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Le memorie del pm
PROCURA DISTRETTUALE DELLA REPUBBLICA
CATANIA
DIREZIONE DISTRETTUALE ANTIMAFIA
PROCEDIMENTO N. 35/98 C/ AMANTE FULVIO + 9.
MEMORIA DEL PUBBLICO MINISTERO
ART. 121 C.P.P.
IL FATTO E LE PRIME INDAGINI
Il 9 novembre del 1995, alle ore 21:00, nella parte nord della città di Catania,
nell'area adibita a parcheggio, perimetrata da viale Raffaello Sanzio, da via Oliveto
Scammacca, da via Imperia e da via Giuffrida, in prossimità della sede stradale,
nell'angolo fra via Raffaello Sanzio e via Oliveto Scammacca un individuo, vestito
con una giacca color cammello o sabbia, a viso scoperto, con una pistola Beretta
calibro 7,65 serie 80, munita di silenziatore uccideva, con sei pallottole marca
Bellott, Serafino Famà, stimato professionista del Foro di Catania, un uomo
talmente schietto da risultare brusco; un uomo intransigente quanto generoso, per
quanto riferiscono coloro che lo hanno conosciuto e che hanno testimoniato nel
corso di questo dibattimento.
Solo questi elementi sono stati acquisiti nell’immediatezza grazie alle dichiarazioni
rese dall’Avv. Michele Ragonese - persona che si trovava insieme all’avvocato
FAMÀ al momento dell’omicidio – e agli esiti degli accertamenti medico legali e
balistici disposti. Scandagliando la vita dell'avvocato Famà non venne acquisito
alcun indizio che potesse far comprendere agli inquirenti perché l'avvocato
Serafino Famà fosse morto in quel modo, e, forse non sarebbe stato possibile
comprendere il motivo di questa morte, forse non sarebbe stato possibile conoscere
gli autori di questo omicidio se il 6 marzo del 1997 non avesse deciso di
collaborare con la giustizia Giuffrida Alfio Lucio: reggente dell'associazione a
delinquere di stampo mafioso denominata "Laudani", persona che, al momento non
raggiunta da alcun indizio per gravi delitti se non quello di associazione a
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delinquere di stampo mafioso, dichiarava agli inquirenti di essere stato il reggente
dell'organizzazione e di aver personalmente commissionato, ovvero commesso
centinaia di delitti nella provincia di Catania. Giuffrida, immediatamente, agli
inquirenti che lo interrogavano, disse di essere a conoscenza - perché egli stesso
aveva partecipato - delle modalità dell'omicidio dell'avvocato Famà, disse di sapere
chi era il mandante, come era giunto l'ordine, chi era l'esecutore materiale
dell'omicidio dell'avvocato Famà e chi aveva aiutato costui nell'esecuzione del
delitto.
Alle dichiarazioni di Giuffrida successivamente si aggiunsero le dichiarazioni di
altri soggetti che avevano partecipato alla commissione del reato - Basile Mario
Demetrio e da ultimo, Troina Salvatore- e di altri soggetti ancora, che per la loro
qualità, per il loro ruolo all'interno dell'associazione erano venuti a conoscenza sia
del movente sia degli autori del delitto.
L'attenta valutazione dei fatti rassegnati dei collaboratori di giustizia, degli esiti
delle indagini e degli accertamenti tecnici compiuti consentono di radicare la ferma
convinzione che siano stati individuati sia i responsabili sia il movente
dell'omicidio dell'avvocato Famà.
Occorre innanzi tutto analizzare i dati di fatto acquisiti nel corso dell’istruzione
dibattimentale.
Le testimonianze rese dalla moglie e dai colleghi di studio dell’avvocato Famà
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hanno consentito di accertare quanto accaduto nel pomeriggio e nella sera del
giorno in cui avvenne l’omicidio.
La moglie dell'avvocato Famà, la signora Tudisco Vittoria, all'udienza del 20
gennaio del '99, ha riferito che il marito quel giorno, alle ore 17:00, si recò a piedi
in ufficio come era solito fare visto che abitava nelle immediate vicinanze dello
studio, in via Vagliasindi.
I colleghi di studio, l'avvocato D'Antona Goffredo, Li Destri e Ragonese Michele
hanno riferito concordemente circa l'assoluta normalità di quel pomeriggio allo
studio dell'avvocato Famà e circa l’assenza di qualsivoglia preoccupazione o
motivo di ansia, per quanto era a loro conoscenza, nella vita del professionista in
quel periodo.
Particolarmente importante si è palesata la testimonianza resa dall’avvocato
Ragonese il quale ha riferito compiutamente, con attenzione, con scrupolo quello
che avvenne quella sera: alle 21.00 circa l'avvocato Famà gli chiese, come
accadeva talvolta, di accompagnarlo a casa in macchina. Scesero, dunque, dallo
studio, che si trovava in viale Raffaello Sanzio al civico 60, percorsero il
marciapiede fino a giungere all’incrocio con la via Oliveto Scammacca;
attraversarono la via Oliveto Scammacca e quindi il viale Raffaello Sanzio, per
recarsi quindi nel parcheggio, perimetrato da via Raffaello Sanzio e via Oliveto
Scammacca, via Imperia, via Giuffrida. Entrarono nel parcheggio, salirono i pochi
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scalini naturali che consentivano l'accesso a quell'area, percorsero dieci metri circa,
allorché all'improvviso, il Ragonese sentì una voce dietro di sé, una voce imperiosa
dire: "Scusi, buonasera".
L'avvocato Ragonese, quindi si girò e la sua attenzione venne immediatamente
calamitata da un individuo, anzi, dalla mano di questo individuo che vide
impugnare - e forse estrarre dal giaccone che si ricordava essere color cammello un'arma con la canna lunga (Ragonese ha detto che si trattava di un’arma che gli
ricordava quella che si vedeva in famoso film, ovviamente, si tratta delle locandine
del film di James Bond).
Furono attimi, frazioni di secondo, ma Ragonese ha ricordato come quell'individuo
con la pistola in pugno lo sopravanzò velocemente, si pose alle spalle dell'avvocato,
che Ragonese non vide più - la sua sensazione è che egli continuò a camminare
forse pensando che la persona che aveva parlato era il posteggiatore - e cominciò a
sparare.
Al primo sparo il Ragonese, comprensibilmente, si diede alla fuga. Sentì ancora
altri colpi di arma da fuoco: si trattava - a dire del Ragonese - di spari molto attutiti,
simili a quelli che vengono prodotti dall'uso di un'arma silenziata, o comunque tali
gli sembrarono in relazione a quanto aveva notato nel sonoro delle scene di alcuni
film.
Il Ragonese era vicinissimo alla sede stradale, dieci metri. Scese sulla strada e
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cominciò a sbracciarsi cercando di fermare qualcuno per chiedere aiuto.
Molti lo evitarono. Solo una autovettura si fermò; a bordo di quel veicolo vi erano
un uomo ed una donna, poi identificati in LANZAFAME Francesco e DI MARCO
BERNARDINO Rosanna.
L’avvocato Ragonese spiegò confusamente quello che era accaduto e quindi, in
stato di choc si sedette sul marciapiede di via Raffaello Sanzio, di fronte allo studio
che era stato dell'avvocato Famà.
Nulla di più l'avvocato Ragonese ha saputo aggiungere. Egli lucidamente,
razionalmente, ha spiegato nel corso del dibattimento il motivo per il quale non gli
era possibile aggiungere altro in merito all'aspetto dell'aggressore: ha fondato la
propria convinzione circa la normalità dell’aspetto dell’aggressore sulla
condivisibile considerazione che sarebbe stato altrimenti colpito dall’eventuale
anomalia.
L'avv. Ragonese inoltre, ha riferito di avere percepito la presenza di altra persona
vicina a colui il quale aveva la pistola in mano; ma di questi egli non riesce a
riferire nulla, tuttavia, proprio perché la sua attenzione era focalizzata sulla pistola.
Infine il teste ha riferito di avere avuto la sensazione (non è certo di averlo visto)
che gli aggressori scapparono in direzione di via Imperia. L'escussione in
dibattimento dei soggetti che si fermarono per prestare aiuto all'avv. Ragonese, e,
successivamente, all'avv. Famà - i coniugi Lanzafame Francesco e Di Marco
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Bernardino Rosanna- ha consentito l'acquisizione di ulteriori elementi idonei a
ricostruire il fatto. Il Lanzafame è un medico endocrinologo il cui studio si trova
nello stesso stabile di via Sanzio 60, in cui si trovava lo studio dell'avvocato Famà.
Il Lanzafame quella sera si trattenne allo studio, come era suo solito, fino alle
20:45, le 21:00 circa. La Di Marco si recò presso lo studio del marito con la propria
autovettura. Parcheggiò la sua vettura sotto lo studio, con la parte anteriore rivolta
verso il viale Vittorio Veneto, suonò il campanello e aspettò che il marito
scendesse. Passarono pochi minuti. Il marito scese e proprio mentre si apprestava
ad entrare in macchina si accorgeva della presenza di un uomo, di un individuo che
si sbracciava in mezzo alla strada, in prossimità del parcheggio. Ne parlò con la
moglie, la quale nel frattempo aveva fatto un'inversione a U sul viale Raffaello
Sanzio per poi immettersi nella strada che porta all'autostrada. Giunsero nei pressi
del luogo in cui si trovava quell'uomo che avevano notato, quello che poi sapranno
essere l'avvocato Ragonese. Si fermarono e chiesero spiegazioni, compresero, dalle
parole confuse dell'avvocato Ragonese, che qualcosa era successo, che un uomo era
stato ucciso. La signora Di Marco rimase lì, nei pressi, parcheggiò la macchina, il
Lanzafame andò prima al bar e poi allo studio per telefonare alla polizia e chiedere
aiuto. Ritornò indietro di corsa, ed è in questo momento che insieme alla moglie
sentì le parole di una coppia di giovani; sentì la ragazza dire al ragazzo che era con
lei: "Li ho visti, li ho visti andare via con il motorino." I coniugi Lanzafame
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giunsero laddove si trovava l'avvocato Serafino Famà. Egli era ancora vivo e
giaceva supino sul terreno. Il medico provò subito a rianimare, a praticare il
massaggio cardiaco. In questa attività venne assistito dalla moglie. Arrivata la
polizia e l'ambulanza, l'avvocato Famà venne trasportato al pronto soccorso
dell'ospedale Garibaldi, dove giunge cadavere alle ore 21:20.
Il Lanzafame Francesco, nel corso della sua deposizione ha riferito anche un altro
particolare, un particolare che si rileverà di fondamentale importanza e che emerge
- è giusto e doveroso ammetterlo - grazie all'attenzione della difesa. Il teste, infatti,
ha riferito, nel corso del suo esame, e su contestazione degli avvocati della difesa,
che in realtà nel capannello di gente che si fermò subito dopo l'omicidio, egli udì
qualcuno
dire di aver visto due uomini commettere il reato: uno di costoro
indossava un impermeabile, l'altro una giacca color sabbia. Tale particolare è
risultato essere un formidabile riscontro alle dichiarazioni di Giuffrida in merito
alla responsabilità degli indagati ed alla dinamica dei fatti.
I rilievi tecnici compiuti nell'immediatezza (come risulta dal relativo verbale a
firma degli agenti Camagna e Piano Mauro e dalle foto allegate allo stesso) il cui
esito è stato riferito dal dottore Turrisi, provano che venne utilizzata una pistola
calibro 7,65. Furono repertati, infatti, sette bossoli calibro 7,65 che si trovavano
nell'area immediatamente circostante quella in cui si trovava la macchia ematica, a
testimonianza che colui che sparò era vicinissimo alla vittima. Furono compiuti poi
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accertamenti medico-legali e balistici. Si accertò, in sede di autopsia, che l'avv.
Famà fu colpito da sei proiettili, ma soltanto cinque vennero repertati all'interno del
corpo, perché uno di questi era trapassante; tre hanno attinto la vittima al dorso; tre,
invece, hanno attinto la vittima al volto. Il dottor Puglisi ed il dottore Fatuzzo
hanno chiarito che in relazione alle caratteristiche delle ferite, in relazione alla
condizione in cui è stato ritrovato il cadavere (era supino sul selciato: si ricordi sul
punto, che la teste Di Marco ha precisato che notò tracce di terra sulla camicia), si
può ritenere che i primi colpi vennero esplosi alle spalle e che, quindi, l'avvocato si
girò per poi ricadere supino sul selciato ed essere colpito, mentre già era a terra, al
viso. L'esame dei bossoli e dei proiettili repertati nel corso dell'esame autoptico ha
consentito di acquisire ulteriori ed importanti elementi per la ricostruzione del fatto;
si accertò, infatti, che i sette bossoli erano stati espulsi dalla medesima arma. Si
accertò anche, per le caratteristiche dei segni impressi sui bossoli e sulle pallottole,
che si trattava di una pistola Beretta della serie 80. Si accertò infine, che i colpi
erano stati esplosi da una pistola munita di silenziatore. Quest'ultimo dato è stato
ricavato dai due tecnici, dal dottore Fatuzzo e dal dottore Puglisi, dall'esame dei
proiettili e delle ferite riportate dall'avvocato Famà. Ed invero, per quanto riguarda
le ferite si è accertato come i fori d'ingresso presentassero un orletto cincischiato ed
irregolare e come le pallottole recassero delle microstriature non riconducibili al
sistema di striatura dell'arma, indice di un movimento di torsione di proiettili non
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stabilizzati.
Le caratteristiche evidenziate nelle ferite e nei proiettili sono considerate in
letteratura sicuro indice dell'uso di un'arma munita di silenziatore. Occorre rilevare
sul punto, che l'arma rinvenuta su indicazione del Giuffrida, indicata da questi
come arma utilizzata per l'omicidio dell'avvocato Famà, è una pistola Beretta della
serie 82, ed è una pistola che reca, nel vivo di volata, i segni della filettatura
necessaria per l'apposizione di un silenziatore.
IL MOVENTE
Nell'immediatezza del fatto nessun altro indizio venne raccolto in merito
all'omicidio dell'avvocato Famà. Si sequestrò momentaneamente lo studio, si
effettuarono delle perquisizioni a taluni dei clienti dell'avvocato Famà, ma non si
individuò alcuno spunto di indagine.
Nel corso del dibattimento la Difesa, con pazienza certosina, con rigore ed
entusiasmo ha ricercato nel patrimonio di conoscenze di tutti i testi qualunque dato
che consentisse di ricostruire per l'omicidio scenari diversi da quelli prospettati
dall'accusa, e lo scrupolo con cui è stata condotto la ricerca è stato tale da non
consentire loro di escludere anche l'ipotesi apparentemente più inverosimile.
E' sufficiente la mera elencazione delle ipotesi alternative suggerite - o adombrate
dalla Difesa - per rendersi conto della loro assoluta infondatezza.
Si è ritenuto di introdurre il sospetto, il dubbio che l'avvocato Famà sia morto in
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ragione di una controversia sorta sui campi di calcio (si veda udienza del 26-1-99,
pag. 90); Si è adombrata la possibilità che la morte dell'avvocato Famà fosse
ricollegabile alla volontà dei colleghi di studio dell'avvocato di accaparrarsi i clienti
di questi (udienza 26.1.99, pagina 202); si prospettò anche l'ipotesi di un omicidio
passionale. Si pensò ad una controversia con collega di altro Foro, l'avvocato
Impellizzeri (udienza del 26.1.99, pagina 164), avvocato con il quale l'avvocato
Famà aveva avuto uno scontro verbale, poiché aveva ritenuto non corretto
deontologicamente il suo operato. Si è ancora pensato alla vendetta di soggetti
appartenenti a clan a cui erano affiliati ex clienti dell’avvocato Famà che avevano
collaborato con la giustizia: Pulvirenti e Grazioso (udienza del 26.1.99, pagina 63).
Si è pensato, addirittura, a possibili reazioni all'intervento dell'avvocato Famà ad un
convegno dei Lions tenutosi pochi giorni prima dell'omicidio ed avente ad oggetto i
collaboratori di giustizia, nel corso del quale l'avvocato aveva espresso opinioni
critiche in merito alla gestione dei collaboratori di giustizia (udienza 26.1.99, pagg.
105 e 230).
Si è scandagliata la possibilità che il Famà avesse avuto delle controversie nella
gestione di società finanziarie: si è appreso che l'avvocato Famà dedicava tutte le
sue energie solo ed esclusivamente all'attività di penalista. Si è pensato anche alla
possibilità di una rinunzia ad incarichi di difesa conferiti (controesame di Li Destri,
pagina 32).
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Si è pensato ancora alla possibilità che l'omicidio fosse maturato nell'ambito di un
processo nel quale l'avvocato Famà per avventura, avesse difeso soggetti
appartenenti a clan contrapposti (udienza del 20.1.99, pag. 32). Ed ancora, alla
possibilità che si trattasse di un omicidio determinato dall'assunzione di difesa di
parte civile da parte del Famà in processi per omicidio (udienza 20.1.99, pag. 34).
Ed infine, si è ritenuto che potesse essere una ipotetica traccia la poca sollecitudine
del Famà nel visitare in carcere i suoi assistiti (udienza 20.1.94, pagina 34).
Queste le ipotesi alternative prospettate dalla Difesa: rispetto ad esse nessun
elemento è emerso nel corso del dibattimento che consenta di ritenerne una sola
valida.
Di fatto l'avvocato Famà mostrava di non nutrire alcuna preoccupazione per la sua
incolumità personale: lo studio e l'abitazione non erano muniti di video citofono,
non erano muniti di telecamera esterna, la porta dello studio non era blindata.
L'avvocato Famà si recava di norma a piedi allo studio e non aveva timore nel
tornare a piedi nella propria abitazione anche a notte fonda.
L'unico cruccio, l'unico problema dell'avvocato Famà la sera in cui fu ucciso era il
dispetto per non trovare più una maglia della squadra di calcio amatoriale nella
quale giocava (cfr. dichiarazioni rese dall’avv. D’Antona).
Ed allora qual è il movente? L'unica risposta plausibile è quella che hanno fornito i
collaboratori di giustizia, che hanno direttamente partecipato alla commissione
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dell'omicidio e che hanno confessato la loro responsabilità quando non esisteva
alcun indizio a loro carico.
E' dalle dichiarazioni dei collaboranti che possiamo comprendere perché il movente
non venne individuato: il movente non poteva essere individuato perché un vero
movente, almeno secondo quello che è normale meccanismo di reazione
nell'ambito delle relazioni umane, non esiste. L'avvocato Serafino Famà è morto
perché ciò è stato ordinato da Di Giacomo Giuseppe Maria a Giuffrida Alfio Lucio,
dal carcere di Solicciano per il tramite di Matteo Di Mauro. La semplice ed
imperiosa volontà del Di Giacomo è stata da sola sufficiente a determinare la morte
di un uomo "che non c'entrava niente con squadre e gruppi del clan" (così lo
qualifica Romeo Giovanni: verbale del 3-2-99). Un uomo che Giuffrida "non si
sarebbe mai immaginato di uccidere", che non doveva essere ucciso per la sua
qualità ed in relazione alle disposizioni date da Santapaola (e ciò determinò la
necessità di mentire agli alleati). Un uomo che non doveva essere ucciso perché
altri era l'obiettivo primario di Di Giacomo.
