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sulle tracce dei cavalieri
Comune
di Rodì Milici
Regione Siciliana
POR Sicilia
Comunità Europea
SULLE TRACCE DEI CAVALIERI:
Il restauro del palazzo priorale di Rodì Milici
a cura di
Pietro Di Maria
Cinzia Accetta
Edizioni Caracol
In copertina:
© Caracol 2009, Palermo
Vietata la riproduzione o duplicazione con qualsiasi mezzo
Edizioni Caracol s.n.c. - via V. Villareale, 35 - 90141 Palermo
e-mail: [email protected]
www.edizionicaracol.it
ISBN: 978-88-89440-54-4
INDICE
Ringraziamenti
Introduzione
Dott.ssa Antonella Alibrando
L’iter progettuale
Geom. Filippo Torre
CAPITOLO I
Il contesto storico-culturale
1.1 Rodì Milici e i Cavalieri di Malta
1.2 Note sulla “camera priorale” di Milici: casali, chiese, feudi
1.3 “Architettura cavalleresca” e insediamenti Gerosolimitani in Sicilia
CAPITOLO II
Il progetto per la conoscenza
2.1 Il palazzo priorale di Milici
2.2 Il rilievo per il restauro
2.3 L’analisi dello stato di conservazione: degradi e dissesti della fabbrica
CAPITOLO III
Il progetto per la conservazione
3.1 Gli interventi di restauro
3.2 Il consolidamento strutturale
CAPITOLO IV
Il progetto di rifunzionalizzazione
4.1 La strategia di comunicazione per un museo dei luoghi dei cavalieri di
Malta in Sicilia
ALLEGATI
Lungo la via della Filermosa: Testimonianze e memori
RINGRAZIAMENTI
La gradita occasione della presentazione di questa pubblicazione,
dedicata al progetto di restauro del palazzo dei Cavalieri di Malta di
Milici, da poco concluso, mi offre l’occasione di sottolineare il mai cessato interesse critico nei riguardi della nostra cittadina e del meraviglioso
territorio in cui si trova ubicata.
Nell’ottica di un recupero totale del tessuto urbano e del suo patrimonio, atto a svolgere funzione di volano per l’attrazione turistica e per il
consequenziale sviluppo socio-economico della sua comunità, il restauro del palazzo dei Cavalieri di Malta e la sua rifunzionalizzazione a
museo si prospetta come una grande opportunità per tutti.
Il recupero della storia e delle tradizioni di un popolo, difatti, rappresentano un’importante occasione per riaffermare l’identità della comunità miliciana.
Il presente volume, che fornisce una ricca messe di notizie, costituisce un serio contributo di stimolazione a ulteriori ricerche e approfondimenti sull’opera dei Cavalieri di Malta nel territorio di Milici, nonché
all’analisi critica dei monumenti spesso sconosciuti alla maggioranza dei
visitatori, proponendo nuovi e alternativi orizzonti ai flussi turistici, sempre più sensibili alle proposte di un turismo altro, alternativo, attento al
fatto culturale.
Si ringraziano gli architetti Pietro Di Maria, Cinzia Accetta e Angelo
Filippo Cannistrà per avere curato in modo ineccepibile tutti i lavori relativi al progetto riguardante il palazzo, dalla progettazione alla direzione
dei lavori, fino all’allestimento del museo.
Un ringraziamento sentito ai curatori di questa pubblicazione per
avere sempre collaborato in maniera costruttiva, al fine di potere dare un
volto nuovo a Rodì Milici, con la nostra Amministrazione.
Si ringraziano, altresì, il R.U.P. – geometra Filippo Torre – e tutti i soggetti che hanno contribuito alla realizzazione di questo importante progetto, nonché alla Regione Siciliana che ha finanziato l’opera attraverso
i fondi del POR Sicilia, inserendola nella programmazione degli interventi del PIOS 5 “Comprensorio Occidentale Tirrenico – Peloritano”.
Filippo Carmelo Torre
Sindaco di Rodì Milici
5
INTRODUZIONE
I temi trattati in questa pregevole pubblicazione, ossia il restauro e la
valorizzazione di importanti monumenti dell’odierna Rodì Milici e del suo
territorio comunale, sono stati spesso argomento di una serie di eventi
culturali, organizzati dalla Fondazione di Studi Melitensi Itaca Onlus nel
corso di questi anni. Oggi si vuole proseguire nell’azione intrapresa riproponendo le tematiche già trattate, arricchite di contenuti nuovi, in una
veste grafica gradevole destinata ad un più vasto pubblico, interessato
ad approfondire la storia e ad interpretare le trasformazioni del nostro territorio nel succedersi dei secoli.
È con vivo spirito di servizio, dunque, che mi accingo a presentare
questo lavoro editoriale che sollecita il lettore a riscoprire le innumerevoli risorse del nostro territorio, attraverso l’attenzione dedicata ai beni culturali, testimoniata dalle opere di restauro e dalla cura storiografica.
Soggetti diversi, accomunati, in alcuni casi, solo dalla volontà di contribuire a costruire una nuova immagine della nostra città, formulano proposte, aprono scenari operativi, suggeriscono priorità, illuminano di luce
nuova aspetti che altrimenti non avrebbero raggiunto la soglia di sensibilità di chi poi è materialmente chiamato ad operare sul territorio, concertare scelte, disporre finanziamenti.
Il libro diviene così strumento prezioso, perché fa affiorare le tematiche indispensabili per mettere in campo un progetto di lungo respiro che
liberi le tante energie presenti sul territorio e le indirizzi al perseguimento del bene comune contro quello dell’interesse particolare.
Le forze esistono e sono disposte a spendersi.
Noi della Fondazione Itaca, nel corso di questi anni, abbiamo operato per tener viva la memoria Melitense a Rodì Milici.
La quotidiana presenza nella cittadina che, un tempo, fu possedimento del sovrano Militare Ordine di Malta1 ci ha permesso, attraverso le citate attività promozionali, di valorizzare le tradizioni, con sicuro recupero
della memoria.
Un’occasione importante all’inizio del terzo millennio fu il “ritorno” dei
Cavalieri a Milici, guidati da S.E. il Gran Cancelliere conte Carlo Marullo
di Condojanni, il quale, su nostra richiesta, diede disposizione che, proprio a Rodì Milici, fosse allestita una mostra rievocativa curata dai
Cavalieri di Malta, discendenti di quelli che abitarono fin dal 1211 il palazzo di Milici, possedimento del Gran Priorato di Messina. Di tale mostra
7
diamo una breve sintesi in appendice a questo scritto.
La presenza del conte Marullo di Condojanni a Rodì ed il suo costante impegno per l’identificazione e la valorizzazione delle chiese e delle
case dell’Ordine di Malta2, inoltre, fece sì che lo stesso sollecitasse, in un
incontro con il Sindaco del tempo, l’Amministrazione Comunale -peraltro
già sensibile al tema- a svolgere concrete attività per il recupero di quella che era stata la sede principale dei Cavalieri di Malta nell’ampio territorio da essi governato a Milici. Così pure, si deve all’ambasciatore
Marullo il successivo intervento della fondazione “Donna Maria Marullo
di Condojanni” che promosse ed avviò ricerche mirate per il recupero dei
documenti riguardanti i possedimenti priorali di Milici su cui, per secoli,
era sventolata la bandiera con la bianca croce ad otto punte.
La stessa fondazione ha patrocinato eventi e pubblicazioni3 che
hanno consolidato gli interessi del mondo scientifico - culturale sull’area
di Milici, la cui gente, da tempo, auspicava un nuovo interesse per la storia della propria città.
Va sempre ascritta al conte Marullo l’idea di creare, anche a Rodì
Milici, una fondazione che si occupasse delle problematiche del territorio
e della sua gente. Tale fondazione prese il nome di “Itaca Onlus” e sotto
il suo nome e sotto il suo logo -che rappresenta lo stemma del Gran
Priore Gattinara4 incastonato nel palazzo dei Cavalieri di Milici-, si è dato
nuovo impulso alla salvaguardia del patrimonio sulturale di Milici e dei
suoi dintorni.
In questo contesto quasi subito si rese viva, nella sede comunale di
Rodì Milici, la volontà di restaurare le parti, nel frattempo acquisite, del
palazzo dei Cavalieri. All’idea è seguita l’azione. E oggi, con questo volume, viene dato alle stampe il resoconto del primo lotto dei restauri effettuati. L’opera realizzata consegna, così, al futuro parte delle mura antiche, pronte per il riutilizzo nel contesto della dignità dell’immobile priorale e della sua storia melitense. Ai progettisti, ai curatori della pubblicazione ed a tutti i collaboratori, il più vivo apprezzamento per il progetto realizzato e per gli studi effettuati, che lasciano ben sperare in future attività
di recupero, naturale completamento dell’opera avviata.
Un cenno merita anche la chiesa di Santa Maria, di cui il palazzo era
pertinenza. Per essa auspichiamo che, in un futuro non lontano, si possano trovare i mezzi per le necessarie opere di restauro, in particolar
modo di quando in essa contenuto ed appartenuto ai Cavalieri.
Consigliamo, infine, una bibliografia per coloro che, in futuro, volessero cimentarsi in ulteriori studi o dedicarsi a interventi conservativi di
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quello che fu -non solo a Milici- il patrimonio dei Cavalieri di Malta, i quali
abitarono questi luoghi dal lontano XIII secolo, fino all’incameramento dei
beni ecclesiastici, operato nel XIX secolo, prima dai Borboni e successivamente al tempo di Garibaldi.
Dr.ssa Antonella Alibrando
Presidente della Fondazione di
Studi Melitensi “Itaca onlus”
1
L. Buono, G. Pace Gravina, La Sicilia dei Cavalieri, Roma 2003, p.37, 92 n, 111 ,112, 122,
321.
2
C. Forza, Cavalieri dell’Ordine di Malta, Palermo 2007, p. 132.
3
Il rischio sismico della provincia di Messina e la tutela del patrimonio culturale. Il caso di Rodì
Milici, atti del convegno di studi Il patrimonio dei beni artistici di Rodì Milici ed il rischio sismico del territorio, a cura della Fondazione Studi Melitensi “Itaca Onlus”, Messina 2006.
4
Arboreo di Gattinara, vercellese, nipote del Cancelliere di Carlo V, fu priore di Messina nel
1528. Nel casamento adiacente alla chiesa di Milici, dedicata a Santa Maria vi erano scolpite
le sue insegne apposte dopo i restauri effettuati. Si veda L. Buono, G. Pace Gravina, La
Sicilia..., cit., p. 49, 91, 94, 111, 122, 157, 254n., 269, 321, 322. Altre insegne dello stesso esistevano: egli stesso fece operare numerosi restauri nel palazzo Priorale di Messina. C.
Marullo di Condojanni, La Sicilia ed il Sovrano Militare Ordine di Malta, Messina 1953, p.156.
