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LA FORZA E LA DEBOLEZZA

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LA FORZA E LA DEBOLEZZA
LA FORZA E LA DEBOLEZZA
1. La forza della debolezza
2. La debole libera il forte
3. Il potere e la vita
4. La forza della collaborazione
5. Forza e debolezza nella fede
6. La forza della tenerezza
7. Raccontare Dio
8. Forza della famiglia
9. Scelte alla deriva
10. La forza “giovane”
11. Debolezza e forza nella sofferenza
Scheda n.1
La forza della debolezza
Scopo: Giungere alla comprensione della vera forza e della vera debolezza. Individuare la fonte
della forza interiore, e metterla a confronto con le apparenze e la diffusa tendenza a valutare le cose
appariscenti.
Per introdurre
(L’animatrice del gruppo induce a riflettere spontaneamente su qualcuna delle seguenti
affermazioni; se è possibile raccoglie ed evidenzia su una lavagna o su un foglio quanto viene detto)
Comunemente la forza è intesa come …
E la debolezza è intesa come …
In riferimento a maschile e femminile forza e debolezza sono …
Ritengo forte colui / colei che …
Mi sento forte … o sono veramente debole quando …
Per approfondire
- Ciascuna legge personalmente l’articolo (oppure una legge a voce alta per tutte)
- Lasciare qualche minuto di riflessione personale, in cui ciascuna sottolinea una espressione
che ritiene illuminante, o un interrogativo che le è sorto, una fatica, una condivisione ecc…
- Comunicazione e scambio con il gruppo
La forza della debolezza
“Dialettica tra forza e debolezza in cui, supremo paradosso, non è la forza a prevalere. Ma che cos’è
la forza e che cos’è la debolezza? E quali le somiglianze, le divergenze e i loro reciproci rapporti?.
Il motto olimpico (e l’Olimpiade è la celebrazione della forza) è rapido, efficiente e scattante: “Più
veloce, più alto, più forte”. Ad esso, il compianto Alex Langer opponeva un programma che
sembra rovesciarlo: “Più lento, più profondo, più dolce”.
E cominciamo a far l’elogio della lentezza: una categoria femminile che si contrappone
frontalmente al mito virile della efficienza e della velocità. La nostra è cultura della velocità: dalla
rossa Ferrari che vince (quando vince) le più lente e più grigie avversarie al mito del progresso (e
progredire è correre, sopravanzare, giungere rapidi al traguardo). È la linea retta, la congiunzione
più breve tra due punti. La linea retta giunge prima, con una efficienza che è a scapito della
ricchezza. Non ha tempo per attardarsi sul cammino. Se c’è qualcosa di bello non lo vede, se c’è
qualcosa di buono non la coglie.
La linea curva invece, il percorso femminile, indugia, svolta, si arresta, perché nulla vuol perdere di
quanto incontra sulla strada. Arriva dopo, ma carica di doni, arriva carica di vita. C’è una rivista
intitolata “Sulla strada” che si occupa di problemi ecclesiali: questioni aperte, perplessità, domande.
La strada che, per “i rapidi”, è un puro mezzo, Per “i lenti”, è qualcosa di più: è il sedimento e il
deposito di vita cui attingere nella lunghezza del percorso. Percorso lento, meno efficiente ma più
ricco.
Inutile scegliere tra i due modelli: ciascuno ha il proprio e per ciascuno, il proprio è il meglio: il
meglio per lui.
Osservazioni analoghe si possono fare sulla dolcezza e la profondità. Un pozzo profondo sembra
nero e buio ma, se ci cade dentro il sole (o anche la luna), ecco che subito si illumina, si schiarisce e
inargenta: ha accolto nel tenebroso grembo, la seminagione della vita.
Così la dolcezza sembra fragile ma all’occorrenza, si rivela più forte della forza. Ben lo sapeva
Paolo quando scriveva: “è quando sono debole che sono forte”.
La forza è esibizione plateale e un tantino volgare e arrogante; la debolezza non si espone e non si
impone: si propone con il pudore e la discrezione di chi accetta di venire anche rifiutato. E in
questo, rispetta l’altro e ne accetta la piena libertà. Spesso la discrezione della debolezza ottiene di
più dell’esibizione della forza, sicché possiamo dire che la forza è debole e la debolezza forte.
L’ascesi progredisce per via di rinunce, di carenze, di povertà: categorie che hanno a che fare con il
trinomio “lento, profondo e dolce” più che con l’altro “veloce, alto e forte”.
Anche l’umiltà (che deriva da umus: la bassa terra) si riconosce nella profonda dolcezza più assai
che nella forza, spesso superficiale.
Santa Teresa osava esortare alla lentezza. Infatti chi corre non ha tempo per meditare e neanche,
laicamente, per assaporare la vita.
E Cristo vince e redime sulla croce: nell’ora dell’estrema debolezza.
Articolo di Adriana Zarri (Rocca 15 agosto – 1 agosto 2005, pag. 54)
Parola di Dio
1 Bisogna vantarsi? Ma ciò non conviene! Pur tuttavia verrò alle visioni e alle rivelazioni del
Signore. 2 Conosco un uomo in Cristo che, quattordici anni fa - se con il corpo o fuori del corpo
non lo so, lo sa Dio - fu rapito fino al terzo cielo. 3 E so che quest'uomo - se con il corpo o senza
corpo non lo so, lo sa Dio – 4 fu rapito in paradiso e udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno
pronunziare. 5 Di lui io mi vanterò! Di me stesso invece non mi vanterò fuorché delle mie
debolezze. 6 Certo, se volessi vantarmi, non sarei insensato, perché direi solo la verità; ma evito di
farlo, perché nessuno mi giudichi di più di quello che vede o sente da me.
7 Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina
nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia. 8 A
causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l'allontanasse da me. 9 Ed egli mi ha
detto: «Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza». Mi
vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. 10
Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle
angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte. (2 Cor. 12, 1-10)
Dopo la lettura dell’articolo e il confronto con la Parola di Dio:
Penso alla forza femminile come …
Preghiera
“Difettosa visione delle cose, dati non corretti, errori di giudizio: ognuno di questi fallimenti umani
costituisce una “spina nella carne”. Mi sento debole e umiliato , tanto da non farcela più a
camminare sul sentiero della verità. Devo chiedere a dio di tirarmi su e condurmi. E vedere allora,
a che andatura Egli procede per il mondo, sempre con me in braccio. “Perché quando sono debole è
ben allora che sono forte”.
Perché non montassi in superbia
per l’abbondanza delle tue benedizioni
mi hai inflitto una spina nella carne.
Spesso, come ben sai,
ti ho supplicato al riguardo
di espellerla.
Tu però mi hai risposto:
“La mia grazia ti basta,
perché la mia potenza
si perfeziona con la debolezza”.
Aiutami, allora, a vantarmi
Volentieri della mia debolezza,
perché la tua potenza, Cristo,
Resti in me.
Insegnami ad essere contento
nelle mie fragilità,
negli insulti, necessità,
persecuzioni calamità.
Perché quando sono debole,
allora sono forte”.
(Paul Hilsdale, nel Signore Gesù, lettere di Paolo in forma di preghiera, pag. 139-140)
oppure:
Quando sono debole è allora che sono forte
Dai quaderni “FIUMI D’ACQUA VIVA”- Scrittura e preghiera, volume IV anno B, pag. 72. Ed
Centro Documentazione e Studi “Presenza Donna” - 1 gennaio 2004
Scheda n. 2
La debole libera il forte
Scopo. Scoprire la ricchezza e la saggezza legata a persone semplici, dal cuore buono, che non
coltivano rancore, ma partecipano il bene che possiedono. Riscoprire l’importanza del “far memoria
di Dio” nella vita.
Per introdurre
Nel quotidiano più semplice si può realizzare il “cambio delle sorti”. È possibile quando si vive il
quotidiano con fiducia; quando il “ricordo” di Dio prende forza dentro una persona. Allora anche
un/a “debole”, un/a “povero/a” e diventa espressione della potenza di Dio e mostra al mondo che
una vita pacificata, liberata dalla presunzione del potere si incontra col progetto di Dio; diventa
strumento della sua realizzazione.
L’episodio che segue, tratto dalla sacra scrittura, mostra che una fanciulla “debole”, schiava, ma
libera da sentimenti negativi, è in grado di offrire le vie di guarigione e di liberazione a chi la tiene
al suo servizio; la sua risorsa è la”memoria” del Dio del suo popolo.
“Ricordi” di cose sentite raccontare nella sua infanzia; di esperienze vissute in tempi lontani, ricordi
che si sono scolpiti “dentro” e che la giovanetta “conserva nel cuore”
Questo è uno stimolo a ritrovare fiducia nella forza pregnante del compito educativo nei riguardi dei
bambini e dei giovani; a riscoprire l’importanza di educare alla fede, alla certezza che Dio è un
Padre che non ci abbandona mai; a confermare la validità di un compito (quello educativo) che non
dà risultati immediati, ma che lascia un segno profondo nella vita.
Per approfondire
- Ciascuna legge personalmente l’articolo (oppure una legge a voce alta per tutte)
- Lasciare quale minuto di riflessione personale, in cui ciascuna sottolinea una espressione
che ritiene illuminante, o un interrogativo che le è sorto, una fatica, una condivisione ecc…
- Comunicazione e scambio con il gruppo
Parola di Dio
1 Nàaman, capo dell'esercito del re di Aram, era un personaggio autorevole presso il suo signore e
stimato, perché per suo mezzo il Signore aveva concesso la vittoria agli Aramei. Ma questo uomo
prode era lebbroso. 2 Ora bande aramee in una razzia avevano rapito dal paese di Israele una
giovinetta, che era finita al servizio della moglie di Nàaman. 3 Essa disse alla padrona: «Se il mio
signore si rivolgesse al profeta che è in Samaria, certo lo libererebbe dalla lebbra». 4 Nàaman andò
a riferire al suo signore: «La giovane che proviene dal paese di Israele ha detto così e così». 5 Il re
di Aram gli disse: «Vacci! Io invierò una lettera al re di Israele». Quegli partì, prendendo con sé
dieci talenti d'argento, seimila sicli d'oro e dieci vestiti. 6 Portò la lettera al re di Israele, nella quale
si diceva: «Ebbene, insieme con questa lettera ho mandato da te Nàaman, mio ministro, perché tu lo
curi dalla lebbra». 7 Letta la lettera, il re di Israele si stracciò le vesti dicendo: «Sono forse Dio per
dare la morte o la vita, perché costui mi mandi un lebbroso da guarire? Sì, ora potete constatare
chiaramente che egli cerca pretesti contro di me». 8 Quando Eliseo, uomo di Dio, seppe che il re si
era stracciate le vesti, mandò a dire al re: «Perché ti sei stracciate le vesti? Quell'uomo venga da me
e saprà che c'è un profeta in Israele». 9 Nàaman arrivò con i suoi cavalli e con il suo carro e si
fermò alla porta della casa di Eliseo. 10 Eliseo gli mandò un messaggero per dirgli: «Và, bagnati
sette volte nel Giordano: la tua carne tornerà sana e tu sarai guarito». 11 Nàaman si sdegnò e se ne
andò protestando: «Ecco, io pensavo: Certo, verrà fuori, si fermerà, invocherà il nome del Signore
suo Dio, toccando con la mano la parte malata e sparirà la lebbra. 12 Forse l'Abana e il Parpar,
fiumi di Damasco, non sono migliori di tutte le acque di Israele? Non potrei bagnarmi in quelli per
essere guarito?». Si voltò e se ne partì adirato. 13 Gli si avvicinarono i suoi servi e gli dissero: «Se il
profeta ti avesse ingiunto una cosa gravosa, non l'avresti forse eseguita? Tanto più ora che ti ha
detto: bagnati e sarai guarito». 14 Egli, allora, scese e si lavò nel Giordano sette volte, secondo la
parola dell'uomo di Dio, e la sua carne ridivenne come la carne di un giovinetto; egli era guarito.
15 Tornò con tutto il seguito dall'uomo di Dio; entrò e si presentò a lui dicendo: «Ebbene, ora so
che non c'è Dio su tutta la terra se non in Israele». Ora accetta un dono dal tuo servo». 16 Quegli
disse: «Per la vita del Signore, alla cui presenza io sto, non lo prenderò». Nàaman insisteva perché
accettasse, ma egli rifiutò. 17 Allora Nàaman disse: «Se è no, almeno sia permesso al tuo servo di
caricare qui tanta terra quanta ne portano due muli, perché il tuo servo non intende compiere più un
olocausto o un sacrificio ad altri dei, ma solo al Signore. 18 Tuttavia il Signore perdoni il tuo servo
se, quando il mio signore entra nel tempio di Rimmòn per prostrarsi, si appoggia al mio braccio e se
anche io mi prostro nel tempio di Rimmòn, durante la sua adorazione nel tempio di Rimmòn; il
Signore perdoni il tuo servo per questa azione». 19 Quegli disse: «Và in pace». Partì da lui e fece un
bel tratto di strada. (II Re 5, 1-19)
Commento alla Parola
In una storia di potere che vede come protagonisti grandi personaggi al maschile, si intrufola la
memoria di una figura femminile. Essa rappresenta il personaggio chiave, colei che dà il là
all’intera narrazione e mette in moto l’incontro e la conversione di un capo siriano, Naaman.
È solo una piccola schiava la ragazzina che permetterà ad Eliseo di estendere la sua fama oltre i
confini di Israele e a Naaman di guarire dalla sua lebbra ed incontrare il Dio di Israele. Non
sappiamo il nome di questa fanciulla, ma dal racconto veniamo a conoscenza di alcuni aspetti della
sua vita. “Alcune bande di Siri, in una delle loro razzie, avevano portato prigioniera dal paese
d’Israele una ragazzina che era passata al servizio della moglie di Naaman.
La ragazzina disse alla sua padrona: “Oh, se il mio signore potesse presentarsi al profeta che sta a
Samaria! Egli lo libererebbe dalla sua lebbra”! (II Re, 5,2-3)
La piccola ebrea, strappata ai suoi cari, alla sua terra e data alla moglie del capo dell’esercito
siriano, deve avere conosciuto tanta sofferenza e paura. Non sembra tuttavia abitata dal rancore;
anzi partecipa alla sofferenza delle persone che l’hanno ridotta in schiavitù. Pur adattandosi e
integrandosi nella nuova vita, essa conserva la memoria delle sue origini. Ed è proprio di questa che
si avvale per aiutare il suo padrone ammalato. Lei, piccola, debole e straniera, è in grado di fare
qualcosa per quell’uomo così forte e tuttavia fragile nella sua malattia. I ruoli tradizionali si
capovolgono in una sottile ironia che vede il potente soccorso dalla più debole. Il padrone è
“liberato” dalla schiava. In questo gioco di capovolgimenti una persona umile ed insignificante
possiede informazioni che tutti i sapienti non hanno. È una ragazza audace la piccola schiava ebrea.
Ma anche saggia. Ha imparato l’etichetta, sa stare al suo posto, pur riuscendo a far giungere
all’interessato le informazioni che possiede. Non si rivolge direttamente al padrone, ma attraverso la
moglie indica la via di soluzione del problema. È una parola autorevole quella della ragazzina, così
autorevole da mettere in moto l’intero regno. “Naaman andò dal suo signore e gli riferì la cosa,
dicendo: “Quella ragazzina del paese d’Israele ha detto così e così” (2 Re 5:4).
