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Le memorie del pm
PROCURA DISTRETTUALE DELLA REPUBBLICA CATANIA DIREZIONE DISTRETTUALE ANTIMAFIA PROCEDIMENTO N. 35/98 C/ AMANTE FULVIO + 9. MEMORIA DEL PUBBLICO MINISTERO ART. 121 C.P.P. IL FATTO E LE PRIME INDAGINI Il 9 novembre del 1995, alle ore 21:00, nella parte nord della città di Catania, nell'area adibita a parcheggio, perimetrata da viale Raffaello Sanzio, da via Oliveto Scammacca, da via Imperia e da via Giuffrida, in prossimità della sede stradale, nell'angolo fra via Raffaello Sanzio e via Oliveto Scammacca un individuo, vestito con una giacca color cammello o sabbia, a viso scoperto, con una pistola Beretta calibro 7,65 serie 80, munita di silenziatore uccideva, con sei pallottole marca Bellott, Serafino Famà, stimato professionista del Foro di Catania, un uomo talmente schietto da risultare brusco; un uomo intransigente quanto generoso, per quanto riferiscono coloro che lo hanno conosciuto e che hanno testimoniato nel corso di questo dibattimento. Solo questi elementi sono stati acquisiti nell’immediatezza grazie alle dichiarazioni rese dall’Avv. Michele Ragonese - persona che si trovava insieme all’avvocato FAMÀ al momento dell’omicidio – e agli esiti degli accertamenti medico legali e balistici disposti. Scandagliando la vita dell'avvocato Famà non venne acquisito alcun indizio che potesse far comprendere agli inquirenti perché l'avvocato Serafino Famà fosse morto in quel modo, e, forse non sarebbe stato possibile comprendere il motivo di questa morte, forse non sarebbe stato possibile conoscere gli autori di questo omicidio se il 6 marzo del 1997 non avesse deciso di collaborare con la giustizia Giuffrida Alfio Lucio: reggente dell'associazione a delinquere di stampo mafioso denominata "Laudani", persona che, al momento non raggiunta da alcun indizio per gravi delitti se non quello di associazione a 2 delinquere di stampo mafioso, dichiarava agli inquirenti di essere stato il reggente dell'organizzazione e di aver personalmente commissionato, ovvero commesso centinaia di delitti nella provincia di Catania. Giuffrida, immediatamente, agli inquirenti che lo interrogavano, disse di essere a conoscenza - perché egli stesso aveva partecipato - delle modalità dell'omicidio dell'avvocato Famà, disse di sapere chi era il mandante, come era giunto l'ordine, chi era l'esecutore materiale dell'omicidio dell'avvocato Famà e chi aveva aiutato costui nell'esecuzione del delitto. Alle dichiarazioni di Giuffrida successivamente si aggiunsero le dichiarazioni di altri soggetti che avevano partecipato alla commissione del reato - Basile Mario Demetrio e da ultimo, Troina Salvatore- e di altri soggetti ancora, che per la loro qualità, per il loro ruolo all'interno dell'associazione erano venuti a conoscenza sia del movente sia degli autori del delitto. L'attenta valutazione dei fatti rassegnati dei collaboratori di giustizia, degli esiti delle indagini e degli accertamenti tecnici compiuti consentono di radicare la ferma convinzione che siano stati individuati sia i responsabili sia il movente dell'omicidio dell'avvocato Famà. Occorre innanzi tutto analizzare i dati di fatto acquisiti nel corso dell’istruzione dibattimentale. Le testimonianze rese dalla moglie e dai colleghi di studio dell’avvocato Famà 3 hanno consentito di accertare quanto accaduto nel pomeriggio e nella sera del giorno in cui avvenne l’omicidio. La moglie dell'avvocato Famà, la signora Tudisco Vittoria, all'udienza del 20 gennaio del '99, ha riferito che il marito quel giorno, alle ore 17:00, si recò a piedi in ufficio come era solito fare visto che abitava nelle immediate vicinanze dello studio, in via Vagliasindi. I colleghi di studio, l'avvocato D'Antona Goffredo, Li Destri e Ragonese Michele hanno riferito concordemente circa l'assoluta normalità di quel pomeriggio allo studio dell'avvocato Famà e circa l’assenza di qualsivoglia preoccupazione o motivo di ansia, per quanto era a loro conoscenza, nella vita del professionista in quel periodo. Particolarmente importante si è palesata la testimonianza resa dall’avvocato Ragonese il quale ha riferito compiutamente, con attenzione, con scrupolo quello che avvenne quella sera: alle 21.00 circa l'avvocato Famà gli chiese, come accadeva talvolta, di accompagnarlo a casa in macchina. Scesero, dunque, dallo studio, che si trovava in viale Raffaello Sanzio al civico 60, percorsero il marciapiede fino a giungere all’incrocio con la via Oliveto Scammacca; attraversarono la via Oliveto Scammacca e quindi il viale Raffaello Sanzio, per recarsi quindi nel parcheggio, perimetrato da via Raffaello Sanzio e via Oliveto Scammacca, via Imperia, via Giuffrida. Entrarono nel parcheggio, salirono i pochi 4 scalini naturali che consentivano l'accesso a quell'area, percorsero dieci metri circa, allorché all'improvviso, il Ragonese sentì una voce dietro di sé, una voce imperiosa dire: "Scusi, buonasera". L'avvocato Ragonese, quindi si girò e la sua attenzione venne immediatamente calamitata da un individuo, anzi, dalla mano di questo individuo che vide impugnare - e forse estrarre dal giaccone che si ricordava essere color cammello un'arma con la canna lunga (Ragonese ha detto che si trattava di un’arma che gli ricordava quella che si vedeva in famoso film, ovviamente, si tratta delle locandine del film di James Bond). Furono attimi, frazioni di secondo, ma Ragonese ha ricordato come quell'individuo con la pistola in pugno lo sopravanzò velocemente, si pose alle spalle dell'avvocato, che Ragonese non vide più - la sua sensazione è che egli continuò a camminare forse pensando che la persona che aveva parlato era il posteggiatore - e cominciò a sparare. Al primo sparo il Ragonese, comprensibilmente, si diede alla fuga. Sentì ancora altri colpi di arma da fuoco: si trattava - a dire del Ragonese - di spari molto attutiti, simili a quelli che vengono prodotti dall'uso di un'arma silenziata, o comunque tali gli sembrarono in relazione a quanto aveva notato nel sonoro delle scene di alcuni film. Il Ragonese era vicinissimo alla sede stradale, dieci metri. Scese sulla strada e 5 cominciò a sbracciarsi cercando di fermare qualcuno per chiedere aiuto. Molti lo evitarono. Solo una autovettura si fermò; a bordo di quel veicolo vi erano un uomo ed una donna, poi identificati in LANZAFAME Francesco e DI MARCO BERNARDINO Rosanna. L’avvocato Ragonese spiegò confusamente quello che era accaduto e quindi, in stato di choc si sedette sul marciapiede di via Raffaello Sanzio, di fronte allo studio che era stato dell'avvocato Famà. Nulla di più l'avvocato Ragonese ha saputo aggiungere. Egli lucidamente, razionalmente, ha spiegato nel corso del dibattimento il motivo per il quale non gli era possibile aggiungere altro in merito all'aspetto dell'aggressore: ha fondato la propria convinzione circa la normalità dell’aspetto dell’aggressore sulla condivisibile considerazione che sarebbe stato altrimenti colpito dall’eventuale anomalia. L'avv. Ragonese inoltre, ha riferito di avere percepito la presenza di altra persona vicina a colui il quale aveva la pistola in mano; ma di questi egli non riesce a riferire nulla, tuttavia, proprio perché la sua attenzione era focalizzata sulla pistola. Infine il teste ha riferito di avere avuto la sensazione (non è certo di averlo visto) che gli aggressori scapparono in direzione di via Imperia. L'escussione in dibattimento dei soggetti che si fermarono per prestare aiuto all'avv. Ragonese, e, successivamente, all'avv. Famà - i coniugi Lanzafame Francesco e Di Marco 6 Bernardino Rosanna- ha consentito l'acquisizione di ulteriori elementi idonei a ricostruire il fatto. Il Lanzafame è un medico endocrinologo il cui studio si trova nello stesso stabile di via Sanzio 60, in cui si trovava lo studio dell'avvocato Famà. Il Lanzafame quella sera si trattenne allo studio, come era suo solito, fino alle 20:45, le 21:00 circa. La Di Marco si recò presso lo studio del marito con la propria autovettura. Parcheggiò la sua vettura sotto lo studio, con la parte anteriore rivolta verso il viale Vittorio Veneto, suonò il campanello e aspettò che il marito scendesse. Passarono pochi minuti. Il marito scese e proprio mentre si apprestava ad entrare in macchina si accorgeva della presenza di un uomo, di un individuo che si sbracciava in mezzo alla strada, in prossimità del parcheggio. Ne parlò con la moglie, la quale nel frattempo aveva fatto un'inversione a U sul viale Raffaello Sanzio per poi immettersi nella strada che porta all'autostrada. Giunsero nei pressi del luogo in cui si trovava quell'uomo che avevano notato, quello che poi sapranno essere l'avvocato Ragonese. Si fermarono e chiesero spiegazioni, compresero, dalle parole confuse dell'avvocato Ragonese, che qualcosa era successo, che un uomo era stato ucciso. La signora Di Marco rimase lì, nei pressi, parcheggiò la macchina, il Lanzafame andò prima al bar e poi allo studio per telefonare alla polizia e chiedere aiuto. Ritornò indietro di corsa, ed è in questo momento che insieme alla moglie sentì le parole di una coppia di giovani; sentì la ragazza dire al ragazzo che era con lei: "Li ho visti, li ho visti andare via con il motorino." I coniugi Lanzafame 7 giunsero laddove si trovava l'avvocato Serafino Famà. Egli era ancora vivo e giaceva supino sul terreno. Il medico provò subito a rianimare, a praticare il massaggio cardiaco. In questa attività venne assistito dalla moglie. Arrivata la polizia e l'ambulanza, l'avvocato Famà venne trasportato al pronto soccorso dell'ospedale Garibaldi, dove giunge cadavere alle ore 21:20. Il Lanzafame Francesco, nel corso della sua deposizione ha riferito anche un altro particolare, un particolare che si rileverà di fondamentale importanza e che emerge - è giusto e doveroso ammetterlo - grazie all'attenzione della difesa. Il teste, infatti, ha riferito, nel corso del suo esame, e su contestazione degli avvocati della difesa, che in realtà nel capannello di gente che si fermò subito dopo l'omicidio, egli udì qualcuno dire di aver visto due uomini commettere il reato: uno di costoro indossava un impermeabile, l'altro una giacca color sabbia. Tale particolare è risultato essere un formidabile riscontro alle dichiarazioni di Giuffrida in merito alla responsabilità degli indagati ed alla dinamica dei fatti. I rilievi tecnici compiuti nell'immediatezza (come risulta dal relativo verbale a firma degli agenti Camagna e Piano Mauro e dalle foto allegate allo stesso) il cui esito è stato riferito dal dottore Turrisi, provano che venne utilizzata una pistola calibro 7,65. Furono repertati, infatti, sette bossoli calibro 7,65 che si trovavano nell'area immediatamente circostante quella in cui si trovava la macchia ematica, a testimonianza che colui che sparò era vicinissimo alla vittima. Furono compiuti poi 8 accertamenti medico-legali e balistici. Si accertò, in sede di autopsia, che l'avv. Famà fu colpito da sei proiettili, ma soltanto cinque vennero repertati all'interno del corpo, perché uno di questi era trapassante; tre hanno attinto la vittima al dorso; tre, invece, hanno attinto la vittima al volto. Il dottor Puglisi ed il dottore Fatuzzo hanno chiarito che in relazione alle caratteristiche delle ferite, in relazione alla condizione in cui è stato ritrovato il cadavere (era supino sul selciato: si ricordi sul punto, che la teste Di Marco ha precisato che notò tracce di terra sulla camicia), si può ritenere che i primi colpi vennero esplosi alle spalle e che, quindi, l'avvocato si girò per poi ricadere supino sul selciato ed essere colpito, mentre già era a terra, al viso. L'esame dei bossoli e dei proiettili repertati nel corso dell'esame autoptico ha consentito di acquisire ulteriori ed importanti elementi per la ricostruzione del fatto; si accertò, infatti, che i sette bossoli erano stati espulsi dalla medesima arma. Si accertò anche, per le caratteristiche dei segni impressi sui bossoli e sulle pallottole, che si trattava di una pistola Beretta della serie 80. Si accertò infine, che i colpi erano stati esplosi da una pistola munita di silenziatore. Quest'ultimo dato è stato ricavato dai due tecnici, dal dottore Fatuzzo e dal dottore Puglisi, dall'esame dei proiettili e delle ferite riportate dall'avvocato Famà. Ed invero, per quanto riguarda le ferite si è accertato come i fori d'ingresso presentassero un orletto cincischiato ed irregolare e come le pallottole recassero delle microstriature non riconducibili al sistema di striatura dell'arma, indice di un movimento di torsione di proiettili non 9 stabilizzati. Le caratteristiche evidenziate nelle ferite e nei proiettili sono considerate in letteratura sicuro indice dell'uso di un'arma munita di silenziatore. Occorre rilevare sul punto, che l'arma rinvenuta su indicazione del Giuffrida, indicata da questi come arma utilizzata per l'omicidio dell'avvocato Famà, è una pistola Beretta della serie 82, ed è una pistola che reca, nel vivo di volata, i segni della filettatura necessaria per l'apposizione di un silenziatore. IL MOVENTE Nell'immediatezza del fatto nessun altro indizio venne raccolto in merito all'omicidio dell'avvocato Famà. Si sequestrò momentaneamente lo studio, si effettuarono delle perquisizioni a taluni dei clienti dell'avvocato Famà, ma non si individuò alcuno spunto di indagine. Nel corso del dibattimento la Difesa, con pazienza certosina, con rigore ed entusiasmo ha ricercato nel patrimonio di conoscenze di tutti i testi qualunque dato che consentisse di ricostruire per l'omicidio scenari diversi da quelli prospettati dall'accusa, e lo scrupolo con cui è stata condotto la ricerca è stato tale da non consentire loro di escludere anche l'ipotesi apparentemente più inverosimile. E' sufficiente la mera elencazione delle ipotesi alternative suggerite - o adombrate dalla Difesa - per rendersi conto della loro assoluta infondatezza. Si è ritenuto di introdurre il sospetto, il dubbio che l'avvocato Famà sia morto in 10 ragione di una controversia sorta sui campi di calcio (si veda udienza del 26-1-99, pag. 90); Si è adombrata la possibilità che la morte dell'avvocato Famà fosse ricollegabile alla volontà dei colleghi di studio dell'avvocato di accaparrarsi i clienti di questi (udienza 26.1.99, pagina 202); si prospettò anche l'ipotesi di un omicidio passionale. Si pensò ad una controversia con collega di altro Foro, l'avvocato Impellizzeri (udienza del 26.1.99, pagina 164), avvocato con il quale l'avvocato Famà aveva avuto uno scontro verbale, poiché aveva ritenuto non corretto deontologicamente il suo operato. Si è ancora pensato alla vendetta di soggetti appartenenti a clan a cui erano affiliati ex clienti dell’avvocato Famà che avevano collaborato con la giustizia: Pulvirenti e Grazioso (udienza del 26.1.99, pagina 63). Si è pensato, addirittura, a possibili reazioni all'intervento dell'avvocato Famà ad un convegno dei Lions tenutosi pochi giorni prima dell'omicidio ed avente ad oggetto i collaboratori di giustizia, nel corso del quale l'avvocato aveva espresso opinioni critiche in merito alla gestione dei collaboratori di giustizia (udienza 26.1.99, pagg. 105 e 230). Si è scandagliata la possibilità che il Famà avesse avuto delle controversie nella gestione di società finanziarie: si è appreso che l'avvocato Famà dedicava tutte le sue energie solo ed esclusivamente all'attività di penalista. Si è pensato anche alla possibilità di una rinunzia ad incarichi di difesa conferiti (controesame di Li Destri, pagina 32). 