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L’ITER
PROGETTUALE
La programmazione degli interventi da inserire nel PIOS 5
“Comprensorio Occidentale Tirrenico-Peloritano”, per accedere ai finanziamenti del Por Sicilia, è stata l’occasione agognata da tempo per dare
l’avvio ai lavori di restauro e rifunzionalizzazione del palazzo dei
Cavalieri di Malta di Milici, una delle più importanti testimonianze della
presenza Gerosolimitana nel territorio del Gran Priorato di Messina. Il
progetto di restauro e rifunzionalizzazione del palazzo ha rappresentato
una grande opportunità per l’Amministrazione Comunale, che si era
posta da tempo l’obiettivo di riconsegnare alla collettività il patrimonio
storico culturale presente, garantendone la fruibilità attraverso la realizzazione di una struttura museale. Nella qualità di referente tecnico per il
comune di Rodì Milici, in seno al PIOS 5, ho sempre sostenuto che il
palazzo rappresentasse per Rodì Milici e per la sua comunità un luogo
simbolico, un ponte metaforico tra passato e futuro, uno strumento vivo
della memoria storica collettiva e, in tal senso, ho operato perché avesse priorità assoluta tra le proposte sottoposte a finanziamento con le
misure adottate dalla Comunità Europea a sostegno della Regione
Sicilia. Per le sue peculiarità la richiesta ha avuto buon esito e la Regione
ha emesso decreto di ammissione a finanziamento. L’incarico per la
redazione del progetto definitivo ed esecutivo è stato affidato, nel maggio del 2005, agli architetti Pietro di Maria, Cinzia Accetta e Angelo
Filippo Cannistrà. Nel dicembre 2006 i lavori sono stati appaltati alla
CONSCOOP – Consorzio tra Cooperative di Produzione e Lavoro, con
sede a Forlì. Quest’ultima ha poi assegnato i lavori alla ditta associata
SAIM di Gela. Il completamento dei lavori e il relativo allestimento e arredo sono avvenuti nei primi mesi del 2009. Dopo un lungo iter, finalmente, il risultato delle tante vicissitudini e problematiche -superate con la
collaborazione di tutti gli attori del processo- può essere ammirato e fruito dalla collettività nella realtà urbana di Rodì Milici.
Geom. Filippo Torre
Responsabile Unico del Procedimento
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CAPITOLO I
Il contesto storico-culturale
1.1 Rodì Milici e i Cavalieri Di Malta
Sito alle pendici di una delle più settentrionali propaggini dei monti
Peloritani, Rodì Milici si trova al centro del golfo delimitato dal capo
Tindari a ovest, dal promontorio di Milazzo ad est e dall’arcipelago delle
Eolie al nord.
Questo territorio fu abitato dall’uomo sin dalla preistoria e, precisamente, fin dalla prima età del bronzo (XVIII-XV sec. a.C.), dando luogo
ad una cultura indigena che sembra, proprio da Rodì, prendere il nome
“Cultura di Rodì-Tindari-Vallelunga”. Tale cultura indigena fu identificata
come Sicana; ai Sicani successero i Siculi, ai quali furono attribuiti la
necropoli di contrada Gonia (Grassorella) e il fortino megalitico del XIII
sec. a.C. situato sul pizzo Cocuzzo. Il fatto che in un periodo così antico
fosse presente un fortino megalitico dimostra che nei pressi di Rodì Milici
già esisteva una comunità strutturata conosciuta forse, a partire dal VI
sec. a.C., con il nome di Longane, città autonoma siculo-greca che controllava politicamente ed economicamente un’ampia zona della costa
settentrionale della Sicilia. Questa città non scomparve nel V sec. a.C.,
come alcuni grandi studiosi (Luigi Bernabò Brea e Domenico Ryolo di
Maria) avevano ipotizzato, ma mutato il nome in Artemisia, va cercata
nella valle del torrente Patrì (Platì), ricadente secondo gli studi di Vito
Amico nel territorio di Solaria; ad essa è legata la leggenda delle vacche
sacre del Dio Sole, di cui parla Omero, e la leggenda di Oreste che
avrebbe portato nel nostro territorio la statua di bronzo di Artemide
Facelina, sulla quale uno studio accurato fu prodotto dall’archeologo
Biagio Pace.
Una delle meraviglie di questa città era la fonte di Venere considerata luogo di culto e guarigione alla stessa stregua dei grandi santuari
mariani dei nostri tempi. Si racconta a questo proposito di una regina
dell’Asia minore (odierna Turchia) che si stabilì in questi territori per
godere proprio delle miracolose acque termali. Questa città fu naturalmente influenzata dalle diverse civiltà succedutesi nel territorio siciliano,
a cominciare da quella romana di cui si conservano i resti di una lussuosa villa appartenente oggi al comune di Terme Vigliatore.
Dopo tale periodo si successero le dominazioni Bizantina, Arabo,
13
Normanna, Angioina e Aragonese. Dell’epoca Bizantina è papa Leone II,
eletto al soglio pontificio nel 682, dopo aver trascorso la propria fanciullezza a Milici. All’epoca Normanno-Angioino-Aragonese risalgono le
prime fonti scritte che identificano la nostra città con il nome di Solaria, il
cui destino fu segnato da gravi cataclismi e guerre che portarono alla
scomparsa della stessa. A tal proposito l’evento determinante fu la guerra del Vespro Siciliano tra Angioini ed Aragonesi che portò alla nascita
della città di Castroreale (1324). Questa nuova entità territoriale sorse sul
colle di Cristina (Gricina) ricadente proprio nel territorio di Solaria.
Su un substrato di così notevole importanza storica si innesta una
parte dell’epopea dell’Ordine dei Cavalieri Gerosolimitani di Rodi e di
Malta, braccio destro del Papato nella difesa della cristianità.
Tanto prestigioso era l’Ordine che, con privilegio dato a Catania il 9
dicembre 12091, l’imperatore Federico II di Svevia, attratto dalla fama di
«perfetta osservanza della vita di religione che si conduce nella Casa
dell’Ospedale di S. Giovanni Gerosolimitano di Messina, per riconoscenza a Dio che gli da la salute e il potere, e per l’anima dei suoi genitori concede e da in perpetuo alla casa dell’ospedale di Messina la montagna di
Mosofiletu, che si trova presso il tenimento di Nogara (Novara)».
Nel marzo 1211, Ermanno de Strimberg, camerario dell’aula
Imperiale di Federico II e conte di Belvardo, dona all’Ospedale il casale
di Milici; tale donazione fu confermata dall’imperatore stesso l’8 marzo
del 1212. La donazione fu particolarmente rilevante per la casa di
Messina la quale necessitava di entrate cospicue e sicure, non solo per
la gestione delle attività ospedaliere, ma anche per far fronte alle nuove
esigenze che sarebbero derivate dalla preparazione della crociata promessa al papa per la liberazione del Santo Sepolcro dagli infedeli. Nei
territori donati venne istituito, nel tempo, un nuovo ospedale (situato nel
feudo di S. Giovanni di Rodi dipendente dal feudo di Milici), la tal cosa
rappresentò un evento di primaria importanza conferendo al territorio
ulteriore prestigio, e permise di prestare cure e assistenza a malati e pellegrini. Non è da escludere che in tale ospedale venisse controllato lo
stato di salute di pellegrini e cavalieri prima della partenza per la Terra
Santa. Su questo stesso territorio oggi è ancora presente una statua, in
pessimo stato di conservazione, raffigurante S. Giovanni Battista cui era
legato fino a poco tempo fa il culto della guarigione dei bimbi attraverso
una serie di riti socialmente condivisi. A tal proposito va ricordato come
ancora oggi all’estrema periferia sud di Rodì, vi sia una contrada denominata “partenza” dove secondo la tradizione locale confluivano i cava-
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lieri di S. Giovanni di Gerusalemme in attesa di imbarcarsi verso i territori del Santo Sepolcro.
La donazione di cui si è detto precedentemente apportò al feudo di
Milici grandi mutamenti anche politico-amministrativi. L’unità territoriale
che aveva caratterizzato i luoghi sino a quel momento subì una profonda
modificazione; il feudo di Milici viene, infatti, staccato dal demanio regio
e passa sotto la gestione totale dell’Ordine Gerosolimitano. Questa
nuova gestione portò all’introduzione nel feudo di nuovi coloni, la tal cosa
fu determinata anche dallo spopolamento dei territori costieri a causa
della guerra Angioino-Aragonese che, come detto, ebbe come effetto
determinate sul territorio la nascita di Castroreale. La nuova città inglobò
parte della popolazione di Milici e di Solaria e rimase indipendente dalla
gestione dei Cavalieri, anzi cercò nel tempo di espandere il proprio territorio ai danni dei possedimenti di questi ultimi. Intanto, come scrive Vito
Amico, in questi stessi anni, i cavalieri promossero un flusso di coloni
provenienti dall’isola di Rodi indirizzandolo nel feudo di Milici.
La situazione precipitò con la concessione del privilegio elargita
all’Università di Castroreale da parte di re Martino datata 6 aprile 1403.
Con questo atto vennero confermate le concessione del re Federico III di
Sicilia, II d’Aragona, datate1324, e inoltre venne concesso per la prima
volta lo jus pascendi et lignandi dal fiume di S. Lucia del Mela al fiume
Platì. Questo ulteriore atto determinò una accentuazione delle mire
espansionistiche di Castroreale che si protrassero nel tempo; a tal proposito, da documenti esistenti, si evince come il Priore Signorino
Gattinara (1530) dovette ingaggiare una vera battaglia legale nei confronti di cittadini castrensi che si rifiutavano di pagare i canoni enfiteutici
su alcune contrade del feudo di S. Giovanni, l’Ospedale dipendente dai
possedimenti di Milici. Si trattava delle contrade di: Trabisomiti o
Trebisonda (territorio sul quale ad oggi è sita la chiesa di S. Maria di
Portosalvo voluta e fatta edificare dai Cavalieri dell’Ordine di Malta),
Centineo, S. Antonio o lu Puladu e Jaudu, Agliando o Jaudo o Gliado o
Ylianda, Catalano, Fundu di Politi-la Cruci, Fundo di Politi e Jarrisi,
Xauda, Vaccarizzo o Bovazzo, poste sulla sponda destra del Platì. Il
risultato della diatriba legale fu a favore del Gattinara, che procedette a
revoca e a nuova concessione dei possedimenti di cui prima.
Con la scomparsa del Gattinara i rappresentanti dell’Università di
Castroreale convinsero gli abitanti delle contrade sopra citate a non
pagare più le spettanze al Priorato di Messina, forti dell’occultamento dei
documenti legali dai quali si evinceva il precedente successo del
15
Gattinara stesso.
Di fondamentale importanza per la conoscenza di Milici e Rodì ed
altri territori (attuale Terme Vigliatore e Barcellona Pozzo di Gotto) sono
gli atti del cabreo del 1687. Tale cabreo può essere considerato il primo
vero catasto di terreno pervenutoci sul territorio, da esso risulta un’elencazione dei vari elementi naturali e artificiali che caratterizzano l’area
presa in considerazione.
Fondamentale è ciò che questo cabreo riporta circa l’opera dei
Cavalieri sul territorio. A tal proposito vengono riportati sul documento
numerosi bastioni fatti edificare proprio da priori dell’Ordine per la difesa
dei luoghi che precedentemente (1583) erano andati in parte distrutti a
causa di varie esondazioni del Patrì. Risulta inoltre dal cabreo un’importante produzione agricola incentivata proprio dall’opera dei Cavalieri. Si
ha la certezza che il feudo basasse la propria produttività su due colture
fondamentali e generalizzate, quella dell’ulivo e quella del gelso per l’allevamento del baco da seta. Dagli atti si constata inoltre come la politica
attuata dall’ordine diede frutti importanti avendo permesso l’immigrazione nel territorio di persone bisognose di lavoro e sostentamento, e
soprattutto diffuso il possesso della terra. Questo secondo atteggiamento politico messo in atto dai Cavalieri determinò un evento di portata storica nel mondo agricolo di quegli anni. I Cavalieri permisero con il loro
operato l’esistenza in vita della città fluviale, garantendo la stessa dall’assalto dei Turchi e dei pirati Barbareschi attraverso la potente flotta e la
costruzione di numerosissime torri e fortificazioni. Dal cabreo risulta
altresì la descrizione del palazzo Priorale comprendente tra le altre cose
le comode stanze dei Priori, due delle quali successivamente (1749) vengono definite “Damose Reali”.
