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Quindici anni di... "espressioni sconvenienti od offensive"

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Quindici anni di... "espressioni sconvenienti od offensive"
Quindici anni di... "espressioni sconvenienti od offensive"
(UNO STUDIO SU 47 SENTENZE DELLA CASSAZIONE)
Codice di procedura civile
Art. 89. Espressioni sconvenienti od offensive
Negli scritti presentati e nei discorsi pronunciati davanti al giudice, le parti e i loro difensori non debbono
usare espressioni sconvenienti od offensive.
Il giudice, in ogni stato della istruzione, può disporre con ordinanza che si cancellino le espressioni sconvenienti od offensive, e, con la sentenza che decide la causa, può inoltre assegnare alla persona offesa una
somma a titolo di risarcimento del danno anche non patrimoniale sofferto, quando le espressioni offensive
non riguardano l’oggetto della causa.
Tra le espressioni sconvenienti e offensive utilizzate negli atti di causa che la giurisprudenza ha preso in considerazione negli ultimi quindici anni si leggono “subdolamente” – talvolta considerata offensiva ed altre volte no - (13670/2014) (26417/2014)
(26195/2011) (14942/2000); “strategia per frodare” (14112/2011); “ha comprato 14 avvocati” (22186/2009); “truffaldinamente, abusivamente” (16121/2009);
“ingordo, insaziabile, insensibile” (3487/2009); “falso e infamante” (12952/2007);
“vuole fare il furbo” (7169/2004); “dare una lezione a questo difensore, che agiva in
proprio, così facendogli passare la voglia di proporre appello” (9707/2003); “stinco
di santo” (73/2003).
I principi affermati nell’applicazione della norma in questione sono i seguenti:
● L’art. 89 del codice di procedura civile prevede un abuso del diritto di difesa ed è
posto a tutela della correttezza formale del contraddittorio: 5 (27001/2011);
● Possono essere cancellate le espressioni offensive della controparte o del suo
difensore ovvero nei confronti dell’ufficio giudiziario che rivelano un passionale e
incomposto intento dispregiativo eccedente le esigenze difensive: 2 (26417/2014);
4 (15885/2013); 6 (26195/2011); 11 (10288/2009); 25 (12309/2004); 31
(9707/2003); 35 (11063/2002);
● L’art. 89 c.p.c. non trova applicazione in caso di espressioni offensive negli atti
rivolte al CTU: 5 (27001/2011).
● Il giudice ha un potere valutativo discrezionale di cancellazione che può essere
esercitato su sollecitazione (che non è una domanda giudiziale) di una parte o anche
d’ufficio con provvedimento a carattere ordinatorio e non decisorio che si sottrae
all’obbligo di motivazione e che pertanto non è sindacabile in sede di legittimità: 1
(1362004); 7 (14112/2011); 8 (22186/2009); 13 (3487/2009); 14 (1018/2009);
16 (7731/2007); 17 (4963/2007); 21 (3525/2005); 23 (12902/2004); 24
(12479/2004); 26 (7169/2004); 27 (6077/2004); 29 (17547/2003); 30
(11965/2003); 32 (2954/2003); 34 (15503/2002); 35 (11063/2002); 37
(9946/2001); 39 (6660/2001); 40 (4742/2001); 41 (143/2001); 43 (14139/2000);
44 (12035/2000); 45 (10801/2000).
● Si può chiedere la cancellazione anche delle frasi offensive riportate negli atti davanti
alla Corte di cassazione: 12 (6439/2009); 15 (12952/2007); 19 (25250/2006); 20
(5677/2005); 28 (805/2004); 42 (14942/2000); 46 (8411/1999); 47 (3032/1999).
Gianfranco Dosi
1
Lessico di diritto di famiglia
Quindici anni di..."espressioni sconvenienti od offensive"
● La condanna al risarcimento del danno non patrimoniale a favore del soggetto
offeso è ammissibile quando le espressioni offensive contenute negli scritti difensivi
sono prive di nesso funzionale con l’oggetto della causa e con l’esercizio del diritto di
difesa: 10 (14552/2009); 35 (11063/2002); 36 (10916/2001); 37 (9946/2001).
● Competente ad accertare e liquidare il danno è di norma lo stesso giudice dinanzi
al quale si svolge il giudizio nel quale sono state usate le espressioni offensive salvo
quando le espressioni offensive sono contenute in atti del processo di esecuzione o
quando le espressioni offensive sono usate in uno stadio processuale in cui non è
più possibile chiedere di cancellarle per esempio quando usate nella comparsa conclusionale del giudizio di primo grado oppure quando la domanda di risarcimento ò
proposta nei confronti non della parte ma del suo difensore: 9 (16121/2009); 38
(7527/2001).
● Il destinatario della domanda di risarcimento del danno ex art. 89, comma 2,
c.p.c., è la parte (legittimata passivamente) – ma in taluni casi può esserlo anche
il suo difensore – e comunque la parte, se condannata, potrà rivalersi nei confronti
del difensore cui siano addebitabili le espressioni offensive: 3 (19907/2013); 9
(16121/2009); 36 (10916/2001).
● Le frasi offensive cui si riferisce l’art. 89 c.p.c. non possono essere poste a fondamento di un licenziamento esaurendo la loro rilevanza nell’ambito del processo
civile: 18 (1757/2007);
1.
Cass. civ. Sez. III, 16 giugno 2014, n. 13670
È inammissibile il ricorso per cassazione per mezzo del quale il ricorrente censura la omessa condanna, da
parte del giudice del merito, di parte avversa ex art. 89 del codice di procedura civile. Il risarcimento del
danno ai sensi della richiamata norma costituisce, invero, esercizio di un potere discrezionale non censurabile in sede di legittimità.
(omissis)
3. Con il terzo motivo, sotto i profili della violazione di legge, della nullità della sentenza per violazione
dell’art. 112 cod. proc. civ. e del vizio di motivazione, il ricorrente si duole del rigetto della domanda di
risarcimento dei danni morali, assumendo che egli “(...) meglio avrebbe dovuto indicarli quali danni esistenziali (...)”.
3.1. - Il terzo motivo è infondato. Le Sezioni Unite di questa Corte, nella sentenza n. 26972 del 2008, hanno
affermato che il danno non patrimoniale è risarcibile nei soli casi “previsti dalla legge”, e cioè, 21 secondo
un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 cod. civ.: (a) quando il fatto illecito sia astrattamente configurabile come reato; in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di qualsiasi interesse della persona tutelato dall’ordinamento, ancorché privo
di rilevanza costituzionale; (b) quando ricorra una delle fattispecie in cui la legge espressamente consente
il ristoro del danno non patrimoniale anche al di fuori di una ipotesi di reato (ad es., nel caso di illecito trattamento dei dati personali o di violazione delle norme che vietano la discriminazione razziale); in tal caso la
vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione dei soli interessi della
persona che il legislatore ha inteso tutelare attraverso la norma attributiva del diritto al risarcimento (quali,
rispettivamente, quello alla riservatezza od a non subire discriminazioni); (c) quando il fatto illecito abbia
violato in modo grave diritti inviolabili della persona, come tali oggetto di tutela costituzionale; in tal caso la
vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di tali interessi, che,
al contrario delle prime due ipotesi, non sono individuati ex ante dalla legge, ma dovranno essere selezionati
caso per caso dal giudice.
I pregiudizi lamentati dal ricorrente non rientrano in alcuna di tali categorie, e quindi non potevano essere
risarciti.
4. Con il quarto motivo, sotto i profili della violazione di legge e del vizio di motivazione, il ricorrente si duole
della omessa condanna della controparte ex art. 89 cod. proc. civ.
4.1. Il quarto motivo è inammissibile. Questa Corte ha infatti più volte affermato che il risarcimento del
danno ex art. 89 cod. proc. civ. costituisce esercizio di un potere discrezionale non censurabile in cassazione.
(omissis)
Gianfranco Dosi
2
Lessico di diritto di famiglia
Quindici anni di..."espressioni sconvenienti od offensive"
2.
Cass. civ. Sez. I, 26 novembre 2013, n. 26417
Non può disporsi, ai sensi dell’art. 89 c.p.c. la cancellazione delle parole che non risultino dettate da un
passionale e incomposto intento dispregiativo nei confronti della controparte. Ed infatti, è possibile che,
nell’esercizio del diritto di difesa, il giudizio sulla reciproca condotta possa investire anche il profilo della
moralità senza, tuttavia, eccedere le esigenze difensive o colpire la scarsa attendibilità delle affermazioni
della controparte.
(omissis)
6. Da ultimo, è infondata la richiesta della resistente di cancellazione della frase “vendita dei protestati” contenuta nel ricorso sub 7.6.b e alla correlata richiesta di condanna al risarcimento dei danni perché non può
essere disposta, ai sensi dell’art. 89 cod. proc. civ. la cancellazione delle parole che non risultino dettate da
un passionale e incomposto intento dispregiativo, essendo ben possibile che nell’esercizio del diritto di difesa
il giudizio sulla reciproca condotta possa investire anche il profilo della moralità, senza tuttavia eccedere le
esigenze difensive o colpire la scarsa attendibilità delle affermazioni della controparte (Sez. 3, Sentenza n.
26195 del 2011, la quale ha escluso che fossero offensive dell’altrui reputazione le parole - come l’avverbio
“subdolamente” -, che, rientrando seppure in modo piuttosto graffiante nell’esercizio del diritto di difesa,
non si rivelino comunque lesive della dignità umana e professionale dell’avversario).
(omissis)
3.
Cass. civ. Sez. VI, 29 agosto 2013, n. 19907
Il difensore della parte è passivamente legittimato, a titolo personale, nell’azione per danni da espressioni
offensive contenute negli atti di un processo, proposta davanti ad un giudice diverso da quello che ha definito quest’ultimo, ove sia prospettata una specifica responsabilità del difensore stesso o non sia più possibile
agire ai sensi dell’art. 89 cod. proc. civ. per lo stadio processuale in cui la condotta offensiva ha avuto luogo.
(omissis)
1. L’avv. C.P.L. ricorre, affidandosi ad un unitario motivo, per la cassazione della sentenza in epigrafe indicata, con la quale è stato accolto l’appello dell’avv. V. L. avverso la sentenza del tribunale di Monza n.
1781/07 e ritenuta la legittimazione passiva di esso ricorrente in un’azione ai sensi dell’art. 89 cod. proc.
civ., dispiegata nei di lui confronti da controparte, in giudizio successivo a quello in cui l’attività difensiva
scorretta era stata tenuta.
2. Il ricorso può essere trattato in camera di consiglio - ai sensi degli artt. 375, 376 e 380-bis cod. proc.
civ., essendo oltretutto soggetto alla disciplina dell’art. 360-bis cod. proc. civ. - per essere ivi rigettato, per
quanto appresso indicato.
3. Il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 89 cod. proc. civ., negando che il difensore
di una parte, nei cui confronti sia ordinata la cancellazione di frasi sconvenienti od offensive, possa essere
citato in proprio - in luogo, cioè, della parte che egli rappresentava - in un giudizio successivo, avente ad
unico oggetto proprio il risarcimento del danno derivante dall’impiego di quelle espressioni. Argomenta, al
riguardo, dalla giurisprudenza di questa Corte di legittimità (Cass. 26 luglio 2002, n. 11063; Cass. 9 settembre 2008, n. 23333), nel senso che delle offese contenute negli scritti difensivi risponde sempre la parte
rappresentata, anche quando esse provengano dal difensore; e confuta, ritenendole contraddittorie, le contrarie argomentazioni di Cass. 10916/01 e, reputandole limitate ad un’astratta valutazione di ammissibilità
in rito, le indicazioni desumibili da Cass. 3 marzo 2010, n. 5062 e Cass. 9 luglio 2009, n. 16121.
4. Dal canto suo, il controricorrente ribatte per la sussistenza della passiva legittimazione del difensore della
parte, quando sia autore diretto delle offese e, oltretutto, non sia possibile dispiegare la relativa azione nel
processo in cui quelle sono formulate (come nel caso in cui siano contenute nelle comparse conclusionali di
primo grado).
5. L’orientamento della giurisprudenza di questa Corte è, a partire dal 2009, chiaramente nel senso dell’ammissibilità di un’azione ai sensi dell’art. 89 cod. proc. civ. diretta nei confronti del difensore della parte, soprattutto allorquando non sia possibile il suo dispiegamento nell’ambito del procedimento in cui la condotta
sconveniente od offensiva sia stata tenuta: in tal senso, con riferimento a fattispecie singolarmente analoga
a quella oggi in esame, è proprio l’affermazione di Cass. 9 luglio 2009, n. 16121, che statuisce che l’azione
in parola “può essere proposta ... quando la domanda sia avanzata nei confronti non della parte ma del
difensore”; e la pronuncia è confermata - sia pure senza ulteriori approfondimenti - dalla successiva Cass.
3 marzo 2010, n. 5062. Ed anche in tal caso l’affermazione della competenza involge, indirettamente, la
proponibilità anche astratta dell’azione, dovendo rifiutarsi - in quanto contraria a logica, a buon senso ed al
principio di economia processuale - la tesi della possibilità di individuare come spettante una competenza su
di un’azione che comunque non sarebbe proponibile (argum. ex Cass., ord. 23 novembre 2011, n. 24743).
Gianfranco Dosi
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Lessico di diritto di famiglia
Quindici anni di..."espressioni sconvenienti od offensive"
6. Deve ritenersi, invero, che la fattispecie dell’art. 89 cod. proc. civ. differisca da quella dell’art. 96 cod.
proc. civ. per la quale è affermata l’esclusiva proponibilità nel corso del medesimo giudizio in cui gli atti o
comportamenti processuali fonte di responsabilità sono stati posti in essere: in quest’ultima fattispecie, la
decisione in ordine a tale responsabilità, sia per l’ann che per il quantum, è devoluta, in via esclusiva, al
giudice a cui spetta di conoscere il merito della causa, potendo solo quest’ultimo conoscere degli effetti della
condotta processuale complessivamente considerata e qualificabile abusiva di una delle parti e liquidare
l’eventuale conseguente danno (giurisprudenza fermissima; tra le molte: Cass. 6 agosto 2010, n. 18344;
Cass. 26 novembre 2008, n. 28226; Cass. 24 luglio 2007, n. 16308; Cass. 23 marzo 2004, n. 5734; Cass.
26 agosto 2002, n. 12541; Cass. 12 marzo 2002, n. 3573; Cass. 16 giugno 1997, n. 5391); e solo con
riferimento a tale ultimo istituto la norma non detta una regola sulla competenza, giacchè disciplina un fenomeno endoprocessuale, quale quello dell’esercizio, da parte del litigante, del potere di formulare un’istanza collegata e connessa all’agire o al resistere in giudizio, che non può configurarsi come potestas agendi
esercitabile fuori del processo in cui la condotta generatrice della responsabilità aggravata si è manifestata
e, quindi, in via autonoma, consequenziale e successiva, davanti ad altro giudice, salvo i casi in cui la possibilità di attivare il mezzo sia rimasta preclusa in forza dell’evoluzione propria dello specifico processo dal
quale la stessa responsabilità aggravata ha avuto origine (Cass. 6 agosto 2010, n. 18344; Cass. 14 giugno
2012, n. 9734).
7. Al contrario, l’art. 89 cod. proc. civ. non sanziona un abuso del processo nel suo complesso considerato
e cioè l’esercizio della potestas agendi per scopi sostanzialmente diversi da quelli per i quali è in astratto
riconosciuto all’agente, ma, più limitatamente, singole condotte offensive, lesive in se stesse del principio
generale del neminem laedere e in quanto tali riconducibili alla generale azione di responsabilità aquiliana.
Tanto consente di qualificare l’azione all’interno dello stesso processo, obiettivamente di maggior favore per
il danneggiato (in quanto risolta in un mero, agile e deformalizzato, subprocedimento del giudizio principale,
del quale mutua interamente il materiale probatorio), come una facoltà per quest’ultimo, riservatagli e al
contempo impostagli quando la sua tutela sia possibile nel processo medesimo; ma non si può escludere,
invece, la possibilità di agire direttamente, viepiù quando sia preclusa l’azione in seno allo stesso processo
(istituzionalmente essendo una tale azione suscettibile di essere diretta soltanto contro la parte, su questo punto dovendo condividersi le conclusioni di Cass. 23333 del 2008, sull’impossibilità di pronunciare
condanna nei confronti di chi parte non è), per il tempo in cui la condotta è stata posta in essere o per la
prospettazione, frutto della libera determinazione dell’agente, di una responsabilità esclusiva del difensore,
in luogo della parte.
8. Il compiuto sviluppo del più recente orientamento di questa Corte consente quindi di ritenere conforme la
gravata sentenza al seguente principio di diritto: il difensore della parte è passivamente di persona legittimato nell’azione per danni da espressioni offensive contenute in atti di un processo proposta davanti ad un
giudice diverso da quello che ha definito quest’ultimo, ove sia prospettata una specifica responsabilità del
difensore stesso, oppure non sia più possibile agire ai sensi dell’art. 89 cod. proc. civ. per lo stadio processuale in cui la condotta offensiva ha avuto luogo (ad esempio, in sede di comparsa conclusionale del giudizio
di primo od unico grado di merito). E deve quindi proporsi il rigetto del ricorso”.
(omissis)
4.
Cass. civ. Sez. III, 25 giugno 2013, n. 15885
La cancellazione delle espressioni offensive o sconvenienti contenute negli scritti difensivi, prevista dall’art.
89 c.p.c. va esclusa allorquando le espressioni in parola non siano dettate da un passionale e scomposto
intento dispregiativo e non rivelino perciò un intento offensivo nei confronti della controparte.
(omissis)
1. In un giudizio civile nel quale era convenuto, l’ing. T. G. depositò una memoria a sua firma con la quale,
contestando la relazione per lui negativa del consulente tecnico d’ufficio ing. A.L., a corredo di giudizi fortemente critici sulle osservazioni del c.t.u. e sulla sua competenza specifica aveva scritto tra l’altro: “il c.t.u.
non fornisce, per quella che dovrebbe essere la soluzione di un difetto, nessun calcolo né di verifica né di
progetto, anche perché si è convinti che non abbia la possibilità di farlo”.
Archiviata la denuncia per oltraggio presentata da A.L. nel (OMISSIS), nel (OMISSIS) questi convenne in
giudizio T.G. chiedendone la condanna al risarcimento dei danni derivatigli dalla lesione della reputazione per
la diffamazione che ritenne essere stata consumata in suo danno.
(omissis)
Questa Corte ha del resto ritenuto che va esclusa finanche la cancellazione delle espressioni offensive o
sconvenienti contenute negli scritti difensivi allorquando esse non siano dettate da un passionale e scomposto intento dispregiativo e non rivelino perciò un intento offensivo ma, conservando pur sempre un rapporto,
anche indiretto, con la materia controversa senza eccedere dalle esigenze difensive, siano preordinate a
Gianfranco Dosi
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Lessico di diritto di famiglia
Quindici anni di..."espressioni sconvenienti od offensive"
dimostrare, attraverso una valutazione negativa del comportamento (in quel caso dell’avversario), la scarsa
attendibilità delle sue affermazioni (cfr. Cass., n. 10288/2009, cui adde Cass., n. 26195/2011).
Il che è assorbente del rilievo che l’azione di danni per responsabilità ex art. 89 c.p.c. può essere proposta
davanti al giudice diverso da quello innanzi al quale le espressioni sconvenienti o offensive siano state usate
solo quando il procedimento, per qualsiasi motivo, non si concluda con sentenza (come nel caso di estinzione
del processo), ovvero quando i danni si manifestino in uno stadio processuale in cui non sia più possibile farli
valere tempestivamente davanti al giudice di merito (come nel caso in cui le frasi offensive siano contenute
nella comparsa conclusionale del giudizio di primo grado), ovvero quando la domanda sia avanzata nei confronti non della parte ma del suo difensore (ex coeteris, Cass. 10916/2001, 11253/2003, 16121/2009). In
casi dunque diversi da quello in scrutinio.
(omissis)
5.
Cass. civ. Sez. III, 15 dicembre 2011, n. 27001
In tema di responsabilità civile per espressioni offensive contenute in scritti processuali, sia la norma dell’art.
89 cod. proc. civ. - finalizzata a regolare la correttezza formale del contraddittorio, senza individuare alcuna
causa di non punibilità - sia quella dell’art. 598 cod. pen. - che prevede la non punibilità delle offese contenute negli scritti presentati dinanzi all’Autorità Giudiziaria allorché esse riguardino l’oggetto della causa - si
riferiscono espressamente ed esclusivamente alle parti ed ai loro difensori, non potendo quindi trovare applicazione nei confronti del consulente tecnico di parte, che è figura processuale diversa e non equiparabile
alle predette.
