Tityre, te patulae cecini sub tegmine fagi: Virgilio e
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Tityre, te patulae cecini sub tegmine fagi: Virgilio e
10 Paola Gagliardi Paola Gagliardi Tityre, te patulae cecini sub tegmine fagi: Virgilio e Ottaviano tra Bucoliche e Georgiche* Quello tra l’inizio delle Bucoliche e il finale delle Georgiche è un rapporto che Virgilio tiene chiaramente a far risaltare citando nell’ultimo verso del poema il primo dell’ecl. 1 (Tityre, te patulae cecini sub tegmine fagi, georg. 4,566). Meno evidente è il senso di questa scelta, non facile da decifrare sia sul piano letterario, sia su quello ancor più delicato del rapporto del poeta con Augusto, chiamato esplicitamente in causa a georg. 4,560–562: la varietà e talora la discordanza delle interpretazioni proposte testimoniano la complessità e forse l’ambiguità voluta del poeta in questo confronto cruciale tra le due opere.1 Dal punto di vista letterario la citazione delle Bucoliche non è solo una menzione giustamente orgogliosa, anche se mascherata da un’apparente modestia (forse fin troppo esibita), delle ecloghe; l’intento del poeta di chiudere in un blocco unico le due opere dice molto sulla continuità ideologica e spirituale tra esse e rivela l’attualità che l’esperienza bucolica mantiene per lui anche dopo l’impegno socialmente ed eticamente più gravoso delle Georgiche. Questo d’altronde Virgilio lo afferma già nel corso del poema, cosicché i versi finali non ne sono che una conferma: in un altro punto cruciale, la chiusa del secondo libro, in perfetto parallelo alla « conclusiva, dopo aver ventilato il possibile fallimento di un suo ipotetico impegno come poeta ‹scientifico›, occupato alla maniera lucreziana a spiegare i segreti della natura (georg. 2,475–482), egli si propone come alternativa proprio la poesia bucolica, presentata innanzitutto come scelta di vita e caratterizzata da tratti filosofici epicureizzanti (2,483–489).2 Anche nella « finale la menzione delle Bucoliche è legata ad una temperie epicurea nella rappresentazione del poeta studiis florentem ignobilis oti (v. 564), a suggerire evidentemente che per lui il mondo e la poesia bucolici, più che un lusus, come pure afferma a v. 565 (carmina qui lusi pastorum), sono una condizione spirituale, un ideale fin dall’inizio riconosciuto utopico ma non per questo meno appassionatamente cercato. E d’altra parte anche il mondo idealizzato degli agricolae delle Georgiche ha molto in comune con questa dimensione ideologica e spirituale, la cui tenace vitalità nel pensiero virgiliano si confermerà ancora nell’Eneide.3 * Desidero esprimere un sentito ringraziamento alla prof. Lorina N. Quartarone per la cortesia e la disponibilità con cui ha messo a mia disposizione il testo del suo articolo Shifting Shadows on the Landscape: Reading umbrae in Vergil and other Poets, AAntHung 53, 2013, 245–259, ancora in fase di stampa. 1 L’elemento dell’ambiguità (soprattutto in relazione alla figura di Ottaviano) che questo finale pone ma non risolve è sottolineato da Nappa 2005, 217 2 Su questo passo cruciale del poema cfr. Barchiesi 1982. La presenza consistente del pensiero epicureo nelle Georgiche è stata da tempo ampiamente dimostrata da Paratore 1973, 194–200; Paratore 1977, 31s. 3 Sugli aspetti ‹bucolici› delle Georgiche cfr. Barchiesi 1982, 57. Ancora nell’Eneide Virgilio continuerà a vagheggiare nel Lazio di Latino e di Evandro prima dell’arrivo di Enea un mondo felice immerso nella natura e lontano dagli sconvolgimenti della storia, ma pure destinato a finire, travolto dalla guerra e dal dolore. Unauthenticated Download Date | 7/6/16 9:52 PM Tityre, te patulae cecini sub tegmine fagi 11 Ma molto altro ha da dire la singolare chiusa delle Georgiche, il punto senz’altro più autobiografico dell’intera opera virgiliana, non solo per la menzione del nome del poeta, ma anche per il riferimento del tutto personale all’otium napoletano e per la dichiarazione di una precisa scelta di vita. Deve dare ad esempio da pensare l’assimilazione che Virgilio suggerisce di sé a Titiro, enfatizzando la sua qualità di poeta e mostrandosi nello stesso atteggiamento di comporre nel riposo e nella tranquillità, sotto l’ombra protettiva che per il pastore è quella reale del faggio, per lui quella simbolica del patronato di Augusto. In verità l’assimilazione a Titiro sembra confermata dal famoso passo di ecl. 6,3–5, in cui Apollo attribuisce questo nome al poeta, che si è presentato in prima persona (cum canerem, v. 3), quando lo ammonisce a rinunciare all’epica, e la presunta identità di situazione, per cui anche Virgilio, come il pastore, avrebbe riottenuto le sue terre per la benevolenza di Ottaviano, sembrerebbe confermare la figura di Titiro come alter ego del poeta.4 E tuttavia in ogni tentativo di assegnare identità precise e univoche ai personaggi delle ecloghe c’è il rischio di scadere nell’arbitrario e nel soggettivo.5 Anche perché, con la tipica ambiguità virgiliana, nella citazione di Titiro a georg. 