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MANE, CLOWN E PRINCIPESSE

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MANE, CLOWN E PRINCIPESSE
sfruttando le loro implicite ed esplicite somiglianze e familiarità. I seguenti
colloqui con la psichiatra e l’équipe sono serviti per chiarire e condividere la
nostra proposta e si sono svolti in un clima informale che ha permesso ad
entrambe le parti di esplicitare bisogni ed esigenze professionali,
consentendoci inoltre di respirare, seppur episodicamente, l’atmosfera del
centro1. In uno di questi, un vero e proprio “pranzo di lavoro” a base di
polenta e gorgonzola, abbiamo poi avuto modo di incontrare e conoscere
buona parte degli ospiti del centro diurno.
1.5 - Dalla cartella clinica al calendario
Non abbiamo preso visione a priori di nessuna delle cartelle cliniche dei
possibili futuri membri del gruppo di psicodramma e teatro. Non siamo stati
messi al corrente di nessuna delle loro diagnosi e non abbiamo chiesto
pareri clinici sulle loro patologie. L’équipe ci ha raccontato di loro e poi, in
accordo con la medesima, siamo semplicemente andati per i corridoi e
dentro gli spazi del centro per incontrarli. Così abbiamo conosciuto un po’
tutti, residenziali e diurni, e con ognuno di loro abbiamo almeno incrociato lo
sguardo.
A dire il vero però, il primo incontro con gli ospiti è avvenuto in maniera
indiretta e attraverso una serie di ritratti fotografici degli ospiti realizzati
dall’équipe del centro. Questi ritratti sono andati a comporre un calendario
nel quale ognuno di loro si trova a rappresentare un mese dell’anno. E’ stata
una trovata simpatica, grazie alla quale hanno realizzato un materiale che è
stato tenuto in considerazione per vedere i volti dei possibili futuri
componenti del gruppo. Dalla cartella clinica al calendario, dunque. Un
evidente segno del decadimento dei tempi.
1.6 - La formazione degli operatori e la sintesi della proposta
Un ulteriore accorgimento che abbiamo adottato e che la letteratura
psicodrammatica consiglia caldamente2 è quello della formazione degli
operatori per prepararli ad entrare in sintonia con lo spirito e la filosofia di
fondo del metodo moreniano, che punta di più sulle qualità umane che sulle
abilità e competenze professionali.
In sintesi la nostra proposta ha seguito i seguenti punti:
Incontro col gruppo utenti del centro diurno e proposta diretta del
laboratorio di psicodramma e teatro
Momento formativo dell’équipe psicopedagogica con un duplice intento:
Informativo: dare un’idea di cosa sia in pratica lo psicodramma.
Formativo/attivo: con l’obiettivo di dare agli operatori dell’équipe il ruolo
di io-ausiliari (facilitatori interni al gruppo utenti) indispensabili nel lavoro con
persone con problemi psichiatrici medi e medio-gravi3.
1)
Attivazione del percorso con gli utenti
2)
Elaborazione drammaturgica
3)
Rappresentazione conclusiva (integrazione pubblica)
Punto 1
La selezione delle persone all’interno del gruppo di psicodramma è
avvenuta, come accennato poco sopra, a seguito di una serie di incontri
informali con gli ospiti del Centro4, durante i quali abbiamo sinteticamente
specificato di che cosa si trattava e che non era obbligatorio aderire (gruppo
aperto).
Il nostro obiettivo è stato quello di stimolare negli ospiti la curiosità
rispetto al laboratorio e un tele positivo con i conduttori, per facilitare
un’adesione spontanea, funzionale al lavoro.
Punto 2
La formazione degli operatori era stata inizialmente pensata con un
numero di tre incontri. A seguito di problemi organizzativi riguardanti
l’impossibilità per l’intera équipe della compresenza, si è deciso di
presentare un solo momento formativo di tre ore propedeutico alle tecniche
dello psicodramma e all’interpretazione del ruolo di io-ausiliario all’interno del
gruppo utenti.
Francesco VILETTI
ASTRONAUTI, SUORE, STREGHE, MONACI,
MUSSU(L)MANE, CLOWN E PRINCIPESSE:
DAL PERSONAGGIO ALLA PERSONA
Laboratorio di psicodramma e teatro presso un
centro diurno per pazienti psichiatrici
Premessa
Questo lavoro è il frutto di alcuni anni di esperienza teatrale
compendiati da una formazione quadriennale in psicoterapia
psicodrammatica classica.
“Astronauti, suore, streghe, monaci, clown, mussu(l)mane e
principesse” è uno spettacolo teatrale con finalità integrativa scaturito
dall’esigenza di coniugare il teatro e lo psicodramma classico in un percorso
terapeutico ed artistico rivolto ad una utenza di persone con problemi
psichiatrici medio-gravi che frequentano abitualmente un centro diurno.
La struttura in questione fa capo ad una nota Fondazione milanese.
Non ho condotto il lavoro da solo, ma con una collega
psicodrammatista, Irene Riva, con la quale collaboro da qualche anno e con
la quale mi trovo in una sintonia professionale tale da poter proporre e
impostare dei percorsi continuativi in co-conduzione.
Insieme a lei ho avuto modo di utilizzare e promuovere lo psicodramma
classico sia in contesti comunitari (comunità di tossicodipendenti, comunità
di minori non accompagnati) che formativi (incontri di formazione in scuole di
vario ordine e grado).
La trattazione in questione è dunque il resoconto di un’esperienza per
noi significativa, sviluppatasi all’interno di un contesto comunitario
particolarmente favorevole che ci ha dato modo di crescere e di far crescere
relazioni, azioni e riflessioni in un’atmosfera protetta, stimolante e creativa.
Capitolo 1
CONOSCENZE, CONTATTI E CONTRATTI
1.1 - La Fondazione
La Fondazione con cui abbiamo abbiamo lavorato e con la quale
ancora oggi collaboriamo, è un ente senza scopo di lucro, riconosciuto a
livello regionale (regione Lombardia, n.d.r.) e nazionale, che dal 1991 offre
assistenza sanitaria domiciliare (medica, fisioterapica, infermieristica e
ausiliaria tutelare) in modo diretto o tramite il Servizio Sanitario Nazionale, a
persone malate senza alcuna distinzione:
anziani con patologie cronico/degenerative, portatori di handicap, malati
oncologici, malati di AIDS o che necessitano di terapie specifiche, anche
bambini. Ha realizzato e gestisce strutture residenziali di accoglienza e cura
per malati di patologie specifiche, come AIDS, malattie psichiatriche e
neurodegenerative. L’esperienza maturata negli anni ha sviluppato anche
una preoccupazione educativa, in particolare sulle tematiche proprie
dell’assistenza domiciliare, che si è realizzata nell’organizzazione di corsi di
aggiornamento e formazione professionale, in collaborazione con Università
ed Aziende Ospedaliere.
1.2 - Il Centro residenziale e diurno
Il centro residenziale e diurno che fa capo alla fondazione è un edificio
ristrutturato secondo moderni criteri architettonici che risulta al primo impatto
accogliente e ben tenuto, con uno spazioso orto/giardino esterno ed uno
spazio interno sviluppato su tre piani: un piano interrato con cucina e sala
mensa; un pian terreno, il più spazioso, con reception, uffici del personale
socioeducativo e psicologico , sala tv, servizi, angolo bar, ampia palestra
polifunzionale, sala congressi; un primo piano, nel quale si trovano le
camere degli ospiti del centro residenziale, uffici del personale medico ed
infermieristico e sale per colloqui.
1.3 - Gli operatori
Il personale di riferimento con il quale abbiamo avuto modo di
collaborare è quello che si occupa della gestione e dell’organizzazione del
centro diurno.
Come accennato prima, sono operatori di area medica e
psicopedagogica con formazioni differenti e ben integrate fra loro (psichiatra,
psicologa, educatore, tecnico della riabilitazione psichiatrica).
La loro équipe è stata la preziosa interfaccia che ci ha permesso di
entrare gradualmente nella realtà comunitaria diurna del centro in maniera
omeopatica e non invasiva.
1.4 - Il contatto e il contratto con la committenza
Il primo contatto esplorativo è partito dalla responsabile in primis del
centro diurno, medico e psichiatra, che ci ha convocati presso la struttura.
Il primo colloquio con la dottoressa e l’équipe ci ha dato modo di
intercettare i bisogni e le esigenze della cosiddetta committenza. La richiesta
che ci veniva fatta era quella di proporre un percorso di terapia di gruppo,
rivolto ad una parte degli ospiti del centro diurno che potesse comprendere
anche un momento conclusivo di visibilità esterna del lavoro compiuto.
Da questa richiesta è nata la nostra proposta di un percorso a cavallo
tra l’arte e la terapia che potesse far dialogare teatro e psicodramma
Si è trattato di un contratto non semplice, in quanto espressione di un
bisogno duplice e potenzialmente conflittuale: un percorso di terapia di
gruppo (committenza operativa/centro diurno) che potesse concludersi con
qualcosa di visibile all’esterno (committenza finanziatrice/Fondazione).
Questo apparente paradosso è stato per noi un’iniziale fonte di
preoccupazione deontologica, il cui codice impone il segreto professionale
su tutto ciò che avviene all’interno del set(ting). Le nostre rispettive
competenze professionali ci hanno fatto decidere di proporre un contratto in
cui la cosiddetta “visibilità esterna” del lavoro, in qualunque forma essa si
fosse materializzata, si sarebbe dovuta intendere come qualcosa di
auspicabile ma non vincolante e la cui decisione sarebbe spettata solo ed
unicamente ai due conduttori del laboratorio.
Tale contratto ci ha così fatti sentire maggiormente tutelati e di riflesso ha
tutelato anche il gruppo nascituro.
Col senno di poi e con un pizzico di tono polemico, ci ha anche dato modo di
toccare con mano quanto la proverbiale segretezza professionale sia, in
alcuni casi, più un’ esigenza di chi cura che di chi è curato…
2 Per esempio Forma e Azione (Dotti, 1998)
3 Utile in tal senso è stato lo scritto “Lo staff di io-ausiliari in una struttura
psichiatrica” in “Psicoterapia Psicodrammatica” (Boria, 2005)
4
Non tutti gli ospiti indistintamente, ma quelle persone che ci venivano
indicate dall’èquipe
1
1
Punto 3
Il laboratorio di psicodramma classico e teatro è stato ovviamente il
cuore del percorso. Da esso sono scaturite tutte le situazioni
psicodrammatiche che sono state poi gestite, con le dovute precauzioni, in
chiave teatrale per la rappresentazione finale.
In tal senso il laboratorio ha seguito due fasi distinte:
•
Laboratorio di psicodramma classico e teatro: dove si è lavorato
più sul livello privato, personale e relazionale (livello psicodrammatico e
sociodrammatico)
•
Laboratorio di teatro : dove si è lavorato sull’elaborazione
teatrale e simbolica del materiale emerso (livello teatrale e drammaturgico)
Punto 4
L’elaborazione drammaturgica del materiale è una variabile che
dipende dal lavoro Può essere libera, mista, vincolata, a seconda di quanto
emerge nel corso delle sessioni.
Punto 5
Momento integrativo finale nel quale i partecipanti hanno potuto
mostrare a parenti, amici, altri utenti e ad un ristretto pubblico selezionato5 il
loro lavoro.
1.7 - Il contagio relazionale
Il contagio della formula relazionale è uno degli obiettivi del laboratorio
stesso. A cerchi concentrici le modalità relazionali acquisite e la filosofia
intrinseca del laboratorio si dovrebbero allargare non solo ai
partecipanti/utenti, ma anche al nucleo di persone che si occupa
professionalmente dell’utenza ed infine ad una cerchia sociale più ampia
possibile.
In questo senso le competenze dei due conduttori sono mirate a
“coprire” le differenti aree relazionali sui differenti livelli del sé, attraverso le
tecniche e i metodi specifici. Per semplificare:
- livello psicodrammatico
conosco me stesso
- livello sociodrammatico
conosco gli altri
- livello teatrale
mi faccio vedere
In tal senso è stato molto importante per i conduttori riuscire a
coinvolgere operatori e responsabili istituzionali nell’arco di tutto il progetto.
1.8 - Presentazione e sintesi del percorso
Qui di seguito riporto i passaggi chiave della relazione scritta al termine
del lavoro.
1.8.1 - Introduzione e finalità
“Lo psicodramma classico si configura come una metodologia
terapeutica di gruppo che predilige l’azione, offrendo la possibilità, all’interno
della situazione terapeutica, di esternare bisogni, sentimenti e conflitti
difficilmente esprimibili nella vita reale; questo permette al soggetto di
sperimentarsi in nuovi ruoli, di provare nuovi modi di essere. Esso è in un
certo senso assimilabile ad una palestra realazionale in cui i partecipanti si
allenano a conoscere meglio se stessi e gli altri e a stabilire rapporti
maggiormente soddisfacenti grazie anche all’ausilio di tecniche specifiche
(es: doppio, specchio, inversione di ruolo) che consentono alle persone di
immedesimarsi nell’altro e sentirlo attivando un senso di ascolto, empatia e
comprensione necessari per interagire nelle relazioni. Il conduttore del
gruppo propone delle situazioni-stimolo entro cui i partecipanti sono invitati
ad agire, ad entrare in rapporto con gli altri, a cui seguono momenti di
riflessione in cui si esprime e condivide ciò si è sperimentato e il nuovo che è
emerso ed è stato evocato dal lavoro di gruppo (emozioni, difficoltà, ricordi
etc.), al fine di creare nuovi nessi e collegamenti di aspetti di sé atti a
formare una diversa percezione della propria persona che tenga conto tanto
degli aspetti comportamentali quanto di quelli emotivi e cognitivi. Durante il
lavoro, il gruppo diventa contenitore e testimone dei vari passaggi evolutivi
nei quali i partecipanti sono coinvolti, attivando un senso di appartenenza e
solidarietà in cui l’individuo non si sente solo nelle sue difficoltà e nel
cammino della vita. Oltre ad attività in cui tutti i membri del gruppo sono
egualmente coinvolti, esistono momenti in cui un solo partecipante è
chiamato a mettere in scena una parte di sé (un ricordo, emozioni, desideri,
un conflitto, una situazione di vita reale che ritiene significativa); anche in
questo caso possiamo intendere il lavoro psicodrammatico nei termini di un
allenamento: il protagonista (così viene chiamato chi mette in scena una
propria situazione), guidato dal conduttore e accompagnato in taluni contesti
da io-ausiliari professionisti, cerca di trovare modalità relazionali
maggiormente funzionali, questa volta non con gli altri partecipanti del
gruppo bensì con le persone significative della sua vita (impersonificate dagli
altri componenti del gruppo)” 6. Lo psicodramma è di fatto un metodo
d’azione. Il luogo fisico adibito allo svolgimento delle sessioni è il teatro (in
questo caso una sala da noi debitamente allestita con luci ed oggetti scenici)
poiché in esso si svolgono azioni destinate ad essere oggetto di una serie di
sguardi. In tal senso la sua integrazione con questa forma d’arte e le sue
tecniche, mutuate dall’animazione e dall’antropologia teatrale, dal teatro di
ricerca e sperimentale diventa un processo naturale e quasi osmotico che
riporta lo psicodramma alle sue origini (Stegreiftheatre). Questo tipo di
intervento prevede dunque, per la riuscita stessa dell’intenzione terapeutica,
formativa e artistica la partecipazione attiva del gruppo, che viene
considerato la risorsa primaria per ottenere il massimo sviluppo degli
obiettivi del singolo.
1.8.2 - Numero Incontri
La proposta iniziale prevedeva un numero minimo di 14 incontri più tre
incontri di formazione con operatori.
Il progetto si è poi realizzato con un numero complessivo di 22 incontri
(21 incontri di laboratorio con gli utenti e uno con gli operatori).
1.8.3 - Tipologie diagnostiche e criterio di inclusione/esclusione
Uno dei criteri di inclusione è stato quello dell'eterogeneità diagnostica
che mira ad avere un gruppo costituito da utenti con patologie varie per
gravità ed eziologia.
L'unico criterio di esclusione di pazienti dal gruppo è costituito da una
grave compromissione delle capacità cognitive, motorie, narrative.
1.8.4 - Numero partecipanti
Il numero max utenti consentito era 8. Nel gruppo era sempre garantita
la presenza di almeno due operatori in qualità di io-ausiliari
1.8.5 - Organizzazione
Ogni sessione aveva una durata di 1,5 h ed era preceduta da un breve
aggiornamento da parte degli operatori. Al termine della sessione era inoltre
previsto un breve momento di restituzione/riflessione tra i conduttori e gli
operatori presenti nel gruppo.
1.8.6 - Tempo
Le sessioni di psicodramma e teatro hanno avuto una cadenza
settimanale. Il mercoledì mattina dalle 10.30 alle 12.00 in un arco di tempo
di sette mesi circa, pausa estiva compresa.
Il primo incontro si è svolto in data 10/4/2007, la rappresentazione ha
avuto invece luogo sabato 17/11/2007, alle ore 16.00, presso il centro.
1.8.7. - Spazio
Lo spazio destinato alla sessione (set/setting) era la palestra per la
riabilitazione debitamente allestita e predisposta dai conduttori.
Palestra e sala TV sono state poi messe a disposizione dal centro per
la rappresentazione conclusiva, che si è pertanto svolta in due spazi
differenti.