(omissis)
Con citazione notificata in data 15 marzo 2004 D.R. conveniva in giudizio M.F. chiedendone la condanna al
risarcimento dei danni subiti a cagione delle reiterate offese alla sua reputazione contenute in una relazione
ed in una memoria peritali, redatte nell’ambito di un procedimento giudiziario in cui il D. aveva espletato
l’incarico di CTU ed il M. quello di ct di parte.
In esito al giudizio in cui si costituiva il M. sostenendo che il suo operato era giustificato dal diritto di critica
il Tribunale di Milano condannava il convenuto al risarcimento dei danni.
Avverso tale decisione proponeva appello il M. ed in esito al giudizio, la Corte di Appello di Milano con sentenza depositata in data 16 settembre 2008 rigettava l’impugnazione.
Avverso la detta sentenza il M. ha quindi proposto ricorso per cassazione articolato in tre motivi, illustrato
da memoria. Resiste con controricorso il D., il quale ha depositato a sua volta memoria difensiva a norma
dell’art. 378 c.p.c.
Con la prima doglianza, deducendo il vizio di violazione e falsa applicazione dell’art. 89 c.p.c. e art. 598
c.p. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, il ricorrente ha censurato la sentenza impugnata per non
aver la Corte di Appello applicato la causa di giustificazione/scriminante prevista dalle predette norme al
consulente di parte motivandone la ragione sulla base del rilievo che tale figura professionale non sarebbe
espressamente contemplata da tali norme e che queste ultime non sarebbero estensibili oltre i casi espressamente previsti. In tal modo, i giudici di seconde cure - così conclude il ricorrente - avrebbero trascurato
che la stessa Corte Costituzionale ha sistematicamente equiparato l’opera del consulente di parte a quella
del difensore.
La censura è infondata. A riguardo, vale la pena di premettere che sia la norma di cui all’art. 89 c.p.c. norma
che comunque non individua alcuna causa di non punibilità essendo finalizzata esclusivamente a regolare la
correttezza formale del contraddittorio contemperando le esigenze di difesa con il necessario rispetto verso
tutti i protagonisti del processo, sia la norma prevista dall’art. 598 cod. pen., che prevede la non punibilità
delle offese contenute negli scritti presentati dinanzi all’autorità giudiziaria quando le offese concernono
l’oggetto della causa, si riferiscono espressamente ed esclusivamente alle parti ed ai loro difensori/patrocinatori. La premessa torna opportuna sia nella misura in cui evidenzia l’assoluta irrilevanza del richiamo
al citato art. 89 c.p.c. che esaurendo la propria efficacia nell’ambito del processo in cui sono state usate le
espressioni sconvenienti ed offensive, non svolge alcuna utile funzione nel successivo giudizio risarcitorio
promosso dalla parte, che sia stata lesa nel primo giudizio, sia nella misura in cui richiama l’attenzione sulla
chiarissima lettera dell’art. 598 c.p. che ne preclude l’applicabilità al consulente tecnico di parte nel giudizio
civile, in quanto lo stesso, come ha già avuto modo di precisare questa Corte (così Cass. n. 13791/07) non
è equiparabile nè alle parti, nè ai loro patrocinatori, ai quali espressamente ed esclusivamente si riferisce la
citata disposizione. (V. Corte cost., 14 novembre 1979 n. 128).
Nè appare plausibile il ricorso ad un’interpretazione estensiva dell’art. 598 c.p. in modo da comprendervi
anche i consulenti di parte, così come richiede il ricorrente. Ed invero, deve osservarsi a riguardo che per
interpretazione estensiva di una norma si intende l’accoglimento di un significato che si estenda fino ai
Gianfranco Dosi
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limiti massimi della portata dell’espressione da interpretare, senza però travalicarne i confini imposti dal
dato letterale, in relazione a determinati oggetti ed attività, secondo l’uso linguistico comunemente dato.
Ed è appena il caso di sottolineare a riguardo come e quanto siano assolutamente diverse, tra loro, l’attività
svolta dal consulente tecnico di parte in un procedimento civile, che si esaurisce nell’ambito di valutazioni
meramente tecniche a supporto delle ragioni di una parte, e quella del patrocinatore, la quale mirando
ad assicurare una piena esplicazione del diritto di difesa della parte assistita in un procedimento penale,
non può essere limitata dal rischio di un’incriminazione per le espressioni, eventualmente offensive di altri
soggetti, utilizzate nel contesto difensivo. A tal fine, vale la pena di ribadire che “la Corte Costituzionale ha
avuto modo di dichiarare l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 598 c.p. comma 1, nella parte in cui non prevede la non punibilità delle offese contenute negli scritti e nei discorsi dei
consulenti tecnici di parte in procedimenti davanti all’autorità giudiziaria, sul presupposto che la garanzia
dell’art. 24 Cost., comma 2, non è estensibile al consulente tecnico, il quale non è legittimato all’esercizio
del patrocinio e svolge attività di consulenza concernente cognizioni tecniche. Dunque, un’attività obiettivamente diversa da quella tecnicogiuridica alla quale sono chiamati i patrocinatori nell’esercizio professionale
in favore dei loro assistiti, nella dinamica del procedimento relativo all’oggetto della controversia.” (così
Cass. n. 13791/07 in motivazione).
(omissis)
6.
Cass. civ. Sez. III, 6 dicembre 2011, n. 26195
In tema di espressioni offensive o sconvenienti contenute negli scritti difensivi, non può essere disposta,
ai sensi dell’art. 89 cod. proc. civ. la cancellazione delle parole che non risultino dettate da un passionale
e incomposto intento dispregiativo, essendo ben possibile che nell’esercizio del diritto di difesa il giudizio
sulla reciproca condotta possa investire anche il profilo della moralità, senza tuttavia eccedere le esigenze
difensive o colpire la scarsa attendibilità delle affermazioni della controparte. Ne consegue che non possono
essere qualificate offensive dell’altrui reputazione le parole (come l’avverbio “subdolamente”), che, rientrando seppure in modo piuttosto graffiante nell’esercizio del diritto di difesa, non si rivelino comunque lesive
della dignità umana e professionale dell’avversario.
L’art. 89 secondo comma cod. proc. civ. che prevede la possibilità di assegnare alla persona offesa dalle
espressioni sconvenienti od offensive contenute negli atti difensivi di un giudizio, una somma a titolo di risarcimento del danno anche non patrimoniale, non trova applicazione quando l’offeso non sia una delle parti
ma il giudice che ha deciso la controversia.
(omissis)
5. Infine, il ricorrente, anche con la memoria, insiste per la cancellazione dal controricorso dell’avverbio
“subdolamente”, con condanna ad una sanzione pecuniaria ex art. 89 c.p.c. In merito, osserva il Collegio
che, letto nella sua interezza ed in relazione anche alla vicenda sottostante, l’avverbio non risulta dettato
da un passionale ed incomposto intento dispregiativo in considerazione del fatto che è ben possibile che
nell’esercizio del diritto di difesa il giudizio sulla condotta reciproca possa investire anche il profilo della
moralità, senza eccedere le esigenze difensive o colpire la scarsa attendibilità delle affermazioni della controparte, in questo caso del M. il cui ricorso è stato oggetto di attenzione e di contestazioni, condivisibili o
meno da parte del ricorrente, ma certamente puntuali dal punto di vista tecnico-giuridico.
In altri termini, l’avverbio “incriminato” non è idoneo a qualificarsi come offensivo della reputazione professionale del M., ma rientra, anche se in modo piuttosto “graffiante”, in quell’esercizio del diritto di difesa che
può contenere anche termini non del tutto piacevoli, che, comunque, dal complesso esame dell’atto in cui
sono contenuti, non si rivelino espressi allo scopo di inficiare la dignità umana e professionale dell’avversario.
(omissis)
7.
Cass. civ. Sez. III, 27 giugno 2011, n. 14112
In tema di cancellazione delle espressioni offensive o sconvenienti contenute in scritti difensivi, consentita
dall’art. 89 c.p.c. l’apprezzamento circa l’effettivo rapporto tra queste e l’oggetto della causa è rimesso alla
valutazione del giudice di merito e non è censurabile in sede di legittimità.
(omissis)
A seguito dell’appello della E & C Costruzioni e dei Ma., costituitesi le parti intimate, la Corte d’Appello di
Cagliari, con la decisione in esame in data 28.10.2008, in accoglimento del gravame, così statuiva: “dispone
la cancellazione dagli scritti difensivi a firma di M.J. delle seguenti espressioni - strategia per frodare - operazione diretta e procurarsi il pagamento della somma di L. 20.000.000 ed - è tale l’ignoranza; dichiara cessata
Gianfranco Dosi
6
Lessico di diritto di famiglia
Quindici anni di..."espressioni sconvenienti od offensive"
la materia del contendere in relazione all’appello incidentale originariamente proposto da M.J. e dalla P. srl
contro la medesima sentenza e poi formalmente rinunciato.
Affermava in particolare la Corte territoriale che “la prima espressione deve indubbiamente essere qualificata come alquanto sconveniente e, come tale, deve essere cancellata dagli scritti difensivi. Tuttavia non si
può ritenere che essa abbia una vera e propria valenza offensiva, in quanto si sostanzia in una mera illazione
volta unicamente ad illustrare un comportamento di controparte ritenuto non corretto e, di conseguenza,
manca del tutto il requisito fondamentale dell’intento dispregiativo gratuito. Anche la seconda frase deve
essere qualificata come sconveniente, seppure di gravità minore della prima, e deve essere egualmente
cancellata dagli scritti difensivi ... indubbiamente è più grave il caso dell’ultima affermazione che si sostanzia
in una critica pesante all’operato professionale della controparte ...”.
Ricorre per cassazione la P. srl con quattro motivi; resistono con controricorso la E & C Costruzioni srl in
liquidazione, Ma.Ga. e Ma.An.. I resistenti hanno altresì depositato memoria.
Col primo motivo di ricorso si deduce violazione dell’art. 89 c.p.c. nel punto in cui la sentenza impugnata,
pur ritenendo le frasi offensive, le ha ritenute riguardanti l’oggetto della controversia.
(omissis)
Quanto al primo motivo si osserva che, come del resto già statuito da questa Corte (tra le altre, Cass.
15503/2002), in tema di cancellazione delle espressioni offensive o sconvenienti contenute in scritti difensivi, l’apprezzamento circa l’effettivo rapporto tra queste e l’oggetto della causa è rimesso alla valutazione del
giudice di merito e non è censurabile in sede di legittimità.
8.
Cass. civ. Sez. III, 20 ottobre 2009, n. 22186
Poiché la cancellazione di frasi o parole ingiuriose contenute negli scritti difensivi è rimessa al potere discrezionale del giudice di merito, che può disporla anche d’ufficio a norma dell’art. 89 cod. proc. civ., l’istanza di
cancellazione costituisce una mera sollecitazione per l’esercizio dell’anzidetto potere discrezionale, di guisa che
non può formare oggetto di impugnazione l’omesso esame di essa né l’omesso esercizio del suddetto potere.
(omissis)
“Con atto di citazione notificato il 30.3.1999 l’avv. S.F. S. conveniva dinanzi a Tribunale di Torino la dott.
ssa S.F.D. chiedendo che venisse accertato che la convenuta aveva “gravemente” leso l’onore personale,
professionale l’immagine e decoro dell’attore, con conseguente condanna della convenuta al risarcimento
dei danni, indicati in 60 milioni e salva diversa quantificazione da parte del Tribunale con la rivalutazione e
gli interessi dalla data del fatto al soddisfo. L’attore, inoltre, chiedeva che la somma venisse devoluta alla
U.G.I. - Unione Genitori Italiani contro i tumori dei bambini.
A fondamento delle domande l’attore, dopo aver accennato a varie iniziative giudiziarie della convenuta
volte, a suo dire, ad arrecare fastidio all’attore e ai congiunti di quest’ultimo, esponeva che nel corso del
giudizio di divisione ereditaria, avente n. 8298/1980 pendente tra le parti dinanzi al Tribunale di Torino,
all’udienza del 18.2.1999, mentre egli stava svolgendole proprie difese, la convenuta aveva pronunciato la
seguente frase che il g.i. aveva verbalizzato “l’attrice lo accusa di aver comprato 14 avvocati” riferendosi
ai difensori della stessa che nel corso del giudizio si erano succeduti e per i quali era intervenuta revoca o
rinuncia al mandato.
L’attore sosteneva che con tale frase la convenuta avesse arrecato grave offesa al suo onore, anche professionale, alla sua immagine e credibilità considerato che il soggetto leso era un noto e stimato avvocato, che la
frase era stata pronunciala nel luogo in cui il professionista esercitava l’attività da molti anni e che all’udienza
erano presenti il giudice e altri professionisti (avvocati - consulente tecnico nominato per la determinazione
dell’asse ereditario); produceva la copia del verbale dell’udienza del 18.2.1999 e dichiarazioni IVA.
La convenuta costituitasi eccepiva preliminarmente l’inammissibilità della domanda, e nel merito, ne chiedeva il rigetto.
La dott.ssa S.F.D. sosteneva, infatti la carenza di interesse ad agire dell’attore poiché questi aveva chiesto
che la somma da liquidare a titolo di danno venisse devoluta ad un ente benefico.
La convenuta, inoltre, affermava che con la frase riportata nel verbale d’udienza ella aveva reagito, immediatamente, alle dichiarazioni rese in precedenza dall’attore; questi infatti, dopo averla accusata di avere
un atteggiamento persecutorio nei suoi confronti aveva dichiarato “la signora ha già cambiato 15 avvocati”
e a tale frase ella aveva replicato “perché tu te ne sei comprati 14”. La convenuta precisava che, in realtà,
nel corso del giudizio si erano avvicendati 4 avvocati e che il convincimento manifestato con la frase in questione era stato determinato dalla constatazione della carenza della difesa dei suoi legali; riferiva in ordine
ad alcuni comportamenti dei legali, evidenziando che l’av. R. aveva percepito una somma dai fratelli S.F.
attraverso l’avv. L..
Gianfranco Dosi
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Lessico di diritto di famiglia
Quindici anni di..."espressioni sconvenienti od offensive"
Inoltre, la convenuta contestava la sussistenza di un fatto illecito:
a) invocava la legittima difesa, posto che la frase era stata pronunciata nell’esercizio dei diritto di difesa e
in presenza di un’offesa ingiusta;
b) affermava che nel caso di specie non fosse stato violato un diritto giuridicamente protetto (l’onore, anche
professionale, non rientrava tra i diritti inviolabili della persona costituzionalmente garantiti).
Infine, con riferimento al danno da risarcire per il caso in cui fosse stata accertata l’esistenza del fatto illecito
e l’obbligo di risarcire il danno, sottolineava che la frase era stata inserita nel verbale su espressa richiesta
dell’attore “decaduto” per non aver invocato il disposto di cui art. 89 c.p.c.; affermava che non vi fosse la
prova dell’esistenza dell’asserito danno morale e che la cifra richiesta fosse eccessiva e non provata.
Nel corso dell’istruttoria l’attore depositava una memoria, illegale della convenuta rinunciava al mandato e
si costituiva un nuovo legale che richiamava tutte le precedenti difese.
Sulle conclusioni precisate all’udienza del 21.2.2001 la causa veniva trattenuta per la decisione alla scadenza
di termini di cui all’art. 190 c.p.c..
Con sentenza deliberata in data 9/6/2001 e pubblicata in data 20/6/2001, sub. n. 5618, il Tribunale così
provvedeva:
ogni contraria istanza, eccezione e deduzione respinta; condanna la convenuta a pagare le spese del giudizio
sostenute dall’attore, liquidate in base all’art. 6 della tariffa professionale, in complessive L. 3.149.000 di
cui L. 1.650.000 per onorario, L. 949.000 per diritti e L. 600.000 per esposti, oltre le spese generali ex art.
17 TP. iva e cpa.
S.F.D. proponeva appello contro la sentenza del Tribunale, notificata il 29/11/2001, con atto di citazione in
appello notificato alla controparte in data 19/12/2001.
(omissis)
Con sentenza 20 giugno 2003 - 2 marzo 2005, la Corte d’Appello di Torino, definitivamente pronunciando,
decideva come segue:
“.. rigetta l’appello;
Contro questa decisione ha proposto ricorso per Cassazione S. F.D..
(omissis)
2^ GRUPPO DI DOGLIANZE. Circa la sussistenza o meno della “...diffamazione,. “ la ricorrente rileva: - S.F. D.
nel suo atto di appello ha piu’ volte dichiarato che la frase incriminata non era ne’ offensiva ne’ diffamatoria;
- è illogico dire che non interessa se gli avvocati revocati fossero quattro o quindici perché è evidente che, se
è vero come è vero che gli avvocati revocati erano quattro e non quindici, l’avv. S.F.S. avrebbe dichiarato in
giudizio una cosa falsa (e quindi ingiusta) contro la quale S.F.D. aveva tutto il diritto di ribattere e di difendersi; - la volontà di recare offesa all’altrui patrimonio morale nel caso di specie non sussiste, - non si capisce
in cosa la frase “perché tu te ne sei comprati 14” sarebbe ingiuriosa o comunque offensiva; l’intenzione della
ricorrente era non di ingiuriare ma di replicare alla frase ingiuriosa altrui, - la Corte non attribuisce nessuna
rilevanza al fatto che il verbale non fosse stato controfirmato ne’ dal cancelliere ne’ da S.F.D.; - S.F. D., con
lettera R.R inviata al G.I. dott.ssa SI. aveva immediatamente disconosciuto il contenuto del verbale; - quanto
al risarcimento del danno richiesto da S.F.D. per le frasi offensive e quanto alla relativa domanda di cancellazione delle medesime la Corte d’Appello respinge il ricorso sul punto “in quanto contenute negli atti di primo
grado” e dichiara che sia le violazioni dell’art. 89 c.p.c., che le violazioni dell’art. 96 c.p.c. devono esser fatte
valere in primo grado, comprese le frasi offensive contenute in conclusionale la cui cancellazione poteva essere chiesta in memoria di replica; tale impostazione non è condivisibile perché: - il risarcimento del danno
ex art. 96 c.p.c. è stato appunto richiesto da S.F.D. in primo grado fin dall’atto di costituzione in giudizio, - la
cancellazione delle frasi offensive non può essere chiesta in memoria di replica perché di certo la memoria di
replica non può contenere domande; - la stessa sentenza di primo grado dichiara che la cancellazione delle
frasi offensive può essere disposta anche d’ufficio; - quindi non esiste decadenza sulle domande di provvedimenti che possono essere disposti anche d’ufficio, - le frasi offensive rilevate da S.F. D. e il correlativo
risarcimento del danno richiesto rientrano nella più generale domanda di risarcimento del danno ex art. 96
c.p.c. già inoltrata da S.F.D. con il primo atto di costituzione nel presente giudizio, essendo tali espressioni
comunque riconducigli alla malafede e alla responsabilità aggravata di parte avversaria.
Anche le doglianze ora riassunte non possono essere accolte; infatti debbono ritenersi (salvo per quanto che
sara’ esposto al punto C, al quale si rinvia) prive di pregio.
In particolare si osserva quanto segue:
- A) le valutazioni della Corte circa l’idoneità offensiva e diffamatoria della frase suddetta e la sussistenza
degli ulteriori elementi costitutivi del diritto al risarcimento (e dunque anche tutte le ulteriori valutazioni di
detta Corte comunque connesse, anche in ordine a tutti i sopra citati articoli del codice penale.
Gianfranco Dosi
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Lessico di diritto di famiglia
Quindici anni di..."espressioni sconvenienti od offensive"
Ira l’altro concernenti le scriminanti oggetto delle censure esposte nel ricorso principalmente a proposito
della prima sentenza, ed anche le motivazione esposte nella sentenza di secondo grado con riferimento alle
varie risultanze istruttorie) si sottraggono al sindacato di legittimità in quanto fondate su una motivazione
talora implicita ma comunque sufficiente, logica, non contraddittoria e rispettosa della normativa in questione (v Cass. n. 9234 del 20/04/2006: “Il disposto dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), non conferisce alla
Corte di Cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare,
sotto il profilo logico - formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione data dal giudice del
merito al quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento, e, in proposito, valutarne le
prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute
idonee a dimostrare i fatti in discussione, senza che lo stesso giudice del merito incontri alcun limite al
riguardo, salvo che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, non essendo peraltro tenuto a
vagliare ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente
disattesi tutti i rilievi e le circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, risultino logicamente
incompatibili con la decisione adottata”; cfr. inoltre Cass. S. U. n. 05802 dell’11/06/1998; cfr anche, tra le
successive; Cass. Sentenza n. 18119 del 02/07/2008;Cass. Sentenza n. 17477 del 09/08/2007; Cass. Sentenza n. 15489 del 11/07/2007, Cass. n. 21193 del 05/11/2004, e Cass. n. 1101 del 20/01/2006; Cass. n.
