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L`antieroe è un insospettabile ciccione vegano

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L`antieroe è un insospettabile ciccione vegano
Quattro anni prima.
Ho ancora i piedoni taglia quarantacinque affondati nel pedale del freno e in quello della frizione
quando le urlo che è una stronza, che deve andare a fare in culo. Un fastidioso e allo stesso tempo
piacevole odore di pneumatici bruciati mi accompagna mentre le prometto calci nei coglioni a lei e
a quella maledetta faccia laccata di merda del padre che non le ha mai insegnato come si devono
attraversare le strisce pedonali. Concludo il mio turpiloquio con un poderoso pugno sul volante e
con un porco dio così fragoroso che per poco non butto giù il parabrezza dell’auto. Sollevando il
dito medio, la mando per la seconda volta a farsi fottere dai negri malati di aids e riparto a razzo: mi
ci mancavano solo le andicappate in mezzo alla strada a rendere ancora più inaccettabile il mio
ritardo. Dallo specchietto retrovisore lancio un ultimo sguardo alla rincoglionita che è rimasta ferma
lì, dove l’ho quasi schiacciata, come fosse una statua di sale: mi osserva senza essere in grado di
reagire alle mie invettive, priva della minima capacità offensiva. E fa bene la giovane troia a
rimanere in silenzio, fa molto, ma molto bene.
Mentre penso che solo se piovesse merda a catinelle dal cielo potrei incontrare qualche problema
nel non andare a tutta birra - quasi alla velocità della luce - verso l’aeroporto, mi rendo conto che un
fanculabilissimo autovelox mi centra in pieno. Uno sbalorditivo click, uno strepitosissimo scatto da
meritarsi quelle tre o quattro grandi Madonne ringhiate tra i denti. E mi scappa il secondo porco dio
in meno di cinque minuti quando il semaforo passa da giallo a rosso proprio mentre sono a cinque
centimetri dalla striscia bianca dello stop. Questa indesiderata pausa mi consente di riflettere su
quanto sia grande la mia sfortuna in questo frangente; grande, sì, ma mai quanto la figura di merda
che ci lascerò se continuo ad accumulare ritardo. Penso anche al fatto che sono assolutamente certo
che dio esista, per questo lo bestemmio; e per questo sono sicuro che non mi parerà mai il culo
facendo atterrare quel cazzo di velivolo con qualche decina di minuti di ritardo.
Oh, santa merda: già me la immagino mentre mi rinfaccia quanto io sia uno snaturato padre di
merda, quanto io sia la più grande cagata ritardataria sulla faccia della terra, quanto io sia la merda
con la emme maiuscola. Che poi, voglio dire, provasse a dirmi una cosa del genere e le suonerei la
faccia a super ceffoni: sia a lei che a quella frigida testa di cazzo della madre puttana gli alimenti
sono sempre arrivati puntualissimi; anzi, sono più le volte che ho anticipato di qualche settimana il
pagamento che le volte che sono arrivati puntuali, quindi col cazzo che mi può sgridare se, in questa
occasione, ho fatto un pochino in ritardo.
Non faccio in tempo a bruciare il semaforo con una sgommata da dieci e lode che sono costretto a
rallentare per l’ennesima volta e a mettermi in coda a questi andicappati con la punto bianca dalla
quale si può facilmente distinguere la coccarda dei vigili urbani su per il culo di quella macchina da
minorati. Io lo so, lo capisco che queste codarde forze dell’ordine non vedono l’ora di rompere i
coglioni a poveri sfortunati in ritardo come me, al posto di cagare il cazzo a criminali e terroristi
intenti a far saltare per aria le loro fottute torri del cazzo. Lo so e quindi sono costretto a mettermi
l’anima in pace. E mi tocca stare dietro a questi caga sotto in divisa fino ai parcheggi dell’aeroporto.
Come da sfortunatissimo copione, ci metto tre vite a trovare un maledettissimo buco persino nel
parcheggio sopraelevato, quello a pagamento. Sta di fatto che, una volta infilata in un pertugio
stretto come il buco del culo di una lumaca, nemmeno chiudo l’auto: sbatto la portiera con una forza
inaudita e corro verso l’ingresso principale dell’aeroporto, quello dove svetta un grosso e vistoso
cartello con su scritto Arrivi.
Come c’era da immaginarsi, dio me l’ha giocata, non ha perso occasione per mettermela su per il
culo col terriccio, quello grosso: il volo non è atterrato puntuale, ma grazie al buon tempo e
all’assenza di nuvole e cazzi simili ha toccato terra addirittura in anticipo. Roba che dire voglio
morire è un maledetto eufemismo.
Ad ogni modo, quel che è fatto è fatto; adesso arriva il difficile: rintracciare mia figlia. Porcaccia
puttana, sono diciassette anni che non la vedo e sono diciotto anni che non sento la sua voce - anche
perché gli un-ghe che biascicava quando era minuscola e in fasce non davano proprio l’idea di una
comunicazione. A proposito dei suoi anni, il bello è che li ha compiuti la settimana passata i
fantomatici diciotto.
E brava quella gran puttana l'Elena che col divorzio non ha voluto assolutamente che io vedessi o
parlassi con nostra figlia: adesso sarà un casino immondo trovarla in mezzo a tutti questi stronzi.
Un braccino con all'apice un foglio bianco con su scritto Tore attira la mia attenzione. Chi conosce
anche solo marginalmente la mia carissima ex moglie, sa essere un gran troione biondo con il
faccino da schiaffi e con un’espressione da super diva dei miei coglioni sempre stampata in faccia
di merda. Tornando a noi, la ragazzina con il cartello in mano e’ la copia spudorata di quella merda
umana di Elena, ma con una trentina di anni in meno.
La giovanetta bionda con un paio di occhiali da sole alla moda – nel senso che solo a vederli ti
danno senso di costoso - su un musetto simpatico da adolescente che non ha mai preso abbastanza
ceffoni per capire come funziona la vita mi fissa si gira e si sofferma nello squadrarmi.
La fisso a mia volta ma con profonda incredulità: non riesco a crederci, non so crederci, non riesco
a convincere la mia coscienza che quella che oggettivamente e’ una bambina stupenda possa essere
quella figlia che non ho mai conosciuto. Lei e’ sensazionalmente stupenda – o almeno così la
dipingono i miei occhi: abbronzata, senza la minima traccia di acne, simile ad una bambolina.
Impossibile che io, che ad occhio e croce non sono stato disegnato dal cazzo di dio, abbia potuto
procreare una cosina così perfetta.
Sono spiazzatissimo, ero sicuro che sarebbe stato molto difficile trovare le parole per iniziare questo
rapporto, ma cazzo, chi se lo immaginava che solo domandarle se e’ lei Silvia sarebbe stato così
complicato? La giovane, guardando attentamente quello che probabilmente le sembra essere un
ciccione gigante domanda con un filo di voce se sono io Tore. Cazzo sì, sono io Tore, sono io papà,
le vorrei dire, ma riesco a spiccicare solo un banale sì!
Porco dio se l’unica cosa che voglio è sfuggire da una discussione più complessa da un ti aiuto con i
bagagli e infatti, di fronte ad un imbarazzo colossale, le chiedo se quella che ha a fianco e’ la sua
roba; ricevuta una risposta affermativa, senza troppa fatica mi carico sulle braccia le borse e le dico
di seguirmi fino ai parcheggi dell’aeroporto, lì dove ho lasciato la macchina.
Arrivati al posteggio, mi ricordo una cosa che avrei preferito non riportare alla memoria, cosa che
mi costringe di tutta fretta a togliere le carabine dell’anno del pelo dal cofano e nasconderle sotto il
sedile posteriore; lei non mi toglie gli occhi di dosso per tutto il tempo necessario all’operazione,
ma una volta caricata la sua roba nel cofano, mi domanda cosa fossero quelle due sospettose
custodie che ho rimosso con gran fretta dal cofano. Le dico che sono dei cimeli del cazzo che devo
restaurare e di cercare di abbassare la cazzo di voce, se non vuole provare come prima esperienza in
loco l’ebbrezza di finire in galera – gran cazzata quella di dimenticarmi di togliere le armi dal
cofano prima di venire all’aeroporto. Lei, ad ogni modo, sembra turbata, ma non dice nulla.
Saliamo in macchina, faccio giusto in tempo ad accendere il motore e lei mi domanda come mai ho
delle armi nel cofano. Sbuffando tra l’ironico e l’innervosito le dico che non sono armi, ma dei
merdosi reperti, che persino il pirata Barbabianca preferirebbe cagarsi in una mano e lanciare gli
stronzi piuttosto che usare roba tanto antica. Sembra più arrendersi agli eventi che rassicurarsi.
Colgo l’occasione per domandarle se non è troppo stanca, che io alla sua età pisciavo nei vulcani.
Lei, piuttosto seccata, replica dicendo che è decisamente normale essere stanca, dato il viaggio in
treno, il volo e tutto un insieme di fottuti giri che non ho capito. Sta di fatto che sottolinea come le
cose che la scazzano di più sono il mio linguaggio da scaricatore di porto e l’essere a zonzo, in
macchina, con delle armi nel sedile posteriore. A dire il vero, non che abbia possibilità di dare torto
alla giovane, sia sulla quisquiglia riguardante il mio linguaggio sia sulla questione dei fuciloni del
cazzo; comunque faccio finta di non aver sentito e le spiego, con calma e falsa gentilezza, che degli
amici vogliono festeggiare questo nostro riavvicinamento e lo vogliono fare con una stramaledetta
festicciola a sorpresa - non dovrei saperne nulla di ciò, ma alcuni di loro hanno la bocca grande
come il buco del culo di un trombone, quindi ne sono venuto a conoscenza lo stesso.
Termino lo sproloquio domandandole se, infine, davvero le dispiaccia andare in un fottuto locale
per non più di mezz’ora, per bere una birra e qualche amaro alle erbe della casa.
Sbuffando seccata, anzi seccatissima, anzi, sbuffando come faceva quella gran troia della madre
quando le proponevo qualcosa che non le andava per un cazzo, mi rimprovera dicendo che questo
inizio non va assolutamente bene, che se questo e’ il meglio di me, sarà la prima ed ultima volta che
si spaccherà il culo per vedermi. Le sto per rispondere che me le inciderò nella lapide le sue
dolorosissime parole, quando lei riprende a parlare domandandomi se un suo eventuale rifiuto
sarebbe preso in considerazione. Le rispondo di no, che non ho mai avuto l’intenzione di prendere
in considerazione una sua contrarietà agli eventi che stanno per consumarsi. Lei ribatte dicendo che
aveva ragione la sua fottuta mamma cerebrolesa quando le diceva di diffidare delle mie parole, che
dietro ad una mia proposta c’è sempre una costrizione.
E qui mi cago il cazzo, e di conseguenza inchiodo in mezzo alla fottuta di carreggiata, la squadro e
la prego di dirmi subito se questo mese insieme deve essere un continuo rinfacciarmi quanto io sia
stato un uomo, un marito ed un padre di merda; poi respirando rumorosamente la fisso con rabbia.
Forse lei non si aspettava questo genere di reazione, e come tutte le donne in confusione, preferisce
stare zitta e rivolgere lo sguardo verso l’infinito – o verso il nulla, che per loro è la stessa cosa.
La situazione che si è venuta a creare non è proprio tra quelle che mi aspettavo, diciamo che il mio
carattere da stronzo ha compromesso molto la situazione, sarebbe il caso di correre ai ripari tirando
fuori qualcosa del tipo che lei è la bambina mia, l’unica cosa di veramente prezioso della mia vita,
non come quella gran troia schizofrenica traditrice puttana della madre che se ne è andata di casa
portandola via e scucendomi un fracasso di soldi al mese. No, santissimo iddio, forse anche aprire
nuovamente la bocca non e’ la cosa migliore. Alla fine, con la disperazione che mi pervade, le
chiedo di farmi la cortesia di passarmi una delle latte che si trovano dentro la borsa frigo sotto al
suo sedile. Ho come l'impressione di aver sbagliato nuovamente, di aver commesso l’ennesima
cazzata: lei mi fissa con un’espressione che dire sbigottita e’ dire poco. Sicuramente pensa ‘sto gran
pezzo di merda di mio padre, oltre che armi, trasporta quotidianamente nella sua lercia auto alcolici;
ad ogni modo, la bambina apre la borsa e tira fuori una latta di birra, strappa la linguetta e me la
passa – spettacolo! Sorseggiare la mia bionda mi rilassa e, mentre il semaforo è rosso, dico a Silvia
di non farsi problemi, di prendere anche lei una birra, se ha sete. Con lo sguardo tra il perplesso e lo
sconfitto, riprende la borsa e ne tira fuori una latta; la apre e inizia a tracannare, lentamente, in
silenzio, stranamente tranquilla. Tutto d’un tratto mi rendo conto di quanto sia la copia spiccicata
della madre: maledettamente lunatica e indecifrabile, una cazzo di bomba a mano con i tacchi alti,
proprio, ripeto, come quella mai ripetuto abbastanza gran puttana della genitrice.
Il semaforo è verde, parto e giro subito a destra, cento metri e mi fermo; tre colpi di clacson; due
minuti e mio fratello apre lo sportello della macchina; lui urla un poderoso piccina seguito da un
molla quella merda da trenta centesimi e vieni a dare un bacione allo zione. Lei si spaventa, porca
troia, le si legge in faccia terrore e confusione; prima che apra lo sportello e se la fili a gambe
levate, le spiego che quello che ha davanti e’ quella gran testa di cazzo dello zio Luca, di cui, a
parere mio, la mamma le deve aver parlato almeno una volta. Nemmeno finito di pronunciare il bel
discorso che la piccina urlacchia come una scema, come quella gran troia della madre quindi, e si
catapulta fuori dalla macchina per abbracciare quello che evidentemente deve essere uno zio molto
importante per lei.
La commovente scenetta mi permette di riflettere sul fatto che Luca è stata l'unica persona alla
quale Elena abbia mai voluto bene tra quelle che le ho presentato; grazie a questo si è sempre tenuto
in contatto con loro non mancando di spedire regali e soldi per la piccola - a volte da parte mia -; lei
probabilmente pensava a lui come ad una specie di fottutissimo babbo natale.
Salendo in macchina, lui grugnisce una decina di volte la parola cazzo; terminate le ripetizioni mi
domanda sarcastico se sono sicuro che quella bellezza che mi siede a fianco sia veramente mia
figlia, se veramente ha lo stesso sangue di un cesso brutto e grasso e stronzo come me. Riflette ad
alta voce su una eventuale e probabilissima occasione di tradimento da parte di Elena. Io sto per
madonnare di brutto, ma la piccola se la ride alla grande, quindi mi sorbisco le perculate senza dire
nulla.
Io sono vegano, prima di sposarmi lo ero ma non lo sapevo, ma poi me ne sono reso conto, sempre
prima di sposarmi, sia chiaro. Molti stronzi analfabeti pensano di riconoscere un vegano poiché
dall’aspetto tisico e sciupato, ed invece l’aspetto non conta un emerito cazzo. Nulla della fisicità di
una persona ti potrà dire se uno e’ vegano o meno. Ma questo lo sanno solo i pensanti, i restanti
coglioni credono il contrario, ma io li tratto per quello che sono: andicappati, diversamente
pensanti. Come, santo cielo, diversamente pensante deve essere quella gran troia della madre della
bambina se le ha detto che anche se sono una enorme palla di grasso sono un vegano mangia
fagioli. Infatti la piccola racconta allo zio di come si aspettasse un uomo alto, altissimo e magro,
dato che la superstronza mammina le ha detto che ero un vegano, non di certo credeva di incontrare
un enorme ciccione all’americana come me, che pensava che quei ‘ciccione’ fossero solo
maldicenze della madre. Invece pare che la madre mi ha descritto con cura dato che, come le ha
detto, effettivamente somiglio ad un cantante rap di colore, di quelli obesi e stronzi alti due metri e
pesanti un quintale e mezzo.
Ora, che mi si chiami ciccione un pochino mi irrita, e nel tentativo di chiudere il loro cianciare dei
miei coglioni lancio all'indietro la lattina di birra vuota con l’obiettivo di centrare Luca. Non
trattenendo un tono abbastanza incazzato, spiego ai miei passeggeri che forse e’ il caso di piantarla
di cagare il cazzo a quell’uomo al volante che forse e’ un po’ sovrappeso ma non di certo un
ciccione di merda.
Luca ride e domanda cortesemente alla bimba di passargli una birra; lei, che ogni volta che lo zio
apre la bocca sembra andare in brodo di giuggiole, esegue l'ordine ed aggiunge ai miei giramenti di
coglioni altre informazioni, tipo che la mamma era un pochino preoccupata per il viaggio.
Rendendosi conto che inizio ad essere oggettivamente incazzato, cambiano completamente il tema
dei loro vaneggiamenti. Lo zietto sorseggia allegramente la sua birra chiacchierando con la nipotina
di cose a me incomprensibili.
Tutto d’un tratto, senza preavviso, mio fratello cambia nuovamente soggetto della conversazione e
mi domanda se ho concluso la famosa commissione; rispondo con tutta sincerità e gli spiffero che
invece di andare dal cliente mi sono addormentato risvegliandomi così tardi da essere partito verso
l’aeroporto con i residuati bellici nel cofano. Quasi gli cade il mento a sapere che sono andato a
prendere la piccina con dei fucili nel cofano. Gli dico di non rompere i coglioni e che chiamerò il
cliente in giornata, in modo da fargli sapere che gli riporterò gli inutili ferri restaurati entro domani
mattina.