1.8.8. - Il percorso in sintesi
Il laboratorio è stato per i partecipanti un modo per creare nuove e più
significative relazioni all’interno del gruppo. Tale unione ha favorito
l’emergere immediato di fattori terapeutici quali la condivisione, l’universalità
e l’infusione della speranza7.
L’atmosfera giocosa e il clima di fiducia hanno poi dato ad ognuno la
possibilità di affrontare le problematiche esistenziali individuali
(responsabilità, lutto, depressione ecc.) attraverso le pratiche e le tecniche
tipiche dei metodi attivi, atte a stimolare un’azione ed una consequenziale
riflessione dell’azione prodotta.
Questa disponibilità a mettersi in gioco e ad entrare in relazione ha poi
favorito, seppur nel rispetto delle differenze individuali, l’emergere di qualità
espressive originali e stili comunicativi particolari, che sono poi state
valorizzate in fase di rielaborazione teatrale.
Tale passaggio, dal livello psicodrammatico e dunque privato a quello
teatrale e dunque pubblico non è stato ne brusco ne imposto, ma condiviso
collegialmente attraverso una sorta di contratto con il gruppo.
Pertanto il percorso psicodrammatico e quello teatrale non si sono
contrapposti, ed hanno anzi contribuito entrambi all’ottimizzazione delle
risorse emerse in corso d’opera.
La rappresentazione che ne è scaturita, che aveva come sottotitolo dal
personaggio alla persona8 è stato il frutto di un percorso che ha voluto
porre l’accento sul significativo, prolifico e circolare rapporto tra la persona e
il personaggio, tra la realtà e la semirealtà, punto focale di tutto il lavoro.
La rappresentazione teatrale è sempre un atto pubblico, ma con sfumature
differenti a seconda del tipo di pubblico presente e del luogo della
rappresentazione. Un conto è andare in scena nel Teatro Comunale di
fronte ad un pubblico in larga misura composto, per chi è in scena, da
sconosciuti; un altro conto è rappresentare qualcosa all’interno dello stesso
spazio nel quale il laboratorio si è svolto, rivolgendosi ad un pubblico di
parenti e amici, una comunità familiare.
In questo secondo caso il lavoro assume davvero il sapore di una
condivisone intimamente pubblica.
6 Andrea Vanni
Yalom, 1974
“…è fondamentale l’essere riconosciuti come persona, cioè soggetto
avente valore, perché le patologie con cui oggi più frequentemente ci
dobbiamo confrontare sono disturbi di personalità e patologie narcisistiche
che hanno la loro origine in fasi molto arcaiche dello sviluppo in cui spesso
non è stato riconosciuto all’infante, dalle figure parentali e dal contesto
ambientale, proprio il suddetto diritto ad essere soggetto-persona (…) il
piccolo gruppo appare lo strumento privilegiato per comprendere al meglio il
formarsi dell’identità anche patologica nei suoi elmenti costitutivi
interpersonali”. (Corbella 2003)
7
5
8
2
Capitolo 2:
LE PRIME DODICI SESSIONI
Quanto descritto nel capitolo introduttivo ci è servito dunque per creare
le premesse all’inizio dei lavori. Al termine degli incontri informali con gli
ospiti e degli incontri organizzativi con l’équipe siamo riusciti a creare con
entrambi i gruppi una familiarità positiva ed un adeguato livello di curiosità
nei confronti dell’attività proposta.
L’incontro formativo con gli operatori ci ha poi dato l’opportunità di
eliminare possibili malintesi e fantasie professionali nei confronti dello
psicodramma9.
In questo capitolo passerò in rassegna le prime dodici sessioni, per
ognuna delle quali riporterò le attività che ho ritenuto essere le più
significative per la comprensione del lavoro nella sua globalità. La fonte delle
riflessioni sono gli appunti presi al termine di ogni sessione di lavoro.
2.1 - Una premessa sullo spazio
Prima di entrare nel merito del lavoro, mi sta a cuore porre l’attenzione
su un aspetto del metodo psicodrammatico, forse poco considerato ma
sicuramente importantissimo: lo spazio.
Una quantità innumerevole di autorevoli personalità del teatro e dello
psicodramma ci mostrano quanto fondamentale sia la gestione, la
strutturazione e la disposizione dello spazio di lavoro.
Apparirà ovvio, ma c’è spazio e spazio: uno scantinato è diverso da una
cucina, che a sua volta è diversa da una palestra, da una sala mensa e via
discorrendo...
In questo senso mi permetto di esprimere il mio rammarico per la totale
o parziale assenza di cultura dello spazio nelle strutture sanitarie,
comunitarie e aggregative nel nostro bel paese.
La mia breve esperienza mi ha invece insegnato che la creatività e la
spontaneità, gli ingredienti base dello psicodramma, hanno bisogno di un
buon luogo per esprimersi così come il nostro corpo ha bisogno di ossigeno
per respirare.
Nel centro diurno è stata messa a nostra disposizione una palestra
normalmente utilizzata per la riabilitazione, con parquet, ottimo isolamento e
climatizzazione sia d’estate che d’inverno. Un posticino niente male,
insomma.
Teatranti e psicodrammatisti hanno in comune anche questo, che
ovunque si trovino a lavorare, loro primario compito è sempre quello di
trasformare l’ambiente per renderlo il più “psicodrammatico” e “teatrale”
possibile10, portando sempre con sé il proprio armamentario di base11.
2.2 - Il primo incontro: un messa psicodrammatica con battesimo
Per il primo incontro abbiamo pensato di utilizzare un piccolo
stratagemma: utilizzare il calendario.
Abbiamo ricavato da ogni mese, ritagliandolo, il ritratto fotografico di
ognuno di loro e lo abbiamo adagiato su di una sedia disposta in cerchio
dentro il tappeto circolare. Il nostro intento era quello di dare alle persone
che sarebbero arrivate un’ impressione di forte familiarità, un messaggio
nella bottiglia che suonasse come: voi arrivate adesso, ma per noi eravate
già qua da un po’….vi pensavamo già12.
Questo primo incontro, inoltre, ci ha dato una dimostrazione pratica
dell’importanza intrinseca dell’aspetto rituale in qualsiasi attività di gruppo, e
di quanto il rito sia direttamente collegato alle strutture culturali individuali e
collettive di ogni società, in una parola, al suo immaginario. La narrazione
per attività della sessione può forse esemplificare quanto esposto sopra;
riporto quasi interamente gli appunti dell’incontro perché la ritengo un
momento di fondamentale importanza che ha dato un’impronta significativa
a tutto il lavoro successivo.
1° attività: presentazione formale dei due conduttori, al di fuori del
tappeto blu.
La presentazione dei due conduttori ci è sembrata utile per rompere il
ghiaccio, formalizzare la regola del tu, dare loro un modello di presentazione
(exemplum), infine dare un tempo di decompressione prima dell’ingresso
vero e proprio (rituale) dentro il tappeto.13
2° attività: ingresso rituale nel tappeto
Una volta entrati in maniera piuttosto solenne dentro il tappeto14
ognuno, a turno, deve dire il suo nome e sedersi sulla sedia sulla quale è
stata es-posta la propria fotografia. A questo punto si fa un altro giro di nomi
con indicazione che al nome singolo risponde il gruppo in coro.
3° attività: qualcosa di me
I partecipanti si tirano la palla e a turno ognuno dice qualcosa di sé
4° attività: Il colore dell’emozione
Scegliere il telo colorato che rispecchia l’emozione dominante e dire il
colore del proprio stato emotivo al gruppo
N.B: In questo frangente Clementina chiede di uscire perché si sente
soffocare
6° attività: verbalizzazione con metafora
Ognuno mette in parole il proprio sentire attraverso una metafora che
viene trascritta su di un cartellone.
Metafore prodotte
Teresa
Gialla come un limone aspro
Gino
Come un pesce fuor d’acqua
Cleofe
Come un elefante che andava “a passo a passo”
come “Jumbo-Dumbo”
Susanna
Come se stessi correndo in un prato
Direttore
Come un pittore caduto in una tavolozza di colori
Susanna
Come se fossi a messa
Cleofe
Come se stessi facendo ginnastica
Susanna
Come se fossi una ballerina
Marco
Come una farfalla
Ottavio
Come un uccello in montagna
7° attività: scelta della metafora che più è piaciuta
Viene scelta la metafora della messa
8° attività: gioco di ruolo e intervista
Ognuno si sceglie un ruolo inerente al tema della messa e gli dà forma
con teli e oggetti
Ruoli creati 15
Teresa
Suora di clausura
Gino
Fedele burlone rompiscatole che disturba il
normale andamento della funzione
Cleofe
Suora volontaria che va negli ospedali e nei
manicomi ad aiutare i casi più gravi
Susanna
La Madonna, felice anche se il figlio è crocefisso.
Si lamenta un po’ di dover fare le pulizie di casa
Marco
Questuante di elemosine
Ottavio
Monaco benedettino in crisi
Monica (aux)
Il candelabro che sta sull’altare
Matteo (aux)
L’aspersore
Le interviste in inversione di ruolo con il personaggio che sono seguite
sono state condotte in un clima leggero ma attento e sono state vissute
come un momento di espressione di sé protetto, che ha dato ad ognuno
l’occasione di presentarsi attraverso il velo dell’immaginazione.
È stato importante perché ha velocizzato enormemente il processo
conoscitivo tra i direttori e i membri del gruppo e tra i membri stessi che
potevano così vedersi con occhi differenti.
Le interviste hanno inoltre sancito implicitamente il contratto della verità
soggettiva: se tu mi dici di essere la balena bianca io ti tratto come se fossi
la balena bianca….
Il set ha assunto poi una forma piuttosto mediatico-teatrale sottolineata
dall’utilizzo di un microfono semireale per le interviste. Il conduttore in questo
13
Normalmente si porta il tappeto perché ci si trova a lavorare su
pavimenti poco caldi e accoglienti. Ma il tappeto ha anche questa funzione
rituale di sancire uno spazio “altro” diverso, “contenitivo” per usare un
termine psicodrammatico ed “extraquotidiano” per usare un termine
tipicamente teatrale.
14
L’attenzione è stata posta sulla polarità dentro/fuori per
sottolineare l’extraquotidianità del nuovo spazio, che diventa così un tempio.
Nel primitivo significato, indicato per esempio da Varrone, tempio indicava
una porzione separata; specialmente lo spazio immaginario, che l’augure
segnava nei cieli con la sua bacchetta, al fine di circoscrivere un dato limite,
dentro il quale faceva le sue osservazioni sul volo degli uccelli. Significava
pure una porzione di campo consacrato dall’augure e destinato a fini religiosi
e particolarmente per prendere gli auguri. In effetti il termine latino templum
non indicava ab origine l’edificio, ma un luogo consacrato, appunto, orientato
secondo i punti cardinali secondo il rito dell’inaugurazione corrispondente
allo spazio sacro del cielo.
15 I ruoli, dunque, sono particolarmente funzionali nella fase di
trasformazione e si situano lungo quel crinale, a volte sottile, che divide la
fantasia dalla realtà. In particolare nel gruppo sembrano essere al servizio
delle fantasie infantili, in quanto rappresentano il mondo adulto visto con gli
occhi dei bambini, con distinzioni molto nette, con significati certi, senza
sfumature (Corbella, 2003).
In effetti spiegare il proprio mestiere non è sempre una cosa semplice e
immediata come si potrebbe pensare. Dire sono psicodrammatista e dire
sono idraulico non genera in chi ascolta le medesime reazioni. Un idraulico è
un idraulico (così mi hanno detto mio padre e mio fratello, che fanno questo
mestiere), uno psicodrammatista è un punto interrogativo curioso, e talvolta
venato di un pizzico di ironia stampato negli occhi della persona con la quale
hai provato a fare, come sono solite dire alcune minoranze, outing.
9
E per far questo non chiediamo molto; “ posso scegliere uno
spazio vuoto qualsiasi e decidere che è un palcoscenico spoglio” (P. Brook,
1968)
11
Nel nostro caso, un tappeto blu di moquette circolare di 5 m di
diametro, un’alogena con diffusore di luce da 500w, cuscini, gelatine,
cappelli, maschere, oggettistica di vario genere e natura, anche non ben
precisata.
12
Questo mi porta a fare riflessioni sul processo di genesi di un
gruppo. Quando nasce? Quale è il vero momento in cui prende forma e vita?
“Il gruppo, dunque, prima ancora di essere nella realtà, si costituisce come
oggetto immaginario sia nella mente del conduttore sia in quella dei pazienti”
(Corbella, 2003).
10
3
caso diventa uno show-man (in senso antropologico16) che non mira
all’audience ma alla compliance (tanto per fare un po’ gli anglofili).
I saluti finali sono stati molto caldi ed intensi, segno che il gruppo è
nato, e nel migliore dei modi.
Sensazioni a posteriori
In quel primo incontro ho pensato che la nostra attenzione all’aspetto
rituale aveva rimandato al loro co-conscio l’immagine di un altro rituale alla
portata di tutti i presenti e socialmente condiviso ed accettato: la messa
cattolica.
All’interno di questo nuovo spazio semireale condiviso ognuno ha avuto
così modo di travasare sé stesso.
Mentre intervistavo questi personaggi avevo la reale percezione che
essi mi si stessero rivelando per quello che realmente erano, dicendomi che
avevano capito il gioco e che avrebbero giocato con me17. I nostri inconsci
stavano comunicando, ognuna di quelle interviste ci riservava un sottotesto
chiarissimo che si sarebbe rivelato più nitidamente con il prosieguo del
percorso18.
In quei momenti ci siamo affidati l’un l’altro in un terreno che non
prevedeva più verità o menzogna, ma solo accettazione. Un terreno di
coltura e di cultura dal quale sarebbero sbocciate idee, emozioni,
riflessioni… e personaggi per la rappresentazione finale.
Considerazioni a posteriori
Durante i quattro anni di scuola di specializzazione circolava, e penso
circoli ancora, una credenza professionale, difficilmente dimostrabile, ma
molto accattivante: la prima sessione di psicodramma può offrire al direttore
attento una molteplice quantità di utili informazioni diagnostiche e
prognostiche.
Riconoscendomi uno scarso valore di diagnosta e prognosta, non
azzardo grandi considerazioni in tal senso (ma non mi esimerò). Il teatrante
che alberga in me però è rimasto folgorato.
In effetti, la prima cosa che balza agli occhi è quanto questo primo
incontro abbia colpito il nostro immaginario e retroagito anche a lungo
termine sul lavoro finale (rappresentazione integrativa) nel quale saranno
presenti buona parte dei personaggi/persone che qui hanno incominciato a
fare capolino.
Qui di seguito indico per ogni individuo il personaggio corrispondente
ed altre essenziali annotazioni:
Angelo
Monaco benedettino in crisi
Angelo è un ex studente di filosofia. Appare cordiale e sorridente,
sebbene mantenga sempre un certo distacco dalle cose e dalle persone. Si
presenta come un monaco benedettino inizialmente ben saldo nelle sue
convinzioni e poi sempre meno convinto della sua fede. Un personaggio in
crisi, che ha messo in discussione i valori ereditati dalla sua religione.
Gino
Fedele burlone che disturba il normale andamento della funzione
Gino è un chiacchierone gioviale e spiritoso, che non sa stare al suo
posto. Interrompe spesso gli altri per introdurre il suo punto di vista o una
sua battuta. E’ una persona fuori dalle righe così come il suo personaggio, il
fedele rompiscatole, che lo rispecchia assolutamente.
Teresa
Suora di clausura
La sua disponibilità sulla metafora “Gialla come un limone aspro” ha
spiazzato tutti. Anche il suo personaggio ci è parso molto sintonico alla
persona.
Cleofe
Suora volontaria che va nei manicomi ad aiutare i casi più gravi
Al termine di questo incontro gli operatori si stupiranno della
disponibilità a mettersi in gioco mostrata da Cleofe, normalmente molto
chiusa e riservata e poco disponibile a mostrarsi e a mettersi in gioco.
Evidentemente i legami telici e l’ambiente predisposto e contenuto hanno
dato buoni esiti consentendole di percepire un clima di fiducia e di empatia.
Susanna
La Madonna, felice anche se il figlio è crocefisso.
Si lamenta un po’ di dover fare le pulizie di casa.
Susanna si colloca a mezza via tra due grandi categorie moreniane:
creatori disarmati VS deficienti spontanei. Ha limitate risorse cognitive che
non le permettono di elaborare adeguatamente l’informazione. Anche le sue
capacità narrative sono limitate e tendenti alla produzione stereotipica di
pensiero. Di contro accede in maniera più efficace all’area emotiva e
posturale e alla rielaborazione fantastica. Il suo personaggio “gumpista” (da
Forrest Gump ndr) appare spiazzante e surreale: una Madonna felice
malgrado la crocefissione del figlio, ma con tante pulizie arretrate.
Marco
Questuante di elemosine
Marco fa il questuante di elemosine, quello che “fa il lavoro sporco”, a
contatto con la materia. Non è facile creare un ponte con lui.
Clementina
Clementina in questa prima sessione esce prima di arrivare alla
creazione di un personaggio per un probabile leggero attacco di ansia
generato dal primo impatto col gruppo e con la nuova situazione.
Fortunatamente avrà modo di rielaborare positivamente, anche grazie al
supporto esterno della psicologa del centro, questo “battesimo”.
Monica, aux
Il candelabro che sta sull’altare
Monica, la psicologa del centro diurno, mostra fin da subito a livello
simbolico il suo complesso ruolo portatore di al meno tre istanze:
- ausiliaria, dentro il gruppo;
- psicologica, fuori dal gruppo;
- organizzativa, essendo il tramite principale tra i conduttori e il centro diurno.
