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Tra busto e lama di Letizia Galdieri
Tra busto e lama di Letizia Galdieri Un forte odore di asfalto fresco saliva dalla strada, acre e intenso, grande pungente nausea riparato. e Un evitandomi nelle mi guardavo ragazzino per un narici. in soffio. Faceva caldissimo, intorno per bicicletta mi Avrei sentivo cercare un tagliò preferito la essere una angolo strada, investita piuttosto che sentirmi dire: “Andò vai, a sbilenca!”. A sbilenca ero proprio io. Il vantaggio dell’offesa fu che mi distrasse dalla nausea, ma purtroppo da quel momento in poi, anche per me stessa, ero ufficialmente diventata “sbilenca”. La visita, poco dopo nello studio ortopedico, non fece che certificare in termini scientifici la rapida analisi del ragazzino sulla bici. Affetta da scoliosi di tipo esse italica. Presente rotazione dei corpi vertebrali e inclinazione di diciotto gradi. “Come si cura?” chiese mia madre. “Con un busto che si chiama Milwaukee”. Mentre lo diceva, il medico si alzò e tirò fuori uno di quegli attrezzi da un armadietto in metallo. “Eccolo! Uno come questo”. Sembrava uno stringi vita, alla Rossella O’Hara, sul quale, chissà perché, era stato montato un supporto di ferro che reggeva un collare con sotto mento in plastica. “Dio mio! Quanto dovrà restare lì dentro?” chiese mia madre. “Dipende dal ritmo di crescita ma soprattutto da Lucrezia. Dovrà metterlo sempre, anche per dormire”. “E’ impossibile, devo allenarmi tutti i giorni, ci sono le Federali tra qualche settimana”. “Lucrezia, forse non mi sono spiegato. Ma tu non puoi continuare a fare scherma. Vuoi che prenda uno specchio e ti faccia vedere in che condizioni hai la schiena?”. “Ma non si può” balbettavo. “Non posso”. Evidentemente le mie proteste non erano efficaci. Attonita guardavo mia madre che si sfilava una scarpa per passare alla 1 questione successiva: il suo alluce valgo, con l’ortopedico che ormai mi dava le spalle. “Non fare quella faccia” mi disse, una volta uscite dallo studio. Non potevo spiegarle. In me non c’era solo l’avvilimento della prospettiva di essere chiusa in un Frac di plastica e ferro. Ero furiosa perché l’ortopedico aveva liquidato la scherma come un semplice passatempo. Per me era molto di più. La scherma era la mia identità, il mio modo di affrontare le cose di tutti i giorni. Ero fiera di ciò che facevo e anche della mia attrezzatura. Il mio fioretto è la prosecuzione di me stessa, pensavo. E’ un altro braccio. Si fonde con la mia mano e quando la lama incrocia quella dell’avversaria, io posso sentirla. Come se scorresse sulla mia stessa pelle. Piangevo, e tentavo di spiegarle tutto questo. “Non essere ridicola”. Quel pomeriggio, chiusa nella mia stanza, non riuscivo a guardare il poster di Dorina Vaccaroni che stava sopra la scrivania. Odio, urlo e talmente vinco. forte Questo che era era il suo diventato motto. il mio Era risuonato imperativo. in me Anche io dovevo caricarmi e, per questo, usavo il mio alleato: un walk-man. Fino a qualche minuto prima degli incontri ascoltavo i Queen. I Queen erano con me in pedana a sostenermi. “Another one bites the dust”. Ancora un altro che mangia la polvere. Falle mangiare la polvere Lucrezia. Erano i Queen a dirmelo e con quella canzone in testa affrontavo l’avversaria. Non mi è mai piaciuto fare il saluto d’inizio troppo ampio. Non ero amichevole io, e volevo che si capisse subito, ma non mi piaceva neanche guardia leggermente sicurezza. attaccare Una dell’avversaria bassa partenza mi favoriva per in prima. modo troppo la Rimanevo da ostentare frettolosa prima ferma, parata. e Ci una con la certa disordinata vuole ordine quando ci si muove in pedana. Un secco e preciso colpo con parata dirotta la lama di chi mi vuol colpire. A quel punto sono io che 2 attacco. In genere mi va bene. Spesso fingo un attacco diretto, con lama dritta. La cavazione sfila rapida sotto l’ingenua parata e tin! Tin per me. L’affondo invece è una mossa pericolosa. La riservo solo in momenti precisi, dopo che ho segnato. L’avversaria non ha il tempo di riprendersi che già, secca, gliene piazzo una nuova. Nei giorni successivi alla visita pensavo a tutto questo, il mio piccolo patrimonio di esperienze e strategie. Mi avevano fruttato qualche medaglia e una bella coppa di campionessa regionale. Che fine avrei fatto, cosa sarei stata dentro un Milwaukee? Era la discesa, il culmine della disperazione. Qualche settimana dopo, infilata nella mia nuova attrezzatura, guardavo dagli spalti del Palazzetto dello Sport i miei compagni combattere. I loro tin scoccavano nelle orecchie e una grandissima voglia di essere in pedana. Lì mi sono costretta a pensare che sarebbe finita, che avrei dimenticato. Invece… Invece ancora oggi mi manca l’impugnatura a ramo della mia arma. Ne ho nostalgia come fosse la stretta di mano di un caro amico che non vedo da tanto tempo a cui devo dire grazie per i bei momenti passati assieme. Grazie. 3