani delle minoranze oppresse nel mondo. Il negro americano è l'esempio più
vergognoso che esista di una minoranza oppressa. Quello che li fa pensare di non essere altro
che un problema interno degli Stati Uniti è una formuletta verbale fatta di due sole parole:
«diritti civili». Come potrà il negro ottenere i «diritti civili» prima che riesca a veder tutelati i
suoi diritti UMANI? Se comincerà a pensare ai suoi diritti UMANI e solo successivamente a
considerarsi parte di una delle grandi nazioni del mondo, il negro americano si accorgerà che il
suo caso riguarda le Nazioni Unite .
Non riesco a immaginare un caso migliore! Quattrocento anni di sangue e sudore negri investiti
qui in America e ancora l'uomo bianco che ci costringe a implorare per ottenere ciò che
qualsiasi immigrato, appena sceso dalla nave, considera un suo diritto .
Ma io sto facendo troppe digressioni. Dicevo a quell'inglese che la mia università erano stati i
libri, una buona biblioteca .
Quando vado in aereo mi porto sempre dietro un libro da leggere e, dato che viaggio
continuamente, ciò vuol dire che leggo parecchi libri. Se non dovessi impiegare le mie giornate
a combattere l'uomo bianco, potrei trascorrere il resto della vita a leggere, a soddisfare la mia
curiosità, perché io sono curioso di tutto. Credo che ben pochi abbiano tratto giovamento come
me dall'essere stati in prigione. Infatti ciò mi consentì di studiare con maggiore intensità di
quanto avrei fatto se la mia vita fosse stata diversa e se avessi frequentato l'università .
Penso che uno dei grossi limiti dei college sia dato dal fatto che ci sono troppe distrazioni,
troppe associazioni studentesche, troppe incursioni nei dormitori femminili e perdite di tempo
di ogni genere. Dove, fuorché in prigione, avrei potuto combattere la mia ignoranza studiando
qualche volta fino a quindici ore al giorno? Lessi naturalmente Schopenhauer, Kant, Nietzsche,
ma devo dire che non ho alcun rispetto per loro (sto cercando di ricordarmi qualche pensatore le
cui teorie meditai a lungo in quegli anni) .
Si dice che questi tre furono in qualche modo i precursori delle concezioni fasciste e naziste.
Non ho molto rispetto per loro perché mi sembra che sprecarono gran parte del loro tempo a
discutere di cose che non avevano molta importanza. Mi ricordano tanti cosiddetti
«intellettuali» negri con cui ho avuto a che fare, i quali stanno sempre a discutere di cose
perfettamente inutili .
Rimasi assai colpito dal fatto che Spinoza era un ebreo spagnolo dalla pelle nera. Gli ebrei lo
scomunicarono perché sosteneva una dottrina panteistica, qualcosa come la «totalità di Dio» o
«Dio è in tutte le cose». Essi gli fecero il funerale, volendo significare con ciò che, per quanto li
riguardava, era morto. La sua famiglia fu cacciata dalla Spagna e finì in Olanda .
Vi dirò che secondo me l'intero corso della filosofia occidentale è ora finito in un vicolo cieco.
L'uomo bianco ha perpetrato su se stesso, oltre che sul negro, una frode talmente gigantesca da
trovarsi rinchiuso in una trappola, ed ha fatto ciò per il suo bisogno nevrotico di nascondere il
vero ruolo del negro nella storia .
Oggi l'uomo bianco si trova a dover affrontare gli avvenimenti del continente nero, dell'Africa.
Si stanno scoprendo continuamente le prove che il negro aveva creato delle grandi civiltà,
quando ancora i bianchi vivevano nelle caverne e, sotto le sabbie del Sahara, negli stessi luoghi
dove gli antenati dei negri americani vennero rapiti, si stanno scavando esempi meravigliosi di
artigianato, sculture ed altri oggetti quali l'uomo moderno ha visto raramente. Alcuni di essi
sono ora esposti nei musei, come per esempio nel Museo di arte moderna di New York City. Si
tratta di lavori di oreficeria di tale raffinatezza e precisione da non temere confronti, di oggetti
fabbricati anticamente da mani di negri e perfezionati da quelle stesse mani in modo
ineguagliabile .
La storia è stata così «schiarita» dall'uomo bianco che anche i professori negri non sapevano
molto di più dei loro confratelli più ignoranti riguardo alle splendide civiltà e culture create dal
popolo negro migliaia di anni fa. Ho parlato molte volte nei college negri e alcuni dei laureati,
vittime di un sistematico condizionamento, magari carichi di titoli accademici, sono corsi ai
giornali dell'uomo bianco a denunciarmi come «fanatico negro». Molti di loro sono rimasti
indietro di mezzo secolo. Se fossi presidente di uno di questi college, chiuderei se necessario il
campus per mandare un gruppo di studenti negri a scavare in Africa alla ricerca di un sempre
maggior numero di prove della grandezza storica della razza negra. L'uomo bianco oggi in
Africa scava e compie ricerche; e se un elefante africano inciampa, casca regolarmente addosso
a un bianco che sta lì con la vanga. Praticamente tutte le settimane si legge di nuovi grandi
ritrovamenti relativi alle perdute civiltà dell'Africa. Quello che c'è di nuovo è l'atteggiamento
degli scienziati bianchi. Le antiche civiltà negre sono state sepolte tutto questo tempo nel
continente nero .
Ecco un esempio. L'antropologo inglese Louis S. B. Leakey fa vedere alcune ossa fossili - di
un piede, di una mano, mascelle e frammenti di cranio - e in base a queste sostiene che è ormai
tempo di riscrivere completamente la storia delle origini dell'uomo .
L'uomo appartenente a questa specie visse 1818036 anni prima di Cristo. Le sue ossa furono
trovate nel Tanganica, nel continente nero .
E' delittuosa la menzogna che è stata fatta credere a generazioni sia di negri che di bianchi.
Innocenti bambini negri, nati da genitori che credevano che la loro razza non avesse storia, si
accorgono, prima ancora di essere in grado di parlare, che i membri della loro famiglia si
considerano inferiori. Quei bambini innocenti cresceranno, vivranno la loro vita, moriranno da
vecchi, sempre con la vergogna di essere negri. La verità comincia però a farsi strada .
Durante la mia permanenza nello stabilimento di pena di Norfolk mi si aprirono due altri
campi di esperienza. Prima di tutto cominciai ad aprire gli occhi ai miei fratelli negri riguardo a
certe verità sulla nostra gente e poi, quando ebbi letto abbastanza da essere in grado di farlo, mi
iscrissi ai dibattiti settimanali che avevano luogo nel penitenziario. Questo fu il mio battesimo
per quel che riguarda il parlare in pubblico .
Devo ammettere qualcosa di veramente triste e per me vergognoso .
Mi era talmente piaciuto stare in mezzo ai bianchi che in prigione quasi non potevo sopportare
il modo in cui i detenuti negri stavano così tanto insieme, ma quando gli insegnamenti di
Muhammad ebbero rovesciato il mio atteggiamento verso quei miei fratelli negri, con un
profondo senso di colpa mi detti a cercare qualsiasi occasione per reclutare adepti al movimento
dei Black Muslims .
Bisogna insegnare la verità con molta cautela al negro che in precedenza non ha mai sentito
come stanno davvero le cose per quanto riguarda lui, la sua gente e l'uomo bianco. Mio fratello
Reginald mi aveva detto che tutti gli attivisti di Muhammad avevano fatto questa esperienza. Il
negro è stato sottoposto a un tale lavaggio del cervello per secoli che può magari ribellarsi
quando sente per la prima volta la verità. Reginald consigliava che si dovesse dirla poco per
volta ed aspettare, prima di fare il passo successivo, che le cose dette fossero state assorbite .
Prima di tutto cominciai a parlare ai miei fratelli detenuti della storia gloriosa dei negri, cose
queste che non avevano mai neppure sognato. Dissi loro le terribili verità sulla tratta degli
schiavi, verità a loro del tutto sconosciute. Quando parlavo di queste cose osservavo i loro volti.
L'uomo bianco era riuscito a cancellare completamente il ricordo di quel passato di schiavitù: il
negro americano non conosce il suo vero nome di famiglia e neppure quello della tribù da cui
discende: i Mandingo, gli Uolof, i Serer, i Ful, i Fanti, gli Ashanti, o altre. Dicevo loro che
alcuni schiavi portati dall'Africa parlavano l'arabo e seguivano la religione dell'Islam. Parecchi
di questi detenuti negri non ci volevano credere finché non sentivano dire queste cose dall'uomo
bianco e perciò, spesso, leggevo loro dei passi scelti tratti da libri scritti dai bianchi. Spiegavo
che la verità era ben nota ad alcuni di essi, cioè agli studiosi, ma che per generazioni e
generazioni c'era stata una vera e propria congiura per tenere i negri all'oscuro .
Guardavo con attenzione come ciascuno di loro reagiva alle mie parole. Dovevo stare molto
attento perché poteva darsi il caso che qualche sciocco col cervello annebbiato, qualche zio
Tom di professione, mi facesse un segno di assenso per poi andar di corsa a riferire tutto ai
bianchi. Quando mi accorgevo che qualcuno era maturo, lo portavo lontano dagli altri e gli
dicevo quello che Muhammad insegnava: «L'uomo bianco è il diavolo» .
Quest'affermazione turbava molti di essi, finché non cominciavano a pensarci sopra .
Il sistema carcerario americano di oggi deve fare i conti col fatto che gli insegnamenti dei
Muslims, diffusi tra tutti i negri del paese, convertono molti detenuti negri e la percentuale dei
negri in prigione è assai maggiore della percentuale dei negri liberi rispetto alla popolazione
degli Stati Uniti .
La ragione di ciò è che, tra tutti i negri, il detenuto è il più preparato ad ascoltare le parole
«l'uomo bianco è il diavolo» .
Ditelo a qualsiasi negro. Fatta eccezione per quei cosiddetti «intellettuali» ansiosi di ottenere
1'«integrazione» e che sono relativamente pochi, oppure per quegli altri negri che per vie
diverse riescono ad esser grassi, felici, sordomuti e ciechi divorando le briciole della ricca
mensa dell'uomo bianco, quando si dicono quelle parole è come se si toccasse il centro
nevralgico del negro americano. Può darsi che per reagire gli ci voglia un giorno, un mese o
magari un anno; può darsi anche che non reagisca mai apertamente, ma si può essere sicuri di
una cosa: che quando pensa alla sua vita, si accorgerà che l'uomo bianco si è certamente
comportato nei suoi confronti in modo diabolico .
Come dicevo, il detenuto, più di tutti gli altri negri, sarà in grado di constatare quella verità, lui
che è rinchiuso dietro le sbarre, probabilmente per anni, tenuto dentro dall'uomo bianco .
Di solito egli viene da quei diseredati, da quegli strati di negri che passano tutta la loro vita
presi a calci, trattati come bambini, gente che non ha mai conosciuto un bianco senza che questi
lo abbia derubato o gli abbia fatto qualcosa di male .
Fate in modo, come successe a me quando per la prima volta ascoltai gli insegnamenti di Elijah
Muhammad, che questo negro in gabbia cominci a pensare, fate in modo che cominci a
meditare sul fatto che, se quand'era giovane e ambizioso fosse vissuto in condizioni diverse,
anche lui avrebbe potuto essere avvocato, dottore, scienziato o qualunque altra cosa. Fate in
modo, come facevo io, che questo negro in gabbia cominci a rendersi conto che dal momento in
cui la prima nave negriera toccò le sponde americane, i milioni di negri vissuti in questo paese
sono stati come pecore nella tana dei lupi. E' questa la ragione per cui i carcerati negri
diventano così presto seguaci di Elijah Muhammad non appena i suoi insegnamenti cominciano
a filtrare attraverso le sbarre delle loro gabbie ad opera di altri detenuti già convertiti.
L'espressione «l'uomo bianco è il diavolo» non è altro che l'eco esatta dell'esperienza di tutta la
vita di quei carcerati negri .
Dicevo prima che, nello stabilimento di pena di Norfolk i dibattiti erano un avvenimento di
ogni settimana. Le letture avevano trasformato la mia mente in una caldaia sotto pressione: in
qualche modo dovevo cominciare a dire in faccia all'uomo bianco tutto ciò che lo riguardava.
Pensai che potevo farlo partecipando a quei dibattiti .
Mai, nel corso della mia vita precedente, mi sarebbe passato per la testa di alzarmi e parlare
davanti a un pubblico. Per le strade, quando mi dedicavo a ogni specie di traffici, a vendere
stupefacenti o a compiere rapine, una libbra di hashish mi faceva sognare cose grandiose, ma
mai sarei arrivato a pensare che un giorno avrei parlato in anfiteatri e campi sportivi, nelle più
grandi università americane, alla radio e alla televisione, senza contare i miei giri di conferenze,
in Egitto, Africa e Inghilterra .
Devo dire che là in prigione, i dibattiti e i discorsi davanti a tutti i detenuti mi entusiasmavano
come mi aveva entusiasmato la scoperta che, attraverso la lettura, avevo fatto del sapere .
Stavo là in piedi con tutti gli occhi fissi su di me, con i pensieri che mi si trasformavano in
parole mentre cercavo nella mia mente un'argomentazione migliore da far seguire a quella che
stavo sviluppando, e se riuscivo con un ragionamento ineccepibile a trascinare gli altri dalla mia
parte, avevo vinto. Una volta in ballo dovevo ballare, e qualunque fosse la parte dell'argomento
scelto che mi veniva assegnata, mi mettevo con diligenza a studiare tutto quello che trovavo in
proposito .
Cercavo di mettermi nei panni del mio avversario e pensavo a come avrei cercato di vincere se
fossi stato lui. Poi mi sforzavo di trovare il sistema di smantellare i suoi argomenti e, non
appena si presentava la minima occasione, mettevo nel mio discorso qualche accenno alla
cattiveria dell'uomo bianco .
Ricordo che, inaspettatamente, una buona occasione mi fu offerta da un dibattito su questo
argomento: «Servizio militare obbligatorio o no?» Il mio contraddittore alzava lamenti sugli
abissini che scagliavano pietre e lance contro gli aerei italiani, credendo così di «provare» la
necessità del servizio militare obbligatorio. Io ribattevo che la carne nera degli abissini era stata
spappolata contro gli alberi dalle bombe che il papa di Roma aveva benedetto e che essi
avrebbero scagliato persino i loro corpi contro gli aeroplani perché si erano accorti che stavano
combattendo contro il diavolo incarnato .
Il pubblico rispose disapprovando perché avevo introdotto il problema razziale nel dibattito.
Risposi che non si trattava di questo, ma di un fatto storico, e che avrebbero dovuto leggere
"Days of Our Years" di Pierre van Paassen. Non mi sorprese minimamente il fatto che, subito
dopo il dibattito, quel libro sparì dalla biblioteca della prigione. Fu nel penitenziario che decisi
di dedicare il resto della mia vita a dire all'uomo bianco chi era. Se non lo avessi fatto mi sarei
sentito come morto. Durante un dibattito sull'argomento: «Omero è esistito o no?» gettai in
faccia ai bianchi la teoria secondo cui Omero era il simbolo del modo in cui gli europei avevano
rapito i negri africani, accecandoli poi affinché non potessero più ritornare alla loro gente.
(Omero, Omar e Moro sono termini correlativi .
E' come dire Pietro, Pedro e Petra, che tutti e tre vogliono dire pietra). A questi mori accecati gli
europei insegnarono a cantare le loro proprie glorie e io spiegai chiaramente che si trattava di
un'idea molto gradita al diabolico uomo bianco. Un altro esempio sono le favole di Esopo,
nome greco di un etiope .
Ricordo un altro dibattito assai animato a cui partecipai, sul problema dell'identità di
Shakespeare. Qui il colore non c'entrava per niente: fui affascinato dal dilemma shakespeariano.
La traduzione della Bibbia di re Giacomo è considerata come la più grande opera letteraria in
lingua inglese: il suo stile rappresenta la perfezione suprema. Ebbene, la lingua di Shakespeare
e quella della Bibbia di re Giacomo sono la stessa cosa. Dicono che dal 1604 al 1611 il re
Giacomo assumesse dei poeti per tradurre la Bibbia. Ora, se Shakespeare è veramente esistito,
era uno dei maggiori poeti del suo tempo, ma nessuna fonte lo cita in connessione con la
Bibbia. Se esistette, perché re Giacomo non si servì di lui? E se si servì di lui perché la cosa è
rimasta un segreto? So che molti dicono che Francesco Bacone era Shakespeare. Se ciò fosse
vero, perché Bacone avrebbe dovuto tenerlo segreto? Lui non era di sangue reale, dato che i
discendenti di quelle illustri stirpi talvolta usavano pseudonimi perché non stava bene dedicarsi
all'arte o al teatro. Ma Bacone cosa avrebbe avuto da perdere? In realtà mi pare che avrebbe
avuto tutto da guadagnare .
Nei dibattiti che facevamo al penitenziario, sostenevo la teoria che lo stesso re Giacomo era il
poeta che si servì dello pseudonimo Shakespeare. Era un uomo di brillante ingegno, il più gran
re che mai si sia seduto sul trono britannico. Chi altri tra le stirpi reali del suo tempo possedeva
il genio per scrivere le opere di Shakespeare? Fu lui che presentò poeticamente la Bibbia che, in
se stessa e nella versione di re Giacomo, ha reso schiavo il mondo .
Quando mio fratello Reginald veniva a farmi visita gli esponevo le nuove prove che trovavo a
conferma degli insegnamenti musulmani. Avevo letto il "Paradiso perduto" di Milton. Il
diavolo, cacciato dal paradiso cercava di riprender possesso della sua dignità e si serviva delle
forze dell'Europa, impersonate dai papi, da Carlo Magno, da Riccardo Cuor di Leone e da altri
cavalieri. Interpretavo tutto ciò come una prova che gli europei erano spinti e guidati dal
diavolo, o dalla sua personificazione. Milton e Elijah Muhammad dicevano in realtà la stessa
cosa .
Non potevo credere ai miei orecchi quando Reginald cominciò a parlar male di Elijah
Muhammad. Non posso dire precisamente quello che affermava. Si trattava più che altro di
allusioni nei confronti di Muhammad e, più che in quel che diceva, le critiche di Reginald erano
contenute nel tono della sua voce o nel suo sguardo .
La cosa mi colse alla sprovvista gettandomi in uno stato di smarrimento. Reginald, il mio
fratello di sangue nel quale avevo tanta fiducia e che stimavo profondamente, lui che mi aveva
introdotto nella Nazione dell'Islam! Non potevo crederlo perché per me l'Islam valeva più di
qualsiasi altra cosa che avessi conosciuto nella mia vita: l'Islam e Elijah Muhammad avevano
cambiato l'intera mia esistenza! Seppi che Reginald era stato sospeso dalla Nazione dell'Islam
da Elijah Muhammad perché non aveva saputo tenere un contegno morale. Dopo aver imparato
e accettato la verità e le leggi musulmane, Reginald aveva continuato ad avere una relazione
con l'allora segretaria del tempio di New York. Alcuni altri Muslims lo avevano saputo e
avevano denunciato Reginald a Muhammad a Chicago. Questi lo aveva sospeso .
Quando mio fratello se ne andò, rimasi in uno stato di angoscia e quella stessa sera scrissi a
Muhammad cercando di difendere Reginald e di perorare la sua causa. Gli spiegavo cosa quel
ragazzo significava per me .
Misi la lettera nella cassetta del censore della prigione e, per tutto il resto della notte, pregai
Allah. Non credo che si sarebbe potuto pregare con più sincerità: chiedevo ad Allah che mi
illuminasse .
La notte seguente, mentre stavo sdraiato sul letto, mi accorsi improvvisamente che accanto a
me, seduto sulla sedia, c'era un uomo. Ricordo che portava un vestito nero. Lo vedevo
benissimo: non era un negro e neppure un bianco, ma aveva una pelle marrone chiaro, il
contegno tipico degli asiatici e capelli neri oleosi .
Lo guardai in faccia. Non ero spaventato. Sapevo di non sognare e non mi potevo muovere;
non parlavo e lui non parlava. Non avrei potuto definirlo dal punto di vista razziale: l'unica cosa
che potevo dire era che si trattava di un non europeo. Non avevo la minima idea di chi fosse.
Sapevo solo che era seduto lì. Poi così come era venuto se ne andò .
Muhammad mi rispose subito a proposito di Reginald. «Se hai creduto una volta alla verità, scriveva, - ed ora incominci a dubitarne, vuol dire che non hai mai davvero creduto. Che cosa,
oltre alla tua debolezza, potrebbe infatti farti dubitare della verità?» Queste parole mi
colpirono. Reginald non faceva la vita disciplinata che è richiesta a un Black Muslim. Sapevo
che Elijah Muhammad aveva ragione e che mio fratello aveva torto perché non c'è una via di
mezzo: o si ha ragione o si ha torto .
Allora non avrei mai pensato che sarebbe venuto il giorno in cui Elijah Muhammad sarebbe
stato accusato dai suoi stessi figli di quegli atti immorali per i quali aveva giudicato Reginald e
tanti altri .
Ma a quel tempo tutti i miei dubbi e la mia confusione furono dissipati; l'influenza che mio
fratello esercitava su di me cessò e, da quel giorno in poi, tutto quello che ha fatto mio fratello
Reginald è per me sbagliato .
Ma lui continuò a venire a farmi visita. Finché era stato un Black Muslim andava vestito in
modo impeccabile, ma ora portava magliette, pantaloni grinzosi e scarpe da ginnastica. Quando
parlava lo ascoltavo con freddezza, ma lo ascoltavo. Era pur sempre il mio fratello di sangue .
Poco alla volta vidi che il castigo di Allah, quello che i cristiani chiamerebbero la
«maledizione», cadeva su Reginald .
Elijah Muhammad diceva che ciò sarebbe successo perché chiunque sfidava lui sarebbe stato
castigato da Allah. L'Islam ci insegnava che finché non si conosceva la verità si viveva nelle
tenebre, ma una volta che essa era accettata e riconosciuta, si viveva nella luce e chiunque fosse
andato contro il vero sarebbe stato punito da Allah .
Muhammad insegnava che la stella a cinque punte simboleggiava la giustizia e, insieme, i
cinque sensi dell'uomo e che Allah applica la giustizia influendo sui cinque sensi di coloro che
si ribellano al suo messaggero, ossia alla sua verità. Ci veniva insegnato che questo era il modo
seguito da Allah per far conoscere ai suoi seguaci che si degnava di difendere il suo messaggero
contro qualsiasi opposizione, finché questi non si fosse allontanato dal sentiero della verità. Ci
veniva insegnato anche che Allah precipitava i transfughi nella confusione mentale. Allora io
credetti che fosse Allah a far questo a mio fratello .
In una lettera, credo scritta da Philbert, mi si diceva che Reginald era con loro a Detroit. Non
seppi più niente di lui fino a quando, molte settimane più tardi, Ella mi venne a far visita e mi
disse che Reginald era a casa sua a Roxbury che dormiva. Mi raccontò che aveva sentito
bussare, era andata alla porta e aveva visto Reginald tutto stravolto. «Da dove vieni?» gli aveva
domandato. Reginald le aveva risposto che veniva da Detroit. «In che modo sei arrivato?» gli
aveva chiesto Ella. Lui aveva risposto di aver fatto il viaggio a piedi .
Son sicuro che era vero. Credevo in Elijah Muhammad e lui ci aveva convinto che il castigo di
Allah si era manifestato con un'influenza sulla mente di Reginald tale da fargli perdere il senso
dello spazio e del tempo. Qui in Occidente noi non conosciamo una certa dimensione del tempo
e Elijah Muhammad diceva che, sotto la pressione punitiva di Allah, i cinque sensi di un uomo
possono essere così sconvolti da coloro che hanno un potere mentale superiore che, in cinque
minuti, i capelli gli possono diventare tutti bianchi, oppure può trovarsi a camminare per miglia
e miglia credendo di aver percorso solo cinque isolati .
In prigione, dopo che ero diventato un Muslim, mi lasciai crescere la barba e quando Reginald
venne a farmi visita, si agitava nervosamente sulla sedia: mi disse che ogni pelo della mia barba
era un serpente. Vedeva serpenti dappertutto .
Poi cominciò a credere di essere lui il «Messaggero di Allah» .
Come mi riferì Ella, andava per le strade di Roxbury dicendo a tutti che aveva poteri divini. Da
questo passò poi a dire che era Allah e, finalmente, che era più grande dello stesso Allah .
Reginald venne fermato e rinchiuso in un ospedale psichiatrico .
Gli specialisti non riuscirono a spiegarsi la causa delle sue condizioni: non potevano capire il
castigo di Allah. Così venne rilasciato, e successivamente ripreso e affidato a un altro ospedale
psichiatrico. Ora si trova ricoverato là, ma io, pur sapendolo, non dirò dov'è perché non voglio
provocargli più guai di quelli che ha già avuto .
Oggi credo che fosse scritto che Reginald dovesse servire per un solo scopo: come esca per
raggiungermi in quell'immenso oceano di oscurità, per salvarmi. Non riesco a spiegarmelo
diversamente .
Quando, in seguito, lo stesso Elijah Muhammad fu accusato di grave immoralità, mi persuasi
che nel caso di Reginald non si trattava affatto di castigo divino, ma la causa era stata il dolore
che egli provò quando tutta la sua famiglia si schierò contro di lui dalla parte di Elijah
Muhammad. Fu per quel dolore che Reginald si rivoltò in modo insano contro il Messaggero di
Allah .
E' impossibile sognare, vedere o avere una visione di qualcuno che non si è mai visto prima e
vederselo davanti esattamente com'è. Una cosa del genere si chiama anticipazione visiva .
Più tardi mi convinsi che in quella visione che ho raccontato prima mi era apparso il maestro
W. D. Fard, il Messia, colui dal quale Elijah Muhammad diceva di esser stato nominato suo
ultimo Messaggero presso il popolo negro dell'America settentrionale .
Passai il mio ultimo anno di detenzione nella prigione di Charlestown. La voce si era sparsa
anche tra i detenuti bianchi poiché alcuni di quei negri succubi parlavano troppo. So che i
censori avevano fatto un rapporto sulla mia corrispondenza e che i funzionari dello stabilimento
di pena di Norfolk erano preoccupati. Come motivo del mio trasferimento addussero il fatto che
mi ero rifiutato di farmi fare certe iniezioni, somministrare un vaccino o cose del genere .
L'unica cosa che mi preoccupava era che non avevo più molto tempo prima di poter esser preso
in considerazione per la libertà provvisoria. Però pensai che essi avrebbero potuto vedere sotto
altra luce la mia propaganda e il mio proselitismo in favore dell'Islam: invece di tenermi dentro,
poteva darsi che mi preferissero fuori .
Quando ero entrato in prigione la mia vista era perfetta ma all'epoca del mio trasferimento a
Charlestown avevo letto così tanto nella mia cella al chiarore della lampada del corridoio da
diventare astigmatico. Fu allora che mi misi per la prima volta gli occhiali che poi ho sempre
portato .
Nella prigione di Charlestown i regolamenti più severi limitavano il mio margine di manovra,
ma quando mi accorsi che molti negri frequentavano un corso sulla Bibbia ci andai anch'io .
L'insegnante era uno studente del seminario di Harvard alto, biondo, con gli occhi azzurri, un
«diavolo» perfetto. Faceva la sua lezione e poi si esibiva nel rispondere alle domande degli
studenti. Non so chi di noi due avesse letto più volte la Bibbia, ma devo dargli credito del fatto
che era veramente ferrato in questioni religiose. Mi spremetti addirittura il cervello per trovare
un modo di metterlo in difficoltà e dare così ai negri presenti qualche argomento a cui pensare,
su cui discutere e da far circolare .
Alla fine alzai la mano e lui assentì. Aveva parlato di Paolo .
Mi alzai in piedi e gli chiesi: «Di che colore era Paolo?» Poi continuai a dire, con alcune
pause: «Doveva essere di pelle nera... perché era un ebreo... e gli ebrei originari erano di pelle
nera... non è vero?» L'insegnante era diventato tutto rosso, come succede ai bianchi .
Rispose di sì .
Ma io non avevo ancora finito. «Di che colore era Gesù... Anche lui era ebreo... Non è vero?»
Sia i detenuti bianchi sia quelli negri era come se fossero seduti sui carboni accesi. Non importa
quanto fossero duri, se erano dei cristiani negri dal cervello ottenebrato o dei cristiani bianchi,
«diavoli», ma nessuno di loro era preparato a sentir dire che Gesù non era bianco. L'insegnante
camminava su e giù. Non avrebbe dovuto prendersela così. Negli anni successivi non ho mai
conosciuto un bianco intelligente che cercasse di insistere sul fatto che Gesù era bianco. Del
resto come avrebbero potuto? «Gesù aveva la pelle marrone», disse .
Lasciai che se la cavasse con quel compromesso .
Proprio come avevo previsto, i detenuti bianchi e negri di Charlestown cominciarono
immediatamente a discutere su questa storia e dovunque andavo sentivo i loro mormorii di
approvazione. Tutte le volte che mi si presentava la possibilità di scambiare quattro parole con
un fratello negro che indossava la casacca a strisce gli dicevo: «Amico, non hai mai sentito
parlare di un certo Elijah Muhammad?»
Capitolo dodicesimo .
IL SALVATORE .
Durante la primavera del 1952 scrissi entusiasticamente a Elijah Muhammad e alla mia
famiglia che la Commissione per la libertà provvisoria dello stato del Massachusetts aveva
votato per la mia scarcerazione. Tuttavia ci sarebbero voluti ancora alcuni mesi prima che si
fosse risolta tutta la procedura burocratica connessa con la concessione della libertà provvisoria
sotto la tutela del mio fratello maggiore Wilfred che ora, a Detroit, faceva il direttore di un
negozio di mobili. Wilfred aveva persuaso il proprietario ebreo a firmare una dichiarazione che,
alla mia scarcerazione, mi avrebbe assunto immediatamente .
Dal «telegrafo» della prigione seppi che anche Shorty era candidato alla libertà provvisoria, ma
che aveva difficoltà nel trovare una persona di una certa reputazione che fosse disposta a
garantire per lui. (In seguito seppi che Shorty si era messo a studiare composizione mentre era
in carcere e che aveva fatto tali progressi da arrivare a scrivere alcuni pezzi, uno dei quali
intitolato "Il concerto della Bastiglia") .
La decisione di andare a Detroit invece che ad Harlem o a Boston fu influenzata
dall'orientamento della mia famiglia, che traspariva da tutte le loro lettere. Specialmente mia
sorella Hilda aveva molto insistito che, sebbene io credessi di aver compreso gli insegnamenti
di Elijah Muhammad, avevo ancora molto da imparare e quindi avrei dovuto andare a Detroit
per diventare membro di un tempio di Muslims praticanti .
Fu in agosto che mi fecero una ramanzina, mi dettero un vestito da quattro soldi alla Li'l
Abner, una piccola somma di denaro e mi fecero uscire dai cancelli. Non mi guardai indietro,
come del resto fanno e hanno fatto i milioni di detenuti che si sono lasciati la prigione dietro le
spalle .
La mia prima fermata fu a un bagno turco per togliermi la sensazione fisica di avere addosso
l'odore della prigione. Ella, a casa della quale passai la notte, era d'accordo che fosse meglio che
ricominciassi a Detroit. In una nuova città la polizia non ce l'avrebbe avuta con me: questa era
l'opinione di Ella, ma non quella dei Muslims, di cui lei non sapeva che farsene. Sia Hilda che
Reginald avevano cercato di convincerla, ma lei, con la sua volontà di ferro, non si era lasciata
convertire. Mi disse di credere che si poteva essere qualunque cosa, avventisti del settimo
giorno, Holy Rollers, ma che lei non sarebbe mai diventata una Muslim .
La mattina seguente Hilda mi dette dei soldi e, prima di partire, ricordo bene che andai fuori a
comprare tre cose: prima di tutto un paio di occhiali migliori di quelli che mi avevano dato in
prigione e poi una valigia e un orologio da polso .
Qualche volta ho pensato che, senza saperlo, stavo allora preparandomi per quella che sarebbe
diventata la mia nuova vita .
Infatti quelli sono i tre oggetti che ho adoperato di più. Gli occhiali correggono l'astigmatismo
che mi è venuto da tutto quel leggere in prigione; viaggio così tanto che mia moglie tiene
sempre pronte due valige in modo che, quando è necessario, ce n'è sempre una a portata di
mano. Inoltre non c'è nessuno che ha il senso del tempo più di me: guardo sempre l'orologio per
esser sicuro di arrivare puntuale a tutti gli appuntamenti. Anche quando sono al volante, guido
seguendo più l'orologio che il contachilometri. Per me il tempo è più importante della distanza .
Presi un autobus per Detroit. Il negozio di mobili che mio fratello Wilfred dirigeva era proprio
nel cuore del ghetto negro. E' meglio che non faccia il nome di quel negozio, dato che sto
parlando del modo in cui i proprietari derubavano i negri. Wilfred mi presentò ad essi: erano
degli ebrei. Come d'accordo, mi assunsero in qualità di commesso .
Grandi annunci pubblicitari che assicuravano vendite a rate «senza anticipo» attiravano i negri
poveri in quel negozio come la carta moschicida. Era una vergogna vederli pagare i mobili tre o
quattro volte più del loro reale costo solo perché quegli ebrei facevano credito. La loro merce
era quella stessa specie di robaccia da quattro soldi, di gusto orribile, che si vede oggi in
qualsiasi negozio di mobili dei ghetti negri. Le tappezzerie dei divani erano fissate con le
cucitrici e dappertutto si vedevano coperte da letto «imitazione leopardo», tappeti di finta pelle
di tigre e altre cose del genere. Vedevo tante mani callose, indurite dal lavoro ed esitanti, che
scarabocchiavano firme sui contratti, impegnandosi in tal modo a pagare interessi
particolarmente esosi, elencati in pagine stampate in caratteri piccolissimi che nessuno legge
mai .
Trovavo nella vita reale la conferma allo spirito di una barzelletta che, come riferiva la rivista
«Jet», il senatore Barry Goldwater aveva raccontato da qualche parte durante la campagna
presidenziale del 1964. A un bianco, a un negro e a un ebreo era stata concessa la facoltà di
esprimere un desiderio che sarebbe poi stato esaudito. Il bianco aveva chiesto dei titoli azionari,
il negro una grossa somma in contanti e l'ebreo dei gioielli falsi e «l'indirizzo di quei ragazzi di
colore» .
Durante tutti gli anni della mia vita di strada avevo visto lo sfruttamento che ora, per la prima
volta, comprendevo. Vedevo i miei fratelli che si invischiavano negli artigli economici
dell'uomo bianco il quale, ogni sera, se ne andava a casa con un altro sacco di denaro pompato
fuori dal ghetto. Invece di aiutare il negro, quel denaro serviva ad arricchire i mercanti bianchi
che di solito abitavano in zone «riservate» dove era meglio che un negro non si facesse mai
trovare, a meno che non lavorasse alle dipendenze di qualche bianco .
Wilfred mi invitò ad abitare a casa sua ed io accettai con gratitudine. Per me il calore di una
casa e di una famiglia rappresentava un benefico cambiamento rispetto alla prigione .
Credo che quasi tutti i detenuti appena liberati provino vera commozione di fronte a
un'esperienza simile. In particolare, l'atmosfera di questa famiglia di Muslims mi rendeva così
riconoscente verso Allah da farmi spesso cadere in ginocchio per ringraziarlo. Nelle lettere che
ricevevo dalla mia famiglia quand'ero in prigione si descriveva il modo di vita dei seguaci
dell'Islam, ma per apprezzarlo veramente era necessario viverne il ritmo quotidiano. Mio
fratello Wilfred mi spiegava con pazienza e gentilezza ogni atto e il suo significato .
La confusione mattutina che c'è in quasi tutte le famiglie, in quella casa non esisteva. Wilfred,
il padre, colui che proteggeva e manteneva la famiglia, era il primo ad alzarsi. «Il padre prepara
la strada per la sua famiglia», diceva. Prima lui e poi io facevamo le abluzioni mattutine. Dopo
venivano la moglie di Wilfred, Ruth, e i figli .
«Nel nome di Allah compio questa abluzione», diceva ad alta voce il Muslim prima di lavarsi
la mano destra e successivamente la sinistra. Poi si lavava i denti e si risciacquava tre volte la
bocca. Anche le narici venivano risciacquate tre volte. La doccia coronava la purificazione di
tutto il corpo, che era così preparato alla preghiera .
Tutti i membri della famiglia, anche i bambini, quando si incontravano per la prima volta al
mattino, si salutavano a bassa voce e dolcemente: «As-Salaam-Alaikum » (in arabo: «La pace
sia con te »). «Wa-Alaikum-Salaam» («E la pace sia anche con te»), rispondeva l'altro. Il
Muslim ripeteva mentalmente molte volte: «Allahu-Akbar, Allahu-Akbar » («Allah è il più
grande») .
Wilfred stendeva il tappeto della preghiera mentre il resto della famiglia si purificava. Mi
spiegarono che la preghiera doveva essere recitata quando il sole era vicino all'orizzonte e,
qualora fosse passato tale momento, doveva esser rimandata finché il sole non era al di là
dell'orizzonte. «I musulmani non sono adoratori del sole. Preghiamo col volto rivolto ad oriente
per sentirci uniti agli altri settecentoventicinque milioni di fratelli e sorelle che formano l'intero
mondo dell'Islam» .
Tutta la famiglia, con indosso delle tuniche, era allineata rivolta ad oriente. All'unisono,
lasciavamo le nostre pantofole per metterci in piedi sul tappeto della preghiera .
Oggi dico in arabo con la mia famiglia la preghiera che imparai in inglese: «Recito la preghiera
del mattino dedicandola ad Allah, il Sommo. Allah è il più grande. Gloria sia a Te, Allah,
perché Tua è la lode, benedetto è il Tuo Nome e gloriosa la Tua Maestà. Io testimonio che
niente merita di essere servito e adorato all'infuori di Te» .
A colazione non prendevamo nessun cibo solido: solo succhi di frutta e caffè. Poi io e Wilfred
andavamo al lavoro e là, a mezzogiorno e di nuovo alle tre del pomeriggio, senza che nessuno
ci vedesse, lì nel negozio di mobili, ci sciacquavamo le mani, il viso e la bocca e meditavamo .
Lo stesso facevano i bambini a scuola; le mogli e le madri dei Muslims interrompevano le loro
occupazioni per unirsi ai settecentoventicinque milioni che, in tutto il mondo, comunicavano
con Allah .
Le riunioni del tempio numero uno di Detroit, che era relativamente piccolo, avevano luogo
tutti i mercoledì, i venerdì e le domeniche. Vicino al tempio, che in realtà aveva delle porte che
davano direttamente sulla strada come un negozio, c'erano tre mattatoi per suini. Durante le
riunioni del mercoledì e del venerdì le strida dei maiali che venivano macellati filtravano
attraverso le finestre. Sto descrivendo la condizione in cui, all'inizio degli anni '50, ci
trovavamo noi Black Muslims .
Mi pare che l'indirizzo del tempio numero uno fosse 1470 Frederick Street. Il primo tempio fu
fondato proprio a Detroit nel Michigan nel lontano 1931 dal maestro W. D. Fard. Non avevo
mai visto dei negri cristiani comportarsi come questi Muslims, sia individualmente che come
famiglie. Gli uomini erano vestiti con gusto severo e sobrio; le donne portavano abiti lunghi
fino ai piedi, erano senza trucco e tenevano la testa coperta con un velo; i bambini, vestiti in
modo irreprensibile, si comportavano educatamente non soltanto nei confronti degli adulti, ma
anche fra di loro .
Non avrei mai sognato che potesse esistere un'atmosfera come quella che c'era tra negri che
avevano imparato ad essere orgogliosi del colore della loro pelle e ad amare gli altri negri
invece di esserne invidiosi e sospettosi. Ero entusiasta del modo come noi Muslims ci
stringevamo tutte e due le mani, ci salutavamo con sorrisi aperti e sinceri manifestando la
nostra felicità di rivedere un confratello negro. Le sorelle musulmane, sia sposate che nubili,
godevano di un rispetto che non avevo mai visto tra i negri e le loro donne e devo dire che
questa mi sembrò una cosa meravigliosa. I saluti che ci scambiavamo erano cordiali, pieni di
reciproco rispetto e di un profondo senso della dignità: «Fratello... Sorella... Signora... Signore»
.
Perfino i bambini, quando parlavano tra di loro, adoperavano questi termini. Che cosa bella! Il
pastore del tempio numero uno era Lemuel Hassan .
«As-Salaikum», ci diceva salutandoci. «Wa-Salaikum», rispondevamo noi. Il pastore Lemuel
stava in piedi davanti a noi, vicino a una lavagna su cui era dipinta, con vernice indelebile, da
una parte la bandiera degli Stati Uniti con sotto le parole «Schiavitù, Sofferenze e Morte», e poi
la parola «Cristianesimo» insieme col segno della Croce. Sotto questa c'era il disegno di un
negro impiccato ad un albero. Dall'altra parte era raffigurata quella che ci insegnavano essere la
bandiera musulmana, la mezzaluna e la stella sul fondo rosso con le parole «Islam: Libertà,
Giustizia, Eguaglianza» e sotto: «Chi sopravviverà alla battaglia di Armageddon?» Per più di
un'ora il pastore Lemuel ci parlava degli insegnamenti di Elijah Muhammad. Io, rapito,
ascoltavo ogni sua parola e seguivo ogni suo gesto. Spesso dava un'illustrazione grafica di ciò
che stava dicendo con parole o frasi chiave che scriveva sulla lavagna .
Trovavo intollerabile che il nostro piccolo tempio avesse ancora delle sedie vuote e mi
lamentai con Wilfred dicendogli che ciò non doveva succedere quando tutte le strade vicine
erano piene dei nostri fratelli e sorelle negri, dalla mente ottenebrata, che bevevano,
bestemmiavano, si azzuffavano fra loro, ballavano, gozzovigliavano e prendevano gli
stupefacenti, proprio tutte le cose che, come insegnava Muhammad, contribuiscono, qui in
America, a mantenere il negro sotto il tallone del bianco .
Da quanto riuscii a capire, l'atteggiamento del tempio di fronte al problema del proselitismo
non andava al di là di una passiva attesa... la fiducia che Allah ci portasse più Muslims. Per
parte mia ritenevo che Allah fosse molto più propenso ad aiutare quelli che si aiutavano da sé.
Per anni avevo vissuto nelle strade del ghetto e conoscevo benissimo i negri di quelle zone .
Harlem o Detroit non erano diverse. Dissi agli altri membri del tempio che non ero d'accordo
con quel sistema, che ritenevo si dovesse andare per le strade e reclutare più Muslims tra la
massa. Come sapete, ero stato un attivista per tutta la mia vita, ero stato sempre impaziente.
Mio fratello Wilfred mi esortava ad aver pazienza e ciò mi diventava più facile per il fatto che
ben presto avrei visto e forse conosciuto l'uomo che veniva chiamato «il Messaggero», Elijah
Muhammad in persona .
Oggi ho appuntamenti con personaggi famosi in tutto il mondo, persino con capi di stato, ma
allora, nel 1952, desiderai che arrivasse quella domenica precedente la festa del lavoro con
un'intensità che non ho più provato. I Muslims nel tempio numero uno di Detroit andavano con
una carovana, credo di dieci automobili, a visitare il tempio numero due di Chicago e a sentire
un discorso di Elijah Muhammad .
Da quando era finita la mia adolescenza non ero mai stato così ansioso come lo fui durante il
viaggio che facemmo nella macchina di Wilfred. Da allora, ai grandi raduni dei Black Muslims
ho visto e sentito decine di migliaia di negri che applaudivano freneticamente, ma quella
domenica pomeriggio, quando i nostri due piccoli templi si riunirono, e tutti e due insieme
eravamo forse duecento Muslims, con quelli di Chicago che davano il benvenuto calorosamente
a noi di Detroit, provai dei brividi di commozione che mai più ho sentito .
Ero del tutto impreparato all'effetto che il Messaggero Elijah Muhammad avrebbe avuto sulle
mie reazioni emotive. Dal fondo del tempio numero due egli avanzò verso la tribuna. Quel suo
viso piccolo, sensibile, dall'espressione dolce e dal colorito bruno, quello stesso viso che tante
volte avevo visto in fotografia fino al punto di sognarlo, era quasi immobile mentre il
Messaggero camminava, circondato dalle guardie del corpo del Frutto dell'Islam. Paragonato a
quei giovani, sembrava fragile, addirittura minuto. Sia lui che quelli del Frutto dell'Islam erano
vestiti con abiti neri, camicie bianche e cravatte a fiocco. Il Messaggero portava un fez ricamato
in oro .
Guardavo sbalordito il grand'uomo che aveva trovato il tempo di scrivermi quando ero un
detenuto del quale non sapeva niente .
Ero di fronte a colui che, come mi avevano detto, aveva passato molti anni della sua vita nella
sofferenza e nei sacrifici per guidare noi, il popolo negro, perché ci amava tanto. Quando sentii
la sua voce, mi sedetti tutto piegato in avanti, come ipnotizzato dalle sue parole. Cercherò qui di
ricostruire il discorso di Elijah Muhammad poiché, da allora, l'ho sentito parlare centinaia di
volte .
«Durante gli ultimi ventun anni non mi sono fermato neanche un giorno. Quando sono stato
libero, e persino quando ero in catene, ho predicato di fronte a voi, durante tutti questi ventun
anni. Per aver insegnato questa verità ho trascorso tre anni e mezzo in un penitenziario federale
e più di un anno nella prigione locale. Per sette lunghi anni fui anche privato del mio amore di
padre per la famiglia quando fuggivo dagli ipocriti e da altri nemici di questa parola e della
rivelazione di Dio, il quale vi darà la vita e vi metterà allo stesso livello di tutte le altre nazioni
e popoli civili e indipendenti di questo nostro pianeta...» Elijah Muhammad raccontò come in
questo deserto che è l'America del Nord «il diabolico uomo bianco dagli occhi azzurri» aveva
per secoli, e con ogni mezzo, fatto il lavaggio del cervello al «cosiddetto negro». Ci disse che,
come risultato, il negro americano era morto «dal punto di vista mentale, morale e spirituale». Il
Messaggero ci disse che l'uomo originario era negro, che era stato rapito dalla sua patria e
privato della sua lingua, della sua cultura, della sua struttura familiare, del suo nome, finché il
negro americano non era arrivato al punto di non sapere neppure quale fosse la sua identità .
Ci mostrò il modo in cui i suoi insegnamenti della vera conoscenza di noi stessi avrebbero
sollevato il negro dal fondo della società bianca e lo avrebbero riportato al punto da cui aveva
iniziato la sua parabola storica, e cioè alla civiltà .
Giunto alla conclusione, quando fece una pausa per riprendere fiato, mi chiamò per nome .
Per me fu come una scossa elettrica. Senza guardarmi direttamente, mi chiese di alzarmi in
piedi .
Poi disse all'uditorio che ero appena uscito di prigione aggiungendo che, durante tutto quel
tempo, ero stato molto «forte». «Tutti i giorni, - disse, - per anni, il fratello Malcolm mi ha
scritto una lettera ed io gli ho risposto regolarmente come potevo» .
Stavo là in piedi con gli occhi dei duecento Muslims fissi su di me, mentre lui raccontava una
parabola ispirata alle mie vicende .
Quando Dio si vantava della fedeltà di Giobbe, disse Elijah Muhammad, il diavolo gli rispose
che ciò dipendeva soltanto dalla siepe con cui lo stesso Dio lo aveva circondato per proteggerlo.
«Leva quella cintura di protezione, disse il diavolo a Dio, - ed io farò in modo che Giobbe ti
maledica apertamente» .
Muhammad disse che il diavolo avrebbe potuto sostenere che l'Islam mi aveva fatto comodo
solo perché mi ero trovato in prigione, e che ora, una volta fuori, sarei tornato a ubriacarmi, a
fumare, a prendere gli stupefacenti e alla mia vita criminosa .
«Ebbene, la siepe che circondava il nostro buon fratello Malcolm non c'è più. Vedremo come
si comporta, - disse Muhammad. - Io credo che resterà fedele» .
Allah mi dette il privilegio di restare fedele alla mia fede nell'Islam malgrado molte dure prove,
ed anche quando gli eventi provocarono la crisi tra noi due, dissi a Elijah Muhammad fin
dall'inizio della rottura, con tutta la sincerità di cui ero capace, che credevo ancora in lui molto
più di quanto non ci credesse lui stesso .
Muhammad ed io non siamo più insieme oggi, solo a causa di invidie e gelosie. Io ebbi più
fede in lui di quanta avrei potuto avere in qualunque altra persona .
Ricorderete certamente che, quand'ero in prigione, Muhammad era ospitato a casa di mio
fratello Wilfred tutte re volte che veniva a visitare il tempio numero uno di Detroit. Tutti i
Muslims dicevano che non si poteva fare per Muhammad più di quanto lui faceva per gli altri.
Quella domenica, dopo la riunione, invitò tutta la nostra famiglia e il pastore Lemuel Hassan a
cena nella sua nuova casa .
Muhammad disse che erano stati i suoi figli e seguaci ad insistere perché si trasferisse in questa
casa molto più bella e più grande - diciotto stanze - situata al 4847 di Woodlawn Avenue a
Chicago. Credo che si fossero trasferiti proprio quella stessa settimana e, quando arrivammo,
Muhammad ci fece vedere il lavoro di verniciatura che aveva fatto fino ad allora. Dovetti
frenare l'impulso di andare a prendere una sedia per il Messaggero di Allah. In realtà, come
avevo sentito dire che avrebbe fatto, fu lui a preoccuparsi che mi sistemassi comodamente .
Avevamo sperato che durante la cena ci illuminasse con la sua sapienza, ma invece incoraggiò
noi a parlare. Pensavo a come il nostro tempio di Detroit stava lì passivamente ad aspettare che
Allah ci portasse nuovi adepti e, oltre a ciò, pensavo ai milioni di negri in tutta l'America che
non avevano mai sentito parlare di quegli insegnamenti che avrebbero potuto scuoterli,
risvegliarli e farli risorgere. Fu lì, a tavola con Muhammad, che seppi trovare le parole. In fondo
sono sempre stato capace di dire quel che penso .
Durante una pausa della conversazione, chiesi a Muhammad quanti Muslims avrebbero dovuto
esserci nel nostro tempio numero uno di Detroit .
«Dovrebbero essercene delle migliaia», disse lui .
«Sissignore, - replicai, - qual è la vostra opinione circa il sistema migliore per reclutare
migliaia di nuovi proseliti?» «Avvicinate i giovani, - rispose. - Quando li avrete con voi, i
vecchi li seguiranno se non altro per vergogna» .
Decisi che avremmo dovuto seguire quel consiglio e, quando tornammo a Detroit, parlai con
mio fratello Wilfred e offrii la mia opera al pastore del nostro tempio, Lemuel Hassan .
Questi condivise la mia decisione di mettere in pratica la formula di Muhammad per una
grossa campagna di proselitismo .
Cominciando da quel giorno, tutte le sere quando uscivo dal lavoro nel negozio di mobili,
andavo in giro, come più tardi noi Muslims avremmo detto, «a pesca». Conoscevo il modo di
pensare e il gergo che si parla nelle strade del ghetto: «Amico mio, lascia che ti stuzzichi con
qualcosa...» Naturalmente avevo fatto la domanda e fu durante questo periodo che ricevetti da
Chicago la mia «X», simbolo tra noi Muslims del suo vero nome africano che nessun negro ha
mai conosciuto. Per quanto mi riguardava, la mia «X» sostituiva il nome del padrone di schiavi
bianco Little, che qualche diavolo dagli occhi azzurri aveva imposto ai miei antenati paterni.
Tale atto significava che da allora in poi, nella Nazione dell'Islam, io sarei stato conosciuto
come Malcolm X. Muhammad insegnava che avremmo mantenuto la «X» finché lo stesso
Allah non sarebbe tornato a darci, con le sue stesse parole, un nome santo .
Mentre compivo la mia opera di proselitismo nei bar, nelle sale da biliardo e agli angoli delle
strade del ghetto di Detroit, mi accorgevo che i miei fratelli negri, poveri, ignoranti, intontiti,
erano in gran parte troppo sordi, muti e ciechi, sia dal punto di vista mentale sia da quello
morale e spirituale, per rispondere. Quello che mi faceva infuriare era che solo una volta ogni
tanto qualcuno mostrava una certa curiosità per gli insegnamenti che avrebbero fatto risorgere il
popolo negro .
Pregavo e scongiuravo questi pochi di venire alla nostra prossima riunione al tempio numero
uno, ma poi neanche la metà di quelli che dicevano di sì ci venivano davvero .
Piano piano riuscii a interessarne un certo numero così che, ogni mese, qualche automobile in
più veniva ad aggiungersi alle nostre carovane dirette a Chicago in visita al tempio numero due.
Ma anche dopo aver visto e sentito Elijah Muhammad in persona, solo pochissimi dei visitatori
facevano domanda ufficiale a Muhammad per essere accettati come membri della Nazione
dell'Islam .
Comunque, dopo un po' di mesi di questo lavoro di scavo, il nostro tempio numero uno triplicò
i suoi membri. La cosa fu così gradita a Muhammad che ci fece l'onore di una visita .
Il Messaggero mi lodò con calore quando sentì dal pastore Lemuel Hassan quanto mi ero dato
da fare per la causa dell'Islam .
Le nostre carovane continuavano a ingrossarsi. Ricordo con quale orgoglio ci mettemmo alla
testa di una fila di venticinque automobili dirette a Chicago e, tutte le volte che si andava, ci
veniva fatto l'onore di essere invitati a cena a casa di Muhammad. Da quello che diceva, capivo
che gli interessavano molto le mie possibilità .
Io lo adoravo .
Agli inizi del 1953, mi licenziai dal negozio di mobili .
Guadagnavo un po' di più lavorando alla Gar Wood di Detroit dove si facevano le carrozzerie
per grossi camion destinati ai servizi di nettezza urbana. Il mio compito consisteva nel portar
via i rifiuti delle saldature dopo che ciascuna carrozzeria era terminata .
In questo periodo Muhammad ci diceva a tavola che una delle cose di cui aveva più bisogno
era un maggior numero di giovani disposti a lavorare intensamente per mettersi poi in
condizioni di assumersi le responsabilità del suo ministero. Diceva che gli insegnamenti
avrebbero dovuto essere diffusi in misura maggiore di quanto non era stato fatto e che si
dovevano fondare templi anche in altre città .
Non avevo mai pensato di poter diventare anch'io un pastore: non avevo mai neanche
lontanamente considerato me stesso in grado di rappresentare direttamente Muhammad e se
qualcuno mi avesse chiesto di diventare pastore sarei rimasto sbalordito e avrei risposto che ero
felice e desideroso di servire Muhammad anche con l'incarico più umile .
Non so se fu per consiglio del Messaggero o se si trattò di una decisione del pastore Lemuel
Hassan del nostro tempio numero uno, ma il fatto è che questi mi incoraggiò a parlare
all'assemblea dei fratelli e delle sorelle. Ricordo che testimoniai del significato che
l'insegnamento di Muhammad aveva avuto per me: «Se vi dicessi che genere di vita era la mia,
voi non ci credereste... Quando parlo dell'uomo bianco non mi riferisco a qualcuno che non
conosco...» Poco tempo dopo quella prima prova, il pastore Lemuel Hassan insistette perché
improvvisassi un discorso davanti ai fratelli e alle sorelle. Ero incerto ed esitante, ma siccome
avevo partecipato a tanti dibattiti quando ero in prigione, decisi che avrei fatto del mio meglio.
(E' ovvio che non posso ricordarmi esattamente quello che dissi, ma so che il tema preferito dei
miei primi discorsi era il cristianesimo e gli orrori della schiavitù, argomento su cui mi sentivo
ben preparato grazie a tutti i libri che avevo letto in prigione) .
«Miei cari fratelli e sorelle, la religione cristiana del nostro padrone di schiavi bianco ha
insegnato a noi negri, qui in questo deserto che è l'America del Nord, che quando moriamo ci
crescono le ali e voliamo in cielo dove Dio ci ha riservato un posto speciale chiamato paradiso.
Questa è la religione cristiana dell'uomo bianco che viene adoperata per rimbecillire noi negri!
Noi l'abbiamo accettata, l'abbiamo fatta nostra, l'abbiamo creduta e l'abbiamo praticata! Mentre
facevamo ciò, questo diavolo dagli occhi azzurri ha modellato il suo cristianesimo in modo da
poterci tenere il piede sul collo... da far sì che noi pensassimo alle delizie celesti dell'altra vita...
mentre lui gode il suo paradiso qui... su questa terra... in questa vita» .
Oggi, dopo essermi trovato di fronte a migliaia di Muslims ed altri ascoltatori, aver avuto come
pubblico alla radio e alla televisione addirittura milioni di persone, sono sicuro di poter
affermare che assai di rado ho sentito tanta elettricità come quella che produssero in me i volti
di quei settantacinque o cento Muslims, cui vanno aggiunti altri pochi visitatori, che sedevano
davanti a me nel nostro tempio, mentre dal vicino mattatoio dei suini venivano le strida dei
maiali macellati .
Nell'estate del 1953 fui nominato assistente pastore del tempio numero uno di Detroit: tutta la
lode è dovuta ad Allah .
Tutti i giorni, quando uscivo dal lavoro, andavo «a pesca» di proseliti potenziali nel ghetto
negro di Detroit. Vedevo i lineamenti africani dei miei fratelli e sorelle che il diabolico uomo
bianco aveva rimbecillito; vedevo capelli come erano stati i miei per anni, stirati con la lisciva
finché non restavano lisci e diritti come quelli dei bianchi. Molte volte gli insegnamenti di
Muhammad venivano respinti con fastidio e persino ridicolizzati: «Via, amico, levati di torno,
voi "niggers" siete matti!» Qualche volta mi andava il sangue alla testa sia per la rabbia sia per
la compassione che provavo verso i miei poveri fratelli negri così ciechi. Non vedevo l'ora che
il pastore Lemuel Hassan mi desse il permesso di parlare: «Fratelli e sorelle, noi non siamo
sbarcati sul promontorio di Plymounth, ma è questo che è caduto addosso a noi!»... «Date
TUTTO quel che potete per il programma di indipendenza per l'uomo negro che il Messaggero
Elijah Muhammad sta mettendo in atto!... L'uomo bianco ci ha sempre dominati costringendoci
ad andare da lui a chiedere: "Per favore, signorino, per favore, signor uomo bianco padrone,
volete buttarmi un'altra briciola dal vostro tavolo che scricchiola per come è carico di
ricchezze?".. .
«... miei BEI fratelli e sorelle negri! E quando diciamo negro, vogliamo dire tutto ciò che non è
bianco... GUARDATE la vostra pelle! Per l'uomo bianco noi siamo tutti neri, ma in realtà
siamo di mille colori. Guardatevi intorno, guardatevi uno con l'altro! Qual è la sfumatura che la
mescolanza di sangue africano e di quello del diabolico uomo bianco ha dato alla vostra pelle?
Guardatemi! Ebbene, nelle strade erano soliti chiamarmi il Rosso di Detroit. Sì, quel diavolo
dai capelli rossi, quello stupratore, era mio NONNO. Così vicino, domanderete voi? Proprio
così. Era il padre DI MIA MADRE. Lei non voleva parlarne e sarebbe forse giusto biasimarla
per questo? Diceva di non averlo mai guardato e di esserne FELICE .
Sono CONTENTO per lei! Se potessi tirar fuori il suo sangue che avvelena il MIO corpo e la
MIA pelle lo farei, perché odio ogni goccia del sangue di quello stupratore che mi scorre nelle
vene! «Non sono solo io, ma TUTTI noi! Durante la schiavitù, pensateci bene, era molto raro
che una delle nostre nonne negre, o bisnonne o trisavole riuscisse a sfuggire alla violenza
stupratrice del padrone bianco. Fu lui che svirilizzò l'uomo negro... con le minacce e con il
terrore... fino al punto che, persino oggi, esso vive con il timore dell'uomo bianco nel cuore,
ancora oggi sotto il suo tallone! «PENSATE, pensate a quello schiavo negro pieno di timore e
d'angoscia che sente le grida di sua moglie, di sua madre, di sua figlia che vengono
VIOLENTATE là nel granaio, in cucina, tra i cespugli. PENSATECI, miei cari fratelli e
sorelle! PENSATE alle voci di queste mogli, madri e figlie che vengono VIOLENTATE.
Anche voi siete stati paralizzati dal TIMORE al punto da non poter reagire! I frutti della sua
libidine animalesca furono chiamati dall'uomo bianco con termini come "mulatto", "meticcio" o
"quadrone" e tutti gli altri epiteti che ci rivolge - a voi e a me ora - quando non ci chiama
"nigger"! «Guardatevi intorno, fratelli e sorelle, guardatevi l'uno con l'altro e PENSATE a
questo! Voi ed io, di tanti diversi colori tutti mescolati e questo diavolo che ha l'arroganza e la
sfacciataggine di pensare che noi, le sue vittime, dovremmo amarlo!» Qualche volta la
commozione mi soffocava talmente che poi dovevo camminare per le strade fino a tardi, oppure
non parlavo a nessuno per ore pensando tra me e me cosa aveva fatto l'uomo bianco alla nostra
povera gente qui in America .
Un giorno, alla fabbrica Gar Wood dove lavoravo, venne da me il sorvegliante con un'aria
piuttosto nervosa. Mi disse che mi volevano in ufficio .
Il bianco che trovai là in piedi mi annunciò di essere un agente dell'F.B.I. Come fanno di solito
per spaventare, mi squadernò davanti il libretto di pelle nera con la tessera di riconoscimento e
mi disse di seguirlo senza specificare per cosa .
Andai con lui. All'ufficio dell'F.B.I. volevano sapere perché non mi ero presentato per
registrarmi presso l'ufficio leva. Si era ai tempi della guerra di Corea .
«Sono appena uscito di prigione, - dissi. - Non sapevo che prendeste anche degli ex detenuti»
.
Credettero davvero che fossi convinto che gli ex detenuti non avevano il dovere di registrarsi.
Mi fecero molte domande e fui felice perché non mi chiesero se ero disposto ad indossare
l'uniforme dell'uomo bianco. Per parte mia non lo ero, ma essi dettero per scontato che lo fossi.
Mi dissero che non mi avrebbero mandato in carcere per omissione dei doveri militari, che
sarebbero stati comprensivi, ma che dovevo andarmi a registrare immediatamente .
Di là andai diritto all'ufficio leva e quando mi dettero un modulo da riempire, scrissi nella parte
apposita che ero un Muslim e quindi un obiettore di coscienza .
Consegnai il modulo. Quel diavolo di mezz'età dall'aria seccata che lo lesse, mi guardò da sotto
in su, poi si alzò dirigendosi verso un altro ufficio per andare evidentemente a consultarsi con
qualcuno dei suoi superiori. Dopo un po' ritornò e mi fece segno di entrare .
Mi pare che in quella stanza, seduti dietro tavoli diversi, ci fossero tre di quei diavoli un po' più
anziani tutti con l'espressione tipica del bianco che si trova di fronte al «"nigger" rompiscatole».
Io li guardavo con aria di sfida come se negli occhi avessi scritto «diavoli bianchi». Mi chiesero
in base a che cosa sostenevo di essere musulmano. Dissi loro che Elijah Muhammad era il
Messaggero di Allah e che tutti i suoi seguaci qui in America si consideravano musulmani.
Sapevo che avevano già sentito parlare di queste cose da qualcuno dei giovani fratelli del
tempio numero uno che erano stati lì prima di me .
Mi chiesero se sapevo cosa voleva dire «obiettore di coscienza» .
Dissi loro che quando l'uomo bianco mi chiedeva di partire per andare a combattere e forse
morire in difesa del modo con cui trattava i negri in America, la mia coscienza si ribellava .
Mi dissero che il mio era un caso da lasciare «in sospeso» .
Comunque mi fecero passare la visita e poi mi mandarono una scheda con il tipo di classifica
che mi era stata attribuita .
Ciò accadeva nel 1953 e per sette anni non ricevetti più alcuna comunicazione. Quando mi
arrivò la nuova scheda che tengo sempre nel portafoglio, portava la data del 21 novembre 1960.
Il numero di matricola è 20 219 251 377 e la classificazione è «5 A». Sul retro del tesserino c'è
scritto: «Ufficio leva del Michigan n .
219, Wayne County, 3604 South Wayne Road, Wayne, Michigan» .
Tutte le volte che parlavo nel nostro tempio numero uno avevo sempre la voce roca
dall'ultima volta. Mi ci volle parecchio tempo prima di abituare la gola a questo ritmo .
«Sapete PERCHE' l'uomo bianco veramente vi odia? Perché tutte le volte che vede il vostro
volto, vede uno specchio dei suoi delitti e la sua cattiva coscienza non può sopportarlo! «Ogni
bianco americano, quando guarda un negro negli occhi, dovrebbe cadere in ginocchio e dire:
"Mi dispiace, mi dispiace .
Quelli della mia specie hanno commesso contro il tuo popolo il più grande delitto della storia.
Mi darai la possibilità di riparare?" Ma, fratelli e sorelle, vi aspettate davvero di trovare un
uomo bianco che faccia una cosa simile? NO, LO SAPETE fin troppo bene! E perché ciò non è
possibile? Perché l'uomo bianco NON PUO': è stato CREATO per essere un diavolo, per
portare il caos su questa terra...» In questo periodo lasciai la fabbrica Gar Wood e fui assunto
dall'industria automobilistica Ford come operaio di una delle catene di montaggio dello
stabilimento Lincoln-Mercury .
Nella mia qualità di giovane pastore andavo a Chicago a far visita a Elijah Muhammad ogni
volta che potevo liberarmi. Lui mi incoraggiava a farlo e devo dire che ero trattato come se
fossi stato uno dei figli di Muhammad e della sua ottima moglie dalla pelle molto scura, la
sorella Clara Muhammad. Solo qualche volta vedevo i loro figli. In quegli anni la maggior parte
di essi lavoravano intorno a Chicago facendo vari mestieri: lavori di fatica, autisti di piazza o
cose del genere. In casa abitava anche la cara madre di Muhammad, Marie .
Passavo altrettanto tempo con lei che con Muhammad. Mi piaceva moltissimo sentirla
ricordare le circostanze dell'infanzia e dell'adolescenza di suo figlio Elijah quando abitavano a
Sandersville nella Georgia, dove lui era nato nel 1897 .
Muhammad stava a parlare con me per delle ore. Dopo aver mangiato l'ottimo e sano cibo
musulmano ci trattenevamo a tavola a chiacchierare oppure andavo in macchina con lui quando
faceva il suo giro quotidiano dei pochi negozi di alimentari che allora i Muslims controllavano
a Chicago. Questi negozi erano l'esempio migliore per far vedere ai negri cosa potevano fare da
sé assumendo i loro fratelli di colore, commerciando solo con essi ed eliminando in tal modo lo
sfruttamento dell'uomo bianco .
Nel negozio di alimentari e drogheria situato tra Wentworth e la Trentunesima Strada, di
proprietà dei Muslims, Muhammad spazzava il pavimento e faceva altri lavori di questo tipo.
Era per dare l'esempio ai suoi seguaci ai quali insegnava che la pigrizia e l'ozio erano tra i
peggiori peccati che il negro potesse commettere contro se stesso. Avrei voluto togliere la scopa
dalle mani di Muhammad perché pensavo che un uomo del suo valore non si dovesse mettere a
spazzare il pavimento, ma lui non mi consentiva di far altro che star lì ad ascoltarlo mentre mi
dava consigli sui sistemi migliori per diffondere il suo messaggio .
Il nostro rapporto reciproco mi faceva pensare a Socrate il quale, seduto sui gradini del teatro
di Atene, illuminava i discepoli con la sua sapienza, oppure a uno di questi discepoli, Aristotele,
che a sua volta, mentre camminava su e giù nel Liceo, era seguito da giovani avidi di sapere .
Ricordo che un giorno sul banco c'era un bicchier d'acqua sporco. Accanto a quello
Muhammad ne mise uno pulito. «Vuoi sapere come diffondere i miei insegnamenti? disse
indicando col dito i due bicchieri. - Non condannare colui che ha un bicchiere sporco, ma fagli
vedere quello pulito che hai tu. Se lo guardano con attenzione non avrai bisogno di dire che il
tuo è migliore». Di tutte le cose che Muhammad mi avrebbe poi insegnato, non so perché, ma
questa mi è rimasta ancora in mente, sebbene non abbia sempre messo in pratica tale precetto.
Mi piace troppo la lotta, e se vedo qualcuno con un bicchiere sporco, non posso fare a meno di
dirglielo .
Quando Muhammad aveva da fare, la madre Marie mi raccontava dell'adolescenza e della
prima giovinezza di suo figlio in Georgia .
I suoi racconti cominciavano quando lei aveva sette anni. Mi diceva che aveva avuto il
presentimento che un giorno sarebbe stata la madre di un grand'uomo. Aveva poi sposato un
pastore battista, il reverendo Poole, che lavorava nelle fattorie e nelle segherie vicino a
Sandersville. Tra i loro tredici figli, mi raccontava, il piccolo Elijah era stato subito diverso fin
da quando aveva cominciato a camminare e a parlare .
Di solito quel ragazzo piccolo e minuto faceva da mediatore nelle dispute fra i suoi fratelli e le
sue sorelle più grandi e, giovane com'era, era da essi considerato come il loro leader .
Quando fu in età scolare, cominciò a dar prova di una forte coscienza razziale ma, dopo la
quarta classe, siccome la sua famiglia era tanto povera, Elijah dovette lasciare la scuola e
trovarsi un lavoro. Una delle sorelle più grandi gli faceva lezione di sera, quando poteva .
La madre Marie mi raccontava che Elijah passava ore intere a leggere la Bibbia mentre gli
occhi gli si riempivano di lacrime .
Più tardi lo stesso Muhammad mi disse che da ragazzo era convinto che le parole della Bibbia
fossero una porta chiusa che poteva essere aperta solo conoscendone il segreto e che perciò lui
piangeva per questo suo desiderio frustrato di capire .
Diventò un adolescente di costituzione minuta che dava prova di un amore intenso e piuttosto
raro per la sua razza. Come diceva la madre, invece di condannare i difetti dei negri, il giovane
Elijah cercava sempre di darne una spiegazione razionale .
Marie è morta da tempo. Credo che ebbe un funerale grandioso quale si era visto raramente a
Chicago perché non soltanto i Muslims, ma anche gli altri sapevano quale profondo legame
esistesse tra il Messaggero Elijah e sua madre .
«Non mi vergogno di dire che ho ricevuto un'istruzione limitatissima, - mi disse Muhammad.
- Il fatto che non abbia continuato ad andare a scuola oltre la quarta classe è una prova che non
posso sapere nient'altro che la verità che mi è stata insegnata da Allah. E' lui che mi ha
insegnato la matematica e che, a me che usavo un linguaggio scorretto e sgradevole, ha
insegnato a pronunciare le parole» .
