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l`uso tessile delle fibre di lana
CAPITOLO PRIMO
L’USO TESSILE DELLE FIBRE DI LANA: UN
PERCORSO STORICO, CULTURALE ARTISTICO
E TECNOLOGICO: DALLA PREISTORIA
AL TARDO MEDIOEVO.
Le fibre naturali, di interesse tessile, possono essere di origine vegetale (cotone, lino, canapa, juta ecc.), di origine animale (lana, seta, bisso
marino ecc.) oppure minerale (amianto).
Le fibre inventate dall’uomo, “man made”, denominate anche fibre chimiche, si suddividono a loro volta in fibre artificiali (derivate da polimeri naturali) ed in fibre sintetiche. Queste ultime sono ottenute attraverso
processi di filatura di polimeri, non presenti in natura, sintetizzati, a partire da sostanze a basso peso molecolare (monomeri), mediante reazioni
di “polimerizzazione”.
In base alla classificazione delle fibre tessili, riportata nella figura 1, le
“lane”, sono fibre naturali che si originano dal bulbo pilifero di animali
ruminanti e si ricavano in particolare dai velli di pecora, capra, alpaca,
lama, vigogna e cammello.
Secondo A. Solaro la denominazione di lana dovrebbe essere riferita
solo alle fibre che si ottengono dai velli degli ovini (pecore e montoni)
riservando alle fibre derivanti dai velli delle capre e dei camelidi il nome
di “peli” [1].
a) La lana nella preistoria
L’addomesticamento delle pecore e delle capre sembra che abbia avuto
inizio intorno al 7000 a.C..
In Europa, nel Paleolitico e nel Mesolitico (~ 6000 a.C.), le pecore venivano già allevate da popolazioni dedite alla pastorizia [3].
Secondo E.F. Zeuner l’uomo cominciò ad utilizzare la lana per usi tessili non appena ebbe la possibilità di disporre di velli capaci di dare fibre
sufficientemente lunghe per essere filate [4].
Il ritrovamento di una statuetta in argilla a Tepe Saran (est-Iran), raffigurante una pecora con un vello molto lungo e fitto (5000 a.C.), atteste1
Fig. 1: Classificazione delle fibre tessili (naturali e chimiche) [Rif. 2].
rebbe che pecore con velli idonei a dare lana per filare e tessere fossero
disponibili già a quell’epoca.
Studi storico-archeologici hanno portato alla conclusione che gli antichi
abitanti della Mesopotamia, la regione dell’Asia Occidentale compresa tra
i corsi medi e inferiori dei fiumi Tigri e Eufrate, utilizzassero la lana per
2
Fig. 2: Mappa della distribuzione geografica delle principali fibre naturali utilizzate dall’uomo
nell’Età del Bronzo (~ 3000 a.C.). Le aree di utilizzo di fibre vegetali sono etichettate con il nome
della fibra [lino (flax); canapa (hemp), cotone (cotton), seta (silk), sparto (esparto)].
La regione ombreggiata in figura delimita l’area geografica dove le fibre di lana trovavano, all’epoca, ampio utilizzo [Rif. 3].
la manifattura di stoffe e tessuti, fin dal 3000 a.C. [5, 6].
L’allevamento delle pecore e l’uso tessile della lana viene spesso riportato nella Bibbia, in antichissimi documenti Assiri e Babilonesi e
nell’Odissea di Omero (IX secolo a.C.).
I più antichi reperti archeologici di tessili, in fibre di lana, ritrovati in
Europa e in Medio Oriente, risalgono a circa il 1800 a.C.. Questo non
significa necessariamente che l’uomo non abbia filato e tessuto la lana in
epoche più lontane; è più probabile invece che la carenza di ritrovamenti
più antichi sia dovuta alle cattive condizioni di preservazione che hanno
portato alla completa degradazione di tessuti eventualmente prodotti in
epoche antecedenti [7].
E. J. W. Barber [3], relativamente all’Età del Bronzo (~3000 a.C.), ha
elaborato una mappa (figura 2) dalla quale è possibile ricavare interessanti informazioni concernenti la distribuzione geografica delle principali fibre naturali usate, a quell’epoca, dall’uomo per scopi tessili.
Dall’esame di questa mappa si deduce che sia il lino che la lana fossero
largamente utilizzati nella regione dell’Egeo. A queste conclusioni si è
pervenuto considerando anche il ritrovamento, nella città di Troia, di
circa 8000 rotule per fusi.
«Nonetheless, the bronze age inhabitants of the aegean, like everyone else in
3
southern Europe and the near-east, clearly had behind them a long and rich
tradition of obtaining textiles fibers» [3].
Interessanti reperti di tessuti in lana risalenti all’Età del Bronzo sono
stati ritrovati in Danimarca. Il relativo buono stato di conservazione di
questi manufatti sembra sia dovuto all’acidità delle acque del sottosuolo
e alla mancanza di ossigeno. Esempi di questi ritrovamenti sono riportati nelle figure 3 e 4 [3].
Fig. 3: Cintura femminile in lana risalente
al tardo 2000 a.C. ritrovata a Borum EshøJ
in Danimarca e attualmente conservata
presso il Museo Nazionale di Copenhagen
[Rif. 3].
Fig. 4: Sottana femminile fatta di cordicelle di lana (~ 2000 a.C.) ritrovata sul corpo
di una ragazza nella località di Egtved in
Danimarca. Questo interessante reperto è
conservato presso il Museo Nationale di
Copenhagen [Rif. 3].
4
La bella ed elegante cintura femminile, a fiocchi, illustrata nella figura
3 viene così descritta da G.M. Crowfoot:
«..... era a strisce d’ordito in due tinte di bruno, le strisce essendo poste in
evidenza dalle diverse direzioni di filatura per i due colori» [8].
La sottana femminile fatta di cordicelle di lana (fig.4) è stata ritrovata
sul corpo di una ragazza nella località di Egtved.
Importanti ritrovamenti di tessuti in lana risalenti all’Età del Ferro sono
stati effettuati nelle miniere di sale di Hallstatt in Austria. Uno di questi
reperti (~1000 a.C.), riprodotto nella figura 5, consiste in un frammento
di un tessuto “twill” in lana, di colore verde oliva, attraversato da strisce,
tipo “plaid”, di colore bruno [3]. Il grado, relativamente buono, di preservazione di questi tessili è da ascrivere, molto probabilmente, alle particolari caratteristiche igroscopiche e biocide del sale presente nell’ambiente di conservazione.
I tessuti di tipo twill o tweed, detti anche diagonali, secondo alcuni storici e archeologi erano molto comuni, in Europa, nell’età del ferro [8].
Il tipo di telaio che veniva usato per la tessitura dei manufatti è chiaramente raffigurato su di un’urna, risalente alla cultura Hallstatt, ritrovata
ad Oedenburg in Ungheria (figura 6).
«Il telaio, con in cima un panno tessuto, ha due file di pesi per ordito che
pendono. Tre bastoni attraverso l’ordito indicano che in qualche modo si
manteneva l’incrociatura. Alla sinistra vi è una donna che fila con un fuso
sospeso; alla destra ve n’è una con un piccolo telaio a mano o telaietto per
ricamo e un’altra che esprime la sua ammirazione» [8].
Fig. 5: Frammento di un tessuto in lana,
di tipo “twill o tweed”, ritrovato nelle
miniere di sale di Hallstatt, Austria
(~1000 a.C.), conservato presso il
Naturhistorisches Museum di Vienna
[Rif.5].
5
Tessili in lana risalenti sempre all’Età del Ferro sono stati ritrovati nel
1949, da un’equipe di archeologi sovietici, a Pazyryk, una località siberiana che si trova in una valle dell’Altaj, un sistema montuoso (altitudine
media 3000 m) che si estende per circa 1200 Km tra gli stati dell’ex
Unione Sovietica e la Mongolia, lungo il confine con la Cina.
Il ritrovamento in questa località, da parte dei due archeologi Rudenko
e Grianov, di un antico tappeto in lana, rappresentò un evento di grande
rilevanza storico-artistica e archeologica [3, 9].
M. Cohen, nella sua pubblicazione dal titolo “Il Mondo dei Tappeti”,
così descrive questa importante scoperta:
«I due archeologi Rudenko e Grianov scavavano già da tempo sulla necropoli dov’erano state localizzate alcune decine di tombe appartenenti all’aristocrazia scita del V secolo a.C. ....... Definite a “Kurgan” le sepolture erano
composte da due camere concentriche una interna e l’altra esterna, separate
da sette divisori realizzati interamente in tronchi d’albero e infine ricoperte
e mimetizzate da un alto tumulo di terreno. Il tappeto fu rinvenuto nella stanza esterna di quello che gli archeologi catalogarono come il V Kurgan della
vallata di Pazyryk. La tomba era stata sicuramente profanata e degradata ......
solo in parte. Al contrario di quanto avviene normalmente, questa profanazione fu un vantaggio. Mal richiusa l’acqua potè entrare all’interno e col freddo trasformarsi in ghiaccio, avvolgendo ogni cosa e mantenendola intatta.
Nella tomba fu rinvenuto un piccolo carro di legno con sopra, oltre al tappeto, altri oggetti: drappi di feltro, stivali, finimenti per cavalli» [9].
Una veduta della steppa dell’Ucraina, regione a nord del Mar Nero, un
tempo abitata dalle tribù nomadi degli Sciti, è riportata nella tavola I.
Sullo sfondo sono visibili i profili di alcuni Kurgan, tipiche tombe degli
antichi popoli che vivevano nelle steppe dell’Asia centrale [10, 11].
Utilizzando la tecnica basata sulla determinazione della quantità dell’isoto-
Fig. 6: Urna, della cultura di Hallstatt, ritrovata a Oedenburg in Ungheria, risalente alla tarda età
del bronzo, decorata con telai, filatori e tessitori [Rif.8].
6
po del carbonio 14C , che per la prima volta applicata nel 1947 da W.F. Libby
(premio Nobel per la chimica nel 1960) [12], fu possibile stabilire che il tappeto era stato realizzato da circa 2500 anni.
E’ altamente improbabile che questo manufatto, caratterizzato da un
“incredibile raffinatezza, eleganza e armonia tra colori e disegni” possa
essere stato “frutto del lavoro di artigiani nomadi e arretrati” [9, 11].
Pertanto è lecito supporre che esso sia stato tessuto in qualche città del
Medio Oriente.
Alcuni storici-archeologi hanno avanzato l’ipotesi che il tappeto sia
stato portato a Pazyryk attraverso la famosa Via della Seta e che pertanto esso risalga alla civiltà persiana degli Achemenidi, una dinastia
regnante in questa regione intorno al 500 a.C..
Nella fabbricazione del tappeto sono stati utilizzati solo fibre di lana e
peli di cammello. I colori, ovviamente tutti di origine naturale, sembra
che siano stati ottenuti a partire dall’indaco e dalla cocciniglia [2].
Nella tavola II è riportata la riproduzione fotografica del tappeto di
Pazyryk, il quale viene così descritto, nelle sue parti essenziali, da M. Cohen:
«Le tinte erano comunque molto leggere e patinate, ....... sicuramente eleganti. Il fondo del tappeto è rosso, altri colori prevalenti sono il verde pallido e il rosa ciclamino, l’avorio e l’azzurro e un caratteristico arancione
cipriato. Il campo del tappeto è decorato con sei sequenze di piccoli quadrati, quattro per fila, con all’interno un motivo giallo pallido composto da quattro boccioli e quattro foglie. Intorno al campo girano cinque bordure integre....... Delle due principali quella più esterna è la più larga: rappresenta una
sfilata di guerrieri, alcuni in sella altri in piedi accanto al loro cavallo....... La
seconda cornice principale, quella più interna, è composta da una sequenza
ininterrotta di grandi cervi, sei per lato» [9].
A Pazyryk furono ritrovati anche altri reperti tessili di grande interesse.
Tra questi vi figurano: uno “shabrak”, di origine persiana, una coperta
ornamentale in lana che si metteva sulle groppe dei cavalli sotto le selle
(tavola III-a) e un arazzo tessuto in spirali policrome secondo la tecnica
denominata, in inglese, “slit-tapestry” (tavola III-b) [3]
E’ interessante sottolineare il buono stato di conservazione dei reperti,
nel loro insieme, e, fatto non comune, come in entrambi i tessuti i colori
si siano mantenuti quasi inalterati.
Nel corso di recenti campagne di scavo di alcuni Kurgan localizzati sull’altopiano di Ukok, sono stati ritrovati dei copricapo fabbricati in feltro
«decorati con immagini di teste di uccello, sormontate da figure di un ariete
7
o cervo di montagna. Questo è il tipico copricapo dei nomadi euro asiatici …
è possibile che alcuni nomadi dell’Asia Occidentale, forse discendenti dei
Cimmeri, siano emigrati nell’Altai, dove presero parte alla formazione della
cultura di Pazyryk che dominò la regione tra il V, IV secolo a.C.» [10].
Un frammento di un bellissimo drappo in feltro appartenente ai nomadi delle montagne dell’Altai ritrovato in un Kurgan di Pazyryk (V, VI
secolo a.C.) è riprodotto nella tavola IV [10].
b) L’arte della lana nella Grecia antica
Nell’antica Grecia, con riferimento all’età del ferro, che ebbe inizio
intorno all’800 a.C., la lana rappresentava la più importante materia
prima per la produzione di tessili.
Si cominciò, già all’epoca, a selezionare pecore con velli più idonei alla
produzione di fibre suscettibili di essere filate e tessute.
Fig. 7: Coppa a figure rosse dove viene raffigurato un pastore greco mentre conduce al pascolo
una pecora appena tosata (Ca. 490-480 a.C.) [Rif. 13].
8
«Non è un caso che il tiranno di Samo, Policrate (VI sec. a.C.), avesse fatto
importare nella propria isola pecore dal vello particolarmente pregiato,proveniente da Atene e Mileto» [13].
L’importanza, nella Grecia dell’età classica, della pastorizia e dell’uso
della lana nel tessile, si ricava da una ricca iconografia, fortunatamente
tramandataci grazie al prezioso e accurato lavoro di recupero e di conservazione di intere generazione di archeologi e storici.
Nella figura 7 viene mostrata una coppa a figure rosse (Ca. 490-480
a.C.) all’interno della quale è raffigurato un pastore con una pecora appena tosata. Il pastore, che porta un cappello di feltro a righe e indossa un
abito di pelle annodato sulla spalla destra, conduce la pecora al pascolo
guidandola con un bastone che impugna nella mano destra.
Dopo la cardatura i fiocchi di lana venivano filati dalle donne greche le
quali, preparato uno stoppino o lucignolo, provvedevano allo stiramento
e alla torcitura delle fibre.
«la lana veniva torta con le mani, sulla gamba scoperta oppure sulla parte
retrostante dell’Epìnetron d’argilla fino a diventare un filo grezzo» [13].
Il processo di torcitura, effettuato sulla gamba, è stato magistralmente
raffigurato all’interno di una coppa, con figure in nero, dal pittore Duride
(Ca. 550 a.C.). Come si evince dalla riproduzione di questa coppa, riportata nella figura 8, una donna con la mano destra dipana e ritorce sulla
gamba, scoperta fino al ginocchio, la lana in fiocco, tenuta nella mano
sinistra, riducendola a sottili e lunghi filamenti.
Un magnifico esemplare, in argilla, di Epìnetron (Ca 490-470 a.C.) è
riprodotto nella figura 9. Questo utensile è costituito da un corpo cilindrico cavo simile ad una tegola ma con la base minore chiusa.
L’Epìnetron veniva sistemato sulla coscia e la lana era tesa e torta sfruttando un sistema di scaglie appositamente incise sulla superficie. A tutt’oggi non
è dato sapere se l’Epìnetron veniva usato prima o dopo la filatura della lana.
Le varie fasi relative al ciclo tessile della lana (la formazione del lucignolo, la filatura, la tessitura e quindi la piegatura delle stoffe finite) sono
state documentate sulla superficie della celeberrima “lékythos” del pittore di Amasis (Ca 550 a.C.). In particolare facendo riferimento alla figura
10 è possibile notare, alla sinistra del telaio, la presenza di due filatrici,
una delle quali usa un fuso sospeso con la rotula rivolta in basso e una
conocchia; l’altra prepara un filo grezzo disponendolo a spirale in un’apposita cesta. Il telaio, che è di tipo verticale a pesi sospesi, si caratterizza
9
Fig. 8: Coppa a figure nere (Ca. 480 a.C.), opera del pittore greco Duride, nella quale viene raffigurata una donna intenta a tendere e torcere la lana a partire dai fiocchi derivanti dalla cardatura [Rif. 13].
Fig. 9: La torcitura del lucignolo mediante l’uso dell’Epìnetron nell’antica Grecia: esemplare di
Epìnetron in argilla (Ca 490-470 a.C.)
10
per la presenza di un rullo superiore (subbio) attorno al quale è arrotolato il tessuto. I pesi hanno la forma di una piramide e presentano degli
anelli attorno ai quali sono fissati, a fasci, i fili dell’ordito. Dall’esame
della figura appare chiaramente come delle due donne vicine al telaio,
quella a sinistra batte la trama, mentre quella a destra sposta i fili dell’ordito per il successivo passaggio della stessa [8].
Dopo le operazioni preliminari di preparazione e torcitura del lucignolo, la lana veniva filata. Durante questo ultimo processo di lavorazione il
filo grezzo veniva ulteriormente stirato e ritorto, fino all’ottenimento di
un filato sottile, lungo ed omogeneo.
Gli utensili usati per la filatura erano il fuso (consisteva in una corta
bacchetta dotata di una noce che rendendola più pesante ne facilitava la
rotazione) e la conocchia (un’asta forata con una impugnatura).
«la filatrice teneva la conocchia nella mano sinistra e avvolgeva il lucignolo
attorno ad essa. Il filo veniva tirato e legato sulla bacchetta del fuso. A quel
punto la filatrice ruotava il fuso. Mentre il fuso ruotava, la filatrice estraeva
dalla conocchia altre fibre che torceva tra il pollice e l’indice della mano
destra. … La rotazione del fuso si trasmetteva alle fibre estratte e, con l’abbassamento generale, il filo si allungava. Per avvolgere il filato si scioglieva
il nodo sulla bacchetta del fuso, e si avvolgeva e riannodava il filo. Questo
lavoro veniva ripetuto finché il fuso non era pieno …» [13].
Fig. 10: Vaso di origine greca, 560 a.C. circa, sulla cui superficie è stata dipinta una scena che
illustra le varie fasi che portano, partendo dalle fibre, alla tessitura di stoffe [Rif.8].
11
Fig. 11: a) (a sinistra) : a)Brocca a fondo bianco del Pittore della Fonderia del bronzo dove viene
raffigurata una donna greca mentre fila la lana utilizzando il fuso e la canocchia (Ca. 490 a.C.);
b) (a destra): b) Schema di fuso [Rif. 13]
Fig. 12: Coppa a figure rosse dove è rappresentata una donna seduta intenta a filare la lana [Rif. 13].
12
Fig. 13: Donna che fila (costume carnico), fotografia, inizi XX secolo. Roma, Museo Nazionale
delle Arti e Tradizioni Popolari, Archivio Fotografico [Rif. 14-a].
Principalmente attraverso la pittura vascolare ci sono state tramandate raffigurazioni di donne greche intente alla filatura. Alcuni esempi sono riportati nelle figure 11 e 12. In particolare nella figura 11-a è riprodotta una
brocca a fondo bianco del Pittore della Fonderia del bronzo (Ca. 490 a.C.),
conservata presso il British Museum di Londra, sulla cui superficie è raffigurata, in maniera magistrale, una donna in piedi nell’atto di filare la lana.
Una donna seduta, anche essa intenda a filare, è rappresentata nella
coppa a figure rosse, riprodotta nella figura 12 [13].
La filatura della lana, a livello domestico, si è mantenuta inalterata,
nelle sue modalità e ritualità essenziali, attraverso i secoli; lo attesta la
fotografia (inizi XX secolo) della figura 13 che mostra una donna, in
costume carnico, mentre fila la lana con fuso e conocchia [14-a].
Già all’epoca le donne greche erano a conoscenza del fatto che era possibile produrre filati con differenti caratteristiche fisiche e quindi finalizzate ad un diverso tipo di applicazione, facendo ruotare il fuso in senso
orario oppure in senso antiorario (rispettivamente rotazione S o Z).
13
Fig. 14: Skyphos beota V sec. a.C.) con Circe ed Ulisse. E’ visibile il telaio verticale a pesi usato
nell’antica Grecia [Rif. 13].
Come già precedentemente evidenziato, il telaio che veniva impiegato
dai greci era di tipo verticale munito di pesi (vedasi particolare in figura
10). Questo tipo di telaio, usato anche in epoche relativamente recenti,
permetteva di produrre stoffe anche di grandi dimensioni.
Nell’antica Grecia, anche la fase della tessitura è stata, oggetto di rappresentazione della pittura vascolare, così come esemplificato nelle figure 14 e 15.