A questo punto, occorre soffermarsi sulla personalità di Di Giacomo. Il ruolo e la
"caratura" criminale di Di Giacomo nell'ambito dell'associazione a delinquere di
stampo mafioso denominata "Laudani" emerge dalle sentenze passate in giudicato
prodotte in atti e dall'attività istruttoria del presente dibattimento. Il Di Giacomo è
legato da vincoli di parentela alla famiglia Laudani, intesa in senso anagrafico, e
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tale circostanza, in un'associazione di tipo patriarcale quale è quella Laudani (
come acclarato nelle sentenze della Corti di Assise di Catania, n. 12/92, e del
Tribunale di Catania, n. 705/95, in atti), costituisce di per sé una sorta di
investitura. Si tratta, peraltro, di persona che, giovanissima, ha mostrato notevole
attitudine al comando (come dimostrato dal contenuto delle intercettazioni riportate
nella sentenza della Corte di Assise di Appello del '93, in atti, pagine 81 e
seguenti). A 25 anni - quella era l'età del Di Giacomo all'epoca dei fatti - egli dava
disposizione agli altri affiliati del gruppo, e tra questi a Corrado Antonino, che era
più anziano di lui di 13 anni. E, dopo l'arresto dei componenti della famiglia
Laudani, che avvenne nel settembre del '90 in relazione all'omicidio di Nino Pace,
egli prese le redini dell'associazione, per come è acclarato con sentenza passato in
giudicato (sentenza 705/95 in atti): "Egli" - si legge in motivazione di detta
sentenza - "prendeva decisioni proprio per la sopravvivenza del gruppo, quale la
determinazione di eliminare rivali scomodi, di incontrare i capi di organizzazioni
rivali per discutere su fatti importanti avvenuti, di tentare tutto il possibile per
dissuadere il Corrado dal collaborare." Tale attività del Di Giacomo, di sicura
preminenza rispetto a quelle svolte dagli altri associati in quanto collegate ai
bisogni essenziali della vita dell'organizzazione, anche nel suo esplicarsi
quotidiano, evidenziano in maniera chiara il ruolo di ideazione dell'organizzazione
rivestito dall'imputato nel clan de quo (pag. 14 della sentenza). Il ruolo di capo
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viene confermato anche dai collaboranti che sono stati escussi nel corso del
dibattimento. Il Di Raimondo, in particolare, soggetto di spicco dell'organizzazione
Santapaola, ha riferito come, dopo la morte di Gaetano Laudani, fu il Di Giacomo a
condurre direttamente in nome e per conto della famiglia Laudani, le trattative
dirette a stringere alleanza con i Santapaola.
Ed ancora ed oltre, occorre evidenziare come, secondo quanto riferito
convergentemente da tutti i collaboranti interrogati, il Di Giacomo manteneva e
mantiene il comando dell'organizzazione, non solo e non tanto in virtù dei vincoli
di affinità che lo legavano alla famiglia Laudani, quanto piuttosto per la sua
speciale determinazione, per la pericolosità, per la sua vendicatività. Il Giuffrida,
che di certo non è un uomo mite, lo ha definito "diabolico", ed ha più volte
affermato che né lui né altri avrebbero mai preso in considerazione anche la mera
possibilità di non obbedire ad un suo ordine o di chiedere solo e semplicemente il
motivo degli ordini ricevuti.
Anche il Basile ha dichiarato che l'ordine dato dal Di Giacomo non poteva essere
messo in discussione, e il Di Stefano, dal canto suo ha dichiarato che "quando
Pippo Di Giacomo manda una sentenza non è facile, non si permette nessuno di
disdire la sua decisione."
In termini identici ha deposto Troina, ed anche la Ouertani Ayet. Costei, interrogata
nel dibattimento che si svolse davanti al Tribunale, riferì che il Di Giacomo era
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persona pericolosa "io stessa ho sentito parlare. Ho sentito come parlano a tavola,
che ammazzava la gente."
Il Di Giacomo, per quanto evidenziato, è un capo; è un soggetto che aveva ed ha il
carisma, il potere, la possibilità di comandare anche dal carcere, perché in carcere
egli si trovava quando diede l'ordine di uccidere l'avvocato Famà. La vera ragione
dell'omicidio risiede - per quanto interessava coloro che quel delitto eseguirono nella mera volontà del Di Giacomo. E tanto potrebbe essere sufficiente a fondare la
ricostruzione dei fatti in sede giudiziaria trattandosi di un omicidio che matura
all'interno di una associazione a delinquere di stampo mafioso. E tuttavia appare
necessario, e doveroso, cercare di comprendere il vero motivo, il pretesto, la logica
perversa da cui germinò l'idea di uccidere Serafino Famà.
Orbene, Giuffrida Alfio Lucio, Basile Mario Demetrio e Troina Salvatore, tutti e tre
esecutori materiali chiamanti in correità, hanno convergentemente riferito che il
primo ordine che pervenne dal carcere, da parte Di Giacomo, fu quello di uccidere
l'avvocato Bonfiglio. Hanno riferito, altrettanto convergentemente, che nelle more
degli accertamenti necessari per la esecuzione di quel delitto, che si presentava
complicato per le abitudini di vita del Bonfiglio, giunse tramite il Di Mauro Matteo
altro ordine, l'ordine di uccidere l'avvocato Famà. Il Romeo e il Troina, inoltre,
hanno riferito che dopo l'esecuzione della misura cautelare dell'ottobre del '96, e
prima del pentimento del Giuffrida, era giunto di nuovo l'ordine dal carcere di
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riprendere gli appostamenti per uccidere l'avvocato Tommaso Bonfiglio.
Ed allora, se l'obiettivo primario del Di Giacomo era l'avvocato Tommaso
Bonfiglio, se solo in seconda battuta si decise l'omicidio dell'avvocato Famà, è
essenziale comprendere la ragione per cui Di Giacomo voleva uccidere l'avvocato
Bonfiglio, perché solo in questo modo si potrà comprendere il collegamento logico
che fu fatto dal Di Giacomo nel momento in cui decise di cambiare obiettivo e di
uccidere l'avvocato Famà, avvocato con il quale, apparentemente, non aveva avuto
alcun contatto diretto.
Per quanto concerne il motivo, tutti i collaboranti riferiscono
una unica
circostanza: essi hanno affermato, appreso che il Di Giacomo aveva deciso di
uccidere Bonfiglio, che ciò avvenne perché questi "si era mangiato" (questa è la
parola testuale utilizzata dai collaboranti) "un sacco di soldi." Sul punto appare
opportuno riportare proprio le parole utilizzate dai collaboratori di giustizia.
Giuffrida, nel corso dell'udienza del 1.2.99 ha detto: "Prima è stato mandato di fare
l'avvocato Bonfiglio. Prima ancora. Siccome l'avvocato Bonfiglio è il difensore di
Pippo Di Giacomo. Quest'avvocato ci aveva mangiato un sacco di soldi, gli aveva
promesso che lo buttava fuori e invece non stava facendo niente, si mangiava
solamente i soldi. Gli aveva dato 200, 250 milioni per farlo uscire e lui aveva
deciso di fare uccidere l'avvocato Bonfiglio."
Basile Mario, nel corso dell'udienza del 2.2.99 ha dichiarato: "Si diceva che si
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doveva uccidere( l’avvocato Bonfiglio ndr) perché si mangiava un sacco di soldi,
ed anche per darci un colpo a tutti i clan, la squadra, che tutti si lamentano e
nessuno fa cosa."
Di Stefano (udienza 3.2.99) ha dichiarato: "Tutti del clan lo sapevano che si doveva
uccidere quest'avvocato, perché si era mangiato troppo soldi di Pippo Di Giacomo.
Si era preso cassette di pesce. Praticamente era stato trattato molto bene e si era
comportato molto male. Poi c'è stato anche un altro periodo, dopo l'avvocato Famà,
che sempre quest'avvocato doveva morire." Il Di Stefano, alla domanda ulteriore
circa i motivi che avevano determinato l'omicidio dell'avvocato Famà ha dichiarato:
"Perché non era riuscito a fare determinate cose per Pippo Di Giacomo, a livello
di... cose di giustizia, cose che si sbrigano gli avvocati, ed allora si doveva punire
quest'avvocato!" Ed ancora più esplicitamente il Giuffrida, incalzato dalle domande
ha dichiarato: "Perché l'avvocato gli aveva promesso che lo buttava fuori, gli ha
fregato i soldi. L'avvocato Bonfiglio, come si suol dire, era un avvocato troppo di
fiducia della famiglia dei Laudani, di Pippo Di Giacomo, di Turi u pisciaru." (Turi
u pisciaru è Turi Russo di Acireale ndr) "perché ci portavano sempre il pesce, gli
compravano i cannoli la domenica, glieli portavano. Cioè c'era una cosa stretta con
quest'avvocato Bonfiglio, solo che loro poi si sono visti traditi da quest'avvocato,
che non ce l'ha fatta a fare uscire Pippo Di Giacomo, perché Pippo Di Giacomo
voleva uscire dalla galera quando è stato che l'hanno arrestato l'ultima volta, perché
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dice, non aveva niente, e lo tenevano in galera per niente! L'avvocato c'ha
promesso che lo buttava fuori si è sentito tradito da quest'avvocato, che non l'ha
buttato fuori."
Dunque è in questo presunto tradimento che si può rinvenire la ragione vera
dell'odio di Di Giacomo nei confronti dell'avvocato Bonfiglio. Di certo egli avrà
frainteso l'ottimismo dell'avvocato nella buona riuscita dei processi che lo
vedevano imputato in Corte d'Assise ed in Tribunale, ed aveva ritenuto che le
buone probabilità intraviste dal professionista fossero delle certezze. E però, i fatti
che egli vide accadere nel corso del dibattimento, le condanne che si sono
susseguite, e soprattutto il mantenimento della custodia cautelare avranno, con tutta
probabilità, radicato nel Di Giacomo la ferma convinzione che il Bonfiglio lo
avesse preso in giro ed avesse indebitamente percepito ogni compenso ricevuto.
D'altra parte, l'esame delle carte processuali consente di ritenere che il Di Giacomo
- dal suo punto di vista ovviamente, di persona non esperta in questioni giuridiche avesse qualche motivo per dolersi dell'attività spiegata dal suo difensore. E basterà
sul punto prendere in esame attentamente la sentenza n. 705/95,in atti, e i verbali
del dibattimento dei giorni 14 giugno del '95 e 28 giugno del 1995, verbali acquisiti
ritualmente dalla Corte su richiesta del P.M.
Occorre premettere che il Di Giacomo era stato assolto dalla Corte d'Assise in
relazione alla imputazione di associazione a delinquere di stampo mafioso, e ciò era
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avvenuto il 13 luglio del 1992, la sentenza è in atti. Nel corso del processo di
Appello si determinò a collaborare con la giustizia Corrado Antonino, soggetto
coimputato del Di Giacomo nel predetto processo, "compare" del Di Giacomo,
affiliato all'organizzazione Laudani. Tale collaborazione di certo aveva assottigliato
le possibilità del Di Giacomo di veder confermata la sentenza di primo grado. Era
accaduto poi che il 10 settembre del 1993 il Di Giacomo venisse tratto in arresto in
esecuzione di un decreto di fermo emesso dalla Procura Distrettuale della
Repubblica di Catania per i reati di porto e detenzione di arma da fuoco e per il
reato di associazione a delinquere di stampo mafioso; si tratta proprio dell'arresto
cui è correlato il procedimento nel cui ambito è stata emessa la sentenza n.705/95.
Orbene, le modalità dell'arresto, ed in particolare l'uso di armi da parte dei
carabinieri; le circostanze dell'arresto, vale a dire del fatto che l'arresto venne
eseguito mentre il Di Giacomo si trovava in compagnia della cognata, Corrado
Stella, nottetempo; l'asserita pretestuosità del fermo stesso, fecero sì che il Di
Giacomo si adirasse molto più di quanto di norma accada. E' stato riferito tra l'altro,
dai collaboranti, che proprio quest'arresto determinò nel Di Giacomo la volontà di
eseguire l'attentato alla caserma dei carabinieri di Gravina di Catania, attentato che
costituisce oggetto di altro procedimento penale, di cui questo costituisce stralcio, e
nell'ambito del quale la Pubblica Accusa ha già chiesto la condanna alla pena
dell'ergastolo del Di Giacomo ritenendo che siano stati acquisiti elementi probatori
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assolutamente pregnanti. Orbene, il fermo ed il procedimento si fondavano,
pressoché esclusivamente, sulle dichiarazioni rese da Corrado Antonino (nel
frattempo divenuto collaboratore di giustizia) e sulle dichiarazioni rese dalla
convivente di Corrado, Ouertani Ayet. La Ouertani Ayet riferì agli inquirenti che il
Di Giacomo era il capo dell'organizzazione Laudani; riferì che in una occasione il
Di Giacomo giunse, presso l'abitazione in cui ella si trovava, trafelato; la donna
accese subito la televisione per sentire il telegiornale e ricordò che si parlò di un
omicidio; in quella occasione la Ouertani Hayet ebbe la sensazione che, celata,
all'interno della cintola dei pantaloni del Di Giacomo vi fosse una pistola. E ancora
la Ouertani Hayet riferì agli inquirenti che il Di Giacomo l'aveva condotta presso
l'abitazione della Corrado Stella, qui l'aveva trattenuta ed aveva cercato di fare
pressioni su di lei, prima blandendola e poi minacciandola, perché lei si adoperasse
per convincere il Corrado a non collaborare più con la giustizia. Queste furono le
dichiarazioni rese dalla Ouertani Hayet, nel corso dell'udienza che si tenne
nell'ambito del procedimento di cui si è detto.
Orbene, il Di Giacomo riteneva che la Corrado Stella, nella cui abitazione la
Ouertani Hayet fu condotta, e alla cui presenza avvennero le pressioni di cui sopra,
potesse rendere dichiarazioni idonee a scagionarlo. E che questa fosse la sua
convinzione lo ricaviamo dalle stesse parole dell'avv.
Tommaso Bonfiglio, il
quale, sentito in dibattimento ha dichiarato: "Signor Presidente, Di Giacomo era
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convinto, profondamente convito della ingiustizia dell'arresto, dell'ultimo arresto.
Era convinto che le cose che si dicevano sul suo conto, in ordine all'attività che
avrebbe svolto per indurre, violentemente o minacciosamente taluna a non
accusare, fosse un addebito che non gli competeva. Era altresì convinto che la
signora Stella Corrado, potesse, dicendo la verità, soccorrere la sua protesta di
innocenza, di talché aveva interesse, ed
è logico, a che la signora deponesse
secondo coscienza e verità." Questo ha detto l'avvocato Bonfiglio.
L'esame del verbale dell'udienza tenutasi davanti alla prima sezione del Tribunale il
28 giugno 1995 fornisce ulteriori elementi di riflessione. A quell'udienza era
presente Di Giacomo Giuseppe Maria, lo si ricava dal verbale, e l'avvocato
Bonfiglio in quella sede illustrò, con vigore e con perizia le ragioni a sostegno della
indefettibilità dell'escussione della Corrado Stella, quale teste di riferimento, e ciò
al fine di verificare la veridicità delle dichiarazioni rese dall'Hayet nel corso di quel
dibattimento. Il P.M. nel richiedere il rigetto di quest'istanza del difensore, fece
rilevare la tardività della richiesta poiché si trattava di teste dell'accusa, a cui il
P.M. aveva rinunziato all'udienza del 14 giugno del 1995, senza che la difesa stessa
si opponesse. Quali che siano state le ragioni tecniche che poi determinarono il
Tribunale ad adottare la decisione, di fatto il Tribunale non ammise l'escussione
della teste Corrado Stella. Il Di Giacomo, di certo, non potè non aver sentito quelle
che furono le argomentazioni del P.M., per quanto poi non riprese dal Tribunale.
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Nel corso della medesima udienza poi, l'avv. Bonfiglio chiese ancora, spiegando
compiutamente quanto ciò a suo parere fosse indispensabile, l'ammissione e la
produzione di verbali di interrogatorio resi dal Corrado Antonino in precedenza, e
ciò al fine di dimostrare, in modo inequivocabile, la inattendibilità del collaborante.
Ebbene, anche questa richiesta venne disattesa dal Tribunale. Il Tribunale disse
espressamente che "le dichiarazioni afferenti al teste escusso, come precedenti
l'audizione dello stesso, ben potevano essere utilizzate dalla difesa per le eventuali
contestazioni." E dunque ancora una volta il Di Giacomo - dal suo punto di vista colse un’altra inerzia del suo difensore. Si aggiunga, ma è certamente un particolare
di poco conto, che in quella occasione discusse il P.M. e chiese la condanna ,
mentre il Bonfiglio chiese rinvio per il suo intervento difensivo.
Il 5 luglio del 1995 il Tribunale condannò Di Giacomo Giuseppe Maria per il reato
di associazione a delinquere di stampo mafioso, assolvendolo invece per il porto e
detenzione di armi.
Si deve osservare che chiunque avesse ritenuto di essere stato ingiustamente e
pretestuosamente arrestato, chiunque avesse ritenuto, a torto o a ragione, che le sue
buone ragioni erano rimaste inascoltate anche per colpa del proprio difensore,
chiunque sarebbe stato furioso per questo, e Di Giacomo reagì come sapeva e come
poteva: mandando una “sentenza di morte!” Non sappiamo quando, materialmente,
nella sala colloqui del carcere di Solicciano il Di Giacomo comunicò a Di Mauro la
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sua volontà di vendetta, se subito dopo la sentenza o nel corso dei colloqui che nel
mese di luglio, di agosto, e del mese di settembre, ebbe con Di Mauro Matteo.
Certo è che, raffreddata un po' l'ira, subito il Di Giacomo dovette riflettere sulle
possibili conseguenze negative che potevano riverberarsi su di lui in caso di morte
violenta dell'avvocato Bonfiglio. Ritenne, e probabilmente a ragione, che le
indagini si sarebbero rivolte in prima battuta nei confronti dei clienti dell'avvocato
Bonfiglio, e tra questi, nei confronti di chi aveva avuto motivo di dolersi da ultimo
dell'avvocato.
Giuffrida ha riferito che allorché egli mandò a dire a Di Giacomo, tramite il Di
Mauro, che a breve avrebbe potuto organizzare l'omicidio dell'avvocato Bonfiglio,
subito giunse l'ordine di cambiare obiettivo: "Mettilo da parte perché se succede
qualche cosa all'avvocato Bonfiglio può ricadere sopra di lui, perché l'aveva lui,…
Si deve fare l'avvocato Famà!" L'ira dunque del Di Giacomo aumentò poiché si
rese conto di non poter dare sfogo alla sua rabbia e non poter reagire come era
abituato a reagire, immediatamente e violentemente. Ed allora decise di cambiare
obiettivo e di uccidere l'avvocato Famà.
