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«Racconto il mio G8 tra amori e bugie»
LA PROPOSTA ARCHEOLOGIA Stasera a Levico il libro su Sarkozy Marina Valensise VENERDÌ Ritrovato tesoro vichingo Questa sera, alle ore 21, a Levico, all’Imperial Grand Hotel viene presentato il volume intitolato «Sarkozy» e dedicato al presidente francese. Ci sarà l’autrice Marina Valensise e interverranno Fernando Orlandi e il senatore Giorgio Tonini. Introdurrà Massimo Libardi. Un favoloso tesoro vichingo, composto da 617 pezzi in argenti, un bracciale a fascia e un tamburo rivestito d’argento, è stato scoperto coi metal detector in Gran Bretagna. Secondo il British Museum si tratta del più importante tesoro del genere scoperto nel paese da più di 150 anni. IL BAMBINO DI PINTURICCHIO Papa Borgia, l’emblema della bellezza rinascimentale Giulia Farnese, e Bernardino di Betto detto Pinturicchio. Tre grandi figure legate da un affresco che cela misteriose trame. A Palazzo Venezia, fino al 9 settembre sara’ possibile vedere «Il Bambin Gesu’ delle mani», datato 1492-93. 53 20 LUGLIO 2007 L’ULTIMO LIBRO DI FERRUCCI «Cosa cambia» è il titolo del volume nel quale si riflette sull’occasione perduta di lottare per un mondo diverso L’autore, Roberto Ferrucci LA SCHEDA Roberto Ferrucci è nato a Venezia (Marghera) nel 1960. Nel 1993 ha pubblicato il romanzo “Terra rossa” (Transeuropa), ripubblicato nel 1998 dall’editore Fernandel. Nel 1999 da Marsilio è uscito il libro “Giocando a pallone sull’acqua”. Nel 2003 l’editore veneziano Amos pubblica “Andate e ritorni”, finalista al Premio Settembrini 2004. Nel 2006 partecipa con il racconto “Solitudine” alla raccolta di racconti curata da Romolo Bugaro e Marco Franzoso, “I nuovi sentimenti” (Marsilio). Scrive su giornali e riviste. Gli scontri tra polizia e manifestanti, durante il G8 di Genova, furono violentissimi «Racconto il mio G8 tra amori e bugie» Quei giorni drammatici rivissuti in un romanzo che denuncia colpevoli e rimozioni Sono passati sei anni dai fatti di Genova e proprio il 20 luglio del 2001 si consumava la giornata più nera delle tre indette per il G8, quando ci furono gli scontri più duri tra la polizia e i dimostranti che chiedevano più giustizia e meno guerre. Quel 20 luglio gli scontri culminarono con l’uccisione da parte del carabiniere Caplanica di Carlo Giu- di Maurizio Di Giangiacomo C os’è cambiato, a Genova, dopo quel maledetto mese di luglio del 2001? Cos’è cambiato in via XX Settembre, cos’è cambiato in piazzale Kennedy, alla scuola Diaz, in piazza Alimonda? Se l’è chiesto Roberto Ferrucci, nel suo ultimo romanzo, “Cosa cambia” (Marsilio), viaggio nella Genova di quei giorni drammatici, ma anche nella Genova di oggi, che non conserva nemmeno l’altare laico di Carlo Giuliani. Perchì - secondo Ferrucci - dopo il G8 non è cambiato nulla, nì a Genova, nì dentro di noi. Poteva cambiare, stava cambiando, proprio in quei giorni, in quella città, “l’atmosfera era quella di chi stava andando a fare l’unica cosa possibile, quel giorno. Manifestare. Il finale di una settimana di conferenze, di seminari, di documenti che hanno dimostrato a tutti come un mondo diverso fosse possibile. Adesso mica lo so, anni dopo, se lo è ancora, possibile, quel mondo diverso”. E allora la risposta è no, “nulla cambia. Tutto gira uguale e, a poco a poco, si consuma”. Una risposta alla quale Ferrucci arriva intrecciando la sua esperienza di giornalista e scrittore, inviato al G8 per un giornale, che a Genova ha già vissuto la fine di un amore (quello poco più che adolescenziale con Angela), a quelle di Magdalena, una no-global straniera ridotta in fin di vita dalle violenze delle forze dell’ordine, e di Elisa, compagna di sventura sotto le cariche della polizia, partner poco più che occasionale quando il protagonista torna sul luogo del delitto a caccia di risposte ed è costretto, viceversa, a tornarsene a casa pieno di quesiti irrisolti. Il parallelo sul quale si regge il romanzo è proprio quello tra gli amori perduti e le bugie, gli inganni del luglio 2001 e dei mesi che seguiranno, “incroci sbagliati, fughe maldestre. Come