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dispensa 2016 sociologia del diritto
UNIVERSITA KORE DI ENNA PROF. NICOLA MALIZIA DISPENSA UTILIZZABILE PER GLI ESAMI 2016 MATERIALE DIDATTICO – DISPENSA DELLE LEZIONI TENUTE SULLA PARTE DI SOCIOLOGIA DEL DIRITTO PREMESSA La sociologia del diritto è la scienza che studia il diritto come modalità d'azione sociale. Attraverso la metodologia, i concetti e le principali visioni teoriche proprie della sociologia, questa branca specializzata analizza l'azione sociale in relazione al diritto, come questo la ispiri, indirizzi od influenzi, e come a sua volta ne venga influenzato. Sono oggetto della sociologia del diritto: il sistema giuridico in generale. il rapporto tra diritto, azioni e comportamenti, in particolare nella determinazione della liceità o meno dell'azione. il problema dell’influenza dei valori sociali sullo sviluppo del diritto (problema dell’evoluzione del diritto). le singole istituzioni giuridiche nel contesto sociale (ad esempio il governo, la famiglia, la ricchezza). il problema della effettiva rilevanza del diritto come strumento di mutamento e di controllo sociale (problema dell’efficacia del diritto). i ruoli giuridici e le relative aspettative sociali (i giuristi, accademici e non, i giudici, il legislatore, gli avvocati). l'opinione sociale nei confronti del diritto, il consenso o il dissenso rispetto alle norme stesse ed ai valori ad esse sottintesi. Secondo tale indirizzo di studio del diritto, l’efficacia delle norme giuridiche non viene necessariamente garantita dai tipici strumenti della coercizione giuridica, come la pena e l’esecuzione forzata, ma dipende piuttosto dalla pressione sociale esercitata sul singolo dagli altri membri del gruppo; un altro importante fattore di efficacia del diritto è il prestigio sociale dell’autore della norma (in particolare per quanto riguarda il diritto giurisprudenziale). Altrettanto, secondo i fautori della sociologia del diritto, può dirsi per quanto riguarda il diritto statale, il quale, pur avendo la funzione di ordinare i rapporti fra i vari gruppi, è reso efficace da quegli strumenti di pressione sociale usati dagli stessi piccoli gruppi; lo Stato, inoltre, è considerato come un semplice organo della società, per cui se in qualche parte di esso dovesse manifestarsi una resistenza nei confronti della società, o un tentativo di agire contro di essa, questa avrebbe sicuramente la meglio. Per quanto riguarda la figura del giurista, questi viene tendenzialmente considerato un organo della giustizia sociale e la sua attività intesa come immune da valutazioni individuali e portavoce degli indirizzi valutativi predominanti nella società. Società e mutamento sociale, di cosa si tratta? Cosa sono le istituzioni giuridiche? Cos’è il mutamento sociale? Mutamento giuridico e mutamento sociale vengono intesi come concetto alternativo per intendere la sociologia del diritto. in Italia, Gran Bretagna, Europa, America Latina, Giappone e Cina, gli sviluppi della sociologia del diritto sono stati influenzati dai progressi delle istituzioni giuridiche e del mutamento sociale. Come comprendere il mutamento giuridico, il mutamento sociale il nesso tra il diritto e la società? La sociologia del diritto può insegnarci verità universali sul diritto? Oppure serve per aiutarci a spiegare la verità contingente sul diritto in tempi e luoghi diversi? Il diritto ha la sua propria verità? La sociologia può coglierla? Le leggi e le decisioni giuridiche spesso non raggiungono gli obiettivi che si propongono. Questo è noto come ‘il problema del ‘gap’ (divario) nella sociologia del diritto’. Cosa è il diritto? Il diritto lo possiamo definire come il complesso delle norme di legge e consuetudine che ordinano la vita di una o più collettività in un determinato momento storico. Una delle concezioni più risalenti è la cosiddetta teoria del diritto naturale, o giusnaturalismo. tale teoria postula l'esistenza di una serie di princìpi eterni e immutabili, inscritti nella natura umana, cui si dà il nome di diritto naturale. Il diritto positivo (cioè il diritto effettivamente vigente) non sarebbe altro che la traduzione in norme di quei princìpi. Il metodo adottato dal legislatore è dunque un metodo deduttivo: da princìpi universali si ricavano (per deduzione) le norme particolari. Il problema è che non sempre vi è pieno accordo su quali siano i princìpi universali ispiratori delle norme giuridiche. - Le Chiese, principali assertrici del diritto naturale, tendono ad identificarlo con i princìpi dettati dai loro testi sacri (la Bibbia, il Corano, etc.). - Gli studiosi laici con princìpi diversi (di giustizia, equità, il popolo, lo stato etc.). - Non essendoci accordo sui princìpi-base (a meno che essi non siano imposti da un potere autoritario), viene a cadere il fondamento stesso della teoria del diritto naturale. Verso la fine dell'Ottocento, sull'onda delle teorie filosofiche positiviste, si afferma (e rimane a lungo predominante) il cosiddetto positivismo giuridico o giuspositivismo che, contrapponendosi al giusnaturalismo, asserisce tutto al contrario che il diritto è solo ed esclusivamente diritto positivo, cioè diritto effettivamente posto, e non c'è alcuno spazio per