Lui borbotta di come devo ringraziare iddio che i pula dell’aeroporto non mi abbiano internato; e
poi mi ricorda di quanto si incazzerà il cliente per l’ennesimo ritardo, dato che e’ più di un mese che
gli dico che gli riporto i cosi e poi trovo una scusa per non farlo.
Grugnendo un enfatico fanculo, gli assicuro che l’indomani mattina, una volta portata Silvia al
centro commerciale per fare la spesa – io sono vegano, ma non costringo nessun altro ad esserlo,
quindi se la bambina mangia carne, e’ bene che se la compri, badando però a tenerla lontana dai
miei sformati -, andrò dal cliente a consegnare le armi. Solo al pensiero di incontrare il vecchio
rompi coglioni – padrone dei fucili – mi scappa un rutto massiccio che disgusta la mia piccola
principessa e ammutolisce quella gran testa piena di merda di mio fratello. Nemmeno finito di
rintronare il rutto nella mia gola, la piccola confessa come si aspettasse personaggi un po’ meno
volgari. Ed io già mi immagino quanta gente di classe stia frequentando quella gran troia della
madre: minimo solo cappelle placcate in oro e con la cravatta ben stretta sotto il glande – e,
nuovamente, inizio ad innervosirmi.
Tra le caprine risate, mio fratello si scusa con la piccina trovando come motivazione al nostro
linguaggio da scaricatori di porto mestruati il fatto che l’essere prolungatamente single rende il
maschio un po’ rozzo. Termina la frase promettendo maggiore attenzione al linguaggio – promessa
che, conoscendo me e mio fratello, verrà disillusa nell’arco di dieci minuti. Lei sembra rasserenarsi
e penso con gran tristezza che ‘sta sfortunata figliola che mi ritrovo si beve come nulla tutte le
fregnacce che le propina mio fratello.
Arriviamo alla festa a sorpresa: sono tutti euforici e oggettivamente brilli – e la serata non dovrebbe
essere nemmeno iniziata; tutti pronunciano parole piene d'amore e di affetto per la bimba; mentre
per me insulti e derisione – santa merda, un copione che ormai conosco a memoria.
La ragazza mi pare parecchio provata e mezz'ora dopo il nostro arrivo ripartiamo verso casa mentre
mio fratello rimane alla festa a scolare anche la mia birra.
Percorriamo velocemente la superstrada e sto per dirle che ci vorranno meno di dieci minuti per
raggiungere l’appartamento; ma lei, come tutte le donne, trova la forza di tirare fuori il veleno che
tiene dentro da anni al momento giusto, proprio quando uno non ha la minima energia per mentire.
Domanda come mai non mi sono mai fatto vivo, come mai esisto, come mai ho rovinato la vita a lei
ed a quella che ritiene una donna stupenda, e cioè la sua gne gne gne mamma. E che cazzo, se vuole
la puzzolente verità, avrà la sua scoreggia di verità: le spiego come la sua tanto stupenda mamma,
preparando le valige, senza nessun preavviso, mi ha detto di dimenticarmi dell’esistenza sua e di
sua figlia, di ricordarmi solo di pagare puntualmente il mantenimento, di non dimenticare mai di
staccare l’assegno e di non scordare mai di non osare farmi più vivo. Così voleva e così ho fatto. E
alla piccola le sto anche consigliando di non stentare a credermi, perché se la sua stupenda mamma
le ha concesso di vedermi, di certo non avrà la minima difficoltà nel confermare questa versione dei
fatti. Oggettivamente penso, tra me e me, il perché lei mi abbia lasciato credo di saperlo, ma non lo
ha mai confermato e su questa mancanza di certezze, oggi, ci posso marciare alla grandissima. Mi
aspetto, ad ogni modo, che la Silvia che ho visto battezzare - da quel cazzone di un pretetuncolo di
paese che qualche mese dopo è scappato con un troione dieci e lode - ma mai gattonare o lallare mi
aggredisca gridandomi contro che sono il solito pezzo di merda che incolpa le donne del fallimento
del proprio matrimonio, che mi dica che si aspettava che io facessi lo scarica barile su quella santa
donna della madre; ed invece ci va sotto di brutto, come se, dentro di sé, sapesse che buona parte
delle cause che l’hanno costretta a non conoscere il padre fino alla maggiore età fossero dovute a
scelte unilaterali della madre.
E ci va tanto sotto da rimanere zitta a lungo. Chissà poi cosa si immaginava, roba da ragazzine che
hanno visto troppe fiction alla tv, secondo me: roba di tradimenti, di liti, di menate; ed invece nulla
di ciò, semplicemente il giocattolo che era la nostra famiglia, ad un certo punto si e’ rotto e non e’
stato più possibile ripararlo. Mentre esco dall’ennesimo stop, lei continua a stare in silenzio, e spero
che rimanga in questo stato il più allungo possibile: non ho la forza per risponde a questo tipo di
domande - anche se sono conscio del fatto che prima o poi dovrò affrontare con lei quelle che
credo siano le motivazione che hanno portato la gran troia – sua madre – a scaricarmi come fossi un
sacco di merda fumante.
Trascorsi alcuni minuti, impugna gli occhiali da sole e mi informa di come si tratti del regalo che la
cara mammina le ha fatto per il compleanno. Li ha ricevuti quando è tornata dalla palestra, prima di
accomodarsi in cucina per la cena. La mamma era sorridente, ma diversamente dal solito era anche
silenziosa, strana, come se fosse afflitta da insolite preoccupazioni. Poi, come a dar conferma di
tutte queste sensazioni, durante la cena, senza motivo apparente, la madre si è alzata, e’ andata a
sedersi nel divano del salotto e le ha chiesto di accomodarsi insieme a lei, che era l’occasione per
parlare di una cosa estremamente importante. Un’occasione data dal fatto che era diventata
abbastanza grande per capire, per accettare il fatto che le si sia sempre mentito riguardo l’esistenza
del padre. E lì, a diciotto anni, avrebbe dovuto scoprire dell’esistenza, ancora in vita e in salute, del
papà. Gran pezzo di troia, la madre: mica lo sapevo che mi aveva dato per morto. Con grande
probabilità le avrà detto che il mio essere vegano mi aveva ammazzato. Roba da andicappati
mentali, da diversamente testa di cazzo: i pensanti lo sanno che statisticamente e’ più probabile un
ictus o un attacco cardiaco in un onnivoro che in un vegano. Lo sanno tutti, cazzo. E chi non lo sa,
muoia adesso con il cuore inculato dal colesterolo.
Mentre rimugino su quante innumerevoli gran teste di cazzo mi rompono i coglioni su come muore
un vegano, la piccola prosegue dicendo che la mamma le ha confessato che il papà sapeva della sua
esistenza ma che, per non incasinarle la vita, ha preferito restare lontano, diciamo, senza eufemismi,
fuori dai coglioni.
Prosegue ammettendo di essere rimasta molto scossa, forse arrabbiata, ma che non ha avuto tempo
di sfogare quei sentimenti perché la mamma le ha subito proposto di organizzare un incontro con il
suo dato per deceduto padre, qualcosa tipo un piccolo periodo durante le vacanze estive. Da lì
conosco come sono andate le cose: la troia mi ha chiamato, roba che faceva solo quando voleva
qualche soldo in più per la figlia – tipo in occasione di un Erasmus. Mi ha riferito del fatto che
aveva svelato la mia esistenza alla figlia. Abbiamo organizzato la trasferta, scoprendo che si
spendeva la metà in biglietti dell’aereo se la piccola fosse rimasta un mese. Varie tribolazioni
dovute al fatto che secondo la puttana un mese era un periodo troppo lungo, ma poi si e’
organizzato ed eccola qua, con i suoi modi di fare che somigliano a quelli della madre, con
quell’espressione e quel musetto che ricordano quelli della madre, con quelle domande tipiche degli
adolescenti che ti fanno pensare che un mese assieme a loro sarà molto più duro del previsto.
Parcheggiato di fronte al portone di casa, non faccio in tempo a spegnere il motore che la piccina mi
da il colpo di grazia dicendomi che la madre ha motivato il nostro divorzio dicendo che ero un bel
pezzo di bugiardo, un pericoloso bugiardo. Ha chiesto alla genitrice se per pericoloso intendesse che
ero violento o manesco; la troia ha risposto che al tempo ero pericoloso e punto, ma non verso i
miei cari. Però con un uomo pericoloso nessuno si sente al sicuro, soprattutto quando si e’ incinta.
Dice che poi la mamma non le ha voluto dire altro.
Guardandomi con occhioni grandi grandi, mi domanda se ho cercato di farle del male, per
costringerla a scappare da me. Non voglio rispondere, non voglio dare peso a certe puttanate e
quindi le dico che la sua mamma ha uno strano concetto del pericolo. Le assicuro di essere un cazzo
di vegano che rispetta la vita degli animali come quella dei cristiani. Ed infine le assicuro che se ci
fosse stata qualche questione di violenza dietro al divorzio, di certo quella gran troia venuta dallo
spazio non avrebbe mai concesso un nostro incontro, per giunta lungo un mese. Per evitare altre
domande di merda, scendo dalla macchina e la invito a fare lo stesso. Lei mi osserva dal basso verso
l’alto e prosegue con le sue domane infernali, questa volta tocca al perché, in tutti questi anni, io
non mi sia cercato un’altra donna e non mi sia creato un’altra famiglia. Voglio dire, santa merda:
chiedere ad un cazzo di single che a seconda delle scarpe che indossa supera i due metri e a seconda
di cosa ha infilato nelle tasche supera i centosessanta chili perché non si sia più procurato materiale
da scopata, voglio dire, suona un po’ come una presa per il culo. La guardo con gli occhi di chi si è
rotto i coglioni e le domando se, secondo lei, un uomo che ha fallito una volta con il matrimonio ha
ancora voglia di rompersi le palle con quelle brutte bestie che sono le donne. Silvia non risponde,
ma sembra capire – e che pensi che sia normale che un gigante ciccione non sia in grado di trovarsi
una figa mi sembra molto, bastardamente offensivo.
Nel momento stesso in cui la vedo aprire la portiera e scendere dalla macchina mi rendo conto che
finalmente si deve essere arresa. Mi segue con passi piccoli fino a quando non arriviamo di fronte a
casa sua. Chiuso dietro di noi il portone, le illustro le geometrie dell’appartamento; mi pare che la
sua camera da letto, rimasta invariata da diciassette anni, le piaccia; la perlustrazione prosegue per
la cucina e per il bagno; lei borbotta positivamente stupita di come l’abitazione sia molto più pulita
e ordinata di quello che si aspettava, perché la mamma le aveva raccontato che ero un casino da
questo punto di vista. Conclude dicendo che devo essere migliorato perché costretto a dovermi fare
le cose da solo. Le rispondo dicendo che quelle della mamma sono tutte belle cazzate – ma non le
dico che la casa si trova linda e splendente grazie ai duecento euro che ho sganciato ad una tipa che
abita al piano di sopra per lustrarla come fosse la fottuta di cappella Sistina.
Guardandomi con quei tipici occhi che hanno i gatti quando si stanno per addormentare, mi dice che
si congeda, e senza nemmeno aspettare una mia risposta si va a chiudere a chiave in bagno.
Prendo il cordless; digito il numero di telefono di Elena: squilla; dall’altra parte rispondono senza
nemmeno dire pronto e domandano subito come procede. La fanculizzo, la troia, per direttissima e
le diagnostico la morte del suo fottuto clitoride. Emette un suono sarcastico e dice che lo ha sperato
tanto da credere sia successo veramente, il mio decesso. Le rispondo di infilarsi le sue cazzate nel
culo e di dirmi se e’ il caso di farmi problemi per l’alimentazione della ragazza. Che sia chiaro,
come dicevo prima, sono vegano, ma non me ne frega un cazzo degli altri: mangino quello che
vogliono. Che questi siano estranei o membri della famiglia. Questo perché mi piace mangiare
vegano, non per una ininfluente questione etica o cazzi simili. La troia risponde dicendo che devo
semplicemente accompagnare la ragazza al centro commerciale, che lei sa come fare la spesa, che la
ragazza - sua figlia, sottolinea - e’ educata bene. Le ricordo che non si e’ scopata da sola, che la
ragazza l’abbiamo voluta, cercata, e che dopo quasi un anno del mio cazzo dentro di lei e’ arrivata.
Introducendosi la sua intenzione di chiudermi il telefono in faccia se non cambio linguaggio, mi
chiarisce un concetto per il quale devo ricordare che non valgo un cazzo e che affezionarmi alla
ragazza e’ tempo perso poiché dopo questo mese, non la rivedrò mai più. Fa molta attenzione a
rendere cristallinamente chiaro il fatto che, per loro, io sono solo un assegno mensile. La cosa bella
e’ che in mezzo a tutto questo ammette che il fatto di averle nascosto la mia esistenza e’ stato un
debito verso la ragazza che ha dovuto pagare con questa insensata vacanza di un mese con me.
Non faccio in tempo a dirle una parola che conclude il suo discorso con un enfatico devi morire
seguito dal fottuto tu tu tu che emette il telefono quando uno ti chiude la chiamata in faccia. La troia
non mi ha nemmeno chiesto di sentire la figlia: troppo ghiotta come occasione per trattarmi di
merda. Per la miseria è oggettivo che, anche con il passare degli anni, alla troia l’incazzo nei miei
confronti e’ appassito per un pelo del culo!
Trascorrono le ore ed è un botto di tempo che sono lì, a ripensare alle parole della Gran Troia; la
mia bambina e’ sparita nella sua cameretta che la luna non era ancora così alta nel cielo; e come se
non bastasse, la maledetta televisione non trasmette nulla di interessante – se non fosse per alcune
di quelle pubblicità dei numeri erotici con delle tipine che farebbero diventare il cazzo duro anche
ad un morto - e la birra ormai è calda; penso sia proprio arrivato il momento di farsi una sacrosanta
pisciata e di ficcarsi a letto. Percorro il corridoio e mi soffermo davanti alla porta chiusa della stanza
da letto di Silvia; poggio le dita sulla toppa della porta capendo all’istante che la camera è stata
chiusa a chiave: probabilmente non si fida ancora del suo ritrovato papà. Non che sia questo grande
problema, d’altronde in caso sia indispensabile entrare nella sua stanza sfonderò la porta a calci –
nulla può ostacolare un vegano, soprattutto se pesa più di centocinquanta chili.
Mi trascino in bagno e mi sento come Alice nel fottuto universo parallelo delle meraviglie: in meno
di un paio di minuti il lavandino è stato coperto di scatolette, vasetti, trucchi e prodotti di bellezza
per donne; sforzandomi di fare un po’ di memoria locale, ricordo che a suo tempo la gran troia
della madre possedeva giusto una cipria e dei rossetti; ma qui c'è tutta la fottuta tecnologia francese
in fatto di cosmesi. Sono perplesso, mi domando quanto possa arrivare a spendere una diciottenne
per la cura della sua faccina da schiaffi e del suo aspetto in generale. Ad ogni modo, non mi
dispiace assolutamente che faccia come se fosse a casa sua – anche perché, al di fuori di quello che
le può aver detto la madre, questa è casa sua.
Scendo i pantaloni e poggio il mio delicato culone sulla tazza del cesso – uno degli svantaggi, se
così lo si può definire, di una generica dieta ricca di fibre e’ che ti spedisce per direttissima a cagare
almeno tre volte al giorno e con il fastidio alle ginocchia che mi ritrovo, non e’ proprio piacevole.
Nel frattempo che allungo una zampa sulla tasca del pantalone per prendere sigarette ed accendino,
non mi si arresta quel moto di pensieri che ha avuto sfogo dalla chiamata della vecchia stronza. Sia
chiaro, non mi ha mai provocato un gran dispiacere l'odio di Elena, più che altro non sopporto il suo
aver fatto da giudice e giuria senza nemmeno chiedermi uno straccio di ragione; lo so, ne sono certo
che dietro tutto questo ci deve essere qualcosa che Anna le deve aver belato allo scopo di farla
fuggire da me a gambe levate, ma il fatto che non mi abbia consentito un briciolo di opportunità per
spiegare le mie ragioni e’ una cosa alla quale proprio non riesco a dare un senso.
Senza nemmeno rendermene conto, meccanicamente, accendo una seconda sigaretta utilizzando
come miccia la prima; sono sempre più vittima delle pippe mentali: adesso che ho visto mia figlia,
adesso che è qui, le parole di Elena, quel suo aver detto che tanto non la rivedrò mai più mi irritano
parecchio. Non voglio nemmeno immaginare cosa racconterà alla mia piccola stella allo scopo di
farle perdere anche il più piccolo desiderio di tornare qui, una volta che sarà rientrata a Milano conosco quella fottuta troia della madre troppo bene per non sapere che troverà il modo per farmi
passare per un mostro, e se veramente Anna le ha raccontato di me, di materiale ne ha a bizzeffe.
Adesso come adesso, se sommo i numerosi caffè, gli infiniti bicchieri di J, le decine di sigarette, in
parole povere, se non la smetto di pensare ad Elena, con tutto quello che mi sono ficcato in corpo
oggi per combattere lo stress, finisce che mi lancio dalla fottuta finestra del cesso. Spazzolo il
culone con mezzo rotolo di carta igienica, tiro la catena, butto le calze e le mutande nel cesto della
biancheria e mi appresto a muovermi furtivo verso la mia camera da letto. Indossate un paio di
mutande super extra large, mi infilo tra le lenzuola con l’unico obiettivo di concentrarmi su una di
quelle biondone con le tette enormi dei numeri erotici.