4,566 si può vedere anche un’assimilazione dell’autore a Melibeo: egli infatti nell’apostrofare Titiro cita un verso che nell’ecloga è pronunciato da Melibeo e dunque come quello si pone ‹di fronte› al personaggio e gli parla. Non solo; la struttura dell’intera « delle Georgiche, simmetrica nel dedicare quattro versi ad Augusto (v. 560–563) e quattro a Virgilio (v. 563–566), riprende lo schema a chiasmo dei cinque versi iniziali dell’ecl. 1, in cui alla prima immagine riservata a Titiro (v. 1–2) seguono due versi relativi agli esuli (v. 3–4) e poi si ritorna a Titiro al v. 5, così da avere uno schema tu … nos … nos … tu. Negli otto versi conclusivi delle Georgiche avviene esattamente lo stesso: dal riferimento al poeta a v. 559 (canebam) si passa ad Augusto, protagonista dei v. 560–563 (fulminat, dat, adfectat), per chiudere sull’immagine di Virgilio (me alebat, lusi, cecini), con una struttura che incornicia i versi su Ottaviano tra quelli dedicati de Virgilio a se stesso. L’ambiguità e la difficoltà di decifrare il rapporto di Virgilio con Titiro sono sicuramente volute, così come d’altronde lo sono nell’ecloga, in cui è impossibile riconoscere la voce dell’autore nell’uno o nell’altro personaggio e piuttosto la si sente nelle parole di entrambi, a condividere la gioia di Titiro e il dramma di Melibeo. Alle stesso modo ambigue sono le ombre richiamate nell’immagine iniziale di Titiro disteso sotto il faggio e nella sua ripresa a georg. 4,566: è infatti un tema, quello dell’ombra, assai caro al poeta, ma difficile da ricostruire e caratterizzare in modo univoco. La sua presenza in apertura delle ecloghe lo dichiara subito come elemento chiave del paesaggio, ma anche delle atmosfere e della Stimmung dell’opera, in cui compare infatti di frequente a disegnare uno scenario mutevole e ambivalente, in cui perlopiù l’ombra è il riparo gradito contro la calura meridiana, il luogo in cui distendersi e dedicarsi al canto.6 Talvolta però essa diviene inaspettatamente paurosa e si rivela una minaccia per l’intero universo dei pastori: se infatti a Melibeo in partenza per un esilio ignoto essa sembra rendere all’improvviso oscuri e pericolosi anche i luoghi noti ad ecl. 1,83,7 il finale della raccolta conferma a sorpresa questa sensazione, l’ombra è defi4 5 6 7 Cfr. Powell 2008, 186, che però con grande equilibrio ammette (193) che in realtà nell’ecl. 1 il poeta è sia dietro Titiro, sia dietro Melibeo. Cfr. in merito le sagge riflessioni di Jenkyns 1989, 38. Cfr. Gagliardi 2003, 27–30. Gagliardi 2007, 462–463; Quartarone 2013, 249–250. Unauthenticated Download Date | 7/6/16 9:52 PM 12 Paola Gagliardi nita gravis cantantibus ad ecl. 10,75 e si insiste per due versi sul concetto, martellandolo con le anafore (surgamus; solet esse gravis cantantibus umbra, / iuniperi gravis umbra; nocent et frugibus umbrae, v. 75–76). Le ombre finali dell’ecl. 10 chiudono così il liber con una vaga sensazione di angoscia e con la consapevolezza di un canto divenuto impossibile. Non è poco, ciò sembra distruggere ogni ideale di locus amoenus, ma in realtà è perfettamente in linea con la concezione del mondo bucolico che Virgilio ha dichiarato fin dall’inizio, un paese utopico che le intrusioni della realtà distruggono e fanno soffrire. L’ombra continuerà ad affascinare il poeta, che le riserverà significativamente i finali dei due poemi: nelle Georgiche vi alluderà l’enigmatica ripresa della scena iniziale delle ecloghe e dunque l’ombra sembrerà avere una caratterizzazione positiva, ma in realtà è carica di tutta l’ambivalenza di quella immagine; nell’Eneide, infine, sarà proprio la parola umbra a chiudere il poema, sia pure in un senso diverso, riferita con un ampliamento semantico all’anima del defunto Turno in fuga verso l’Ade.8 La complessità delle sfumature di significato e delle simbologie che umbra rivela in Virgilio rende possibile adattare il concetto e l’immagine a diversi àmbiti semantici e intenderne i due valori fondamentali (nelle ecloghe), quello positivo di protezione e ristoro e quello negativo di minaccia (manca nel liber bucolico l’accezione di umbra come ‹fantasma, anima›). Di grande interesse è la possibilità di connettere l’umbra all’attività poetica e dunque, nel senso di ‹riparo, protezione›, al patronato di Ottaviano, che garantisce al poeta l’otium e la serenità per dedicarsi alla sua arte.9 Nell’ecl. 1, infatti, la condizione beata di Titiro è fatta risalire al giovane deus che egli ha incontrato e che gli ha concesso di mantenere i suoi possessi (v. 6–10 e 42–45), dandogli la possibilità di svolgere il suo lavoro di pastore e la sua attività di poeta (ille meas errare boves, ut cernis, et ipsum / ludere quae vellem calamo permisit agresti, v. 9–10). Una situazione analoga è prospettata nel finale delle Georgiche, in cui il parallelo tra le attività di Ottaviano e di Virgilio è sì di natura temporale (‹mentre Cesare combatteva ai confini, io componevo a Napoli le mie Bucoliche›), ma lascia facilmente dedurre anche un rapporto causale: proprio le fatiche belliche di Ottaviano hanno permesso al poeta la pace e l’otium necessari per scrivere. L’analogia di condizione tra Titiro e Virgilio sembrerebbe così avallare anche le pretese notizie biografiche sul