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La basi teoriche di un approccio marxista alla democrazia

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La basi teoriche di un approccio marxista alla democrazia
LE BASI TEORICHE DI UN APPROCCIO MARXISTA ALLA
DEMOCRAZIA RADICALE
di Ernesto Screpanti
[pubblicato in N. Bellanca ed E. Screpanti (a cura di), Democrazia radicale, “Il Ponte”, LXIII, 2007, pp. 58-91]
La vera democrazia contro lo Stato etico
Nella Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico Marx attacca Hegel per aver
fatto dello Stato un soggetto politico che solo astrattamente si presenta come
l'incarnazione del bene comune di una collettività, ma che, in quanto è separato dalla
società civile e ad essa sovrapposto, non soltanto la lascia nella sua condizione di
società di classe dominata dal bellum omnium contra omnes, ma soprattutto impedisce
ai cittadini di autogovernarsi politicamente. Il superamento di questa separazione
avviene attraverso un processo rivoluzionario che abolisce lo Stato:
“Nella democrazia lo Stato politico, in quanto esso si pone accanto a questo contenuto [la società
civile] e se ne distingue, è anch'esso solo un particolare contenuto, come un particolare modo di
esistere del popolo […] Nella democrazia lo Stato, in quanto particolare, è soltanto particolare, e in
quanto universale è l'universale reale, cioè niente di determinato che sia distinto dall'altro contenuto. I
francesi moderni hanno inteso questo così: che nella vera democrazia lo Stato politico perisca. Il che
è giusto, nel senso che esso, in quanto Stato politico, quale costituzione, non vale più per il tutto […]
Nella democrazia lo Stato astratto ha cessato di essere il momento dominante […] La repubblica
politica è la democrazia all'interno della forma politica astratta. L'astratta forma politica della
democrazia è quindi la repubblica: ma qui essa cessa di essere la costituzione semplicemente politica”
(Marx, 1842-43, 42-43).
Dunque il processo rivoluzionario è un processo democratico. Ed è evidente che
Marx per democrazia, o meglio, per “vera democrazia”, intende qualcosa di più di ciò
che s'intende comunemente:
“Non si tratta qui di decidere se la società civile debba esercitare il potere legislativo mediante
deputati o mediante tutti individualmente presi, bensì si tratta dell'estensione e della generalizzazione
al massimo possibile dell'elezione, sia del diritto di suffragio attivo che di quello passivo […] Ossia
l'elezione è il rapporto immediato, diretto, non meramente rappresentativo ma reale, della società
civile con lo Stato politico. S'intende quindi da sé che l'elezione costituisce l'interesse politico
fondamentale della società civile reale. Soltanto nell'elezione illimitata, sia attiva che passiva, la
società civile si solleva realmente all'astrazione di se stessa, all'esistenza politica come sua vera
esistenza generale, essenziale. Ma il compimento [Aufhebung] di questa astrazione è al contempo la
soppressione dell'astrazione. Quando la società civile ha realmente posto la sua esistenza politica
come la sua vera esistenza, ha contemporaneamente posto la sua esistenza civile, nella sua distinzione
da quella politica, come inessenziale; e con una delle parti separate cade l'altra, il suo contrario. La
riforma elettorale è, dunque, entro lo Stato politico astratto, l'istanza dello scioglimento [Auflösung]
di questo, come parimenti dello scioglimento della società civile” (Ivi, 134-135).
Nella vera democrazia la società civile, ponendo “la sua esistenza politica come la
sua vera esistenza”, scioglie lo “Stato politico astratto” rivoluzionando se stessa. Non
si tratta allora soltanto della riforma elettorale. Sarebbe una banalizzazione
ingiustificata quella di chi volesse ridurre le istanze democratiche di Marx alla
rivendicazione del suffragio universale. Attraverso la riforma elettorale i cittadini
conquistano la democrazia. Ma la storia non finisce qui. Anzi, comincia qui. Infatti i
cittadini, una volta conquistato il potere legislativo, lo useranno per rivoluzionare la
società. Per Marx (ivi, 69) “Il potere legislativo ha fatto […] le grandi rivoluzioni
organiche generali”. Con la vera democrazia le farà modificando sia la struttura
sociale che quella politica.
Lo Stato veramente democratico interverrà nei rapporti di produzione, nelle
relazioni economiche e sociali, per trasformarli in accordo con la volontà dei
cittadini. Questi, secondo Marx, sono in grande maggioranza proletari. E quindi
useranno il potere politico per abolire le classi sociali. La vera democrazia si
presenta come la forma di una società civile che si politicizza per cambiarsi. Essa è
l'azione politica del popolo che rivoluziona la società civile.
Non solo, ma essa interverrà anche sulla struttura dello Stato stesso. La vera
democrazia aggredisce lo Stato. Nel saggio del 1842-43 Marx individua nella
“burocrazia” la classe che domina gli apparati statali: “La burocrazia detiene
l'essenza dello Stato, l'essenza spirituale della società, questa è la sua proprietà
privata […] In quanto al burocrate preso singolarmente, lo scopo dello Stato diventa
il suo scopo privato” (ivi, 60). La critica va intesa come riferita a tutto il ceto politico.
Infatti Marx sostiene che il male dell'autorità sta non nell'abuso di potere, ma nella
gerarchia politica stessa, “come se la gerarchia non fosse l'abuso capitale” (ivi, 65)! Il
potere della gerarchia deve essere abolito. E sarà abolito attraverso l'autogoverno del
popolo.
Si deve tenere presente che in quest'opera Marx usa il termine “burocrazia”
non tanto nel senso moderno di apparato di dipendenti pubblici incaricati di funzioni
tecniche e amministrative. Lo usa piuttosto per denotare il corpo politico che detiene
il “potere legislativo” e il “potere governativo”, un corpo che è “burocrazia due volte:
una volta come rappresentanza del principe, e un'altra come rappresentanza del
popolo” (ivi, 138). Secondo Hegel i deputati devono essere non i rappresentanti delle
volontà e degli interessi dei loro elettori, bensì i portatori di un interesse generale
della comunità; “da che - osserva Marx (ivi, 136) - deve tuttavia conseguire che i
deputati non sono dunque nella situazione di 'mandatari'”. È così che si costituisce il
ceto politico - ovvero la “burocrazia”, nel linguaggio di Hegel e di Marx (in questo
scritto) - come corpo sociale separato dalla società: “La separazione dello Stato
politico dalla società civile si manifesta come separazione dei delegati dai loro
mandanti. La società delega semplicemente gli elementi della sua esistenza politica”
(ivi, 137). Come è stato fatto notare da Zolo (1974, 83-84), Marx stigmatizza i
pericoli insiti nel meccanismo della delega elettorale in un sistema rappresentativo, in
quanto vede in esso la possibilità della costituzione di un ceto politico separato dalla
società nel momento in cui i delegati si autonomizzano dai loro mandanti.
La Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico fu scritta proprio nel
periodo in cui Max stava cominciando a maturare la sua posizione comunista ed è un
po' l'Urtext della teoria politica del comunismo. Ne è, se non la fondazione, la
premessa immediata (Luporini, 1971, lxiv). In quest'opera, osserva Avineri (1972,
51), “ciò che Marx chiama 'democrazia' non differisce fondamentalmente da ciò che
2
più tardi egli chiamerà 'comunismo' […] una società basata sull'abolizione della
proprietà privata e sulla scomparsa dello Stato. Insomma il Manifesto del partito
comunista è già contenuto nella Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico”.
Qui sono contenute le basi teoriche di alcune delle tesi politiche che Marx
svilupperà nelle opere della maturità. Non sarebbe stato possibile elaborare una
concezione della democrazia partecipativa come quella che emerge dalle riflessioni
marxiane sulla Comune di Parigi, se prima non ci fosse stata la critica alla filosofia
hegeliana del diritto dal punto di vista di una “vera democrazia” come processo di
“autodeterminazione del popolo”. Inoltre si deve notare che la critica alla concezione
hegeliana dell'universalità dello Stato è una premessa fondamentale all'analisi dello
Stato capitalistico come potere non neutrale e istituzione funzionale al dominio di
classe (Tucker, 1980, 70). In terzo luogo si può ritenere che l’individualismo etico
che Marx sviluppa nelle sue opere della maturità, così come il suo rifiuto di attribuire
valore universale a qualsiasi teoria della giustizia, sono stati preceduti e preparati
dalla critica alla dottrina dell’universalità dello Stato etico che è presente nell’opera
del 1842-43. Infine va rilevato che è proprio nella Critica della filosofia hegeliana
del diritto pubblico che compaiono per la prima volta le tesi marxiane sulla “gerarchia
politica” come ceto professionale che usurpa il potere statale, tesi che verranno
sviluppate più tardi da Marx ed Engels facendo uso della categoria di “politici di
professione”.
I diritti “universali” dell’uomo sono diritti “borghesi” conquistati dalle lotte operaie
La critica marxiana ai fondamenti etici e universalistici del diritto è stata interpretata
in due modi contrastanti dall’esegesi marxista. Entrambe le interpretazioni sono
legittime, ma vanno articolate riportandole all’evoluzione intellettuale di Marx. Qui
comunque mi soffermerò sull’interpretazione che fa tesoro degli sviluppi teorici del
Marx politico e scienziato.1 È forse un’interpretazione un po' forzata se si sta alla
lettera dei testi giovanili, ma legittimata dagli sviluppi teorici del “Marx maturo e, mi
sia consentito dire, marxista” (Guastini, 1974, 40).
La critica ai diritti dell'uomo e del cittadino avanzata in Sulla questione ebraica
non mirerebbe alla loro negazione. A testimonianza di ciò stanno le diverse occasioni
in cui Marx ed Engels si impegnano in una strenua difesa di alcuni diritti cosiddetti
L’altra interpretazione fa perno su alcune tesi elaborate nelle opere del periodo 1842-44, dove la critica alla concezione
dello Stato come “Stato etico”, incarnazione del bene pubblico, assume la forma di una critica all’etica fondata
sull’appropriazione privata e sanzionata dal potere dello Stato. Lo stato etico di Hegel è “astratto” perché non è il
prodotto delle soggettività sociali, cioè di una società civile che si fa soggetto producendo autonomamente le proprie
norme etiche e politiche. A tale Stato Marx contrappone una comunità che si autocostituisce attraverso un processo
rivoluzionario che costruisce un cemento morale basato sua una spontanea e diffusa “vita dell’amore”. Nelle opere
giovanili viene proposta un'ontologia umanista dell'essere sociale, una concezione essenzialista della natura umana
come “ente generico” e una concezione prometeica del comunismo come comunità fondata su un'etica solidaristica. In
Sulla questione ebraica i diritti dell’uomo e del cittadino sono visti come strumenti di protezione della sfera privata
dell'uomo egoista. Secondo questa interpretazione, Marx propone qui una forma alternativa di emancipazione umana:
quella di una comunità in cui l'uomo supera l'egoismo riconoscendosi membro del genere umano. Una comunità simile
sembrerebbe andare al di là dei diritti dell'uomo e del cittadino: che bisogno c'è di diritti che proteggono le sfere
dell'agire egoista quando non c'è più egoismo? Per un certo marxismo utopistico novecentesco il comunismo sarà
pienamente realizzato quando gli uomini avranno imparato ‘a lavorare per la società senza alcuna norma giuridica’
(Lenin, 1968, 924).