Dunque, per guarire dalla lebbra Naaman, secondo quanto suggerisce la ragazzina ebrea, deve
rivolgersi a Eliseo.
Eliseo è un profeta straniero e per consultarlo è necessario il permesso e la mediazione del re. Gli
affari di politica estera vanno condotti tra sovrani! E così il re di Aram scrive una lettera al re di
Israele che si infuria, ritenendo impossibile la guarigione e giudicando la richiesta pretestuosa. Ma
Eliseo, venuto a conoscenza della situazione, si fa avanti, supera le diffidenza di Naaman e, oltre a
guarirlo lo converte al Dio di Israele.
La scena diventa persino comica: Naaman rifiuta di bagnarsi nel giordano, ritenendo troppo facile
questa via di guarigione.
Ancora una volta sono gli umili che fanno rinsanire i potenti: i servi lo spingono, suo malgrado, a
provare. Di fatto Naaman guarisce nelle acque del Giordano. Quanto alla servetta ebrea, scompare
di scena. Non sappiamo se verrà compensata dal suo padrone con la libertà o con doni e privilegi. In
ogni caso dovremmo attribuirle l’oscar come migliore attrice non protagonista!
Qualcuno potrebbe liquidare questo personaggio riducendolo ad uno stratagemma letterario di chi
scrive, per spiegare come il grande e potente Naaman giunga ad incontrare Eliseo. Mi piace invece
pensare che nella figura di questa saggia ragazzina ci sia la memoria di un Dio che si serve delle
persone più insignificanti per operare i suoi prodigi. Un Dio che deride i potenti e rende gli umili
protagonisti della storia della salvezza.
Come con Giuseppe. Anche lui venne sradicato dalla sua terra e finì schiavo. Giuseppe ricevette
compensi e fece una grande ascesa sociale. Di questa piccola, invece, non sappiamo nulla. È poco
probabile però immaginarla in carriera. Esce subito di scena e sembra aver elargito la sapienza
gratuitamente. Come Eliseo rifiutò i doni generosi di Naaman, anche questa ragazza sembra non
aver avuto nulla in cambio.
La storia biblica che allestisce lo scenario della salvezza funziona per l’audacia dei protagonisti, ma
non trascura il ruolo dei suggeritori. Questi ultimi ricordano il copione ad attori smemorati senza
poter, a loro volta, calcare la scene e strappare applausi.
(Commento di Lidia Maggi, Rocca 1 luglio 2005, pag. 49)
Dopo la lettura e il commento si propone un momento di silenzio perché ciascuna possa mettere a
fuoco un’idea da ricordare:
- Di questo incontro mi piace ricordare …
- Sento il desiderio di …
Preghiera
A te giovane Figlia d’Israele
Maria, umile serva dell’Altissimo,
il figlio che hai generato ti ha resa serva dell’umanità.
La tua vita è stata un servizio umile e generoso:
sei stata serva della Parola quando l’Angelo
ti annunciò il progetto divino della salvezza.
Sei stata serva del Figlio, dandogli la vita
e rimanendo aperta al suo mistero.
Sei stata serva della redenzione,
“stando” coraggiosamente ai piedi della croce,
accanto al Servo e Agnello sofferente,
che s’immolava per nostro amore.
Sei stata serva della Chiesa il giorno della Pentecoste
e con la tua intercessione continui a generarla in ogni credente
anche in questi tempi difficili e travagliati.
A Te, giovane figlia d’Israele,
che hai conosciuto il turbamento del cuore giovane
dinanzi alla proposta dell’Eterno,
guardino con fiducia i giovani del terzo millennio.
Rendili capaci di accogliere l’invito del Figlio tuo
a fare della vita un dono totale per la gloria di Dio.
Fa loro comprendere che servire Dio appaga il cuore,
e che, solo nel sevizio di Dio e del suo regno
ci si realizza secondo il divino progetto
e la vita diventa inno di gloria alla Santissima Trinità.
Amen- (Giovanni Paolo II)
Scheda n. 3
Il potere e la vita
Scopo: Scoprire le istanze del potere, della forza e della debolezza, presenti nelle molteplici
situazioni della vita. Rivisitare alcune provocazioni della IV Conferenza sulla Donna dell’ O.N.U.,
realizzata a Pechino dal 30 agosto all’8 settembre 1995, per vederne le ricadute nell’oggi.
Lo sviluppo della vita, che ha un suo corso naturale sorprendente, che si irradia e si moltiplica,
spaventa chi imposta la vita sul potere che tende a controllare e a determinare tutto, secondo
programmi di utilità ed efficienza.
La vita sembra seguire la logica del “più lento, più profondo, più dolce”;
Il potere invece sceglie la categoria: “più veloce, più alto, più forte”
Già alla Conferenza di Pechino si poneva attenzione al fenomeno demografico, definito come
“attuale”; ci sono frequenti minacce e attentati alla vita, fenomeno che si presenta in modo
differente nelle varie parti del mondo: nei Paesi ricchi e sviluppati si registra un preoccupante calo o
crollo della nascite; nei Paesi poveri, invece in genere è presente un tasso elevato di aumento della
popolazione.
Contraccezione, sterilizzazione e aborto … sono visti come metodi di risposta al problema.
Al di là delle forme, che possono essere varie, e magari assumere toni suadenti persino in nome
della solidarietà, siamo di fronte ad una “congiura” contro la vita, che vede implicate anche
Istituzioni internazionali. Non si può negare la complicità dei mass media che spesso dipingono
come nemiche della libertà e del progresso le posizioni a favore della vita. (Cfr. fascicolo Gruppi
AM.OR, Donne e Occhi di fuoco, di Teresa Porcile Santiso)
Problemi di sempre .. di oggi, del passato, del domani… La situazione non è cambiata; Anzi, c’è
una evoluzione negativa per quanto riguarda la minaccia alla vita, la situazione ecologica, il
degrado ambientale, il terrorismo. Sono tutte situazioni che vedono continuamente in gioco “forza e
debolezza” dell’umanità.
C’è un libro della Bibbia, l’Esodo, che presenta analoga situazione e può offrire importanti chiavi
interpretative dell’attuale realtà, nonché illuminare e orientare scelte per la vita.
In questo libro troviamo numerosi “personaggi e persone” della storia della salvezza; il libro evoca
la benedizione di Dio e il compimento; una benedizione che Dio aveva dato ad Abramo. “... farò di
te un popolo numeroso, una nazione grande …” (Gen. 12,1-3)
Parola di Dio
6 Giuseppe poi morì e così tutti i suoi fratelli e tutta quella generazione. 7 I figli d'Israele
prolificarono e crebbero, divennero numerosi e molto potenti e il paese ne fu ripieno.
Oppressione degli ebrei
8 Allora sorse sull'Egitto un nuovo re, che non aveva conosciuto Giuseppe. 9 E disse al suo popolo:
«Ecco che il popolo dei figli d'Israele è più numeroso e più forte di noi. 10 Prendiamo
provvedimenti nei suoi riguardi per impedire che aumenti, altrimenti, in caso di guerra, si unirà ai
nostri avversari, combatterà contro di noi e poi partirà dal paese». 11 Allora vennero imposti loro
dei sovrintendenti ai lavori forzati per opprimerli con i loro gravami, e così costruirono per il
faraone le città-deposito, cioè Pitom e Ramses. 12 Ma quanto più opprimevano il popolo, tanto più
si moltiplicava e cresceva oltre misura; si cominciò a sentire come un incubo la presenza dei figli
d'Israele. 13 Per questo gli Egiziani fecero lavorare i figli d'Israele trattandoli duramente. 14 Resero
loro amara la vita costringendoli a fabbricare mattoni di argilla e con ogni sorta di lavoro nei campi:
e a tutti questi lavori li obbligarono con durezza.
15 Poi il re d'Egitto disse alle levatrici degli Ebrei, delle quali una si chiamava Sifra e l'altra Pua: 16
«Quando assistete al parto delle donne ebree, osservate quando il neonato è ancora tra le due sponde
del sedile per il parto: se è un maschio, lo farete morire; se è una femmina, potrà vivere». 17 Ma le
levatrici temettero Dio: non fecero come aveva loro ordinato il re d'Egitto e lasciarono vivere i
bambini. 18 Il re d'Egitto chiamò le levatrici e disse loro: «Perché avete fatto questo e avete lasciato
vivere i bambini?». 19 Le levatrici risposero al faraone: «Le donne ebree non sono come le
egiziane: sono piene di vitalità: prima che arrivi presso di loro la levatrice, hanno gia partorito!». 20
Dio beneficò le levatrici. Il popolo aumentò e divenne molto forte. 21 E poiché le levatrici avevano
temuto Dio, egli diede loro una numerosa famiglia. 22 Allora il faraone diede quest'ordine a tutto il
suo popolo: «Ogni figlio maschio che nascerà agli Ebrei, lo getterete nel Nilo, ma lascerete vivere
ogni figlia». (Esodo 1, 6-22)
Per approfondire
Il popolo si era moltiplicato: “… i loro discendenti ebbero molti figli e diventarono così numerosi e
forti che riempirono tutto il territorio” (Es 1,7).
C’è in questa affermazione l’eco di Genesi 1,28, che è presente anche nella frase del faraone: “… È
ora di prendere provvedimenti adatti contro di loro, perché non aumentino ancora di più.
Altrimenti, in caso di guerra, si uniranno ai nostri nemici per combatterci ed abbandoneranno
l’Egitto”. (Es 1,12).
Nel primo capitolo dell’Esodo che cresce è il popolo benedetto, nel secondo capitolo cresce il
bambino perseguitato, Mosè; nel terzo capitolo continuerà a crescere il popolo, libero ormai dal
potere del Faraone. Tutte queste crescite sono frutto della benedizione di Dio. Il Dio della vita che
benedice il suo popolo e lo moltiplica, fa paura al Faraone.
Nel primo capitolo dell’Esodo appaiono il Faraone, le levatrici,. Dal loro comportamento emergono
profili sorprendenti che simboleggiano atteggiamenti concreti di fronte alla vita.
L’atteggiamento del Faraone è espresso nello “sguardo” negativo: “Guardate questi israeliti sono
diventati ormai più numerosi e forti di noi. è ora di prendere provvedimenti adatti contro di loro
perché non aumentino ancora di più”. (Es 1,9-10)
Nel testo originale non si usa il verbo “guardare”; il Faraone non sa “vedere”; semplicemente
prende atto, di fronte alla realtà, che sta per succedere qualcosa di importante.
Il potere del Faraone è cieco, è come quello degli idoli che “hanno occhi ma non vedono” (sal
115,3-8). Il frutto di questo “sguardo cieco” è il controllo della crescita degli schiavi ebrei.
Per questo dà ordine alle levatrici delle donne ebree di uccidere i bambini maschi e di lasciare vive
le bambine, cioè “lasciateci ventri riproduttori, che possano darci figli che saranno i nostri figli,
saranno egiziani… non dobbiamo aver paura di essere meno numerosi degli ebrei”.
Il Faraone voleva manipolare la fecondità, dimenticando che nel progetto del Dio della vita la
fecondità era benedizione. (Remoto preludio alla manipolazione genetica, all’utero in affitto, alla
fecondazione assistita …!?)
Ma le levatrici temono Dio e non obbediscono al comando del Faraone, ma alla legge di Dio che è
nei loro cuori.
E i bambini nascono … Quando i bambini sono nati il Faraone amplia l’ordine di morte con
l’infanticidio.
“Prendiamo provvedimenti contro il popolo ebraico…”
L’espressione, secondo la radice ebraica, include l’idea di astuzia, abilità, “saggezza”.
E subito emerge il contrasto
- tra la pretesa astuzia del potente, che prende provvedimenti per paura, quindi “debolezza” e
-
la reale saggezza – forza delle levatrici che hanno timore di Dio.
-
Il primo voleva trovare forza e sicurezza con la costruzione di una “grande casa”, città
deposito, per accumulare ricchezze, facendo lavorare per sé gli schiavi,
-
le levatrici, con i loro nomi evocano la forza, lo splendore, la bellezza e la grazia di chi teme
il Signore; una forza che viene da dentro
-
il faraone “non sa nulla di Giuseppe”. Cioè è senza visione e senza memoria, privo di senso
storico, senza passato, esercita ciecamente il potere, spinto dalla paura.
-
Le donne levatrici, libere da ogni potere dispotico, non dubitano di disobbedire alle leggi del
potere oscuro” e, proteggendo la vita, pongono le basi del futuro; a un potere inefficace e
cieco, debole e pieno di paure, causa di morte, oppongono saggezza, libertà di azione ed
effettiva autorità di lasciar crescere la vita.
-
Ancora una volta il potente appare debole e pauroso: “dà morte”
-
Mentre le donne mostrano la vera forza, il vero potere: “danno la vita”
Anche oggi è necessario ricordare ai credenti che la vita senza Dio è in serio pericolo: “in tante parti
del mondo esiste oggi una strana dimenticanza di Dio”.
Come la ragazzina ebrea (cfr scheda n. 2) le levatrici si ricordano di Dio. Fare riferimento
quotidiano a Dio è motivo di salvezza e dà l’orientamento per affrontare i problemi in modo
costruttivo e vitale.
Anche oggi si fanno leggi che non proteggono la vita; alcune la minacciano; altre la sopprimono.
Anche oggi, molti poteri ciechi, politici ed economici, vogliono costruire i loro imperi sulla
schiavitù di altri.
Anche oggi i popoli proliferi “mettono paura”. I cinesi, obbligati alla sterilizzazione e al controllo
delle nascite, stanno invadendo “il mercato” e i paesi “definiti” evoluti hanno paura!
Preghiera
Al Cuore Immacolato di Maria
Cuore Immacolato di Maria,
aiutaci a vincere la minaccia del male,
che così facilmente si radica nel cuore degli uomini d’oggi
e che nei suoi effetti incommensurabili
già grava sulla nostra contemporaneità
e sembra chiudere le vie verso il futuro.
Dalla fame e dalla guerra, liberaci!
Dalla guerra nucleare, da un’autodistruzione incalcolabile,
da ogni genere di guerra, liberaci!
Dai peccati contro la vita dell’uomo sin dai suoi albori, liberaci!
Dall’odio e dall’avvilimento della dignità dei figli di Dio, liberaci!
Da ogni genere di ingiustizia nella vita sociale, nazionale e internazionale, liberaci!
Dalla facilità di calpestare i comandamenti di Dio, liberaci!
Dai tentativi di spegnere nei cuori umani la verità stessa di Dio, liberaci!
Dai peccati contro lo Spirito Santo, liberaci!
Liberaci!
Accogli, o Madre di Cristo, questo grido
carico della sofferenza di tutti gli uomini,
carico della sofferenza di intere società.
Si riveli, ancora una volta, nella storia del mondo,
l’infinita potenza dell’amore misericordioso!
Che esso fermi il male, trasformi le coscienze.
Nel Tuo Cuore Immacolato
si sveli per tutti la luce della speranza.
(Giovanni Paolo II)
oppure
Linguaggio di donna
Dai quaderni “FIUMI D’ACQUA VIVA”- Scrittura e preghiera, volume III anno A, pag. 66, Ed
Centro Documentazione e Studi “Presenza Donna” - 1 gennaio 2003
Scheda n. 4
La forza della collaborazione
Scopo: Scoprire le risorse del femminile, a favore della vita, spesso sommerse da falsi valori;
Riconosce e praticare la collaborazione tra persone che hanno un ideale cristiano, che hanno in
comune un preciso riferimento a Dio e una chiara passione per la vita.
