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Keith Richards perché ilrock èmeglio delsesso
DIREPUBBLICA DOMENICA 30 AGOSTO 2015 NUMERO 546 Cult La copertina La mistica della fisica Straparlando Zoja: “Noi vittime della paranoia” Mondovisioni Perdersi nelle notti hot di Istanbul FOTO DI MARK SELIGER “Nonvedevo prospettive quandopensavo alfuturo. Finché non ascoltaiMuddyWaters etutti glialtri” Keith Richards perché ilrock èmeglio delsesso GIUSEPPE VIDETTI L’attualità. La vera casa degli spiriti di Isabel Allende L’officina. Massimo Dolcini, la grafica al servizio del cittadino Next. Come sarà il futuro secondo quattro guru L’incontro. Kristen Stewart: «Non sono interessata ai premi. Aspetto solo di invecchiare» Repubblica Nazionale 2015-08-30 LA DOMENICA la Repubblica DOMENICA 30 AGOSTO 2015 30 Lacopertina.StreetFightingMan Il trauma dell’espulsione dal coro a 13 anni «Fu come se mi avessero ucciso: lì iniziò il rifiuto per insegnanti, giudici e polizia» C GIUSEPPE VIDETTI NEW YORK ON QUELLO STRACCIO TRA I CAPELLI e le ru- ghe profonde, sembra un chitarrista zingaro o un Cristo sofferente scolpito su un tronco d’ulivo. Poi appena dopo l’intervento della procace truccatrice – che congeda con un bacio non proprio casto - gli occhi bistrati, jeans neri e camicia in seta a piccoli pois tagliati di fresco dalle forbici punk di Hedi Slimane, Keith Richards è pronto per il pomeriggio da rock star a Manhattan (non in una delle solite tane da divo, un boutique hotel sulla Bowery, due passi dall’ex CBGB’s, tempio del punk), una fuga di due giorni dal Connecticut, dove vive con la moglie Patti Hansen. Consumato dalla vita on the road, segnato dalle cattive abitudini, prosciugato dalle infinite trascuratezze cui solo agli immortali è dato sopravvivere, Keef (per gli amici) potrebbe avere i suoi 71 anni o i 969 di Matusalemme; nel rock è la maschera che parla, e la sua è potentissima. Se ne frega degli slogan, di quello che han scritto su di lui, grande chitarrista posseduto da mille demoni o Lucifero partorito durante un voodoo a base di blues. «Ma quale diavolo!», esclama scoppiando in una risata catarrosa e subito aspirando voluttuosamente dall’ennesima Marlboro come fosse una riserva d’ossigeno, «l’unica volta che ne ho visto uno aveva il volto del dentista. Era il mio incubo da bambino, per colpa sua ho avuto per anni una bocca sgangherata». Ora i denti sono a posto, in America hanno fatto miracoli dopo che con l’eroina ci ha dato un taglio. Quale che sia il suo interlocutore, Richards pretende normalità, confidenza, allegria. Continua a essere una star riluttante dopo cinquantatré anni da Rolling Stone con oltre duecento milioni di dischi venduti, riff memorabili che hanno segnato in maniera indelebile la storia del rock (Gimme Shelter e Jumpin’ Jack Flash sono solo esempi), l’ennesimo trionfale tour mondiale concluso da pochi giorni, una mostra celebrativa in febbrile preparazione a Londra (Exhibitionism, alla Saatchi Gallery dal cinque aprile al quattro settembre 2016), un’autobiografia best seller a dir poco rivelatoria – Life (2010) che affettuosamente chiama La Bibbia – un audiobook per bambini, Gus and Me, disegnato dalla figlia Theodora, in cui narra la storia dell’adorato nonno materno e della sua prima chitarra, e ora un disco solista (il terzo) dopo vent’anni, Crosseyed Heart, che esce il 18 settembre. «Tutto è strano come è sempre stato, come deve essere», dice ridendo di cuore. «Ho fatto un disco, ne faccio di rado. Tre anni fa, avevo appena finito di scrivere La Bibbia, mi resi conto che non facevo niente da troppo tempo. Mi sentivo strano ormai so che quando la situazione si fa strana cominciano a materializzarsi buone cose. Scrivere un’autobiografia è vivere due volte, una sensazione spaventosa, come andare dallo psicanalista suppongo (chi c’è mai stato?)». C’è un Keith professionale, composto, paziente, che si sottopone alla sfilza di domande – registratore acceso. E c’è un Keef divertente, ironico, buontempone che a microfono spento ha voglia di ricordare, montare e smontare leggende metropolitane, beffarsi delle frasi a effetto che i «motherfucker» sparano come scoop: «Una canna la mattina? Scandalo! Ma cazzo, sono Keith Richards, cosa si aspettano da me? Sgt. Pepper un disco di merda? Blasfemo! Avrò ben il diritto di esprimere un’opinione; fu quello il disco che ci costrinse a incidere nel ’67 Their Satanic Majesties Request, il più brutto album mai fatto dai Rolling Stones. Ne parlavo anche con John (Lennon), un fratello, ne ho riparlato di recente con Paul (McCartney), un amico». Dalla bocca rugosa espira una nuvola di fumo denso, ritratto perfetto del drago che Johnny Depp ha voluto come padre nel film Pirati dei Caraibi - Ai confini del mondo e l’amico Tom Waits ha raccontato in un poema: “Keith Richards può andare più veloce di un fax / La sua urina è blu / Mani da spaccalegna / Braccia da marinaio / Schiena da soldato / Cervello da detective / Spalle da boxer / Voce da ragazzo del coro”. «Con Tom abbiamo condiviso molte cose», mormora Richards, e fa la lista di quelli che con lui hanno condiviso l’incubo della dipendenza – Gram Parsons, John Phillips dei Mamas and Papas, John Lennon. «Brian Jones no, lui ne era schiavo quando ancora non mi facevo. E io, che gli avevo soffiato Anita Pallenberg, direi che non ero esattamente la persona giusta per dargli una mano». Ha voglia di ricordare le scorribande romane degli anni Sessanta con la Pallenberg, che girava Barbarella a Cinecittà, la Campo dei Fiori di Gabriella Ferri, che per Anita era come una sorella, e il pittore Mario Schifano «con cui lei aveva avuto un flirt in piena Dolce Vita. Anita parlava cinque lingue e aveva accesso al jet set, conosceva anche Felli- ni, frequentava il giro del Living Theatre allora di stanza nella capitale». A Roma la ragazza aveva contratto quelle cattive abitudini ben prima che Keith iniziasse il suo match con l’eroina, così come Donyale Luna, indimenticata top model di colore originaria di Detroit che Richards e Pallenberg frequentarono assiduamente in quel 1967 (sarebbe morta di overdose nel 1979). Era il periodo in cui se una ra- Odiol’autorità Nondiròmai “YesSir” Repubblica Nazionale 2015-08-30 la Repubblica DOMENICA 30 AGOSTO 2015 31 FOTO DI DEZO HOFFMANN/REX sogna mai contrastare gli interessi della band. Avrei voluto pubblicarlo alla fine dell’anno scorso, e Mick (Jagger): “Oh no, siamo ancora in tour, aspetta cazzo!”. Così ho trovato un buco a settembre». Vuol dire che gli Stones torneranno presto in studio per un nuovo album? «Con ogni probabilità sì, alla fine dell’anno e nel 2016. Hmm, forse non dovevo dirlo... Io comunque approfitto della pigrizia degli altri (risata birichina). Ormai ognuno di noi ha i suoi ritmi, da anni non abbiamo più date fisse da rispettare se non quelle dei concerti. Niente più obblighi contrattuali per carità, né come solista né come chitarrista degli Stones». Incredibile che il blues sia ancora un punto di riferimento, che eserciti su di lei la stessa suggestione degli anni in cui divideva i primi entusiasmi con Jagger, Brian Jones e Charlie Watts, più di cinquant’anni fa. «È l’amore della mia vita, più attraente del sesso, delle droghe, delle donne. È la lingua che parlo meglio e quella in cui meglio mi esprimo. Tutti i suoni meravigliosi, degli anni Venti, Trenta e Quaranta – big band comprese – proviene dal blues. È il centro della musica, e se c’è qualcosa di buono che l’America ha dato al mondo, l’unica per cui non possiamo biasimarla, è il blues e la popular music in generale. Fa parte della mia struttura, è l’ossatura della mia anima - non il midollo, quello l’ho bruciato in altri modi, come sa (risata diabolica)». LE FOTO IN ALTO DA SINISTRA: KEITH RICHARDS A QUATTRO ANNI CON LA SUA PRIMA BICI; CON I GENITORI NEGLI ANNI CINQUANTA NEL DEVON (DALLA BIOGRAFIA “LIFE”,FELTRINELLI, PP. 524, 14 EURO). NELL’ALTRA PAGINA: KEITH RICHARDS, HELMUT BERGER, MARILÙ TOLO E ANITA PALLENBERG A ROMA NELL’AGOSTO 1967; MICK JAGGER E KEITH RICHARDS AL PROCESSO DEL 1967 PER DETENZIONE DI DROGHE DOPO L’IRRUZIONE DELLA POLIZIA A CASA SUA DA CUI NACQUE LA PRURIGINOSA STORIA DI MARIANNE FAITHFULL (ALLORA FIDANZATA DI JAGGER) E LA BARRA DI MARS: «UNA LEGGENDA: ERO COSÌ FATTO DI LSD CHE INVECE DI POLIZIOTTI CREDEVO FOSSERO ENTRATI DEI NANI TUTTI VESTITI UGUALI». VERRÀ CONDANNATO A UN ANNO DI PRIGIONE FOTO DI MARK SELIGER gazza entrava nel clan degli Stones saltava fatalmente da un letto all’altro (Marianne Faithfull, girlfriend di Jagger, ancora ricorda con un certo rimpianto l’unica notte d’amore col chitarrista). Storie in parte narrate… in Life, una biografia unica nel suo genere, senza censure, come dovrebbero essere i libri di chi sceglie di raccontarsi. «È stata La Bibbia a riscaraventarmi tra le braccia del blues», spiega. «Questa volta me la sono goduta in studio, non succedeva dal 1991 - prima di Cristo?». Si spancia dalle risate, orientato, arguto, perfettamente a suo agio nel ruolo del sopravvissuto. «Una riunione tra amici: Aaron Neville, Norah Jones, Sarah Dash. Ma poi quando uno fa un disco solista va incontro a mille problemi, si capisce…». Di che genere? Uno col suo potere ha carta bianca sempre e comunque. «E invece no. Il primo problema è stato: quando lo facciamo uscire? C’è sempre il tiranno con cui fare i conti, i Rolling Stones, non bi- FOTO DI JOHN KNOOTE/REX USA Amore e odio con Mick Jagger «Si illudeva di vendere milioni di dischi da solo ma è tornato all’ovile. Però resta il migliore» Le ha salvato la vita. Non riusciamo proprio a immaginarla in un ufficio con un lavoro dalle nove alle cinque e, a questo punto, magari in pensione. «No guardi, io per quella roba lì non sono mai stato tagliato. Non avevo prospettive, ero completamente perso quando pensavo al