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“borghesi”, e non solo nel periodo giovanile in cui scrivono in un giornale di
orientamento liberale, ma anche nell'epoca in cui lavorano come rivoluzionari
comunisti.2 Carver (1998, 122-123), sulla base di una estesa lettura degli scritti di
Marx, ha redatto un lista di diritti “borghesi” di cui è fautore: governo rappresentativo
e responsabile, partecipazione popolare a ogni livello di governo, elezioni periodiche,
suffragio universale, sistema politico multi-partito, magistratura indipendente,
assistenza legale gratuita, completa separazione tra Chiesa e Stato, protezione del
cittadino dall'oppressione religiosa e antireligiosa, diritto allo studio attuato con
l’istruzione gratuita, diritto di libera ricerca intellettuale, diritto di stampa senza
censura, libertà di associazione, assistenza pubblica per i disabili, imposta
progressiva, indipendenza nazionale.
La cosa più interessante è che i diritti civili e politici vengono visti dal Marx e
l'Engels comunisti non come manifestazioni di un universale diritto naturale, bensì
come conquiste del movimento operaio nella sua lotta per la liberazione:
“Con grandi sforzi e con grandi sacrifici [gli operai tedeschi] avevano conquistato il grado di libertà
di stampa, d'associazione e di riunione, di cui godevano: era una lotta continua, ma infine la vittoria
restava sempre dalla parte degli operai […] Gli operai tedeschi hanno provato quanto valgano le
libertà costituzionali, allorché il proletariato si permette di prenderle sul serio e di farne uso per
combattere la dominazione capitalistica” (Engels, 1879, 228).
Interpretata in tale prospettiva, dunque, quella critica giovanile intenderebbe mettere
in luce non l'inutilità dei diritti dell'uomo e del cittadino come strumenti di
liberazione, bensì la loro insufficienza:
“L'emancipazione politica è certamente un grande passo in avanti, non è però la forma ultima
dell'emancipazione umana in generale, ma è l'ultima forma dell'emancipazione umana entro l'ordine
mondiale attuale. S'intende: noi parliamo qui di reale, di pratica emancipazione” (Marx, 1843, 85).
Il punto è che la libertà di religione, ad esempio, non libera l'uomo dalla condizioni
materiali di miseria, incertezza e ignoranza che generano il bisogno dell'oppio del
popolo. Invece il comunismo non può lasciare inalterata la società civile. In esso
l'autogoverno del popolo interviene nella realtà sociale ed economica per rimuovere
le condizioni di quel bisogno, per abolire la miseria, l'ignoranza, l'alienazione che
fanno sentire all'uomo il bisogno delle pratiche religiose. Dunque il diritto di culto, ad
esempio, non viene abolito. Deve però essere affiancato da altri diritti, quelli che oggi
definiamo “diritti sociali”, come il diritto allo studio e il diritto alla salute, che aiutino
gli esseri umani a costruire la propria autonomia.3 Come ha osservato Cerroni (1972,
207-208), “nella prospettiva nuova che Marx intende aprire emerge implicitamente la
tematica del recupero di quei diritti [del cittadino]: sia nel senso che egli ne apprezza
il valore storico in quanto diritti contrapposti ai privilegi feudali, sia soprattutto nel
senso che soltanto l'avvenuta emancipazione politica, soltanto l'avvenuto
eguagliamento astratto di tutti (la universale liberazione personale degli individui e la
universale parificazione politico-giuridica di tutti) consente di cogliere la
Vedi gli interventi raccolti in Marx ed Engels (1970).
Prestipino (2002, 179-180) ha richiamato i concetti di libertas minor e libertas major di della Volpe (1974), per
sostenere che la prima, quale è garantita dai diritti dell'uomo e del cittadino, deve essere sussunta nella seconda affinché
siano assicurate delle libertà effettive e uguali per tutti.
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inessenzialità della separazione tra sfera sociale e sfera politica”. La liberazione che
emerge dal superamento di tale separazione è un tipo di azione che, nelle opere
politiche della maturità, Marx coglie come portato inevitabile di una rivoluzione
comunista.
In quest’ottica la critica allo Stato etico non assume il significato di una banale
critica moralista all’etica borghese. Assume invece un valore molto più generale e un
senso più profondo: è una critica al concetto stesso di “Stato etico”. I diritti stabiliti
dalla legge non sono più visti come emanazioni di una moralità universale. Piuttosto
sono letti come prodotti di un processo di lotta in cui il proletariato agisce essendo
mosso dai propri interessi materiali e conquista posizioni politiche che servono ad
espandere la propria libertà, non a realizzare una superiore moralità, che mirano ad
abbattere il potere dello Stato, non a costruire un superiore Stato etico.
La “democrazia radicale” come “democrazia proletaria”
Già nel 1842 Engels individua con precisione la natura di classe dell’azione politica e
definisce la posizione del proletariato come espressione di un principio di
“democrazia radicale”:
“In Inghilterra ci sono solo tre partiti che hanno importanza: l’aristocrazia della proprietà fondiaria,
l’aristocrazia del denaro e la democrazia radicale. Il primo, quello dei tories, è, secondo la sua natura
e lo sviluppo storico, il partito puramente medievale, coerente, reazionario, l’antica nobiltà che
fraternizza con al scuola ‘storica’ del diritto in Germania e che costituisce le fondamenta dello Stato
cristiano. Il secondo, il partito, whig, ha il suo nucleo nei commercianti e nei fabbricanti […] Il partito
whig viene spinto in una posizione ambigua del juste-mileu, appena la classe degli operai incomincia
ad acquistare coscienza. E ciò avviene in questo momento. I principi radicali democratici del cartismo
penetrano ogni giorno di più nella classe operaia e vengono da essa sempre più riconosciuti come
espressione della sua coscienza complessiva” (Engles, 1842, 367).
La tesi viene precisata da Marx ed Engels cinque anni più tardi. Nel Manifesto essi
affermano che “lo scopo dei comunisti è lo stesso di tutti gli altri partiti proletari:4
formazione del proletariato in classe, abbattimento del dominio della borghesia,
conquista del potere politico da parte del proletariato” (Marx ed Engels, 1847-48,
147) e poi chiariscono che il primo passo della rivoluzione sarà “la conquista della
democrazia” (ivi, 157). Cosa si debba intendere per “conquista della democrazia”
viene spiegato da Engels nei Principi del comunismo, l'opera utilizzata da Marx per
redigere il Manifesto:
“Quale sarà lo svolgimento di questa rivoluzione nel suo corso? Prima di tutto la rivoluzione del
proletariato instaurerà una costituzione democratica, e con ciò il dominio politico diretto o indiretto
del proletariato” (Engels, 1847, 296).
Verrà successivamente precisato in La guerra civile in Francia, in cui Marx si mette a
lezione dei comunardi. Qui la Comune viene letta come “la forma politica finalmente
scoperta, nella quale si poteva compiere l'emancipazione economica del lavoro”
(Marx, 1871b, 912), ovvero
4
Si noti che ciò implica il riconoscimento dell’esistenza di diversi partiti proletari.
5
“la riconquista del potere dello Stato da parte della società, di cui diviene la forza viva, invece di
essere la forza che la domina e la tiene soggetta. È la sua riconquista da parte delle masse popolari
stesse, che sostituiscono la loro forza alla forza organizzata per opprimerle; la Comune è la forma
politica della loro emancipazione sociale” (Marx, 1871a, 217).
L'esperienza della Comune è molto apprezzata da Marx per le indicazioni che
fornisce riguardo agli aspetti politici della rivoluzione comunista. Sul piano dei
provvedimenti economici e sociali gli insegnamenti sono poco significativi; né ci si
poteva aspettare molto su questo piano, data la limitatezza dell'esperimento nello
spazio e nel tempo. Fino a poco prima della costituzione della Comune Marx fu
piuttosto scettico sulle prospettive di trasformazione comunista di un'eventuale
rivoluzione parigina (Marx, 1870, 107; Wolfe, 1967, cap. 6). Da una parte pensava
che un tale esperimento fosse votato alla sconfitta, date le condizioni politiche e
militari in cui si sarebbe svolto; dall'altra era poco convinto delle teorie anarcofederaliste che predominavano nel movimento operaio francese, quelle teorie che
vedevano la rivoluzione sociale come un processo di costituzione federale di liberi
comuni. La storia ha poi confermato la validità del primo motivo di preoccupazione.
Quanto al secondo, la stessa storia si è assunto il compito di costringere Marx a un
cambiamento di opinione.
In seguito alla rivoluzione del 1848 Marx ed Engels avevano sviluppato una
posizione nettamente centralista e già nel 1850 si erano pronunciati in favore di un
processo rivoluzionario che portasse a “una decisissima centralizzazione del potere
nelle mani dello Stato” (Marx ed Engels, 1850, 173). L'influenza esercitata dal
blanquismo su questa presa di posizione è riconosciuta da vari commentatori.5 La
Comune fece cambiare idea sia a Marx che a Engels. Estremamente significativa è la
loro successiva esaltazione del valore politico dell'esperimento comunardo proprio
nelle sue istanze associative e federali.
Quella che nel 1842-43 era definita come “vera democrazia” o “democrazia
radicale” e nel 1847 come “democrazia” tout court, si svela nel 1871 come un
modello di democrazia partecipativa. Una sua condizione essenziale è il suffragio
universale, il quale “è ora usato per il suo preciso scopo, che è di fare eleggere dalle
Comuni i loro propri funzionari nei settori dell'amministrazione ed in quelli
legislativi” (Marx, 1871a, 218). Marx è un ammiratore della democrazia ateniese, ma
non è così ingenuo da credere che nel mondo moderno si possa realizzare il
comunismo con la democrazia diretta. Una qualche forma di delega è inevitabile. Ciò
che non è ammissibile è che la rappresentanza parlamentare venga usata per privare il
popolo di una vera capacità di autogoverno, come avviene nelle democrazie liberali.
Per Marx
“la Comune si sbarazza completamente della gerarchia politica e sostituisce i capi altezzosi del
popolo con personale revocabile in ogni momento; rimpiazza una responsabilità illusoria con una
responsabilità reale, dal momento che questi delegati agiscono permanentemente sotto il controllo del
popolo” (ivi, 218-219).
5
Ad esempio Rjazanov (1928, 140-149), Zolo (1974, 153-170), Guastini (1974, 357-358).