Ad oggi rimangono numerose testimonianze di manufatti e opere
d’arte che i Cavalieri hanno promosso. Il palazzo Priorale che riporta sul
portone principale lo stemma del priore Signorino Gattinara, la chiesa
parrocchiale di S. Giovanni Battista e Santa Maria delle Grazie in cui
sono custodite pregevoli opere d’arte: una statua in marmo della
Madonna dell’alloro o Santa Maria delle Grazie (opera della scuola del
Gagini XVI sec.), onorata ogni anno nel lunedì dell’Angelo attraverso un
rito antichissimo che prevede la distribuzione di rami di alloro a tutti i
fedeli; un quadro di papa Leone II mentre riceve dall’Angelo la tiara pontificia con la benedizione della Vergine, con sullo sfondo il castello dei
Cavalieri di Malta e una parte del panorama di Milici, il quadro del XVIII
sec. è opera di Domenico Puglisi, restaurato alla fine del secolo scorso
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grazie all’interessamento dell’ Archeoclub e della dottoressa Di Giacomo
e sotto l’attenta direzione della dottoressa Caterina Ciolino; una statua di
S. Rocco di autore ignoto secolo XVII; un Crocifisso tra l’Addolorata, S.
Giovanni e la Maddalena con stemma e ritratto del vicario Antonino
Caccamo 1747; una statua dell’Addolorata di autore ignoto; un quadro
della Madonna del Rosario con S. Michele Arcangelo e anime purganti
fine secolo XVIII con particolare dello stemma ed iscrizione del Priore
Michele Maria Paternò, anch’esso di recente restauro; una statua di S.
Biagio sec. XVII; quadro di Gesù e Maria di Autore ignoto (sec. XVIII);
un’acquasantiera sec. XVI; un fonte battesimale del sec. XVI. A circa
duecento metri da detta chiesa esiste una fontana con stemma dell’ordine di Malta.
Degna di nota anche la chiesa di S. Rocco che presenta, sopra il portale, lo stemma dell’Ordine di Malta. All’interno della chiesa si conserva
il prezioso altare di stile barocco con incastonata la statua di S. Rocco di
materiale ligneo artisticamente lavorato, la stessa è affrescata con scene
della vita del Santo, di autore ignoto sec. XVIII.
Ing. Andrea Zanghì,
Vice Presidente della
Fondazione Studi Militensi “Itaca Onlus”
17
Note
1
In proposito si ricorda che la traduzione di concessione e privilegi a favore dell’Ordine
Gerosolimitano di Messina è merito del compianto prof. Salvatore Ruggeri, il quale, traendo
spunto da mie precedenti ricerche si adoperò impiegando tutte le sue conoscenze e le sue
doti affinché le stesse venissero ampliate e perfezionate. È doveroso altresì precisare che una
parte delle concessioni di cui sopra sono riportate in C. Duro, Rodì Milici dalle origini ad oggi,
Rodì Milici 1997.
18
1.2 Note sulla “camera priorale” di Milici: casali, chiese, feudi.
A partire dalla prima metà del XII secolo, in seguito all’ondata di entusiasmo religioso suscitato dalla prima e dalla seconda crociata, re e
dignitari di tutta Europa si prodigarono in donazioni a favore del neonato
Ordine militare di S. Giovanni di Gerusalemme. Il fenomeno riguardò inizialmente la Provenza e la Spagna per poi allargarsi a macchia d’olio a
Francia, Inghilterra, Impero, Ungheria, Polonia e Scandinavia. Anche
l’Italia normanna partecipò, forse con qualche anno di ritardo e inizialmente anche con qualche remora in più1, alla generale dotazione
dell’Ordine, tanto che il priore gerosolimitano di Messina aveva giurisdizione su tutti gli altri priorati italiani, sopratutto quelli dell’Italia meridionale (per questo dalla seconda metà del ’200 fu designato come “Gran
Priore”), e aveva un pari grado solo nel priore di St. Gilles in Provenza,
che aveva autorità sui priorati francesi, spagnoli, inglesi e su alcuni
dell’Italia settentrionale, geograficamente vicini alla regione francese2.
In particolare gli anni tra il 1197 e il 1212 segnarono un periodo di
«grande fortuna degli Ordini» cavallereschi, e di quello gerosolimitano in
particolare, dato che «la debolezza della corona fece sì che la maggior
parte dei donatori degli ordini concedesse beni che in realtà appartenevano al demanio reale». Fu così che i gerosolimitani tra il 1209 e il 1211
ebbero concesso il grosso feudo di Milici, con l’omonimo casale, collocato nella piana di Milazzo e compreso nel territorio di Castroreale, e
«ottennero [...] la collina fortificata di Montana Mesofletu, nei dintorni di
Novara di Sicilia»3. Si trattava di un complesso territoriale assai ampio e
compatto -la “camera priorale” di Milici, altre volte indicata come com-
menda ruris Milicis–, che nel corso dei secoli successivi avrebbe garantito alle casse del priorato di Messina una cospicua e costante rendita. Tra
l’altro, «presso questo feudo [Milici], i cavalieri crearono, nella seconda
metà del Quattrocento, anche una tonnara, estendendo i loro possedimenti quindi alla costa. Alla fine del Medioevo, la zona di Rodì-Milici
acquistava la sua vera importanza nelle strutture dell’Ordine e le attività
dei cavalieri lasciarono la loro traccia sul territorio siciliano»4.
Informazioni dettagliate sul patrimonio della camera priorale di Milici
sono contenute nella documentazione che periodicamente l’Ordine produceva al fine di aggiornare la conoscenza dello stato dei suoi beni patrimoniali, migliorarne l’amministrazione, incrementarne la rendita ed evitarne l’usurpazione. Per statuto, infatti, i titolari di priorati e commende
erano tenuti ogni venticinque anni a presentare un inventario dettagliato
19
–detto “cabreo” dalla corruzione del latino caput breve– dei beni loro assegnati5. Ai cabrei si aggiungevano, e a volte si sovrapponevano, le “visite”, ovvero le ispezioni in loco degli stessi beni affidate a commissari
dell’Ordine incaricati per l’occasione. Le visite potevano essere di due
tipi: quelle detta “dei miglioramenti”, per la verifica delle migliorie apportate in una singola commenda, e le visite generali di tutte le commende
e beni di un priorato, che spettavano ogni cinque anni al priore in persona o a due commissari da lui delegati.
Di visite generali, nel priorato di Messina, se ne svolsero in realtà soltanto tre, almeno nel corso dell’età moderna, negli anni 1555, 1603-04 e
17496, e lo scarto tra la periodicità prevista dalla norma e l’assai più lenta
pratica amministrativa si ripeteva spesso anche per la scadenza venticinquennale dei cabrei. Per i beni direttamente amministrati dal priorato, tra
i quali quelli di Milici, infatti, se i tempi furono più che rispettati nella
seconda metà del ’600 –cabrei del 1665, del 1686-91 e, a pochissima
distanza, quello del 1695-98, resosi necessario per verificare l’entità dei
danni provocati dal terremoto del 16937–, nel secolo successivo si fecero
molto più lunghi, tanto che i commissari della visita generale del 1749
sollecitavano entro cinque anni la redazione di un nuovo cabreo, «essendo ormai trascorso il tempo prescritto dallo Statuto V° delle Commende»8
(da ben 26 anni), le cui procedure cominciarono però soltanto nel 1759 e
si conclusero addirittura nel 17739!
La documentazione contenuta in visite e cabrei è, per la verità, lacunosa su molti aspetti (per esempio dal punto di vista demografico), spesso ripetitiva e monotona anche per gli addetti ai lavori, ma tuttavia sufficiente a far “rivivere”, seppure in maniera frammentaria, la realtà di un
territorio “periferico” e dei suoi abitanti, soggetti per secoli all’amministrazione di un ordine cavalleresco come quello gerosolimitano.
I luoghi e gli attori che emergono dall’analisi di questa documentazione si concentrano intorno ai due casali di Milici e Rodì, sui quali il priore
di Messina godeva di giurisdizione spirituale esclusiva –esente dunque
da quella del vescovo di Messina-, ciascuno con la sua chiesa amministrata da un cappellano locale, principale referente del priore o dei suoi
procuratori.
Intorno ai due casali si estendevano poi i tre feudi di Milici, di S.
Giovanni di Rodi (o li Pilligrini) e di Musufleti (ma una parte di questo,
Ginistrito, è a volte indicato come un quarto feudo a se stante), compresi nel territorio di Castroreale, che dal mare, seguendo il corso del fiume
Patrì (frequenti erano le inondazioni e la rottura degli argini), si spingeva-
20
no verso l’interno montagnoso fino a confinare col territorio di Novara10.
Le colture prevalenti erano il grano, la vite e quelle arboree dell’olivo e
del gelso, affidate di norma all’intermediazione di un gabelloto locale,
che spesso riscuoteva anche i canoni di decine e decine di censi enfiteutici, i più antichi dei quali sono documentati per gli anni ’30 del ’500. Sui
feudi vigevano inoltre diversi diritti, attivi e passivi, di pascolo, semina,
legna, ecc., possibile fonte di controversie con i feudatari confinanti, laici,
ecclesiastici e città demaniali.
La camera priorale di Milici aveva infine anche una dipendenza periferica, o “membro”, nella città di Patti, consistente nella chiesa di S.
Giovanni –sempre soggetta alla giurisdizione spirituale del priore (ed
esente questa volta da quella del vescovo di Patti) –, amministrata da un
altro cappellano del luogo, e in una settantina di censi enfiteutici.
Un importante impulso al popolamento e allo sviluppo del casale di
Milici si può senz’altro far risalire all’opera di fra Signorino Gattinara,
nipote del famoso cancelliere di Carlo V Mercurino e priore di Messina
dal 1528 al 1567. Per sua iniziativa fu infatti restaurato il palazzo priorale di Milici, che a tutt’oggi ne conserva alcuni stemmi (uno dei quali proprio sopra il portale della “torre grande”), e vennero stipulati molti contratti enfiteutici con la probabile finalità di rimettere a coltura terre abbandonate11. Agli anni di governo del priore Gattinara risalgono anche le prime
notizie sul ricorso alla gestione indiretta dei beni della commenda priorale, attraverso l’affitto in blocco ad un unico gabelloto. Nel settembre del
1547 i proventi del priorato nel territorio di Castroreale, «videlicet feudi
Milici, Musufleti e S. Giovanni», e gli «iura censualia, gabellarum, decimarum, terragiorum, glandes et olivas, herbagia et aliosquoscumque
redditus et proventus ipsorum pheudorum et civitatis Pattarum cum viridario Sante Marie de Milichi et usu domorum», furono infatti concessi in
gabella per tre anni allo spettabile don Antonio Ventimiglia di Messina
per la somma di 170 onze, 100 salme di frumento e 70 d’orzo (equivalenti in tutto ad altre 100 onze circa)12. Diciotto anni dopo, per la gabella
degli anni 1566-72, il canone era salito a 300 onze insieme con l’obbligo
di provvedere al salario del cappellano della chiesa di S. Maria di Milici
(8 onze)13, incremento per la verità modesto rispetto al coevo trend del
mercato della terra nell’isola14.
Agli anni immediatamente successivi, e precisamente al 1573, risale
anche l’unico riferimento demografico: secondo due “onorabili” del luogo,
infatti, sentiti a Messina come testi per mandato del luogotenente del
priorato Francesco Marullo, il casale di Milici contava in quel momento
21
300 fuochi15 (cifra a mio avviso decisamente sovrastimata), a quanto
pare, non sufficientemente assistiti da un punto di vista spirituale: molti
malati erano infatti spirati senza ricevere gli ultimi sacramenti e molti
bambini senza il battesimo, stante la distanza da Castroreale, dove evidentemente risiedeva il cappellano stipendiato dal gabelloto.