Matteo, aux
Aspersore
Anche Matteo sembra trasporre a livello simbolico il suo ruolo di
operatore che somministra la sua “dose” di incenso quotidiana facendosi
garante del delicato equilibrio degli umori dei frequentatori del centro.
2.3 - Seconda sessione: Il tappeto magico
Per il secondo incontro decidiamo di esplorare il filone fantastico
simbolico e di lavorare su una fantasia guidata. Portiamo con noi un tappeto
orientale, e dopo una breve attivazione psicomotoria ed un lavoro di
reciproca conoscenza, li facciamo distendere supini. Cerchiamo insomma di
creare le condizioni ambientali più adeguate per stimolare in loro una
fantasia di viaggio. Ognuno dei partecipanti porta le sue immagini, infine il
gruppo e non il direttore sceglie un protagonista: è Clementina, che porta un
ricordo di un viaggio fatto con i genitori venti anni fa circa a Venezia.
Lavoro con la protagonista
Presa in carico
Costruzione della scena
C’è il canal grande, tre gondole, la stazione dei treni come sfondo, un
pozzo al lati del quale ci sono i genitori di Clementina (20 anni fa circa).
Clementina sta scattando una foto.
Azione scenica:
Clementina va alle spalle di ognuno dei due genitori e fa un doppio
fumetto, poi doppia anche se stessa.
Integrazione
Clementina attuale guarda la scena dalla balconata e poi va dai genitori
e li congeda con un saluto.
Sharing
Lo sharing di questo lavoro è molto sentito e partecipato. Clementina,
che nella sessione precedente se ne era uscita anticipatamente, ci ha
sorpresi tutti, operatori/aux compresi.
Anche questa è stata una sessione/matrice molto significativa perché
ha toccato le corde intime e personali di tutti i presenti, essendo il tema il
rapporto con i genitori 19.
2.4 - Terza sessione: Un nuovo ingresso
Di questa sessione la parte più significativa riguarda l’ingresso di un
nuovo membro: Piero.
Piero non era stato inserito dall’équipe nella rosa dei possibili candidati
a far parte del gruppo di psicodramma e teatro. In effetti la sua lesione post
traumatica (incidente stradale) al lobo frontale non lo ha restituito al mondo
totalmente integro. Pur essendo costituzionalmente sano, Piero mostra
alcuni evidenti limiti relazionali di origine organica. Ha delle movenze
piuttosto lente ed un andatura meccanica alternata a momenti di staticità e
fissità durante i quali sembra assorbito da un buco nero, o inserito dentro
una piccola porzione di vuoto.
La sua limitata mobilità e la difficoltà di accesso ad un pensiero
narrativo adeguato hanno fatto propendere gli operatori per una sua
esclusione dal gruppo. A Piero però non manca la curiosità; è quella, suppo-
“Lo SRAMAN coincide con l’uomo-magia o con l’uomo medicina o, più
semplicemente, con il terapone (colui che esercita la THERAPEIA). Tuttavia
questo termine sembra presentare connotazioni sospette per non pochi
autori moderni. Lo sciamano appare infatti strano a chi lo pre-giudica tale (a
chi ne subisce la superstizione). E’ quindi diffuso un atteggiamento di
diffidenza nei suoi confronti (come della magia, dello spiritismo, della
chiaroveggenza endoscopica ecc.), soprattutto da parte di chi pratica
professionalmente queste arti sotto denominazioni più scientifiche. Lo
sciamano è dunque un tabù, di cui molti studiosi secondativi conoscono ben
poco, al di fuori del fatto che è meglio lasciarlo stare” (Perussia, 2003)”.
Quindi coi tempi che corrono è forse meglio farsi ispirare da Bonolis piuttosto
che da Castaneda o da qualche altra testa calda. Così i secondativi vanno
meno in ansia è gli sono molto più facili la critica e il sorrisetto compiacente
e generosamente tollerante nei confronti dei primitivi.
17 “I riti di accoglimento si fondano sul concetto che lo psicodramma è azione
e quindi, in senso lato, gioco; la partecipazione al gruppo è perciò
subordinata alla disponibilità a giocare” (De Leonardis, 1994)
18 “I riti di iniziazione hanno tempi e modi diversi, secondo la personalità del
nuovo membro. Questi però, prima o poi, dovrà forzare le proprie resistenze
e donare la propria partecipazione sotto forma di comunicazione intima o
come estroiezione drammatica del suo mondo interno”.(ibidem)
16
In particolare l’aspetto dell’elaborazione del lutto sarà un importante
collante di gruppo.
19
4
Nome
Piero
Oggetto
La sua moto
Clementina
Pepucia, una bambola ricordo della sua infanzia
Cleofe
Il suo stereo
Susanna
Ottavio
Motivazione
Piero è un appassionato di motori, la moto per lui è sinonimo di
libertà e di viaggio.
Pepucia ha fatto compagnia a Clementina in un ambulatorio in
Argentina, quando, all’età di quattro anni, venne operata da un medico
di origine ebrea al quale associa un vissuto persecutorio.
Cleofe ci dice che ama molto la musica, che è una parte
importante della sua vita.
Susanna mostra di avere desideri autonomici che la portano ad
oggettivare un auto come sinonimo di indipendenza.
Ottavio mostra un aspetto della sua depressione attraverso
l’oggetto-letto, al quale dice di essere molto affezionato.
Marco porta un mondo nuovo, un nuovo pianeta: Marte, il pianeta
rosso.
La patente, un’auto (Susanna non riesce a portare un
oggetto reale, porta un oggetto desiderato)
Il suo letto
Marco
Il pianeta Marte (anche Marco fa fatica a stare sul piano
di realtà)
niamo, che l’ha condotto da noi.
Per concludere, Piero ha dimostrato subito “qualità” probabilmente poco
spendibili a livello psicodrammatico (anche se non sarà così) ma
sorprendentemente intriganti a livello teatrale. La sua fissità e la sua staticità
lo hanno reso fortissimo dal punto di vista scenico: un mimo a-mimico,
capace di mantenere la sua posizione, il suo centro, come, se non meglio,
di una guardia vaticana, un vero maestro del passo neutro20. Con lui il
gruppo ha chiuso il cerchio.
2.5 - Quarta sessione: Contratti e Botteghe
Un buon contratto si fa quando le due parti hanno incominciato a
conoscersi. Diversamente si rischia troppo, e ci si può far male. Questa
sessione è servita per sondare e capire se c’era la possibilità di spingersi un
po’ oltre lo steccato, tastare gli umori 21 per capire se c’era davvero un reale
desiderio non solo introspettivo , ma anche espressivo.
Dopo aver avuto modo di affinare i nostri tele, trasformarli in movimenti
empatici e simpatici, di mettere i primi tasselli alla costruzione del co-conscio
e co-inconscio, abbiamo pensato di dare a questa sessione una base
contrattuale ed una progettuale. Nella fattispecie nella prima parte con
l’ausilio dell’immancabile cartellone abbiamo siglato una sorta di “contratto
col/del gruppo” (del dare e del ricevere). In pratica cosa posso dare a questo
gruppo e cosa mi aspetto (tabella 1).
Tabella 1: Il contratto del dare e del ricevere
Cosa posso dare a questa esperienza
do la mia responsabilità (Cleofe)
do a tutti la mia felicità (Susanna)
dare tanto affetto a loro (M.Luisa)
dare responsabilità e fare teatro (Demetrio)
dare la mia voglia di recitare facendo un teatro creativo (Gino)
la mia creatività (Piero)
dare affetto (Piero)
la mia disponibilità (Greta, aux)
dare aiuto (Monica)
Da questa tabella/contratto, che in alcuni punti colpisce per il suo
candore e spontaneità (do la mia felicità e mi aspetto tanti bacetti) emerge
un gruppo che ha voglia di conoscersi e farsi conoscere.
La conclusione della sessione, attraverso l’attività “la bottega delle
qualità” garantisce un ulteriore approfondimento attraverso il riconoscimento,
la condivisione e lo scambio delle qualità di ognuno dei partecipanti.
2.6 - Quinta sessione: La scatola magica
La scatola magica è un’idea che abbiamo ricavato dall’attività intitolata
“Il sacco” (Pitruzzella, 2004):
“Il gruppo sta seduto in semicerchio. Al centro, una sedia vuota con
accanto un sacco. I partecipanti vengono invitati a sedersi a turno sulla
sedia, prendere il sacco e immaginare di tirarne fuori un oggetto reale,
legato ad un ricordo personale, e raccontare di quel ricordo.”
Volevamo dare ai ricordi che emergevano in corso d’opera un
contenitore, qualcosa che li potesse raccogliere simbolicamente e
realmente22.
Così abbiamo pensato di sostituire una scatola al sacco e di impostare
il lavoro così come indicato, sfumando un po’ la consegna: non dovevano
tirar fuori necessariamente un oggetto abbinato ad un ricordo, sarebbe
bastato un oggetto significativo per loro.
La scatola magica
Al termine dell’attività specifica abbiamo poi regalato una scatola
magica (una scatola dei ricordi) ad ognuno dei partecipanti.
Queste scatole avrebbero avuto la stessa funzione di una casella di
posta, se qualcuno avesse voluto portare un suo oggetto significativo e
magari un ricordo ad esso associato lo avrebbe potuto fare, ad ogni inizio
sessione, utilizzando la sua scatola personale.
Gli operatori poi, insieme al gruppo ma in uno spazio/tempo diversi,
Cosa mi aspetto da questa esperienza
tanti applausi
tanti complimenti
bacetti
complimenti e applausi
la serenità
unione
affetto
imitazione (personalizzazione)
ricevere un’ esperienza nutriente
avrebbero aiutato i partecipanti a personalizzarla creativamente.
2.7 - Sesta sessione: Oggetti, ricordi e riflessi
In questa sessione, grazie alla scatola dei ricordi, emergono i seguenti
oggetti/ricordo (in corsivo riporto gli appunti):
Susanna: una bellissima bambola di pizzo
Susanna fa vedere il suo lato infantile portando questa bambola che le
fa venire in mente la sua infanzia e, scopriremo poi, anche la sua giovinezza
di ragazza madre 23. In particolare Susanna riporta di essere stata sempre
investita, fin da piccola, di incarichi di responsabilità e fatica da parte dei
suoi genitori. Tant’è vero che le viene in mente la favola di Cenerentola.
Clementina: Duffy Duck
Clementina porta invece qualcosa di sorprendentemente recente: il
momento dei cartoni animati visti con sua madre quando lei aveva 47 anni a
casa loro.
Anche lei mostra un suo aspetto molto infantile attratto da questo
papero nero, un po’ sfortunato al quale scoppiava sempre il sigaro in faccia.
Stimolata ad animare il pupazzo (come fosse una marionetta) e decentrata
Clementina da un giudizio poco lusinghiero su questa donna di 47 anni
poco snodata e molto rigida (al contrario della mamma) che ancora guarda i
cartoni animati.
Ottavio: la pila scarica
Ottavio porta una pila scarica come segno di un suo trascorso
depressivo. Il letto e la pila scarica saranno in effetti i simboli che andranno
ad effigiare lo stemma del suo momentaneo “casato”, e che lo
accompagneranno durante il percorso.
È un esercizio teatrale, è l’uno, il primo passo. Trovare il centro/fare
l’appello/fare un passo avanti/Stop/tornare indietro/stop/finito. (Madia, 2003).
Sembra facile, non è così. Questo esercizio, che arriva dalla pedagogia
teatrale novecentesca e che ho ritrovato in un simpatico manuale di teatro
per bambini, ti spalanca letteralmente un mondo: quello del corpo e della
corporeità. Non è un caso probabilmente che sia stata proprio la pratica
teatrale di ricerca, sperimentale, antiaccademica e laboratoriale del ‘900
quella che per prima ha accettato di affrontare con coraggio e generosità
uno dei più importanti problemi della nostra cultura moderna occidentale: la
scissione tra mente e corpo.
Si può ben dire che è proprio grazie a questi gruppi di persone talvolta
isolate (si pensi al Teatr Laboratorium di J. Grotowsky ), ostracizzate (si
pensi al Living theatre di J. Beck e J. Malina), autoesiliate (si pensi all’Odin
Teatret di Barba) nella cerchia delle quali mi verrebbe istintivo collocare
prima lo Stegreiftheater di Vienna, poi Sanatorium di Beacon di Moreno
(quest’ultimo insieme alla sua musa Zerka Toeman), e grazie a singoli
pensatori talvolta considerati dall’opinione del tempo dei folli o, nella migliore
delle ipotesi, dei visionari (si pensi ad Antonin Artaud o a W. Reich) che il
corpo/gesto ha incominciato ad uscire dal cono d’ombra proiettato su di lui
dalla mente/parola.
21 Psicodramma e teatro sono due parole che scatenano fantasie, desideri,
paure, ansie ecc. Volevamo dare una forma a questa pentola di umori.
20
La scatola, o valigia della memoria/Il cassetto segreto sono dei
classici della pedagogia autobiografica.
23
Nella sessione 7 Susanna porterà una foto di sua figlia appena
nata in braccio alla madre (la nonna della piccola).
22
5
Mario (aggiornato dai compagni anche Mario può pescare dal suo
scatolone magico un oggetto che, nel suo caso, essendo stato assente la
volta precedente, è ancora immaginario): il collier di perle della madre
Mario fa fatica a trovare un oggetto e solo dopo varie circonlocuzioni
che fanno parte comunque del suo stile comunicativo, arriviamo al collier di
perle regalato alla mamma, nei confronti della quale Mario nutre un forte
affetto.
2.8 - Settima Sessione: Personaggi della fantasia
Dopo un ulteriore lavoro sugli oggetti/ricordi della scatola, impostiamo
un’attività incentrata sulla creazione di nuovi personaggi/ruoli che, una volta
creati, si devono presentare ai compagni.
Ottavio: Topolino
Sembra molto divertito, non trattiene in certi momenti il riso, poi
stimolato dalle domande parla dei Bassotti e di Paperon de Paperoni, delle
due città Paperopoli e Topolinia. Ottavio assume il ruolo del più intelligente,
di colui che svela ogni trucco e mistero.
Susanna: “Musu(l)mana” la danzatrice del ventre
Susanna, che nella vita di tutti i giorni ama andare a ballare, si presenta
nei panni di una danzatrice del ventre, è velata, alla fine improvvisa una
danza, danzando però alle spalle del pubblico.
Quando il direttore le chiede di poterla rifare davanti al pubblico con una
musica adatta lei acconsente. I compagni applaudono.
Clementina: la principessa di ghiaccio
Il suo personaggio è un ricordo della sua infanzia, una favola che le
raccontavano quando era piccola: la principessa di ghiaccio, con la quale
Clementina si identifica, un’antieroina dal cuore freddo, incapace di provare
sentimenti, e in grado di fare fatture. Nella verbalizzazione Clementina dirà
di sentirsi molto simile a lei, soprattutto per quanto riguarda l’abilità nel
congelare ogni sentimento umano.
Marco: Tex accompagnato da Willer e dal fedele cavallo
Marco si è messo nei panni di Tex, in effetti sembra avere le phisique
du role, in una versione più comica. Marco non chiacchiera molto. E’ meno
“creativo” degli altri compagni. E’ molto mimetico e poco poietico, tende
sempre a riproporre o rivisitare qualcosa di già detto dai compagni, un po’
come i bambini molto timidi e insicuri. Ma Tex è davvero una sua trovata. Si
scoprirà poi che era un fumetto che leggeva sempre suo padre.
Piero: Cenerentola con la faccia da cane
E’un personaggio piuttosto inquietante. Non si capisce se sia il frutto di
una sua elaborazione simbolica, o di un cortocircuito. Sembra veramente
uscito da non si sa quale piega cerebellare.
Monica (io-ausiliario): il gabbiano Jonathan Livingstone
La scelta dell’ausiliario è degna di questo ruolo. Porta la storia del
gabbiano Jonathan perché gliela raccontava il padre quando era piccola.
Mary sente che questa storia può far bene e servire al gruppo.
Greta (io-ausiliario): La bella addormentata nel bosco
Porta un personaggio che sente molto lontano da sé (l’altro da sé):
Biancaneve alle prese con i sette nani.
2.9 - Ottava sessione: La teatralità
In questa sessione lavoriamo sulla coesione di gruppo attraverso
attività di matrice più marcatamente teatrale che non psicodrammatica. Una
sorta di lunga “attivazione psicomotoria” con finalità espressiva. Un training
per abituarsi alla presenza scenica, che tradotto in termini psicodrammatici
significa una maggiore attenzione all’area posturale/motoria ed emotiva.
Il gruppo si diverte e partecipa attivamente al lavoro.
Dalla scatola dei ricordi emergono i seguenti oggetti:
•
Gino porta la cornice senza foto24 di suo padre
•
Piero un braccialetto di metallo regalo di una persona del centro
•
Clementina la foto, rappresentata come P, dei suoi genitori a
Venezia
2.10 - Nona sessione: Lavori col protagonista e cuore del gruppo
Si ritorna al lavoro psicodrammatico con due lavori con il Protagonista
emersi grazie alla scatola dei ricordi:
Clementina: Il basco nero
Clementina ha portato un basco nero appartenuto a suo padre.