Muhammad mi diceva che allora non poteva sopportare il modo in cui i coltivatori bianchi di
Sandersville, i sorveglianti della segheria o gli altri datori di lavoro bianchi offendevano
abitualmente gli operai negri rivolgendosi a loro con un linguaggio scurrile. Mi diceva che
aveva preso l'abitudine di chiedere gentilmente a coloro presso i quali lavorava di non
insultarlo. «Dicevo loro di licenziarmi se non erano soddisfatti del mio lavoro, ma di non
insultarmi». Quando parlava in pubblico, Muhammad si esprimeva come durante la normale
conversazione. Non era eloquente, almeno nel senso in cui viene intesa l'eloquenza, ma
qualunque cosa dicesse esercitava un fascino su di me che oratori agguerriti non riuscivano a
suscitare. Muhammad aggiungeva che nei posti dove era stato assunto aveva sempre lavorato
con tale onestà che di solito gli veniva affidata la sorveglianza degli altri negri .
Agli inizi del 1923, dopo che si era sposato con la sorella Clara e che erano nati i loro primi
due figli, un datore di lavoro bianco insultò Muhammad, che allora era Elijah Poole .
Deciso ad evitare guai, si trasferì con la famiglia a Detroit .
Aveva venticinque anni. In quella città gli sarebbero nati altri cinque figli, mentre l'ultimo vide
la luce a Chicago .
Fu a Detroit, nel 1931, che Muhammad conobbe il maestro W. D .
Fard .
Dappertutto le conseguenze della depressione erano terribili, ma nel ghetto negro erano
addirittura al di là di ogni immaginazione. Muhammad mi diceva che, in quell'ambiente di
profonda miseria, un uomo piccolo, dalla pelle marrone chiaro, andava da una porta all'altra
degli appartamenti dei negri vendendo sete e altri tessuti e qualificandosi come «un fratello
venuto dall'Oriente» .
Quest'uomo cominciò a dire ai negri che erano venuti da una terra lontana, li ammoniva a non
mangiare «l'immondo suino» ed altri «cibi sbagliati» che essi abitualmente prediligevano .
Con chi era disposto ad ascoltarlo, cominciò a tenere delle piccole riunioni in quelle povere
case. Insegnava sia il Corano che la Bibbia e tra i suoi discepoli c'era Elijah Poole .
Quest'uomo diceva che il suo nome era W. D. Fard, che era nato nella tribù Koreish di
Muhammad ibn Adbullah, il profeta arabo .
Il venditore di drapperie W. D. Fard conosceva la Bibbia meglio di qualsiasi negro educato
nella religione cristiana .
In breve, egli insegnava che il vero nome di Dio era Allah, che l'Islam era la sua vera religione
e che i popoli che la seguivano si chiamavano musulmani .
Inoltre insegnava che i negri americani discendevano direttamente da un popolo seguace di
quella religione, che erano la «pecora smarrita», perduta da quattrocento anni per la Nazione
dell'Islam e che lui, W. D. Fard, era venuto per salvarli e restituirli alla vera religione .
Insegnava anche che non esistevano né l'inferno né il paradiso ma che erano definibili con tali
termini solo le condizioni in cui la gente viveva su questo pianeta. Il negro americano era stato
all'inferno per quattrocento anni e lui W. D. Fard, era venuto per farlo tornare là dove c'era il
suo paradiso, nella sua patria, tra la sua gente .
Se l'inferno era in terra, insegnava il maestro Fard, anche il diavolo era in terra: il diavolo era la
razza bianca derivata, seimila anni prima, dall'uomo originario negro, con lo scopo di
trasformare la terra in un inferno per i prossimi seimila anni .
Il popolo negro, i figli di Allah, erano degli dèi essi stessi e il maestro Fard insegnava che tra di
loro ce n'era uno, anch'egli un essere umano come tutti gli altri, che era il Dio di tutti gli dèi, il
più grande, il più potente, l'essere supremo e che il suo vero nome era Allah .
Nel 1931, a Detroit, il maestro W. D. Fard insegnava al piccolo gruppo dei suoi primi proseliti
che tutte le religioni affermano che, prima del giorno del giudizio o della fine del tempo, Dio
verrà per far risorgere la «pecora smarrita», per separare il suo popolo dai nemici e restituirlo a
se stesso e aggiungeva che la profezia si riferiva a Colui che avrebbe trovato e salvato la
«pecora smarrita», al Figlio dell'Uomo o Dio in persona, fonte di vita, Redentore o Messia che
sarebbe venuto come un fulmine dall'Oriente per apparire in Occidente. Gli ebrei lo
chiamavano il Messia, i cristiani il Cristo e i musulmani il Mahdi .
Come galvanizzato stavo a sentire Muhammad: mi raccontava quella che io allora credevo
fosse la vera storia della nostra religione, la vera religione per il negro. Lui mi diceva che una
sera aveva avuto la rivelazione che il maestro W. D. Fard incarnava il compimento della
profezia: «Gli chiesi, - disse Muhammad, - chi era e qual era il suo vero nome. Lui mi
rispose: "Sono Colui che il mondo ha aspettato durante gli ultimi duemila anni"» .
«Ma qual è il tuo vero nome?» mi diceva di avergli chiesto Muhammad. «Il mio nome è Mahdi
e sono venuto per guidarti sulla giusta strada» .
Elijah Muhammad mi diceva che lo aveva ascoltato con il cuore aperto e la mente serena, così
come io ascoltavo lui, e che non aveva mai messo in dubbio neppure una delle parole che il
«Salvatore» gli aveva insegnato .
Quando cominciò a organizzarsi, il maestro W. D. Fard mise su una classe per preparare i
pastori necessari a diffondere i suoi insegnamenti tra i negri d'America. Quando dette i nomi a
questi primi pastori il maestro Fard chiamò Elijah Poole «Elijah Karriem» .
Successivamente, sempre nel 1931, egli fondò a Detroit un'università dell'Islam in cui, tra le
altre cose, si tenevano corsi di matematica per aiutare i poveri negri a non farsi imbrogliare
dalla contabilità fasulla dei «diavoli bianchi dagli occhi azzurri» .
Aprire una scuola in quelle condizioni voleva dire non disporre di insegnanti qualificati, ma
bisognava cominciare in qualche modo e così Elijah Karriem levò i suoi figli dalle scuole
pubbliche di Detroit perché l'università dell'Islam potesse avere il primo nucleo di studenti .
Muhammad mi disse poi che la mancanza di un'educazione formale di cui soffrivano i suoi
figli maggiori rifletteva il loro sacrificio necessario allora per costituire il nucleo di quelle
università dell'Islam che oggi, sia a Detroit che a Chicago, hanno insegnanti assai meglio
qualificati .
Il maestro W. D. Fard scelse Elijah Karriem come il pastore supremo, con autorità su tutti gli
altri. Tra questi scoppiò la gelosia. Erano tutti più istruiti di lui, oltre al fatto che sapevano
parlare molto meglio e, persino in sua presenza, dicevano infuriati: «Ma perché dobbiamo
inchinarci davanti a uno che è meno qualificato di noi?» Ma Elijah Karriem venne ribattezzato
«Elijah Muhammad» e il maestro W. D. Fard, per i tre anni e mezzo seguenti, gli dette degli
insegnamenti privati. In quel momento, mi diceva Muhammad, aveva «sentito cose che non
erano mai state rivelate a nessuno» .
Fu in questo periodo che Elijah Muhammad e il maestro W. D. Fard andarono a Chicago e
fondarono il tempio numero due; inoltre crearono a Milwaukee le premesse per la costituzione
di un tempio numero tre .
Nel 1934, il maestro W. D. Fard scomparve senza lasciar traccia .
Elijah Muhammad mi raccontava che vi erano stati diversi attentati alla sua vita perché la
gelosia degli altri pastori era giunta al parossismo e che a causa di questi «ipocriti» era dovuto
fuggire a Chicago. Il tempio numero due divenne il suo quartier generale finché gli «ipocriti»
non lo perseguitarono anche là costringendolo di nuovo a fuggire. A Washington, egli fondò il
tempio numero quattro e mentre era là, alla Biblioteca del Congresso, si mise a studiare certi
libri in cui, come gli aveva detto il maestro W. D. Fard, c'erano frammenti della verità che quei
diabolici uomini bianchi avevano registrato, ma che non includevano nei libri generalmente a
disposizione del pubblico .
Essendo, come diceva, sempre perseguitato dagli «ipocriti», Muhammad fuggì da una città
all'altra senza mai fermarsi troppo nello stesso posto. Ogni tanto, quando poteva, andava a casa
a rivedere la moglie e gli otto figli che erano mantenuti da altri poveri Muslims i quali
dividevano con loro il poco che avevano .
Persino i primi seguaci che Muhammad aveva raccolto a Chicago non sapevano che era a casa
perché lui dice che gli «ipocriti» cercavano in tutti i modi di assassinarlo .
Nel 1942, Muhammad fu arrestato. Dice che furono dei negri «alla zio Tom» a fare la spia a
quel diavolo dell'uomo bianco riguardo ai suoi insegnamenti e che venne accusato di sottrarsi
agli obblighi di leva, sebbene fosse ormai troppo vecchio per essere richiamato. Fu condannato
a cinque anni. Per tre anni e mezzo Muhammad rimase nel penitenziario federale di Milan nel
Michigan. Poi fu messo in libertà provvisoria e, nel 1946, ritornò al suo lavoro per togliere i
paraocchi al popolo negro, qui in questo deserto che è l'America del Nord .
Mi sembra ancora di sentirmi quando, in piedi davanti al leggio del nostro piccolo tempio, mi
rivolgevo appassionatamente ai miei fratelli e sorelle negri: «Questo piccolo, dolcissimo uomo,
il molto onorevole Elijah Muhammad che proprio in questo momento, laggiù a Chicago,
insegna ai nostri fratelli e alle nostre sorelle! Il Messaggero di Allah, qualifica questa che fa di
lui il negro più potente d'America! Per voi e per me quest'uomo ha sacrificato sette anni della
sua vita per sfuggire a degli ipocriti immondi ed ha passato altri tre anni e mezzo in prigione!
Fu incarcerato dal diabolico uomo bianco il quale non vuole che il molto onorevole Elijah
Muhammad faccia risvegliare il gigante addormentato che siamo voi ed io e tutti quelli del
nostro popolo che vivono, ignoranti e rimbecilliti, in questo paradiso dell'uomo bianco e inferno
del negro, qui nel deserto che è l'America del Nord! «Mi sono seduto ai piedi del nostro
Messaggero per ascoltare la verità dalla sua stessa bocca. Ho fatto solenne promessa ad Allah,
inginocchiato davanti a lui, di dire in faccia all'uomo bianco quali sono i suoi crimini e al negro
di palesare i veri insegnamenti del nostro molto onorevole Elijah Muhammad. Non m'importa
se ciò dovesse costarmi la vita.. » Questo era il mio atteggiamento, le mie parole prive di ogni
compromesso che, senza esitazione né timore, pronunciavo dappertutto. Ero il suo servo più
fedele e oggi so che credevo in lui più fermamente di quanto egli non credesse in se stesso .
Negli anni seguenti avrei dovuto affrontare una crisi psicologica e spirituale .
Capitolo tredicesimo .
IL PASTORE MALCOLM X .
Lasciai il mio lavoro presso lo stabilimento Lincoln-Mercury della Ford. Mi sembrava chiaro
che a Muhammad erano necessari dei pastori per diffondere i suoi insegnamenti, per fondare
altri templi tra i ventidue milioni di negri che abitavano, rimbecilliti e sonnolenti, le città
dell'America del Nord .
Presi la mia decisione relativamente presto. Sono sempre stato un attivista e forse fu proprio la
rapidità delle mie reazioni che mi fece raggiungere quello stadio di vocazione più presto di
quanto non succedesse ad altri pastori della Nazione dell'Islam .
Ma ciascuno di essi, a suo tempo, a suo modo e nel segreto della propria anima, giungeva alla
convinzione che fosse scritto che tutta la sua vita precedente non era altro che la preparazione
per diventare discepoli di Muhammad .
L'Islam insegna che tutto ciò che accade è scritto .
Muhammad mi invitava a fargli visita a Chicago più spesso possibile mentre, per mesi, mi
preparava con i suoi insegnamenti .
Mai in prigione avevo studiato e assorbito con tanta intensità come facevo ora sotto la sua
guida. Ero immerso nei rituali del culto, in quelle che, come ci insegnava lui, erano le vere
nature degli uomini e delle donne; nelle procedure organizzative e amministrative; nei reali
significati e nelle interrelazioni ed usi della Bibbia e del Corano .
Ogni sera andavo a letto sempre più stupito. Se non Allah, chi era che aveva infuso tanta
sapienza in quell'umile agnello, in quel piccolo uomo della Georgia, che aveva fatto solo la
quarta elementare e veniva dalle segherie e dai campi di cotone? Avevo preso quell'analogia
dell'«umile agnello» dalla profezia contenuta nei libri profetici di un agnello simbolico con in
bocca una spada a due tagli. La spada a due tagli di Muhammad erano i suoi insegnamenti che
tagliavano con un duplice fendente il legame di dipendenza del negro rispetto al bianco .
La mia adorazione per Muhammad aumentò, proprio nel senso della parola latina "adorare"
che significa molto di più del senso che attribuiamo ad essa nell'uso comune. La mia adorazione
per lui era così estatica che lo consideravo il primo uomo che avevo temuto, non col timore che
si prova nei confronti di qualcuno che ti punta la pistola, ma con quello che si ha per la potenza
del sole .
Quando mi giudicò all'altezza, Muhammad mi permise di andare a Boston. Là c'era il fratello
Lloyd X che invitò a sentirmi coloro che era riuscito a interessare all'Islam. La riunione si
svolse nel salotto di casa sua .
Citerò quello che dissi all'inizio e poi in seguito in altri posti, così come riesco alla meglio a
ricordarmi la struttura generale dei discorsi che facevo a quel tempo. Mi rammento che allora
non rinunciavo mai a cominciare con la mia analogia preferita di Muhammad .
«Allah ha dato a Muhammad una verità tagliente, - dicevo. - E' come una spada a due tagli
che penetra dentro di noi, che ci provoca grande dolore ma che, se si è in grado di accogliere la
verità, ci cura e ci salva da quella che, altrimenti, sarebbe una morte certa» .
Poi non sprecavo altro tempo prima di incominciare ad aprir gli occhi del mio pubblico su quel
diavolo dell'uomo bianco: «So che non vi rendete conto dell'enormità degli orrori commessi dal
cosiddetto uomo bianco CRISTIANO.. .
«Neanche nella Bibbia ci sono delitti simili! Dio nella sua ira colpì col fuoco i colpevoli di
crimini molto MINORI! CENTO MILIONI di noi negri! I vostri e i miei antenati, tutti
ASSASSINATI da quest'uomo bianco. Per portare qui quindici milioni di noi perché fossimo i
suoi schiavi, egli ha assassinato durante tutto il percorso cento milioni della nostra gente!
Vorrei potervi mostrare il fondo del mare in quei tempi: i corpi dei negri, il sangue, le ossa
spezzate dai pesanti stivali e dai bastoni, le negre incinte che venivano gettate in mare se si
ammalavano, gettate in mare ai pescecani i quali avevano imparato che il sistema migliore per
ingrassare era seguire le navi negriere! «Gli stupri che l'uomo bianco faceva delle donne negre
cominciarono proprio lì, sulle navi negriere! Il diavolo dagli occhi azzurri non seppe nemmeno
aspettare che arrivassero qui .
Fratelli e sorelle, il mondo civile non ha ancora conosciuto una simile orgia di avidità, di
lussuria, di assassini!» Questo modo di drammatizzare la schiavitù non mancava mai di turbare
e sdegnare i negri che, per la prima volta, sentivano parlare di questi orrori. E' incredibile quanti
uomini e donne negri si siano lasciati ingannare dall'uomo bianco al punto da avere un'idea
quasi romantica dei giorni della schiavitù. Una volta che avevo acceso gli animi, cominciavo a
parlare direttamente di loro .
«Quando lasciate questa stanza, vorrei che cominciaste a vedere tutto ciò ogni volta che vi
trovate ad avere a che fare con questo diavolo dell'uomo bianco. Proprio così! E' un diavolo!
Voglio solo che cominciate a osservarlo, in quei posti dove non vi vuole fra i piedi; che vediate
la sua falsità, il suo esclusivismo, i suoi atteggiamenti vanitosi mentre continua a tenere
soggiogati voi e me .
«Tutte le volte che vedete un uomo bianco pensate che è il diavolo! Pensate al modo in cui
COSTRUI' quest'impero che oggi è il più ricco di tutte le nazioni alle spalle dei VOSTRI
antenati schiavi, col loro sangue e col loro sudore. La sua crudeltà e la sua ingordigia gli
attirano addosso l'odio di tutto il mondo!» A ogni riunione tornavano quelli che erano presenti
la volta prima portando altri amici. Nessuno di loro aveva mai sentito smascherare l'uomo
bianco a quel modo e, tra il pubblico di quelle riunioni nella casa del fratello Lloyd, situata al
numero 5 di Wellington Street, non ricordo di aver mai visto un solo negro che non si alzasse in
piedi quando, dopo la mia conferenza, chiedevo: «Coloro che CREDONO a tutto ciò che hanno
sentito, vogliono per favore alzarsi in piedi?» La domenica sera alcuni si alzavano mentre
vedevo che altri non erano ancora maturi quando rivolgevo al mio pubblico questa domanda:
«Quanti di voi vogliono FARSI SEGUACI del molto onorevole Elijah Muhammad?» Se ne
alzarono abbastanza da poter aprire, dopo tre mesi, un piccolo tempio. Ricordo la nostra felicità
quando andammo a noleggiare alcune sedie pieghevoli. Non stavo più in me dalla gioia quando
fui in grado di dare a Muhammad l'indirizzo del nuovo tempio .
Fu quando aprimmo questa piccola moschea che mia sorella Ella cominciò a venirmi ad
ascoltare. Sedeva esterrefatta come se non potesse credere che ero io e stava là immobile anche
quando chiedevo a tutti quelli che credevano alle mie parole di alzarsi in piedi. Faceva la sua
offerta quando si passava per la colletta. La sua presenza non mi infastidiva né mi incoraggiava:
non pensai mai a convertirla poiché sapevo com'era cocciuta e prudente quando si trattava di
aderire a qualcosa. Quasi pensavo che ci volesse lo stesso Allah per convertirla .
Dichiaravo chiusa la riunione come Muhammad mi aveva insegnato di fare: «Nel nome di
Allah, il benefico, il misericordioso, tutta la lode è dovuta ad Allah, Signore del mondo, il
benefico, il misericordioso padrone del giorno del giudizio in cui noi viviamo ora. Te solo noi
serviamo e a Te soltanto noi chiediamo aiuto. Guidaci sulla giusta strada, sulla strada di coloro
ai quali Tu hai dispensato i tuoi favori, non di coloro sui quali cade la tua ira. Non sulla strada
di coloro che si perdono dopo aver ascoltato i tuoi insegnamenti. Porto testimonianza che non
c'è altro Dio all'infuori di Te e che il molto onorevole Elijah Muhammad è il Tuo servo ed
apostolo». Credevo davvero che Muhammad fosse stato mandato al nostro popolo dal volere
divino dello stesso Allah .
Alzavo la mano per dichiarare chiusa la nostra riunione: «Non fare agli altri quello che non
vorresti fosse fatto a te. Cerca la pace e non essere mai l'aggressore, ma se qualcuno ti attacca
noi non ti insegnamo a porgere l'altra guancia. Che Allah ti benedica perché ogni cosa che tu fai
sia coronata dal successo e dalla vittoria» .
Fatta eccezione per quell'unico giorno che, quando tornai da Detroit dopo essere uscito di
prigione, passai a casa di Ella, non ero stato da sette anni nelle strade della vecchia Roxbury .
Ci tornai per ritrovarmi con Shorty .
Quando mi vide, Shorty rimase interdetto. Dal «telegrafo» aveva saputo che ero in città e che
ero affetto da una qualche specie di «mania religiosa». Non sapeva se facessi sul serio oppure
se anch'io fossi diventato uno di quei predicatori trafficanti e mantenuti dalle puttane che si
trovano in tutti i ghetti negri, con delle piccole chiese sistemate in qualche negozio e tenute da
donne di mezza età, che lavorano molto per mantenere il loro grazioso giovane predicatore ben
vestito con abiti vistosi e al volante di una bella macchina. Dissi subito a Shorty qual era la mia
serietà nei confronti dell'Islam ma poi, riprendendo a parlare col vecchio gergo, lo misi ben
presto a suo agio e il nostro incontro fu bellissimo. Ridemmo fino alle lacrime quando Shorty
rievocava le sue reazioni alle parole del giudice: «Per la prima imputazione dieci anni. Per la
seconda imputazione dieci anni...» Osservammo insieme che il fatto di aver avuto con noi
quelle ragazze bianche era stato il motivo di una condanna a dieci anni, laddove in prigione
avevamo visto dei criminali molto peggiori condannati a pene assai più lievi .
Shorty aveva ancora una piccola orchestrina e le cose gli andavano abbastanza bene. Era a
buon diritto molto fiero di aver studiato musica in prigione. Io gli dissi abbastanza dell'Islam
per accorgermi dalle sue reazioni che non aveva molto desiderio di starmi a sentire. In prigione
gli avevano detto cose poco lusinghiere sulla nostra religione e così mi costrinse a cambiare
argomento con una battuta. Mi disse che ancora non aveva avuto abbastanza braciole di maiale
e donne bianche. Non so se ora la pensi allo stesso modo. Comunque so che è sposato con una
donna bianca... e che è grasso come un maiale a forza appunto di mangiare maiale .
Rividi anche John Hughes, il padrone della casa da gioco, e alcuni altri miei conoscenti che
stavano ancora a Roxbury. Il «telegrafo» aveva sparso sul mio conto notizie che li mettevano
piuttosto in imbarazzo, ma la consueta cordialità del mio atteggiamento ci permise almeno di
fare conversazione. Con la maggior parte di loro non rammentai neppure l'Islam perché,
giudicando da come ero io quando facevo parte dell'ambiente, sapevo benissimo in che misura
erano condizionati dal rimbecillimento loro imposto dall'uomo bianco .
Rimasi solo poco tempo come pastore del tempio numero undici perché quando, nel marzo del
1954, l'ebbi organizzato, lo lasciai sotto la guida del pastore Ulysses X e il Messaggero mi
trasferì a Philadelphia .
I negri della Città dell'amore fraterno reagivano più rapidamente di quanto non avessero fatto i
bostoniani quando venivano messi di fronte alla verità sull'uomo bianco. Alla fine di maggio, fu
fondato il tempio numero dodici di Philadelphia .
C'erano voluti meno di tre mesi .
Subito dopo, a causa di questi successi di Boston e di Philadelphia, Muhammad mi nominò
pastore del tempio numero sette, nella città di vitale importanza, New York City .
Non sono in grado di descrivervi il tumulto delle mie emozioni .
Perché gli insegnamenti di Muhammad potessero davvero far risorgere i negri d'America, era
ovvio che l'Islam doveva crescere e diventare un grande movimento. In nessun'altra città
americana esistevano delle condizioni potenziali di sviluppo come nelle cinque ripartizioni
della città di New York, dove c'erano più di un milione di negri .
Erano passati nove anni da quando West Indian Archie ed io avevamo battuto le strade
aspettando di spararci uno contro l'altro come cani .
«ROSSO!.. Amico mio!... Rosso!, ma è IMPOSSIBILE che sia proprio tu !» Sapevo di avere
un aspetto molto diverso ora. Portavo i miei capelli rosso rame tagliati a spazzola, al posto di
quella zazzera lunga, liscia e stirata con la quale tutti mi avevano conosciuto prima .
«Fatti un po' vedere amico... qui a bere con noi, barista.. .
Cosa vuoi? Oh, HAI SMESSO! Ma via, lascia perdere queste idee!» Mi faceva veramente
piacere vedere tanta gente che avevo conosciuto così bene prima. Capirete cos'era per me.
Tuttavia quelli che cercavo, prima di qualsiasi altro, erano West Indian Archie e Sammy il
magnaccia. Il primo duro colpo lo ebbi riguardo a Sammy. Aveva smesso di sfruttare le
puttane, si era fatto un'ottima posizione nella lotteria e guadagnava molto bene. Si era persino
sposato con una ragazza giovane e di manica larga. Subito dopo il matrimonio, fu trovato una
mattina morto sul letto, dicevano, con venticinquemila dollari in tasca. Tra parentesi, vorrei
osservare che di solito la gente non crede alle somme che maneggiano anche i pesci piccoli del
mondo della malavita. Ebbene, state a sentire. Nel marzo del 1964 morì Lawrence Wakefield
che aveva una piccola «ruota della fortuna» a cui si facevano puntate di cinque e dieci cents.
Nel suo appartamento, contenuti in sacchi e borse, furono trovati settecentosessantamila dollari
in contanti... tutti presi ai negri poveri. E poi ci meravigliamo perché siamo così poveri .
Ancora profondamente addolorato per Sammy, giravo da un bar all'altro chiedendo notizie di
West Indian Archie ai veterani del quartiere. Il «telegrafo» non aveva mai annunciato la sua
morte né che vivesse altrove, ma sembrava che nessuno fosse in grado di dire dov'era. Sentii
parlare della solita fine fatta da tanti altri trafficanti: una pallottola, qualche coltellata, la
prigione, gli stupefacenti, le malattie, la pazzia, l'alcolismo .
Credo che si trattasse di qualcosa del genere. Molti dei sopravvissuti che avevo conosciuti
crudeli come jene e lupi facevano ora pietà. Avevano affrontato tutte le situazioni, ma sotto
quella crosta erano rimasti dei negri poveri, ignoranti, senza né arte né parte. La vita li aveva
pian piano abbandonati e beffati. Incontrai circa venticinque di questi veterani che avevo
conosciuto bene e che, nello spazio di nove anni, si erano ridotti al livello di trafficanti e
imbroglioni di terz'ordine che si dànno da fare per guadagnare piccole somme per l'affitto e per
mangiare. Alcuni lavoravano persino in città come fattorini, portieri e cose del genere. Fui
riconoscente ad Allah per esser diventato un Muslim e aver potuto così sfuggire al loro destino .
C'era Cadillac Drake. Quando facevo il cameriere allo Small's Paradise lui era uno sfruttatore
di puttane grosso, allegro, sempre col sigaro in bocca e vestito alla maniera più vistosa, cliente
fisso del bar per l'intero pomeriggio. Ebbene, lo riconobbi mentre camminava goffamente verso
di me. Sentii dire che l'avevano acchiappato con l'eroina. Era il mendicante più sporco e
trasandato che avessi mai visto. Accelerai il passo perché, se mi avesse riconosciuto, saremmo
rimasti imbarazzati tutti e due. Ero il ragazzino al quale lui era solito gettare un dollaro di
mancia .
Il «telegrafo» si mise all'opera per scoprire dove si nascondeva West Indian Archie. Quando
vuole, il «telegrafo» diventa una specie di sintesi tra polizia segreta federale e il servizio
telegrafico della Western Union. Alla fine di una delle mie prime riunioni al tempio numero
sette, un vecchio trafficante, al quale avevo dato alcuni dollari, mi venne a dire che West Indian
Archie era ammalato e abitava in una camera ammobiliata nel Bronx .
Presi un taxi diretto a quell'indirizzo. West Indian Archie mi aprì e restò lì ritto nel suo pigiama
spiegazzato, a piedi nudi, guardandomi con occhi imbambolati .
Avete mai visto qualcuno che sembra il fantasma della persona che avete conosciuto un
tempo? Gli ci vollero alcuni secondi prima di ritrovarmi nella sua memoria. Poi, con voce roca,
esclamò: «Rosso! Son così contento di vederti!» Non abbracciai il vecchio: era debole e
malato. Lo aiutai a tornare nella stanza e si sedette sulla sponda del letto. Mi misi sull'unica
sedia che c'era e gli dissi che l'avermi costretto ad andarmene da Harlem mi aveva salvato la
vita perché mi aveva condotto all'Islam .
«Mi sei sempre piaciuto, Rosso», mi disse. Poi aggiunse che non aveva mai avuto davvero
intenzione di uccidermi. Gli raccontai che mi erano venuti molte volte i brividi a pensare come
eravamo stati vicini ad ammazzarci reciprocamente. Aggiunsi che ero sinceramente convinto di
avere indovinato quella combinazione che mi assicurava la vittoria dei trecento dollari che lui
mi aveva pagato. Archie disse che più tardi gli era venuto il dubbio di aver fatto un errore, visto
che ero pronto addirittura a morire per quella faccenda. Poi convenimmo che non valeva la pena
di parlarne perché non voleva più dir nulla. Mentre parlavamo di tutte queste cose,
interrompeva spesso la conversazione per dirmi che era tanto felice di rivedermi .
Gli feci qualche cenno circa gli insegnamenti di Muhammad, e come avevo scoperto che tutti
noi che eravamo stati per le strade dovevamo esser considerate vittime della società dell'uomo
bianco. Dissi ad Archie cosa avevo pensato di lui mentre ero in prigione: che il suo cervello,
capace di registrare centinaia di combinazioni di numeri al giorno, avrebbe potuto esser messo
al servizio della matematica o della scienza. Ricordo che lui soggiunse: «Rosso, è veramente
qualcosa da pensarci su!» Ma né io né lui dicemmo che non era troppo tardi. Ho l'impressione
che sapesse che la fine era vicina. Io ero troppo commosso nel vedere come si era ridotto un
uomo che era stato quello che era stato Archie e non mi sentii di restare più a lungo. Non avevo
molti soldi e lui non voleva accettare quel poco che volevo dargli. Tuttavia riuscii a farglieli
prendere .
Devo sempre ricordarmi che allora, nel giugno del 1954, il tempio numero sette di New York
City era in un piccolo negozio .
Sembra quasi incredibile che tutti i Muslims della grande metropoli entrassero allora in un solo
autobus. Persino tra i nostri fratelli di colore del ghetto di Harlem solo uno su mille avrebbe
saputo rispondere alla domanda chi erano i Muslims. Per quanto riguarda i bianchi, fatta
eccezione per quegli sparuti gruppetti che controllano certi schedari della polizia o delle
prigioni, neanche cinquecento persone in tutta l'America sapevano della nostra esistenza.
Cominciai a martellare con gli insegnamenti di Muhammad i membri del tempio di New York e
i pochi amici che essi riuscivano a trascinare alle nostre riunioni. Ogni volta però cresceva il
mio scoraggiamento perché ad Harlem, soffocata dalla massa dei negri poveri e ignoranti che
soffrivano per tutti quei mali che l'Islam era in grado di curare, quando parlavo con tutto il mio
cuore e chiedevo poi a coloro che volevano farsi seguaci di Muhammad di alzarsi in piedi, solo
due o tre rispondevano. Talvolta, devo ammetterlo, neanche quei pochi si facevano avanti .
Credo che la mia rabbia nei confronti dell'incapacità che dimostravo fosse maggiore proprio
perché conoscevo la vita di strada. Dovetti riprendere coraggio e considerare attentamente il
problema. E' chiaro che il nostro limite maggiore era costituito dal fatto di essere solo una delle
tante voci del malcontento negro che si facevano sentire in qualunque angolo affollato di
Harlem. I diversi gruppi nazionalisti, i fautori del boicottaggio dei mercanti bianchi ed altri
rappresentanti di vari movimenti, tutti avevano dozzine di oratori che cercavano di aumentare il
numero dei seguaci. Non è che avessi nulla contro chi cercava di incoraggiare l'indipendenza e
l'unità dei negri, ma il fatto è che tutto ciò rendeva difficile far sentire la voce di Muhammad .
Il mio primo tentativo per superare questa stasi fu di stampare alcuni volantini. Non ci fu una
sola strada, un solo angolo frequentato di Harlem che io e cinque o sei buoni fratelli Muslim
tralasciammo. Andavamo davanti a un negro o a una negra che camminavano sul marciapiede
di modo che dovevano per forza prendere il nostro volantino, e se esitavano un solo secondo,
non potevano evitare di sentirci dire cose che attraevano l'attenzione, come per esempio: «State
a sentire come l'uomo bianco ha rapito, derubato e stuprato il nostro popolo negro...» In
seguito, cominciammo ad andare «a pesca» in certi angoli di Harlem, tenendoci ai margini delle
riunioni dei gruppi nazionalisti. Oggi quel metodo ha molte sottigliezze, ma allora consisteva
nel far pressioni su coloro che stavano ai margini dei gruppi di ascoltatori che altri erano riusciti
ad attrarre .
Chi prendeva parte a un comizio nazionalista, aveva interesse per la rivoluzione della razza
negra. Cominciammo a ottenere risultati tangibili quasi subito dopo la distribuzione di
manifestini tra la gente: «Venite a sentire anche noi, fratelli, il molto onorevole Elijah
Muhammad ci insegna a guarire le malattie spirituali, mentali, morali, economiche e politiche
del negro» .
Vidi delle facce nuove alle riunioni del nostro tempio numero sette e fu allora che scoprimmo
che i posti migliori per andare «a pesca», l'uditorio meglio preparato per assorbire gli
insegnamenti di Muhammad era quello delle chiese cristiane .
Tenevamo le nostre funzioni domenicali alle due del pomeriggio .
A quell'ora, in tutta Harlem, le chiese cristiane avevano terminato i loro servizi religiosi da
un'ora o due .
Tralasciavamo le chiese più grandi perché la maggioranza dei fedeli che le frequentavano era
costituita dai cosiddetti negri della classe media, così pieni di prosopopea e desiderosi di
acquistare uno status da non sognarsi neanche di venire nel nostro piccolo locale .
Andavamo invece «a pesca» furiosamente quando quelle piccole chiese evangeliche sistemate
anch'esse in negozi aprivano le porte per far uscire i loro trenta o cinquanta fedeli. «Venite,
veniteci a sentire, fratelli e sorelle. Non avrete sentito niente finché non conoscerete gli
insegnamenti del molto onorevole Elijah Muhammad». Queste congregazioni erano di solito
composte da immigrati dal Sud, gente di mezza età che sarebbe andata in capo al mondo pur di
sentire quella che essi chiamavano «una buona predica». Erano queste le chiese che mettono
fuori dei cartelli in cui si annuncia la vendita di pollo fritto e cene a base di frattaglie per poter
così raccogliere un po' di fondi. Tre o quattro sere la settimana i fedeli andavano in chiesa a
provare i cori per la domenica successiva, credo cantando gli inni accompagnati dallo scuotio,
dal rullio e dal tintinnio delle loro chitarre e tamburelli .
Non so se lo sapete, ma esiste tutta una categoria di cantanti professionisti di inni che si è
formata in queste piccole chiese dei ghetti urbani o è venuta dal Sud. Sono gente come la
sorella Rosetta Tharpe, i Clara Ward Singers e ce ne devono essere almeno cinquecento di
minor rinomanza. La più grande di tutte, Mahalia Jackson, era la figlia di un predicatore della
Louisiana. Andò a Chicago dove lavorava come cuoca e donna di fatica per i bianchi e poi
come operaia in una fabbrica: contemporaneamente cantava nelle chiese negre con lo stile
"gospel" [1] che, quando venne di moda, fece di lei la prima negra portata alla fama dai negri.
Vendette centinaia di migliaia di dischi tra i negri prima che i bianchi sapessero chi era.
Comunque ricordo di aver letto una volta che Mahalia dichiarava, tutte le volte che poteva, di
andare in incognito in qualche piccola chiesa del ghetto a cantare con la sua gente .
Considera queste chiese sistemate nei locali dei negozi le sue «stazioni di rifornimento» .
I cristiani negri che riuscivamo a «pescare» e a far venire nel nostro tempio erano condizionati,
come ben presto mi accorsi, dalla sorpresa dolorosa che provavano quando dicevo loro cosa era
successo ai nostri antenati che pure adoravano un dio dai capelli biondi e dagli occhi azzurri.
Sapevo quale tempio avrei potuto metter su se fossi riuscito a convertire quei cristiani e perciò
adattavo gli insegnamenti alla loro psicologia .
Cominciavo a parlare e talvolta ero così teso emotivamente da dover spiegare la mia
condizione: «Vedete le mie lacrime, fratelli e sorelle... non avevo più pianto da quando ero
ragazzo, ma non posso farne a meno ora che sento su di me tutta la responsabilità di aiutarvi
finalmente a comprendere il male che questa religione dell'uomo bianco che noi chiamiamo
cristianesimo ci ha FATTO.. .
«Fratelli e sorelle, che siete venuti qui per la prima volta, vi prego, non lasciatevi spaventare da
tutto ciò. So che voi non ve l'aspettavate perché quasi nessuno di noi negri ha pensato che forse
commettevamo un errore a non domandarci se, da qualche parte, non esisteva una religione
speciale per noi, una religione speciale per il negro .
«Ebbene, una tale religione ESISTE: si chiama Islam. Lasciate che vi detti questa parola lettera
per lettera: I-s-l-a-m! ISLAM! Ma ora aspettiamo... vi parlerò dell'Islam tra poco. E' necessario
capire certe cose sul cristianesimo prima che possiate comprendere perché la RISPOSTA ai
nostri problemi è l'Islam .
«Fratelli e sorelle, l'uomo bianco ha fatto un continuo lavaggio del cervello a noi negri perché
concentrassimo il nostro sguardo estatico su Gesù dai capelli biondi e dagli occhi azzurri. Noi
adoriamo questo Gesù che neppure ci SOMIGLIA. Sì, proprio così! Ora seguitemi, ascoltate gli
insegnamenti del Messaggero di Allah, il molto onorevole Elijah Muhammad. Pensateci!
L'uomo bianco dai capelli biondi e dagli occhi azzurri ha insegnato a voi e a me ad adorare un
Gesù BIANCO, a gridare, cantare e pregare questo SUO Dio, il Dio dell'uomo bianco. Ci ha
insegnato a gridare, cantare e pregare finché MORIAMO, ad aspettare fino alla MORTE per
essere ammessi in un fantastico mondo dell'aldilà, quando saremo MORTI, mentre quest'uomo
bianco ha il suo latte e miele qui per le strade selciate con l'oro dei dollari, proprio qui su questa
terra! «Non volete credere a quello che vi sto dicendo, fratelli e sorelle? Ebbene, ve lo dico io
cosa dovete fare. Andate fuori e date un'occhiata intorno, dove abitate. Guardate non soltanto
come voi vivete, ma anche come vivono tutti quelli che CONOSCETE. In questo modo sarete
sicuri di non essere un'eccezione, un prodotto accidentale della sfortuna, e quando avrete finito
di guardare dove VOI abitate, fate una passeggiata attraverso il Central Park e date un po'
un'occhiata a quello che questo Dio bianco ha portato all'uomo bianco. Voglio dire, andate un
po' a vedere come vivono i bianchi! «Ma non fermatevi qui. Infatti, anche se voleste, non vi
sarebbe possibile per molto tempo perché i suoi portieri vi diranno di circolare. Prendete la
metropolitana e andate giù in centro .
Dovunque vogliate scendere, GUARDATE gli appartamenti dell'uomo bianco, i suoi negozi, le
sue banche! Andate giù fino all'estrema punta dell'isola di Manhattan che questo diabolico
uomo bianco ha rubato per ventiquattro dollari agli ingenui indiani! Guardate gli edifici
dell'amministrazione comunale, guardate le banche della sua Wall Street. Guardate voi stessi e
guardate il SUO Dio!» Imparai presto una cosa importante e cioè di insegnare sempre in una
forma comprensibile alla maggioranza. Inoltre, mentre i nazionalisti che avevamo «pescato»
erano quasi tutti uomini, tra i cristiani delle sette evangeliche le cui chiese erano sistemate in
negozi, le donne erano in grande maggioranza e io avevo abbastanza intuito da offrir loro
qualcosa di diverso .
«BELLE donne negre! Il molto onorevole Elijah Muhammad ci insegna che il negro esige
rispetto: ebbene, non avrà mai il rispetto di nessuno finché non impara a rispettare le sue donne!
E' necessario che cominci SUBITO a liberarsi dalle debolezze che gli sono state imposte dal
suo ex padrone bianco! Il negro deve cominciare subito a proteggere e RISPETTARE le sue
donne! » Alla mia domanda: «Quanti CREDONO a ciò che hanno sentito?» il cento per cento
delle donne si alzavano senza esitazioni. Però mai più di pochissimi si alzavano al mio invito:
«Coloro che vogliono FARSI SEGUACI del molto onorevole Elijah Muhammad si alzino in
piedi!» Sapevo che gran parte dei simpatizzanti trovavano il nostro rigido codice morale e la
nostra disciplina inaccettabili. Io battevo su questo punto, sulle ragioni per cui avevamo quel
codice morale: «L'uomo bianco VUOLE che i negri rimangano sporchi, immorali e ignoranti
perché fino a quando saremo in queste condizioni, ci troveremo costretti a raccomandarci a lui e
lui ci dominerà. Non riusciremo mai ad assicurarci libertà, giustizia ed uguaglianza finché non
faremo qualcosa per migliorare noi stessi! » E' ovvio che si doveva spiegare il nostro codice
etico a tutti coloro che avevano intenzione di diventare Muslims e ben presto si sparse la voce
tra i membri di tutte quelle chiesette evangeliche, e ciò spiega perché venivano ad ascoltarmi
senza però farsi seguaci di Muhammad. Nella Nazione dell'Islam erano proibiti tutti i rapporti
sessuali illeciti, il consumo della carne dell'immondo suino e di altri cibi dannosi o malsani, del
tabacco, dell'alcool e degli stupefacenti. Nessun Muslim seguace di Elijah Muhammad doveva
andare a ballare, giocare d'azzardo, andar fuori la sera con rappresentanti dell'altro sesso, al
cinema, praticare degli sport insieme con i bianchi, o prendersi delle lunghe vacanze. I Muslims
non dormivano più del necessario per la salute e tra di loro non erano permessi i litigi in
famiglia e le scortesie, specialmente nei confronti delle donne .
Non era ammessa la menzogna ed ogni genere di furto veniva severamente condannato: quanto
all'insubordinazione nei confronti dell'autorità civile era ammessa soltanto se giustificata dagli
obblighi religiosi .
Le nostre leggi morali venivano fatte rispettare dal Frutto dell'Islam, un corpo di Muslims
capaci, fedeli e ben addestrati .
Le infrazioni venivano punite con la sospensione decretata da Muhammad o con l'isolamento
per certi periodi di tempo o persino, quando si trattava di trasgressioni più gravi, con
l'espulsione «dall'unico gruppo che veramente si prende cura di te» .
Il tempio numero sette cresceva poco a poco ad ogni riunione, ma il processo era sempre
troppo lento perché ne fossi soddisfatto .
Durante la settimana viaggiavo in treno e in autobus: il venerdì insegnavo al tempio numero
dodici di Philadelphia e mi recavo a Springfield nel Massachusetts cercando di fondarvi un
nuovo tempio. Ad esso Muhammad dette il nome di tempio numero tredici: la sua fondazione
fu possibile per l'aiuto del fratello Osborne X il quale aveva sentito parlare dell'Islam per la
prima volta da me quando eravamo ancora in prigione. Una signora che era venuta ad una di
queste riunioni a Springfield mi chiese di andare ad Hartford dove lei abitava. Specificò che
avrei dovuto recarmi in quella località il giovedì successivo e disse che avrebbe riunito alcuni
amici. Ci andai .
Tradizionalmente il giovedì è il giorno di libertà dei domestici. Questa sorella aveva radunato
nel suo appartamento circa quindici camerieri, cuochi, autisti e domestici che lavoravano alle
dipendenze dei bianchi di Hartford. Ebbene, voi tutti conoscete il proverbio secondo cui
nessuno è un eroe per il suo cameriere. Quei negri che servivano e riverivano i ricchi bianchi
erano in grado di aprire gli occhi più alla svelta di qualsiasi altro e quando essi cominciarono ad
andare «a pescare» un certo numero di elementi tra i domestici e tra gli altri negri che abitavano
ad Hartford e nei dintorni, non passò molto tempo che Muhammad poté proclamare quella
cittadina sede del tempio numero quattordici. Ci andavo ad insegnare ogni giovedì .
Durante le mie visite a Chicago, Muhammad mi contraddiceva quasi ogni volta su certi punti.
Non riuscivo a nascondere la mia convinzione che con dei pastori forti del suo messaggio, la
Nazione dell'Islam avrebbe dovuto espandersi molto più rapidamente. La pazienza e la
saggezza che egli mostrava nel riprendermi, mi facevano sentire profondamente umile. Una
volta mi disse che il vero capo non imponeva ai suoi seguaci un peso maggiore di quello che
potevano portare e non esigeva che tenessero un ritmo troppo veloce a cui non avrebbero potuto
adeguarsi .
«E' opinione comune, - mi diceva Muhammad, - quando si vede un tale al volante di una
vecchia automobile che procede a bassa velocità, credere che quel tizio non voglia correre. In
realtà egli sa benissimo che se andasse a velocità maggiore, la sua automobile non reggerebbe
allo sforzo. Dategli un mezzo veloce e vedrete che andrà molto più presto». Ricordo un'altra
volta quando mi lamentavo dell'inefficienza del pastore di una delle moschee: «Preferisco, - mi
disse, - avere un mulo di cui mi posso fidare anziché un cavallo da corsa che non dia
affidamento» .
Sapevo che Muhammad VOLEVA mettersi al volante di un'automobile più veloce ed oggi non
credo che si potrebbero reclutare tanti fedeli fratelli e sorelle della Nazione dell'Islam disposti
ad andare «a pescare» con lo stesso entusiasmo di quelli che contribuirono a far sviluppare i
templi di Boston, Philadelphia, Springfield, Hartford e New York. Naturalmente mi limito a
ricordare quelli che conoscevo bene per diretta esperienza personale. Tutto questo accadeva nel
1955, che fu anche l'anno in cui feci il mio primo viaggio di una certa importanza: andai a
collaborare all'apertura, ad Atlanta nella Georgia, del tempio che oggi ha il numero quindici .
E' naturale che tutti i Muslims che per ragioni personali si trasferivano da una città all'altra
venissero esortati a gettare i semi dell'insegnamento di Muhammad. Il fratello James X, uno dei
maggiori esponenti del nostro tempio numero dodici, aveva preso contatti con un sufficiente
numero di negri di Atlanta .
Quando Muhammad lo seppe mi disse di andare a tenere la prima riunione. Credo di aver
contribuito in un modo o nell'altro alla fondazione di quasi tutti i templi di Muhammad, ma non
dimenticherò mai l'esperienza di Atlanta .
L'unico locale abbastanza grande che il fratello James X poteva permettersi di affittare era
un'agenzia di pompe funebri. A quei tempi tutto quello che la Nazione dell'Islam faceva, da
Muhammad in giù, era fatto nella più stretta economia. Quando arrivammo tutti noi, stavano
appena terminando il funerale di un negro cristiano e perciò si dovette aspettare un po' di tempo
prima che i convenuti sfollassero la sala .
«Vedete come questi piangono per la morte fisica del loro congiunto, - dissi a quelli del nostro
gruppo dopo che fummo entrati, - ma la Nazione dell'Islam gioisce sopra di voi che siete morti
dal punto di vista mentale. Questo che vi dico vi sorprenderà e vi farà anche male, ma - proprio
così ! - voi non vi rendete conto in che misura tutta la nostra razza negra qui in America è
morta dal punto di vista spirituale. Siamo qui oggi per esporvi gli insegnamenti di Elijah
Muhammad che fanno risorgere il negro dalla morte...» Parlando di funerali, dovrei ricordare
che, tutte le volte che dei negri, familiari ed amici di un Muslim defunto, assistevano alla nostra
breve commovente cerimonia funebre facevamo sempre dei nuovi adepti. Tale cerimonia
illustrava l'insegnamento di Muhammad secondo cui «i cristiani fanno i loro funerali per i
superstiti, mentre i nostri sono destinati soltanto ai defunti» .
Nella mia qualità di pastore di diversi templi, mi capitava qualche volta di dover celebrare tali
cerimonie. Come mi aveva insegnato Muhammad, cominciavo col leggere sulla bara del
defunto fratello o sorella una preghiera ad Allah. Poi leggevo un semplice necrologio e,
successivamente, alcune pagine di solito nel settimo e nel quattordicesimo capitolo del "Libro
di Giobbe", quando questi parla che non c'è vita dopo la morte [2] .
Poi leggevo anche un altro passo in cui David, alla morte del figlio, diceva anche lui che non
esiste alcuna vita dopo la morte .
Ai fedeli spiegavo perché non si dovessero versare lacrime, perché nelle nostre cerimonie non
c'erano fiori, non si cantava e non si suonava l'organo: «Abbiamo versato lacrime per nostro
fratello, gli abbiamo dato la nostra musica e le nostre lacrime quand'era vivo. Se nessuno ha
pianto per lui, se non ha potuto godere della nostra musica e dei fiori quand'era vivo, ebbene
non ce n'è più bisogno perché ora non si accorge più di queste cose. Daremo invece alla sua
famiglia il denaro che avremmo dovuto spendere per le onoranze funebri» .
Delle sorelle Muslim appositamente incaricate facevano passare piccoli vassoi da cui ciascuno
prendeva una pasticca rotonda di menta. Al mio segnale i presenti se la mettevano in bocca.
«Ed ora passeremo in fila per dare un ultimo sguardo al nostro fratello. Non piangeremo così
come non si piange per la pasticca che abbiamo appena preso. Allo stesso modo in cui questa si
dissolverà lasciando nelle nostre bocche un sapore dolce, la gentilezza del nostro fratello di cui
abbiamo goduto quand'era in vita si dissolverà nel nostro ricordo lasciando una traccia di
dolcezza» .
Ho sentito da almeno duecento Muslims che proprio l'aver partecipato a uno dei nostri funerali
era stato il fattore decisivo a spingerli verso Allah. Più tardi avrei imparato che quello che
Muhammad insegnava sulla morte e sulle cerimonie funebri musulmane era poi in netta
contraddizione con ciò che l'Islam insegna in Oriente .
Nel 1956 avevamo raggiunto un numero rispettabile. Ciascun tempio aveva «pescato» con
discreti risultati di modo che, specialmente nelle metropoli come Detroit, Chicago e New York,
c'erano molti più Muslims di quanti un osservatore esterno non potesse credere. Infatti, come
ben sapete, nelle città grandi, se una grossa organizzazione non dà nell'occhio con
manifestazioni pubbliche, può passare quasi del tutto inosservata .
Ma più che limitarsi ad un aumento numerico, la versione che Muhammad dava dell'Islam
cominciava ad influenzare altre categorie della popolazione negra. Iniziò un certo flusso di
gente abbastanza istruita, sia laureati che tecnici e diplomati e persino alcuni che avevano certe
«posizioni» nel mondo dei bianchi. Tutto ciò era un buon punto di partenza che avrebbe
consentito a Muhammad di procurarsi quell'automobile veloce che tanto desiderava. Per
esempio, vennero con noi degli impiegati delle amministrazioni pubbliche, delle infermiere, dei
sorveglianti e capireparto e dei commessi dei grandi magazzini .
Uno dei risultati più apprezzabili fu che alcuni fratelli di quest'ultima categoria diventarono
degli abili, capaci e aggressivi giovani pastori del movimento di Muhammad .
Sacrificai molto del mio sonno per meritare le sue crescenti prove di fiducia negli sforzi che
facevo per contribuire alla costruzione della nostra Nazione dell'Islam. Nel 1956, Muhammad
fu in grado di autorizzare il tempio numero sette a comprare una Chevrolet nuova che mi venne
assegnata. Tra parentesi vorrei ricordare che la macchina apparteneva alla Nazione dell'Islam .
Non avevo niente di mio all'infuori degli abiti, dell'orologio da polso e della valigia. Come
accadeva per tutti gli altri pastori della Nazione dell'Islam, mi venivano pagate tutte le spese e
ricevevo piccole somme per gli imprevisti quotidiani .
Mentre prima non c'era stato niente che non avrei fatto per i soldi, ora questo era diventato
l'ultimo dei miei pensieri .
Comunque, quando Muhammad mi comunicò l'assegnazione della macchina mi disse che
sapeva quanto ero contento di poter girare dappertutto per trovare proseliti o fondare nuovi
templi e che perciò non voleva legarmi in un posto solo .
In cinque mesi feci trentamila miglia con quella macchina, tutte per andare «a pescare». Una
sera tardi mentre, in compagnia di un fratello, attraversavo Weathersfield nel Connecticut,
dovetti fermarmi davanti a un semaforo rosso. Un'altra macchina mi tamponò violentemente:
ebbi un piccolo choc ma nessuna ferita .
Quel diavolo esaltato aveva con sé una donna che si nascondeva la faccia. Capii benissimo che
non era sua moglie. Stavamo scambiandoci i nomi e gli indirizzi - lui abitava a Meriden nel
Connecticut - quando arrivò la polizia e dal loro modo di comportarsi capii subito che si
trattava di qualcuno importante .
Più tardi seppi che era uno degli uomini politici più in vista del Connecticut. Non dirò qui il suo
nome. Comunque, su consiglio di un avvocato, il tempio numero sette accettò di comporre
amichevolmente la vertenza e col denaro che ricevemmo fu acquistata una Oldsmobile, la
marca di automobile che da allora ho sempre avuto .
Avevo sempre posto la massima attenzione nell'evitare qualsiasi rapporto personale troppo
intimo con qualcuna delle sorelle Muslim. La mia totale devozione all'Islam esigeva che
eliminassi tutti gli altri interessi e specialmente le donne. Quasi dovunque, nei templi dove
andavo, almeno una delle sorelle non sposate mi faceva capire di essere convinta che mi ci
volesse una moglie ed io, per parte mia, avevo sempre fatto capire chiaramente che ero troppo
occupato per poter pensare al matrimonio .
Tutti i mesi, quando andavo a Chicago, trovavo che qualche sorella aveva scritto a Muhammad
lamentandosi che parlavo con troppa durezza delle donne quando tenevo i nostri corsi speciali
sulla diversa natura dei due sessi. Ora bisogna ricordare che l'Islam ha leggi e insegnamenti
assai severi per quel che riguarda le donne: il nocciolo di essi è che la vera natura dell'uomo è di
essere forte, mentre quella della donna è di essere debole. L'uomo deve sempre rispettare la sua
donna ma, nello stesso tempo, deve sapere che è necessario dominarla se vuole essere da lei
rispettato .
A quel tempo avevo le mie buone ragioni personali per considerare impossibile di
innamorarmi. Avevo avuto troppa esperienza giungendo alla conclusione che le donne erano
infide, ingannatrici, indegne di fiducia. Avevo visto troppi uomini rovinati, o almeno asserviti,
o in qualche modo messi in una posizione difficile dalle donne. Parlavano troppo, secondo me .
Dire a una donna di non chiacchierare era come dire a Jesse James di non portare la pistola o a
una gallina di non chiocciare. Ve lo immaginate voi Jesse James senza la pistola o una gallina
che non chioccia? Inoltre, per chiunque si trovi in una posizione in vista, com'era la mia, la cosa
peggiore è di sposare la donna non adatta. Persino Sansone, l'uomo più forte del mondo, fu
rovinato dalla donna che dormiva con lui: furono le parole di lei a distruggerlo .
Avevo veramente molta esperienza in questo campo. Mi ero trovato a parlare nella massima
libertà con moltissime prostitute e amanti di altri uomini. Esse sapevano molto più di quegli
uomini delle loro mogli le quali gli riempivano talmente le orecchie con le loro lamentele, che
quelli andavano a raccontare i loro problemi e segreti intimi alle prostitute e alle amanti. Queste
si facevano vedere preoccupate, li confortavano, e del conforto faceva parte anche il fatto stesso
di ascoltare, e così quelli raccontavano tutto .
Comunque, erano dieci anni che non pensavo più a farmi un'amante ed ora poi, come pastore,
pensavo ancora meno a trovar moglie .
Lo stesso Muhammad mi incoraggiava a restar scapolo .
Le sorelle del tempio numero sette solevano dire ai fratelli: «Voi restate scapoli perché il
pastore Malcolm non guarda le donne». Per parte mia non facevo un segreto con nessuna delle
sorelle di come la pensavo e devo dire che consigliavo ai fratelli di stare molto, molto attenti .
Nel 1956, una sorella diventò membro del tempio numero sette. Mi accorsi di lei, ma senza,
devo dire, il minimo interesse. L'anno successivo notai la sua presenza. Lei non avrebbe
neanche lontanamente pensato che potessi interessarmi a lei e probabilmente era convinta che
non sapessi neanche il suo nome .
Era la sorella Betty X, alta, con la pelle più scura della mia e gli occhi castani .
Seppi che era nata a Detroit e che aveva studiato pedagogia all'istituto Tuskegee nell'Alabama.
Era a New York dove frequentava una delle grandi scuole per infermiere annesse agli ospedali;
faceva lezione di igiene e medicina alle ragazze e alle donne Muslim .
Devo dire che ogni giorno della settimana, nei templi della Nazione dell'Islam, si tiene un
corso o qualche manifestazione .
Il lunedì sera c'è l'addestramento dei membri del Frutto dell'Islam. La gente crede che si tratti di
preparazione militare, judo, karate o cose del genere, che effettivamente costituiscono una parte
di tale addestramento. In realtà i membri del Frutto dell'Islam dedicano molto più tempo a
conferenze e discussioni su problemi riguardanti uomini che imparano a diventare tali. Questi
argomenti sono: le responsabilità del marito e del padre; cosa ci si deve aspettare dalle donne, i
diritti della donna che non devono essere conculcati dal marito; l'importanza della figura
paterna in una famiglia sana; gli avvenimenti contemporanei; le ragioni per cui l'onestà e la
castità sono doti vitali dell'individuo, della famiglia, della comunità, della nazione e di una
civiltà; perché si debba fare il bagno almeno una volta al giorno; i fondamenti della vita
commerciale e cose di questo genere .
Il martedì sera, in ogni tempio Muslim, è la sera dell'unità: fratelli e sorelle trascorrono il
tempo conversando; vengono serviti rinfreschi di biscotti e dolci e succhi di frutta. Il mercoledì
sera, alle otto, è dedicato alla registrazione degli studenti, cioè ai corsi in cui si discutono i
principi fondamentali dell'Islam. Questi corsi sono in un certo senso equivalenti alle lezioni di
catechismo dei cattolici .
Il giovedì sera è dedicato all'M.G.T. (Muslim Girls' Training) e al G.C.C. (General Civilization
Class) in cui si insegna alle donne e alle ragazze dell'Islam a tener bene la casa, ad allevare i
bambini, a curare il benessere dei mariti, a cucinare, a cucire, a comportarsi bene in patria e
all'estero ed altre cose importanti per essere una buona sorella, madre e moglie Muslim .
La sera del venerdì è chiamata «sera della civiltà » perché vengono tenuti corsi per i fratelli e le
sorelle nel campo delle relazioni domestiche, mettendo l'accento sulla necessità che i coniugi
comprendano e rispettino le esigenze reciproche. Il sabato sera è libero per tutti i Muslims e
normalmente è dedicato a scambiarsi le visite. La domenica in ogni tempio Muslim si tengono
le funzioni religiose .
Qualche volta, il giovedì sera, quando si tenevano i corsi M.G.T. e G.C.C., andavo a visitare le
classi, magari quelle di sorella Betty, così come del resto facevo per le classi di altri fratelli. Da
principio le chiedevo notizie sui progressi delle allieve o cose sempre riguardanti
l'insegnamento. Lei mi rispondeva che andavano bene ed io mi limitavo a dirle grazie .
Dopo un po' di tempo, per dar l'impressione di essere più cordiale, mi intrattenevo con lei in
brevi conversazioni .
Un giorno pensai che sarebbe stato di aiuto alle classi femminili se l'avessi accompagnata, dato
che lei era un'insegnante, al Museo di storia naturale; volevo mostrarle un'esposizione
particolare riguardante il processo evolutivo, cosa che le sarebbe stata molto utile per le sue
conferenze .
Avrei potuto così mostrarle le prove degli insegnamenti di Muhammad secondo cui l'immondo
suino non è altro che un grosso roditore. Muhammad ci insegnava che il maiale è un ibrido tra il
topo, il gatto e il cane. Quando espressi la mia idea alla sorella Betty X le dissi chiaramente che
ciò poteva servire ad aiutarla nell'insegnamento. Ero arrivato persino a convincermi che questa
era l'unica ragione .
Poco prima dell'ora in cui avevamo deciso di incontrarci, le telefonai per dirle che dovevo
rimandare perché mi era capitato un contrattempo. «Be', fratello pastore, avete aspettato proprio
all'ultimo momento per avvertirmi. Stavo per uscire di casa» .
Allora le dissi che venisse pure ed io, quanto a me, avrei cercato di andarci lo stesso: l'avvertii
però che non avrei avuto molto tempo .
Quando fummo al museo le feci parecchie domande di tutti i generi. Volevo farmi un'idea di
come la pensava, voglio dire se era capace di pensare. Ebbi una buona impressione sia della sua
intelligenza che della sua cultura. A quei tempi, tra i membri del nostro tempio, Betty era una
delle poche persone che avessero frequentato il college .
Subito dopo quel pomeriggio, una delle sorelle più anziane mi confidò il problema personale
della sorella Betty X. Fui molto sorpreso del fatto che, sebbene ne avesse avuto la possibilità,
lei non ne aveva fatto parola con me. Tutti i pastori Muslim devono sempre sentire i problemi
che hanno i giovani i cui genitori si oppongono alla loro adesione alla Nazione dell'Islam.
Ebbene, quando la sorella Betty X disse ai suoi genitori adottivi che la mantenevano agli studi
di essere una Muslim, essi la posero di fronte alla scelta: o lasciare i Muslims oppure la scuola
di specializzazione per infermiere .
Era giunta quasi alla fine del corso, ma lei volle restar fedele all'Islam e così cominciò a fare la
baby sitter per le famiglie dei dottori che abitavano vicino all'ospedale dove studiava .
Nella mia posizione non avrei mai fatto un movimento senza pensare quale ne sarebbe stato
l'effetto sull'organizzazione dell'Islam nel suo insieme .
Cominciai a rimuginare quest'idea nella mia mente. Cosa sarebbe successo se, a un certo
momento, mi fosse per caso passato per la mente di sposarmi: per esempio, la sorella Betty X,
sebbene potesse anche trattarsi di qualsiasi altra sorella in qualsiasi altro tempio; ma per
l'appunto la sorella Betty X aveva proprio l'altezza giusta per uno alto come me e inoltre aveva
anche l'età giusta .
Elijah Muhammad ci aveva insegnato che se un uomo alto sposava un donna troppo bassa, o
viceversa non erano ben assortiti e facevano una strana figura; che l'età ideale della moglie era
metà di quella dell'uomo più sette; che le donne sono fisiologicamente più sviluppate degli
uomini; che nessun matrimonio poteva considerarsi riuscito se la donna non aveva rispetto per
l'uomo e che questi doveva avere qualche qualità superiore a quelle della moglie perché lei
potesse appoggiarsi al marito e trarne sicurezza psicologica .
Rimasi assai colpito quando mi resi conto a CHE COSA stavo pensando e subito smisi di
andare dovunque potessi trovarmi vicino alla sorella Betty X o dove sapevo che l'avrei trovata .
Se veniva nel nostro ristorante ed io ero là me ne andavo altrove. Ero contento che non avesse
la benché minima idea di quello che stavo pensando. Del resto il fatto che non le rivolgevo la
parola avrebbe contribuito a non darle il minimo motivo di pensarlo poiché, anche se per caso
Betty avesse PENSATO qualcosa, tra di noi non c'era stato un solo discorso a carattere
strettamente personale .
Mi posi il problema: se mi FOSSE successo di chiederle di sposarmi come avrebbe reagito?
Non le avrei dato la minima possibilità di mettermi in imbarazzo: avevo sentito troppe donne
vantarsi di aver mandato al diavolo i loro pretendenti e avevo troppa esperienza, di quella che
consiglia all'uomo la cautela .
Sapevo una buona cosa di lei: che aveva pochi parenti .
Consideravo negativa ogni parentela acquistata e proprio tra i Muslims del tempio numero sette
avevo visto moltissimi matrimoni mandati in malora dai suoceri, di solito anti Muslim .
Non avrei certamente usato quelle espressioni insipide che i film d'amore prodotti ad
Hollywood o dalla televisione hanno inzeppato nella testa delle donne: se avessi fatto qualcosa
lo avrei fatto direttamente, a modo MIO, e perché IO volevo farlo, non per il fatto che avevo
visto altri o avevo letto qualche libro o l'avevo visto rappresentato in qualche film .
Quando andai a far visita a Muhammad a Chicago, durante quello stesso mese, gli dissi che
pensavo di fare un passo molto serio .
Lui sorrise quando sentì di cosa si trattava. Gli dissi che ci stavo soltanto pensando e
Muhammad replicò che avrebbe avuto piacere di conoscere questa sorella .
Ormai la Nazione dell'Islam era in condizioni finanziarie per pagare le spese alle sorelle
insegnanti dei diversi templi che erano invitate a Chicago a frequentare i corsi del tempio
numero due e, mentre erano là, a conoscere di persona il molto onorevole Elijah Muhammad.
Naturalmente la sorella Betty X sapeva queste cose per cui non aveva motivo di insospettirsi
quando le fu annunciato il suo viaggio a Chicago. Come tutte le altre sorelle insegnanti che
venivano in visita, anche lei fu ospite in casa del Messaggero e della sorella Clara Muhammad .
Il nostro maestro mi disse che la sorella Betty X era molto brava .
Quando si pensa di fare una cosa, bisognerebbe decidersi subito per il sì o per il no. Una
domenica sera, dopo la riunione al tempio numero sette, presi la macchina e imboccai
l'autostrada per Detroit. Avevo deciso di andare a trovare mio fratello Wilfred il quale, l'anno
prima, e cioè nel 1957, era stato pastore del tempio numero uno di Detroit. Non l'avevo visto da
un bel pezzo, come del resto non avevo visto gli altri membri della mia famiglia .
Erano quasi le dieci della mattina quando arrivai a Detroit. Mi fermai a fare benzina e di lì dal
distributore telefonai alla sorella Betty X. Prima dovetti domandare alla signorina delle
informazioni il numero della residenza delle infermiere. Di solito ricordavo a memoria quasi
tutti i numeri che mi servivano, ma in questo caso mi ero sempre imposto di dimenticarlo.
Finalmente qualcuno andò a cercarla e la fece venire al telefono. «Pronto, fratello pastore...» Io
le dissi subito: «Di' un po', mi vuoi sposare?» Naturalmente lei fece credere di essere sorpresa e
sbigottita .
Ma più ci penso e più credo che facesse davvero finta perché le donne queste cose le sanno
sempre .
Com'ero sicuro che avrebbe fatto, mi rispose di sì. Allora io le dissi che non avevo molto
tempo e che sarebbe stato meglio se avesse preso subito un aereo per Detroit .
Lei venne subito. Conobbi i suoi genitori adottivi che abitavano a Detroit e che ormai si erano
rappacificati con lei. Furono molto espansivi e piacevolmente sorpresi della notizia, o almeno
fecero finta di esserlo .
Poi presentai la sorella Betty X alla famiglia di Wilfred. Avevo già chiesto a mio fratello dove
ci si poteva sposare senza troppe complicazioni e senza dover aspettare e lui mi aveva detto di
andare nello stato dell'Indiana .
La mattina dopo, di buon'ora, andai a prendere Betty a casa dei suoi genitori adottivi.
Andammo in macchina fino alla prima città dell'Indiana e ci informarono che alcuni giorni
prima avevano cambiato la legge dello stato e che perciò per sposarsi bisognava aspettare un
certo tempo .
Era il 14 gennaio 1958, un martedì. Siccome non eravamo troppo lontani da Lansing dove
abitava mio fratello Philbert, mi diressi là. Quando ci fermammo davanti alla sua casa, lui era
ancora al lavoro. La moglie di Philbert e Betty stavano parlando quando seppi per telefono che,
se insistevamo, avremmo potuto sposarci in un giorno .
Facemmo l'analisi del sangue richiesta per legge e poi ottenemmo il nullaosta. Dove il modulo
diceva «religione», io scrissi «Muslim». Poi andammo dal giudice di pace .
Un bianco, vecchio e mezzo gobbo, ci unì in matrimonio. Tutti i testimoni erano bianchi.
Dicemmo sì tutte le volte che si doveva. Loro ci stavano tutti intorno sorridenti e seguivano con
attenzione ogni nostro movimento. Il vecchio diavolo ci disse: «Vi dichiaro marito e moglie» e
poi: «Baciate la sposa» .
La portai via di là. Tutta quella roba ridicola di Hollywood! Come quelle donne che vogliono
che gli uomini le portino in braccio attraverso la porta di casa e poi sono magari di quelle che
pesano più dei loro mariti. Non so quanti matrimoni falliti sono provocati proprio da queste
donne infatuate dalla mitologia della radio e della televisione che si aspettano sempre di
ricevere fiori, di essere abbracciate e sbaciucchiate e portate via come Cenerentola, a cena o a
ballare e che poi si arrabbiano quando il povero marito, che ritorna stanco e sudato dal lavoro di
una giornata intera, cerca da mangiare .
Cenammo a casa di Philbert a Lansing. «Ho una sorpresa per te», gli dissi quando entrammo.
«Non hai nessuna sorpresa», replicò .
Quando era tornato a casa dal lavoro e aveva sentito dire che ero stato là con una sorella
Muslim, si era subito immaginato che o mi fossi già sposato o mi trovassi sul punto di farlo .
Gli impegni di Betty alla scuola per infermiere la richiamavano immediatamente a New York:
solo dopo quattro giorni sarebbe potuta tornare a Detroit. Lei dice di non aver detto a nessuno
del tempio numero sette che ci eravamo sposati .
Quella domenica Muhammad sarebbe venuto al tempio numero uno di Detroit ad insegnare.
Ormai avevo un assistente a New York: gli telefonai di sostituirmi. Il sabato Betty tornò e, dopo
il suo discorso della domenica, il Messaggero dette l'annuncio del nostro matrimonio. Il fatto
che mi ero sempre tenuto lontano da tutte le sorelle era ben noto anche nel Michigan e così
nessuno poteva credere alla mia decisione .
Tornammo insieme in macchina a New York. La notizia mise davvero sottosopra tutti al
tempio numero sette. Certi fratelli giovani mi guardavano come se li avessi traditi, ma tutti gli
altri ghignavano come dei matti. Quanto alle sorelle, sembrava che volessero divorare Betty.
Non dimenticherò mai di averne sentita una esclamare: «L'hai accalappiato, eh!» E' proprio
come vi dicevo io prima: questa è la NATURA delle donne. Mi aveva ACCALAPPIATO...
Questa è in parte la ragione per cui non mi sono mai completamente liberato dal sospetto che
Betty sapesse qualcosa sin dal principio... Chissà, forse mi accalappiò davvero! Durante i due
anni e mezzo successivi abitammo nel quartiere di Queens, in una casetta di due piccoli
appartamenti, uno dei quali era occupato dal fratello John Ali e da sua moglie. Ora lui è
segretario nazionale a Chicago .
La nostra figlia maggiore Attilah nacque nel novembre del 1958 .
Le detti quel nome in ricordo di Attila, il re degli Unni. Dopo la sua nascita ci trasferimmo nella
nostra casa di sette stanze nel quartiere negro di Queens a Long Island .
Un'altra bambina, Kubla, alla quale detti questo nome in onore di Kubla Khan, nacque il giorno
di Natale del 1960, mentre nel luglio del 1962 vide la luce Ilyasah (in arabo Ilyas vuol dire
Elijah). Nel 1964 arrivò la nostra quarta figlia Amilah .
Ora posso dire di amare Betty. E' l'unica donna che abbia mai pensato di amare e una delle
pochissime - non più di quattro di cui mi sono fidato. Betty è un'ottima donna e moglie Muslim
.