riottenimento delle terre del poeta grazie alla benevolenza di Ottaviano, la cui figura apparirebbe dunque in una luce del tutto positiva. Tuttavia la situazione è meno semplice di quanto sembri, poiché la rappresentazione del futuro Augusto nell’ecl. 1 non è univoca, ma anzi rivela sfaccettature e ambiguità che meritano di essere poste in luce. Nell’ecl. 1, infatti, accanto al fortunato Titiro c’è Melibeo, la cui sventura è in primo piano almeno quanto la felicità dell’altro, né il poeta dà mai l’impressione di privilegiare una delle due situazioni. Anzi, la bellezza e l’umanità del personaggio inducono a simpatizzare assai più con Melibeo che con Titiro, il cui atteggiamento di distacco lo rende distante alla sensibilità del lettore e impedisce un vero dialogo con l’altro.10 Se nei due pastori si sintetizzano due visioni della poesia, in Titiro quella teocritea, distante emotivamente dalla ma8 9 10 Sul ruolo di Virgilio nell’estensione del campo semantico di umbra ai fantasmi, alle anime, alle apparizioni, cfr. Quartarone 2013, 253–256. E’ questa la lettura dell’umbra di Titiro ad ecl. 1 (e di conseguenza a georg. 4,566) proposta da Quartarone 2013, 248–249, che intende in quest’ottica le umbrae finali dell’ecl. 10 come rifiuto di Virgilio ad Ottaviano di comporre poesia epica (250–251): questo mi sembra più difficile da sostenere. Dei complessi significati che possono essere annessi alle umbrae dell’ecl. 10 mi sono occupata in Gagliardi 2003, 24–38. Sull’incomunicabilità tra i due pastori cfr. Breed 2006, 103–107, con ulteriore bibliografia. Unauthenticated Download Date | 7/6/16 9:52 PM Tityre, te patulae cecini sub tegmine fagi 13 teria e collocata in un mondo utopico e alternativo, e in Melibeo quella virgiliana, la cui novità è proprio nell’intensa partecipazione alle vicende e ai sentimenti dei personaggi, fino a prestare loro la propria voce,11 si comprende l’importanza di quest’ultimo per l’autore e risulta evidente quanto di Melibeo si debba tenere conto nel cercare di interpretare il messaggio dell’ecloga, e di conseguenza il ruolo di Ottaviano in essa, prima di esaminarne la ripresa nella « delle Georgiche. La presenza di Ottaviano nell’ecl. 1 non è esplicita, ma non è difficile riconoscerla nella figura del giovane dio che benefica Titiro, poiché alcune delle sue caratteristiche escludono ogni altra eventuale identificazione: egli è infatti connotato come giovane a v. 42 (e all’epoca delle confische Ottaviano aveva poco più di vent’anni) e come deus a v. 6–7 e 41–43, un titolo che a rigore poteva toccare solo al figlio adottivo di Cesare divinizzato,12 e anche l’autorità con la quale egli decide la sorte di Titiro depone in tal senso.13 Di lui Titiro parla in termini di alto elogio, chiamandolo deus con un calore riservato solo – forse con un intento di simmetria – a Dafni nell’ecloga centrale, la 5, e la posizione stessa della menzione di lui, nel centro esatto del componimento, rende esplicito l’omaggio dell’autore nei suoi confronti. Ma al di là di ciò che è detto, nell’ecloga c’è molto altro. La struttura dualistica del componimento rivela chiaramente l’intento del poeta di presentare entrambe le facce di una situazione – le confische in Cisalpina dopo Filippi – già di per sé delicata sul piano politico per i triumviri, soprattutto per Ottaviano. Rimasto in Italia e perciò incaricato della distribuzione delle terre e delle confische, il giovane erede di Cesare aveva dovuto affrontare malcontenti e tensioni culminati com’è noto nella guerra di Perugia.14 Si era trattato di uno dei momenti più difficili della sua carriera, come tutti sapevano, e dunque la scelta di Virgilio di aprire le Bucoliche proprio con questo tema, ancora bruciante nel ricordo di molti, appare alquanto sconcertante e giustifica forse l’auto-definizione di audax iuventa che a distanza di tempo il poeta si darà a georg. 4,565 (ma su questo punto bisognerà tornare). Certo, l’immagine di Ottaviano è nell’ecl. 1 completamente positiva, egli vi appare come il benefattore di Titiro, ma dinanzi al lettore è sempre presente la situazione di Melibeo, e dopotutto si sottolinea con chiarezza che quella di Titiro è una rara e fortunata eccezione, ma intorno a lui la condizione generale è il dramma dell’abbandono, dell’esilio, della disperazione, condensato nelle parole bellissime dei v. 11–12 (undique totis / usque adeo turbatur agris). In tutto ciò Titiro è solo nella sua serenità e l’unicità della sua condizione è sottolineata costantemente dalla contrapposizione, nelle parole di Melibeo, del ‹tu› rivolto a lui rispetto al ‹noi› che include tutta la massa degli spodestati e fa sentire il pastore esule come il portavoce e il simbolo di un’intera categoria.15 Con essa il lettore è indotto a simpatizzare, poiché la realtà e le parole di Melibeo sono quelle che più colpiscono la sua 11 12 13 14 15 Della riuscita del procedimento virgiliano nelle ecloghe fanno fede le identificazioni antiche del poeta sia con Titiro nell’ecl. 1, da cui si pretese di ricavare anche le notizie autobiografiche sui possedimenti mantovani, sia con Coridone nell’ecl. 2. Titiro e Milibeo come