alcun diritto naturale trascendente il diritto positivo. Secondo la gran parte degli studiosi giuspositivisti (specie in Italia) il diritto si identifica con la norma giuridica (giuspositivismo normativistico). Il diritto dunque non sarebbe altro che una serie di norme che regolano la vita dei membri di una società, allo scopo di assicurarne la pacifica convivenza. Il diritto (e i princìpi che ne stanno alla base) si sposta così dal campo del trascendente a quello dell'immanente, dal dominio della natura a quello della cultura. ll metodo adottato dai giuspositivisti è, al contrario di quello dei giusnaturalisti, un metodo induttivo: non esistendo princìpi universali ed eterni, i princìpi su cui si basa il diritto vengono ricavati per induzione (cioè per astrazione) dalle norme giuridiche particolari e contingenti. I fautori del giuspositivismo hanno però qualcosa in comune con quelli del giusnaturalismo: essi rientrano tutti nella categoria filosofica dei "realisti", ossia di coloro che pensano alla realtà come a un "dato" oggettivo, esterno, e come tale indipendente dall'osservatore. Anche il diritto sarebbe, come tutta la realtà, un dato oggettivo, che lo studioso si limita ad indagare e il giudice ad applicare, senza modificarlo in alcun modo. Una concezione statica del diritto, insomma. Realisti o scettici Le tesi "realiste" sono contestate dai teorici che possono ascriversi alla corrente filosofica del relativismo o scetticismo. Al contrario dei "realisti", gli "scettici" pensano (sulla scia delle moderne teorie scientifiche e filosofiche del Novecento) che un'osservazione "oggettiva" e "distaccata" della realtà non sia possibile, e che l'osservatore, interpretando la realtà, la influenzi necessariamente. Ogni analisi dovrà per forza essere "soggettiva", poiché ineliminabile è la componente del soggetto nell'analisi della realtà. Il soggetto non si limita ad "osservare", bensì "(ri)crea" la realtà. Quindi, il soggetto non si limita ad "osservare", bensì "(ri)crea" la realtà. Per chi abbraccia le tesi scettiche, il diritto non può dunque essere un mero "dato", un insieme fisso e immutabile di norme (giuspositivismo) o di princìpi eterni (giusnaturalismo). I teorici che studiano il diritto (i giuristi, il cui insieme di scritti costituisce la c.d. "dottrina") e i pratici che lo applicano (i giudici, il cui insieme di sentenze costituisce la c.d. giurisprudenza) non sono "indagatori" o "applicatori" di una realtà già data ma, nello stesso momento in cui la interpretano, ne diventano veri e propri "creatori". Il teorico, disquisendo sul diritto, "crea" diritto; il giudice, emanando una sentenza, "crea" diritto. La concezione del diritto propria dello scetticismo è dunque dinamica, e non statica. Costruttivismo giuridico Una concezione teorica più moderna, che vuole superare le contraddizioni di quelle citate, è il costruttivismo giuridico. • Esso si è imposto alla fine del XX secolo, soprattutto tra i teorici anglosassoni. • Secondo il costruttivismo noi, contemporaneamente, osserviamo e modifichiamo, influenziamo e veniamo influenzati, interpretiamo e creiamo; • la realtà è allo stesso tempo scoperta ed inventata, osservata e costruita; noi non siamo completamente liberi, ma non siamo neanche completamente vincolati; subiamo pesanti interferenze dalla realtà, ma interveniamo pesantemente a modificarla. • Per il costruttivismo, dunque, da una parte l'interprete (giurista o giudice) è ancorato alle norme esistenti, in quanto non può prescindere da esse: egli non può essere interamente creativo, come pretenderebbero gli scettici. • D'altra parte è anche vero che egli, interpretando le norme giuridiche a scopo teorico ovvero per applicarle al caso concreto, vi immette sempre qualcosa di suo: influisce su di esse in quanto influisce sulla loro futura interpretazione ed applicazione. Il ruolo dell'interprete non è pertanto interamente notarile e passivo, come pretenderebbero i realisti. La figura del giurista Il giurista (o il giudice) non si limita solo ad interpretare, né solo a creare. Egli interpreta e crea: crea mentre interpreta. E fa entrambe le cose non in maniera arbitraria, ma sempre fortemente vincolato dall'ambiente storico, culturale e giuridico in cui si pone. il diritto, secondo il costruttivismo, è in conclusione un fatto dinamico, un processo, una pratica sociale di carattere interpretativo in cui norma giuridica e sua interpretazione interagiscono costantemente. Diritto oggettivo e diritti soggettivi Per diritto oggettivo s'intende il diritto tutto, ossia l'insieme delle norme concepite in un concetto unico, unitariamente; norme queste ultime che se prese una ad una concernono diritti soggettivi (es.: i codici sono il diritto oggettivo, il diritto di proprietà è un diritto soggettivo e sta nel contesto del codice, ossia oggettivo). Nel linguaggio quotidiano e in quello tecnicogiuridico spesso si afferma: "Ho il diritto di..., ho il diritto a..., è stato leso un mio diritto..."; Diritto in senso soggettivo In tutte queste espressioni noi usiamo il termine "diritto" non nel senso oggettivo (come insieme di norme), ma nel senso soggettivo, cioè come un "potere di agire per soddisfare un interesse tutelato dalle norme giuridiche". Molteplici