L'Islam è l'unica religione che dà sia al marito sia alla moglie una vera comprensione di cosa è
l'amore. Se si considera il concetto occidentale dell'amore, ci si accorge che non è altro che
libidine. Invece l'amore trascende il puro rapporto fisico: è comprensione, modo di comportarsi,
atteggiamento verso la vita, pensieri, preferenze e repulsioni, tutte cose che rendono adorabile
la donna, la moglie. E' questa la bellezza che non sfiorisce mai. Nella civiltà occidentale si vede
dappertutto che quando finisce la bellezza fisica, una donna perde ogni attrazione per il marito,
ma l'Islam insegna a noi a guardare nell'animo della donna e a lei a guardare nel nostro .
Betty fa questo e mi capisce. Vorrei dire che non riesco ad immaginare molte altre donne che
potrebbero sopportare il mio modo di vivere. Betty capisce che per poter svegliare questo negro
dalla mente ottenebrata e dire a questo diabolico e arrogante bianco la verità sul suo conto,
occorrono tutto il mio tempo e le mie energie. Se quando sono a casa, quel poco tempo che
posso starci, ho del lavoro da fare, lei mi lascia la tranquillità di cui ho bisogno. E' raro che sia a
casa più di metà della settimana: sono stato lontano anche cinque mesi di fila. Non ho quasi mai
la possibilità di portarla in qualche posto e so che a lei piace molto stare con suo marito. E'
abituata che le telefono sempre dall'aeroporto, dovunque mi trovi, da Boston o San Francisco,
da Miami o Seattle oppure, come è successo recentemente, a ricevere miei telegrammi dal
Cairo, da Akkra o dalla Città santa della Mecca. Una volta durante una conversazione telefonica
interurbana, Betty espresse il suo pensiero con una frase stupenda: «Quando sei lontano sei
sempre qui con me» .
Più tardi, quello stesso anno, dopo che ci fummo sposati, profusi tutte le mie energie nel
tentativo di esser dappertutto nello stesso tempo, cercando di contribuire allo sviluppo della
Nazione dell'Islam. Quando fui invitato come ospite a parlare al tempio di Boston e finii il mio
discorso, come sempre, con la domanda se qualcuno desiderava farsi seguace del molto
onorevole Elijah Muhammad, non so dirvi la mia sorpresa, il mio sbalordimento nel vedere che
tra coloro che si erano alzati in piedi c'era mia sorella Ella. Abbiamo un proverbio che dice che
i migliori Muslims sono coloro che si convincono dopo molto tempo. Ad Ella c'erano voluti
cinque anni .
Ricorderete che ho detto che in una grande città una grossa organizzazione può restare
praticamente sconosciuta a meno che non accada qualcosa che attiri su di essa l'attenzione del
pubblico. Ebbene nessuno della Nazione dell'Islam avrebbe mai immaginato quello che sarebbe
successo una sera ad Harlem .
Nel disperdere un gruppo di negri che erano venuti alle mani per la strada, due poliziotti
bianchi ordinarono agli altri passanti negri di circolare. Tra questi c'erano due fratelli Muslim,
Johnson Hinton e un altro del tempio numero sette, che non si spaventarono né cominciarono a
correre come i poliziotti avrebbero voluto. Saltarono addosso al fratello Hinton con gli
sfollagente e gli fecero una grossa ferita nel cuoio capelluto, poi venne la macchina della polizia
e lo portarono al commissariato più vicino .
L'altro fratello telefonò al nostro ristorante. Con qualche chiamata, in meno di mezz'ora
avevamo radunato fuori del commissariato circa cinquanta uomini del Frutto delI'Islam del
tempio numero sette che stavano lì pronti, schierati in formazione di battaglia .
Altri curiosi negri giunsero a corsa e si affollarono dietro i Muslims. I poliziotti, affacciatisi
alla finestra, non potevano credere ai loro occhi. Come pastore del tempio numero sette, entrai
nel commissariato e chiesi di vedere il nostro fratello .
Prima i poliziotti mi risposero che non era lì, poi ammisero che c'era, ma dissero che non
potevo vederlo. Replicai che finché non ce lo facevano vedere e non eravamo sicuri che gli
fossero prestate le cure mediche, i Muslims sarebbero rimasti dov'erano .
I poliziotti erano nervosi e spaventati dalla folla crescente che si ammassava davanti alla porta
del commissariato. Quando vidi il nostro fratello Hinton dovetti trattenermi: aveva quasi perso i
sensi, e la testa, il volto e le spalle erano coperti di sangue. Mi auguro di non dover vedere
ancora un altro esempio come quello di pura e semplice brutalità della polizia .
Dissi al tenente di servizio: «Quell'uomo dev'essere mandato all'ospedale». Chiamarono
un'ambulanza, e mentre il fratello Hinton veniva portato all'ospedale di Harlem, noi Muslims
gli andammo dietro, non in formazione, per circa quindici isolati lungo Lenox Avenue, che
probabilmente è l'arteria più affollata di Harlem. I negri, che non avevano mai visto niente di
simile, venivano fuori dai negozi, dai ristoranti e dai bar e si univano alla folla che ci seguiva .
Era una folla enorme, infuriata, quella che tumultuava dietro i Muslims davanti all'ospedale di
Harlem. Da molto tempo i negri del quartiere erano stanchi della brutalità della polizia e non
avevano mai visto nessuna organizzazione negra agire con la fermezza di cui davamo prova noi
.
Un alto funzionario di polizia venne da me e mi disse: «Fate allontanare questa gente!» Io
replicai che i nostri fratelli tenevano un contegno pacifico, erano perfettamente disciplinati e
non facevano male a nessuno. Lui ribatté che gli altri, quelli dietro di loro, non erano
disciplinati e io gli feci osservare molto gentilmente che quello era un problema che riguardava
lui .
Quando i medici ci assicurarono che il fratello Hinton avrebbe ricevuto le cure necessarie, detti
l'ordine ai Muslims di sciogliersi. L'atteggiamento degli altri negri era decisamente ostile, ma
anche loro si dispersero quando ce ne andammo noi .
Solo più tardi apprendemmo che i chirurghi avevano dovuto mettere una placca di acciaio nella
calotta cranica del fratello Hinton. Dopo quell'operazione, la Nazione dell'Islam gli dette l'aiuto
legale necessario per far causa alla polizia. I giudici condannarono l'amministrazione di New
York City a pagare al danneggiato settantamila dollari, una condanna che si può considerare la
più severa inflitta alla polizia per brutalità .
NOTE .
NOTA 1: Il cosiddetto stile "gospel" è basato sull'inserimento negli inni tradizionali delle
chiese protestanti di ritmi e variazioni elaborati nei "revivals" e rimasti, spesso di padre in
figlio, come modelli aperti di espressione musicale. Non sarebbe forse arbitrario dire che
corrispondono ai blues, sia pure con le enormi differenze di contenuto e di spirito che li
separano da quelli .
Lo stile gospel è religioso e tipicamente rurale. Esprime la realtà e le esigenze psicologiche
degli ex schiavi del Sud, il loro modo diretto di rivolgersi a Dio e l'utilizzazione di una parte
della struttura della musica delle chiese protestanti .
I blues rivelano la loro parentela col gospel nella libertà della variazione, nella linea melodica e
nel trattamento della voce .
NOTA 2: «L'uomo nato di donna vive pochi giorni e, sazio d'affanni, spunta come un fiore, poi
è reciso: fugge come un'ombra e non dura.. .
«Per l'albero almeno c'è speranza; se è tagliato rigermoglia e continua a metter rampolli.
Quando la sua radice è invecchiata sotto terra, e il suo tronco muore nel suolo, a sentir l'acqua,
rinverdisce e mette rami come una pianta nuova .
«Ma l'uomo muore e perde ogni forza; il mortale spira e... dov'è egli? Le acque del lago se ne
vanno, il fiume viene meno e si prosciuga, così l'uomo giace, e non risorge più...» (Giobbe 7, 123) .
Capitolo quattordicesimo .
I BLACK MUSLIMS .
Nella primavera del 1959, alcuni mesi prima che il caso del fratello Johnson Hinton
richiamasse su di noi l'attenzione del ghetto di Harlem, un giornalista negro, Louis Lomax, che
allora viveva a New York, mi chiese una mattina se noi della Nazione dell'Islam saremmo stati
disposti a concedere a Mike Wallace, titolare di un programma televisivo che si occupava di
argomenti scottanti, di fare un servizio su di noi. Risposi a Lomax che, naturalmente, una cosa
del genere doveva essere discussa col molto onorevole Elijah Muhammad e lui prese l'aereo e
andò a Chicago. Dopo avergli fatto parecchie domande e averlo avvertito circa gli argomenti di
cui non voleva si parlasse, Muhammad dette il suo consenso a Lomax .
Gli operatori cominciarono a riprendere degli esterni fuori delle moschee della Nazione
dell'Islam a New York Chicago e Washington, furono fatte delle registrazioni dei discorsi di
Muhammad e di alcuni pastori, tra cui c'ero anch'io, nei quali si insegnava la verità sul
diabolico uomo bianco e si parlava del lavaggio del cervello subito dai negri .
Quasi nello stesso periodo, C. Eric Lincoln, uno studioso negro che stava allora lavorando alla
sua tesi di dottorato presso l'università di Boston, aveva scelto come argomento la Nazione
dell'Islam. Il suo interesse era nato l'anno precedente quando insegnava al Clark College di
Atlanta nella Georgia. Uno dei suoi studenti di religione aveva fatto un saggio la cui
introduzione cito ora dal libro di Lincoln. Era la semplice esposizione dei principi in cui
credeva uno dei numerosi studenti negri che spesso frequentavano il nostro tempio numero
quindici di Atlanta «La religione cristiana è incompatibile con le aspirazioni dei negri
americani alla dignità e all'eguaglianza, - aveva scritto lo studente. - Essa ha rappresentato un
ostacolo invece che un aiuto; è stata evasiva quando sarebbe stata moralmente tenuta ad
assumere atteggiamenti chiari; ha accettato che tra i suoi fedeli si praticasse la discriminazione
in base al colore della pelle, sebbene avesse dichiarato che la sua missione era quella di stabilire
una fratellanza universale sotto Gesù Cristo .
L'amore cristiano è l'amore dell'uomo bianco per se stesso e per la sua razza. Per chi non è
bianco l'Islam rappresenta la speranza di giustizia e di eguaglianza nel mondo che dovremo
costruire in futuro» .
Dopo una sommaria ricerca preliminare il professor Lincoln si rese conto qual era la natura
dell'argomento e, ottenuti diversi contributi per le ricerche, trovò anche un editore che lo
incoraggiò a trasformare la sua tesi in libro .
E' naturale che per il «telegrafo» della nostra relativamente piccola Nazione, queste due novità
- il programma televisivo e un libro su di noi - facessero molta sensazione. Ogni Muslim già
prevedeva entusiasticamente che fra poco, grazie ai potenti mezzi di comunicazione di massa
dell'uomo bianco, i nostri fratelli e sorelle negri dalle menti ottenebrate, ed anche i bianchi di
tutti gli Stati Uniti, avrebbero visto, sentito e letto gli insegnamenti di Muhammad che
tagliavano come una spada a due tagli .
Avevamo già fatto i nostri sforzi, molto limitati, per servirci della stampa. Un po' di tempo
prima ero andato a parlare con James Hicks direttore del giornale «Amsterdam News» che si
pubblicava ad Harlem. Aveva detto che secondo lui qualsiasi voce che si levava nella comunità
aveva il diritto di essere ascoltata e così, ben presto, il suo giornale cominciò a pubblicare ogni
settimana una colonnina scritta da me .
Successivamente Muhammad accettò di riempire lui quel prezioso spazio che ci veniva
concesso dall'«Amsterdam News» e perciò la mia colonna venne passata ad un altro quotidiano
negro, lo «Herald Dispatch» di Los Angeles .
Per parte mia, volevo in qualche modo riuscire a pubblicare un giornale tutto nostro, che
sarebbe stato unicamente dedicato alle notizie della Nazione dell'Islam .
Nel 1957 Muhammad mi mandò a organizzare un tempio a Los Angeles. Dopo aver fatto ciò,
poiché mi trovavo nella città in cui si pubblicava un giornale negro come lo «Herald Dispatch»,
approfittai dell'occasione per andare a lavorare nei loro uffici: mi lasciavano vedere come si
mette insieme un giornale .
Sono sempre stato fortunato nel senso che, se vedo fare una cosa una volta, di solito riesco a
farla anch'io. Questa rapidità imitativa fu probabilmente il fattore determinante della mia
sopravvivenza quando facevo la vita di strada .
Quando tornai a New York acquistai una macchina fotografica di seconda mano. Non so quanti
rotolini di pellicola dovetti sciupare prima di essere in grado di fare delle fotografie utilizzabili.
Tutte le volte che se ne presentava l'occasione, scrivevo qualche piccolo pezzo sugli
avvenimenti più interessanti all'interno della Nazione dell'Islam. Un giorno al mese mi
rinchiudevo in una stanza per mettere insieme i miei scritti e le fotografie che portavo poi in
tipografia. Chiamai il giornale «Muhammad Speaks» («Parla Muhammad») e i fratelli Muslim
lo vendevano per le strade del ghetto. Non avrei allora potuto immaginare che più tardi, quando
l'invidia prevalse tra le gerarchie della Nazione dell'Islam, il giornale che io avevo fondato non
avrebbe più neanche rammentato il mio nome .
Comunque quando Muhammad mi mandò per tre settimane in Africa, la Nazione dell'Islam
godeva già di una crescente rinomanza nazionale. Per quanto il nostro movimento fosse allora
piccolo, alcune personalità africane e asiatiche avevano fatto sapere in privato a Muhammad
che seguivano con compiacimento gli sforzi che faceva per risvegliare e mettere in piedi il
popolo negro americano. Talvolta fui io il latore di quei messaggi: in veste di emissario di
Muhammad andai in Egitto, in Arabia, nel Sudan, in Nigeria e nel Ghana .
Oggi si sente spesso dire da parecchi leader negri che i Muslims poterono acquistare rinomanza
internazionale grazie alla stampa, alla radio, alla televisione e ad altri mezzi di comunicazione
di massa dell'uomo bianco. Non nego certamente tali affermazioni che sono giuste. Ebbene,
nella Nazione dell'Islam, nessuno di noi poteva neanche lontanamente prevedere cosa sarebbe
accaduto .
Il programma televisivo andò in onda verso la fine del 1959. Il titolo "L'odio che ha prodotto
l'odio" appariva sullo sfondo di un caleidoscopio di immagini «sconvolgenti»... Muhammad, io
ed altri mentre parlavamo... I membri del nostro Frutto dell'Islam dall'espressione seria e
decisa... Sorelle Muslim di tutte le età con i loro veli bianchi e i lunghi abiti... Muslims nei
nostri ristoranti e in altri locali... Altri negri che entravano e uscivano dalle nostre moschee .
Ogni frase era studiata per accrescere il timore degli spettatori e credo che, com'era intenzione
dei produttori, alla fine del programma chi l'aveva visto restasse allibito .
In un certo senso la reazione del pubblico fu simile a quella che si ebbe nel 1938 quando Orson
Welles terrorizzò l'America con un programma radiofonico che descriveva, come se stesse
realmente accadendo, un'invasione di marziani .
Questa volta nessuno si buttò giù dalla finestra, ma a New York City si ebbe subito una
tumultuosa reazione del pubblico. Credo che la ragione principale fosse in quella
contrapposizione della parola «odio» ripetuta due volte nel titolo. Centinaia di migliaia di
abitanti di New York bianchi e negri, esclamavano: «Ma avete sentito? Avete visto? Questa
gente predica L'ODIO contro l'uomo bianco!» Questo è uno dei più caratteristici modelli di
comportamento del bianco quando si tratta dei negri. Ama se stesso al punto da restare allibito
se scopre che le sue vittime non condividono la vanitosa opinione che ha di sé. Per secoli le
cose erano andate lisce in America finché i negri oppressi, trattati e sfruttati con la massima
brutalità avevano fatto smorfie di sottomissione, comportandosi come tanti zii Tom e
rivolgendosi al bianco con l'espressione «Sissignore, sì, signor padrone». Ora le cose erano
diverse. Prima cominciarono i quotidiani bianchi: «Allarmante»... «Messaggeri dell'odio»...
«Una minaccia ai buoni rapporti tra le razze»... «Segregazionisti negri»... «Fautori della
supremazia negra » e cose del genere .
L'inchiostro dei quotidiani non si era ancora asciugato quando cominciarono a tuonare i
settimanali: «Propagandisti dell'odio»... «Adoratori della violenza»... «Razzisti negri».. .
«Fascisti negri»... «Anticristiani»... «Probabilmente ispirati dai comunisti».. .
Tutta questa roba uscì dalle rotative del peggior diavolo che abbia mai conosciuto la storia
dell'umanità. Poi, sdegnato, l'uomo bianco fece la sua seconda mossa .
Fino dai tempi della schiavitù, l'americano bianco ha sempre consentito a certi gruppetti scelti
di negri di vivere molto meglio delle masse di braccianti che soffrivano e lavoravano nei campi
sotto il sole cocente. Teneva questi negri «da casa» e «da cortile» come domestici particolari;
gettava loro una maggior quantità di briciole dalla sua ricca mensa e arrivava persino a
permettere che mangiassero nella sua cucina. L'uomo bianco sapeva di poter sempre contare su
questi servi per mantenere la sua immagine di «buon padrone» così «generoso » e «giusto». «Il
buon padrone» sentiva sempre quello che voleva sentire da questi negri «da casa» e «da
cortile». «Siete un padrone così BUONO! Oh, signor padrone, quei vecchi "niggers" che
lavorano da braccianti laggiù nei campi sono felici così come stanno; perché, signor padrone,
non sono abbastanza intelligenti da giustificare i vostri sforzi per farli star meglio, signor
padrone...» Ebbene, l'unica differenza tra i tempi della schiavitù e quelli presenti è che i negri
«da casa» e «da cortile» erano più raffinati. Ora quando l'uomo bianco prendeva il telefono per
chiamare questi negri «da casa» e «da cortile» non c'era più neppure bisogno che desse
istruzioni ai suoi burattini ben addestrati. Avevano visto il programma televisivo; avevano letto
i giornali; stavano già scrivendo i loro articoli e sapevano cosa fare .
Non farò nomi, ma se prendete un elenco di quelli che, nel 1960, erano i cosiddetti leader negri
più importanti, avrete tutti i nomi di coloro che cominciarono ad attaccarci per le nostre
pazzesche affermazioni, per il nostro modo sconveniente di parlare del «buon padrone» .
«In nessun modo questi Muslims rappresentano le masse negre». Fu questa la prima loro
preoccupazione, rassicurare «il buon padrone» che non c'era motivo di preoccuparsi dei suoi
braccianti confinati laggiù nei ghetti. «Un irresponsabile culto dell'odio»... «Un'immagine
controproducente del negro, proprio quando la situazione razziale è in miglioramento».. .
Facevano a gara per farsi citare: «Un deplorevole razzismo a rovescio»... «Dei ridicoli
predicatori dell'antica dottrina dell'Islam»... «Un anticristianesimo intessuto di eresie» .
Nel nostro piccolo ristorante del tempio numero sette il telefono a forza di suonare si era quasi
staccato dal muro .
Tenevo il ricevitore all'orecchio cinque ore al giorno: ascoltavo e scrivevo sul taccuino quello
che mi dicevano i giornalisti, i cronisti radiofonici e televisivi, tutti che insistevano per
conoscere la reazione dei Muslims agli attacchi di questi leader negri; oppure facevo lunghe
chiamate interurbane a Chicago per leggere i miei appunti a Muhammad e chiedergli istruzioni
sul da farsi .
Non riuscivo a capire come facesse il Messaggero a conservare la calma e la pazienza di fronte
a quello che gli riferivo. Per parte mia riuscivo a malapena a trattenermi .
Non so come riuscirono a farsi dare il mio numero telefonico di casa che non avevo fatto
mettere sull'elenco. Mia moglie Betty non faceva in tempo a riabbassare il ricevitore che il
telefono cominciava a suonare di nuovo. Sembrava che dovunque andavo i telefoni squillassero
.
Siccome a New York City ci sono le sedi centrali dei principali mezzi di comunicazione di
massa ed io ero il pastore della moschea di Muhammad, tutte le chiamate erano per me: da San
Francisco al Maine, perfino da Londra, da Stoccolma e da Parigi .
Al ristorante un fratello Muslim mi passava il ricevitore appena entravo e così faceva Betty a
casa: cercavano di tenere un contegno indifferente e anch'io stentavo a credere a una tale
persecuzione. Durante questo periodo così agitato, una cosa mi colpì particolarmente: gli
europei non insistevano mai sulla questione dell'«odio», mentre il bianco americano era
ossessionato e perseguitato dall'idea di essere «odiato». Si sentiva così colpevole lui di odiare i
negri! «Signor Malcolm X, perché predicate la supremazia negra e l'odio?» Tutte le volte che
mi facevano questa domanda mi pareva di vedere davanti agli occhi una bandiera rossa ed era
come se nella mia mente si compisse una reazione chimica. Quando noi Muslims parlavamo di
quel «diavolo dell'uomo bianco» ci riferivamo a qualcosa di relativamente astratto, a qualcuno
con cui avevamo di rado contatti, ma ora egli era al telefono, quel diavolo in carne e ossa con
tutti i suoi inganni, il suo spirito calcolatore, la sua freddezza, la sua sfacciataggine e la sua
malignità. Le voci che mi rivolgevano quelle domande erano per me dei diavoli viventi, che
respiravano .
Cercavo di rispondere con delle bordate di fuoco: «L'uomo bianco ha un tale senso di colpa ed
è così colpevole di aver praticato e di far praticare la supremazia bianca, che non riesce a
nasconderlo con l'espediente di accusare il molto onorevole Elijah Muhammad di insegnare la
supremazia negra e l'odio .
Quello che fa Muhammad è cercare di elevare la mentalità e le condizioni sociali ed
economiche del negro in questo paese .
«L'uomo bianco colpevole e ipocrita non sa decidere CHE COSA vuole. I nostri antenati
schiavi sarebbero stati messi a morte se avessero sostenuto la cosiddetta integrazione con
l'uomo bianco. Ora, quando Muhammad parla di "separazione", i bianchi ci chiamano
"propagandisti dell'odio" e "fascisti"! «L'uomo bianco non VUOLE i negri, non VUOLE un
parassita sul suo corpo, non VUOLE questo negro la cui presenza e condizione qui negli Stati
Uniti lo smaschera davanti a tutto il mondo! Allora perché attaccate Muhammad?» SENTIVO
che la mia voce era dura e minacciosa .
«Che il bianco chieda al negro se è vero che questi lo odia è come se lo stupratore chiedesse
alla VITTIMA o il lupo all'AGNELLO: "mi odi?" L'uomo bianco non è nella POSIZIONE
morale di accusare nessun altro! «Quando tutti i miei antenati sono stati morsi dal serpente ed
io pure, se avverto i miei figli di tenersi lontani dai serpenti, che figura ci fa il serpente che MI
accusa di predicare l'odio?» «Signor Malcolm X, - mi chiedevano quei diavoli, - perché
insegnate lo judo e il karate ai membri del vostro Frutto dell'Islam?» L'immagine dei negri che
imparavano a difendersi sembrava atterrire il bianco. Rovesciavo così la loro domanda: «Ma
perché lo judo e il karate diventano così pericolosi appena i negri cominciano a praticarli? In
tutta l'America i boy scouts, l'Associazione cristiana dei giovani e persino quella delle giovani e
tante altre organizzazioni sportive e ricreative tengono corsi di judo! Va tutto bene, non c'è
niente da dire finché anche i negri non si mettono a insegnarlo! Persino alle bambine delle
classi elementari viene insegnato a difendersi...» «Quanti sono i membri della vostra
organizzazione, signor Malcolm X? Il vescovo Pincopallino dice che avete soltanto un
gruppetto di seguaci...» «Chi vi dice quanti sono i Muslims non lo sa e chi lo sa non ve lo dice»
.
I vari vescovi Pincopallino venivano spesso citati a proposito del nostro «anticristianesimo». Io
rispondevo così al fuoco: «Il cristianesimo è la religione dell'uomo bianco. La Bibbia e le sue
interpretazioni hanno rappresentato l'arma ideologica più formidabile a disposizione dell'uomo
bianco per rendere schiavi milioni di esseri umani di colore. In ogni paese che ha conquistato
con le armi, l'uomo bianco si è aperta la strada e ha soddisfatto la sua coscienza portandosi
dietro le scritture e interpretandole in modo da chiamare i conquistati "pagani" e "infedeli".
Prima arriva coi cannoni e poi manda i missionari a ripulire il terreno...» I giornalisti bianchi ci
chiamavano con voci piene d'ira «demagoghi» e io cercavo di tenermi pronto dopo che mi era
stata fatta la stessa domanda due o tre volte .
«Ebbene, rifacciamoci ai greci e forse così imparerete il significato della parola "demagogo"
che vuol dire "maestro del popolo". Consideriamo alcuni di questi demagoghi. Socrate, il più
grande di tutti i greci, fu ucciso come "demagogo" e Gesù Cristo morì sulla croce perché i
farisei dei suoi tempi rispettavano la lettera, ma non lo spirito della legge. I moderni farisei
cercano di distruggere Muhammad chiamandolo demagogo, pazzo e fanatico. Che cosa
dobbiamo dire allora di Gandhi? Di quell'uomo che Churchill chiamava "il piccolo fachiro
nudo" e che faceva lo sciopero della fame in una prigione britannica? Trecento milioni di
indiani si strinsero dietro a lui e torsero la coda al leone britannico! E che dire di Galileo che
davanti ai suoi inquisitori disse che la terra si muoveva, o di Martin Lutero che affisse le sue
tesi sulle porte della cattedrale di Wittenberg contro l'onnipotente Chiesa cattolica che lo
scomunicò come "eretico"? Noi seguaci del molto onorevole Elijah Muhammad siamo oggi
confinati nei ghetti come lo erano gli antichi cristiani nelle catacombe e nelle grotte... Ed essi
preparavano la tomba al potente impero romano!» Ricordo come se fosse ieri tutte quelle
movimentate conversazioni telefoniche. I giornalisti si arrabbiavano e io pure; quando tiravo in
ballo la storia, loro facevano di tutto per riportarmi al presente; lasciavano stare l'intervista,
ignoravano il loro lavoro per difendere loro stessi; tiravano in ballo Lincoln e la liberazione
degli schiavi ed io, per parte mia, dicevo loro quello che il presidente dell'Emancipazione aveva
detto in pubblico CONTRO i negri. Loro tiravano fuori la sentenza della Corte suprema del
1954 sull'integrazione scolastica .
«Fu uno dei trucchi da prestigiatore più straordinari che si siano mai visti in America, replicavo loro. - Volete davvero dirmi che nove giudici della Corte suprema, dei veri maestri
dell'uso della terminologia giuridica, non avrebbero potuto dare alla sentenza valore di
LEGGE? No, fu solo magia ed inganno per dire ai negri che la segregazione era finita - urrah!
urrah! e, nello stesso tempo, per indicare ai bianchi tutte le possibili scappatoie» .
I giornalisti facevano del loro meglio per tirar fuori qualche «buon» bianco che non avrei
potuto criticare. Non dimenticherò mai come uno arrivò quasi a perdere la voce. Mi chiese se
ritenevo che NESSUN uomo bianco avesse fatto qualcosa per il negro in America. «Sì, - gli
dissi, - credo che ce ne siano due: Hitler e Stalin. Fino all'avvento del primo, nessun negro
americano riusciva a trovare un lavoro decente nelle fabbriche e fu solo per merito della
pressione che quello esercitò sull'America e che Stalin successivamente mantenne... Non
importa quali argomenti adoperavo nelle mie interviste: quasi mai stampavano le cose che
dicevo. Imparavo a mie spese come la stampa, se vuole, può distorcere e travisare. Se avessi
detto: «Maria aveva un agnellino», avrebbero probabilmente stampato: «Malcolm X infila
Maria con la fiocina» .
Eppure l'amarezza che mi dava la stampa bianca non era nulla in confronto di quella che
provavo a causa dei leader negri che continuavano ad attaccarci. Muhammad ci diceva di fare
del nostro meglio per non contrattaccare pubblicamente quei leader perché uno degli espedienti
dell'uomo bianco era di tener divisa la razza negra e far sì che ci combattessimo l'un l'altro .
Insisteva sul fatto che era stato proprio quel sistema a impedire al popolo negro di raggiungere
l'unità che, in America, era la cosa di cui esso aveva più bisogno .
Invece di mitigare i loro attacchi, quei fantocci negri continuavano a scagliarsi con violenza
contro Muhammad e la Nazione dell'Islam finché cominciammo a dare l'impressione di aver
paura di rispondere per le rime a quei negri «importanti» .
Fu allora che Muhammad cominciò a perdere la pazienza ed io, con la sua approvazione, risposi
al fuoco .
«Lo zio Tom di oggi non porta il fazzoletto annodato sulla testa. Spesso questa moderna
versione del ventesimo secolo del nostro zio Tommaso porta il cilindro, è di solito ben vestito e
ha una certa istruzione, spesso è addirittura la personificazione della raffinatezza e della cultura.
Qualche volta lo zio Tommaso del ventesimo secolo parla con l'accento di Yale o di Harvard ed
è conosciuto come professore, dottore, giudice, reverendo e persino come reverendissimo
dottore. Questo zio Tommaso del ventesimo secolo è un PROFESSIONISTA negro... e con ciò
voglio dire che la sua professione è di essere un negro al servizio del bianco» .
Mai prima in America questi cosiddetti leader mercenari erano stati attaccati pubblicamente in
questo modo. Alla verità reagirono anche più rabbiosamente di quanto non facesse il diabolico
uomo bianco. Cominciarono i loro attacchi sul piano istituzionale: invece di parlare a titolo
puramente personale fecero sì che Muhammad fosse attaccato dalle loro organizzazioni, che
portarono nella lotta tutto il peso di un lungo prestigio .
«Corpi di negri con testa di bianchi!» li definivo io. Tutte quelle organizzazioni che si
occupavano del «progresso negro» avevano la stessa struttura. Davanti al pubblico c'erano i
leader negri, quelli che dovevano farsi vedere dai loro confratelli per conto dei quali avevano il
mandato di combattere l'uomo bianco, ma all'oscuro, dietro le quinte, c'era sempre qualche
padrone bianco, o un presidente, o un consigliere delegato o qualche altra eminenza grigia che
tirava i fili .
Sia sulla stampa bianca che su quella negra apparvero articoli scottanti. Le riviste «Life»,
«Look», «Newsweek» e «Time» pubblicarono servizi su di noi e qualche quotidiano cominciò a
stampare non un articolo ma una serie di tre, quattro o cinque «radiografie» della Nazione
dell'Islam. Il «Reader's Digest», che ha una tiratura in tutto il mondo di ventiquattro milioni di
copie in tredici lingue, pubblicò un articolo intitolato "Muhammad parla", scritto dalla stessa
persona a cui sto raccontando questo libro e che diede inizio a una serie di servizi su di noi
pubblicati da altre riviste mensili .
Non molto tempo dopo, i dirigenti delle stazioni radio e televisive cominciarono a chiedermi
di partecipare a discussioni e dibattiti in difesa della nostra Nazione dell'Islam. Dovevo
misurarmi con degli studiosi scelti, sia bianchi che negri, laureati di quella specie «da casa» e
«da cortile» che ci avevano così tanto attaccato. Ogni giorno mi irritavo sempre più per il modo
in cui gli insegnamenti di Muhammad venivano generalmente distorti e travisati. Credo che non
mi passò neanche una volta per la mente di non essere mai entrato prima in una stazione radio o
televisiva, né tantomeno di essermi trovato di fronte a un uditorio di milioni di persone. La mia
unica esperienza oratoria con un pubblico non di Muslims erano stati i dibattiti in prigione .
Dalla mia vecchia esperienza di trafficante sapevo che in ogni cosa c'è il trucco. Dai dibattiti
che facevamo in prigione avevo imparato gli espedienti per mettere a disagio i miei oppositori,
per coglierli in fallo quando meno se l'aspettavano. Sapevo che ci dovevano essere dei trucchi
che non conoscevo anche nelle discussioni trasmesse per radio o televisione .
Sapevo anche che se avessi osservato attentamente quello che facevano gli altri, avrei potuto
imparare in breve tempo cose che mi avrebbero aiutato a difendere Muhammad e i suoi
insegnamenti .
Andavo negli studi televisivi e trovavo i diavoli e i loro fantocci negri laureati che si
comportavano con la massima cordialità tra di loro: si muovevano da integrati, ridevano e si
chiamavano per nome. Era una tale menzogna che ne provavo un immenso disgusto. Cercavano
persino di comportarsi amichevolmente con me quando tutti sapevano che mi avevano invitato
per schiacciarmi sotto i piedi. Mi offrivano il caffè ed io rispondevo loro: «No, grazie»
chiedendo che mi dicessero dove dovevo sedermi. Qualche volta il microfono era sul tavolo
davanti a noi, altre volte ce ne mettevano uno più piccolo e di forma cilindrica intorno al collo.
Sin dal principio preferii questi ultimi perché non mi dovevo continuamente preoccupare, come
succedeva quando il microfono era sul tavolo, di mantenere la giusta distanza .
I moderatori cominciavano di solito con un preambolo non religioso, decisamente
provocatorio, dedicato a me. Dicevano cose di questo genere: «... abbiamo oggi con noi
Malcolm X, l'aggressivo e polemico capo dei Black Muslims di New York...» Io facevo la mia
presentazione: di solito me l'ero ripetuta a casa o mentre venivo in macchina finché riuscivo ad
interrompere il moderatore della radio o della televisione e a presentarmi .
«Rappresento Elijah Muhammad, il capo spirituale del gruppo di Muslims che sta crescendo
più rapidamente di qualsiasi altro nell'emisfero occidentale. Noi, che siamo suoi seguaci,
sappiamo che i suoi insegnamenti derivano da Dio e che è stato mandato da Lui tra di noi.
Crediamo che il miserevole destino dei ventidue milioni di negri americani rappresenti il
compimento della profezia divina e crediamo pure che la presenza odierna in America del
molto onorevole Elijah Muhammad, dei suoi insegnamenti diffusi fra i cosiddetti negri e della
sua chiara denuncia del trattamento che questi subiscono nella società americana, siano tutte
cose che rappresentano il compimento della divina profezia. Ho il privilegio di essere il pastore
del nostro tempio numero sette, qui a New York City, che fa parte della Nazione dell'Islam
sotto la guida divina del molto onorevole Elijah Muhammad...» Mi voltavo a guardare quei
diavoli e le loro scimmie negre ammaestrate mentre riprendevo fiato: avevo trovato il tono
giusto .
Essi facevano a gara l'uno con l'altro nel saltarmi addosso, nel colpire con tutti gli argomenti
possibili Muhammad, me e la Nazione dell'Islam. Sapete bene quali sono i bersagli di quei
negri «ubriachi di integrazione»... Ma PERCHE' i Muslims non riuscivano a CAPIRE che
l'unica risposta ai problemi dei negri americani era appunto l'integrazione? Facevo il possibile
per mandare in pezzi la loro tesi .
«Non c'è un solo negro CON LA TESTA A POSTO che voglia davvero l'integrazione! Del
resto qualsiasi bianco CON LA TESTA A POSTO la pensa nello stesso modo. Nessun negro
con un briciolo di cervello crede che il bianco gli darà mai qualcosa di più di una integrazione
puramente simbolica. No, no! il molto onorevole Elijah Muhammad insegna che l'unica
soluzione ai problemi dei negri americani è la separazione completa dall'uomo bianco» .
Chi mi ha ascoltato alla radio o alla televisione sa che la mia tecnica è quella del torrente, cioè
di non fermarmi finché non riesco a dire quello che voglio. Allora stavo sviluppando quel
sistema .
«Il molto onorevole Elijah Muhammad ci insegna che da quando la società occidentale ha
iniziato la sua decadenza è stata sempre più sommersa dall'immoralità: Dio la giudicherà e la
distruggerà. L'unico modo di salvarsi che hanno i negri prigionieri di questa società non è
quello di INTEGRARSI in questa società corrotta, ma di SEPARARSI da essa, in una terra che
sia NOSTRA, dove possiamo riformare noi stessi, migliorare i nostri modelli di comportamento
morale e cercare di vivere secondo la legge divina. I più preparati diplomatici del mondo
occidentale non hanno saputo risolvere questo grave problema razziale e così pure hanno fallito
i suoi giuristi, i suoi sociologi, i suoi uomini politici, i suoi leader civili. Poiché NESSUNO di
questi E' RIUSCITO a risolvere il problema razziale, è tempo che NOI cominciamo a
RAGIONARE. Saremo costretti a riconoscere, ne sono sicuro, che ci vuole DIO STESSO per
risolvere questo gravissimo dilemma razziale» .
Ogni volta che mi servivo della parola «separazione» alcuni di loro saltavano su a dire che noi
Muslims sostenevamo la stessa cosa dei razzisti e dei demagoghi bianchi. Io spiegavo loro la
differenza: «No! Noi siamo contro la SEGREGAZIONE in modo più attivo di voi. Vogliamo la
SEPARAZIONE, che non è la stessa cosa. Il molto onorevole Elijah Muhammad ci insegna che
c'è SEGREGAZIONE quando la nostra vita e libertà sono controllate e regolate DA
QUALCUN ALTRO. Segregare vuol dire controllare e la segregazione è un principio imposto
dai superiori agli inferiori. Ma la SEPARAZIONE è compiuta volontariamente tra eguali, per il
bene di tutti e due! Il molto onorevole Elijah Muhammad ci insegna che finché qui in America
la nostra gente dipenderà dall'uomo bianco, noi elemosineremo sempre da lui lavoro, cibo,
vestiario e abitazioni e lui controllerà le nostre vite e disporrà del potere per tenerci segregati. Il
negro qui in America è stato trattato come un bambino, che sta nel ventre della madre fino al
momento della nascita e che quando giunge quel momento dev'esserne separato, altrimenti
DISTRUGGERA' se stesso e la madre. Questa non può tenerlo dentro di sé dopo che è finita la
gestazione: il bambino piange e vuole una vita sua!» Chi mi ha sentito parlare allora dovrà
riconoscere che credevo in Elijah Muhammad e lo rappresentavo in tutto: non cercai mai di
attribuirmi alcun merito .
Non ci fu una sola di quelle discussioni in cui non saltasse fuori qualcuno ad accusarmi di
«incitare i negri alla violenza» .
Non c'era bisogno di una specifica preparazione per rispondere a ciò .
«Il più grande miracolo compiuto dal cristianesimo qui in America è che, nelle mani dei
cristiani bianchi, il negro non è diventato violento. E' UN MIRACOLO se ventidue milioni di
negri non si sono RIBELLATI ai loro oppressori, cosa che sarebbe stata giustificata da qualsiasi
principio morale e perfino dalla tradizione democratica! E' un miracolo che una nazione di
negri abbia continuato con tanto fervore a credere nella filosofia del "porgi l'altra guancia" e del
"paradiso dopo la morte"! E' UN MIRACOLO se i negri americani sono rimasti un popolo
pacifico dopo tutti i secoli di inferno che hanno subito qui nel paradiso dell'uomo bianco! Il
MIRACOLO è che i leader negri, queste marionette dell'uomo bianco, i pastori e i negri colti
carichi di lauree e tutti gli altri cui è stato permesso di sfruttare a sangue i loro poveri fratelli,
siano riusciti fino ad oggi a tenere a freno le masse negre» .
Vi assicuro che ogni volta che mi sono trovato negli studi della radio e della televisione con
quei fantocci negri vittime del lavaggio del cervello e «ubriachi di integrazione», tra quei
diavoli infidi che cercavano di farmi a pezzi, ho sempre fatto del mio meglio, finché la luce
rossa che annunciava «trasmissione» restava accesa, per rappresentare Elijah Muhammad e la
Nazione dell'Islam .
Il libro di C. Eric Lincoln fu pubblicato tra discussioni e polemiche su noi Muslims proprio
nello stesso periodo in cui cominciavamo a organizzare le nostre prime manifestazioni di massa
.
Nello stesso modo in cui il programma televisivo "L'odio che ha prodotto l'odio" aveva creato
un'immagine di noi come «propagandisti di odio», ora la stampa s'impadronì del titolo del libro
di Lincoln "The Black Muslims in America" .
L'espressione «Black Muslims» apparve in tutte le recensioni che di solito erano fatte lodando il
testo di Lincoln e citando solo i passi critici nei nostri confronti .
L'attenzione del pubblico si fissò sull'espressione Black Muslims che, da Muhammad fino
all'ultimo membro della Nazione dell'Islam, dispiacque a tutti. Per almeno due anni cercai di
contrastare l'uso di quel «Black Muslims» dicendo a tutti i giornalisti e davanti a qualsiasi
microfono: «NO! Noi siamo UOMINI negri qui in America e la nostra RELIGIONE è l'Islam.
Il nostro vero nome è Muslims ». Malgrado ciò, quella definizione rimase .
Fin dal principio le nostre manifestazioni di massa ebbero uno strepitoso successo. Laddove in
passato il piccolo tempio numero uno di Detroit era orgoglioso se riusciva a organizzare una
carovana di dieci automobili per andare a Chicago a sentire Muhammad, ora dai templi della
costa orientale - dai più vecchi come dai più recenti che tutta quella massiccia pubblicità aveva
contribuito a far sorgere - centocinquanta, duecento e persino trecento autobus partivano diretti
alle località dove, di volta in volta, Muhammad parlava. Su ciascun autobus erano di servizio
due membri del Frutto dell'Islam e sulle fiancate venivano posti due striscioni con l'emblema
della Nazione in modo che tutti quelli che transitavano sull'autostrada e le migliaia e migliaia di
persone delle città attraversate potessero vederlo .
Altre centinaia di Muslims e di negri curiosi venivano con le loro automobili mentre
Muhammad partiva da Chicago sul suo aereo a reazione personale. Il seguito di automobili che
accompagnava Muhammad dall'aeroporto al luogo della manifestazione era scortato da
automezzi della polizia con le sirene spiegate. I rappresentanti della legge che in passato
avevano definito i membri della Nazione dell'Islam come degli «esaltati negri», ora facevano di
tutto per impedire che qualche «esaltato bianco» potesse provocare degli incidenti .
In America non si erano mai visti dei raduni di negri così poderosi. Per venire ad ascoltare
Elijah Muhammad, diecimila e più negri arrivavano con mezzi pubblici e privati ed affollavano
le grandi sale che la Nazione prendeva in affitto, come per esempio la Saint Nicholas Arena di
New York City, il Coliseum di Chicago e la Uline Arena di Washington .
Ai bianchi era proibito l'ingresso: era la prima volta che i negri americani potevano permettersi
una cosa del genere e ciò naturalmente ci attirò nuovi attacchi da parte dei bianchi e dei loro
fantocci negri. «Segregazionisti negri... razzisti!»: che coraggio scagliare contro di NOI tali
accuse quando in tutta l'America i divieti posti dai bianchi ai danni dei negri erano prassi
normale! Diverse centinaia di persone arrivavano troppo tardi per trovare da sedere e perciò
eravamo costretti a sistemare altoparlanti all'esterno del locale. Un'atmosfera addirittura
elettrica eccitava le grandi e mobili masse dei negri. I membri del Frutto dell'Islam si tenevano
in contatto tra loro con radiotelefoni portatili per mantenere in perfetto ordine le lunghe file che,
allineate per tre o quattro, essi formavano davanti all'entrata della sala. Nell'atrio altri uomini
del Frutto dell'Islam e sorelle Muslim con il lungo abito bianco e il velo perquisivano
accuratamente tutti gli uomini, le donne e i bambini che cercavano di entrare. Dovevano esser
consegnati all'entrata bevande alcoliche, tabacco e articoli da fumo oltre a qualsiasi oggetto che
potesse essere adoperato per far del male a Muhammad. Sembrava che il Messaggero avesse
una paura mortale degli attentati e insisteva perché tutti fossero perquisiti .
Oggi capisco bene perché .
Le centinaia di uomini del Frutto dell'Islam costituivano i contingenti che arrivavano la mattina
presto dai loro templi delle città più vicine. Alcuni facevano da maschere e si preoccupavano di
accompagnare una parte degli ascoltatori in platea in posti già assegnati, mentre le gallerie e
circa metà delle poltrone erano occupate dal grosso del pubblico. Davanti a questo c'erano i
settori riservati ai Muslims: le belle sorelle negre tutte vestite di bianco e i fratelli che
indossavano abiti scuri e camicie immacolate. Un settore speciale nelle prime file era riservato
ai cosiddetti «dignitari» negri. Ne venivano invitati molti e tra di loro c'erano i nostri avversari,
i fantocci e i pappagalli negri, quegli intellettuali e professionisti per i quali Muhammad si
addolorava così tanto perché loro che erano colti avrebbero dovuto trovarsi in prima fila nella
lotta per far uscire dal labirinto della miseria e della disperazione i loro fratelli negri poveri.
Non volevamo che perdessero una sola sillaba delle verità che Muhammad in persona diceva .
Nel settore riservato alla stampa c'erano giornalisti e fotografi che rappresentavano la stampa
negra o che lavoravano per i giornali, le riviste, la radio e la televisione dei bianchi. Gli scrittori
negri americani dovrebbero fare un monumento a Muhammad perché per molti di essi scrivere
sulla Nazione dell'Islam rappresentò la via al successo .
Sulla tribuna centrale noi pastori e altri dirigenti della Nazione sedevamo in cinque o sei file
dietro la grande sedia riservata a Muhammad. Alcuni dei pastori avevano viaggiato centinaia e
centinaia di miglia per essere presenti. Ci voltavamo sorridendo, ci stringevamo le mani
scambiandoci il saluto con la sincera gioia di rivederci: «As-Salaam-Alaikum» e «WaAlaikum-Salaam» .
Ogni volta parecchi nuovi pastori di piccoli templi di recente fondazione venivano per
conoscere noi veterani al servizio di Muhammad. I miei fratelli Wilfred e Philbert erano
rispettivamente pastori dei templi di Detroit e Lansing; Jeremiah X era a capo del tempio di
Atlanta; John X di quello di Los Angeles; il figlio del Messaggero, Wallace Muhammad, del
tempio di Philadelphia; Woodrow X dirigeva il tempio di Atlantic City. Alcuni dei nostri
pastori venivano da esperienze diverse e avevano un passato insolito. Lucius X, del tempio di
Washington, era stato un avventista del settimo giorno e aveva fatto parte della massoneria; il
pastore George X del tempio di Camden nel New Jersey era un patologo; David X era stato
precedentemente pastore di una chiesa cristiana di Richmond nella Virginia .
Insieme con una parte notevole dei suoi fedeli era diventato Muslim cosicché la congregazione
si scisse e la maggioranza trasformò la chiesa nel nostro tempio. Il giovane e brillante pastore
del tempio di Boston, Louis X, che era stato un noto e promettente cantante soprannominato
«l'incantatore» aveva scritto la prima canzone popolare dedicata a noi e intitolata "Il paradiso
dell'uomo bianco è l'inferno del negro". Lo stesso Louis X aveva scritto il nostro primo lavoro
teatrale, "Orgena" («A Negro» scritto all'incontrario) il cui tema centrale era costituito dal
processo fatto da giudici negri a un simbolico uomo bianco per tutti i delitti da esso compiuti
nei confronti delle razze di colore di tutto il mondo. Riconosciuto colpevole e condannato a
morte, veniva trascinato via mentre gridava tutto ciò che «di buono» aveva fatto per i negri .
Ancora più giovani del nostro geniale Louis X erano alcuni nuovi pastori come per esempio
Thomas J. X del tempio di Hartford e Robert J. X del tempio di Buffalo .
Avevo fondato oppure organizzato la maggior parte dei templi rappresentati a queste riunioni e
perciò salutare i pastori era per me un riportare alla memoria le immagini di quell'andare «a
pesca» per le strade e di porta in porta, dovunque ci fossero dei negri. Mi ricordavo delle
innumerevoli riunioni fatte nei salotti di case private in cui sette persone erano già da
considerarsi una folla e poi lo sviluppo graduale, fino ad affittare le sedie pieghevoli da
sistemare in sudici negozi che i Muslims ripulivano fino a farli diventare immacolati e degni di
ospitare il nostro tempio .
Noi tutti insieme sulla tribuna di quelle enormi sale e il grande pubblico davanti a noi eravamo,
ai miei occhi, la miracolosa manifestazione dell'incomprensibile potere di Allah .
Per la prima volta capivo veramente quello che Muhammad mi aveva detto: che quando
affrontava le dure prove impostegli dal dover sfuggire, di città in città gli ipocriti negri, Allah
gli aveva spesso mandato visioni di grandi folle che un giorno avrebbero ascoltato i suoi
insegnamenti. Muhammad mi diceva anche che tali visioni lo avevano assalito quando, per
anni, era stato rinchiuso nella prigione dell'uomo bianco .
Il continuo parlottio della folla cessava e si avvicinava al microfono il segretario della Nazione
dell'Islam John Ali, oppure il pastore Louis X del tempio di Boston, i quali animavano
l'atmosfera parlando dei nuovi orizzonti che la Nazione dell'Islam stava schiudendo al negro. La
sorella Tynetta Dynear descriveva con belle parole i forti vitali contributi delle donne Muslim e
il ruolo che esse svolgevano nel quadro dell'azione generale dei seguaci di Muhammad per
elevare le condizioni fisiche, mentali, morali, sociali e politiche dei negri americani .
Poi prendevo la parola io con lo scopo preciso di preparare il pubblico alle parole di
Muhammad che era venuto in aereo da Chicago per parlarci di persona .
Alzavo la mano dicendo: «As-Salaikum-Salaam» .
«Wa-Alaikum-Salaam!» era la poderosa risposta della grande folla dei Muslims .
C'era uno schema generale che seguivo in queste occasioni: «Miei fratelli e sorelle negri di
tutte le credenze religiose o di nessuna fede, noi abbiamo in comune il più grande legame che
esista... siamo tutti NEGRI! «Non dedicherò tutto il giorno a descrivervi la grandezza del
molto onorevole Elijah Muhammad, ma vi dirò soltanto qual è il suo merito PIU' GRANDE.
Egli è il PRIMO, il SOLO leader negro che abbia saputo indicare a voi e a me CHI è il nostro
nemico! «Il molto onorevole Elijah Muhammad è il primo leader negro tra di noi che abbia il
CORAGGIO di dirci in pubblico quello che, se ci pensate nell'intimità della vostra casa, vi
accorgerete che noi negri abbiamo sempre PORTATO con noi, abbiamo VISTO, abbiamo
SOFFERTO durante tutta la nostra vita! «IL NOSTRO NEMICO E' L'UOMO BIANCO! «Ma
perché Muhammad ci insegna una cosa tanto grande? Perché quando si conosce il proprio
nemico questi non può più tenerci divisi, in lotta tra di noi, un fratello contro l'altro. Perché
quando si RICONOSCE il nemico questi non può più servirsi dell'inganno, delle promesse,
dell'ipocrisia e della crudeltà per mantenerci sordi, muti e ciechi .
«Quando si riconosce il nemico questi non può più farci il lavaggio del cervello, non può più
bendarvi gli occhi perché non vediate che, mentre LUI su questa terra vive in PARADISO, voi
siete all'INFERNO! Questo nemico vi dice che sia lui che voi dovete adorare lo stesso Dio
cristiano bianco che, vi viene raccontato, vuole le stesse cose per TUTTI gli uomini! «Quel
diavolo è il nostro nemico ed io ve lo PROVERO'. Prendete qualsiasi quotidiano e leggete tutte
le false accuse che vengono scagliate contro il nostro amato leader. Ciò dimostra soltanto che i
bianchi non vogliono che altri negri all'infuori dei loro fantocci o scimmie ammaestrate parlino
alla nostra gente. Questo diabolico negriero di razza caucasica non vuole che lo lasciamo, però
quando siamo qui in mezzo a lui fa di tutto per tenerci al LIVELLO PIU' BASSO della sua
società! «L'uomo bianco è sempre stato CONTENTISSIMO quando ha potuto tenerci in
disparte, lontani dagli occhi di tutti, clandestini, ed è per questo che ha avuto sempre UN
DEBOLE per quei leader negri ai quali poteva domandare: "Bene, come vanno le cose laggiù
da voi?" Ma poiché Elijah Muhammad assume una posizione di intransigenza nei suoi confronti
l'uomo bianco lo ODIA e quando sentite dire ciò anche voi che non comprendete la profezia
biblica, a torto chiamate Muhammad razzista, seminatore di odio, nemico dei bianchi e fautore
della supremazia negra...» A questo punto il pubblico cominciava ad agitarsi sulle sedie.. .
Muhammad veniva a passi rapidi dal fondo della sala fino al centro della tribuna, allo stesso
modo in cui era solito entrare nelle nostre piccole moschee. Quest'uomo che noi consideravamo
come il dolce, mansueto agnello dalla pelle bruna, procedeva a passi rapidi tra le guardie del
Frutto dell'Islam, uomini poderosi, scelti e disciplinatissimi che formavano un circolo attorno a
lui. Muhammad portava il suo sacro Corano, mentre sul piccolo fez che gli copriva il capo
scintillavano ricamati in oro la bandiera dell'Islam, il sole la luna e le stelle. I Muslims
manifestavano la loro adorazione e il loro saluto con le grida di: «Agnellino! ... As-Salaikum-
Salaam! ... Sia lodato Allah» .
Oltre a me c'era molta gente che aveva le lacrime agli occhi .
Muhammad mi aveva salvato quand'ero detenuto, mi aveva istruito nella sua casa come se fossi
stato suo figlio e credo che le maggiori commozioni della mia vita, almeno fino a poco tempo
fa, siano state quando le guardie del Frutto dell'Islam si fermavano ponendosi in una rigida
posizione di attenti mentre Muhammad saliva i gradini della tribuna e i suoi pastori, tra cui c'ero
anch'io, gli andavano incontro, lo abbracciavano e gli stringevano ambedue le mani.. .
Riprendevo il microfono per non far aspettare quelle enormi folle negre che erano venute ad
ascoltarlo .
«Miei fratelli e sorelle negri, NESSUNO saprà CHI siamo finché non lo sappiamo noi stessi.
Non potremo mai muoverci in una direzione finché non sappiamo dove siamo. Il molto
onorevole Elijah Muhammad ci dà una vera identità, una chiara posizione e questa è la prima
volta che al negro americano si offre una simile prospettiva! «Si può essere vicini a quest'uomo
e non arrivare mai a immaginare dalle sue azioni quali siano il suo potere e la sua autorità... »
(Dietro di me, credetemi, SENTIVO IL POTERE di Muhammad) .
«Egli NON FA SFOGGIO DEL SUO POTERE, NON LO METTE IN PIAZZA, ma non c'è
nessun altro leader negro in America che abbia seguaci disposti a offrire la vita a un suo cenno.
Non mi riferisco a questa specie di non violenti che chiedono l'elemosina all'uomo bianco... a
tutti quei sit-ins, a quel cercare di infilarsi nelle piscine, nei ristoranti, nei locali pubblici dei
bianchi... «Miei fratelli e sorelle negri, siete venuti per ascoltare IL NEGRO PIU' SAGGIO
dell'America, IL PIU' CORAGGIOSO, IL PIU' AUDACE. Ecco, ora lo ascolterete, ascolterete
il NEGRO PIU' POTENTE che esista in questo deserto che è l'America del Nord!»
Muhammad si avvicinava al microfono guardando il pubblico ora perfettamente silenzioso, per
pochi secondi, con il suo viso dolce immobile. Poi diceva: «As-Salaikum-Salaam » .
«WA-ALAIKUM-SALAAM!» tuonavano i Muslims in attesa di ascoltare .
Per esperienza il pubblico sapeva che per due ore Muhammad avrebbe fatto balenare la sua
spada della verità a due tagli .
Infatti tutti, conoscendo la gravità della sua asma bronchiale, si preoccupavano dello sforzo che
la lunghezza dei suoi discorsi gli imponeva .
«Non ho una laurea come ce l'hanno molti di voi che mi state a sentire, ma la storia non si
preoccupa delle lauree .
«L'uomo bianco vi ha inculcato da sempre il terrore di sé, sin da quando eravate bambini, e
così siete sopraffatti dal più grande nemico che l'uomo possa avere, dalla paura. So che tra di
voi c'è chi ha paura di ascoltare la verità perché siete cresciuti tra il timore e la menzogna, ma io
vi dirò la verità finché non vi sarete liberati dalla paura.. .
«Il vostro padrone vi trascinò qui in catene e ogni traccia del vostro passato fu distrutta. Oggi
voi non conoscete più la vostra vera lingua. Da quale tribù provenite? Non sapreste
riconoscerne il nome se qualcuno ve lo dicesse. Non sapete niente della vostra vera cultura e
non conoscete neppure il vostro vero nome di famiglia. Portate il nome di un UOMO BIANCO,
del padrone di schiavi che vi ODIA! «Siete un popolo che crede di sapere tutto sulle Sacre
Scritture, sul cristianesimo e arrivate persino alla suprema stoltezza di credere che non ci sia
niente di GIUSTO all'infuori del cristianesimo! «Voi siete, unico al mondo, il solo gruppo di
gente che non conosce se stessa, i propri fratelli, la sua vera storia e il suo nemico! Sapete
soltanto ciò che il vostro padrone bianco decide di dirvi e lui, da parte sua, vi ha sempre detto
solo quel che faceva comodo a lui e alla sua specie. Vi ha insegnato, nel suo esclusivo interesse,
che voi siete il cosiddetto "negro" indifferente, inetto, impotente .
«Ho usato la parola "cosiddetto" perché voi non siete "negri" .
Non esiste una razza di NEGRI. Voi siete membri della nazione asiatica e provenite dalla tribù
di Shabazz! Il termine "negro" è una falsa etichetta che vi è stata appiccicata dal padrone
bianco, il quale ci ha imposto ogni cosa, a voi, a me e a tutti i nostri fratelli, fin da quando portò
su queste coste la prima nave carica di schiavi... » Quando Muhammad si fermava, i Muslims
davanti a lui gridavano: «Agnellino!... Sia lodato Allah!... INSEGNACI, Messaggero!» Ed egli
così continuava: «L'IGNORANZA di noi negri qui in America, l'ODIO che abbiamo per noi
stessi, sono perfetti esempi di quello che il padrone bianco ha deciso per noi. Siamo capaci
forse, come qualsiasi altro popolo sul nostro pianeta, di dar prova del più semplice buon senso
unendoci tra di noi? No. Ci umiliamo, facciamo i sit-ins, andiamo a mendicare l'integrazione
con il padrone di schiavi .
Non riesco a immaginare niente di più ridicolo. Ogni giorno, in mille modi, l'uomo bianco vi
dice: "Non potete abitare qui, è vietato l'ingresso, è proibito mangiare qui, bere, camminare,
lavorare, è proibito passare in macchina, giocare, studiare". Ma non avete avuto abbastanza
prove che non ha nessuna intenzione di UNIRSI con voi? «Avete coltivato i suoi campi, gli
avete cucinato il cibo, gli avete lavato la roba, avete avuto cura di sua moglie e dei suoi figli
quando lui non c'era e, in molti casi, lo avete persino ALLATTATO. Siete stati di gran lunga
cristiani migliori di questo padrone di schiavi che vi INSEGNO' il suo cristianesimo! «Avete
sudato sangue per aiutarlo a costruire un paese così ricco che oggi si può permettere di
distribuire milioni di dollari persino ai suoi NEMICI e quando questi hanno ricevuto abbastanza
da essere in grado di attaccarlo, voi lo avete difeso coraggiosamente e siete MORTI per esso.
Durante i cosiddetti periodi di pace, siete sempre stati i suoi più fedeli servitori.. .
«EPPURE, questo americano bianco cristiano non ha saputo trovare in se stesso abbastanza
COMPRENSIONE, abbastanza senso di GIUSTIZIA per riconoscere ed accettare noi negri che
abbiamo fatto così tanto per lui come esseri umani!» «Proprio così!»... «UM-HUH!»...
«INSEGNA, Messaggero».. .
«DIGLIELO»... «Hai RAGIONE!»... «Non ti affannare troppo, piccolo Messaggero »...
«PROPRIO COSI'! » Oltre i Muslims anche altri gridavano: noi eravamo assai meno estroversi
dei negri cristiani. A questo punto il raduno prendeva l'aspetto di una riunione di pionieri
intorno ai fuochi del bivacco .
«Perciò noi negri SEPARIAMOCI da questo padrone di schiavi che ci disprezza tanto! Voi
mendicate da lui un po' della cosiddetta INTEGRAZIONE, ma guardate un po' cosa va dicendo
questo bianco STUPRATORE! Che lui non vuole integrarsi con noi perché il sangue negro
IMBASTARDIREBBE la sua razza. LUI dice questo e guardiamoci un po' tra di noi, voltate la
testa e guardatevi bene uno con l'altro. Questo padrone di schiavi bianco ci ha già INTEGRATI
al punto che tra di noi si trovano ormai pochissimi fratelli con il colore ebano dei nostri
antenati!» «Per Dio, ha ragione!»... «INSEGNA, Messaggero»... «ASCOLTATELO!
ASCOLTATELO!» «Ha lasciato in noi così poco nero, - continuava Muhammad, che ora ci
disprezza al punto da dirci che, GIURIDICAMENTE, se abbiamo nelle vene UNA SOLA
GOCCIA di sangue nero, ciò significa che siamo completamente negri dal punto di vista delle
sue leggi! Lui ci disprezza perché disprezza SE STESSO per tutto ciò che ci ha FATTO. Se
tutto quello che ci è rimasto è quella goccia di sangue nero, ebbene noi la rivendichiamo!» Si
vedeva chiaramente che le sue deboli forze lo stavano abbandonando, ma Muhammad
proseguiva: «SEPARIAMOCI da questo uomo bianco e per la stessa ragione che lui dice, cioè
fin che siamo in tempo per salvarci da ogni ulteriore INTEGRAZIONE .
«Per quale ragione quest'uomo bianco che ama chiamarsi buono e generoso, che finanzia
persino i suoi nemici, NON DOVREBBE mantenere uno stato separato, un territorio a sé per
noi negri che siamo stati i suoi fedeli schiavi e servitori? Un territorio separato in cui noi
potremmo vivere abbandonando per sempre gli slums e in cui non avremmo più bisogno della
sua BENEFICENZA .
Perfino per QUELLI che si lamentano che gli costiamo troppo ciò rappresenterebbe un sollievo,
perché saremmo in grado di aiutarci DA SOLI! Non abbiamo mai fatto quello che AVREMMO
POTUTO, perché siamo stati condizionati e indottrinati così bene dal padrone di schiavi bianco
da esser convinti di dover andare da lui a chiedere in elemosina il soddisfacimento dei nostri
bisogni...» Dopo circa un'ora e mezzo, tutti i pastori che sedevano dietro Muhammad dovevano
trattenersi dallo slanciarsi vicino a lui e pregarlo di smettere. Egli stringeva i bordi del leggio
sulla tribuna per sostenersi .
«Noi negri non SAPPIAMO cosa siamo capaci di fare. Di nessuna cosa si può dire quali
saranno le sue possibilità finché non sia lasciata LIBERA di agire e manifestarsi. Se avete un
gatto che carezzate e vezzeggiate, dovrete liberarlo, lasciare che se la cavi da sé nei boschi
prima di stabilire se il gatto abbia o no le doti di procurarsi da sé cibo e rifugio! «Noi negri qui
in America non siamo mai stati LIBERI di scoprire cosa realmente siamo in grado di FARE.
Abbiamo conoscenze ed esperienze da mettere insieme per potercela cavare da soli .
Siamo stati da secoli contadini e siamo quindi in grado di produrre il cibo che ci occorre,
possiamo creare delle fabbriche che producano le merci che ci abbisognano. metter su altre
forme di attività commerciale e diventare indipendenti come altri popoli civili.. .
«Possiamo RIFIUTARE il lavaggio del cervello, liberarci dall'odio verso noi stessi e vivere
insieme come FRATELLI.. .
«... un po' di terra tutta PER NOI!... qualcosa PER NOI!.. .
lasciare a se stesso questo padrone di schiavi bianco...» Muhammad si fermava sempre
d'improvviso quando non ce la faceva più a parlare. L'ovazione del pubblico, come un vero e
proprio muro del suono, continuava senza interruzioni .
In piedi sulla tribuna, agitando le braccia, riuscivo finalmente a far star zitto il pubblico mentre
gli uomini del Frutto dell'Islam appositamente incaricati cominciavano a passare in platea con
dei grandi secchi di carta cerata in cui raccoglievano le offerte. Poi parlavo io: «Da quello che
avete appena sentito capirete che il molto onorevole Elijah Muhammad e il suo programma non
sono finanziati dal denaro bianco. I soldi i bianchi glieli darebbero per "consigliarlo" e
"fermarlo". Il programma del Messaggero di Allah e i suoi seguaci non sono "integrati"; la
nostra organizzazione è COMPLETAMENTE negra .
«Noi siamo l'UNICA organizzazione negra finanziata SOLO da negri. Le cosiddette
organizzazioni "per il progresso negro" sono un insulto alla vostra intelligenza perché
sostengono di battersi nel vostro interesse, di conquistare un'eguaglianza di diritti che voi
chiedete e... di COMBATTERE l'uomo bianco che si rifiuta di riconoscere i vostri diritti.
Ebbene, queste organizzazioni SONO SOSTENUTE dall'uomo bianco. I membri pagano due,
tre o cinque dollari all'anno, ma CHI è che fa ad esse delle donazioni di due, tre o cinquemila
dollari? L'uomo BIANCO! E' lui che le ALIMENTA; è lui che le controlla; è lui che fa da
CONSIGLIERE e ne ARRESTA ogni slancio. Adoperate il vostro buon senso: non è forse vero
che si dànno consigli, si controllano e si frenano tutti coloro che, come per esempio i nostri
figli, manteniamo? «L'uomo bianco sarebbe contentissimo di finanziare Elijah Muhammad
perché se Muhammad dovesse basarsi su quell'aiuto potrebbe DAR CONSIGLI a Muhammad.
Fratelli e sorelle negri, è solo perché il VOSTRO denaro, il denaro NEGRO lo sostiene che
Muhammad può organizzare questi raduni nelle varie città e dire a noi negri la VERITA'! Ecco
perché noi chiediamo il vostro appoggio, L'APPOGGIO soltanto dei negri!» Le banconote,
quasi sempre molto più grosse di un dollaro, colmavano i secchielli di carta cerata che gli
uomini del Frutto dell'Islam vuotavano e riempivano rapidamente. L'atmosfera tra il pubblico
era come se la gente fosse ipnotizzata. Quanto alle collette, servivano a pagare le spese dei
raduni e quello che avanzava veniva investito nell'ulteriore sviluppo della Nazione dell'Islam .
Dopo parecchi grandi raduni, Muhammad dette istruzioni perché ammettessimo la stampa
bianca. Gli uomini del Frutto dell'Islam perquisivano accuratamente i giornalisti, come del resto
facevano con tutti gli altri, guardavano i loro taccuini, le macchine fotografiche, gli astucci e
tutti gli altri oggetti che avevano addosso. Più tardi Muhammad disse che TUTTI i bianchi che
volevano sentir la verità potevano esser presenti ai nostri raduni pubblici e ben presto
organizzammo un piccolo settore separato per loro, sempre strapieno .
La maggior parte dei bianchi che venivano erano studenti e studiosi. Guardavo i loro volti tesi
e congestionati mentre fissavano Muhammad che diceva: «L'uomo bianco sa che il suo modo di
agire è quello di un diavolo!» Guardavo anche l'espressione di quei professionisti negri, di quei
cosiddetti intellettuali che ci attaccavano. Avevano la preparazione accademica, le conoscenze
tecniche e scientifiche con le quali avrebbero potuto aiutare la massa dei loro fratelli negri
poveri ad uscire da quella condizione, ma tutti questi intellettuali e professionisti non
sembravano preoccuparsi di altro che di umiliarsi, di chieder l'elemosina nel tentativo di
integrarsi con il cosiddetto uomo bianco liberale che diceva loro: «Col tempo... tutto andrà bene
col tempo... aspettate pazientemente!» Questi intellettuali e professionisti negri non potevano
adoperare la loro cultura al servizio dei fratelli poveri semplicemente perché non erano uniti
neanche tra di loro. Se lo fossero stati, se si fossero sentiti tutt'uno con gli uomini della loro
specie, avrebbero aiutato in maniera decisiva tutti i popoli di colore del mondo! Guardavo i
volti di quegli intellettuali e professionisti negri che, messi al cospetto della verità, diventavano
tesi e impenetrabili .
Eravamo sorvegliati; i nostri telefoni erano sotto controllo ed anche oggi se dicessi dal mio
telefono di casa: «Vado a far saltare in aria l'Empire State Building», vi garantisco che in
cinque minuti l'edificio sarebbe circondato. Quando parlavo in pubblico indovinavo
immediatamente quali erano gli agenti dell'F.B.I. mescolati tra la folla, o i membri di qualche
altro corpo di polizia. Questi agenti ci venivano spesso a far visita rivolgendoci precise e
insistenti domande. «Non ho paura di loro, - diceva Muhammad, posseggo tutto ciò di cui ho
bisogno: la verità» .
Molto spesso mi svegliavo la notte pensando con meraviglia a come gli insegnamenti di quella
spada a due tagli potevano turbare, confondere e preoccupare un governo formato di uomini
esperti in tutte le scienze moderne. Mi pareva di poter concludere che ciò non sarebbe mai
potuto accadere a meno che lo stesso Allah, che è somma sapienza, non avesse dato qualcosa di
particolare al piccolo Messaggero che aveva fatto solo la quarta elementare .
Furono mandati degli agenti negri ad infiltrarsi nella nostra organizzazione, ma spesso le spie
«segrete» dell'uomo bianco si sentivano prima di tutto negri. Non dico TUTTI, anche perché
non c'è modo di saperlo, ma alcuni di loro, dopo essersi fatti membri della Nazione dell'Islam e
aver ascoltato, visto e sentito la verità, ci rivelarono perché e da chi erano stati mandati. Alcuni
dettero le dimissioni dal corpo di polizia da cui dipendevano e si misero a lavorare per noi; altri
invece rimasero al loro posto per fare il controspionaggio e rivelarci le intenzioni e i piani dei
bianchi nei confronti della Nazione dell'Islam .
Riuscimmo in tal modo a sapere che ciò che interessava maggiormente la polizia era di sapere
quello che accadeva nei nostri templi. Subito dopo le autorità poliziesche avevano la
preoccupazione, che ancor oggi rimane una delle maggiori che turba gli esperti di problemi
penali in America, per la proporzione sempre crescente dei detenuti negri che abbracciavano la
causa dell'Islam .
Generalmente gli adepti che facciamo tra i detenuti si preparano a seguire le leggi morali della
Nazione dell'Islam mentre sono ancora in prigione e, come accadde a me, quando escono
entrano in un tempio per iscriversi regolarmente all'organizzazione .
Infatti questi detenuti convertiti erano di solito meglio preparati dei numerosi Muslims
potenziali che non erano mai stati in prigione .
Entrare da noi non era così facile come diventare membri di una chiesa cristiana. Non bastava
dichiararsi seguaci di Muhammad e poi continuare a condurre la stessa vita immorale di prima .
Prima di tutto il Muslim doveva modificare la sua personalità fisica e morale per conformarsi
alle nostre regole severe e poi, se voleva restar tale, doveva continuare a rispettarle .