In inversione di ruolo con il padre ritorna sull’episodio dell’operazione
affrontata all’età di quattro anni in Argentina. Il padre dà un messaggio alla
figlia che sembra voler esorcizzare la sfortuna rappresentata dal povero
papero nero Duffy Duck della sesta sessione : “ti auguro di avere d’ora in
avanti meno sfortuna”. Clementina sembra davvero la rappresentazione del
brutto anatroccolo nella terza età.
Gino: l’orologio del padre .
Gino porta l’orologio regalatogli da suo padre ad un compleanno.
Gino fa il P : il pranzo di compleanno con il padre un anno fa
Il tema è la casa, in scena ci sono la madre (Irene, direttore/aux. prof.),
il padre (Marco) e Gino (Ottavio).
Gino ascolta un breve scambio di battute fra la madre (vorrei cambiare
casa) e il padre (pensiamo a mangiar e a goderci il pranzo), poi sale in
balconata e fa un soliloquio (conferma le ragioni del padre), scende e dà un
messaggio a ciascuno, infine li congeda in maniera non verbale.
Gino in un soliloquio verbalizza la sua difficoltà attuale nella gestione
dell’eredità familiare, bollette, spese, responsabilità che lo fanno stare in
grande apprensione.
Specchi e cuore del gruppo
In questa sessione ritagliamo anche un momento per far fare al gruppo
degli specchi (ognuno va da un compagno di gruppo per dirgli come lo ha
visto) e per una sociometria (il cuore del gruppo) che viene così
rappresentata:
- vicini al cuore: Clementina, Demetrio; Monica, Susanna, Cleofe;
- un po’ più lontani: Matteo/aux (mi sento un pollice) , Gino (non tutti
stanno dando il massimo), Ottavio.
2.11 - Decima sessione: Inventa un personaggio
Ritorniamo ai personaggi simbolici. Questa volta però in modo diverso:
in cerchio ognuno doveva dare al compagno alla sua destra un personaggio
suggeritogli dalla sua fantasia:
•
Monica (aux) trasforma Cleofe in una strega chimera
medievale, una strega buona che se ne sta nell’ombra e che aiuta le
persone che hanno bisogno
•
Cleofe (strega/chimera) trasforma Ottavio in Topolino
superboy, una specie di topo supereroe che mangia il formaggio e che sa
volare
•
Ottavio (Topolino superboy) trasforma Clementina in una mucca
che produce lattepiù, un latte supersostanzioso; è una mucca bianca con il
campanaccio.
•
Clementina (Mucca lattepiù) trasforma Gino in Ele, un elefante
indiano che porta in giro i turisti e a tutti dà un ombrello per proteggersi dal
sole. E’ molto simpatico e ha un naso rosso. Anche questo animale è
bianco.
•
Gino trasforma Piero in un astronauta che dopo una bella
chiacchierata lo esorta ad andare a fare un viaggio sulla luna per mostrargli
quant’è bella. E’ un astronauta esperto che conosce lo spazio e sa dove
andare.
•
Piero trasforma Monica (aux) in Mary Poppins
•
Il due direttori trasformano Franca (che è arrivata in ritardo) in
una laboriosa formica (Z la formica25) che raccoglie il pane.
2.12 - Undicesima sessione: Africa Bellissima!
In questa sessione viene scelta dal gruppo Susanna come P, la quale
porta un suo sogno (Africa Bellissima!).
Il sogno di Susanna
Susanna porta il sogno di essere andata in un posto in Africa dove
c’erano molti animali e molti pericoli. In particolare riporta la scena di lei che
viene avvertita di non addentrarsi dentro le sabbie mobili e verso i coccodrilli,
che la possono azzannare. Ad avvertirla è il padrone e signore dell’Africa
insieme al buon elefante e alla scimmia dispettosa, mentre il serpente è
pronto ad iniettarle il suo veleno mortale.
Lavoro col protagonista
Susanna costruisce la scena, dà i ruoli e doppia ciascuno:
alter ego: Clementina
sabbie mobili: Monica (se ti avvicini sprofondi!)
coccodrillo: Greta (ti voglio mangiare!)
Padrone dell’Africa: Ottavio (Vai via, vai via che se no ti fai male, è
pericoloso!)
Elefante buono: Cleofe (a me piace stare qui, guarda però che è
pericoloso)
Scimmietta: Gino (io qui in questa foresta mi diverto, sto bene insieme a
tutti gli altri animali)
Serpente. Piero (vorrei iniettarti il veleno fin sotto alla pelle!)
25
I due direttori qui presi in contropiede dal ritardo introducono Susanna nel
gruppo vestendola e facendole uno specchio che vorrebbe far prendere
coscienza su di una posizione normalmente e naturalmente assunta da
Susanna fuori dal gruppo e che non vorrebbero portasse anche dentro al
gruppo. Nella stessa sessione in una scenetta improvvisata Cleofe/Strega
buona con la sua bacchetta magica trasformerà Susanna/Z la formica in una
bellissima donna. Il gruppo in questo modo sembra voler scongiurare
simbolicamente un pericolo che uno dei suoi membri stava vivendo,
dimostrando così un grande forza coesiva ed un incredibile sintonizzazione .
In effetti Z La formica è un’abile lavoratrice, ma è anche l’ultima ruota del
carro, è un Omega.
Che cos’è un omega?
Gli omega, gli ultimi, i deboli, gli sfigati. Quelli che all’interno del branco
occupano l’ultima posizione, quelli che mangiano solo se avanza qualcosa,
quelli che non possono mai accoppiarsi perché la femmina spetta solo al
capobranco, all’Alfa. Devono sopportare tutto e alla fine qualche volta li
cacciano anche (D’Adamo F. 1999).
Ma nella plusrealtà può diventare una donna da sogno.
Questa cornice senza foto è un oggetto che ci ha profondamente toccati.
Un oggetto proiettivo che ha colpito l’immaginario di tutti e che infatti è finito
nella rappresentazione finale come un segno del percorso compiuto:
l’elaborazione del lutto, il dare senso all’assenza e alla mancanza. In questo
caso l’oggetto sembra quasi la magia di un genius loci.
24
6
Susanna ascolta tutto e fa un soliloquio
Incontro di Susanna con una sua amica e congedo
Verbalizzazione
Susanna è più emozionata del solito, ma la sua verbalizzazione
emotiva è stereotipia
Sharing
“Monica e Greta si sono sentite in difficoltà nell’interpretare ruoli
connotati negativamente e che presentavano tratti aggressivi e minacciosi.
In realtà hanno intuito la loro funzione ausiliaria, che è anche quella di
assumere su di sé ruoli che altri membri del gruppo non sarebbero in grado
di assumere o tollerare.
Piero si è sentito come al solito bene, anche se anche il suo era un
ruolo “cattivo e seduttivo” (tra Susanna e Piero corre in effetti un certo
feeling)
Stefania è stata molto contenta di aver potuto interpretare un ruolo che
le ha permesso di sdrammatizzare la sua importante fisicità. Nel verbalizzare
si mostra sinceramente felice.
Gino con lungo giro di parole dice di essersi trovato bene ad
interpretare una scimmia che si esprimeva molto con l’istintività.
Ottavio si e sentito in sintonia con il suo ruolo, non ha avuto problemi e
il “potere” non lo ha scombussolato, tanto più che il padrone dell’africa
sembrava comunque un P. positivo. Clementina non ha verbalizzato
molto26”.
Considerazioni sulla sessione
Il gruppo mette in scena una storia del suo membro più “estemporaneo”
e quest’ultimo, pieno di risorse inaspettate, tira in ballo tutti quanti in questa
metafora della giungla e del pericolo.
Una scena in cui Susanna rappresenta la sua lettura fantasiosa (e
fantasmatica) del gruppo e del centro diurno. Ha cementato così la coesione
e ha dato ad ognuno la possibilità di sperimentarsi in nuovi ruoli. In
particolare Cleofe sembra aver tratto giovamento da questa
rappresentazione che le ha dato modo di esorcizzare la sua mole
sdrammatizzandola.
2.13 - Dodicesima sessione: Consulto con regali
E’ l’ultima sessione prima della pausa estiva e decidiamo di predisporre
un consulto al termine del quale ogni membro del gruppo oggetto di consulto
riceverà un regalo da parte degli altri membri.
I regali del gruppo (tipo consulto)
Il gruppo su Gino: il gruppo ricorda alcuni suoi personaggi e la sua
disponibilità. Gino interrompe più volte il “consulto” . Infine il gruppo
concorda con il regalargli un orologio speciale che gli serve per prendere
tempo prima di straparlare e di interrompere.
Consegna Cleofe.
Il gruppo su Cleofe: il gruppo sottolinea la capacità di Cleofe di
prendersi cura degli altri nell’ombra, con una presenza quasi magica.
Regalo: bacchetta magica a forma di fiore.
Consegna: Gino
Il gruppo su Clementina: il gruppo da rimandi forti, che riguardano
anche la sua solitudine, la mancanza della mamma, la disperazione, la sua
capacità di ricordare, la sua apparente glacialità.
Regalo: macchina fotografica magica che può vedere tutte le foto che
non ha mai fatto.
Consegna: Matteo
Il gruppo su Susanna: il gruppo dice di aver apprezzato la sua
creatività e la sua fantasia
Regalo: le chiavi passe partout
Il gruppo su Piero: il gruppo parla del “genio” visionario di Piero, in
grado di aprire mondi sconosciuti. Alcuni ricordano anche la sua aggressività
“latente” espressa dal serpente che morde.
Regalo: un casco magico per andare dove vuole.
Il gruppo su Matteo: emerge l’immagine di un operatore molto umano
che si “difende” con l’ironia e un apparente e sottile cinismo di facciate, che
nasconde un grande calore.
Il gruppo su Monica: Tutti sono rimasti sorpresi dall’immagine di Mary
Poppins. Con un poco di zucchero la pillola va giù.
2.14 - Punto di vista di una psicologa non psicodrammatista sui
primi dodici incontri
Penso possa essere utile inserire all’interno del lavoro, così come
accennato al termine del primo capitolo, le considerazioni e le riflessioni
prodotte dalla dott.ssa Z. (alias ausiliario “Monica”) sul percorso fin qui
compiuto, estrapolate dal suo lavoro di tesi. Il punto di vista di una psicologo
non psicodrammatista ricavate dalla sperimentazione attiva del metodo è
sicuramente interessante:
“Si può chiaramente denotare come dal primo incontro27 si sia reso
momento indispensabile, oltre alla presentazione di ciascuno agli altri
elementi del gruppo , il rituale d’ingresso visto proprio nei termini di una
transizione fisica sul tappeto degli psicodrammatisti elemento essenziale,
26
27
finalizzato all’assunzione di ruolo da parti di tutti i partecipanti io ausiliari
compresi.
Il laboratorio, sin dalle prime battute ha previsto degli elementi più ludici
legati ad una minore strutturazione dell’identità psicodrammatica di ciascuno
degli utenti, all’interno dei quali, (vd Gioco della palla del primo incontro)
transitoriamente, i pazienti hanno potuto sentire su di loro, per brevi tratti, la
tensione dell’attenzione del gruppo senza eccedere all’interno di un quadro
di attivazione emotiva insostenibile, tutto ciò attraverso la capacità di saper
tollerare ansia e angoscia per qualcosa in cui è essenziale essere precisi,
che diventa via via un temporaneo rilevante traguardo che si prepara per i
partecipanti.28
Già possibile sperimentare all’interno di un setting protetto la possibilità
di cominciare con un seppur minimo accenno al lavoro teatrale, ad esempio
nel nominare il proprio nome e nel dire qualcosa di sé, all’interno del quale il
gruppo, apparentemente futile, slegato, e incapace di cooperare, si
manifesta via via compatto ed efficacemente cooperativo nella sua azione
verso il lavoro terapeutico29.
La funzione della metafora si è mostrata essenziale per la definizione
del clima emotivo del lavoro e delle sedute, al fine di poter capire quasi
come per libera associazione cosa tale esperienza potesse evocare nei
pazienti e cosa potesse sviluppare a livello teatrale; a tal proposito le
somiglianze e le complementarietà fra le esperienze dei pazienti hanno
permesso di costruire un tema comune, dove ciò che è comune ha
neutralizzato le diversità delle esperienze psicopatologiche30.
Nel corso del lavoro, ma già sin dalle prime battute, si è potuto notare
come la presa in carico si sia strutturata attraverso gli psicodrammatisti e la
vera e propria azione scenica, come catalizzatore dei vissuti emotivi
attraverso il ricordo evocato dai pazienti e riguardante la propria storia. La
partecipazione al setting scenico da parte degli io ausiliari e da parte degli
altri pazienti ha consentito, sin da subito, di condividere insieme a colui che
evocava i vissuti emotivi, riconoscendo ciascuno se stesso attraverso un
meccanismo proiettivo-introiettivo; in tal senso la psicologia dell’individuo e
quella del gruppo non hanno potuto assolutamente essere differenziate, e la
stessa psicologia di ogni singolo partecipante ha rappresentato funzione di
un rapporto dell’individuo con un’ altra persona o con un altro oggetto31. In
questo senso i partecipanti al laboratorio hanno potuto facilitare il recupero
di quegli elementi scotomizzati che rischiavano di rappresentare una
macchia cieca nella composizione della comprensione emozionale degli
eventi portati32
Sin dai primi incontri si può osservare come tramite l’evocazione di
ricordi metafore immagini si sono ricomposti frammenti di vita personale e si
è favorita la coesione del gruppo che ha funzionato da supporto dei vissuti
emotivi altrui attraverso un ricircolo ed una rielaborazione a più livelli.33
Attraverso un attento lavoro sulle qualità e tipicità ritenute importanti dai
partecipanti34, ogni partecipante ha esposto sul campo ciò che riteneva
importante portare al gruppo, ma anche ciò che intendeva ricevere e portare
a casa dopo l’esperienza comune.
Proprio attraverso il lavoro del doppio, gli utenti hanno potuto elaborare
ed essere elaborati, all’interno della condivisione di ruoli comuni, ricordi, ruoli
diversificati e scelti, come quelli di un oggetto della realtà che circonda.
E’ stato proprio attraverso la creazione di una valigia/scatola dei
ricordi35, contenitore personale ma condiviso degli oggetti significativi e
importanti, che i pazienti hanno cominciato a vivere l’esperienza di
psicodramma come un contenitore all’interno del quale esprimere qualcosa
di loro stessi, che poteva in un certo senso essere rielaborato dalla realtà del
gruppo. Tale valigia è rimasta contenitore stabile di una presenza viva della
storia personale e psicopatologica del soggetto o testimonianza della
“vuotezza” dell’esperienza di malattia.
Attraverso la messa in scena dei personaggi portati all’interno della
valigia, i pazienti hanno potuto rievocare attraverso la catalizzazione di un
personaggio per loro importante la loro storia all’interno della quale l’empatia
da concezione puramente affettiva, si è arricchita di una dimensione
cognitiva, che ha collegato la percezione degli stati emotivi a scenari in
qualche modo più vasti ed articolati36 .
Marcoli F. Wifred Bion e le “Esperienze nei gruppi”, Armando , Roma,
1968.
29 Marcoli F. Wifred Bion e le “Esperienze nei gruppi”, Armando , Roma,
1968.
30 Puget J., La mente dello psicoanalista nelle configurazioni vincolari,in Rugi
G. e Gaburri e. a cura di Il campo gruppale, Borla, Roma, 1998
31 Bion W. R., Esperienze nei gruppi, Armando, Roma, 1971.
32 Nissim S., L’oservatore e il gruppo di discussione: la neutralità come
capacità negativa, Cresti L., Farneti P., Pratesi C., Osservazione e
trasformazione, Borla, Roma, 2001.
33 Terzo incontro, protocollo di osservazione degli psicodrammatisti.
34 Quarto incontro griglia di osservazione degli psicodrammatisti.
35 Quinto incontro griglia di osservazione degli psicodrammatisti.
36 Di Chiara G., La formazione e le evoluzioni in campo psicoanalitico, in
Gaburri e. a cura di emozione e interpretazione, Bollati Boringhieri, Torino
1997.
28
Dagli appunti
Griglia di osservazione del primo incontro di psicodramma
7
Gli oggetti rievocati ed estratti dalla valigia hanno espresso la
connessione fra oggetto, corpo e parola, fra rappresentazione verbale,
contenuto mentale e quantum affettivo ad essi originariamente legato37; in
tal senso è stato possibile mettere in scena e ricostruire il romanzo familiare
dei pazienti, che hanno potuto rievocarsi all’interno dei ruoli della madre , del
padre, dei fratelli.38
Tali contenuti hanno reso possibile la costruzione dei personaggi di
scena, personaggi teatrali ma anche personaggi che rievocano la storia
psicopatologica e gli spunti terapeutici legati ad ognuno.39
Attraverso la strutturazione della scena40 come contenitore costruttivo
dell’esperienza di ciascuno all’interno di ogni personaggio, i partecipanti
hanno potuto rappresentare un particolare della storia psicopatologica di
ciascuno, esercitando ed esplicando la possibilità del poter vedere qualcosa
che rappresenta angosce non elaborate, lutti, vissuti angosciosi.
Alla conclusione del laboratorio41ogni paziente ha portato con sé un
regalo affidatogli dal gruppo che ha rappresentato un rimando del lavoro
terapeutico di questa esperienza.
Poiché non esiste un ruolo senza un adeguato controruolo, abbiamo
pensato di considerare ognuno di loro come un artista43 che in qualche
modo voleva comunicare qualcosa su di un determinato tema o su più temi.