Per introdurre
Sorprendono e creano disagio le numerose dichiarazioni di donne che, portate da un regressivo
ritorno alla difesa di se stesse, restringono l’orizzonte ad un piccolo mondo privato e perdono il
contatto con l’ampiezza della vita, dimenticano la loro capacità di “dare vita” e giocano in
complicità con il potere della morte.
È vero che ogni persona costruisce la sua storia misurandosi con il presente storico, sfidata da
modelli di comportamento, dalle rappresentazioni del mondo, dai valori diversi, spesso contrapposti
tra loro, che la postmodernità va producendo in modo inarrestabile.
Oggi il problema principale non sembra essere la perdita di punti di riferimento, quanto la loro
moltiplicazione e, soprattutto la loro incoerenza. La difficoltà è quella di dover gestire un eccesso di
possibilità. Le possibilità, reali o immaginarie sono infinite; uno deve sempre essere pronto a
riconoscerle, a mostrarsi attivo, altrimenti viene messo in disparte. È una modalità che richiama il
principio del “più veloce, più alto, più forte”. Il “troppo”, anche se riguarda le possibilità, diventa
dispersivo e quindi fonte di debolezza.
Le donne di oggi non sono più egoiste di quelle di ieri, ma vivono in condizione di maggiore
contraddittorietà. Ogni soggetto in questa condizione è un soggetto debole; non è più il soggetto che
progetta, che costruisce una strategia, che si autodetermina. È un soggetto che spesso imposta la
costruzione della propria biografia sulla capacità di costruire una vita ricca di sensazioni,
emozionalmente intensa. È un soggetto consumatore, che punta sul risultato di ciò che fa, radicato
nella velocizzazione, abituato all’istantaneo e per questo, spesso, insofferente verso tutto ciò che
richiede tempo e verso tutto ciò che lega al passato. (cfr.Consacrazione e Servizio n. 9 settembre
2005)
Come cristiani e come donne credenti, abbiamo un preciso punto di riferimento che potrebbe
unificare la vita e ridare vigore, slancio, coraggio per affrontare le “strutture” di morte o per
interagire e mettere in discussioni leggi ambigue e tutto ciò che minaccia la vita.
Nel nostro tempo emergono, e possono essere sempre più, anche donne che affrontano le situazioni
sociali senza adeguarsi agli schemi, alle leggi inique; donne che sanno far scorrere la “novità” della
vita, donne che inventano strade di incontro tra diversi.
Però un soggetto da solo non può far fronte al cambiamento personale o di gruppo. C’è necessità di
unirsi, ci cercare e di costruire insieme piccoli segni di una cultura alternativa che si nutre di Parola
di Dio, che si confronta con essa e ad essa ispira le sue scelte.
Ancora prendiamo luce dal movimento di donne presente nel II capitolo di Esodo.
Parola di Dio
Nascita di Mosè
1 Un uomo della famiglia di Levi andò a prendere in moglie una figlia di Levi. 2 La donna concepì
e partorì un figlio; vide che era bello e lo tenne nascosto per tre mesi. 3 Ma non potendo tenerlo
nascosto più oltre, prese un cestello di papiro, lo spalmò di bitume e di pece, vi mise dentro il
bambino e lo depose fra i giunchi sulla riva del Nilo. 4 La sorella del bambino si pose ad osservare
da lontano che cosa gli sarebbe accaduto. 5 Ora la figlia del faraone scese al Nilo per fare il bagno,
mentre le sue ancelle passeggiavano lungo la sponda del Nilo. Essa vide il cestello fra i giunchi e
mandò la sua schiava a prenderlo. 6 L'aprì e vide il bambino: ecco, era un fanciullino che piangeva.
Ne ebbe compassione e disse: «E' un bambino degli Ebrei». 7 La sorella del bambino disse allora
alla figlia del faraone: «Devo andarti a chiamare una nutrice tra le donne ebree, perché allatti per te
il bambino?». 8 «Và», le disse la figlia del faraone. La fanciulla andò a chiamare la madre del
bambino. 9 La figlia del faraone le disse: «Porta con te questo bambino e allattalo per me; io ti darò
un salario». La donna prese il bambino e lo allattò. 10 Quando il bambino fu cresciuto, lo condusse
alla figlia del faraone. Egli divenne un figlio per lei ed ella lo chiamò Mosè, dicendo: «Io l'ho
salvato dalle acque!». (Esodo 2,1-10)
Per approfondire
La parola di Dio ci mostra che la sua forza e la sua salvezza non esclude nessuno. Sono suoi
strumenti le persone culturalmente ed economicamente povere; ma sono suoi strumenti anche
coloro che mettono conoscenze e mezzi a disposizione e a servizio del bene dell’umanità
Appaiono in questo capitolo donne, nella funzione di madre, figlia, sorella: sanno guardare oltre
l’immediato; sono donne che vanno oltre e non si assoggettano alla legge di morte e fanno scelte di
vita; donne “senza nome”, che possono apparire deboli, ma affrontano il potente con la risorsa
femminile, in solidarietà per la vita.
Insieme, e forse senza saperlo, realizzano un’azione che segna l’inizio della liberazione del popolo
ebreo. Salvano un bambino, vegliano sulla sua crescita, rafforzano il debole.
Guardano (il verbo vedere è il verbo adeguato ai profeti)
- con ammirazione. La madre “Vide che era bello”; è lo sguardo creativo, la cui forza supera
la paura della situazione di morte e vede la bellezza della vita che si rinnova. Non si
rassegna alla morte;
- con comunicazione.La sorella ha lo sguardo vigile; guarda da lontano, attende, trepida e, al
momento giusto, agisce con prontezza. Mette in contatto la figlia del Faraone con la madre
ebrea; crea un ponte di collaborazione tra il mondo ricco e il mondo povero.
- con compassione. La figlia del faraone, anche lei è una che “vede”; accoglie disponibile la
proposta di una bambina. Dimentica o trasgredisce l’ordine di morte del padre.
Profili sintesi delle Donne dei primi due capitoli di Esodo ed elementi che le accomunano e
rafforzano la loro solidarietà.
Sifra e Pua: obiettrici di coscienza (Es. 1,17))
La persecuzione del Faraone si abbatte sugli ebrei in Egitto e il primo provvedimento riguarda la
drastica riduzione del loro numero. A Sifra e a Pua, levatrici degli ebrei, si comanda di uccidere i
figli maschi che nasceranno e di lasciar sopravvivere solo le bambine.
Non sappiamo se fossero ebree o egiziane; il testo ci dice solo che temevano Dio. Timore che non è
paura degli eventuali castighi di Dio, ma rispetto profondo per il Dio della vita, il cui riflesso
splende nella coscienza dell’uomo retto. E per fedeltà a Dio e alla propria coscienza, le levatrici,
Sifra e Pua preferiscono obbedire a Dio, piuttosto che al potente re di Egitto.
Iochebed, la madre di Mosè (Es 6,20)
Il decreto del faraone di uccidere i neonati maschi getta nella disperazione le famiglie ebree che
vivono in Egitto. Anche Iochebed, moglie di Amran, della tribù di levi, sentì morirsi dentro quando
si accorge di aver partorito un bel maschietto.
Lo mette in un cestello di papiro, spalmato di bitume e di pece e lo abbandona sulle acque del Nilo.
La speranza è che Dio in qualche modo lo salvi. E il Dio dell’esodo e della liberazione incomincia
col salvare proprio il bambino inerme, cullato dalle acque del grande fiume.
Iochebed, l’umile donna della tribù di Levi, ha confidato in Dio e Dio la consola salvandole il figlio
e salvando, per suo tramite, tutto il popolo di Israele.”
La figlia del faraone
L’opera liberatrice di Dio può realizzarsi anche attraverso l’intervento di persone inconsapevoli di
ciò che Dio compirà per loro mezzo. E la bella figlia del faraone entra in scena quasi in sordina, ma
con un ruolo decisivo per tutta la storia biblica.
Accompagnata dalle ancelle, va a rinfrescare le sue membra nelle acque del fiume, e, scoperto il
bambino piangente, si commuove profondamente e, pur riconoscendolo come ebreo disobbedisce
alla ferrea legge imposta dal padre, decide di salvarlo e addirittura di adottarlo come figlio (Es 2,510).
Certamente avrà dovuto affrontare notevoli difficoltà per introdurlo alla corte e istruirlo nella
sapienza degli egizi (At 7,22).
Il nome che gli dà: “Mosè” – cioè “Io l’ho salvato dalle acque” – riporterà costantemente il grande
profeta della liberazione degli ebrei dalla schiavitù dell’Egitto, a quel primo gesto femminile di
pietà che, al di là del sangue e pur nella diversità della stirpe, sa farsi maternità adottiva e
disinteressato servizio; gesto di umana pietà che, pur contravvenendo alle leggi ingiuste, esprime
fedeltà assoluta alla propria coscienza..
Maria, profetessa gioiosa e ribelle
Sorella di Aronne e di Mosè, Maria è la prima donna che la bibbia chiama “profetessa” (Es 15,20),
anche se ben poco sappiamo del suo modo di esercitare tale carisma.
Testimone della salvezza del fratellino abbandonato sulle acque del Nilo, è testimone pure
dell’epopea di liberazione del popolo ebraico, al cui passaggio le acque del Mar Rosso si aprono e si
richiudono sui carri degli inseguitori.
È profetessa perché negli eventi umani sa leggere l’intervento salvifico di Dio; perché, a
differenza dei potenti che tentano di appropriarsi di Dio, annuncia che Dio è dalla parte dei poveri e
dei perseguitati.
È profetessa pure perché ha piena consapevolezza che Dio non parla solo tramite Mosè ma anche
tramite Aronne e tramite lei stessa: “Il Signore … non ha parlato anche per mezzo nostro?” (Num
12,2).
Anche oggi è necessario che le donne siano unite nella ricerca di un riferimento a Dio, nella
chiarezza della propria identità e che suggeriscano all’umanità vie umane di soluzione dei
problemi.
Preghiera
Spontaneamente formuliamo brevi preghiere, a partire dalle varie espressioni del contenuto offerto.
Oppure
Alla Madre dei viventi
O Maria,
aurora del mondo, Madre dei viventi,
affidiamo a Te la causa della via:
guarda o Madre al numero sconfinato
di bimbi cui viene impedito di nascere,
di poveri cui è reso difficile vivere,
di uomini e donne vittime della disumana violenza,
di anziani e malati uccisi dall’indifferenza
o da una presunta carità.
Fa che quanti credono nel tuo Figlio
Sappiano annunciare con franchezza e amore
Agli uomini del nostro tempo
Il Vangelo della vita.
Ottieni loro la grazia di accoglierlo
Come dono sempre nuovo,
la gioia di celebrarlo con gratitudine
in tutta la loro esistenza
ed il coraggio di testimoniarlo
con tenacia operosa, per costruire,
insieme con tutti gli uomini di buona volontà
la civiltà della verità e dell’amore,
a lode e gloria di Dio creatore amante della vita.
(Evangelium Vitae)
Oppure
Occhi luminosi
Guardiamo a te, Signore:
che siano luminosi i nostri occhi
trasparente e limpida la nostra vita,
pacifiche e buone le nostre relazioni.
Sempre tu hai scoperto e valorizzato
il lato positivo e promettente.
Nelle coscienze devastate, hai trovato
un lembo residuo di innocenza,
un resto di fanciullesca limpidità
non ancora offuscata dal male.
Imparare il tuo guardare
esige un apprendistato lento
di fedeltà al vangelo assimilato,
vissuto; induce a correggere
quella sorta di strabismo
che alimenta al tempo stesso
il desiderio di riferirsi a te
e la voglia di seguire modelli
opposti a ciò che tu hai insegnato.
Siamo alberi, le cui radici
attingono a te, sorgente d’acqua viva.
Tonifica il nostro vigore, Signore;
prepara in noi una fioritura nuova
e frutti dal buon sapore evangelico.
Scheda n. 5
Forza e debolezza nella fede
Scopo: Scoprire come continuare ad essere donne soggetto di “profezia” oggi; come continuare a
leggere e riconoscere l’intervento di Dio nella storia di oggi e a mantenere vivo il senso di Dio, la
fede in Lui, per fare di Lui il riferimento costante della nostra vita.
Per introdurre
Come le donne che abbiamo incontrato nei capitoli uno e due di Esodo (vedi scheda 3 e 4), anche
noi ci troviamo immerse in una società in cui gravano problemi di distruzione e di morte, problemi
legati a calamità naturali ma anche indotti dal un cattivo uso delle risorse, da abitudini di comodità,
di vita facile e da leggi che assecondano risultati immediati, ma non considerano le conseguenze nel
tempo.
Possiamo adeguarsi alla situazione o rassegnarci con lamentoso disgusto della vita.
Questo tempo invece esige “profezia”; perché questa possa rivivere occorre che qualcuno imposti la
propria vita nella fedeltà ai suggerimenti evangelici. Solo allora può introdurre nel mondo una
novità audace, ricca di amore.
In una umanità indebolita dall’indifferenza, dall’assenza o scarsità di fede, servono persone capaci
di riportare al senso e alla responsabilità verso la vita; persone responsabili della propria fede, della
fede all’interno della propria famiglia e comunità, persone responsabili “nella collaborazione”,
come le donne dell’Esodo, perché anche oggi si realizzi una nuova liberazione, un nuovo Esodo che
ci traghetta dalla sfiducia e dall’indifferenza alla gioia di poter confidare in Dio sempre.
La nostra convivenza sociale invoca persone forti, credenti, abitate dalla presenza Dell’Altro e degli
altri. Persone che si mettono insieme per ridare dignità ai deboli, ai poveri, agli indifesi. Per
alimentare la speranza dei poveri, Cristo si è fatto solidale con loro. Fare come ha fatto Gesù,
configurarsi a Lui è fonte di una forza trasformante che avvicina a Dio e rende comunicatori di
speranza.
A noi è consegnato il compito di essere donne “profetesse”, che indicano e realizzano i passi di Dio
dentro la storia. I nostri occhi sono chiamati e “vedere” la salvezza presente e donata oggi.
La proposta dei Vescovi per l’anno pastorale in corso: “Questa è la nostra fede” ci offre dei criteri
per individuare attorno a noi diverse forme in cui, manifesta o nascosta, vive la ricerca di Dio.
Ascoltando queste suggestioni possiamo riconoscere la nostra “collocazione” e cercare vie per
liberare il dono della fede.
“Non si può più dare per scontato che tra noi e attorno a noi, in un crescente pluralismo culturale e
religioso, sia conosciuto il vangelo di Gesù. (…)
- Anche oggi, infatti, come duemila anni fa, gli uomini e le donne continuano a chiedersi su
chi e su che cosa sia possibile riporre le proprie speranze. La fede Cristiana risponde con
Paolo: chi si affida a Gesù di Nazaret non resta deluso (Rom 10,11)
- Anche oggi c’è chi cerca Gesù per trovare la luce della vita. E va a incontrarlo di notte … Come Nicodemo
- C’è poi chi, nei suoi riguardi, sembra mosso da nostalgia, da curiosità o da desiderio acuto,
forse anche da un bisogno inconfessato e si mette in cerca di Lui per affrontare domande
irrinunciabili: da dove sono venuto? Dove sto andando? Cosa ne sarà di questo amore
appena sbocciato? Cosa verrà dopo questa malattia che mi porta alla morte? – Come
Zaccheo …?
