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L’ABETE ROSSO O PECCIO
Io sono una lancia che dà battaglia
T come TINNE o come TANNE
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Borina
Sotto il monte Vajolon che i tedeschi chiamano Rosengarten e gli
italiani Catinaccio, si trova il bosco di Nigher. Era un bosco scuro
scuro e vi abitavano un boscaiolo e sua moglie. I due erano così poveri
che a fatica tiravano avanti la loro vita. La donna desiderava tanto un
figlio, ma il boscaiolo diceva: «Cosa vuoi dargli da mangiare? Resina
e corteccia d’albero?»
Tutti i giorni la stessa discussione. Un giorno la donna andò in Fassa
e, arrivata al passo di Costalunga, si fermò presso una sorgente. La
sorgente mormorava e alla donna pareva che le si rivolgesse con fare
gentile. Allora anche lei si mise a parlare con la sorgente e le raccontò
le sue pene. La sorgente le rispose e le consigliò di recarsi nel bosco, di
cercare un certo alberello d’abete e di incoronarlo con serti di fiori per
tutta la durata dell’estate. Questo per sette estati.
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Alla settima estate avrebbe dovuto con un’ascia tagliare i rami dell’albero e spaccarne il tronco, Così fece la donna e alla settima estate si
apprestò ad usare l’ascia. Non lo faceva volentieri perché a quell’alberello
s’era affezionata e temeva di fargli male. Ma ramo dopo ramo seguì
i consigli della sorgente.
Ad ogni taglio l’albero pareva gemere e all’ultimo colpo lanciò un
grande urlo e dal suo cuore uscì una splendida bambina che la donna
portò a casa avvolta nel suo scialle. Appena a casa la fanciulla parve
cinguettare come un uccellino e fra le manine teneva un lungo filo d’oro.
Passarono gli anni e la bimba divenne grande. L’avevano chiamata
Arborina o Borina, perché da una bora d’abete era nata.
La madre di Borina un giorno morì. Il padre e la ragazza la seppellirono nel bosco di Nigher. Il padre diventava sempre più astioso e
cattivo e la povera Borina doveva fare tutti i lavori di casa e andare
nel bosco per legna.
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Un giorno alla capanna del bosco arrivò un uomo vestito di verde e chiese
al vecchio di sposare Borina. In cambio avrebbe dato molte monete d’oro.
Il padre fu d’accordo, ma Borina non voleva sposare l’uomo vestito di
verde che così lui la minacciò.» Se non vieni con me perderai entrambe
le braccia». E aggiunse « braccia non avrai fino a che un gran dolore
non subirai e il tributo ai tuoi genitori non darai». «No, no, non voglio»
disse Borina e l’uomo vestito di verde fece dei gesti infernali e le braccia
della fanciulla caddero a terra come due pezzi di legno d’abete.
La povera Borina fuggì nel bosco e lì visse aiutata e nutrita dagli
animali che le erano cari.
Un giorno nel bosco arrivò un cavaliere e vide Borina e se ne innamorò.
La portò a castello e la sposò, anche se la madre del cavaliere aveva
tratto infausti presagi dalle loro nozze.
52 «Questa donna senza braccia sarà la tua rovina - disse - e se avrà
gemelli uno lo perderai».
Mentre il cavaliere era in guerra, nacquero due gemelli. Il cavaliere
tornò, ma sobillato dalla madre offese Borina dicendole «Tu non sei che
una donna di legno» e questi gemelli chissà di che magia sono frutto.
Borina fuggì nel suo bosco, il bosco del Nigher. Il cavaliere si pentì
delle sue parole e si mise per via alla ricerca di Borina e dei gemelli.
