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Keith Richards perché ilrock èmeglio delsesso

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Keith Richards perché ilrock èmeglio delsesso
DIREPUBBLICA
DOMENICA 30 AGOSTO 2015 NUMERO 546
Cult
La copertina La mistica della fisica
Straparlando Zoja: “Noi vittime della paranoia”
Mondovisioni Perdersi nelle notti hot di Istanbul
FOTO DI MARK SELIGER
“Nonvedevo
prospettive
quandopensavo
alfuturo. Finché non
ascoltaiMuddyWaters
etutti glialtri”
Keith
Richards
perché
ilrock
èmeglio
delsesso
GIUSEPPE VIDETTI
L’attualità. La vera casa degli spiriti di Isabel Allende L’officina. Massimo Dolcini, la grafica al servizio del cittadino Next. Come
sarà il futuro secondo quattro guru L’incontro. Kristen Stewart: «Non sono interessata ai premi. Aspetto solo di invecchiare»
Repubblica Nazionale 2015-08-30
LA DOMENICA
la Repubblica
DOMENICA 30 AGOSTO 2015
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Lacopertina.StreetFightingMan
Il trauma dell’espulsione dal coro a 13 anni
«Fu come se mi avessero ucciso: lì iniziò
il rifiuto per insegnanti, giudici e polizia»
C
GIUSEPPE VIDETTI
NEW YORK
ON
QUELLO
STRACCIO TRA I
CAPELLI e le ru-
ghe profonde,
sembra un chitarrista zingaro o un Cristo
sofferente
scolpito su un
tronco d’ulivo. Poi appena dopo l’intervento della procace truccatrice – che
congeda con un bacio non proprio casto - gli
occhi bistrati, jeans neri e camicia in seta a
piccoli pois tagliati di fresco dalle forbici
punk di Hedi Slimane, Keith Richards è
pronto per il pomeriggio da rock star a Manhattan (non in una delle solite tane da divo, un boutique hotel sulla Bowery, due
passi dall’ex CBGB’s, tempio del punk),
una fuga di due giorni dal Connecticut, dove vive con la moglie Patti Hansen. Consumato dalla vita on the road, segnato dalle
cattive abitudini, prosciugato dalle infinite
trascuratezze cui solo agli immortali è dato
sopravvivere, Keef (per gli amici) potrebbe avere i suoi 71 anni o i 969 di Matusalemme; nel rock è la maschera che parla, e la
sua è potentissima. Se ne frega degli slogan, di quello che han scritto su di lui, grande chitarrista posseduto da mille demoni o
Lucifero partorito durante un voodoo a base di blues. «Ma quale diavolo!», esclama
scoppiando in una risata catarrosa e subito
aspirando voluttuosamente dall’ennesima
Marlboro come fosse una riserva d’ossigeno, «l’unica volta che ne ho visto uno aveva
il volto del dentista. Era il mio incubo da
bambino, per colpa sua ho avuto per anni
una bocca sgangherata». Ora i denti sono a
posto, in America hanno fatto miracoli dopo che con l’eroina ci ha dato un taglio.
Quale che sia il suo interlocutore, Richards pretende normalità, confidenza, allegria. Continua a essere una star riluttante dopo cinquantatré anni da Rolling Stone
con oltre duecento milioni di dischi venduti, riff memorabili che hanno segnato in maniera indelebile la storia del rock (Gimme
Shelter e Jumpin’ Jack Flash sono solo
esempi), l’ennesimo trionfale tour mondiale concluso da pochi giorni, una mostra celebrativa in febbrile preparazione a Londra
(Exhibitionism, alla Saatchi Gallery dal cinque aprile al quattro settembre 2016),
un’autobiografia best seller a dir poco rivelatoria – Life (2010) che affettuosamente
chiama La Bibbia – un audiobook per bambini, Gus and Me, disegnato dalla figlia
Theodora, in cui narra la storia dell’adorato nonno materno e della sua prima chitarra, e ora un disco solista (il terzo) dopo
vent’anni, Crosseyed Heart, che esce il 18
settembre. «Tutto è strano come è sempre
stato, come deve essere», dice ridendo di
cuore. «Ho fatto un disco, ne faccio di rado.
Tre anni fa, avevo appena finito di scrivere
La Bibbia, mi resi conto che non facevo
niente da troppo tempo. Mi sentivo strano ormai so che quando la situazione si fa strana cominciano a materializzarsi buone cose. Scrivere un’autobiografia è vivere due
volte, una sensazione spaventosa, come andare dallo psicanalista suppongo (chi c’è
mai stato?)».
C’è un Keith professionale, composto,
paziente, che si sottopone alla sfilza di domande – registratore acceso. E c’è un Keef
divertente, ironico, buontempone che a microfono spento ha voglia di ricordare, montare e smontare leggende metropolitane,
beffarsi delle frasi a effetto che i «motherfucker» sparano come scoop: «Una canna la
mattina? Scandalo! Ma cazzo, sono Keith
Richards, cosa si aspettano da me? Sgt. Pepper un disco di merda? Blasfemo! Avrò ben
il diritto di esprimere un’opinione; fu quello il disco che ci costrinse a incidere nel ’67
Their Satanic Majesties Request, il più brutto album mai fatto dai Rolling Stones. Ne
parlavo anche con John (Lennon), un fratello, ne ho riparlato di recente con Paul
(McCartney), un amico». Dalla bocca rugosa espira una nuvola di fumo denso, ritratto perfetto del drago che Johnny Depp ha
voluto come padre nel film Pirati dei Caraibi - Ai confini del mondo e l’amico Tom
Waits ha raccontato in un poema: “Keith Richards può andare più veloce di un fax / La
sua urina è blu / Mani da spaccalegna /
Braccia da marinaio / Schiena da soldato /
Cervello da detective / Spalle da boxer / Voce da ragazzo del coro”. «Con Tom abbiamo
condiviso molte cose», mormora Richards,
e fa la lista di quelli che con lui hanno condiviso l’incubo della dipendenza – Gram Parsons, John Phillips dei Mamas and Papas,
John Lennon. «Brian Jones no, lui ne era
schiavo quando ancora non mi facevo. E io,
che gli avevo soffiato Anita Pallenberg, direi che non ero esattamente la persona giusta per dargli una mano».
Ha voglia di ricordare le scorribande romane degli anni Sessanta con la Pallenberg, che girava Barbarella a Cinecittà,
la Campo dei Fiori di Gabriella Ferri, che per Anita era come una
sorella, e il pittore Mario Schifano «con cui lei aveva avuto
un flirt in piena Dolce Vita.
Anita parlava cinque lingue e aveva accesso al jet
set, conosceva anche Felli-
ni, frequentava il giro del Living Theatre allora di stanza nella capitale». A Roma la ragazza aveva contratto quelle cattive abitudini ben prima
che Keith iniziasse il
suo match con l’eroina, così come Donyale Luna, indimenticata
top
model di colore
originaria di Detroit che Richards e Pallenberg frequentarono assiduamente
in quel 1967 (sarebbe morta di overdose nel 1979). Era il periodo in cui se una ra-
Odiol’autorità
Nondiròmai
“YesSir”
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la Repubblica
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FOTO DI DEZO HOFFMANN/REX
sogna mai contrastare gli interessi della band.
Avrei voluto pubblicarlo alla fine dell’anno
scorso, e Mick (Jagger): “Oh no, siamo ancora
in tour, aspetta cazzo!”. Così ho trovato un buco a settembre».
Vuol dire che gli Stones torneranno presto
in studio per un nuovo album?
«Con ogni probabilità sì, alla fine dell’anno
e nel 2016. Hmm, forse non dovevo dirlo... Io
comunque approfitto della pigrizia degli altri
(risata birichina). Ormai ognuno di noi ha i
suoi ritmi, da anni non abbiamo più date fisse
da rispettare se non quelle dei concerti. Niente più obblighi contrattuali per carità, né come solista né come chitarrista degli Stones».
Incredibile che il blues sia ancora un punto
di riferimento, che eserciti su di lei la stessa
suggestione degli anni in cui divideva i primi entusiasmi con Jagger, Brian Jones e
Charlie Watts, più di cinquant’anni fa.
«È l’amore della mia vita, più attraente del
sesso, delle droghe, delle donne. È la lingua
che parlo meglio e quella in cui meglio mi
esprimo. Tutti i suoni meravigliosi, degli anni
Venti, Trenta e Quaranta – big band comprese – proviene dal blues. È il centro della musica, e se c’è qualcosa di buono che l’America ha dato al mondo, l’unica per cui non possiamo
biasimarla, è il blues e la popular
music in generale. Fa parte della
mia struttura, è l’ossatura della
mia anima - non il midollo, quello
l’ho bruciato in altri modi, come
sa (risata diabolica)».
LE FOTO
IN ALTO DA SINISTRA:
KEITH RICHARDS A QUATTRO ANNI
CON LA SUA PRIMA BICI; CON I GENITORI
NEGLI ANNI CINQUANTA NEL DEVON
(DALLA BIOGRAFIA “LIFE”,FELTRINELLI,
PP. 524, 14 EURO). NELL’ALTRA PAGINA:
KEITH RICHARDS, HELMUT BERGER,
MARILÙ TOLO E ANITA PALLENBERG
A ROMA NELL’AGOSTO 1967;
MICK JAGGER E KEITH RICHARDS
AL PROCESSO DEL 1967
PER DETENZIONE DI DROGHE
DOPO L’IRRUZIONE DELLA POLIZIA
A CASA SUA DA CUI NACQUE
LA PRURIGINOSA STORIA DI MARIANNE
FAITHFULL (ALLORA FIDANZATA
DI JAGGER) E LA BARRA DI MARS:
«UNA LEGGENDA: ERO COSÌ FATTO
DI LSD CHE INVECE DI POLIZIOTTI
CREDEVO FOSSERO ENTRATI DEI NANI
TUTTI VESTITI UGUALI». VERRÀ
CONDANNATO A UN ANNO DI PRIGIONE
FOTO DI MARK SELIGER
gazza entrava nel clan degli Stones saltava
fatalmente da un letto all’altro (Marianne
Faithfull, girlfriend di Jagger, ancora ricorda con un certo rimpianto l’unica notte d’amore col chitarrista). Storie in parte narrate… in Life, una biografia unica nel suo genere, senza censure, come dovrebbero essere i libri di chi sceglie di raccontarsi. «È
stata La Bibbia a riscaraventarmi tra le
braccia del blues», spiega. «Questa volta
me la sono goduta in studio, non succedeva
dal 1991 - prima di Cristo?». Si spancia dalle risate, orientato, arguto, perfettamente
a suo agio nel ruolo del sopravvissuto. «Una
riunione tra amici: Aaron Neville, Norah Jones, Sarah Dash. Ma poi quando uno fa un
disco solista va incontro a mille problemi,
si capisce…».
Di che genere? Uno col suo potere ha carta bianca sempre e comunque.