-
C’è ancora chi sembra aver archiviato il problema religioso, chi mostra al riguardo
un’apparente sicurezza e si dichiara indifferente. – Come la Samaritana ” (CEI, Il volto
missionario delle parrocchie in un mondo che cambia, 2004).
A questo punto si può creare un momento di dialogo in cui,
chi lo desidera, dice dove si riconosce rispetto alle ipotesi sopra indicate e perché.
Parola di Dio
Si può scegliere uno dei brani indicati nelle quattro situazioni sopra citate e commentarla.
Per approfondire
In un tempo in cui nell’annuncio si sperimenta la fatica di aprire una “breccia nell’anima o di
toccare i cuori”; un tempo simile alla “notte” nella trasmissione della fede occorre intraprendere il
viaggio con la certezza di essere accompagnati da Dio, un viaggio che va verso il Mistero, ma
insieme al Mistero.
Ci lasciamo edificare dalla testimonianza di un noto e discusso teologo, appassionato di Dio e degli
uomini, che sa dire in termini facili le cose difficili:
- (lettura personale e sottolineatura di qualche espressione)
“Schillebeeckx affronta a occhi aperti l’inverno che la chiesa sta vivendo e la secolarizzazione della
nostra cultura. E tuttavia questo libro è traboccante di gioia. Questo perché la base della nostra
fede non è il fatto che amiamo Dio e affolliamo le nostre chiese di migliaia di cristiani, bensì, come
dice san Giovanni, il fatto che Dio ci ha amato e ha mandato il suo figlio a essere nostro redentore.
E Dio continuerà a cercarci. Ogni essere umano è “un essere aperto”, aperto al Dio trascendente
che va in cerca di noi. Sentirci pervasi di malinconia soltanto perché in questi tempi le nostre
chiese possono essere piuttosto vuote, sarebbe un fallimento della nostra fede nella fedeltà e
passione per Dio e per noi”.
“Alla mia età (90 anni), dopo una lunga, laboriosa ricerca, che non è ancora terminata, vorrei dire
sommessamente che la bontà di Dio ha l’ultima parola nella nostra vita,la quale è di fatto un
miscuglio di senso e non senso, di salvezza e non salvezza, di disperazione e speranza. È
seguendo il modo di vivere di Gesù per gli uomini, sanzionato da Dio, che noi abbiamo il senso
della nostra esistenza. Dio che ci trascende è un Dio umano, un Dio che ama gli uomini, che si
preoccupa della loro storia. L’umanità di Dio si incontra con l’umanità degli uomini e la eleva.
Dio è trascendente e umano e l’umanità ha una dimensione trascendente. Queste due dimensioni si
incontrano in Gesù di Nazaret, confessato come il Cristo.
Egli è, da una parte il testimone di Dio, la manifestazione di ciò che Dio vuole e , dall’altra, è il
paradigma dell’umanità, di come l’umanità deve vivere. In Cristo c’è l’incontro del cielo con la
terra, della trascendenza con la nostra umanità”.
“C’è troppa paura di avvicinarsi a Dio. Dio è invece l’entità viva, che libera gli uomini. Non è un
Dio che li schiaccia, che li usa come marionette. Talvolta questo Dio appare lontano, silenzioso,
incomprensibile, nascosto. Ma Dio ci è vicino anche quando tace. Il silenzio affascinante di Dio…
Dio chiama continuamente l’uomo alla gratuità, alla donazione di sé agli altri. Così si è discepoli
di Gesù”.
Schillebeeckx vede la missione e il futuro della Chiesa legati alle sorti dell’umanità:
“C’è troppa distanza tra la Chiesa e la storia degli uomini. La Chiesa deve entrare nel mondo, non
per confondersi – guai! -, ma per essere profetica, critica.
Vorrei dire una parola a coloro che hanno messo da parte Dio e hanno lasciato la Chiesa. Vi sono
uomini che dicono di non credere in Dio, ma prendono sul serio gli altri, s’impegnano per la
giustizia, per togliere il male e la sofferenza. Di fatto con la loro condotta pratica affermano
l’esistenza di Dio. Ciò che conta è la nostra umanità, il nostro sforzo di umanizzazione. Che cosa
dire a coloro che hanno lasciato la Chiesa? Sono purtroppo tanti. Il loro esodo provocherà forse
una specie di purificazione e porterà la chiesa a riflettere, a proporre l’essenziale, a parlare più di
Dio che di se stessa, a sentirsi più viandante che trionfante. Forse la Chiesa capirà che deve
continuamente purificare se stessa e diventare una comunità nuova che mostra agli uomini il volto
trascendente e umano, gratuito e sorprendente di Dio”. (Da Cerco il tuo volto, conversazioni su
Dio, E. Schillebeeckx di Francesco Strazzari)
Preghiera
Come preghiera, ripetiamo le frasi scelte nella lettura personale
Oppure
Signore, fa che la mia fede sia gioiosa
O Signore, fa’ che la mia fede sia gioiosa
e dia pace e letizia al mio spirito,
e lo abiliti all’orazione con Dio
e alla conversazione con gli uomini,
così che irradi nel colloquio sacro e profano
l’interiore beatitudine
del suo fortunato possesso.
O Signore, fa’ che la mia fede sia operosa
E dia alla carità
le ragioni della sua espansione morale,
così che sia una vera amicizia con te
e sia di te nelle opere,
nelle sofferenze
nell’attesa della rivelazione finale,
una continua ricerca,
una continua testimonianza,
un alimento continuo di speranza.
(Paolo VI)
Parola di Dio
Il giudice iniquo e la vedova importuna
1 Disse loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi: 2 «C'era in una città un
giudice, che non temeva Dio e non aveva riguardo per nessuno. 3 In quella città c'era anche una
vedova, che andava da lui e gli diceva: Fammi giustizia contro il mio avversario. 4 Per un certo
tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: Anche se non temo Dio e non ho rispetto di nessuno, 5
poiché questa vedova è così molesta le farò giustizia, perché non venga continuamente a
importunarmi». 6 E il Signore soggiunse: «Avete udito ciò che dice il giudice disonesto. 7 E Dio
non farà giustizia ai suoi eletti che gridano giorno e notte verso di lui, e li farà a lungo aspettare? 8
Vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede
sulla terra?».
Quando il Figlio dell’uomo tornerà, troverà ancora fede sulla terra? (Lc 18,1-8)
Concludiamo l’incontro portando con noi la provocazione di Gesù:
Quando il Figlio dell’uomo tornerà, troverà ancora fede sulla terra?
Scheda n. 6
La forza della tenerezza
Scopo: passare dalla preoccupazione del “dover convincere gli altri al bene e alla fede” alla
capacità di godere dell’essere cristiani per comunicarne la bellezza nella libertà.
Per introdurre
Si sperimenta, talora, un senso di debolezza, a volte di impotenza, quando si deve dare ragione
della propria fede e/o nel fare l’annuncio cristiano. Questo accade in famiglia e in ogni ambito del
vivere sociale. È difficile tra adulti, è ancor più problematico tra generazioni diverse. Si ha
l’impressione di parlare lingue diverse. Soprattutto c’è un modo diverso di concepire la vita, i
valori, la stessa fede in Dio, il modo di pensare e di riferirsi a Gesù Cristo.
Non facciamo finta che il problema non esista.
Non si può pensare che, solo perché i nomi sono registrati nel libro dei battesimi della parrocchia le
persone siano credenti in Gesù.
Giovani e ragazzi e molti adulti, non sempre sono disponibili a ritenere vera e importante la
proposta cristiana, né tanto meno, ad accogliere Gesù come luce e vita. È necessario partire da
questa situazione e muoversi sempre come “missionari” che devono faticare per creare interesse e
accoglienza nei confronti del messaggio che propongono.
Molte persone hanno l’impressione che la chiesa (e quindi la fede, e quindi l’essere cristiani)
propone soprattutto il “no” a tutto ciò che piace. Chi diventa cristiano “è fregato”: deve dare addio
alla gioia di vivere.
Se non si riesce a intaccare questa sensazione, essa diventa convinzione. Ed è un disastro, perché
nessuno accetta una proposta di vita che appare come un pesante fardello di “no”.
(cfr. T. Lasconi: “Cresima e oltre”)
“Molti cristiani non avvertono più che il cristianesimo è in primo luogo un vangelo di speranza e di
gioia, un itinerario di vita e non una specie di sistema filosofico di dottrine fissate da sempre,
mentre si osserva che la parte istituzionale delle Chiese si rifugia in una ideologia religiosa, dove in
pratica non si fa più distinzione tra Dio e religione. È questa ideologia, a mio avviso, la causa
dell’inverno delle Chiese cristiane di oggi, mentre ci sono tante occasioni di annuncio del regno di
Dio. Non con il potere, ma con la semplicità delle beatitudini. Il vangelo ha una forza travolgente
quando parla di giustizia e di amore, di solidarietà e di pace, di un regno sotto la protezione di un
Dio vivente, silenzioso, ma assolutamente vicino”. (Cerco il tuo volto, pag. 29)
Ogni cristiano, per sua natura ha il compito di annunciare Gesù Cristo.
Prima di preoccuparci del “COME” comunicare Cristo o la fede in Cristo è importante chiarire la
propria adesione a Cristo: “Essere conquistate da Cristo, prese dal suo fascino, mosse da invincibile
certezza di essere prescelte per annunciare il vangelo di Dio”. È un dovere primario per cui non è
più possibile vivere per se stessi.
Certamente le diverse immagini, le diverse visioni che abbiamo di Cristo, influiscono sul modo di
credere dei cristiani; sul modo stesso di vivere. È necessario verificare se esse appartengono alla
pietà popolare e tradizioni e credenze nate dalla devozione o se si ispirano alla Parola di Dio. Le
immagini che emergono dai racconti del vangelo hanno un significato teologico e influenzano la
vita personale e comunitaria.
Quando si avverte il peso della propria debolezza è importante ricordare che la Parola ha in sé forza
ed efficacia “Come la pioggia non ritorna al cielo senza poter bagnare, irrigare la terra …”. È questa
la forza che va recuperata; non una forza nostra, legata a mezzi aggiornati o a particolari abilità
personali, ma una forza insita nell’annuncio che siamo chiamati a fare. È la forza di questa fede che
può vincere la debolezza.
Il documento: “Questa è la nostra fede” ci ricorda in termini brevi e chiari come essere cristiani,
come riappropriarsi della fede in Gesù Cristo:
“L’evangelizzazione può avvenire solo seguendo lo stile del Signore Gesù, il primo e il più grande
evangelizzatore”. (CEI comunicare il Vangelo in un mondo che cambia 2000)
Egli ha svolto questa attività andando per i villaggi della Galilea, nelle sinagoghe e nelle piazze,
sulle rive del lago o su qualche monte, nel deserto o per le strade, nelle case o nel tempio. Gesù non
ha aperto una scuola per lo studio della legge a Gerusalemme, come i rabbi del suo tempo; non si è
ritirato nel deserto, non ha fondato un movimento di resistenza politica; non si è limitato a
battezzare come il Battista… La sua attività si è svolta in modo autonomo, come predicazione
itinerante, attraverso gesti e segni, miracoli e parole, sino al compimento supremo dell’amore, sulla
croce”. (Da Cerco il tuo volto, conversazioni su Dio, E. Schillebeeckx di Francesco Strazzari).
Il cristiano, per essere credente, deve stabilire un raccordo tra la vita intima con Dio e la cruda realtà
del mondo. È quello che ha fatto Gesù. Egli contemplava la bontà assoluta del Padre e dall’altra
faceva esperienza quotidiana di una società dove domina il torto, dove contadini poveri, soli e
indifesi, soprattutto le donne, sfruttate e umiliate dall’élite dominante, che collaborava con
l’invasore romano, vivevano ai margini. Da questa esperienza di contrasto tra il Dio-Abbà-Padre e
la vita dei poveri del tempo nasce il suo annuncio del regno di Dio, un regno di giustizia, di amore e
misericordia un regno di uomini nello spazio vitale di Dio.
Gesù ha percorso questa strada, credendo nella forza del bene. Il suo movimento continua ad
ispirarci e lascia itinerari di vita aperti perché ciascuno possa inventare nella fedeltà e nella
creatività, la sua risposta.
Parola di Dio
Il Verbo incarnato e la comunione con il Padre e il Figlio
1 Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri
occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo
della vita 2 (poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo
testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), 3
quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in
comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. 4 Queste cose
vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta.
5 Questo è il messaggio che abbiamo udito da lui e che ora vi annunziamo: Dio è luce e in lui
non ci sono tenebre. 6 Se diciamo che siamo in comunione con lui e camminiamo nelle tenebre,
mentiamo e non mettiamo in pratica la verità. 7 Ma se camminiamo nella luce, come egli è nella
luce, siamo in comunione gli uni con gli altri, e il sangue di Gesù, suo Figlio, ci purifica da ogni
peccato. (1Giovanni 1,1-4)
Per approfondire
Una breve testimonianza di un giovane sacerdote, Paolo Curtaz, può tornare utile per incoraggiare
la nostra debolezza, il nostro timore nel fare l’annuncio cristiano. Don Paolo non fa prediche
difficili e astratte; racconta Gesù e racconta la sua ricerca e la sua esperienza di fede, Proprio come
Giovanni. “Ciò che ha udito, veduto, contemplato …”.
“Appare in mezzo a loro proprio mentre parlano della resurrezione e raccontano che cosa è
accaduto.
Anche a me è successo proprio così: ho conosciuto il Signore proprio nel momento in cui qualcuno
mi raccontava della sua esperienza di fede. Anch’io, alla fine mi sono chiesto: “Non mi ardeva forse
il cuore, mentre, per strada conversavamo insieme?”
“Non so che dirvi, prendetevela con Dio se ciò non vi aggrada: alle nostre fragili mani, come già
dicevamo per Tommaso, è affidato l’annuncio del Regno.
E questo funziona, smuove, suscita interrogativi.
È successo anche a me, giovane saccente alla ricerca della verità, di incontrare persone normali,
anzi più persone e più normali di tante altre, che mi hanno parlato di Dio con franchezza.
La nostra testimonianza è determinante, il nostro annuncio è usato dalla Spirito Santo come chiave
per aprire le porte dei cuori.
Questo implica autenticità nelle nostre parole, autenticità nella nostra esperienza di uomini.
Il cristiano è anzitutto una persona, e porta in sé tutte le fragilità e le contraffazioni degli uomini e
delle donne del suo tempo. Non siamo a parte, diversi. Ma siamo salvati, Dio ci ha incontrati, ed è
apparso in mezzo a noi. (…) Piantiamola di nasconderci dietro la nostra vera o presunta incapacità.
Proprio della nostra debolezza Dio si serve per testimoniare la sua gloria”. (Paolo Curtaz,
Convertirsi alla gioia, San Paolo, 2005, pag. 78)
“Il Signore ci chiede di essere testimoni della sua vita, del suo messaggio, della sua presenza.
Per farlo non occorre confidare soltanto nelle nostre capacità, né ritenersi incapaci, con finta umiltà;
il Signore manda lo Spirito Santo a scardinare i cuori di chi ascolta. Gesù è chiarissimo: lo Spirito
Santo è suo dono alla comunità, dono che lo rende presente e che può fare di pavidi discepoli degli
appassionati testimoni.