sono i diritti soggettivi di cui sono titolari i soggetti del diritto (persone fisiche e persone giuridiche). Tutti i diritti soggettivi si possono classificare in due grandi categorie: • diritti soggettivi assoluti • diritti soggettivi relativi • I diritti soggettivi assoluti si distinguono a loro volta in due sub-categorie: PRIMA CATEGORIA • diritti della personalità o diritti fondamentali dell'uomo, tutti di natura non patrimoniale (diritto alla vita • all'integrità fisica • alla salute • all'immagine • all'onore • alla privacy • diritti di libertà personale • di pensiero, di religione, di associazione, di riunione, ecc. riconosciuti e garantiti dalla Costituzione e dai principali strumenti convenzionali internazionali); SECONDA CATEGORIA Diritti patrimoniali, i quali hanno ad oggetto i beni; al loro interno, i diritti reali (dal latino res, cosa) sono diritti sulle cose e il principale fra questi diritti è il diritto di proprietà che garantisce al soggetto il potere pieno ed esclusivo di godere delle utilità ricavabili da un bene entro i limiti e con l'osservanza degli obblighi stabiliti dalla legge. I diritti soggettivi assoluti sono sanciti nella Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, che afferma che tali diritti sono innati in ogni persona. Si dice tradizionalmente che i diritti assoluti sono efficaci erga omnes, cioè verso tutti: io posso far valere, per esempio, il mio diritto di proprietà nei confronti di chiunque. La Sociologia giuridica nella visione degli studiosi Classici Il tema del rapporto tra diritto e realtà sociale è l’oggetto di studio dell’analisi sociologica del diritto dal momento in cui il diritto non si considera più determinato sulla base di norme e principi di grado superiore, ma in rapporto alla società. Il riferimento polemico è alla dottrina del diritto naturale, rispetto alla quale la sociologia del diritto, pur condividendo il proposito dello studio di un diritto diverso da quello positivo, si distingue nettamente per la via seguita e l’oggetto prescelto. Pertanto, alla via della speculazione la sociologia del diritto sostituisce la via dell’esperienza; alla ricerca di un diritto assoluto e immutabile che trova il proprio fondamento, a seconda dei tempi e degli Autori, nella natura, in dio o nell’uomo, la sociologia del diritto contrappone lo studio di un diritto relativo e variabile, indissolubilmente legato al contesto sociale. Nonostante l’attenzione riservata da alcuni autorevoli esponenti della scuola moderna del diritto naturale, quali Hobbes, Locke o Rousseau, alle funzioni che il diritto ricopre all’interno della società (tema che rimarrà centrale nel dibattito sociologico), solo l’abbandono del razionalismo astratto e della pretesa di assolutezza della dottrina del diritto naturale a favore di una nuova sensibilità per il divenire storico e la concreta realtà sociale condurrà alla nascita della sociologia del diritto. A caratterizzare l’analisi sociologica del fenomeno giuridico è infatti, fin dagli albori, la distinzione operata a livello metodologico tra diritto come struttura normativa e società e la concezione degli stessi come due variabili legate tra loro da un nesso di interdipendenza interpretato in chiave evolutiva e controllabile empiricamente. In tale prospettiva l’evoluzione sociale è letta come aumento della complessità ed il diritto come un elemento condizionante e condizionato di questo processo di sviluppo che esso stesso favorisce nel momento in cui si adatta alle sue esigenze. È proprio questa interpretazione in chiave evolutiva del rapporto diritto-società che caratterizza le prospettive dei classici della disciplina. Senza pretesa di essere esaustivi, ne presentiamo di seguito le più note. La problematica evolutiva è centrale per esempio alla teoria di Henry J.S. Maine (1822-1888), il quale dimostra come lo sviluppo di sistemi sociali ad elevata complessità implichi necessariamente un allentamento della relazione tra struttura sociale e configurazione giuridica, con un venir meno del rapporto diretto tra le principali direttrici della differenziazione sociale e il diritto, a favore di un’elevata mobilità dei rapporti giuridici. Questo processo si concretizza nel passaggio dalle società di status alle società di contratto: lo status indica la condizione propria della società primitiva in cui i rapporti personali si riducono a rapporti di famiglia e la posizione degli individui, determinata dalla nascita, appare immutabile; il contratto indica invece la condizione caratteristica delle società complesse, in cui gli individui, indipendenti dal proprio gruppo, si raccolgono in associazioni volontarie e determinano con atti di volontà i propri rapporti giuridici. Il tema viene ripreso dal sociologo evoluzionista contemporaneo Herbert Spencer (1820-1903) il quale analogamente sostiene che è nel passaggio dalla società militare organizzata in regime di status al tipo di società industriale organizzata in un regime di contratto che si definisce l’evoluzione del diritto. Considerando come motore dell’evoluzione la lotta per l’esistenza che Charles Darwin aveva posto quale base della selezione naturale, Spencer attribuisce alla guerra una funzione civilizzatrice: la guerra