6
Il ceto politico come corpo parassitario che detiene il potere statale
Negli scritti sulla Comune di Parigi ritorna l'idea, già esposta nella Critica della
filosofia hegeliana del diritto pubblico, secondo cui la gerarchia è “l'abuso capitale”,
così come torna l'idea che “i capi altezzosi del popolo” (la “burocrazia”, nello scritto
del 1842-43) si costituiscono come “un'autorità che usurpava una posizione
predominante sulla società stessa”, come un corpo politico che “detiene l'essenza
dello Stato” in quanto questo è sottratto a un effettivo controllo popolare. La tesi
secondo cui lo Stato capitalistico è governato da un ceto politico, una “gerarchia
politica”, “una casta specifica”, “una casta istruita di parassiti statali” (Marx, 1871a,
218-219) che si sovrappone alla società civile anche in presenza di certi requisiti
formali della democrazia rappresentativa, è sviluppata con precisione da Engels sulla
base di una riflessione sugli scritti marxiani sulla Comune:
“In che cosa era consistita fin ad allora [il momento della nascita della Comune] la proprietà
caratteristica dello Stato? La società, per la tutela dei propri interessi comuni, si era provveduta di
organi propri, all'origine mediante una semplice divisione del lavoro; ma col tempo questi organi, con
in cima il potere dello Stato, si sono trasformati da servitori della società in padroni della medesima,
al servizio dei propri interessi particolari. Il che, per esempio, è evidente, non solo nella monarchia
ereditaria, ma anche nella repubblica democratica. In nessun paese i 'politici' formano una sezione
della nazione così separata e così potente come nell'America del Nord. Quivi ognuno dei due grandi
partiti che si scambiano a vicenda il potere viene a sua volta governato da gente per cui la politica è
un affare, che specula sui seggi tanto delle assemblee legislative dell'Unione quanto dei singoli Stati,
o che per lo meno vive dell'agitazione per il proprio partito e dopo la vittoria di questo viene
ricompensata con dei posti […] Ci sono due grandi bande di speculatori politici che entrano in
possesso del potere, alternativamente, e lo sfruttano con i mezzi più corrotti e ai più corrotti fini; e la
nazione è impotente contro questi due grandi cartelli di politicanti che si presumono al suo servizio,
ma in realtà la dominano e la saccheggiano.” (Engels, 1891a, 1161-1162).
Nella Comune, che “non era più uno Stato nel senso proprio della parola” (Engels,
1875, 983), si estinguono proprio i “capi altezzosi del popolo”; si estinguono perché
“questi delegati agiscono permanentemente sotto il controllo del popolo”. Ecco il
vero significato della tesi sull'estinzione dello Stato nella società comunista. Non si
tratta di abolire lo Stato in generale,6 ma di cambiarne la natura ponendolo sotto un
effettivo controllo popolare:
“Le poche ma importanti funzioni che sarebbero ancora rimaste per un governo centrale, non
sarebbero state soppresse, come venne affermato falsamente in malafede, ma adempiute da funzionari
comunali, e quindi strettamente responsabili. L'unità della nazione non doveva essere spezzata, anzi
doveva al contrario essere organizzata dalla Costituzione comunale, e doveva diventare una realtà
Secondo Buber (1967, 120) la tesi dell'estinzione o dell'abolizione dello Stato in generale come inevitabile
conseguenza della rivoluzione comunista “è stata costruita da Engels sulla base di accenni per lo più reticenti di Marx”.
È stata successivamente attribuita a Marx, ma non tutti gli studiosi sono d'accordo su questa attribuzione postuma.
Comunque va detto che lo stesso Engels (1891a, 1162), quando teorizza l'estinzione dello Stato riferendosi alla Comune
di Parigi, parla di una “distruzione violenta [Sprengung] del potere dello Stato e la sostituzione ad esso di un nuovo
potere, veramente democratico”. Quanto alle tesi del giovane Marx sull'estinzione dello Stato, si deve tenere presente
che nella Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico il Moro parla dello scioglimento (Auflösung) dello Stato
come di un processo di superamento (Aufhebung) della separatezza dalla società civile per mezzo di una “vera
democrazia” in cui si esprime l'autodeterminazione del popolo nell'atto di rivoluzionare sia lo Stato che l'economia. Nel
processo di Aufhebung lo Stato esistente è soppresso e superato, ma le sue funzioni di espressione della volontà
collettiva sono sviluppate a un livello più alto (Avineri, 1972, 255-256).
6
7
attraverso la distruzione di quel potere statale che pretendeva essere l'incarnazione di questa unità
indipendente e persino superiore alla nazione stessa, mentre non era che un'escrescenza parassitaria.
Mentre gli organi puramente repressivi del vecchio potere governativo dovevano essere amputati, le
sue funzioni legittime dovevano essere strappate a un'autorità che usurpava una posizione
predominante sulla società stessa, e restituite agli agenti responsabili della società” (Marx, 1871b,
909-910).
In altri termini, l'estinzione “dello Stato in quanto Stato” ha una duplice valenza: da
una parte è l'abolizione del ceto dei “politici di professione”; dall'altra è l'abolizione
delle funzioni statali repressive, antidemocratiche e antiproletarie; non è
l'eliminazione di tutte le sue funzioni pubbliche. Marx (1871b, 271) è esplicito al
riguardo:
“Fra l'altro è un'assurdità dire che le funzioni centrali, non le funzioni di dominio sul popolo, ma
quelle rese necessarie dai bisogni generali e ordinari del paese, non potevano più essere assicurate.
Queste funzioni dovevano esistere, ma i funzionari stessi non potevano più, come nel vecchio
apparato governativo, elevarsi al di sopra della società reale, perché le funzioni dovevano essere
assunte da agenti comunali e sottoposte, di conseguenza, a un vero controllo”.
Engels, nell'Introduzione a 'La guerra civile in Francia', ci dà un'idea precisa di cosa
debba significare “distruzione violenta dei poteri dello Stato”, mettendo in chiaro che
si tratta di perseguire sostanzialmente due obiettivi: 1) eliminare l'apparato repressivo
antioperaio, 2) abolire il ceto politico. Si noti che non sono semplicemente i
rappresentati politici della borghesia che devono esser esautorati. Sono proprio i
politici di professione, anche quelli che si presentano come esponenti della classe
operaia, come si deduce dall'aggettivo che ho sottolineato nel seguente passo:
“La Comune dovette riconoscere sin dal principio che la classe operaia, una volta giunta al potere,
non può continuare ad amministrare con la vecchia macchina statale; che la classe operaia, per non
perdere di nuovo il potere appena conquistato, da una parte deve eliminare tutto il vecchio
macchinario repressivo già sfruttato contro di essa, e dall'altra deve assicurarsi contro i propri deputati
e impiegati, dichiarandoli revocabili senza alcuna eccezione e in ogni momento” (Engels, 1891a,
1161).
Per denotare il ceto politico Marx ed Engels a volte usano l’espressione “politici di
professione”, ma soprattutto Engels (1886, 1142-43) la sviluppa come categoria
scientifica. Lo fa nell’analizzare i sistemi politici delle moderne democrazie
rappresentative, dove lo Stato diventa “un potere indipendente dalla società”. Tale
tipo di Stato tende a produrre una “nuova ideologia [secondo la quale ] i fatti
economici devono assumere la forma di motivi giuridici per essere sanzionati in
forma di legge”. Così “per i politici di professione […] il legame coi fatti economici
si perde definitivamente”. La cosa interessante è che lo Stato si “autonomizza” in
questa maniera “tanto più quanto più diventa organo di una classe determinata”, che
tuttavia è la classe capitalistica piuttosto che la classe politica.
L'uso del potere politico per piegare le regole della democrazia a servire gli
interessi dei capitalisti è stato osservato da molti studiosi anche non marxisti. Lenin si
è servito di questa osservazione per svalutare la democrazia formale e delineare un
8
modello di dittatura del proletariato che andasse oltre il “cretinismo parlamentare”.7
Ma il celebratore del “rivoluzionario di professione” non ha capito una cosa che
invece Marx ed Engels hanno capito molto bene: che la gerarchia stessa è “l'abuso
capitale” (Marx, 1842-43, 65), e che “i 'politici' formano una sezione della nazione
così separata e così potente” che la nazione stessa diventa impotente di fronte ai
“cartelli di politicanti che si presumono al suo servizio ma in realtà la dominano e la
saccheggiano” (Engels, 1891a, 1161-1162). Sembra che i due rivoluzionari tedeschi
abbiano scoperto la “classe politica” prima di Gaetano Mosca. In realtà essi hanno
scoperto molto di più, avendo intuito che in un sistema capitalistico i “politici di
professione” lavorano non solo per se stessi, ma anzi operano per stabilizzare il
potere del capitale nello sforzo di consolidare il proprio.8
L’analisi marxiana dei meccanismi di usurpazione del potere statale da parte
dei politici di professione è stata male intesa da alcuni studiosi, che l’hanno
interpretata come una critica della divisione funzionale dei poteri legislativo,
esecutivo e giudiziario. Le idee del giovane Marx su questo tema risentono ancora di
una certa influenza di Hegel, che era un critico della divisione funzionale dei poteri.
Le opere della maturità però rivelano una concezione alquanto diversa da quella di
Hegel. Specialmente nello scritto sulla Comune di Parigi Marx vuole realmente
mettere in discussione due cose: da una parte la tendenza all'autonomizzazione del
potere esecutivo da quello legislativo, cioè dal controllo popolare;9 dall'altra la
proliferazione di corpi politici di specialisti, di giudici, di amministratori, di burocrati,
che si sovrappongono alla sovranità popolare e negano la sostanza della democrazia.
Tutti gli amministratori dello Stato devono essere eletti, per Marx, e costantemente
sottoposti al controllo popolare, in modo che non si possa più formare alcun corpo di
politici separati e potenti. E quanto al potere giudiziario, lungi dal proporre di
sopprimerne l'indipendenza, Marx osserva che la Comune cercò, proprio al contrario,
di assicurarne una vera indipendenza dal potere esecutivo:
“I funzionari giudiziari furono spogliati di quella sedicente indipendenza che non era servita ad altro
che a mascherare la loro abietta soggezione a tutti i governi che si erano succeduti […] I magistrati e i
giudici dovevano essere elettivi, responsabili e revocabili come tutti gli altri pubblici funzionari”
(Marx, 1871b, 909)
Un’espressione ripresa da Marx ed Engels, i quali tuttavia la usano non per svalutare la democrazia rappresentativa,
ma per stigmatizzare quei parlamentari che si dimostrano insensibili agli eventi politici, economici e sociali del mondo
reale, che si credono al di sopra di ogni critica, e che in tal modo contribuiscono a minare il potere del Parlamento.
8
Stranamente solo pochi marxisti sono stati capaci di far tesoro di questa importante innovazione scientifica di Marx ed
Engels. Un'illuminante eccezione è costituita da Gramsci (1975, 1624-26) il quale, nella nota intitolata Il numero e la
qualità nei regimi rappresentativi, ha sviluppato una serrata critica democratica alle democrazie parlamentari moderne,
che ha studiato come forme politiche in cui il consenso viene costruito dalle élite dominanti. Ha sostenuto ad esempio
che nel processo elettorale “non è vero che il peso delle opinioni dei singoli sia 'esattamente' uguale. Le idee e le
opinioni non 'nascono' spontaneamente nel cervello di ogni singolo: hanno avuto un centro di formazione, di
irradiazione, di diffusione, di persuasione, un gruppo di uomini o anche una singola individualità che le ha elaborate e
presentate nella forma politica d'attualità. La numerazione dei 'voti' è la manifestazione terminale di un lungo processo
in cui l'influsso massimo appartiene proprio a quelli che 'dedicano allo Stato e alla Nazione le loro migliori forze'
(quando lo sono)” (p. 1625). Non a sproposito Canfora (2002, 61), facendo riferimento alla sociologia delle élite, ha
definito Gramsci un “elitista integrale”.
