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Un libro e tre mandarini

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Un libro e tre mandarini
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Un libro e tre mandarini
Alessandro D’Avenia1
Narrami, o Musa, dell'eroe multiforme, che tanto
vagò, dopo che distrusse la rocca sacra di Troia:
di molti uomini vide le città e conobbe i pensieri,
molti dolori patì sul mare nell'animo suo,
per acquistare a sé la vita e il ritorno ai compagni.
Ma i compagni neanche così li salvò, pur volendo:
con la loro empietà si perdettero,
stolti, che mangiarono i buoi del Sole
Iperione: ad essi egli tolse il dì del ritorno.
Racconta qualcosa anche a noi, o dea figlia di Zeus.
Quelle che avete appena ascoltato sono le parole iniziali dell'Odissea.
Nell'originale greco la prima parola di questo poema è “uomo”, la seconda “narrami”. Il
poeta chiede alla Musa di raccontare chi è l'uomo. Di darne una definizione narrativa.
Ci vorranno ben 24 libri per rispondere a questa domanda, ma il poeta ci offre un
rapido sommario iniziale. Da questa domanda: chi è l'uomo? dipende tutta la cultura
occidentale. Chi è l'uomo? Il poeta ci dice che ha tre caratteristiche: conoscere città e
pensieri o costumi di uomini, patire dolori, tutto al fine di acquistare a sé la vita e ai suoi
compagni. La poesia omerica sa dire solo l'essenziale: l'uomo è un viaggiatore, curioso
conoscitore del mondo, che cerca di tornare a casa e per questo è chiamato a soffrire.
Casa significa per lui “aver salva la vita”. Ma non vuole salvare solo la sua vita. Vuole
salvare la sua vita e quella dei compagni. L'uomo, anér nel testo, viaggia, conosce, torna,
patisce, tutto per cercare di salvare la sua vita (psyché) e il ritorno dei suoi compagni
(etàiroi). Etàiros indica qualcuno con cui si condivide un ideale, un fine, un obiettivo. Lo
traduciamo in italiano con compagno, in spagnolo con compañero, in inglese con
companion. La radice di questa parola indica “qualcuno con cui si condivide il pane”:
Relazione di Alessandro D’Avenia all’UNIV Forum 2015. Alessandro D’Avenia è scrittore, insegnante
e sceneggiatore. Il suo romanzo d'esordio è Bianca come il latte, rossa come il sangue. Nel 2011 viene
pubblicato Cose che nessuno sa e nel 2014 Ciò che inferno non è.
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cum unito a panis, da cui compagno. L'identità di Ulisse, dell'eroe, è quella di un uomo
che cerca di salvare la sua vita e quella dei suoi amici, dei suoi compagni. La sua identità
è possibile proprio perché non è ripiegata su se stesso, ma proiettata verso l'altro,
salvare sé e i compagni sono un'unica cosa. Dire Ulisse è dire allo stesso tempo: i suoi
compagni, i suoi amici, la sua terra, la terra dei padri. Itaca.
Tutto questo ci è utile a rendere più visibile qualcosa che diamo per scontato,
troppo scontato, proprio perché evidente: l'amicizia. Ci sono alcuni “dati di fatto” che
essendo originari non hanno bisogno di essere spiegati: sono dati di partenza
dell'umano. Oggi avvertiamo il bisogno di definire che cosa sia la famiglia, perché un
concetto dato per evidente è diventato da “dimostrare”, ma non si possono dimostrare
le cose originarie, proprio perché lo sono. Eppure la messa in discussione del concetto
di famiglia ci sta obbligando ad un nuovo e più approfondito pensiero su questo dato di
fatto originario. Lo stesso si potrebbe dire per l'amicizia. Non è sotto attacco o
ridefinizione? Così pensiamo.
