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Brigate Rosse - Misteri d`Italia

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Brigate Rosse - Misteri d`Italia
Terrorismo italiano
Brigate rosse
Il sequestro Sossi
Inchieste e controinchieste
IL SEQUESTRO SOSSI
tratto dal libro di Antonio Cipriani e Gianni Cipriani
- SOVRANITÀ LIMITATA, Storia dell’eversione atlantica in Italia Edizioni Associate, 1991
Un parà tra i rapitori del giudice
I sospetti vennero sollevati per la prima volta nel giugno del 1976,
quando il settimanale Tempo pubblicò un servizio sui retroscena del
sequestro del giudice genovese Mario Sossi, rapito il 18 aprile del
1974, durante l’accesa campagna referendaria sul divorzio.
Secondo il settimanale, nel corso del rapimento del magistrato, il
capo del Sid Vito Miceli aveva organizzato una riunione con i suoi
più stretti collaboratori per spiegare il piano che aveva ideato per
liberare l’ostaggio: gli agenti segreti avrebbero dovuto a loro volta
rapire Giovan Battista Lazagna, il partigiano che era stato coinvolto
nelle indagini sui Gap di Feltrinelli, portarlo in una località isolata e
costringerlo con ogni mezzo a confessare dove le Br tenevano
prigioniero Sossi. L’elemento strano di tutta la vicenda era però
rappresentato dal fatto che Lazagna era del tutto all’oscuro della
vicenda del sequestro e, naturalmente, non poteva essere a
conoscenza di nulla. Una circostanza che venne riferita al
settimanale da un ufficiale del Sid che era stato presente alla
riunione. «Lazagna, che non lo conosceva, non ci avrebbe mai
potuto indicare il nascondiglio in cui era tenuto Sossi. Questo
nascondiglio sarebbe stato invece “scoperto” da qualcuno che già lo
conosceva. Una volta individuato, il covo sarebbe stato accerchiato
e si sarebbe sparato. E dentro avrebbero trovato i cadaveri dei
brigatisti, il cadavere di Sossi e il cadavere di Lazagna» 1.
Alle accuse gravissime contenute nel servizio faceva seguito
un’intervista al generale Gianadelio Maletti, ex capo dell’ufficio D
del Sid, che parlò del vero volto delle Brigate rosse. «Nell’estate del
1975…avemmo sentore di un tentativo di riorganizzazione e di
rilancio…sotto forma di un gruppo ancora più segreto e clandestino,
1 Tempo del 20 giugno 1976.
e costituito da persone insospettabili, anche per censo e cultura, e
con programmi più cruenti… Questa nuova organizzazione partiva
con il proposito esplicito di sparare, anche se non ancora di
uccidere… Arruolavano terroristi da tutte le parti, e i mandanti
restavano nell’ombra, ma non direi che si potessero definire di
“sinistra”»2.
Le parole del generale sembravano proprio riferirsi a qualcosa che
somiglia come una goccia d’acqua al misterioso e discusso
Superclan, la strana struttura che aveva come punto di riferimento
la scuola di lingua Hyperion di Parigi. Alcuni giorni dopo l’intervista,
il giornalista di Tempo Lino Jannuzzi convocò una conferenza
stampa per sostenere che i brigatisti erano stati addestrati nella
base di Capo Marrargiu, in particolare nella tecnica dell’attentato
alle gambe3.
Come tanti altri messaggi cifrati, anche quelle rivelazioni si sono
dimostrate sostanzialmente veritiere e, dopo quasi quindici anni,
sono emerse le prove della presenza degli agenti segreti
nell’organizzazione terrorista. Persone la cui identità non era mai
stata svelata e che, all’interno delle Br, hanno svolto ruoli ben più
importanti di quelli affidati ai due infiltrati ufficiali, Silvano Girotto e
Marco Pisetta, agenti provocatori che svolsero tutto sommato
compiti marginali, nonostante a Girotto sia stato attribuito il totale
merito dell’arresto di Curcio e Franceschini.
Una prima ammissione sulle massicce infiltrazioni verrà fatta dal
generale Giovanni Romeo, ex capo dell’ufficio D del Sid, che il 22
novembre 1990 deponendo in seduta segreta davanti alla
commissione Stragi, parlerà degli uomini del suo reparto «inseriti
all’interno delle Br». «L’onorevole Staiti di Cuddia delle Chiuse mi
ha chiesto che cosa abbiamo fatto in materia di antiterrorismo
come reparto D. Abbiamo seguito l’intera problematica del
terrorismo in modo molto attento, ottenendo risultati o insuccessi
come hanno fatto tutte le altre forze di polizia. Posso soltanto dire –
ed è per questo che ho chiesto la seduta segreta perché vi sono
uomini che potrebbero ancora pagare caro – che quando furono
arrestati per la prima volta Franceschini e Curcio l’operazione era
del servizio. Dopo la fuga dal carcere di Casal Monferrato di Curcio,
protetto dalla moglie, egli fu arrestato una seconda volta a Milano
insieme a Nadia Mantovani in via Maderno e tutta l’operazione di
preparazione, ad eccezione della parte finale compiuta dai
carabinieri, è stata condotta nel corso di svariati mesi dal reparto D
2 Ibidem.
3 Giuseppe De Lutiis, Storia dei servizi segreti in Italia, Editori riuniti, cit., p. 248.
il quale ha rischiato uomini e ha operato in maniera veramente
eccellente. Quando tutti parlavano di dover affrontare il terrorismo
mediante infiltrazioni, il reparto D lo aveva già fatto; ed è per
questo che è pervenuto a quei risultati. Se questa informazione
verrà fuori molti uomini potranno correre pericoli»4.