avrebbe spinto gli uomini ad uscire dallo stato di omogeneità ed uguaglianza proprio delle società semplici, avrebbe formato le prime differenziazioni nell’organizzazione sociale specificando organi e funzioni, favorendo la creazione della struttura politica autoritaria e gerarchica che contraddistingue le società militari. A tale società in seguito subentrerà la società industriale, che invece di richiedere la subordinazione delle azioni individuali in funzione di un’azione collettiva, tenderà a promuoverle e a difenderle attraverso l’amministrazione della giustizia, espressione della volontà comune. Agli stessi aspetti, ma con riferimento alla complessità del moderno sistema economico, si dedica l’analisi operata da Karl Marx (1818-1883): per l’Autore è centrale il passaggio del primato nell’attribuzione di significati sociali dalla politica all’economia. La constatazione della moderna indipendenza dei grandi processi di decisione da ogni valutazione inerente al soddisfacimento di bisogni soggettivi e locali conduce ad un’interpretazione del diritto come strumento in grado di servire la complessità sociale, assicurando un’elevata variabilità senza intaccare la struttura. Per Marx lo stato e il diritto sono da considerarsi variabili dipendenti rispetto a quella parte della società che detiene il potere, ovvero dispone della forza: essi sono una sovrastruttura rispetto alla struttura economica della società costituita dall’insieme dei rapporti di produzione all’interno dei quali gli uomini entrano indipendentemente dalla propria volontà. Il diritto, quindi, lungi dal rappresentare gli interessi di tutta la società, esprime quelli della sola classe dirigente che impone a tutta la società le norme di condotta maggiormente funzionali al proprio sviluppo. Anche Tonnies (1855-1936) nel suo scritto Comunità e società distingue due diversi tipi di relazioni sociali a cui corrisponderebbero due diverse tipologie di diritto: le relazioni sociali che danno luogo alla comunità, intesa come insieme organico organizzato sulla base di rapporti di sangue, di luogo e di spirito, e le relazioni sociali che danno luogo alla società come formazione ideale e meccanica, in cui i rapporti sono essenzialmente rapporti di scambio che trovano la loro espressione tipica nel contratto. Dipendente dal tipo di relazione sociale prevalente, il diritto è nel primo caso essenzialmente diritto comunitario, determinato dal costume e trasfigurato dalla religione; nel secondo caso diritto societario, definito dalla volontà arbitraria e sovrana dei singoli e garantito dallo stato. A caratterizzare il pensiero di Tonnies, comunque centrato sull’interdipendenza tra forme della società e forme del diritto, è una posizione ideologica contraria rispetto a quella dei suoi contemporanei: Tonnies afferma infatti la superiorità delle norme di diritto comunitario su quelle di diritto societario ed auspica un’integrazione delle strutture della società industriale, di cui riconosce l’importanza, con quelle della comunità, al cui spirito si sente maggiormente vicino. Figlio di generazioni di contadini, giunge al socialismo spinto da spontanea simpatia per i lavoratori agricoli e guarda al movimento operaio come all’attore che, reagendo contro l’ordinamento giuridico astratto e ai principi del liberalismo economico, riaffermerà nuove esigenze comunitarie. Criticherà d’altro canto il marxismo per il suo spirito societario e per aver messo in secondo piano la morale comunitaria. La problematica evolutiva è centrale anche all’interpretazione di Durkheim (1858- 1917), il quale nel testo La divisione del lavoro sociale individua nel graduale passaggio da una differenziazione sociale segmentaria ad una differenziazione funzionale la necessità di un nuovo tipo di solidarietà sociale e quindi di una trasformazione del diritto che della nuova solidarietà è espressione: alla solidarietà meccanica, intrisa di regole morali, va sostituendosi una solidarietà organica che sostituisce all’uniformità dei referenti di valore il riconoscimento dell’interdipendenza tra le diverse parti sociali. La prima, caratteristica delle società primitive, implica una somiglianza tra gli individui ed un assorbimento della personalità individuale nella personalità collettiva; la seconda, tipica delle società evolute, implica invece una differenziazione dei suoi membri che deriva dalla divisione del lavoro, dalla distinzione dei campi d’azione e delle personalità individuali. Tutta l’analisi giuridica di Durkheim si basa su questa distinzione: le società fondate sulla solidarietà meccanica prediligono un diritto costituito da regole munite di sanzioni repressive che si accompagnano al biasimo collettivo ed esigono l’espiazione di una colpa (diritto penale); le società che si fondano sulla solidarietà organica prediligono invece un diritto costituito da regole munite di sanzioni restitutive volte a ristabilire la situazione originaria attraverso la semplice riparazione (diritto contrattuale, amministrativo e costituzionale). L’evoluzione del diritto è quindi caratterizzata per Durkheim dal passaggio dalla prevalenza del diritto repressivo alla preferenza per un diritto restituivo (o cooperativo). A Max Weber (1864-1920) si deve il