futuro. Fino al momento in cui cominciai ad ascoltare Muddy Waters e tutti gli altri: voglio creare quei magici accordi, voglio combinarli e ricombinarli fino all’esaurimento – e non c’è stata fine. Sono stato fortunato a imbattermi nella musica giusta, quella che fa scattare la scintilla e, certamente nel mio caso, ti cambia la vita. Ma poi ho anche avuto culo, dove sarei andato senza Mick, il migliore frontman dell’ultimo secolo?». Cosa ascoltava in casa da ragazzino? «I dischi di Doris, mia madre. Billie Holiday, Ella Fitzgerald, Louis Armstrong. Allora non sapevo neanche fossero neri, non faceva differenza per me. Il ritmo sincopato è il mio ritmo naturale, io sono il “roll” del rock (ride a crepapelle)». Si è mai chiesto, da adulto, come mai quella musica l’avesse sedotto in maniera così prepotente e così intima? «Ci ho provato. Ci sono ragioni profonde che sfuggono anche a me. Sarà tutto merito di Doris, un merito che non le ho mai riconosciuto, poveretta. Mamma mia! (esclama in italiano; Richards chiama genitori e nonni col nome di battesimo). Ma è vero che ho avuto un rapporto, come dice lei, intimo, con la chitarra, anche con le sue forme, così sinuosa com’è potevo dormirci, e lo facevo. Con il sesso ho preso confidenza molto tardi, con le donne ancora più tardi, e fondamentalmente mi considero monogamo. A modo mio lo ero anche con le groupie, non è mai stato sesso e basta». Già, lo racconta anche nel suo libro, non ha mai fatto il primo passo. Era il classico figlio unico viziato? «I figli unici crescono più in fretta perché vivono costantemente a contatto con gli adulti, ascoltano i loro problemi, non hanno fratelli con cui cazzeggiare per casa. Certo, ero il cocco di mamma. Se bussavano alla porta per venderci qualcosa io diligentemente rispondevo: mamma ha detto che non abbiamo bisogno di niente, arrivederci. Con mio padre non ci siamo visti per anni dopo il divorzio, ma alla fine siamo stati molto vicini. Fu un pezzo dopo, durante il tour americano di Tattoo you, nel 1981». Nonsaràmica veroche ha sniffato le ceneridellacremazione?Fudavvero«Ashesto ashes, father to son», cenere alla cenere, dipadre infiglio, comescrive in“Life”? «Ne ho sniffato solo un residuo che era caduto sul tavolo quando dopo sei anni aprii l’urna per spargerle sotto la quercia, come lui avrebbe voluto». Bob Dylan dice sempre ai giovani artisti, «se ti allontani dal blues sei fottuto». Qual è il motivo per cui resta ancora oggi il grande riferimento transgenerazionale, che si tratti di Kurt Cobain, di Jack Whiteo dei Black Keys? «Quel che dice Bob in materia di musica è legge. Grazie a Dio c’è stato anche un momento in cui il blues era tremendamente di moda, tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, quando impazzivamo per John Lee Hooker, Muddy Waters, B.B. King e Buddy Guy. In altri periodi il blues non è stato così in primo piano, ma è sempre rimasto strettamente connesso alla popular music, proprio per le ragioni che lo hanno generato, la sofferenza, la nostalgia, la sopraffazione, la necessità di creare un linguaggio che alleviasse la pena e la fatica e fosse incomprensibile agli schiavisti. E non c’è solo Africa dentro, nei blues risuona la musica tzigana e il suono della balalaika, e misteriosamente anche qualcosa che mi è capitato di ascoltare in Cina. È impossibile classificarlo, catalogarlo, pontificare come in Inghilterra fecero certi critici stolti che violentemente erigevano mura intorno alla purezza del jazz o del blues – due forme tutt’altro che pure, tanto che anche la musica pop europea ha strette connessioni col blues». SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE Repubblica Nazionale 2015-08-30 LA DOMENICA la Repubblica DOMENICA 30 AGOSTO 2015 32 Lacopertina.StreetFightingMan Il rapporto con gli “amici” Beatles «Ne parlavo con John e Paul: Sgt. Pepper? È un disco di merda. Non posso dire la mia?» N <SEGUE DALLE PAGINE PRECEDENTI EL DISCO c’è an- sazioni particolari? «Volevo incidere una classica canzone folk americana. Se ho scelto questa è perché Tom Waits, mio buon amico, mi ha mandato un libro su Leadbelly (A life in picture, Ed. Steidl, 2007; Tom Waits aveva ripreso Goodnight Irene l’anno prima nell’album Orphans: Brawlers, Bawlers & Bastards). Mi arrivò insieme a una dodici corde che avevo appena acquistato. L’associazione tra le due cose fu immediata: devo incidere Goodnight Irene. È legata alla mia infanzia, Leadbelly la registrò nel 1933, in Inghilterra arrivò sull’onda del blues revival. Solo più tardi avrei capito che in quelle cose che chiamavamo americane di America non c’era niente. Il paese è un miscuglio di razze. Questo e solo questo mi affascina degli Stati Uniti: al contrario dell’Europa, ne riconosci l’identità attraverso la musica più che attraverso la letteratura o la pittura. È qualcosa che sfugge ai leader, che il potere non può controllare, una delle pochissime. Nessun dittatore può imbrigliarla. È zona franca, l’unica che ci resta». Leadbelly ebbe una vita molto travagliata. Non diversa dalla sua, considerando che per anni lei ha dormito con la rivoltella sotto il cuscino… «Ma non l’ho usata (ride da pazzi). Leadbelly aveva il coltello facile. E magari il bianco che aggredì se lo meritava anche, chissà… Ma immagini quale potere doveva avere la musica di quel motherfucker per convincere il direttore del carcere a condonargli parte della pena» Come reagì la prima volta che andò in tour con gli Stones nel Sud degli Usa e si rese conto che i suoi idoli subivano ancora quell’umiliante segregazione? Anche voi ne foste in qualche modo vittima: vi chiamavano frocetti laggiù, solo perché eravate capelloni. «Ricordo in particolare una serie di concerti in South Carolina, tra il ’64 e il ’65, mi pare ci fossero con noi Chuck Berry e Bo Diddley. Ci spostavamo in bus tutti insieme, bianchi, neri, chi se ne fregava? Ci fermammo in un punto di ristoro e stavo per entrare con i fratelli nel wc quando uno di quei fottuti mi fermò e mi indicò la scritta sulla porta, “colored only” (“ingresso riservato ai neri”). Bastardi, gridai. E pisciai tra i cespugli. La schiavitù era ancora lì dietro l’angolo». C’è un blues col quale ha identificato la sua follia di rocker? «Credo che Still A Fool (“Ancora pazzo”) di Muddy Waters sia la canzone che rappresenta quel che lei intende. È un brano che incise alla fine degli anni Quaranta e fu riciclato dentro quella Rollin’ Stone che noi gli scippammo per dare un nome alla band». “Trouble”, tormento, è una canzone del nuovo cd ma anche una parola chiave nella sua storia personale. Ora, guardandosi indietro, i guai che ha avuto – droga, arresti, processi – sono stati una spinta o un freno alla creatività?. «L’origine di tutti i miei problemi è stata la droga. Ha fatto bene, ha fatto male alla musica? Non lo so. Di certo posso assicurarle di non aver scritto le mie cose migliori sotto l’effetto dell’eroina, men che meno Satisfaction – cinquant’anni fa. Perché lo facevo? Volevo sperimentare, ho usato il mio corpo, il mio cervello, come un laboratorio. Ho voluto essere Dr Jekyll e Mr Hyde, me ne fregavo delle implicazioni sociali. Ci sono sempre stati drogati nella storia, e nella storia delle arti, gente che ha provato, è andata avanti, ci ha lasciato le penne, ci ha LE FOTO DA SINISTRA: KEITH CON MUDDY WATERS A CHICAGO NEL 1981; CON PATTI HANSEN A NEW YORK NEL 1980. NELL’ALTRA PAGINA:CON ERIC CLAPTON E JOHN LENNON DURANTE IL ROCK’N’ROLL CIRCUS NEL 1968; GLI STONES AL CIRCO MASSIMO IL 22 GIUGNO 2014 FOTO DI Y.H./IMAGES/GETTY FOTO DI MICHAEL HALSBAND/LANDOV che la cover di “Goodnight Irene” di Leadbelly, un leggendario menestrello, cercaguai come lei. È un brano che le ha riportato alla mentericordi e sen- dato un taglio. Ma poi ho scoperto che il vero test lo fai su te stesso quando sei lucido». Altri non ci sono arrivati. «La parola moderazione può sembrare un paradosso pronunciata da me. Ma se cerchi lo sballo sempre più grande rischi grosso, soprattutto dopo i periodi di disintossicazione è fatale assumere dosi massicce. Fu il motivo della mia rottura con Anita, avevamo deciso di smettere invece scoprii che si faceva più di prima». Le è mai mancata la normalità in questi decenni travolgenti? O ha dovuto sacrificare qualcosa per arrivare al punto in cui è, un mito e un’icona per più di una generazione? «Non saprei. Cosa ho sacrificato? Una interminabile, noiosa vita familiare? (risata furbesca) Piuttosto qualche volta mi sono sentito un martire; la gente, il pubblico, mi ha dato la libertà di essere Keith Richards, nel bene e nel male. Nei momenti più duri, mi è capitato di pensare: hey, ma fin dove volete che arrivi? È come se mi avessero dato il lasciapassare per una vita parallela va’ avanti e dacci quel che ci piace. Non riesco a immaginare cosa sarei oggi se non fossi un Rolling Stone. Non penso di essere un genio né di essere il Re Mida del rock. Ci ho lavorato, e anche sodo, ma ho anche lavorato con gente brava. E dopotutto nonostante gli alti e i bassi siamo ancora amici». Nella sua biografia ribadisce più volte che non cercava né fama né denaro quando formò i Rolling Stones ma che era solo ingordo di musica. Dev’essere stato fastidioso affrontare l’isteria dei primi anni, il glamour e anche la «detestabile attrazione» - parole sue - che Mick aveva/ha per il jet set. «Ma lo sa che nei concerti dopo Satisfaction le urla delle ragazzine sovrastavano la Repubblica Nazionale 2015-08-30 la Repubblica DOMENICA 30 AGOSTO 2015 33 musica? Brian Jones suonava il motivetto di Braccio di Ferro e nessuno se ne accorgeva in quella bagarre. Quanto al resto, l’ho sempre vissuta come una distrazione. Era inevitabile che accadesse con uno showman come Mick, così naturalmente esibizionista. Era pronto per gli stadi già quando muovevamo i primi passi al