Non capisco esattamente che ore sono, come non saprei dire dopo quanto tempo sono riuscito a
prendere sonno, so solo che ho ancora impressa nella testa la valchiria tettona e ho ancora la mano
tra le mutande quanto, dallo stipite della porta della mia camera da letto, Silvia mi implora di
svegliarmi. Dopo qualche rantolo, mi spiega che ha fame, che vuole fare colazione e che in casa non
c’e’ un diamine di niente di commestibile. Le grugnisco di fare il cazzo che vuole della moka, di
scongelare del pane e di fare colazione con il burro di arachidi che trova nella credenza – io vado
pazzo per il geniale burro d’arachidi. Non so se mi considera un genitore, ma il modo con il quale
mi manda a fare in culo non ha nulla a che vedere con un sano rapporto tra padre e adolescente.
Urla di alzarmi all’istante e di fare in modo che il bar nel quale la porterò a fare colazione sia pulito.
Le chiedo di aver pietà di me, di lasciarmi dormire ancora qualche minuto. Impazzisce, cazzo, non
c’e’ altro modo di definire la sua reazione. Sento i suoi passi minacciosi avvicinarsi fino a quando si
ferma di scatto e inizia ad urlare che la mia stanza puzza d’immondo, che sembro marcio come il
formaggio con i vermi e che se vuole che mi consideri ancora un genitore devo lavarmi prima di
portarla a fare colazione. E’ inutile spiegarle che quello che sente non è il mio lezzo ma quello della
lettiera di Redbull – il mio micione – che, ad occhio e croce, è ancora vittima della brutta diarrea
che gli viene in questo periodo dell’anno. Redbull è un micio come pochi: si fa vedere poco e non
ama essere accarezzato, ma adora cacare nella mia camera da letto. Mentre cerco di alzarmi, Silvia,
facendo su e giù per il microscopico corridoio, continua a ripetere che non e’ possibile, che non e’
sano vivere nel modo in cui vivo, che non si può magiare solo fave e burro d’arachidi, che non si
può permettere ad una bestia felina di cacare liquido nella stessa camera nella quale dorme il suo
padrone. E tutto questo a sfinimento, senza fermarsi un attimo di blaterare, senza permettermi di
spiegarle come, il mio mangiare vegano, è molto più ricco e differenziato di una normale
alimentazione onnivora – è questa è scienza, porco dio. E’ tanto pesante il suo modo di fare che, più
che entrare nella doccia, ci fuggo proprio, sotto l’acqua, in modo da attenuare il peso delle parole
della piccola scassacoglioni. In meno di dieci minuti – come fatto precedentemente con il bagno –
ho cambiato il mio modo di vederla: altro che piccolo gioiello, grande stritolatrice di cazzo - più o
meno come la sua adorata mamma al tempo che era mia moglie.
Il locale a due passi da casa non e’ male – dicono -, mi ci fiondo con la piccina. Sorseggio il mio
caffè e la guardo mentre, paino pianino, mordicchia la sua pasterella alla crema – se solo sapesse
che cazzo ci mettono dentro la pianterebbe di mangiare cagate a base di latticini animale. Beve il
cappuccino – anche su questo potrei rimanere ore a descrivere come vengono allevate le sfortunate
creature utilizzate per la produzione industriale di latte vaccino, ma preferisco sorvolare. Alla luce
del mattino, mi accorgo che, tra le altre cose, la mia piccola stella ha ereditato le stesse espressioni
ebeti della madre – cosa che mi fa soffrire non poco. Termino il mio caffè, prendo il quotidiano da
un tavolino e accendo una sigaretta: non mi pare il giornale contenga notizie interessanti ma lo
sfoglio annoiato fino a quando Silvia non mi avverte di aver finito la colazione e che è pronta per
andare a fare la spesa al centro commerciale.
Dal bar al centro commerciale non e’ accaduto nulla di speciale, ma una volta lì, sono rimasto di
sasso. Voglio dire, non sono uno di quei burberi stronzi solitari che si incazzano quando qualcuno
occupa i suoi spazi, anzi mi fa un immenso piacere avere questa bambolina che mi ordina di andare
da una parte all'altra del centro commerciale, però per tutto il porco consumismo imperialista in
croce: devo ammettere che è stancante come cosa. Nessuna tregua: oltre alle espressioni che ha
preso della madre ha ereditato da me un'innaturale dote al comando, la capacità di adattamento agli
ambiente più ostili ed, infine, la capacità di gestire le situazioni più complicate – tutto questo a
discapito dei poveri coglioni che vengono soggiogati.
La osservo sbalordito – tipo bambino scemo, per dirla chiaramente - mentre mi tratta come una
pezza da scarpe e mi ordina di prendere questo, quello e, generalmente, tutto quello che le passa
sotto il naso. Non e’ possibile immaginare un gigante vegano di quasi due metri bacchettato e
sgridato ogni volta che sbaglia a prendere una scatola indicatagli dalla figlia. Roba da uscirne di
testa molto, ma molto male.
Arriviamo alla cassa con il carrello straripante di prodotti e ormai impossibile da manovrare; cerco
di rendere chiaro alla piccola regina del consumismo per un cazzo equo e solidale che se pensa suo
padre magnate del petrolio o ricco bancario del cazzo, si sbaglia di grosso. Le faccio ancora
presente che nel carrello ci devono essere almeno duecento euro di prodotti per i quali, chi ci ha
lasciato la schiena sotto il sole per produrli, non vedrà il benché minimo cazzo di guadagno. Sia
chiaro, a me del mercato equo e solidale non fotte un cazzo, ma ci sono due o tre grandi compagnie,
due o tre multinazionali del cazzo, per le quali, acquistare uno dei loro merdosi prodotti mette a
rischio la mia pace interiore. Ma sono discorsi che con la giovane e’ meglio non trattare: metterei a
maggior rischio la mia pace interiore se decidesse di mandare affanculo questi giorni di vacanza
perché le rompo i coglioni con le mie verità su questo mondo organizzato in modo da metterla
sempre e solo nel culo a chi sta morendo di fame.
Lei, intanto, come se mi avesse letto nel pensiero, dice che devo preparami a lasciare più di
quattrocento euro, poiché solo di carni ci saranno quasi cento euro di merce, che non sarà il fatto di
avere un padre mangia ceci a farla diventare tutta d’un tratto vegetariana – qui ci sarebbe voluta una
bella strigliata che le insegnasse la maledetta differenza che passa tra un vegetariano ed un vegano,
ma anche in questa occasione preferisco chiudere tutti e tre gli occhi1. Intanto prosegue a blaterare e
aggiunge che la sua mamma le ha detto di non farsi nessuno scrupolo poiché il suo papà aveva
problemi di tutti i tipi ma non economici. Eccola, la Gran Puttanta! Lo sapevo che avrebbe detto
cazzate simili alla figlia. Ora, devo ammettere che la buona uscita dal lavoro – quello che
quotidianamente Anna mi assilla per riprendere - era di quelle a sei zeri – e parlo di sei zeri in euro , ma e’ altrettanto vero che tra l’acquisto della casa, gli assegni di mantenimento, la pensione
integrativa, e soprattutto lo studio da artigiano restauratore – che va sempre peggio – non mi resta
molta copertura finanziaria.
Usciamo dal centro commerciale che ho un vistoso muso lungo io, un vistoso sorriso compiaciuto
lei, un cofano pieno di prodotti che non mangerò per nessuna ragione al mondo e, infine ma non
meno catastrofico, il conto in banca prosciugato di quattrocentocinquanta euro. Prima di tornare a
casa, passiamo in un negozio di antiquariato a lasciare le schioppette restaurate; al proprietario gli si
è letto in faccia un certo caldo desiderio di prendermi a madonne, ma pare abbia resistito alla
tentazione solo per non lasciare una brutta impressione alla bambolina che mi stava a fianco.
Di nuovo in macchina, fermi ad un semaforo che di diventare verde proprio non ne vuole sapere,
Silvia canticchia della merda che trasmettono alla radio, roba di un qualche stronzo che sostiene non
sia tempo per noi. Io intanto inseguo con lo sguardo una stronzetta sulla trentina, vestita con una di
quelle tute super attillate della Adidas e con due tette talmente enormi da far concorrenza a quelle
della tipa della pubblicità erotica che trasmettevano la notte scorsa. Divoro la tipa con gli occhi fino
a quando la mia attenzione non viene attirata dal riconoscere la ragazzina che stavo per mettere
sotto ieri sera mentre mi dirigevo all’aeroporto. Veste sempre quella gonnella orribile e sembra
intenta a contrattare il prezzo di qualcosa con un vecchio e altrettanto sfigatissimo venditore
ambulante.
Divertito chiedo a Silvia di piantarla di canticchiare e di dare attenzione alla ragazza all’angolo,
quella vestita alla cazzo di cane. Silvia si gira e sporgendosi verso di me osserva dal finestrino;
scrutato per qualche secondo, sbotta dicendo che quella gonna lì e’ la cosa più orribile che abbia
mai avuto il dispiacere di vedere. Compiaciuto per il negativissimo commento sull’abbigliamento
1
Riferimento al fenomeno, abbastanza conosciuto intorno agli anni settanta, del trapanarsi il cranio allo scopo di
aumentare le proprie capacità sensoriali.
della stronza, le racconto che il giorno prima quella stessa cretina stava per finire a far compagnia ai
pneumatici della mia auto. Aggiungo che odio chi sta in mezzo alla cazzo di strada quanto chi osa
giudicare un uomo dalla sua attitudine alimentare. La mia piccina mi sgrida dicendo che sono un
uomo crudele, che non si bistratta una persona che, senza aver bisogno di essere dottori, dimostra
evidenti squilibri mentali. In parole povere, mi dice di non ridere dei rincoglioniti. Sbuffando, le
rispondo che se dovesse ricapitarmi davanti, la schiaccio per davvero. Il semaforo e’ finalmente
verde e ripartiamo.
Pranziamo, io con le mie patate al forno e una pizza super alla marinara, lei con pasta panna e fughi
e una fettina abbastanza piccina di cavallo – durante il pranzo mi sono reso conto di non essere così
tollerante come pensavo verso gli onnivori, l’odore della carne era asfissiante ed ho avuto più volte
un forte senso di nausea. D’un tratto mi domanda come sono diventato vegano. Questa, in assoluto,
è la domanda più stupida che un non pensante può rivolgere ad un pensante. Cazzo, è un gran
casino solo spiegarle che vegani, vegetariani, onnivori, quello che cazzo sei, non lo si diventa, lo si
è e basta. Semplicemente, mangi quello che ti piace, prosegui a mangiare quello che ti piace e a
quaranta anni mangi solo quello che ti piace e tra queste cose non c’è nulla che comprenda
l’orbitale animale. Nessuna scelta, cazzo, nessun impegno etico, nessuna componente emotiva:
semplicemente ciò che ti piace non è presente nella sfera animale, e questo genere di persona viene
classificata come vegana. Punto. Nulla di più semplice, nulla di più noiosamente banale. Lei, però,
mentre le descrivo tutto questo, mi osserva come si osserva una persona che ti sta facendo la
supercazzola. La compatisco, cazzo.
Canticchiando una canzone in inglese lava i piatti mentre io mi stendo a rincoglionirmi davanti ad
un pochino di televisione. Mentre al telegiornale del primo canale il giovane portavoce del capo del
governo sembra intento a convincermi che se un fotografo immortala il premier a pisello di fuori
nella sua villa, circondato da alcune ragazzine in topless, e’ assoluta violazione della privacy, la mia
piccola stella mi informa della sua volontà di uscire a farsi un giro per negozi in modo da comprarsi
un costume da bagno per andare al mare dal giorno dopo. Le rispondo che per me non ci sono
problemi e che se vuole può utilizzare l'automobile. Sbuffando mi rimprovera e mi ricorda che e’
diciottenne da pochissimi giorni e quindi non ha la patente. Aggiunge di non osare proporle di
accompagnarla poiché non ha intenzione di andare a zonzo con papino anche oggi.
Ci rimango maledettamente di merda, ma nascondendo il musone le dico quali mezzi pubblici
arrivano al centro – ho difficoltà nel non implorarla di non fare tardi, ma forse e’ il caso di non
sembrare un vecchio scassa coglioni più di quanto sono apparso fino ad ora. Dice che prima di
prepararsi per uscire si riposerà un'oretta. Mi coricherò per più di un'ora e ti lascio le chiavi di casa
sul mobile della cucina insieme ad un pochino di soldi per comprare il costume e le creme e tutto il
resto che ti serviranno in spiaggia, le dico terminando così la chiacchierata.
Sono le cinque passate quando mi alzo e vado verso la cucina a prendere la prima birra della
giornata – in queste poche settimane che trascorrerò con la pupa non ho nessuna intenzione di aprire
lo studio -; sulla vecchia credenza che ho restaurato più o meno alla cazzo di cane sono sparite sia le
chiavi di casa sia i duecento euro che le ho lasciato – speriamo solo non se li fotta tutti per un
dannato costume da bagno.
Mi appiccico sul divano a guardare la tv e bere bionda strong - cosa che, ripeto, ho intenzione di
perpetrare per tutta l'estate. Il tempo trascorre veloce e sono già le nove. Su un famoso canale di
musica trasmettono il video di questa tipa che se ballasse nuda sarebbe meno provocante – roba da
far indurire il cazzo ad un anziano con l’Alzheimer che non si ricorda nemmeno più a che serve il
pene. Silvia è ancora a zonzo; dato che non si e’ ancora fatta viva, devo ammettere di essere un
briciolo in pensiero, ma non voglio recitare la parte del genitore rompicoglioni chiamandola al
telefonino già dalla prima sera che esce. Intorno alle nove e mezzo, come una vecchia checca
isterica, sono in preda alle ansie più assurde e trotto vorticosamente intorno al tavolo della cucina –
anche questo restaurato alla cazzo di dobermann - con il cellulare in mano. Sono lì per digitare il
numero della piccina quando sento il rumore del chiavistello del portone. Si presenta in cucina con
delle buste e due cartoni da pizza; si scusa per essersi rifatta viva solo ora utilizzando come
attenuante al suo maledetto ritardo il fatto che la pizzeria qui sotto fosse piena di persone. Dice di
avermi preso una marinara gigante con tanti carciofini sottolio. Grugnisco mentre cerco di far
sparire il telefonino tra le chiappe – non vorrei capisse che la stavo per chiamare – e la informo di
come la pizza che fanno sotto casa faccia cagare alligatori giganti; ma considerato che e’ stata
comprata con i miei soldi, di certo non la butterò al cesso. Ridacchia tipo bambina scema mentre
apparecchia come se conoscesse questa casa da sempre – cosa che mi manda in brodo di giuggiole,
tra l’altro.
Iniziamo a mangiare – la pizza come intuito fa cagare - e lei e’ un fiume in piena di racconti, di
ininfluenti dettagli, di cose senza senso – voglio dire, sono contento che la ragazzina abbia voglia di
dialogare con me, ma cazzo, non c’ero più abituato alla logorrea di una femmina -, parla dei negozi,
li confronta con quelli di Milano, ne descrive vizi e virtù. Le piacciono le vecchie stradine, le
piccole botteghe, le donne che parlano con un dialetto a lei incomprensibile; in parole povere è
contentissima della nuova esperienza e mi informa del fatto che domani andrà al mare di mattina e
cercherà di essere a casa per pranzo. Dice che non mi devo preoccupare, che si e’ già messa
d’accordo con la figlia di una amica della madre, che tra l’altro le presenterà un po’ di amici, e
inoltre ha intenzione di farsi una di quelle belle abbronzature da far crepare di invidia tutte le sue
amiche su’, nella metropoli. Io ascolto, felice di non essere più solo, a modo mio incurante del fatto
che della valanga di roba che mi sta a dire non me ne frega un cazzo.
Sono trascorse più di tre settimane da quando la bimba è arrivata a dominare i miei spazi – e quelli
di Redbull che, da quando in casa c’è Silvia, non si fa più vivo. Sono pazzo di lei, tanto al settimo
cielo che non mi da nemmeno fastidio averla in mezzo alle palle, anzi, mi fa incazzare l’aver perso
tutto di lei a causa della maledetta separazione, la coscienza che tutto quello sarà irrecuperabile mi
manda in bestia, ma sapere che riuscirò a godermi almeno la sua adolescenza – dato che spesso mi
ripete che da ora in poi ci sentiremo regolarmente anche dopo che sarà tornata a Milano – mi da un
attimo di tregua alle incazzature.
Mi somiglia da morire, si vede proprio che e’ mia figlia: indipendente e sveglia. Passa poco tempo
in casa, praticamente zero: tutta mare, amiche e, la notte, chioschetti con musica dal vivo. Mi
ricorda me da giovane, quando facevo quel lavoro là, quando due chiacchiere, una stretta di mano, il
pararsi il culo a vicenda e si era come veri e propri fratelli. Anzi, più che fratello: una sola cosa,
cazzo. A volte mi manca, mi piacerebbe mettermi nuovamente in ballo con Anna, ma quel genere di
mestiere tira fuori il peggio di me, ed Anna mi pagherebbe proprio a tale scopo. Ma divento troppo
una merda, meglio stare lontani da certe cose, meglio un po’ di nostalgia che il fottuto senso di
colpa.