Per esempio, c'erano poche riunioni nei nostri templi in cui il pastore non vedesse tra il
pubblico le teste da poco rasate di nuovi fratelli Muslim i quali avevano per sempre rinunciato a
quei capelli falsi, stirati, dai riflessi metallici o, come qualcuno li chiama oggi, alla «stiratura
permanente». Mi addolora vedere un po' dovunque, sulle teste di molti negri, questo simbolo
dell'ignoranza e dell'odio verso se stessi. So che quanto dico addolorerà alcuni dei miei buoni
amici non Muslim i quali continuano a stirarsi i capelli, ma se si considera con attenzione la
personalità dei negri che si sottopongono a tale trattamento, di solito si scopre che sono degli
ignoranti. Qualunque sia la posizione di cui si vanta, i suoi capelli stirati per «avere l'aria del
bianco» dicono chiaramente che si vergogna di essere un negro. Come successe a me, anch'egli
si accorgerà improvvisamente di esser progredito dal punto di vista mentale quando troverà in
sé abbastanza orgoglio per tagliarsi tutta quella chioma appiccicosa e far ricrescere i capelli
naturali che Dio ha dato ai negri .
Un'altra delle nostre regole era che il Muslim non deve fumare .
Alcuni aspiranti membri della Nazione dell'Islam trovarono più difficile smettere di fumare di
quanto non lo fosse per coloro che dovevano liberarsi dell'abitudine di prendere gli
stupefacenti. Tuttavia sia gli uomini che le donne negre smettevano più facilmente quando
consigliavamo loro di considerare il fatto che il governo dell'uomo bianco si preoccupava molto
meno della salute pubblica che non dei MILIARDI di dollari che l'industria del tabacco gli
portava sotto forma di tasse. «Cosa paga un membro delle forze armate per una stecca di
sigarette?» chiedevamo all'aspirante Muslim .
Questa domanda lo aiutava a capire che su ogni stecca di sigarette da lui acquistata il governo
dell'uomo bianco prendeva non sul valore del tabacco, ma solo di tasse, circa due dollari, due
dollari sudati dal negro .
Forse avrete letto, anche perché molto è stato scritto sull'argomento, i fenomenali risultati
ottenuti dalla Nazione dell'Islam nel guarire un grandissimo numero di tossicomani incalliti.
Una volta il «New York Times» pubblicò un articolo in cui si diceva che alcune organizzazioni
di assistenza sociale si erano rivolte ai rappresentanti del programma Muslim per consulenze di
carattere clinico .
Il programma Muslim partiva dalla premessa che esiste un preciso rapporto tra il colore della
pelle e l'uso degli stupefacenti .
Non è un caso che in tutto l'emisfero occidentale il luogo di maggior concentrazione di
tossicomani sia proprio Harlem .
Il primo e più importante elemento della nostra cura era costituito dal paziente lavoro di
Muslims che, precedentemente, erano stati pure loro dediti all'uso degli stupefacenti .
Nella giungla dei tossicomani del ghetto, i Muslims disintossicati andavano «a pesca» delle
loro vecchie conoscenze e poi, con una incredibile pazienza che durava da pochi mesi fino ad
addirittura un anno, si adopravano per guidare i malati attraverso le sei fasi del nostro processo
terapeutico .
Per prima cosa si spingeva il tossicomane a riconoscersi e considerarsi tale. Poi gli si insegnava
perché prendeva gli stupefacenti e successivamente gli si faceva vedere che esisteva un modo
per arrestare l'assuefazione. Il quarto punto consisteva nel rafforzare e ricostruire l'immagine
indebolita che il tossicomane aveva di se stesso fino a fargli riconoscere che aveva dentro di sé
la forza per porre fine alla sua schiavitù .
La quinta fase consisteva nella decisione volontaria dell'intossicato di sospendere tutto d'un
colpo l'uso dei narcotici. Il sesto stadio era raggiunto quando, finalmente guarito, l'ex
cocainomane completava il ciclo andando «a pesca» di altri da lui conosciuti e contribuendo al
loro ricupero .
Quest'ultimo stadio eliminava automaticamente quello che è uno degli ostacoli più
insormontabili per gli enti di assistenza sociale e cioè l'ostilità e il sospetto dei pazienti. Il
cocainomane che veniva «pescato» sapeva che il Muslim che lo andava a cercare aveva avuto
fino a poco tempo prima lo stesso vizio, e che aveva consumato anche lui ogni giorno narcotici
per un valore dai quindici ai trenta dollari. Poteva darsi magari che fossero stati amici
inseparabili i quali prima trafficavano insieme nella stessa giungla degli stupefacenti, oppure
ladri nella stessa banda. Il tossicomane aveva visto il suo amico Muslim che si addormentava in
piedi appoggiato a un muro o che, se c'era una pagliuzza sul marciapiede, alzava la gamba tanto
quanto sarebbe stato necessario per scavalcare un tronco d'albero. Inoltre il Muslim adoperava
lo stesso linguaggio della giungla degli intossicati .
Come l'alcolizzato, il tossicomane non può mai cominciare a curarsi finché non riconosce e
accetta la sua vera condizione .
Il Muslim gli sta appresso come una mignatta continuando a ripetergli: «Sei attaccato all'amo,
amico!» Può darsi che ci vogliano dei mesi prima che l'intossicato si ponga il problema e infatti
il programma di cura non incomincia mai davvero fino a quel momento .
La fase successiva è quella in cui il tossicomane si rende conto del motivo per cui prende gli
stupefacenti. Sempre alle costole del suo uomo, nel vecchio ambiente della giungla, in posti
inimmaginabili, il Muslim riesce spesso a mettere insieme gruppi di una dozzina di intossicati
che lo ascoltano soltanto perché sanno che quell'uomo pieno di dignità e dall'aspetto così
distinto era prima uno dei loro .
Egli spiega che chi prende gli stupefacenti lo fa per evadere da qualcosa, che gran parte dei
tossicomani negri tentano di drogarsi per dimenticare di essere negri nell'America dell'uomo
bianco, ma in realtà, facendo così, aiutano l'uomo bianco a «dimostrare» che il negro non è
niente .
Il Muslim parla chiaramente, trattando con la massima confidenza il suo interlocutore: «Daddy,
tu sai che so come la pensi. Ma non sono stato anch'io con voi? Mi grattavo come una scimmia,
puzzavo, vivevo male, sempre affamato, a rubare, a scappare e nascondermi perché "Whitey"
non mi acciuffasse. Ma per cos'altro credi che noi negri compriamo gli stupefacenti di "Whitey"
se non perché lui diventi più ricco mentre noi ci ammazziamo con le nostre stesse mani?» Il
Muslim è in grado di dire quando la sua «preda» è pronta a ricevere la dimostrazione che il
modo migliore per smettere di prendere gli stupefacenti è di entrare a far parte della Nazione
dell'Islam. Allora il tossicomane viene condotto nel ristorante Muslim della zona, oppure viene
messo a contatto con Muslims puliti e pieni di dignità che dimostrano affetto reciproco e
rispetto invece dell'ostilità che si trova per le strade del ghetto. Per la prima volta da anni si
sente chiamare normalmente e senza nessuna affettazione «fratello», «signore», mentre nessuno
si preoccupa del suo passato. Può darsi che capiti di parlare della sua intossicazione, ma se ciò
accade è solo per indicare un ostacolo particolarmente difficile da superare .
Tutti quelli che incontra si mostrano fiduciosi che riuscirà a liberarsi dal vizio .
Via via che il tossicomane viene costruendo questa nuova immagine di sé, è inevitabile che
cominci a pensare di poter rompere la sua abitudine. Per la prima volta sente su di sé gli effetti
dell'orgoglio di essere negro .
Questa è una potente combinazione di fattori positivi per chi è vissuto nel fango della società:
una volta che abbia trovato una motivazione, nessuno può cambiare più radicalmente di chi è
stato nella feccia. Porto me stesso ad esempio di ciò .
Viene poi il momento in cui il tossicomane decide volontariamente di smettere. Ciò vuol dire
sopportare l'agonia fisica di rinunciare all'improvviso agli stupefacenti .
Quando questo accade, i Muslims ex tossicomani organizzano dei turni, ventiquattr'ore su
ventiquattro, per assistere l'intossicato che vuole guarire e che ha iniziato il processo che lo
porterà a diventare anche lui un Muslim .
Quando comincia il ritiro e il tossicomane grida, maledice e si raccomanda: «Fammi
un'iniezione, una sola, amico!» i Muslims sono lì vicini e gli parlano nel gergo del vizio:
«Baby, scrollati di dosso quella scimmia! Caccia via quel vizio a calci! Levati di dosso
"Whitey"!» Il tossicomane è attanagliato dal dolore, gli cola il naso, gli lacrimano gli occhi e
suda abbondantemente dalla testa ai piedi; cerca di battere la testa contro il muro, agita le
braccia e prova a scagliarsi contro quelli che lo assistono, vomita ed è affetto da continua
diarrea. «Non tenere niente! Lascia uscire da te "Whitey", Baby! Vedrai come starai in piedi,
che figura farai! Ti vedo già nel Frutto dell'Islam!» Quando la terribile prova è finita e la morsa
della droga è spezzata, i Muslims confortano l'ex tossicomane che è diventato debolissimo e gli
dànno minestre e brodo ristretto per rimetterlo in piedi. Egli non dimenticherà mai questi fratelli
che lo hanno assistito in quelle drammatiche ore; non dimenticherà mai che è al programma
della Nazione dell'Islam che deve di essersi salvato dall'inferno della droga. Quel fratello negro
(o sorella, che sarà stata assistita dalle sorelle Muslim) molto difficilmente tornerà a prendere
gli stupefacenti e invece, quando si troverà pulito, dignitoso e rinnovato non vedrà l'ora di
tornare nella stessa giungla da cui è uscito per «pescare» qualche suo vecchio amico e salvarlo .
Se qualche bianco o qualche negro «approvato» avesse creato un programma per il recupero
degli intossicati altrettanto efficace di quello organizzato sotto l'egida dei Muslims, il governo
l'avrebbe subito finanziato, colmato di lodi, e i giornali e la televisione gli avrebbero dato il
massimo rilievo. Invece noi eravamo sottoposti a continui attacchi. Perché si dovrebbero
finanziare i Muslims per risparmiare migliaia di dollari all'anno al governo e alle
amministrazioni comunali? Non conosco il costo su scala nazionale dei reati commessi dagli
intossicati da stupefacenti ma si dice che, a New York City, si tratti di miliardi. Nella sola
Harlem, dodici milioni di dollari all'anno scompaiono in seguito a furti .
Il tossicomane non lavora per alimentare il suo vizio. Eppure i narcotici gli costano da dieci a
cinquanta dollari al giorno .
Come potrebbe mai guadagnare una tale somma? Ruba e si dedica ad altri loschi traffici; come
un falco o un avvoltoio depreda gli altri esseri umani, proprio come facevo io. E' molto
probabile che abbia abbandonato la scuola dopo due o tre anni, che sia stato scartato
dall'esercito, psicologicamente inadatto, com'ero io, per il lavoro anche se gliene viene offerto
uno .
Le donne che hanno questo vizio rubano nei negozi o si prostituiscono. Le sorelle Muslim
usano parole dure con le prostitute negre che cercano di smettere di prendere gli stupefacenti
per qualificarsi moralmente sì da essere ammesse nella Nazione dell'Islam. «Siete voi che
aiutate l'uomo bianco a considerare il vostro corpo come un secchio di spazzatura...» In
parecchi servizi giornalistici sulla Nazione dell'Islam si insinuava malignamente che i seguaci
di Muhammad erano in gran parte ex detenuti ed ex tossicomani. E' vero. Nei primi anni, i
convertiti provenienti dagli strati più bassi della società costituivano una parte notevole della
base della Nazione dell'Islam. Muhammad ci esortava sempre: «Andate a cercare il negro nel
fango». Spesso, egli diceva, i migliori Muslims erano proprio quei convertiti .
Poco alla volta cominciammo a reclutare altri negri, i «buoni cristiani » che «pescavamo» dalle
loro chiese. Successivamente aumentò la percentuale dei negri colti o con una qualifica tecnica.
Ad ogni raduno riuscivamo ad attrarre nei vari templi gruppi sempre più numerosi di quei negri
della cosiddetta classe media urbana, del tipo di coloro che prima avevano bollato noi Muslims
come «demagoghi», «seminatori di odio», «razzisti negri» e con tutti gli altri epiteti. Un sempre
maggior numero di giovani e di ragazze negri venivano nelle nostre file attirati dalle verità
Muslim che avevano ascoltato attentamente e su cui avevano a lungo meditato. La Nazione
dell'Islam aveva molti posti da offrire a coloro che avevano talento e una qualche
specializzazione .
C'erano alcuni Muslims che non avrebbero mai rivelato ad altri che ai loro confratelli di
appartenere alla Nazione dell'Islam e ciò a causa delle posizioni che occupavano nel mondo
dell'uomo bianco. So che ce n'erano alcuni la cui appartenenza era nota soltanto ai loro pastori e
a Elijah Muhammad .
Nel 1961 la nostra Nazione prosperava. Il giornale «Muhammad Speaks» pubblicava a pagina
piena il progetto di un Centro islamico del valore di venti milioni di dollari da costruirsi a
Chicago con i contributi di tutti i Muslims. Il progetto comprendeva una bella moschea, una
scuola, una biblioteca, un ospedale e un museo che doveva documentare la gloriosa storia dei
negri .
Muhammad fece un viaggio nei paesi musulmani e al suo ritorno dette istruzioni perché
chiamassimo i nostri templi «moschee» .
A questo punto si ebbe anche un notevole aumento del numero di negozi e piccole imprese
commerciali di proprietà Muslim. Tali iniziative miravano a dimostrare al popolo negro quello
che avrebbe potuto fare se si fosse unito, avesse commerciato, dove era possibile, con i negri, e
assunto solo personale negro. In questo modo avrebbe potuto impedire che il denaro negro
uscisse dalle nostre comunità, così come facevano tutte le altre minoranze nazionali .
Le stazioni radio minori trasmettevano ora in tutta l'America registrazioni dei discorsi di
Muhammad, mentre a Detroit e a Chicago i bambini Muslim in età scolare frequentavano le
nostre due università dell'Islam. Quella di Chicago impartiva corsi fino al diploma di scuola
media superiore e quella di Detroit fino al diploma di scuola media inferiore. Sin dall'asilo i
bambini Muslim studiavano la gloriosa storia dei negri e a partire dalla terza classe imparavano
la nostra lingua originaria, l'arabo .
Gli otto figli di Muhammad erano tutti impegnati in posizioni chiave nella Nazione dell'Islam.
Io ero molto orgoglioso di aver avuto parte in tutto ciò, almeno in alcuni casi, anni addietro .
Quando Muhammad mi aveva preso al suo servizio come pastore, mi convinsi che era una
vergogna che i suoi figli lavorassero, come alcuni di loro facevano, per conto dell'uomo bianco
nelle fabbriche, in imprese di costruzioni, facendo i conducenti di taxi e cose del genere.
Sentivo di dover lavorare per la famiglia di Muhammad con altrettanta sincerità di come
lavoravo per lui e perciò insistetti che mi lasciasse organizzare una speciale raccolta di fondi
nelle nostre poche e modeste moschee in modo da far sì che quelli dei suoi figli che lavoravano
per l'uomo bianco potessero essere impiegati all'interno della nostra Nazione. Muhammad
accettò, la raccolta dei fondi diede buoni risultati e poco alla volta i suoi figli cominciarono a
lavorare per la Nazione. Il maggiore, Emanuel, è oggi direttore della lavanderia; la sorella Ethel
(Muhammad) Sharrieff è l'istruttore capo delle sorelle Muslim, mentre suo marito, Raymond
Sharrieff, è il capo del Frutto dell'Islam; la sorella Lottie Muhammad dirige le due università
dell'Islam; Nathaniel Muhammad aiuta Emanuel nella direzione della lavanderia; Herbert
Muhammad pubblica ora «Muhammad Speaks», il giornale che io fondai, Elijah Muhammad
junior è il vicecapo del Frutto dell'Islam. Wallace Muhammad era il pastore della moschea di
Philadelphia finché venne sospeso dalla Nazione dell'Islam insieme con me, per le ragioni che
dirò in seguito. Hakbar Muhammad, il figlio minore, frequenta l'università del Cairo a El-Azhar
e anche lui ha rotto i rapporti col padre .
Credo che fosse proprio quella strenua maratona di lunghi discorsi che Muhammad faceva ai
nostri raduni a provocare improvvisamente un aggravarsi della sua asma bronchiale cronica .
Anche quando conversava normalmente, si metteva d'improvviso a tossire e la tosse diventava
sempre più insistente fino a scuotere dolorosamente il suo fragile corpo .
Qualche volta Muhammad si piegava in due dal dolore e ben presto dovette mettersi a letto.
Per quanto cercasse di evitarlo, per quanto la cosa lo addolorasse, dovette rinunciare a
presentarsi a dei grandi raduni che erano stati annunciati da lungo tempo .
Migliaia di persone rimasero deluse per dover ascoltare me o altri mediocri sostituti di
Muhammad .
I membri della Nazione dell'Islam erano molto preoccupati; i dottori raccomandavano un clima
asciutto e così noi Muslims acquistammo per Muhammad una casa a Phoenix, nell'Arizona.
Una delle prime volte che andai a fargli visita, scesi dall'aeroplano e mi trovai di fronte a
macchine fotografiche e al lampo di numerosi flash. Capii subito che si trattava di funzionari
della sezione spionaggio dello stato dell'Arizona. Il «telegrafo» della nostra Nazione dell'Islam
portò a tutti i Muslims la gioiosa notizia che il clima dell'Arizona aveva alleviato moltissimo le
sofferenze del Messaggero. Da allora trascorre gran parte dell'anno a Phoenix .
Malgrado il fatto che Muhammad, convalescente com'era, non poteva più lavorare a lungo
come faceva di solito a Chicago, era sempre assillato dalle gravi decisioni che doveva prendere
e dai suoi doveri amministrativi. La Nazione dell'Islam aveva avuto, sotto ogni rispetto, una
grossa espansione sia interna che esterna. Muhammad non poteva più dedicare il tempo di
prima ai discorsi in pubblico, alle richieste delle stazioni radio e televisive che riteneva di dover
accettare e a tutti quei problemi organizzativi che io gli avevo sempre sottoposto o perché mi
desse un consiglio o perché prendesse una decisione .
Muhammad indicò con chiarezza la fiducia che aveva in me: mi disse di decidere io stesso su
quelle questioni di cui ho parlato, che potevo ispirarmi a criteri decisi da me e da nessun altro, e
che quello che ritenevo giusto sarebbe stato nell'interesse generale della nostra Nazione
dell'Islam .
«Fratello Malcolm, voglio che diveniate famoso, - mi disse un giorno Muhammad, - perché se
lo sarete voi lo sarò anch'io .
«Ma, fratello Malcolm, dovete prepararvi, quando sarete famoso, ad essere odiato perché è
normale che la gente sia invidiosa di chi raggiunge la notorietà» .
Niente di quanto mi avesse mai detto Muhammad fu più profetico di queste parole .
Capitolo quindicesimo .
ICARO .
Più erano le occasioni in cui rappresentavo Muhammad alla televisione, alla radio, nei college
o altrove e più numerose erano le lettere che ricevevo dai miei ascoltatori. Per il novantacinque
per cento si trattava di lettere scritte da bianchi .
Solo alcune rientravano nella categoria delle lettere minatorie o di quelle che cominciavano
con «Caro Nigger X». Nella maggior parte dei casi saltavano fuori i due principali motivi di
timore dei bianchi. Il primo veniva dalla credenza soggettiva che Dio, nella sua ira, avrebbe
distrutto la presente civiltà, mentre il secondo, più allucinante, derivava dall'immagine che
l'uomo bianco aveva del negro che penetrava nel corpo della donna bianca .
Tra i bianchi che mi scrivevano sorprendente era la percentuale di quelli che erano
perfettamente d'accordo sull'analisi che Muhammad faceva del problema, ma non sulla
soluzione. In certe lettere si notava una strana ambivalenza: mentre da un lato veniva
manifestato un accordo completo con le posizioni di Muhammad, dall'altro ci si arrestava di
fronte all'espressione «diavoli bianchi». Cercai di spiegare tali reazioni nei miei discorsi
successivi: «A meno che non ci rivolgiamo direttamente con l'appellativo di "diavolo" a un
uomo bianco SINGOLO, non parliamo di nessun uomo bianco in particolare, ma della
tradizione STORICA dell'uomo bianco COLLETTIVO. Con quel termine ci riferiamo alle
crudeltà, alle perfidie e all'avidità che hanno caratterizzato il COMPORTAMENTO diabolico
di quest'uomo bianco collettivo nei confronti delle altre razze. Non c'è una sola persona
intelligente, onesta e obiettiva che non arrivi a capire che sono stati il commercio degli schiavi e
le successive azioni diaboliche dell'uomo bianco a PROVOCARE non soltanto la PRESENZA
del negro qui in America, ma soprattutto la CONDIZIONE in cui esso si trova oggi. Non esiste
UN SOLO negro, non importa chi sia, che non abbia ricevuto in qualche modo un grave danno
personale dal comportamento diabolico dell'uomo bianco collettivo!» Quasi tutti i giorni
apparivano su alcuni giornali articoli polemici nei confronti dei Black Muslims e il bersaglio
era sempre più quello che aveva detto «quel demagogo di Malcolm X» .
Mi arrabbiavo molto quando leggevo attacchi violenti contro Muhammad, mentre per quel che
mi riguardava non me ne curavo .
Gli assistenti sociali e i sociologi cercarono di farmi letteralmente a pezzi: specialmente i negri,
per evidenti ragioni, prima fra tutte quella che gli assegni che ricevevano erano firmati
dall'uomo bianco. Secondo questa gente, se «non riuscivo a considerare la comunità nelle sue
varie componenti» voleva dire che avevo dato «un giudizio sbagliato sulla situazione razziale»
oppure in certi miei discorsi avevo «generalizzato troppo». Quando poi avevo detto cose
assolutamente vere, allora essi scrivevano che «Malcolm X ha accuratamente deformato...»
Una volta, uno dei miei fratelli della moschea numero sette che lavorava con dei giovani in un
ben noto centro sociale di Harlem mi fece vedere un rapporto riservato. Da questo risultava che
un assistente sociale anziano, un negro, era stato mandato un mese in missione perché facesse
un'indagine sui Black Muslims della zona di Harlem. Ad ogni frase dovevo andare a guardare
nel vocabolario e forse credo che questa sia stata la ragione per cui non ho mai dimenticato le
parole che mi riguardavano. State bene a sentire: «Gli interstizi dinamici della sottocultura di
Harlem sono stati schematizzati e distorti da Malcolm X allo scopo di perseguire i suoi
interessi» .
Chi di noi conosceva meglio quella sottocultura del ghetto di Harlem? La conoscevo meglio io,
che per anni avevo fatto il trafficante in quelle strade, oppure quell'assistente sociale negro,
pieno di boria ed educato a venerare i simboli di status? Ma ciò non è importante. Secondo me,
invece, il fatto molto importante è che tra i ventidue milioni di negri americani sono pochissimi
quelli che hanno avuto abbastanza fortuna da poter fare studi universitari e che chi scriveva
quelle parole era uno di quei fortunati. Eccolo, dicevo tra me, uno di quei negri «colti» che non
hanno mai capito il vero scopo, la destinazione e l'uso della cultura; ecco uno degli esempi di
conoscenze cristallizzate impiegate al solo scopo di fare sfoggio di tanti paroloni! Vi rendete
conto che questo è uno dei principali motivi per cui il bianco americano ha imbrigliato ed
oppresso il negro con tanta facilità? Perché, fino a pochissimo tempo fa soltanto una
infinitesima percentuale dei negri colti applicava la propria cultura, come devo dire fa invece
l'uomo bianco, alla ricerca e al pensiero creativo, a migliorare loro stessi e i loro fratelli in
questo mondo concorrenziale, materialistico, in cui ognuno è costretto a sbranare il proprio
simile, in questo mondo dell'uomo bianco. Per intere generazioni i cosiddetti negri «colti»
hanno «guidato» i loro fratelli ripetendo le idee dell'uomo bianco, tutte naturalmente in
funzione dei suoi obiettivi di sfruttamento .
L'uomo bianco, bisogna riconoscerlo, è dotato di una straordinaria intelligenza e di una
formidabile astuzia. Il suo mondo è pieno di prove in tal senso: non c'è nulla che l'uomo bianco
non sappia fare, non c'è nessun problema scientifico che non sia in grado di risolvere. Guardate
come riesce a mandare i suoi astronauti nello spazio e a farli tornare a terra sani e salvi! Però
nel campo dei rapporti con gli esseri umani, l'intelligenza dell'uomo bianco procede come
zoppicando e, se tali esseri umani non appartengono poi alla sua razza, ogni capacità critica gli
si oscura. Le sue emozioni prevalgono ed egli, così prigioniero del suo complesso di
«superiorità bianca», finisce per comportarsi nei confronti dei non bianchi nelle forme e con le
azioni più emotive .
Dove fu sganciata la prima bomba atomica... «per salvare vite americane»? L'uomo bianco sarà
così ingenuo da sottovalutare le conseguenze di tale gesto e credere che possa esser dimenticato
dai due terzi non bianchi della popolazione del globo? Prima che la bomba fosse sganciata,
proprio qui negli Stati Uniti vennero messi in campo di concentramento, dietro il filo spinato,
centomila cittadini americani di origine giapponese assolutamente innocenti. D'altro lato, quanti
furono gli americani di origine tedesca internati in campi di concentramento? Nessuno, perché
questi erano BIANCHI .
Storicamente il colore diverso della pelle ha sempre rivelato e stuzzicato il «diavolo» nella
natura dell'uomo bianco .
Cos'altro se non un «diavolo» emotivo poté accecare l'intelligenza bianca al punto di non
capire che milioni di schiavi negri, prima «liberati» e poi ammessi a fruire di un'istruzione
anche limitatissima, non si sarebbero un giorno sollevati come un mostro terrificante, proprio
nel cuore dell'America bianca? Il cervello dell'uomo bianco, che oggi gli consente di esplorare
gli spazi, avrebbe dovuto dire al padrone di schiavi che questi, una volta istruiti, non avranno
più paura di lui. La storia dimostra che lo schiavo istruito prima chiede e poi esige l'uguaglianza
col suo padrone .
Oggi, sotto molti aspetti, il negro capisce di più l'uomo bianco collettivo qui in America di
quanto non faccia l'uomo bianco stesso e i ventidue milioni di negri si rendono sempre più
conto che, dal punto di vista fisico, politico, economico e in certa misura anche sociale, l'uomo
negro che si è risvegliato può creare un vero e proprio caos nei gangli vitali dell'America
bianca, senza parlare poi del danno che può arrecare all'immagine degli Stati Uniti di fronte al
mondo .
Non volevo divagare, ma solo raccontare come, nel 1963, cercavo di controbattere i giornali,
la radio e la televisione mediante i quali i bianchi facevano di tutto per annullare gli effetti degli
insegnamenti di Muhammad .
Ero arrivato ad equiparare i giornalisti a dei furetti, sempre pronti a seguire le piste, a scappare
velocemente da una parte e dall'altra, sempre alla ricerca di qualche espediente per ingannarmi,
per mettermi alle corde durante le interviste .
Bastava che un leader dei diritti civili facesse qualche dichiarazione non gradita alla struttura di
potere bianco e i giornalisti, nello sforzo di riportarlo nei ranghi, cercavano di servirsi di me.
Eccovi un esempio: «Signor Malcolm X - era una delle domande che mi facevano, - voi avete
spesso pubblicamente disapprovato i sit-ins e analoghe forme di protesta negra. Qual è la vostra
opinione sul boicottaggio che si sta facendo in questi giorni a Montgomery sotto la guida del
dottor Martin Luther King?» Per parte mia, ritenevo che sebbene i leader del movimento dei
diritti civili attaccassero i Muslims, erano sempre negri, erano sempre nostri fratelli e quindi
che sarebbe stata vera follia permettere all'uomo bianco di servirsi di me per manovrare contro
di loro .
Quando mi domandavano del boicottaggio di Montgomery, facevo diligentemente la storia
delle circostanze che lo avevano determinato. La signora Rosa Parks tornava a casa in autobus
quando, ad una fermata, quel cialtrone dell'autista le ordinò di alzarsi e cedere il posto a un
passeggero bianco che era appena salito. «Ecco, - dicevo, - IMMAGINATEVI un po' la scena!
Questa donna negra, lavoratrice, devota cristiana, che ha pagato il biglietto e sta lì seduta al suo
posto... Solo perché è NEGRA le chiedono di alzarsi! Qualche volta anch'io, persino io, stento a
credere all'arroganza dell'uomo bianco!» Oppure dicevo: «Nessuno saprà mai con precisione
quale fu la molla emotiva che poté trasformare, agli occhi dei negri di Montgomery, questo
incidente relativamente secondario in una miccia. Per secoli interi i negri del Sud avevano
subito i peggiori oltraggi: stupri, bastonature, linciaggi, fucilazioni... Ma, come voi sapete, i
grandi movimenti storici sono spesso provocati da incidenti apparentemente secondari. Una
volta un piccolo, sconosciuto avvocato indiano fu costretto a scendere dal treno e, stanco di
sopportare le ingiustizie, fece un nodo alla coda del leone britannico. IL SUO NOME era
Mahatma Gandhi!» Oppure imitavo un trucco di cui avevo visto servirsi gli avvocati, sia nella
vita di tutti i giorni che alla televisione: riguardava il modo in cui riescono a sottoporre ai
giurati qualche cosa che altrimenti non sarebbe accolto. (Sia detto incidentalmente, credo che
forse ce l'avrei fatta a diventare avvocato come dissi una volta a quel mio maestro di Mason nel
Michigan che poi mi consigliò di fare il falegname). Il sistema era di sorvolare la domanda del
giornalista e di metterlo di fronte all'imbarazzante, logica conseguenza di essa .
«Ebbene, signore, credo che lo stesso tipo di boicottaggio dovrebbe valere anche per i negri
che vengono richiamati alle armi. Perché noi dovremmo andare a morire in qualche terra
lontana per difendere una cosiddetta "democrazia" che a un immigrato bianco appena arrivato
concede di più che non al negro che ha servito questo paese e vi ha lavorato da schiavo per
quattrocento anni?» I bianchi avrebbero preferito cinquanta boicottaggi locali al fatto che
ventidue milioni di negri potessero cominciare a pensare a quello che ho appena detto. E' inutile
ricordare che queste mie dichiarazioni non furono mai stampate nella versione giusta. Vedevo
chiaramente quando i giornalisti bianchi si erano messi d'accordo perché smettevano di farmi
certe domande .
Se, quando mi trovavo a registrare per la radio o per la televisione, arrivavo a sviluppare un
buon argomento, cercavo di approfittare di qualsiasi appiglio per esporlo. Facevo finta di
«scivolare» e ricordavo alcuni recenti «progressi» del movimento per i diritti civili: qualche
gigantesco monopolio che aveva assunto dieci negri per la mostra, qualche grande catena di
ristoranti che aveva cominciato a guadagnare di più accettando di far servire anche i negri;
qualche università del Sud che aveva permesso l'iscrizione a una matricola negra senza bisogno
dell'intervento della Guardia nazionale, o cose del genere .
Quando «scivolavo» il moderatore si buttava entusiasta su quell'esca: «Ah! Signor Malcolm X,
non vorrete mica negare che tutto ciò sia un progresso per la vostra razza?» Allora io tiravo la
canna: «Da tutte le parti sento parlare di "progressi nei diritti civili". Sembra che i bianchi
credano che noi negri dovremmo esser pazzi di gioia. Per quattrocento anni il bianco ci ha
tenuto piantato nella schiena un coltello lungo trenta centimetri ed ora che comincia a
TIRARLO FUORI di due o tre centimetri noi dovremmo essergli RICONOSCENTI. Anche se
tirasse FUORI tutta la lama resterebbe sempre la CICATRICE!» Allo stesso modo, bastava che
il sindaco di qualche città si vantasse di non avere «nessun problema negro» perché tutti i
giornali ne parlassero e mi sbattessero in faccia quell'esempio .
Rispondevo che non c'era bisogno che mi dicessero dov'era perché sapevo benissimo che si
trattava di un esiguo gruppetto di negri abitanti in quella città. Ciò è vero in tutto il mondo.
Prendete la «democratica» Inghilterra: quando arrivarono centomila negri dalle Indie
occidentali, il governo chiuse l'immigrazione negra .
La Finlandia ha bene accolto un ambasciatore negro degli Stati Uniti. Ebbene, fatelo seguire da
parecchi altri e poi vedrete! In Russia, quando Chruscev era al potere, minacciò di togliere i
visti agli studenti africani che con la loro dimostrazione antirazzista avevano fatto capire al
mondo che «anche la Russia...» Generalmente la stampa bianca del profondo Sud mi
ignorava, ma metteva in prima pagina le mie opinioni sui bianchi del Nord e sui Freedom
Riders che andavano nel Sud a fare dimostrazioni. Io chiamavo tutto ciò «ridicolo». I loro ghetti
del Nord, proprio lì intorno a casa, contenevano abbastanza topi e piattole da tenere occupati
tutti i Freedom Riders. Dicevo che la ultraliberale città di New York aveva più problemi di
integrazione del Mississippi. Se i Freedom Riders del Nord volevano fare di più, potevano
affrontare alla radice i problemi tipici del ghetto come la presenza dei bambini per le strade a
mezzanotte con le chiavi dell'appartamento legate al collo mentre i loro padri e madri erario in
giro a ubriacarsi, a prendere gli stupefacenti, a rubare, a prostituirsi. Oppure quei Freedom
Riders del Nord avrebbero potuto accendere qualche fuoco sotto i palazzi delle amministrazioni
comunali, dei sindacati e delle maggiori industrie del Nord per obbligarle a dare più posti di
lavoro ai negri in modo da toglierli dalla disoccupazione e dalle liste degli enti assistenziali,
condizione che genera la pigrizia nonché la decadenza e la progressiva inabitabilità dei ghetti.
Tutto questo è l'assoluta verità. C'è forse bisogno di DIRLO? I liberali mi facevano più ribrezzo
della vista di un serpente .
E' vero, volevo strappare quell'aureola che adorna il capo del liberale che dedica così tanti dei
suoi sforzi a far credere agli altri di agire nel loro interesse! I liberali del Nord hanno puntato
per tanto tempo il loro dito accusatore contro il Sud riuscendo ad evitare le stesse accuse, che
ora sono sconvolti quando qualcuno li denuncia al mondo come i peggiori ipocriti .
Credo che la mia vita RISPECCHI in pieno i risultati di questa ipocrisia. Io non so nulla del
Sud: sono una creazione dell'uomo bianco del Nord e del suo atteggiamento ipocrita nei
confronti del negro .
Al bianco del Sud Muhammad aveva detto quel che si meritava, ma di lui si può affermare una
cosa: che è onesto. Mostra i denti al negro e gli dice in faccia che non accetterà mai una falsa
integrazione. Si spinge anche più in là fino a dirgli che è sua intenzione di contendere al negro
il passo palmo a palmo, persino contro la cosiddetta «integrazione simbolica». Il vantaggio di
ciò è che il negro del Sud non si è mai fatto illusioni sull'opposizione che deve affrontare .
Si può dire che, individualmente, parecchi bianchi del Sud hanno aiutato in modo
paternalistico un buon numero di negri sul piano strettamente individuale. Quanto al bianco del
Nord, è pieno di sorrisi e dalla sua bocca escono le espressioni più ingannevoli e tutte le
menzogne possibili sull'eguaglianza e l'integrazione .
Quando un giorno, in tutta l'America, si sentì toccare la spalla e voltatosi vide un negro che gli
diceva: «Anch'io...», allora quel liberale del Nord si allontanò con lo stesso senso di colpa e di
terrore di qualsiasi bianco del Sud .
In realtà il più pericoloso e minaccioso negro dell'America è quello che è stato tenuto in gabbia
nei ghetti del Nord da quella struttura di potere bianco che continua a parlare di democrazia
mentre tiene i negri nascosti, invisibili .
La parola «integrazione» fu inventata da un liberale del Nord .
Mi pare che non abbia nessun significato. Infatti nel senso razziale in cui viene adoperata oggi,
qualunque sia il tipo di integrazione cui ci si vuol riferire, come può essere definita con
precisione? La verità è che l'integrazione è un'immagine, un'abile cortina fumogena di cui si
servono i liberali del Nord per nascondere la vista dei veri bisogni del negro americano. In
questi cinquanta stati dell'America del Nord, tutti razzisti o neorazzisti, la parola «integrazione»
rende milioni di bianchi confusi e furibondi perché credono, del tutto a torto, che le masse dei
negri vogliano vivere mescolate con loro. Questo è il caso soltanto di quel pugno di negri
«pazzi per l'integrazione» .
Sto parlando di quei negri «simbolicamente integrati» che si staccano dai loro fratelli poveri e
reietti, dal loro odio per se stessi, che è poi la vera cosa che cercano di fuggire. Sto parlando di
quei negri che non sembrano averne mai abbastanza di strusciarsi all'uomo bianco. Essi, questi
«pochi eletti», hanno più dei bianchi la mentalità bianca e sono più nemici della loro gente di
quanto non lo sia lo stesso uomo bianco .
Diritti umani! Rispetto in quanto esseri UMANI! Questo è ciò che vogliono le masse negre
d'America. Questo è il vero problema. Le masse negre non vogliono essere isolate come se
fossero composte di lebbrosi; non vogliono esser murate nei bassifondi, nei ghetti, come
animali, ma vogliono vivere in una società libera e aperta dove si possa camminare tutti, uomini
e donne, a testa alta! Pochissimi bianchi si rendono conto che, oggi, a molti negri non piace di
stare insieme con loro più di quanto non sia necessario. Questa immagine dell'integrazione,
come viene comunemente interpretata, ha convinto milioni di bianchi sciocchi ed esaltati che i
negri vogliano addirittura stare nello stesso letto con loro. Questa è una menzogna! Un'altra è
quella per cui non si può neppure cercar di convincere il bianco medio che il maggior desiderio
del negro non è di fare all'amore con una donna bianca. Come mi diceva recentemente un
fratello negro: «Non hai mai sentito come puzzano quando sono bagnate?» Le masse negre
preferiscono la compagnia dei loro simili .
Persino i membri di quella borghesia snobistica, quando tornano a casa dai loro cocktail
«integrati», la prima cosa che fanno e di levarsi le scarpe e parlare dei liberali bianchi con cui si
trovavano poco tempo prima come di cani. Probabilmente i liberali bianchi fanno la stessa cosa:
non son sicuro di questo perché non li frequento mai in privato, ma quando dico così della
borghesia negra so il fatto mio .
Dico le cose come sono: non dovete pensare che mi morda la lingua per non parlare se so
qualcosa di vero. Quello che proprio ci vorrebbe in questo paese è uno scambio di verità nude e
crude tra i negri e i bianchi in modo da purificare l'aria dai miracoli razziali, dai luoghi comuni
e dalle menzogne con cui è stata avvelenata durante gli ultimi quattrocento anni .
In molte comunità, specialmente in quelle piccole, i bianchi sono riusciti a presentarsi come
benefattori animati da «buona volontà nei confronti dei nostri negri», ogni volta che un «negro
locale» comincia a dir loro la verità e cioè che non sopporta più di essere escluso, trattato come
un cittadino di seconda classe e privato dei più elementari diritti. E' allora che si sente dire quasi
con tristezza da quei bianchi: «Disgraziatamente ora, a causa di ciò, i nostri bianchi di buona
volontà cominciano a rivoltarsi contro i negri... E' spiacevole... si stavano facendo dei
progressi... ma ora i rapporti di comunicazione tra le due razze si sono interrotti!» Ma di cosa
stanno parlando? Non c'è mai stata nessuna COMUNICAZIONE. Fino a dopo la seconda
guerra mondiale non c'era una sola comunità in tutti gli Stati Uniti in cui i bianchi sentissero dai
leader locali negri la verità sulle condizioni in cui i loro confratelli erano costretti a vivere da
quegli stessi bianchi .
Volete qualche prova? Ebbene, perché quando i negri cominciarono a ribellarsi in tutta
l'America, praticamente tutti i bianchi restarono sorpresi e addirittura allibiti? Non vorrei
davvero comandare un esercito che fosse così male informato come lo è stato l'americano
bianco nei confronti del negro .
Questa è la situazione che ha consentito di trasformare lentamente il fermento fino a un punto
addirittura rivoluzionario senza che i bianchi se ne rendessero conto. In ogni parte dell'America
i leader locali negri, per poter rimanere tali, rassicuravano l'uomo bianco dicendogli che tutto
andava bene, «tutto va bene padrone!» Quando il leader voleva qualcosa di più per la sua gente:
«Ebbene, padrone, qualcuno dice che sì, insomma avremmo bisogno di una scuola un po'
meglio, padrone». E se i negri del posto non avevano provocato nessun «disturbo», allora
poteva darsi che il «benevolo» uomo bianco facesse un cenno di assenso e concedesse una
scuola o alcuni posti di lavoro .
I bianchi che fanno parte della struttura di potere in migliaia di comunità sparse per tutta
l'America sanno benissimo che ho ragione! Sanno che quello che sto descrivendo è sempre
stato il modello classico delle cosiddette «comunicazioni» tra i bianchi di buona volontà e i
negri. E' stato un modello, questo, creato dai bianchi autoritari e tutti imbevuti del loro potere:
la sua caratteristica struttura ha permesso loro di sentirsi «nobili» perché buttavano le briciole al
negro invece di sentirsi colpevoli per l'esistenza, in ogni comunità, di meccanismi tutti volti al
più crudele sfruttamento dei negri .
Vorrei aggiungere qualcos'altro. Questo modello, questo «sistema» creato dal bianco di
insegnare ai negri a nascondergli la verità dietro i sorrisi untuosi, i «sissignore, signor padrone»,
ad agitare con imbarazzo i piedi e grattarsi la testa, quel sistema ha fatto più danno
all'americano bianco di un esercito invasore .
Perché dico queste cose? Perché questa dimensione ha sempre incoraggiato l'americano bianco
a nutrire nel profondo dell'animo la convinzione di essere superiore. In quante comunità certi
bianchi che non hanno neppure terminato la scuola media guardano dall'alto in basso i leader
negri locali che hanno lauree universitarie, sono presidi, insegnanti, dottori o professionisti in
altri campi? Il sistema dell'uomo bianco è stato imposto, in tutto il mondo, alla gente di colore
e questa è la ragione per cui laddove ci sono dei non bianchi i governi amministrati dai bianchi
si trovano in difficoltà e in pericolo sempre crescenti .
Guardiamo in faccia la verità, i fatti, e sia che l'uomo bianco sia in grado di farlo oppure no, di
cogliere cioè le vere cause dei suoi problemi, ciò sarà l'elemento determinante per decidere se
egli dovrà o no sopravvivere .
Oggi assistiamo alla rivoluzione dei popoli di colore che, solo pochi anni fa, sarebbero rimasti
impietriti dal terrore appena le potenze bianche avessero aggrottato le sopracciglia. Quello che è
successo è che i negri, i meticci, i rossi e i gialli dopo centinaia di anni di sfruttamento, di
imposta «inferiorità» e di maltrattamenti, si sono finalmente stancati di tenere sul collo il
tallone del bianco .
Come può sperare il governo americano di vendere «democrazia» e «fratellanza» ai popoli di
colore? Basta che questi leggano e ascoltino che cosa succede tutti i giorni qui in America e
vedano le fotografie, ciascuna più efficace di mille parole, dell'americano bianco che nega
«democrazia» e «fratellanza» persino ai cittadini americani di pelle nera. La gente di colore di
tutto il mondo sa come i negri americani hanno amato i bianchi, hanno lavorato per loro, li
hanno assistiti e persino allevati. Hanno indossato l'uniforme e sono andati a morire tutte le
volte che l'America ha avuto a che fare con dei nemici bianchi e non bianchi. Eppure un suddito
così fedele e leale come questo deve sopportare che l'America bianca lo attacchi con le bombe,
gli aizzi contro i cani poliziotti, usi contro di lui gli idranti antincendio, lo metta in prigione
insieme a migliaia di suoi fratelli, lo bastoni a sangue e compia ai suoi danni ogni specie di
delitti .
E' chiaro che queste cose, ben note e tutti i giorni rievocate al mondo della gente di colore,
costituiscono un elemento determinante nel provocare l'incendio delle automobili di
ambasciatori, le sassaiole, le dimostrazioni e le devastazioni di ambasciate e consolati, le grida
di «uomo bianco vattene a casa!», gli attacchi contro missionari cristiani bianchi, i lanci di
bombe e gli insulti alla bandiera yankee .
Apparirà ora chiaro perché ho affermato che l'odioso complesso di superiorità dell'americano
bianco lo ha danneggiato di più di un esercito invasore .
Il negro americano dovrebbe concentrare tutti i suoi sforzi nell'organizzazione di un suo
commercio e nella costruzione di case degne di uomini civili. Come hanno fatto altri gruppi
etnici, consentiamo anche ai negri, laddove e quando è possibile, di comprare solo nei negozi
gestiti dai loro fratelli, di assumere gente di pelle nera e cominciare così a creare per la nostra
razza la possibilità di diventare indipendente. E' questo l'unico modo che ha il negro americano
per poter ottenere rispetto. Infatti una cosa che il bianco non potrà mai dargli sarà proprio il
rispetto per se stesso. Il negro non potrà mai diventare indipendente ed essere riconosciuto
come un essere umano veramente uguale agli altri finché non abbia fatto anche lui quello che
gli altri hanno fatto e finché non sia in grado di aiutarsi da sé .
Per esempio, i negri dei ghetti devono dedicarsi a correggere i loro difetti materiali, morali e
spirituali, dare inizio a un loro programma di lotta contro l'alcolismo, l'uso degli stupefacenti e
la prostituzione. Il negro americano deve elevare il suo senso dei valori .
Solo poche migliaia di negri, davvero un numero assai ristretto, partecipano in qualche modo
dell'integrazione. Di nuovo si tratta di quei pochi borghesi che si affrettano a sperperare i loro
mezzi limitati negli alberghi di lusso, negli affollati locali notturni e nei costosi ed eleganti
ristoranti riservati all'uomo bianco. Al contrario dei clienti abituali di questi locali, i negri che
vedete là, o almeno una gran parte di loro, non possono permettersi quelle spese. Che cosa
spinge alcuni di questi negri, talmente carichi di debiti da esser ogni mese sull'orlo del disastro,
ad andare a cena in centro, sorridendo a qualche capocameriere che ha più soldi di loro? Questi
borghesi che si coprono le ginocchia con tovaglioli grandi come tovaglie e ordinano quaglie e
stufato di lumache, mentre si sa bene che ai negri non piacciono le lumache, sono una prova
vivente del fatto di essere integrati .
Se si vogliono toccare con mano i veri risultati di questa cosiddetta integrazione si deve
giungere alla diffusione dei matrimoni misti .
Sono d'accordo CON i bianchi del Sud quando dicono che non si può avere la cosiddetta
integrazione, almeno non per lungo tempo, senza un aumento dei matrimoni misti. Ma quale
vantaggio possono portare? Guardiamo in faccia la realtà. In un mondo in cui l'ostilità al colore
della pelle è tanto forte, cosa credono di fare uomini e donne bianchi e negri a cercarsi un
coniuge dell'altra razza? Certamente i bianchi hanno dimostrato abbastanza ostilità alla
presenza di negri nelle loro famiglie e in quelle dei vicini e, se si considera il modo in cui
reagiscono i negri oggi, la coppia mista arriva probabilmente ad accorgersi che le famiglie e le
comunità negre le sono ancora più ostili dei bianchi .
Cos'altro dovranno aspettarsi coloro che contraggono dei matrimoni integrati se non di essere
disprezzati, malvisti e considerati come dei «falliti» in qualsiasi posto in cui intendano vivere?
Il risultato è che, da un punto di vista sociale, l'integrazione non va bene per nessuno perché,
alla fine, significherebbe la distruzione della razza bianca... e della razza negra .
Il modo in cui l'uomo bianco ha «integrato» le donne negre ha già cambiato la pelle e le
caratteristiche della nostra razza in America. Cosa dimostrano quei «negri» dalla pelle «più
bianca» di molti degli stessi «bianchi»? Mi dicono che oggi, in America, ci sono da due a
cinque milioni di «negri bianchi» i quali «stanno passando» nella società bianca. Immaginate la
loro tortura! Vivere nel continuo timore che qualche negro loro conoscente possa individuarli e
svelare il loro segreto .
Immaginate vivere continuamente nella menzogna, sentir parlare il marito, la moglie o i figli
bianchi di «quei niggers»! Non credo che in America sia concepibile contro i bianchi un
risentimento maggiore di quello che ho potuto riscontrare in alcuni casi, ma vi dirò che, senza
dubbio, le più violente diatribe di questo genere le ho sentite da negri che «stavano passando»,
che vivevano come i bianchi, tra i bianchi, tutti i giorni costretti a sentire quello che dicevano
dei negri, cose che un negro riconosciuto non accetterebbe mai di ascoltare. Se ci fosse una
guerra razziale, questi negri che «stanno passando» diventerebbero le più preziose spie ed
alleati nostri all'interno della società bianca .
In Europa, i figli dei soldati negri, ora diventati giovanotti e ragazze che hanno cominciato a
sposarsi e a metter su famiglia, hanno forse provato, con le esperienze della loro vita, che hanno
lasciato incancellabili cicatrici, che l'integrazione è un fatto positivo? Se si tratta di qualche
gruppo etnico bianco, allora l'integrazione è chiamata «assimilazione» e coloro che vogliono
difendere l'eredità del loro passato la combattono con le unghie e coi denti. Pensate un po' come
gli irlandesi cacciarono fuori dalla loro patria gli inglesi perché sapevano che prima o poi li
avrebbero assimilati. Guardate con quale fanatismo si batte la minoranza francese del Canada
per conservare la propria identità nazionale! Il più tragico risultato di una identità etnica
mescolata e perciò diluita e indebolita è stato quello subito da un gruppo etnico bianco, gli ebrei
tedeschi .
Essi avevano contribuito al benessere e alla grandezza della Germania molto più di quanto non
avessero fatto i tedeschi; metà dei premi Nobel assegnati alla Germania erano andati agli ebrei
che erano alla testa di ogni movimento culturale, pubblicavano il più grande quotidiano,
avevano i maggiori artisti, poeti, compositori, scenografi. Eppure fecero l'errore fatale di
lasciarsi assimilare .
Nel periodo compreso tra la prima guerra mondiale e l'ascesa al potere di Hitler, gli ebrei
tedeschi avevano in sempre maggior misura contratto matrimoni misti; molti avevano cambiato
nome e si erano convertiti ad altre religioni. Essi addormentarono e recisero le loro ricche radici
etniche, religiose e culturali fino a considerarsi dei veri e propri tedeschi .
Poi Hitler passò dalle birrerie al potere supremo, con le sue teorie epidermiche sulla «razza
ariana padrona» e là a portata di mano, c'era come capro espiatorio l'ebreo che si era indebolito
con le sue stesse mani illudendosi di poter essere considerato un tedesco .
La cosa più misteriosa è che questi ebrei con tutta la loro intelligenza e tutto il loro potere in
ogni settore della vita tedesca, rimasero come ipnotizzati a guardare il graduale formarsi di quel
piano mostruoso che contemplava la loro distruzione .
Si erano autoillusi a tal punto che, non molto tempo dopo, quando venivano avviati verso le
camere a gas, parecchi di loro ancora dicevano che tutto ciò non poteva essere vero .
Se Hitler avesse conquistato il mondo come aveva intenzione di fare, cosa sarebbe successo a
tutti gli ebrei? E' un pensiero terrorizzante che gli ebrei superstiti hanno ancora oggi .
Essi non dimenticheranno mai quella lezione; il servizio di spionaggio di Israele sorveglia
attentamente le organizzazioni neonaziste e, subito dopo la guerra, il gruppo Haganah cercò di
accelerare i negoziati da lungo tempo intrapresi con la Gran Bretagna. Nello stesso tempo, la
banda Stern sparava contro gli inglesi i quali alla fine cedettero e aiutarono gli ebrei a usurpare
la Palestina agli arabi, legittimi possessori. Poi fu formato Israele, la nazione ebraica che tutti
nel mondo rispettano e capiscono .
Non molto tempo fa al negro americano fu somministrata un'altra dose di quella cosiddetta
integrazione, che in realtà serve solo a indebolirlo, ingannarlo e rammollirlo. Si trattò di quella
che io chiamo la «farsa su Washington» .
L'idea originaria di una massa di negri che marciano su Washington era venuta a A. Philip
Randolph della Società di mutuo soccorso del personale dei vagoni-letto. Per vent'anni o più
l'idea di una marcia su Washington aveva attirato parecchi negri e, tutto all'improvviso e
spontaneamente, attaccò .
Negri del Sud rurale in blue-jeans, negri provenienti dalle piccole città, dai ghetti del Nord e
persino migliaia di negri «alla zio Tom», cominciarono a parlare della «Marcia» .
Dai tempi di Joe Louis non c'era stato più niente che avesse galvanizzato in quel modo le
masse negre. Si parlava di andare a Washington con ogni mezzo: su vecchie macchine
traballanti, con gli autobus, con l'autostop oppure, se fosse stato necessario, a piedi. Si
vedevano già turbe di migliaia di fratelli negri che convergevano su Washington, si
accampavano per le strade, sulle piste dell'aeroporto o davanti agli edifici governativi
chiedendo al Congresso e alla Casa Bianca di agire concretamente per far applicare i diritti
civili .
L'amarezza era di tutti: degli attivisti, dei disorganizzati e privi di guida. In gran parte si trattò
di giovani negri, decisi a sfidare qualunque conseguenza, stanchi di sentirsi il tallone dell'uomo
bianco sul collo .
I bianchi avevano molte ragioni per preoccuparsi. La scintilla adatta avrebbe potuto, per
qualche imprevedibile reazione emotiva, fare scoppiare una rivolta negra. Il governo sapeva che
migliaia di negri furibondi e tumultuanti non soltanto avrebbero potuto devastare
completamente Washington, ma provocare addirittura un'eruzione .
Allora la Casa Bianca si affrettò a invitare i più importanti leader negri del Movimento per i
diritti civili ai quali fu chiesto di fermare la Marcia in questione. Essi risposero sinceramente di
non esserne stati gli iniziatori, di non avere alcun controllo su quell'idea che era nazionale,
spontanea, disorganizzata e senza capi. In altre parole si trattava di un barile di polvere da sparo
.
Chiunque voglia studiare il modo in cui l'integrazione può indebolire il movimento negro,
trova in questo caso un esempio prezioso .
Preceduta da una fanfara di pubblicità internazionale, la Casa Bianca «approvò», «si fece
mallevadrice» e «salutò con calorosa simpatia» la Marcia su Washington. A quel tempo le
grandi organizzazioni per i diritti civili stavano litigando pubblicamente riguardo alla questione
delle donazioni e il «New York Times» aveva rivelato i retroscena della faccenda .
L'Associazione nazionale per l'avanzamento della gente di colore (N.A.A.C.P.) aveva accusato
altre organizzazioni di essersi servite di raduni e riunioni massicciamente pubblicizzati per
accaparrarsi la parte più consistente delle donazioni fatte ai vari gruppi in lotta per i diritti civili,
mentre essa, che pure si occupava di trovare i fondi per le cauzioni e l'assistenza legale ai
dimostranti imprigionati, era rimasta indietro .
Fu come al cinematografo. La scena successiva vide «i sei grandi», i leader negri del
Movimento per i diritti civili, riuniti a New York insieme al presidente bianco di una grossa
organizzazione filantropica. Fu detto loro che quella pubblica disputa riguardo alla raccolta di
fondi li danneggiava di fronte al pubblico e fu donata una somma di ottocentomila dollari alla
segreteria della United Civil Rights Leadership che fu prontamente fondata dai «sei grandi» .
Che cosa aveva prodotto questa improvvisa unità tra i negri? Il denaro dell'uomo bianco. Qual
era la contropartita chiesta in cambio di tale denaro? La possibilità di dare consigli. Non solo fu
fatta quella donazione, ma si promise un'altra somma della stessa entità da versarsi dopo la
Marcia... naturalmente se tutto fosse andato bene .
La Marcia su Washington che originariamente era stata concepita «con ira» stava per essere
trasformata in qualcosa del tutto diverso .
I «sei grandi» furono presentati da una massiccia campagna di stampa internazionale come i
leader della Marcia su Washington .
Ciò apparve quasi miracoloso a quei negri di provincia che si erano entusiasmati all'idea e che
probabilmente pensarono che i famosi leader li approvassero e si fossero messi dalla loro parte .
Successivamente furono invitati a unirsi alla marcia quattro grossi personaggi bianchi: un
cattolico, un ebreo, un protestante e un dirigente sindacale .
Nella massiccia campagna di stampa si faceva discretamente notare che i «dieci grandi»
avrebbero «sorvegliato» l'atmosfera in cui si sarebbe svolta la marcia su Washington e la
«direzione» che avrebbe preso .
I quattro personaggi bianchi cominciarono a dare la loro approvazione. Si sparse ben presto la
voce tra i cosiddetti «liberali» cattolici, ebrei, protestanti, e nell'ambiente sindacale, che fosse
«democratico» aderire alla Marcia negra e ben presto i bianchi, che prima erano assai
preoccupati, cominciarono ad annunciare la loro partecipazione .
Fu come se una scarica elettrica fosse passata attraverso le file della borghesia negra, proprio
dei membri di quella cosiddetta classe media e classe media superiore che in un primo tempo
avevano deplorato l'idea di una Marcia su Washington quando ne parlavano i negri delle classi
inferiori .
Ma ora avrebbero marciato anche i bianchi .
Qualcuno di quei negri cenciosi, disoccupati e affamati rischiò di essere calpestato perché gli
altri, quelli «pazzi per l'integrazione», si precipitarono a corsa l'uno sull'altro, alla ricerca dei
comitati a cui aderire. Improvvisamente la Marcia dei «negri arrabbiati» era stata trasformata in
un avvenimento mondano, qualcosa di molto simile al gran Derby del Kentucky .
Per il cacciatore di prestigio diventò un simbolo di status ed anche oggi si sente domandare:
«Ma tu c'eri?» Era diventata una merenda sull'erba, una gita domenicale .
La mattina della Marcia le macchine traballanti dei negri affamati, polverosi e coperti di sudore
che venivano dai paesini furono letteralmente sommerse dalla massa di aerei a reazione, vagoni
ferroviari ed autobus con l'aria condizionata. Quella che originariamente era stata concepita
come una furiosa ondata di protesta fu, come disse giustamente un giornale inglese, «una
placida inondazione» .
Negri e bianchi si trovarono integrati come il sale e il pepe .
Nessun aspetto logistico restò incontrollato .
Ai partecipanti alla Marcia fu data istruzione di non portare cartelli, che venivano invece
distribuiti sul posto, fu detto loro di cantare un sola canzone, "We Shall Overcome"; fu spiegato
con la massima precisione COME, QUANDO e DOVE avrebbero dovuto arrivare, DOVE
dovevano riunirsi quando avrebbe avuto inizio la Marcia e qual era L'ITINERARIO. Furono
sistemati con criteri strategici i posti di pronto soccorso: si sapeva persino dove si doveva
SVENIRE! Anch'io ci andai, a vedere quel circo equestre. Chi ha mai sentito dire che dei
rivoluzionari arrabbiati possano cantare tutti insieme "We Shall Overcome... Some Day..."
mentre si strusciano e procedono a braccetto proprio con quelli contro cui dovrebbero
ribellarsi? Chi ha mai sentito dire che dei rivoluzionari arrabbiati possano ballare a piedi nudi
nei prati del parco insieme ai loro oppressori, cantando i "gospels" al suono delle chitarre, o
ascoltare discorsi edificanti? Le masse negre americane, allora come ora, vivevano in un
incubo .
Questi «rivoluzionari arrabbiati» obbedirono persino all'ultima istruzione che era stata loro
data e cioè di andarsene presto .
Di tutte quelle migliaia e migliaia di «rivoluzionari arrabbiati» ne rimasero così pochi che la
mattina successiva l'Associazione albergatori di Washington annunciò una grossa perdita per
tutte le camere che erano rimaste vuote .
Hollywood non avrebbe potuto far meglio .
Da una successiva inchiesta fatta dalla stampa risultò che dei senatori e rappresentanti al
Congresso contrari alle leggi sui diritti civili neanche uno aveva cambiato opinione. Ma cosa ci
si aspettava? Come avrebbe potuto un picnic integrato della durata di un giorno influenzare
questi rappresentanti di un pregiudizio così profondamente radicato nell'animo dell'americano
bianco da quattrocento anni? Proprio il fatto che milioni di bianchi e di negri abbiano potuto
credere in questa farsa monumentale costituisce un altro esempio di quanto, qui negli Stati
Uniti, si preferisca muoversi alla superficie, inventare delle forme di evasione invece di
affrontare con coraggio i problemi .
La Marcia su Washington ebbe come unico risultato di far cullare i negri per un po' nelle loro
illusioni, ma era inevitabile che le masse negre si rendessero ben presto conto di essere state
abilmente giocate dall'uomo bianco. Era anche inevitabile che l'ira dei negri si riaccendesse, più
acuta che mai, e che cominciasse ad esplodere nelle varie città, in quella «lunga, calda estate»
del 1964 di crisi razziali mai viste prima .
Circa un mese prima della «farsa su Washington», il «New York Times», basandosi su
un'inchiesta fatta nei campus dei college e delle università, mi dava secondo nella lista degli
oratori più richiesti dal mondo accademico. Il primo era il senatore Barry Goldwater .
Credo che una simile popolarità mi derivasse dalla pubblicazione del libro di Lincoln "The
Black Muslims" in America che era diventato una lettura obbligatoria in numerosi corsi
universitari. Inoltre c'era stata una lunga imparziale intervista fattami dalla rivista «Playboy», la
più venduta nei campus. Così molti studenti, che avevano prima studiato il libro e poi letto
l'intervista, volevano sentire e vedere in carne e ossa questo cosiddetto «focoso Black Muslim»
.
Quando fu pubblicata l'inchiesta del «New York Times», io avevo parlato in più di cinquanta
college e università come Brown, Harvard, Yale, Columbia e Rutgers, alla Ivy League, ed altre
in tutto il paese. Ora ho inviti da Cornell, Princeton e da un'altra decina di istituzioni
accademiche; ci andrò non appena ci saremo messi d'accordo sulle date. Per quanto riguarda i
college negri, allora avevo già parlato all'università di Atlanta, al Clark College sempre ad
Atlanta, alla Howard University di Washington e in parecchi altri con un minor numero di
studenti .
Fatta eccezione per il pubblico composto esclusivamente da negri, preferivo parlare a studenti
universitari. Qualche volta i dibattiti duravano da due a quattro ore. Provocazioni, critiche e
argomenti contraddittori mi venivano rivolti da studenti "undergraduate" e "graduate" e dai loro
professori, tutti di solito obiettivi, vivaci, e interessati alla discussione. I dibattiti nei college
erano sempre entusiasmanti e contribuivano a migliorare le mie conoscenze. Non ricordo di uno
solo che non mi offrisse nuovi modi per migliorare il mio linguaggio e per difendere gli
insegnamenti di Muhammad. Qualche volta, durante un dibattito o in un gruppo di discussione
di fronte a un pubblico numerosissimo, mi capitava di trovare cinque o sei studenti e due o tre
professori, presidi delle facoltà di sociologia, psicologia, filosofia, storia e religione, tutti pronti
a misurarsi contro di me ciascuno nel suo campo .
All'inizio, avevo l'abitudine di dire ai miei compagni di discussione: «Signori, ho fatto l'ottava
classe a Mason nel Michigan. La mia scuola media superiore è stata il ghetto negro di Roxbury
nel Massachusetts; ho compiuto gli studi universitari nelle strade di Harlem e in prigione ho
preso la laurea; Muhammad mi ha insegnato a non aver paura di nessuno che cerchi di
difendere o giustificare il passato criminale dell'uomo bianco nei confronti della gente di colore,
specialmente quello che il bianco americano ha fatto contro il negro qui in questo paese» Era
come essere su di un campo di battaglia, su cui però fischiavano pallottole intellettuali e
filosofiche. Il contrasto delle idee era entusiasmante e giunsi al punto di indovinare l'umore del
mio pubblico. Ho parlato con altri oratori e tutti erano d'accordo nel dire che tale dote è innata
per coloro che hanno il "mass appeal", cioè il dono di interessare e commuovere la gente. E'
come un radar psichico, come il dottore che, prendendo il polso dell'ammalato, sente le
pulsazioni del suo cuore. Quando mi trovo di fronte al pubblico anch'io sento la reazione a
quello che sto dicendo .
Credo che potrei parlare con gli occhi bendati e dopo cinque minuti essere in grado di dire se
quello che mi sta davanti è un pubblico interamente composto di negri o di bianchi. C'è una
differenza fondamentale tra i due perché un pubblico negro è più caldo. C'è in esso, almeno per
me quasi un ritmo musicale, anche se reagisce silenziosamente .
Il contraddittorio è un'altra forma di contatto col pubblico durante il quale, anche se avessi gli
occhi bendati, sarei in grado di dire l'origine etnica di ciascuna domanda. Con qualunque
pubblico, quello che più facilmente sono in grado di riconoscere è l'ebreo e, in un pubblico
integrato, il borghese negro .
La chiave per comprendere l'origine delle domande fatte dagli ebrei è che di tutti gli altri
gruppi etnici è quello che esprime i suoi pensieri e le sue preoccupazioni nel modo più
soggettivo, oltre ad essere di solito ipersensibile. Voglio dire che non si può neppure
pronunciare la parola «ebreo» senza che lui vi accusi subito di antisemitismo. Non importa a
quale categoria professionale appartenga, se sia dottore, mercante, donna di casa o studente:
prima di tutto lui, o lei, pensa da ebreo .
Capisco l'ipersensibilità degli ebrei. Per duemila anni si sono scatenati contro di loro pregiudizi
religiosi e personali altrettanto forti di quelli che i bianchi nutrono nei confronti della gente di
colore. Però so che, sia che se ne rendano conto o meno, i cinque milioni e mezzo di ebrei
americani, due milioni dei quali sono concentrati nella sola New York, considerano la faccenda
in modo abbastanza pratico: se tutto il fanatismo e l'odio si scaricano sui negri la pressione nei
loro confronti è minore .
A dimostrazione di quanto sto dicendo ricorderò che le ditte più grosse che operano nei ghetti
negri sono di proprietà degli ebrei. Ogni sera i proprietari di quei negozi tornano a casa con
denaro della comunità negra e ciò contribuisce a mantenere il ghetto nella miseria. Tuttavia non
ricordo di avere esposto questa innegabile verità in pubblico senza che qualche ebreo non
reagisse violentemente accusandomi di antisemitismo. Ma perché? Scommetto di aver risposto
ad almeno cinquecento di quei miei contraddittori ebrei che essi, come gruppo, non si
contenterebbero di star lì a guardare che qualche altra minoranza succhiasse sistematicamente le
risorse della loro comunità, senza reagire in qualche modo. Ho sempre detto che esporre la nuda
verità non vuol dire essere antisemiti, ma soltanto che sono contrario allo sfruttamento .
Il liberale bianco resterà un po' contrariato nell'apprendere che mai da un pubblico negro ho
sentito una sola domanda che suonasse a difesa dell'uomo bianco. Ciò vale anche per i casi in
cui erano presenti tra il pubblico molti membri della «borghesia negra», di quei «pazzi per
l'integrazione». Tutti ammettevano il passato criminale dell'uomo bianco: anche se non
conoscono i particolari che so io, hanno un'idea precisa del quadro complessivo .
A questo punto vorrei aggiungere una considerazione piuttosto significativa. Proprio questa
stessa borghesia negra che tra gli altri fratelli di colore non si esporrebbe mai al ridicolo per
cercare di difendere l'uomo bianco, guardatela un po' come si comporta quando il pubblico è
misto e quando sa che il suo amato «Mister Charlie» è lì vicino a sentire. E' in quell'occasione
che dovreste sentire come quei negri mi attaccano e cercano di giustificare o perdonare i crimini
dell'uomo bianco. E' questa gente che, più di ogni altro, mi spinge quasi al punto di infrangere
uno dei miei fondamentali principi, cioè di non abbandonarmi mai troppo alle reazioni emotive
e all'ira. Eppure qualche volta mi è venuta voglia di saltar giù dalla tribuna e aggredire
FISICAMENTE qualcuno di questi strumenti dell'uomo bianco, di questi pappagalli inebetiti, di
questi fantocci senza cervello. Durante i dibattiti nei college mi servo di solito di un'obiezione
di questo genere: «Siete uno studente di legge, o un avvocato, non è vero?» Possono rispondere
solo sì o no .
«Credevo che lo foste, - replico io, - perché difendete quel criminale dell'uomo bianco con più
accanimento di quanto lui, affetto com'è da un profondo senso di colpa, non difenda se stesso» .
Non dimenticherò mai un professore negro di una certa università «simbolicamente integrata».
Mi fece così arrabbiare che mi andò il sangue alla testa. Mentre i nostri ventidue milioni di
negri privi di istruzione hanno bisogno dell'aiuto di chiunque abbia un po' di talento, quello lì
faceva la figura, tra i suoi «colleghi» bianchi, di una mosca nel latte e per di più cercava di
MANGIARMI. Blaterava definendomi un «demagogo che voleva dividere i bianchi dai negri»,
un «razzista alla rovescia». Dopo essermi spremuto il cervello per trovare il modo di infilzare
quello stolto, alzai la mano e lo interruppi: «Sapete come i razzisti bianchi chiamano un negro
laureato?» Lui mi rispose pressappoco così: «Non credo di esserne al corrente» .
Il tono era quello di uno di quei negri che parlano in modo ultraforbito. Allora io gli buttai in
faccia la parola a voce alta: «NIGGER!» Riferivo a Muhammad che le conferenze e i dibattiti
nei college e nelle università erano utili per la Nazione dell'Islam perché era in quelle istituzioni
che venivano istruite e sviluppate le menti migliori dei diabolici uomini bianchi. Eppure, per
qualche motivo che non potei comprendere fino a molto tempo dopo, Muhammad non era
molto favorevole a quella mia attività .
In seguito avrei saputo dai suoi stessi figli che Muhammad era invidioso perché si sentiva
incapace di parlare di fronte a un pubblico universitario. Malgrado ciò, a quest'epoca, per conto
del Messaggero, venivo piano piano scoprendo che quegli uditori così intelligenti erano
straordinariamente aperti e obiettivi nel ricevere le dure, nude verità che dicevo loro: «In
infinite occasioni, la gente di razza negra, rossa, gialla ha potuto constatare che l'uomo bianco
non è in grado di comprendere le più semplici note spirituali. Sembra sordo di fronte al suono
globale dell'orchestra di tutta l'umanità. Ogni giorno, sulle prime pagine dei suoi giornali, ci
viene descritto il mondo da lui creato .
«L'ira e il giudizio di Dio stanno per cadere su questo uomo bianco che inciampa e cammina
alla cieca nell'oscurità della sua perfidia .
«Oggi restano soltanto due gigantesche nazioni bianche, l'America e la Russia, ciascuna delle
quali ha il suo stuolo di satelliti infidi e titubanti. L'America controlla la maggior parte di quello
che resta del mondo bianco, mentre i francesi, i belgi, gli olandesi, i portoghesi, gli spagnoli ed
altre nazioni bianche sono gradatamente divenuti più deboli nella misura in cui gli asiatici e gli
africani hanno potuto recuperare i loro territori .