Genova, inchieste archiviate, colpevoli spariti, o promossi, addirittura. Le vittime dimenticate. Il mondo senza verità. Come se nulla fosse stato. Rimozione. O, peggio, cancellazione. E al- liani. Seguirono le violenze alla scuola Diaz, dove le forze dell’ordine fecero irruzione picchiando a sangue e arrestando gran parte dei giovani convenuti per la notte. I fatti di Genova continuano a far discutere ed hanno lasciato un strascico di processi: quelli contro i manifestanti e quelli contro gli abusi delle forze dell’ordine, archiviati per l’impossi- trettanto anch’io, rimosso dai sentimenti. Smarrito. Come se quei gas mi avessero bruciato non solo la pelle e i polmoni, ma l’anima, anche”. “Cosa cambia” è una struggente “soggettiva” (l’autore continua a fare riferimento a quello che ha ripreso con la telecamera digitale, alle foto scaricate da internet, a tutto il materiale raccolto sui giorni del G8 di Genova), una denuncia che a sei anni di distanza della morte di Carlo Giuliani, delle violenze della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto continua a scuotere le coscienze, forse anche in virtù degli ultimi sviluppi di cronaca e l’inchiesta aperta nei confronti dell’ormai ex capo della Polizia, Gianni De Gennaro. La denuncia, innanzitutto, dell’incredibile messinscena che venne rappresentata a Genova, con i black bloc che hanno potuto svolgere indisturbati il loro ruolo di distruttori e provocatori e le forze dell’ordine, che avevano sostituito i soliti lacrimogeni con vere e propri armi chimiche, protagoniste di cariche d’inaudita violenza nei confronti dei dimostranti più pacifici. Una messinscena messa in piedi appunto perchì nulla cambiasse. Una messinscena perfettamente riuscita, ma “Cosa cambia” non è la cronaca, nì l’annuncio di una resa. “Quel che la gente oggi sa di Genova, ha detto (l’avvocato di un gruppo di dimostranti aggrediti dalle forze dell’ordine, ndr), è qualcosa di confuso, dimenticato - scrive Ferrucci -. Certo, lei e io sappiamo bene chi le ha subite, quella volta, le botte, le torture, le umiliazioni, le incarcerazioni gratuite. Ma per tanti, invece, in questo paese, non sono nemmeno esistite. Un erase collettivo, mi ha detto, che se da una parte fa comodo ai responsabili e a chi li ha coperti, dall’altra sembra far comodo anche a chi non ha più voglia di ricordare quanto gli è capitato. A chi ha rimosso. ò per questo che noi stiamo lottando affinchì i processi vadano a termine, si raggiunga una verità. Verità ritardata e in sordina, ma pur sempre verità”. bilità di identificare gli agenti responsabili delle violenze. Ora arriva in libreria un romanzo intitolato “Cosa cambia” (Marsilio editore, 192 pag., 16 Euro) scritto da Roberto Ferrucci giornalista e scrittore veneziano. Un romanzo che segue gli avvenimenti di Genova da un punto di vista privato, sospeso tra i ricordi di abbandoni e tra la cro- naca. Romanzo che è anche un documento di denuncia, freddo, composto, fatto di immagini parlanti, prive di didascalie. Il maggior merito di “Cosa cambia” è di averci regalato una verità pronunciata a bassa voce là dove tutti gridano, di aver dato vita a una narrazione silenziosa e immobile, come sa esserlo una belva addormentata. UN BRANO DEL RACCONTO Il filo rosso dei ricordi, dal ’68 a Genova. E ancora oltre «Anche oggi, a distanza di anni, non so perchè quel giorno ero lì». L’intreccio di personale e politico Pubblichiamo qui di seguito, per gentile concessione dell’editore, una brano del romanzo di Ferrucci. di Roberto Ferrucci Anche oggi, a distanza di anni, non so bene perché ci sono andato, al G8. Forse perché quella volta, era il sessantotto, agosto, mia madre stirava in cucina e io, bambino, la guardavo con la coda dell’occhio dal corridoio. Non si usavano ancora le assi da stiro e si metteva allora una vecchia coperta di lana sul tavolo e sopra un telo, un vecchio lenzuolo, credo. Lo si inumidiva di tanto in tanto, mi pare. Guardavo con un occhio mia madre, in cucina, e con l’altro la televisione, in salotto, le immagini in bianco e nero da Praga, con i carri armati per la strada, la gente che li malediceva. Io, che