11 Si è pensato ancora alla possibilità che l'omicidio fosse maturato nell'ambito di un processo nel quale l'avvocato Famà per avventura, avesse difeso soggetti appartenenti a clan contrapposti (udienza del 20.1.99, pag. 32). Ed ancora, alla possibilità che si trattasse di un omicidio determinato dall'assunzione di difesa di parte civile da parte del Famà in processi per omicidio (udienza 20.1.99, pag. 34). Ed infine, si è ritenuto che potesse essere una ipotetica traccia la poca sollecitudine del Famà nel visitare in carcere i suoi assistiti (udienza 20.1.94, pagina 34). Queste le ipotesi alternative prospettate dalla Difesa: rispetto ad esse nessun elemento è emerso nel corso del dibattimento che consenta di ritenerne una sola valida. Di fatto l'avvocato Famà mostrava di non nutrire alcuna preoccupazione per la sua incolumità personale: lo studio e l'abitazione non erano muniti di video citofono, non erano muniti di telecamera esterna, la porta dello studio non era blindata. L'avvocato Famà si recava di norma a piedi allo studio e non aveva timore nel tornare a piedi nella propria abitazione anche a notte fonda. L'unico cruccio, l'unico problema dell'avvocato Famà la sera in cui fu ucciso era il dispetto per non trovare più una maglia della squadra di calcio amatoriale nella quale giocava (cfr. dichiarazioni rese dall’avv. D’Antona). Ed allora qual è il movente? L'unica risposta plausibile è quella che hanno fornito i collaboratori di giustizia, che hanno direttamente partecipato alla commissione 12 dell'omicidio e che hanno confessato la loro responsabilità quando non esisteva alcun indizio a loro carico. E' dalle dichiarazioni dei collaboranti che possiamo comprendere perché il movente non venne individuato: il movente non poteva essere individuato perché un vero movente, almeno secondo quello che è normale meccanismo di reazione nell'ambito delle relazioni umane, non esiste. L'avvocato Serafino Famà è morto perché ciò è stato ordinato da Di Giacomo Giuseppe Maria a Giuffrida Alfio Lucio, dal carcere di Solicciano per il tramite di Matteo Di Mauro. La semplice ed imperiosa volontà del Di Giacomo è stata da sola sufficiente a determinare la morte di un uomo "che non c'entrava niente con squadre e gruppi del clan" (così lo qualifica Romeo Giovanni: verbale del 3-2-99). Un uomo che Giuffrida "non si sarebbe mai immaginato di uccidere", che non doveva essere ucciso per la sua qualità ed in relazione alle disposizioni date da Santapaola (e ciò determinò la necessità di mentire agli alleati). Un uomo che non doveva essere ucciso perché altri era l'obiettivo primario di Di Giacomo. A questo punto, occorre soffermarsi sulla personalità di Di Giacomo. Il ruolo e la "caratura" criminale di Di Giacomo nell'ambito dell'associazione a delinquere di stampo mafioso denominata "Laudani" emerge dalle sentenze passate in giudicato prodotte in atti e dall'attività istruttoria del presente dibattimento. Il Di Giacomo è legato da vincoli di parentela alla famiglia Laudani, intesa in senso anagrafico, e 13 tale circostanza, in un'associazione di tipo patriarcale quale è quella Laudani ( come acclarato nelle sentenze della Corti di Assise di Catania, n. 12/92, e del Tribunale di Catania, n. 705/95, in atti), costituisce di per sé una sorta di investitura. Si tratta, peraltro, di persona che, giovanissima, ha mostrato notevole attitudine al comando (come dimostrato dal contenuto delle intercettazioni riportate nella sentenza della Corte di Assise di Appello del '93, in atti, pagine 81 e seguenti). A 25 anni - quella era l'età del Di Giacomo all'epoca dei fatti - egli dava disposizione agli altri affiliati del gruppo, e tra questi a Corrado Antonino, che era più anziano di lui di 13 anni. E, dopo l'arresto dei componenti della famiglia Laudani, che avvenne nel settembre del '90 in relazione all'omicidio di Nino Pace, egli prese le redini dell'associazione, per come è acclarato con sentenza passato in giudicato (sentenza 705/95 in atti): "Egli" - si legge in motivazione di detta sentenza - "prendeva decisioni proprio per la sopravvivenza del gruppo, quale la determinazione di eliminare rivali scomodi, di incontrare i capi di organizzazioni rivali per discutere su fatti importanti avvenuti, di tentare tutto il possibile per dissuadere il Corrado dal collaborare." Tale attività del Di Giacomo, di sicura preminenza rispetto a quelle svolte dagli altri associati in quanto collegate ai bisogni essenziali della vita dell'organizzazione, anche nel suo esplicarsi quotidiano, evidenziano in maniera chiara il ruolo di ideazione dell'organizzazione rivestito dall'imputato nel clan de quo (pag. 14 della sentenza). Il ruolo di capo 14 viene confermato anche dai collaboranti che sono stati escussi nel corso del dibattimento. Il Di Raimondo, in particolare, soggetto di spicco dell'organizzazione Santapaola, ha riferito come, dopo la morte di Gaetano Laudani, fu il Di Giacomo a condurre direttamente in nome e per conto della famiglia Laudani, le trattative dirette a stringere alleanza con i Santapaola. Ed ancora ed oltre, occorre evidenziare come, secondo quanto riferito convergentemente da tutti i collaboranti interrogati, il Di Giacomo manteneva e mantiene il comando dell'organizzazione, non solo e non tanto in virtù dei vincoli di affinità che lo legavano alla famiglia Laudani, quanto piuttosto per la sua speciale determinazione, per la pericolosità, per la sua vendicatività. Il Giuffrida, che di certo non è un uomo mite, lo ha definito "diabolico", ed ha più volte affermato che né lui né altri avrebbero mai preso in considerazione anche la mera possibilità di non obbedire ad un suo ordine o di chiedere solo e semplicemente il motivo degli ordini ricevuti. Anche il Basile ha dichiarato che l'ordine dato dal Di Giacomo non poteva essere messo in discussione, e il Di Stefano, dal canto suo ha dichiarato che "quando Pippo Di Giacomo manda una sentenza non è facile, non si permette nessuno di disdire la sua decisione." In termini identici ha deposto Troina, ed anche la Ouertani Ayet. Costei, interrogata nel dibattimento che si svolse davanti al Tribunale, riferì che il Di Giacomo era 15 persona pericolosa "io stessa ho sentito parlare. Ho sentito come parlano a tavola, che ammazzava la gente." Il Di Giacomo, per quanto evidenziato, è un capo; è un soggetto che aveva ed ha il carisma, il potere, la possibilità di comandare anche dal carcere, perché in carcere egli si trovava quando diede l'ordine di uccidere l'avvocato Famà. La vera ragione dell'omicidio risiede - per quanto interessava coloro che quel delitto eseguirono nella mera volontà del Di Giacomo. E tanto potrebbe essere sufficiente a fondare la ricostruzione dei fatti in sede giudiziaria trattandosi di un omicidio che matura all'interno di una associazione a delinquere di stampo mafioso. E tuttavia appare necessario, e doveroso, cercare di comprendere il vero motivo, il pretesto, la logica perversa da cui germinò l'idea di uccidere Serafino Famà. Orbene, Giuffrida Alfio Lucio, Basile Mario Demetrio e Troina Salvatore, tutti e tre esecutori materiali chiamanti in correità, hanno convergentemente riferito che il primo ordine che pervenne dal carcere, da parte Di Giacomo, fu quello di uccidere l'avvocato Bonfiglio. Hanno riferito, altrettanto convergentemente, che nelle more degli accertamenti necessari per la esecuzione di quel delitto, che si presentava complicato per le abitudini di vita del Bonfiglio, giunse tramite il Di Mauro Matteo altro ordine, l'ordine di uccidere l'avvocato Famà. Il Romeo e il Troina, inoltre, hanno riferito che dopo l'esecuzione della misura cautelare dell'ottobre del '96, e prima del pentimento del Giuffrida, era giunto di nuovo l'ordine dal carcere di 16 riprendere gli appostamenti per uccidere l'avvocato Tommaso Bonfiglio. Ed allora, se l'obiettivo primario del Di Giacomo era l'avvocato Tommaso Bonfiglio, se solo in seconda battuta si decise l'omicidio dell'avvocato Famà, è essenziale comprendere la ragione per cui Di Giacomo voleva uccidere l'avvocato Bonfiglio, perché solo in questo modo si potrà comprendere il collegamento logico che fu fatto dal Di Giacomo nel momento in cui decise di cambiare obiettivo e di uccidere l'avvocato Famà, avvocato con il quale, apparentemente, non aveva avuto alcun contatto diretto. Per quanto concerne il motivo, tutti i collaboranti riferiscono una unica circostanza: essi hanno affermato, appreso che il Di Giacomo aveva deciso di uccidere Bonfiglio, che ciò avvenne perché questi "si era mangiato" (questa è la parola testuale utilizzata dai collaboranti) "un sacco di soldi." Sul punto appare opportuno riportare proprio le parole utilizzate dai collaboratori di giustizia. Giuffrida, nel corso dell'udienza del 1.2.99 ha detto: "Prima è stato mandato di fare l'avvocato Bonfiglio. Prima ancora. Siccome l'avvocato Bonfiglio è il difensore di Pippo Di Giacomo. Quest'avvocato ci aveva mangiato un sacco di soldi, gli aveva promesso che lo buttava fuori e invece non stava facendo niente, si mangiava solamente i soldi. Gli aveva dato 200, 250 milioni per farlo uscire e lui aveva deciso di fare uccidere l'avvocato Bonfiglio." Basile Mario, nel corso dell'udienza del 2.2.99 ha dichiarato: "Si diceva che si 17 doveva uccidere( l’avvocato Bonfiglio ndr) perché si mangiava un sacco di soldi, ed anche per darci un colpo a tutti i clan, la squadra, che tutti si lamentano e nessuno fa cosa." Di Stefano (udienza 3.2.99) ha dichiarato: "Tutti del clan lo sapevano che si doveva uccidere quest'avvocato, perché si era mangiato troppo soldi di Pippo Di Giacomo. Si era preso cassette di pesce. Praticamente era stato trattato molto bene e si era comportato molto male. Poi c'è stato anche un altro periodo, dopo l'avvocato Famà, che sempre quest'avvocato doveva morire." Il Di Stefano, alla domanda ulteriore circa i motivi che avevano determinato l'omicidio dell'avvocato Famà ha dichiarato: "Perché non era riuscito a fare determinate cose per Pippo Di Giacomo, a livello di... cose di giustizia, cose che si sbrigano gli avvocati, ed allora si doveva punire quest'avvocato!" Ed ancora più esplicitamente il Giuffrida, incalzato dalle domande ha dichiarato: "Perché l'avvocato gli aveva promesso che lo buttava fuori, gli ha fregato i soldi. L'avvocato Bonfiglio, come si suol dire, era un avvocato troppo di fiducia della famiglia dei Laudani, di Pippo Di Giacomo, di Turi u pisciaru." (Turi u pisciaru è Turi Russo di Acireale ndr) "perché ci portavano sempre il pesce, gli compravano i cannoli la domenica, glieli portavano. Cioè c'era una cosa stretta con quest'avvocato Bonfiglio, solo che loro poi si sono visti traditi da quest'avvocato, che non ce l'ha fatta a fare uscire Pippo Di Giacomo, perché Pippo Di Giacomo voleva uscire dalla galera quando è stato che l'hanno arrestato l'ultima volta, perché 18 dice, non aveva niente, e lo tenevano in galera per niente! L'avvocato c'ha promesso che lo buttava fuori si è sentito tradito da quest'avvocato, che non l'ha buttato fuori." Dunque è in questo presunto tradimento che si può rinvenire la ragione vera dell'odio di Di Giacomo nei confronti dell'avvocato Bonfiglio. Di certo egli avrà frainteso l'ottimismo dell'avvocato nella buona riuscita dei processi che lo vedevano imputato in Corte d'Assise ed in Tribunale, ed aveva ritenuto che le buone probabilità intraviste dal professionista fossero delle certezze. E però, i fatti che egli vide accadere nel corso del dibattimento, le condanne che si sono susseguite, e soprattutto il mantenimento della custodia cautelare avranno, con tutta probabilità, radicato nel Di Giacomo la ferma convinzione che il Bonfiglio lo avesse preso in giro ed avesse indebitamente percepito ogni compenso ricevuto. D'altra parte, l'esame delle carte processuali consente di ritenere che il Di Giacomo - dal suo punto di vista ovviamente, di persona non esperta in questioni giuridiche avesse qualche motivo per dolersi dell'attività spiegata dal suo difensore. E basterà sul punto prendere in esame attentamente la sentenza n. 705/95,in atti, e i verbali del dibattimento dei giorni 14 giugno del '95 e 28 giugno del 1995, verbali acquisiti ritualmente dalla Corte su richiesta del P.M. Occorre premettere che il Di Giacomo era stato assolto dalla Corte d'Assise in relazione alla imputazione di associazione a delinquere di stampo mafioso, e ciò era 19 avvenuto il 13 luglio del 1992, la sentenza è in atti. Nel corso del processo di Appello si determinò a collaborare con la giustizia Corrado Antonino, soggetto coimputato del Di Giacomo nel predetto processo, "compare" del Di Giacomo, affiliato all'organizzazione Laudani. Tale collaborazione di certo aveva assottigliato le possibilità del Di Giacomo di veder confermata la sentenza di primo grado. Era accaduto poi che il 10 settembre del 1993 il Di Giacomo venisse tratto in arresto in esecuzione di un decreto di fermo emesso dalla Procura Distrettuale della Repubblica di Catania per i reati di porto e detenzione di arma da fuoco e per il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso; si tratta proprio dell'arresto cui è correlato il procedimento nel cui ambito è stata emessa la sentenza n.705/95. Orbene, le modalità dell'arresto, ed in particolare l'uso di armi da parte dei carabinieri; le circostanze dell'arresto, vale a dire del fatto che l'arresto venne eseguito mentre il Di Giacomo si trovava in compagnia della cognata, Corrado Stella, nottetempo; l'asserita pretestuosità del fermo stesso, fecero sì che il Di Giacomo si adirasse molto più di quanto di norma accada. E' stato riferito tra l'altro, dai collaboranti, che proprio quest'arresto determinò nel Di Giacomo la volontà di eseguire l'attentato alla caserma dei carabinieri di Gravina di Catania, attentato che costituisce oggetto di altro procedimento penale, di cui questo costituisce stralcio, e nell'ambito del quale la Pubblica Accusa ha già chiesto la condanna alla pena dell'ergastolo del Di Giacomo ritenendo che siano stati acquisiti elementi probatori 20 assolutamente pregnanti. Orbene, il fermo ed il procedimento si fondavano, pressoché esclusivamente, sulle dichiarazioni rese da Corrado Antonino (nel frattempo divenuto collaboratore di giustizia) e sulle dichiarazioni rese dalla convivente di Corrado, Ouertani Ayet. La Ouertani Ayet riferì agli inquirenti che il Di Giacomo era il capo dell'organizzazione Laudani; riferì che in una occasione il Di Giacomo giunse, presso l'abitazione in cui ella si trovava, trafelato; la donna accese subito la televisione per sentire il telegiornale e ricordò che si parlò di un omicidio; in quella occasione la Ouertani Hayet ebbe la sensazione che, celata, all'interno della cintola dei pantaloni del Di Giacomo vi fosse una pistola. E ancora la Ouertani Hayet riferì agli inquirenti che il Di Giacomo l'aveva condotta presso l'abitazione della Corrado Stella, qui l'aveva trattenuta ed aveva cercato di fare pressioni su di lei, prima blandendola e poi minacciandola, perché lei si adoperasse per convincere il Corrado a non collaborare più con la giustizia. Queste furono le dichiarazioni rese dalla Ouertani Hayet, nel corso dell'udienza che si tenne nell'ambito del procedimento di cui si è detto. Orbene, il Di Giacomo riteneva che la Corrado Stella, nella cui abitazione la Ouertani Hayet fu condotta, e alla cui presenza avvennero le pressioni di cui sopra, potesse rendere dichiarazioni idonee a scagionarlo. E che questa fosse la sua convinzione lo ricaviamo dalle stesse parole dell'avv. Tommaso Bonfiglio, il quale, sentito in dibattimento ha dichiarato: "Signor Presidente, Di Giacomo era 21 convinto, profondamente convito della ingiustizia dell'arresto, dell'ultimo arresto. Era convinto che le cose che si dicevano sul suo conto, in ordine all'attività che avrebbe svolto per indurre, violentemente o minacciosamente taluna a non accusare, fosse un addebito che non gli competeva. Era altresì convinto che la signora Stella Corrado, potesse, dicendo la verità, soccorrere la sua protesta di innocenza, di talché aveva interesse, ed è logico, a che la signora deponesse secondo coscienza e verità." Questo ha detto l'avvocato Bonfiglio. L'esame del verbale dell'udienza tenutasi davanti alla prima sezione del Tribunale il 28 giugno 1995 fornisce ulteriori elementi di riflessione. A quell'udienza era presente Di Giacomo Giuseppe Maria, lo si ricava dal verbale, e l'avvocato Bonfiglio in quella sede illustrò, con vigore e con perizia le ragioni a sostegno della indefettibilità dell'escussione della Corrado Stella, quale teste di riferimento, e ciò al fine di verificare la veridicità delle dichiarazioni rese dall'Hayet nel corso di quel dibattimento. Il P.M. nel richiedere il rigetto di quest'istanza del difensore, fece rilevare la tardività della richiesta poiché si trattava di teste dell'accusa, a cui il P.M. aveva rinunziato all'udienza del 14 giugno del 1995, senza che la difesa stessa si opponesse. Quali che siano state le ragioni tecniche che poi determinarono il Tribunale ad adottare la decisione, di fatto il Tribunale non ammise l'escussione della teste Corrado Stella. Il Di Giacomo, di certo, non potè non aver sentito quelle che furono le argomentazioni del P.M., per quanto poi non riprese dal Tribunale. 