La mancata attenzione spirituale doveva essere piuttosto diffusa, se
a distanza di una trentina d’anni, in occasione della visita generale del
1603-04, i due commissari incaricati dal priore Alemaro Lanqueglia provvidero alla sostituzione dal cappellano della chiesa gerosolimitana di S.
Giovanni Battista di Patti. Il cappellano precedente, infatti, il «presti»
Giacomo Chioppu, religioso di S. Pietro, era allo stesso tempo uno dei
cappellani della chiesa parrocchiale di S. Michele di Patti, motivo per cui
«non attendi» la chiesa dell’Ordine e non vi celebrava le due messe settimanali previste. Non a caso i due visitatori stilarono un lungo elenco
«de rebus necessariis in ditta ecclesia» cui provvedere entro quattro
mesi: paramenti e altri arredi liturgici, un piccolo altare, nonché un
«inchiancato» contro le infiltrazioni d’acqua. Il nuovo cappellano fu scelto nella persona di tale Donato de Donato, anche lui religioso di S. Pietro,
sacrae teologiae doctor e «persona litterata, intelligenti, theologo et predicatore [...] homo di bona vita, fama et condictione. Il quali ha soluto et
soli giornalmenti diri messa et nelli tempi statuti predicari, elemosinario
virtuoso et d’habeni, habili et sufficienti per serviri qualsivoglia ecclesia».
La sua nomina fu esplicitamente motivata non solo con il cattivo servizio
prestato dal Chioppo, ma anche «ob culpam, causam et defectum reverendorum
cappellanorum
obedientie
ditte
Sacrae
Religionis
Hierosolimitanae», ovvero i sacerdoti che erano ammessi all’Ordine proprio per garantire l’assistenza spirituale nelle chiesa periferiche dei priorati e delle commende16.
Diversa la situazione che i visitatori riscontrarono dopo qualche giorno nella chiesa di Milici, la cui assistenza spirituale era evidentemente
migliorata in seguito alle denunce del 1573. Il cappellano in carica già da
due anni e mezzo, tale don Agostino Perroni, oltre a godere di un salario
di 10 onze e di «tutto quillo oglio abastanti et necessario per allomarci li
lampi in ditta ecclesia», disponeva adesso di un’abitazione «franca» –un
piano con tre stanze- di fronte la chiesa stessa (non risiedeva dunque più
a Castroreale). Il Perrone, pur avendo l’obbligo di celebrare la messa soltanto la domenica e nelle feste comandate, lo faceva con molta devozione tutti i giorni, e godeva dell’affetto degli abitanti del casale, anche perché suppliva alla mancanza dei servizi di una chiesa parrocchiale: nella
22
gerosolimitana S. Maria di Milici, infatti, da circa trent’anni era riservato il
Santissimo Sacramento in attesa che il «popolo si farrà et frabichirà
ecclesia commoda»17.
«Collaterali» con la chiesa era il fabbricato della “torre grande”, che
si sviluppava su due piani intorno a un «cortiglio» ed era costituito da una
dozzina di stanze, tre magazzini e una cucina dammusata con «chiminia
facta a timpagnolo con dui furni et suo fucularo in terra». L’edificio richiedeva la riparazione dei tetti, che i due visitatori disposero fosse conclusa
entro 4 mesi. Adiacente al fabbricato della torre si aprivano due giardini,
entrambi recintati da mura a cotto. Il primo «consisti in quattro quatretti
et spalleri nelli quali [...] vi sono cento ottanta quattro pedi di arangi», 7
di mirtillo, 7 di fico, 2 di melograno; l’altro giardino, detto «grande» per la
sua estensione (una salma) aveva al centro due fonti d’acqua «con sua
gebbia grandi», 13 piedi di aranci e una sessantina di gelsi tra grandi e
piccoli18.
Un’altra chiesa, S. Giovanni di Rodi –che a parere dei visitatori necessitava di nuovi arredi sacri e di alcune riparazioni-, costituiva il centro di
un piccolo nucleo abitato all’interno dell’omonimo feudo, circondata
com’era da 9 case «con loro clausuri attorno attorno», per le quali gli abitanti pagavano un affitto sotto forma di censo perpetuo; essi avevano
«facta modernamente», a loro spese e «per loro commodità», anche una
«biviratura» in pietra (metri 4 per 1,8) con «suo cannolo in bronzo» e
acqua corrente19. Ma a distanza di centocinquant’anni, a detta dei commissari della visita generale del 1749, l’abitato «era in rovina e la chiesa
abbondonata»20. Nello stesso anno era invece in ricostruzione a Milici la
chiesa di S. Rocco, inesistente al tempo della visita del 1603-04 e probabilmente coincidente con la chiesa «commoda» di cui gli abitanti del
casale sentivano l’esigenza21.
Dopo l’esame delle chiese, dei loro arredi e caseggiati circostanti, nei
quattro giorni successivi i due commissari «oculatim viderunt, deambulaverunt, visitaverunt» i tre grossi feudi della camera priorale di Milici,
descrivendone con accuratezza i confini, la conformazione del terreno e
la destinazione colturale. Il feudo di Milici, fatta eccezione per 30 salme
«seminatorie, [...] consisti in una montagna aspera», con alberi di «ruvoli, [...] carpani, s[a]lici, aciri, gulmi, fraxini et ogliastri»; la rendita «consisiti in erbagii, terragii, olivi, fronda di cheuzo et incensi, nello quali fego vi
sonno dui casali, uno nominato Milici et l’altro Rodi, e tutti li casi di dicti
dui casali con loro arbori di cheuzi, con loro chiusi di terra pagano
ogn’anno censi perpetui». Ancora più accidentata era la conformazione
23
del feudo della Montagna di Musufleti –«aliter Musueti et lo Ginistrito»–
consistente in «boschi di oglianda et ilici et altri arbori salvatichi et in
alcuni pochi terragii et erbaggii»; su Ginistrito il priore deteneva lo ius
seminandi e quello della raccolta delle ghiande, mentre lo ius pascendi
spettava all’università di Novara. Più pianeggiante e confinante col mare
era invece il terzo feudo di S. Giovanni di Rodi, che comprendeva infatti
tre tenute di terre seminatorie: Marchesana (23 salme), Saraca o Salici
(10 salme, più altre 12 «rustichi» per foraggio) e Franchina (9 salme e
altre due 2 rustiche)22.
Come confermato dalle deposizioni di tre anziani del luogo, i tre feudi
erano «nobili», senza «aggravio né serviczio alcuno né ad serviczio militare né ad angaria reggia», dipendevano esclusivamente dalla giurisdizione dei priori di Messina, che da sempre vi avevano tenuto «li loro bagli
tanto per le difese di quilli quanto ancora per la sua iurisdictioni che tenia
detto signori priori di la dohana di tutti li bestiami che teniano in detto fego
quali, soliano pagari la dohana a detto signor priori»23. Infine l’attuale
priore e i suoi procuratori e «affittatori» mai avevano «concesso, alienato, pignorato, permutato, venduto, né dato» alcun bene o giurisdizione,
né tagliato alberi, domestici o selvatici, «di alta cima», e mai la commenda di Milici era stata coinvolta in cause e liti, attive o passive, tanto meno
perse per «causa et culpa loro»24.
La precisione nella descrizione dei confini e dei diritti vigenti sui feudi
non era frutto di pedanteria, ma della necessità di preservarli da usurpazioni. Per questo motivo fu ripetuta, se possibile con maggiore accuratezza, nella visita di un secolo e mezzo dopo, sicuramente a seguito di
alcune liti in corso: rivendicazione di porzione dei feudi di S. Giovanni di
Rodi e di Musufleti, rispettivamente da parte del barone della Scala (per
il suo feudo di Vigliatore) e dei monaci basiliani; pretese del principe di
Patti che «vole l’uso delli legni [...] per la tonnara che fu redificata»25;
usurpazione dello ius pascendi e dello ius lignandi sul feudo di Milici da
parte degli abitanti di Castroreale per «trascoratagine dell’antecedenti
affittatori»; altra usurpazione, questa volta su Musufleti, da parte dei
«casteggiani come delli novaresi» del «filatto per insino a prima
carne»26.
La visita del 1603-04 si concluse con l’esame da parte dei commissari di un lunghissimo «rollo» di iura censualia: si trattava di circa 300
censi per un totale di 50-55 onze di canoni annuali, gravanti su fondi posti
in diverse contrade27, a cui erano da aggiungersi «li casi in lo piano di
Milici et di Lamandra», cioè una quarantina di edifici sui quali i conces-
24
sionari pagavano 1 tarì ciascuno. I visitatori raccomandarono finalmente
che entro un anno fossero redatti i rispettivi atti recognitori e si procedesse alla misurazione delle terre concesse28: stessa indicazione già data
dopo aver esaminato nei giorni precedenti un analogo rollo di censi dovuti alla chiesa di S. Giovanni Battista di Patti29. Si tratta di una raccomandazione costante in tutte le visite e cabrei dei beni gerosolimitani, al fine
di mantenere costante l’esazione dei canoni annuali di fondi così preziosi –vigne, oliveti e orti, spesso dotati di pozzi, piccole case e magazzini,
che a volte erano stati oggetto di migliorie in passato –, non tanto per
ragioni economiche immediate quanto affinché non se ne perdesse la
memoria e quindi la prova del possesso, tanto più nei casi, assai frequenti, di prolungata morosità30.
Come nei contratti di gabella già citati del 1547 e del 1573, i proventi della camera priorale di Milici risultavano nei primi anni del 1600 affittati in blocco –i quattro feudi (Ginistrito è contato come a se stante), le
terre, i due giardini, i censi (anche quelli di Patti)- per 720 onze più diverse quantità di prodotti in natura, i cosiddetti “carnaggi”31, e la solita corresponsione al cappellano di S. Maria di Milici di un salario di 10 onze e
dell’olio per le lampade della chiesa32.
Il ricorso all’arrendamento in blocco, piuttosto che ai singoli affitti a
più gabelloti, era pratica frequente dei procuratori/amministratori dei beni
del priorato e delle commende33, condizionato probabilmente dall’andamento del mercato della terra: la presenza di grossi gabelloti-arrendatari potrebbe infatti essere messa in relazione con una congiuntura economica favorevole34; non appena invece il mercato della terra accennava a
ristagnare e a farsi più difficile, questi grossi intermediari si mettevano da
parte, lasciando spazio ad altri gabelloti, che attirati dai recenti profitti dei
loro predecessori, facevano tutte le spese della fase di recessione35. Non
è allora un caso che negli anni dal 1658 al 1667 i censi di Milici fossero
affittati separatamente per un canone oscillante tra le 35 e le 40 onze,
che per altro equivale a quasi un terzo in meno rispetto al totale dei canoni “rollati” nella visita di sessant’anni prima; molto probabilmente di molti
di essi si era persa la prova documentale del possesso36.