In particolare nella figura 14 viene mostrata una coppa beota (fine V
sec. a.C.)
«sulla quale è raffigurata una scena apparentemente grottesca. Vediamo la
stanza di Circe con il suo telaio, la spoletta con il filo della trama e una grande quantità di tessuto finito avvolto intorno al subbio» [13].
La scena rappresentata è quella in cui, secondo la leggenda, Circe vorrebbe fare bere, a un riluttante Ulisse, una pozione magica.
Uno “Skypos” a figure rosse (Ca. 440 a.C.) con Penelope al telaio è
riprodotto nella figura 15 [13].
Le varie fasi della lavorazione della lana sono utilizzate da Aristofane,
nella sua commedia dal titolo “Lisistrata”, come una metafora mediante
la quale il personaggio principale, per l’appunto Lisistrata, cerca di fare
comprendere al Commissario come debbano essere condotte la politica e
il governo della città. Parte del dialogo viene così riportato nel riferimento [13]:
14
“Lis.: Come facciamo una matassa, quando è ingarbugliata: la prendiamo, e
tendiamo il filo sui fusi, da una parte e dall’altra. Così se ci lasciate fare, sbroglieremo anche la guerra, mandando ambascerie da una parte e dall’altra.
Comm.: E voi pensate di metter fine ad una cosa così terribile con la lana e
le matasse e i fusi? Che stolte!
Lis.: Ma se aveste un pò di buon senso, voi governereste la città come noi la
nostra lana, in tutto.
Comm.: E come? Vediamo.
Lis.: Anzitutto dovreste, come un vello, detergere con un bagno tutto l’untume della città, e su un letto, a colpi di mazza, espellere i cattivi e a scartare i
triboli; e quelli che si riuniscono a complottare per le cariche, fitti fitti, cardarli per bene e spelargli le teste. Poi, in un paniere, pettinare la concordia
generale, mescolando un pò tutti: i meteci, gli stranieri che vi sono amici, chi
deve denaro all’erario, e mescolarli tutti insieme. Quanto poi alle città, che
sono colonie di questa terra, dovete rendervi conto che esse, per noi, sono
come pennecchi che stanno a terra, ciascuno per sé. E bisogna prenderli tutti
e raccoglierli qui e riunirli insieme e farne un grosso gomitolo: e da questo,
tesserci una tunica per il popolo” [13].
Fig. 15: Skyphos a figure rosse con Penelope al telaio (Ca 440 a.C.) [Rif. 13].
15
Sembra che gli antichi greci conoscessero anche il processo della follatura che consisteva nella pressatura delle stoffe tessute al fine di rendere
le stesse più fitte e compatte. Secondo alcuni testi e storici l’inventore di
questo importante procedimento è stato Nicia di Megara.
La follatura, effettuata, all’epoca, collocando i tessuti in una buca dove
alcuni lavoranti li pressavano con i piedi, prevedeva l’impiego di sostanze quali il bicarbonato di sodio e l’urina animale per rendere i tessuti
ruvidi e rigidi, mentre impiegando un particolare tipo di terra argillosa
(terra da follone) si conferiva alle stoffe un certo grado di morbidezza. Le
terre da follone più pregiate provenivano dalle isole di Argentiera, Samo
e Lemno [13].
Altri processi di post-trattamento o finitura dei tessuti, praticati nell’antica Grecia, consistevano nella garzatura con cardi o spazzole e quindi nella candeggiatura con zolfo (solo per le stoffe bianche).
E’ molto probabile che la finitura dei tessuti, così come documentate
nelle pitture parietali di Pompei (vedasi prossimo paragrafo) avvenisse in
opifici altamente specializzati dove avveniva anche la pulitura e il lavaggio dei vestiti.
Da testimonianze archeologiche si ricava che veri e propri laboratori di
tintura, risalenti all’epoca classico-ellenistica erano attivi a Creta, Porto
Cheli e a Istmia nei pressi di Corinto [14-b,c].
Gli scavi condotti in questi siti hanno portato alla scoperta di numerose cisterne, macine, pentole e contenitori caratterizzati da un collo molto
stretto. Questi reperti venivano utilizzati per macinare le materie coloranti e preparare i bagni di tintura. E’ significativo il fatto che questi laboratori erano collocati su di una altura esposta al vento, al fine di evitare
che i fumi e l’odore potessero nuocere alla salute degli abitanti della sottostante città.
Dall’insieme delle testimonianze presentate e analizzate nel presente
paragrafo emerge chiaramente che il ciclo tessile della lana rivestiva nell’antica Grecia una grande rilevanza sociale ed economica, visto anche il
diretto collegamento con la pastorizia e quindi con la produzione di latte,
formaggi e carni.
16
c) L’arte della lana nell’antica Roma e in Pompei
Nell’antica Roma, tra le fibre di origine animale, la più comune era certamente la lana. Infatti è ben documentato che l’allevamento degli ovini
costituiva, già all’epoca, una delle attività di primaria importanza in tutto
il centro sud dell’Italia.
P. Virgili, in un suo interessante articolo dal titolo “Moda e
Abbigliamento nell’antica Roma”, a proposito dei filati e dei tessuti utilizzati dai romani, per vestirsi, ha scritto:
«I vestiti di lana erano di largo uso, mentre lino, seta e cotone erano riservati ai ricchi.
La lana tinta costava assai poco, dai 2 ai 4 assi la libra (1 asse=0,10 denari,
1 denario=4 sesterzi)» [15].
I romani, così come avevano già fatto i greci, capirono l’importanza di
selezionare le razze ovine al fine di migliorare le caratteristiche tessili dei
velli e quindi ricavare da essi fibre di lana più resistenti, più lunghe e
morbide, con un colore più definito ed omogeneo. Per questa ragione
venivano importati ovini con velli di qualità pregiata da Mileto,
dall’Attica, da Megara e da Taranto. Secondo quanto riportato da Plinio
(23-79 d.C.) la lana veniva classificata in: molle o generosum (lana morbida), hirsutum (lana ruvida dal pelo lungo) e colonicum (lana di tipo
rustico). La lana ruvida era importata prevalentemente dalla Gallia. Una
lana molto pregiata, detta “pelitum”, sembra che fosse ottenuta proteggendo il vello delle pecore, durante la crescita, con pelli. Le lane più
ricercate erano quelle bianche, poi venivano quelle scure provenienti
dall’Apulia (lana di Canosa). Alcune varietà rossiccie venivano importate dall’Asia Minore; altre lane erano di colore grigio scuro o nero.
Il pelo di capra era usato dai Romani solo per tessere stoffe grossolane,
mantelli, tappeti e pantofole [16].
Secondo gli storici il miglioramento della qualità delle fibre di lana fu
ottenuto, dai greci e dai romani, gradualmente attuando una attenta selezione dei pascoli (le pecore furono infatti nutrite con erbe più idonee
quali il citiso e l’erba medica), e adottando ricoveri e stalle più asciutti,
arieggiati e illuminati.
La tosatura delle pecore costituiva il primo stadio del ciclo della lavorazione della lana che vede come fase finale quella della tessitura e quindi del confezionamento di stoffe, abiti, tappeti ed altri prodotti finiti.
Anticamente i fiocchi di lana venivano letteralmente sradicati dal vello
17
Fig. 16: Tosatura delle pecore; dal
breviario Grimani, fiammingo,
1500 circa; (sotto) un paio di
cesoie romane per tosatura, identiche per forma a quelle medioevali,
III secolo a.C. [Rif.16-a].
delle pecore e dei montoni. Successivamente i romani introdussero le
cesoie (strumenti metallici costituiti da due lame ricurve, affilate e
taglienti fissate su una molla molto elastica e resistente a forma di U).
Pertanto la tosatura, così come illustrato in figura 16, veniva effettuata
conformemente a quanto raccomandava l’antica massima latina: “Boni
pastoris esse tendere oves non deglubere” (il buon pastore deve tosare le
pecore non scorticarle).
«La tosatura delle pecore doveva avvenire tra il 21 marzo e il 22 giugno,
ovvero tra l’equinozio di primavera ed il solstizio d’estate; e di preferenza,
secondo Varrone, con la luna calante quando inizia il caldo e le pecore
cominciano la muta, ed il pelo può essere strappato con le mani o tosate con
il rasoio» [15].
La tosatura delle pecore viene ancora oggi praticata a mano, utilizzando cesoie in acciaio molto simili a quelle introdotte dai romani (figure 17
e 18) [16-b,c].
Nella figura 19 è riportata la fotografia di un’antica cesoia romana usata
per la tosatura delle pecore ritrovata tra le rovine della città di Pompei
(casa di Menandro) risalente quindi a Ca. il 79 d.C. [17].
Durante gli scavi della necropoli romana di San Lorenzo di Parabiago
18
Fig. 17: La tosatura delle pecore alle porte di Roma in un’incisione di fine Ottocento [Rif.16-b].
(Legnano-Lombardia) è stato recuperato un esemplare integro di una
cesoia (figura 20) che:
«presenta una doppia lama triangolare e corta molle ellittica; su una punta
sono visibili i resti di un fodero in ferro. … Le cesoie recuperate nei recenti
scavi di San Lorenzo risultano … inquadrabili nella prima metà del I secolo
d.C., o poco oltre, …
E’… difficile stabilire una seriazione cronologica precisa …, dal momento
che le loro caratteristiche di funzionalità ne hanno reso in sostanza immutata la tipologia nel corso dei secoli» [18].
La lana, dopo la tosatura, passava alle “Officinae Lanificariae” dove
19
Fig. 18: Antonio Muredda: La tosatura delle pecore, cm 120 x 80, olio su tela, 1992 [Rif.16-c].
Fig. 19: Cesoia a molla in metallo (bronzo e ferro) a lame curve usata per la tosatura delle pecore dai romani. Reperto ritrovato tra le rovine di Pompei (Casa del Menandro) e attualmente ivi
conservato (numero 5033) risalente quindi al I secolo d.C. [17].
Fig. 20: Esemplare di cesoia in ferro (Ca. I secolo d.C.) ritrovata tra i reperti in ferro recuperati
nelle tombe della necropoli di San Lorenzo di Parabiago, Legnano-Lombardia [Rif. 18].
20
venivano principalmente eseguite le operazioni di lavaggio e battitura. I
lavoranti addetti al lavaggio, operazione finalizzata alla eliminazione
dell’ “esipo” e cioè le sostanze grasse del vello delle pecore, erano chiamati “Lanilutor”.
Il lavaggio veniva effettuato usando acqua calda alla quale si aggiungevano sostanze detergenti come la soda o l’urina. Dalle acque di lavaggio si ricavava come sottoprodotto la “lanolina” (alapurina, adeps
lanae), una sostanza avente la consistenza di unguento, di colore biancogiallastro, quasi inodore e neutra costituita da eteri del colesterolo, da
alcali liberi e lattoni. La lanolina, per la sua capacità di venire facilmente assorbita dalla pelle, veniva ampiamente usata, mescolata con olio di
oliva, di mandorle, con burro cacao, ecc. per la preparazione di pomate
che i romani utilizzavano nel settore della cosmesi [19].
Secondo Plinio mescolando la lanolina con “l’aspro miele di Corsica”
si otteneva un unguento molto efficace nel combattere le macchie del
viso. Una pomata, realizzata combinando la lanolina con olio di rose, trovava impiego nella cura della desquamazione della pelle e in generale
nella cura delle ulcerazioni [15].
La lana, lavata e asciugata, veniva sottoposta alla “cardatura” per
districare e separare le fibre tra loro e ottenere quindi una massa omogenea, dalla quale si preparava lo stoppino necessario all’operazione di torsione che precedeva la filatura.
Gli antichi romani usavano per la cardatura le teste del cardo selvatico
(Carduus, da cui deriva la parola cardatura) e del cardone (Dipsacus
Fullonum o Cardo del Follatore) riprodotti rispettivamente nelle tavole
V-a e V-b [16-a, 20]. Venivano utilizzate anche spazzole fatte con aculei
di porcospino e pettini metallici principalmente in ferro (figura 21).
La filatura e la tessitura della lana erano molto diffuse presso le case
private dove, come riporta il filosofo storico del I secolo Musonio Rufo,
«Filare e tessere erano incombenze principali di ogni donna, simbolo delle
sue virtù e della sua dedizione alla famiglia, tanto che nella sala mortuaria di
Turia la sola raffigurazione del telaio è sufficiente a decantare le virtù della
defunta» [15].
A partire dalla fine dell’età repubblicana la domanda di prodotti finiti in
lana comincia ad essere molto elevata, pertanto, al fine di soddisfarla, si
svilupparono le officine tessili dette anche “Textrinae” oppure “Textorae”
strettamente collegate alle “Lanificariae” deputate queste ultime principalmente alla battitura e al lavaggio della lana.
21
Fig. 21: donna attenta alla cardatura della lana (c.a. 500 a.C. - 500 d.C.).
Uno spaccato, di quella che era “L’Arte della lana” presso i romani, è
possibile ricavarlo dagli studi di storici e archeologi basati sull’analisi di
una tutta serie di ritrovamenti e reperti emersi durante le varie campagne
di scavi dell’antica Pompei.
Da queste testimonianze si deduce che a Pompei erano presenti 13
impianti per la battitura e la cardatura della lana, 5 per la filatura e la tessitura insieme a ben 9 “Officinae tinctoriae”. Presso queste ultime venivano tinti sia stoffe e vestiti nuovi, confezionati nelle officine tessili, che
abiti già usati.
«In due officine attigue, ubicate nella IX regione, il lavoro si svolgeva nella
loggia sfinestrata al primo piano, dove si trovavano fusi e telai in legno;
mentre la lana a matassa, i tessuti o le tuniche già confezionate si vendevano nella bottega del pian-terreno, a 15 sesterzi l’una, come ci informa un
graffito su una delle pareti della bottega stessa!» [15].
L’esame della documentazione archeologica, vista in una chiave socioeconomica, rappresenta una chiara testimonianza dell’esistenza in
Pompei, all’epoca della sua distruzione, di un’attiva e consistente “industria della lana”. La presenza documentata di numerose officine, dove si
svolgevano le varie fasi della lavorazione della lana, può infatti portare
22
alla conclusione che la città di Pompei rappresentasse un importante centro laniero caratterizzato da una capacità produttiva in grado di soddisfare anche una domanda espressa da mercati esterni al suo territorio.
Questa interpretazione trova un suo sostegno dalla collocazione di
Pompei allo sbocco della valle del Sarno, naturale punto di arrivo dei tratturi, e che la città potesse quindi utilizzare come materia prima la lana
derivante da greggi di pecore provenienti dalle aree e dagli allevamenti
“transumanti” [21].
Elio Lo Cascio, circa la rilevanza e le dimensioni dell’industria laniera
in Pompei, ha scritto:
«Documentazione (archeologica) che è stata ancora recentemente intesa
come quella che testimonia l’esistenza in Pompei di stabilimenti nei quali si
svolgono, con criteri organizzativi che potrebbero rivelare un’accentuata
razionalità, le varie fasi di un intero processo produttivo: dalla tosatura e
lavaggio e tintura della lana, alla filatura e tessitura, alla tintura e sbianca dei
tessuti, alla follatura, alla feltratura. Ora, se anche le destinazioni proposte
per talune di queste “botteghe” possano suscitare qualche dubbio -come nel
caso di quelle che si sono definite officinae lanificariae, gli impianti dove
sarebbe stato effettuato il lavaggio della lana grezza- , la rilevanza quantitativa e le dimensioni di quelle che appaiono essere indubitabilmente delle
Fullonicae, sembrano escludere una loro utilizzazione volta esclusivamente
a rispondere alle esigenze della popolazione locale. Si è voluto stimare in
una cifra tra le settecento e le mille unità il numero complessivo degli addetti: una proporzione consistente, dunque, della forza lavoro complessiva presente nella città, ben confrontabile con la proporzione degli addetti alle
manifatture tessili nelle città fiamminghe o in Firenze nel quattordicesimo
secolo. Si è fatta l’ipotesi ragionevole che l’intero processo produttivo stia
sotto il controllo di una potente corporazione di “industriali” della lana, i
Fullones» [22].
Il plastico, in scala 1:25 della famosissima “Fullonica di Stephanus” di
Pompei è mostrato nella tavola VI [21]. Le attività che si svolgevano
nelle fulloniche (le officine nelle quali si eseguiva la lavorazione della
lana) erano molto diversificate. La vendita all’asta della lana e dei panni
di lana avveniva in uno spazio detto “Chalcidium” mentre la vendita al
dettaglio veniva effettuata in spazi denominati “Porticus” e “Crypta”.
Alcuni archeologi vedono le fulloniche come delle antesignane delle
“Guild Will” e cioè la sede della corporazione dei fulloni dove:
« essi si incontrano e hanno anche i loro uffici e magazzini, e la borsa per la
23
lana e per i tessuti, dunque per la vendita all’ingrosso: una funzione evidentemente legata all’ipotesi di un grosso movimento di import-export di lana e
vesti di lana.
Questa ultima interpretazione potrà apparire forse eccessivamente modernizzante: ma quel che tuttavia sembra difficile revocare in dubbio è la connessione, ....., dell’edificio con le attività, ....., dei fullones: attività che sarebbe illegittimo, .....,considerare di scarso rilievo e solo rivolta a soddisfare esigenze locali» [22].
Un’interessante documentazione archeologica, circa la città di
Fregellae, colonia latina situata nella valle del fiume Irno, che la collegava direttamente con l’importante città portuale di Minturnae, ha evidenziato che all’epoca della sua distruzione avvenuta nel 125 a.C. fossero attive delle fullonicae e altri impianti tessili che per tipologia e impianto urbanistico erano simili a quelle ritrovate a Pompei [23, 24].
Uno dei locali della fullonica di Stephanus in via dell’Abbondanza, venuto fuori a seguito degli scavi effettuati è riprodotto nella tavola VII [23].
Le varie fasi della lavorazione della lana, sono state riprodotte in alcuni stupendi affreschi ritrovati a Pompei sulla facciata del famosissimo
“Pilastro dei Fullones” che era parte integrante della fullonica di Veranio
Ipseo (seconda metà del I secolo d.C.). Questo importantissimo reperto,
in muratura, è conservato nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
Il pilastro è affrescato su tre delle quattro facce. Particolarmente interessanti sono le rappresentazioni visibili su due lati continui, il laterale
destro e il frontale [21]. I più significativi di questi affreschi sono riprodotti nelle tavole VIII e IX.
In particolare, nella tavola VIII-a è raffigurata una scena dove un giovane è addetto alla cardatura di una stoffa, sospesa ad una corda, mediante
una larga spazzola in metallo con delle punte acuminate. Alla destra del cardatore appare un altro lavorante mentre trasporta un trabiccolo (un arnese a
forma di cupola fatto con aste di legno curvate che veniva, anche in tempi
più recenti, usato per asciugare i panni) e un caldano (un vaso di rame, di
ferro, oppure di altro materiale, che conteneva dei carboni accesi o brace).
Questo lavorante è intento alla solforazione del tessuto, che veniva effettuata prima della spazzolatura e stiratura. Nel caldano, infatti, veniva posto
dello zolfo che bruciando sviluppava vapori di anidride solforosa che investivano il tessuto, disteso in maniera appropriata sopra il trabiccolo.
Alla sommità del trabiccolo, in latino denominato “Vimea Cava”, è raffigurata “Ulula” la civetta protettrice dei fulloni.
24
In basso a sinistra si nota una figura femminile, panneggiata e ingioiellata, probabilmente la conduttrice dell’officina, che si accinge ad esaminare un tessuto che le porge una giovane angella.
Nella parte centrale della tavola VIII-b è dipinto un giovane pestatore
“Fullo”, che all’impiedi e con i piedi immersi in un bacino, “Lacunae
Fullonicae”, contenente acqua e soda, urina umana o animale e altre
sostanze alcaline, procede alla follatura dei tessuti in lana. Ai lati del fullo
sono raffigurati altri lavoranti detti “Lotores”.
Sulla facciata laterale destra del pilastro, come riportato nella tavola
IX-a, si nota una grande pressa (torchio “Pressorium”) che veniva utilizzata per la stiratura delle stoffe.
Nella parte sottostante (tavola IX-b) sono rappresentate alcune giovani
donne mentre si accingono ad asciugare dei panni appendendoli a delle
aste sospese.
Scene connesse alla lavorazione e al finissaggio delle stoffe e dei panni
nell’antica Pompei sono state scoperte anche nel complesso pittorico
della Casa dei Vettii laddove:
«gli Amorini lavapanni sono raffigurati mentre calcano i panni in una vasca
accanto alla quale si trova un’anfora forse piena di orina o di creta fullonica
e, ammucchiate stoffe di vari colori. La scena successiva mostra un Amorino
in corta tunica bianca che solleva con le mani, ......, un panno finissimo giallo scuro per deporlo accuratamente sopra un tavolino; al centro del riquadro,
un Amorino in tunichetta gialla, ....., è intento a cardare con una spazzola di
spine vegetali (il Dipsacus) un tessuto giallo messo a stendere su un bastone. Una successiva sequenza un Amorino nudo, ....., reca una stoffa colore
turchino a due signore acquirenti, .....» [15].