22 Nel corso della medesima udienza poi, l'avv. Bonfiglio chiese ancora, spiegando compiutamente quanto ciò a suo parere fosse indispensabile, l'ammissione e la produzione di verbali di interrogatorio resi dal Corrado Antonino in precedenza, e ciò al fine di dimostrare, in modo inequivocabile, la inattendibilità del collaborante. Ebbene, anche questa richiesta venne disattesa dal Tribunale. Il Tribunale disse espressamente che "le dichiarazioni afferenti al teste escusso, come precedenti l'audizione dello stesso, ben potevano essere utilizzate dalla difesa per le eventuali contestazioni." E dunque ancora una volta il Di Giacomo - dal suo punto di vista colse un’altra inerzia del suo difensore. Si aggiunga, ma è certamente un particolare di poco conto, che in quella occasione discusse il P.M. e chiese la condanna , mentre il Bonfiglio chiese rinvio per il suo intervento difensivo. Il 5 luglio del 1995 il Tribunale condannò Di Giacomo Giuseppe Maria per il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso, assolvendolo invece per il porto e detenzione di armi. Si deve osservare che chiunque avesse ritenuto di essere stato ingiustamente e pretestuosamente arrestato, chiunque avesse ritenuto, a torto o a ragione, che le sue buone ragioni erano rimaste inascoltate anche per colpa del proprio difensore, chiunque sarebbe stato furioso per questo, e Di Giacomo reagì come sapeva e come poteva: mandando una “sentenza di morte!” Non sappiamo quando, materialmente, nella sala colloqui del carcere di Solicciano il Di Giacomo comunicò a Di Mauro la 23 sua volontà di vendetta, se subito dopo la sentenza o nel corso dei colloqui che nel mese di luglio, di agosto, e del mese di settembre, ebbe con Di Mauro Matteo. Certo è che, raffreddata un po' l'ira, subito il Di Giacomo dovette riflettere sulle possibili conseguenze negative che potevano riverberarsi su di lui in caso di morte violenta dell'avvocato Bonfiglio. Ritenne, e probabilmente a ragione, che le indagini si sarebbero rivolte in prima battuta nei confronti dei clienti dell'avvocato Bonfiglio, e tra questi, nei confronti di chi aveva avuto motivo di dolersi da ultimo dell'avvocato. Giuffrida ha riferito che allorché egli mandò a dire a Di Giacomo, tramite il Di Mauro, che a breve avrebbe potuto organizzare l'omicidio dell'avvocato Bonfiglio, subito giunse l'ordine di cambiare obiettivo: "Mettilo da parte perché se succede qualche cosa all'avvocato Bonfiglio può ricadere sopra di lui, perché l'aveva lui,… Si deve fare l'avvocato Famà!" L'ira dunque del Di Giacomo aumentò poiché si rese conto di non poter dare sfogo alla sua rabbia e non poter reagire come era abituato a reagire, immediatamente e violentemente. Ed allora decise di cambiare obiettivo e di uccidere l'avvocato Famà. Qualcosa deve essere scattato dentro di lui, un collegamento logico fra l’avvocato Bonfiglio e l'avvocato Famà. Per comprendere la decisione del Di Giacomo occorre individuare un punto di contatto, un momento di collisione fra gli interessi del Di Giacomo e la condotta dell'avvocato Famà. Tale collegamento è stato rinvenuto 24 nell'esame degli atti del dibattimento della Corte di Assise di Appello, relativo al procedimento che riguardava - tra gli altri - Laudani Sebastiano, Di Giacomo Giuseppe Maria, Corrado Antonino, ed in primo grado anche la Corrado Stella (sentenza n. 26/93 R.Sentenze in atti). Ebbene, nel corso del dibattimento che si celebrò il 30 settembre del 1993, a seguito delle dichiarazioni rese da Corrado Antonino, la Corte ritenne opportuno accogliere le richieste della Procura Generale e dei difensori ed ammettere come teste Corrado Stella. Ciò avvenne nel corso di udienza antimeridiana. La teste venne convocata per il pomeriggio dello stesso giorno. L'avvocato D'Antona ha dichiarato che egli ebbe netta la sensazione che la Corrado Stella non volesse deporre e che, quel pomeriggio, fu l'avvocato Famà a recarsi in udienza, e fu in udienza, in pubblica udienza, che l'avvocato Famà chiese alla Corte di revocare l'ordinanza ritenendo che la Corrado Stella dovesse astenersi in quanto prossima congiunta di taluni degli imputati ed in quanto vi era la possibilità che rendesse dichiarazioni per sé autoindizianti. Corrado Stella venne chiamata a deporre, ma si avvalse della facoltà di non deporre che è riservata dal codice ai congiunti delle persone che sono imputate nel dibattimento. Fu chiaro subito che la signora Corrado si determinò in questo senso, perché così consigliata dal difensore, l'avvocato Famà. Lo stesso avvocato Bonfiglio, sentito in fase di indagini preliminari (dichiarazioni poi contestate in udienza, cfr. verbale in 25 atti) ha riferito: "La Corrado Stella era colei che si consultava ufficialmente con l'avvocato Famà se dovesse astenersi dal rendere interrogatorio o meno. Questo è pacifico." E ancora, sempre nella fase delle indagini preliminari il Bonfiglio ha riferito: "Perché nessuno ne fece un mistero, lo disse anche il povero Famà con l'onesta che lo distingueva." "E quando lo disse?" "In udienza." Quindi in udienza fu chiaro a tutti che la Corrado Stella non depose perché l'avvocato Famà l'aveva consigliata. Ed allora, se l'obiettivo primario non poteva essere perseguito, se Bonfiglio non poteva essere ucciso in quel momento e non poteva essere ucciso perché la sua morte poteva essere ricollegata al Di Giacomo Giuseppe Maria, se il motivo dell’ira del Di Giacomo era proprio la mancata deposizione della Corrado Stella, allora, nella mente del Di Giacomo, si sovrapposero i due ricordi: la mancata deposizione della Corrado Stella in Tribunale, la inattività dell'avvocato Bonfiglio in relazione a quella deposizione e quanto era avvenuto di assolutamente analogo in Corte d'Appello. Il Di Giacomo ricordò come la persona che in quell'occasione ostacolò le sue strategie fu proprio l'avvocato Famà, e decise di cambiare obiettivo e di indirizzare i suoi strali sull'avvocato Famà. Peraltro, una volta ucciso l'avvocato Famà, l'omicidio di Bonfiglio, cioè l’omicidio di altro avvocato penalista che fosse avvenuto subito dopo, difficilmente sarebbe stato ricondotto a persone che erano 26 state clienti dell'avvocato Bonfiglio: più probabilmente la esecuzione di più omicidi che riguardavano più penalisti avrebbe indotto gli inquirenti a ritenere i due omicidi inquadrabili in una strategia più ampia e diversa e avrebbe senz'altro condotto le indagini lontano dal Di Giacomo. Di fatto, l'omicidio dell'avvocato Famà è avvenuto pochi mesi dopo il deposito della sentenza. Il 26 novembre del 1996, quando venne notificata a DI GIACOMO l'ordinanza di custodia cautelare del 14-10-96 nell'ambito del procedimento 888/96 N.R., il DI GIACOMO non nominò più l'avvocato Bonfiglio a riprova del venir meno del detto rapporto di fiducia tra DI GIACOMO e l’avvocato BONFIGLIO. Il Troina ed il Romeo hanno riferito in dibattimento che, non appena scarcerati, subito dopo l'esecuzione dell'ordinanza di custodia cautelare dell'ottobre 1996, ricevettero a loro volta l'ordine di uccidere l'avvocato Bonfiglio ed a tal fine eseguirono sopralluoghi a Catania e Stazzo. LA DEPOSIZIONE DELL'AVVOCATO BONFIGLIO In ordine alla individuazione del movente, delle ragioni, e dunque dell'astio, del rancore nutrito dal Di Giacomo nei confronti dell'avvocato Bonfiglio e delle successive motivazioni che individuarono nel povero avvocato Famà il capro 27 espiatorio, la vittima sacrificale, ci si è già esaurientemente soffermati. Ma è necessario aggiungere qualcos'altro, perché è da evidenziare una ulteriore ragione oltre quella di cui sopra e che, in altro dibattimento, (a proposito di altro episodio con la stessa matrice, con lo stesso tipo di movente), si è definita quella "ufficiale", cioè quella determinata dagli esiti nefasti, sotto il profilo processuale, della mancata deposizione della Stella Corrado nei due processi predetti. Si è sostenuto, in altra sede dibattimentale, un'altra spiegazione, definita “ufficiosa”, ma altrettanto valida a sostegno del movente. Motivazione che ci hanno fornito sia i collaboratori, ma, proprio per non assumere atteggiamenti fideistici o pregiudiziali fideistiche in relazione alle dichiarazioni dei collaboratori, che ha indicato lo stesso avvocato Bonfiglio. Divenuto capo il Di Giacomo, questi era stato oggetto (destinatario) di un provvedimento di fermo della Procura Distrettuale della Repubblica, in virtù delle dichiarazioni rese dalla convivente del Corrado e dal Corrado stesso. Dall'agosto del '93 Di Giacomo si trovava in una situazione di latitanza, tanto è vero che, come hanno confermato i collaboranti Troina e Giuffrida, egli, sotto falso nome, aveva preso in locazione un'abitazione nei pressi di Santa Maria La Stella, frazione di Acireale, e che la sera del 11 settembre del '93 (il giorno in cui poi venne arrestato il Di Giacomo), proprio il Giuffrida, a conclusione della loro "giornata lavorativa", lo aveva accompagnato in quel rifugio dove avrebbe dovuto trascorrere la nottata. 28 Poiché, come ha riferito il Giuffrida, essi stavano in contatto con le radio ricetrasmittenti, dopo aver lasciato il Di Giacomo a casa (peraltro, in quel periodo il Di Giacomo aveva la moglie prossima a partorire), il Giuffrida rientrò nella propria abitazione e si sentirono con il Di Giacomo un paio d'ore dopo, scambiandosi le ultime comunicazioni della giornata. Nel cuore della notte il Giuffrida venne svegliato da una telefonata, da una comunicazione di Scuto Salvatore, inteso U turchittu, nipote del Di Giacomo, imputato nel procedimento principale, che gli comunicò che il Di Giacomo era stato arrestato dai Carabinieri, non a Santa Maria La Stella, ma a Milo presso l'abitazione della Stella Corrado. Come ha riferito lo stesso avvocato Bonfiglio, occorre citarlo testualmente, addirittura "erano in atteggiamenti intimissimi, si disse"(cfr. dichiarazioni dibattimentali avvocato Bonfiglio). Il Di Giacomo e la Stella Corrado, oggetto dei suoi strali, erano “in atteggiamenti intimissimi". Che significa? In dibattimento si è indagato sulla moralità del Giuffrida, che aveva una prima convivente con la quale ebbe due figli e poi ebbe un'altra convivente, come se ciò fosse disdicevole per l'organizzazione e Giuffrida ha replicato: "Ma io alla fin fine non ero sposato!". C'è un dato concreto, che è oggetto poi degli strali di Di Giacomo anche nei confronti dei Carabinieri (e di cui ci si è occupati nell'altro processo), che avevano effettuato quell'arresto con modalità ritenute "offensive" dal Di Giacomo, perché lo avevano sorpreso in una determinata situazione, ma a maggior ragione perché quell'arresto determinò per il 29 Di Giacomo una notevole perdita di considerazione all'interno del suo gruppo: egli, il capo, secondo quelle che sono le acquisizioni, si trovava in un atteggiamento intimo, da solo, a torso seminudo, con la Stella Corrado, con la moglie del Michele Di Mauro, fratello di suo cognato, cioè con una quasi parente. Il Di Giacomo, dunque, ha una duplice serie di ragioni per pretendere, quasi esigere, quella "benedetta" deposizione della Stella Corrado: I) perché, come hanno detto tutti i collaboranti, si sapeva all'interno dell'organizzazione, ancorchè in un gruppo ristretto (come afferma Giuffrida), che l'arresto era avvenuto in questa particolare "condizione ambientale", diciamo così, e quindi Di Giacomo doveva riacquistare quel potere, doveva riacquistare la considerazione perduta; II) poiché, come ha riferito l'avvocato Bonfiglio, Di Giacomo riteneva, per una serie di ragioni, profondamente ingiusto, sotto il profilo anche processuale, il suo arresto e doveva servire, la testimonianza della Corrado, a fugare ogni dubbio circa le sue reali intenzioni, che non erano quelle di subornare un testimone (Corrado Antonino), non erano quelle di costringere taluno a dire cose contrarie alla verità, ma di dire, secondo le sue convinzioni, la verità. Questa era la duplice funzione della testimonianza della Corrado. Tanto è vero che, quando in udienza, del presente procedimento, extra distrettuale celebrata a Torino, venne riferita la circostanza anzidetta, circostanza che tutti i collaboranti, per la verità, sia in questo che nell'altro processo hanno riferito sempre trattando con le pinze l'argomento 30 (dicendo: "Si disse che il Di Giacomo era nudo, forse era in una situazione particolare."). Essi hanno compreso quale valenza potesse avere per il Di Giacomo la emersione di quell'episodio. Non deve sorprendere che il Di Giacomo abbia poi, venuta meno la possibilità di ottenere questa deposizione della Corrado, avuto questo tipo di reazione. Ha detto l'avvocato Bonfiglio che il primo episodio per cui egli si trovò a difendere il Di Giacomo fu un'estorsione consumata in Viagrande dal Di Giacomo e dal Giuffrida, per la quale il Di Giacomo poi venne assolto mentre il Giuffrida condannato. La vittima di quel reato, Sapienza, è stato assassinato, ucciso per vendetta, lo hanno riferito i collaboranti, hanno riferito che l'omicidio fu voluto dal Di Giacomo, e ciò è oggetto di altro procedimento. Il Di Giacomo, ancora, gestiva una gioielleria a San Giovanni la Punta. Vi era un gioielliere concorrente il cui negozio era prossimo a quello riconducibile allo stesso Di Giacomo: il gioielliere, a nome GIUGA, fu sequestrato, rapinato ed ucciso. Di Giacomo - come hanno riferito tutti i collaboratori di Giustizia concordemente è un soggetto pericoloso, vendicativo, ragion per cui nessuno aveva il coraggio di contrastarlo. Ed allora, sotto il profilo logico, la plausibilità, la probabilità, a fronte di un'assenza totale di altre ragioni, che l'omicidio, prima dell'avvocato Bonfiglio e poi dell'avvocato Famà, sia stato voluto dalla esclusiva volontà del Di Giacomo è comprovata, perché il Di Giacomo ha una volontà assoluta di vendicarsi del “torto” 31 subito, del duplice torto subito, sia quello di non aver potuto ottenere un risultato processuale favorevole, sia quello, di non minor valore sotto il suo profilo psicologico, di recuperare la considerazione dei suoi accoliti. Proviene dalle parole dell'avvocato Bonfiglio, prima enunciate brevemente, il testuale affermare che il Di Giacomo riteneva profondamente ingiusto quanto occorsogli. E’ stato chiesto ciò, infatti, direttamente all'avvocato Bonfiglio, è bene leggerlo (sono le pagine 60 e 61 del verbale di udienza), perché va ricordato ciò che accadde all’udienza del 10 marzo '99, allorchè, salito sul pretorio per deporre l'avvocato Bonfiglio, egli dapprima pretese, o meglio, ritenne di doversi trincerare dietro un asserito segreto professionale e la Corte ritenne che i presupposti perché egli utilizzasse questa norma non sussistessero, indi si procedette, inizialmente, ad una serie di contestazioni, a norma degli artt. 503 e 511 cpp, ed allora, l'avvocato Bonfiglio disse "Basta! A questo punto, bando alle ciance, io rispondo alle domande perchè non ho nulla, e desidero che vengano un domani escluse qualunque tipo di polemiche o considerazioni sul mio agire e condurmi in questa deposizione." Orbene, dopo una serie di contestazioni, l'avvocato Bonfiglio testualmente disse: "Signor Presidente", occorre riportare necessariamente l’integrale deposizione del teste perché solo la lettura rende l'idea: "Signor Presidente, Di Giacomo era convinto, profondamente convinto della ingiustizia dell'arresto, dell'ultimo arresto. Era convinto che le cose che si dicevano sul suo conto, in ordine all'attività che 32 avrebbe svolto per indurre violentemente o minacciosamente taluna a non accusare, fosse un addebito che non gli competeva. Era altresì convinto che la signora Stella Corrado potesse, dicendo la verità, soccorrere alla sua protesta di innocenza, di talchè aveva un interesse, ed è logico, a che la signora deponesse secondo coscienza e verità. Questo è quello che egli diceva". Ha proseguito l'avvocato Bonfiglio: "Naturalmente io gli dissi, quando mi domandò il Di Giacomo", (l'avvocato Bonfiglio ha confermato che il Di Giacomo gli chiese questo particolare.) "Io gli dissi, quando mi domandò se potesse sottrarsi all'esame, che poteva benissimo farlo in quanto era coimputata o imputata di reato connesso, adesso non ricordo." Ancora l'avvocato Bonfiglio: "In ordine all'incarico del Di Giacomo che avrebbe dato a me di intervenire presso l'avvocato Famà affinché inducesse la signora Stella Corrado a deporre, io ho detto allora" (cioè in fase di indagini preliminari, n.d.r.) "e ripeto oggi che non ho assolutamente memoria": si noti bene, non ha detto l'avvocato Bonfiglio - “non avvenne” - o - “avvenne” -, ha affermato "non ho assolutamente avuto memoria di aver ricevuto un incarico specifico in tal senso, che, questa è un'ipotesi, soggiunsi, e soggiungo che se lo avessi ricevuto, per avventura non avrei svolto quest'attività e l'avrei detto certamente al cliente, perchè mi sarebbe sembrato assolutamente scorretto interferire sulle scelte di campo di un collega accorto e corretto, qual era l'avvocato Famà in ordine all'interpello..." etc. etc. 33 Questa deposizione, ad avviso del P.M., va coerentemente messa in correlazione con quanto riferito, in un contesto particolare, dall'avvocato Li Destri. All'avvocato Li Destri venne chiesto se fosse stato possibile che l'avvocato Famà risultasse sensibile a sollecitazioni provenientigli da colleghi o altri. L'avvocato Li Destri escluse che ciò potesse essere accaduto e, aggiunse “men che meno ciò poteva accadere tra l'avvocato Famà e l'avvocato Bonfiglio." "Perché?" fu chiesto all'avvocato Li Destri, e rispose con queste testuali parole: "Perché l'avvocato Famà riteneva l'avvocato Bonfiglio persona scorretta." L’avv. Li Destri testualmente aggiunse: "non aveva un buon rapporto con l'avvocato Bonfiglio, che in più occasioni ebbe modo di definire -sleale-." Che significato assume ciò? L'avvocato Bonfiglio disse di non aver avuto memoria di contatti con l’avv. Famà. E’ ben plausibile, come alternativa di ipotesi: 1) che Bonfiglio abbia effettuato effettivamente il tentativo con l'avvocato Famà di, non tanto sollecitare, quanto di avere una anticipazione su quella che sarebbe stata la condotta processuale della Corrado, e che questa anticipazione non ottenne, anche perché, tra la decisione della Corte d'Assise, dapprima di ammettere la testimonianza della Corrado e poi di revocarla (su sollecitazione dell'avvocato Famà) occorse un breve lasso di tempo: udienza mattutina e poi udienza pomeridiana dello stesso giorno. Non è inverosimile ritenere che non vi fu il tempo di acquisire questa informazione, e questo è un primo motivo di lagnanza da parte del Di Giacomo. 