Qualcosa deve essere scattato dentro di lui, un collegamento logico fra l’avvocato
Bonfiglio e l'avvocato Famà. Per comprendere la decisione del Di Giacomo occorre
individuare un punto di contatto, un momento di collisione fra gli interessi del Di
Giacomo e la condotta dell'avvocato Famà. Tale collegamento è stato rinvenuto
24
nell'esame degli atti del dibattimento della Corte di Assise di Appello, relativo al
procedimento che riguardava - tra gli altri - Laudani Sebastiano, Di Giacomo
Giuseppe Maria, Corrado Antonino, ed in primo grado anche la Corrado Stella
(sentenza n. 26/93 R.Sentenze in atti). Ebbene, nel corso del dibattimento che si
celebrò il 30 settembre del 1993, a seguito delle dichiarazioni rese da Corrado
Antonino, la Corte ritenne opportuno accogliere le richieste della Procura Generale
e dei difensori ed ammettere come teste Corrado Stella. Ciò avvenne nel corso di
udienza antimeridiana. La teste venne convocata per il pomeriggio dello stesso
giorno. L'avvocato D'Antona ha dichiarato che egli ebbe netta la sensazione che la
Corrado Stella non volesse deporre e che, quel pomeriggio, fu l'avvocato Famà a
recarsi in udienza, e fu in udienza, in pubblica udienza, che l'avvocato Famà chiese
alla Corte di revocare l'ordinanza ritenendo che la Corrado Stella dovesse astenersi
in quanto prossima congiunta di taluni degli imputati ed in quanto vi era la
possibilità che rendesse dichiarazioni per sé autoindizianti.
Corrado Stella venne chiamata a deporre, ma si avvalse della facoltà di non deporre
che è riservata dal codice ai congiunti delle persone che sono imputate nel
dibattimento.
Fu chiaro subito che la signora Corrado si determinò in questo senso, perché così
consigliata dal difensore, l'avvocato Famà. Lo stesso avvocato Bonfiglio, sentito in
fase di indagini preliminari (dichiarazioni poi contestate in udienza, cfr. verbale in
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atti) ha riferito: "La Corrado Stella era colei che si consultava ufficialmente con
l'avvocato Famà se dovesse astenersi dal rendere interrogatorio o meno. Questo è
pacifico." E ancora, sempre nella fase delle indagini preliminari il Bonfiglio ha
riferito: "Perché nessuno ne fece un mistero, lo disse anche il povero Famà con
l'onesta che lo distingueva." "E quando lo disse?" "In udienza." Quindi in udienza
fu chiaro a tutti che la Corrado Stella non depose perché l'avvocato Famà l'aveva
consigliata.
Ed allora, se l'obiettivo primario non poteva essere perseguito, se Bonfiglio non
poteva essere ucciso in quel momento e non poteva essere ucciso perché la sua
morte poteva essere ricollegata al Di Giacomo Giuseppe Maria, se il motivo dell’ira
del Di Giacomo era proprio la mancata deposizione della Corrado Stella, allora,
nella mente del Di Giacomo, si sovrapposero i due ricordi: la mancata deposizione
della Corrado Stella in Tribunale, la inattività dell'avvocato Bonfiglio in relazione a
quella deposizione e quanto era avvenuto di assolutamente analogo in Corte
d'Appello.
Il Di Giacomo ricordò come la persona che in quell'occasione ostacolò le sue
strategie fu proprio l'avvocato Famà, e decise di cambiare obiettivo e di indirizzare
i suoi strali sull'avvocato Famà. Peraltro, una volta ucciso l'avvocato Famà,
l'omicidio di Bonfiglio, cioè l’omicidio di altro avvocato penalista che fosse
avvenuto subito dopo, difficilmente sarebbe stato ricondotto a persone che erano
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state clienti dell'avvocato Bonfiglio: più probabilmente la esecuzione di più omicidi
che riguardavano più penalisti avrebbe indotto gli inquirenti a ritenere i due omicidi
inquadrabili in una strategia più ampia e diversa e avrebbe senz'altro condotto le
indagini lontano dal Di Giacomo.
Di fatto, l'omicidio dell'avvocato Famà è avvenuto pochi mesi dopo il deposito
della sentenza.
Il 26 novembre del 1996, quando venne notificata a DI GIACOMO l'ordinanza di
custodia cautelare del 14-10-96 nell'ambito del procedimento 888/96 N.R., il DI
GIACOMO non nominò più l'avvocato Bonfiglio a riprova del venir meno del detto
rapporto di fiducia tra DI GIACOMO e l’avvocato BONFIGLIO.
Il Troina ed il Romeo hanno riferito in dibattimento che, non appena scarcerati,
subito dopo l'esecuzione dell'ordinanza di custodia cautelare dell'ottobre 1996,
ricevettero a loro volta l'ordine di uccidere l'avvocato Bonfiglio ed a tal fine
eseguirono sopralluoghi a Catania e Stazzo.
LA DEPOSIZIONE DELL'AVVOCATO BONFIGLIO
In ordine alla individuazione del movente, delle ragioni, e dunque dell'astio, del
rancore nutrito dal Di Giacomo nei confronti dell'avvocato Bonfiglio e delle
successive motivazioni che individuarono nel povero avvocato Famà il capro
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espiatorio, la vittima sacrificale, ci si è già esaurientemente soffermati. Ma è
necessario aggiungere qualcos'altro, perché è da evidenziare una ulteriore ragione
oltre quella di cui sopra e che, in altro dibattimento, (a proposito di altro episodio
con la stessa matrice, con lo stesso tipo di movente), si è definita quella "ufficiale",
cioè quella determinata dagli esiti nefasti, sotto il profilo processuale, della mancata
deposizione della Stella Corrado nei due processi predetti.
Si è sostenuto, in altra
sede dibattimentale, un'altra spiegazione, definita
“ufficiosa”, ma altrettanto valida a sostegno del movente. Motivazione che ci hanno
fornito sia i collaboratori, ma, proprio per non assumere atteggiamenti fideistici o
pregiudiziali fideistiche in relazione alle dichiarazioni dei collaboratori, che ha
indicato lo stesso avvocato Bonfiglio.
Divenuto capo il Di Giacomo, questi era stato oggetto (destinatario) di un
provvedimento di fermo della Procura Distrettuale della Repubblica, in virtù delle
dichiarazioni rese dalla convivente del Corrado e dal Corrado stesso. Dall'agosto
del '93 Di Giacomo si trovava in una situazione di latitanza, tanto è vero che, come
hanno confermato i collaboranti Troina e Giuffrida, egli, sotto falso nome, aveva
preso in locazione un'abitazione nei pressi di Santa Maria La Stella, frazione di
Acireale, e che la sera del 11 settembre del '93 (il giorno in cui poi venne arrestato
il Di Giacomo), proprio il Giuffrida, a conclusione della loro "giornata lavorativa",
lo aveva accompagnato in quel rifugio dove avrebbe dovuto trascorrere la nottata.
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Poiché, come ha riferito il Giuffrida, essi stavano in contatto con le radio
ricetrasmittenti, dopo aver lasciato il Di Giacomo a casa (peraltro, in quel periodo il
Di Giacomo aveva la moglie prossima a partorire), il Giuffrida rientrò nella propria
abitazione e si sentirono con il Di Giacomo un paio d'ore dopo, scambiandosi le
ultime comunicazioni della giornata. Nel cuore della notte il Giuffrida venne
svegliato da una telefonata, da una comunicazione di Scuto Salvatore, inteso U
turchittu, nipote del Di Giacomo, imputato nel procedimento principale, che gli
comunicò che il Di Giacomo era stato arrestato dai Carabinieri, non a Santa Maria
La Stella, ma a Milo presso l'abitazione della Stella Corrado. Come ha riferito lo
stesso avvocato Bonfiglio, occorre citarlo testualmente, addirittura "erano in
atteggiamenti intimissimi, si disse"(cfr. dichiarazioni dibattimentali avvocato
Bonfiglio). Il Di Giacomo e la Stella Corrado, oggetto dei suoi strali, erano “in
atteggiamenti intimissimi". Che significa? In dibattimento si è indagato sulla
moralità del Giuffrida, che aveva una prima convivente con la quale ebbe due figli
e poi ebbe un'altra convivente, come se ciò fosse disdicevole per l'organizzazione e
Giuffrida ha replicato: "Ma io alla fin fine non ero sposato!". C'è un dato concreto,
che è oggetto poi degli strali di Di Giacomo anche nei confronti dei Carabinieri (e
di cui ci si è occupati nell'altro processo), che avevano effettuato quell'arresto con
modalità ritenute "offensive" dal Di Giacomo, perché lo avevano sorpreso in una
determinata situazione, ma a maggior ragione perché quell'arresto determinò per il
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Di Giacomo una notevole perdita di considerazione all'interno del suo gruppo: egli,
il capo, secondo quelle che sono le acquisizioni, si trovava in un atteggiamento
intimo, da solo, a torso seminudo, con la Stella Corrado, con la moglie del Michele
Di Mauro, fratello di suo cognato, cioè con una quasi parente. Il Di Giacomo,
dunque, ha una duplice serie di ragioni per pretendere, quasi esigere, quella
"benedetta" deposizione della Stella Corrado: I) perché, come hanno detto tutti i
collaboranti, si sapeva all'interno dell'organizzazione, ancorchè in un gruppo
ristretto (come afferma Giuffrida), che l'arresto era avvenuto in questa particolare
"condizione ambientale", diciamo così, e quindi Di Giacomo doveva riacquistare
quel potere, doveva riacquistare la considerazione perduta; II) poiché, come ha
riferito l'avvocato Bonfiglio, Di Giacomo riteneva, per una serie di ragioni,
profondamente ingiusto, sotto il profilo anche processuale, il suo arresto e doveva
servire, la testimonianza della Corrado, a fugare ogni dubbio circa le sue reali
intenzioni, che non erano quelle di subornare un testimone (Corrado Antonino),
non erano quelle di costringere taluno a dire cose contrarie alla verità, ma di dire,
secondo le sue convinzioni, la verità. Questa era la duplice funzione della
testimonianza della Corrado. Tanto è vero che, quando in udienza, del presente
procedimento, extra distrettuale celebrata a Torino, venne riferita la circostanza
anzidetta, circostanza che tutti i collaboranti, per la verità, sia in questo che
nell'altro processo hanno riferito sempre trattando con le pinze l'argomento
30
(dicendo: "Si disse che il Di Giacomo era nudo, forse era in
una situazione
particolare."). Essi hanno compreso quale valenza potesse avere per il Di Giacomo
la emersione di quell'episodio. Non deve sorprendere che il Di Giacomo abbia poi,
venuta meno la possibilità di ottenere questa deposizione della Corrado, avuto
questo tipo di reazione. Ha detto l'avvocato Bonfiglio che il primo episodio per cui
egli si trovò a difendere il Di Giacomo fu un'estorsione consumata in Viagrande dal
Di Giacomo e dal Giuffrida, per la quale il Di Giacomo poi venne assolto mentre il
Giuffrida condannato. La vittima di quel reato, Sapienza, è stato assassinato, ucciso
per vendetta, lo hanno riferito i collaboranti, hanno riferito che l'omicidio fu voluto
dal Di Giacomo, e ciò è oggetto di altro procedimento. Il Di Giacomo, ancora,
gestiva una gioielleria a San Giovanni la Punta. Vi era un gioielliere concorrente il
cui negozio era prossimo a quello riconducibile allo stesso Di Giacomo: il
gioielliere, a nome GIUGA, fu sequestrato, rapinato ed ucciso.
Di Giacomo - come hanno riferito tutti i collaboratori di Giustizia concordemente è un soggetto pericoloso, vendicativo, ragion per cui nessuno aveva il coraggio di
contrastarlo.
Ed allora, sotto il profilo logico, la plausibilità, la probabilità, a fronte di un'assenza
totale di altre ragioni, che l'omicidio, prima dell'avvocato Bonfiglio e poi
dell'avvocato Famà, sia stato voluto dalla esclusiva volontà del Di Giacomo è
comprovata, perché il Di Giacomo ha una volontà assoluta di vendicarsi del “torto”
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subito, del duplice torto subito, sia quello di non aver potuto ottenere un risultato
processuale favorevole, sia quello, di non minor valore sotto il suo profilo
psicologico, di recuperare la considerazione dei suoi accoliti. Proviene dalle parole
dell'avvocato Bonfiglio, prima enunciate brevemente, il testuale affermare che il
Di Giacomo riteneva profondamente ingiusto quanto occorsogli. E’ stato chiesto
ciò, infatti, direttamente all'avvocato Bonfiglio, è bene leggerlo (sono le pagine 60
e 61 del verbale di udienza), perché va ricordato ciò che accadde all’udienza del 10
marzo '99, allorchè, salito sul pretorio per deporre l'avvocato Bonfiglio, egli
dapprima pretese, o meglio, ritenne di doversi trincerare dietro un asserito segreto
professionale e la Corte ritenne che i presupposti perché egli utilizzasse questa
norma non sussistessero, indi si procedette, inizialmente, ad una serie di
contestazioni, a norma degli artt. 503 e 511 cpp, ed allora, l'avvocato Bonfiglio
disse "Basta! A questo punto, bando alle ciance, io rispondo alle domande perchè
non ho nulla, e desidero che vengano un domani escluse qualunque tipo di
polemiche o considerazioni sul mio agire e condurmi in questa deposizione."
Orbene, dopo una serie di contestazioni, l'avvocato Bonfiglio testualmente disse:
"Signor Presidente", occorre riportare necessariamente l’integrale deposizione del
teste perché solo la lettura rende l'idea: "Signor Presidente, Di Giacomo era
convinto, profondamente convinto della ingiustizia dell'arresto, dell'ultimo arresto.
Era convinto che le cose che si dicevano sul suo conto, in ordine all'attività che
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avrebbe svolto per indurre violentemente o minacciosamente taluna a non accusare,
fosse un addebito che non gli competeva. Era altresì convinto che la signora Stella
Corrado potesse, dicendo la verità, soccorrere alla sua protesta di innocenza, di
talchè aveva un interesse, ed è logico, a che la signora deponesse secondo
coscienza e verità. Questo è quello che egli diceva". Ha proseguito l'avvocato
Bonfiglio: "Naturalmente io gli dissi, quando mi domandò il Di Giacomo",
(l'avvocato Bonfiglio ha
confermato che il Di Giacomo gli chiese questo
particolare.) "Io gli dissi, quando mi domandò se potesse sottrarsi all'esame, che
poteva benissimo farlo in quanto era coimputata o imputata di reato connesso,
adesso non ricordo." Ancora l'avvocato Bonfiglio: "In ordine all'incarico del Di
Giacomo che avrebbe dato a me di intervenire presso l'avvocato Famà affinché
inducesse la signora Stella Corrado a deporre, io ho detto allora" (cioè in fase di
indagini preliminari, n.d.r.) "e ripeto oggi che non ho assolutamente memoria": si
noti bene, non ha detto l'avvocato Bonfiglio - “non avvenne” - o - “avvenne” -, ha
affermato "non ho assolutamente avuto memoria di aver ricevuto un incarico
specifico in tal senso, che, questa è un'ipotesi, soggiunsi, e soggiungo che se lo
avessi ricevuto, per avventura non avrei svolto quest'attività e l'avrei detto
certamente al cliente, perchè mi sarebbe sembrato assolutamente scorretto
interferire sulle scelte di campo di un collega accorto e corretto, qual era l'avvocato
Famà in ordine all'interpello..." etc. etc.
33
Questa deposizione, ad avviso del P.M., va coerentemente messa in correlazione
con quanto riferito, in un contesto particolare, dall'avvocato Li Destri. All'avvocato
Li Destri venne chiesto se fosse stato possibile che l'avvocato Famà risultasse
sensibile a sollecitazioni provenientigli da colleghi o altri. L'avvocato Li Destri
escluse che ciò potesse essere accaduto e, aggiunse “men che meno ciò poteva
accadere tra l'avvocato Famà e l'avvocato Bonfiglio." "Perché?" fu chiesto
all'avvocato Li Destri, e rispose con queste testuali parole: "Perché l'avvocato Famà
riteneva l'avvocato Bonfiglio persona scorretta." L’avv. Li Destri testualmente
aggiunse: "non aveva un buon rapporto con l'avvocato Bonfiglio, che in più
occasioni ebbe modo di definire -sleale-." Che significato assume ciò? L'avvocato
Bonfiglio disse di non aver avuto memoria di contatti con l’avv. Famà. E’ ben
plausibile, come alternativa di ipotesi: 1) che
Bonfiglio abbia effettuato
effettivamente il tentativo con l'avvocato Famà di, non tanto sollecitare, quanto di
avere una anticipazione su quella che sarebbe stata la condotta processuale della
Corrado, e che questa anticipazione non ottenne, anche perché, tra la decisione
della Corte d'Assise, dapprima di ammettere la testimonianza della Corrado e poi di
revocarla (su sollecitazione dell'avvocato Famà) occorse un breve lasso di tempo:
udienza mattutina e poi udienza pomeridiana dello stesso giorno. Non è
inverosimile ritenere che non vi fu il tempo di acquisire questa informazione, e
questo è un primo motivo di lagnanza da parte del Di Giacomo. 2) E’ ben
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possibile (in buona fede), probabile, verosimile ritenere che, a richiesta del Di
Giacomo di sapere se l'avvocato Famà fosse stato d'accordo nel far sottoporre ad
esame la Corrado Stella, l'avvocato Bonfiglio abbia risposto: "No, non ha voluto
(l’avvocato Famà)." Quell'eventuale "non ha voluto", alla luce di quello che si è
detto prima, assume rilevanza, nel momento in cui Di Giacomo rifletté e giunse alla
conclusione di non poter nell'immediatezza vendicarsi di Bonfiglio, perché si
sarebbe potuto risalire agevolmente a lui.
Ed allora, poiché, agli occhi di DI
GIACOMO anche Famà assunse una responsabilità, ancorchè indiretta, prima
decise di uccidere Famà e poi non rinunziò all’omicidio dell'avvocato Bonfiglio. A
quel punto le strade da percorrere per individuare moventi e responsabili dei due
omicidi sarebbero state diverse e non di facile percorrenza. L'avvocato Bonfiglio ha
confermato una serie di altri dati significativi. Si possono tralasciare quelli che sono
oggettivi, cioè la collocazione del suo studio in via Etnea, il fatto che sul retro dello
studio vi sia un muretto che dalla strada parallela rende inaccessibile a chiunque, se
non dal portone principale, l'ingresso allo studio, che egli ha confermato essere
nello stesso immobile ove trovasi l’abitazione del professionista. Ha confermato
che all'interno dello studio vi era una segretaria e vi erano una serie di collaboratori.