«L'America finanzia i resti del prestigio e della forza di quella che un tempo fu la potentissima
Gran Bretagna. Il sole è tramontato per sempre sul colonialista col casco e il monocolo,
occupato a centellinare il tè in compagnia di una delicata lady nelle colonie sistematicamente
sfruttate e spogliate di qualsiasi risorsa. Oggi l'inutile monarchia e nobiltà britanniche
sopravvivono con i soldi richiesti ai turisti per poter visitare i loro aviti castelli e con il ricavato
della vendita delle loro memorie, autografi, profumi, titoli e persino di se stessi .
«Il mondo intero sa benissimo che l'uomo bianco non può sopravvivere a un'altra guerra. Se
uno dei due giganti dovesse premere il bottone, la civiltà bianca scomparirebbe! «Ancora una
volta ci accorgiamo che non sono le ideologie, ma la razza e il colore a tenere uniti gli esseri
umani. E' una pura coincidenza a far sì che mentre i comunisti cinesi visitano i paesi dell'Africa
e dell'Asia, Russia e America si stanno avvicinando l'una all'altra sempre di più? «La storia
dell'uomo bianco collettivo non ha lasciato altra alternativa ai popoli di colore che quella di
avvicinarsi sempre più l'uno all'altro. E' caratteristico, come sempre, che al diabolico uomo
bianco manchi la forza morale e il coraggio di liberarsi della sua arroganza. Oggi vuole
"comprarsi" amici fra la gente di colore e cerca di nascondere il suo passato. Non ha l'umiltà per
ammettere le sue colpe, per espiare i suoi delitti: ha avvilito e distorto il semplice messaggio di
amore che il profeta Gesù disse e insegnò durante la sua vita» .
Il pubblico sembrava sorpreso quando parlavo di Gesù ed allora spiegavo che noi Muslims
crediamo nel profeta Gesù il quale, insieme a Mosè e Maometto, è uno dei tre profeti più
importanti dell'Islam. A Gerusalemme ci sono dei santuari musulmani dedicati al profeta Gesù.
Spiegavo ai miei uditori che era nostra convinzione che il cristianesimo non avesse attuato gli
insegnamenti di Cristo e, a questo proposito, citavo sempre la distinzione che, di fronte a un
pubblico africano, aveva fatto anche Billy Graham: «Credo in Cristo, ma non nel cristianesimo»
.
Non dimenticherò mai quella piccola studentessa bionda di un college della Nuova Inghilterra
dove ero stato a parlare. Doveva essere venuta da New York con l'aereo successivo a quello che
presi io. Trovò il ristorante Muslim ad Harlem e capitò che io fossi proprio lì quando lei
entrava. Il suo modo di vestire e di camminare, il suo accento rivelavano chiaramente
l'educazione e la ricchezza tipici del profondo Sud. Parlando al college che lei frequentava
avevo detto che il padrone di schiavi bianco, prima della guerra civile, aveva ingannato
diabolicamente anche le sue donne convincendole che erano «troppo pure» per i suoi bassi
«istinti animaleschi ». In questo modo, con questa «nobile» menzogna, aveva indotto la propria
moglie a tollerare le sue ovvie preferenze per le negre «animalesche» e così quella «delicata
padrona» stava lì seduta a guardare i piccoli bastardi messi al mondo con le schiave della
piantagione da suo padre, da suo marito, dai suoi fratelli e dai suoi figli. Avevo detto di fronte
al pubblico di quel college che nel senso di colpa degli americani bianchi c'era la
consapevolezza che, odiando i negri, essi odiavano, rigettavano e negavano il loro stesso sangue
.
Non ho mai visto nessuno più colpito dalle mie parole di questa giovane studentessa. Mi chiese
con fare concitato: «Ma siete proprio convinto che non ci siano dei bianchi BUONI?» Non
volevo ferirla e perciò le risposi: «Signorina, io guardo le AZIONI della gente e non le parole» .
«Cosa posso FARE io?» esclamò. «Niente», replicai. Lei scoppiò in lacrime e corse fuori sulla
Lenox Avenue a cercare un taxi .
Ogni volta che andavo a trovarlo a Chicago o a Phoenix, Muhammad mi incoraggiava con le
sue espressioni di fiducia e di approvazione. Quando andò in pellegrinaggio alla città santa
della Mecca, mi lasciò a capo della Nazione dell'Islam .
Credevo così fermamente in lui che, se fosse stato necessario, gli avrei fatto senza esitazione
scudo del mio corpo .
Una coincidenza mi convinse che c'era qualcosa ancora più grande della mia devozione a
Muhammad: lo sbigottimento di fronte alla ragione che avevo per venerarlo .
Ero stato invitato a parlare a un seminario organizzato dalla facoltà di scienze giuridiche della
Harvard University. Mi capitò di guardare attraverso una finestra e subito mi resi conto che
stavo guardando in direzione dell'edificio che, insieme alla mia banda di scassinatori, avevo
scelto come quartier generale .
Tutto mi tornò davanti agli occhi sommergendomi come un'immensa ondata; mi balenarono
davanti innumerevoli scene della mia vita così depravata di un tempo, di quando vivevo e
pensavo come un animale .
Cominciai allora a rendermi conto fino a che punto la religione dell'Islam era penetrata in me
per salvarmi dalla condizione che ormai mi era inevitabile, e cioè quella di un criminale
inchiodato nella bara, oppure, se fossi stato ancora vivo, di un detenuto di trentasette anni,
indurito, amareggiato, chiuso in un penitenziario o in qualche manicomio criminale. Se mi
fosse andata bene, sarei stato un vecchio Rosso di Detroit, sulla via della decadenza, che
trafficava e rubava abbastanza per procurarsi il cibo e gli stupefacenti e che sarebbe caduto
preda di più giovani e ambiziosi trafficanti, come era stato prima lui .
Invece Allah mi aveva consentito di conoscere la religione dell'Islam che mi aveva messo in
condizione di tirarmi fuori dalla melma e dai miasmi di quel mondo marcio .
Ero là, invitato a fare una conferenza ad Harvard .
Mentre pensavo a queste cose mi tornò a mente una leggenda che avevo letto in prigione
quando avevo preso interesse alla mitologia greca. Era la leggenda di Icaro. Ve la ricordate? Il
padre di Icaro aveva costruito un paio di ali tenute insieme con la cera. «Non volare troppo in
alto con queste ali», aveva detto. Ma Icaro, volteggiando di qui e di là, era così lieto che
cominciò a credere che se volava era solo per merito suo. Volò sempre più in alto, sempre più
in alto, finché il calore del sole non sciolse la cera che teneva insieme le ali. E così Icaro cadde
al suolo .
Là, in piedi, vicino a quella finestra della Harvard University, promisi in cuor mio ad Allah che
non avrei mai dimenticato che le ali che avevo, quali che esse fossero, mi erano state date dalla
religione dell'Islam. E non l'ho mai dimenticato..
.
Capitolo sedicesimo .
FUORI .
Nel 1961, le condizioni di Muhammad peggiorarono improvvisamente. Quando andavo a
fargli visita e parlava con me o con altri, veniva preso da attacchi di tosse sempre più convulsa
finché tremava con tutto il corpo e si contorceva al punto che era difficile sopportarne la vista.
Poi Muhammad doveva mettersi a letto .
Finché fu possibile, noi dirigenti della Nazione dell'Islam e i membri della sua famiglia
cercammo di tenere la cosa segreta .
Alcuni altri Muslims si accorsero delle condizioni di Muhammad quando, all'ultimo momento,
si dovette annullare la sua partecipazione personale ad alcuni grandi raduni che erano stati
annunciati da tempo. I Muslims sapevano che solo ragioni veramente serie impedivano al
Messaggero di mantenere la sua promessa di partecipare a quei raduni. Si dovette rispondere
alle loro domande e così, ben presto, la notizia della malattia del nostro leader si sparse per tutta
la Nazione dell'Islam .
Chi non è Muslim non può immaginarsi che cosa avrebbe voluto dire per i suoi seguaci la
scomparsa di Muhammad. Per noi egli era la Nazione dell'Islam, e il legame che ci teneva
insieme nella migliore organizzazione che i negri americani avessero mai avuto era la
devozione di tutti per Muhammad, considerato come il riformatore morale, intellettuale e
spirituale dell'America negra .
In altre parole, noi Muslims ci consideravamo degli esempi morali e spirituali per gli altri negri
americani perché seguivamo l'esempio di Muhammad. Le comunità negre discutevano
rispettosamente le misure di sospensione che venivano prese nei confronti dei Muslims che
mentivano, giocavano d'azzardo, imbrogliavano o fumavano. Per reati di immoralità, quali la
fornicazione e l'adulterio, Muhammad proclamava lui stesso sentenze da uno a cinque anni di
«isolamento», quando non prescriveva addirittura l'espulsione dalla Nazione dell'Islam. I suoi
collaboratori più in alto nella gerarchia erano puniti con più rigore dei più recenti proseliti
perché, come egli diceva, tradivano lui e la sua posizione di leader e di esempio di tutti gli altri
Muslims. Per ogni membro della Nazione dell'Islam impegnato nel respingere le tentazioni
dell'immoralità, Muhammad era la luce. Tutti erano convinti che, senza di lui, saremmo rimasti
nelle tenebre .
Come ho detto prima, i medici raccomandarono un clima secco per migliorare le condizioni di
Muhammad. Immediatamente si misero gli occhi, a Phoenix, sulla casa del sassofonista Louis
Jordan che fu acquistata con i fondi della Nazione dell'Islam. Il Messaggero si trasferì subito là
.
Soltanto se invece di uno avessi potuto dividermi in due, mi sarebbe stato possibile lavorare di
più al servizio della Nazione dell'Islam. Avevo tutte le soddisfazioni che volevo perché col mio
contributo si era realizzato un tale progresso e raggiunta una tale rinomanza nazionale che
nessuno avrebbe potuto accusarci di mentire quando definivamo Muhammad il negro più
potente d'America. Avevo aiutato il Messaggero e gli altri suoi pastori a rivoluzionare il modo
di pensare del negro americano, ad aprirgli gli occhi perché non considerasse più l'uomo bianco
con lo stesso timore e abbietta adorazione. Avevo preso parte alla diffusione delle verità che
avevano tanto contribuito a liberare il negro americano dal miraggio che la razza bianca fosse
formata di esseri «superiori»; ero in parte responsabile di avere introdotto un elemento nuovo
nel profondo dell'anima negra .
Se c'era qualcosa che in certo modo mi deludeva era la convinzione che se avessimo AGITO di
più, la nostra Nazione dell'Islam sarebbe potuta diventare una forza ancora più grande nel
quadro della lotta dei negri americani. Con questo voglio dire che ero convinto della necessità
di modificare o addirittura di abbandonare la nostra politica del non impegno .
Ritenevo che dovunque i negri erano impegnati, fosse a Little Rock, a Birmingham o in altri
posti, dei Muslims disciplinati avrebbero dovuto esser presenti perché tutti li vedessero, li
rispettassero e parlassero di loro .
Sentivo sempre più che tra i negri circolavano commenti di questo genere: «Quei Muslims
usano parole dure, ma non fanno mai niente, a meno che qualcuno non vada a molestarli».
Frequentavo gente estranea alla Nazione dell'Islam più di quasi tutti gli altri dirigenti Muslim
ed ero convinto che, considerando l'esplosiva irrequietezza delle masse negre, l'etichetta
attribuitaci di «parlare soltanto» potesse un giorno tagliarci fuori, pur con tutta la nostra
potenza, dalla battaglia combattuta dai negri .
Ma a parte quest'unica preoccupazione personale, non avrei potuto chiedere ad Allah di
ricompensare i miei sforzi più di quanto non avesse fatto. A New York l'Islam cresceva più
rapidamente che in qualsiasi altra parte dell'America: iniziando con la piccola moschea che
Muhammad mi aveva originariamente affidato, avevo costruito tre delle più potenti e
aggressive moschee della Nazione, la numero sette A di Harlem a Manhattan, la numero sette B
di Corona nel quartiere di Queens e la numero sette C a Brooklyn. Su scala nazionale, avevo
direttamente fondato o contribuito a fondare la maggior parte delle cento e più moschee
esistenti nei cinquanta stati e, talvolta anche quattro volte la settimana, attraversavo da un
estremo all'altro gli Stati Uniti. Spesso le uniche ore di sonno che mi concedevo erano in aereo;
tenevo un ritmo addirittura da maratoneta per quanto riguardava gli impegni con la stampa, la
radio, la televisione e i dibattiti pubblici. L'unico modo per essere all'altezza del mio compito al
servizio di Muhammad era di volare con le ali che lui mi aveva dato .
Fin dal 1961, quando la malattia di Muhammad subì un peggioramento, avevo sentito degli
apprezzamenti negativi nei miei confronti. Si trattava di allusioni velate e mi ero anche accorto
da alcuni piccoli segni che intorno a me si stavano addensando l'invidia e la gelosia, come
Muhammad aveva profetizzato. Per esempio si diceva che «il pastore Malcolm X cerca di
impadronirsi della Nazione dell'Islam», che «tutto il merito» degli insegnamenti di Muhammad
me lo prendevo io e che facevo di tutto per «crearmi un impero». Si sussurrava anche che a me
piaceva fare la parte del «signor pezzo grosso che viaggia su e giù per il paese» .
Quando sentii questi apprezzamenti, devo dire che non me la presi troppo. In realtà essi mi
aiutavano a rinsaldare la mia decisione di non permettere che tali menzogne potessero diventare
vere. Mi ricordavo sempre che Muhammad mi aveva profetizzato questa invidia e gelosia e ciò
mi aiutava ad ignorarla perché sapevo che appena avesse sentito queste dicerie lui avrebbe
capito .
Una malignità assai comune tra i non Muslims era che «Malcolm X sta facendo un mucchio di
quattrini». Almeno i Muslims sapevano come stavano le cose in questo senso! Io far quattrini?
Tutte le polizie segrete e il controspionaggio degli Stati Uniti messi insieme non riuscirebbero a
trovare nient'altro di mio oltre alla macchina che guido e alla casa di sette stanze in cui abito.
(Ora poi la Nazione dell'Islam sta cercando con feroce accanimento di togliermi persino la
casa). Certo che maneggiavo dei quattrini! Elijah Muhammad mi autorizzava a prelevare
qualsiasi somma che avessi chiesto, ma lui, come tutti gli altri dirigenti Muslim sapeva
benissimo che tutto, fino all'ultimo centesimo, serviva ad espandere la Nazione dell'Islam .
Il mio atteggiamento nei confronti del denaro fu la causa dell'unico litigio che ho avuto con la
mia amata moglie Betty .
Quando cominciammo ad avere diversi figli, lei mi suggerì di mettere da parte qualcosa per il
futuro. Io rifiutai e alla fine arrivammo a litigare. Mi impuntai davvero. Sapevo di avere in
Betty una moglie che, all'occasione avrebbe sacrificato la vita per me, ma nonostante ciò le
dissi che troppe organizzazioni erano state distrutte da leader che cercavano un vantaggio
personale e che spesso erano spinti a ciò dalle loro mogli. In seguito a questo litigio arrivammo
quasi a una rottura, ma alla fine convinsi Betty che se mi fosse successo qualcosa la Nazione
dell'Islam avrebbe pensato a lei per il resto della sua vita e alle nostre bambine finché non
fossero diventate grandi. Non avrei potuto essere più stupido di così! Durante ogni
trasmissione radio o televisiva, ogni intervista concessa ai giornali, dichiaravo sempre senza
equivoci che parlavo come RAPPRESENTANTE di Muhammad. Chi mi ha sentito pronunciare
un discorso in pubblico in quel periodo sa che, almeno una volta al minuto, dicevo: «Il molto
onorevole Elijah Muhammad insegna...» Rifiutavo di parlare con chiunque cercasse di fare
dello spirito su quel mio continuo riferimento a Muhammad e quando qualcuno diceva o
scriveva «Malcolm X, il numero due dei Black Muslims», reagivo con violenza. In varie
occasioni chiamavo al telefono in altre città giornalisti e redattori dei programmi radio e
televisivi per chiedere loro di non usare più quell'espressione e per dire che «TUTTI i Muslims
sono numero due dopo Muhammad» .
Portavo la borsa piena di fotografie del Messaggero che distribuivo ai fotografi che ritraevano
me. Poi telefonavo ai direttori dei giornali chiedendo di pubblicare quelle invece delle mie e
quando, con mia grande gioia, Muhammad accettò di concedere interviste a degli scrittori
bianchi, io raramente parlai con uno di loro, o con qualche scrittore negro, senza insistere
perché andassero a far visita a Muhammad a Chicago .
«Andate a ricevere la verità dal Messaggero in persona», dicevo loro, e molti andarono
effettivamente a intervistarlo .
Sia i bianchi che i negri, compresi anche i Muslims, mi mettevano in imbarazzo attribuendomi
gran parte del merito per il continuo progresso che stava compiendo la Nazione dell'Islam .
«Tutto il merito spetta ad Allah, - dicevo a tutti, - e per ciò che di positivo faccio io spetta a
Elijah Muhammad» .
Credo che nessuno nella Nazione dell'Islam avrebbe conquistato la fama internazionale cui
giunsi io con le ali che Muhammad mi aveva dato, oltre alla libertà che mi aveva concesso di
prendere qualsiasi iniziativa, restando al tempo stesso un servo fedele e disinteressato come
rimasi io .
Fu nel 1962, direi, che cominciai ad accorgermi che lo spazio a me dedicato dal giornale della
Nazione dell'Islam «Muhammad Speaks» diminuiva progressivamente. Seppi che il direttore,
uno dei figli di Muhammad, Herbert, aveva dato istruzioni che si parlasse di me il meno
possibile. In effetti il giornale Muslim dedicava più spazio ai leader negri integrazionisti che a
me, mentre la stampa europea, asiatica e africana mi riservava maggiore attenzione .
Non è che vada matto per la pubblicità, tanto più che ne avevo avuta in misura maggiore di
tante celebrità mondiali. Tuttavia mi dispiaceva che il giornale dei Muslims negasse ai suoi
lettori le notizie di importanti iniziative che venivano prese nel loro interesse solo per il fatto
che ero stato io a prenderle. Organizzavo raduni di massa allo scopo di diffondere gli
insegnamenti di Muhammad e, a causa della gelosia e dell'ottusità, giunsi ad essere totalmente
ignorato perché, a questo punto, era stato dato l'ordine che il mio nome non dovesse più
apparire sul giornale. Per esempio, parlai a ottomila studenti dell'università della California e la
stampa mise in grande evidenza quello che avevo detto del potere e del programma di
Muhammad. Ma quando tornai a Chicago aspettandomi almeno una reazione favorevole e
qualche articolo sul mio discorso, mi trovai di fronte a un muro di freddezza. Lo stesso accadde
quando organizzai un raduno ad Harlem a cui parteciparono settemila persone. In quel tempo il
quartier generale di Chicago era giunto fino a scoraggiarmi dall'organizzare grossi raduni, ma la
settimana successiva riuscii a farne un altro ad Harlem ancora più grande e che ebbe molto più
successo del primo. Ciò ebbe come unico risultato di accrescere l'invidia dei dirigenti di
Chicago .
Quando queste cose accadevano, cercavo di togliermele dalla mente, almeno per quanto mi era
umanamente possibile. Non voglio farmi passare per giusto e nobile: dico solo la verità.
AMAVO la Nazione dell'Islam e Muhammad e vivevo unicamente per loro .
Il fatto che mie fotografie apparissero molto spesso sulla stampa quotidiana suscitò la gelosia
di altri dirigenti Muslim i quali volevano ignorare che ciò accadeva per il fervore con cui mi
battevo al servizio di Muhammad. Non avevano il buon senso di pensare che data la
vulnerabilità della Nazione dell'Islam di fronte alla distorsione delle notizie e alle più sfacciate
menzogne, avevamo bisogno di un nostro portavoce che controbattesse continuamente. Il buon
senso avrebbe suggerito a quei dirigenti che Muhammad non poteva percorrere in lungo e in
largo tutto il paese e che quindi chiunque egli designasse come suo portavoce non avrebbe
potuto evitare la notorietà .
Tutte le volte che provavo un senso di risentimento, mi vergognavo di me stesso poiché lo
giudicavo una prova della mia debolezza. Sapevo che almeno Muhammad aveva la certezza che
la mia vita era interamente dedicata a rappresentarlo .
Ma durante il 1963 non potei più evitare di sentirmi ferito dai dirigenti della Nazione dell'Islam
che mi criticavano. Smisi di scegliere alcuni fratelli di New York e di dar loro del denaro
perché andassero a fondare delle nuove moschee in altre città, visto che circolavano voci
allusive intorno ai «pastori di Malcolm». In un momento in cui, in America, era della massima
importanza che la voce di un negro combattivo fosse ascoltata dalle grandi masse, rifiutai la
proposta della rivista «Life» di pubblicare la mia storia personale e così feci anche con la rivista
«Newsweek» e con la proposta fattami dal programma televisivo «Incontro con la stampa» di
partecipare a una loro trasmissione come ospite d'onore. Tutti questi rifiuti furono una perdita
per i negri in generale e, in particolare, per la Nazione dell'Islam. Rifiutai queste proposte a
causa dell'atteggiamento dei dirigenti di Chicago: erano gelosi perché ero stato solo io ad essere
invitato .
Quando la scarica di un fucile di grosso calibro dilaniò la schiena del segretario della
N.A.A.C.P. del Mississippi, Medgar Evers, volevo dire le crude verità che dovevano esser dette
.
Quando, a Birmingham nell'Alabama, una bomba lanciata in una chiesa cristiana negra uccise
quattro belle bambine negre, feci dei commenti senza dire quello che avrebbe dovuto esser
detto riguardo all'atmosfera di odio che il bianco americano provocava e manteneva. Più si
permetteva lo scoppio di quell'odio quando c'erano dei modi per arrestarlo, e più esso sarebbe
divampato fino ad avvolgere e consumare persino gli stessi bianchi, compresi i loro capi. Per
esempio, a Dallas nel Texas, l'allora vicepresidente Johnson e sua moglie furono fatti oggetto
degli insulti più volgari mentre l'ambasciatore degli Stati Uniti presso le Nazioni Unite, Adlai
Stevenson, fu fatto bersaglio di sputi e colpito in testa da una donna bianca .
Muhammad mi nominò primo pastore nazionale e ad un raduno tenutosi a Philadelphia verso la
fine del 1963, abbracciandomi davanti al pubblico disse: «Questo è il mio pastore più fedele e
quello che lavora di più. Mi seguirà fino alla morte» .
Il Messaggero non aveva mai fatto un simile complimento a nessun Muslim e nessuna lode di
qualsiasi altra persona sulla terra sarebbe stata più importante per me .
Questa fu l'ultima volta che Muhammad ed io apparimmo insieme in pubblico .
Non molto tempo prima, mentre stavo partecipando al programma radio di Jerry Williams a
Boston, qualcuno mi aveva passato un comunicato che era stato appena trasmesso dalle
telescriventi dell'Associated Press. Lessi che la sezione della Louisiana del Citizens Council
aveva offerto diecimila dollari di ricompensa per la mia morte .
Tuttavia la minaccia di morte mi veniva da molto più vicino .
Vi sto dicendo la verità. Quando scoprii chi altri mi voleva morto, vi posso assicurare che
diventai quasi pazzo .
Nei dodici anni durante i quali fui pastore della Nazione dell'Islam, avevo insegnato i
problemi morali con tanta veemenza che molti Muslims mi accusarono addirittura di essere
«misogino». Il pilastro dei miei insegnamenti, e al tempo stesso la mia convinzione personale
più profonda, era che Elijah Muhammad rappresentava, in ogni aspetto della sua esistenza, un
simbolo della riforma morale, intellettuale e spirituale dei negri americani. Per dodici anni
avevo insegnato che la mia metamorfosi costituiva, nell'ambito della Nazione dell'Islam, il
miglior esempio che conoscevo del potere di Muhammad di riformare la vita dei negri. Da
quando entrai in prigione fino al mio matrimonio, dodici anni più tardi, non avevo toccato una
donna proprio grazie all'influenza che Muhammad esercitava su di me .
Ma verso il 1963, come qualcuno avrà notato, cominciai a parlare sempre meno di religione:
insegnavo ai Muslims la dottrina sociale, gli avvenimenti contemporanei e i problemi politici,
ma mi tenevo lontano dall'argomento della moralità .
La ragione di ciò fu che la mia fede era stata scossa in un modo che non riuscirò mai a
descrivere pienamente. Avevo scoperto che i Muslims erano stati traditi dallo stesso Elijah
Muhammad .
Mi limiterò a parlare di tale questione quanto basta perché ne possano risultare chiari il mio
atteggiamento e le mie reazioni .
Per quel che riguarda il dilemma tra rivelare queste cose oppure no, non c'è più bisogno di
tormentarsi perché ormai si tratta di notizie di dominio pubblico. Per dirla nella maniera più
concisa, mi limiterò a citare una notizia così come apparve testualmente sui giornali di tutti gli
Stati Uniti e fu poi trasmessa dalla radio e dalla televisione: «Los Angeles, 3 luglio (UPI).
Elijah Muhammad, il leader sessantasettenne del movimento dei Black Muslims, è stato oggi
denunciato da due sue ex segretarie che lo hanno accusato di essere il padre dei loro quattro
bambini... Tutte e due le donne hanno un'età compresa fra i venti e i trent'anni... Miss Rosary e
Miss Williams hanno dichiarato di aver avuto rapporti intimi con Elijah Muhammad dal 1957
fino a quest'anno. Miss Rosary ha dichiarato che egli è il padre dei suoi due figli ed ha aggiunto
di essere incinta per la terza volta... L'altra querelante ha dichiarato che Muhammad è il padre
della sua bambina...» Già fin dal I 955 avevo sentito fare delle allusioni, ma dovete credermi
quando vi dico che il solo pensiero di dar credito a qualcosa che potesse minimamente scalfire
il comportamento morale di Muhammad mi faceva tremare di terrore. Perciò la mia mente si
rifiutava di credere a un'accusa così grottesca come quella dell'adulterio che veniva attribuito a
Muhammad .
ADULTERIO! Qualsiasi Muslim colpevole di tale mancanza cadeva automaticamente in
disgrazia. Uno degli scandali della Nazione dell'Islam che erano stati più rigorosamente tenuti
segreti era la successione di segretarie personali di Muhammad che erano rimaste incinte.
Venivano portate davanti ai tribunali Muslim, accusate di adulterio ed esse confessavano.
Umiliate di fronte a tutti, venivano condannate da uno a cinque anni di «isolamento», il che
voleva dire non avere più alcun contatto con gli altri Muslims .
Non credo di poter portare prova migliore della profondità della mia fede in Muhammad del
fatto che respingevo in maniera totale ed assoluta i dati che mi forniva la mia stessa
intelligenza. Mi rifiutavo di credere. Non volevo che Allah «bruciasse il mio cervello», come
credevo che fosse accaduto a mio fratello Reginald, per concepire pensieri cattivi riguardo a
Elijah Muhammad. L'ultima volta che avevo visto Reginald era stato un giorno che egli era
venuto al ristorante della moschea numero sette. Lo vidi mentre entrava, gli andai incontro e
guardandolo negli occhi gli dissi che non era benvenuto tra i Muslims. Egli voltò la schiena e
uscì e da allora non l'ho più visto. Feci questo al mio fratello di sangue perché, anni addietro,
Muhammad lo aveva condannato all'«isolamento» da tutti gli altri Muslims ed io, prima che
fratello di Reginald, mi consideravo un Muslim .
Nessuno al mondo mi avrebbe convinto che Muhammad poteva tradire la devozione che
avevano per lui tutte le moschee piene di quei poveri, fiduciosi Muslims che raccoglievano
soldo dopo soldo i fondi necessari a mantenere la Nazione dell'Islam, quando molti di questi
fedeli erano appena in grado di pagare l'affitto di casa .
Ma verso la fine del 1962, seppi da fonti degne di fede che numerosi Muslims stavano
abbandonando la moschea numero due di Chicago. La notizia sconfortante si spargeva con
rapidità anche tra i negri non Muslim e quando pensavo all'accanimento con cui la stampa era
alla caccia di pretesti per screditare la Nazione dell'Islam, tremavo all'idea che queste cose
potessero raggiungere gli orecchi di qualche giornalista bianco o negro .
In realtà cominciai ad avere degli incubi... vedevo dei GROSSI TITOLI DI GIORNALE.
Vivevo sotto il peso continuo del timore mentre continuavo a far fronte ai miei impegni
pubblici in tutto il paese. Tutte le volte che un giornalista mi si avvicinava, mi sembrava che
dicesse: «E' vero, signor Malcolm X, quello che abbiamo sentito...?» Cosa avrei risposto? Non
ci fu mai un momento particolare in cui ammisi a me stesso la situazione. Come solo può fare la
mente umana, riuscivo a passar sopra al fatto di ammettere a me stesso tale ripugnante realtà,
anche se cominciavo ad affrontarla .
Sia a New York che a Chicago i miei conoscenti non Muslim cominciarono a dirmi per vie
traverse che avevano sentito dire, oppure mi chiedevano se io per caso non fossi al corrente. Mi
comportavo come se non avessi la minima idea di ciò a cui si riferivano ed ero loro grato
quando evitavano di dirmi chiaramente cosa sapevano. Ero perfettamente conscio del fatto che,
di fronte a loro, passavo per un completo imbecille e anch'io mi sentivo tale, lì a predicare tutti i
giorni e a dar l'impressione di non sapere cosa succedeva sotto il mio naso, nella mia
organizzazione, fatti in cui era coinvolto proprio colui che lodavo tanto. Questo far la parte
dell'imbecille riportò alla luce reazioni che non avevo più avuto dai tempi in cui facevo il
trafficante ad Harlem. Nel mondo della malavita la cosa peggiore è quella di essere stupido .
Vi farò un esempio. Un giorno, dietro il palcoscenico del teatro Apollo di Harlem, il comico
Dick Gregory mi guardò in faccia e mi disse: «Amico, Muhammad non è nient'altro che...» Non
posso dire la parola che adoperò, bam!, così all'improvviso. Il mio istinto di Muslim mi disse di
saltare addosso a Dick Gregory, ma invece mi sentii debole e vuoto. Credo che Dick si
accorgesse di quanto ero addolorato e lasciò cadere il discorso. Conoscevo Dick, nativo di
Chicago, con quella sua saggezza tipica della gente di strada e la sua franchezza nel parlare;
volevo pregarlo di non dire a nessun altro quello che aveva detto a me, ma non potei: sarei stato
io stesso a doverlo ammettere .
Non riesco a descrivere il mio tormento. In tempi passati, in qualunque circostanza particolare,
prendevo il primo aereo per andare da Muhammad. Era lui che mi aveva praticamente
resuscitato dalla morte e tutto quanto di positivo c'era in me era opera sua. Ritenni che, a
qualunque costo, non dovevo staccarmi da lui .
Non c'era nessuno a cui avrei potuto confidare questo problema, fatta eccezione per lo stesso
Muhammad e, infatti, era da lui che sarei dovuto andare alla fine. Però prima andai a Chicago a
parlare con il suo secondogenito Wallace Muhammad. Lo consideravo, tra i figli del
Messaggero, quello che aveva una più forte spiritualità e una visione più obiettiva: eravamo
stati sempre molto vicini e tra di noi c'era una profonda stima reciproca .
Quando mi vide Wallace immaginò subito perché ero andato a trovarlo. «Lo so», mi disse. Gli
esposi la mia convinzione che dovessimo unirci per aiutare suo padre, ma lui replicò che suo
padre non avrebbe gradito una cosa del genere. Tra me e me pensai che Wallace doveva essere
impazzito .
Successivamente trasgredii alla regola secondo cui nessun Muslim deve avere contatti con un
suo confratello condannato all'«isolamento». Andai a parlare con tre delle ex segretarie di
Muhammad. Dalla loro viva voce seppi tutte le circostanze e l'identità del padre dei loro
bambini. Appresi che Muhammad aveva detto loro che io ero il migliore, il più grande pastore
che lui avesse mai avuto, ma che, qualche giorno, lo avrei lasciato, mi sarei rivolto contro di lui
e per questo ero «pericoloso». Seppi da queste ex segretarie che mentre Muhammad mi lodava
davanti, dietro le spalle mi faceva a pezzi .
Tutto ciò mi ferì profondamente .
Ogni giorno facevo scrupolosamente fronte ai miei impegni con la stampa, la radio e la
televisione e con la mia moschea numero sette, ma ero come fuori di me .
Finalmente riuscii a oggettivare la cosa. Mi persuasi che star lì senza far niente equivaleva a
tradire, che finché rimanevo così paralizzato non potevo aiutare Muhammad: c'era bisogno di
qualcuno che prendesse posizione .
Fu così che una sera scrissi al Messaggero del veleno che veniva sparso intorno a lui. Mi
telefonò a New York e mi disse che avremmo discusso la faccenda al nostro prossimo incontro .
Cercavo disperatamente un modo, quasi un ponte, su cui, ero certo, fosse possibile salvare la
Nazione dell'Islam dall'autodistruzione. Avevo fede nel nostro movimento: noi non eravamo il
solito gruppo di negri cristiani che ballano, urlano in chiesa e poi sono pieni di peccati! Pensai
a una via d'uscita da impiegare se e quando la sconvolgente notizia fosse diventata di dominio
pubblico. Si poteva insegnare ai fedeli Muslims che ciò che l'uomo realizza nella sua vita
compensa largamente le sue debolezze personali e umane. Wallace Muhammad mi aiutò a
cercare la documentazione nel Corano e nella Bibbia. Sulla bilancia della storia, l'adulterio di
David con Betsabea per esempio, ha un peso minore del fatto positivo che egli uccise Golia.
Quando si pensa a Lot, non si pensa all'incesto, ma al fatto che salvò il suo popolo dalla
distruzione di Sodoma e Gomorra; e quando ci rappresentiamo Noè non lo vediamo ubriaco, ma
mentre costruisce l'Arca e insegna agli uomini a salvarsi dal diluvio. Mosè lo ricordiamo per
aver guidato gli ebrei fuori della schiavitù e non per i suoi rapporti adulterini con le donne
etiopi. In tutti questi casi che io andai a riscoprire, il positivo superava di gran lunga il negativo
.
Cominciai a insegnare nella moschea numero sette di New York che quello che un uomo riesce
a compiere nella vita compensa largamente le sue debolezze personali e umane, che le buone
azioni pesano di più delle cattive e non feci più cenno agli argomenti, prima di consuetudine,
dell'adulterio, della fornicazione e dell'immoralità .
Quasi per miracolo, questa storia che era così largamente diffusa a Chicago sembrava che fosse
appena trapelata a Boston, Detroit e New York e, apparentemente, non aveva raggiunto le altre
moschee del paese. Sentii dire che a Chicago un sempre maggior numero di Muslims
abbandonava la moschea numero due e che molti non Muslims che erano stati simpatizzanti
della Nazione dell'Islam erano ora apertamente contrari ad essa. Nel febbraio del 1963
pronunciai il discorso per il conferimento dei diplomi all'università dell'Islam e quando
presentai i vari membri della famiglia di Muhammad sentii come un brivido di freddezza che
dal pubblico si trasmetteva a loro .
Nell'aprile del 1963 Muhammad mi invitò ad andarlo a trovare a Phoenix .
Come sempre ci abbracciammo e quasi subito lui mi portò fuori e cominciammo a passeggiare
nei pressi della piscina .
Quest'uomo, il Messaggero di Allah, mi aveva salvato quando ero un carcerato sciocco e
vizioso, tanto cattivo che gli altri mi avevano soprannominato Satana; era lui che mi aveva
istruito e che mi aveva trattato come se fossi del suo sangue; lui che mi aveva dato le ali per
volare, per fare cose che, in altre circostanze, non avrei neppure sognato. Mentre
passeggiavamo ero preso come in un vortice di pensieri contrastanti .
«Ebbene figliolo, - disse Muhammad, - cos'è che ti turba?» Con estrema chiarezza e sincerità,
senza nessun infingimento, dissi a Muhammad cosa si diceva e, senza aspettare che mi
rispondesse, aggiunsi che con l'aiuto di suo figlio Wallace avevo trovato nel Corano e nella
Bibbia quello che, se fosse stato necessario, si sarebbe potuto insegnare ai Muslims come il
compimento della profezia .
«Figliolo, non sono affatto sorpreso, - disse Elijah Muhammad; tu hai sempre compreso la
profezia delle cose spirituali e quindi sei in grado di riconoscere in tutto questo proprio la
profezia. Hai la qualità di saggezza che solo i vecchi possiedono .
«Io sono David e quando leggi che lui prese la moglie di un altro, ebbene pensa che io sono
quel David. Quando leggi di Noè che si ubriacava, ebbene quello sono io. Quando leggi di Lot
che andava a letto con le proprie figlie, ebbene pensa che io sono colui che deve compiere tutte
queste cose» .
Mi ricordavo che quando un'epidemia sta per scatenarsi la gente viene vaccinata con alcuni di
quegli stessi germi che ci si aspetta entreranno presto nel sangue. Tale procedimento li prepara
a resistere al virus che sta per arrivare .
Decisi che era meglio preparare altri sei dirigenti Muslim della costa occidentale che io stesso
avevo scelto .
Li misi al corrente di tutto e poi dissi loro perché lo facevo, e cioè che ritenevo non dovessero
esser colti di sorpresa se fosse stato dato loro incarico di insegnare ai Muslims, nelle loro
rispettive moschee, il «compimento della profezia». Trovai che alcuni di loro sapevano già tutto
ed anzi il pastore Louis X di Boston ne aveva sentito parlare sette mesi prima. Tutti erano stati
lacerati dallo stesso dilemma .
Non pensai che i dirigenti Muslim di Chicago avrebbero fatto di tutto per dare l'impressione
che, anziché acqua, gettassi benzina sul fuoco, per mostrare all'opinione pubblica che, invece di
vaccinare i fedeli contro un'epidemia, ero io quello che l'aveva iniziata .
A Chicago l'orientamento era di distogliere l'attenzione dei Muslims dall'epidemia e di
concentrarla invece su di me. Per gente di fede discutibile l'odio verso di me sarebbe diventato
la causa del loro restare uniti .
I negri non Muslim che mi conoscevano bene e persino alcuni dei giornalisti bianchi con i
quali avevo dei contatti regolari, mi dicevano quasi dovunque andavo: «Malcolm X, hai
l'aspetto stanco. Hai bisogno di riposo» .
Eppure essi non conoscevano che una piccola parte della situazione. Da quando facevo parte
della Nazione dell'Islam questa era la prima volta che dei bianchi si rivolgevano a me in via
personale. Sapevo che alcuni di loro erano davvero onesti e sinceri ed uno, il cui nome non
citerò per non sottoporlo al rischio di perdere il posto, mi disse: «Malcolm X, i bianchi hanno
bisogno della vostra voce molto più dei negri». Ricordo bene questa frase perché fu pronunciata
la prima volta in cui, da quando ero diventato Muslim, avevo parlato con un bianco a lungo di
argomenti diversi dalla Nazione dell'Islam e dalla lotta del negro americano contemporaneo .
Non ricordo come o perché lui rammentò i Rotoli del Mar Morto .
Io gli risposi con una frase di questo genere: «Sì, quei manoscritti toglieranno Gesù dalle
vetrate e dagli affreschi delle chiese dove è stato sempre rappresentato con la pelle bianca come
un giglio per riportarlo nel vero corso della storia in cui Gesù fu uomo di colore». Il giornalista
fu sorpreso ed io continuai dicendogli che i Rotoli del Mar Morto avrebbero convalidato il fatto
che Gesù era membro di quel sodalizio di indovini egiziani detti esseni, fatto già conosciuto da
Filone, il famoso storico egiziano dell'epoca di Cristo. Quel giornalista ed io ci intrattenemmo a
parlare per due ore buone di archeologia, storia e religione. Fu una conversazione
piacevolissima che, per quel breve tempo, mi fece quasi dimenticare le gravi preoccupazioni
che mi assillavano. Rammento che finimmo con l'esser d'accordo che nell'anno duemila si
insegnerà agli scolaretti qual era il vero colore dei grandi uomini dell'antichità .
Ho detto che mi aspettavo da un momento all'altro una campagna di stampa, ma certamente
non quella che si verificò .
Non c'è bisogno di ricordare chi fu assassinato a Dallas nel Texas il 22 novembre 1963 .
Poche ore dopo l'attentato - vi sto dicendo la pura verità tutti i pastori Muslim ricevettero da
Elijah Muhammad un ordine, anzi DUE ordini: non si dovevano fare apprezzamenti di sorta
sull'assassinio e inoltre Muhammad ci dette istruzioni perché, se ci avessero richiesto con
insistenza di fare dei commenti, rispondessimo con un secco: «No comment» .
Durante i tre giorni successivi, in cui non si sentivano altre notizie all'infuori di quelle
riguardanti il presidente assassinato, Muhammad avrebbe dovuto parlare al Manhattan Center
di New York in una manifestazione già da tempo organizzata .
Invece annunciò che non sarebbe venuto e siccome non ci avrebbero restituito il denaro che
avevamo già pagato per l'affitto della sala, mi incaricò di prendere il suo posto .
Da allora ho riguardato molte volte gli appunti che adoprai per il discorso di quel giorno e che
avevo preparato almeno una settimana prima dell'assassinio. Il titolo del mio discorso era "Dio
giudica l'America bianca" e toccava il tema a me familiare del «chi semina vento raccoglie
tempesta», il modo in cui l'ipocrita americano bianco raccoglie quello che ha seminato .
Poi ci furono le domande del pubblico e, inevitabilmente, qualcuno mi chiese: «Qual è la
vostra opinione sull'assassinio del presidente Kennedy?» Senza un momento di esitazione dissi
quello che in tutta onestà pensavo e cioè che si trattava di un caso tipico di «chi la fa l'aspetti».
Dissi che l'odio dei bianchi non era soddisfatto dall'assassinio di negri indifesi, ma che, una
volta che si era permesso che si scatenasse senza freni, aveva colpito anche la massima autorità
di questa nazione. Dissi che la stessa cosa era accaduta a Medgar Evers, a Patrice Lumumba, al
marito della signor Nhu .
I titoli dei comunicati stampa riferirono immediatamente: «Malcolm X dei Black Muslims:
"chi la fa l'aspetti"» .
Se ripenso a tutta la faccenda mi viene il disgusto. In tutta l'America, in tutto il mondo, alcune
tra le personalità più importanti dicevano in modi diversi, ma più chiaramente di quanto non
avessi fatto io, che la colpa della morte del presidente era da attribuirsi al clima di odio esistente
in questo paese. Eppure quando Malcolm X diceva la stessa cosa si scatenava lo sdegno .
Il giorno successivo era quello della mia abituale visita mensile a Muhammad. Quando salii
sull'aereo ebbi la strana sensazione che qualcosa sarebbe accaduto. Ho sempre avuto intuizioni
di questo genere .
Ci abbracciammo come al solito, ma sentii che la cordialità di Muhammad nei miei confronti
non era più la stessa. Quanto a me, cosa abbastanza indicativa, mi sentii preso da un'improvvisa
tensione. Per anni ero stato orgogliosamente convinto di esser così vicino a Muhammad che per
sapere cosa provava lui bastasse sentire quello che provavo io. Se era nervoso, anch'io ero
nervoso; se era disteso, anch'io ero disteso. Ed ora avvertivo quella TENSIONE.. .
Seduti in salotto, parlammo prima di altre cose e poi lui mi domandò: «Hai visto i giornali di
stamane?» «Sì, signore, li ho visti », risposi .
«E' stata una frase molto infelice, - disse. - Tutto il paese lo amava. Tutto il paese è in lutto...
E' stata una frase molto intempestiva che potrebbe render la vita difficile a tutti i Muslims» .
Poi, come se la sua voce venisse da lontano, udii che Muhammad diceva queste parole:
«Bisognerà che ti imponga il silenzio per tre mesi in modo che tutti i Muslims vengano
dissociati dal tuo errore» .
Restai impietrito .
Ma ero un seguace di Muhammad. Avevo detto tante volte ai mei collaboratori che chiunque si
trova nella posizione di imporre ad altri una disciplina dev'essere in grado prima di tutto di
accettarla lui stesso .
«Signore, - dissi a Muhammad, - sono d'accordo con voi e mi sottometto completamente» .
Ripresi l'aereo per New York cercando di prepararmi psicologicamente a dire ai miei
collaboratori della moschea numero sette che ero stato sospeso, o «messo a tacere». Ma con mia
immensa sorpresa, quando arrivai seppi che erano già stati informati .
La cosa che mi sbalordì di più fu di apprendere che era stato mandato un telegramma a tutti i
giornali di New York City e alle stazioni radio e televisive. Non avevo mai visto i dirigenti di
Chicago organizzare una campagna pubblicitaria più rapida ed efficiente .
Tutti i telefoni dove mi si poteva raggiungere squillavano in continuazione. Londra, Parigi,
l'Associated Press, la UPI, tutte le stazioni radiotelevisive e tutti i giornali chiamavano. Io dissi:
«Ho disobbedito a Muhammad. Mi sottometto completamente alla sua saggezza. Sì, riprenderò
a parlare fra tre mesi» .
I titoli dei giornali dicevano: «Malcolm X messo a tacere!» La mia preoccupazione principale
era che se entro quei tre mesi fosse scoppiato uno scandalo nella Nazione dell'Islam, io sarei
stato con le mani legate proprio quando ci sarebbe stato bisogno di me, che ero il Muslim con
più esperienza di quei mezzi di comunicazione di massa che avrebbero potuto sfruttare qualsiasi
scandalo a dovere .
Più tardi seppi che l'«avermi messo a tacere» era molto più grave di quanto non pensassi
perché non solo mi si proibiva di fare dichiarazioni alla stampa, ma anche di insegnare nella
mia moschea numero sette .
Successivamente fu diffuso un annuncio all'interno della Nazione dell'Islam in cui si diceva
che sarei stato reintegrato nelle mie funzioni entro tre mesi «se fa atto di sottomissione» .
Per la prima volta quelle parole mi resero sospettoso. Mi ero sottomesso completamente,
eppure, a bella posta, si dava l'impressione ai Muslims che mi fossi ribellato .
Non avevo bazzicato gli ambienti di strada così tanti anni per nulla: sapevo benissimo cosa mi
stavano preparando .
Tre giorni dopo mi fu riferito che un dirigente della moschea numero sette, che era stato uno
dei miei più intimi collaboratori, aveva detto a certi fratelli: «Se sapeste cos'ha fatto il vostro
pastore andreste voi stessi ad ammazzarlo» .
Allora tutto mi fu chiaro. Come qualsiasi dirigente della Nazione dell'Islam avrebbe
immediatamente immaginato, era chiaro che non si sarebbe potuto accennare al mio assassinio
se non con l'approvazione, o addirittura l'incoraggiamento, di un'unica persona .
Mi pareva che la testa mi sanguinasse internamente; mi sentivo come se avessi avuto una
ferita al cervello. Andai perciò a farmi visitare dalla dottoressa Leona A. Turner che per anni è
stata il nostro medico di famiglia e che ha lo studio a East Elmhurst nel Long Island. Le chiesi
di farmi una visita neurologica completa. Lei mi esaminò e disse che ero in preda a una grave
tensione e che avevo bisogno di riposo .
Oggi Cassius Clay ed io non siamo più insieme, ma gli serbo sempre gratitudine perché,
proprio in quel momento, mi invitò con Betty ed i bambini per celebrare il sesto anniversario
del nostro matrimonio a Miami dove si stava allenando per un incontro con Sonny Liston .
Avevo conosciuto Cassius Clay a Detroit nel 1962. Entrava con suo fratello Rudolph nel
piccolo ristorante per studenti vicino alla moschea di Detroit dove Elijah Muhammad stava per
parlare in occasione di un grande raduno. Tutti i Muslims presenti furono ammirati dal
portamento e dall'espressione di sincerità di questi due atletici, stupendi pugilatori. Cassius mi
si avvicinò, mi prese la mano e si presentò a me come più tardi si sarebbe presentato al mondo
intero: «Sono Cassius Clay». Si comportava come se fossi obbligato a sapere chi era ed io lo
assecondai sebbene, fino a quel momento, non avessi mai sentito parlare di lui. I nostri erano
due mondi completamente diversi: infatti Elijah Muhammad ci insegnava a respingere qualsiasi
forma di sport .
Mentre Elijah Muhammad parlava, i due fratelli Clay furono quasi sempre quelli che
applaudivano per primi facendosi notare per la loro sincerità. Una riunione di Muslims era
senz'altro l'ultimo posto al mondo per cercarvi dei tifosi della boxe .
In seguito sentii dire ogni tanto che Cassius era andato a visitare moschee e ristoranti Muslim
di varie città e se mi capitava di parlare in qualche località facilmente raggiungibile, lui veniva
sempre a sentirmi. Cassius mi piaceva .
Aveva una certa comunicatività che me lo fece includere tra le poche persone che invitavo a
casa mia. Piaceva anche a Betty e le nostre bambine, poi, andavano pazze per lui. Cassius era
un giovane amabile, cortese, sincero e pratico. Da molti piccoli particolari notavo la sua
vivacità intellettuale e mi venne subito il sospetto che il suo gigionismo in pubblico fosse
voluto. Lui stesso mi confermò che stava facendo il possibile per condizionare
psicologicamente Sonny Liston a venire sul ring arrabbiato, poco allenato e pieno di eccessiva
fiducia in se stesso, certo di vincere ancora una volta l'incontro ai primi round. Cassius non
soltanto accettava i consigli, ma li sollecitava. Prima di tutto cercai di inculcargli il principio
che il successo di una personalità dipende dalla misura in cui conosce la vera natura e le vere
motivazioni della gente che gli sta intorno. Lo misi in guardia contro le «volpi», termine con
cui egli definiva le giovani, belle e aggressive femmine che gli si affollavano intorno, e gli dissi
che invece di «volpi» erano lupi .
Questa era la prima vacanza per Betty, da quando ci eravamo sposati. Le nostre tre bambine
stavano continuamente alle costole del loro peso massimo per giocare con lui .
Non so cosa avrei fatto se fossi rimasto a New York in questo periodo cruciale, assediato dal
continuo squillare dei telefoni, dalla stampa e da tutta quella gente così ansiosa di speculare,
fare illazioni e «commiserare» .
Ero in uno stato di choc emotivo; ero come uno che è stato felicemente sposato per dodici anni
e improvvisamente, la mattina a colazione, si vede buttare sul tavolino i fogli del divorzio .
Mi sembrava che qualcosa della NATURA si fosse arrestato, come se non brillassero più il
sole o le stelle. Per me si verificò quell'incredibile fenomeno, qualcosa di troppo stupendo per
essere concepito. Non ho nessuna indulgenza per me stesso. Nel campo di allenamento di
Cassius Clay, intorno all'Hampton House Motel dove eravamo alloggiati noi, parlavo con mia
moglie e con altra gente, ma in realtà quelle parole erano per me solo dei suoni senza
significato. Quello che dicevo era controllato da un piccolo angolo della mia mente mentre il
resto si riempiva di una successione di migliaia di scene diverse degli ultimi dodici anni... nelle
moschee Muslim... con Muhammad e la sua famiglia... con i Muslims separatamente, come
uditori e alle nostre feste sociali... di fronte a un pubblico di bianchi e alla stampa .
Camminavo, parlavo e mi muovevo. Nel campo di allenamento di Cassius Clay ripetei ai vari
cronisti sportivi quella che poco alla volta mi ero persuaso fosse una bugia e cioè che entro tre
mesi sarei stato reintegrato nelle mie funzioni. Tuttavia, sul piano psicologico, non riuscivo
ancora ad affrontare quello che sapevo e cioè che tra me e la Nazione dell'Islam era avvenuto il
divorzio fisico. Capite cosa intendo dire? La firma di un giudice su un pezzo di carta può
concedere ad una coppia il divorzio fisico, ma per uno di loro, o forse per tutti e due, se il
matrimonio ha avuto dei momenti felici, ci vorranno magari degli anni prima che si sentano
separati del tutto SUL PIANO PSICOLOGICO .
Ma nel divorzio fisico non potevo sfuggire alla strategia e alla congiura che si stava intessendo
a Chicago per eliminarmi dalla Nazione dell'Islam... se non addirittura dal mondo. Ero convinto
di percepire addirittura il meccanismo stesso della congiura .
Tutti i Muslims avrebbero immaginato che la mia frase «chi la fa l'aspetti» non era stata altro
che una scusa per far scattare il piano per eliminarmi. Il primo passo era già stato fatto: si era
data ai membri della Nazione dell'Islam l'impressione che mi fossi ribellato contro Muhammad.
Ora prevedevo quale sarebbe stato il secondo passo: mi avrebbero «sospeso » (e più tardi
«isolato») a tempo indeterminato. Il terzo passo sarebbe stato o di convincere qualche Muslim
che non conosceva la verità ad assumersi il compito di assassinarmi come «dovere religioso»
oppure di isolarmi in modo che piano piano sarei scomparso dalla scena pubblica .
L'unica persona che sapeva era mia moglie. Non avrei mai pensato che avrei avuto bisogno di
appoggiarmi ad una donna così come facevo ora con Betty. Tra di noi non c'era uno scambio:
Betty non diceva niente, con la sua profondissima comprensione e la forza d'animo che la
caratterizza, però io sentivo perfettamente quanto mi era vicina. Sapevo che era una fedele
serva di Allah come me e che, qualunque cosa fosse accaduta, sarebbe stata sempre al mio
fianco .
L'oscura minaccia della morte non mi faceva paura. Durante i dodici anni che avevo passato a
fianco di Muhammad ero stato pronto, in qualsiasi circostanza, ad offrire la mia vita per lui. Per
me la cosa peggiore della morte era il tradimento .
Arrivavo a concepire quella ma non questo, non il tradimento della fedeltà che avevo dato alla
Nazione dell'Islam e a Muhammad. Durante i precedenti dodici anni, se Muhammad avesse
commesso qualsiasi reato punibile con la morte, avrei fatto di tutto per provare che il colpevole
ero io, per salvarlo, e sarei andato alla sedia elettrica come suo servo .
Là a Miami, ospite di Cassius Clay, cercavo disperatamente di allontanare dalla mente tutti i
miei problemi per concentrarmi su quelli della Nazione dell'Islam. Lottavo ancora per
persuadermi che Muhammad aveva realizzato la profezia, perché avevo veramente creduto che
se non era Dio, certamente veniva subito dopo .
La mia fede cominciò ad essere scossa dal fatto che, per quanto mi sforzassi, non riuscivo a
celarmi che Muhammad, invece di affrontare a viso aperto quello che aveva fatto di fronte ai
suoi seguaci o confessando la sua debolezza umana o presentandola come il compimento della
profezia, cosa quest'ultima che credo i Muslims avrebbero capito o almeno accettato, aveva
preferito far di tutto per nascondere e camuffare le sue azioni .
Questo fu per me il colpo più duro e fu allora che cominciai a capire di aver creduto in
Muhammad più di quanto lui credeva in se stesso .
Fu così che, dopo dodici anni durante i quali non avevo mai pensato a me stesso, riuscii
finalmente a trovare la calma, la forza per cominciare a guardare in faccia alla realtà, a pensare
di me .
Lasciai per un po' la Florida per riaccompagnare Betty e le bambine alla nostra casa di Long
Island. Appresi che i dirigenti Muslim di Chicago si erano ulteriormente arrabbiati con me a
causa degli articoli apparsi sui giornali in cui si descriveva la mia vita al campo di allenamento
di Cassius Clay. Erano convinti che Cassius non avesse nessuna probabilità di vincere e che
quelli della Nazione dell'Islam non avrebbero ricavato altro che imbarazzo dal saperci insieme.
(Vorrei dire incidentalmente, anche se non so se al campione importa oggi ricordarlo, che la
maggior parte dei giornali d'America avevano mandato i loro inviati al campo di allenamento,
quasi tutti all'infuori di «Muhammad Speaks». Anche se Cassius era un fratello Muslim, il
giornale della Nazione dell'Islam non giudicò l'incontro che stava per sostenere degno di un
articolo) .
Tornai in aereo a Miami convinto che fosse nei disegni di Allah servirsi di me per aiutare
Cassius a provare di fronte al mondo la superiorità dell'Islam, dimostrando che l'intelligenza
può prevalere su di una montagna di muscoli. Inutile che vi ricordi come tutti scartavano la
possibilità che Cassius Clay potesse battere Liston .
Questa volta mi portai dietro da New York alcune fotografie di Floyd Patterson e Sonny Liston
in allenamento con dei preti bianchi che facevano la parte dei «consiglieri spirituali». Dato che
Cassius Clay era un Muslim non c'era bisogno di dirgli come il cristianesimo bianco aveva
trattato il negro americano .
«Questo incontro è la VERITA', - dissi a Cassius - La croce combatte la mezzaluna su di un
ring, per la prima volta. E' come una moderna crociata, con un cristiano e un musulmano l'uno
di fronte all'altro, davanti agli obiettivi della televisione che trasmetterà l'avvenimento a tutto il
mondo via Telstar! Credi che Allah abbia suscitato tutto questo perché tu lasci il ring senza aver
conquistato il titolo?» (Ricorderete che al peso Cassius gridava frasi di questo genere: «Il mio
successo è stato profetizzato! Non posso perdere!») Gli allenatori e i consiglieri di Sonny
Liston lo spinsero a dedicare più energie per integrarsi che non per allenarsi al combattimento
con Cassius. Finalmente Liston era riuscito ad affittare una grossa villa in una zona residenziale
di bianchi ricchi. Per darvi un'idea, il proprietario della villa vicina era il padrone del club di
baseball New York Yankees, Dan Topping. Nel pomeriggio, quando Cassius ed io andavamo a
passeggiare nei quartieri negri, la gente ci guardava a bocca aperta per la sorpresa di vederlo tra
di loro invece che tra i bianchi, come preferivano gran parte dei pugilatori negri .
Cassius sbalordiva quei nostri confratelli dicendo loro: «Voi siete la mia gente. La forza mi
viene dal trovarmi fianco a fianco con i miei fratelli negri» .
In realtà Sonny Liston stava per affrontare una delle più sconvolgenti situazioni di terrore che
si possano immaginare, stava per misurarsi con un fedele di Allah, con un uomo del tutto senza
paura .
Tra gli ottomila spettatori convenuti nella grande Convention Hall di Miami io ebbi il biglietto
numero 7. Questo è sempre stato il mio numero preferito che mi ha seguito per tutta la vita.
Considerai questa coincidenza come un segno di Allah che mi confermava la vittoria di
Cassius. Ero molto più preoccupato per come avrebbe fatto il fratello di Cassius, Rudolph, che
disputava il suo primo incontro fuori campionato. Rudolph vinse dopo quattro round un negro
della Florida chiamato «Chip» Johnson; Cassius stava in piedi in fondo alla sala vestito con uno
smoking nero. Dopo tutti quei mesi di allenamento, dopo la scena che aveva fatto al peso, la
calma di cui dava ora prova Cassius deve avere insospettito alcuni dei cronisti sportivi che
avevano pronosticato una sua clamorosa sconfitta .
Poi Cassius andò a vestirsi per l'incontro con Liston e, come eravamo rimasti d'accordo, mi
unii a lui in silenziosa preghiera per chiedere la benedizione di Allah. Alla fine, quando i due
contendenti si presentarono agli opposti angoli del ring, incrociai le braccia e feci il possibile
per assumere l'aspetto più indifferente di cui ero capace. In televisione uno che fa il tifo a un
incontro di pugilato può apparire addirittura come un pagliaccio .
Fatta eccezione per qualche sostanza che gli entrò negli occhi e lo accecò temporaneamente
durante il quarto e il quinto round, il combattimento si svolse secondo il piano di Cassius.
Riuscì ad evitare i potenti diretti di Liston e al terzo round questi, già in su con gli anni,
cominciò a stancarsi anche perché si era allenato nella matematica sicurezza di non dover
superare i primi due round. Poi, disperato, Liston perse. Il segreto di uno dei più grandi crolli
psicologici nella storia della boxe va cercato nel fatto che, molti mesi prima di quella sera, Clay
aveva già vinto Liston col pensiero .
Probabilmente non c'è mai stata una celebrazione più semplice di quella vittoria. Il re del ring
dall'aspetto di un adolescente venne al motel dov'eravamo noi; mangiò un gelato, bevve del
latte, stette a parlare con il campione di rugby Jimmy Brown, altri amici e qualche giornalista.
Quando gli prese il sonno, Cassius fece un pisolino sul mio letto e poi tornò a casa .
La mattina dopo facemmo colazione insieme, subito prima della conferenza stampa nel corso
della quale, con la massima calma, Cassius annunciò che restava un Black Muslim. La notizia
fu riportata dalla stampa di tutto il mondo .
Lasciate che aggiunga qualcosa riguardo a ciò. Cassius non si proclamò mai membro di alcuna
setta di Black Muslims. I giornalisti ricavarono tale affermazione da quello che lui aveva detto e
cioè, nelle sue testuali parole: «Credo nella religione dell'Islam, cioè credo che non c'è altro Dio
all'infuori di Allah e che Maometto è il suo profeta. Questa è la stessa religione in cui credono
più di settecento milioni di persone di pelle scura in Africa e in Asia» .
Di tutto il clamore che seguì, niente fu più ridicolo dell'annuncio di Floyd Patterson che, come
cattolico, voleva incontrarsi con Cassius Clay per impedire che il titolo mondiale dei pesi
massimi fosse detenuto da un musulmano. Fu questo l'esempio patetico di un cristiano negro
disorientato dal lavaggio del cervello e pronto a combattere per il bianco che non vuole aver
niente a che fare con lui. Infatti, tre settimane dopo, apparve sui giornali di Yonkers, New York,
che Patterson offriva in vendita la sua casa da centoquarantamila dollari a ventimila dollari in
meno. Si era integrato in una zona residenziale di bianchi che gli avevano reso la vita
impossibile. Nessuno era gentile con loro, gli altri bambini chiamavano "niggers" i figli di
Patterson; un vicino ammaestrò il suo cane perché andasse a fare i suoi bisogni nel giardino del
pugilatore, mentre un altro fece costruire un alto muro di cinta perché gli nascondesse la vista
dei negri. «Ho provato, ma non ha funzionato», dichiarò Patterson alla stampa .
Il primo ordine diretto di assassinarmi fu dato attraverso un dirigente della moschea numero
sette che prima era uno dei miei più stretti collaboratori. A un altro, anche lui molto vicino a
me, fu dato l'incarico di occuparsi dell'esecuzione materiale .
Questi era un fratello che aveva pratica di esplosivi: gli fu chiesto di mettere della dinamite
nella mia automobile collegandola con l'accensione. Quando avessi messo in moto sarei saltato
in aria. Invece questo fratello, che conosceva troppo bene la mia completa fedeltà nei confronti
della Nazione dell'Islam, non se la sentì di eseguire l'ordine e me lo venne a dire. Lo ringraziai
per avermi salvato la vita e gli raccontai cosa stava succedendo a Chicago. Egli rimase allibito .
Questo fratello era molto amico di altri del gruppo della moschea numero sette che
presumibilmente avrebbero potuto essere interpellati dopo di lui perché si assumessero il
compito di eliminarmi. Mi disse che si sarebbe preoccupato di metterli al corrente in modo che
essi non si prestassero al gioco .
Questo primo ordine diretto di assassinarmi contribuì in maniera decisiva a determinare il mio
divorzio psicologico dalla Nazione dell'Islam .
Dovunque andassi, per la strada, nei locali pubblici, sugli ascensori, sui marciapiedi e persino
dalle macchine che passavano, cominciai a vedere sui visi dei Muslims che conoscevo
l'espressione di chi avrebbe aspettato il momento opportuno per tentare di assassinarmi .
Mi spremevo addirittura il cervello. Cosa avrei fatto? Avevo impegnato tutta la mia vita nella
lotta del negro americano ed ero comunemente considerato come un leader. Per anni avevo
criticato i difetti di tanti dei cosiddetti leader negri, e ora dovevo chiedermi onestamente che
cosa potevo offrire, quali erano le mie qualifiche per aiutare la gente di colore a vincere la sua
battaglia per i diritti umani. Avevo abbastanza esperienza per sapere che se si vuol diventare un
buon organizzatore di qualcosa di cui si attende il successo, ivi compreso lo stesso individuo
singolo, è necessario analizzare i fatti con precisione quasi matematica .
A mio vantaggio c'era il fatto di essere conosciuto in tutto il mondo e questa era una cosa che
nessuna somma di denaro avrebbe potuto comprare. Sapevo che se avessi detto qualcosa di un
certo interesse per la stampa, probabilmente sarebbe stata letta o discussa, a seconda di cosa si
trattava, in tutto il mondo. A New York City, dove avevo la mia naturale base di operazioni,
potevo contare su di un vasto, diretto seguito di non Muslims che si era venuto accrescendo fin
da quando avevo guidato i Muslims nella drammatica protesta contro la polizia, quando questa
aveva usato la violenza contro il nostro fratello Hinton .
Centinaia di negri di Harlem avevano visto e centinaia di migliaia avevano più tardi sentito dire
come noi eravamo stati capaci di dimostrare che se i negri avessero saputo affrontare i bianchi
senza paura, non c'erano limiti a quello che avremmo potuto ottenere. Tutta Harlem aveva
potuto constatare come, da allora, la polizia aveva rispettato i Muslims. (Ciò era accaduto nel
periodo in cui il commissario capo della ventottesima sezione di polizia aveva detto di me:
«Nessuno dovrebbe disporre di tanto potere») .
Negli anni successivi avevo avuto diverse prove che una vasta percentuale dei negri di New
York City reagiva favorevolmente a quello che io dicevo. Tra di essi ve ne erano molti che non
avrebbero mai mostrato pubblicamente il loro assenso. Per esempio, tutte le volte che parlavo
nel corso di qualche comizio che tenevamo per la strada, il mio pubblico era da dieci a dodici
volte più numeroso di quello che andava a sentire gran parte dei cosiddetti leader negri. Sapevo
che in qualsiasi società il vero leader è colui che sa guadagnarsi e meritarsi l'appoggio dei suoi
seguaci, i quali vengono da sé, per loro volontà e seguendo il proprio impulso. Sapevo che il
vero limite di gran parte dei leader negri più grossi era la loro mancanza di un qualsiasi genuino
rapporto con i negri del ghetto. Infatti come avrebbero potuto stabilire tale rapporto se
passavano quasi tutto il loro tempo a integrarsi con i bianchi? Sapevo che gli abitanti del ghetto
erano sicuri che, in spirito, non li avevo mai abbandonati e che anche fisicamente non me ne ero
allontanato se non quando era stato necessario. Avevo l'istinto del ghetto e per esempio, di
fronte a un pubblico di quel tipo, ero in grado di sentire se c'era più tensione del solito. Ero in
grado di parlare e di capire la lingua del ghetto. Tutte le volte che sentivo qualche leader negro
dei più grossi dichiarare che «parlava a nome» dei negri del ghetto, mi veniva sempre a mente
un esempio .
Dopo un comizio in una strada di Harlem, uno di questi leader che veniva da giù in città stava
parlando con me quando ci venne vicino un trafficante del quartiere. Non ricordavo di averlo
mai visto prima e lui mi disse pressappoco così: «Hey, baby! I dig you holding this all-originals
scene at the track... I'm going to lay a vine under the Jew's balls for a dime-got to give you a
play... Got the shorts out here trying to scuffle up on some bread... Well, my man, I'll get on,
got to go peck a little, and cop me some z's-». E il trafficante se ne andò verso la Settima
Avenue .
Non avrei neanche pensato alla faccenda se non avessi visto che il leader stava lì allibito a
sentire parlare quel trafficante come se la lingua che adoperava fosse il sanscrito. Mi chiese che
cosa aveva detto ed io glielo spiegai. Il trafficante aveva detto di sapere che i Muslims tenevano
un bazar riservato soltanto ai negri al Rockland Palace, che è specialmente una sala da ballo.
Aveva intenzione di impegnare un vestito per dieci dollari («butto quel mio straccio sotto le
palle di qualche rigattiere ebreo») in modo da essere in grado di andare al bazar e contribuire.
Aveva poco denaro ma cercava di procurarsene un po' con tutti i mezzi: prima sarebbe andato a
mangiare e poi avrebbe fatto un sonnellino («vado a dare una beccata e poi a fare un po' zzzzz...
») Quello che voglio dire è che, come leader, ero in grado di parlare ai microfoni delle
principali stazioni radio, ad Harvard oppure a Tuskegee, con i negri della cosiddetta classe
media e con quelli del ghetto (mentre gli altri leader parlavano DI questi ultimi). Inoltre, poiché
ero stato anch'io un trafficante, sapevo meglio di tutti i bianchi e di quasi tutti i leader negri che
il negro più pericoloso d'America è il trafficante del ghetto. Perché dico questo? Perché nelle
giungle dei ghetti si ha molto meno rispetto per la struttura di potere bianca di quanto non ne
abbiano gli altri negri d'America. Il trafficante del ghetto non ha nessuna inibizione psicologica;
non ha religione; non ha nessun concetto morale, nessun senso di responsabilità civile, nessuna
paura... niente. Per sopravvivere è sempre lì in agguato pronto a sbranare il suo simile, all'erta
come un furetto per speculare su qualsiasi debolezza umana. Il trafficante del ghetto è
perennemente frustrato, inquieto e sempre in attesa di agire. Qualunque cosa si metta a fare,
s'impegna in maniera completa, assoluta .
Quello che rende il trafficante del ghetto ancora più pericoloso è l'immagine romantica che ha
di lui il ragazzo che abbandona la scuola ai primi anni. Questi adolescenti vedono l'inferno in
cui si trovano imprigionati i loro genitori che lottano per sopravvivere o la loro rinuncia a
battersi nel mondo pieno di pregiudizi e di intolleranza dell'uomo bianco. Decidono che è
meglio essere come i trafficanti che si fanno vedere in giro vestiti di tutto punto, con le tasche
piene di quattrini, senza rispetto per niente e per nessuno. Così i ragazzi del ghetto vengono
attratti da quel mondo di stupefacenti, furti, prostituzione, reati e immoralità di ogni genere .
La prima volta che vidi davvero il pericolo che possono rappresentare questi adolescenti del
ghetto se vengono spinti alla violenza, ne rimasi spaventato. In un bollente pomeriggio di estate
partecipai ad un raduno in una strada di Harlem a cui erano presenti molti di questi giovani. Ero
stato invitato da alcuni leader negri «responsabili» che normalmente non mi rivolgevano mai la
parola. Sapevo che si erano serviti del mio nome per attirare un uditorio numeroso e più ci
pensavo durante la strada e più la cosa mi faceva arrabbiare. Quando salii sulla tribuna, dissi al
pubblico che in verità non ero desiderato a quella manifestazione e che ci si era serviti del mio
nome, poi scesi dal palco .
Ma perché decisi di fare una cosa del genere? Quei teenagers negri si arrabbiarono e
cominciarono a correr di qua e di là urlando e mettendo in imbarazzo gli ascoltatori più adulti.
Il traffico fu bloccato in tutte e quattro le direzioni da una folla il cui stato d'animo diventò ben
presto così turbolento che ne fui preoccupato. Allora salii sul tetto di un'automobile e agitando
le braccia gridai a quei ragazzi di calmarsi. Mi obbedirono e allora chiesi loro di disperdersi. Mi
obbedirono anche in questo .