2) E’ ben 34 possibile (in buona fede), probabile, verosimile ritenere che, a richiesta del Di Giacomo di sapere se l'avvocato Famà fosse stato d'accordo nel far sottoporre ad esame la Corrado Stella, l'avvocato Bonfiglio abbia risposto: "No, non ha voluto (l’avvocato Famà)." Quell'eventuale "non ha voluto", alla luce di quello che si è detto prima, assume rilevanza, nel momento in cui Di Giacomo rifletté e giunse alla conclusione di non poter nell'immediatezza vendicarsi di Bonfiglio, perché si sarebbe potuto risalire agevolmente a lui. Ed allora, poiché, agli occhi di DI GIACOMO anche Famà assunse una responsabilità, ancorchè indiretta, prima decise di uccidere Famà e poi non rinunziò all’omicidio dell'avvocato Bonfiglio. A quel punto le strade da percorrere per individuare moventi e responsabili dei due omicidi sarebbero state diverse e non di facile percorrenza. L'avvocato Bonfiglio ha confermato una serie di altri dati significativi. Si possono tralasciare quelli che sono oggettivi, cioè la collocazione del suo studio in via Etnea, il fatto che sul retro dello studio vi sia un muretto che dalla strada parallela rende inaccessibile a chiunque, se non dal portone principale, l'ingresso allo studio, che egli ha confermato essere nello stesso immobile ove trovasi l’abitazione del professionista. Ha confermato che all'interno dello studio vi era una segretaria e vi erano una serie di collaboratori. Bonfiglio ha confermato, ancora, di possedere, ancorché non vi si recasse da un po' di tempo, una villa a mare, a Stazzo. A domanda: "ma era notorio che lei avesse una villa a Stazzo?" "Certamente nella cerchia delle mie amicizie sì, non quisque 35 de populo poteva sapere un qualcosa del genere." Ha confermato l'avvocato Bonfiglio, nella sua deposizione, che egli era stato il difensore di Russo Salvatore (detto Turi u pisciaru), coimputato nel processo “Ficodindia”, del quale questo procedimento costituisce stralcio, perché ritenuto appartenente all'organizzazione Laudani; ha confermato, inoltre, di essere stato il difensore di GRASSO Giuseppe ed ha detto che in effetti egli ricordava di aver difeso il Grasso Giuseppe in un processo per detenzione e porto abusivo di armi. E fu quella l'unica occasione in cui l'avvocato Bonfiglio difese Grasso Giuseppe (detto Testazza, anch'egli imputato nel procedimento principale, da cui è stato stralciato l’episodio in esame). Orbene, Di Stefano Salvatore, quando è stato sentito a Torino, ha confermato di conoscere “questo avvocato Bonfiglio” perché in un processo in cui egli, (cioè Di Stefano) era stato arrestato insieme al Grasso Giuseppe per una questione di armi, si era prospettata la tesi difensiva che tutto – testuale - "dovesse essere accollato" (si utilizza questo termine come sinonimo di assunzione di responsabilità) dal Di Stefano ed il Grasso doveva risultare estraneo ai fatti. In realtà venne condannato, ha detto il Di Stefano, anche il Grasso, difeso dall'avvocato Bonfiglio. Sono, dunque, questi tutta una serie di elementi che convergono in ordine alla acredine, all'acrimonia, per tutta la serie di ragioni che abbiamo indicato, nutrita da parte del Di Giacomo, e di taluni soggetti a lui vicini, nei confronti di Bonfiglio. Tutti i collaboranti hanno detto: "In effetti questo avvocato.. questo avvocato Bonfiglio 36 gli mangiava un sacco di soldi, non li aveva buttati fuori, non aveva assunto le iniziative che si ritenevano necessarie." E’ vero, come è stato chiesto in molti interventi della difesa, che non può accettarsi che, per ogni avvocato che non riesce ad ottenere i risultati processuali (è un'obbligazione di mezzo e non di risultato) le reazioni siano quelle che si sono descritte. Ma occorre mettere tutto in correlazione alla particolare situazione personale, criminale, del Di Giacomo e alle ragioni fin qui elencate. Furono Turi Russo e Grasso Giuseppe ad indicare, come luogo alternativo a quello dell'abitazione-studio di via Etnea, l'abitazione di Stazzo ove, fino al marzo '97, sono stati effettuati appostamenti per uccidere l'avvocato Bonfiglio; ove si sono recati, a turno, il Giovanni Romeo, il Salvatore Troina, il Salvatore Torrisi, che si è detto costituissero il gruppo di fuoco segreto creatosi dopo gli arresti del '96 e del '97. Orbene, se queste sono le ragioni dell'astio, dell'acredine nei confronti dell'avvocato Bonfiglio, è lo stesso Bonfiglio che consente di chiudere il cerchio e comprendere che cosa è successo nel rapporto interpersonale con Di Giacomo: Bonfiglio non è andato più al carcere, ha preteso, dal cognato di Di Giacomo (Iraci) che il Di Giacomo, se ne ha prova in atti, gli inviasse una lettera di scuse; Bonfiglio non si è recato in Cassazione a discutere il ricorso per quel processo di cui si è detto sopra e che si concluse definitivamente con la condanna del Di Giacomo; Bonfiglio non è stato nominato dal Di Giacomo quando gli venne notificata la ordinanza di custodia 37 cautelare “Ficodindia Uno” del 14 ottobre '96. Questo è il quadro dei rapporti intercorrenti tra Di Giacomo e l'avvocato Bonfiglio, e consequenzialmente, per le ragioni che si sono specificate, anche nei confronti dell'avvocato Famà, soggetto nei confronti del quale nessuno, per le emergenze in questo processo e per la notorietà della sua correttezza, poteva nutrire alcun motivo di risentimento. LE DICHIARAZIONI DI GIUFFRIDA ALFIO LUCIO E DEGLI ALTRI COLLABORATORI DI GIUSTIZIA Fino a quando il 6 marzo '97 non decise di collaborare Alfio Giuffrida, nessuna traccia, nessun elemento si acquisì sulle ragioni e sui responsabili di questo omicidio. Il Giuffrida, il 6 marzo ’97, ha riferito che dal carcere, dove regolarmente il cognato Matteo Di Mauro si recava ad effettuare i colloqui con Di Giacomo, (e di ciò si è data una serie di prove inconfutabili, infatti fino al giugno-luglio del ’95 sono stati riscontrati nei registri delle case circondariali colloqui del Di Mauro Matteo con il Di Giacomo, e, a partire dall'agosto del '95, indi a settembre, e il 31 ottobre vi sono proprio colloqui del Di Mauro con il Di Giacomo a Firenze presso 38 la casa circondariale di Sollicciano) venne recapitato l'ordine, da parte del Di Mauro, al Giuffrida - che in quel momento, per vicissitudini interne all'organizzazione, era divenuto il reggente del clan Laudani, con “sede sociale” in Viagrande nella stalla cui più volte si è fatto cenno e dove si riunivano gli affiliati al clan Laudani - di eseguire l’omicidio, ordine che non si poteva discutere. Sono significative a questo proposito due osservazioni del Giuffrida: 1) egli non aveva nessuna ragione per uccidere l'avvocato Famà. La risposta alla domanda è stata testuale: "Ma chi me lo doveva dire? Io neanche lo conoscevo"; 2) Alla domanda: "Ma lei perché ha obbedito agli ordini del Di Giacomo?" la risposta è stata che nessuno poteva sottrarsi agli ordini del Di Giacomo, più volte dipinto come soggetto diabolico, come un soggetto, pur giovane di età, talmente feroce da incutere terrore anche in soggetti più anziani e più esperti. D'altronde, si è detto sopra, il citato Sapienza fu ucciso per vendetta, il gioielliere Giuga fu ucciso perché faceva concorrenza al Di Giacomo, altri soggetti all'interno dell'organizzazione, (ad es. i Cordaro), furono uccisi per volere del Di Giacomo. Di detti episodi si tratta separatamente, ma occorre farvi questo breve riferimento. Il Giuffrida è un soggetto che comprende, quando decide di collaborare, che il terreno intorno a sé ormai cominciava a franare perché gli avevano ucciso certo Grasso Francesco, detto Masino, più volte indicato, che era il suo “braccio armato”. In proposito, occorre rilevare che Giuffrida è soggetto, si è potuto constatare, che 39 non ha mai ucciso personalmente, l'ha riferito in dibattimento: "Io andavo agli omicidi perché davo la carica ai ragazzi, organizzavo tutto", ma egli non sparava personalmente, aveva il suo braccio armato, “Masino”, Grasso. Costui venne ucciso. Perché occorre fare riferimento anche a questo aspetto? Mentre Di Giacomo era detenuto, venne rimesso in libertà Alfio Laudani, uno dei figli del “patriarca”, Sebastiano Laudani, precisamente egli venne ammesso alla detenzione domiciliare per malattia. Il Giuffrida, che era già uomo di fiducia di Alfio Laudani, si rapportò a costui, e in una occasione - lo ha confermato anche Romeo (con riferimento alle fangate, alle cose brutte che accadevano all’interno dell'organizzazione) - agli inizi del '96, gli venne dato mandato da Alfio Laudani di uccidere (rectius, venne concordato tra Alfio Laudani e Alfio Giuffrida) Gino Di Bella, altro soggetto che è stato più volte indicato come affiliato al Clan Laudani. Di Bella venne ucciso su disposizione del Giuffrida, anche questo episodio è trattato separatamente, ma questo episodio segnò la fine di Giuffrida, perché la reazione di Di Giacomo (poiché all'interno dell'organizzazione le cose si vengono a sapere) fu forte, egli reagì furiosamente perché tra i due esisteva uno stretto rapporto di amicizia. Si fece uccidere Grasso, si fece terra bruciata attorno a Giuffrida che non ebbe che un'alternativa, quella di consegnarsi nelle mani dello Stato. Giuffrida non era raggiunto, quando iniziò a collaborare, da ordinanza di custodia cautelare per 40 omicidi. Giuffrida era detenuto esclusivamente per associazione per delinquere di stampo mafioso. Egli avrebbe potuto prevedere o ipotizzare che, in caso di condanna, sarebbe stato condannato a una pena tra gli 8 e i 10 anni; una pena relativamente breve, e, pertanto, sarebbe potuto ritornare in libertà. Egli, tuttavia, comprese che non vi erano alternative, comprese che non vi erano altre strade e si consegnò nelle mani dello Stato. Giuffrida, tra le prime cose che riferì, dichiarò: "Io sono stato il reggente dell'organizzazione Laudani; la nostra organizzazione negli ultimi anni è stata quella che ha consumato la stragrande maggioranza degli omicidi in Catania e provincia". Sul punto può aprirsi una parentesi: pur non essendo amanti della statistica - perché come diceva in una poesia, famosa e simpatica, Trilussa, la statistica è quella scienza in virtù della quale se Tizio mangia due polli e Caio nessun pollo, statisticamente essi avrebbero mangiato un pollo ciascuno –occorre dire che, a volte, questa scienza inesatta può servire: tra gli anni '92 e '97 la media di omicidi nella città di Catania è stata di oltre 100 unità all’anno. Dal pentimento di Giuffrida, dall'esecuzione delle ordinanze di custodia cautelare nei confronti degli appartenenti al clan Laudani, dalla individuazione di una serie di responsabili di fatti omicidiari, il numero di omicidi in Catania e provincia è totalmente diminuito, se non azzerato: è sceso a livello di 10 omicidi all'anno. Nel 1999 si sono toccati i minimi storici. Ciò ha una precisa ragione. Il Giuffrida lo disse sin dal primo momento: "Noi eravamo il braccio 41 armato del clan Santapaola; noi, insieme alle altre organizzazioni, facevamo le guerre, avevamo armi di notevole potenzialità, e per queste ragioni ce la sbrigavamo noi". In territorio di Catania e provincia sono stati consumati omicidi eccellenti e Giuffrida li ha confessati e ha effettuato chiamate in correità: 1) la moglie e la suocera del pentito Riccardo Messina; 2) il padre e il figlio dell'allora collaborante Ferone Giuseppe; 3) il responsabile del clan dei Cursoti, Mario Villani, ecc. ecc.. Su questi episodi sono stati trovati una serie inequivocabile di riscontri probatori e si è proceduto separatamente. Non è questo che interessa affermare in questa sede. Ciò che interessa ribadire, a proposito del fatto che ci occupa, è che da subito il Giuffrida dichiarò di essere in grado di indicare i responsabili di alcuni fatti eclatanti avvenuti nel corso del tempo a Catania: 1) l'attentato alla caserma dei carabinieri di Gravina, che obbedì alla stessa matrice che fin qui abbiamo accennato a proposito del movente dell'avvocato Famà, e cioè l'astio, il risentimento, (se ne è discusso nell'altro processo), del Di Giacomo contro l'arma dei Carabinieri, rea di averlo arrestato in particolari condizioni; 2) l’omicidio Famà di cui ci occupiamo in questa sede . Giuffrida ha detto: "Matteo Di Mauro ci portò questo ordine, ci disse dapprima di fare l'avvocato Bonfiglio, e noi stavamo facendo gli appostamenti". Sul punto Giuffrida è stato preciso, ha descritto, puntualmente, di essere stato dapprima a Catania presso lo studio Bonfiglio, ma “l'avvocato non usciva mai”, ed ha aggiunto: 42 "Era difficile accedere, c'era un solo ingresso. Non è che noi potevamo entrare nello studio, e se ci fosse stato qualche collega o collaboratore dell'avvocato Bonfiglio uccidere anche queste persone! Quindi notammo delle difficoltà. Provammo a Stazzo, perché sapevamo (per le ragioni che ha detto lo stesso avvocato Bonfiglio, n.d.r.) che a Stazzo c'era una casa di villeggiatura, ma non ci siamo riusciti". Giuffrida sentì il bisogno di far sapere al Di Giacomo, tramite il Di Mauro, che non stavano perdendo tempo o non volevano fare ciò che era stato ordinato, ma che erano sorte delle difficoltà. A quel punto, ha detto Giuffrida, Di Mauro fece sapere che avrebbe interpellato Di Giacomo. "Un attimo, riferirò a Di Giacomo". Di Giacomo fece conoscere il suo obiettivo! "Fermi, poiché se ammazziamo l'avvocato Bonfiglio (è già stato detto sopra n.d.r) si può ipotizzare che si individui tra i responsabili uno dei suoi clienti”, il nuovo obiettivo viene indicato testualmente: <<Dovete fare Famà>>" Perché? "Signori miei, gli ordini di Di Giacomo noi non li potevamo discutere, e le ragioni le ho specificate. Ne andava del salvamento, della salvaguardia della nostra vita. E quindi a quel punto dissi: <<Va bene>>". Si mise in moto la macchina organizzativa. Orbene, non si deve pensare, e questo occorre specificarlo, quando si parla di guerre tra organizzazioni criminali, di attentati, ecc., che si stia discutendo, anche se i termini sono mutuati da quel lessico, di forze militarmente organizzate ai massimi livelli. Si tratta 43 esclusivamente di un gruppo di soggetti, sanguinari, che è in grado di pianificare un’azione omicidiaria ai danni di un uomo assolutamente indifeso, azione che presenta rischi assai relativi. Chi conosceva l'avvocato Famà? “Forse lo poteva conoscere Gangi - ha detto il Giuffrida - tramite Catti Salvatore". Perché? Perché l'avvocato Famà aveva avuto modo di difendere in alcuni processi Catti Andrea, fratello del Catti Salvatore, uno dei fratelli Di Mauro e la stessa Stella Corrado, e dunque era un soggetto che qualcuno dell'organizzazione ben poteva conoscere. V’è un altro aspetto su cui ci si deve intendere: il lessico di questi soggetti, il modo di esprimersi, non è certo quello di un accademico della crusca, non è quello di un grande oratore, non si è alla presenza di eloqui roboanti, è il lessico, terra terra, di soggetti che a malapena sanno leggere e scrivere. Quindi vanno intese le loro frasi, il loro modo di esprimersi, con una certa intelligenza (nel senso di intelligere, comprendere), cioè bisogna capire. Quando si afferma "un paio di giorni, qualche giorno, un paio di colpi", quando si usano le particelle pronominali in un certo modo, che non significa che si usa il "voi", ma il "ce" in dialetto catanese, bisogna interpretare, quindi bisogna andare a comprendere che cosa significa lessicalmente quello che afferma il Giuffrida quando disse: "Beh, per un paio di giorni ci siamo organizzati". Invero, in una delle tante riunioni che si tenevano quotidianamente, fu chiesto: "Allora, sappiamo chi è che conosce questo avvocato Famà?” La risposta fu: "Sì, forse sappiamo dov'è, lo studio è vicino allo studio dell’avv. 44 Bonura", (molti affiliati erano difesi dall'avvocato Bonura, che aveva lo studio in via Oliveto Scammacca, ossia nei pressi dello studio Famà). Ha aggiunto Giuffrida: "Diedi ordine di andare a vedere se l'avvocato Famà poteva “prendersi” allo studio". Si è detto sopra che la via Oliveto Scammacca e la via Sassari si incrociano, lo stabile dove c'era lo studio dell'avvocato Bonura da sul retro dello stabile dove c'era lo studio dell'avvocato Famà. "Scendono - prosegue Giuffrida, che è il primo a raccontare la vicenda - Basile e Gangi". Basile ha detto, a sua volta, che gli era stato scarcerato da poco, che fu un po' costretto dal Gangi a scendere, costretto tra virgolette, perché gli si contestava, al Basile, che da un po' di tempo in qua sembrava volersi tirare indietro dalla partecipazione ad azioni delittuose, ad azioni eclatanti. Vollero quasi fargli un “favore”, “favore” che poi dopo gli arresti, ha detto Basile, egli, a Cuneo, contestò al Gangi, in una occasione in cui, erroneamente, furono messi a passeggio insieme. Il Basile venne “indotto” ad andare in questo luogo e insieme a Gangi si piazzò all'altezza dello studio dell'avvocato Bonura. Dopo aver fatto una serie di giri di sopralluogo, fu in grado, il Basile, di verificare che le luci dello studio - di quello che egli pensava fosse lo studio dell'avvocato Famà - si spensero. Orbene, che questa circostanza narrata dal Basile sia vera, è confermato dall'essere stata rivelata da egli solo; ancora, il Basile ha detto, e lo ha specificato a verbale in dibattimento, che ricordava che quella 45 poteva essere la finestra dello studio dell'avvocato Famà perché, in alcune occasioni in cui si era recato nello studio dell'avvocato Bonura, affacciandosi da un balcone avevano avuto modo di vedere non solo le finestre, ma addirittura, essendo in una posizione più alta, l'interno, o meglio qualcosa dell'interno dello studio Famà, (i tavoli e gli armadi). Tornando al racconto del collaboratore, l'incarico di Giuffrida a Basile e Gangi fu quello di andare a verificare a che ora l'avvocato Famà si recasse nello studio di via Raffaello Sanzio. Si è detto sopra che l'avvocato abitava in via Vagliasindi, e quindi era solito scendere dalla via Vagliasindi, attraversare il sito stradale ed entrare nello studio. Basile e Gangi videro l'avvocato Famà, la cui descrizione, ha detto il Basile, era stata talmente perfetta che difficilmente avrebbero potuto sbagliare nell'individuarlo, entrare nello stabile ove era sito lo studio legale. Ritornarono alla stalla. Occorre, in proposito, precisare che si tratta di tempi di percorrenza, noti a chi abita a Catania o in paesi limitrofi, assolutamente brevi. Osservando la piantina del quartiere (e ciò servirà per un altro aspetto) dalla via Raffaello Sanzio fino al semaforo, all'incrocio tra la via Giuffrida e la stessa via Raffaello Sanzio, sono poche centinaia di metri. Da lì, come è noto, si gira a destra, si prende l'imbocco dell'autostrada e a quel punto giungere a San Giovanni La Punta, (e quindi Aci Bonaccorsi) è agevole in tempi relativamente brevi. I due soggetti a bordo dell'autovettura Ford Escort, in uso al Gangi, tornarono alla 46 stalla a riferire che l'avvocato era entrato nello studio. A quel punto Giuffrida, come egli