Gli uomini ai quali si riferiva il generale, ovviamente, non potevano
essere né Girotto né tantomeno Pisetta. L’ex capo dell’ufficio D
aveva fornito la prova di un’attività molto più profonda dei servizi
dentro le Br che, come vedremo, era già stata rivelata, seppur di
sfuggita, in un libro di memorie scritto nel 1988 dal generale dei
carabinieri Vincenzo Morelli, esperto di terrorismo e, per un
periodo, collaboratore di Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Anche durante l’operazione Sossi, dunque, i servizi segreti
controllavano le mosse dei brigatisti, tanto da poter conoscere con
esattezza il luogo dove il magistrato era tenuto prigioniero. Ma oltre
a controllare, gli infiltrati cercavano anche di influenzare la strategia
dei terroristi e di renderla il più possibile «omogenea» con altri
interessi politici. E quando il meccanismo non procederà secondo i
piani previsti, gli stessi servizi segreti non esiteranno ad arrestare i
due capi storici delle Br, diventati un ostacolo per lo sviluppo
cruento del terrorismo selettivo. Una decapitazione che coinciderà
stranamente non con una crisi, ma con un rilancio delle Brigate
rosse, che assumeranno sempre di più quella fisionomia disegnata
dai teorici del Field manual.
Le indagini sul sequestro del giudice Sossi, nonostante le rivelazioni
del 1976, non furono mai approfondite. Altrimenti i giudici
avrebbero scoperto che nel gruppo brigatista che portò a
compimento l’operazione, c’era anche una persona, il cui nome non
è mai comparso nel corso delle inchieste sul terrorismo rosso, che
sembra corrispondere a tutte le caratteristiche del «brigatista
atlantico» descritte dal settimanale Tempo su suggerimento del
generale Maletti. Il nome di battaglia di questo personaggio è
«Rocco»5, ex paracadutista, grande esperto di armi ed esplosivi,
perfetto conoscitore della tecnica della gambizzazione.
Iscritto al Pci, proprietario di un negozio nell’hinterland milanese,
«Rocco» era entrato in contatto con le Br nel 1971, poco tempo
dopo l’operazione Pirelli-Lainate. E proprio durante la fase di
approccio con i terroristi rossi, un puntuale attentato aveva
distrutto la sua auto. Un curioso parallelismo con l’attestazione di
4 Audizione del generale Giovanni Romeo, in Atti commissione Stragi.
5 Negli anni successivi alla pubblicazione del libro da cui è tratto questo capitolo, il nome di “Rocco” è venuto
fuori: si tratta di Francesco Marra.
«rivoluzionario» che ebbe Silvano Girotto, ripetutamente indicato in
maniera strumentale come un pericolo pubblico dalle colonne del
Candido diretto da Giorgio Pisanò perché fosse accreditato
nell’ambiente dei terroristi.
Nelle Br «Rocco» non ha svolto un ruolo secondario, tanto da
partecipare in maniera operativa a quella che venne considerata
all’epoca la più grossa e clamorosa azione dei brigatisti. L’ex parà si
era conquistata stima e considerazione per la sua ottima
preparazione militare e per le capacità organizzative espresse. La
sua iscrizione al Pci rappresentava poi una sorta di immunità dai
sospetti che poteva suscitare un rivoluzionario con un passato da
parà e buone conoscenze tra fascisti e funzionari di polizia. Del
resto «Rocco» non aveva mai nascosto di essere stato un
paracadutista, di essere stato addestrato in Toscana e in Sardegna
e di essere introdotto, proprio per il suo passato militare, nei circoli
della destra. Si offrì anche di andare per conto dell’organizzazione
in un locale di Milano poco distante da piazza Piola, frequentato dai
fascisti, a raccogliere informazioni. Esperto nell’uso del pugnale,
assai abile nel maneggiare le pistole e nella tecnica del ferimento
alle gambe, la sua specialità era quella di fabbricare le bombe,
avendo a disposizione poco esplosivo e utilizzando qualsiasi
materiale. Proprio come sapeva fare benissimo il templare Pierlugi
Ravasio, un altro ex paracadutista, addestrato a Capo Marrargiu, la
cui figura comparirà nel corso dell’ultima inchiesta sul sequestro
Moro.