riconoscimento del processo della razionalizzazione come carattere fondamentale dello sviluppo della moderna società europea. In Economia e società Weber sostiene che tale processo, che raggiunge la sua espressione più caratteristica nel capitalismo della civiltà occidentale, è volto ad organizzare la vita sociale in modo prevedibile e orientato al raggiungimento dei fini desiderati. Per quanto concerne il diritto, esso conduce ad una sua ristrutturazione da insieme di contenuti eticamente stabiliti ad insieme di concetti formali astratti e utilizzabili nei procedimenti. Questa trasformazione avviene attraverso quattro stadi: 1)il primo riguarda la creazione carismatica di norme da parte degli anziani del gruppo o dei sacerdoti, ovvero dei c.d. profeti giuridici; 2) il secondo concerne la produzione empirica di regole ad opera dei notabili giuridici; 3) il terzo si concretizza nell’imposizione del diritto da parte di un imperium secolare o di un potere teocratico; 4) infine l’ultimo è relativo alla statuizione sistematica del diritto e all’amministrazione della giustizia specializzata ad opera di giuristi di professione. Giambattista Vico Già dal titolo, si può notare che Vico vuole delineare un’opera scientifica; si propone infatti di gettare le basi di una nuova disciplina o, se si preferisce, di una nuova indagine cognitiva, organizzata intorno ad un determinato oggetto, che è poi il mondo umano, la storia. Frutto di venticinque anni di “aspra meditazione”, il capolavoro di Vico ebbe il suo primo germe nella Scienza nuova in forma negativa, stesa tra il 1723 e il 1725 e non pubblicata per difficoltà finanziarie; vide poi la luce nel 1725 con il titolo Principi di una Scienza nuova dintorno alla natura delle nazioni e fu arricchita nella seconda edizione del 1730 (Scienza nuova seconda) e nell'ultima del 1744. Secondo Vico gli uomini si sono stranamente affannati a studiare il mondo della natura, «del quale, perché Iddio egli il fece, esso solo ne ha la scienza», e hanno trascurato il mondo civile, i cui principi, rintracciabili entro le modificazioni della mente umana, costituiscono le leggi della “storia ideale eterna”. Pur essendo arcaica nella sua impostazione generale, la teoria dei “corsi e ricorsi” fornisce però al filosofo la chiave per comprendere l'uomo primitivo: la modernità del pensiero vichiano consiste appunto nello sforzo di ricostruire la mentalità degli «stupidi insensati ed orribili bestioni», i cui miti sono genialmente considerati da Vico come una forma prelogica di conoscenza della realtà. La storia si riconduce, per Vico, al succedersi di tre età, corrispondenti alle tre fasi dello sviluppo mentale degli uomini che «dapprima sentono senza avvertire, poi avvertono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura»: all'età del senso o degli “dei” succede l'età della fantasia o degli “eroi” e infine l'età della ragione o degli “uomini”. Giunta al culmine dell'ultimo stadio, l'umanità ricade nella barbarie, aprendo così un nuovo ciclo. Vico concepisce la propria opera come uno strumento che punta a traguardi non solo cognitivi : la conoscenza si intreccia con un impegno pragmatico. Sapere per fare, sapere per trasformare e migliorare l’esistenza e la società : ecco l’impegno di Vico. Ciò che in concreto Vico si propone di realizzare è una grandiosa ricognizione storica alla ricerca della possibile esistenza di denominatori comuni a tutte le società; se risulterà positiva, tale ricerca permetterà di cogliere i fondamenti più generali dell’essere e dell’agire dell’uomo, offrendo all’uomo un sapere di evidente rilievo, non solo teorico ma anche pratico. I principi teorici più originali sono tre : 1) i fenomeni umani nascono e si svolgono nel divenire storico; 2) vi è uno stretto rapporto fra la dimensione psicologicoindividuale e la dimensione sociale e civile dell’uomo; 3) vi è una logica delle azioni umane che consente di confrontarle e di ricavarne – se ci sono – delle leggi generali. Vico e la concezione dell’uomo I suoi atti non possono non possedere delle precise matrici e referenti mentali; e se l’accadere storico-sociale è teatro di gesta umane, esso dovrà avere certo un gioco di cause e, insieme, di effetti, anche in sede psicologica. L’uomo vichiano è anzitutto un essere attivo e dinamico; in secondo luogo, è un essere animato non solo dalla ragione ma anche da forti affetti. Le molle del suo agire e dell’agire umano in genere, sono: paura, bisogno, affetto, desiderio, elementi sui quali Vico insiste di più. L’aggregazione degli individui Se gli individui si aggregano in gruppi e nazioni, lo fanno per motivi di utilità e convenienza (anche senza negare una innata socievolezza). A questa interpretazione Vico giustappone anche una componente teorica di ascendenza cristiana : la Provvidenza. E’ essa che instilla negli uomini certe esigenze (l’insieme di ideali – giustizia, bontà, sacralità della vita ecc. – verso cui gli uomini sin dai primordi hanno orientato la loro condotta), è lei che li aiuta a compiere il salto dallo stato naturale allo stato sociale. La religione è per Vico una delle esperienze primarie, sia singolo che associato; è uno dei fattori di cui non si può non tenere conto in un’analisi antropologico-sociale