stesso ha ammesso, ordinò: "Ritornate, piazzatevi per vedere quando esce dallo studio; noi nel frattempo ci organizziamo". E qui sono emersi altri particolari che sono stati esaustivamente chiariti. La pistola predisposta per uccidere l'avvocato Bonfiglio era una 7,65, che era stata modificata perché fosse munita di silenziatore. Poiché era da tempo che l’arma era stata predisposta dal Camillo Fichera (che si era occupato anche di altre dotazioni di armi) e ancora l'omicidio dell'avvocato Bonfiglio non era stato consumato, era stata riposta, dopo essere stata provata, in un garage di San Giovanni la Punta, un garage che fu individuato e sequestrato, luogo ove venivano riposti anche dei mezzi rubati che spesso venivano utilizzati per le “scorrerie” degli associati. La ricostruzione del Giuffrida è stata la seguente: mentre Basile e Gangi ritornarono a Catania per piazzarsi nella zona e verificare quando l'avvocato Famà sarebbe uscito dallo studio, il Giuffrida cominciò a organizzare la missione di morte. Giuffrida ha riferito: "C'era Camillo Fichera. Camillo Fichera aveva portato la pistola, ma Camillo Fichera era sottoposto a misura di prevenzione della sorveglianza speciale, non poteva guidare veicoli - ed infatti alle riunioni veniva accompagnato da certo Carmelo Pavone, detto l'Africano per le 21:00, 21:15 al massimo doveva rientrare a casa, quindi da lì non si mosse. Ma gli avevo detto che a quel punto serviva la pistola perché dovevamo fare 47 l'omicidio dell'avvocato Famà". Sul posto c'erano altri due soggetti, e quando è stato chiesto a Giuffrida, nell'altro procedimento, quale specializzazione avessero (si tratta di Torrisi Salvatore e Catti Salvatore), rispose: "Questi facevano omicidi". E allora, si stabilì che dovevano “scendere” Torrisi e Catti a bordo di un'autovettura condotta dall'Amante Fulvio, mentre Giuffrida utilizzò altra vettura: "Dissi a Giannetto Silvio che era lì presente che mi serviva la sua macchina, la Y10 per scendere a Catania"; è stato accertato che il Giannetto aveva una Y10 a disposizione. E’ un dato molto importante, per le ragioni di cui di qui a breve si dirà. Domanda che viene posta a Giuffrida: "Giannetto sapeva a cosa doveva servire l'auto?" "No. Si preoccupò che potesse essere utilizzata per qualcosa di grave, ma non sapeva. Infatti mi disse: <<Siccome è una macchina di cui ufficialmente risulta in capo a me la disponibilità, cercate di non mettermi nei guai>>". Questo è molto importante, come si vedrà a breve, per quello che ha dichiarato Torretti. Cosa accadde a quel punto? Bisognava passare da San Giovanni la Punta a prelevare la pistola. Orbene, Gangi e Basile erano già scesi di nuovo con la Ford Escort, Amante, Torrisi e Catti passarono dal garage di San Giovanni la Punta e dietro a loro c’era Giuffrida a bordo della Y10. Secondo Giuffrida insieme a lui vi era solo Grasso. Giuffrida, ha confermato in dibattimento "Io ricordo che ci fosse solo Grasso". Probabilmente, nella concitazione del momento, 48 e questo è stato sottolineato, oltre a prelevare la pistola si sarebbero dovuti servire di una delle tante auto di cui avevano disponibilità in quel garage, ma la cosa non fu assolutamente possibile perché le vetture parcheggiate all'ingresso del garage avevano dei problemi di alimentazione elettrica e non si riuscì a metterle in moto. Poiché c'era la necessità di portare il più presto possibile a compimento l’omicidio, omisero di prendere le altre auto e proseguirono. Giunsero a piazza Michelangelo. Cosa accadde? Il racconto di Giuffrida e degli altri è assolutamente esaustivo, è di una precisione unica perché ha rivelato Giuffrida, e poi gli altri, una serie di particolari che solo chi fosse stato in quei luoghi avrebbe potuto conoscere. Giuffrida ha affermato: "Noi stavamo lì e aspettavamo che questi uscissero. Qualcuno stazionava dove c'era il bar, che è proprio di fronte allo studio dell'avvocato Famà, qualcuno stava in piazza, io ero in macchina e continuavo a girare. In questo mio girare, per non stare sempre fermo..." - ha aggiunto un particolare Giuffrida che è risultato significativo - "Prima mi misi con la macchina – egli ha usato questo termine - a “spigo” (all’angolo n.d.r.) del posteggio". Egli ha continuato: "Mi misi qua, mi misi a “spigo” del posteggio, però siccome c'era un posteggiatore e temevo che potesse notare la nostra presenza, mi allontanai e cominciai a girare con la macchina". Giuffrida transitò dove si trovano gli uffici della Motorizzazione, ha indicato il posto di via 49 Donato Bramante proprio dove sono ubicati i locali della Motorizzazione perché lì fu commesso un altro omicidio, per il quale si è proceduto separatamente. Ridiscendeva da Viale Vittorio e ritornava a girare. In questo suo girare continuo: "A un certo punto abbiamo visto che c'era una macchina della Polizia, non una macchina qualunque, ma una di quelle di servizio, una Tipo con la scritta Polizia, che girava; e allora, per evitare che si insospettissero, che potessimo dare nell'occhio con la nostra presenza, ci siamo fermati". E’ stato sentito l'agente Di Carlo che ha specificato che effettivamente, da quello che risultava dai ruolini del loro servizio in quel 9 novembre, nel corso della giornata, anche nel pomeriggio (l’equipaggio era in forza al Commissariato Borgo Ognina, nel cui territorio di influenza, di giurisdizione ricadono il viale Vittorio Veneto e la piazza Michelangelo). L'auto della Polizia andava e veniva. Ha detto l'agente: "Noi avevamo da fare notifiche, avevamo biglietti di invito, quindi eravamo lì in zona, effettivamente abbiamo fatto il giro più di una volta". Qual era il percorso della “volantina”? (come l'hanno chiamata gli stessi agenti di Polizia). Viale Vittorio Veneto, via Raffaello Sanzio, via Torino, via Pensavalle e ritorno. E' un percorso, specialmente a bordo di vetture che hanno la possibilità di viaggiare sulle corsie preferenziali, di agevole percorrenza, non una, ma decine di volte nell'arco di un pomeriggio. Questa circostanza che fosse presente quella vettura, del modello che fu indicato da Giuffrida, cioè una Fiat 50 Tipo, è dunque conclamata, e poteva riferirla solo chi quel giorno fosse stato effettivamente presente sui luoghi. Ha detto l'agente Di Carlo che un altro intervento, che fu effettuato quel giorno, avvenne in via Pirandello. La via Pirandello, è fatto noto, è la prosecuzione di via Fusco. Da via Pensavalle, via Torino, e da via Pirandello a piazza Michelangelo, scendendo per la via Vincenzo Giuffrida occorrono tempi di percorrenza brevissimi. La vettura, dunque, poteva effettuare questo giro decine di volte. Ha detto altre cose il Giuffrida, che hanno trovato pieno riscontro, piena riprova. Ha detto che, poiché l'avvocato Famà si attardava e non usciva dallo studio, essi continuarono a camminare lì nella zona, qualcuno prese il caffè al bar sotto i portici, notarono che nella zona rimase un negozio aperto fino a tardi. Ha detto Giuffrida: "Forse era un negozio di giocattoli". Orbene, sono state escusse le sorelle Ingiulla ed esse hanno detto che all’epoca gestivano due negozi sulla stessa via, di fronte quasi allo studio dell'avvocato Famà, uno si chiamava Giocolandia e l'altro Party Chic. Hanno aggiunto che quella sera, poiché c'era stata una consegna di merce, il negozio rimase aperto un po' di tempo in più del solito. Non si è riusciti ad avere, perché hanno detto le sorelle Ingiulla che il fratello è emigrato, la deposizione del germano, il quale rimase fino a tarda sera al negozio proprio per il carico e lo scarico della merce, ma è stato sentito il teste Ragonese Vincenzo, che ha confermato che si era 51 trattenuto con l'Ingiulla per sistemare la merce, e che quella sera luce del negozio era rimasta accesa. Ha riferito qualcosa di più il Giuffrida: "Siccome una di queste signore forse ci aveva visto passare, ci preoccupammo che potesse insospettirsi, quindi svicolammo". Una delle Ingiulla ha detto che si era affacciata, e che poi, vista l'ora, lei e l’altra sorella andarono via e rimase il fratello con il Ragonese Vincenzo. E’ pertanto certo, nessuno può revocare in dubbio ciò, che il Giuffrida fosse presente sui luoghi. Giuffrida ha riferito un altro particolare: ha detto che Amante, a bordo della Fiat Uno, si piazzò in via Imperia, nei pressi di una scuola, orbene, nei pressi è situato l’istituto Lombardo Radice; da via Imperia, andando dritto, ci si immette in via Vincenzo Giuffrida. Ha soggiunto Giuffrida: "Catti e Torrisi, che aveva la pistola, dovevano restare ad attendere il segnale che l'avvocato fosse uscito ed io giravo con la macchina, mentre Basile e Gangi dovevano dare questo segnale dall'angolo della via Oliveto Scammacca". Ha aggiunto un particolare il Giuffrida: di ricordare, cosa che poi è stata confermata dai testi (la cui dichiarazione è emersa grazie alle domande poste dalla difesa) che Catti aveva una giacca tipo renna, marroncina, e che, secondo gli accordi - si badi, secondo gli ordini, perché poi sul posto, nel momento in cui sparano, Giuffrida non c'era – era Torrisi che doveva sparare. Cosa accadde? Si attese l’uscita dallo studio dell'avvocato Famà; questi e l’avvocato Ragonese uscirono dallo studio, nel frattempo da sotto i portici si 52 mossero i due sicari, Catti e Torrisi; erano insieme Famà e Ragonese, perché Famà, che in genere tornava a piedi, approfittò di un passaggio, confermato e ciò ha l’avv. Ragonese; attraversarono la via Oliveto Scammacca, si portarono dove è sito il parco Falcone (sono luoghi la cui ubicazione è notoria), attraversarono la via Raffaello Sanzio e salirono sul parcheggio. "Arrivati a questo punto – ha detto Basile -, io mi ero premurato di andare ad avvisare che la luce era spenta, ma evidentemente si erano accorti che l'avvocato era uscito. Si precipitano dietro". Questo è il racconto che ha fatto Giuffrida. "Poi - gli si chiese - cosa avete fatto?". Giuffrida ha risposto: "Poi io, mentre ero là, ho sentito una persona gridare in mezzo alla strada, si è fermato un po' il traffico, ma noi abbiamo proseguito, e poi, prendendo..." (egli la chiama via Vincenzo Giuffrida, ma è ovvio, è notorio, da quel punto inizia la bretella di collegamento allo svincolo per la Messina-Catania) "…ci ritroviamo tutti di nuovo nella stalla. Qui Torrisi mi confermò di avere sparato all'avvocato Famà". Questo è il racconto di Giuffrida. Occorre subito cominciare a dipanare alcune questioni che sono sorte nel corso del dibattimento, degli interrogativi corretti. Perché, invero, non vi sono verità rivelate da parte di nessuno, ma è necessario, ovviamente, orientarsi in base a quelle che sono le acquisizioni dibattimentali. Effettivamente Giuffrida, interrogato in sede di indagini preliminari, a domanda specifica - si era al secondo 53 o al terzo giorno della sua collaborazione e dunque Giuffrida era in un momento particolare, va detto questo, nella vita di un soggetto, qualunque sia il giudizio morale che si voglia dare di un uomo che ha delinquito, e che si mette, a quel punto, per le ragioni citate, nelle mani della giustizia - affermò: "Signori, se io mal non ricordo, noi in genere buttavamo le armi nei cassonetti della spazzatura. In genere facevamo così". Non disse testualmente "abbiamo fatto così in quella occasione", ma "in genere facevamo così". Si possono fare tutte le disquisizioni di questo mondo, ma la realtà è questa. "In genere facevamo così". "Che cosa è accaduto?" si chiese a Giuffrida, "Come è stato ucciso l'avvocato Famà?”. "Secondo quello che mi ha detto il Torrisi, gli andarono dietro, uno di loro disse: <<Avvocato>>, oppure <<Avvocato Famà>>, indi l'avvocato Famà si girò, venne dapprima colpito, fece una rotazione su se stesso (che è logica, l'hanno spiegato sia il dottor Puglisi, che il professore Compagnini) e poi venne finito con i colpi al volto, con i colpi calibro 7,65". Di seguito a questa dettagliata dichiarazione del Giuffrida, si è individuata una chiara suddivisione dei ruoli: Giuffrida organizzò e coordinò l’azione delittuosa sul luogo teatro del delitto. Egli era a bordo della Y10 che si fece dare da Giannetto, Amante prese uno o due dei fuggiaschi - in verità ne prese uno, Torrisi-, mentre più sopra, sulla Ford Escort, Gangi e Basile presero a bordo il Catti, con scatto d’ira del Gangi che disse: "Così ci mettiamo nei guai", e tutti fecero ritorno alla 54 stalla. Queste furono le dichiarazioni di Giuffrida. Furono emesse le ordinanze di custodia cautelare e furono arrestati gli altri odierni imputati. Il secondo ad iniziare la collaborazione, il secondo come chiamante in correità diretto è Basile. Basile è soggetto che è stato detenuto fino a poco tempo prima l'episodio delittuoso in esame, tanto è vero che il 13 giugno '95 Basile contrasse matrimonio civile mentre si trova ristretto in carcere e poi, il 4 ottobre, rimesso in libertà, come è dimostrato dalle certificazioni prodotte in atti, contrasse matrimonio religioso. Basile ha confessato davanti alla Corte - è un imputato - la propria diretta partecipazione all'episodio. Egli ha chiarito perché fu indotto a partecipare all'episodio delittuoso. Fu una sorta di favore che il Gangi gli volle fare, ha detto, perché (tanto è vero che poi glielo rinfacciò), disse il Gangi al Basile: "Se tu ti tiri indietro, si penserà chissà che cosa di te e può essere pericoloso". In quel gruppo anche il sospetto che qualcuno potesse pensare di tirarsi indietro poteva determinare la morte di un affiliato. E allora, Basile, quasi contro voglia (perché era stato scarcerato da poco, la moglie aveva avuto dei problemi di salute in relazione ad una serie di aborti), si recò con il Gangi ad effettuare il sopralluogo. Basile ha aggiunto dei particolari al racconto di Giuffrida, ed ha dato delle spiegazioni perfettamente coerenti: "Non ricordo se qualche giorno prima o lo stesso giorno io mi ero recato in zona, conosco la zona". Perché? Perché Troina Salvatore, con cui è indirettamente imparentato, 55 (Troina Salvatore è il cognato di Di Stefano Salvatore), voleva uccidere un certo "Pittinaru", alias Salvuccio Zappalà. "Scusi, chi è questo? Che cosa c'entra?". Risposta: "Le spiego subito: questo signor Salvuccio Zappalà (così si esprime Basile) c’aveva un negozio, uno studio di “cubiste” lì vicino e gli avevamo fatto un primo sopralluogo per vedere se lo si poteva uccidere. E poi, siccome era una zona affollata, una zona pericolosa, soprassedemmo". E’ stato accertato che in effetti in viale Vittorio Veneto basso, quasi agli inizi, vicino al Corso Italia, Salvuccio Zappalà, che aveva avuto delle sue vicissitudini, dei suoi contrasti con il Di Stefano Salvatore, aveva uno studio-moda dove in effetti gestiva un'agenzia di ballerine che venivano impiegate in vari locali notturni. Il Basile ha aggiunto: "E' vero, conosco la zona perchè c'ero stato da poco. Andavamo spesso dall'avvocato Bonura, e quindi io potevo individuare, perchè sapevo dov'era collocato, aveva difeso altri del nostro gruppo, in teoria sapevo quali erano le finestre dello studio dell'avvocato Famà". Basile, ovviamente, ha riferito fatti di sua conoscenza e questo vale per ciascuno individuo in quanto ognuno può riferire di un fatto o di un episodio, solo le fasi a cui ha partecipato direttamente, personalmente, si può riferire quello che, per altri aspetti, può esser logico, ma come mera intuizione. Basile, per sua diretta conoscenza ha detto: "In effetti noi scendemmo, poi, per quanto io ne sappia, dovevano scendere quelli che dovevano sparare, a parte Giuffrida che si 56 stava facendo dare la Y10 da Giannetto, questo che lui sa, credo che dovessero scendere con una macchina rubata". Per Basile fu utilizzata una macchina rubata. E’ da ritenersi, senza nulla volere anticipare, che questo argomento sia motivo di discussione, sarà oggetto degli strali della difesa. Ma è un argomento, a parere del P.M., inconducente, perché Basile non era presente, perché era già sceso a Catania, quando - come ha specificato Giuffrida - si passò da San Giovanni la Punta per prendere la pistola, come detto sopra e non si potè prendere una delle autovetture perché le batterie erano scariche, e si disse: "Tanto la macchina non è intestata, proseguiamo, abbiamo fretta, leviamoci questo coso". Basile non ha una percezione diretta della presenza, o meno, della vettura rubata. Egli, infatti, ha confermato: "Per come ne so io, era una macchina rubata, poi non lo so". E, in effetti, non fu così. Ma questo nulla cambia, perché non era un dato di cognizione diretta del Basile. E' quello che doveva accadere logicamente, ma egli non seppe che non si era potuto verificare per le ragioni sopra citate. Ha aggiunto un'altra cosa Basile: "Quel giorno, oltre a me e a Gangi e agli altri, nella disposizione di equipaggio che ho già detto, scese Troina a bordo della Y10, con Alfio Giuffrida e con Masino". Questo dato è importante perché si dirà che si tratta di un'altra menzogna, poiché Giuffrida non ha detto che a bordo della sua auto ci fosse Troina. Orbene - senza nulla anticipare di quello che occorre specificare a proposito del 192 c.p.p. - Giuffrida 57 non è un soggetto che è stato (si è detto in altre sedi, e si è costretti a ripetersi) colpito dall'ansia, almeno questo è il giudizio che se ne dà, di dire la verità a tutti i costi, nel senso di essere più realista del re. Fino a dove vanno i suoi ricordi, egli ha riferito. Anche per altro episodio, di cui ci si è occupati nel processo principale, sino all'ultimo egli ha detto di non ricordare (omicidio Mannino Salvatore n.d.r.) che a bordo dell'autovettura con lui ci