Gli scavi di Pompei hanno evidenziato anche la presenza di officine per
la produzione di una particolare stoffa in lana denominata “feltro” (una
stoffa “non tessuta” che si ottiene per coaugulo e compressione di una
sospensione di acqua, sapone, colla e di residui della lavorazione della
lana e peli di vari animali: cammelli, castori, lepri, conigli, ecc.) [19].
Le stoffe di feltro venivano utilizzate dai romani per la fabbricazione di
copricapi, calzari, gualdrappe, manti per cavalli e pesanti mantelli.
Le attività relative al lavoro dei feltrai sono state raffigurate, con dovizia di particolari, in una serie di affreschi ritrovati sui pilastri della facciata di un’officina lanaria o più esattamente dei “Lanarii Coactiliarii” o
“Quactiliarii”, per la produzione del feltro, ubicata in Via dell’Abbondanza nell’antica Pompei (tavola X e XI).
25
Lo Spinazzola, nella sua famosa e oramai rarissima opera dal titolo
“Pompei: alla luce degli scavi nuovi di Via dell’Abbondanza” (Vol. I,
Cap. VIII), così illustra e descrive il contenuto di questi affreschi:
«....... il laboratorio era a destra, la grande bottega di vendita a sinistra dell’ingresso, ed è questa che, a guisa di una grande mostra, i due pilastri di
destra e di sinistra, ......, interamente coperti di pitture, inquadrano, e che la
grande tettoia, sporgente dall’un capo all’altro della facciata tutela insieme
agl’ingressi, così dei laboratori, come del negozio......
La pittura di dritta che occupa tutto il largo pilastro ..... è anche la più importante per le sue rappresentazioni, così della zona superiore come dell’inferiore (una visione di insieme di questo affresco è riportata nella fotografia
della tavola XII; n.d.A) ..........
I feltrai sono nella predetta al lavoro, ed una delle iscrizioni dipinta su di
essa, non permette di avere dubbi sul lavoro che compiono, qualificandoli a
grandi caratteri: “Quactiliarii”: Feltrai. Alcuni in numero di tre -due a sinistra ed uno a destra- sono seduti su sgabelli a piedi diritti, dietro bassi tavoli stretti e lunghi, con piedi nodosi, legati da traverse nei lati brevi. I loro
piedi, uniti pel calcagno sotto il tavolo, stringono, dall’uno all’altro lato, un
pilastrino squadrato e rastremantesi in basso, che sale da terra e fa parte del
loro arnese di lavoro..........: solo le loro mani si muovono, esse solo compiono il lavoro. Levate ad altezza dello sterno, mostrano di stringere,......,
dall’un capo all’altro uno strumento, che, composto da un filare di alti ed
acuti denti, uniti insieme a formare un pettine, serve, come è chiaro, a compiere un lavoro, rispondente al nostro di Cardare e Pettinare la lana (tavola
XIII; n.d.A.) ...... L’arnese del lavoro è, dunque, costituito nel suo insieme da
un desco, un pilastrino di legno ad erma, più stretto in basso, più largo in
alto, che, fermato al desco, sostiene i pettini, fissati verticalmente ad esso, e
da uno strumento che vi lavora dentro di cui l’affresco ci mostra ripetutamente la forma. E’ fatto ad arco nel mezzo con alette laterali per la presa, e
la curva del centro or più or meno pronunziata............... Il pettine dei lanaioli di oggi non è ........... molto diverso da quello qui rappresentato. E’ un
oggetto come quello ornato di spunzoni di ferro con le punte in su, sui quali
i lanarii passano a manate la lana, pigiando e tirando a sé, per cardarla e
lisciarla» [27].
Alcuni dei principali strumenti presenti sul tavolo di lavoro dei
“Pectinarii”, la coppa per umettare le dita, i coltelli “Calcatoi” e la spazzola sono raffigurati nella figura 22.
L’operazione di coagulo e la preparazione del feltro, a partire dai residui della pettinatura della lana, è raffigurata al centro della scena pittori26
ca (tavola XIV). Lo Spinazzola così la descrive:
«...........l’affresco ......... ci mostra al lavoro, intorno all’apparecchio adibito
al coagulamento del pelame pettinato, i piccoli operai impastatori dei velli, i
veri “Coactiliarii”. Sono quattro due di spalle ......... sono questi i coagulatori “Coactores” del feltro.... e tutti, dovendo lavorare alle caldaie, sono, a differenza dei pettinatori, a torso nudo.
Fra gli uni e gli altri.......... è inserita una caldaia di cui si vede la bocca, e
sotto di essa, è aperto un alto e stretto fornello ad arco, in cui brucia la legna:
l’apparecchio evidentemente destinato a contenere e preparare il liquido coagulante (l’aceto secondo Plinio, VIII, 192, era uno dei liquidi, e rendeva il
feltro resistente al ferro,....).........
Due grandi bacinelle a becco sono collocate, a destra e a sinistra della caldaia, ....... In esse, infatti, sono lunghe strisce bianche lanose, già compatte
che gli operai di fronte manipolano dando loro forme prestabilite.......... Il
lavoro Coactilario è così compiuto, .......» [27].
Le stoffe in feltro trovavano ampio utilizzo presso i romani:
«di feltro facevano i romani oltre che i cappelli (Pilei), una specie di scarpe
(Impilia), coperture e mantelli -di cui alcuni servivano anche alla difesa dei
soldati- e gualdrappe o manti per cavalli» [27].
Fig. 22: Raffigurazione di alcuni strumenti
presenti sui deschi dei “Pectinarii” in Pompei.
Dall’alto verso il basso: la coppa per umettare
le dita, i coltelli-calcatoi e la spazzola per raccogliere i residui della lana pettinata e/o cardata [Rif. 26].
27
Il proprietario dell’officina a destra nella tavola XV, indossa un lungo
pastrano di colore amaranto chiamato “caracalla” oppure “Palla Gallica”
(importato dalla Gallia, questo indumento è passato alla storia per aver
dato il nome all’imperatore M. Aurelio Antonino). Come si evince dalla
tavola XV, il proprietario è raffigurato mentre mostra ai probabili clienti
e passanti una stoffa di colore marrone, decorata ai lati da fasce rosse, i
“Clavi” «indicativi del rango sociale di chi l’avrebbe indossata» [15].
Le raffigurazioni riguardanti il ciclo lavorativo del feltro sono sovrastate da una grande “figurazione” di natura religiosa (tavola XVI) al centro della quale è rappresentata una quadriga di elefanti che trasporta una
Dea coronata e scettrata; è la “Venus Pompieana” protettrice di Pompei
[27, 28].
E’ probabile che nell’officina di via dell’abbondanza si producessero
stoffe ed abiti non solo in feltro, ma anche in lana grezza. Pertanto questo stabilimento veniva a configurarsi come una specie di “fabbrica integrata” nell’ambito della quale avvenivano molte delle lavorazioni proprie della filiera della lana incluse, anche, le operazioni di rifinitura di
abiti già usati. Gli addetti a questo ultimo tipo di lavorazione venivano
chiamati “Offectores”.
Anche le attività tintorie erano molto sviluppate nella città di Pompei
come dimostrato dal ritrovamento, in alcuni locali, di un grande numero
di orci e contenitori con residui di materia colorante [29].
Sempre a Pompei nella casa di un certo Minucius, tessitore ma anche
gladiatore, dove un lungo ambiente era adibito ad officina tessile, sono
stati ritrovati 53 pesi in terracotta, i quali venivano utilizzati per mantenere tesi i fili dell’ordito nei telai verticali. Un esemplare di peso per
telaio in terracotta arancione (alt. cm 8), di forma troncoconica con lati
lisci e foro orizzontale passante, ritrovato nella casa di Iulius Polibius
(Pompei, primo secolo d.C.) è mostrato nella figura 23-a.
Nella casa della Venere in conchiglia, sono stati recuperati, durante una
campagna di scavi del 1953, dei pesi in piombo, di forma troncopiramidale, che presentano nella parte superiore un foro passante (Figura 23-b).
Sulla faccia anteriore vi è la scritta “eme”, su quella posteriore “habebis”.
Il gruppo di 18 pesi era a corredo di un telaio ligneo verticale per la tessitura di cui un tipico esempio, analogo a quello che veniva utilizzato dai
greci, è schematicamente illustrato nella figura 23-c [21].
Una fedele riproduzione di questo tipo di telaio verticale, effettuata dai
tecnici dell’Istituto Statale d’Arte “Pasquale Panetta” di Locri (RC), è
28
b)
a)
Fig. 23: a) Peso per telaio verticale, in terracotta arancione (alt. cm 8), di forma troncoconica con lati lisci e foro
passante orizzontale (Pompei, casa di Iulius Polybius
–primo secolo d.C.); b) pesi in piombo, di forma troncopiramidale, per telaio verticale (Pompei, Casa della Venere in
conchiglia – primo secolo d.C.) [Rif. 21];
c)
c) tipico telaio in legno verticale a pesi pendenti utilizzato dagli antichi romani e in generale nelle
regioni del Mediterraneo e del Medio Oriente intorno al 100 d.C. [Rif.11].
29
illustrata nella tavola XVII. Questa opera è conservata nel Museo
Nazionale di Locri. Telai, simili a questo, sono tuttora usati in Asia e in
Medio Oriente ed in altre regioni dell’area Mediterranea per la fabbricazione di tappeti.
Tra le rovine della case dell’antica Pompei è stato ritrovato un numero
veramente cospicuo di fusi, girelli, navette o spolette, in osso, di ottima
fattura.
I fusi, come si evince dalla tavola XVII erano costituiti da una asticella a sezione circolare con estremità arrotondata nella quale venivano inseriti i dischetti (detti girelli) con il lato convesso decorato da cerchi incisi.
Le navette, o spolette avevano una forma ellittica con un foro centrale. Il
ritrovamento di questi strumenti dimostra quanto fosse diffusa l’attività
della filatura e anche della tessitura nelle comuni abitazioni e nelle botteghe artigianali nelle città romane intorno al primo secolo d.C. [21].
c1) Evidenze dell’utilizzo della lana in Pompei attraverso lo studio
di reperti tessili
Durante i lavori di scavo delle città di Pompei, Ercolano e Scafati,
distrutte dall’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C., sono stati recuperati
numerosi frammenti di tessuti e manufatti tessili, in stato più o meno
degradato, in relazione all’entità del processo di carbonizzazione e del
tipo di conservazione che essi subirono a seguito di quell’evento.
Studi morfologici e strutturali condotti su questi frammenti tessili, utilizzando tecniche di microscopia elettronica a scansione (SEM), microscopia ottica (OM) e diffrazione dei raggi X ad alto angolo (WAXS),
insieme a metodiche chimiche e chimico-fisiche, hanno permesso di
identificare la natura, l’origine e la struttura molecolare delle fibre che
costituivano i manufatti e risalire anche ai processi tecnologici di filatura e tessitura all’epoca utilizzati.
La maggior parte dei campioni, frammenti di piccole dimensioni con
peso inferiore anche ai 3,0 mg, avendo subito un processo di carbonizzazione più o meno accentuato, si presentavano generalmente di colore
nero-bruno ed erano così fragili che al tatto si riducevano in polvere.
Pertanto, prima di applicare tecniche di indagine mirate al riconoscimento della natura delle fibre naturali, con cui erano stati realizzati i
manufatti di origine e delle relative tecnologie di lavorazione, è stato
indispensabile effettuare sui reperti, interventi di consolidamento e di
30
conservazione tesi a consentirne la manipolazione e quindi le analisi. In
alcuni casi i frammenti repertati sono stati “fissati” con gocce di una soluzione acquosa di resine viniliche (polivinilalcol e poliacetato di vinile).
I campioni così “apprettati”, essiccati a temperatura ambiente, e quindi ombreggiati con uno strato dello spessore di circa 18 nm di una lega
Au-Pd sono stati esaminati e studiati mediante la tecnica della microscopia elettronica a scansione.
La presenza o meno di tracce di cristallinità residua, utile a confermare
la natura chimica e la struttura molecolare delle fibre che costituivano i
tessuti, è stata determinata quantitativamente con la tecnica della diffrazione dei raggi X ad alto angolo (WAXS) adottando particolari accorgimenti, resisi necessari per la quantità particolarmente esigua di materiale
disponibile e per la loro fragilità.
Sui campioni è stata inoltre effettuata una microanalisi chimica basata
sulla solubilità e/o sulla colorazione assunta dalle fibre in seguito a trattamenti con acidi forti e/o sostanze coloranti.
Il modo in cui i fili dell’ordito e quelli della trama erano stati intrecciati tra loro è stato determinato dalle micrografie ottiche ed elettroniche ad
ingrandimenti relativamente bassi.
Dall’insieme degli studi effettuati da Martuscelli et al. [30, 31] è stato
possibile concludere che le fibre elementari costituenti alcuni dei reperti
tessili investigati fossero di lana.
Un frammento di tessuto, ritrovato nella casa di C. Iulius Polybius, in
Via dell’Abbondanza, è mostrato nella figura 24-a. Questo reperto di
colore giallo bruno è uno dei pochi ben conservati. Gli esami eseguiti su
di esso hanno mostrato che il tessuto era costituito principalmente da
fibre di lino alle quali erano state mescolate anche fibre di lana comune,
come viene evidenziato dalla micrografia elettronica riportata in figura
24-b.
L’armatura del tessuto è quella più semplice, comunemente denominata “armatura piana” o “armatura tela”. Essa è caratterizzata dal fatto che
l’ordito e la trama si alternano, l’uno sopra e l’altra sotto e viceversa,
scambiandosi la posizione ad ogni battuta del telaio (rigo), con i fili
intrecciati a croce [32]. Questa armatura, descritta su carta quadrettata,
nella quale viene riprodotto un ipotetico tessuto ad elevato ingrandimento, è rappresentata graficamente nella figura 25. L’area con i quadrettini
in rosso definisce il “rapporto di armatura” (la minima unità ripetitiva
che caratterizza il tessuto).
Nelle figure 26-a e 26-b sono riportate rispettivamente la fotografia di
31
a)
b)
Fig. 24: a) Fotografia di un reperto tessile (No. 280/B) trovato nella casa di C. Iulius Polybius in
Via dell’Abbondanza nell’antica Pompei.
b) Micrografia elettronica a scansione di fibre che mostrano una morfologia tipica di quelle della
lana comune. Queste fibre sono state ritrovate in minima quantità nel reperto in a) che è costituito principalmente da fibre di lino [Rif.30].
32
Fig. 25: Rappresentazione grafica
dell’armatura “tela” relativa al
reperto tessile ritrovato nella Casa
di C. Iulius Polybius in Via
dell’Abbondanza
(Pompei)
descritto nella figura 24-a [Rif.
30].
un frammento tessile ritrovato a Pompei (18069/A-leggero) e la micrografia al SEM di una fibra elementare da esso prelevata.
L’analisi ha portato a concludere che le fibre componenti fossero di lana
comune organizzati nel tessuto secondo un’armatura “reps di ordito regolare” la cui rappresentazione grafica è mostrata nella figura 27 [31-a].
Nella micrografia della figura 26-b sono chiaramente visibili delle fratture trasversali all’asse della fibra che sono da attribuire a probabili fenomeni di degradazione.
Si è già precedentemente accennato al fatto che durante la filatura, più
fibre di lana sono attorcigliate le une alle altre mediante un processo di torsione o torcitura che può essere condotto in un senso destrorso (comunemente detto torsione a “Z”) oppure in un senso sinistrorso (definito torsione a “S”). Nel caso del reperto mostrato nella figura 26 è stato possibile, mediante microscopia ottica, dimostrare che le fibre di lana costituenti
fossero state filate mediante un processo di torsione di tipo “Z” [31].
Il frammento di tessile recuperato a Pompei (18078/B) è costituito da
fibre di lana non comune appartenenti a velli di capra anatolica (Capra
hircus angorensis) denominata capra d’angora (figure 28-a e 28-b). La
rappresentazione grafica dell’armatura, di tipo “twill di 3” è schematizzata nella figura 29 [31-a].
Questo ritrovamento è di grande rilevanza poiché esso dimostra che a
Pompei lane più pregiate venivano importate da paesi relativamente lontani al fine di confezionare stoffe più sofisticate e costose.
33
a)
b)
Fig. 26: a) Fotografia di un frammento di un reperto
tessile ritrovato a
Pompei (18069/A/
leggero);
b) fotomicrografia
elettronica (SEM)
di una fibra, prelevata dal campione
in a).
L’analisi ha permesso di concludere che le fibre componenti il tessuto
fossero di lana [Rif.
31-a].
Fig. 27: Rappresentazione grafica dell’armatura “reps di ordito regolare” relativo al frammento tessile in lana comune repertato a Pompei
(18069/A/leggero) la cui fotografia è riportata in fig. 26-a [Rif. 31-a].
34
a)
b)
Fig. 28: a) Frammento tessile recuperato a Pompei (18078/B), filatura Z, twill di 3, fatto con lana
d’angora.
b) Micrografia elettronica (SEM) di una singola fibra appartenente al campione in a) e risultata
all’esame morfologico essere di lana d’angora [Rif.31-a].
35
Fig. 29: Rappresentazione grafica dell’armatura, tipo
“twill di 3”, relativa al tessuto recuperato a Pompei
(18078-B) la cui fotografia è riportata in fig. 28-a.
L’area in rosso identifica il rapporto di armatura [Rif.
31].
a)
b)
Fig. 30: a) Fotografia di un frammento di un tessuto recuperato a Pompei (79 d.C.).
b) micrografia elettronica a scansione di una fibra prelevata dal reperto in a), dal cui esame si ricava che essa è di lana d’angora [Rif. 31].
36
a)
b)
Fig. 31: a) Frammento di un manufatto tessile (fotografia) (campione 1992 N. 36) trovato a
Scafati (79 d.C.) fatto con lana comune.
b) Micrografia elettronica di fibre prelevate dal campione in a) e identificate come lana comune
[Rif. 31-a].
37
Fig. 32: Rappresentazione grafica dell’armatura, di tipo “Reps di Trama”, del tessuto fotografato nella figura 31-a [Rif. 31-a].
Anche il reperto della figura 30 è risultato essere tessuto con lana d’angora e con un’armatura analoga a quella della figura 27.
Altri reperti di tessuti in lana comune ottenuti con una tecnologia di tessitura basata su un’armatura del tipo “reps di trama”, sono stati ritrovati
a Scafati (figura 31 e 32) [31-a].
Frammenti di tessuti in lana comune, con un’armatura di tipo piana o
tela, già precedentemente descritta, sono stati recuperati anche negli
scavi dell’antica città di Ercolano (figura 33). In questo caso il senso dell’avvolgimento dato alle fibre, durante la filatura, era di tipo “S” [30, 31].
L’analisi dei reperti tessili ritrovati a Pompei, Ercolano e Scafati evidenzia come, all’epoca in cui avvenne l’eruzione del Vesuvio (79 d.C.),
le tecnologie utilizzate per la tessitura erano notevolmente sofisticate e
differenziate permettendo di confezionare stoffe e tessuti caratterizzati da
armature anche complesse.
In alcuni frammenti di tessili è stata anche riscontrata la contemporanea
presenza di fibre di natura diversa, ad esempio lino e lana, a dimostrazione del fatto che già allora era utilizzata la tecnologia dei tessuti “ibridi” realizzata sia per ottenere stoffe con prestazioni mirate a particolari
utilizzi, sia per ridurre i costi, sia per migliorare la filabilità di alcune
fibre e quindi la loro attitudine alla tessitura, sia per migliorare alcune
caratteristiche ultime dei manufatti.
38
a)
b)
Fig. 33: a) Frammento di tessuto in lana trovato durante gli scavi dell’antica Ercolano (79 a.C.)
(campione N. 281).
b) Micrografia elettronica di una fibra prelevata dal campione in a) identificata come lana comune [Rif.31-a].
39
d) Evidenze archeologiche di utilizzo della lana in Egitto, in età
Tolemaica e Romana
Nell’antico Egitto la lana veniva poco utilizzata nella manifattura di
tessuti e stoffe per abbigliamento. Alle fibre di lana venivano di gran
lunga preferite quelle di lino.
Sembra che la lana trovasse impiego principalmente nella fabbricazione di grossolani, rozzi e ruvidi mantelli e sciarpe. Il valore di questi tessuti era di gran lunga inferiore a quello delle più sofisticate e costose stoffe di lino.
D. L. Carrol, circa lo scarso utilizzo della lana nell’antico Egitto, ebbe
a scrivere:
«According to the observations of Herodotus, book 2.81, the Egyptians considered wool to be ritually unclean, which would make it unsuited for wear
during religious ceremonies or for burial purposes.