9
Marx tiene molto alla supremazia del potere legislativo, se non altro perché è proprio esso che fa “le grandi rivoluzioni
organiche generali”. All'epoca della presa del potere di Luigi Bonaparte riflette a fondo sul rischio che il potere
esecutivo si autonomizzi da quello legislativo fino a giungere a sovrastarlo e svuotarlo.
7
9
In altri termini Marx sviluppa non l'idea del superamento della separazione
funzionale dei poteri, bensì quella della supremazia del potere legislativo
sull’esecutivo. Quanto al potere giudiziario, Marx si oppone alla sua subordinazione
all’esecutivo. Tali idee devono essere interpretate riconducendole alla tesi della
soppressione del potere statale sulla società. Nella Comune scompare la “gerarchia
politica” perché la democrazia non si esprime “solo una volta ogni tre o sei anni” (ivi,
910) nel giorno delle elezioni. L'autogoverno delle masse popolari è la specifica
forma politica del comunismo, perché in questo tipo di democrazia il popolo
partecipa permanentemente alle scelte pubbliche, delega rappresentanti con mandati
imperativi, li controlla continuamente e li può licenziare in ogni momento.
Marx poi osserva che nella Comune tutti i funzionari sono remunerati con
salari operai e che “i diritti acquisiti e le indennità di rappresentanza degli alti
dignitari dello Stato scomparirono insieme coi dignitari stessi” (ivi, 908-909). In
questa maniera viene eliminato uno degli incentivi della “professione” politica; ma
forse non il più importante, ché si sa che i veri politici sono mossi da una vocazione o
addirittura fanno politica per motivi “etici”. Certo che la riduzione degli stipendi non
elimina quello che è l’incentivo principale alla professione politica, cioè il potere. E
allora Marx mette in chiaro che nella Comune la maggioranza dei consiglieri è
composta di “operai o rappresentanti riconosciuti della classe operaia” (ivi, 908). Ciò
rivela che la riduzione degli stipendi dei politici non è auspicata solo per banali
motivi di redistribuzione del reddito. Ciò che veramente conta è l’eutanasia dei
politici di professione: i rappresentanti politici degli operai sono operai stessi che per
un certo periodo della loro vita assolvono a un mandato affidatogli dal popolo, ma
restano comunque operai, non diventano politici di professione.
Marx non ha dubbi sulla necessità di abolire la classe politica e sulla capacità
degli operai di esercitare il controllo sulle proprie imprese produttive e il proprio
Stato. Quando Bakunin sostiene che i lavoratori che assumono cariche politiche
cessano di essere operai, Marx commenta osservando che ciò è vero “altrettanto poco
quanto oggi un fabbricante cessa di essere capitalista per il fatto di divenire
consigliere comunale”. E quando Bakunin insiste sostenendo che i delegati operai
non rappresentano più il popolo, ma solo se stessi, Marx risponde: “se il signor
Bakunin conoscesse sia pure soltanto la posizione di un dirigente di una fabbrica a
gestione cooperativa operaia, tutte le sue fantasticherie sul dominio se ne andrebbero
in fumo” (Marx, 1874-75, 357). Sembra che qui Marx sia molto più “utopista” di
Bakunin.
I partiti politici
L’analisi critica del ruolo svolto dal ceto politico nel deprivare i cittadini del loro
potere democratico non porta Marx ed Engels ad assumere posizioni antipolitiche o
ingenuamente democraticiste. Essi sanno benissimo che in una grande repubblica la
democrazia diretta non è possibile e che l’esercizio del potere popolare passa
attraverso delle mediazioni rappresentative. E sanno benissimo anche che la lotta
politica si svolge per mezzo di organizzazioni partitiche. Nel loro modello di
10
democrazia non solo la mediazione rappresentativa, ma anche la mediazione partitica
svolge una funzione essenziale.
I partiti sono le organizzazioni politiche che si danno le classi sociali e le
frazioni di classi per rendere efficace la lotta economica.
“I fatti economici, che fino allora la storiografia aveva disdegnati o tenuti in nessun conto, sono, per
lo meno nel mondo moderno, una forza storica decisiva; […] essi formano la base delle origini degli
attuali contrasti di classe; […] questi contrasti di classe a loro volta, nei paesi dove grazie alla grande
industria si sono pienamente sviluppati, e quindi specialmente in Inghilterra, formano la base della
formazione dei partiti politici, delle lotte dei partiti e quindi di tutta la storia politica” (Engels, 1885,
41).
“Il metodo materialistico dovrà perciò limitarsi anche troppo spesso a ricondurre i conflitti politici a
lotte di interessi delle classi sociali e delle frazioni di classe preesistenti, determinate dalla evoluzione
economica, e ravvisare nei singoli partiti l’espressione politica più o meno adeguata di queste stesse
classi o frazioni di classe” (Engels, 1895, 1258).
Poiché esistono diverse classi e diverse frazioni, esisteranno diversi partiti. Marx ed
Engels non hanno dubbi sul fatto che in una democrazia rappresentativa la lotta
politica si deve svolgere tra molti partiti. Ho già mostrato come, nel Manifesto del
partito comunista, venga riconosciuta l’esistenza di diversi partiti proletari. D’altra
parte, le stesse classi dominanti si organizzano in vari partiti in funzione della
diversità degli interessi specifici in gioco. La tendenza alla soppressione del pluripartitismo è vista da Marx ed Engels come una politica antilibertaria perseguita dalle
classi reazionarie. In un articolo pubblicato nel New-York Daily Tribune Marx (1853,
487) commenta una certa politica dell’aristocrazia inglese che tende a sopprimere i
partiti dando vita a un’unica coalizione da essa controllata e sostiene che tale politica
deve fornire l’occasione per “le altre classi fondamentali della società moderna, la
borghesia industriale e la classe operaia” di organizzarsi in partiti autonomi per
difendere le proprie posizioni politiche. Molti anni più tardi Engels torna su un
argomento simile con un articolo pubblicato in The Labor Standard il 3 marzo 1878,
dove commenta la tendenza comune dei tre partiti monarchici francesi dell’epoca a
restaurare la monarchia, e sostiene che il successo di una tale politica porterebbe al
“regno della violenza, la soppressione delle libertà pubbliche e i diritti personali”.
Quindi incoraggia la classe operaia a lottare contro tale politica, anche appoggiando i
partiti radicali borghesi, per difendere quella “libertà personale e pubblica che gli
permetterebbe di dar vita a una stampa operaia, un’agitazione per mezzo di comizi e
un partito politico indipendente, e soprattutto, la conservazione della Repubblica”.
Engels non ha dubbi sul fatto che l’organizzazione del proletariato in partito
politico è un passaggio essenziale per un’efficace conduzione della lotta di classe.
“Nei paesi europei gli operai ebbero bisogno di molti, molti anni, prima di comprendere perfettamente
che essi rappresentavano, nelle attuali condizioni sociali, una classe particolare, permanente della
società; e ci vollero anni prima che questa coscienza di classe li portasse a formare un partito politico
particolare, indipendente e in contrasto con tutti i vecchi partiti creati dai vari gruppi della classe
dominante” (Engels, 1887, 344).
11
La posizione di Marx ed Engels sul ruolo dei partiti nel processo democratico è molto
realista. Non solo essi evitano ogni caduta nell’ingenuo antipoliticismo degli
anarchici e nell’altrettanto ingenuo democraticismo di coloro che vogliono fare a
meno dei partiti. Ma neanche si fanno illusioni sull’esistenza di una natura
intimamente democratica delle organizzazioni partitiche. I partiti hanno una struttura
organizzativa di tipo gerarchico e non possono fare a meno di dirigenti. Senza
dirigenti i partiti proletari non possono neanche nascere. Sempre nel summenzionato
articolo pubblicato sul Labor Standard del 1878, Engels riflette sulla proposta
avanzata da molti riguardo alla presentazione di candidati operai alle elezioni
politiche, ma osserva amaramente: “dov’erano dei candidati della classe operaia che
fossero abbastanza conosciuti nella loro classe da poter ricevere il necessario
appoggio? Infatti il governo dopo la Comune si era preso cura dell’arresto, come
partecipante all’insurrezione, di ogni lavoratore che si era fatto conoscere con
un’agitazione personale nel proprio distretto di Parigi”. Come dire che senza leader
riconosciuti non si può formare una rappresentanza politica del proletariato e quindi
non può esistere un partito proletario.
Senonché Engels sa anche bene che l’esistenza dei leader crea un problema
serio, vista la tendenza alla prevaricazione da parte dei politici di professione. Nella
sua Prefazione10 del 1888 al Discorso sul libero scambio di Marx osserva che la
leadership dei partiti protezionista e liberoscambista “passa rapidamente dalle mani
della gente direttamente interessata in quelle dei politici di professione, coloro che
tirano i fili dei partiti politici, il cui interesse è, non di risolvere la questione, bensì di
tenerla aperta per sempre” in una politica di compromessi, con il risultato di
“un’immensa perdita di tempo, energia e denaro.”
Nell’analisi dei partiti politici si rivela dunque la capacità di Marx ed Engels di
comprendere quella che sembra essere una tensione ineliminabile della politica
democratica. Da una parte essi insistono sulla necessità di dar vita a organizzazioni di
lotta attraverso le quali le classi sociali in generale e il proletariato in particolare
perseguono i propri obiettivi politici. Dall’altra si rendono conto del fatto che i partiti
hanno necessariamente una struttura gerarchica e sono controllati da gruppi ristretti di
dirigenti che, in quanto esercitano attività politica per professione, hanno una naturale
tendenza a prevaricare le istanze democratiche dei cittadini che rappresentano. È
questo un aspetto particolare della più generale tensione che si manifesta
istituzionalmente in una democrazia rappresentativa tra la necessità di ricorrere alla
delega parlamentare per esprimere la volontà popolare e la tendenza che hanno gli
eletti ad usare il mandato elettorale per autonomizzarsi dai mandanti.
La dittatura del proletariato
Tra le più vituperate e più fraintese delle tesi politiche di Marx c’è quella sulla
“dittatura del proletariato”, che certamente è stata male interpretata anche per merito
delle nefandezze compiute in suo nome nel secolo breve. Per Marx ed Engels lo Stato
liberale dei loro tempi è il comitato d'affari della borghesia. Si deve tener presente
10
Pubblicata in Die Neue Zeit in luglio e in The Labor Standard in agosto.
12
che i due rivoluzionari erano vissuti in Inghilterra durante la sua era liberale ma
ancora pre-democratica (Selucky, 1979, 60). Lo Stato si presentava come il comitato
d'affari della borghesia, non solo di fatto ma anche di diritto, nelle forme di
timocrazia a suffragio elettorale ristretto alle classi possidenti, forme che prevalsero
in Inghilterra e in tutti paesi capitalistici avanzati europei per buona parte dell'800. In
esso “il governo posto sotto il controllo parlamentare” era dunque sostanzialmente e
formalmente “sotto il diretto controllo delle classi possidenti” (Marx, 1871b, 906).