«E invece no. Il primo problema è stato:
quando lo facciamo uscire? C’è sempre il tiranno con cui fare i conti,
i Rolling Stones,
non bi-
FOTO DI JOHN KNOOTE/REX USA
Amore e odio con Mick Jagger
«Si illudeva di vendere milioni di dischi da solo
ma è tornato all’ovile. Però resta il migliore»
Le ha salvato la vita. Non riusciamo proprio a immaginarla in un ufficio con un
lavoro dalle nove alle cinque e, a questo
punto, magari in pensione.
«No guardi, io per quella roba lì non sono
mai stato tagliato. Non avevo prospettive,
ero completamente perso quando pensavo
al futuro. Fino al momento in cui cominciai
ad ascoltare Muddy Waters e tutti gli altri:
voglio creare quei magici accordi, voglio
combinarli e ricombinarli fino all’esaurimento – e non c’è stata fine. Sono stato fortunato a imbattermi nella musica giusta,
quella che fa scattare la scintilla e, certamente nel mio caso, ti cambia la vita. Ma
poi ho anche avuto culo, dove sarei andato
senza Mick, il migliore frontman dell’ultimo secolo?».
Cosa ascoltava in casa da ragazzino?
«I dischi di Doris, mia madre. Billie Holiday, Ella Fitzgerald, Louis Armstrong. Allora non sapevo neanche fossero neri, non faceva differenza per me. Il ritmo sincopato è
il mio ritmo naturale, io sono il “roll” del
rock (ride a crepapelle)».
Si è mai chiesto, da adulto, come mai
quella musica l’avesse sedotto in maniera così prepotente e così intima?
«Ci ho provato. Ci sono ragioni profonde
che sfuggono anche a me. Sarà tutto merito di Doris, un merito che non le ho mai riconosciuto, poveretta. Mamma mia! (esclama in italiano; Richards chiama genitori e
nonni col nome di battesimo). Ma è vero
che ho avuto un rapporto, come dice lei, intimo, con la chitarra, anche con le sue forme, così sinuosa com’è potevo dormirci, e
lo facevo. Con il sesso ho preso confidenza
molto tardi, con le donne ancora più tardi,
e fondamentalmente mi considero monogamo. A modo mio lo ero anche con le groupie, non è mai stato sesso e basta».
Già, lo racconta anche nel suo libro, non
ha mai fatto il primo passo. Era il classico figlio unico viziato?
«I figli unici crescono più in fretta perché
vivono costantemente a contatto con gli
adulti, ascoltano i loro problemi, non hanno fratelli con cui cazzeggiare per casa. Certo, ero il cocco di mamma. Se bussavano alla porta per venderci qualcosa io diligentemente rispondevo: mamma ha detto che
non abbiamo bisogno di niente, arrivederci. Con mio padre non ci siamo visti per anni dopo il divorzio, ma alla fine siamo stati
molto vicini. Fu un pezzo dopo, durante il
tour americano di Tattoo you, nel 1981».
Nonsaràmica veroche ha sniffato le ceneridellacremazione?Fudavvero«Ashesto
ashes, father to son», cenere alla cenere,
dipadre infiglio, comescrive in“Life”?
«Ne ho sniffato solo un residuo che era caduto sul tavolo quando dopo sei anni aprii
l’urna per spargerle sotto la quercia, come
lui avrebbe voluto».
Bob Dylan dice sempre ai giovani artisti, «se ti allontani dal blues sei fottuto».
Qual è il motivo per cui resta ancora oggi il grande riferimento transgenerazionale, che si tratti di Kurt Cobain, di Jack
Whiteo dei Black Keys?
«Quel che dice Bob in materia di musica
è legge. Grazie a Dio c’è stato anche un momento in cui il blues era tremendamente di
moda, tra la fine degli anni Cinquanta e i
primi anni Sessanta, quando impazzivamo
per John Lee Hooker, Muddy Waters, B.B.
King e Buddy Guy. In altri periodi il blues
non è stato così in primo piano, ma è sempre rimasto strettamente connesso alla popular music, proprio per le ragioni che lo
hanno generato, la sofferenza, la nostalgia, la sopraffazione, la necessità di creare
un linguaggio che alleviasse la pena e la fatica e fosse incomprensibile agli schiavisti.
E non c’è solo Africa dentro, nei blues risuona la musica tzigana e il suono della balalaika, e misteriosamente anche qualcosa che
mi è capitato di ascoltare in Cina.
È impossibile classificarlo, catalogarlo,
pontificare come in Inghilterra fecero certi
critici stolti che violentemente erigevano
mura intorno alla purezza del jazz o del
blues – due forme tutt’altro che pure, tanto
che anche la musica pop europea ha strette
connessioni col blues».
SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE
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LA DOMENICA
la Repubblica
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32
Lacopertina.StreetFightingMan
Il rapporto con gli “amici” Beatles
«Ne parlavo con John e Paul: Sgt. Pepper?
È un disco di merda. Non posso dire la mia?»
N
<SEGUE DALLE PAGINE PRECEDENTI
EL DISCO c’è an-
sazioni particolari?
«Volevo incidere una classica canzone folk
americana. Se ho scelto questa è perché
Tom Waits, mio buon amico, mi ha mandato un libro su Leadbelly (A life in picture,
Ed. Steidl, 2007; Tom Waits aveva ripreso
Goodnight Irene l’anno prima nell’album
Orphans: Brawlers, Bawlers & Bastards).
Mi arrivò insieme a una dodici corde che
avevo appena acquistato. L’associazione
tra le due cose fu immediata: devo incidere
Goodnight Irene. È legata alla mia infanzia, Leadbelly la registrò nel 1933, in Inghilterra arrivò sull’onda del blues revival. Solo
più tardi avrei capito che in quelle cose che
chiamavamo americane di America non
c’era niente. Il paese è un miscuglio di razze. Questo e solo questo mi affascina degli
Stati Uniti: al contrario dell’Europa, ne riconosci l’identità attraverso la musica più
che attraverso la letteratura o la pittura. È
qualcosa che sfugge ai leader, che il potere
non può controllare, una delle pochissime.
Nessun dittatore può imbrigliarla. È zona
franca, l’unica che ci resta».
Leadbelly ebbe una vita molto travagliata. Non diversa dalla sua, considerando
che per anni lei ha dormito con la rivoltella sotto il cuscino…
«Ma non l’ho usata (ride da pazzi). Leadbelly aveva il coltello facile. E magari il bianco che aggredì se lo meritava anche, chissà… Ma immagini quale potere doveva avere la musica di quel motherfucker per convincere il direttore del carcere a condonargli parte della pena»
Come reagì la prima volta che andò in
tour con gli Stones nel Sud degli Usa e si rese conto che i suoi idoli subivano ancora
quell’umiliante segregazione? Anche voi
ne foste in qualche modo vittima: vi chiamavano frocetti laggiù, solo perché eravate capelloni.
«Ricordo in particolare una serie di concerti in South Carolina, tra il ’64 e il ’65, mi
pare ci fossero con noi Chuck Berry e Bo
Diddley. Ci spostavamo in bus tutti insieme, bianchi, neri, chi se ne fregava? Ci fermammo in un punto di ristoro e stavo per
entrare con i fratelli nel wc quando uno di
quei fottuti mi fermò e mi indicò la scritta
sulla porta, “colored only” (“ingresso riservato ai neri”). Bastardi, gridai. E pisciai tra
i cespugli. La schiavitù era ancora lì dietro
l’angolo».
C’è un blues col quale ha identificato la
sua follia di rocker?
«Credo che Still A Fool (“Ancora pazzo”)
di Muddy Waters sia la canzone che rappresenta quel che lei intende. È un brano che
incise alla fine degli anni Quaranta e fu riciclato dentro quella Rollin’ Stone che noi gli
scippammo per dare un nome alla band».
“Trouble”, tormento, è una canzone del
nuovo cd ma anche una parola chiave
nella sua storia personale. Ora, guardandosi indietro, i guai che ha avuto – droga, arresti, processi – sono stati una spinta o un freno alla creatività?.
«L’origine di tutti i miei problemi è stata
la droga. Ha fatto bene, ha fatto male alla
musica? Non lo so. Di certo posso assicurarle di non aver scritto le mie cose migliori
sotto l’effetto dell’eroina, men che meno
Satisfaction – cinquant’anni fa. Perché lo
facevo? Volevo sperimentare, ho usato il
mio corpo, il mio cervello, come un laboratorio. Ho voluto essere Dr Jekyll e Mr Hyde,
me ne fregavo delle implicazioni sociali. Ci
sono sempre stati drogati nella storia, e nella storia delle arti, gente che ha provato, è
andata avanti, ci ha lasciato le penne, ci ha
LE FOTO
DA SINISTRA: KEITH
CON MUDDY WATERS
A CHICAGO NEL 1981;
CON PATTI HANSEN
A NEW YORK NEL 1980.
NELL’ALTRA
PAGINA:CON ERIC
CLAPTON E JOHN
LENNON DURANTE IL
ROCK’N’ROLL CIRCUS
NEL 1968; GLI STONES
AL CIRCO MASSIMO IL
22 GIUGNO 2014
FOTO DI Y.H./IMAGES/GETTY
FOTO DI MICHAEL HALSBAND/LANDOV
che la cover di
“Goodnight
Irene” di Leadbelly, un leggendario menestrello, cercaguai come
lei. È un brano
che le ha riportato alla mentericordi e sen-
dato un taglio. Ma poi ho scoperto che il vero test lo fai su te stesso quando sei lucido».
Altri non ci sono arrivati.
«La parola moderazione può sembrare
un paradosso pronunciata da me.
Ma se cerchi lo sballo sempre più
grande rischi grosso, soprattutto dopo i periodi di disintossicazione è fatale assumere dosi massicce. Fu il motivo della
mia rottura con Anita, avevamo deciso di smettere invece scoprii che si faceva più di prima».
Le è mai mancata la normalità in
questi decenni travolgenti? O ha dovuto
sacrificare qualcosa per arrivare al punto in cui è, un mito e un’icona per più di
una generazione?
«Non saprei. Cosa ho sacrificato? Una interminabile, noiosa vita familiare? (risata
furbesca) Piuttosto qualche volta mi sono
sentito un martire; la gente, il pubblico, mi
ha dato la libertà di essere Keith Richards,
nel bene e nel male. Nei momenti più duri,
mi è capitato di pensare: hey, ma fin dove
volete che arrivi? È come se mi avessero dato il lasciapassare per una vita parallela va’ avanti e dacci quel che ci piace. Non riesco a immaginare cosa sarei oggi se non fossi un Rolling Stone. Non penso di essere un
genio né di essere il Re Mida del rock. Ci ho
lavorato, e anche sodo, ma ho anche lavorato con gente brava. E dopotutto nonostante gli alti e i bassi siamo ancora amici».
Nella sua biografia ribadisce più volte
che non cercava né fama né denaro
quando formò i Rolling Stones ma che
era solo ingordo di musica. Dev’essere
stato fastidioso affrontare l’isteria dei
primi anni, il glamour e anche la «detestabile attrazione» - parole sue - che
Mick aveva/ha per il jet set.