Silvia ha parlato spesso e volentieri di queste amiche, una volta le ha portate a casa per cena, ma io
mi sono dato alla macchia – già mi infastidisce l’odore di mangime per onnivori per una singola
persona, non voglio nemmeno immaginate per un intero gruppo di stronzi mangia cavallo. Credo di
conoscere la madre di una di queste, che era una grande amica succhia cazzi di Elena, ma non ne
sono sicurissimo, dall’ultima volta che ho incontrato quella gente, sono trascorsi secoli.
Oggi non è voluta andare in spiaggia ed è chiusa nella sua cameretta impegnata, credo, ad
aggiornare il suo profilo, o qualcosa del genere, su internet. Sta ad usare il mio portatile, spero non
si metta a frugare tra le cartelle dove giacciono i miei giga di filmati porno. Qualche ora fa l’ho
incontrata mentre scorrazzava tra il bagno e la sua camera ancora in pigiama, il che mi ha fatto
pensare sia vittima di quei problemini periodici delle donne. Io, intanto, sistemo in cucina una
vecchia spada cinese che il padre di uno dei suoi nuovi amici ha chiesto di riportare all’originale
splendore. Penso di aver fatto male ad averle detto che oltre a restaurare mobili sistemo anche
residuati bellici di ogni genere. Spero questa sia l'ultima volta che devo sistemare gratis e durante
il mio periodo di inedia un'arma.
Mentre dentro di me bestemmio la Madonna solo a vederla tirare fuori dal frigo qualcosa come due
etti di prosciutto – l’odore che lascia quella merda e’ inaccettabile, roba da lasciarti incazzato per
una settimana – lei mi informa di come questo pomeriggio esce con le amiche a mangiare una pizza
in un famoso localino fronte spiaggia. Come di consuetudine, ormai, mi consiglia di non aspettarla
in piedi, dato che e’ sicura di fare molto tardi. Come mio solito, le dico di non dimenticarsi di
prendere le chiavi e di non salire in macchina con ragazzini del cazzo che bevono senza saper bere.
Lei, con un gesto della mano, mi fa segno di non mettermi paranoie. Poi, con fare da gatta morta, mi
dice che forse non le basta la paghetta se la pizzata si dovesse concludere con una serata in
discoteca, e le dispiacerebbe dover rimanere a guardare gli altri mentre bevono una coca cola e a lei
non e’ rimasto nemmeno un centesimo per prendersi un bicchiere d’acqua. Sbuffando le dico che se
mi chiede direttamente qualche euro fa molto prima. Le si dipingono in volto due occhi così mentre
le sgancio un centone per chiuderle la bocca. Si alza dalla sedia – anche questa frutto di un restauro
fatto alla cazzo - tutta pimpante e mi sgancia un bacione sulla guancia che per poco non vado in
arresto cardiaco dalla gioia – cazzo, ci vuole veramente pochissimo a rendere felice una diciottenne;
poco ma costoso, aggiungerei.
Ad ogni modo, la mia felicità non dura in eterno, dato che appena poggia il suo sedere nella sedia
mi confessa di aver voglia di parlare – e quando una diciottenne ti dice che ha voglia di parlare,
significa che ti deve mollare l’interrogatorio del secolo.
Non faccio in tempo a sospirare che lei sgancia la sua bomba atomica ridotta ad un semplice
raccontami della mamma. Cazzo, che poi non c’e’ un cazzo da raccontare: Elena era la sorellina
fighetta di Aldo, quello che al tempo era un amico ma che poi si e’ rivelato essere un gran testa di
cazzo. Lui e’ uno di quegli esseri umani che, se esistesse per davvero, Dio dovrebbe fare penitenza
all’angolo della porta con il cappello da asino in testa solo per aver dato la vita ad una simile
persona di merda. Ad ogni modo, conosciuta, Elena mi ha frequentato per un annetto, poi le ho
chiesto di sposarmi, lei lo ha fatto, abbiamo scopato alla grandissima per mesi – un vegano ti scopa
per ore, senza perdono -, poi e’ rimasta incinta, nove mesi dopo e’ nata Silvia e un anno dopo la
mamma si e’ data alla macchia. Fine, nulla di più banale. Questo e’ il riassunto che, censurati i
pensieri su Aldo, blatero alla piccina.
Lei sembra insoddisfatta e sgancia la seconda bomba atomica domandandomi come mai la mamma
ha deciso di lasciarmi. Spiega che la sua mamma mi odia per davvero, senza se e senza ma, che ha
sostenuto, quando ha posto la stessa domanda a lei, che mi ha lasciato perché ero pericoloso. Ora,
vuole sentire da me come e’ fatta l’altra faccia della medaglia.
Qui mi invento una mezza frottola per la quale la vecchia pezzo di troia era spaventata dalla gente
che frequentavo a causa del mio vecchio lavoro. Gente che lei riteneva pericolosa quando invece
non lo era affatto – di certo non quanto lo potrebbe essere un gigante vegano incazzato.
La piccola continua a ripetere che non riesce a credere che sia tutto lì, che non siamo riusciti a
trovare una soluzione. Ma soprattutto, si domanda perché Elena si e’ messa con me se era così
spaventata dalla gente che conoscevo. Tutte domande poco stupide, cosa che mi costringe a
riflettere per una decina di secondi in modo da organizzare un insieme di cazzate abbastanza
credibili e nel frattempo distante anni luce dalla verità. Trovo come soluzione più comoda lo scarica
barile e quindi le dico che nemmeno io so perché la mamma abbia iniziato a combattere questa
crociata contro di me dopo la sua nascita. Propongo come soluzione il fatto che, una volta nata lei,
tutto quello sul quale Elena chiudeva un occhio, d’un tratto e’ diventato insopportabilmente
inaccettabile. Sembra dare peso al fatto che le donne in maternità cambiano le loro priorità, direi
che la cazzata che mi sono inventato abbia lasciato il segno – devo ammettere che oltre all’essere un
fottuto genio dell’alimentazione, sono anche un mostro della persuasione. Bagno la mia cipolla
nell’aceto e la osservo mangiare in silenzio: allarme rosso passato.
Abbiamo finito di mangiare e sul tavolo ci sono ancora tutti i piatti; per nessuna ragione al mondo
sembra intenzionata a sparecchiare. La situazione è abbastanza tragicomica nel suo essere un cazzo
di dejà vu senza precedenti: conosco questo modo di fare, è spiccicato a quello della madre quando
voleva avere delle risposte. Mi rassegno all'evidenza che dovrò sforzarmi di inventare per la fottuta
ennesima volta una marea di fregnacce nel tentativo di mantenere la piccola all’oscuro del mio
passato. Mi alzo, vado a prendere dalla credenza una bottiglia di amaro e prima di poggiarla sul
tavolo ne verso un botto nel bicchiere ancora sporco di birra; infine la informo di come conosco
quello sguardo, uguale a quello di Elena quando era in modalità terzo grado. Le chiedo di non
indugiare oltre e di sparare tutte le domande che le girano per la testa. Lei mi informa che non ha
nessuna domanda da farmi, che voleva solo dirmi che mi voleva bene. Bum, abbattuto al primo
colpo; una cazzo di cannonata sparata da un super cecchino dell’amore, roba da far sembrare il
Barone Rosso Ray Charles. A questo non ero preparato e mi scopro di sale e in grado di rispondere
solo con un banale anche io piccina. Lei sorride; sembra sinceramente felice, pare che l’ininfluente
luogo comune che tristemente sono riuscito a spiccicare le sia piaciuto più di mille parole
importanti. Lei mi domanda se mi dispiacerà quando dovrò tornare a casa. Santa merda, le sto per
dire che sarà come morire, ma mantengo la facciata dell’uomo tutto d’un pezzo – di merda – e le
rispondo che mi dispiacerà solo un pochino perché sono convinto che da adesso in poi ci sentiremo
regolarmente, anche grazie la fatto che con tutte le amicizie che sta conquistando qui in paese avrà
altre opportunità di tornare. Cazzo, mi sento come uno di quei personaggi dei cartoni animati che,
ad un tratto, si trovano in compagnia di un piccolo diavoletto appollaiato sulla spalla che gli dice
come stanno le cose, ed il mio piccolo coso rosso con le corna mi dice che col cazzo che quella gran
troia della madre la farà tornare qui a breve – e per a breve intendo nei prossimi mille mila anni del
cazzo. Mentre penso al fottuto diavoletto, Silvia si alza ed inizia a sparecchiare.
Ripensando al giorno in cui è arrivata all'aeroporto non riesco ancora a capacitarmi di quanto io sia
innamorato della mia piccola strega; devo ammettere che Elena ha fatto un lavoro con i fiocchi, non
riesco a trovarle un difetto; sono sempre più convinto che soffrirò come un fottuto cane quando
tornerà dalla madre – molto, molto di più rispetto a quando la madre se l’e’ portata via spingendola
con la carrozzina.
Sono appena trascorse le sei e Silvia e’ chiusa in bagno che finisce di prepararsi. Ho capito che
l’amico che la accompagnerà in pizzeria e’ fuori di casa che aspetta che lei finisca di truccarsi. Io
col cazzo che mi sono offerto di farlo entrare nel mio fottuto appartamento ad aspettarla: si inculi
lui e le buone usanze, quando un padre e’ geloso e’ geloso e punto.
Il giovane si asciuga per ben mezz’ora in mezzo alla strada, poi Silvia galoppa fuori dal bagno,
fuori di casa e sento il suono di un’automobile che parte. Dato che ho lo stress a livelli inauditi,
decido di infilarmi una maglia meno sudata di quella che indosso e di fare tappa al bar a far fuori
qualche birra. Il tempo vola e rientro a casa intorno alle undici e causa tasso alcolico a palla decido
di chiamare Elena e vedere di mettere in chiaro le cose.
Nemmeno ha iniziato a squillare il telefono e già mi chiedo che cazzo ho fatto. Dall’altra parte sento
un infastidito pronto che introduce alla conversazione la Gran Troia. Le chiedo come le va la vita,
giusto per rompere il ghiaccio – in parole povere mi sto cacando addosso e cerco di farlo notare il
meno possibile. Lei mi dice che vorrebbe comprare un immobile per la piccina, ma che le sembra
una non piccolissima cazzata considerato che tra poco la sua stellina inizierà l’università e ci vorrà
un master con i contro coglioni per farla brillare quanto merita. Involontariamente passo all’attacco
dicendole che le figlie della sua amica si sono legate tantissimo con la nostra – e sottolineo nostra –
stellina. Atteggiandosi anche lei sulla difensiva mi dice che Silvia le ha già raccontato tutto sulle
nuove amiche. Sto per dirle che queste sono cose da coltivare ma lei mi interrompe dicendomi di
abbassare lo sguardo, di non farmi false speranze, di ricordarmi quello che mi ha detto dall’inizio, e
cioè che questa e’ un’occasione una tantum, nella vita, per la figlia di incontrare il padre e per il
padre di incontrare la figlia. Le sto per dire che Silvia e’ abbastanza grandicella per prendere da sola
le sue scelte che lei, quasi leggendomi nella mente, mi interrompe per la seconda volta dicendomi
che ha educato bene sua figlia, che forse le mancherò la prima settimana, ma poi addio: papà non e’
stato necessario per diciotto anni, e non lo sarà per il resto della vita. Sto per emettere un suono
insignificante con la bocca che lei mi interrompe per l’ennesima volta urlando un poderoso
assassino. Non so se sia l’alcol o il fatto di non riuscire a spiccare in questa fastidiosa discussione,
ma devo ammettere che iniziano a girarmi malissimo i coglioni. E sbotto, cazzo se sbotto: le dico
che, iniziando il turpiloquio con un bel brutta puttana, non si deve azzardare a tenerla lontana da me
dopo che l’ha nascosta per ben diciotto anni. No, cazzo, non ci deve provare, perché e’ la volta che
mi incazzo per davvero. Ride, non credo alle mie orecchie ma mi ride in faccia, dice che mi devo
fottere, che sono un coglione, che continuerò a pagare gli alimenti e a stare nell’angolo perché, se
oso romperle i coglioni, racconta tutto su di me a Silvia. Poi inizia a ripetere a nastro sfidami. Le
dico di fare in culo, che non ha mai capito un cazzo di me, che non sa un cazzo, che deve piantarla
di dire cazzate e, che se ha qualcosa da dire, me lo deve dire in faccia, perché ha rotto il cazzo con
questo bluff del cazzo. Continua a ridere, dice che non mi dirà nulla di quello che sa di me, che
devo morire nell'angoscia. Le grido di raccontarmi che cazzo le ha detto Anna, che non avrebbe
dovuto prendere per oro colato le sue farneticazione, che avrebbe dovuto sentire anche me, l’altra
parte della medaglia. Lei rimane in silenzio per alcuni secondi, poi, sbuffando ilare, mi domanda chi
cazzo sia questa Anna, se la deve considerare un nuovo agghiacciante mistero sul mio passato
oppure una che mi scopavo quando eravamo ancora sposati. Ci rimango veramente di merda:
conosco Elena, e se dice di non sapere chi cazzo sia Anna vuol dire che non la ha mai incontrata per
davvero. Ora sì che la situazione si complica per davvero: per tutti questi anni ho sempre pensato
che fosse stata Anna e il suo volermi a tutti i costi tra le sue fila la causa del mio divorzio, ma pare
che l’insistente imprenditrice dei miei coglioni non c’entra nulla. Trascorrono alcuni minuti nei
quali la linea sembra muta a causa del silenzio dei due interlocutori, poi, senza un preavviso, Elena
mi informa sul fatto che Aldo aveva un debito di qualche milione di lire con quel mio amico che si
era suicidato, il postino di Bolzano. Prosegue dicendo che lei ha provato molta pena per la vedova
sfortunata – che conosceva - quindi qualche settimana dopo la morte del marito, senza dirmi nulla
perché temeva non fossi d’accordo, l’ha chiamata per dirle che sarebbe stata lei ad estinguere il
debito del fratello. In quell’occasione la moglie del postino le ha confessato come il marito le abbia
lasciato una lettera con le scuse per il suo atto e le motivazioni.
Probabilmente la povera vedova pensava che anche io, come suo marito, avessi raccontato a mia
moglie del mio passato, ma a lei, io, non avevo mai raccontato un cazzo. Brutta storia.
E qui, dopo una lunga pausa, Elena pronuncia una sola parola che solo a sentirla per poco non mi
cago nelle mutande: Qatar. Sento un singhiozzo strozzato prima di sentire il suono tipico della
chiusura della conversazione telefonica.
Mi rendo conto che quello che e’ venuta a sapere e’ cento volte più grave di quello che le avrebbe
mai potuto raccontare Anna sul mio passato, roba veramente di merda. Non ho speranze di far
rivalere un cazzo dei miei diritti di padre se lei mi ricatta di mettere a conoscenza della cosa anche
nostra figlia, l’unica cosa che mi rimane da fare e’ di ubriacarmi malamente e dimenticare tutta
questa storia e di lasciare ogni speranza – oh voi che entrate. Amen: mi tengo la piccola altri otto
giorni e poi riprende tutto come prima. Vecchia vita, nuovo insopportabile dolore.
Non so che ore siano, ma credo sia lei a bussare forte alla porta e pigiare il campanello nel tentativo
di svegliarmi dal sonno rafforzato da troppi giri di J. Aprendo un occhio, mi accorgo che la sveglia
segna le cinque del mattino: l'ora di chiusura tipica di alcune discoteche. Si deve essere divertita
parecchio per aver fatto le ore così piccole; ma il fatto che stia bussando alla porta mi turba e spero
vivamente non abbia perso le chiavi di casa: mi costerebbe un occhio della testa far sostituire la
blindatura del portone. Prendo un forte respiro e fortunatamente non vengo steso dalla puzza di
merda – anche questa notte RedBull si deve essere trovato un atro posto dove dormire -, mi alzo
ancora in mutande e vado ad aprire la porta alla figlia ritardataria. Spalanco il protone e di fronte a
me ci sono due tenenti con indosso la divisa dei servizi segreti. Cazzo, sto a domandarmi come
cazzo facciano quelli della legione straniera ad assicurarti che una volta data una nuova identità2 e
fatto tornare civile nessuno saprà che sei stato uno dei loro assassini se sono la prova vivente che
tutto il cazzo del mondo sa che ero il fottuto sicario francese più cattivo mai esistito. Poi,
accompagnato dal cuore che mi salta in gola, mi rendo conto che a fianco ai due paperini
dell’esercito c’e’ un’anomalia: il parroco della chiesa qui di fronte, della noiosissima parrocchia che
non ho mai cagato. Ora, facendo uno più uno, arrivo subito al risultato che qui qualcuno del sistema
giustizia Italia si sta cacando addosso per quello che mi deve dire questo preticello di campagna.
Non so se sia il mio cervello a volermi tutelare, ma tuttora continuo a non capire una sega di nulla.
2
Ai congedati della legione straniera è garantita le cittadinanza francese e il cambio di identità.