Così il suffragio universale viene presentato ne La guerra civile in Francia
come una riforma politica piena di potenzialità rivoluzionarie. Esso consente di
sostituire alla dittatura della minoranza (la borghesia) la dittatura della maggioranza
(il proletariato). Come osserva Selucky (1979, 63), visto che “il proletariato avrebbe
costituito la maggioranza della popolazione, lo stesso concetto di democrazia
suggerisce che la dittatura del proletariato deve essere la regola della maggioranza”.
In altre parole, il termine “dittatura” in questa locuzione non deve essere inteso come
definiens di un forma di governo, di un tipo di governo totalitario.11 Deve invece
essere inteso come una specificazione volta ad enucleare le implicazioni sociali della
vera democrazia. Questa, in quanto espressione della volontà della maggioranza, in
una società divisa in classi appare come la dittatura della maggioranza proletaria
della popolazione. In una democrazia partecipativa come la Comune Marx osserva
che la regola della maggioranza viene usata per rivoluzionare la società e l'economia.
Mentre la minoranza borghese usa lo Stato per consolidare il suo dominio di classe,
la maggioranza proletaria usa la democrazia per abolire le classi e liberare i produttori
dal dominio del capitale. In questo senso è vero che “Marx identificava di fatto la
dittatura del proletariato con la più ampia democrazia politica” (Preve, 2005, 5). Per
lui la vera democrazia è una forma di dittatura nel senso che usa la forza coercitiva
della volontà della stragrande maggioranza della popolazione per modificare i
rapporti di produzione e superare il capitalismo. Ma ogni forma di governo
antidemocratico, di intimidazione sui cittadini, di restrizione delle libertà, di dominio
dei leader, è in contrasto con questa concezione della “dittatura” (Gottlieb, 1992, 36).
La tesi della dittatura del proletariato si presenta dunque come una riformulazione
degli argomenti avanzati nella Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico
riguardo al superamento della separatezza dello Stato dalla società civile (Zolo, 1974,
171) mediante la costruzione della “vera democrazia”.12 E ogni interpretazione della
teoria della dittatura del proletariato come espressione del potere di un'avanguardia
illuminata pecca di hegelismo e deve fare i conti con la critica marxiana alla filosofia
dello Stato hegeliana (Tucker, 1980, 71) prima ancora che con la tesi secondo cui
l'emancipazione dei proletari deve essere opera dei proletari stessi.
Secondo Ollman (1977, 10) Marx adotta l’espressione “dittatura del proletariato” in polemica con la concezione
elitaria di Blanqui. Draper (1962) ha fatto notare che il concedo di “dittatura” ai tempi di Marx non veniva inteso nel
senso di tirannia totalitaria che gli attribuiamo oggi, bensì nel senso che aveva nell’antica Roma, cioè come istituzione
di una autorità elettiva temporanea finalizzata al perseguimento di certi obbiettivi politici o militari eccezionali. Una
curiosità degna di nota: l’11 maggio del 1860 Garibaldi sbarcò in Sicilia per mettersi alla testa di una guerra popolare di
liberazione contro la monarchia borbonica di Napoli; il 14 maggio si autoproclamò “dittatore”; l’8 agosto Marx
pubblicò un articolo nel New-York Daily Tribune sugli avvenimenti della guerra di liberazione nel Sud d’Italia e definì
Garibaldi “dittatore popolare”.
12
Sulle implicazioni democratiche del concetto di “dittatura del proletariato” vedi Draper (1962), Hunt (1975, cap. 9),
Elster (1985, § 7.3.1).
11
13
A dimostrazione della vocazione totalitaria di Marx viene spesso citato un
famigerato passo tratto dall'articolo L'indifferenza in materia politica:
“Se la lotta politica della classe operaia assume forme violente, se gli operai sostituiscono la loro
dittatura rivoluzionaria alla dittatura della classe borghese, essi commettono il terribile delitto di lesoprincipio; perché per soddisfare i loro miserabili bisogni profani di tutti i giorni, per schiacciare la
resistenza della classe borghese, invece di abbassare le armi e abolire lo Stato, essi gli danno una
forma rivoluzionaria e transitoria” (Marx, 1873, 301).
Certo che l'idea di “schiacciare la resistenza” può far rabbrividire qualche anima
bella. Ma si tenga presente che in questo passo, in cui Marx riassume ironicamente
alcune tesi anarchiche, il “terribile delitto” consiste nel “leso-principio”. Di quale
principio sta parlando? Ce lo spiega poche righe prima. Secondo gli anarchici
“gli operai non devono fare sforzi per stabilire un limite legale della giornata di lavoro […] Essi non
devono più neanche darsi la pena di interdire legalmente l'impiego dei fanciulli al di sotto dei dieci
anni nelle fabbriche […]; essi quindi commettono un nuovo compromesso che pregiudica la purezza
degli eterni principi! Gli operai devono ancor meno volere che, come nella repubblica americana, lo
Stato di cui il budget è impinguato dalla classe operaia, sia obbligato a dare ai ragazzi degli operai
l'istruzione primaria” (ivi).
Il tono ironico di questa tirata contro un certo anti-politicismo anarchico viene spinto
fino al punto di prendere gli Stati Uniti come un esempio di dittatura del proletariato.
E si noti che qui i principi lesi non sono quelli della proprietà privata o dello Stato di
diritto. Sono quelli del pensiero anarchico che predica l'allontanamento della classe
operaia dall'azione politica. A stare a ciò che Marx dice in questo passo, si deve
credere che la “forma violenta” della lotta politica è quella che assumerebbero delle
leggi che imponessero l'istruzione obbligatoria, la proibizione del lavoro infantile e la
riduzione della giornata lavorativa. E non dovrebbe forse uno Stato di diritto
“schiacciare la resistenza” dei cittadini che trasgredissero tali leggi?
Tuttavia non si deve credere che Marx usi il termine “dittatura” semplicemente
come provocazione linguistica. Il fatto è che
“la stessa democrazia volgare, che vede nella repubblica democratica il millennio e non si immagina
nemmeno che appunto in questa ultima forma statale della società borghese si deve decidere
definitivamente con le armi la lotta di classe, la stessa democrazia volgare sta ancora infinitamente al
di sopra di questa specie di democraticismo [del Programma di Gotha] entro i confini di ciò che è
permesso dalla polizia” (ivi).
In altri termini Marx sostiene che la forma di repubblica democratica tipica degli stati
di diritto moderni deve essere vista dal movimento operaio non come punto di arrivo.
Si tratta in realtà di un punto di partenza della rivoluzione comunista. È la forma
compiuta entro cui si può svolgere un atto decisivo della lotta di classe. Nel momento
in cui si conquista la democrazia repubblicana può iniziare la dittatura del
proletariato. E sul fatto che si tratti di una lotta che implica l'uso delle armi sembra
che Marx non abbia dubbi. D'altronde non poteva aver dimenticato i bagni di sangue
con cui la borghesia aveva reagito ai primi esperimenti parigini di democrazia
proletaria nel 1848 e nel 1871. Una vera democrazia assume forma di dittatura
violenta dal punto di vista della borghesia perché non lascia inalterati i rapporti di
14
produzione, ma usa il potere della maggioranza per abolire le classi, cioè per
espropriare gli espropriatori. È necessariamente “violenta” nei confronti della classe
dominante che deve essere abolita. Sarebbe la violenza della legge, una violenza che
opererebbe anche se la reazione borghese restasse entro i limiti della legalità
repubblicana. Figuriamoci se il potere legale dovesse far fronte a tentativi di
ritorsione sanguinaria della borghesia come quelli del giugno 1848 o del maggio
1871.13
Per capire bene in che senso la dittatura del proletariato è una dittatura, bisogna
riflettere sulla convinzione di Marx che lo Stato non può essere neutrale rispetto alla
società civile e alla lotta di classe che in essa si svolge (Buchanan, 1982, 70). In una
società capitalistica lo Stato è uno strumento del potere della borghesia.
Correlativamente in una società comunista esso è uno strumento del potere popolare.
Per questo la dittatura del proletariato viene concepita come tipica di una fase di
transizione: perdura fintantoché esistono le classi sociali. Quando avrà assolto
pienamente al proprio compito, cioè quando le classi saranno state abolite, la
democrazia partecipativa cesserà di essere una dittatura, ma non perché non
esisteranno più le funzioni statali fondamentali, bensì perché non esisteranno più le
classi privilegiate sulle quali il potere della stragrande maggioranza della popolazione
esercita la dittatura.
L'idea secondo cui la democrazia repubblicana è la forma specifica entro cui
prende corpo la dittatura del proletariato può oggi sembrare un'interpretazione
azzardata e un po' troppo benevola. Ma vorrei sottolineare che, prima della
rivoluzione russa, essa “divenne un principio direttivo per tutti i marxisti, compreso
Lenin”.14 In effetti Lenin (1968, 905) non ha difficoltà a riconoscere “l'idea
fondamentale che attraversa, come un filo ininterrotto, tutte le opere di Marx: la
repubblica democratica è la via più breve che conduce alla dittatura del proletariato”.
Interpretando il saggio di Marx sulla Comune, Engels (1891a, 1162-1163) parla
di “questa distruzione violenta del potere dello Stato esistente e la sostituzione ad
esso di un nuovo potere, veramente democratico”, e poi irride al
“filisteo socialdemocratico [che] recentemente si è sentito preso ancora una volta da salutare terrore
sentendo l'espressione: dittatura del proletariato. Ebbene, signori, volete sapere come è questa
dittatura? Guardate la Comune di Parigi. Questa fu la dittatura del proletariato” (ivi).
Non rientra fra i temi qui affrontati quello dei modi della rivoluzione, per cui non approfondirò le problematiche
relative all'uso della violenza. Mi limiterò a rinviare a Texier (1998), che ha dimostrato come il ricorso alla tattica
insurrezionale, anche di tipo giacobino, è teorizzato da Marx ed Engels per i paesi nei quali non esistono le condizioni
per la conquista democratica del potere. Ma ha anche dimostrato che il metodo insurrezionale non è ritenuto necessario
da Marx ed Engels per i paesi, come la Gran Bretagna, la Svizzera e gli USA, dove esistono dei sistemi relativamente
democratici in cui la conquista del potere proletario può assumere la forma della lotta per l'estensione della democrazia
e dei diritti politici e civili.
14
Storia del Partito Comunista (Bolscevico) dell'URSS, 459-460. La tesi sostenuta in questa Storia ufficiale dell’URSS è
che la teoria leninista della dittatura del proletariato, quale si sviluppa dopo la rivoluzione, non è una semplice
applicazione della teoria ortodossa, bensì una vera innovazione rispetto alla tradizione marxista della Prima e della
Seconda Internazionale. Su questo punto però il libro fa un po' di confusione. Sostiene che l'innovazione sarebbe
consistita nell'aver individuato nel potere dei Soviet la forma genuina della dittatura del proletariato, ma evita di
riflettere sulla convinzione di Lenin che la Comune di Parigi era già un'anticipazione di questa forma, e tace sul fatto
che i Soviet si erano presto trasformati in una cinghia di trasmissione del potere del Partito.