È lo Spirito che dobbiamo invocare prima di pensare alla nostra programmazione pastorale, è lui
che dobbiamo chiamare per scuotere le nostre lentezze e le nostre infedeltà e per non scivolare nelle
lamentele continue o nello sconforto” (ivi pag. 85).
Possiamo fare memoria e comunicare la nostra esperienza:
- Mi ha aiutato a comprendere il messaggio cristiano …
- Ho provato entusiasmo per la fede quando …
- Una persona mi ha comunicato la passione e le bellezza dell’annuncio cristiano …
Preghiera
Riviviamo insieme la testimonianza della fede con la formula del simbolo apostolico, che ci ricorda
le principale verità della nostra fede.
Credo
Oppure
Nel nome di Gesù
Nel nome di Colui che, lungo le rive del lago
delle nostre esperienze personali,
è passato, ci ha guardato, ci ha amato, ci ha chiamate,
davanti alla storia di oggi,
rinnoviamo la nostra dedizione all’annuncio di Gesù:
della sua morte, costo dell’amore;
a proclamare la sua risurrezione,
vivendo la gioia che è la sua vittoria sulla nostre tristezze,
irradiando la speranza
che è il superamento delle nostre chiusure.
Nella risurrezione di Gesù,
fatti nuovi nella mente e nel cuore,
ci facciamo grembo di futuro e novità del mondo.
Più gioiose, più operose, più coraggiose
Per proclamare che la Vita è viva
E che ci rende vivi.
Sia lode a te, Padre dell’amore;
sia lode a te, Figlio salvatore,
a te Spirito consolatore.
Oggi e sempre nei secoli. Amen
(Cfr Sabino Palumbieri, Via Paschatis, pag 32)
Scheda n. 7
Forza e debolezza della famiglia
Scopo: prendere atto che una scelta, solo perché fatta dallo Stato o da organismi legislativi non è in
sé giusta. Superare l’atteggiamento rinunciatario e di rassegnazione e assumere la propria
responsabilità sociale, civile, utilizzando i mezzi di partecipazione.
Per introdurre
Sul mercato dei legami d’amore, oggi c’è di tutto, e per fortuna continua ad esserci la “buona e
vecchia famiglia”.
- Le convivenze matrimoniali, fenomeno quasi impercettibile prima del 1968 (2,5%) ha
raggiunto, prima del 2003 il 20%, per motivazioni varie. Economiche,lavoro precario,
desiderio di collaudare il rapporto prima del sì …
- I fallimenti delle unioni tradizionali segnano numeri importanti. In Italia, dall’introduzione
della legge sul divorzio (1970) al 2002, su poco più di 10.200.000 matrimoni, i divorzi sono
stati 764.698. Molte le conseguenze: la creazione di nuove unioni, i contatti tra i figli delle
coppie risposate e quelli della coppia primitiva, nuovi equilibri o squilibri economici,
complicazioni nell’educazione dei figli…
- Ci sono coppie i cui componenti vengono da esperienza culturali e religiose diverse e
lontane …
- Il quadro si affolla ulteriormente se consideriamo anche le unioni omosessuali, quelle
eterologhe (dal partner o genitore sconosciuto … col quale si crea una relazione psicologica
in fantasia), … fino a quelle con il partner in affitto.
- Si fanno strada sempre nuovi tipi di accordi, nuovi assetti matrimoniali che da “fatti privati”
spingono per entrare nella categoria “famiglia”.
- Torna con insistenza la richiesta di legittimazione delle nuove forme di unione.
- Sposarsi secondo la tradizione fa quasi notizia; e in questa minoranza qualcuno sente su di
sé il peso di una testimonianza scomoda.
Ci poniamo qualche domanda:
- è proprio vero che le nuove forme di unione sono in concorrenza con quella antica?
- Sono una variante ad essa?
- Sono una minaccia alla famiglia tradizionalmente intesa?
(Si può dare un po’ di tempo per un dialogo a due o tre e poi confrontarsi in gruppo sulle risposte
date alla domande)
Per allargare il nostro confronto, leggiamo ora l’articolo che segue, cercando di memorizzare le
chiavi interpretative del problema posto: il matrimonio tra omosessuali.
La nuova legge, in Spagna, autorizza il matrimonio tra persone omosessuali, lo mette sullo stesso
piano del matrimonio eterosessuale, e consente l’adozione.
“Posso capire” ha dichiarato il capo del Governo spagnolo Josè Luis Rodriguez Zapatero, “che la
Chiesa cattolica sia dispiaciuta, ma occorre rispettare la competenza dello Stato laico e la
maggioranza parlamentare”.
Ma laicità vuol forse dire che lo Stato può confondere le cose? Che il matrimonio sia quello che è,
cioè l’unione di un uomo e di una donna, non è una questione di Chiesa cattolica. La cultura
occidentale (ma non solo) denomina matrimonio, che fonda la famiglia, solo l’unione dell’uomo e
della donna; e, come tale, si differenzia radicalmente da qualsiasi altro tipo di unione.
Lo Stato laico è autonomo dalla morale cattolica, ma non dalla morale umana o dai valori comuni.
Il pluralismo etico (o delle etiche) delle nostre società occidentali non impedisce di individuarli e,
tra questi, sicuramente c’è la famiglia fondata sul matrimonio. Che a maggioranza parlamentare si
decida che è matrimonio anche quello tra omosessuali, non vuol dire che la decisione sia giusta. Ciò
che è legge non si identifica sempre automaticamente con ciò che è giusto, buono e vero.
La legge spagnola non è giusta ed è antipedagogica, non per ragioni religiose, ma per ragioni laiche,
razionali. La prima grande ragione riguarda l’insostenibile equiparazione tra matrimonio
omosessuale ed eterosessuale. Il minimo che si esige dal legislatore è che non confonda il
matrimonio e la famiglia con altre realtà che non lo sono e non lo possono essere. Non giova a
nessuno, nemmeno alle persone omosessuali, chiamare con lo stesso nome ed equiparare realtà
profondamente diverse e trasferire diritti e doveri da una all’altra.
La seconda ragione che rende ingiusta la legge è il diritto delle coppie omosessuali all’adozione.
Tale riconoscimento è in contrasto con il criterio fondamentale dell’adozione, del resto universale,
riconosciuto: al centro vanno messi il bene e l’interesse globale del minore e non quello dell’adulto.
La copia omosessuale, al di là delle intenzioni, non garantisce obiettivamente un adeguato ambiente
formativo, al quale il bambino ha diritto. Non si vuole dire che la coppia eterosessuale sia, per se
stessa buona educatrice. Purtroppo, e di frequente, la realtà smentisce tale visione positiva.
Si vuol dire, invece, che la coppia omosessuale cancella, per principio, l’insostituibile apporto
educativo che discende dalla presenza del padre e della madre. Ci sono già tante situazioni difficili,
non è proprio il caso di istituirne altre per legge.
Non è superfluo precisare che, in tutto questo, non sono in questione la persona omosessuale, la sua
dignità, i suoi diritti e la doverosa denuncia di ogni forma, passata e presente, di discriminazione ed
emarginazione nella società, nella scuola e anche nella famiglia. È invece in questione il legislatore
nel suo grave compito di tutela del matrimonio, quale risorsa insostituibile e bene di tutti, credenti e
non credenti.
Il legislatore diventa semplicemente arbitrario, e anche ignorante, quando considera il matrimonio
eterosessuale come uno dei tanti modelli possibili; e quando lo equipara ad altre forme di
convivenza civile (dette anche unioni civili o unioni di fatto. L’inevitabile risultato che ne deriva
sono la relativizzazione e il deprezzamento del concetto stesso di matrimonio, con grave danno
della società che ha in quella istituzione uno dei pilastri fondamentali. Il legislatore, cioè la società,
può permetterlo?
In rapporto al fenomeno delle cosiddette unioni libere o “unioni di fatto”, il legislatore potrebbe
considerare una qualche opportunità di regolamentazione allo scopo di garantire certi diritti civili
delle persone singole che sono coinvolte, come la pensione di reversibilità, la successione ereditaria,
l’assistenza sanitaria.
(Di Luigi Lorenzetti, Famiglia Cristiana n. 28 - 2005, pag. 3)
Per approfondire
La Costituzione italiana afferma: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società
naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato dall’uguaglianza morale e giuridica dei
coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare” (art. 29).
Poiché ci siamo dati la regola che le “diversità” vanno rispettate e tutelate, l’idea che possano
sorgere e affermarsi altre formazioni sociali non è una novità di oggi, né una malizia introdotta dal
post moderno, ma un’ipotesi vecchia almeno quanto la nostra costituzione. L’ipotesi, oggi, si è fatta
realtà. Perché cambiare la Costituzione, per fare spazio alle nuove unioni?
Il problema è come verificare e garantire che altre formazioni sociali emergenti non contrastino con
i principi meritevoli di tutela..
È giusto dare a queste altre forme di convivenza (per esempio la famiglia di fatto) una disciplina
legislativa di maggior favore rispetto a quella prevista per la famiglia “tradizionale”? Sarebbe
costituzionalmente illegittimo.
Dobbiamo aver chiaro che una cosa è difendere la famiglia, altra cosa è aiutarla ad essere se stessa.
Si può aiutare la famiglia sul versante pratico o teoretico.
Quello teoretico coinvolge le scienze dell’educazione e dimostrano che la funzione educativa della
famiglia non può essere sostituita…
Il versante pratico coinvolge gli operatori dell’educazione, politici compresi: come si pongono nei
confronti della famiglia, così come è oggi? Con sguardo relativista, atteggiamento di rassegnazione,
di tacito svilimento o di promozione e rilancio?
Un modello di famiglia teoricamente apprezzato, ma di fatto non salvaguardato nelle sue funzioni,
non ha più la credibilità per affermarsi, non per il sopraggiunto emergere di altre forme, ma per il
suo vuoto interno e, in tal caso, il problema non è l’arroganza delle altre forme, ma la povertà in cui
la famiglia è indotta: povertà di tempo, di relazioni, di risorse. Non possiamo accettare con
rassegnazione che alla famiglia sia dato il minimo peso sociale.
Per porre il problema con chiarezza, non si tratta di combattere, discriminare o svalutare le altre
forme di unione sociale, quanto offrire maggiore tutela alla famiglia, dando attuazione all’art. 29
della Costituzione: “
Resta chiaro che non si può paragonare la famiglia alle altre forme di convivenza invocando il
principio di uguaglianza; al massimo ci può essere un rapporto di analogia; non è nel principio di
uguaglianza che le altre convivenze possono trovare elementi per la loro legittimità. Non si può
omologare la famiglia e le altre forme di convivenza.
Deve essere invece definito per queste il proprio stato ontologico.
Per queste “altre forme” o status, non assimilabili al matrimonio, è giusto studiare forme di tutela
del partner più debole, di assistenza di riconoscimento di diritti.
(Cfr Editoriale di 3D Tre dimensioni, maggio- agosto 2005, Ancora, Mi)
Parola di Dio
Questione sul divorzio
3 Allora gli si avvicinarono alcuni farisei per metterlo alla prova e gli chiesero: “È lecito ad un
uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo? ”. 4 Ed egli rispose: “Non avete letto che
il Creatore da principio li creò maschio e femmina e disse: 5 Per questo l’uomo lascerà suo padre
e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola ? 6 Così che non sono più due,
ma una carne sola. Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi”. 7 Gli
obiettarono: “Perché allora Mosè ha ordinato di darle l’atto di ripudio e mandarla via ? ”. 8
Rispose loro Gesù: “Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre
mogli, ma da principio non fu così. 9 Perciò io vi dico: Chiunque ripudia la propria moglie, se
non in caso di concubinato, e ne sposa un’altra commette adulterio”. (Mt 19,3-9)
Breve commento
La parola “da principio” che abbiamo letto al versetto 9, non ha un significato semplicemente
cronologico, in riferimento all’inizio della vita di coppia. Si intende anche e soprattutto un principio
“fondativo”.
Per il credente, l’amore viene da Dio e non soltanto da una alternativa di opinioni, di qualità di
condizione sociale e culturale. La realtà sorgiva dell’amore è Dio. Per questo il matrimonio
cristiano è una vocazione.
Nella storia, l’amore di coppia è affidato alla fragilità della persona, la quale può anche essere
infedele. La fedeltà dell’amore si può riconquistare con l’offerta e l’accoglienza del perdono.
Il Signore avvolge la nostra esistenza con l’amore ineffabile del suo sguardo che ci pervade
ovunque, in ogni istante e da sempre. È la luce di ogni nostro pensiero e desiderio e ci guida sulla
via della vita.
Preghiera
Per la famiglia
Dio, dal quale proviene ogni paternità in cielo e in terra,
Padre che sei amore e vita,
fa che ogni famiglia umana sulla terra diventi,
mediante il tuo Figlio, Gesù Cristo, “nato da donna”,
e mediante lo Spirito Santo, sorgente di divina carità,
un vero santuario della vita e dell’amore
per le generazioni che sempre si rinnovano.
Fa’ che la tua grazia guidi i pensieri e le opere dei coniugi
verso il bene delle famiglie
e di tutte le famiglie del mondo.
Fa’ che le giovani generazioni trovino nella famiglia
un forte sostegno per la loro umanità
e la loro crescita nella verità e nell’amore.
Fa’ che l’amore
rafforzato dalla grazia del sacramento del matrimonio,
si dimostri più forte di ogni debolezza e di ogni crisi,
attraverso le quali, a volte, passano le nostre famiglie.
Fa’ infine, te lo chiediamo
per l’intercessione della Sacra Famiglia di Nazaret,
che la Chiesa, in mezzo a tutte le nazioni della terra,
possa compiere fruttuosamente la sua missione
nella famiglia e mediante la famiglia.
Per Cristo nostro Signore,
che è la via, la verità e la vita
nei secoli dei secoli. Amen.
(Giovanni Paolo II)
Scheda n. 8
Raccontare Dio
Scopo: ricordare che Dio si racconta più facilmente con la testimonianza che con le parole e che
voler imporre Dio o la religione o decidere per gli altri il tempo della adesione a Dio, produce effetti
negativi.
Per introdurre
Nella nostra esperienza sono sempre in gioco
- atteggiamenti che sembrano “di forza”, come il voler convertire altri alla fede, decidere le
risposte e il momento in cui gli altri (i figli, gli amici, il marito …) devono impegnarsi …
Questo è un modo di esercitare il potere, magari in nome della fede e che in realtà mostra la
nostra debolezza di fede;
- e atteggiamenti che sembrano debolezza, come il saper aspettare, rispettare il tempo di
crescita e la ricerca altrui, accogliere un sentire o un pensiero diverso e che in realtà sono
segno di vera forza interiore, di vera fiducia in colui che raggiunge, a suo tempo, ogni suo
figlio.
Per continuare la riflessione sull’annunciare il vangelo e comunicare la fede, prendiamo in
considerazione un episodio in cui una mamma cerca a tutti i costi di passare un messaggio al figlio.