simbolo di due poetiche cfr. Gagliardi 2013, 95–96. In realtà quest’appellativo potrebbe essere giustificato anche dall’abitudine degli antichi di chiamare deus un benefattore, cosicché il iuvenis potrebbe essere un dio solo per Titiro, come potrebbe far pensare la dichiarata intenzione di fare sacrifici privati in suo onore (v. 7–8). Cfr. Powell 2008, 192, e Cadili 2001, 27–34. Sull’identificazione del giovane dio con Ottaviano cfr. i validi argomenti di Powell 2008, 192–193 e 221, nota 31. Sulla difficile situazione di Ottaviano in quel periodo cfr. Powell 2008, 183–185 e 189. Powell 2008, 189–190. Unauthenticated Download Date | 7/6/16 9:52 PM 14 Paola Gagliardi sensibilità e in fondo anche la situazione di Titiro gli giunge attraverso il sentimento e le parole di Melibeo, che la colora di tutta la sua tristezza e il suo rimpianto. L’ecloga si apre in tal modo ad accogliere e far sentire le voci delle vittime e nel far questo diventa un implicito rimprovero agli artefici delle spoliazioni, in primis Ottaviano. Noi non sappiamo se in questo c’è una volontà di critica sottesa o solo il monito a ricordare, a considerare le conseguenze drammatiche di quella politica: di certo, e con gran coraggio, Virgilio tocca un argomento scottante, sia pure cautelandosi abilmente. Nel momento in cui presenta Ottaviano nelle vesti del benefattore, infatti, egli sembra scagionarlo da ogni critica, ma la simpatia chiaramente espressa per gli spodestati orienta il giudizio del lettore in una direzione precisa e ricorda implicitamente le responsabilità del giovane triumviro nella vicenda. D’altra parte la condanna della politica contemporanea è esplicita nelle parole di Melibeo, che deprecando le guerre civili (en quo discordia civis / produxit miseros, v. 71–72) si mostra quanto meno indifferente alle giustificazioni propagandistiche della guerra contro Bruto e Cassio. L’ecloga si presenta così realmente divisa in due, fa suo il sentimento di gratitudine del beneficato Titiro, nelle cui parole si sentono una riconoscenza sincera e un’esaltazione convinta del giovane deus, ma dà spazio anche all’amarezza delle vittime della politica ottavianea e verso di essa inclina le simpatie del lettore. Questa difficile ambivalenza costituisce la difficoltà maggiore nell’interpretazione dell’ecloga, alla luce soprattutto della futura posizione filo-ottavianea di Virgilio: si è dunque cercato di ricondurre anche gli elementi più problematici entro quest’ottica, ipotizzando ad esempio che il poeta mostri anche il punto di vista degli spodestati per presentare ad Ottaviano la reale condizione dell’Italia di quel periodo, suggerendogli in qualche modo di farsene carico e provvedervi,16 ovvero si è pensato alla volontà di Virgilio di mantenersi il più possibile equidistante dalle due parti in gioco in quel momento, i triumviri e Sesto Pompeo, che divenne il punto di riferimento e il sostenitore degli espropriati.17 Con le due voci che accoglie nel testo, Virgilio darebbe spazio alle rivendicazioni di entrambe le parti senza schierarsi apertamente per nessuna, in un momento in cui ancora non si poteva prevedere quale sarebbe prevalsa.18 Si tratta però in entrambi i casi di ricostruzioni alquanto avvilenti per la dignità e la statura morale del poeta, e per entrambe può valere la stessa obiezione: perché Virgilio avrebbe ripreso, e dunque riportato all’attenzione dei contemporanei, una testimonianza non certo nobile del suo atteggiamento politico con la citazione, a distanza di diversi anni, dell’ecl. 1 nella chiusa delle Georgiche? Perché ricordare anche ad Ottaviano quella pagina non limpida del suo passato e di quello del poeta? Spiegare la « finale delle Georgiche come una ‹palinodia› di Virgilio, che di fronte ad Ottaviano, ormai incontrastato e potentissimo vincitore, cerca di scusare come un’audacia giovanile il suo atteggiamento nell’ecl. 1,19 mi sembra renda ancora più ingiustamente meschina l’immagine del poeta e ne umilii senza necessità la statura morale. A mio avviso invece ben più autonomo e coraggioso è l’atteggiamento di Virgilio in entrambi i casi: nell’ecl. 1, infatti, in apertura di un’opera sicuramente destinata per la sua originalità a non passare inosservata nel panorama culturale contemporaneo, osa porre l’accento su un tema delicato e chiamare in causa, sia pure con le dovute cautele, responsabilità ed errori dei potenti, facendosi porta16 17 18 19 Cfr. Powell 2008, 195 e Nappa 2005, 226–227. Su questo ruolo di Sesto Pompeo cfr. Powell 2008, 190–192. E’ la ricostruzione di Powell 2008, 194–197. Come fa Powell 2008, 196 e 270–271. Unauthenticated Download Date | 7/6/16 9:52 PM Tityre, te patulae cecini sub tegmine fagi 15 voce del disagio e delle sofferenze che vedeva attorno a sé, forse anche al di là del caso specifico (se davvero aveva ricevuto benefici da Ottaviano). Ancora più notevole è la ripresa dell’ecl. 1, con l’implicito monito a ricordare, in un’epoca in cui ormai Ottaviano è padrone assoluto dello scenario politico e Virgilio appartiene al circolo di Mecenate e segue le direttive del futuro princeps, come dimostrano le Georgiche stesse: pure, egli