Ciò accadeva quando si cominciava a dire che io ero l'unico negro in America che «poteva
fermare o dare inizio a una rivolta razziale». Non so se potrei fare e l'una e l'altra cosa, ma so
che quell'episodio mi aveva insegnato, in pochi minuti, a nutrire un grande rispetto per il
fermento che è compresso nell'animo dei trafficanti e dei loro giovani ammiratori che abitano
nei ghetti dove, da un secolo, l'uomo bianco del Nord ha rinchiuso il negro .
La «lunga calda estate» del 1964 ad Harlem, Rochester e in altre città ha dato un'idea di quello
che potrebbe succedere, ed è solo un'idea. Tutti questi tumulti rimasero confinati ad alcune
località specifiche. Fate che alcuni di questi insopportabili ghetti ricevano la scintilla giusta,
prendano fuoco, esplodano e si riversino fuori dei loro confini nelle zone dove abitano i
bianchi! A New York City, lasciate che i negri infuriati si riversino fuori di Harlem attraverso il
Central Park e si spargano dentro i tunnel della Quinta Avenue, di Madison, Lexington e Park
Avenue; oppure prendete il South Side di Chicago, una zona di bassifondi ancora più vecchi e
più orribili, e lasciate che i suoi abitanti negri si riversino in città! Pensate un po' che cosa
succederebbe se i negri esasperati di Washington si dirigessero in massa sulla Pennsylvania
Avenue! A Detroit si è già visto un raduno pacifico di più di CENTOMILA NEGRI. Pensate un
po'. In qualunque città, a Cleveland, Philadelphia, San Francisco, Los Angeles c'è la dinamite
della condizione sociale dei negri e là ribolle l'ira della nostra gente .
Ho divagato su alcuni incidenti e situazioni da cui ho imparato a rispettare il pericolo che si
nasconde nei ghetti e ho cercato di spiegare in che modo, e onestamente, valutavo le mie
capacità per presentarmi come leader indipendente tra i negri .
Alla fine pensai che la decisione fosse già stata presa per me .
Le masse del ghetto mi avevano già identificato con l'immagine di uno dei loro capi e sapevo
che esse concedono istintivamente la loro fiducia solo a chi abbia dimostrato che non le venderà
mai all'uomo bianco. Non solo io non avevo simili intenzioni, ma il tradimento non fa parte
della mia natura .
Mi sentii come sfidato a pensare e costruire un'organizzazione che potesse contribuire a
eliminare la malattia del negro americano a causa della quale si è lasciato finora schiacciare
sotto il tallone dell'uomo bianco .
Il negro americano era mentalmente malato per quella sua accettazione supina della cultura
bianca; spiritualmente malato perché per secoli aveva accettato il cristianesimo dell'uomo
bianco che chiedeva al cosiddetto cristiano negro non di aspettarsi una vera fratellanza tra gli
uomini, ma di sopportare tutte le crudeltà dei cosiddetti cristiani bianchi. Questa religione aveva
confuso, annebbiato e distorto il modo di pensare della nostra gente, ci aveva insegnato a
credere che se non avevamo scarpe ed eravamo affamati «avremmo avuto scarpe, e latte e miele
e pesce fritto in paradiso» .
Il negro americano è economicamente malato e ciò appare chiaro da un semplice fatto. Come
consumatore riceve meno della parte che gli spetta, mentre contribuisce meno di tutti al settore
produttivo. Oggi il negro americano incarna alla perfezione l'immagine del parassita, vive
nell'illusione di poter progredire solo perché si trova fra le pieghe della enorme pancia di questa
enorme vacca che è l'America bianca. Per esempio, i negri spendono ogni anno più di tre
miliardi di dollari in automobili, ma in America ci saranno due o tre concessionari negri.
Ancora, il quaranta per cento del whisky scozzese più costoso che si consuma in America va
giù per la gola dei negri affamati di prestigio sociale, ma le sole distillerie di proprietà dei negri
sono nelle vasche da bagno o in qualche capanna sperduta nei boschi. Un altro esempio, forse il
più scandaloso, lo abbiamo qui a New York City dove, con più di un milione di negri, le
imprese commerciali di proprietà negra con più di dieci dipendenti non arrivano a venti. La
nostra gente non può stabilizzare la vita delle nostre comunità perché non possiede né controlla
le imprese commerciali al dettaglio .
Più che in tutto il resto, poi, il negro americano è malato politicamente. Infatti lascia che
l'uomo bianco lo divida facendogli accettare sciocchezze come quella di essere «democratico»
negro, «repubblicano» negro, «conservatore» negro, oppure «liberale» negro, quando un blocco
di dieci milioni di votanti negri potrebbe decidere l'equilibrio di potere nella politica americana,
visto che il voto dell'uomo bianco è quasi sempre diviso in proporzioni uguali. Le urne
elettorali sono un terreno in cui ogni negro potrebbe combattere con dignità per la causa della
sua gente e con il potere e gli strumenti che l'uomo bianco capisce, rispetta, teme e di cui si
serve. Sentite un po' cosa vi dico! Se un comitato di rappresentanti del blocco negro andasse a
dire al peggiore «odiatore di "niggers"» di Washington: «Noi rappresentiamo dieci milioni di
voti», ebbene, quello farebbe un salto sulla sedia e direbbe: «Davvero? Ma allora entrate!» Se i
negri del Mississippi votassero compatti, Eastland farebbe finta di essere più liberale di Jacob
Javits, oppure non riuscirebbe a mantenere il suo seggio. Altrimenti quale sarebbe la ragione
per cui i politicanti razzisti si battono per tenere i negri lontani dalle urne? Tutte le volte che un
gruppo può votare in blocco e decidere l'esito delle elezioni e tuttavia non lo fa, allora vuol dire
che quel gruppo è politicamente malato. Ci fu un momento in cui gli immigrati fecero di
Tammany Hall il più potente gruppo di potere della politica americana; nel 1880 fu eletto il
primo sindaco cattolico irlandese di New York e nel 1960 l'America ebbe il suo primo
presidente cattolico e irlandese. Se il negro americano votasse in blocco potrebbe disporre di
una forza ancora maggiore .
Negli Stati Uniti la vita politica è dominata da gruppi di pressione (lobbies) per la tutela degli
interessi settoriali .
Qual è quel gruppo che ha un interesse più urgente, che ha più bisogno delle pressioni di una
lobby del negro? Le organizzazioni sindacali posseggono a Washington uno degli edifici più
grandi tra quelli non di proprietà del governo, situato a un tiro di schioppo dalla Casa Bianca, e
nessuna mossa politica viene fatta senza tener conto della loro opinione. Fu una lobby a far
ottenere alle grandi società petrolifere l'esenzione fiscale per «prossimo esaurimento» e se oggi
in America i coltivatori costituiscono il gruppo di pressione maggiormente sussidiato dal
governo ciò è dovuto al fatto che milioni di agricoltori non votano come democratici,
repubblicani, liberali o conservatori, ma come agricoltori .
I medici hanno la miglior lobby di Washington e con la loro influenza riescono ad impedire
che si voti un programma sociale di assistenza medica che milioni di persone vogliono e di cui
hanno bisogno. Esiste una lobby dei produttori di barbabietola, dei commercianti di grano, degli
allevatori di bestiame, una lobby della Cina e piccole nazioni che nessuno sente mai
rammentare hanno a Washington le loro lobbies per la tutela dei loro particolari interessi .
Il governo ha vari ministeri per trattare coi vari gruppi di pressione che si fanno sentire. Il
dipartimento dell'Agricoltura si occupa dei bisogni dei coltivatori; c'è un dipartimento della
Sanità, dell'Istruzione e dell'Assistenza pubblica, un dipartimento dell'Interno che si occupa
anche degli indiani .
Qual è il maggior problema dell'America di oggi? E' l'agricoltore, il medico oppure l'indiano?
No, è il negro. Ci dovrebbe essere a Washington un dipartimento grande quanto il Pentagono
che si occupasse delle infinite articolazioni del problema negro .
Ventidue milioni di negri che hanno dato all'America quattrocento anni di fatiche, che hanno
versato il loro sangue e sacrificato la loro vita su tutti i campi di battaglia fin dai tempi della
Rivoluzione, che erano in America prima dei Pellegrini e molto tempo prima delle masse di
immigrati e che ancora oggi sono inferiori a tutti! Ebbene, questi ventidue milioni di negri
dovrebbero dare domani un dollaro a testa per costruire a Washington un grattacielo per la loro
"lobby". Tutte le mattine, ogni membro del Congresso dovrebbe ricevere una comunicazione
riguardo a ciò che il negro americano si aspetta, vuole e di cui ha bisogno. La voce della
"lobby" negra dovrebbe martellare le orecchie dei parlamentari quando è in discussione una
legge .
I pilastri su cui si basa il funzionamento di questo paese sono la forza e il potere politicoeconomico.
Il negro non ha la forza economica e ci vorrà del tempo perché possa procurarsela,
ma ora ha quella politica e quindi il potere di cambiare il suo destino da un momento all'altro .
Era un grosso compito quello di organizzare, come facevo io nella mia mente, un movimento
che potesse contribuire a spingere il negro americano alla conquista dei suoi diritti umani e a
curare le sue malattie mentali, spirituali, economiche e politiche. E' evidente però che se si vuol
fare qualcosa di buono è necessario cominciare con un buon piano .
In sostanza, l'organizzazione che speravo di creare sarebbe stata diversa dalla Nazione
dell'Islam in quanto avrebbe accolto negri di ogni fede e messo in pratica le cose che quella
aveva solo predicato .
Circolavano voci, particolarmente nelle città della costa orientale, su che cosa avrei potuto fare.
Ebbene, la prima doveva essere quella di attrarre gente più decisa di me. Ogni giorno i fratelli
più audaci ed attivi che avevano lavorato con me nella moschea numero sette annunciavano, in
sempre maggior numero, che abbandonavano la Nazione dell'Islam per venire con me, mentre,
in un modo o nell'altro, venivo a sapere di poter contare sull'appoggio di negri non Muslim, ivi
compreso un sorprendente numero di membri della classe media e della classe media superiore
che erano stanchi del giochetto del prestigio sociale. Mi si chiedeva sempre più a gran voce
quando avrei convocato una riunione, quando avrei cominciato a dar vita a un'organizzazione .
Per tenere una prima riunione trattai l'affitto della sala da ballo Carver dell'albergo Theresa,
situato all'angolo tra la Centoventicinquesima Strada e la Settima Avenue, angolo che potrebbe
esser chiamato uno dei quadri di controllo di Harlem .
Il giornale «Amsterdam News» riferì dell'intenzione di convocare tale riunione e molti lettori
interpretarono la notizia come se noi volessimo aprire la nostra moschea nell'albergo Theresa.
Da tutto il paese mi giunsero telegrammi, lettere e chiamate telefoniche lì all'albergo; tutti
esprimevano la convinzione che si trattasse di una mossa che la gente aspettava da tempo .
Ricevetti espressioni addirittura commoventi di fiducia da parte di sconosciuti e molti
mettevano in rilievo che si erano tenuti lontani dalla Nazione dell'Islam a causa delle sue
esagerate prescrizioni morali e che ora erano dispostissimi ad unirsi a me .
Un medico, proprietario di una piccola clinica, mi telefonò da un'altra città per comunicarmi la
sua adesione; molti altri mandarono il loro contributo anche prima che avessimo espresso
pubblicamente il nostro programma. Molti Muslims mi scrissero da altre città che si sarebbero
uniti a me e nelle loro lettere si trovavano continui riferimenti al fatto che «la Nazione
dell'Islam non è abbastanza attiva... si muove troppo lentamente» .
Un sorprendente numero di bianchi telefonò e scrisse offrendo contributi o chiedendo se
potevano aderire. La risposta fu no: i membri della nostra organizzazione avrebbero dovuto
essere tutti negri, ma se si sentivano solidali in coscienza avrebbero potuto contribuire
finanziariamente per sostenere il nostro atteggiamento costruttivo di fronte ai problemi razziali
dell'America .
Ricevetti inviti a tenere conferenze e dibattiti, ventidue nella posta di un solo lunedì mattina, e
rimasi assai sorpreso di constatare che un insolito numero di tali inviti veniva da gruppi di
pastori cristiani bianchi .
Convocai una conferenza stampa. Mi trovai circondato da microfoni, mentre balenavano i
lampi dei fotografi e i giornalisti, uomini e donne, bianchi e negri, che rappresentavano mezzi
di comunicazione di massa capaci di raggiungere tutto il mondo, stavano seduti davanti a me
con i loro taccuini aperti e i lapis pronti .
Feci la seguente dichiarazione: «Ho intenzione di organizzare e dirigere a New York City una
nuova moschea, chiamata Muslim Mosque Inc., che costituirà la base religiosa e ci darà la forza
spirituale necessaria per liberare la nostra gente dai vizi che distruggono la fibra morale della
nostra comunità .
«La Muslim Mosque Inc. avrà la sua sede temporanea all'albergo Theresa di Harlem. Essa
costituirà la piattaforma di partenza per un programma di azione volto ad eliminare
l'oppressione politica ed economica e la degradazione sociale di cui sono quotidianamente
vittime ventidue milioni di afroamericani» .
Poi i giornalisti cominciarono il fuoco di fila delle domande .
Non fu tutto così semplice come può sembrare a sentirlo raccontare. Pochi erano i posti che
frequentavo in cui non provassi la continua consapevolezza che molti dei miei ex fratelli erano
convinti di diventare eroi della Nazione dell'Islam se mi avessero ucciso. Sapevo come la
pensavano i seguaci di Elijah Muhammad: io stesso avevo insegnato a molti di loro a pensare.
Sapevo che nessuno ucciderebbe più rapidamente di un Muslim convinto che quella sia la
volontà di Allah .
C'era anche un'altra importante fase della mia preparazione che sapevo di dover compiere: ci
avevo pensato da lungo tempo, come servo di Allah. Per questo ci volevano dei soldi che non
avevo .
Presi l'aereo per Boston. Ancora una volta mi rivolgevo a mia sorella Ella. Sebbene fosse stata
talvolta provocata da me, in fondo in fondo, da quando ero andato da lei come un giovane
vagabondo che veniva dal Michigan, Ella non mi aveva mai voltato le spalle .
«Voglio fare il pellegrinaggio alla Mecca », le dissi .
«Di quanto hai bisogno?» rispose Ella .
Capitolo diciassettesimo .
LA MECCA .
Il pellegrinaggio alla Mecca, conosciuto come "Hajj", è un obbligo religioso che ogni
maomettano ortodosso adempie, se è umanamente possibile, almeno una volta nella sua vita .
Il Corano dice che «il pellegrinaggio alla Ka'ba è un dovere che gli uomini hanno verso Dio:
quelli che possono fanno il viaggio» .
Allah disse: «Proclamate il pellegrinaggio tra gli uomini: essi verranno da te a piedi e
cavalcando i magri cammelli; verranno da ogni gola profonda» .
Di solito, dopo aver parlato in questo o in quel college o università, nelle riunioni informali che
seguivano il mio discorso venivano a presentarsi come arabi, africani del Nord o mediorientali
dei musulmani dalla pelle bianca che si trovavano ad abitare negli Stati Uniti oppure c'erano in
visita o per studio. Essi mi avevano detto che, malgrado le mie denunce contro i bianchi,
ritenevano che fossi sincero nel considerarmi un musulmano e che se avessi avuto modo di
conoscere quella che loro chiamavano la «vera religione dell'Islam», l'avrei capita ed
abbracciata. Automaticamente, come seguace di Elijah Muhammad, avevo reagito tutte le volte
che mi si dicevano queste cose .
Eppure, dopo parecchie di queste esperienze, mi domandavo nell'intimità della mia mente: se si
è sinceri nel professare una religione, perché non si dovrebbe allargare la propria conoscenza di
essa? Una volta, nel corso di una conversazione con il figlio di Elijah Muhammad, Wallace,
lasciai trapelare questo mio dubbio e lui mi rispose che sì, certamente, era dovere di tutti i
musulmani cercar d'imparare tutto quanto potevano sull'Islam .
Avevo sempre tenuto in grande considerazione le opinioni di Wallace Muhammad .
Tutti i musulmani ortodossi che avevo conosciuto, tutti, uno dopo l'altro, avevano insistito
perché andassi a conoscere il dottor Mahmoud Youssef Shawarbi. Me ne avevano parlato come
di un musulmano colto e illustre, laureato presso l'università del Cairo e quella di Londra,
insigne conferenziere sui problemi dell'Islam, consulente delle Nazioni Unite e autore di molti
libri. Era professore ordinario all'università del Cairo ed aveva temporaneamente lasciato
l'insegnamento per venire a New York come direttore della Federazione delle associazioni
islamiche degli Stati Uniti e del Canada. Parecchie volte, quando mi ero trovato a passare in
macchina da quella parte della città, avevo resistito all'impulso di entrare nella sede della FIA,
posta in un edificio di pietra al numero 1 di Riverside Drive. Poi, un giorno, il dottor Shawarbi
ed io ci conoscemmo attraverso un giornalista .
Fu molto cordiale e mi disse di aver seguito le mie attività attraverso la stampa. Per parte mia
gli riferii quello che avevo sentito di lui e conversammo per quindici o venti minuti. Poi
dovemmo lasciarci perché ambedue avevamo degli impegni, ma, mentre eravamo sul punto di
stringerci la mano, mi disse qualcosa che non avrei dimenticato. «Nessuno può credere in
maniera perfetta finché non desidera per il suo fratello ciò che desidera per se stesso» .
Poi c'era mia sorella Ella. Non riuscivo a scordare quello che aveva fatto. Come ho detto
prima, è una negra della Georgia grande e grossa, e i suoi modi da dominatrice l'avevano fatta
espellere dalla moschea numero undici di Boston della Nazione dell'Islam. Poi la ripresero, ma
lei se ne andò definitivamente da sé. Aveva cominciato a studiare sotto i musulmani ortodossi
di Boston e poi aveva fondato una scuola dove si insegnava l'arabo. Siccome non riusciva a
parlarlo, aveva assunto degli insegnanti. Ella è fatta così: si occupa di compra-vendita di
immobili e poi mette da parte i soldi per fare il pellegrinaggio! Rimanemmo tutta la notte nel
salotto di casa sua a discutere. Lei mi disse che non c'erano questioni: era molto più importante
che andassi io. Durante il mio volo di ritorno a New York non feci che pensare a Ella. Una
donna davvero forte che aveva annichilito tre mariti, poiché era più attiva e dinamica di tutti
loro messi insieme. Aveva avuto una parte decisiva nella mia vita. Nessun'altra donna era mai
stata forte abbastanza per dirmi in che direzione dovevo muovermi: anzi ero sempre stato io a
dirigere. Se Ella aveva abbracciato l'Islam, era per merito mio ed ora era lei che mi dava i soldi
per andare alla Mecca .
Quando si è con Allah, lui vi offre sempre dei segni per farvi capire che è con voi .
Mentre facevo la domanda per ottenere il visto per la Mecca dal consolato dell'Arabia Saudita
l'ambasciatore mi disse che a nessun musulmano convertito in America era concesso di
compiere il pellegrinaggio "Hajj" senza l'approvazione scritta del dottor Mahmoud Shawarbi.
Non era che il primo dei segni di Allah .
Quando telefonai al dottor Shawarbi egli si mostrò stupito: «Stavo proprio per mettermi in
contatto con voi, - mi disse; ma certo, venite subito!» Quando arrivai nel suo ufficio, il dottor
Shawarbi mi dette la lettera firmata in cui mi veniva concesso il permesso di fare lo "Hajj" alla
Mecca e un libro, "L'eterno messaggio di Maometto" di Abd ar-Rahman Azzam .
Il dottor Shawarbi mi disse che l'autore aveva spedito la copia del suo libro per me, che si
trattava di un cittadino arabo nato in Egitto, statista internazionale e collaboratore fra i più
intimi del principe Faisal, il capo dell'Arabia. «Vi ha seguito con molta attenzione sulla
stampa». Mi riuscì difficile crederlo .
Il dottor Shawarbi mi dette il numero del telefono di suo figlio Muhammad, studente al Cairo
ed anche quello del figlio dell'autore del libro Omar Azzam che abitava a Gedda («la vostra
ultima fermata prima della Mecca. Chiamateli tutti e due per favore!») Lasciai New York in
incognito, senza minimamente prevedere il mio clamoroso ritorno. Pochi erano stati informati
della mia partenza. Non volevo che, all'ultimo minuto il dipartimento di Stato o qualcun altro
mi mettesse i bastoni fra le ruote. Solo mia moglie Betty, le mie tre bambine e alcuni
collaboratori mi accompagnarono all'aeroporto internazionale Kennedy. Quando il jet della
Lufthansa decollò, i miei due vicini ed io ci presentammo. Un altro segno! Erano tutti e due
musulmani: uno andava come me al Cairo e l'altro a Gedda dove sarei arrivato dopo pochi
giorni .
Durante tutto il viaggio fino a Francoforte parlai con i miei vicini o lessi il libro che mi era
stato dato. Quando atterrammo, il fratello che andava a Gedda si congedò calorosamente da me
e dall'altro fratello diretto al Cairo .
Prima di prendere la coincidenza ci fu una sosta di alcune ore che decidemmo di dedicare a una
visita di Francoforte .
Nella toilette dell'aeroporto incontrai il primo americano che mi riconobbe, uno studente
bianco di Rhode Island. Prima mi guardò con insistenza a lungo e poi mi venne incontro. «Siete
X? » Io risi e dissi sì. Nessuno mi si era mai rivolto in quel modo. Lui esclamò: «Non può
essere! Perbacco, nessuno mi crederà quando lo racconterò!» Poi mi disse che studiava in
Francia .
Il fratello musulmano ed io fummo colpiti dal cordiale senso di ospitalità della gente di
Francoforte. Entrammo in parecchi negozi più per curiosare che per comprare e ogni volta i
commessi o i padroni ci salutavano. Gente che non ci aveva mai visto prima e che sapeva che
eravamo stranieri! Quando ce ne andavamo senza aver comprato nulla, venivamo salutati con la
medesima cordialità. In America si entra in un negozio, si spendono cento dollari e quando si
esce si è sempre estranei .
Sia il cliente che i venditori agiscono come se si facessero un favore reciproco, mentre gli
europei si comportano in modo molto più umano. Il fratello musulmano, che parlava tedesco
abbastanza per farsi capire, spiegava che eravamo seguaci della religione dell'Islam e allora
notavo la reazione che avevo già visto in America quando mi si guardava come un musulmano
e non come un negro. Era come se la gente mi considerasse un essere umano e i loro sguardi, il
loro modo di parlare e tutto il loro contegno erano diversi. In un piccolo negozio di Francoforte,
il proprietario si appoggiò al banco e indicando i passanti con la mano disse: «Un giorno da
questa parte e un altro giorno da quest'altra...» Il fratello musulmano mi spiegò che quello
voleva dire che i tedeschi avrebbero di nuovo alzato la testa .
Tornati all'aeroporto di Francoforte prendemmo un aereo delle United Arab Airlines diretto al
Cairo. Una grande folla composta di musulmani provenienti da ogni parte e diretti in
pellegrinaggio si abbracciava con effusione. Era gente di ogni colore e l'atmosfera era cordiale e
amichevole: ebbi la sensazione che non esistesse alcun problema di colore e per me fu come se
fossi uscito di prigione .
Avevo detto al fratello musulmano che volevo stare un paio di giorni al Cairo da turista prima
di continuare per Gedda. Mi diede il suo numero di telefono e mi disse di chiamarlo perché
voleva che mi unissi a un gruppo di suoi amici che parlavano inglese, che sarebbero andati in
pellegrinaggio e che quindi mi avrebbero conosciuto volentieri. Al Cairo passai due giorni
felici da turista. Rimasi piacevolmente sorpreso nel vedere scuole moderne, grandi complessi di
edilizia popolare, autostrade e zone industriali .
Avevo letto e sentito dire che l'amministrazione del presidente Nasser aveva creato uno dei
paesi più industrializzati del continente africano, ma credo che la cosa che mi sorprese di più fu
che al Cairo si fabbricassero automobili ed anche autobus .
Andai a far visita al figlio del dottor Shawarbi, Muhammad Shawarbi, un giovane di
diciannove anni che studiava economia e scienze politiche all'università del Cairo. Mi disse che
il sogno di suo padre era di costituire un'università dell'Islam negli Stati Uniti .
Quelli che conobbi restarono sbalorditi quando appresero che ero un musulmano proveniente
dall'America. Tra di essi c'era uno scienziato egiziano che con sua moglie stava andando alla
Mecca in pellegrinaggio, e che insistette perché andassi a cena con loro in un ristorante di
Eliopoli, un quartiere periferico del Cairo. Era una coppia molto intelligente ed estremamente
bene informata. Lo scienziato mi disse che il processo di industrializzazione in corso in Egitto
era una delle ragioni per cui le potenze occidentali erano così ostili al suo paese, che serviva da
modello alle altre nazioni africane. Sua moglie mi chiese: «Perché nel mondo c'è tanta gente
che muore di fame quando l'America ha tanti prodotti agricoli in sovrappiù? Cosa fanno,
buttano tutto a mare quello che non possono vendere?» «Sì, - risposi io, - ma ne caricano una
parte nelle stive delle navi o in granai appositamente affittati e in magazzini refrigeranti,
lasciano tutta quella roba lì, con un piccolo esercito di custodi, finché diventa immangiabile.
Poi un altro esercito di spazzini ripulisce i locali per far posto alla prossima mandata di prodotti
agricoli eccedenti». Mi guardò quasi con aria incredula: probabilmente pensava che stessi
scherzando, ma i contribuenti americani sanno che questa è la verità. Non mi spinsi fino a dirle
che, proprio negli Stati Uniti ci sono tanti affamati .
Telefonai al mio amico musulmano e fui accolto dal gruppo dei suoi amici che stavano per
partire per il pellegrinaggio .
Eravamo in otto e tra di noi c'erano un giudice e un funzionario del ministero della Pubblica
Istruzione. Parlavano tutti un ottimo inglese e mi accolsero come un fratello. Considerai ciò
come un altro segno di Allah perché dovunque mi rivolgevo, trovavo sempre qualcuno pronto
ad aiutarmi e a guidarmi .
In arabo il significato letterale della parola "Hajj" è «muoversi verso un obiettivo ben definito».
Nella legge islamica vuol dire dirigersi verso la Ka'ba, la Casa Sacra, e adempiere i riti del
pellegrinaggio. All'aeroporto del Cairo i gruppi dei partecipanti all'"Hajj" diventavano
"Muhrim", pellegrini, poiché entravano nello stato di "Ihram", premessa d'una condizione
spirituale e fisica consacrata. Seguii il consiglio di lasciare al Cairo tutto il mio bagaglio e
quattro macchine fotografiche di cui una da ripresa. Avevo comprato una valigetta grande
abbastanza per contenere un vestito, delle camicie, due ricambi di biancheria e un paio di
scarpe. Mentre andavamo in macchina all'aeroporto, cominciai a innervosirmi sapendo che da
quel momento avrei dovuto guardare quello che facevano gli altri e cercare di imitarli .
Entrando nello stato di "Ihram", ci togliemmo gli abiti e ci coprimmo con due asciugamani
bianchi, uno, l'"Izar", avvolto intorno alle reni, e l'altro, il "Rida", gettato sul collo e sulle spalle
in modo che il braccio e la spalla destra restassero nudi. Un paio di semplici sandali, i "na'l",
lasciavano scoperte le caviglie. Sopra l'"Izar" che ci fasciava le reni portavamo una cintola per
mettere il denaro, mentre una borsa come quelle delle donne, provvista di una lunga cinghia,
serviva a portare il passaporto e gli altri documenti importanti, tra i quali c'era la lettera che mi
aveva dato il dottor Shawarbi .
All'aeroporto tutte le migliaia di persone in procinto di partire per Gedda erano vestite in
questo modo. Non si poteva distinguere un re da un contadino e alcune potenti personalità, che
mi vennero indicate con discrezione, avevano addosso gli stessi indumenti che avevo io.
Quando fummo così abbigliati, cominciammo tutti insieme a scandire la parola: «Labbayka!
Labbayka!» (Eccomi, o Signore). L'aeroporto risuonava delle voci dei "Muhrim" che
esprimevano la loro intenzione di compiere il viaggio dello "Hajj" .
Ogni pochi minuti decollavano aerei carichi di pellegrini, ma all'aeroporto ce n'erano sempre di
più, circondati dai loro amici e parenti che erano venuti ad accompagnarli. Quelli che non
partivano chiedevano agli altri di pregare per loro alla Mecca. Eravamo già in volo quando
seppi per la prima volta che, a causa dell'affollamento, non ci sarebbe stato posto per me, ma
che erano state fatte delle pressioni e qualcuno era stato escluso perché non si voleva deludere
un musulmano americano. La mia reazione fu un misto di dispiacere per aver causato
involontariamente danno a chi era stato escluso per far posto a me e insieme di grande umiltà e
riconoscenza per essere stato fatto segno di un tale onore e rispetto .
Nell'aereo, tutti stretti insieme, c'erano bianchi, negri, rossi, gialli, gente dalla pelle scura, dagli
occhi azzurri e dai capelli biondi e i miei capelli rosso rame, tutti insieme, tutti fratelli, tutti lì
per onorare lo stesso Allah, ciascuno rispettando in egual misura gli altri! Partita da qualcuno
del nostro gruppo, si sparse rapidamente la voce che ero un musulmano venuto dall'America e
molti si voltarono verso di me con sorrisi di saluto. Fu passata una scatola piena di roba da
mangiare e mentre consumavamo il pasto, ai membri dell'equipaggio fu detto che ero un
musulmano americano .
Il capitano venne allora a fare la mia conoscenza. Era un egiziano con la pelle più scura della
mia: avrebbe potuto passeggiare ad Harlem senza esser notato da nessuno. Si disse entusiasta di
conoscere un musulmano americano e quando mi invitò a visitare la cabina di comando fui
lietissimo di una tale possibilità .
Il secondo pilota aveva la pelle ancora più scura della sua. Non so dirvi l'impressione che mi
fece: non avevo mai visto un negro guidare un aereo a reazione. Guardavo il quadro degli
strumenti: come doveva essere difficile sapere a cosa servivano tutti quei quadranti e quelle
lancette! Ambedue i piloti mi sorridevano e mi trattavano con lo stesso rispetto cui ero stato
fatto segno da quando avevo lasciato l'America. Rimasi là con gli occhi fissi a guardare,
attraverso il vetro, il cielo davanti a noi .
In America avevo volato probabilmente più di qualsiasi altro negro, ma non ero mai stato
invitato nella cabina di comando mentre qui ero accanto a due compagni di viaggio musulmani,
uno che veniva dall'Egitto e l'altro dall'Arabia, potevo andare nella cabina del pilota e tutti noi
ci sentivamo uniti dal comune legame della nostra partecipazione al pellegrinaggio verso la
Mecca. Sapevo che Allah era con me .
Tornai al mio posto. Per tutto il viaggio, che durò circa un'ora, noi pellegrini gridavamo:
«Labbayka! Labbayka!» L'aeroplano atterrò a Gedda, che è un porto del Mar Rosso, il punto di
arrivo e di sbarco per tutti i pellegrini che vanno in Arabia per recarsi alla Mecca, quaranta
miglia ad oriente di essa, verso l'interno .
L'aeroporto di Gedda mi apparve anche più affollato di quello del Cairo. Il nostro gruppo si unì
all'enorme massa di gente in cui erano rappresentate tutte le razze. Ognuno, sia isolato che in
gruppo, cercava di aprirsi il varco verso la lunga fila di gente che aspettava di passare la
dogana. Prima di compiere le operazioni doganali, a ciascun gruppo di pellegrini veniva
assegnato un "Mutawaf", a cui competeva la responsabilità di farli arrivare da Gedda alla
Mecca. Alcuni pellegrini gridavano «Labbayka!» mentre altri, che talvolta facevano parte di
grossi gruppi, cantavano all'unisono una preghiera che tradurrò così: «Non mi sottometto a
nessun altro all'infuori di Te, o Allah, non mi sottometto a nessun altro. Mi sottometto a Te
perché non dividi il Tuo potere con nessuno. Tutte le lodi e le benedizioni vengono da Te e Tu
sei solo nel Tuo regno». L'essenza di questa preghiera è l'unicità di Dio .
Solo i funzionari non portavano l'acconciatura "Ihram" né le candide papaline o le lunghe
tuniche bianche che sembravano quasi delle camicie da notte e le ciabattine dei "Mutawaf" che,
come ho detto, erano quelli che guidavano ogni gruppo di pellegrini, e i loro collaboratori. In
arabo il suono "mmm" preposto a un verbo lo trasforma in sostantivo verbale, per cui «Mutawaf
» vuol dire «colui che guida» i pellegrini nel "Tawaf", che è la deambulazione intorno alla
Ka'ba, alla Mecca .
Ero nervoso mentre camminavo strascicando i piedi al centro del nostro gruppo che faceva la
fila in attesa del controllo passaporti. Ero in uno stato di apprensione. «Guardate cosa do a
questa gente, - pensavo. - Sono nel mondo musulmano, proprio a due passi dalla Sorgente e
mostro loro il passaporto americano che significa proprio l'opposto di tutto ciò per cui si batte
l'Islam» .
Il giudice che faceva parte del mio gruppo si accorse del mio stato di tensione e mi batté sulla
spalla. Dappertutto, verso chiunque mi voltassi, avevo quasi una sensazione fisica di amore,
umiltà e vera fratellanza. Poi il nostro gruppo arrivò davanti agli impiegati che esaminavano
con attenzione passaporti e bagagli e facevano cenno col capo a ciascun pellegrino di passare .
Ero così nervoso che quando andai per girare la chiavetta nella serratura della mia valigia e la
trovai bloccata, forzai addirittura la chiusura per paura che potessero credere che portavo
qualcosa di proibito. L'impiegato prese il mio passaporto americano, lo guardò attentamente
alzando gli occhi verso di me e disse qualcosa in arabo. Gli amici che mi circondavano
cominciarono anche loro a parlare in arabo, a gesticolare e indicarmi col dito, nel tentativo di
intercedere per me. Il giudice mi chiese in inglese di mostrare la lettera del dottor Shawarbi e la
diede all'impiegato che la lesse .
Questi la restituì protestando: ero sicuro di poterlo dire .
Intorno a me si stava discutendo di me ed io mi sentivo come uno stupido, incapace di dire una
parola e persino di comprendere cosa si diceva. Alla fine, il giudice si rivolse a me con aria
triste .
Mi spiegò che dovevo presentarmi davanti alla "Mahgama Sharia" che era il tribunale
musulmano incaricato di esaminare tutti i convertiti, probabilmente non autentici, alla religione
islamica che cercavano di entrare alla Mecca. Era assolutamente fuori discussione che un non
musulmano potesse recarsi in pellegrinaggio .
I miei amici dovevano dunque proseguire per la Mecca senza di me. Sembravano assai
preoccupati per la mia sorte e anch'io lo ero. Riuscii a trovare le parole da dir loro: «Non vi
preoccupate. Tutto andrà bene. Allah mi guida». Dissero che avrebbero pregato ogni ora per
me. Il "Mutawaf" col barracano bianco insisteva perché andassero, in modo da non
interrompere il ritmo del flusso umano all'aeroporto. Stetti a guardarli mentre si allontanavano.
Ci salutammo fino all'ultimo agitando la mano .
Erano circa le tre di un venerdì mattina. Non avevo mai visto un simile affollamento di gente,
ma non mi ero mai sentito più solo e impotente da quando non ero più bambino. Il peggio era
che, nel mondo musulmano, il venerdì è un po' l'equivalente della domenica per i cristiani. Il
venerdì tutti i membri di una comunità musulmana si riuniscono per pregare insieme e ciò è
chiamato "yaum al-jumu'a", il giorno della riunione. Voleva dire che i tribunali erano chiusi e
che avrei dovuto aspettare almeno fino al sabato .
Un funzionario fece cenno a un giovane arabo, collaboratore di un "Mutawaf". In un inglese
stentato mi spiegò che mi avrebbero condotto a un posto vicino all'aeroporto e che avrei dovuto
lasciare il passaporto alla dogana. Avrei voluto obiettare qualcosa, dato che il primo principio
di chi è in viaggio è di non separarsi mai dal proprio passaporto, ma tacqui. Tutto avvolto negli
asciugamani e con i piedi calzati dai sandali, seguii l'aiuto guida che indossava la bianca
papalina, una lunga tunica candida e pantofole. Credo che il solo vederci fosse uno spettacolo.
La gente che ci passava accanto parlava tutte le lingue ed io non ero in grado di parlare la
lingua di nessuno .
Mi trovavo proprio nei guai .
Appena fuori dell'aeroporto c'era una moschea e sopra l'aeroporto un immenso edificio tipo
dormitorio a quattro piani .
Poco prima dell'alba era quasi buio e gli aerei che partivano e atterravano con regolarità
illuminavano le piste con le loro luci e il cielo era punteggiato dai fanali di coda a luce
intermittente. Pellegrini provenienti dal Ghana, dall'Indonesia, dal Giappone e dalla Russia, per
limitarci a rammentare solo alcuni, entravano e uscivano dal dormitorio verso cui mi stavano
accompagnando. Non credo che le macchine da presa abbiano mai colto uno spettacolo umano
più pittoresco di quello che videro i miei occhi. Arrivati al dormitorio, salimmo su fino al
quarto piano incontrando dappertutto rappresentanti di ogni razza .
C'erano cinesi, indonesiani, afgani; molti non si erano ancora acconciati alla "Ihram" e
portavano i loro costumi nazionali .
Era un po' come sfogliare dei numeri della rivista «National Geographic» .
Giunti al quarto piano, la mia guida mi indicò un compartimento in cui c'erano una quindicina
di persone che, in gran parte, dormivano arrotolate sui loro tappeti. Riconobbi tra di esse alcune
donne che avevano la testa e i piedi coperti. Un vecchio musulmano russo e sua moglie erano
svegli e mi guardarono con franchezza; due musulmani egiziani e un persiano si alzarono in
piedi a guardare mentre la mia guida si dirigeva verso un angolo del locale. A gesti mi fece
capire che mi avrebbe insegnato le posizioni rituali della preghiera. Immaginate un po' essere
un pastore Muslim, un leader della Nazione dell'Islam di Elijah Muhammad e ignorare il rituale
della preghiera! Cercai di imitare quello che faceva lui, ma ero cosciente di non farlo bene.
Sentivo su di me gli occhi degli altri musulmani. Le membra di un uomo dell'Occidente non
possono fare quello che le membra dei musulmani hanno fatto per tutta la vita. Per sedersi gli
asiatici si accoccolano, mentre gli occidentali stanno impettiti sulle sedie. Quando la mia guida
si metteva in una data posizione cercavo di fare il possibile per mettermici anch'io ma mi
muovevo goffamente, ero troppo rigido. Dopo circa un'ora la mia guida se ne andò facendomi
capire che sarebbe tornata più tardi .
Non pensai neanche a dormire. Sotto gli sguardi degli altri musulmani continuai a esercitarmi
nelle posizioni della preghiera. Facevo di tutto per non pensare a come loro mi dovevano
trovare ridicolo. Comunque, dopo un po' di tempo, imparai un piccolo trucco che mi permetteva
di piegarmi proprio a contatto col pavimento, ma dopo due o tre giorni cominciarono a
gonfiarmi le caviglie .
Allo spuntar dell'alba, via via che i musulmani addormentati si svegliavano, si accorgevano
subito di me: ci osservavamo con sguardo attento mentre loro si preparavano ad andarsene. Fu
allora che cominciai a capire l'importanza del tappeto nella vita culturale dei musulmani.
Ciascuno aveva un piccolo tappeto da preghiera mentre marito e moglie, o gruppi di persone, ne
avevano uno più grande in comune. Là in quel compartimento del dormitorio i musulmani
pregavano sui loro tappeti, poi vi stendevano una tovaglia e mangiavano in modo che il tappeto
faceva da sala da pranzo. Una volta tolti i piatti e la tovaglia, sedevano sul tappeto che faceva
da sala di soggiorno e, finalmente, si arrotolavano e ci dormivano sopra, così che il tappeto
finiva per fare anche da camera da letto. In quel compartimento prima di andarmene, capii per
la prima volta perché i ricettatori avevano pagato un prezzo così alto per i tappeti orientali che
avevo rubato quando facevo lo scassinatore a Boston. Il motivo andava ricercato nell'enorme
cura che occorre per tessere dei buoni tappeti in paesi in cui vengono adoperati per usi così
molteplici e culturalmente significativi .
Più tardi, alla Mecca, vidi che il tappeto serviva anche ad un altro uso: quando si verificava una
disputa, qualche personalità degna del massimo rispetto o che era estranea ad essa si sedeva su
di un tappeto con i litiganti intorno a lei, il che trasformava il tappeto in un tribunale. In altri
casi serviva anche da aula scolastica .
Uno dei musulmani egiziani, in particolare, continuava a guardarmi con la coda dell'occhio. Gli
sorrisi, lui si alzò e mi venne vicino. «Hello!» mi disse con fraterna solennità .
Gli ricambiai sorridendo lo stesso saluto e poi gli chiesi come si chiamava. «Nome? Nome?...»
Cercava disperatamente, ma non gli veniva. Tentammo di dirci qualche altra parola, ma credo
che il suo vocabolario inglese consistesse in neanche una ventina di vocaboli. Ciò bastava per
scoraggiarmi. Cercavo di fargli capire almeno qualche parola. «Cielo» e col dito gli facevo
segno verso l'alto. Lui sorrideva. «Cielo», gli ripetevo facendogli segno che ripetesse anche lui
la parola. Mi obbediva. «Aeroplano.. .
tappeto... piede... sandalo... occhi...» e via di seguito. Poi accadde qualcosa di straordinario. Ero
così contento di essere riuscito a stabilire una qualche comunicazione con un essere umano che
dicevo tutto quello che mi veniva in mente. «Muhammad Ali Clay», dissi. Tutti i musulmani
che mi ascoltavano si illuminarono come un albero di natale. «Voi? Voi?...», e il mio amico
puntava il dito verso di me. Scossi la testa: «No, no, Muhammad Ali Clay è mio amico, A-M-ICO!» Mi capirono solo a metà e anzi alcuni di loro non mi capirono affatto tanto è vero che
cominciò a circolare la voce che Cassius Clay, il campione del mondo dei pesi massimi, ero io.
Più tardi avrei saputo che praticamente tutti gli uomini, le donne e i bambini del mondo
musulmano avevano sentito dire del modo in cui Sonny Liston, che per essi aveva l'immagine
di una specie di orco mangia uomini, era stato battuto, nel corso di un combattimento simile a
quello tra David e Golia, da Cassius Clay il quale, allora, di fronte al mondo, aveva proclamato
che il suo nome era Muhammad Ali, l'Islam la sua religione e che doveva ad Allah la sua
vittoria .
L'aver stabilito questo rapporto era la miglior cosa che avrebbe potuto accadermi in tali
circostanze. Il fatto di essere un musulmano americano fece sì che gli altri non si limitassero a
guardarmi, ma cercassero di venirmi vicino e di comunicare con me. Tutti si misero a
sorridermi e ci guardavamo intensamente con franchezza e interesse. Mi consideravano con
curiosità dalla testa ai piedi, con interesse da amici. Era come se fossi un marziano .
L'aiuto del "Mutawaf" ritornò facendomi capire che dovevo seguirlo. Mi indicò dalla finestra la
moschea e capii che era venuto a prendermi per accompagnarmi alla preghiera mattutina, "El
Sobh", che si fa sempre prima del sorgere del sole. Lo seguii e passammo attraverso enormi
folle di pellegrini che parlavano tutte le lingue tranne l'inglese. Ero risentito verso me stesso per
non aver dedicato più tempo, prima di partire dall'America, per imparare più cose sul rito
ortodosso della preghiera. Nella Nazione dell'Islam di Elijah Muhammad non si pregava in
arabo. Dodici anni prima, o forse anche di più, quand'ero in prigione, un membro del
movimento musulmano ortodosso di Boston, che si chiamava Abdul Hamed, era venuto a farmi
visita e più tardi mi aveva mandato delle preghiere in arabo. A quel tempo le avevo imparate
foneticamente, ma da allora non le avevo più recitate .
Decisi di lasciare che la guida facesse tutto prima e di limitarmi ad osservarla. Non era difficile
visto che era ben disposto. Proprio fuori della moschea c'era un lungo camminamento con una
fila di rubinetti. Prima di pregare si dovevano fare le abluzioni e questo lo sapevo. Eppure,
anche guardando il collaboratore del "Mutawaf", non le feci bene. Il musulmano ortodosso ha
un modo ben preciso di lavarsi, che è molto importante .
Lo seguii nella moschea, a distanza di appena un passo, stando bene attento a tutti i suoi
movimenti. Si prostrò fino a toccare con la testa il pavimento. «Bi-smi-llahi-r-Rahmain-rRahim» (Nel nome di Allah, il Benefico, il Misericordioso). Tutte le preghiere musulmane
cominciano così. Dopo può darsi che non borbottassi le parole giuste, ma una cosa è certa:
borbottavo .
Non vorrei che quello che sto dicendo sembrasse uno scherzo. Per me era diverso. Chi fosse
stato lì a guardarmi si sarebbe accorto che non dicevo quello che dicevano gli altri .
Dopo la preghiera dell'alba, la mia guida mi accompagnò di nuovo al quarto piano del
dormitorio. A cenni mi disse che sarebbe tornato entro tre ore e poi se ne andò .
Dalla nostra finestra si godeva una splendida vista della zona dell'aeroporto. In piedi davanti al
davanzale, guardavo gli aerei che partivano e atterravano a intermittenze regolari .
Migliaia e migliaia di persone provenienti da ogni parte del mondo formavano pittoresche
macchie in movimento. Vidi gruppi che partivano per la Mecca in autobus, camion,
automobile; alcuni che si apprestavano a coprire il percorso di quaranta miglia a piedi.
Desiderai di poter fare lo stesso anch'io .
Almeno quello ero in grado di farlo! Avevo paura di pensare a cosa sarebbe potuto succedere
in futuro. Non mi avrebbero accettato come pellegrino? Mi domandavo in che cosa sarebbe
consistita la prova e quando avrei potuto presentarmi al tribunale musulmano .
Il persiano che stava nel compartimento con noi mi venne vicino, mi salutò e con una certa
esitazione mi disse: «Amer.. .
americano?» Mi fece segno di andare sul suo tappeto a far colazione con lui e la moglie. Sapevo
che quella era una offerta addirittura straordinaria: non si prende il tè con la moglie di un
musulmano. Non volevo disturbare e non so se il persiano lo capì quando sorridendo scossi la
testa come per dire «No, grazie». Mi portò un po' di tè e dei biscotti. Fino a quel momento non
avevo neppure pensato a mangiare .
Gli altri mi facevano dei gesti. Mi venivano vicino, mi sorridevano e mi facevano cenni col
capo. Il mio primo amico, quello che parlava un po' d'inglese, se n'era andato. Io non lo sapevo
ma lui stava spargendo la voce che al quarto piano c'era un musulmano americano. Il
movimento divenne più intenso nel nostro compartimento: musulmani con l'acconciatura alla
"Ihram" o ancora nei loro costumi nazionali passavano intorno lentamente, sorridendo. La cosa
durò finché fui lì ma, per parte mia, non sapevo ancora di essere io l'attrazione .
Sono sempre stato un tipo inquieto e curioso. Il collaboratore del "Mutawaf" non tornò entro
tre ore come promesso ed io mi innervosii. Temevo che mi volesse lasciar perdere perché mi
considerava refrattario ad ogni aiuto. A questo punto cominciavo anche a sentir fame davvero.
Tutti i musulmani del compartimento mi avevano offerto da mangiare ed io avevo rifiutato.
Devo ammetterlo, la ragione fu che non conoscevo il loro modo di mangiare: tutto era
contenuto in un solo recipiente posto al centro del tappeto e vedevo che prendevano il cibo con
le mani .
Rimasi lì in piedi sulla balaustra ad osservare il cortile sottostante e poi decisi di fare un giretto
esplorativo per conto mio. Andai giù fino al primo piano, poi pensai che forse non avrei dovuto
allontanarmi tanto perché poteva darsi che qualcuno mi venisse a cercare. Perciò tornai al
nostro compartimento, ma dopo circa tre quarti d'ora scesi di nuovo giù. Questa volta ero sicuro
di potermi orientare e perciò mi spinsi più lontano. Vidi che nel grande cortile c'era un piccolo
ristorante e, una volta entrato, lo trovai affollatissimo. Vi risuonavano le lingue più diverse ed
io, a gesti, riuscii a comprare un pollo intero arrosto e qualcosa come delle patate fritte a pezzi
molto grossi. Tornai nel cortile e, servendomi delle mani, feci a pezzi il pollo. Del resto tutti i
musulmani intorno a me facevano la stessa cosa. Vidi degli uomini di almeno settant'anni che si
accovacciavano con le gambe incrociate fin quasi a diventare addirittura un nodo umano e che
mangiavano con tale dignità e soddisfazione come se si trovassero in un ristorante di lusso
serviti da uno stuolo di camerieri. Tutti mangiavano e dormivano come se fossero Uno;
l'atmosfera del pellegrinaggio sottolineava, in ogni suo aspetto, l'Unità dell'Uomo sotto un Solo
Dio .
Durante il giorno feci diversi viaggi tra il compartimento e il cortile, ogni volta curiosando
sempre più in angoli che non avevo ancora visto. A un dato momento vidi due negri insieme .
Feci loro un cenno col capo e quasi mi venne da gridare di gioia quando uno di essi mi rivolse
la parola in inglese. Aveva uno spiccato accento britannico. Prima che arrivasse il loro gruppo
che era pronto a partire per la Mecca, avemmo modo di informarci sulle rispettive nazionalità:
erano etiopi. Ero disperato: ora che finalmente avevo trovato due musulmani che parlavano
l'inglese, ecco che se ne andavano. I due etiopi avevano studiato al Cairo ed ora abitavano a
Ryadh, la capitale politica dell'Arabia. Più tardi, con mia sorpresa, avrei scoperto che dieci dei
diciotto milioni di abitanti dell'Etiopia sono musulmani. In generale si pensa che questo sia un
paese cristiano, ma in realtà lo è solo il suo governo che le potenze occidentali hanno sempre
aiutato a restare al potere .
Avevo finito di dire la preghiera del tramonto, "El Maghrib", e stavo sdraiato sul mio lettino al
quarto piano nel solito compartimento, sentendomi triste, quando, improvvisamente, fu come se
la luce squarciasse le tenebre .
In realtà fu un pensiero improvviso. In una delle mie scorrerie giù nel cortile avevo notato
quattro funzionari seduti davanti a un tavolo su cui c'era un telefono. Associando la loro
immagine e quella del telefono mi venne a mente che, a New York, il dottor Shawarbi mi aveva
dato il numero del figlio dell'autore del libro. Omar Azzam abitava proprio qui a Gedda .
In pochi secondi fui giù a pianterreno e mi diressi verso il luogo dove avevo visto i quattro
funzionari. Uno di essi parlava inglese abbastanza da farsi capire ed io, tutto eccitato, gli
mostrai la lettera del dottor Shawarbi che lui prima lesse e poi rilesse ad alta voce per gli altri
tre suoi colleghi. «Un musulmano americano!» Quasi mi riusciva di vedere dipinto sui loro
volti il modo in cui questa notizia colpiva la loro immaginazione e curiosità. Chiesi a quello che
parlava inglese se per favore poteva telefonare al dottor Omar Azzam al numero che avevo. Lui
fu contento di farlo e, quando dall'altra parte del filo giunse una risposta, conversò a lungo in
arabo .
Il dottor Omar Azzam venne subito all'aeroporto e, con grande gioia dei quattro funzionari, mi
diede un caloroso benvenuto .
Era giovane, alto e dalla corporatura muscolosa: direi che sarà stato un metro e novantacinque
di altezza. Aveva modi estremamente fini: in America sarebbe stato preso per un bianco, ma, e
la cosa mi colpì subito, dal modo in cui si comportava non riuscivo a considerarlo come un
uomo bianco. «Perché non mi avete chiamato prima?» mi domandò. Poi fece vedere un
documento ai quattro funzionari e si servì del loro telefono per chiamare qualche dirigente
dell'aeroporto. «Venite con me», disse .
In meno di mezz'ora mi fece rilasciare, andammo a prendere la mia valigia e il mio passaporto
alla dogana e attraversammo la città di Gedda con la sua automobile. Io ero sempre vestito con
l'acconciatura "Ihram" e i sandali ed ero sbalordito di fronte all'atteggiamento di quest'uomo e
alla sensazione fisica che tra di noi, come esseri umani, non c'era nessuna differenza. Per anni
avevo sentito parlare dell'ospitalità musulmana, ma un simile calore non avrei mai potuto
immaginarlo. Cominciai a fargli delle domande. Il dottor Azzam si era laureato in ingegneria in
Svizzera e si occupava di urbanistica. Il governo dell'Arabia Saudita lo aveva rilevato dalle
Nazione Unite per fargli dirigere tutto il lavoro di ricostruzione dei luoghi sacri del paese. La
sorella del dottor Azzam era la moglie del figlio del principe Faisal. Io ero dunque in
automobile con il cognato del figlio del capo dell'Arabia e Allah non si era limitato a fare
soltanto questo. «Mio padre sarà felicissimo di conoscervi», disse il dottor Azzam. Avrei
parlato con l'autore che mi aveva mandato il suo libro in omaggio .
Gli feci delle domande su suo padre. Abd ar-Rahman Azzam era conosciuto come Azzam
Pasha, o Lord Azzam fino alla rivoluzione egiziana, quando il presidente Nasser abolì tutti i
titoli nobiliari. «Dovrebbe essere a casa mia quando arriviamo disse il dottor Azzam, - sta gran
parte dell'anno a New York impegnato presso le Nazioni Unite e vi ha sempre seguito con
grande interesse» .
Restai ammutolito dallo stupore .
Quando arrivammo a casa del dottor Azzam era l'alba, eppure c'erano lì ad aspettarci suo padre
con il fratello, un chimico e un altro amico. Tutti mi abbracciarono come se fossi stato un figlio
dopo lungo tempo ritrovato. Non avevo mai visto questi uomini prima eppure mi trattavano con
grande riguardo: mai in tutta la mia vita ero stato così onorato, mai mi era stata offerta
un'ospitalità tanto sincera .
Un cameriere ci portò tè e caffè e poi scomparve. Insistettero perché mi mettessi in libertà. Da
nessuna parte si vedevano donne e, in Arabia, verrebbe facilmente fatto di pensare che non ce
ne fossero. Il dottor Abd ar-Rahman Azzam dominava la conversazione. Perché non avevo
chiamato prima? Non riuscivano a capirlo. Stavo bene? Sembravano imbarazzati dal fatto che
avevo dovuto passare quel po' di tempo all'aeroporto, per quel contrattempo che aveva ritardato
il mio viaggio alla Mecca. Per quanto protestassi energicamente che stavo benissimo e non
avevo subito alcun danno da quell'inconveniente, loro non mi davano retta. Il dottor Azzam mi
disse che dovevo riposare e andò di là a telefonare .
Non potevo certamente immaginare cosa stava facendo quest'uomo insigne e quando mi si
disse che mi avrebbero riaccompagnato quella sera per cena e che nel frattempo dovevo tornare
alla macchina, come avrei potuto immaginarmi che stavo per vedere il compendio dell'ospitalità
musulmana? Quand'era in patria, Abd ar-Rahman Azzam abitava in un appartamento
all'albergo Palace di Gedda. Siccome ero arrivato con una lettera di presentazione di un amico
egli sarebbe stato a casa di suo figlio e mi avrebbe lasciato il suo appartamento all'albergo
finché non fossi partito per la Mecca .
Quando mi accorsi di tutto ciò era ormai inutile protestare: ero già nell'appartamento, il dottor
Azzam figlio se n'era andato e non c'era quindi nessuno con cui protestare. L'appartamento di
tre stanze aveva un bagno grande il doppio di una camera matrimoniale all'albergo Hilton di
New York e aveva persino una grande terrazza da cui si godeva un magnifico panorama
dell'antica città del Mar Rosso. Il numero dell'appartamento era 214 .
Mai prima di allora avevo provato un impulso tanto forte a pregare, cosa che feci prostrato sul
tappeto del salotto .
Niente, nessuna delle mie due esistenze di negro in America era servita a infondermi tendenze
idealistiche. Istintivamente, quasi per una reazione automatica, analizzavo le ragioni, i motivi
che poteva avere chi faceva per me qualcosa che non sarebbe stato obbligato a fare. Sempre,
durante tutta la mia vita, se si trattava di un bianco avevo visto nelle sue azioni delle ragioni
egoistiche .
Ma là, quella mattina, in quell'albergo, dopo quella telefonata e a poche ore di distanza
dall'essere sdraiato sul lettino al quarto piano del dormitorio, mi trovai, come mi era successo
pochissime volte, talmente sbigottito da non poter più opporre alcuna resistenza. Quell'uomo
bianco, o che almeno sarebbe stato considerato tale in America, parente del capo dell'Arabia e
suo consigliere intimo, un uomo veramente cosmopolita che non aveva davvero nulla da
guadagnare, aveva lasciato il suo appartamento per consentirmi di stare più comodamente. Non
aveva NULLA da guadagnare e non aveva bisogno di me; possedeva tutto quello che voleva e
in verità aveva molto di più da perdere che da guadagnare. Attraverso la stampa americana
aveva seguito tutti i miei passi e certamente sapeva che su di me c'era un marchio d'infamia. Mi
attribuivano caratteri diabolici; ero un «razzista», ero «antibianco» e lui sembrava proprio un
bianco .
Si diceva che io fossi un criminale e non soltanto ciò, ma tutti arrivavano persino ad accusarmi
di servirmi della sua religione dell'Islam per camuffare le mie teorie e le mie azioni criminali.
Anche se avesse avuto qualche ragione per servirsi di me, sapeva che ormai mi ero diviso da
Elijah Muhammad e dalla Nazione dell'Islam che, secondo la stampa americana, era stata la mia
«piattaforma operativa». L'unica organizzazione a cui potevo appoggiarmi era nata poche
settimane prima; non avevo un lavoro né dei soldi e per poter arrivare dov'ero avevo dovuto
farmi prestare i soldi da mia sorella .
Quella mattina cominciai, per la prima volta, a considerare sotto altra luce l'«uomo bianco», a
sentire che l'espressione «uomo bianco», così com'è usata comunemente, si riferisce solo in
misura secondaria al colore della pelle e riguarda invece in primo luogo gli atteggiamenti e le
azioni. In America «uomo bianco» voleva dire certi atteggiamenti e certe azioni specifiche nei
confronti del negro e di tutta la restante popolazione di colore, ma nel mondo musulmano,
avevo potuto constatare che gli uomini con la pelle bianca si comportavano, nei confronti degli
altri, più fraternamente di chiunque avessi mai conosciuto .
Quella mattina segnò l'inizio di un mutamento radicale in tutto il mio modo di considerare i
bianchi .
A questo punto è meglio che citi quello che scrissi sul mio taccuino, circa a mezzogiorno,
nell'albergo: «Non riesco a descrivere la mia agitazione mentre sto qui aspettando di
presentarmi davanti alla commissione dello "Hajj". La finestra dà sul mare a ponente; le strade
sono piene di pellegrini che vengono da ogni parte del mondo; ogni preghiera è rivolta ad Allah
e i versetti del Corano sono in bocca a tutti. Non ho mai visto uno spettacolo così bello, non ho
mai assistito a una cosa simile né ho mai sentito un'atmosfera come questa. Sebbene sia agitato,
mi sento sicuro e protetto, lontano come sono migliaia di miglia dalla vita completamente
diversa che ho vissuto finora. Pensate che ventiquattr'ore fa ero in una stanza al quarto piano del
dormitorio sopra l'aeroporto, circondato da gente con la quale non potevo comunicare, solo e
incerto del futuro. Poi, seguendo le indicazioni del dottor Shawarbi, ho fatto quell'unica
telefonata e così ho conosciuto uno degli uomini più potenti del mondo musulmano. Presto
dormirò nel suo letto qui all'albergo Palace di Gedda. So di essere circondato da amici di cui
posso toccare con mano la sincerità e il fervore religioso. Devo pregare ancora Allah per
ringraziarlo di questa benedizione e perché mia moglie e le mie bambine rimaste in America
siano sempre benedette per tutti i loro sacrifici» .
Come avevo detto nel mio diario, recitai ancora due preghiere, poi dormii per circa quattro ore
finché non suonò il telefono. Era il giovane dottor Azzam che tra un'ora sarebbe venuto a
riprendermi per portarmi a cena. Balbettai parecchie parole di ringraziamento per esprimere la
gratitudine che provavo, ma lui mi interruppe dicendo: «Ma sha' Allah», che vuol dire «E' il
volere di Allah» .
Colsi l'occasione per andar giù nell'entrata e dare un'occhiata in giro ancora prima che arrivasse
il dottor Azzam. Quando aprii la porta, proprio dall'altra parte del corridoio vidi un uomo che,
vestito da cerimonia e circondato dai suoi aiutanti, si dirigeva anche lui al piano inferiore. Li
seguii prima per le scale e poi attraverso il salone d'ingresso. Fuori c'era una piccola carovana di
automobili in attesa. Il mio vicino uscì dalla porta principale dell'albergo Palace di Gedda e una
folla gli si raccolse intorno per baciargli la mano. Seppi che era il gran muftì di Gerusalemme.
Più tardi, nell'albergo, avrei avuto occasione di parlare con lui per una mezz'ora. Era un uomo
di grande dignità, dai modi molto cordiali, al corrente su tutte le questioni internazionali,
compresi gli ultimi sviluppi della situazione americana .
Non dimenticherò mai quella cena a casa degli Azzam. Di nuovo cito dal mio diario: «Non
potevo neppure pensare che questi fossero "bianchi" perché i più giovani si comportavano come
se fossero miei fratelli e l'anziano dottor Azzam come se fosse mio padre. Si capiva subito che
era un diplomatico di straordinaria abilità, dalla mente molto aperta e con un atteggiamento
senza pregiudizi verso tutte le cose; era al corrente dei problemi mondiali così come certa gente
lo è su quanto accade nel salotto di casa sua .
«Più parlavamo e più mi sembrava che la gamma delle sue conoscenze fosse illimitata. Ci
diceva della successione razziale dei discendenti di Maometto il Profeta dimostrandoci che
erano sia bianchi che negri e poi sottolineava il fatto che il colore, i complessi problemi
accentrati intorno al colore che esistono nel mondo musulmano, esistono soltanto in quelle zone
che in misura maggiore hanno subito l'influenza dell'Occidente .
Diceva che le differenze nell'atteggiamento verso il colore della pelle erano direttamente
proporzionali alla misura dell'influenza occidentale» .
Mentre eravamo a cena seppi che il tribunale del comitato per lo "Hajj" era stato messo al
corrente del mio caso e che avrei dovuto presentarmi la mattina dopo .
Il giudice era lo sceicco Muhammad Harkon. Il tribunale era vuoto: gli unici due presenti
eravamo io e una sorella che veniva dall'India, che prima era stata protestante e poi si era
convertita all'Islam e che, come me, cercava di compiere il pellegrinaggio. Era una donna dalla
pelle bruna con un volto piccolo, quasi completamente coperto dal velo. Il giudice Harkon era
una persona gentile che colpiva per la sua dignità .
Parlammo, mi fece parecchie domande sulla sincerità delle mie intenzioni e io gli risposi con
tutta la franchezza di cui ero capace. Non soltanto mi riconobbe come un vero musulmano, ma
mi diede due libri, uno in inglese ed uno in arabo; poi scrisse il mio nome nel Sacro Registro
dei veri musulmani. Mentre ci apprestavamo a congedarci mi disse: «Spero che diventerete un
grande predicatore dell'Islam in America». Gli risposi di condividere quella stessa speranza e
che avrei fatto del mio meglio per cercare di trasformarla in realtà .
Gli Azzam furono molto contenti di sentire che ero stato riconosciuto idoneo per andare alla
Mecca. Facemmo colazione al Palace di Gedda e poi dormii ancora per parecchie ore finché
non mi svegliò il telefono .
Era Muhammad Abdul Azziz Maged, l'assistente all'ufficio cerimoniale del principe Faisal, il
quale mi disse: «Un'automobile speciale sarà messa a vostra disposizione per accompagnarvi
alla Mecca subito dopo cena». Mi consigliò poi di mangiare, abbondantemente e con serenità
poiché il rito dello "Hajj" richiede molte energie .
A questo punto rimasi davvero sbalordito .
Due giovani arabi mi accompagnarono alla Mecca e il viaggio fu reso assai facile dalla
modernissima e ben illuminata autostrada. Ogni pochi chilometri gli agenti della polizia della
strada guardavano l'automobile, ma l'autista faceva un segno e quelli ci facevano passare senza
neanche dover rallentare. Ero eccitato e mi sentivo, nello stesso tempo, importante, umile e
riconoscente .
Quando arrivammo, la Mecca mi sembrò antica come il tempo .
L'automobile procedeva lentamente attraverso le stradette tortuose, piene di negozi da tutti e
due i lati mentre si vedevano dappertutto autobus, automobili e camion carichi di migliaia di
pellegrini provenienti da ogni parte del mondo .
Ci fermammo brevemente in un posto dove mi stava aspettando un "Mutawaf". Portava la
papalina bianca e la lunga, candida tunica che avevo visto all'aeroporto; era un arabo basso
dalla pelle bruna che si chiamava Muhammad e non sapeva neanche una parola d'inglese .
Parcheggiammo vicino alla Grande Moschea, facendo le nostre abluzioni e poi entrammo.
C'erano così tanti pellegrini, sdraiati, a sedere, che dormivano, pregavano o passeggiavano da
dare l'impressione che fossero tutti uno sopra l'altro .
Non ho parole per descrivere la nuova moschea che si stava costruendo intorno alla Ka'ba. Mi
entusiasmai al pensiero che quello era solo uno dei colossali progetti di ricostruzione che
dirigeva il giovane dottor Azzam, lo stesso di cui ero appena stato ospite. Quando sarà finita, la
Grande Moschea della Mecca supererà per bellezza architettonica il Taj Mahal dell'India .
Seguii il "Mutawaf" portando in mano i sandali. Poi vidi la Ka'ba, un'enorme pietra nera nel
mezzo della Grande Moschea .
Intorno ad essa passeggiavano migliaia e migliaia di pellegrini in preghiera, gente di ambo i
sessi, di tutte le dimensioni, le forme, i colori e le razze del mondo. Conoscevo la preghiera che
deve dire il pellegrino quando i suoi occhi si posano per la prima volta sulla Ka'ba. Tradotta
suona così: «Oh Allah, Tu sei la pace, e la pace deriva da Te. Salutaci, o Signore, con la pace».
Quando il pellegrino entra nella Moschea dovrebbe cercare, se è possibile, di baciare la Ka'ba,
ma se la folla gli impedisce di avvicinarsi, allora basta che la tocchi e se non è possibile
neanche quello, deve alzare la mano e gridare «Takbir!» (Allah è grande). Io non riuscii ad
accostarmi più di una decina di metri dalla Ka'ba. «Takbir!» Là nella Casa di Allah mi sentii
come intorpidito. Il mio "Mutawaf" mi guidava tra la folla dei pellegrini che pregavano,
cantavano e giravano sette volte intorno alla Ka'ba. Alcuni erano rattrappiti e incartapecoriti
dall'età e la loro era una vista che non si dimentica. Quelli che non potevano muoversi erano
trasportati da altri: tutti avevano sul volto la luce della fede. Dopo il settimo giro intorno alla
Ka'ba pronunciai due "Rak'a" prostrandomi con la faccia sul pavimento. Alla prima
genuflessione, pronunciai il verso del Corano: «Egli è il solo e unico Dio», e alla seconda: «Voi
miscredenti, vi dico che non adoro quello che voi adorate...» Mentre facevo le mie
genuflessioni, il "Mutawaf" teneva lontani i pellegrini per impedire che mi calpestassero .
Poi, insieme con la mia guida, andai a bere l'acqua del pozzo di Zem Zem e corremmo tra le
due colline Safa e Marwa dove Agar vagò in cerca di acqua per suo figlio Ismaele .
Dopo questa visitai la Grande Moschea e camminai intorno alla Ka'ba altre tre volte. Il giorno
seguente, subito dopo il sorgere del sole, migliaia di noi si misero in cammino verso il monte
Arafat, tutti gridando lamentosamente all'unisono: «Labbayka! Labbayka!» e «Allah Akbar!»
La Mecca è circondata dalle montagne più squallide che si possano immaginare. Sembrano fatte
con le scorie degli altiforni e su di esse non cresce un filo d'erba. Arrivammo a mezzogiorno e
fino al tramonto pregammo e cantammo, recitando le speciali preghiere dell'"Asr" (pomeriggio)
e del "Maghrib" (tramonto) .
Alla fine alzammo le mani con gesti di implorazione e ringraziamento, ripetendo le parole di
Allah: «Non c'è altro Dio che Allah. Egli non divide il Suo potere con nessuno. Suoi sono
l'autorità e il merito. Tutto il bene viene da Lui ed Egli ha potere su tutte le cose» .
La visita al monte Arafat concludeva i riti fondamentali richiesti a chi faceva il pellegrinaggio
alla Mecca. Chi mancava di adempiere quest'ultimo dovere non poteva considerarsi un
pellegrino .
L'"Hiram" era finito. Gettammo le sette pietre tradizionali al diavolo; alcuni si fecero tagliare i
capelli e la barba; io, per parte mia, decisi che me la sarei lasciata. Mi domandavo cosa mia
moglie Betty e le nostre bambine avrebbero detto quando, di ritorno a New York, mi avrebbero
visto con la barba. Mi sembrava che New York fosse lontana un milione di miglia. Da quando
ero partito non avevo visto un giornale che avrei potuto leggere e non avevo idea di cosa
succedeva là. La polizia aveva scoperto un club negro per tiratori scelti che esisteva da più di
dodici anni ad Harlem e si strombazzava a tutti i venti che io «avevo a che fare con esso». La
Nazione dell'Islam di Elijah Muhammad mi aveva citato in tribunale per costringermi a lasciare
la casa di Long Island in cui abitavo con la mia famiglia .
Le principali stazioni radio e televisive e i maggiori giornali americani avevano al Cairo i loro
inviati che cercavano dappertutto di stabilire un contatto con me per intervistarmi circa il furore
che avevo presumibilmente provocato a New York .
Io non ne sapevo niente. Sapevo soltanto quello che avevo lasciato in America e come fosse in
contrasto con quello che avevo trovato nel mondo musulmano. Una ventina di noi che avevamo
finito lo "Hajj" stavamo seduti in una enorme tenda sul monte Arafat ed io, per il fatto di essere
un musulmano americano, ero al centro dell'attenzione. Mi chiedevano qual era l'aspetto dello
"Hajj" che più mi aveva fatto impressione. Uno dei molti che parlavano inglese mi faceva le
domande e poi tutti traducevano le mie risposte per gli altri. A quella domanda risposi non
direttamente come loro si sarebbero aspettato, ma me ne servii per sottolineare il concetto che
più mi interessava .
«LA FRATELLANZA! - dissi. - Popoli di tutte le razze, di ogni colore, che vengono da tutto
il mondo insieme, come se fossero una cosa sola! Ciò mi ha provato il potere dell'Unico Dio»
Può darsi che non sia stato di buon gusto, ma quella domanda mi dette la possibilità di far loro
un piccolo discorso sul razzismo dell'America e sui mali che da esso derivano .