13
15
E due anni dopo la sconfitta della Comune il Generale si pronuncia con somma
chiarezza su ciò che la dittatura del proletariato non è (si noti che le sottolineature
definiscono in contrasto ciò che essa è):
“Dall'idea blanquista che ogni rivoluzione è opera di una piccola minoranza deriva automaticamente
la necessità di una dittatura dopo il successo dell'insurrezione. Una dittatura che non viene esercitata
naturalmente da tutta la classe rivoluzionaria, il proletariato, ma dal ridotto numero di coloro che
hanno compiuto il colpo di mano e che, a loro volta, ancora prima, sono sottoposti alla dittatura di una
o più persone. Si vede bene come Blanqui sia un rivoluzionario della precedente generazione. Queste
idee sul procedere degli avvenimenti rivoluzionari sono in ogni caso decisamente sorpassate” (Engels,
1873, 444-445).
La sostanza politica della Comune come esperienza esemplare di democrazia
proletaria è individuata dal Generale molti anni dopo: “nella Comune vi erano quasi
solo operai o rappresentanti riconosciuti degli operai, così anche le sue deliberazioni
[…] rappresentavano una base necessaria per la libertà d'azione della classe operaia”
(Engels, 1891a, 1157). La rivoluzione che genera la democrazia partecipativa è un
atto di auto-liberazione.
La rivoluzione in permanenza
La “repubblica democratica” non è la fine o il fine ultimo della rivoluzione. Piuttosto
è un inizio: l’entrata nel campo di battaglia più appropriato delle lotte operaie per il
comunismo.
“Così pure ci opponemmo all’illusione, zelantemente diffusa dalla piccola borghesia, secondo cui la
rivoluzione si sarebbe conchiusa con le giornate di marzo, e non vi sarebbe stato più che da
raccoglierne e riporne i frutti. Per noi febbraio e marzo avrebbero potuto avere l’importanza di una
vera rivoluzione soltanto se fossero stati non la conclusione, ma al contrario il punto di partenza di un
lungo movimento rivoluzionario, nel corso del quale, come nella grande Rivoluzione francese, il
popolo si fosse sviluppato attraverso le proprie lotte, i partiti si fossero sempre più nettamente
differenziati, sino a coincidere completamente con le grandi classi: borghesia, piccola borghesia e
proletariato; e nel corso del quale il proletariato avesse conquistato l’una dopo l’altra le posizioni
singole di una serie di giornate campali. Per questo ci opponevamo anche alla piccola borghesia
democratica dappertutto dove essa voleva obliterare il suo antagonismo di classe col proletariato,
usando la sua frase preferita: ‘ma noi vogliamo tutti la stessa cosa; tutte le differenze derivano da puri
e semplici malintesi’. Ma quanto meno permettevamo alla piccola borghesia di fraintendere la nostra
democrazia proletaria, tanto più essa diventava docile e arrendevole nei nostri riguardi. Quanto più
nettamente e decisamente si prende posizione contro la piccola borghesia, tanto più prontamente essa
si accuccia, tanto più grandi sono le concessioni che essa fa al partito operaio” (Engels, 1884, 1049).
E se è vero che “Il comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere
instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi [bensì] il movimento reale
che abolisce lo stato di cose presente” (Marx ed Engels, 1845-46, 25), allora la
“democrazia proletaria” assume il significato di un processo: è lo sviluppo della
partecipazione politica con cui i lavoratori trasformano “lo stato di cose presente”. La
rivoluzione non si dà un volta per tutte, ma è una “lotta continua”, un movimento che
si svolge in permanenza.
16
La tesi della “rivoluzione in permanenza” è stata elaborata da Marx ed Engels
sulla base di un modello politico desunto dalla rivoluzione francese del 1793. Ma è
soprattutto l’esperienza della rivoluzione del 1848 che permette loro di precisare i
contorni politici del processo in cui la “democrazia proletaria” assume i caratteri di
una “rivoluzione in permanenza”. Una volta instaurata la repubblica democratica la
classe operaia agisce come partito autonomo e conduce un lotta incessante con i
partiti della borghesia, una lotta in cui la forza delle masse tende a spingere le scelte
politiche verso trasformazioni sempre più radicali della struttura economica e sociale.
Non è soltanto la lotta di resistenza contro il potere dello Stato e contro l’invadenza
dei politici di professione che cercano costantemente di svuotare la democrazia del
suo valore partecipatorio, di usare le deleghe politiche per esautorare i cittadini del
loro potere deliberativo, di piegare il suffragio universale e le istituzioni
democratiche a servire il mantenimento dello status quo. È soprattutto la lotta politica
con cui si spingono i poteri dello Stato ad adottare provvedimenti volti a trasformare
l’economia e la società in senso socialista:
“Abbiamo visto come i democratici giungeranno al potere nel prossimo movimento rivoluzionario,
come essi saranno costretti a proporre delle misure più o meno socialiste. Ora si domanderà: che
misure proporranno a loro volta gli operai? Naturalmente, al principio del movimento, gli operai non
potranno proporre misure direttamente comuniste. Ma essi possono:
1. Costringere i democratici a intervenire da quante più parti sarà possibile nell’ordinamento
attuale della società, a disturbarne il corso regolare, a compromettersi, come pure a
concentrare nelle mani dello Stato il più gran numero possibile di forze produttive, mezzi di
trasporto, fabbriche, ferrovie, ecc.
2. Essi debbono spingere all’estremo le misure proposte dai democratici, che ad ogni modo non
si presenteranno come rivoluzionari, ma solo come riformatori, e trasformarle in attacchi
diretti alla proprietà privata. Così, ad esempio, quando i piccoli borghesi proporranno di
acquistare le ferrovie e le fabbriche, gli operai dovranno reclamare che tali ferrovie e
fabbriche siano confiscate dallo Stato puramente e semplicemente, senza risarcimento, come
proprietà di reazionari. Se i democratici proporranno l’imposta proporzionale, se i democratici
proporranno essi stessi un’imposta progressiva moderata, i lavoratori insisteranno per
un’imposta così rapidamente progressiva, che il grande capitale ne sia rovinato; se i
democratici proporranno che si regolino i debiti dello Stato, i proletari proclameranno che lo
Stato faccia bancarotta. Le richieste degli operai dovranno sempre regolarsi sulle concessioni
e sulle misure dei democratici […]
[Gli operai tedeschi] devono fare l’essenziale per la loro vittoria finale chiarendo a se stessi i loro
propri interessi di classe, assumendo il più presto possibile una posizione indipendente di partito, e
non lasciando che le frasi ipocrite dei piccoli borghesi democratici li sviino nemmeno per un istante
dall’organizzazione indipendente del partito del proletariato. Il loro grido di battaglia dev’essere: la
rivoluzione in permanenza!” (Marx ed Engels, 1850, 174-5).
La lotta politica dunque non cesserà una volta instaurato lo Stato di diritto tipico delle
repubbliche democratiche europee di fine Ottocento. Dopo tutto, uno Stato di diritto è
basato su leggi che si evolvono continuamente, e non necessariamente nel verso di
un’estensione delle libertà civili e politiche. Per cui la lotta operaia continua negli
assetti giuridicamente avanzati delle democrazie moderne, e continua proprio per farli
avanzare sempre di più.
Ci si può porre la domanda del senso in cui “la dittatura rivoluzionaria del
proletariato”, come è presentata nella Critica al programma di Gotha (1875, 970),
17
viene intesa come una forma politica valida solo per un periodo di transizione. Nel
comunismo si realizza una “libertà [che] consiste nel mutare lo Stato da organo
sovrapposto alla società in organo assolutamente subordinato ad essa” (ivi, 969). Ora,
nelle società capitalistiche più avanzate, come la Svizzera e gli Stati Uniti, lo Stato
avrebbe già realizzato, secondo Marx, “l'antica litania democratica nota in tutto il
mondo: suffragio universale, legislazione diretta, diritto del popolo, armamento del
popolo ecc.” (ivi, 970). Tali “litanie” rientravano nelle rivendicazioni dei “programmi
operai francesi sotto Luigi Filippo e sotto Luigi Napoleone” e Marx rinfaccia agli
estensori del Programma di Gotha di non aver il coraggio di chiederle in Germania
negli anni '70. Certo “esse sono una pura eco del partito popolare borghese” (ivi).
Epperò “tutte quelle belle cosette poggiano sul riconoscimento della cosiddetta
sovranità del popolo e perciò sono a posto solo in una repubblica democratica” (ivi,
971).
Dunque la repubblica democratica è la forma politica che assume la dittatura
del proletariato. In essa gli strumenti e i processi della democrazia proletaria mirano a
raggiungere un assetto sociale in cui sono state abolite le classi e una struttura
economica in cui è stato realizzato il comunismo. Ma allora cos’è che vale solo nella
transizione? Non certo la democrazia. E si deve credere che la storia cesserà insieme
alla dittatura del proletariato una volta “realizzato” il comunismo? Certamente no.
L'abolizione delle classi sociali non porrà fine alla storia, piuttosto segnerà l'inizio
dell'epoca in cui “le evoluzioni sociali cesseranno d'essere rivoluzioni politiche”
(Marx, 1846-47, 147). Como ho già osservato, la democrazia partecipativa cesserà di
essere una dittatura esercitata dal proletariato sulla borghesia quando non ci sarà più
borghesia. Allora i processi politici perderanno il loro significato di conflitti di classe,
le strutture statali cesseranno di essere usate come strumenti di potere della
“gerarchia politica”, i mandatari parlamentari dei cittadini non saranno più dei politici
di professione capaci di sottrarsi al controllo dei propri mandanti. Allora e solo allora
“la società civile si solleva realmente all'astrazione di se stessa, all'esistenza politica
come sua vera esistenza generale, essenziale. Ma il compimento [Aufhebung] di
questa astrazione è al contempo la soppressione dell'astrazione” (ivi, 134-135).
Considerazioni conclusive
Marx ed Engels non amano scrivere “ricette per l’osteria dell’avvenire”. Quando
trattano della società comunista non entrano nei particolari delle sue istituzioni, né
per gli aspetti economici né per quelli politici. Si limitano a definire le linee generali
e fondamentali della costituzione della nuova società.
E le linee fondamentali di una costituzione politica comunista, quali emergono
dalle indicazioni che si possono trovare in varie loro opere, sono le seguenti:
1.
2.
3.
4.
5.
Democrazia rappresentativa
Suffragio universale
Elezioni periodiche
Sistema multi-partito
Eliminazione degli apparati repressivi statali anti-proletari
18
6.
7.
8.
9.
Partecipazione continua dei cittadini alle scelte pubbliche
Deputati vincolati a mandati imperativi
Revocabilità dei mandati parlamentari in qualsiasi momento
Abolizione del ceto dei politici di professione
Un’altra indicazione fondamentale, la più importante di tutte, riguarda la creazione
delle condizioni economiche, sociali e culturali per l’esercizio di una democrazia
sostanziale da parte di tutti i cittadini. Ma di questa non parlerò15 perché sono qui
interessato solo agli aspetti formali del modello marxista di democrazia.
I primi quattro punti non dovrebbero suscitare perplessità. Sono stati già
realizzati nelle costituzioni democratiche di molti Stati capitalistici moderni. Sul
quinto… sorvoliamo. Gli altri quattro certamente non sono stati realizzati, e diversi
studiosi li hanno stigmatizzati come irrealistici, al punto da definire “utopistico” il
modello di democrazia partecipativa di Marx ed Engels.