Bonfiglio ha confermato, ancora, di possedere, ancorché non vi si recasse da un po'
di tempo, una villa a mare, a Stazzo. A domanda: "ma era notorio che lei avesse
una villa a Stazzo?" "Certamente nella cerchia delle mie amicizie sì, non quisque
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de populo poteva sapere un qualcosa del genere." Ha confermato l'avvocato
Bonfiglio, nella sua deposizione, che egli era stato il difensore di Russo Salvatore
(detto Turi u pisciaru), coimputato nel processo “Ficodindia”, del quale questo
procedimento costituisce stralcio, perché ritenuto appartenente all'organizzazione
Laudani; ha confermato, inoltre, di essere stato il difensore di GRASSO Giuseppe
ed ha detto che in effetti egli ricordava di aver difeso il Grasso Giuseppe in un
processo per detenzione e porto abusivo di armi. E fu quella l'unica occasione in cui
l'avvocato Bonfiglio difese Grasso Giuseppe (detto Testazza, anch'egli imputato
nel procedimento principale, da cui è stato stralciato l’episodio in esame).
Orbene, Di Stefano Salvatore, quando è stato sentito a Torino, ha confermato di
conoscere “questo avvocato Bonfiglio” perché in un processo in cui egli, (cioè Di
Stefano) era stato arrestato insieme al Grasso Giuseppe per una questione di armi,
si era prospettata la tesi difensiva che tutto – testuale - "dovesse essere accollato"
(si utilizza questo termine come sinonimo di assunzione di responsabilità) dal Di
Stefano ed il Grasso doveva risultare estraneo ai fatti. In realtà venne condannato,
ha detto il Di Stefano, anche il Grasso, difeso dall'avvocato Bonfiglio. Sono,
dunque, questi tutta una serie di elementi che convergono in ordine alla acredine,
all'acrimonia, per tutta la serie di ragioni che abbiamo indicato, nutrita da parte
del Di Giacomo, e di taluni soggetti a lui vicini, nei confronti di Bonfiglio. Tutti i
collaboranti hanno detto: "In effetti questo avvocato.. questo avvocato Bonfiglio
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gli mangiava un sacco di soldi, non li aveva buttati fuori, non aveva assunto le
iniziative che si ritenevano necessarie." E’ vero, come è stato chiesto in molti
interventi della difesa, che non può accettarsi che, per ogni avvocato che non
riesce ad ottenere i risultati processuali (è un'obbligazione di mezzo e non di
risultato) le reazioni siano quelle che si sono descritte. Ma occorre mettere tutto in
correlazione alla particolare situazione personale, criminale, del Di Giacomo e
alle ragioni fin qui elencate. Furono Turi Russo e Grasso Giuseppe ad indicare,
come luogo alternativo a quello dell'abitazione-studio di via Etnea, l'abitazione
di Stazzo ove, fino al marzo '97, sono stati effettuati appostamenti per uccidere
l'avvocato Bonfiglio; ove si sono recati, a turno, il Giovanni Romeo, il Salvatore
Troina, il Salvatore Torrisi, che si è detto costituissero il gruppo di fuoco segreto
creatosi dopo gli arresti del '96 e del '97.
Orbene, se queste sono le ragioni dell'astio, dell'acredine nei confronti dell'avvocato
Bonfiglio, è lo stesso Bonfiglio che consente di chiudere il cerchio e comprendere
che cosa è successo nel rapporto interpersonale con Di Giacomo: Bonfiglio non è
andato più al carcere, ha preteso, dal cognato di Di Giacomo (Iraci) che il Di
Giacomo, se ne ha prova in atti, gli inviasse una lettera di scuse; Bonfiglio non si è
recato in Cassazione a discutere il ricorso per quel processo di cui si è detto sopra e
che si concluse definitivamente con la condanna del Di Giacomo; Bonfiglio non è
stato nominato dal Di Giacomo quando gli venne notificata la ordinanza di custodia
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cautelare “Ficodindia Uno” del 14 ottobre '96.
Questo è il quadro dei rapporti intercorrenti tra Di Giacomo e l'avvocato Bonfiglio,
e consequenzialmente, per le ragioni che si sono specificate, anche nei confronti
dell'avvocato Famà, soggetto nei confronti del quale nessuno, per le emergenze in
questo processo e per la notorietà della sua correttezza, poteva nutrire alcun
motivo di risentimento.
LE DICHIARAZIONI DI GIUFFRIDA ALFIO LUCIO
E DEGLI ALTRI COLLABORATORI DI GIUSTIZIA
Fino a quando il 6 marzo '97 non decise di collaborare Alfio Giuffrida, nessuna
traccia, nessun elemento si acquisì sulle ragioni e sui responsabili di questo
omicidio.
Il Giuffrida, il 6 marzo ’97, ha riferito che dal carcere, dove regolarmente il
cognato Matteo Di Mauro si recava ad effettuare i colloqui con Di Giacomo, (e di
ciò si è data una serie di prove inconfutabili, infatti fino al giugno-luglio del ’95
sono stati riscontrati nei registri delle case circondariali colloqui del Di Mauro
Matteo con il Di Giacomo, e, a partire dall'agosto del '95, indi a settembre, e il 31
ottobre vi sono proprio colloqui del Di Mauro con il Di Giacomo a Firenze presso
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la casa circondariale di Sollicciano) venne recapitato l'ordine, da parte del Di
Mauro, al Giuffrida -
che in quel momento, per vicissitudini interne
all'organizzazione, era divenuto il reggente del clan Laudani, con “sede sociale” in
Viagrande nella stalla cui più volte si è fatto cenno e dove si riunivano gli affiliati
al clan Laudani - di eseguire l’omicidio, ordine che non si poteva discutere.
Sono significative a questo proposito due osservazioni del Giuffrida: 1) egli non
aveva nessuna ragione per uccidere l'avvocato Famà. La risposta alla domanda è
stata testuale: "Ma chi me lo doveva dire? Io neanche lo conoscevo"; 2) Alla
domanda: "Ma lei perché ha obbedito agli ordini del Di Giacomo?" la risposta è
stata che nessuno poteva sottrarsi agli ordini del Di Giacomo, più volte dipinto
come soggetto diabolico, come un soggetto, pur giovane di età, talmente feroce da
incutere terrore anche in soggetti più anziani e più esperti. D'altronde, si è detto
sopra, il citato Sapienza fu ucciso per vendetta, il gioielliere Giuga fu ucciso
perché
faceva
concorrenza
al
Di
Giacomo,
altri
soggetti
all'interno
dell'organizzazione, (ad es. i Cordaro), furono uccisi per volere del Di Giacomo.
Di detti episodi si tratta separatamente, ma occorre farvi questo breve riferimento.
Il Giuffrida è un soggetto che comprende, quando decide di collaborare, che il
terreno intorno a sé ormai cominciava a franare perché gli avevano ucciso certo
Grasso Francesco, detto Masino, più volte indicato, che era il suo “braccio armato”.
In proposito, occorre rilevare che Giuffrida è soggetto, si è potuto constatare, che
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non ha mai ucciso personalmente, l'ha riferito in dibattimento: "Io andavo agli
omicidi perché davo la carica ai ragazzi, organizzavo tutto", ma egli non sparava
personalmente, aveva il suo braccio armato, “Masino”, Grasso. Costui venne
ucciso. Perché occorre fare riferimento anche a questo aspetto? Mentre Di
Giacomo era detenuto, venne rimesso in libertà Alfio Laudani, uno dei figli del
“patriarca”, Sebastiano Laudani, precisamente egli venne ammesso alla detenzione
domiciliare per malattia. Il Giuffrida, che era già uomo di fiducia di Alfio Laudani,
si rapportò a costui, e in una occasione - lo ha confermato anche Romeo (con
riferimento
alle
fangate,
alle
cose
brutte
che
accadevano
all’interno
dell'organizzazione) - agli inizi del '96, gli venne dato mandato da Alfio Laudani di
uccidere (rectius, venne concordato tra Alfio Laudani e Alfio Giuffrida) Gino Di
Bella, altro soggetto che è stato più volte indicato come affiliato al Clan Laudani.
Di Bella venne ucciso su disposizione del Giuffrida, anche questo episodio è
trattato separatamente, ma questo episodio segnò la fine di Giuffrida, perché la
reazione di Di Giacomo (poiché all'interno dell'organizzazione le cose si vengono
a sapere) fu forte, egli reagì furiosamente perché tra i due esisteva uno stretto
rapporto di amicizia.
Si fece uccidere Grasso, si fece terra bruciata attorno a Giuffrida che non ebbe
che un'alternativa, quella di consegnarsi nelle mani dello Stato. Giuffrida non era
raggiunto, quando iniziò a collaborare, da ordinanza di custodia cautelare per
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omicidi. Giuffrida era detenuto esclusivamente per associazione per delinquere
di stampo mafioso. Egli avrebbe potuto prevedere o ipotizzare che, in caso di
condanna, sarebbe stato condannato a una pena tra gli 8 e i 10 anni; una pena
relativamente breve, e, pertanto, sarebbe potuto ritornare in libertà. Egli, tuttavia,
comprese che non vi erano alternative, comprese che non vi erano altre strade e si
consegnò nelle mani dello Stato. Giuffrida, tra le prime cose che riferì, dichiarò:
"Io sono stato il reggente dell'organizzazione Laudani; la nostra organizzazione
negli ultimi anni è stata quella che ha consumato la stragrande maggioranza degli
omicidi in Catania e provincia". Sul punto può aprirsi una parentesi: pur non
essendo amanti della statistica - perché come diceva in una poesia, famosa e
simpatica, Trilussa, la statistica è quella scienza in virtù della quale se Tizio
mangia due polli e Caio nessun pollo, statisticamente essi avrebbero mangiato un
pollo ciascuno –occorre dire che, a volte, questa scienza inesatta può servire: tra
gli anni '92 e '97 la media di omicidi nella città di Catania è stata di oltre 100
unità all’anno. Dal pentimento di Giuffrida, dall'esecuzione delle ordinanze di
custodia cautelare nei confronti degli appartenenti al clan Laudani, dalla
individuazione di una serie di responsabili di fatti omicidiari, il numero di omicidi
in Catania e provincia è totalmente diminuito, se non azzerato: è sceso a livello di
10 omicidi all'anno. Nel 1999 si sono toccati i minimi storici. Ciò ha una precisa
ragione. Il Giuffrida lo disse sin dal primo momento: "Noi eravamo il braccio
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armato del clan Santapaola; noi, insieme alle altre organizzazioni, facevamo le
guerre, avevamo armi di notevole potenzialità, e per queste ragioni ce la
sbrigavamo
noi". In territorio di Catania e provincia
sono stati consumati
omicidi eccellenti e Giuffrida li ha confessati e ha effettuato chiamate in correità:
1) la moglie e la suocera del pentito Riccardo Messina; 2) il padre e il figlio
dell'allora collaborante Ferone Giuseppe; 3) il responsabile del clan dei Cursoti,
Mario Villani, ecc. ecc.. Su questi episodi sono stati trovati una
serie
inequivocabile di riscontri probatori e si è proceduto separatamente. Non è questo
che interessa affermare in questa sede. Ciò che interessa ribadire, a proposito del
fatto che ci occupa, è che da subito il Giuffrida dichiarò di essere in grado di
indicare i responsabili di alcuni fatti eclatanti avvenuti nel corso del tempo a
Catania: 1) l'attentato alla caserma dei carabinieri di Gravina, che obbedì alla stessa
matrice che fin qui abbiamo accennato a proposito del movente dell'avvocato
Famà, e cioè l'astio, il risentimento, (se ne è discusso nell'altro processo), del Di
Giacomo contro l'arma dei Carabinieri, rea di averlo arrestato in
particolari
condizioni; 2) l’omicidio Famà di cui ci occupiamo in questa sede .
Giuffrida ha detto: "Matteo Di Mauro ci portò questo ordine, ci disse dapprima di
fare l'avvocato Bonfiglio, e noi stavamo facendo gli appostamenti". Sul punto
Giuffrida è stato preciso, ha descritto, puntualmente, di essere stato dapprima a
Catania presso lo studio Bonfiglio, ma “l'avvocato non usciva mai”, ed ha aggiunto:
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"Era difficile accedere, c'era un solo ingresso. Non è che noi potevamo entrare
nello studio, e se ci fosse stato qualche collega o collaboratore dell'avvocato
Bonfiglio uccidere anche queste persone! Quindi notammo delle difficoltà.
Provammo a Stazzo, perché sapevamo (per le ragioni che ha detto lo stesso
avvocato Bonfiglio, n.d.r.) che a Stazzo c'era una casa di villeggiatura, ma non ci
siamo riusciti". Giuffrida sentì il bisogno di far sapere al Di Giacomo, tramite il
Di Mauro, che non stavano perdendo tempo o non volevano fare ciò che era stato
ordinato, ma che erano sorte delle difficoltà. A quel punto, ha detto Giuffrida, Di
Mauro fece sapere che avrebbe interpellato Di Giacomo. "Un attimo, riferirò a Di
Giacomo". Di Giacomo fece conoscere il suo obiettivo! "Fermi, poiché se
ammazziamo l'avvocato Bonfiglio (è già stato detto sopra n.d.r) si può ipotizzare
che si individui tra i responsabili uno dei suoi clienti”, il nuovo obiettivo viene
indicato testualmente: <<Dovete fare Famà>>" Perché? "Signori miei, gli ordini
di Di Giacomo noi non li potevamo discutere, e le ragioni le ho specificate. Ne
andava del salvamento, della salvaguardia della nostra vita. E quindi a quel punto
dissi: <<Va bene>>".
Si mise in moto la macchina organizzativa. Orbene, non si deve pensare, e questo
occorre specificarlo, quando si parla di guerre tra organizzazioni criminali, di
attentati, ecc., che si stia discutendo, anche se i termini sono mutuati da quel
lessico,
di
forze militarmente organizzate ai massimi livelli. Si tratta
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esclusivamente di un gruppo di soggetti, sanguinari, che è in grado di pianificare
un’azione omicidiaria ai danni di un uomo assolutamente indifeso, azione che
presenta rischi assai relativi. Chi conosceva l'avvocato Famà? “Forse lo poteva
conoscere Gangi - ha detto il Giuffrida - tramite Catti Salvatore". Perché? Perché
l'avvocato Famà aveva avuto modo di difendere in alcuni processi Catti Andrea,
fratello del Catti Salvatore, uno dei fratelli Di Mauro e la stessa Stella Corrado, e
dunque era un soggetto che qualcuno dell'organizzazione ben poteva conoscere.
V’è un altro aspetto su cui ci si deve intendere: il lessico di questi soggetti, il modo
di esprimersi, non è certo quello di un accademico della crusca, non è quello di un
grande oratore, non si è alla presenza di eloqui roboanti, è il lessico, terra terra, di
soggetti che a malapena sanno leggere e scrivere. Quindi vanno intese le loro frasi,
il loro modo di esprimersi, con una certa intelligenza (nel senso di intelligere,
comprendere), cioè bisogna capire. Quando si afferma "un paio di giorni, qualche
giorno, un paio di colpi", quando si usano le particelle pronominali in un certo
modo, che non significa che si usa il "voi", ma il "ce" in dialetto catanese, bisogna
interpretare, quindi bisogna andare a comprendere che cosa significa lessicalmente
quello che afferma il Giuffrida quando disse: "Beh, per un paio di giorni ci siamo
organizzati". Invero, in una delle tante riunioni che si tenevano quotidianamente,
fu chiesto: "Allora, sappiamo chi è che conosce questo avvocato Famà?” La
risposta fu: "Sì, forse sappiamo dov'è, lo studio è vicino allo studio dell’avv.
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Bonura", (molti affiliati erano difesi dall'avvocato Bonura, che aveva lo studio in
via Oliveto Scammacca,
ossia nei pressi dello studio Famà). Ha aggiunto
Giuffrida: "Diedi ordine di andare a vedere se l'avvocato Famà poteva “prendersi”
allo studio".
Si è detto sopra che la via Oliveto Scammacca e la via Sassari si incrociano, lo
stabile dove c'era lo studio dell'avvocato Bonura da sul retro dello stabile dove
c'era lo studio dell'avvocato Famà. "Scendono - prosegue Giuffrida, che è il
primo a raccontare la vicenda - Basile e Gangi". Basile ha detto, a sua volta, che
gli era stato scarcerato da poco, che fu un po' costretto dal Gangi a scendere,
costretto tra virgolette, perché gli si contestava, al Basile, che da un po' di tempo
in qua sembrava volersi tirare indietro dalla partecipazione ad azioni delittuose, ad
azioni eclatanti. Vollero quasi fargli un “favore”, “favore” che poi dopo gli arresti,
ha detto Basile, egli, a Cuneo, contestò al Gangi, in una occasione in cui,
erroneamente, furono messi a passeggio insieme. Il Basile venne “indotto” ad
andare in questo luogo e insieme a Gangi si piazzò all'altezza dello studio
dell'avvocato Bonura. Dopo aver fatto una serie di giri di sopralluogo, fu in grado,
il Basile, di verificare che le luci dello studio - di quello che egli pensava fosse lo
studio dell'avvocato Famà - si spensero. Orbene, che questa circostanza narrata dal
Basile sia vera, è confermato dall'essere stata rivelata da egli solo; ancora, il Basile
ha detto, e lo ha specificato a verbale in dibattimento, che ricordava che quella
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poteva essere la finestra dello studio dell'avvocato Famà perché, in alcune
occasioni in cui si era recato nello studio dell'avvocato Bonura, affacciandosi da
un balcone avevano avuto modo di vedere non solo le finestre, ma addirittura,
essendo in una posizione più alta, l'interno, o meglio qualcosa dell'interno dello
studio Famà, (i tavoli e gli armadi).
Tornando al racconto del collaboratore, l'incarico di Giuffrida a Basile e Gangi fu
quello di andare a verificare a che ora l'avvocato Famà si recasse nello studio di
via Raffaello Sanzio. Si è detto sopra che l'avvocato abitava in via Vagliasindi, e
quindi era solito scendere dalla via Vagliasindi, attraversare il sito stradale ed
entrare nello studio. Basile e Gangi videro l'avvocato Famà, la cui descrizione,
ha detto il Basile, era stata talmente perfetta che difficilmente avrebbero potuto
sbagliare nell'individuarlo, entrare nello stabile ove era sito lo studio legale.
Ritornarono alla stalla. Occorre, in proposito, precisare che si tratta di tempi di
percorrenza, noti a chi abita a Catania o in paesi limitrofi, assolutamente brevi.