Se io vi dicessi che sto cercando di trovare nuovi
Scegliamo gli
amici e per farlo ogni giorno vado per strada urlando quello
amici, non
che ho cucinato, come mi sento, dove mi trovo, cosa sto
l'amicizia. Gli
facendo, mi scatto foto e le mostro a chi incontro, tocco la
amici ci tirano
spalla di chi mi sta simpatico o mi attrae e dico “mi piace”...
fuori dalle
non starei forse definendo il mio concetto di amicizia? Non
qualcuno con cui faccio un viaggio per cercare di salvarmi la
apparenze, i veri
vita e tornare a casa, non qualcuno con cui condivido lo
amici ci danno
stesso pane. No. Ma qualcuno da “aggiungere” su Facebook,
realtà, non
qualcuno con cui salvare, non la vita, ma le apparenze, da
apparenza.
cui essere ammirato, con cui condividere (share) non il pane,
ma l'apparenza. Forse non ci sembra, ma anche il concetto
di amicizia è in discussione, in modo più sottile forse, ma io ho 5000 amici su FB, e
calcolando che in una vita gli amici degni di questo nome saranno una decina, non mi
basterebbero 500 vite per avere veramente 5000 amici. Non voglio demonizzare i social
network, che uso molto, ma guardare con attenzione i mutamenti che comportano nella
nostra percezione ed esperienza del mondo. Non abbiamo amici, ma apparenze di
amici, profili di amici. Ma amico, ci dice l'Odissea, è colui con cui condivido il pane, non
l'apparenza, colui con il quale rischio la vita nel tentativo di realizzare qualcosa. La vita
come dice un poeta “non è qualcosa, ma è per realizzare qualcosa”. Da soli? No.
Insieme agli amici in carne e ossa, non insieme alle apparenze di amici, ai profili degli
amici. Le apparenze di amici non sorridono, non piangono, non sudano, non puzzano,
non masticano, non hanno un corpo, non mangiano pane, non si feriscono, non
soffrono, non muoiono... Sono comodi da avere: non c'è bisogno di farsene carico o
rischiare la vita per loro. Il massimo che riescono a condividere è un video, una
fotografia, un mi piace. Ma la vita è ben altro. La vita è viaggio di ritorno a casa, in un
mare pericoloso, nel quale si soffre e si ride molto, nel quale si conosce, nel quale si
perde la rotta, nel quale ci si sente soli e abbandonati, se non fosse per un amico, nel
quale si rema insieme, si progetta insieme, ci si dispera ed esalta insieme.
In un altro poema epico, antico forse più dell'Odissea, il protagonista,
Gilgamesh, va alla ricerca della vita eterna perché il suo miglior amico, Enkidu, è morto
e non sopporta che ciò possa accadere anche a lui: un amico non può sparire, essere
inghiottito dalla morte, finire in un vago ricordo, in un sogno, in un'apparenza. Gli
amici non sono profili, non sono apparenze. Gli amici ci ricordano che abbiamo
bisogno della vita eterna, perché l'amicizia non può finire. L'amicizia è un dato
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originario, un bisogno originario, una scelta originaria. Non scegliamo l'amicizia, siamo
scelti dalla e nella amicizia. Scegliamo gli amici, non l'amicizia. L'uomo è dato, affidato,
all'altro uomo. È un dato originario e quanto più siamo originari tanto più saremo
originali, perché gli amici ci costringono ad essere reali, ad essere noi stessi, a seguire la
nostra identità, unicità, vocazione. Gli amici ci tirano fuori dalle apparenze, i veri amici
ci danno realtà, non apparenza.
Perché? Perché nel progetto originario di Dio l'uomo non trova nessuno “come
lui” nel creato, poi crea qualcuno capace di stare al suo fianco (è dal fianco che viene
tratta la donna), ma prima di soffermarsi sul fatto che si tratta di una donna dobbiamo
soffermarci sul fatto che l'uomo viene donato, affidato, affiancato all'altro uomo.