9234 del 20/04/2006; Sentenza n. 1754 del 26/01/2007; Sentenza n. 5066 del 05/03/2007; Cass. Sentenza
n. 15489 del 11/07/2007; Cass. Sentenza n. 17477 del 09/08/2007; Sentenza n. 18119 del 02/07/2008);
- B) le argomentazioni difensive circa la mancata “controfirma” e l’immediato disconoscimento del verbale
sono irrilevanti e quindi inammissibili (prima ancora che comunque prive di pregio data l’insussistenza dei vizi
denunciati sul punto) poiché S.F. D. non contesta di aver pronunciato la frase in questione; ed è su questa
(valutata come decisiva; e come non giustificata dal comportamento della controparte; il tutto con motivazione talora implicita ma comunque immune dai vizi in questione) che si fonda essenzialmente la decisione;
- C) quanto alle domande ex art. 89 cit. proposte da S.F. D., si osserva che con riferimento all’azione di
risarcimento danni ex art. 89 cit. la Corte ha esposto una motivazione immune da vizi; ed in particolare ha
correttamente citato Cass. N. 11617 del 1992 (v. anche Cass. Sentenza n. 11253 del 18/07/2003; e Cass.
Sentenza n. 10916 del 07/08/2001); con riferimento poi alla richiesta di cancellazione va anzitutto rilevato
che, anche a quanto si evince dal ricorso, le frasi asseritamene offensive erano del giudizio di primo grado
mentre la richiesta di cancellazione era stata proposta per la prima volta nell’alto di appello.
Ciò premesso si osserva che a tale fattispecie non appare applicabile la giurisprudenza ora citata, la quale
riguarda in effetti l’art. 89 cit, ma (solo) per la parte concernente il risarcimento del danno. Dunque il Giudice
di secondo grado avrebbe dovuto applicare non il principio di diritto predetto ma il seguente:
“Poiché la cancellazione di frasi o parole, ingiuriose contenute negli scritti difensivi è rimessa al potere discrezionale del giudice di merito, che può disporla anche d’ufficio a norma dell’art. 89 c.p.c., l’istanza per
la cancellazione costituisce una mera sollecitazione per l’applicazione dell’anzidetto potere discrezionale, di
guisa che l’omesso esame di essa non può formare oggetto di impugnazione” (Cass. Sentenza n. 12035 del
12/09/2000; nonché Cass. Sentenza n. 489 del 18/01/2000, Cass. Sentenza n. 5340 del 29/05/1998, e Cass.
Sentenza n, 9040 del 03/11/1994); e sulla base di questo avrebbe dovuto affermare il principio di diritto
secondo il quale, se non può formare oggetto di impugnazione l’omesso esame di una sollecitazione per l’applicazione dell’anzidetto potere discrezionale, a maggior ragione non può formare oggetto di impugnazione
l’omesso esercizio d’ufficio di detto potere discrezionale, in tal senso deve dunque essere corretta (in diritto)
da questa Corte Suprema la motivazione in esame, ex art. 384 c.p.c., comma 2, (essendo il dispositivo conforme al diritto), con la conseguenza che il punto in questione della decisione non è soggetto a cassazione;
Sulla base di quanto sopra esposto il ricorso va respinto.
(omissis)
9.
Cass. civ. Sez. III, 9 luglio 2009, n. 16121
Competente ad accertare e liquidare il danno derivante dall’uso di espressioni offensive contenute negli atti
del processo, ai sensi dell’art. 89 cod. proc. civ., è di norma lo stesso giudice dinanzi al quale si svolge il
giudizio nel quale sono state usate le suddette espressioni. A tale competenza, tuttavia, è necessario derogare quando il giudice non possa, o non possa più, provvedere con sentenza sulla domanda di risarcimento,
il che accade, in particolare, nei seguenti casi: A) quando le espressioni offensive siano contenute in atti del
processo di esecuzione, che per tale sua natura non può avere per oggetto un’azione di cognizione e quindi
destinata ad essere decisa con sentenza; B) quando siano contenute in atti di un processo di cognizione
che però, per qualsiasi motivo, non si concluda con sentenza (come nel caso di estinzione del processo); C)
quando i danni si manifestino in uno stadio processuale in cui non sia più possibile farli valere tempestivamente davanti al giudice di merito (come nel caso in cui le frasi offensive siano contenute nella comparsa
conclusionale del giudizio di primo grado); D) quando la domanda di risarcimento sia proposta nei confronti
non della parte ma del suo difensore.
Gianfranco Dosi
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Lessico di diritto di famiglia
Quindici anni di..."espressioni sconvenienti od offensive"
(omissis)
Con atto di citazione iscritto a ruolo l’8.9.1998, l’avv. P.S. conveniva in giudizio i sigg. L.I. L. e M.R. - rispettivamente nipote e zia - esponendo che, nel corso di un’udienza di procedura esecutiva promossa nei
confronti di L.I.M.R., quest’ultima depositava memoria scritta, nella quale erano riportate le seguenti frasi:
nel (OMISSIS) dello stesso anno, il P. si era presentato improvvisamente alla mia porta con persona non
identificata fatta passare per l’Ufficiale Giudiziario e mi aveva estorto la somma di L. 250,000... Il P. ha aggiunto abusivamente diritti ed onorari non spettantigli, a norma di C.C. e tariffario forense, in quanto agente
per se stesso; e ha calcolato secondo lo scaglione superiore a quello che egli truffaldinamente pretendeva
in più; che durante una successiva udienza della medesima procedura esecutiva, L. L., ammesso come interprete della zia - la quale si dichiarava invalida per la perdita dell’udito - rilevava a verbale quanto segue:
“l’Avv. P. ha effettuato un’estorsione aggravata ed una truffa legalizzata perché intende essere pagato per il
lavoro che fa per se stesso”. Tali frasi - sempre secondo l’attore - costituivano causa di gravi danni alla sua
reputazione e alla sua dignità professionale, e pertanto l’avv. P. chiedeva il risarcimento dei danni determinati equitativamente in L. 250.000.000 o nella somma minore o maggiore da determinarsi in corso di causa,
nonché la condanna dei convenuti alle spese di giudizio.
(omissis)
Il Tribunale di Vibo Valentia, con sentenza n. 350/03, condannò i convenuti in solido a pagare all’attore la
complessiva somma di Euro 5.164,57, oltre interessi al tasso legale dal deposito della sentenza al soddisfo,
a titolo di risarcimento dei danni, liquidati in via equitativa, per i comportamenti illeciti denunciati nell’atto
introduttivo, oltre alla rifusione delle spese di lite.
Avverso detta sentenza hanno proposto appello L.L. e M.R. lamentando che la sentenza è errata in quanto:
ai sensi dell’art. 89 c.p.c. l’azione andava reputata dal Giudice di primo grado inammissibile; l’art. 89 cit.
riconosce il diritto al risarcimento solo quando le frasi offensive non riguardino, come nel caso di specie, l’oggetto del contendere; le espressioni utilizzate non sono offensive ma, semmai, semplicemente sconvenienti;
il sig. L.I. si è limitato a fare da nuncius e dunque non può essere in alcun modo ritenuto responsabile. L’avv.
P.S. si è costituito sostenendo l’inammissibilità e l’improcedibilità dell’appello e, nel merito, l’infondatezza
delle prospettazioni di controparte.
(omissis)
Con sentenza 15.11 - 25.11.2004 la Corte d’Appello di Catanzaro, definitivamente pronunciando, così provvedeva: “... 1) rigetta l’appello;
2) condanna l’appellante al pagamento delle spese del presente grado di giudizio liquidate in Euro 1.420,00,
di cui Euro 520,00 per diritti, Euro 800,00 per onorario ed euro 100,00 per spese, oltre IVA e CAP; ..”.
Contro questa decisione hanno proposto ricorso per cassazione L. I.L. e L.I.M.R..
(omissis)
4. Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in sentenza (errata rappresentazione dei fatti - illogicità), art. 360 c.p.c. n. 5” prospettando doglianze che vanno riassunte come segue. Innanzi tutto si
richiamano espressamente tutti gli scritti difensivi di primo grado, e di appello da intendersi tutti riproposti
e trascritti. Il risarcimento del danno non patrimoniale derivante da espressioni offensive contenute in atti
del processo civile non può essere demandato in un processo separato dopo che si sia concluso quello in
cui furono compiuti gli atti contenenti le espressioni ritenute offensive (cfr Cass. Civ. 13.10.1975, n. 3272;
Cass. Civ. 01.03.1976, n. 673). Ha errato la Corte laddove ha affermato la possibilità di promuovere autonomo giudizio atteso che la procedura esecutiva non sfocia in una sentenza. L’avv. P. avrebbe dovuto
proporre l’istanza di accertamento della responsabilità processuale e di applicazione delle sanzioni previste
dall’art. 89 c.p.c. esclusivamente al giudice dell’esecuzione. Improponibile, e/o inammissibile, quindi la
domanda di risarcimento avanzata con autonomo giudizio. Il GIP di Vibo Valentia con sentenza n. 92/99
resa nel procedimento n. (OMISSIS) RGNR e 23/99 GIP ha dichiarato il non luogo a procedersi nei confronti
della sig.ra L.I.M. R. in ordine ai reati a lei ascritti ( art. 595 c.p. commi 1 e 2, e art. 368 c.p.) perché il
fatto non costituisce reato. Con ciò ribadendo il principio della scriminante di cui all’art. 598 c.p.. Le frasi
in questione, quindi, per analogia al giudicato penale, non dovevano considerarsi offensive e quindi, come
tali, sanzionate (cfr. Cass. 26.07.2002, n. 11063; e Cass. Civ. 14.03.81, n. 1430). Il L. I. doveva essere
considerato a tutti gli effetti carente di legittimazione passiva. Lo stesso, infatti, altro non era che semplice
interprete e, quindi, come tale, non autore diretto di quanto si andava affermando. Ha errato la Corte nel
ritenere il nipote quale autore in proprio delle espressioni.
Tali doglianze non possono essere accolte in quanto l’impugnata decisione si basa su una motivazione sufficiente, logica, non contraddittoria e rispettosa della normativa in questione.
Va precisato che le censure in questione debbono ritenersi inammissibili prima ancora che prive di pregio
nella misura in cui: - A) si limitano ad esporre mere tesi contrastanti con quelle esposte nell’impugnata decisione senza prendere in rituale considerazioni le argomentazioni (peraltro sempre ineccepibili) in questa
contenute (ad es. v. sopra, l’assunto secondo cui il L.I. “...altro non era che semplice interprete e, quindi,
Gianfranco Dosi
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Lessico di diritto di famiglia
Quindici anni di..."espressioni sconvenienti od offensive"
come tale, non autore diretto di quanto si andava affermando...”), - B) “...si richiamano espressamente tutti
gli scritti difensivi di primo grado, di appello qui da intendersi tutti riproposti e trascritti ...” in violazione del
principio di autosufficienza del ricorso (cfr. tra le altre Cass. n. 26693/2006).
Con riferimento alla suddetta mancanza di pregio delle doglianze va poi rilevato in particolare che correttamente la Corte di merito ha citato Cass. Sentenza n. 10916 del 07/08/2001: “In tema di risarcimento del
danno per le espressioni offensive contenute negli atti del processo, l’art. 89 cod. proc. civ. devolve al giudice del processo, cui gli atti si riferiscono, il giudizio circa l’applicazione in concreto delle sanzioni previste;
tuttavia - poiché la responsabilità processuale ha natura analoga a quella aquiliana, e, quindi, l’antigiuridicità
dei comportamenti non si esaurisce nell’ambito del processo - quando il procedimento, per qualsiasi motivo,
non si concluda con sentenza (come nel caso di estinzione del processo) ovvero quando i danni si manifestino in uno stadio processuale in cui non sia più possibile farli valere tempestivamente davanti al giudice
di merito (come nel caso in cui le frasi offensive siano contenute nella comparsa conclusionale del giudizio
di primo grado) ovvero quando la domanda sia avanzata nei confronti non della parte ma del suo difensore,
l’azione di danni per responsabilità processuale può essere proposta davanti al giudice competente secondo
le norme ordinarie; e correttamente ha affermato che ...la procedura esecutiva, nel corso della quale le frasi
denunciate sono state pronunciate....non solo non sfocia in una sentenza - che è il provvedimento con il
quale, ex art. 89 c.p.c. il Giudice dovrebbe pronunciare la condanna al risarcimento dei danni - ma neanche
è suscettibile di dare ingresso ad un’azione di responsabilità che dovrebbe configurarsi come fase incidentale
della stessa al di fuori delle ipotesi espressamente contemplate dal codice di rito...”.
È esattamente per tali ragioni che (integrando quanto già esposto nella predetta sentenza da questa Corte
Suprema) va enunciato il seguente principio di diritto: In tema di risarcimento del danno per le espressioni
offensive contenute negli atti del processo, l’art. 89 cod. proc. civ. devolve al giudice del processo, cui gli atti
si riferiscono, il giudizio circa l’applicazione in concreto delle sanzioni previste; tuttavia - poiché la responsabilità processuale ha natura analoga a quella aquiliana, e, quindi, l’antigiuridicità dei comportamenti non
si esaurisce nell’ambito del processo - l’azione di danni per responsabilità processuale può essere proposta
davanti al giudice competente secondo le norme ordinarie nei seguenti casi: - A) quando dette espressioni
siano contenute in atti del processo di esecuzione, che per tale sua natura non può avere per oggetto una
azione di cognizione e quindi destinata ad essere decisa con sentenza; - B) quando tali espressioni siano
contenute in atti di un processo di cognizione che però, per qualsiasi motivo, non si concluda con sentenza
(come nel caso di estinzione del processo); - C) quando i danni si manifestino in uno stadio processuale in
cui non sia più possibile farli valere tempestivamente davanti al giudice di merito (come nel caso in cui le
frasi offensive siano contenute nella comparsa conclusionale del giudizio di primo grado); - D) quando la
domanda sia avanzata nei confronti non della parte ma del suo difensore.
(omissis)
10.
Cass. civ. Sez. III, 22 giugno 2009, n. 14552
L’uso di espressioni sconvenienti od offensive negli atti difensivi obbliga la parte al risarcimento del danno
solo quando esse siano del tutto avulse dall’oggetto della lite, ma non anche quando, pur non essendo strettamente necessarie rispetto alle esigenze difensive, presentino tuttavia una qualche attinenza con l’oggetto
della controversia, e costituiscano perciò uno strumento per indirizzare la decisione del giudice.
Ai sensi dell’art. 89 c.p.c., deve essere condannata al risarcimento del danno morale, nei confronti del soggetto offeso, la parte processuale responsabile delle espressioni offensive contenute negli scritti difensivi
privi di nesso funzionale con l’oggetto della causa e con l’esercizio del diritto di difesa.
(omissis)
Con sentenza 12-26 gennaio 2005, la Corte d’Appello di Torino accoglieva in parte l’appello proposto da
M.M.E. avverso la decisione del Tribunale eporediese del 27 giugno - 1 luglio 2003, condannando la stessa a
pagare a titolo di risarcimento danni a M.M.P. la minor somma di Euro 10.000,00 quale indennizzo del danno
morale subito in conseguenza del fatto illecito descritto nell’atto di citazione.
La professoressa M.M.P., insegnante presso il liceo scientifico (OMISSIS) aveva chiesto, nell’atto introduttivo
del giudizio, la condanna della collega M.M.E. al risarcimento del danno, quantificato in L. duecento milioni,
per avere pronunciato nei suoi confronti, in più riprese, frasi diffamatorie.
Il primo giudice, riconosciuta la fondatezza della domanda attrice, condannava la M.M.E. al pagamento di
L. quaranta milioni, a titolo di danni morali, per le espressioni rivolte alla M.M. P. prima della causa, oltre al
pagamento di ulteriori L. 2.500.000, allo stesso titolo, per le espressioni offensive utilizzate in corso di causa
nei confronti della attrice M.M.P..
La Corte territoriale, accogliendo in parte l’appello della M. M.E., riduceva l’importo del risarcimento già riconosciuto dal Tribunale per le espressioni usate contro la M.M.P. prima della causa (lasciando ferma la con-
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danna ad ulteriori 2.500,00 Euro, a titolo di danno morale, per le espressioni formulate in corso di causa).
Avverso tale decisione la M.M.E. ha proposto ricorso per cassazione sorretto da cinque motivi Resiste la
M.M.P. con controricorso.
(omissis)
Con motivazione logica e adeguata i giudici di appello hanno esaminato le risultanze istruttorie ed hanno
concluso che la prof. M.M.E. aveva indubbiamente proferito le frasi addebitatele, che non vi era prova alcuna
che i fatti dalla stessa prospettati fossero veri, che la M.M.E. non aveva alcuna veste per esercitare forme
di controllo sulla attività della collega M.M.P. né per riferire agli allievi in ordine al rispetto, da parte della
M.M.P., della normativa in materia di assenze per malattia. Non vi era poi il pubblico interesse alla divulgazione delle notizie oggetto della comunicazione verbale in questione.
Era stato, infine, violato il canone di continenza formale, avendo la M.M.E. utilizzato espressioni maligne,
quali l’accostamento dei concetti di shopping a quello di depressione da un lato ed il ricorso alla sgradevole e
pesante accusa di “comprare con i voti” il consenso degli alunni, al fine di ottenere l’assoluzione nell’ambito
della indagine ispettiva originata dai contrasti all’interno del corpo insegnante della scuola e dalle lamentele
di una madre di una alunna.
Pertanto, la Corte territoriale ha ritenuto il carattere ingiurioso delle espressioni usate dalla prof. M.M.E.
prima della causa e nella comparsa di risposta di primo grado (qualificandolo secondo i parametri del torto
civile, ai sensi dell’art. 89 c.p.c. anziché della responsabilità da reato, come ritenuto dal primo giudice, che
le aveva ritenuto come una seconda e gratuita diffamazione).
Queste ultime espressioni, ha sottolineato la Corte Territoriale, non avevano alcun nesso funzionale con
l’oggetto della causa e si risolvevano solo in una offesa, basata, tra l’altro, su considerazioni valutative e
soggettive, prive di ogni nesso con le esigenze argomentative che avrebbero giustificato la invocazione del
diritto di difesa quale lecita causa scriminante.
In tal modo, i giudici di appello hanno dimostrato di conoscere e condividere interamente il consolidato insegnamento di questa Corte, per il quale: “Nel conflitto tra il diritto a svolgere la difesa giudiziale nel modo più
largo ed insindacabile ed il diritto della controparte al decoro ed all’onore, l’art. 89 cod. proc. civ. ha attribuito la prevalenza al primo, nel senso che l’offesa all’onore ed al decoro della controparte comporta l’obbligo
del risarcimento del danno nella sola ipotesi in cui le espressioni offensive non abbiano alcuna relazione con
l’esercizio del diritto di difesa.
Siffatto obbligo non sussiste, invece, nel caso in cui le suddette espressioni, pur non trovandosi in un rapporto di necessita con le esigenze della difesa, presentino, tuttavia, una qualche attinenza con l’oggetto della
controversia e costituiscano, pertanto, uno strumento per indirizzare la decisione del giudice e vincere la lite”.
(omissis)
11.
Cass. civ. Sez. III, 5 maggio 2009, n. 10288
La cancellazione delle espressioni offensive o sconvenienti contenute negli scritti difensivi, prevista dall’art.
89 c.p.c. e che può essere disposta anche nel giudizio di legittimità, rientrando tra i poteri officiosi del giudice, va esclusa allorquando le espressioni in parola non siano dettate da un passionale e scomposto intento
dispregiativo e non rivelino perciò un intento offensivo nei confronti della controparte (o dell’ufficio), ma,
conservando pur sempre un rapporto, anche indiretto, con la materia controversa, senza eccedere dalle
esigenze difensive, siano preordinate a dimostrare, attraverso una valutazione negativa del comportamento
dell’avversario, la scarsa attendibilità delle sue affermazioni. (Nella specie, poiché le espressioni ritenute
offensive erano dirette ad evidenziare le lacune del ricorso, la S.C. ne ha escluso l’intento dispregiativo,
considerandole come esercizio del diritto di difesa).
(omissis)
Non può essere accolta l’istanza formulata dal ricorrente nella memoria, volta ad ottenere la cancellazione di
alcune frasi contenute nella memoria della A & D s.n.c., perché non sussistono i presupposti richiesti dall’art.