«Ma lo sa che nei concerti dopo Satisfaction le urla delle ragazzine sovrastavano la
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la Repubblica
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musica? Brian Jones suonava il motivetto
di Braccio di Ferro e nessuno se ne accorgeva in quella bagarre. Quanto al resto, l’ho
sempre vissuta come una distrazione. Era
inevitabile che accadesse con uno showman come Mick, così naturalmente esibizionista. Era pronto per gli stadi già quando muovevamo i primi passi al Marquee di
Londra. È stata una crescita naturale, non
puoi restare insensibile se una figa pazzesca ti lancia le mutandine, non puoi restare
indifferente alle lusinghe di un regista come Jean-Luc Godard, non puoi chiudere la
porta del camerino a Lee Radziwill (la sorella di Jackie Onassis) o Truman Capote, non
puoi pretendere di esibirti al Circo Massimo – che serata ragazzi! - e snobbare il sindaco di Roma».
Ha qualche rimpianto per non essere stato più prolifico come solista, soprattutto
negli anni in cui Mick si era invaghito di
Bowie e era tentato dalla disco music?
«Prolifico è una strana parola per un musicista. Scrivo canzoni a getto continuo –
mi vengono anche nel sonno – ma ovviamente la band ha sempre avuto il meglio.
Io scrivo e basta, devo farlo. Se ora ho inciso questo disco è perché non mi andava di
restarmene con le mani in mano. Lo studio
di registrazione è la mia seconda casa. Non
FOTO GETTY
Le bizzarre letture nel tempo libero
«Mi piacciono Patrick O’Brian e Voltaire.
Ho provato Mein Kampf, che noia mortale!»
dico la prima altrimenti mia moglie si arrabbia. Per dedicarmi a lei e alle figlie ho
evitato di avere una postazione domestica.
Sa cosa vorrebbe dire avere dei musicisti
per casa tutto il tempo? Altro che una canna la mattina! Ma a casa scrivo, scrivo incessantemente, come facevo agli esordi con
Mick, quando il nostro primo manager ci
chiudeva a chiave in cucina per costringerci a produrre nuove canzoni».
Dopo “Life” ha avuto il tempo di narrare
la sua infanzia in un audiobook, “Gus
and Me”, dedicato a suo nonno, che le fece scoprire la chitarra. Sarebbe mai di-
ventato l’artista che è senza l’incoraggiamento di Gus?
«Senza le sue curiosità e la sua generosità non avrei mai messo le mani su una chitarra. Ne aveva una in casa, appoggiata come un cimelio sul piano verticale. Mi disse:
quando sarai alto abbastanza la prenderai
da solo. E così andò, non ha mai preteso di
insegnarmi nulla ma mi punzecchiava continuamente. Aveva capito che con me l’autorità non funziona. “Chi sa suonare uno
strumento ha un amico in più nella vita”,
mi diceva sempre. Era stato un artista in
gioventù, la sapeva lunga».
IL DISCO
LA COPERTINA
DEL NUOVO
ALBUM SOLISTA
“CROSSEYED
HEART” DI KEITH
RICHARDS
IN USCITA IL 18
SETTEMBRE
‘‘
UNA CANNA LA MATTINA? SCANDALO! MA CAZZO,
SONO KEITH RICHARDS, COSA SI ASPETTANO DA ME?
SÌ, È VERO HO FATTO UN DISCO, NE FACCIO DI RADO.
TRE ANNI FA, MI RESI CONTO CHE NON FACEVO NIENTE
DA TROPPO TEMPO. DOVEVO PER FORZA FARLO
USCIRE ADESSO PERCHÉ ALLA FINE DELL’ANNO
I ROLLING STONES TORNERANNO IN STUDIO PER FARE
UN NUOVO ALBUM. HMM, FORSE NON DOVEVO DIRLO?
,,
Come reagì Gus quando i Rolling Stones
scatenarono quel putiferio?
«Rideva come un pazzo quando gli raccontavo quel che succedeva sotto il palco,
di tutte quelle ragazzine che rientravano
col fidanzato e poi sgattaiolavano da casa
in piena notte per venirci a cercare. La follia cominciò molto presto, in un pub di
Hampstead intervenne la polizia perché
un gruppo di teenager scatenate si avventarono su Mick. Ci rifugiammo in una macchina. Mentre cercavamo di svignarcela
udii il suono di un violino e vidi dal finestrino il nonno che si faceva largo tra quelle invasate suonando e ammiccando. Ci marcava stretto».
Ora anche lei è nonno. Come è Keith Richards quando non è in tour con gli Stones? Un uomo di casa?
«Sì, finalmente! La famiglia è cresciuta a
dismisura, ho cinque nipoti, non mi annoio. E poi ho i miei libri per i momenti di solitudine, sono un lettore vorace, adoro le biblioteche, la nostra memoria. Mi piace Patrick O’Brian ma anche Voltaire. Mi sono avventurato persino nel Mein Kampf, che noia mortale, non sono riuscito a finirlo, oltre
a tutto il resto Hitler era anche un pessimo
scrittore».
Soffrì davvero così tanto quando a tredici anni la espulsero dal coro?
«Fu come se mi avessero ucciso. Io e i
miei amici Spike e Terry eravamo i soprano
migliori. Poi la voce cambiò – esplosione ormonale, capisce? – e addio sogni di gloria.
A scuola ci fecero perdere l’anno perché
avevamo dedicato troppo tempo al coro e
poco allo studio. Da quel momento il mio
unico obiettivo fu quello di farmi espellere.
Ci misi due anni ma ci riuscii. Lì iniziò il mio
rifiuto dell’autorità che da adulto si sarebbe tradotto in un costante corpo a corpo
con poliziotti e giudici. “Yes sir” diventò
per me la frase più odiosa da pronunciare.
Capisce ora perché sono stato sempre perseguitato dai poliziotti? Erano appostati
fuori casa anche quando non c’era ombra
di roba in giro».
Magari senza quell’umiliazione sarebbe
stato più attratto dal canto che dalla chitarra e sarebbe cambiato tutto.
«Non me ne parli, sono ancora incazzato, non c’è nulla che io avrei potuto imparare da quella gentaglia. Era una scuola di
merda, tutte le scuole più o meno lo sono. È
un bel culo trovare un insegnante come si
deve. I miei maestri erano appena tornati
dalla guerra, e non si può direcerto che andassero troppo per il sottile».
Le è mai capitato durante la carriera di
provare quella stessa umiliazione?
«Oh sì. Ci hanno pensato i poliziotti a riaprire la piaga di volta in volta. Ma a quel
punto, devo dire, avevo ormai prodotto gli
anticorpi. C’erano milioni di persone là fuori pronte a scendere in piazza e gridare, liberate Keith!».
E d’altro canto, si è mai sentito insicuro
in questo mezzo secolo? Ha mai tremato
all’idea che la sua musica potesse perdere il contatto col pubblico? Durante la furia del punk, ad esempio.
«Questo ha incrinato la mia amicizia con
Mick: è ridicolo andare a caccia di celebrità,
assurdo. Se lo fai t’impantani in mille insicurezze. Al contrario di lui, sono sempre rimasto incollato ai miei principi musicali.
Devi essere quel che sei, svecchiare il suono è un’illusione. Questo ha salvato gli Stones, lo spirito di gruppo e il fatto di restare
fedeli a se stessi. Mick s’illudeva di vendere
milioni di dischi come solista, ma poi è tornato all’ovile».
Da ragazzi si pensava che il R&R fosse
musica per giovani ribelli, che tutto si sarebbe esaurito nel giro di una generazione. Pare di no a giudicare dagli Stones,
da Dylan, da Paul McCartney. E non è ancora revival.
«Chi lo pensava? Non io. Per me il rock &
roll è sempre stato per tutti, fin dall’inizio.
Avvertivo qualcosa di profondissimo, di
sconvolgente in quel ritmo. Mai pensato
che fosse musica usa e getta. Non ho mai
trovato un duplicato di quella chiave che
apre l’anima».
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Repubblica Nazionale 2015-08-30
LA DOMENICA
la Repubblica
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34
Iluoghi.CalleMiguelClaro1359
Un pianoforte che suona da solo, tre strane sorelle
e il miracolo dei seicento “asilados”. Ecco perché
è l’ambasciata italiana a Santiago del Cile
la villa del celebre romanzo di Isabel Allende
La vera
casa
degli
spiriti
“LA CASA DEGLI SPIRITI” IN UN BOZZETTO DI DOMINGO SANTA CRUZ MORLA, FIGLIO DI WANDA, UNA DELLE DUE SORELLE MORLA
IL ROMANZO
PUBBLICATO
NEL 1982 (IN ITALIA
DA FELTRINELLI),
“LA CASA
DEGLI SPIRITI”
DI ISABEL ALLENDE
RACCONTA
UNA SAGA
FAMILIARE
AMBIENTATA
NEL SECOLO
SCORSO E ISPIRATA
ALLE VICENDE
FAMIGLIARI
DEL PRESIDENTE
CILENO
ASSASSINATO
DAI GOLPISTI
NEL 1973
Repubblica Nazionale 2015-08-30
la Repubblica
DOMENICA 30 AGOSTO 2015
L
BRUNO ARPAIA
A “CASONA”
al numero 1359 di calle Miguel Claro
occupa un’intera
cuadra, tutto un
isolato del quartiere residenziale
di Providencia a
Santiago. È una
grande villa bianca immersa in un
parco, con una
dépendance, due campi da tennis e una piscina, circondata da quattro stradine alberate e tranquille che corrono lungo il muro di cinta. Dal 1953 è la residenza dell’ambasciatore italiano, poi, dal 1986, è diventata la nostra sede diplomatica in Cile. E lo
è tuttora. Ma quella villa appartata e silenziosa è stata incredibilmente al centro di
innumerevoli storie e leggende, di eventi
cruciali del “secolo breve”. Si racconta perfino che i suoi muri abbiano visto cose che
noi umani fatichiamo a immaginare.
Costruita nella seconda metà dell’Ottocento, la villa appartenne a personalità di
rilievo della società cilena, finché, nel
1906, come racconta l’attuale ambasciatore italiano Marco Ricci, «diventò proprietà
di Manuel Antonio Maira. La moglie del
nuovo proprietario, Carmen Morla, aveva
due sorelle, Ximena e Wanda, e tutte e tre
erano molto note in Cile per le presunte
virtù medianiche e la loro adesione alle
dottrine teosofiche». Erano donne colte, libere, irriverenti in un’epoca in cui era difficile esserlo, che svolsero un importante
ruolo nella modernizzazione del Paese.
Hanno lasciato libri, diari, quadri, articoli,
ma sono ricordate in particolare per le loro sessioni di spiritismo. Nel suo libro
Guía mágica de Santiago, César Parra
racconta che le Morla evocavano i morti,
avevano lampi di preveggenza, «erano
capaci di far spostare lungo i rumorosi
corridoi della casona pianoforti, tavoli
di pranzo e altri catafalchi». E infatti nel
romanzo di Isabel Allende, La casa degli
spiriti, le Morla diventano “le sorelle Mora”, mentre la casa in cui operavano viene chiamata la “casa dell’angolo”.