avevo paura, guardavo mia madre ma anche i carri armati. E dentro di me ripetevo una cantilena, Dub-cek Svo-bo-da, Dub-cek Svo-bo-da. La scandiva la gente nelle strade. E sorrideva pronunciando quei nomi. Batteva le mani. Poi, i giornalisti parlavano di primavera di Praga e lì invece proprio non capivo visto che eravamo in agosto, faceva caldo e tutt’al più avrebbero potuto parlare di estate o di autunno. Ma avevo solo otto anni, e guardavo dal corridoio Praga sotto tiro in salotto e mia madre stirare in cucina. In altre parti del mondo, avrei saputo anni dopo, un sacco di giovani erano impegnati in qualcosa che a quel tempo non poteva essermi chiaro. Mi fu chiaro invece, mesi dopo, il gesto di Ian Palach, che si diede fuoco. Me lo spiegò mio padre, quel gesto. Per la libertà, rispose secco e Qui sopra, il corpo di Carlo Giuliani a terra. In piccolo, la copertina preciso ai miei ripetuti perché. Essere libero come lo siamo noi, aggiunse. Per fortuna che sono libero, pensai io, bambino. Guardavo mia madre in cucina e i carri armati in salotto, nell’agosto di quell’anno, ma poco dopo, però, questione di minuti, in salotto sarebbero incominciati i pupazzi animati. E un’altra cantilena ancora, Son felice, son contento, sono tutto emozionato... Avrei abbandonato a quel punto il corridoio, diventato una via di Praga, e - rassicurato dalla voce di mia madre che annunciava la merenda - sarei andato a sprofondarmi nel divano. Ma non solo per questo, no, ci sono andato, a Genova. Anche per Angela, credo, l’ho deciso. Per quello che era successo con lei, poche settimane prima. E ricordarlo adesso è facile, nella stanza di quest’albergo, anni dopo. Perché ci sono momenti che non sono più ricordo. Ci sono certi momenti della tua vita che nulla hanno più a che vedere con la memoria. Si trasfor- mano in fretta in qualcosa d’altro. Qualcosa che ti porti addosso, qualcosa di corporeo. Non necessariamente una cicatrice. Magari soltanto un grado in più o in meno nell’inclinazione delle labbra, quando sorridi, oppure una piega dello sguardo, come alzi il sopracciglio, o come muovi le dita sulla tastiera. quella la traccia che resta di un momento della tua vita che ti ha fatto prendere una direzione nuova, opposta a quella che immaginavi, o che speravi. Quella che volevi, forse. Me ne vado, le ho detto. E l’avevo detto fingendo di essere il protagonista di un romanzo. Ci provavo almeno. Cercavo di non essere me, dentro la nostra stanza. Era un libro, allora, a parlare per me. Me ne vado, le ho detto, ed era un personaggio di finzione, non io, a dirlo, poi però le sue lacrime hanno bagnato la mia spalla, nell’ultimo abbraccio, e mica erano letteratura, quelle. Lacrime di cui sapevo la densità, il sapore. La quantità. Lacrime di cui ero sta- to innamorato e forse ancora lo ero. Dalla finestra alle mie spalle il sole di metà mattina illuminava la stanza e il viso di Angela, anche, che cercavo di non mettere in ombra, spostato leggermente di lato. Ho fatto mezzo passo verso l’armadio, a un certo punto, attento a farlo con tutta la disinvoltura possibile in un momento come quello, un momento in cui qualunque gesto, anche il mezzo passo, allora, poteva avere chissà quali implicazioni, essere interpretato chissà come. Ma Angela era alle prese con tutte quelle lacrime, tracce liquide che celavano per quanto possibile lo sconquasso che, dentro, la stava facendo sussultare. Non se ne accorse, credo, alle prese con il corpo a corpo, meglio, con il viscera a viscera fra lei e il dolore che io le avevo provocato. (...) Sapevo bene che quel momento avrei dovuto viverlo con intensità, assaporarlo con tutta la lucidità che mi poteva ancora restare (...). Anche il solo battito delle ciglia, in quel momento, era un fotogramma strappato al ricordo che in futuro, per sempre, ne avrei serbato. Guardavo Angela e dovevo scegliere fra lei e il resto della stanza che per l’ultima volta stava attorno a me come qualcosa di mio. Di nostro. La guardavo e al contempo cercavo di percepire il letto, dove avevamo passato una notte insonne, voltati ciascuno verso il proprio lato (...). Distanti, muti.