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le regole della democrazia partecipativa
LE REGOLE DELLA DEMOCRAZIA PARTECIPATIVA LE REGOLE DELLA DEMOCRAZIA PARTECIPATIVA ITINERARI PER LA COSTRUZIONE DI UN METODO DI GOVERNO a cura di Alessandra Valastro JOVENE EDITORE 2010 Il presente volume è pubblicato nell’ambito e con il contributo del progetto di ricerca PRIN 2007 su «Federalismo come metodo di governo partecipato: cultura giuridica e dinamiche istituzionali dei processi partecipativi a confronto». DIRITTI D’AUTORE RISERVATI © Copyright 2010 ISBN 88-243-1985-8 JOVENE EDITORE Via Mezzocannone 109 - 80134 NAPOLI NA - ITALIA Tel. (+39) 081 552 10 19 - Fax (+39) 081 552 06 87 web site: www.jovene.it e-mail: [email protected] I diritti di riproduzione e di adattamento anche parziale della presente opera (compresi i microfilm, i CD e le fotocopie) sono riservati per tutti i Paesi. Le riproduzioni totali, o parziali che superino il 15% del volume, verranno perseguite in sede civile e in sede penale presso i produttori, i rivenditori, i distributori, nonché presso i singoli acquirenti, ai sensi della L. 18 agosto 2000 n. 248. È consentita la fotocopiatura ad uso personale di non oltre il 15% del volume successivamente al versamento alla SIAE di un compenso pari a quanto previsto dall’art. 68, co. 4, L. 22 aprile 1941 n. 633. Printed in Italy Stampato in Italia “Proprio queste masse così distaccate e ostili, nei confronti dello Stato moderno, cos’altro sono infine se non la somma dei quotidiani tradimenti dello Stato, dei quotidiani abbandoni in cui lo Stato moderno ha via via isterilito la propria originale ed originaria ispirazione? – cosa se non la somma cioè delle risposte che lo Stato moderno non ha saputo dare, dopo tutto ciò che aveva promesso all’uomo, alle domande che la vita sociale e politica, stimolata dalla stessa vicenda dello Stato, gli ha rivolto nel gioco sparso ma essenziale dell’esperienza?”. [Antonio Pigliaru, La piazza e lo Stato, Ed. Ichnusa, Sassari, 1961, 80] INDICE Premessa ................................................................................................................. p. XIII INTRODUZIONE ALESSANDRA VALASTRO PARTECIPAZIONE, POLITICHE PUBBLICHE, DIRITTI 01. La partecipazione come metodo di governo della democrazia pluralista: le ragioni e gli ostacoli di un processo regolativo............................................. 02. Il rilievo costituzionale della partecipazione e la portata normativa del concetto di “democrazia partecipativa” ........................................................ 03. La complessità delle pretese partecipative nel quadro delle categorie tradizionali dei diritti: nuovi “diritti sociali di partecipazione”? ................. 04. Non solo diritti: la rilevanza dei principi di solidarietà e sussidiarietà ....... 05. Una prospettiva ulteriore e convergente: il federalismo cooperativo come metodo di governo partecipato ........................................................... 06. Indicazioni per il legislatore. A) I “macro-principi” della democrazia partecipativa come oggetto di politica pubblica in sé: finalità, livelli essenziali, soggetti istituzionali, tecniche di normazione ............................................... 07. (Segue) I “micro-principi” delle politiche partecipative nell’ambito delle singole policies: profili sostanziali, organizzativi e procedurali .................... 08. Il ruolo strategico delle regioni: chiaroscuri e linee di tendenza della legislazione regionale dal 2001 ad oggi ............................................................ 09. Spunti conclusivi: le sfide della responsabilità e della qualità della partecipazione ......................................................................................................... » 1 » 10 » » 16 20 » 24 » 26 » 34 » 38 » 48 01. Senso di un titolo e delimitazione di contenuti, passando per alcuni punti di domanda ..................................................................................................... » 02. C’è qualcosa di nuovo… anzi d’antico! ........................................................ » 57 61 PARTE PRIMA PARTECIPAZIONE E FEDERALISMO MARGHERITA MARIA PROCACCINI PARTECIPAZIONE E FEDERALISMO: LESSICO E STRUMENTI DI UN METODO DI GOVERNO VIII 03. 04. 05. 06. 07. INDICE Rapido excursus fra cose note… ................................................................... … e qualche passo in più tra fatti e norme .................................................. Per non perdere l’orientamento .................................................................... Il filo di Arianna ............................................................................................ Senza concludere, tra parole della politica e politica delle parole .............. p. » » » » 63 67 71 74 77 » » » » » » » » » » 81 83 84 86 87 89 91 92 93 96 » » » » » » » » 101 102 104 107 109 110 111 114 » » » » » » » » 117 121 123 125 127 129 130 130 THEO TOONEN FEDERALISMO, PARTECIPAZIONE E TRASFORMAZIONE NEI PAESI BASSI: DISEGNO E SVILUPPO DELLO STATO UNITARIO OLANDESE COME SISTEMA DI GOVERNO PARTECIPATO 01. Introduzione ................................................................................................... 02. Origini istituzionali: sussidiarietà e federalismo olandese ............................ 02.1. Federalismo olandese ........................................................................... 02.2. Post federalismo .................................................................................... 03. Disegno istituzionale: uno stato unitario non centralizzato ......................... 03.1. Il disegno costituzionale del 1848 ....................................................... 03.2. Unitarismo consensuale ........................................................................ 04. Sviluppo istituzionale: sussidiarietà e federalismo sociologico..................... 04.1. Pluralismo nella interdipendenza ......................................................... 04.2. Processo di non-federalizzazione ......................................................... 05. Partecipazione istituzionale: condivisione del potere e decentralizzazione collaborativa .................................................................................................... 05.1. Autogoverno locale e co-governance .................................................... 05.2. Decentralizzazione collaborativa ......................................................... 06. Trasformazione istituzionale: nuove forme di regolazione e controllo ....... 06.1. Monitoraggio ......................................................................................... 06.2. Controllo dell’esecutivo ........................................................................ 06.3. Innovazione del diritto amministrativo ............................................... 06.4. Separazione delle funzioni ................................................................... ANTOINE CHOLLET LA PARTECIPAZIONE IN UNA DEMOCRAZIA «DIRETTA»: IL CASO DELLA SVIZZERA 01. 02. 03. 04. 05. 06. 07. Premessa: alcune osservazioni sul concetto di partecipazione ...................... Il contesto svizzero ........................................................................................... Presentazione degli strumenti referendari ...................................................... Effetti conservatori del sistema referendario .................................................. La classe politica e la democrazia diretta ....................................................... Democrazia diretta e mito nazionale .............................................................. I problemi aperti ............................................................................................... 07.1. Decisione, potere e azione ....................................................................... IX INDICE 07.2. Partecipazione e rappresentazione ........................................................... 07.3. Controllo giuridico e giudiziario ............................................................. 07.4. Legitimazione o libertà ............................................................................ 08. Conclusioni ..................................................................................................... p. » » » 132 134 136 137 PARTE SECONDA PARTECIPAZIONE, SOGGETTI, STRUMENTI DANIELE DONATI PARTECIPAZIONE COME CATEGORIA, IDENTITÀ E RAPPRESENTANZA. RUOLO E CONTRADDIZIONI DELLE NUOVE FORME ASSOCIATIVE 01. La partecipazione come pratica, come principio e come categoria giuridicamente rilevante ...................................................................................... 02. Una possibile definizione della “partecipazione”. La partecipazione come metodo procedurale ....................................................................................... 03. Le categorie della partecipazione .................................................................. 03.1. Democrazia rappresentativa e democrazia diretta .............................. 03.2. Democrazia partecipativa ..................................................................... 04. I criteri di differenziazione tra democrazia rappresentativa, diretta, partecipativa ......................................................................................................... 04.1. Pluralità delle forme ............................................................................. 04.2. Partecipazione informale e formalizzata .............................................. 05. I soggetti della partecipazione ....................................................................... 05.1. I soggetti di parte pubblica .................................................................. 05.2. I soggetti privati .................................................................................... 06. Crisi ed evoluzione delle forme rappresentative e dei sistemi di rappresentazione degli interessi. L’interesse pubblico tra circuito democratico rappresentativo e circuito della partecipazione ............................................ 07. Cittadinanza, individui e nuove forme rappresentative ............................... 08. Identità e rappresentanza. Conclusioni ......................................................... » 141 » » » » 146 149 149 151 » » » » » » 154 154 157 162 162 166 » 172 » 182 » 185 JEAN PAUL VARGAS - MELISSA ZAMORA LA SFIDA CENTROAMERICANA: TRA RAPPRESENTAZIONE E PARTECIPAZIONE 01. 02. 03. 04. Una contestualizzazione della regione centroamericana .............................. Tendenze della partecipazione ....................................................................... Dal nazionale al locale ................................................................................... Sfide della regione in materia di partecipazione .......................................... » » » » 189 193 200 202 X INDICE FILIPPO OZZOLA PARTECIPAZIONE, ASIMMETRIE INFORMATIVE E COMUNICAZIONE PUBBLICA 01. 02. 03. 04. 05. 06. 07. 08. Premessa.......................................................................................................... Fiducia, relazioni, partecipazione .................................................................. Confini e dimensioni ...................................................................................... Asimmetrie informative: il caso sanità .......................................................... Agire orientato all’intesa ................................................................................ Partecipazione e comunicazione: il caso Unione Europea........................... Comunicazione, empowerment, partecipazione ............................................ Conclusioni ..................................................................................................... p. » » » » » » » 209 211 215 220 225 227 232 238 » » » » » 239 240 243 245 247 ELDA BROGI LA PARTECIPAZIONE ELETTRONICA 01. 02. 03. 04. 05. Partecipazione elettronica, better regulation, democrazia ............................ Il ruolo dell’Europa ....................................................................................... Livelli di partecipazione elettronica .............................................................. Web 2.0 e partecipazione elettronica. Nuove prospettive tecnologiche ...... Politiche per l’e.participation ......................................................................... PARTE TERZA PARTECIPAZIONE, FUNZIONI PUBBLICHE, GARANZIE NICOLA BIANCUCCI LE ESPERIENZE DELLE ASSEMBLEE LEGISLATIVE REGIONALI PER LA PROMOZIONE DELLA PARTECIPAZIONE E DELLA CITTADINANZA ATTIVA 01. 02. 03. 04. Premessa.......................................................................................................... Una legge per la partecipazione .................................................................... E-democracy e cittadinanza ............................................................................ Considerazioni finali ...................................................................................... » » » » 251 252 254 258 CARLA SEGOLONI FELICI LA PARTECIPAZIONE ORIZZONTALE E VERTICALE NEI PAESI BASSI: LE RELAZIONI FRA I PIANI DELLA «CASA DI THORBECKE» E IL CASO DELLA WMO I. LE RAGIONI DI INTERESSE PER IL MODELLO OLANDESE ....................................... » 263 01. Introduzione ................................................................................................... » 263 02. Caratteristiche istituzionali: la frammentazione territoriale e funzionale .... » 266 XI INDICE 03. 04. 05. 06. (Segue) La frammentazione politico-amministrativa .................................... Le politiche per la decentralizzazione e la partecipazione verticale ............ Il Codice per le interlocuzioni istituzionali ................................................... Gli accordi più recenti fra Governo, Comuni e Province ........................... II. IL p. » » » 271 273 276 281 CASO DELLA LEGGE OLANDESE IN MATERIA SOCIO-ASSISTENZIALE: IL DOPPIO BINARIO DELLA PARTECIPAZIONE E L’ORIZZONTALIZZAZIONE DELLE RESPONSABILITÀ ............................................................................................................... 07. La legge per il sostegno sociale WMO e le sue finalità ............................... 07.1. Il concetto di partecipazione alla vita sociale e l’obbligo di compensazione da parte dei Comuni ........................................................... 07.2. Altri scopi della legge ............................................................................ 07.3. Aspetti organizzativi e finanziari ........................................................... 08. Il work in progress della legge WMO ........................................................... 08.1. L’Ufficio di implementazione della WMO e il sito dedicato ................ 08.2. Altre attività di comunicazione ............................................................. 08.3. Il percorso di implementazione ............................................................. 08.4. I rapporti del Ministero ed altri rapporti .............................................. 08.5. La valutazione ....................................................................................... 08.6. Il programma universitario di ricerca WMO e la cittadinanza attiva ......................................................................................................... 08.7. Il nuovo programma per migliorare la qualità della WMO ................. 09. La delega ai Comuni per l’attuazione della WMO: i binari della partecipazione e l’orizzontalizzazione delle responsabilità ................................ 09.1. I campi di prestazione ............................................................................ 09.2. Gli intrecci e l’orizzontalizzazione delle responsabilità ......................... 10. Il ruolo degli organi pubblici di controllo .................................................... 10.1. L’Algemene Rekenkamer ....................................................................... 10.2. La Camera comunale dei conti .............................................................. 10.3. Gli Ombudsman comunale e nazionale ................................................ » 283 » 283 » » » » » » » » » 284 285 285 287 288 289 289 292 292 » 293 » 294 » » » » » » » 295 295 296 298 298 299 299 SERENA CINQUE - ANNELIE SJÖLANDER-LINDQVIST L’EVOLUZIONE DEGI ESPERIMENTI PARTECIPATIVI IN SVEZIA 01. La partecipazione in Svezia: una lunga tradizione storica............................ 02. Forme di partecipazione: dal dialogo mediato al dialogo diretto con il cittadino .......................................................................................................... 03. Il nuovo esperimento: l’amministrazione collaborativa ............................... 04. Considerazioni conclusive: i sentieri della partecipazione in Svezia ........... » 305 » 307 » 312 » 316 FABIO GIGLIONI LA PARTECIPAZIONE ALL’ATTIVITÀ DI CONTROLLO 01. Le ragioni alla base della partecipazione all’attività di controllo ................ » 321 02. Le forme di partecipazione all’attività di controllo ...................................... » 325 XII INDICE 03. La descrizione delle forme di controllo partecipato .................................... 03.1. Il controllo partecipato dei cittadini utenti ......................................... 03.2. Il controllo partecipato a esito di un ordinario procedimento amministrativo ............................................................................................ 03.3. Il controllo partecipato in funzione della responsabilizzazione ......... 03.4. Il controllo partecipato in via mediata attraverso la giurisdizione amministrativa ....................................................................................... 03.5. Il controllo partecipato con origine a-giuridica .................................. 04. Analisi delle forme partecipatorie ................................................................. 05. Il fondamento giuridico della partecipazione dei privati all’attività di controllo .......................................................................................................... p. 327 » 327 » 333 » 337 » 342 » 346 » 349 » 353 RENATO CAMELI IL CONTROLLO DELLA PARTECIPAZIONE. PROFILI ISTITUZIONALI E DI GARANZIA 01. Una premessa di metodo ............................................................................... » 357 02. 03. 04. 05. 01.1. Le difficoltà nella delimitazione dell’ambito di indagine ................... 01.2. Superamento della critica e necessità di una ricostruzione sistematica .................................................................................................... La funzione di controllo dei soggetti istituzionali ........................................ 02.1. La Corte dei Conti ............................................................................... 02.2. Il difensore civico ................................................................................. L’attività giurisdizionale quale elemento di garanzia della partecipazione ... 03.1. Una breve analisi di diritto comparato ............................................... 03.2. L’estensione giurisprudenziale della partecipazione al procedimento e della legittimazione al processo quale premessa per un sindacato giurisdizionale sulla corretta partecipazione ....................................... 03.3. Le prime pronunce sulla partecipazione ai processi decisionali ........ I requisiti soggettivi della partecipazione come elemento di garanzia ........ Osservazioni conclusive.................................................................................. 05.1. Profili di mutamento della funzione di controllo nel contesto della democrazia partecipativa ...................................................................... 05.2. Il controllo quale funzione di garanzia ................................................ » 357 » » » » » » 360 362 362 368 371 371 » » » » 373 375 378 381 » 381 » 384 JEAN-FRANÇOIS BERAUD IL CASO DELLA FRANCIA: LA COMMISSION NATIONALE DU DÉBAT PUBLIC 01. 02. 03. 04. 05. Premessa: genesi e contesto ........................................................................... La CNDP e la procedura di dibattito pubblico ........................................... Le principali problematiche poste dal metodo del dibattito pubblico ....... Il caso del dibattito pubblico sulle nanotecnologie ...................................... Le sfide ........................................................................................................... NOTIZIE SUGLI AUTORI » » » » » 387 389 391 393 395 ............................................................................................. » 397 PREMESSA Pur essendo pacificamente considerato come uno dei fondamenti della democrazia e dello Stato costituzionale, il tema della «partecipazione» è da sempre oggetto di ricostruzioni e attuazioni oscillanti, frammentarie, contraddittorie: percorsi accidentati che reclamano garanzie di effettività, come rivela il rinnovato dibattito degli ultimi anni intorno ai temi della «democrazia partecipativa» e della «democrazia deliberativa». Le riflessioni e gli itinerari di ricerca che qui si propongono nascono dal convincimento, condiviso dagli autori, che la sfida della qualità e della effettività della partecipazione, sottostante alla più generale e pressante sfida democratica che le società contemporanee si trovano ad affrontare, imponga di spostare l’attenzione dai più tradizionali strumenti di partecipazione diretta e di pressione politica a quelli volti a sostenere e completare la rappresentanza, assicurando e accrescendo l’efficacia e la qualità dei processi decisionali pubblici; e ciò non soltanto con riferimento a fenomeni ormai consolidati, come quello della partecipazione al procedimento amministrativo, bensì anche a funzioni pubbliche tradizionalmente più impermeabili alla società civile e tuttavia ancor più bisognose del coinvolgimento di questa, come la funzione legislativa (e normativa in genere), la funzione di controllo, la funzione di garanzia. La recente esplosione di forme nuove di manifestazione delle istanze della società civile, attraverso le quali si reclama il riavvicinamento della «piazza» alle istituzioni, dei governati ai governanti, altro non è che il prodotto delle ripetute delusioni prodotte da una politica che non ascolta e da un principio di sovranità popolare troppo spesso tradito. Ma la sempre più pressante richiesta di effettività della partecipazione conduce con sé la necessità di garanzie; e l’efficacia di queste impone a sua volta l’apprestamento di regole, pur adeguate alle specificità dei valori e interessi da tutelare e tali da non frustrarne le multiformi potenzialità espressive. XIV PREMESSA Se appare allora incontestabile che la partecipazione degli individui alla costruzione e gestione della res pubblica costituisce da sempre misuratore infallibile del livello di democraticità di un sistema, obiettivo di questo volume è di indagare l’opportunità, i contesti e i contenuti di un quadro di regole che facciano della partecipazione un metodo di governo, a tutti i livelli istituzionali e territoriali: un’indagine che non intende limitarsi all’approfondimento teorico, troppo esposto ai tranelli della retorica e ai danni dei facili entusiasmi, ma si alimenta dell’analisi concreta dei processi regolativi in atto e delle esperienze (anche di altri Paesi). L’intento è quello di tracciare un percorso circolare nel quale l’irrinunciabile richiamo delle problematiche teoriche sottese al principio di partecipazione nell’ordinamento costituzionale italiano divenga chiave di lettura del variegato panorama di norme e di prassi esistenti sul tema, al fine di trarne indicazioni per la costruzione di un sistema di regole che possa finalmente dare corpo a quella pluralità di forme di esercizio della sovranità popolare cui fa riferimento l’art. 1 della Carta fondamentale. Si tratta di una prospettiva nella quale la partecipazione viene assunta nel suo contenuto e nelle sue implicazioni di carattere sostanziale, ma anche – e soprattutto – nel suo essere strumentale rispetto all’inveramento della democrazia, quale asse portante di una proposta metodologica, peraltro teleologicamente orientata da quegli stessi valori che ne animano la sostanza: una dimensione nella quale il carattere eminentemente «procedurale» delle regole non sminuisce affatto l’importanza dei beni da tutelare ma al contrario ne esalta la portata, in quanto rivolto non alla ricerca di illusorie verità assolute bensì alla costruzione delle migliori scelte possibili in funzione della convivenza. Nelle sollecitazioni provenienti dalle delicate e preoccupanti trasformazioni socio-istituzionali in corso, ma anche in problematiche più risalenti e ben note e ciononostante ancora irrisolte, risiede allora il senso di una nuova riflessione sulla partecipazione e su alcune sue più recenti declinazioni: l’urgenza, ci pare, è quella di individuare, se non risposte definitive (che le specificità del tema in ogni caso non consentono), quantomeno itinerari lungo i quali muoversi per cercarle, e indicazioni circa la fisionomia essenziale delle regole che a quelle risposte dovrebbero dare corpo. La riflessione è stata condotta nell’ambito del Progetto di interesse nazionale (Prin 2007) su “Il federalismo come metodo di governo: le regole della democrazia deliberativa e partecipativa”, che ha visto la col- XV PREMESSA laborazione delle Università di Trento, Ferrara, Milano, Roma-Luiss e Perugia: quest’ultima ha approfondito, in particolare, il tema del “Federalismo come metodo di governo partecipato: cultura giuridica e dinamiche istituzionali dei processi partecipativi a confronto”. Un sentito ringraziamento va al coordinatore nazionale di questo progetto, Gregorio Arena, che con paziente e affabile rigore ha consentito e alimentato occasioni di discussione stimolante e proficua; alle personalità e agli studiosi stranieri che hanno arricchito le nostre riflessioni, attraverso scambi di materiali e incontri, soprattutto in occasione delle giornate di studio tenutesi a Perugia l’11 e 12 marzo 2010 (Antoine Chollet, Aart Heering, Theo Toonen, Jean Paul Vargas e Melissa Zamora, Serena Cinque e Annelie Sjölander-Lindqvist); agli studiosi, amici e colleghi che in quella ed altre occasioni hanno accettato di discutere con noi le tesi che andavamo esplorando (in particolare, ma non solo, Umberto Allegretti, Vincenzo Atripaldi, Gaetano Azzariti, Fabrizio Bracco, Paolo Caretti, Francesco Merloni, Margherita Raveraira, Giuseppe Ugo Rescigno, Roberto Segatori); ai giovani collaboratori che hanno offerto un aiuto prezioso nel lavoro di ricerca e di organizzazione dei materiali (Lorenzo Bellanti, Riccardo Croce, Rossana Giannetta, Monica Marino, Marta Maroni, Zaira Stancati); e infine agli studenti, terreno sempreverde di verifica e rinnovamento delle idee oltre che futuri eredi degli strumenti di manutenzione della democrazia. Perugia, 13 settembre 2010 Alessandra Valastro INTRODUZIONE ALESSANDRA VALASTRO PARTECIPAZIONE, POLITICHE PUBBLICHE, DIRITTI SOMMARIO: 1. La partecipazione come metodo di governo della democrazia pluralista: le ragioni e gli ostacoli di un processo regolativo. – 2. Il rilievo costituzionale della partecipazione e la portata normativa del concetto di “democrazia partecipativa”. – 3. La complessità delle pretese partecipative nel quadro delle categorie tradizionali dei diritti: nuovi “diritti sociali di partecipazione”? – 4. Non solo diritti: la rilevanza dei principi di solidarietà e sussidiarietà. – 5. Una prospettiva ulteriore e convergente: il federalismo cooperativo come metodo di governo partecipato. – 6. Indicazioni per il legislatore. A) I “macro-principi” della democrazia partecipativa come oggetto di politica pubblica in sé: finalità, livelli essenziali, soggetti istituzionali, tecniche di normazione. – 7. (Segue) I “micro-principi” delle politiche partecipative nell’ambito delle singole policies: profili sostanziali, organizzativi e procedurali. – 8. Il ruolo strategico delle regioni: chiaroscuri e linee di tendenza della legislazione regionale dal 2001 ad oggi. – 9. Spunti conclusivi: le sfide della responsabilità e della qualità della partecipazione. 1. La partecipazione come metodo di governo della democrazia pluralista: le ragioni e gli ostacoli di un processo regolativo Le sorti della democrazia sono visceralmente legate a quelle della partecipazione, tanto che non v’è definizione della prima che non sia “intrisa” di riferimenti alla seconda. Non è un caso che la riflessione sulla c.d. “democrazia partecipativa” abbia ripreso vigore negli ultimi anni, recuperando una posizione di centralità nell’ambito delle diffuse e crescenti preoccupazioni per le sorti della democrazia e per la capacità di quest’ultima di mantenersi interprete dei principi del costituzionalismo1. 1 Risuonano ancora attuali le note parole di M. NIGRO, Il nodo della partecipazione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1980, 236, laddove affermava che «nello specchio della partecipazione si riflettono fedelmente i vizi e le virtù, le speranze e le delusioni di questa nostra società». Più di recente, fra gli altri, v. l’accorato interrogativo posto da L. CARLASSARE, Costi- 4 ALESSANDRA VALASTRO Non che quello della crisi della democrazia sia argomento nuovo. Al contrario, instancabilmente additato dalle voci più autorevoli del costituzionalismo, esso veniva posto già dal Costituente attraverso l’implicito riconoscimento, nel secondo comma dell’art. 3, di un contrasto fra il nuovo modello di società e quello in atto: un modello, quest’ultimo, di democrazia formale e senza demos, dunque generatore di situazioni di ingiustizia, come tale da rifiutare in favore di un modello di democrazia reale2. Tuttavia i segnali di crisi che provengono oggi dalle democrazie contemporanee (quella italiana in particolare) sono in parte nuovi ed allarmanti, disseminati in luoghi diversi ma tutti ugualmente rilevanti: fra questi vi è certamente il luogo della partecipazione, sovente e da molteplici prospettive esplorato ma mai compiutamente inquadrato, quasi si trattasse di una sorta di luogo fantasma dalle coordinate geografiche in continuo movimento3. Ebbene, la riflessione su quel luogo deve oggi riprendere le mosse dai punti di connessione della partecipazione con le nervature più profonde del costituzionalismo: l’esercizio della sovranità popolare e il controllo del potere, che reclamano sedi e strumenti ulteriori rispetto a quelli della rappresentanza politica; il pieno sviluppo della persona e l’eguaglianza sostanziale; l’equilibrio fra i poteri, che chiede il rafforzamento delle capacità di indirizzo e controllo delle assemblee rappresentative, anche attraverso il recupero di effettive forme di raccordo con la società civile; la sempre più pressante richiesta di qualità ed efficacia delle politiche pubbliche, rispetto alle quali la complessità della dotuzionalismo e democrazia nell’alterazione degli equilibri, in www.costituzionalismo.it, n. 2/2003, 1: «Potrà, la nostra, continuare a definirsi una “democrazia pluralista”? E soprattutto… la democrazia si accompagnerà ancora ai principi del costituzionalismo che impongono la limitazione del potere?». 2 U. ROMAGNOLI, Il principio dell’eguaglianza sostanziale. Commento art. 3, in Commentario della Costituzione (a cura di G. Branca), Bologna-Roma, 1975, 164 ss., che parla – per questa ragione – di “Costituzione sincera”. 3 Di «un fiorito sentiero che girovaghi in un territorio pieno di mine» parla M. NIGRO, Il nodo della partecipazione, cit., 230. La comunanza di destino che lega la partecipazione e l’eguaglianza sostanziale, niente affatto casuale dato il loro accostamento nell’art. 3 Cost., consente di estendere alla prima le illuminanti considerazioni che G. FERRARA riferisce all’inveramento dell’eguaglianza: «Questione centrale e complessa, storicamente determinata e perennemente incombente, dai profili plurimi mai tutti definibili, parzialmente conquistata ma mai definitivamente, mai esaurientemente, aggredita dalla uniformità e intollerante alle differenze, dalla integrità non attingibile ma dalla parzialità inconcepibile» (Sulla democrazia costituzionale, in G. BRUNELLI, A. PUGIOTTO, P. VERONESI (a cura di), Scritti in onore di Lorenza Carlassare. Il diritto costituzionale come regola e limite al potere, vol. V, Napoli, Jovene, 2009, 1914). PARTECIPAZIONE, POLITICHE PUBBLICHE, DIRITTI 5 manda sociale impone di ricercare forme di più stretta interlocuzione fra i decisori e i destinatari delle regole; il principio solidarista e cooperativo, che insieme a quelli personalista e pluralista ha inteso disegnare un modello di democrazia non soltanto egalitaria ma anche inclusiva ed emancipante. In una prospettiva che voglia recuperare queste coordinate, la riflessione sul tema della partecipazione quale si è snodata nelle varie fasi dell’attuazione costituzionale appare riduttiva: progressivamente inariditosi il collegamento con quel patrimonio valoriale che ne aveva alimentato le letture fino alla fine degli anni ’70, il tema della partecipazione è in seguito scivolato in una sorta di sudditanza teorica rispetto a quello della rappresentanza politica, generando ricostruzioni che ne hanno privilegiato gli aspetti di rivendicazione e conflittualità piuttosto che di complementarietà, o alimentando derive demagogiche e retoriche politiche di mera ricerca del consenso. In particolare, la materia della partecipazione è stata relegata nell’ambito delle libertà politiche stricto sensu (artt. 48 e 49 Cost.) e degli istituti di democrazia diretta; mentre le dinamiche ulteriori e più feconde, quelle che consentono alla volontà popolare di penetrare nei processi decisionali pur senza sostituirsi alla rappresentanza, per arricchirla e completarla, sono state lasciate al variegato mondo delle prassi, delle sperimentazioni, delle sensibilità politiche contingenti, delle dinamiche concertative, del potere di fatto dei soggetti privati organizzati. Ma le profonde fratture istituzionali che non da oggi attraversano il Paese hanno da tempo confermato, ammesso che ve ne fosse bisogno, che il meccanismo della rappresentanza politica non è (né potrebbe essere) sufficiente ad esaurire le pulsioni della sovranità4; e l’inquadramento del tema della partecipazione nell’ambito dei possibili correttivi alle disfunzioni della rappresentanza e ai difetti di legittimazione della 4È significativo che tale affermazione sia stata sostenuta con forza dagli interpreti più attenti del testo costituzionale già all’indomani della sua approvazione: v., fra gli altri, C. ESPOSITO, Commento all’art. 1 della Costituzione, in ID., La Costituzione italiana. Saggi, Padova, Cedam, 1954, 10 ss.; C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, Padova, Cedam, 1975, 149 ss.; V. CRISAFULLI, La sovranità popolare nella Costituzione italiana, in ID., Stato, popolo, governo. Illusioni e delusioni costituzionali, Milano, Giuffrè, 1985, 114 ss.; G. GUARINO, Il Presidente della Repubblica italiana, in Riv. trim. dir. pubbl., 1951, 923, il quale efficacemente osservava che «Il popolo, inteso in senso generico come insieme degli uomini che partecipano della vita dell’ordinamento, ha oggi un polso attivo ed inquieto che fa sentire il suo peso politico anche se manchino strumenti idonei per la costante e continua traduzione della sua forza in volontà giuridica». 6 ALESSANDRA VALASTRO politica appare fuorviante, poiché finisce per negare il carattere di prius logico della partecipazione quale luogo di esercizio della sovranità che può e deve assumere forme molteplici. Le ragioni più immediate che hanno ostacolato negli anni l’affrancamento della partecipazione da un tale limbo giuridico, e in ultima analisi il conseguimento di una reale effettività, sono molteplici e tutte ampiamente esplorate dalla bibliografia sull’argomento5: l’innegabile ambiguità semantica del concetto di partecipazione6; la diversità degli approcci disciplinari e dei relativi linguaggi7; l’oscillazione fra culture politiche ostili8 e atteggiamenti mitizzanti e velleitari9; la sottovalutazione delle interferenze tra riflessione giuridica e riflessione etico-morale, con il progressivo sbiadimento del quadro valoriale sotteso al modello costituzionale10. Ma le vicende della partecipazione devono essere inquadrate anche nell’ambito del più generale processo storico-politico che ha coinvolto le connesse categorie dell’eguaglianza sostanziale e dello Stato sociale: il destino di subalternità a lungo riservato ai diritti sociali rispetto ai diritti di libertà corre parallelo a quello che ha segnato le vicende della partecipazione rispetto alla rappresentanza politica; le tecniche di norma5 Tale bibliografia è ormai talmente copiosa da risultare difficilmente richiamabile in questa sede: v. da ultimo e per tutti U. ALLEGRETTI (a cura di), Democrazia partecipativa. Esperienze e prospettive in Italia e in Europa, Firenze, University Press, 2010; ID. Democrazia partecipativa, in Enc. dir., Annali IV, Milano, Giuffrè, in corso di pubblicazione. 6 Prendendo in prestito l’efficace espressione utilizzata da S. COTTA a proposito del concetto di persona, si può sostenere che anche quella relativa alla partecipazione sia una “avventura semantica”: Persona (filosofia), in Enc. dir., XXXIII, Milano, Giuffrè, 1983, 159 ss. 7 La pur fisiologica e necessaria diversità di prospettive adottate dalle varie discipline (in particolare la sociologia, la scienza politica e quella giuridica) non sempre ha giovato alla ricostruzione unitaria del fenomeno, generandosi contrasti anche profondi (e in verità anche all’interno di una stessa disciplina) sull’individuazione degli istituti da ricomprendere nella categoria e sulla loro corrispondenza all’idea astratta di partecipazione: v. in proposito A. SAVIGNANO, Partecipazione, in Enc. dir., XXXIII, 1 ss.; e più di recente, sulla necessità di «pulizia concettuale», U. ALLEGRETTI, Basi giuridiche della democrazia partecipativa in Italia: alcuni orientamenti, in Dem. dir., n. 3/2006, 152. 8 Quelle culture che G. COTTURRI efficacemente riconduce alla c.d. «sindrome dell’assedio»: La democrazia partecipativa, in Dem. dir., 1/2005, 29. 9 Sui rischi e i tranelli delle “parole-mito” v. efficacemente S. COTTA, Il concetto di partecipazione politica: linee di un inquadramento teorico, in Riv. it. sc. pol., 1979, 194. 10 Sulla lettura morale della Costituzione, in rapporto con le categorie della democrazia partecipativa e della democrazia deliberativa, v. le interessanti considerazioni di F. VIOLA, La democrazia deliberativa tra costituzionalismo e multiculturalismo, in Ragion pratica, 20/giugno 2003, 36 ss. PARTECIPAZIONE, POLITICHE PUBBLICHE, DIRITTI 7 zione e tutela dei diritti hanno finito per essere attratte nella prospettiva della forma di governo (e dei relativi equilibri tra poteri e tra fonti), riduttiva e fuorviante rispetto a quella naturale e più feconda della forma di stato quale sede del rapporto fra governanti e governati11; i dilemmi che affliggono da sempre l’inveramento dell’eguaglianza sostanziale sono gli stessi che si lamentano per la partecipazione, in quanto riflettono una democrazia incompiuta «che si insedia nello stato apparato ma si arresta alle soglie della società»12; la progressiva sostituzione della «contemplazione del potere» alla «contemplazione dell’uomo», con la conseguente assunzione dell’organizzazione politico-amministrativa quale valore supremo in sé e la relegazione delle libertà individuali e sociali in una posizione di destinatarietà13, ha provocato il progressivo sfilacciamento degli strumenti della sovranità, spezzando il collegamento essenziale tra rappresentanza formale e rappresentazione sostanziale degli interessi, tra democrazia formale e democrazia sostanziale. Da tutto ciò derivano le molteplici difficoltà che hanno afflitto il processo di attuazione (anche normativa) del principio di partecipazione, determinandone il percorso incerto, oscillante e contraddittorio che è sotto gli occhi di tutti, nel quale hanno finito per confondersi difficoltà reali e difficoltà presunte, timori giustificati e preoccupazioni fintamente garantiste. Così, se fino agli anni ’80 quelle incertezze sono in gran parte dipese dalla difficoltà di affrancare la partecipazione dalla coloritura essenzialmente oppositivo-contestativa che l’aveva caratterizzata negli anni ’60-’70, successivamente hanno prevalso preoccupazioni relative alle esigenze di deflazione normativa, ai paventati rischi di «ossificazione» delle procedure partecipative14, ai “costi” della partecipazione. Ma vi sono anche difficoltà oggettive ed in parte nuove, legate alle profonde trasformazioni istituzionali in corso: l’interlocutore politico non è più unitario ma si è sfrangiato in un assetto reticolare, non più riconducibile alla politica genericamente intesa bensì alle politiche pubbliche, non più ad un unico attore bensì ad una congerie di soggetti di- 11 Su questo aspetto v. ampiamente A. RUGGERI, Tecniche di normazione, tutela dei diritti fondamentali, teoria della Costituzione, in www.osservatoriosullefonti.it, n. 1/2008. 12 G. FERRARA, Sulla democrazia costituzionale, cit. 13 G. BERTI, Manuale di interpretazione costituzionale, Padova, Cedam, 1994, 64. 14 In questo senso v., fra gli altri, M. CAMMELLI, Considerazioni minime in tema di arene deliberative, in Stato e mercato, n. 73/2005, 89 ss. 8 ALESSANDRA VALASTRO versi; le propensioni monocratiche e populiste connesse alla tendenza verso forme di governo di tipo presidenziale introducono dinamiche tendenzialmente ostili alle istanze della democrazia partecipativa15. La rinnovata e diffusa spinta partecipativa di questi anni, le cui sfaccettature sono tali e tante da rendere complessa la catalogazione delle relative pratiche entro categorie omogenee, evidenzia una generale e pressante richiesta di effettività, al fine di guarire le malattie croniche della partecipazione e di alimentarne la parte inattuata 16. Ma la richiesta di garanzie conduce con sé la necessità di regole; e queste richiamano, a loro volta, un apparato etico-valoriale di riferimento dal quale attingere le indicazioni per la costruzione delle linee portanti di un sistema normativo coerente. La riflessione giuridica su questo tema, pur copiosa, appare a sua volta malata di una sorta di schizofrenia, in quanto afflitta dalla difficoltà di adottare regole che coniughino l’ampiezza dello sfondo (non più singoli procedimenti o decisioni ma politiche pubbliche complesse) con la parcellizzazione e le specificità dei contesti e degli interessi coinvolti, le proclamazioni di principio con strumenti concreti di esercizio di una sovranità poliforme. Molto si è discusso e si discute sulla opportunità di regolamentare la partecipazione. Non v’è dubbio che una disciplina giuridica stricto sensu non possa considerarsi formalmente necessaria per l’attivazione di strumenti partecipativi: sono ormai numerose, e in molti casi eccellenti, le esperienze sviluppatesi sulla base di mere prassi. Né può considerarsi necessaria 15 Su questi aspetti A. PUBUSA, La democrazia partecipativa: nuovo processo di democratizzazione o autolimite del potere?, in Dir. e proc. amm., n. 4/2009, 895 ss.; Y. SINTOMER, G. ALLEGRETTI, I bilanci partecipativi in Europa. Nuove esperienze democratiche nel nuovo continente, 2009, Ediesse, Roma; A. SPADARO, Costituzionalismo versus populismo (sulla c.d. deriva populistico-plebiscitaria delle democrazie costituzionali contemporanee), in Scritti in onore di Lorenza Carlassare, vol. V, cit., 2007. Sul punto v. peraltro le efficaci argomentazioni di U. ALLEGRETTI, Democrazia partecipativa: un contributo alla democratizzazione della democrazia, in ID. (a cura di), Democrazia partecipativa, cit., 25-26, il quale osserva che, se per un verso è vero che le dinamiche presidenzialiste e populiste costruiscono forme di concentrazione del potere, in quanto utilizzano l’appello al popolo come «giustificazione della sua direzione da parte di un capo che pretende interpretarne tutte le esigenze», per altro verso è proprio in tali circostanze che si evidenzia la funzione «riequilibratrice» delle esperienze partecipative, anche se queste richiedono maggiore «combattività». 16 Già nel 1969 Norberto BOBBIO individuava nella mancanza di effettività l’origine delle malattie croniche della partecipazione: Crisi di partecipazione in che senso?, in R. ORECCHIA (a cura di), Rapporto tra diritto e morale nella coscienza giuridica contemporanea. Il problema della partecipazione politica nella società industriale, Milano, Giuffrè, 1971, 82 ss. PARTECIPAZIONE, POLITICHE PUBBLICHE, DIRITTI 9 una apposita previsione costituzionale, per quanto «preziosa» nel caso in cui esista17. Tuttavia ciò che qui si tenterà di argomentare, e che costituisce il senso più profondo della ricerca da cui nasce questo volume, è la necessità di regole per assicurare piuttosto le precondizioni e i presupposti della partecipazione, quali ineludibili strumenti di garanzia di effettività delle istanze e dei diritti ad essa sottesi. Se è vero che la partecipazione è categoria giuridicamente rilevante, la peculiarità che caratterizza la democrazia partecipativa rispetto alla democrazia rappresentativa e alla democrazia diretta, ossia la pluralità delle forme (come ampiamente argomentato nel saggio di D. DONATI), non ne attenua il rapporto con le garanzie ma anzi rafforza la necessità di regole per assicurarle: infatti, in quanto ausilio prestato agli organi rappresentativi, la partecipazione potrà avere successo solo in relazione al suo «potenziale politico effettivo», ossia grazie alla previsione di procedure che puntino non tanto su garanzie meramente formali quanto sulla «incentivazione sostanziale della partecipazione»18. La stessa espressione democrazia partecipativa oggi tanto diffusamente utilizzata, cui deve senz’altro riconoscersi un’importante funzione simbolico-evocativa, rischierebbe di perpetuare ambiguità e genericità ove non fosse declinata in regole e istituti specifici, risolvendosi in una vuota conquista terminologica fors’anche più perniciosa dei mali che vorrebbe guarire. Si potrebbe anzi legittimamente dubitare, come A. CHOLLET nel suo saggio, della correttezza concettuale dell’espressione laddove intesa come una forma particolare di democrazia qualificata dalla partecipazione: «la democrazia è partecipativa per definizione, e la partecipazione non può che essere democratica». La sfida lanciata oggi dal tema della partecipazione attiene allora alla costruzione di un quadro generale di principi e regole19 che, supe17 Così U. ALLEGRETTI, Intervento alla Tavola rotonda «Quali regole per la partecipazione?», Giornate di studio su «Le regole della partecipazione: cultura giuridica e dinamiche istituzionali dei processi partecipativi», Perugia 11-12 marzo 2010. La partecipazione ai procedimenti legislativi è ad esempio espressamente prevista dalla Costituzione svedese (su cui v. il saggio di S. CINQUE e A. SJÖLANDER-LINDQVIST in questo volume), nonché dalla più recente Costituzione del Sudafrica (1996), giudicata «la migliore costituzione mai realizzata nella storia dell’uomo» (così C.R. SUNSTEIN, A cosa servono le Costituzioni. Dissenso politico e democrazia deliberativa, Bologna, Il Mulino, 2009, 337). 18 G. BERTI, La parabola regionale dell’idea di partecipazione, in Le Regioni, 1974, 3. 19 Di «teoria generale della partecipazione» parla G. COTTURRI, La democrazia partecipativa, cit., 28. 10 ALESSANDRA VALASTRO rando i falsi problemi e l’empirismo che ha finora caratterizzato la gran parte degli approcci20, consenta di orientare le dinamiche del processo regolativo in atto, recuperando il valore aggregante dei principi costituzionali e le radici politiche e culturali della democrazia pluralista21. Muovere dai luoghi della Costituzione, e dal rilievo che il principio di partecipazione vi assume, ha peraltro un senso a condizione che si abbandoni il complesso di inferiorità che ancora porta ad interrogarsi su quale sia il fondamento costituzionale della partecipazione, per chiedersi piuttosto, e più proficuamente, di che cosa essa sia il fondamento e di quali indicazioni per il legislatore essa sia la fonte. 2. Il rilievo costituzionale della partecipazione e la portata normativa del concetto di “democrazia partecipativa” A rendere obbligata l’assunzione di un siffatto punto di partenza non è tanto – o non solo – il dato letterale della Carta fondamentale quanto, soprattutto, il complesso di motivazioni che hanno animato le scelte del Costituente, e che in quanto espresse attraverso regole «pensate per durare aere perennius esigono dall’interprete di essere snodate e rispettate in tutte le virtualità di significato»22. 20 L’analisi empirica, contributo prezioso delle discipline non giuridiche alla comprensione delle dinamiche delle pratiche partecipative, è stata incongruamente estesa alle “esperienze” normative, assunte più spesso come dato di fatto nelle ricognizioni giuridiche che come punto di partenza per operazioni ricostruttive di più ampio respiro. Sull’inadeguatezza del taglio descrittivo della gran parte della letteratura giuridica in tema di partecipazione, v. di recente M. DELLA MORTE, Profili della partecipazione popolare nell’ordinamento rappresentativo, in Scritti in onore di Lorenza Carlassare, vol. V., cit., 1875. 21 «La Costituzione non è semplicemente una specie di codificazione legislativa di un passato condivisibile o legittimo. Del passato conserva solo ciò che è accettabile, mentre rappresenta una rottura radicale e decisiva rispetto a quella parte del passato che è inaccettabile. Costituisce una rottura decisiva (…) per arrivare a una cultura costituzionalmente tutelata fatta di apertura, di democrazia e di diritti umani universali per (…) tutte le età, tutte le classi e tutti i colori (…). Il passato è stato intriso di disuguaglianza, autoritarismo e repressione. L’aspirazione del futuro è basata su ciò che è giustificabile in una società aperta e democratica che si basa sulla libertà e sull’uguaglianza. È fondata su una cultura giuridica di responsabilità e di trasparenza. Le disposizioni relative della costituzione devono quindi essere interpretate in modo da mettere in pratica i propositi che si volevano realizzare attraverso la loro promulgazione»: Corte costituzionale del Sudafrica, Shaballala and Others v. Attorney Generalo f the Transvaal and Another, 1996 South Africa 725 C.C. 22 V. in proposito le suggestive considerazioni di M. LUCIANI, Interpretazione costituzionale e testo della Costituzione. Osservazioni liminari, in G. AZZARITI (a cura di), Interpretazione costituzionale, Torino, Giappichelli, 2007, 48-49. Per un approfondimento della PARTECIPAZIONE, POLITICHE PUBBLICHE, DIRITTI 11 In questo senso, la scansione dei passaggi che possono individuarsi nei lavori preparatori sul principio di partecipazione appare ancora oggi di grande significato per la comprensione della voluntas storica del Costituente23. Innanzitutto, il riferimento alla partecipazione fu introdotto per la prima volta non in relazione al principio di eguaglianza bensì nel corso della discussione sui diritti di libertà. L’intenzione di superare l’impostazione del liberalismo individualistico del secolo precedente aveva portato a ricercare una formula che esprimesse l’inscindibile connessione fra il concetto classico di libertà e i suoi risvolti positivi: «Tutte le libertà garantite dalla presente Costituzione devono essere esercitate per il perfezionamento integrale della persona umana, in armonia con le esigenze della solidarietà sociale ed in modo da permettere l’incremento del regime democratico, mediante la sempre più attiva e cosciente partecipazione di tutti alla gestione della cosa pubblica»24. Tale formula, individuando da un lato gli obiettivi della libertà (il perfezionamento della persona, l’incremento della solidarietà sociale, lo sviluppo del regime democratico) e dall’altro l’oggetto e la funzione della partecipazione (la gestione della cosa pubblica, l’incremento del regime democratico), esplicitava con mirabile chiarezza il nesso che si intendeva instaurare fra libertà e partecipazione: una articolazione in cui la prima appariva “finalizzata”, nelle sue progressive gradazioni di socialità, alla realizzazione della partecipazione quale sviluppo della dimensione relazionale della persona, e dunque alla realizzazione della democrazia25. complessa tematica relativa all’incidenza dei valori sull’interpretazione del testo costituzionale, con particolare riguardo ai c.d. «spazi residui», v. lo stimolante confronto tra F. MODUGNO, Interpretazione per valori e interpretazione costituzionale, e A. PACE, Interpretazione costituzionale e interpretazione per valori, in G. AZZARITI (a cura di), op. ult. cit., rispettiv. 51 ss. e 83 ss. 23 Per una rilettura dei principi costituzionali in tema di partecipazione v. già G. RIZZA, La partecipazione popolare: lineamenti costituzionali, in AA.VV., Scritti in onore di Egidio Tosato, II, Milano, Giuffrè, 1982, 855 ss.; G.G. STENDARDI, Contenuti e limiti del principio di partecipazione, in AA.VV., Scritti in onore di P. Biscaretti di Ruffia, II, Milano, Giuffrè, 1987, 1291 ss.; e più di recente U. ALLEGRETTI, Basi giuridiche della democrazia partecipativa in Italia, cit., 151 ss.; R. PICERNO, Fondamenti costituzionali e forme di manifestazione della democrazia partecipativa, relazione alla giornata di studio «Democrazia partecipativa e nuove frontiere della cittadinanza», Roma - LUISS, 6 novembre 2009. 24 ASSEMBLEA COSTITUENTE, Commissione per la Costituzione, prima sottocommissione, 165 ss.: v. in particolare la relazione La Pira. 25 V. ATRIPALDI, Contributo alla definizione del concetto di partecipazione nell’art. 3 Cost., in AA.VV., Strutture di potere, democrazia e partecipazione, ESI, Napoli, 1974, 13 ss. 12 ALESSANDRA VALASTRO In un secondo momento la discussione sulla partecipazione confluì in quella sui principi dei rapporti economici e sociali, portando al suo inserimento nell’art. 1 quale fondamento stesso dello Stato democratico che si stava delineando26. Infine, nel corso della discussione in Assemblea sul testo finale dei primi tre articoli, si ritenne che tale collocazione potesse attribuire al concetto di partecipazione un significato eccessivamente generico: prevalse quindi l’opinione di collegare tale principio con quello di eguaglianza sostanziale. Dunque il Costituente, ed è questa la prima e più incisiva indicazione, intese attribuire al principio di partecipazione un significato ancor più pregnante di quello che poteva derivare dalla già innovativa sua definizione quale fondamento della Repubblica democratica, collocandolo a chiusura dei primi tre articoli della Costituzione quasi a voler completare il quadro fisionomatico del nuovo ordinamento. La letteratura giuridica più risalente ha avuto l’indiscutibile pregio di mantenere una stretta fedeltà al testo costituzionale, evidenziando la centralità e insieme la trasversalità del principio di partecipazione rispetto agli altri principi fondamentali: basti ricordare le parole di Mortati, per il quale la partecipazione doveva costituire l’anima della nascente “democrazia sociale” quale forma di stato volta a «promuovere una più intima socialità fra i suoi componenti»27. Ma si pensi anche alle riflessioni sul principio di anteriorità della persona, assunto nel suo collegamento indissolubile con il concetto di democrazia sostanziale e in termini tali da evidenziare la «intrinseca sintesi di unicità e relazionalità» della persona umana28; e alle riflessioni sull’art. 1 Cost., volte a reclamare la permanenza dell’esercizio della sovranità nel popolo e a rinnegare ogni forma di meccanica sovrapposizione fra popolo e corpo elettorale29. Sul legame tra libertà e partecipazione v. già H. KELSEN, I fondamenti della democrazia, trad. it., Bologna, Il Mulino, 1996, 101. 26 «Lo Stato italiano è una Repubblica democratica. Essa ha per suo fondamento il lavoro e la partecipazione concreta di tutti i lavoratori alla organizzazione economica, sociale e politica del paese»: A.C., Commissione per la Costituzione, prima sottocommissione, 262 ss. 27 C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, cit., 143. 28 S. COTTA, Persona, cit., 169: «la persona è se stessa, e ha integrale coscienza di sé solo quale ente-in-relazione. Tale relazionalità non è il prodotto né della volontà personale né dell’imposizione di un ente collettivo ideale o storico-sociologico. È determinazione ontologica e pertanto è condizione intrascendibile dell’esistenza umana». 29 «Popolo e corpo elettorale non possono mai coincidere, neanche nei sistemi democraticamente più larghi»: V. CRISAFULLI, La sovranità popolare nella Costituzione italiana, cit., 114. Ma v. anche gli Autori già richiamati alla nota 4. PARTECIPAZIONE, POLITICHE PUBBLICHE, DIRITTI 13 I principi di eguaglianza e di partecipazione divenivano così il connettore denso di un sistema democratico in cui l’esercizio della sovranità popolare voleva essere il prodotto dello svolgimento in senso positivo della libertà, quale condizione per lo sviluppo della persona che si realizza «passando per un gruppo sociale e quindi per la partecipazione al potere pubblico»30; e in cui il godimento dei diritti, a qualunque categoria appartengano (civili, politici e sociali), risulta di fatto condizionato dalla disponibilità di «condizioni primarie necessarie per una effettiva e paritaria forma di partecipazione»31. La linea circolare che muove dall’ultimo inciso dell’art. 1 Cost., laddove si pone l’accento sull’esercizio della sovranità nelle forme stabilite dalla Costituzione, si chiude nell’aggettivo effettiva che accompagna il principio di partecipazione nel secondo comma dell’art. 3, richiamando l’imprescindibile nesso tra fini e organizzazione, tra garanzie delle posizioni individuali e garanzie legate all’assetto organizzativo delle istituzioni e al metodo di governo dalle stesse adottato. La fedeltà che le letture appena richiamate hanno manifestato verso il dettato costituzionale è venuta progressivamente sbiadendosi negli approfondimenti successivi, come dimostra il fatto che da più parti si torni oggi ad interrogarsi sul fondamento costituzionale della partecipazione. Ad essere trascurata è stata, in particolare, la portata normativa che il Costituente aveva inteso assegnare al principio di partecipazione, quale principio ordinatore indicante strutture e istituti politici volti a sanare lo scollamento fra titolarità ed esercizio della sovranità, tra uguaglianza formale e diseguaglianza sostanziale32. Con l’espressione democrazia partecipativa, che non rappresenta affatto una novità di questi anni ma che al contrario è rintracciabile già a partire dalla fine degli anni ’60, si intendeva sintetizzare la volontà del Costituente di «identificare la democrazia proclamata dall’art. 1 con la partecipazione permanente di tutti i cittadini alla gestione della cosa pubblica»33, secondo un modello volto a collocare in posizione di com30 G. BERTI, Commento art. 5, in Commentario della Costituzione (a cura di G. Branca), Bologna, Roma, 1975, 288. 31 F. FICHERA, Spunti tematici intorno al nesso tra principi di eguaglianza e di partecipazione di cui all’art. 3, 2° comma, della Costituzione, in AA.VV., Strutture di potere, democrazia e partecipazione, ESI, Napoli, 1974, 38 e 50. 32 Parla di Ventilbegriff, ossia di concetto-valvola, V. ATRIPALDI, Il concetto di partecipazione nella dinamica della relazione Stato-società, in Scritti in onore di M.S. Giannini, vol. III, Milano, Giuffrè, 1988, 79 ss. 33 L. BASSO, Per uno sviluppo democratico nell’ordinamento costituzionale italiano, in 14 ALESSANDRA VALASTRO plementarietà i modelli della democrazia rappresentativa, della democrazia diretta e della democrazia partecipativa34. Lo stesso art. 49 Cost., generalmente estraneo alla riflessione sulla democrazia partecipativa, è stato interpretato dalla più illustre dottrina come fonte di un «diritto di partecipazione permanente che supera e trascende quel diritto di partecipazione solo puntuale garantito dal diritto elettorale attivo», secondo una dinamica di tipo “integrativo-partecipativa” che colloca il concorso dei partiti politici in posizione strumentale rispetto al concorso dei cittadini35: ripensate nel contesto attuale, queste considerazioni inducono a rileggere il diritto di associazione partitica come uno degli strumenti della democrazia partecipativa, dovendosi – in caso contrario – ammettere la sostanziale eluzione del testo costituzionale36. La rilettura dell’art. 49 (ma anche dell’art. 39) potrebbe avere ricadute interessanti sulla riflessione concernente l’identificazione e le garanzie dei soggetti della partecipazione: su questo punto si rinvia al saggio di D. DONATI. Ebbene, recuperare la consapevolezza storica della funzione normativa del concetto di democrazia partecipativa consente di reinquadrare il progetto istituzionale di integrale sviluppo della persona nei termini di progetto emancipante: un progetto che richiami una democrazia non soltanto egalitaria ed inclusiva ma anche abilitante, attraverso politiche pubbliche finalizzate allo sviluppo delle capacità oltre che alla tu- Studi per il ventesimo anniversario dell’Assemblea Costituente, II - Le libertà civili e politiche, Firenze, Vallecchi, 1969, 15. 34 Così, ad esempio, P.L. ZAMPETTI, L’art. 3 della Costituzione e il nuovo concetto di democrazia partecipativa, in Studi per il ventesimo anniversario dell’Assemblea Costituente, cit., 520; A. PIZZORUSSO. Democrazia partecipativa e democrazia parlamentare, in AA.VV., Studi in onore di Antonio Amorth, II, Milano, Giuffrè, 1982, 518, che sottolinea la strumentalità della democrazia partecipativa alla trasformazione dello Stato liberale in Stato sociale; P. BARILE, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, Bologna, Il Mulino, 1984, 94. 35 V. CRISAFULLI, I partiti nella Costituzione, in Studi per il ventesimo anniversario dell’Assemblea costituente, cit., 116 ss. e 133. Ripensare la figura del partito politico nell’ambito degli strumenti di democrazia partecipativa può aprire prospettive interessanti alla riflessione sulla partecipazione come metodo di governo. Del resto è noto come i modelli della democrazia partecipativa e della governance stiano innovando profondamente gli approcci tradizionali dell’analisi della politica: v. per tutti R. SEGATORI, Governance e politicità, in ID. (a cura di), Mutamenti della politica nell’Italia contemporanea - II. Governance, democrazia deliberativa e partecipazione politica, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007, 13 ss.; M.R. FERRARESE, La governance tra politica e diritto, Bologna, Il Mulino, 2010. 36 Non esita a parlare di «violazione» dell’art. 49 Cost. N. IRTI, Tramonto della sovranità e diffusione del potere, in Dir. soc., n. 3-4, 2009, 470. PARTECIPAZIONE, POLITICHE PUBBLICHE, DIRITTI 15 tela dei diritti, alla creazione di concrete opportunità oltre che alla mera protezione di astratte possibilità37. In questa prospettiva, il modello evocato dalla democrazia partecipativa non è quello della delega del potere né quello dell’esercizio esclusivo dello stesso bensì un modello basato sulla collaborazione; l’obiettivo non è la rivendicazione del potere bensì l’interlocuzione stabile fra soggetti pubblici e società civile. Nella c.d. democrazia partecipativa può ravvisarsi la dimensione dinamica della partecipazione: se partecipazione è la parola che definisce l’idea, processo partecipativo è la locuzione che la storicizza in funzione dei suoi fini ed in connessione con l’azione di governo, che limita e condivide nello stesso tempo alla luce delle ragioni del costituzionalismo38. Era del resto questo il senso più profondo del mutamento voluto dal Costituente rispetto all’impostazione liberale: passare da una partecipazione relegata in atti episodici ai confini dei processi decisionali (voto, libertà civili) ad una partecipazione strutturale alle dinamiche di esercizio del potere; da una possibilità astratta di partecipazione riferita a singoli atti nella prospettiva delle libertà negative, già tutelate altrove nel testo costituzionale, a processi partecipativi in cui l’interlocuzione col potere è permanente e le cui forme devono essere continuamente adeguate sulla base dell’esperienza storica. Vi è dunque, certamente, una dimensione oggettiva della partecipazione, relativa ai profili organizzativi e procedurali del suo essere metodo di governo. Ma la richiesta di effettività posta dall’art. 3 Cost. segnala che v’è qualcosa di più, ossia una dimensione soggettiva nella quale il principio si fa diritto, articolandosi in pretese e situazioni soggettive variegate, e in strumenti di garanzia che a queste devono essere commisurati. Il principio oggettivo sottostante il concetto di democrazia partecipativa si riempie così di contenuto, assume il cuore pulsante delle situazioni giuridiche soggettive: esso individua un peculiare tipo di struttura politica, chiamato a fornire l’impalcatura sociale dei diritti individuali attraverso la promozione e la garanzia di comportamenti che, pur non 37 Sulla prospettiva tendente a valorizzare il concetto di “capacità”, quale chiave di rilettura dei principi costituzionali fondamentali che concentri l’attenzione sulle opportunità e sull’abilitazione (empowerment), v. le belle pagine di M.C. NUSSBAUM, Giustizia sociale e dignità umana. Da individui a persone, Bologna, Il Mulino, 2002. 38 R. DICKMANN, Democrazia rappresentativa e costituzionalismo per una Costituzione universale dei diritti e delle libertà, in Dem. dir., n. 4/2008, 633. 16 ALESSANDRA VALASTRO traducendosi in diritti politici stricto sensu, consentono alla persona di assumere un ruolo attivo e responsabile nella società. 3. La complessità delle pretese partecipative nel quadro delle categorie tradizionali dei diritti: nuovi “diritti sociali di partecipazione”? Non si può negare che la traduzione delle pretese partecipative in una piattaforma di posizioni giuridiche soggettive dai contorni sufficientemente nitidi sia operazione complessa39. Sarebbe tuttavia semplicistico ravvisare un ostacolo nel fatto che la Costituzione non abbia espressamente individuato i modi e le forme della partecipazione: piuttosto che frutto di “timidezza”, come pure taluno ha sostenuto40, ciò sembra piuttosto derivare dalla peculiare natura del principio sottostante e dalla sua intima connessione con le situazioni di fatto cui si riferisce il secondo comma dell’art. 3. Ogni tentativo di astratta individuazione di modi e strumenti avrebbe rischiato di tradursi in sterile schematismo ideologico, meglio rispondendo alle esigenze della democrazia sostanziale il fatto che la partecipazione riceva i propri contenuti «dai principi di cui all’art. 3, 2° comma, nel rilievo che tali principi danno ai fatti determinativi delle disuguaglianze e della carenza di partecipazione»41. Fra i primi e più autorevoli commentatori della Carta costituzionale non si è esitato a parlare di un diritto di partecipazione quale diritto individuale e inviolabile42: un’impostazione che aveva il pregio di rimarcare il rilievo della partecipazione come forma di esercizio della sovranità e garanzia delle libertà di cui all’art. 2 Cost., ma che faceva riferimento ad una figura giuridica unitaria che appare oggi difficilmente coniugabile con la varietà e la diversa intensità delle situazioni partecipative. Di diritti di partecipazione si è parlato più spesso nell’ambito dei diritti politici, riconducendo la partecipazione di cui all’art. 3, comma 2, 39 Questo paragrafo riprende talune delle riflessioni compiute nel mio saggio Stato costituzionale, democrazia pluralista e partecipazione: quali diritti?, in AA.VV., Scritti in onore di Enzo Cheli, Bologna, Il Mulino, in corso di pubblicazione. 40 Così L. BASSO, Per uno sviluppo democratico nell’ordinamento costituzionale italiano, in Studi per il ventesimo anniversario dell’Assemblea costituente, cit., 15. 41 F. FICHERA, Spunti, cit., 50-51. Analogamente V. ATRIPALDI, Contributo, cit., 25. 42 V. CRISAFULLI, La sovranità popolare, cit., 122; C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, cit., 150. PARTECIPAZIONE, POLITICHE PUBBLICHE, DIRITTI 17 alle libertà politiche classiche (artt. 48, 49) e agli istituti di democrazia diretta: in questa accezione la denominazione «diritti di partecipazione» assume una funzione essenzialmente riassuntiva di posizioni soggettive garantite in altre parti della Costituzione; inoltre essa non tiene conto del fatto che l’art. 3, comma 2, parla di partecipazione non soltanto politica bensì anche economica e sociale. Di maggiore interesse appaiono le letture di chi ha esplorato piuttosto le connessioni fra partecipazione ed eguaglianza sostanziale, e dunque fra partecipazione e diritti sociali 43. Pur mantenendo ferma la distinzione teorica fra diritti sociali e diritti partecipativi, individuata nel fatto che i primi pongono il cittadino in posizione di alterità e non di identificazione rispetto allo Stato, tuttavia tali impostazioni finiscono per ammettere che l’effettiva realizzazione dei diritti di partecipazione presuppone un sistema di interventi positivi, così avvicinando le due categorie ed evidenziandone la forte analogia strutturale. Insomma, se per un verso le evidenti ricadute politiche della partecipazione sospingono più spesso la riflessione giuridica verso l’area delle libertà politiche, per altro verso la consapevolezza della sua dipendenza dalla predisposizione di adeguate condizioni materiali non può impedirne lo scivolamento verso la categoria dei diritti sociali. I c.d. diritti di partecipazione condividono del resto con i diritti sociali un elemento strutturale che appare decisivo: a differenza di quanto può dirsi per i diritti di libertà, l’effettività non è qui condizione «ulteriore di un diritto che già di per sé può esistere giuridicamente, ma è condizione di esistenza stessa del diritto»44. Ad esempio, se ciascuno può considerarsi astrattamente titolare del diritto di voto e della libertà 43 V. ad esempio P.L. ZAMPETTI, L’art. 3 della Costituzione, cit., 417 ss., che riconduce la democrazia partecipativa alla pluridimensionalità della persona e all’individuo uti socius, quale titolare dei diritti sociali, e la democrazia rappresentativa alla dimensione individuale della persona; e L. BASSO, Per uno sviluppo democratico nell’ordinamento costituzionale italiano, cit., 18, che considera i diritti sociali come «necessario supporto dei diritti di partecipazione paritaria» e questi ultimi, a loro volta, come «cerniera» fra i diritti di libertà e i diritti sociali. Un accostamento fra partecipazione e diritti sociali è stato operato, più di recente, da E. DALFINO - L. PACCIONE, Basi per il diritto soggettivo di partecipazione nel procedimento amministrativo, in Foro it., 1992, V, 377 ss.; D. BIFULCO, L’inviolabilità dei diritti sociali, Napoli, Jovene, 2003, in part. 10 ss. e 140 ss.; e con maggior decisione da I. PAOLA, La partecipazione, in A. CROSETTI, F. FRACCHIA (a cura di), Procedimento amministrativo e partecipazione, Milano, Giuffrè, 2002, 238. 44 Così, a proposito dei diritti sociali, V. ONIDA, Eguaglianza e diritti sociali, in AA.VV., Corte costituzionale e principio di eguaglianza, Padova, Cedam, 2002, 104. 18 ALESSANDRA VALASTRO di associarsi in partiti politici, non potrebbe parlarsi di un diritto ad essere consultati ove non esistessero specifiche regole in proposito che stabilissero obblighi, strumenti, garanzie. Ma se si riconosce che la categoria dei diritti sociali è servente rispetto a quella dei diritti di partecipazione, si dovrebbe giungere ad ammettere che quest’ultima espressione stia in realtà ad indicare una gamma di pretese di vario contenuto e intensità, alcune configurabili come diritti soggettivi (diritto di voto, diritto di associazione partitica) ed altre come diritti sociali in quanto legate ad interventi positivi da parte delle istituzioni pubbliche. L’espressione “diritti di partecipazione”, pur conservando un’importanza innegabile sul piano dei principi e dei valori costituzionali evocati, assume allora una portata più simbolica che esplicativa, in quanto riferita a situazioni soggettive cui non sembra potersi riconoscere autonomia strutturale rispetto ai diritti di libertà, ai diritti politici e ai diritti sociali. Tale espressione può conservare una propria utilità a condizione che si superi l’equivoco che essa rischia di ingenerare tra fine e mezzo: una cosa, infatti, è la evidenziazione e valorizzazione di un sistema di posizioni giuridiche soggettive volte a consentire la partecipazione quale forma plurima di esercizio della sovranità; altra cosa sono le tecniche di protezione delle pretese connesse alle singole forme che la partecipazione può assumere, le quali non possono che attingere allo strumentario delle categorie tradizionali dei diritti. La compresenza di pretese di varia natura e intensità all’interno delle situazioni soggettive aventi ad oggetto la partecipazione non deve stupire: tale articolazione riflette le sfaccettature delle dinamiche di interlocuzione con il potere, alle quali deve corrispondere una varietà di forme istituzionali di realizzazione delle relative pretese. È del resto incontestabile e ormai risalente l’osservazione della peculiare triangolazione esistente fra diritto civile, diritto politico e diritto sociale: da un lato, per il rilievo che talune libertà di fatto assumono rispetto all’esplicazione di altre45; dall’altro, e soprattutto, per il progressivo sbiadimento dei confini tradizionalmente assunti fra libertà negative e libertà positive, data la crescente necessità di interventi dello Stato per rendere effettivo anche il godimento di diritti civili. Si pensi alla giurisprudenza costituzionale sul principio del pluralismo informativo: dal 45 V. per tutti il pensiero di V. CRISAFULLI sulle c.d. “libertà-ponte”, in La sovranità popolare nella Costituzione italiana, cit., 114 ss. e 128. PARTECIPAZIONE, POLITICHE PUBBLICHE, DIRITTI 19 diritto individuale di libera manifestazione del pensiero di cui all’art. 21 la Corte ha dapprima enucleato un profilo passivo qualificato come «interesse generale all’informazione pluralista», per poi riconoscere un vero e proprio diritto sociale fondamentale, il cui soddisfacimento richiede l’intervento del legislatore per apprestare un sistema di regole che ne garantisca l’effettività. Lo schema del diritto sociale, funzionale alla piena capacitazione della persona (quella consentita dalla circolazione di una informazione plurale), diviene il più potente strumento di difesa del diritto individuale alla libera espressione, a sua volta presupposto di un esercizio consapevole ed efficace dei diritti politici: un percorso circolare in cui il diritto sociale, da approdo evolutivo, diviene garanzia e presupposto di diritti civili e politici. Nei diritti di partecipazione dovrebbe ravvisarsi il punto di tenuta dell’intero sistema dei diritti sociali, la condizione e il punto di arrivo degli stessi: ciò appare tanto più vero ove si ponga mente al fatto che la partecipazione ai processi decisionali, fornendo al decisore informazioni sui bisogni dei destinatari, può contribuire a sua volta a migliorare la qualità delle politiche pubbliche, e dunque delle prestazioni previste a tutela dei singoli diritti sociali. Tutto ciò dovrebbe portare a riconoscere l’esistenza di un diritto sociale fondamentale avente ad oggetto la realizzazione di processi decisionali inclusivi, ossia l’apprestamento di strumenti e garanzie volti a consentire e promuovere il coinvolgimento dei soggetti privati nell’esercizio delle funzioni pubbliche; e il punto nodale della distinzione fra diritti partecipativi classici (democrazia rappresentativa) e diritti sociali di partecipazione (democrazia partecipativa) dovrebbe ravvisarsi nell’obbligo di intervento positivo che i secondi postulano in virtù del loro collegamento con l’art. 3, comma 2, Cost.46. Peraltro, il carattere aperto della formula costituzionale, che attribuisce ai poteri pubblici un’ampia discrezionalità nelle scelte di politica sociale, si riverbera sui diritti di partecipazione nel senso di condizionarne l’inveramento all’intervento del legislatore. Nel riconoscimento del carattere condizionato di tali diritti risiede anzi il quid novi del concetto di democrazia partecipativa. Negare la necessità dell’intervento positivo dello Stato, sostenendo che nulla vieta ai 46 Analogamente, nel senso che è l’obbligo di risultato a qualificare la struttura dei diritti sociali nel nostro sistema costituzionale, v. le riflessioni di G. AZZARITI, Intervento alla Tavola Rotonda «Quali regole per la partecipazione?», cit. (ora in Democrazia partecipativa: cultura giuridica e dinamiche istituzionali, in www.costituzionalismo.it). 20 ALESSANDRA VALASTRO singoli di attivarsi, significherebbe infatti rinnegare il collegamento dei diritti in questione con l’eguaglianza sostanziale, relegando di fatto la partecipazione su terreni esterni al processo decisionale (contestazione, negoziazione). Il modello delle libertà negative, sebbene apparentemente più garantista in quanto fonte di diritti soggettivi perfetti e incondizionati, si rivela qui insufficiente e inefficace, in quanto finisce per scaricare sul cittadino l’effettività di un processo di democratizzazione delle dinamiche decisionali di cui soltanto le istituzioni possono tenere le fila e sostenere le responsabilità. Come si sa, il mito della libera iniziativa è illusorio quando poggia su strumenti inadeguati: si pensi alle vicende, sotto questo profilo analoghe, della libertà di informazione. Ciò che può e deve ripensarsi è piuttosto il parametro del condizionamento, che non pare possa ravvisarsi nelle risorse di carattere finanziario. Una tale impostazione, che risente dell’originaria configurazione dei diritti sociali come strumenti di liberazione da stati di bisogno economico ma che gran parte della dottrina considera ormai superata, appare tanto più fuorviante con riferimento ai diritti sociali di partecipazione, i quali richiedono un ventaglio di interventi più variegato: una politica redistributiva, si, ma in senso lato, riferita non tanto al reddito quanto alle chances, alle capacità, alle informazioni; politiche abilitanti volte più alla creazione di opportunità che alla rimozione di ostacoli stricto sensu. Del resto, se è vero che nell’art. 3, comma 2, Cost. la liberazione dal bisogno è funzionale allo sviluppo della persona e alla partecipazione di questa alla vita politica, economica e sociale del Paese, sarebbe contraddittorio imporre allo Stato di perseguire quell’obiettivo in via soltanto indiretta (attraverso diritti sociali a prestazione) e non anche immediata (attraverso diritti sociali di partecipazione). 