Ma quale fu davvero la casa che ispirò la Allende? Le ipotesi in campo sono
molte. César Parra sostiene che fu la
villa della scrittrice Inés Echeverría, in
avenida Salvador, altro luogo che in
quegli anni ospitò intense sedute spiritiche. Ma forse le cose non stanno proprio così. La seconda ipotesi è avvalorata dalla stessa Isabel Allende, la quale
racconta che sua nonna, Chabela Barros, trascorse la vita immersa nei fenomeni paranormali e
cercando di mettersi in
comunicazione con l’aldilà; dice di avere vagamente tratto ispirazione
per il libro dalla propria casa di famiglia in calle Cueto, una casa che però non
ha mai conosciuto. Resta
dunque in piedi una terza
ipotesi: la nonna di Isabel Allende e Inés Echeverría erano
intime amiche delle sorelle Morla e probabilmente partecipavano alle sedute proprio nella villa di Carmen in calle Miguel Claro, il vero epicentro del mondo spiritico santiaghino. Lo conferma adesso un’altra
scrittrice, Elisabeth Subercaseaux, nipote di Ximena Morla. Nel suo libro Las Morlas descrive
una dimora impregnata di «una forza magnetica», in cui i campanelli e gli strumenti musicali
suonavano da soli. «Mia nonna Ximena» ha dichiarato, «aveva una personalità potente, affascinante, diversa da tutte le donne che ho conosciuto. Era molto amica di Inés Echeverría e della nonna di Isabel Allende, ed è possibile che abbiano fatto sedute spiritiche anche nella casa di
avenida Salvador. Ma nella mia famiglia si è sem-
‘‘
LE IMMAGINI
NELLA PAGINA
A SINISTRA, “LA CASA
DEGLI SPIRITI”
IN UN BOZZETTO
DI DOMINGO SANTA
CRUZ MORLA
(FIGLIO DI WANDA,
UNA DELLE DUE
SORELLE MORLA
RITRATTE
NELLA FOTO
QUI ACCANTO).
IN BASSO:
LA SEDE OGGI
DELL’AMBASCIATA
ITALIANA A SANTIAGO
DEL CILE, AL 1359
DI CALLE MIGUEL
CLARO; SOTTO,
LAFOTO DELLA
RESIDENZA NEL 1919
E, A SEGUIRE,
I MILITARI DAVANTI
ALLA PORTA
DELL’AMBASCIATA
NEL PERIODO IN CUI
SEICENTO PERSONE
VI SI RIFUGIARONO
ALL’INTERNO (1973)
...La sera di un venerdì bussarono alla porta della grande casa
dell’angolo tre dame trasparenti dalle mani affusolate
e dagli occhi di bruma, acconciate con cappellini ornati di fiori
passati di moda e cosparse di un intenso profumo
di violette silvestri, che penetrò in ogni stanzae lasciò la casa
profumata di fiori per vari giorni. Erano le tre sorelle Mora...
DA “LA CASA DEGLI SPIRITI” DI ISABEL ALLENDE
(FELTRINELLI 1983, TRADUZIONE DI ANGELO MORINO E SONIA PILOTO DI CASTRI)
pre detto che la casa in cui più si praticava lo spiritismo era quella di mia zia Carmen, l’immensa
villa che si trova in calle Miguel Claro». Insomma, conclude l’ambasciatore Ricci, «se c’è una casa degli spiriti nella Santiago degli inizi del secolo scorso, questa è l’edificio attualmente sede
dell’ambasciata».
Si aggireranno ancora per quei saloni le ombre irrequiete evocate dalle Morla e raccontate
da Isabel Allende e Elisabeth Subercaseaux? Il
pianoforte suonerà ancora da solo nelle notti di
Santiago? L’ambasciatore non lo dice, preferisce passare al successivo capitolo della storia della residenza, quando nel 1941 la casa diviene
proprietà di Agustín Edwards Budge, discendente di una dinastia di banchieri e proprietario di
una catena radiofonica, di venti quotidiani regionali e tre nazionali, tra i quali El Mercurio, il più
importante giornale cileno. È proprio in quegli
anni e in quella casa che Agustín Edwards Budge si adopera per introdurre in Cile le dottrine
economiche neoliberali della scuola di Chicago.
Ma è suo figlio, Agustín Edwards Eastman, a portare a termine l’opera, con uomini del Mercurio
che preparano il programma economico della
Giunta militare di Pinochet e che fanno di tutto
per abbattere il governo di Salvador Allende.
35
In questa missione, lo stesso Agustín Edwards
Eastman è in prima fila. Il 10 settembre 1970,
nemmeno una settimana dopo la vittoria di Unidad Popular alle elezioni, è già negli Stati Uniti e,
come risulta dai documenti declassificati della
Cia e dal rapporto Church-Pike del Congresso, incontra Nixon, Kissinger e il direttore della Cia, Richard Helms, con il quale discute di una possibile
«opzione militare» per abbattere il legittimo governo cileno. Per il Mercurio, inoltre, Edwards ottiene dagli Usa fondi diretti per quasi due milioni
di dollari, per destabilizzare Allende con tutti i
mezzi. È la stessa Cia ad assicurare che il giornale
di Edwards «ha svolto un ruolo importante nella
preparazione delle condizioni necessarie per il
golpe militare dell’11 settembre 1973». Ma non
è tutto. Durante il lungo inverno della dittatura,
non soltanto El Mercurio copre tutte le violazioni
dei diritti umani, le torture e le sparizioni operate dai militari, ma monta anche campagne giornalistiche in collaborazione con la polizia segreta di Pinochet. Famosa è, per esempio, l’”Operazione Colombo”, con la quale, per evitare al regime l’imbarazzo di dover rispondere ai parenti e
alla Vicaría de la Solidaridad che esigevano notizie dei desaparecidos, il quotidiano inventò dal
nulla la notizia che centodiciannove militanti
del Mir si erano ammazzati fra loro durante uno
scontro a fuoco in Argentina. Per fortuna, anche
gli intoccabili qualche volta pagano, sebbene in
ritardo e soltanto simbolicamente: nell’aprile
scorso, infatti, Agustín Edwards Eastman è stato radiato dall’ordine dei giornalisti cileno.
Probabilmente, però, piùche alle ombre evocate dalle sorelle Morla e alle vicende pre-golpe, la
“casa dell’angolo” di Isabel Allende deve molto a
unaltroepisodioavvenutonellanostrasedediplomatica.I perseguitati dalregime cileno che, come
fantasmi, si aggirano per La casa degli spiriti sono stati davvero accolti in quella che allora era la
residenza dell’ambasciatore italiano. Nei mesi
successivi al golpe, infatti, circa seicento persone
saltanoilmurodi cintaesilascianocaderenelparco della casona di calle Miguel Claro. I funzionari
dell’ambasciata(traiqualiPietroDeMasi, Roberto Toscano, allora al suo primo incarico, ed Emilio
Barbarani, sopraggiunto in seguito) le accolgono
e iniziano le trattative per ottenere un salvacondotto, ma le relazioni con i militari sono pessime:
l’Italianon riconosce la giunta golpista, non ha un
ambasciatore e Tomaso de Vergottini viene tolleratocome«diplomaticoitalianointransito».Avolte, per il salvacondotto bisogna aspettare uno o
due mesi, altre volte ci vuole anche un anno.
Intanto, fuori, i rastrellamenti continuano,
ogni notte si sentono esplosioni e raffiche di mitra nelle strade vicine. Dentro, negli eleganti saloni della residenza, la gente si accampa come
può. Agli asilados viene fornito il cibo e assegnata la metà di un materasso, mentre loro si organizzano: predispongono i turni in cucina, formano squadre divise per partiti d’appartenenza, nominano un servizio d’ordine, si danno da fare
per intrattenere i bambini. Ce ne sono parecchi:
troppo piccoli per saltare il muro, vengono portati all’interno dalla moglie di De Vergottini nel bagagliaio dell’auto, eludendo la vigilanza dell’esercito che fa la ronda attorno al parco della residenza. In quella prigione dorata, bisogna superare i molti momenti difficili, sopportare la sconfitta, sedare le risse tra le fazioni, guardarsi dai cecchini, ammaestrare la speranza, inventarsi la
quotidianità. Nel bellissimo documentario di
Tommaso D’Elia, Daniela Preziosi e Ugo Adilardi, Calle Miguel Claro 1359, Stefano Rossi racconta che guardava ogni giorno i progressi nella costruzione della palazzina di fronte alla residenza: «La mia vita passava, e quella palazzina era
l’immagine del fatto che il mondo continuava a
girare mentre la mia vita restava lì, immobile».
Clara Leonor Szczaranski, oggi avvocata, racconta invece che ogni giorno, all’alba, saliva su un albero del parco per guardare fuori e partecipare,
almeno a distanza, alla vita della sua città che si
risvegliava.
Eppure, alla fine, quelle seicento persone sono sfuggite alla morte, anche se hanno dovuto lasciare per molti anni il loro paese. È una delle pagine più belle dalla nostra diplomazia. Ed è stata
scritta proprio lì, nella Casa degli spiriti, al numero 1359 di calle Miguel Claro a Santiago.
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L’officina.Segniforti
Inventòla“grafica di pubblica utilità”
checon luidivenne unaprofessione,
unadisciplina e perfinoun movimento
culturale.Finalmentericonosciuto
I
MICHELE SMARGIASSI
Cioè, a fare
pubblicità alla profilassi contro i pidocchi, si capisce: ma non cambia molto. Ah certo, i creativi delle grandi agenzie sono riusciti a rendere desiderabile la carta igienica e sexy i pannolini per signora; ma lavorare sui pidocchi, credete, è davvero
dura. Massimo Dolcini però sapeva che anche questo era compito suo, così come
“vendere” iscrizioni all’asilo, screening sanitari contro il tumore al seno, centri
estivi per anziani, entusiasmanti convegni sulle “Prospettive di recupero dei centri collinari”. E in fondo si divertiva a farlo: basta guardare i suoi manifesti (adesso
li trovate tutti insieme esposti in una grande mostra a Fano, ed è una festa per gli
occhi).
Se il nome di Dolcini, scomparso dieci anni fa, non vi suona all’orecchio come
quelli dei grandi grafici al cui fianco è degno di stare, Albe Steiner, Bob Noorda,
Bruno Munari, Armando Testa, Antonio Boggeri, c’è un motivo. Lui scelse di vivere,
e di lavorare, in una città di provincia: Pesaro. Non per snobismo, non per pigrizia, ma per coerenza professionale, ideale, etica. Il simbolo della sua agenzia, Fuorischema, era una X, che però nel suo
caso si legge “per”: Dolcini voleva lavorare per una comunità, per
un territorio che potesse conoscere
di persona, come un medico condotto. E
proprio così si definì un giorno,“grafico condotto”, con la stessa dolce ironia che metteva
nei suoi poster. Ma il ruolo che inventò per sé fu in
realtà di un intellettuale al servizio della comunicazione pubblica. Se non il primo (il pioniere
fu Steiner, che di Dolcini era stato insegnante al Corso Superiore di Arti Grafiche di Urbino,
oggi Isia, con il suo famoso lavoro del 1970 sull’immagine coordinata del comune di Urbino,
appunto), fu sicuramente il più integrale e coerente, un caposcuola: con lui, la “grafica di pubPIDOCCHI? SÌ, ANCHE I PIDOCCHI. PROVATECI VOI, A “VENDERE” PIDOCCHI.