Ma un’altra spiegazione dell’affitto separato dei censi potrebbe essere stato frutto di una precisa strategia gestionale degli amministratori del
priorato: un gabelloto “dedicato” soltanto a questa voce di affitto, aveva
infatti tutto l’interesse a perseguire un’efficace riscossione dei canoni: più
ne riscuoteva, più aumentava il suo margine di guadagno rispetto all’ammontare della gabella37. Effettivamente ancora negli anni ’40 del secolo
25
successivo, i censi erano affittati separatamente dal resto del patrimonio
della camera priorale. Ne dà conferma un interessante documento di sintesi, «Rivelo del Gran Priorato di Messina», presentato ai due commissari visitatori del 1749, dal «balì fra’ don Gaetano Bonanno come incaricato dell’amministrazione dell’effetti tutti del Gran Priorato di Messina
della Sagra Religione Gerosolimitana in actu visitationis [...] continente la
presente relazione tutti l’effetti che possiede il detto Venerando Gran
Priorato tanto in fondi rusticani quanto in beni urbani, ed allodiali, ed altre
possessioni con il loro annuo introito». Mentre infatti i «molti censi» risultavano in quel momento affittati al sacerdote don Francesco Lo Presti al
canone di onze 74.20 annuali, i feudi della camera priorale «si ritrovano
gabellati a riserba dell’infrascritti censi» a un altro sacerdote, don
Giovanni Ambrosiano, amministratore della chiesa di S. Maria, adesso
col titolo di parrocchia, e cappellano delle altre chiese del casale, per
l’importo annuale di onze 466.2038. Un’altra lista di beni patrimoniali del
priorato contenuta nel Rivelo –«Asienda del Gran Priorato di Messina
dello Stato passato ed presente Stato»– dà per altro notizia di un significativo incremento delle due gabelle precedenti (anni 1740-42), ascendenti rispettivamente a 360 onze per i feudi e a 64 onze per i censi39. Si
tratta di un aumento in linea con una nuovo trend positivo del mercato
della terra, dopo la crisi seicentesca. È interessante anche notare che nel
1749 i proventi di Milici (feudi e censi) “pesavano” sul totale lordo degli
introiti del priorato (onze 2555) nella significativa percentuale del 21%.
Nei decenni successivi la rendita della camera priorale si incrementò
ulteriormente: i censi riscossi nel periodo novembre 1788-ottobre 1789
balzarono a quasi 110 onze e nel 1813 –anno nel quale il patrimonio del
priorato era ormai passato sotto il controllo dell’amministrazione borbonica40– raggiunsero le 117 onze. In quello stesso anno la gabella dei
feudi di Milici comportava un introito di 1245 onze (ma nel 1804 era di
1350 onze) e insieme con i censi rappresentava una fetta ancora più
importante dei proventi complessivi del priorato (poco più di 3700 onze),
il 36%41. Tale progressiva crescita delle rendite del patrimonio gerosolimitano, da inquadrare ancora una volta all’interno del più generale andamento del mercato della terra42, fu anche il risultato di un’oculata gestione economica affidata a una rete-clientela di procuratori/amministratori
locali –gentiluomini, professionisti (come notai e giuristi), ecclesiastici
(prima fra tutti i cappellani delle chiese dell’Ordine)– i quali ne ricavavano
un duplice vantaggio: da un lato, un maggiore prestigio sociale derivante dal blasone dell’Ordine e, dall’altro, la possibilità di privilegiare, tra gli
26
interlocutori economici interessati all’affitto dei beni della commenda,
quelli a essi legati da ragioni di parentela e di interessi43.
A fronte di sostanziose entrate non mancavano ovviamente le molte
spese, tra le quali i salari del personale dipendente (amministratori, cappellani, archivisti, avvocati, notai), che nel 1813 ascendevano per esempio a onze 40544. Pesante era anche l’esborso di somme per far fronte o
per prevenire i danni causati dall’acqua (inondazioni di torrenti e piogge)
e da un terreno evidentemente franoso. Così dalla visita del 1603-04
risultava che il priore aveva ricostruito l’argine del torrente Patrì con
calce, pietra e sabbia (circa metri 26 per 3 per 5), «per reparo che lacqua
di detto fiume non dannificassi li terri et olivito di detto fego di Milici come
feci li anni passati che tutto detto olivito dannificao», e analogamente in
contrada Salica (feudo di S. Giovanni di Rodi) un «bastioni fabbricato
novamente di calci et rina» (circa metri 75 per 1 per 5), per evitare i danni
causati dal fiume nel passato45, che però nel 1749 non c’era più, tanto
che la contrada era allagata46. Da lì a qualche anno sarebbe scoppiata
una vertenza con Domenico Coppelino, gabelloto per sei anni a partire
dal settembre 1754, per «li pretesi acconcii» da lui fatti per i danni delle
esondazioni dei torrenti Mazzarrà e Ruzzolino (il Patrì), «per annettare le
secche», per i «rovoli allavancati e depersi» e per quelli tagliati «per li
reali serviggi» (legname per i cantieri navali dell’arsenale)47.
In merito alla giurisdizione spirituale di cui il priore di Messina godeva sugli abitanti dei casali di Milici e Rodi –e che provocò più volte accese liti con l’arcivescovo di Messina48–, è di grande interesse un bando
emanato dai due commissari visitatori del 1749, anno nel quale la chiesa di S. Maria di Milici risultava per altro (ma non si sa da quanto tempo)
con il titolo di parrocchia, e il suo cappellano con quello di vicario foraneo, con competenza «in omnibus quibuscumque causis civilibus contra
subditos nostros et h[uius] m[ilicis] c[uriae] pro summa unciarum decem
infra et non ultra et criminalibus ad dictam curiam foraneam spectantibus
e pertinentibus»49. Si trattava di status canonici che ampliavano ulteriormente la giurisdizione spirituale del priorato. Il bando era indirizzato ai
«sudditi di questa parochiale chiesa di Santa Maria di Milici, che abbiano a revelare fra il termine di otto giorni da contarsi da oggi che sono li
novi di novembre quanto si contiene in questo editto
e Primo si ammonisce a qualsivoglia persona nostra suddita che
sapesse che alcuna persona vivesse scandalosamente, ed ammonito
continuasse nel suo peccato dovesse manifestarlo
Secondo se sapessero che per difetto del Reverendo Vicario o
27
Cappellano Coadiutore avesse morto qualcheduno in questo casale
senza sacramenti lo deve ancora manifestare
Terzo se sapesse che l’Ill.mo e Rev.mo Sig.r Gran Priore o suo Ill.mo
Luogotenente non avesse amministrato la giustizia o taluno de suoi officiali se avessero commesso qualche agravio, sicome se avessero
lasciato di favorire li suoi sudditi e vassalli del Ven.do Gran Priorato lo
dovrà manifestare
Quarto se sapesse che qualcheduno avesse occupato terre, predii,
censi, case o altre possessioni, o scritture, o altre cose appartenenti al
Venerando Gran Priorato di S. Giovanni Battista della Nobile Città di
Messina, o pure se qualcheduno avesse levato li segni o rotto li confini
dei beni di detto Gran Priorato dovrà manifestarlo.
[...]
e nel caso che alcun suddito nostro scordato della propria conscienza e
per diabolica sugestione non manifesterà lo che a lui è noto o per certa
scienza o perché l’ha inteso dire resta ammonito che elasso detto termine di otto giorni incorrerà nella pena contenuta nei Sacri Canoni data alli
disubidienti.
«E per ultimo di notifica alli reverendi preti confessori da noi approvati
che li casi da noi riservati sono li seguenti:
1. homicidium volumptarium
2. raptores virginum et stupratores vi et metu
3. plores soffocantes
4. bestialitas
5. detractores
6. incestus primi et secundi gradus nec non affinitatis spiritualis
7. furantes res sacras de loco sacro, vel non sacras de sacro, vel sacras
de non sacro
8. iuramentum falsum corma iudice
9. bonorum ecclesiasticorum invasores vel retinentes
10. non esequentes aut impedientes esecutiones ultime volumptatis
testatorum ad pias causas.
Quali casi si intendono riservati al Reverendo Vicario o altra persona
ecclesiastica dell’Illustrissimo e Reverendissimo Gran Priore di Messina,
onde per non allegare ignoranza si a’ fatto e publicato il presente editto,
datum in domo Priorali huius ruris Milicis in discursu visitationis hodie die
nono novembris 1749»50.
Non c’è dubbio che attraverso un’importante funzione come quella
della cura d’anime, la presenza gerosolimitana nei due casali di Milici e
28
Rodì, ben oltre la semplice amministrazione del loro territorio, incise profondamente anche sui costumi e i comportamenti dei suoi abitanti. Si
tratta di un aspetto di grande interesse, che meriterebbe di essere approfondito e studiato anche per altri casali gerosolimitani, prima fra tutti quello di Castania, dotato di una parrocchia dipendente dal priorato già al
tempo della visita del 1603-04 e la cui giurisdizione spirituale, infatti, «dal
XV secolo diede luogo ad una lunga diatriba tra il gran priorato e l’arcivescovado di Messina che si concluse soltanto nel 1772»51.
A conclusione di queste note, credo sia opportuno riportare la descrizione del palazzo e degli altri edifici della camera priorale di Milici, contenuta sempre tra i documenti preparatori per la visita del 1749, redatta
dal cappellano della chiesa e gabelloto della camera priorale, don
Giovanni Ambrosiano, il quale ci tenne a ricordare nell’occasione, non
senza malcelato orgoglio, le «aconce fatte da me infrascritto nel Palazzo
che era inabitabile»:
«dalla parte del casale con due damose reali sotto un magazeno di
formaggio nel solaro di mezzo due camere, ed una camera nel ultimo
solaro, ed una camera che serve per cocinare; della parte di oriente vi è
un solaro con due machazieni sotto di frumento, sopra una sala e camera, in mezzo di detto Palazzo la sua schala di pietra ed un altro macazeno di frumento vicino detta chiesa, in casuncoli nel piano di detta chiesa
con due cameretti per una per servicio del vicario cappellano e sacristano; un loco nominato il Giardino in detto casale attorniato un tempo di
muro, ed ora dissipato divenuto publico per la trascoratagine dell’antecessori gabelloti existente in terreno scapulo pochi celsi, seu sicomi, con
un canale d’acqua»52.
Oggi come allora la sensibilità di autorità, studiosi e specialisti ha salvato dalla «trascoratagine», almeno parzialmente, un piccolo patrimonio
di memoria locale, legato alla storia di un Ordine che continua a suscitare curiosità nell’opinione pubblica e interesse nella comunità scientifica.
Dott. Fabrizio D’Avenia
Dipartimento di Studi Storici e Artistici
(Università di Palermo)
29
Note
Abbreviazioni utilizzate: Asp = Archivio di Stato di Palermo; Cm = fondo Commenda della
Magione; fz. = filza; Nlm = National Library of Malta; Aom = Archive of the Order of St. John;
arch. = archive (volume di Aom); sf = senza numerazione di fogli; sd = senza data.
Moneta di conto di siciliana: onza da 30 tarì (1 tarì = 20 grani); 1 scudo = 12 tarì.
Misure di superficie: salma da 16 tumuli (1 tumulo = 4 mondelli) = variabile da ettari 1,78 a
ettari 2,26 (a Messina).
Misure di capacità: salma da 16 tumuli = hl 2,75.
Misura di peso: cantaro da 100 rotoli = kg. 79,342.
1
Bresc fa rilevare come «ogni istituzione militare infatti, pur potendo suscitare delle simpatie
del ceto nobiliare dei conti tradizionalmente avversi, doveva invece essere perfettamente controllata dalla monarchia» (H. BRESC, I Cavalieri in Sicilia tra potere e società, in La presenza
dei cavalieri di San Giovanni in Sicilia, vol. II, Atti del convegno internazionale (Palermo, 7
aprile 2001), Roma 2002, p. 13.
2
Dagli anni ’50 del XII secolo i tre priorati di Aragona, Castiglia e Portogallo diventarono indi-
pendenti e dopo il 1170 furono posti sotto il controllo del Gran Commendatore di Spagna. Dal
’400 in poi l’uso del termine “Gran Priore” verrà esteso anche ad altri semplici priorati. In Italia
è il caso del priorato di Capua e Barletta a partire dal 1653 (cfr. K. TOOMASPOEG,
L’insediamento dei grandi ordini militari cavallereschi in Sicilia, 1145-1220, in La presenza dei
cavalieri di San Giovanni in Sicilia, vol. I, Atti del convegno internazionale (Palermo/Messina,
17-18 giugno 2000), Roma 2001, p. 42; H.J.A. SIRE, The Knights of Malta, New Haven and
London 1996, pp. 101, 110.