che si voglia scientifica. Montesquieu e la Sociologia del diritto Partendo dalla considerazione che il "potere assoluto corrompe assolutamente", l'autore analizza i tre generi di poteri che vi sono in ogni Stato: il potere legislativo (fare le leggi), il potere esecutivo (farle eseguire) e il potere giudiziario (giudicarne i trasgressori). Condizione oggettiva per l'esercizio della libertà del cittadino, è che questi tre poteri restino nettamente separati. Montesquieu cercò di dimostrare come, sotto la diversità degli eventi, la storia abbia un ordine e manifesti l'azione di leggi costanti. Ogni ente ha le proprie leggi. Le istituzioni e le leggi dei vari popoli non costituiscono qualcosa di casuale e arbitrario, ma sono strettamente condizionate dalla natura dei popoli stessi, dai loro costumi, dalla loro religione e sicuramente anche dal clima. Al pari di ogni essere vivente anche gli uomini, e quindi le società, sono sottoposte a regole fondamentali che scaturiscono dall'intreccio stesso delle cose. Queste regole non debbono considerarsi assolute, cioè indipendenti dallo spazio e dal tempo; esse al contrario, variano col mutare delle situazioni; come i vari tipi di governo e delle diverse specie di società. Ma, posta una società di un determinato tipo, sono dati i principi che non può derogare, pena la sua rovina. La tesi fondamentale - secondo Montesquieu - è che può dirsi libera solo quella costituzione in cui nessun governante possa abusare del potere a lui affidato. Per contrastare tale abuso bisogna far sì che "il potere arresti il potere", cioè che i tre poteri fondamentali siano affidati a mani diverse, in modo che ciascuno di essi possa impedire all'altro di esorbitare dai suoi limiti e degenerare in tirannia. La riunione di questi poteri nelle stesse mani, siano esse quelle del popolo o del despota, annullerebbe la libertà perché annullerebbe quella "bilancia dei poteri" che costituisce l'unica salvaguardia o "garanzia" costituzionale in cui risiede la libertà effettiva. "Una sovranità indivisibile e illimitata è sempre tirannica". L'argomento della libertà è sicuramente molto importante, però questa parola, secondo il filosofo, è spesso confusa con altri concetti, come, ad esempio, quello dell'indipendenza. Nella democrazia sembra che il popolo possa fare quello che vuole, il potere del popolo è confuso così con la libertà del popolo; la libertà è infatti il diritto di fare ciò che le leggi permettono. Se un cittadino potesse fare ciò che le leggi proibiscono non ci sarebbe più libertà. Montesquieu spiega la divisione dei poteri e definisce le rispettive sfere di attribuzioni: Il potere legislativo verrà affidato e al corpo dei nobili e al corpo che sarà scelto per rappresentare il popolo, ciascuno dei quali avrà le proprie assemblee e le proprie deliberazioni a parte, e vedute e interessi distinti. Dei tre poteri di cui abbiamo parlato, quello giudiziario è in qualche senso nullo. Non ne restano che due; e siccome hanno bisogno di un potere regolatore per temperarli, la parte del corpo legislativo composta di nobili è adattissima a produrre questo effetto. Il potere esecutivo deve essere nelle mani d'un monarca perché questa parte del governo, che ha bisogno quasi sempre d'una azione istantanea, è amministrata meglio da uno che da parecchi; mentre ciò che dipende dal potere legislativo è spesso ordinato meglio da parecchi anziché da uno solo. Infatti, se non vi fosse monarca, e il potere esecutivo fosse affidato a un certo numero di persone tratte dal corpo legislativo, non vi sarebbe più libertà, perché i due poteri sarebbero uniti, le stesse persone avendo talvolta parte, e sempre potendola avere, nell'uno e nell'altro. Se il corpo legislativo rimanesse per un tempo considerevole senza riunirsi, non vi sarebbe più libertà. Infatti vi si verificherebbe l'una cosa o l'altra: o non vi sarebbero più risoluzioni legislative, e lo Stato cadrebbe nell'anarchia, o queste risoluzioni verrebbero prese dal potere esecutivo, il quale diventerebbe assoluto. Il potere esecutivo deve prender parte alla legislazione con la sua facoltà d'impedire di spogliarsi delle sue prerogative. Ma se il potere legislativo prende parte all'esecuzione, il potere esecutivo sarà ugualmente perduto. Se il monarca prendesse parte alla legislazione con la facoltà di statuire, non vi sarebbe più libertà. Ma siccome è necessario che abbia parte nella legislazione per difendersi, bisogna che vi partecipi con la sua facoltà d'impedire. Il contributo di Savigny Savigny è una tipica espressione del romanticismo nel campo giuridico, egli non solo si contrappone alle idee di chi voleva nuovi codici, che con la completezza dell'amministrazione della giustizia, garantissero una certezza meccanica,in modo che il giudice esonerato da ogni giudizio proprio si limitasse all'applicazione letterale della legge, secondo l'ideale legislativo illuministico. Egli cercò di riconoscere i presupposti filosofici delle teorie illuminIstiche per quanto riguarda la legislazione e l'interpretazione del diritto e li ritrovò in quella cultura del diciottesimo secolo in cui si era perso il senso della storia e si credeva la propria epoca destinata alla realizzazione della perfezione