Non ho capito una mazza di come sono stato caricato in macchia, di quello che diceva il prete, di
come guidava il militare. Ricordo solo il lampeggiante rosso che illuminava a tratti il buio della
notte. Credo di non aver capito una mazza nemmeno quando mi sono soffermato di fronte al telo
nero. Non avevano ancora rimosso il cadavere, evidentemente. Uno dei militari ha sollevato il velo
consentendomi di osservare ciò che si nascondeva sotto. Un bambolotto tutto di gomma bianca,
pallido, cianotico, coso simile al corpo di una donna nel quale risaltavano ematomi e ferite inferte
da parecchie coltellate, forse una trentina, anzi, addirittura una quarantina, su tutta la superficie. Ad
occhio e croce, quella sul collo è stata la letale. Mi sento come sospeso su una nuvoletta candida che
mi allontanava pian piano dalla realtà, nel frattempo. Continuo ad osservare, intanto, con la testa
piena di elio: come di plastica, l’oggetto vicino ai miei piedi sembra una bambola, mi sforzo di
pensare che ho davanti agli occhi una riproduzione, un giocattolo delle fattezze di mia figlia. Ha gli
occhi spalancati; si e’ fatta una bellissima abbronzatura durante queste settimane, ma adesso la pelle
e’ bianchissima a causa della completa assenza di sangue, credo.
Mi inchino verso il corpo: ha i capelli tutti arruffati, a lei non piaceva per nulla essere spettinata.
Cerco di sistemarli il meglio possibile, ma io non sono bravo in queste cose, quindi pettino con le
dita ma il risultato non mi sembra apprezzabile; però non demordo, provo e riprovo a rendere
decente la sua acconciatura. Ho come la percezione che sia una stupidaggine ma continuo quasi
incosciente a muovere le dita tra le frangette della riproduzione della mia piccola bambola. Non ho
mai giocato con una delle sua barbie; non ho mai visto una sua bambola, non saprei nemmeno dire
come le piacevano, come le vestiva, come ci giocava; abbiamo parlato di tante stronzate ma mai di
un argomento simile. Adesso cercare di recuperare il tempo perduto sarà sempre più difficile. Non
riesco a pensare alla parola impossibile, preferisco arrendermi al termine difficile.
Come per uno strano e macabro scherzo del destino il viso non ha subito danni, mi hanno lascito la
possibilità di non dubitare che il cadavere – o giocattolo, non riesco a determinarlo con lucidità davanti ai miei occhi e’ mia figlia o meno. Le sue belle, anzi bellissime guancie non sono state
sfiorate minimamente dai fendenti. Mentre osservo, continuo imperterrito a sistemarle i capelli. Che
bel viso che ha la riproduzione, o aveva mia figlia. Che bel viso, ripeto con insistenza tra me e me,
che non e’ proprio il caso di tenere coperto dai capelli. Mi sento sempre più protetto dalla mia
nuvolina di confusione, quella che mi tiene sospeso dolcemente tra realtà e finzione.
Ma adesso, sempre se esiste ancora un adesso per me, che faccio se questa cosa di fronte a me è
veramente il cadavere della mia bambina? La cosa più giusta sarebbe quella di lasciarla riposare in
pace, trovarle un bel posto dove poterla lasciare a dormire ancora quanto vuole. Inizio a percepire di
avere la bocca secca, di aver iniziato a respirare forte con la bocca, di non riuscire a comandare alle
mani di smettere di infilarsi tra i capelli di quella che adesso inizio ad avere la certezza essere il
cadavere di mia figlia.
Ora che forse qualcosa dentro di me sta cercando di far riaffiorare un briciolo di lucidità, come un
piombino che mi vuol far scendere dalla nuvoletta, mi rendo conto che tutti questi damerini, ma
proprio tutti queste mezze seghe di militari dei servizi segreti e delle forze dei carabinieri stanno ad
una ragguardevole distanza da me e dal sempre più concreto cadavere della mia bambina. Uno mi
sembra di riconoscerlo, un qualche pezzo grosso del sismi3, uno di quei cazzoni che in situazioni
difficili preferisce assoldare i mercenari stranieri piuttosto che i propri soldatini di piombo. Quello,
con una ricetrasmittente in mano, sembra manovrare i suoi manichini di stato, e tira i fili di questi
pagliacci in modo che rimangano a debita distanza da quello che deve considerare un signorino
estremamente pericoloso. Due ragazzotte discutono vistosamente con un colonnello che fa spallucce
alle loro lamentele, dalla dimensione e forma delle borse che hanno poggiato sulla sabbia, direi che
sono dei tecnici della scientifica, forse RIS in borghese. Santa merda no, non ci riesco proprio a
credere che sto vivendo un momento simile: prima la piccola che mi dice che vuole bene, poi Elena
che mi informa di sapere tutto di me nel Qatar, e adesso tutti questi lampeggianti della polizia. No,
non posso crederci: quando la coincidenza diventa credibile quanto la fantascienza.
3
SISMI è l’acronimo di Servizio per le informazioni e la sicurezza militare italiana. In parole povere, i servizi segreti
nostrani.
Forse mezz'ora, forse un’ora intera, cazzo sì, un’intera vita che si consuma in una notte. Non ho
senso del tempo, osservo il sempre meravigliosissimo viso della mia bambina e le levo i capelli dal
volto quando il vento li sposta. Dovrei dire all’impertinente ventaccio che la deve piantare di
rovinare l’acconciatura della piccola, dovrei trovare una soluzione a questo problema: dire a tutti
questi stronzi di levarsi dai coglioni che riporto la mia creatura a casa, dove nessuna folata di vento
la possa mettere in disordine, dove nulla la possa toccare. Sento, percepisco dentro di me la pazzia,
ma non sono proprio in grado di distinguerla dal raziocinio.
Ad un tratto qualcosa di meccanico mi avverte che una qualche testa di cazzo mi sta dietro a pochi
centimetri. Non mi sono nemmeno accorto di come si sia avvicinato; e questo significa che non
deve essere un semplice burocrate, non deve essere un soldatino, deve essere qualche cazzo di
specialista dei servizi segreti. Deve essere uno che ci sa fare: in pochi sono in grado di avvicinarsi a
me senza farsi percepire.
L'omino in giacca e cravatta mal allacciata è al mio fianco. Si siede sulla sabbia con le gambe
conserte e noto che buona parte della camicia sta fuori dai pantaloni nei quali manca il cinto. Questo
deve essere una gran merda di fottutamente pericoloso negoziatore che e’ stato tirato giù dal suo
letto all’ultimo momento. Guarda anche lui il cadavere; passano una decina di minuti, chiamandomi
per grado, e cioè capitano, mi chiede la cortesia di lasciare scattare due foto velocissime dalle
stronze dei RIS e di permettere che la piccola venga portata all’obitorio militare. Mi mette nel
taschino della polo un pass della polizia e mi dice che con questo non avrò problemi a seguire quelli
della scientifica. Quello parla ma non riesco a capire che diamine di senso abbia quello che sta
blaterando. Poi, dice una cosa che riesce a riportare buona parte del mio io a terra: mi informa che
Padre Daniele sta tornando a bordo di un elicottero dell’esercito dopo aver prelevato mia moglie.
Mi dice che sa quanto possa essere una situazione rompicoglioni, quindi se ho bisogno di non
incontrarla, mi darà priorità rispetto a lei. Santo cielo, tutto tranne Elena, adesso. Mi alzo e blatero
qualcosa che somiglia a un me ne torno a casa. Si alza anche lui e mi guarda negli occhi. Si toglie
dal taschino le chiavi di una macchina e mi dice di non preoccuparmi, che la riprenderanno loro nel
pomeriggio. Prendo le chiavi e giro lo sguardo mentre il negoziatore, sempre chiamandomi
capitano, mi chiede la cortesia di non fargli brutti scherzi e di non fare nulla che possa mettermi nei
guai. Mi fotte un cazzo delle sue paranoie, quello che mi importa e’ che non ha fatto riferimento
agli assassini; e ciò significa che devono sapere chi sono, devono aver le idee chiare in quanto a
dove prenderli, sempre se non li hanno già presi per tenerli a debita distanza da me, e da un
eventuale rappresaglia da parte mia; addirittura si è trattenuto dal dirmi che prenderanno i
colpevoli: deve sapere che è indispensabile trovarli prima che sia io a trovare loro; sa che non mi
interessano solo le motivazioni, ma anche le vite: le loro. Infine sapeva che era meglio farmi sparire
prima dell'arrivo di Elena. Per tutti i fottuti stronzi del panteon: o e’ il cazzo di buon samaritano o è
uno dei servizi segreti, bravo, un mega capoccia, uno che conosce il suo interlocutore e soprattutto
sa fare il suo mestiere. Porca troia, anche il grado, come cazzo faceva a sapere il mio grado durante
il servizio sotto la legione?
Lascio la spiaggia illuminata dai lampeggianti delle auto della polizia e dell'ambulanza sempre a
bordo della mia nuvola immaginaria, sempre come se camminassi a mezzo metro sopra la sabbia.
Salgo su una delle macchine dei carabinieri mentre i poveri manichini non osano nemmeno
chiedermi che cosa io stia facendo; non mi guardano nemmeno mentre spostano i loro culi dal
cofano della vettura; l'avere di fronte un ex reparti speciali d'assalto della legione straniera francese
crea in loro un poco di soggezione, sembra.
Parto e sono a casa. Non so cosa farò adesso. Se quelli dei servizi segreti si sono mossi, vuol dire
che non ho nessuna possibilità di capire cosa e’ successo se non dalle loro inutili indagini del cazzo.
In parole povere, non avrò la possibilità di fare qualcosa. Che fottuto senso resta alla mia vita? Cosa
mi e’ successo? Dove sono arrivato dopo una vita di sofferenze? Basta cazzo: non posso lasciare
che tutto scorra senza di me. Alzo la cornetta del telefono e digito quel numero di cellulare che mi
sono ripromesso per una vita di non digitare mai. Chiederà di essere ripagata, mi dirà che sto
incorrendo in un debito che può essere ripagato in un solo modo. Mi dirà che il mio culo adesso e’
suo. Sì mi sto per mettere nella merda, ma lei e’ l’unica, in questo momento, in grado di farmi
diventare il personaggio principale di questa storia che, per ora, si sta consumando senza di me.
Digitato il numero, Anna risponde in pochi istanti con una risata e chiedendomi quale buon santo
mi porta a romperle i coglioni alle sette del mattino. Non riesco a risponderle, rimango in silenzio,
ho paura che qualcosa mi si rompa dentro se apro la bocca. La nuvola, la cazzo di nuvola mi ha
rapito, e adesso non sono più in grado nemmeno di implorare Anna di darmi una mano con questa
storia. Trascorsi alcuni secondi di silenzio, lei chiude la comunicazione: si deve essere accorta che
qualcosa nella nostra comunicazione non andava.
Non so esattamente quanto tempo, quante ore sono trascorse con me impietrito ancora con la
cornetta del telefono in mano - sono completamente fottuto -, ma penso qualcosa come quattro o
cinque ore. D’un tratto percepisco qualcuno che sta cercando di forzare la porta di casa; qualche
istante dopo percepisco la presenza di qualcuno che mi sta a fianco. Questo qualcuno mi infila una
sottospecie di qualcosa in bocca. Tutto di colpo, come se Dio mi avesse infilato un pollice in culo,
torna chiaro, limpido, un fottuto quadro del Canaletto. Mi levo dalla bocca una specie di francobollo
che deve essere qualche maledetto mega antidepressivo del cazzo. Mi sento a pezzi, ma lucido,
triste e pericolosamente nervoso. Mi giro ad osservare la persona che mi ha risvegliato, tipo
Biancaneve e, se non fossi in uno stato veramente di merda, dovrei sorprendermi: si tratta di quella
rincoglionita di merda di ragazza che stavo per investire il giorno in cui sono andato a prendere
all’aeroporto mia figlia. Le chiedo chi cazzo sia. Poco gentilmente. Lei, allungando un foglio di
carta che sembra un fax piegato, risponde presentandosi: La tata. Ora, se fossi in una situazione
normale, mi cagherei addosso per aver parlato in quel modo ad una delle donne più spaventose che
circolano sulla terra. La tata e’ un sicario di Anna specializzato in rapimenti e generalmente,
sparizione di infanti – e quando li fa sparire, sempre generalmente, lo fa nel dolore. Ora, infatti,
osservandola meglio, mi rendo conto che dietro l’aspetto di una ragazzina, si nasconde una donna
che deve aver superato da parecchio la quarantina. Abbasso lo sguardo sul foglio che si rivela essere
veramente un fax nel quale Anna, scrivendo a mano, mi informa che ha percepito dalla telefonata
che avevo bisogno d’aiuto e che, fortunatamente, c’era lì in zona una delle sue agenti migliori. La
tata ha infilato nel cofano di una Mercedes parcheggiata sotto casa mia una persona che c’entra con
la morte di mia figlia, ma che non e’ l’assassino. Continuo a leggere che, ad ogni modo, secondo La
tata, può dare spiegazioni sugli accaduti. Purtroppo il colpevole e’ già stato portato in caserma da
quelli dei servizi speciali. Anna, sottolineandolo più volte, mi informa che entro un paio di ore
dovrebbe essere lì con il capo spazzino – nel leggere capo spazzino mi rendo conto che Anna teme
grandi casini, cosa che si renderà certezza nella riga successiva -, che tra poco dovrebbe arrivare
nella caserma Il serbo. Ora, sia chiaro, che Anna abbia sguinzagliato Il serbo in un centro cittadino
e’ qualcosa che normalmente considererei fuori di testa, ma quello e’ l’unico in grado – non
lasciando un superstite - di prelevare un carcerato da una caserma, da solo.
Appallottolo il fax mentre La tata mi indica con la mano nella quale penzolano le chiavi di una
Mercedes di seguirla. Non faccio obiezioni, ma prima di uscire da casa, nella quale mi sa non potrò
più fare ritorno, mi domanda se ho un forno a microonde. Rispondo di sì e lei, senza chiedermi
altro, si dirige in cucina. Leva dalla borsa quella che sembra essere una busta di farina e la infila nel
forno a microonde programmandolo a novecento watt per due ore. Le chiedo cosa stia combinando,
risponde che sta dando una mano agli spazzini. Conosco quel tipo di giocattolo: sono particolari
bombe che non esplodono se non con una elevata variazione negativa di temperatura – in parole
povere, fanno saltare tutto per aria quando il forno a microonde smette di irradiare. Fortunatamente,
RedBull non si farà vivo certamente di giorno – o almeno così spero per lui.
La sicario dalla fama più spregevole che ci sia mi consiglia di chiudere per bene a chiave la casa e
di muovermi nel salire in auto. Parte a razzo e non ne vuole sapere di concedermi il piacere di dare
uno sguardo al contenuto del cofano. La tata sembra aver fretta di lasciare la zona, vedo infatti che
la donna sta prendendo la direzione della super strada mentre borbotta infastidita. Percorsi alcuni
chilometri mi informa di come ci stiamo dirigendo verso una locazione sicura, lontana dal centro
cittadino. Questo, aggiunge, più che altro per evitare qualsiasi possibilità di incasinare ulteriormente
la vita agli spazzini, considerato che saranno impegnati come non mai con il lavoro che svolgerà Il
serbo. La osservo mentre dice una frase, esprime una considerazione che mi spiazza per chiarezza e
veridicità: si domanda come farò a pagare un servizio come quello che sta per portare a termine Il
serbo. Non lo so nemmeno io, probabilmente dovrò lavorare gratis per Anna per il resto della mia
vita penso, ma non lo dico alla famigerata tata di rapiti. Percorsi altri chilometri le chiedo che cazzo
ci faccia una come lei in un buco del culo d’Africa come Cagliari. Risponde dicendo che il figlio di
un pentito della mafia russa stava per fare una di quelle vacanze al mare che organizzano per i
ragazzini sfortunati della Ucraina. Peccato che qualcuno, sempre della mafia russa, aveva qualche
sassolino da togliersi dalle scarpe con il padre e che sapesse di lui anche dopo il cambio di identità,
spiega. La tata non e’ una di quelle che fallisce. Quindi le chiedo solo come mai ci abbia messo così
tanto, dato che e’ in giro per la città da quasi un mese. Non risponde ma allunga una mano e tira
fuori una videocamera digitale e me la passa. Premo il play e se non fossi in uno stato di merda mi
cagherei addosso: nel video si vede un bambino piagnucolante mentre due stronzi stanno ad aizzare
contro lui altrettanti rottweiler grandi come elefanti. Mentre guardo il bimbo che piange spaventato
e i due coglioni che hanno difficoltà a tenere fermi alle catene i due molossi, La tata mi dice che il
tipo della mafia russa ha pagato salato per avere anche lui una copia del filmato nel quale facevamo
sbranare da cani il figlio della spia. E proprio mentre dice la parola sbranare, nel video i due cani
vengono lasciati liberi di assalire lo sfortunatissimo bambino. Ricordo di aver già visto o vissuto
situazioni simili, ma queste povere bestie sembrano addestrati per quello che stanno facendo perché,
e di questo ne sono sicuro, nessun animale di sua naturale indole si ciba con una tale aggressività.
L’uomo sa essere un vero pezzo di merda con gli animali.
Ripasso la videocamera a La tata che coglie l’occasione per informarmi di come ha con sé il filmato
perché tra un po’ dovremmo incontrare Anna e quindi vuole sfruttare il momento per consegnare il
pacchetto. La tata ne parla con una tale normalità che mi cagherei addosso dalla paura, se non fossi
completamente rincoglionito dalla morte di mia figlia e da quel fottuto francobollo che mi ha messo
in bocca.