89 c.p.c..
Al riguardo, secondo la giurisprudenza di questa Corte “La sussistenza dei presupposti per la cancellazione
di espressioni sconvenienti ed offensive contenute negli scritti difensivi, prevista dall’art. 89 cod. proc. civ. e
che può essere disposta anche nel giudizio di legittimità rientrando tra i poteri officiosi del giudice, va esclusa
allorquando le espressioni in parola non siano dettate da un passionale ed incomposto intento dispregiativo
e non rivelino perciò un intento offensivo nei confronti della controparte (o dell’ufficio), ma, conservando pur
sempre un rapporto, anche indiretto, con la materia controversa, senza eccedere dalle esigenze difensive,
siano preordinate a dimostrare, attraverso una valutazione negativa del comportamento dell’avversario, la
scarsa attendibilità delle sue affermazioni” (Cass. n. 12309 del 2004).
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Quindici anni di..."espressioni sconvenienti od offensive"
Nella specie le espressioni ritenute offensive sono dirette ad evidenziare lacune del ricorso e, quindi, non
sono espressione di intento dispregiativo, ma di esercizio del diritto di difesa.
(omissis)
12.
Cass. civ. Sez. III, 17 marzo 2009, n. 6439
La Corte di cassazione è competente ad ordinare, ai sensi dell’art. 89 cod. proc. civ. la cancellazione delle
espressioni sconvenienti ed offensive contenute nei soli scritti ad essa diretti, con la conseguenza che è
inammissibile il motivo del ricorso per cassazione con cui si chieda la cancellazione delle frasi del suddetto
tenore contenute nelle fasi processuali anteriori, essendo riservata la relativa statuizione al potere discrezionale del giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità. Per la stessa ragione non è proponibile per la
prima volta in cassazione la richiesta di risarcimento danni per responsabilità aggravata, prevista dall’art. 96
cod. proc. civ., quando venga riferita al comportamento delle parti tenuto nelle fasi precedenti del giudizio.
(omissis)
Quanto al primo motivo sì ribadisce che la Corte di Cassazione è competente ad ordinare a norma dell’art. 89
c.p.c. la cancellazione delle espressioni sconvenienti ed offensive contenute nei soli scritti ad essa diretti, onde
è inammissibile il motivo del ricorso per cassazione con cui si chieda la cancellazione delle frasi contenute nelle
difese presentate nelle fasi processuali anteriori, essendo riservata la relativa statuizione al potere discrezionale del giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità (sul punto, tra le altre Cass. n. 8304/1990).
Parimenti, con riferimento al secondo motivo del ricorso incidentale, la richiesta di risarcimento danni per
responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c. non è proponibile per la prima volta in Cassazione quando venga
riferita al comportamento tenuto dalla parte nelle fasi precedenti del giudizio (sul punto, tra le altre Cass.
n. 7100/1993).
(omissis)
13.
Cass. civ. Sez. I, 12 febbraio 2009, n. 3487
Il potere del giudice di merito di riferire alle autorità che esercitano il potere disciplinare sui difensori in caso
di violazione del dovere di comportarsi in giudizio con lealtà e probità, ovvero di ordinare la cancellazione
di espressioni sconvenienti ed offensive utilizzate negli scritti presentati o nei discorsi pronunciati davanti al
giudice, costituisce un potere valutativo discrezionale volto alla tutela di interessi diversi da quelli oggetto di
contesa tra le parti, ed il suo esercizio d’ufficio, presentando carattere ordinatorio e non decisorio, si sottrae
all’obbligo di motivazione e non è sindacabile in sede di legittimità.
(omissis)
Con il ricorso il F. deduce:
1. “Violazione e falsa applicazione di norme di diritto ( art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione agli artt. 88 e 89
c.p.c. applicabili d’ufficio)”.
Si duole che i giudici d’appello abbiano omesso di sanzionare d’ufficio, ai sensi degli artt. 88 e 89 c.p.c., le espressioni, che assume offensive, formulate dalla controparte negli atti d’appello e di primo grado, nei quali era stato
definito “ingordo, insaziabile, insensibile” nonché implicitamente rappresentato come inadeguato al suo ruolo
professionale, ed in particolare che abbiano: a. mancato di riferire tali reprensibili contegni del difensore alle
autorità che esercitano il potere disciplinare (Consiglio dell’Ordine ed Associazione Nazionale Forense); b. mancato di disporre la cancellazione delle frasi sconvenienti ed offensive e di assegnargli il ristoro del sofferto danno
anche non patrimoniale; c. violato il dovere di motivare sull’uso o meno della facoltà loro assegnata dalla legge.
Il motivo è inammissibile.
Sia il potere dovere del giudice, previsto per il caso di inosservanza da parte del difensore del dovere di lealtà
e probità, dall’art. 88 c.p.c., comma 2, di riferire i fatti all’autorità titolare del potere disciplinare, e sia l’emanazione delle disposizioni consentite dall’art. 89 c.p.c., ivi compreso l’ordine di cancellazione di espressioni
sconvenienti od offensive contenute negli scritti difensivi, integrano esercizio di potere valutativo discrezionale volto a tutela di interessi diversi da quelli oggetto di contesa tra le parti e sui quali il medesimo giudice
deve statuire per definire il procedimento; presentando, quindi, carattere non riconducibile all’ambito decisorio della lite ma indole ordinatoria, il loro mancato esercizio d’ufficio si sottrae all’obbligo di motivazione
e non è sindacabile in sede di legittimità (in tema, tra le altre, Cass. 200707731; 200412479; 200317547).
(omissis)
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14.
Cass. civ. Sez. I, 16 gennaio 2009, n. 1018
Il provvedimento di rigetto dell’istanza di cancellazione di espressioni sconvenienti ed offensive contenute
nella sentenza impugnata ha carattere ordinatorio e non incide sul merito della causa, al quale è anzi estraneo e, pertanto, non è suscettibile d’impugnazione con ricorso per cassazione.
(omissis)
È infine inammissibile la censura relativa al rigetto dell’istanza di cancellazione di frasi offensive contenute negli
scritti difensivi in quanto, con costante orientamento (Cass. n. 6660/2001, 5710/1998, 6121/1994, 8304/1990)
è stato affermato il principio che il provvedimento di rigetto dell’istanza di cancellazione di espressioni sconvenienti od offensive contenute nella sentenza impugnata ha carattere ordinatorio e non incide sul merito della
causa al quale è anzi estraneo e pertanto non è suscettibile di impugnazione con ricorso per cassazione.
(omissis)
15.
Cass. civ. Sez. III, 4 giugno 2007, n. 12952
La cancellazione delle espressioni sconvenienti ed offensive contenute negli scritti difensivi può essere disposta, ai sensi dell’art. 89, comma secondo, cod. proc. civ., anche nel giudizio di legittimità, con riferimento
alle frasi - che risultino, contrastanti con le esigenze dell’ambiente processuale e della funzione difensiva
nel cui ambito vengono formulate, oltre che offensive della persona per la controparte e del suo difensore contenute negli scritti depositati davanti alla Suprema Corte.
(omissis)
1. Osserva la Corte che giusta la testuale previsione di cui all’art. 89 c.p.c. “negli scritti presentati e nei
discorsi pronunciati davanti al giudice, le parti e i loro difensori non debbono usare espressioni sconvenienti
od offensive” (comma 1) e che “il giudice, in ogni stato dell’istruzione, può disporre con ordinanza che si
cancellino le espressioni sconvenienti od offensive” (comma 2, prima parte).
In conformità a costante giurisprudenza di questa Corte regolatrice, si osserva, al riguardo, ancora, che la
cancellazione di espressioni sconvenienti ed offensive contenute negli scritti difensivi può essere disposta,
ex art. 89 c.p.c. anche nel giudizio di legittimità, con riferimento alle frasi contenute negli scritti depositati
davanti alla Corte di Cassazione, rientrando essa nei poteri officiosi del giudice (Cass. 16 marzo 2005 n.
5677; Cass. 20 gennaio 2004, n. 805; Cass. 27 febbraio 2003, n. 2954).
Premesso quanto si evidenzia che parte controricorrente chiede, in limine, la cancellazione di molteplici
espressioni offensive contenute nel ricorso avversario.
In particolare delle seguenti espressioni:
- “fino al nuovo uso e produzione del falso infamante” (pag. 1).
“verbale di prima visita di collaudo in corso d’opera usato illegittimamente per scopi illegittimi in sede di
riassunzione del processo” (pag. 2):.
“... su richiesta del convenuto il quale come dimostrato nel documento 17 appello nelle more del rinvio il 26
luglio 1994 approfittando della illegittima separazione 13 dicembre 1993 e della relativa omissione 12 maggio 1994 infamava l’avv. V. anche nella causa r.g. 35304/90 consegnando di persona ....” (pag. 9);
- “... impostata dall’avv. S. B. in apertura della trattazione di questa specifica causa r.g. 35304/90 mediante
le offese calunniose contenute a pagina 4 rigo 4-5 .....” (pag. 10);
- “... che appunto secondo l’avv. S. B. sarebbe finalizzato a lucrare danni non esistenti e somme non dovute”
(pag. 10, alla fine del primo paragrafo del capitolo 5);
- “e più precisamente evidenziare i collegamenti tra il blocco di accuse infamanti mosse in sede civile
dall’avv. S. B. ...” (pag. 15):
“... e dai mandanti del convenuto P. ...” (pag. 15);
- “... la sostituzione nel processo ... viene realizzata il 10 gennaio 1990 mediante deposito del falso (26 aprile 1989) nella sua riassunzione Tribunale Roma r.g. 62108/89 in cui il convenuto seguita ad operare come
consulente dei coniugi C. ...”. (pag. 18, par. 78, punto c);
- “... e dei coniugi C. mandanti dell’Ingegner P.” con riferimento a pretesi reati di cui si parla nel paragrafo
(pag. 30, n. 147);
- “e più precisamente evidenziava i collegamenti tra il blocco di accuse infamante mosse in sede civile (in
questo caso dall’avv. S.B.)”. (pag. 33, par. 165);
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Quindici anni di..."espressioni sconvenienti od offensive"
- “e compreso nella falsità 26 aprile 1989 dell’Ingegner P. ...”(pag. 36, par. 179).
Premesso quanto sopra non può dubitarsi che le espressioni sopra trascritte siano non solo “sconvenienti”,
in quanto in contrasto con le esigenze dell’ambiente processuale e della funzione difensiva nel cui ambito
essere vengono formulate (cfr. Cass. 18 novembre 2000, n. 14942), ma anche offensive, per essere, sistematicamente lesive della persona del controricorrente e del suo difensore.
Deve, per l’effetto, ordinarsi la cancellazione delle espressioni sopra trascritte.
(omissis)
16.
Cass. civ. Sez. lavoro, 29 marzo 2007, n. 7731
L’apprezzamento del giudice di merito sul carattere sconveniente od offensivo delle espressioni contenute
nelle difese delle parti e sulla loro estraneità all’oggetto della lite, nonché l’emanazione o meno dell’ordine di
cancellazione delle medesime, a norma dell’art. 89 cod. proc. civ., integrano esercizio di potere discrezionale
non censurabile in sede di legittimità.
(omissis)
6. Con l’ultimo motivo si denunciano i vizi di violazione dell’art. 89 c.p.c. e difetto di motivazione in ordine al
mancato accoglimento della richiesta di cancellazione di frasi ritenute offensive contenute negli atti difensivi
della controparte e di condanna della stessa al risarcimento dei danni.
La censura è inammissibile, atteso che secondo la costante giurisprudenza l’apprezzamento del giudice di
merito sul carattere sconveniente od offensivo delle espressioni contenute nelle difese delle parti e sulla loro
estraneità all’oggetto della lite, nonché l’emanazione o meno dell’ordine di cancellazione delle medesime, a
norma dell’art. 89 c.p.c. integrano esercizio di potere discrezionale non censurabile in sede di legittimità (v.
per tutte Cass. 8 gennaio 2003 n. 73, 26 marzo 2004 n. 6077).
(omissis)
17.
Cass. civ. Sez. III, 2 marzo 2007, n. 4963
Il carattere discrezionale del potere di cancellazione delle espressioni sconvenienti o offensive, di cui all’art.
89 cod. proc. civ., impedisce che il suo mancato esercizio da parte del giudice di merito possa essere censurato in sede di legittimità. (Rigetta, App. Milano, 7 Gennaio 2003)
(omissis)
Con il terzo motivo il ricorrente denuncia violazione dell’art. 2909 c.c. e art. 89 c.p.c. nonché vizi di motivazione, censurando la corte di merito per avere riformato “in toto” la sentenza di primo grado, ignorando la
statuizione di cancellazione di alcune espressioni emessa ai sensi dell’art. 89 c.p.c.
Il motivo è privo di fondamento.
Va rilevato in proposito che la cancellazione delle espressioni sconvenienti o offensive può essere chiesta
dalla parte o disposta dal giudice di ufficio; sia nell’uno che nell’altro caso costituisce espressione di potere
discrezionale il cui esercizio è sindacabile nel giudizio di merito, ma non lo è in sede di legittimità (Cass.
8.1.2001, n. 143; Cass. 26.10.2000, n. 14139).
Anche quando, come nella specie, sia contenuto nella sentenza, il provvedimento di cancellazione ha carattere ordinatorio non incidente ed anzi avulso dal merito della causa, per cui è insuscettibile di formare
oggetto di giudicato.
(omissis)
18.
Cass. civ. Sez. lavoro, 26 gennaio 2007, n. 1757
L’eventuale presenza di frasi sconvenienti ed offensive negli scritti difensivi, quali la memoria difensiva in
un giudizio civile, trova la sua disciplina nell’art. 89 Cod. Proc. Civ. (ordine di cancellazione ed eventuale
risarcimento del danno) e nell’art. 598 Cod. Pen. (secondo cui non sono punibili le offese contenute negli
scritti presentati in occasione di procedimenti dinanzi all’Autorità Giudiziaria), il quale costituisce applicazione
estensiva della scriminante posta dall’art. 51 Cod. Pen. (esercizio di un diritto o adempimento di un dovere),
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Lessico di diritto di famiglia
Quindici anni di..."espressioni sconvenienti od offensive"
cosicché in nessun modo, seppure sotto il profilo del giustificato motivo soggettivo, dette espressioni possono
essere allegate come idonee a ledere di per sé il vincolo fiduciario ed essere poste a fondamento di un licenziamento per giusta causa (nella specie, la Cassazione conferma l’impugnata sentenza che aveva ravvisato
questa idoneità nei fatti menzionati nella memoria, già oggetto di giudicato, di cui la banca non si era doluta
in quella sede di giudizio).
(omissis)
Con il terzo motivo la banca denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art 89 c.p.c. nonché dell’art.
1175 c.c. in correlazione con l’art. 2 Cost., nonché vizio di motivazione. La cancellazione delle frasi offensive dagli atti difensivi è un rimedio a se stante e non elimina l’incidenza sul vincolo fiduciario che connota il
rapporto di lavoro.
(omissis)
2. Il ricorso - i cui quattro motivi possono essere esaminati congiuntamente è infondato.
Correttamente i giudici di merito hanno escluso la sussistenza della giusta causa che la ricorrente pretende
di identificare nel contenuto della memoria difensiva depositata dalla difesa del lavoratore resistente nel
giudizio instaurato dalla banca innanzi al Pretore di Padova, di cui in narrativa.
La memoria difensiva è atto riferibile alla difesa tecnica e quindi innanzi tutto al difensore, ancorché - come
nella specie - risulti sottoscritta anche dalla stessa parte personalmente. L’eventuale presenza in essa di
frasi sconvenienti o offensive trova la sua disciplina nell’art. 89 c.p.c. che - dopo aver prescritto in generale
che negli scritti presentati e nei discorsi pronunciati davanti al giudice, le parti e i loro difensori non debbono
usare espressioni sconvenienti od offensive - prevede che il giudice, in ogni stato dell’istruzione, può disporre con ordinanza che si cancellino le espressioni sconvenienti od offensive, e, con la sentenza che decide la
causa, può inoltre assegnare alla persona offesa una somma a titolo di risarcimento del danno anche non
patrimoniale sofferto, quando le espressioni offensive non riguardano l’oggetto della causa.
È rilevante altresì nella fattispecie l’art. 598 c.p. che prevede che non sono punibili le offese contenute negli
scritti presentati o nei discorsi pronunciati dalle parti o dai loro patrocinatori nei procedimenti dinanzi all’Autorità giudiziaria, ovvero dinanzi a un’Autorità amministrativa, quando le offese concernono l’oggetto della
causa o del ricorso amministrativo. Ed in proposito questa Corte (Cass., sez. 5^, 21 settembre 2004) ha
affermato che l’esimente di cui all’art. 598 c.p. in base al quale non sono punibili le offese contenute negli
scritti presentati nei discorsi pronunziati dalle parti o dai loro patrocinatori innanzi all’autorità giudiziaria,
costituisce applicazione estensiva del più generale principio posto dall’art. 51 c.p. (esercizio di un diritto o
adempimento di un dovere) ed è applicabile anche alle offese contenute nell’atto di citazione, sempre che le
stesse riguardino l’oggetto della causa in modo diretto ed immediato.
L’esercizio del diritto di difesa, nella specie estrinsecatosi nella suddetta memoria del dipendente resistente
nel giudizio innanzi al Pretore di Padova, ha comunque carattere scriminante.
Quindi in alcun modo, neppure sotto il profilo del giustificato motivo soggettivo, le ritenute allusioni offensive
contenute nella memoria suddetta potevano essere allegate dalla banca come idonee a ledere di per se il
vincolo fiduciario con il dipendente; laddove - come bene osserva l’impugnata sentenza - questa idoneità
forse avrebbe potuto avere il riferimento diretto ai fatti menzionati nella memoria, ossia al non meglio chiarito ruolo del dipendente nella vicenda penale che lo ha coinvolto nella misura in cui la condotta contestata
attenesse proprio alla correttezza dello svolgimento dell’attività lavorativa. Ma di ciò in realtà la banca non si
è doluta, preferendo affidare la ritenuta legittimità dell’intimato licenziamento al dato formale del carattere
offensivo della memoria difensiva suddetta.
3. Il ricorso va quindi rigettato.
(omissis)
19.
Cass. civ. Sez. II, 29 novembre 2006, n. 25250
Anche nel giudizio di cassazione è applicabile la disposizione di cui all’art. 89 cod. proc. civ. che conferisce al
giudice il potere di disporre la cancellazione delle espressioni riportate negli scritti difensivi qualora le stesse,
eccedendo palesemente i limiti di una corretta e decorosa manifestazione di dissenso verso le decisioni dei
giudici di merito, siano sconvenienti ed offensive nei confronti dei destinatari, così integrando un abuso del
diritto di difesa della parte.
(omissis)
Preliminarmente, va rilevato che il ricorso, a pagina quattro, a premessa dei motivi, espone che “una componente della Sezione che ha deciso la causa in appello è parente della C.I. (è nipote), mentre un altro dei
convenuti è marito della sorella; inoltre la sentenza di 1^ grado è stata pronunciata dal tribunale di C., ove
la citata Consigliere è nata e residente”.
Gianfranco Dosi
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Lessico di diritto di famiglia
Quindici anni di..."espressioni sconvenienti od offensive"
La memoria depositata dal ricorrente, poi, a pag. 17, espone che “La causa in argomento, interessata da
due abnormi giudizi avvenuti presso il tribunale di C. il cui giudice Gu. è stato corrotto dalla controparte e
per mia ed altra denuncia definitivamente estromesso dal suo compito presso la magistratura. Lo stesso fu
denunciato al CSM. Nel tribunale di G. il tutto è avvenuto in una sezione ove consigliere è risultata (tale Ge.)
collegata alla controparte in quanto: Sorella di una parte in causa, cognata di una altra e nipote di una terza.
Chiamata avanti il CSM si è difesa sostenendo CHE NEANCHE LO SAPEVA”.
Tali espressioni, che palesemente eccedono i limiti di una corretta e decorosa manifestazione di dissenso
verso le decisioni rese dai giudici di merito sulla controversia in oggetto, sono sconvenienti, ed offensive
nei confronti dei destinatari, integrando in tal modo un abuso del diritto di difesa della parte, da emendarsi
attraverso un provvedimento di cancellazione, ai sensi dell’art. 89 c.p.c. applicabile anche al giudizio di legittimità (v. ex plurimis Cass. n. 5677/05 e n. 2954/03).