Osservando la piantina del quartiere (e ciò servirà per un altro aspetto) dalla via
Raffaello Sanzio fino al semaforo, all'incrocio tra la via Giuffrida e la stessa via
Raffaello Sanzio, sono poche centinaia di metri. Da lì, come è noto, si gira a
destra, si prende l'imbocco dell'autostrada e a quel punto giungere a San Giovanni
La Punta, (e quindi Aci Bonaccorsi) è agevole in tempi relativamente brevi. I due
soggetti a bordo dell'autovettura Ford Escort, in uso al Gangi, tornarono alla
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stalla a riferire che l'avvocato era entrato nello studio. A quel punto Giuffrida,
come egli stesso ha ammesso, ordinò: "Ritornate, piazzatevi per vedere quando
esce dallo studio; noi nel frattempo ci organizziamo".
E qui sono emersi altri particolari che sono stati esaustivamente chiariti. La pistola
predisposta per uccidere l'avvocato Bonfiglio era una 7,65, che era stata modificata
perché fosse munita di silenziatore. Poiché era da tempo che l’arma era stata
predisposta dal Camillo Fichera (che si era occupato anche di altre dotazioni di
armi) e ancora l'omicidio dell'avvocato Bonfiglio non era stato consumato, era
stata riposta, dopo essere stata provata, in un garage di San Giovanni la Punta,
un garage che fu individuato e sequestrato, luogo ove venivano riposti anche dei
mezzi rubati che spesso venivano utilizzati per le “scorrerie” degli associati. La
ricostruzione del
Giuffrida è stata la seguente: mentre Basile e Gangi
ritornarono a Catania per piazzarsi nella zona e verificare quando l'avvocato
Famà sarebbe uscito dallo studio, il Giuffrida cominciò a organizzare la
missione di morte. Giuffrida ha riferito: "C'era Camillo Fichera. Camillo Fichera
aveva portato la pistola, ma Camillo Fichera era sottoposto a misura di
prevenzione della sorveglianza speciale, non poteva guidare veicoli - ed infatti
alle riunioni veniva accompagnato da certo Carmelo Pavone, detto l'Africano per le 21:00, 21:15 al massimo doveva rientrare a casa, quindi da lì non si mosse.
Ma gli avevo detto che a quel punto serviva la pistola perché dovevamo fare
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l'omicidio dell'avvocato Famà".
Sul posto c'erano altri due soggetti, e quando è stato chiesto a Giuffrida, nell'altro
procedimento, quale specializzazione avessero (si tratta di Torrisi Salvatore e
Catti Salvatore), rispose: "Questi facevano omicidi". E allora, si stabilì che
dovevano “scendere” Torrisi e Catti a
bordo
di un'autovettura
condotta
dall'Amante Fulvio, mentre Giuffrida utilizzò altra vettura: "Dissi a Giannetto
Silvio che era lì presente che mi serviva la sua macchina, la Y10 per scendere a
Catania"; è stato accertato che il Giannetto aveva una Y10 a disposizione. E’ un
dato molto importante, per le ragioni di cui di qui a breve si dirà. Domanda che
viene posta a Giuffrida: "Giannetto sapeva a cosa doveva servire l'auto?" "No. Si
preoccupò che potesse essere utilizzata per qualcosa di grave, ma non sapeva.
Infatti mi disse: <<Siccome è una macchina di cui ufficialmente risulta in
capo a me la disponibilità, cercate di non mettermi nei guai>>". Questo è molto
importante, come si vedrà a breve, per quello che ha dichiarato Torretti. Cosa
accadde a quel punto? Bisognava passare da San Giovanni la Punta a prelevare la
pistola. Orbene, Gangi e Basile erano già scesi di nuovo con la Ford Escort,
Amante, Torrisi e Catti passarono dal garage di San Giovanni la Punta e dietro a
loro c’era Giuffrida a bordo della Y10. Secondo Giuffrida insieme a lui vi era solo
Grasso. Giuffrida, ha confermato in dibattimento "Io ricordo che ci fosse solo
Grasso". Probabilmente, nella concitazione del momento,
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e questo è stato
sottolineato, oltre a prelevare la pistola si sarebbero dovuti servire di una delle
tante auto di cui avevano disponibilità in quel garage, ma la cosa non fu
assolutamente possibile perché le vetture parcheggiate all'ingresso del garage
avevano dei problemi di alimentazione elettrica e non si riuscì a metterle in moto.
Poiché c'era la necessità di portare il più presto possibile
a compimento
l’omicidio, omisero di prendere le altre auto e proseguirono. Giunsero a piazza
Michelangelo.
Cosa accadde? Il racconto di Giuffrida e degli altri è assolutamente esaustivo, è di
una precisione unica perché ha rivelato Giuffrida, e poi gli altri, una serie di
particolari che solo chi fosse stato in quei luoghi avrebbe potuto conoscere.
Giuffrida ha affermato: "Noi stavamo lì e aspettavamo che questi uscissero.
Qualcuno stazionava dove c'era il bar, che è proprio di fronte allo studio
dell'avvocato Famà, qualcuno stava in piazza, io ero in macchina e continuavo a
girare. In questo mio girare, per non stare sempre fermo..." - ha aggiunto un
particolare Giuffrida che è risultato significativo - "Prima mi misi con la macchina
– egli ha usato questo termine - a “spigo” (all’angolo n.d.r.) del posteggio". Egli ha
continuato: "Mi misi qua, mi misi a “spigo” del posteggio, però siccome
c'era un posteggiatore e temevo che potesse notare la nostra presenza, mi
allontanai e cominciai a girare con la macchina". Giuffrida transitò dove si
trovano gli uffici della
Motorizzazione, ha indicato il posto di via
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Donato
Bramante proprio dove sono ubicati i locali della Motorizzazione perché lì fu
commesso un altro omicidio, per il quale si è proceduto separatamente.
Ridiscendeva da Viale Vittorio
e ritornava a girare. In questo suo girare
continuo: "A un certo punto abbiamo visto che c'era una macchina della Polizia,
non una macchina qualunque, ma una di quelle di servizio, una Tipo con la scritta
Polizia, che girava; e allora, per evitare che si insospettissero, che potessimo dare
nell'occhio con la nostra presenza, ci siamo fermati".
E’ stato sentito l'agente Di Carlo che ha specificato che effettivamente, da quello
che risultava dai ruolini del loro servizio in quel 9 novembre, nel corso della
giornata, anche nel pomeriggio (l’equipaggio era in forza
al Commissariato
Borgo Ognina, nel cui territorio di influenza, di giurisdizione ricadono il viale
Vittorio Veneto e la piazza Michelangelo). L'auto della Polizia andava e veniva.
Ha detto l'agente: "Noi avevamo da fare notifiche, avevamo biglietti di invito,
quindi eravamo lì in zona, effettivamente abbiamo fatto il giro più di una volta".
Qual era il percorso della “volantina”? (come l'hanno chiamata gli stessi agenti di
Polizia). Viale Vittorio Veneto, via Raffaello Sanzio, via Torino, via Pensavalle
e ritorno. E' un percorso, specialmente a bordo di vetture che hanno la
possibilità di viaggiare sulle corsie preferenziali, di agevole percorrenza, non una,
ma decine di volte nell'arco di un pomeriggio. Questa circostanza che fosse
presente quella vettura, del modello che fu indicato da Giuffrida, cioè una Fiat
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Tipo, è dunque conclamata, e poteva riferirla solo chi quel giorno fosse stato
effettivamente presente sui luoghi.
Ha detto l'agente Di Carlo che un altro intervento, che fu effettuato quel giorno,
avvenne in via Pirandello. La via Pirandello, è fatto noto, è la prosecuzione di via
Fusco. Da via Pensavalle, via Torino, e da via Pirandello a piazza Michelangelo,
scendendo per la via Vincenzo Giuffrida occorrono tempi di percorrenza
brevissimi. La vettura, dunque, poteva effettuare questo giro decine di volte.
Ha detto altre cose il Giuffrida, che hanno trovato pieno riscontro, piena riprova.
Ha detto che, poiché l'avvocato Famà si attardava e non usciva dallo studio, essi
continuarono a camminare lì nella zona, qualcuno prese il caffè al bar sotto i
portici, notarono che nella zona rimase un negozio aperto fino a tardi. Ha detto
Giuffrida: "Forse era un negozio di giocattoli".
Orbene, sono state escusse le sorelle Ingiulla ed esse hanno detto che all’epoca
gestivano due negozi sulla stessa via, di fronte quasi allo studio dell'avvocato
Famà, uno si chiamava Giocolandia e l'altro Party Chic. Hanno aggiunto che
quella sera, poiché c'era stata una consegna di merce, il negozio rimase aperto un
po' di tempo in più del solito. Non si è riusciti ad avere, perché hanno detto le
sorelle Ingiulla che il fratello è emigrato, la deposizione del germano, il quale
rimase fino a tarda sera al negozio proprio per il carico e lo scarico della merce,
ma è stato sentito il teste Ragonese Vincenzo, che ha confermato che si era
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trattenuto con l'Ingiulla per sistemare la merce, e che quella sera luce del negozio
era rimasta accesa. Ha riferito qualcosa di più il Giuffrida: "Siccome una di
queste signore forse ci aveva visto passare, ci preoccupammo che potesse
insospettirsi, quindi svicolammo". Una delle Ingiulla ha detto che si era
affacciata, e che poi, vista l'ora, lei e l’altra sorella andarono via e rimase il
fratello con il Ragonese Vincenzo. E’ pertanto certo, nessuno può revocare in
dubbio ciò, che il Giuffrida fosse presente sui luoghi. Giuffrida ha riferito un
altro particolare: ha detto che Amante, a bordo della Fiat Uno, si piazzò in via
Imperia, nei pressi di una scuola, orbene, nei pressi è situato l’istituto Lombardo
Radice; da via Imperia, andando dritto, ci si immette in via Vincenzo Giuffrida. Ha
soggiunto Giuffrida: "Catti e Torrisi, che aveva la pistola, dovevano restare ad
attendere il segnale che l'avvocato fosse uscito ed io giravo con la macchina,
mentre Basile e Gangi dovevano dare questo segnale dall'angolo della via
Oliveto Scammacca". Ha aggiunto un particolare il Giuffrida: di ricordare, cosa
che poi è stata confermata dai testi (la cui dichiarazione è emersa grazie alle
domande poste dalla difesa) che Catti aveva una giacca tipo renna, marroncina, e
che, secondo gli accordi - si badi, secondo gli ordini, perché poi sul posto, nel
momento in cui sparano, Giuffrida non c'era – era Torrisi che doveva sparare.
Cosa accadde?
Si attese l’uscita dallo studio dell'avvocato Famà; questi e
l’avvocato Ragonese uscirono dallo studio, nel frattempo da sotto i portici si
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mossero i due sicari, Catti e Torrisi; erano insieme Famà e Ragonese, perché
Famà, che in genere tornava a piedi, approfittò di un passaggio,
confermato
e ciò
ha
l’avv. Ragonese; attraversarono la via Oliveto Scammacca, si
portarono dove è sito il parco Falcone (sono luoghi la cui ubicazione è notoria),
attraversarono la via Raffaello Sanzio e salirono sul parcheggio. "Arrivati a
questo punto – ha detto Basile -, io mi ero premurato di andare ad avvisare che
la luce era spenta, ma evidentemente si erano accorti che l'avvocato era uscito. Si
precipitano dietro".
Questo è il racconto che ha fatto Giuffrida. "Poi - gli si chiese - cosa avete
fatto?". Giuffrida ha risposto: "Poi io, mentre ero là, ho sentito una persona
gridare in mezzo alla strada, si è fermato un po' il traffico, ma noi abbiamo
proseguito, e poi, prendendo..." (egli la chiama via Vincenzo Giuffrida, ma è
ovvio, è notorio, da quel punto inizia la bretella di collegamento allo svincolo per
la Messina-Catania) "…ci ritroviamo tutti di nuovo nella stalla. Qui Torrisi mi
confermò di avere sparato all'avvocato Famà". Questo è il racconto di Giuffrida.
Occorre subito cominciare a dipanare alcune questioni che sono sorte nel corso
del dibattimento, degli interrogativi corretti. Perché, invero, non vi sono verità
rivelate da parte di nessuno, ma è necessario, ovviamente, orientarsi in base a
quelle che sono le acquisizioni dibattimentali. Effettivamente
Giuffrida,
interrogato in sede di indagini preliminari, a domanda specifica - si era al secondo
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o al terzo giorno della sua collaborazione
e dunque Giuffrida era in un
momento particolare, va detto questo, nella vita di un soggetto, qualunque sia il
giudizio morale che si voglia dare di un uomo che ha delinquito, e che si mette, a
quel punto, per le ragioni citate, nelle mani della giustizia - affermò: "Signori, se
io mal non ricordo, noi in genere buttavamo le armi nei cassonetti della
spazzatura. In genere facevamo così". Non disse testualmente "abbiamo fatto così
in quella occasione", ma "in genere facevamo così". Si possono fare tutte le
disquisizioni di questo mondo, ma la realtà è questa. "In genere facevamo
così". "Che cosa è accaduto?" si chiese a Giuffrida, "Come è stato ucciso
l'avvocato Famà?”. "Secondo quello che mi ha detto il Torrisi, gli andarono
dietro, uno di loro disse: <<Avvocato>>, oppure <<Avvocato Famà>>, indi
l'avvocato Famà si girò, venne dapprima colpito, fece una rotazione su se stesso
(che è logica, l'hanno spiegato sia il dottor Puglisi, che il professore Compagnini)
e poi venne finito con i colpi al volto, con i colpi calibro 7,65". Di seguito a
questa dettagliata dichiarazione del Giuffrida, si è individuata una chiara
suddivisione dei ruoli: Giuffrida organizzò e coordinò l’azione delittuosa sul luogo
teatro del delitto. Egli era a bordo della Y10 che si fece dare da Giannetto,
Amante prese uno o due dei fuggiaschi - in verità ne prese uno, Torrisi-, mentre
più sopra, sulla Ford Escort, Gangi e Basile presero a bordo il Catti, con scatto
d’ira del Gangi che disse: "Così ci mettiamo nei guai", e tutti fecero ritorno alla
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stalla. Queste furono le dichiarazioni di Giuffrida. Furono emesse le ordinanze di
custodia cautelare e furono arrestati gli altri odierni imputati. Il secondo ad iniziare
la collaborazione, il secondo come chiamante in correità diretto è Basile.
Basile è soggetto che è stato detenuto fino a poco tempo prima l'episodio
delittuoso in esame, tanto è vero che il 13 giugno '95 Basile contrasse matrimonio
civile mentre si trova ristretto in carcere e poi, il 4 ottobre, rimesso in libertà,
come è dimostrato dalle certificazioni prodotte in atti, contrasse matrimonio
religioso. Basile ha confessato davanti alla Corte - è un imputato - la propria
diretta partecipazione
all'episodio.
Egli ha chiarito
perché fu indotto a
partecipare all'episodio delittuoso. Fu una sorta di favore che il Gangi gli volle
fare, ha detto, perché (tanto è vero che poi glielo rinfacciò), disse il Gangi al
Basile: "Se tu ti tiri indietro, si penserà chissà
che cosa di te e può essere
pericoloso". In quel gruppo anche il sospetto che qualcuno potesse pensare di
tirarsi indietro poteva determinare la morte di un affiliato. E allora, Basile, quasi
contro voglia (perché era stato scarcerato da poco, la moglie aveva avuto dei
problemi di salute in relazione ad una serie di aborti), si recò con il Gangi ad
effettuare il sopralluogo. Basile ha aggiunto dei particolari al racconto di
Giuffrida, ed ha dato delle spiegazioni perfettamente coerenti: "Non ricordo se
qualche giorno prima o lo stesso giorno io mi ero recato in zona, conosco la
zona". Perché? Perché Troina Salvatore, con cui è indirettamente imparentato,
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(Troina Salvatore è il cognato di Di Stefano Salvatore), voleva uccidere un certo
"Pittinaru", alias Salvuccio Zappalà. "Scusi, chi è questo? Che cosa c'entra?".
Risposta: "Le spiego subito: questo signor Salvuccio Zappalà (così si esprime
Basile) c’aveva un negozio, uno studio di “cubiste” lì vicino e gli avevamo fatto
un primo sopralluogo per vedere se lo si poteva uccidere. E poi, siccome era una
zona affollata, una zona pericolosa, soprassedemmo". E’ stato accertato che in
effetti in viale Vittorio Veneto basso, quasi agli inizi, vicino al Corso Italia,
Salvuccio Zappalà, che aveva avuto delle sue vicissitudini, dei suoi contrasti con il
Di Stefano Salvatore, aveva uno studio-moda dove in effetti gestiva un'agenzia
di ballerine che venivano impiegate in vari locali notturni. Il Basile ha
aggiunto: "E' vero, conosco la zona perchè c'ero stato da poco. Andavamo
spesso dall'avvocato Bonura, e quindi io potevo individuare,
perchè sapevo
dov'era collocato, aveva difeso altri del nostro gruppo, in teoria sapevo quali
erano le finestre dello studio dell'avvocato Famà".