4. Non solo diritti: la rilevanza dei principi di solidarietà e sussidiarietà Vi è un altro percorso che converge con quello appena visto nel condurre le situazioni partecipative verso la categoria dei diritti sociali, e che si snoda lungo la direttrice dei principi di solidarietà e sussidiarietà. Anche il principio solidarista percorre – come è noto – l’intero asse degli artt. 1, 2 e 3 Cost. Il crescendo di socialità e interazione che è possibile ravvisare in tali articoli, ove da situazioni di carattere più strettamente individuale (diritto-dovere del lavoro e di voto) si passa a situa- PARTECIPAZIONE, POLITICHE PUBBLICHE, DIRITTI 21 zioni che coinvolgono la collettività (doveri inderogabili di solidarietà) ed infine l’intero Paese, sembra dare ragione a chi ha ravvisato in Costituzione un «concetto di libertà finalizzata»47: nelle intenzioni del Costituente la formula inizialmente adottata, che come si è ricordato metteva in correlazione libertà, partecipazione e solidarietà sociale, doveva «parlare non soltanto allo Stato per limitarne l’autonomia circa i diritti della persona, ma anche alla persona per orientare la sua libertà e limitarla rispetto ai diritti della persona»48. La formulazione degli artt. 2 e 3, comma 2, Cost. rappresenta il più esplicito riconoscimento del fatto che non soltanto il garantismo classico non è più sufficiente, i diritti di libertà necessitando dell’impalcatura dei diritti sociali, ma che entrambe le categorie di diritti non possono a loro volta inquadrarsi al di fuori del principio di solidarietà, quale conseguenza che deriva sul piano sociale dallo sviluppo pluridimensionale della persona considerata nella ricchezza delle sua manifestazioni e delle sue interazioni49. Non solo, ma la coincidenza dei piani (politico, economico e sociale) cui si riferiscono tanto i doveri inderogabili di solidarietà quanto la partecipazione porta a ravvisare un collegamento fra il principio di solidarietà e quello personalistico, tale da specificare il primo «in termini di integrazione della persona nella vita dello Stato e della comunità sociale»; e il cittadino, lungi dal ridursi a mero destinatario dei vantaggi derivanti dall’astensione o dall’attivarsi dei pubblici poteri, assurge a «centro operante di questo processo di integrazione»50. Così come le figure soggettive di cui agli artt. 4, comma 2, e 49 Cost.51, anche le pretese partecipative non possono essere disgiunte da un riferimento a principi di collaborazione e solidarietà; ma trattandosi, in questo caso, di comportamenti che non sono nella piena disponibilità 47 V. ATRIPALDI, Contributo, cit., 13. Sul criterio di “socialità progressiva” assunto dal modello costituzionale di democrazia, v. E. CHELI, La riforma mancata. Tradizione e innovazione nella Costituzione italiana, Bologna, Il Mulino, 2000, 25. 48 On. La Pira, in A.C., Commissione per la Costituzione, prima sottocommissione, 165 ss. 49 P.L. ZAMPETTI, L’art. 3 della Costituzione, cit., 517. 50 G.M. LOMBARDI, Contributo allo studio dei doveri costituzionali, Milano, Giuffrè, 1967, 51 ss. In senso analogo N. OCCHIOCUPO, Liberazione e promozione umana nella Costituzione, Milano, Giuffrè, 1988, 78, che ravvisa nel principio solidaristico accolto in Costituzione un «principio giuridico fondamentale cui deve conformarsi l’azione di singoli e di gruppi, di enti pubblici e privati, di forze politiche, sociali, economiche». 51 «Il voto… si configura come strumento di propulsione e di equilibrio per la vita nazionale, mediando così il passaggio della solidarietà politica dal momento negativo della tolleranza a quello positivo della integrazione»: G.M. LOMBARDI, Contributo, cit., 80. 22 ALESSANDRA VALASTRO dei cittadini, dal momento che rimandano a peculiari dinamiche dei processi decisionali pubblici, non può che richiamarsi lo strumentario giuridico dei diritti sociali affinché siano predisposte le condizioni materiali che rendano possibili quei comportamenti. È stato osservato che il richiamo al principio di solidarietà rischierebbe di appannare il collegamento dei diritti sociali con il principio di eguaglianza, dal momento che «le atmosfere pervase dal principio di solidarietà sono più favorevoli al riconoscimento di doveri in capo a terzi piuttosto che di diritti in favore degli interessati», di vincoli morali piuttosto che giuridici52. Eppure, pur condividendosi quella «ansia da diritti» che ha portato storicamente a «mettersi dalla parte della libertà contro il potere»53, quella stessa impostazione riconosce che l’idea di solidarietà porta con sé quelle di comunità e di interazione fra gli individui, e che la funzione specifica del relativo principio è quella di produrre e legittimare doveri che rendano funzionanti «i meccanismi di integrazione sociale»: laddove appare evidente come proprio in ciò risieda l’essenza più profonda di quelli che abbiamo qui definito diritti sociali di partecipazione. In questa prospettiva, non possono non scorgersi le implicazioni del rapporto che lega il principio di solidarietà con un’altra categoria sulla quale il Costituente ha voluto dare indicazioni precise, ossia quella della debolezza: sono evidenti le positive ricadute, in termini di integrazione e di estensione della cittadinanza reale, che le politiche partecipative possono conseguire rispetto a categorie a forte rischio di esclusione (come gli stranieri) e alle complesse politiche di governo della diversità. Riemerge qui la dimensione morale e democratizzante cui il concetto di democrazia partecipativa era legato nel contesto originario (in particolare in America Latina), in quanto orientato essenzialmente verso obiettivi di giustizia sociale54: se riguardata nella più ampia prospettiva della diversità quale emergente dall’impianto della Costituzione italiana, 52 M. LUCIANI, Sui diritti sociali, in R. ROMBOLI (a cura di), La tutela dei diritti fondamentali davanti alle Corti costituzionali, Torino, Giappichelli, 1994, 103. 53 V. la lettera di Norberto Bobbio ad A. Trombadori, citata da F. FRACCHIA, Sulla configurazione giuridica unitaria dell’ambiente: art. 2 Cost. e doveri di solidarietà ambientale, in Dir. econ., n. 2/2002, 258. 54 Sulla dimensione «democratizzante», v. U. ALLEGRETTI, Democrazia partecipativa e processi di democratizzazione, cit., 3, il quale sostiene che bisognerebbe sostituire il concetto statico della democrazia con quello dinamico di democratizzazione, in quanto questo riconosce l’incompiutezza della prima e si sforza per il suo continuo superamento. Sulla «funzione sociale» della partecipazione v. da ultimo, efficacemente, E. FREDIANI, La produzione normativa nella sovranità orizzontale, Pisa, ETS, 2010, 295 ss. PARTECIPAZIONE, POLITICHE PUBBLICHE, DIRITTI 23 ancorata a condizioni non soltanto economiche ma anche personali e sociali, quella dimensione morale ben può essere declinata verso la categoria dei soggetti non soltanto “poveri” ma più in generale “deboli”, superando il modello uniformante – pur nel pluralismo – della democrazia rappresentativa e aspirando alla «costruzione dell’uguaglianza nella diversità»55. Non solo, ma è ricco di implicazioni il fatto che la portata normativa del principio solidaristico abbia trovato il proprio sviluppo nel principio di sussidiarietà orizzontale di cui al nuovo art. 118 Cost. Come è stato osservato, «dentro la sussidiarietà orizzontale s’è andata ad annidare la più esigente e irriducibile delle spinte partecipative»56. La collaborazione dei privati alla realizzazione del bene comune, infatti, diviene qui il punto di approdo di un’evoluzione virtuosa della partecipazione collaborativa, in contesti nei quali la capacitazione, le virtù civiche e l’interlocuzione con i poteri pubblici si fanno così elevate da giungere a portare la collaborazione dal piano dei processi decisionali a quello della loro attuazione concreta. Sebbene si tratti di principi concettualmente diversi, partecipazione e sussidiarietà costituiscono un continuum, ponendosi a pieno titolo come strumenti di un metodo di governo fondato sulla costruzione condivisa della democrazia57. 55 U. ALLEGRETTI, op. ult. cit., 4, nota 11; L. BOBBIO, Dilemmi della democrazia partecipativa, in Dem. dir., n. 4/2006, 15, per il quale la partecipazione dei soggetti più deboli è «la scommessa fondamentale della democrazia partecipativa». Per alcune considerazioni sulla partecipazione dei minori, ma estensibili nel loro impianto teorico alle altre categorie di soggetti deboli, sia consentito rinviare ad A. VALASTRO, Minori e partecipazione: una lettura emancipante dei principi di eguaglianza e di sovranità popolare, in G. BRUNELLI, A. PUGIOTTO, P. VERONESI (a cura di), Scritti in onore di Lorenza Carlassare, vol. V, cit., 2105 ss. Peraltro, sul «fragoroso silenzio» che discende dall’assenza di riferimenti alla giustizia sociale e alla disuguaglianza sociale nelle motivazioni delle pratiche partecipative in Italia e in Europea, v. G. ALLEGRETTI, Giustizia sociale, inclusività e altre sfide aperte per il futuro dei processi partecipativi europei, in U. ALLEGRETTI (a cura di), Democrazia partecipativa, cit., 383 ss. Non v’è dubbio che, in Italia, gli scopi cui si fa più sovente riferimento nell’ambito delle pratiche partecipative siano quello di carattere conoscitivo (riduzione dell’asimmetria del decisore) e quello legittimante (acquisizione di consenso e dunque di legittimazione sostanziale da parte della politica), a discapito di funzioni redistributive e di giustizia sociale, di sostenibilità ambientale, di controllo. 56 G. COTTURRI, Novità e portata progressiva della sussidiarietà orizzontale nella Costituzione italiana, in www.astrid-online.it, 3 (e in Gli argomenti umani. Sinistra e innovazione, Roma, 2003, n. 9). 57 Si potrebbe anzi sostenere che la partecipazione costituisca il fondamento stesso del nuovo metodo di governo sussidiario, laddove il principio di sussidiarietà venga inteso non più come criterio di collocazione delle competenze bensì come parametro di migliore esercizio della funzione: per una rilettura in questo senso v. A. STERPA, Il principio di sussi- 24 ALESSANDRA VALASTRO Il quid pluris di eticità che il principio solidaristico indubbiamente imprime alla giuridicità allora, forse, non guasta alla sofferente tematica dei diritti di partecipazione; anzi, tale principio può offrire lo snodo mancante di un cerchio argomentativo e applicativo che può così chiudersi, recuperando il bagaglio valoriale cui aveva attinto il Costituente e offrendo indicazioni non contingenti né strumentalizzabili per una teoria generale della partecipazione, in un quadro di «progressiva accentuazione del senso di responsabilità dell’individuo nei confronti della comunità politica e sociale»58. E che la richiesta di canali di esercizio delle virtù civiche e della responsabilità sia tutt’altro che recessiva lo dimostrano i sempre più diffusi fenomeni di cura collettiva dei beni comuni, i quali danno vita ad interessanti forme di partecipazione sussidiaria59. 5. Una prospettiva ulteriore e convergente: il federalismo cooperativo come metodo di governo partecipato Il percorso argomentativo appena proposto, fondato sulla relazione tra partecipazione e solidarietà, risulta avvalorato da quella parte del dibattito sul federalismo che, in ossequio all’etimologia del termine foedus (patto, alleanza), ne evidenzia le implicazioni in termini di organizzazione del rapporto tra governanti e governati e dunque di forma di stato, prima ancora che di forma di governo. diarietà nel diritto comunitario e nella Costituzione, in www.federalismi.it, n. 15/2010. Sul rapporto fra partecipazione e sussidiarietà v., fra gli altri, G. ARENA, Il principio di sussidiarietà orizzontale nell’art. 118 u.c. della Costituzione, in Studi in onore di Giorgio Berti, Napoli, Jovene, 2005, 179 ss.; G. LOMBARDI, L. ANTONINI, Principio di sussidiarietà e democrazia sostanziale: profili costituzionali della libertà di scelta, in Dir. soc., n. 2, 2003, 155 ss. Sui risvolti etico-politici del principio di sussidiarietà, nelle sue connessioni con i principi solidarista e autonomistico di cui agli artt. 2 e 5 Cost., v. G. DE MARTIN (a cura di), Sussidiarietà e democrazia. Esperienze a confronto e prospettive, Padova, Cedam, 2005 (in part. i contributi di P. RIDOLA e A. D’ATENA). 58 G. LOMBARDI, Contributo, cit., 467. 59 Si pensi all’intenso dibattito sollevato dalla questione della privatizzazione dei servizi idrici, con la rivendicazione di forme gestionali ispirate alla collaborazione pubblico-privato. Ma si pensi anche a fenomeni meno strutturati, come quello del c.d. “guerrilla gardening” (giardinaggio libero d’assalto), che indica una forma di azione non violenta mediante la quale gruppi di persone si prendono cura di spazi incolti o abbandonati (soprattutto nelle città), al fine di farvi crescere piante, fiori o colture: la partecipazione sussidiaria segue qui le forme di una protesta attiva e costruttiva attraverso la quale, anziché ricercare la collaborazione con amministrazioni silenti o riottose, ci si assume direttamente la responsabilità della cura dei beni comuni. PARTECIPAZIONE, POLITICHE PUBBLICHE, DIRITTI 25 La rilettura del concetto di federalismo alla luce delle riflessioni originarie, che lasciavano sullo sfondo la dimensione prettamente territoriale di distribuzione del potere e indagavano piuttosto le interconnessioni e i rapporti reticolari fra i diversi soggetti dell’ordinamento coinvolti nei processi decisionali, offre tuttora chiarimenti significativi in ordine ai concetti che ruotano attorno a quello di federalismo e ai nessi che li legano: autonomia, partecipazione, coordinamento, collaborazione, cittadinanza, sovranità, ecc. Ravvisare l’essenza del federalismo non «in un particolare insieme delle istituzioni bensì nell’istituzionalizzazione di relazioni particolari fra i partecipanti alla vita politica»60 significa infatti configurare la forma di stato secondo un modello di tipo inclusivo e collaborativo: «il conglomerato dei concetti del federalismo rimane vitale in ragione della sua capacità di porsi sui territori di frontiera più remoti del ‘politico’ e di superarlo, oltrepassando al contempo anche il suo monopolio e lasciando emergere le altre dimensioni della convivenza, in un’epoca nella quale individui e gruppi avvertono come un peso i legami imposti dalla poderosa macchina egualitaria e omogeneizzante dello Stato sovrano»61. Ma è noto come i risvolti più recenti del dibattito federalista abbiano trascurato le implicazioni di questa più ampia prospettiva, per appiattirsi sulla riduttiva quanto sterile ricerca di mere formule di articolazione territoriale del potere. La stessa riforma costituzionale del 2001, da molti impropriamente aggettivata in senso federale, è l’espressione di un atteggiamento politico vago e approssimato che non ha saputo cogliere le connessioni più profonde tra le ragioni del federalismo e quelle della partecipazione: al contrario, la miopia di quell’atteggiamento ha realizzato un federalismo «a senso unico», volto esclusivamente a moltiplicare gli spazi riservati e chiusi del ceto politico locale e non anche ad aprirsi alla società62. Ebbene, ripercorrere oggi la riflessione sul federalismo come metodo di governo partecipato consente di accedere ad una duplice chiave di lettura del nesso tra i due concetti, che come osserva M.M. PROCACCINI nel suo saggio è nel contempo genetico e di risultato: un nesso il cui 60 D. ELAZAR, Exploring Federalism, University of Alabama Press, 1987, 11-12. 61 L.M. BASSANI, W. STEWART, A. VITALE, I concetti del federalismo, Milano, Giuffrè, 1995, 17, cui si rinvia per una articolata analisi delle accezioni del federalismo, con particolare riferimento al pensiero americano. Più di recente, sull’universo concettuale del federalismo, R.A. MACDONALD, Federalismo caleidoscopico, in Soc. dir., n. 2/2003, 47 ss. 62 V. in particolare le osservazioni di G. AZZARITI, Intervento, cit. 26 ALESSANDRA VALASTRO recupero e approfondimento appare indispensabile per interpretare ed orientare i complessi fenomeni di trasformazione istituzionale con i quali la riflessione sulla partecipazione deve tuttora confrontarsi e misurarsi. Né sembrano giustificate le critiche mosse a un tale tipo di prospettiva da coloro che sostengono l’estraneità reciproca dei due concetti. Come dimostrano l’affermarsi in Italia di orientamenti in questo senso63 ma anche la storia istituzionale e le esperienze recenti di altri Paesi64 il federalismo inteso come insieme di assetti mutuamente cooperativi è – e non può non essere – intrinsecamente legato al principio di partecipazione, inteso a sua volta quale fattore di legittimazione dello Stato: da un lato il federalismo come modo di istituzionalizzare la partecipazione; dall’altro la necessità di partecipazione di una varietà di soggetti ed enti di diverso livello e complessità per far funzionare il federalismo (T. TOONEN). 6. Indicazioni per il legislatore. A) I “macro-principi” della democrazia partecipativa come oggetto di politica pubblica in sé: finalità, livelli essenziali, soggetti istituzionali, tecniche di normazione Riconoscere nel principio partecipativo un metodo di governo e nelle relative situazioni soggettive un nucleo di interessi configurabili (anche) come diritti sociali ha implicazioni complesse, in quanto impone una torsione di prospettiva nella riflessione sulle dinamiche di esercizio del potere e sulle garanzie di tutela dei diritti. Tuttavia il quadro costituzionale, nei termini in cui si è inteso qui rileggerlo, offre indicazioni non trascurabili: sia sul piano dei macroprincipi (o macro-finalità) che devono guidare dall’esterno la costruzione di regole generali sulla democrazia partecipativa, fornendo il ne63 Da ultimo, e nella prospettiva che qui interessa, la riflessione di Daniel Elazar sulla pluralità e sulla partecipazione quali assi portanti del nuovo modo – federalistico appunto – di pensare la politica sono ripresi, fra gli altri, da E. FREDIANI, op. cit., 103 ss.; e da G. GANGEMI, del quale si vedano in particolare Il federalismo di Daniel J. Elazar tra policy e kehilla, tra costituzione formale e costituzione materiale, in G. DUSO - A. SCALONE (a cura di), Come pensare il federalismo? Nuove categorie e trasformazioni costituzionali, Monza, Polimetrica, 2010, 253 ss.; e Le varie forme della partecipazione, in Foedus, n. 25/2009, 102 ss. 64 Si pensi ai casi dell’Olanda, della Svezia e della Svizzera (ben descritte nei saggi di T. TOONEN, C. SEGOLONI FELICI, A. CHOLLET e S. CINQUE - A. SJÖLANDER-LINDQVIST); ma anche ad esperienze più recenti, come quella della già ricordata Costituzione del Sudafrica, il cui Titolo III è espressamente dedicato al “Governo fondato sulla cooperazione”. PARTECIPAZIONE, POLITICHE PUBBLICHE, DIRITTI 27 cessario ed omogeneo sfondo di qualunque politica in tal senso65; sia sul piano di quelle che possono invece definirsi come micro-finalità, destinate ad orientare dall’interno la costruzione delle regole partecipative sulla base degli obiettivi delle singole policies. a) La prima indicazione di macro-principio attiene al tipo di partecipazione cui occorre riferirsi allorché si parli di democrazia partecipativa, e al recupero di una omogeneità di linguaggio che ha qui un’importanza tutt’altro che formale. L’assunzione della partecipazione come metodo di governo, ossia di esercizio permanente della sovranità, imprime alla stessa una finalità di carattere eminentemente conoscitivo, in quanto volta a ridurre l’asimmetria del decisore pubblico attraverso l’utilizzo delle esperienze e competenze in possesso dei destinatari della decisione: una funzione conoscitiva peraltro teleologicamente orientata in quanto volta ad assicurare la qualità delle decisioni alla luce di parametri di giustizia sociale e di inclusione. A differenza delle forme di partecipazione più squisitamente politica, che assumono carattere sostanzialmente negoziale, la partecipazione a scopo conoscitivo non offre risposte immediate ma aspira piuttosto a divenire componente strutturale dei processi decisionali pubblici in tutte le loro fasi, al fine di innalzarne la qualità in termini di rispondenza all’interesse generale, di trasparenza, di efficacia66. Ciò dovrebbe consentire di superare l’ambiguità concettuale (forse non sempre inconsapevole) che tuttora si riscontra, soprattutto negli atti normativi, fra strumenti contigui ma diversi, come ad esempio fra consultazione e concertazione: pur essendo innegabile la rilevante funzione che talune 65 Parafrasando un’autorevole dottrina si può affermare che tali principi dovrebbero rivolgersi non tanto a contemplare le modalità della presenza del privato nel processo decisionale quanto a dare un valore a questa presenza, un’indicazione teleologica circa il modo di intendere e di articolare il rapporto fra l’interesse pubblico che il decisore intende perseguire e l’interesse particolare di cui è titolare il privato destinatario della regolazione: G. BERTI, Procedimento, procedura, partecipazione, in Studi in memoria di E. Guicciardi, Padova, Cedam, 1975, 797. 66 Le differenze strutturali sono evidenti: gli strumenti partecipativi a carattere conoscitivo devono coinvolgere un numero tendenzialmente ampio e differenziato di soggetti, da individuare di volta in volta in relazione alla complessità dell’ambito di intervento e alle diverse categorie di destinatari; e devono intervenire in più momenti del processo decisionale, attraverso modalità che assicurino un percorso circolare e progressivo delle informazioni. Le forme partecipative aventi natura politica, invece, sono finalizzate al coinvolgimento di categorie e gruppi sociali organizzati, rappresentativi di interessi “forti”, al fine di concordare le soluzioni regolative; e si esauriscono nel momento iniziale del processo decisionale. 28 ALESSANDRA VALASTRO forme di partecipazione politica (come il referendum abrogativo e la concertazione) hanno svolto in certi momenti storici, è anche vero che quegli stessi strumenti ben poco possono offrire nella prospettiva della democrazia partecipativa, in quanto modalità che si esauriscono in fasi antecedenti o successive al processo decisionale politico, e che sono state tradizionalmente intese più in termini di “correttivo” della democrazia rappresentativa (e dunque di momentanea sostituzione della società civile ai propri rappresentanti) piuttosto che in termini di complementarietà e collaborazione. b) La seconda indicazione attiene al necessario riconoscimento di un obbligo di intervento del legislatore per disciplinare e assicurare le precondizioni e i livelli minimi della partecipazione. Come si è detto, se certamente non occorrono specifiche previsioni normative per attivare processi partecipativi, di regole vi è invece bisogno per assicurare la predisposizione delle condizioni materiali della partecipazione, l’incentivazione sostanziale della stessa: politiche di carattere strumentale, come quelle di carattere informativo e di educazione alla partecipazione, volte a garantire l’effettività delle situazioni giuridiche sottostanti e la loro concreta esplicabilità. Si pensi in particolare al problema dell’adeguatezza delle informazioni in possesso dei soggetti potenzialmente partecipanti (da valutare anche in relazione alle specificità della categoria di appartenenza): da sempre additata come ostacolo principale all’effettività della partecipazione, tale problematica è ancora lontana da un assetto soddisfacente; e le nuove tecnologie, che indubbiamente hanno aperto nuove potenzialità partecipative, prestano il fianco ad altrettante perplessità laddove vengano utilizzate in chiave demagogica o meramente informativa. All’approfondimento di queste tematiche sono dedicati, in particolare, i saggi di F. OZZOLA, E. BROGI, N. BIANCUCCI67. Ebbene, dalla portata normativa del principio di partecipazione, nel suo collegamento con l’eguaglianza sostanziale, emerge una doverosità di intervento riferibile senz’altro alla Repubblica nel suo complesso, ma imputabile in primo luogo al legislatore quale principale destinatario dell’obbligo di creare le regole e gli istituti idonei a dare attuazione ai principi costituzionali. 67 In dottrina, sulla rilevanza delle “precondizioni” della partecipazione, v. da ultimo V. ANTONELLI, Cittadini si diventa: la formazione alla democrazia partecipativa, relazione alla giornata di studio «Democrazia partecipativa e nuove frontiere della cittadinanza», cit., leggibile in www.astrid-online.it (Astrid Rassegna, n. 9/2010). PARTECIPAZIONE, POLITICHE PUBBLICHE, DIRITTI 29 Non possono non tornare alla mente, a questo proposito, le considerazioni di Mortati sull’omissione legislativa68: sebbene la riflessione giuridica sia oggi afflitta dal problema opposto, quello dell’inflazione, non sembra infatti negabile che l’assenza di un quadro organico di principi generali sulla partecipazione costituisca una lacuna destinata ad incidere pesantemente sulle sorti della democrazia. È vero che trattandosi di una prospettiva di intervento positivo, peraltro di carattere organizzativo e procedurale piuttosto che economico, l’omissione è qui più difficilmente valutabile e sindacabile con gli ordinari strumenti di garanzia costituzionale; ma di certo si avverte anche il peso di un’eredità scomoda, quella dell’iniziale ascrizione dell’art. 3 Cost. alla categoria delle norme programmatiche, certamente superata sul piano teorico ma periodicamente riaffiorante in ricostruzioni ambigue69. Il carattere di doverosità dell’intervento legislativo risulta oggi ulteriormente avvalorato dalla previsione dell’art. 117, comma 2, lett. m), Cost.: nella prospettiva che qui interessa, la necessaria determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti sociali dovrebbe tradursi nell’obbligo, per il legislatore, di individuare il nucleo minimo degli interventi pubblici necessari per assicurare le condizioni materiali della partecipazione70. Innanzitutto, verso la configurazione di un tale obbligo sospinge quanto si è detto in ordine al fatto che i nuovi diritti sociali di parteci68 C. MORTATI, Appunti per uno studio sui rimedi giurisdizionali contro i comportamenti omissivi del legislatore, in Foro it., 1970, II, 153 ss. 69 Si veda la discussa sentenza n. 379/2004 della Corte costituzionale sulla legittimità dello statuto dell’Emilia Romagna, la quale ha suscitato non poche perplessità nella parte in cui ha affermato che alle proclamazioni di principio contenute negli statuti regionali non può riconoscersi alcuna efficacia giuridica bensì soltanto una funzione di natura politicoculturale. In tema v. già, per tutti, le indimenticabili riflessioni di P. BARILE, La Costituzione come norma giuridica, Firenze, G. Barbera ed., 1951, e di V. CRISAFULLI, La Costituzione e le sue norme di principio, Milano, Giuffrè, 1952. 70 Un riferimento alla competenza di cui alla lett. m) sembra ravvisabile nei pareri del Consiglio di Stato in materia di AIR, ove si afferma che «la scelta del legislatore nazionale, nel senso della necessità di individuare a livello normativo i criteri generali e le procedure anche della fase della consultazione, può essere attuata nella forma di livelli qualitativi minimi»: ciò confermerebbe la lettura qui proposta circa la configurabilità della consultazione come oggetto di un diritto sociale fondamentale. In questo senso v. in particolare il parere 11 febbraio 2008 della Sez. consultiva per gli atti normativi del Cons. St.; ma anche i pareri del 27 marzo 2006 e del 21 aprile 2008, nei quali si rimarca la rilevanza dello strumento della consultazione nell’ambito dei processi decisionali di carattere normativo. Un’interessante applicazione di questa tesi è proposta nel saggio di D. DONATI, laddove si parla di “criteri minimi associativi” con riferimento all’individuazione di parametri che consentano di identificare i soggetti della partecipazione. 30 ALESSANDRA VALASTRO pazione svolgono anche una funzione strumentale nei confronti di diritti civili o sociali tradizionali. In secondo luogo, chiarimenti in ordine al contenuto di quell’obbligo vengono dall’idea che i livelli essenziali non siano soltanto limiti da rispettare ma anche garanzie, e che – in ragione della sostanziale coincidenza del concetto di prestazione con quello di garanzia – il riferimento ai livelli essenziali non possa limitarsi a richiamare la necessità di indicazioni puramente quantitative ma auspichi più in generale la definizione di strutture organizzative alle quali affidare la garanzia dei diritti: ciò comporta che lo Stato non può limitarsi a definire “quanto”, ma deve anche stabilire almeno i principi fondamentali del “come” 71. Intesa in questo senso, l’innovativa formulazione dell’art. 117, comma 2, lett. m), ben può considerarsi una felice risposta a chi già da tempo autorevolmente segnalava che il concetto di partecipazione, in quanto storicamente datato e ideologicamente orientato, vale non tanto o non soltanto come rappresentazione di ciò che la partecipazione stessa costituisce, bensì come «proposta di organizzazione della partecipazione, come indicazione di quale e quanta partecipazione si voglia realizzare e di come si voglia realizzarla»72. Non è un caso che un processo ricostruttivo analogo abbia conosciuto il contiguo diritto di accesso ai documenti amministrativi, che sia la l. n. 241/1990 (come modif. dalla l. n. 15/2005) che la Corte costituzionale (sent. n. 399/2006) hanno ricondotto ai livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali. L’accoglimento di un’accezione dei livelli essenziali in termini di garanzie anche organizzative dovrebbe fra l’altro ridimensionare le preoccupazioni connesse all’invasività della competenza di cui alla lett. m): è vero che tale competenza richiama una puntualità regolatoria che va ben al di là della mera individuazione di principi, e che vi è un’innegabile interferenza con la materia dell’organizzazione; tuttavia, considerato che le realtà regionali e locali hanno di fatto già superato quelle condizioni minime attraverso previsioni ben più avanzate, l’intervento legislativo statale avrebbe il solo ma rilevante effetto di stabilizzare strumenti partecipativi già esistenti ma spesso operanti sulla base di mere 71 Così M. LUCIANI, I diritti costituzionali tra Stato e regioni (a proposito dell’art. 117, comma 2, lett. m), della Costituzione), in Pol. dir., n. 3/2002, 352-3. Nello stesso senso E. BALBONI, Il concetto di “livelli essenziali e uniformi” come garanzia in materia di diritti sociali, in Le ist. del federalismo, 2001, 1103; M. CIANCAGLINI, Dall’incentivazione al consolidamento: un possibile percorso normativo della democrazia partecipativa, in U. ALLEGRETTI (a cura di), Democrazia partecipativa, cit., 195. 72 M. NIGRO, Il nodo della partecipazione, cit., 229. PARTECIPAZIONE, POLITICHE PUBBLICHE, DIRITTI 31 prassi, e di corredarli di garanzie73. Inoltre, come si vedrà più avanti, un’ulteriore ridimensionamento del problema dell’interferenza tra competenze deriva dalla tendenza ad adottare previsioni normative di carattere incentivante piuttosto che impositivo (v. infra, par. 8). c) La terza indicazione attiene alla categoria dei soggetti istituzionali tenuti a garantire le condizioni materiali di una effettiva partecipazione ai propri processi decisionali, la quale deve oggi intendersi nel senso più ampio: non più soltanto la pubblica amministrazione, rispetto alla quale il principio partecipativo è andato consolidandosi dal 1990 in poi, bensì tutti i soggetti che esercitino funzioni pubbliche, ovviamente nella misura in cui l’apporto dei privati risulti funzionale alla democratizzazione delle stesse. Il cuore della democrazia partecipativa è oggi costituito dalla partecipazione alle politiche pubbliche, la cui crescente complessità e trasversalità pone problemi nuovi e delicati: come si è ricordato, le politiche non sono più riconducibili ad un unico attore74; il conseguente sviluppo della c.d. “legislazione complessa”, che deriva dalle grandi trasformazioni dell’economia e dei rapporti tra pubblico e privato e che si caratterizza per il fatto di comprendere interventi in una pluralità di settori di diversa natura e competenza75, rendono più complessa l’attività di individuazione dei bisogni e dei destinatari, ma proprio per tale motivo ancora più importante l’assunzione delle competenze esperienziali di questi; la partecipazione stessa può articolarsi in una molteplicità di forme e di fasi, con finalità parzialmente diverse76. 73 Favorevole ad un intervento legislativo che delinei i tratti fondamentali delle forme di democrazia partecipativa, pur lasciando al potere normativo degli enti territoriali la possibilità di modellarne autonomamente gli istituti, è C. CORSI, La democrazia partecipativa tra fonti statali e fonti degli enti territoriali, in www.osservatoriosullefonti.it, n. 1/2009. 74 «Fissazione dell’agenda, formulazione del programma, implementazione, valutazione: ogni momento del processo di policy vede l’intervento di una congerie di soggetti pubblici e privati – parlamento, governo, amministrazioni locali, burocrazia, magistratura, partiti, gruppi di pressione, movimenti, esperti, organizzazioni di interesse»: L. PELLIZZONI, Politiche pubbliche e nuove forme di partecipazione, in Partecipazione e conflitto, n. 0/2008, 93. Sull’argomento v. anche G. CAPANO, Policy legacy, in G. CAPANO, M. GIULIANI (a cura di), Dizionario di politiche pubbliche, Roma, Nis, 1996, 265, che definisce la partecipazione alle politiche pubbliche come un processo emergente, una configurazione istituzionalizzata di problemi, soluzioni, attori, partecipanti, destinatari e stili di policy. 75 V. in proposito la Nota di sintesi del Rapporto 2009 sulla legislazione tra Stato, Regioni e Unione europea, Camera dei Deputati - Osservatorio sulla legislazione, 30 ottobre 2009. 76 «Si può partecipare a un’azione in quanto tale; alla definizione dell’azione da intraprendere; alla definizione delle modalità attraverso le quali decidere le modalità dell’azione 32 ALESSANDRA VALASTRO Inoltre, il tema della partecipazione si intreccia qui con quello della qualità ed efficacia delle politiche pubbliche: ponendosi in un rapporto di arricchimento reciproco in quanto tematiche che condividono – non a caso – lo stesso destino di faticosa affermazione nella cultura politica e giuridica, la democrazia partecipativa potrà mettere al servizio della valutazione uno strumentario di tecniche partecipative ampiamente sperimentate, mentre la disciplina della valutazione della qualità potrà contribuire alla stabilizzazione e istituzionalizzazione delle procedure partecipative all’interno dei processi decisionali. Si pensi, per un verso, al concetto di “valutazione integrata” (o partecipata), quale emerge da talune leggi regionali o da strumenti di pianificazione territoriale77; per altro verso, al recente decreto del Ministro delle Politiche agricole, alimentari e forestali n. 10171/2009, che ha colto l’occasione della disciplina delle consultazioni connesse alla redazione dell’AIR e della successiva VIR per introdurre una regolamentazione delle lobbies, con ciò dimostrando la concreta percorribilità di un circuito virtuoso di collegamento fra politiche partecipative e politiche valutative (ma anche – in verità – la persistente tendenza a disciplinare la consultazione secondo dinamiche sostanzialmente concertative)78. Anche in questo caso indicazioni interessanti provengono dall’esame di talune esperienze straniere, come quella della legge olandese in materia socio-assistenziale (WMO), analizzata nel saggio di C. SEGOLONI FELICI. Ma la sfida connessa al recupero della portata normativa del principio di partecipazione impone di spingersi oltre, verso un ripensamento dei processi decisionali a tutto tondo, cioè anche di quelli che ineriscono a funzioni tradizionalmente considerate impermeabili alla partecipazione, come la funzione di controllo: in un’epoca in cui le que(titolarità, procedure, ambiti di applicazione). Chi è coinvolto nell’implementazione di una policy, ad esempio, può non aver avuto alcun ruolo nella sua formulazione, né a maggior ragione nella definizione delle modalità per giungervi (e viceversa)»: L. PELLIZZONI, Politiche pubbliche e nuove forme di partecipazione, cit., 95. 77 Con particolare riferimento al Piano di indirizzo territoriale della Regione Toscana, v. P. BALDESCHI, Insegnamento di un caso di democrazia partecipativa nel governo del territorio: l’insediamento turistico di Castelfalfi, in U. ALLEGRETTI (a cura di), Democrazia partecipativa, cit., 161 ss. 78 Per un commento al decreto v. P.L. PETRILLO, AIR e gruppi di pressione: un binomio possibile, in Rassegna parlamentare, n. 2/2010. Più in generale, sul rilievo della partecipazione dei soggetti privati alla valutazione della qualità delle politiche pubbliche, v. M. RAVERAIRA, I privati nuovi attori di regole pubbliche migliori, in ID. (a cura di), “Buone regole” e democrazia, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2007, 25 ss.; ID., Il coinvolgimento degli interessi privati nei processi decisionali pubblici, in www.federalismi.it, n. 24/2008. PARTECIPAZIONE, POLITICHE PUBBLICHE, DIRITTI 33 stioni della pluralità di analisi e giudizi e della credibilità sociale dei controllori sono divenute assai più delicate di quanto non fossero in passato, gli interrogativi che occorre porsi sono molteplici e non possono non coinvolgere la stessa configurazione dei tradizionali organi di controllo e di garanzia (v. i saggi di F. GIGLIONI, R. CAMELI, J.J. BERAUD). d) La quarta indicazione attiene, infine, alle tecniche di normazione della partecipazione: l’esigenza di rendere quest’ultima caratteristica strutturale dei processi decisionali impone di guardare a modelli di sistema normativo che, pur variabili nella articolazione delle fonti (anche in base alle specificità dei livelli territoriali), rispettino canoni di coerenza e adeguatezza. Con ciò si intende dire che se la sede legislativa appare la più opportuna per stabilire i principi generali della partecipazione, l’indicazione dei criteri ben può essere lasciata alla fonte secondaria (o alla stessa legge nel caso in cui, come avviene in molte regioni, i principi siano inseriti nello statuto); mentre per l’individuazione degli standard appaiono senz’altro adeguate fonti o altri atti di natura tecnica (come decreti ministeriali, direttive, protocolli, linee guida, ecc.). La questione non appare di poco conto ai fini che qui interessano, come dimostrano – ad esempio – le incongruenze che caratterizzano il difficile e contraddittorio processo regolativo della consultazione a livello nazionale79. 79 Basti qui ricordare che l’obbligo di procedere a consultazione nell’attività normativa del Governo è stato introdotto a livello legislativo già a partire dalla fine degli anni ’90 (l. n. 59/1997 e l. n. 50/1999), e poi ribadito dalle leggi di semplificazione n. 229/2003 (con disposizione poi abrogata e ripresa dal Codice dell’amministrazione digitale) e n. 246/2005; e che tutte le previsioni in questione rinviavano e rinviano ad un apposito decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri per la disciplina dei criteri generali e delle procedure concernenti la consultazione. A parte le perplessità suscitate dal fatto che i rinvii legislativi non sono accompagnati da alcuna indicazione di principi e criteri di carattere generale, ciò che deve essere evidenziato è che il decreto infine approvato (n. 170/2008) contiene la disciplina dell’AIR ma rinvia per il profilo della consultazione ad un altro decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri; non solo, ma nel prevedere le cause di possibile esenzione dall’AIR, prevede la possibilità per il Governo di non procedere a consultazione, senza bisogno di richiedere l’autorizzazione al DAGL, nei casi di procedimenti normativi particolarmente complessi. In tal modo la consultazione viene configurata, pur rinviandosene la disciplina ad atto successivo, come momento eventuale e discrezionale del processo normativo, in evidente violazione della prescrizione legislativa. La successiva direttiva del P.C.M. del 26 febbraio 2009 non dispone molto di più del precedente decreto, ribadendo la necessità di procedere alla redazione dell’AIR attraverso un’adeguata istruttoria, “comprensiva delle fasi di consultazione, anche telematica, delle principali categorie di soggetti pubblici e privati destinatari diretti e indiretti della proposta di regolamentazione”. Sull’argomento v., fra gli altri, F. DI LASCIO, Fonti statali e strumenti della democrazia partecipativa, in Studi parl. e di pol. cost., n. 3-4, 2008, 61 ss.; A. VALASTRO, L’esperienza italiana della consultazione: un percorso a zig zag in una governance problematica, in M. RAVERAIRA (a cura di), “Buone” regole e 34 ALESSANDRA VALASTRO Ciò che emerge da queste prime e pur sommarie indicazioni in ordine ad un possibile ventaglio di macro-principi è la necessità di ravvisare nella partecipazione, oltre che un carattere strumentale alla realizzazione efficiente delle politiche di settore, l’oggetto e l’obiettivo di una politica pubblica ad hoc, consistente in un sistema di interventi volti a rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono o rendono inefficace la partecipazione permanente alla vita economica, sociale e politica del Paese, ma anche a creare opportunità mediante politiche incentivanti; una politica volta ad affrontare i profili sostanziali della partecipazione (soggetti, categorie di atti, fasi dei processi decisionali, strumenti, effetti rispetto al decisore) ma anche – e finalmente – i risvolti organizzativi e procedurali della stessa, in ossequio al ricordato imperativo di coerenza tra fini e strutture. 7. (Segue) I “micro-principi” delle politiche partecipative nell’ambito delle singole policies: profili sostanziali, organizzativi e procedurali Orientate da un quadro di principi generali che esplicitino le fondamentali implicazioni della portata normativa del principio di partecipazione, le altre indicazioni che indubbiamente emergono dalla rilettura del testo costituzionale potranno guidare il processo regolativo all’interno delle singole politiche partecipative. I profili sono molteplici, e ad essi (nemmeno a tutti) possono qui dedicarsi meri cenni: ciò che peraltro deve essere ancora una volta ribadito è che questo tipo di “regole” dovrà avere carattere sperimentale e flessibile, nel senso di indicare criteri anziché modalità e strumenti partecipativi predefiniti, affinché questi ultimi possano essere individuati di volta in volta in modo coerente con gli obiettivi delle singole politiche pubbliche e con le esigenze garantiste della democrazia costituzionale. A) Indicazioni fondamentali provengono innanzitutto con riferimento ai profili sostanziali della partecipazione. a1) Uno dei temi da sempre più spinosi è quello relativo ai criteri di scelta dei soggetti. democrazia, cit., 201 ss.; A. FLORI, Le consultazioni per gli atti normativi del Governo, in www.astrid-online.it; C. RAIOLA, La consultazione telematica per la semplificazione, in www.astrid-online.it: A. NATALINI, F. SARPI, L’insostenibile leggerezza dell’AIR, in Giorn. dir. amm., n. 3, 2009, 229 ss.; G. SAVINI, La “messa a regime” dell’AIR: il DPCM 11 settembre 2008, recante disciplina attuativa dell’analisi dell’impatto della regolamentazione, in www.amministrazioneincammino.luiss.it. PARTECIPAZIONE, POLITICHE PUBBLICHE, DIRITTI 35 Il problema di fondo che si pone è quello della inclusività, ovvero della «capacità di far partecipare in condizioni di uguaglianza tutti coloro su cui ricadono le conseguenze della decisione»80. Ma tale condizione deve intendersi come parità di accesso strettamente intesa o piuttosto come mera parità di chances? E quale ruolo sono destinati a svolgere i gruppi rappresentativi degli interessi? Quali le opportunità e i rischi rispetto all’efficace e trasparente rappresentazione degli interessi? E ancora, come superare i rischi connessi alla istituzionalizzazione delle pratiche partecipative, che se per un verso ne accrescono le garanzie per altro verso – in contesti particolari – possono alterarne le dinamiche e indebolirne l’efficacia? All’approfondimento di queste tematiche sono dedicati, in particolare, i saggi di D. DONATI e M. ZAMORA. Ancora, quali criteri devono guidare la scelta tra una partecipazione aperta a tutti ed una partecipazione organica, basata piuttosto su organismi stabili di rappresentanza degli interessi all’interno delle istituzioni? Il caso delle Consulte, e l’estrema varietà delle esperienze concrete che le caratterizza, evidenzia profili di spiccata problematicità, con giudizi talora fortemente negativi in ordine alla loro efficacia81. Un criterio per valutare l’opportunità di ricorrere a questa figura potrebbe essere proprio quello relativo alle categorie di soggetti, considerandola positivamente per quelle a maggiore rischio di esclusione (come gli immigrati), rispetto alle quali la stabilità del raccordo con le istituzioni appare più importante dell’ampiezza del numero dei partecipanti e il rischio di istituzionalizzazione di interessi forti appare più basso (se non assente). Infine, il collegamento del principio di partecipazione con le categorie dell’eguaglianza sostanziale e della “debolezza” è destinato ad apportare ulteriori chiarimenti in ordine ai criteri di individuazione dei soggetti cui rivolgere prioritariamente le politiche partecipative: come si è già accennato, infatti, non possono trascurarsi, ed anzi dovrebbero maggiormente valorizzarsi, i significativi effetti che le politiche partecipative possono produrre in termini di integrazione e di estensione della cittadinanza reale. Con riferimento alla delicata questione degli immigrati, ad esempio, la realizzazione di politiche partecipative efficaci potrebbe in gran parte sdrammatizzare il dibattito attuale sull’estensione della cittadinanza for80 M. CAMMELLI, Considerazioni minime in tema di arene deliberative, cit., 93. 81 Sull’argomento v. A. ALBANESE, Partecipazione organica e democrazia partecipativa, in U. ALLEGRETTI (a cura di), Democrazia partecipativa, cit., 345 ss. 36 ALESSANDRA VALASTRO male, ed in particolare sulla vexata questio del diritto di voto: per i termini in cui è condotto, tale dibattito sembra mosso da una sorta di “ossessione della rappresentanza” che rischia di condurre all’ennesimo trionfo della democrazia rappresentativa su quella partecipativa; mentre se è vero che il possesso della cittadinanza formale non è affatto garanzia di esercizio effettivo dei diritti, come la storia ha generosamente dimostrato, i percorsi più proficui per realizzare un’“integrazione partecipe” sembrano piuttosto quelli della democrazia partecipativa82. a2) Per quanto riguarda le fasi nelle quali attivare processi partecipativi e la scelta delle tecniche, sono ancora criteri stringenti di adeguatezza e di efficacia che devono guidare le rispettive valutazioni: una partecipazione tardiva o che si avvalga di tecniche eccessivamente onerose o non attendibili non soltanto è inutile ma costituisce un pesante ostacolo al radicamento di una cultura della partecipazione nella società civile, oltre che uno spreco di risorse. Così, con riferimento alle fasi dovrebbero porsi quantomeno criteri di tempestività e ripetibilità, superando la tendenza a posticipare il più possibile il momento partecipativo e ad esaurirlo per lo più nella fase ex ante dei processi decisionali; mentre la scelta delle tecniche dovrebbe essere guidata da criteri relativi alla onerosità (rapporto fra costi, tempi e risultati attesi), alla attendibilità e validità dei risultati, all’utilità ed esaustività degli stessi. a3) L’altro grande ostacolo all’effettività della partecipazione è costituito dalla insoddisfacente (se non inesistente) disciplina degli esiti dei processi partecipativi, sia nel senso della loro influenza sui decisori sia nel senso del loro monitoraggio. Quanto al primo aspetto, è eviente come non sia affatto in discussione la titolarità del potere decisionale bensì il modo di esercitarlo, la questione riguardando piuttosto la modulazione dell’influenza che i processi partecipativi sono destinati ad esercitare sul decisore. È evidente come nessuna politica partecipativa possa aspirare a conseguire risultati efficaci in assenza di un “patto” politico fra istituzioni e società 82 Significativa, in questo senso, l’espressione utilizzata dalla l.r. Toscana n. 29/2009, laddove si parla di «integrazione partecipe dei cittadini stranieri nell’obiettivo della costruzione di una comunità plurale e coesa fondata sul contributo di persone di diversa lingua e provenienza e sul rispetto dei principio costituzionale di uguaglianza» (c.d.a.). Sulle connessioni fra cittadinanza e democrazia partecipativa, v. in particolare, D. BOLOGNINO, Le nuove frontiere della cittadinanza nel confronto tra «cittadinanza legale» e «cittadinanza sociale»: verso una riforma della legge 5 febbraio 1992, n. 91, relazione alla giornata di studio su «Democrazia partecipativa e nuove frontiere della cittadinanza», cit., leggibile anche in www.astrid-online.it. PARTECIPAZIONE, POLITICHE PUBBLICHE, DIRITTI 37 civile, ossia di una cultura politica che nessuna norma giuridica può imporre83: emblematica in questo senso l’esperienza francese del débat public, che si segnala per il grande livello di influenza effettiva pur in presenza di una legge che esclude ogni forma di vincolatività (v. il saggio di J.J. BERAUD)84. È vero che un tale tipo di impostazione si presta facilmente alle critiche di chi vi ravvisa null’altro che una forma di diluizione della responsabilità dei veri soggetti decisionali, con il risultato di una partecipazione “concessa in dosi omeopatiche” (A. COLLET in questo volume). Tuttavia ciò che appare essenziale, più ancora della previsione di forme di vera e propria co-decisione (sempre pericolosamente protese verso dinamiche di tipo concertativo, e come tali non inclusive), è piuttosto l’apprestamento di garanzie per assicurare un’adeguata considerazione dei risultati della partecipazione85. Fra queste, la garanzia dell’obbligo di motivazione – prevista come si vedrà da alcune leggi regionali – sembrerebbe lo strumento più coerente con un impianto che voglia fare della democrazia rappresentativa e della democrazia partecipativa metodi di governo realmente complementari: tuttavia si tratta di soluzione ancora guardata con diffidenza rispetto a taluni tipi di atti (in particolare gli atti normativi), paventandosi il rischio di contenziosi pretestuosi su dati formali e non di merito86. Ma oltre a suscitare, a loro volta, l’interrogativo sul carattere davvero solo formale di un eventuale vizio consistente nella mancata considerazione degli esiti della partecipazione, quei timori non fanno che confermare la necessità di un quadro di re83 G. PELLIZZONI, Politiche pubbliche e nuove forme di partecipazione, cit., 113, richiama opportunamente il modello della “pattuizione”, riprendendo gli studi di Elazar (anche qui – più sopra – richiamati) e intendendo «per patto un impegno volto al futuro, aperto a ulteriori soggetti o atti, e asimmetrico ossia privo di vincoli specifici alla reciprocazione»: dunque un modello «diverso tanto dalla reciprocità, dove l’impegno è aperto ma i vincoli sussistono, quanto dal contratto, dove l’impegno è chiuso e simmetrico (quid pro quo), e dai rapporti di dominio, dove la relazione è asimmetrica e chiusa (la grazia del sovrano, gli aiuti umanitari, la prestazione impersonale del servizio all’utente)». 84 Sul modello francese v. anche, da ultimo, M. FROMONT, Fondements de la démocratie partecipative en droit français, in U. ALLEGRETTI (a cura di), Democrazia partecipativa, cit., 47 ss.; S. CHARBONNEAU, Les expériences françaises à des différentes échelles: de l’ambivalence de la participation, ivi, 277 ss. 85 In questo senso anche G.U. RESCIGNO, Intervento alla Tavola Rotonda, «Quali regole per la partecipazione?», cit. 86 In questo senso, ad esempio, P. FAVA, La Consulta e la qualità della regolazione nella multilevel governance: i rischi e i pericoli di un’apertura incondizionata alle procedure di consultazione degli interessati e alla motivazione delle leggi, in Corr. giur., 2005, 1532. 38 ALESSANDRA VALASTRO gole che chiarisca gli aspetti nodali dei processi partecipativi e il loro ruolo nell’ambito dei processi decisionali. Per una riflessione sui margini e i limiti di un sindacato giurisdizionale avente ad oggetto la corretta partecipazione, si rinvia al saggio di R. CAMELI. Infine, ma non da ultimo, l’efficacia dei processi partecipativi non può non connettersi con la previsione di forme di monitoraggio e valutazione dei risultati degli stessi: è innegabile, infatti, che l’effettività della partecipazione passi anche per la qualità della stessa. B) Queste ultime considerazioni riconducono la tematica al suo punto d’inizio, laddove si è posto il problema dell’opportunità di una disciplina stabile della partecipazione e di una sua proceduralizzazione, quale garanzia principale di controllabilità e misurabilità della qualità dell’intero processo. Sebbene i profili organizzativi e procedurali siano generalmente meno approfonditi rispetto a quelli appena visti, notoriamente più discussi e dibattuti, attorno ad essi ruota il perno della efficacia e della effettività dei processi partecipativi: le regole concernenti questi aspetti sono anzi destinate a costituire l’impalcatura di quelle pretese partecipative che i soli criteri di carattere sostanziale non possono da soli soddisfare87. Anche su questi profili la rilettura del principio costituzionale di partecipazione nella sua portata normativa offre indicazioni univoche e tutt’altro che trascurabili: la separazione dalla politica, nel senso che i processi partecipativi dovrebbero essere condotti da soggetti indipendenti (organismi esterni o strutture interne al soggetto politico purché diverse da quelle decidenti); la formazione e la competenza professionale, nel senso che le procedure partecipative dovrebbero essere realizzate da soggetti qualificati e appositamente formati; la garanzia di controllo neutrale rispetto all’osservanza delle regole. 8. Il ruolo strategico delle regioni: linee di tendenza della legislazione regionale Nel quadro sempre più articolato degli attori istituzionali a vario titolo coinvolti dal tema della partecipazione, quello regionale sembra de87 Sull’importanza dei profili organizzativi e procedurali, v. da ultimo E. DENNINGER, Al di là delle «dichiarazioni»: la realizzazione dei diritti fondamentali mediante l’organizzazione e il procedimento, in Dem. dir., n. 1/2009, 248 ss. PARTECIPAZIONE, POLITICHE PUBBLICHE, DIRITTI 39 stinato ad assumere un ruolo strategico per più di una ragione: la posizione di snodo rispetto ai livelli statale e locale; un potere statutario e legislativo che consente quella modulazione di fonti e di prescrizioni di cui si è detto a proposito dei macro-principi; uno strumentario giuridico che consente di realizzare il coordinamento e la stabilizzazione delle diffuse pratiche partecipative affermatesi a livello locale, attraverso previsioni (come quelle sugli incentivi) idonee a produrre un circolo virtuoso di evoluzione incrementante. Ma vi sono anche ragioni di carattere sostanziale legate alle peculiarità della fase istituzionale attuale. Innanzitutto, le regioni offrono oggi il termometro più sensibile di una tendenza evolutiva delle forme di governo verso modelli di tipo presidenziale, che presuppongono il rafforzamento degli esecutivi in funzione di stabilità e governabilità ma che hanno di fatto generato anche un indebolimento delle assemblee rappresentative: la riflessione che non da oggi ruota attorno al ruolo delle assemblee, fra istanze di recupero della centralità e preoccupazioni di stabilità dei governi e competitività del Paese, deve tendere anche ad un recupero dei canali di interlocuzione con la società civile, al fine di costruire un apparato di strumenti informativi e conoscitivi ulteriori e diversi rispetto a quelli tradizionalmente facenti capo all’esecutivo88. 88 Gli ostacoli che si frappongono ad una più compiuta apertura delle assemblee rappresentative verso la società civile non sembrano oggi sostanzialmente diversi da quelli individuati negli anni ’80: con argomenti riferiti soprattutto al livello nazionale ma facilmente estensibili agli altri livelli territoriali, quegli ostacoli venivano per lo più ricondotti alla ambiguità delle scelte politiche relative al ruolo dell’assemblea rispetto a quello dell’esecutivo. Sul dibattito di quel periodo v., fra gli altri, M. PATRONO, Informazione (e informatica) in Parlamento, in Dir. soc., 1981, 792, ove si additava la «incapacità di scegliere» tra «una conoscenza concorrenziale con quella governativa e proprio per questo indirizzata al controllo dell’informazione ricevuta dal Governo» e «una conoscenza preordinata al recupero di una capacità del Parlamento di governare autonomamente». V. anche ID., L’attività conoscitiva nel funzionamento delle istituzioni assembleari sub-nazionali: il caso italiano, in M. PATRONO, A. REPOSO (a cura di), L’informazione parlamentare, Cleup, Roma, 1983, 94 ss., ove si sottolinea il carattere scarsamente partecipativo delle audizioni e delle indagini conoscitive; A. MANZELLA, Il Parlamento, Bologna, Il Mulino, 1991, 163, ove si ravvisa, nella perdurante resistenza dei regolamenti parlamentari ad affrontare il tema della partecipazione al procedimento legislativo, una vera e propria “battaglia di retroguardia” contro la contaminazione dello stesso da influenze esterne. Sul tema, più di recente, F. BASILICA, S. SEPE, Parlamento e cittadini. La comunicazione istituzionale nei Parlamenti italiano ed europeo, Maggioli, Rimini, 2005; C. PINELLI, La crisi dei consigli regionali e i circuiti tra Stato e Regioni, in Scritti in onore di Michele Scudiero, tomo III, Napoli, 2008; F. ANGELINI, Consigli regionali e partecipazione, in U. ALLEGRETTI (a cura di), Democrazia partecipativa, cit., 231 ss. 40 ALESSANDRA VALASTRO In secondo luogo, il massiccio fenomeno di redistribuzione delle politiche pubbliche a favore delle autonomie territoriali ha prodotto «lo spostamento verso il sistema dei rapporti tra i livelli territoriali di importanti poteri di indirizzo e programmazione che in passato sarebbero stati contenuti all’interno della legislazione o dell’attività di indirizzo politico Governo/Parlamento (politica sanitaria, ammortizzatori sociali, sviluppo economico, agricoltura, protezione civile, gestione dei rifiuti, energia, edilizia residenziale pubblica, servizi socio-educativi, sicurezza e immigrazione)»89: ciò ha indotto la necessità di costruire robuste procedure di interlocuzione, sia verticale che orizzontale, al fine di guidare verso le stesse finalità una estesa pluralità di attori; ma anche la necessità di strumenti di rafforzamento del raccordo assemblee/esecutivi sul terreno delle funzioni di indirizzo politico e controllo. Infine, la redazione dei nuovi statuti ha visto un forte rilancio della cultura partecipativa, manifestando una “ansia da partecipazione”90 che va certamente assecondata, pur con il realismo e l’attenzione che la genericità e l’imprecisione di molte disposizioni statutarie ancora impongono: raccogliere questa sfida significa dare seguito all’abbondanza dei principi statutari mediante la previsione di puntuali regole organizzative e di disciplina dei processi partecipativi, pena il rischio di disperdere ancora una volta il potenziale innovativo di quei principi riducendoli ad ennesimo manifesto ideologico. L’intento di raccogliere quella sfida sembra in effetti progressivamente emergere, pur fra molte difficoltà e timidezze. Il panorama regionale rivela infatti una significativa ricchezza di risposte, sia sul piano normativo che su quello delle esperienze concrete, l’analisi delle quali appare di grande interesse se posta a raffronto col pressoché totale silenzio statale e con la molteplicità delle prassi locali91: in particolare, sul 89 Rapporto 2009 sulla legislazione tra Stato, Regioni e Unione europea, cit., 4 90 La felice espressione di F. DAL CANTO, Commento art. 59, in P. CARETTI, M. ss. CARLI, E. ROSSI (a cura di), Statuto della Regione Toscana. Commentario, cit., 303, riferita dall’Autore alle norme statutarie in tema di sussidiarietà, appare senz’altro estensibile a quelle sulla partecipazione. 91 In realtà, va detto, il livello locale presenta una quantità sempre maggiore di eccezioni, data la crescente tendenza (soprattutto a livello comunale) a disciplinare con regolamento svariati profili della partecipazione. Nell’ambito di questa ricerca, l’analisi delle norme e delle esperienze partecipative dei livelli statale e locale è stata condotta dall’unità di Roma - LUISS (coord. prof. G.C. De Martin): i risultati di tale analisi sono stati anticipati nella giornata di studio «Democrazia partecipativa e nuove frontiere della cittadinanza», Roma - LUISS, 6 novembre 2009 e sono attualmente in corso di pubblicazione. PARTECIPAZIONE, POLITICHE PUBBLICHE, DIRITTI 41 piano legislativo è possibile individuare interessanti linee di tendenza, pur tra slanci in avanti, posizioni di stallo e passi indietro; mentre le esperienze concrete evidenziano pratiche diffuse e virtuose di promozione della partecipazione e della cittadinanza attiva (all’analisi di queste ultime è dedicato il saggio di N. BIANCUCCI). È da questo livello, e dalle potenzialità che esso esprime, che occorre oggi ripartire per tentare di innescare meccanismi virtuosi di imitazione istituzionale: del resto è noto il ruolo che le regioni hanno svolto in passato rispetto ad importanti processi di riforma istituzionale, attraverso interventi legislativi pionieristici che sono divenuti il volano di processi di riforma e – prima ancora – di mutamenti di cultura politica estesisi, in seguito, al livello nazionale. I dati che emergono da un esame della legislazione regionale relativa al primo decennio dalla riforma del Titolo V della Costituzione (2001-2010) sono numerosi e si prestano ad essere interpretati secondo chiavi di lettura molteplici92. Limitandoci qui a richiamare talune linee di tendenza e rinviando ad altra sede l’analisi più dettagliata dei dati emersi, non v’è dubbio che il panorama legislativo regionale si presenti assai variopinto, rivelando senza veli il perdurante gioco di luci ed ombre che accompagna la vicenda della partecipazione in Italia. Innanzitutto, l’esiguo numero di leggi regionali organiche sull’argomento potrebbe indurre a considerare non raccolta, almeno sotto questo profilo, la sfida pur lanciata da molti statuti laddove espressamente rinviano al legislatore regionale la disciplina della partecipazione. E tuttavia si tratta di un falso problema, dal momento che un’efficace regolazione della democrazia partecipativa ben può essere declinata in una pluralità di interventi normativi: anzi, la disseminazione di regole sulla partecipazione nelle leggi di settore, se per un verso rinuncia a quella organicità e omogeneità che solo un intervento unitario può assicurare, per altro verso consente di costruire gli strumenti partecipativi 92 Il monitoraggio cui si fa riferimento ha evidenziato ben 2155 leggi regionali contenenti previsioni in tema di partecipazione: queste ultime sono state rintracciate attraverso l’utilizzo di una pluralità di parole-chiave, tra cui ascolto, audizione, coinvolgimento, consultazione, dialogo, inclusione, partecipazione, sentito, udito. I risultati di questo monitoraggio, al quale qui ci si limita ad accennare, saranno oggetto di analisi più approfondita e di riferimenti normativi più puntuali nel volume finale del progetto di ricerca nazionale, curato da G. Arena (2011). Per un primissimo bilancio, oltre che alle considerazioni che seguono nel testo sia consentito rinviare anche ad A. VALASTRO, Gli strumenti e le procedure di partecipazione nella fase di attuazione degli statuti regionali, in Le Regioni, n. 1/2009, 79 ss. 42 ALESSANDRA VALASTRO in relazione alle specificità delle singole politiche pubbliche, con ciò sicuramente accrescendone le possibilità di efficace attuazione. In ogni caso, non v’è dubbio che l’approvazione nel 2010 di altre due leggi regionali organiche sulla partecipazione (l. Emilia-Romagna n. 3/2010 e l. Umbria n. 14/2010), che vanno ad affiancarsi alla pionieristica ed ormai nota legge della Toscana n. 69/2007, fornisce un’indicazione importante nel senso della crescente attenzione politica per il tema e – soprattutto – per l’opportunità di una sua regolazione. Semmai, proprio le due nuove leggi rappresentano un esempio significativo delle persistenti oscillazioni che caratterizzano quella attenzione. Così, se la legge emiliana si caratterizza per una scelta politica in parte diversa ma ugualmente forte rispetto al modello della legge toscana, con l’affidamento della gestione dei processi partecipativi ad una struttura interna del Consiglio regionale anziché ad un’Autorità indipendente ma con la stessa preoccupazione per la disciplina di soggetti, procedure ed incentivi93, la legge umbra appare al contrario come un’occasione mancata, se non come un vero e proprio passo indietro: non solo, infatti, essa inserisce la disciplina della consultazione nell’ambito di un testo che concerne in realtà gli istituti di democrazia diretta, con ciò inducendo la sensazione di una perdurante confusione concettuale che l’unica e fragile ragione della necessitata attuazione statutaria non pare sufficiente a fugare94; ma, ben lungi dal delineare i tratti dell’istituto con quella organicità e accuratezza di previsioni che la sede dell’attuazione statutaria avrebbe richie93 La legge emiliana («Norme per la definizione, riordino e promozione delle procedure di consultazione e partecipazione alla elaborazione delle politiche regionali e locali») presenta, al pari di quella toscana, un impianto fortemente organico, che prende le mosse dalla precisazione dei presupposti, degli obiettivi e degli strumenti della democrazia partecipativa: cfr., in particolare, gli artt. 3-5 sui soggetti che possono richiedere l’avvio di processi partecipativi, l’art. 7 sul Nucleo tecnico di integrazione con le autonomie locali, l’art. 8 sul Tecnico di garanzia designato dal Presidente del Consiglio regionale, gli artt. 9 ss. sulle forme di sostegno e i criteri di valutazione dei progetti, l’art. 17 sull’obbligo di motivazione. 94 La legge umbra («Disciplina degli istituti di partecipazione alle funzioni delle istituzioni regionali») intende infatti attuare l’art. 20 dello statuto, ai sensi del quale la partecipazione si attua mediante l’iniziativa legislativa, l’iniziativa referendaria, il diritto di petizione e la consultazione. Tale disposizione appare effettivamente ambigua laddove affianca strumenti fra loro eterogenei, riconducibili a categorie giuridiche diverse (democrazia diretta e democrazia partecipativa): l’attuazione statutaria avrebbe dovuto pertanto fornire l’occasione per sciogliere quell’ambiguità anziché per protrarla. In ogni caso, la scelta di adottare un unico provvedimento legislativo avrebbe potuto giustificarsi a condizione di evidenziare la diversità di natura dei primi tre strumenti rispetto al quarto e, soprattutto, di strutturare la legge in modo da dedicare a ciascun istituto la medesima attenzione e articolazione di disciplina. Ma così non è stato, come si dirà di seguito nel testo. PARTECIPAZIONE, POLITICHE PUBBLICHE, DIRITTI 43 sto, la legge si limita ad una manciata di disarticolate e lacunose disposizioni, in alcuni casi incomprensibilmente arretrate rispetto alle buone prassi che per converso questa regione vanta, in altri casi addirittura velleitarie (come dimostra la modifica, a soli 5 mesi dall’approvazione della legge, della disposizione sulla consultazione obbligatoria)95. Venendo alle disposizioni contenute nelle leggi di settore, che rappresentano la parte di gran lunga più corposa delle norme regionali in materia di partecipazione, le chiavi di lettura adottate consentono anche in questo caso di evidenziare, pur senza pretesa di completezza, punti di forza e criticità delle attuali linee di tendenza96. Su un piano di carattere generale, un primo dato certamente significativo è il fatto che in molte leggi si parli delle pretese partecipative in termini di vero e proprio diritto (in taluni casi anche richiamando la necessità di garantirne i livelli essenziali); anche se è fin troppo scontato osservare che l’effettiva portata di questa qualificazione dipende dalla conseguente disciplina (soprattutto con riferimento alle garanzie), 95 Basti considerare che, dei 74 articoli di cui si compone la legge, soltanto 5 sono dedicati alla consultazione. L’unica disposizione che appare effettivamente significativa è quella di cui all’art. 63, ai sensi del quale «La consultazione dei soggetti interessati è garantita in tutte le fasi dei procedimenti amministrativi e normativi, in modo tale che il contributo partecipativo venga assicurato sia nella fase di valutazione ex ante che nella fase di valutazione ex post del provvedimento in esame, quale controprova della efficacia e della qualità della regolazione applicata». Per il resto, mentre appare scarna l’indicazione delle modalità della consultazione e inadeguata quella dei soggetti (art. 64), nulla si dice in ordine alle garanzie soggettive e procedurali del percorso partecipativo e a forme di sostegno regionale; e pressoché esplicitamente si esclude l’obbligo di motivazione (art. 66). Quanto poi all’art. 65, che prevedeva la consultazione obbligatoria per tutti gli atti all’esame delle commissioni consiliari, salvo il voto contrario della maggioranza assoluta dei membri, esso è stato modificato con delibera legislativa approvata il 30 luglio 2010, stabilendosi ora che «Le commissioni consiliari decidono di attivare la consultazione sugli atti di propria competenza con il voto favorevole della maggioranza dei componenti.(…) La consultazione è comunque disposta qualora tre componenti della commissione o un quinto dei consiglieri assegnati alla Regione ne facciano richiesta al Presidente della commissione stessa»: si è così corretto un eccesso di rigidità che strideva con la laconicità delle altre disposizioni, e che rivelava piuttosto la frettolosità della redazione di questa parte della legge (non sarà forse inutile notare che essa è stata approvata in scadenza di legislatura). 96 Un dato che qui volutamente si tralascia è quello relativo alla percentuale – rispetto al totale delle leggi esaminate – della produzione legislativa delle singole regioni: un dato che non appare particolarmente significativo, sia perché non è obiettivo di questa ricerca quello di indagare l’“impegno” delle singole regioni bensì quello di mettere in evidenza linee di tendenza a livello regionale; sia perché, come qualunque dato quantitativo, esso può facilmente essere contraddetto dall’analisi qualitativa delle stesse norme, laddove è evidente che l’efficacia della disciplina della partecipazione non dipende tanto dalla quantità delle regole quanto dalla qualità del loro contenuto. 44 ALESSANDRA VALASTRO spesso – di converso – inadeguata se non addirittura assente. Di un certo interesse, nella prospettiva ricostruttiva che si è qui delineata, è anche l’esplicito collegamento operato in talune leggi fra il principio di partecipazione, quello di solidarietà e il concetto di capacità97. Quanto agli ambiti materiali, la maggior parte delle previsioni in tema di partecipazione si trova nei settori che vedono coinvolti diritti sociali, come assistenza, sanità, ambiente, governo del territorio: ciò conferma il progressivo consolidamento della cultura partecipativa in questi settori (si pensi alle sempre più diffuse esperienze di progettazione urbana partecipata e di audit civico in materia di sanità); ma soprattutto offre argomenti ulteriori a sostegno di quanto si è qui sostenuto in ordine alla natura di diritto sociale delle pretese partecipative e alla loro strumentalità rispetto al soddisfacimento dei diritti sociali tradizionali. Numerose sono anche le norme sulla partecipazione che si registrano nella legislazione in tema di commercio, industria e artigianato, ove si prevedono forme più o meno articolate di consultazione delle associazioni di categoria. Peraltro, le caratteristiche che assume qui la disciplina della consultazione lascia facilmente intravedere il rischio di scivolamento verso processi di carattere più propriamente concertativo: ciò evidenzia come, accanto a quello costituito dai diritti sociali, uno dei motori della partecipazione risieda tuttora nella “forza” di fatto di talune categorie, come dimostra anche la minore frequenza di previsioni sulla partecipazione in settori ugualmente importanti ma caratterizzati da maggiore debolezza dei soggetti interessati, come quelli relativi all’immigrazione, al volontariato e all’associazionismo, alla tutela dei consumatori, ai trasporti. Quanto ai soggetti privati, il panorama della legislazione regionale è estremamente variegato, in ragione – evidentemente – della varietà degli oggetti delle leggi esaminate. Se è vero che in molti casi persiste la tendenza a non provvedere affatto all’individuazione dei soggetti destinatari dei processi partecipativi, il legislatore limitandosi ad espressioni generiche (come “soggetti interessati” o “cittadini”), tuttavia si assiste anche ad una crescente attenzione per talune categorie di soggetti: numerose disposizioni insistono sulla necessità di una maggiore inclusione dei soggetti deboli nei processi decisionali (minori, donne, stranieri, anziani, ecc.); e si fa sovente riferimento anche ai “non residenti”, al fine di inte97 V. ad es. la legge n. 11/2008 della regione Basilicata sul riordino territoriale degli enti locali e la legge n. 28/2009 della regione Calabria sulla cooperazione sociale. PARTECIPAZIONE, POLITICHE PUBBLICHE, DIRITTI 45 grare l’ormai insufficiente criterio della cittadinanza formale98. Non solo, ma nonostante le criticità e i numerosi fallimenti registrati negli anni dalla c.d. partecipazione organica, la legislazione regionale rivela la tendenza a ricercare forme di stabilizzazione dei raccordi fra decisori e società civile, attraverso l’istituzione di Consulte, Commissioni, ecc.: queste risultano sempre più numerose, sebbene entro una geometria assai variabile quanto a composizione e poteri. Sul versante dei soggetti pubblici si registra invece, tuttora, la tendenza ad affidare agli esecutivi la gestione dei processi partecipativi, con ciò alimentando i rischi di scivolamento verso forme di partecipazione di tipo concertativo; anche se sembrano in aumento le leggi che manifestano la preoccupazione di consolidare i canali di interlocuzione del Consiglio regionale con la società civile. Per quanto concerne le funzioni e attività pubbliche rispetto alle quali si prevedono forme di partecipazione, di gran lunga più numerose sono quelle di programmazione, progettazione, pianificazione: il dato appare molto significativo poiché sembra evidenziare la crescente consapevolezza del ruolo centrale che la partecipazione svolge nella costruzione delle politiche, rilanciando la programmazione come metodo dell’azione regionale99. Ugualmente significativo è il fatto che vada crescendo la previsione di strumenti partecipativi anche rispetto alle fasi ex post dei processi decisionali, con particolare riguardo ad attività di rilevazione, valutazione 98 In taluni casi si provvede, anzi, con legge ad hoc: cfr. ad es. la l.r. Marche n. 13/2009 («Disposizioni a sostegno dei diritti e dell’integrazione dei cittadini stranieri immigrati»); la l.r. Lazio n. 10/2008 («Disposizioni per la promozione e la tutela dell’esercizio dei diritti civili e sociali e la piena uguaglianza dei cittadini stranieri immigrati»); la l.r. Toscana n. 29/2009 («Norme per l’accoglienza, l’integrazione partecipe e la tutela dei cittadini stranieri nella Regione Toscana»); la l.r. Lazio n. 20/2007 («Promozione degli strumenti di partecipazione istituzionale delle nuove generazioni alla vita politica e amministrativa locale»); la l.r. Friuli-Venezia Giulia n. 12/2007 («Promozione della rappresentanza giovanile, coordinamento e sostegno delle iniziative a favore dei giovani»). 99 V. ad esempio la legge n. 27/2006 della regione Abruzzo, in tema di ambiente, che parla di “partecipazione programmatica” con riferimento al ruolo della nuova Consulta regionale per l’educazione ambientale (art. 10). Sull’importanza della partecipazione nella fase di programmazione vale la pena di ricordare le parole di G. BERTI, La parabola regionale dell’idea di partecipazione, cit., 6-7, che con riferimento ai vecchi statuti regionali affermava: «Se si pensa alla programmazione, che gli statuti avevano dichiarato di assumere a metodo dell’azione regionale, non mancava veramente nulla perché, con un po’ di buona volontà, le regioni prendessero fiato in una direzione giusta rispetto ai punti di orientamento indicati dalla società. La programmazione non è infatti un modo di concepire e di ordinare i rapporti tra politica ed economia (…), tra interesse sociale e interesse dell’impresa economica (…)?». 46 ALESSANDRA VALASTRO e controllo: ciò conferma quanto si è detto in ordine alla necessità di valorizzare la partecipazione anche nelle fasi di implementazione e attuazione delle politiche, ed anche rispetto a quelle funzioni che maggiormente faticano ad aprirsi alla società civile, come la funzione di controllo. Inoltre, se le previsioni di controllo partecipato risultano certamente più diffuse nel settore delle politiche sociali, con particolare riferimento alla qualità dei servizi erogati, è incoraggiante il fatto che sia in aumento anche la previsione di più ampie forme di partecipazione alla valutazione dell’attuazione delle politiche pubbliche in genere100. Quest’ultimo dato si collega a quello della crescente previsione di forme di partecipazione all’attività legislativa regionale: si tratta di previsioni non ancora numerose, ma la cui graduale diffusione è da guardare certamente con favore. Quanto agli strumenti partecipativi e alle garanzie che li assistono, è forse qui che si rinvengono i profili di maggiore criticità della legislazione esaminata: se per un verso si conferma la recessione di strumenti ormai obsoleti come quello dell’audizione, per altro verso le metodiche individuate (per lo più consultazione) ben di rado sono accompagnate dalla previsione di procedure e tanto meno di garanzie; mentre in molti casi il legislatore rinuncia anche all’individuazione degli strumenti partecipativi, limitandosi ad indicazioni generiche e di principio (ove si utilizzano più frequentemente termini come “coinvolgimento” e “inclusione”). A parte i casi in cui la legge regionale rinvia ad apposito regolamento l’individuazione delle forme, delle modalità e dei tempi della partecipazione, opportunamente razionalizzando le previsioni anche sotto il profilo delle relative fonti, nella maggior parte dei casi l’assenza di previsioni o di rinvii in proposito costituisce un punto dolente, poiché manifesta la difficoltà di declinare in strumenti e garanzie concreti una cultura partecipativa che pure va progressivamente diffondendosi: ciò rischia di pregiudicare fortemente l’effettivo consolidarsi di quella cultura, non perché – giova ribadirlo – la regola scritta sia formalmente necessaria per la realizzazione dei processi partecipativi ma perché la sua assenza ha l’effetto di legarne l’attuazione e l’efficacia a fattori di carattere squisitamente politico, come tali estremamente mutevoli. Un’ultima considerazione, di segno positivo, deve farsi infine con riferimento alla sempre più frequente previsione di misure di incentivo 100 V. ad esempio la legge n. 4/2007 della regione Basilicata, sulla rete integrata dei servizi di cittadinanza sociale, la quale, seppure con terminologia forse non del tutto appropriata, parla di “valutazione concertata”. PARTECIPAZIONE, POLITICHE PUBBLICHE, DIRITTI 47 in favore degli enti locali, con indicazioni dettagliate – in questo caso si – di procedure e requisiti per promuovere la partecipazione a livello locale: si tratta di forme di sostegno (economico ma anche tecnico e logistico) per progetti partecipativi presentati dagli enti locali, alle quali si affianca sovente la previsione di strumenti di coordinamento volti a favorire la realizzazione di «un sistema partecipativo coerente ed omogeneo sul territorio» regionale101. Quest’ultimo tipo di scelta politica ha il pregio di valorizzare il ruolo di “regia” che dovrebbe assumere la regione, quale sede di condivisione e coordinamento delle esperienze partecipative, di produzione di un circolo virtuoso e costruttivo destinato a riverberarsi sulle stesse politiche regionali. Non solo, ma risulta ulteriormente evidenziato il ruolo di tipo incentivante che possono svolgere le regole in tema di democrazia partecipativa, anche nella prospettiva di quel federalismo cooperativo che della partecipazione si nutre e che ad essa restituisce alimento102. Come può vedersi da questi pur sintetici cenni, il quadro che emerge dalla legislazione regionale dell’ultimo decennio è certamente più ricco rispetto al passato ma ancora estremamente variegato: una varietà che, se in parte può giustificarsi in ragione dell’autonomia politica, in parte rivela il permanere di confusioni terminologiche e concettuali, di timidezze e ambiguità politiche. Se talune linee di tendenza sono certamente rilevabili, pur nei chiaroscuri cui le relative letture danno luogo, ciò che emerge è soprattutto una ragnatela di traiettorie: itinerari possibili, condivisibili o criticabili, velleitari o fragili; di certo itinerari raramente lineari, sia sul piano normativo che su quello attuativo. E tuttavia è da questi itinerari che occorre ripartire. Nel 1974, lamentando il fallimento della spinta partecipativa che pure aveva animato la redazione degli statuti, era stato acutamente os101 In questi termini si esprime, ad es., la legge emiliana n. 3/2010 (art. 3, c. 1), che istituisce a tal fine il Nucleo tecnico di integrazione con le autonomie locali (art. 7). Ma si veda anche il modello del protocollo di intesa fra regione ed enti locali adottato dalla legge toscana n. 69/2007, che comporta per gli enti aderenti la condivisione dei principi della legge e l’accettazione volontaria delle procedure da essa previste. 