L'uomo è fatto per la relazione. Solo relazionandosi al suo simile smette di sentirsi solo
davanti al creato, solo nella relazione trova se stesso. E tutto questo viene prima, anche
della relazione amorosa: l'amicizia è il fondamento di ogni relazione umana.
Giovanni Paolo II è modello di amicizia (consiglio di leggere la sua vita: andava
in canoa con i suoi amici quando era sacerdote, remava con loro, per tutta la vita
incontrava regolarmente i suoi amici: la mattina dell'attentato aveva incontrato il suo
caro amico Lejeune, scienziato e Nobel per aver scoperto la causa della sindrome di
Down, ha intrattenuto un carteggio bellissimo pubblicato da poco con una donna che
era la sua più cara amica). La grandezza di quell'uomo, la sua santità, stava nella sua
capacità di essere amico: dedicava tempo, lo sceglieva, non aveva apparenza di amici,
ma amici reali a cui scriveva e con cui parlava, e che lo aiutavano ad essere reale, cioè
santo. Se non avesse avuto quegli amici non sarebbe stato Giovanni Paolo II. Dio mette
sul nostro cammino gli amici che ci aiuteranno ad essere reali e che aiuteremo ad essere
reali. Infatti Giovanni Paolo II citava spesso questo passo della Gaudium et spes (n.24 documento cardine del Concilio Vaticano II) “L'uomo, che è l'unica creatura che Dio
ha voluto per se stessa, non può trovare se stesso pienamente senza un dono sincero di
sé”. C'è qualcosa di originario e rivoluzionario in questa frase. L'uomo, l'uomo su cui si
interrogava il poema dell'Odissea, chi è secondo la rivelazione cristiana? L'uomo è una
creatura che ha capacità di determinare se stessa, essendo dotata di libertà - ad
immagine e somiglianza di Dio - e per questo può amare, quest'uomo allo stesso tempo
non può essere se stesso senza donarsi a qualcun altro. L'uomo è in questo senso
autonomo e non autonomo allo stesso tempo. É senza gli altri, perché è unico,
irripetibile, solo, insostituibile, ma non può essere se stesso senza gli altri, senza donarsi
ed essere donato agli altri.
Non è un caso che impariamo a dire “tu” prima che “io”. Il poeta spagnolo
Pedro Salinas scriveva “Possesso di me tu mi davi, dandoti a me”. Solo se qualcuno si
dà a noi, amandoci, noi possiamo avere possesso di noi stessi, presa su noi stessi,
conoscenza di noi stessi. Il bambino impara ad essere un “io” grazie all'amore della
madre e del padre. Allo stesso tempo solo se noi ci diamo a qualcuno amandolo,
possiamo aiutare l'altro ad essere se stesso e noi ad essere noi stessi. Sempre lo stesso
poeta scriveva “Scusami se nel mio modo di amarti ti faccio soffrire, ma è che da te
voglio estrarre il tuo migliore tu”. Alla fine della vita ci sarà dato un sassolino bianco,
dice l'Apocalisse, con scritto il nostro vero nome, non sarà altro che il compimento
visibile, evidente, di quello che sta già accadendo adesso, in questo momento
(Apocalisse vuol dire rivelazione, non oroscopo...): tutta la realtà è il set che Dio ha
costruito perché diventiamo pienamente noi stessi. Solo allora, al momento
dell'Apocalisse, ci renderemo conto di quanto aveva fatto per realizzare la pienezza di
noi, il suo progetto originario, come dice a Geremia, quando il giovane si lamenta di
non essere all'altezza di fare il profeta: “Geremia, ma io ti conoscevo prima che tu
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entrassi nel grembo di tua madre”. Dio è il garante e custode del nostro destino di
felicità: noi scegliamo se volerlo o no. Gli amici (cioè le relazioni) sono la strada perché
questo accada, nel ricevere e nel dare.
Ecco l'amicizia, la relazione primaria, un continuo viaggio di andata e ritorno, di
amore dato e ricevuto, a quelle persone che il viaggio della vita mi ha messo accanto.