Mi accorsi ben presto in che misura ne restarono colpiti .
Sapevano che la sorte del negro americano era «brutta», ma non erano consapevoli che fosse
disumana, che si trattasse di una vera e propria castrazione psicologica. Questa gente che veniva
da altre parti del mondo rimase allibita. In quanto musulmani si sentivano portati a sostenere
tutti i disgraziati e a coltivare nobili sentimenti di verità e giustizia e da tutto quello che io
dicevo si accorsero ben presto del criterio che adoperavo per misurare ogni cosa: che per me il
più esplosivo e pernicioso male del mondo è il razzismo, l'incapacità, specialmente nel mondo
occidentale, delle creature di vivere in unità .
Da allora ho riflettuto sulla circostanza che la lettera che mi misi finalmente a scrivere aveva
già inconsciamente preso forma nella mia mente .
Il DISINTERESSE per il colore della pelle che notavo sia nella società religiosa che in quella
umana del mondo musulmano esercitò su di me una influenza quotidiana sempre maggiore e mi
persuase sempre di più a cambiare il mio modo precedente di pensare .
Naturalmente la prima lettera che scrissi fu per mia moglie Betty. Non avevo dubitato neppure
per un momento che, dopo un'iniziale meraviglia, ella sarebbe stata d'accordo con me .
Avevo avuto migliaia di prove che la sua fiducia in me era assoluta e sapevo che avrebbe visto
quello che avevo visto io e cioè che, nella terra di Maometto e di Abramo, Allah mi aveva
concesso di comprendere la vera religione dell'Islam e di penetrare meglio l'intero meccanismo
del dilemma razziale dell'America .
Dopo aver scritto a mia moglie, buttai giù un'altra lettera quasi uguale nelle linee generali
indirizzandola a mia sorella Ella. Sapevo come la pensava: aveva messo da parte i soldi per fare
lei stessa un pellegrinaggio alla Mecca .
Scrissi anche al dottor Shawarbi che con la sua fiducia nella mia sincerità mi aveva consentito
di ottenere un passaporto per la Mecca .
Trascorsi tutta la notte a copiare analoghe, lunghe lettere per altri che mi erano molto vicini.
Tra di essi il figlio di Elijah Muhammad, Wallace, che mi aveva espresso la convinzione che
l'unico modo possibile per salvare la Nazione dell'Islam fosse di farle accettare e diffondere un
miglior modo di intendere il pensiero islamico ortodosso .
Poi scrissi ai miei fedeli collaboratori della Muslim Mosque Inc. di Harlem da poco fondata,
aggiungendo in calce la richiesta di distribuire alla stampa la mia lettera .
Sapevo che quando, in America, quella mia lettera fosse diventata di dominio pubblico, molti
dei miei cari, dei miei amici ed anche nemici, sarebbero rimasti sbalorditi e non meno di loro lo
sarebbero stati i milioni di persone che non conoscevo e che, durante i dodici anni che avevo
passato con Elijah Muhammad, si erano formati l'immagine di Malcolm X «seminatore di odio»
.
Anch'io ero sbalordito, ma nella mia vita c'era un precedente: era stata sempre una successione
di CAMBIAMENTI .
Ecco cosa scrissi, proprio strappando queste parole dal fondo del mio cuore: «Non ho mai
visto tanta sincera ospitalità e un così travolgente spirito di vera fratellanza quali sono praticati
dai popoli di ogni colore e di tutte le razze qui in questa antica Terra Santa, patria di Abramo,
Maometto e di tutti gli altri profeti delle Sacre Scritture. Durante quest'ultima settimana son
rimasto addirittura senza parole di fronte alla gentilezza che, intorno a me, dimostrano i popoli
DI OGNI COLORE .
«Ho goduto del privilegio di visitare la Città Santa della Mecca; ho compiuto i miei sette giri
intorno alla Ka'ba sotto la guida di un giovane "Mutawaf" di nome Muhammad; ho bevuto
l'acqua dal pozzo di Zem Zem; ho corso sette volte su e giù tra le colline di Al-Safa e AlMarwah; ho pregato nell'antica città di Mina e sul monte Arafat .
«C'erano decine di migliaia di pellegrini provenienti da ogni parte del mondo, gente di ogni
colore, dai biondi cogli occhi azzurri agli africani dalla pelle color mogano, ma tutti prendevano
parte allo stesso rito dando prova di uno spirito di unità e fratellanza che le mie esperienze in
America mi avevano portato a credere non potesse mai esistere tra bianchi e uomini di colore .
«L'America ha bisogno di comprendere l'Islam perché questa è l'unica religione capace di
cancellare il problema razziale da quella società. Durante i miei viaggi nel mondo musulmano,
ho conosciuto, ho parlato ed ho persino mangiato con gente che in America sarebbe stata
considerata bianca, eppure l'atteggiamento e i complessi dell'uomo bianco erano stati rimossi
dalle loro menti grazie alla religione dell'Islam. Non ho mai visto prima una fratellanza così
sincera, sentita da tutti, indipendentemente dal colore della pelle .
«Può darsi che queste mie parole vi facciano una profonda impressione, ma quello che ho visto
e sperimentato durante questo mio pellegrinaggio mi ha costretto a rivedere molte delle mie
posizioni precedenti e a scartare alcune delle mie conclusioni. Per me questo non è stato molto
difficile perché, malgrado la fermezza delle mie convinzioni ho sempre cercato di guardare i
fatti e di accettare la realtà della vita così come viene sviluppandosi attraverso nuove esperienze
e una nuova consapevolezza. Ho sempre cercato di tenere aperta la mente, cosa questa
necessaria per garantire quella flessibilità che è inseparabile da qualsiasi forma di intelligente
ricerca del vero .
«Durante gli ultimi undici giorni che ho passato qui nel mondo musulmano, ho mangiato nello
stesso piatto, bevuto dallo stesso bicchiere e dormito nello stesso letto, o sullo stesso tappeto,
mentre pregavamo lo STESSO DIO, con fratelli musulmani che avevano gli occhi più azzurri, i
capelli più biondi e la pelle più bianca di tutti gli uomini bianchi che ho conosciuto. Eppure
nelle PAROLE, nei GESTI e nelle AZIONI di questi musulmani bianchi ho trovato la stessa
sincerità che ho potuto riscontrare tra i musulmani della Nigeria, del Sudan e del Ghana .
«Eravamo VERAMENTE tutti fratelli perché la loro fede in un solo Dio aveva cancellato il
"bianco" dalle loro MENTI, dal loro MODO DI COMPORTARSI e di affrontare la realtà .
«Partendo da questa esperienza arrivai a pensare che forse se i bianchi d'America potessero
accettare l'unicità di Dio, allora potrebbero magari accettare anche l'unità dell'uomo e smetterla
di misurare, opprimere e danneggiare gli altri a causa del diverso colore della pelle .
«Poiché il razzismo infetta l'America come un cancro incurabile, il cuore del cosiddetto
cristiano bianco dovrebbe essere più aperto di fronte a un mezzo capace di risolvere un
problema tanto distruttivo. Forse ci potrebbe essere ancora tempo per salvare l'America dal
disastro imminente, dalla stessa distruzione che il razzismo portò sulla Germania e, alla fine,
rovinò gli stessi tedeschi .
«Ogni ora che trascorro qui nella Terra Santa mi aiuta a capire con maggior profondità cosa sta
succedendo in America tra bianchi e negri. Non si può condannare il negro americano per la sua
animosità razziale poiché non fa altro che reagire a quattrocento anni di razzismo
coscientemente applicato dai bianchi americani. Ma mentre il razzismo porta l'America sulla
strada del suicidio, posso dire basandomi sulle esperienze che ho avuto, di nutrire la speranza
che i bianchi della giovane generazione, gli studenti dei college e delle università capiranno le
cause del problema e molti di loro si metteranno sulla strada SPIRITUALE della VERITA',
L'UNICA rimasta all'America se vuole evitare la catastrofe verso cui il razzismo
inevitabilmente la conduce .
«Non ho mai ricevuto onori così grandi e non mi sono mai sentito più umile e indegno. Chi
crederebbe a tutte le benedizioni che sono state concesse a un NEGRO AMERICANO? Poche
sere fa un uomo che in America sarebbe chiamato "bianco", un diplomatico presso le Nazioni
Unite, un ambasciatore, un amico di re, mi ha dato il suo appartamento di albergo, il suo letto.
Attraverso quest'uomo, il principe Faisal che governa questa Terra Santa fu avvertito della mia
presenza qui a Gedda e la mattina seguente il figlio del principe Faisal in persona mi informava
che per volontà e decisione del suo degno padre io sarei stato ospite dello stato .
«Lo stesso assistente al cerimoniale mi accompagnò davanti al tribunale dello "Hajj" e lo
sceicco Muhammad Harkon dette il suo beneplacito per la mia visita alla Mecca, mi regalò due
libri sull'Islam con il suo personale sigillo ed autografo dicendomi che pregava perché
diventassi un predicatore dell'Islam in America. Sono state messe a mia disposizione
un'automobile con l'autista e una guida perché possa viaggiare a mio piacimento in questa Terra
Santa. Dovunque vado, il governo mi mette a disposizione un appartamento con l'aria
condizionata e servizio .
Mai avrei potuto sognare, io che sono negro, di poter ricevere simili onori che in America
verrebbero concessi soltanto a un re .
«Tutto il merito è di Allah, il Signore di tutti i mondi .
«Con affetto El-Hajj Malik El-Shabazz (Malcolm X)»
Capitolo diciottesimo .
EL-HAJJ MALIK EL-SHABAZZ .
Il principe Faisal, il sovrano assoluto dell'Arabia, mi aveva elevato al rango di ospite dello
stato. Tra le cortesie e privilegi che tale condizione comportava, preferivo in particolar modo e lo dico senza vergogna - l'automobile con l'autista, il quale mi portava in giro per la Mecca
facendomi da guida in tutti i luoghi di una qualche importanza. Una parte della Città Santa
sembrava antichissima, mentre altri quartieri avevano l'aspetto di un sobborgo di Miami. Non
riesco a descrivere cosa provai quando posi le mani a contatto con la stessa terra su cui,
quattromila anni prima, avevano camminato i grandi profeti .
«Il musulmano americano » suscitava dovunque grande curiosità ed interesse. Molte volte fui
scambiato per Cassius Clay e un giornalista locale pubblicò una fotografia di noi due insieme
alle Nazioni Unite. Tramite il mio autista-guida-interprete mi furono fatte decine di domande su
Cassius. Persino i bambini avevano sentito parlare di lui e lo amavano. Là nel mondo
musulmano e, in seguito a massicce richieste, in tutta l'Asia e l'Africa, era stato proiettato il film
del suo incontro. In quella fase della sua carriera, il giovane Cassius era riuscito a colpire
l'immaginazione di tutto il mondo di colore e ad assicurarsene l'appoggio .
Mi recai in automobile al monte Arafat e a Mina per partecipare alla recita di speciali
preghiere. Muoversi su quelle strade era quanto di più caotico avessi mai visto: un traffico da
incubo, un continuo strider di freni, automobili che slittavano da tutte le parti e un infernale
strombettio di clackson. Fra parentesi, ho l'impressione che nella Terra Santa tutti guidino nel
nome di Allah. Avevo cominciato ad imparare le preghiere in arabo e ora la principale difficoltà
era quella fisica. La posizione di preghiera a cui non ero abituato mi aveva fatto gonfiare
l'alluce, che mi faceva male .
Tuttavia le abitudini del mondo musulmano non mi sembravano più strane. Ora riuscivo a
prendere con le mani il cibo dal piatto comune posto al centro del tappeto; bevevo senza
esitazioni dallo stesso bicchiere degli altri, mi lavavo nella stessa caraffetta di acqua e dormivo,
insieme ad altri otto o dieci, su di un tappeto all'aria aperta. Mi svegliavo talvolta circondato da
fratelli musulmani che dormivano e mi accorgevo che i pellegrini di ogni parte del mondo, di
ogni colore, classe e grado, alti funzionari e mendicanti, tutti russavano nella stessa lingua .
Credo che in quelle parti della Terra Santa che visitai venissero consumate un milione di
bottiglie di bibite e dieci milioni di sigarette. Particolarmente i musulmani arabi fumavano in
continuazione persino durante il pellegrinaggio. Il vizio del fumo non era stato inventato ai
tempi del profeta Maometto perché altrimenti credo che lui lo avrebbe certamente proibito .
Più tardi mi si disse che quello era stato il più grande pellegrinaggio della storia
contemporanea. Kasem Gulick, membro del parlamento turco, mi informò tutto raggiante che
dalla sola Turchia erano partiti seicento autobus con più di cinquemila musulmani. Gli dissi che
sognavo il giorno in cui navi ed aerei carichi di musulmani americani sarebbero venuti alla
Mecca per lo "Hajj" .
In queste enormi folle c'erano delle specifiche determinazioni di colore. Appena mi capitò di
osservare questo fenomeno, prestai la massima attenzione per meglio individuarlo, anche
perché il fatto di essere americano mi rendeva assai sensibile al problema del colore. Vidi che la
gente dello stesso tipo si attirava e in gran parte dei casi stava unita. Tutto ciò era assolutamente
volontario, senza alcun'altra ragione, ma gli africani stavano con gli africani, quelli del Pakistan
con i loro compatrioti e così via. Mi proposi di ricordarmi questo fatto e, una volta tornato in
America, di dire a tutti questa mia osservazione che là dove esisteva una vera fratellanza tra
gente di ogni colore, là dove nessuno si sentiva segregato, dove non c'era nessun complesso di
«superiorità» o di «inferiorità», allora volontariamente, come reazione del tutto naturale, la
gente si sentiva attirata da quelli con cui aveva più caratteristiche in comune .
La prossima volta che farò il pellegrinaggio, è mia intenzione di imparare l'arabo almeno
abbastanza per farmi capire .
Ignorante e tagliato fuori com'ero da ogni comunicazione cogli altri, fui fortunato di trovare
nella Terra Santa degli amici pazienti che mi fecero da interpreti. Mai prima nella mia vita mi
ero sentito così sordo e muto come quando non c'era vicino un interprete per tradurmi quello
che si diceva intorno a me o di me, o quello che mi dicevano gli altri musulmani prima di
sapere che «il musulmano americano» conosceva solo alcune preghiere in arabo e, oltre a ciò,
sapeva solo sorridere e fare cenni col capo .
Però, oltre a quei gesti, pensavo e riflettevo secondo i modelli tipici della cultura americana.
Ritenevo che, in tutto il mondo, le conversioni all'Islam avrebbero potuto raddoppiare o
triplicare se il carattere pittoresco e la vera spiritualità del pellegrinaggio "Hajj" fossero stati
fatti conoscere e propagandati dappertutto. Mi accorsi che gli arabi non capiscono molto bene la
psicologia dei non arabi e l'importanza delle relazioni pubbliche. Dicevano: «insha Allah» (se
Allah vuole) e poi aspettavano che la gente si convertisse. Eppure anche così l'Islam era in
sviluppo, ma ero convinto che con dei metodi di proselitismo più adatti il numero dei convertiti
avrebbe potuto essere trasformato in milioni .
Dovunque andavo mi si facevano sempre domande sulla discriminazione razziale in America e
persino io, con il mio passato, mi meravigliavo nel constatare la misura in cui l'immagine degli
Stati Uniti veniva identificata con la discriminazione .
In centinaia di conversazioni che ebbi nella Terra Santa con musulmani di opposte condizioni
sociali e di tutti i paesi del mondo, come più tardi successe quando andai nell'Africa Nera, devo
dire di non essermi mai morso la lingua o di aver perduto una sola occasione per dire la verità
sui delitti, le nefandezze e le turpitudini commesse ai danni del negro americano .
Attraverso l'interprete non lasciai mai sfuggire un'occasione per far conoscere la vera realtà
della nostra vita. Dissi queste cose sulla montagna ad Arafat, nell'affollato salone d'ingresso
dell'albergo Palace di Gedda indicando questo e quello col dito per rendere più convincenti le
mie argomentazioni: «Voi.. .
voi... voi, a causa della vostra pelle bruna, in America sareste chiamato "negro" e sempre per il
colore della vostra pelle potreste esser dilaniato da una bomba, crivellato di pallottole, picchiato
con le fruste elettriche e investito dai getti violentissimi delle pompe antincendio» .
Stavano a sentirmi predicare queste cose alcuni dei pellegrini più poveri ma anche alcune delle
personalità più importanti del Mondo Santo. Parlai a lungo con Hussein Amini, gran muftì di
Gerusalemme, un uomo dagli occhi azzurri e dai capelli biondi al quale fui presentato sul monte
Arafat da Kasem Gulick del parlamento turco. Ambedue erano persone molto colte ed assai
bene al corrente sulle questioni americane. Kasem Gulick mi chiese perché avevo rotto i
rapporti con Elijah Muhammad ed io gli risposi che, nell'interesse dell'unità dei negri
americani, preferivo non discutere troppo sulle nostre divergenze. Ambedue capirono le ragioni
di quella mia posizione. Parlai con lo sceicco Abdullah Eraif, sindaco della Mecca, che quando
era giornalista aveva criticato i metodi dell'amministrazione comunale. Il principe Faisal lo
aveva nominato sindaco per vedere se sapeva far meglio lui e non c'era nessuno che non
riconoscesse le sue qualità di ottimo amministratore. Un documentario intitolato "Il musulmano
americano" fu fatto da Ahmed Horyallah e dal suo collaboratore Essid Muhammad della
stazione televisiva di Tunisi. In passato, a Chicago, Ahmed Horyallah aveva intervistato Elijah
Muhammad .
Nel salone d'ingresso dell'albergo Palace di Gedda ebbi occasione di trovarmi di fronte, in
modo del tutto informale, a grossi gruppi di uomini importanti di diversi paesi che erano curiosi
di ascoltare il «musulmano americano». Conobbi molti africani che o erano stati un po' di
tempo in America oppure avevano saputo da altri come sono trattati i negri americani .
Ricordo che davanti a un folto pubblico un ministro di uno dei paesi dell'Africa nera che era al
corrente della situazione mondiale contemporanea più di chiunque altro abbia mai conosciuto,
mi disse di avere viaggiato a bella posta negli Stati Uniti, sia nel Nord che nel Sud senza il suo
costume nazionale. Il solo ricordo delle umiliazioni e turpitudini a cui era stato esposto come
negro sembrava sufficiente a far scattare questo uomo politico così colto e pieno di dignità.
«Ma perché,disse con gli occhi scintillanti d'ira e agitando le mani, il negro americano tollera di
farsi calpestare così? Perché non COMBATTE per diventare un essere umano?» Un
funzionario del governo sudanese mi disse abbracciandomi: «Voi siete il campione dei negri
americani!» Un indiano piangeva di compassione al pensiero dei «miei fratelli nella vostra
terra». Ho riflettuto infinite volte sul modo in cui il negro americano è stato così completamente
indottrinato da non riuscire a considerarsi, come invece dovrebbe, parte dei popoli di colore di
tutto il mondo. Egli non ha un'idea della sollecitudine che le centinaia di milioni di uomini di
colore hanno per lui; non ha un'idea dei loro sentimenti di fratellanza nei suoi confronti .
Fu là nella Terra Santa e più tardi in Africa che mi si venne formando la convinzione che il
requisito fondamentale di qualsiasi leader negro d'America dovrebbe essere quello di aver
viaggiato tra i popoli di colore di tutto il mondo e aver avuto contatti con le classi dirigenti di
quei paesi. Vi garantisco che se questo leader fosse onesto e di idee aperte non potrebbe tornare
a casa senza pensare a soluzioni alternative del problema del negro americano. Soprattutto si
accorgerebbero che molti uomini politici di colore, specialmente africani, sono disposti a
impegnarsi, magari in privato, a esercitare tutto il loro peso in favore della causa negra alle
Nazioni Unite o in altri modi. Però questi stessi uomini politici ritengono, e con ragione, che il
negro americano è così confuso e diviso da non saper lui stesso qual è la sua causa. Ancora una
volta, furono soprattutto gli africani che, in vari modi, mi dissero di non volersi mettere in una
posizione imbarazzante per aiutare un fratello che non dava nessuna seria prova di volersi fare
aiutare e che non sembrava disposto a cooperare neppure nel suo esclusivo interesse .
Il limite più grave dei leader negri americani è la loro mancanza di immaginazione. In ogni
circostanza, o almeno come premessa di fondo, essi pensano, elaborano, se ne hanno, i loro
piani strategici partendo da ciò che l'uomo bianco approva o consiglia loro. La prima cosa che
la struttura di potere degli Stati Uniti vuole evitare è che i negri comincino a pensare SU
SCALA INTERNAZIONALE .
Credo che l'errore peggiore commesso dalle organizzazioni dei negri americani e dai loro
leader sia stato quello di non essere riusciti a stabilire un diretto rapporto di comunicazione e
fratellanza con le nazioni indipendenti dell'Africa. Perché, ogni giorno, i capi di stato africani
non ricevono rapporti diretti sugli ultimi sviluppi della lotta che il negro americano combatte
per la decolonizzazione, piuttosto che i comunicati del dipartimento di Stato in cui è sempre
implicita l'idea che il problema negro si sta «risolvendo»? Due scrittori americani, le cui opere
sono dei best-seller nella Terra Santa, hanno contribuito a diffondere e approfondire la
preoccupazione per lo stato in cui si trova il negro americano .
Enorme impressione avevano fatto le traduzioni dei libri di James Baldwin e di "Black Like
Me" di John Griffin. Se non lo conoscete vi dirò che in questo libro si racconta come il bianco
Griffin si fece diventare la pelle nera e viaggiò per due mesi attraverso l'America; poi descrisse
le esperienze che aveva vissuto. «Un'esperienza spaventosa!» sentii dire molte volte nella Terra
Santa da gente che aveva letto quel libro popolare, ma mai sentii un tale apprezzamento senza
che chi lo faceva aggiungesse: «Se è stata un'esperienza spaventosa per uno che ha fatto finta di
esser negro per sessanta giorni, pensate cosa devono provare i veri negri americani che
subiscono queste cose da quattrocento anni!» Mi fu concesso un onore per cui avevo pregato: il
principe Faisal mi concesse un'udienza particolare .
Quando entrai nella sua stanza, il principe Faisal, alto e bello, si alzò dal suo tavolo per venirmi
incontro. Non dimenticherò mai il mio pensiero di quell'istante: uno degli uomini più importanti
del mondo era lì davanti a me con quel suo fare dignitoso e insieme sinceramente umile. Mi
fece segno di prender posto su di una sedia davanti a lui. Ci faceva da interprete il capo
dell'ufficio cerimoniale Muhammad Abdul Azziz Maged, un arabo nato in Egitto, che aveva
l'aspetto di un negro di Harlem .
Il principe Faisal fece un gesto d'impazienza quando cominciai, cercando affannosamente le
parole, ad esprimergli la mia gratitudine per il grande onore che mi aveva concesso di essere
ospite dello stato. Mi rispose che si trattava soltanto dell'ospitalità di un musulmano verso un
altro e che io poi ero un caso poco comune, dato che venivo dall'America. Poi aggiunse che
voleva fossi certo che tutto quello che aveva fatto era un piacere per lui e che non c'erano altri
motivi di sorta .
Mentre il principe Faisal parlava, un cameriere, quasi scivolando sul pavimento, venne a
servirci due diverse qualità di tè. Suo figlio, Muhammad Faisal, che aveva frequentato
un'università della California del Nord, mi aveva visto alla televisione americana, mentre lo
stesso principe Faisal aveva letto vari articoli di giornalisti egiziani sui Black Muslims .
«Se è vero quello che dicono questi corrispondenti, i Black Muslims seguono una versione
sbagliata dell'Islam», mi disse. Io gli spiegai il ruolo che, nei dodici anni precedenti, avevo
avuto nell'organizzazione e nella creazione della Nazione dell'Islam e gli dissi che lo scopo del
mio pellegrinaggio era di comprendere la vera natura della religione dell'Islam. Il principe
Faisal approvò non senza sottolineare che c'era una vastissima letteratura in inglese sull'Islam
per cui non si poteva giustificare l'ignoranza né il fatto che persone sincere permettessero di
farsi guidare sulla strada sbagliata .
Alla fine di aprile del 1964, andai in aereo a Beirut, il porto capitale del Libano. Lasciavo una
parte di me nella Città Santa della Mecca ma, al tempo stesso, portavo con me per sempre una
parte di essa .
Mi dirigevo ora verso la Nigeria e, successivamente, verso il Ghana, ma alcuni amici che mi
ero fatto nella Terra Santa avevano insistito perché mi fermassi lungo il viaggio e io avevo
acconsentito. Per esempio avevano combinato una mia conferenza di fronte a studenti e
professori dell'università americana di Beirut .
Per la prima volta da quando avevo lasciato l'America, mi concessi il lusso di un lungo sonno
all'albergo Palm Beach di Beirut. Poi andai a fare una passeggiata e, fresco com'ero di un
soggiorno di alcune settimane nella Terra Santa, fui immediatamente colpito dai modi e
dall'eleganza delle donne libanesi. Nella Terra Santa avevo visto le donne arabe così modeste e
femminili e ora osservavo il contrasto con le donne libanesi, mezzo francesi e mezzo arabe che,
per i loro abiti e per il modo in cui si comportavano per strada, davano l'impressione di essere
molto più libere e audaci. Vidi chiaramente l'influenza europea sulla cultura libanese e ciò mi
fece capire come la forza morale di un paese, o la sua debolezza, si possano in certo modo
misurare dal comportamento delle sue giovani donne. Là dove i valori spirituali sono stati
soffocati, se non addirittura distrutti, dall'importanza eccessiva attribuita ai beni materiali, le
donne riflettono invariabilmente tale processo. Ne sono testimoni in America, dove i valori
morali sono quasi del tutto scomparsi, le donne sia giovani che vecchie. Sembra che in quasi
tutti i paesi si propenda verso l'uno o l'altro estremo. Il vero paradiso si avrebbe se si potesse
stabilire un equilibrio tra il progresso materiale e i valori spirituali .
All'università di Beirut dissi la verità sulle condizioni del negro americano. Ho già detto prima
che qualsiasi oratore con una certa esperienza è in grado di sentire le reazioni del suo pubblico.
Mentre parlavo percepivo le reazioni soggettive e difensive degli studenti americani bianchi che
erano fra il pubblico, ma ben presto, a poco a poco, la loro ostilità si venne indebolendo via via
che presentavo i fatti incontestabili .
Quanto agli studenti di origine africana posso dire solo che mi ha sempre sbalordito vedere
come sanno esprimere i loro sentimenti .
Più tardi appresi con meraviglia che la stampa americana aveva pubblicato articoli in cui si
diceva che il mio discorso di Beirut aveva provocato un «tumulto». Ma che specie di tumulto?
Non so come un giornalista, che non fosse in assoluta malafede, abbia potuto telegrafare in
America una tale notizia. Il «Daily Star» di Beirut, nel suo articolo di prima pagina dedicato al
mio discorso, non faceva cenno a nessun «disordine» semplicemente perché non era successo
niente. Quando ebbi finito di parlare, gli studenti africani mi circondarono per farsi dare
l'autografo e alcuni, addirittura, mi abbracciarono. Mai, neppure da un uditorio negro, ho
ricevuto in America delle accoglienze come quelle che ebbi reiteratamente dai meno inibiti e
più concreti africani .
Da Beirut tornai in aereo al Cairo e di lì presi il treno per Alessandria. Durante le brevi fermate
feci molte fotografie. Poi presi l'aereo diretto in Nigeria .
Durante le sei ore del volo, quando non chiacchieravo con il pilota che aveva partecipato alle
Olimpiadi del 1960 come nuotatore sedevo accanto a un africano ardente di passione politica.
Nel suo entusiasmo quasi gridava: «Quando la gente vive in un'atmosfera stagnante e si cerca di
tirarli fuori, non c'è TEMPO per le elezioni!» Il suo argomento fondamentale era che a nessuna
nuova nazione africana che cercava di decolonizzarsi poteva esser utile un sistema politico che
permettesse divisioni e contese. «La gente non sa cosa vuol dire votare! E' compito dei leader
più illuminati elevare la capacità di comprensione del popolo!» A Lagos fui salutato dal
professor Essien-Udom dell'università Ibadan. Fummo ambedue contenti di rivederci. Ci
eravamo conosciuti negli Stati Uniti quando lui faceva le sue ricerche sulla Nazione dell'Islam
per il suo libro "Black Nationalism" .
Quella sera, a casa sua, fu offerta una cena in mio onore a cui parteciparono altri professori e
professionisti. Mentre eravamo a tavola, un giovane dottore mi chiese se sapevo che la stampa
di New York City era in agitazione a causa del recente assassinio ad Harlem di una donna
bianca, assassinio di cui, almeno indirettamente, davano la colpa a me. Una coppia di bianchi
anziani, proprietari di un negozio di abbigliamento ad Harlem, era stata aggredita da parecchi
giovani negri e la moglie pugnalata a morte. Alcuni degli aggressori, arrestati dalla polizia,
avevano detto di appartenere ad un'organizzazione chiamata Blood Brothers. Sembra che quei
giovanotti avessero detto o fatto capire di avere legami con i Black Muslims e che avevano
lasciato la Nazione dell'Islam per seguirmi .
Dissi ai miei commensali che quella era la prima volta che sentivo parlare di ciò, ma che non
mi stupivo affatto quando la violenza esplodeva in uno qualunque dei molti ghetti negri
d'America, perché quelle zone erano piene di gente stipata come animali e trattata come
lebbrosi. Dissi che l'accusa contro di me era tipica dell'atteggiamento dell'uomo bianco, sempre
alla ricerca di un capro espiatorio: quando qualcosa che non gli piace accade nella comunità
negra, l'attenzione del pubblico bianco viene immancabilmente convogliata non sulle cause ma
contro un capro espiatorio scelto in fretta .
Per quanto riguardava i Blood Brothers, dissi che consideravo tutti i negri miei «fratelli di
sangue» e che gli sforzi compiuti dall'uomo bianco per fare del mio nome anatema avevano
avuto come unico risultato quello di farmi considerare da milioni di negri come un nuovo Joe
Louis .
Parlando nella Trenchard Hall dell'università Ibadan, insistetti perché le nazioni indipendenti
dell'Africa considerassero la necessità di portare davanti alle Nazioni Unite il problema degli
afroamericani e dissi che, come l'ebreo americano è in contatto armonico con il sionismo
internazionale sia dal punto di vista politico sia da quello economico e culturale, ero convinto
fosse giunto ormai il tempo che gli afroamericani si unissero al movimento panafricano di tutto
il mondo. Dissi che se gli afroamericani potevano anche restare fisicamente in America e
combattere per i loro diritti costituzionali, dal punto di vista filosofico e culturale era necessario
che «ritornassero» in Africa e sviluppassero un'unità operante nel quadro della causa
panafricana .
Giovani africani mi fecero delle domande più pertinenti e politicamente acute di quelle che si
sentono tare dagli adulti in America. Poi, quando un vecchio negro delle Indie occidentali si
alzò e cominciò ad attaccarmi e a difendere l'America, si ebbe una reazione straordinaria. Gli
studenti gli gridavano di star zitto, facevano versi di disapprovazione e fischiavano. Il vecchio
delle Indie occidentali assunse un atteggiamento di sfida aperta nei confronti degli studenti, i
quali, improvvisamente, si alzarono e cominciarono a rincorrerlo .
Riuscì a malapena a sfuggire alla loro caccia ed essi, gridandogli dietro, lo fecero allontanare
dal campus. Non ho mai visto niente di simile. Più tardi seppi che il vecchio negro delle Indie
occidentali era sposato con una donna bianca e stava cercando di farsi dare un posto in un
ufficio controllato dai bianchi. Allora capii la ragione per cui era venuto lì a farmi il
contraddittorio .
Non fu questa l'ultima volta che ebbi modo di constatare la decisione quasi fanatica con la
quale gli africani esprimono le loro reazioni politiche .
Dopo, nella sede dell'Unione studentesca, mi vennero rivolte un gran numero di domande e fui
nominato membro onorario della Società nigeriana degli studenti musulmani. Ho ancora qui nel
portafoglio la tessera con su scritto: «Alhadji Malcolm X Numero di matricola M-138». Oltre
ad essere nominato membro onorario, mi fu dato un nuovo nome, Omowale, che nella lingua
Yoruba vuol dire «il figlio che è tornato a casa». Ero sincero quando dissi loro che non avevo
mai ricevuto un onore più gradito .
Seppi che in Nigeria c'erano seicento membri del Peace Corps: alcuni di essi, con i quali ebbi
modo di parlare, dimostravano apertamente il loro imbarazzo di fronte alle colpe commesse
dalla loro razza in America. Fra i venti negri che facevano parte del Corpo e con i quali ebbi
modo di parlare, mi colpì particolarmente Larry Jackson, diplomato del Morgan State College
di Fort Lauderdale nella Florida, il quale si era arruolato nel 1962. Parlai alla radio e alla
televisione nigeriane. Provo ancora un brivido di compiacimento al ricordo di quei negri che
facevano funzionare i loro mezzi di comunicazione di massa. Tra i giornalisti che
m'intervistarono c'era un negro di nome Williams che lavorava per la rivista americana
«Newsweek» il quale, durante i suoi viaggi attraverso il continente, aveva poco prima
intervistato anche il primo ministro Nkrumah .
Parlando con me in privato, un gruppo di dirigenti nigeriani mi descrissero con quanta abilità
l'Ufficio informazioni degli Stati Uniti cercava di diffondere tra gli africani l'impressione che i
negri americani progredivano continuamente e che ben presto il problema razziale sarebbe stato
risolto. Uno di loro mi disse: «Le informazioni che giungono ai nostri leader da molte, molte
altre fonti ci dicono diversamente». Poi aggiunse che dietro la facciata diplomatica di tutti i
rappresentanti africani presso le Nazioni Unite c'era la chiara consapevolezza dell'enorme
ipocrisia dei bianchi e della loro congiura per tenere i popoli di origine africana separati l'uno
dall'altro, sia fisicamente che ideologicamente .
«Nel vostro paese quanti sono i negri che pensano che nell'America settentrionale, centrale e
meridionale ci sono più di OTTANTA MILIONI di persone di origine africana?» mi chiese .
«Il corso del mondo cambierà il giorno in cui i popoli di origine africana si uniranno come
fratelli!» Da nessun negro americano avevo mai sentito esprimere una visione così globale .
Da Lagos nella Nigeria andai in aereo ad Accra nel Ghana. Credo che in nessuna parte del
continente negro la ricchezza e la naturale bellezza del suo popolo appaiano meglio che nel
Ghana, a buona ragione orgoglioso di essere la fonte della causa panafricana .
La prima cosa che mi capitò scendendo dall'aereo fu di ricevere una proposta offensiva. Un
bianco americano dalla faccia rossastra mi riconobbe ed ebbe il coraggio di venirmi a prendere
la mano e a dirmi con un tono subdolo e mellifluo che era originario dell'Alabama e che voleva
invitarmi a cena a casa sua! La sala da pranzo del mio albergo, quando scesi per la colazione,
era piena di bianchi di quel tipo che discutevano sulle ricchezze non sfruttate dell'Africa come
se i camerieri africani fossero sordi. Mi rovinai quasi il pasto a pensare che mentre in America
aizzavano contro i negri i cani poliziotti, tiravano bombe nelle chiese negre e chiudevano
l'accesso delle loro alla gente di colore, i bianchi erano ancora una volta qui nella stessa terra
dove i loro antenati erano venuti a far razzia di gente per ridurla in schiavitù .
Quella mattina a colazione decisi che, finché ero in Africa, ogni volta che avrei aperto bocca
avrei duramente attaccato l'uomo bianco che stava ancora una volta depredando l'Africa delle
sue risorse naturali, così come prima aveva sfruttato le sue risorse umane .
Sapevo che il mio modo di reagire non era in contrasto con gli ideali di fratellanza che avevo
acquisito nella Terra Santa .
Come potei constatare, i musulmani dalla pelle bianca che mi avevano fatto cambiare opinione
mettevano in pratica la vera fratellanza ed io sapevo che era molto difficile che un bianco
americano, malgrado tutte le sue profferte, si comportasse fraternamente nei confronti del negro
.
Ebbi l'impressione che lo scrittore Julian Mayfield fosse il leader della piccola colonia di
afroamericani espatriati nel Ghana perché, appena gli telefonai, combinò le cose in modo che in
pochissimo tempo ero a casa sua con tutti gli altri negri americani, circa una quarantina, che
aspettavano da tempo il mio arrivo. Tra di essi c'erano professionisti e commercianti, come i
coniugi Lee, ambedue dentisti di Brooklyn, i quali avevano rinunciato alla cittadinanza
americana, ed altri come Alice Windom, Maya Angelou Make, Victoria Garvin e Leslie Lacy
che avevano persino formato un Comitato per Malcolm X allo scopo di organizzare il mio
vorticoso calendario di incontri e apparizioni in pubblico .
Ho qui nella borsa alcuni articoli apparsi sulla stampa africana quando si venne a sapere la
notizia che ero in viaggio: «Per gli abitanti del Ghana il nome di Malcolm X è quasi altrettanto
noto dei cani del Sud, dei getti degli idranti, delle fruste elettriche, degli sfollagente e delle
brutte facce dei bianchi contorte dall'odio...» «La decisione di Malcolm X di entrare
decisamente nella lotta offre il promettente segno di uno sviluppo diverso dallo spettacolo
squallido e rivoltante della resistenza passiva, della non violenza, che finiscono con l'accettare
qualsiasi brutalità...» «Un fatto di estrema importanza è che Malcolm X sia il primo leader
afroamericano di statura nazionale a compiere, di sua iniziativa, un viaggio in Africa dopo
quello che il dottor Du Bois fece nel Ghana. Può darsi che questo sia l'inizio di una nuova fase
nella nostra lotta. Assicuriamoci di non attribuire ad essa un valore inferiore a quello che
certamente gli attribuisce il dipartimento di Stato» .
E un altro: «Malcolm X è uno dei nostri leader più coraggiosi e significativi. Siamo in guerra e
si farà di tutto per screditarlo e coprirlo di calunnie...» Stentavo a credere che in paesi lontani
cinquemila miglia dall'America mi si potesse fare un'accoglienza simile. I direttori dei giornali
si erano persino messi d'accordo per pagarmi le spese di soggiorno e inutili furono le mie
insistenze. Tra di essi c'erano T. D. Baffoe, direttore del «Ghanaian Times», G. T. Anim,
vicedirettore dell'Agenzia di stampa del Ghana, Kofi Batsa, direttore di «Spark», il segretario
generale dell'Unione panafricana dei giornalisti, il signor Cameron Duodu e altri. Non mi restò
che ringraziarli .
Poi, durante la magnifica cena che ci aveva preparato Ana Livia, la graziosa moglie portoricana
di Julian Mayfield che dirigeva i servizi sanitari del distretto di Accra, fui bombardato di
domande da quei negri che avevano lasciato l'America per tornare alla madre Africa e che
avevano un profondo interesse per questo problema .
Vorrei che tutti i negri americani avessero potuto sentire, vedere con me e provare le mie stesse
emozioni durante la girandola di incontri organizzati nel Ghana intorno alla mia persona. Dico
questo per far vedere che non si trattò di un'accoglienza riservata a una persona di cui avevano
sentito parlare, bensì di un'accoglienza riservatami per il fatto di esser considerato un simbolo
del negro americano in lotta .
Nel corso di un'affollatissima conferenza stampa mi pare che la prima domanda che mi fu
rivolta riguardasse le ragioni della mia rottura con Elijah Muhammad e la Nazione dell'Islam.
Gli africani avevano sentito delle dicerie quali quella secondo cui Muhammad si era costruito
un palazzo nell'Arizona. Io smentii tale falsità ed evitai qualsiasi critica. Dissi ai giornalisti che
il mio disaccordo con Elijah Muhammad si riferiva all'orientamento politico e alla
partecipazione nella lotta extra-religiosa per i diritti umani; che rispettavo la Nazione dell'Islam
perché era stato un movimento capace di rivitalizzare i negri dal punto di vista psicologico, una
fonte di riforme morali e sociali e che l'influenza di Elijah Muhammad sui negri americani era
stata decisiva .
Sottolineai di fronte ai rappresentanti riuniti della stampa la necessità di stabilire rapporti di
comunicazione e reciproco aiuto tra gli africani e gli afroamericani perché la lotta degli uni era
strettamente legata a quella degli altri. Ricordo che adoperai la parola «negro» e che fui corretto
con fermezza. «Non usiamo volentieri codesta parola, signor Malcolm X. Il termine
"afroamericano" ha un maggior significato e più dignità». Mi scusai sinceramente e credo di
non avere mai più pronunciato la parola «negro» finché rimasi in Africa. Dissi che i ventidue
milioni di afroamericani potevano diventare una grande forza positiva per l'Africa mentre, a
loro volta, le nazioni africane dovevano e potevano esercitare pressioni al livello diplomatico
contro la discriminazione razziale che c'è in America. «Tutta l'Africa, - dissi, - si unisce contro
l'apartheid del Sudafrica e l'oppressione del colonialismo portoghese, ma perdete il vostro
tempo se non vi rendete conto che Verwoerd, Salazar, la Gran Bretagna e la Francia non
sarebbero in grado di resistere un solo giorno se non fosse per l'aiuto degli Stati Uniti. Perciò
finché non denunciate la politica americana non concluderete mai nulla» .
Sapevo che il sottosegretario per gli Affari africani del dipartimento di Stato, G. Mennen
Williams era in visita ufficiale in Africa e perciò dissi: «Prendetemi in parola e diffidate di tutti
questi rappresentanti americani che vengono qui in Africa a farvi tutti quei sorrisetti che non
fanno a noi in America». Dissi loro che mio padre era stato assassinato dai bianchi in quello
stesso stato del Michigan di cui, poco tempo prima, G. Mennen Williams era stato governatore .
Al Ghana Club fui festeggiato da altri rappresentanti della stampa e dignitari dello stato. Poi fui
ospite a casa della figlia del defunto scrittore negro americano Richard Wright .
Snella, bellissima, dalla voce vellutata, Giulia è sposata a un giovane francese che pubblica un
quotidiano del Ghana. Più tardi, a Parigi, avrei incontrato Ellen, la vedova di Richard Wright e
Rachel, la sua figlia più giovane. Parlai con diversi ambasciatori nelle loro sedi diplomatiche .
Quello dell'Algeria mi colpì particolarmente per la sua totale dedizione alla lotta, alla
rivoluzione mondiale concepita come l'unico modo per risolvere i problemi delle masse
oppresse di tutto il mondo. La sua visione non era soltanto limitata agli algerini, ma
comprendeva gli afroamericani e tutti gli altri oppressi di ogni parte del mondo. L'ambasciatore
cinese, signor Huang Hua, uomo sensibile e anche lui deciso, insistette sugli sforzi compiuti
dall'Occidente per dividere gli africani dai popoli fratelli che vivono in altri continenti.
L'ambasciatore della Nigeria era molto preoccupato per la sorte degli afroamericani, anche
perché aveva visto di persona le loro sofferenze avendo vissuto e studiato a Washington. Lo
stesso poteva dirsi dell'ambasciatore del Mali che era stato a New York rappresentante presso le
Nazioni Unite. Feci colazione con il dottor Makonnen della Guiana Britannica e discussi con lui
la necessità di dar vita a una forma di unità panafricana che comprendesse anche gli
afroamericani. Inoltre discussi a fondo i problemi afroamericani con Nana Nketsia, ministro
della Cultura del Ghana .
Una sera, quando tornai al mio albergo, trovai un appuntamento telefonico con New York City
richiesto da Mal Goode dell'American Broadcasting. Quando ci fu data la comunicazione mi
fece delle domande sui Blood Brothers di Harlem, sui club di tiratori organizzati tra i negri e su
altri argomenti che la stampa americana metteva in stretto rapporto col mio nome .
Mentre parlavo, sentivo dall'altra parte del filo il fruscio del registratore .
Nel salone dell'università del Ghana, parlai di fronte al pubblico più numeroso che abbia mai
avuto in Africa, composto in gran parte di africani tra cui però c'erano anche numerosi bianchi.
Cercai di fare del mio meglio per smantellare la falsa immagine dei rapporti razziali che sapevo
esser diffusa dall'Ufficio informazioni degli Stati Uniti e di imprimere nella mente dei miei
ascoltatori la verità sulla sorte degli afroamericani per mano dell'uomo bianco. Mi rivolsi ai
bianchi che erano tra il pubblico: «Non ho mai visto tanti bianchi così gentili nei confronti di
tanti negri come lo siete voi qui in Africa. In America, gli afroamericani combattono per
l'integrazione, ma dovrebbero venire qui in Africa e vedere i sorrisetti che voi fate agli africani.
Qui c'è davvero l'integrazione! Ma potete dire agli africani che in America fate gli stessi
sorrisetti ai negri? No, non potete! E onestamente non è che questi africani vi piacciano di più:
quello che EFFETTIVAMENTE vi piace sono le RICCHEZZE MINERARIE che l'Africa
nasconde nel suo sottosuolo...» I bianchi presenti diventarono rossi e violacei in volto .
Sapevano che dicevo la verità. «Non sono antiamericano e non sono venuto qui per
CONDANNARE l'America, - dissi loro; voglio che ciò sia ben chiaro! Son venuto qui per dire
la verità e se è la VERITA' a condannare l'America, ebbene, che essa stia sul banco degli
accusati!» Una sera, a un ricevimento che fu offerto in mio onore da Kofi Baako, ministro della
Difesa del Ghana e presidente dell'Assemblea nazionale, incontrai la maggior parte della classe
dirigente del Ghana, tutti quelli con i quali avevo già avuto modo di parlare ed altri ancora. Mi
dissero che questa era la prima volta che un simile onore veniva concesso a uno straniero da
quando il dottor W. E. B. Du Bois era venuto nel Ghana. C'era musica, si ballava e veniva
servito dell'ottimo cibo locale. C'era chi rideva raccontando come, ad un ricevimento offerto
quello stesso giorno, l'ambasciatore degli Stati Uniti Mahomey aveva fatto i salti mortali per
mostrarsi straordinariamente gioviale e amichevole. Alcuni ritenevano che avesse compiuto
quel grande sforzo per controbilanciare le verità che dicevo sull'America tutte le volte che mi se
ne presentava l'occasione .
Poi ricevetti un invito che superava le mie speranze più ambiziose. Non avrei mai immaginato
di avere la possibilità di pronunciare un discorso davanti ai membri del parlamento del Ghana .
Parlai brevemente ma con forza: «Come potete condannare il Portogallo e il Sudafrica mentre
la nostra gente di pelle nera là in America viene morsa dai cani e massacrata a bastonate?»
Dissi di esser sicuro che l'unica ragione per cui gli africani, i nostri fratelli dalla pelle nera,
erano così reticenti a denunciare quello che accadeva in America era da attribuirsi al fatto che le
organizzazioni di propaganda del governo americano facevano di tutto per informarli male .
Alla fine del mio discorso sentii queste grida: «Sì! Noi appoggiamo gli afroamericani...
moralmente, fisicamente e se è necessario anche materialmente!» Il più grande onore che ebbi
nel Ghana, e in tutta l'Africa nera, fu l'udienza concessami dal dottor Kwame Nkrumah .
Prima di essere ammesso alla sua presenza, fui accuratamente perquisito. Apprezzai la
protezione che gli abitanti del Ghana garantiscono al loro leader perché mi fece rispettare
ancora di più lo spirito di indipendenza dei negri. Quando entrai nella grande stanza del dottor
Nkrumah, egli si alzò dal suo tavolo posto in fondo, di fronte all'entrata. Portava un abito
comune, aveva le mani tese e un aperto sorriso illuminava il suo volto sensibile. Gli strinsi forte
la mano e poi ci sedemmo su un divano a parlare. Sapevo che era particolarmente bene
informato sulle condizioni degli afroamericani perché per anni aveva vissuto e studiato in
America. Discutemmo dell'unità degli africani e dei popoli di discendenza africana e fummo
d'accordo nell'indicare in un'organizzazione panafricana la chiave per risolvere i problemi dei
popoli di tale origine. Potei apprezzare la cordialità, l'amabilità e la concretezza del dottor
Nkrumah. Purtroppo il tempo che passai con lui fu troppo breve. Mi congedai promettendo
solennemente che quando sarei tornato negli Stati Uniti, avrei portato agli afroamericani i suoi
più calorosi auguri .
Quello stesso pomeriggio, a Winneba, a trentanove miglia di distanza, parlai all'Istituto
ideologico Kwame Nkrumah, in cui duecento studenti ricevevano l'istruzione e la preparazione
necessarie per portare avanti la rivoluzione intellettuale del Ghana. Anche qui mi capitò di
assistere ad una di quelle clamorose manifestazioni di fervore politico tipiche dei giovani
africani. Dopo che ebbi finito di parlare, mentre mi venivano fatte delle domande da parte del
pubblico, un giovane afroamericano, che nessuno sembrava conoscere, si alzò. «Sono un negro
americano», si presentò. Poi difese l'uomo bianco americano con argomentazioni generiche.
Allora gli studenti africani cominciarono a urlare e a stringerglisi intorno e poi, quando la
riunione fu finita, ad attaccarlo con insulti di ogni genere: «Sei un agente di Rockefeller?...
Smettila di corrompere i nostri bambini! » Quel giovane era un insegnante nella locale scuola
media, ed era stato messo a quel posto da un'organizzazione americana. «Vieni a imparare
qualcosa in questo istituto!» Per un momento un insegnante riuscì a sottrarlo alla folla, ma
subito gli studenti lo ripresero e lo spinsero fuori gridando: «Servo!... Stipendiato dallo
spionaggio americano!... Agente degli Stati Uniti!» L'ambasciatore cinese e la signora Huang
Hua offrirono un pranzo ufficiale in mio onore. Tra gli ospiti c'erano gli ambasciatori di Cuba e
dell'Algeria e fu lì che conobbi la signora Du Bois .
Dopo un'ottima cena furono proiettati tre film. Uno, a colori mostrava le celebrazioni del
quattordicesimo anniversario della Repubblica popolare cinese. In esso si faceva vedere con
grande evidenza l'afroamericano della Carolina del Nord, Robert Williams, che ha dovuto
lasciare gli Stati Uniti e rifugiarsi a Cuba per aver sostenuto che i negri americani devono
armarsi per difendersi. Il secondo film era dedicato all'appoggio del popolo cinese alla lotta
degli afroamericani. Si vedeva il presidente Mao Tse-tung mentre pronunciava le sue
dichiarazioni di solidarietà e c'erano poi alcune scene che dipingevano in modo drammatico la
brutalità della polizia e dei cittadini bianchi nei confronti degli afroamericani che dimostravano
in varie città degli Stati Uniti per ottenere i diritti civili. Il terzo film era un drammatico
documentario della rivoluzione algerina .
Dall'ambasciata cinese il Comitato per Malcolm X mi fece raggiungere in gran fretta il Circolo
della stampa dove si teneva una serata in mio onore. Era la prima volta che vedevo gente del
Ghana ballare balli occidentali. Tutti si divertivano .
Insistettero perché facessi un breve discorso. Ancora una volta ritornai sul bisogno che c'era di
un'unità fra africani e afroamericani e gridai con tutto il cuore: «Ballate e cantate pure, ma
ricordate Mandela e Sobokwe! Ricordate Lumumba che giace là nella sua tomba! Ricordatevi
dei sudafricani che sono in prigione! «Vi domandate perché IO non ballo? - aggiunsi. - Perché
voglio che vi ricordiate dei ventidue milioni di afroamericani degli Stati Uniti!» Però avevo
anch'io una gran voglia di ballare! Quella gente del Ghana sapeva i passi più indiavolati e li
eseguiva in maniera davvero scatenata. Una graziosa ragazza africana cantò "Blue Moon" come
Sarah Vaughan. In certi momenti l'orchestra somigliava a quella di Milt Jackson, in altri a
quella di Charlie Parker .
La mattina seguente, un sabato, sentii dire che Cassius Clay era arrivato con il suo seguito.
All'aeroporto gli fecero un enorme ricevimento. Pensai che se ci fossimo incontrati, Cassius
avrebbe certamente provato imbarazzo, dato che aveva scelto di restare fedele alla versione
dell'Islam che dava Elijah Muhammad. Per parte mia non avevo nessuna difficoltà ad
incontrarlo, ma sapevo che a Cassius era stato proibito di avere rapporti con me, che lui sapeva
che io ero stato al suo fianco, lo avevo sostenuto, avevo creduto in lui quando quelli che più
tardi lo abbracciavano erano sicuri che non avesse nessuna probabilità di vincere. Decisi di
evitarlo per non metterlo a disagio .
Quel pomeriggio Sua Eccellenza Alhadji Isa Wali, l'incaricato di affari della Nigeria, offrì un
pranzo in mio onore. Era un uomo basso, portava gli occhiali e si comportava in modo
estremamente cordiale e riguardoso. Aveva abitato due anni a Washington. Dopo il pranzo Isa
Wali parlò agli ospiti di ciò che aveva visto in America e delle amicizie che aveva intrecciato
con gli afroamericani riaffermando i legami degli africani con essi .
Alhadji Isa Wali spiegò davanti agli ospiti una copia della rivista americana «Horizon» alla
pagina in cui c'era un articolo sulla Nazione dell'Islam scritto dal dottor Morroe Berger
dell'università di Princeton. Un'intera pagina era occupata da una mia fotografia e sulla pagina
opposta c'era una bella illustrazione a colori di un re della Nigeria, musulmano negro, bello e
fiero, vissuto centinaia di anni fa .
«Quando guardo queste due fotografie so che questi due uomini sono uno solo, - disse Alhadji
Isa Wali. - L'unica differenza è nel loro abbigliamento e nel fatto che uno è nato in America e
l'altro in Africa .
«Perché tutti sappiano che io lo considero come un fratello, darò a Alhadji Malcolm X un abito
come quello indossato dal nigeriano dell'illustrazione» .
Restai vivamente sorpreso dalla bellezza della tunica blu e del turbante arancione che Alhadji
Isa Wali mi offrì in dono. Mi piegai perché lui, che era molto basso, potesse mettermi il
turbante. L'incaricato d'affari nigeriano mi dette anche una traduzione in due volumi del Corano
.
Dopo questo pranzo indimenticabile, la signora Shirley Graham Du Bois mi accompagnò in
macchina a casa sua in modo che potessi vedere dove il suo famoso marito, il dottor W. E. B.
Du Bois, aveva trascorso i suoi ultimi giorni. La signora, che era una scrittrice, dirigeva la
televisione del Ghana che aveva scopi unicamente educativi. Quando il dottor Du Bois, mi
disse sua moglie, era arrivato nel Ghana, Nkrumah aveva fatto al vecchio, grande e coraggioso
scrittore afroamericano delle accoglienze regali dandogli tutto quanto poteva desiderare.
Quando Du Bois fu irrimediabilmente malato, Nkrumah andò a fargli visita e i due uomini si
salutarono, ambedue sapendo che la morte del vecchio era vicina. Nkrumah si era allontanato
piangendo .
L'ultimo incontro al quale partecipai nel Ghana fu un bellissimo ricevimento dato in mio onore
da Sua Eccellenza Armando Entralbo Gonzales, ambasciatore di Cuba presso il governo del
Ghana. La mattina seguente, una domenica, il Comitato per Malcolm X aspettava al completo
fuori del mio albergo per accompagnarmi all'aeroporto. Appena usciti, incontrammo Cassius
Clay che, con alcune persone del suo seguito, ritornava dalla passeggiata mattutina di
allenamento. Lì per lì restò incerto e poi disse qualche parola, con ritmo quasi monosillabico...
«Come stai?» Mi venne a mente come in un baleno quanto eravamo stati amici prima del
combattimento che aveva mutato il corso della sua vita. Gli risposi che stavo bene e che
speravo lo stesso fosse per lui, cosa che sinceramente pensavo. Più tardi gli mandai un
telegramma in cui dicevo di sperare che si rendesse conto di quanto era amato dai musulmani
dovunque andasse e che non permettesse a nessuno di strumentalizzarlo e di fargli dire e fare
cose che potessero danneggiare la sua reputazione .
Stavo congedandomi dai membri del Comitato per Malcolm X all'aeroporto di Accra quando
arrivò un piccolo corteo di automobili con cinque ambasciatori venuti a salutarmi .
Restai ammutolito dalla gioia e dallo stupore .
Sull'aereo diretto a Monrovia nella Liberia, dove contavo di fermarmi un giorno, ebbi la
certezza che, dopo le mie esperienze in Terra Santa, il ricordo più incancellabile che avrei
portato con me in America sarebbe stato quello dell'Africa che si stava affacciando ad una seria
consapevolezza di sé, della sua potenza, delle sue ricchezze e del ruolo mondiale che era
destinata a svolgere .
Da Monrovia andai in aereo fino a Dakar nel Senegal .
All'aeroporto, quando seppero che c'era il musulmano americano, molti senegalesi si misero in
fila per stringermi la mano. A parecchi detti l'autografo. «Il nostro popolo non parla l'arabo, ma
abbiamo l'Islam nel cuore», mi disse un senegalese. Io replicai affermando che ciò valeva
esattamente anche per i loro fratelli musulmani afroamericani .
Da Dakar andai in volo fino al Marocco dove trascorsi una giornata da turista. Visitai la famosa
Casbah, il ghetto che era stato costituito quando i francesi che dominavano il paese si erano
rifiutati di permettere agli abitanti dalla pelle bruna di abitare in certe zone della città di
Casablanca. Migliaia e migliaia di indigeni soggiogati furono ammassati nel ghetto allo stesso
modo in cui, a New York City, Harlem divenne la Casbah dell'America .
Quando arrivai ad Algeri era martedì 19 maggio 1964, il giorno del mio trentanovesimo
compleanno. Molta acqua era passata sotto i ponti durante quegli anni e, da certi punti di vista,
avevo avuto più esperienze di una dozzina di persone messe insieme .
Mentre mi accompagnava all'albergo Aletti, il tassista mi descrisse le atrocità commesse dai
francesi e quello che lui aveva fatto per vendicarsi. Poi passeggiai per le strade di Algeri e
dappertutto, da parte dell'uomo della strada, sentii espressioni di odio nei confronti dell'America
per l'appoggio che aveva dato ai loro oppressori. Gli algerini erano dei veri rivoluzionari, che
non avevano paura della morte. Per molto tempo l'avevano dovuta guardare in faccia .
Il jet della Pan American che mi riportò a casa atterrò all'aeroporto Kennedy di New York il
21 maggio alle quattro e mezza del pomeriggio. Mentre noi passeggeri uscivamo in fila
dall'aereo dirigendoci verso la dogana vidi una folla di cinquanta o sessanta giornalisti e
fotografi e devo dire in tutta onestà che mi domandai quale personaggio c'era a bordo del nostro
aereo .
Invece ero io il «cattivo» che erano venuti a ricevere .
Specialmente ad Harlem, e anche in altre città degli Stati Uniti, le previste esplosioni di quella
lunga calda estate del 1964 erano cominciate. La stampa bianca, con un articolo dopo l'altro, mi
aveva eretto a simbolo, se non addirittura a responsabile, della cosiddetta rivolta e violenza dei
negri americani, dovunque esplodesse .
Durante la più grande conferenza stampa cui abbia mai partecipato, i giornalisti mi
bombardarono di domande tra gli incessanti lampi dei flash .
«Signor Malcolm X, che cosa potete dirci di quei Blood Brothers che si dice facessero parte
della vostra organizzazione, che si dice fossero stati addestrati alla violenza e che hanno ucciso
dei bianchi innocenti?»... «Signor Malcolm X, cosa avete da dirci circa la vostra affermazione
secondo cui i negri dovrebbero esercitarsi al tiro a segno e formare degli appositi club?»
Risposi a queste domande. Sapevo di esser di nuovo in America e di dovere quindi ascoltare le
domande tipiche dell'uomo bianco, soggettive e sempre rivolte a trovare un capro espiatorio. Se
i giovani bianchi di New York uccidevano qualcuno, questo era un problema «sociologico». Ma
quando dei giovani negri facevano lo stesso, allora la struttura di potere si metteva alla caccia di
gente da incriminare. Quando dei negri erano stati linciati o assassinati a sangue freddo in altro
modo si era sempre detto che «le cose andranno meglio» e quando si scopriva che i bianchi
tenevano armi in casa, allora si faceva appello alla costituzione che dava loro il diritto di
proteggere se stessi e le loro abitazioni. Se invece i negri si azzardavano soltanto a parlare di
tenere in casa delle armi, allora ciò era «spaventoso» .
Insinuai ai giornalisti qualcosa che non si aspettavano. Dissi loro che per il negro americano
era fondamentale smettere di pensare a ciò che l'uomo bianco gli aveva insegnato e cioè di non
avere altra alternativa che quella di raccomandarsi per ottenere i suoi cosiddetti «diritti civili».
Dissi che occorreva che il negro americano si rendesse conto che aveva un motivo giuridico
veramente chiaro e indiscutibile per portare come imputato il governo degli Stati Uniti di fronte
alle Nazioni Unite sotto l'accusa formale di «negazione dei diritti umani» e che se l'Angola e il
Sudafrica erano stati precedentemente considerati in tal senso non sarebbe stato facile per gli
Stati Uniti evitare una censura, proprio per la sua situazione interna .
Come prevedevo, i giornalisti fecero di tutto perché lasciassi cadere quell'argomento. Mi
chiesero della mia «lettera dalla Mecca» ed io risposi con un discorso a cui avevo già pensato:
«Spero che una volta per tutte il mio "Hajj" alla Città Santa della Mecca abbia chiaramente
stabilito l'autentica affiliazione religiosa della nostra Muslim Mosque con i settecentocinquanta
milioni di musulmani del mondo islamico ortodosso. Mi sono reso conto una volta per tutte che
i negri africani considerano i ventidue milioni di negri americani come fratelli da lungo tempo
perduti! Essi ci AMANO! Essi SEGUONO con grande attenzione la nostra lotta per la libertà.
Erano così CONTENTI di sentire che ci stiamo svegliando dal nostro lungo sonno, dopo che la
cosiddetta America bianca cristiana ci aveva insegnato a VERGOGNARCI dei nostri fratelli e
della nostra patria africana .
«Sì, ho scritto una lettera dalla Mecca. Voi mi domandate se è vero che ho detto di accettare
ora gli uomini bianchi come fratelli. Ebbene, la mia risposta è che, nel mondo musulmano, ho
visto, ho sentito e ho scritto a casa come il mio modo di pensare si era aperto a nuovi orizzonti.
Come scrivevo, ho avuto modo di condividere un vero, fraterno affetto con molti musulmani
bianchi che non pensavano mai minimamente alla razza, al colore della pelle di un altro
musulmano .
«Il mio pellegrinaggio mi ha aperto nuove strade, mi ha illuminato consentendomi di
sviluppare una nuova capacità di comprendere. In due settimane passate in Terra Santa ho visto
quello che non avevo mai visto in trentanove anni qui in America. Ho visto tutte le RAZZE,
gente di tutti i colori, dai biondi con gli occhi azzurri agli africani color ebano, tutti
VERAMENTE fratelli, uniti, che vivevano insieme come una sola persona, che pregavano
insieme come una sola persona! Non c'erano segregazionisti, non c'erano liberali. Essi non
saprebbero come interpretare il significato di tali parole .
«E' vero che in passato ho lanciato roventi accuse contro TUTTI i bianchi. Non mi macchierò
più di tale colpa poiché ora so che alcuni bianchi sono veramente sinceri, e capaci di
comportarsi fraternamente nei confronti dei negri. La vera fede dell'Islam mi ha mostrato che
una condanna totale nei confronti di tutti i bianchi è altrettanto sbagliata di quella che molti di
questi fanno nei confronti dei negri .
Sì, mi sono convinto che ALCUNI americani bianchi vogliono contribuire a sopprimere il
feroce razzismo che STA PER DISTRUGGERE questo paese! «E' stato nella Terra Santa che è
cambiato il mio atteggiamento, a causa delle mie esperienze là e della fratellanza che vi ho visto
praticare, non solo nei miei confronti, ma nei confronti di tutti gli uomini, di qualsiasi
nazionalità e colore della pelle. Ed ora che sono tornato in America, il mio atteggiamento nei
confronti dell'uomo bianco di qui deve esser determinato dalle esperienze che i miei fratelli
negri e io abbiamo in questo paese, da quello che vediamo, dalle manifestazioni di fratellanza
che si hanno qui. Il problema, qui in America, è che si incontrano dei gruppi così ristretti di
bianchi cosiddetti "buoni" o "fraterni". Malgrado questi pochi, qui negli Stati Uniti i ventidue
milioni di negri concepiti IN BLOCCO devono affrontare IL BLOCCO dei centocinquanta
milioni di bianchi .
«Qui in America le radici del razzismo sono così profonde nel corpo della società bianca nel
suo complesso, la convinzione della loro "superiorità" è tale che tutti questi elementi fanno
parte del subconscio nazionale dei bianchi. Molti di loro non sono in realtà consapevoli del loro
razzismo finché non vengono messi alla prova e allora quella dimensione viene fuori in un
modo o nell'altro .
«Ascoltate! Il razzismo dei bianchi nei confronti dei negri qui in America è la causa delle
difficoltà che questo paese ha in tutto il mondo con gli altri popoli di colore. Il bianco non può
liberarsi dall'idea che chi non ha il suo stesso colore di pelle, non importa chi sia, porta
automaticamente un marchio d'infamia. I popoli di colore di tutto il mondo sono stanchi del
paternalismo dell'uomo bianco! Ecco perché vi trovate in difficoltà in paesi come il Vietnam.
Proprio qui nell'emisfero occidentale, probabilmente cento milioni di uomini di origine africana
sono divisi, spinti dall'uomo bianco a odiarsi reciprocamente e a non fidarsi l'uno dell'altro.
Nelle Indie occidentali, a Cuba, nel Brasile, nel Venezuela, in tutto il Sudamerica, nell'America
centrale, tutti questi paesi sono pieni di gente nelle cui vene scorre sangue africano! Persino sul
continente africano l'uomo bianco ha manovrato in modo da dividere il negro africano
dall'arabo dalla pelle bruna, il cosiddetto "cristiano africano" dal seguace dell'Islam. Cercate di
immaginarvi cosa potrebbe accadere, o meglio cosa certamente accadrà, se tutti questi popoli di
origine africana diventano CONSAPEVOLI dei loro legami di sangue, se si rendono conto che
hanno tutti uno scopo comune e se SI UNISCONO!» Quel giorno i giornalisti furono contenti
di liberarsi di me e credo che i fratelli negri che da poco avevo lasciato là in Africa sarebbero
stati contenti del modo in cui trattai l'argomento. Per quasi tutta la notte il telefono di casa mia
continuò a squillare. I miei fratelli e sorelle negri di New York e di altre città chiamavano per
congratularsi con me per quello che avevano sentito nelle trasmissioni radio e televisive mentre
altri, in maggioranza bianchi, volevano sapere se sarei stato disposto a parlare in altri posti .
Il giorno seguente ero in macchina sull'autostrada quando, mentre aspettavo davanti a un
semaforo, un'altra automobile mi si accostò. Al volante c'era una donna bianca e accanto a lei e
quindi vicino a me un bianco. «MALCOLM X! » chiamò, e quando mi voltai mi tese la mano
attraverso il finestrino con un sorriso di derisione: «Vi dispiace stringer la mano a un uomo
bianco?» Immaginatevi la scena! Proprio mentre il semaforo segnava il verde, io gli dissi: «Non
ho nessuna difficoltà a stringere la mano agli esseri umani. Ma voi lo siete davvero?»
Capitolo diciannovesimo .
1965 .
Devo esser franco. I negri, gli afroamericani, non hanno mostrato di avere molta furia nel
rivolgersi alle Nazioni Unite per chiedere che sia fatta giustizia per loro qui in America .
Sapevo in anticipo che sarebbe stato così. Il bianco americano ha indottrinato il negro con tale
cura da convincerlo a considerarsi un puro e semplice problema nazionale di «diritti civili» al
punto che probabilmente ci vorrà più tempo di quanto non me ne sia concesso, prima che i
negri americani vedano la loro lotta in una dimensione internazionale .
Sapevo anche che i negri non sarebbero venuti a frotte dietro di me, alla fede ortodossa
dell'Islam che mi aveva dato modo di capire come negri e bianchi potrebbero veramente essere
fratelli. I negri americani, specialmente quelli più vecchi, sono irrimediabilmente intrisi
dell'ipocrisia oppressiva del cristianesimo .
Perciò nelle riunioni «a invito» che cominciai a tenere ogni domenica pomeriggio o sera nella
ben nota Audubon Ballroom di Harlem, di fronte a un pubblico composto in prevalenza da
negri non musulmani, non cercavo di discutere subito l'Islam, ma di toccare invece tutti quelli
che mi stavano di fronte: «Non parlo né ai musulmani né ai cristiani, né ai cattolici né ai
protestanti... né ai battisti né ai metodisti, né ai democratici né ai repubblicani, né ai massoni né
ai membri dell'ordine degli Elks [1]! Mi rivolgo invece al popolo negro d'America e ai negri di
tutto il mondo, perché è collettivamente che noi siamo stati privati non soltanto dei nostri diritti
civili, ma persino dei nostri diritti umani, del diritto alla dignità umana...» Per le strade, dopo i
miei discorsi, vedevo nelle facce della gente che incontravo, anche di quelli che mi stringevano
calorosamente la mano e mi chiedevano l'autografo, l'espressione tipica di chi sta a vedere.
Sentivo e capivo che questa gente era ancora incerta riguardo alle mie posizioni. Sin dai tempi
della «libertà» seguita alla guerra civile, il negro ha camminato inutilmente su molti sentieri e
in gran parte, nella maggioranza dei casi, i suoi leader non sono stati all'altezza delle sue
aspettative. La religione cristiana lo ha egualmente tradito lasciandolo con le sue cicatrici, cauto
e timoroso di prendere una posizione .
Ora capivo tutto ciò molto meglio di prima. In Terra Santa, lontano dal problema razziale
dell'America, avevo avuto modo, per la prima volta, di pensare con chiarezza alle fondamentali
divisioni esistenti fra i bianchi e al modo in cui i loro atteggiamenti e i loro interessi si
collegavano con i negri e proiettavano su di essi la loro influenza. Dovevo arrivare al mio
trentanovesimo compleanno e andare alla Città Santa della Mecca per sentirmi per la prima
volta un essere umano completo al cospetto di Allah .
In quella pace della Terra Santa - proprio la notte che ho ricordato, quando mi svegliai
circondato dai miei fratelli pellegrini che russavano sonoramente - tornai a ricordi personali
che credevo fossero scomparsi per sempre, a ricordi della mia infanzia, di quando avevo otto o
nove anni. Dietro alla nostra casa, nella campagna vicino a Lansing nel Michigan, c'era una
vecchia, erbosa «collina di Ettore», come la chiamavamo noi, che forse è ancora là. In Terra
Santa mi venne a mente che ero solito sdraiarmi in cima a quella collina e guardare il cielo, le
nuvole che mi passavano sopra e sognare tante cose ad occhi aperti. Poi, in una strana
confusione di ricordi, mi venne in mente che, parecchi anni più tardi, quando ero in prigione,
ero solito giacere sul mio lettuccio, cosa che accadeva specialmente quando ero in cella di
rigore, quella che noi detenuti chiamavamo «il buco», e immaginarmi che pronunciavo discorsi
di fronte a grandi folle. Non ho idea del perché avevo simili previsioni, e se allora ne avessi
parlato con qualcuno mi avrebbero creduto pazzo. Neanch'io avevo la più pallida idea che si
potessero avverare .