Basile, ovviamente, ha riferito fatti di sua conoscenza e questo vale per ciascuno
individuo in quanto ognuno può riferire di un fatto o di un episodio, solo le fasi a
cui ha partecipato direttamente, personalmente, si può riferire quello che, per
altri aspetti, può esser logico, ma come mera intuizione. Basile, per sua diretta
conoscenza ha detto: "In effetti noi scendemmo, poi, per quanto io ne sappia,
dovevano scendere quelli che dovevano sparare, a parte Giuffrida che si
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stava facendo dare la Y10
da Giannetto, questo che lui sa, credo che
dovessero scendere con una macchina rubata". Per Basile fu utilizzata una
macchina rubata. E’ da ritenersi, senza nulla volere anticipare, che questo
argomento sia motivo di discussione, sarà oggetto degli strali della difesa. Ma è
un argomento, a parere del P.M., inconducente, perché Basile non era presente,
perché era già sceso a Catania, quando - come ha specificato Giuffrida - si passò
da San Giovanni la Punta per prendere la pistola, come detto sopra e non si potè
prendere una delle autovetture perché le batterie erano scariche, e si disse: "Tanto
la macchina non è intestata, proseguiamo, abbiamo fretta, leviamoci questo
coso". Basile non ha una percezione diretta
della presenza, o meno, della
vettura rubata. Egli, infatti, ha confermato: "Per come ne
so io, era una
macchina rubata, poi non lo so". E, in effetti, non fu così. Ma questo nulla cambia,
perché non era un dato di cognizione diretta del Basile. E' quello che doveva
accadere logicamente, ma egli non seppe che non si era potuto verificare per le
ragioni sopra citate. Ha aggiunto un'altra cosa Basile: "Quel giorno, oltre a me e
a Gangi e agli altri, nella disposizione di equipaggio che ho già detto, scese
Troina a bordo della Y10, con Alfio Giuffrida e con Masino". Questo dato è
importante perché si dirà che si tratta di un'altra menzogna, poiché Giuffrida non
ha detto che a bordo della sua auto ci fosse Troina. Orbene - senza nulla
anticipare di quello che occorre specificare a proposito del 192 c.p.p. - Giuffrida
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non è un soggetto che è stato (si è detto in altre sedi, e si è costretti a ripetersi)
colpito dall'ansia, almeno questo è il giudizio che se ne dà, di dire la verità a tutti
i costi, nel senso di essere più realista del re. Fino a dove vanno i suoi ricordi, egli
ha riferito. Anche per altro episodio, di cui ci si è occupati nel processo principale,
sino all'ultimo egli ha detto di non ricordare (omicidio Mannino Salvatore
n.d.r.) che a bordo dell'autovettura con lui ci fosse il Torretti, e fino ad oggi
sostiene di non ricordarlo. Piuttosto che accusare o fare un nome a caso, meglio
non farlo, se non si ha certezza. Poi è il Troina che ha detto che, effettivamente,
egli era a bordo del veicolo, ma se Giuffrida non ne ha ricordo, non v'è ragione
alcuna per
fare un
nome
di individuo che altrimenti
potrebbe essere
innocentemente investito da un'accusa. E’ stato lo stesso Troina
che,
collaborando, ha detto: "E' vero, c'ero anch'io", e si ha riprova concreta, per
alcuni particolari,
della veridicità di
questa
sua confessione. Il Basile ha
riferito tutti i particolari, in sostanza, in maniera assolutamente coerente con
quello che è il racconto del Giuffrida, così come riportato poc'anzi, pur con i
limiti di una sua
conoscenza, ovviamente
può dirsi naturalmente e
naturalisticamente parcellizzata, come più volte sottolineato. Ciascuno può riferire
direttamente quello di cui è stato protagonista principale. Ha aggiunto ancora il
Basile: "Subito dopo che abbiamo capito che c'era questa persona che gridava
che l'omicidio si era compiuto, ce ne siamo andati direttamente alla stalla". Ha
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precisato un particolare Basile (valuterà la Corte, perché si non si ha timore
alcuno in proposito, se ciò
rappresenta una
grave
discrasia, o meglio una
giustificabile dimenticanza nel racconto di Giuffrida). Ha detto Basile che prima
di raggiungere la stalla, dove poi tutti si incontrarono, egli e Gangi passarono dal
bar Portobello, che si trova al centro della piazza di Viagrande, a poca distanza
dalla stalla, ove consumarono un caffè e poi si incontrarono alla stalla. E' vero. E'
verissimo! Giuffrida ha dimenticato questo particolare. Dirà la Corte se il fatto
che Giuffrida
abbia dimenticato di dire che, dopo essere andati via, si
fermarono al bar Portobello sia una dimenticanza grossolana, una bugia, una
menzogna che assume rilievo in questa sede.
Altra chiamata in correità proviene dal Troina. Egli è stato sentito all'udienza del 6
luglio, perché ha iniziato a collaborare il 18 di giugno 1999. Egli ha dato una
spiegazione del perché ha iniziato la sua collaborazione così tardi, affermando
che aveva avuto problemi perché la madre era morta da recente e le sue scelte ha
ritenuto di farle solo dopo questo evento. Troina è un soggetto che, per le ragioni
che si sono dette prima ( Giuffrida non lo ha ricordato, e solo Basile ha asserito
che aveva partecipato all'episodio delittuoso), non era stato raggiunto da ordinanza
di custodia cautelare per questo omicidio. Ne risponderà poi dopo, ovviamente.
Tuttavia Troina si è trovato di fronte a due alternative: 1) "Siccome di me ha
parlato solo Basile e non Giuffrida, io non dico nulla"; ovvero, 2) "Se io non dico
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nulla, e l'obbligo principale che assumo collaborando è quello di dire la verità, la
prima cosa che devo dire è c'ero anch'io". Egli ha scelto di dire la verità, cioè di
aver partecipato all’omicidio dell’avvocato Fama’. Si potrà sostenere, certo, che lo
ha fatto per ulteriormente accreditarsi dinanzi ai Giudici. E non si teme che questo
si dica. Ma si potrebbe dire solo esclusivamente se Troina avesse riferito, o si
fosse limitato a riferire fatti e circostanze orecchiate, lette o che aveva avuto
riferite da altri, e in tal modo avrebbe potuto mettersi in coda rispetto agli altri
due, Basile e Giuffrida. Ma non è così. Si ricorderà che Di Stefano ha detto che
egli aveva avuto notizia dell'omicidio dell'avvocato Famà dal cognato e dal
Basile. "Quale cognato?" gli si chiese. "Troina. Egli mi disse che era una cosa
che aveva fatto l'organizzazione e che era una cosa che doveva rimanere
stretta stretta". Basile ha confermato questa circostanza ed ha riferito un altro
particolare che ha riferito anche Di Stefano: "Ricordo proprio (ed è quel
particolare già esplicitato prima, n.d.r.) che in una occasione erano andati a fare il
sopralluogo per uccidere quel tal Pittinaro, c'era andato il Troina, poi si era
soprasseduto e quella sera si era invece dato corso all'omicidio dell'avvocato
Famà". Venne chiesto, anche dalla parte civile, per ovvie ragioni, al Troina:
"Ma lei perché ci è andato?". Se ne dia il giudizio morale che si vuole, ma la realtà
è quella della risposta. Ha detto Troina, rispondendo a questa domanda: "Senta, io
ci andavo sempre, e mi sono fatto avanti". Non c'è una ragione particolare, è vero.
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"Io mi sono fatto avanti. Ho detto <<ci scendo anch'io>>". Troina si sedette
dietro, a bordo della Y10. Troina scese a bordo di quel veicolo; ha spiegato
esattamente, con assoluta convergenza di particolari, cosa accadde, da quale strada
poi fuggirono, ed ha spiegato, Troina, che poi si incontrarono tutti alla stalla. Ma
ha detto un'altra cosa Troina, che conferma un dato che si dovrà riprendere,
perché la dinamica sia assolutamente chiara: Gangi e Basile andarono via con la
Ford Escort portando con sé Catti, dalla via Imperia andò via Torrisi sulla Uno,
dietro a loro si ricongiunsero, sulla bretella della tangenziale, Troina, Giuffrida
e Grasso sulla Y10. Qui occorre rifare un passo indietro, perché questo è un
punto fondamentale: si è ricordato che Giuffrida disse, in un primo momento,
che, secondo quella che era una prassi, le pistole, una volta utilizzate, per non
lasciarne traccia, in genere si gettavano nei cassonetti della spazzatura. E così,
secondo la sua ricostruzione, poteva essere accaduto quella volta. Si è detto che
fece questa dichiarazione, Giuffrida, il secondo e il terzo giorno della sua
collaborazione. Giuffrida, dal 6 marzo del '97, ha reso una serie innumerevole di
interrogatori. In esito a detti interrogatori, proprio per verificarne la credibilità,
l'attendibilità, egli, accompagnato dalla
Polizia giudiziaria, fu “portato in
giro” per effettuare dei sopralluoghi, cioè per indicare dove determinati episodi
omicidiari si fossero verificati, dove fossero allocate delle ditte, dei negozi
o quant'altro sottoposto a estorsione, insomma per dare un quadro chiaro delle
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sue conoscenze.
Questi sopralluoghi si verificarono tra il 5 e il 7 di agosto del 1997. Non vi è
nessun problema a dirlo, sei mesi dopo l'inizio della sua collaborazione. La sera
del 6 agosto, come previsto, Giuffrida venne
prelevato presso la casa
circondariale di Messina, dove era collocato provvisoriamente in traduzione da
Rebbibia, venne condotto a Catania intorno alle 22:00 e iniziò una serie di giri,
nel
corso
dei
quali indicò
alla Polizia
giudiziaria,
senza
nessuna
sollecitazione, i luoghi teatro di varie vicende.
IL RINVENIMENTO DELL’ARMA
E LA PERIZIA COLLEGIALE IN DIBATTIMENTO
Orbene, mentre ripercorrevano la via Vincenzo Giuffrida,
maresciallo Protopapa, che
l'ha confermato il
è stato sentito in dibattimento e transitavano
sulla bretella, spontaneamente (si possono fare le insinuazioni, le illazioni, le
volgari insinuazioni che si vorranno fare),
indicò al conducente dell'auto
blindata di fermarsi, disse che probabilmente aveva avuto un ricordo per aver
ripercorso quella strada. "Ora sto ricordando, si fermò la macchina dove c'erano
Torrisi e Amante e Torrisi lanciò la pistola. Le tolse il silenziatore, silenziatore che
aveva fatto predisporre artigianalmente Camillo Fichera, e la gettò oltre una
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recinzione".
La Polizia giudiziaria redasse relazione di servizio, si era in periodo di agosto, a
settembre si ebbe notizia di ciò da parte dell'autorità giudiziaria, si dispose di
individuare i proprietari del terreno, si diede mandato di effettuare un sopralluogo
su quel terreno alla ricerca della pistola.
Sul punto è stato sentito l'esauriente (anche se in questo caso, pur col beneficio
della buonafede, il Presidente a quel punto dovette sollecitare il difensore ad
evitare un certo tipo di domande), maresciallo Grasso che ha doviziosamente
narrato i particolari del rinvenimento dell’arma.
Ha detto il maresciallo Grasso: "Fui informato dai miei subordinati che il
Giuffrida aveva gettato da quel posto la pistola oltre la recinzione. Andai io
personalmente, mi resi conto di qual era la situazione dei luoghi, feci un calcolo
mentale, dissi: <<Chi la lancia da qua, può averla lanciata a non più di oltre 15
metri, facendo un raggio immaginario, data la posizione e la pesantezza della
pistola>>. Quindi riferii al mio tenente, riferimmo all'autorità giudiziaria, che
dispose per i sopralluoghi". Il maresciallo Grasso non partecipò a nessun atto a
proposito del rinvenimento della pistola, eppure fu impudentemente - sia
consentito - chiesto al maresciallo Grasso se per caso egli non avesse individuato
la pistola e non l'avesse appositamente lasciata sul posto. E fu in quella
occasione che il Presidente dovette richiamare l'improvvido difensore che
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fece una domanda del genere, come se il P.M. ordisse complotti e come se si
cercassero a tutti i costi non la giustizia o la verità, ma prove a carico di qualcuno,
e ciò non è ammissibile. Non è ammissibile!
Su disposizione dell'autorità giudiziaria vennero effettuati i sopralluoghi, si
constatò quale fosse la natura del terreno e
sono state indicate le modalità
attraverso le quali (e nessuno potrà permettersi di sollevare sul punto alcun tipo di
obiezione) è stata rinvenuta la pistola.
In fotografia è stato documentato come il tenente Delle Grazie rinvenne l’arma ed
in quale anfratto la pistola si trovasse. Può sfidarsi chiunque a sostenere che vi
siano state qui, come si è detto, o come si è ventilato, manipolazioni o altro, come
se qualcuno avesse l'ansia, la necessità, la, non si sa come definirla, voglia di dare
a tutti i costi credibilità alla dichiarazione di Giuffrida. La pistola poteva
benissimo non rinvenirsi, ma sarebbe rimasta la dichiarazione del Giuffrida.
Sarebbe rimasta una prova neutra: né positiva, né negativa. E’ stata rinvenuta una
pistola modello Beretta, calibro 7,65, modello 82. Della stessa marca e tipo di
pistola che gli ispettori Gentile e Fatuzzo dissero essere stata utilizzata, senza
ombra di dubbio, per l'omicidio dell'avvocato Famà. Una pistola, risultata essere
stata sottratta al legittimo proprietario (cfr. dichiarazioni in atti rese dal teste
Patamia), che per due anni e più, dal '95 al '97, è rimasta sottoposta a ogni tipo di
intemperie. Ritroviamo il piombo, antimonio e bario in questa fase e in queste
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circostanze di rinvenimento dell'arma! Verifichiamo se l’arma sia stata utilizzata
appositamente, per far risultare o per pensare che fosse stata colì collocata
artatamente! Non è possibile sostenere tesi del genere. Non è possibile!
Non si aveva che una strada, acquisita la pistola: verificare se fosse, come riferito
dal Giuffrida, quella utilizzata per l'omicidio dell'avvocato Famà.
In fase di indagini preliminari fu conferito un incarico a dei consulenti, i quali,
molto correttamente, dissero che per le condizioni in cui si trovava la pistola,
un accertamento di quel genere sarebbe stato irripetibile. E allora, per
salvaguardare la genuinità della prova, si è rinviato l'accertamento a una perizia
da effettuarsi in dibattimento, e anziché apprezzarsi una condotta del genere si è
sostenuto che mal si fece perché si doveva effettuare l’accertamento tecnico in fase
di indagini preliminari. Non in una fase in cui si costituisce la prova, quale è
quella del dibattimento, in cui si devono raggiungere le prove, ma nella fase di
indagini preliminari!
E' stato conferito incarico al professore Compagnini, al dottor Zernar e al signor
Gatti. Anche Troina ha confermato di aver visto quella sera Torrisi lanciare la
pistola dalla macchina.
Le conclusioni del professor Compagnini, per quanto si voglia discuterne, sono
inequivocabili. La perizia e l'esame dibattimentale del professore Compagnini
sono una riprova di conoscenze scientifiche, di abilità e di onestà. Perché anche
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nei confronti del professor Compagnini, che reagì in sede dibattimentale, si sono
avanzate delle illazioni inammissibili nei confronti di un componente il collegio
peritale. Inammissibili! E ben rispose il professor Compagnini all'ennesima
improvvida domanda. “Qui, se c'è qualcuno che non è di parte, sono la Corte e il
collegio peritale”.
E cosa ha detto il professore Compagnini? Il professore Compagnini ha dato una
risposta inequivocabile: esaminata l'arma, esaminati i proiettili,
si può
ragionevolmente e senza ombra di dubbio... (gli è stata innumerevoli volte questa
domanda e sempre ha risposto allo stesso modo), affermare che si tratta di arma
che aveva un prolungamento dove, verosimilmente fu applicato un silenziatore
e i proiettili, ad avviso del perito, sono inequivocabilmente provenienti da
quell'arma perché, egli ha detto correttamente, in alternativa genetica, due
possono essere le ragioni, o vi è stata una rottura, un problema nel vivo di
volata (che non è stato accertato), ovvero, in alternativa genetica, e questa è
quella comprovata, una mancanza di coassialità tra il silenziatore, il
moderatore di suono e la pistola che ha rilasciato sui proiettili in sequestro e
su quelli test segni inequivocabili.
Ora vi sono delle prospettazioni che si potrebbero formulare, o critiche che si
muoveranno alle conclusioni dei periti: 1) si insinuerà o si potrebbe insinuare il
sospetto che la canna dell'arma sia di marca diversa da quella della Beretta. Ma, è
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un dato in atti, l'arma è stata fotografata, e sulla canna dell'arma il luogo di
fabbrica della Beretta è ben visibile, e quindi la canna è originale; 2) si
potrebbe sostenere che armi diverse, seppure della stessa classe, marca, modello
e calibro possono produrre impronte microscopicamente identiche. Bene, se così si
dovesse sostenere, sarebbe necessario che di questa scoperta si desse da
parte
chiunque comunicazione alla comunità scientifica mondiale, in
maniera da non disporre più accertamenti balistici
per evitare errori
giudiziari; 3) si potrebbe sostenere o insinuare il sospetto che la positività
accertata dai periti, cioè positività nel senso che l'arma che uccise l'avvocato Famà
è quella in sequestro, sia addebitabile all'urto che l'arma avrebbe subito nel
momento in cui fu lanciata nel luogo dove venne rinvenuta. Si vorrà, cioè,
sostenere che l'urto subito da un'arma, diversa da quella impiegata, può
trasformare le sue impronte in maniera tale da renderle identiche, guarda caso,
a quella impiegata nell'omicidio. Questa è follia pura, sia sotto l'aspetto
logico che sotto l'aspetto scientifico; 4) si potrebbero sostenere, indebitamente,
ragioni per le quali, chissà perché, il collegio peritale sia stato parziale nella
valutazione della positività. No, il collegio peritale ha evidenziato la positività e
ha verificato la negatività, nel senso che o è l'uno o è l'altro. Se è positiva non c'è
bisogno di fare altra, per le ovvie ragioni, ricerca. Ancora: si potrebbe
sostenere che non è stato tecnicamente possibile accertare se oltre i bossoli
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anche i proiettili provengono dall'arma in sequestro, però i periti hanno spiegato
il perché: l'arma si è rovinata, per cosiddetto disastramento da ossidazione,
nelle rigature della canna. Ecco perché non è stato possibile fare questo tipo
di accertamento. Però, di contro, si è accertato che le cartucce di cui ai
proiettili in reperto
sono state introdotte nell'arma in sequestro. In
apparenza questa potrebbe sembrare una conclusione in contraddizione, ma
ci sono delle ragioni scientifiche in favore di ciò. Primo, teoricamente, inserendo
in un'arma automatica 7 cartucce ed estraendole senza sparare (N.B: in un'arma
automatica si inseriscono delle cartucce, si scarrella, le si estraggono senza
sparare, potrebbero residuare delle tracce, delle striature. Si potranno rilevare su
quelle cartucce le impronte di espulsione e di estrazione, e anche quelle, le
striature parallele, prodotte sui proiettili durante il loro inserimento in canna,
indispensabile
per
lo scarrellamento) e si può ipotizzare che le
cartucce inesplose vengono inserite in un'altra arma, che, ovviamente,
stesse
lascerà
delle tracce. In tal caso si rileveranno sia le prime tracce da scarrellamento, sia
quelle successive, di uso da fuoco, che saranno diverse, perché diverse sono le
due armi nelle quali sono transitate le cartucce. Nel nostro caso questo non è
stato rilevato. Ora, se si comprende questo problema, che si ritiene di aver
chiaramente illustrato, e che in termini terra terra, significa far scarrellare delle
cartucce su un'arma, sulle quali rimangono un certo tipo di impronte, però su
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cartucce inesplose, le si mettono su un'altra arma e con quella si spara, sulle
cartucce dovranno esservi l'uno e l'altro tipo di impronte. Questo i periti non
l'hanno potuto tecnicamente affermare. Ciò perché, essendo l'arma rovinata, per
le ragioni sopra dette di ossidazione, possono restare solo quelle impronte, che
si sono evidenziate, sulla parte latero-ogivale, cioè sulla curva. E queste sono
quelle su
cui
si
è
potuta effettuare la comparazione che ha dato
l'inequivocabile esito positivo, perché sul resto della cartuccia vi sono quelle
striature, frutto dello scarrellamento, comparate positivamente con quelle
rilevate sui proiettili test. E questo è spiegato dal professor Compagnini, non solo
in questa sede, in sede di perizia, ma anche nella sua pregevole pubblicazione su
armi ed esplosivi (cfr. Compagnini, Zernar, Siscaro “ Balistica forense e processo
penale”, Giuffrè editore) che probabilmente è stata letta anche da altri che hanno
cercato di utilizzarla, ma maldestramente.