3
K. TOOMASPOEG, L’insediamento dei grandi ordini..., cit., p. 45. Una trascrizione delle due
concessioni si trova rispettivamente in A. MINUTOLO, Memorie del Gran Priorato di Messina,
Stamperia Vincenzo d’Amico, Messina 1699, pp. 25-26; R. PIRRI, Sicilia Sacra, Palermo 1733,
pp. 934-935.
4
K. TOOMASPOEG, La geografia del patrimonio dell’Ordine di San Giovanni di Gerusalemme
nella Sicilia medioevale (1145-1492), in La presenza dei cavalieri..., vol. I, cit., p. 94.
5
Cfr. H.J.A. SIRE, The knights..., cit., p. 107. «Cabrei o siano riconoscenze» (Nlm, Aom, arch.
1666, Compendio del Codice Gerosolimitano del 1783, Malta 1783, p. 21).
6
Cfr. Asp, Cm, fz. 402, Visita generale del 1603-04, f. 1r, dove si legge: «Visita dell’anno 1604
nella quale si vede che l’antecedente fu fatta al 1555 come dicono li visitatori sulla visita della
Chiesa di Polizzi. Risarcito in tempo della Visita Priorale dell’anno 1749». Non molto diversa
dovette essere la frequenza di queste visite anche in altri priorati. Nel 1602 il Gran Maestro e
il suo Consiglio inviarono al priore di Messina lettere del tenore seguente: «perché siamo stati
informati al principio del nostro governo che [in] molti priorati non s’observano li nostri statuti
che supra ciò dispongono et in alcuni altri sì, ma con poca diligenza et executione delle cose
comandate in dette visite, del che redonda non poco danno et interesse a nostra Religione, et
sopratutto trascorataggine et scandalo delle cose del divino culto, habbiamo advertiti a tutti li
Priori et soi locutenenti nelli soi priorati observassero il titulo De Visitationibus et tutti l’altri statuti et ordinationi che supra ciò dispongono, mandandoci in questo convento processi et
instrumenti di dette visite, et perché da allora fin qua non ne ha comparso cosa per la quale
possiamo acquietarci nella coscientia... vi pregamo per le viscere del Signore et hortamo et
comandamo a tutti, in virtù di santa obedienza et sotto le pene nelli nostri statuti contenute,
che subbito al ricevere del presente in nostra capitulo o vero assemblea habbiati di eligiri et
deputari dui religiosi l’uno cavaleri Commendatori et l’altro Cappellano pure Commendatore
si possibile sarrà o delli altri cappellani dell’Ordine nostro atti, idonei et sufficienti et si cossì vi
parerà più commendatori cavaleri et cappellani, acciò che in uno istesso tempo partendo a
diversi parti di detto priorato più presto e con più facilità si complisca la visita» (ivi, ff. 1r e ss).
30
Il corsivo è mio.
7
Ivi, fz. 551, primi ff., relazioni di revisione dei cabrei del 1665 e del 1687 (25 ottobre 1691 e
18 dicembre 1698); cfr. anche ff. 119r-123r, ordine del vicerè Uzeda (Palermo, 23 maggio
1689) agli ufficiali del Regno, e in particolare a quelli di Castroreale e Patti, di pubblicare il
bando per la redazione del cabreo della «commenda priorale di Milici, S. Giovanne di Rodi,
Musufleti, Genistrito, feudo nobile e senza nessuna angaria in conformità della concessione
reale, sito e posito nel territorio di Castroreale», comprendente anche nel territorio di Patti il
«membro della chiesa di S. Giovanni d’essa città, dependenza e Gancia di detta commenda
di Milici».
8
Nlm, Aom, arch. 6123, Ordinazioni della Visita Generale del Gran Priorato di Messina del
1749, titolo 11°.
9
«Dalla piena cognizione di ognuno la savissima legge da gran tempo nella sagra religione
gerosolimitana, conchiusa e stabilita, pella quale prescritto viene che in ogni anni 25 rinovar
si dovessero i Cabrei seu Inventari generali delle rendite delle Commende, Priorati ed ogn’altro a detta Sagra Religione appartenenti per non venire in ogni futuro tempo a deperdersi o
deteriorarsi dette rendite, resta compreso per actum facti in detta general legge il Gran
Priorato di questa nobile città di Messina, del quale fra gli altri vedesi l’ultimo Cabreo fatto nell’anni 1695 sin all’anno 1698 per le rendite e beni esistenti in questa suddetta città e suoi
casali quantocché sembra esservi stata positiva omissione nell’antichi Venerandi Priori per la
rinovazione di detto Cabreo, onde non può negarsi che tal dimora, e lasso di tanto tempo
recato abbia qualche preggiudizio allo stesso Priorato colla deteriorazione e perdizione di
molte rendite, e che bisognate vi fossero ingenti spese ed incessanti fattighe per rintracciare
dette rendite e leggittimare molti censi da quel tempo in qua depersi e ridurli in atti d’esiggenza; e di gran lunga maggiore sarebbe stato il preggiudizio di detto Gran Priorato se di vantaggio postergata si fosse la rinovazione di detto Cabreo» (Asp, Cm, fz. 578, Cabreo del Gran
Priorato di Messina dell’anno 1773, f. 4r).
10
Per una approssimativa ricostruzione cartografica di metà ’800 – quindi posteriore di quasi
cinquant’anni alla confisca del patrimonio gerosolimitano da parte della Corona borbonica –
cfr. Le mappe del catasto borbonico di Sicilia. Territori comunali e centri urbani nell’archivio
cartografico Mortillaro di Villarena (1837-1853), a cura di E. Caruso, A. Nobili, Regione
Siciliana, Assessorato dei Beni Culturali ed Ambientali e della Pubblica Istruzione, Palermo
2001, pp. 180 (Castroreale), 222 (Novara).
11
La Sicilia dei cavalieri. Le istituzioni dell’Ordine di Malta in età moderna (1530-1826), a cura
di L. Buono, G. Pace, Roma 2003, p. 111, 118-119, 321; Asp, Cm, fz. 437, 554, passim.
12
Asp, Cm, fz. 437, sf, contratto di gabella, 10 settembre XI indizione 1547. Per i pressi del
grano e dell’orzo mi sono rifatto alle stime di Cancila per il 1546 (O. CANCILA, Baroni e popo-
lo nella Sicilia del grano, Palermo 1983, p. 43).
13
Asp, Cm, fz. 437, sf, contratto di gabella al magnifico Bernardo de Altico di Castroreale, 7
maggio VIII indizione 1565. Il canone comprendeva anche 4 cantari di caciocavallo, 2 di pecorino, 6 di olio. Il salario del cappellano era computato in montoni – 80 da 3 tarì ciascuno – e prevedeva anche il versamento di 2 «cados» di olio per le lampade della chiesa.
14
O. CANCILA, Impresa redditi mercato nella Sicilia moderna, Palermo 1993, pp. 40-44.
15
Asp, Cm, fz. 437, sf, testi ricevuti presso la curia gerosolimitana di Messina, 7 settembre II
indizione 1573, mastro notaio Michele Leffa. Il documento è mutilo e contiene solo le prime
due deposizioni di tali Santoro Lo Presti e Giuseppe Lanza.
16 Ivi, fz. 402, Visita generale del 1603-04, ff. 99v-104r. La visita «commende ruris Milicis»
cominciò proprio da Patti, dove i due commissari giunsero, provenienti da Polizzi, il 27 dicembre 1603, dopo un non facile viaggio «propter malum tempus et pluvia». Il salario annuale del
De Donato fu stabilito in 4 onze (24 tarì in più rispetto a quello corrisposto al Chioppu).
Procuratore del priore di Messina a Patti era il canonico Alessandro Marziano. Sul grado e la
31
tipologia sociale dei cappellani d’obbedienza, nonché sugli abusi derivanti dalla loro proliferazione lungo il XVII secolo, cfr. F. D’AVENIA, Nobiltà allo specchio. Ordine di Malta e mobilità
sociale nella Sicilia moderna, in «Mediterranea, Ricerche storiche» Quaderno n. 8, Palermo
2009, pp. 137-143. La chiesa di S. Giovanni Battista, la cui esistenza è attestata dal 1507,
«venne chiusa al culto a fine Settecento e demolita a metà ’800». La Sicilia dei cavalieri..., cit.,
p. 122.
17
Asp, Cm, fz. 402, Visita generale del 1603-04, ff. 113r-123r. Tra i testi ascoltati dai visitato-
ri in merito allo stato della chiesa del casale, figura Santoro Lo Presti, probabilmente lo stesso della denuncia di “incuria” spirituale del 1573.
18
Ivi, ff. 123v-127r. Per una descrizione più dettagliata delle chiesa e della torre, completa di
riproduzioni fotografiche, cfr. La Sicilia dei cavalieri..., cit., pp. 111-119.
19
Asp, Cm, fz. 402, Visita generale del 1603-04, ff. 132r-134v.
20
La Sicilia dei cavalieri..., cit., p. 112.
21
Ibidem e anche pp. 120-121 (per le riproduzione fotografiche).
22
Asp, Cm, fz. 402, Visita generale del 1603-04, ff. 127r-131v.
23
I testi confermavano anche che sul feudo Ginistrito il priore non godeva dello ius pascendi
(spettante agli abitanti di Novara), «si non lo ius seminandi et lo fructo di la glianda et altri».
24
Ivi, ff. 135r-143v.
25
Ivi, fz. 561, sf, lettere del gabelloto della camera priorale, don Giovanni Ambrosiano (26
aprile e 28 giugno 1748).
26
Ivi, fz. 430, documenti per la visita generale del 1749, ff. 1299-1302, rivelo del gabelloto
Ambrosiano, il quale entrava nei dettagli: nella porzione detta di Ginistrito «ponno agiazzare
e pascolare li natorali abitanti della Novara, e si ponno servire di legni secchi e verdi per uso
necessario di pagliara ed altro senza potersi estraere a casa o vendere, ed in tempo d’agliande il Gran Priore e suoi in tempo d’ingrassa, essendo cinquanta ed un porco almeno d’agliande, si può inchiudere con la prohibitione d’ogni sorte d’animali per insino al giorno di S.
Nicolao Vescovo, e per il filatto per insino a prima carne, e detto filatto per trascuratagine dell’antecedenti affittatori gl’anno lasciato usurpare tanto dalli Castreggani come delli Novaresi,
e volendo io infrascritto presente affittatore farlo osservare l’antico filatto li sopracennati del
Castro e Novara non me l’anno lasciato superare, e questo per mancanza di non essere difeso dalla Sacra Religione [Gerosolimitana] che è oblicata». Per altri casi di controversie giurisdizionali tra priorato e università demaniali, cfr. F. D’AVENIA, Nobiltà allo specchio..., cit., pp.
320-324.
27
Vernacula, Maxheo, S. Giovanni, Li rocchi, Marro, Serro, Trebisomati, Centineo, feudo
Politi, Rodì, «possessioni sotto la via verso lo garrisi del signor priori, [...] undi la strata di
Paolo Catalfamo, [...] sopra lo stricto di l’acreri di Ioanni Lo Presti, [...] la portella di sancto
Licandro», contrada Terri Forti e «possessioni sopra lo stricto di Milici».
28
Ivi, fz. 402, Visita generale del 1603-04, ff. 144r-180v. Dopo l’esame del «rollo» di Milici, i
due commissari, in data 7 gennaio, passarono a visitare le pertinenze gerosolimitane di S.
Lucia. La visita della camera priorale di Milici era durata in tutto 12 giorni.