Sheep tend to collect dirt and debris on their fluffy but naturally greasy coats
which may be further fouled by excrement. This, and the fact that wool was
commonly cleaned with the aid of urine, also an ingredient in some dye recipes,
may have led the fastidious to avoid wool and dyed textiles entirely …» [33].
Al contrario R. Hall afferma che il grado di impiego delle fibre di lana
da parte degli antichi egiziani sia stato sottostimato dagli storici e dagli
archeologici:
«The Greek historian is responsible for some of our misconceptions regarding the use of wool in ancient Egypt. Writing in the fifth century BC, he
relates that nothing of wool is taken into their temples or buried with them
for their religion forbids it. It is now evident that there is much more wool,
in both funerary and domestic contexts, than was previously realized, and
that it was probably always used for much needed warm clothing, especially cloaks. Herodotus himself mentions the wearing of loose white woolen
mantles over linen tunies, whilst the first-century BC Greek author Diodorus
Siculus states that the Egyptian sheep yielded wool for clothing and ornament. Certainly the Egyptians would have used the available wool and hair
from their large numbers of domesticated sheep and goat» [34].
In Egitto la lana assumerà un ruolo rilevante, nella tecnologia tessile
Copta, in età Greco-Romana (332 a.C. – 395 d.C.).
«It is surprising, then, in the light of a possible antipathy to wool textiles on
the part of Egyptians, to discover that wool plays an important role in Coptic
40
textile technology. Coptic weavers made all-wool textiles and also combined
the fiber with linen. At some point wool became an acceptable textile fiber,
both for ordinary wear and for burial. It is not at all certain when this took
place though the Ptolemaic period is likely.
A solution to the problem posed by the change in attitude in the Coptic
period is provided by the introduction of Greek concepts and customs into
Egypt after the establishment of the Macedonian-Greek dynasty in the fourth
century B.C.. Except for the members of certain esoteric cults Greeks had no
bias against wool textiles. Textiles for everyday wear were either linen or
wool, depending upon the weather or the season. Brightly colored garments
were highly valued, judging from their frequent mention in Greek literature
and their occasional depiction in Greek art» [33].
Lo sviluppo che si ebbe a verificare nell’uso tessile della lana, in Egitto,
in età tolemaica è stato così confermato da C. C. Mayer Thurman:
«Sheep are among the most ancient of domestic animals and were available
in some numbers in the Nile Valley. The most likely source of wool would
have been domestic breeds available in Egypt of the period. These included
hairy thin-tailed sheep (including those with ammon-shaped horns), wooled
thin-tailed sheep, and (wooled) fat tailed sheep. The Ptolemaic government
had take a special interest in this industry, introducing a species of sheep that
yielded better wool. Production of wool was sponsored by the state. During
Ptolemaic and Roman times there was an extensive trade in this product, and
its use began to increase …» [35].
Una missione congiunta di archeologi dell’Università di Bologna e di
Lecce iniziò nel 1993 una campagna di scavi nel sito di Kom Umm elAtl (che in arabo significa “la collina dei tamerici”), dove Tolomeo II
intorno al 280 a.C. aveva edificato la città di Bakchias nell’angolo a nordest della grande Oasi del Fayyum.
Il Fayyum è una depressione naturale (si trova a Sud-Ovest del Cairo
dalla quale dista circa 80 Km (tavola XVIII)) la cui fertilità del suolo
veniva assicurata in epoca antica, ma lo è ancora oggi, da una fitta rete di
canali che portano acqua fino alle soglie del deserto libico [36, 37].
Il Fayyum visse un periodo di grande splendore sotto la dinastia tolemaica che governò l’Egitto a partire dal 304 a.C. allorquando Tolomeo di
Logo assunse il titolo di Faraone. Durante la dinastia tolemaica, che ebbe
fine alla morte di Cleopatra (30 a.C.), si verificò un significativo processo di ellenizzazione dell’Egitto in continuazione della politica di
41
Alessandro Magno (morto nel 323 a.C.).
Sotto il regno di Tolomeo II Filadelfo (285-246 a.C.) furono realizzate
nella regione del Fayyum grandi opere di irrigazione e di bonifica a
seguito delle quali fu aumentata notevolmente la superficie di terre coltivabili. Inoltre questo sovrano favorì l’insediamento di colonie agricole
che furono affidate a veterani Greco-Macedoni. Per la sua fertilità l’oasi del Fayyum fu denominata il “giardino dell’Egitto”.
A seguito della battaglia di Azio nel 30 a.C., l’Egitto divenne una provincia di Roma.
Con il declino e la caduta dell’impero romano iniziò un progressivo
decadimento del Fayyum; quella che era stata una fiorente, ricca e fertile regione subì un processo di desertificazione che insabbiò la perfetta
rete di canali di irrigazione. Le splendide città, tra le quali spiccava
Bakchias, furono gradualmente abbandonate e sommerse dalla sabbia.
Una splendida veduta del sito antico di Bakchias, ripresa dal villaggio
moderno, è riportata nella tavola XIX-a, mentre nella tavola XIX-b è rappresentata la grande struttura in mattoni crudi su cui sorgeva il tempio di
Bakchias dedicato al Dio Soknobkonneus (età tolemaica e romana) [37].
La città di Bakchias, definitivamente abbandonata nel IV secolo d.C.,
fu completamente ricoperta di sabbia desertica e questo sembra che
abbia garantito la buona conservazione dei resti, siano essi di natura
architettonica che di altra origine.
Presso l’Istituto di Ricerca e Tecnologia delle Materie Plastiche del
Consiglio Nazionale delle Ricerche (Arco Felice - Napoli) è stato intrapreso uno studio avente l’obiettivo di identificare la natura, la provenienza e le tecnologie di lavorazione delle fibre naturali costituenti una serie di
reperti tessili rinvenuti a Backias durante le varie campagne di scavo.
I risultati relativi al caso di due campioni di tessili in lana recuperati a
Bakchias durante la campagna di scavi del 1996 sono qui di seguito illustrati.
Un primo campione (Rep.2, campionatura B96/72/291) è un frammento di tessuto caratterizzato da una tinta beige di base che appare rigato per
effetto di variazione del colore sui fili dell’ordito, che hanno acquisito, in
alcune zone, una tonalità tendente al bluastro (tavola XX).
Dall’esame degli spettri di diffrazione dei raggi X ad alto angolo (figura 34) e delle caratteristiche morfologiche delle fibre componenti il tessuto, prima e dopo il lavaggio per eliminare scorie di varia origine (figura 35), è stato possibile concludere che le fibre fossero di lana comune
filate con una torsione di tipo “S” e disposte nel tessuto secondo un’armatura a tela, la cui corrispondente rappresentazione grafica è stata già
42
Fig. 34: Diffrattogramma ai raggi X (Cuk-filtrata con Ni) di fibre del manufatto in lana (Rep.2,
campionatura B96/72/291), ritrovato a Bakchias (Egitto) e la cui fotografia è mostrata nella tavola XX. Lo spettro è stato ottenuto utilizzando un diffrattometro per polveri ad alto angolo
[Rif.38].
illustrata nella figura 25 [38].
Un secondo frammento di tessuto in lana (tipo “cimosa”, reperto n.3
catalogazione B96/92/1000), la cui fotografia è riportata nella tavola XXIa), è di colore beige non uniforme. Esso appare fortemente deteriorato e
invecchiato con delle decoesioni superficiali con andamento trasversale e
con degli sporadici episodi di spot di colore bianco su entrambe le facce.
Le caratteristiche morfologiche delle singole fibre (diametro medio
compreso tra 16 e 30 mm) emergono chiaramente dalle micrografie elettroniche al SEM riprodotte nelle figure 36-a e 36-b.
Il processo di filatura è stato effettuato inducendo alle fibre una torsione ad “S”, mentre l’armatura è di tipo a tela caratterizzata da 7 fili di ordito presi a blocchi di tre e di quattro (tavola XXI-b). Il rapporto di armatura è di due fili e due trame; per la tessitura è stato utilizzato un telaio
con almeno due licci [38].
43
a)
b)
Fig. 35: Micrografie elettroniche in scansione delle fibre costituenti il manufatto in tavola XX,
ritrovato a Bakchias (Rep.2, campionatura B96/72/291) identificate come fibre di lana:
a) tal quali così come prelevate dal manufatto;
b) dopo lavaggio;
[Rif. 38].
44
a)
b)
Fig. 36: Fotomicrografia elettronica in scansione delle fibre costituenti il manufatto Rep. 3, catalogazione B96/92/1000, ritrovato a Bakchias, la cui fotografia è riportata nella tavola XXI:
a) fibre così come prelevate dal reperto tessile;
b) fibre dopo lavaggio [Rif. 38].
45
e) Lo sviluppo dell’arte della lana in Europa: Medioevo
Agli inizi dell’era cristiana, in molte regioni “civilizzate” si produceva
lana per fini tessili insieme ad altre fibre naturali quali il lino, la canapa
e, nel lontano Oriente, la seta.
Cominciarono a costituirsi degli “stabilimenti” di lavorazione, trasformazione, rifinitura e tintura della lana che, in alcuni casi si configurarono come dei centri di natura proto-industriale e nuclei di una futura industria laniera.
In particolare la lana veniva prodotta e lavorata in Egitto, in Palestina e
in Asia Minore. Famose erano le lane provenienti dalla Frigia (una regione storica che comprendeva la parte occidentale dell’altopiano
dell’Anatolia), dalla Lidia (regione mediana della costa occidentale
dell’Asia Minore con capoluogo la città di Sardi) e dalla già menzionata
città di Mileto (antica città dell’Asia Minore situata su di una piccola penisola della costa occidentale della Caria nelle vicinanze della foce dell’antico fiume Meandro). Attualmente la Frigia, la Lidia e la regione di Mileto
sono parte integrante della Turchia (figura 37). In Grecia erano molto rinomate le lane prodotte nell’isola di Samo (separata dalla costa occidentale
della Turchia da uno stretto canale) nelle regioni dell’Attica (area storica
con capoluogo Atene, che comprendeva anche il Pireo con il suo importante porto, cuore della vita economica culturale e politica dell’antica
Fig. 37: Mappa geografica dell’antica Turchia e dell’Asia Minore dove sono indicate le regioni
che, in età pre-cristiana; producevano e lavoravano la lana (vedasi testo).
46
Grecia) e nell’Arcadia (regione montagnosa del Peloponneso Centrale).
Agli inizi dell’Era Cristiana pregiate ed eleganti vesti in lana venivano
confezionate in città del Medio-Oriente quali Bagdad e Damasco.
Nell’Italia Meridionale la produzione e la lavorazione della lana si sviluppò principalmente in Sicilia e nelle città di Sibari e Taranto.
In Europa le regioni dove inizialmente si concentrò “l’industria” laniera (produzione e lavorazione) furono la Gallia Circumpadana, la Gallia
Transalpina e la Spagna.
Durante l’Impero Romano, importanti e ricche corporazioni di “lanarii”, che controllavano la produzione, la lavorazione, la tessitura e il commercio della lana, dei filati e dei tessuti, si costituirono in varie città quali
ad esempio Brescia, nell’Italia Settentrionale, Tiatira, Efeso (antica città
dell’Asia Minore situata al centro della costa dell’Anatolia) e la già
ampiamente citata città di Pompei [17, 39].
Nel Medioevo e nell’alto Medioevo l’industria laniera si diffuse nella
maggior parte delle regioni europee contribuendo fortemente ad attivare
ed alimentare un commercio internazionale di materie prime, di sostanze
coloranti, di macchine per la lavorazione e di manufatti.
Le Fiandre (attuali Paesi Bassi) rappresentarono fino al XII secolo la
regione europea dove si concentrò la più importante industria manifatturiera di panni di lana. Da questa regione venivano esportate in tutto il
mondo stoffe molto pregiate, sia per le caratteristiche della lana utilizzata che per la qualità e le tonalità dei processi tintoriali.
L’industria laniera italiana, molto florida fino alla caduta dell’Impero
Romano d’Occidente (~476 d.C. anno in cui Odoacre, capo degli Eruli,
depone l’ultimo imperatore d’occidente, Romolo Augustolo, e si proclama Re), subì un tracollo a seguito delle invasioni barbariche che provocarono una drastica riduzione nell’allevamento delle pecore molte delle
quali furono uccise per nutrire gli eserciti invasori. Pertanto per molti
decenni nelle città della penisola si producevano pochi panni di lana e
anche di bassa qualità.
La produzione, la lavorazione e il commercio della lana (sia allo stato
di fibre grezze che di panni e tessuti) ebbero un ruolo determinante nel
medioevo (periodo storico che va dalla data della caduta dell’Impero
Romano d’occidente, 476 d.C., alla conquista di Costantinopoli, capitale
dell’Impero Romano d’Oriente, da parte dei Turchi, che avvenne nel
1453 d.C.) per la nascita e lo sviluppo di un’economia internazionale
europea. Su questo argomento Robert-Henri Bautier, in suo scritto dal
titolo “Comunicazione e vita di relazione nel Medioevo” riportava:
47
«Nell’ultimo decennio dell’XI secolo si vede improvvisamente che l’economia comincia a decollare, qua e là, in Europa e il movimento si accentua nei
primi decenni del XII secolo. Mercanti e merci circolano da una regione
all’altra, da una zona geografica all’altra, per terra e per mare, dalle Fiandre
all’Italia, dall’Italia in Oriente, e costituiscono una innovazione di importanza eccezionale in un panorama economico fino ad allora prevalentemente
agricolo.
......... le città si sviluppano e diventano centri di scambi; nascono le fiere,
mentre le vie di comunicazione terrestri, fluviali e marittime conoscono una
circolazione sconosciuta dopo l’epoca romana. Questo rinnovamento dell’economia riceve una sferzata negli ultimi due decenni del XII secolo e l’economia si internazionalizza realmente nel corso del XIII secolo con l’istituzionalizzazione delle leghe tra città mercantili, il ritorno a monete d’oro di
valore internazionale, la creazione di società bancarie di grande ampiezza
che disponevano di sedi nei diversi luoghi, ... . L’Europa economica si forma
in questo periodo … » [40].
Lo sviluppo di una economia “globale” europea contribuì alla crescita
del sistema città, favorita da un accentuato incremento demografico.
Questo momento storico di grande rilevanza per il passaggio da un
sistema prevalentemente agricolo ad uno basato, anche, su industria,
imprenditoria e finanze fu favorito da una serie veramente importante di
invenzioni ed innovazioni tecnologiche:
«......: i mulini ad acqua si diffondono lungo i fiumi mettendo così fine ai tradizionali “mulini a braccia”, mentre l’invenzione dell’albero a canne, che ha
un movimento alternativo invece del movimento continuo, permette nel
corso del XII secolo la costruzione della gualchiera, innovazione di notevole impulso per la tessitura, del battitoio per la canapa e, alla fine del secolo,
del martinetto per la lavorazione del ferro.
Alla fine del XII secolo, in Normandia e in Inghilterra, fa la sua apparizione
il mulino a vento che si diffonde rapidamente lungo le coste del Mare del
Nord e dell’Atlantico» [40].
In questo contesto particolarmente attivi si dimostrarono i mercanti di
stoffe e tessuti i quali si portavano nelle grandi città dove vendevano le
loro merci acquistate presso i produttori dei loro paesi. Così ad esempio
i mercanti delle Fiandre si recavano in Inghilterra per acquistare la lana,
che veniva successivamente lavorata nelle industrie tessili fiamminghe, e
quindi gli stessi si trasferivano successivamente in Italia ed in altri paesi
48
per vendere i manufatti finiti, spesso di grande pregio.
Gli storici sottolineano la presenza, nei vari mercati europei, di mercanti provenienti da Colonia, dalla Lorena, da Arras e da Valenciennes,
dove vendevano panni e tessuti finiti e compravano lana greggia da
importare nei loro paesi d’origine.
Anche nelle città italiane si notava la presenza di mercanti stranieri. Da
documenti dell’epoca si ricava che Genova, nel XII secolo, era frequentata da mercanti che venivano dalle città francesi di Verdun e di Arras i
quali, attraverso i loro banchi, offrivano tessuti e panni lana acquistando
e importando nei loro paesi prodotti mediterranei quali cuoio, spezie,
ecc..
In un’antica lista di merci, che risale all’inizio del XII secolo e che figura su di un tariffario di tasse del mercato di Genova, comparivano tra le
varie voci quella delle balle di lana (torsellus lanus) e delle “tele”, portate da “uomini d’oltralpe”. Analogamente antichi documenti trovati a
Bruges attestano la presenza, nel 1127, di mercanti “Lombardi” i quali
compravano panni lana.
Le grandi fiere sicuramente contribuirono a dare un grande impulso al
commercio Pan-Europeo.
«Tutto cambiò quando le famose ‘fiere di Champagne’ divennero il centro
del grande commercio internazionale e, poco dopo, di conseguenza, il centro internazionale del cambio e dell’attività bancaria. All’inizio niente le
distingueva dalle fiere locali che, con lo sviluppo delle campagne e dei borghi, dell’agricoltura e dell’allevamento, erano nate in molte altre regioni,
...... Ma poco prima della metà del XII secolo, la fiera locale vede allargarsi
il suo orizzonte ...... Così le fiere di Troyes e di Provins .........., come quella
di Lagny (1154), sono da allora diventate fiere di importanza regionale, se
non internazionale poiché nel 1174 si sa di tre empori dove si vende il fustagno, un prodotto tipico italiano, la cui vendita nella Champagne era stata
autorizzata nel 1160. ......: ci saranno sei fiere in Champagne , che si succederanno nel corso dell’anno: due a Troyes e Provins, una a Lagny e una a
Bar-sur-Aube........... E’ quindi in quest’epoca (~1193 n.d.A.) che le fiere
diventano il grande centro di ‘vendita dei panni di Francia’ ai mercanti italiani che, a loro volta, se ne assumeranno la distribuzione nei mercati italiani e del mondo mediterraneo.
........ All’inizio si trattava soprattutto di panni di Arras, Hesdin e Douai: ma
presto parteciparono tutti i centri tessili delle Fiandre: Ypres, Bruges, Gand,
Poperinghe, Furnes, ecc.; lo stesso per l’Hainaut, con Valenciennes e
Maubeuge, e la Piccardia con Amiens e Beauvais (dove verso la fine del XII
secolo vennero costruiti più di trenta mulini a follone); la zona di approvvi49
gionamento del mercato si amplia verso ovest con i panni di Normandia
(Rouen, Louviers, Montivillier), la “stoffa pesante” di Chartres e il “sago” di
Caen, e verso l’Inghilterra, con i famosi “estanfort” di Stanford e le stoffe di
Northampton.
Questo comporta nella Champagne stessa la nascita di nuovi centri tessili
che approfittano della vicinanza e del minor costo per invadere il mercato
europeo: ‘vergatino’ e royé di Provins, la cui fabbricazione diviene l’attività
principale della città, e le coperte di Chalon, così diffuse che il nome di questa città diventa in Italia un nome comune: “uno jalone”. La tessitura raggiunge rapidamente Parigi (panni di ‘San Marcello’) e Saint-Denis.
L’importanza di questo mercato internazionale del tessuto fa sì che dalla
stessa Italia giungano altri tipi di panni, panni ‘mezza-lana’ di Milano e
Monza fustagno di Cremona, cotonine» [40].
Amedeo De Vincentiis, in un suo interessante articolo concernente la
storia di una delle più grandi dinastie della Francia, quella dei
“Capetingi”, che vede come capostitipe Ugo Capeto, Re di Francia a partire dal 987, così scrive a proposito del fenomeno delle fiere della
Champagne e della Brie:
«Un fenomeno di primaria importanza nella Francia capetingia furono, tra il
XII e XIII secolo, le fiere della Champagne e della Brie, incentrate sulle città
di Bar-sur-Aube, Troyes, Provins e Lagny. Tali iniziative seguivano un ciclo
che consentiva un mercato permanente, per cui quando terminava una fiera
in una città, immediatamente ne iniziava un’altra in un centro vicino.
L’attività commerciale e di scambio attirava mercanti da tutto l’Occidente,
tra cui molti Italiani. Lo straordinario successo di queste iniziative non è
stato spiegato in maniera esauriente dagli storici. In effetti tutte le città interessate erano centri di secondo ordine, situate, oltretutto, in una regione dotata di una mediocre rete di comunicazione per via fluviale, per le quali non
passava alcuna delle grandi strade dirette verso l’Italia settentrionale e le
Fiandre. Nonostante questo, però, la rete di scambi incentrati sulle fiere di
questa regione coinvolse tutto il Mediterraneo, fino all’Africa e all’Asia. A
est invece, grazie alla mediazione delle città renane, i contatti passavano per
il Baltico, fino a raggiungere i Paesi scandinavi e il cuore della Russia. Così
si costituì un reticolo di contatti economici tale da poter essere considerato,
secondo le parole dello storico Fernand Braudel, un embrionale esempio di
“economia-mondo”» [41].