All’interno dell’organizzazione «Rocco» si era anche dimostrato
particolarmente efficace nel saper trovare armi e munizioni. Alfredo
Buonavita, quando si pentirà in carcere e comincerà a raccontare
tutto quello che sapeva sulle Br, arrivato al sequestro Sossi
«dimenticò» stranamente di fare il nome di «Rocco» e, per far
corrispondere il numero dei brigatisti coinvolti con quanto accertato
dalla magistratura, chiamò in causa anche Mario Moretti che, al
contrario, era del tutto estraneo alla gestione materiale del
sequestro, ma si era limitato a prendere parte alle riunioni
dell’esecutivo che si svolgevano alla cascina Spiotta per discutere
l’andamento politico e organizzativo dell’operazione.
Brigatisti strettamente sorvegliati
Il sostituto procuratore di Genova Mario Sossi, grande accusatore
nel processo a carico dei componenti del gruppo XXIII ottobre,
viene rapito alle 20.50 del 18 aprile 1974 davanti alla sua
abitazione di via Forte dei Giuliani, mentre torna dall’ufficio. Un
gruppo di sei brigatisti, tra cui «Rocco», lo aggredisce e lo carica a
forza su un furgone, mentre due passanti che hanno assistito alla
scena cercano di intervenire ma vengono allontanati sotto la
minaccia delle pistole. I terroristi fuggono con l’ostaggio sul furgone
e su una 127, senza sparare un solo colpo.
Chiamato «dottor manette», iscritto durante l’università al Fuan,
l’organizzazione missina, i brigatisti erano convinti di aver catturato
un simbolo di quel potere che loro volevano combattere.
Racconterà Alberto Franceschini, uno degli ideatori dell’operazione:
«Sossi era stato il pubblico ministero contro Mario Rossi e la banda
XXII Ottobre, aveva chiesto e ottenuto l’ergastolo. Aveva diretto
processi contro compagni, ordinato perquisizioni, era il giudice della
‘controrivoluzione’, del progetto delle destre di arrivare al golpe
bianco. Avevamo individuato anche i protagonisti principali di
questo grande progetto: i leader democristiani di allora, Fanfani,
Andreotti, Taviani, ministro dell’Interno, genovese. Così Sossi
andava bene anche per questo: lo vedevamo… come l’uomo di
Taviani, l’uomo del grande progetto nella magistratura»6.
Non c’è dubbio che l’«obbiettivo» Sossi fosse stato individuato
autonomamente. Ma sia le fasi della preparazione che
dell’esecuzione e infine della gestione del rapimento saranno
strettamente sorvegliate da alcuni settori dei servizi segreti che
lasceranno fare e, in qualche caso, si adopereranno perché il
progetto brigatista non fosse troppo ostacolato. Lo stesso Mario
Sossi, una volta liberato, diede l’impressione di essersi accorto
dell’esistenza di questo meccanismo perverso.
Un episodio strano si verificherà proprio la sera stessa del
sequestro. La A 112 sulla quale Alberto Franceschini e Pietro
Bertolazzi trasportavano l’ostaggio rinchiuso in un sacco alla
«prigione del popolo» che si trovava a Tortona, era stata
intercettata ad un posto di blocco dei carabinieri. Il percorso da
Genova a Tortona era di circa 70 chilometri. I brigatisti avevano
previsto che la sera del sequestro tutte le strade si sarebbero
riempite di polizia e carabinieri e avevano deciso quindi di far
precedere la A 112 con a bordo Mario Sossi da una 128 guidata da
Margherita Cagol. «Mara» avrebbe dovuto segnalare con una
ricetrasmittente legata allo specchietto retrovisore l’eventuale
presenza di pattuglie. A metà percorso la moglie di Renato Curcio
6 Piervittorio Buffa, Alberto Franceschini e Franco Giustolisi, Mara, Renato e io, Mondadori, 1980
era stata fermata ad un posto di blocco e non aveva fatto in tempo
ad avvertire i suoi compagni. Franceschini e Bertolazzi quindi si
trovarono davanti ad un carabiniere che con la paletta aveva fatto
loro cenno di accostarsi. Racconterà Franceschini: «Io rallento come
per obbedire e poi accelero di colpo. Il carabiniere si butta di lato e
dallo specchietto vedo la macchina di Mara 7 ferma: le stanno
controllando i documenti… Mara l’hanno sicuramente arrestata: è
difficile per lei spiegare il possesso di una ricetrasmittente» 8.
Margherita Cagol invece era stata incredibilmente lasciata andare.
Inquietante è anche un episodio che si era verificato il giorno
precedente il sequestro. L’operazione doveva scattare esattamente
24 ore prima, ma nel giorno previsto Sossi, che era sempre stato
puntuale all’uscita dal palazzo di giustizia e al ritorno a casa, per
chissà quali motivi non era rientrato. Fu per questo che i brigatisti
decisero di rimandare il sequestro e per non viaggiare con la A 112
imbottita di armi fino a Tortona, decisero di parcheggiare la
macchina in un paesino poco distante dalla città, a Torriglia.