102 Il ruolo che dovrebbe assumere la regione rispetto ai processi di regolazione della democrazia partecipativa è ben individuato dalla ricordata legge emiliana n. 3/2010, laddove si prevede fra gli obiettivi della stessa quello di «sviluppare il ruolo della Regione come sede di condivisione delle esperienze, ausilio alla scelta e all’impianto delle forme partecipative, basato sulla raccomandazione tecnica di modelli non vincolanti, ma suggeriti dall’esperienza». 48 ALESSANDRA VALASTRO servato che «La nuova amministrazione regionale, per avere un senso e per dare anche più congrui contenuti all’autonomia, avrebbe dovuto prendere l’avvio» dalla felice intuizione che ravvisava nella programmazione e nella partecipazione un metodo di governo, «negandosi a condizionamenti e riduzioni che la snaturavano. Il posto della partecipazione sarebbe stato facilmente trovato in questo quadro nuovo»103. Ebbene questo monito risulta ancora attuale, la partecipazione essendo ancora in attesa di trovare la propria collocazione nell’assetto istituzionale italiano: ma rispetto ad allora, nuovi e più complessi fattori premono oggi sulle regioni, le quali si trovano a dover raccogliere la sfida di un rinnovamento politico profondo, pena il rischio – fra i molti altri – di un secondo e più cocente fallimento dell’“idea di partecipazione”. 9. Spunti conclusivi: le sfide della responsabilità e della qualità della partecipazione Per far sì che la sovranità possa finalmente sprigionare le forze ancora inespresse, in un rapporto di complementarietà con le forme più tradizionali legate alla democrazia rappresentativa e alla democrazia diretta, occorre che la categoria della democrazia partecipativa, oggi assunta in chiave prevalentemente descrittiva, recuperi la propria portata normativa, riconducendo il principio di partecipazione entro il quadro costituzionale e richiamando il legislatore all’obbligo di svilupparne le indicazioni inattuate. Un simile obiettivo richiede, tuttavia, di liberare la riflessione dai pregiudizi giuridici e dalle retoriche politiche che tanto pesantemente ne hanno afflitto le vicende. Innanzitutto, come si è già accennato, la pluralità e necessaria duttilità delle forme della democrazia partecipativa deve, si, tradursi in una regolamentazione leggera (soft law) e di tipo sperimentale in riferimento a tecniche e modalità, ma non anche rinunciare ad un sistema forte di precondizioni e garanzie, le quali richiedono al contrario previsioni più rigorose. Il timore di irrigidire eccessivamente le pratiche partecipative attraverso la loro regolamentazione, oltre ad essere smentita dai fatti (il crescente numero di disposizioni contenenti principi e regole sulla partecipazione), sembra dimenticare i più insidiosi rischi connessi alla natu103 G. BERTI, La parabola dell’idea di partecipazione, cit., 7. PARTECIPAZIONE, POLITICHE PUBBLICHE, DIRITTI 49 rale duttilità delle formule a maglie larghe, le quali possono a loro volta risolversi «tanto in una crescente tutela dei diritti quanto nella loro parimenti vistosa compressione»: da qui l’esigenza, ugualmente garantista ma certamente più pressante nelle società non omogenee, «di mettere nero su bianco un pugno di garanzie…, sì da non rimettere in tutto o per la gran parte le garanzie stesse a contingenti opportunità o alla buona volontà manifestata dai governanti di turno»104. Inoltre, vi sono settori in cui le pratiche partecipative appaiono sufficientemente mature per essere trasposte in procedure con maggiore livello di specificazione105. In secondo luogo, interrogarsi su come regolare la partecipazione non sembra affatto porsi in controtendenza rispetto agli attuali processi (peraltro più apparenti che reali) di semplificazione e deflazione normativa, dal momento che non si tratterebbe di introdurre procedure decisionali ulteriori e diverse rispetto a quelle esistenti né di irrigidirne i percorsi quanto piuttosto di migliorarne l’efficacia, attraverso l’innesto di momenti partecipativi106; inoltre, il ruolo della funzione normativa non si limita all’imposizione ma contempla anche la promozione e l’incentivo, la creazione di opportunità, la rimozione di ostacoli. Come infatti si è visto esaminando le linee di tendenza della legislazione regionale, il contributo più alto che la normazione può offrire all’effettività della partecipazione risiede nell’indurre l’autoimposizione di vincoli in cambio di risorse e di opportunità politiche: «un obbligarsi preventivo ad un principio di responsiveness»107 che conduce l’osservanza delle re104 A. RUGGERI, Tecniche di normazione, tutela dei diritti fondamentali, teoria della Costituzione, cit., 7-8. Ci si riferisce qui al concetto di garanzia in senso “sociale” e non a quello tradizionale di garanzia individuale, secondo la ricostruzione di G. BERTI, La parabola regionale della partecipazione, cit., 4-5. 105 U. ALLEGRETTI, Intervento, cit., auspica, ad esempio, l’introduzione stabile del dibattito pubblico e delle giurie civiche, nonché di strumenti partecipativi alla pianificazione territoriale (come l’esposizione dei piani territoriali nei quartieri). 106 In questo senso v. ancora le efficaci intuizioni di G. BERTI, La parabola regionale della partecipazione, cit., 2, il quale ha precisato che «la partecipazione designa un’attività che, in quanto tale, non pretende a risultati immediati e definitivi, ma che per essere funzionale ha bisogno di integrarsi in altri meccanismi»; anche se lo stesso Autore non ha mancato poi di mettere in guardia rispetto alla difficoltà di accordare sino in fondo la partecipazione con gli istituti della rappresentanza. Rassicurazioni in questo senso sono tuttavia venute, più di recente, dalla Corte costituzionale, la quale ha escluso in radice che la previsione di strumenti partecipativi (nel caso di specie la consultazione) possano ostacolare la funzionalità dei processi decisionali pubblici, quand’anche di carattere normativo (v. in particolare sent. 379/2005). 107 A. FLORIDIA, Idee e modelli di partecipazione. Il caso della legge toscana, in U. ALLEGRETTI (a cura di), Democrazia partecipativa, cit., 99. 50 ALESSANDRA VALASTRO gole sulla partecipazione dal piano dell’imposizione unilaterale a quello di una sorta di “obbligatorietà consensuale”. In terzo luogo, la valorizzazione delle politiche di sostegno si configura come il coerente sviluppo di quel principio collaborativo sotteso, come si è visto, non soltanto al principio solidaristico ma anche – e più in generale – all’accezione del federalismo come metodo di governo cooperativo108. Le forme virtuose di leale collaborazione che le politiche di sostegno sono certamente in grado di innescare fra i livelli di governo rivelano qui tutta l’ampiezza e la persistente attualità di quella accezione, nel suo irrinunciabile intreccio fra dimensione “orizzontale” e dimensione “verticale”: il dibattito che da anni stancamente accompagna il tema dei canali di raccordo fra livelli di governo (ad es. le Conferenze) richiama una connessa e non trascurabile componente di partecipazione istituzionale, che in Italia fatica a trovare assetti soddisfacenti ma che altrove ha mostrato tutto il rilievo delle proprie potenzialità (ciò emerge con particolare evidenza nel caso dell’Olanda, per il quale si rimanda ai saggi di T. TOONEN e C. SEGOLINI FELICI). Infine, rispetto ai timori di allungamento dei tempi e di accrescimento dei costi dei processi decisionali, occorre considerare – per converso – i costi della non partecipazione e dell’esclusione, rilevanti e valutabili non soltanto in termini di democraticità delle decisioni bensì anche nei termini economici della conseguente inefficacia delle politiche: sono i costi derivanti dalla mancata utilizzazione della partecipazione in funzione di abbattimento preventivo della conflittualità, come dimostrano il caso dei movimenti per il blocco delle c.d. grandi opere e la soluzione proposta dal d.d.l. C/2271, evidentemente inaccettabile oltre che illegittima in quanto volta a scaricare quei costi proprio sugli esclusi, così destinati a “pagare” due volte109. 108 Il rapporto tra politiche partecipative di sostegno nei confronti degli enti locali e principio di leale collaborazione è ben evidenziato da S. CIANCAGLINI, Dall’incentivazione al consolidamento, cit., 185. 109 Il d.d.l. C/2271, presentato il 10 marzo 2009, prevede l’introduzione di un articolo nella l. n. 349/1986 in base al quale, qualora il ricorso presentato dalle associazioni di tutela ambientale «sia respinto perché manifestamente infondato, il giudice condanna le associazioni soccombenti al risarcimento del danno oltre che alle spese del giudizio»: un tentativo di reazione che, anziché condotto sul terreno della maggiore considerazione degli argomenti in conflitto attraverso un’anticipazione dell’inclusione dei soggetti interessati, si rivolge piuttosto verso strumenti punitivi e disincentivanti. Significativa del tipo di impostazione sottesa al d.d.l. è del resto la relazione, nella quale si afferma esplicitamente di voler «responsabilizzare l’attività delle associazioni di protezione ambientale» rispetto al fenomeno di «egoismo territoriale» che esse hanno contribuito a generare e a diffondere. PARTECIPAZIONE, POLITICHE PUBBLICHE, DIRITTI 51 È vero che si assiste da alcuni anni ad una rinnovata tensione normativa volta a disciplinare taluni profili della partecipazione dei privati ai processi decisionali pubblici; ma si tratta di un fenomeno che sembra ancora lontano dall’appagare le esigenze garantiste della democrazia pluralista. Dopo le conquiste teoriche e giuridiche della trasparenza, a giusto titolo definita come «diritto, risultato e strumento»110, e dell’informazione pubblica come presupposto di un «diritto a conoscere e comprendere la verità»111, la costruzione di un sistema di regole sulla partecipazione appare come il conseguente e irrinunciabile approdo per realizzare appieno quella effettività su cui si fonda la complessa previsione dell’art. 3, co. 2 Cost. La riflessione sulla trasparenza, la pubblicità e la qualità dell’informazione pubblica112 ha avuto il pregio di aprire la strada alla costruzione di nuove forme di esercizio e di distribuzione del potere. Ma ciò che più conta, quella riflessione ha prodotto istituti giuridici che, oltre a tutelare valori rilevanti in sé, assumono oggi un’importante funzione strumentale rispetto alle precondizioni della partecipazione: tutti quegli istituti tendono, infatti, a consentire la formazione di opinioni critiche, di una consapevolezza civica intesa come capacità di compiere scelte responsabili e di resistere a pressioni di carattere demagogico. In questa prospettiva, sarebbe oggi di grande utilità recuperare la felice intuizione con la quale Norberto Bobbio suggeriva, nel 1978, di mutare le tradizionali espressioni “libertà negativa” e “libertà positiva” in quelle di “libertà di agire” e “libertà di volere”: «intendendosi per la prima “azione non impedita o non costretta”, per la seconda “volontà non eterodeterminata o autodeterminata”»113. 110 F. MERLONI, Trasparenza delle istituzioni e principio democratico, in F. MERLONI (a cura di), La trasparenza amministrativa, Milano, Giuffrè, 2009. 111 G. ARENA, Le diverse finalità della trasparenza amministrativa, in F. MERLONI, op. ult. cit. 112 Su cui v. da ultimo E. CARLONI, La qualità delle informazioni pubbliche. L’esperienza italiana nella prospettiva comparata, in Riv. trim. dir. pubbl., n. 1/2009, 155 ss. 113 N. BOBBIO, Libertà, in Enc. del Novecento, vol. III, 1978, 994 ss. Che un’azione sia libera significa, secondo l’accezione accolta da Bobbio, che tale azione può essere compiuta senza incontrare impedimenti: ma ciò non esclude che quell’azione possa essere voluta da una volontà non libera né consapevole, o che quella stessa azione non si sia affatto compiuta non a causa della frapposizione di ostacoli o di una volontà di segno contrario bensì in ragione di una volontà che non ha incontrato le condizioni necessarie per potersi formare e autodeterminare. 52 ALESSANDRA VALASTRO Vi è un continuum fra trasparenza, informazione, comunicazione, partecipazione e sussidiarietà: un incremento di potenzialità che riflette il mutamento di ruolo dell’individuo e della collettività, non più soltanto destinatari esigenti di una macchina ordinamentale costruita per soddisfare l’interesse generale ma essi stessi risorsa, in nome di un «diritto ad avere un’opinione» e a declinarla in una «vita activa», responsabile114. Basti guardare all’acceso dibattito che ha accompagnato negli ultimi anni la delicata e complessa tematica dell’autodeterminazione della persona in campo medico, per avvedersi di come anche quel valore venga rivendicato in ragione della sua funzione responsabilizzante nei confronti degli individui: ciò che si contesta è l’invadenza di un potere pubblico che pretende di comprimere la capacità di autodeterminarsi anziché apprestare gli strumenti per assicurare che quella capacità possa esplicarsi in modo efficace e responsabile115. Ebbene, dalla riflessione sulla responsabilità, nonché sulla qualità delle informazioni e delle politiche pubbliche (che di quella sono il prodotto), il passo verso la qualità della partecipazione è estremamente breve, e comunque necessitato. La stessa qualità della rappresentanza e della politica, di cui da tempo si lamenta a gran voce la dispersione, non può che passare per la qualità della partecipazione, ossia per il recupero di una qualificazione militante e critica di democrazia116. Le specificità della democrazia partecipativa, che presuppongono una partecipazione permanente al governo della cosa pubblica in collegamento con le dinamiche dell’eguaglianza sostanziale e della solidarietà, presuppongono una produzione continua e coerente di informazione, conoscenza e consapevolezza, ben al di là di quanto implicato dalle più mirate e contingenti esigenze della democrazia rappresentativa e della democrazia diretta. La costruzione condivisa delle risposte politiche ai bisogni della collettività necessita di politiche partecipative di lungo termine, sganciate dalla contingenza e dalle strategie della politica strettamente in114 G. AZZARITI, Cittadinanza e multiculturalismo: immagini riflesse e giudizio politico, in Dir. pubbl., n. 1/2008, 196. 115 Su questi temi, per tutti, S. RODOTÀ, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Milano, Feltrinelli, 2006; ID., Perché laico, Bari, Laterza, 2009. 116 Di «qualificazione militante della democrazia» parla G. FERRARA, Sulla democrazia costituzionale, cit. PARTECIPAZIONE, POLITICHE PUBBLICHE, DIRITTI 53 tesa, capace di essere – nel contempo – invadente e disattenta117. Mentre si assiste alla sempre più preoccupante diffusione di una politica della seduzione, causa ed effetto di coscienze sopite, poco informate, manipolate, il recupero della portata normativa della partecipazione quale metodo di governo impone di uscire dallo schiacciante presente e di riconnettere passato e futuro: quella memoria storica e istituzionale che presuppone, negli organi rappresentativi, la perdurante capacità di intendere come propria missione «quella di essere i portatori attuali della coscienza del Paese, come si è venuta costituendo intorno ai temi essenziali della sua storia»118; quella capacità di «narrare il futuro» senza la quale la politica è muta119. La democrazia partecipativa ha gli strumenti per raccogliere quella sfida: si pensi, da un lato, alle diffuse esperienze di sussidiarietà orizzontale, le quali altro non sono che sviluppi virtuosi della partecipazione resi possibili da un rinnovato senso di solidarietà, ossia di quel principio che ha così fortemente caratterizzato il patto costituzionale del 1948 e la nostra storia repubblicana; e si pensi, dall’altro, alle politiche di progettazione urbana partecipata, a loro volta espressione di un governo condiviso del territorio in funzione di ambienti urbani vivibili e sostenibili, e dunque di una politica che guarda al futuro. Come si è visto allorché si è parlato del quadro valoriale che deve guidare l’interpretazione costituzionale, con riferimento al principio di partecipazione ma non solo, la memoria è certamente presupposto e alimento di principi e istituti giuridici, ma è – prima ancora – un processo sociale che consente di riconoscere gli eventi e coordinarli entro una serie coerente di relazioni, poi proiettate nel futuro. La memoria consente al sistema di non «ricominciare sempre da capo»120. 117 Di «politica di presenza» e di «attenzione alla particolarità» parla U. ALLEGRETTI, Democrazia partecipativa: un contributo alla democratizzazione della democrazia, cit., 27. 118 S. STAMMATI, Qualche riflessione ulteriore su democrazia, rappresentanza e responsabilità. Dalla rappresentanza democratica alla rappresentanza “sbagliata”, in Scritti in onore di Lorenza Carlassare, cit., vol. V, 2100. 119 G. AZZARITI, La crisi dei partiti come crisi della loro capacità rappresentativa, in Scritti in onore di Lorenza Carlassare, cit., vol. V, 1788. V. del resto, più in generale, il condivisibile monito di P. BARCELLONA, Le passioni negate, cit., 45, per il quale «Aprire lo spazio della riflessione non significa rendere trasparente il futuro, ma rendere possibile l’interrogazione sul passato per lasciare aperta la possibilità del futuro. In questi termini la possibilità del futuro dipende… dalla capacità di ripensare il rapporto fra individuo e comunità, oltre le figure tradizionali». 120 V. le interessanti riflessioni, in particolare sul pensiero di N. LUHMANN, di C. MORONI, Mass media, rappresentazioni sociali e costruzione della memoria, in RI.LES.S (a cura di), Rammemorare la Shoah, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2009, 141 ss. 54 ALESSANDRA VALASTRO Ma in assenza di un sistema di regole e di garanzie che consentano di mantenere saldo l’argine rispetto ai tradimenti di quella memoria, difficilmente i pur diffusi momenti virtuosi potranno trasformarsi in normalità e generare nuove forme di abitudine alla democrazia. «Io credo che i nostri posteri sentiranno più di noi, tra un secolo, che da questa nostra Costituzione è nata veramente una nuova storia: e si immagineranno (…) che in questa nostra Assemblea, mentre si discuteva della nuova Costituzione Repubblicana, seduti su questi scranni non siamo stati noi, uomini effimeri di cui i nomi saranno cancellati e dimenticati, ma sia stato tutto un popolo di morti, di quei morti, che noi conosciamo ad uno ad uno, caduti nelle nostre file, nelle prigioni e sui patiboli, sui monti e nelle pianure, nelle steppe russe e nelle sabbie africane, nei mari e nei deserti. Essi sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità, come se si trattasse di un lavoro quotidiano da compiere: il grande lavoro che occorreva per restituire all’Italia libertà e dignità. Di questo lavoro si sono riservata la parte più dura e più difficile; quella di morire, di testimoniare con la resistenza e la morte la fede nella giustizia. A noi è rimasto un compito cento volte più agevole; quello di tradurre in leggi chiare, stabili e oneste il loro sogno: di una società più giusta e più umana, di una solidarietà di tutti gli uomini, alleati a debellare il dolore. Assai poco, in verità, chiedono a noi i nostri morti. Non dobbiamo tradirli». PIERO CALAMANDREI, Assemblea Costituente, seduta del 4 marzo 1947. PARTE PRIMA PARTECIPAZIONE E FEDERALISMO MARGHERITA MARIA PROCACCINI PARTECIPAZIONE E FEDERALISMO: LESSICO E STRUMENTI DI UN METODO DI GOVERNO «Quando uso una parola», disse Humpty Dumpty in tono piuttosto sdegnoso, «significa esattamente quello che voglio io – né più né meno». «Il problema è», disse Alice, «se puoi far significare alle parole così tante cose». «Il problema è», disse Humpty Dumpty, «chi è che comanda – tutto qua»1. SOMMARIO: 1. Senso di un titolo e delimitazione di contenuti, passando per alcuni punti di domanda. – 2. C’è qualcosa di nuovo… anzi d’antico! – 3. Rapido excursus fra cose note… – 4. … e qualche passo in più tra fatti e norme. – 5. Per non perdere l’orientamento. – 6. Il filo di Arianna. – 7. Senza concludere, tra parole della politica e politica delle parole. 1. Senso di un titolo e delimitazione di contenuti, passando per alcuni punti di domanda Quelle che sto per esporre non andranno aldilà di alcune riflessioni intorno ad un tema che mi risulta piuttosto complesso riuscire a contenere in un titolo («Partecipazione e federalismo: lessico e strumenti di un metodo di governo»), specie ove tale tema lo si voglia considerare propedeutico rispetto alle regole della partecipazione come portato identificato ed insieme identificante dei processi partecipativi propri di una (certa) cultura giuridica e di (specifiche) dinamiche istituzionali2. Né potrebbe essere diversamente se assumiamo che punto di partenza obbligato di qualsivoglia riflessione scientifica sia la ricerca di una ragionevole condivisione di senso in ordine a termini ricorrenti nella confi1 L. CARROLL, Dietro lo specchio, dialogo suggestivamente riprodotto (e qui convintamente riproposto) in R.A. DAHL, Sulla democrazia, Laterza, 1998, 107. 2 La riflessione è suggerita dal titolo del convegno all’interno del quale la relazione è stata presentata, vale a dire «Le regole della partecipazione: cultura giuridica e dinamiche istituzionali dei processi partecipativi», Giornate di studio, Perugia 11-12 marzo, 2010. 58 MARGHERITA MARIA PROCACCINI gurazione di fenomeni giuridici e sociali, oggetto di approfondite analisi dottrinali in più ambiti disciplinari, come per l’appunto accade per ‘la partecipazione’ e ‘il federalismo’ singolarmente intesi e trattati. È indubbio che qui tale esigenza diventi ancor più avvertita, dal momento che si sta proponendo una prospettiva di studio che sembra dover scontare una certa resistenza all’accostamento di fattispecie che in prima approssimazione non si presentano in necessitata combinazione. Fino al punto che taluno potrebbe chiedersi: ma che c’entra il federalismo a proposito di regole della partecipazione? Perché parlare di federalismo come metodo di governo partecipato? Per spiegare cosa? Proseguendo negli interrogativi, provo a richiamare alcune delle questioni di fondo affrontate alle origini di questa ricerca. Qual è la cultura giuridica che sta dietro ai processi partecipativi? Come questi processi partecipativi entrano a far parte della cultura giuridica? In che misura la presuppongono e condizionano? E parallelamente: i processi partecipativi, che sono parte dell’esperienza giuridica e sociale di una data collettività civile organizzata in un determinato contesto spazio-temporale, quali dinamiche istituzionali postulano, presupponendole? Come da queste dinamiche istituzionali sono condizionati? E, per contro, i processi partecipativi quali dinamiche istituzionali sono in grado di ‘scatenare’? E ancora: in che modo e in che misura processi partecipativi e dinamiche istituzionali costituiscono reciprocamente la cifra insopprimibile di una relazione causa-effetto? (Ante)porre tante domande pare quasi una provocazione dal momento che cultura giuridica e dinamiche istituzionali dei processi partecipativi dovrebbero costituire un chiarimento, una dimostrazione, un’illustrazione rispetto al tema delle regole della partecipazione, al fine di esplicitarne i rapporti di insieme3. Provocazione forse ancor più evidente quando si pensi di includere tra tali profili quello del «federalismo»4. 3 In generale l’inclusione dei due punti nella formulazione di una frase, qualunque sia il contesto in cui la frase stessa si collochi, esprime di per sé una scelta formale che, come ogni studioso avvertito sa, non è mai scevra da conseguenze di carattere sostanziale, cfr. www.accademiadellacrusca.it sull’uso e valore dei due punti fra grafemi e regole della punteggiatura. 4 Del resto non sta a me sottolineare il senso della ‘sfida lanciata oggi alla riflessione giuspubblicistica’, limpidamente richiamata nella presentazione in brochure delle suddette giornate di studio perugine: una tappa della ricerca nazionale su Federalismo come metodo di governo partecipato, che in un certo qual modo ha raccolto il testimone dal convegno fiorentino dell’aprile 2009, in apertura del quale Umberto Allegretti (coordinatore del Prin di cui si dava in quella sede conto), ricordava a tutti come in realtà la democrazia sia sempre stata una cosa incompiuta (citando Rosanvallon). Gli atti del convegno di Firenze sono ora PARTECIPAZIONE E FEDERALISMO 59 Ebbene tra le questioni di fondo prioritariamente si poneva quella di aprire una riflessione intorno a due parole – ‘federalismo’ e ‘partecipazione’, per l’appunto – ricercandone le possibili chiavi di lettura, per verificare se e in che misura potessero essere sinergicamente considerate come genesi e frutto di un metodo di governo, recuperandone nel contempo lessico e strumenti in modo funzionale agli obiettivi prefissati in generale nell’intero progetto di ricerca e in particolare in quello dell’unità operativa perugina. Una sfida da ricondurre prima ancora che sul piano della ricerca delle regole della partecipazione e della ratio che ne giustifica e auspica un pieno avveramento costituzionale5, sul piano della cultura giuridica, interna ed esterna6, che accoglie e usa questi termini nei rispettivi lessici e ne diffonde il significato a sua volta esposto al confronto con il senso comune che attraversa le parole e ne fa strumento di comunicazione, alimentando l’opinione pubblica. Un’opinione pubblica avvezza ormai all’uso e all’abuso di questi termini, che scontano anche quel tanto di retorica che li accompagna e di cui, pur tenendone conto7, bisognerebbe liberarsi; e ciò specialmente in un discorso che vuole, invece, rintracciarne il valore originario attraverso un percorso per così dire a ritroso, ma solo per quel tanto necessario a rinverdire nelle parole in oggetto, così apparentemente lontane, i tratti che oggi ce le fanno concepire in interazione, soprattutto nella prospettiva di dare linfa a quel processo in atto significativamente denominato ‘democratizzazione della democrazia’8. raccolti in U. ALLEGRETTI (a cura di), Democrazia partecipativa. Esperienze e prospettive in Italia e in Europa, University Press, Firenze, 2010. 5 Per la ricostruzione in tal senso (emancipante) v. il saggio introduttivo di A. VALASTRO. 6 La distinzione fra i due tipi di cultura, sotto diversi profili a partire da quello soggettivo, è prevalentemente oggetto di analisi fra i sociologi del diritto, da ult. cfr. A. FEBBRAJO, Sociologia del diritto, il Mulino, 2009, in part. 49 ss., e ivi richiami bibliografici, in specie 168 ss. «per una sociologia del diritto critica», ripartendo dalla weberiana qualificazione della cultura giuridica come concetto ponte fra il punto di vista sociologico e quello giuridico. 7 Non è questa la sede per sottolineare la retorica del/sul ‘federalismo’ nell’attuale dibattito politico nel nostro Paese, o la retorica sulla partecipazione, vuoi per esaltarne la portata, vuoi per criticarne gli effetti, facendo salve tuttavia le sedi in cui l’approccio ai rispettivi temi è ancorato a riflessioni di taglio scientifico, come documentato dall’ampia bibliografia citata nei saggi presenti in questo volume. 8 Cfr. U. ALLEGRETTI, Democrazia partecipativa: un contributo alla democratizzazione della democrazia, in U. ALLEGRETTI (a cura di), Democrazia, cit., 5 ss.; v. pure ID., Democrazia partecipativa e democrazia deliberativa, in www.labsus.org: ; v. anche N. BELLANCA - E. SCREPANTI (a cura di), Democrazia radicale, IL PONTE, 2007, numero particolare della rivista di politica economica e di cultura fondata da Piero Calamandrei, in cui premesso (ci- 60 MARGHERITA MARIA PROCACCINI Questa breve premessa è funzionale al modo in cui intendo procedere: partendo dal peso e dallo spessore delle parole in oggetto, giocare con sinonimi e contrari della loro rappresentazione, cercarne le relazioni, univocità e forme oppositive nella prospettiva di un metodo di governo che ne convogli la dimensione giuridica non tanto e non solo come e nel lessico, quanto piuttosto e soprattutto per il tramite di quegli strumenti concettuali di riferimento che continuano ad offrire al giurista (in quanto scienziato9) la messa a punto di lenti adeguate per leggere le trasformazioni in atto in quel perpetuum mobile10 che caratterizza la ciclicità del rapporto fra mutamento giuridico e mutamento sociale. Ciò detto poniamoci un’ultima domanda, la stessa che Alice pone ‘ingenuamente’ al suo sdegnoso ‘appollaiato’ interlocutore («puoi far significare alle parole così tante cose?»); e ciascuno tragga le proprie conclusioni ragionando sulla risposta di Humpty Dumpty («il problema è chi è che comanda»), così cruda e insieme scontata nella sua realistica autenticità. Del resto, se è vero e storicamente documentabile che le parole, anche quelle politicamente più impegnative, sono al servizio del potere, proprio con riferimento al termine federalismo è stato di recente sottolineato un «servilismo ormai plateale», con forzature e strumentalizzazioni non scevre da pressappochismo storico11. tando J. Gaventa) che «in giro per il pianeta, i concetti e i percorsi di costruzione della democrazia sono soggetti a una rinnovata contestazione» ci si propone, attraverso il contributo di più studiosi di «elaborare e discutere alcune riflessioni costruttive sulle possibilità di «democratizzare la democrazia», 5. 9 Per gli interrogativi e le problematiche che sottendono alla qualificazione del giurista come scienziato si può qui solo rinviare al saggio magistrale di G.U. RESCIGNO, Il giurista come scienziato, in Dir. pubbl., n. 3, 2003, 833 ss., limitandoci a richiamarne le conclusioni - per me approdo di un percorso argomentativo tanto documentato quanto condivisibile - sia ove l’A. sottolinea atteggiamenti che segnano il modo di essere diverso di giuristi diversi anche nel riconoscersi debitori verso altre discipline o influenzati da scritti in particolare di «filosofi, linguisti, storici, sociologi» (862), sia ove, pur evidenziando che il giurista «è però uno scienziato dal triste destino», nel giustificarne i motivi offre le ragioni del riconoscimento del suo ruolo, posto che «il giurista […] deve sempre muovere dalla ricognizione del diritto che vige nel momento in cui scrive, e quindi dalla società così come si è strutturata e vive in quel momento», 864. 10 La metafora, tratta dal linguaggio musicale, è efficacemente usata da V. FERRARI, Diritto e società. Elementi di sociologia del diritto, Laterza, Bari, 2008, V. 11 L. VILLARI, Si fa presto a dire Federalismo, in La Repubblica, 22 luglio 2010, 46, il quale afferma che «Il federalismo è una formula magica leghista che si è autonobilitata del nome di Carlo Cattaneo. Il quale non c’entra nulla con questo blasone, in quanto [insiste Villari] fra i tanti libri e saggi, non ve n’è uno che parli del federalismo nel senso che gli viene attribuito» (vale a dire l’accezione nazionalista e separatista). PARTECIPAZIONE E FEDERALISMO 2. 61 C’è qualcosa di nuovo…anzi d’antico! Quando usate scientemente, federalismo e partecipazione sono parole che evocano spazi, confini fisicamente percepibili, criteri di delimitazione e di appartenenza, dinamiche organizzative misurate sui gradi di potenziale conflittualità propri di ogni istituzione. La prima (federalismo) è parola che porta il pensiero comune ad assegnazione di poteri, riconoscimento e promozione di diversità e garanzia di uguaglianza, in cui la fisicità di riferimento è, in prima approssimazione, un territorio. La seconda (partecipazione) parla di interlocuzione con chi è visto e/o vissuto come controparte e vuole esprimere uguaglianza, prima di tutto come pari opportunità; in questo caso la fisicità di riferimento è quella della persona, come centro di imputazione di interessi, attualmente o potenzialmente rilevanti per il diritto. La prima, collegando all’ambito territoriale funzioni e competenze, esercizio di pubblici poteri, esprime una scelta organizzativa di governo e di gestione della cosa pubblica, ponderando interessi anche contrapposti, per il riconoscimento di spazi di azione informati al bilanciamento dei valori sottostanti; centrale quindi è la dimensione organizzativa volta alla ricerca di equilibri orientati a stabilizzare un sistema di rapporti tra poteri (storicamente pubblici) pur nella loro dinamicità. La seconda esprime di per sé dinamicità, in quanto la dimensione che la caratterizza è quella del raggiungimento di un fine contingente che si costruisce di volta in volta, ma all’interno di una funzione generale teleologicamente orientata, in quanto forma di esercizio di sovranità popolare. Potremmo dire che la partecipazione si configura come espressione corale del massimo grado di ‘stemperamento’ del principio democratico12. 12 Ferme restando le caratteristiche proprie della manifestazione di volontà che ogni cittadino esprime singolarmente nel segreto dell’urna, fattispecie che rappresenta la forma di esercizio della sovranità popolare per eccellenza (consustanziale alle dinamiche della democrazia rappresentativa e della rappresentanza politica come a quelle della democrazia diretta) e di cui qui non ci occupiamo. Mi piace a tal proposito citare Rosanvallon: «La democrazia non è solamente il voto nell’urna. Nella complessità del mondo contemporaneo, la vita democratica si decentra, dando vita a una varietà di azioni e istituzioni al di là del solo suffragio universale (…)». I cittadini oggi manifestano la propria partecipazione alla vita pubblica in altro modo, con forme di «controdemocrazia», che secondo lo studioso francese sono «l’insieme delle attività che non mirano ad associare il cittadino all’esercizio del potere ma a organizzare il suo controllo su chi governa». E inoltre «È impossibile che tutti parteci- 62 MARGHERITA MARIA PROCACCINI Il federalismo a sua volta, in quanto espressione di sovranità costituita, può prendere tutte le forme proprie dell’autonomia, fino a lambire i margini della sovranità o comunque a considerare la stessa mai oltre i termini di residualità in capo ai soggetti federati13. Entrambe le parole evocano pluralità. Entrambe le parole appartengono al vocabolario della democrazia e ne seguono la declinazione tracciandone la nervatura, costruendo gangli destinati a presentarsi come punti nevralgici di sistemi storicamente determinati. Figurativamente potremmo immaginare piani di intersezione che ci riportano ai segmenti che li compongono, segmenti a loro volta generati da matrici con tratti comuni qualunque sia l’ottica in cui si pone lo scienziato sociale che incontra nel suo percorso di studio le dinamiche istituzionali. E sarà proprio dall’emergere di questi tratti comuni (lento ma in qualche modo prepotente ed inesorabile nel percorso argomentativo che ho cercato di seguire e vado qui proponendo) che a me sembra di poter dare senso alla concezione del federalismo come metodo di governo partecipato passando dall’analisi del lessico alla individuazione degli strumenti che siano in grado di connotarne genesi e sviluppo. Ma, che tipo di strumenti? pino direttamente alle decisioni politiche, ma tutti possono esprimere opinioni critiche e partecipare alla vigilanza civica nei confronti del potere» (corsivo mio). Cfr. intervista di F. Gambaro a Pierre Rosanvallon, in La Repubblica, 14 dicembre 2008, Le democrazia non è solo «il voto nell’urna». Il sottile discrimine tra «controdemocrazia positiva» e controdemocrazia negativa: v. amplius P. ROSANVILLON, La légitimité démocratique Impartialité, reflexivité, proximité, Paris, 2008, ove l’A. sin dalle prime pagine mette in relazione la complessità del pluralismo contemporaneo con le trasformazioni di una società che sempre più si manifesta come «una vasta declinazione di condizioni minoritarie», 14. 13 Qui il riferimento è ai diversi modi in cui si può configurare la genesi di uno Stato federale, profilo ampliamente esplorato in dottrina dalle voci in materia presenti in enciclopedie del diritto alla manualistica di diritto costituzionale, pubblico e comparato, oltre che in monografie sul tema, testi di cui non è il caso di fare mera elencazione, rinviando agli autori a vario titolo citati nelle note qui presenti e ai riferimenti bibliografici, in essi riportati, v. pure tuttavia per un approccio non meramente giuridico, C. MALANDRINO, Federalismo. Storia, idee, modelli, Carocci, Roma 1998, G. NEVOLA, Neo-federalismo e governo delle diversità, in Economia e società regionale, 1996, 2, 49-70; ID., «Does Federalism Have a Future?; Il federalismo ha un futuro?», in Rass. it. di soc., 1997. 4, 629-640; ID., Capire la secessione, in Il Mulino, 1997, 5, 814-827; ID., Il malessere della democrazia contemporanea e la sfida dell’’incantesimo democratico, in Il Politico, 2007, v. LXXII, 1, 165-200; e da ult. I. RUGGIU, Dallo Stato federale allo Stato multiculturale? Come «accomodare» la diversità nelle società contemporanee, in G. DUSO - A. SCALONE (a cura di), Come pensare il federalismo? Nuove categorie e trasformazioni costituzionali, Polimetrica, 2010, 217 ss. PARTECIPAZIONE E FEDERALISMO 63 Gli strumenti, come è noto, devono essere adeguati all’operazione che si vuole svolgere, e possono diversificarsi a seconda della funzione e dei criteri costruttivi propri di chi compie l’azione o studia un fenomeno. Qui non si tratta del resto di misurare grandezze, quanto piuttosto di verificare se è possibile rintracciare fra i concetti giuridici fondamentali che appartengono al bagaglio del giurista-scienziato (sociale14) quelli in cui federalismo e partecipazione si incontrano, e quali possano essere le circostanze che ne favoriscono chiavi di lettura sintoniche o distoniche. In altri termini qual è, nella misura in cui ci sia, l’humus atto ad accogliere entrambi, l’uno in funzione dell’altro. Sono già emersi sinora lemmi ricorrenti per entrambi i termini qui in esame, che possono essere considerati strumenti concettuali di cui servirsi per inquadrare giuridicamente la portata di entrambi: persona come soggetto di diritto, territorio come elemento costitutivo di un’entità cui riconoscere o attribuire funzioni di rilevanza pubblica, sovranità, autonomia, uguaglianza, democrazia15. Anche nel prosieguo di questa mia analisi affioreranno altre connessioni lessicali sempre nell’ottica di rintracciare strumenti concettuali per leggere il nuovo che c’è, con quanto ci àncora ad un antico che non è un passato morto e da superare, ma sostanza viva in virtù di un contenuto esperenziale che sempre si rinnova. 3. Rapido excursus fra cose note… Sto per aprire una parentesi che potrebbe sembrare pleonastica in quanto ripetitiva di cose ai più note in tema di federalismo, pur tuttavia qui funzionale al recupero di quegli strumenti concettuali di cui prima dicevo. Il federalismo – così come ce lo presenta la manualistica più consigliata nei corsi giuridici (e non solo) di base –, entra come concetto 14 Cultura e scienza giuridica del resto sono esito e patrimonio dello studio del diritto, in quanto scienza sociale, studio pertanto sempre attento al confronto con le altre scienze sociali che accanto a conoscenze storiche e filosofiche non trascurino anche l’apporto consapevole di riflessioni scientifiche proprie della sociologia, l’antropologia, la psicologia. Più che citare opere a tal fine basterebbe ricordare Autori (Vico, Marx, Weber) il cui solo nome basta a far cogliere una confluenza di saperi che nel corso del tempo impietosamente sono stati stigmatizzati in sigle indicative di settori scientifici disciplinari che corrono il rischio di essere interessanti solo per la gestione di poteri accademici. 15 Il mio compito per ora non va molto aldilà di evidenziarli, in quanto saranno altri a sviscerarne connessioni e potenzialità entrando nel merito di singoli profili (soggetti, controlli, garanzie, funzioni normative), per i quali si rinvia ai rispettivi saggi raccolti in questo volume. 64 MARGHERITA MARIA PROCACCINI chiave nello studio dei fenomeni politici e giuridico-istituzionali che accompagnano la distinzione storica e concettuale delle forme di stato e delle forme di governo, distinzioni che ci vengono consegnate dalle tradizionali classificazioni elaborate dal pensiero politico di classici che appartengono alla cultura umanistica a base delle scienze sociali in generale e della scienza giuridica in particolare. Studi già presenti ed approfonditi16 elencano e descrivono le definizioni del federalismo, sottolineando per ciascuna di esse i tratti essenziali, presentando «i concetti del federalismo così come balzano all’attenzione dall’esame della letteratura federale»17, sottolineandone il principio ispiratore a partire «dal primo grande testo che esprime le buone ragioni della democrazia rappresentativa, il Federalist»18. Il concetto di federalismo, di per sé plurimo, si frantuma in una costellazione di termini (regionalismo, autonomia, decentramento, coordinamento, cooperazione, devoluzione, secessione, autogoverno, differenziazione, adeguatezza, sussidiarietà, specialità/uniformità), ognuno dei quali tende, pur differenziandosi in ragione delle diverse concrete espe16 In particolare, L.M. BASSANI, W. STEWART, A. VITALE, I concetti del federalismo, Giuffrè, 1995. 17 L.M. BASSANI, W. STEWART, A. VITALE, op. cit., ‘Avvertenza’, IX. 18 Ibidem; come è noto, la parola ‘federalismo’ emerge, dopo la conclusione dei lavori della Convenzione di Filadelfia propedeutica alla nascita degli Stati Uniti d’America (nella cui Costituzione non si legge tuttavia in alcuna parte il termine), come indicatore di un modo nuovo di organizzazione e distribuzione di poteri sovrani, e quindi in qualche modo espressiva sia di forma di stato che di governo, nella misura in cui il sistema istituzionale, che nel suo complesso include le modalità partecipative della società civile, si configura come fondativo di un governo democratico capace di garantire la libertà in una società dominata dal principio di uguaglianza (d’obbligo qui il debito nei confronti di un classico del pensiero, ALEXIS DE TOCQUEVILLE, La democrazia in America, pubblicata a Parigi per la prima volta fra il 1835 e il 1840, ove, tra l’altro, si parla di cammino dell’umanità verso «l’eguaglianza delle condizioni»…). In particolare, il termine ‘Federalist’ designa una raccolta di articoli di Alexander Hamilton, John Jay e James Madison pubblicati tra il 1787 e il 1788 sui giornali dello Stato di New York al fine di convincere i componenti dell’assemblea di quello Stato, chiamati alla ratifica della nuova Costituzione, e più in generale l’opinione pubblica, dei vantaggi di una costituzione federale rispetto alla formula confederale. È sotto gli occhi di tutti il successo nel linguaggio politico e giuridico della parola ‘federalismo’, cosa che tuttavia non libera tale termine di un certo tasso di ambiguità, con cui si stanno facendo i conti anche in questa nostra sede. È quanto ha ricordato anche nel 1987 Norberto Bobbio in una delle sue lezioni, in occasione della presentazione del ricco volume di SALVO MASTELLONE, Storia della democrazia in Europa da Montesquieu a Kelsen: N. BOBBIO, Due secoli di democrazia in Europa, Lezione 4, Un. di Perugia, Dip. di Scienze storiche 1986-87, 10. Di Salvo Mastellone v. da ult. La Nascita della Democrazia in Europa, Carlyle, Harney, Mill, Engels, Mazzini, Schapper. Addresses, Appeals, Manifestos (1836-1855), Olschki, Firenze, 2009. PARTECIPAZIONE E FEDERALISMO 65 rienze cui si riferisce, a ricomporsi in unità di pensiero19. È la storia stessa della fenomenologia federalista che tende a ricondurre lo studioso alla riconferma di un nucleo concettuale comune, che pur tuttavia non si libera dell’ossimoro di fondo che contrappone la ‘logica’della statualità «che deve pur essere presente se si vuole comprendere la soggezione diffusa e il successo crescente della prospettiva federale»20, ad una complessiva riproblematizzazione della riflessione sul potere e sulle sue molteplici forme di manifestazione. Il potere si detiene, si delega, si divide, è espressione di esercizio sovrano, è presupposto della decisione politica, dispiegamento di pratiche volte a regolare (accrescere/limitare, tutelare, potenziare…) i livelli in cui si colloca fra apparenti paradossi per la (ri)definizione delle regole del gioco. Tutto ciò allora richiede di andare oltre la dimensione strettamente istituzionale del problema, entrando – come stiamo cercando di fare – nel linguaggio del federalismo, nella sua sintassi, penetrando nel suo ambito semantico, per rintracciarne la pratica politica e coglierne tutte le conseguenze. Solo un’operazione del genere potrebbe consentire un reinquadramento del federalismo come modus operandi proprio del contesto in cui si colloca, individuandone tutte le potenzialità a qualunque livello istituzionale possa essere concepito come metodo di governo. Una forte tensione riformista accompagna nelle ultime legislature il tema del federalismo; il linguaggio politico (più dei ‘politici’ che della ‘politica’ nel senso nobile del termine) si appropria della parola, aggettivandola in vario modo fino a creare espressioni che raggiungono l’opinione pubblica, sempre più ‘provata’ in un’epoca di frequenti disorientamenti ed improvvisazioni. Se assumiamo che poteri ed interessi siano due delle prospettive di analisi possibili per ripercorrere concetti giuridici di cui il federalismo si nutre, e proviamo a lasciare sullo sfondo la dimensione sistematica della distribuzione territoriale del potere, si aprono nuovi spazi di ricerca: vale a dire, la ricerca di un sistema reticolare che dalle radici del passato consideri il presente nella prospettiva di interconnessioni circolari di flussi e processi atti a riorganizzare gli spazi sociali di partecipazione. Ripensare il federalismo come metodo di governo e rileggerlo in funzione partecipativa consente allora anche di riprendere quella micro19 Ma ciò non toglie che assistiamo quasi quotidianamente ad un modo confuso di presentare queste forme di organizzazione dei pubblici poteri come panacea di disfunzioni tanto più serie quanto più si perde la consapevolezza del rispetto di un complessivo quadro costituzionale chiamato a sorreggere l’intera impalcatura. 20 L. FERRARI BRAVO, Federalismo, in Lessico postfordista, Feltrinelli, 2001, 121. 66 MARGHERITA MARIA PROCACCINI concettualizzazione, suffragata dalla pluralità di aggettivazioni che accompagnano il termine nel dibattito antico come in quello contemporaneo, di modo che esso si presti ad essere considerato un possibile paradigma per analizzare i processi di cambiamento che si sviluppano e che segnano le epoche di transizione, come quella che stiamo attraversando21. Del resto, prescindendo da facili quanto comuni slogan, ogni espressione che includa il sostantivo ‘federalismo’ o l’aggettivo ‘federale’ può essere declinata secondo diverse accezioni, ciascuna con la propria valenza linguistica; lo stesso concetto di ‘perequazione’ può essere trasferito dal contesto che le è più proprio, vale a dire quello del federalismo fiscale, al federalismo tout court come ambiente intrinsecamente ‘perequativo’ ove si concepisce come metodo di governo operativamente costruito su una ‘partecipazione’ perequata garantita equanimemente ai soggetti interessati22. Sta di fatto che il federalismo come metodo di governo partecipato si muove tra presupposti (luoghi della partecipazione, soggetti, stru21 Per prendere cognizione dell’ampiezza del panorama in tal senso basta solo scorrere l’indice delle centinaia di voci in ordine alfabetico che compongono il testo già citato di L.M. BASSANI, W. STEWART, A.VITALE, I concetti del federalismo, Giuffrè 1995, fra queste davvero numerose quelle che evocano il concetto di partecipazione/interazione fra soggetti come elemento consustanziale alla specifica declinazione di uno dei tanti concetti di federalismo richiamati: da quello adattativo, di associazione, aggregativo simbiotico, sociale ad altri concettualmente convergenti in quel cooperative federalism , che ha in Daniel. J. Elazar uno dei più compiuti teorici e che comunque concorrono a leggere nel federalismo l’essenziale concetto di struttura governamentale, quindi anche in chiave partecipativa. 22 Interessanti a tal proposito le chiavi di lettura offerte dall’accostamento tra federalismo e sistemi di welfare, anche a fronte del processo di integrazione europea, che ha prodotto, come ricorda Luisa Torchia, una «costituzione economica» comune e riconoscibile; mentre è ancora solo all’inizio la costruzione di una «costituzione sociale» comune, che si estenda oltre la fase del riconoscimento e della proclamazione di diritti e valori e dia vita ad un complesso riconoscibile di istituti, regole e rimedi. Tutto ciò tenendo conto, peraltro, che il rapporto fra grado di legittimazione delle istituzioni e capacità di realizzare politiche redistributive è un rapporto biunivoco, oggi messo in discussione dalla crisi dei sistemi di welfare e dalla loro inadeguatezza rispetto alle effettive esigenze di tutela, connesse a nuovi rischi e nuovi bisogni che richiedono nuove soluzioni, fino al punto di riconsiderare complessivamente i tradizionali schemi interpretativi del rapporto fra Stato e società: L. TORCHIA (a cura di), Welfare e federalismo, il Mulino, 2005, passim. Il concetto di perequazione, come è noto, è stato sin qui utilizzato perlopiù in riferimento alla politiche redistrbutive decise dall’alto: la mia riflessione vorrebbe essere un tentativo (tutto ancora da verificare e comunque da approfondire con adeguati strumenti) di lettura capovolta del concetto in relazione a forme di controllo democratico, consustanziali ad un federalismo come metodo di governo partecipato. PARTECIPAZIONE E FEDERALISMO 67 menti) e conseguenze (verifiche di validità in base ai risultati prefigurati o attesi o effettivamente conseguiti; sussidiarietà come modello tendenzialmente ‘consensuale’ fra vari livelli istituzionali; o viceversa meccanismo di scomposizione/ricomposizione di interessi differenziati verticalmente ed orizzontalmente) che pongono al centro la questione del metodo. Quando si assume che una fattispecie (nel nostro caso, per l’appunto, il federalismo) è concepibile come ‘metodo’, vuol dire che si riconosce a tale fattispecie l’idoneità a porsi come criterio organizzativo (organizzazione istituzionale, amministrativa, politica, etc.) in antitesi o in concorrenza con altri criteri. Di certo a tal proposito si aprono punti di criticità con riferimento al criterio gerarchico, laddove invece in prima approssimazione, si riscontrano compatibilità con quello della competenza, criterio cui il federalismo, in quanto metodo, sembrerebbe geneticamente informato, presupponendo altresì il riconoscimento di una equiordinazione sul piano partecipativo dei soggetti interessati al, e coinvolti nel, governo della cosa pubblica (ferma restando la distinzione delle responsabilità). A questo punto, il federalismo come metodo di governo si svuoterebbe di significato senza partecipazione; esso infatti postula e genera una organizzazione reticolare, e richiede ‘norme di riconoscimento’ che diano forza giuridica alla partecipazione concepita come strumento e fine, in tutte le fasi del processo decisionale, le cui dinamiche siano da regolare. Ci piace pensare che il federalismo come metodo di governo partecipato costituisca il DNA, la cifra stessa di una democrazia senza aggettivi: l’a priori logico di una mentalità giuridica disposta quanto meno ad ascoltare e a raccogliere i diversi punti di vista prima dell’assunzione di decisioni, siano esse regolative, organizzative, valutative. 4. … e qualche passo in più tra fatti e norme Questa parentesi ci ha fatto guadagnare forse solo qualche timido avanzamento, non certo sulla conoscenza del federalismo ideologicamente collegato alla concreta configurazione di una tipica forma di Stato collocata in determinati ambiti spazio-temporali (tema che non è qui in discussione), ma per confermare nel nostro lessico la centralità di espressioni che valgono anche come strumenti concettuali di riferimento comuni a federalismo e a partecipazione: principio democratico 68 MARGHERITA MARIA PROCACCINI e sua dimensione reticolare; poteri ed interessi e molteplici forme della loro manifestazione; federalismo come modus operandi proprio del contesto in cui si colloca, ciascuno con le proprie regole per concorrere responsabilmente alle scelte di politiche pubbliche, tenuto conto anche delle classiche categorie della gerarchia e della competenza. Va da sé che il tema è antico e nuovo nello stesso tempo, forte sul piano teorico, meno robusto su quello della concretezza, se non lo si ricollega alla effettività degli istituti giuridici e ai principi che ruotano intorno al federalismo (coordinamento, programmazione, organizzazione, autonomia, decentramento, sovranità, democrazia, eguaglianza…); tutti istituti e principi suscettibili di chiamare in causa in varia misura la partecipazione, nella poliedricità delle sue manifestazioni sotto il profilo soggettivo ed oggettivo (chi partecipa, dove, come, perché)23. Mal si concilierebbero del resto con il federalismo, almeno sul piano lessicale, assenteismo, astensione, abbandono e disinteresse per la cosa pubblica, distacco, astensionismo o comunque assonanze che esprimano senso contrario o negativo rispetto alla partecipazione. Il federalismo come metodo di governo postula piuttosto aderenza, adesione, interessamento, intervento, comunicazione, presenza, contributo, coinvolgimento, solidarietà, cooperazione, e ogni valenza espressiva riconducibile al senso e alla dimensione fattuale della partecipazione. Sul piano del diritto positivo, tuttavia, non si può sottacere che l’ordinamento giuridico nella sua dimensione meramente normativa 23 Basterebbe, a titolo esemplificativo, ripercorrere la produzione normativa della stagione della programmazione in Italia e vedere come le sue vicende (non proprio sempre fortunate) siano intersecabili con processi partecipativi, ove si assuma la programmazione come metodo nel governo e nella gestione della cosa pubblica e la partecipazione come strumento suscettibile di essere impiegato in tutte le fasi dei processi decisionali che accompagnano la programmazione delle scelte politiche, ex ante, in itinere, ex post anche a fini valutativi della qualità. In tal senso, anche con riferimento al rapporto fra pubblico e privato soprattutto nell’ambito di studi di diritto dell’economia, più di recente sulle vicende della programmazione e della pianificazione in Italia e sull’evoluzione dei modelli organizzativi per le scelte di politiche pubbliche, N. RANGONE, Le programmazioni economiche. L’intervento pubblico tra piani e regole, il Mulino, 2007; il tema è altresì oggetto di analisi sociopolitologiche e socio-giuridiche, con riferimento al rapporto tra «mutamenti della scena politica italiana [….e]stile di governo a tutti i livelli [passando] dalla prevalenza di un modello di government; […] alla diffusione di un modello di governance», R. SEGATORI, Introduzione, in ID. (a cura di), Mutamento della politica nell’Italia contemporanea. II. Governance, democrazia deliberativa e partecipazione politica, Rubbettino, 2007, 5; con taglio soprannazionale, cfr. M.R. FERRARESE, La governance tra politica e diritto, il Mulino, 2010, studio in cui è trasversale il tema della partecipazione,in part. come stile della governance, 51 ss. PARTECIPAZIONE E FEDERALISMO 69 (ove il testo di legge, in senso lato, è atto comunicativo per eccellenza nella vita di una collettività civile politicamente organizzata, qualunque sia il tasso di democraticità che ne ha informato l’iter di formazione) è avaro24 rispetto al termine ‘federalismo’25, destinato inizialmente più che altro a connotarsi per la sua natura ideologica e a conoscere ben altra fortuna soprattutto nella storia del pensiero politico e delle dottrine politiche, oltre che negli studi di scienza politica e della sociologia dei sistemi politici. Diversa invece l’evidenza che il termine ‘partecipazione’ può vantare, a partire dal testo costituzionale26 e variamente declinata in fonti non solo primarie dello Stato e delle regioni e in atti espressione di autonomie locali27, ma anche in fonti e documenti comunitari; un’evidenza strana, però28, quasi ‘velata’, se mi si consente questo volontario ossimoro, in considerazione dei tempi dell’attuazione costituzionale e del dispiegarsi per lenta penetrazione nella coscienza civica di tutte le potenzialità attuative del principio democratico per il tramite della partecipazione29. 24 Ragionevolmente ‘avaro’, anche in considerazione del tenore del dibattito in Costituente su quale dovesse essere la scelta per la forma di Stato della neonata Repubblica: in generale sul tema, T. GROPPI, Federalismo e costituzione. La revisione costituzionale negli stati decentrati, Giuffrè, Milano, 2001; Eadem, Il federalismo, Laterza, Bari, 2004. 25 Fatta salva la recente legge n. 42 del 5 maggio 2009, Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, il termine federalismo tout court è più ‘sbandierato’ nel dibattito politico-istituzionale dei nostri giorni che praticato nei luoghi legittimati a delineare formalmente e attuare sostanzialmente cambi di rotta nei rapporti fra gli enti che compongono la nostra Repubblica. Più spesso ci si trova di fronte ad una vulgata del termine federalismo (con cui comunque occorrerebbe fare i conti al di là dell’effettiva presenza dello stesso in testi normativi anche con riferimento a riforme di portata costituzionale come quella vigente del Titolo V o quella non confermata dal referendum ex art. 138 Cost. nel giugno 2006). Va ricordato tuttavia che sul piano teorico è stato efficacemente sostenuto che il federalismo prima che regola giuridica costituisce una pratica, deve partire da comportamenti e da aspettative di comportamenti già diffusi nella società civile, attraverso pratiche di autonomia e partecipazione in quanto il federalismo consiste in una «combinazione di autogoverno e di governo condiviso» cfr. D.J. ELAZAR, Idee e forme del federalismo, Milano, 1998; v. pure. G. MIGLIO, Federalismi falsi e degenerati, con interventi di M. Diamond, D.J. Elazar, A.B. Gunlicks, J. Kincaid, R. Ratti, W. Renzsch, A. Vitale, Milano, 1997, passim. 26 Si rinvia al saggio introduttivo di A. Valastro. 27 Cfr. in questo volume i saggi di N. BIANCUCCI e A. VALASTRO. 28 Fatta salva naturalmente la partecipazione, con i suoi luoghi, le sue procedure, le sue forme di legittimazione attiva e passiva nei rapporti dei cittadini con la pubblica amministrazione, tema ampio e complesso che rimane a margine dei profili che il nostro Prin vuole analizzare e che comunque sono in parte richiamati, per quanto di competenza, anche in alcuni dei lavori qui raccolti. 29 Una svolta in questo percorso, sul piano formale, è segnata dagli statuti regionali che per disposto costituzionale annoverano fra i propri contenuti essenziali organizzazione, 70 MARGHERITA MARIA PROCACCINI Del resto il senso del partecipare, nel mentre matura in chi come singolo o in collegamento con altri si sente e vuole visibilmente essere parte di una azione, già presume la consapevolezza di una condizione di titolarità all’agire partecipativo come espressione di libertà, di un potere che è nella disponibilità dei soggetti cui la partecipazione spetta, avendone facoltà, prescindendo quindi dalla doverosità di un determinato comportamento. E già, perché, sul piano fattuale, di comportamento si tratta. Sul fatto che la parte(cip)azione sia un comportamento attivo non si nutrono dubbi, proprio in quanto ad essa si ricollegano conseguenze, anche indipendentemente dalla circostanza che tali conseguenze corrispondano a quelle attese dai partecipanti30. La produzione di conseguenze del resto non può escludersi anche in caso di non partecipazione, proprio in quanto per assurdo (ma non tanto) effetti possono conseguire anche da comportamenti di tipo omissivo: anzi, ove la non partecipazione sia consapevolmente praticata, essa richiederebbe il massimo possibile della visibilità attraverso forme di comunicazione, posto che il vuoto di partecipazione richieda visibilità almeno tanto quanto la partecipazione nel suo pieno dispiegamento. Insomma partecipare o non partecipare è comunque un messaggio per la politica 31, qualunque sia il livello istituzionale nel cui ambito vadano assunte scelte di interesse pubblico da parte di soggetti variamente legittimati all’esercizio di pubblici poteri. forma di governo, procedimento legislativo e partecipazione e, a maggioranza qualificata, anche la legge elettorale. 30 Fermo restando che i partecipanti potrebbero essere fra lo loro distinti in base all’intensità con cui si può prendere parte a, o si è parte di, qualcosa che va dallo spettatore più o meno marginale al protagonista di rilievo. Sugli effetti giuridicamente rilevanti connessi a determinati tipi di partecipazione, qualche inquietudine pone l’ “esemplare” ddl C/2271 del 2009, citato nel saggio di A. VALASTRO. 31 Aristotelicamente intesa quale specifica dimensione dell’agire associato, ma anche concepita di volta in volta come ricerca del bene comune, strumento per la realizzazione della vita buona e virtuosa del cittadino, arte della conquista e della conservazione del potere, leva per la neutralizzazione dei conflitti tra individui e gruppi, luogo della contrapposizione regolata di una pluralità di interessi ideali e materiali divergenti radicati nella società civile, oppure ancora come relazione ‘amico-nemico’ oltre che come sfera autonoma e autonormativa dell’agire (del Principe nella realistica visione machiavellica), mitigata dalla weberiana «etica della responsabilità» quando diventa esercizio di forza e ricerca del consenso. In un’ottica contemporanea è questo lo scenario in cui collocare anche il dibattito intorno allo sviluppo sostenibile con senso di responsabilità verso le generazioni future, per spunti interessanti sul tema, cfr. D. UNGARO, Eco-Governance. I costi della non partecipazione, in R. SEGATORI (a cura di), Mutamento, cit., 175 ss. PARTECIPAZIONE E FEDERALISMO 5. 71 Per non perdere l’orientamento Tornando ancora al federalismo, tra lessico e strumenti (concettuali), potremmo concludere che, vuoi nella vita operativa vuoi nella riflessione scientifica e nell’attenzione politico-istituzionale, il federalismo è stato sempre considerato parte del sistema organizzativo di soggetti in relazione fra di loro. È indubbio, infatti, che il termine abbia sin dall’origine una necessitata intreconnessione con il mondo dei rapporti giuridici, con un preciso riferimento a ciò che concerne gli strumenti per regolare le dinamiche istituzionali da esso generate e di cui è nello stesso tempo espressione. Ne rimane traccia evidente, nella sua stessa etimologia: il lemma infatti – come a tutti noto – deriva dal latino foedus, patto di alleanza, accordo associativo con determinati fini. Il presupposto di ogni forma di federalismo in tal senso è per certi aspetti la ‘diversità’ che, nel confrontarsi con portatori di identità diverse, va alla ricerca di elementi di ‘comunità’: comunità teleologicamente intesa come habitat da costruire e man(u)tenere per dare significato autentico alla ricerca di punti di convergenza, di interessi particolari riorganizzati come ‘cosa pubblica’, garantendo voce a tutti i componenti partecipi della comunità stessa. Il federalismo allora, in quanto insieme di entità compositive di istituzioni a vari livelli (tutte legate da processi di com-partecipazione), comporta e si basa sull’intreccio di relazioni e rapporti tra entità che compongono il tutto in modo tendenzialmente stabile. Il concetto di federalismo, pertanto, include in sé una dimensione compositiva, in quanto frutto di una composizione in cui sono distinti e distinguibili i soggetti del patto fra l’entità federale e le entità federate. C’è quindi una dimensione attiva e una dimensione passiva fra le entità soggetti di processi federativi che si basano sulla partecipazione di tutte le entità interessate32. Se è vero, come è vero, che ci troviamo di fronte a due termini/ concetto, a questo punto per cogliere e descrivere conclusivamente il rapporto tra di loro basterebbe confermare quanto in precedenza già 32 In questa ricostruzione mi sembra che in qualche modo si possa leggere una convergenza fra due accezioni proprie in cui la cultura politica usa il termine federalismo, la prima per designare la teoria dello Stato federale, la seconda che porta ad «ipotizzare che abbiano qualche carattere federativo i comportamenti di coloro che vivono in tale Stato», fermo restando che comportamenti ispirati agli stessi principi possono appartenere e di fatto appartengono anche a contesti sociali di Stati che federali non sono, amplius, cfr. L. LEVI, Federalismo, in BOBBIO, MATTEUCCI, PASQUINO (a cura di), Il dizionario di politica, Utet, 2004, 330 ss. 72 MARGHERITA MARIA PROCACCINI assunto: vale a dire che la partecipazione costituisce la cifra insopprimibile del federalismo teoricamente ancor prima che per prassi operativa; di conseguenza di volta in volta se ne potranno individuare i passaggi che portano a concepire federalismo e partecipazione ora come obiettivo ora come mezzo reciprocamente l’uno rispetto all’altro. In altri termini potremmo ancora dire che il federalismo come metodo di governo partecipato consente una duplice chiave di lettura, nella misura in cui il suo nesso con la ‘partecipazione’ è nel contempo genetico e di risultato. Si apre così uno scenario in cui dare collocazione giuridicamente rilevante agli elementi che concorrono a comporlo33. In tal senso, allora, punto di osservazione privilegiato diventa l’ottica disciplinare in cui ci si pone, posto che, se la partecipazione è fenomeno sociale che si presta ad essere indagato sulla base dei comportamenti dei soggetti in relazione fra di loro nei diversi possibili contesti, a sua volta, il federalismo è termine evocatore di processi storici che connotano l’evoluzione dei sistemi organizzativi del potere. Ciò detto, tuttavia, è evidente che entrambi da sempre consentono un approccio giuridico. Se la partecipazione è un valore alla luce del quale effettuare scelte e decisioni, il federalismo implica che scelte e decisioni del potere organizzato siano giuridicamente definite e definibili. Se le forme di manifestazione della partecipazione presumono norme sociali inizialmente anche non giuridiche34, basate comunque su regole condivise fra i soggetti in relazione partecipativa, nulla esclude che tali norme sociali acquistino il carattere della giuridicità nelle forme consentite dall’ordinamento e quindi si arrivi ad un assetto positivo di riferimento basato su regole che disciplinino il rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali (inclusa la prospettiva della doverosità di conseguenti comportamenti35); il federalismo, a sua volta, postula norme pro33 Uno dei risultati attesi dalla ricerca è per l’appunto l’individuazione di tali elementi, sotto il profilo formale, sostanziale, oggettivo, soggettivo e quindi le relazioni che ne configurano la portata giuridica. In tal senso andrebbe interamente recuperato quel patrimonio di cultura sul pensiero federalista di studiosi e uomini di azione italiani, come l’esperienza di Silvio Trentin, analizzata da G. CANGEMI, di cui cfr., in part., Federalismo come struttura per partecipare e valorizzare le identità, in Federalismo municipale e solidale (in rete). Sul punto si rinvia al paragrafo conclusivo di questo testo 34 Sulla distinzione fra norme sociali in giuridiche e non giuridiche, cfr. V. POCAR, Guida al diritto contemporaneo, Laterza, Bari, 2002, passim e ivi riferimenti bibliografici. 35 Il punto è molto delicato e presenta margini di criticità con riferimento alle dinamiche istituzionali che si sviluppano tra i soggetti della partecipazione, inclusi quelli (pubblici) chiamati a garantirne l’effettività, e a risponderne in termini di responsabilità davanti PARTECIPAZIONE E FEDERALISMO 73 dotte da fonti legali dell’ordinamento di riferimento, nel rispetto di principi quali la separazione dei poteri, il principio di legalità, il riparto delle competenze, nel rispetto della fonte gerarchicamente più elevata, di quei principi insomma che sono il cuore pulsante del costituzionalismo moderno. Ebbene la strada intrapresa per mettere in connessione sul piano teorico ed applicativo i nostri termni/concetto, ci riporta in qualche modo al punto di partenza36. Verosimilmente insistendo sull’uso e lo spessore delle parole che concorrono a costruire cultura e lessico del federalismo e della partecipazione incontreremo ancora lemmi e locuzioni che non separano fenomeni totalmente diversi, ma piuttosto segnano livelli distinguibili in una scala di intensità di valori, aspettative, percezioni che a loro volta concorrono a renderne più stringente il senso, specie ove si mettano in gioco categorie la cui portata si va progressivamente allentando37, mentre prendono sempre più spazio dinamiche istituzionali informate alla rilettura del rapporto fra autorità e libertà, fra pubblico e privato passando per tutte le possibili declinazioni del principio di sussidiarietà consegnateci dalla dottrina, dalla normativa e dalla giurisprudenza (in specie costituzionale)38. ad un giudice, se previsto, o comunque in termini di responsabilità politica, direttamente o indirettamente davanti all’elettorato o attraverso la verifica del consenso. Si rinvia al saggio di D. DONATI. 36 Anche per cogliere il senso autentico del titolo stesso del nostro Prin e condividerne la ratio di fondo aprendo uno scenario in cui sia possibile di volta in volta mettere in evidenza il nesso che intercorre tra federalismo e metodo di governo partecipato. In questo scenario assumiamo che i confini siano per l’appunto delimitati dalle nostre due parole, includendo una serie di variabili atte ad esprimere le modalità di rappresentazione di un metodo per governare sistemi complessi propri delle democrazie contemporanee; un metodo che si qualifichi per il tramite della individuazione di funzioni, attività, competenze, procedure non necessariamente già formalizzate con riferimento ai soggetti titolari di poteri e/o interessi costituzionalmente garantiti. 37 Basti pensare per es. alla perdita di rilevanza dell’elemento ‘spaziale’ connesso alla sovranità passando dallo Stato liberal-democratico (costruito sulla dimensione territoriale sin dalla individuazione dei suoi elementi costitutivi) allo Stato regolatore con i suoi nuovi moduli operativi (ri)costruiti intorno al principio di sussidiarietà e ai concetti di uniformità/differenziazione, alla rilettura dei criteri di gerarchia e competenza sulla cui cedevolezza o resistenza si interroga la dottrina quasi a misurarli in termini innovativi di concorrenza/competizione. 38 Nell’economia di queste mie riflessioni rinuncio ad introdurre un tema, quello del rapporto fra sussidiarietà, partecipazione e federalismo, che non solo rientrerebbe come lessico e strumento di un metodo di governo, ma addirittura concorrerebbe a delinearne la trama lungo un continuum (in cui federalismo e partecipazione rappresentano due polarità di uno stesso fenomeno, non due fenomeni diversi) che meriterebbe di essere indagato, ma che qui mi limito solo a richiamare, rinviando peraltro alle compiute riflessioni presenti in 74 6. MARGHERITA MARIA PROCACCINI Il filo di Arianna Il termine ‘federalismo’, diversamente da quanto tradizionalmente condiviso, è allora destinato ad esprimere non tanto e non solo una forma di Stato, ovvero un sistema di distribuzione di poteri fra governo federale (centrale) e governo degli stati federati (locali o periferici) distinto da altre forme di Stato variamente classificate in dottrina39, quanto piuttosto ‘un metodo di governo’ opportunamente seguito dal dato qualificante della ‘partecipazione’. Già Norberto Bobbio, parlando delle idee cosiddette federaliste di Cattaneo, aveva spiegato chiaramente di che cosa si sta discutendo: «Lo Stato federale, per quanto possa sembrare un paradosso, non è affatto essenziale alla dottrina del federalismo, come teorica della libertà». In altre parole, il decentramento e la sburocratizzazione non mettono in discussione l’integrità della nazione e l’unità dello Stato, ma garantiscono una «maggiore libertà possibile, civile e politica» dei cittadini40. Una volta assodato questo, si apre un altro fronte, che potrebbe presentare le insidie di un labirinto. Tuttavia prima di avviarmi a concludere con un mito antico (dopo l’epigrafiche di apertura tratta da una favola moderna, ma ormai altrettanto classica) voglio svolgere una riflessione ancora fra lessico e strumenti intorno al senso proprio dell’espressione ‘metodo di governo’. Abbiamo tutti imparato la lezione mortatiana che pone a fulcro della distinzione tra forme di governo e forme di stato il modo in cui nel questo volume (in part. i saggi di A. Valastro e di T. Toonen) con riferimento al principio di solidarietà e alle conseguenti qualificazioni di un federalismo che non può non essere concepito se non come solidale e cooperativo, con quanto ne discende sul piano operativo in termini di collaborazione e coordinamento. 39 Cfr. K.C. WHEARE, Del Governo Federale, trad. di Sergio Cotta, Milano, ed. di Comunità, 1949: secondo l’A., che scrive fra il 1943 e il 1945, c’è necessità di «uno studio comparato dello stato federale moderno», anche perché «il termine ‘stato federale’ è largamente usato nelle discussioni politiche, ma raramente gli viene attribuito un significato chiaro e preciso» (9), posto che, ove si è realizzato, costituisce lo strumento istituzionale atto a coniugare unità e diversità. Un classico ancora di grande attualità, che nel delineare le caratteristiche di un ‘sistema federale di governo’ non tralascia di segnalarne i costi – «il federalismo infatti è un sistema dispendioso», 101 – analizzando le peculiarità del funzionamento dello Stato federale incluse quelle relative ai servizi sociali (281 ss.); oggi da ult. in fondo in linea con l’affermazione dei principi federalistici delineati da Wheare, cfr. R. Bifulco (a cura di), Ordinamenti federali comparati. Gli stati federali classici, Giappichelli, Torino, 2010, v. pure A. Sandri, Genesi e sovranità. Le teorie dello Stato federale nell’epoca bismarckiana, Jovene Napoli, 2010. 40 N. BOBBIO, citato da L. VILLARI, Si fa presto a dire Federalismo, cit. PARTECIPAZIONE E FEDERALISMO 75 primo caso si rapportano fra di loro i governanti nell’esercizio dei poteri sovrani; laddove nel secondo caso, invece, la distinzione fra le varie forme di stato corre sul filo del rapporto fra governanti e governati. Tenendo questo come punto fermo e di partenza, cerchiamo di entrare in questo rapporto (governanti/governati) per coglierne tutte le possibili declinazioni e verificare se e in che misura possano emergere trame concettuali e interazioni operative fra ‘federalismo’ e ‘partecipazione’. Provo a far passare la strada intrapresa nel ricercare gli elementi di raccordo tra federalismo e partecipazione attraverso la distinzione tra il concetto di ‘sistema’ e quello di ‘metodo’: il primo porta alla identificazione di ‘forme’, il secondo a determinazioni della ‘sostanza’. Orbene per cogliere appieno il nesso tra federalismo e partecipazione si potrebbe riconsiderare il concetto di federalismo fra sistema e metodo, rintracciandone le linee di distinzione. La dimensione del federalismo come sistema concorre alla distinzione fra diverse forme di Stato; la dimensione del federalismo come metodo (cammino nel senso greco di odòs, verso un fine o per il tramite di qualcosa, méta) porta a considerarne anche la sostanza fino a declinarne i possibili contenuti al fine di riconoscere e di attribuire ad essi valenza di modalità di governo degli interessi che sostengono le ragioni di una funzione pubblica. Se pensando al rapporto governanti/governati riflettiamo sulle componenti funzionali del governo, che «nella tradizione politica occidentale […] sono comunemente identificate nei rami legislativo, esecutivo e giudiziario»41, possiamo immaginare che ciascuno di questi rami costituisca un possibile luogo del federalismo come metodo di governo partecipato: metodo di governo partecipato in relazione non solo alla distribuzione del potere legislativo, ma a qualunque funzione di governo venga effettivamente svolta, funzioni che a loro volta possono mostrare una pluralità di dimensioni federali, fino a riconoscere nel federalismo una modalità di azione nelle scelte delle politiche pubbliche, arena privilegiata in cui giocare la rinegoziazione di patti relazionali, «spazio in cui nelle società complesse si realizza la costruzione del senso dell’agire42, lo spazio all’interno del quale i soggetti verificano la propria libertà di movimento e i rapporti di poteri»43. 41 R.A. MACDONALD, Federalismo caleidoscopico, in Soc. del diritto, n. 3, 2003, 47-71, in part. 57. 42 J. DUNN, Fiducia e agire politico, in D. GAMBETTA (a cura di, Le strategie della fiducia, Einaudi, Torino, 1989, 95-121. 43 N. SOLLIMA, Fiducia e coesione sociale: la rinegoziazione dei patti relazionali, in Soc. del diritto, n. 2, 2003, 143. 