fosse il Torretti, e fino ad oggi sostiene di non ricordarlo. Piuttosto che accusare o fare un nome a caso, meglio non farlo, se non si ha certezza. Poi è il Troina che ha detto che, effettivamente, egli era a bordo del veicolo, ma se Giuffrida non ne ha ricordo, non v'è ragione alcuna per fare un nome di individuo che altrimenti potrebbe essere innocentemente investito da un'accusa. E’ stato lo stesso Troina che, collaborando, ha detto: "E' vero, c'ero anch'io", e si ha riprova concreta, per alcuni particolari, della veridicità di questa sua confessione. Il Basile ha riferito tutti i particolari, in sostanza, in maniera assolutamente coerente con quello che è il racconto del Giuffrida, così come riportato poc'anzi, pur con i limiti di una sua conoscenza, ovviamente può dirsi naturalmente e naturalisticamente parcellizzata, come più volte sottolineato. Ciascuno può riferire direttamente quello di cui è stato protagonista principale. Ha aggiunto ancora il Basile: "Subito dopo che abbiamo capito che c'era questa persona che gridava che l'omicidio si era compiuto, ce ne siamo andati direttamente alla stalla". Ha 58 precisato un particolare Basile (valuterà la Corte, perché si non si ha timore alcuno in proposito, se ciò rappresenta una grave discrasia, o meglio una giustificabile dimenticanza nel racconto di Giuffrida). Ha detto Basile che prima di raggiungere la stalla, dove poi tutti si incontrarono, egli e Gangi passarono dal bar Portobello, che si trova al centro della piazza di Viagrande, a poca distanza dalla stalla, ove consumarono un caffè e poi si incontrarono alla stalla. E' vero. E' verissimo! Giuffrida ha dimenticato questo particolare. Dirà la Corte se il fatto che Giuffrida abbia dimenticato di dire che, dopo essere andati via, si fermarono al bar Portobello sia una dimenticanza grossolana, una bugia, una menzogna che assume rilievo in questa sede. Altra chiamata in correità proviene dal Troina. Egli è stato sentito all'udienza del 6 luglio, perché ha iniziato a collaborare il 18 di giugno 1999. Egli ha dato una spiegazione del perché ha iniziato la sua collaborazione così tardi, affermando che aveva avuto problemi perché la madre era morta da recente e le sue scelte ha ritenuto di farle solo dopo questo evento. Troina è un soggetto che, per le ragioni che si sono dette prima ( Giuffrida non lo ha ricordato, e solo Basile ha asserito che aveva partecipato all'episodio delittuoso), non era stato raggiunto da ordinanza di custodia cautelare per questo omicidio. Ne risponderà poi dopo, ovviamente. Tuttavia Troina si è trovato di fronte a due alternative: 1) "Siccome di me ha parlato solo Basile e non Giuffrida, io non dico nulla"; ovvero, 2) "Se io non dico 59 nulla, e l'obbligo principale che assumo collaborando è quello di dire la verità, la prima cosa che devo dire è c'ero anch'io". Egli ha scelto di dire la verità, cioè di aver partecipato all’omicidio dell’avvocato Fama’. Si potrà sostenere, certo, che lo ha fatto per ulteriormente accreditarsi dinanzi ai Giudici. E non si teme che questo si dica. Ma si potrebbe dire solo esclusivamente se Troina avesse riferito, o si fosse limitato a riferire fatti e circostanze orecchiate, lette o che aveva avuto riferite da altri, e in tal modo avrebbe potuto mettersi in coda rispetto agli altri due, Basile e Giuffrida. Ma non è così. Si ricorderà che Di Stefano ha detto che egli aveva avuto notizia dell'omicidio dell'avvocato Famà dal cognato e dal Basile. "Quale cognato?" gli si chiese. "Troina. Egli mi disse che era una cosa che aveva fatto l'organizzazione e che era una cosa che doveva rimanere stretta stretta". Basile ha confermato questa circostanza ed ha riferito un altro particolare che ha riferito anche Di Stefano: "Ricordo proprio (ed è quel particolare già esplicitato prima, n.d.r.) che in una occasione erano andati a fare il sopralluogo per uccidere quel tal Pittinaro, c'era andato il Troina, poi si era soprasseduto e quella sera si era invece dato corso all'omicidio dell'avvocato Famà". Venne chiesto, anche dalla parte civile, per ovvie ragioni, al Troina: "Ma lei perché ci è andato?". Se ne dia il giudizio morale che si vuole, ma la realtà è quella della risposta. Ha detto Troina, rispondendo a questa domanda: "Senta, io ci andavo sempre, e mi sono fatto avanti". Non c'è una ragione particolare, è vero. 60 "Io mi sono fatto avanti. Ho detto <<ci scendo anch'io>>". Troina si sedette dietro, a bordo della Y10. Troina scese a bordo di quel veicolo; ha spiegato esattamente, con assoluta convergenza di particolari, cosa accadde, da quale strada poi fuggirono, ed ha spiegato, Troina, che poi si incontrarono tutti alla stalla. Ma ha detto un'altra cosa Troina, che conferma un dato che si dovrà riprendere, perché la dinamica sia assolutamente chiara: Gangi e Basile andarono via con la Ford Escort portando con sé Catti, dalla via Imperia andò via Torrisi sulla Uno, dietro a loro si ricongiunsero, sulla bretella della tangenziale, Troina, Giuffrida e Grasso sulla Y10. Qui occorre rifare un passo indietro, perché questo è un punto fondamentale: si è ricordato che Giuffrida disse, in un primo momento, che, secondo quella che era una prassi, le pistole, una volta utilizzate, per non lasciarne traccia, in genere si gettavano nei cassonetti della spazzatura. E così, secondo la sua ricostruzione, poteva essere accaduto quella volta. Si è detto che fece questa dichiarazione, Giuffrida, il secondo e il terzo giorno della sua collaborazione. Giuffrida, dal 6 marzo del '97, ha reso una serie innumerevole di interrogatori. In esito a detti interrogatori, proprio per verificarne la credibilità, l'attendibilità, egli, accompagnato dalla Polizia giudiziaria, fu “portato in giro” per effettuare dei sopralluoghi, cioè per indicare dove determinati episodi omicidiari si fossero verificati, dove fossero allocate delle ditte, dei negozi o quant'altro sottoposto a estorsione, insomma per dare un quadro chiaro delle 61 sue conoscenze. Questi sopralluoghi si verificarono tra il 5 e il 7 di agosto del 1997. Non vi è nessun problema a dirlo, sei mesi dopo l'inizio della sua collaborazione. La sera del 6 agosto, come previsto, Giuffrida venne prelevato presso la casa circondariale di Messina, dove era collocato provvisoriamente in traduzione da Rebbibia, venne condotto a Catania intorno alle 22:00 e iniziò una serie di giri, nel corso dei quali indicò alla Polizia giudiziaria, senza nessuna sollecitazione, i luoghi teatro di varie vicende. IL RINVENIMENTO DELL’ARMA E LA PERIZIA COLLEGIALE IN DIBATTIMENTO Orbene, mentre ripercorrevano la via Vincenzo Giuffrida, maresciallo Protopapa, che l'ha confermato il è stato sentito in dibattimento e transitavano sulla bretella, spontaneamente (si possono fare le insinuazioni, le illazioni, le volgari insinuazioni che si vorranno fare), indicò al conducente dell'auto blindata di fermarsi, disse che probabilmente aveva avuto un ricordo per aver ripercorso quella strada. "Ora sto ricordando, si fermò la macchina dove c'erano Torrisi e Amante e Torrisi lanciò la pistola. Le tolse il silenziatore, silenziatore che aveva fatto predisporre artigianalmente Camillo Fichera, e la gettò oltre una 62 recinzione". La Polizia giudiziaria redasse relazione di servizio, si era in periodo di agosto, a settembre si ebbe notizia di ciò da parte dell'autorità giudiziaria, si dispose di individuare i proprietari del terreno, si diede mandato di effettuare un sopralluogo su quel terreno alla ricerca della pistola. Sul punto è stato sentito l'esauriente (anche se in questo caso, pur col beneficio della buonafede, il Presidente a quel punto dovette sollecitare il difensore ad evitare un certo tipo di domande), maresciallo Grasso che ha doviziosamente narrato i particolari del rinvenimento dell’arma. Ha detto il maresciallo Grasso: "Fui informato dai miei subordinati che il Giuffrida aveva gettato da quel posto la pistola oltre la recinzione. Andai io personalmente, mi resi conto di qual era la situazione dei luoghi, feci un calcolo mentale, dissi: <<Chi la lancia da qua, può averla lanciata a non più di oltre 15 metri, facendo un raggio immaginario, data la posizione e la pesantezza della pistola>>. Quindi riferii al mio tenente, riferimmo all'autorità giudiziaria, che dispose per i sopralluoghi". Il maresciallo Grasso non partecipò a nessun atto a proposito del rinvenimento della pistola, eppure fu impudentemente - sia consentito - chiesto al maresciallo Grasso se per caso egli non avesse individuato la pistola e non l'avesse appositamente lasciata sul posto. E fu in quella occasione che il Presidente dovette richiamare l'improvvido difensore che 63 fece una domanda del genere, come se il P.M. ordisse complotti e come se si cercassero a tutti i costi non la giustizia o la verità, ma prove a carico di qualcuno, e ciò non è ammissibile. Non è ammissibile! Su disposizione dell'autorità giudiziaria vennero effettuati i sopralluoghi, si constatò quale fosse la natura del terreno e sono state indicate le modalità attraverso le quali (e nessuno potrà permettersi di sollevare sul punto alcun tipo di obiezione) è stata rinvenuta la pistola. In fotografia è stato documentato come il tenente Delle Grazie rinvenne l’arma ed in quale anfratto la pistola si trovasse. Può sfidarsi chiunque a sostenere che vi siano state qui, come si è detto, o come si è ventilato, manipolazioni o altro, come se qualcuno avesse l'ansia, la necessità, la, non si sa come definirla, voglia di dare a tutti i costi credibilità alla dichiarazione di Giuffrida. La pistola poteva benissimo non rinvenirsi, ma sarebbe rimasta la dichiarazione del Giuffrida. Sarebbe rimasta una prova neutra: né positiva, né negativa. E’ stata rinvenuta una pistola modello Beretta, calibro 7,65, modello 82. Della stessa marca e tipo di pistola che gli ispettori Gentile e Fatuzzo dissero essere stata utilizzata, senza ombra di dubbio, per l'omicidio dell'avvocato Famà. Una pistola, risultata essere stata sottratta al legittimo proprietario (cfr. dichiarazioni in atti rese dal teste Patamia), che per due anni e più, dal '95 al '97, è rimasta sottoposta a ogni tipo di intemperie. Ritroviamo il piombo, antimonio e bario in questa fase e in queste 64 circostanze di rinvenimento dell'arma! Verifichiamo se l’arma sia stata utilizzata appositamente, per far risultare o per pensare che fosse stata colì collocata artatamente! Non è possibile sostenere tesi del genere. Non è possibile! Non si aveva che una strada, acquisita la pistola: verificare se fosse, come riferito dal Giuffrida, quella utilizzata per l'omicidio dell'avvocato Famà. In fase di indagini preliminari fu conferito un incarico a dei consulenti, i quali, molto correttamente, dissero che per le condizioni in cui si trovava la pistola, un accertamento di quel genere sarebbe stato irripetibile. E allora, per salvaguardare la genuinità della prova, si è rinviato l'accertamento a una perizia da effettuarsi in dibattimento, e anziché apprezzarsi una condotta del genere si è sostenuto che mal si fece perché si doveva effettuare l’accertamento tecnico in fase di indagini preliminari. Non in una fase in cui si costituisce la prova, quale è quella del dibattimento, in cui si devono raggiungere le prove, ma nella fase di indagini preliminari! E' stato conferito incarico al professore Compagnini, al dottor Zernar e al signor Gatti. Anche Troina ha confermato di aver visto quella sera Torrisi lanciare la pistola dalla macchina. Le conclusioni del professor Compagnini, per quanto si voglia discuterne, sono inequivocabili. La perizia e l'esame dibattimentale del professore Compagnini sono una riprova di conoscenze scientifiche, di abilità e di onestà. Perché anche 65 nei confronti del professor Compagnini, che reagì in sede dibattimentale, si sono avanzate delle illazioni inammissibili nei confronti di un componente il collegio peritale. Inammissibili! E ben rispose il professor Compagnini all'ennesima improvvida domanda. “Qui, se c'è qualcuno che non è di parte, sono la Corte e il collegio peritale”. E cosa ha detto il professore Compagnini? Il professore Compagnini ha dato una risposta inequivocabile: esaminata l'arma, esaminati i proiettili, si può ragionevolmente e senza ombra di dubbio... (gli è stata innumerevoli volte questa domanda e sempre ha risposto allo stesso modo), affermare che si tratta di arma che aveva un prolungamento dove, verosimilmente fu applicato un silenziatore e i proiettili, ad avviso del perito, sono inequivocabilmente provenienti da quell'arma perché, egli ha detto correttamente, in alternativa genetica, due possono essere le ragioni, o vi è stata una rottura, un problema nel vivo di volata (che non è stato accertato), ovvero, in alternativa genetica, e questa è quella comprovata, una mancanza di coassialità tra il silenziatore, il moderatore di suono e la pistola che ha rilasciato sui proiettili in sequestro e su quelli test segni inequivocabili. Ora vi sono delle prospettazioni che si potrebbero formulare, o critiche che si muoveranno alle conclusioni dei periti: 1) si insinuerà o si potrebbe insinuare il sospetto che la canna dell'arma sia di marca diversa da quella della Beretta. Ma, è 66 un dato in atti, l'arma è stata fotografata, e sulla canna dell'arma il luogo di fabbrica della Beretta è ben visibile, e quindi la canna è originale; 2) si potrebbe sostenere che armi diverse, seppure della stessa classe, marca, modello e calibro possono produrre impronte microscopicamente identiche. Bene, se così si dovesse sostenere, sarebbe necessario che di questa scoperta si desse da parte chiunque comunicazione alla comunità scientifica mondiale, in maniera da non disporre più accertamenti balistici per evitare errori giudiziari; 3) si potrebbe sostenere o insinuare il sospetto che la positività accertata dai periti, cioè positività nel senso che l'arma che uccise l'avvocato Famà è quella in sequestro, sia addebitabile all'urto che l'arma avrebbe subito nel momento in cui fu lanciata nel luogo dove venne rinvenuta. Si vorrà, cioè, sostenere che l'urto subito da un'arma, diversa da quella impiegata, può trasformare le sue impronte in maniera tale da renderle identiche, guarda caso, a quella impiegata nell'omicidio. Questa è follia pura, sia sotto l'aspetto logico che sotto l'aspetto scientifico; 4) si potrebbero sostenere, indebitamente, ragioni per le quali, chissà perché, il collegio peritale sia stato parziale nella valutazione della positività. No, il collegio peritale ha evidenziato la positività e ha verificato la negatività, nel senso che o è l'uno o è l'altro. Se è positiva non c'è bisogno di fare altra, per le ovvie ragioni, ricerca. Ancora: si potrebbe sostenere che non è stato tecnicamente possibile accertare se oltre i bossoli 67 anche i proiettili provengono dall'arma in sequestro, però i periti hanno spiegato il perché: l'arma si è rovinata, per cosiddetto disastramento da ossidazione, nelle rigature della canna. Ecco perché non è stato possibile fare questo tipo di accertamento. Però, di contro, si è accertato che le cartucce di cui ai proiettili in reperto sono state introdotte nell'arma in sequestro. In apparenza questa potrebbe sembrare una conclusione in contraddizione, ma ci sono delle ragioni scientifiche in favore di ciò. Primo, teoricamente, inserendo in un'arma automatica 7 cartucce ed estraendole senza sparare (N.B: in un'arma automatica si inseriscono delle cartucce, si scarrella, le si estraggono senza sparare, potrebbero residuare delle tracce, delle striature. Si potranno rilevare su quelle cartucce le impronte di espulsione e di estrazione, e anche quelle, le striature parallele, prodotte sui proiettili durante il loro inserimento in canna, indispensabile per lo scarrellamento) e si può ipotizzare che le cartucce inesplose vengono inserite in un'altra arma, che, ovviamente, stesse lascerà delle tracce. In tal caso si rileveranno sia le prime tracce da scarrellamento, sia quelle successive, di uso da fuoco, che saranno diverse, perché diverse sono le due armi nelle quali sono transitate le cartucce. Nel nostro caso questo non è stato rilevato. Ora, se si comprende questo problema, che si ritiene di aver chiaramente illustrato, e che in termini terra terra, significa far scarrellare delle cartucce su un'arma, sulle quali rimangono un certo tipo di impronte, però su 68 cartucce inesplose, le si mettono su un'altra arma e con quella si spara, sulle cartucce dovranno esservi l'uno e l'altro tipo di impronte. Questo i periti non l'hanno potuto tecnicamente affermare. Ciò perché, essendo l'arma rovinata, per le ragioni sopra dette di ossidazione, possono restare solo quelle impronte, che si sono evidenziate, sulla parte latero-ogivale, cioè sulla curva. E queste sono quelle su cui si è potuta effettuare la comparazione che ha dato l'inequivocabile esito positivo, perché sul resto della cartuccia vi sono quelle striature, frutto dello scarrellamento, comparate positivamente con quelle rilevate sui proiettili test. E questo è spiegato dal professor Compagnini, non solo in questa sede, in sede di perizia, ma anche nella sua pregevole pubblicazione su armi ed esplosivi (cfr. Compagnini, Zernar, Siscaro “ Balistica forense e processo penale”, Giuffrè editore) che probabilmente è stata letta anche da altri che hanno cercato di utilizzarla, ma maldestramente. E allora, se fossero state impiegate due armi calibro 7,65 e i proiettili provenissero difformemente dai bossoli da una delle due, mancherebbero all'appello, ovviamente, i sette bossoli provenienti dall'altra arma. Cosa