Arrivarono nella piazza principale, scesero dalla A 112, lasciando le
armi nel portabagagli, ripartendo sulla 128. Tornarono a prendere
l’auto il giorno dopo. Ma nella notte, quella macchina parcheggiata
lì da alcuni sconosciuti aveva suscitato la curiosità di qualche
avventore dell’unico bar della piazzetta. Erano stati chiamati i
carabinieri che dopo aver controllato l’auto non fecero nulla. Così la
A 112 che sfondò il posto di blocco in cui era stata bloccata la
Cagol, era quella già identificata dalle forze di polizia qualche ora
prima.
Il rapimento del magistrato provocherà un’ondata di reazioni
sdegnate,
compresa
quella
dei
lavoratori
genovesi
che
sciopereranno in segno di protesta. Il Corriere della Sera parlò di
«atto deliberato di provocazione»9; anche la sinistra sostenne la
tesi dell’azione provocatoria per condizionare gli esiti del
referendum sul divorzio. Titolerà il Manifesto: «I provocatori fascisti
che hanno rapito Sossi minacciano di ucciderlo fingendo un ricatto
politico. E’ la stessa mano della strage di stato che ora sfrutta la
tensione del referendum»10.
Il commento dell’Unità non sarà molto diverso, anche se conteneva
alcuni elementi di analisi che in seguito risulteranno fondati. «Si
vuole seminare il terrore per cercare di far passare come necessaria
7 Mara era il nome di battaglia di Margherita Cagol.
8 Franceschini, Mara, Renato e io, cit.
9 Corriere della Sera, 21 aprile 1974.
10 Citato in Remigio Cavedon, Le sinistre e il terrorismo.
una soluzione tirannica. A ciò serve anche, non dimentichiamoci
mai, la utilizzazione di sigle e di camuffamenti diversi: dalle Sam
alle sedicenti Brigate rosse… Che le centrali provocatorie siano in
azione è cosa nota. Che le sedicenti Brigate rosse saltino fuori nei
momenti più delicati per favorire la reazione, è altrettanto evidente.
Ciò che appare incredibile è che tutte le polizie italiane non riescano
a fermare questi professionisti della provocazione. O vi è una
macroscopica inefficienza oppure vi sono omertà e compiacenze
ben gravi. Nessuno può credere sul serio alla “imprendibilità” delle
sedicenti Brigate rosse»11. In effetti le Br erano tutt’altro che
inafferrabili. Il Pci, però, allora non sembrava rendersi conto che il
fenomeno brigatista era nato in maniera spontanea, anche se
discretamente protetto e orientato da alcuni settori dello stato. La
tecnica della provocazione era molto più sottile e conteneva anche
margini di rischio. Tant’è che la liberazione di Sossi e le successive
dure prese di posizione del giudice trasformarono l’operazione in
una sconfitta, seppur momentanea, del potere atlantico. Una
lezione che non verrà dimenticata quattro anni dopo, quando si farà
in modo di non far tornare vivo Moro dalla prigione del popolo.
L’elemento anomalo del sequestro Sossi era stato proprio il giudice.
Dopo essere rimasto praticamente muto per tre giorni, soprattutto
per il grande spavento, il magistrato cominciò a parlare –
raccontano i brigatisti – a manifestare un profondo rancore verso il
ministro dell’Interno Paolo Emilio Taviani e i dirigenti della polizia
genovese oltre a un certo disamore anche verso i carabinieri, ai
quali era legato soprattutto tramite l’amicizia con il capitano
Luciano Seno, con il quale si esercitava nel tiro con la pistola. Nella
prigione brigatista Sossi si sentiva abbandonato tanto da dire: «So
che la mia vita, per lo Stato, non vale nulla. Però nella mia attività
di magistrato mi sono capitate tra le mani inchieste particolarmente
delicate che ho insabbiato per ordini superiori e di cui conosco bene
gli estremi. Se ve le racconto e voi le rendete pubbliche forse
riusciamo a salvarci tutti»12.
Si parlò, tra carcerieri e giudice, di un traffico di armi e diamanti
con una nazione africana che avveniva con la complicità del
dirigente dell’ufficio politico della questura di Genova, Umberto
Catalano e dei titolari dell’armeria Diana, Renzo Traverso e
Giuseppe Lantieri. Un traffico al quale non sarebbe stato estraneo lo
stesso ministro Taviani. Quelle rivelazioni furono quasi subito rese
11 L’Unità, 22 aprile 1974.
12 Buffa, Mara, Renato e io, cit.
pubbliche dalle Br. Avrebbero rappresentato il primo degli
imprevisti dell’operazione. Subito dopo il rilascio e anche
successivamente, Sossi smentirà con decisione di aver mai dato
informazioni. Sosterrà, al contrario, che i brigatisti erano già a
conoscenza di molte cose.