Alla Mecca, avevo passato in rassegna i dodici anni trascorsi con Elijah Muhammad come se
davanti a me si proiettasse un film .
Credo che nessuno possa arrivare a capire come la mia fiducia in quest'uomo fosse stata
completa. Credevo in lui non soltanto come si crede a un leader nell'ordinario senso UMANO,
ma addirittura come a un capo DIVINO. Credevo che non avesse debolezze o limiti umani e
che perciò non potesse commettere errori né fare del male. Là sulla collina della Terra Santa, mi
resi conto di quanto sia pericoloso elevare un essere umano a tale livello, considerare
chicchessia come «guidato e protetto da Dio» .
Alla Mecca mi si era aperta la mente. Nelle lunghe lettere che scrivevo agli amici, cercavo di
comunicare loro il mio nuovo modo di intendere la lotta e i problemi dei negri americani
insieme con le profondità della mia ricerca di verità e giustizia .
«Ne ho abbastanza della propaganda degli altri, - avevo scritto a questi amici; - sono per la
verità, non importa chi la dice .
Sono per la giustizia, non importa chi è in favore o contro .
Prima di tutto sono un essere umano e come tale sono per chiunque contribuisca a emancipare
l'umanità NEL SUO INSIEME» .
In generale la stampa americana bianca rifiutò di divulgare che io stavo ora cercando di
insegnare ai negri una nuova strada .
Dato che la «lunga, calda estate» del 1964 era continuamente caratterizzata da nuovi incidenti,
fui accusato di «sobillare i negri». Ogni volta che mi trovavo davanti a un microfono mi si
chiedeva se «sobillavo i negri» o li «incitavo alla violenza» .
Allora mi infuriavo .
«Non c'è bisogno che qualcuno sobilli questa dinamite sociologica che nasce dalla
disoccupazione, dalle case inabitabili e dall'istruzione pessima e insufficiente che ci sono già
nei ghetti. Questa condizione così carica di esplosiva criminalità è esistita da lungo tempo e non
ha certo bisogno di una miccia. Si accende da sé, per autocombustione...» Mi chiamavano «il
negro più arrabbiato d'America» ed io non respingevo quest'epiteto. Parlavo esattamente come
sentivo «CREDO nell'ira. La Bibbia dice che c'è anche un TEMPO per l'ira». Mi chiamavano
«maestro e fomentatore di violenze». Io ribattevo con chiarezza: «E' una menzogna. Non sono
favorevole alla violenza sporadica, sono per la giustizia. Ritengo che se i bianchi fossero
attaccati dai negri, se le forze dell'ordine si rivelassero incapaci, insufficienti o riluttanti a
proteggere i bianchi dai negri, allora quelli si difenderebbero da sé servendosi delle armi se
fosse necessario. Ritengo che quando la legge non offre protezione ai negri dagli attacchi dei
bianchi, quelli, se necessario, debbano usare le armi per difendersi» .
«Malcolm X è fautore dell'armamento dei negri! » Cosa c'era di male? Ve lo dico io cosa c'era
di male: stavo parlando di difesa fisica dei negri contro l'uomo bianco. A questi è consentito
linciare, bruciare, far saltare in aria con le bombe e picchiare i negri. «Abbiate pazienza... le
abitudini sono radicate... la situazione va migliorando» .
Ritengo che sia un delitto per chi è stato trattato con brutalità continuare a subire senza far
nulla per difendersi. Se è in questo senso che si deve interpretare la filosofia «cristiana»; se è
ciò che insegna la filosofia di Gandhi, ebbene allora non esito a definirle delle filosofie
criminali .
In tutti i discorsi cercai di render chiara la mia nuova posizione nei confronti dei bianchi. «Non
parlo contro i bianchi sinceri, ben disposti e di buon cuore. Ho imparato che ce ne sono alcuni,
che non tutti i bianchi sono dei razzisti. Io parlo e combatto contro questi e credo fermamente
che i negri abbiano il diritto di lottare contro gente del genere con tutti i mezzi che si rendano
necessari » .
Ma i giornalisti bianchi volevano con insistenza identificarmi con la parola «violenza» e non
credo di aver avuto una sola intervista in cui non mi dovessi difendere da tale accusa .
«SONO FAVOREVOLE alla violenza se non violenza vuol dire continuare a rimandare la
soluzione del problema dei negri americani soltanto per evitare la violenza. Non sono
favorevole alla non violenza se questa significa anche una soluzione differita che per me
equivale a una non soluzione. Lasciatemelo dire in un altro modo: se è necessaria la violenza
per far sì che in questo paese i negri conquistino i loro diritti umani, io sono per la violenza
esattamente come voi sapete che lo sarebbero gli irlandesi, i polacchi o gli ebrei se dovessero
essere vittime, in modo tanto flagrante, della discriminazione .
Sono proprio come sarebbero loro in un caso simile, e state sicuri che sarebbero per la violenza,
senza badare alle conseguenze, senza pensare a chi ne sarebbe danneggiato» .
La società bianca non vuol sentir parlare nessuno, e tanto meno un negro, dei crimini perpetrati
dall'uomo bianco ai danni della gente di colore. Ecco perché sono stato chiamato così spesso
«un rivoluzionario». Sembra che abbia commesso qualche delitto! Ebbene, può darsi che il
negro americano debba trovarsi coinvolto in una vera rivoluzione. In tedesco rivoluzione si dice
"Umwälzung", che vuol dire rovesciamento, cambiamento completo. Un esempio di vera
rivoluzione è la cacciata di re Faruk dall'Egitto e la successione del presidente Nasser. Quella
parola vuol dire la distruzione di un vecchio sistema e la sua sostituzione con uno nuovo. Un
altro esempio è la rivoluzione algerina guidata da Ben Bella, che cacciò i francesi che erano lì
da più di cent'anni. Che cosa vuol dire chi parla dei negri in America come di un popolo che sta
facendo una «rivoluzione»? Sì, essi condannano un sistema ma non si adoperano per cercare di
rovesciarlo o di distruggerlo. La cosiddetta «rivolta» dei negri è soltanto la richiesta per essere
accettati nel sistema esistente. Per esempio, una vera rivolta negra potrebbe contemplare la lotta
per ottenere dei territori negri separati all'interno di questo paese, cosa che è stata sostenuta da
parecchi gruppi ed individui, molto tempo prima che Elijah Muhammad apparisse sulla scena .
Quando l'uomo bianco venne in questo paese non dette certo dimostrazione di praticare la non
violenza. Proprio la stessa persona il cui nome è il simbolo della non violenza oggi ha fatto
queste dichiarazioni: «La nostra nazione nacque dal genocidio quando accettò la dottrina
secondo cui l'americano originario, il pellerossa, era una razza inferiore. Anche prima c'erano
parecchi negri su questo territorio e lo sfregio dell'odio razziale aveva già reso orribile il volto
della società coloniale. Dal secolo sedicesimo in poi, scorse il sangue in battaglie per la
supremazia razziale. Forse noi siamo l'unica nazione che ha tentato, elevando il principio a
politica nazionale, di spazzar via le sue popolazioni indigene, oltre al fatto che abbiamo
presentato quella tragica esperienza come una nobile crociata. Persino oggi non siamo riusciti a
respingere con orrore o a sentire rimorso per quella vergognosa vicenda. Anzi la troviamo
esaltata nella letteratura, nei film, nelle opere teatrali e nel folklore e si insegna ancora ai nostri
bambini a rispettare la violenza che ha ridotto un popolo dalla pelle rossa di antica cultura in
pochi gruppi dispersi rinchiusi in poverissime riserve» .
«Coesistenza pacifica!» Ecco un altro slogan che l'uomo bianco è stato prontissimo a tirar
fuori. Benissimo! Ma quali sono state le sue azioni? Durante tutto il suo cammino attraverso la
storia, egli ha sventolato con una mano le insegne del cristianesimo mentre con l'altra roteava la
spada .
Basta rifarci proprio alle origini del cristianesimo. Il cattolicesimo con la sua gerarchia fu
concepito in Africa da quelli che la chiesa cristiana chiama «i padri del deserto» .
Quando la Chiesa entrò in Europa fu subito coperta dalla lebbra del razzismo. Ritornata in
Africa all'ombra della croce, insegnò la supremazia bianca con la conquista, l'assassinio, lo
sfruttamento, il saccheggio, lo stupro, la provocazione e le percosse. E' in questo modo che
l'uomo bianco si assicurò la posizione di guida nel mondo mediante l'uso del puro e semplice
potere fisico. Eppure, dal punto di vista spirituale, egli era del tutto inadeguato. La storia
dell'umanità ha dimostrato, da un'epoca all'altra, che il vero criterio per giudicare ogni
supremazia è spirituale. Gli uomini sono attratti dallo spirito e costretti dalla forza. E' lo spirito
che crea l'amore e la forza genera solo la paura .
Sono d'accordo al cento per cento con quei razzisti che dicono che la fratellanza non può essere
imposta da nessuna legge .
L'unica vera soluzione mondiale oggi è quella di avere dei governi veramente guidati da una
forza spirituale. Sono convinto che qui, in quest'America lacerata dalle lotte razziali, sia
necessaria, particolarmente per i negri, la religione dell'Islam. Basta che il negro pensi che è
stato il cristiano più fervente d'America e si domandi poi a che cosa ciò lo ha portato. Infatti
nelle mani dell'uomo bianco e nello spirito della sua interpretazione, dov'è che il cristianesimo
ha condotto questo MONDO? Ha spinto i due terzi della popolazione della terra composti di
non bianchi alla ribellione e oggi dire due terzi della popolazione umana equivale a dire all'altro
terzo costituito dall'uomo bianco: «fuori!» E l'uomo bianco se ne va e appena partito, vediamo
che gli indigeni ritornano alle loro religioni originarie che il conquistatore aveva bollato come
pagane. Una sola religione, l'Islam, ha avuto la forza di fronteggiare e combattere il
cristianesimo per mille anni e solo essa è riuscita a tenerlo a bada .
Gli africani ritornano all'Islam e ad altre religioni indigene, mentre gli asiatici ritornano
all'Induismo, al Buddismo e all'Islam .
Allo stesso modo in cui, una volta, le crociate dei cristiani si diressero verso Oriente, oggi la
crociata islamica si muove verso Occidente. Con l'Asia ormai chiusa per il cristianesimo, con
gran parte dell'Africa che rapidamente sta diventando musulmana, con un'Europa indifferente, è
oggi opinione generale che la civiltà «cristiana» dell'America che sostiene la razza bianca in
tutto il mondo sia il più forte bastione rimasto al Cristianesimo .
Ebbene, se le cose stanno così, se il cosiddetto cristianesimo che si pratica oggi in America
incarna il meglio di ciò che questa religione può offrire, chiunque si trovi nel pieno possesso
delle sue facoltà mentali non dovrebbe aver bisogno di altre prove per capire che la FINE del
cristianesimo è molto vicina .
Ma vi rendete conto che alcuni teologi protestanti, riferendosi al nostro tempo, usano nei loro
scritti l'espressione «èra postcristiana»? Qual è la ragione fondamentale del fallimento della
Chiesa cristiana? La sua incapacità di combattere il razzismo. E' la solita storia. Chi semina
vento raccoglie tempesta: la Chiesa cristiana ha seminato indegnamente il razzismo ed ora lo
raccoglie .
In quest'anno di grazia 1965, immaginatevi che tutte le domeniche mattina la «coscienza
cristiana» dei fedeli è protetta sbarrando le porte ai negri che vorrebbero entrare. Ad essi si
dice: «E' vietato l'ingresso in QUESTA casa di Dio!» C'è una triste ironia nel fatto che la città
di Saint Augustine, nella Florida, che prese nome dal santo africano negro che salvò il
cattolicesimo dall'eresia, sia stata recentemente teatro di sanguinosi tumulti razziali .
Credo che ora Dio stia concedendo alla cosiddetta società bianca cristiana l'ultima occasione
per pentirsi ed espiare i suoi delitti: avere sfruttato e reso schiavi i popoli di colore di tutto il
mondo. E' proprio come quando Dio diede al Faraone la possibilità di pentirsi, ma questi rimase
fermo nel suo rifiuto di far giustizia in favore di quelli che aveva oppresso e, come sapete, Dio
distrusse il Faraone .
Ma l'America bianca prova realmente dolore per i suoi crimini contro i negri? Ha la capacità di
pentirsi e di rimediare alle sue colpe? E tale capacità esiste in una maggioranza, in una metà o
almeno in un terzo della società americana bianca? Molti negri, le vittime, di fatto la maggior
parte dei negri, vorrebbero poter dimenticare e perdonare quei delitti, ma la maggioranza degli
americani bianchi non ha nessuna intenzione di rendere giustizia al negro .
In realtà, che risarcimento potrebbe esserci all'aver ridotto in schiavitù, all'aver usato violenza,
all'aver maltrattato per secoli milioni di esseri umani? Quale espiazione chiederebbe il dio della
giustizia per aver defraudato i negri della loro fatica, delle loro vite, della loro vera identità,
cultura, storia e persino della stessa dignità umana? Una tazza di caffè, un posto a teatro, la
possibilità di accedere ai gabinetti pubblici, concessioni che coprono l'intera gamma
dell'ipocrita integrazione, non costituiscono certo un risarcimento .
Dopo un po' di tempo trascorso in America, tornai all'estero e questa volta rimasi per diciotto
settimane nel Medio Oriente e in Africa .
Tra i leader con i quali ebbi conversazioni private questa volta c'erano il presidente dell'Egitto
Gamal Abdel Nasser; il presidente della Tanzania Julius K. Nyerere; il presidente della Nigeria
Nnamoi Azikiwe; il dottor Kwame Nkrumah del Ghana, il presidente della Guinea Sékou
Touré; il presidente del Kenya Jomo Kenyatta e il primo ministro dell'Uganda dottor Milton
Obote .
Incontrai anche leader religiosi africani, arabi, asiatici, musulmani e non musulmani e in tutti
questi paesi ebbi modo di parlare con afroamericani e bianchi di diversa origine e professione .
In un paese africano l'ambasciatore americano più rispettato dell'intero continente era un
bianco e sono lieto di ricordare che ciò mi fu detto da uno dei leader più influenti. Parlammo
per un intero pomeriggio e, basandomi su quanto avevo sentito dire di lui, gli credetti quando
affermò che finché era in Africa non pensava mai in termini razziali, ma trattava con esseri
umani senza accorgersi del loro colore. Mi disse di cogliere assai più chiaramente le differenze
linguistiche e che notava le differenze di colore solo quando tornava in America .
«Quello che mi state dicendo, - replicai, - equivale ad affermare che non è l'americano bianco
ad essere razzista, ma L'ATMOSFERA politica, economica e sociale dell'America che
automaticamente produce una psicologia razzista nell'uomo bianco». Fu d'accordo .
Convenimmo anche sul fatto che la società americana rende quasi impossibile che si possa
trattare da uomo a uomo senza un'immediata consapevolezza della differenza di colore e che se
si potesse eliminare il razzismo, l'America potrebbe costruire una società in cui ricchi e poveri
sarebbero veramente in grado di vivere come esseri umani. Quella discussione con il
diplomatico mi fece capire, e devo dire con mio grande piacere, che l'uomo bianco non è
intrinsecamente cattivo, ma che a spingerlo ad azioni nefande è la società razzista americana,
quella stessa società che ha prodotto e alimenta una psicologia capace di scatenare i più vili e
bassi istinti dell'uomo .
Con un altro bianco che incontrai in Africa e che ai miei occhi apparve come l'esatta
personificazione di ciò che avevo discusso con l'ambasciatore, ebbi un colloquio di natura assai
diversa .
Durante tutto il viaggio sapevo benissimo di essere sotto una costante sorveglianza. L'agente
era un tale dall'aspetto odioso che si notava facilmente. Non so a quale corpo appartenesse
perché non lo lasciò trapelare, altrimenti lo direi. In ogni caso mi cominciò a seccare quando mi
accorsi di non poter consumare un pasto nell'albergo senza vedermelo da qualche parte fra i
piedi. Mi sembrava di essere John Dillinger o qualcuno del genere .
Una mattina mi alzai dal tavolo, andai verso di lui e gli dissi di sapere benissimo che mi stava
seguendo e che se voleva sapere qualcosa non capivo perché non me la chiedeva direttamente.
Lui prese il tipico atteggiamento di sufficienza, così gli dissi in faccia che era un imbecille, che
non mi conosceva e non sapeva per quale causa io mi battevo e che lui era uno di quelli che
lasciano agli altri il compito di pensare. Aggiunsi che, indipendentemente dal posto che un
uomo ha, dovrebbe almeno esser capace di pensare di testa sua. Queste parole colpirono il
segno e lui aprì la valvola .
Mi disse che ero antiamericano, sovversivo, che incitavo alla sedizione e che probabilmente
ero comunista. Gli risposi che quello che stava dicendo non era che la dimostrazione di quanto
poco capisse il mio pensiero e che l'unica accusa che mi avrebbero potuto fare l'F.B.I. o la CIA
o chiunque altro era di essere di idee aperte. Gli dissi che cercavo la verità e che mi sforzavo di
considerare obiettivamente ogni cosa in se stessa, che ero contro ogni modo di pensare chiuso e
contro ogni società basata sulla costrizione, che rispettavo il diritto di ciascuno a credere quanto
la sua intelligenza gli fa considerare valido ed esigevo che gli altri rispettassero anche in me tale
diritto .
Poi il supersegugio cominciò a parlare delle mie credenze religiose di Black Muslim. Gli chiesi
se i suoi capi non si fossero neanche presi la briga di informarlo del cambiamento avvenuto
nelle mie credenze e gli dissi che ora credevo nell'Islam così come veniva insegnato alla Mecca,
che non c'era altro Dio al di fuori di Allah e che Muhammad ibn Abdullah che era vissuto nella
Città Santa della Mecca circa millequattrocento anni fa era l'ultimo Messaggero di Allah .
Fin dal primo momento avevo cercato di indovinare qualcosa e feci un tentativo che scosse
davvero il mio supersegugio. Dal soggettivismo che avevo notato in tutte le sue domande e nei
suoi discorsi avevo dedotto un'ipotesi. «Sapete, - gli dissi, credo che voi siate un ebreo con un
nome anglicizzato». Dalla sua espressione capii di avere colpito nel segno. Mi domandò come
lo sapevo ed io gli risposi che ormai avevo così tanta esperienza sul modo in cui gli ebrei mi
attaccavano che di solito ero in grado di riconoscerli. Aggiunsi che l'unico risentimento che
provavo contro gli ebrei era che molti di essi si comportavano da ipocriti quando affermavano
di essere amici del negro americano e che mi faceva molto arrabbiare di esser così
frequentemente accusato di antisemitismo quando dicevo cose assolutamente vere nei confronti
degli ebrei. Gli dissi che riconoscevo loro il merito di essere i più attivi, i più capaci di
esprimersi tra tutti gli altri bianchi «liberali» che guidavano e finanziavano il movimento per i
diritti civili dei negri, ma, al tempo stesso, gli ricordai che gli ebrei prendevano tali posizioni
per un calcolato motivo strategico e cioè che più i pregiudizi dei gentili si concentravano sui
negri e più loro sarebbero stati lasciati in pace. Gli dissi che secondo me la prova che tutti gli
atteggiamenti in favore dei diritti civili tipici di tanti ebrei non erano affatto sinceri era la
semplice constatazione che nel Nord i peggiori segregazionisti erano proprio gli ebrei. Per
esempio, considerate tutte le attività e i locali in cui il negro cerca di integrarsi. Se gli ebrei non
ne sono i proprietari o ne detengono il controllo economico, hanno almeno la partecipazione
azionaria o comunque sono in grado di esercitare una profonda influenza. Si può dire che
sinceramente facciano ciò? No! Dissi che, secondo me, una prova ancora più schiacciante di
come gli ebrei considerano i negri era quello che invariabilmente accadeva tutte le volte che un
negro si trasferiva in una zona residenziale bianca abitata prevalentemente da ebrei. Questi si
mettevano di solito alla testa dell'esodo. Generalmente in tali situazioni alcuni bianchi
rimangono, ma di rado tra essi ci sono degli ebrei. Si tratta di irlandesi cattolici o di italiani ed è
una vera ironia il fatto che gli ebrei siano spesso «accettati» con grande difficoltà .
So che quando faccio queste affermazioni mi vengono rovesciate addosso da tutte le parti
accuse di antisemitismo, ma la verità è la verità .
La lotta politica era in pieno fervore in America mentre io, a quel tempo, mi trovavo in viaggio
all'estero. Al Cairo e poi di nuovo ad Accra ricevetti telegrammi e telefonate dagli organi di
stampa americani che volevano sapere per chi parteggiavo, se per Johnson o per Goldwater .
Risposi che per quel che riguardava il negro americano quei due candidati erano praticamente
la stessa cosa. Ritenevo che fosse solo una questione di scegliere tra Johnson la volpe e
Goldwater il lupo .
Nella vita politica americana il termine «conservatorismo» vuol dire «teniamo i "niggers" al
loro posto» mentre «LIBERALISMO» vuol dire: «teniamo i negretti al loro posto, ma
diciamogli che li tratteremo un po' meglio. Prendiamoli un altro po' in giro con le promesse».
Dati i termini della scelta, ritenevo che il negro americano non potesse che decidere da chi esser
divorato, se dalla volpe «liberale» o dal lupo «conservatore», dato che ambedue l'avrebbero
divorato .
Non preferivo Goldwater a Johnson, salvo per il fatto che nella tana del lupo avrei saputo con
chiarezza cosa aspettarmi. Mi sarei guardato con più attenzione dal lupo famelico che non
dall'astuta volpe: il suo ringhiare minaccioso mi avrebbe tenuto in guardia pronto a combattere
per la vita, mentre AVREI POTUTO essere ingannato e distratto dall'insidiosa volpe. Vi
descriverò i sistemi della volpe. Quando Johnson divenne presidente in seguito all'assassinio di
Dallas quale fu la prima persona che mandò a chiamare? Fu il suo miglior amico, «Dicky»;
Richard Russell della Georgia. Johnson dichiarava a tutti che i diritti civili erano «un problema
morale» mentre il suo migliore amico era lo stesso razzista del Sud che guidava l'opposizione ai
diritti civili. Che impressione vi farebbe uno sceriffo che si dichiarasse contrario agli
svaligiatori di banche e poi avesse come suo migliore amico Jesse James? Rispettavo
Goldwater come uomo perché esponeva chiaramente le sue convinzioni, cosa ormai rarissima
nella vita politica di oggi. Non mormorava nell'orecchio ai razzisti mentre sorrideva agli
integrazionisti e perciò ritenni che, se non avesse avuto delle profonde convinzioni Goldwater
non avrebbe rischiato l'impopolarità. Disse chiaro e tondo ai negri che non era dalla loro parte e
a questo punto bisogna considerare che sempre la gente di colore ha fatto dei progressi quando
si è trovata a doversi ribellare a un sistema che vedeva chiaramente stretto a difesa contro i
negri. Davanti alle continue ninnananne cantate dagli astutissimi liberali, il negro del Nord
diventò un mendicante mentre quello del Sud, che si trovava a dover fronteggiare dei bianchi
che apertamente lo deridevano, affrontò la lotta per la sua libertà molto tempo prima che lo
stesso accadesse nel Nord .
Comunque non è che pensassi che per i negri Goldwater fosse meglio di Johnson o viceversa.
Durante le elezioni non mi trovavo negli Stati Uniti, ma anche se ci fossi stato non avrei votato
per nessuno dei due candidati alla presidenza né lo avrei consigliato ad altri negri. Alla Casa
Bianca c'è andato Johnson e i voti negri hanno costituito il fattore decisivo della sua vittoria,
proprio come lui voleva. Se avesse prevalso Goldwater, dico soltanto che i negri avrebbero
almeno saputo di avere a che fare con un lupo che ringhia apertamente anziché con una volpe
che prima che se ne siano accorti li ha mangiati quasi a metà .
Continuavo a incontrare grosse difficoltà nel mio tentativo di sviluppare l'organizzazione
nazionalista negra che intendevo mettere al servizio dei negri d'America. Ma perché proprio il
nazionalismo negro? Ebbene, come è possibile che nella società americana basata su di una
spietata concorrenza, esista la solidarietà fra bianchi e negri se prima non si riesce a suscitarla
tra i negri? Se vi ricordate, durante la mia infanzia avevo avuto modo di venire a contatto con
gli insegnamenti del nazionalista negro Marcus Garvey che, sapevo benissimo, erano stati la
causa dell'assassinio di mio padre. Anche quando ero seguace di Elijah Muhammad, ero stato
sempre profondamente consapevole della capacità delle teorie politiche e socio-economiche dei
nazionalisti negri di infondere nel nostro popolo la dignità razziale, lo stimolo e la fiducia di cui
abbiamo oggi bisogno per sollevarci, camminare con le nostre gambe, liberarci dalle cicatrici e
prendere posizione .
Una delle più grandi difficoltà che incontravo nello sviluppo dell'organizzazione da me voluta,
e cioè di un organismo interamente composto di negri che aveva come scopo finale quello di
contribuire a creare una società fondata su di una vera fratellanza tra bianchi e negri, era il fatto
che la mia precedente immagine, la cosiddetta immagine del Black Muslim, continuava a
caratterizzarmi. Cercavo lentamente di modificarla, di compiere una svolta decisiva che mi
proponesse diversamente di fronte al pubblico, specialmente a quello dei negri. Non ero meno
infuriato di prima, ma la vera fratellanza che avevo avuto modo di vedere nella Terra Santa mi
aveva portato a riconoscere che l'ira può spesso accecare gli uomini .
Approfittavo di ogni momento libero per parlare con gente influente di Harlem e pronunciai
moltissimi discorsi di questo tipo: «La vera fede dell'Islam mi ha insegnato che per rendere
complete la famiglia umana e la società ci vogliono tutte le caratteristiche, tutti gli ingredienti
religiosi, politici, economici, psicologici e razziali .
«Da quando ho imparato la VERITA' alla Mecca, tra i miei più cari amici ci sono persone di
tutte le specie: cristiani, ebrei, buddisti, induisti, agnostici e persino atei. Ho amici tra i
capitalisti, i socialisti e comunisti; alcuni sono moderati, altri conservatori o estremisti e altri
ancora hanno la mentalità da zio Tom. Oggi i miei amici sono di pelle nera, bruna, rossa, gialla
ed anche BIANCA!» Dicevo al mio pubblico delle strade di Harlem che solo quando l'umanità
si fosse sottomessa all'unico Dio avrebbe raggiunto quella «pace» di cui si sentiva tanto parlare
mentre nessuno muoveva neanche un dito per assicurarla .
Dicevo che allo stato attuale della situazione razziale in America, si doveva considerare la lotta
del negro contro il razzismo dell'uomo bianco come un problema umano e che era necessario
lasciar perdere tutte le ipocrisie politiche e propagandistiche: ambedue le razze, in quanto
composte da esseri umani, avevano l'obbligo e la responsabilità di contribuire a cambiare la
situazione umana dell'America .
Dicevo che i bianchi di intenzioni oneste dovevano battersi, con coraggio e direttamente,
contro il razzismo degli altri bianchi e che i negri dovevano raggiungere una maggiore
consapevolezza del fatto che, insieme con l'eguaglianza di diritti, ci sarebbe stato anche il peso
dell'eguaglianza di responsabilità .
Meglio della maggior parte dei negri, sapevo come molti bianchi desideravano vedere risolti i
problemi razziali dell'America, e come molti di essi erano frustrati al pari dei negri. Credo che
ricevessi ogni giorno almeno cinquanta lettere di bianchi. A conclusione di riunioni o discorsi
che tenevo in pubblico, molti bianchi mi si affollavano intorno per chiedermi: «Cosa può fare
uno di noi che sia animato da sincere intenzioni?» Quando dico queste cose mi viene a mente
quella studentessa universitaria di cui vi ho già parlato, che partì in aereo dal suo college della
Nuova Inghilterra fino a New York per venirmi a cercare nel ristorante della Nazione dell'Islam
ad Harlem .
Allora le dissi che non avrebbe potuto far niente e me ne dispiace molto. Vorrei conoscere il
nome di quella ragazza per poterle telefonare o scrivere e dirle ciò che dico ora ai bianchi
quando vengono da me in tutta sincerità e mi chiedono, in un modo o nell'altro, la stessa cosa
che mi chiese lei .
Prima di tutto dico loro che, almeno per quel che riguarda la mia organizzazione nazionalista
negra, l'Organizzazione dell unità afroamericana, essi non possono entrare a farne parte .
Sono profondamente convinto che i bianchi vogliano entrare nelle organizzazioni negre solo
perché quella è la via più facile per mettersi a posto la coscienza. Con la loro presenza fisica
essi «provano» di essere con noi, ma la dura verità è che ciò non contribuisce a risolvere il
problema razziale dell'America. Non sono i negri ad essere razzisti e perciò i bianchi veramente
sinceri devono dar prova di se stessi non tra le vittime negre ma sul fronte di battaglia dove c'è
veramente il razzismo e cioè nelle loro comunità, perché in America il razzismo è solo tra i
bianchi. E' appunto lì che quelle persone sinceramente intenzionate a contribuire in qualche
modo devono lavorare .
A parte ciò, non intendo offendere nessuno di quei bianchi di sincere intenzioni quando dico
che se essi diventano membri di organizzazioni negre le rendono, con la loro sola presenza,
meno efficaci. Persino i migliori di questi membri bianchi rallenteranno la scoperta che i negri
devono fare di ciò di cui hanno bisogno e particolarmente di quanto sono in grado di fare per
loro stessi, lavorando da sé, tra la loro gente, nelle loro comunità .
Non voglio davvero offendere nessuno, ma arriverò persino a dire che non ho mai avuto
fiducia in quei bianchi sempre così desiderosi di stare in mezzo ai negri, di mescolarsi nelle
comunità negre. Non mi fido di quei bianchi che non desiderano altro che circondarsi di negri.
Può darsi che questa mia opinione sia ancora un residuo degli anni in cui facevo il trafficante ad
Harlem e del ricordo di tutti quei bianchi ubriachi e con la faccia paonazza che, la notte, nei
club, si attaccavano sempre a qualche negro per dirgli: «Voglio che tu sappia che sei proprio
uguale a me». Poi riprendevano i taxi e le loro grosse vetture nere, se ne andavano giù in città
nei posti dove abitavano e lavoravano e là era meglio che nessun negro, che non fosse un
servitore, si facesse vedere. Comunque so che tutte le volte che i bianchi aderiscono ad una
organizzazione negra, si nota subito che i negri si appoggiano ad essi e prima che non si creda,
anche se un negro detiene apparentemente il potere, i bianchi, grazie al loro denaro, controllano
l'organismo .
«Lavorate in stretto contatto con noi, - dico ai bianchi di sincere intenzioni. - Che ciascuno di
noi lavori tra la sua gente». Che i bianchi sinceri trovino altri che la pensano come loro; che
diano vita ai loro gruppi tutti composti di gente della loro razza per lavorare insieme a
convertire gli altri bianchi che pensano e agiscono da razzisti; che quei bianchi di sincere
intenzioni insegnino la non violenza ai loro confratelli! Rispetteremo coloro che lavorano in
stretto contatto con noi .
Meritano ogni riconoscimento e noi glielo daremo. Nel frattempo lavoreremo tra la nostra
gente, nelle nostre comunità negre, dimostrando e insegnando, in quelle forme che solo noi
conosciamo, che il negro deve aiutarsi da sé. I bianchi di sincere intenzioni e i negri che
lavorano separatamente, in realtà poi non fanno altro che lavorare insieme .
Nella nostra reciproca sincerità saremo forse in grado di mostrare all'America la strada per
salvarsi. Ciò può accadere soltanto se i diritti e la dignità umani sono estesi pienamente anche ai
negri. Solo quelle azioni concrete ed efficaci sinceramente prodotte da un profondo senso di
umanità e responsabilità morale possono toccare le vere radici che producono le esplosioni
razziali nell'America di oggi. Senza tali azioni, i disordini diventeranno sempre peggiori. Vorrei
dire che niente sarà risolto con l'attribuire a me e ad altri cosiddetti «estremisti» e «demagoghi»
negri la colpa per il razzismo che c'è in America. Qualche volta ho osato sognare che forse un
giorno la storia dirà che la mia voce levatasi contro l'arroganza, la prosopopea e il narcisismo
dell'uomo bianco, ha contribuito a salvare l'America da una catastrofe grave e forse persino
fatale .
L'obiettivo è sempre stato lo stesso, anche se per realizzarlo si assumono atteggiamenti tanto
diversi come il mio e quello delle marce non violente del dottor Martin Luther King, che pure
contribuiscono a porre l'accento sulla brutalità e la cattiveria dell'uomo bianco nei confronti di
negri indifesi. Oggi, nel clima razziale di questo paese, si può facilmente capire quale dei due
atteggiamenti «estremi» per la risoluzione dei problemi dei negri è destinato ad una fatale
catastrofe, se sia il «non violento» dottor King oppure il «violento» Malcolm .
Considero urgente tutto quello che faccio oggi. A nessuno è concesso tanto tempo per portare
a termine quello che è lo scopo della sua vita e la mia in particolare non è mai rimasta ferma
sulla stessa posizione per un periodo molto lungo. Avete visto con quale frequenza ho vissuto
mutamenti drastici e inaspettati .
Non faccio altro che guardare ai fatti quando dico di sapere che in ogni momento, di giorno o
di notte, può raggiungermi la morte. Ciò è particolarmente vero da quando sono tornato
dall'ultimo mio viaggio all'estero nel corso del quale ho avuto modo di vedere la natura delle
cose che stanno succedendo e di ottenere informazioni da fonti degne di fede .
Pensare alla morte non mi disturba come può succedere ad altri .
Non ho mai creduto di poter arrivare alla vecchiaia e anche prima di diventare un Muslim,
quando facevo il trafficante nella giungla del ghetto e poi quand'ero detenuto in prigione, ho
sempre avuto l'idea fissa che sarei morto di morte violenta .
Dopotutto, nella mia famiglia questa è diventata una tradizione: mio padre e la maggior parte
dei suoi fratelli morirono di morte violenta e mio padre fu assassinato per le idee in cui credeva
.
Per chiarire meglio, se considero le cose in cui credo e il temperamento che ho, più la mia totale
dedizione ai principi di cui sono convinto, non posso non pensare che ci siano tutti gli elementi
per impedirmi di giungere alla tarda età .
Ho dedicato a questo libro così tanta parte di quel tempo che ancora mi resta perché ritengo e
spero che se racconto interamente e con assoluta onestà la storia della mia vita, può darsi che un
giorno, se sarà letta con spirito obiettivo, possa diventare una testimonianza di qualche valore
sociale .
Credo che un lettore obiettivo sia in grado di capire che per uno come me vissuto da giovane,
da negro, in una società come questa, finire in prigione fosse inevitabile. E' una cosa che accade
a migliaia e migliaia di giovani negri .
Credo che lo stesso lettore obiettivo sia in grado di capire l'inevitabilità della mia reazione
quando sentii proclamare che «l'uomo bianco è il diavolo», quando ricordai quelle che erano
state le mie esperienze personali. I successivi dodici anni della mia vita furono dedicati alla
propagazione di quel principio tra i negri .
Spero e credo che quel lettore obiettivo, nel seguire la mia vita che non è altro che la vita di un
negro fatto dal ghetto, possa acquisire un quadro più chiaro di quello che aveva prima dei ghetti
in cui si forgiano il modo di vivere e di pensare di quasi tutti i ventidue milioni di negri
d'America .
In quei ghetti il tipo di adolescente com'ero io, con i suoi falsi eroi e le compagnie sbagliate,
diventa ogni anno sempre più comune. Non voglio dire che tutti diventino dei parassiti com'ero
io: fortunatamente gran parte evitano tale destino. Però il piccolo gruppo di quelli che seguono
tale strada viene ad aggiungersi ad un totale generale sempre più consistente di pericolosi
delinquenti minorili. Non molto tempo fa l'F.B.I .
pubblicò un rapporto sull'impressionante aumento della criminalità in ognuno degli anni
posteriori alla fine della seconda guerra mondiale. L'aumento era dal dieci al dodici per cento
ogni anno. In quel rapporto ciò non era affermato con chiarezza, ma lo dico io qui: la
maggioranza di quell'aumento della criminalità si verifica nei ghetti negri che la società razzista
americana permette ancora che esistano. Nella «lunga, calda estate» del 1964, nei disordini
avvenuti nelle città maggiori degli Stati Uniti, la gioventù negra dei ghetti, gli esclusi dalla vita
sociale, furono sempre in prima linea .
In quest'anno 1965, sono sicuro che scoppieranno disordini più numerosi e più gravi in più
città, malgrado la legge sui diritti civili fatta unicamente per salvare la faccia. La ragione di ciò
è che la causa di quei disordini, la persistenza del razzismo in America, è stata per troppo tempo
trascurata .
Credo che sarebbe quasi impossibile trovare, qui in America, un negro che abbia vissuto più di
me nel fango della società, che sia stato più ignorante di me, che abbia sofferto più
angosciosamente di me. E' solo dopo la più profonda oscurità che può sorgere la luce più
grande; le gioie maggiori vengono solo dopo gli immensi dolori e soltanto dopo aver sofferto la
schiavitù e la prigione si può apprezzare più compiutamente la libertà .
Credo di aver combattuto per la libertà dei miei ventidue milioni di fratelli e sorelle negri qui
in America meglio che sapevo e meglio che ho potuto, pur con tutti i limiti, che sono molti .
Credo che la mia maggiore manchevolezza sia stata di non aver ricevuto la cultura accademica
che avrei desiderato di avere, diventare per esempio avvocato. Ritengo che avrei potuto essere
un buon avvocato perché mi è sempre piaciuta la lotta verbale, la sfida. Mi dovete credere
quando vi dico che se ora ne avessi il tempo, non mi vergognerei affatto di mettermi a
frequentare una scuola pubblica di New York City ricominciando dalla nona classe per arrivare
fino alla laurea. Tutto ciò perché sono ben lontano dall'avere una cultura che mi consenta di
coltivare tutti gli interessi che ho. Per esempio, mi piacciono molto le lingue e vorrei essere
competente in questo campo. Non conosco niente di più demoralizzante che trovarsi con gente
che dice cose che non capisco, specialmente quando si tratta di persone della mia stessa razza.
In Africa sentivo parlare lingue madri come lo Haussa e lo Swahili e stavo lì in piedi come un
ragazzino ad aspettare che qualcuno mi traducesse quello che era stato detto. Non dimenticherò
mai la sensazione di ignoranza che ho provato .
Oltre ai fondamentali dialetti africani, vorrei cercare d'imparare il cinese, che sembra sarà la
lingua politica più poderosa del futuro. Già ho cominciato a studiare l'arabo che ritengo debba
diventare la lingua spirituale più importante del futuro .
Mi piacerebbe studiare, voglio dire imparare, questioni e fatti appartenenti a diversi campi
perché ho una mente aperta e un vivo interesse per moltissimi argomenti. E' questa la ragione
per cui mi piacciono come individui alcuni dei moderatori dei programmi radio e televisivi a
cui ho partecipato e li rispetto poiché, anche se erano quasi sempre in disaccordo con me sul
problema razziale, sapevano mantenere una posizione aperta ed obiettiva di fronte alla verità
degli avvenimenti mondiali. Alla gente piacciono Irv Kupcinet di Chicago, e Barry Farber,
Barry Gray e Mike Wallace di New York ed essi mi fecero chiaramente intendere che mi
rispettavano in una misura che non avrebbero mai sospettato. Spesso chiedevano un mio parere
su argomenti estranei al problema razziale e qualche volta, dopo il programma, ci sedevamo a
parlare per un'ora o più degli avvenimenti contemporanei e di altre cose. Vedete come gran
parte dei bianchi, anche quando riconoscono che un negro ha una certa intelligenza, continuano
a pensare che l'unica cosa di cui può discutere è il problema razziale e che non possa quindi
contribuire in nessun altro campo del pensiero. Avrete certamente osservato quanto è raro che
dei bianchi chiedano ai negri la loro opinione su problemi mondiali della sanità o sulla gara
spaziale per portare l'uomo sulla luna .
Ogni mattina, quando mi sveglio, mi pare che quello che sta per cominciare sia un altro
giorno guadagnato. In tutte le città dove vado a parlare, a presiedere le riunioni della mia
organizzazione o a occuparmi di altri affari, certi negri seguono ogni mio movimento
aspettando l'occasione per assassinarmi. Ho detto molte volte in pubblico di sapere con
esattezza che sono stati impartiti ordini precisi. Chi non crede a quello che dico non conosce i
Muslims della Nazione dell'Islam .
Però godo anche del privilegio di avere dei fedeli seguaci che, credo, mi sono devoti come una
volta lo ero io a Elijah Muhammad. Coloro che vanno a caccia di un uomo devono ricordarsi
che nella giungla vi sono anche quelli che vanno a caccia dei cacciatori .
So anche che potrei morire improvvisamente per mano di qualche razzista bianco o di qualche
negro assoldato dai bianchi, oppure per mano di qualche negro col cervello talmente imbottito
da agire di sua iniziativa credendo che, eliminandomi, aiuterebbe i bianchi visto che io parlo
così male di loro .
Comunque ora vivo ogni giorno come se fossi già morto e vi dico che cosa vorrei che faceste.
Quando sarò morto - e parlo così perché da quello che so non mi aspetto di vivere abbastanza
per leggere questo libro nella sua stesura definitiva - voglio che controlliate se quello che dico
ora sarà o no confermato dai fatti: vedrete che la stampa dei bianchi mi identificherà con
«l'odio» .
I bianchi si serviranno di me morto allo stesso modo in cui mi hanno strumentalizzato da vivo,
presentandomi come un comodo simbolo di odio e ciò per sfuggire alla verità riflessa come in
uno specchio da tutte le mie azioni intese a mostrare la storia dei crimini innominabili che la
razza bianca ha commesso contro la mia .
Vedrete. Mi appiccicheranno, se va bene, l'etichetta di negro «irresponsabile». Riguardo a
questa accusa, ho sempre pensato che il leader negro che i bianchi giudicano «responsabile» è
sempre quello che non riesce a ottenere nulla. Per ottenere qualcosa in quanto negro bisogna
esser considerati «irresponsabili» dai bianchi. Questo è un principio che avevo imparato sin da
bambino e poiché sono stato in qualche modo anch'io un leader dei negri qui in questa società
razzista d'America, mi sono sentito riconfortato tutte le volte che i bianchi mi resistevano o mi
attaccavano con maggiore violenza perché in ogni caso ciò mi faceva sentire più sicuro di
essere schierato in difesa degli interessi del negro americano .
L'opposizione dei razzisti mi faceva automaticamente sapere che avevo fatto qualcosa di valido
per i negri .
Sì, è vero, ho amato il mio ruolo di «demagogo». So benissimo che spesso la società ha ucciso
coloro che avevano contribuito a cambiarla e se mi sarà dato di morire dopo aver portato una
luce, aver rivelato qualche importante verità che valga a distruggere il cancro razzista che
divora il corpo dell'America, ebbene, tutto ciò sarà dovuto ad Allah. Miei rimarranno solo gli
errori .
NOTE .
NOTA 1: Il Benevolent and Protective Order of the Elks è una delle numerosissime
«confraternite» che, come sostiene Charles Ferguson ("Fifty Million Brothers: A Panorama of
American Lodges and Clubs", New York 1937), nacquero e prosperarono per la mancanza di
una «vita di gruppo» in America. Pur con diverse colorazioni e sfumature di interessi, i Knights
of Pythias, le Daughters of the American Revolution, la Eastern Star, le logge negre, gli Elks
eccetera fungono da gruppi di pressione, da centri di collegamento per certi interessi economici
e strati sociali che spesso si configurano come gruppi etnici .
APPENDICE .
EPILOGO di Alex Haley .
Nel 1959, quando in seguito alla trasmissione televisiva "L'odio che genera l'odio" l'opinione
pubblica cominciava ad esser consapevole dell'esistenza dei Black Muslims, ero a San
Francisco e stavo per andare in pensione dopo venti anni di servizio prestato nella Guardia
costiera degli Stati Uniti .
Un'amica, di ritorno da una visita alla sua famiglia che abitava a Detroit, mi parlò di una
sorprendente religione «del negro», la Nazione dell'Islam, alla quale con sua grande sorpresa si
erano convertiti tutti i suoi parenti. Ascoltai con incredulità il sistema seguito da «uno
scienziato pazzo», un certo Yacub, per ottenere geneticamente la razza bianca da un originario
popolo negro. Il capo dell'organizzazione era chiamato il molto onorevole Elijah Muhammad,
mentre il suo capo di stato maggiore sembrava che fosse un certo pastore Malcolm X .
Quando entrai nella vita civile e mi misi a fare lo scrittore a New York City, raccolsi ad
Harlem parecchio materiale interessante e proposi al «Reader's Digest» un articolo su quella
setta. Andai al ristorante Muslim di Harlem e chiesi come avrei potuto conoscere il pastore
Malcolm X. Mi indicarono la cabina telefonica in cui egli stava parlando. Ben presto uscì fuori.
Era un tipo molto alto, dall'andatura felina e dal colore bruno rossiccio, a quell'epoca intorno ai
trentacinque anni di età. Quando gli ebbi spiegato il mio proposito, mi sembrò che i suoi occhi
mi fulminassero da dietro gli occhiali e mi disse con tono irato: «Voi siete uno di quegli
strumenti di cui l'uomo bianco si serve per spiarci!» Risposi che avevo avuto un normale
incarico per scrivere un articolo e gli mostrai la lettera della rivista in cui mi si chiedeva che il
pezzo fosse obiettivo e che ristabilisse l'equilibrio tra quello che i Muslims dicevano di se stessi
e le critiche loro rivolte dagli avversari. Malcolm X disse con sarcasmo che le promesse dei
bianchi non valevano la carta su cui erano scritte e che avrebbe avuto bisogno di un po' di
tempo per decidere se cooperare o no. Nel frattempo mi consigliò di partecipare ad alcune
riunioni della moschea numero sette di Harlem che era aperta anche ai negri non Muslim .
Nei pressi del ristorante dei Muslims incontrai alcuni convertiti, tutti con abiti impeccabili e
dai modi tanto gentili da essere quasi imbarazzanti. Il loro comportamento e la loro etichetta
rispecchiavano la disciplina spartana richiesta dall'organizzazione e tutti non facevano altro che
ripetere i soliti cliché della Nazione dell'Islam. Persino il bel tempo era considerato come una
benedizione di Allah con annesso riconoscimento al «molto onorevole Elijah Muhammad» .
Alla fine il pastore Malcolm X mi disse che non voleva prendersi la responsabilità di decidere
e che dovevo parlare dell'articolo con Elijah Muhammad in persona. Io mi dichiarai disposto,
mi venne fissato un appuntamento e partii in volo per Chicago .
Elijah Muhammad era una persona molto fragile, dai modi timidi e dalla voce soave. Mi invitò
a cena a casa sua e potei mangiare a tavola con tutta la sua famiglia. Mi rendevo benissimo
conto che mi si considerava con la massima attenzione mentre egli parlava dell'F.B.I. e
dell'ufficio delle imposte dirette che sorvegliavano da vicino la sua organizzazione e di
un'inchiesta del Congresso che si diceva stesse per avere inizio. «Tuttavia disse Elijah
Muhammad, - io non ho nessuna paura di loro perché ho tutto ciò che mi occorre, e cioè la
verità». Non so come, ma nel corso di quella nostra conversazione non fu fatto il minimo cenno
alla circostanza che avrei dovuto scrivere un articolo, però, quando tornai, Malcolm X si
dimostrò assai meglio disposto ad aiutarmi .
Stava seduto con me davanti a uno dei tavoli bianchi del ristorante Muslim e rispondeva con
cautela alle domande che gli rivolgevo, quasi continuamente interrotto dalle telefonate dei
giornalisti di New York. Quando gli domandai se era possibile assistere alle attività dei
Muslims in qualche altra città, lui si mise d'accordo con altri pastori in modo che potessi
partecipare a riunioni nei templi di Detroit, Washington e Philadelphia .
Il mio articolo intitolato "Muhammad parla" apparve agli inizi del 1960 e fu il primo pezzo
dedicato al fenomeno da una rivista di varietà. Ricevetti una lettera da Muhammad in cui mi
manifestava la sua soddisfazione per l'obiettività dell'articolo, mentre Malcolm X mi telefonò
per congratularsi con me in modo analogo. Proprio in questo periodo fu pubblicato il libro di
Eric Lincoln "The Black Muslims in America" e la Nazione dell'Islam divenne un argomento di
sempre crescente interesse. Nel 1961 e '62 la «Saturday Evening Post» mi dette l'incarico
insieme allo scrittore bianco Al Balk, di scrivere un articolo e successivamente intervistai
Malcolm X per la rivista «Playboy» che si era impegnata a pubblicare integralmente qualsiasi
risposta che avrebbe dato alle mie domande. Durante quest'ultima intervista, che durò parecchi
giorni, Malcolm X esclamò parecchie volte, particolarmente dopo aver fatto affermazioni assai
violente contro il cristianesimo e contro i bianchi: «Sapete benissimo che quel diavolo non
pubblicherà di certo queste cose!» Rimase davvero sbalordito quando la rivista «Playboy»
mantenne la promessa .
Malcolm X cominciò ad avere verso di me un atteggiamento più cordiale. Sapeva benissimo
qual era l'influenza della stampa periodica e mi considerava, anche se ancora con sospetto,
come un mezzo per prendere contatto con l'opinione pubblica. Qualche volta mi telefonava
comunicandomi le date dei discorsi e dei dibattiti che faceva in pubblico, alla radio o alla
televisione o mi invitava ad assistere a qualche manifestazione pubblica dei Black Muslims .
I miei rapporti con Malcolm X, che spesso, nel corso delle trasmissioni radiotelevisive, si
autodefiniva «il negro più arrabbiato d'America», erano a questo punto quando, agli inizi del
1963, il mio agente letterario mi mise in contatto con un editore al quale, leggendo l'intervista
di «Playboy», era venuta l'idea di un'autobiografia di Malcolm X. Mi fu chiesto se ritenevo di
poter convincere questo esponente politico, ormai di statura nazionale, a raccontare i più intimi
dettagli della sua vita. Risposi che non lo sapevo, ma che glielo avrei chiesto e allora il direttore
editoriale mi chiese se ero in grado di indicare alcuni spunti fondamentali per un libro del
genere .
Quando cominciai a parlarne mi accorsi come, malgrado tutte le mie interviste, conoscessi poco
quell'uomo. Aggiunsi che la domanda mi aveva fatto pensare a quanta cura Malcolm X aveva
messo nel minimizzare la sua opera e nel magnificare quella del suo leader Elijah Muhammad .
Dissi che tutto quello che sapevo era di aver sentito parlare Malcolm X della sua vita di
criminale e di detenuto prima di diventare un Black Muslim e che parecchie volte mi aveva
detto: «Non credereste al mio passato». Aggiunsi che avevo sentito dire da altri che un tempo
era stato spacciatore di droga, ruffiano e che aveva commesso rapine a mano armata .
Sapevo che Malcolm X era ossessionato dal tempo in modo addirittura fanatico. «Chi non
porta l'orologio mi è insopportabile più di chiunque altro, perché si tratta di una persona che
non dà importanza al tempo, - mi aveva detto una volta. - In tutte le nostre azioni il valore e il
rispetto per il tempo sono i fattori che determinano il successo o il fallimento». Sapevo che era
voce corrente che il numero dei Black Muslims aumentava tutte le volte che Malcolm X faceva
un discorso e quanto egli fosse orgoglioso che detenuti negri scoprissero la religione
musulmana come l'aveva scoperta lui quando era in prigione. Sapevo inoltre come egli
affermasse di mangiare solo cibo cucinato da Black Muslims, preferibilmente da sua moglie
Betty, e che beveva un numero enorme di tazze di caffè cui aggiungeva un po' di latte con
questo sarcastico commento: «Il caffè è l'unica cosa che mi piace integrata» .
Mentre facevamo colazione insieme, raccontai al direttore editoriale e al mio agente come
Malcolm X sapeva mettere a disagio i non Muslims. Per esempio, quando una volta si offrì di
accompagnarmi in macchina fino alla metropolitana ed io accesi una sigaretta, aveva osservato
con tono pungente: «Sarete la prima persona che ha fumato in questa automobile» .
Malcolm X mi guardò stupito quando gli chiesi se sarebbe stato disposto a raccontare la storia
della sua vita per poi pubblicarla. Fu una delle poche volte che lo vidi indeciso .
«Bisognerà che pensi molto a questo libro», disse alla fine. Due giorni dopo mi telefonò
dandomi appuntamento di nuovo al ristorante Black Muslim. «Sono d'accordo, - disse, - credo
che la storia della mia vita possa aiutare la gente ad apprezzare meglio il modo in cui Elijah
Muhammad salva i negri. Però non voglio che nessuno mi attribuisca intenzioni che non
corrispondono alla verità e quindi voglio che ogni soldo che potrei ricavare da questo libro vada
alla Nazione dell'Islam» .
Naturalmente aggiunse che sarebbe stato necessario che Muhammad desse il suo benestare e
che avrei dovuto chiederglielo di persona .
Fu così che andai di nuovo a trovare Muhammad, ma questa volta a Phoenix nell'Arizona, dove
la Nazione dell'Islam gli aveva comprato una casa perché potesse trarre giovamento da quel
clima caldo e secco sì da guarirlo dalla sua gravissima asma bronchiale. Questa volta fummo
soli. Mi disse come la sua organizzazione aveva ottenuto grandi successi con Muslims in gran
parte non istruiti e che i negri avrebbero potuto fare dei passi giganteschi se avesse potuto
contare sull'aiuto di alcuni degli ingegni che la razza negra aveva prodotto. «Gli scrittori sono
quelli di cui abbiamo maggiormente bisogno», mi disse senza però insistere per ottenere una
risposta. Improvvisamente cominciò a tossire e ben presto il suo stato peggiorò finché mi alzai
preoccupato e gli andai vicino. Mi fece segno di allontanarmi dicendomi tra un colpo di tosse e
l'altro che sarebbe stato meglio e che Allah approvava l'idea del libro .
«Malcolm, - egli disse, - è uno dei miei pastori più bravi» .
Dopo aver dato l'incarico al suo autista di riportarmi all'aeroporto di Phoenix, Muhammad si
congedò da me frettolosamente e uscì dalla stanza tossendo .
Tornato a New York, mostrai a Malcolm X il contratto. Lo lesse con attenzione, lo firmò e poi
trasse dal portafoglio un pezzo di carta su cui spiccava la sua nervosa calligrafia. «Questa è la
dedica al libro», disse. Io lessi: «Dedico questo libro al molto onorevole Elijah Muhammad che
mi trovò qui in America, affondato nel luridume e nel liquame della più sporca società di questo
mondo, e me ne trasse fuori, mi purificò, mi insegnò a camminare con le mie gambe e fece di
me quello che sono oggi» .
Il contratto conteneva la clausola che tutti i diritti spettanti a Malcolm X «dovessero esser
pagati alla moschea numero due di Muhammad ». Egli ritenne che tale clausola non bastasse e
mi dettò una lettera che avrebbe firmato appena fosse stata battuta a macchina: «Tutti i diritti
che mi spettano per contratto dovranno essere versati dall'agente letterario alla moschea numero
due di Muhammad. Gli assegni dovranno essere spediti al seguente indirizzo: Mister Raymond
Sharrieff, 4947 Woodlawn Avenue, Chicago 15, Illinois» .
Poi dettò un'altra lettera contenente un accordo fra me e lui: «In questo libro non ci potrà essere
nulla che non abbia detto né si dovrà lasciar fuori niente di ciò che voglio vi appaia» .
Per parte mia chiesi a Malcolm X di firmarmi una promessa personale secondo la quale,
indipendentemente dagli impegni che aveva, mi avrebbe concesso una porzione privilegiata del
suo tempo per mettere insieme il libro di centomila parole in cui avrebbe raccontato
dettagliatamente tutta la sua vita. Alcuni mesi più tardi, in un momento di tensione fra di noi,
gli chiesi il permesso, che mi accordò, di scrivere alla fine del libro i miei commenti su di lui
senza che fosse necessario il suo consenso .
Malcolm cominciò a venire a casa mia per due o tre ore al giorno. Parcheggiava la sua
Oldsmobile blu davanti allo studio che allora avevo nel Greenwich Village: arrivava sempre
verso le nove o le dieci di sera con la sua cartella di pelle marrone che insieme ai suoi modi da
intellettuale, lo facevano rassomigliare a un avvocato. Dopo una giornata di incessante attività
era sempre stanco, ma qualche volta era addirittura esausto .
Cominciammo piuttosto male. Per usare un termine che a lui piaceva, credo che tutti e due
fossimo un pochino «svaniti». Lì di fronte a me c'era il focoso Malcolm X che sapeva essere
acido verso i negri che lo facevano arrabbiare allo stesso modo in cui lo era nei confronti dei
bianchi in generale. L'avevo spesso sentito attaccare duramente alla televisione, nelle
conferenze stampa e ai raduni dei Muslims, gli altri scrittori negri che lui chiamava «zii Tom»,
«negri da cortile», «negri vestiti di bianco». Davanti a lui c'ero io che gli proponevo di dedicare
un anno a tirare fuori tutti i suoi segreti più intimi, a lui che aveva sviluppato una vera e propria
ossessione per la riservatezza durante gli anni in cui era stato criminale e quelli trascorsi nella
Nazione dell'Islam. I vent'anni che avevo passato sotto le armi e la mia fede cristiana non erano
un elemento positivo: egli aveva spesso sbeffeggiato in pubblico tali cose. Sebbene ora, sia pure
indirettamente, insistesse perché scrivessi sui Muslims per riviste di diffusione nazionale, mi
aveva detto parecchie volte in varie forme che «voi negri con qualifiche professionali vi
sveglierete uno di questi giorni e scoprirete che è necessario unirvi sotto la guida del molto
onorevole Elijah Muhammad per la vostra salvezza». Malcolm X era anche convinto che
l'F.B.I. avesse sistemato microfoni nel mio studio e probabilmente sospettava che ciò fosse
stato fatto con la mia cooperazione. Per parecchie settimane, al principio dei nostri rapporti, non
entrò mai nella stanza senza esclamare: «Prova, prova... uno, due, tre...» Si verificarono anche
degli incidenti. Una sera Malcolm X arrivò un po' più presto e si incontrò faccia a faccia nel
corridoio con un mio amico bianco che stava uscendo dal mio studio. Il comportamento di
Malcolm durante tutto il tempo che passammo insieme quella sera mi dette l'impressione che
fosse convinto di aver trovato finalmente conferma ai suoi peggiori dubbi .
Un'altra volta, mentre pronunciava un'arringa sulle glorie dell'organizzazione Muslim e faceva
grandi gesti tenendo in mano il passaporto, si accorse che cercavo di leggere il numero
perforato del documento: improvvisamente me lo gettò davanti mentre gli si arrossava il collo
dalla rabbia: «Copiate bene il numero, ma non servirà a nulla perché il diavolo bianco lo sa già
benissimo. E' stato lui a concedermi il passaporto» .
Per circa un mese ebbi paura che il libro non sarebbe mai venuto fuori. Malcolm X si rivolgeva
a me con un compassato «Signore!» e nel mio taccuino non c'era altro che la filosofia dei Black
Muslims, le lodi di Muhammad e le «nefandezze» commesse dai «diavoli bianchi». Si
arrabbiava quando mi provavo a ricordargli che il libro era sulla sua vita. Pensavo che avrei
forse dovuto avvertire l'editore che non potevo realizzare il mio proposito, quando si presentò il
primo segno di speranza. Avevo osservato che mentre parlava, Malcolm X scarabocchiava con
la sua penna rossa su qualunque pezzo di carta gli capitasse sotto mano .
Qualche volta era il margine di un giornale, qualche altra i foglietti di una rubrica che portava
sempre dietro. Cominciai a lasciare sul tavolo davanti a lui due tovaglioli di carta bianca tutte le
volte che gli portavo il caffè e il mio trucchetto funzionò molto bene, tanto che riuscii a
recuperare alcuni degli scarabocchi che faceva. Ecco alcuni esempi: «Qui giace un Y.M.,
ucciso da un B.M. che combatteva per il W.M .
il quale ha ucciso tutti i RM ». (Non mi fu difficile decifrare queste sigle, soprattutto perché
conoscevo Malcolm X. «Y.M.» stava per "yellow man", uomo giallo; «B.M.» per "black man",
uomo negro; «W.M.» per "white man", uomo bianco e «R.M.» per red man, pellerossa) .
«Non accade mai niente senza una causa. W.M. non affronterà mai la causa della condizione di
B.M. W.M. è ossessionato dal bisogno di nascondere la sua colpevolezza» .
«Se il cristianesimo si fosse fatto decisamente sentire in Germania sarebbero state risparmiate
le vite di sei milioni di ebrei» .
«W.M. è sempre pronto a dire a B.M.: "Guarda cosa ho fatto PER TE". No! Guarda cosa hai
fatto A noi» .
«B.M. tratta con W.M. che ci ha cavato gli occhi e che ora ci critica perché non possiamo
vedere» .
«I soli uomini che veramente cambiarono la storia sono quelli che seppero cambiare il modo in
cui gli altri giudicavano se stessi: Hitler come Gesù, Stalin come Budda... Elijah Muhammad...»
Fu attraverso un cenno contenuto in questi scarabocchi che alla fine riuscii a gettare a Malcolm
X un'esca a cui abboccò. «La donna piange sempre, - aveva scarabocchiato, - solo perché sa
che piangendo riesce sempre a cavarsela». Tirai in ballo l'argomento delle donne e subito, tra
una tazza di caffè e l'altra, mentre scarabocchiava le sue osservazioni e faceva disegnini su tutti
i pezzi di carta che trovava, manifestò la sua critica e il suo scetticismo riguardo alle donne.
«Non ci si può mai fidare veramente di una donna, - mi disse. - La mia è l'unica tra quelle che
ho conosciuto di cui mi posso fidare al settantacinque per cento. Gliel'ho detto, gliel'ho detto
come lo dico a voi che ho visto troppi uomini rovinati dalle mogli o dalle donne .
«Non mi fido COMPLETAMENTE di nessuno, - continuò, - neanche di me stesso. Ho visto
troppe persone rovinarsi con le loro stesse mani. Di altre persone, come per esempio del molto
onorevole Elijah Muhammad, non mi fido mai abbastanza». Poi Malcolm X mi guardò fisso
dicendo: «Di voi mi fido al venticinque per cento» .
Nel tentativo di farlo continuare, mi misi a scandagliare il più possibile l'argomento donne.
Con aria trionfante egli esclamò: «Lo sapete chi fece di Benedict Arnold un traditore? Una
donna!... Una donna può essere tutto quel che si vuole, ma la sua prima caratteristica sarà
sempre la vanità. Ve lo dimostrerò con un esempio che potete constatare quando volete: so di
cosa parlo perché l'ho fatto. Pensate alla donna più dura, più maligna che conoscete, di quelle
che non sorridono mai. Ebbene, tutte le volte che la vedete guardatela fissa negli occhi e ditele
che è molto bella. Poi state a vedere cosa succede. Può darsi che il primo giorno vi cacci via in
malo modo e che anche il secondo vi maledica, ma state a vedere e continuate: dopo un po'
comincerà a sorridere appena vi vede» .
Quando quella sera Malcolm X se ne andò, recuperai i suoi scarabocchi scritti su un
tovagliolino di carta che dimostravano come era in grado di parlare di una cosa e pensare a
un'altra: «I negri hanno un senso di giustizia troppo spiccato. W.M. dice: "Voglio questo pezzo
di terra. Come faccio a cacciarne via quei duemila B.M.? "» «Ho una moglie che capisce o che,
se non capisce, per lo meno fa finta» .
«La lotta dei B.M. non è apertamente sostenuta dall'estero né può ricevere l'appoggio di cui ha
bisogno finché i B.M. non formano un fronte unito» .
«Sediamoci, parliamo con gente intelligente che stimo. Tutti noi vogliamo la stessa cosa, un
acceso confronto e conflitto di idee» .
«Sbalordirebbe tutti la rivelazione dei nomi di quei leader dei B.M. che segretamente si sono
incontrati con T.H.E.M. ». (Le lettere maiuscole stavano per il molto onorevole Elijah
Muhammad) .
Una sera Malcolm X arrivò quasi distrutto dalla stanchezza e per due ore camminò su e giù per
la stanza facendo una tirata contro i leader negri che attaccavano lui e Elijah Muhammad. Non
so come mi venne l'ispirazione di chiedergli, durante una pausa del suo dire, che mi raccontasse
qualcosa di sua madre .
Improvvisamente smise di camminare su e giù e dal modo in cui mi guardò capii che la
domanda lo aveva profondamente toccato .
Quando ripenso a tutto questo, mi convinco di averlo colto in un momento in cui era talmente
debole fisicamente da essere vulnerabile .
Lentamente Malcolm X cominciò a parlare e riprese a camminare in un cerchio assai ristretto:
«Stava sempre a trafficare in cucina cercando di far bastare quel poco che avevamo da
mangiare .
Avevamo tanta fame che ci veniva il capogiro. Ricordo il colore dei vestiti che portava... una
specie di grigio scolorito...» Continuò a parlare fino all'alba, così stanco che, in certi momenti,
sembrava dovesse quasi inciampare e cadere sul pavimento. Da questo improvviso scoppio
torrenziale dei suoi ricordi trassi l'intelaiatura per i capitoli iniziali di questo libro: "Incubo" e
"Mascotte". Dopo quella sera non ebbe più alcuna esitazione a raccontarmi i dettagli più intimi
della sua vita. L'aver parlato di sua madre aveva fatto scattare una molla segreta .
Quando ricordava la sua infanzia, l'umore di Malcolm X variava da malinconico a risentito.
Ricordo una sua osservazione sul modo in cui aveva imparato uno dei fondamentali principi
che l'accompagnarono poi per tutta la vita: «E' il cardine che cigola quello a cui viene dato il
grasso». Quando la sua narrazione arrivò al trasferimento a Boston in casa della sorellastra Ella
Malcolm X si mise a ridere ripensando a che razza di «tonto» era quando si era trovato per le
strade del ghetto. «Vedete, - esclamava, - vi dico cose a cui non avevo più ripensato da
allora!» Quando ricordava i primi tempi trascorsi ad Harlem, Malcolm X si lasciava veramente
trascinare dal racconto e una sera all'improvviso, saltò su come una molla dalla sedia e, cosa
quasi incredibile, il demagogo negro capace di incutere tanta paura si mise a cantare in
sincopato facendo schioccare le dita, «re-bop-de-bop-blap-blam», e poi, afferrato un tubo con
una mano come se fosse una ragazza, cominciò gioiosamente a ballare il "lindy-hop". La
giacca, le lunghe gambe e i piedi volavano come in quei vecchi tempi di Harlem .
Poi, all'improvviso, Malcolm X si ricompose, tornò a sedere e per tutto il resto della serata
stette lì immusonito. Più tardi, sempre nel corso del suo racconto dei tempi di Harlem, divenne
di nuovo triste. «L'unica cosa che consideravo sbagliata era di essere colto in fallo. Avevo la
mentalità della giungla, vivevo in una giungla e tutto quello che facevo lo facevo spinto
dall'istinto della sopravvivenza». Insistette di non avere rimorsi per quei suoi delitti «perché
non erano altro che il risultato di quanto accade a migliaia e migliaia di negri nel mondo
cristiano dell'uomo bianco» .
Cominciò di nuovo a dar segni di gioia quando mi raccontava il periodo che aveva trascorso in
prigione: «Voglio dirvi come riuscivo a far fare a quei diavoli bianchi dei detenuti e dei
secondini tutto quello che volevo. Bisbigliavo loro nell'orecchio che se non facevano una data
cosa, avrei diffuso la diceria che "voi siete in realtà un negro dalla pelle chiara che si fa passare
per bianco". Ciò dimostra cosa pensa il diavolo bianco del negro. Preferirebbe piuttosto morire
che essere considerato negro!» Mi raccontò delle letture che aveva potuto fare in prigione:
«Non sapevo cosa facevo, ma, per istinto, mi piacevano i libri pieni di vitamine intellettuali» .
E un'altra volta: «Nel ritmo convulso del mondo di oggi non c'è tempo per la meditazione, per
approfondire i pensieri. I detenuti dispongono di tempo che possono adoperare per una buona
causa. Classificherei la prigione subito dopo l'università nella graduatoria dei posti più adatti a
chi voglia pensare. Se è spinto da FORTI MOTIVAZIONI, l'uomo può cambiare la sua vita in
prigione» .
Un'altra volta Malcolm X fece questa riflessione: «Chi è stato in prigione non considera più se
stesso e gli altri allo stesso modo di prima. Gli stolti a cui tutte le cose sono andate sempre bene
arricciano il naso davanti a un ex detenuto, ma questi riesce a restare a galla quando quelli
affondano» .
Quella sera scarabocchiò: «Questo W.M. ha inventato la bomba atomica e l'ha sganciata sui
non bianchi. W.M. ora chiama gli altri "rossi" e vive nel terrore che un altro W.M. di sua
conoscenza possa bombardarci». (Conservo ancora i miei blocchi per appunti e i tovaglioli di
carta con la data) .
Ed anche: «Imparate la saggezza dalla pupilla dell'occhio che vede tutte le cose e che pure è
cieco nei confronti di se stesso. Poeta persiano» .
Ogni tanto Malcolm X si faceva premura di sottolineare: «Non voglio che in questo libro
appaia nulla che dia l'impressione che mi ritengo una persona importante». Lo assicuravo che
avrei fatto del mio meglio e che in ogni caso egli avrebbe visto il manoscritto pagina per pagina
e poi anche le bozze. Altre volte, al termine di uno dei suoi attacchi contro l'uomo bianco,
mentre mi guardava prendere appunti, esclamava: «Quel diavolo non pubblicherà mai queste
cose, indipendentemente da quel che dice ora!» Io insistevo sul fatto che gli editori avevano
firmato un contratto impegnativo e anticipato una somma notevole, ma Malcolm X replicava:
«Voi vi fidate di loro e io no; voi avete studiato a scuola ciò che l'uomo bianco voleva che
imparaste su di lui, ma io l'ho studiato per le strade e in prigione, dove si vede la verità» .
Le esperienze che Malcolm X aveva avuto durante il giorno davano spesso al nostro colloquio
il sapore particolare dell'intervista. Di solito gli aneddoti più delicati e malinconici mi furono
raccontati nei giorni in cui si era commosso a qualche avvenimento. Per esempio una volta mi
disse di aver saputo che una coppia di Harlem, non Black Muslims, aveva messo nome
Malcolm al proprio figlio. «Ma cosa sapete voi di QUESTE COSE?» continuava ad esclamare.
Fu quella sera che rievocò la sua infanzia ricordandomi che era solito sdraiarsi in cima alla
collina di Ettore e pensare. Anche quella sera disse: «Non mi dimenticherò mai il giorno in cui
mi elessero presidente della classe. A nominarmi fu una ragazza che si chiamava Audrey
Slaugh il cui padre era proprietario di un'officina meccanica .
La nomina fu approvata da un ragazzo che si chiamav
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