ha la forza e l’autonomia di pensiero per ripercorrere un passato recente e mettere sotto gli occhi del vincitore le colpe e gli errori che, al di là della facciata propagandistica, costellano il suo passato. Giustamente egli può dunque definirsi audax non solo per ciò che ha scritto al tempo dell’ecl. 1, ma forse ancora di più per la ripresa di quell’audacia in tempi e condizioni assai mutati nel finale delle Georgiche. Anche perché, a ben guardare, le audacie della « non consistono solo nell’auto-citazione, ma coinvolgono la struttura stessa di questa singolare chiusa. Colpisce sicuramente nella contrapposizione tra Ottaviano e il poeta l’enfasi che da un lato caso presenta in modo fin troppo roboante la figura del vincitore che ad altum / fuminat Euphraten, e dell’altro sminuisce fino all’estremo la personalità e l’opera di Virgilio. Il sospetto che vi sia un intento vagamente ironico verso entrambi i personaggi è legittimo, ma meno perspicue sono le ragioni di tale atteggiamento. Se infatti la descrizione di se stesso florentem ignobilis oti e la definizione di lusus per le Bucoliche può avere per il poeta un che di scherzosa auto-ironia e un tocco di falsa modestia (ma il richiamo al tono ben diverso di georg. 2,483–489 e l’accenno ad una scelta di vita connotata filosoficamente rivelano un significato in realtà assai più serio), più problematica è l’immagine di Ottaviano assimilato addirittura a Giove nell’atto di fulminare, che rimanda alla questione della presenza del padre degli dei nelle Georgiche e a quella della rappresentazione del futuro Augusto. Al fondo c’è l’eterno e insolubile problema della collocazione ideologica di Virgilio, convinto e fedele esecutore delle direttive dei suoi patroni e ammiratore del nuovo signore di Roma o segretamente dissidente dalla politica ottavianea e impegnato a disseminare le sue opere di velati segni di dissenso.20 Al di là di pregiudizi e di condizionamenti ideologici, tuttavia, è innegabile in almeno alcune delle menzioni di Ottaviano nel poema una certa ambiguità del poeta, nascosta solitamente proprio in un’enfasi eccessiva. Ciò accade ad esempio nell’elogio iniziale del futuro Augusto ad 1,24–42, che chiude la rassegna degli dei evocati e che, ventilando la sua divinizzazione, gli offre la scelta dell’àmbito in cui potrà esprimere la sua potenza e la sua benevolenza verso gli uomini. Il brano, notevole per molte ragioni,21 anche in concomitanza con la clamorosa assenza di Giove dall’invocazione iniziale,22 trova uno degli aspetti più sconcertanti a v. 31, nell’allusione al simbolico matrimonio di Ottaviano con una dea del mare, ambìto addirittura da Teti: oltre alla possibile allusione a Sesto Pompeo e alla sua potenza sui mari, che aveva rappresentato un grave pericolo per Ottaviano,23 rimane spiazzante l’accenno ad un comportamento blasfemo per gli antichi come l’aspira- 20 21 22 23 E’ l’orientamento ad esempio della cosiddetta ‹Harvard school›. Per una disamina della storia della questione e delle varie posizioni in merito cfr. Powell 2008, 10–12, e Nappa 2005, 12 ss. Cfr. Nappa 2005, 30–31, secondo il quale nell’invocazione Virgilio metterebbe Ottaviano in guardia contro la tentazione dell’assolutismo teocratico insita nella divinizzazione; cfr. altresì Cadili 2001, 84–85, che lega l’invito del poeta ad Ottaviano a non accettare, quando sarà divinizzato, il regno dei morti, al timore per la fragilità umana del ‹sovrano›. Sulla questione cfr. Nappa 2005, 9; 28; 33. Cfr. Powell 2008, passim e in particolare 16–24; 31–131; 133–147; 183–197; 283–290. Unauthenticated Download Date | 7/6/16 9:52 PM 16 Paola Gagliardi zione a congiungersi con una dea da parte di un mortale.24 Sicuramente non sarà un caso che parallelo a questo accostamento sia quello finale di Ottaviano a Giove a 4,560–562, anch’esso piuttosto azzardato, come vedremo. Un’altra possibile allusione al pericolo di Sesto Pompeo e alle umiliazioni che quella lotta era costata all’erede di Cesare si è vista a georg. 2,161–164 nel richiamo alle costose opere di ingegneria con cui il lago Lucrino e l’Averno erano stati trasformati in un porto per accogliere le navi impegnate contro il temibile avversario,25 ma un’ironia più evidente sembra nascondersi nell’elogio di Ottaviano difensore di Roma contro nemici poco credibili a georg. 2,170–172. Dell’ambiguità di questo passo si erano accorti già gli antichi26 e in effetti non è difficile scorgere in imbelles la smentita delle lodi all’attività di Ottaviano e dunque una sottesa irrisione per l’enfasi data dalla propaganda ufficiale ad azioni militari assolutamente irrilevanti.27 In questo quadro sfuggente si inserisce a pieno titolo la descrizione di Ottaviano a georg. 4,560–562, che sembra condensare il tema del rapporto ‹spericolato› con il divino e quello dell’esaltazione sproporzionata delle imprese militari del futuro princeps. In primo luogo, insolita è l’attribuzione ad un essere umano di una prerogativa tipica di Giove, il fulminare. Non tutti gli studiosi sono in realtà propensi a vedere nel verbo un’allusione al dio,28 ma è innegabile che la scelta di un atto caratteristico di Giove induca a supporre un riferimento a lui, tanto più che questa implicita menzione finale compenserebbe la sua clamorosa assenza dall’invocazione d’apertura del poema. Notevole rimane in ogni caso l’audacia di assegnare il suo ruolo ad Ottaviano, trasferendogli una delle caratteristiche più peculiari e più riconoscibili del padre degli dei e facendo così del futuro Augusto un ‹nuovo Giove›. 