«L’ostaggio deve essere ucciso»
Secondo i brigatisti, nella prigione del popolo il giudice non si era
limitato a raccontare di quel traffico, ma aveva anche parlato di due
militanti di Lotta Continua che lavoravano per conto dell’ufficio
politico della questura di Genova e non aveva risparmiato critiche
feroci nei confronti dello stesso ministro dell’Interno, di Catalano e
del procuratore Francesco Coco. Questa circostanza indusse i
terroristi a cambiare in parte il programma. Racconterà sempre
Franceschini: «Prima del sequestro avevamo discusso, con i
compagni delle ‘forze regolari’, un programma di massima che
prevedeva la richiesta di scambio tra Sossi e i compagni della XXII
Ottobre e la eliminazione fisica del prigioniero se l’obbiettivo non
fosse stato raggiunto. Il presupposto di questa nostra linea era la
certezza che uno come Sossi, che avevamo visto spietato nelle sue
vesti di pubblico ministero, non avrebbe mai collaborato» 13. Il
magistrato, invece, aveva anche insistito per scrivere un biglietto e
chiedere al sostituto procuratore di turno di sospendere le ricerche:
«Pregoti in assoluta autonomia, ordinare immediata sospensione
ricerche, inutili et dannose. Stop» 14. Quel messaggio, una volta
recapitato, suscitò una polemica tra la polizia che avrebbe voluto
proseguire le indagini e la magistratura che le bloccò. Il 30 aprile,
dopo la ripresa delle ricerche della polizia, il magistrato fece
arrivare alla famiglia un altro biglietto dai contenuti analoghi: «Non
sono soltanto io responsabile dei miei errori. Ogni indagine e ricerca
è dannosa»15. Sossi, intanto, continuava a rispondere alle domande
dei suoi carcerieri.
«Brigatista: Dicci quello che vogliamo e poi…
Sossi: Ma io forse non mi sono spiegato. Voi pensate che io vi
consideri degli aguzzini; vedo bene che mi trattate con cura, la
sofferenza è più psicologica.
Brigatista: Pensa un po’ se tu fossi condannato all’ergastolo!
Secondo te dovevano dare l’ergastolo a tutti e quattro i compagni
13 Buffa, Mara, Renato e io, cit.
14 Settegiorni, 5 maggio 1974.
15 Epoca, 1 giugno 1974.
della XXII Ottobre. Perché non hai dichiarato che l’ergastolo a Mario
Rossi è ingiusto? Non lo hai mai detto. E’ giusto secondo te?
Sossi: Dovevo passare di qui per capire quanto sia afflittiva la
detenzione»16.
Mentre era in corso il sequestro, il 2 maggio le Br uscirono
nuovamente allo scoperto. La mattina fecero un’irruzione nella sede
torinese del Centro studi sturziani rubando registri ed elenchi; la
stessa operazione venne ripetuta in serata a Milano, nella sede del
Comitato di resistenza democratica, dove il segretario, Vincenzo
Pagnozzi, fu costretto a consegnare i documenti. Fu quella
un’azione molto più importante di quanto i brigatisti ritenessero.
Durante la «perquisizione proletaria» i brigatisti si impossessarono
dell’elenco degli amici di Edgardo Sogno, che proprio in quel
periodo era in piena attività per preparare il golpe bianco della
svolta presidenzialista. Una copia degli elenchi in seguito fu
nascosta nel covo di Robbiano di Mediglia e venne ritrovata quando
la base venne scoperta dai carabinieri; l’altra sarà ritrovata nella
borsa di Alberto Franceschini, il giorno del suo arresto. Poi i
documenti rapinati al Crd di Milano - protestarono i brigatisti al
processo - spariranno misteriosamente. Ma non sarà questo l’unico
episodio strano di quelle perquisizioni: tra il materiale sottratto
dalle Br a Torino c’era anche una lettera scritta il 30 dicembre 1973
dall’avvocato Giuseppe Calderon e indirizzata al presidente dei
centri sturziani, Giuseppe Costamagna. Quella lettera verrà poi
ritrovata nell’abitazione dello stretto collaboratore di Edgardo
Sogno, Luigi Cavallo, come se l’anticomunista fondatore di Pace e
libertà avesse un canale privilegiato per intrattenere rapporti con le
Br o con parte di loro17.
Il giorno successivo alle due perquisizioni brigatiste, la Cassazione
stabilì che le indagini sul sequestro del magistrato fossero affidate
al tribunale di Torino e la questura di Genova offrì una taglia di 20
milioni per avere informazioni sui rapitori di Sossi. Un’offerta
generosa, dal momento che in alcuni settori dell’apparato di
sicurezza si conosceva benissimo il luogo dove Sossi era tenuto
sequestrato. Poi, alla mezzanotte del 4 maggio, il nuovo
comunicato delle Br con la richiesta di scambiare il giudice con
Mario Rossi, condannato all’ergastolo, e altri sette componenti della
XXII Ottobre: Giuseppe Battaglia, Augusto Viel, Rinaldo Fiorani,
Silvio Malagoli, Gino Piccardo, Cesare Maino e Aldo De Scisciolo 18.