Senza i quali è minacciata la vita eterna (come dice Gilgamesh) perché la vita eterna è il
raggiungimento della pienezza di sé, la piena realizzazione di sé, la piena maturazione
del dono di sé. L'amicizia è la strada attraverso cui tutto questo si compie. Non può
essere un caso che spesso i comici vadano in coppia: non ci può essere Stanlio senza
Ollio. Ciascuno per essere se stesso ha bisogno degli amici: cosa ne sarebbe del Signore
degli Anelli e delle Cronache di Narnia se Tolkien e Lewis non avessero creato un
gruppo di amici, gli Inklings, che si trovavano a bere birra (a volte il pane non basta...) e
leggere le loro storie a vicenda, dandosi consigli, migliorandole, facendole a pezzi.
Nella realtà tutto è relazione, perché viene da una relazione originaria, la Trinità.
Guardate questo bicchiere d'acqua: è una relazione. La relazione tra due atomi di
idrogeno e uno di ossigeno: ciascuno dà all'altro quello di cui l'altro ha bisogno per
essere una cosa nuova, più grande, più piena. Presi singolarmente, l'idrogeno e
l'ossigeno, esistono e hanno la loro dignità, ma messi insieme, in quelle proporzioni,
sono la ragione della vita su questo pianeta. Non andiamo forse a caccia di tracce
d'acqua su altri pianeti per sperare ci sia la vita?
L'amicizia è la relazione principale e originaria, perché permette alla realtà di
essere secondo il piano di Dio, permette all'amore di avere luogo nel mondo e di
edificarlo secondo l'amore originario.
La mia libertà non finisce dove comincia quella di un altro: secondo la
rivelazione cristiana è l'opposto. La mia libertà, la possibilità di realizzare pienamente
me stesso, comincia proprio dove incontro la libertà dell'altro: unità nella differenza.
Non sto parlando di facili irenismi e pacifismi, ma proprio dell'impegno per dare
all'altro quello di cui ha bisogno e per ricevere dall'altro quello di cui io ho bisogno. La
società nasce dalla scarsità di beni: siamo costretti a cercare l'unità nella differenza, in
modo che i talenti circolino “liberamente” tra gli uomini. Solo così l'amicizia si amplia e
diventa fondamento dell'intera società. L'amicizia è il modello della cittadinanza, perché
evita ogni sorta di utopistico contratto tra monadi che si fanno la guerra tra loro.
L'amicizia è salvare la vita propria e dell'altro, proprio nel dono di sé. Non si parte dalla
paura dell'altro ma dall'impegno per dare ampliare una relazione che rende le differenze
ancora più specifiche e per questo arricchenti proprio grazie alla relazione (termine che
viene da re-fero: portare qualcosa più e più volte a qualcuno). Non si tratta di
“distinguere per unire” artificiosamente, ma di cercare l'unità mantenendo le differenze.
Per questo San Paolo può scrivere ai Corinzi (1 Cor 8,1) che la “carità edifica”, non nel
senso moralistico che gli abbiamo dato, come se si trattasse di dare il buon esempio, ma
nel senso reale: solo l'amore che proviene da Dio e passa all'uomo che lo accetta, riceve
e rivolge all'altro uomo, costruisce, appunto edifica il mondo nuovo di cui parla
l'Apocalisse: ecco io faccio nuove tutte le cose. Sì rinnova tutto, attraverso noi.