29 Di questo modo di procedere decisamente sui generis di Virgilio si sono cercati precedenti e modelli letterari e storici, ad esempio nella poesia encomiastica alessandrina, in cui l’assimilazione del sovrano a Zeus è abbastanza frequente:30 la situazione storica e ideologica da cui nasce quella produzione è tuttavia troppo diversa da quella in cui vedono la luce le Georgiche e mi pare molto difficile attribuire ad un Romano agli albori dell’età augustea la mentalità e il gusto di un poeta della corte tolemaica del III secolo. Neppure il fascino di un testo illustre come la Chioma di Berenice, a cui pure si è pensato di poter far risalire l’atteggiamento virgiliano,31 mi sembra sufficiente a giustificare la rappresentazione finale di Ottaviano, nella quale ad elementi tipici della mentalità romana, come la funzione civilizzatrice verso i popoli sottomessi attribuita al conquistatore (victorque volentis / per populos dat iura, v. 561–562), si intrecciano tratti del tutto anomali nella definizione del rapporto con la divinità. Il dubbio che nei toni eccessivi della descrizione di Ottaviano a georg. 4,560–562 sia sotteso un atteggiamento critico, se non ironico, ha fatto ricercare un possibile precedente dell’accostamento a Giove nel callimacheo » μ , $ 24 25 26 27 28 29 30 31 Cfr. Hollis 1996, 307, nota 9, e Cadili 2001, 84, nota 150. Powell 2008, 234–236. Cfr. Serv. Aen ad georg. 2,172: ceterum quid grande, si imbellem avertis? Cfr. i commenti di Thomas 1988, I, ad georg. 2,170–172, 189, e Hollis 1996, 307, nota 9. La nega ad esempio Mynors 20032, ad georg. 4,561, 324. Sul rapporto ambiguo tra Giove e Ottaviano nel poema cfr. Nappa 2005, 9. Cfr. Thomas 1988, I, ad georg. 1,24–43, 73; Thomas 1988, II, ad georg. 4,560–561, 240, e Cadili 2001, 18–91, in particolare 18–37. Come suggerisce Thomas 1988, I, ad georg. 1,24–43, 73. Unauthenticated Download Date | 7/6/16 9:52 PM Tityre, te patulae cecini sub tegmine fagi 17 « (fr. 1,20 Pf),32 che elegantemente anticiperebbe i versi successivi, con il defilarsi di Virgilio rispetto a grandi imprese: nell’intento del poeta al fulminare di Ottaviano, sostituto dello Zeus di Callimaco, sarebbero contrapposti il suo ignobile otium e il suo lusus poetico, equiparabile al polemico e apparente auto-ridimensionamento di Callimaco nel frammento degli Aitia. In tale ottica anche l’eccessiva deminutio di se stesso e della sua opera troverebbero una motivazione coerente nell’imitazione del modello, dando a tutto il finale un taglio esclusivamente letterario. Ma il richiamo a Callimaco, pure possibile, nonostante l’obiezione che il poeta greco allude al tuonare, laddove Virgilio parla di fulminare (ma si tratta in entrambi i casi di attività peculiari del dio),33 non sembra esaurire la ricchezza delle implicazioni e dei sottintesi suggeriti da questa complessa «: la scelta di Ottaviano al posto dello Zeus di Callimaco, rivestito degli stessi attributi del dio, non rientra infatti in un discorso letterario, ma assume necessariamente significati di altra natura. Di grande interesse appare anche l’indicazione di un altro possibile modello dell’Ottaviano fulminante di Virgilio, e cioè Rhian. fr. 1,13 Pow (ρ λ ):34 i problemi connessi all’interpretazione del frammento, l’ignoranza delle circostanze a cui si riferisce e l’incertezza sull’effettiva conoscenza di esso a Roma all’epoca a cui può risalire la « virgiliana35 suggeriscono grande cautela nell’accogliere quest’ipotesi, ma i possibili punti di contatto sono intriganti, non solo riguardo al fulminare e al , ma anche in relazione ad un’altra espressione ambigua del testo virgiliano, viam adfectat Olympo, che potrebbe richiamare $μ OΚ di Riano (v. 15) per lo stesso significato, non del tutto positivo, di ‹progettare, intraprendere›, riferito spesso ad iniziative empie o eccessive.36 In effetti la frase virgiliana potrebbe alludere altrettanto bene al processo di divinizzazione che Ottaviano stava intraprendendo, facendosi forte del precedente di Cesare e della sua discendenza adottiva da lui,37 ma anche ad atteggiamenti forse troppo audaci e perciò passibili di essere stigmatizzati. Il tono del frammento di Riano infatti non è positivo nei riguardi del personaggio che descrive e che appare un uomo ambizioso fino all’empietà, un potente incapace di accontentarsi dei grandi doni concessigli dagli dei e divorato da pretese assurde, al punto da perdere di vista la sua natura e i suoi limiti di uomo mortale. Nella sua sfrenata ambizione egli arriva a comportarsi come un dio (e il poeta sceglie il tuonare per assimilarlo al più grande degli dei), dimentica di avere genitori mortali (v. 10–11) e aspira addirittura alle nozze con Atena (v. 14), cercando di prepararsi con ogni mezzo la via per l’Olimpo ed essere annoverato tra gli dei (v. 15–16). I riscontri di questi versi in quelli di Virgilio e le analogie possibili tra questo ritratto e quello di Ottaviano sono vistosi: la frase viamque adfectat Olympo (v. 562) sembra una ripresa quasi letterale di $μ OΚ di Riano e tramite essa il poeta potrebbe voler suggerire al lettore colto altri motivi di somiglianza di Ottaviano con il personaggio di Riano. In primis c’è l’assimilazione a Giove, che egli ottiene variando l’allusione al tuonare con quella al fulminare, ma anche, in maniera più velata, si potrebbe cogliere un riferimento implicito alla presunta ascendenza divina che Ottaviano lasciava in32 33 34 35 36 37 Thomas 1988, II, ad georg. 