Le Br avevano espresso un giudizio sul processo che si era concluso
16 Cfr. Cantore Dall’interno della guerriglia, cit.
17 Cfr. Gianni Flamini, Il partito del golpe, Bovolenta, 1977.
con una serie di condanne durissime per i componenti della banda:
«Macchinazioni…progettate e messe in atto dalla polizia (CatalanoNicoliello), dal nucleo investigativo dei carabinieri (Pensa), dai
responsabili del Sid (Dall’Aglio-Saracino 19) e coperte da una parte
della magistratura (Coco-Castellano)»20. I prigionieri, era scritto nel
comunicato, avrebbero dovuto essere trasferiti o in Corea del Nord
o a Cuba o in Algeria. In realtà i brigatisti avevano già preso accordi
con l’ambasciata cubana presso la Santa Sede che si era dichiarata
disponibile a ricevere i detenuti liberati. La manovra fu poi bloccata
in extremis dal Pci che convinse Fidel Castro a recedere dai suoi
propositi permettendo anche un contratto per una fornitura di
trattori21.
La richiesta di scambiare gli ostaggi avrebbe provocato un
terremoto e il paese e la classe politica si sarebbero divisi
sull’opportunità di cedere o meno al ricatto. Il capo dell’ufficio
politico della questura, Umberto Catalano, avrebbe atteso le 19 di
domenica 5 maggio per rendere noto il testo del comunicato Br e la
mattina successiva il ministro Taviani avrebbe dichiarato: «E’
assurda l’ipotesi di trattativa o patteggiamento con i criminali» 22.
Le polemiche erano già cominciate. Anche il procuratore generale
Francesco Coco era del parere che la richiesta delle Br fosse
inaccettabile. «Non presenterò mai un’istanza di libertà provvisoria
per i detenuti della XXII Ottobre» 23. Furono ore convulse: la moglie
del magistrato, Grazia Sossi, invierà messaggi al papa e al
presidente della Repubblica Giovanni Leone, mentre dal carcere
brigatista continueranno ad arrivare i biglietti scritti dal magistrato:
«Lo Stato che mi ha lasciato privo di tutela esponendomi a gravi
rischi personali, ha ora il dovere di tutelarmi» 24. Mario Sossi
scriverà altri messaggi, finché il 17 maggio le Br lanceranno il loro
ultimatum, minacciando di uccidere l’ostaggio se entro 48 ore i
prigionieri della XXII Ottobre non fossero stati liberati: «Ci
assumiamo tutte le responsabilità di fronte al movimento
rivoluzionario affermando che, se entro 48 ore - a partire dalle ore
18 Al processo nel quale Sossi aveva sostenuto la pubblica accusa Mario Rossi fu condannato all’ergastolo;
Giuseppe Battaglia a 32 anni e 2 mesi; Augusto Viel a 24 anni e 4 mesi; Rinaldo Fiorani a 25 anni e 4 mesi;
Silvio Malagoli a 16 anni; Gino Piccardo a 17 anni e 2 mesi; Cesare Maino a 15 anni e 8 mesi e Aldo De
Scisciolo a 10 anni e 4 mesi.
19 Il colonnello dei carabinieri Tito Dallaglio comandava il controspionaggio della Liguria; il capitano
Saraceno era il suo vice.
20 Gente, 6 giugno 1974.
21 Cfr. Buffa, Mara, Renato e io, cit., p. 99.
22 Settegiorni, 12 maggio 1974.
23 Panorama, 16 maggio 1974.
24 Epoca, 1 giugno 1974.
24 di sabato 18 maggio – non saranno liberati gli otto compagni
della XXII Ottobre secondo le modalità del nostro comunicato
numero 4, Mario Sossi verrà giustiziato»25.
Proprio in quelle stesse ore il capo del Sid Vito Miceli aveva
convocato la riunione per decidere l’azione di forza che, secondo
quanto fu rivelato due anni dopo, sarebbe servita ad eliminare
Sossi e i suoi carcerieri. Alcuni giorni prima il tenente colonnello
Sandro Romagnoli aveva addirittura convocato nella sede del Sid i
collaboratori fascisti Maurizio Degli Innocenti e Torquato Nicoli e
aveva chiesto a quest’ultimo di attivare «Saetta» e dargli qualche
notizia su Sossi. La situazione diventava di ora in ora più pesante;
dalla prigione del popolo il magistrato aveva cominciato a
comportarsi in maniera incontrollabile e l’operazione rischiava di
trasformarsi in un’arma puntata contro la normalità atlantica.
Il «partito della morte» era entrato parallelamente in azione anche
all’interno delle Br. I terroristi in quei giorni avevano cominciato a
discutere animatamente tra di loro sul che fare. Dal loro punto di
vista il sequestro si era dimostrato un successo politico e la
liberazione di Sossi avrebbe comunque costituito una maniera per
alimentare quelle che i brigatisti definivano contraddizioni del
sistema. Due terroristi, invece, si battevano animatamente perché il
giudice fosse giustiziato. Erano Mario Moretti e «Rocco». A loro
giudizio le Br avrebbero semplicemente dovuto attuare quanto
avevano proclamato nei loro comunicati. Una linea che sarebbe
stata riproposta da Moretti durante il sequestro Moro. Racconterà
Valerio Morucci nel suo memoriale consegnato a suor Teresilla
Barillà: «Ciò che si era stabilito fin dal settembre-ottobre era che
questa volta, se lo stato non avesse accondisceso alla richieste
delle Brigate rosse, non si sarebbe ripetuto un caso Sossi e che
quindi l’ostaggio sarebbe stato ucciso»26.