assoluta. Alle tesi dell'illuminismo riguardanti il diritto, cioè alla teoria di un diritto naturale immutabile ed universale dedotto dalla ragione, il Savigny si oppone decisamente, per lui il diritto è proprio di ciascun popolo, come il linguaggio, i costumi, l'organizzazione politica, sono tutti elementi connessi tra di loro, e come per il linguaggio cosi per il diritto non vi è un attimo di sosta assoluta, esso cresce con il popolo, prende forma con esso, e alla fine muore quando il popolo ha perso la sua personalità. Con l'evolversi del popolo si evolve anche il diritto,che si manifesta dapprima con atti in cui si esprimono i sentimenti della collettività, e vive come consuetudine che del diritto è la prima spontanea forma. Più tardi a questo diritto spontaneo si sovrappone quello elaborato scientificamente dai giuristi,che tuttavia continua a partecipare all'intera vita del popolo. Savigny definisce elemento politico la connessione del diritto con la vita sociale del popolo,ed elemento tecnico la sua separata vita scientifica,e ha cura di fare osservare come in entrambi i casi ciò che crea il diritto non è mai l'arbitrio di un legislatore ma è sempre una forza interiore che opera tacitamente. Il diritto legislativo, secondo Savigny, dovrebbe fornire solo un sussidio alla consuetudine,diminuendone l'incertezza e l'indeterminatezza e portando alla luce e conservando puro il vero diritto, che è l'effettiva volontà del popolo. Agli inconvenienti del diritto comune il Savigny propone come rimedio non la codificazione, ma l'elaborazione scientifica del diritto. Il contributo di Bentham Il diritto in Inghilterra era tradizionalmente un affare estraneo alle università. La formazione degli avvocati e dei giudici avveniva negli Inns of Courts. Il primo docente di diritto a Oxford, William Blackstone (1723-80) tenta una teoria giusrazionalistica della common law, individuando un nesso fra essa e il diritto naturale. Contro la tradizione giuridica inglese prende posizione il filosofo Jeremy Bentham (1748-1832), legato alla tradizione dell’illuminismo francese ed erede della critica hobbesiana della common law. Bentham dice di comprendere cosa è a law = legge, comando sovrano “un insieme di segni dichiarativo della volontà concepita o adottata dal sovrano di uno stato”; per contro the Law come ordinamento giuridico, ‘diritto’ è un’entità fittizia. La law of nature è un insieme di oggetti fittizi: “un oscuro fantasma che indica a volte quel che la legge è, a volte quel che deve essere” . Se ha un senso, l’espressione ‘diritto naturale’ indica la morale. Che per Bentham è ricondotta al principio di utilità. Secondo Bentham gli uomini sono mossi, anzi tiranneggiati, dal dolore e dal piacere, che determinano le loro azioni. Riconoscendo questa realtà, l’utilitarismo identifica il bene con la massimizzazione del piacere e la minimizzazione del dolore, ossia con il “principio della massima felicità per il maggior numero”. Nel caso della common law ‘diritto’ indica leggi e comandi fittizi che i giudici fingerebbero di applicare ma in realtà creerebbero. Le loro pene arbitrarie – ad esempio l’impiccagione di un panettiere che imbroglia sul peso del pane – vengono recepiti come un monito: in simili casi in futuro si ripeteranno atti simili. Allo stesso modo viene attribuito valore di legge agli “atti autocratici” dei giudici inglesi, come se rispondessero ad una legge emanata dal sovrano. La common law, come ogni diritto consuetudinario, è per Bentham barbarica, conviene ai bruti. Contro il judge-made law Bentham delinea il progetto (fallito) di una riforma del diritto penale inglese e di una codificazione del diritto civile e del diritto costituzionale. Infine, Bentham delinea il progetto di una teoria generale dei concetti giuridici, la Jurisprudence, che articola in: Expository jurisprudence (analisi del diritto come è) Censory jurisprudence (critica del diritto esistente e definzione del diritto come deve essere) Bentham distingue inoltre una local jurisprudence (analisi del diritto positivo di un paese) universal jurisprudence (analisi dei termini comunicati da vari sistemi giuridici). Il contributo di Saint-SimonE’ il fondatore della sociologia del diritto. Egli sostiene che la sociologia attraversa tre epoche: N. 2 ORGANICHE: in cui la vita si svolge armonicamente e idee e principi sono conosciuti e accettati da tutti. N. 1 CRITICA: le idee precedentemente sostenute sono attaccate e criticate, l’ordine sociale viene meno, gli individui sono in contrasto tra di loro. La dottrina di SAINT-SIMON non è collocata in un contesto medioevale e feudatario, ma in una società industriale, in particolare all’avvento della società industriale, dopo la Rivoluzione Francese. I fautori e gli ideatori della Rivoluzione Francese, i metafisici, cioè i teorici del diritto naturale, e gli uomini di legge, non riuscirono dopo la rivoluzione, a far uscire la società dall’epoca critica perché, pur essendo riusciti ad abbattere il regime militare divennero un gruppo di oziosi e improduttivi che vive a carico dell’industria che li nutre, li alloggia e li veste gratuitamente. Costoro si occupano più della forma che del contenuto, lavorano con idee astratte non concrete: Saint-Simon