Marquee di Londra. È stata una crescita naturale, non puoi restare insensibile se una figa pazzesca ti lancia le mutandine, non puoi restare indifferente alle lusinghe di un regista come Jean-Luc Godard, non puoi chiudere la porta del camerino a Lee Radziwill (la sorella di Jackie Onassis) o Truman Capote, non puoi pretendere di esibirti al Circo Massimo – che serata ragazzi! - e snobbare il sindaco di Roma». Ha qualche rimpianto per non essere stato più prolifico come solista, soprattutto negli anni in cui Mick si era invaghito di Bowie e era tentato dalla disco music? «Prolifico è una strana parola per un musicista. Scrivo canzoni a getto continuo – mi vengono anche nel sonno – ma ovviamente la band ha sempre avuto il meglio. Io scrivo e basta, devo farlo. Se ora ho inciso questo disco è perché non mi andava di restarmene con le mani in mano. Lo studio di registrazione è la mia seconda casa. Non FOTO GETTY Le bizzarre letture nel tempo libero «Mi piacciono Patrick O’Brian e Voltaire. Ho provato Mein Kampf, che noia mortale!» dico la prima altrimenti mia moglie si arrabbia. Per dedicarmi a lei e alle figlie ho evitato di avere una postazione domestica. Sa cosa vorrebbe dire avere dei musicisti per casa tutto il tempo? Altro che una canna la mattina! Ma a casa scrivo, scrivo incessantemente, come facevo agli esordi con Mick, quando il nostro primo manager ci chiudeva a chiave in cucina per costringerci a produrre nuove canzoni». Dopo “Life” ha avuto il tempo di narrare la sua infanzia in un audiobook, “Gus and Me”, dedicato a suo nonno, che le fece scoprire la chitarra. Sarebbe mai di- ventato l’artista che è senza l’incoraggiamento di Gus? «Senza le sue curiosità e la sua generosità non avrei mai messo le mani su una chitarra. Ne aveva una in casa, appoggiata come un cimelio sul piano verticale. Mi disse: quando sarai alto abbastanza la prenderai da solo. E così andò, non ha mai preteso di insegnarmi nulla ma mi punzecchiava continuamente. Aveva capito che con me l’autorità non funziona. “Chi sa suonare uno strumento ha un amico in più nella vita”, mi diceva sempre. Era stato un artista in gioventù, la sapeva lunga». IL DISCO LA COPERTINA DEL NUOVO ALBUM SOLISTA “CROSSEYED HEART” DI KEITH RICHARDS IN USCITA IL 18 SETTEMBRE ‘‘ UNA CANNA LA MATTINA? SCANDALO! MA CAZZO, SONO KEITH RICHARDS, COSA SI ASPETTANO DA ME? SÌ, È VERO HO FATTO UN DISCO, NE FACCIO DI RADO. TRE ANNI FA, MI RESI CONTO CHE NON FACEVO NIENTE DA TROPPO TEMPO. DOVEVO PER FORZA FARLO USCIRE ADESSO PERCHÉ ALLA FINE DELL’ANNO I ROLLING STONES TORNERANNO IN STUDIO PER FARE UN NUOVO ALBUM. HMM, FORSE NON DOVEVO DIRLO? ,, Come reagì Gus quando i Rolling Stones scatenarono quel putiferio? «Rideva come un pazzo quando gli raccontavo quel che succedeva sotto il palco, di tutte quelle ragazzine che rientravano col fidanzato e poi sgattaiolavano da casa in piena notte per venirci a cercare. La follia cominciò molto presto, in un pub di Hampstead intervenne la polizia perché un gruppo di teenager scatenate si avventarono su Mick. Ci rifugiammo in una macchina. Mentre cercavamo di svignarcela udii il suono di un violino e vidi dal finestrino il nonno che si faceva largo tra quelle invasate suonando e ammiccando. Ci marcava stretto». Ora anche lei è nonno. Come è Keith Richards quando non è in tour con gli Stones? Un uomo di casa? «Sì, finalmente! La famiglia è cresciuta a dismisura, ho cinque nipoti, non mi annoio. E poi ho i miei libri per i momenti di solitudine, sono un lettore vorace, adoro le biblioteche, la nostra memoria. Mi piace Patrick O’Brian ma anche Voltaire. Mi sono avventurato persino nel Mein Kampf, che noia mortale, non sono riuscito a finirlo, oltre a tutto il resto Hitler era anche un pessimo scrittore». Soffrì davvero così tanto quando a tredici anni la espulsero dal coro? «Fu come se mi avessero ucciso. Io e i miei amici Spike e Terry eravamo i soprano migliori. Poi la voce cambiò – esplosione ormonale, capisce? – e addio sogni di gloria. A scuola ci fecero perdere l’anno perché avevamo dedicato troppo tempo al coro e poco allo studio. Da quel momento il mio unico obiettivo fu quello di farmi espellere. Ci misi due anni ma ci riuscii. Lì iniziò il mio rifiuto dell’autorità che da adulto si sarebbe tradotto in un costante corpo a corpo con poliziotti e giudici. “Yes sir” diventò per me la frase più odiosa da pronunciare. Capisce ora perché sono stato sempre perseguitato dai poliziotti? Erano appostati fuori casa anche quando non c’era ombra di roba in giro». Magari senza quell’umiliazione sarebbe stato più attratto dal canto che dalla chitarra e sarebbe cambiato tutto. «Non me ne parli, sono ancora incazzato, non c’è nulla che io avrei potuto imparare da quella gentaglia. Era una scuola di merda, tutte le scuole più o meno lo sono. È un bel culo trovare un insegnante come si deve. I miei maestri erano appena tornati dalla guerra, e non si può direcerto che andassero troppo per il sottile». Le è mai capitato durante la carriera di provare quella stessa umiliazione? «Oh sì. Ci hanno pensato i poliziotti a riaprire la piaga di volta in volta. Ma a quel punto, devo dire, avevo ormai prodotto gli anticorpi. C’erano milioni di persone là fuori pronte a scendere in piazza e gridare, liberate Keith!». E d’altro canto, si è mai sentito insicuro in questo mezzo secolo? Ha mai tremato all’idea che la sua musica potesse perdere il contatto col pubblico? Durante la furia del punk, ad esempio. «Questo ha incrinato la mia amicizia con Mick: è ridicolo andare a caccia di celebrità, assurdo. Se lo fai t’impantani in mille insicurezze. Al contrario di lui, sono sempre rimasto incollato ai miei principi musicali. Devi essere quel che sei, svecchiare il suono è un’illusione. Questo ha salvato gli Stones, lo spirito di gruppo e il fatto di restare fedeli a se stessi. Mick s’illudeva di vendere milioni di dischi come solista, ma poi è tornato all’ovile». Da ragazzi si pensava che il R&R fosse musica per giovani ribelli, che tutto si sarebbe esaurito nel giro di una generazione. Pare di no a giudicare dagli Stones, da Dylan, da Paul McCartney. E non è ancora revival. «Chi lo pensava? Non io. Per me il rock & roll è sempre stato per tutti, fin dall’inizio. Avvertivo qualcosa di profondissimo, di sconvolgente in quel ritmo. Mai pensato che fosse musica usa e getta. Non ho mai trovato un duplicato di quella chiave che apre l’anima». ©RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2015-08-30 LA DOMENICA la Repubblica DOMENICA 30 AGOSTO 2015 34 Iluoghi.CalleMiguelClaro1359 Un pianoforte che suona da solo, tre strane sorelle e il miracolo dei seicento “asilados”. Ecco perché è l’ambasciata italiana a Santiago del Cile la villa del celebre romanzo di Isabel Allende La vera casa degli spiriti “LA CASA DEGLI SPIRITI” IN UN BOZZETTO DI DOMINGO SANTA CRUZ MORLA, FIGLIO DI WANDA, UNA DELLE DUE SORELLE MORLA IL ROMANZO PUBBLICATO NEL 1982 (IN ITALIA DA FELTRINELLI), “LA CASA DEGLI SPIRITI” DI ISABEL ALLENDE RACCONTA UNA SAGA FAMILIARE AMBIENTATA NEL SECOLO SCORSO E ISPIRATA ALLE VICENDE FAMIGLIARI DEL PRESIDENTE CILENO ASSASSINATO DAI GOLPISTI NEL 1973 Repubblica Nazionale 2015-08-30 la Repubblica DOMENICA 30 AGOSTO 2015 L BRUNO ARPAIA A “CASONA” al numero 1359 di calle Miguel Claro occupa un’intera cuadra, tutto un isolato del quartiere residenziale di Providencia a Santiago. È una grande villa bianca immersa in un parco, con una dépendance, due campi da tennis e una piscina, circondata da quattro stradine alberate e tranquille che corrono lungo il muro di cinta. Dal 1953 è la residenza dell’ambasciatore italiano, poi, dal 1986, è diventata la nostra sede diplomatica in Cile. E lo è tuttora. Ma quella villa appartata e silenziosa è stata incredibilmente al centro di innumerevoli storie e leggende, di eventi cruciali del “secolo breve”. Si racconta perfino che i suoi muri abbiano visto cose che noi umani fatichiamo a immaginare. Costruita nella seconda metà dell’Ottocento, la villa appartenne a personalità di rilievo della società cilena, finché, nel 1906, come racconta l’attuale ambasciatore italiano Marco Ricci, «diventò proprietà di Manuel Antonio Maira. La moglie del nuovo proprietario, Carmen Morla, aveva due sorelle, Ximena e Wanda, e tutte e tre erano molto note in Cile per le presunte virtù medianiche e la loro adesione alle dottrine teosofiche». Erano donne colte, libere, irriverenti in un’epoca in cui era difficile esserlo, che svolsero un importante ruolo nella modernizzazione del Paese. Hanno lasciato libri, diari, quadri, articoli, ma sono ricordate in particolare per le loro sessioni di spiritismo. Nel suo libro Guía mágica de Santiago, César Parra racconta che le Morla evocavano i morti, avevano lampi di preveggenza, «erano capaci di far spostare lungo i rumorosi corridoi della casona pianoforti, tavoli di pranzo e altri catafalchi». E infatti nel romanzo di Isabel Allende, La casa degli spiriti, le Morla diventano “le sorelle Mora”, mentre la casa in cui operavano viene chiamata la “casa dell’angolo”. Ma quale fu davvero la casa che ispirò la Allende? Le ipotesi in campo sono molte. César Parra sostiene che fu la villa della scrittrice Inés Echeverría, in avenida Salvador, altro luogo che in quegli anni ospitò intense sedute spiritiche. Ma forse le cose non stanno proprio così. La seconda ipotesi è avvalorata dalla stessa Isabel Allende, la quale racconta che sua nonna, Chabela Barros, trascorse la vita immersa nei fenomeni paranormali e cercando di mettersi in comunicazione con l’aldilà; dice di avere vagamente tratto ispirazione per il libro dalla propria casa di famiglia in calle Cueto, una casa che però non ha mai conosciuto. Resta dunque in piedi una terza ipotesi: la nonna di Isabel Allende e Inés Echeverría erano intime amiche delle sorelle