Ora bisogna intenderci sul significato del concetto di “utopia”. I due
rivoluzionari tedeschi lo usano in senso dispregiativo per criticare vari modelli di
socialismo “utopistico” dei loro tempi. Si deve però capire che non lo usano nel
banale senso di “irrealistico”. Infatti in varie occasioni mostrano di apprezzare i
modelli, i progetti e le descrizioni di nuove forme di società elaborati dai socialisti
“utopisti”, “le loro proposizioni positive sulla società futura, per esempio l’abolizione
del contrasto fra città e campagna, della famiglia, del guadagno privato, del lavoro
salariato, l’annuncio dell’armonia sociale, la trasformazione dello stato in una
semplice amministrazione della produzione” (Marx ed Engels, 1847-48, 233).
La critica al socialismo “utopistico” ha un significato filosofico più profondo di
quello di una semplice accusa di irrealismo. È una critica all’approccio cognitivista
all’etica, a quell’approccio che pretende di definire razionalisticamente dei principi
etici assoluti da porre a fondamento di un socialismo inteso come applicazione di una
teoria della giustizia, a quel “modo di vedere […] di tutti i socialisti inglesi e francesi
e dei primi socialisti tedeschi, [secondo cui] il socialismo è l’espressione della
assoluta verità, della assoluta ragione, della assoluta giustizia e basta che sia scoperto
perché conquisti il mondo con la propria forza” (Engels, 1876-78, 22). A una tale
impostazione i due rivoluzionari tedeschi contrappongono un approccio ermeneutico
all’eticità e un’analisi realista della produzione sociale delle norme morali e
giuridiche, in una visione che, sulla scorta di Machiavelli e Spinoza, considera “il
potere come fondamento del diritto; con ciò la concezione teorica della politica [è]
emancipata dalla morale” (Marx ed Engels, 1845-46, 305).
Mi sembra evidente che il modello di democrazia partecipativa di Marx ed
Engels non possa esse tacciato di “utopismo” nel senso che essi attribuiscono a
questo concetto. La democrazia, secondo loro, emerge dalla lotta di classe ed assume
forme diverse a seconda delle circostanze storiche e delle condizioni tecniche e
istituzionali in cui si sviluppa il conflitto. Per altro le più esplicite e precise delle loro
indicazioni sulla democrazia partecipativa emergono come generalizzazioni da
riflessioni su concreti esperimenti storici di costruzione del comunismo, specialmente
quello della Comune di Parigi.
15
Mi limiterò a rinviare a Screpanti (2007, capp. 3-5).
19
Forse la teoria dell’estinzione dello Stato abbozzata dai giovani Marx ed
Engels, specialmente per via dei residui di hegelismo e saintsimonismo che la
caratterizzano, può essere accusata di “utopismo” in quel senso; non certo la teoria
della costruzione della democrazia radicale che essi elaborano nelle opere della
maturità, quando dichiarano esplicitamente che
“è un'assurdità dire che le funzioni centrali [dello Stato], non le funzioni di dominio sul popolo, ma
quelle rese necessarie dai bisogni generali e ordinari del paese, non potevano più essere assicurate.
Queste funzioni dovevano esistere, ma i funzionari stessi non potevano più, come nel vecchio
apparato governativo, elevarsi al di sopra della società reale, perché le funzioni dovevano essere
assunte da agenti comunali e sottoposte, di conseguenza, a un vero controllo” (Marx, 1871b, 271).
Dunque chi accusa Marx ed Engels di utopismo lo fa dando a questo termine proprio
il banale significato di “irrealismo”. Ma una critica del genere è teoricamente debole
per il semplice fatto che la realtà storica è un processo evolutivo, cosicché la
realizzabilità o irrealizzabilità di un modello alternativo di società viene a dipendere
dalle condizioni tecnologiche e istituzionali della società concreta cui si fa
riferimento. Nell’Ottocento molti studiosi tacciavano di “utopismo” anche un
modello definito dai primi quattro punti sopra elencati. Eppure oggi quel modello è
perfettamente realizzato in diversi paesi.
I punti della teoria marxista su cui più decisamente si è appuntata la critica
sono il 7, l’8 e il 9. Sulla necessità di abolire la classe politica Marx ed Engels sono
molto fermi, in quanto vedono nei politici di professione i soggetti attivi dei processi
di espropriazione del potere decisionale dei cittadini. Però le loro proposte pratiche
non sembrano particolarmente convincenti. La riduzione degli onorari dei politici ai
livelli dei salari operai toglie uno degli incentivi della “professione”, ma non certo
quelli più forti, il potere, il prestigio, i benefici collaterali, la possibilità di accedere
alla ricchezza pubblica. La proposta di attribuire l’elettorato passivo prevalentemente
a cittadini provenienti dalla classe operaia, sembra più energica; ma è vulnerabile alla
critica di Bakunin, secondo cui gli operai, non appena diventano governanti del
popolo, cessano di essere operai e tendono a “rappresentare” se stessi invece che il
popolo.
Più efficace potrebbe essere una norma che proibisse la rieleggibilità nelle
cariche politiche. Ma anche così, resta aperto, anzi si aggrava, il problema di “chi
controlla i controllori”. Se non esiste la minaccia della non rielezione, quello della
delega diventa un gioco a mossa unica. E allora chi può contrastare la tendenza
all’opportunismo degli amministratori del bene pubblico?
Per Marx un’efficace garanzia del controllo dei politici da parte dei cittadini
sarebbe offerta degli istituti del mandato imperativo e della revocabilità delle deleghe
in qualsiasi momento. Ora, quanto al mandato imperativo, esiste un problema di
determinazione dei termini di mandato che è molto simile a quello dell’incompletezza
contrattuale. Le scelte pubbliche sono fortemente dipendenti dalle circostanze
specifiche in cui sorgono i problemi politici. Quanto particolareggiati devono essere i
mandati per impedire il free riding dei mandatari? E quanto possono esserlo? Quale
mandato imperativo può prevedere con precisione tutti i problemi che si apriranno nel
corso di una legislatura? D’altronde la necessità stessa della delega deriva proprio
dalle “circostanze impreviste” che rendono impossibile definire con completezza i
20
termini di mandato. Come osserva acutamente Engels (1872, 851): “se tutti i corpi
elettorali dessero mandati imperativi per tutti i punti all’ordine del giorno,
diventerebbero superflue le riunioni dei delegati e i loro dibattiti”. In pratica però si
possono avere effetti perversi: “È questo dunque il modo effettivo di maneggiare un
mandato imperativo. Il delegato, quando gli è comodo, obbedisce, in caso contrario si
riferisce a circostanze impreviste e fa alla fine ciò che gli aggrada” (ivi, 854).16
Certo, i mandati possono assumere la forma di programmi più o meno ben
definiti, e i deputati possono essere lasciati liberi di interpretarli nel momento in cui
devono effettuare delle scelte. Ma poi cosa garantisce che la loro interpretazione
coinciderà con quella dei mandanti? Come si fa a vincolare strettamente i
parlamentari a rispettare dei mandati formali incompleti?
Di qui l’esigenza di assicurare le condizioni per l’esercizio di un controllo
continuo degli elettori sull’operato degli eletti. E di qui la necessità di assegnare ai
cittadini un fondamentale diritto di revoca delle deleghe. Dunque il punto 8 del
modello di Marx ed Engels è decisivo, è il più importante di tutti. Solo esso può
garantire l’efficacia del mandato formale e impedire la trasformazione dei
rappresentanti del popolo in politici di professione svincolati dalla volontà degli
elettori. Ma come si esercita un tale diritto? Chi lo esercita? Si pongono in
particolare due problemi che sembrano veramente ostici.
Il primo è connesso al carattere segreto del voto. Se un deputato volesse
rendere conto ai propri elettori, come potrebbe identificarli? Come si fa a riconoscere
i mandanti di ogni singolo deputato, se il voto è segreto? Si potrebbe pensare di
aggirare il problema con la mediazione partitica. I partiti, che hanno definito i
programmi, si occupano di esercitare il controllo sugli eletti supponendo di averne
ricevuto mandato dagli elettori. Ma in tal modo il problema viene solo spostato verso
l’alto. Chi controlla poi i controllori? I partiti rendono conto ai propri elettori solo
ogni 5 anni. Cosicché, anche ammesso che le elezioni periodiche siano un modo
efficiente di controllo democratico, il diritto di revoca non può essere comunque
esercitato in modo continuo. Ma è questo un metodo di controllo così efficiente? E
quanto è trasparente? Si sa che il rapporto tra partiti ed elettori non è molto
democratico, se non altro perché il flusso delle informazioni viaggia dai primi ai
secondi piuttosto che nell’altra direzione. Soprattutto in forza del potere sulla
produzione e la diffusione delle ideologie, è più probabile che i partiti esercitino
influenza sugli elettori che viceversa. E resta comunque aperto il problema del
rapporto tra il singolo elettore e il deputato per cui ha votato. Se il primo ha votato
per un partito di cui fanno parte molti deputati, come fa ad identificare il proprio
rappresentante? E come fa a sceglierlo se le liste elettorali sono decise dai partiti?
Ma esiste una difficoltà ancora più seria. Se i programmi-mandati e le liste
elettorali sono definiti dai partiti, cosa impedisce a questi di agire come
organizzazioni dei politici di professione piuttosto che delle classi che vogliono
rappresentare? Non si verificherà una naturale tendenza degli eletti a rendere conto ai
gruppi dirigenti dei loro partiti piuttosto che agli elettori? E non potrà accadere che i
partiti cercheranno di dominare gli eletti sostituendosi agli elettori? È proprio questo
il rischio paventato da Engels (ivi, 855-6):
Engels affronta questo problema con riferimento alla lotta politica nella Prima Internazionale, per criticare l’uso
scorretto dei mandati imperativi da parte degli anarchici. Ma le sue osservazioni hanno una portata teorica più generale.
16
21
“Questo mandato rende palese la situazione nella sua totalità che domina nell’Alleanza [anarchica],
dove malgrado tutte le frasi sull’anarchia, sull’autonomia, sulla libera federazione in realtà vi sono
soltanto due possibilità: l’autorità e l’obbedienza […] Il mandato imperativo è un mezzo di
predominio estremamente efficace, e precisamente per questo motivo l’Alleanza ne sostiene l’autorità
[…] Il consiglio federale spagnolo, così antiautoritario, anarchico ecc., ha dunque centralizzato nelle
sue mani i contributi per inviare i delegati all’Aja; esso stesso ha modellato le elezioni di questi
delegati”
Si capisce che proprio sulla proposta del diritto di revoca si sono appuntate le più
forti critiche di irrealismo al modello di Marx. Vedi ad esempio quanto dice Bobbio
(1976, 61-2) a proposito di “una grande assemblea abbandonata alla spontaneità dei
propri impulsi”; a suo modo di vedere “non ha mai revocato alcun mandato”; e
sembrerebbe che non possa farlo per motivi tecnici.