4,560–561, 240. Cfr. Hollis 1996, 305, nota 1. Come ritiene Hollis 1996, 305, nota 1, e 306–308. Tutte questioni poste da Hollis 1996, 306–308. Cfr. Hollis 1996, 306 e 307. In tale ottica Cadili 2001, 36, vede la chiusa e l’intero poema georgico come «un importante ‹laboratorio› per la definizione delle strategie encomiastiche di età augustea». Unauthenticated Download Date | 7/6/16 9:52 PM 18 Paola Gagliardi tuire per via della paternità di Cesare.38 Ma c’è un altro particolare che non può non colpire: l’accenno ad un vagheggiato matrimonio con una dea, segno di imperdonabile « in Riano, riporta alla mente georg. 1,31, in cui, sia pure in termini diversi (presentandolo cioè come il desiderio di Teti di avere per genero Ottaviano a qualsiasi prezzo), il motivo compare anche nel poema virgiliano. Si istituirebbe anzi in tal modo un raffinato parallelo tra l’apertura e la chiusa dell’opera, legate ad anello dalla menzione del testo di Riano e dalla figura di Giove. La divinizzazione Ottaviano cioè, auspicata nell’invocazione iniziale, è presentata come avvenuta nei versi conclusivi e Giove, la cui assenza colpiva all’inizio dell’opera, compare nel finale sotto le spoglie del giovane Cesare che ne ha preso il posto. L’evocazione di Riano, più vaga a georg. 1,31, più precisa nella « di georg. 4,559–566, servirebbe non solo a creare un rapporto più forte tra i due punti cruciali del poema, ma anche a richiamare una tematica delicata e importante come quella del rapporto con la divinità. Il tono ostile e la caratterizzazione negativa del personaggio di Riano potrebbero indurre a sospettare un atteggiamento simile in Virgilio, che spiegherebbe anche l’auto-citazione dell’ecl. 1 con l’intento di ricordare al nuovo signore di Roma i suoi errori e le sue colpe passate e i malcontenti suscitati dalla sua politica e non necessariamente dimenticati. Si potrebbe cioè ricostruire un’immagine di Virgilio ostile al nuovo vincitore e preoccupato di far emergere il suo dissenso dietro l’apparente adulazione. Un quadro del genere tradirebbe però la verità storica e rischierebbe di estremizzare indebitamente i toni del discorso virgiliano. Nel quale – come tanti indizi sembrano indicare – si può certo cogliere una punta di ironia, enfatizzata anche dalla rappresentazione di se stesso, troppo umile per essere sincera (non si dimentichi il ruolo che egli si attribuisce nel proemio del libro 3 come cantore delle glorie future di Ottaviano e che dà una misura ben diversa della considerazione che egli aveva della sua opera e delle sue potenzialità): l’eccessiva deminutio finisce per far grandeggiare ancora di più per contrasto la figura roboante di Ottaviano che fulmina in Oriente e l’ironia riservata a se stesso appare falsa e funzionale ad accrescere quella per Caesar. Ciò non basta però a dare la prova di un Virgilio cripticamente ostile al regime, che non avrebbe senso storicamente: serve piuttosto a ribadire l’atteggiamento consueto del poeta, l’equilibrio che egli sempre ricerca nelle situazioni, la misura che caratterizza la sua personalità e la sua arte. L’appartenenza all’entourage di Ottaviano non gli sembra evidentemente un limite ad esprimere riserve e timori per ciò che è stato e per ciò che può accadere, e così forse nei velati motteggi per certi eccessi propagandistici sulle doti militari del futuro princeps e per i suoi successi in guerra si può celare un garbato invito alla misura, ancor più sentito in tema di divinizzazione e appropriazione di attributi divini: il monito a non perdere di vista i limiti umani potrebbe cercare un appiglio nel testo di Riano, evocato ad 1,31 e citato a 4,560–561, con tutta la sua carica negativa e critica verso chi non ha saputo mantenere il modus e dal ridicolo rischia di cadere nell’empio. Mutando decisamente i toni e mescolando le sue riserve con le lodi per il nuovo signore, Virgilio gli darebbe dunque una lezione di moderazione in vista delle nuove e più pesanti responsabilità che lo attendono dopo la vittoria definitiva su Antonio. Ma anche se le consonanze con Riano sono solo casuali e Virgilio non ha pensato a quel brano per sostenere i suoi argomenti, il messaggio verso Ottaviano resta ugualmente 38 E che potrebbe trovare un’eco nella notazione di Riano (10–11) che il personaggio ambizioso di cui parla dimentica di avere genitori mortali, un particolare che a detta di Hollis 1996, 307, nota 7, potrebbe