Morla e probabilmente partecipavano alle sedute proprio nella villa di Carmen in calle Miguel Claro, il vero epicentro del mondo spiritico santiaghino. Lo conferma adesso un’altra scrittrice, Elisabeth Subercaseaux, nipote di Ximena Morla. Nel suo libro Las Morlas descrive una dimora impregnata di «una forza magnetica», in cui i campanelli e gli strumenti musicali suonavano da soli. «Mia nonna Ximena» ha dichiarato, «aveva una personalità potente, affascinante, diversa da tutte le donne che ho conosciuto. Era molto amica di Inés Echeverría e della nonna di Isabel Allende, ed è possibile che abbiano fatto sedute spiritiche anche nella casa di avenida Salvador. Ma nella mia famiglia si è sem- ‘‘ LE IMMAGINI NELLA PAGINA A SINISTRA, “LA CASA DEGLI SPIRITI” IN UN BOZZETTO DI DOMINGO SANTA CRUZ MORLA (FIGLIO DI WANDA, UNA DELLE DUE SORELLE MORLA RITRATTE NELLA FOTO QUI ACCANTO). IN BASSO: LA SEDE OGGI DELL’AMBASCIATA ITALIANA A SANTIAGO DEL CILE, AL 1359 DI CALLE MIGUEL CLARO; SOTTO, LAFOTO DELLA RESIDENZA NEL 1919 E, A SEGUIRE, I MILITARI DAVANTI ALLA PORTA DELL’AMBASCIATA NEL PERIODO IN CUI SEICENTO PERSONE VI SI RIFUGIARONO ALL’INTERNO (1973) ...La sera di un venerdì bussarono alla porta della grande casa dell’angolo tre dame trasparenti dalle mani affusolate e dagli occhi di bruma, acconciate con cappellini ornati di fiori passati di moda e cosparse di un intenso profumo di violette silvestri, che penetrò in ogni stanzae lasciò la casa profumata di fiori per vari giorni. Erano le tre sorelle Mora... DA “LA CASA DEGLI SPIRITI” DI ISABEL ALLENDE (FELTRINELLI 1983, TRADUZIONE DI ANGELO MORINO E SONIA PILOTO DI CASTRI) pre detto che la casa in cui più si praticava lo spiritismo era quella di mia zia Carmen, l’immensa villa che si trova in calle Miguel Claro». Insomma, conclude l’ambasciatore Ricci, «se c’è una casa degli spiriti nella Santiago degli inizi del secolo scorso, questa è l’edificio attualmente sede dell’ambasciata». Si aggireranno ancora per quei saloni le ombre irrequiete evocate dalle Morla e raccontate da Isabel Allende e Elisabeth Subercaseaux? Il pianoforte suonerà ancora da solo nelle notti di Santiago? L’ambasciatore non lo dice, preferisce passare al successivo capitolo della storia della residenza, quando nel 1941 la casa diviene proprietà di Agustín Edwards Budge, discendente di una dinastia di banchieri e proprietario di una catena radiofonica, di venti quotidiani regionali e tre nazionali, tra i quali El Mercurio, il più importante giornale cileno. È proprio in quegli anni e in quella casa che Agustín Edwards Budge si adopera per introdurre in Cile le dottrine economiche neoliberali della scuola di Chicago. Ma è suo figlio, Agustín Edwards Eastman, a portare a termine l’opera, con uomini del Mercurio che preparano il programma economico della Giunta militare di Pinochet e che fanno di tutto per abbattere il governo di Salvador Allende. 35 In questa missione, lo stesso Agustín Edwards Eastman è in prima fila. Il 10 settembre 1970, nemmeno una settimana dopo la vittoria di Unidad Popular alle elezioni, è già negli Stati Uniti e, come risulta dai documenti declassificati della Cia e dal rapporto Church-Pike del Congresso, incontra Nixon, Kissinger e il direttore della Cia, Richard Helms, con il quale discute di una possibile «opzione militare» per abbattere il legittimo governo cileno. Per il Mercurio, inoltre, Edwards ottiene dagli Usa fondi diretti per quasi due milioni di dollari, per destabilizzare Allende con tutti i mezzi. È la stessa Cia ad assicurare che il giornale di Edwards «ha svolto un ruolo importante nella preparazione delle condizioni necessarie per il golpe militare dell’11 settembre 1973». Ma non è tutto. Durante il lungo inverno della dittatura, non soltanto El Mercurio copre tutte le violazioni dei diritti umani, le torture e le sparizioni operate dai militari, ma monta anche campagne giornalistiche in collaborazione con la polizia segreta di Pinochet. Famosa è, per esempio, l’”Operazione Colombo”, con la quale, per evitare al regime l’imbarazzo di dover rispondere ai parenti e alla Vicaría de la Solidaridad che esigevano notizie dei desaparecidos, il quotidiano inventò dal nulla la notizia che centodiciannove militanti del Mir si erano ammazzati fra loro durante uno scontro a fuoco in Argentina. Per fortuna, anche gli intoccabili qualche volta pagano, sebbene in ritardo e soltanto simbolicamente: nell’aprile scorso, infatti, Agustín Edwards Eastman è stato radiato dall’ordine dei giornalisti cileno. Probabilmente, però, piùche alle ombre evocate dalle sorelle Morla e alle vicende pre-golpe, la “casa dell’angolo” di Isabel Allende deve molto a unaltroepisodioavvenutonellanostrasedediplomatica.I perseguitati dalregime cileno che, come fantasmi, si aggirano per La casa degli spiriti sono stati davvero accolti in quella che allora era la residenza dell’ambasciatore italiano. Nei mesi successivi al golpe, infatti, circa seicento persone saltanoilmurodi cintaesilascianocaderenelparco della casona di calle Miguel Claro. I funzionari dell’ambasciata(traiqualiPietroDeMasi, Roberto Toscano, allora al suo primo incarico, ed Emilio Barbarani, sopraggiunto in seguito) le accolgono e iniziano le trattative per ottenere un salvacondotto, ma le relazioni con i militari sono pessime: l’Italianon riconosce la giunta golpista, non ha un ambasciatore e Tomaso de Vergottini viene tolleratocome«diplomaticoitalianointransito».Avolte, per il salvacondotto bisogna aspettare uno o due mesi, altre volte ci vuole anche un anno. Intanto, fuori, i rastrellamenti continuano, ogni notte si sentono esplosioni e raffiche di mitra nelle strade vicine. Dentro, negli eleganti saloni della residenza, la gente si accampa come può. Agli asilados viene fornito il cibo e assegnata la metà di un materasso, mentre loro si organizzano: predispongono i turni in cucina, formano squadre divise per partiti d’appartenenza, nominano un servizio d’ordine, si danno da fare per intrattenere i bambini. Ce ne sono parecchi: troppo piccoli per saltare il muro, vengono portati all’interno dalla moglie di De Vergottini nel bagagliaio dell’auto, eludendo la vigilanza dell’esercito che fa la ronda attorno al parco della residenza. In quella prigione dorata, bisogna superare i molti momenti difficili, sopportare la sconfitta, sedare le risse tra le fazioni, guardarsi dai cecchini, ammaestrare la speranza, inventarsi la quotidianità. Nel bellissimo documentario di Tommaso D’Elia, Daniela Preziosi e Ugo Adilardi, Calle Miguel Claro 1359, Stefano Rossi racconta che guardava ogni giorno i progressi nella costruzione della palazzina di fronte alla residenza: «La mia vita passava, e quella palazzina era l’immagine del fatto che il mondo continuava a girare mentre la mia vita restava lì, immobile». Clara Leonor Szczaranski, oggi avvocata, racconta invece che ogni giorno, all’alba, saliva su un albero del parco per guardare fuori e partecipare, almeno a distanza, alla vita della sua città che si risvegliava. Eppure, alla fine, quelle seicento persone sono sfuggite alla morte, anche se hanno dovuto lasciare per molti anni il loro paese. È una delle pagine più belle dalla nostra diplomazia. Ed è stata scritta proprio lì, nella Casa degli spiriti, al numero 1359 di calle Miguel Claro a Santiago. ©RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2015-08-30 LA DOMENICA la Repubblica DOMENICA 30 AGOSTO 2015 36 L’officina.Segniforti Inventòla“grafica di pubblica utilità” checon luidivenne unaprofessione, unadisciplina e perfinoun movimento culturale.Finalmentericonosciuto I MICHELE SMARGIASSI Cioè, a fare pubblicità alla profilassi contro i pidocchi, si capisce: ma non cambia molto. Ah certo, i creativi delle grandi agenzie sono riusciti a rendere desiderabile la carta igienica e sexy i pannolini per signora; ma lavorare sui pidocchi, credete, è davvero dura. Massimo Dolcini però sapeva che anche questo era compito suo, così come “vendere” iscrizioni all’asilo, screening sanitari contro il tumore al seno, centri estivi per anziani, entusiasmanti convegni sulle “Prospettive di recupero dei centri collinari”. E in fondo si divertiva a farlo: basta guardare i suoi manifesti (adesso li trovate tutti insieme esposti in una grande mostra a Fano, ed è una festa per gli occhi). Se il nome di Dolcini, scomparso dieci anni fa, non vi suona all’orecchio come quelli dei grandi grafici al cui fianco è degno di stare, Albe Steiner, Bob Noorda, Bruno Munari, Armando Testa, Antonio Boggeri, c’è un motivo. Lui scelse di vivere, e di lavorare, in una città di provincia: Pesaro. Non per snobismo, non per pigrizia, ma per coerenza professionale, ideale, etica. Il simbolo della sua agenzia, Fuorischema, era una X, che però nel suo caso si legge “per”: Dolcini voleva lavorare per una comunità, per un territorio che potesse conoscere di persona, come un medico condotto. E proprio così si definì un giorno,“grafico condotto”, con la stessa dolce ironia che metteva nei suoi poster. Ma il ruolo che inventò per sé fu in realtà di un intellettuale al servizio della comunicazione pubblica. Se non il primo (il pioniere fu Steiner, che di Dolcini era stato insegnante al Corso Superiore di Arti Grafiche di Urbino, oggi Isia, con il suo famoso lavoro del 1970 sull’immagine coordinata del comune di Urbino, appunto), fu sicuramente il più integrale e coerente, un caposcuola: con lui, la “grafica di pubPIDOCCHI? SÌ, ANCHE I PIDOCCHI. PROVATECI VOI, A “VENDERE” PIDOCCHI. Dolcini ilgrafico condotto LA MOSTRA FINO AL DIECI SETTEMBRE SI PUÒ VISITARE A FANO, ALLA GALLERIA CARIFANO DI PALAZZO CORBELLI, “LA GRAFICA PER UNA CITTADINANZA CONSAPEVOLE” DEDICATA A DOLCINI blica utilità” divenne una disciplina, una professione e perfino una specie di movimento politico-culturale-professionale