Giunto accanto ad uno stagno, vide Borina che cercava di trarre in salvo
uno dei bambini, mentre l’altro, scorto il padre, si rifugiò nel cavo di
un albero. Subito il cavaliere si precipitò in acqua perché pensava che
Borina, priva di braccia, non avrebbe potuto salvare il bambino. Con sua
sorpresa vide che Borina serrava al petto il bambino e lo accarezzava
con delle splendide mani che erano sbocciate da braccia ben tornite. Il
miracolo era avvenuto. I due genitori non ebbero il tempo di rallegrarsi
perché l’altro gemello era sparito. Il padre disse che lo aveva visto
l’ultima volta nascondersi in un albero cavo. Si udì una voce «Lascia-
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temi qui, nell’albero, qui sto bene». Allora la donna si inchinò davanti
all’albero e gli disse: «Qui il bimbo sta bene, crescerà con l’albero e si
muterà in fiori ed in foglie.» Poi sussurrò: «Albero, proteggi mio figlio,
sono sicura che lo curerai con amore, visto che siamo parenti, infatti io
sono nata da un albero».
Poi tornarono al castello e vissero felici e contenti. Borina allevò il suo
figlio uomo e spesso andava a trovare il suo figlio abete e gli cantava
antiche canzoni di quando alberi e uomini erano fratelli.
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Per saperne di più tra memoria e tradizioni
Una differenza di suono, una variazione porta a due alberi legati all’ottavo mese lunare. Due alberi e due storie simili, ma diverse.
“L’abete ha più vestiti”, si diceva una volta. C’è infatti l’abete rosso, l’abete
nero e l’abete bianco o argentato e su ognuno si può raccontare.
Dell’abete nero si racconta che nei primi del Novecento quando il Tirolo
faceva parte dell’Impero Austroungarico, l’imperatore Francesco Giuseppe
e la sua splendida moglie, l’imperatrice Elisabeth, detta Sissi, si interessassero particolarmente della nostra zona. Amavano viaggiare e soffermarsi
anche nella zona del lago di Garda dove ammiravano le acque e i monti.
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Sopra il lago ci sono i boschi
della Rocchetta che a quel
tempo erano alquanto “pelati”. Gli ingegneri forestali
dell’imperatore pensarono
di rimboschirli e con essi la
contigua zona dei ghiaioni
del Casale. Come albero per
rimboschire presero in considerazione il pino nero che,
notoriamente, ha una crescita
veloce e si sviluppa in altezza
più che in larghezza. L’intenzione era buona, anzi ottima,
ma l’esperimento non riuscì.
Sarà stato causa del terreno o
di chissà quale malia, ma le
piante crebbero malate, difficili da controllare, preda delle
processionarie e così secche da essere buona esca per i fuochi.
L’abete bianco, o meglio l’abete argentato, è fra le conifere l’albero dedicato
al Natale perché è l’albero del solstizio invernale.
Il più importante, per la nostra cultura, è l’abete rosso, picea excelsa, detto
anche peccio. È una specie con corteccia arancione-bruno nelle piante
giovani e porpora grigio scuro nelle piante adulte.I rami sono marrone e
portano foglie rigide, di un colore che va dal verde chiaro al verde scuro,
che si trovano solo all’estremità del ramo. Le nostre foreste ne sono ricche
e rappresenta il miglior legname da costruzione. A questa conifera sono
dedicate molte attenzioni dovute anche alle proprietà della Picea Excelsa,
una varietà presumibilmente genetica dell’abete rosso, che viene anche
detta “abete di risonanza”, “abete fagierino”, “abete che canta”, “noseler” o
impropriamente “abete maschio” (impropriamente perché la picea è una
pianta monoica). Ma quali sono questi caratteri che la contraddistinguono
da una normalissima picea? Come deve essere fatto un legno per suonare
bene? Beh per rispondere a queste domande è più corretto chiedersi cos’è
nel legno stesso a propagare bene il suono. Il suono si propaga tramite
fenomeni di compressione ondulatoria, tutto ciò che sentiamo non è altro
che la variazione della pressione dell’aria che raggiunge il nostro timpano
e questa compressione è, nel caso degli strumenti musicali, una vibrazione. Il nome picea deriva da pics che significa resina, infatti questa pianta
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presenta al suo interno dei microscopici canali resiniferi che percorrono
tutta la sua lunghezza; anche il suo nome volgare “abete rosso” deriva dal
fatto che una volta in tavole questo legno diventa piuttosto bruno per
il colore della resina. Tutti questi piccoli canali dove scorreva la resina
una volta asciugati rimangono cavi e formano quasi delle piccole canne
d’organo che trasmettono il suono in modo eccezionale; ecco il segreto
del legno armonico! ed ecco perché, ad esempio, l’abete bianco risulta
piuttosto muto.