Dolcini
ilgrafico
condotto
LA MOSTRA
FINO AL DIECI
SETTEMBRE
SI PUÒ VISITARE
A FANO,
ALLA GALLERIA
CARIFANO
DI PALAZZO
CORBELLI,
“LA GRAFICA
PER UNA
CITTADINANZA
CONSAPEVOLE”
DEDICATA
A DOLCINI
blica utilità” divenne una disciplina, una professione e perfino una specie di movimento politico-culturale-professionale diffuso in tutta
Italia, con tanto di Carta fondativa.
Era l’altra grafica che quei giovani disegnatori d’assalto impugnarono come una bandiera a metà degli anni Settanta. L’altra réclame.
Quella che non doveva vendere prodotti ma
promuovere beni pubblici, che per target aveva non clienti ma cittadini, che lavorava non
per il marketing ma per il welfare. Era una rivoluzione nella comunicazione istituzionale,
ancora stagnante nella piombata monotonia
degli editti ottocenteschi, quei manifesti fitti
di minuscoli lunghi testi, stemmi araldici come unica illustrazione, e l’inutile perentoria
parola AVVISO a tutte maiuscole. Grida manzoniane fuori tempo massimo, ingoiate, annichilite dagli aggressivi squillanti manifesti formato doppio elefante di una pubblicità commerciale che sapeva ormai fin troppo bene il
fatto suo. Mentre una comunicazione pubblica in grado di farsi vedere, di “bucare” l’attenzione del passante, era tutta da inventare. Dolcini la inventò.
I tempi erano maturi. Da amministratori di
beni demaniali, i comuni si trasformavano proprio allora in gestori attivi del benessere dei
cittadini, in fornitori di servizi, redistributori
di reddito e opportunità e diritti. L’ondata di
giunte di sinistra del ’75 apriva una stagione
di utopie municipali, e tutto questo andava comunicato, promosso, propagandato. Dolcini
faceva parte (anche ideologicamente, lo mostrano i suoi lavori per il Pci, le feste dell’Unità,
la Cgil) di quell’onda. Consapevole fin dall’inizio che un grafico “di pubblica utilità” non do-
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Un’altra
pubblicità
è possibile.
Persino oggi
ANNAMARIA TESTA
“D
Dalì, a Max Ernst.
Ma quelli che ne uscivano erano messaggi
semplici, gioiosi, lampanti ma non scontati,
ironici, leggibilissimi ma non banali, equilibri
perfetti di lettering essenziale e immagini-metafora, ma sempre quella sfumatura di sorpresa, insomma un flusso di “dirompente e giornaliera vitalità”, scrive Mario Piazza in un catalogo tutto da spillare: il revolver legato per l’appello “contro il terrorismo”, il rubinetto annodato per la campagna contro lo spreco d’acqua, per non dire del Rossini reinventato ogni
anno (una volta in veste di muratore, con cazzuola e berretto di carta di giornale) per il festival musicale eponimo.
La stagione della “grafica di pubblica utilità” non durò molto. Rimpiazzata dalla “comunicazione istituzionale”, perse la vena “progressista” per normalizzarsi fra i “servizi generali” delle amministrazioni. Negli anni della
crisi delle autonomie locali non solo evaporò la
vocazione sociale della grafica e si abbandonò
la “costruzione di comunità” per via visuale,
ma anche l’idea dell’immagine coordinata e riconoscibile di un comune non fu più ritenuta
così necessaria.
A Pesaro, un “grafico condotto” però continuò a lavorare per il pubblico, per le aziende
private, e anche per se stesso, modellando ceramiche, vasi, pentole piatti dipinti a mano, in
un anti-ideologico downshifting artigiano,
tutti marchiati con una X. Sul tavolo di lavoro,
la fotografia che aveva più cara, ricordo di
un’utopia del lavoro collettivo “per”: lui, in posa tra gli attacchini comunali di Pesaro con i
suoi manifesti sotto il braccio.
ove c’è
comunicazio
ne, c’è
grafica”,
recita la
“Carta del progetto grafico” che fissa
i principi della Grafica di pubblica
utilità. Logico: per catturare l’occhio,
e per tenerlo incollato quanto basta
alla pagina o al manifesto, ci vuole un
segno forte o un’immagine
attraente. La forma (caratteri,
impaginazione) in cui si esprime il
messaggio ne determina la
percezione, la comprensione e
l’efficacia. Per questo, in
comunicazione, anche la parola
scritta è così intimamente connessa
alla componente grafica da
diventare sempre una “parola
immaginata”.
La comunicazione che persuade –
lo spiega Piattelli Palmarini nel
brillante “L’arte di persuadere” –
deve fare una cosa in più: sedurre,
cioè condurre delicatamente a sé, e
alle tesi proposte, i destinatari. Del
resto lo diceva già Cicerone:
l’oratore, per convincere, deve non
solo spiegare o dimostrare, ma
anche intrattenere ed emozionare.
La grafica di Dolcini piace sia
all’occhio sia all’intelligenza sia al
cuore. Che parli di pace o di pidocchi,
è pertinente, rispettosa e onesta, e
così fresca che continua a sembrare
nuova. Caratteristiche preziose per
qualsiasi comunicazione: a maggior
ragione per la comunicazione delle
pubbliche istituzioni.
Che vadano, dunque tutti a
studiarsi la mostra di Dolcini:
assessori che spendono decine di
migliaia di euro per marchi turistici
imbarazzanti come lo scriteriato
“RoMe&You”. Funzionari che varano
su stampa e web comunicazioni
tetre o rutilanti ma indecifrabili, e
poi si lamentano perché “la ggente
non capisce”. Politici che lanciano
rozzi messaggi presumendo che il
pubblico sia deficiente. E sì, anche
marketing manager convinti che per
vendere basti trapanare i crani dei
consumatori ripetendo “compra”.
Una comunicazione persuasiva
intelligente, rispettosa, divertente,
bella da guardare e interessante da
leggere, e dunque coinvolgente e
convincente, si può fare.
E si è fatta, qui in Italia, in una
meravigliosa e dimenticata stagione
tra metà anni ‘70 e metà anni ‘80.
Per dire: giusto nel gennaio 1976
il nuovo quotidiano “La Repubblica”
viene lanciato con una campagna
pubblicitaria più coraggiosa
e moderna di gran parte della
pubblicità attuale.
Che cos’è successo? Credo che si
sia rotto un patto fiduciario tra
committenti e comunicatori. Oggi la
comunicazione si compra con gare al
ribasso, come se si trattasse di
tubature. E ha, spesso, l’espressività
di un tubo.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
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LE OPERE
FOTO GRANDE: PUBBLICITÀ
DEI CORSI DI GINNASTICA PER ANZIANI.
SOPRA, IN SENSO ORARIO: CONTRO
IL TERRORISMO; BANDO D’ISCRIZIONE
AGLI ASILI DEL 1976; MANIFESTO
PER LA “CAMMINATA PER LA PACE”
DEL 1980. NELLA COLONNA A DESTRA
DALL’ALTO: CAMPAGNE PER ACQUA
E SINDACATO; UNA MOSTRA
SUI VESTITI IN URSS NEGLI ANNI ’20
E CAMPAGNA PER LA CITTÀ PULITA
veva affatto pensare di “vendere il comune ai
cittadini”, né scimmiottare le tecniche della
pubblicità commerciale adattandole a una finalità sociale, perché “il cittadino”, scriveva,
“non è l’acquirente di un prodotto” ma il soggetto “di scelte responsabili, gestite razionalmente”. Niente persuasori occulti nella pubblicità per il cittadino, con lui non si può barare,
“non può esistere manipolazione” nella comunicazione di pubblica utilità: sarebbe un autoinganno ridicolo, perché qui è il cittadino
che informa se stesso sui propri interessi attraverso le proprie istituzioni. E il grafico allora si
trasforma “da tecnico pubblicitario a operatore politico e culturale”.
Ma serviva lo stesso un alto tasso di fantasia
per evitare di cadere nella grafica post-sovietica, come quella partitico-sindacale tutta fatta di incongrui “triangoli e quadrati e
frecce non si sa bene indirizzate verso che cosa” che Dolcini, comunista, detestava. Bisognava
competere in originalità, genialità
con le pubblicità commerciali, spalla a
spalla sugli stessi muri, parlando a voce altrettanto chiara e forte, ma con un altro tono,
riconoscibile a prima vista come diverso, amichevole, affidabile, “civile”. Il linguaggio che
Dolcini inventò non era certo l’unico possibile:
ma fece scuola. I campi di colori saturi e uniformi, le illustrazioni al tratto ripescate da incisioni ottocentesche e vecchi repertori tipografici, però ridisegnate con un tocco di surrealismo e un occhio alla pop art, riferimenti colti
al fumetto d’autore francese, alla tipografica
futurista, al dadaismo, a Christo, a Man Ray, a
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Next.Futurama
Abbiamovisto
cose
che voi umani...
Derrick De Kerckhove
LIBERTÀ/ Società trasparente o prigione?
‘‘
Derrick De Kerckhove
è considerato l’erede di Marshall McLuhan.
Ha diretto per 25 anni, fino al 2008,
il Programma McLuhan in Cultura e Tecnologia
alla University of Toronto.
Teorico dell’intelligenza connettiva
e del tribalismo digitale , all’Università Federico II
di Napoli insegna sociologia della cultura digitale.
LA
TRASPARENZA
PENETRA
LA NOSTRA INTIMITÀ,
MA ESSERE
TRASPARENTI
NON SIGNIFICA
ESSERE LIBERI.
C’È UN VERO RISCHIO
DI FASCISMO
DIGITALE
,,
T
UTTE LE SOCIETÀ TRIBALI, orali o digitali tendono
a essere trasparenti. Per i membri di quelle orali, la comunità è più importante dell’individuo,
e in queste società i singoli hanno poco da nascondere:
la loro vita è orientata verso gli altri, non verso se stessi. La loro incapacità di sviluppare un’identità passa da
quella di sviluppare una scrittura e attraverso essa
prendere possesso del linguaggio. Nella cultura digitale le tribù si formano differentemente, sono tribù distribuite. Potremmo dire che la coda lunga (la nota teoria di Chris Anderson sulla redistribuzione nel mondo
di internet, ndr) è una decrescente successione di tribù elettroniche. Il punto è che i loro individui sono al
tempo stesso sia alfabetizzati, quindi hanno sviluppato un senso della loro personalità, sia resi trasparenti
dall’analisi dei dati messa in campo dalle strutture economiche e di potere. Nel nuovo tribalismo prodotto dai
network digitali, la trasparenza penetra ogni livello,
compresa l’intimità, per non parlare dei conti in banca. Nella società tribale e trasparente del futuro avremo infiniti gradi diversi di libertà (e di prigione). La libertà dipenderà probabilmente dall’equilibrio fra la sicurezza, intesa globalmente, e l’autonomia. Essere trasparenti non significa non essere liberi, nella misura in
cui la trasparenza sia una condizione comune a tutti.