76 MARGHERITA MARIA PROCACCINI In questo scenario il magma vitale è dato da circostanze di carattere sociale, dalle connotazioni che di volta in volta assume il conflitto sociale: il federalismo come metodo di governo partecipato, tenuto conto delle sue componenti ideologiche, filosofiche, di pensiero politico (categorie che ci hanno aiutato a capirne genesi e ratio), non può allora prescindere da un concetto della società presente in un dato momento. Il modo in cui la società è concepita non si inventa dall’oggi al domani, ma è il frutto di un processo storico, di un processo sociale di democratizzazione inarrestabile, che oggi assorbe ‘la vita e le regole’ del mondo contemporaneo così come ogni organismo vivente assorbe un ‘farmaco’, con tutti i rischi che l’assunzione di un farmaco comporta, per quel tanto di potenzialità curative o venefiche che contiene. E infatti l’ampliamento del processo democratico introduce una problematizzazione dei fini che la gente vuole discutere tanto più quanto più elevata è la consapevolezza di essere singolarmente titolare di uno status giuridico e sociale che include il potere della partecipazione. Con quali verosimili conseguenze? L’eccesso di domanda di partecipazione come l’eccesso di offerta di partecipazione può generare inflazione, e potrebbe produrre paradossalmente un deficit di democrazia! Per evitare pratiche degenerative, esposte anche a forme di strumentalizzazione politicamente scorrette, il sistema delle garanzie non può abbassare la guardia, ma parallelamente va mantenuto alto e costante il grado di maturazione della coscienza democratica della società. E qui si potrebbe davvero chiudere il cerchio sul punto della cultura giuridica (interna, vale dire quella di tutti gli operatori del diritto) e sul ruolo della formazione a tutti i livelli per consentire lo sviluppo anche e in primis di una diffusa cultura giuridica (esterna, propria di tutti i destinatari delle norme), in grado di porsi come zoccolo duro per una cultura civica del rispetto, quale misura irrinunciabile per una civile convivenza in termini di eguaglianza formale e sostanziale44. Torno ora al mito. Mi sembra che il palazzo in cui abita la Democrazia abbia tante stanze quante l’aggettivazione che oggi l’accompagna, dalle forme più tradizionali (rappresentativa, diretta) alle più innovative (deliberativa, partecipativa, mista) passando per formule ingegnose che impegnano gli 44 Lo spazio in cui questi fenomeni si manifestano potrebbe coincidere con un’arena in cui dialetticamente si sviluppa il confronto fra attori la cui individuazione e modalità di dialogo costituiscono una occasione per ridisegnare anche una cultura ‘civica’, nel senso di cui al testo, basata su effettivo confronto di idee e di prospettive (rispetto delle regole, trasparenza, responsabilità, accountability). PARTECIPAZIONE E FEDERALISMO 77 studiosi più attenti a metterne a fuoco i diversi aspetti (mediata, immediata, maggioritaria, consociativa, virtuale, elettronica) e che complessivamente si presentano come forme di definizione attiva della democrazia contemporanea. Più che un dedalo di possibili percorsi fra stanze senza porte, ciò che impedisce la fruibilità degli spazi del palazzo è l’assenza di luce, una luce che si chiama Politica. Valuti il giurista, in specie costituzionalista, se vale la pena di insistere nella metafora: esiste ancora un filo di Arianna che possa guidare chi si perde nel labirinto della democrazia? È possibile ancora trovare soluzioni agli enigmi, chiarezza nei vicoli ciechi, evitare trabocchetti e scivoloni senza nascondersi nei meandri dell’ambiguità, senza arroccarsi in eburnee torri di problematiche astratte o di coerenze metodologiche, scegliendo, senza timore di rinnegare sacri giuramenti, di entrare nel vivo dei problemi, accettando la sfida di difendere nei suoi principi fondamentali e mai più negoziabili quel patto (federativo) fra poteri sovrani e società civile (che il rito delle consultazioni elettorali ogni volta rinnova) consegnato ai posteri dai nostri Padri costituenti e che in quanto atto fondativo della nostra Democrazia chiede ancora di essere pienamente attuato? Per converso, valuti ora il politico. Di quanto oggi il cittadino si sente lontano dalla Politica? E le pratiche partecipative che ruolo sono chiamate a rivestire in un simile contesto? Di quanto il sistema si gioverebbe se il cittadino avvertisse fra i soggetti della politica una propensione a ‘partecipare’ (nel senso questa volta di condivisione dall’alto di fronte a più urgenti situazioni di disagio sociale ed economico di alcuni strati della collettività civile) delle vicende che lo colpiscono, tenendone conto nelle scelte delle politiche pubbliche? Si potrebbe forse pensare anche attraverso queste forme, connotate dalla forte dimensione valoriale della Democrazia come casa di tutti (senza più bisogno di un filo di Arianna!) ad un nuovo percorso di rilegittimazione del Potere e della Politica, come arte del prendersi cura del bene comune. 7. Senza concludere, fra parole della politica e politica delle parole Federalismo e partecipazione: dove ci stanno portando queste parole? Quali le risposte possibili agli interrogativi posti in premessa? L’intento non può ovviamente essere quello di offrire certezze, perché 78 MARGHERITA MARIA PROCACCINI siamo in un’epoca di transizione in cui per definizione tutto è suscettibile di essere considerato in fieri, bensì soltanto qualche elemento per dare al filo la consistenza della trama e dell’ordito e tessere quella tela (metodo di governo), che la struttura del telaio (la Costituzione), con la sua ampiezza e le sue chiavi, consente e postula. La sfida allora diventa l’uso delle chiavi, quale elemento affidato alla capacità delle mani e delle menti di chi si è formato, anche perché è stato messo nelle condizioni di formarsi, adeguatamente, per (ri)conoscere gli arcani di ogni serratura: una conoscenza nutrita di saperi che in primis consentano l’uso consapevole delle parole, tenendo conto degli ambiti lessicali e della dimensione spazio temporale di riferimento. Ma a quali regole risponde l’uso consapevole delle parole? Chi le (im)pone, forte di una acritica accettazione delle stesse?45 Ed ecco riaffiorare il tema della cultura giuridica come «somma di più insiemi di saperi e di atteggiamenti [incluso] il senso comune intorno al diritto e ai singoli istituti giuridici diffuso ed operante in una determinata società»46; la cultura giuridica, quindi, intesa nel senso più ampio possibile con le reciproche interazioni fra questa e le dinamiche istituzionali che il diritto, «concepito come un complesso linguaggio, al tempo stesso oggetto e prodotto della cultura giuridica» compone ed esprime per il tramite di «giuristi, operatori ed utenti, i quali tutti concorrono, in forme e a livelli diversi, alla sua produzione oltre che alla sua interpretazione»47. A questo punto dovrei chiedermi se le riflessioni sin qui complessivamente esposte siano almeno valse a fugare gli iniziali dubbi sulla ‘consistenza’ dei nessi concettuali ed operativi fra partecipazione e federalismo48 e più in particolare sulle interazioni fra cultura del federali45 Regole morfologiche, di grammatica e di sintassi, ma anche regole che evocano etica ed estetica del linguaggio, nel rispetto dei luoghi, delle istituzioni, delle circostanze, delle sensibilità delle persone. 46 L. FERRAJOLI, La cultura giuridica nell’Italia del Novecento, Laterza, 1996, 5. 47 Cfr. ult. cit., ibidem. 48 Nessi concettuali ed operativi qui trattati, si badi bene, prescindendo da questioni valutative e che, tuttavia, sembrerebbero confermati non solo in una chiave di lettura tesa a cogliere e valorizzare gli aspetti positivi della relazione, ma anche in presenza di una cultura giuridica e dinamiche costituzionali «avverse ai processi partecipativi», così come può desumersi dalle osservazioni svolte nella Tavola rotonda conclusiva delle giornate perugine da Gaetano Azzariti, che tenendo presente il caso italiano, «con riferimento al quadro costituzionale e in particolare alla specifica vicenda legata alla modifica della forma di Stato (il c.d. federalismo)» ne argomenta la «scarsa sintonia con la cultura della partecipazione», cfr. G. AZZARITI, Democrazia partecipativa: cultura giuridica e dinamiche istituzionali, in www.costituzionalismo.it, giugno 2010, 1. PARTECIPAZIONE E FEDERALISMO 79 smo e cultura della partecipazione. E ciò soprattutto nella prospettiva di una lettura del federalismo come metodo di governo partecipato, quindi come modus operandi nel rapporto fra società civile, pubblici poteri e rispettive forme di organizzazione non necessariamente condizionati dalla natura (federale o meno) della forma costitutiva di uno Stato: vale a dire prescindendo dalla cristallizzazione di categorie che invece si prestano ad essere dinamicamente ripensate, specie ove si condivida che «avendo l’ordinamento come referente la società, tutta la latitudine e tutta la complessità di questa si rispecchiano in esso»49. Di conseguenza il tema qui affrontato non può che rimanere aperto, senza conclusioni, anche in ragione della natura delle parole di partenza, che qui si è cercato di analizzare nel loro peso e spessore prese singolarmente e in connessione. Eppure partecipazione e federalismo non sono termini nuovi, non appartengono al vocabolario dei neologismi che «catturano facilmente l’immaginario e si impongono nell’uso, senza che tuttavia siano del tutto chiari né il loro significato, né le loro implicazione più profonde»50. Ciononostante dei tanti neologismi, entrati anche nel lessico giuridico, condividono la sorte, nella misura in cui continuano ad alimentare esigenze di chiarezza51. In particolare il federalismo, tema risalente nel tempo, torna prepotente al centro di approfondite analisi, proprio perché costituisce «una nozione che oggi appare tanto più confusa quanto più frequentemente ad essa ci si riferisce in modo superficiale e indeterminato [sicché] è necessario rintracciare nuove categorie e punti di orientamento per quelle trasformazioni costituzionali che possono fare della pluralità e della partecipazione i due assi portanti di un nuovo modo – federalistico appunto – di pensare la politica»52. Simili linee di ricerca non 49 P. GROSSI, Prima lezione di diritto, Laterza, 2003, 34. 50 Sic a proposito dei «continui cambiamenti che caratterizzano il nostro tempo» e che «trovano spesso riflesso in una fioritura di termini nuovi, per lo più anglosassoni, per descriverli», M.R. FERRARESE, La governance fra politica e diritto, cit., 7. 51 Numerose le testimonianze in tal senso e in più sedi: dalle riviste specializzate (fra le più recenti sul piano editoriale, Partecipazione e Conflitto), agli incontri di studio, a siti dedicati in rete. 52 Sic nella presentazione di G. DUSO - A. SCALONE (a cura di), Come pensare il federalismo? Nuove categorie e trasfomazioni costituzionali, Polimetrica, Monza 2010, volume di sicuro interesse, frutto di una articolata ricerca nata all’interno del CIRLPGE (Centro Interuniversitario di Ricerca sul Lessico Politico e Giuridico Europeo) che raccoglie saggi di studiosi del federalismo, appartenenti a diversi settori scientifici disciplinari dando ampiamente conto dell’articolata galassia in cui anche storicamente si è mosso il federalismo sul piano teorico, in specie del pensiero politico e della dottrina dello Stato, e in concrete espe- 80 MARGHERITA MARIA PROCACCINI fanno che avvalorare il percorso argomentativo che qui si è voluto seguire e concorrono ad allargarne le occasioni di confronto lungo itinerari già tracciati in questo volume. A tal fine, speciale evidenza assume la documentata narrazione di esperienze straniere offerta da studiosi che hanno portato a nostra conoscenza, con dovizia di inquadramenti teorici, prassi operative che vanno nel senso di consolidare presupposti e aspettative emersi e costruiti intorno al federalismo come metodo di governo partecipato53. Lascio infine al lettore di raccogliere spunti rispetto al fatto che partecipazione e federalismo, ferme restando le riflessioni scientifiche intorno all’una e all’altro, siano parole della politica che appartengono anche alla politica della parole. E allora sarebbe utile attrezzarsi per sfuggire alle strumentalizzazioni più o meno evidenti, spesso striscianti, cui assistiamo pressoché quotidianamente, rivendicando una partecipazione nutrita dalla consapevolezza che «diritto e linguaggio hanno una piattaforma comune […] per la loro intima socialità […], per il loro fondamentale carattere di essere strumenti che ordinano la dimensione sociale del soggetto, il linguaggio permettendo una efficiente comunicazione, il diritto permettendo una pacifica convivenza»54. rienze costituzionali. In part. v. A. CARRINO, L’identità italiana tra federalismo e nuove forme della cittadinanza, 279 ss. che sottolinea, tra l’altro con dovizia di richiami dottrinali la centralità di una riflessione giuridica sul federalismo, passim; e sempre ivi G. GANGEMI, Il federalismo di Daniel J. Elazar tra policy e kehillah, tra costituzione formale e costituzione materiale, 253 ss., l’A., premesso che per Elazar il federalismo è problema non esclusivamente giuridico e politico, ma tema collegato al problema dell’amministrare rintraccia linee di analogia a tale impostazione in studiosi italiani come Gianfranco Miglio e soprattutto Silvio Trentin., ripercorrendone il pensiero attraverso i rispettivi scritti, passim. 53 In part. i saggi di T. Toonen e di C. Segoloni Felici sull’Olanda, di A. Chollet sulla Confederazione Elvetica, di S. Cinque e A. Sjolander-Lindqvist sulla Svezia fra le cui righe emergono casi intrisi di federalismo come metodo di governo partecipato, non in ragione dalla natura federativa dello Stato (anzi dalla stessa prescindendo), ma in quanto espressione di una organizzazione politica e amministrativa preordinata alla attenzione verso i processi decisionali delle politiche pubbliche. Senza trascurare poi il contributo di M. Zamora che, con i suoi dati sulla povertà dei paesi centroamericani a confronto, ci mette di fronte ad un profilo che meriterebbe di essere approfondito con riferimento all’importanza dei presupposti materiali, e quindi economici, che rendono sostenibili scelte federative e partecipazione consapevole. 54 P. GROSSI, Prima lezione di diritto, cit., 26-27 chiudo citando ancora un Maestro,nei cui confronti sento di avere un grande debito, riconoscendomi in tutto quanto di Lui si ripercorre in un limpido recente saggio di O. ROSELLI, Il progetto culturale e scientifico dei Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno nelle Pagine introduttive dei primi trent’anni, in Sociologia del diritto, 3, 2009, 39 ss. THEO TOONEN FEDERALISMO, PARTECIPAZIONE E TRASFORMAZIONE NEI PAESI BASSI: DISEGNO E SVILUPPO DELLO STATO UNITARIO OLANDESE COME SISTEMA DI GOVERNO PARTECIPATO* SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. Origini istituzionali: sussidiarietà e federalismo olandese. – 2.1. Federalismo olandese. – 2.2. Post federalismo. – 3. Disegno istituzionale: uno stato unitario non centralizzato. – 3.1. Il disegno costituzionale del 1848. – 3.2. Unitarismo consensuale. – 4. Sviluppo istituzionale: sussidiarietà e federalismo sociologico. – 4.1. Pluralismo nella interdipendenza. – 4.2. Processo di non-federalizzazione. – 5. Partecipazione istituzionale: condivisione del potere e decentralizzazione collaborativa. – 5.1. Autogoverno locale e co-governance. – 5.2. Decentralizzazione collaborativa. – 6. Trasformazione istituzionale: nuove forme di regolazione e controllo. – 6.1. Monitoraggio. – 6.2. Controllo dell’esecutivo. – 6.3. Innovazione del diritto amministrativo. – 6.4. Separazione delle funzioni. 1. Introduzione Numerose caratteristiche storico-istituzionali, durevoli nel tempo e tuttora predominanti, sono al centro dell’odierno dibattito sulla forza e la debolezza del sistema di governo partecipato olandese, indicato in passato con vari concetti: consociativismo, concertazione, democrazia del consenso, federalismo sociologico o polder model. Si tratta di un sistema istituzionalizzato di governance che ha radici storiche e culturali ed è caratterizzato – con la sua forza e debolezza – dall’approccio del muddling through («cavarsela alla meno peggio»). In olandese si fa spesso riferimento alla tipica tradizione culturale di Schikken en Plooien e, come spesso accade, anche questo concetto non ha nessuna traduzione in lingua inglese; la traduzione letterale sarebbe Settling and * Traduzione dall’inglese a cura di Carla Segoloni Felici. 82 THEO TOONEN Smoothing, cioè la tradizione profondamente radicata di riuscire ad «accomodare e smussare»1. Per le riflessioni che ci accingiamo a svolgere sulle lezioni positive e negative che è possibile trarre dallo sviluppo del sistema olandese, in quanto caso di governance partecipativa o governo congiunto, può essere utile inquadrare lo sviluppo istituzionale nel lungo periodo. Senza tale riferimento, sarebbe difficile porre gli sviluppi di breve periodo e gli avvenimenti più recenti nella giusta prospettiva. È infatti insito in ogni sistema di stato organico o evolutivo, caratterizzato da muddling through, che, in ogni dato momento del suo sviluppo in quanto sistema, il significato e le implicazioni istituzionali degli eventi possano essere compresi solo se si adotta, come parametro di riferimento, una prospettiva di lungo periodo. In questo saggio daremo un quadro del disegno e dello sviluppo istituzionale del sistema olandese di governance – e delle trasformazioni in atto – in quanto governo partecipato, concetto adottato ai fini del controllo sociale e del processo di decisione collettivo. Particolare attenzione sarà dedicata alle questioni della partecipazione interna ed esterna, del controllo e della accountability in un sistema sociale e politico (olandese) culturalmente pluralistico e diversificato anche regionalmente. Tratteremo il tema come macro-fenomeno e non prenderemo pertanto in considerazione i mezzi, gli strumenti o gli specifici processi di partecipazione e deliberazione: per questi si rinvia al saggio di C. Segoloni Felici. In questo saggio ci concentreremo piuttosto sui fondamenti istituzionali – disegnati dal costituente ed emersi nel corso del tempo – delle relazioni verticali e orizzontali insite nel sistema olandese di condivisione del potere, di cooperazione, di costruzione del consenso e di co-governance. Questi fondamenti costituiscono e forgiano gli strumenti istituzionali e le regole del sistema politico e amministrativo olandese, percepito come metodo di governo partecipato. Inizieremo delineando brevemente le radici federali dell’unitarismo olandese (par. 2) ed esamineremo poi il modo in cui esso è stato sviluppato, a metà del XIX secolo, nel disegno costituzionale di uno Stato unitario «non-centralizzato» (par. 3). Il successivo funzionamento effettivo e lo sviluppo istituzionale di lungo termine furono determinati gradualmente, ma in maniera decisa, da un federalismo sociologico «che ha for1 F. HENDRIKS, T.A.J. TOONEN (red.), Schikken en Plooien; de stroperige staat bij nader inzien, van Gorcum, Assen, 1998. FEDERALISMO, PARTECIPAZIONE E TRASFORMAZIONE NEI PAESI BASSI 83 mato il centro» (par. 4). Nel corso del XX secolo, ciò è equivalso ad un modello di economia pubblica mista, contrassegnato da partecipazione civico-sociale e socio-economica al policy making e alle strutture per la prestazione dei servizi pubblici, da parte di uno Stato sociale organizzato verticalmente e funzionalmente e fortemente caratterizzato da strutture neo-corporative di condivisione del potere, deliberazione e sussidiarietà (par. 5). Le recenti trasformazioni di questo sistema consensuale e partecipativo, nel contesto della società della conoscenza e dell’internazionalizzazione, emerse dalla fine degli anni ’80 in poi – con l’integrazione europea e la spinta delle tecnologie ICT – saranno brevemente descritte in termini di un processo di orizzontalizzazione che ha creato la necessità di riordinare il Governo attraverso nuove forme di regolazione, controllo e accountability (par. 6). 2. Origini istituzionali: sussidiarietà e federalismo olandese2 Il federalismo negli Stati Uniti, in Svizzera e nei Paesi Bassi (Olanda e Belgio) si può far risalire alla Riforma del XVI secolo. Il Protestantesimo ha esercitato un ruolo importante nello sviluppo dell’idea federale ed ha dominato ampiamente lo sviluppo storico e culturale dei Paesi Bassi. Il federalismo nei Paesi Bassi deve perciò esser visto nell’ottica della Riforma e delle sue conseguenze per il pensiero politico, così come è stato formulato dai teorici calvinisti, specialmente gli Ugonotti francesi e Altusio, il «padre fondatore del federalismo». Molti fattori hanno preparato il terreno per la rivolta e la Riforma nella Germania del XVI secolo – «il Sacro Romano Impero Germanico» – dove l’imperatore e il papa avevano lottato per la supremazia e si era acceso il focolaio della Riforma. Nella Chiesa si commettevano seri abusi e il profitto e il potere prevalevano sulla religione e sulla teologia. Il papa pretendeva poteri eccessivi sia negli affari religiosi che secolari e all’interno della Chiesa si erano sviluppate profonde divisioni – palesi a tutti – che causavano un grande discredito. Nel 1517 Martin Lutero fu il primo a sfidare apertamente la Chiesa, negando l’infallibilità del papa e la validità degli ordini monastici e predicando la vera religione cristiana come una faccenda di coscienza personale, senza riferi2 Si riprendono qui le osservazioni già svolte in T.A.J. TOONEN, B.J.S. HOETJES, F. HENDRIKS, Federalism in the Netherlands. The federal approach to unitarism or the unitary approach to federalism?, in F. KNIPPING (ed.), Federal Conceptions in EU Member States: Traditions and Perspectives, Baden-Baden, Nomos Verlagsgesellschaft, 1994, 105-121. 84 THEO TOONEN mento all’autorità della Chiesa. Nonostante numerosi tentativi di sopprimere i riformatori, la pace di Asburgo del 1555 stabilì il principio del cuius regio illius est religio: non il papa o l’imperatore, ma l’autorità locale doveva stabilire la religione del Paese. Ben presto, regni e città tentarono di svincolarsi dal papa, così come dall’imperatore, non soltanto in Germania ma anche nei Paesi Bassi, in Svizzera, Francia e Gran Bretagna: non era più in questione la Riforma, bensì la distruzione della Chiesa e dell’Impero. Fra i Protestanti vi era una gran varietà di idee e di approcci alla questione: v’era il Luteranesimo di Lutero che aveva il supporto di molti principi e città tedesche che, abbracciando la riforma luterana, vedevano l’occasione di accrescere la propria autonomia nei confronti dell’imperatore cattolico, riuscire ad ottenere giustizia per le lamentele popolari contro la Chiesa e, nello stesso tempo, ricevere obbedienza da parte delle popolazioni loro soggette. V’era inoltre la corrente calvinista, che trovava supporto soprattutto in Svizzera, nei Paesi Bassi e in Scozia. Anche i Puritani americani hanno trovato le loro radici nel Calvinismo; come i Luterani, essi rigettavano l’autorità della Chiesa Cattolica Romana e predicavano la cristianità come una faccenda personale e un contatto diretto fra il credente e Dio. In ogni caso, prendendo una posizione militante repubblicana, rifiutavano di concedere speciali privilegi ai principi e alle autorità locali. Il Calvinismo aveva un orientamento attivista ed era diverso dal Luteranesimo: i calvinisti prendevano parte attivamente agli affari politici in nome di Dio. La visione calvinista della politica nella società era aristocratica e toecratica, piuttosto che democratica o monarchica. Seguendo Polibio, Calvino era fautore di un governo misto da parte «dei migliori» della società. In Francia, Scozia e nei Paesi Bassi i Calvinisti si trovavano in opposizione ai governi che praticamente non avevano possibilità di sovvertire o convertire ma, poiché l’etica calvinista era essenzialmente un’etica di azione, non potevano nemmeno facilmente sottomettersi e obbedire. La teoria di Calvino offriva cause di giustificazione alla resistenza: il diritto e il dovere dei magistrati subordinati di resistere alla tirannia del capo dello Stato (re o imperatore) e di proteggere il popolo contro di lui. 2.1. Il federalismo olandese Le teorie di Giovanni Altusio (1557-1630) seguivano le stesse linee e la stessa tradizione, ma in una cornice più sistematica, contrattuale e FEDERALISMO, PARTECIPAZIONE E TRASFORMAZIONE NEI PAESI BASSI 85 «federale»: egli fu influenzato dagli Ugonotti francesi e dai Calvinisti di Ginevra3; e la stretta connessione con i Calvinisti olandesi lo indusse nel 1604 a prendere l’incarico di Sindaco della città di Emden, ove diventò figura dominante negli affari politici e religiosi4. Altusio sviluppò una teoria politica fondata – dal punto di vista logico – sull’idea di contratto, per la quale i cittadini non dovevano sostanzialmente niente all’autorità religiosa. In questa filosofia piuttosto aristotelica, la vita sociale umana è basata su contratti impliciti ed espliciti. Ogni associazione umana – consociazione –, attraverso la quale un uomo diventa un essere sociale, è basata su un contratto che regola la divisione dei servizi, dei beni e delle leggi fra i membri del gruppo. In questa visione la società è basata su una serie di contratti fra i vari livelli di associazioni che si innestano l’una sull’altra e divengono perciò progressivamente più complesse: la famiglia, la corporazione volontaria, la comunità locale, la Provincia e lo Stato. Nei gruppi più avanzati le parti contraenti potrebbero essere costituite direttamente dalle associazioni, piuttosto che dai singoli individui. In ogni caso, il nuovo gruppo più alto, o il gruppo comprensivo di altri, adotta soltanto gli atti di regolazione necessari al raggiungimento dei suoi fini specifici, lasciando il resto al controllo dei gruppi costituiti in forma più elementare. In questa concezione della sussidiarietà lo Stato sorge dall’associazione di Province e comunità locali, da cui deriva la sua sovranità che del resto non è mai incondizionata. Altusio non usa il termine «federalismo», ma questa teoria potrebbe essere considerata sia federale che della sussidiarietà in senso moderno. La sua teoria rafforzò la ribellione calvinista contro gli spagnoli che ricevevano protezione nei Paesi Bassi, dove nel 1597 le Sette Province in rivolta si erano unite con il trattato dell’Unione di Utrecht e, alla fine, con il trattato di Westfalia del 1648, dettero origine ad una Repubblica federale olandese indipendente. Questo breve excursus delle idee federaliste, associate all’idea di consociazione, illustra come i concetti di federalismo e partecipazione 3 Altusio divenne rettore dell’Università calvinista di Herborn, nella contea di Nassau in Germania, dove il suo datore di lavoro era il conte Giovanni il Vecchio, fratello più giovane di Guglielmo d’Orange, il capo della rivolta olandese. 4 Emden era un porto marittimo situato nella Germania nord-occidentale, vicino ai confini olandesi, che aveva combattuto con successo una battaglia per l’autonomia locale contro il conte assolutista della Frisia orientale. Sotto la guida di Altusio, la città divenne la «Ginevra del Nord» in quanto principale rifugio dei Calvinisti olandesi. 86 THEO TOONEN – associazione umana – siano intrinsecamente collegati: da un lato, il federalismo come modo di istituzionalizzare l’associazione e la partecipazione di raggruppamenti sociali più piccoli e più grandi «innestati» fra di loro; dall’altro, la necessità della partecipazione di una varietà di associazioni di diverso livello di scala e complessità per far funzionare il federalismo stesso. 2.2. Il post federalismo Verso la fine del 1700, le idee di Altusio sul federalismo vennero aspramente criticate, sia con argomenti derivati dall’assolutismo monarchico sia – durante la Rivoluzione Francese – sulla base di principi come la sovranità popolare. In Nord America il federalismo olandese fu utilizzato come modello «in negativo»: la Costituzione federale dei 13 Stati uniti non seguì l’esempio delle Sette Province dei Paesi Bassi. Retrospettivamente, questo potrebbe essere considerato in un certo senso la fine del federalismo ufficiale olandese e della riconosciuta influenza olandese sullo svilluppo delle idee e teorie federalistiche, dentro e al di fuori dell’Europa. Anche nella stessa Olanda, dalla fine del XVIII secolo in poi, gli sviluppi legislativi e politico-amministrativi sono raramente percepiti, concettualizzati o analizzati in termini di «federalismo». Nei Paesi Bassi, il federalismo è oggi largamente inteso come una forma di stato straniera – non olandese – e, tutto sommato, anche la meno desiderabile. Fino ai giorni nostri – tenendo spesso in mente l’esperienza belga come esempio evidente – il federalismo è presentato soprattutto come un’indesiderabile minaccia all’unità del Paese e pertanto sono pochi finora coloro che propongono esplicitamente di «federalizzare» o anche di «regionalizzare» l’Olanda. «Regione», nella lingua olandese, è un concetto che usualmente si riferisce a quello che in altri sistemi politico-amministrativi si intende come livello di cantone, distretto o contea. Stranamente, si riscontra anche una scarsa esplicita richiesta di rappresentanza regionale o sub-nazionale per il processo decisionale a livello nazionale. Il Senato (la Prima Camera), che insieme alla Camera dei deputati (la Seconda Camera) forma gli «Stati Generali», è eletto indirettamente dal Consiglio provinciale e potrebbe, come tale, essere considerato la rappresentanza regionale a livello nazionale. Il Senato è però politicamente subordinato e di gran lunga meno importante della Seconda Camera; per di più, non FEDERALISMO, PARTECIPAZIONE E TRASFORMAZIONE NEI PAESI BASSI 87 si presenta quasi mai come rappresentante dello stato regionale, ma piuttosto come Camera esperta per una riflessione a distanza e per la revisione delle proposte legislative, già approvate dalla Camera dei deputati, nell’ultima fase del procedimento legislativo. Per far riferimento all’equilibrio dei poteri fra i livelli di governo, più spesso del termine «federalismo», vengono usati termini come «regionalizzazione» e «decentralizzazione», e gli amministratori provinciali e comunali, così come gli accademici, spesso si esprimono con una certa invidia per le presunte libertà e discrezionalità di cui si suppone godano i Governi locali e regionali sotto un regime federale. 3. Disegno istituzionale: uno stato unitario non-centralizzato A differenza del federalismo, in Olanda la struttura di base della relazione fra il Centro e i Governi locali e regionali è generalmente definita come «Stato unitario decentralizzato». La decentralizzazione territoriale è strutturata su tre livelli: il Governo nazionale, le Province e i Comuni. Attualmente ci sono 12 Province e poco più di 400 Comuni, poiché il numero di questi ultimi è in continua diminuzione, in conseguenza del processo – tuttora in corso – di riforma e modernizzazione del Governo locale. I Comuni e le Province sono governi territoriali a fini generali, che mantengono il diritto di iniziativa nel gestire i propri affari. Governi territoriali a latere, con finalità specifiche, sono le Amministrazioni delle Acque (Waterschappen), che hanno una legittimazione costituzionale indipendente. Politicamente, socialmente e in termini di funzioni esecutive, i Comuni olandesi sono l’unità organizzativa più importante per gli «affari interni». Come Governo locale integrato, i Comuni esercitano un’ampia gamma di funzioni: dagli affari sociali alla pianificazione fisica del territorio, dall’istruzione alla sanità pubblica e all’edilizia residenziale pubblica; inoltre, attraverso le funzioni del Sindaco, essi svolgono un ruolo importante nei servizi di polizia e di mantenimento dell’ordine pubblico. La più alta autorità nell’ambito della struttura del Governo municipale è il Consiglio comunale, che viene eletto ogni 4 anni. In rapporto all’ammontare della popolazione, il numero dei membri del Consiglio varia da 9 a 45. In un recente dibattito politico, si è discussa l’opportunità di introdurre l’elezione diretta del Sindaco, possibilità in seguito abbandonata. 88 THEO TOONEN Invece, nel 2002, la «Legge sul Dualismo nel Governo locale» ha introdotto alcuni cambiamenti importanti, stabilendo una chiara distinzione tra le funzioni legislative e di controllo democratico a livello locale (il Consiglio comunale), e le responsabilità amministrative ed esecutive (la Giunta comunale, composta dal Sindaco e dagli Assessori). Sebbene la nuova legge implichi una rafforzata posizione formale per l’esecutivo, essa tende anche ad arrestare una (ulteriore) erosione della posizione del Consiglio municipale, lasciandolo libero di concentrarsi sul suo ruolo di assemblea rappresentativa e di controllore ed esaminatore delle azioni e della politica dell’esecutivo5. Le Province, paragonate come forma di governo locale ai Comuni, in termini di responsabilità politiche e di policy sono i governi sub-nazionali meno sviluppati. L’enfasi nel sistema olandese di governance territoriale è sul livello locale, non regionale. La relativamente forte partecipazione funzionale dei Comuni alla gestione complessiva degli affari pubblici è basata su due principi classici del diritto pubblico e amministrativo, collegati fra di loro: autonomia (autonomie), che si estrinseca nel diritto di legiferare «nei propri affari» senza la prioritaria approvazione di un autorità più alta; e medebewind, di cui la migliore traduzione letterale è «co-governance», ma che nel XIX secolo veniva definito «autogoverno» e agli inizi del XX secolo «autoamministrazione» locale. Nel «medebewind» i Governi locali sono coinvolti nell’esecuzione o implementazione delle politiche nazionali. Attualmente, il coinvolgimento politico dei Governi locali olandesi è soprattutto caratterizzato in termini di co-governo e co-governance, ma l’uso effettivo delle prerogative dell’autonomia non è trascurabile e gioca un ruolo importante nel conformare le politiche nazionali generali alle circostanze locali e nell’introdurre nel processo innovazioni organizzative e di policy. Il sistema di co-governo è spesso inteso come una modalità operativa strumentale dall’alto verso il basso, per la quale i Comuni attuano le politiche nazionali, ma la teoria istituzionale su cui si basa lo sviluppo delle caratteristiche costituzionali offre una diversa prospettiva sull’origine e la ratio della «co-governance» dei Governi nazionali e regionali nell’implementazione di politiche nazionali: su questo punto torneremo in seguito. 5 SEDG, Aangelegd om in vrijheid te werken. Dualisering: bijsturing geboden, Stuurgroep Evaluatie Dualisering Gemeentebestuur (Steering Group Evaluation Dualism in Local Government), Den Haag, 2004. FEDERALISMO, PARTECIPAZIONE E TRASFORMAZIONE NEI PAESI BASSI 89 3.1. Il disegno costituzionale del 1848 L’attuale sistema di Comuni, Province e reciproche relazioni interamministrative risale alla Costituzione del 1848, un anno rivoluzionario per tutta l’Europa. Le successive leggi comunali e provinciali, emanate fra gli anni 1850 e 1860, sono state modificate molte volte, ma mai realmente alterate in termini di disegno legislativo e costituzionale del sistema. La Riforma costituzionale del 1848 e il successivo disegno legislativo del sistema locale, regionale e interamministrativo – a metà degli anni ’50 del XIX secolo – vanno intesi come una modernizzazione in senso evolutivo di un sistema già ampiamente esistente, e come reazione agli sviluppi rivoluzionari europei del 1848. Evolutive nell’intento e nella costruzione, le riforme sono state spesso riconosciute come rivoluzionarie nelle loro conseguenze di lungo periodo. Esse furono attuate sotto la guida intellettuale e politica di Johan Rudolph Thorbecke (1798-1872), che divenne così il tuttora molto discusso architetto istituzionale e Padre fondatore dello «Stato unitario decentralizzato»6. Nella fase di redazione della Costituzione – durata circa dieci anni, a metà del XIX secolo – Thorbecke influenzò fortemente lo sviluppo costituzionale ed organico del sistema interamministrativo olandese con i concetti e i principi evolutivi di disegno istituzionale della Teoria organica dello Stato sorta in Germania. Questa divenne il fondamento intellettuale del disegno del sistema costituzionale olandese tuttora in vigore e delle leggi quadro (comunale, provinciale, delle amministrazioni delle acque) per il sistema interamministrativo che Thorbecke stesso disegnò come Ministro degli Interni nella prima metà degli anni ’50 del XIX secolo7. La sua visione e i suoi concetti influenzarono il pensiero giuridico fino ai primi anni del XX secolo, includendo l’apprezzamento 6 Thorbecke era stato istruito ed educato nella tradizione della Göttinger Schule e dell’associata concezione romantica della Scuola di storia del diritto tedesca, in particolare la Teoria organica della Stato della Scuola di storia del diritto (tedesca) di K.F. Eichorn. Egli aveva acquistato familiarità con questo approccio in Germania, durante i quattro anni di studi dopo la laurea (1820-1824), tanto che, sulla base dei suoi primi scritti, viene oggi pacificamente considerato un rappresentante della Göttinger Schule. Cfr. J.R. THORBECKE, Über das Wesen und den organischen Character der Geschichte (1824), republished in W. VERKADE (ed.), Overzicht der staatkundige denkbeelden van Johan Rudolf Thorbecke (1798-1872), Arnhem, 1935. 7 Per un’ulteriore elaborazione: T.A.J. TOONEN, The Unitary State as a System of Cogovernance: the case of the Netherlands, in Public Administration, (Journal of the Royal Institute of Public Administration), Fall, London, 1990:281-296. 90 THEO TOONEN per le forme «orizzontali» di condivisione del potere fra un legislatore nazionale e un esecutivo regionale o locale. L’approccio costituzionale di Thorbecke si sviluppò ampiamente come reazione e alternativa allo Stato naturale (Hobbes), allo Stato razionale (Rousseau) o alle teorie del contratto sociale, che influenzavano molti disegni di legge costituzionale dello Stato, ispirate ai principi dell’Illuminismo francese. Si deve notare che Thorbecke non fu un mero seguace di teorie esistenti, ma sviluppò il suo capitale intellettuale in un’originale prospettiva analitica e progettuale. Tutto questo ha contribuito a fargli attribuire, in seguito, una distinta posizione come intellettuale liberale, nell’ambito del più ampio movimento dello Stato organico. Come fautore della Teoria dello Stato organico, nella sua elaborazione costituzionale Thorbecke rigettò la nozione di Stato strumentale orientato a finalità determinate. L’ambizione del suo disegno costituzionale era – per usare le sue stesse parole – di «permettere ulteriore crescita e sviluppo». Il risultato materiale, politico e culturale di questo sviluppo sarebbe dipeso dai cambiamenti economici, sociali e tecnologici che avrebbero rappresentato i limiti, ma nello stesso tempo anche le opportunità, nelle quali lo sviluppo futuro dello Stato si sarebbe realizzato. Per questa ragione Thorbecke favoriva un ambito di autonomia del Governo locale e regionale «aperto» – cioè indefinito – piuttosto che enumerativo e costituzionalmente definito e delimitato. L’autonomia del Governo locale non significava per Thorbecke isolamento e protezione dal Governo centrale, idea fondamentale di alcune nozioni federaliste come pure delle radici federali dell’unitarismo olandese; Thorbecke insisteva invece sul diritto d’iniziativa come essenza dell’autonomia e del potere del Governo locale. Contrariamente a quanto si crede oggi comunemente, Thorbecke ed i suoi seguaci, nei disegni di riforma costituzionale della seconda metà del XIX secolo, non miravano ad assicurare un modello di Stato unitario nel senso francese o inglese del termine. Nella formazione dello Stato, lo scopo di Thorbecke era creare «…un’associazione di entità viventi che si limitano reciprocamente, concepite per intraprendere liberamente e congiuntamente cooperazioni legislative e processi di governance che rispondano ai requisiti di una concezione giusta, equa, orientata verso la nazione»8. A differenza delle nozioni gerarchiche, insite nei concetti comu8 «… een verband van elkaar wederkeerig beperkende organen, aangelegd om met vrijheid samen te werken tot een wetgeving en een bestuur, die aan de eischen van een juist, regtvaardig, nationaal verstand beantwoorden» (J.R. THORBECKE, 1826). FEDERALISMO, PARTECIPAZIONE E TRASFORMAZIONE NEI PAESI BASSI 91 nemente intesi di Stato unitario, la concezione di Thorbecke dello Stato unitario come Stato «organico», cioè dinamico, cooperativo e alla ricerca del consenso, è piuttosto coerente con le prime nozioni del «federalista» olandese Altusio che, come abbiamo visto, definiva lo Stato come un sistema di consociazioni, ovvero assetti mutuamente cooperativi. 3.2. Unitarismo consensuale Le versioni dell’unitarismo di origine giacobino-napoleonica francese e westminsteriana-britannica sono intrinsecamente distinte fra di loro, ma fondamentalmente condividono la concezione che l’autorità dello Stato (centrale) è una precondizione necessaria per l’unità della nazione, di un sistema politico, di un comando, di una politica di governo, ecc. Thorbecke – come ad esempio il suo contemporaneo Alexis de Tocqueville – rovesciò la relazione. Per la teoria evolutiva dello Stato organico della molteplicità, a cui si era dedicato Thorbecke, la relazione era essenzialmente opposta: l’unità, vale a dire, il consenso o l’accordo – e perciò la partecipazione al processo di formazione delle decisioni degli interessi rilevanti e degli «stakeholders» – era necessaria per affermare l’autorità dello Stato, cioè la legittimità dello Stato e delle decisioni delle sue parti costituenti, incluso il Governo centrale. Naturalmente, a metà del secolo XIX, l’ambito di cittadinanza considerato idoneo alla partecipazione era piuttosto limitato, ma la concezione di Thorbecke si differenziava nettamente dall’idea di un potere statale sovrano, esercitato dall’alto verso il basso, con una burocrazia centralizzata, espressione di una «volontà generale» stabilita ed imposta dal Centro. Pertanto, secondo la sua visione, il compito principale nel disegnare e costituire un progetto di Stato evolutivo – caratterizzato da molteplicità, differenziazione e selezione – era creare una cornice costituzionale e giuridica uniforme – nel senso di globale e generale – che permettesse varietà nelle attività operative di gestione; e che incoraggiasse le parti costituenti, attraverso una serie di interrelazioni progettate e interdipendenze istituzionalizzate, a partecipare e intervenire in processi deliberativi e decisionali congiunti, a elaborare compromessi ed accordi e a portare i processi decisionali, comuni agli attori dei vari livelli di governance, ad effettiva conclusione. In quanto tale, il disegno dello Stato unitario di Thorbecke si conformava più ad una visione e ad una concezione fondata su accomodamenti istituzionali, per la risoluzione dei conflitti dal basso verso l’alto, che ad un potere esercitato dal- 92 THEO TOONEN l’alto verso il basso e ad un’applicazione coercitiva: uno Stato devoluto o non-centralizzato, più che uno Stato unitario «decentralizzato». 4. Sviluppo istituzionale: sussidiarietà e federalismo sociologico Non soltanto in teoria, ma anche nella realtà politico-amministrativa emersa o derivata in seguito, il sistema di governance di Thorbecke presenta molte caratteristiche istituzionali che creano mutue interdipendenze e strutture di partecipazione fra le varie unità e livelli di Governo e inducono perciò alla necessità di cooperazione e di processi decisionali consensuali. Nella teoria politico-giuridica, cercando di spiegare da un punto di vista comparativo il sistema olandese, ci si riferisce spesso ai comuni principi costituzionali della «triade politica», della «separazione dei poteri» o dei «checks and balances». Il sistema di governance olandese, tuttavia, non è tanto basato su una separazione quanto su una condivisione dei poteri nel settore pubblico. Il principio istituzionale a cui si può far riferimento, come fondamento teorico, potrebbe essere quello delle «dualità organizzate»9. L’assetto istituzionale complessivo del sistema olandese di pubblica amministrazione e il concetto di governance che ne risulta sono caratterizzati dalla sistematica creazione di forme di organizzazioni di governo ibride, istituzionalmente miste. Ogni determinato assetto istituzionale per la produzione di politiche pubbliche combina sistematicamente differenti principi di disegno istituzionale in un unico regime organizzativo. Sarebbe semplice, per ogni dato esempio, considerare tutto ciò come il risultato di un tiepido «compromesso», ma la natura estesa e sistematica del principio delle dualità organizzate rende difficile non considerarlo una caratteristica costituzionale deliberatamente cercata. Le attività di Thorbecke hanno portato alla costituzione di un sistema che combina monarchia e democrazia in un modo che sconcerta ancor oggi molti studiosi. Il sistema legislativo di Thorbecke consiste in un dualismo fondato su due pilastri – Governo e Parlamento – che hanno bisogno di cooperare per la formazione delle leggi nazionali. I membri del Parlamento sono eletti; i membri del Governo sono assunti in carica. Thorbecke configurò una monarchia costituzionale con responsabilità ministeriale democratica: i Ministri sono uguali fra di loro e individualmente responsabili nei confronti del Parlamento; essi fanno 9 Dobbiamo questo concetto al giurista Arthur Docters van Leeuwen. FEDERALISMO, PARTECIPAZIONE E TRASFORMAZIONE NEI PAESI BASSI 93 parte di una forma di governo collegiale in cui il Primo Ministro è il Primus inter pares, il più uguale degli altri. A livello locale e regionale, il sistema di Thorbecke combina l’autonomia municipale con la supervisione provinciale, la legislazione nazionale con l’implementazione regionale e locale (co-governance). Nel corso del tempo, molte funzioni statali sono state per tradizione esercitate da istituzioni private – profit e non profit – della società civile. Negli anni più recenti, molte organizzazioni parastatali combinano compiti pubblici con un’organizzazione aziendale-privatistica. Il sistema di Governo locale è caratterizzato dalla supremazia di un Consiglio eletto localmente. Le funzioni esecutive sono però esercitate da una Giunta nominata separatamente (e non ad esempio da commissioni del Consiglio municipale o da esecutivi eletti direttamente). Il Consiglio municipale è formato dalla commistione di un corpo rappresentativo ed uno esecutivo. La Giunta è formata da politici eletti localmente (gli Assessori o i Deputati provinciali) combinati con un pubblico ufficiale nominato dal Governo centrale (il Sindaco e, a livello provinciale, il Commissario della Regina). Si potrebbero offrire molti altri esempi per illustrare come il sistema di governance amministrativa olandese sia stato adottato, quasi deliberatamente, come principio e sia stato progettato per rispettare le differenti razionalità istituzionali, nell’ambito di uno stesso assetto organizzativo. Pertanto, le differenti logiche e i diversi interessi istituzionali sono sistematicamente raffigurati come integrati per giustapposizione dentro le parti operative del sistema. I poteri pubblici devono essere condivisi fra soggetti e unità che si suppone agiscano ciascuno mosso da interessi o logiche istituzionali diversi. Nel sistema amministrativo olandese v’è ben poca possibilità di monopolizzare la fornitura di servizi pubblici nell’ambito di un’unica – e perciò «coerente» – prospettiva istituzionale o interesse funzionale. 4.1. Pluralismo nella interdipendenza In altre parole, il sistema amministrativo olandese lascia poche opportunità istituzionali ad azioni amministrative o politiche incontrollate. Esso richiede partecipazione, cooperazione e co-produzione da parte di molti diversi interessi istituzionli e stakeholders socio-politici. Un sistema istituzionale di regole giuridiche, strutture organizzative e norme di comportamento crea delle condizioni amministrative alla politica che, a loro volta, promuovono ulteriormente e costituiscono sistemati- 94 THEO TOONEN camente relazioni di interdipendenza fra gli interessi in gioco e, nello stesso tempo, favoriscono quella necessità di ricerca del consenso che è intrinseca alla natura sociologico-pluralistica della società e della politica olandese. Questa interdipendenza istituzionalizzata è spesso fonte di lamentele e di critiche, in ragione dei costi delle sue transazioni e a causa di un processo decisionale percepito come rallentato. La principale motivazione storica dell’assetto istituzionale e del disegno della forma di Stato consensuale olandese è porre, alle varie possibili forme di comportamento politico, limitazioni tali da forzare gli interessi politici a rispettare effettivamente e a non ignorare la natura pluralistica della società e del sistema politico olandesi. Il sistema amministrativo e di politicy making produce pertanto – o perlomeno mobilita ed incoraggia – un particolare tipo di politica. La politica dell’accomodamento, come è stata identificata da Lijphart e da altri, è così la manifestazione, il risultato e il prodotto di una pacificazione istituzionalizzata e di un unitarismo consensuale e, nello stesso tempo, ne costituisce anche le basi. Nel sistema olandese le istituzioni della pubblica amministrazione forgiano la politica tanto quanto spesso si suppone che la politica forgi le istituzioni della pubblica amministrazione. La costruzione della pillarisation si è realizzata nell’ambito della cornice costituzionale dei Paesi Bassi nata nel 1813, riformata e modernizzata nel 1848. Le strutture giuridiche del Governo e dell’Amministrazione sono strumenti, ma, nello stesso tempo, anche vincoli al comportamento dei gruppi politici e delle élite. Nella struttura istituzionale esistono molte interdipendenze integrate, che rendono molto più difficile di quanto ci si aspetterebbe da una struttura «regolare» di Stato unitario «dirigere» unilateralmente dal centro, e che richiedono istituzionalmente uno stile consensuale di policy-making. Il vertice potrebbe anche tendere ad interventi gerarchici, ma questi, nella vigente cornice giuridica olandese, non sono facilmente implementabili, come l’esperienza e le critiche al sistema ci hanno fatto e ci fanno tuttora notare. L’esigenza di maggiori possibilità di intervento diretto da parte del governo nazionale è infatti sempre di attualità. Daalder ha messo in evidenza il graduale sviluppo storico-istituzionale e la costruzione organizzativa del sistema. Nella sua visione, i poteri energizzanti provenivano tanto dal basso verso l’alto quanto dall’alto verso il basso. La pillarisation – nel contesto olandese – non era soltanto una struttura coordinata centralmente, era anche un processo formativo, strumentale alla mobilitazione di forze sociali, per la costru- FEDERALISMO, PARTECIPAZIONE E TRASFORMAZIONE NEI PAESI BASSI 95 zione della nazione e la formazione di un Centro e di un’identità centrale. «Attraverso l’aggregazione e l’integrazione di richieste su un fronte progressivamente più ampio di questioni, proposte dalle più diverse istanze nel Paese, attraverso organizzazioni sempre più differenziate, ma anche intrecciate, un crescente numero di gruppi fu coinvolto nei processi di decisione autoritari degli organi nazionali»10. A parte le regole politiche del gioco identificate da Lijphart, quali la leadership di tipo manageriale, l’equità, la proporzionalità e la giustizia distributiva, un’importante caratteristica istituzionale della pillarization era che molte delle funzioni che il Governo considerava sostanzialmente ricadere nell’ambito delle sue competenze erano in effetti esercitate con i sussidi governativi e il supporto di organizzazioni esecutive non governamentali, confessionali, ideologiche o basate sulla fede, collegate al Governo, ma largamente indipendenti da esso. Compiti che in altri paesi sarebbero stati espletati dalla burocrazia statale ai livelli di governo nazionale, locale o regionale, nel «sistema pillarizzato» divennero appannaggio di varie forme di organizzazioni esecutive indipendenti: associazioni religiose, fondazioni caritatevoli, sindacati, associazioni della società civile, ecc. Queste organizzazioni esecutive semi-private/semipubbliche erano operanti in un’area istituzionale «intermedia» fra il Governo, la società e il mercato. Potremmo verosimilmente denominare tale processo «agentificazione», o identificare queste istituzioni come Quangos: organizzazioni quasi-non-governamentali, ibridi istituzionali della network society. Questi ibridi – oggi come in passato – sollevano profonde questioni amministrative, in termini di direzione, controllo, supervisione, coordinazione, accountability e trasparenza, ma nella storia olandese – per un lungo periodo – furono letteralmente «coperte» dalle strutture legittimanti generali della pillarisation. Questo assestamento istituzionale fu a lungo considerato politicamente come «sussidiarietà» (nell’ambito del pilastro cattolico) o «sovranità all’interno della propria sfera» (da parte della sub-comunità protestante). In uno stadio successivo il partito socialdemocratico costruì e aggiunse la propria versione, 10 H. DAALDER, ‘Consociationalism, Center and Periphery in the Netherlands’, in P. TORSVIK (ed.), Mobilization, Center-Periphery Structures and Nation Building: A Volume in Commemoration of Stein Rokkan (Oslo/Bergen, Universitaetsforlaget 1981). Ristampato in H. DAALDER, Politiek en Historie: Opstellen over Nederlandse politiek en vergelijkende politieke wetenschap (eds. J.T.J. van den Berg and B.A.G.M. Tromp), Bert Bakker, Amsterdam, 1991. 96 THEO TOONEN collegata particolarmente ad associazioni di lavoratori quali i sindacati. Come quadro generale di riferimento, è importante capire che la stuttura neo-corporativa della partecipazione sociale nei Paesi Bassi, risultante, a livello nazionale, nella seconda metà del XX secolo, aveva forti legami e interessi costituiti nell’amministrazione effettiva e nel ramo esecutivo della «welfare society» olandese, ai livelli di implementazione sub-nazionale, regionale e locale. Questa industria dei servizi pubblici funzionava con meccanismi fondamentalmente né governativi, né di mercato. Ciò non è necessariamente un male e il sistema si inseriva nella tradizione istituzionale delle consociazioni della società civile. Ma nel corso dello sviluppo e della crescita del welfare state olandese, nella seconda metà del XX secolo, il sistema si sarebbe progressivamente burocratizzato, soprattutto sotto l’aspetto dei sussidi finanziari di una forma di Stato sociale dapprima in espansione e in seguito in crisi. Un sistema iniziale di autoorganizzazione sociale si trasformò in una burocrazia non governativa, sussidiata dallo Stato e non competitiva. Ciò sollevava sempre maggiori problemi di coordinazione e legittimazione che – sotto l’impatto di fattori interni (decrescente rapporto costi-benefici) ed esterni (impatto dell’integrazione europea) – dovevano diventare, negli ultimi decenni del secolo scorso, istituzionalmente insostenibili, come vedremo in seguito. 4.2. Processo di non-federalizzazione Le strutture pillarizzate del sistema politico olandese, sopra descritte, assicurarono a lungo un assetto di governance – con forza legittimante e di accountability – per le organizzazioni esecutive sociali partecipative. Queste strutture infatti indirizzavano politicamente e controllavano le «agenzie della società civile». Ma non tutti apprezzavano questa sistemazione istituzionale in termini normativi. Il sociologo Jacques van Doorn, ad esempio, la definì come il principio per cui «si era il capo nella propria casa, avendo però la casa a spese della comunità». Le strutture della pillarizzazione formavano un livello istituzionale intermedio fra lo Stato e queste organizzazioni private che fornivano i servizi pubblici. Sappiamo molto poco di come questo sistema operasse e fosse gestito giorno per giorno. L’argomento è stato infatti soprattutto oggetto di congetture normative, in termini di una positiva e bene accetta forma di partecipazione sociale e importante organizzazione della società civile o di una presunta mancanza di controllo su dubbi policy «networks». FEDERALISMO, PARTECIPAZIONE E TRASFORMAZIONE NEI PAESI BASSI 97 La costruzione delle strutture pillarizzate a livello sub-nazionale può essere interpretata come uno sforzo, coronato da successo, di aggirare politicamente le strutture democratiche formali del sistema interamministrativo olandese nel suo originale assetto costituzionale11. Nello Stato unitario non-centralizzato di Thorbecke, l’assenza di possibilità di intervento centrale diretto, aggravata dalla natura consensuale del sistema politico pluralistico, costituiva un incentivo a tentare di bypassare in maniera pragmatica, ma sistematica, la cornice formale delle relazioni interamministrative disegnata da Thorbecke (o meglio, che egli aveva codificato e modificato con la sua elaborazione costituzionale a metà del XIX secolo). Il risultato è stato – secondo molti – una confusa compenetrazione tra istituzioni locali, regionali e nazionali, alcune amministrate direttamente dal Governo ed altre affidate a istituzioni per i servizi sociali e civili. La pillarization è un’organizzazione reticolare che può – fra l’altro – essere intesa anche come un sistema virtuale, ma effettivo, parzialmente deterritorializzato, di governance e di prestazione di servizi pubblici regionali. Si pensi per un attimo ai mal di testa che la Wallonia ha sofferto per trovare una soluzione per la comunità francofona di Bruxelles, per non parlare dell’importanza economica di mantenere la città come parte integrale della configurazione regionale nell’emergente sistema federale belga. Bruxelles è localizzata in «territorio» fiammingo, ma ovviamente la comunità wallone non voleva rinunciare a questo premio dell’integrazione europea. Una parziale soluzione fu trovata introducendo, all’inizio del processo di regionalizzazione – in seguito di federalizzazione – una differenziazione fra «Regioni» (Gewesten) e «Comunità» (Gemeenschappen). Le Regioni belghe si occupano delle infrastrutture fisiche a livello territoriale e le Comunità sono incaricate delle infrastrutture culturali collegate con la popolazione. Questa è certamente una semplificazione molto rozza dell’enorme complessità della «regionalizzazione» e federalizzazione del Belgio, ma il punto essenziale è che, separando le due componenti, si è in grado di disegnare un sistema di governance regionale complesso, ma flessibile. Ciò consente, in via di principio, di gestire le spesso violente problematiche regionali che molto comunemente sorgono dalle situazioni in cui c’è uno sfasamento fra l’ubicazione del territorio, la cultura regionale e la popolazione che appartiene a quella 11 T.A.J. TOONEN, On the Administrative Conditions of Politics: Administrative Transformation in the Netherlands, West European Politics 19/3, 1996, 609-632. 98 THEO TOONEN determinata cultura. La soluzione trovata per la Wallonia ha consentito di mantenere anche l’agglomerato di Bruxelles dentro il sistema amministrativo della Regione, attraverso un «corridoio politico» virtuale per la prestazione di servizi pubblici. Per il caso olandese, la «metafora belga» va interpretata nel modo seguente: nel corso del tempo, entro la cornice costituzionale di Thorbecke, le Province hanno cominciato gradualmente a svolgere ed adottare il ruolo delle Regioni (infrastrutture territoriali e fisiche) e i pilastri il ruolo delle Comunità (popolazione e infrastrutture culturali). La pillarizzazione non deve essere pensata in una prospettiva di governance regionale o di difesa di interessi regionali, cioè con l’intento di acquistare ed esercitare alcune funzioni strategiche di governance regionale. Quando le élite di un pilastro negoziavano la fondazione di scuole, vi era una buona probabilità che la scuola cattolica fosse localizzata nella Regione Sud, la scuola protestante nella Regione Nord e la scuola pubblica nella Regione Ovest; esisteva inoltre una ragionevole possibilità che anche le scuole pubbliche, nella Regione settentrionale e in quella meridionale, di fatto avessero comunque, rispettivamente, alunni protestanti o cattolici. Giocando automaticamente una carta in parte regionalizzata e risolvendo, nello stesso tempo, i loro problemi di distribuzione funzionale a livello nazionale, le strutture esecutive pillarizzate praticamente estromettevano il Governo regionale designato dal costituente – cioè le Province – dalle questioni di governance regionale. Se dovessimo confrontare soltanto lo status giuridico-formale della Provincia olandese con altri sistemi europei, questa risulterebbe probabilmente una delle «mesostrutture» giuridicamente meglio attrezzate per affrontare i problemi regionali moderni. La costellazione e lo sviluppo politico – consentito dall’assetto costituzionale – sono stati però diversi. Il fondamento logico della pillarizzazione ha interferito, o meglio, ha configurato politicamente lo sviluppo istituzionale del sistema interamministrativo olandese, in cui le Province erano le istituzioni di governance regionale giuridicamente designate nel sistema Thorbeckiano. Nei Paesi Bassi la «federalizzazione» del sistema ha assunto una struttura settoriale socio-tecnica, piuttosto che una forma territoriale interamministrativa. Il fatto che le Province abbiano esercitato e tuttora esercitino un ruolo relativamente così poco importante o, per meglio dire, invisibile nella politica olandese non è dovuto al disegno istituzionale. Lo sviluppo istituzionale del sistema è avvenuto sotto l’impatto di forti forze sociolo- FEDERALISMO, PARTECIPAZIONE E TRASFORMAZIONE NEI PAESI BASSI 99 giche, corporative e politiche. La struttura, in quanto tale, non era particolarmente adeguata – in termini operativi-interamministrativi di governance multilivello – per provvedere effettivamente alla diversità degli interessi politici particolari, regionalmente diversificati, delle varie circoscrizioni elettorali pillarizzate, attraverso politiche – clientelistiche – ad hoc. Le strutture esecutive della pillarizzazione, sopra descritte, erano pertanto un modo di aggirare le strutture formali del Governo regionale e locale del sistema di relazioni interamministrative di Thorbecke. Nella versione olandese, la pillarizzazione – intenzionalmente o meno – ha fornito il modo di bypassare la governance istituzionale multilivello, nello stesso modo in cui oggi i Governi nazionali degli Stati membri vengono talvolta bypassati, relativamente ai Fondi strutturali europei, dalla relazione fra la Commissione Europea e le «sue» Regioni, le Regioni cioè selettivamente e politicamente importanti per la sua politica. Questa interpretazione può spiegare perché un sistema politico come quello olandese, fortemente diversificato ed eterogeneo, non soltanto socio-culturalmente, ma anche regionalmente (preminentemente cattolico al Sud, protestante nel Nord-Est e «generale» nella parte Ovest del Paese), storicamente non abbia adottato o sviluppato un sistema interamministrativo di federalismo territoriale. Il sistema costituzionale di Thorbecke di per sé non avrebbe impedito un tale sviluppo, così come a priori non vi è nessuna ragione per cui il governo locale (i Comuni) dovesse diventare più forte del livello regionale (le Province). Thorbecke e i suoi seguaci prefigurarono esplicitamente uno sviluppo aperto che poteva dipendere dalle circostanze socio-economiche e storico-infrastrutturali. Se fosse dipeso solo dalla struttura costituzionale, la Provincia avrebbe potuto svilupparsi nello stesso sistema di governo regionale forte che normalmente si riscontra in sistemi regionalmente e culturalmente diversificati, consociativi o federali. Il Federalismo è generalmente collegato al consociativismo: i Paesi Bassi costituiscono l’eccezione alla regola. Con il tempo, il sistema della pillarizzazione è risultato funzionare come l’equivalente istituzionale – un rivale istituzionale di successo – della regionalizzazione e, in termini di «autonomia» e «partecipazione», ha assolto alcune di quelle stesse funzioni che le strutture di Stato «federali» svolgono in altri sistemi consociativi diversificati regionalmente. In termini funzionali, il sistema ha operato ed è sopravvissuto a lungo perché esisteva un livello intermedio che operava come cuscinetto fra la burocrazia del Governo e le Agenzie esecutive della società civile, 100 THEO TOONEN come, ad esempio, nel caso delle scuole e dei sistemi scolastici o delle organizzazioni assistenziali e sanitarie. Questo network a livello intermedio può essere criticato – ed è stato criticato – per la sua mancanza di democrazia, per «il consociativismo e tutti i suoi pericoli»12; ma il fatto è che, una volta sparito, – e come struttura amministrativa effettiva è crollato gradualmente durante gli ultimi 20-30 anni del secolo scorso –, ha cessato di esistere anche la funzione di bilanciamento dell’esecutivo nella network society, esercitata nell’ambito di questo assetto istituzionale. Fra i pilastri, tenuti uniti dalla politica della pacificazione, era predominante la divisione degli interessi, ma, all’interno dei pilastri, i network raggruppavano, coordinavano ed integravano vari interessi organizzativi o esecutivi. Le strutture pillarizzate svolgevano il ruolo di ordinare e mettere insieme vari interessi funzionali speciali sotto un’etichetta ideologica o religiosa. Si potrà apprezzare o meno questa etichetta ideologica o basata sulla fede, ma, dentro la struttura dei pilastri, essa ha funzionato come un’organizzazione di rete integrativa. Nella terminologia moderna si potrebbe definire questo sistema come una forma di «coordinamento culturale». Entro i pilastri, e perciò entro certe regioni, la struttura collegava e univa scuole a datori di lavoro, a istituzioni culturali, a organizzazioni del mercato del lavoro, chiese, organizzazioni di polizia, associazioni sportive, sistemi di assistenza sanitaria, ecc. Nell’ambito dei pilastri, e perciò nell’ambito di certi territori regionali in cui un pilastro aveva la maggioranza, la struttura istituzionale reticolare della pillarizzazione faceva sì che scuole, istituzioni assistenziali o organizzazioni sanitarie – che normalmente erano organizzate su una base confessionale – divenissero parte integrante di un sistema di governance socio-economico più ampio. Una volta indebolita e sparita questa struttura reticolare, sono sorti grandi problemi di coordinamento ed integrazione, ma anche di accountability, controllo e legittimazione. I Paesi Bassi hanno attualmente a che fare con gravi problemi di coordinamento e di governance delle politiche sanitarie, scolastiche, assistenziali e sociali per i giovani e le famiglie. In questa prospettiva, non sorprende che i Governi locali e le città più grandi, con funzioni regionali e dotate di altri elementi che costituiscono di fatto la struttura della governance regionale, siano fra i principali destinatari dell’eredità amministrativa della depillarizzazione. Essi si inseri12 B. BERRY, Democracy and Power: essays in Political Theory 1, Clarendon Press, Oxford, 1991, 136. FEDERALISMO, PARTECIPAZIONE E TRASFORMAZIONE NEI PAESI BASSI 101 scono o fanno semplicemente fronte al vuoto istituzionale creato dalla depillarizzazione al livello di governance locale ed esecutivo. Nel contesto olandese, il dibattito regionale, emerso negli ultimi tre o quattro decenni, ha avuto più una connotazione urbana e intercomunale che una tendenza verso la provincializzazione, e tanto meno la federalizzazione. Nella seconda metà del XX secolo, la pillarizzazione aveva effettivamente conciliato, risolto e pacificato le tradizionali distinzioni socio-culturali fra i vari raggruppamenti sociali – largamente basate sulle confessioni religiose – che una volta costituivano i blocchi su cui si reggeva il sistema della pillarizzazione e della democrazia consociativa. La depillarizzazione è stata anche la conseguenza di un processo autonomo, iniziato negli anni ’60 del secolo scorso, per il quale la religione ha cominciato a giocare un ruolo considerevolmente meno importante nella società olandese. Per un certo periodo si era iniziato a percepire la religione come un fattore sempre meno determinante in campo socio-politico e pubblico, finché la rivoluzione di Fortuyn, agli inizi del 2000, sulla scia del fino ad allora trascurato e perciò non accomodato processo d’immigrazione di massa, ha posto a pieno titolo la questione religiosa, in termini di una percepita islamificazione di certe aree urbane, in un’agenda politica di massa che non è ancora stata deliberata e definita – e tantomeno pacificata e conciliata – fino ai nostri giorni. 5. Partecipazione istituzionale: condivisione del potere e decentralizzazione collaborativa Le istituzioni pillarizzate esecutive o di servizio collettivo, le agenzie relativamente autonome della società civile degli anni ruggenti del consociativismo nei Paesi Bassi, iniziarono a scollegarsi dalle iniziali strutture generali e dai network della pillarizzazione divenuti poco funzionali. Esse avevano bisogno, comunque, di strutture di coordinamento e legittimazione, in quanto – dopo tutto – erano organizzazioni meramente esecutive che necessitavano di ricevere direttive da parte di alcune istituzioni di governance. Non è un’esagerazione affermare che, sin dalla metà degli anni ’70, si è verificato un permanente – e ancora largamente irrisolto – tentativo di provare a ottenere per queste prime istituzioni della società civile, che nello sviluppo del welfare erano progressivamente arrivate ad essere dominate da professionisti funzionali, piuttosto che da missioni sociali 102 THEO TOONEN basate o ispirate dalla fede, una nuova collocazione, in termini di strutture di governance, coordinamento, controllo e legittimazione. Ciò ha portato a processi di «autonomizzazione» e decentralizzazione in cui, come Governi regionali, più che le Province, hanno cominciato ad esercitare un ruolo importante le principali città – Amsterdam, Rotterdam, L’Aja, Utrecht – e i Comuni, in collaborazione fra di loro. Questo fatto ha trasferito molta parte del peso istituzionale, precedentemente sopportato dalle strutture reticolari pillarizzate, al settore interamministrativo e, in particolare, alle relazioni fra il Governo centrale e quello locale. Le Province olandesi sono state ridotte dallo sviluppo storico ad una posizione politica relativamente insignificante, ad eccezione del campo della pianificazione fisico-spaziale e della politica ambientale. Il principio della co-governance, nel frattempo, ha messo istituzionalmente il Governo locale in una posizione esecutiva sufficientemente forte per implementare la politica nazionale. 5.1. Autogoverno locale e co-governance Nella seconda metà del XIX secolo, dopo che Thorbecke aveva da tempo completato il suo disegno costituzionale, la complessità della società olandese e il sistema di governance, specialmente al livello di quello che oggi chiameremmo il sistema delle relazioni interamministrative, era costantemente in crescita. I Paesi Bassi erano fra gli ultimi arrivati nella rivoluzione industriale, ma dal 1870 in poi hanno recuperato terreno rapidamente. L’industrializzazione, l’urbanizzazione, la trasformazione delle industrie tradizionali ed il sorgere di questioni sociali contribuirono molto all’allargamento delle economie di scala e del raggio d’azione sociale e, pertanto, alla necessità di sviluppare un sistema amministrativo di governance multilivello. Non tanto l’autonomia e la separazione dei livelli di Governo (nazionale, regionale e locale), quanto una crescente interazione – sia essa legalistico-formale o socio-politica – e l’interdipendenza diventarono gradualmente caratteristiche del sistema13. Questa crescente interdipendenza e nazionalizzazione delle faccende locali e regionali provocò forti dibattiti costituzionali, sia in ambito giuridico che politico. Un’importante clausola della costituzione del 1848, disegnata e implementata da Thorbecke, era il principio che il 13 T. TOONEN, Change in Continuity: Local Government and Urban Affairs in The Netherlands, in J.J. HESSE (ed.), Local Government and Urban Affairs in International Perspective, Nomos Publishing House, Baden-Baden, 1990, 291-333. FEDERALISMO, PARTECIPAZIONE E TRASFORMAZIONE NEI PAESI BASSI 103 legislatore nazionale potesse richiedere al governo locale di espletare la politica nazionale nel contesto locale. Durante la seconda metà del XIX secolo, con l’espansione dei compiti dello Stato, questa clausola fu usata sempre più estesamente. Essa fu anche sottoposta a modifiche della sua natura: la legislazione nazionale non era più meramente descrittiva delle attività amministrative che i Comuni dovevano eseguire nel contesto della legge nazionale; in casi cruciali richiedeva ai Comuni anche di regolamentare un determinato settore, attività o area politica, lasciandoli liberi di decidere le modalità di esecuzione di tali disposizioni. Ad esempio, poteva legittimamente richiedere ai Comuni di regolamentare l’edilizia locale (sociale), invece che concepire una legge nazionale sull’edilizia abitativa a cui i Comuni avrebbero dovuto dare seguito. Questa costruzione divenne oggetto di critiche per essere senza garanzie e persino «incostituzionale». La «Teoria classica» di diritto pubblico olandese – che si affermò sulla scia dello sviluppo dello Stato moderno olandese durante gli anni 1840-1850 – arrivò a stabilire una rigida distinzione fra l’autonomia (comunale) – autonomie – e l’autogoverno o autoamministrazione (comunale) – zelfbestuur –14. Questa teoria classica proponeva, come principio normativo, la stretta separazione dei tre livelli «di affari» amministrativi, distinti nella Costituzione di Thorbecke in nazionale, provinciale e comunale, ognuno dei quali era considerato un settore autonomo di regolazione e legislazione (nazionale, regionale e locale). Quando le autorità provinciali o comunali attuavano la legislazione nazionale, ciò era considerato autogoverno e, sotto questo aspetto, il Governo comunale (o provinciale) non agiva come Governo locale, ma come Agente amministrativo del Governo nazionale. Un assetto istituzionale in cui i Governi locali non fossero demandati ad eseguire («amministrare») una normativa nazionale, ma obbligati a regolare («legiferare») un determinato ambito di affari municipali, come parte di un programma nazionale, avrebbe violato questo dualismo e il principio della separazione dei poteri legislativi («autonomia») dei vari livelli amministrativi: era considerato pertanto una violazione dell’autonomia del governo locale. Molti giuristi e politici locali erano fautori di un approccio rigido e di una rigida – se non addirittura enumerativa – differenziazione fra gli affari dei Governi nazionale e locale, perorando così in effetti una struttura esecutiva dualistica a livello di governo locale. 14 T.A.J. TOONEN, Denken over Binnenlands Bestuur: Theorieën van de Gedecentraliseerde Eenheidstaat Bestuurskundig Beschouwd, Arnhem, 1987, 69-88. 104 THEO TOONEN J.T. Buys, professore di diritto pubblico di Leida (1829-1893), seguendo la tradizione dello Stato organico che Thorbecke aveva contribuito a costituire, mentre era ancora professore di diritto pubblico nella stessa città, era in ogni modo fra coloro che si esprimevano contro una strategia costituzionale dualistica ed enumerativa. Egli favoriva l’approccio cooperativo e difendeva il principio dell’autogoverno locale, basato sulla decentralizzazione e finalizzato ad assicurare il ruolo e la posizione (costituzionale) del Governo locale in un sistema statale dinamico («vivente», «organico»). Egli faceva riferimento alla saggezza della «vecchia Inghilterra», ove si era compreso «che la vera libertà non dipendeva dalla Costituzione, ma dall’Amministrazione, non dalle parole ma dagli atti»15. Buys considerava il principio dell’autogoverno come «un vero prodotto nazionale, uno sviluppo dell’autonomia garantita a quegli enti, ma proprio per questo, poco rispettata da coloro che privilegiavano una stretta linea di demarcazione» fra i differenti livelli di «affari» di governo16. Questo importante principio costituzionale – secondo Buys – «era trattato come un figliastro: più tollerato che desiderato»17. Buys sperava – per amore della libertà (il governo locale non è fine a se stesso) – che le «generazioni future» avrebbero guardato con «più favore» all’importanza dell’autogoverno come strumento costituzionale per salvaguardare il ruolo della decentralizzazione e del Governo locale, e avrebbero voluto applicarlo più estesamente. Pertanto, il principio di autogoverno («autoamministrazione» della regolazione nazionale o indotta nazionalmente), accanto al principio di autonomia (strettamente inteso come diritto di iniziativa legislativa a livello del Governo locale), dovevano essere protetti e preservati in quanto principi costituzionali. 5.2. Decentralizzazione collaborativa Buys ed i suoi seguaci interpretavano l’autogoverno come un «diritto» locale, piuttosto che come «obbligo» costituzionale centralmente imposto al Governo comunale (e provinciale). Egli chiarì che la «migliore» divisione del lavoro fra i livelli di Governo era, in definitiva, una 15 J.T. BUYS, De strijd tusschen staat en maatschappij, Lecture, Leiden, 5.2.1874, ristampato in W.H. DE BEAUFORT, A.R. ARNTZENIUS (eds.), Studiën over staatkunde en staatsrecht van Mr J.T. Buys, Arnhem, 1895, 529. 16 J.T. BUYS, De Grondwet, Toelichting en Kritiek, tweede deel, Arnhem, 1887, 63. 17 Ibid. FEDERALISMO, PARTECIPAZIONE E TRASFORMAZIONE NEI PAESI BASSI 105 questione di moderatezza, effettività ed efficienza, che sarebbe mutata e avrebbe dovuto essere adattata (organicamente) alle sempre mutevoli circostanze socio-tecnologiche e economico-infrastrutturali. Buys difendeva il principio dell’attuazione della legislazione e regolazione nazionale, da parte delle autorità comunali (e provinciali), come un diritto, piuttosto che come un obbligo: se questo provvedimento costituzionale non fosse esistito, non ci sarebbero stati – entro il sistema olandese – limiti costituzionali alla nazionalizzazione della legislazione e della regolazione – cioè a nazionalizzare l’«autonomia» – e alla possibilità di farla attuare da un’amministrazione nazionalizzata, come nel sistema francese. Buys pose la questione strategica della centralizzazione sotto il profilo amministrativo, piuttosto che legislativo, cioè nel settore delle azioni del governo, piuttosto che delle parole18. Come molti altri teorici dello Stato organico, egli era contrario a provvedimenti costituzionali «meccanici» ed enumerativi, di «checks and balances», o a «competenze blueprint» strettamente delimitate, a causa dei limiti potenziali che ciò avrebbe posto alla graduale capacità di adattamento del sistema. La capacità istituzionale di esercitare un ruolo nell’attuazione della politica nazionale assicurava ai Governi locali di poter continuare a influire sul modo in cui gli affari statali venivano gestiti. Inoltre, avrebbe reso le Agenzie di governo nazionali – invece che sovrane – dipendenti dalla qualità e dalla cooperazione dei Governi locali e avrebbe così evitato una centralizzazione totale. Guardando al sistema britannico da questo punto di vista e seguendo l’interpretazione del costituzionalista tedesco von Gneist, Buys concluse che la posizione dei Governi locali nel sistema generale non era necessariamente favorita dall’«autonomia» – cioè, come nel caso britannico, da poteri legislativi del Parlamento limitati – quanto da un potere esecutivo limitato dal principio dell’autogoverno. Il principio dell’autogoverno, in seguito mutato in medebewind (letteralmente co-governance) è divenuto un importante puntello istituzionale del ruolo e della posizione relativamente forti del Governo municipale nella forma di Stato olandese. Esso ha assicurato la partecipazione locale in processi politici – con il passare del tempo – sempre più nazionalizzati ed ha inciso sui dibattiti costituzionali successivi in cui costituzionalisti e studiosi di pubblica amministrazione dichiararono che Buys aveva ragione e svilupparono ulteriormente i suoi argomenti. 