E allora, se fossero state impiegate due armi calibro 7,65 e i proiettili
provenissero difformemente dai bossoli da una delle due, mancherebbero
all'appello, ovviamente, i sette bossoli provenienti dall'altra arma. Cosa che
così non è e che quindi riprova ancora una volta della serietà scientifica della
perizia e della assoluta onestà di chi ha redatto la perizia sull'arma. E'
ovvio che la perizia sull'arma costituisce un formidabile riscontro alle
dichiarazioni rese dal Giuffrida e, per la sua parte, dal Troina. Essi sono,
69
insieme al Basile, tutti e tre, chiamanti in correità diretta
e cioè
partecipanti diretti all'episodio in esame.
L’ART. 192 C.P.P.
Si è conclusa la disamina relativa alla perizia collegiale sull'arma, e quindi, atteso
che l'arma inequivocabilmente è quella utilizzata per l'omicidio; accertato
indubitabilmente che quest'arma non è stata rinvenuta perché allocata sul posto dal
P.M., dalla P.G. o dallo stesso collaboratore; ergo, il Giuffrida ha rivelato, per
ragioni perfettamente spiegabili, un particolare che riscontra formidabilmente le
sue dichiarazioni. Sul punto è significativo, per riagganciarsi al tema, quanto ha
riferito il Troina. Perché
il Troina ha riferito che proprio il Di Giacomo,
discutendo con il Vittorio La Rocca (che è stato sentito in dibattimento - Vittorio
La Rocca è soggetto condannato a pena definitiva all'ergastolo anche in virtù
di dichiarazioni del Giuffrida, e quindi non si può certamente ritenere un soggetto
che abbia deposto, per il valore che può avere avuto la sua deposizione, in
assoluta serenità, perché, e lo ha fatto trasparire dalle sue parole, certo non ha un
bel ricordo o una grande stima del Giuffrida) manifestò la sua ira per la circostanza
che l'arma, anziché aver fatto la solita fine, fu gettata dove è stata rinvenuta.
Non deve sorprendere questo perché sono stati sentiti altri collaboranti, che hanno
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riferito fatti appresi de relato. Ciascuno, per la sua parte, ha dato un contributo,
utile ai fini della valutazione della credibilità dei chiamanti in correità diretti.
Romeo ha detto che egli era stato incaricato, fino a poco prima del “blitz” (come
l’ha chiamato), degli arresti del marzo del '97, di provare nuovamente ad uccidere
l'avvocato Bonfiglio.
Pertanto, come detto in premessa, l'ansia, la volontà di Di Giacomo di uccidere
Bonfiglio non si era fermata. Ha aggiunto il Romeo che quando egli era in altra
organizzazione, poi confluita nel clan Laudani, in occasione dell'omicidio di Di
Benedetto Concetta, moglie di Giuseppe Di Mauro, patriarca della famiglia
“Puntina”, omicidio a cui egli partecipò materialmente, l'arma fu abbandonata sul
luogo
dell'omicidio,
poi
fu
rinvenuta,
e
(sono
atti
del
processo
principale) sottoposta a perizia, risultò essere stata utilizzata anche per un altro
episodio delittuoso. Quindi, a fronte di una regola generale, che sancisce che
delle armi in genere ci si disfa gettandole nei cassonetti della spazzatura, si sono
verificati altri episodi in cui l'arma, o fu gettata nelle vicinanze, o, come ha detto
Romeo, in campagna, o in posti dove poi la fortuna, la ventura, (non attività non
di ordinanza o non di istituto, della P.G.) hanno consentito di rinvenirla, come nel
caso in esame.
Di Stefano Salvatore e Torretti Mario Giuseppe, ciascuno per parte loro, sempre
come testimoni de relato, hanno fornito un contributo significativo per la
71
ricostruzione dell’episodio delittuoso in questione.
Torretti, che era organicamente inserito nello stesso gruppo di cui faceva parte il
Giannetto (cioè del gruppo di cui era responsabile Grasso Giuseppe di cui si è
parlato sopra, difeso dall'avvocato Bonfiglio) ha riferito che il Giannetto gli
aveva confidato di sentirsi molto preoccupato per essere stato coinvolto, suo
malgrado, nell'omicidio dell'avvocato Famà poiché aveva messo a disposizione la
sua autovettura, pur non avendo partecipato personalmente all’azione delittuosa.
Di Stefano Salvatore ha riferito che, dapprima, nel corso di un colloquio avuto in
carcere, suo
cognato Troina
e, successivamente,
Basile Mario Demetrio
(quest’ultimo in una occasione particolare) gli confermarono che l'omicidio
dell'avvocato Famà era stato voluto da Di Giacomo.
Naturalmente, poiché Di Stefano non ha partecipato direttamente, poiché non ha
conoscenze dirette, ha fornito una spiegazione che rimane embrionale, perché
egli non può conoscere direttamente quella che è la verità, quella che era la reale
volontà del Di Giacomo.
Di Stefano ha dichiarato di avere appreso i particolari dell’omicidio dallo stesso
Basile, allorché si trovò in sua compagnia nei pressi del luogo dell’azione:
"Portammo all'avvocato Bonura soldi per conto dei nostri affiliati. In quella
occasione andai con Basile, e Basile mi disse: <<stai vedendo? Qua è dove
abbiamo fatto l'omicidio dell'avvocato Famà>>. Se non era per noi, che siamo
72
venuti subito a fare il sopralluogo, Alfio Giuffrida questa cosa non se la sbrigava".
Il collaborante ha aggiunto di avere conosciuto l’identità di chi partecipò
all’omicidio ed ha indicato gli odierni indagati (trattasi di conoscenze de relato,
tale circostanza tuttavia conferma un dato riferito dai tre soggetti che hanno
partecipato direttamente). Ma, si ripete, questa è una porzione della deposizione
del Di Stefano che interessa relativamente, sono altre le deposizioni che
interessano e che rilevano.
E' quella di Andronico Salvatore, cugino di Torrisi Salvatore, che ha riferito che
il Torrisi gli confidò che tra i tanti omicidi che aveva commesso vi era anche
quello di un avvocato, senza altro specificare.
Vi è ancora, e su questo occorre soffermarsi, la deposizione del Di Raimondo
Natale. Chi sia il Di Raimondo Natale lo si è specificato. Egli è stato per lungo
tempo capo dell'organizzazione Santapaola, alleata del clan Laudani.
Il Di Raimondo ha detto che l'omicidio dell'avvocato Famà avvenne nel momento
in cui prendeva l'avvio il procedimento penale cosiddetto “Orsa Maggiore”. Egli,
dal carcere, essendo responsabile, diede incarico a chi stava fuori, e all'epoca
era certo Aurelio Quattroluni, di acquisire informazioni all'esterno (perché
l’omicidio Famà fu un episodio che diede molto fastidio, per ovvie ragioni, alle
altre organizzazioni criminali, seguiva di pochi mesi l'uccisione della moglie di
Benedetto Santapaola, e, secondo quelle che erano le prime ricostruzioni
73
all'interno dell'organizzazione, si era pensato che la mano, la matrice potesse essere
la stessa). L'Aurelio Quattroluni fu incaricato di prendere contatti proprio con i
responsabili del clan Laudani, e cioè con il Giuffrida, il quale, è quello che ha
riferito Di Raimondo, disse che “loro non ne sapevano niente”. A conferma
quindi che, per il clan Laudani, l'omicidio dell'avvocato Famà, e quindi
l'eventuale omicidio dell'avvocato Bonfiglio, dovevano rimanere “una cosa
ristretta” a pochi soggetti. Ma la ragione per cui è importante la deposizione del
Di Raimondo è un'altra. Il Di Raimondo, come si diceva prima, ha detto che
inizialmente si era pensato che la matrice potesse essere unica, e a rafforzare
questa loro convinzione era stato Madonia Giuseppe.
Madonia Giuseppe, si è detto, è un soggetto che a suo tempo era stato difeso
dal compianto avvocato Famà. Secondo quello che ha riferito Di Raimondo, il
Madonia fece sapere alla organizzazione Santapaoliana (il Madonia è uomo di
Cosa Nostra di Caltanissetta, però per lungo tempo ha vissuto a Catania) che
l'omicidio della Minniti e l'omicidio dell'avvocato Famà erano stati commessi da
un cugino del Madonia, tale Ilardo Luigi. "E allora, per queste ragioni - ha detto
Di Raimondo -, perché si era permesso l'Ilardo di fare delle cose del genere a
Catania senza consultarci, cosa che non poteva fare, noi lo punimmo e lo
uccidemmo, convinti che avessimo in questo modo punito l'assassino della
signora Minniti e l'assassino dell'avvocato Famà. Poi invece abbiamo capito che
74
non era così”, perché l'assassino della signora Minniti, è un fatto ormai
conclamato, con sentenza passata giudicata, fu Giuseppe Ferone con i suoi
accoliti.
Successivamente furono emesse – ha aggiunto Di Raimondo -
le ordinanze di
custodia cautelare per l’omicidio Famà e “facemmo due più due, e capimmo qual
era stata la ragione per cui Madonia aveva voluto approfittare di questa
situazione. Madonia aveva scoperto, e poi si seppe in un pubblico dibattimento,
che Ilardo era stato confidente di un colonnello dei carabinieri, il colonnello
Riccio”. Si tratta di quel tal colonnello Riccio, arrestato dalla magistratura di La
Spezia per la vicenda Carfinco, per la vicenda Di Pietro e tutta la vicenda delle
tangenti Necci, Ferrovie dello Stato. Un soggetto, il colonnello Riccio, che aveva
avuto rapporti con Ilardo, il quale aveva fatto al militare delle confidenze. Madonia
apprese ciò, e prima di farsi uccidere ovvero di farsi contestare che un suo cugino
era confidente dei carabinieri, lo indicò falsamente come responsabile dei due
episodi delittuosi e fece, a sua volta, uccidere l’Ilardo. Indi si apprese che in realtà
Ilardo, assassinato a Catania, non aveva nulla a che vedere con l’omicidio Famà e
l’omicidio Minniti.
La testimonianza di Di Raimondo è servita a sgombrare ulteriormente il campo
da altre possibili matrici dell'episodio di cui ci stiamo occupando. E si
potrebbe andare avanti nell’evidenziare gli elementi, di cui la Corte è a
75
disposizione, derivanti dalle dichiarazioni dei collaboratori, che si sono definite
de relato in questa sede. Ma ciò sarebbe inutile, perché quello che serve è altro.
Perché in un momento storico in cui ci si preoccupa o ci si è preoccupati di baci,
di stallieri, di omicidi di giornalisti, si può cominciare a discutere sulla
conducenza e sulla veridicità delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia.
Sono argomenti che trovano invece la loro giusta e unica sede nelle aule di
Tribunale o di Corte di Assise. Non sono state mai fatte promesse di fede acritiche
alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. E' ormai un dato incontrovertibile,
che la Corte conosce e si sarebbe presuntuosi se si volesse insegnare qualcosa a
qualcuno, che si deve distinguere tra due tipi di chiamate o di dichiarazioni di
collaboratori,
quelle
dirette
e quelle
indirette.
Tutte
devono essere
ovviamente caratterizzate da una serie di elementi: la spontaneità, la
costanza, la logicità, l'articolazione, la reiterazione. Non certo, ma questo è
pacifico, il disinteresse. Si è detto all'inizio. L'interesse primario di Giuffrida, poi
di Basile e poi di tutti gli altri è uno solo: salvarsi la vita, porre fine ad un certo
tipo di vita. Può piacere o può non piacere, ma è un dato indubitabile. Ci sono
altri ordinamenti che conoscono misure a favore degli imputati sottoposti a
protezione molto più dirompenti delle nostre, addirittura il patteggiamento sui
reati. Ma questo non deve scandalizzare, per le ragioni
che sono state
evidenziate (cioè i risultati statistici sulla diminuzione dei reati). Piacciano o
76
non piacciano, le dichiarazioni dei collaboratori sono utilissime, a volte
indispensabili, se accertate e riscontrate. Tra queste dobbiamo distinguere tra chi
riferisce, come si è detto prima, fatti appresi da altri, è ovvio che se si dice: "Ho
appreso da Tizio che un determinato fatto si è verificato in questo modo" e poi
Tizio non conferma, la dichiarazione non perde di valore, ma rimane quella che è.
Ma se si dice: "Io, insieme a Tizio ho fatto questo, l'abbiamo fatto direttamente
insieme”, il discorso è diverso. Questo per spiegarsi in termini pratici, semplici.
Ora, nel caso che ci occupa tre soggetti, Basile, Giuffrida e Troina, hanno, con
dovizia di particolari, specificato in quali termini e con quali modalità si è
consumato l'omicidio Famà.
Esistono dei sistemi per evitare che le dichiarazioni di collaboratori di giustizia,
malgrado si pensi diversamente, vengano tra loro concordate, uno in particolare: i
collaboratori di giustizia devono essere sentiti in stato di detenzione, in carceri
diversi, e questo, come è stato dimostrato, è avvenuto in questo procedimento. I
collaboranti hanno reso le dichiarazioni in assoluta autonomia.
Certo, vi sono due aspetti da esaminare. I collaboratori possono riferire fatti chiari,
definiti e precisi. Su ciascuno sono effettuabili riscontri, e può dirsi che ciò in
questo processo è avvenuto. Può accadere, di contro, che i collaboratori dicano
cose perfettamente tra loro sovrapponibili, e allora si potrà sostenere: le
dichiarazioni sono concertate, in assenza di ulteriori elementi.
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A tale ultimo proposito, occorre tuttavia rilevare che, se i collaboratori riferiscono,
per ragioni ovvie, che si è cercato di specificare prima, fatti parzialmente
diversi, ma frutto di diretta conoscenza, occorre scandagliarne il racconto per
verificare da cosa ciò possa dipendere. Si ricordi quanto specificato prima: Basile
ha detto che, secondo i suoi ricordi venne utilizzata una vettura rubata. Giuffrida ha
riferito, di contro, che così non fu. In realtà, si è cercato di spiegare perché non potè
essere utilizzata una vettura rubata: le auto immediatamente disponibili non erano
efficienti. E' una discrasia? E' una menzogna proveniente da uno dei collaboranti?
Si ritiene che non sia una discrasia, che non sia una menzogna, è un discorso molto
semplice: le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, (c.d. pentiti), si chiamino
come si vuole, sono degli elementi che vengono posti al vaglio del giudicante
che valuta in virtù del principio del libero convincimento, che ha un solo
obbligo, quello della motivazione. Le dichiarazioni devono essere accompagnate
da adeguati riscontri. Non si troverà mai nessuno, si sfida chiunque a dimostrare il
contrario, che sia stato condannato per la mera convergenza delle dichiarazioni
di un collaboratore con quelle di un altro, senza che queste dichiarazioni non
fossero accompagnate da altri elementi. Non si può invertire il ragionamento e
sostenere che prima
devono trovarsi gli altri elementi e poi utilizzare le
dichiarazioni dei collaboratori. Non ve ne sarebbe bisogno.
I collaboranti
hanno detto: "Di Mauro Matteo veniva a fare i colloqui con Di Giacomo (fatto
78
accertato) e portava gli ordini. Utilizzammo una pistola con silenziatore e poi
fu buttata". La pistola è stata trovata. "Quel giorno c'era il negozio ancora
aperto" e ciò è stato verificato. Catti aveva una giacca di colore marrone, lo
hanno confermato Lanzafame e Ragonese. Sono tutti elementi che confermano
l'attendibilità e la credibilità dei collaboratori.
Si diceva sopra: i collaboratori non sono tutti permeati dall'ansia, come si sostiene o
si vuol sostenere, di accusare a tutti i costi. Si tralascino gli esempi eclatanti, ci
si confronti sui fatti concreti.
Quando è stato sentito Torretti sorse un equivoco se
egli avesse reso
dichiarazioni sull'omicidio Fafà o sull'omicidio Famà, e Torretti ricordò di aver
parlato di entrambi gli episodi.
L'omicidio Fafà è un omicidio a carico di certo De Luca Antonino, di cui si tratta
separatamente; vi è stata anche la deposizione di Torretti sull’omicidio di un
certo “Bafacchia” alias Giusti Giovanni. E’ stata prodotta agli atti del dibattimento
la sentenza, passata in giudicato, emessa dalla Seconda Sezione della Corte
d'Assise, che ha mandato assolto dall'imputazione di omicidio in danno di
Giusti Giovanni e Correnti Silvana certo Condorelli Rosario. Si trarrà dalla lettura
di questa sentenza che il Condorelli Rosario è stato assolto perché, deponendo in
quella sede, il Torretti e il Giuffrida esclusero che il Condorelli avesse
partecipato a quell'omicidio, che era stato organizzato e voluto dal Giuffrida,
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insieme al clan dei Mazzei, perché il Giusti probabilmente voleva diventare
collaboratore di giustizia. Il Condorelli Rosario, tratto a giudizio, per queste
ragioni è stato assolto. Riprova dell'attendibilità del Giuffrida è stata tratta
dalle parole dello stesso La Rocca Vittorio, che, a espressa domanda del
Presidente, ha detto di esser stato condannato, dopo essere stato assolto in primo
grado, in appello alla pena dell'ergastolo, divenuta definitiva a seguito di rigetto
del ricorso per Cassazione. E' stata depositata dalla difesa la sentenza emessa dalla
Corte di Assise di Appello nei confronti di Pafumi Rosario + altri. È nota questa
sentenza e la si rispetta, perché le sentenze si rispettano, tutte. Diceva qualcuno
assai noto, quando c'è qualcosa da ridire, le sentenze si impugnano se si possono
impugnare, altrimenti si rispettano. La sentenza depositata dalla difesa è una
sentenza in cui la Corte di Cassazione, a differenza di quanto avvenuto in altro
processo (che è quello avente ad oggetto la morte della moglie e della suocera del
pentito Riccardo Messina, ove la Corte di Cassazione ha annullato con rinvio la
sentenza che mandava assolti, malgrado le accuse di Giuffrida, gli esecutori
dell'omicidio - e adesso si è aggiunto anche il pentimento del Puglisi Antonino, che
ha confermato che quell'omicidio fu voluto da egli stesso e dal Giuffrida, che
quindi non aveva mentito), ha rigettato il ricorso del P.G. avverso la sentenza di
secondo grado che ha ritenuto che il collaborante non aveva fornito elementi idonei
alla condanna degli imputati.
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Valuterà la Corte se il ragionamento operato dal decidente in quella sentenza, (in
virtù del quale il Giuffrida, pur non imputato nel processo per l'omicidio Paparo e
che in appello si presentò ai Giudici dicendo di averlo organizzato, non è stato in
grado di riferire - essendo percorribile il tunnel del Viale Mediterraneo in soli 0,145
secondi - chi dei due sicari a bordo di una motocicletta uccise il Paparo, cioè chi dei
due, a bordo del motoveicolo, avesse materialmente esploso i colpi di arma da
fuoco) sia sufficiente per far qualificare come menzognero il racconto del
Giuffrida.