3.1 - Psicoterapia psicodrammatica e drammaturgia: la psicodrammaturgia
Ci rendiamo ben conto di quanti sfasamenti e travisamenti abbiamo
prodotto: psicodrammatisti che giocano a fare i drammaturghi, pazienti
psichiatrici che diventano artisti, palestre e sale TV trasformate in teatri...a
nostra difesa diciamo che la creatività, o meglio quel qualcosa che noi
presuntuosamente definiamo come tale, porta davvero in territori non certo
nuovi, ma sicuramente diversi da quelli inizialmente immaginati. La creatività
a volte sorprende la nostra stessa immaginazione.
Lavorare su materiale psicodrammatico per tradurlo teatralmente non è
una cosa semplice, è altresì un’operazione molto delicata che può
sconfinare nella manipolazione.
In tal senso, essendo questo un lavoro di tesi che presume una
valutazione finale del lavoro svolto, rimandiamo a chi è più esperto di noi il
giudizio.
Nel frattempo mi limito ad osservare, anche a seguito di questa
esperienza, quanto il mestiere di psicoterapeuta psicodrammatico, alias
direttore di psicodramma, sia inevitabilmente e sorprendentemente vicino e
prossimo a quello di drammaturgo.
Tale prossimità è visibile ogniqualvolta ci si trovi a dover raccogliere,
gestire ed integrare il materiale emerso nel corso delle sessioni. E’ un lavoro
di decodifica e di ricomposizione molto simile alla ricomposizione delle
tessere di un puzzle un po’ particolare, digitale e non analogico.
Capitolo 3
LA PSICODRAMMATURGIA DEI PERSONAGGI/PERSONA
La pausa estiva ci ha lasciato tempo per riflettere e per sistematizzare il
materiale emerso in previsione del lavoro finale.
Alla fine di questi primi dodici incontri con gli ospiti del centro diurno, ci
siamo trovati con una discreta galleria di personaggi, situazioni, vissuti ed
emozioni, frutto di un lavoro schiettamente psicodrammatico. Il nostro
compito diventava ora particolarmente interessante: trovare una struttura
drammaturgica che potesse contenere questo materiale e darle una forma
Persone
personaggi
Temi/suggestioni
Clementina
La mucca che produce lattepiù
Dell’eterna infanzia
La principessa di ghiaccio
Susanna
Ottavio
Gino
Piero
Marco
Stefania
Teresa
Monica
Io-ausiliario
Matteo
Io-ausiliario
Greta42
Io-ausiliario
la Madonna, felice anche se il figlio è
crocefisso, che si lamenta un po’ di
dover fare le pulizie di casa.
Musu(l)mana, la danzatrice del
ventre italiana
Z la formica che raccoglie le briciole
Cenerentola
Monaco benedettino “in crisi”
Topolino
Topolino superboy
Il padrone dell’Africa
Il fedele buontempone
Ele l’elefante indiano un po’
clownesco
La scimmietta istintiva e compagnona
Cenerentola con la faccia di cane
L’astronauta
Il serpente minaccioso
Questuante di elemosine
Tex, Willer e il fedele cavallo
Suora volontaria
La strega/chimera medievale che
cura la gente
L’elefante buono che dà consigli
Suora di clausura
Candelabro che sta sull’altare
Il gabbiano Jonathan Livingstone
Mary Poppins
Le sabbie mobili
L’aspersore
Teatro interno/altri significativi
Madre
Padre
Medico ebreo
Della femminilità
Dall’infinitamente
piccolo
all’infinitamente
grande
La figlia Pierina
I suoi genitori
Dell’ironia
Oggetti/presenze
La bambola Pepucia
Duffy Duck
Basco nero del padre
La foto di una gita a Venezia con i genitori
L’auto (il desiderio di avere la patente)
Una bellissima bambola vestita di pizzo
(ricordo di lei da bambina, un po’
Cenerentola)
La fotografia della nascita della figlia
Pierina
Il suo letto
Una pila scarica
Della clowneria
Il padre
La madre
Il collier di perle regalato alla madre
La cornice senza foto di suo padre
L’orologio regalo del padre
Del viaggio
Una persona del centro
Uno cognato che vive con lui e con
il quale entra spesso in conflitto
La sua moto
Il braccialetto regalo di una persona cara
Del surreale
Marte
Della cura
Lo stereo
Del silenzio
Il padre
Biancaneve e i sette nani
Il coccodrillo
(La fotoreporter-giornalista)
espressiva di senso compiuto.
Con un pizzico di compiacenza e di indulgenza, abbiamo incominciato
insomma a sentirci un pò meno psico e un pò più dramma-turghi intenti a
trovare il filo del discorso, il bandolo della matassa, un canovaccio.
In questo senso un utente psichiatrico è molto simile a quell’artista che non
è sempre completamente consapevole delle corde che va a toccare. “Per
molte persone l’attività teatrale è qualcosa che succede solo su di un
palcoscenico il quale separa gli attori dal pubblico e riconosce come “artisti”
le persone che presentano gli eventi alla genete che li guarda….E’ questa
idea erronea condivisa da molte persone, ossia che il dramma sia solo una
rappresentazione su di un palco e quindi appannaggio esclusivo di individui
dotati di talento ed esperienza, che ha ostacolato il tentativo di molte
persone di raggiungere il loro pieno potenziale creativo e che, in certi casi,
impedisce alla stessa immaginazione di entrare in azione. E’ proprio questa
barriera, spesso autoimposta, che gli operatori nel campo del dramma in età
43
Giaconia G., Racalbuto A., I precursori del simbolo,
Nono incontro griglia di osservazione degli psicodrammatisti.
39 Decimo incontro griglia di osservazione degli psicodrammatisti.
40 Undicesimo incontro griglia di osservazione degli psicodrammatisti.
41 Dodicesimo incontro griglia di osservazione degli psicodrammatisti.
42 Gaia Piccolo
37
38
8
L’armonizzazione e l’integrazione delle tessere è il senso e l’obiettivo del
lavoro. Il quadro che ne esce, lungi dall’essere definitivo, è anzi un
istantanea del gruppo in quel momento. In questo senso più che di tessere
si può parlare di pixel, più che di quadro, di fotografia digitale.
Il vero drammaturgo si cimenta con le tessere/pixel, ma non lavora sulla
sua scrivania ma in teatro, crea per e con gli attori, respira la loro stessa
aria, vive le loro stesse situazioni ed emozioni e per loro ne sviluppa altre.
Stanislavskij lavorava sempre con il drammaturgo in sala, non c’era scarto
tra l’atto creativo letterario e l’atto creativo teatrale. Il risultato era, con tutta
probabilità, una sorprendente organicità tra quanto scritto e quanto detto;
organicità che così tanto è mancata e manca in molto del cosiddetto teatro
tradizionale, sempre così dipendente dall’attore istrione, e così tanto cercata
dal terzo teatro.
In questo senso nell’affrontare il materiale emerso in corso d’opera
abbiamo sentito una maggiore affinità con la drammaturgia che con la
psicoterapia e percepito anche che questo sfasamento dei piani, pur
avendo una innegabile matrice narcisistica e personalistica, poteva avere, e
soprattutto dare, un senso.
Abbiamo lavorato creativamente (ma se fossi un artista direi
speculativamente) e, si spera, rispettivamente sui materiali emersi, tenendoli
celati dietro un segno o un simbolo laddove lo ritenevamo opportuno,
svelandoli qualora percepissimo in loro una disponibilità in tal senso. Non
abbiamo forzato. Nessuno si è tirato indietro. Il gruppo aveva una forza
costruttiva, e l’ha sfruttata.
Qui di seguito si può vedere la tabella dalla quale siamo partiti per
costruire il lavoro.
3.1.1 - L’idea drammaturgica
L’idea drammaturgica che è scaturita dallo studio dei loro “materiali” è
molto semplice:
Un regista pseudo-avanguardista un po’ naif e la sua sbadata
assistente convocano un provino per imbastire un lavoro teatrale
sperimentale, che ricorda involontariamente il pirandelliano “Sei personaggi
in cerca d’autore”.
Il provino diventa però una prova aperta, perché la sbadata assistente
convoca anche un pubblico raccogliticcio. Si imbastisce allora una
rappresentazione durante la quale i provinandi costruiscono in scena un loro
personaggio, utilizzando costumi e oggetti buttati là dal regista
avanguardista, il quale alla fine, vedendo i loro lavori singolarmente, decide
di assegnare “d’ufficio” i ruoli da interpretare.
Gli attori però, anche grazie alla comprensione dell’assistente alla regia
che prende a cuore la loro causa, si ribellano perchè vogliono essere fedeli
al loro personaggio ed anzi spiegare al pubblico come sono arrivati ad esso.
Il regista avanguardista abdica in favore dell’assistente ed il pubblico
può così accedere al “dietro le quinte di un personaggio”: la persona.
3.2 - I personaggi / persona
Ciascun “artista” aveva elaborato ed attraversato uno o più
persone/personaggi nel corso del lavoro. Di ognuno abbiamo cercato la
sintesi, ovvero quel personaggio che riassumeva in sé le caratteristiche più
evidenti della persona. Se il personaggio “di sintesi” non emergeva, ne
tenevamo in considerazione più di uno.
Per completezza ho pensato di inserire anche i commenti e le riflessioni
della dott.ssa Zucchella (in corsivo nel testo) e un breve quadro diagnostico
di ciascun paziente ricostruito al termine del laboratorio44 a partire
dall’analisi delle loro cartelle cliniche.
Ho voluto inserire i tre commenti per ciascuna persona/personaggio con
un intento caleidoscopico, per evidenziare i molti modo possibili di
raccontare la malattia mentale e i suoi percorsi.
3.2.1 - Clementina / dell’eterna infanzia
Clementina sembra vivere davvero nei ricordi della sua infanzia e
giovinezza, ognuno dei quali è indissolubilmente legato ai suoi genitori (il
basco nero ricordo del padre, la bambola pepucia, la foto dei genitori a
Venezia) e alla sua storia di vita, che l’ha vista crescere e vivere per molti
anni fuori dall’Italia, in Argentina per la precisione. I suoi modi e movenze
ricordano quelli di una bambola di porcellana, molto delicata, in netto
contrasto con la sua sembianza di donna anziana.
E alla sua infanzia risale la storia della principessa di Ghiaccio, che le
veniva raccontata dai suoi genitori nella patria del tango, del pensiero triste
che si balla. Clementina sembra una donna a cavallo tra due culture,
un’italiana d’argentina che vive nella nostalgia e nel ricordo. Emergono in
questo senso i suoi aspetti depressivi e malinconici che la portano ad
autosvalutarsi. In termini psicodrammatici il suo io-attore sembra messo
sotto scacco dall’io-osservatore. Quando si concede all’azione però
Clementina appare spontanea e ricca di simpatica umanità e calore, qualità
bellissime che però non si riconosce nel momento in cui si osserva e si
descrive.
In effetti si è più volte dipinta come una persona dal cuore freddo e
insensibile alle emozioni.
E’ per questa ragione che abbiamo pensato di darle il ruolo di narratrice
di questa favola, la Principessa di Ghiaccio.
Da questo contrasto emerge un personaggio-narratore che narrando si
narra e si svela. Da vera narratrice poi, non racconterà mai la storia allo
stesso modo, ogni volta variandola e modificandola a seconda degli umori
del momento45.
Clementina e l’infanzia “data via”
Clementina viveva in Argentina coi genitori. Il padre, un musicista che
viveva di espedienti, morì molto giovane; la madre, con la quale ha vissuto
per molti anni dopo il ritorno in Italia, tratteneva Clementina in un rapporto
simbiotico, all’interno del quale la paziente, molto sofferente dal punto di
vista psichico, alternava momenti di estrema aggressività, nei quali picchiava
ripetutamente la madre, a momenti di estrema passività nei quali si
rinchiudeva nella propria camera. Attualmente Clementina vive con la zia,
con la quale cerca di rimettere in scena lo stesso rapporto avuto con la
madre. Sostiene che la sua vita le sia stata data via dai parenti i quali
“…hanno dato via tutte le mie cose…”.
Clementina ha utilizzato il lavoro di psicodramma per mettere in scena
un personaggio a lei caro che viene dall’infanzia. E’proprio attraverso il
ricordo che funziona il lavoro terapeutico della paziente; attraverso il ricordo,
infatti, può far riemergere quegli aspetti del sé che, persi all’interno del vuoto
della fusionalità familiare, apparivano aver perso di significati. Proprio
attraverso i personaggi Clementina può identificare delle parti di sé
significandole all’interno di un quadro emotivo delimitato. Ha così potuto
capire l’importanza della traccia del ricordo dei genitori e non tanto del caos
di oggetti che popolavano la sua stanza e la sua vita; il far spazio a
significati emotivi ha potuto quindi portare la paziente ad una significazione
del fare spazio anche nel suo mondo esterno e ad una caduta dell’angoscia
per la perdita di tutti i suoi oggetti.
3.2.1.1 - Clementina (quadro clinico)
Clementina ha vissuto in Argentina fino all’età di 8 anni, quindi è
rientrata in Italia con la famiglia. Ha sempre vissuto a stretto contatto con la
evolutiva, della creatività personale e della terapia dell’attività drammatica
hanno cercato di intaccare per più di due decenni”. (Warren, 1993)
44 Ci tengo a sottolineare che abbiamo preferito non avere informazioni
cliniche a priori ma a posteriori. Personalmente riesco a lavorare molto
meglio e con maggiore libertà, spontaneità e creatività se non sono
appesantito da diagnosi ed etichette.
45 Per rasserenarla e tenere a bada i livelli di ansia abbiamo sfruttato il tele
positivo tra Clementina e Irene (co-conduttrice). Anche Irene infatti, essendo
italo-tedesca conosce molto bene i problemi inter-culturali, di chi vive o è
vissuto a cavallo di due culture. Anche per questa ragione è stata scelta da
Clementina come suggeritrice in scena. Tale decisione l’ha notevolmente
rasserenata e ha facilitato i suoi processi mnemonici.
9
madre, con la quale ha instaurato un rapporto di dipendenza fortemente
regressivo. Dopo la sua morte si è trasferita da una zia acquisita di 71 anni.
L’esordio psicopatologico risale al 1980 con conseguente ricovero in
OP. E’ pertanto seguita da un CPS.
Clementina, licenza media, ha lavorato come parrucchiera per tre anni.
Attualmente è invalida civile al 100%. Arriva al centro con diagnosi di
schizofrenia simplex. L’eloquio è semplice, presenta dispercezioni uditive
(voci denigratorie) diminuite di intensità negli ultimi mesi. L’ideazione è allo
stato attuale priva di contenuti patologici, seppur caratterizzata da
infantilismo ideativo ed affettivo. In primo piano emerge una condizione di
marcato ritiro sociale ed incapacità di gestirsi autonomamente anche nelle
attività più semplici della vita quotidiana.
3.2.2 – Susanna / della femminilità
Susanna vive nell’azione, un po’ meno nella riflessione. Il suo
linguaggio presenta una certa stereotipia ed ecolalia. Malgrado le difficoltà,
Susanna è stata per il gruppo una vera risorsa, un motore ed un promotore
di azione, un condimento davvero importante e funzionale ai movimenti del
gruppo stesso.
Bruciando molta azione, Susanna ha “bruciato” e messo i panni di molti
personaggi, ognuno dei quali sembrava andare a comporre un aspetto della
sua persona. Per questa ragione, quando si è trattato di vedere quale delle
sue creazioni le appartenesse di più, non abbiamo saputo scegliere ed anzi
ci siamo resi conto di quanto ognuna si integrasse con l’altra:
Mussu(l)mana46, la Madonna, la Formica, Cenerentola.
Da questi personaggi è nata la suggestione che Susanna volesse
parlarci della femminilità della donna e della sua unica e splendida capacità
di poter coniugare insieme l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande.
La sua performance tocca davvero molti degli aspetti peculiari del
“gentil sesso”: la donna che lavora e come una formica raccoglie e mette via
per l’inverno, la donna sensuale e misteriosa che danza una musica
orientale, la ma-donna spirituale che si sacrifica per il figlio che verrà
crocefisso ma che lei preferisce ricordare infante tra le sue braccia intenta a
farlo addormentare, seppur a fatica, ed infine la donna serva eternata nella
favola di Cenerentola, la donna oggetto, sfruttata e costretta ai lavori più
umili, ma segretamente ed intimamente sicura che il riscatto è dietro
l’angolo.
Susanna ha parlato poco, la sua esibizione prevedeva dei passaggi da
un personaggio all’altro scanditi da musiche e danze diverse per ognuno e
dalla sua voce che li introduceva. Ma ha toccato davvero il cuore.
situazione. Il rapporto con la madre è improntato ad un’estrema fusionalità,
la paziente si mostra spesso e volentieri visibilmente angosciata in relazione
allo stato di salute della madre ormai anziana e di salute precaria,
sostenendo di non poter pensare una vita senza di lei. Per quanto riguarda il
suo rapporto con gli uomini, Susanna appare improntata ad una modalità
isterico-seduttiva che talvolta si mostra così abnorme da apparire
estremamente inadeguata. Le sue relazioni con l’altro sesso sembrano
inizialmente amicali, condivise all’interno di organizzazioni a stampo sociale,
centri di aggregazione, tuttavia in breve tempo si trasformano in rapporti
perversi e sbilanciati, all’interno dei quali la paziente si sente
strumentalizzata anche dal punto di vista sessuale, evacuando l’angoscia di
suddette modalità in maniera isteriforme, con crisi di pianto dimostrative,
finalizzate a richiamare su di sé l’attenzione degli operatori del servizio.