La genericità della notizia criminis, manifestata nelle anzidette espressioni, e la denuncia dell’accaduto, che il
ricorrente deduce presentata a suo tempo, escludono la necessità di rapporto all’autorità giudiziaria penale.
(omissis)
20.
Cass. civ. Sez. III, 16 marzo 2005, n. 5677
La disposizione dell’art. 89 c.p.c., secondo comma, dettata in tema di poteri del giudice di ordinare la cancellazione delle espressioni sconvenienti o offensive dagli scritti difensivi è applicabile anche in sede di giudizio
di legittimità, con riferimento alle frasi contenute negli scritti depositati davanti alla Corte di Cassazione,
e l’apprezzamento circa l’effettivo rapporto tra le espressioni usate e l’oggetto della causa non dipende
dall’istanza della parte (che costituisce non una domanda giudiziale, ma una semplice sollecitazione all’esercizio di un potere officioso del giudice, strumentale all’obbligo delle parti di comportarsi in giudizio secondo
modelli di lealtà e probità).
(omissis)
Provvedendo, infine, sulla richiesta del ricorrente principale di cancellazione, ex art. 89 cod. proc. civ. delle
espressioni, contenute nel controricorso, che considera sconvenienti o offensive nei suoi confronti, osserva
questa Corte che alla cancellazione deve provvedersi anche nel giudizio di legittimità, con riferimento alle
frasi contenute negli scritti depositati davanti alla Corte di Cassazione (Cass., n. 2954/2003); che l’apprezzamento circa l’effettivo rapporto tra le espressioni usate e l’oggetto della causa non dipende dall’istanza della
parte, che costituisce non una domanda giudiziale ma una semplice sollecitazione all’esercizio di un potere
officioso del giudice, strumentale all’obbligo delle parti di comportarsi in giudizio con lealtà e probità (Cass.,
n. 15530/2002); che l’offensività e la sconvenienza delle espressioni usate in scritti difensivi costituiscono
nozioni distinte, e la seconda non riguarda la lesività del valore e dei meriti di qualcuno, ma un pregiudizio
di grado minore, inerente al contrasto delle espressioni con le esigenze dell’ambiente processuale e della
funzione difensiva, che non deve scadere ad inopportune grossolanità e deve essere rispettosa del decoro
essenziale alla sede ed alla funzione svolta (Cass., n. 9707/”003); che la sussistenza dei presupposti per il
risarcimento del danno, di cui all’art. 89 cod. proc. civ. il cui riconoscimento costituisce, peraltro, esercizio
di un potere discrezionale, va esclusa se le espressioni contenute negli scritti difensivi non sono dettate da
un passionale e incomposto intento dispregiativo e non rivelano, perciò, un intento offensivo nei confronti
della controparte, ma, conservando pur sempre un rapporto, anche indiretto, con la materia controversa,
senza eccedere dalle esigenze difensive, sono preordinate a dimostrare, attraverso una valutazione negativa
del comportamento della controparte, la scarsa attendibilità delle sue affermazioni (Cass., n. 11053/2002).
Tanto premesso, reputa il Collegio che debbono certamente considerarsi sconvenienti le espressioni usate
dal resistente A. nel controricorso, alla pagina 15, nei righi da 17 a 22, nella parte che inizia con le parole
“che v’è da” e termina con le parole “non usuale”.
Di dette parole, pertanto, va ordinata la cancellazione, senza, però, l’adozione di altro provvedimento in
ordine al risarcimento del danno, poiché quelle eliminate costituiscono espressioni soltanto sconvenienti, con
le quali il difensore, piuttosto che manifestare un intento offensivo, faceva scadere la sua difesa ad accenti
inopportuni e gratuiti, dei quali il ricorrente più di tanto non sembra essersi doluto.
(omissis)
21.
Cass. civ. Sez. lavoro, 22 febbraio 2005, n. 3525
La cancellazione delle espressioni offensive o sconvenienti, che può essere disposta anche nel corso del
giudizio di legittimità, “ex” art. 89 c.p.c., va esclusa allorché l’uso di tali espressioni non risulti dettato da un
passionale e incomposto intento dispregiativo, rivelando un intento offensivo nei confronti della controparte,
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Lessico di diritto di famiglia
Quindici anni di..."espressioni sconvenienti od offensive"
ma, conservando pur sempre un rapporto, anche indiretto, con la materia controversa, senza eccedere dalle
esigenze difensive, sia preordinate a dimostrare, attraverso una valutazione negativa del comportamento
della controparte, la scarsa attendibilità delle sue affermazioni.
(omissis)
2.5. Non ricorrono gli estremi di cui all’art. 89 c.p.c. perchè questa Corte ordini la cancellazione, richiesta
dall’INPS, nel controricorso proposto nei confronti della società, delle espressioni usate a pag. 13 del ricorso
per Cassazione, e precisamente della seguente frase “Giova ribadirlo in questa sede, l’INPS ha inventato un
credito, lo ha poi addato al caso che qui ci occupa e non avendo dove potersi appoggiare non ha trovato di
meglio che ricorrere all’istituto dello straordinario in nero ...”.
Osservato, invero, che la cancellazione di espressioni sconvenienti ed offensive contenute negli scritti difensivi
può essere disposta, ex art. 89 c.p.c. anche nel giudizio di legittimità, rientrando essa nei poteri officiosi del
giudice (Cass. n. 9946/2001), va rilevato, peraltro, che la frase de qua non integra l’uso delle predette espressioni sconvenienti ed offensive, perché essa non è dettata da un passionale e incomposto intento dispregiativo
e non rivela perciò un intento offensivo nei confronti della controparte, ma, conservando pur sempre un rapporto, anche indiretto, con la materia controversa, senza eccedere dalle esigenze difensive, è preordinata a
dimostrare, attraverso una valutazione negativa del comportamento della controparte, la scarsa attendibilità
delle sue affermazioni (Cass. n. 11063/2002). La relativa richiesta dell’INPS va pertanto rigettata.
(omissis)
22.
Cass. civ. Sez. III, 16 dicembre 2004, n. 23440
Il provvedimento di rigetto dell’istanza di cancellazione di espressioni ritenute sconvenienti od offensive
contenute negli scritti delle parti e sindacabile in cassazione solo per difetto di motivazione ai sensi dell’art.
360 c.p.c., n. 5.
(omissis)
4. Con il terzo motivo il ricorrente principale deduce il difetto di motivazione della sentenza impugnata,
lamentando la compensazione delle spese nei confronti di Alberto Cozzari e la ritenuta mancanza dei presupposti per la ritenuta condanna ex art. 89 c.p.c..
Anche questo motivo è infondato.
Il carattere discrezionale del potere di cancellazione delle espressioni sconvenienti o offensive, di cui all’art.
89 c.p.c., impedisce che il suo mancato esercizio da parte del giudice di merito possa essere censurato in
sede di legittimità (v. per es. Cass. 19 novembre 2003, n. 17547; Cass. 27 febbraio 2003, n. 2954; Cass. 8
dicembre 2003, n. 73; Cass. 5 novembre 2002, n. 15503).
Il provvedimento di rigetto dell’istanza di cancellazione di espressioni ritenute sconvenienti od offensive
contenute negli scritti delle parti è sindacabile in Cassazione solo per difetto di motivazione ai sensi dell’art.
360 n 5 c.p.c. (Cass. 17 febbraio 1981, n. 950; Cass. 9 giugno 1989, n. 2784.
Il Tribunale, nel rigettare l’istanza di cancellazione, ha ritenuto insussistenti i presupposti di cui all’art. 89
c.p.c., rilevando in particolare che la richiesta del De Cesare era generica e, comunque, non giustificata da
obiettivi abusi del diritto di difesa.
Trattasi di una motivazione che per quanto sintetica lascia chiaramente intendere che la valutazione del
Tribunale è stata nel senso di escludere il carattere offensivo delle espressioni utilizzata nella comparsa di
costituzione del Cozzari. Peraltro, la ratio decidendi con la quale si rigettava l’istanza per la genericità della
doglianza non è stata contestata e non si è neppure indicato in questa sede quale sarebbe stata l’espressione
sconveniente o offensiva.
(omissis)
23.
Cass. civ. Sez. III, 13 luglio 2004, n. 12902
L’ordine, contenuto nella sentenza di secondo grado, di cancellazione di alcune parti della comparsa conclusione dell’appellante, ritenute offensive, esprime l’esercizio di un potere discrezionale, esercitabile anche
d’ufficio, riconosciuto al giudice in via generale dall’art. 89 c.p.c., ed incensurabile in sede di legittimità,
essendo preclusa alla Corte di Cassazione una nuova valutazione dei fatti.
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Quindici anni di..."espressioni sconvenienti od offensive"
(omissis)
Assume il ricorrente incidentale, infatti, che nel corso del giudizio di appello e, in particolare, dell’udienza
dell’11 ottobre 2000 l’avvocato L. ha depositato note scritte dalle quali emergeva un ulteriore contenuto
ingiurioso “immediatamente contestato dall’avv. F., ancora una volta offeso dall’atteggiamento e dai termini
adoperati dal collega” il quale con istanza a verbale aveva sollecitato l’adozione dei provvedimenti di cui agli
artt. 88 e 89 c.p.c.
I giudici di secondo grado, conclude il ricorrente incidentale, non hanno provveduto sulle istanze in questione
e “la pronuncia del tribunale si è rilevata ancora lesiva dei costituzionali diritti dello scrivente Professionista,
attraverso una mortificante condanna a lire dieci milioni, nonostante la estrema gravita delle situazioni e la
stessa risalenza della originaria memoria (1992), in correlazione pure col perdurare delle violazioni addirittura sino all’udienza di discussione”.
7. Così puntualizzate le posizioni hinc inde osserva la Corte che mentre il primo e il secondo motivo del
ricorso principale sono fondati e, nei limiti di cui appresso, meritevoli di accoglimento, il ricorso incidentale,
infondato, deve essere rigettato. Alla luce delle considerazioni che seguono.
Dispone l’art. 89, comma 1, c.p.c. che “negli scritti presentati e nei discorsi pronunciati davanti al giudice, le
parti e i loro difensori non debbono usare espressioni sconvenienti od offensive” (comma 1).
“Il giudice, in ogni stato dell’istruzione - prevede, ancora, il comma 2 della stessa disposizione - può disporre
con ordinanza che si cancellino le espressioni sconvenienti od offensive, e, con la sentenza che decide la
causa, può inoltre assegnare alla persona offesa una somma a titolo di risarcimento del danno anche non
patrimoniale sofferto, quando le espressioni offensive non riguardano l’oggetto della causa”.
La norma sopra trascritta - contrariamente a quanto suppongono sia la sentenza in questa sede gravata, sia
la difesa del ricorrente incidentale - è interpretata da una giurisprudenza assolutamente pacifica di questa
Corte regolatrice nel senso, da un lato, che “il giudice” investito del potere “in ogni stato dell’istruzione” di
ordinare la cancellazione delle espressioni sconvenienti e offensive e, quindi, “nella sentenza che decide la
causa” di assegnare alla persona offesa una somma a titolo di risarcimento è unicamente il giudice innanzi
al quale sono presentati gli scritti o pronunciati discorsi, dall’altro che trattandosi, nella specie, di un potere
discrezionale, esercitabile come tale anche d’ufficio, il suo uso (o, eventualmente, il rigetto della richiesta o,
anche il silenzio serbato al riguardo dal giudice del merito) è incensurabile in cassazione, essendo preclusa
nel giudizio di legittimità una nuova valutazione di quei fatti (da ultimo, nel senso che il provvedimento di
accoglimento o di rigetto dell’istanza di cancellazione di espressioni sconvenienti o offensive contenute nella
sentenza impugnata ha carattere ordinatorio e non incide sul merito della causa, al quale è, anzi, estraneo,
e, pertanto, non è suscettibile di impugnazione con ricorso per Cassazione, Cass. 15 aprile 2004, n. 7169,
specie in motivazione. Sempre nello stesso senso, altresì Cass. 27 febbraio 2003, n. 2954; Cass. 5 novembre
2002, n. 15053; Cass. 26 luglio 2002, n. 11063; Cass. 7 agosto 2001, n. 10916, tra le tantissime).
Applicando i principi sopra riassunti - come osservato sopra assolutamente incontroversi in giurisprudenza
- al caso di specie è palese, in limine, che il ricorso incidentale, nella parte in cui la sentenza gravata viene
censurata perché non sono state oggetto di provvedimenti ex art. 89 molteplici espressioni contenute in uno
scritto depositato nel corso dell’udienza l’11 ottobre 2000 deve essere rigettato.
La circostanza, infatti, che il tribunale, pur in presenza di una espressa sollecitazione ad opera dell’avv. F.,
verbalizzata nel corso dell’udienza dell’11 ottobre 2000, abbia ritenuto di non adottare, al riguardo, alcun
provvedimento in margine al documento di cui il difensore di controparte aveva dato lettura, depositandolo,
non può costituire violazione del precetto di cui all’art. 112 c.p.c. (circa l’obbligo della corrispondenza tra il
“chiesto” e il “pronunciato”), ne’, per ipotesi, come pure, del tutto immotivamente si deduce in ricorso, vizio
della motivazione della sentenza gravata rilevante sotto il profilo di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c., ma, come
evidenziato sopra, esercizio di un potere discrezionale, insindacabile nei gradi successivi del giudizio.
(omissis)
24.
Cass. civ. Sez. II, 7 luglio 2004, n. 12479
La valutazione da parte del giudice di merito sul carattere sconveniente o offensivo di espressioni contenute
nelle difese delle parti e sulla loro estraneità all’oggetto della lite, nonché l’emanazione o meno dell’ordine
di cancellazione delle medesime a norma dell’art. 89 c.p.c. integrano esercizio di potere discrezionale, non
censurabile in sede di legittimità, e l’istanza volta alla cancellazione costituisce una mera sollecitazione per
l’applicazione dell’anzidetto potere discrezionale, sicché l’omesso esame di essa non può formare oggetto di
impugnazione in sede di legittimità.
(omissis)
Gianfranco Dosi
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Lessico di diritto di famiglia
Quindici anni di..."espressioni sconvenienti od offensive"
Con il quarto motivo il Vitamia denuncia violazione dell’articolo 89 c.p.c. e vizi di motivazione per aver la
corte di appello omesso di esaminare la richiesta formulata da esso ricorrente relativa alla cancellazione di
espressioni sconvenienti ed offensive contenute negli scritti difensivi degli attori-appellanti.
Anche questo motivo, al pari degli altri, è infondato dovendosi al riguardo confermare il principio affermato
da questa Corte secondo cui l’apprezzamento del giudice del merito sul carattere sconveniente ed offensivo
di espressioni contenute nelle difese delle parti e sulla loro estraneità all’oggetto della lite, nonché l’emanazione o meno dell’ordine di cancellazione delle medesime a norma dell’art. 89 c.p.c., integrano esercizio di
potere discrezionale non censurabile in sede di legittimità. L’istanza per la detta cancellazione costituisce una
mera sollecitazione per l’applicazione del detto potere discrezionale sicché l’omesso esame di essa non può
formare oggetto di impugnazione in sede di legittimità (nei sensi suddetti, tra le tante, sentenze 8/1/2001
n. 143; 12/9/2000 n. 12035; 3/11/1994 n. 9040).
(omissis)
25.
Cass. civ. Sez. I, 6 luglio 2004, n. 12309
La sussistenza dei presupposti per la cancellazione di espressioni sconvenienti ed offensive contenute negli
scritti difensivi, prevista dall’art. 89 c.p.c. e che può essere disposta anche nel giudizio di legittimità rientrando tra i poteri officiosi del giudice, va esclusa allorquando le espressioni in parola non siano dettate da
un passionale e scomposto intento dispregiativo e non rivelino perciò un intento offensivo nei confronti della
controparte (o dell’ufficio), ma, conservando pur sempre un rapporto, anche indiretto, con la materia controversa, senza eccedere dalle esigenze difensive, siano preordinate a dimostrare, attraverso una valutazione
negativa del comportamento dell’avversario, la scarsa attendibilità delle sue affermazioni. (Nella fattispecie
la S.C. ha ritenuto che non esulassero dalla materia del contendere e dalle esigenze difensive le espressioni:
“La Corte sembra aver dato credito unicamente alle suggestioni create dall’atto di appello incidentale, alle
affermazioni ivi contenute, non provate, spesso assurde e addirittura al limite del mero pettegolezzo”).
(omissis)
Circa, infine, le censure sopra riportate alla lettera c), si osserva:
1) che deve in primo luogo essere disattesa la richiesta di cancellazione avanzata dal controricorrente relativamente alla frase, quale si legge alla pagina 8 del ricorso, là dove recita: “ La Corte sembra aver dato
credito unicamente alle suggestioni create dall’atto di appello incidentale del (omissis) alle affermazioni
ivi contenute (non provate, spesso assurde e addirittura al limite del mero pettegolezzo)...”, dovendo al
riguardo trovare applicazione il principio secondo cui la sussistenza dei presupposti per la cancellazione
di espressioni sconvenienti ed offensive contenute negli scritti difensivi, prevista dall’art. 89 c.p.c. e che
può essere disposta anche nel giudizio di legittimità rientrando tra i poteri officiosi del giudice, va esclusa
allorquando le espressioni in parola, come nella specie, non siano dettate da un passionale ed incomposto
intento dispregiativo e non rivelino perciò un intento offensivo nei confronti della controparte (o dell’ufficio),
ma, conservando pur sempre un rapporto, anche indiretto, con la materia controversa, senza eccedere dalle
esigenze difensive, siano preordinate a dimostrare, attraverso una valutazione negativa del comportamento
dell’avversario, la scarsa attendibilità delle sue affermazioni (Cass. 26 luglio 2002, n. 11063; Cass. 20 gennaio 2004, n. 805);
(omissis)
26.
Cass. civ. Sez. III, 15 aprile 2004, n. 7169
Il provvedimento di accoglimento o di rigetto dell’istanza di cancellazione di espressioni sconvenienti od offensive contenute nella sentenza impugnata, ha carattere ordinatorio e non incide sul merito della causa, al
quale è, anzi, estraneo, e, pertanto, non è suscettibile di impugnazione con ricorso per cassazione.
(omissis)
Il quinto motivo (violazione art. 89 c.p.c.) censura la sentenza per avere disposto la cancellazione della frase
“... caratterizzato da un comportamento di colui che vuole fare il furbo”; frase che la ricorrente ritiene non
avere i requisiti di sconvenienza ed offensivita’.
I motivi, che possono essere congiuntamente esaminati, vanno tutti respinti.
(omissis)
Quanto, infine, al quinto motivo, basti dire che il provvedimento di accoglimento o di rigetto dell’istanza
di cancellazione di espressioni sconvenienti od offensive contenute nella sentenza impugnata, ha carattere
Gianfranco Dosi
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Lessico di diritto di famiglia
Quindici anni di..."espressioni sconvenienti od offensive"
ordinatorio e non incide sul merito della causa (al quale è anzi estraneo) e, pertanto, non è suscettibile di
impugnazione con ricorso per Cassazione (tra le varie, cfr. Cass. 27 febbraio 2003 n. 2954; 15 maggio 2001
n. 6660; 30 marzo 2001, n. 4742).
(omissis)
27.
Cass. civ. Sez. I, 28 marzo 2004, n. 6077
L’ordine, contenuto nella sentenza di secondo grado, di cancellazione di alcune parti degli scritti difensivi,
ritenute offensive, esprime l’esercizio di un potere discrezionale, esercitabile anche d’ufficio, riconosciuto al
giudice in via generale dall’art. 89 c.p.c., ed incensurabile in sede di legittimità - anche nel caso di motivazione sintetica, riferita cioè all’indicazione delle sole espressioni da censurare, essendo preclusa alla Corte di
Cassazione una nuova valutazione dei fatti.
(omissis)
Il secondo motivo di ricorso principale è inammissibile.
L’art. 89 c.p.c. in quanto norma volta a presidiare il corretto svolgimento del processo, si applica non solo
nei confronti delle parti ma anche di tutti i soggetti coinvolti nel giudizio, per cui lo stesso trova applicazione
anche nei confronti delle espressioni irriguardose nei confronti dei giudici al di la’ delle esigenze di critica.
(Cass. 5991/79) e, in tal senso, può essere disposta la cancellazione anche per le frasi contenute negli scritti
difensivi che qualificano le considerazioni della sentenza impugnata con espressioni eccedenti i limiti della
corretta e decorosa manifestazione del dissenso verso il procedimento impugnato (Cass. 3326/82).