che così non è e che quindi riprova ancora una volta della serietà scientifica della perizia e della assoluta onestà di chi ha redatto la perizia sull'arma. E' ovvio che la perizia sull'arma costituisce un formidabile riscontro alle dichiarazioni rese dal Giuffrida e, per la sua parte, dal Troina. Essi sono, 69 insieme al Basile, tutti e tre, chiamanti in correità diretta e cioè partecipanti diretti all'episodio in esame. L’ART. 192 C.P.P. Si è conclusa la disamina relativa alla perizia collegiale sull'arma, e quindi, atteso che l'arma inequivocabilmente è quella utilizzata per l'omicidio; accertato indubitabilmente che quest'arma non è stata rinvenuta perché allocata sul posto dal P.M., dalla P.G. o dallo stesso collaboratore; ergo, il Giuffrida ha rivelato, per ragioni perfettamente spiegabili, un particolare che riscontra formidabilmente le sue dichiarazioni. Sul punto è significativo, per riagganciarsi al tema, quanto ha riferito il Troina. Perché il Troina ha riferito che proprio il Di Giacomo, discutendo con il Vittorio La Rocca (che è stato sentito in dibattimento - Vittorio La Rocca è soggetto condannato a pena definitiva all'ergastolo anche in virtù di dichiarazioni del Giuffrida, e quindi non si può certamente ritenere un soggetto che abbia deposto, per il valore che può avere avuto la sua deposizione, in assoluta serenità, perché, e lo ha fatto trasparire dalle sue parole, certo non ha un bel ricordo o una grande stima del Giuffrida) manifestò la sua ira per la circostanza che l'arma, anziché aver fatto la solita fine, fu gettata dove è stata rinvenuta. Non deve sorprendere questo perché sono stati sentiti altri collaboranti, che hanno 70 riferito fatti appresi de relato. Ciascuno, per la sua parte, ha dato un contributo, utile ai fini della valutazione della credibilità dei chiamanti in correità diretti. Romeo ha detto che egli era stato incaricato, fino a poco prima del “blitz” (come l’ha chiamato), degli arresti del marzo del '97, di provare nuovamente ad uccidere l'avvocato Bonfiglio. Pertanto, come detto in premessa, l'ansia, la volontà di Di Giacomo di uccidere Bonfiglio non si era fermata. Ha aggiunto il Romeo che quando egli era in altra organizzazione, poi confluita nel clan Laudani, in occasione dell'omicidio di Di Benedetto Concetta, moglie di Giuseppe Di Mauro, patriarca della famiglia “Puntina”, omicidio a cui egli partecipò materialmente, l'arma fu abbandonata sul luogo dell'omicidio, poi fu rinvenuta, e (sono atti del processo principale) sottoposta a perizia, risultò essere stata utilizzata anche per un altro episodio delittuoso. Quindi, a fronte di una regola generale, che sancisce che delle armi in genere ci si disfa gettandole nei cassonetti della spazzatura, si sono verificati altri episodi in cui l'arma, o fu gettata nelle vicinanze, o, come ha detto Romeo, in campagna, o in posti dove poi la fortuna, la ventura, (non attività non di ordinanza o non di istituto, della P.G.) hanno consentito di rinvenirla, come nel caso in esame. Di Stefano Salvatore e Torretti Mario Giuseppe, ciascuno per parte loro, sempre come testimoni de relato, hanno fornito un contributo significativo per la 71 ricostruzione dell’episodio delittuoso in questione. Torretti, che era organicamente inserito nello stesso gruppo di cui faceva parte il Giannetto (cioè del gruppo di cui era responsabile Grasso Giuseppe di cui si è parlato sopra, difeso dall'avvocato Bonfiglio) ha riferito che il Giannetto gli aveva confidato di sentirsi molto preoccupato per essere stato coinvolto, suo malgrado, nell'omicidio dell'avvocato Famà poiché aveva messo a disposizione la sua autovettura, pur non avendo partecipato personalmente all’azione delittuosa. Di Stefano Salvatore ha riferito che, dapprima, nel corso di un colloquio avuto in carcere, suo cognato Troina e, successivamente, Basile Mario Demetrio (quest’ultimo in una occasione particolare) gli confermarono che l'omicidio dell'avvocato Famà era stato voluto da Di Giacomo. Naturalmente, poiché Di Stefano non ha partecipato direttamente, poiché non ha conoscenze dirette, ha fornito una spiegazione che rimane embrionale, perché egli non può conoscere direttamente quella che è la verità, quella che era la reale volontà del Di Giacomo. Di Stefano ha dichiarato di avere appreso i particolari dell’omicidio dallo stesso Basile, allorché si trovò in sua compagnia nei pressi del luogo dell’azione: "Portammo all'avvocato Bonura soldi per conto dei nostri affiliati. In quella occasione andai con Basile, e Basile mi disse: <<stai vedendo? Qua è dove abbiamo fatto l'omicidio dell'avvocato Famà>>. Se non era per noi, che siamo 72 venuti subito a fare il sopralluogo, Alfio Giuffrida questa cosa non se la sbrigava". Il collaborante ha aggiunto di avere conosciuto l’identità di chi partecipò all’omicidio ed ha indicato gli odierni indagati (trattasi di conoscenze de relato, tale circostanza tuttavia conferma un dato riferito dai tre soggetti che hanno partecipato direttamente). Ma, si ripete, questa è una porzione della deposizione del Di Stefano che interessa relativamente, sono altre le deposizioni che interessano e che rilevano. E' quella di Andronico Salvatore, cugino di Torrisi Salvatore, che ha riferito che il Torrisi gli confidò che tra i tanti omicidi che aveva commesso vi era anche quello di un avvocato, senza altro specificare. Vi è ancora, e su questo occorre soffermarsi, la deposizione del Di Raimondo Natale. Chi sia il Di Raimondo Natale lo si è specificato. Egli è stato per lungo tempo capo dell'organizzazione Santapaola, alleata del clan Laudani. Il Di Raimondo ha detto che l'omicidio dell'avvocato Famà avvenne nel momento in cui prendeva l'avvio il procedimento penale cosiddetto “Orsa Maggiore”. Egli, dal carcere, essendo responsabile, diede incarico a chi stava fuori, e all'epoca era certo Aurelio Quattroluni, di acquisire informazioni all'esterno (perché l’omicidio Famà fu un episodio che diede molto fastidio, per ovvie ragioni, alle altre organizzazioni criminali, seguiva di pochi mesi l'uccisione della moglie di Benedetto Santapaola, e, secondo quelle che erano le prime ricostruzioni 73 all'interno dell'organizzazione, si era pensato che la mano, la matrice potesse essere la stessa). L'Aurelio Quattroluni fu incaricato di prendere contatti proprio con i responsabili del clan Laudani, e cioè con il Giuffrida, il quale, è quello che ha riferito Di Raimondo, disse che “loro non ne sapevano niente”. A conferma quindi che, per il clan Laudani, l'omicidio dell'avvocato Famà, e quindi l'eventuale omicidio dell'avvocato Bonfiglio, dovevano rimanere “una cosa ristretta” a pochi soggetti. Ma la ragione per cui è importante la deposizione del Di Raimondo è un'altra. Il Di Raimondo, come si diceva prima, ha detto che inizialmente si era pensato che la matrice potesse essere unica, e a rafforzare questa loro convinzione era stato Madonia Giuseppe. Madonia Giuseppe, si è detto, è un soggetto che a suo tempo era stato difeso dal compianto avvocato Famà. Secondo quello che ha riferito Di Raimondo, il Madonia fece sapere alla organizzazione Santapaoliana (il Madonia è uomo di Cosa Nostra di Caltanissetta, però per lungo tempo ha vissuto a Catania) che l'omicidio della Minniti e l'omicidio dell'avvocato Famà erano stati commessi da un cugino del Madonia, tale Ilardo Luigi. "E allora, per queste ragioni - ha detto Di Raimondo -, perché si era permesso l'Ilardo di fare delle cose del genere a Catania senza consultarci, cosa che non poteva fare, noi lo punimmo e lo uccidemmo, convinti che avessimo in questo modo punito l'assassino della signora Minniti e l'assassino dell'avvocato Famà. Poi invece abbiamo capito che 74 non era così”, perché l'assassino della signora Minniti, è un fatto ormai conclamato, con sentenza passata giudicata, fu Giuseppe Ferone con i suoi accoliti. Successivamente furono emesse – ha aggiunto Di Raimondo - le ordinanze di custodia cautelare per l’omicidio Famà e “facemmo due più due, e capimmo qual era stata la ragione per cui Madonia aveva voluto approfittare di questa situazione. Madonia aveva scoperto, e poi si seppe in un pubblico dibattimento, che Ilardo era stato confidente di un colonnello dei carabinieri, il colonnello Riccio”. Si tratta di quel tal colonnello Riccio, arrestato dalla magistratura di La Spezia per la vicenda Carfinco, per la vicenda Di Pietro e tutta la vicenda delle tangenti Necci, Ferrovie dello Stato. Un soggetto, il colonnello Riccio, che aveva avuto rapporti con Ilardo, il quale aveva fatto al militare delle confidenze. Madonia apprese ciò, e prima di farsi uccidere ovvero di farsi contestare che un suo cugino era confidente dei carabinieri, lo indicò falsamente come responsabile dei due episodi delittuosi e fece, a sua volta, uccidere l’Ilardo. Indi si apprese che in realtà Ilardo, assassinato a Catania, non aveva nulla a che vedere con l’omicidio Famà e l’omicidio Minniti. La testimonianza di Di Raimondo è servita a sgombrare ulteriormente il campo da altre possibili matrici dell'episodio di cui ci stiamo occupando. E si potrebbe andare avanti nell’evidenziare gli elementi, di cui la Corte è a 75 disposizione, derivanti dalle dichiarazioni dei collaboratori, che si sono definite de relato in questa sede. Ma ciò sarebbe inutile, perché quello che serve è altro. Perché in un momento storico in cui ci si preoccupa o ci si è preoccupati di baci, di stallieri, di omicidi di giornalisti, si può cominciare a discutere sulla conducenza e sulla veridicità delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Sono argomenti che trovano invece la loro giusta e unica sede nelle aule di Tribunale o di Corte di Assise. Non sono state mai fatte promesse di fede acritiche alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. E' ormai un dato incontrovertibile, che la Corte conosce e si sarebbe presuntuosi se si volesse insegnare qualcosa a qualcuno, che si deve distinguere tra due tipi di chiamate o di dichiarazioni di collaboratori, quelle dirette e quelle indirette. Tutte devono essere ovviamente caratterizzate da una serie di elementi: la spontaneità, la costanza, la logicità, l'articolazione, la reiterazione. Non certo, ma questo è pacifico, il disinteresse. Si è detto all'inizio. L'interesse primario di Giuffrida, poi di Basile e poi di tutti gli altri è uno solo: salvarsi la vita, porre fine ad un certo tipo di vita. Può piacere o può non piacere, ma è un dato indubitabile. Ci sono altri ordinamenti che conoscono misure a favore degli imputati sottoposti a protezione molto più dirompenti delle nostre, addirittura il patteggiamento sui reati. Ma questo non deve scandalizzare, per le ragioni che sono state evidenziate (cioè i risultati statistici sulla diminuzione dei reati). Piacciano o 76 non piacciano, le dichiarazioni dei collaboratori sono utilissime, a volte indispensabili, se accertate e riscontrate. Tra queste dobbiamo distinguere tra chi riferisce, come si è detto prima, fatti appresi da altri, è ovvio che se si dice: "Ho appreso da Tizio che un determinato fatto si è verificato in questo modo" e poi Tizio non conferma, la dichiarazione non perde di valore, ma rimane quella che è. Ma se si dice: "Io, insieme a Tizio ho fatto questo, l'abbiamo fatto direttamente insieme”, il discorso è diverso. Questo per spiegarsi in termini pratici, semplici. Ora, nel caso che ci occupa tre soggetti, Basile, Giuffrida e Troina, hanno, con dovizia di particolari, specificato in quali termini e con quali modalità si è consumato l'omicidio Famà. Esistono dei sistemi per evitare che le dichiarazioni di collaboratori di giustizia, malgrado si pensi diversamente, vengano tra loro concordate, uno in particolare: i collaboratori di giustizia devono essere sentiti in stato di detenzione, in carceri diversi, e questo, come è stato dimostrato, è avvenuto in questo procedimento. I collaboranti hanno reso le dichiarazioni in assoluta autonomia. Certo, vi sono due aspetti da esaminare. I collaboratori possono riferire fatti chiari, definiti e precisi. Su ciascuno sono effettuabili riscontri, e può dirsi che ciò in questo processo è avvenuto. Può accadere, di contro, che i collaboratori dicano cose perfettamente tra loro sovrapponibili, e allora si potrà sostenere: le dichiarazioni sono concertate, in assenza di ulteriori elementi. 77 A tale ultimo proposito, occorre tuttavia rilevare che, se i collaboratori riferiscono, per ragioni ovvie, che si è cercato di specificare prima, fatti parzialmente diversi, ma frutto di diretta conoscenza, occorre scandagliarne il racconto per verificare da cosa ciò possa dipendere. Si ricordi quanto specificato prima: Basile ha detto che, secondo i suoi ricordi venne utilizzata una vettura rubata. Giuffrida ha riferito, di contro, che così non fu. In realtà, si è cercato di spiegare perché non potè essere utilizzata una vettura rubata: le auto immediatamente disponibili non erano efficienti. E' una discrasia? E' una menzogna proveniente da uno dei collaboranti? Si ritiene che non sia una discrasia, che non sia una menzogna, è un discorso molto semplice: le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, (c.d. pentiti), si chiamino come si vuole, sono degli elementi che vengono posti al vaglio del giudicante che valuta in virtù del principio del libero convincimento, che ha un solo obbligo, quello della motivazione. Le dichiarazioni devono essere accompagnate da adeguati riscontri. Non si troverà mai nessuno, si sfida chiunque a dimostrare il contrario, che sia stato condannato per la mera convergenza delle dichiarazioni di un collaboratore con quelle di un altro, senza che queste dichiarazioni non fossero accompagnate da altri elementi. Non si può invertire il ragionamento e sostenere che prima devono trovarsi gli altri elementi e poi utilizzare le dichiarazioni dei collaboratori. Non ve ne sarebbe bisogno. I collaboranti hanno detto: "Di Mauro Matteo veniva a fare i colloqui con Di Giacomo (fatto 78 accertato) e portava gli ordini. Utilizzammo una pistola con silenziatore e poi fu buttata". La pistola è stata trovata. "Quel giorno c'era il negozio ancora aperto" e ciò è stato verificato. Catti aveva una giacca di colore marrone, lo hanno confermato Lanzafame e Ragonese. Sono tutti elementi che confermano l'attendibilità e la credibilità dei collaboratori. Si diceva sopra: i collaboratori non sono tutti permeati dall'ansia, come si sostiene o si vuol sostenere, di accusare a tutti i costi. Si tralascino gli esempi eclatanti, ci si confronti sui fatti concreti. Quando è stato sentito Torretti sorse un equivoco se egli avesse reso dichiarazioni sull'omicidio Fafà o sull'omicidio Famà, e Torretti ricordò di aver parlato di entrambi gli episodi. L'omicidio Fafà è un omicidio a carico di certo De Luca Antonino, di cui si tratta separatamente; vi è stata anche la deposizione di Torretti sull’omicidio di un certo “Bafacchia” alias Giusti Giovanni. E’ stata prodotta agli atti del dibattimento la sentenza, passata in giudicato, emessa dalla Seconda Sezione della Corte d'Assise, che ha mandato assolto dall'imputazione di omicidio in danno di Giusti Giovanni e Correnti Silvana certo Condorelli Rosario. Si trarrà dalla lettura di questa sentenza che il Condorelli Rosario è stato assolto perché, deponendo in quella sede, il Torretti e il Giuffrida esclusero che il Condorelli avesse partecipato a quell'omicidio, che era stato organizzato e voluto dal Giuffrida, 79 insieme al clan dei Mazzei, perché il Giusti probabilmente voleva diventare collaboratore di giustizia. Il Condorelli Rosario, tratto a giudizio, per queste ragioni è stato assolto. Riprova dell'attendibilità del Giuffrida è stata tratta dalle parole dello stesso La Rocca Vittorio, che, a espressa domanda del Presidente, ha detto di esser stato condannato, dopo essere stato assolto in primo grado, in appello alla pena dell'ergastolo, divenuta definitiva a seguito di rigetto del ricorso per Cassazione. E' stata depositata dalla difesa la sentenza emessa dalla Corte di Assise di Appello nei confronti di Pafumi Rosario + altri. È nota questa sentenza e la si rispetta, perché le sentenze si rispettano, tutte. Diceva qualcuno assai noto, quando c'è qualcosa da ridire, le sentenze si impugnano se si possono impugnare, altrimenti si rispettano. La sentenza depositata dalla difesa è una sentenza in cui la Corte di Cassazione, a differenza di quanto avvenuto in altro processo (che è quello avente ad oggetto la morte della moglie e della suocera del pentito Riccardo Messina, ove la Corte di Cassazione ha annullato con rinvio la sentenza che mandava assolti, malgrado le accuse di Giuffrida, gli esecutori dell'omicidio - e adesso si è aggiunto anche il pentimento del Puglisi Antonino, che ha confermato che quell'omicidio fu voluto da egli stesso e dal Giuffrida, che quindi non aveva mentito), ha rigettato il ricorso del P.G. avverso la sentenza di secondo grado che ha ritenuto che il collaborante non aveva fornito elementi idonei alla condanna degli imputati. 