29
Ivi, ff. 104v-113r. Il rollo elencava un’ottantina di canoni, parte in denaro (onze 18.14.1),
parte in natura (salme 2 e quartara 9,5 di «vino mustali» (circa 700 litri), 33 rotoli di olio (26
kg) e 3000 canne).
30
Cfr. ivi, fz. 551, dove sono raccolti moltissime copie di atti recognitori. Sul fenomeno della
censuazione dei beni ecclesiastici – che a partire dalla peste di metà ’300 continuerà, con fasi
alterne di maggiore e minore intensità, fino alla prima metà del ’500 – e dell’attenzione posta
dagli amministratori gerosolimitani nell’esazione dei canoni, la redazione degli atti recognitori e l’eventuale revoca del possesso a favore dell’Ordine nel caso di mancato pagamento da
parte degli enfiteuti, cfr. F. D’AVENIA, Le commende gerosolimitane in Sicilia: patrimoni eccle-
siastici, gestione aristocratica, in La Sicilia dei cavalieri..., cit., pp. 57-62.
32
31
24 cafisi (circa 190 kg) «di oglio chiaro lampanti, lardo cantaro uno, casicavalli cantaro uno
[79,3 kg], formaggio maiorchino cantaro uno».
32
Asp, Cm, fz. 402, Visita generale del 1603-04, ff. 143v-144r, dove si rimanda al contratto di
gabella in notaio Cola Francesco Caruso di Messina, 2 novembre I indizione 1602, ratificato
a Malta dal priore Lanqueglia il 2 gennaio successivo.
33
Cfr. F. D’AVENIA, Le commende gerosolimitane..., cit., pp. 55-56, dove si citano altri casi di
arrendamento in blocco per le commende di S. Giovanni Battista Li Bagni (Lentini) e della
Guilla (Palermo) e si traccia un identikit di questo ceto di grossi gabelloti.
34
«Un così dinamico mercato degli affitti [il riferimento è proprio al boom della rendita fondia-
ria tra metà ’500 e i primi decenni del secolo successivo] spingeva quindi verso tentativi di
monopolizzazione degli appalti dei terreni» (O. CANCILA, Impresa redditi mercato..., cit., p. 43.
Cfr. anche ID., Baroni e popolo..., cit., pp. 170-173).
35
È quanto ipotizzato da Cancila per il periodo successivo al 1640, nel quale «il boom della
rendita fondiaria si ferma» (ivi, p. 50), ma «i grossi gabelloti, comunque, riescono a tirarsi in
disparte, tanto che dopo il 1640 è rarissimo che qualcuno gestisca contemporaneamente più
di un feudo. Sono rimasti invece gli ultimi arrivati, quelli che hanno appena gustato i tempi belli
e che adesso non vogliono rassegnarsi, e continuano in attesa del ritorno di tempi migliori e
nella speranza di rifarsi. Il ricordo del tempo delle vacche grasse non era ancora svanito!» (ID.,
Impresa redditi mercato..., cit., p. 52).
36
Asp, Cm, fz. 551, ff. 238r-242r, fedi di affitto dei censi di Milici per gli anni 1659-61 (35
onze), 1662-64 (40 onze), 1665-67 (40 onze); i contratti originali furono redatti dal notaio
Antonio Ambrosiano di Castroreale.
37
Il gabelloto che invece gestiva contemporaneamente anche tutti gli altri introiti della came-
ra priorale, aveva la possibilità di “ammortizzare” un’eventuale diminuzione dei canoni enfiteutici con le entrate provenienti dagli altri cespiti affittati.
38
Ivi, fz. 561, Rivelo del Gran Priorato di Messina, ff. 1-2, 26-30. I due contratti di gabella
erano stati redatti dal notaio Domenico Sarcì di Palermo: quello dei censi (25 maggio 1747),
prevedeva un affitto di tre anni (cosiddetti “di fermo”) prorogabile per altri tre (“di rispetto”), a
partire dal 1° maggio 1748; il secondo (30 dicembre 1746) prevedeva invece un affitto di otto
anni (quattro di fermo e quattro di rispetto) «corsi dall’anno X [indizione] 1746».
39
Ivi, sf.
40
Sull’incameramento dei beni del priorato e delle sue commende, cfr. F. D’AVENIA, Nobiltà
allo specchio..., cit., pp. 327-331.
41
Asp, Cm, fz. 465, sf, introito dei censi di Milici (novembre 1788-ottobre 1789); conto di introi-
to ed esito del priorato (maggio-agosto 1804); La Sicilia dei cavalieri..., cit., p. 92. Va tenuto
però conto che nel 1813 non risultano le gabelle di cinque feudi della commenda di Lentini –
forse alienati a quella data –, calcolate invece nel 1749.
42
Nell’ultimo ventennio del ’700 e nei primi anni del secondo decennio dell’Ottocento, infatti,
il valore nominale degli affitti toccò punte massime (O. CANCILA, Impresa redditi mercato..., cit.,
pp. 59-62).
43
Sul tema, cfr. F. D’AVENIA, Le commende gerosolimitane in Sicilia..., cit., pp. 46-51, 63-67,
dove si rimanda anche per riferimenti bibliografici più puntuali. Anche per Milici pare confermata questa “politica gestionale”, come ha mostrato per esempio la presenza ricorrente di
esponenti delle famiglie Ambrosiano e Lo Presti tra i testi, i cappellani, i notai e i gabelloti gravitanti intorno all’economia della camera priorale.
44
La Sicilia dei cavalieri..., cit., p. 92.
45
Asp, Cm, fz. 402, Visita generale del 1603-04, ff. 128r, 134v.
46
Ivi, fz. 430, documenti per la visita generale del 1749, f. 1302.
47
Ivi, fz. 437, sf, in particolare il fascicolo intitolato Notando di raggioni per la contesa verten-
te fra il ven.do Priorato di Messina con don Domenico Coppolino di Castroreale. Il Coppolino
33
pretendeva un rimborso di di 406 onze, mentre il priorato avrebbe voluto riconoscergliene solo
poco più della metà (223 onze). A proposito delle voci di esito della secrezia del principato di
Condrò (sempre nel messinese) nel 1767, Cancila annota significativamente che a giudizio
del feudatario «un’altra spesa da eliminare era quella relativa alla costruzione di argini lungo
il fiume, che venivano sistematicamente abbattuti dalle piene: il vantaggio non compensava
la spesa e il siciliano del Settecento, realisticamente, prendeva atto della incapacità della tecnica del suo paese a risolvere il problema e si arrendeva alla furia devastatrice della natura»
(O. CANCILA, La terra di Cerere, Caltanissetta-Roma 2001, p. 334).
48
Cfr. Asp, Cm, fz. 412, docc. n. 77, 79, 87, 90, 93.
49
Ivi, fz. 430, documenti per la visita generale del 1749, f. 1283, nomina a vicario foraneo di
don Antonio Caccamo (sd).
50
Ivi, ff. 1279-1280. Sui reati di competenza dei tribunali ecclesiastici, cfr. F. SCADUTO, Stato
e Chiesa nelle Due Sicilie, (1a ed. Palermo 1887), Palermo 1969, pp. 245-252.
51
La Sicilia dei cavalieri..., cit., p. 104.
52
Asp, Cm, fz. 430, documenti per la visita generale del 1749, ff. 1299-1302.
34
1.3 Architettura cavalleresca e insediamenti Gerosolimitani in Sicilia
L’eterogeneità riscontrabile nei numerosi insediamenti legati alle attività degli ordini cavallereschi, in Sicilia e nei territori storicamente connessi al diffondersi degli ordini religiosi e militari, che a partire dal XII
secolo caratterizza i rapporti tra Stato e Chiesa, pone l’interrogativo circa
l’esistenza di un’architettura cavalleresca riscontrabile e identificabile,
che accumunerebbe scelte tipologiche e insediative dei cavalieri, e se ciò
sia ancora riconoscibile nelle domus e mansiones, preceptorie e com-
mendae, ancora esistenti.
L’analisi dei beni catalogati come appartenenti all’Ordine di San
Giovanni in Gerusalemme in Sicilia1, ci offre l’occasione per mettere in
evidenza la provenienza di detti beni, raramente costruzioni ab antiquo,
ossia legate ai primi insediamenti dell’ordine sul territorio, ma frutto di
donazioni personali, regie o acquisizioni forzate (come, ad esempio, nel
caso della confisca dei beni dei cavalieri del Tempio, sciolti nel 1314).
Se il legame di detto patrimonio con tipologie costruttive e stilistiche
quanto mai varie e differenziati nei secoli è innegabile, altrettanto frequente è il ritrovamento di un modus operandi ricorrente, strettamente
connesso con le funzioni dell’ordine sul territorio, del quale si ha testimonianza scritta per la prima volta ad opera di Innocenzo II, con le bolle
Omne datum optimim del 1139 e Militia Dei del 1141. I documenti, riferiti alle attività all’ordine del Tempio, accordavano ai frati cavalieri di
costruire oratori per garantire l’osservanza delle funzioni religiose e la
loro sepoltura in un luogo separato dalla «turba dei peccatori e frequentatori di donne». A ciò si deve, infatti, l’usanza conservata anche dagli
altri ordini, di collocare gli insediamenti sempre in posizione distaccata
dall’abitato esistente, e fuori dalla cinta muraria.
Le fabbriche giovannite, incisero ben poco sull’urbanistica delle città
limitrofe, non mostrando alcun desiderio di integrazione2. I Cavalieri
organizzavano la commenda in modo da vivere separati «dalla compagnia de secolari et vivere insieme sotto regolare honestà secondo l’usanza antica di nostra Religione»3.
Gli insediamenti dei Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme sono
influenzati dal medesimo schema tipologico, individuabile fin dagli insediamenti più antichi rinvenuti sull’isola di Rodi e nei successivi complessi melitensi. Anticamente i cavalieri dimorano in alloggi chiamati alberghi
o auberges, ed erano divisi per nazionalità di provenienza: Provenza,
Italia, Francia, Alvernia, Aragona, Inghilterra, Alemagna, Castiglia.
35
Stemmi e simboli che ancora oggi si trovano apposti sugli edifici rinvenuti, oltre che su stendardi e paramenti, ne indicavano la discendenza e la
posizione all’interno dell’Ordine.
Il castrum o collachium era un cortile quadrangolare, quasi sempre
circondato da giardini cinti da mura, sul quale prospettavano gli edifici
facenti parte del complesso, generalmente situato in posizione dominante rispetto al territorio, separato dall’abitato.
Nelle città portuali le commende erano ubicate vicino al mare, come
nel caso di Palermo, Messina, e Napoli. La commenda genovese di San
Giovanni di Pré, una delle prime costruzioni italiane dell’Ordine, possedeva anche un molo privato4.
La commenda, così detta perché si “raccomandava” ai fratelli, era
una struttura isolata e autosufficiente staccata dall’abitato e circondata
da mura, dotate di chiese, ospizi e taverne per il ricovero dei pellegrini
diretti in Terra Santa. Il numero di professi che vi abitavano, generalmente non superiore alla decina, consentiva alla comunità di suddividere
equamente i compiti interni relativi alla gestione dei beni.
Similmente al modello cistercense, il lavoro nei campi era affidato ai
membri più umili dell’Ordine, mentre nelle Commende meno numerose,
i cavalieri affidavano il lavoro nei campi ai conductores, contadini ricompensati con una percentuale dei raccolti.
Anticamente le commende venivano indicate con terminologie differenti in relazione dalle funzioni svolte dagli insediamenti. Fino al 1120
troviamo la dizione di obedientiae, relativamente agli Statuti redatti dal
Gran Maestro dell’Ordine fra’ Raymond de Puy, successivamente la funzione di accoglienza e ospitalità prestata dai cavalieri ai pellegrini giustifica la denominazione di domus e mansiones, per gli hospitia destinati ad
accogliere i fedeli diretti a Gerusalemme e i malati.