Ciò premesso, la giurisprudenza di questa Corte ha costantemente affermato che l’ordine, contenuto nella
sentenza di secondo grado, di cancellazione di alcune parti dell’atto di appello, ritenute offensive, esprime
l’esercizio di un potere discrezionale, esercitabile anche di ufficio, riconosciuto al giudice in via generale
dall’art. 89 c.p.c..
civ., ed incensurabile in sede di legittimità, anche nel caso - come quello di specie di motivazione sintetica,
riferita, cioè, alla indicazione delle sole espressioni da censurare. (Cass. 4742/2001 Cass. 4651/90).
Da ciò consegue che è inammissibile il motivo del ricorso per Cassazione rivolto contro quella parte della
sentenza impugnata che ha disposto la cancellazione negli scritti difensivi delle espressioni ritenute ingiuriose, in quanto la censura si risolve nella richiesta di una nuova valutazione dei fatti, esclusa nel giudizio per
Cassazione. (Cass. 10801/00.) Si compensano le spese di giudizio in ragione della reciproca soccombenza.
(omissis)
28.
Cass. civ. Sez. I, 20 gennaio 2004, n. 805
La sussistenza dei presupposti per la cancellazione di espressioni sconvenienti ed offensive contenute negli
scritti difensivi prevista dall’art. 89 c.p.c., che può essere disposta anche nel giudizio di legittimità, rientrando fra i poteri officiosi del giudice, va esclusa allorquando le espressioni contenute negli scritti difensivi non
siano dettate da un passionale e scomposto intento dispregiativo e non rivelino perciò un intento offensivo
nei confronti della controparte, ma, conservando pur sempre un rapporto, anche indiretto, con la materia
controversa, senza eccedere dalla esigenze difensive, siano preordinate a dimostrare, attraverso una valutazione negativa del comportamento della controparte, la scarsa attendibilità delle sue tesi e affermazioni.
(Nella fattispecie, la S.C. ha ritenuto che non esulassero dalla materia del contendere e dalle esigenze
difensive le espressioni: “un’incredibile persecuzione giudiziaria”, “persecuzione”, “invenzioni processuali”,
“tendenziose”, “abili manovre”, “gratuite affermazioni”, “frode”).
(omissis)
4. La ricorrente ha chiesto che la Corte di Cassazione disponga, ai sensi dell’art. 89 c.p.c. la cancellazione di
alcune frasi contenute nel controricorso di F.B. e della B. s.p.a.
La richiesta deve essere disattesa. Sebbene, infatti, la cancellazione dì espressioni sconvenienti ed offensive
contenute negli scritti difensivi possa essere disposta anche nel giudizio dì legittimità, rientrando essa nei
poteri officiosi del giudice (Cass. 21 luglio 2001, n. 9946), la sussistenza dei presupposti per la cancellazione
deve essere esclusa quando le espressioni contenute negli scritti difensivi non siano dettate da un passionale
e incomposto intento dispregiativo e non rivelino perciò una finalità offensiva nei confronti della controparte
ma, conservando pur sempre un rapporto, anche indiretto, con la materia controversa, senza eccedere dalle
esigenze difensive, siano preordinate a dimostrare, attraverso una valutazione negativa del comportamento
della controparte, la scarsa attendibilità delle sue tesi e affermazioni (cfr. in argomento, tra le altre, Cass.
Gianfranco Dosi
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Lessico di diritto di famiglia
Quindici anni di..."espressioni sconvenienti od offensive"
26 luglio 2002, n. 11063; Casa. 4 agosto 1999, n. 8411), laddove nella specie le frasi di cui è stata chiesta
la cancellazione (“un’incredibile persecuzione giudiziaria”; “persecuzione”; “invenzioni processuali”; “tendenziose”; “abili manovre”; “gratuite affermazioni”; “frode”) sicuramente non esulano dalla materia del
contendere e dalle esigenze difensive.
(omissis)
29.
Cass. civ. Sez. I, 19 novembre 2003, n. 17547
Il provvedimento con il quale il giudice decide la cancellazione di espressioni sconvenienti od offensive contenute negli scritti difensivi ( art. 89, c.p.c.), in considerazione della forma per esso prevista (ordinanza) e
del suo scopo (assicurare che l’esercizio del diritto di critica non ecceda le esigenze richieste dalla garanzia
del contraddittorio e non vulneri il prestigio ed il decoro dei soggetti del processo), ha carattere meramente
ordinatorio e costituisce oggetto di un potere discrezionale, esercitabile dal giudice anche d’ufficio, rispetto
al quale l’eventuale istanza della parte ha carattere meramente sollecitatorio; pertanto, siffatto provvedimento, anche se sia contenuto nel provvedimento che definisce la controversia (nella specie, nel decreto che
decide la domanda di modifica, delle condizioni della separazione personale tra i coniugi) non può costituire
oggetto di d’impugnazione.
(omissis)
- che il ricorso deve essere respinto, previa correzione della motivazione della sentenza impugnata, ai sensi
dell’art. 384, comma 2, c.p.c., essendo il suo dispositivo conforme al diritto;
- che, nella specie, come già rilevato (cfr., “supra”, Ritenuto in fatto), nel giudizio di primo grado - instaurato
ex art. 710 c.p.c. - il difensore della parte resistente ha formulato istanza di cancellazione di alcune espressioni, contenute nel ricorso introduttivo, ritenute sconvenienti ed offensive nei suoi riguardi; il Tribunale ha
espressamente respinto tale istanza; ed il relativo provvedimento di reiezione, contenuto nel decreto che ha
definito nel merito il procedimento camerale, ha formato oggetto di reclamo, proposto in propria dal predetto
difensore dinanzi alla Corte d’Appello di Bari;
- che, pertanto, la specifica questione, sottesa al presente ricorso, consiste nello stabilire se il provvedimento di reiezione di istanza di cancellazione di espressioni (ritenute) sconvenienti od offensive, adottato ai sensi
dell’art. 89, comma 2, c.p.c. sia suscettibile, o non, di impugnazione;
- che su tale specifica questione si è formato un consolidato orientamento di questa Corte (cfr. sentt. nn.
6121 del 1994, 5710 del 1998, 6660 del 2001), integralmente condiviso dal Collegio, secondo cui il provvedimento di rigetto dell’istanza di cancellazione di espressioni sconvenienti od offensive, riguardanti l’oggetto
della causa - anche se contenuto in una sentenza; ed anche nel caso in cui le predette espressioni siano
contenute nella sentenza impugnata - in quanto ha carattere ordinatorio e non incide sul merito della causa
- al quale, anzi, è del tutto estraneo - non è suscettibile di impugnazione;
- che il carattere meramente ordinatorio del provvedimento che dispone, anche d’ufficio, la cancellazione e
di quello che respinge la relativa istanza, formulata dalla parte o dal suo difensore, emerge sia dalla forma
della sua adozione, prefigurata dal codice di rito civile nella forma dell’ordinanza, sia dallo scopo cui esso è
preordinato, in quanto volto ad assicurare che l’esercizio del diritto di difesa e di critica non superi i limiti
imposti dalla garanzia del contraddittorio, da rispetto dovuto al prestigio ed al decoro della controparte e
di tutti gli altri soggetti del processo, nonché dai principi fondamentali dettati a tutela della persona umana
dalle norme costituzionali (cfr. anche art. 598, comma 2, c.p. nonché Cass., Sez. III pen., n. 705 del 1976,
che, nell’affermare il principio - secondo cui, in caso di annullamento senza rinvio della sentenza impugnata,
perché il reato è estinto per prescrizione, resta fermo il capo del dispositivo relativo alla cancellazione di
parole offensive contenute nei motivi di appello e disposta dall’art. 598, comma 2, c.p. - conferma, anche nel
rito penale, il carattere ordinatorio e l’estraneità al merito della causa, del provvedimento di cancellazione);
- che, quindi, come costantemente affermato da questa Corte (cfr., “e pluribus”, sentt. nn. 1242 del 1962,
171 del 1964, 2954 del 2003), deve anche ribadirsi che l’adozione di un provvedimento di cancellazione di
espressioni sconvenienti od offensive o la reiezione della relativa istanza, formulata dalla parte o dal suo
difensore - che deve essere qualificata siccome mera “sollecitazione” all’esercizio, da parte del giudice, di
un suo potere “naturalmente” officioso - integrano, in entrambi i casi, esercizio di un potere discrezionale
attribuito al giudice, in ogni stato e grado del giudizio, in relazione al controllo dell’osservanza dei doveri
imposti a parti e difensori dagli artt. 88 e 89 c.p.c.;
- che, dunque, la ribadita non impugnabilità del provvedimento di reiezione dell’istanza di cancellazione determina la non configurabilità della questione relativa alla legittimazione del soggetto del processo abilitato
a proporre l’impugnazione;
- che le fattispecie sottostanti alle sentenze di questa Corte - richiamate dal ricorrente - nn. 12134 del 1991
ed 11617 del 1992, a prescindere da altre pur possibili considerazioni, sono completamente diverse dalla
Gianfranco Dosi
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Lessico di diritto di famiglia
Quindici anni di..."espressioni sconvenienti od offensive"
presente (come sopra individuata): infatti, la prima attiene ad un caso di omessa pronuncia sull’istanza di
cancellazione o di una sua reiezione con espressioni di stile (del tipo: “non ricorrono i presupposti di legge”),
mentre la specie riguarda l’impugnazione di un provvedimento di reiezione assistito da una motivazione adeguata (non rileva se giusta od errata); la seconda attiene alla possibilità di far valere in un giudizio, diverso
ed autonomo, il diritto al risarcimento del danno per le espressioni offensive contenute negli atti di un processo, mentre, nel caso di specie, la richiesta di risarcimento del danno è stata inammissibilmente formulata
(non già nel giudizio di primo grado - ove era stata sollecitata soltanto la cancellazione delle espressioni
ritenute offensive - ma) soltanto in sede di giudizio di reclamo (restando, quindi, impregiudicato il diritto del
ricorrente di far valere il dedotto diritto risarcitorio in altro giudizio);
(omissis)
30.
Cass. civ. Sez. I, 8 agosto 2003, n. 11965
È inammissibile il ricorso per cassazione volto contro quella parte della sentenza impugnata che ha disposto,
con motivazione congrua e adeguata, la cancellazione negli scritti difensivi delle espressioni ritenute sconvenienti e/o offensive. L’ordine di cancellazione, infatti, costituisce esercizio di un potere discrezionale e officioso del giudice e implica un giudizio valutativo su fatti che, se congruamente e adeguatamente motivati,
sono sottratti a sindacato in sede di legittimità.
Il potere attribuito dall’articolo 89, comma 2, del c.p.c. al giudice, di disporre che si cancellino le espressioni
sconvenienti e offensive contenute negli scritti difensivi, può essere esercitato anche in sede di legittimità,
con riguardo a scritti ivi depositati.
(omissis)
Infine, con il terzo motivo (con cui deduce: “Violazione dell’art. 89 c.p.c. in relazione all’art. 360 n. 3 e 5
c.p.c.”), la ricorrente principale critica la sentenza impugnata, anche sotto il profilo della sua motivazione
(cfr., supra, n. 1.2 lett. C), sostenendo che i Giudici d’appello - come già i Giudici di primo grado - avrebbero
disposto la cancellazione delle frasi ritenute sconvenienti ed offensive, senza indagare e motivare se le stesse riguardassero l’oggetto della causa o, comunque, fossero dettate da esigenze difensive o esemplificative
o di esecrazione vero il Gr. che le aveva pronunciate.
(omissis)
2.6 Il terzo motivo del ricorso principale deve essere dichiarato inammissibile.
Costituisce, infatti, costante orientamento di questa Corte (cfr., e pluribus e tra le ultime, sentt. nn. 10801
del 2000, 143 e 4742 del 2001, 2188 e 15503 del 2002, 73 del 2003), integralmente condiviso dal Collegio,
quello, secondo cui è inammissibile il ricorso per cassazione rivolto contro quella parte della sentenza impugnata, che ha disposto, con motivazione congrua ed adeguata, la cancellazione negli scritti difensivi delle
espressioni ritenute sconvenienti e/o offensive, in quanto l’ordine di cancellazione costituisce esercizio di un
potere discrezionale ed officioso del giudice ed implica un giudizio valutativo su fatti, che, se congruamente
ed adeguatamente motivati appunto, sono sottratti a sindacato in sede di legittimità.
Nella specie - come emerge chiaramente dalla motivazione della sentenza impugnata, dianzi (cfr., supra,
n. 1.2 lett. C) integralmente riprodotta - i Giudici d’appello hanno ampiamente giustificato le ragioni della
disposta cancellazione, sottolineando, in particolare, la radicale estraneità del discorso, in cui sono inserite
le espressioni ritenute sconvenienti ed offensive, rispetto alle esigenze difensive ed all’oggetto del giudizio
di impugnazione, nonché la circostanza che le espressioni stesse si riferiscono, oltretutto, a persone che non
sono parti del processo.
2.7 Per le medesime ragioni da ultimo esposte, la Corte ritiene di dover esercitare, anche in questa sede, il
potere attribuito dall’art. 89 comma 2 cod. proc. civ.- applicabile anche nel giudizio di legittimità con riferimento alle espressioni contenute negli scritti difensivi ivi depositati (cfr., e pluribus e da ultima, Cass. n.
3032 del 1999) - ordinando la cancellazione della pag. 18 del ricorso principale della Ar. dal quarto rigo al
quartultimo rigo compreso, nonché delle pagg. 1 e 2 e dei primi cinque righi della pag. 3 della memoria del
3 febbraio 2003, depositata nell’interesse della medesima Ar., ove sono ripetute le medesime espressioni
sconvenienti ed offensive già contenute negli scritti difensivi del giudizio di primo grado e di quello d’appello:
espressioni, che il Collegio ritiene irrilevanti rispetto all’esercizio del diritto di difesa della ricorrente principale in questa sede e rivolte, per di più, a persone estranee al processo, le quali, perciò stesso, non hanno,
salvo l’esercizio di altri facoltà e/o diritti, nemmeno la possibilità di replica immediata.
(omissis)
Gianfranco Dosi
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Lessico di diritto di famiglia
Quindici anni di..."espressioni sconvenienti od offensive"
31.
Cass. civ. Sez. III, 18 giugno 2003, n. 9707
Nelle disposizioni dell’art. 89 c.p.c. l’offensività e la sconvenienza delle espressioni usate in scritti o discorsi
difensivi costituiscono nozioni distinte, e la seconda non riguarda la lesività del valore e dei meriti di qualcuno - aspetti tutelati dal divieto delle espressioni offensive - ma una lesività di grado minore, inerente al
contrasto delle espressioni con le esigenze dell’ambiente processuale e della funzione difensiva nel cui ambito esse vengono formulate.
(omissis)
7) In accoglimento della richiesta del P.G., ritiene questa Corte che vada ordinata la cancellazione, a norma
dell’art. 89 c.p.c. dell’espressione adottata dal ricorrente principale nell’ultimo capoverso della pagina 11 del
ricorso, che testualmente dichiara: “Sarebbe da pensare che il Tribunale, o non ha voluto annullare la sentenza del Pretore sulla disposta compensazione, quasi per una questione di rapporti di cordialità, stante la
convivenza nello stesso Palazzo di Giustizia, o piuttosto si è voluto “dare una lezione a questo difensore, che
agiva in proprio, così facendogli passare la voglia di proporre appello: sempre che l’ipotesi fosse fondata”.
Osserva, infatti, questa corte che nelle disposizioni dell’art. 89 c.p.c. l’offensività e la sconvenienza delle
espressioni usate in scritti o discorsi difensivi costituiscono nozioni distinti e la seconda non riguarda la lesività del valore e dei meriti di qualcuno - aspetti tutelati dal divieto di espressioni offensive -, ma una lesività
di grado minore, inerente al contrasto delle espressioni con le esigenze dell’ambiente processuale e della
funzione difensiva, nel cui ambito esse vengono formulate (Cass. 18.11.2000, n. 14942).
Nella fattispecie la frase sopra riportata concretizza i caratteri della sconvenienza nei predetti termini.
(omissis)
32.
Cass. civ. Sez. I, 27 febbraio 2003, n. 2954
L’ordine, contenuto nella sentenza di secondo grado, di cancellazione di alcune parti della comparsa conclusionale dell’appellante, ritenute offensive, esprime l’esercizio di un potere discrezionale, esercitabile anche
d’ufficio, riconosciuto al giudice in via generale dall’art. 89 c.p.c., ed incensurabile in sede di legittimità,
essendo preclusa alla corte di cassazione una nuova valutazione dei fatti.
Allorché le espressioni, in ipotesi sconvenienti od offensive, contenute in un atto di causa (nella specie: in
un ricorso per cassazione) siano indirizzate al difensore che svolse il proprio patrocinio in favore della parte
nel pregresso grado di giudizio, l’attuale difensore della medesima parte, non essendo destinatario di alcuna
offesa, non ha interesse a formulare la domanda di risarcimento, dovendo questa essere presentata necessariamente in proprio; essa, pertanto, deve essere dichiarata inammissibile.
La disposizione dell’art. 89, comma 2, c.p.c. sul potere del giudice di ordinare la cancellazione dagli scritti
difensivi delle espressioni sconvenienti od offensive, è applicabile anche nel giudizio di legittimità, con riferimento alle frasi contenute negli scritti depositati davanti alla corte di cassazione (nella specie, la suprema
corte ha peraltro rigettato l’istanza di cancellazione, in quanto le frasi riportate fra virgolette nel ricorso per
cassazione, già esaminate e ritenute sconvenienti, ed offensive dalla corte d’appello, erano state riprodotte
dal ricorrente non con intento reiteratamente ingiurioso, ma per esigenze difensive, di autosufficienza del
ricorso medesimo, contenente un motivo di censura dell’ordine di cancellazione disposto dal giudice a quo).
(omissis)
7) Col primo motivo la ricorrente censura la sentenza impugnata, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma
1, per difetto di motivazione dell’ordine di cancellazione delle righe da 10 a 15 di pagina 6 della comparsa
conclusionale in data 13 marzo 2000 di essa appellante, contenenti espressioni rivolte al difensore di controparte, ritenute dalla corte d’appello sconvenienti ed offensive.
7.1. Il motivo è inammissibile.
In conformità alla prevalente giurisprudenza di questa corte, condivisa dal collegio, il provvedimento di
rigetto dell’istanza di cancellazione delle espressioni sconvenienti od offensive, contenute negli scritti difensivi, ha carattere di ordinanza, ai sensi dell’articolo 89, comma 2, c.p.c. e non incide sul merito della causa;
pertanto è insuscettibile d’impugnazione con ricorso per cassazione (Cass. nn. 6660/2001, 5710/1998,
6121/1994); analogamente devesi ritenere quando, come nel caso, il giudice d’appello, accogliendo la suddetta istanza, abbia ordinato la cancellazione.
L’ordine di cancellazione costituisce, comunque, esercizio di un potere discrezionale, esercitabile dal giudice
anche d’ufficio in presenza delle condizioni che lo giustificano, ed è perciò incensurabile in cassazione, essendo preclusa nel giudizio di legittimità una nuova valutazione dei fatti (Cass. nn. 4742/2001, 14139/2000,
10801/2000, 4651/1990, 4237/1987).
Gianfranco Dosi
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Quindici anni di..."espressioni sconvenienti od offensive"
D’altra parte, anche le decisioni - citate dalla ricorrente - che ammettono, in alcuni specifici casi, la censurabilità per vizio di motivazione (Cass. n. 2188/1992, con riferimento alla pronunzia di risarcimento del danno
per frasi offensive eccedenti le esigenze di difesa) o per omessa pronunzia (Cass. n. 12134/1991), non si
attagliano al caso di specie, avendo la corte d’appello ampiamente e correttamente motivato la propria decisione in merito.
(omissis)
33.
Cass. civ. Sez. II, 8 gennaio 2003, n. 73
L’apprezzamento del giudice di merito sul carattere sconveniente od offensivo delle espressioni contenute
nelle difese delle parti e sulla loro estraneità all’oggetto della lite, nonché l’emanazione o meno dell’ordine
di cancellazione delle medesime, a norma dell’art. 89 c.p.c., integrano esercizio di potere discrezionale non
censurabile in sede di legittimità.
(omissis)
Con il quinto motivo il ricorrente denuncia violazione dell’articolo 89 c.p.c. sostenendo che la sentenza
impugnata è priva di motivazione sul carattere ingiurioso della frase “stinco di santo” che rientra nella normale dialettica difensiva e non è aggressiva. Il fatto addebitato alla Pro.de.co. non è poi estraneo alla causa
perché relativo ad un comportamento non adamantino della Pro.de.co. più volte morosa nel pagamento dei
canoni, e del suo legale rappresentante.