Allo scadere dell’ultimatum le richieste dei brigatisti sembrarono
essere accolte: la Corte d’assise d’Appello presieduta da Beniamino
Vita aveva deciso di concedere la libertà provvisoria ai detenuti
indicati e il nulla osta per il passaporto in cambio del rilascio di
Sossi. Ma interverrà Coco che impugnerà la sentenza e presenterà
ricorso in Cassazione mentre il presidente del Consiglio, Mariano
Rumor, affermerà in parlamento che il governo non era disposto a
rilasciare i passaporti per l’espatrio. Per ultime, il 23 maggio, le
autorità cubane dichiareranno di non voler accogliere i detenuti
della XXII Ottobre e negheranno anche ospitalità nell’ambasciata
25 Comunicato numero 6 delle Br pubblicato su Paese Sera del 19 maggio 1974.
26 Memoriale di Valerio Morucci, allegato agli atti del processo Moro quater.
presso la Santa Sede. I brigatisti si consultarono ancora: la
proposta di Mario Moretti e di «Rocco» di assassinare il sostituto
procuratore venne respinta anche perché in base ad alcuni segnali
raccolti all’esterno, i terroristi temevano che in quei giorni si
potesse verificare un golpe fascista o bianco. Il giudice venne
rilasciato a Milano dopo poche ore. Pieno di rancori, diffidente,
sembrava un’altra persona. Dopo la sua liberazione scoppierà un
secondo caso Sossi, alimentato anche dalle prese di posizione del
giudice.
Il magistrato impazzito
Una volta libero, il magistrato comincerà a comportarsi in una
maniera del tutto inusuale, come se temesse di poter essere ucciso,
ma questa volta non per mano delle Br. Atteggiamenti che
lasceranno pensare, e Sossi lo scriverà successivamente nel suo
libro sul sequestro in una forma più esplicita, che egli avesse avuto
la netta sensazione che il sequestro potesse rientrare in un disegno
più vasto, di cui i terroristi erano una componente in parte
inconsapevole. Una sensazione non del tutto errata.
Quando il magistrato fu lasciato in un giardino pubblico di Milano,
invece di rivolgersi immediatamente a polizia e carabinieri, decise di
mantenere l’anonimato e di raggiungere in treno Genova. Anzi, già
prima della liberazione aveva chiesto ai suoi rapitori di truccarlo per
essere meno riconoscibile. Una volta a Genova, poi, Sossi non
telefonerà a casa, sapendo di avere la linea sotto controllo, ma si
rivolgerà ad un amico per essere accompagnato nella sua
abitazione. Lì chiederà la protezione della Guardia di finanza. Dirà il
magistrato nella sua prima intervista: «Un’indagine di quel tipo io
l’avrei affidata alla Guardia di Finanza. Soprattutto perché questo
corpo ha dimostrato, di recente, una efficienza e una delicatezza
nell’inchiesta che altri non hanno avuto. Possedendo una
preparazione che ritengo eccezionale, la Finanza avrebbe potuto
portare avanti l’inchiesta in maniera diversa. Senza pericoli per
nessuno, insomma, mentre di recente ci sono stati, al contrario,
episodi molto discutibili, a questo proposito. Quello che è mancato è
stato essenzialmente un lavoro di spionaggio, o se vogliamo di
controspionaggio, che certo avrebbe portato a risultati utili senza
mettere a repentaglio l’incolumità delle persone»27.
27 Sandro Ottolenghi, Sossi confessa, in L’Europeo, 6 giugno 1974.
Un palese atto di sfiducia verso le tradizionali forze dell’ordine,
alimentato anche dalle dichiarazioni polemiche che il magistrato
rilascerà nei giorni successivi e che provocheranno una irritata
reazione dell’apparato istituzionale che lo accuserà di essere
impazzito. La stessa cosa che sarebbe accaduta ad Aldo Moro. E di
analogie tra i sequestro Sossi e il rapimento del presidente della Dc
ve ne saranno molte, a partire dalla polemica sulla disponibilità
dello stato a trattare per ottenere la liberazione dell’ostaggio.
Spiegherà il magistrato: «Di fronte al rifiuto per la mia vita ho
avuto uno sconforto grandissimo ed un’immensa amarezza: io ho
servito lo Stato per sedici anni giorno e notte, trascurando la
famiglia, e pensavo di avere diritto a qualcosa di più. D’altra parte
c’era già stato il precedente dei fedayn sorpresi a Fiumicino 28 con il
razzo e rimessi in libertà senza tante storie per paura della
rappresaglia dei loro compagni»29. La stessa vicenda che sarà
ricordata da Moro durante la sua prigionia: «Anche in Italia la
libertà è stata concessa con procedure appropriate a Palestinesi per
parare gravi minacce di rappresaglia capace di rilevanti danni alla
comunità…allora il principio era stato accettato» 30.