18 T.A.J. TOONEN, Denken over Binnenlands Bestuur, 1987, 83; ID., Change in Continuity, cit. 106 THEO TOONEN Nella cornice istituzionale dell’autogoverno locale e della risultante interdipendenza fra la legislazione nazionale e l’esecuzione e amministrazione locale, Buys seguì il modello di Stato dualistico britannico, che propugnava poca interazione amministrativa e «tutela» nelle relazioni operative fra i livelli di Governo: una separazione fra «politica ed esecuzione», dunque, che risulta molto familiare alla mente manageriale contemporanea. Il grande costituzionalista olandese Oud, in seguito, disputò le idee di Buys e incoraggiò a fare un passo avanti: «Buys era pertanto sulla giusta strada quando stabilì che, per la soddisfazione delle proprie necessità, la gente si rivolge all’autorità che considera più appropriata allo scopo […] Ma si è fermato a metà strada: non è arrivato a concludere che questa stessa efficienza può anche risultare da due tipi di autorità di governo che cooperano nella gestione di un problema»19. A quel tempo, il titolare della prima cattedra di Amministrazione Pubblica nei Paesi Bassi, il professor G.A. Van Poelje, aveva già osservato che lo «Stato moderno», persistendo in una cornice costituzionale «orientata centralisticamente», aveva spesso adottato una forte decentralizzazione nel disegno e nell’organizzazione dell’amministrazione (delle funzioni esecutive) degli affari dello Stato, spesso in collaborazione con iniziativa e interesse privati negli affari. Negli anni ’20 e ’30 del secolo scorso, egli parlò di «nuove forme di decentralizzazione», che etichettò come «decentralizzazione attraverso la cooperazione» o «decentralizzazione collaborativa»20. Insieme al network delle organizzazioni esecutive parastatali del sistema pillarizzato, descritto nel paragrafo precedente, il principio della co-governance e della «decentralizzazione collaborativa» ha contribuito ad una posizione relativamente forte del Governo locale olandese, in termini di realizzazione funzionale delle politiche pubbliche, ma ha anche determinato una forte posizione partecipativa delle organizzazioni esecutive locali e regionali al sistema reticolare olandese nazionalizzato – qualcuno direbbe centralizzato – di governance e al macro policy making: sistema che è stato spesso criticato per la sua complessità, per la percepita mancanza di risolutezza e per l’incapacità di arrivare ad una conclusione. Sin dalla metà degli anni ’80 del secolo scorso, un consistente processo di fusione e di allargamento delle dimensioni dei Governi locali 19 P.J. OUD, 20 G.A. VAN Handboek voor het Nederlands Gemeenterecht. Deel 2, Zwolle, 1959, 34. POELJE, Algemene inleiding tot de bestuurskunde, Alphen a/d Rijn, 1953, 56; ID., Wilde groei of organisatie, Alphen a/d Rijn, 1928. FEDERALISMO, PARTECIPAZIONE E TRASFORMAZIONE NEI PAESI BASSI 107 ha fornito una strategia operativa per metterli in grado di assorbire le funzioni esecutive e di implementazione nel contesto della politica nazionale. Questo processo può essere visto come lo sforzo di localizzare l’implementazione delle politiche entro le strutture legittimate del Governo democratico locale. A questo fine, era necessaria una fusione dei Comuni per soddisfare i requisiti delle dimensioni funzionali – reali, percepite o presunte – necessarie alle relative funzioni esecutive. Ma, in parte anche a motivo della rivalità fra i Comuni e le Province, che non riuscivano a mettersi d’accordo su una strategica divisione strutturale (non temporanea) del lavoro, molte funzioni di implementazione e di prestazione di servizi pubblici, regionalizzate e precedentemente nazionalizzate, non potevano essere esercitate nell’ambito del sistema di Governo locale e in un contesto di relazioni, tra il centro e la periferia, sempre più settorializzato – frammentato e diviso –. Alla fine del XX secolo, anche sotto l’impatto dell’emergente processo di europeizzazione, ciò risultò in un bisogno di riorganizzare le strutture di governance, soprattutto tra le istituzioni del sistema precedentemente pillarizzato, che avevano largamente mantenuto la loro «autonomia», sempre più caratterizzata professionalmente, o che non potevano essere integrate in altro modo – pertanto «nazionalizzate» – in siffatto sistema pubblico interamministrativo. Anzi, molte delle istituzioni in precedenza pillarizzate videro, nell’emergente processo di agentificazione, mercatizzazione e privatizzazione degli anni ’80-’90 del secolo scorso, una ragione per perseguire il loro status indipendente, sollevando così tutta una serie di problematiche, in termini di interventi regolatori, supervisione, controllo ed accountability. 6. Trasformazione istituzionale: nuove forme di regolazione e controllo I Paesi Bassi hanno un’economia aperta e perciò hanno sentito fortemente l’impatto degli sviluppi internazionali degli ultimi due-tre decenni: la riforma strutturale dell’economia internazionale, la globalizzazione e l’integrazione europea, lo sviluppo della Società dell’Informazione, la nuova demografia, in termini di età e di culture, e la risultante individualizzazione della società; tutti questi processi danno luogo a regionalizzazione e riterritorializzazione dell’economia e della fornitura di servizi pubblici. Generalmente, l’esito di questo processo viene identificato come «orizzontalizzazione» delle relazioni fra il Governo e la società e delle relazioni fra i differenti livelli di Governo. 108 THEO TOONEN Negli anni più recenti, il governo olandese ha prestato molta attenzione al problema dei controlli e della supervisione. La questione è stata posta nella seconda metà degli anni ’90 del secolo scorso da parte di molte commissioni governative, composte soprattutto da publici ufficiali di più alto livello. Per lo più senza che il pubblico generale vi prestasse molta attenzione, il Governo ha intrapreso recentemente una riforma delle strutture di controllo fra i livelli di Governo, tentando fondamentalmente di ristabilire il concetto classico della revisione amministrativa, a scopi generali, fra livelli di Governo (Commissione Oosting). Il trend complessivo emergente era verso lo sviluppo di un movimento per incoraggiare la «Fiducia nell’Indipendenza» degli organi di controllo interni ed esterni, come dal titolo della relazione di una delle Commissioni che lo costituivano (Commissione Borghouts, 2001:3-11). L’attenzione per le funzioni di controllo indipendenti è posta nella prospettiva di un’accresciuta importanza della separazione fra il policy making e l’implementazione, della decentralizzazione e della formazione di nuove – o l’uso di Agenzie indipendenti già esistenti – per attuare la politica del Governo. Il rapporto Borhgouts testimonia lo spostamento dell’attenzione dal policy making all’attuazione e alla valutazione della politica: è cresciuta la ricerca di trasparenza nei processi di formazione delle decisioni e nelle procedure operative, così come l’interesse per i risultati e per l’effettività della politica, e si sente il bisogno di render conto delle prestazioni alla cittadinanza e ai destinatari della politica pubblica. «L’emancipazione» del cittadino e dei destinatari, la creazione di reti di governance, «l’orizzontalizzazione delle relazioni sociali», l’impatto dell’ICT e la progressiva internazionalizzazione delle imprese e del Governo sono presentati come substrato dell’accresciuta attenzione per una funzione (indipendente) di controllo degli affari governativi. Gli ispettorati indipendenti non sono solitamente molto popolari nel sistema di controllo olandese. Quasi tutti i Ministri avevano «ispettorati» operativi nella Regione, ma si trattava di «strumenti del Ministro» per controllare il campo, e pertanto niente affatto indipendenti. Nell’ultimo decennio, vari Ministeri nazionali e settori pubblici sono stati coinvolti – con un bilancio in chiaroscuro – in un processo di creazione di nuovi ispettorati, talvolta anche indipendenti. I «nuovi sorveglianti» sono spesso modellati o presentati sulla falsariga dell’«Autorità Regolatoria Nazionale» o «Agenzia Regolatoria Indipendente» (nel senso olandese)21. 21 La privatizzazione del settore Poste e Telecomunicazioni olandese ha introdotto un esteso e dettagliato sistema di legislazione, in termini di norme e regolamenti che discipli- FEDERALISMO, PARTECIPAZIONE E TRASFORMAZIONE NEI PAESI BASSI 109 Tutte queste istituzioni sono relativamente nuove, o almeno sono state rinnovate sotto l’impatto dell’internazionalizzazione e del processo di europeizzazione degli ultimi 10-15 anni. Esse hanno in comune la caratteristica di concentrare le loro attività principalmente nella regolamentazione e nel controllo di imprese e mercati. È importante tuttavia capire che, non molto tempo fa, molti di questi servizi erano ancora servizi pubblici e quindi forniti da enti governativi. Dal punto di vista del controllo da parte del Governo, le Agenzie sono state poste sotto un diverso regime, per il quale la regolamentazione del mercato e la competizione hanno sostituito la gerarchia e la sorveglianza. Nel settore dei servizi pubblici olandesi esse simboleggiano, nel complesso, il passaggio da un sistema basato sul controllo ad uno basato sulla concorrenza. Nello stesso tempo, l’esperienza intanto maturata ha anche fatto sorgere dubbi, sia ai cittadini che ai politici, sul fatto che la regolamentazione del mercato per altri servizi pubblici infrastrutturali – quali la gestione dell’approvvigionamento e della qualità delle risorse idriche, l’elettricità, l’aeroporto di Amsterdam, il porto di Rotterdam – sia la strada giusta da intraprendere per il futuro. 6.1. Monitoraggio Premesso che il Parlamento può non essere la più innovativa delle istituzioni nel «fidarsi dell’indipendenza» degli ispettorati, questi agiscono in maniera piuttosto coerente nella loro ricerca di informazioni sull’impatto delle politiche e sulle attività governative. Si assiste oggi ad un aumento difficilmente quantificabile, ma decisamente significativo, dell’attenzione verso il monitoraggio delle funzioni di sorveglianza da parte del Parlamento e dei Ministeri. In una certa misura, ciò è la logica conseguenza di un sistema in cui la decentralizzazione e la devoluzione si nano il settore delle Telecomunicazioni «regolato» dall’Autorità Indipendente per le Poste e Telecomunicazioni (Onafhankelijk Post en Telecommunicatie Autoriteit - OPTA). La liberalizzazione del settore energetico ha portato alla creazione di un’Agenzia per la supervisione e la gestione dell’energia (Dienst Toezicht en Uitvoering Energie - DTe). I mercati finanziari sono vigilati e regolamentati dalla Banca nazionale olandese (De Nederlandse Bank NV - DNB), dalla Fondazione per la vigilanza del mercato dei capitali (Stichting Toezicht Effectenverkeer - STE) e dalla Camera delle Assicurazioni (De verzekeringskamer). Il Consiglio per le tariffe delle prestazioni della sanità pubblica (College Tarieven Gezondheidszorg - CTG) e la Commissione per la viglianza sulle prestazioni sanitarie (Commissie Toezicht Uitvoeringsorganisatie - CTU) «supervisionano» gli aspetti economici dell’area sanità. L’autorità olandese per la concorrenza (De Nederlandse Mededinging Autoriteit - NMA) è l’autorità istituzionale di vigilanza e applicazione delle norme sulla concorrenza e sulla legislazione antitrust nei Paesi Bassi. 110 THEO TOONEN sono largamente attuate in un contesto di co-governance in cui organizzazioni locali, regionali e non governamentali sono incaricate di espletare funzioni esecutive e di policy nel contesto di una legislazione nazionale. Negli ultimi venti anni, molti settori – se non tutti – hanno assistito ad un trend di decentralizzazione e di scarico di responsabilità nazionali sui Governi locali e ad altre autorità regionali. Considerato il fatto che questa decentralizzazione raramente ha implicato o poteva implicare il trasferimento della totale responsabilità politica, per tutti gli aspetti del processo, la logica conseguenza è stata che questi programmi e progetti di decentralizzazione hanno comportato un accordo strategico: più autonomia organizzativa e discrezionalità politica, in cambio dell’invio al Governo nazionale di maggiori e migliori informazioni sui risultati e prestazioni raggiunti. Il decentramento dei compiti e delle responsabilità si è verificato in cambio della concentrazione e della centralizzazione delle informazioni. Lo stesso Parlamento ha rivitalizzato le sue attività di controllo e, negli ultimi dieci anni, ha sempre di più usato il suo antico, ma ormai caduto in disuso, diritto di condurre indagini parlamentari indipendenti. Inoltre, con una recente inizativa, si è istituita una revisione annuale dei processi e delle politiche governative, come parte del regolare ciclo di bilancio: «dal bilancio della politica al rendiconto della politica» («Van Beleidsbegroting Tot Beleidsverantwoording» - VBTB). Normalmente, nei Paesi Bassi, l’iniziativa legislativa è dell’esecutivo: questa procedura, per la quale una volta all’anno il Governo deve rendere conto pubblicamente dei risultati raggiunti – in termini di obiettivi stabiliti e di budget stanziato – è stata introdotta su iniziativa del Parlamento. Essa si porta dietro una nuova ondata di esigenze di «informazione» e «monitoraggio». Dopo la prima esperienza – nella primavera del 2002 – si era trasformata in un esercizio piuttosto formale per il quale il Parlamento, sulla base di un rapporto della Camera Generale dei Conti (Algemene Rekenkamer), dibatteva se i Ministri potessero rendere conto individualmente delle loro attività alla luce del budget stanziato. Nel corso del tempo, il sistema è diventato più professionale, ma molti ne mettono in dubbio il valore aggiunto, in termini di un più stretto controllo sull’operato del Governo. 6.2. Controllo dell’esecutivo Lo sviluppo dell’operazione VBTB, in ogni modo, simboleggia almeno uno sforzo da parte del Parlamento olandese per iniziare ad es- FEDERALISMO, PARTECIPAZIONE E TRASFORMAZIONE NEI PAESI BASSI 111 sere più coinvolto nel «controllo parlamentare» di quanto tipicamente e per reputazione sia mai stato. Questo accresciuto attivismo parlamentare, per cercare di controllare il Governo, ha trovato il suo equivalente a livello di Governo locale e provinciale. Sotto l’etichetta della «dualizzazione», è stata legiferata ed implementata una sostanziale riforma del Governo locale, volta a mettere i Consigli comunali e provinciali più in una posizione di supervisori e «controllori» del Governo locale che nella posizione di policy maker e codecisori locali che – almeno nominalmente – erano soliti avere. In cambio della perdita di «competenze legislative (parallele)», i Consigli ottengono maggiori poteri formali, in termini di rendiconto, revisione e controllo. Questo spostamento di poteri è coerente con altri sviluppi ed iniziative – tese a rafforzare i meccanismi tradizionali e perfino quelli «costituzionali», per rendere il Governo più responsabile – che tuttavia non hanno mai operato in modo molto «confrontativo» nell’assetto consensuale della politica e dell’amministrazione olandese. In termini di gestione dei reclami, ad esempio, negli anni ’80 del secolo scorso, la nuova istituzione dell’Ombudsman riuscì ad occupare una posizione molto importante ed influente nell’industria del controllo del Governo, perfino a dispetto del fatto di non aver nessun potere formale per «rendere esecutivi» i suoi verdetti. Anche in altre aree l’immagine complessiva è che i meccanismi di controllo esterno, che non sono mai stati molto ben sviluppati nel sistema amministrativo olandese, abbiano assistito a una crescita istituzionale e a una certa emancipazione amministrativa. In tutto il sistema la gestione indipendente dei reclami e funzioni come quelle dell’ombudsman hanno assistito a un forte sviluppo. 6.3. Innovazione del diritto amministrativo Uno sviluppo molto trascurato, almeno dagli studi di management pubblico sul Governo e la Pubblica Amministrazione olandese, è la Legge generale di diritto amministrativo (Algemene Wet Bestuursrecht ABW). Avendo come sfondo il ruolo esercitato dagli sviluppi giuridici europei, l’AWB ha codificato molti principi giuridico-amministrativi funzionali e settoriali e molti sviluppi dei precedenti decenni nei «Principi Generali Amministrativi», da applicare nel processo di controllo del Governo. Questa è stata, sotto molti aspetti, una mega-operazione, i cui 112 THEO TOONEN tecnicismi giuridici esulano dagli scopi di questa trattazione. È importante tuttavia osservare che, tutto sommato, questo movimento ha rafforzato la posizione dei meccanismi di controllo esterni, così come il ruolo dei tribunali amministrative e civili nei processi governamentali, al punto che, nel frattempo, si è assistito ad una «giurisdizionalizzazione dell’attività amministrativa», con «i giudici che occupano i seggi dell’esecutivo». Pertanto, si è anche verificato un certo sovraccarico del tradizionale apparato giudiziario, il che ha indotto ad una crescente inclinazione ad esplorare metodi alternativi di risoluzione dei conflitti, introducendo la prassi della mediazione, come parte del processo giudiziario formale, «esternalizzando» così ulteriormente la funzione di controllo sul Governo. L’ABW ha contribuito molto alla formalizzazione e alla crescita dei regolamenti amministrativi del Governo in forma scritta, «codificata». In tal senso, ha anche contribuito ad una «esplosione degli audit formali». Tutto sommato, è difficile tuttavia giudicare il risultato netto di questo processo: un gran numero di regolamenti amministrativi e norme procedurali interne non scritte, oltre che numerosi meccanismi di controllo, sono diventati obsoleti e sono entrati nella storia amministrativa, mentre la funzione esterna ed interna di controllo sul Governo è diventata decisamente più esplicita. Tuttavia, a livello del sistema nel suo complesso, è prevalso il principio della mutualità. Nel lungo periodo, il «federalismo sociologico» dei Paesi Bassi ha portato a costruire un sistema di amministrazione e controllo in cui i raggruppamenti esterni, i network, un esteso sistema di organi di consulenza e di strutture di potere informali hanno giocato un ruolo cruciale nel controllo sul Governo. Il sistema «unitario» dei Paesi Bassi non era gestito da «capi» (gerarchici) che lo governavano, ma da organi collegiali che dirigevano i procedimenti amministrativi. La collegialità è stata per lungo tempo il principio chiave del controllo amministrativo. Tipicamente, gli organi di Governo riflettono la combinazione di differenti principi amministrativi, il che può essere meglio descritto col già ricordato principio delle «dualità organizzate», sistematicamente applicato al sistema amministrativo olandese nel suo complesso. In altri termini, le gerarchie amministrative avevano il loro posto nella tradizionale struttura amministrativa olandese, ma nel contesto di una superstruttura politica e sociale preminentemente caratterizzata dalla necessità istituzionale di ottenere il mutuo consenso e «costruire unità». Naturalmente, nel loro funzionamento, molti strumenti gerarchici della struttura FEDERALISMO, PARTECIPAZIONE E TRASFORMAZIONE NEI PAESI BASSI 113 costituzionale erano influenzati e, non di rado, alterati da questa cultura della mutualità. Inoltre, «la segretezza» era un’altra regola culturale del gioco della politica consociativa olandese e della leale amministrazione «weberiana». È importante notare che il funzionamento amministrativo interno delle gerarchie del Governo copriva solo parte del complesso dei sistemi di prestazione dei servizi pubblici. Come già osservato, molti servizi pubblici – in particolare nei settori della sanità, cultura, welfare, politica sociale e istruzione – venivano forniti attraverso istituzioni non governative, appartenenti ad uno dei pilastri sociali che per lungo tempo avevano costituito la società olandese. Molti di questi erano gestiti e pertanto controllati dal Governo, insieme ai «partner sociali». La superstruttura della mutualità pillarizzata costringeva in molti modi la burocrazia del Governo, ma forniva anche una «costituzione sociale» per il controllo «pubblico» – da non confondersi con «trasparente» – di associazioni, fondazioni e altre organizzazioni no profit che erano centrali per il sistema olandese delle politiche pubbliche. Una volta cessata questa superstruttura, in parte anche a causa dello sviluppo storico, molti sistemi informali di controllo pubblico socializzato, ai vecchi tempi «fidati», scompavero progressivamente, lasciando queste organizzazione non governative più o meno come rami pubblicamente incontrollati per l’«organizzazione professionale». Più di recente è tuttavia divenuto chiaro a tutti che il welfare state olandese stava per andare completamente fuori controllo e necessitava di essere meglio «gestito» per sopravvivere ad alcuni sviluppi internazionali che, a partire dalla fine degli anni ’70 e i primi anni ’80 del secolo scorso, sconvolgevano il mondo occidentale in vari modi. Alla ricerca di una nuova e migliore gestione del settore pubblico, si è aggiunta anche la necessità di reinventare il controllo interno ed esterno anche delle organizzazioni della società civile, precedentemente pillarizzate e tradizionalmente coinvolte nell’attuazione delle politiche statali. L’accresciuta apertura e «pubblicità», causata dagli sviluppi internazionali e tecnologici, ed il bisogno di adattarsi ai mercati internazionali e ai nuovi regimi internazionali di diritto pubblico, hanno comunque influenzato profondamente i tipici modelli non competitivi, non gerarchici, consociativi e consensuali di mutuo controllo. Non è un caso che sia stata la funzione di supervisione – ispettorati, consulenti regionali, agenti di controllo ecc. – a fare le prime esperienze di uno sviluppo di «orizzontalizzazione amministrativa». Del resto, la recente attenzione 114 THEO TOONEN per le funzioni di controllo nei Paesi Bassi è molto inquadrata in termini di conformità e di applicazione delle regole. L’attenzione per la «crisi del controllo e dell’osservanza» è una reazione alla spiacevole sorpresa – per la società olandese – provocata dall’analisi di una serie di incidenti, disastri, casi di frode (di cui si sono macchiate anche alcune istituzioni universitarie) e dai dibattiti sull’integrità amministrativa, che hanno portato inevitabilmente alla conclusione che già da lungo tempo ispettorati ed altri organi di vigilanza non corrispondevano più alle aspettative in loro riposte da terzi – singoli uomini politici, Parlamento, ministri, giornalisti, opinione pubblica –. La verità è che la maggior parte dei sorveglianti coinvolti, coscientemente e volontariamente, non erano più tali da lunghissimo tempo, se mai avevano corrisposto all’idea di «un’applicazione rigorosa delle regole». In molti casi, gli ispettorati avevano mutato la loro attitudine e la concezione del loro ruolo, spesso in conformità con i mutamenti delle concezioni politiche e delle disposizioni regolamentari a livello ministeriale. Il mutato contesto istituzionale per la regolazione e il controllo risale alla fine degli anni ’70 del secolo scorso quando, dapprima, fu identificato con il concetto di «governance complementare», e poi – per buona parte degli ultimi anni ’70 – fu perfino oggetto di una commissione ufficiale di consulenza governativa per la riforma. In quegli anni era già stata identificata l’esigenza pratica di cooperazione tra livelli di Governo, nello stesso filone di pensiero per il quale attualmente alcuni osservatori parlano di necessità di governance multilivello in generale, in Europa. In una «relazione orizzontale» di Governo cooperativo, relazioni che implicano controllo gerarchico dall’alto risultano piuttosto difficili da impostare. 6.4. Separazione delle funzioni La sorveglianza di tipo gerarchico comporta il problema dei due cappelli: un (co-) produttore di politiche pubbliche che nello stesso tempo è anche controllore delle stesse. I «whistleblowers» – collaboratori civici –, anche se appartengono al sistema istituzionalmente formalizzato dei checks and balances, non sono molto popolari nelle «mutue relazioni» e sono facilmente considerati «burocrati» formalisti o fastidi organizzativi. Di conseguenza, il tradizionale controllore «weberiano» ha iniziato a conformare e trasformare il suo comportamento, nominalmente nell’ambito dello stesso ruolo, funzione e posizione, ma con un FEDERALISMO, PARTECIPAZIONE E TRASFORMAZIONE NEI PAESI BASSI 115 diverso senso della sua missione. Molti ispettorati, nel corso degli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, con il supporto di altri attori, nelle loro industrie dei servizi pubblici, hanno mutato il loro comportamento direttivo ed applicativo ed hanno adottato un’interpretazione più egalitaria delle loro funzioni di ispettorato, come la funzione di promozione politica e di consulenza, in veste di consulenti regionali del Governo nazionale per gli enti locali, o una funzione di monitoraggio, in quanto «occhi e orecchie» del Ministro nella Regione. Il vecchio compito, implicitamente assunto, di applicatore e agente per l’osservanza della legge è scomparso e per un lungo periodo non è stato raccolto da altri attori istituzionali. Il risultato è stato un modello molto differenziato e frammentato di modernizzazione della funzione di controllo sul Governo. Una proliferazione di agenzie di monitoraggio, di collegi di revisione, di istituzioni di benchmarking, commissioni di valutazione e accreditazione sono emerse nel corso del tempo, orientati funzionalmente e verso «le prestazioni», con poca attenzione agli aspetti sistematici dello sviluppo generale. Per di più, almeno nominalmente, molte unità governative hanno intrapreso volontariamente varie forme di certificazione e di controllo della qualità. Talvolta questo è stato fatto al sincero scopo di migliorare l’attività d’impresa della loro organizzazione; ma altrettanto spesso ci troviamo di fronte a sforzi per respingere potenziali sviluppi nella direzione di un accresciuto controllo esterno sul Governo. L’intero approccio di «rete» e di «governance» ha non soltanto guadagnato molti sostenitori in ambito accademico, ma ha anche pervaso di strategie di riforma e di politica tutto il settore pubblico, in alcuni casi – come quello delle «strategie di applicazione» – indubbiamente con migliori risultati che in altri. Molte aree del settore della prestazione dei servizi pubblici – servizi del governo locale, agenzie per l’assistenza sociale, coperative edilizie, amministrazione delle tasse, tutela ambientale in vari settori, politiche di integrazione e rinnovamento urbano – hanno chiaramente beneficiato dell’approccio. Le politiche di decentramento degli anni ’90 sono state accompagnate da un forte sviluppo di operazioni di benchmarking e di confronto di prestazioni fra i Governi locali stessi. Oltre a costituire una tecnica di controllo della qualità, il benchmarking ha contribuito alla collaborazione e alla comunicazione fra i Governi locali e alla partecipazione nello sviluppo congiunto di standard e di indicatori di risultato fra di essi. I concetti di democrazia deliberativa sono usati per tentare di coinvolgere il pubblico in questo 116 THEO TOONEN processo. Negli ultimi decenni, la qualità è diventata un concetto chiave dello sviluppo del Governo locale e della prestazione di servizi pubblici. La qualità può essere valuata e stabilita solo in un sistema di mutua partecipazione, in cui prevalgano la fiducia e l’adattamento reciproco. Essa è permanentemente sotto stress per la tendenza a tentare di centralizzare e dirigere la qualità delle prestazioni, piuttosto che lasciarla nelle mani dei ben istituzionalizzati sistemi di automisurazione, autocontrollo e autogovernance partecipata, controllati esternamente. In un sistema di governance pluralistica e diversificata, il federalismo – nel senso di associazione e consociazione fra raggruppamenti e associazioni religiose, regionali, territoriali o funzionali, separate e largamente autonome – è intrinsecamente legato al principio della partecipazione e co-governance dei membri che costituiscono la consociazione nel suo complesso. Il caso olandese, sia nel disegno che nel suo sviluppo, dimostra che non c’è una sola via ma che vi sono molte soluzioni istituzionali a questo eterno problema, ognuna con la sua propria forza e debolezza istituzionale. ANTOINE CHOLLET LA PARTECIPAZIONE IN UNA DEMOCRAZIA «DIRETTA»: IL CASO DELLA SVIZZERA «I know of no safe depository of the ultimate power of the society but the people themselves, and if we think them not enlightened enough to exercise their control with a wholesome discretion, the remedy is not to take it from them, but to inform their discretion by education» (Thomas Jefferson) SOMMARIO: 1. Premessa: alcune osservazioni sul concetto di partecipazione. – 2. Il contesto svizzero. – 3. Presentazione degli strumenti referendari. – 4. Effetti conservatori del sistema referendario. – 5. La classe politica e la democrazia diretta. – 6. Democrazia diretta e mito nazionale. – 7. I problemi aperti. – 7.1. Decisione, potere e azione. – 7.2. Partecipazione e rappresentazione. – 7.3. Controllo giuridico e giudiziario. – 7.4. Legitimazione o libertà. – 8. Conclusioni. 1. Premessa: alcune osservazioni sul concetto di partecipazione Il termine partecipazione fa parte dei quei concetti vaghi che attraversano tanto la scienza politica e la teoria politica quanto i discorsi politici stessi. Rilevare, tuttavia, quest’incertezza semantica non significa che ci si debba liberare del termine stesso, ma piuttosto che è indispensabile cercare di far luce per quanto sia possibile. Su ciò ci soffermeremo brevemente in questo paragrafo. Poi esamineremo il funzionamento delle procedure partecipative in un contesto assolutamente singolare, cioè quello dei meccanismi di democrazia diretta in Svizzera. Infine, alla luce di questo caso preciso, considereremo alcune questioni che la pratica partecipativa solleva nei nostri sistemi giuridici contemporanei. Come si è anticipato, non v’è concetto più difficile da utilizzare per un sociologo della politica di quello di partecipazione. 118 ANTOINE CHOLLET Bisogna diffidare sia della concezione dominante che consiste nel presentare la partecipazione come facente parte esclusivamente del campo della collaborazione volontaria ai meccanismi rapprasentativi (cominciando naturalmente dalle elezioni)1, sia di una concezione “di opposizione”, che assimila la partecipazione a un complesso più vasto di impegni politici, che vanno dalla manifestazione all’attentato, passando per la disobbedienza civile o le attività di propaganda2. In queste condizioni, la partecipazione non può essere compresa al di fuori delle rappresentazioni che se ne fanno e che propagandano i gruppi che detengonno il potere politico in una determinata società. È evidente allora che la partecipazione, prima di essere un concetto scientifico univoco, facilmente utilizzabile dalle scienze sociali, è prima di tutto un concetto politico, nel senso più forte del termine. Vi sono divergenze e discussioni intorno alla definizione della partecipazione e delle prassi ad essa legate. Una definizione va a beneficiare certi gruppi politici e a danneggiarne altri, costruisce un’immagine particolare di ciò che dovrebbe o non dovrebbe essere un cittadino, traccia i confini di ciò che è la partecipazione accettabile e a partire da che punto si trasforma in azione illegale e, dunque, pericolosa per l’ordine costituito. Una definizione della partecipazione dice, infine, in maniera più o meno esplicita a seconda dei casi, quale è l’ordine legittimo che i processi partecipativi sostengono. Ciò nonostante, un concetto politico non è nient’altro che un concetto, e pur mancando della chiarezza e dell’univocità che stanno a cuore al teorico, costituisce non di meno un oggetto di ricerca degno d’essere studiato. Riconoscere questa dimensione politica deve semplicemente mettere in guardia contro le teorie troppo frettolose della partecipazione, che propongono definizioni che ne sottovalutano il posizionamento politico. Non è equivalente, per esempio, parlare di partecipazione trattando di procedure di consultazione dei cittadini, di elezioni, di referendum, di manifestazioni di strada o di interventi mediatici. Occorre allora costruire con consapevolezza il nostro concetto e riconoscergli al stesso tempo questa dimensione politico-normativa da cui è inseparabile. 1 Secondo la definizione di S. VERBA, N. NIE, Participation in America, Political Democracy and Social Equality, Harper and Row, New York, 1972, 2, la partecipazione è riferibile a «those present activities by private citizens that are more or less directly aimed at influencing the selection of governmental personnel, and the action they take». 2 V. più ampiamente J. LAGROYE, B. FRANÇOIS, F. SAWICKI, Sociologie politique, 4e édition, Presses de Sciences Po, Dalloz, Paris, 2002, 309-402. LA PARTECIPAZIONE IN UNA DEMOCRAZIA «DIRETTA»: IL CASO DELLA SVIZZERA 119 Diremo qui che la partecipazione raggruppa l’insieme delle procedure per cui i cittadini possono prendere parte direttamente alle decisioni che sono loro destinate; e quando diciamo «prendere parte» ci riferiamo al fatto di essere una delle parti che va a prendere la decisione finale sull’oggetto in questione e non soltanto al fatto di esprimere la propria opinione o contrarietà3. Principalmente non si tratta, dunque, nè di discutere, nè di essere sentiti, nè di protestare o di resistere, ma di decidere. Questo ci fa ricordare, con Nicole Loraux, che la democrazia è prima di tutto il kratos del demos, e non soltanto la sua presenza più o meno realizzata durante le consultazioni, che siano elettorali o meno4. Le celebri derisioni di Rousseau nei confronti della libertà intermittente degli Inglesi5 non hanno perso la loro attualità, e impongono, dietro la complessità di alcuni meccanismi istitutionali contemporanei, di porsi sempre le questioni del potere e della decisione6. Bisogna ancora aggiungere che la partecipazione non è un fenomeno statico, ma un processo dinamico che si modifica e cresce mentre si realizza. Come nota bene Benjamin Barber, nel contrapporla all’atto di voto che è presentato come fondamentalmente statico: «participation is a dynamic act of imagination that requires participants to change how they see the world»7. Le pratiche di partecipazione, quando raggiungono la 3È la tradizione delle teorie partecipative che bisogna invocare qui per sostenere questa definizione: cfr., ad esempio, P. BACHRACH, A. BOTWINICK, Power and Empowerment, A Radical Theory of Participatory Democracy, Temple University Press, Philadelphie, 1992, 57, secondo i quali «participation may be defined as action through which members of political structures, organizations, and groups effectively exercise power to influence policy outcomes». 4 N. LORAUX, la Cité divisée, Payot, Paris, 1997. Su questo aspetto v. anche J. OBER, The Original Meaning of “Democracy”: Capacity to Do Things, not Majority Rule, Constellations, 15, 1, 2008, 3-9. 5 «Le peuple Anglois pense être libre; il se trompe fort, il ne l’est que durant l’élection des membres du Parlement; sitôt qu’ils sont élus, il est esclave, il n’est rien. Dans les courts momens de sa liberté, l’usage qu’il en fait mérite bien qu’il la perde»: J.J. ROUSSEAU, Du contrat social, Livre III, chapitre 15. 6 Non bisogna considerare la nostra insistenza sulla questione della decisione come il segno male assunto d’un decisionismo che prenderebbe in prestito più da Carl Schmitt che dalla tradizione democratica. Basti ricordare, per dissipare l’eventuale malinteso, che una decisione democratica (o, d’altronde, ogni decisione in un ambito costituzionale) non rientra nelle competenze dello schema di Schmitt della Verfassungslehre dato che è necessariamente collettiva. Contro le teorie che cercano di svuotare la questione della decisione, bisogna ricordare che né Aristotele, né Machiavelli, né Rousseau ignorano la sua centralità, in quanto fondamentale in ogni teoria della democrazia. 7 B. BARBER, Strong Democracy, Participatory Politics for a New Age, University of California Press, Berkeley, 1984, 136. 120 ANTOINE CHOLLET qualità che a loro è riconosciuta nel testo di Barber, sono dunque delle realtà difficili da misurare, nel senso che sono almeno tanto potenziali quanto attuali. È questa una ragione in più per riconoscere al concetto di partecipazione la sua dimensione eminentemente politica e normativa. Non è inutile ricordare, inoltre, che le teorie della democrazia partecipativa hanno loro stesse una storia e hanno conosciuto insieme dei momenti privilegiati e delle eclissi durante questi ultimi decenni. Per la produzione anglofona, come dice Jeffrey Hilmer, «the state of participatory democratic theory at the beginning of the 21° century is weak»8. Egli nota che queste teorie (e le pratiche che le accompagnano) hanno conosciuto il loro momento più fecondo negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso9, per poi andare in declino a partire dagli anni ’80, pur avendo conosciuto, in quel periodo, alcune sintesi particolarmente importanti10. Un pò accecato dai suoi riferimenti anglofoni, Hilmer non vede che le teorie della democrazia partecipativa hanno conosciuto una fioritura significativa in altri spazi universitari. Limitandosi al mondo francofono, abbiamo assistito a partire dagli anni ’90 alla pubblicazione di una grande quantità di lavori sulla questione, in una prospettiva tuttavia un pò diversa da quella generalmente adottata dagli studi americani, specie in riferimento alla posizione meno centrale ivi accordata alle considerazioni teoriche. Inoltre, e contrariamente ai lavori anglofoni, le nozioni di partecipazione e di deliberazione nel dibattito francofono sono frequentemente legate11, senza essere tuttavia sempre identificate l’una con l’altra. La gestione di problemi scientifici particolarmente delicati 8 J.D. HILMER, The State of Participatory Democratic Theory, in New Political Science, 32, 1, 2010, 44. 9 Cfr., fra gli altri, C. PATEMAN, Participation and Democratic Theory, Cambridge University Press, Cambridge, 1970; T.E. COOK, P.M. MORGAN (ed.), Participatory Democracy, San Francisco, Canfield Press, 1971; D. ROUSSOPOULOS, C.G. BENELLO (ed.), Participatory Democracy, Prospects for Democratizing Democracy, Black Rose Books, Montréal, 2005 (la prima edizione di quest’ultimo è del 1970). 10 Cf. B. BARBER, Strong Democracy, cit. (che Hilmer descrive come «the most comprehensive statement of partcipatory democracy to date», art. cit., 47); J.J. MANSBRIDGE, Beyond Adversary Democracy, The University of Chicago Press, Chicago, 1983. 11 Due autori, pur con diversità di accenti, hanno proposto in questi ultimi anni delle sintesi molto utili: L. BLONDIAUX, La démocratie participative, sous conditions et malgré tout. Un plaidoyer paradoxal en faveur de l’innovation démocratique, Mouvements, 2, 50, 2007, 118-129; ID., Démocratie délibérative vs. démocratie agonostique? Le statut du conflit dans les théories et les pratiques de participation contemporaines, Raisons politiques, 2, 30, 2008, 131147; Y. SINTOMER, Le Pouvoir au peuple, jury citoyens, tirage au sort et démocratie participative, La Découverte, Paris, 2007. LA PARTECIPAZIONE IN UNA DEMOCRAZIA «DIRETTA»: IL CASO DELLA SVIZZERA 121 ha anche occupato i ricercatori francesi, che si tratti degli organismi geniticamente modificati, del nucleare civile, di ricerche sul genoma umano o di nanotecnologie12. La situazione della ricerca in Italia sembra ancora diversa, trattandosi in particolare delle discipline interessate dai lavori sulla partecipazione. Questa diversità non deve sorprendere, ove si ricordi che la questione della partecipazione è prima di tutto politica. Allora è assolutamente normale che le ricerche condotte sul suo conto siano in una certa misura dipendenti dai diversi contesti politici. Quanto alla Svizzera, come vedremo subito, la situazione è ancora diversa. L’esistenza di meccanismi molto sviluppati di democrazia diretta cambia in modo significativo la natura della partecipazione civile e il dibattito sulla sua ampiezza, la sua efficacia e la sua utilità. Ma prima di poter discutere di queste questioni, occorre prima di tutto presentare, pur sinteticamente, questo contesto particolare. 2. Il contesto svizzero Per comprendere l’importanza della questione della partecipazione in Svizzera, conviene prendere le mosse dalle analisi che forniscono due politologi a proposito dell’importanza della democrazia diretta in seno al sistema politico svizzero: «The political culture in Switzerland, highly participatory in form and based on an almost worshipping of the people’s empowerment over its representatives, can also primarly be attributed to the referendum and the initiative»13. La presenza di meccanismi di democrazia diretta ha effetti numerosi, profondi e importanti sul sistema politico svizzero nel suo complesso, e colpisce ovviamente la natura ed il senso di queste forme di partecipazione civile assolutamente particolari. Tentiamo di presentare le caratteristiche principali di questa relazione stretta fra democrazia e partecipazione in Svizzera, tenendo a mente le riserve e le precauzioni terminologiche e concettuali di cui abbiamo accennato poco sopra. Per parlare di quella «forma minima di partecipazione»14 rappresentata dagli scrutini, la situazione si presenta sotto un aspetto molto interessante. Per simplicità, occorre lasciare da parte il livello degli Stati 12 Cf. M. CALLON, P. LASCOUMES, Y. BARTHES, Agir dans un monde incertain, essai sur la démocratie technique, Le Seuil, Paris, 2001. 13 H. KRIESI, A. TRECHSEL, The Politics of Switzerland, Cambridge University Press, Cambridge, 2008, 66. 14 J. LAGROYE et al., op. cit., 357. 122 ANTOINE CHOLLET federali: la Svizzera conta 26 cantoni, i cui sistemi politici sono tutti diversi gli uni dagli altri, tanto che considerarli singolarmente ci condurrebbe lontano. Basti qui notare che i cantoni, in generale, conoscono dei meccanismi di democrazia diretta insieme più vari e più numerosi rispetto a quelli federali15, andando fino ai famosi Landsgemeinden, assemblee popolari che riuniscono una volta all’anno il complesso dei cittadini per prendere ogni sorta di decisione riguardante il cantone16. D’altra parte, non parlaremo molto delle elezioni, per le quali il tasso di partecipazione è tradizionalmente molto basso in Svizzera17. Ci concentreremo piuttosto sugli scrutini di tipo referendario e sui loro effetti sul sistema politico svizzero. Prima di presentarli nei minimi particolari, bisogna ritornare sulla nozione di democrazia diretta. È ovvio che gli strumenti istituzionali che conosce la Svizzera non hanno un’affinità immediata con quello che la teoria politica intende per «democrazia diretta», se si intende questa come il regime nel quale il popolo riunito detiene tutti i poteri (legislativo, governativo e giudiziario). Il contrasto con la democrazia ateniese è naturalmente netto, è inutile insistere su questo punto18. Il concetto di democrazia diretta è talvolta indicato, per evidenziare meglio la differenza, come democrazia semidiretta19. Da un punto di vista terminologico, il discorso muta a seconda che si voglia indicare la convergenza con gli antichi esempi di democrazia o, al contrario, insistere su quello che li distingue. Per il caso svizzero, utilizzeremo la formula «democrazia diretta», precisando che essa designa solo una parte della costruzione istituzionale del sistemo politico sviz15 Il livello federale designa, in Svizzera, lo Stato centrale, ugualmente chiamato confederazione (Bund in tedesco - sebbene con significato non esattamente identico, confederazione in italiano, confederazium in lingua romancia). 16 Questo meccanismo esiste oggi solo in due cantoni: Glaris e Appenzell Rhodes-Intérieures, che contano solo alcune decine di migliaia di abitanti ciascuno. 17 A. LIJPHART, Unequal Participation: Democracy’s Unresolved Dilemma, American Political Science review, 91, 1, 1997, 3, ricorda che la Svizzera è, con gli Stati Uniti, «the other major example of a Western democracy with low levels of turnout». 18 Per un confronto molto stimolante fra democrazie antiche e moderne, v. C. CASTORIADIS, Imaginaire politique grec et moderne, La Montée de l’insignifiance, Le Seuil, Paris, 1996, 159-182. 19 Cf. Y. PAPADOPOULOS, Démocratie directe, Economica, Paris, 1998, 23, che riprende da Sartori l’espressione «democrazia referendaria» per qualificare questi sistemi: «A referendum democracy is, as the wording says, a democracy in which the démos decides directly the issues, though not by gathering together, but discretely, via the referendum instrument (G. SARTORI, The Theory of Democracy Revisited, Chatham House, Chatham, 1987, 111-112). LA PARTECIPAZIONE IN UNA DEMOCRAZIA «DIRETTA»: IL CASO DELLA SVIZZERA 123 zero, la quale rientra nel campo di quella che la teoria politica chiamava una volta una «Costituzione mista». Occorre tuttavia ricordare che gli strumenti attuali della democrazia diretta non hanno niente a che fare con le istituzioni che alcuni cantoni svizzeri hanno conosciuto a partire dal XII secolo. Non c’è continuità, nè politica nè teorica, fra le istituzioni di cui parleremo tra breve e le comunità libere e democratiche che esitevano in certi cantoni della Svizzera centrale o orientale durante l’Ancien Régime e, per qualcuno, fino al XIX secolo20. È importante ricordare, ancora, che la Svizzera è lo Stato con il maggior numero di scrutini nazionali. A livello europeo, per esempio, mentre l’Italia (secondo paese della lista) ha consciuto 57 referendum fra il 1960 e il 2003, i cittadini svizzeri hanno dovuto pronunciarsi su ben 321 questioni durante lo stesso periodo. Questi strumenti sono dunque frequetemente utilizzati (quattro consultazioni per anno in media, comprendendo generalmente diversi argomenti federali, spesso affiancati dagli scrutini cantonali o comunali), e lo sono a proposito di questioni politiche importanti. Essi hanno inoltre una serie di effetti essenziali sulla struttura del sistema politico svizzero, aspetto che non possiamo tuttavia discutere qui in maniera esaustiva21. 3. Presentazione degli strumenti referendari A livello federale vi sono tre tipi principali di strumenti referendari. Il primo e il più antico, introdotto nella prima Costituzione del 20 Per un’interessante descrizione, v. B. BARBIER, The Death of Communal Liberty, Princeton University Press, Princeton, 1974; nonché Y. PAPADOPOULOS, op. cit., 32, il quale ricorda che «si la mise en place de mécanismes référendaires dans la deuxième moitié du XIXe siècle a pu être facilitée par l’évocation mythique de la Landsgemeindedemokratie, elle n’en constitue en aucune manière le prolongement direct». 21 V., fra gli altri, W. LINDER, Direct Democracy e A. TRECHSEL, Popular votes, in U. KLÖTI (et.al.), Handbook of Swiss Politics, NZZ Verlag, Zurich, 2007; Z.T. PÁLLINGER (et al.), Direct Democracy in Europe, Developments and Prospects, Wiesbaden, Verlag fûr Sozialwissenschaften, 2007; B. KAUFMANN, R. BÜCHI, N. BRAUN (ed.), Guide de la démocratie directe en Suisse et au-delà, Marburg, Initiative § Referendum Institute Europe, 2007; P.A. SCORDERET, Élire, voter, signer, Thèse de science politique, 2005; T. SCHILLER, Direkte Demokratie, eine Einführung, Campus Verlag, Francoforte, 2002; A. VATTER, Consensus and Direct Democracy: Conceotual and Empirical Linkage, European Journal of Political Research, 38, 6, 2000, 171-192; M. GALLAGHER, P.V. ULERI (ed.), The Referendum in Europe, Macmillan, Londra, 1996; J.D. DELLEY, L’initiative populaire en Suisse, mythe et réalité de la démocratie directe, L’Âge d’Homme, Losanna, 1978. 124 ANTOINE CHOLLET 1848, è il referendum obbligatorio. Esso riguarda tutte le modifiche costituzionali votate dal Parlamento e deve essere indetto dalle autorità; nel 1977 è stato esteso a taluni accordi internazionali particolarmente importanti. Per essere approvato, un referendum obbligatorio necessita della doppia maggioranza del popolo e dei cantoni, principio federalista rivendicato dai piccoli cantoni, per la maggior parte cattolici, durante la creazione della Svizzera moderna. Il secondo meccanismo, il referendum facoltativo, è stato introdotto durante la prima riforma totale della Costituzione nel1874: esso permette a 50.000 cittadini22 di chiedere un voto popolare su qualsiasi legge votata dal Parlamento federale. Il terzo e ultimo strumento introdotto nell’ordine costituzionale svizzero, l’iniziativa popolare, permette a 100.000 cittadini23 di proporre una modifica costituzionale, sottoposta al voto della doppia maggioranza del popolo e dei cantoni. Non c’è quasi nessun limite sul tenore del testo delle iniziative popolari, tranne l’omogeneità della materia e il rispetto del diritto internazionale cogente. La decisione d’invalidare un’iniziativa ritorna al Parlamento, che non l’utilizza che raramente, tenuto conto del costo politico che comporterebbe in termini di delegittimazione l’accusa di voler limitare l’esercizio della sovranità popolare. Contrariamente alle elezioni, per le quali la partecipazione è insieme debole e abbastanza costante nella storia, la partecipazione agli scrutini referendari è molto variabile: è caduta alcune volte sotto il 30% ed è salita, una sola volta, al risultato eccezionale di 78,8% (si trattava dell’adesione all’Area Economica Europea nel 1992). La partecipazione media in questi ultimi quarant’anni si è elevata al 42%, ma dipende molto dall’importanza della posta in gioco e dall’entusiasmo della campagna che precede il voto (non essendo i due fattori necesariamente legati)24. Inoltre, la Svizzera non conosce una diminuzione continua del tasso di partecipazione, anche se abbiamo osservato un abbassamento significativo dagli anni ’50 agli anni ’80. Il tasso di partecipazione è un po’ aumentato dal 2000 rispetto al decennio prece22 Tale numero (30.000 fino al 1977) rappresenta oggi circa l’1% della popolazione. Otto cantoni possonno ugualmente chiedere il referendum, però il caso si è presentato una sola volta per una riforma fiscale nel 2004 (rifiutata dai cittadini). Il termine per la raccolta delle firme è di 100 giorni dalla pubblicazione della legge. 23 Fino al 1977 questo numero era di 50.000, e senza limite di tempo per la raccolta delle firme: oggi tale termine è di 18 mesi. 24 Su questo punto, cft. H. KRIESI, Direct Democratic Choice, the Swiss Experience, Lexington Books, Lanham, 2005. LA PARTECIPAZIONE IN UNA DEMOCRAZIA «DIRETTA»: IL CASO DELLA SVIZZERA 125 dente, specialmente a causa della generalizzazione del voto per corrispondenza25. Precisiamo che la partecipazione è calcolata in Svizzera rispetto al complesso della popolazione, cioè degli aventi dritto al voto, e non secondo le liste elettorali che richiedono la previa iscrizione. Aggiungiamo anche che gli ostacoli materiali alla partecipazione sono per quanto possibile poco significativi, dato che tutti i cittadini ricevono a casa la loro lettera di voto, che basta compilare e rispedire all’amministrazione comunale al fine di votare validamente. Gli ostacoli simbolici o immateriali restano ovviamente gli stessi di tutte le altre democrazie occidentali, essendo la struttura della partecipazione – come altrove – fortemente legata alle categorie socio-economiche e socio-culturali. 4. Effetti conservatori del sistemo referendario Gli effetti di questi diversi strumenti sono vari. Per comprenderli meglio, forse dobbiamo cominciare indicando con quale frequenza essi conseguono risultati positivi. I referendum obbligatori hanno avuto esito positivo in quasi tre casi su quattro (72%) dal 1848; i referendum facoltativi in circa la metà dei casi (54%); mentre meno del 10% delle iniziative popolari ha trovato seguito dall’introduzione di questo strumento. Bisogna tuttavia precisare, con particolare riguardo all’iniziativa legislativa, che essa produce significativi effetti indiretti, soprattutto quando il risultato si avvicina al 50%: un’iniziativa contribuisce infatti ad iscrivere un tema nell’agenda politica e costringe gli attori a prendere posizione rispetto alle questioni che pone. Il voto del 1989, che chiedeva la soppressione dell’esercito svizzero, per esempio, sebbene avesse raccolto solo il 35% dei voti favorevoli, ha avuto delle conseguenze molte profonde sulle riforme successive dell’esercito26. Gli scrutini popolari il cui effetto è più significativo, cioè quelli in cui la decisione popolare corrisponde di meno alle politiche votate dagli organi rappresentativi, sono dunque i referendum facoltativi, che istituiscono una sorta di diritto di veto della popolazione, impedendo l’entrata in vigore di numerose leggi. I referendum obbligatori hanno invece una 25 Cft. S. LUECHINGER, M. ROSINGER, A. STUTZER, The Impact of Postal Voting on Participation: Evidence for Switzerland, Swiss Political Science Review, 13, 2, 167-202. 26 KRIESI e TRECHSEL stimano, per esempio, che circa un terzo delle initiative lasciano una traccia nella legislazione (op. cit., 60). 126 ANTOINE CHOLLET funzione di conferma di decisioni politiche precedenti; mentre l’iniziativa, l’unico meccanismo di democrazia diretta che aspira al cambiamento, ha un ruolo molto più limitato nel sistema politico svizzero. La democrazia diretta ha dunque un effetto principalmente conservatore in Svizzera27. I suoi strumenti, nelle forme che si sono viste, tendono più facilmente a bloccare piuttosto che a incoraggiare i cambiamenti, frenando il sistema politico e svolgendo una funzione supplementare di controllo esterna a quest’ultimo. Tuttavia, nonostante questo conservatorismo intrinseco ai meccanismi svizzeri di democrazia diretta, bisogna ugualmente riconoscere loro un forte effetto legittimante per il sistema politico nel suo complesso. Le decisioni prese tramite referendum acquistano una legittimità massima, essendo l’infallibilità popolare eretta a vero dogma nel mondo politico svizzero. Bisogna ancora aggiungere che la possibilità di contestare ogni decisione del Parlamento per via referendaria conferisce, in cambio, una legittimità a queste decisioni anche quando queste non sono state oggetto di revisione referendaria, dato che avrebbero potuto esserlo. Il fatto d’aver scampato il referendum è un segno supplementare di consenso, che aumenta nello stesso tempo la legittimità della decisione28. I meccanismi di democrazia diretta hanno un’altro effetto conservatore, che riguarda stavolta i rapporti di forza dei partiti a livello federale. La rappresentanza dei partiti politici è straordinariamente stabile in Svizzera. L’esistenza di strumenti di democrazia diretta ha come conseguenza di ridimensionare l’importanza delle elezioni agli occhi dei cittadini e di togliere alla composizione del Parlamento il carattere fondamentale che ha nella maggior parte degli altri sistemi politici occidentali. Le variazioni della forza elettorale relativa dei partiti sono minime e sono generalmente compensate tra un cantone e l’altro. I due ultimi cambiamenti significativi della struttura partitica sono stati l’ascesa dei Verdi (che hanno ottenuto circa il 10% dei voti alle ultime elezioni federali nel 2007) e il rafforzamento molto significativo dell’Unione De27 «L’impression générale laissée par la démocratie directe est […] qu’il s’agit d’un élément de consolidation et de perpétuation du conservatisme suisse»: J. MEYNAUD, La Démocratie semi-directe en Suisse, Montréal, 1969, 46, citato da F. MASNATA, C. RUBATTEL, Le Pouvoir suisse, séduction démocratique et répression suave, Vevey, L’Aire, 1991, 147. 28 Questo doppio aspetto, conservatore e insieme legittimante, ha suscitato naturalmente critiche diffuse: poche di queste, peraltro, insistono sulla difficoltà di trasformare il sistema politico svizzero e sul carattere paradossalmente antidemocratico della democrazia diretta svizerra: cft. F. MASNATA, C. RUBATTEL, op. cit., 140-154. LA PARTECIPAZIONE IN UNA DEMOCRAZIA «DIRETTA»: IL CASO DELLA SVIZZERA 127 mocratica di Centro (UDC), il principale partito nazionalista e conservatore, assurto a primo dei quattro partiti di governo (era ancora il quarto alla metà degli anni ’90). Ciononostante, per sfumare l’importanza di queste due trasformazioni, bisogna considerare che esse non hanno inciso granché sul rapporto fra la destra29 e la sinistra30, che rimane stabile intorno ad una distribuzione del 70-30%. Questa distribuzione, molto sfavorevole alla sinistra, sembra tuttavia lentamente evolvere nella direzione di un rafforzamento di quest’ultima, ma la variazione è minima e tuttora fragile. Da un punto di vista funzionale, i meccanismi di democrazia diretta introducono, ciononostante, una certa dose d’imprevedibilità nel sistema. Un’opposizione può apparire in luoghi imprevisti, dunque impossibili da anticipare nella fase di preparazione di una legislazione. Allo stesso modo, delle iniziative possono essere lanciate da attori che non rientrano nel campo politico concepito in senso stretto, e talvolta riuscire ad essere accolte. Questi disordini sono regolarmente molto criticati dalla classe politica, la quale propone frequentemente di limitare l’uso della democrazia diretta, aumentando il numero delle firme necessarie o riducendo il termine per la loro raccolta, o ancora accrescendo il numero delle materie escluse. Da un punto di vista normativo, questa questione ci sembra assolutamente secondaria: il valore fondamentale della democrazia non è certamente l’ordine bensì la libertà. E ciò che caratterizza la libertà è, innegabilmente, l’imprevedibilità delle sue esplicazioni. È tuttavia piuttosto ad un’opposizione fra tecnocrazia e conservatorismo che qui si assiste, dato che una parte della classe politica mal sopporta l’idea che la popolazione possa liberamente mettere un freno alle riforme decise dall’amministrazione, dagli «esperti» o dal governo. 5. La classe politica e la democrazia diretta Nonostante ciò, come emerge chiaramente dai numerosi studi dedicati a questo tema31, le classi politiche svolgono un ruolo determinante riguardo al risultato dei voti referendari. Innanzitutto, sono 29 Composta da l’Unione democratica del centro (UDC), dal Partito liberale-radicale (PLR) e dal Partito democratico-cristiano (PDC). 30 Composta, al livello nazionale, dal Partito socialista (PS) e dai Verdi. 31 V., in particolare, H. KRIESI, Direct Democratic Choice, cit. 128 ANTOINE CHOLLET spesso membri di questa elite – partiti, associazioni, sindacati, etc. – che lanciano i referendum o le iniziative. Sono poi le stesse elites che animano la campagna che precede il voto, senza contare che i media, come in tutti gli altri paesi, esercitano ugualmente un’influenza significativa. La rappresentazione mitizzata di una democrazia libera da ogni costrizione, di un popolo assolutamente sovrano e impossibile da influenzare, è certamente fantasiosa. È sbagliato, tuttavia, invertire completamente questa descrizione e sostenere solo l’influenza delle elites sugli scrutini referendari. I diversi strumenti di democrazia diretta utilizzati in Svizzera offrono ai cittadini una funzione di controllo non trascurabile, che si esercita naturalmente al momento del voto stesso, ma che estende i suoi effetti prima e dopo di questo. L’anticipazione di una possibilità di referendum ha delle conseguenze importanti sul funzionamento del sistema politico svizzero, per esempio. L’inclusione di attori che probabilmente lanceranno un referendum è sistematica quando delle leggi importanti sono discusse in Parlamento: si tratta della c.d. consultazione, meccanismo istituzionalizzato che riguarda i gruppi, i partiti, le associazioni che, in un modo o nell’altro, sono interessati dall’oggetto della legge in discussione32. Dopo un voto, il contenuto, i discorsi e i dibattiti che avranno avuto luogo durante la campagna sono destinati ad influenzare ugualmente il funzionamento del sistema e il posizionamento degli attori. Una campagna referendaria è spesso almeno tanto importante per il tema sottoposto al voto quanto per questioni future o per l’evoluzione del dibatto politico in materie connesse. In conclusione, come osservano Kriesi e Trechsel, «direct democracy opens up the political system while greatly reducing the autonomy of the state vis-à-vis society»33. I meccanismi di democrazia diretta non sono dunque la semplice espressione del malumore passeggero dei cittadini34, né offrono di più di un vero e proprio potere di proposta, ma rappresentano una sorta di potere di riserva sempre utilizzabile e, perciò, particolarmente importante per capire il funzionamento del sistema politico svizzero. 32 Sulle dinamiche relative all’analisi delle politiche pubbliche, cfr. H. KRIESI, A. TRECHSEL, The Politics of Switzerland, cit., 115-131. 33 ID., 56. 34 Studi fatti sulla competenza politica dei cittadini mostrano che «nearly half of all survey respondents could be considered to possess a satisfactory degree of voter competence»: H. KRIESI, A. TRECHSEL, op. cit., 61. LA PARTECIPAZIONE IN UNA DEMOCRAZIA «DIRETTA»: IL CASO DELLA SVIZZERA 129 Non bisogna trascurare l’importanza di un potere che, pur non essendo necessariamente sempre utilizzato in modo esplicito, non è perciò meno presente, implicitamente, in ogni momento. 6. Democrazia diretta e mito nazionale C’è ancora un ultimo elemento da aggiungere nella presentazione degli strumenti referendari in Svizzera, che si riferisce alla sua importanza simbolica. Con la neutralità e il federalismo, la democrazia diretta rappresenta il terzo pilastro fondatore dell’immagine che la “nazione svizzera” assume di se stessa. A partire da una tradizione ampiamente forgiata35 e presunta risalire al Medioevo, la storia svizzera è interpretata come la storia di una democrazia esemplare, e perciò opposta a quella dei paesi circostanti, esprimendo così un reazione tipicamente nazionalistica di esclusione di un «esterno» riportato ad un’irriducibile diversità e d’inclusione di un «interno» identificato come una grande comunità di uguali. Questo problema è tuttavia fortemente legato, in Svizzera, al processo di costruzione nazionale che si sviluppa fin dalla fine del XIX secolo36. Il legame intimo che esiste qui fra nazionalismo e valorizzazione della democrazia diretta non potrebbe stabilirsi in egual misura altrove, in particolare perché gli obiettivi perseguiti dai progetti partecipativi non fanno parte, nella maggior parte dei casi, della retorica nazionalista. È dunque molto probabile che questo problema non riguardi in realtà che la Svizzera. Questo legame stretto fra democrazia diretta e nazionalismo che si osserva in Svizzera permette di spiegare un’altra caratteristica assolutamente singolare, che è l’ideologia del consenso. Quest’ultima non è concepita in Svizzera come un regime agonistico, segnato dall’avversità e dal conflitto, ma piuttosto come quello che Jane Mansbridge chiama una democrazia «unitaria»37. La democrazia svizzera, e più generalmente tutta la politica svizzera, è presunta funzionare per consenso e 35 Per riprendere il concetto sviluppato da E. HOBSBAWM, T. RANGER (dir.), The Invention of Tradition, Cambridge University Press, Cambridge, 1983. 36 Su questo punto, sia consentito rinviare a A. CHOLLET, La Suisse, nation fêlée, Presses du Belvédère, Pontarlier, Sainte-Croix, 2006, 103-108. 37 J.J. MANSBRIDGE, Beyond Adversary Democracy, op. cit. Sulla democrazia «agonistica», v. C. MOUFFE, The Return of the Political, Londra, verso, 2005. 130 ANTOINE CHOLLET ignorare il conflitto38, sebbene si tratti di una descrizione non del tutto rispondente alla realtà. Quest’ideologia del consenso spiega bene tanto la prassi permanente del governo di grande coalizione39 quanto i ripetuti dinieghi in ordine all’eventuale esistenza di veri conflitti sociali in Svizzera (e la copertura molto significativa di antiche divisioni nelle rappresentazioni collettive della storia nazionale). A questo riguardo, non è un caso che l’accordo fra i sindicati e il patronato siglato nel 1937 e che proibiva gli scioperi sia stato chiamato la «Pace del Lavoro». La democrazia svizzera, per poter costituire uno dei pilastri del’immaginario nazionale, deve dunque essere consensuale, e non mettere troppo seriamente in discussione l’ordine politico ed economico costituito. Alcuni disordini manifestatisi in questi ultimi anni – abbastanza paradossalmente provocati dalla destra nazionalista – probabilmente non rimettono in discussione questo equilibrio, ma mostrano che gli strumenti referendari non sono usati nel loro pieno potenziale politico. 7. I problemi aperti È ora il momento di evidenziare le principali problematiche che derivano dal sistemo svizzero di democrazia diretta e che interrogano più generalmente le diverse teorie della democrazia partecipativa. Questi elementi non pretendono né di essere esaustivi, né tanto meno sistematici; hanno piuttosto l’ambizione di costituire un invito a proseguire la riflessione sul significato e l’attuazione dei concetti di partecipazione e di democrazia oggi. 7.1. Decisione, potere e azione Al di là del contesto svizzero, abbiamo già ricordato che le questioni che devono sempre essere poste alle teorie e alle prassi della democrazia partecipativa sono quelle della decisione e del potere. A suo 38 In maniera critica, F. MASNATA, C. RUBATTEL, Le Pouvoir suisse, cit., 157, scrivono: «Les quatre principes cardinaux de la politique suisse sont: union sacrée, neutralité de l’État, nécessité du compromis, absence d’opposition». 39 I quattro principali partiti svizzeri, dalla destra nazionalista al partito socialista, rappresentando più dell’80% dei parlementari, hanno tutti propri membri in seno al governo dal 1959. LA PARTECIPAZIONE IN UNA DEMOCRAZIA «DIRETTA»: IL CASO DELLA SVIZZERA 131 modo, Benjamin Barber vi è molto attento, cosa rara tra i teorici della partecipazione. In una sezione dagli accenti machiavelliani intitolata «Defining the Conditions of Politics», egli lo esprime molto chiaramente: «A political question thus takes the form: “What shall we do when something has to be done that affects us all, we wish to be reasonable, yet we disagree on means and ends and are without independent grounds for making the choice?”. This formulation suggests that the ultimate political problem is that of action, not Truth or even Justice in the abstract»40. I due elementi cruciali della posizione di Barber, che noi prendiamo in prestito, sono il primato dell’azione e la necessità che essa sia collettiva, condizione del suo essere realmente partecipativa e democratica. Per comprendere il legame intimo fra azione e potere, bisogna probabilmente rileggere Hannah Arendt in The Human Condition, ove si definisce il potere come la capacità d’agire in comune e d’iniziare nuove azioni41. Tutta la teoria della democrazia partecipativa deve tenere conto di questa relazione fra azione, potere e decisione. L’eliminazione frequente di uno o l’altro di questi tre termini nelle teorie della democrazia partecipativa ci sembra essere il più sicuro indizio del loro carattere antidemocratico. Da alcuni anni gli esempi di istituzioni “partecipative” che hanno di democratico solo il nome, purtroppo, abbondano. La Francia offre a nostro avviso numerosi esempi in tal senso, ovvero di procedure nelle quali i confini del potere non mutano e la consultazione serve, al contrario, a legittimarlo42. Anche il ruolo della Commissione nazionale del dibattito pubblico sembra avere la stessa logica: far “partecipare” i cittadini per legittimare decisioni pubbiche che non possono realmente contestare e in tal modo, aggiungeremmo noi, diluire la responsabilità dei veri organi decisionali. In questo senso, per il fatto di intervenire alla fine del processo legislativo, lo strumento referendario così come esiste in Svizzera obbedisce ad una logica proprio inversa: un vero potere, che resta certo un po40 B. BARBER, Strong Democracy, cit., 120-121. 41 H. ARENDT, Power and the Space of Appearance, The Human Condition, The University of Chicago Press, Chicago, 1958, 199-207. 42 Basti leggere la minuziosa descrizione di una di queste procedure, esposta in particolare da tre politologi che vi hanno essi stessi partecipato in quanto garanti del «corretto svolgimento metodologico»: D. BOY, D. DONET KAMEL, P. ROQUEPLO, Un exemple de démocratie participative, la “conférence de citoyens” sur les organismes génétiquement modifiés, Revue française de science politique, 50, 4, 2000, 779-808. 132 ANTOINE CHOLLET tere di veto ma che non è neppure assolutamente insignificante, sta in effetti nelle mani dei cittadini. 7.2. Partecipazione e rappresentazione Come efficacemente evidenziato dalle parole di Rousseau («di qualunque tipo esso sia, nel momento in cui un Popolo si da dei rappresentanti non è più libero; non c’è più»)43, nella teoria come nella prassi politica la partecipazione non può pensarsi senza riflettere sulla questione della rappresentazione, o di ciò che si dà come tale da circa due secoli. Non è il caso di discutere in dettaglio questa nozione – il contenuto e il senso della quale sono cangianti a seconda degli autori, i paesi o i periodi considerati – ma piuttosto di insistere su ciò che distingue rappresentazione e partecipazione44. Considereremo la rappresentazione solo nel suo senso più stretto, cioè come delega di potere concessa dalla popolazione durante ogni elezione e affidata ad una assemblea di mandanti (tralasciamo dunque tutta la problematica dalla dimensione simbolica della rappresentazione, proprio quella che è cosi notamente illustrata sul frontespizio delle prime edizioni del Leviathan di Thomas Hobbes). Il caso svizzero mostra in modo chiaro l’interdipendenza del sistema rappresentativo e dei meccanismi di partecipazione, e insieme la loro relativa separazione. L’interdipendenza si manifesta a diversi livelli. In primo luogo, i principali utilizzatori degli strumenti referendari sono attori politici che fanno parte integrante del sistema rappresentativo, cioè membri di partiti politici. I casi in cui cittadini o gruppi completamente separati delle sfere parlamentari o governative fanno uso degli strumenti di democrazia diretta sono rari, e i loro successi lo sono ovviamente ancora di più. In secondo luogo, come abbiamo già detto, gli organi rappresentativi anticipano la promozione di un referendum tentando per quanto è possibile, se il referendum è giudicato pericoloso, di integrare le critiche e voci discordanti prima del voto di una legge. 43 «Quoi qu’il en soit, à l’instant qu’un Peuple se donne des Réprésentans, il n’est plus libre; il n’est plus»: J.J. ROUSSEAU, Du contrat social, Livre III, chapitre 15. 44 Per un’analisi insieme storica e teorica della nozione di rappresentanza, il referimento classico è ormai B. MANIN, Principes du gouvernement représentatif, Flammarion, Parigi, 1996. Per una difesa, a livello normativo, della rappresentanza, cft. N. URBINATI, Representative Democracy, Principles and Genealogy, Chicago, The University of Chicago Press, 2006; e per una critica, B. BARBER, Strong Democracy, op. cit. LA PARTECIPAZIONE IN UNA DEMOCRAZIA «DIRETTA»: IL CASO DELLA SVIZZERA 133 In terzo luogo, sono le posizioni difese dagli attori del sistema rappresentativo (ministri, parlamentari, capi dei principali partiti, elites politiche cantonali, etc.) che hanno l’impatto più importante sul risultato finale del voto. Ciò non significa certamente che sia possibile predicare con certezza questo risultato, poiché, quando vi è richiesta di referendum, ciò significa generalmente che le elites sono esse stesse divise; ma vuol dire piuttosto che la partecipazione attiva, visibile (specialmente nei principali media) ed efficace di attori che non appartengono al sistema è molto rara. Infine, la messa in opera delle decisioni popolari appartiene sempre agli organi rapprasentativi, che esercitano dunque una funzione di controllo a posteriori su queste decisioni: questo è particolarmente chiaro quando delle iniziative sono accettate – caso molto raro come abbiamo detto prima – poiché spetta al Governo e al Parlamento predisporre le regole per l’applicazione dei risultati referendari, mantenendo così un margine di manovra abbastanza ampio dal momento che i progetti sono spesso redatti in termini molti generali. Questa interdipendenza obiettiva deve, tuttavia, essere anche valutata con riguardo a taluni fattori che, per converso, la limitano. Questo genere di fattori è difficile da identificare e da descrivere, e passa generalmente inosservato dai politologi che studiano l’argomento, soprattutto perché restano in parte impliciti. Il primo elemento degno d’interesse è la dissociazione quasi totale fra le maggioranze partitiche uscite delle elezioni e i risultati degli scrutini referendari: non è raro, ad esempio, che un solo partito, minoritario al Parlamento e al Governo, giunga a mettere insieme la maggioranza dei votanti su un argomento. La sinistra, minoritaria al livello federale, vince per esempio con una certa frequenza i referendum che lancia contro le riforme riguardanti il sistema delle pensioni45. Ugualmente, certe iniziative sostenute dalla sola destra nazionalista hanno, in questi ultimi anni, riunito una maggioranza di votanti nonostante l’opposizione di tutte le altre forze politiche rappresentate in Parlamento e dei principali media. L’adesione all’Unione europea è un altro esempio molto significativo di questa autonomia dei cittadini rispetto alle loro elites: mentre queste ultime apparivano molto più favorevoli ad un’adesione, i cittadini si sono ripetutamente espressi 45 L’ultimo esempio è del 2010, quando una riforma del sistema di pensione da capitalizzazione è stata letteralmente spazzata via dal voto popolare, anche se il Governo e un’ampia maggioranza parlamentare vi erano favorevoli. Un caso similare aveva avuto luogo nel 2004. 134 ANTOINE CHOLLET in senso contrario (il fenomeno non è tuttavia esclusivo della Svizzera, se si ricordano le consulazioni francesi e olandesi del 2005, o il “no” irlandese del 2008). In questo senso, nessun partito o coalizione può pretendere di rappresentare le opinioni di una maggioranza stabile dei cittadini, e questo proprio dall’inizio d’una legislatura46. Quello che distingue la Svizzera da altri ordinamenti che non conoscono consultazioni referendarie è che questo scarto è avallato dai resultati di voto e non dai semplici sondaggi o dalle curve di popolarità. Quest’autonomia ha per conseguenza una debolezza relativa dei partiti politici in Svizzera, sia in termini di membri che di mezzi finanziari e di influenza sul dibattito pubblico. Accanto ai fattori d’interdipendenza che abbiamo individuato, bisogna dunque ugualmente tenere in considerazione quest’autonomia relativa della popolazione rispetto alla classe politica in senso lato. 7.3. Controllo giuridico e giudiziario Una questione importante quanto al funzionamento dei meccanismi di democrazia diretta riguarda il controllo eventuale esercitato dalle autorità giudiziarie, e il fondamento giuridico d’un tal controllo47. A livello federale, il problema riguarda solo le iniziative popolari, dato che i referendum non permettono di pronunciarsi che su argomenti già votati dal Parlamento e passati al setaccio di una analisi giuridica molto puntigliosa (benché, tecnicamente, la Corte suprema svizzera – il Tribunale federale – non possa invalidare le legge federali, dato che la Svizzera non conosce il controllo di costituzionalità formale). Come abbiamo detto sopra, le iniziative possono essere rigettate dal Parlamento soltanto per due motivi, l’uno formale e l’altro sostanziale: l’omogeneità della materia e il rispetto del diritto internazionale cogente. Abbiamo anche sottolineato come, tenuto conto del costo politico elevato che comportano i casi di invalidazione, essi siano stati molto rari, anche quando si è trattato di tematiche particolarmente delicate come l’interdizione dei minareti nel 2009 o la soppressione dell’esercito nel 1989. 46 L’esempio del 2004 appena ricordato ha avuto luogo appena alcuni mesi dopo le elezioni legislative federali del 2003. 47 B. BARBER, Participation and Swiss Democracy, Government and Opposition, 23, 1, 1988, 32, che correttamente sottolinea come manchi in Svizzera the tradition of an independent judiciary devoted to the protection of wholly private rights against an alien, power-mongering state». LA PARTECIPAZIONE IN UNA DEMOCRAZIA «DIRETTA»: IL CASO DELLA SVIZZERA 135 Inoltre, dato che le iniziative riguardano modifiche della Costituzione stessa, un controllo di costituzionalità porrebbe ovviamente dei problemi giuridici delicati. Non si tratterebbe di giudicare della costituzionalità del testo, ma della sua possibile coerenza o incoerenza col resto del testo costituzionale: questione di carattere politico piuttosto che giuridico. In De la démocracie en Amérique, Alexis de Tocqueville aveva già notato che il corpo dei giuristi americani formava la vera aristocrazia degli Stati Uniti, necessaria per impedire al popolo di commettere errori nelle sue decisioni politiche48. Si rievocava cosi il vecchio tema antidemocratico del popolo dalle emozioni facili e dagli impeti salvaggi, quello stesso che preoccupa Platone ne la Repubblica come Gustave Le Bon nella sua Psychologie des foules. Tutti e tre contrappongono popolo e ragione, e cercano dei meccanismi capaci d’incatenare il primo all’idea ch’essi sposano in ordine alla seconda. In Svizzera, le decisioni popolari possono invece essere evitate per via giudiziaria quando sono state prese a livello cantonale o comunale. Due esempi illustrano tale possibilità. Il primo è l’obbligo imposto dal Tribunale federale al cantone d’Appenzell Rhodes-Intérieures di riconoscere il diritto di voto alle donne nel 1990, mentre l’assemblea popolare del cantone l’aveva sempre rifiutato motivando sulla base della ristrettezza dello spazio nel quale i cittadini si radunano. Il secondo esempio, più recente, riguarda il divieto pronunciato dal Tribunale federale di conferire la nazionalità svizzera tramite scrutinio popolare, pratica diffusa in numerosi comuni della Svizzera tedesca (in particolare nella Svizzera centrale)49. Fino a questa interdizione, ogni cittadino dei comuni interessati riceveva la lista delle persone richiedenti la nazionalità svizzera e scieglieva, senze regole nè indicazioni, chi era «degno» di ricevere il passaporto svizzero. Per ostacolare questa decisione della Corte suprema, il partito nazionalista (l’UDC) ha lanciato un’iniziativa a livello federale chiendendo che ogni comune sia sovrano quanto al modo di acquisizione della nazionalità, iniziativa largamente rifiutata 48 «Lorsque le peuple américain se laisse enivrer par ses passions, ou se livre à l’entraînement de ses idées, les légistes lui font sentir un frein presque invisible qui le modère et l’arrête. À ses instincts démocratiques, ils opposent secrètement leurs penchants aristocratiques; à son amour de la nouveauté, leur respect superstitieux de ce qui est ancien»: A. DE TOCQUEVILLE, De la démocratie en Amérique I, livre II, chapitre 8. 49 In Svizzera sono infatti i comuni che accordano, in maniera quasi sovrana, la nazionalità. 136 ANTOINE CHOLLET dai cittadini nel 2008. Quest’ultimo esempio è interessante dato che mostra che i cittadini possono liberamente decidere di limitare i loro diritti e le loro prerogative, e che i meccanismi di democrazia diretta non hanno per effetto di favorire in tutti i casi l’estensione della sfera coperta dalle decisioni popolari. Le distinzioni sottili fra dritto e politica su queste questioni impongono di riflettere molto accuratamente sul controllo della seconda da parte del primo. Che i cittadini possano sbagliare è ovvio; che debba esistere un potere a loro esterno incaricato di impedirglielo sembra più difficile da accettare. Si potrebbe per esempio immaginare, al posto di un controllo giudiziario, l’introduzione di una sorta di riesame, del quale dovrebbero peraltro definirsi con attenzione procedure e garanzie50. 7.4. Legitimazione o libertà Bisogna infine ritornare su taluni elementi che, dal nostro punto di vista, sono assolutamente fondamentali in ogni valutazione delle procedure di democrazia partecipativa: l’obiettivo, lo scopo e la finalità. La prospettiva cambia radicalmente a seconda che la finalità sia ravvisata nella legittimazione di un sistema51 o di un ordine stabilito (quello che a noi sembra spesso essere il caso), o, al contrario, nell’instaurazione di nuove libertà per i cittadini. La distinzione fra queste due preoccupazioni consente di mettere a fuoco la funzione assegnata alla partecipazione: quella di rafforzare la situazione esistente o quella di sviluppare la libertà. Finché non si ammette che la libertà è per principio disordinata e disordinante, nessuna politica partecipativa veramente democratica potrà essere immaginata, e si resterà al contrario al livello dei meccanismi istituzionali legittimando alla fine il sistema consolidato. Riconoscere questa dimensione disordinata permette al contrario di riap50 B. BARBER, Strong Democracy, cit., 288-289, propone qualcosa di simile immaginando le decisioni popolari approvate in due letture, come nel Parlamento. Né si può ignorare che l’istituzione ateniese della graphè paranomon corrispondeva approssimativamente a una rilettura o un riesame d’una decisione presa dall’assemblea: su questo punto, cfr. M.H. HANSEN, La Démocratie athénienne à l’époque de Démosthène, Tallandier, Parigi, 2009, 241-249. 