Lo conferma papa Benedetto all'inizio dell'enciclica Caritas in veritate in cui
sostiene che la carità è il fondamento delle micro-relazioni (amicizia, famiglia) e delle
macro-relazioni (politica ed economia). La carità è il progetto originario di Dio, della
Trinità, che consegna questo dono all'uomo, lo imprime nella sua identità, così che
questo “amore” diventa un a-priori da cui partire per costruire tutte le relazioni: il
nostro pregiudizio è l'amore. L'unico pregiudizio che possiamo avere, perché è la realtà
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stessa ad esser fatta così: ci è data come dono, noi siamo La mia libertà non
dati a noi stessi e agli altri come dono, il mondo ci è dato in finisce dove
dono. Quando San Josemaria parlava di amare il mondo comincia quella di
appassionatamente non parlava di un programma morale,
un altro. La mia
ma di un dato di fatto di partenza: solo l'amore appassionato
alla realtà permette alla realtà di dispiegarsi, di essere se libertà, la
stessa, di compiersi, di fiorire. Solo se l'artista ama la sua possibilità di
ispirazione trasformerà pietra e colori in un'opera, solo se il realizzare
contadino ama il seme e la terra potrà con il suo lavoro pienamente me
trasformarli in campo da mietere, solo se l'insegnante ama il stesso, comincia
suo alunno egli gli si aprirà per ricevere ciò di cui ha bisogno, proprio dove
solo se il punto di partenza è un amore appassionato incontro la libertà
(passione indica sia il trasporto erotico sia la sofferenza: è sia dell'altro: unità
il trasporto della relazione sia la fatica della relazione) la nella differenza.
realtà può essere se stessa.
Noi cristiani a volte appiattiamo la rivelazione a un programma morale, quando
invece si tratta del movimento che Dio ha impresso nel mondo a partire dal suo
fondamento, nel quale abbiamo il privilegio di essere inseriti. Solo chi si lascia catturare
da questo movimento può portare la realtà a pieno compimento, la sua e quella degli
altri. E trasformare la sua vita e quella dei suoi amici (tutti quelli che gli sono affidati e a
cui si affida) in un capolavoro di Dio. E non solo quando le cose ci vanno bene, ma
anche e soprattutto in situazioni di debolezza, di fatica, di abbandono, di solitudine, di
malattia... con il coraggio di farsi carico delle situazioni dando e ricevendo ciò di cui c'è
bisogno.
Cristo lo ha detto chiaramente: “Senza di me non potete fare nulla”. Sta
parlando proprio di questo fondamento, senza il quale ogni nostra azione perde
consistenza, diventa apparenza, un simulacro, magari accattivante, affascinante, ma
senza il sapore della vita vera, della vita eterna, della vita che non muore.
Chi è l'uomo? Pilato quando mostra il Cristo flagellato che ricorderemo venerdì
prossimo dice “Ecco l'uomo”. Non è più l'eroe dell'Odissea, eppure anche lui ha
conosciuto la città degli uomini e i loro pensieri, ha patito molto in questo viaggio
dell'incarnazione. Ma a quale fine? Anche lui per salvare la vita dei suoi compagni, ma
con una novità assoluta: rinunciando alla sua. Dice a chi lo uccide: “Non siete voi che
mi togliete la vita, sono io che la dono” Quando è sulla croce lo scherniscono: “è stato
capace di salvare gli altri, e non è capace di salvare se stesso”.
Ecco l'assoluta novità del cristianesimo. Noi possiamo donarci agli altri perché
lui per primo si è donato del tutto. Possiamo realmente farlo se ci lasciamo conquistare
dalla sua vita, se la lasciamo penetrare in noi. Ulisse si era salvato e i suoi compagni
erano morti, nonostante i suoi tentativi. Erano periti perché avevano compiuto un
sacrilegio: mangiare le vacche sacre del Sole. Cristo fa il contrario: rinuncia a salvare se
stesso e salva noi, proprio perché ci siamo ribellati a suo Padre. Il vero uomo, il vero
eroe, è sotto i nostri occhi: arriva a perdonare noi e donare sé pur di salvare i suoi
compagni. Chiama gli apostoli amici: “vi ho chiamati amici perché vi ho raccontato le
cose del Padre mio”. Quel racconto della sua identità più profonda, essere Figlio e
mostrare così il Padre, gli è costato la vita e ci salva. L'amicizia nella definizione di
Cristo è proprio il dare ciò che ha di più proprio e di cui noi avevamo più bisogno: il
Padre. Uno dei suoi, Filippo, gli dirà: “Mostraci il Padre e ci basta”. E si sentirà
rispondere: “Chi vede me, vede il Padre”. Nella relazione ci dà quello di cui abbiamo
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bisogno: la filiazione al Padre, quello che Lui ha per essenza. Così ci salva, avendoci resi
compagni, cioè amici con cui spezza il pane, alla stessa tavola (non è forse così che lo
riconosceranno i due amici di Emmaus tristi dopo la sua morte). Non solo quando è
passato su questa terra, ma oggi, diventato lui stesso “pane” della compagnia.