Ma per arrivare ad una tavoletta con queste proprietà si deve passare per
varie fasi: si taglia la pianta, si aspetta che i rami raccolgano l’ultimo sorso
di linfa del tronco, si seziona lo stesso in varie rotelle e si controlla che gli
anelli di accrescimento siano il più possibile regolari, che il midollo sia
in posizione centrale rispetto la sezione e che siano presenti alcuni segni
distintivi dell’abete maschio, ovvero le introflessioni degli stessi anelli verso il midollo e le caratteristiche indentature sotto la corteccia. Riguardo
alle indentature, che sono anche il motivo per cui la pianta assomiglia al
faggio e da qui il nome fagierina, non è stato provato che abbiano una
stretta correlazione con le proprietà sonore, ma dando robustezza al legno
permettono di ricavare tavole di spessore minore e questo sì che da più
sonorità. Le rotelle vanno tagliate in modo radiale e va scartata la parte
midollare centrale in quanto sono spesso presenti nodi dovuti ai rami del
periodo di gioventù della pianta; spesso si taglia via una buona parte del
settore di rotella perchè non è rara la presenza di piccolissimi nodi che
si mostrano solo dopo la levigatura e l’essicazione, per queste ragioni si
devono tagliare piante di diametro sufficiente ad ottenere prismetti di
legno della larghezza anche di 30 cm (servirà quindi un diametro maggiore di 60 cm).
Dopo un periodo di circa 6 mesi i prismetti risultano con una percentuale
di umidità di circa il 15% e il legno è
pronto! Era stato posto su listelli dello
stesso abete in un luogo arieggiato
con la minore parte possibile esposta
al sole e capovolto in modo che la
direzione naturale dei canali linfatici
favorisse la fuoriuscita dell’acqua:
ora si può costruire una stupenda
tavola armonica dal suono eccezionale. Tutto il resto è la straordinaria
lavorazione che grandissimi maestri
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fanno, derivante da tradizioni millenarie e pur sempre in cerca di nuove
tecnologie per migliorare. Alcune tavole armoniche non saranno mai più
riproducibili a causa delle variazioni climatiche del pianeta, a causa delle
pioggie acide e dell’aumento di polveri inquinanti nell’aria, addirittura si
pensi che nell’Ottocento si fabbricavano clavicembali utilizzando i piani
armonici di clavicembali antichi il cui suono non si riusciva a riprodurre.
Si dice addirittura che queste tavole venissero sgrassate facendole bollire
dove veniva fatta bollire la birra per sfruttare le particolatità di alcuni acidi
prodotti durante la fermentazione della stessa in modo da sgrassare il legno.
Con tutto ciò forse ci fa meno sorridere un’altra frase trovata sempre su
di un clavicembalo antico: “Indocta mano noli me tangere”.
Abbiamo parlato di resina e sulla resina, la linfa del peccio, c’è molto
altro da dire.
Antiche leggende raccontano che da alcuni alberi fatati si potesse “mungere” del latte, ma questa arte era riservata solo alle streghe.
Dalla resina dell’abete rosso si ricavano pece e trementina. La pece ricavata
dalla resina del peccio è da sempre stata usata nell’industria dei colori e in
farmacia. I contadini e i boscaioli raccontano che la resina è di due tipi:
quella dura che esce come gocce trasparenti dalla corteccia dell’albero, e
quella liquida che si ottiene forando i tronchi ed estraendola con speciali
attrezzi. Con la resina “dura”, macinata e scaldata, i
contadini facevano una specie di “ceretta” per togliere
le setole ai quarti di maiale. La resina più pregiata è
quella che si ricava dal larice e in ladino si chiama largà.