diffuso in tutta Italia, con tanto di Carta fondativa. Era l’altra grafica che quei giovani disegnatori d’assalto impugnarono come una bandiera a metà degli anni Settanta. L’altra réclame. Quella che non doveva vendere prodotti ma promuovere beni pubblici, che per target aveva non clienti ma cittadini, che lavorava non per il marketing ma per il welfare. Era una rivoluzione nella comunicazione istituzionale, ancora stagnante nella piombata monotonia degli editti ottocenteschi, quei manifesti fitti di minuscoli lunghi testi, stemmi araldici come unica illustrazione, e l’inutile perentoria parola AVVISO a tutte maiuscole. Grida manzoniane fuori tempo massimo, ingoiate, annichilite dagli aggressivi squillanti manifesti formato doppio elefante di una pubblicità commerciale che sapeva ormai fin troppo bene il fatto suo. Mentre una comunicazione pubblica in grado di farsi vedere, di “bucare” l’attenzione del passante, era tutta da inventare. Dolcini la inventò. I tempi erano maturi. Da amministratori di beni demaniali, i comuni si trasformavano proprio allora in gestori attivi del benessere dei cittadini, in fornitori di servizi, redistributori di reddito e opportunità e diritti. L’ondata di giunte di sinistra del ’75 apriva una stagione di utopie municipali, e tutto questo andava comunicato, promosso, propagandato. Dolcini faceva parte (anche ideologicamente, lo mostrano i suoi lavori per il Pci, le feste dell’Unità, la Cgil) di quell’onda. Consapevole fin dall’inizio che un grafico “di pubblica utilità” non do- Repubblica Nazionale 2015-08-30 la Repubblica DOMENICA 30 AGOSTO 2015 37 Un’altra pubblicità è possibile. Persino oggi ANNAMARIA TESTA “D Dalì, a Max Ernst. Ma quelli che ne uscivano erano messaggi semplici, gioiosi, lampanti ma non scontati, ironici, leggibilissimi ma non banali, equilibri perfetti di lettering essenziale e immagini-metafora, ma sempre quella sfumatura di sorpresa, insomma un flusso di “dirompente e giornaliera vitalità”, scrive Mario Piazza in un catalogo tutto da spillare: il revolver legato per l’appello “contro il terrorismo”, il rubinetto annodato per la campagna contro lo spreco d’acqua, per non dire del Rossini reinventato ogni anno (una volta in veste di muratore, con cazzuola e berretto di carta di giornale) per il festival musicale eponimo. La stagione della “grafica di pubblica utilità” non durò molto. Rimpiazzata dalla “comunicazione istituzionale”, perse la vena “progressista” per normalizzarsi fra i “servizi generali” delle amministrazioni. Negli anni della crisi delle autonomie locali non solo evaporò la vocazione sociale della grafica e si abbandonò la “costruzione di comunità” per via visuale, ma anche l’idea dell’immagine coordinata e riconoscibile di un comune non fu più ritenuta così necessaria. A Pesaro, un “grafico condotto” però continuò a lavorare per il pubblico, per le aziende private, e anche per se stesso, modellando ceramiche, vasi, pentole piatti dipinti a mano, in un anti-ideologico downshifting artigiano, tutti marchiati con una X. Sul tavolo di lavoro, la fotografia che aveva più cara, ricordo di un’utopia del lavoro collettivo “per”: lui, in posa tra gli attacchini comunali di Pesaro con i suoi manifesti sotto il braccio. ove c’è comunicazio ne, c’è grafica”, recita la “Carta del progetto grafico” che fissa i principi della Grafica di pubblica utilità. Logico: per catturare l’occhio, e per tenerlo incollato quanto basta alla pagina o al manifesto, ci vuole un segno forte o un’immagine attraente. La forma (caratteri, impaginazione) in cui si esprime il messaggio ne determina la percezione, la comprensione e l’efficacia. Per questo, in comunicazione, anche la parola scritta è così intimamente connessa alla componente grafica da diventare sempre una “parola immaginata”. La comunicazione che persuade – lo spiega Piattelli Palmarini nel brillante “L’arte di persuadere” – deve fare una cosa in più: sedurre, cioè condurre delicatamente a sé, e alle tesi proposte, i destinatari. Del resto lo diceva già Cicerone: l’oratore, per convincere, deve non solo spiegare o dimostrare, ma anche intrattenere ed emozionare. La grafica di Dolcini piace sia all’occhio sia all’intelligenza sia al cuore. Che parli di pace o di pidocchi, è pertinente, rispettosa e onesta, e così fresca che continua a sembrare nuova. Caratteristiche preziose per qualsiasi comunicazione: a maggior ragione per la comunicazione delle pubbliche istituzioni. Che vadano, dunque tutti a studiarsi la mostra di Dolcini: assessori che spendono decine di migliaia di euro per marchi turistici imbarazzanti come lo scriteriato “RoMe&You”. Funzionari che varano su stampa e web comunicazioni tetre o rutilanti ma indecifrabili, e poi si lamentano perché “la ggente non capisce”. Politici che lanciano rozzi messaggi presumendo che il pubblico sia deficiente. E sì, anche marketing manager convinti che per vendere basti trapanare i crani dei consumatori ripetendo “compra”. Una comunicazione persuasiva intelligente, rispettosa, divertente, bella da guardare e interessante da leggere, e dunque coinvolgente e convincente, si può fare. E si è fatta, qui in Italia, in una meravigliosa e dimenticata stagione tra metà anni ‘70 e metà anni ‘80. Per dire: giusto nel gennaio 1976 il nuovo quotidiano “La Repubblica” viene lanciato con una campagna pubblicitaria più coraggiosa e moderna di gran parte della pubblicità attuale. Che cos’è successo? Credo che si sia rotto un patto fiduciario tra committenti e comunicatori. Oggi la comunicazione si compra con gare al ribasso, come se si trattasse di tubature. E ha, spesso, l’espressività di un tubo. ©RIPRODUZIONE RISERVATA ©RIPRODUZIONE RISERVATA LE OPERE FOTO GRANDE: PUBBLICITÀ DEI CORSI DI GINNASTICA PER ANZIANI. SOPRA, IN SENSO ORARIO: CONTRO IL TERRORISMO; BANDO D’ISCRIZIONE AGLI ASILI DEL 1976; MANIFESTO PER LA “CAMMINATA PER LA PACE” DEL 1980. NELLA COLONNA A DESTRA DALL’ALTO: CAMPAGNE PER ACQUA E SINDACATO; UNA MOSTRA SUI VESTITI IN URSS NEGLI ANNI ’20 E CAMPAGNA PER LA CITTÀ PULITA veva affatto pensare di “vendere il comune ai cittadini”, né scimmiottare le tecniche della pubblicità commerciale adattandole a una finalità sociale, perché “il cittadino”, scriveva, “non è l’acquirente di un prodotto” ma il soggetto “di scelte responsabili, gestite razionalmente”. Niente persuasori occulti nella pubblicità per il cittadino, con lui non si può barare, “non può esistere manipolazione” nella comunicazione di pubblica utilità: sarebbe un autoinganno ridicolo, perché qui è il cittadino che informa se stesso sui propri interessi attraverso le proprie istituzioni. E il grafico allora si trasforma “da tecnico pubblicitario a operatore politico e culturale”. Ma serviva lo stesso un alto tasso di fantasia per evitare di cadere nella grafica post-sovietica, come quella partitico-sindacale tutta fatta di incongrui “triangoli e quadrati e frecce non si sa bene indirizzate verso che cosa” che Dolcini, comunista, detestava. Bisognava competere in originalità, genialità con le pubblicità commerciali, spalla a spalla sugli stessi muri, parlando a voce altrettanto chiara e forte, ma con un altro tono, riconoscibile a prima vista come diverso, amichevole, affidabile, “civile”. Il linguaggio che Dolcini inventò non era certo l’unico possibile: ma fece scuola. I campi di colori saturi e uniformi, le illustrazioni al tratto ripescate da incisioni ottocentesche e vecchi repertori tipografici, però ridisegnate con un tocco di surrealismo e un occhio alla pop art, riferimenti colti al fumetto d’autore francese, alla tipografica futurista, al dadaismo, a Christo, a Man Ray, a Repubblica Nazionale 2015-08-30 LA DOMENICA la Repubblica DOMENICA 30 AGOSTO 2015 38 Next.Futurama Abbiamovisto cose che voi umani... Derrick De Kerckhove LIBERTÀ/ Società trasparente o prigione? ‘‘ Derrick De Kerckhove è considerato l’erede di Marshall McLuhan. Ha diretto per 25 anni, fino al 2008, il Programma McLuhan in Cultura e Tecnologia alla University of Toronto. Teorico dell’intelligenza connettiva e del tribalismo digitale , all’Università Federico II di Napoli insegna sociologia della cultura digitale. LA TRASPARENZA PENETRA LA NOSTRA INTIMITÀ, MA ESSERE TRASPARENTI NON SIGNIFICA ESSERE LIBERI. C’È UN VERO RISCHIO DI FASCISMO DIGITALE ,, T UTTE LE SOCIETÀ TRIBALI, orali o digitali tendono a essere trasparenti. Per i membri di quelle orali, la comunità è più importante dell’individuo, e in queste società i singoli hanno poco da nascondere: la loro vita è orientata verso gli altri, non verso se stessi. La loro incapacità di sviluppare un’identità passa da quella di sviluppare una scrittura e attraverso essa prendere possesso del linguaggio. Nella cultura digitale le tribù si formano differentemente, sono tribù distribuite. Potremmo dire che la coda lunga (la nota teoria di Chris Anderson sulla redistribuzione nel mondo di internet, ndr) è una decrescente successione di tribù elettroniche. Il punto è che i loro individui sono al tempo stesso sia alfabetizzati, quindi hanno sviluppato un senso della loro personalità, sia resi trasparenti dall’analisi dei dati messa in campo dalle strutture economiche e di potere. Nel nuovo tribalismo prodotto dai network digitali, la trasparenza penetra ogni livello, compresa l’intimità, per non parlare dei conti in banca. Nella società tribale e trasparente del futuro avremo infiniti gradi diversi di libertà (e di prigione). La libertà dipenderà probabilmente dall’equilibrio fra la sicurezza, intesa globalmente, e l’autonomia. Essere trasparenti non significa non essere liberi, nella misura in cui la trasparenza sia una condizione comune a tutti. Al momento, chi governa il nostro curioso mondo ibrido fra virtuale/materiale/mentale, sono loro, i soliti sospetti: business e governi. La