Queste fiere erano così rinomate da essere spesso ricordate nella icono50
grafia dell’epoca. Un esempio è illustrato nella miniatura riportata nella
tavola XXII dove viene rappresentata la famosa fiera del “Lendit” che si
teneva a Parigi. Nella miniatura, tra le merci raffigurate, appaiono in
primo piano le balle di panni, presumibilmente di lana [41].
A partire dal secolo XII gradatamente, ma con continuità, si assistette
ad una ripresa dell’industria della lana in molte città e regioni dell’Italia.
Questo fenomeno, che è da mettere in relazione con la possibilità di
poter importare lana pregiata da paesi quali la Spagna, la Francia,
l’Inghilterra e anche dai paesi Medio-Orientali, coincise anche con un
aumento della produzione di lane indigene in alcune regioni quali la
Puglia, la Romagna, la Sardegna e la Toscana, le quali però erano, inferiori per qualità rispetto a quelle importate da altri paesi.
Le città dove si costituirono importanti siti produttivi erano principalmente locate al Nord, tra queste si ricordano: Lucca, Firenze, Milano,
Monza, Como, Bergamo, Brescia e Venezia.
La produzione italiana, all’epoca, non poteva però, per qualità, reggere
la concorrenza delle stoffe provenienti dalle Fiandre, dalla Francia e
dall’Inghilterra, come si evince da alcuni dati doganali, dai quali risulta
che mentre per i panni originali d’Ypres (Francia) si pagava un dazio di
30 soldi, per la stessa tipologia di panni prodotti a Lucca si pagavano 20
soldi. Analogamente per le stoffe “Stanfort” prodotte e importate
dall’Inghilterra si pagavano 24 soldi, mentre per gli “Stantortini”, prodotti a Milano e a Monza, si pagavano solo 5 soldi [39].
La supremazia dell’industria manifatturiera estera su quella italiana
viene avvalorata dal fatto che, almeno fino ai primi decenni del secolo
XIV, a Firenze la più importante attività tessile era quella dell’ “Arte di
Calimala” basata non sulla produzione di stoffe, bensì sull’importazione
di panni dalla Francia e quindi
« nella loro finitura secondo i gusti dei mercati a cui li destinano, e nella loro
vendita al minuto oppure, in misura assai maggiore nella loro riesportazione» [39].
Il primato di cui godette per molto tempo l’industria laniera dei Paesi
Bassi, primato che durò indiscusso fino al secolo XIV, fu dovuto ad una
serie di ragioni tra le quali vanno sicuramente annoverate le seguenti:
a) un’antica tradizione tecnica e tecnologica;
b) una particolare posizione geografica, che li collocava vicino ai mercati inglesi (da cui provenivano le lane migliori per qualità), alle città
della Francia (sedi di importanti fiere internazionali, dove mercanti
51
provenienti dalle città del bacino dell’area Mediterranea, da quelle
dell’Europa occidentale e orientale si incontravano per confrontare e
scambiare merci) e non distanti da città dove si erano sviluppate
importanti attività nel settore della tintura, del finissaggio e della rifinitura delle stoffe in lana.
Le antiche città di Ypres, Bruges, Gand, Saint-Omer, Arras, Douai,
Lille, Cambrai, Valenciennes e la stessa Bruxelles furono per secoli e
secoli famose per le caratteristiche innovative dei loro manufatti, che si
caratterizzavano per la bellezza estetica e per le qualità e proprietà tintoriali.
In Italia la nascita di una vera industria laniera fu preceduta da una fase
prevalentemente basata sull’importazione di panni e stoffe dai mercati
della Francia e dei Paesi Bassi a cui faceva seguito quella della lavorazione e finissaggio e quindi quella della commercializzazione. I grandi
capitali accumulati favorirono, quindi, la transizione verso la creazione di
una vera industria laniera, che partendo dalla lana greggia comprendeva
tutti i passaggi che portavano alla tessitura e quindi alla produzione e al
confezionamento di prodotti tessili finiti pronti all’uso.
Un’analisi circa lo sviluppo dell’industria laniera italiana nel medioevo
ha permesso di individuare i fattori storici-politici-economici che l’hanno determinata.
«Le importazioni crescenti di panni fiamminghi, francesi e inglesi, ..........
hanno spinto le industrie almeno di quelle città che avevano più frequenti
contatti con Genova, con Venezia, con Pisa, a compiere i progressi tecnici
che erano necessari per vincere la concorrenza dell’industria oltremontana
...... Il primo passo su questa via dovette probabilmente essere compiuto da
Lucca ............ Ma già alla fine duecento il primato è passato a Firenze, mentre fuori Toscana l’industria laniera ha grande sviluppo in Lombardia, dove
aveva trovato forse i suoi pionieri nei numerosi conventi degli Umiliati, ma
si era presto stabilita nelle città, particolarmente a Como, Milano, Monza,
Bergamo e Brescia; e aveva assunto i caratteri dell’industria esportatrice
anche in alcuni comuni del Veneto, specie a Verona, a Vicenza e a Padova»
[39].
Gli “Umiliati” erano seguaci di un movimento pauperistico, inizialmente accettato dalla Chiesa, nato tra i lavoratori della lana delle città
della Lombardia intorno al 1175. Gli Umiliati, che vivevano molto semplicemente del proprio lavoro, quando decisero di dedicarsi anche alla
predicazione, nel concilio di Verona (1184), subirono la scomunica da
52
parte di Papa Lucio III. La stessa sorte toccò ai “poveri di Lione”. Il Papa
Innocenzo III riscrivendone le regole recuperò gli Umiliati alla Chiesa,
autorizzandoli alle predicazioni e ben presto essi si diffusero in tutta
Italia. Intorno agli inizi del secolo XIII questo movimento ebbe una grande influenza, non solo da un punto di vista religioso ma anche economico poiché sviluppò una intensa attività nel settore della lavorazione e del
commercio dei panni-lana.
Le riproduzioni di antichi acquerelli (1421 circa) che illustrano alcune
fasi della lavorazione della lana da parte degli Umiliati sono riportate
nelle tavole XXIII e XXIV [42].
L’arte della lana fiorentina, nel secolo XIII era la più importante d’Italia.
Una dimensione dell’industria laniera a Firenze si ricava dalle seguenti
cifre, che si riferiscono ai primi decenni del secolo XIII: a) addetti 30.000;
b) produzione annua superiore alle 80.000 pezze e c) esportazione all’incirca pari ad un quarto della produzione (20.000 pezze).
L’organizzazione del ciclo produttivo dell’industria laniera a Firenze,
Padova ed in altre città italiane era molto simile, all’epoca, a quella delle
città fiamminghe:
« ... essa vi apparisce cioè come un insieme di tanti mestieri staccati che si
completano a vicenda, che sono ordinati nelle forme diverse dell’artigianato,
dell’industria domestica e del salariato, e che fanno capo tutti al “Lanifer” (il
Drapier fiammingo) che è soprattutto un mercante, il quale però esercita
anche qualche funzione industriale. La prima lavorazione della materia greggia, che in parte proviene dai pascoli dell’Appennino, in parte dalla Spagna e
dall’Inghilterra, si compie presso l’imprenditore stesso: i Vergheggiatori, gli
Scardassieri, i Pettinatori lavorano raccolti in rudimentali opifici ........ Ridotta
la lana a stami essa è distribuita tra i filatori ..........: sono per lo più donne
obbligate a non filare altra lana che quella affidata loro dal mercante. Ne’
molto diversa sembra la condizione dei tessitori che in molti casi non sono
nemmeno proprietari del telaio. Filatori e tessitori lavorano in casa propria,
con la sola differenza che i primi lavorano per lo più in campagna ...... mentre i tessitori vivono in città. Più indipendenti sono i lavatori, i follatori, i tintori, i cimatori e in genere tutti quegli artigiani che attendono all’ultima preparazione dei tessuti. L’impianto di una gualcheria, di una tintoria, di una bottega di raffinamento del panno richiede un capitale per quei tempi abbastanza rilevante, per cui assai spesso si formano delle società per il loro esercizio
e in alcune città, ......, la lavatura e la follatura dei panni, come spesso anche
l’acquisto delle materie prime, sono fatte in comune dall’arte stessa» [39].
53
G. Vitolo, affrontando le problematiche concernenti lo sviluppo dell’industria tessile in Italia e alla sua strutturazione in termini di organizzazione economica e del lavoro scrive:
«Nel corso del Due-Trecento, tuttavia, si erano prodotti notevoli cambiamenti nell’ambito dell’organizzazione produttiva. Essi erano riconducibili
alla progressiva riduzione del numero delle vecchie botteghe artigiane e
all’emergere della figura del mercante imprenditore, il quale controllava
l’intero ciclo produttivo attraverso l’acquisto della materia prima, la distribuzione del lavoro tra le piccole aziende in cui si svolgevano le varie fasi
della lavorazione, e la commercializzazione del prodotto finito. Si trattava,
in sostanza, di una prima forma di divisione del lavoro, che si differenziava
dalla moderna manifattura soprattutto perché il processo produttivo era frantumato in diverse sedi, alcune delle quali ubicate fuori città (alcuni storici
parlano di “manifattura decentrata”): l’elemento unificante era il mercanteimprenditore, il quale ritirava il prodotto semilavorato e lo passava alle
aziende impegnate nella fase successiva della lavorazione» [43].
Questo sistema, che in Inghilterra venne denominato “Domestic
system”, era caratterizzato da una totale mancanza di “tutela sindacale”.
«A essi (i lavoratori del ciclo tessile, n.d.A.), infatti, non era consentito di
unirsi in corporazioni, essendo completamente soggetti alla disciplina delle
arti, le quali..........tutelavano solo i proprietari delle aziende e non gli operai
salariati e per giunta avevano piena autonomia giurisdizionale nelle questioni concernenti il lavoro. I membri delle arti erano perciò anche giudici dei
loro dipendenti, oltre che, in quanto esponenti del ceto dominante, partecipi
alle scelte politiche che avevano un riflesso immediato sul mondo del lavoro.
Tra tutti i lavoratori coinvolti nella produzione di panni di lana, quelli che si
trovavano in condizioni migliori erano i “cimatori” (che costituirono una
loro associazione denominata “Arte dei Farsettai” n.d.A.), i quali provvedevano nelle loro botteghe alla rifinitura del prodotto e non avevano l’obbligo
di lavorare esclusivamente per l’Arte della lana, potendo operare anche per
conto di mercanti che compravano all’ingrosso dai lanaioli panni non rifiniti» [43].
54
e1) Il sorgere delle “arti”: le corporazioni dei lanieri
Le “Arti”, associazioni tra mercanti, tra artigiani e più in generale tra
lavoratori operanti nell’ambito di una stessa attività economico-produttiva (mestieri, professioni ecc.) si svilupparono in quasi tutta l’Europa a
partire dal secolo XI.
«… Dopo il mille si assistette in tutta Europa a una ….. ripresa dell’attività
produttiva e commerciale. Nelle città…. con l’incremento dei consumi, l’allargamento dei mercati e l’intensificazione dei traffici, l’aumento e l’arricchimento della produzione manifatturiera …. le diverse categorie professionali furono indotte ad organizzarsi per ridurre i margini di rischio, per programmare lo sviluppo e la difesa delle rispettive attività, per conseguire fini
mutualistici. Con il duecento le professioni ed i mestieri di maggior rilievo
appaiono ormai ordinati in forme associative volontarie, con caratteri e finalità consimili in tutti i centri urbani» [44]
Queste corporazioni, vere e proprie istituzioni di autogoverno dei più
importanti ceti produttivi e commerciali, controllarono e regolarono per
oltre seicento anni l’economia delle più importanti città d’Europa. In
Italia si chiamarono “Arti”, in Francia “Confrèries” e “Mètiers”, in
Inghilterra “Gilds” oppure “Guilds” (italianizzato in “Gilda”); nei Paesi
Bassi, “Ambachts” e “Neerings”; in Germania “Ämter”, “Innungen”,
“Zünften”, “Handwerke”; in Spagna “Gremios” [44].
I membri delle singole corporazioni eleggevano i vertici dell’organizzazione (denominati consoli, priori, rettori, ecc.) ai quali era demandato
il compito di fare rispettare agli iscritti le regole sancite negli statuti e di
amministrare i beni mobili e pecuniari della confraternita. Quasi tutte le
associazioni possedevano una sede più o meno prestigiosa a seconda
della loro ricchezza (casa dell’arte).
Ciascuna di esse si identificava attraverso simboli, stemmi ed emblemi.
Nella figura 38 è mostrata una pergamena del 1602 dove sono riprodotti
i simboli delle arti e dei mestieri della città di Orvieto (Umbria) [44].
Tra gli emblemi sono chiaramente individuabili quelli che riguardavano l’Arte della Lana, dei Tessitori, dei Linaioli e dei Tintori. La presenza
di queste Arti dimostra come all’epoca il settore produttivo e commerciale del tessile fosse di grande rilevanza nella città di Orvieto.
Nelle miniature riprodotte nelle figure 39 e 40 sono raffigurati rispettivamente il frontespizio del libro della Matricola che descrive l’origine del
Collegio dell’Arte della Lana di Padova (sec. XVII) e il simbolo della
55
Fig. 38: Pergamena del 1602 dove sono raffigurati i simboli delle arti e dei mestieri della città di
Orvieto (Umbria) [44].
56
Fig. 39: Miniatura raffigurante il frontespizio del libro-matricola concernente l’origine del
Collegio dell’arte della lana a Padova (1606); sono visibili lo stemma della città ed i simboli della
Dominante, Sant’Antonio, Patrono della città e San Bernardino, Patrono della Corporazione
(Padova, Biblioteca Civica) [Rif. 45].
57
Fig. 40: Miniatura raffigurante il simbolo della confraternita della lana della città di Padova [Rif.
45].
58
Fig. 41: Manoscritto membranaceo del 1559 dove sono raffigurati i marchi di fabbrica dei lanaioli della città di Fabriano [Rif. 46].
59
“Confraternita” dell’Arte della Lana della stessa città [45].
Nell’ambito dell’arte della lana i lanaioli più importanti si caratterizzavano per i loro “marchi di fabbrica” così come appare in un manoscritto
membranaceo del XVII secolo che riproduce i marchi di fabbrica dei
lanaioli della città di Fabriano (figura 41) [46].
Il sistema delle Arti e dei Mestieri ebbe il ruolo di garantire l’assoluta
eguaglianza dei membri appartenenti alla stessa corporazione in termini
di diritti e doveri contribuendo, in generale, alla stabilità dei mercati nelle
città e nelle regioni dove il potere politico era fortemente esercitato da un
regime aristocratico oppure monarchico (Francia, Napoli, Sicilia,
Catalogna, Aragona ed in molte città dell’Europa Centrale).
“…le arti pur proliferando più che altrove (erano quasi cento a Parigi al tramonto del sec. XIII), dovevano ottenere il riconoscimento da parte dei pubblici poteri che ne aggravavano gli statuti, ne affidavano lo stretto controllo
ad appositi funzionari … e le facevano strumenti della loro politica” [44].
Al contrario le corporazioni, svolsero anche un ruolo di natura politica
laddove si verificò che
“il potere centrale perse la sua forza e le sue prerogative e … si affermò il
comune retto da un regime oligarchico” [44].
E’ questo il caso di Firenze e di molte altre importanti città italiane,
fiamminghe e tedesche dove, tra il secolo XIV e XV le Arti partecipavano direttamente al governo delle cose pubbliche.
Le arti, nella città di Firenze vennero suddivise in “maggiori”, “medie”
e “minori”,
«a seconda del prestigio sociale e del loro peso economico e politico nella
vita cittadina» [47].
Nel medioevo l’industria tessile rappresentava per molte città italiane
(Genova, Firenze, Venezia, Milano, Lucca, Perugia, Napoli ed altre) la
fonte dalla quale scaturiva gran parte della ricchezza prodotta.
«L’abbigliamento occupava una posizione molto importante nell’economia
cittadina quanto in quella familiare. Nel budget-tipo della famiglia di un
salariato composta da quattro persone, le spese per il vestiario fra il 1280 e
il 1380, non arrivavano al 10% delle uscite, … le spese di un mercantecuoiaio perugino all’inizio del XV secolo, … per vesti e complementi dell’abbigliamento se ne andava una percentuale che oscillava … da un quarto
ad un sesto delle sue uscite annue» [48].
60
Un negozio di tessuti, con annessa sartoria (secolo sedicesimo) è raffigurato in una lunetta del castello di Issognè, in Val D’Aosta (tavola XXV)
[48]. La bottega che appare essere molto accorsata, con in bella mostra
stoffe di vario colore, abiti già confezionati, con addetti alla vendita e alla
produzione di abiti su misura, non ha nulla da invidiare ad una moderna
sartoria, a dimostrazione di quanto queste attività fossero, già all’epoca
tenute in grande considerazione.
L’importanza economica-sociale del settore tessile laniero nelle città
europee, relativamente al periodo medioevale e rinascimentale, il ruolo
determinante delle associazioni dell’Arte della lana e la loro influenza
politica venivano evidenziate dalla maestosità delle loro sedi. Un esempio emblematico è illustrato nella tavola XXVI dove sono riprodotte
alcune fotografie che mostrano la via ed il famoso ed elegante palazzo
dell’Arte della lana di Firenze. Questo edificio, dove risiedevano i venditori di panni e lana, fu riedificato e ripristinato dall’architetto Lusini e
inaugurato con solennità nel 1505 [49].
La rilevanza che ebbe a Firenze e in altre città italiane ed europee l’ar-
a)
b)
Fig. 42: a) Formella inserita alla base del Campanile del Duomo di Firenze rappresentante la
“Tessitura”. Opera del XIV secolo di Andrea Pisano.
b) Giotto, la Filatrice, Cappella degli Scrovegni (particolare) Padova [Rif. 50].
61
te della lana si evince tra l’altro da una ricchissima iconografia, della
quale alcuni esempi sono illustrati nelle figure 42, 43, 44 e 45.
In particolare nelle figura 42-a e 42-b sono riportate rispettivamente la
riproduzione di una formella inserita alla base del campanile del Duomo
di Firenze che rappresenta la tessitura, (opera di Andrea Pisano XIV secolo) e la raffigurazione della filatrice (Cappella degli Scrovegni (Padova)
di Giotto [50]. Una miniatura del XV secolo (conservata presso la
Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze) raffigurante un tessitore che
lavora al telaio è mostrata nella figura 43.
Riproduzioni dello stemma dell’Arte della lana della città di Firenze
sono riportate nella figura 44 e nella tavola XXVII. L’emblema riprodotto nella figura 44, opera di Giotto, è collocato nel campanile del Duomo
di Firenze, mentre quello raffigurato nelle tavola XXVII, di Luca Della
Robbia, è conservato presso il museo dell’opera del Duomo della stessa
città.
A Venezia la corporazione dei lanieri, chiamata la “Mariegola dei
Lanieri” venne formalmente costituita nel 1256. Nel 1268 l’arte della
lana figurava al sesto posto tra le sedici arti che avevano il privilegio di
partecipare alla cerimonia per l’elezione del Doge Lorenzo Tiepolo [51].
Una Mariegola dell’Arte della Lana di Venezia, conservata nel Civico
Museo Correr è mostrata nella figura 45.
Il simbolo del Collegio della mercanzia di Perugia, un grande “grifo”
che attanaglia una balla di lana, e la prima pagina dello statuto dell’arte
della lana di Firenze sono illustrati rispettivamente nella tavola XXVIII e
XXIX [40].
Molti statuti delle varie corporazioni dei mercanti e degli artigiani sono
stati tramandati a noi attraverso codici miniati, vere e proprie opere d’arte, spesso realizzati da monaci “artisti” che operavano in conventi, abbazie e monasteri.
«Le miniature degli statuti delle corporazioni sono l’equivalente delle immagini di cronaca: fotografano personaggi, strumenti, abiti, luoghi, caratteristiche di un mestiere. Gli statuti erano i libri sociali delle corporazioni: regolavano diritti e doveri di chi esercitava uno stesso mestiere. La corporazione
(detta anche Arte o Mestiere) era una via di mezzo tra i moderni ordini professionali e un’organizzazione sindacale. Anche se controllata dal comune
aveva un’influenza smisurata: fissava prezzi, salari, condizioni di lavoro,
impediva ai non iscritti e ai forestieri di esercitare la stessa attività. Un regime di monopolio che oggi attirerebbe i fulmini dell’antitrust» [52].
62
Fig. 43: Miniatura del XV secolo dove viene raffigurato un tessitore che lavora ad un telaio orizzontale (conservata presso la Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze).
I codici “miniati” prendevano il loro nome da “Minium” o “Minio” che
è un composto chimico naturale a base di ossidi di piombo. Il minio (una
polvere di colore rosso-scarlatto ad elevato peso specifico, insolubile in
acqua e nei solventi organici) per le sue caratteristiche chimico-fisiche,
veniva usato, come colore minerale rosso, dai miniaturisti per dipingere
Fig. 44: Stemma dell’Arte della lana (opera di
Giotto, Campanile del Duomo di Firenze).