-
Ciascuna legge personalmente l’articolo (oppure a piccoli gruppi o una legge a voce alta per
tutte)
Lasciare quale minuto di riflessione personale, in cui ciascuna sottolinea una espressione
che ritiene illuminante, o un interrogativo che le è sorto, una fatica, una condivisione ecc…
Comunicazione e scambio con il gruppo
“Mamma on-line per raccontare Dio”
Emanuele è un giovane di 27 anni, s’è appena laureato, ha trovato un lavoro che non snobba, anche
se non è per lui il massimo, anzi, vi si applica con tutte le sue energie. Fa parte di una banda e suona
il clarinetto. Sembra stia spuntando al suo orizzonte una ragazza, di cui non parla volentieri. Anzi,
qui è il problema, secondo la madre: Lele è uno che non parla a casa; ora che la sorella si è sposata,
lui rimane a fare il figlio unico, anche se ha lasciato intendere che vorrebbe trovare casa vicino al
luogo dove lavora. Oltre che laconico, spesso a casa si mostra irritato, risponde a monosillabi, anche
se è puntuale a tavola e mangia volentieri. La madre ammette che non fa niente “di strano”, salvo
non andare a messa alla domenica; eppure è allarmata perché lei vorrebbe il dialogo. Allora inventa
una specialissima “corrispondenza”; scrive al figlio delle e-mail lunghe, lunghissime per
rassicurarlo, (pensa lei) per parlargli di Dio, insomma per dirgli cose che non le è più possibile dire,
perché lui “non ascolta”. Ma alla decima e-mail lui non ha ancora risposto. Abbiamo tra le mani il
dono delle e-mail spedite, ne riportiamo qualche stralcio: “Diventare uomo può essere faticoso, ma
è comunque entusiasmante: bisogna però fare lo sforzo di cercare dei maestri saggi, trovare il
coraggio di manifestare le proprie difficoltà … sai benissimo che ti incoraggiamo sempre ad avere
fiducia nel Signore che vuole solo che tu sia felice: questa relazione di fiducia in lui ti porterà tanta
pace nel cuore … sai quanto potresti arricchirti, ad esempio, con la lettura… sii sereno nella tua
relazione con Sabrina, non lasciare però che questa amicizia assorba tute le tue energie e il tuo
tempo…”
“In generale, vedo che i maschi parlano meno dei loro problemi rispetto alle femmine, ma i tuoi
silenzi a me sembrano un po’ eccessivi…”
“La serenità si conquista non con la superbia e l’irascibilità, ma con l’umiltà: con la consapevolezza
di aver bisogno dello Spirito di Dio… L’augurio per il 2005 vuol essere un invito, un
incoraggiamento a invocare, a chiamare in aiuto lo Spirito di Dio per le scelte quotidiane della
vita…”
Tutte le e-mail finiscono con : “un bacione, un abbraccio calorosissimo. Mamma”.
A caldo diciamo la nostra impressione riguardo a
- Come senti l’iniziativa di questa mamma?
- Ti senti in linea con la sua buona volontà di trovare nuove strade per parlare di Dio?
- Condividi la sua strategia, il suo metodo?
Per approfondire
Perché Emanuele non parla?
Dal punto di vista dei contenuti, non possiamo che essere d’accordo con questa madre e con il
desiderio di “parlare di Dio” al figlio, che sembra sempre più rarefatto, indisponibile.
Lungo tutte le e-mail si sente la sua buona intenzione di accostare il figlio, di fargli “catechesi”, di
dare suggerimenti adatti. C’è dentro una passione encomiabile. Anzi, riusciamo a immaginare che le
stesse e-mail (in forma anonima, naturalmente) potrebbero essere pubblicate, ad esempio, sul
giornalino parrocchiale e fare del bene a molti altri figli.
Pensiamo perfino che potrebbero esserci eserciti di catechisti, preti e suore, che si schierano da
parte di questa ingegnosa madre che non smette di “seminare”, di cercare con forza il dialogo, di
trasmettere valori. Però il figlio non risponde. Vogliamo prenderne atto? Vogliamo dare anche a lui
il suo fazzoletto di libertà? Oggi la scienza della comunicazione ci dice che “non si può non
comunicare” e che, perciò, anche il suo silenzio è comunicazione. Chiara, alta, assordante.
In effetti la madre è tanto acuta da osservare che spesso, dopo le sue e-mail, di cui lui non dà un
segno di ricevuta, lei lo trova più irritato, più aggressivo. Ma non le regale nemmeno una parola.
La madre insiste nel chiederci: “Ma perché non mi risponde?”; e noi potremo contro domandarle:
“Ma perché non ha già smesso, almeno dopo la terza e-mail senza risposta?”. E questo, non come
vedremo tra beve, per “tenere la parte” del figlio.
Molto onestamente, la madre ci obietta che lei sente il bisogno di parlare a questo figlio, di sapere
come sta “dentro” e soprattutto di “tenerlo attaccato – parole sue – a Dio”
Ok. Ma questo figlio sta già parlando: ha raggiunto una laurea, tiene un lavoro, ha relazioni sociali
(la banda ad esempio), sta portando avanti una conoscenza con una coetanea, mette in programma
l’uscita di casa; per il momento sembra proprio voler dire “voglio fare da solo”.
In questo fare da solo pare (diciamo pare, perché la non frequenza alla messa domenicale non è per
sé indice di rinuncia alla fede) sia compreso il mettere Dio in stand-by e soprattutto pare mettere tra
parentesi il dialogo con i genitori. Più chiaro di così viene da dire!
Qualche domanda alla madre che non si rassegna.
- di quale Dio sta parlando? Del Dio che dice con estremo rispetto. “Sto alla porta e busso?”
Del Dio di Gesù che riceve di notte Nicodemo e sta aspettando pazientemente la sua
domanda, lasciandolo andar via senza che abbia capito molto?”
- O parla del Dio che dovrebbe rispondere al suo desiderio di dialogo del Dio che lei si è
caricata sulle spalle, senza fiducia che Dio sappia misteriosamente arrivare al figlio?
- Non pensa che Dio provi tenerezza proprio per le prove di “autosufficienza” del figlio,
proprio per il suo voler fare da solo? Proprio come il genitore che trepida e allarga le braccia
ma lascia andare il figlio che tenta di fare i primi passi?
- Questa madre dice cose corrette su Dio, che “vuole la nostra felicità e non ci lascia mai
soli”. Ma come le dice? Come una che predica o come una che testimonia?
-
Se è quest’ultima, perché non incomincia con l’essere più serena lei stessa?
Contro sua volontà, “parla di”, anzi mostra un Dio che cattura, che divora le libertà, che è
impaziente e ansioso.
Ma allora cosa bisogna fare?
Senza essere rinunciatari o qualunquisti, bisogna essere coerenti con il metodo che Gesù ha scelto
per parlarci del Padre. Incarnarsi.
Questo Dio che amiamo dovrebbe essere incarnato nei nostri gesti, è proprio lui che raggiunge
“questo figlio” con rispetto, con un gesto affettuoso, con un sorriso… E con la rinuncia a
interrogatori, ispezioni, ansie sul perché non parla (cioè non dialoga come io vorrei).
Sono mille e mille i modi per dire la passione di Dio per noi
(Di Mariateresa Zattoni e Gilberto Gillini, Messaggero, settembre 2005, pag. 84-86)
Parola di Dio
Abbandonarsi alla Provvidenza
25 Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche
per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del
vestito? 26 Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai;
eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? 27 E chi di voi, per
quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita? 28 E perché vi affannate per il
vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. 29 Eppure io vi
dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. 30 Ora se Dio
veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per
voi, gente di poca fede? 31 Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa
berremo? Che cosa indosseremo? 32 Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro
celeste infatti sa che ne avete bisogno. 33 Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte
queste cose vi saranno date in aggiunta. 34 Non affannatevi dunque per il domani, perché il
domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena. (Mt6,25-34)
Dopo un breve silenzio si può fare qualche risonanza della Parola
Preghiera
«Stai con me, e io inizierò a risplendere come tu risplendi;
a risplendere fino ad essere luce per gli altri.
La luce, o Gesù, verrà tutta da te: nulla sarà merito mio.
Sarai tu a risplendere, attraverso di me, sugli altri.
Fa’ che io ti lodi così, nel modo che tu più gradisci,
risplendendo sopra tutti coloro che sono intorno a me.
Da’ luce a loro e da’ luce a me;
illumina loro insieme a me, attraverso di me.
Insegnami a diffondere la tua lode, la tua verità, la tua volontà.
Fa’ che io ti annunci non con le parole ma con l’esempio,
con quella forza attraente, quella influenza solidale che proviene da ciò che faccio,
con la mia visibile somiglianza ai tuoi santi,
e con la chiara pienezza dell’amore che il mio cuore nutre per te.»
J.h. Newman
Scheda n. 9
Scelte alla “deriva”
Scopo: Imparare a farsi una ragione quando la realtà della vita è diversa da come noi l’abbiamo
sognata. Non scusarsi e attribuire ad altri la responsabilità delle cose che “non ci vanno a genio”, e
riflettere sul proprio modo di agire.
Per introdurre
Corre la grande preoccupazione e spesso un senso di impotenza quando si osserva che non riesce
più a trasmettere alle nuove generazioni i valori in cui si è creduto. Per esempio la famiglia, la
pratica cristiana, l’etica della vita ...
Senza colpevolizzare la società, o i giovani o gli adulti per relative indifferenza, non responsabilità
o per errori, cerchiamo di scoprire dove sono i nodi cruciali che impediscono la ricezione positiva
delle realtà in cui abbiamo creduto.
Quando le cose non funzionano, quando ci sono delle realtà pesanti, non buone, prima di chiarire il
problema in sé, si cerca sempre un soggetto cui attribuire la colpa, a turno tali soggetti sono
rappresentatati da chi mette in discussione, da chi ha il coraggio di denunciare o di disturbare
l’andazzo, da … chiesa, società, genitori, i mass media, la scuola ecc.
Raramente si sente fare il discorso della responsabilità personale a confronto con valori universali,
duraturi, trasculturali. Questi non danno ragioni o colpe, ma invitano tutti, sempre ad un cammino
di crescita verso il “meglio” della società e della persona.
Leggendo l’esperienza che segue, ci domandiamo quali motivazioni siamo in grado di dare a
sostegno dei nostri principi.
Verso le situazioni impreviste che incontriamo, non ci preoccupiamo di dire se sono giuste o
sbagliate, ma cerchiamo quali possono essere vie di dialogo con esse, nel rispetto, senza per questo
rinunciare alle proprie convinzioni.
Una mamma scrive:
Caro direttore. Ho letto che la regione Toscana ha approvato una legge che riconosce le varie
forme di convivenza, compresa quella degli omosessuali. Le confesso che sono profondamente
disgustata di questo scadimento continuo di principi morali. In un’epoca in cui c’è estremo bisogno
di riaffermare la famiglia, si dà un ulteriore colpo di piccone a questa istituzione.
Le esprimo questo mio rammarico perché sono molto delusa anche dai miei figli, ai quali ho
cercato di trasmettere una sana dottrina cristiana. Infatti uno di essi è ancora in casa e non vuole
saperne di mettere la testa a posto. Il grande è tornato a casa dopo una separazione e la figlia
piccola convive con il suo ragazzo ed è sorda a qualsiasi mia richiesta di regolarizzare la sua
unione. Non mi capacito del fatto che, avendoli educati sempre bene, mi abbiano poi ripagato in
questo modo.
Se anche in Italia si incentivano le convivenze sono convinta che si perderà sempre più di vista il
valore sacro della famiglia e quindi anche lo Stato diventerà responsabile di un ulteriore degrado
dei comportamenti delle future generazioni. (Lettera firmata e pubblicata nel giornale di Vicenza).
Dialogo: Diciamo a caldo:
- Quali sono i punti di merito di questa mamma?
- C’è qualcosa del suo racconto che mi lascia perplessa?
- In che cosa non mi sento in sintonia con lei?
Stralci della risposta dello psicologo
Su una cosa sono profondamente d’accordo con lei: sul valore della famiglia. Essa rimane “conditio
sine qua non” per una buona crescita dei bambini e dei giovani. Una buona famiglia è costituita da
due individui responsabili. Per educare non basta l’amore istintivo, fatto di baci e carezze una
tantum o di regali sostitutivi. L’educazione è una cesellatura lenta, pensata, condivisa, intrisa di
sentimenti d’amore.
Non producono effetti validi tutte le forme di dipendenza a cui si inducono o si autorizzano i figli.
In tal modo essi non diventano mai grandi rimangono sparanzati nel ruolo di figli e appiccicati al
grande seno genitoriale.
Della sua lettera mi colpisce una cosa: non parla mai del padre dei suoi figli. Sembra che essi siano
patrimonio esclusivo suo, come se un padre, presente o assente, non debba incidere in modo
determinante nella loro formazione e non debba condividere gioie e dolori.
Secondo aspetto. Lei non si mette in discussione. Senza togliere ai figli eventuali responsabilità
riguardanti la loro vita e le loro scelte, è necessario che lei non risponda in modo così dogmatico
perché ciò non le consente di essere empatica nei loro confronti. Sarà utile ripartire dalle delusioni
patite da tutti. (…)
Pare che, i cosiddetti principi diventano cibo indigesto, non metabolizzato, quindi profondamente
inutili perché non nutrono, non danno forza, non orientano. (…) Il rapporto con i figli va
reimpostato su basi diverse: rispetto, ascolto, fiducia.
Lo statuto rappresenta una presa d’atto di un fenomeno sociale, di un fatto di costume che si sta
propagando da tempo, dopo aver scardinato una impostazione vetusta della famiglia e non essere
ancora approdato ad un nuovo modello sano e aggiornato di famiglia. Sono infatti aumentate le
separazioni, si stanno diffondendo le convivenze di fatto, esistono le coppie omosessuali maschili e
femminili, vi sono le famiglie ricomposte.
Credo sia fondamentale riconsiderare un modello di percorso che porti verso la famiglia in modo
più convinto e duraturo.
(…)
E di certo molto delicato assumersi l’impegno davanti a Dio di non scindere nella buona e nella
cattiva sorte il legame coniugale assunto. C’è chi poi non ritiene necessario dichiarare il proprio
impegno d’amore davanti a un funzionario pubblico di un Comune. Sempre un contratto d’amore
dovrebbe diventare impegno reciproco nel riuscire a vivere in modo soddisfacente.
La scelta del matrimonio dovrebbe diventare ancora più consapevole e meno a rischio di dolorosi
fallimenti.
Nei tempi lunghi la sfida sta nel ridefinire il percorso di formazione degli individui non più su una
cultura consumistica ed egocentrica, ma sul piacere di crescere belle persone capaci di fare e
sostenere scelte responsabili. (Lino Cavedon - psicologo)
Dedichiamo un po’ di tempo per raccogliere (su un cartellone o un foglio) le frasi che possono
introdurre una idea forza per migliorare la situazione, es.
1. una famiglia è condizione per la buona riuscita dei figli
2. una famiglia è costituita da due individui responsabili
3. i principi sono cibo indigesto, inutili …
4. un contratto d’amore dovrebbe diventare impegno reciproco …
5. la sfida sta nel percorso di formazione
Parola
Parabola della zizzania
24 Un’altra parabola espose loro così: “Il regno dei cieli si può paragonare a un uomo che ha
seminato del buon seme nel suo campo. 25 Ma mentre tutti dormivano venne il suo nemico,
seminò zizzania in mezzo al grano e se ne andò. 26 Quando poi la messe fiorì e fece frutto, ecco
apparve anche la zizzania. 27 Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: Padrone,
non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene dunque la zizzania? 28 Ed egli
rispose loro: Un nemico ha fatto questo. E i servi gli dissero: Vuoi dunque che andiamo a
raccoglierla? 29 No, rispose, perché non succeda che, cogliendo la zizzania, con essa sradichiate
anche il grano. 30 Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento
della mietitura dirò ai mietitori: Cogliete prima la zizzania e legatela in fastelli per bruciarla; il
grano invece riponetelo nel mio granaio”. (Mt, 13, 24-30)
La Parola di Dio ci invita
- ad essere più attenti a far crescere il buon grano piuttosto che preoccupati di togliere la
zizzania;
- ad essere noi buon grano piuttosto che rendere buon grano gli altri;
- a ricordare che la valutazione, la cernita, il giudizio spettano solo a Dio.