Con la resina si facevano impiastri e balsami ed anche
una specie d’unguento che serviva a togliere le spine
del legno degli alberi. Fra le spine le più pericolose
erano considerate quelle del larice che producevano
infezioni anche gravi. Questo unguento o unto miracoloso, in val di Fassa andava sotto il nome di ònt
del Mil e veniva venduto presso una sola famiglia di
Canazei. Anche la sua formula pare sia andata perduta
e, sostituita dal comune ittiolo, di sostanza di colore
ed odore assai simile.
I coni dell’abete, comunemente detti pigne o ciorciole,
possono possedere poteri magici se sono raccolti all’alba e non con le mani, bensì con i piedi.
Un’ultima curiosità: ai ragazzi ai quali la barba stenta
a crescere si consiglia di massaggiare il viso con miele
di abete.
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L’albero di Natale
L’origine dell’abete come simbolo del Natale ci è narrata da molte
antiche storie: la più importante risale a San Bonifacio, morto martire
in Germania nel 754. Egli aveva sradicato la quercia cara ai celti e al
suo posto sostituito l’abete, spiegando al popolo che questa pianta,
sempreverde, era l’albero della vita e rappresentava il Cristo. Così iniziò
l’usanza dell’abete come albero del Natale.
Storicamente il primo albero di Natale decorato fu eretto a Lipsia nel
1807, a Berlino nel 1810, a Danzica nel 1840 e a Bolzano nel 1852.
Nel 1840 la principessa Elena di Germania, sposa del duca di Orleans,
preparò un albero di Natale alle Tuileries di Parigi, suscitando lo stupore
della corte.In Inghilterra questa usanza venne introdotta, nel 1841, dal
Principe Alberto di Sassonia, che ne fece dono a sua moglie, la regina
Vittoria. La regina Vittoria ne fu talmente entusiasta che fece pubblicare
un’immagine del suo albero di Natale su una celebre rivista dell’epoca,
il “Godey’s Lady’s Book”. In Italia l’introduzione dell’albero è relativamente recente: la regina Margherita, moglie di Umberto I, ne fece
allestire uno in un salone del Quirinale, dove la famiglia reale abitava. La
novità piacque moltissimo: agli inizi del 1900 l’albero cominciò quindi
a diffondersi anche in Italia e divenne di casa tra le famiglie italiane.
Nella nostra epoca assistiamo a una diffusione massiccia e capillare di
questa usanza (come dimostrano cartoline dell’inizio del 1900) nonostante molte tradizioni natalizie siano ormai quasi sparite.
I primi decori dell’albero di Natale furono commestibili e luminosi:
con il cibo e la luce si rappresentava l’augurio dell’abbondanza e la
gioia della nascita. Frutta e dolci avvolti nella carta stagnola, sfavillanti
alberi alti fino al soffitto, ammirati da bambini e bambine. Con la
luce si rappresentava la gioia della rinascita e con il cibo l’augurio di
abbondanza. I primi addobbi commestibili furono le mele. In ambito
cristiano il decoro con le mele fu suggerito dal parallelismo tra l’albero
di Natale e la simbologia dell’albero di Adamo ed Eva nel paradiso terrestre. Molti di noi trattengono ancora nella memoria il ricordo della
preparazione in casa dei decori. Si avvolgevano biscotti, noci e nocciole
nella carta stagnola e, per mezzo di un ago, s’infilava nella carta il filo
doppio che si annodava ai rami. Frutta e dolci, lucenti e irreali, contribuivano a conferire all’albero l’aura magica che lo caratterizzava. Allo
spegnersi della luce elettrica e con l’accensione rituale delle candeline,
il momento collettivo della sua contemplazione rinsaldava i legami e
gli affetti familiari.
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