Fig. 45: Mariegola dell’ “Arte della lana”
dove sono raffigurati operai lanieri
(Venezia, Civico Museo Correr).
63
libri e codici. Questi artisti alcuni dei quali famosissimi nel medioevo e
nel primo rinascimento sono entrati nella storia dell’arte: Lando di
Antonio, Jacopo Avanzi, Jacopo Di Paolo, Giovanni da Modena erano
alcuni dei più grandi miniaturisti dell’epoca.
La preparazione dei colori era una vera e propria operazione di alta chimica che prevedeva l’ “Arte” del mescolare le più svariate sostanze quali
ad esempio: polvere di lapislazzuli, albume di uovo, gomma arabica,
miele e zucchero, canfora e succo d’aglio, allume di rocca e perfino cerume d’orecchio [52].
I miniaturisti non sempre lavoravano in convento, spesso erano laici che
operavano in botteghe.
Una miniatura del 1411, conservata nel Museo Civico di Bologna, tratta
dalla “Matricola dell’Arte dei Drappieri”, che raffigura il mercato di Porta
Ravegnana a Bologna ricco di merci: stoffe, abiti confezionati, pelli conciate, copricapi, pentole, padelle ecc. è riprodotta nella tavola XXX-a. Nelle
tavole XXX b e c sono riportate rispettivamente una miniatura degli “Statuti
e Matricole dell’Arte dei Drappieri” che Giovanni Battista Cavalletto eseguì nel 1523 e una pagina miniata da Giovanni da Modena nel 1407 raffigurante il “Massero”, cioè il rappresentante della Corporazione dei
Drappieri nell’atto di consegnare ai Santi Agostino, Gerdomo e Petronio gli
statuti della società. Era consuetudine all’epoca abbellire i manoscritti con
le immagini dei santi protettori e con gli stemmi delle famiglie nobiliari più
in vista della città (vedasi figura 39 e 40) [52, 53].
Intorno alla seconda metà del XVI secolo, in Toscana e in altre regioni
italiane così come in molti paesi europei, si registrò la nascita e il consolidamento di importanti centri manifatturieri presso città più piccole. Tra
queste spiccava, per la qualità e la quantità dei prodotti in lana e per l’abilità dei commercianti a piazzare le merci anche all’estero, la città di
Prato. Pertanto l’industria laniera fiorentina doveva confrontarsi non solo
con l’aggressività commerciale delle industrie di altre città europee, tra le
quali molto agguerrite erano quelle inglesi, ma anche con l’accresciuta
capacità di centri di produzione e mercati minori della stessa regione.
Nello stesso tempo si verificava una accresciuta concorrenza di industrie
laniere locate in città della Lombardia e del Veneto, le quali furono fino
alla fine del secolo XV molto attive anche se la qualità della loro produzione non fu mai all’altezza di quella fiorentina.
Nelle città dove si organizzavano le più importanti fiere si vennero a
costituire delle vere e proprie colonie di mercanti con i loro magazzini e
sedi per l’esposizione e la vendita dei loro prodotti. Questi mercanti
64
erano membri “associati” o “agenti” di “Società Commerciali”, dette
anche “Compagnie di Commercio”, che si erano costituite ed avevano
sede legale nei loro paesi di origine.
In Italia, nel periodo che va dal XIII al XIV secolo, importanti compagnie di commercio erano attive a Siena, Firenze, Lucca, Pistoia e
Piacenza. Molte di queste società divennero ben presto anche “Società
Bancarie”, le quali rappresentarono un embrione di sistema bancario
europeo.
Quando, a partire dal secolo sedicesimo, si passò dall’Europa dei comuni e delle città a quella degli Stati Unitari, le Arti iniziarono a perdere
peso e potere politico. Cominciò per esse un processo di involuzione che
venne a coincidere con l’inizio delle prime forme di capitalismo imprenditoriale. Le Arti vennero definitivamente soppresse quando nel secolo
diciannovesimo si affermò, in Europa, una nuova economia basata sui
principi innovatori di una industria capitalistica che si apprestava a determinare e vivere quella che doveva passare alla storia come la rivoluzione industriale.
Le Arti furono definitivamente abolite, in Francia, dall’Assemblea
Costituente nel 1791, in altri paesi europei quali la Spagna, la Prussia,
altri Stati Tedeschi e le Fiandre all’inizio del diciannovesimo secolo; in
Gran Bretagna tra il 1814 e il 1835.
f) Lo sviluppo dell’industria della lana in Inghilterra
La conoscenza dell’evoluzione, nei secoli, dell’industria inglese della
lana è utile al fine di ricostruire un percorso storico-culturale-scientifico
e tecnologico dell’uso di queste fibre nel campo tessile-manifatturiero.
La storia dell’industria laniera inglese è stata esaurientemente delineata da G.W. Morris e L.S. Wood nella loro opera, pubblicata nel 1922, dal
titolo “The Golden Fleece; an Introdution to the Industrial History of
England” dove gli autori evidenziarono l’importanza che il settore del
tessile-laniero ebbe sullo sviluppo socio-economico dell’Inghilterra
determinando e condizionando eventi fondamentali sia di politica interna
che estera, che influenzarono la storia politica e commerciale anche di
altri paesi europei e non.
Le necessità produttive e commerciali dell’industria laniera costrinsero
«Englishmen’s attention to the sea, making them traders and explorers, first
in the Channel and Baltic; then, under the Tudors, in Russia, the
65
Mediterranean, and the Atlantic, till in the eighteenth century the spreading
and development of England’s trade was one of the chief considerations of
her statesmen» [54].
Intorno all’anno 1370 in Inghilterra si producevano già ben 44 differenti tipi di lana. A quell’epoca all’incirca 11,5 milioni di libbre (1 libbra
corrisponde a 453,6 g) di lana venivano esportate in Europa. Il valore di
questa esportazione era di circa 180.000 sterline con un saldo positivo
della bilancia dei pagamenti pari a 65.000 sterline (valori dell’epoca).
L’accresciuta importanza nell’export della lana e relativi prodotti semilavorati e finiti portò alla costituzione di società, associazioni o confraternite note come “Merchants of the staple” le quali gestivano le operazioni di compravendita e di esportazione ed importazione delle lane.
Sotto il regno di Edoardo III (1312-1377) l’Inghilterra sperimentò il
sistema delle città “Staple”, le quali, per editto reale, divenivano sedi di
associazioni di mercanti alle quali era concesso il diritto di acquistare ed
esportare lana greggia, semilavorati oppure prodotti finiti. Inoltre queste
città rappresentavano l’unico luogo dove mercanti stranieri erano autorizzati all’acquisto e/o alla vendita di mercanzie.
La prima città “Staple” fu Bruges nelle Fiandre, quindi questo privilegio fu concesso ad alcune altre città, Newcastle, York, Lincoln, Norwich,
Canterbury, Chichester, Winchester, Exter e Bristol, le quali erano capoluoghi di importanti distretti di produzione laniera. Successivamente il
privilegio di città “Staple” della lana fu riservato alla sola città di Calais
che rappresentò per molti anni, dal 1390 al 1558 la città “Staple” per
eccellenza [54].
Circa le prerogative delle “Staple Towns” Morris e Wood scrivevano:
«The King further commanded that the business done at the Staple towns
was to be under the control not of the town authorities but of the Major of
the Staple. In cases of dispute he was to give decisions according to “Law
Merchant” - a sort of international business code- and he had a jury of assessors on which foreign merchants could sit. The advantage of this was, .....,
while the foreigner could be sure that his point of view would get a hear. The
foreign merchant was encouraged in other ways : he was promised that he
be would not be charged an extortionate rent for his lodgings or held responsible for the debt of the brother alien. He was even allowed to sell retail if he
liked... ..... Certain bodies of aliens had obtained special privileges: the “Men
of Emperor” (German Merchant) had a standing in London since the days of
King Ethelred; the merchants of the Hansa, or League of Baltic and
66
Rhineland trading towns, had received special privileges from Henry II
(1133-1189) and had been allotted a special house in London, known as the
Steelyard. .......... But no king had gone so far as Edward III in allowing all
alliens to stay as long as they liked, live with whom they pleased, and engage in any trade, wholesale or retail» [54].
Questa grande apertura verso i mercanti stranieri era dettata principalmente da due ragioni. La prima di natura prettamente economico-commerciale legata al fatto che la lunga permanenza avrebbe si favorito l’importazione di merci estere, ma anche l’esportazione di lane e panni lana
inglesi verso i paesi europei e del Mediterraneo. La seconda, di ordine
politico-militare, era connessa al fatto di avere dalla parte inglese i mercanti stranieri durante le lunghe lotte che videro antagonisti l’Inghilterra
e la Francia.
Contemporaneamente allo svilupparsi di questa politica finalizzata a
favorire lo scambio e il commercio delle lane i governanti inglesi con
grande lungimiranza incoraggiarono l’immigrazione di tessitori, tintori
ed esperti nelle operazioni di finissaggio dei prodotti finiti in lana.
Un primo gruppo di tessitori fiamminghi si trasferì in Inghilterra al
seguito della principessa Matilde, al tempo di Guglielmo il Conquistatore
(1027-1087). Il re Enrico I (1068-1135) e Simon de Monfort, avendo compreso l’importanza di acquisire l’esperienza di esperti stranieri nella lavorazione tessile della lana, al fine di sviluppare una competitiva industria
laniera capace di soddisfare non solo la domanda interna ma anche di
esportare prodotti finiti verso il continente, promulgarono leggi finalizzate a facilitare l’immigrazione di lavoranti della lana dai paesi europei.
Le varie guerre che si succedettero nelle Fiandre favorirono l’immigrazione di rifugiati in Inghilterra. Alcuni gruppi si sistemarono nel Galles,
altri (nel 1337) a York. Il nucleo più numeroso di tessitori si stabilì nella
città di Norwich che ben presto divenne famosa nel mondo per le sue
“Worsted Cloth” (panni Worsted).
La lungimirante politica dei governanti inglesi nel favorire da una parte
gli scambi commerciali dei prodotti in lana, attraverso la costituzione di
città “Staple” e dall’altra l’immigrazione e la nascita di centri di lavorazione gestiti da immigrati e da rifugiati provenienti dal continente (ai
fiamminghi si erano aggiunti anche molti operai specializzati spagnoli
spinti a lasciare la Spagna dalla repressione della Santa Inquisizione)
ebbe come risultato finale quello di facilitare la nascita di una industria
manifatturiera della lana inglese che ben presto, a partire dalla metà del
67
XVI secolo, divenne la più importante del mondo.
L’industria laniera inglese non si limitò a produrre tessuti che per tradizione facevano parte della sua tipica gamma, ma sperimentò stoffe più
sofisticate e pregiate le quali ben presto si dimostrarono competitive con
quelle che venivano prodotte nel Continente ed in particolare nelle
Fiandre.
Tessuti innovativi “Ibridi” furono ottenuti tessendo insieme la lana con
altre fibre quali il lino; inoltre furono sviluppate nuove tecniche di tintura e di rifinitura dei prodotti finiti. L’insieme di queste innovazioni di processo e di prodotto portarono alla manifattura di tessuti più leggeri e fini,
con nuovi disegni e nuovi colori.
Come si evince dalla tabella 1, nella quale sono riportati i maggiori
centri manifatturieri, insieme alla tipologia delle principali stoffe prodotte, a partire dal XVII secolo praticamente l’industria laniera era presente
in quasi tutte le contee dell’Inghilterra.
Secondo Morris e Wood alla lista della tabella 1 andrebbero aggiunti il
Wiltshire con il suo importante centro manifatturiero di Bradford-onAvon e i distretti di Welshpool e Shrewsbury famosi all’epoca per le flanelle del Galles [54].
L’industria laniera Inglese, fino all’epoca della rivoluzione industriale,
così come quella di altri paesi europei, era strutturata sul territorio secondo il “Domestic System”:
«.....in which clothiers handed out wool to spinners, carders, and weavers to
work up in their own houses ......» [54].
L’organizzazione dell’industria della lana in Inghilterra, prima della
rivoluzione industriale, viene così descritta nel riferimento [39]:
«Dal Seicento in poi l’industria laniera si estende in tutte le regioni
dell’Inghilterra, avendo però le sue sedi principali nelle contee di York, di
Norfolk, e in tutto il sud-est fra la Manica e il canale di Bristol. In ciascuno
poi di questi distretti l’industria era disseminata in un grande numero di villaggi, di casali e di case sparse dove industria e agricoltura si esercitavano
contemporaneamente. In ognuna delle piccole e misere case dei contadini si
filava e si tesseva e tutta la famiglia partecipava in un modo o nell’altro
all’attività industriale. I tessuti greggi che uscivano da questi minuscoli opifici domestici, erano venduti sul mercato locale a mercanti imprenditori
(Clothiers Manufactures) i quali si occupavano poi della loro rifinitura.
Spesso anche la materia prima apparteneva al mercante ....... specialmente
dopo la fine del Seicento lana greggia, filati, telai e gualchiere erano quasi
68
sempre proprietà del mercante imprenditoriale, il quale assumeva così decisamente i caratteri economici dell’industria capitalistica. Ma l’industria
domestica rurale, esercitata per conto del mercante imprenditore, seguita ad
essere, fino agli ultimi anni del Settecento la forma di lavoro di gran lunga
prevalente, mentre le manifatture, in cui qualche centinaio di operai lavorino riuniti in un solo opificio, non sono in tutto questo periodo che un’eccezione».
Tabella 1
Distribuzione dell’industria laniera in Inghilterra (anno 1655)
Insieme al nome della regione, nella colonna a destra è riportato
anche il tipo principale di tessuto prodotto.
* Inizialmente il cotone venne utilizzato insieme alla lana e al lino.
Il sistema “domestico” dell’arte della lana è stato magistralmente raffigurato, nelle sue fasi essenziali (pettinatura, cardatura, filatura e tessitura), nell’illustrazione, riprodotta nella figura 46, contenuta nel manoscritto “De Claris Mulieribus” (Boccaccio - XIV secolo) conservato nella
British Library, Roy.20.c.v.).
69
Fig. 46: Fasi essenziali della lavorazione della lana (pettinatura, cardatura, filatura e tessitura),
secondo il “domestic system”. Illustrazione contenuta nel manoscritto “De Claris Mulieribus”
(Boccaccio - XIV secolo) conservato nella British Library, Roy.20.c.v.).
70
Come mostrato nella miniatura francese del XV secolo, la filatura della
lana veniva spesso eseguita dalle donne quando tutta la famiglia si raccoglieva la sera intorno al focolare (figura 47).
Il mercante imprenditore era di fatto un “Padrone assoluto” il cui dominio e potere sui lavoratori era avallato da leggi e disposizioni governative. Egli poteva entrare in ogni momento, controllare l’andamento della
lavorazione, lo stato di conservazione dei materiali, delle attrezzature e
dei telai.
Alcune tipiche lavorazioni “domestiche” della lana sono rappresentate
nelle antiche stampe inglesi riprodotte nelle figure 48 e 49.
Alla fine del ‘700 furono esportati dall’Inghilterra prodotti finiti in lana
per un valore pari a 18 milioni di sterline, contro i 3 milioni di sterline
corrispondenti all’esportazione di tessuti all’inizio del 1600. Quindi in
meno di duecento anni il valore dell’esportazione di panni lana, stoffe ed
altri prodotti a base di questa fibra era aumentato di circa sei volte.
Ricerche di storia dell’economia hanno dimostrato come i principali
flussi di esportazione fossero diretti proprio verso quei paesi europei
(Italia, Spagna, Paesi Bassi, Portogallo) che fino alla metà del secolo XVI
erano i più agguerriti concorrenti dell’industria laniera inglese.
Questa conclusione trova la sua logica spiegazione con il fatto che questi paesi, di grande tradizione marinara, erano dotati di importanti portimercantili e di flotte che venivano utilizzate per commerciare e vendere
in tutto il mondo le merci-lana importate dall’Inghilterra.
Gli scambi commerciali, che avvenivano tra l’Inghilterra e i grandi
paesi continentali così venivano descritti da Morris e Wood:
«Bristol and Southampton were the great ports for South-France, Spain and
Italy: to Southampton came the Great Venetian trading fleet twice a year,
with all the products of the east, to be exchanged for the fine dyed cloths of
the west of England. During the fifteenth century the export trade of England
steadily developed, and her merchants proved more than a match for the
Hanseatic League, .......; commercial agreements were made with Castile,
with Aragon and with Florence:......... to Bristol also came Merino from
Spain.........» [54].
L’industria laniera inglese ha avuto, quindi, a partire dal XIII secolo, un
ruolo di grande rilevanza in Europa e questo sia per la produzione di lana
che per la qualità dei panni e dei manufatti.
Già nel 1265 Venezia importava prodotti “Stanford D’Anglia” e a
Bologna il commercio dei panni di lana inglese aveva assunto un volume
71
Fig. 47: Miniatura francese del secolo XV tratta dal “Tacuinum Sanitatis” dove, secondo il
“domestic system”, la donna, moglie e madre, è attenta a filare la lana mentre l’intera famiglia è
raccolta intorno al focolare.
72
Fig. 48: La filatura “Domestica” della lana in un’antica stampa inglese del XV secolo [Rif.54].
Fig. 49: Operazioni relative alla lavorazione della lana secondo il “domestic system” in antiche
stampe inglesi (da sinistra a destra):
a) la filatura; b) la tessitura; c) la tintura [Rif. 54].
73
di affari tale da giustificare la costituzione di una corporazione di
“Mercatores Drapariae Angliae”. Analogamente analizzando i registri di
importazione della città di Firenze si ricava che la percentuale di pannilana provenienti dall’Inghilterra era superiore a quella delle Fiandre,
Francia, Catalogna e Linguadoca.
Come si evince dall’andamento delle curve riportate nella tavola
XXXI, intorno alla fine del quattordicesimo secolo, l’Inghilterra da principale esportatore di lana greggia diventò uno dei più importanti esportatori di panni lana a dimostrazione del fatto che in questo paese cominciava a svilupparsi una robusta industria tessile i cui prodotti finiti divennero in poco tempo competitivi con quelli di altri paesi europei continentali.
In particolare, dai dati riportati nella tavola XXXI si ricava che:
a) nel 1354 l’Inghilterra esportava 31.500 sacchi di lana, intorno all’anno 1500 l’esportazione era di circa 7.000 sacchi e nel 1550 di soli
5.000;
b) nel 1354 l’esportazione dei pannilana era pari a 5.000 pezze, tra il
1505 e il 1520 l’esportazione risultò essere di circa 85.000 pezze l’anno e dal 1536 al 1547 di 122.000 pezze l’anno [39].
Lo sviluppo dell’industria manifatturiera della lana, che si verificò in
Europa a partire dal tardo Medioevo, era da mettere in relazione, anche,
con un aumento della domanda, da parte dei consumatori, di stoffe, tappeti, indumenti ed abiti sempre più confortevoli e caratterizzati inoltre da
una alta qualità delle rifiniture e delle tinte (stabilità, bellezza e tonalità
dei colori).
Questa tendenza del mercato contribuì, tra l’altro, alla selezione di
razze di ovini con velli le cui fibre fossero capaci di prestazioni più elevate, sia in termini di proprietà di processo e ultime che in termini di
caratteristiche di comfort e di esteticità.
Seguendo questo percorso innovativo nel periodo che va dal 1400 al
1700 venne sviluppato in Spagna l’allevamento della pecora “Merino”.
In Spagna vi erano due tipi di pecore merino. Un primo di tipo “stanziale” caratteristico della regione di Segovia, veniva allevato nelle fattorie della zona. Il secondo era aggregato in grandi greggi “transumanti”
che, in autunno migravano dai pascoli delle montagne della Spagna settentrionale, dove avevano trascorso l’estate, verso le pianure meridionali
per passarvi l’inverno (vedasi prossimo paragrafo).
74
Fig. 50: Fotografia di una tipica pecora di razza merino (Australiana). Si noti la bellezza e la pienezza del vello le cui fibre di lana sono dotate di particolari caratteristiche di lavorabilità e di
comfort.
Le pecore merino costituirono per la Spagna una grande fonte di ricchezza.
G. E. Fussel [55-a] riporta che nel 1796 erano presenti sul territorio spagnolo circa 5 milioni di pecore merino.
Secondo alcuni storici dell’agricoltura le pecore merino non erano originarie della penisola iberica bensì importate, intorno alla metà del XIV
secolo, da alcune regioni del Nord-Africa. Successivamente le caratteristiche di questa razza furono ulteriormente migliorate dagli allevatori
della Castiglia. Pertanto ben presto le pecore merino divennero le migliori produttrici di lana del mondo [56].