51 Gli istituti svizzeri della democrazia diretta adempiono a questi due ruoli nello stesso tempo: da un lato sono «legittimanti», in quanto volti ad assicurare l’ordine; dall’altro sono «disordinanti», in quanto autorizzano, pur con innumerevoli difficoltà e imperfezioni, l’espressione d’una libertà politica che non esiste, o non più, in numerosi altri ordinamenti. LA PARTECIPAZIONE IN UNA DEMOCRAZIA «DIRETTA»: IL CASO DELLA SVIZZERA 137 propriarsi dell’eredità della tradizione democratica senza cedere su uno degli suoi elementi più importanti. In queste condizioni, le istituzioni partecipative non devono essere concepite come dei meccanismi che permettono di rendere i sistemi politici più efficaci, le leggi o le decisioni meglio accettate, o i governi meno contestati. Ciò a cui bisogna, al contrario, prestare la massima attenzione è il fatto che queste istituzioni garantiscono la partecipazione effettiva del maggior numero di persone all’esercizio del potere politico, e che la partecipazione ha un effetto di trasmissione, cioè suscita un di più di partecipazione politica. In altri termini, pur essendo consapevoli del fatto che la realizzazione concreta di quest’idea è estremamente complessa, le istituzioni partecipative dovrebbero essere insieme «istituite» e «istituenti» (come ogni vera istituzione sociale)52, dovrebbero permettere e insieme incoraggiare la partecipazione di tutti. 8. Conclusioni Posto che l’analisi della democrazia partecipativa e le opinioni relative alla sua fattibilità sono ancora largamente dibatttute, non possiamo pretendere di offrire qui delle vere osservazioni conclusive. Ci siamo sforzati nelle pagine che precedono di identificare un certo numero di problemi che ci sembrano essere particolarmente importanti riguardo al tema della partecipazione. Non è tuttavia il caso di cercare di dare loro delle risposte preconfezionate e pronte all’uso. Vorremmo tuttavia proporre due osservazioni che, in un certo modo, avranno valore di conclusione. La prima riguarda i criteri di giudizio utilizzati per valutare il rendimento della democrazia diretta. Accade molto spesso che questi criteri prendano per punto di partenza una visione ideale della democrazia, generalmente promossa dai sui stessi difensori, rispetto alla quale la realtà si rivela spesso – com’è ovvio – molto lontana. Dimenticando ogni senso critico, si dimentica anche che un sistema politico o una istituzione non possono giudicarsi che rispetto ad altri sistemi o istituzioni realmente esistenti, e che gli ideali che l’animano sono principalmente 52 Sull’istituzione e la sua traduzione in «istituito» e «istituente», v. M. MERLEAUPONTY, L’Institution, la passivité, notes de cours au Collède de France, Belin, Parigi, 2003; C. CASTORIADIS, L’Institution imaginaire de la société, Le Seuil, Paris, 1975. 138 ANTOINE CHOLLET degli strumenti per trasformarlo e non dei segni infamanti d’imperfezione. Da questo punto di vista, e anche se la situazione è ovviamente molto complessa, siamo dell’avviso che meccanismi di democrazia diretta quali quelli esistenti in Svizzera garantiscano più libertà rispetto ai sistemi puramente rappresentativi, o ai sistemi che hanno introdotto istituti partecipativi a dosi più o meno omeopatiche. La seconda osservazione riguarda il rapporto fra democrazia e partecipazione, e in particolare l’idea che la partecipazione qualifichi una forma particolare di democrazia. A nostro avviso non v’è niente di più falso, dal momento che la democrazia è partecipativa per definizione, e che la partecipazione non può che essere democratica, salvo compromettere irrimediabilmente il senso delle parole che utilizziamo. Non si tratta solo di un postulato che si condividerà o meno a seconda delle proprie preferenze personali, ma d’una fedeltà alla storia della teoria e della pratica democratiche. Parlavamo prima di eredità e di tradizione democratiche: ci sembra assolutamente fondamentale riconoscerle e sapersi debitori nei loro confronti di qualcosa di tanto importante quanto il nostro pensiero politico e i concetti nei quali lo formuliamo. PARTE SECONDA PARTECIPAZIONE, SOGGETTI, STRUMENTI DANIELE DONATI PARTECIPAZIONE COME CATEGORIA, IDENTITÀ E RAPPRESENTANZA. RUOLO E CONTRADDIZIONI DELLE NUOVE FORME ASSOCIATIVE Se me lo dici me lo scordo Se me lo mostri me lo ricordo Se mi coinvolgi lo capisco (Proverbio cinese) SOMMARIO: 1. La partecipazione come pratica, come principio e come categoria giuridicamente rilevante. – 2. Una possibile definizione della “partecipazione”. La partecipazione come metodo procedurale. – 3. Le categorie della partecipazione. – 3.1. Democrazia rappresentativa e democrazia diretta. – 3.2. Democrazia partecipativa. – 4. I criteri di differenziazione tra democrazia rappresentativa, diretta, partecipativa. – 4.1. Pluralità delle forme. – 4.2. Partecipazione informale e formalizzata. – 5. I soggetti della partecipazione. – 5.1. I soggetti di parte pubblica. – 5.2. I soggetti privati. – 6. Crisi ed evoluzione delle forme rappresentative e dei sistemi di rappresentazione degli interessi. L’interesse pubblico tra circuito democratico rappresentativo e circuito della partecipazione. – 7. Cittadinanza, individui e nuove forme rappresentative. – 8. Identità e rappresentanza. Conclusioni. 1. La partecipazione come pratica, come principio e come categoria giuridicamente rilevante Il lavoro di ricerca che si presenta in questo volume parte dalla constatazione della sorprendente crescita delle pratiche partecipative1 1 L’espressione, volutamente generica è ricorrente in L. BOBBIO, Amministrare con i cittadini. Viaggio tra le pratiche di partecipazione in Italia, Rubbettino, Soveria Mannelli, 142 DANIELE DONATI alle deliberazioni delle istituzioni pubbliche che, nello spazio degli ultimi vent’anni, si è conosciuta in molti paesi con livelli di sviluppo economico e assetto sociale anche molto diversi tra loro2, e una altrettanto differenziata articolazione (territoriale, strutturale, funzionale) dei pubblici poteri. Va subito sottolineato che la partecipazione, come qui la si intende, appare senza dubbio di difficile inquadramento teorico3: si tratta infatti, in gran parte dei casi, di “pratiche” appunto, ovvero di manifestazioni e soluzioni concrete, attivate da singoli o gruppi di cittadini, oppure messe in atto dalle stesse amministrazioni, specie quelle territoriali, in forza della loro autonomia più che in ragione di riferimenti normativi specifici, che in alcuni casi pur non mancano. Si rende dunque necessario, a causa di questa intrinseca indeterminatezza del fenomeno, del suo essere nella prassi piuttosto che nelle norme, iniziare tentando di mettere a fuoco l’oggetto di analisi con la maggiore precisione possibile, nel tentativo di portare alla luce tutti gli elementi rilevanti per le nostre considerazioni. Una prima possibile approssimazione la si può cercare guardando allo sviluppo degli studi in materia. A questo proposito si deve osservare come la crescita nei fatti degli apporti partecipativi dei cittadini alle determinazioni delle istituzioni pubbliche abbia sollecitato prima di tutto l’attenzione degli studiosi delle scienze politiche e sociologiche4. 2007, disponibile anche al sito www.funzionepubblica.it/dipartimento/ docs_pdf/amministrareconicittadini.pdf). 2 Il riferimento è all’esperienza di Porto Alegre poi estesa in molti altri contesti dell’America Latina, nonché a quanto avviene ed evolve ogni giorno negli Stati Uniti e in numerosi paesi europei. 3 Si vedano in questo senso le preziose considerazioni di U. ALLEGRETTI, L’amministrazione dall’attuazione costituzionale alla democrazia partecipativa, e in ivi in particolare il Cap. IX, Si riuscirà a volare? Basi giuridiche ed elementi caratterizzanti della democrazia partecipativa, Giuffrè, Milano, 2009; e ID., Democrazia partecipativa: un contributo alla democratizzazione della democrazia, in U. ALLEGRETTI (a cura di), Democrazia partecipativa - Esperienze e prospettive in Italia e in Europa, Univ. Press., Firenze, 2010, 5 ss. 4 Tra i moltissimi contributi ricordiamo qui A. ARATO, J. COHEN (trad. it.), Società civile e teoria sociale, in M. MAGATTI (a cura di), Per la società civile. La centralità del «principio sociale» nelle società avanzate, Franco Angeli, Milano, 1998, 181 ss.; B. CATTARINUSSI, Associazioni, in F. DEMARCHI, A. ELENA e B. CATTARINUSSI (a cura di), Nuovo Dizionario di sociologia, Edizioni Paoline, Milano, 1987, 186-198; I. COLOZZI, Società civile e terzo settore, in P. DONATI (a cura di), La società civile in Italia, Mondadori, Milano, 1997, 123 ss.; L. CURINI, Vox populi - vox dei? (Alcuni) limiti e (alcuni) paradossi della pratica deliberativa, in Rivista Italiana di Scienza Politica, n. 2, agosto 2006, 231 ss.; P. GINSBORG, La democrazia che non c’è, Einaudi, Torino, 2006; L.W. MILBRATH (trad. it.), La dimensione generale della partecipa- PARTECIPAZIONE COME CATEGORIA, IDENTITÀ E RAPPRESENTANZA 143 Solo successivamente queste manifestazioni hanno iniziato a interessare anche la dottrina giuridica5: i primi lavori in questo senso sono rintracciabili nella letteratura anglo-americana, per poi finalmente conoscere, in tempi relativamente vicini, una certa diffusione anche in quella italiana, spesso in un’insolita contaminazione tra discipline6. Ora l’impressione che si ha, osservando la produzione scientifica giuspubblicistica del nostro paese nel suo complesso, è che lo sviluppo degli studi sulla partecipazione, proponga da una parte un tentativo di comparazione e connessione tra forme tradizionali e prassi attuali e, dall’altra, manifesti con una certa chiarezza la tensione esistente tra pratiche e “sistema” in cui le stesse pratiche si vengono a inquadrare. Rispetto a quest’ultima prospettiva è infatti interessante notare come da una parte vi siano contributi che si avvicinano al tema da una prospettiva di analisi induttiva. In questo senso muovono sia i saggi che si concentrano su una ricostruzione puntuale di singoli e specifici istituti, sia i censimenti, le ricostruzioni di ampio raggio delle soluzioni presenti nella legislazione regionale o dello Stato: l’obbiettivo è, in ogni caso, quello di trarre de iure condito valutazioni nel merito delle scelte dei legislatori e considerazioni di ordine generale7. zione politica, in C. CIPOLLA, La partecipazione politica, Città Nuova Editrice, Roma, 1978, 60; A. PIZZORNO, Introduzione allo studio della partecipazione politica, in Quaderni di Sociologia, n. 15, 1996, 221 ss.; F. RAMELLA, Gruppi sociali e cittadinanza democratica. L’associazionismo nella letteratura sociologica, in Meridiana, n. 20, 1994, 93 ss.; S. RAVAZZI, Civicrazia. Quando i cittadini decidono, Aracne, Roma, 2007. 5 Tra i tanti altri, si vedano i lavori di M. CROZIER, S.P. HUNTINGTON, J. WATANUKI (trad. it.), La crisi della democrazia, Franco Angeli, Milano, 1977; R. DAHL (trad. it.), Poliarchia. Partecipazione e opposizione, Franco Angeli, Milano, 1980; J. FISHKIN, The Voice of the People, Yale Univ. Press., New Haven, 1997, (trad. it. La nostra voce, Marsilio, Venezia, 2003); P.Q. HIRST, Associative Democracy, Polity Press, Cambridge, 1994; ID., Dallo statalismo al pluralismo. Saggi sulla democrazia associativa, Bollati Boringhieri, Torino, 1997; R. PUTNAM (a cura di), Democracies in Flux. The Evolution of Social Capital in Contemporary Society, Oxford Univ. Press, New York, 2002; W. STREEK, P.C. SCHMITTER, Comunità, mercato, Stato e associazione? Il possibile contributo dei governi privati all’ordine sociale, in Stato e mercato, vol. 13/1985, 47 ss.; J. ELSTER, Deliberative Democracy, Cambridge Univ. Press., Cambridge, 1998. 6 …che ha ad esempio visto alcuni studi sociologici ospitati su riviste giuridiche, come nel caso di G. COTTURRI, La democrazia partecipativa, in Democrazia e Diritto, 2005, 27. 7 Tra questi segnaliamo L. BOBBIO e R. LEWANSKI, Una legge elettorale scritta dai cittadini, in Reset, n. 101, giugno 2007, 76 e 77; C. CUDIA, La partecipazione ai procedimenti di pianificazione territoriale tra chiunque e interessato, in Diritto Pubblico, 2008, 273 ss.; D. DONATI, Il controllo dei cittadini sull’amministrazione pubblica, tra effettività giuridica e valore etico, in L. VANDELLI (a cura di), Etica pubblica e buona amministrazione. Quale ruolo per i controlli?, F. Angeli, Milano, 151; A. FLORIDIA, La democrazia deliberativa, dalla teoria alle 144 DANIELE DONATI Dall’altra, invece, vi sono lavori che, riprendendo alcune delle più classiche elaborazioni sui temi della partecipazione e della rappresentanza degli interessi nel sistemi democratici “tradizionali”8, offrono comparazioni e analisi di ampio respiro, quasi sempre mirate a definire e sistematizzare i tratti trasversali caratteristici di queste nuove forme di manifestazione della sovranità popolare, a ricercarne le cause o ad analizzarne gli effetti9. È interessante notare, da questa pur sommaria sintesi, come le prospettive di osservazione assunte, pur se diametralmente opposte, conprocedure. Il caso della legge regionale toscana sulla partecipazione, in Le istituzioni del federalismo, n. 5, 2007, 603-681; A.VALASTRO, Gli strumenti e le procedure di partecipazione nella fase di attuazione degli statuti regionali, in Le Regioni, n. 1/2009, 77 ss. 8 Oltre alle opere richiamate infra nel corso di questo saggio, si possono fin d’ora segnalare ex plurimis, P. BARILE, voce Associazione (diritto di), in Enc. dir., vol. III, Giuffrè, Milano, 1958, 842 ss.; F. BENVENUTI, Funzione amministrativa, procedimento e processo, in Riv. trim. dir. pubbl., 1952; G. BERTI, Procedimento, procedura, partecipazione, in Studi in memoria di Enrico Guicciardi, Cedam, Padova, 1975; L. CARLASSARRE, Democrazia, rappresentanza, responsabilità, Cedam, Padova, 2001; P.A. CAPOTOSTI, Tendenze alla negoziazione degli interessi tra amministrazione e privati e principio di legalità, in AA.VV., Studi in memoria di Franco Piga, vol. I, Giuffrè, Milano, 1992, 211 ss.; S. CASSESE, Il privato e il procedimento amministrativo, in Archivio giuridico, n. 1-2, 1970, 25 ss.; M. LUCIANI, L’antisovrano e la crisi delle costituzioni, in Riv. dir. cost., 1996, 124 ss.; M. NIGRO, Il nodo della partecipazione, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1980, 226 ss., 1980; V. OTTAVIANO, Appunti in tema di amministrazione e cittadino nello stato democratico, in AA.VV., Scritti in onore di Massimo Severo Giannini, t. II, Giuffrè, Milano, 1988, 367 ss.; G. SILVESTRI, La parabola della sovranità. Ascesa, declino e trasfigurazione di un concetto, in Riv. dir. cost., 1996, 3 ss. 9 In questa senso muovono U. ALLEGRETTI, L’amministrazione dall’attuazione costituzionale alla democrazia partecipativa, Giuffrè, Milano, 2009; ID., Procedura, procedimento, processo. Un’ottica di democrazia partecipativa, in Dir. amm., 2007, 779 ss.; ID. (a cura di), Democrazia partecipativa: un contributo alla democratizzazione della democrazia), Univ. Press, Firenze, 2010 (in seno al quale, oltre al saggio dello stesso ALLEGRETTI, Democrazia partecipativa - Esperienze e prospettive in Italia e in Europa, 5 ss., segnaliamo G. ARENA, Valore e condizioni della democrazia partecipativa, 85 ss.; G. FALCON, L’“uomo situato”. Due idealtipi di democrazia partecipativa?, 79 ss.; R. BIFULCO Democrazia deliberativa, partecipativa e rappresentativa. Tre diverse forme di democrazia?, 65 ss.; A. MASUCCI, Democrazia rappresentativa e democrazia partecipativa: alcuni “punti fermi” per una loro integrazione, 357 ss.; A. PUBUSA, Le difficoltà della democrazia partecipativa in età di populismo, 373 ss.); M.A. CABIDDU, Interessi e forme rappresentative fra pluralismo e unità dell’ordinamento, in AA.VV., Studi in onore di Giorgio Berti, Jovene, Napoli, 2005, 481 ss.; M. CAMMELLI, Considerazioni minime in tema di arene deliberative, in Stato e Mercato, n. 73, aprile 2005, 89-96; S. CASSESE, La partecipazione dei privati alle decisioni pubbliche, in Riv. trim. dir. pubbl., 2007, 3-42; M. LUCIANI, Esposito, Crisafulli, Paladin. Tre costituzionalisti nella cattedra padovana. Democrazia rappresentativa e democrazia partecipativa, al sito http://www.associazionedeicostituzionalisti.it/materiali/convegni/20030619_padova/luciani.html; ID., Commento all’articolo 75, in G. BRANCA, A. PIZZORUSSO, Commentario alla Costituzione, La formazione delle leggi, tomo I, 2. Il referendum abrogativo, Zanichelli, Bologna, 2005, 1 ss. PARTECIPAZIONE COME CATEGORIA, IDENTITÀ E RAPPRESENTANZA 145 vergano sull’idea, anzi sull’esigenza (solo a volte esplicitata) di costruire una categoria generale della «partecipazione» come espressione di sintesi rispetto alla molteplicità di concretizzazioni e pratiche da cui siamo partiti, come primo passo verso la sistematizzazione delle singole fattispecie e il superamento delle difficoltà di concettualizzazione teorica. Di fatto, per molti versi, il tentativo della dottrina altro non è se non una coniugazione dell’antico e mai concluso sforzo di costruzione di un principio generale10, ovverossia di quell’opera (dottrinale e giurisprudenziale) di astrazione che, in via interpretativa e successiva, anche in forza della sua necessaria indeterminatezza11, consente di: – esplicitare valori e prospettive che, altrimenti, resterebbero impliciti nelle singole specifiche fattispecie, mettendo in luce i caratteri comuni e assoluti propri di un fenomeno plurale; – inquadrare e valutare i fenomeni che le norme (ancora) non disciplinano, assumendo una funzione di chiusura dell’ordinamento; – guidare la produzione delle norme gerarchicamente inferiori, indirizzando i legislatori a un’opera coerente con l’ordinamento nel suo complesso; – supportare l’interpretazione delle norme applicative vigenti. In questo senso, non vi è dubbio che la partecipazione rappresenti, ab origine, non solo un valore essenziale, ma addirittura una delle pietre angolari per la costruzione e la caratterizzazione del modello democratico12. Non è infatti superfluo ricordare, fin dalle prime righe della nostra analisi, la redazione dell’art. 3, co. 2, della nostra Costituzione il quale, attraverso la rimozione de «gli ostacoli di ordine economico e sociale», affida alla Repubblica il dovere di perseguire la piena libertà e uguaglianza dei cittadini quali presupposti per una «effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (oltre che come condizione per il pieno sviluppo della persona). 10 Per tutti, a questo proposito, si veda F. MODUGNO, voce Principi generali dell’ordinamento, in Enc. giur., vol. XXIV, Treccani, Roma. 11 In realtà, come lo stesso N. BOBBIO sottolinea nella voce Principi generali del diritto, in Noviss. Dig. it., vol. XIII, Utet, Torino, 1966, i «principi generali» possono di fatto consistere in una molteplicità di forme tale da rendere pressoché inutile il tentativo di una loro puntuale definizione. 12 Sul valore costituzionale della partecipazione si veda, amplius, il contributo di A. VALASTRO in questo volume. Fra le trattazioni classiche del tema si possono ricordare M.P. CHITI, Partecipazione popolare e pubblica amministrazione, Pacini, Pisa, 1977; F. LEVI, Partecipazione popolare e organizzazione, in Riv. trim. dir. pubbl., 1977, 1625 ss.; S. CASSESE, Burocrazia, democrazia e partecipazione, in Jus, 1985, 81 ss.; A. ROMANO, Il cittadino e la pubblica amministrazione, in Studi in memoria di Vittorio Bachelet, I, Giuffrè, Milano, 1987, 497 ss. 146 DANIELE DONATI Il problema a cui si sono dedicati gli studi sulle pratiche partecipative, però, non mostra soltanto questo profilo: la indiscussa natura della partecipazione come principio, infatti, pone l’accento non tanto sulla necessità di procedere alla definizione di un sistema valoriale, o di una ratio verso cui teleologicamente orientare la esegesi e la creazione delle norme, quanto piuttosto sull’urgenza di verificare se esistano le condizioni per arrivare a dar corpo e struttura a una categoria giuridicamente rilevante che riesca a tenere assieme le singole manifestazioni concrete da cui siamo partiti per poi, eventualmente, definirne i limiti e ricostruire le regole che li accomunano. In altre parole si potrebbe dire che qui non è affatto in discussione se la partecipazione in sé sia qualificabile come principio, ma piuttosto secondo quali criteri i fenomeni che in questi anni conoscono diffusione e popolarità possano rappresentarne, sotto il profilo giuridico, una nuova e diversa coniugazione. A tal fine l’indagine si deve dunque concentrare sul metodo e sugli strumenti del principio di partecipazione, al fine di poter verificare: – in quali categorie esso trovi compimento; – come si caratterizzino tali categorie; – a quali principi essa risponda e secondo quali precetti debba svolgersi. 2. Una possibile definizione della “partecipazione”. La partecipazione come metodo procedurale Per inquadrare le diverse categorie in cui il principio di partecipazione trova realizzazione è però necessario partire da una sua definizione. Restando aderenti al profilo strettamente semantico, non v’è dubbio che per «partecipazione» si intenda una dinamica relazionale tra due o più soggetti nell’ambito di una determinata attività. Nel campo del diritto pubblico possiamo allora affermare, in prima approssimazione, che essa si delinea quale contributo individuale o plurale, associato e non, a un procedimento decisionale rispetto a scelte (di carattere politico, normativo, programmatorio o amministrativo) di pubblico interesse. Questa formulazione, è bene notare, si distacca significativamente da quella attualmente più diffusa che, invece, la identifica ne «gli atti legali compiuti da privati cittadini che sono più o meno direttamente intenzionati a influenzare la scelta di uomini di governo e/o le azioni che essi PARTECIPAZIONE COME CATEGORIA, IDENTITÀ E RAPPRESENTANZA 147 compiono»13. Le differenze sostanziali (e ovviamente non ontologiche, ma mirate a definire un approccio funzionale ai nostri scopi) consistono sostanzialmente: 1) nel voler considerare e tenere ben presenti in seno al concetto che andiamo ad analizzare, almeno a scopi comparativi, anche i meccanismi tradizionali di partecipazione democratica, e segnatamente quelli che si realizzano attraverso il voto e la rappresentanza14; 2) nel voler considerare e tenere ben presenti in seno al concetto che andiamo ad analizzare non soltanto gli «atti», ma anche le pratiche partecipative in quanto tali, e quindi i semplici comportamenti, al di là (o prima) di una loro piena definizione da parte delle norme; 3) nel non voler escludere dalla nostra visuale, almeno in primo approccio, i processi in cui i cittadini non si limitano a «influenzare» la scelta altrui, ma giungono in prima persona a una scelta definitiva; 4) nel voler evidenziare, in seno alla definizione, la possibilità che gli individui compiano la loro scelta in quanto singoli o come gruppo, e ancora che questo gruppo possa o meno essere organizzato, giuridicamente strutturato, o ancora giuridicamente riconosciuto. La definizione da cui prendiamo le mosse è dunque amplissima. Di fatto essa ricalca quella che è l’essenza della concezione procedurale della democrazia stessa15, ovvero del suo essere metodo non violento per la definizione di scelte collettive che siano il più possibile condivise16. In questo senso: a) sotto un profilo generale, la partecipazione si pone come una vera e propria “fase” del processo democratico, la quale «implica un preliminare ricorso ai metodi della discussione, della consultazione e della 13 Così S. VERBA, N.H. NIE and J.O. KIM, Participation and Political Equality: A Seven Nation Comparison, Cambridge Univ. Press., New York, 1978 (trad. it. Partecipazione e eguaglianza politica: un confronto fra sette nazioni, Il Mulino, Bologna, 1987, 37). 14 In questo senso G. ROLLA, Manuale di diritto pubblico, Giappichelli, Torino, 2000, 20. Contra G.U. RESCIGNO, Corso di diritto pubblico, Zanichelli, Bologna, 2007, 327 ss., il quale ritiene che il popolo sovrano, una volta espresso il proprio voto, esaurisca la propria funzione e quindi perda ogni potere di decisione. 15 A prescindere dalla “procedimentalizzazione” la dottrina giuridica aveva in realtà già tempo avvertito della immedesimazione tra democrazia e partecipazione. In questo senso si veda, per tutti, T. MARTINES, Manuale di diritto costituzionale, Giuffrè, Milano, 2000, 190 ss. 16 In questo senso si vedano H. KELSEN La democrazia, Il Mulino, Bologna, 1995, e ibid. in particolare La scelta dei capi, 127 ss.; N. BOBBIO, Teoria generale della politica, (edizione a cura di M. BOVERO), Einaudi, Torino, 1999, e ibid. in particolare Dall’ideologia democratica agli universi procedurali, 370 ss., e ancora K. POPPER, La società aperta e i suoi nemici, Armando Ed., Roma, 1974. 148 DANIELE DONATI persuasione»17 mentre diversamente «l’essenza del ricorso alla forza sta nel tagliar corto con tali metodi». Essa è dunque momento necessariamente successivo a quello della trasparenza, della conoscenza18 e dell’apprendimento19. La connessione tra i due momenti, è bene notare, deve essere tra l’altro considerata costante e non legata alle scadenze elettorali, se è vero che «nella più ampia prospettiva della “discussione pubblica” (ossia della partecipazione popolare alla discussione dei problemi di governo), la democrazia deve assegnare un posto di primaria importanza alla garanzia di un dibattito pubblico libero e di interazioni deliberative nel pensiero e nella pratica politica, non semplicemente attraverso e in vista di elezioni»20. b) diversamente, sotto il profilo dei singoli, essa «consiste nel prestare, secondo capacità, un contributo responsabile alla formazione e alla guida delle attività di quei gruppi cui si appartiene e nell’aver parte, secondo il bisogno, a quei valori che i gruppi sostengono. Dal punto di vista del gruppo, essa [la democrazia] esige lo sprigionamento delle potenzialità dei membri del gruppo in armonia con i suoi interessi e beni comuni”21. Il che, naturalmente, non significa che la partecipazione debba necessariamente manifestarsi in senso “adesivo” rispetto all’orientamento delle istituzioni, o che le posizioni dei singoli debbano per forza volgere a un’omologazione verso la «ragione pubblica»22. Significa piuttosto che la partecipazione, come sostiene Habermas, deve aggregare e non integrare le identità individuali, e quindi mirare alla costruzione di luoghi (e istituzioni) aperti in cui ogni persona trovi ascolto. Significa che sono 17 Questa citazione, come le seguenti, è tratta da J. DEWEY, The Public and its Problems, ora in The Later Works, vol. V, Univ. Press., Cambondale-Edwardswille, Southern Illinois, 1984, 327-328. Si noti che la questa affermazione è, nello scritto di Dewey, attribuita solamente a «la messa ai voti». 18 Su questo profilo ci si conceda il rinvio a D. DONATI, La trasparenza nella Costituzione, in AA.VV., La trasparenza amministrativa, Giuffrè, 2008. 19 L’elaborazione delle tesi sulla necessità della “educazione” dei cittadini alla democrazia è amplissima. Per alcune considerazioni fondanti in questo senso si veda H. KELSEN in La democrazia, Il Mulino Bologna, 1995, 57 ss. 20 Così A. SEN, La democrazia degli altri, Mondadori, Milano, 2005, 7-8 e 10; in questo senso si veda anche ID., The Possibility of Social Choice, in «The American Economic Review», n. 89, 1999, che di fatto propone la lezione tenuta dall’autore al momento del conferimento del premio Nobel per l’Economia nel 1998. 21 Ancora J. DEWEY, op. ult. cit., 327-328. 22 Si veda a proposito la concezione di J. RAWLS, in The Idea of Public Reason Revisited, in Univ. of Chicago Law Review, n. 64, 1997, 765-807, (trad. it. in appendice a Il diritto dei popoli, a cura di S. Maffettone, Edizioni di Comunità, Torino, 2001, 175 ss.). PARTECIPAZIONE COME CATEGORIA, IDENTITÀ E RAPPRESENTANZA 149 proprio il dissenso e la diversità a dare senso alla partecipazione e, in ultimo, alla stessa democrazia. Ne risulta una visione di sintesi realistica, vera forza della concezione procedurale che abbiamo adottato, la quale, a prescindere dalla ricerca di una (forse utopica) comunione di valori universali, si accontenta di un accordo sulle regole procedurali, in sé capace di dar corpo a un’identità collettiva. 3. Sulle categorie della partecipazione 3.1. Democrazia rappresentativa e democrazia diretta Del fatto che le diverse formule procedurali in cui si realizza la partecipazione, ponendosi al centro della architettura istituzionale, qualifichino in modo determinante il relativo sistema di governo, si ha prova definitiva allorquando si passi a declinare tali formule. Sia nel dibattito classico sia nel linguaggio corrente, specialistico e non, per qualificare in sintesi quale sia il tratto caratteristico di un determinato sistema democratico si usa far riferimento alle tre distinte categorie23 de: – la democrazia rappresentativa – la democrazia diretta – la democrazia partecipativa (e/o deliberativa) Ancor prima di procedere a una rassegna comparativa tra i tre insiemi, vi sono una serie di considerazioni che si possono fare sulla classificazione stessa. Non potendo dare conto compiutamente del complesso dibattito che ha animato la questione della qualificazione delle forme democratiche24, possiamo qui annotare come esse riassumano, in unica espres23 Hanno autorevolmente sostenuto l’esistenza di tre diverse coniugazioni della democrazia A. PIZZORUSSO, Democrazia partecipativa e attività parlamentare, in AA.VV., Parlamento, istituzioni, democrazia, Giuffrè, Milano, 1980, 134 ss.; e ID., in Manuale di istituzioni di diritto pubblico, Jovene, Napoli, 2007, 227 ss.; e F. MODUGNO, Diritto pubblico generale, Laterza, Bari, 2002, 106 ss., il quale però rubrica la terza categoria come «democrazia decentrata o pluralista» includendovi la partecipazione delle «società intermedie, specie se a carattere politico». 24 Lettura senza dubbio rilevantissima a questo proposito è R. DAHL, On democracy, Yale Univ. Press., New Haven-London, 1998, (trad. it. Sulla democrazia, Laterza, Bari, 2006) Per una analisi anche storica si veda D. HELD, Models of democracy, Polity Press., Cambridge, 1996 (trad. it. Modelli di democrazia, Il Mulino, Bologna, 1996 e in particolare ibid. 150 DANIELE DONATI sione, entrambe le relazioni che di solito vengono distinte nelle formule della «forma di Stato» e della «forma di governo»25. Con una sola locuzione, infatti, vengono messi in luce il rapporto esistente tra popolo e autorità (che nei sistemi democratici ha come costante il riconoscimento della sovranità popolare) e il tratto caratterizzante la dinamica di allocazione e trasmissione del potere tra gli organi fondamentali (che tra gli stessi ordinamenti democratici, invece, muta sensibilmente). Ma ciò che ancor di più colpisce è l’evoluzione non solo semantica nell’uso di queste espressioni. Se si guarda alla storia del pensiero politico, infatti, appare ben chiaro come il punto essenziale del dibattito attorno alla democrazia (o alla repubblica26) sia consistito nella contrapposizione tra chi riteneva che la sua unica genuina realizzazione non potesse che essere quella in cui il singolo esprime direttamente la propria volontà rapportandosi personalmente con l’oggetto della decisione27 e chi, invece, affermava che la democrazia non potesse che essere rappresentativa28 e fosse quindi indispensabile elaborare sia strumenti per la collezione e l’intermediazione degli interessi che modalità di elezione di pochi fra tanti. Di fatto l’evoluzione storica ha dato ragione a queste ultime posizioni. Infatti, a parte qualche tentativo nel pensiero di matrice socialista29 la parte III, Che cosa dovrebbe significare democrazia oggi?, 409 ss.). Per la dottrina italiana si segnala invece G. SARTORI, Democrazia e definizioni. Il Mulino, Bologna, 1957. 25 Si vedano, tra le trattazioni classiche, P. BISCARETTI DI RUFFIA. Introduzione al diritto costituzionale italiano e comparato. «Le forme di Stato» e le «forme di governo», Giuffrè, Milano, 1984; N. BOBBIO, La teoria delle forme di governo nella storia del pensiero politico, Giappichelli, Torino, 1976; C. MORTATI, Le forme di governo, Cedam, Padova. 1973. Più recentemente G.U. RESCIGNO, Forme di Stato e forme di governo (diritto costituzionale), in Enc. giur., Treccani, Roma, 1989. 26 Come segnala M. LUCIANI, op. ult. cit., e viene rilevato dallo stesso R. DAHL, il fraintendimento tra le due espressioni, a lungo ritenute equivalenti, trova origine nelle opere di MILLS (vedi infra, nelle note), e ha avuto conseguenze anche gravi sulle considerazioni del pensiero politico moderno. 27 Sulla necessità di assicurare direttamente nelle mani del popolo il potere legislativo il rinvio è chiaramente a J.J. ROUSSEAU, Du contract social (trad. it. Il Contratto sociale, Feltrinelli, Milano, 2003 e ibid. in particolare il Cap. XII Come si mantiene l’autorità sovrana, 174 ss.;) e a come il suo pensiero fu accolto dalla Costituzione giacobina del 1793. 28 Su questo fronte non può non ricordarsi J.S. MILLS, Considerations on Representative Government, al v. 29, 371-577 de Collected Works of John Stuart Mill, (editor J.M. Robson), Univ. of Toronto Press., Toronto, 1963 (trad. it. Considerazioni sul governo rappresentativo, (a cura di Michele Prospero, Editori Riuniti, Roma, 1999); o ancora la “Repubblica” ipotizzata da J. MADISON, nel n. 10 del 22 novembre 1787di The Federalist. 29 Si veda tra gli altri il pensiero di M. RITTINGHAUSEN, Social-demokratische Abhandlungen, Köln 1869. PARTECIPAZIONE COME CATEGORIA, IDENTITÀ E RAPPRESENTANZA 151 e derive di stampo anarchico30, la constatazione dell’impossibilità, anche materiale, di far accedere tutti alle sedi decisionali ultime, assieme all’assunto, non solo teorico, della straordinaria stratificazione sociale, ha fatto sì che, almeno nell’ultimo secolo, ci si convincesse del fatto che democrazia e rappresentanza costituiscano un’endiadi indissolubile, quasi congenita. Ciò che per noi è rilevante, però, è constatare che il costituzionalismo moderno e contemporaneo accogliendo come inevitabile questa impostazione, non abbia del tutto rinunciato alle ipotesi di una relazione più diretta tra cittadini ed esercizio del potere e, a fianco dei sistemi elettorali quali meccanismi essenziali della «democrazia rappresentativa», abbia elaborato una serie di istituti correttivi e integrativi (referendum, iniziativa legislativa popolare, petizione), qualificandoli come strumenti di «democrazia diretta». Questo intervento non è privo di conseguenze sotto il profilo concettuale: in tal modo si è infatti passati da una situazione di assoluta contrapposizione e alternatività tra i due modelli, a una di integrazione e complementarietà che afferma la relazione elettorale/rappresentativa quale prima, originaria e necessaria forma procedimentalizzata di connessione tra popolo e potere, e gli istituti di democrazia diretta come fattispecie secondarie, utili ad attenuare gli effetti della prima. In questo processo la seconda categoria ha perso del tutto la sua aspirazione originale a realizzare la democrazia ideale e individuale “degli antichi”31, la sua connotazione antagonista, e si è andata a collocare, come è stato acutamente osservato32, in posizione di necessaria dipendenza (si pensi all’iniziativa legislativa popolare) o di consequenzialità (si pensi ai referendum) rispetto ai meccanismi elettorali/rappresentativi. 3.2. Democrazia partecipativa Sempre analizzando la logica della classificazione, le considerazioni più interessanti sono quelle che possiamo fare in relazione alla qualifi30 Si vedano in questo senso le aspre considerazioni di P. J. PROUDHON, Del principio federativo ora pubblicato on line al sito http://www.progettoitaliafederale.it/docs/ Del_Principio_federativo.pdf. 31 Il riferimento è B. CONSTANT, De la libertè des anciens comparée à celle des moderns, in P. MANENT (a cura di), Les Liberaux, Gallimard, Parigi, 2001 (trad. it. La democrazia degli antichi paragonata a quella dei moderni, (a cura di G. Paoletti), Einaudi, Torino, 2005). 32 A questo proposito, ex plurimis, si veda l’illuminante saggio di M. LUCIANI, Commento all’articolo 75, in G. BRANCA, A. PIZZORUSSO, Commentario alla Costituzione, La for- 152 DANIELE DONATI cazione a quella terza categoria cui oramai pacificamente ci si riferisce con l’espressione «democrazia partecipativa». Secondo la definizione qui assunta e le conseguenti riflessioni sulla coincidenza tra concezione procedurale e partecipazione, l’espressione suona senza appello come un pleonasmo. Si tratta in realtà di una argomentazione “classica”, usata nel tempo da ciascuno dei sostenitori delle diverse visioni democratiche. Qui però il problema sembra sia più consistente: siamo infatti di fronte a una aggettivazione che non dà conto di una scelta sui meccanismi di trasmissione e legittimazione del potere decisionale, sul “come” della democrazia, bensì alla sottolineatura di un concetto, la partecipazione appunto, che al di là della scelta di metodo è principio indiscusso dei modelli democratici. In altri termini qui non si etichetta il sistema richiamando una caratteristica specifica ed esclusiva del modello scelto, ma invocando il carattere qualificante il sistema in sé. Inoltre, se si considera che questi pleonasmi servono anche per porre un accento polemico verso le letture antagoniste, allora non v’è dubbio che l’uso corrente dell’espressione «democrazia partecipativa» rechi in sé una critica, anche radicale, rispetto ai meccanismi tradizionali (elettorali e non) e alle forme intermedie di rappresentanza degli interessi. Sarà ben chiaro che, in questo senso, non si intende affatto mettere in dubbio la pertinenza, sotto l’etichetta dell’amplissimo genere della partecipazione, di una terza “specie”, di una categoria residuale a cui ricondurre tutte le recenti manifestazioni della ambizione dei cittadini di prendere parte alle decisioni di pubblico interesse. Né tantomeno si fa questione della piena legittimità di tali manifestazioni, le quali come abbiamo detto confluiscono nell’alveo del principio costituzionale di cui all’art. 3, 2° co. Diversamente qui si intende evidenziare come l’espressione riveli una percezione di distacco anche molto forte rispetto ai meccanismi di formazione del consenso e della decisione nei sistemi democratici attuali, e come questo incidente formale, semantico, riveli una ancor più dirompente mutazione sostanziale. Si dà infatti oramai per acquisito, in dottrina33, che le pratiche di partecipazione stiano caratterizzando la comazione delle leggi, tomo I, 2. Il referendum abrogativo Zanichelli, Bologna, 2005, 1 ss., il quale non solo critica la funzione, ma anche l’uso, del tutto fuorviante, dell’espressione. 33 Si veda a questo proposito S. CASSESE, La partecipazione dei privati alle decisioni pubbliche. Saggio di diritto comparato, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, n. 1/2007, 3 ss. ove si rimanda anche a J. FEREJOHN, Accountability in a Global Context, paper presentato alla New York Univ., Hauser Colloquium on Globalization and Its Discontents, 1 novembre PARTECIPAZIONE COME CATEGORIA, IDENTITÀ E RAPPRESENTANZA 153 struzione delle architetture istituzionali non solo e non tanto laddove vi siano solidi sistema elettorali e rappresentativi, ponendosi a loro integrazione e completamento (così come è avvenuto per gli istituti di democrazia diretta), quanto piuttosto nei sistemi nei quali tali meccanismi siano deboli, o manchino del tutto, candidandosi a svolgere una funzione suppletiva se non sostitutiva rispetto ad essi. L’esempio da cui queste considerazioni prendono le mosse è quello dell’ordinamento globale e, in genere, degli ordinamenti sovranazionali in cui, come si sostiene, è del tutto evidente come le difficoltà a costruire dinamiche di input per la costituzione di soggetti che abbiano titolo per esercitare il potere decisionale abbiano portato (e stiano sempre più portando) alla ricerca di un rafforzamento lungo le traiettorie discendenti del circuito istituzionale, in output34. A questo proposito, il caso dell’Unione Europea risulta emblematico. Nella ricerca di una legittimazione riconosciuta e riconoscibile per il proprio sistema di governo, e davanti impossibilità di giungere ad una piena affermazione sia della cittadinanza che dei partiti europei, l’Unione, pur continuando a proclamare il contrario35, ha trovato rifugio nella accentuazione e nella diffusione dei procedimenti partecipativi “in fase discendente”36. Così, mentre da un lato, irrimediabilmente, si conferma l’attuale struttura composita, «popolare e intergovernativa»37, dall’altro si cerca rimedio nella trasparenza e nella prossimità ai cittadini delle sedi decisionali, declinandosi sostanzialmente in questa sola accezione il diritto a «partecipare alla vita democratica dell’Unione»38. 2006, e oggi pubblicato on line al sito http://www.princeton.edu/~pcglobal/conferences/normative/papers/Session1_Ferejohn.pdf. 34 Oltre agli autori citati alla nota precedente, specificamente sul punto e in questi termini si veda E. STRADELLA in Partecipazione e deliberazione: una evoluzione bottom-up della forma di Stato democratica? Appunti a partire dalla legge della regione Toscana, n. 69/2007 in osservatoriosullefonti.it, n. 3/2008, 4, pubblicato su http:// www.astrid-online.it/Forme-est/Studi—ric/Elettra_Stradella_OsservatorioFonti.pdf. Nel testo si rinvia anche a W. SCHARPF, Governare l’Europa, Il Mulino, Bologna, 1999. 35 L’art. 10 del testo del Trattato sull’Unione europea (come entrato in vigore il 1° dicembre 2009), che si apre affermando che essa si «fonda sulla democrazia rappresentativa». 36 Per una trattazione approfondita si vedano F. BASSANINI e G. TIBERI (a cura di), Le nuove istituzioni europee. Commento al trattato di Lisbona, Il Mulino, Bologna, 2008 e ivi, in particolare C. PINELLI, Le disposizioni relative ai principi democratici, 125 ss.; A. LUCARELLI e A. PATRONI GRIFFI (a cura di), Dal trattato costituzionale al trattato di Lisbona, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2008, e ivi in particolare E. GROSSO, Cittadinanza e vita democratica in Europa dopo il Trattato di Lisbona, 109 ss. 37 Così, e amplius, E. GROSSO, op. ult. cit. 38 Così l’art. 11 del Trattato sull’Unione. Si vedano però anche le affermazioni contenute nel Libro Bianco sul Sistema di Governo Europeo - «Approfondire la democrazia nel- 154 4. DANIELE DONATI I criteri di differenziazione tra democrazia rappresentativa, diretta, partecipativa 4.1. Pluralità delle forme Siamo così arrivati a determinare come il modello della democrazia rappresentativa e quello della democrazia diretta abbiano, nel tempo, imparato a convivere, pur in una mediazione che ha visto la significativa mutazione della seconda a favore della prima, mentre il modello della democrazia «a partecipazione massimizzata»39 trovi consolidamento laddove la democrazia rappresentativa conosce un deficit strutturale o anche solo congiunturale, e quindi si diffonda a colmare gli spazi lasciati vuoti dai corpi intermedi tradizionali e la distanza creata dai sistemi elettorali, presentandosi come rimedio o come alternativa a essi. Da queste osservazioni discende l’esigenza di approfondire ulteriormente la comparazione tra le forme tradizionali di partecipazione e questo terzo genere, ricostruendo i tratti che li connotano nella loro attuale fenomenologia. In questo senso, due sono i profili, strettamente connessi tra loro, che appaiono immediatamente rilevanti, e precisamente: – la unicità o pluralità dei meccanismi procedurali – la informalità o la formalizzazione in norme degli stessi. Cominciando dalla prima dicotomia, non possiamo che ribadire come la proliferazione di connessioni e strumenti di partecipazione sia in sé fenomeno rilevantissimo, e vitale40. Essa testimonia, di fatto, una congenita e ineluttabile insoddisfazione per il livello di coinvolgimento dei cittadini nelle sedi decisionali, la quale tende a trasformarsi, in positivo, nella aspirazione “a esserci” e in una visione della democrazia come ricerca costante di nuove soluzioni in questo senso. È quindi del tutto naturale che le forme della partecipazione si moltiplichino, nel tentativo di dare conto, in seno alle istituzioni, della molteplicità degli interessi che si agitano in seno alla società41. l’Unione europea» adottato l’11 ottobre 2000 dalla Commissione della Comunità Europea e, sul tema dell’allargamento della partecipazione a tutti i livelli di governo, la «Raccomandazione del Comitato dei Ministri agli stati membri sulla partecipazione dei cittadini alla vita pubblica a livello locale» del Consiglio d’Europa, luglio 2001. 39 Così felicemente E. STRADELLA, op. ult. cit., 3, la quale comunque rimanda ad una ampia teoria di lavori, giuridici e non, di cui abbiamo dato conto anche in queste pagine, alle precedenti note 5, 6 e 8. 40 Tra i molti autori che condividono questa impostazione su veda N. BOBBIO, Dall’ideologia democratica agli universi procedurali, cit. 41 Si vedano in questo senso le considerazioni di Giorgio BERTI, Dalla rappresentazione alla legalità e alla responsabilità, in G. BERTI, La responsabilità pubblica (Costituzione e am- PARTECIPAZIONE COME CATEGORIA, IDENTITÀ E RAPPRESENTANZA 155 Il fenomeno non è affatto nuovo per il nostro ordinamento: in questo senso, infatti, possono essere lette molte delle linee di riforma della nostro sistema istituzionale. Il riferimento è innanzitutto alla proliferazione della forma collegiale per gli organi dell’amministrazione42, e in particolare di quelli in cui veniva prevista la presenza di soggetti variamente rappresentanti interessi esterni all’amministrazione stessa43. Nella stessa prospettiva si pongono anche le stagioni di costante crescita delle autonomie territoriali44, dal regionalismo degli anni ’70, alla nascita dei quartieri45, alla completa revisione dell’ordinamento locale di cui alla l. 142/1990, al decentramento amministrativo del 1997-1998 fino alle riforme costituzionali del 1999 e del 2001. Senza dubbio ognuna di queste tappe ha avuto tra i propri intenti, in modo sempre più esplicito, quello di stringere e rafforzare sia la relazione tra le diverse comunità e il centro del sistema, sia quella tra cittadini e istituzioni, conoscendo il proprio culmine nella costituzionalizzazione all’art. 11846 del principio ministrazione), Cedam, Padova, 1994, 45 ss.; e U. ALLEGRETTI, che a Berti espressamente rinvia ne Il pensiero amministrativistico di Giorgio Berti: l’amministrazione capovolta, in Jus, n. 2-3/2007, 301 ss. 42 Sul tema, che conosce una amplissima letteratura, si vedano tra gli altri S. VALENTINI, La collegialità nella teoria dell’organizzazione, Giuffrè, Milano, 1968; M. CAMMELLI, L’amministrazione per collegi, Il Mulino, Bologna, 1980; G.B. VERBARI, Organi collegiali, in Enc. dir., XXXI, Giuffrè, Milano, 1981, F. ZUELLI, La collegialità amministrativa, Giuffrè, Milano, 1985; R. VILLATA, Collegi amministrativi, in Enc. giur., VI, Treccani, Roma, 1988. 43 Per tutti, gli organi collegiali scolastici, da ultimo previsti all’art. 5 ss. del d.lgs. 16 aprile 1994, n. 297. 44 Rimangono essenziali, a proposito del sistema delle autonomie in Italia i lavori di M.S. GIANNINI, Il decentramento nel sistema amministrativo, in Problemi della pubblica amministrazione, Zanichelli, Bologna, 1958, 155; G. PASTORI, Gli enti comunitari, in Archivio dell’istituto per la scienza dell’amministrazione pubblica, 1962, 547; M.S. GIANNINI, Il riassetto dei poteri locali in Italia, in Riv. trim. dir. pubbl., 1971, 451; S. CASSESE, Tendenze dei poteri locali in Italia, in S. CASSESE, La formazione dello stato amministrativo, Giuffrè, Milano, 1974, 331; B. DENTE, Il governo locale in Italia, in Il governo locale in Europa, Edizioni di Comunità, Ivrea, 1977, 201; 45 Si vedano in questo senso le considerazioni di U. ALLEGRETTI, L’amministrazione dall’attuazione costituzionale alla democrazia partecipativa, e in ivi in particolare il Cap. VIII, Per memoria, gli anni 70: i quartieri tra decentramento comunale e autonomie di base, Giuffrè, Milano, 2009, 239. 46 Sul decentramento amministrativo degli anni tra il 1997 e il 2000, e la riforma di cui alla l. cost. 3/2001, di modifica della Parte II, Titolo V della Costituzione si segnalano tra gli altri G. BERTI e G.C. DE MARTIN, Il sistema amministrativo dopo la riforma del titolo V della Costituzione, Luiss edizioni, Roma, 2002; M. CAMMELLI, Amministrazione (e interpreti) davanti al nuovo Titolo V della costituzione, in Le Regioni, 2001, 1273 ss.; B. CARAVITA, La Costituzione dopo la riforma del titolo V, Giappichelli, Torino, 2002; S. CASSESE, L’amministrazione nel nuovo titolo quinto della Costituzione, in Giorn. dir. amm., 2001, 1193 ss.; G. FAL- 156 DANIELE DONATI di sussidiarietà, che di fatto assume come valore primario la prossimità ai cittadini delle sedi decisionali. L’affermazione della categoria della partecipazione diffusa si pone quindi come l’estrema ed attuale asserzione di questa mai sopita tendenza, che assume a proprio presupposto e rispetto alla quale si caratterizza per una varietà di concretizzazioni che la connota, rispetto alle altre due, come plurale e residuale. Questo elemento ha spinto alcuni autori a tentare delle classificazioni ulteriori, secondo i criteri diversi. E così: – da un lato si sono articolate le diverse forme secondo il grado di effettività di partecipazione che sono in grado di garantire47, arrivando alla ripartizione tra partecipazione efficientistica, procedimentale puramente garantistica, e democratica; – dall’altro si sono tentate delle vere e proprie sottocategorie quali democrazia deliberativa, democrazia partecipativa e democrazia di prossimità48, in ragione diversamente del momento e del ruolo che caratterizza l’apporto partecipativo in seno al procedimento decisionale, o del livello di governo che si apre a tale apporto. Senza entrare nel merito di queste distinzioni, segnaliamo qui appena come la fatica della dottrina a concordare sui criteri distintivi, riCON, Il nuovo titolo V della parte seconda della Costituzione, in Regioni, 2001, 163 ss.; A. PAJNO, L’attuazione del federalismo amministrativo, in Regioni, 2001, 667 ss.; F. PIZZETTI, Il nuovo ordinamento italiano tra riforme amministrative e riforme costituzionali, Giappichelli, Torino, 2002. 47 In questo senso muove U. ALLEGRETTI, Procedura, procedimento, processo Un’ottica di democrazia partecipativa, in Diritto amministrativo, n. 4/2007, 779 ss.; Si veda in questo senso ID., Democrazia partecipativa: un contributo alla democratizzazione della democrazia, in U. ALLEGRETTI (a cura di), Democrazia partecipativa - Esperienze e prospettive in Italia e in Europa, Univ. Press., Firenze, 2010, 21 ove l’autore classifica e distingue le forme della partecipazione (tra cui include la democrazia di prossimità francese, o l’inchiesta pubblica britannica) da quelle della democrazia partecipativa (in cui invece rientrano le forme di monitoraggio originatisi a Puerto Alegre, i bilanci partecipativi dell’America Latina, italiani e spagnoli; o ancora le giurie civiche tedesche e francesi). 48 Si veda R. BIFULCO, Democrazia deliberativa, partecipativa e rappresentativa. Tre diverse forme di democrazia?, in U. ALLEGRETTI (a cura di), Democrazia partecipativa - Esperienze e prospettive in Italia e in Europa, Univ. Press., Firenze, 2010, 65 ss., il quale ritiene che la democrazia partecipativa (che rappresenta sostanzialmente un’assieme di prassi) sia una sottocategoria di quella deliberativa (che invece è insieme concettuale). Contra, L. BOBBIO, Dilemmi della democrazia partecipativa, in Democrazia e diritto, n. 4/2006, 11 ss. il quale ritiene viceversa che sia categoria generale la democrazia partecipativa, e che gli esiti deliberativi ne siano una variabile possibile; e ancora E. STRADELLA, op. ult. cit., 3, e l’ampia letteratura a cui rimanda. PARTECIPAZIONE COME CATEGORIA, IDENTITÀ E RAPPRESENTANZA 157 mettendo in campo, secondo traiettorie diverse, anche le differenze tra una lettura procedimentale e sostanziale del fenomeno, riveli tutta la difficoltà che si conosce in sede teorica a rappresentare compiutamente un oggetto in costante evoluzione, e che anzi, come qui cerchiamo di mostrare, si caratterizza proprio per questa sua costante mutazione. In altri termini, mentre si ha un solo sistema elettorale per ogni livello o organo di rappresentanza, e si affermano come principi la massima certezza delle regole per il voto e la piena trasparenza dei metodi di traduzione del voto in seggi; e ancora, gli istituti della cosiddetta democrazia diretta conoscono una ferma tipizzazione, diversamente sembra, nell’ambito delle pratiche di democrazia «a partecipazione massimizzata», siano proprio la molteplicità e la costante differenziazione delle sue manifestazioni in relazione al contesto istituzionale, territoriale, sociale, a dover essere assunte in positivo come elementi caratterizzanti e anche come veri e propri valori dell’intera categoria. A questo risultato sono giunti, pur percorrendo la diversa strada della indagine sulla possibile legittimazione degli interessi diffusi49, anche la giurisprudenza e, successivamente, il legislatore, rinvenendo in questa dispersione il segno del loro «irrefutabile e decisivo valore»50. Il che, com’è chiaro, non significa che si ritiene utile privare di garanzie questi procedimenti, queste pratiche, ma piuttosto che le certezze devono essere ricercate altrove, sia in precetti trasversali e generali, che in regole specifiche poste con chiarezza a priori rispetto a qualsiasi passo ulteriore. 4.2. Partecipazione informale e formalizzata Ancora sotto il profilo fenomenologico, un secondo elemento utile alla ricostruzione dei tratti comuni di quanto si agita in seno alla categoria della “democrazia partecipativa” ci viene dalla distinzione delle tre categorie in base al grado di presidio delle norme sui diversi procedimenti (o alla sua assenza). Si è di fatto già annotato che il metodo della partecipazione può tradursi sia in fenomeni informali che formalizzati. Informali, allorquando essa vive e si manifesta in una tensione a moltiplicare e rafforzare il legame tra cittadini e istituzioni, alla ricerca 49 Su cui vedi, amplius, il successivo par. 6. 50 Così M. NIGRO, Il nodo della partecipazione, in Rivista di diritto e procedura civile., 1980, ora in Scritti giuridici, II, Giuffrè, Milano, 1996, 1421 ss. 158 DANIELE DONATI di nuove e più efficaci connessioni tra Stato-comunità e Stato-apparato. Quando è, in sostanza, pratica ed esercizio costante di avvicinamento e conoscenza, richiesta d’ascolto e di risposte, che trova spazio e diffusione specialmente a livello locale laddove i due interlocutori riescono meglio a conoscersi, dialogare e intendersi. Formalizzati, allorquando invece l’ordinamento, avendo avvertito la rilevanza di una certa tipologia di connessione fra i cittadini e gli organi esercenti il potere, abbia da una parte regolato le fasi, le modalità e i tempi del relativo procedimento e, dall’altra, pur nell’incertezza dell’esito, abbia preventivamente assegnato a esso un valore determinato, ne abbia definito gli effetti. Procedendo in questo senso, si riescono ad apprezzare le differenze intercorrenti tra «pratiche partecipative» e «istituti della partecipazione»51, e anche a cogliere la possibilità di una evoluzione delle prime nei secondi. Si deve però immediatamente avvertire come la distinzione appena proposta non coincida affatto con una ripartizione tra fenomeni irrilevanti e rilevanti sotto il profilo giuridico, ma piuttosto tra il carattere meta (o pre) giuridico dei primi, e quello sicuramente giuridico dei secondi. Anzi, proprio in ragione dell’esistenza di un principio generale di partecipazione, e della informalità e non tipicità delle pratiche in cui esso si coniuga, si devono analizzare con grande attenzione, oltre alle ricadute sotto il profilo etico e sociale, o in sede politica52, proprio gli effetti giuridicamente apprezzabili a cui queste conducono, nonché le regole e i limiti ad esse riconducibili in ragione di altri principi e valori. Come abbiamo già ricordato nei sistemi democratici, pur con gradi diversi di trasparenza, rappresentatività e coinvolgimento delle forme partitiche, si ha come indefettibile e fondante l’intero sistema di governo innanzitutto la relazione elettorale-rappresentativa. Proprio per questa ragione, in tali ordinamenti essa trova asserzione in norme di carattere costituzionale per poi essere rimessa alla specificazione di fonti 51 A questo proposito si veda M. LUCIANI, Commento all’articolo 75, in G. BRANCA, A. PIZZORUSSO, Commentario alla Costituzione, La formazione delle leggi, tomo I, 2. Il referendum abrogativo Zanichelli, Bologna, 2005, 40 ss., che utilizza la distinzione con intenti diversi da quelli del presente lavoro, nell’ambito di un illuminante saggio a cui però molte delle nostre considerazioni sono debitrici. 52 Si consenta a questo proposito il rinvio a D. DONATI, Il controllo dei cittadini sull’amministrazione pubblica, tra effettività giuridica e valore etico, in L. VANDELLI (a cura di) Etica pubblica e buona amministrazione. Quale ruolo per i controlli?, F. Angeli, Milano, 2009. PARTECIPAZIONE COME CATEGORIA, IDENTITÀ E RAPPRESENTANZA 159 primarie: in Italia, nello specifico, essa conosce un rinvio alle leggi statali per le elezioni nazionali e locali53, e a quelle regionali per quanto riguarda le regioni stesse. Inoltre, pur nella diversità delle varie soluzioni adottate, essa ha conosciuto ovunque, nel tempo, una tensione verso l’ampliamento della legittimazione all’elettorato attivo54 e il rafforzamento delle garanzie per una libera e piena concorrenza tra più soggetti collettori del consenso, ai quali è rimesso, in misura variabile tra legge e autonomia privata, la decisione sulla scelta dei candidati. Le maggiori differenze si registrano invece, in ragione del variare dei sistemi politici e delle esigenze di contemperamento tra rappresentanza e governabilità55, nella messa a punto del sistema elettorale, e quindi del meccanismo per la determinazione del grado di corrispondenza tra volontà degli elettori e scelta degli eletti. È dunque ravvisabile, tra affermazione del diritto di elettorato attivo e passivo e realizzazione dei dispositivi per la rappresentanza, una scala decrescente di “solidità” delle regole in materia, e ciò non può non alimentare l’impressione che, ferma restando l’essenziale riconoscimento della libertà e dell’uguaglianza dei cittadini sovrani rispetto a questo profilo, i sistemi democratici tendano a muoversi con maggiore prudenza e flessibilità mano a mano che ci si avvicina al momento di tradurre l’affermazione della sovranità popolare in diritti ulteriori, e poi in regole procedurali, in vincoli, e ancora in dispositivi di scelta e selezione. Anche le osservazioni sul sistema delle fonti che regolano gli istituti di democrazia diretta rivelano alcuni profili interessanti. Per quanto riguarda il livello statale e regionale vi è un assetto molto vicino a quello dei sistemi elettorali. A monte ci sono anche qui le previsioni costitu53 Sul punto si veda tra gli altri il commento di S. VASSALLO, “Il sistema elettorale”, in L. VANDELLI, T. TESSARO e S. VASSALLO, Organi e sistema elettorale, vol. 2 dei “Commenti al T.U. sull’ordinamento delle autonomie locali”, Maggioli, Rimini, 2001, 717 ss. 54 Sul tema, in questi tempi molto dibattuto, della estensione del concetto di cittadinanza. 55 Su questi temi tra le trattazioni classiche più complete (e influenti) si segnalano quelle di V. BOGDANOR e D. BUTLER, Democracy and elections. Electoral systems and their political consequences, Cambridge Univ. Press., Cambridge, 1983; B. GROFMAN e A. LIJPHART, Electoral Laws and Their Political Consequences, Agathon Press., New York, 1986; R. ROSE (a cura di), Electoral Participation. A comparative analysis, Sage Publications, Beverly HillsLondon, 1980. Nella dottrina italiana, ex plurimis tra le trattazioni di carattere generale, si deve senz’altro segnalare G. SCHEPIS, I sistemi elettorali. Teoria, tecnica Legislazioni positive, Caparrini, Empoli, 1955; F. LANCHESTER, Sistemi elettorali e forma di governo, Il Mulino, Bologna, 1981; e ancora D. FISICHELLA, Elezioni e democrazia. Un’analisi comprata, Il Mulino, Bologna, 1982. 160 DANIELE DONATI zionali: per il livello statale, l’art. 71, 2° co. disciplina l’iniziativa legislativa popolare, e l’art. 75 prevede il referendum abrogativo (il referendum confermativo di leggi costituzionali, di cui all’art. 138, costituisce, per molti aspetti, un’ipotesi del tutto particolare); per quanto riguarda le regioni il riferimento essenziale è invece all’art. 123. Queste norme conoscono poi un rinvio alla legislazione di livello inferiore: l’ultimo comma dell’art. 75 riserva alla legge statale la definizione delle «modalità di attuazione» del referendum, mentre l’art. 123 impone agli statuti regionali di regolare «l’esercizio del diritto di iniziativa e del referendum su leggi e provvedimenti amministrativi della Regione». L’assetto cambia invece se si guarda a quali fonti regolano le forme della «democrazia diretta» a livello locale, e il loro contenuto. Qui il fondamento è in una legge dello Stato, e in particolare l’art. 6, co. 2, del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, Testo unico degli enti locali, che impone agli statuti comunali e provinciali, come contenuto necessario, di definire i criteri generali «della partecipazione popolare». L’espressione, evidentemente amplissima, viene testualmente ripresa dalla rubrica e dalle disposizioni del successivo art. 8, il quale, dopo un’apertura in cui impone ai comuni di valorizzare, «anche su base di quartiere o di frazione», le libere forme associative e di promuovere «organismi di partecipazione popolare all’amministrazione locale, al co. 3 mette assieme manifestazioni molto diverse tra loro quando fa riferimento a un non precisato insieme di «forme di consultazione della popolazione» e a «procedure per l’ammissione di istanze, petizioni e proposte di cittadini singoli o associati dirette a promuovere interventi per la migliore tutela di interessi collettivi»56, tra cui, in chiusura, colloca anche il referendum57. L’impressione è dunque che, nell’approssimarsi ai livelli di governo più vicini ai cittadini, e nell’allontanarsi dalla solida e nitida definizione del sistema rappresentativo/elettorale si percorra una rotta che conduce a: – un assottigliamento delle differenze che intercorrono tra gli istituti della democrazia diretta e le forme di partecipazione ulteriori, 56 Sul tema si veda C. CORSI, Chi disciplina la democrazia partecipativa locale?, in U. ALLEGRETTI (a cura di), Democrazia partecipativa - Esperienze e prospettive in Italia e in Europa, Univ. Press., Firenze, 2010, 175 ss. 57 A proposito di ciascuna di queste disposizioni del TUEL si vedano i commenti, entrambi di L. VANDELLI e E. BARUSSO, in L. VANDELLI, ed E. BARUSSO, Autonomie locali: disposizioni generali; Soggetti, vol. 1 nei “Commenti al T.U. sull’ordinamento delle autonomie locali”, Maggioli, Rimini, 2001, rispettivamente a 157 ss. (art. 6) e 367 ss. (art. 8). PARTECIPAZIONE COME CATEGORIA, IDENTITÀ E RAPPRESENTANZA 161 – un “alleggerimento” nella definizione normativa di tutte queste manifestazioni, che giunge ad ammettere le semplici “pratiche” di cui abbiamo più volte detto; – a una conseguente differenziazione delle stesse, coerente non solo con il loro carattere naturalmente plurale, ma anche con l’esigenza di dar corpo alla autonomia locale assecondando le specificità di ogni singolo contesto. Si giunge così ad affermare che l’ultima residuale categoria, quella della partecipazione massimizzata, è in sé tendenzialmente refrattaria ad ammettere una univoca e puntuale disciplina (o tout court il presidio) da parte di norme positive. Ciò non significa che, in ogni ordinamento, non vi siano alcuni meccanismi giuridicamente ben delineati: in riferimento al caso italiano si pensi, prima di tutto, alle forme di partecipazione procedimentale puntualmente “codificate” di cui al Capo III della l. 241/1990 (artt. 7-13)58, e alle discipline settoriali che da queste disposizioni hanno preso avvio e ispirazione. Rispetto alle espressioni della partecipazione che possiamo rubricare nella terza categoria, il caso della l. 241/90 si pone però, allo stesso tempo, come archetipo e come contrappunto. Infatti, se da una parte nelle pochissime norme organiche sui processi partecipativi ad oggi approvate59 vi sono frequenti e consistenti intersecazioni rispetto alla vera e propria disciplina procedimentale, dall’altra è interessante osservare come numerose pratiche di “partecipazione” si manifestino proprio in relazione agli ambiti («attività (…) diretta alla emanazione di atti nor58 Sul tema si vedano, tra i contributi storici A. BARONE, L’intervento del privato nel procedimento amministrativo, Giuffrè, Milano, 1969; S. CASSESE, Il privato e il procedimento amministrativo. Una analisi della legislazione e della giurisprudenza, in Arch. giur., 1970, 25 ss. Tra i lavori dedicati alle disposizioni della l. 241/90 si segnalano R. CARANTA, L. FERRARIS, La partecipazione al procedimento amministrativo, Giuffrè, Milano, 2000; F. GIGLIONI, S. LARICCIA, Partecipazione dei cittadini all’attività amministrativa, in Enc. dir., vol. IV (agg.), 2000, 975 ss.; G. VIRGA, La partecipazione al procedimento amministrativo, Giuffrè, Milano, 1998. 59 Il riferimento è sostanzialmente alla l.r. Toscana n. 69 del 27 dicembre 2007 «Norme sulla promozione della partecipazione alla elaborazione delle politiche regionali e locali» e alla l.r. Emilia Romagna legge 3 del 9 febbraio 2010, «Norme per la definizione, riordino e promozione delle procedure di consultazione e partecipazione alla elaborazione delle politiche regionali e locali». Si noti inoltre, a rafforzare la nostra ricostruzione, che anche l’art. 8 del TUEL, di cui abbiamo già discusso in testo, al co. 2 includa espressamente, tra le forme della partecipazione popolare da realizzare a livello locale, un riferimento ai principi della l. 241/90 in materia, prescrivendo il loro rispetto «nel procedimento relativo all’adozione di atti che incidono su situazioni giuridiche soggettive devono essere previste forme di partecipazione degli interessati secondo le modalità stabilite dallo statuto». 162 DANIELE DONATI mativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione») che il primo comma dell’art. 13 della l. 241/90 espressamente esclude dalla applicazione della legge stessa. In questo senso i processi partecipativi si vengono a disporre quasi naturalmente lungo una linea di continuità con tali disposizioni, mostrando di voler riprendere e riaffermare il valore di una relazione tra cittadini e istituzioni “oltre il procedimento”, in una inarrestabile ricerca di metodi e luoghi per un dialogo senza intermediari tra cittadini e “decisori” anche laddove sembrerebbe che non vi sia spazio fertile o possibile. 5. I soggetti della partecipazione 5.1. I soggetti di parte pubblica Abbiamo così acquisito alcuni punti fermi rispetto al complesso delle manifestazioni della «partecipazione massimizzata». Possiamo infatti affermare che esiste non solo un principio costituzionale in cui queste forme trovano radice, ma anche una categoria teorica giuridicamente rilevante a cui ricondurle, la quale si pone in relazione polemica (e a volte alternativa) rispetto alle altre, e specialmente rispetto a quella rappresentativa/elettorale. Inoltre sappiamo che questa categoria si distingue, in positivo, per la differenziazione e la pluralità di forme che ricomprende, e per lo scarso grado di determinazione che queste conoscono in seno all’ordinamento positivo e quindi la sostanziale assenza, oltre al modello di cui alla l. 241/90, di procedure formalizzate e ben definite. Ciò, è bene notare, non significa affatto la rinuncia alla determinazione di garanzie in materia: al contrario deve spingere l’interprete ad una ricostruzione delle stesse a partire dagli elementi a sua disposizione. In questo senso riteniamo utile concentrare la nostra attenzione sull’elemento soggettivo di tali pratiche, andando ad analizzare chi siano e come si caratterizzino le parti in gioco nella dinamiche partecipative, e a verificare come questi tratti influenzino la riflessione generale sul fenomeno. Da una parte della relazione partecipativa, in posizione che si direbbe necessaria occupandoci di decisioni di interesse generale, si pongono i pubblici poteri. Si utilizza qui, e volutamente, una dizione particolarmente ampia: infatti se pur è evidente che la gran parte dei casi alla nostra attenzione PARTECIPAZIONE COME CATEGORIA, IDENTITÀ E RAPPRESENTANZA 163 si traduce in una relazione diretta con il potere esecutivo, non possiamo qui dimenticarci di ricordare come, nel nostro ordinamento, si registri la presenza di rilevanti fenomeni di partecipazione, tipizzati o meno in norme, nei confronti del potere legislativo. Tra le forme disciplinate dall’ordinamento si pensi al caso delle audizioni e delle procedure informative che si possono svolgere in seno al procedimento legislativo. In tal senso è emblematico l’art. 48, co. 5 del regolamento del Senato il quale prevede che, per lo svolgimento di indagini, le Commissioni abbiano la facoltà di tenere apposite sedute alle quali, tra gli altri, possono essere chiamati a intervenire «rappresentanti di Enti territoriali, di organismi privati, di associazioni di categoria ed altre persone esperte nella materia in esame»; o ancora l’art. 74, co. 3 e 4, del medesimo Regolamento, che impone l’audizione dei proponenti i disegni di legge d’iniziativa popolare e regionale. Per la Camera, diversamente, è sufficiente ricordare l’amplissima formula dell’art. 144, il quale disciplina la facoltà delle Commissioni, nelle materie di loro competenza, di «disporre, previa intesa con il Presidente della Camera, indagini conoscitive dirette ad acquisire notizie, informazioni e documenti utili alle attività della Camera», potendo invitare (co. 2) nelle sedute dedicate a tali indagini «qualsiasi persona in grado di fornire elementi utili ai fini dell’indagine»60. Tra le forme di partecipazione nei confronti dell’attività legislativa che invece continuano a sfuggire a una disciplina normativa puntuale si pone senza dubbio in primo piano il fenomeno del lobbying61 (nonostante le 34 proposte di legge presentate nel tempo in materia), ma si 60 Per una trattazione dell’evoluzione dei regolamenti parlamentari si veda A. MAN(a cura di), Il Parlamento a 20 anni dai regolamenti del 1971, numero speciale di Quaderni costituzionali, n. 2/1991; Tra i lavori recenti sull’attività parlamentare si veda C. DE MICHELI, L. VERZICHELLI, Il Parlamento, Il Mulino, Bologna, 2004. Si occupano di aspetti specifici N. LUPO, Le recenti modifiche al regolamento della Camera: una riforma del procedimento legislativo a Costituzione “invariata”, in Gazzetta giuridica, Giuffrè Italia-Oggi, 1997, n. 31, A. MORRONE, Quale modello di governo nella riforma del Regolamento della Camera dei deputati?, in Quaderni Costituzionali, 1998; sulle possibili modifiche dei regolamenti si veda E. GIANFRANCESCO e N. LUPO (a cura di), La riforma dei regolamenti parlamentari al banco di prova della XVI legislatura, Luiss Univ. Press., Roma, 2009. 61 La letteratura, non solo giuridica, in materia è ricchissima di contributi. Si ricordino, tra i più recenti i lavori di L. FIORENTINO, K il lobbista. Introduzione al principio di democrazia partecipativa, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2007; P. PETRILLO. Democrazie sotto pressione Parlamenti e interessi organizzati nel diritto pubblico comparato, Giuffrè, Milano, 2010; P. SEMERARO, I delitti di millantato credito e traffico di influenza, Giuffrè, Milano, 2000. ZELLA 164 DANIELE DONATI può anche annoverare il crescente numero di tavoli concertativi (ad esempio con i rappresentanti delle parti sociali); o la diffusione della concertazione preventiva in sede comunitaria. Più rari sono invece i casi di partecipazione al potere giudiziario, il cui esercizio si presenta come del tutto peculiare sia per il vincolo costituzionale (art. 101, co. 2) di piena sottomissione alla legge dei magistrati nelle loro decisioni, sia per la forte tecnicità nell’esercizio dello stesso. Vale però la pena di annotare come anche in questo caso si possano rinvenire “tracce” di partecipazione popolare nella presenza, presso le Corti d’assise, di cittadini estratti a sorte62. È comunque nei confronti delle amministrazioni pubbliche, specie a livello locale, che il fenomeno della partecipazione conosce la propria affermazione. Le ragioni (crescita del ruolo degli esecutivi, trasformazione della funzione amministrativa in funzione essenzialmente locale, sfiducia nel meccanismo ascendente di legittimazione del potere) dovrebbero essere, a questo punto, chiare. Occorre però mettere fin d’ora in luce tre caratteristiche ben definite, e senz’altro rilevanti del fenomeno. In primo luogo si deve evidenziare come la partecipazione dei cittadini coinvolga tutti i tipi di attività dell’amministrazione. Di sicuro essa non si limita all’attività amministrativa vera e propria, ovvero a quella mirata alla assunzione di decisioni autoritative unilaterali. Al contrario essa conosce consistente diffusione anche rispetto a: – l’erogazione di servizi: in questo senso si pongono le prime disposizioni sulla partecipazione popolare, e precisamente all’art. 14 del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 50263 che inserisce meccanismi di intervento di cittadini e associazioni in seno al «Riordino della disciplina in materia sanitaria», e ancora l’allegato 1 della d.P.C.M. 27 gennaio 1994 il quale, nel dettare «Princìpi sull’erogazione dei servizi pubblici», vi include, al punto 5, la partecipazione degli utenti «sia per tutelare il diritto alla corretta erogazione del servizio, sia per favorire la collaborazione nei confronti dei soggetti erogatori». Nello stesso senso muovono comunque anche norme più recenti, quali quelle di cui al Codice del consumo, 62 Sono sorteggiabili cittadini senza alcuna distinzione di sesso, in una età compresa tra i 30 e i 65 anni. Inoltre: per essere selezionati come giudici popolari di 1° grado occorre il diploma di licenza media inferiore, e il diploma di licenza media superiore per i giudici popolari di 2° grado. 63 Si consenta qui il rinvio a D. DONATI, Diritti dei cittadini, Commento all’art. 14, in F. ROVERSI MONACO (a cura di), Il nuovo servizio sanitario nazionale, Rimini, 2000, 427 ss. PARTECIPAZIONE COME CATEGORIA, IDENTITÀ E RAPPRESENTANZA 165 d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206 che, all’art. 101, co. 3 garantisce agli utenti dei servizi pubblici «attraverso forme rappresentative, la partecipazione alle procedure di definizione e di valutazione degli standard di qualità previsti dalle leggi»; – la attività di programmazione e pianificazione: si vedano in questo senso, tra gli altri, i casi del piano paesaggistico di cui all’art. 144 del “Codice dei beni culturali e del paesaggio”, d.lgs. 42/2004, che prevede «la partecipazione dei soggetti interessati e delle associazioni costituite per la tutela degli interessi diffusi»; o ancora la consultazione64 a più tratti richiamata dal d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 «Norme in materia ambientale»; – la attività di controllo: si ricordi qui, per tutte, la l.4 marzo 2009, n. 15 che in numerose disposizioni assegna ai cittadini il ruolo di monitoraggio sull’efficienza delle amministrazioni65. Parallelamente si può notare come la partecipazione, formalizzata e non, di fatto abbia luogo sia nei confronti degli organi politici che di quelli di mera gestione66, potendo attivarsi dal momento della determinazione delle priorità e degli obbiettivi, a quello di definizione della azione, a quello ancora in cui si compiono le scelte amministrative più concrete, o si erogano le prestazioni. Infine è da sottolineare come la partecipazione dei cittadini aumenti proporzionalmente, e in modo rilevantissimo, mano a mano che ci avviciniamo al livello del governo locale67, tanto da dare l’impressione (solo in parte smentita dagli esempi prima riportati) che sia essenzialmente in quest’ambito che essa, di fatto, viene in essere. Abbiamo in proposito già accennato (par. 4.1) a come il progressivo affermarsi dei principi di decentramento e sussidiarietà possa essere letto nella prospettiva della mai sopita aspirazione ad un maggior coinvolgimento dei singoli nelle decisione di pubblico interesse. Qui vogliamo ul64 Di cui all’art. 5, co. 1, lett. t) che la definisce come «l’insieme delle forme di informazione e partecipazione, anche diretta, delle amministrazioni, del pubblico e del pubblico interessato nella raccolta dei dati e nella valutazione dei piani, programmi e progetti». 65 Su questi profili, amplius, si vedano i contributi di F. GIGLIONI e R. CAMELI in questo volume. 66 Si ricordi però, a questo proposito, la posizione del Consiglio di Stato in sent. sez. IV, ord. 26 agosto 2008, n. 4438, relativa alla costruzione della base americana nella zona dell’aeroporto Dal Molin il quale, negando la propria competenza a giudicare di un atto frutto di accordo politico fra due Stati, di fatto annulla l’ordinanza del Tar Veneto, n. 435 del 2008 che muoveva da argomentazioni relative alla mancata attivazione di procedimenti partecipati in relazione a tali determinazioni. 67 U. ALLEGRETTI, L’amministrazione dall’attuazione costituzionale alla democrazia partecipativa, cit. 166 DANIELE DONATI teriormente sottolineare come la partecipazione dei cittadini alle decisioni dell’amministrazione abbia potuto trovare spazio, diffusione e rilevanza proprio in forza del fatto stesso che la funzione amministrativa iniziava a essere concepita come funzione essenzialmente locale. Non solo: questa evoluzione ha infatti coinciso con un abbandono progressivo anche dei tratti di unitarietà e omogeneità, di autoreferenzialità e sostanziale autosufficienza che la avevano a lungo caratterizzata. In questo senso muovono l’affermazione del risultato come paradigma di valutazione della agire pubblico e la conseguente promozione dell’autonomia organizzativa e funzionale come capacità di adeguamento e differenziazione alle peculiarità che si presentano davanti alla amministrazione in uno specifico contesto68. Le amministrazioni tendono dunque a presentarsi oggi come soggetti portatori di interessi concepiti e assunti come pubblici soprattutto a livello territoriale, la cui cura, fatte salve le determinazioni della legge, viene sottoposta alla discussione e al confronto con i diversi interessi privati coinvolti. Arriviamo così a delineare un fenomeno complesso in cui, a fronte del progressivo disinteresse per le forme tradizionali di rappresentanza (e per le ampie visioni che esso propone), si conosce un incremento nel ruolo degli esecutivi (e della attenzione per le scelte concrete a cui essi pervengono) che, a sua volta, sollecita la ricerca se non di una vera e propria legittimazione “dal basso”, almeno di una “inclusione” in seno al procedimento decisionale degli interessi e delle ragioni di coloro che, di volta in volta, si qualificano come interessati o destinatari delle decisioni, o ancora utenti delle prestazioni. 