Si rispettano le sentenze, ma si deve dire anche che gli accertamenti
sull'attendibilità e sulla credibilità vanno fatti caso per caso, sia quando sono serviti
per assolvere, sia quando sono serviti per condannare. E occorre valutare in questa
sede se quanto riferito da Giuffrida, da Basile e da Troina sia idoneo, come si
ritiene, a far condannare gli imputati.
LE DICHIARAZIONI TESTIMONIALI
Le deposizioni di Troina e quella di Basile sono state fondamentali per altri due
aspetti. Basile ha riferito, quando venne sentito a Torino, una duplice circostanza,
che poi è stata verificata: la prima circostanza che ha riferito è: "Guardate, signori,
poiché erano arrivati questi mandati di cattura e capivamo quali pericoli potessero
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significare per noi, ciascuno di noi si stava attivando per crearsi un alibi". "Signor
Basile, ci vuole spiegare cosa vuol dire?". Risposta: "Guardi, io mi sono sposato" (e
si ricordi, si è accertato che Basile ha celebrato due matrimoni, uno civile, a giugno
del '95, e uno religioso, nell'ottobre del '95). "Dopo questo mio secondo
matrimonio, mi recai a Novi Ligure, dove avevo dei parenti, e allora,
successivamente, dissi a mia moglie, senza dirle la verità, di andare da questi
parenti e di chiedere loro se erano disponibili a dichiarare che io, nel periodo in cui
avvenne l'omicidio, ero stato a Novi Ligure presso di loro". In dibattimento è stato
sentito il predetto parente, l'Arena Alfredo, e sono stati sentiti i testi che si è potuto
rintracciare, cioè la Grassano Paola ed il Farina Enrico. Essi hanno detto che in
buona fede avevano ricordato, anche se non sapevano indicare il periodo, che
effettivamente il Basile e la moglie si erano recati a Novi Ligure in viaggio di
nozze.
Si è discusso se fosse legittimo fare un viaggio di nozze dopo alcuni mesi dal
matrimonio. Ciò non deve sembrare strano. Se si può partire, per ragioni
contingenti, solo dopo qualche tempo dalla celebrazione delle nozze, non può
stranizzare che così sia avvenuto nel caso del Basile.
La circostanza rilevante è che la Grassano ha detto: "Mi ricordo che andammo a
mangiare al ristorante La Filanda e mi dissero che erano in viaggio di nozze, però
non sono in grado di ricordare quando fu. Ho un ricordo però preciso: io mi
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fidanzai col signor Farina il primo di novembre, è un ricordo nitido" ed è stato
contestato alla Grassano: "E come mai lei ricorda proprio quando si è fidanzata e
non quando ha avuto questi incontri?". Sembra ovvio che si ricordi quando ci si è
fidanzati, si ricordi una data di nascita o quant'altro di diretto interesse, non si può
ricordare quando si è andati al ristorante con gli ospiti di un amico, dei quali non si
ricordano le fattezze e i nomi. La Grassano ha datato questa visita alla fine di
novembre ‘95.
E’ logico quello che ha detto il Basile, cioè che egli cercò di inquadrare questa
visita a Novi Ligure, falsamente, proprio in un periodo coincidente con la data nella
quale avvenne l'omicidio dell'avvocato Famà, cercando di profittare della buona
fede di terzi.
Ha aggiunto Basile: "Attenzione, così come ho fatto io, ci hanno provato altri". In
un momento non sospetto, e si vedrà la data, Basile ha detto a Torino: "Anche
Gangi, che io sappia, mi disse che stava cercando di farsi un alibi in un ristorante
dalle parti di Messina, qualcosa del genere; comunque stava cercando di farsi un
alibi in un ristorante".
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L’INCONSISTENZA DEGLI ALIBI DI GANGI
ED IL CONFRONTO TROINA - SCUDERI
La difesa ha prospettato come testi a discarico del Gangi
Leonardi Alfio e
Pappalardo Matilde. Se in quella sentenza di cui si parlava prima, sentenza Paparo,
si dice, a proposito del Giuffrida o dell'altro collaborante, delle menzogne riferite
da Giuffrida, occorre rilevare il primo falso alibi di Gangi.
Gangi ha voluto ammannire questi soggetti a sostegno della sua estraneità ai fatti
per cui è processo.
Leonardi Alfio, titolare di ristorante in Milo, chiestogli se ricordasse la data in cui il
Gangi cenò in detto locale, ha risposto "No, io non posso ricordare né la data né
quando è stato". "C'è una ricevuta fiscale, uno scontrino, una carta di credito?" "No,
no". Il Leonardi Alfio ha detto: "Non posso ricordare".
E' stata sentita la Pappalardo Matilde (e qui si torna al discorso della moralità di
Giuffrida e non ci si preoccupa della moralità degli altri), la quale (ognuno è libero
di fare quel che vuole, non si muovono censure morali) è la “fidanzata”, ma egli è
anche sposato, del signor Gangi. La teste ha detto: "Festeggiavamo l'anniversario,
me lo ricordo molto genericamente, siamo andati a cena, nel ristorante del signor
Leonardi. Mi ricordo che al telegiornale sentimmo la notizia che era stato ucciso
questo avvocato, e noi eravamo là, potevano essere le nove e mezza, perché
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avevamo fatto un giro, eravamo stati da Mascalucia a Zafferana ed eravamo arrivati
in questo ristorante di Milo".
Lo stesso Gangi, anche in sede di dichiarazioni spontanee, ha detto che la notizia fu
sentita a Teletna, ove comparve una sovrascritta, nel corso di un film.
Questi due dati sono assolutamente falsi, come dimostrato dalle certificazioni
prodotte e rilasciate dalla RAI, dalla SIGE e dalla Telecolor. La RAI diede la
notizia dell'omicidio dell'avvocato Famà col notiziario dell'indomani mattina alle
7:30, Telecolor nel notiziario delle 22:30, Teletna nel notiziario delle 23:30, prima
del notiziario non era andato in onda un film, era andata in onda la
trasmissione "Insieme" e non si erano mandati sottotitoli, quindi Gangi ha
mentito.
Ma egli non è nuovo a questo tipo di menzogne, perché anche nell'altro processo, a
proposito dell'omicidio De Luca-Russo, ha prospettato un altro alibi, fallito
clamorosamente perché ha sbagliato giorno, come è stato dimostrato nell'altro
processo. L’omicidio De Luca-Russo è avvenuto il 26 ottobre del '95 e Gangi ha
prospettato un alibi per il 27 ottobre 1995.
Non contento di ciò, Gangi stesso, pur non essendo stata acquisita la prova che egli
possedesse una Ford Escort, ha ammesso tale circostanza . E’ stato detto in
premessa che né della Uno di Catti né della Ford Escort di Gangi si era trovata
traccia, perché essi utilizzavano in genere auto intestate ad altri soggetti. È stato
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Gangi che, maldestramente, ancora una volta, ha fornito la prova che egli avesse la
disponibilità di una Ford Escort, però Gangi ha aggiunto di essersi disfatto del
veicolo. A riprova di questa perdita di proprietà, di possesso del veicolo, ha
indicato il teste Scuderi Giovanni, titolare dell’autosalone “Auto In” di Pedara.
Lo Scuderi Giovanni è stato sentito in dibattimento, ove ha manifestato una
evidente paura, e gli è stata esibita dalla difesa una dichiarazione sostitutiva
dell'atto notorio, della quale è autenticata ovviamente solo la firma dello Scuderi
ma non certo il contenuto dell'atto (non c'è bisogno che si specifichi questo dato),
in cui si asserisce che dal settembre del '95 l'auto fu consegnata allo Scuderi
Giovanni dal Gangi perché la ponesse in vendita. Scuderi ha detto che non fu
corrisposta all’erario la tassa di circolazione, come si chiamava in precedenza né di
possesso e, peraltro, non fu nemmeno pagata l'assicurazione per la responsabilità
civile. A dire dello Scuderi, l’auto rimase sempre nell'autosalone. E qui, ancora una
volta, bisogna fare i conti con l'altro alibi menzognero di Gangi, perché in
dibattimento Troina, che non conosceva questo dato, e prima che venisse sentito lo
stesso Scuderi, ha detto: "Ricordo un particolare" (a riprova quindi della sua
partecipazione diretta al fatto e quindi della sua credibilità) "Scuderi Giovanni
pagava le estorsioni a noi, a parte altre cose", Troina ha spiegato quali fossero
queste cose: Scuderi era sottoposto ad usura ed era ed è, quindi, un soggetto
certamente influenzabile. "Pagava le estorsioni a me personalmente; io mi ricordo
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che me lo disse a Roma, me lo fece ricordare a Roma Gangi, ma poi me lo sono
ricordato, all’udienza dell'altro processo, che eravamo andati insieme dopo
l'omicidio da Scuderi e Gangi gli disse: <<Senti, io ti do la macchina, però tu devi
farla fare risultare che è entrata qui prima>>. "Ma come si fa?" Prima fece delle
difficoltà Scuderi. "E' impossibile, ci sono registri" (n.d.r.: registri di nessun valore
fiscale o amministrativo e quindi si trattava di una operazione fattibile).
Troina ha soggiunto che vi fu questo tentativo di crearsi un falso alibi da parte del
Gangi tramite lo Scuderi. A quel punto, a fronte della dichiarazione del Gangi, a
fronte della dichiarazione dello Scuderi, a fronte della dichiarazione del Troina, si
è disposto il confronto tra Troina e Scuderi.
In genere, è noto, i confronti servono a poco perché ciascuno rimane della propria
opinione, ma in questo caso ciò non è avvenuto. Si è trattato di un confronto
drammatico per certi versi, senza enfatizzare, ma significativo.
Lo Scuderi non voleva volgere lo sguardo ai detenuti; non voleva dire se
conoscesse o meno come meccanico il Di Mauro Matteo. Lo Scuderi, messo di
fronte al Troina, (si davano del tu) non ha potuto fare a meno di balbettare. "Ma
come -gli disse Troina-, non ti ricordi che siamo venuti?". Ed è testuale a verbale,
ha risposto “ sì” lo Scuderi, salvo poi fare marcia indietro. "No, questa cosa non
era possibile". Non ha detto "non me la ricordo", non ha detto "non è vera", ha
detto "non era possibile". Ma il momento più drammatico del confronto è stato
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quando Troina, consapevole dei pericoli che sussistono per lo Scuderi, o comunque
dello stato di intimidazione in cui versava il teste, ha detto: "Tu hai paura, ti
capisco, ma tu a noi favori ne hai fatti tanti. Ti ricordi la mia Peugeot 106? Ti
ricordi che ti ho tirato fuori dall'usura da cui eri sottoposto da Natale Giuffrida?".
Troina gli ha contestato una serie di fatti che confermano come la volontà dello
Scuderi sia stata assolutamente coartata, che dimostrano come lo Scuderi sia stato,
anche suo malgrado, messo con le spalle al muro e abbia dovuto fare, obtorto
collo, una dichiarazione assolutamente falsa.
Questo è il secondo alibi falso del Gangi.
Gli altri imputati, forse più accorti, hanno preferito non fare dichiarazioni, hanno
preferito non dire nulla, anziché prospettare tesi poi rivelatesi sfavorevoli. E che
l'alibi falso sia un elemento dal quale trarre prova della responsabilità di un
soggetto è un dato assolutamente chiaro, pacifico in giurisprudenza. Si potrebbero
citare sentenze a partire dal 1989 fino alla più recente sentenza dell'ottobre '95:
"Mentre il fallimento dell'alibi non può essere posto a carico dell'imputato come
elemento sfavorevole, non essendo compito di quest'ultimo dimostrare la sua
innocenza, ma onere dell'accusa provarne la colpevolezza, quello rivelatosi
preordinato e mendace (nel caso in esame sono due, preordinati e mendaci, e lo
hanno detto in anticipo Basile e Troina) può essere posto in correlazione con le
altre circostanze di prova e valutate come indizio nel contesto delle
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complessive risultanze" per giungere a un'affermazione di responsabilità.
I RISCONTRI
Le dichiarazioni degli altri correi, gli elementi di riscontro alle dichiarazioni, l'alibi
falso: non sussistono, dunque, solo le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia,
ma si ha una molteplicità di elementi che comprovano la conducenza delle
risultanze processuali.
Si ricorderà che a Torino si diede luogo a una sorta di anomalo esperimento, e cioè
si volle verificare, la conoscenza degli imputati da parte dei collaboranti.
Furono gli stessi imputati ad osservare (anche se potevano dire di non conoscerlo)
che Giuffrida si era affacciato in aula e li aveva visti prima dell’udienza.
Giuffrida confermò tale circostanza e poi li indicò puntualmente per nome e
cognome. L'indomani a Di Stefano Salvatore fu avanzata analoga richiesta, gli
venne chiesto dalla Difesa, addirittura, se conoscesse coloro che presenziavano in
videoconferenza, ed egli riconobbe anche costoro. Evidentemente imputati e
collaboranti si conoscevano bene tra di loro.
Fu contestato al Giuffrida di essersi affacciato dalla porta abbigliato in un certo
modo (con la giacca) e che quando si
abbigliamento.
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sedette per deporre avesse cambiato
Si vorrebbe conoscere uno solo dei motivi, che non sia la rabbia per le sconfitte nel
corso di gare automobilistiche, per cui il Giuffrida avrebbe dovuto accusare
ciascuno degli imputati falsamente sapendoli innocenti.
Sono stati indicati solo elementi falsi, come si ripete, quali quelli indicati da Gangi.
Poteva fornire elementi favorevoli alla difesa Vittorio La Rocca? Non ne ha fornito
alcuno. Cosa si voleva da La Rocca? Si voleva che dicesse che effettivamente con
lui il Di Giacomo si era lamentato che la pistola era stata buttata in campagna e non
nel cassonetto? Ma ciò è assurdo! Si vuole pensare che fosse logicamente
attendibile una risposta del genere?
L’ART. 8 L. 203/91
La legge prevede, all'art. 8 della legge 203 del '91, che il collaboratore di giustizia,
di cui sia accertata la credibilità e la attendibilità, benefici di sconti di pena.
Nessuno dei collaboranti che sono stati sentiti, cioè per quello che riguarda questo
processo, Basile e Giuffrida quali imputati, era stato raggiunto da elementi a carico
in questo processo. Essi si sono autoaccusati, non si sono sottratti all'esame, hanno
risposto alle domande, di Pubblico Ministero e difesa, si sono dichiarati
responsabili dei fatti per cui sono stati tratti a giudizio. Si è perfettamente nell'alveo
della normativa e si ritengono perfettamente meritevoli, non solo della concessione
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delle circostanze di cui all'art. 8, che elidono l’operatività della contestata
aggravante di cui all’art. 7 della citata legge, ma, allo stesso modo, appaiono
meritevoli della concessione delle circostanze di cui all'art. 62 bis del Codice
Penale, da ritenersi prevalenti sulle altre aggravanti contestate, perché questo
processo, in particolare, senza il loro contributo non si sarebbe potuto celebrare e
ciò è dimostrazione della loro resipiscenza.
CONCLUSIONI E RICHIESTE
Brevi parole devono spendersi per due imputati: uno, a riprova di quello che si è
detto prima a proposito delle dichiarazioni dei collaboratori di Giustizia, è il
Giannetto Silvio.
Né il Giuffrida, né il Basile hanno dichiarato "Giannetto sapeva". Anzi, con molta
onestà, o, se non la si vuole definire tale, con molta sincerità il Giuffrida ha detto:
"Io gli dissi soltanto <<dammi la macchina>>". Poi Giannetto seppe di che cosa si
trattava, evidentemente, ma non sapeva oggettivamente, ab initio, a che cosa
doveva servire l'auto che consegnò al Giuffrida, né ha avuto poi un ruolo specifico
nell'episodio in esame.
Nessuno degli altri, nemmeno il Torretti, che ha riferito della preoccupazione del
Giannetto, ha potuto confermare una diretta partecipazione dell'imputato
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all'episodio delittuoso. E proprio le emergenze processuali inducono a ritenere che
il Giannetto sia stato estraneo al fatto che è in contestazione, e quindi per Giannetto
va chiesta l'assoluzione per non aver commesso il fatto.
Per quanto attiene Di Mauro Matteo, come si è potuto constatare e trarre come
conclusione dalle emergenze dibattimentali, non ha avuto un ruolo diretto e preciso
nella consumazione dell'episodio. Di Mauro Matteo "si è limitato a portare gli
ordini". Ma gli ordini recapitati da di Di Mauro Matteo erano ordini che dovevano
essere eseguiti dal Giuffrida. L’ordine che recapitò Di Mauro Matteo fu quello,
dapprima, di uccidere l'avvocato Bonfiglio e poi, sempre su disposizione di Di
Giacomo, di uccidere l'avvocato Famà, per le ragioni che si sono esplicitate.
Orbene, così come agì il Di Mauro Matteo (e si è provato ritiene che egli
effettivamente recapitò l’ordine per la coincidenza temporale con l'epoca dei
colloqui) ben poteva agire anche qualcuno degli altri parenti o affini che fungevano
da messaggeri con il Di Giacomo. Il Di Mauro Matteo è imputato del reato di cui
all'art. 416 bis c.p. nell'altro procedimento di cui il presente è stralcio.
Si ritiene che sia conforme a giustizia e conforme al ruolo dallo stesso dispiegato,
applicare l'art. 114 del Codice Penale, e quindi correlare la richiesta di pena al ruolo
effettivamente svolto. Invero, in relazione al Di Mauro Matteo, non può ritenersi
ostativa all’applicazione dell’anzidetta norma la contestazione dell’aggravante di
cui all’art. 7 della legge 203/91, atteso che non può ritenersi – in senso tecnico – la
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previsione di cui all’art. 114 c.p. circostanza attenuante non sottoponibile a
comparazione con l’aggravante dianzi citata. Si chiede, pertanto, la condanna del
DI MAURO alla pena di anni 21 di reclusione.
Per quanto riguarda gli altri imputati, agli stessi è contestata la citata aggravante di
cui all'art. 7 L. 203/91, che, come già sottolineato, non può essere sottoposta a
comparazione con nessun'altra attenuante; l'omicidio è stato commesso con
predeterminazione, e ciò risulta comprovato. Ne consegue che: il Di Giacomo,
quale mandante, il Torrisi, il Catti, l'Amante, il Fichera ed il Gangi devono essere
condannati alla pena dell'ergastolo.
Per quanto riguarda Basile e Giuffrida, per le ragioni che sono già state spiegate in
premessa, e in particolare il Giuffrida, come
sottolineato in altra sede, per
l'eccezionale contributo fornito alle indagini e al dibattimento, essi vanno
condannati, Giuffrida alla pena di anni 15 di reclusione e Basile alla pena di anni
17 di reclusione.
Si chiede la confisca dell'arma in sequestro.
Catania, 18/10/99
Il Pubblico Ministero
Dott. Ignazio Fonzo
Dott.ssa Agata Santonocito
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