Anche questo motivo, al pari degli altri, è infondato dovendosi al riguardo confermare il costante principio
affermato da questa Corte secondo cui l’apprezzamento del giudice del merito sul carattere sconveniente od
offensivo di espressioni contenute nelle difese delle parti e sulla loro estraneità all’oggetto della lite, nonché
la emanazione o meno dell’ordine di cancellazione delle medesime a norma dell’art. 89 c.p.c., integrano
esercizio di potere discrezionale non censurabile in sede di legittimità (tra le tante, sentenza 8 gennaio 2001
n. 143; sentenza 12 settembre 2000 n. 12035; sentenza 22 febbraio 1992 n. 2188; sentenza 16 agosto
1990 n. 8304).
(omissis)
34.
Cass. civ. Sez. III, 5 novembre 2002, n. 15503
In tema di cancellazione delle espressioni offensive o sconvenienti contenute in scritti difensivi, l’apprezzamento circa l’effettivo rapporto tra queste e l’oggetto della causa - rimesso alla valutazione del giudice
di merito e non censurabile in sede di legittimità - consegue all’istanza di cancellazione della parte, senza
che l’istanza stessa costituisca, peraltro, domanda giudiziale, risultando essa, per converso, una semplice
sollecitazione all’esercizio di un potere officioso del giudice, strumentale all’obbligo delle parti di comportarsi
in giudizio con lealtà e probità.
(omissis)
Inammissibile, infine, è il quarto motivo di impugnazione, con il quale - denunciando la violazione e la falsa
applicazione delle norme di cui agli artt. 89, 112 e 115 c.p.c. nonché il vizio di motivazione sul punto - la
ricorrente si duole della disposta cancellazione della espressione offensiva o sconveniente contenuta nei suoi
scritti difensivi, assumendo che il provvedimento sarebbe frutto di una indagine incompleta ed incoerente in
quanto il giudice di merito non aveva valutato che la espressione stessa si riferiva a circostanze vere, di cui
essa istante aveva dato la dimostrazione.
È del tutto pacifico, infatti, che l’apprezzamento circa l’effettivo rapporto delle frasi offensive con l’oggetto
della causa non è censurabile in sede di legittimità e che la istanza di cancellazione della parte non costituisce domanda giudiziale, ma semplice sollecitazione all’esercizio di un potere officioso del giudice, strumentale all’obbligo delle parti di comportarsi in giudizio con lealtà e probità (art. 88 c.p.c.).
(omissis)
35.
Cass. civ. Sez. III, 26 luglio 2002, n. 11063
La sussistenza dei presupposti per il risarcimento del danno di cui all’art. 89 c.p.c. il cui riconoscimento costituisce peraltro esercizio di un potere discrezionale del giudice di merito non censurabile in sede di legittimità,
va esclusa allorquando le espressioni contenute negli scritti difensivi non siano dettate da un passionale e
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Lessico di diritto di famiglia
Quindici anni di..."espressioni sconvenienti od offensive"
scomposto intento dispregiativo e non rivelino perciò un intento offensivo nei confronti della controparte,
ma, conservando pur sempre un rapporto, anche indiretto, con la materia controversa, senza eccedere dalle
esigenze difensive, siano preordinate a dimostrare, attraverso una valutazione negativa del comportamento
della controparte, la scarsa attendibilità delle sue affermazioni. Ne’ è precluso che nell’esercizio del diritto di
difesa, il giudizio sulla condotta reciproca possa investire anche il profilo della moralità, fattore non del tutto
estraneo per contestare la credibilità delle affermazioni dei contendenti.
La cancellazione delle espressioni offensive e il risarcimento del danno previsti dall’art. 89 c.p.c. sono sanzioni diverse, distinte ed autonome: pertanto la prima, che non ha alcuna finalità risarcitoria, ma attua un
fine preventivo, di polizia generale, impedendo l’immanenza di una causa di danno, può aver luogo senza la
seconda e viceversa. L’insussistenza di alcun rapporto di pregiudizialità fa sì che la sanzione del risarcimento
del danno non sia subordinata alla preventiva cancellazione.
La sussistenza dei presupposti per il risarcimento del danno di cui all’art. 89 c.p.c. il cui riconoscimento costituisce peraltro esercizio di un potere discrezionale del giudice di merito non censurabile in sede di legittimità,
va esclusa allorquando le espressioni contenute negli scritti difensivi non siano dettate da un passionale e
incomposto intento dispregiativo e non rivelino perciò un intento offensivo nei confronti della controparte,
ma, conservando pur sempre un rapporto, anche indiretto, con la materia controversa, senza eccedere dalle
esigenze difensive, siano preordinate a dimostrare, attraverso una valutazione negativa del comportamento
della controparte, la scarsa attendibilità delle sue affermazioni. Né è precluso che nell’esercizio del diritto di
difesa, il giudizio sulla condotta reciproca possa investire anche il profilo della moralità, fattore non del tutto
estraneo per contestare la credibilità delle affermazioni dei contendenti.
II risarcimento del danno per le espressioni offensive contenute negli scritti difensivi non è dovuto qualora
queste siano dirette a dimostrare, attraverso una valutazione negativa del comportamento della controparte, la scarsa attendibilità delle affermazioni di quest’ultima.
Delle offese contenute negli scritti difensivi risponde sempre la parte, anche quando provengano dal difensore, non soltanto perché gli atti del difensore sono riferibili alle parti, ma anche perché la sentenza può
contenere statuizioni soltanto nei con fronti di queste ultime.
(omissis)
Orbene, a norma dell’art. 89 cpv. C.p.c., perché il giudice possa con la sentenza che decide la causa, assegnare alla persona offesa dalle frasi contenute negli scritti difensivi della controparte o del suo patrocinatore
una somma a titolo di risarcimento del danno, anche non patrimoniale, è necessario che le espressioni non
riguardino l’oggetto della causa. È poi insindacabile in cassazione, purché logicamente e congruamente
motivato dal giudice di merito, l’apprezzamento non solo del carattere offensivo delle espressioni usate ma
altresì del loro effettivo rapporto con l’oggetto della causa.
Nella specie la Corte d’appello, a proposito della pertinenza delle offese alla materia del contendere, ha
sostanzialmente recepito e fatto propria l’opinione del Tribunale, secondo cui, come si ricava dalla stessa
sentenza impugnata, l’attribuzione, da parte della convenuta, all’attore, di un fatto grave, ma vero e indiscusso, come la falsificazione del mandato di pagamento, ebbe, sul piano processuale, lo scopo di svalutare
l’attendibilità dei fatti da lui riferiti.
Questo convincimento appare logicamente e giuridicamente ineccepibile.
Non sussistono infatti i presupposti per accordare il risarcimento del danno (il cui riconoscimento peraltro,
come emerge dal tenore letterale dell’art. 89 C.p.c. dipende dall’esercizio di un potere discrezionale, il cui
mancato uso, da parte del giudice di merito, non è sindacabile in cassazione) allorché le espressioni usate
non siano dettate da un passionale e incomposto intento dispregiativo, fine a se stesso, e non rivelino perciò
un intento offensivo, ma, conservando pur sempre un rapporto, anche indiretto, con la materia controversa,
senza eccedere perciò le esigenze difensive di quest’ultima, siano preordinate a dimostrare, attraverso una
valutazione negativa del comportamento della controparte, la scarsa attendibilità delle sue affermazioni; essendo ben possibile che, nell’esercizio del diritto di difesa, il giudizio sulla condotta reciproca possa investire
anche il profilo della moralità, elemento non del tutto estraneo per contestare la credibilità delle affermazioni
dei contendenti (cfr. Cass. 14 marzo 1981 n. 1430).
Non è esatto dunque che la sentenza impugnata abbia omesso di accertare il legame delle offese con l’oggetto della casa (ereditaria) in cui vennero pronunciate e la loro utilità alla difesa della convenuta, limitandosi
a prendere atto della verità del fatto addebitato.
A ben vedere, invece, la prima indagine è stata, seppure sinteticamente, compiuta e in funzione di essa è
stata (implicitamente) assunta come essenziale la prova della verità del fatto addebitato.
Vale avvertire che il ricorrente, attesi i limiti del presente giudizio, non può utilmente invocare la contraria
opinione eventualmente espressa da questa Corte, su analoghe offese proferite nel giudizio di legittimità,
con la sentenza che ha chiuso il contenzioso ereditario tra le parti.
Quanto all’ultima doglianza, la Corte d’appello, rispondendo, al secondo motivo di gravame, ha osservato
Gianfranco Dosi
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Lessico di diritto di famiglia
Quindici anni di..."espressioni sconvenienti od offensive"
che bene ha fatto il Tribunale a condannare l’attore alle spese, in applicazione del principio della soccombenza; con ciò stesso escludendo, per implicito, e con giudizio insindacabile, che sussistessero giusti motivi per
derogarvi con una compensazione.
Appare equo compensare invece tra le parti le spese del giudizio di Cassazione.
(omissis)
36.
Cass. civ. Sez. III, 7 agosto 2001, n. 10916
In tema di risarcimento del danno per le espressioni offensive contenute negli atti del processo, l’art. 89
c.p.c. devolve al giudice del processo, cui gli atti si riferiscono, il giudizio circa l’applicazione in concreto
delle sanzioni previste; tuttavia - poiché la responsabilità processuale ha natura analoga a quella aquiliana,
e, quindi, l’antigiuridicità dei comportamenti non si esaurisce nell’ambito del processo - quando il procedimento, per qualsiasi motivo, non si concluda con sentenza (come nel caso di estinzione del processo) ovvero
quando i danni si manifestino in uno stadio processuale in cui non sia più possibile farli valere tempestivamente davanti al giudice di merito (come nel caso in cui le frasi offensive siano contenute nella comparsa
conclusionale del giudizio di primo grado) ovvero quando la domanda sia avanzata nei confronti non della
parte ma del suo difensore, l’azione di danni per responsabilità processuale può essere proposta davanti al
giudice competente secondo le norme ordinarie.
Il destinatario della domanda di risarcimento del danno ex art. 89, comma 2, c.p.c., è sempre e solo la parte
(legittimata passivamente), la quale - se condannata - potrà rivalersi nei confronti del difensore, cui siano
addebitabili le espressioni offensive, ove ne ricorrano le condizioni. Infatti, non essendo il difensore parte del
giudizio, la sentenza non potrebbe mai produrre effetti nei suoi confronti.
(omissis)
5.1. Parzialmente fondato è anche il secondo motivo di ricorso nella parte in cui censura la seconda “ratio
decidendi” dell’impugnata sentenza, per aver ritenuto, in ogni caso improponibile la domanda, non essendo
la stessa stata proposta davanti al giudice della causa di opposizione all’esecuzione, nella quel furono presentati gli scritti con espressioni offensive.
5.2. La giurisprudenza ritiene che il comportamento delle parti o dei difensori nel giudizio è disciplinato dalla
legge (artt. 88 ed 89 c.p.c.) in quanto nell’interesse superiore della giustizia ed in quello particolare dei contendenti, la lite giudiziaria deve svolgersi correttamente con una condotta sempre ispirata a lealtà e probità
e nel reciproco rispetto. La violazione delle norme di comportamento dà al giudice il potere di disporre, anche d’ufficio, la cancellazione delle espressioni sconvenienti ed ingiuriose, e tale potere può essere esercitato
anche nel giudizio di legittimità per quanto riguarda le frasi offensive contenute negli atti diretti alla Corte di
Cassazione, la quale in questa ipotesi giudica anche nel merito.
Ai sensi dell’art. 89 c.p.c., il giudice, con la sentenza che decide la causa, può assegnare alla persona offesa dalle frasi offensive una somma a titolo di risarcimento del danno anche non patrimoniale sofferto, solo
quando le espressioni non riguardano l’oggetto della causa.
Non si applica, pertanto, nel processo civile l’art. 598, comma 2, c.p., che per l’assegnazione di una somma
a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale richiede la pertinenza delle frasi all’oggetto della causa,
perché la norma del codice di procedura civile è posteriore a quella del codice penale, con la conseguenza
che l’ambito di applicazione dell’art. 598 c.p. resta limitato al processo penale ed amministrativo (Cass., 17
novembre 1979, n. 5991; Cass., 7 aprile 1979, n. 1998).
5.3. Secondo l’orientamento giurisprudenziale suddetto anche in tema di risarcimento del danno per le
espressioni offensive contenute negli atti del processo, come disciplinato dall’art. 89 cod. proc. civ., così
come nei casi previsti dal successivo art. 96 - il legislatore ha inteso devolvere al giudice del processo, in cui
si realizzano gli atti comportanti la responsabilità processuale, ogni accertamento e valutazione circa l’applicazione in concreto delle sanzioni previste. La necessaria coincidenza del giudice investito della domanda
risarcitoria con quello della causa principale non si risolve in un’ipotesi di competenza funzionale, poiché non
si riflette sull’ufficio giudiziario considerato in astratto, ma investe quello stesso specifico giudice concretamente investito della domanda principale, dinanzi a cui l’istanza risarcitoria deve essere necessariamente
proposta, con la conseguenza che la domanda proposta davanti a giudice diverso dà luogo ad improponibilità
della domanda e non ad incompetenza funzionale. Tuttavia, quando il procedimento per qualsiasi motivo,
non pervenga alla fase conclusiva della decisione, ovvero, quando i danni si manifestino in uno stadio processuale in cui non sia più, possibile farli valere tempestivamente davanti al giudice di merito - come nel
caso in cui le frasi offensive siano contenute nella comparsa conclusionale del giudizio di primo grado, per
cui osterebbe alla successiva proposizione il divieto dello “jus novum” anche in appello - l’azione di danni per
responsabilità processuale può, essere proposta davanti al giudice competente secondo le norme ordinarie,
dal momento che la responsabilità processuale ha natura analoga a quella aquiliana, e quindi, l’antigiuridi-
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Quindici anni di..."espressioni sconvenienti od offensive"
cità, dei comportamenti previsti nelle norme suddette non si esaurisce nell’ambito del processo (Cass., 26
ottobre 1992, n. 11617; Cass., 13 ottobre 1975, n. 3272).
5.4. Se è pur vero infatti che, nel conflitto tra il diritto a svolgere la difesa giudiziale nel modo più largo ed
insindacabile ed il diritto della controparte al decoro ed all’onore, l’art. 89 c.p.c. ha attribuito la prevalenza
al primo, nel senso che l’offesa all’onore e al decoro della controparte comporta l’obbligo del risarcimento
del danno nella sola ipotesi in cui le espressioni offensive non abbiano alcuna relazione con l’esercizio della
difesa (Cass., 22 gennaio 1992, n. 2188; Cass., n. 951 del 1986, n. 805 del 1983, n. 1998 del 1979 ecc...),
vero è anche però che la ricorrenza della riferita esimente difensiva può risultare, in concreto, esclusa non
solo dalla non inerenza delle frasi sconvenienti all’oggetto della lite, ma anche della loro eccedenza rispetto
alle esigenze della difesa (cfr. per riferimenti, Cass., n. 2579 del 1988).
Anche sotto tale ultimo profilo l’apprezzamento di avvenuto superamento dei limiti (di correttezza e civile
convenienza) entro cui va contenuta l’esplicazione della difesa integra esercizio di un potere discrezionale
non ulteriormente sindacale in sede di legittimità (cfr. per tutte, Cass., n. 951 del 1986).
6. Ritiene questa Corte che nella fattispecie si è fuori dall’ipotesi contemplata dall’art. 89, comma 2, c.p.c.
e ciò non solo perché, come sostenuto dai ricorrenti, la causa nella quale erano stati prodotti gli scritti con
espressioni offensive (l’opposizione all’esecuzione) si è estinta e, quindi non è mai giunta alla decisione (e
quindi non vi è mai stata una sentenza), ma perché la domanda è stata proposta nei confronti non della
parte del procedimento predetto, ma nei confronti del suo difensore (convenuto).
Infatti, indipendentemente dal punto se la domanda risarcitoria possa essere proposta non solo dalla parte,
ma anche dal suo difensore, (come pure sembrerebbe emergere dal tenore letterale dell’art. 82, comma 2,
c.p.c. che si riferisce genericamente “alla persona offesa”, in questo senso Cass., n. 12134/91), va, infatti,
condivisa l’opinione della dottrina secondo cui il destinatario della domanda di risarcimento del danno ex
art. 89, comma 2, c.p.c., è sempre e solo la parte (legittimata passivamente), la quale - se condannata potrà rivalersi nei confronti del difensore, cui siano addebitabili le espressioni offensive, ove ne ricorrano
le condizioni.
Certamente il difensore è debitore del risarcimento del danno, arrecato con la sua offesa, ma contro di lui
si dovrà agire in via ordinaria. Ciò è in sintonia con l’orientamento giurisprudenziale, secondo cui, qualora
l’espressione ingiuriosa sia riferita ad un terzo estraneo al processo si esclude che questi possa intervenire
in giudizio per chiedere il risarcimento dei danni, ma potrà agire autonomamente in altro processo (Cass.,
n. 627/1950).
Infatti, non essendo il difensore parte del giudizio, la sentenza non potrebbe mai produrre effetti nei suoi
confronti (e segnatamente quello del giudicato), per cui, poiché l’assegnazione della somma deve avvenire
solo con la sentenza, si verificherebbe l’ipotesi che la stessa contenga una statuizione a carico di un soggetto, il difensore, che neppure è parte in quella causa.
In questi casi l’azione per il risarcimento dei danni va proposta davanti al giudice secondo le norme ordinarie,
come una qualunque azione per responsabilità aquiliana.
7. Nella fattispecie, pertanto, poiché la domanda di risarcimento dei danni non patrimoniali è stata proposta
nei confronti esclusivamente dell’avv. A. G., che era difensore della parte nel giudizio di opposizione all’esecuzione, si è certamente fuori dall’ipotesi regolata dall’art. 89, comma 2, c.p.c., con la conseguenza che non
poteva ritenersi l’improponibilità della domanda, ai sensi di detto articolo, per non essere stata proposta
davanti al giudice dell’opposizione dell’esecuzione, e che sono irrilevanti i dubbi di legittimità costituzionale
dell’art. 89, comma 2, c.c., sollevati dai ricorrenti.
L’impugnata sentenza va, pertanto, cassata in relazione alle censure accolte e rinviata, anche per le spese di
questo giudizio di legittimità, alla Corte di Appello di Napoli, che si uniformerà ai suddetti principi di diritto.
(omissis)
37.
Cass. civ. Sez. lavoro, 21 luglio 2001, n. 9946
La cancellazione di espressioni sconvenienti ed offensive contenute negli scritti difensivi può essere disposta,
ex art. 89 c.p.c. anche nel giudizio di legittimità, rientrando essa nei poteri officiosi del giudice, e nessun
rilievo ostativo può acquistare il profilo che la richiesta relativa - attenendo, ad esempio, a espressioni contenute nel controricorso - risulti formulata solo in sede di memorie ex art. 378 c.p.c. posto che in tal caso esse
finisce con il valere comunque quale sollecitazione all’esercizio dei poteri d’ufficio. In tali ipotesi, tuttavia,
non potrà però concedersi anche all’assegnazione di una somma di danaro a titolo di risarcimento danni, in
quanto, risultando le memorie in questione destinate in via esclusiva ad illustrare e chiarire i motivi di impugnazione tempestivamente e ritualmente proposti, non potrebbe giammai trovare idonea tutela il diritto
di difesa del destinatario della domanda risarcitoria, privato - in quanto tale - della possibilità di contare su
un congruo termine per l’esercizio della facoltà di replica.
Gianfranco Dosi
28
Lessico di diritto di famiglia
Quindici anni di..."espressioni sconvenienti od offensive"
(omissis)
La società ricorrente ha richiesto la cancellazione delle parole “artatamente” e “furbescamente”, contenute
nel controricorso (rispettivamente al penultimo rigo di pag. 4 e al sedicesimo rigo di pag. 5) e riferite al
comportamento tenuto dalla parte nel riportare in ricorso, in modo incompleto, un periodo della sentenza del
Tribunale di Lecce 2 maggio/24 agosto 1996 n. 1891. Rientrando la cancellazione di espressioni convenienti
od offensive contenute negli scritti difensivi nei poteri officiosi del giudice, su di essa si può provvedere indipendentemente dalla ammissibilità della richiesta della parte, che l’ha formulata con le memorie ex art.
378 cod. proc. civ. e la quale richiesta può valere come sollecitazione dell’esercizio da parte del giudice del
potere a lui spettante.