Per molti anni il governo spagnolo, gelosamente, impedì l’esportazione
delle pecore merino e, considerando questo atto un reato contro lo stato,
lo puniva con l’esecuzione capitale [55]. Malgrado ciò l’allevamento
delle pecore Merino si diffuse ben presto in Europa; a partire dal secolo
XVII in Francia e dal secolo XVIII in paesi quali la Norvegia, la
Danimarca, la Germania, l’Ungheria e l’Inghilterra. Con la colonizzazio75
ne dell’Australia, del Sud Africa e del Nord America, le pecore merino
furono esportate anche in questi paesi non europei i quali divennero in
pochi decenni dei grandi produttori ed esportatori di lana pregiata che
risultò essere molto ricercata anche nei mercati europei. La fotografia di
un tipico esemplare di una pecora di razza merino, australiana, è riprodotta nella figura 50.
Nel periodo che va dal XIV al XVI secolo si assiste nelle Fiandre ad
una graduale sostituzione della lana inglese con quella prodotta in
Spagna. Bruges diventa il più importante centro di lavorazione e di commercializzazione di prodotti finiti in lana della regione. Particolarmente
attiva e all’avanguardia dal punto di vista tecnologico era all’epoca, nelle
Fiandre, l’industria della tintura e della finitura dei panni lana. Nella
tavola XXXII è riportata una veduta della via delle Lane (Rue Aux
Laines) di Bruges, così come appare oggi. Questa strada è una testimonianza dell’importanza che l’arte della lana e il suo commercio avevano
in quella città. Intorno al 1500 la città di Anversa assunse nei Paesi Bassi
una grande rilevanza come centro di scambi commerciali connessi all’industria laniera e tessile in generale [56].
76
g) Una caratteristica mediterranea dell’allevamento delle pecore:
la “transumanza” – Il sistema di dogane delle pecore e della
lana e le fiere internazionali nell’Italia centro-meridionale
e nella Castiglia Spagnola
La “transumanza” consisteva nel trasferimento periodico, perché legato a cicli stagionali, di greggi ed armenti da regioni interne e montuose a
regioni caratterizzate da ampie pianure e spesso vicine al mare. Queste
vere e proprie migrazioni stagionali di uomini e bestiame avvenivano
secondo itinerari ben definiti che si sviluppavano attraverso strade e sentieri, già tracciati, detti “tratturi”.
La transumanza, secondo M.A. Gorga,
«è la prima e la più prolungata attività economica socialmente organizzata
della storia; essa infatti affonda le sue radici nel Bronzo medio e finale e
accompagna l’uomo fino alle soglie del XX secolo, segnando il momento di
passaggio del nomadismo disarticolato delle origini ad una forma di gestione «ragionata» del territorio fondata sulla disciplina programmata di tempi e
spazi e su un’organizzazione culturale che, nonostante l’isolamento in cui si
svolgeva la vita del pastore, si è tramandata oralmente e non si è mai appannata» [58].
J.A. Marino, nel suo libro dal titolo “L’economia pastorale nel regno di
Napoli”, nell’introdurre il fenomeno della transumanza, particolarmente
presente in alcuni paesi del mediterraneo, ha scritto:
«Il rilievo topografico e le variazioni stagionali sembrano aver governato i
particolari di uno dei modelli migratori più spettacolari del Mediterraneo, la
transumanza. Il rigido inverno delle zone montuose più elevate e l’aridità
estiva, che riducevano la piana del Tavoliere (vasta area della Puglia di cui è
capoluogo la città di Foggia, n.d.a.) ad una specie di deserto, scoraggiavano
l’agricoltura di sussistenza. … Lo specifico calendario della migrazione corrispondeva al ciclo agricolo. Il movimento pastorale, dalle montagne estive
alle piane invernali, avveniva anticipando le prime piogge autunnali; in
Settembre o Ottobre,..... Al seccarsi dell’erba primaverile, alla fine di aprile
o maggio, e all’approssimarsi della mietitura che si doveva fare tra la fine di
giugno e l’inizio di luglio, le greggi si rimettevano in movimento» [56].
Il fenomeno della transumanza è stato celebrato dal grande poeta abruzzese Gabriele D’Annunzio in una famosa lirica dal titolo “I pastori”:
77
«Settembre, andiamo. E’ tempo di migrare.
Ora in terra d’Abruzzo i miei pastori
lascian gli stazzi e vanno verso il mare:
Scendono all’Adriatico selvaggio
che verde è come i pascoli dei monti.
..................................................
E vanno pel tratturo antico al piano,
quasi per un erbal fiume silente,
su le vestigia degli antichi padri.
..................................................
Il sole imbionda sì la viva lana
che quasi dalla sabbia divaria.»
Nell’Italia centro-meridionale ed in particolare in Abruzzo, Puglia,
Lucania e Calabria la transumanza veniva praticata già dagli antichi
popoli Sanniti. La città di Arpi (l’odierna Foggia) all’epoca della colonizzazione ellenica, VIII secolo a.C., era già un importante centro di
scambi di prodotti sia di origine agricola che pastorale [56].
Della lana di Puglia e della razza di pecora, che egli definiva “Graeca”,
il grande scrittore romano, Plinio il Vecchio (nato a Como nel ‘23 e morto
tragicamente nel ’79 d.C. a Stabiae, oggi denominata Castellammare,
durante l’eruzione del Vesuvio che distrusse Pompei e le altre città limitrofe), nella sua opera “Naturalis Historia”, 8.73, scriveva:
«Lana autem lautatissima apulia et quae in Italia graeci pecoris appellatur,
alibi italica».
Ci sono chiare testimonianze attraverso le quali è possibile concludere
che già nella prima età romana la transumanza, in Puglia, fosse soggetta a
leggi e a norme. Marco Terenzio Varrone nel suo trattato di scienze agraria “De re rustica” (la fonte letteraria più antica ed attendibile sul sistema
romano di transumanza), supporta autorevolmente questa ipotesi.
Da questo famoso trattato emerge, infatti, che i pastori erano tenuti a
pagare dei pedaggi o tasse per portare le loro greggi dai monti alle pianure pugliesi:
«Itaque greces ovium longe abigintur ex Apulia in Samnium aestivatum,
atque ad pubblicanum profitentur ne, si inscriptum pecus paverint, lege censoria committant».
Nelle regioni centro-meridionali italiane, la transumanza assunse una
rilevanza di natura economico-sociale allorquando i romani dopo aver
78
unificato, non solo politicamente ma anche da un punto di vista amministrativo l’Italia, emanarono precise leggi per controllarla e regolamentarla.
La transumanza in età romana e l’organizzazione della rete dei tratturi
è stata descritta da M.A. Gorga nel suo interessante ed originale saggio
[58]. Alcuni passi sono qui di seguito testualmente riportati:
«I Romani, utilizzando vecchi tracciati di origine italica o addirittura preistorica, realizzarono un sistema viario articolato in grandi arterie di fondo valle
(le vie consolari) e in percorsi di montagna. Al Sud i tratturi furono le principali vie di comunicazioni utili per il transito del bestiame e degli uomini .......
I tratturi detti in latino calles e poi nei codici di Teodosio e Giustiniano tractoria (da cui tratturo) furono ben segnati e misurati ed intorno ad essi ruotò
tutta l’industria armentizia, il commercio della lana e varie forme di artigianato collegate alla transumanza. Il fenomeno interessò quattro regioni
dell’Italia Meridionale, Abruzzo, Molise, Campania e Puglia e fra i maggiori
tratturi di età romana ricordiamo il tratturo Aquila-Foggia (lungo 243 km) …
il Pescasseroli-Candela (211 km) … il Celano-Foggia (207 km) che attraversava il Molise fino all’Adriatico, il Castel di Sangro-Lucera (127 km) …
La lex agraria epigrafica regolamentò fin dal III sec. il sistema dei percorsi
(calles e viae pubblicae), delle locazioni, delle soste e dei riposi e fu stabilita una tassa (scriptura) da pagare per effettuare il diritto di pascolo nelle aree
pubbliche, come si legge nella Lex Thoria del III a.C. …» [58].
Fig. 51: Tratturi e riposi laterali della “Dogana di Foggia”. Carta dei tratturi, tratturelli, bracci e
riposi [Rif. 56].
79
Fin dall’antichità classica attraverso la transumanza, “greggi” e
“morre” venivano spostate dalle regioni dell’Abruzzo, del Molise, della
Basilicata e della Calabria verso la vasta ed accogliente pianura pugliese.
Queste migrazioni stagionali, di norma, iniziavano a settembre, salvo
eventi eccezionali di natura meteorologica, grandi freddi e gelate premature sulle montagne, oppure temperature molto calde e siccità nella pianura che potevano anticipare oppure ritardare la partenza delle greggi.
La migrazione durava in media dieci o più giorni per le greggi che provenivano dall’alto Abruzzo; relativamente minore era il tempo necessario per la transumanza dalla Basilicata [59].
I tratturi erano, di fatto, antiche vie di collegamento con la Puglia ed in
particolare con il grande centro di raccolta delle greggi che si venne man
mano a costituire intorno alla città di Foggia, che divenne sede della
famosa ed importante “Regia Dogana delle Pecore di Puglia” (14471806) [60].
Le varie direttrici della transumanza che portavano verso il tavoliere
pugliese sono delineate nella figura 51 [56].
A seguito della caduta dell’impero romano e delle invasioni barbariche,
come già scritto, si verificò, nel Sud, una gravissima crisi dell’ovicoltura
e quindi anche la transumanza, come fenomeno di massa, subì una grave
contrazione.
La crisi della transumanza e con essa di tutta l’industria laniera si protrasse, principalmente a causa dell’assenza di valide ed affidabili strutture politiche, sociali ed economiche, per quasi tutto il medioevo.
«I tratturi si ricoprivano di selve e gli spostamenti stagionali delle greggi
furono fatti in un raggio territoriale più breve, riprendendo la pratica della
transumanza verticale (consistente nel trasferimento del bestiame dalla pianura ai pascoli di alta quota)» [58].
Una timida ripresa della transumanza orizzontale si verificò nell’Italia
centro-meridionale, in concomitanza con il consolidamento del
“Feudalesimo ecclesiastico” e in particolare con lo sviluppo degli ordini
monastici dei Benedettini e dei Cistercensi che fondarono grandi Abazie,
mostrando capacità imprenditoriali collegate allo sviluppo di attività produttive nel settore della pastorizia. Secondo il Gorga è a partire da questo
periodo che comincia ad emergere anche nelle regioni del sud la figura
del mercante imprenditore che commercia la lana e con essa il panno di
lana [58].
L’Aquila e Foggia divennero ben presto le capitali della pastorizia tran80
sumante, in esse mercanti fiorentini, lombardi e anche francesi si incontravano con i proprietari delle greggi, i primi capitalisti dell’industria
armentizia, per la compravendita della lana e di altre merci.
Bisognerà comunque attendere la dominazione Normanna e quindi la
venuta degli Svevi e degli Aragonesi per assistere ad una vera e durevole ripresa dell’allevamento delle pecore in Abruzzo e in Puglia ed in tutta
l’Italia meridionale e quindi ad un ritorno massiccio della migrazione dei
greggi dalle terre dell’Abruzzo e della Basilicata alle Puglie.
Il 26 Febbraio 1443 Alfonso V d’Aragona entrava solennemente in
Napoli diventandone re (dal 1416 era già re d’Aragona e quindi anche di
Sicilia che dal 1409 si era unita all’Aragona). Sotto il regno di Alfonso,
che durerà fino alla sua morte, che avvenne nel 1458, si ricostituì l’unità
politica di tutta l’Italia meridionale. In età aragonese il fenomeno della
transumanza orizzontale acquistò una grande rilevanza socio-economica,
trasformandosi da una forma di economia di sussistenza ad un vero e proprio sistema integrato di tipo pre-capitalistico-industriale [43].
E’ in questo contesto che Alfonso d’Aragona destinò l’enorme distesa
del Tavoliere di Puglia (circa 1.400.000 miglia quadrati pari a 362.000
ettari) al pascolo trasformandolo in latifondo coltivatorio, promulgando,
inoltre, nel 1447, lo Statuto di fondazione della Dogana delle Pecore di
Foggia (De Jurisdictiones Regiae Dohanae Menae Pecundum Apuliae)
[56, 59].
«Alfonso di Aragona riorganizzò i transiti tratturali in modo rigoroso con
una legislazione specifica, “la Dogana per la Mena delle pecore del 1447”
sistemò il sistema delle locazioni e dei riposi misurò l’ampiezza dei tratturi
(11 m. e 63 cm.) fissò la fida, fece importare dalla Spagna pecore di razza
merinos per migliorare la qualità del panno, proibì l’acquisto di lana prodotta fuori del territorio statale, favorì l’apertura di industrie manifatturiere di
Spagnoli, Genovesi, Milanesi, Bolognesi e Fiorentini nelle regioni meridionali, creò un corpo di doganieri fra cui il Doganiere capo che diventò la più
alta magistratura del regno di Napoli: a lui spettarono i compiti, in un foro
speciale istituito appositamente, di dirimere le questioni legate ai transiti
delle greggi, e al commercio della lana. … intorno al commercio e alla lavorazione della lana ruotarono varie forme di artigianato ma fu in particolare il
sistema delle fiere che pose la transumanza meridionale al centro di scambi
di portata europea: fra le fiere più importanti già esistenti in età angioina,
ricordiamo quella di Sulmona e di Lanciano, l’Emporium Frentanorum dei
Romani, vicino al mare e quindi ai traffici dell’Adriatico, ma soprattutto
quella di Foggia che durava 6 giorni e si svolgeva non oltre il 18 Maggio:
81
essa rappresentava un momento di incontro importantissimo per gli industriali lanieri di mezza Europa che giungevano a Foggia per acquistare e
scambiare i vari tipi di lana e si concludeva con la famosa festa della
Madonna dell’Incoronata» [58].
Nell’Italia centrale e in particolare nello Stato Pontificio era già stata
istituita una Dogana che regolava, in quelle zone, la migrazione pastorizia di tipo stagionale. Infatti parte delle greggi abruzzesi usavano, fin dai
tempi remoti, transumare verso pascoli invernali in una ampia regione
dell’attuale Lazio che si estendeva dalle porte di Roma ai confini dell’odierna Toscana. Questo sistema di migrazione pastorale fu regolata dal
Pontefice Bonifacio IX nel 1402 con l’istituzione della “Dogana dei
Pascoli del Patrimonio di San Pietro in Tuscia”.
«Nel secolo XVI l’industria ovina dello stato Pontificio forniva carne e formaggio a Roma e lana tanto ai mercanti toscani quanto ad una industria tessile locale in via di formazione» [56].
Comunque la dogana romana, in relazione anche al fatto che l’entità dei
pascoli era relativamente molto più limitata, verso la metà del XV secolo registrava introiti che erano solamente un decimo di quella di Foggia,
la quale rimase per secoli la più importante d’Italia per cifra di affari e
per numero di ovini interessati alla transumanza e per quantità di mercelana venduta e/o scambiata.
Alfonso d’Aragona nell’istituire la Reggia Dogana delle Pecore di
Foggia, ebbe come punto di riferimento la famosa “Mesta Castigliana”
attraverso la quale fu regolamentato il sistema di transumanza spagnolo
che, come in Italia, era attivo nella penisola Iberica e in particolare nella
Castilla, già in epoca preromana.
Un grande impulso alla pastorizia transumante si ebbe in Spagna quando con la cacciata degli Arabi, le grandi pianure dell’Estemadura e della
Mancia si resero disponibili per lo svernamento delle greggi che provenivano dalle regioni montuose della Galizia, delle Asturie, del Leon e
della Vecchia Castiglia figura 52 [61].
Secondo alcuni storici, tra i quali anche il Marino, il primo statuto
documentato della Mesta Castigliana risale al 1273.
La Castiglia e l’Italia meridionale divennero, attraverso le varie Dogane
e Meste, specialmente nei secoli XIV e XV, i maggiori fornitori di lana
greggia dell’Europa. Le ragioni principali di questo primato sono da mettere in relazione sia ad eventi internazionali che interni. In particolare
82
Fig. 52: Le principali
direttrici della transumanza in Spagna [Rif. 61].
sembrano rilevanti le seguenti circostanze:
a) una maggiore domanda di stoffe di lana pregiata da parte dell’industria manifatturiera interna inglese che riorientò la produzione verso lane di più alta qualità (questo comportò una
forte contrazione dell’esportazione di lana greggia verso
l’Europa e pertanto l’Inghilterra cessò di essere la principale
fonte di lana greggia per i paesi europei);
b) un aumento nel prezzo della lana greggia inglese ed una contemporanea riduzione della produzione a seguito della guerra
dei Cent’anni.
Gli eventi di cui sopra ebbero l’effetto di fare lievitare la domanda di
lana greggia e quindi lo sviluppo di mercati alternativi a quello inglese.
Le caratteristiche e le peculiarità della fiera di Foggia, che si teneva
sotto la giurisdizione della Regia Dogana delle Pecore, sono così descritte da J. Marino:
«La fiera di Foggia divenne ben presto la più grande fiera del Regno specializzata nella vendita di lana e di animali. Questa sua preminenza nella ven83
dita di materie prime era complementare a quella delle altre tre fiere, nelle
quali venivano venduti invece prodotti finiti. Aversa era vicino a Napoli,
mentre Lanciano e Salerno erano i punti nodali in cui centri lanieri abruzzesi e del principato Citra vendevano i loro tessuti. A Foggia in cambio di prodotti della pastorizia i mercanti stranieri vendevano beni manifatturati per il
consumo urbano, beni di lusso per i grandi proprietari terrieri e per i funzionari dello stato e beni d’uso comune come gli utensili e le armi da fuoco per
pastori e contadini» [56].
La fiera di Foggia rappresentò per secoli uno dei più grandi mercati di
lana greggia in tutta l’arco del Mediterraneo. Si stima che nel periodo che
va dal 1667 al 1791 la media complessiva di lana venduta fosse di circa
80.440 rubbi (un rubbio corrispondeva a 29 libbre e quindi a 8,01 kg).
Questa quantità corrisponde grosso modo al prodotto laniero di un milione di pecore. In alcuni anni, secondo quanto riportato da F. N. De
Dominicis, furono venduti fino a 130.000 rubbi di lana, equivalenti a più
di 1.600.000 capi di pecore [62].
Una interessante analisi circa la quantità di lana prodotta nella dogana
di Foggia, nella seconda metà del seicento, è stata sviluppata da P. De
Cicco [63]. Da questo studio si ricava che nei quinquenni 1666-1670 e
1695-1699 furono “infondacate” quantità di lana rispettivamente pari a
298.828 e 394.009 rubbi (la lana prima della vendita veniva immagazzinata in appositi locali definiti “Fondachi”, la lana a seguito di questa operazione era denominata lana di “Infondacatura”; il volume di affari conseguente alla lana venduta era misurato normalmente dalla quantità di
questa merce che usciva dai magazzini e che era denominata “lana di
Sfondacatura”).
Venivano venduti tipi di lana, differenti in termini di qualità e colore; la
lana bianca detta “Maggiorina”, con il 71%, rappresentava il prodotto
maggiormente richiesto.
La fiera ebbe una grande rilevanza nazionale; infatti mercanti provenienti dalle grandi aree manifatturiere dell’Italia del nord erano soliti
scendere in Puglia per acquistare lane che venivano filate e tessute nei
grandi stabilimenti che si trovano vicino a Milano, Brescia, Bergamo e
Venezia [56].
Particolarmente rilevante era la quota di lana acquistata dai mercanti
veneziani, direttamente oppure indirettamente attraverso mercanti napoletani che imbarcavano la merce e la trasportavano via mare a Venezia
dove in cambio acquistavano e importavano tessuti in lana veneziani
84
oppure durante il tragitto merci più economiche nelle Marche e
nell’Umbria. Un documento della dogana di Foggia del 1679 definiva
Venezia, Firenze, Cerreto e Piedimonte D’Alife
«come le città più importanti tra quelle che facevano contratti nella fiera
Foggiana» [56].
Circa la metà della produzione di lana greggia che veniva infondacata
a Foggia era acquistata e quindi lavorata presso importanti centri manifatturieri situati tra le città di Napoli e Salerno. Questi dati dimostrano
che in Campania si erano consolidati importanti siti di lavorazione della
lana che producevano un volume di panni lana tale da soddisfare la
domanda che emergeva dalle regioni centro-meridionali del Regno.
Pur non volendo entrare nei dettagli di una analisi circa gli aspetti economici, sociali, politici e culturali che determinarono le ragioni che portarono alla regolamentazione del sistema di transumanza in Italia e in
Spagna con la istituzionalizzazione della Mesta Castigliana e della Regia
Dogana delle Pecore di Foggia, è indubbio che queste iniziative, in un
certo periodo storico che va dal medioevo all’età moderna, hanno avuto
un importante ruolo nello sviluppo di una economia pastorale che portò
la Castiglia ed il Regno di Napoli a competere, relativamente al mercato
europeo, con i maggiori produttori di lana greggia.