buona notizia è che si stanno affaticando su come gestire la trasparenza. In altri termini siamo ancora in un sistema centralizzato, ma il potere non è più centralizzato come in passato, è distribuito fino al punto di dover rispondere alle grida di protesta come nei recenti casi Swissleaks o Blatter-Fifa. Questo è il valore della trasparenza. Ad ogni modo c’è sempre una tentazione occulta da parte del potere per mantenersi al di là delle regole, quindi c’è un vero rischio di un fascismo digitale contro il quale, grazie a dio, c’è una resistenza pubblica e condivisa in atto. La domanda sociale e politica è: come governare in modo sicuro e legale un’infinità di tribù senza minacciare gli individui che le compongono? Il buon governo dipenderà proprio dalla capacità di avere regole condivise fra poteri e tribù. ©RIPRODUZIONE RISERVATA Glossario DATA MINING CRIPTOVALUTA BITCOIN UTILIZZARE UN MASSICCIO SET DI DATI (I “BIG DATA”) PER ESTRARNE INFORMAZIONI UTILI, AD ESEMPIO A SCOPO COMMERCIALE LE CRIPTOMONETE SONO VALUTE DIGITALI BASATE SULLA CRITTOGRAFIA, CHE CONSENTONO TRANSAZIONI ANONIME LA CRIPTOVALUTA PIÙ NOTA. LA INVENTA SATOSHI NAKAMOTO (PSEUDONIMO) NEL 2008. NON RICORRE A AUTORITÀ CENTRALI, USA IL PEER-TO-PEER Patricia De Vries DENARO/ Il Bitcoin è una trappola? ‘‘ Patricia De Vries coordina il progetto MoneyLab dell’Institute of Network Cultures di Amsterdam. Il rapporto tra digitale e denaro è al centro delle sue ricerche. Tra i casi studiati, il più clamoroso è quello del Bitcoin, la moneta elettronica indipendente e decentralizzata creata dal misterioso Satoshi Nakamoto IL BITCOIN NON È SOLO UNA VALUTA, È UNA VISIONE DEL MONDO. CHE FUTURO OFFRE? NASCE CONTRO IL SISTEMA MA DIVENTA ANCHE UNO STRUMENTO DI SPECULAZIONE ,, O GGI LA QUESTIONE PIÙ IMPORTANTE è capire se le criptovalute come i Bitcoin saranno adottate dalle grandi banche, se funzioneranno come monete complementari alla stregua dei punti bonus dei supermercati o passeranno al livello successivo diventando una vera e propria moneta ufficiale. Non si tratta di un problema meramente tecnologico, perciò non esiste una “soluzione virtuale”: la questione ha aspetti sociali, geopolitici legali e persino estetici. Consideriamo che la moneta virtuale da sola non ridistribuirà il reddito, non costruirà infrastrutture pubbliche né creerà nuovi modelli di sviluppo. Al tempo stesso, è vitale sostenere tutti i tentativi seri di critica e democratizzazione della finanza globale, virtuali o meno. Io ritengo comunque che economie alternative richiedano valute alternative. I Bitcoin hanno attirato molta attenzione, ma per noi dell’Institute of Network Cultures di Amsterdam la questione non è tanto Bitcoin sì o Bitcoin no (tutte le monete vengono usate anche per affari illegali), quanto se con i Bitcoin stia fiorendo una reale alternativa monetaria. Per il momento i Bitcoin si configurano in pura opposizione al sistema ufficiale, ma al tempo stesso ne riproducono alcune problematicità strutturali: sono uno strumento per le speculazioni di una piccola élite di avanguardia, di venture capitalist e esperti di informatica. Eppure i Bitcoin e più in generale le criptomonete sono comunque un tentativo di ripensare la finanza globale, di mettere in discussione il ruolo del denaro come medium di scambio e di creare monete affidabili e sicure in alternativa a quelle dei governi e delle banche centrali. Insomma i Bitcoin sono al tempo stesso valuta e visione del mondo. In un mondo in cui tutti movimenti di denaro si avviano ad essere tracciati, bisogna pensare a quale tipo di opposizione possa essere sostenibile per contrastare la cultura del potere monopolistico delle banche commerciali, all’interno un ambiente sorvegliato e monitorato attraverso il data mining, l’estrazione di informazioni da massicce quantità di dati. Forse quello che dovremmo fare è andare alla radice del processo: ripensare i fondamenti giustificativi di queste pratiche di controllo, come la paura, il razzismo e il nazionalismo. ©RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2015-08-30 la Repubblica DOMENICA 30 AGOSTO 2015 39 Cosaaccadrànelfuturoprossimo?Apocalitticiointegrati?Incubooutopia? Oggisembranoritornarealcunitemidellafantascienzaclassica dal“GrandeFratello”diOrwellai“Robot”diAsimov.Ilbloggerescrittore QuittheDoner(all’anagrafeDanieleRielli)haintercettatoquattrovisionari. Eccoquellochesonoriuscitiaintravedereconilorotelescopi sutrasparenza,economia,roboticaerealtàvirtuali Emanuele Micheli POTERE/ I robot hanno un lato oscuro? Emanuele Micheli è un ingegnere specializzato in robotica. Si occupa di robotica educativa, roboetica, design e la divulgazione. E’ nel consiglio direttivo della Scuola di Robotica, con cui collabora sin dal 2001, e partecipa a numerosi progetti di respiro europeo nell’ambito della robotica I ROBOT arriveranno nelle nostre case e città, lavoreran- no con noi e saranno di uso quotidiano come smartphone, tablet e pc. I cambiamenti che porteranno nella società saranno notevoli: cambieranno privacy, lavoro, relazioni; proprio come è successo per internet, siamo di fronte a un cambio di paradigma. Per questo, anni fa, i fondatori di Scuola di Robotica, Gianmarco Veruggio e Fiorella Operto introdussero nel mondo della ricerca il concetto di roboetica: l’unico modo per affrontare al meglio il cambiamento è fondare l’etica sull’educazione, la scuola. Solo per citare alcune delle questioni aperte, o che si apriranno: l’uso di droni in guerra che in maniera semi autonoma scelgono il bersaglio è accettabile? Oppure: un giorno potremmo avere cittadini di serie A con protesi robotiche che li renderanno più forti e veloci, e cittadini di serie B che non avranno accesso a queste tecnologie. Bisogna cercare di prevenire tutto ciò dirigendoci verso una ricerca aperta e capace di realizzare prodotti per tutti. Poi ovviamente c’è la questione del diritto alla protezione dei dati personali. Robot con telecamere e sensori, così come oggetti “intelligenti” nelle case, potrebbero sapere tutto di noi e condividere in rete dati sulla nostra vita che noi non comunicheremo volontariamente. Conosceranno abitudini, spostamenti e scelte. Le macchine in luoghi diversi potrebbero conoscerci così bene da prevedere i nostri movimenti e le nostre decisioni. Nel campo del lavoro la “rivoluzione robotica” ha permesso all’essere umano di dedicarsi a lavori più creativi e non basati sulla ripetizioni di gesti e azioni (come quello di Charlie Chaplin in Tempi Moderni). Eppure la crescita dell’uso dei robot nella nostra società sarà positiva solo se sarà accompagnata da una consapevolezza d’uso. Ovviamente automobili autonome o robot che ci assistono nella vita quotidiana hanno un lato oscuro. Tutto ciò che non sarà messo a disposizione di tutti potrà essere usato da pochi contro molti. Spesso il mio lato malinconico mi fa pensare a distopie in cui poche multinazionali saranno in grado di gestire i gusti, le scelte, i viaggi, la nostra vita quotidiana. Potranno farlo se la società che crescerà con le innovazioni sarà basata sulla mancanza di informazione e la passività. In tal caso non si tornerà neppure al luddismo: se lo sviluppo sarà avviato senza consapevolezza, i cittadini non avranno nemmeno gli strumenti per ribellarsi. ‘‘ I ROBOT HANNO UN LATO OSCURO, SAPRANNO TUTTO DI NOI: LE SCELTE, LE ABITUDINI... POTREBBERO PERSINO PREVEDERE LE NOSTRE DECISIONI, SIATENE CONSAPEVOLI ,, ©RIPRODUZIONE RISERVATA REALTÀ AUMENTATA INTELLIGENZA ARTIFICIALE INTERNET DELLE COSE “MEDIATA” DA UN PC O UNO SMARTPHONE, AGGIUNGE INFORMAZIONI MULTIMEDIALI ALLE NOSTRE PERCEZIONI ROBOT CAPACI DI COMPORTAMENTI INTELLIGENTI: NON FANTASCIENZA MA UNA REALTÀ. CHE APRE QUESTIONI ETICHE È GIÀ IL FUTURO PROSSIMO: SMART HOME, SMART CITY. TANTE LE POSSIBILITÀ, MA ANCHE I RISCHI PER LA PRIVACY Karan Singh INTERAZIONI/ Sarà simbiosi uomo-schermo? Karan Singh insegna Computer Science all’Università di Toronto. Qui codirige anche il DGP, laboratorio di ricerca su grafica e interazione uomo-computer. Singh si occupa di arte e percezione, il che include campi come la grafica interattiva, design e animazione, interfacce mobili, realtà virtuale O GGI INTERNET OFFRE una ricca e differenziata in- terazione non solo fra uomini e macchine, ma anche fra uomini e uomini. Interagiamo cioè, attraverso browser, social network e piattaforme di comunicazione, in modalità che prevedono ancora una chiara separazione fra rete e utente. Il mondo reale e il mondo di internet comunicano, ma rimangono separati. Lo schermo e l’uomo che lo usa restano due entità distinte anche se il cosiddetto “internet delle cose” e le tecnologie di realtà aumentata e realtà virtuale, renderanno inevitabilmente questa linea sempre più sfumata. Con il nostro progetto di realtà virtuale stiamo ripensando l’interazione su internet in modo che tutti gli aspetti che usiamo della rete diventino fruibili in unico setting multidimensionale. In altre parole, usando un kit per la realtà virtuale è possibile entrare fisicamente dentro internet, muoversi in tre dimensioni fra le pagine dei browser, i video di Youtube o i profili dei social network così come ci si muoverebbe dentro una casa. All’interno di questi ambienti le possibilità di integrazione sono varie. Si pensi alla strada aperta dai Google Glass, gli speciali occhiali in cui internet diventa “commento” alla realtà, aggiunto alla normale vista oculare: se internet è un intermediario fra le persone o fra persone e informazioni, allora stiamo cercando di rendere questo intermediario invisibile. Potremmo affermare quindi che in pratica, l’internet delle cose è già qui, infatti già molti degli oggetti che usiamo oggi sono capaci di comunicare con la rete e stanno cambiando il nostro modo di vivere, anticipano i nostri bisogni e ci