I personaggi portati da Susanna. all’interno del lavoro psicodrammatico
sono quindi relativi alla femminilità e al suo modo di far uso di questa.
La donna madonna (vedi foto)
“…Susanna entra sulla scena con un mantello azzurro cullando il suo
fagotto al ritmo della musica e lo deposita nella mangiatoia…”
Il primo personaggio portato dalla paziente si snoda come
un’incarnazione della donna madonna e madre, Susanna entra infatti con un
mantello azzurro sul capo tenendo in braccio un “fagotto” che altri non è che
il piccolo Gesù, lo culla come trasognata all’interno di una danza rituale, un
po’ ninna nanna un po’ litania, in realtà il mantello le sta un po’ goffo in testa,
appare imbarazzata, ma contenta di incarnare quel ruolo.
La donna mussu-mana danzatrice del ventre
“…Susanna con un rapido colpo si gira il suo mantello attorno ai fianchi
e comincia una turbinosa danza del ventre…”.
E’ proprio all’interno di questa figura-personaggio portato dalla paziente
che si incarna la sua pervasiva femminilità. Si “lancia” in una danza del
ventre utilizzando il suo mantello turchino che precedentemente le serviva
per essere madre.
La figura creatasi è una figura che si allea con le parti patologiche della
paziente improntata ad una seduttività scarsamente decodificabile, motivo
isterico del suo rapporto con l’altro maschile.
La donna cenerentola
“…improvvisamente il mantello diventa straccio e Susanna comincia a
lavare i pavimenti…”.
Emerge in questo personaggio portato nella rappresentazione, la figura
di una donna volta alla cura del focolare e dell’ambiente domestico, ma non
solo. Ad un livello più sottile la cura del focolare è intesa come ciò che la
tiene legata alla madre in maniera agglutinata e indissolubile e che non le
consente di fare chiarezza nel suo ruolo di donna. La madre incarna la figura
di una madre cattiva che costringe la paziente a mansioni domestiche
quotidiane pesantissime, a causa delle quali la paziente non ha la possibilità
di uscire dall’ambiente e cercare un lavoro che la possa rendere
indipendente.
La donna-formica
“…Susanna comincia a raccogliere tozzi di pane all’interno del suo
grembiule…”
All’interno della figura della donna-formica la paziente riporta la
necessità di raccogliere le briciole di quanto rimasto per lei, le briciole della
sua esistenza, le briciole del rapporto con la figlia, le briciole della sua
identità di donna.
3.2.2.1 - Susanna (quadro clinico)
Susanna viene inviata al centro diurno con una diagnosi di ritardo
mentale medio. E’ lei stessa a riferire di un suo pregresso abuso etilico e un
ricovero in seguito a scompenso depressivo.
In passato ha lavorato come collaboratrice domestica, è attualmente
invalida civile all’80% e presenta una sintomatologia ansiosa con lieve
flessione del tono dell’umore reattivamente alle ultime vicende coniugali che
l’hanno portata a chiedere la separazione dal marito. Dopo tale separazione
vive con la madre e il suo convivente. Il linguaggio è molto semplice, la
paziente presenta inoltre a tratti difficoltà di comprensione e di espressione.
3.2.3. - Ottavio / dell’ironia
Ottavio è stato il filosofo del gruppo, una specie di punto di riferimento
silenzioso il cui giudizio era tenuto in tacita considerazione.
Persona di poche parole, più portata al pensiero che all’azione, con una
visione delle cose e del mondo piuttosto ironica ma che in gruppo non si è
mai trasformata in sarcasmo od ostilità.
Anche gli oggetti, le cose personali di sé sono state poche, essenziali
ma anche esiziali: un letto ed una pila scarica. Ottavio è passato attraverso
un periodo di depressione sicuramente molto pesante che lo ha segnato
parecchio.
La personalità ironica è molto spesso depressa ed utilizza proprio lo
strumento ironico per guardare il mondo con un certo distacco, perché sa
che solo così può tenersi lontano dalla sofferenza (non a caso il verbo greco
uranòs significa, se non sbaglio, guardare dall’alto).
Tra le persone del gruppo appare quello apparentemente meno
compromesso e con le maggiori risorse cognitive. Il versante emotivo è
invece più “congelato” , stenta ad uscire, se non tramite il meccanismo
3.2.2.1 - Susanna e le figure della femminilità.
Susanna è madre di G. una ragazza ormai ventenne con cui la paziente
non ha potuto vivere perché la figlia le è stata sottratta. Inoltre Susanna,
reduce da una storia di abusi e maltrattamenti subiti da parte del marito
all’interno di un quadro di estrema deprivazione psico-emotiva e
sussistenziale, è riuscita a separarsi dall’uomo che l’abusava e maltrattava.
Grazie all’aiuto dei servizi territoriali, tuttora vive con l’anziana madre e il
compagno di lei, il quale mostra un atteggiamento irrispettoso e a sua volta
maltrattante nei confronti della figliastra, che soffre molto per questa
46
“Mussumana” è proprio il nome che Susanna ha dato al suo personaggio.
10
ironico, teso a volgere in ridicolo o a negare ogni costruttivo movimento
emotivo.
Il suo personaggio, il monaco benedettino in crisi, è uscito fin dal primo
incontro ed anche in seguito ci è sembrato quello che meglio degli altri
potesse rappresentare l’Ottavio-persona. La resa teatrale è stata molto
semplice: un monaco con tanto di saio e pulpito “portatile” va da un posto
all’altro per salmodiare, predicare e convertire, ma spesso e volentieri nel bel
mezzo del discorso spirituale viene colto da forti colpi di sonno che lo fanno
accasciare sul suo pulpito-letto. Si ride e si pensa.
in un CRT dal quale è probabilmente scaturita la diagnosi con la quale è
stato poi inviato al centro diurno Villa Rondo (disturbo di personalità
paranoide).
Nei primi giorni di ingresso nel centro, Ottavio si è presentato cupo, con
un atteggiamento chiuso, sospettoso e a tratti diffidente, senza però mai
mostrare turbe della sfera ideo-percettiva. Dalle prime osservazioni emerge
una persona in condizione di isolamento, disoccupazione, ritiro sociale,
sicuramente accentuatasi negli ultimi anni e accompagnata da difficoltà
relazionali.
3.2.4 - Gino / della clowneria
Gino è un acrobata della parola, salta di palo in frasca, interrompe
quando non dovrebbe, non ascolta quando dovrebbe ed è molto spiritoso,
energico, ha una fisicità esuberante e una sua elementare ed innata
comicità.
Gino è così esuberante che ha bisogno di essere contenuto, così come
i suoi personaggi (Il fedele buontempone, Ele, l’elefante indiano un po’
clownesco e la scimmietta istintiva e compagnona) che non ha caso sono
stati sintetizzati in uno solo: il clown.
Gino è un clown vero, bianco e nero, ride e fa ridere per esorcizzare la
tristezza che ha dentro: il lutto per la morte del padre con tutto quello che ne
è conseguito.
Anche durante lo spettacolo abbiamo mantenuto e potenziato la sua
spontaneità che lo ha portato ad essere diretto ed istrionico con il pubblico
come un’ape con il miele. Gino capisce roma per toma (trasforma il maestro
Lecoq in un uovo alla coc e il pedagogo teatrale Decroux in una crudità di
stagione), prende fischi per fiaschi , giocola con palline, clavette e una
cornice senza foto che usa per fare una gag sui grandi quadri: “Gino mi
faccia la Gioconda” , “Gino provi con Guernica!” ecc. ecc.
Nel momento del disvelamento, nello spazio-persona, Gino però si
contiene, spiega al pubblico-comunità una parte della sua vita e della sua
filosofia minima: “la cornice senza foto è in memoria di mio padre, bisogna
ridere per non piangere”.
Ottavio, il monaco benedettino
“…Ottavio entra col suo banchetto da predicatore e comincia a leggere
una predica 47durante la quale tende ad assopirsi; il fischio del regista lo
sveglia…”
Proprio attraverso questo personaggio Ottavio appare integrare due
versioni del suo sé, quella che ha perso le speranze e che tende ad
assopirsi nel letto, anche alla mattina nella fatica di venire al servizio dice:
“…mi sento come un pila scarica…” e quella più attiva ma sofferente,
angosciata, alla costante ricerca di significati, il monaco benedettino che
legge una sorta di poetica apologia del sonno48. Tale personaggio ha
consentito di fondere all’interno della azione terapeutica dapprima e scenica
poi, una rottura che il paziente viveva fra un aspetto, nel senso
psicopatologico , più freddo dei suoi sintomi, anedonia disinteresse, apatia,
e un aspetto più florido, angosciato, rischioso, di ricerca di significati, fuso
ancor di più all’interno dell’azione scenica da espedienti di natura comica
come i fischi del regista per risvegliarlo.
3.2.3.1 - Ottavio (quadro clinico)
Ottavio, nato e cresciuto in una grande città dove ha conseguito la
maturità classica e ha intrapreso senza portarli a termine gli studi di filosofia,
si è trasferito da qualche anno, insieme ai genitori (padre lombardo e madre
pugliese) in un piccolo paese. Tale trasferimento, da lui vissuto come
un’imposizione, non è stato condiviso e lo ha portato ad interrompere i già
scarsi rapporti interpersonali con gli amici della città, con i quali condivideva
interessi filosofici.
Si è progressivamente delineata in lui una condizione di marcato ritiro
sociale, con difficoltà ad intraprendere un’attività lavorativa. Al domicilio si
sono verificate frequentemente anomalie comportamentali in un contesto
ideico a contenuto persecutorio, che lo hanno portato ad un primo ricovero
Gino e un vuoto incolmabile
Gino, paziente con problematiche psichiatriche, esiti di un accidente
vascolare che risale all’età di diciannove anni, vive da solo con la madre la
quale, ormai anziana, soffre di salute precaria. Ha un fratello che vive
lontano dalla famiglia di origine e che si mostra ormai quasi totalmente
disinteressato alla condizione di difficoltà del fratello invalido e della madre,
costantemente impegnata nell’accudimento di Gino, sempre più difficile a
causa delle problematiche e dell’ingravescenza della condizione
psicopatologica del figlio.
Gino ha perso suo padre nell’estate che precede l’inizio dell’esperienza
di psicodramma. Il padre fungeva per lui da supporto in tutto; l’esperienza di
lutto per il paziente ha assunto un’importanza “catastrofica”, tanto da
causare un forte ritiro associato ad una sempre maggiore ingravescenza del
suo stato di disinibizione, il tutto gravato sulle spalle dell’equipe che è
riuscita solo lentamente, e grazie all’esperienza di psicodramma, a cogliere
la reale esigenza di Gino e il suo bisogno, celato dietro a necessità talvolta
insensate, di contenimento, di punti di riferimento forti, di “basi sicure” dalle
quali muoversi per poter scoprire il mondo senza la figura forte di suo padre.
Per Ottavio abbiamo dovuto fare un intervento di drammaturgia d’autore.
Dovevamo dargli una ragione per la sua rappresentazione che potesse
ironizzare e metacomunicare proprio sulla la sua tendenza a contrastare
l’azione (anche verbale). Per la cronaca Ottavio e Marco sono stati gli unici
ad avere un testo autorale di riferimento. Nel caso di Marco ci rifaremo ad un
meno colto ma sempreverde e popolare Tex Willer in chiave surreale.
48Una poesia di Philip Sidney
47
11
Il senso di inadeguatezza cronico, associato ad un’inautentica
ipervalutazione del sé, si è affiancato al vuoto incolmabile di significazione
esercitato dalla figura paterna. Proprio per questo quello di Gino si può
definire un vuoto incolmabile, ben lontano dal senso del lutto e della perdita,
ma simile ad un’incapacità di significazione di ciò che accade.
Gino si mostra quindi all’interno del lavoro di psicodramma, incapace di
significare la perdita ed il dolore ad essa associato come un dolore
autentico, ma elabora la mancanza attraverso un “mi manca un punto di
riferimento” oppure “mia madre è a casa da sola ha bisogno di me”. Il
bisogno legato alla mancanza appare sempre come “esternalizzato” e mai
emotivamente elaborato, autentico, sentito.
“…M. entra nella scena vestito da clown…compie numerosi numeri di
giocoleria per divertire il pubblico…” (vedi foto sopra)
Da questo stralcio dello spettacolo si può osservare come il paziente ha
potuto “dar sfogo” mettendo in scena, alla parte più disinibita del sé; la
scena si è infatti snodata attraverso numeri di giocolerie, imitazioni
insensate, che ricordano la scarsa significazione del lutto per il paziente,
veramente divertenti e colorate, che hanno saputo contrapporsi all’immagine
di vuoto portata; “…M. impugna la cornice vuota portata come cornice vuota
della presenza del padre…” in questo senso il paziente tenta di interpretare
quadri richiesti dal regista “…mi faccia La primavera di Botticelli…mi faccia
Guernica di Picasso…” quadri che altro non fanno che interpretare e
riempire una cornice vuota di una presenza importante e significante; tutto
ciò esercita la funzione presentificante dello stato di angoscia del paziente al
quale solo la nuova azione significante dell’esperienza terapeutica ha saputo
ridare colore.
3.2.4.1 - Gino (quadro clinico)
Gino, pensionato invalido al 100%, vive dal 2002 in un piccolo paese
con la madre vedova.
Nel 1980 si sottopone a due interventi neurochirurgici successivi. Il
primo in seguito ad un aneurisma dell’arteria comunicante anteriore, il
secondo, a distanza di 20 giorni in seguito ad un evento accidentale, per
ematoma extradurale temporo-parietale-occipitale sx. Prima degli interventi
neurochirurgici, ha lavorato come guardia giurata e elettricista.
Dopo gli interventi inizia a presentare un deterioramento progressivo
della personalità con perdita di interessi, apatia, anedonia, impulsività,
disturbi mnesici e, saltuariamente, abusi alcolici con tendenza a
comportamenti impulsivi.
Il quadro clinico assume decorso cronico e ingravescente (diabete
insipido) con progressiva compromissione della capacità lavorativa.
Il comportamento di Gino ha sostanzialmente confermato la
diagnosi di invio al centro diurno (sindrome ansioso depressiva con
anomalie comportamentali) e ha mostrato fin da subito una condizione di
ipomaniacalità cronica: subeccitazione, logorrea, vischiosità, scarsa capacità
critica, con concomitanti quote d’ansia e disturbi del sonno; difficoltà notevoli
di concentrazione che non gli consentono di iniziare e portare a termine un
compito. Presenta disturbi mnesici ascrivibili ad una condizione di
deterioramento cognitivo di verosimile natura organica. Riferisce occasionale
assunzione di alcolici (birra). La morte del padre nel luglio del 2006 ha poi
complicato il suo quadro clinico. La problematica del lutto e della
responsabilità ereditaria emergerà in maniera evidente nel gruppo di
psicodramma.
3.2.5 - Piero / del viaggio
Secondo Sergio Leone, Clint Eastwood aveva due espressioni
recitative: una a piedi… e una a cavallo. Eppure funzionava alla grande.
Piero ha meno espressività di Eastwood, forse perché non ha il cavallo,
però in compenso ha una grande passione: la moto. E anche lui funziona
alla grande.
E’ stato il gruppo ad attribuirgli il ruolo di astronauta, perché, sempre
secondo il gruppo, Piero ti può portare a vedere mondi sconosciuti. In effetti
quando va in scena e fa il suo pezzo - entra in scena, si presenta, invita tutti
sulla luna, sta fermo, va dal pubblico, stringe la mano ai maschietti e fa il
baciamano alle femminucce, riguadagna il centro scena, fa un gesto di
esultanza, esce - sembra davvero attirare tutti dentro di sé in uno spazio
cosmico interiore. Forse un buco nero?
La cosa più bella di Piero è proprio questa: moderno Orlando furioso, ti
fa viaggiare stando fermo.
Piero e la gioia di un viaggio fantasticato.
Piero, reduce di un gravissimo trauma cranico con conseguente esito
psichiatrico, vive con la sorella e la sua famiglia; soffre di gravissimi disturbi,
fra cui il più grave è un generale rallentamento motorio, ideativo, emotivo.
Piero fantastica avventure e viaggi nelle più svariate parti del mondo, quasi
come per compensare il vuoto esperienziale in cui versa dall’età di tredici
anni; il paziente è alla continua ricerca di un contatto fisico, a causa della
disinibizione di cui soffre e della necessità di comunicare attraverso un
canale differente da quello verbale.
“…Piero entra in scena e quando la musica si abbassa dice: ‘Sono un
astronauta, sono venuto per portarvi sulla Luna, dopodichè fa il baciamano
a tutti…”
Piero fantastica di essere un astronauta e di portare tutti quanti sulla
Luna;, tutto nasce dalla sua necessità di uscire da una fissità paralizzante
che causa quotidianamente difficoltà enormi, delle quali appare in parte
avere una consapevolezza; la sua giornata è costellata da frequenti
umiliazioni e litigi coi familiari che lo spingono a “muoversi” e lo spronano
paradossalmete alla velocità; in questo senso l’esperienza terapeutica dello
psicodramma ha consentito di strutturare all’interno del setting uno spazio in
cui Piero sentisse di potersi “muovere molto” e “di andare molto lontano”;
attraverso il flusso ideativo e immaginifico che ancora gli consente di
muoversi come vorrebbe, tale esperienza di compensazione delle reali
limitazioni sentite appare aver dimostrato al paziente quanto sia possibile
ancora che investa su quelle che sono le sue possibilità residue.