Al momento, chi governa il nostro curioso mondo ibrido fra virtuale/materiale/mentale, sono loro, i soliti sospetti: business e governi. La buona notizia è che si
stanno affaticando su come gestire la trasparenza. In
altri termini siamo ancora in un sistema centralizzato,
ma il potere non è più centralizzato come in passato, è
distribuito fino al punto di dover rispondere alle grida
di protesta come nei recenti casi Swissleaks o Blatter-Fifa. Questo è il valore della trasparenza. Ad ogni
modo c’è sempre una tentazione occulta da parte del
potere per mantenersi al di là delle regole, quindi c’è
un vero rischio di un fascismo digitale contro il quale,
grazie a dio, c’è una resistenza pubblica e condivisa in
atto. La domanda sociale e politica è: come governare
in modo sicuro e legale un’infinità di tribù senza minacciare gli individui che le compongono? Il buon governo
dipenderà proprio dalla capacità di avere regole condivise fra poteri e tribù.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Glossario
DATA MINING
CRIPTOVALUTA
BITCOIN
UTILIZZARE
UN MASSICCIO SET
DI DATI (I “BIG DATA”)
PER ESTRARNE
INFORMAZIONI UTILI,
AD ESEMPIO A SCOPO
COMMERCIALE
LE CRIPTOMONETE
SONO VALUTE
DIGITALI BASATE
SULLA CRITTOGRAFIA,
CHE CONSENTONO
TRANSAZIONI
ANONIME
LA CRIPTOVALUTA PIÙ
NOTA. LA INVENTA
SATOSHI NAKAMOTO
(PSEUDONIMO) NEL
2008. NON RICORRE A
AUTORITÀ CENTRALI,
USA IL PEER-TO-PEER
Patricia De Vries
DENARO/ Il Bitcoin è una trappola?
‘‘
Patricia De Vries coordina il progetto MoneyLab
dell’Institute of Network Cultures di Amsterdam.
Il rapporto tra digitale e denaro
è al centro delle sue ricerche.
Tra i casi studiati, il più clamoroso
è quello del Bitcoin, la moneta elettronica
indipendente e decentralizzata
creata dal misterioso Satoshi Nakamoto
IL BITCOIN
NON È SOLO
UNA VALUTA,
È UNA VISIONE
DEL MONDO.
CHE FUTURO OFFRE?
NASCE CONTRO
IL SISTEMA
MA DIVENTA ANCHE
UNO STRUMENTO
DI SPECULAZIONE
,,
O
GGI LA QUESTIONE PIÙ IMPORTANTE è capire se le
criptovalute come i Bitcoin saranno adottate
dalle grandi banche, se funzioneranno come
monete complementari alla stregua dei punti bonus
dei supermercati o passeranno al livello successivo diventando una vera e propria moneta ufficiale. Non si
tratta di un problema meramente tecnologico, perciò
non esiste una “soluzione virtuale”: la questione ha
aspetti sociali, geopolitici legali e persino estetici.
Consideriamo che la moneta virtuale da sola non ridistribuirà il reddito, non costruirà infrastrutture pubbliche né creerà nuovi modelli di sviluppo. Al tempo
stesso, è vitale sostenere tutti i tentativi seri di critica e
democratizzazione della finanza globale, virtuali o meno. Io ritengo comunque che economie alternative richiedano valute alternative. I Bitcoin hanno attirato
molta attenzione, ma per noi dell’Institute of Network
Cultures di Amsterdam la questione non è tanto Bitcoin sì o Bitcoin no (tutte le monete vengono usate anche per affari illegali), quanto se con i Bitcoin stia fiorendo una reale alternativa monetaria.
Per il momento i Bitcoin si configurano in pura opposizione al sistema ufficiale, ma al tempo stesso ne riproducono alcune problematicità strutturali: sono uno
strumento per le speculazioni di una piccola élite di
avanguardia, di venture capitalist e esperti di informatica. Eppure i Bitcoin e più in generale le criptomonete
sono comunque un tentativo di ripensare la finanza
globale, di mettere in discussione il ruolo del denaro come medium di scambio e di creare monete affidabili e
sicure in alternativa a quelle dei governi e delle banche
centrali. Insomma i Bitcoin sono al tempo stesso valuta
e visione del mondo. In un mondo in cui tutti movimenti di denaro si avviano ad essere tracciati, bisogna pensare a quale tipo di opposizione possa essere sostenibile per contrastare la cultura del potere monopolistico
delle banche commerciali, all’interno un ambiente sorvegliato e monitorato attraverso il data mining, l’estrazione di informazioni da massicce quantità di dati.
Forse quello che dovremmo fare è andare alla radice
del processo: ripensare i fondamenti giustificativi di
queste pratiche di controllo, come la paura, il razzismo
e il nazionalismo.
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Cosaaccadrànelfuturoprossimo?Apocalitticiointegrati?Incubooutopia?
Oggisembranoritornarealcunitemidellafantascienzaclassica
dal“GrandeFratello”diOrwellai“Robot”diAsimov.Ilbloggerescrittore
QuittheDoner(all’anagrafeDanieleRielli)haintercettatoquattrovisionari.
Eccoquellochesonoriuscitiaintravedereconilorotelescopi
sutrasparenza,economia,roboticaerealtàvirtuali
Emanuele Micheli
POTERE/ I robot hanno un lato oscuro?
Emanuele Micheli è un ingegnere
specializzato in robotica.
Si occupa di robotica educativa, roboetica,
design e la divulgazione.
E’ nel consiglio direttivo della Scuola di Robotica,
con cui collabora sin dal 2001,
e partecipa a numerosi progetti
di respiro europeo nell’ambito della robotica
I
ROBOT arriveranno nelle nostre case e città, lavoreran-
no con noi e saranno di uso quotidiano come smartphone, tablet e pc. I cambiamenti che porteranno nella società saranno notevoli: cambieranno privacy, lavoro,
relazioni; proprio come è successo per internet, siamo di
fronte a un cambio di paradigma. Per questo, anni fa, i fondatori di Scuola di Robotica, Gianmarco Veruggio e Fiorella Operto introdussero nel mondo della ricerca il concetto
di roboetica: l’unico modo per affrontare al meglio il cambiamento è fondare l’etica sull’educazione, la scuola. Solo
per citare alcune delle questioni aperte, o che si apriranno: l’uso di droni in guerra che in maniera semi autonoma
scelgono il bersaglio è accettabile? Oppure: un giorno potremmo avere cittadini di serie A con protesi robotiche
che li renderanno più forti e veloci, e cittadini di serie B
che non avranno accesso a queste tecnologie. Bisogna cercare di prevenire tutto ciò dirigendoci verso una ricerca
aperta e capace di realizzare prodotti per tutti. Poi ovviamente c’è la questione del diritto alla protezione dei dati
personali. Robot con telecamere e sensori, così come oggetti “intelligenti” nelle case, potrebbero sapere tutto di
noi e condividere in rete dati sulla nostra vita che noi non
comunicheremo volontariamente. Conosceranno abitudini, spostamenti e scelte. Le macchine in luoghi diversi potrebbero conoscerci così bene da prevedere i nostri movimenti e le nostre decisioni. Nel campo del lavoro la “rivoluzione robotica” ha permesso all’essere umano di dedicarsi a lavori più creativi e non basati sulla ripetizioni di gesti
e azioni (come quello di Charlie Chaplin in Tempi Moderni). Eppure la crescita dell’uso dei robot nella nostra società sarà positiva solo se sarà accompagnata da una consapevolezza d’uso. Ovviamente automobili autonome o robot che ci assistono nella vita quotidiana hanno un lato
oscuro. Tutto ciò che non sarà messo a disposizione di tutti potrà essere usato da pochi contro molti. Spesso il mio
lato malinconico mi fa pensare a distopie in cui poche multinazionali saranno in grado di gestire i gusti, le scelte, i
viaggi, la nostra vita quotidiana. Potranno farlo se la società che crescerà con le innovazioni sarà basata sulla mancanza di informazione e la passività. In tal caso non si tornerà neppure al luddismo: se lo sviluppo sarà avviato senza consapevolezza, i cittadini non avranno nemmeno gli
strumenti per ribellarsi.
‘‘
I ROBOT
HANNO UN LATO
OSCURO,
SAPRANNO TUTTO
DI NOI: LE SCELTE,
LE ABITUDINI...
POTREBBERO
PERSINO PREVEDERE
LE NOSTRE DECISIONI,
SIATENE
CONSAPEVOLI
,,
©RIPRODUZIONE RISERVATA
REALTÀ
AUMENTATA
INTELLIGENZA
ARTIFICIALE
INTERNET
DELLE COSE
“MEDIATA” DA UN PC
O UNO SMARTPHONE,
AGGIUNGE
INFORMAZIONI
MULTIMEDIALI ALLE
NOSTRE PERCEZIONI
ROBOT CAPACI
DI COMPORTAMENTI
INTELLIGENTI: NON
FANTASCIENZA MA
UNA REALTÀ. CHE APRE
QUESTIONI ETICHE
È GIÀ IL FUTURO
PROSSIMO: SMART
HOME, SMART CITY.
TANTE LE POSSIBILITÀ,
MA ANCHE I RISCHI
PER LA PRIVACY
Karan Singh
INTERAZIONI/ Sarà simbiosi uomo-schermo?
Karan Singh insegna Computer Science
all’Università di Toronto.
Qui codirige anche il DGP, laboratorio di ricerca
su grafica e interazione uomo-computer.
Singh si occupa di arte e percezione,
il che include campi come la grafica interattiva,
design e animazione, interfacce mobili,
realtà virtuale
O
GGI INTERNET OFFRE una ricca e differenziata in-
terazione non solo fra uomini e macchine, ma
anche fra uomini e uomini.
Interagiamo cioè, attraverso browser, social network e piattaforme di comunicazione, in modalità che
prevedono ancora una chiara separazione fra rete e
utente. Il mondo reale e il mondo di internet comunicano, ma rimangono separati.
Lo schermo e l’uomo che lo usa restano due entità distinte anche se il cosiddetto “internet delle cose” e le
tecnologie di realtà aumentata e realtà virtuale, renderanno inevitabilmente questa linea sempre più sfumata. Con il nostro progetto di realtà virtuale stiamo ripensando l’interazione su internet in modo che tutti
gli aspetti che usiamo della rete diventino fruibili in
unico setting multidimensionale.
In altre parole, usando un kit per la realtà virtuale è
possibile entrare fisicamente dentro internet, muoversi in tre dimensioni fra le pagine dei browser, i video di
Youtube o i profili dei social network così come ci si
muoverebbe dentro una casa. All’interno di questi ambienti le possibilità di integrazione sono varie.
Si pensi alla strada aperta dai Google Glass, gli speciali occhiali in cui internet diventa “commento” alla
realtà, aggiunto alla normale vista oculare: se internet
è un intermediario fra le persone o fra persone e informazioni, allora stiamo cercando di rendere questo intermediario invisibile. Potremmo affermare quindi
che in pratica, l’internet delle cose è già qui, infatti già
molti degli oggetti che usiamo oggi sono capaci di comunicare con la rete e stanno cambiando il nostro modo di vivere, anticipano i nostri bisogni e ci informano
sulle nostre responsabilità.