5.2. I soggetti privati Il discorso si fa più articolato passando a esaminare l’altra parte della relazione partecipativa, quella dei soggetti privati. Insistono infatti su questo fronte diversi elementi di complessità, a partire dal fatto che essi possono presentarsi agli appuntamenti con la partecipazione individualmente o in forma associata. Vi sono poi da considerare il ruolo in cui essi si propongono (o sono convocati), giungendo in momenti differenti del procedimento decisionale, e ancora in quali forme e con quali 68 Oltre a quanto prima annotato in nota 45, per una completa ricostruzione sulla storia, le origini e gli effetti delle riforme si veda M. SAVINO, Le riforme amministrative, in S. CASSESE (a cura di), Trattato di Diritto Amministrativo, tomo II, Giuffrè, Milano, 2003, 2169 ss. e l’ampia bibliografia a cui ivi si rimanda. PARTECIPAZIONE COME CATEGORIA, IDENTITÀ E RAPPRESENTANZA 167 capacità essi vengono accolti, senza dimenticare le articolate questioni della loro capacità rappresentativa e della loro responsabilità. Il tutto nella piena coscienza che, almeno al pari della amministrazione pubblica, sono mutati ed evoluti anche i processi e le modalità in cui gli interessi privati si aggregano, si organizzano e si manifestano, e che se questa ricchezza di apporti va senza dubbio preservata, si pone d’altra parte l’esigenza di salvaguardare il corretto svolgersi dell’azione amministrativa69. Per giungere ad una maggiore definizione di questi soggetti proviamo dunque a procedere partendo delle elaborazioni presenti in seno all’ordinamento positivo. Non sorprenderà, in ragione di quanto abbiamo visto al par. 4.2, che il dato più evidente che ci offre uno sguardo generale sulla produzione normativa statale e regionale sia quello di una pressoché assoluta assenza di indicazioni unitarie. Si noti bene: se abbiamo già chiarito come la differenziazione e la non tipicità delle forme procedimentali possano essere visti in positivo come elementi caratterizzanti il fenomeno alla nostra attenzione, qui il nostro intento è quello di mettere in luce un aspetto diverso, ulteriore, e cioè la mancanza di indicazioni (e soggettivazioni) univoche nelle poche norme a nostra disposizione, frutto delle condizioni che agitano la inafferrabilità del fenomeno e del fatto che siamo davanti a un ambito rimesso in gran parte alla autonomia dei privati. I legislatori, nelle pochissime occasioni in cui decidono di dar corpo a una disciplina dei processi partecipativi, sembrano dunque indecisi su come intervenire rispetto a questo profilo pur essendo nella piena competenza per farlo, e paiono seguire una preoccupante diversità di impostazioni. Cercando di schematizzare possiamo distinguere tra norme che selezionano i soggetti ammessi alla partecipazione: – attraverso l’indicazione di criteri; – attraverso l’indicazione di specifiche forme organizzative; – attraverso la determinazione della tipologia di interessi di cui gli stessi devono essere portatori. Alla prima categoria, che include soprattutto procedimenti partecipativi a livello statale, si iscrivono tutte le disposizioni che selezionano i 69 In questo senso sono fondamentali le decisioni del Cons. St., sez. V, 9 marzo 1973, n. 253, in Foro it., 1974, III, c. 33, e Cons. St., ad. plen., 19 ottobre 1979, n. 24, ivi, 1980, III, 1, le prime a dare riconoscimento alla legittimazione processuale degli enti esponenziali di interessi diffusi, pur se in base a indici e criteri determinati. 168 DANIELE DONATI privati assumendo come parametro criteri di tipo formale rispetto alla struttura o alla continuità della azione, come fanno l’art. 13 della l. 8 luglio 1986, n. 349, istitutiva del Ministero dell’ambiente70, o l’art. 137 del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 20671. Tra le disposizioni che invece richiedono ai privati una specifica forma organizzativa possiamo ricordare il d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, il quale all’art. 14 impone alle unità sanitarie locali ospedaliere di informare e collaborare con «le organizzazioni rappresentative dei cittadini» e con «le organizzazioni di volontariato e di tutela dei diritti»72. Sembra orientarsi a scegliere in base alle tipologie di interessi di cui i privati sono portatori il Codice dei beni culturali e del paesaggio che, ai sensi dell’art. 144 dedicato a «Pubblicità e partecipazione», prevede la ammissione nei procedimenti di approvazione dei piani paesaggistici delle «associazioni costituite per la tutela degli interessi diffusi», le quali però, come poi si specifica, sono quelle rispondenti ai criteri del supra menzionato art. 13 della l. 349/1986. Più consistentemente adottano questo metodo di identificazione dei privati moltissime leggi regionali in cui si possono ritrovare le più diverse soluzioni, dalla titolarità di vere e proprie posizioni giuridiche soggettive al riferimento, del tutto evanescente sotto il profilo giuridico, alla rappresentanza di interessi socialmente o economicamente rilevanti73. La verità però è che, al di là degli esempi che abbiamo appena tentato di classificare, la regola è quella della assenza di qualsiasi criterio di identificazione. Si veda in questo senso il caso significativo delle disposizioni di cui agli artt. 6 e 8 del d.lgs. 267/2000 che, come ricordavamo, sotto il genericissimo riferimento alla «partecipazione popolare», si rivolgono a essa in modo indistinto, riferendosi poi all’altrettanta indistinta categoria dei 70 …in base al quale un decreto ministeriale valuta tra le «associazioni di protezione ambientale a carattere nazionale e quelle presenti in almeno cinque regioni» quelle che «sulla base delle finalità programmatiche e dell’ordinamento interno democratico previsti dallo statuto» possano dimostrare «la continuità dell’azione e della sua rilevanza esterna». 71 …il quale, ammette all’iscrizione in un elenco tenuto dal Ministero dello sviluppo economico le associazioni dei consumatori e degli utenti rappresentative a livello nazionale che, tra l’altro, possano provare di aver adottato uno statuto che sancisce un ordinamento a base democratica e preveda come scopo esclusivo la tutela dei consumatori e degli utenti, senza fine di lucro e lo svolgimento di un’attività continuativa nei tre anni precedenti. 72 Per una critica a questa scelta si consenta ancora una volta il rinvio a D. DONATI, op. ult. cit. 73 Si veda in merito A. VALASTRO, Gli strumenti e le procedure di partecipazione nella fase di attuazione degli statuti regionali, in Le Regioni, n. 1/2009, 77 ss. PARTECIPAZIONE COME CATEGORIA, IDENTITÀ E RAPPRESENTANZA 169 «cittadini singoli o associati». Ancor più generico è il riferimento, di cui all’art. 5, co. 1, lett. t) del d.lgs. 152/2006, al «pubblico» ammesso a prendere parte alle procedure di consultazione, il quale, ai sensi della successiva lett. u) è identificato in «una o più persone fisiche o giuridiche nonché, ai sensi della legislazione vigente, le associazioni, le organizzazioni o i gruppi di tali persone». Non molto diverso è il tenore della soluzione adottata in seno alla l.r. Emilia Romagna n. 3 del 9 febbraio 2010, specificamente rivolta alla disciplina delle «Procedure di consultazione e partecipazione». Infatti l’art. 3 di questa legge include tra i soggetti titolari del diritto di partecipazione «tutte le persone, le associazioni e le imprese che siano destinatari, singolarmente o collettivamente, delle scelte contenute in un atto regionale o locale di pianificazione strategica, generale o settoriale, o di atti progettuali e di attuazione in ogni campo di competenza regionale, sia diretta che concorrente», per poi estendere la medesima prerogativa anche ai casi in cui la Regione e gli enti locali debbano esprimere pareri non meramente tecnici nei confronti di opere pubbliche nazionali. Né vale a compiere una selezione più puntuale, davanti a una previsione così ampia, la indicazione finale del medesimo articolo, il quale rimette alle norme previste dagli statuti degli enti interessati la determinazione delle modalità attraverso le quali le diverse istanze di partecipazione sono attivate. L’atteggiamento rinunciatario, o eccessivamente fiducioso dei legislatori in casi come quelli che abbiamo riportato, e che pure abbiamo tentato di motivare, lascia comunque disorientati. Delle due, l’una: o non viene colta la rilevanza del tema, e quindi non se ne colgono le ripercussioni sul sistema di rappresentazione degli interessi in seno ai procedimenti decisionali di interesse generale o, peggio, si preferisce lasciare questo aspetto indeterminato, sperando nell’attivazione “oltre la legge” di meccanismi di selezione “naturale” più o meno trasparenti, e più o meno, almeno eticamente, ammissibili. Vi sono però anche altre prospettive dalle quali possiamo analizzare e focalizzare il fenomeno della partecipazione popolare. Una autorevole dottrina74 ha infatti da tempo mosso secondo un approccio più focalizzato sulle dinamiche procedimentali, assumendo come elemento di classificazione «il peso che l’istruttoria in contraddittorio ha sulla decisione», e ponendosi quindi l’obbiettivo di verificare quale 74 S. CASSESE, Il privato e il procedimento amministrativo, in Archivio giuridico, n. 1-2, 1970 e ancora ID., La partecipazione dei privati alle decisioni pubbliche, in Riv. trim. dir. pubbl., 2007, 3-42. 170 DANIELE DONATI fosse il ruolo dei privati in seno ai procedimenti partecipati e, dunque, andando a verificare i rapporti intercorrenti tra questi e il loro esito, tra metodi e regole del decidere e forma e contenuto della decisione. In questo senso vengono formulate tre ipotesi: 1. vi sono casi in cui la partecipazione del privato mira esclusivamente a migliorare il patrimonio informativo in base al quale i pubblici poteri saranno chiamati a decidere, ponendosi sostanzialmente al servizio di questi; 2. diversamente si registrano casi in cui la partecipazione del privato, simulando la dinamica dei processi in sede giurisdizionale, è finalizzata alla affermazione e alla difesa dei suoi interessi nei confronti di quelli dei pubblici poteri o di altri privati; 3. infine vi sono ipotesi (più rare, e molto vicine alla teorica della democrazia deliberativa) in cui la partecipazione del privato, disponendosi sulla falsariga di ciò che avviene nel procedimento legislativo, ambisce al risultato di una decisione comune, il che però non fa mutare (almeno non necessariamente) la titolarità dell’atto. A proposito di questa impostazione possiamo appena formulare due osservazioni. In primo luogo ci pare che possa esistere una quarta categoria, quella della partecipazione in forma di controllo (di cui abbiamo già accennato) che può costituire, al di là dei suoi effetti sul piano strettamente giuridico, un’ulteriore fattispecie di interazione tra logica partecipativa e decisione. In secondo luogo si può qui appena annotare come sarebbe rilevante andare a verificare il modo in cui, rispetto alla classificazione proposta, si vanno a disporre i diversi interessi, pubblici e privati, coinvolti. Ci sembra infatti che, seguendo anche questa linea di riflessione (specie rispetto alle ultime due tipologie), si potrebbero esplicitare alcuni ulteriori e non irrilevanti risultati, capaci di mostrare come di fatto, nelle diverse ipotesi di istanze oppositive o pretensive o ancora semplicemente collaborative dei privati, la struttura del momento decisionale, apice dell’intero processo, muti significativamente, ad esempio aprendo alla possibilità di una successiva azione condivisa (come parrebbe potersi ipotizzare in base al modello sussidiario) o diversamente dando titolo per un ricorso in via giurisdizionale. Vi è infine una terza linea di analisi, un terzo approccio possibile al tema delle forme del privato, ed è quella che assume come criterio quello che possiamo definire il “luogo” della partecipazione. In altre PARTECIPAZIONE COME CATEGORIA, IDENTITÀ E RAPPRESENTANZA 171 parole in questo caso si distinguono due soluzioni che sono molto diverse tra loro sotto il profilo metodologico, e cioè quella della partecipazione procedimentale (di cui quasi esclusivamente ci siamo fin a qui occupati) e quella della partecipazione organica75. Nel primo caso si collocano tutte le altre ipotesi di partecipazione volontaria ed eventuale che abbiamo più volte e in altri termini richiamato, le quali appunto sono spesso non formalizzate o prospettate solo a grandi linee dalle norme, e in cui i privati sono chiamati a rappresentare, davanti ai pubblici poteri, le loro posizioni. A voler fare esempi in seno all’ordinamento positivo si vedano per tutti, a fianco della fattispecie disciplinata dagli artt. 9 e ss. della legge sul procedimento, la l. 4 marzo 2009, n. 15, che all’art. 4. prevede (lett. c) l’organizzazione di confronti pubblici annuali sul funzionamento e sugli obiettivi di miglioramento di ciascuna amministrazione, con la partecipazione di associazioni di consumatori e utenti, organizzazioni sindacali, studiosi e organi di informazione, o ancora (lett. e) il confronto periodico tra valutazioni operate dall’interno delle amministrazioni e valutazioni operate dall’esterno, ad opera delle associazioni di consumatori o utenti, dei centri di ricerca e di ogni altro osservatore qualificato; o ancora il d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206 che all’art. 101, co. 3, garantisce agli utenti «attraverso forme rappresentative, la partecipazione alle procedure di definizione e di valutazione degli standard di qualità previsti dalle leggi». Nel secondo caso, invece, si collocano tutte quelle fattispecie di partecipazione obbligatoria e stabile in cui, seguendo la soluzione avviata negli anni ’70, i privati vengono chiamati, in base a precise disposizioni di legge, a far parte di organi collegiali. Tra le disposizioni statali che muovono in questo senso si veda l’istituzione del Consiglio nazionale dei consumatori e degli utenti, ex art. 136, d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, composto dai rappresentanti delle associazioni dei consumatori e degli utenti (di cui al già ricordato art. 137), da un rappresentante designato dalla Conferenza unificata Stato-città ed autonomie locali e Stato-regioni, dalle amministrazioni competenti, e da esperti delle materie trattate. Il fenomeno è poi diffusissimo nella legislazione regionale. Per rimare alla lettura delle norme statutarie si veda, in Toscana (art. 61 st. reg.), la istituzione, come struttura autonoma presso il consiglio re75 Si veda a questo proposito, amplius di quanto non si possa fare in queste pagine, il bel contributo di A. ALBANESE Partecipazione organica e democrazia partecipativa in U. ALLEGRETTI (a cura di), Democrazia partecipativa - Esperienze e prospettive in Italia e in Europa, Univ. Press., Firenze, 2010, 345 ss. 172 DANIELE DONATI gionale, della Conferenza permanente delle autonomie sociali; da parte sua la regione Puglia (art. 46 st. reg.) istituisce, presso il consiglio regionale, una Conferenza regionale permanente per la programmazione economica, territoriale e sociale quale “organo consultivo” della regione, a cui prendono parte i delegati delle autonomie funzionali, delle formazioni sociali e del terzo settore, secondo «criteri di effettiva rappresentatività» (co. 3); in Lombardia (art. 54, st. reg.) il Consiglio delle autonomie locali può riunirsi in composizione integrata da un massimo di quindici rappresentanti delle autonomie funzionali e sociali, per esprimere parere sullo Statuto, sul programma regionale di sviluppo e i suoi aggiornamenti, sui piani e programmi relativi all’innovazione economica e tecnologica, all’internazionalizzazione e alla competitività. A margine possiamo solo osservare come la partecipazione organica, fenomeno sicuramente positivo nei propri intenti iniziali, presenti oggi, anche in vista della diffusione assunta, alcuni aspetti preoccupanti. Non si può infatti ignorare il rischio dell’effetto di “addomesticamento” delle diverse istanze, piuttosto che di un confronto con loro, a cui può portare la progressiva istituzionalizzazione degli interessi privati, i quali, in linea teorica, si immaginano meglio collocati in rapporto dialogico e comunque distinto rispetto ai processi nei quali si definiscono e maturano gli interessi pubblici e le relative scelte. Vi è inoltre il non infondato timore che, in questo modo, si assista a un favore per l’accoglimento, in seno all’amministrazione, di forze centripete, che assecondino, anzi rafforzino l’andamento delle determinazioni amministrative, e al contempo si lascino al margine le rappresentanze di interessi antagonisti. 6. Crisi ed evoluzione delle forme rappresentative e dei sistemi di rappresentazione degli interessi. L’interesse pubblico tra circuito democratico rappresentativo e circuito della partecipazione Le difficoltà appena evidenziate nella determinazione dei privati ammessi (in qualunque ruolo e secondo qualsiasi modalità) ai procedimenti partecipati, a ben vedere, sollecitano però una indagine ulteriore, che muova oltre le difficoltà o l’indifferenza dei legislatori. Se si allarga la visuale a ciò che muove in seno alla società, ci pare infatti evidente che l’afasia di chi è chiamato a tradurre in norme e in scelte la realtà rispecchi pienamente il senso di profonda incertezza e diffusa inquietudine che muove, oramai da tempo, attorno al ruolo dell’individuo e delle forme in cui questi si aggrega. Dal nostro punto di PARTECIPAZIONE COME CATEGORIA, IDENTITÀ E RAPPRESENTANZA 173 osservazione, e in estrema sintesi, due sono le cause principali di questi mutamenti. Da un lato possiamo osservare che, come abbiamo accennato supra, i pubblici poteri, oltre a una progressiva attribuzione di funzioni ai livelli di governo più vicini ai cittadini, hanno conosciuto una mutazione che li ha posti oggi ad agire come organizzazioni complesse e capaci sì decisione politica, ma operanti a fianco (e non più sopra, o prima) rispetto alle altre organizzazioni e agli altri attori presenti nei diversi contesti. Con ciò si è di fatto spostato il baricentro dei meccanismi decisionali i quali, da dinamiche di solo government si sono mossi verso quelle, più complesse, di governance76. In tal modo sono cresciuti esponenzialmente i conflitti tra interessi tutti privati rispetto ai quali le norme e la stessa politica, nel loro ritirarsi, non compivano più scelte, né offrivano risposte certe77, lasciando che fossero le logiche del confronto diretto fra le parti, o del mercato e della concorrenza, a darvi soluzione. E mentre sui giudici, ricadeva il compito non più solo di interpretare la legge, ma anche di dirimere nella sostanza un numero sempre più consistente di controversie che prima trovavano sintesi nel circuito politico78, l’amministrazione andava assumendo al più un ruolo di mediazione o di mera valutazione tecnica delle istanze in gioco79. D’altro lato, si profila in questi anni con molta chiarezza, una crisi del ruolo dei corpi intermedi tradizionali, e cioè dei partiti e dei sindacati80, ritenuti nel nostro modello costituzionale talmente rilevanti da riconoscergli forti garanzie e assegnargli puntuali norme organizzative e 76 Si veda a questo proposito, tra altri, R. SEGATORI (a cura di), Mutamenti della politica nell’Italia contemporanea - II. Governance, democrazia deliberativa e partecipazione politica, Rubettino Ed., Soveria Mannelli, 2007. 77 Si veda in merito, S. CASSESE, Dalle regole del gioco al gioco con le regole, in Mercato, concorrenza, Regole, 2002, 266; ID., La fine della sovranità economica dello Stato, in ID., La crisi dello Stato, Laterza, Bari, 2001, 42; G. NAPOLITANO, Servizi pubblici e rapporti di utenza, Cedam, Padova, 2001, 625 ss.; G. TESAURO e M. D’ALBERTI, Regolazione e concorrenza, Il Mulino, Bologna, 2000; S. FREGO LUPPI, L’amministrazione regolatrice, Giappichelli, Torino, 1999; G. CORSO, Attività amministrativa e mercato, in Riv. giur. quadr. pubbl. serv., 2000, 7 ss. A. La SPINA e G. MAJONE, Lo Stato regolatore, Il Mulino, Bologna, 2000, 117 ss. 78 Così M.A. CABIDDU, Interessi e forme rappresentative fra pluralismo e unità dell’ordinamento, in AA.VV., Studi in onore di Giorgio Berti, Jovene, Napoli, 2005, 481 ss. 79 Si pensi al ruolo delle Autorità indipendenti. Sul tema cfr. A. VALASTRO, La valutazione e i molteplici volti della partecipazione nell’ordinamento italiano. Quale ruolo per la consultazione in una governance problematica?, in M. RAVERAIRA (a cura di), “Buone” regole e democrazia, Rubbettino Editore, 2007, 149 ss. 80 Le considerazioni che seguono, in proposito, sono in gran parte ispirate al bellissimo saggio di M.A. CABIDDU, op. ult. cit. 174 DANIELE DONATI funzionali. I partiti81, in tale schema, si venivano a delineare come i soggetti chiamati alla raccolta del consenso rispetto a una determinata visione della politica generale nazionale; e quindi deputati al tentativo di attirare e unificare, sotto un solo simbolo, il più alto numero di cittadini elettori, tra loro in posizione (sociale, economica) anche molto diversa. Il loro inevitabile compito dunque, nella dinamica tradizionale, non era solo quello di costituire l’interfaccia essenziale nella relazione tra chi è titolare del potere (i cittadini sovrani) e chi temporaneamente lo esercita, ma anche quello di “semplificare” e ridurre la mole degli innumerevoli conflitti (potenziali o reali) che una società multiclasse e pluralistica solleva82. I sindacati (e le associazioni di categoria in generale)83 erano invece immaginati come collettori di istanze di categorie specifiche (i lavoratori, gli imprenditori ecc.), cui veniva assegnato il compito non di aggregare chiunque in ragione di un’idea, forzando le differenze esistenti in seno alla società, ma piuttosto quello di mettere assieme il maggior numero di persone appartenenti allo stesso gruppo sociale al fine di ottenere risultati concreti per la loro condizione particolare. Ebbene nel tempo queste due forme di aggregazione hanno mutato, e consistentemente, il loro ruolo, fin quasi a invertirlo. I partiti politici hanno abbandonato sempre più il perseguimento di interessi poli81 Nell’ambito della amplissima letteratura in materia si segnalano G. BALLADORE PALIl ruolo dei partiti nell’ordinamento democratico dello Stato contemporaneo, in La funzionalità dei partiti nello Stato democratico, Milano, 1967; L. BASSO, Il partito nell’ordinamento democratico moderno, in Indagine sul partito politico, a cura dell’ISLE, I, Milano, 1966, 3 ss.; P. BISCARETTI DI RUFFIA, I partiti nell’ordinamento costituzionale, in Il Pol., 1950, 11 ss.; V. CRISAFULLI, I partiti nella Costituzione italiana, in Studi per il XX anniversario dell’Assemblea costituente, Firenze, 1969, 105 ss.; C. ESPOSITO, I partiti nella Costituzione italiana, in La Costituzione italiana. Saggi, Padova, 1954, 215 ss.; S. GAMBINO, Partiti politici e forma di governo, Napoli, 1977; G. PERTICONE, Partito politico, in Nss. D.I., XII, Torino, 1965, 519 ss.; A. PREDIERI, I partiti politici, in Comm. Calamandrei-Levi, I, Firenze, 1950, 171 ss.; P. RESCIGNO, Sindacati e partiti nel diritto privato, in Persona e comunità, Bologna, 1962, 139 ss.; S. ROMANO, Principi di diritto costituzionale generale, Milano, 1947; A.M. SANDULLI, Società pluralistica e rinnovamento dello Stato, in Posizioni di diritto e posizioni di fatto nell’esercizio del potere politico. Quaderni di Iustitia, Roma, 1968. 82 Così N. BOBBIO, Pluralismo, in Dizionario di politica, a cura di N. BOBBIO e N. MATTEUCCI, Utet, Torino, 1990, 717 e G. SARTORI, Pluralismo, multiculturalismo, e estranei. Saggio sulla società muti etnica, Rizzoli, Milano, 2000, 35. 83 A questo proposito, ex plurimis, si vedano AA.VV., Partecipazione e impresa, Roma, 1978; R. BORTONI (a cura di), Giustizia costituzionale e relazioni industriali, Bari, 1990; F. GALGANO (diretto da), Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economica, Padova, 1977; G. GIUGNI, Commento all’art. 39, in G. BRANCA, Commentario alla Costituzione, Rapporti economici, tomo I, Bologna-Roma, 1979, 257-260; G. MAZZOCCHI (a cura di), Il governo democratico dell’economia, Bari, 1976; M. RICA, B. VENEZIANI (a cura di), Tra conflitto e partecipazione, Bari, 1988. LIERI, PARTECIPAZIONE COME CATEGORIA, IDENTITÀ E RAPPRESENTANZA 175 tici, generali, e sembrano essersi orientati alla rappresentanza di specifiche categorie di cittadini, e quindi di interessi specifici, di categoria. O, ancora, come qualcuno ha osservato84, a «farsi popolo» essi stessi, assumendo e riassumendo su di sé, al di fuori dei meccanismi istituzionali, l’identificazione tra governanti e governati. I sindacati, dall’altro, si sono evoluti in attori autonomi sul piano politico, diventando interlocutori diretti del Governo non (solo) su profili connessi alle categorie che erano chiamati a rappresentare, bensì rispetto a temi di portata generale: si pensi in questo senso alla partecipazione sindacale nella definizione del Protocollo sulla politica dei redditi e dell’occupazione del 1993, o del Patto per il lavoro del 1996, o ancora al Patto sociale per lo sviluppo e l’occupazione del 1998. Le conseguenze di questa duplice mutazione, nel ruolo dei pubblici poteri e delle forme tradizionali di aggregazione del consenso, sono rilevantissime. Si è infatti accresciuta la sfera dell’autonomia e della responsabilità di ciascun individuo od organizzazione: ogni persona e ogni ente si trova oggi, forse suo malgrado, a essere non solo legittimato, ma anche costretto ad agire “in proprio” per la soddisfazione di interessi che, precedentemente erano affidati alle cure del potere politico/amministrativo. È così cresciuta, drammaticamente rispetto al passato, l’esigenza di farsi sentire, di partecipare, di rappresentarsi, di “esserci”, se è vero che la nuova dimensione dell’autonomia dei soggetti privati non consente defezione, o delega. E che quindi non partecipare significa non esistere. In questa prospettiva il rischio maggiore – non solo potenziale – è ovviamente quello di un conflitto diretto tra soggetti forti e soggetti deboli. Infatti, mentre i primi hanno le risorse per organizzarsi, e diventare forme diverse e ulteriori di «potere» (da quello economico a quello religioso; da quello tecnologico a quello della conoscenza)85 capaci di contrapporsi, come struttura alternativa o antagonista a un’autorità politica sempre più evanescente, inadeguata alla raccolta di consensi e quindi sempre meno rappresentativa, gli interessi più deboli, dei singoli o delle piccole comunità, restano orfani di qualsiasi rappresentazione e considerazione, profilandosi come naturalmente recessivi, e quindi destinati inevitabilmente a soccombere. 84 G. BERTI, Interpretazione del diritto pubblico. Lezioni di diritto pubblico, Cedam, Padova, 2001, 308 ss. 85 G. VOLPE, Il costituzionalismo del Novecento, Laterza, Bari, 2000, 122, citato anche da M.A. CABIDDU in op. ult. cit., 497. 176 DANIELE DONATI In questo senso si può spiegare sia la progressiva perdita di interesse, da parte dei cittadini, per la politica e i meccanismi elettorali di cui però sono e restano, in forza della loro sovranità, i principali attori, sia il ridursi delle loro “aspettative di cittadinanza” e il rifugiarsi degli stessi in una cura sempre maggiore dei loro bisogni quotidiani che li porta a rapportasi (o a tentare di rapportarsi) “di persona” con le autorità pubbliche, e specie con gli esecutivi locali, non tanto in veste di cittadini, quanto di “utenti”, “consumatori”, “residenti”, “commercianti”o anche semplicemente di “genitori”, “automobilisti”, “inquilini” ecc. Le norme sulla partecipazione al procedimento amministrativo hanno rappresentato, almeno in parte, la risposta a queste dinamiche86: esse offrono (art. 9, l. 241/90) ai soggetti portatori di interessi individuali o diffusi la possibilità di rappresentazione in seno all’istruttoria delle proprie istanze, le quali devono lasciare «traccia nella motivazione del provvedimento finale»87, pur non alterando la capacità dell’amministrazione di decidere, se è vero che «il giusto procedimento cui tende la cultura della partecipazione non è quella che accontenti il privato, ma quello che assicuri l’effettivo conseguimento dell’interesse pubblico»88. Ma come abbiamo accennato, la struttura del procedimento è spesso insufficiente a contenere la ricerca sempre più affannosa di identità ulteriori, di alleanze, di rappresentazione e quindi di rappresentanza per tutte quelle posizioni e quegli interessi che si agitano in seno alla società. Caratterizzate da una congenita debolezza, specie se si muovono isolate, queste esigenze cercano vie di composizione in formazioni nuove89 spesso (come abbiamo visto) inafferrabili da parte del legislatore, e comunque non del tutto equivalenti le une alle altre. A voler distinguere possiamo ravvisare come da una parte si abbiano soggetti collettivi “stabili” i quali si presentano così rigorosamente e solidamente organizzati da raggiungere diffusione nazionale e potersi candidare alla cura e al presidio di valori di rilevanza costituzio86 Per tutti A. ZITO, Le pretese partecipative del privato nel procedimento amministrativo, Giuffrè, Milano, 1996, 87 Così il Consiglio di Stato, sez. IV, nella sentenza 22 giugno 2000, n. 3556. 88 Si veda in proposito Tar Campania Napoli, sez. III, 15.12.2006, n. 10557. 89 Quanto affermato trova conferma in numerose rilevazioni statistiche. Si veda (oltre a quanto rilevato in nota) per tutti G. SCIDÀ, ne La partecipazione associativa, in R. GUBERT (a cura di), La via italiana alla postmodernità. Verso una nuova architettura dei valori, Angeli, Milano, 2000, 111-136 che mette in evidenza come nel periodo che va dal 1981 al 1999 l’adesione ai partiti sia passata dal 6,0 al 4,1%; quella ai sindacati dall’8,0 allo 6,2, mentre tutte le altre forme associative abbiano conosciuto un incremento. PARTECIPAZIONE COME CATEGORIA, IDENTITÀ E RAPPRESENTANZA 177 nale (si pensi alle associazioni che si occupano di ambiente, salute, dignità dell’individuo, istruzione o patrimonio artistico e culturale). Dall’altra, invece, si diffondono forme associative del tutto estemporanee e mirate alla affermazione di identità soltanto “provvisorie”, così come provvisoria è la fisonomia organizzativa (comitati, assemblee ecc.) che vanno di volta in volta assumendo. Questi soggetti, che si prefiggono, come obbiettivo, la soddisfazione di bisogni appunto quotidiani e contingenti, possono essere a vario titolo riconosciuti dall’ordinamento attraverso l’attribuzione di posizioni sostanziali, di legittimazione procedimentale o di capacità processuale90. Non è difficile notare come la distinzione appena accennata ricordi da vicino i tratti della classificazione, oramai ben definita nel nostro ordinamento91, tra interessi collettivi e interessi diffusi. Anch’essa infatti muove secondo il criterio della strutturazione e della omogeneità dei primi, condizione che li rende suscettibili di sicura attribuzione a un ente esponenziale permanente92, e della fluidità e della destrutturazione dei secondi, i quali di conseguenza si presentano come adespoti, e quindi privi di attribuzione a un soggetto che sappia contenerli in modo definitivo, costante, soddisfacente. In realtà la identificazione della cate90 Per una rassegna di queste alcune tra le più rilevanti di queste forme del privato si veda C. CITTADINO (a cura di), Oltre lo Stato. Pubblica amministrazioni e Terzo settore, Passigli, Bagno a Ripoli, 2008. Sotto il profilo della legittimazione procedimentale Diversamente, per quanto riguarda la legittimazione processuale R. FERRARA, Interessi collettivi e diffusi (ricorso giurisdizionale amministrativo), in Digesto delle discipline pubblicistiche., vol. VIII, Utet, Torino, 1993, 487. Quanto al riconoscimento delle capacità di queste formazioni in seno all’ordinamento si vedano, oltre alle norme citate al paragrafo precedente e alle già ricordate sentt. del Cons. St., sez. V, 9 marzo 1973, n. 253, in Foro it., 1974, III, c. 33, e Cons. St., ad. plen., 19 ottobre 1979, n. 24, ivi, 1980, III, 1, si leggano le argomentazioni di cui alla sentenza del Consiglio di Stato, sez. VI, 16 giugno 2009, n. 3897 (la quale peraltro è dedicata ad affermare la legittimazione di numerosi soggetti del Terzo Settore ad esercitare in via stabile e principale un’attività economica organizzata per la produzione e lo scambio di beni o di servizi di utilità sociale). 91 Pur se un riferimento al tema si trova già in S. ROMANO, Lo Stato moderno e la sua crisi, ora in Scritti minori, vol. I, Giuffrè, Milano, 1950, in questo senso è fondamentale il contributo di M.S. GIANNINI, La tutela degli interessi collettivi nei procedimenti amministrativi, in AA.VV., Le azioni a tutela di interessi collettivi, Cedam, Padova, 1976, 23 ss. 92 M. NIGRO, ne Le due facce dell’interesse diffuso: ambiguità di una formula e mediazioni della giurisprudenza, in Foro it., 1987, ora in Scritti giuridici, III, cit., 1865, arriva a sostenere che l’ente espressivo dell’interesse collettivo non fa valere un diritto proprio, «ma un diritto altrui, dei soggetti associati o della formazione sociale, cioè dell’intera struttura: un caso non lontano da quelli di “sostituzione processuale”, secondo il disposto dell’art. 81 c.p.c. in connessione con l’art. 100 stesso codice». 178 DANIELE DONATI goria degli interessi superindividuali ha radici antiche93, molto anteriori alle vicende del contemporaneo che qui analizziamo, pur se arriva a proporsi con forza alla attenzione degli studiosi dopo l’arrivo della Costituzione la quale, da parte sua, dà ampio rilievo alla dimensione sociale delle persone. E ancora di più, allorquando gli sviluppi in seno alla società industriale recano a una frammentazione della composizione sociale e iniziano a far crescere bisogni e istanze dei cittadini, nelle loro diverse posizioni94, a riprova del loro essere sintomatiche di vitalità e «maturità democratica del corpo sociale e, conseguentemente, dell’ordinamento giuridico»95. Quello che però adesso possiamo affermare, alla luce di quanto fin qui visto è che queste categorie di interessi, originatesi come limite o difesa nei confronti di atti amministrativi già formati, siano state progressivamente accolte in seno ai procedimenti decisionali stessi per concorrere al loro esito (e a volte condividerlo), e siano infine oggi divenute il presupposto per una legittimazione anche extra procedimentale all’ascolto e alla partecipazione. E così quello che venti anni fa era l’intento della l. 241/90 di apertura e allargamento dell’istruttoria, e di trasformazione del procedimento nel suo complesso in un’arena di incontro e confronto tra interessi diversi, tra amministrazione e cittadini, per poter aspirare a decisioni più giuste e più condivise, sembra conoscere oggi nei fatti un ampliamento che travalica il procedimento stesso e propaga verso ambiti prima impensabili e non “presidiati” da regole, per compensare le debolezze della sistema elettorale e rappresentativo. Questo parallelo tra le forme in cui i cittadini si associano e le tipologie in cui gli interessi privati individuali e collettivi si manifestano, pur non raffigurando una piena coincidenza tra le due linee di analisi, porta comunque a un prezioso allargamento di prospettiva. Sia che si ragioni delle forme in cui la società si articola, sia che si seguano le dinamiche relative agli interessi che tali forme animano, seguendone la parabola in seno ai processi decisionali si arriva a cogliere come a essere mutate siano, in ultima analisi le dinamiche attraverso cui si definisce l’ “interesse pubblico”, quale interesse assunto in seno ai 93 Si 94 Si pensi a E. BONAUDI, La tutela degli interessi collettivi, Bocca, Torino, 1911. vedano in questo senso M.P.CHITI, Partecipazione popolare e pubblica amministrazione, Pacini, Pisa, 1977; R. FERRARA, Contributo allo studio della tutela del consumatore. Profili pubblicistici, Giuffrè, Milano, 1983. 95 Così A. SANDULLI, Il procedimento, in S. CASSESE (a cura di), Trattato di Diritto Amministrativo, tomo II, Giuffrè, Milano, 2003, 1143 ss., ove si può ritrovare una ampia ricostruzione del ruolo procedimentale dei portatori di questi interessi. PARTECIPAZIONE COME CATEGORIA, IDENTITÀ E RAPPRESENTANZA 179 pubblici poteri per la sua cura96. Nella teorica del modello democratico tradizionale, infatti, si descriveva una fase ascendente in cui gli interessi degli individui, alle scadenze elettorali, si aggregavano e andavano a convergere, attraverso la mediazione dei partiti, verso priorità e valori determinati e generali che, in fase discendente, gli organi di governo legittimati dal voto, nei rispettivi ruoli, traducevano in norme prima e in atti amministrativi poi, a cui i cittadini erano sottoposti. In tal modo, pur con interferenze e incespichi, si assumeva che con l’esercizio di un voto, espressione comunque della volontà individuale97, si potesse contribuire a una solida identificazione di un interesse pubblico che si poneva come bene prioritario da tutelare e perseguire. Diversamente ciò a cui assistiamo oggi, a fronte di una progressiva dequotazione del ruolo dei partiti e della rappresentanza elettorale, della rarefazione di concezioni ampie e organiche per il governo della cosa pubblica attorno a cui ritrovarsi, e di un crescente disinteresse verso le scelte di politica generale, è la moltiplicazione di forme di aggregazione della volontà popolare nella fase discendente del modello, le quali si frappongono con un rilievo senza precedenti tra pubblici poteri e cittadini intercettando le decisioni durante la loro formazione, e spostando sempre più “a valle” la definizione finale e concreta delle scelte che in cui si concretizza, appunto, l’interesse pubblico, che viene a manifestarsi nell’istante prima che queste si trasformino in atti giuridici. Così nel modello fondato sulla partecipazione “dal basso” si rafforza nell’idea di poter mettere gli individui nella condizione di decidere non solo e non tanto sulle persone, ma direttamente sulle cose. Le criticità di questa evoluzione sono di tutta evidenza. Da un punto di vista generale, complessivo, si consideri come questa prospettiva, in cui le scelte di governo tendono ad assecondare e a conciliare le preferenze dei loro destinatari, rischi di provocare un indesiderato passaggio dalla sovranità politica generale a quella che è stata definita la «sovranità del consumatore»98. Se infatti l’esercizio del potere 96 Sulla distinzione si vedano M.S. GIANNINI, Istituzioni di diritto amministrativo, Giuffrè, Milano, 2000, 25; S. CASSESE, Le basi del diritto amministrativo, Einaudi, Torino, 1989, 49 e 225; D. SORACE, Diritto delle amministrazioni pubbliche. Una introduzione, Il Mulino, Bologna, 2008, 21; G. CORSO, Manuale di diritto amministrativo, Giappichelli, Torino, 2008, 178 ss. 97 N. Bobbio, Rappresentanza e interessi, oggi in Teoria generale della politica, Einaudi, Torino, 1999, 410 ss. 98 In questo senso C. SUNSTEIN, Republic.com, Princeton Univ. Press. Princeton and Oxford, 2001, 113 (trad. it. C. SUNSTEIN, Republic.com, Il Mulino, Bologna, 2003). 180 DANIELE DONATI di governo così come lo conosciamo mira alla mediazione tra le differenze perché è costruito sulla convinzione che alla base dell’idea democratica vi sia l’ammissione dell’altro da sé, e il confronto di ciascuno di noi con il diverso e l’inatteso, nello scenario alternativo il potere diversamente tende ad assicurare ai singoli la soddisfazione dei bisogni personali e immediati, lasciandosi alle spalle qualsiasi considerazione di ampio respiro, in tal modo a impedendo la creazione di una cultura condivisa o, a dirla con Hegel, lasciando che la moralità (individuale) abbia la meglio sull’etica (pubblica). Si noti inoltre, come avevamo avvertito, che in questa seconda ipotesi i singoli si trovano naturalmente ad accedere alle sedi decisionali, e a contare, in ragione del loro “peso”, della loro posizione sociale e delle risorse (economiche e culturali) di cui dispongono, in tal modo alterando il presupposto dell’uguaglianza formale sostanziale che invece fonda la costruzione dei meccanismi elettorali e rappresentativi (art. 48 Cost.). A questa mutazione critica nel modo di definire le scelte di pubblico interesse si collegano poi alcuni rilevantissimi effetti collaterali. Si pensi innanzitutto, sul piano della teoria generale del diritto amministrativo, a come muta il principio di imparzialità, o la concezione e l’esercizio del potere discrezionale. O ancora si rifletta sull’alterazione dei tempi dei processi di formazione della decisione pubblica: mentre il modello rappresentativo è intermittente, basandosi sulla periodicità scandita dagli appuntamenti elettorali e sul valore di un’azione di governo lenta che sapesse scegliere e progettare per il futuro, il modello della partecipazione si basa sulla costanza del dialogo, e sulla immediatezza delle risposte e del tornaconto in termini di consenso. E, infine, si considerino gli effetti che questa evoluzione sortisce sui fenomeni legati alla comunicazione99, ove al declino di sistemi e strumenti che consentivano la meditata formazione di un’opinione pubblica, chiamata solo nelle ricorrenze elettorali a esprimere il proprio orientamento, si va sostituendo la incessante rassicurazione “dal basso” dei sondaggi, delle assemblee cittadine e dei forum on line, mirati a far apparire qualsiasi determinazione non come trascendente o autoritativa, ma condivisa. 99 Si vedano a proposito di questi profili le considerazioni di F. OZZOLA in questo stesso volume, e in particolare i riferimenti alle considerazioni di J. HABERMAS, sull’«agire comunicativo», in Teoria dell’agire comunicativo, 2 vol., Il Mulino, Bologna, 1986. PARTECIPAZIONE COME CATEGORIA, IDENTITÀ E RAPPRESENTANZA 7. 181 Cittadinanza, individui e nuove forme rappresentative Il tentativo di reagire alle patologie della legittimazione in fase ascendente attraverso un rafforzamento della stessa in fase discendente, dal basso, attraverso nuove aggregazioni, articolazioni, identità, pur costituendo una solida testimonianza dell’esigenza di una (necessaria) presenza, nelle società pluraliste, di forme di interposizione tra i cittadini e le decisioni di pubblico interesse100, apre la strada anche a un’altra serie di considerazioni e perplessità, questa volta strettamente correlate alla natura, alla rappresentatività e alla responsabilità di queste formazioni. Possiamo partire, ancora una volta, dal vocabolario dei processi partecipativi: per la raffigurazione di questi fenomeni di concentrazione e rappresentazione degli interessi individuali è oggi diffusissimo il riferimento al concetto plurale e instabile di “cittadinanza” sulla cui definizione teorica, da qualche tempo, si è sviluppata nelle scienze sociali un’amplissima riflessione101. Si pensi, a questo proposito, al dibattito che attualmente muove attorno alle diverse dimensioni della stessa il quale, insistendo sul senso di appartenenza evocato dal termine, spinge l’applicazione del concetto a una coniugazione variata: nascono così, tra le altre, la cittadinanza amministrativa, quella sociale, quella digitale102. O ancora, per rimanere sul piano strettamente giuridico, si può accennare alle aspre polemiche che stanno in questi tempi sollevando, in sede parlamentare e non, le proposte mirate a un ripensamento sulle modalità della sua acquisizione, o quelle sull’estensione del voto alle elezioni amministrative anche a chi cittadino non sia (ancora), come forma di prima accoglienza in seno alla comunità in cui si vive o si lavora, fondate sulla convinzione che, a prescindere dalla formalizzazione di uno status, «vi- 100 In proposito si veda, oltre ai lavori segnalati in nota, F. BARBANO, Pluralismo. Un lessico per la democrazia, Bollati Boringhieri, Torino, 1999, 13. 101 Nella letteratura giuridica si vedano, tra tanti, per una prospettiva generale del tema V. OTTAVIANO, Appunti in tema di amministrazione e cittadino nello stato democratico, in AA.VV., Scritti in onore di Massimo Severo Giannini, r. II, Giuffrè, Milano, 1988, 367 ss.; e per una analisi delle prospettive più recenti G. ARENA, Cittadini attivi, Laterza, Bari, 2006. Il tema è comunque oggetto primario dell’attenzione di un’altra unità di questo progetto di ricerca nazionale, che di recente ha pubblicato i risultati delle proprie analisi nel volume. 102 In merito si vedano le considerazioni critiche, e pienamente condivisibili di M. LUCIANI, op. ult. cit. Per un commento sulle nome più rilevanti nel nostro ordinamento si veda invece B. PONTI, Commento alla Sezione II “Diritti dei cittadini e delle imprese”, in E. CARLONI (a cura di), Codice dell’amministrazione digitale, Commento al D.lgs. 7 marzo 2005, n. 82, Maggioli, Rimini, 2005. 182 DANIELE DONATI vere sulla stessa terra vuol dire poter essere pienamente cittadini insieme e far propri con lealtà e coerenza valori e responsabilità comuni»103. Il profilo che qui ci sembra essenziale evidenziare della nozione di cittadinanza è però la sua capacità di evocare un insieme senza dimenticarne le singole componenti, e quindi di saper esprimere l’idea di una comunità di individui liberi e uguali. È questo elemento, non solo semantico, che distingue decisamente il concetto di cittadinanza da quella di “popolo”, che invece è astrazione giuridica. Il popolo, infatti, o meglio la sua traduzione teorica in soggetto collettivo che dimentica e supera il singolo e la sua volontà, è idea utile a presumere e raffigurare l’esistenza di una volontà compatta e unitaria, inesistente nella realtà, e che al più, se proposta in termini assiologici rispetto ai caratteri etnoantropologici o culturali di un insieme di persone, si avvicina sul piano concettuale all’idea di “nazione”. Per queste ragioni, e non a caso, la migliore dottrina104 riconosce che la sovranità spetta, al di là del tenore letterale dell’art. 1 della nostra carta costituzionale, proprio ai cittadini come singoli, e non al popolo nel suo insieme, rappresentandosi in tal modo, come direbbe Rousseau105, la differenza tra volontà di tutti e non la volontà generale. Ora ci pare che proprio la semantica attuale di “cittadinanza”, utilizzata per riassumere le soggettivazioni collettive in cui i singoli con103 Così si esprime la Carta dei valori della cittadinanza e dell’integrazione - Decreto Ministero dell’Interno 23 aprile 2007. 104 Si ricordino a questo proposito la osservazioni di N. BOBBIO, che ne L’eredità della grande Rivoluzione (1989), in N. BOBBIO, L’età dei diritti, Einaudi, Torino, 1990, 121-141 osserva come «La democrazia moderna riposa sulla sovranità non del popolo ma dei cittadini. Il popolo è un’astrazione che è stata spesso usata per coprire una realtà molto diversa. È stato detto che dopo il nazismo la parola Volk è diventata impronunciabile. E chi non ricorda che l’organo ufficiale del regime fascista si chiamava ‘Il Popolo d’Italia’? Non vorrei essere frainteso, ma anche la parola ‘peuple’ dopo l’abuso che se ne fece durante la Rivoluzione francese è diventata sospetta: il popolo di Parigi abbatte la Bastiglia, compie le stragi di settembre, giudica e giustizia il re. Ma che cosa ha a che fare questo popolo coi cittadini di una democrazia contemporanea?». In questo senso si veda come in precedenza anche V. CRISAFULLI, ne La sovranità popolare nella Costituzione italiana (Note preliminari), in Stato. Popolo. Governo. Illusioni e delusioni costituzionali, Giuffrè, Milano, 1985, 122 affermava che «La suprema potestà di governo non è attribuita al popolo come unità indivisibile, ossia come ad un unico soggetto, ma a tutti i cittadini, membri del popolo, ciascuno dei quali ha un diritto personale di parteciparvi con la propria volontà e perseguendo il proprio orientamento politico». 105 J.J. ROUSSEAU, Du contract social (trad. it. Il Contratto sociale, Feltrinelli, Milano, 2003. Si noti a proposito che, come è ben noto, Rousseau qui sostiene criticamente che «spesso vi è una gran differenza fra la volontà di tutti e la volontà generale: questa ha di mira soltanto l’interesse comune, l’altra ha di mira l’interesse privato e non è che una somma di volontà particolari». PARTECIPAZIONE COME CATEGORIA, IDENTITÀ E RAPPRESENTANZA 183 fluiscono, o per dar conto in un colpo solo di un’intera identità, sia sintomatica di un fraintendimento che rivela ben più gravi patologie che non quelle meramente lessicali. Infatti le incertezze che la attraversano sono in fondo le stesse che abbiamo da più prospettive descritto come difficoltà di rappresentazione, e che ora disvelano un ribaltamento nel significato originario, che abbandona il valore della cittadinanza come entità corale non trascendente gli individui, e migra verso una sua raffigurazione unitaria e unificante, che non solo semplifica ma più propriamente tradisce il suo significante originale. In altri termini ci pare che, da un punto di vista generale, vi sia una tendenza a risolvere il problema delle volontà (e degli interessi) individuali con un uso assordante del termine che rinnega le esigenze stesse da cui muovono le istanze di partecipazione. In un certo senso sembra riproporsi, in termini pur evoluti, la distinzione e il contrasto tra le «formazioni sociali» (di cui all’art. 2 Cost.) e le «associazioni» (di cui diversamente all’art. 18 Cost.) che i costituzionalisti avevano da tempo segnalato e discusso. Pur nella diversità degli indirizzi interpretativi, ai nostri fini possiamo qui riassumere quel dibattito osservando che mentre le prime si presentano come aggregazioni permanenti e “inevitabili”, ad appartenenza necessaria (e quasi naturale) in quanto originate da profondissime radici spirituali, sociali, psicologiche e prive di specifici caratteri strutturali, le seconde diversamente appaiono come espressioni contingenti (pur se durature) in cui liberamente e volontariamente convergono singoli individui che, attraverso una precisa struttura organizzata, decidono di perseguire un fine comune106. E quindi, se le formazioni sociali (da alcuni comunque ritenute genus di molte species, tra cui le associazioni107), avvicinandosi al concetto di “popolo”, recano a un’oggettivazione in una sola entità collettiva e vengono orientate in positivo dalla Costituzione al perseguimento della «solidarietà politica, economica e sociale», le associazioni non avrebbero la capacità di superare la «somma dei voleri indi- 106 Le tesi qui sintetizzate sono quelle di C. MORTATI in Note introduttive ad uno studio sulle garanzie dei singoli nelle formazioni sociali, in Scritti in onore di Salvatore Pugliatti, vol. III, Giuffrè, Milano, 1978, 579 ss. Contra si veda A. PACE, Problematica delle libertà costituzionali, vol. I, Cedam, Padova, 1983, 13 ss. 107 In questo senso specificamente P. BARILE, Diritti dell’uomo e e libertà fondamentali, Il Mulino, Bologna, 1984, 189 ss., e ID., Il soggetto privato nella Costituzione italiana, Cedam, Padova, 1953, 9 ss. 184 DANIELE DONATI viduali»108 e di creare tra i membri un collegamento trascendente il “vincolo associativo” che ne connota lo stare assieme, e che la stessa carta costituzionale descrive soltanto in negativo, nelle esclusioni di cui al 2° co. dell’art. 18 (e poi specificate nella l. n. 17 del 25 gennaio 1982). Ebbene ciò che vogliamo segnalare, in queste pagine, è proprio come, anche attraverso la alterazione e lo sfaldamento del concetto di «cittadinanza», si sia segnato il passaggio delle attuali e mutevoli forme di aggregazione dalla categoria delle associazioni a quella delle formazioni sociali. Esse infatti, nelle norme e nella percezione diffusa, ci appaiono sempre meno come manifestazioni dello spirito associativo, insieme di singoli legati da uno scopo o da interesse condiviso, divenendo piuttosto rappresentazione normalizzante le individualità e le diversità, in cui l’interesse comune diviene la chiave per dare corpo a un’entità ulteriore rispetto ai consociati che in quanto tale ha accesso, in proprio, ai diversi procedimenti partecipati. Si consideri la (non remota) ipotesi per cui un’associazione, facendosi nominalmente carico di interessi generali determinati (anche in ambiti di rilievo costituzionale – si ricordava il caso dell’ambiente, della salute, del patrimonio artistico culturale, dei diritti dei consumatori) negozi, decida e agisca in nome e per conto dell’intera categoria che afferma di rappresentare, o addirittura “di tutti”, raggiungendo soluzioni che, in forza dell’adozione da parte dell’amministrazione degli atti concordati, avranno di fatto valenza erga omnes. In casi come questi, sempre più frequenti, assistiamo, a causa della inconsistenza della regolazione, o della “intraprendenza” delle stesse associazioni, a un’arbitraria oggettivazione di un interesse privato pur condiviso da una pluralità di individui, e a una sua personificazione generalizzante, che nel sintetizzare in capo a qualcuno l’interesse stesso dimentica qualsiasi principio della rappresentanza in senso giuridico e trascende la volontà individuale109. In questa prospettiva, tra l’altro, al singolo rimarrà a quel punto ben poco spazio per la affermazione delle proprie rivendicazioni, della propria volontà individuale: da una parte, infatti, egli si troverà di fronte a un’amministrazione confortata e rafforzata nella sua decisione 108 Così P. RIDOLA, voce Associazione, I) Libertà di associazione, in Enc. giur. Treccani, vol. XXII, Treccani, Roma, 2003 di cui si veda anche Democrazia pluralistica e libertà associative, Giuffrè, Milano, 1987. 109 Si vedano in proposito le considerazioni critiche di F. FERRO-LUZZI in «Le ali». Prime riflessioni sulla gabbia ove le associazioni dei consumatori hanno rinchiuso i propri associati, in Analisi Giuridica dell’Economia - 1/2006, 141 ss. PARTECIPAZIONE COME CATEGORIA, IDENTITÀ E RAPPRESENTANZA 185 dalla “piena partecipazione” dei cittadini al procedimento decisionale e, dall’altra, a un’associazione privata che in base a una specifica disposizione, o nella completa assenza di questa, ha comunque legittimamente preso parte al procedimento stesso e conseguentemente ha agito favorendo quella che essa, come soggetto autonomo e capace di propria volontà, riteneva essere la soluzione più adeguata e opportuna. Si palesa così un paradosso, un’evidente contraddizione con quella che, come abbiamo a più tratti ricordato, è la ragione essenziale del favore che le pratiche partecipative hanno conosciuto nella prassi come nell’elaborazione scientifica, e cioè il fatto che attraverso di esse si potessero in parte superare i limiti imposti dai sistemi di rappresentanza tradizionale per tornare a fondare le relative dinamiche sul valore di una presenza effettiva, in prima persona, dei cittadini. Invece, diversamente, si profila il rischio di un pieno ritorno a forme di rappresentanza prive delle garanzie offerte da quelle tradizionali, in cui l’individuo è ancora una volta il mero destinatario di decisioni di un soggetto collettivo a cui non ha (almeno volontariamente) aderito. 8. Identità e rappresentanza. Conclusioni Ci troviamo insomma ancora una volta, pur se in termini inediti, davanti alla (ennesima) riproposizione del dissidio attorno al quale, pur senza mai esplicitarsi, si sono incentrate tutte le nostre osservazioni, e che di fatto più di ogni altro ha attraversato l’intera teoria delle forme di partecipazione, quello tra identità e rappresentanza110. Evolvendo dall’idea assolutistica del potere come “identità”, coincidente con la persona del sovrano, la rappresentanza inizialmente si delineava come (il miglior) strumento possibile per una mutazione in senso liberale delle forme di Stato. Oggettivazione del potere, soggezione dello stesso al diritto e sovranità popolare ben presto fecero mutare i termini della questione, fino a far diventare i due concetti rispettivamente i simboli dei sostenitori della democrazia diretta (in senso “antico”) e della democrazia parlamentare, indiretta. Di questo confronto e del suo esito storico si è già detto al paragrafo 4.2. 110 A parte le considerazioni già viste di Rousseau e altri epigoni, all’origine di questa antitesi, in tempi vicini a noi, a rifondare i tratti di questa antitesi si pone il pensiero di C. SCHMITT, di cui in particolare segnaliamo Volksentscheid und Volksbegehren, De Gruyter, Berlin-Leipzig, 1927 (trad. it. Referendum e iniziativa popolare in Democrazia e liberalismo (a cura di M. Alessio), Giuffrè, Milano, 2001). 186 DANIELE DONATI Qui possiamo aggiungere che nel nostro modello costituzionale entrambi i valori sono ben affermati, e pur assumendosi la rappresentanza come metodo essenziale di legittimazione del potere (artt. 1, 48 e 49 Cost.), il valore dell’individuo e della sua identità non scompaiono affatto (artt. 13 e 22 Cost.), ma permangono e, come abbiamo visto, per la concorrenza di diversi fenomeni, mai come ora si manifestano nell’urgenza di “esserci”, nella aspirazione a superare la finzione della rappresentanza111, o ancora nell’insofferenza per una compressione della volontà individuale nei meccanismi della decisione a maggioranza112 che fa sentire la parte sconfitta come (almeno apparentemente) irrilevante, destinata scomparire e a ritornare a essere, soltanto, uno dei molti atomi di un’entità che decide per tutti anche in nome suo. È dunque sulla linea di questa aspirazione all’affermazione dell’identità individuale che le nuove forme della partecipazione devono muovere se ambiscono a rispondere davvero a queste insoddisfazioni, e a dare vita a una solida forma integrativa del modello democratico rappresentativo. Si tratta, per un verso, di creare un legame strettissimo ed una piena corrispondenza, quasi una “immedesimazione” tra rappresentati e rappresentanti, e, per contro, di affermare con determinazione, verso i terzi, il ruolo e la responsabilità dei soggetti rappresentativi in quanto tali. Al momento, però, entrambi i profili appaiono insoddisfacenti. Per quanto riguarda le relazioni fra membri delle associazioni e loro “amministratori”, si deve immediatamente constatare che gli strumenti che possiamo attualmente rinvenire in seno all’ordinamento non paiono affatto sufficienti per assicurare un livello di garanzia accettabile. Infatti l’indeterminatezza riscontrata nella legislazione sulla partecipazione si innesta su un quadro di forti garanzie costituzionali dall’intrusione dei pubblici poteri e di regolazione debolissima da parte del codice civile, che porta questi soggetti a una condizione di pressoché illimitata autonomia organizzativa. Ne risulta una trama di relazioni in111 Si veda a questo proposito 112 Cfr. tra gli altri sul punto B. ACCARINO, Rappresentanza, Il Mulino, Bologna, 1999. K.J. ARROW, Social choice and individual values, Wiley, New York, 1951, 1963 (trad. it.: Scelte sociali e valori individuali, ETAS, Milano, 2003); A. SEN, Collective choice and social welfare, Holden Day, San Francisco, 1970; per la dottrina italiana G. AMATO, Il dilemma del principio maggioritario, in Quaderni costituzionali, 1994, XIV, 2, 171 ss.; G. CORSO, Individuo, decisione collettiva, principio maggioritario, in AA.VV., Scritti in onore di Massimo Severo Giannini, t. I, Giuffrè, Milano, 1988, 231 ss.; A. PIZZORUSSO, Funzionalità e disfunzionalità del principio maggioritario, in Scritti in onore di Rodolfo Sacco, Giuffrè, Milano, 1994, 900. PARTECIPAZIONE COME CATEGORIA, IDENTITÀ E RAPPRESENTANZA 187 terne alle associazioni del tutto invisibile all’ordinamento, e quindi potenzialmente priva di certezze e di trasparenza. Non diversamente, sotto il profilo delle relazioni delle associazioni rappresentative verso i terzi e verso la cittadinanza (in senso proprio) nel suo insieme, in ragione della indeterminatezza del loro ruolo e del loro proporsi con i tratti assoluti e assolutamente sfumati di una società “naturale”, di una formazione sociale, si evidenzia il rischio di una sostanziale irresponsabilità per le determinazioni raggiunte. Proviamo allora a immaginare quali possano essere i rimedi, le risposte possibili a questa esigenza di dare alle pratiche partecipative la solidità, la consistenza e la trasparenza che l’attuale situazione non sembra riuscire ad assicurare, nel tentativo di realizzare un sistema di associazioni rappresentative intermedie pienamente legittimato all’interno e accountable verso l’esterno, attendibile da parte delle istituzioni e della società. Le ipotesi che almeno in via teorica si prospettano muovono sotto il duplice profilo della regolazione e della interpretazione. L’intervento sotto il profilo normativo appare immediatamente debole, e destinato comunque a restare nella sfera dello iure condendo. In questo senso, si possono alternativamente auspicare: – la approvazione di una legge statale che, in forza della competenza esclusiva su «l’ordinamento civile» di cui alla lett. l, art. 117 co. 2 Cost. dia compiuta regolazione al fenomeno associativo nel suo complesso. È il caso però di notare immediatamente come questa ipotesi si presenti fragilissima anche in ragione del forte presidio costituzionale di cui all’art. 18; – la determinazione, ancora per legge statale, di “criteri minimi associativi” in base ai quali le autorità pubbliche, anche territoriali, possano selezionare e convocare i soggetti rappresentativi nelle diverse sedi partecipative. Si possono a questo proposito ipotizzare, come possibili, il criterio dell’effettiva rappresentatività di un gruppo, o la piena democraticità nella organizzazione interna. Un intervento di questo tenore si potrebbe qualificare come determinazione di livelli essenziali (di cui alla lett. m, art. 117 co. 2 Cost.) e consentirebbe ai legislatori regionali di disciplinare ulteriormente, in senso “migliorativo”, la materia. Tentando la via interpretativa, consideriamo allora come, pur nella frammentazione delle esperienze riscontrate nella prassi, le pratiche partecipative, consapevolmente o meno, di fatto oggi siano i soggetti più idonei a candidarsi per colmare il vuoto lasciato dalla crisi delle forme tradizionali di aggregazione del consenso, e cioè dei partiti e dei 188 DANIELE DONATI sindacati. È di fatto alle associazioni rappresentative ammesse alla partecipazione, nelle sue diverse forme, che i cittadini, nonostante le debolezze fino a qui evidenziate, guardano e si rivolgono nella necessità di trovare sostegno e alleanze; e quindi è di fatto a queste associazioni che spetta, in numerose occasioni, divenire l’interfaccia necessaria tra individui e le autorità pubbliche. Se tutto ciò è vero, allora è forse ammissibile poter immaginare che si estenda anche a queste associazioni il complesso delle garanzie previste dagli artt. 39 e 49 Cost. nei confronti dell’associazionismo partitico e sindacale, imponendo anche alle nuove forme della partecipazione quei criteri di democraticità esterna (propria dei partiti) e interna (propria dei sindacati) che, crediamo, a questo punto appaiano anche per esse ineludibili. In altre parole, se nella dinamica politico-sociale contemporanea sono queste associazioni rappresentative ad assolvere, in molti casi, il ruolo che i costituenti avevano immaginato per i partiti e i sindacati, ci pare lecito pensare che le norme che furono pensate per dare garanzia ai singoli nei confronti e in seno a quelle organizzazioni, possano essere rilette superando il richiamo formale e nominale a quei soggetti, ed essere applicate a tutte quelle persone giuridiche che oggi, seppur “dal basso”, nei confronti delle amministrazioni, sostanzialmente svolgono le funzioni di sintesi, raccolta e formazione del consenso, di consolidamento delle istanze politico sociali, e di rappresentazione delle stesse di fronte in seno ai procedimenti decisionali. Scegliere questa via, ci pare, non significa arrendersi all’ineluttabilità della alterazione nel modello di definizione dell’interesse pubblico, o alla crisi del sistema rappresentativo (su cui si può e si deve senza dubbio intervenire); ma significa saper governare il cambiamento che oramai è nei fatti, conducendo il sistema delle garanzie costituzionali, tuttora attualissime, verso i luoghi ove ora il consenso si forma e si esprime. E ciò perché l’importanza di queste dinamiche è innegabile, perché si è convinti che, se governate e coltivate in seno a un sistema democratico forte, possano dare buoni frutti. E forse nell’utopia che un giorno vi siano meccanismi di rappresentazione degli interessi talmente efficienti e associazioni talmente virtuose da «tendere alla loro stessa inutilità», avendo formato al loro interno cittadini così informati e così capaci da renderle superflue113. 113 F. FERRO-LUZZI, op. ult. cit. JEAN PAUL VARGAS - MELISSA ZAMORA LA SFIDA CENTRAMERICANA: TRA RAPPRESENTAZIONE E PARTECIPAZIONE SOMMARIO: 1. Una contestualizzazione della regione centroamericana. – 2. Tendenze della partecipazione. – 3. Dal nazionale al locale. – 4. Sfide della regione in materia di partecipazione. 1. Una contestualizzazione della regione centroamericana Durante la seconda metà del XX secolo l’America centrale, con l’eccezione del Costa Rica, è stata liberata dall’imposizione dei governi autoritari che, attraverso colpi di stato, avevano lacerato il tessuto sociale della regione, provocando grandi perdite umane, sociali, economiche e politiche, generando una regressione di circa venti anni in termini di indicatori di sviluppo economico e sociale, e generando un debito sociale che ad oggi non si è ancora riusciti a sanare (Córdoba e Günther, 2000, 13). Alla fine degli anni ottanta è cominciata la procedura per l’apertura ad un processo di pace; tuttavia è solo nel 1996, con la firma degli Accordi di Pace nel Guatemala, che si è imposto un sistema di carattere democratico in tutta la regione, nel tentativo di abbattere le strutture autoritarie e repressive ancora esistenti e dare il passo, almeno sul piano formale, a governi più democratici. Durante gli anni novanta la regione è stata coinvolta in processi di cambiamento istituzionale, nei quali si sono effettuati programmi di smilitarizzazione della vita politica, si sono iniziati processi di modernizzazione dell’amministrazione, si sono realizzate trasformazioni nel sistema di giustizia e si sono instaurate democrazie elettorali. Ma questi cambiamenti sono stati più formali che effettivi: essi si sono realizzati seguendo dinamiche di tipo top-down, dimostrando che gli avanzamenti in materia di democrazia sono ancora fragili, che gli Stati centroamericani sono ancora incapaci di rispondere alle necessità della loro popola- 190 JEAN PAUL VARGAS - MELISSA ZAMORA zione, e che i loro progressi in tema di equità, inclusione, trasparenza e partecipazione sono scarsi, se non inesistenti. Durante gli ultimi anni, i cittadini centroamericani hanno assistito al fallimento delle agende neoliberali, hanno visto come le istituzioni formali della democrazia elettorale operino in contesti di immensa povertà e disuguaglianza, generando pratiche clientelari nella gestione pubblica; sono stati testimoni di come le agende di privatizzazione si muovano lentamente nella logica dei mercati efficienti e quasi per niente in occasioni di inclusione sociale, di occupazione e culture produttive; hanno assistito alla stagnazione delle riforme fiscali per una maggior uguaglianza economica e allo scarso avanzamento nella generalizzazione dei servizi pubblici (Prats, 2007, 39). I cambiamenti sociali, demografici, economici e politici degli ultimi anni non hanno prodotto miglioramenti nello sviluppo della qualità di vita nè hanno rafforzato la crescita economica, ma hanno aggravato le lacune fra i paesi e ancor più all’interno di questi. Oggi l’America centrale è caratterizzata da una manodopera a basso costo e non qualificata, dalla prevalenza di maggioranze povere, da un’emigrazione crescente, da degrado ambientale e fragili Stati di diritto. Come risultato della scarsa offerta di opportunità lavorative, l’emigrazione, principalmente negli Stati Uniti, è aumentata dagli anni ’90, generando una dipendenza significativa per la stabilità macroeconomica dei paesi centramericani dalle rimesse familiari e trasformandosi in una necessità strutturale per il funzionamento di alcune imprese e società nella regione. La bassa qualificazione della manodopera ha limitato l’accesso a posti di lavoro di qualità, facendo sì che meno del 30% dei lavoratori e delle lavoratrici della regione si trovi a godere di un’occupazione con pienezza di garanzie sociali. L’investimento previdenziale sociale continua ad essere uno dei più bassi, e nonostante che le cifre della povertà si siano ridotte lievemente non si sono verificati cambiamenti nella disparità sociale. Non si sono registrati miglioramenti nella segmentazione dei mercati di lavoro, essendo la popolazione impiegata in settori a produttività e reddito bassi (Estado de la Region, 2008, 47-51). Nel quadro che si presenta di seguito si può notare la lieve diminuzione negli indici di povertà. D’altra parte, gli indici di violenza politica si sono ridotti, applicandosi come unico mezzo per mettere fine al conflitto militare la libera partecipazione politica, la quale ha peraltro conseguito l’unico risultato di LA SFIDA CENTRAMERICANA: TRA RAPPRESENTAZIONE E PARTECIPAZIONE 191 QUADRO 1 Evoluzione dell’incidenza della povertà in Centroamerica Condizione di povertà Regione Guatemala HonduEl ras Savaldor Nicaragua Costa Rica Panamá 1990 Povertà estrema 27,3 18,1 57,5 31,5 19,4 09,9 24,8 Povertà generale 59,8 62,8 78,7 06,0 50,3 30,7 42,5 2001 Povertà estrema 23,0 15,7 53,0 19,8 15,1 6,8 26,5 Povertà generale 50,8 56,2 71,6 45,5 45,8 22,9 40,5 2006 Povertà estrema 19,7 15,2 48,1 09,3 17,2 06,0 16,6 Povertà generale 46,5 51,0 67,8 32,3 48,3 22,8 36,8 Fonte: Estado de la Region, 2008: 94. controllare la repressione esercitata dalle forze armate contro la popolazione. Questo calo della violenza politica non è tuttavia riuscito a generare società più pacifiche, acquistando piuttosto negli ultimi anni un profilo distinto, qualificato da alti livelli di violenza sociale, che trova espressione nella crescita di forme di delinquenza organizzata fra migliaia di giovani che vedono limitate le loro opportunità d’integrazione sociale. Negli ultimi anni, l’insicurezza si è convertita in un problema di ordine pubblico, che mette in gioco l’autorità degli Stati e costituisce un fattore di smantellamento sociale, che inficia le relazioni di reciprocità tra le comunità e blocca la crescita economica imponendo alti costi operativi dei settori prodottivi, facendo deprimere i cittadini e diminuendo il loro sostegno verso il sistema politico (Estado de la Region, 2008, 53). Nonostante il fatto che in tutti i paesi si celebrano processi elettorali competitivi, non esiste una piena instaurazione della democrazia elettorale in molti di questi: il caso più grave è quello del Nicaragua; alti livelli di violenza politica si registrano anche in Guatemala. Non esiste un contesto istituzionale che garantisca la trasparenza, la buona gestione dei fondi pubblici e il controllo dei conti. Gli organi che sono responsabili di vigilare sulla gestione pubblica mostrano seri limiti e nella maggior parte dei casi sono controllati dai partiti politici. Questo ha portato alla proliferazione di pratiche corrotte all’interno delle istituzioni dello Stato. 192 JEAN PAUL VARGAS - MELISSA ZAMORA La lotta contro la corruzione ha trovato spazio per avanzare sul piano normativo e della coscienza pubblica. Le regole sul finanziamento politico dei partiti sono scarse: ciò ha prodotto, fra l’altro, ingiustizia nella competizione fra partiti e pochi controlli sulle donazioni private, consentendo l’ingresso di capitali (inclusi quelli connessi al narco-traffico) e favorendo disinteresse e sentimento di non rappresentanza nel processo decisionale politico. La trasparenza e la correttezza dei funzionari pubblici sono frequentemente menzionate come elementi importanti dell’agenda centroamericana; tuttavia, non sono sufficienti le riflessioni sull’argomento e sono sempre più scarse le proposte per il suo avvicinamento da parte della società civile (Vargas, 2003, 11). In ambito locale, i comuni della regione hanno visto le proprie fonti di reddito diminuire, a causa dell’alta dipendenza dai trasferimenti di bilancio che avvengono col governo centrale. Oltre a ciò, i paesi della regione non hanno un quadro politico per il decentramento, ma rimangono piuttosto ancorati a sistemi di competenze poco definiti e a disposizioni in materia di trasferimenti economici tuttora inattuate. Oggi l’America centrale vive un crescente degrado ambientale, dove numerosi ecosistemi continuano a non essere protetti e non vi è la capacità istituzionale di attuare misure di conservazione. Oltre a questo, la regione costituisce un territorio vulnerabile rispetto ad uragani, terremoti e altri disastri naturali, il che espone i suoi abitanti a conseguenze negative e devastanti; e ad essere più colpite sono sempre le popolazioni più povere. L’insieme di questi fattori ha generato una situazione di forte disaffezione politica, che continua ad aumentare nella regione a causa delle pratiche clientelari, dell’abuso di potere, della corruzione, dell’impunità e dell’ostruzionismo, in un territorio dove il degrado ambientale, i bassi indicatori di sviluppo economico e sociale, le ridotte opportunità di lavoro e i ridotti spazi di partecipazione hanno prodotto a loro volta una crescente frammentazione sociale e politica, inevitabilmente di ostacolo alla vita democratica della regione (Vargas, 2003, 12). Questo scenario carico di variabili scoraggianti, di poche soluzioni alla disuguaglianza economica e di scarsa rappresentatività dei governi centroamericani, ha portato la popolazione a sentire sempre più urgente la necessità di divenire attore determinante per la gestione dello sviluppo della comunità e del paese, di partecipare alla costruzione delle politiche pubbliche, di chiedere azioni di miglioramento di fronte a si- LA SFIDA CENTRAMERICANA: TRA RAPPRESENTAZIONE E PARTECIPAZIONE 193 tuazioni determinanti per la qualità di vita. Così le vie di partecipazione a livello informale si sono moltiplicate negli ultimi anni, al pari di alcune iniziative di partecipazione a livello formale1. 2. Tendenze della partecipazione La regione centroamericana non è riuscita a sviluppare le condizioni politiche e sociali per poter soddisfare le esigenze dei cittadini, le quali si presentano in maniera ogni volta più diversificata e si esprimono in necessità di miglioramento sociale, d’inclusione politica, di rappresentanza, di partecipazione e di sviluppo economico. Questo ha fatto sì che i sistemi politici della regione si vedano esposti a processi di tensione che, causa la loro fragilità istituzionale, sono incapaci di risolvere. Le elites politiche che ostentano il potere in America centrale attraversano dunque una crisi di rappresentazione e di rappresentatività; allo stesso tempo esse hanno beneficiato (ed in certo senso approfittato) dell’agitazione sociale per giustificare riforme istituzionali, elettorali e pratiche partecipative che hanno tuttavia finito sovente per aumentare – di fatto – i livelli di insoddisfazione per la vita politica. Per molti anni, nella dinamica centroamericana, la partecipazione si è vista limitata allo svolgimento di elezioni periodiche, ma non necessariamente trasparenti: condizione che ha portato un progressivo degrado nei livelli di empatia con i processi formali di partecipazione politica. Le promesse irrealizzabili costruite nelle campagne elettorali e il sostegno ogni volta minore con il quale i leader politici arrivano al potere, ha innescato nella cittadinanza la tendenza a pensare a forme alternative per avanzare le proprie richieste. Gli Stati centroamericani scontano la propria incapacità, tanto materiale quanto tecnica, di rispondere alle richieste dei cittadini, sempre più esigenti ma anche sempre più frammentate e disaggregate. Questo fa sì che in America centrale si sviluppino gruppi sociali con un forte capitale sociale, che permette loro di influenzare la vita politica e di mettere in evidenza la difesa dei loro interessi particolari. L’emergere di gruppi sociali con forte capitale sociale si è visto favorito dall’indebolimento che hanno sperimentato i partiti politici nella 1 Si intenderà per il piano formale quello relativo alle norme e procedure stabilite nell’ordinamento giuridico; mentre per il piano informale si farà riferimento alle dinamiche derivate delle relazioni di potere non espressamente disciplinate dall’ordinamento. 194 JEAN PAUL VARGAS - MELISSA ZAMORA regione e ha generato una riconfigurazione delle relazioni di potere, collocando i gruppi sociali come promotori di cambiamento nell’agenda politica in alcune tematiche e in alcuni momenti chiave, capaci di aprire più spazi di dialogo e di incanalare le tensioni sociali, in via formale o informale (Vargas, Leinus e Pettri, 2007, 1-4). Questi gruppi sociali si esprimono in movimenti sindacali, studenteschi, ambientalisti, femministi, oppure convergono in un movimento eterogeneo che condivide certi punti dell’agenda e in maniera congiunta si manifesta su ciò, pur mantenendo le singole specificità. I processi di partecipazione in cui questi gruppi sono inseriti possono essere influenzati da una serie di variabili, come il livello di organizzazione, il livello d’istituzionalizzazione del processo, l’origine dell’iniziativa (la società civile o il governo centrale). Secondo Vargas (2003, 24-25), una di queste classificazioni dei processi di partecipazione può darsi in base al livello d’istituzionalizzazione: nel caso della regione centroamericana possiamo ravvisarne tre tipi. Il primo può qualificarsi come di alta istituzionalizzazione e incornicia spazi contemplati nelle leggi di partecipazione o nei codici comunali, promuovendo la consultazione cittadina. I casi in cui si presenta questo tipo d’istituzionalizzazione si caratterizzano per essere esperienze di carattere essenzialmente consultivo. In secondo luogo, troviamo le esperienze a bassa istituzionalizzazione, che si caratterizzano per essere esperienze di partecipazione in comunità specifiche. Queste esperienze sono generalmente quelle più avanzate, considerato che coinvolgono direttamente la cittadinanza in processi di cogestione e implementazione di politiche pubbliche, monitoraggio e pianificazione partecipativa: tali esperienze possono essere promosse dal governo locale, dalla società civile o da entrambi congiuntamente, e la loro sostenibilità è assicurata da ordinanze o voci di bilancio comunale. Il terzo scenario dei processi di partecipazione si identifica come di scarso carattere istituzionale, e tende a organizzarsi in comunità dove si presentano costanti confronti fra gli attori sociali e politici o fra questi ultimi; questi processi nascono pertanto da una dinamica di ricostruzione delle relazioni e di ridefinizione della cultura politica. Questa bassa istituzionalizzazione si esprime in consultazioni, dialoghi, negoziazioni, intese, e modalità che consentono esercizi di pianificazione partecipativa e controllo sociale; tali modalità si caratterizzano per l’esistenza di un processo di maturazione e di accertamento di volontà politiche, LA SFIDA CENTRAMERICANA: TRA RAPPRESENTAZIONE E PARTECIPAZIONE 195 da parte dei soggetti coinvolti, per poter avanzare nei livelli d’istituzionalizzazione e poter garantire la loro sostenibilità nello tempo. Con riguardo alle tendenze che hanno segnato l’emergere di processi di partecipazione cittadina nella regione, indipendentemente dal suo grado d’istituzionalizzazione, Vargas segnala le quattro tendenze seguenti (2003, 25): a) Istituzioni governative di sostegno o promozione comunale e fondi di previdenza sociale: questi hanno teso, in maniera strutturata o spontanea, a esigere processi di partecipazione, come garanzia per accedere ai propri fondi. Tuttavia, queste iniziative non sono solite avere continuità, dati i frequenti cambiamenti di governo. b) Le agenzie di cooperazione internazionale hanno anche condizionato i propri fondi alla generazione di processi di partecipazione, senza peraltro prevedere un coordinamento fra le stesse agenzie: ciò ha generato confusioni metodologiche e operative. c) Le organizzazioni non governative (ONG) che lavorano su questioni di sviluppo locale sono anche coinvolte direttamente o indirettamente in processi di partecipazione. Tuttavia questo intervento ha presentato alcuni limiti relativi al finanziamento della cooperazione internazionale, alle politiche organizzative, ai bassi livelli d’istituzionalizzazione. d) I governi locali e le organizzazioni comunali, in misura minore, hanno promosso processi di partecipazione cittadina. Queste tendenze ci mostrano che in America centrale la partecipazione viene per lo più promossa da attori esterni ai comuni, caratterizzando la regione per la bassa spontaneità e iniziativa dei cittadini in questioni inerenti la propria vita locale. È necessario notare che il Nicaragua ha teso ad essere un’eccezione, giacché in questo paese si è sviluppato un capitale sociale forte, come conseguenza delle condizioni storiche e politiche che lo hanno caratterizzato. Si deve rilevare che le mobilitazioni sociali che avvengono come reazione a un contesto determinato hanno spesso una incidenza politica più forte rispetto ai meccanismi di partecipazione con alti livelli d’istituzionalizzazione, come è successo in Costa Rica, Panama e Guatemala. In questo caso, l’Honduras costituisce un’eccezione, giacché questo paese ospita numerosi forum settoriali di concertazione con livelli d’istituzionalizzazione alti, che sono riusciti a raggiungere un’impatto politico notevole. 