sostiene che fin quando metafisici e uomini di legge si occuperanno degli affari pubblici, la rivoluzione non arriverà mai alla fine. Per arrivare ad una società organica che vada incontro alle esigenze della classe più povera, occorre che il sistema giuridico sia affidato ai produttori, ossia agli imprenditori industriali ed anche ai lavoratori. Una società così conformata avrà come obiettivo quello di favorire l’industria, intesa come l’insieme di tutti i lavori utili, quelli intellettuali e quelli manuali. La società dovrà avere di un parlamento di tipo industriale cioè composto da tre camere:a) quella dell’invenzione che elabora una serie i progetti e ne stimola la produzione; b) quella dell’ esame che verifica la possibile attuazione dei progetti quella dell’esecuzione che attua il progetto. Il governo non dovrà più comandare ma amministrare. Nella sua famosa “parabola” risulta chiaro che per Saint-Simon le organizzazioni giuridico-politiche non sono l’elemento essenziale della società: egli ipotizza che se la Francia dovesse perdere improvvisamente migliaia di uomini che esercitano funzioni di primo piano nell’industria la nazione cadrebbe al livello di molte altre nazioni perché non sarebbe in grado di sostituirli rapidamente. Al contrario se venissero meno migliaia di esponenti della struttura giuridico politica, come i membri della Corte, i componenti del governo o gli alti gradi della gerarchia ecclesiastica, la Francia non correrebbe il rischio di divenire improduttiva poiché le funzioni di tali personalità sarebbero facilmente sostituibili. Saint-Simon e i suoi discepoli, i sansimoniani, sono contrari alle ideologie liberali e democratiche, aspirano ad uno Stato autoritario organizzato su una gerarchia industriale dove l’educazione dovrà essere il più potente mezzo di direzione della società e la legislazione ne costituirà il complemento al fine di ottenere nel miglior modo l’ordine sociale. Il Contributo di Comte Comte fu discepolo di Saint-Simon ma abbandonò il maestro perché non era d’accordo sul fatto che per avere una nuova società industriale bastasse un’azione politica: per Comte si doveva verificare prima una profonda rivoluzione intellettuale e morale. Nella sua opera Cours de philosophie positive, opera fondamentale del positivismo, l’autore ribadisce il concetto di far precedere ad una rivoluzione politica una rivoluzione filosofica: ognuna delle nostre conoscenze principali e ogni settore delle conoscenze passa attraverso tre stati teorici: - lo stato Teologico, o fittizio, dove i fenomeni sono concepiti come il frutto dell’azione di agenti soprannaturali al fine di spiegare le anomalie dell’universo; - lo stato Metafisico, o astratto, dove gli agenti soprannaturali sono sostituiti da delle forze astratte che sono delle vere e proprie entità; - lo stato Scientifico, o positivo, dove i fenomeni vengono analizzati e spiegati tramite il ragionamento e l’osservazione stabilendo le loro leggi effettive. Tutte le scienze sono interessate da questa metodologia e quindi anche la sociologia che Comte chiamerà fisica sociale. Di questo argomento l’autore divide la fisica sociale in due parti: 1) quella statica, a cui appartengono il problema di assicurare l’ordine e l’armonia tramite una ripartizione delle funzioni e la suddivisione della società in famiglia, che è l’unità sociale di base, e la “società in generale” ossia l’insieme delle famiglie; 2) quella dinamica secondo la quale la società globale e quella particolare si sviluppano attraverso tre tipi di organizzazioni che si manifestano in tre epoche successive: l’epoca teologica e militare, l’epoca metafisica e giuridica, l’epoca positiva e industriale. E’ nel passaggio tra l’epoca metafisica a quella industriale che Comte conclude la sua sociologia del diritto. Nell’età metafisica gli uomini di legge, assieme ai metafisici, hanno preso il posto dei teologi e sono diventati la classe dirigente: essi vogliono creare un ordine sociale nuovo attraverso la legislazione. Il loro modo di lavorare basato su astrazioni e la loro facoltà di persuasione non hanno che legittimato il dispotismo regio e farlo coesistere, in precario equilibrio, con le libere attività individuali. Nell’età positiva la classe dirigente dovrà essere composta da scienziati e tecnici che lavorano con i metodi dell’osservazione e di sperimentazione. Con questo passaggio della direzione della società si dovranno verificare dei cambiamenti radicali nei riguardi del diritto: la parola diritto e l’ideologia che ne sta alla base dovranno essere eliminate, dovrà scomparire l’ideologia individualistica e liberale che trovò nella dichiarazione dei diritti dell’uomo la sua massima espressione. Per Comte ciascuno ha dei doveri verso gli altri, ma non dei diritti, le garanzie individuali risultano dalla reciprocità degli obblighi. In poche parole nessuno ha altro diritto all’infuori che fare il proprio dovere. Non si deve pensare che Comte sia avverso al diritto poiché il diritto deve essere profondamente rinnovato: è subordinato alla politica e alla morale e si presenta come un ordinamento oggettivo, non più soggettivo, alla cui base stanno regole stabilite dalla società a cui gli individui appartengono. PROF. NICOLA MALIZIA