Arrivati a destinazione, scendo dalla macchina e mi avvicino al portone di una vecchia costruzione
campidanese immersa nel giallo e nel brullo della campagna sarda d’estate. La tata, indicando una
porta in legno sulla destra, mi dice di scendere nello scantinato che e’ stato già allestito con due o
tre cosette che mi saranno utili per le mie indagini. Mi dirigo verso il cofano della macchina ma la
sicario mi ordina di iniziare a scendere, che ci pensa lei a portarmi il bagaglio. Probabilmente non
vuole nessunissima possibilità che io scleri all’aria aperta. Sapendo che tipo di persona ho davanti,
evito di obiettare e tenendo i palmi delle mani in evidenza, mi allontano da lei. Lentamente mi
dirigo alla porta mentre la osservo: apre il cofano della Mercedes, estrae, tenendolo con il solo
braccio destro e dando prova di una forza erculea, un enorme borsone di plastica nera. La tata mi
ordina di muovermi, che sta terminando l’effetto dell’anestetico, e senza dire altro porta di peso il
borsone verso la porta dello scantinato. Scendiamo: che abbia inizio l’epilogo della mia vita, e che
questo avvenga nel dolore e nell’orrore più assoluto.
Da quando si e’ svegliata, la complice dell’omicidio di mia figlia non ha fatto altro che strillare.
Intanto, visibilmente rasserenata, La tata si e’ seduta in disparte e fumando sembra intenta a spedire
una marea di sms. Ad un tratto l’ho percepita borbottare qualcosa come sposami e forse non ti
ammazzo; ma per il resto, sembra farsi i cazzi suoi del tutto indifferente nei confronti di quello che
sta succedendo.
La ragazzina urla da ormai una decina di minuti, il suo istinto di sopravvivenza le starà dicendo che
ormai e’ spacciata, talmente tanto nella merda che l’unica cosa che le resta da fare e’ quella di
provare ad ammazzare me e La tata per mezzo di onde sonore. Io la osservo con un sorriso bonario
mentre La tata ridacchia dei suoi sms. Quasi ormai senza voce, inizio a percepire il suono del
pianto; poi, senza preavviso alcuno, inizia a singhiozzare e a domandare chi siamo. Le chiedo di
raccontarmi del giorno più bello della sua vita. Scoppia nuovamente a piangere, se possibile ancora
più rumorosamente di prima. La tata sembra iniziare a prendere interesse per quello che le succede
intorno a sé e tenendo il grosso black barry tra le mani, ci scruta incuriosita. Appena la ragazza
riprende a rantolare in silenzio, le domando nuovamente di raccontarmi dei suoi momenti più felici.
Scoppia nuovamente a piangere, ma adesso intramezza le lacrime con frasi tipo non so nulla, voglio
la mamma, liberatemi. Stai tranquilla, non ti succederà nulla di male e raccontarmi dei momenti più
belli della sua vita, le sussurro. Finalmente lei, piagnucolando, inizia a parlare di come, una volta, la
sua mamma le ha regalato quel vestito che voleva; io annuisco felice e la esorto a continuare a
descrivere in modo dettagliato i suoi ricordi. Racconta della mamma che le sorrideva e le chiedeva
di provarlo. Lei l’ha provato e la mamma le ha scattato una specie di set fotografico. Nel tanto che
biascica tra le lacrime, annuisco come uno scemo e vado a prendere dalla legnaia una tavola di
legno ed un grosso martello. La piccola principessa esplode a piangere nel solo vedermi tornare con
quegli oggetti in mano. Le dico di non urlare, che non ce n’è motivo, di non spaventarsi, di
continuare a raccontare dei momenti più belli della sua vita. Intanto La tata mi osserva sorridendo –
probabilmente conosce questo genere di tortura e la diverte vederla applicare su un’adolescente di
città, che rispetto ad un guerrigliero cambogiano, attimi di felicità ne ha vissuto per davvero. Una
volta smesso di piangere, la ragazza continua a raccontare della volta in cui un’amica le ha
presentato l’attuale fidanzato. Dato che poi, diciamo la verità, non me ne frega un cazzo della sua
adolescenza, le dico, mentre le poggio la tavola sul ginocchio, che le menomazioni visibili
confondono i sensi del torturato, mentre quelle profonde ma invisibili agli occhi, creano ciò di cui
ho bisogno che lei provi: dolore, angoscia e invalidità permanenti. Persino La tata fa un’espressione
incuriosita mentre il martello sbatte con una forza incredibile e inaudita sulla tavola che sfracella le
cartilagini del ginocchio della ragazza. Cazzo se urla, cazzo se deve far male. Aspetto che la pianti
di divincolarsi dalle corde ed accetti di sopportare il dolore. Quando sembra essere pronta, sempre
dicendole di riprendere a raccontare dei momenti più belli della sua vita, cerco di poggiare la tavola
sull’altro ginocchio. Quella sclera di brutto, allora le poggio la tavola sulla coscia e la minaccio di
picchiare lì, dove fa ancora più male. La scema ci crede e balbettando cerca di raccontare qualcosa
che non porta a termine perché – da bravo mattacchione che sono - le esplodo una martellata sulla
coscia che deve aver sfibrare maledettamente e permanentemente la muscolatura. La cosa bella e’
che esternamente, se non fosse per un enorme ematoma nero, la gamba sembra sempre la stessa. Lei
strilla come una matta. Tra le urla più disumane, aspetto nuovamente che si calmi un minimo,
intanto La tata sembra sempre più divertita e ad un tratto mi consiglia di raccontarle la storia del
negretto. La storia del negretto e’, per procedura, un racconto di fantasia che si esibisce quando la
vittima sembra essere quasi in stato di shock, serve a riportare al giorno d’oggi lo sfigato prima di
infliggergli le successive menomazioni alle dita della mano. Atteso un barlume di attenzione da
parte della dolorante ragazza, inizio a raccontare una storia che ha come ambientazione l’Africa, e
come personaggio principale un non bene identificato negretto cattivo che non voleva spifferare
dove aveva nascosto dei soldi rubati. Dato che non sembrava esserci alternativa, durante
l’interrogatorio era stato persuaso a parlare grazie ad alcune martellate sulle dita. La ragazza
singhiozza da dio e inizia a raccontare della prima volta che aveva fatto l’amore con il suo ragazzo.
E qui già mi diverto, perché lei nemmeno si rende conto di avere la tavola di legno sopra le dita
della mano sinistra. Chi ha fatto, chi ha svolto questo tipo di attività per diabolica professione, è il
primo a confermare quanto sia indescrivibile il rumore che emettono le cartilagini delle falangi
quando subiscono una bella cazzo di martellata. Dolorosissimo solo ad immaginarlo. Un sonoro
bum e le dita sono andate. Urla come una pazza, ma trascorsi alcuni minuti, entra in gioco un fattore
che non mi sarei aspettato ne io ne La tata: i giovani d’oggi, menomati in modo permanente,
riportano alla mente le cazzate dei film d’azione che hanno visto troppo spesso. Infatti, come da
manuale, la ragazzina inizia ad urlare la parola puttana. Dice che era una puttana e che e’ morta
come tutte le puttane. Che le avremmo potuto fare quello che volevamo ma che Silvia sarebbe
rimasta una puttana bella che morta in mezzo ad una spiaggia. Dice che ci ha pisciato sopra al suo
cadavere. Mi giro ad osservare stupefatto e un briciolo traumatizzato La tata che, facendo spallucce,
dice che anche reazioni del genere sono argomentate nelle nuove procedura, e che questo e’ il
momento di farle male sul serio. Capisco il consiglio de La tata, ma sono fuori dal giro da tempo, e
quello che sto applicando e’ il metodo medievale più doloroso che ricordo. La tata sembra leggermi
nella confusa mente e mi domanda se ho bisogno di un consiglio. Le rispondo affermativamente,
con un gesto della testa. La donna si avvicina ad una pompa dell’acqua e apre il rubinetto, poi, presa
l’estremità del tubo in gomma, si avvicina dalla ragazza, le solleva la maglia e il reggiseno fino al
collo e la bagna. Io osservo incuriosito fino a quando, La tata, avvicinandosi ad un tavolo nel quale
giacciono alcuni utensili, bagna una pala da pizzaiolo. Come d’incanto mi è tutto chiaro, come per
magia la confusione sparisce ed inizio a sorridere. La sicario risponde al mio sorriso dicendomi di
colpire sulla destra, in modo da evitare attacchi cardiaci che possono rompere il giocattolo prima del
tempo. Pimpante, mentre la giovane urla osservando la mano destra – quella che qualche minuto
prima si era beccata una bella martellata - che diventa grande quanto quella dell’omino Michelin;
prendo la pala da pizzaiolo e, misurando le distanze, con le stesse movenze di un battitore di
baseball, prendo la mira. La ragazza e’ troppo occupata ad osservare la mano per capire che le sta
partendo una saetta come poche sul suo seno. Voglio dire, pensavo fosse rumorosa come cosa, ma il
boato emesso dall’impatto e’ spaventoso. Il dolore deve essere talmente pazzesco che la ragazza
sviene. Domando a La tata se non ho fatto la cazzata di ucciderla; lei e’ sicura del contrario e dice di
aspettare che la giovane si risvegli da sola. Passano dieci minuti e la sfortunata adolescente ritorna
al mondo. La parte destra del suo sterno e’ un unico grosso bozzo violaceo. Roba che fa male solo a
vederla.
Non riesco a spiegarmi che cazzo succeda nella testa di una donna quando viene martoriata – non
ho letto le diavolo di procedure aggiornate -, ma sta ragazzina, come se il dolore fosse l’ultimo dei
suoi problemi, mi osserva con odio e con un’espressione lontana anni luce da quella che deve avere
una vittima di tortura. Le domando che cazzo abbia da guardarmi e lei risponde con una frase simile
a se lo e’ meritata quella troia. Santo cielo, voglio dire: questa al posto di uscire di testa lei, vuole
far uscire di testa me; La tata deve aver notato lo smarrimento nei miei occhi, e mi dice di chiudere
il gioco, che e’ stato divertente ma che non sono ancora abbastanza in forma per continuare e mi
manca la pratica e gli adeguati aggiornamenti. Abbastanza in forma? Sembra quasi che sia questa
piccola stronza a torturare me. Questa sua ultima frase mi mette a disagio, mi fa ricordare che
qualcuno ha ucciso mia figlia, mi riporta al mondo e al perché mi trovo in un lurido covo a far del
male ad una sconosciuta; mi ricorda che non servo più ad un cazzo senza la mia bambina. Sono a
vortici, di quelli brutti, e cerco aiuto ne La tata; questa mi osserva seria e muovendo l’indice sotto il
collo mi consiglia di farla fuori. Poi aggiunge: e’ solo un antipasto, ricordati de Il serbo.
Disumanizzato dalle paranoie, sfrutto un momento di lucidità e senza più dare peso alle parole e alle
urla della ragazza mi avvicino alla sedia dove l'ho legata; le stringo i suoi curatissimi capelli castani
con la mano sinistra; ci metto tanto di quella forza da stirare la pelle della fronte. Finalmente smette
di blaterare e riprende ad urlare come una pazza. Le tengo le tempie con la mano destra e la informo
del fatto che adesso le strapperò, pian pianino, tutti i capelli. Deve rimanere concentrata, farfuglio,
deve essere consapevole del fatto che sarà parecchio doloroso, poiché nella zona della fronte passa
tantissimo sangue, una zona molto viva del corpo. Le consiglio quindi di concentrarsi su quello che
le sta per capitare e di smettere di pensare – e soprattutto parlare - alle persone morte. Tenendo
ferma la mano sinistra inizio a girarle la testa con la destra: deve essere estremamente doloroso
poiché strilla come una matta; i capelli si spezzano emettendo uno strano suono simile a quello di
un pianoforte scordato; inizia a grondare sangue dalla fronte, ho come l'impressione che i capelli
non siano l'unica cosa che si sta strappando. Eppure e’ strano, ricordo quando l’ho fatto in passato,
sul corpo di poveri guerriglieri afgani, che la pelle della fronte reggesse questo ed altro.
Il nastro adesivo americano che la inchioda alla seggiola di legno regge alla grandissima: la giovane
muove vorticosamente le mani – soprattutto quella che adesso sembra uno zampone - ma le braccia,
nastrate sui braccioli intarsiati della sedia, non riescono a spostarsi di un centimetro, come
d’altronde le gambe ed il busto – ma nel caso delle gambe, c’e’ qualche martellata di troppo a
rendere i movimenti ostici, rifletto.
Modero la presa della mano destra sul viso della ragazza; aspetto che la smetta con le urla e le
racconto di nuovo che, una volta, in Egitto, ho fatto lo stesso ad un neretto che non voleva dirmi
dove teneva un mucchio di soldi non suoi. Le dico che quasi subito parlò e io lo liberai. Le chiedo
se si ricorda che forse le avevo già raccontato di quel negretto. Che forse il finale era diverso da
quello che ho appena esposto. Le rivelo che quella del negro e’ una storia di fantasia, una di quelle
che studiano gli psicologi quando ti insegnano le forme più subdole di tortura psicologica, ma che
qui siamo nella realtà e nella realtà io la torturerò fino a quando non sarò soddisfatto, e cioè fino a
quando non sarà morta a causa delle atroci sofferenze.
Scoppia a piangere più forte che mai e inizia ad implorare pietà. Probabilmente il suo microscopico
cervellino ha staccato la spina a tutti i segnali di dolore e ha lasciato in funzione solo l’istinto di
sopravvivenza. Inizia a farfugliare delle cose che sembrano nomi propri di persona: distinguo con
una certa difficoltà la pronuncia di un certo Marco ed una certa Stefania. Biascica che sono stati
loro, che gliela volevano far pagare per una volta in discoteca, che sono loro due ad aver portato i
coltelli, che lei non si sarebbe assolutamente immaginata che sarebbe finita in tragedia, che lei
pensava, era sicura volessero solo spaventarla, ed invece quando Marco ha estratto il serramanico
l’ha usato veramente. Stefania teneva ferma Silvia mentre Marco la accoltellava, aggiunge in un
diluvio di lacrime.
Non riesco quasi a dare un senso alle sue parole: e’ troppo presto per tornare alla realtà, il ricordare
che qualcuno ha ucciso mia figlia. Osservo la ragazzina e le domando se si rende minimamente
conto che quando afferma di non essere stata parte della cosa sta indirettamente facendo passare per
bugiarda La tata e, La tata, non e’ persona che accetta tanto di buon grado l’essere definita bugiarda.
La tata si alza, infatti, avvicina la faccia alla ragazzina e con un tono dolce le chiede dove e’ andata
a finire la collana Dior che indossava mia figlia. La ragazzina sembra impazzire sentendo quella
frase, dice solo che gliela ha data Marco come pegno per non aprire bocca. La tata le chiede come
abbia fatto Marco a dargliela se si e’ costituito subito dopo l’omicidio, insieme a Stefania. Questa
cosa che si siano costituiti mi fa venire ancora più mal di testa. La ragazza grida che non c’entra
nulla, che la collana gliela hanno data prima di ucciderla. La tata la osserva severa e le dice che,
inevitabilmente, non ci sono alternative al come, dove e quando si è procurata quel gioiello. Qui la
ragazza sgabbia alla grandissima ed inizia ad urlare che Silvia era una puttana, che sapeva tutto lei,
che le stava sul cazzo. Continua confessando che, secondo lei, hanno fatto bene a farla fuori! Che si
credeva una perfettina, una fottuta perfettina del cazzo. Una di quelle so tutto io, la città qui, la
moda là; tutto questo inframmezzato da innumerevoli viscida puttana.
Che strana reazione, ma mi sono rotto il cazzo delle inaspettate reazioni della giovane stronza;
questa e’ l’ultima volta che la sento dare della puttana alla mia bambina, perché adesso mi sto
innervosendo, adesso sono incazzato per davvero.
Sorrido allungando le labbra per mezzo metro, ma non con uno di quei sorrisoni del tipo ehi belli,
guardate come mi diverto; no cazzo, assolutamente no, sorrido del tipo ehi, o ho una cazzo di paresi
al viso oppure sto per metterlo nel culo col sabbione a qualcuna. Ed in effetti, con la mano sinistra
ancora avvinghiata ai capelli le piego la testa in modo che il suo orecchio sinistro entri a contatto
con la spalla; in questo modo ho la piena visuale del lato destro della faccia della mia povera vittima
della quale mi sono dimenticato di chiedere il nome. Ad ogni modo, ha ripreso ad urlare come una
pazza. Probabilmente si rende conto di aver cagato fuori e che le sta per capitare qualcosa di molto,
ma molto brutto. L’epilogo, cazzo se le si legge in quella spaventatissima faccia che ha intuito che
si trova dinnanzi all’epilogo della sua giovane ed inutile vita. Lascio che l’istinto omicida, quello
che ho lasciato a sonnecchiare per decenni prenda il sopravvento; e’ da tanto tempo assopito tipo il
nano Pisolo, ed adesso sarà affamato, il mio caro fanciullino assetato di sangue. Ed ecco che,
quindi, lascio sfogare l'amico invisibile, senza alcuna inibizione, nessun freno. Pronunciando un
grottesco e allungato ciao, carico sopra la testa della bamboccia il braccio destro. Preso un bel
respiro, parte un primo pugno sul viso della ragazzina, a pochissimi centimetri dall’ematoma
prodotto dallo strappo dei capelli; il sopracciglio superiore le si apre lasciando scoperta la carne e
ad, occhio e croce, qualcosa che assomiglia all’osso cranico. Parte un secondo pungo tanto forte che
perdo la presa sulla fronte: senza volere le ho strappato l'intera ciocca di capelli che utilizzavo per
tenerle ferma la testa. Seleziono una nuova ciocca di capelli sulla quale far presa; la ragazzina deve
essere svenuta per le botte, ma non importa più, ormai il fanciullino invisibile si è destato e adesso
sarà impossibile fermarlo.