3.2.5.1 - Piero (quadro clinico)
Piero vive con la sorella. Entrambi i suoi genitori sono deceduti. Ha alle
spalle una lunga storia di epilessia post-traumatica insorta successivamente
a trauma cranico per un incidente stradale nel 1968. Viene seguito dai
servizi psichiatrici dal maggio del 2005 in seguito ad insorgenza di
modificazioni del comportamento con aggressività.
Alla TAC encefalo del 14-02 non vengono segnalate anomalie
epilettiformi.
Invalido civile al 100% con indennità di accompagnamento.
3.2.6 - Cleofe / della cura
Il comportamento di Cleofe all’interno del laboratorio ha sorpreso un po’
tutti, ma soprattutto gli operatori che di lei avevano l’immagine di una
persona piuttosto introversa e riservata e probabilmente mai si sarebbero
aspettati di vederla addirittura arrivare a ballare in scena davanti ad un
pubblico.
Per noi conduttori è stato un po’ diverso, perché di lei non avevamo
conoscenze pregresse.
L’esperienza con Cleofe ci ha fatto capire quanto sia veramente
importante la costruzione del luogo, dello spazio e del gruppo adatti perché
si possano realizzare azioni e riflessioni spontanee e creative.
Cleofe non ha comunque stravolto la sua personalità all’interno del
laboratorio, non si è certo trasformata in un istrionica trascinatrice, ha
mantenuto i tratti che la contraddistinguono anche fuori dallo spazio
psicodrammatico, riservatezza e timidezza. Lo psicodramma gli ha dato una
grande opportunità; sdrammatizzare la sua mole essendo più spontanea.
Sicuramente si è concessa di più e si è spinta fin dove sentiva di poter
andare e ci ha rimandato un’immagine di sé molto forte e precisa: una
persona che preferisce stare un po’ nell’ombra ma che sa di poter dare il suo
contributo al momento giusto e quando è necessario dare una mano,
aiutare, prendersi cura.
E’ lo stesso gruppo nella sessione 12 (l’ultima prima della pausa estiva)
a riconoscerle questa abilità, “il gruppo sottolinea la capacità di Stefania di
prendersi cura degli altri nell’ombra, con una presenza quasi magica”49.
Per questo di lei abbiamo deciso di tenere un personaggio assegnatole
in una sessione dall’io-ausiliario: la strega chimera che cura la gente.
Del resto il parallelismo tra la stregoneria e la malattia mentale sta nei
manuali di antropologia culturale e di psicologia. Il suo messaggio sembra
essere proprio questo: la cura è spesso nascosta dentro la malattia.
Cleofe, la strega buona
Cleofe ha una lunga storia di psicopatologia il cui esordio risale ormai a
quasi dieci anni fa. L’inizio del suo disagio si può riportare alla morte del
padre, in seguito alla quale la paziente, che già soffriva di numerose
problematiche di salute e di un preoccupante ritiro sociale, ha sviluppato una
sintomatologia caratterizzata da gravi deliri a contenuto mistico. Il problema
più serio resta comunque quello del peso; Cleofe soffre infatti di una
condizione di gravissima obesità in seguito alla quale è stato anche difficile
potersi muovere per alcuni periodi della sua vita. Vive con la madre e il
compagno di lei in un contesto patologico, caratterizzato da molestie da
parte dell’uomo ed estremo impoverimento mentale della madre.
49
12
Appunti
Cleofe è molto taciturna, fatica a partecipare al lavoro di gruppo, tende
a stare “nel buio” e ad osservare.
Il personaggio portato è molto particolare; con esso Cleofe sembra
voler compiere un tentativo di sublimazione della propria patologia: è infatti
una strega chimera che compie magie buone, tali magie buone sono riferite
a persone che stanno male “…sono quelle dei manicomi…” che riesce
anche a far volare. La “strega chimera” è una strega che opera nel buio, di
nascosto, non ama farsi vedere ma ama far star bene gli altri.
Con questo personaggio rimandatogli dall’io-ausiliario e da lei fatto
proprio, appare quindi essere riuscita a fondere due aspetti di sé, quello
meno “sano” di lei, che a causa del peso non ama farsi vedere, trasformato
tuttavia in un personaggio fantasico che può operare nel buio, e quello
promotore di salute che fa magie per guarire gli altri. Questo tentativo di
integrazione appare molto importante, poiché consente alla paziente di
integrare parti di sé che fino alla nascita del personaggio si mostravano
come meno integrate.
3.2.6.1 - Cleofe (quadro clinico)
Cleofe vive presso un piccolo comune con la madre, il compagno di lei
e il fratello maggiore, impiegato in una azienda agricola; il fratello minore
vive da solo ed ha una figlia di 4 anni.
Il clima familiare è piuttosto conflittuale e teso, soprattutto nel rapporto
madre-figlia (è stato ribadito dalla paziente che la madre in passato
abusasse di sostanze alcoliche).
Ha preso contatti con il CPS di M. in seguito al decesso del padre (per
un K epatico), che ha causato scompenso.
E’stata quindi seguita dal servizio territoriale per una schizofrenia
indifferenziata. Oltre ad una sintomatologia delirante e allucinatoria (tenuta
sotto controllo con l’ausilio di farmaci), é presente in maniera importante una
sintomatologia negativa caratterizzata da appiattimento affettivo,
immutabilità dell’espressione facciale, scarsità di movimenti spontanei,
gestualità espressiva, partecipazione affettiva indifferenti. È pensionata
invalida al 100% con indennità di accompagnamento.
In anamnesi è stata poi segnalata una sintomatologia premorbosa
caratterizzata da irrequietezza, isolamento sociale e depressione durante
l’infanzia e nell’adolescenza una sintomatologia più marcata di tipo psicotico
con allucinazioni uditive. Ha sofferto fino all’età di 18 anni di enuresi
notturna. A complicare la sua situazione è la sua condizione di obesa, che la
limita molto nella mobilità e la porta a vissuti di autosvalutazione e
inadeguatezza.
3.2.7 - Marco / del surreale
Marco ha partecipato al laboratorio a spizzichi e bocconi, non è stato
uno dei fedelissimi, ma ha sempre mantenuto il contatto con il gruppo.
Non avevamo molti dati, se così si può dire, per poter creare un
personaggio a ragion veduta, così il suo è stato costruito un po’
istintivamente. Ci siamo rifatti ad un suo personaggio significativo emerso
nel corso della sessione 7: il mitico Tex Willer, da lui scisso in due persone
in comunicazione l’una con l’altra ed accompagnate dal fedele cavallo.
Difficile trovare con lui una comunicazione di senso. Per questo Marco
entra in scena con una dolce musica vagamente western (The Willies, Bill
Frisell ndr) e risponde alle domande del regista avanguardista strappando a
casaccio pagine del fumetto appiccicate al suo corpo. Non sappiamo cosa
l’evidente riferimento al teatro dell’assurdo abbia lasciato in lui.
Marco, il non sense significante
Marco, paziente oligofrenico noto ai servizi ormai da anni per la sua
condizione di estrema deprivazione sociale, vive da solo in un quadro di
estremo degrado e deprivazione.
Vive di espedienti, frequentando le varie organizzazioni sociali della
zona; la presa in carico da parte della struttura ha per Marco un significato di
custodia e accudimento, di creazione di una rete simil-familiare che possa
essergli supportiva, sia emotivamente che praticamente, poiché appare
talvolta non essere in grado di badare a sé stesso.
“…Marco entra in scena con le pagine del fumetto Tex Willer e
risponde al regista leggendo a casaccio stralci del fumetto che strappa dal
suo maglione…”.
Proprio attraverso l’espediente del non-sense, si arriva ad una
significazione dell’esperienza di Marco che ricorda la figura del padre, per lui
di grande sostegno, attraverso la figura di Tex e del suo cavallo. La
confusione e la poca chiarezza di Marco, lo scarso spazio per la sua
condizione patologica, scarsamente compresa e significata, trovano
contenimento nello spazio del non sense, che sdrammatizza e interpreta
all’interno della turnazione “botta e risposta” con il regista, il non senso fino
ad ora angosciantemente destrutturato.
3.2.7.1 - Marco (quadro clinico)
L’infanzia di Marco è stata caratterizzata da un problema di grave
dislalia con difficoltà di inserimento scolastico. Dal 1984 è seguito dal CPS
con la diagnosi di ritardo mentale di grado medio, ritardo psicomotorio e
macrocefalia dalla nascita, associato ad un quadro epilettiforme ed
accompagnato da tematiche di riferimento e discontrollo degli impulsi.
Allo stato attuale il paziente presenta un buon contenimento della
sintomatologia grazie alla regolare compliance farmacologia. Invalido civile
al 100%.
Vive solo e stante il basso grado di autonomia nella gestione del
quotidiano, è stato attivato un servizio di assistenza domiciliare quotidiana.
3.2.8 - Teresa / del silenzio
Teresa frequenta poco il centro diurno. Nel laboratorio di psicodramma
e teatro è stata una meteora. Il contapresenze si è fermato a tre con lei. Ma
son bastate perché il suo passaggio si imprimesse nella nostra memoria e in
quella del gruppo.
Così abbiamo deciso di portarla con noi fino in fondo, anche in scena.
Il suo personaggio è diventato così quello da lei creato durante il primo
incontro: una suora di clausura.
Teresa, l’assenza e l’esperienza del lutto
Teresa, paziente psichiatrica gravissima nota ai servizi da svariati anni,
vive in una condizione di estrema deprivazione e disagio, ha tre figlie delle
quali le è stato tolto l’affidamento da alcuni anni. Teresa è caratterizzata da
una chiusura estrema e da una scarsità di abilità comunicative che non le
consentono di esprimere la tangibile sofferenza per la distanza dalle figlie.
Frequenta sporadicamente il servizio e ancor meno il gruppo di
psicodramma, dentro al quale riesce però a far emergere il suo personaggio:
nel primo incontro decide infatti di interpretare la monaca di clausura,
personaggio emblematico che sta a rappresentare la sua difficoltà di
contatto col mondo esterno.
“…M. e I. entrano portando con loro la finestra vuota recante il
crocefisso, si fermano e la scena è dominata dal silenzio rotto poi da una
musica misticheggiante”. La scena sta a rappresentare il fallimento
terapeutico. Teresa infatti se ne va e si allontana dal servizio quasi a voler
dimostrare quanto sia difficile poter entrare in contatto col suo mondo
fantasmatico di psicotica grave.
3.2.8.1 - Teresa (quadro clinico)
Teresa è la settima di undici fratelli. Una sorella, un fratello e il padre
sono stati utenti di un CPS territoriale, mentre lei entra in contatto con i
13
servizi psichiatrici a partire dal 1999 in maniera sporadica e d irregolare. In
anamnesi, presenta due ricoveri in SPDC, nel 2000 e nel 2004. Nel
dicembre 2003 il Tribunale dei minori dispone nei suoi confronti
l’allontanamento delle quattro figlie, avute dall’attuale convivente con il quale
vive in condizioni di svantaggio socio-culturale. Viene inviata al centro diurno
con diagnosi di psicosi non specificata.
Il quadro clinico attuale è caratterizzato dalla presenza di
sintomatologia negativa, pensiero povero, linguaggio semplice, insieme a
marcato ritiro sociale, apatia e abulia. Teresa fa fatica a parlare di sé e a
ricostruire la sua storia personale. Non vengono espresse tematiche
deliranti, ma una bassa tolleranza alla frustrazione, impulsività e povertà
relazionale.
3.2.9 - Brevi considerazioni
A posteriori e speculativamente mi vien da dire che ognuno di loro ci ha
parlato di un aspetto della malattia mentale, lo ha mostrato attraverso il filtro
dello psicodramma e del teatro, rendendolo vivido e pulsante:
l’eterna infanzia, la femminilità, la cura, la clowneria, la surrealtà, il
silenzio, il viaggio, la beffarda ironia.
Questi temi sembrano delle fughe, delle elaborazioni di mancanze,
vuoti, lontananze, assenze. E’ la mancanza dell’istanza genitoriale, in
particolar modo paterna, il grande tema del gruppo. Ce lo hanno mostrato
due emergenti gruppali, due singoli genius loci, Clementina e Gino nei loro
lavori come protagonisti.
Leonardo da Vinci ha definito la struttura architettonica dell’arco come
“due debolezze che cadendo si sostengono”. Eugenio Barba ha applicato la
definizione al gruppo sintetizzando quello che avviene in ogni processo di
aggregazione costruttiva. E’ quello che è accaduto anche in questa breve
ma intensa esperienza.
Ognuno dei partecipanti si è appoggiato all’altro sostenendosi e
facendoci vedere un pezzo del meccanismo che ci tiene a galla, del grande
ingranaggio e ci ha detto quanto sia delicato il suo funzionamento e che
basta un niente per romperlo, per danneggiarlo, per comprometterlo.
Ognuno di loro, attraverso l’elaborazione creativa di questi temi,
insomma, ci ha rammentato e rammendato la nostra (precaria) umanità.
4.2 - Gli ultimi incontri
Avevamo a disposizione ancora nove incontri compresa la
rappresentazione.
Ci siamo mossi in questo modo:
2 sessioni di rientro a carattere psicodrammatico per
•
sondare l’umore del gruppo a seguito della pausa estiva
•
riportare alla memoria il “materiale” emerso negli incontri
precedenti
•
presentare la proposta di lavoro al gruppo e condividerla
4 sessioni per
•
lavorare teatralmente sul “materiale prodotto”
2 sessioni:
•
prove generali
1 sessione
•
spettacolo integrativo finale
4.3 - A proposito di conserve: repetita iuvant!
La prima riflessione critica che è nata dal lavoro così come l’avevamo
impostato è stata la seguente: il cosiddetto “materiale prodotto” , frutto di un
breve percorso psicodrammatico, ripreso e rielaborato teatralmente non
rischiava di diventare un qualcosa senz’anima, un puro esercizio di stile, in
una parola una “conserva”?
Quest’idea ci ha più volte sfiorati e fatti sentire insicuri e inadeguati,
molto simili ad Icaro quando con le sue ali di cera vola troppo vicino al Sole.
Lo psicodramma fugge dal teatro stabile ed è amico del theatron, del
teatro attuale, “si realizza nell’azione di non essere andati-a teatro, ma di
esserlo diventati” (Perussia, 2004).
Di fatto non si creava più niente ma si riproduceva un già fatto e un già
detto; seppur senza l’utilizzo di un copione scritto, ognuno ritornava come
poteva sui propri passi. La poiesi era diventata mimesi.
Una cosa accadeva, in questo andirivieni, che ogni volta le andate ed i
ritorni mostravano nuove cose (emozioni, gesti, pensieri, parole),
consolidavano ciò che era utile, eliminavano l’inutile, definivano i contorni,
aggiungevano, aggiustavano. Repetita iuvant!
Forse allora anche le conserve possono servire. La mimesi è collegata
alla poiesi non dall’aut ma dall’et. Come per il sogno.
4.4 - Ricordo degli ultimi incontri e ambiziose citazioni
Un buona pratica per una buona regia è la pulizia degli occhi.
Un buon pedagogo teatrale quando si siede per lavorare pensa a pulire
lo sguardo affinché ogni cosa ritorni nuova. Per farsi colpire, sorprendere.
Ogni volta come la prima volta.
Capitolo 4
GLI ULTIMI INCONTRI E LA CONCLUSIONE
Il rientro dopo la pausa estiva ci ha consegnato un gruppo compatto e
desideroso di proseguire il lavoro lasciato poco più di un mese prima.
La nostra prima preoccupazione è stata allora quella di sottoporre
all’équipe del centro la nostra idea drammaturgica per poter pianificare gli
incontri che ci avrebbero portato alla rappresentazione.
4.1 - Il titolo e il ruolo degli operatori
Non abbiamo fatto nessuna fatica a trovare un titolo che desse un
senso al lavoro, abbiamo semplicemente messo insieme i loro personaggi.
Da questa unione è nato “Astronauti, suore, streghe, monaci, clown,
mussu(l)mane e principesse - dal personaggio alla persona”.
Il fatto poi che la nostra proposta incontrasse il gradimento dell’équipe
ci ha naturalmente rasserenato.
Una questione che però i tre operatori/io-ausiliari ci hanno subito posto
ha riguardato il loro ruolo durante la rappresentazione: dentro o fuori?
A questo quesito non abbiamo dato una risposta univoca, abbiamo
lasciato a loro l’ultima parola, dicendo che potevano scegliere se prendersi
anche loro un personaggio, che solo al momento finale, nello spaziopersona, si sarebbe svelato e avrebbe rivelato (alle poche persone che non
lo sapessero) il suo mandato istituzionale, o se invece preferivano rimanere
fedeli al loro ruolo ufficiale50.
Alla fine si è deciso insieme di “giocare fino in fondo” ; così due degli
operatori, quelli che più assiduamente prendevano parte alle sessioni in
qualità di ausiliari, Monica e Matteo, sarebbero andati in scena nei panni
rispettivamente del gabbiano Jonathan Livingstone e dell’aspersore, mentre
Greta, meno presente durante l’arco degli incontri, avrebbe preso il ruolo
inventato, questo sì a tavolino, della fotoreporter-giornalista che ci
consentiva, tra l’altro, di documentare senza risultare intrusivi, essendo
Greta presenza nota e familiare al gruppo.