Dopo il suo rilascio Sossi aveva paura, ma «non certo delle Brigate
rosse»31. Rileggendo la storia del suo sequestro si può immaginare
a chi si riferisse.
Più difficile capire l’origine di un inquietante riferimento, che si
dimostrerà profetico, fatto dal giudice in un’intervista al Corriere
della sera: «Hanno detto che Taviani mi voleva morto… Non posso
né confermare né escludere. Certo è che non desideravo morire, e
tanto meno per un governo di centrosinistra avviato al
compromesso storico… mi sono convinto che se si fosse trattato di
Moro avrebbero ugualmente detto: “ma sì! L’onorevole Moro è un
soldato, si deve sacrificare”»32.
Il «soldato» sarà puntualmente sacrificato nel giro di quattro anni,
e solo tredici anni dopo la sua morte nelle inchieste giudiziarie si
affacceranno i sospetti di una regia «parallela» durante i 55 giorni;
quella stessa regia parallela che era in azione nel corso
28 Il 5 settembre 1973, su segnalazione dei servizi segreti israeliani, erano stati catturati ad Ostia cinque
terroristi arabi che avevano progettato di abbattere con un razzo un aereo della EL AL in partenza da
Fiumicino. Il 17 novembre i cinque erano stati condannati a cinque anni di carcere e subito rilasciati su
cauzione. Due di loro vennero poi riportati in Libia, via Malta, a bordo dell’aereo Argo 16. l’operazione era
stata affidata al capitano del Sid Antonio Labruna.
29 La Stampa del 29 maggio 1974.
30 Relazione sulla documentazione rinvenuta in via Monte Nevoso, in Commissione Stragi, p. 106.
31 Sandro Ottolenghi, Sossi confessa, cit.
32 Corriere della sera, 28 maggio 1974.
dell’operazione Sossi. Il giudice ripeterà i suoi dubbi un anno dopo
l’assassinio di Aldo Moro: «Poiché sono assolutamente convinto del
carattere artificioso della guerriglia rivoluzionaria nostrana, non ho
il minimo dubbio nell’individuare gli strateghi di queste operazioni in
agenti segreti di potenze straniere»33.
Di messaggi e di accuse, dunque, il giudice Mario Sossi ne aveva
lanciate molte. Contro il dirigente dell’ufficio politico della questura
Catalano: «Avrebbe potuto comportarsi diversamente, ma questo
discorso mi porterebbe su argomenti scottanti dei quali non posso
parlare»34; contro il procuratore generale Coco che si era opposto
alla scarcerazione dei detenuti della XXII Ottobre: «Avrei fatto
l’impossibile per salvargli la vita, mobilitando tutte le forze per
questo»35; parlando di alcuni documenti contenuti nella borsa che
aveva con sé la sera del sequestro e che erano finiti nelle mani dei
brigatisti: «Temo, soprattutto, quello che le Brigate rosse sanno.
Intendiamoci, non per quello che ho detto io. Ci sono persone che
hanno ragione di temere, in questo momento, e lo sanno
benissimo, anche perché io glielo ho fatto sapere per mezzo di
portavoce autorevoli. A questo proposito, però, non chiedetemi di
più, perché non potrei rispondervi. Così come non vi posso dire
molto della valigetta che avevo con me quando sono stato rapito e
che non mi è stata restituita… dentro c’erano documenti… carte
importanti, anche e specialmente dopo il furto avvenuto alla
procura della Repubblica, relative a fatti già emersi o che potevano
emergere»36.
Il giudice Sossi sembrava essersi perfettamente reso conto di
quanto era accaduto, forse perché, come sostenne il funzionario di
Ps Umberto Catalano, intratteneva rapporti con il Sid: «Devono
avere combinato delle cose assieme» 37. Sossi aveva intuito che la
sua vita era stata messa in pericolo, assai prima che la notizia del
blitz organizzato dal Sid fosse nota. Dopo la liberazione aveva
dimostrato di aver paura di polizia e carabinieri e si era detto sicuro
dell’esistenza di «provocatori»: «Mi sono reso conto che certi atti
che arrivano a noi magistrati sono diversi da come dovrebbero
essere e noi non possiamo saperlo. Mi sono reso conto che ci sono
33 Mario Sossi, Nella prigione del popolo, Milano, Editoriale Nuova.
34 Corriere della sera, 28 maggio 1974.
35 La Stampa, 29 maggio 1974.
36 S. Ottolenghi, Sossi confessa, cit.
37 L’Espresso, 19 maggio 1974.
contatti di vertice, che ci sono provocatori, che ci sono infiltrati di
cui non sapremo mani niente»38.
Le indagini su quell’episodio saranno concluse senza che la vera
storia del sequestro Sossi saltasse fuori.
38 S. Ottolenghi, Sossi confessa, cit.
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