Non so quanti pugni le abbia sganciato: ho perso il conto; so solo che quando mi sono fermato le
lacrime scendevano ancora dal mio viso e il volto della ragazza, ormai deceduta, era praticamente
irriconoscibile. A destarmi e consentirmi di riporre in uno dei cassettini dell’anima il fanciullino
assetato di sangue e’ stato un penetrantissimo odore di disinfettante proveniente dalle mie spalle.
Ancor prima di ruotare la testa per capire se hanno aperto una sala operatoria dietro di me, mi rendo
conto che La tata sta parlando, anzi sta discutendo animatamente con Anna che deve essere arrivata
senza che nemmeno me ne accorgessi, tanto ero immerso nel dare una lezione esemplare ad una
giovane d’oggi. Anna e’ vestita come suo solito: una giacca anche d’estate ed una gonna nera stretta
stretta che le mette in risalto un culo non più perfetto quanto dieci anni prima. Da quello che sto
intuendo, Anna e’ soddisfattissima del lavoro svolto da La Tata, ma le scoccia aver notato che i cani
erano portati a quello stadio di aggressività attraverso vistosi maltrattamenti. Sia chiaro: il bello di
Anna e’ proprio il fatto che davanti ad un video nel quale viene sbranato un bambino, lei si
preoccupa del trattamento che hanno riservato ai poveri animali. Lai e’ una di quelle che ha una
visione materna dell’obiettivo: se uno dei suoi, per esempio, si graffia il ditino mentre sgozza le
figlie di un qualche politico sudamericano, lei e’ la prima ad accorrere in suo soccorso con un i
cerotti. Per questo e’ considerata un’ottima datrice di lavoro: e’ una che ci tiene che le cose siano
fatte come si deve. Anna smanetta sulla videocamera fino a riuscire ad estrarre la scheda di
memoria che fa sparire dentro una delle tasche della borsetta. Non si gira ad osservarmi, continua a
battibeccare con La tata riguardo, stavolta, al fatto che mandarla “in ferie” insieme ad uno dei corpi
speciali e’ qualcosa al di fuori delle sue possibilità. Intanto che discutono mi giro ad osservare la
cosa che produce odore di disinfettante da ospedale. Mi trovo a fissare il capo spazzino. Non
l’avevo mai visto prima – quando Anna si e’ sposata lui non c’era, provocando a suo tempo le ire
più nefaste della sua capo ed il mio dispiacere nel non conoscere tale stravagante e possentemente
chiacchierato personaggio. Non conosco nemmeno il suo nome, so solo che lo perculano con il
nomignolo Zeiss, perché ci vuole una lente di ingrandimento per vederlo. Pensavo fosse un
soprannome dedicato ad un’eventuale bassa statura, ma mi accorgo con sorpresa che Zeiss e’ un
autentico nano. Uno di quelli che se gli metti un naso rosso finto non può fare altro della sua vita
che lavorare al circo. Zeiss e’ seduto su una grossa borsa nera in gomma che emette il fortissimo
odore di disinfettante. Anche lui, come la sempre più irritata Anna, non si cura affatto di me: e’
impegnato a scarabocchiare su una di quelle riviste di sudoku che si trovano in tutte le edicole degli
aeroporti. Quasi mi si vela in faccia un mezzo sorriso nel tanto che penso che in questo lurido
scantinato c’e’ buona parte della dirigenza dei dipendenti di una delle organizzazioni di sicari più
pagata al mondo, e nel vedere il nano con il fottuto sudoku in mano, mi rendo conto che sembra di
essere di fronte a grotteschi fenomeni da baraccone. Ad un tratto, da Zeiss si sente attaccare la
comunicazione di una ricetrasmittente che gracchia una frase simile a pronti al contenimento. Zeiss
salta in piedi dal borsone e prendendo la ricetrasmittente risponde con un semplice arrivo. Infilando
la rivista in tasca dice ad Anna che Il serbo ha finito e che lui sta andando a far pulizia.
Rivolgo nuovamente la mia attenzione verso la ragazza che ormai non ha più nulla di riconoscibile
nel viso. La osservo per un tempo indefinito: con la morte della mia bambina mi stanno capitando
sempre più spesso momenti di assenza prolungati – forse ore. Non sono in grado di dire quanto
tempo sia trascorso da quando mi sono imbambolato di fronte al cadavere della donna, ma anche in
questo caso e’ un odore a riportarmi nel mondo reale, odore di polvere da sparo. Osservo di fronte a
me un’anomalia: non c’e’ più la ragazza, ma una giacca nera con un marchio Sisley sulla sinistra.
Alzo lo sguardo e incontro la faccia de Il serbo. Quando ero ragazzino sotto i mercenari francesi, lui
era già una celebrità, Billy the kid, lo chiamavano al tempo. Roba da far cagare addosso il più
vantato pistolero del far west: cinque colpi, cinque maledetti e precisissimi colpi al secondo.
Celebre come la perfezione di pistolero, tanto celebre da averlo spedito per una lunga, lunghissima
missione in Serbia, dalla quale è tornato con il nuovo nomignolo de Il serbo. Ma prima di quella
missione, abbiamo avuto l’occasione di lavorare bene assieme. Faccio difficoltà a riconoscerlo: e’
invecchiato, ha occhi stanchi e mi sembra più bassottino di come lo ricordavo. Mi fissa e capendo
che ho ripreso un pochino delle mie facoltà mentali mi informa del fatto che c’era una donna al
commissariato. C’era. Ho l’impressione che mi stia comunicando che sono diventato vedovo. Gli
rispondo con una sola parola: grazie. Senza dirmi altro, si gira e si incammina verso il tavolone in
legno dal quale precedentemente ho preso il martello. Estrae dalle tasche della giacca qualcosa
come otto pistole – denoto che, se l’arma preferita de Il serbo e’ rimasta la pistola, anche il suo
modo di operare non sarà cambiato: colpo preciso alla nuca per poi scoparsi il cadavere, se ne ha il
tempo. Sbuffando un sinistro pesavano, si gira verso Anna e La tata aspettando una pausa nel loro
battibeccare. Chiamando La tata Lella, le chiede il favore di dargli una mano a scaricare il ragazzino
dall’auto. Lella risponde con un apatico arrivo Checco ed insieme si allontanano verso la porta dello
scantinato. Intanto Anna si avvicina a me lentamente, si ferma a pochi centimetri e osservandomi a
lungo negli occhi cambia espressione del viso piazzandosi in faccia una smorfia di disappunto.
Abbassa lo sguardo sulla borsa, estrae una specie di contenitore di plastica, ne estrae un altro
francobollo e mi ordina di infilarmelo in bocca. Lo faccio e dopo alcuni secondi sento come uno
schiocco nelle orecchie ed un fastidio incredibile alla mano. Solo allora mi accorgo di aver le
nocche gonfie e spaccate a causa dei pugni che ho dato alla ragazza. Sento quella depressione che
mi aiuta ad essere certo di essere tornato in me: nervoso, triste e desideroso di conoscere il merda
che ha ucciso mia figlia. Sputando il francobollo ringrazio Anna e le prometto che ripagherò fino al
fottuto ultimo centesimo il debito contratto con lei. Mi guarda con occhioni tristi e mi dice che non
e’ il momento di pensare a questo ma di impegnarmi ad ottenere ciò che voglio. E cazzo se lo farò;
intanto sento il rumore dei passi de La tata che, trascinando qualcosa, sta tornando nello scantinato.
Non faccio in tempo a domandarmi come mai La tata, che prima ha dimostrato tanta forza, ora
debba trascinare la borsa, che questa si fa viva con un borsone tenuto con la destra e un altro
trascinato con la sinistra. Per un attimo non avevo dato peso a quello che ha detto prima la ragazza,
e cioè che non era una sola persona ad aver ucciso mia figlia, ma due. Il serbo, che tutto gli si può
recriminare tranne di essere uno che non bada ai particolari, ha preferito portare entrambi in modo
da non lasciare nessuno impunito. Dietro La tata, Il serbo trascina una terza borsa. Non faccio in
tempo a chiedermi chi cazzo possa essere che Anna mi dice che sospetta esserci la mia ex moglie lì
dentro. Non so esattamente che merda ci fosse nel francobollo, ma deve essere qualcosa di diverso
da quello somministrato precedentemente da La tata: mi sento abbastanza divertito e spensierato,
oltre che depresso e sull’orlo dell’esaurimento nervoso. Intanto, lo spirito arlecchino sprigionato dal
francobollo mi consente di farmi entrare in testa una geniale idea: a Il serbo chiedo se abbia voglia
di scoparsi il cadavere della mia ex. Lui fa un’espressione del tipo non me ne frega un cazzo ed io
sono contento, poiché la cosa mi aiuterà ad insinuare il giusto terrore nei ragazzi che sto per
torturare a dovere.
Alzando gli occhi al cielo, Anna sbotta uno schifato ma andate affanculo e rivolgendosi a La tata le
chiede se ha voglia di andare a prendere qualcosa da bere in un chioschetto al mare, uno di quelli
del poetto. La tata risponde come Il serbo, che non gliene frega un cazzo e, prendendo la capo a
braccetto ci dice di inviarle un sms quando abbiamo finito, e di non scordarci di chiamare gli
spazzini per lo sgombero. Le donne ridacchiando – credo – dell’espressione da maniaco sessuale
che gli si sta spiaccicando in faccia a Il serbo e spariscono dalla porta d’ingresso.
Ora, capisco siano gag che lasciano il tempo che trovano, ma hanno un effetto maestosamente
terrificante sui giovanotti che, estratti dai sacchi, ancora giacciono sul pavimento legati per bene
con del nastro americano. Non e’ minimamente possibile descrivere l’espressione della ragazza
quando le dico che quella poltiglia con il corpo da diciottenne e una cosa irriconoscibile al posto
della testa e’ quella loro cara amica che s’e’ presa la catenina Dior di mia figlia. Non c’e’ modo di
descrivere lo sguardo ripeto, come non c’e’ modo di descrivere le urla che sono esplose dalla sua
piccola bocca quando, sollevato sopra la testa, ho sbattuto con tutte le mie forze il cadavere della
ragazzina contro un mio ginocchio, più o meno come fanno i lottatori di catch, provocando la
frattura della spina dorsale del cadavere – frattura tanto marcata da aver reso a v il corpo della
deceduta. Con un sorriso enorme sul viso, borbotto alla ragazza che, in questo modo, il corpo della
sua amica e’ più facile da mettere nel sacco nero. Come dicevo, la ragazzina e’ in preda all’orrore
più nero, mentre il ragazzino, visibilmente spaventatissimo, riesce a stare in silenzio – anche se con
due occhi rossi spalancati.
Dall’angolo dove precedentemente stava seduta La tata, prendo una seconda sedia che metto a
fianco a quella puzzolente di escrementi utilizzata con la ragazza. Su quella pulita ci siedo il
maschio, sull’altra, quella smerdata, ci metto la femminuccia che inizia ad urlare come una pazza
accompagnata dal fratello finalmente urlante. Non riesco a capire perché tutto d’un tratto si siano
spaventati così, me ne accorgo solo quando mi volto e noto che Il serbo e’ intento a spogliare il
corpo di una donna con metà scatola cranica all’aria – Il serbo ha l’abitudine di sparare con una
traiettoria che va dal basso verso l’alto, con il risultato che buona parte delle ossa craniche finiscono
sparse per l’ambiente. Abbassato i pantaloni e lasciando ben in vista il normodotato sesso,
oggettivamente eccitato, inizia a preparare il cadavere della mia ex per essere abusato. Ora, lo so
che dovrebbe infastidirmi vedere un maniaco sessuale scoparsi il cadavere della mia ex moglie, ma
sinceramente, mi provoca un certo benessere vedere bistrattato anche il cadavere di quella brutta
stronza.
La ragazzina per poco non sviene mentre osserva Il serbo intento a tenere ben in vista il buco nero
sulla testa della mia ex mentre se la sbatte. Mi tocca mettermi di fronte alla giovane, levarle la
visione de Il serbo per qualche secondo per riuscire a tenerla con noi. La rassicuro, le dico di stare
tranquilla e di non preoccuparsi, ma glielo devo ripetere una decina di volte per riuscire a tenerla
abbastanza in riga da non svenire subito. Appena tranquillizzata un briciolo, le dico che sono in
giornata e che le consento di scegliere se essere posseduta dal tipo dietro di me da viva o da morta.
Perché lei sarà la prossima, aggiungo. Mai l’avessi fatto: la giovane gira gli occhi e sviene. Mi tocca
assestarle non so quanti schiaffi per farla rinvenire, ma sta di fatto che la riporto proprio mentre Il
serbo cerca di fottersi alla pecorina il cadavere. Ora, può sembrare il contrario, ma tecnicamente e’
difficile per una persona appena svenuta per shock riuscire a svenire subito una seconda volta,
quindi la giovane si becca lo spettacolo mentre io me la rido alla grandissima – ripeto, cazzo: in
quel francobollo doveva esserci roba strana.
Mi siedo su uno sgabello che ho avvicinato ai ragazzi, osservo Il serbo che, finalmente soddisfatto,
sta appollaiato sopra il cadavere della donna nel tentativo di farsi passare il fiatone. Giusto perché
psicologicamente li farà a pezzi, inizio a chiacchierare del più e del meno con Il Serbo. Gli chiedo
se ha lasciato qualcuno in vita, qualche superstite nella questura. Seccato pretende che io mi ricordi
come lui considera anche un solo superstite un fallimento totale. Gli dico che sarà un bel casino per
gli spazzini, allora. Mi dice di non essersi mai preoccupato in tal senso. Gli chiedo, ma e’ una
domanda retorica, come cazzo faranno Zeiss e i suoi a coprire la cosa questa volta. Risponde, anche
se secondo me aveva capito che non c’era bisogno di farlo, che, se necessario, faranno una
demolizione controllata spacciandola per un cedimento strutturale, che sono capaci di questo e di
altro. Ridacchio e, sorpresa, come inizio a ridere il ragazzo scoppia a piangere maledettamente,
come una ragazzina, come una checca isterica. E la cosa mi dispiace, mi dispiace un mucchio,
poiché volevo un fottuto uomo, volevo torturare qualcuno con i coglioni, non una femminuccia
capace solo di accoltellare una ragazzina indifesa; questo pensiero riporta a livelli d’allarme il mio
nervosismo.
Mentre i miei occhi cercano di sfuggire alla visione del bimbo di merda piagnucolante, lo sguardo
mi si fissa su una vecchia cassetta degli attrezzi, di quelle tipiche all’americana: non so perché ma
sono sicuro che al suo interno troverò tanti attrezzi molto utili per dare luogo ad una soddisfacente
punizione medievale. Sorrido. Come mi capita spesso ultimamente, sembra che il mio sguardo sia
molto semplice da decifrare. Tanto che, Il serbo, sempre con il fiatone, mi chiama e mi chiede se sto
ascoltando. Inizialmente non capisco di cosa stia parlando, ma poi ripete di ascoltare bene, che c’e’
qualcosa che mi sta chiamando. Sempre più stranito e innervosito, gli domando di che cazzo sta
parlando; mostrandosi chiaramente infastidito, mi domanda come mai a lui non e’ sfuggito un
giocattolo tanto divertente mentre a me, che un tempo ero maestro della tortura, non ha attirato per
nulla l’attenzione. Per la seconda volta in pochi minuti, gli domando di che diamine stia blaterando,
ma questa volta non mi impegno affatto nel nascondere un tono estremamente innervosito. Lui mi
dice di dare un’occhiata alla legnaia, sulla sinistra. Sbircio e finalmente capisco: un bel barattolo,
bello grosso, di pece. Per tutta la merda del mondo, bella storia una catramata, ma non conosco
nessuno che sia resistito più di qualche secondo allo shock termico provocato già dalle prime
ustioni. Esprimo questa mia considerazione ad alta voce ed Il serbo mi dice che anche la tortura si
e’ evoluta negli ultimi venti anni e di prendere una delle siringhe che si trovano nella tasca interna
della sua giacca. Conoscendo quel bastardo de Il serbo, dentro quelle spade ci deve essere un
qualche eccitante merdosissimo, frutto della tecnologia di non si sa quale fottuta compagnia
farmaceutica, da somministrare prima di una tortura – di quelle cose che ti accendono tutti i sensi
proprio quando li preferiresti avere tutti spenti. A dire il vero, non avrei mai scommesso una lira che
Anna consentisse l’utilizzo di farmaci o stronzate chimiche in grado di far passare una tortura
cinese in un massaggio shiatsu: deve essere che buona parte dei suoi ricchi clienti pretendono molto
dolore e, da quello che so, loro – o noi, ormai – sono tra i pochi a fornire la documentazione al
riguardo – snuff movie compreso nel prezzo, in parole povere. Quindi e’ possibile anche che sia
Anna a comprare sta roba, ma non ci avrei mai dato un pelo del culo – ripeto, lei ha la sua etica.