Per quanto riguarda in particolare il regno di Napoli non è azzardato
affermare che il suo prodotto interno lordo era fortemente basato sulla
produzione ed esportazione della lana.
La fotografia del Palazzo della dogana delle pecore di Foggia è riprodotta nella tavola XXXIII; con la sua bellezza, maestosità e centralità
attesta la grande rilevanza che questa istituzione ebbe in un passato anche
non molto lontano da noi.
La destinazione delle pianure pugliesi del Tavoliere e la dogana delle
pecore di Foggia vennero definitivamente abolite attraverso tre provvedimenti di legge emanati fra il 1865 e il 1871 dallo Stato Unitario Italiano
[59].
Circa le ragioni che portarono all’abolizione del sistema di transumanza, così come era stato regolato dalle normative aragonesi, A. M. di Nola
ebbe a scrivere:
«…Tra gli elementi comportanti il disfacimento della società pastorale di
transumanza è da porre primariamente la tenuità dei redditi e dei profitti, che
si accompagnavano al basso tenore di vita in condizioni di estrema durezza.
Per un altro lato le nuove tecniche di allevamento e la disponibilità di man85
gimi avevano inficiato alla base il ricorso al pascolo erbatico, determinando
presto, in alcune zone, il sorgere di una pastorizia a sistema stazionario. Il
nuovo tipo di pecora “stazionaria” o “pagliarola” era una specie, spesso
meticciata e incrociata, che era adattabile al regime stallino invernale e che,
nell’inverno, si alimentava del cosiddetto “pagliaio”, un alimento di erbe
secche, di paglie e di residui vari. … D’altra parte sulla frammentazione
della società pastorale e sull’abbandono dei tratturi ha operato l’utilizzazione dei treni-bestiame che vennero ampiamente a diffondersi, per la creazione delle grandi linee ferroviarie, dopo l’Unità. Gli armenti dell’Alto
Aquilano, che un tempo giungevano nel Tavoliere in non meno di due settimane di tratturo, ed a partir dalle quali, nel novembre l’esodo durava sovente un mese, oggi viaggiano in ferrovia, comodamente, velocemente; e pervengono al loro destino in ventiquattrore» [59].
A testimonianza del declino del sistema transumante, il di Nola riporta
le seguenti cifre:
«alla fine del Medioevo accedevano al Tavoliere circa 4.500.000 ovini che
nel 1938 erano ridotti a 600/700.000 capi» [59].
In relazione a queste cifre vedasi anche la tabella inserita nella figura 51.
Con l’avanzare dell’industrializzazione la pastorizia italiana entrò in
una crisi ormai irreversibile fino alla sua quasi totale scomparsa, almeno
per quanto attiene alla sua forma originaria e originale di pastorizia transumante che cedette il posto ad un altro tipo di allevamento che è quello
stanziale (tavola XXXIV).
La pastorizia, i pastori, i pascoli, la transumanza e tutto l’insieme delle
azioni connesse all’allevamento delle pecore per il loro enorme impatto
sociale economico e culturale hanno da sempre suscitato l’interesse di
artisti di ogni tipo, pittori, scultori, scrittori, poeti ecc., che attraverso le
loro opere hanno voluto rappresentare questo mondo che per tanti e tanti
secoli si identificò con una delle principali attività dell’uomo.
E. D’Orazio (opera citata nel rif. 59), così descrive il ritorno ai monti
dei pastori e degli armenti dopo avere svernato nelle pianure della Puglia
e viceversa la loro partenza dai villaggi di montagna verso il Tavoliere:
«Quando gli armenti in maggio-giugno tornavano alle loro sedi di villaggio,
il locato-proprietario andava ad incontrare le morre e assisteva alla loro sfilata, ricevendo l’omaggio rituale e formale del massaro e dei butteri. A sera
la “patrona”, …, distribuiva abbondantemente latte, cagliata, pane, ricotta e
talvolta formaggio.
86
La partenza delle unità armentizie, greggi o morre, avveniva dopo le prime
piogge d’agosto ed era, nel costume, preannunziata dall’apparire di fiori particolari, i colchici, che nel dialetto pastorale, erano chiamati “caccia-pastori”. La montagna abruzzese, frattanto, era diventata inospitale, a causa del
freddo e delle nevi, per le pecore, soprattutto per gli animali giovani (ciavarre) e per gli animali pregni. Il giorno della partenza detta “scasata”, era
preceduto da una giornata di vacanza, la “crusta”… Le mandrie discendevano dalla montagna fino al villaggio e sostavano in uno spazio ampio, in un
prato o in una largura, per una notte. … Prima della notte il padrone, con
l’aiuto del massaro e di altro personale dell’azienda, faceva la “conta”, registrando gli animali che passavano attraverso il “guado”, uno spazio libero
per il quale le pecore potevano avanzare, prima delle capre, delle giumente,
delle mule e degli asini. Il mattino seguente le morre, secondo un ordine di
divisione preciso, lasciavano il villaggio e entravano nell’itinerario migratorio per raggiungere il Tavoliere» .
Lungo la rete viaria dei tratturi, specialmente all’incrocio con i bracci
laterali o con altre rotte transumanti sorsero santuari, luoghi di culto, strut-
Fig. 53: Lungo le rotte transumanti erano
stati allestiti abbeveratoi per le greggi e i
pastori. Un esempio di questi abbeveratoi è
riprodotto in figura [Rif.58].
87
Fig. 54: Fotografie raffiguranti il
guado del fiume Sele da parte di
una morra di pecore. Questi passaggi venivano sfruttati anche per
il lavaggio dei velli [Rif. 58].
ture di difesa e di accoglienza. Tra queste non potevano mancare grandi
abbeveratoi di cui un tipico esempio è illustrato nella figura 53 [58, 62].
Spesso durante la transumanza le greggi e le morre dovevano guadare,
in assenza di ponti, fiumi e ruscelli. Questi passaggi venivano anche
sfruttati per il lavaggio dei velli. Le fotografie della figura 53, scattate in
epoca relativamente recente, dimostrano come queste consuetudini siano
ancora seguite nella piana del Sele (provincia di Salerno) e in particolare
nella pianura di Battipaglia [58].
Una recente fotografia di una “morra” di pecore, guidata dai famosi
cani pastori abruzzesi, mentre si sposta lungo una delle antiche vie della
transumanza è riportata nella tavola XXXV [65].
In molte regioni del Mediterraneo, ricche di uliveti, veniva sfruttata la
transumanza per la concimazione naturale e biologica delle piante. Dopo
la raccolta delle ulive le morre venivano fatte permanere durante la notte
sotto le piante in maniera tale da concentrare i loro escrementi alla loro
base. Successivamente, in primavera avveniva la zappatura che provoca88
va l’interramento del letame contribuendo alla concimazione eco-biologica degli uliveti con risparmio di concimi chimici.
Nella tavola XXXVI è appunto riportata la fotografia, risalente alla fine
della seconda guerra mondiale, che mostra come morre e greggi, venivano fatti pascolare all’ombra degli ulivi pugliesi [66].
G. Sebesta nel descrivere i costumi di Scanno, antico paese
dell’Abruzzo, dove si è sempre praticato l’allevamento delle pecore, a
proposito della transumanza e dei tratturi ha scritto:
«La pastorizia ha bisogno di grandi spazi aperti, di luoghi di partenza e di
ritorno per le ininterrotte transumanze, di pascoli che non disturbino altri
insediamenti ed uomini capaci, perché un vero esercito di pecore avanza e
bruca l’erba, le piante che trova e sconvolge lo stesso terreno. Per questo il
pastore ha messo in atto quelle larghe piste (tratturi) fra pascolo e pascolo,
che non danneggino alcuno, così estesi da essere percorsi in lunghi periodi
di tempo dalla montagna verso la pianura, quando avanza l’inverno ed a
ritroso quando l’estate brucia sul piano» [67].
Fig. 55: Un gregge di pecore fotografato durante la transumanza
(Scanno-Abruzzo) [Rif. 67].
Fig. 56: Gregge di pecore che
riposa al tramonto dopo una giornata di migrazione (ScannoAbruzzo) [Rif.67].
89
Due bellissime fotografie che testimoniano momenti della transumanza
di greggi e morre di pecore sono riportate nelle figure 55 e 56.
Le riproduzioni di alcune raffigurazioni pittoriche dell’800 e del 900
riportate nelle tavole XXXVII, XXXVIII, XXXIX, XL e nelle figure 57,
e 58 rappresentano esempi di una importante produzione iconografica
Fig. 57: Dipinto di G. De Nittis dove viene raffigurato un tipico “Tratturo”
pugliese. I tratturi erano antichissimi sentieri attraverso cui avveniva la
transumanza dei greggi [Rif. 71].
Fig. 58: Dipinto di F. Rossano “La strada del Vesuvio”. Viene raffigurato un pastore che porta al
pascolo il suo gregge. E’ facile immaginare che questa scena fosse comune all’epoca di Pompei
romana [Rif. 71].
90
che ha riguardato tutte le fasi concernenti il mondo della pastorizia a
testimonianza di come questa attività rappresentasse un aspetto rilevante
della società, e questo fino ad anni non tanto lontani.
I tratturi, patrimonio demaniale, rappresentano ormai solo una testimonianza storica di grande rilevanza di un tipo di vita sociale, religiosa, economica che deve essere comunque salvaguardata per il suo valore storico-culturale di una grande epopea quale è stata la “Civiltà del Tratturo”
e della “Transumanza”.
91
TAVOLA I
Tavola I: Una veduta della steppa dell’Ucraina, la regione situata a Nord del mar Nero che era
abitata dalle tribù nomadi degli Sciti. Sullo sfondo sono riconoscibili i profili di alcuni Kurgan
[Rif. 10].
92
TAVOLA II
Tavola II: Fotografia del tappeto di Pazyryk, così chiamato dal luogo in cui fu rinvenuto dagli
archeologi, russi, Rudenko e Grianov in una necropoli all’interno di una tomba a “Kurgan” in una
vallata dei monti Altaj (confine tra Siberia e Mongolia). Il tappeto che risale al 500 a.C., circa, è
esposto al Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo (Russia) [Rif. 9].
93
TAVOLA III
Tavola III: Tessuti in lana, risalenti alla metà del primo millennio a.C., ritrovati a Pazyryk nei
monti Altaj. I reperti sono conservati nel Museo Hermitage di Leningrado [Rif. 3].
a) (sinistra): gualdrappa policroma di origine Iraniana.
b) (destra): arazzo con spirali policrome, tessuto secondo la tecnica “slit-tapestry”, cucito su strisce di lana in tweed di colore rosso.
TAVOLA IV
Tavola IV: Riproduzione
fotografica di un frammento di
drappo in feltro ritrovato in un
Kurgan localizzato a Pazyryk
nelle montagne dell’Altaj.
Attualmente questo reperto di
grande rilevanza storico culturale è conservato presso il
Museo dell’Hermitage di San
Pietroburgo, Russia [Rif. 10].
94
TAVOLA V
Tavola V: Nel processo di cardatura della lana gli antichi romani usavano le teste del cardo selvatico (Carduus) (a sinistra) e del Cardone (Dipsacus fullonum o cardo del fullatore) (a destra)
[Rif. 16-a, 20].
95
TAVOLA VI
Tavola VI: Plastico della “Fullonica di Stephanus” (scala 1:25). Roma, Museo della civiltà
romana [Rif. 21].
96
TAVOLA VII
Tavola VII: Uno dei locali della “Fullonica di Stephanus” in Via dell’Abbondanza (Pompei)
così come ritrovato a seguito degli scavi [Rif. 23].
97
TAVOLA VIII
a)
b)
Tavola VIII: Affreschi presenti sulla facciata centrale del pilastro dei “Fullones” recuperato
dalla fullonica di Veranius di via Mercurio (antica Pompei). L’intero pilastro è conservato nel
Museo Archeologico Nazionale di Napoli. In essi sono raffigurate alcune attività concernenti la
lavorazione dei tessuti in lana (vedasi testo) [Riff. 21, 25].
98
TAVOLA IX
a)
b)
Tavola IX: Affreschi presenti sulla
facciata destra del pilastro dei
“Fullones”:
a) una pressa usata per stirare i tessuti in lana (facciata superiore destra);
b) donne che appendono panni-lana
ad asciugare (affresco sulla facciata
inferiore sinistra) [Rif. 21, 25].
99
TAVOLA X
Tavola X: Via dell’Abbondanza a Pompei così come appare oggi dopo gli scavi di
recupero. In questa strada era locata una delle officine che lavoravano la lana per realizzare stoffe di feltro e di altro tipo [Rif. 26].
TAVOLA XI
Tavola XI: Facciata affrescata di un’officina e bottega di feltrai ritrovata in Via dell’
Abbondanza a Pompei [Rif. 27].
100
TAVOLA XII
Tavola XII: Riproduzione fotografica dell’affresco ritrovato a Pompei
sulla facciata di un pilastro di un’officina dove sono descritti i vari stadi
della lavorazione del feltro-lana [Rif.
27].
TAVOLA XIII
Tavola XIII: Particolare dell’affresco della tavola XII dal quale si evince l’attività di alcuni
lavoranti che provvedono alla pettinatura e cardatura della lana [Rif. 27].
101
TAVOLA XIV
Tavola XIV: Riproduzione fotografica di un particolare dell’affresco illustrato in
tavola XII, che raffigura i feltrai (Lanarii Coactiliarii) al lavoro. Le stoffe sono lavorate in due grandi bacinelle situate a sinistra e a destra del fornello dove avveniva la
coagulazione dei residui della lana [Rif. 27].
TAVOLA XV
Tavola XV: Riproduzione di un particolare in basso a sinistra dell’affresco del pilastro della tavola XII, che raffigura il proprietario dell’officina (a destra della tavola)
nell’atto di mostrare una stoffa prodotta nell’officina stessa [Rif. 27].
102
TAVOLA XVI
Tavola XVI: Particolare dell’affresco riprodotto in tavola XII dove è raffigurata la Dea Venere,
protettrice di Pompei, “Venus Pompeiana”, su di una quadriga con quattro elefanti [Rif. 27].
103
TAVOLA XVII
Tavola XVII: in alto) Fotografia della riproduzione di un antichissimo telaio verticale a pesi,
usato anche a Pompei. Questa opera effettuata dai tecnici dell’Istituto Statale d’Arte di Locri, è
esposta presso il Museo di Locri (RC).
in basso) Fusi, girelli e navette(in osso) ritrovati nelle rovine delle case e botteghe dell’antica
Pompei (primo secolo d.C.) dove venivano utilizzati per la filatura della lana [Rif. 21].
104
TAVOLA XVIII
Tavola XVIII: Cartina geografica dalla quale si evince la posizione dell’Oasi del
Fayyum e dell’antica città di Bakchias [Rif. 36].
105
TAVOLA XIX
Tavola XIX: in alto) Veduta generale del sito dell’antica città di Bakchias nel Fayyum (Egitto).
in basso) Veduta della grande struttura in mattoni crudi su cui sorgeva il tempio di Bakchias dedicato al Dio Soknobkonneus. Età tolemaica e romana [Rif. 37].
106
TAVOLA XX
Tavola XX: Fotografia di un frammento di tessuto ritrovato durante la campagna di scavi di
Bakchias del 1996 (Rep.2, campionatura B96/72/291) [Rif. 38].
TAVOLA XXI
a)
b)
Tavola XXI: a) Fotografia del manufatto ritrovato a Bakchias nel 1996, Rep. N.3-catalogazione: B 96/92/1000.
b) Schema dello sviluppo del manufatto in a) [Rif. 38].
107
TAVOLA XXII
Tavola XXII: Miniatura rappresentante la Fiera del Lendit a Parigi (Parigi, Bibliothèque
Nationale) [Rif. 41].
108
TAVOLA XXIII
Tavola XXIII: L’ordine degli Umiliati si sviluppa nel milanese, nei ceti operai, e si estende
anche a Como favorendo la lavorazione della seta e della lana.
In questo acquerello (circa 1421) sono mostrate delle monache che confezionano un tessuto.
Sono visibili: le bobine di avvolgimento da un aspo (a destra); orditura di un telaio a 12 rocchetti (al centro); tessitura su un telaio verticale con pedaliera (a sinistra) [Rif. 42].
109
TAVOLA XXIV
Tavola XXIV: Acquerello del Codice degli Umiliati conservato presso la biblioteca
Ambrosiana di Milano che documenta la lavorazione dei panni di lana (circa 1421) [Rif. 42].
110
attività di una bottega di sartoria con annesso negozio di tessuti [Rif. 48].
Tavola XXV: Riproduzione di un affresco in una lunetta del portico del Castello di Issognè (sec. XV) in Val d’Aosta, dove sono illustrate le
TAVOLA XXV
111
TAVOLA XXVI
a)
112
Tavola XXVI: a, b e c: Il
palazzo e la via dell’Arte
della Lana, una della corporazioni, che già nel XIII
secolo, era tra le più prestigiose e ricche nella città di
Firenze. Il palazzo dell’ “Arte
della lana” a Firenze; fu riedificato e ripristinato dall’architetto Lusini e inaugurato
con solennità nel 1505. Ad
un angolo si osserva il celebre Tabernacolo di S. Maria
delle Trombe che anticamente trovavasi nel vecchio mercato. Si ammira dal lato verso la Chiesa una tettoia in
legno sullo stile antico dell’epoca e dal lato di via Calmiara una graziosa Loggetta
su stile della seconda metà
del secolo XIV [Rif. 49].
b)
c)
113
TAVOLA XXVII
Tavola XXVII: Lo stemma dell’arte della lana della città di
Firenze. Opera di Luca della
Robbia conservata presso il
Museo dell’Opera del Duomo
(Firenze) [Rif. 46].
TAVOLA XXVIII
Tavola XXVIII: Il “Collegio
della Mercanzia” di Perugia
aveva come suo contrassegno
riconoscitivo un grifo che trattiene tra i suoi artigli una balla di
lana [Rif. 40].
114
TAVOLA XXIX
Tavola XXIX: Riproduzione della prima pagina dello Statuto dell’Arte della lana” di Firenze
[Rif. 40].
115
TAVOLA XXX-a)
a)
Tavola XXX: Gli Statuti delle corporazioni delle varie arti e dei mestieri erano spesso contenuti in preziosi codici miniati opera di grandi artisti dell’epoca.
a) Miniatura del 1411 tratta dalla “Matricola dell’Arte dei Drappieri” raffigurante il Mercato di
Porta Ravegnana a Bologna [Rif. 52].
116
TAVOLA XXX-b)
b)
b) Miniatura del 1523 della “Corporazione dei Drappieri” (vedasi testo) [Rif. 52].
117
TAVOLA XXX-c)
c)
c) Miniatura del 1407 della “Corporazione dei Drappieri” raffigurante la consegna degli Statuti
ai Santi Protettori (vedasi testo) [Rif. 52].
118
Tavola XXXI: Andamento delle esportazioni di lana non lavorata (periodo 1300-1500) e di panni lana dall’Inghilterra in
migliaia di sacchi o di panni [Rif. 39].
TAVOLA XXXI
119
TAVOLA XXXII
Tavola XXXII: Città di Bruges: veduta attuale della “Rue Aux Laines” (Via delle Lane).
Questa strada testimonia l’importanza dell’arte e della commercializzazione della lana in questa
città specialmente nel periodo che va dal XIII al XVI secolo [Rif. 57].
120
Tavola XXXIII: L’antico e maestoso palazzo della Regia Dogana delle pecore di Foggia (Puglia).
TAVOLA XXXIII
121
TAVOLA XXXIV
Tavola XXXIV: Il passaggio del sistema di allevamento delle pecore da quello migrante a quello stanziale. Riproduzione del quadro (1865) dal titolo “Stable Interior” opera del pittore belga
Eugene Joseph Verboeckhoven (1798-1881) [Rif. 64].
122
TAVOLA XXXV
Tavola XXXV: Una moderna fotografia di una
morra di pecore mentre si
sposta lungo una delle
antiche vie della transumanza [Rif. 65].
TAVOLA XXXVI
Tavola XXXVI: Foto-grafia di un gregge, con relativo pastore, che pascola in un uliveto della
Puglia. E’ un esempio di integrazione pastorizia-agricoltura. Infatti la permanenza delle pecore
sotto gli ulivi permette una concimazione “biologica” degli stessi [Rif. 66].
123
TAVOLA XXXVII
Tavola XXXVII: Dipinto di Carlo
Verdecchia “Il pastore abruzzese”
[Rif. 68].
TAVOLA XXXVIII
Tavola XXXVIII: Opera pittorica di Cesare Maggi (olio su tela) del 1913 “I pastori” [Rif. 69].
124
TAVOLA XXXIX
Tavola
XXXIX:
Dipinto di Giuseppe
Sacheri (olio su cartoncino) “Campagna
con pastore e gregge”
[Rif. 70].
TAVOLA XL
Tavola XL: Opera pittorica di Cesare Maggi (olio su cartone) “Alti Pascoli”
[Rif. 70].
125
126
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