Preghiera
Ci impegniamo
Ci impegniamo
non per riordinare il mondo
non per rifarlo
ma per amarlo.
Per amare
anche quello che non possiamo accettare
anche quello che non è amabile
anche quello, che pare rifiutarsi all’amore
poiché dietro ogni volto e sotto ogni cuore c’è,
insieme ad una grande sete d’amore,
il volto del cuore dell’Amante.
Ci impegniamo
perché noi crediamo all’Amore,
la sola certezza che non teme confronti,
la sola che basta per impegnarci
perdutamente.
(Primo Mazzolari)
Scheda n. 10
La forza “giovane”
Scopo: Rivedere il nostro modo di “pensare i giovani”, per abbandonare stereotipi di giudizio e di
valutazione ed assumere lo “sguardo creativo” che risveglia o sostiene il bene in loro presente.
Per introdurre
Quando si dice giovani … si pensa a
Quali sono le linee più comuni con cui si descrivono i giovani?
Tante descrizioni, informazioni statistiche e interpretazioni negative riguardo all’età giovanile,
hanno offerto una conoscenza parziale, condizionata e spesso limitata ad una “fetta” dei giovani del
nostro tempo; soprattutto hanno indebolito negli adulti il desiderio di dialogare con i giovani.
Peggio. Hanno creato distanza e paure, solitudini.
Questa linea imbriglia dentro la debolezza di pensiero e di azione
L’incontro tra diverse generazioni è in sé una dimensione delicata. Velata o manifesta, c’è per tutti
una certa paura di non riuscire ad incontrarsi. Tra gli adulti che desiderano mettersi in relazione con
i giovani, c’è un diffuso timore di non piacere o di non essere accolti bene, timore di apparire
sorpassati, con idee troppo vecchie, incapaci di guardare con simpatia il nuovo.
La soluzione più semplice sembra essere: tenere le distanze!
Non si può dimenticare che parallelamente al tanto pubblicizzato gruppo di giovani “allo sbando”,
c’è un mondo di giovani per bene che desiderano conoscere e assumersi responsabilità nella vita,
giovani che continuano a coltivare sogni e speranza.
Ci sono tanti giovani, e ne è stata ancora una volta testimone la GMG di quest’anno, vivi,
interessati, in ricerca e capaci di dono e di impegno; capaci di fare fatica e di pazientare, capaci di
incontrarsi fra loro e con Dio.
Credere ai giovani fa bene a loro e a noi, saper cogliere la positività giovanile, pur nella
consapevolezza dei loro ambiti ancora soggetti alla crescita, diventa motivo di forza per vivere
l’oggi e per guardare al futuro. Non possiamo e non vogliamo rassegarci alla negatività, non serve
nemmeno consolarci pensando che i tempi cambieranno. Vogliamo vivere con passione e
intelligenza, perché si apra il futuro nuovo.
Per questo ci confrontiamo con qualche pagina che presenta in modo alternativo i giovani.
Nel nostro dialogo possiamo aggiungere altre pagine che riteniamo incoraggianti e che ci aiutano a
riconoscere il bene già in atto.
“Il gusto di raccontare”
Un noto quotidiano ha indetto un concorso di scrittura rivolto ai giovani fino ai 25 anni: “SMS.
Scritture. Memorie. Sentimenti”. E ne ha pubblica l’esito.
La pagina mi incuriosisce, non tanto per conoscere certi dati (121 partecipanti, 25 i testi selezionati)
quanto per le opinioni dei giurati che hanno spiegato le loro scelte. E qui le sorprese sono tante e
quasi tutte gradevoli.
“scrivono bene questi under 25 – dichiara lo psichiatra Vittorino Andreoli presidente della giuria – e
così smentiscono il luogo comune che li vorrebbe illetterati, incapaci di esprimersi attraverso la
parola scritta, se non nella forma stringatissima e sbrigativa dei messaggini, gli SMS appunto”. Un
altro dei giurati li definisce assai meno” strafalcionisti” della generazione precedente.
A Roberto Vecchioni invece non interessa lo stile e si ferma su altri aspetti: “Chi ha mandato i suoi
racconti al quotidiano ha preferito la formula del “Come ditta dentro” cioè della spontaneità, con
punte così alte di sincerità che sintassi e grammatica sono spesso finite in cavalleria. Della qual cosa
non me n’è importato un bel niente o quasi…
Cosa ho visto emergere da questo guazzabuglio di ambienti e vicende? Prima di tutto che il mondo
di questi giovani, dei nostri giovani, non è per niente disperato né annoiato come tendiamo ad
immaginare.
C’è in loro, in tutti, un insieme di elementi interessanti: il bisogno spasmodico dell’amico, di
recuperare i genitori, la capacità di ironizzare, di sdrammatizzare… è chiara poi la condanna totale
dell’indifferenza, l’impulso a scegliere, anche sbagliando, per ricominciare…
L’ingiustizia è sentita come una grande presenza quasi invincibile, ma da vincere.
Il cuore è di gran lunga anteposto alla ragione, ma con misura: niente retoricumi e sogni – sognetti –
sognettini stupidotti, stupidini: i sogni sono veri, concreti e hanno tutti il fine di realizzarsi.
Nessuna fede è spacciata per unica… né lava il cervello ma rinforza i dubbi, il dibattito, la
speranza…”. Si dice quindi entusiasta soprattutto dei tredicenni e quattordicenni che hanno scritto
con trasporto e passione cose ancora più fresche, più vere, più belle perché non possiedono né le
malizie, né le pretese letterarie degli altri. Il gusto di raccontare riesce anche ad andare di pari passo
con una forte capacità di introspezione: “Del mondo giovanile noi adulti continuiamo a fornire
un’immagine scontata, prevedibile e di gran lunga peggiore rispetto alla realtà; in questi racconti
invece ci sono indizi importanti- afferma Andreoli, citando poi una frase tratta dal racconto di una
sedicenne che, secondo lui, vale più di tante analisi dei sedicenti esperti. “Io sono un’accozzaglia di
tutti quei giovani che guardo, apprezzo e che non conosco, con cui condivido la voglia di avere un
ruolo attivo in questo mondo. Io sono una ragazzina inesperta della vita che crede di averla capita
senza esservi ancora entrata.”
Qua e là nei testi A. Zaccuri nota il rischio dell’autocommiserazione, ma anche il desiderio
ricorrente di assumersi le proprie responsabilità: “Peter Pan non abita più qui. Il ragazzo che non
vuole crescere e che, proprio per questo continua a rimandare l’avventura della normalità è stato
portavoce dei trentenni di ieri. Adesso i racconti del concorso hanno dimostrato il contrario: i
ragazzi si domandano se ce la faranno. A crescere, anzitutto ma anche a districarsi nelle
contraddizioni della quotidianità.”
Insomma, se per riuscire a raccontare bisogna anche lavorare su se stessi, osservare la vita e
scoprirne i valori, questi giovani hanno dimostrato di saperlo fare egregiamente.
“Sono tutte storie degne di essere raccontate” – ha sostenuto la giuria.
E siccome riproducono linguaggi, stati d’animo, speranze … in breve l’identità di molti giovani del
2005, questi racconti dovrebbero essere letti con attenzione: sarebbe un’occasione in più per
conoscerli meglio questi nostri ragazzi.
A cura di Teresina Andreusi, Il Missionario, settembre 2005, n. 9, pag. 5)
Per il dialogo
- Posso modificare il mio modo di pensare i giovani …
- Sento bello poter sottolineare (dire un aspetto positivo)
Parola di Dio
La Parola ci invita a dare credito al futuro dei giovani, ad anticipare loro fiducia, a sentirci
responsabili di offrire loro risposta alla fame e sete di Dio
“Ecco, verranno giorni
- dice il Signore Dio –
in cui manderò la fame nel paese,
non fame di pane, né sete di acqua,
ma d’ ascoltare la Parola del Signore.
Allora andranno errando da un mare all’altro
E vagheranno da settentrione a oriente,
per cercare la Parola del Signore,
ma non la troveranno.
In quel giorno appassiranno le belle fanciulle
E i giovani per la sete”.
(Amos 8, 11-13)
Preghiera
Signore Gesù Cristo,
custodisci i nostri giovani nel tuo amore.
Fa’ che odano la tua voce
e credano a ciò che tu dici,
poiché tu solo hai parole di vita eterna.
Insegna loro come professare la propria fede,
come donare il proprio amore,
come comunicare la propria speranza agli altri.
Rendili testimoni convincenti del tuo Vangelo
in un mondo che ha tanto bisogno
della tua grazia che salva.
Fa di loro il nuovo popolo delle Beatitudini,
perché siano sale della terra e luce del mondo
in questo millennio.
Maria, Madre della Chiesa, proteggi e guida
questi giovani uomini e giovani donne
del ventunesimo secolo.
Tienili tutti stretti al tuo materno amore. Amen
(Giovanni Paolo II)
Oppure
Santa Maria vergine del mattino
Santa Maria vergine del mattino
donaci la gioia di intuire, pur tra le foschie dell’aurora,
le speranze del giorno nuovo.
Ispiraci parole di coraggio.
Non farci tremare la voce quando, a dispetto
di tante cattiverie e di tanti peccati che invecchiano
il mondo, osiamo annunciare che verranno tempi migliori.
Non permettere che sulle nostre labbra
il lamento prevalga allo stupore,
che lo sconforto sovrasti l’operosità
che lo scetticismo schiacci l’entusiasmo,
che la pesantezza del passato ci impedisca di far credito sul futuro.
Aiutaci a scommettere con più audacia sui giovani.
Moltiplica le nostre energie perché sappiamo investirle
nell’unico affare ancora redditizio sul mercato della civiltà:
la prevenzione delle nuove generazioni
dai mali atroci che oggi rendono corto il respiro del mondo.
Aiutaci a comprendere che additare le gemme che spuntano
sui rami, vale più che piangere sulle foglie che cadono.
E infondici la sicurezza di chi già vede l’oriente
incendiarsi ai primi raggi del sole.
(Don Tonino Bello)
Scheda n. 11
Debolezza e forza nella sofferenza
Scopo: Verificare come i media e la comunicazione di massa presentano la sofferenza; prendere
coscienza che dentro alla sofferenza c’è un elemento di debolezza ma anche di forza. Dare un senso
cristiano al patire.
Per introdurre
Ci poniamo di fronte a tre diversi interrogativi:
- come viene presentata la sofferenza dai media
- come una persona può dare senso alla sofferenza
- il valore della sofferenza non è nell’esperienza in sé, ma nel come la si vive.
La sofferenza è un argomento o un’esperienza nella quale spesso si chiama in gioco Dio. Anche chi
si dichiara non credente, di fronte a tragedie o disgrazie finisce col dire. “Ma perché Dio permette
queste cose?”
Il rapporto dolore - Dio è un tema antico e sempre irrisolto: è universale, soggetto a riflessioni in
tutti i tempi e al quale ciascuno deve cercare la propria risposta, il modo di affrontarlo e di metterlo
in relazione con la vita.
Ogni persona ha diritto di vivere la sofferenza, il dolore secondo una propria sensibilità, ma quando
si assumono gli atteggiamenti estremi di negazione o di esaltazione di una realtà, significa che di
essa si è perduto il vero significato.
Ci sono persone ossessionate dal bisogno di nascondere fatti dolorosi personali o di famiglia:
incomprensioni, imprevisti, problemi economici o di salute … A volte sembrano negarli addirittura.
Ci sono altre persone che portano in piazza la propria sofferenza, che vanno in TV a redimere
difficoltà relazionali di coppia, di rapporto parentale, che espongono al pubblico, senza nessun
pudore, fatti intimi; spesso ascoltiamo incauti giornalisti che fanno le domande più banali o più
insensate a chi vive una disgrazia; ci sono persone che fanno “spettacolo” della loro sofferenza o di
quella altrui.
In un breve articolo apparso su Avvenire “Se la tivù uccide anche la pietà”, Mirella Poggialini
concludeva dicendo: “Ritegno, rispetto, riservatezza, misura sono concetti desueti: ma che si salvi,
almeno, il senso della pietà”.
L’articolista ritiene che “la riproposta superflua e crudele, in tanti programmi, di delitti e morti
appartengono ad “una voga, quella della morte ostentata e squadernata di continuo, che fa dello
schermo televisivo, sempre di più, un cimitero virtuale, aperto a tutti, anche ai più piccini,
generalmente nelle ore in cui a famiglia si riunisce. Morti per incidenti, mal coperti da lenzuola,
descrizioni accurate di resti straziati, narrazioni drammatiche di quanto si ritrova (…), telecamere
che insistono sulle tracce di sangue che restano sulle strade, dopo ecatombe e duelli feroci.
Si dirà: “Ma anche nei film e nei telefilm appare l’immagine della morte, e allora?”
Allora c’è la differenza fra la finzione e la realtà, c’è la catarsi di una conclusione quasi sempre
positiva in cui i colpevoli sono scoperti e puniti, c’è un distacco emotivo, pur nella partecipazione
dello spettatore, che fa da filtro e difesa.
- Diverso è il ritorno costante ai delitti irrisolti, in cui la o le vittime sono elemento certo e
visibile, e perciò ampiamente proposto;
-
diverso è il commemorare chi è morto male descrivendone sofferenza e pena;
diverso è strumentalizzare certe immagini per attirare l’attenzione che l’eccesso televisivo
di offerte rende sempre meno costante e sicura”. (Avvenire 1 settembre 2005 pag. 28)
Questo modo di mostrare sia la morte che il dolore non educa ad affrontare la sofferenza. Anzi crea
un effetto terrore – distacco, quasi fossero cose che non ci appartengono, realtà da cancellare dalla
vita o, se si incontrano, da dimenticare quanto prima. Vista così la sofferenza che ci colpisce
diventa motivo di angoscia vuota, di disperazione.
La sofferenza fa parte del limite della vita, non ancora giunta a perfezione. “La sofferenza è la
risonanza umana delle disarmonie e delle incongruenze esistenti nelle dinamiche della creazione e
la conseguenza del male che l’uomo compie. (…) Se si concepisce l’origine e l’evoluzione del
cosmo come un faticoso e progressivo emergere dal nulla o dal vuoto, in virtù della parola creatrice,
l’immensa sofferenza del mondo appare come il risvolto inevitabile, o meglio ancora come la
condizione, o ancora più esattamente come il prezzo di un immenso successo”.
In questa prospettiva tre sono gli aspetti della sofferenza da considerare:
- come eredità del passato da accogliere
- come riparazione del presente da vivere e
- come sforzo della vita in noi per avanzare” (La vita del credente, Carlo Molari, pag.67).
C’è quindi un altro modo di affrontare la sofferenza; affrontata cioè con chiarezza, rispetto di sé o di
altri che soffrono, cercando ad essa un senso, un come viverla rendendola motivo di crescita per sé
e per gli altri.
Nella letteratura cristiana ci sono molte testimonianze, in cui emerge la fatica, il lamento, ma anche
una prospettiva di fede. Ne scegliamo una, ma ciascuna del gruppo può arricchire la comunicazione
con conoscenze personali.