L’aspetto positivo di tutto questo è che in futuro oggetti di questo tipo saranno ovunque, sempre più integrati e invisibili, e renderanno la nostra vita più molto
più semplice per quanto riguarda molti aspetti pratici.
Quello negativo è che creano effettivamente una dipendenza in una maniera che diminuisce la nostra abilità di pensare da soli. E questo è un pericolo da cui
guardarsi: dovremmo prendere l’abitudine di fare
ogni tanto di persona anche le cose che potremmo fare
in maniera automatica, che saranno sempre di più.
‘‘
LO SCHERMO
E L’UOMO
SARANNO
SEMPRE MENO
DISTINTI. L’INTERNET
DELLE COSE
RENDE DIPENDENTI.
GUARDATEVI
DAL PERICOLO
DELLA TROPPA
AUTOMAZIONE
,,
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LA DOMENICA
la Repubblica
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Sapori.Vicinoanoi
CERTO,
È PIÙ FACILE
SDILINQUIRSI
PENSANDO
AL BOEUF
BOURGUIGNON
RISPETTO AI
LIKROFI (RAVIOLI
DI PATATE
E PANCETTA
SLOVENI). MA IL
MEDITERRANEO È
ANCHE QUELLO
DI QUESTI PIATTI
MENO NOTI
CHE PERÒ
POSSONO
RISERVARE
INASPETTATE
SORPRESE
10
Piatti
che non
conoscete
ALBANIA
Pershesh
Per festeggiare
il Capodanno,
tacchino farcito
con mele e limone,
burro sulla pelle
e poi in forno.
Alla fine, briciole di pane
cotte con cipolla,
grasso di cottura,
noci e menta
ANDORRA
Trinxat
Pancetta e sanguinaccio
vengono dorati
in olio
aromatizzato
con uno spicchio d’aglio,
serviti insieme
a cubetti di cavolfiore
e patate lessati,
scolati, spadellati
nel grasso della pancetta
HUMMUS
Salsa a base
di pasta di ceci
e di semi di sesamo
aromatizzata
con aglio, succo
di limone, paprica
e olio di oliva
Prosciutto in festa
Dal 4 al 20 settembre,
a Langhirano,
la 18ma edizione del Festival
del Prosciutto di Parma.
Degustazioni, percorsi
del gusto, visite ai laboratori
e lezioni di cucina all’aperto
con lo chef bistellato
Tonino Cannavacciuolo
CIPRO
Kolokoti
Fagottini
di pasta fillo
(o sfoglia), riempiti
con dadini di zucca,
uvetta, frutta secca,
grano spezzato
e spezie (cannella,
finocchietto, eccetera),
spennellati
con olio e infornati
Cibo per la mente
Il 5 allo Slow Food Theatre
il corto di Ermanno Olmi
“Il Pianeta che ci ospita”,
“per ricordare l’impegno dei
popoli ricchi nel garantire cibo
e dignità a ogni essere umano,
per il principio di giustizia
che regola la convivenza
delle genti sullaTerra”
A tutta birra
Più di 30 i birrifici artigiani che
dall’11 al 13 settembre
partecipano alla III edizione
del festival “Fermentazioni”,
alle Officine Farneto di Roma.
Seminari e laboratori, di cui
due in collaborazione
con Slow Food, focalizzati
sugli abbinamenti birra-cibo
GRECIA
Dolmádes
Imbottiti solamente
di riso, oppure di riso
e carne rosolata
con erbe e cipolla,
gli involtini di foglie
di vite o verza
vanno coperti d’acqua,
limone, olio
e cotti ben pressati
LIBANO
Falafel
Attraversa le cucine
mediorientali
con poche varianti,
la ricetta delle polpettine
di legumi.
Dentro, fave, ceci,
aglio, cipolla,
coriandolo, prezzemolo,
cumino e pepe nero
L’altro
Mediterraneo.
Giochi
senzafrontiere
incucina
“S
LICIA GRANELLO
celti garzoni/al suo fianco
tenean gli spiedi in pugno/di
cinque punte armati: e come
fûro/rosolate le coste, e fatto il saggio/delle viscere sacre, il resto in pezzi/negli schidoni infissero, con molto/avvedimento l’arrostiro, e poscia/tolser tutto
alle fiamme. Al fin dell’opra/poste le mense, a banchettar si diero/e del cibo egualmente ripartito/sbramârsi tutti. Del cibarsi estinto/e del bere il desío, d’almo lïeo/coronando il cratere, a tutti in giro/ne porsero i donzelli, e fe’ ciascuno/libagion colle tazze”. Nel primo libro dell’Iliade, Omero racconta i
festeggiamenti per il ritorno di Criseide, restituita al padre Criso da Ulisse. Uno dei tanti
banchetti presenti nelle opere del poeta greco, Odissea in primis, con il protagonista costretto (suo malgrado) a testare usi e costumi culinari da una parte all’altra del Mediterraneo. Ricercatore alimentare involontario ma molto informato – dai formaggi del siculo Polifemo
all’ambrosia della spagnola Calipso – Ulisse simbolizza meglio di chiunque altro il senso della conoscenza itinerante e delle radici comuni che animano la prima edizione dei Giochi del
Mediterraneo sulla spiaggia, in corso di svolgimento a Pescara fino al 6 settembre. In campo – anzi, sulla sabbia – quasi mille atleti, ventiquattro paesi e tre continenti coinvolti dal cimento sportivo. Ma accanto e intorno alle gare, cento eventi dedicati al confronto gastro-culturale in cerca di quella fratellanza troppe volte frantumata e umiliata. Per una volta, da Andorra all’Algeria, dalla Turchia alla Serbia, i rapporti internazionali vengono governati non
da travagli politici o veleni diplomatici, ma dall’unione nel nome del mare nostrum e dei
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la Repubblica
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“Mare nostro”
di tutti i cibi:
la mescolanza
qui è Storia
LIBIA
Bazin
Per la polenta tripolina,
acqua, olio e sale
portare a bollore,
poi farina
di grano o d’orzo
senza mescolare.
Dopo mezz’ora,
si impasta e si formano
delle pagnottine,
servite con lo stufato
FALAFEL
Polpettine
di legumi (fave,
ceci o fagioli)
speziate e fritte
MACEDONIA
Tavce gravce
Fagioli lessati nel coccio
con cipolla, aglio
e carota. In padella,
olio e farina a dorare,
poi dentro paprica,
menta, pepe e i legumi.
Gratinatura in forno.
Variante con salsiccia
MALTA
Gbejniet
Nella versione fresca,
invernale, latte di capra
(a volte anche pecora)
cagliato a 37°,
salato e messo
nelle fuscelle.
In estate, si serve
stagionato,
aromatizzato
con pepe ed erbe
MONTENEGRO
Pastrovski
makaruli
suoi cibi millenari. Se
è vero che la storia della
cucina è condivisione e
scambio senza ansia di supremazia, il piacere vero di
mettere insieme tanti paesi (vicini) – al di là delle competizioni – è gustare le sfoglie farcite di carne e verdure
tra Grecia e Macedonia o le mille varianti delle polpettine di legumi che rallegrano le tavole di Libano, Egitto e Palestina senza classifiche né eliminazioni.
Al contrario, passerella garantita per i menù di un Mediterraneo
solo apparentemente minore, tenendo a bada l’orgoglio per la nostra trionfante tradizione
gastronomica, che spesso impigrisce il palato e azzera la curiosità.
Certo, è più facile sdilinquirsi leggendo la ricetta del boeuf bourguignon rispetto a quella
dei likrofi (ravioli di patate e pancetta sloveni). Ma assaggiando i piatti, le sorprese sono infinite e non solo nei gusti. La gestualità delle donne che incocciano il cous cous, le mani che impastano il bazin libico, l’abilità della pasta lavorata al ferretto in Montenegro rimandano alla nostra stessa storia culinaria, spesso figlia delle stesse materie prime.
Dicono che nel 338 a.C. durante l’assedio di Tebe da parte di Alessandro il Macedone, il cibo fosse così scarso che gli abitanti presero a vestire quel poco di farro, riso e verdure con le
foglie di vite e di verza, per farlo sembrare più voluminoso e saziare l’occhio prima del palato. Stratagemmi che ritroviamo uguali nella nostra cucina di sussistenza, tra aringhe essiccate a truccare col loro odore le fette di polenta e la farinata di ceci a farcire il pane. E magari,
assaggiare la tahina (squisita salsa a base di semi di sesamo) ci farà sentire un poco più vicini al martoriato popolo siriano.
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I maccheroni
di grano saraceno
si lavorano col ferretto
per dare la forma
caratteristica,
lasciandoli seccare sul
canovaccio per due giorni.
Condimento con olio,
feta e prezzemolo
SIRIA
Kibbeh
Burghul
(frumento integrale
essiccato e tritato)
ammorbidito,
lavorato con carne
di agnello o manzo,
cipolla, sale e spezie
(bharat), poi frullato.
Si gusta crudo, fritto
o grigliato
Q
MASSIMO MONTANARI
UELLA MEDITERRANEA è una
cucina fusion. I due
concetti, per come
amiamo pensarli,
parrebbero antagonisti:
la cucina della mescolanza,
dell’ibridazione, della contaminazione
contro l’identità gastronomica (frutto di
una saggezza antica, di un rapporto forte
con il territorio) delle civiltà cresciute
attorno al Mediterraneo. Le cose non
stanno esattamente così: il Mediterraneo
è uno spazio geografico con elementi
comuni, legati al clima e al paesaggio,
ma su questo fondo comune si sono
sviluppate civiltà, lingue, tradizioni
(anche alimentari) diverse. Ciò che
storicamente ha contraddistinto il
Mediterraneo è stata semmai la sua
vocazione — favorita dalla brevità dei
tragitti da est a ovest, da nord a sud — a
costituirsi come area di scambio fra
uomini, prodotti, culture. Ecco il punto:
l’identità mediterranea esiste solo nello
scambio e nella condivisione delle
diversità “naturali”. Essa nasce dalla
storia più che (oltre che) dalla geografia.
La denominazione mare nostrum,
“mare nostro”, che i Romani diedero al
Mediterraneo, esprimeva non solo una
strategia imperialista ma anche una
comunanza culturale. Nel Medioevo
questo quadro entrò in crisi perché
l’occupazione islamica dell’Africa, e di
parte della Sicilia e della Spagna,
trasformò il Mediterraneo da “lago
interno” in un mare di confine; ma gli
stessi arabi, esportando in Occidente
nuovi prodotti, tecniche e sapori
(agrumi, zucchero, melanzane, carciofi,
riso, pasta secca, nuove spezie...),
contribuirono a formare a un’identità
mediterranea nuova, che univa insieme
regioni di diversa cultura e religione (per
esempio, nei Paesi europei del sud si
affermò prepotentemente il gusto dolce,
tipico anche della tradizione islamica). In
età moderna, l’arrivo dei prodotti
americani (pomodoro e patata,
peperone e peperoncino, mais, cacao,
ecc.) ridisegnò nuovamente l’identità
mediterranea. Questa è dunque una
costruzione storica mutevole, frutto di
larghi percorsi di scambio, che nel corso
del tempo hanno coinvolto l’Africa e
l’Asia, l’Europa e l’America.