Orbene, dette espressioni per il loro obbiettivo significato, secondo il lessico comune, appaiono irriguardose
nei confronti della difesa avversaria e sono senza dubbio eccedenti rispetto alle esigenze difensive: esse
perciò devono essere cancellate a norma dell’art. 89 cod. proc. civ., applicabile anche nei giudizi di legittimità
(cfr. fra le più recenti Cass. 29 marzo 1999 n. 3032). Non si può, invece, procedere alla assegnazione, pure
invocata, di una somma a titolo di risarcimento del danno, data l’inammissibilità della richiesta nelle memorie illustrative, destinate in via esclusiva ad illustrare e chiarire i motivi d’impugnazione tempestivamente e
ritualmente proposti (giurisprudenza costante: v. fra le tante Cass. 19 aprile 2000 n. 5079, Cass. 16 dicembre 1999 n. 14167). In tal senso è la giurisprudenza di questa Corte con riferimento alla domanda di risarcimento danni ex art. 96 cod. proc. civ. (v. sentenze S.U. 19 gennaio 1991 nn. 522 - 524, S.U. 27 novembre
1990 n. 958), ed analogamente deve concludersi nella ipotesi in esame, dovendosi pur sempre assicurare
il rispetto del contraddittorio: integrando la richiesta di attribuzione di una somma a titolo di risarcimento
danni una domanda di attribuzione di un bene della vita, su di essa la controparte deve essere messa in grado di difendersi e il diritto di difesa non sarebbe garantito laddove fosse consentito formulare tale domanda
con le memorie illustrative o nel corso della discussione orale, in quanto nel primo caso può mancare uno
spazio di tempo sufficiente per la replica e nel secondo tale possibilità sarebbe addirittura negata se fosse il
controricorrente ad avanzare la richiesta di assegnazione della somma ex art. 89 cod. proc. civ.
(omissis)
38.
Cass. civ. Sez. I, 4 giugno 2001, n. 7527
L’espressione “scritto presentato” di cui all’art. 96 c.p.c. va intesa nel senso di atto del processo portato alla
conoscenza del giudice con i mezzi ed i modi fissati dal codice di rito; pertanto, quando l’esame dell’atto è
precluso per ragioni di rito (nella specie, inammissibilità del ricorso per cassazione) non può darsi ingresso
all’istanza di cancellazione di espressioni asseritamente sconvenienti ed offensive; in tal caso, infatti, non
è possibile valutare ne’ l’attinenza delle medesime all’oggetto della causa e la loro collocazione funzionale
nell’ambito del contesto difensivo e quindi la violazione del dovere di lealtà e correttezza ne’ la risarcibilità
del danno, salva la rilevanza in altra sede dei contegni denunciati.
(omissis)
L’inammissibilità originaria del ricorso rende l’atto medesimo inidoneo ad introdurre il nuovo grado di giudizio (Cass. 20 aprile 1998, n. 4000; Cass. S.U. Pen. 11.11.1994, Cresci, in tema di inammissibilità del ricorso
per Cassazione e declaratoria di prescrizione del reato), preclude, quindi, l’esame dei motivi e non consente
ingresso alla istanza con cui il controricorrente ha chiesto, ai sensi dell’art. 89 c.p.c., la cancellazione di tre
espressioni che assume essere gratuitamente dirette a gettare ombra sull’operato degli organi della procedura. In proposito, si deve partire dal rilievo che le espressioni sconvenienti od offensive delle parti o dei
loro difensori, prese in considerazione dall’art. 89 c.p.c. al fine di attribuire al giudice il potere di disporne
la cancellazione e di riconoscere all’offeso una somma a titolo risarcitorio, sono quelle formulate in “scritti
presentati o discorsi pronunciati davanti al giudice medesimo”.
Questa Corte, con la sentenza 5 giugno 1990, n. 5385, ha chiarito che l’espressione “scritto presentato” va
intesa nel senso che l’ambito di operatività della norma non include qualsiasi documento al quale le parti
(od i difensori) abbiano assegnato la funzione di atto del processo, ma soltanto quello idoneo a svolgere tale
funzione, in quanto portato alla cognizione del giudice con i mezzi ed i modi all’uopo fissati dal codice di rito.
Detta interpretazione, oltre ad essere suggerita dalla lettera della disposizione, sembra conforme alla finalità
dell’art. 89 c.p.c. di assicurare l’osservanza del dovere di lealtà e correttezza nel processo; infatti, una volta
precluso, come nella specie, l’esame dell’atto per ragioni di rito, non è possibile valutare l’attinenza delle
espressioni, delle quali si denunzia la sconvenienza, all’oggetto della causa e la collocazione funzionale delle
stesse espressioni nell’ambito del contesto difensivo e, quindi, in definitiva, non è possibile valutare né la
violazione del dovere di lealtà e correttezza né la risarcibilità del danno e neppure la sua entità. Resta salva
ovviamente l’eventuale rilevanza in altra sede dei contegni denunziati.
(omissis)
Gianfranco Dosi
29
Lessico di diritto di famiglia
Quindici anni di..."espressioni sconvenienti od offensive"
39.
Cass. civ. Sez. I, 15 maggio 2001, n. 6660
Il provvedimento di rigetto dell’istanza di cancellazione di espressioni sconvenienti od offensive contenute
nella sentenza impugnata, ha carattere ordinatorio e non incide sul merito della causa al quale è anzi estraneo e pertanto non è suscettibile di impugnazione con ricorso per cassazione.
(omissis)
Con il primo motivo del ricorso principale si denuncia contraddittorietà di motivazione nel rigetto della censura relativa alla mancata cancellazione delle frasi ritenute offensive contenute nella comparsa di costituzione
avversaria di primo grado, deducendosi che dette frasi, obiettivamente offensive se singolarmente valutate,
lo sono ancor di più se considerate nel loro insieme, nella loro reiterazione e progressività, incidendo pesantemente sulla dignità e correttezza professionale del difensore. Si prospetta altresì l’errore della sentenza
impugnata per aver ritenuto non influente l’insinuazione relativa a presunti favori dei primi giudici nei confronti del B., essendosi ipotizzati comportamenti del difensore meritevoli di sanzione penale.
Il motivo è inammissibile. Ed invero, come questa Suprema Corte ha in più occasioni affermato, il provvedimento di rigetto dell’istanza di cancellazione di espressioni sconvenienti ed offensive contenuto nella sentenza impugnata ha carattere ordinatorio e non incide sul merito della causa, al quale è anzi estraneo, e pertanto non è suscettibile di impugnazione con ricorso per cassazione (v. Cass. 1998 n. 5710; 1994 n. 6121).
(omissis)
40.
Cass. civ. Sez. III, 30 marzo 2001, n. 4742
L’ordine, contenuto nella sentenza di secondo grado, di cancellazione di alcune parti dell’atto di appello,
ritenute offensive, esprime l’esercizio di un potere discrezionale, esercitabile anche di ufficio, riconosciuto al
giudice in via generale dall’art. 89 c.p.c. ed incensurabile in sede di legittimità, anche nel caso di motivazione
sintetica, riferita, cioè, alla indicazione delle sole espressioni da censurare.
(omissis)
6. Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 89 c.p.c..
Lamenta il ricorrente che, erroneamente è stata disposta dalla sentenza impugnata la cancellazione del
punto III dell’atto di appello, ritenuto chiaramente offensivo dell’onorabilità dell’Ente ospedaliero, mentre
offensività non sussisteva.
7. Ritiene questa Corte, a parte il rilievo che il motivò dedotto come violazione e falsa applicazione di norme,
in effetti impinge nella motivazione della ritenuta offensività, che detto motivo sia infondato.
Infatti l’ordine di cancellazione, connesso all’esigenza di assicurare il decoro del procedimento e la serenità del
giudizio, esprime l’esercizio di un potere discrezionale del giudice, esercitabile anche di ufficio, ed è incensurabile
in sede di legittimità, anche nel caso di motivazione sintetica, riferita cioè alla indicazione delle sole espressioni
da censurare. (Cfr. Cass. SU 25 marzo 1988 n. 2579; Cass. 23.5.1990, n. 4651; Cass. 7 maggio 1987 n. 4237).
(omissis)
41.
Cass. civ. Sez. lavoro, 8 gennaio 2001, n. 143
Il carattere discrezionale del potere di cancellazione delle espressioni sconvenienti o offensive, di cui all’art.
89 c.p.c. impedisce che il suo mancato esercizio da parte del giudice di merito possa essere censurato in
sede di legittimità.
(omissis)
8. Si lamenta che il Tribunale, nel respingere la domanda di cancellazione delle frasi ingiuriose contenute
nelle avverse difese, ha omesso di valutare l’uso dell’aggettivo “delinquenti”; ed ha altresì omesso di valutare la avversa critica alla frase usata dalla difesa dei ricorrenti (“colpirne uno per educarne cento”), con il
tentativo di stabilire un nesso, sia pure freudiano, tra l’avvocato dei ricorrenti ed i terroristi.
(omissis)
Quanto alla censura mossa con il punto 8, va ribadito che il carattere discrezionale del potere di cancellazione di espressioni sconvenienti ed offensive, di cui all’art. 89 c.p.c., impedisce che il suo mancato esercizio
possa essere censurato in sede di legittimità (Cass., 8 agosto 1983 n. 5303; 5 settembre 1981 n. 5821).
(omissis)
Gianfranco Dosi
30
Lessico di diritto di famiglia
Quindici anni di..."espressioni sconvenienti od offensive"
42.
Cass. civ. Sez. lavoro, 18 novembre 2000, n. 14942
Nelle disposizioni dell’art. 89 c.p.c. l’offensività e la sconvenienza delle espressioni usate in scritti o discorsi difensivi
costituiscono nozioni distinte e la seconda non riguarda la lesività del valore e dei meriti di qualcuno - aspetti tutelati dal divieto delle espressioni offensive - ma una lesività di grado minore, inerente al contrasto delle espressioni
con le esigenze dell’ambiente processuale e della funzione difensiva nel cui ambito esse vengono formulate. (Nella
specie la Corte di cassazione ha ritenuto sconveniente, anche se non offensiva nella dialettica processuale, l’espressione “subdolamente insinua” contenuta nel ricorso e riferita al comportamento processuale della controparte).
(omissis)
La pregiudiziale richiesta dell’INAIL, diretta ad ottenere la cancellazione di espressione sconveniente, deve
essere accolta.
La disposizione dell’art. 89, secondo comma, cod. proc. civ., sul potere del giudice di ordinare la cancellazione di espressioni sconvenienti ed offensive, è applicabile anche nel giudizio di legittimità, con riferimento
alle frasi contenute negli scritti depositati davanti alla Corte di Cassazione (Cass. 29 marzo 1999 n. 3032;
non negli atti relativi alle precorse fasi del giudizio: Cass. 16 agosto 1990 n. 8304); e questa, in tale ipotesi,
giudica anche nel merito (Cass. 4 luglio 1952 n. 2003).
Essendo espressamente differenziata dall’offensività, la sconvenienza (quale normativamente prevista) non
può risolversi in accezioni di significato contiguo: non è costituita, pertanto, dalla lesività del valore e dei
meriti di qualcuno (accezione pur rientrante nello spazio della parola, e che tuttavia confluirebbe nella prima
qualificazione), bensì da una lesività diversa, per intensità e per direzione. La sua intensità è di grado minore; e nella sua direzione esprime un contrasto non tanto nei confronti della controparte o di terzi (o dello
stesso giudicante), bensì “con i caratteri propri di qualcosa” (accezione, questa, che rientra egualmente nello
spazio della parola): con l’ambiente e la funzione ove è inserita.
Nell’ipotesi in esame (art. 89 cod. proc. civ.), il contrasto è con i caratteri dell’ambiente logico in cui si inserisce (il processo), e della funzione tipica che deve svolgere (la difesa di una tesi, e la contestazione di una
contraria tesi).
In questo quadro è da valutare il caso in esame. L’avverbio “subdolamente” (quale modalità del comportamento di colui “che maschera sotto false apparenze intenti non lodevoli”), nella dialettica processuale non ha
carattere offensivo. È tuttavia un’espressione “non conveniente” alla dignità dell’ambiente in cui si inserisce
e della funzione che deve svolgere.
In applicazione dell’art. 89 secondo comma cod. proc. civ., dell’espressione deve essere pertanto disposta
la cancellazione.
(omissis)
43.
Cass. civ. Sez. III, 26 ottobre 2000, n. 14139
Il potere del giudice di disporre la cancellazione delle espressioni che esulano dai limiti della moderazione
e della convenienza - e, perciò, si pongono in contrasto con il dovere di correttezza formale verso l’altro
soggetto del processo - è ampiamente discrezionale ed il contenuto del suo esercizio non è censurabile in
sede di legittimità.
(omissis)
Inammissibile, infine, è anche il quarto motivo di impugnazione, con il quale si deduce, in relazione all’art.
360 n. 3 e 5 c.p.c. la violazione della norma di cui all’art. 89 stesso codice nonché il vizio di motivazione su
un punto decisivo della controversia quanto alla disposta cancellazione ad opera del giudice di appello della
espressione contenuta nella memoria difensiva presentata al tribunale dalla stessa società ricorrente.
Il potere del giudice di disporre la cancelleria delle espressioni che esulano dai limiti della moderazione e della convenienza - e, perciò, si pongono in contrasto con il dovere di correttezza formale verso l’altro soggetto
del processo - è ampiamente discrezionale ed il concreto suo esercizio, sindacabile nei gradi di merito, non
è censurabile in sede di legittimità (ex plurimis: Cass. 23.5.1990 n. 4651; Cass. 5.11.1981 n. 5821), come
del pari è insindacabile in cassazione la mancata cancellazione delle espressioni ritenute sconvenienti o offensive; quelle, cioè, che superano le esigenze della difesa (da valutarsi a prescindere dalla fondatezza della
tesi sostenuta) e che siano ricollegabili al mero intento di offendere l’avversario (Cass. 23.3.1988 n. 2579).
Nel caso di specie, il tribunale ha spiegato, in modo convincente e logico, come l’espressione usata assumeva, nel contesto complessivo dello scritto, carattere offensivo verso il patrocinio della parte avversa, il che
giustifica la applicazione della norma dell’art. 89, 1^ comma, c.p.c.
(omissis)
Gianfranco Dosi
31
Lessico di diritto di famiglia
Quindici anni di..."espressioni sconvenienti od offensive"
44.
Cass. civ. Sez. II, 12 settembre 2000, n. 12035
Poiché la cancellazione di frasi o parole ingiuriose contenute negli scritti difensivi è rimessa al potere discrezionale del giudice di merito, che può disporla anche d’ufficio a norma dell’art. 89 c.p.c. l’istanza per
la cancellazione costituisce una mera sollecitazione per l’applicazione dell’anzidetto potere discrezionale, di
guisa che l’omesso esame di essa non può formare oggetto di impugnazione.
(omissis)
Denuncia la ricorrente violazione e falsa applicazione di norme di diritto, nonché contraddittorietà e omessa motivazione ex art.360 nn. 3, 4 e 5 c.p.c., in relazione ai seguenti punti:
(omissis)
e) omessa pronuncia sulla richiesta avanzata dalla Pantani(*) ai sensi dell’art. 89 c.p.c., per la cancellazione dall’atto di citazione in appello delle seguenti frasi “sulla base di tale mendace prospettazione” e “con
evidente artifizio”, perché gravemente offensive per l’appellata.
Il ricorso è infondato.
(omissis)
Mentre, infine, per quanto denunciato, sub e), si osserva che, essendo rimessa la cancellazione di frasi
o parole ingiuriose contenute negli scritti difensivi al potere discrezionale del giudice di merito, che può
disporla anche di ufficio a norma dell’art. 89 c.p.c., l’istanza per la cancellazione costituisce una mera sollecitazione per l’applicazione dell’anzidetto potere discrezionale, di guisa che l’omesso esame di essa non
può formare oggetto d’impugnazione in questa sede (sent. 5710/98; 9040/94).
(omissis)
45.
Cass. civ. Sez. III, 12 agosto 2000, n. 10801
È inammissibile il motivo del ricorso per cassazione rivolto contro quella parte della sentenza impugnata che
ha disposto la cancellazione negli scritti difensivi delle espressioni ritenute ingiuriose, in quanto la censura si
risolve nella richiesta di una nuova valutazione dei fatti, esclusa nel giudizio per cassazione.
(omissis)
3. Il secondo motivo del ricorso è rivolto contro quella parte della decisione nella quale il pretore ha disposto
la cancellazione negli scritti difensivi della ricorrente di espressioni ritenute ingiuriose.
La C. addebita a questa parte della decisione il vizio di falsa applicazione degli artt. 88 e 89 cod. proc. civ.
e di difetto di motivazione.
Si tratta di censura non ammissibile, in quanto si risolve nella richiesta di una ennesima valutazione di fatti,
la quale non è sindacabile in sede di legittimità, anche quando sia stata resa dal giudice del merito con motivazione sintetica, riferita cioé alla sola indicazione del carattere sconveniente ed offensivo di determinate
espressioni: in termini, Cass. 16 febbraio 1983, n 1172.
(omissis)
46.
Cass. civ. Sez. lavoro, 4 agosto 1999, n. 8411
A norma dell’art. 89, comma 2, c.p.c. costituisce requisito dell’accoglimento dell’istanza di cancellazione
di espressioni offensive contenute negli scritti difensivi che le stesse non riguardino l’oggetto della causa.
(Nella specie la S.C. non ha accolto istanza di cancellazione dell’affermazione, contenuta nel ricorso per cassazione, che l’attività dell’istituto bancario resistente sarebbe stata caratterizzata da una notoria gestione
clientelare e politicizzata, dato che essa era strettamente inerente alle tesi difensive del lavoratore ricorrente, sottoposto a procedimento disciplinare con l’addebito di avere attuato una sconsiderata espansione
dell’attività creditizia).
(omissis)
Deve infine esaminarsi l’istanza della Banca di cancellazione di una espressione “disdicevole” contenuta nel
ricorso con la quale si afferma che l’attività della medesima sarebbe caratterizzata da una “(notoria) gestione clientelare e politicizzata”.
L’istanza non può essere accolta in quanto requisito per l’adozione del chiesto provvedimento ai sensi del
Gianfranco Dosi
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Lessico di diritto di famiglia
Quindici anni di..."espressioni sconvenienti od offensive"
secondo dell’art. 89 c.p.c. è che le espressioni offensive non riguardino l’oggetto della causa. Nella specie
invece esse sono strettamente inerenti alla tesi difensiva che la gestione del credito da parte del M. non si
discostasse molto da quella generale della Banca e che di ciò dovesse tenersi conto nella valutazione disciplinare della sua condotta.
(omissis)
47.
Cass. civ. Sez. lavoro, 29 marzo 1999, n. 3032
La disposizione dell’art. 89, comma 2, c.p.c. sul potere del giudice di ordinare la cancellazione dagli scritti
difensivi delle espressioni sconvenienti ed offensive è applicabile anche nel giudizio di legittimità, con riferimento alle frasi contenute negli scritti depositati davanti alla Corte di cassazione. (Nella specie la S.C. ha
ordinato la cancellazione di espressioni, contenute nel ricorso per cassazione, sconvenienti ed offensive nei
confronti del giudice a quo, in quanto eccedenti i limiti della corretta e decorosa manifestazione di dissenso
verso la sentenza impugnata e quindi integranti un abuso del diritto di difesa riconosciuto alla parte).
(omissis)
Va preliminarmente rilevato che nel ricorso per cassazione, per chiarire le censure formulate contro la sentenza impugnata, sono state usate le seguenti espressioni: “è però la prima volta che ci capita di toccare
con mano un tale sfacciato aiuto dato dal Giudice ad una delle parti” (pag. 6, penultimo capoverso); sentenza “contraria alla necessaria imparzialità del giudice” (pag. 7, quinto e sesto rigo); “per sostenere tale
preconcetta tesi” (pag. 7, penultimo rigo); “la protervia con la quale il Tribunale di Firenze” (pag. 9, settimo
ed ottavo rigo).
Tali espressioni, ai sensi dell’art. 89, primo comma, c.p.c. debbono essere considerate sconvenienti ed offensive nei confronti del Tribunale di Firenze, dato che eccedono i limiti della corretta e decorosa manifestazione
di dissenso verso la sentenza impugnata e, quindi, integrano un abuso del diritto di difesa assegnato alla
parte (cfr. Cass. 28 gennaio 1983 n. 806 e Cass. 29 maggio 1982 n. 3326).
Pertanto, a norma del secondo comma del medesimo art. 89 c.p.c. applicabile anche al giudizio di legittimità
in relazione alle frasi contenute negli scritti depositati davanti alla Corte di Cassazione (v. Cass. 17 novembre
1979 n. 5991), deve essere disposta la cancellazione delle espressioni sopra indicate.
(omissis)
Gianfranco Dosi
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Lessico di diritto di famiglia
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