informano sulle nostre responsabilità. L’aspetto positivo di tutto questo è che in futuro oggetti di questo tipo saranno ovunque, sempre più integrati e invisibili, e renderanno la nostra vita più molto più semplice per quanto riguarda molti aspetti pratici. Quello negativo è che creano effettivamente una dipendenza in una maniera che diminuisce la nostra abilità di pensare da soli. E questo è un pericolo da cui guardarsi: dovremmo prendere l’abitudine di fare ogni tanto di persona anche le cose che potremmo fare in maniera automatica, che saranno sempre di più. ‘‘ LO SCHERMO E L’UOMO SARANNO SEMPRE MENO DISTINTI. L’INTERNET DELLE COSE RENDE DIPENDENTI. GUARDATEVI DAL PERICOLO DELLA TROPPA AUTOMAZIONE ,, ©RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2015-08-30 LA DOMENICA la Repubblica DOMENICA 30 AGOSTO 2015 40 Sapori.Vicinoanoi CERTO, È PIÙ FACILE SDILINQUIRSI PENSANDO AL BOEUF BOURGUIGNON RISPETTO AI LIKROFI (RAVIOLI DI PATATE E PANCETTA SLOVENI). MA IL MEDITERRANEO È ANCHE QUELLO DI QUESTI PIATTI MENO NOTI CHE PERÒ POSSONO RISERVARE INASPETTATE SORPRESE 10 Piatti che non conoscete ALBANIA Pershesh Per festeggiare il Capodanno, tacchino farcito con mele e limone, burro sulla pelle e poi in forno. Alla fine, briciole di pane cotte con cipolla, grasso di cottura, noci e menta ANDORRA Trinxat Pancetta e sanguinaccio vengono dorati in olio aromatizzato con uno spicchio d’aglio, serviti insieme a cubetti di cavolfiore e patate lessati, scolati, spadellati nel grasso della pancetta HUMMUS Salsa a base di pasta di ceci e di semi di sesamo aromatizzata con aglio, succo di limone, paprica e olio di oliva Prosciutto in festa Dal 4 al 20 settembre, a Langhirano, la 18ma edizione del Festival del Prosciutto di Parma. Degustazioni, percorsi del gusto, visite ai laboratori e lezioni di cucina all’aperto con lo chef bistellato Tonino Cannavacciuolo CIPRO Kolokoti Fagottini di pasta fillo (o sfoglia), riempiti con dadini di zucca, uvetta, frutta secca, grano spezzato e spezie (cannella, finocchietto, eccetera), spennellati con olio e infornati Cibo per la mente Il 5 allo Slow Food Theatre il corto di Ermanno Olmi “Il Pianeta che ci ospita”, “per ricordare l’impegno dei popoli ricchi nel garantire cibo e dignità a ogni essere umano, per il principio di giustizia che regola la convivenza delle genti sullaTerra” A tutta birra Più di 30 i birrifici artigiani che dall’11 al 13 settembre partecipano alla III edizione del festival “Fermentazioni”, alle Officine Farneto di Roma. Seminari e laboratori, di cui due in collaborazione con Slow Food, focalizzati sugli abbinamenti birra-cibo GRECIA Dolmádes Imbottiti solamente di riso, oppure di riso e carne rosolata con erbe e cipolla, gli involtini di foglie di vite o verza vanno coperti d’acqua, limone, olio e cotti ben pressati LIBANO Falafel Attraversa le cucine mediorientali con poche varianti, la ricetta delle polpettine di legumi. Dentro, fave, ceci, aglio, cipolla, coriandolo, prezzemolo, cumino e pepe nero L’altro Mediterraneo. Giochi senzafrontiere incucina “S LICIA GRANELLO celti garzoni/al suo fianco tenean gli spiedi in pugno/di cinque punte armati: e come fûro/rosolate le coste, e fatto il saggio/delle viscere sacre, il resto in pezzi/negli schidoni infissero, con molto/avvedimento l’arrostiro, e poscia/tolser tutto alle fiamme. Al fin dell’opra/poste le mense, a banchettar si diero/e del cibo egualmente ripartito/sbramârsi tutti. Del cibarsi estinto/e del bere il desío, d’almo lïeo/coronando il cratere, a tutti in giro/ne porsero i donzelli, e fe’ ciascuno/libagion colle tazze”. Nel primo libro dell’Iliade, Omero racconta i festeggiamenti per il ritorno di Criseide, restituita al padre Criso da Ulisse. Uno dei tanti banchetti presenti nelle opere del poeta greco, Odissea in primis, con il protagonista costretto (suo malgrado) a testare usi e costumi culinari da una parte all’altra del Mediterraneo. Ricercatore alimentare involontario ma molto informato – dai formaggi del siculo Polifemo all’ambrosia della spagnola Calipso – Ulisse simbolizza meglio di chiunque altro il senso della conoscenza itinerante e delle radici comuni che animano la prima edizione dei Giochi del Mediterraneo sulla spiaggia, in corso di svolgimento a Pescara fino al 6 settembre. In campo – anzi, sulla sabbia – quasi mille atleti, ventiquattro paesi e tre continenti coinvolti dal cimento sportivo. Ma accanto e intorno alle gare, cento eventi dedicati al confronto gastro-culturale in cerca di quella fratellanza troppe volte frantumata e umiliata. Per una volta, da Andorra all’Algeria, dalla Turchia alla Serbia, i rapporti internazionali vengono governati non da travagli politici o veleni diplomatici, ma dall’unione nel nome del mare nostrum e dei Repubblica Nazionale 2015-08-30 la Repubblica DOMENICA 30 AGOSTO 2015 41 “Mare nostro” di tutti i cibi: la mescolanza qui è Storia LIBIA Bazin Per la polenta tripolina, acqua, olio e sale portare a bollore, poi farina di grano o d’orzo senza mescolare. Dopo mezz’ora, si impasta e si formano delle pagnottine, servite con lo stufato FALAFEL Polpettine di legumi (fave, ceci o fagioli) speziate e fritte MACEDONIA Tavce gravce Fagioli lessati nel coccio con cipolla, aglio e carota. In padella, olio e farina a dorare, poi dentro paprica, menta, pepe e i legumi. Gratinatura in forno. Variante con salsiccia MALTA Gbejniet Nella versione fresca, invernale, latte di capra (a volte anche pecora) cagliato a 37°, salato e messo nelle fuscelle. In estate, si serve stagionato, aromatizzato con pepe ed erbe MONTENEGRO Pastrovski makaruli suoi cibi millenari. Se è vero che la storia della cucina è condivisione e scambio senza ansia di supremazia, il piacere vero di mettere insieme tanti paesi (vicini) – al di là delle competizioni – è gustare le sfoglie farcite di carne e verdure tra Grecia e Macedonia o le mille varianti delle polpettine di legumi che rallegrano le tavole di Libano, Egitto e Palestina senza classifiche né eliminazioni. Al contrario, passerella garantita per i menù di un Mediterraneo solo apparentemente minore, tenendo a bada l’orgoglio per la nostra trionfante tradizione gastronomica, che spesso impigrisce il palato e azzera la curiosità. Certo, è più facile sdilinquirsi leggendo la ricetta del boeuf bourguignon rispetto a quella dei likrofi (ravioli di patate e pancetta sloveni). Ma assaggiando i piatti, le sorprese sono infinite e non solo nei gusti. La gestualità delle donne che incocciano il cous cous, le mani che impastano il bazin libico, l’abilità della pasta lavorata al ferretto in Montenegro rimandano alla nostra stessa storia culinaria, spesso figlia delle stesse materie prime. Dicono che nel 338 a.C. durante l’assedio di Tebe da parte di Alessandro il Macedone, il cibo fosse così scarso che gli abitanti presero a vestire quel poco di farro, riso e verdure con le foglie di vite e di verza, per farlo sembrare più voluminoso e saziare l’occhio prima del palato. Stratagemmi che ritroviamo uguali nella nostra cucina di sussistenza, tra aringhe essiccate a truccare col loro odore le fette di polenta e la farinata di ceci a farcire il pane. E magari, assaggiare la tahina (squisita salsa a base di semi di sesamo) ci farà sentire un poco più vicini al martoriato popolo siriano. ©RIPRODUZIONE RISERVATA I maccheroni di grano saraceno si lavorano col ferretto per dare la forma caratteristica, lasciandoli seccare sul canovaccio per due giorni. Condimento con olio, feta e prezzemolo SIRIA Kibbeh Burghul (frumento integrale essiccato e tritato) ammorbidito, lavorato con carne di agnello o manzo, cipolla, sale e spezie (bharat), poi frullato. Si gusta crudo, fritto o grigliato Q MASSIMO MONTANARI UELLA MEDITERRANEA è una cucina fusion. I due concetti, per come amiamo pensarli, parrebbero antagonisti: la cucina della mescolanza, dell’ibridazione, della contaminazione contro l’identità gastronomica (frutto di una saggezza antica, di un rapporto forte con il territorio) delle civiltà cresciute attorno al Mediterraneo. Le cose non stanno esattamente così: il Mediterraneo è uno spazio geografico con elementi comuni, legati al clima e al paesaggio, ma su questo fondo comune si sono sviluppate civiltà, lingue, tradizioni (anche alimentari) diverse. Ciò che storicamente ha contraddistinto il Mediterraneo è stata semmai la sua vocazione — favorita dalla brevità dei tragitti da est a ovest, da nord a sud — a costituirsi come area di scambio fra uomini, prodotti, culture. Ecco il punto: l’identità mediterranea esiste solo nello scambio e nella condivisione delle diversità “naturali”. Essa nasce dalla storia più che (oltre che) dalla geografia. La denominazione mare nostrum, “mare nostro”, che i Romani diedero al Mediterraneo, esprimeva non solo una strategia imperialista ma anche una comunanza culturale. Nel Medioevo questo quadro entrò in crisi perché l’occupazione islamica dell’Africa, e di parte della Sicilia e della Spagna, trasformò il Mediterraneo da “lago interno” in un mare di confine; ma gli stessi arabi, esportando in Occidente nuovi prodotti, tecniche e sapori (agrumi, zucchero, melanzane, carciofi, riso, pasta secca, nuove spezie...), contribuirono a formare a un’identità mediterranea nuova, che univa insieme regioni di diversa cultura e religione (per esempio, nei Paesi europei del sud si affermò prepotentemente il gusto dolce, tipico anche della tradizione islamica). In età moderna, l’arrivo dei prodotti americani (pomodoro e patata, peperone e peperoncino, mais, cacao, ecc.) ridisegnò nuovamente l’identità mediterranea. Questa è dunque una costruzione storica mutevole, frutto di larghi percorsi di scambio, che nel corso del tempo hanno coinvolto l’Africa e l’Asia, l’Europa e l’America. Quella che, troppo semplicemente, oggi ci siamo abituati a chiamare “dieta mediterranea” è un’astrazione che solo in parte corrisponde a questa Storia. È un modello costruito a tavolino, a cominciare dagli anni Cinquanta, per motivi e per scopi ben precisi, di carattere medico-sanitario: trovare un correttivo alla dieta eccessivamente proteica e calorica dei popoli ricchi, cioè in primo luogo degli americani. Questo modello anche noi possiamo condividerlo, a patto di non ridurlo a regola nutrizionale, ma di pensare il cibo come realtà complessa, legata a una cultura, a uno stile di vita che i popoli del Mediterraneo hanno imparato a condividere, a modificare, a creare giorno dopo giorno. ©RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2015-08-30 LA DOMENICA la Repubblica DOMENICA 30 AGOSTO 2015 42 L’incontro.Vampire ‘‘ SONO STATA SUPER FORTUNATA A COMINCIARE A FARE QUESTO MESTIERE FIN DA BAMBINA SE NON TI PERDI PER STRADA QUESTO È L’AMBIENTE PIÙ ACCOGLIENTE E APERTO CHE CI SIA AL MONDO DICO DAVVERO Al festival di Venezia sbarca con un film di Drake Doremus, fresca di Woody Allen e reduce da Ang Lee. Ormai la pallida ragazza di “Twilight”, tremula principessina di “Biancaneve e il cacciatore”, a soli venticinque anni è tra le dive più corteggiate (e pagate) di Hollywood. Anche se, in un ristorante parigino sugli Champs Élysées attorniato dai paparazzi, lei fa quasi finta di non accorgersene: “Davvero, glielo giuro, non sono affatto interessata ai premi. Quello che davvero mi aspetto dici Speak di Jessica Sharzer (e suo primo amore, il partner Michael Angarano); diciassette Into the Wild di Sean Penn, a ventidue On the Road di Walter Sall’anno scorso figlia meravigliosamente indisponente di Julianne Moore in dal cinema, semmai, è di impa- ales, Still Alice di Richard Glatzer. E ora, a pioggia, un autunno d’autore: a metà ottobre nel nuovo film di Woody Allen, girato a New York, con Blake Lively, Bruce e Parker Posey («una telefonata e ero già sul set»); poi in Billy Lynn’s Long rare a fare la regista. Per il resto Willis Halftime Walk, voluta da Ang Lee; e tra poco in Equals, di Drake Doremus, in concorso a Venezia. La diva di Twilight sta sempre più allontanandosi dagli standard Usa: dopo aspetto solo di invecchiare: non Assayas, si prepara a una sua Europa? «Quel che cerco nel cinema americano è molto comune in Francia e in Europa, dove registi e attori si preoccupano di pora termine tra rischi d’ogni genere e con fede quasi religiosa quello in cui crevedo l’ora di avere anch’io qual- tare dono, anziché correr dietro a quanto li può rendere ricchi, famosi e carichi di premi. Pochi registi in America lavorano in questa prospettiva, appunto Drake Doremus o Woody Allen, che ha anche un vezzo tutto francese — ride: lascia che gli che annetto in più” attori se la sbroglino da sé». Dunque, a maggior ragione, lei andrebbe premiata: Kristen Stewart A MARIO SERENELLINI ‘‘ PARIGI le belle gambe, altalenando in alternanza l’una e l’altra. Tacchi a spillo. Pochi gesti delle mani, anche il viso controllato in espressioni d’ufficio, a parte studiate sottolineature da interprete nei passaggi più vivi. Tipo: «Capisco perfettamente quanti mi sbeffeggiano per la saga Twilight che mi ha lanciata, ma non smetterò mai di ripetere fino alla notte dei tempi: I’m fucking proud of it!» (alla lettera, ”ne sono fottutamente fiera”). Kristen Stewart, venticinque anni, californiana, attrice, musa di balocchi e profumi francesi (Balenciaga, Chanel), viene sempre più spesso a Parigi, dov’è ormai ospite fissa della Fashion Week e dove quest’anno ha ritirato il César per il miglior ruolo non protagonista in Sils Maria di Olivier Assayas, prima attrice americana a ricevere, choc della platea cine-nazionalista, l’Oscar francese: «Non potevo crederci. Questi Frenchies — ride — sono così rigidini, elemosinano con tale parsimonia i loro premi, specie agli americani. Oserei dire: meglio un Oscar qui che là, anche se onestamente non ho mai aspirato alla statuetta di Hollywood. In testa ho sempre avuto il lavoro, mai i premi. Giuro, il mio unico traguardo è di diventare regista!». Il suo celebrato pallore rischiara l’angolo appartato di Le Fouquet’s, sugli Champs Elysées, dove ci incontriamo. Borsa abbandonata sul tavolino accanto e smartphone sull’altro, l’assistente CCAVALLA, SCOSCIANDOLE DOCILMENTE, QUESTA È UN’INDUSTRIA, IL PETTEGOLEZZO SULLE CELEBRITÀ È SOLO UNA FORMA DI INTRATTENIMENTO: PERCHÉ MAI DOVREBBERO SMETTERE? TANTO PRIMA O POI SI STANCANO E RIVOLGONO LA LORO ATTENZIONE ALTROVE. PURTROPPO VERSO QUALCUN’ALTRA che non ci perde di vista un attimo, più lontano la guardia del corpo che è roccia immota, mentre sotto, in strada, fermenta il nugolo di paparazzi pronti all’assalto. Kristen ci è abituata: «È la nuova industria. Il pettegolezzo sulle celebrità è una nuova forma di intrattenimento: e un’enorme, redditizia fabbrica di denaro. Perché dovrebbero smettere ? È solo un fastidio per chi è preso di mira: ma a me piace troppo il mio lavoro, lo sento anche molto protettivo. E fortunatamente, prima o poi le preferenze si spostano». Pausa, risata: «Sfortunatamente, verso qualcun’altra!». Carriera iniziata a otto anni, quando un agente la vede nello spettacolino natalizio a scuola, e poi tutto a velocità massima: a undici anni Panic Room di David Fincher, dove è la figlia di Jodie Foster, altra scampata alla voragine degli attori-bambini; a tre- «Glielo ripeto, non sono una che pensa ai trofei. Sia chiaro, lo dico anche per autodifesa: ho ingoiato tanti di quei rospi (pronto eufemismo per alleggerire l’originario shit, ndr) che ogni volta mi ripeto: “la vincitrice non sono io, la vincitrice non sono io...!”. È così che mi sono abituata a prendere calci nel culo (ass, ndr)». Scusi? «Sa che nel film del mio Oscar francese ho fatto da tappabuchi alla Wasikowska, prima scelta del regista, ma già impegnata in Maps to the Stars di Cronenberg? E che, per le mie scene giudicate torride, The Runaways di Floria Sigismondi è stato proibito negli Usa ai minori? E io che, per calarmi interamente nel mondo del rock al femminile, avevo passato le notti a esercitarmi su una fucking (vedi sopra, ndr) chitarra!». La tremula principessina di Biancaneve e il cacciatore, incasso planetario che ne ha fatto tre anni fa l’attrice più pagata di Hollywood, adora colorare con interiezioni adolescenziali l’aura pallida che la circonda come cipria cinematografica. Una volta si diceva: linguaggio di strada. Ma è sul set e in clima di set che Kristen è stata svezzata: «Mio padre è produttore televisivo, mia madre sceneggiatrice. M’ha convinta subito la soddisfazione che vedevo nei loro occhi quando la sera tornavano a casa magari dopo una giornata di sedici ore di lavoro: era come se stessero rientrando da un’escursione di miglia e miglia in luoghi sconosciuti. Dove siete stati ? Che cosa avete trovato? Sentivo che dietro quel piacere c’era qualcosa d’entusiasmante. È stato così che devo aver deciso di diventare attrice e di non smettere mai di fare film. Volevo essere come loro. Mi son detta: lavorerò anch’io come un mulo (fucking hard, ndr). Dedizione assoluta, pur di poter risentire quell’odore di fogli che puzzavano di caffè rovesciato e sigarette che si portava addosso mia madre dentro il suo zainetto! Ma sa che ancora oggi, se ritrovo un oggetto che avevo in un dato film, posso arrivare a risentire l’odore del set? Con il mio naso posso letteralmente rimettere insieme tutti gli oggetti, gli abiti, gli attrezzi che sono stai usati durante le riprese. Pazzesco, no?». Fiutato subito il suo destino, Kristen va dunque a scuola fino ai tredici anni, poi prosegue per corrispondenza dati gli impegni su grande schermo aggravati da un lieve deficit di attenzione dovuto all’iperattività. E pensare che, alla vigilia del ‘‘ HO UN PADRE PRODUTTORE TELEVISIVO E UNA MADRE SCENEGGIATRICE. QUANDO TORNAVANO A CASA DOPO UNA GIORNATA DI LAVORO SEMBRAVA RIENTRASSERO DA UN VIAGGIO IN MONDI ANCORA IGNOTI gran passo, fu proprio la mamma a sconsigliarla: «Quando chiesi di iscrivermi alle audizioni è stata lei a darmi l’alt: “Sono alle prese ogni giorno con ragazzini che vogliono fare film. Tutti matti. Tu non hai nulla a che vedere con quella gente”. Aggiunga che, all’epoca, avevo l’aria d’un ragazzo mancato. Io e mio fratello eravamo identici, anche i miei vestiti preferiti erano maschili: andavo a scuola in tuta da ginnastica, dando l’impressione d’un maschietto strafottente. I miei primi problemi sono nati lì. Odiavo quei commenti maligni: “Uh, sai, non sembri per nulla…”. Per fortuna è stata una stagione breve. Come ho messo piede sul set nessuno più mi ha considerata un’anomalia. Il cinema mi ha restituito il mio temperamento, la mia identità. Mi sono sentita subito bene. Mi piacevo. Sono stata davvero fortunata a cominciare bambina questa professione: se non sbagli strada, è l’ambiente più accogliente e aperto che si possa immaginare. Nessuno mi ha mai forzata. Perciò deve credermi quando le dico che non ho mai fatto calcoli di carriera». Già al culmine della popolarità a soli venticinque anni, che si attende ancora dal cinema, a parte future regie ? «Aspetto di invecchiare. A differenza del resto delle attrici, che impazziscono quando temono d’imbalsamarsi un po’, io comincio a guardare lontano: giuro, non vedo l’ora di avere qualche anno in più. Mi sento talmente ripagata e felice per il passato. Attendo soltanto il futuro». Un attimo di silenzio, occhi puntati al soffitto, accavallamento e infine scroscio di risate: «Mi chiami quando avrò trent’anni, le assicuro, sarò in estasi». Soddisfatta di sé: «Quello che sono oggi è il risultato d’ogni singolo gradino, falso o mancante, che ho salito finora». Ma sembra un proverbio! «È così, è un fucking (ovviamente, ndr) proverbio». ©RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2015-08-30