Siamo il potenziale più pericoloso per il mondo, perché abbiamo una novità
assoluta da portare. Chi vedeva i primi cristiani diceva “guarda come si vogliono bene”:
la loro amicizia era evidente, era visibile, era già l'Apocalisse, per questo le persone
erano attratte a Dio e da Dio e si avvicinavano alla Chiesa primitiva. Per questo
Nietzsche scrisse che si sarebbe convertito al cristianesimo il giorno in cui “avesse visto
sul volto dei cristiani il volto dei redenti”. E perché non lo vide? Non volle vederlo o
non incontrò nessuno capace di mostrarlo?
Chi ci guarda cosa vede?
Riesce a vedere la nostra amicizia?
Chi di noi darebbe la vita per i suoi amici su Facebook?
E cosa è questo dare la vita se non dedicare del tempo, quel tempo che una
volta dato non torna più e quindi è come morire un poco. Sì, perché non c'è amore più
grande di questo: dare la vita per i propri amici. Vita reale a vite reali. Senza apparenze.
Questo è il dono e il compito della nostra vita: ricevere amicizia da Dio per dare
amicizia al mondo, amandolo appassionatamente, costi quel che costi. Chi ha passione
deve anche patire, perché ha il cuore aperto e grande. Chi non ha passione spegne la
vita, propria e altrui.
A volte può essere qualcosa di molto piccolo, un libro o anche tre mandarini. E
con queste due storie che mi sono capitate recentemente vorrei concludere.
Mi ha scritto una ragazza che lavorava nel reparto di oncologia di un ospedale
raccontandomi che ha conosciuto un ragazzo che faceva la chemioterapia, ma non
aveva molte speranze. Ha deciso di comprare un libro e regalarglielo. Quel libro è un
libro che ho scritto io, si intitola Ciò che inferno non è. Quel ragazzo è morto qualche
settimana dopo. La madre del ragazzo ha restituito il libro a quella ragazza, dicendo che
era giusto lo avesse lei. Quel libro aveva delle righe sottolineate e la madre del ragazzo
nel darlo alla ragazza ha detto che quel libro gli aveva dato speranza, anche quando non
ce n'era più. In questa storia ciascuno ha fatto ciò che poteva per l'altro, sempre con un
di più rispetto al dovuto. Così la morte è stata trasformata in un momento meno duro,
meno amaro, forse addirittura un momento di speranza.
L'altro giorno tornavo a casa, pioveva, avevo fretta, come tutti alla fine di una
giornata di lavoro. Guardavo lo schermo del mio smartphone, come molti altri. Sulla
strada c'era una signora prostrata a chiedere l'elemosina. Alcuni non se ne accorgevano,
presi dal loro telefono, altri la scansavano, altri la guardavano senza fare nulla. Ad un
tratto un'altra donna è uscita dal negozio dove aveva comprato la frutta, tra me e quella
mendicante, per questo ho assistito alla scena, si è chinata, ha preso tre mandarini dalla
sua spesa e le ha detto “Questi li mangi lei, non li dia ai cattivi”. In quel libro, in quei
mandarini ho visto l'amicizia di Dio per e tra gli uomini. Realmente.
Le apparenze erano svanite. E a tutti è venuta voglia, su quella strada, su ogni
strada del mondo, di essere più reali. Cioè più amici.
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