Ebbene credo si possa dire: per fortuna Marx ed Engels hanno sempre evitato
di entrare nei particolari della costituzione alternativa che prefigurano. Se lo avessero
fatto, molte delle loro tesi potrebbero risultate datate e superate. E invece
l’evoluzione tecnologica e istituzionale può rendere facilmente risolvibili problemi
che ai loro tempi, e ancora a quelli di Bobbio, sembravano insormontabili. Penso alle
enormi potenzialità aperte dalle nuove tecnologie dell’informazione e della
comunicazione, tecnologie che hanno indotto molti studiosi a parlare concretamente
della possibilità di una democrazia partecipativa diffusa e continua. Il dibattito su
questi temi è oggi vastissimo, ma mi sembra che non sia stata finora indagata una
delle più interessanti di tali potenzialità, quella di cui tratto in appendice: rendere
attuabile un efficace diritto alla revoca delle deleghe. E se è risolto il problema
dell’attuazione del punto 8, sono risolvibili anche gli altri.
Appendice: Un sistema elettorale che potrebbe piacere a Marx ed Engels
Si consideri un collegio elettorale in cui sono presenti n elettori e vengono eletti x
deputati. Risulta eletto il candidato che riceve almeno q=n/x voti. Ogni candidato
resta in carica per una sola legislatura e non può ripresentarsi in altre elezioni. Ogni
partito presenta una lista di candidati. I partiti e i singoli candidati hanno dei siti web
e degli indirizzi di posta elettronica. All’inizio della campagna elettorale i partiti
presentano i programmi nei propri siti. I singoli candidati possono presentare le
proprie personali aggiunte al programma del partito di cui fanno parte. Gli elettori
possono avanzare critiche e suggerimenti e i programmi possono essere modificati in
corso di campagna elettorale. Un certo numero di giorni prima delle elezioni i
programmi definitivi vengono pubblicati e depositati in un ufficio comunale. Da quel
momento costituiscono i mandati formali dei deputati che risultano eletti nelle liste
che li hanno formulati.
Il voto è elettronico e segreto. Ogni elettore ha un nickname e una password
elettorali personali, concepiti in modo tale che nessuno possa risalire alla sua identità
anagrafica. L’elettore può votare solo per un partito ed eventualmente esprimere una
preferenza per un candidato della sua lista. Poniamo che la lista Lp del partito P riceva
mp voti. Risulteranno eletti zp=mp/q dei suoi candidati. Sia Mp l’insieme degli elettori
22
del partito, Fi l’insieme degli elettori che hanno dato la preferenza al deputato Di,
(i=1,…, zp), e Mi={Mp — Fi} l’insieme degli altri elettori del partito. Sia fi il numero di
elementi di Fi e mi quello degli elementi di Mi. Il deputato Di sarà stato eletto da un
insieme di elettori Ei così concepito:
Ei={FiUMi}, se fi≤q
Ei={Fi}, se fi>q.
Ogni elettore appartenente a Fi ha inciso sull’elezione di Di con un voto che vale 1.
Invece ognuno di quelli appartenenti a Mi ha inciso sull’elezione di Di con un voto
che vale (q-fi)/(mp-fi). Ovviamente, se Fi è vuoto, sarà Ei=Mi=Mp. Cioè il deputato che
non ha ricevuto nessuna preferenza avrà un insieme di elettori composto da quelli che
hanno votato per il suo partito. Ognuno di essi avrà inciso sulla sua elezione con un
voto che vale q/mp=1/zp.
In questa maniera ogni deputato sarà associato all’insieme dei suoi elettori, la
lista dei quali gli verrà comunicata da un computer che svolge funzione di
commissione elettorale. Verranno comunicati i nickname degli elettori, non le loro
identità anagrafiche. Poiché l’insieme degli elettori di un deputato è composto da
quelli che gli hanno dato la preferenza più, eventualmente, gli altri che hanno votato
per il suo partito, ogni elettore saprà qual è il suo o i suoi deputati. Ogni deputato ha
una mailing list ristretta ufficialmente riconosciuta a cui possono accedere con diritto
di revoca solo i suoi elettori. Ogni elettore potrà accedere con diritto di revoca solo
alle mailing list ristrette del suo o dei suoi deputati.
Diventa possibile uno stretto controllo sul deputato da parte dei suoi elettori.
Questi possono interloquire con lui attraverso la sua mailing list. Ogni mailing list
ristretta è un forum elettronico in cui gli elettori dialogano tra loro e con i loro
deputati. Gli elettori possono avanzare suggerimenti e critiche. Ogni deputato effettua
scelte politiche in piena autonomia, ma resta responsabile verso i suoi elettori per il
perseguimento degli obiettivi definiti dal programma-mandato.
Può accadere che alcuni elettori siano insoddisfatti del comportamento del loro
deputato e non riescano a farlo cambiare con le critiche e i suggerimenti. Allora, in
qualsiasi momento, si può avviare un procedimento di revoca della delega. Un certo
numero φ<q di elettori del deputato Di può chiedere la verifica del mandato. Si
avvierà un dibattito nella mailing list di quel deputato e in quella del suo partito.
Dopo un certo numero di giorni, gli elettori di Di saranno chiamati a confermare il
mandato elettorale con un voto elettronico. Voteranno tutti gli elettori appartenenti a
Fi e, se fi<q, tutti gli altri elettori del partito di Di. Risulterà revocato il mandato del
deputato che sia stato sfiduciato da più della metà dei suoi elettori. In questa
votazione ogni elettore che aveva espresso preferenza per il deputato Di avrà un voto
che vale 1, mentre ognuno di quelli che non avevano espresso preferenza per Di avrà
un voto che vale (q-fi)/(mp-fi).
Facciamo un esempio. Prendiamo un collegio in cui ci sono n=1.000.000 di
elettori e vengono eletti 10 deputati. Per essere eletti bisogna ottenere almeno
q=100.000 voti. Il partito P ottiene 300.000 voti ed avrà tre deputati, D1, D2 e D3.
Poniamo che il deputato D1 abbia ricevuto 120.000 preferenze, D2 ne abbia ricevute
80.000 e D3 non ne abbia ricevuta nessuna. Gli elettori di D1 sono quei 120.000 che lo
23
hanno preferito. Quelli di D2 sono quegli 80.000 che lo hanno preferito più, in
subordine, tutti altri che hanno votato per il suo partito. Quelli di D3 saranno tutti
coloro che hanno votato per il suo partito.
Mettiamo che sia stabilito φ=q/10. Allora se 10.000 elettori di D1 chiedono la
verifica del mandato, i suoi 120.000 elettori saranno richiamati a votare. Se 60.000+1
gli tolgono la delega, D1 decadrà dal mandato.
Se la verifica viene chiesta per il deputato D2, dovrà essere proposta da 8.000
degli elettori che gli hanno dato la preferenza, più 22.000 degli altri elettori del suo
partito. Andranno a votare tutti gli elettori del partito. Gli 80.000 che hanno dato la
preferenza a D2 voteranno con un voto che vale 1, gli altri con un voto che vale
20.000/220.000=0,090909. Se 40.000 degli elettori che gli avevano dato la
preferenza, più 110.000=10.000/0,090909 degli altri elettori del partito, più 1, gli
tolgono la delega, il deputato D2 decadrà dal mandato. Ma decadrà anche se, ad
esempio, la delega gli viene tolta da 30.000 degli elettori che gli avevano dato la
preferenza, più 220.000=20.000/0,090909 degli altri elettori del partito, più 1; oppure
se la delega gli viene tolta da 35.000 degli elettori che gli avevano dato la preferenza,
più 165.000=15.000/0,090909 degli altri elettori, più 1.
Poniamo infine che la verifica venga richiesta per il deputato D3. Potrà essere
richiesta da 30.000 degli elettori del suo partito, ogni elettore avendo un voto che vale
1/3. Tutti i 300.000 elettori del partito verranno chiamati a votare. Il deputato decadrà
dal suo mandato se 150.000+1 elettori gli tolgono la delega.
Questo sistema di peso dei voti produce un interessante effetto di dominanza
della preferenza che merita di essere posto in luce. Si noti che, se la delega di D2
viene tolta da meno di 30.000 degli elettori che gli hanno dato la preferenza, la massa
degli altri elettori del partito non è in grado di contribuire alla revoca del mandato. Ad
esempio se solo 24.000 degli elettori che lo hanno preferito votano per la revoca,
sarebbe necessario un voto negativo di altri 286.000=26.000/0,090909 per
raggiungere il 50% di voti di revoca. Ma gli altri elettori sono solo 220.000. L’effetto
è tanto più forte quanto maggiore è il numero di preferenze ricevute da un candidato.
Nel caso limite dell’eletto le cui preferenze sono in numero non minore di q, ad
esempio D1, nessuno degli altri elettori del partito può contribuire alla revoca.
L’effetto di dominanza delle preferenze ha senso. Gli elettori che esprimono
una preferenza scelgono un candidato personale con un voto che, proprio in quanto
esprime una scelta specifica, deve avere sul controllo del candidato un peso maggiore
di quello degli elettori che non danno preferenze. Una conseguenza positiva
dell’effetto è che gli elettori che esprimono preferenze hanno più peso degli apparati
di partito nella scelta e nel controllo dei deputati. Il partito ovviamente conserva un
notevole potere, in quanto determina le liste elettorali. Ma l’ordinamento deciso dal
partito può essere ribaltato dagli elettori che esprimono preferenze. E un’eventuale
campagna di revoca lanciata dal partito per motivi di disciplina interna piuttosto che
di rispetto del mandato potrebbe essere inefficace per gli eletti che hanno ottenuto
molte preferenze. I candidati sono in tal modo incentivati ad ottenere molte
preferenze e quindi a sforzarsi di esprimere gli specifici bisogni e volontà degli
elettori. Gli eletti che ottengono molte preferenze si rendono più autonomi dal partito
e più dipendenti dai loro elettori. Si noti infine che, in virtù di tale effetto, gli elettori
sono incentivati ad esprimere preferenze. Infatti un elettore che non esprime
24
preferenza può esercitare influenza e diritto di revoca su tutti gli eletti del partito con
un voto che pesa molto poco. Invece quello che esprime una preferenza ha un’elevata
influenza sul proprio deputato, ma può conservare anche una certa influenza su tutti
gli altri eletti del partito.
Una volta tolto il mandato a un deputato, verrà immediatamente avviata la
procedura di elezione per un deputato sostitutivo. Ovviamente voteranno solo gli
elettori del deputato sfiduciato. Non è il caso ora di stare ad approfondire troppo,
anche perché il modello di sistema elettorale che ho presentato è molto semplificato e
non ha nessuna pretesa di essere applicabile immediatamente.
Lo scopo che mi sono prefissato è puramente teorico: mostrare che le moderne
tecnologie dell’informazione e della comunicazione rendono possibile realizzare un
sistema elettorale che soddisfa le indicazioni marxiane sulla democrazia radicale.
Anche in una democrazia rappresentativa, e anche se è basata sui partiti, si può avere
una partecipazione continua dei cittadini al processo politico, un uso dei programmi
come documenti che definiscono dei mandati formali, un dialogo permanente tra gli
elettori e i loro deputati, un’estesa capacità di controllo dei primi sui secondi, capacità
che si basa soprattutto sull’esercizio del diritto di revoca delle deleghe da parte degli
elettori. Il tutto senza che venga meno la segretezza del voto.
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