Quella che, troppo semplicemente,
oggi ci siamo abituati a chiamare “dieta
mediterranea” è un’astrazione che solo
in parte corrisponde a questa Storia. È un
modello costruito a tavolino, a
cominciare dagli anni Cinquanta, per
motivi e per scopi ben precisi, di
carattere medico-sanitario: trovare un
correttivo alla dieta eccessivamente
proteica e calorica dei popoli ricchi, cioè
in primo luogo degli americani. Questo
modello anche noi possiamo
condividerlo, a patto di non ridurlo a
regola nutrizionale, ma di pensare il cibo
come realtà complessa, legata a una
cultura, a uno stile di vita che i popoli del
Mediterraneo hanno imparato a
condividere, a modificare, a creare
giorno dopo giorno.
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LA DOMENICA
la Repubblica
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L’incontro.Vampire
‘‘
SONO STATA
SUPER FORTUNATA
A COMINCIARE A FARE
QUESTO MESTIERE
FIN DA BAMBINA
SE NON TI PERDI
PER STRADA QUESTO
È L’AMBIENTE
PIÙ ACCOGLIENTE
E APERTO
CHE CI SIA AL MONDO
DICO DAVVERO
Al festival di Venezia sbarca con un film di Drake Doremus, fresca
di Woody Allen e reduce da Ang Lee. Ormai la pallida ragazza di
“Twilight”, tremula principessina di “Biancaneve e il cacciatore”,
a soli venticinque anni è tra le dive più corteggiate (e pagate) di
Hollywood. Anche se, in un ristorante parigino sugli Champs Élysées attorniato dai paparazzi, lei fa quasi finta di non accorgersene: “Davvero, glielo giuro, non sono affatto interessata ai premi.
Quello che davvero mi aspetto dici Speak di Jessica Sharzer (e suo primo amore, il partner Michael Angarano);
diciassette Into the Wild di Sean Penn, a ventidue On the Road di Walter Sall’anno scorso figlia meravigliosamente indisponente di Julianne Moore in
dal cinema, semmai, è di impa- ales,
Still Alice di Richard Glatzer. E ora, a pioggia, un autunno d’autore: a metà ottobre nel nuovo film di Woody Allen, girato a New York, con Blake Lively, Bruce
e Parker Posey («una telefonata e ero già sul set»); poi in Billy Lynn’s Long
rare a fare la regista. Per il resto Willis
Halftime Walk, voluta da Ang Lee; e tra poco in Equals, di Drake Doremus, in
concorso a Venezia.
La diva di Twilight sta sempre più allontanandosi dagli standard Usa: dopo
aspetto solo di invecchiare: non Assayas,
si prepara a una sua Europa? «Quel che cerco nel cinema americano è
molto comune in Francia e in Europa, dove registi e attori si preoccupano di pora termine tra rischi d’ogni genere e con fede quasi religiosa quello in cui crevedo l’ora di avere anch’io qual- tare
dono, anziché correr dietro a quanto li può rendere ricchi, famosi e carichi di premi. Pochi registi in America lavorano in questa prospettiva, appunto Drake Doremus o Woody Allen, che ha anche un vezzo tutto francese — ride: lascia che gli
che annetto in più”
attori se la sbroglino da sé». Dunque, a maggior ragione, lei andrebbe premiata:
Kristen
Stewart
A
MARIO SERENELLINI
‘‘
PARIGI
le belle
gambe, altalenando in alternanza l’una e l’altra.
Tacchi a spillo. Pochi gesti delle mani, anche il viso controllato in espressioni d’ufficio, a parte studiate sottolineature da interprete nei passaggi
più vivi. Tipo: «Capisco perfettamente quanti mi
sbeffeggiano per la saga Twilight che mi ha lanciata, ma non smetterò mai di ripetere fino alla
notte dei tempi: I’m fucking proud of it!» (alla lettera, ”ne sono fottutamente fiera”).
Kristen Stewart, venticinque anni, californiana, attrice, musa di balocchi e profumi francesi
(Balenciaga, Chanel), viene sempre più spesso a Parigi, dov’è ormai ospite
fissa della Fashion Week e dove quest’anno ha ritirato il César per il miglior ruolo non protagonista in Sils Maria di Olivier Assayas, prima attrice americana a ricevere, choc della platea cine-nazionalista, l’Oscar
francese: «Non potevo crederci. Questi Frenchies — ride — sono così rigidini, elemosinano con tale parsimonia i loro premi, specie agli americani. Oserei dire: meglio un Oscar qui che là, anche se onestamente non
ho mai aspirato alla statuetta di Hollywood. In testa ho sempre avuto il lavoro, mai i premi. Giuro, il mio unico traguardo è di diventare regista!».
Il suo celebrato pallore rischiara l’angolo appartato di Le Fouquet’s, sugli Champs Elysées, dove ci incontriamo. Borsa abbandonata sul tavolino accanto e smartphone sull’altro, l’assistente
CCAVALLA, SCOSCIANDOLE DOCILMENTE,
QUESTA È UN’INDUSTRIA, IL PETTEGOLEZZO SULLE
CELEBRITÀ È SOLO UNA FORMA DI INTRATTENIMENTO:
PERCHÉ MAI DOVREBBERO SMETTERE? TANTO PRIMA
O POI SI STANCANO E RIVOLGONO LA LORO ATTENZIONE
ALTROVE. PURTROPPO VERSO QUALCUN’ALTRA
che non ci perde di vista un attimo, più lontano la guardia del
corpo che è roccia immota, mentre sotto, in strada, fermenta
il nugolo di paparazzi pronti all’assalto. Kristen ci è abituata:
«È la nuova industria. Il pettegolezzo sulle celebrità è una
nuova forma di intrattenimento: e un’enorme, redditizia
fabbrica di denaro. Perché dovrebbero smettere ? È solo un
fastidio per chi è preso di mira: ma a me piace troppo il mio
lavoro, lo sento anche molto protettivo. E fortunatamente,
prima o poi le preferenze si spostano». Pausa, risata: «Sfortunatamente, verso qualcun’altra!». Carriera iniziata a otto anni, quando un agente la vede nello spettacolino natalizio a scuola, e poi tutto a velocità massima: a undici anni
Panic Room di David Fincher, dove è la figlia di Jodie Foster, altra scampata alla voragine degli attori-bambini; a tre-
«Glielo ripeto, non sono una che pensa ai trofei. Sia chiaro, lo dico anche per autodifesa: ho ingoiato tanti di quei rospi (pronto eufemismo per alleggerire l’originario shit, ndr) che ogni volta mi ripeto: “la vincitrice non sono io, la vincitrice
non sono io...!”. È così che mi sono abituata a prendere calci nel culo (ass, ndr)».
Scusi? «Sa che nel film del mio Oscar francese ho fatto da tappabuchi alla Wasikowska, prima scelta del regista, ma già impegnata in Maps to the Stars di Cronenberg? E che, per le mie scene giudicate torride, The Runaways di Floria Sigismondi è stato proibito negli Usa ai minori? E io che, per calarmi interamente
nel mondo del rock al femminile, avevo passato le notti a esercitarmi su una fucking (vedi sopra, ndr) chitarra!».
La tremula principessina di Biancaneve e il cacciatore, incasso planetario
che ne ha fatto tre anni fa l’attrice più pagata di Hollywood, adora colorare con
interiezioni adolescenziali l’aura pallida che la circonda come cipria cinematografica. Una volta si diceva: linguaggio di strada. Ma è sul set e in clima di set che
Kristen è stata svezzata: «Mio padre è produttore televisivo, mia madre sceneggiatrice. M’ha convinta subito la soddisfazione che vedevo nei loro occhi quando
la sera tornavano a casa magari dopo una giornata di sedici ore di lavoro: era come se stessero rientrando da un’escursione di miglia e miglia in luoghi sconosciuti. Dove siete stati ? Che cosa avete trovato? Sentivo che dietro quel piacere
c’era qualcosa d’entusiasmante. È stato così che devo aver deciso di diventare attrice e di non smettere mai di fare film. Volevo essere come loro. Mi son detta: lavorerò anch’io come un mulo (fucking hard, ndr). Dedizione assoluta, pur di poter risentire quell’odore di fogli che puzzavano di caffè rovesciato e sigarette
che si portava addosso mia madre dentro il suo zainetto! Ma sa che ancora oggi,
se ritrovo un oggetto che avevo in un dato film, posso arrivare a risentire l’odore
del set? Con il mio naso posso letteralmente rimettere insieme tutti gli oggetti,
gli abiti, gli attrezzi che sono stai usati durante le riprese. Pazzesco, no?». Fiutato subito il suo destino, Kristen va dunque a scuola fino ai tredici anni, poi prosegue per corrispondenza dati gli impegni su grande schermo aggravati da un lieve deficit di attenzione dovuto all’iperattività. E pensare che, alla vigilia del
‘‘
HO UN PADRE PRODUTTORE TELEVISIVO
E UNA MADRE SCENEGGIATRICE. QUANDO
TORNAVANO A CASA DOPO UNA GIORNATA
DI LAVORO SEMBRAVA RIENTRASSERO
DA UN VIAGGIO IN MONDI ANCORA IGNOTI
gran passo, fu proprio la mamma a sconsigliarla: «Quando chiesi di
iscrivermi alle audizioni è stata lei a darmi l’alt: “Sono alle prese ogni
giorno con ragazzini che vogliono fare film. Tutti matti. Tu non hai
nulla a che vedere con quella gente”. Aggiunga che, all’epoca, avevo
l’aria d’un ragazzo mancato. Io e mio fratello eravamo identici, anche i
miei vestiti preferiti erano maschili: andavo a scuola in tuta da ginnastica, dando l’impressione d’un maschietto strafottente. I
miei primi problemi sono nati lì. Odiavo quei commenti maligni: “Uh, sai, non sembri per nulla…”. Per fortuna è stata una
stagione breve. Come ho messo piede sul set nessuno più mi
ha considerata un’anomalia. Il cinema mi ha restituito il mio
temperamento, la mia identità. Mi sono sentita subito bene.
Mi piacevo. Sono stata davvero fortunata a cominciare bambina questa professione: se non sbagli strada, è l’ambiente
più accogliente e aperto che si possa immaginare. Nessuno
mi ha mai forzata. Perciò deve credermi quando le dico che
non ho mai fatto calcoli di carriera». Già al culmine della popolarità a soli venticinque anni, che si attende ancora dal cinema, a parte future regie ? «Aspetto di invecchiare.
A differenza del resto delle attrici, che impazziscono
quando temono d’imbalsamarsi un po’, io comincio a guardare lontano: giuro, non vedo l’ora di avere qualche anno in
più. Mi sento talmente ripagata e felice per il passato. Attendo soltanto il futuro». Un attimo di silenzio, occhi puntati al
soffitto, accavallamento e infine scroscio di risate: «Mi chiami quando avrò trent’anni, le assicuro, sarò in estasi». Soddisfatta di sé: «Quello che sono oggi è il risultato d’ogni singolo gradino, falso o mancante, che ho salito finora». Ma sembra un proverbio! «È così, è un fucking (ovviamente, ndr)
proverbio».
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Repubblica Nazionale 2015-08-30
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