Con un conduttore/regista avanguardista e con una conduttrice/sbadata
e sensibile assistente la galleria dei personaggi era completa. Si poteva
cominciare.
Nin Scolari
Regista e direttore artistico
di Teatrocontinuo (Pd)
Non abbiamo diari degli ultimi incontri, pochi appunti sparsi, qualche
riflessione. Eravamo occhi e non solo.
Eravamo per esempio felicemente sorpresi dal constatare che la pausa
estiva non aveva fatto “né morti né feriti” il gruppo c’era ancora tutto e aveva
voglia di continuare. Del resto solo qualcuno di loro aveva fatto davvero
vacanza…
Eravamo anche un po’ intimoriti anche al pensiero di come avrebbero
accolto la nostra proposta di lavoro associata alla prospettiva che di lì a
poco sarebbero andati in scena ufficialmente davanti ad un piccolo pubblico
“familiare ed allargato”.
Eravamo arrivati al livello teatrale, insomma, dopo aver conosciuto e
approfondito la conoscenza dei compagni e di se stessi, si preparava il
momento dell’Alterità, dello sguardo esterno, del pubblico, della socialità.
(l’Io-il Noi-gli Altri).
“Il processo della Formazione Personale si esercita infatti attraverso
uno scorrere in profondità a diversi livelli di realtà-interiorità, per cui si può
proseguire all’infinito nella risalita del fiume verso la fonte.
Il ruolo potenziale non si realizza mai completamente, poiché si tratta di
una astrazione e non di un’azione. Il ruolo attuale è la mediazione fra ruoli
potenziali diversi, che necessariamente ne rappresentano solo qualche
parte. Questa mediazione, nei particolari della sua inevitabile incongruità,
denuncia se stessa, ovvero offre continuamente occasioni evolutive, se si
facilita il moltiplicarsi dei ruoli coinvolti, invece di frenarlo.
Il teatro Attuale consiste nel produrre direttamente l’interazioneperipezia delle parti, ovvero nell’essere autore-attore-spettatore del proprio
sotto-testo espresso. Tramite questa forma di emergenza, il soggetto prende
coscienza, di volta in volta, di alcune delle proprie parti sottotestuali.
L’obiettivo è quello di essere il più a contatto possibile con se stessi”
(Perussia 2004).
Nel giorno della rappresentazione i personaggi avrebbero mostrato se
stessi, le persone; avrebbero detto quale era il seme, l’evento, la situazione
che li aveva prodotti e generati.
E’ presuntuoso citare il processo creativo che ha portato Grotowsky e
Cieslak alla messa in scena del Principe Costante, ma lo faccio lo stesso:
“…Il testo parla di torture, dolori, di agonia. Il testo parla di un martire
che rifiuta di sottomettersi a leggi che egli non accetta. […] Ma nel mio
lavoro di regista con Ryszard Cieslak, non abbiamo mai toccato niente che
50
Sappiamo bene quanto sia difficile per l’operatore che lavora all’interno di
una struttura istituzionale gestire la declinazione del proprio ruolo in tutte le
sue funzioni: educativa, contenitiva, restrittiva, coscrittiva, permissiva ecc. e
quanto questo stesso ruolo, soprattutto in contesti psichiatrici, sia funzionale
all’operatore stesso per definire il limite con l’utenza. Per questo abbiamo
chiesto loro di seguire il proprio sentire. Sicuramente la loro presenza in
scena a fianco degli ospiti-artisti sarebbe parsa ai nostri occhi un forte
segnale di umanità professionale e l’indice di un’avvenuta assimilazione ed
elaborazione della filosofia psicodrammatica, poco incline a favorire
l’istituzionalizzazione e la conservazione rigida del ruolo.
14
fosse triste. Tutta la parte è stata fondata su un tempo molto preciso della
sua memoria personale (si può dire sulle azioni fisiche nel senso di
Stanislavskij) legata al periodo in cui era adolescente ed ebbe la grande
esperienza amorosa. Tutto era legato a quell’esperienza. […] E a quel
punto, la prima cosa che abbiamo fatto è stata di creare le condizioni nelle
quali potesse, il più letteralmente possibile, mettere questo flusso di parole
sul fiume del ricordo, del ricordo degli impulsi del suo corpo, del ricordo delle
piccole azioni, e con i due prendere il volo, prendere il volo, come nella sua
esperienza prima, dico prima nel senso di esperienza di base.”(T. Richards,
”Al lavoro sulle azioni fisiche con Grotowsky”, 1993)
Al di là di queste speculative citazioni un poco ambiziose, gli ultimi mesi
di lavoro sono corsi via velocemente. Eravamo consapevoli di aver attivato e
di essere entrati dentro ad un processo che chiedeva di essere portato a
compimento.
Il gruppo ha mostrato interesse per la proposta di lavoro e, devo essere
sincero, i livelli d’ansia sono rimasti sorprendentemente bassi.
L’équipe ha fatto un ottimo lavoro di contenimento e di stimolazione
motivazionale anche al di fuori del contesto laboratoriale. Si aveva davvero
l’impressione di remar tutti nella stessa direzione, ognuno in base alla sua
disponibilità; e in queste condizioni è difficile sbagliare. Anzi, l’errore non
viene neanche contemplato, diventa motore di un’azione ulteriore, o viene
assorbito.
4.5 - Ancora qualcosa sul lavoro d’équipe
Un buon lavoro d’èquipe può davvero fare la differenza. Dopo qualche
anno di esperienze e tirocini in centri sconclusionati, approssimativi,
improbabili, neonati, malaticci, pubblicamente privati, cooperative sociali che
di sociale hanno giusto la facciata che gli serve per vincere appalti sempre al
ribasso, comunità molto esplosive e poco contenitive, scuole sempre più
sgarrupate con insegnanti sempre più rassegnati, questa esperienza ha
riequilibrato il mio umore e la mia speranza di poter credere che senza troppi
strombazzamenti e rulli di tamburo si possa lavorare con relativa tranquillità
e serenità per arrivare a produrre “una risposta adeguata ad una situazione
nuova o a una risposta nuova ad una situazione già conosciuta” (Moreno,
1953, pag. 42).
4.6 - Lo spazio del teatro e dello psicodramma: una sala TV e la
palestra
L’edificio teatrale, nel Novecento [il secolo scorso, ndr], non è più un
monumento ma il luogo funzionale alla rappresentazione e lo spazio interno
è definito di volta in volta (tendenzialmente) dai modi rappresentativi; lo
spazio dell’azione drammatica non appartiene più a una tipologia da
attualizzare e individualizzare, non è più un dato autonomo in cui collocare il
dramma, ma è creato anch’esso di volta in volta. Il Novecento ha usato spazi
diversi dal “teatro” , all’aperto e al chiuso e ha continuato ad usare,
deformandone i valori, la sala all’italiana, il teatro per il repertorio del Teatro.
Fabrizio Cruciani
lasciarli casualmente accosti-frapposti l’uno presso l’altro (situazione in cui si
era al punto di partenza).
Il backstage si è in qualche modo rovesciato in stage. L’incosciente ha
sviluppato un modo per emergere. L’oscuro ha trovato una via per
manifestarsi. Qualche spirito ha soffiato. Qualche angolo buio si è illuminato.
Qualche interiora ha potuto essere studiata. Le pallide forme sullo sfondo di
quell’idea hanno acquisito una loro sostanza in primo piano.
La crisi, nell’ambito di una teoria (di un racconto) è una rottura che da
luogo a un aggiustamento. Una frattura che produce una reintegrazione(…)
I fatti-dati oggettivi si sono rivelati nella loro veste di persone
personaggi soggettivi, disgelando la propria natura, che si è quindi
dimostrata diversa da come appariva in un primo tempo. E’ stato messo
almeno un piede nella porta dell’al-di-là. Almeno un angolo del velo di Maja
è caduto” . (Perussia, 2004).
Alle 16.00 del 17/11/2007 in un bellissimo sabato di novembre siamo
andati in scena.
Nel momento più bello e delicato del pomeriggio, il passaggio dalla luce
al buio. Avevamo bisogno anche di loro.
Sono stati tutti impeccabili e non ci sono stati intoppi di rilievo.
La rappresentazione, come già accennato, è stata suddivisa in tre
momenti definiti spazialmente: sala personaggio – corridoio per il passaggio
del pubblico – sala persona.
Del primo momento, quello corrispondente alla sala personaggio, ho già
abbondantemente riferito; del secondo, quello corrispondente al
traghettamento del pubblico da uno spazio all’altro non c’è molto da dire, è
stato un passaggio che ha creato un momento di sorpresa che ha riattivato
la curiosità dell’uditorio, se mai si fosse assopita.
Dell’ultimo momento, quello corrispondente alla sala-persona ancora
non ho detto, o forse ho detto senza dire.
Le sedie degli artisti erano disposte in semicerchio, ognuna aveva alle
sue spalle gli abiti smessi dei personaggi e accanto a sé una candela; ogni
volta che accendevo la candela la persona, aiutata e sostenuta dalle
domande e da qualche sussurrato doppio del direttore (anche il personaggio
della sbadata assistente ha potuto mostrare la sua persona diventando
quella che è, una psicodrammatista) si raccontava.
Raccontava l’origine del suo personaggio, il perché di questo o di
quell’oggetto, che cosa aveva significato questa esperienza per lei o per lui,
il suo stato d’animo del momento, quello che voleva.
Quando è arrivato il turno della sedia vuota, quella di Teresa, il direttore
si è seduto, ha preso i suoi panni e gli ha dato voce.
Anche gli operatori/io-ausiliari, Monica, Greta, Matteo51 hanno condiviso
il loro stato d’animo e il loro pensiero con il pubblico-comunità.
Poi ho acceso una candela al centro della scena, il gruppo ha fatto
cerchio stringendosi intorno ad essa, ognuno ha espresso un saluto, ed
infine un solo soffio, prodotto all’unisono da quattordici bocche, ha spento
l’ultima fiammella.
Ombre, spiriti e fantasmi hanno così potuto far ritorno alle loro case.
4.8 - Narcisismi
Non voglio però terminare in maniera velatamente e poeticamente
apologetica. Più volte mi sono interrogato su quali tracce questa breve ed
insolita esperienza abbia o possa aver lasciato in questo drappello di
sofferenti. Sarà servita a qualcosa?
La mia indole un po’ambivalente mi ha fatto riflettere sul narcisismo,
personale ed istituzionale.
Anche loro sono stati sicuramente gratificati da questo percorso.
Probabilmente è giusto che abbiano la loro parte di soddisfazione.
Ma ogni tanto mi capita di ripassare per il centro, di incrociare gli
sguardi di questi astronauti, monaci, suore, streghe, clown, musulmane e
principesse ritornati nei loro panni, dentro i loro pensieri ed azioni, e di pormi
sempre e comunque la domanda.
Anche noi nel nostro piccolo, in questo non certo entusiasmante inizio
di terzo millennio, abbiamo fatto nostre alcune aperture illuminanti sullo
spazio teatrale derivate dalle avanguardie del Novecento.
Tali teorie e pratiche hanno ridato vigore al Teatro e lo hanno fatto
uscire dalle logiche stabili, monumentali, museali.
Noi raccogliamo i frutti di tutte quelle persone che non hanno accettato
di rendere il teatro una mera conserva, un dato, ma lo hanno trasformato in
un problema, in qualcosa di vivo su cui riflettere e ragionare continuamente.
E con esso il suo spazio.
Moreno è stato uno di questi. Per questo penso sia nato lo
psicodramma. Da una riflessione sull’essenza del teatro e del suo spazio.
Meglio non dimenticarsene.
Per questa ragione oggi abbiamo potuto trasformare una sala TV e una
palestra per la riabilitazione in due luoghi per l’azione e la riflessione, in due
spazi teatrali nei quali mostrare qualcosa che all’occhio dello spettatore è
sembrato così vicino e allo stesso tempo così lontano dal teatro immaginato.
Perché due luoghi differenti? Perché abbiamo dato un luogo al
personaggio ed uno alla persona.
Il personaggio agiva in uno spazio teatrale, ed abbiamo scelto la sala
TV perché aveva una specie di sipario naturale, una grande porta scorrevole
(un vero colpo di fortuna…e di teatro).
La persona agiva nello spazio psicodrammatico, la palestra dove lo
psicodramma ha sempre avuto luogo per tutti e ventidue gli incontri, prove
comprese.
Il personaggio era illuminato dalla luce artificiale, della ribalta. Nel tardo
pomeriggio invernale.
La persona dalla luce “naturale” delle candele, dell’intimità. Al
crepuscolo.
4.7 - Lo spettacolo integrativo finale: 14 bocche ed un solo soffio
“A questo punto, in cui il vago sentimento iniziale, che faceva da
collante all’immagine, si è strutturato nella peripezia, ovvero in una serie di
suoi componenti: si realizza una soluzione-conclusione (una nuova
chiusura). Quello che a prima vista pareva un composto stabile, e che
invece si è rivelato sulla scena come una emulsione, trova un proprio nuovo
equilibrio in una composizione la quale fa un passo avanti nel risolvere
(sciogliere fra loro) i diversi elementi del composto stesso, invece che
Postfazione
“…fino a che sono stato chiamato da un medico del reparto il quale si è
avvicinato ad una lavagna dove già c’erano scritti diversi nomi, ha aggiunto
anche il nome mio e io ho capito che quello era l’elenco dei pazienti che
dovevano essere sottoposti a elettroshock-terapia.
E’ venuto il turno mio io, io ero l’ultimo perché ero stato iscritto per
l’ultimo, sono entrato in questa sala, la sala era in penombra e spiccavano le
luci di questa macchina dell’elettroshock che m’ hanno impressionato, m’
hanno messo sul letto a forza, m’hanno bagnato le tempie con dei tamponi
di acqua …e sale credo che era, poi la suora ha premuto due elettrodi alle
tempie, ho sentito il medico che diceva “pronto?” la suora ha risposto
“pronto” e poi ho perso conoscenza, non ho sentito più niente…”
“Fino a che sono cambiato”52
“Parole sante”
traccia 8
Ascanio Celestini
51
Matteo/Paride in realtà non era presente il giorno della rappresentazione
perché si era fratturato un dito qualche giorno prima.
52 Testimonianza di un ex paziente manicomiale
15
Non è passato poi molto tempo dacchè i matti venivano curati così.
Sembra ieri.
Mio zio Vincenzo Viletti adesso ha settant’anni. Anche lui gli
elettroshock se li ricorda bene: le “applicazioni” le chiama lui, le poche volte
che mi racconta qualcosa. Se le ricorda talmente bene ste applicazioni che
gli facevano che dopo di allora, dopo che dalla casa di cura se n’è uscito
perché lo hanno riportato a casa sua, non ha più voluto vedere un medico
per molti anni. S’è lasciato marcire tutti i denti in bocca pur di non vedere un
camice bianco. S’è messo a stecchetto, che manco un monaco…
Glieli metteva anche a lui una suora gli elettrodi alle tempie. Una volta a
sta suora, che io mi figuro come quella suora nana in Amarcord, mio zio
Vincenzo gli ha tirato un pugno. Così poi gli hanno fatto ancora più
applicazioni, come li chiama lui gli elettroshock.
Ogni tanto mi capita di pensarci a sta suora, me la immagino vecchia e
decrepita, ma ancora viva e vegeta, sempre con il sale e gli elettrodi in mano
sempre pronta a far partire la scarica; io allora, in questa specie di sogno,
m’avvicino e le tiro anch’io un bel pugno, anche se è vecchia e decrepita, gli
tiro un bel pugno come quello che le ha tirato mio zio. E poi mi sento meglio.
Non è passato poi molto tempo dacchè i matti venivano curati così.
Sembra ieri.
Adesso tutto è cambiato. C’è stato Basaglia, l’antipsichiatria, la legge
180, sono arrivati i farmaci, non si shocca più, si seda.
Adesso accade che un uomo infuriato entra in manicomio e con poche
pasticche, già il secondo o il terzo giorno, si placa, fa come un tizzone
immerso nell’acqua, che frigge e fuma, ma non più sfavilla l’incendio. E può
accadere – non sempre con discreta frequenza – che presto si ricostituisce,
si stabilizza, ritorna ritto in piedi e esce come un uomo dal cancello
dell’ospedale. Questo è uno dei fortunati, che ha incontrato il suo preciso
psicofarmaco53.
I matti li han rimessi in libertà. A volte non si sa dove, ma liberi.
“L’oggetto chiamato malattia mentale si è modificato da quando è cambiato il
luogo che conteneva i malati”54 .
Nuovi modi di curare e di approcciarsi alla malattia si sono affacciati.
Nuove strutture, nuove teorie e visioni della malattia stessa. Ma
l’interrogativo resta:
Per domandare ai (cosidetti ndr) sani se non sia giunto il tempo di
aiutare chi è sulla soglia, in bilico se rientrare nel mondo o invece ripiombare
nella caverna. Per i sani è giunto il momento di fare il loro dovere verso i folli.
E, per aiutarli, è semplicemente necessario costruire piccoli ospedali per
modo che ogni malato sia una persona e non un numero pressoché
anonimo, è necessario e obbligatorio innanzitutto non dare soltanto il denaro
ma partecipare, sorvegliare, criticare, appassionarsi a ogni passaggio di
questa meravigliosa impresa contro la pazzia, la più misteriosa dea che
esista al mondo55.
Questo scritto sopra citato oggi ha 44 anni, ma neanche lui pare aver
sentito troppo il passare del tempo. Sembra ieri.
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