attagliarsi a figure come Alessandro o Seleuco I e che Virgilio potrebbe adattare ad Ottaviano. Unauthenticated Download Date | 7/6/16 9:52 PM Tityre, te patulae cecini sub tegmine fagi 19 valido, il rischio di perdere il senso del limite e di aspirare troppo in alto è ventilato negli accenni gli dei e nella vaga ironia che li accompagna, estesa anche a certi discutibili eccessi della propaganda ottavianea. In tale ottica anche l’auto-citazione dell’ecl. 1 trova un senso preciso e pieno: l’intento del poeta non è certo scusare dinanzi al futuro princeps la sua audacia giovanile che gli aveva fatto mettere a nudo temi scabrosi per l’immagine del triumviro di allora. Egli mira piuttosto a ricordare al vincitore assoluto di oggi gli errori e gli eccessi che hanno costellato il suo passato e che ora più che mai egli deve evitare di ripetere, sentendosi il governante di tutti e non più il capo di un fazione. Ora più di prima egli deve far suoi i bisogni e le sofferenze di tutti e ricordando ciò che una politica di parte ha provocato, superare ogni settarismo e dare realmente inizio ad un nuovo corso della storia. Il male passato, le disparità di trattamento, i dolori provocati da una politica di vendette e rivalse non devono essere dimenticati, ma anzi richiamati alla memoria per essere meditati e definitivamente superati, perché non ci siano più un Titiro beneficato e un Melibeo condannato all’esilio. Io credo sia questo, nei riguardi di Ottaviano, il significato della citazione dell’ecl. 1 nel finale delle Georgiche, una scelta raffinata in grado di coniugare un messaggio storico ed etico di grande spessore ad un discorso letterario che in realtà attiene ad una scelta di vita. Accanto alla lezione per il nuovo governante e alla convinta riaffermazione della propria vocazione artistica e umana da parte del poeta, il finale delle Georgiche contiene ancora qualcos’altro, l’espressione di un’idea di fondo del pensiero virgiliano, quella dell’ineluttabile necessità della violenza. Se infatti la serenità nella quale egli si descrive può essere garantita solo dall’attività bellica di Ottaviano, se egli può godere del suo otium perché quello si fa carico della guerra per stabilire la pace, l’opposizione richiama un dualismo di fondo del poema, quello per cui solo con la violenza si ottengono la fertilità del suolo e la sicurezza dai pericoli. Più volte, infatti, il lavoro dell’agricola è descritto come una guerra39 e la distruzione appare una necessità ineluttabile per condizioni di vita migliori, senza riguardo per le vittime innocenti che vengono travolte.40 Il contadino che sradica il bosco per far posto ai terreni seminativi e distrugge i nidi degli uccelli a 2,207–211 compie una violenza necessaria, e non a caso, quasi come sintesi della logica del poema, la vita è fatta rinascere dalla crudezza della morte nella bugonia, in cui dalla carcassa del bue sacrificato prende vita il nuovo sciame di api. Di fronte a queste necessità, tuttavia, il poeta non sa fare a meno di simpatizzare con le vittime, di sentirsi commosso dai loro drammi ineluttabili e ignorati: riflettendo su di essi non riesce fino in fondo ad accettare la durezza degli eventi e delle azioni che li determinano, pur comprendendone razionalmente l’inevitabilità. Così dinanzi alla storia e all’impossibilità di capirne e giustificarne il movimento talora doloroso, egli vede come via d’uscita una vita ignobilis e appartata, per coloro che hanno la fortuna di poterla godere, e ai suoi occhi anche gli esecutori stessi della storia, coloro che la fanno e la orientano, ma al tempo stesso la subiscono, gli appaiono ugualmente vittime dello svolgersi del fato e delle necessità degli eventi. E’ così per Ottaviano, che ha dovuto compiere tanti mali per avere la possibilità di instaurare un nuovo corso in cui far trionfare finalmente la giustizia e la pace, e il giudizio sul quale sfugge a categorie troppo nette, proprio per la necessità storica che ne ha guidato le azioni. Sarà così anche per Enea, sintesi della continuità e 39 40 Cfr. in merito l’analisi di Powell 2008, 239–245. Cfr. Powell, 263–265, che giudica positivamente la durezza dell’agricola, finalizzata ad uno scopo utile: ciò non esclude però che la simpatia del poeta (e del lettore) vada a chi è costretto a subire tali violenze. Unauthenticated Download Date | 7/6/16 9:52 PM 20 Paola Gagliardi della coerenza del pensiero virgiliano, che nel poema maggiore incarnerà le contraddizioni della realtà, e che desidererebbe una vita fuori dal mondo, nella sua patria infelice, ma è costretto a fare egli stesso la storia, a portare il male per realizzare il bene: e ancora una volta, come nel finale delle Georgiche, solo dalla morte di Turno (ma anche dei tanti caduti nella guerra), dolorosa e commovente ma inevitabile, potrà nascere il mondo nuovo voluto dal Fato. Bibliografia Barchiesi, A., Lettura del secondo libro delle Georgiche, in: M. Gigante (ed.), Lecturae Vergilianae, II, Napoli 1982, 41–86. Breed, B. W., Pastoral Inscription. Reading and Writing Virgil’s Eclogues, London 2006. 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