Presa dalla stretta tasca una delle siringhe, domando a Il serbo che maledetta schifezza ci sia dentro,
giusto per aggiornarmi ed uscire dal turbine di quesiti che mi sono posto pochi istanti fa. Risponde
dicendo che nella spada ci deve essere qualcosa che provoca dolore, ma non sa dire altro, se non che
e’ altamente cancerogeno. Rimugino quell’altamente cancerogeno e arrivo alla conclusione che non
mi devo preoccupare che qualche tumore si possa diffondere su questi ragazzi oggettivamente in
procinto di lasciarci lo stesso le penne.
Con la spada in mano, mi avvicino alla pece. Prendo in mano il grosso barattolo e sogghigno nel
constatare che e’ bello pieno. Qui tutto sembra messo per caso, ma stranamente mi da l’idea che sia
stato organizzato per rendermi più facile la missione, e questa constatazione si fa sempre più densa
mentre piglio per un piede un fornello da campeggio che si accende al primo colpo – troppo strano
per qualcosa che, a vedere tutta la polvere che c’e’ sopra, sembra giacere lì, tra le cianfrusaglie, da
anni. Ad ogni modo, metto a scaldare il catrame e zampetto nuovamente verso i miei giovani amici.
Mi siedo su una cassetta di legno che scricchiola in modo losco sotto i miei centocinquanta chili.
Giusto per evitare la figura di merda di trovarmi a culo a terra causa sfondamento della cassetta, mi
rialzo, prendo un lercio bidone di vernice in metallo e ci piazzo sopra il sedere: il bidone sembra
reggere molto meglio. Per qualche secondo cerco di fissare negli occhi il ragazzo che continua a
singhiozzare e a piagnucolare; voglio dire, non che avrei voluto essere il cazzo duro di Batman di
fronte al cazzo turgidissimo di Joker, zero roba da supereroi, però questo che ho davanti e’ la cosa
che si avvicina di più al mio concetto di bamboccio della minchia. Molto, estremamente deludente.
Non so esattamente quale sia la caratteristica del mio carattere che, in questo momento, prende il
sopravvento, ma di certo ci stanno in mezzo una depressione incredibile e due francobolli pieni di
una qualche sostanza che mi ha rimandato su di giri rendendomi completamente privo di sensi, di
voglie, di sentimenti. Ma in tutto questo, mi rendo conto di aver una gran voglia di far del male al
ragazzino, mentre la femmina mi da il voltastomaco e la voglio fuori dai giochi il più velocemente
possibile. Prima che il catrame abbia raggiunto la giusta temperatura, ci vorranno ancora una decina
di minuti, quindi ho tutto il tempo di torturare psicologicamente il mio giovane campione.
Senza staccargli gli occhi di dosso per nemmeno un secondo, gli chiedo se abbia mai sentito parlare
dei vegani. Probabilmente non mi ha nemmeno sentito, tanto sta urlando. Alzo la mano fingendo di
dargli un bel ceffone e questo urlacchiando come una vergine stuprata da un netturbino, volta la
faccia e chiude gli occhi. Sta in silenzio, aspettando la botta – che non arriverà. Si volta pian piano
verso di me, con occhioni da frocetto isterico e mi osserva; gli ripongo la domanda. Non risponde.
Sembra darmi attenzione e in grado di dare l’adeguata considerazione a quello che gli sto per dire,
anche se la sorella continua a strillare come una pazza. Gli dico che essere vegani non e’ una dieta,
non e’ un modo di vivere, come non e’ una scelta. Ci si nasce. Probabilmente l’ambiente, i genitori,
i riferimenti, i cazzi vari ti terranno lontano dall’essere vegano per un bel tot della tua vita, ma
quando lo sei, prima o poi torni ad esserlo. Non c’e’ – e per me e’ importante – un qualcosa che ti
faccia essere vegano, poiché lo sei per predestinazione, e’ nella tua natura, come respirare quando si
nasce: un cazzo di nulla te lo ha mai insegnato, eppure quando vieni al mondo, lo sai fare. La stessa
cosa vale per il legame di sangue, non si crea, non si impara, semplicemente ci si nasce avendolo. E
quindi gli domando perché, o per quale ragione, una sola motivazione per la quale la sorella non
deve morire con lui.
Sentendo questo ultimo periodo, scoppia nuovamente a piangere come una checca. Gli chiedo
nuovamente attenzione e gli dico di essere uomo perché almeno in questo ultimo frangente della sua
vita: deve essere in grado di prendere una decisione, fidarsi del vegano che ha di fronte e credere
che dopo che lo avrò ammazzato risparmierò la sorella, o subire davanti ai suoi occhi l’omicidio
della femmina per poi patire, lui stesso, pene ben più dolorose. Piagnucola di non ucciderli –
entrambi sottointeso. Lo osservo incuriosito e gli domando perché mi ha tolto dalle braccia mia
figlia – so che non c’entra un cazzo con tutta la questione, ma non riesco proprio a concepire come
questo cagasotto si sia messo in mezzo alla mia vita togliendomi quello che di più importante
avevo.
Quasi non voglio credere a quello che sento: mi dice che non sa perché l’ha uccisa, che e’ stato un
terribile errore. Che la volevano solo spaventare. E qui mi sorge una di quelle domande che, se non
fossi drogato da quei cazzo di francobolli, mi girerebbero malamente i coglioni: voglio dire, che
genere di spavento vuoi provocare ad una ragazzina con quaranta coltellate? Cioè, aiutatemi a
capire perché, così a primo acchito, proprio non ci arrivo.
Mi alzo fischiettando, impugno un grosso cacciavite che si trova sopra il banco da lavoro alla mia
sinistra e me lo piazzo tra i denti. Tornato dai giovani, rivolgo la sedia del giovane e angosciante
assassino in modo che possa vedere per bene la dolce sorellina che, intanto, prosegue nel suo dolce
piagnucolare, chiedere perodono a Dio, e dimenandosi.
Mister “che cazzo ne so del perché ho ammazzato tua figlia, volevo solo spaventarla” pare rendersi
conto che sta per capitare qualcosa di molto brutto alla sorellina; urla come un pazzo, piange e
sbava; il suo agitarsi in questo modo deve aver spaventato ulteriormente la ragazzina che ora si
dimena come in preda a terribili convulsioni.
Mi posiziono dietro la giovane e, prendo il cacciavite dalla bocca, rassicuro il ragazzo del fatto che
non sia mia intenzione ammazzare la ragazzina, anzi, che la terrò in vita il più a lungo possibile,
giurin giuerello. Mi faccio accompagnare da una di quelle pause sceniche che nemmeno il cazzo più
duro di Dario Argento potrebbe ideare. Proseguo la tortura psicologica domandando al mio giovane
antieroe del cazzo se gli piace il cinema. Io adoro i film di merda, gli dico. Devo ammettere che
dopo la separazione con mia moglie e mia figlia ho avuto un casino di tempo libero da dedicare ad
ininfluenze de stronzi ritardati come il cinema. Spiego al giovanotto come nella fase più depressiva
del tornare single amavo alcolizzarmi di fronte ad una vhs del cazzo. Gli domando se abbia mai
visto i vecchi film di Superman, quelli con gli effetti speciali disegnati direttamente sulla pellicola.
Gli confesso che io li adoravo quei film da bimbi andicappati, tutti e tre: superman uno, superman
due e quello con il negro nerd, superman tre. Tutti santa merda, nessuna eccezione. Però, ma questo
non glielo dico al mio giovane nemico, mi e’ piaciuto il primo Batman, quello con il joker spiritoso,
perché dava l’idea che anche i fottuti coglioni potessero fare i cazzi loro in città provocando la
messa in movimento l’elite dei super eroi del cazzo. In parole povere: e’ bello che anche gli sfigati
la mettano nel culo ai super fighi del cazzo. Ma cerco di tornare alla questione principale, e cioè
Superman. Gli chiedo se sappia cosa e’ successo all’attore che impersonava l’uomo d’acciaio nei
primi tre superman. Il ragazzo non risponde ed io, intanto, strappando senza troppa difficoltà la
camicetta della ragazza, inizio a contare le ossa che formano la spina dorsale. Le conto ad alta voce.
Lei, che sembra più intelligente di quel diversamente abile del fratello, da come ha sgranato gli
occhi, pare sapere che cosa e’ successo al tipo che impersonava l’uomo venuto da Kripton. Senza
smettere di contare, dico che il grande attore, che amava tanto i cavalli, un giorno è caduto,
facendosi tanto, ma tanto male. La ragazzina si dibatte come in preda alle convulsioni, ma non serve
ad un maledetto niente, perché in questo genere di cagate ero un genio, e ad occhio e croce, lo sono
ancore. Lei nemmeno si rende conto che la punta del cacciavite e già in posizione, lei non lo capisce
quando con forza do un pugno al manico dell’utensile. Non so se abbia capito bene che cazzo e’
successo, ma di certo, come per magia, smette di muoversi. Mi tocca allontanare i piedi perché,
come c’era da immaginarsi, la ragazza non e’ più in grado di trattenere le urine e fa un bel laghetto
sotto la sedia. Non rimuovo il cacciavite dalla schiena: levarlo significherebbe uccidere la sfigata;
per accertarmi di non aver sbagliato nulla – dato che in tanti sostengono di trovarmi bello che
arrugginito -, poggio le dita sul collo della ragazza: il cuore batte ancora e sembra che l'apparato
respiratorio funzioni, indebolito ma funziona.
Il ragazzino non urla, non parla, fissa il vuoto; penso sia rimasto shockato, fulminato dall'immagine
della sorella con il cacciavite piantato nella schiena. Chiedo a Il serbo cosa ne pensi della mia
tecnica. Visibilmente deluso, risponde che sono invecchiato e che ho colpito troppo in alto, che la
tipa, anche se le batte ancora il cuore, e’ praticamente morta. Non faccio in tempo a dirgli che non
capisce un cazzo che mi rendo conto che la giovane ha smesso di respirare. Non faccio in tempo a
maledire la sfortuna che Il serbo mi rinfaccia che servirà un duro, anzi durissimo periodo di
addestramento per rimuovere la ruggine dal perfetto torturatore che ero. Tutto questo lo dice con la
guancia ancora appiccicata a quella cerea del cadavere della mia ex moglie.
Mentre battibecco con Il serbo, mi cade l’occhio sul ragazzo che, senza dubbio, e’ andato: come un
mollusco osserva il cadavere della sorella. Decido che questo e’ il momento giusto per rimetterlo al
mondo grazie ad un’iniezione cancerogena ma rivitalizzante. Pungo e, grandissimi cazzi: nemmeno
trascorsi due minuti, ancora con la spada nel braccio, il ragazzino parte ad ululare, dimenarsi e
diventare estremamente aggressivo: strappandosi un bel lembo di pelle, riesce a liberare una mano
dal nastro americano e per poco mi strappa un orecchio. E’ innaturalmente forte, innaturalmente
veloce, maledettamente feroce: quella meravigliosa merda gli ha dato le energie di tre persone. Con
una fatica dannata riesco a bloccargli un bracco e incerottarlo nuovamente sulla sedia. Dietro di me,
mentre sono oggettivamente confuso, Il serbo si sganascia alla grande. Tra una risata e l’altra, dice
che se non sto attento, la ruggine si fotterà per benino mister torturatore vegano. Lo vorrei mandare
affanculo, ma sono troppo occupato a bloccare con una trave di legno la sedia che il ragazzo sta
facendo oscillare in un modo assurdo. Santo cielo: volevo il mio Joker e mi sa di averlo ottenuto per
davvero. Con gli occhi fissi verso l’inespressivo e cianotico volto della sorella, le urla di svegliarsi,
la chiama brutta puttana, le ordina di alzarsi e di andare a chiamare la polizia. Le dice che se non si
sbriga la prossima a vedersela brutta sarà lei; le ordina di muoversi, le dice che gliela farà pagare
cara; in parole povere, il ragazzo e’ uscito di testa. Ma no e’ un grosso problema, l’importante e’
che sia sano e in grado di godere di tutto il dolore che sto per arrecargli.
Saltellando come un puglie – e sudando come un maiale, dato che e’ da anni che non muovo il mio
culone a livello agonistico -, prendo la giusta distanza e, appena il viso del ragazzo e’ inquadrato
alla perfezione gli scaglio un pugno in faccia che, dal rumore, gli deve aver rotto lo zigomo. Un
botto tanto forte che, oltre ad aver rintronato per il locale, ha provocato un grottesco e divertito wow
da parte de Il serbo. Ma, in queste strane circostanze che mi si consumano di fronte, oggi e forse per
il resto della vita, il ragazzino invece che dimenarsi ed urlare come un pazzo, si dimena come un
pazzo, e ride come uno scemo. A lui, che pare innaturalmente vitale, che pare un neonato che grida
il suo bisogno di dire io ci sono in questa dimensione, ogni tanto gli scappa un ululato di felicità,
mentre l’occhio destro gli e’ diventato un grosso pozzo di sangue. E’ strano il suo comportamento,
ma in grado anche di dare grande soddisfazioni: ogni tanto ringhia come un cane malato e urla
assurdità del livello di io ti ammazzo. Trovo un pochino sinistro il suo incantarsi, ogni tanto,
nell’osservare la sorella: sembra una statua, completamente immobile, per poi, trascorsi pochi
secondi, riesplodere in urla e vaneggiamenti senza senso. Un pazzo. A modo suo, fa un po’ di
impressione, perché oltre la pazzia che e’ sempre più indiscutibile, sta sviluppando una forza
incredibile: ho sentito un tonfo sordo provenire dalle sue tennis, che deve aver sfondato inarcando le
dita, cosa che deve essersi fottuto non so quali tendini. Mi sento abbastanza soddisfatto, e tra me e
me borbotto che quello che gli sta per capitare non lo augurerei al mio peggior nemico, dato che sta
ricevendo l’antipasto prima della catramata che, anche senza droghe e cazzi simili, e’ tra le torture
più insopportabili mai pensate.
Aspettando uno di quei momenti nei quali la fissa, gli urlo di guardare adesso e con forza levo il
cacciavite dalla schiena della sorella. Il bamboccio non fa una grinza. Continua ad osservare la
sorella come se niente fosse; infilo il taglio del cacciavite nella bocca del giovane, a mezzo
centimetro da uno degli incisivi, sopra la gengiva, sulla carne bella rossa, e con un forte colpo sul
manico faccio saltare il dentino e un bel pezzo d’osso.
Cazzo, non deve essere piacevole l’asportazione di un incisivo compreso di un interessante pezzo di
gengiva, ma il giovanotto non la pianta di gorgogliare e ridere in mezzo ad un bel bagno di sangue e
saliva; non ho mai visto niente di simile: quella merda che gli ho iniettato deve essere la fottuta
merda più schizoide mai creata. Adesso ringhia che ha ucciso mia figlia, e come ha fatto con lei,
farà con me. Bene, cazzo, e’ questo che voglio: un cazzo di Joker che mi ricordi ogni tanto del
perché sono qui a staccargli i denti a colpi di cacciavite. Intanto, dato che e’ pimpante più che mai,
gli estraggo anche il secondo incisivo. Finito il lavoretto, smette di sparare cazzate ed urla in modo
assordante.
Lo osservo in un attimo che il giovane urlante e sanguinante mi fissa negli occhi; sfrutto l’occasione
per domandargli se il suo dentista ha la mano più leggera della mia; gli domando, inoltre, se sente
tanto dolore e a questa domanda, dietro di me Il serbo inizia a ridacchiare. Ma la cosa strana e’ che
il giovane si paralizza nuovamente ad osservarmi e, con un’inaspettata tonalità di voce giovane e
chiara, completamente priva di tono, mi domanda se mi fa male sapere che la bocca di mia figlia,
quella che mi dava i bacini della buona notte, gli ha succhiato il cazzo e che le stesse labbra, il
giorno prima di essere di una donna morta, hanno assaporato, prima di essere ingoiata, la sua sborra.
Ho uno di quei momenti di confusione che ogni tanto mi tornano se penso a mia figlia, ho un attimo
di incertezza, dovuto anche al fatto che anche Il serbo ha smesso di ridacchiare.
Sono trascorse circa tre ore da quando il ragazzo ha pronunciato la parola sborra; e il mio giovane
amico ha smesso di respirare da due o tre minuti. Le ustioni lo hanno reso simile ad una palletta di
carne coperta dal catrame. Ad un certo punto, quando le pennellate di pece bollente hanno raggiunto
il ventre, il ragazzo si e’ messo in posizione fetale e da lì non si e’ più mosso. Sicuro e’ che ha
sofferto come un cane, ancora più assurdo e’ il commento di Zeiss che, arrivato una decina di
minuti fa, ha sostenuto che se avessi pennellato meglio non avrei sporcato di merda il pavimento.
Ma tolto questa sola frase, per il resto io, Il serbo e Zeiss – che non la ha piantata un istante di
infilarsi le dita nel naso e di mangiare le caccole - siamo rimasti in silenzio ad osservare come
muore un diciottenne. Trascorsi ulteriori dieci minuti nei quali siamo ancora incantati nell’osservare
il cadavere fumante, sempre il capo spazzino si domanda chi avrebbe il coraggio di scoparsi un
corpo ridotto in tali condizioni. Di perse’ la domanda pare illogica, se non fosse che a fianco a Zeiss
– che mi ha già informato della sua intenzione di caricarsi in macchina e scoparsi il cadavere della
sorella del ragazzo - ci sta Il serbo, sognante con una sigaretta in mano che, probabilmente, se non
avesse paura di scottarsi l’uccello avrebbe già usufruito del cadavere in oggetto.
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