80 Valuterà la Corte se il ragionamento operato dal decidente in quella sentenza, (in virtù del quale il Giuffrida, pur non imputato nel processo per l'omicidio Paparo e che in appello si presentò ai Giudici dicendo di averlo organizzato, non è stato in grado di riferire - essendo percorribile il tunnel del Viale Mediterraneo in soli 0,145 secondi - chi dei due sicari a bordo di una motocicletta uccise il Paparo, cioè chi dei due, a bordo del motoveicolo, avesse materialmente esploso i colpi di arma da fuoco) sia sufficiente per far qualificare come menzognero il racconto del Giuffrida. Si rispettano le sentenze, ma si deve dire anche che gli accertamenti sull'attendibilità e sulla credibilità vanno fatti caso per caso, sia quando sono serviti per assolvere, sia quando sono serviti per condannare. E occorre valutare in questa sede se quanto riferito da Giuffrida, da Basile e da Troina sia idoneo, come si ritiene, a far condannare gli imputati. LE DICHIARAZIONI TESTIMONIALI Le deposizioni di Troina e quella di Basile sono state fondamentali per altri due aspetti. Basile ha riferito, quando venne sentito a Torino, una duplice circostanza, che poi è stata verificata: la prima circostanza che ha riferito è: "Guardate, signori, poiché erano arrivati questi mandati di cattura e capivamo quali pericoli potessero 81 significare per noi, ciascuno di noi si stava attivando per crearsi un alibi". "Signor Basile, ci vuole spiegare cosa vuol dire?". Risposta: "Guardi, io mi sono sposato" (e si ricordi, si è accertato che Basile ha celebrato due matrimoni, uno civile, a giugno del '95, e uno religioso, nell'ottobre del '95). "Dopo questo mio secondo matrimonio, mi recai a Novi Ligure, dove avevo dei parenti, e allora, successivamente, dissi a mia moglie, senza dirle la verità, di andare da questi parenti e di chiedere loro se erano disponibili a dichiarare che io, nel periodo in cui avvenne l'omicidio, ero stato a Novi Ligure presso di loro". In dibattimento è stato sentito il predetto parente, l'Arena Alfredo, e sono stati sentiti i testi che si è potuto rintracciare, cioè la Grassano Paola ed il Farina Enrico. Essi hanno detto che in buona fede avevano ricordato, anche se non sapevano indicare il periodo, che effettivamente il Basile e la moglie si erano recati a Novi Ligure in viaggio di nozze. Si è discusso se fosse legittimo fare un viaggio di nozze dopo alcuni mesi dal matrimonio. Ciò non deve sembrare strano. Se si può partire, per ragioni contingenti, solo dopo qualche tempo dalla celebrazione delle nozze, non può stranizzare che così sia avvenuto nel caso del Basile. La circostanza rilevante è che la Grassano ha detto: "Mi ricordo che andammo a mangiare al ristorante La Filanda e mi dissero che erano in viaggio di nozze, però non sono in grado di ricordare quando fu. Ho un ricordo però preciso: io mi 82 fidanzai col signor Farina il primo di novembre, è un ricordo nitido" ed è stato contestato alla Grassano: "E come mai lei ricorda proprio quando si è fidanzata e non quando ha avuto questi incontri?". Sembra ovvio che si ricordi quando ci si è fidanzati, si ricordi una data di nascita o quant'altro di diretto interesse, non si può ricordare quando si è andati al ristorante con gli ospiti di un amico, dei quali non si ricordano le fattezze e i nomi. La Grassano ha datato questa visita alla fine di novembre ‘95. E’ logico quello che ha detto il Basile, cioè che egli cercò di inquadrare questa visita a Novi Ligure, falsamente, proprio in un periodo coincidente con la data nella quale avvenne l'omicidio dell'avvocato Famà, cercando di profittare della buona fede di terzi. Ha aggiunto Basile: "Attenzione, così come ho fatto io, ci hanno provato altri". In un momento non sospetto, e si vedrà la data, Basile ha detto a Torino: "Anche Gangi, che io sappia, mi disse che stava cercando di farsi un alibi in un ristorante dalle parti di Messina, qualcosa del genere; comunque stava cercando di farsi un alibi in un ristorante". 83 L’INCONSISTENZA DEGLI ALIBI DI GANGI ED IL CONFRONTO TROINA - SCUDERI La difesa ha prospettato come testi a discarico del Gangi Leonardi Alfio e Pappalardo Matilde. Se in quella sentenza di cui si parlava prima, sentenza Paparo, si dice, a proposito del Giuffrida o dell'altro collaborante, delle menzogne riferite da Giuffrida, occorre rilevare il primo falso alibi di Gangi. Gangi ha voluto ammannire questi soggetti a sostegno della sua estraneità ai fatti per cui è processo. Leonardi Alfio, titolare di ristorante in Milo, chiestogli se ricordasse la data in cui il Gangi cenò in detto locale, ha risposto "No, io non posso ricordare né la data né quando è stato". "C'è una ricevuta fiscale, uno scontrino, una carta di credito?" "No, no". Il Leonardi Alfio ha detto: "Non posso ricordare". E' stata sentita la Pappalardo Matilde (e qui si torna al discorso della moralità di Giuffrida e non ci si preoccupa della moralità degli altri), la quale (ognuno è libero di fare quel che vuole, non si muovono censure morali) è la “fidanzata”, ma egli è anche sposato, del signor Gangi. La teste ha detto: "Festeggiavamo l'anniversario, me lo ricordo molto genericamente, siamo andati a cena, nel ristorante del signor Leonardi. Mi ricordo che al telegiornale sentimmo la notizia che era stato ucciso questo avvocato, e noi eravamo là, potevano essere le nove e mezza, perché 84 avevamo fatto un giro, eravamo stati da Mascalucia a Zafferana ed eravamo arrivati in questo ristorante di Milo". Lo stesso Gangi, anche in sede di dichiarazioni spontanee, ha detto che la notizia fu sentita a Teletna, ove comparve una sovrascritta, nel corso di un film. Questi due dati sono assolutamente falsi, come dimostrato dalle certificazioni prodotte e rilasciate dalla RAI, dalla SIGE e dalla Telecolor. La RAI diede la notizia dell'omicidio dell'avvocato Famà col notiziario dell'indomani mattina alle 7:30, Telecolor nel notiziario delle 22:30, Teletna nel notiziario delle 23:30, prima del notiziario non era andato in onda un film, era andata in onda la trasmissione "Insieme" e non si erano mandati sottotitoli, quindi Gangi ha mentito. Ma egli non è nuovo a questo tipo di menzogne, perché anche nell'altro processo, a proposito dell'omicidio De Luca-Russo, ha prospettato un altro alibi, fallito clamorosamente perché ha sbagliato giorno, come è stato dimostrato nell'altro processo. L’omicidio De Luca-Russo è avvenuto il 26 ottobre del '95 e Gangi ha prospettato un alibi per il 27 ottobre 1995. Non contento di ciò, Gangi stesso, pur non essendo stata acquisita la prova che egli possedesse una Ford Escort, ha ammesso tale circostanza . E’ stato detto in premessa che né della Uno di Catti né della Ford Escort di Gangi si era trovata traccia, perché essi utilizzavano in genere auto intestate ad altri soggetti. È stato 85 Gangi che, maldestramente, ancora una volta, ha fornito la prova che egli avesse la disponibilità di una Ford Escort, però Gangi ha aggiunto di essersi disfatto del veicolo. A riprova di questa perdita di proprietà, di possesso del veicolo, ha indicato il teste Scuderi Giovanni, titolare dell’autosalone “Auto In” di Pedara. Lo Scuderi Giovanni è stato sentito in dibattimento, ove ha manifestato una evidente paura, e gli è stata esibita dalla difesa una dichiarazione sostitutiva dell'atto notorio, della quale è autenticata ovviamente solo la firma dello Scuderi ma non certo il contenuto dell'atto (non c'è bisogno che si specifichi questo dato), in cui si asserisce che dal settembre del '95 l'auto fu consegnata allo Scuderi Giovanni dal Gangi perché la ponesse in vendita. Scuderi ha detto che non fu corrisposta all’erario la tassa di circolazione, come si chiamava in precedenza né di possesso e, peraltro, non fu nemmeno pagata l'assicurazione per la responsabilità civile. A dire dello Scuderi, l’auto rimase sempre nell'autosalone. E qui, ancora una volta, bisogna fare i conti con l'altro alibi menzognero di Gangi, perché in dibattimento Troina, che non conosceva questo dato, e prima che venisse sentito lo stesso Scuderi, ha detto: "Ricordo un particolare" (a riprova quindi della sua partecipazione diretta al fatto e quindi della sua credibilità) "Scuderi Giovanni pagava le estorsioni a noi, a parte altre cose", Troina ha spiegato quali fossero queste cose: Scuderi era sottoposto ad usura ed era ed è, quindi, un soggetto certamente influenzabile. "Pagava le estorsioni a me personalmente; io mi ricordo 86 che me lo disse a Roma, me lo fece ricordare a Roma Gangi, ma poi me lo sono ricordato, all’udienza dell'altro processo, che eravamo andati insieme dopo l'omicidio da Scuderi e Gangi gli disse: <<Senti, io ti do la macchina, però tu devi farla fare risultare che è entrata qui prima>>. "Ma come si fa?" Prima fece delle difficoltà Scuderi. "E' impossibile, ci sono registri" (n.d.r.: registri di nessun valore fiscale o amministrativo e quindi si trattava di una operazione fattibile). Troina ha soggiunto che vi fu questo tentativo di crearsi un falso alibi da parte del Gangi tramite lo Scuderi. A quel punto, a fronte della dichiarazione del Gangi, a fronte della dichiarazione dello Scuderi, a fronte della dichiarazione del Troina, si è disposto il confronto tra Troina e Scuderi. In genere, è noto, i confronti servono a poco perché ciascuno rimane della propria opinione, ma in questo caso ciò non è avvenuto. Si è trattato di un confronto drammatico per certi versi, senza enfatizzare, ma significativo. Lo Scuderi non voleva volgere lo sguardo ai detenuti; non voleva dire se conoscesse o meno come meccanico il Di Mauro Matteo. Lo Scuderi, messo di fronte al Troina, (si davano del tu) non ha potuto fare a meno di balbettare. "Ma come -gli disse Troina-, non ti ricordi che siamo venuti?". Ed è testuale a verbale, ha risposto “ sì” lo Scuderi, salvo poi fare marcia indietro. "No, questa cosa non era possibile". Non ha detto "non me la ricordo", non ha detto "non è vera", ha detto "non era possibile". Ma il momento più drammatico del confronto è stato 87 quando Troina, consapevole dei pericoli che sussistono per lo Scuderi, o comunque dello stato di intimidazione in cui versava il teste, ha detto: "Tu hai paura, ti capisco, ma tu a noi favori ne hai fatti tanti. Ti ricordi la mia Peugeot 106? Ti ricordi che ti ho tirato fuori dall'usura da cui eri sottoposto da Natale Giuffrida?". Troina gli ha contestato una serie di fatti che confermano come la volontà dello Scuderi sia stata assolutamente coartata, che dimostrano come lo Scuderi sia stato, anche suo malgrado, messo con le spalle al muro e abbia dovuto fare, obtorto collo, una dichiarazione assolutamente falsa. Questo è il secondo alibi falso del Gangi. Gli altri imputati, forse più accorti, hanno preferito non fare dichiarazioni, hanno preferito non dire nulla, anziché prospettare tesi poi rivelatesi sfavorevoli. E che l'alibi falso sia un elemento dal quale trarre prova della responsabilità di un soggetto è un dato assolutamente chiaro, pacifico in giurisprudenza. Si potrebbero citare sentenze a partire dal 1989 fino alla più recente sentenza dell'ottobre '95: "Mentre il fallimento dell'alibi non può essere posto a carico dell'imputato come elemento sfavorevole, non essendo compito di quest'ultimo dimostrare la sua innocenza, ma onere dell'accusa provarne la colpevolezza, quello rivelatosi preordinato e mendace (nel caso in esame sono due, preordinati e mendaci, e lo hanno detto in anticipo Basile e Troina) può essere posto in correlazione con le altre circostanze di prova e valutate come indizio nel contesto delle 88 complessive risultanze" per giungere a un'affermazione di responsabilità. I RISCONTRI Le dichiarazioni degli altri correi, gli elementi di riscontro alle dichiarazioni, l'alibi falso: non sussistono, dunque, solo le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, ma si ha una molteplicità di elementi che comprovano la conducenza delle risultanze processuali. Si ricorderà che a Torino si diede luogo a una sorta di anomalo esperimento, e cioè si volle verificare, la conoscenza degli imputati da parte dei collaboranti. Furono gli stessi imputati ad osservare (anche se potevano dire di non conoscerlo) che Giuffrida si era affacciato in aula e li aveva visti prima dell’udienza. Giuffrida confermò tale circostanza e poi li indicò puntualmente per nome e cognome. L'indomani a Di Stefano Salvatore fu avanzata analoga richiesta, gli venne chiesto dalla Difesa, addirittura, se conoscesse coloro che presenziavano in videoconferenza, ed egli riconobbe anche costoro. Evidentemente imputati e collaboranti si conoscevano bene tra di loro. Fu contestato al Giuffrida di essersi affacciato dalla porta abbigliato in un certo modo (con la giacca) e che quando si abbigliamento. 89 sedette per deporre avesse cambiato Si vorrebbe conoscere uno solo dei motivi, che non sia la rabbia per le sconfitte nel corso di gare automobilistiche, per cui il Giuffrida avrebbe dovuto accusare ciascuno degli imputati falsamente sapendoli innocenti. Sono stati indicati solo elementi falsi, come si ripete, quali quelli indicati da Gangi. Poteva fornire elementi favorevoli alla difesa Vittorio La Rocca? Non ne ha fornito alcuno. Cosa si voleva da La Rocca? Si voleva che dicesse che effettivamente con lui il Di Giacomo si era lamentato che la pistola era stata buttata in campagna e non nel cassonetto? Ma ciò è assurdo! Si vuole pensare che fosse logicamente attendibile una risposta del genere? L’ART. 8 L. 203/91 La legge prevede, all'art. 8 della legge 203 del '91, che il collaboratore di giustizia, di cui sia accertata la credibilità e la attendibilità, benefici di sconti di pena. Nessuno dei collaboranti che sono stati sentiti, cioè per quello che riguarda questo processo, Basile e Giuffrida quali imputati, era stato raggiunto da elementi a carico in questo processo. Essi si sono autoaccusati, non si sono sottratti all'esame, hanno risposto alle domande, di Pubblico Ministero e difesa, si sono dichiarati responsabili dei fatti per cui sono stati tratti a giudizio. Si è perfettamente nell'alveo della normativa e si ritengono perfettamente meritevoli, non solo della concessione 90 delle circostanze di cui all'art. 8, che elidono l’operatività della contestata aggravante di cui all’art. 7 della citata legge, ma, allo stesso modo, appaiono meritevoli della concessione delle circostanze di cui all'art. 62 bis del Codice Penale, da ritenersi prevalenti sulle altre aggravanti contestate, perché questo processo, in particolare, senza il loro contributo non si sarebbe potuto celebrare e ciò è dimostrazione della loro resipiscenza. CONCLUSIONI E RICHIESTE Brevi parole devono spendersi per due imputati: uno, a riprova di quello che si è detto prima a proposito delle dichiarazioni dei collaboratori di Giustizia, è il Giannetto Silvio. Né il Giuffrida, né il Basile hanno dichiarato "Giannetto sapeva". Anzi, con molta onestà, o, se non la si vuole definire tale, con molta sincerità il Giuffrida ha detto: "Io gli dissi soltanto <<dammi la macchina>>". Poi Giannetto seppe di che cosa si trattava, evidentemente, ma non sapeva oggettivamente, ab initio, a che cosa doveva servire l'auto che consegnò al Giuffrida, né ha avuto poi un ruolo specifico nell'episodio in esame. Nessuno degli altri, nemmeno il Torretti, che ha riferito della preoccupazione del Giannetto, ha potuto confermare una diretta partecipazione dell'imputato 91 all'episodio delittuoso. E proprio le emergenze processuali inducono a ritenere che il Giannetto sia stato estraneo al fatto che è in contestazione, e quindi per Giannetto va chiesta l'assoluzione per non aver commesso il fatto. Per quanto attiene Di Mauro Matteo, come si è potuto constatare e trarre come conclusione dalle emergenze dibattimentali, non ha avuto un ruolo diretto e preciso nella consumazione dell'episodio. Di Mauro Matteo "si è limitato a portare gli ordini". Ma gli ordini recapitati da di Di Mauro Matteo erano ordini che dovevano essere eseguiti dal Giuffrida. L’ordine che recapitò Di Mauro Matteo fu quello, dapprima, di uccidere l'avvocato Bonfiglio e poi, sempre su disposizione di Di Giacomo, di uccidere l'avvocato Famà, per le ragioni che si sono esplicitate. Orbene, così come agì il Di Mauro Matteo (e si è provato ritiene che egli effettivamente recapitò l’ordine per la coincidenza temporale con l'epoca dei colloqui) ben poteva agire anche qualcuno degli altri parenti o affini che fungevano da messaggeri con il Di Giacomo. Il Di Mauro Matteo è imputato del reato di cui all'art. 416 bis c.p. nell'altro procedimento di cui il presente è stralcio. Si ritiene che sia conforme a giustizia e conforme al ruolo dallo stesso dispiegato, applicare l'art. 114 del Codice Penale, e quindi correlare la richiesta di pena al ruolo effettivamente svolto. Invero, in relazione al Di Mauro Matteo, non può ritenersi ostativa all’applicazione dell’anzidetta norma la contestazione dell’aggravante di cui all’art. 7 della legge 203/91, atteso che non può ritenersi – in senso tecnico – la 92 previsione di cui all’art. 114 c.p. circostanza attenuante non sottoponibile a comparazione con l’aggravante dianzi citata. Si chiede, pertanto, la condanna del DI MAURO alla pena di anni 21 di reclusione. Per quanto riguarda gli altri imputati, agli stessi è contestata la citata aggravante di cui all'art. 7 L. 203/91, che, come già sottolineato, non può essere sottoposta a comparazione con nessun'altra attenuante; l'omicidio è stato commesso con predeterminazione, e ciò risulta comprovato. Ne consegue che: il Di Giacomo, quale mandante, il Torrisi, il Catti, l'Amante, il Fichera ed il Gangi devono essere condannati alla pena dell'ergastolo. Per quanto riguarda Basile e Giuffrida, per le ragioni che sono già state spiegate in premessa, e in particolare il Giuffrida, come sottolineato in altra sede, per l'eccezionale contributo fornito alle indagini e al dibattimento, essi vanno condannati, Giuffrida alla pena di anni 15 di reclusione e Basile alla pena di anni 17 di reclusione. Si chiede la confisca dell'arma in sequestro. Catania, 18/10/99 Il Pubblico Ministero Dott. Ignazio Fonzo Dott.ssa Agata Santonocito 93