Risale al XIII secolo la dizione di preceptoriae relativa alla modalità di
acquisizione dei beni da parte dell’Ordine, mentre è di età moderna il termine commendatoriae, modificatosi successivamente in commende5. Vi
erano poi diversi tipi di commende, relativamente alla modalità di assegnazione o al valore della rendita prodotta.
Se in origine la commenda è identificabile come una residenze fortificata, col modificarsi delle attività dell’Ordine, gli insediamenti assunsero sempre più il carattere di aziende agricole costituite, oltre che dagli
edifici residenziali e dalla chiesa, da varie strutture di servizio come stalle, magazzini, case priorali e, nei contesti rurali, giardini, aie, cisterne e
granai6. Per le loro attività volte alla difesa e alla protezione dei pellegri-
36
ni i cavalieri di San Giovanni acquisirono numerosi privilegi dalle gerarchie civili ed ecclesiastiche: furono indipendenti da ogni potere civile ed
esenti dalla giurisdizione dell’Ordinario, ebbero milizie, moneta propria e
grandi possedimenti di terre, registrati periodicamente nei cabrei, dal latino caput breve, ossia registri patrimoniali compilati periodicamente per
volontà dei commendatori dell’Ordine tra il XVI e il XIX secolo. Le planimetrie e le descrizioni riportate nei cabrei ci forniscono preziose informazioni sull’evoluzione dei complessi edilizi e sui lavori di manutenzione
degli edifici, nonché sulle colture dei territori annessi.
La tipologia ricorrente, riscontrata nelle commende più importanti,
ricalca lo schema dell’antico ospedale di Rodi: un edificio a due elevazioni a pianta quadrilatera. Il piano terra era destinato solitamente alle attività legate alla lavorazione dei campi, ed organizzato in magazzini e botteghe, mentre gli ambienti superiori allocavano le attività destinate ai pellegrini, ossia la foresteria, i locali ospedalieri, la cappella, il refettorio e la
cucina. Se nelle commende, nonostante la varietà delle soluzioni adottate, è possibile identificare un unico modello distributivo e tipologico
discendente dalla struttura dell’ospedale di Rodi, ben diversa è la situazione che si presenta quando si passa all’indagine dei modelli tipologici
legati all’architettura ecclesiastica.
Una classificazione delle chiese giovannite appare pressoché impossibile, perché molte di esse non furono realizzate ex-novo, ma entrano a
far parte del patrimonio dell’Ordine a seguito di donazioni o concessioni
dei sovrani e delle gerarchie ecclesiastiche locali.
In questo caso i Cavalieri, mettono in atto una strategia di adeguamento funzionale e distributivo degli edifici alle loro esigenze, senza dare
troppo peso all’architettura e al gusto del tempo, anzi in alcune fabbriche
più antiche, appartenute in passato ad altri ordini religiosi, mantenendo
addirittura il titolo originario, nel clima di generale rispetto delle preesistenze messo in atto dai Cavalieri.
Solitamente, le chiese dell’Ordine, destinate alle attività religiose dei
Cavalieri e dei fedeli presenti sui territori della commenda, erano intitolate a San Giovanni Battista, il santo protettore dell’Ordine.
Nell’indagine si riscontrano anche edifici di culto dedicati ad altri santi
guerrieri come San Giorgio, San Sebastiano e San Michele, oppure alla
Vergine delle Grazie, venerata dai militari e dagli ordini cavallereschi in
genere. Le numerose testimonianze scritte, riportate nei cabrei, documentano il numero di anime presente, funzioni, rendite e inadempienze
dei parroci nominati, nonché le opere di manutenzione e abbellimento
37
dei quali necessitavano gli edifici ecclesiastici.
I locali sacri erano solitamente annessi ai corpi di fabbrica dei complessi più grandi, costituiti da edifici differenziati a seconda delle diverse
funzioni legate alle attività della commenda; altre volte si trattava di cappelle più piccole, adiacenti a castelli o fortezze.
Pur nella eterogeneità dei casi riscontarti, è stato possibile rilevare se
non una tipologia architettonica ricorrente quanto meno delle caratteristiche comuni, che evidenziano le esigenze, le scelte e le peculiarità proprie dell’appartenenza all’Ordine.
A causa del legame tra San Giovanni e il sacramento del battesimo,
ad esempio, le chiese gerosolimitane sono spesso connesse alla presenza di acque sorgive nelle vicinanze, e mostrano una grande attenzione ai fonti battesimali ed alla loro decorazione.
In primo luogo va messo in evidenza l’aspetto austero delle costruzioni, caratterizzato dalla essenzialità strutturale e da superfici in pietra a
vista non intonacata, e dalla presenza di due ingressi. Quello principale
era collocato sul prospetto esterno e quasi mai in asse con l’altare maggiore, in accordo con i dettami del Concilio di Trento; gli altri erano accessibili direttamente dagli ambienti interni della commenda, a sottolineare il
doppio uso degli edifici destinati al culto cittadino e alla cura delle anime
dei Cavalieri. Un tratto distintivo delle costruzioni giovannite, presente sia
nelle chiese di età medievale, sia in quelle di età moderna, è la struttura
a capanna con copertura a tetto spiovente, grazie all’uso di capriate per
gli orizzontamenti esterni, celati all’interno da volte a botte o a crociera,
mentre è quasi assente l’uso di cupole. Le volte a crociera o a botte poggiano su grossi pilastri quadrati o polistili, cioè a sezione mista, o a
fascio, composti da mezze colonne, oppure pilastrini addossati al nucleo
centrale quadrato, conferendo alle costruzioni un aspetto pesante, rimarcato dalla scarna decorazione delle superfici.
L’interno delle chiese gerosolimitane era caratterizzato dall’assenza
di decorazione applicata e limitato alla solo presenza di epigrafi tombali,
riservate ai priori e ai balì, il grado più alto negli antichi ordini cavallereschi. Le sepolture dei cavalieri avvenivano in fosse comuni scavate nel
pavimento e ricoperte di anonime lastre di marmo.
L’austerità che aveva contraddistinto le chiese giovannite nei primi
secoli di vita dell’Ordine si affievolisce nel corso del tempo a causa delle
trasformazioni economiche e sociali avvenute all’interno dell’Ordine. La
concessione di “commende di miglioramento” spinge i Cavalieri ad
apportare migliorie al patrimonio della commenda, venivano di frequente
38
rifatti i pavimenti, le coperture e gli intonaci interni ed esterni, e a lasciare testimonianza rilevante del proprio operato con l’apposizione di stemmi
dell’Ordine
e
delle
armi
dei
commendatori
stessi.
Contemporaneamente vengono effettuati gli adeguamenti delle chiese
alle esigenze liturgiche post-tridentine.
Le visite generali nel priorato di Messina, redatte tra il 1603 e il 1773
documentano la cura dei commendatori verso le fabbriche loro affidate.
Si riscontra come molti degli insediamenti preesistenti, sorti in origine
fuori dalle mura, facevano ormai parte delle città a seguito dell’espansione urbanistica. La maggiore disponibilità finanziaria connessa all’aumentata potenza politica ed economica dell’Ordine di Malta, vede le commende gerosolimitane arricchirsi e abbellirsi di pitture, sculture e oggetti
d’arte in genere secondo il nascente gusto barocco.
L’iconografia ricorrente ritrae l’immagine di San Giovanni Battista,
associata a quelle dei santi venerati nelle diverse città.
All’interno l’originaria austerità delle superfici lapidee viene sovvertita dall’apposizione di stucchi e marmi policromi. Anche le coperture
risentono di questa generale tendenza all’ammodernamento del gusto,
portando alla sostituzione delle volte a botte e a crociera con soffitti cassettonati. Nel XVIII secolo la nascita del restauro e la diffusione di un
sentimento di riconquista del mondo antico porta ad una rivalutazione del
patrimonio esistente e al restauro delle opere ivi conservate. Le chiese
ancora sprovviste di decorazione parietale si arricchiscono dei ritratti e
degli stemmi dei committenti; frequenti sono le epigrafi e gli stemmi marmorei con le armi dei priori e dei commendatori, desiderosi di lasciare
testimonianza di sé e delle loro realizzazioni. Particolarmente ricca è la
decorazione degli altari riccamente ornati con marmi e pietre dure, come
risulta dalle somme riportate nei cabrei redatti in occasione delle visite.
Il Piano Conciliativo, l’occupazione francese di Malta del 1798, e la
progressiva disgregazione del patrimonio dell’Ordine provocarono la
scomparsa della maggior parte delle chiese giovannite.
La legge del 7 luglio 1866 relativa alla soppressione dei conventi e
all’incameramento dei beni ecclesiastici provocò la perdita di gran parte
del patrimonio degli ordini cavallereschi, che fu demolito, crollato per l’incuria o inglobato in nuove costruzioni. Se le chiese affidate alle diocesi e
al clero secolare, officiate con regolarità, resistettero meglio delle altre al
passare del tempo, molti edifici, privati o entrati a far parte del patrimonio comunale, subirono pesanti trasformazioni e adattamenti legati alle
esigenze della committenza.
39
Note
1
L. BUONO, G. PACE GRAVINA, La Sicilia dei Cavalieri, Roma 2003, pp. 89-278;
2
Notizie sui monumenti e sull’architettura dell’Ordine di Malta in Italia nei seguenti saggi: G.
DI CAPUA CAPECE, Dissertazione intorno alle due campane di S. Giovanni di Capua, Napoli
1750; B. MINICHINI, I monumenti del Sacro Ordine di S. Giovanni nelle chiese di Napoli, Napoli
1863; M. RADOGNA, Monografia di S. Giovanni a Mare baliaggio del S.M.O. Gerosolimitano in
Napoli, Napoli 1873; G. CRUDO, La SS. Trinità di Venosa. Memorie storiche diplomatiche
archeologiche, Trani 1899; M. GATTINI, I priorati, i baliaggi e le commende del Sovrano Militare
Ordine di S. Giovanni di Gerusalemme nelle province meridionali d’Italia prima della caduta di
Malta, Napoli 1928; H. FILIPPONIO, Casaltrinità, antico casale dell’Ordine di Malta, Milano 1976;
L. TACCHELLA, I cavalieri di Malta in Liguria, Genova 1977; P. CAPOBIANCO, Gaeta e il Sovrano
Militare Ordine di Malta, Gaeta 1978; C. MARULLO DI CONDOJANNI, La Sicilia e il Sovrano
Militare Ordine di Malta, Messina 1953; D. CAPOLONGO, La Commenda Gerosolimitana di
Cicciano nel 1582, Cicciano 1984; ID., La Commenda di Cicciano nel 1515, Cicciano 1991; M.
RASSU, L’Ordine di Malta in Sardegna, Cagliari 1996; E. RICCIARDI, Chiese e commende
dell’Ordine di Malta in Campania, in «Palladio», 33, 2004, pp. 121-128; P. ROSSI, Architettura
sacra e fortificata dell’Ordine gerosolimitano nell’Italia meridionale, in San Giovanni a Mare.
Storia e restauri, a cura di S. Casiello, Napoli 2005, pp. 17-63.
3
R. DE GIORGIO, A City by an Order, [1985], II ed. Valletta 1986, p. 42.
4
E. RICCIARDI, Chiese e commende dell’Ordine di Malta in Campania, Fedoa /1059, p. 8.
5
L. BUONO, G. PACE GRAVINA, La Sicilia dei Cavalieri..., cit., pp. 36-38;
6
Cfr. A. LUTRELL, Enciclopedia dell’arte medievale, VIII, Roma 1997, p. 923.
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