Don Roberto Pennati: a 50 anni colpito da SLA (sclerosi laterale amiotrofica: malattia del sistema
nervoso che colpisce i muscoli del movimento).
“La mia malattia ha scosso la mia fede. Soprattutto nei primi tempi, un rancore sordo contro Dio e
la vita, che aveva “voluto” questa prova per me. Voluto no, però permesso sì? Che differenza fa?”
Dentro questa mia esperienza, ho cercato di comprendere il rapporto tra Dio e il mondo creato.
Non ho trovato una riflessione seria. Il testo che imposterebbe bene il problema, è quello del cieco
nato. Sta nella natura delle cose che questo succeda. Io credo all’Abbà-Padre e mi fido di Lui.
Però, perché non so rendere ragione, dare una motivazione onesta delle sofferenze di tanti uomini?
Nei libri, si trovano accenni alle “malattie mandate da Dio”; altri fanno intuire che non sono
mandate da Dio. Però, per affermare questa convinzione, non c’è nessuna spiegazione. Molti
credenti vedono Dio che distribuisce sventure e maledizioni, oppure la gente crede che “non cade
foglia che Dio non voglia”. E noi preti come spieghiamo questo?
Dialogo:
- Come ti senti di fronte alle affermazioni di Don Roberto Pennati?
- Come risponderesti ai suoi interrogativi?
- Conosci persone che riflettono sulla sofferenza, che sanno dare un senso alla sofferenza?
Racconta …
La sofferenza è come “un pozzo profondo che sembra nero e buio, ma se ci cade dentro il sole, o la
luna, subito si illumina … allora è come accogliere nel tenebroso grembo, la seminagione della
vita”.
Parola di Dio
Tenendo conto di particolari situazioni che i membri del gruppo stanno vivendo riguardo la
sofferenza, si può scegliere un brano o l’atro della Parola.
Primo annunzio della passione
31 E cominciò a insegnar loro che il Figlio dell’uomo doveva molto soffrire, ed essere riprovato
dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare.
32 Gesù faceva questo discorso apertamente. Allora Pietro lo prese in disparte, e si mise a
rimproverarlo. 33 Ma egli, voltatosi e guardando i discepoli, rimproverò Pietro e gli disse:
“Lungi da me, satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”. (Mc 8,31-33)
oppure
17 Venne dunque Gesù e trovò Lazzaro che era già da quattro giorni nel sepolcro. 18 Betània
distava da Gerusalemme meno di due miglia 19 e molti Giudei erano venuti da Marta e Maria
per consolarle per il loro fratello. 20 Marta dunque, come seppe che veniva Gesù, gli andò
incontro; Maria invece stava seduta in casa. 21 Marta disse a Gesù: “Signore, se tu fossi stato
qui, mio fratello non sarebbe morto! 22 Ma anche ora so che qualunque cosa chiederai a Dio,
egli te la concederà”. 23 Gesù le disse: “Tuo fratello risusciterà”. 24 Gli rispose Marta: “So che
risusciterà nell’ultimo giorno”. 25 Gesù le disse: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in
me, anche se muore, vivrà; 26 chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi tu
questo? ”. 27 Gli rispose: “Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve
venire nel mondo”. Gv 11,17.27
Dio vuole la sofferenza?
A volte corrono nel nostro linguaggio affermazioni “poco cristiane”, che scandalizzano i non
credenti o lasciano trasparire l’immagine di un Dio “strozzino” che vuole la sofferenza per
purificarci. Molti non riescono ad accettare che un “Dio – Padre” accetti di veder morire il Figlio tra
mille tormenti, per placare la sua “ira”! Ma è proprio vero che Dio vuole la sofferenza del Figlio
suo o che la sofferenza di Gesù ci salva?
Ci lasciamo provocare dalle riflessioni dell’articolo che segue (o da altre scelte dal gruppo)
“Affermare, come talvolta si è fatto, che Cristo ci riscatta con la sua sofferenza è una scorciatoia
che presenta dei pericoli, fra cui quello di credere che sia la sofferenza a riscattare. “Ciò che riscatta
può essere ciò che libera e costruisce la persona. Ora la sofferenza, in quanto tale, non libera né
costruisce. Quindi non può riscattare. Invece ciò che riscatta, è il modo in cui ognuno, grazie a Dio,
per lui, in lui e con lui, umanizza la vita in mezzo alle sofferenze che lo colpiscono e talvolta lo
prostrano”. L’autore, colpito anch’egli da una grave malattia, non teme di affermare: “Come si può
dire che ciò che disumanizza è liberatore per sé e per gli altri, è redentore, sta contribuendo a
salvare il mondo? Il cancro di una persona, la malattia grave di un bambino sono liberatori per il
prossimo? In simili affermazioni vi è qualcosa di assurdo, perfino di orribile, in ogni caso di
offensivo verso chi soffre! Allora, la bella formula la sofferenza è redentrice o salvifica mi appare
in tutta la sua fragilità. Vi percepisco degli aspetti deleteri, perché ho la sensazione che cerchi
denegare la realtà”.
Dio vuole che Gesù viva totalmente e radicalmente la sua condizione di servo e di figlio, ma non
vuole né direttamente, né indirettamente la morte ingiusta e dolorosa che accompagna la sua
obbedienza, altrimenti sarebbe un torturatore. (Vivere la differenza, pag. 82-83)
Accetta il carattere doloroso dell’obbedienza di Gesù come conseguenza della libertà che egli ha
dato all’essere umano e che questi, spesso, esercita con cuore accecato.
Preghiera
Crediamo in te, Gesù, uomo leale,
Crediamo in te, Gesù, uomo leale,
pieno di fiducia in Dio
perché hai sempre difeso
ogni uomo povero e oppresso:
hai affrontato anche la morte
per essere fedele a Dio tuo Padre
e agli uomini tuoi fratelli.
Il tuo coraggio è ora il coraggio
che doni ad ogni uomo
perché sia fedele a Dio e all’uomo.
Noi crediamo in te, uomo coraggioso
più di ogni altro eroe sulla terra
fino a morire su una croce
per non arrenderti al male.
Tu ci inviti a seguirti
sulla strada del sacrificio,
del chicco di grano che muore
per far nascere una nuova spiga,
dell’amico che dà la vita all’amico,
dell’amore verso tutti, anche i nemici,
del perdono a chi ci ferisce.
Noi crediamo in te, Gesù,
condottiero e capo
di quanti nei secoli
raccontano la tua storia nella tua Chiesa
e insieme lavorano per aiutare
l’uomo nella sua povertà
e annunziare che Dio è felice
quando l’uomo vive per davvero
e che l’uomo è felice
quando vive come te,
Gesù, Signore di ogni felicità.
(Alberto)
Oppure
Inutile la tua via?
Quaderno Gruppi AM.OR. La vita si fa preghiera, 2004, pag. 27
12.
LE CHIAVI DI CASA (/////)
Genere:Drammatico
Regia: Gianni Amelio
Interpreti:Kim Rossi Stuart (Gianni), Charlotte Rampling (Nicole), Andrea Rossi
(Paolo), Alla Faerovich (Nadine), Pierfrancesco Favino (Alberto), Manuel Katzy
(tassista), Michael Weiss (Andreas).
Nazionalità:Italia/ Francia/ Germania
Distribuzione: 01 Distribution
Anno di uscita:2004
Orig.: Italia/Francia/Germania (2004)
Sogg. e scenegg.: Gianni Amelio, Sandro Petraglia, Stefano Rulli
Fotogr.(Panoramica/a colori): Luca Bigazzi
Mus.: Franco Piersanti
Montagg.: Simona Paggi
Dur.: 105'
Produz.: RAI Cinema, Achab Film (Italia), Pola Pandora Film Produktion (Germania), Arena Films (Francia).
Giudizio: Raccomandabile/realistico**
Tematiche: Famiglia - genitori figli; Handicap;
Soggetto: Alla stazione di Roma Gianni, uomo ancora giovane, incontra per la prima volta suo figlio Paolo,
quindicenne, rifiutato dalla nascita perchè afflitto da handicap mentale e motorio. Nel viaggio dalla capitale
ad una clinica specializzata di Monaco, Gianni cerca di instaurare con il ragazzo un rapporto mai esistito,
dovendo superare le diffidenze di lui e anche, se non sopratutto, la paura che lo consuma dentro di fronte ad
un compito fin troppo difficile. A Monaco l'uomo conosce Nicole, matura signora francese che da venti anni
accudisce una figlia in condizioni ancora peggiori. Vivendo ogni giorno con Paolo, Gianni impara a
riconoscerne le debolezze, gli slanci, gli sforzi, le richieste di aiuto. Finito il lavoro in clinica, lo porta allora in
Norvegia, dove vive un'amichetta di Paolo, conosciuta tramite lettera. Qui il padre stringe a se il figlio, nella
consapevolezza di un rapporto che non avrà altre interruzioni.
Valutazione Pastorale: Alla fine c'é una dedica: "In ricordo di Giuseppe Pontiggia". E' l'autore (morto
qualche tempo fa) del libro "Nati due volte" da cui il film ha preso le mosse. Non è nemmeno 'liberamente
ispirato' perché "...Pontiggia ha capito -dice Gianni Amelio- che le sue pagine non avevano bisogno di essere
illustrate ma di qualcuno che raccogliesse da lui il testimone e proseguisse da solo il proprio tratto di strada.
Perciò ho preso il rischio, per quanto possa sembrare presuntuoso, di mettermi nei suoi panni e ricominciare
il racconto daccapo...". Il viaggio da Roma a Monaco diventa per Gianni occasione di recupero di un rapporto
mai cercato e, di più, scoperta di un dolore che è possibile trasformare in arricchimento: per l'amore che
entrambi si scambiano, per quel bisogno di affetto indifeso, per quella pienezza di umanità che deriva da un
autentico rapporto padre-figlio. Nel visualizzare questa vicenda di 'formazione', Amelio si affida ad una regia
di taglio asciutto e immediato. Senza artifici, senza pietismi, senza cercare facile commozione, fa 'recitare'
un vero ragazzo portatore di handicap e lo lascia libero di esprimersi. Sentimenti forti, cambiamenti interiori
profondi sono espressi con semplicità e quasi sottotono: questo grande merito del film, che non urla e non é
arrabbiato, non fa sociologia nè lancia denunce, per molti (alla mostra di Venezia) é stato il suo limite. Resta
invece un film di forte senso etico che, dal punto di vista pastorale, è da valutare come raccomandabile,
aggiungendo 'realistico' proprio per ribadirne il tratto spiccatamente vero, misurato, quotidiano.
Utilizzazione: il film è da utilizzare in programmazione ordinaria e da recuperare largamente in
molte occasioni nell'ambito de
l rapporto 'cinema/handicap'.
NEL MIO AMORE (/////)
Genere:Drammatico
Regia: Susanna Tamaro
Interpreti:Licia Maglietta (Stella), Urbano Barberini (Fausto), Vincent Riotta (Jacques),
Damiano Russo (Michele), Alessia Fugardi (Laura), Sergio Fiorentini (Giovanni), Sara Franchetti
(Nives), Arturo Paglia (don Massimo), Chiara Lucisano (Chiara), Marino Masé (prete anziano).
Nazionalità:Italia
Distribuzione: Italian International Film
Anno di uscita:2004
Sogg. e scenegg.: Susanna Tamaro, Roberta Mazzoni liberamente ispirati a "L'inferno non
esiste" e altri racconti del libro "Rispondimi" di Susanna Tamaro
Fotogr.(Panoramica/a colori): Giuseppe Lanci
Mus.: Giovanni Paolo Fontana
Montagg.: Alessio Doglione
Dur.: 100'
Produz.: Fulvio Lucisano.
Giudizio: Raccomandabile/problematico
Tematiche: Donna; Famiglia; Letteratura; Male; Solidarietà-Amore; Tematiche religiose
Soggetto: All'indomani della morte improvvisa del marito, Stella decide di tornare nella grande casa di
famiglia isolata in montagna e vicina ad un lago. All'inizio la solitudine la soffoca e sta quasi per convincerla ad
andare via. Poi l'incontro occasionale con un uomo che vive nei pressi e la rivisitazione di vecchie fotografie
inducono Stella a fermarsi e a riandare con la memoria agli avvenimenti degli ultimi venti anni. La conoscenza
di Fausto, ricco e aristocratico, il matrimonio, la nascita prima di Laura poi di Michele. Contro quest'ultimo, che
ritiene frutto di una relazione extraconiugale della moglie, Fausto riversa una gelosia paranoica sempre più
frequente e cattiva. Intorno ai quattordici anni, Michele si è aperto a problematiche inerenti la spiritualità che
irritano molto il padre. Dopo l'ennesima lite, Fausto investe involontariamente con la macchina Michele e lo
uccide. A distanza di sei anni Stella si è lasciata dominare dall'odio: per se stessa, per il marito, per la figlia
Laura che a sua volta è andata via, molto risentita verso la madre. Nel vano tentativo di stabilire un nuovo
contatto con lei, Stella si scontra anche con il vicino, un uomo che ha vissuto la stessa tragedia e che aveva
avviato Michele a riflessioni più profonde. Un giorno Stella entra nella piccola chiesa del paese e vede l'uomo,
Jacques, che celebra la messa. La pace da lui ritrovata la induce a pensare alla possibilità di ricominciare.
L'arrivo inaspettato di una telefonata della figlia apre nuove prospettive di vita.
Valutazione Pastorale: E' opportuno all'inizio lasciare la parola alla Tamaro, autrice del copione
e regista: " Questo è un film sull'anima persa dell'Occidente. Un film che parla della speranza,
della possibilità di ognuno di ricominciare una nuova vita in modo diverso. In un mondo carico di
odio, intolleranza, fanatismo, il film vuole suggerire una diversa prospettiva, quella di modificare
il proprio sguardo. L'unica rivoluzione da fare -l'unica durevole- é quella del cuore (...)".
'Modificare il proprio sguardo' e 'rivoluzione da fare' sono le frasi che vanno tenute presenti
nell'avvicinarsi all'operazione compiuta dalla scrittrice friulana. La prospettiva che la Tamaro ha
messo alla base di questo suo esordio cinematografico è quella di un occhio nuovo che vede cose
nuove e chiede allo spettatore di vederle insieme. Nel lasciarsi andare al Mistero della croce, la
Tamaro invita a ribaltare la dimensione del male 'inevitabile' e quella sartriana dell'inferno
dentro di noi a vantaggio di una contemplazione del dolore che si riversa nel connubio con la
Natura e il creato. Così la complicità con il male si stempera nella visione di una cerchia più
ampia di affetti e di pace. E' dall'Amore di Cristo che bisogna ripartire per recuperare quell'amore
quotidiano che è fonte e sostegno di vita. Calata in ambienti montanari di pudica armonia,
affidata a immagini che corrono sul confine del manierismo visivo, spesso rallentata da sbalzi
drammaturgici non ben calibrati, l'opera prima della Tamaro ha la sincerità di mostrarsi
imperfetta ma anche la sfrontatezza di essere 'scandalosa': aiutare il nostro sguardo ad aprirsi di
nuovo verso l'incontro con il Mistero. Per questi motivi, dal punto di vista pastorale, il film é da
valutare come raccomandabile, problematico e adatto per dibattiti.
Utilizzazione: il film é da utilizzare in programmazione ordinaria e da proporre in molte
circostanze sul tema della Fede all'inizio di questo Terzo Millennio.
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