196 JEAN PAUL VARGAS - MELISSA ZAMORA Pertanto, l’istituzionalizzazione della partecipazione non implica, necessariamente, una garanzia per la sua effettività. Per esempio, nel caso del Costa Rica sono state ridefinite le agende politiche attraverso iniziative cittadine informali: è il caso delle mobilitazioni sociali verificatesi nel 2000, le quali, espresse in scioperi, blocco di strade, scioperi della fame, marce e petizioni, hanno ottenuto che si ritirasse un progetto di legge conosciuto come «il Combo del ICE»2; l’opposizione popolare a questo progetto fu travolgente e provocò la maggior mobilitazione sociale che si sia registrata in Costa Rica negli ultimi decenni. Di fronte a questo movimento di protesta, il governo ha fatto retromarcia e ha creato una commissione mista nel Congresso con la partecipazione di sette rappresentanti sociali. Questo movimento riuscì a dimostrare che il sistema politico era insufficiente ad affrontare un conflitto sociale di questa grandezza e che non era capace di sviluppare meccanismi di partecipazione complementari. Successivamente, nel periodo compreso fra gli anni 2004 e 2007, le mobilitazioni di opposizione alla firma del Trattato di Libero Commercio fra America centrale, Repubblica Dominicana e Stati Uniti (TLC)3 hanno ottenuto che questo accordo non entrasse in vigore come nel resto dei paesi della regione, se non dopo molti confronti fra la cittadinanza e il Governo centrale: il tema fu infine sottoposto a referendum, cosicché la decisione dell’esecuzione del trattato fu presa dalla cittadinanza. In entrambi i casi, queste mobilitazioni sociali ebbero un potere di definizione dell’agenda politica. Un altro dei fattori importanti per la capacità d’influenza dei collettivi sociali nell’agenda politica, è il suo livello di organizzazione interna. Si è dimostrato che in paesi dove la società civile risulta disorganizzata, la partecipazione ha poca incidenza nelle politiche pubbliche. Questo è stato il caso dell’Honduras, dove i settori sindacali, le unioni e la società civile in generale hanno perso credibilità negli ultimi anni: le attività di questi hanno avuto poca incidenza nelle decisioni politiche, giacché i loro interessi sono settoriali e le loro proteste spesso non sono 2 Il «Combo del ICE» è stato creato dalla fusione di tre progetti promossi dal Governo di Costa Rica nel 1999, i quali si riferivano all’apertura dei mercati di telecomunicazioni, elettricità e spettro radiofonico, dei quali l’Istituto d’Elettricità del Costa Rica, istituzione autonoma dello Stato, possedeva il monopolio. 3 Il Trattato di Libero Commercio (TLC) consiste in disposizioni relative all’accordo commerciale su elementi come il tariffario, movimento doganale, origine di prodotti e regole interne per il traffico di beni. LA SFIDA CENTRAMERICANA: TRA RAPPRESENTAZIONE E PARTECIPAZIONE 197 accompagnate da proposte. Nel caso del Guatemala, il frazionamento e la mancanza di coordinazione della società civile non sono riusciti a generare un’influenza politica reale. In Costa Rica e Nicaragua i gruppi sociali hanno mostrato livelli di organizzazione molto alti, che hanno permesso loro di esercitare un peso relativamente maggiore nel processo di policy making. Questo scenario si è presentato specialmente in Nicaragua, dove il grado di coordinazione delle ONG è relativamente alto, con istituzioni come il Coordinatore Civile o la FONG (Federazione di ONG). Nel caso di Panama, questa tendenza è emersa negli ultimi anni, che hanno visto l’articolazione e il coordinamento degli «interessi delle unioni, dei sindacati e dei gruppi studenteschi» (Vargas, Leinus e Pettri, 2007, 213-215). A causa dell’eterogeneità dei gruppi sociali, il loro coordinamento non è facile; inoltre, la presenza di agende e metodologie di lavoro diverse implica un previo sforzo di armonizzazione, processo nel quale la cooperazione internazionale può svolgere un ruolo importante. In generale, la situazione dei gruppi sociali in America centrale è molto eterogenea. Tuttavia, si può affermare che i sindacati, e le organizzazioni dei lavoratori in generale, sono in una posizione di forza asimmetrica se si confrontano con i settori imprenditoriali, giacché i primi hanno livelli organizzativi inferiori, cosi come una gestione scarsa di ricorse economiche, che nel caso degli imprenditori non è solitamente un problema strutturale. Altre ragioni che rendono complesso il coordinamento dei gruppi sociali nella regione risiedono nel fatto che questi gruppi sono molto settoriali: i loro interessi sono molto specifici e difficilmente assurgono a visione generale dell’interesse del Paese. Negli ultimi decenni, i processi di privatizzazione di enti pubblici e di de-istituzionalizzazione dell’economia hanno generato declino e perdita di forza dei gruppi sociali nella regione. In paesi come l’Honduras, la diminuzione della credibilità dei gruppi sociali è notoria, se si fa il paragone con la situazione di mezzo secolo fa. In Nicaragua e a Panama, i gruppi sociali hanno ancora un’influenza politica notevole e, in minor misura, anche in Costa Rica. Tuttavia è necessario segnalare che questo logorio dei gruppi sociali è dovuto, in parte, al fatto che le elites politiche della regione hanno cercato di formalizzare alcuni meccanismi di partecipazione come reazione alle proteste o domande sociali, rendendoli in tal modo legittimi e acquisendo un certo controllo sul risultato degli stessi; tuttavia tali processi partecipativi hanno finito per perdere credibilità ri- 198 JEAN PAUL VARGAS - MELISSA ZAMORA spetto agli interessi dei gruppi, favorendo piuttosto gli interessi della classe politica che detiene il potere e indebolendo – di fatto – la lotta dei gruppi sociali. Questo scenario si è verificato in Costa Rica nel 2007, quando, dopo tre anni di lotta e proteste da parte di un settore importante della società civile che chiedeva al Paese di non firmare l’accordo commerciale con gli Stati Uniti, l’America centrale e la Repubblica Dominicana (CAFTA, meglio conosciuto come TLC), si è proposto di indire un referendum consultivo, in cui la popolazione fosse chiamata per la prima volta a prendere posizione su una una questione d’importanza nazionale. Quando i gruppi sociali organizzati contro il trattato iniziarono a sollecitare il referendum, il governo decise di “snellire” il processo, convocando esso stesso in maniera formale la consultazione: nello svolgimento di questa, tuttavia, il gruppo che si opponeva alla firma del trattato è stato pesantemente discriminato; ed infine il risultato del referendum è stato positivo per gli interessi del governo, grazie ad un margine minimo di differenza, riproponendo così la delicata questione della legittimità del processo, dell’importanza della partecipazione e del rispetto del risultato prodotto dalla decisione della maggioranza. In questa maniera, un’iniziativa che ebbe inizio a partire dal basso, senza risorse economiche e unicamente col lavoro di un capitale sociale molto forte, risultò una spesa eccessiva di risorse e un meccanismo formale per legittimare una decisione delle elites politiche del paese. Ebbene, stabilire quali siano state le metodologie di partecipazione utilizzate nella regione centroamericana e quale sia stata la loro evoluzione, è ancora un compito difficile, giacché esistono esperienze diverse: da casi incipienti fino a procedimenti che contano un forte sostegno metodologico che garantisce l’esercizio d’una partecipazione deliberativa, equa e inclusiva. In ogni caso, le esperienze di partecipazione più comuni, indipendentemente dal loro tasso di istituzionalizzazione, sono i processi d’impatto cittadino, la pianificazione partecipativa e alcune esperienze di bilancio partecipativo. Secondo Vargas, Leinus e Pettri (2007, 195-197), nella regione centroamericana si possono identificare le seguenti tendenze come le più frequenti per la costituzione di canali di partecipazione nelle politiche pubbliche: a) Spazi di partecipazione condizionati dai fondi della cooperazione internazionale, o promossi da quella – cooperazione internazionale governativa o organizzazioni non governative –. LA SFIDA CENTRAMERICANA: TRA RAPPRESENTAZIONE E PARTECIPAZIONE 199 b) Spazi di partecipazione promossi da decisioni politiche centralizzate, cioè provenienti dal Potere Esecutivo o dal Potere Legislativo, indipendentemente dall’avere una base di sostegno delle organizzazioni comunali o delle organizzazioni della società civile per tale risoluzione. c) Spazi di partecipazione promossi dai governi locali, indipendentemente dal fatto che siano stati guidati da organizzazioni della società civile o dallo stesso comune. d) Spazi di partecipazione che si esprimono per canali istituzionali e non istituzionali, promossi ed esercitati dalla società civile organizzata nelle sue diverse espressioni – associazioni, gruppi comunali, gruppi d’unione, organizzazioni non governative, altri – che cercano d’influenzare, modificare, eliminare, denunciare o frenare una determinata politica pubblica nell’ambito nazionale, regionale o locale. Questi processi di partecipazione, in molti casi, sono stati accompagnati da un certo livello d’istruzione, indipendentemente dal fatto che siano stati promossi dagli stessi gruppi sociali, da organizzazioni pubbliche o private o dalla cooperazione internazionale. Questo accompagnamento tende a materializzarsi nei seguenti livelli (Vargas, Leinus e Pettri, 2007, 197-198): – Sostegno tecnico: quando si prevede una conoscenza sulle forme di organizzazione, il quadro giuridico che regola l’area di gestione sulla quale si eserciterà l’influenza, manuali basilari di supporto, abilitazione per leaders cittadini in temi relativi all’area d’intervento, metodologie di monitoraggio della gestione governativa, abilitazione per gestire fondi propri, etc. – Sostegno finanziario: le agenzie di cooperazione internazionale generalmente prevedono fondi che permettono ai gruppi di finanziare le attività di partecipazione. – Accompagnamento politico: alcuni gruppi sociali, per il loro percorso e sviluppo tecnico, sogliono avere riconoscimento nei diversi settori della società. Questo riconoscimento costituisce uno strumento di sostegno nel momento in cui si decide di influire su una determinata politica pubblica. In questo modo si stanno realizzando nella regione importanti sforzi, da parte di organizzazioni della società civile, di centri di educazione superiore e di altre istanze, per fornire alle comunità gli strumenti necessari per sviluppare la capacità di autogestire gli interessi, i problemi e le richieste della collettività con una forma partecipativa, inclusiva e informata. 200 3. JEAN PAUL VARGAS - MELISSA ZAMORA Dal nazionale al locale I governi locali costituiscono la manifestazione del potere statale decentralizzato, il punto di contatto più vicino fra lo stato e la società civile, l’espressione di identità culturali che risultano scarsamente rappresentate nelle elites dirigenti dello stato-nazione (Castells, 1998, 300). Alcuni movimenti urbani, così come i loro attori, si sono integrati nella struttura e nella pratica dei governi locali in maniera diretta o indiretta, attraverso un processo di partecipazione e uno sviluppo comunitario, il quale ha teso a rinforzare in maniera notevole il governo locale e ha introdotto la possibilità dello stato locale come organo significativo di ricostruzione del controllo politico e del significato sociale (Castells, 1998, 85). La garanzia della governabilità democratica ha come effetto quello di rendere sempre più importante il tema dell’espansione della cittadinanza e dello spazio locale quale “democrazia di prossimità”. Le municipalità e la gestione comunale offrono la possibilità di generare processi di sviluppo locale che contribuiscano a superare le differenze sociali ed economiche delle comunità (Córdoba e Günther, 2000, 2). Durante l’ultimo decennio, l’ordinamento comunale in alcuni dei paesi dell’America centrale, come il Guatemala, El Salvador e il Nicaragua, ha attraversato una serie di processi di riforma giuridica, che hanno prodotto principalmente i Codici Comunali, in contrapposizione al minimo cambiamento che a questo livello hanno sperimentato paesi come l’Honduras, il Costa Rica e Panama. Nei primi tre paesi, Gomáriz (2007, 2) espone le riforme giuridiche nella seguente forma. Nel Guatemala, nel 2002, si sostituì il Codice Comunale per adattarsi all’entrata in vigore di una legislazione sul decentramento (la legge dei Consigli di Sviluppo Rurale e la legge Generale di Decentramento, entrambe del 2002). Nel caso del Salvador, questo paese ha sperimentato una riforma integrale del Codice Comunale nel 2006, che contiene un paragrafo sulla partecipazione e la trasparenza. Per quanto riguarda il Nicaragua, due riforme devono essere ricordate in particolare: in primo luogo si è riformata la legge dei Comuni del 1997, includendovi meccanismi di partecipazione; in secondo luogo, si è approvata la legge di Partecipazione Cittadina (2006), regolando gli ambiti politico-amministrativi del paese (nazionale, regionale, autonomo e locale). Questa legge regola le LA SFIDA CENTRAMERICANA: TRA RAPPRESENTAZIONE E PARTECIPAZIONE 201 procedure e gli organi per la partecipazione diretta nella gestione pubblica locale. Inoltre, nel 2007 è stato emanato il decreto di creazione dei Consigli e Gabinetti del Potere Cittadino. Nei casi di El Salvador, del Guatemala e del Nicaragua, i cambiamenti nella legislazione in termini di partecipazione locale rispondono più alla spinta verso l’introduzione di meccanismi partecipativi che all’intento di cercare il coordinamento fra la rappresentanza e la partecipazione. Queste riforme legali si sono tradotte per lo più in norme-manifesto, ma non anche in meccanismi concreti per rendere effettiva la partecipazione; e invece di snellire il sistema politico locale tali riforme hanno finito per accrescerne gli ostacoli, rendendo ogni volta più evidenti i limiti della logica partecipativa (Gomáriz, 2007, 20). Nel quadro che si presenta di seguito si segnalano alcuni degli spazi di partecipazione cittadina nella regione centroamericana con livelli di alta istituzionalizzazione. QUADRO 2 Spazi di partecipazione cittadina nella regione centroamericana Paese Spazi di partecipazione Guatemala Consigli Locali o Comunità di Sviluppo Urbano e Rurale. El Salvador Riunioni aperte [“Cabildos”], consultazione popolare, sessioni di Consiglio Aperto. Honduras Riunione aperta [“Cabildo”], Commissione di Sviluppo Comunale, Plebisciti e Patronati. Nicaragua Riunione, [“Cabildo”] referendum, iniziativa, plebiscito, assemblee comunitarie. Il Codice contempla l’elaborazione partecipata del bilancio, ma a livello di consultazione cittadina. Costa Rica Riunione [“Cabildo”], referendum, plebiscito, udienze pubbliche, commissioni di lavoro comunale, Consigli di Distretto. Panamá Riunione [“Cabildo”], referendum, iniziativa e plebiscito. Fonte: Vargas, 2003, 19. In tutti i paesi esistono spazi a livello locale affinché i cittadini siano coinvolti in qualche modo nella gestione dei governi locali; alcuni paesi promuovono questi processi più di altri. Le variabili sono rappre- 202 JEAN PAUL VARGAS - MELISSA ZAMORA sentate, in particolare, dalle caratteristiche e specificità di ciascun comune, dalle condizioni amministrative e finanziarie, dalla volontà politica dei governi locali e dalla condizione del capitale sociale della comunità. Perciò convergono distinti fattori tanto nell’esecuzione come nel successo di questi meccanismi, di modo che l’esistenza formale degli stessi non implica necessariamente che la partecipazione cittadina sia realmente un esercizio effettivo. Nel quadro n. 3 si segnalano i meccanismi formali di partecipazione cittadina che si trovano regolati nella Costituzione Politica, nel Codice Comunale, così come nella legislazione specifica che regola la partecipazione cittadina nei paesi della regione. Come si può vedere, in Honduras e in Nicaragua si ha una legge di Partecipazione Cittadina: nel primo si regolano i meccanismi di partecipazione, come plebisciti, consultazioni, referendum e riunioni aperte, e si istituiscono anche gli organi per l’esercizio della stessa; nel secondo è riconosciuta la garanzia di partecipare nella formulazione, valutazione e monitoraggio delle politiche pubbliche a livello nazionale, locale e regionale. Nel Guatemala esiste una legislazione sul decentramento, come nel Nicaragua, nella quale è prevista la possibilità di partecipare in modo organizzato alla pianificazione e al controllo della gestione dello Stato a diversi livelli; l’altro quadro giuridico si trova nella Legge dei Consigli di Sviluppo Urbano e Rurale. Nei casi del Costa Rica, di El Salvador e di Panama, non si ha una legislazione specifica che regola o promuove l’esercizio della partecipazione cittadina. Come si può vedere, il quadro legale in tutti i paesi della regione contempla meccanismi formali di partecipazione: tuttavia, è necessario creare condizioni e stabilire controlli che permettano di regolare l’esercizio duraturo ed efficace di questi meccanismi, affinché essi non si riducano ad iniziative isolate. 4. Sfide della regione in materia di partecipazione Non v’è dubbio che l’America centrale possa oggi vantare una maggiore partecipazione democratica rispetto al decennio degli anni ottanta. Tuttavia, non si deve cadere nell’errore di affermare che la partecipazione inclusiva ed equa sia un risultato acquisito. La regione ha ancora molte sfide da affrontare, e queste rendono necessario sviluppare una coscienza profonda che permetta non solo di esigere altri e migliori LA SFIDA CENTRAMERICANA: TRA RAPPRESENTAZIONE E PARTECIPAZIONE 203 QUADRO 2 Spazi di partecipazione cittadina nella regione centroamericana Paese Costituzione Politica Legislazione specifica Codice Comunale Guatemala Diversi articoli contemplano il dritto di partecipare alla vita politica del paese (art. 57, 98, 100, 223, etc.). Per esempio, l’art. 98 incoraggia la partecipazione cittadina nella “pianificazione, esecuzione e valutazione dei programmi della sanità”. La legge di Decentramento, nei suoi articoli 17 e 19, prevede che i cittadini possano partecipare in maniera organizzata “nella pianificazione, esecuzione e controllo integrale delle trattative del governo nazionale, dipartimentale e comunale per facilitare il processo di decentramento”. La legge dei Consigli di Sviluppo Urbano e Rurale riconosce questi Consigli di Sviluppo come il principale mezzo di partecipazione delle popolazioni maya, inca e garifuna e non indigena, nella gestione pubblica, per effetuare il processo di pianificazione democratica dello sviluppo, tenendo in conto principi di unità nazionale, multietnica, pluriculturale e multilingue della nazione guatemalteca. L’art. 58 prevede che i vice sindaci della Repubblica dovranno “Promuovere l’organizzazione e la partecipazione sistematica ed effettiva della comunità nell’identificazione e nella soluzione dei problemi locali”. Ugualmente, nell’art. 132 viene contemplata la partecipazione delle organizzazioni comunitarie nella formulazione del bilancio comunale. Gli articoli 17 e 18 parlano degli obblighi e diritti degli abitanti. Honduras La legge di Partecipazione Cittadina ha come oggetto il “promuovere, regolare e istituire gli organi e i meccanismi che permettono l’organizzazione e il funzionamento della partecipazione cittadina e la sua relazione con gli organi dello Stato” (art. 1). Sono nominati come meccanismi di Partecipazione Cittadina il Plebiscito, il Referendum, le Riunioni aperte [Cabildos] comunali, l’Iniziativa Cittadina e altri individuati dalla Legge (art. 3). Si enumerano i seguenti organi di Partecipazione Cittadina: il Forum Nazionale di Partecipazione cittadina, i Consigli di Sviluppo Comunale e Dipartimentale, le tavole rotonde Comunitarie. L’art. 48 stabilisce che ogni Municipalità avrà un Consiglio di Sviluppo comunale con funzioni di assessorato, integrato da un numero di membri uguale a quello degli Assessori che ha la Municipalità; questi consiglieri opereranno ad-honorem e saranno nominati dalla Corporazione comunale “tra i rappresentanti della linfa vitale della comunità”. L’art. 59 afferma che ogni municipalità avrà un Commissario Comunale, eletto dalla Corporazione Comunale, in riunione aperta [Cabildo], debitamente convocata. L’art. 60 prevede la figura del vice sindaco in quartieri, distretti e villaggi. L’art. 5 prevede, come meccanismi di consultazione dei cittadini, il referendum e il plebiscito per casi d’importanza fondamentale nella vita nazionale, con l’effetto di rafforzare la democrazia partecipativa. L’art. 302 afferma che i cittadini avranno diritto di associarsi liberamente in patrocini, di costituire federazioni e confederazioni per il solo fine di cercare il miglioramento e lo sviluppo delle comunità. 204 JEAN PAUL VARGAS - MELISSA ZAMORA Paese Costituzione Politica Legislazione specifica Codice Comunale L’art. 62 afferma che in ogni comune o quartiere, distretto o villaggio, gli abitanti avranno il diritto di organizzarsi democraticamente in patrocini. El Savador Si contempla il diritto di partecipazione cittadina per la valutazione e il miglioramento dell’amministrazione dello Stato. L’art. 113 promuove “le associazioni di tipo economico che tendano a incrementare la ricchezza nazionale attraverso un migliore uso dei ricorsi naturali e umani, e a promuovere una giusta distribuzione dei proventi delle proprie attività”. Nel titolo IX, si considera la partecipazione cittadina per il monitoraggio della gestione comunale. L’art. 118 del Codice afferma che i cittadini di un comune “potranno costituire associazioni comunali per partecipare in modo organizzato allo studio e all’analisi della realtà sociale, dei problemi e delle necessità della comunità, così come all’elaborazione e all’accelerazione di soluzioni e progetti a beneficio della stessa. Le associazioni potranno partecipare in campo sociale, economico, culturale, religioso, civile, educativo e qualsiasi altro che sia legale e utile alla comunità”. Il Codice contempla il resoconto nei confronti dei cittadini e le riunioni [Cabildos] aperte informative. Nicaragua L’articolo 49 afferma che “gli abitanti in generale e senza alcuna discriminazione” hanno il diritto di costituire organizzazioni “con il fine di realizzare le proprie aspirazioni secondo i propri interessi e di partecipare alla costruzione di una nuova società”. L’art. 50 afferma che “I cittadini hanno il diritto di partecipare in uguaglianza di condizioni agli affari pubblici e alla gestione statale”. Il paese ha una Legge Nazionale di Partecipazione Cittadina. Tra le sue garanzie questa legge include la partecipazione alla formulazione, valutazione e monitoraggio delle politiche pubbliche, in ambito nazionale, regionale autonomo, dipartimentale e locale (v. anche il decreto di creazione dei Consigli e Gabinetti del Potere Cittadino, n. 112/2007). Nell’art. 3 della Legge dei Comuni si stabilisce che il Governo Comunale garantisce la democrazia partecipativa e gode di piena autonomia. Nell’art. 16 si stabilisce come diritto della popolazione la partecipazione nella gestione degli affari locali, sia in modo individuale che collettivo. Nell’art. 36 si stabilisce che i Comuni promuoveranno e stimoleranno la partecipazione cittadina nella gestione locale, attraverso la relazione stretta e permanente delle autorità con i loro cittadini. LA SFIDA CENTRAMERICANA: TRA RAPPRESENTAZIONE E PARTECIPAZIONE 205 Paese Costituzione Politica Legislazione specifica Codice Comunale Costa Rica Negli art. 25 e 26 si garantisce il diritto del cittadino di “associarsi per fini leciti”, sia “per affari privati che per discutere questioni politiche ed esaminare la condotta pubblica dei funzionari”. La Costituzione contempla la libertà di raggrupparsi in partiti politici per partecipare nella vita politica del paese (art. 98). La Legge di Semplificazione Tributaria crea le Giunte Territoriali Locali: gruppi formati da rappresentanti della società civile e del settore imprenditoriale, che devono definire, pianificare e decidere le priorità della comunità, le quali saranno attuate con fondi di trasferimento del Potere Esecutivo ai comuni. Il Codice Comunale, nel suo art. 57, punto e), considera come un obbligo per i consigli di distretto quello di “Incoraggiare la partecipazione attiva, cosciente e democratica degli abitanti nelle decisioni dei loro distretti”. Lo stesso Codice obbliga i funzionari dei municipi alla responsabilità pubblica. Panamá L’articolo 239 dispone che “i cittadini hanno il diritto di iniziativa e di referendum nelle materie attribuite ai Consigli comunali”. La Costituzione della Repubblica, la l. n. 51/ 1984, le ll. nn. 105 e 106 del 1973, incorporano la funzione di pianificazione pubblica e il principio di partecipazione cittadina, creando opportunità di coinvolgimento della società civile nei diversi livelli di governo e di amministrazione delle politiche pubbliche. Il Codice Elettorale stabilisce che “in conformità alla l. n. 19/1980, si proceda ad una consultazione dei cittadini della rispettiva divisione territoriale [“corregimiento”] per determinare se approvano o no la revoca del mandato d’un rappresentante” (art. 318). L’art. 152 della l. n. 106/ 1973 sull’Ordinamento comunale stabilisce che gli accordi comunali possono essere sottoposti a referendum degli elettori del comune. Fonte: Vargas, 2003, 19. spazi di partecipazione ma anche migliori condizioni di vita per tutta la popolazione. La regione centroamericana necessita di lavorare al potenziamento della trasparenza e della correttezza della gestione pubblica. La sfida più complessa è quella di disinnescare i rischi connessi alla formalizzazione dei processi partecipativi da parte della classe politica, dal mo- 206 JEAN PAUL VARGAS - MELISSA ZAMORA mento che se ciò avviene in condizioni di diseguaglianza tra i vari attori sociali quei processi sono non solo inutili ma persino dannosi. Come si è visto nei paragrafi precedenti, in molte occasioni queste riforme o iniziative degli Stati centroamericani tendono di fatto a rendere più complesso l’esercizio della partecipazione, accrescendo ulteriormente i livelli di disaffezione politica. La presenza di pratiche clientelari a livello locale e i vizi della politica nazionale riflessi al livello comunale possono costituire elementi di freno e mettere in pericolo l’espansione dei processi partecipativi, per cui diviene necessario prevedere forme stabili di finanziamento a livello locale, al fine di spezzare la dipendenza clientelare dei comuni dai leader nazionali (Córdoba e Günther, 2000, 51). Le municipalità necessitano di una spinta da parte del governo centrale per rafforzare la loro credibilità e la loro capacità di gestione; è necessario dotare queste autorità di una migliore struttura organizzativa e di competenze che rendano il governo locale promotore dello sviluppo. Ma anche i gruppi sociali della regione si trovano a dover affrontare sfide complesse: in particolare, essi devono ripensare la loro organizzazione interna al fine di accrescere la propria capacità propositiva e di assicurare posizioni e strategie più coese. Peraltro, i soggetti sociali devono coltivare e ampliare gli spazi informali della partecipazione, al fine di legittimare la propria capacità d’incidenza e di superare progressivamente la crisi di legittimazione che attraversano attualmente. Ugualmente importante nell’agenda delle sfide della regione è la necessità di rendere consapevole la popolazione dell’importanza di prendere parte alle decisioni politiche, di incentivare la responsabilità condivisa nella gestione degli interessi che incidono sulla collettività, di essere compartecipe nello sviluppo del paese, abbandonando quella cultura purtroppo diffusa che tende a collocare il cittadino in posizione di mera protesta e lamentela rispetto alle decisioni pubbliche. In questo senso, l’apporto che i fondi di cooperazione possono portare a questi processi di presa di consapevolezza e di formazione dei gruppi sociali è fondamentale: ma ciò a condizione che le risorse economiche vengano utilizzate in maniera coerente, con una prospettiva di lungo periodo che tenga conto dell’importanza reale di un capitale sociale forte. LA SFIDA CENTRAMERICANA: TRA RAPPRESENTAZIONE E PARTECIPAZIONE 207 Bibliografia essenziale FONT J. et al., Mecanismos de participación ciudadana en la toma de decisiones locales: una visión panorámica. Tercer premio de XIV Concurso de Ensayos del CLAD «Administración Pública y Ciudadanía», Caracas, 2002. CÓRDOBA R. y GÜNTHER M., Democracia y perspectivas en Centroamérica. Perspectivas hacia el 2020, Institut für Iberoamerika-Kunde, Hamburg, 2000. ARATO A. y COHEN J., La sociedad civil y la teoria social, Fondo de Cultura Económica, México, 2000. CASTELLS M., Movimientos sociales urbanos. Siglo veintiuno editores, México, 1980. 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VARGAS J.P. et al., De la representatividad politíca a la participación ciudadana: el camino hacia la consolidación democrática en Centroamérica. Anuario de Estudios Centroamericanos. Vol. 29. Editorial Universidad de Costa Rica, Instituto de Investigaciones Sociales. San José, 2003. FILIPPO OZZOLA PARTECIPAZIONE, ASIMMETRIE INFORMATIVE E COMUNICAZIONE PUBBLICA SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Fiducia, relazioni, partecipazione. – 3. Confini e dimensioni. – 4. Asimmetrie informative: il caso sanità. – 5. Agire orientato all’intesa. – 6. Partecipazione e comunicazione: il caso Unione Europea. – 7. Comunicazione, empowerment, partecipazione. – 8. Conclusioni. 1. Premessa Interessa in questa sede approfondire il rapporto che intercorre tra i concetti di partecipazione e comunicazione, al fine di sottolinearne le strette connessioni, rimarcarne i confini ed evidenziare il contributo che la seconda può offrire alla prima. Obiettivo è quello di portare in emersione gli elementi essenziali e peculiari delle due categorie, al fine di farne bussola di orientamento per le scelte del legislatore in materia. Comunicazione e partecipazione sono fenomeni relazionali tra privati e tra privati e amministrazione: in quanto tali sono costruzioni di senso, fenomeni che piegano la realtà, attribuendo caratteri valoriali e caricando di senso le situazioni interattive che producono decisioni. La dinamica delle relazioni che intercorrono tra cittadini e pubblica amministrazione è intrinsecamente marcata da alcune peculiarità, quali una endemica asimmetria in termini di competenze e conoscenze tra i soggetti coinvolti nonché una tradizionale unidirezionalità nelle azioni e negli interventi. L’universo discorsivo prodotto da ciascuna delle situazioni di relazione sopra introdotte rappresenta infatti una realtà costruita socialmente1, in cui attori, ruoli e rapporti sono definiti in maniera negoziale durante il processo di interazione medesimo. 1 Il tema rappresenta uno dei principali ambiti di indagine della sociologia della conoscenza – il cui compito è quello di analizzare i processi attraverso i quali la realtà viene costruita socialmente – e trova piena sistematizzazione nel testo di P.L. BERGER, T. LUCK- 210 FILIPPO OZZOLA È innegabile dunque che qualunque tentativo di affrontare un aspetto parziale delle dinamiche che intercorrono tra cittadini e amministrazione – nel caso specifico i processi e le politiche partecipate – non possa prescindere dalla centralità di un profilo analitico che contempli al suo interno l’attenzione all’intero processo interattivo e al contesto in cui quest’ultimo trova svolgimento. Nelle pagine seguenti si tenterà dunque di disegnare un quadro di riferimento che permetta da un lato di interpretare il fenomeno partecipativo anche alla luce di approcci in larga parte mutuati dalle scienze della comunicazione, in quanto esso stesso situazione interattiva; e dall’altro di indagarne più specificatamente i rapporti con quanto le istituzioni già attuano in termini di funzione di comunicazione pubblica, leggendo invece in questa dimensione la partecipazione più propriamente come policy di amministrazione. Sotto il primo profilo, la partecipazione appare come situazione discorsiva, processo attraverso il quale i punti di vista vengono trasformati dal confronto reciproco, dove le preferenze non vengono aggregate – come avviene per esempio attraverso il voto – quanto piuttosto modificate dalla discussione stessa. Seguendo questa lettura, vediamo come qualità essenziale della partecipazione l’argomentazione, fondata sulla fiducia nella ragione quale criterio per determinare l’ipotesi più sostenibile in un contesto di ascolto reciproco e confronto2. Seguendo il secondo profilo di lettura, possiamo leggere la correlazione tra i fenomeni partendo dalle disposizioni attuali presenti nel contesto nazionale: se la comunicazione è ormai funzione pubblica consolidata3, la partecipazione come scelta politica si presenta al contrario MANN, La realtà come costruzione sociale, Bologna, 1969. Il rapporto tra realtà e conoscenza è stato particolarmente studiato in area tedesca, ed eredita da Marx la più chiara formulazione del suo problema centrale, ossia che la coscienza dell’uomo è determinata dalla sua esistenza sociale (K. MARX, Scritti giovanili, Roma, 1963). Altrettanto rilevanti sono le riflessioni di Nietzsche circa la “falsa coscienza” ed il significato sociale dell’illusione come condizione necessaria alla vita (si vedano tra gli altri F. NIETZSCHE, La genealogia della morale e La volontà di potenza, entrambi editi nel 1964 da Adelphi, Milano), e l’attenzione dedicata dallo storicismo al tema dell’inevitabile relatività e storicità del pensiero umano (si veda tra gli altri C. ANTONI, Dallo storicismo alla sociologia, Firenze, 1940). 2 Si rimanda alle considerazioni di B. GBIKPI, Dalla teoria della democrazia partecipativa a quella deliberativa: quali possibili continuità?, in Stato e mercato, n. 73, 2005, 112 s., ispirate alle riflessioni, su cui torneremo più avanti, contenute in J. HABERMAS, Teoria dell’agire comunicativo, 2 vol., Bologna, 1986. 3 G. AZZARITI, Introduzione: la comunicazione come funzione, in G. ARENA (a cura di), La funzione di comunicazione nelle pubbliche amministrazioni, Rimini, 2004, 17 s. PARTECIPAZIONE, ASIMMETRIE INFORMATIVE E COMUNICAZIONE PUBBLICA 211 come fenomeno ancora fluido, poco radicato e dai profili incerti, a cui si accenna ad esempio nel Testo unico degli enti locali4, lasciando tuttavia all’autodeterminazione delle amministrazioni locali l’effettiva definizione del contenuto della «partecipazione popolare», o richiamato in ambito sanitario senza prevederne peraltro particolari indirizzi di sviluppo5, e formalizzato solamente in due occasioni regionali, che analizzeremo in maniera più approfondita al termine di queste pagine. 2. Fiducia, relazioni, partecipazione L’interesse rivolto da più discipline e in più paesi alle pratiche partecipative è sintomatico del momento critico che le democrazie occidentali stanno affrontando: nella partecipazione si auspica di trovare una opportunità di rivitalizzazione della sfera pubblica. È cosa nota come i recenti mutamenti sociali abbiano alterato le normali dinamiche di interazione tra persone e tra privati e amministrazione. La complessità dei fenomeni in atto – il moltiplicarsi delle possibilità di accesso alle informazioni da parte delle persone, il venire meno dei corpi intermedi quali mediatori tradizionali del consenso e della partecipazione – unita alla domanda di nuovi diritti da parte dei cittadini (sia in termini di responsabilità e trasparenza che di qualità delle politiche urbane e territoriali), evidenzia sempre più come il coinvolgimento dei cittadini non sia solo frutto di una valutazione di carattere ideologico o strumentale, ma una scelta diretta a massimizzare l’efficacia dell’intervento pubblico. Il nuovo modello sociale costituisce il contesto in grado di condizionare le spinte partecipative: la cornice interpretativa entro la quale amministrazioni pubbliche, soggetti economici, individui e società civile leggono se stessi e la rete di rapporti che li lega. I tentativi di comprenderne le dinamiche hanno portato all’introduzione di varie formule che possono coglierne, in chiave metaforica, i tratti distintivi: si parla così di società orizzontale nelle riflessioni di Friedman6, di modernità liquida 4 D.lgs. 267/00, art. 8. Per una lettura dell’articolo si rimanda a A. ZUCCHETTI, Commento all’art. 8 “Partecipazione popolare”, in V. ITALIA (a cura di), Testo Unico degli Enti Locali, vol. I, Milano, 2000, 86 s. 5 D.lgs. 502/92 e successive modifiche e integrazioni, art. 14. Si rinvia a D. DONATI, Diritti dei cittadini, in F. ROVERSI MONACO (a cura di), Il nuovo servizio sanitario nazionale, Rimini, 2000, 427 s. 6 L.M. FRIEDMAN, La società orizzontale, Bologna, 2002. 212 FILIPPO OZZOLA nel pensiero di Bauman7, o ancora di società dell’informazione nel Libro bianco di Delors8 e nel c.d. rapporto Bangemann9. Non è questa la sede per approfondire le cause del cambiamento, radicate nella «profonda trasformazione dello spazio pubblico e, più in generale, nel modo in cui la società moderna opera e perpetua se stessa»10. Ci limitiamo a ricordare come proprio tale contesto, contrassegnato da sfiducia, individualizzazione, parcellizzazione degli interessi, spinte globali e locali, vede lo sviluppo (e la richiesta) di partecipazione. Determinante in tale direzione è un discorso preliminare sulla fiducia: per Alain Peyrefitte11 essa rappresentava il tratto distintivo e costitutivo della società capitalista moderna, e principale elemento di problematicità nelle riflessioni sulla società attuale. L’ipotesi di Bauman è quella di leggere «l’odierno convulso processo di costruzione dell’ordine come un ininterrotto tentativo di gettare le fondamenta istituzionali della fiducia», ovvero come la ricerca di una «cornice stabile entro cui investire la propria fiducia e rendere credibile la convinzione che i valori oggi ricercati e desiderati continueranno a essere tali anche domani»12. La partecipazione in questa lettura si prospetta come ricerca di nuove premesse per costruire un rinnovato equilibrio fiduciario, risignificando la cornice delle relazioni istituzionali e dell’effettività della decisione condivisa, laddove non si nega in nessun caso la conflittualità degli interessi, ma al contrario si pone la dialettica all’interno di un frame strutturale legittimato. Oltre a rappresentare dunque il momento per garantire un confronto dialogico sulle scelte dell’amministrazione, la partecipazione va ad assolvere alla funzione di regolare l’imputazione delle delusioni13, «nel senso che la colpa della discrepanza tra realtà 7 Z. BAUMAN, Modernità liquida, Bari, 2000. 8 Crescità, competitività, occupazione - Le sfide e le vie da percorrere per entrare nel XXI secolo - Libro bianco, COM(1993) 700, dicembre 1993. 9 M. BANGEMANN e altri, Recommendations to the European Council. Europe and the global information society; L’Europa e la società dell’informazione globale, in Bollettino UE, Supplemento 2, 1994, pubblicato anche come Bangemann Report, in Informatica ed enti locali, 1995, 64 s. 10 Z. BAUMAN, Modernità liquida, op. cit., 14. 11 A. PEYREFITTE, La société des confiance. Essai sur les origines du dévelopement, Parigi, 1998, 514 s. 12 Z. BAUMAN, op. cit., 192. 13 M.T.P. CAPUTI JABRENGHI, Partecipazione e cittadinanza negli enti locali, in F. MANGANARO, A.R. TASSONE (a cura di), La partecipazione negli enti locali. Problemi e prospettive, Torino, 2001, 38. PARTECIPAZIONE, ASIMMETRIE INFORMATIVE E COMUNICAZIONE PUBBLICA 213 ed aspettative non viene addossata su chi è rimasto deluso, ma su chi agisce»14. In un contesto siffatto il bisogno di partecipazione richiede però un riassetto relazionale tra gli attori coinvolti, spesso non ancora in possesso degli strumenti che permettono di decodificare la nuova situazione interattiva. L’implementazione dei processi partecipativi richiede dunque un più profondo ripensamento delle istituzioni medesime, le quali sono chiamate ad evolvere nel segno di una flessibilità costante nella progettazione delle proprie strutture interne e nella definizione delle diverse politiche. Tale ripensamento implica, almeno in prima battuta, una progressiva revisione: – delle forme di comunicazione e scambio con i cittadini, e dunque – dei processi di governance; – dei luoghi di concertazione; – dei sistemi di valutazione dell’azione pubblica, momenti questi in cui la partecipazione trova tradizionalmente spazio. Il nuovo riassetto si deve adattare forzatamente ad una situazione liquida, poiché è chiaro che le occasioni partecipative appaiono come costruzioni sociali spesso inedite, con attori che mutano di volta in volta e che devono riconoscersi e legittimarsi reciprocamente per rendere efficaci i processi in esame. La necessità di gestire processi decisionali inclusivi, laddove le decisioni non sono prese dalla sola amministrazione, ma in cui essa decide con altri o stimola l’iniziativa e la responsabilizzazione della società civile, rappresenta una delle caratteristiche principali dell’amministrazione post-burocratica, ovvero di quella che Osborne e Gaebler15 hanno definito «amministrazione catalitica». Esattamente come un catalizzatore, l’istituzione pubblica deve favorire e rendere possibile una reazione, includendo in una situazione discorsiva e decisionale portatori di interessi diversi, gestendo ogni fase del processo in modo da ridurre i conflitti ed evitare impasse nell’azione amministrativa. Come riconosce tuttavia Bobbio, il processo inclusivo richiede modalità informali di relazione, rapporti diretti – che prevedono «la possi14 N. 15 D. LUHMANN, Procedimenti giuridici e legittimazione sociale, Milano, 1995, 241. OSBORNE, T. GAEBLER, Dirigere e governare, Milano, 1994. 214 FILIPPO OZZOLA bilità di trasformare, attraverso il confronto, la natura delle poste in gioco»16 – ai quali raramente l’amministrazione pubblica è avvezza. D’altronde, l’inclusione di soggetti privati apre a problematiche complesse: richiamando qui il concetto di razionalità limitata di Simon17, possiamo riconoscere facilmente come ogni forma di partecipazione di fatto non possa essere pienamente esercitabile, poiché il cittadino che prende parte ad un processo decisionale è vincolato nella raccolta di informazioni e nella valutazione della loro attendibilità. Tuttavia, tratto essenziale del successo delle pratiche partecipative è proprio il loro consentire un confronto tra punti di vista e saperi non necessariamente tecnici, ma altrettanto utili alla formazione di una visione d’insieme delle dinamiche in merito all’oggetto della partecipazione. Le situazioni di interazione a cui si fa riferimento richiedono allora una riflessione che coinvolga anche i consolidati processi comunicativi, i quali costituiscono un presupposto imprescindibile della partecipazione, potendo mettere al servizio di questa uno strumentario consolidato ed un ventaglio di canali di dialogo con la società civile. È infatti nel momento dello scambio comunicativo che si diffondono e condividono codici, competenze ed enciclopedie, ossia strumenti interpretativi che vanno a gettare le basi per una partecipazione tra attori “simmetrici”. In altri termini, quello che interessa approfondire è il rapporto che intercorre tra le dinamiche di partecipazione e quelle di informazione e comunicazione, queste ultime da intendersi la prima come un’attività che fornisce elementi di conoscenza, che dà forma alla realtà e ne rende possibile la comprensione, mentre la seconda ha a che fare con la condivisione delle conoscenze, e può essere letta come processo di costruzione cooperativa delle interpretazioni della realtà. Nella partecipazione, al contrario, l’interazione è tipicamente all’interno del processo decisionale, e volta quindi alla modifica della realtà stessa. 16 L. BOBBIO, A più voci - Amministrazioni pubbliche, imprese, associazioni e cittadini nei processi decisionali inclusivi, Roma, 2004, 57 s. 17 H.A. SIMON, Il comportamento amministrativo, Bologna, 1958. Per Simon la difficoltà a prendere decisioni razionali dipende da numerosi fattori, tra i quali la complessità dei problemi, la disponibilità di informazioni incomplete, la limitata capacità degli individui di elaborare informazioni, il tempo limitato a disposizione per compiere la scelta. In altre parole l’uomo si comporta in maniera razionale solo in relazione al modello semplificato della realtà che si costruisce data la finitezza delle sue capacità cognitive. PARTECIPAZIONE, ASIMMETRIE INFORMATIVE E COMUNICAZIONE PUBBLICA 3. 215 Confini e dimensioni La partecipazione è stata indagata e studiata in diversi ambiti e discipline, che si sono scontrate in tempi recenti e meno recenti con le difficoltà connesse all’identificazione di una definizione sostanziale univocamente riconducibile ai fenomeni partecipativi. Senza addentrarci nel dettaglio dei singoli campi di indagine, potremmo rintracciare un contenuto minimo della partecipazione nell’ipotesi di McGregor, il quale, seppur riconoscendo come la partecipazione sia una delle idee più fraintese emerse nel campo delle relazioni umane, tenta di definirla come qualcosa che «consists basically in creating opportunities under suitable conditions for people to influence decisions affecting them. That influence can vary from a little to a lot»18. Fatte queste premesse, interessa considerare dunque quella che potremmo definire con Gbipki «l’intensità della partecipazione nelle decisioni»19, ovvero il peso dei partecipanti nella fase di decision making. Prendere in esame il livello del coinvolgimento nel processo deliberativo può aiutare non solo a meglio chiarire la complessità dei fenomeni che genericamente vengono fatti rientrare nel concetto ombrello di partecipazione, ma a ipotizzare in maniera soddisfacente una linea di confine, per quanto labile, a dividere il processo informativo o comunicativo da quello effettivamente partecipativo, tentando in questo modo di risolvere una delle ambiguità che più spesso ricorrono nell’utilizzo dei due termini. Particolarmente interessante è l’importante contributo di Arnstein20, il quale interpreta la partecipazione come un continuum lungo una scala di potere, che può nascondere da un lato una manipolazione dell’opinione pubblica alla quale non corrisponde nessun trasferimento effettivo di potere, e dall’altro una concreta possibilità, in capo ai cittadini, di incidere sull’esito del processo decisionale. L’autore ipotizza una scala della partecipazione di otto gradini, ai quali corrispondono altrettanti gradi di potere. Partendo dal livello più basso di coinvolgimento, incontriamo per prima la manipolazione, alla quale seguono in ordine la terapia, il processo informativo, la consultazione, la conciliazione, la partnership, il potere delegato e il controllo da parte del cittadino. 18 D. MCGREGOR, The human 19 B. GBIKPI, op. cit., 110 s. A side of enterprise, New York, 1960, 124 s. questo saggio sono debitrici alcune delle riflessioni che seguono. 20 S.R. ARNSTEIN, A ladder of citizen participation, in Journal of the American Institute of Planners, 35, 4, 1969, 216 s. 216 FILIPPO OZZOLA I primi due livelli di questa scala non sono per Arnstein considerabili partecipazione, mentre i tre gradini successivi comprendono ipotesi di concessione puramente formali. Solamente gli ultimi tre piani rappresentano attribuzioni effettive di potere ai cittadini. Come questa classificazione rende evidente, l’aspetto informativo costituisce in qualche modo un momento all’interno della scala della partecipazione il cui tratto essenziale è ancora la mancanza di delega del potere. Come riconosce l’autore, «informing citizens of their rights, responsibilities, and options can be the most important first step toward legitimate citizen participation», sebbene troppo spesso l’enfasi venga posta su un rapporto monodirezionale, «with no channel provided for feedback and no power for negotiation»21. Anche quando il dialogo assume una forma biunivoca, di tipo comunicativo, come può avvenire nelle consultazioni, parlare di partecipazione può essere mistificatorio se non si garantisce che le idee e le preoccupazioni dei cittadini vengano prese in considerazione. Un’altra lettura rafforza queste considerazioni: in un saggio del 1970, Pateman22 espone una teoria della democrazia partecipativa nella quale vengono individuati tre livelli di partecipazione (pseudo, parziale e piena), in relazione al grado di influenza che i partecipanti possono esercitare sull’esito di una decisione alla quale hanno preso parte. Nei casi di pseudo partecipazione per Pateman non si ingenerano situazioni in cui possa realizzarsi qualche forma di decision making condiviso, e si rileva piuttosto la volontà del soggetto detentore di potere di creare «a feeling of participation through the adoption […] of a certain approach or style»23, limitandosi a sollecitare momenti di discussione pilotati, riproducendo quindi quelle situazioni di falsificazione indicate nei primi due gradini della scala di Arnstein. Se dunque la pseudo partecipazione si manifesta come «a technique of persuasion rather than decision»24, nelle occasioni di partecipazione parziale e piena siamo al contrario in presenza di una effettiva possibilità, da parte di tutti gli attori coinvolti, di influenzare l’esito della decisione. La principale differenza tra le due modalità risiede nella diversa distribuzione del potere decisionale tra gli attori; la partecipazione parziale infatti vede i partecipanti ineguali nella capacità di deter21 S.R. ARNSTEIN, op. ult. cit., 218 s. 22 C. PATEMAN, Participation and democratic theory, Cambridge, 1970. 23 C. PATEMAN, op. cit., 70. 24 S. VERBA, Small groups and political behaviour, Princeton, 1961, 220 s. PARTECIPAZIONE, ASIMMETRIE INFORMATIVE E COMUNICAZIONE PUBBLICA 217 minare una decisione, con soggetti che possono influenzarla ed altri che possono prenderla, mentre la partecipazione piena si realizza laddove non esistono parti con poteri decisionali differenti, bensì tutti gli attori contribuiscono egualmente alla determinazione di una decisione. Anche in questo caso, l’attività di comunicazione, sebbene situazione discorsiva, ovvero di scambio biunivoco, di negoziazione condivisa del senso, non presuppone in ogni caso l’uguaglianza degli interlocutori in merito al peso reciproco nell’influenzare l’esito finale della decisione; anzi, non presuppone neppure che l’effettiva sfera discorsiva stimolata possa in qualche modo andare ad incidere sul processo decisionale. La comunicazione si pone dunque al di fuori, o meglio, antecedentemente ad ogni forma di partecipazione, e rischia costantemente di essere alienata come forma di pseudo partecipazione, alimentando quell’ambiguità di cui i concetti sono permeati. In conclusione, ciò che contraddistingue il processo partecipativo ci pare essere il suo entrare endemicamente nel processo decisionale. Questo, nel contesto italiano – che vede distinta la sfera dell’autonomia e della responsabilità della politica da quella dell’amministrazione25 – ha trovato regolamentazione per quanto concerne esclusivamente l’aspetto di partecipazione al procedimento amministrativo26, laddove cioè si esprime la discrezionalità dell’amministrazione nell’esecuzione di una disposizione, a decisione politica già assunta. Sulla possibilità di esercitare effettivamente i diritti di partecipazione al procedimento da parte della cittadinanza, particolarmente significativo dal punto di vista dell’orientamento del legislatore in materia è quanto contenuto nel decreto legislativo 29/93, laddove istituisce gli Uffici per le relazioni con il pubblico che, oltre a dover ottemperare a diverse funzioni di tipo comunicativo (andando ad incidere, almeno nelle previsioni iniziali, sulla stessa organizzazione dell’ente), sono chiamati a provvedere «al servizio all’utenza per i diritti di partecipazione di cui al Capo III della legge 7 agosto 1990, n. 241»27, andando a far convergere in una struttura apposita i due concetti oggetto di queste riflessioni. È questa però una partecipazione che potremmo definire di tipo funzionale, ossia esclusivamente e specificatamente finalizzata al corretto esercizio del potere. Le principali funzioni svolte dalla partecipa25 Distinzione introdotta nel nostro ordinamento dall’art. 3, d.lgs. 29/93 e successive modifiche, e rafforzata dall’art. 45, d.lgs. 80/98. 26 L. 241/90 e successive modifiche e integrazioni. 27 Art. 12, d.lgs. 29/93. 218 FILIPPO OZZOLA zione al procedimento sono riconducibili in primo luogo al garantismo nei confronti degli amministrati (tutelando i soggetti coinvolti da possibili illegittimità o illegalità dell’azione amministrativa, consentendo un controllo diretto su quest’ultima e dando, di conseguenza, concretezza ai principi costituzionali di legalità e imparzialità); in seconda battuta, si sottolinea la funzione collaborativa dell’intervento dei privati nel procedimento, a garanzia che il provvedimento finale sia «il luogo di paritaria confluenza e comparazione di tutti gli interessi pubblici e degli interessi c.d. privati, sì che l’atto amministrativo si ponga come prodotto del concorso di tutti i soggetti partecipanti e come (mero) riepilogo dei diversi contributi, più che come espressione preformata di una volontà unilaterale»28. Il profilo funzionale entro il quale si inquadra l’istituto della partecipazione al procedimento dà ragione anche del fatto che i titolari di tale facoltà siano i soli soggetti portatori di interessi pubblici o privati, nonché i «portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, cui possa derivare un pregiudizio dal provvedimento»29. La limitazione è dettata dal fatto che la partecipazione è intesa quale funzione dell’efficienza ed economicità dell’azione amministrativa (come affermato nell’art. 1 della norma in esame), e dunque i titolari del diritto di partecipazione saranno solo i soggetti che possono portare un apporto effettivo al procedimento. Con partecipazione istituzionale (assimilabile, con le dovute precauzioni, a quella di tipo politico) – alla quale prevalentemente ci riferiamo in queste pagine – intendiamo, al contrario, la presa di una decisione in maniera partecipata30, e – a sottolinearne la dimensione corale – al concetto è spesso affiancato (sebbene essi non siano completamente sovrapponibili) quello di partecipazione popolare (così anche al Capo III del Tuel), facendo riferimento in particolare alla titolarità dei soggetti chiamati a partecipare, la quale è slegata da ogni interesse singolo ed estensibile potenzialmente a chiunque. La definizione popolare infatti slega la partecipazione da una posizione soggettiva specifica, addirittura da qualunque concetto formalizzato di cittadinanza, o ancora dalla lettura allargata che si può dare del concetto di lavoratore, in riferimento 28 M. NIGRO Commissione per la revisione della disciplina dei procedimenti amministrativi. Appunto introduttivo, in Riv. trim. scienza dell’amm., 4, 1984, 79 s. 29 Art. 9, l. 241/90 e successive modifiche e integrazioni. 30 M.T.P. CAPUTI JABRENGHI, Partecipazione e cittadinanza negli enti locali, in F. MANGANARO, A.R. TASSONE (a cura di), La partecipazione negli enti locali. Problemi e prospettive, Torino, 2001, 11 s. PARTECIPAZIONE, ASIMMETRIE INFORMATIVE E COMUNICAZIONE PUBBLICA 219 all’art. 3, co. 2 della Carta costituzionale, per ricollegarla al contrario alla dimensione di appartenenza territoriale. Pur caratterizzanti entrambe momenti di relazione tra amministrazione e cittadini, partecipazione e comunicazione si pongono dunque in un rapporto diverso in relazione al processo decisionale: endoprocedimentale la prima, extraprocedimentale la seconda. Con questa attenzione diviene dunque più fruttuosa l’analisi dei rapporti tra le due categorie. Si assiste infatti, come abbiamo avuto già occasione di evidenziare, a frequenti ambiguità che portano a confondere i due piani, spacciandosi per processi partecipativi attività che consistono nella mera condivisione di informazioni, certamente essenziale ai fini della trasparenza e del buon andamento del processo decisionale, ma priva di qualsiasi possibilità di incidere sul medesimo. E d’altro canto non v’è dubbio che i processi comunicativi costituiscono un presupposto imprescindibile della partecipazione, potendo mettere al servizio di questa uno strumentario consolidato per dialogare con la società civile. Vi sono anzi dei settori in cui la partecipazione, inibita rispetto ad altre fasi del processo decisionale per l’alta tecnicità della materia, finisce di fatto per esaurirsi nelle fasi di informazione e comunicazione, o a circoscriversi nella fase precedente o successiva alla decisione stessa: è il caso ad esempio della sanità, dove peraltro il ruolo stesso del cittadino è andato mutando (da semplice amministrato a utente informato) assieme al sistema sanitario medesimo, e dove, ancora, è evidente l’ambiguità tra cittadino informato e cittadino che partecipa. Ma il tema dell’asimmetria informativa contraddistingue in modo più marcato l’interezza dei processi partecipati, tant’è che più voci ritengono che la definizione minima di partecipazione sia quella secondo la quale essa si sostanzierebbe nella presenza nell’amministrazione del non professionista31, del non tecnico. Questo decisivo fattore valorizza nuovamente l’importanza delle attività istituzionali in tema di comunicazione, evidenziandone un utilizzo finalizzato alla riduzione del divide di competenze sia tra popolazione e amministrazione sia tra soggetti privati, mettendo tutti nelle condizioni di accedere equamente agli strumenti di partecipazione istituzionale ed evitandone la strumentalizzazione da parte dei soli interessi meglio organizzati. Sotto questo profilo, come si avrà modo di richia31 La felice definizione è di F. LEVI, Partecipazione e organizzazione, in Riv. trim. dir. pubbl., 1977, 1713 s. 220 FILIPPO OZZOLA mare nel prossimo paragrafo, desta perplessità la scelta di alcuni soggetti della partecipazione, in quanto privi di una reale rappresentanza e portatori di interessi particolari. 4. Asimmetrie informative: il caso sanità È forse opportuno ricordare come le forme di partecipazione riconosciute in ambito sanitario si pongano come ulteriori rispetto a quanto stabilito, per via generale, dal Capo III della l. 241/90. L’agire delle amministrazioni sanitarie è infatti prevalentemente riconducibile ad attività di erogazione di servizi pubblici, ovvero finalizzata a garantire una qualche utilità al cittadino, e non tanto ad un esercizio dell’autorità o all’emanazione di provvedimenti32: ciò considerato, anche le forme di partecipazione assumono valenze diverse, connaturate alle peculiarità del servizio in oggetto. Se la partecipazione al procedimento amministrativo è da valutarsi quale garanzia di imparzialità, efficienza e buon andamento dell’azione amministrativa (come previsto dall’art. 97, Cost.), la partecipazione in sanità ha l’obiettivo di contribuire a tutelare i diritti dell’utenza da eventuali lesioni derivanti dalla prestazione sanitaria33. Per queste ragioni la partecipazione viene richiamata esplicitamente sin dall’istituzione del Servizio sanitario nazionale, con l. 883/78, negli artt. 1, 11, 45, sebbene trovi espressione più dettagliata solamente nel d.lgs. 502/92 e successive integrazioni, in materia di riordino della disciplina in ambito sanitario, all’art. 14, specificatamente dedicato ai diritti dei cittadini nei confronti del Servizio sanitario nazionale stesso. Il summenzionato articolo rende peraltro immediatamente evidente la stretta connessione tra politiche partecipative e attività di comunicazione e informazione in ambito sanitario, essendovi entrambe congiuntamente normate. L’articolo in questione predispone una variegata strumentazione di tutela dei diritti del cittadino, la quale costituisce di fatto un sistema complementare a quanto l’ordinamento normalmente prevede, sia in via 32 Si veda, tra gli altri, G. FALCON, La pubblica amministrazione e i cittadini, in Le Regioni, 3, 1995, 475 s.; F. GIGLIONI, S. LARICCIA, Partecipazione dei cittadini all’attività amministrativa, in Enc. dir., vol. IV (agg.), 2000, 975 s. 33 Sulla partecipazione in sanità si veda tra gli altri A. BARTOLINI, A. DI FRANCESCO, La semplificazione e la partecipazione nell’attività amministrativa del settore sanitario: l’istituto della partecipazione, in Sanità pubblica, 10, 2000, 1247 ss. PARTECIPAZIONE, ASIMMETRIE INFORMATIVE E COMUNICAZIONE PUBBLICA 221 giudiziale sia amministrativa. Il valore aggiunto di tale disposizione risiede nell’intento del legislatore di prevenire conflitti e offrire soluzioni efficaci alle inefficienze del Sistema sanitario condividendo con l’utente le informazioni e le scelte dell’amministrazione. Detto altrimenti, «essendo la sanità un settore caratterizzato da forti asimmetrie informative fra apparato e cittadini, è soprattutto sulla circolazione delle informazioni che il testo e la sua riforma intervengono»34. Gli strumenti indicati dalla normativa, in ordine ai meccanismi di tutela dell’utenza dei servizi sanitari, possono essere raggruppati in quattro categorie: a. sistema di indicatori della qualità del servizio; b. sistema informativo e di orientamento dei cittadini; c. ruolo del volontariato e del privato sociale; d. azioni a difesa del cittadino. Non interessa qui soffermarsi sull’interezza della strumentazione predisposta; concentreremo pertanto l’attenzione sugli elementi più spiccatamente partecipativi, individuandone i limiti anche in relazione alle forme di comunicazione previste dalla norma. La previsione di un sistema di indicatori della qualità delle prestazioni sanitarie, introdotto dal co. 1 e articolato su tutto il territorio nazionale, pone in capo alle Regioni (co. 2) il compito di promuovere consultazioni con i cittadini e le loro organizzazioni con l’obiettivo di «fornire e raccogliere informazioni sull’organizzazione dei servizi»: nel percorso biunivoco dei dati tra livello apicale e declinazioni territoriali viene dunque contemplata la partecipazione diretta dell’utenza, strutturata in momenti di incontro istituzionalizzati. Sempre nel secondo comma dell’art. 14 viene aggiunta una forma ulteriore di partecipazione, prevista nelle attività relative “alla programmazione, al controllo e alla valutazione dei servizi sanitari a livello regionale, aziendale e distrettuale”, andando ad implementare la rete di rapporti e rendendo più accessibili e trasparenti le strutture sanitarie. Questa seconda dimensione, oltre a mostrare una maggiore attenzione per scale territoriali minori e più facilmente partecipabili, apre a più significative potenzialità, inserendo nei più importanti procedimenti regionali in materia «la doverosa audizione di soggetti portatori di interessi diffusi»35, sebbene l’incertezza della disposizione ne abbia reso difficile (e diversificata nei modi e nelle forme) l’attuazione. 34 D. 35 D. DONATI, Diritti dei cittadini, in F. ROVERSI MONACO (a cura di), op. cit., 441. DONATI, op. ult. cit., 447. 222 FILIPPO OZZOLA L’opportunità di tale scelta normativa si scontra inoltre con altre criticità, tra le quali la più evidente è in merito agli attori della partecipazione: si rileva nei fatti un non riconoscimento al singolo utente, quale portatore di istanze personali, del diritto di essere ascoltato, restringendosi l’obbligo di consultazione a determinati soggetti portatori di interessi diffusi. Inoltre, sempre per quanto concerne le dinamiche della rappresentanza, appare evidente la mancanza assoluta di indicazioni in merito ai criteri per determinarne la selezione nelle varie forme di consultazione, ingenerando inoltre il rischio di diversificazione ed incoerenza nelle scelte attuate nei diversi contesti regionali36, muovendosi nei confini di una sostanziale delegittimazione dei soggetti partecipanti da un lato, e dall’altro della creazione di un sottogoverno del sistema che va a cortocircuitare la rappresentanza, isolando le reali istanze dell’utenza e del Servizio sanitario. A tal proposito appare contestabile la scelta del legislatore di considerare anche gli organismi di volontariato nel novero dei soggetti chiamati a rappresentare i cittadini, essendo essi di fondamentale importanza quali collaboratori nell’erogazione delle prestazioni, ma portatori di interessi particolari e non certo diffusi. Dal punto di vista dei soggetti pubblici, il punto nevralgico nella definizione delle politiche di partecipazione in materia sanitaria pare essere la Regione (ruolo confermato, o meglio accentuato, dopo la riforma del Titolo V della Carta fondamentale), sebbene la riforma attuata con il d.lgs. 229/99 abbia esteso la presenza di forme di partecipazione anche a livello distrettuale e aziendale, laddove il contributo delle rappresentanze degli utenti appare più vantaggioso e opportuno. Spetta in ogni caso alla Regione la definizione delle modalità di presenza dei soggetti sopramenzionati nelle aziende, «anche attraverso la previsione di organismi di consultazione». 36 Ricordiamo come rappresentativa, sia negli aspetti positivi sia per le criticità di attuazione e gestione, l’istituzione da parte della Regione Emilia-Romagna dei Comitati consultivi misti, istituiti con l.r. 19/94 con il compito di «a) assicurare controlli di qualità dal lato della domanda, specie con riferimento ai percorsi d’accesso ai servizi; b) promuovere l’utilizzo di indicatori di qualità dei servizi dal lato dell’utenza definiti a livello regionale, sentiti gli organismi di partecipazione dell’utenza; c) sperimentare indicatori di qualità dei servizi dal lato dell’utenza definiti a livello aziendale, che tengano conto di specificità di interesse locale; d) sperimentare modalità di raccolta e di analisi dei segnali di disservizio» (art. 16, comma 2). Si veda A. BARTOLINI, A. DI FRANCESCO, La semplificazione e la partecipazione nell’attività amministrativa del settore sanitario: la partecipazione nella legislazione regionale, l’esperienza della Regione Emilia-Romagna, i comitati consultivi misti, in Sanità pubblica, 11/12, 2000, 1433 s. PARTECIPAZIONE, ASIMMETRIE INFORMATIVE E COMUNICAZIONE PUBBLICA 223 Da qualificare in maniera più puntuale è inoltre lo svolgimento di attività di informazione (che di fatto costituisce la principale attuazione del principio di trasparenza) in correlazione alle pratiche partecipative introdotte dalla norma: il dettaglio di strumenti previsto è a nostro avviso insufficiente a garantire una coerente organizzazione delle attività, e appare del tutto scorporato dai fenomeni partecipativi, fatto salvo un richiamo alla collaborazione con le organizzazioni rappresentative dei cittadini, con le organizzazioni di volontariato e di tutela dei diritti per realizzare attività «di raccolta ed analisi dei segnali di disservizio»37. L’art. 14 prevede, per il resto, che le aziende sanitarie locali e le aziende ospedaliere, quali soggetti destinati all’erogazione ultima dei servizi, «provvedono ad attivare un efficace sistema di informazione sulle prestazioni erogate, sulle tariffe, sulle modalità di accesso ai servizi», precisando però quale unico fine esplicito «l’orientamento dei cittadini nel Servizio sanitario nazionale». Il legislatore indica dunque quale parametro per le attività di comunicazione esterna l’efficacia, senza tuttavia determinare gli elementi peculiari o eventuali attività di valutazione della stessa. In altre parole, non definisce né i modi né la forma del sistema informativo, bensì l’oggetto, circoscritto alle tre tematiche indicate38. A queste forme specifiche di comunicazione se ne affiancano altre, previste più in generale dalla disciplina vigente, a completamento, tra le quali ricordiamo l’istituzione degli Uffici per le relazioni con il pubblico e le altre strutture e attività indicate dalla l. 150/00, sebbene, come è stato fatto notare, quest’ultima «disciplina l’attività di comunicazione dei soggetti pubblici deputati prevalentemente all’esercizio delle pubbliche funzioni, piuttosto che all’erogazione di pubblici servizi»39. Se l’insieme di attività informative in ambito sanitario vuole essere strumento di trasparenza a tutela dell’utente, sul quale fondare processi 37 Art. 14, comma 4, d.lgs. 502/92 e successive modifiche. 38 A tali prescrizioni si aggiunge, per quanto concerne le prestazioni di alta specialità, una diversa – e ulteriore – modalità di informazione e orientamento: data infatti la rilevanza nazionale delle informazioni relative a tale livello di cura, nonché la ridotta erogazione di tali prestazioni sul territorio nazionale (cui segue un più alto bisogno di coordinamento), la norma prevede all’art. 14 co. 6, «al fine di favorire l’esercizio del diritto di libera scelta del medico e del presidio di cura», che sia direttamente il Ministero della Sanità incaricato della «pubblicizzazione dell’elenco di tutte le istituzioni pubbliche e private che erogano prestazioni di alta specialità, con l’indicazione delle apparecchiature di alta tecnologia in dotazione nonché delle tariffe praticate per le prestazioni più rilevanti». 39 G. PIPERATA, La comunicazione nei servizi pubblici, in G. ARENA (a cura di), La funzione di comunicazione nelle pubbliche amministrazioni, cit., 183. 224 FILIPPO OZZOLA di accountability e maggiore inclusione, necessariamente deve prevedere un’attenzione inedita alla qualità delle informazioni, non essendo sufficiente un richiamo costante alla loro maggiore circolazione. Ciò che più serve, in altre parole, non sono solamente maggiori informazioni, ma la disponibilità di informazioni accurate, comprensibili, interpretabili, criticabili. Verso questo obiettivo dovrebbe convergere il più ampio ventaglio di strumenti di comunicazione, partecipazione, rendicontazione, controllo e formazione. Pensiamo ad esempio ad un utilizzo più attento agli standard qualitativi delle Carte dei servizi40, quali atti di autoregolamentazione delle attività delle strutture sanitarie in osservanza di principi e regole stabilite a tutela dei diritti dell’utenza, «dalle quali discendono dunque diritti soggettivi in ordine alle prestazioni che devono essere rese e interessi legittimi per le misure di carattere organizzativo connesse all’adempimento degli obblighi»41. Da quanto visto possiamo riscontrare, nelle politiche informative in ambito sanitario, una intenzione del legislatore rivolta prevalentemente alla comunicazione degli aspetti quantitativi delle prestazioni erogate, ossia risolvendo i diritti degli utenti nell’accesso massimo a informazioni relative agli aspetti dell’offerta (quali prestazioni vengono erogate, da quali strutture, a che tariffe) e riservando a strumenti di tipo partecipato il confronto tra utenza e amministrazione in materie di programmazione, valutazione e controllo, seppur con tutte le criticità già evidenziate. In conclusione, possiamo certamente ravvisare una volontà legislativa di riconoscere e tutelare i diritti degli utenti anche tramite l’uso degli strumenti di partecipazione e informazione, attraverso la costruzione primaria di un sistema di indicatori della qualità diffusamente erogata del Servizio sanitario nazionale nelle sue declinazioni organizzative. Tuttavia, quello che difetta, a nostro avviso, è la piena comprensione delle potenzialità delle attività informative, consultive e partecipative, ed in particolare l’attenzione alle effettive dinamiche sociali e relazionali che costantemente creano l’universo discorsivo di confronto tra utenza e ap40 Si vedano, tra gli altri, F. GIGLIONI, Le carte di pubblico servizio e il diritto alla qualità delle prestazioni dei pubblici servizi, in Pol. dir., 3, 2003, 405 s.; A. PETROSINO, Carta dei servizi: strumento di tutela degli utenti e delle associazioni di utenti, in Politica e organizzazione, 2, 2006, 19 s.; C. TUBERTINI, Determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni e Carte dei servizi: quali prospettive per gli utenti dei servizi pubblici?, ivi, 2, 2006, 41 e s.; C. SAN MAURO, I nuovi strumenti di regolazione dei servizi pubblici. La carta dei servizi pubblici e il contratto di servizio, Rimini, 2004. 41 C. SAN MAURO, op. cit., 78. PARTECIPAZIONE, ASIMMETRIE INFORMATIVE E COMUNICAZIONE PUBBLICA 225 parato sanitario, mancando un quadro univoco e coerente nel quale coordinare l’interezza delle azioni42. 5. Agire orientato all’intesa Quali dunque i modi grazie ai quali la comunicazione diviene uno spinner per la partecipazione e, dunque, strumento essenziale nell’edificazione di un nuovo modello di democrazia? E in questa cornice interattiva, a che livello si pongono cittadini e amministrazioni? Intendiamo adottare in questa analisi il paradigma habermasiano dell’agire comunicativo – contrapposto all’agire strumentale e all’agire strategico, propri delle dinamiche utilitaristiche tipiche dei media, delle forme tradizionali di potere e del mercato – in quanto concetto che permette di interpretare il fenomeno interattivo come una costruzione sociale orientata all’intesa. Per Habermas, a caratterizzare l’agire comunicativo è «il fatto che tutti i partecipanti perseguono senza riserve i propri fini illocutivi per raggiungere un’intesa che costituisce la base per un coordinamento unanime dei progetti di azione perseguiti di volta in volta in modo individuale»43. La razionalità propria dell’orientamento all’intesa non è di tipo tecnico-scientifico, non si manifesta nel sapere che permette il raggiungimento di uno scopo nel mondo oggettivo (come nel caso dell’agire strumentale), bensì trova realizzazione «soltanto se il parlante soddisfa le condizioni che sono necessarie per il conseguimento dello scopo illocutivo di intendersi su qualcosa nel mondo con almeno un altro partecipante alla comunicazione»44. La partecipazione può essere in primo luogo letta sotto questa lente, quale processo da sottrarre alle logiche strumentali che, nella forma di sapere tecnico-scientifico, hanno legittimato nella modernità lo sviluppo dello stato centralizzato e burocratico, e da restituire intera42 Un’esperienza positiva in questa direzione viene dalle politiche sviluppate da parte del National Health System britannico, il quale, sulla scia di un rilevante disegno di riforma che pone l’utente al centro del servizio, ha creato dal 2003 la Commission for Patient and Public Involvement in Health (CPPIH), con l’obiettivo di stimolare la partecipazione dei cittadini nel governo e nel miglioramento del NHS. La commissione è stata poi sostituita nel 2008 dalle Health and social care Local Involvement Networks (LINks), forme avanzate di partecipazione più flessibili e meglio radicate nel territorio. Si veda tra gli altri C. HOGG, Patient and public involvement: what next for the NHS?, in Health Expectations, 2, 2007, 129 s. 43 J. HABERMAS, Teoria dell’agire comunicativo, vol. I, op. cit., 406. 44 J. HABERMAS, op. ult. cit., 65. 226 FILIPPO OZZOLA mente alla sua natura di processo discorsivo, dinamica essenziale di quello che Habermas chiama mondo della vita, luogo proprio dell’integrazione sociale e della riproduzione simbolica della società45. Le riflessioni teoriche dell’autore giungono a definire un modello di democrazia deliberativa basato sul confronto tra argomentazioni razionali, dove sull’intesa si rende possibile la realizzazione di un coordinamento unanime di progetti di azione46. In questa lettura allora, a nostro avviso, funzione delle politiche di comunicazione è aprire canali, definire spazi e tessere una rete relazionale affinché la partecipazione possa manifestarsi come una ripoliticizzazione della sfera pubblica, recuperandone la funzione critica in chiave costruttiva. Non è infatti ipotizzabile alcuna forma di partecipazione senza soggetti consapevoli e disposti a partecipare, consci delle fasi e degli obiettivi del processo e certi degli esiti dello stesso. Si fa centrale dunque una riflessione sui percorsi di socializzazione degli attori coinvolti, il cui ruolo sociale è il risultato di un processo di apprendimento complesso, che emancipa i soggetti dalle tradizionali norme di comportamento permettendo loro di conquistare gli spazi necessari ad una corretta rappresentazione di sé e dei processi ai quali prendono parte. Questo vale tanto più per le amministrazioni, poiché laddove esse si trovano impreparate o prive di competenze di fronte a nuove dinamiche sociali – in presenza ad esempio di casi cosiddetti Nimby (not in my back yard) – rischiano di intervenire, a decisione presa, o con il silenzio o con il rifiuto, considerando la partecipazione come una delegittimazione della rappresentanza. Il rifiuto è una rinuncia ad accettare l’endemico cambiamento critico delle società, ed il silenzio non è una modalità di sottrarsi ad un dialogo, bensì parte integrante di un processo comunicativo, ovviamente interpretato in maniera negativa dagli altri attori coinvolti nell’interazione47. È allora compito di attività consapevoli di comunicazione non solamente la condivisione di contenuti in merito alla qualità della partecipazione, ma piuttosto la costruzione continua e progressiva di un nuovo scenario relazionale, in cui rinnovare percorsi di fiducia e diffondere nuove competenze, costruendo i ruoli stessi che gli attori dovranno re45 J. HABERMAS, Teoria dell’agire comunicativo, vol. II, 46 Si rimanda in particolare alle riflessioni contenute op. cit., 748 s. in J. HABERMAS, Fatti e norme: contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Milano, 1996. 47 Si veda P. WATZLAWICK, J.H. BEAVIN, D.D. JACKSON, Pragmatica della comunicazione umana: studio dei modelli interattivi, delle patologie e dei paradossi, Roma, 1971. PARTECIPAZIONE, ASIMMETRIE INFORMATIVE E COMUNICAZIONE PUBBLICA 227 citare. Una fiducia, rifacendoci nuovamente ad Habermas, ora motivata razionalmente, attraverso fondati processi di intesa linguistica48. Un simile universo discorsivo rinnovato può incidere anche sulla rivitalizzazione dei momenti marginali della partecipazione, accentuando gli aspetti di relazione rispetto a quelli di contenuto del discorso. Un caso concreto può aiutare ad accompagnare le nostre considerazioni, relativo alle politiche e strategie di comunicazione adottate dall’Unione europea, nelle quali è prevista tra l’altro la partecipazione diretta dei cittadini. Al di là dei risultati raggiunti o della diversa interpretazione del concetto di partecipazione, possiamo leggere nelle considerazioni comunitarie un’affinità con quanto andiamo constatando: solo dando al cittadino un nuovo ruolo si possono gettare le basi per nuove politiche. 6. Partecipazione e comunicazione: il caso Unione europea A seguito dei risultati negativi dei referendum sulla Costituzione europea svoltisi in Francia e nei Paesi Bassi nel 2005, dai quali erano emersi sfiducia e malcontento di una crescente fetta di opinione pubblica nei riguardi dell’Unione europea, ha preso avvio un complesso periodo di riflessione che ha coinvolto tutte le istituzioni comunitarie, quale occasione per stimolare, in ciascuno dei paesi direttamente interessati, un ampio dibattito che coinvolgesse i cittadini, la società civile, le parti sociali ed i partiti politici. Obiettivo principale era rispondere al sentimento diffuso tra la popolazione di non poter in alcun modo intrattenere un ruolo attivo e propositivo all’interno del processo decisionale sul futuro dell’Europa49. Il generale ripensamento delle scelte in materia di comunicazione, intesa ora quale strumento biunivoco essenziale per ridurre il gap democratico e avvicinare le istituzioni ai cittadini, prevede, oltre ad un più consapevole ed efficace utilizzo degli strumenti tradizionali, l’introduzione di pratiche partecipative e inclusive, che vanno a coinvolgere l’intera popolazione europea. Il richiamo alla partecipazione non è nuovo nel contesto comunitario, e trova spazio all’interno delle politiche in materia di governance, le quali hanno caratterizzato le scelte strategiche dell’ultimo decennio e 48 J. HABERMAS, Teoria dell’agire comunicativo, vol. II, op. cit., 924. 49 Percezione questa confermata dalle rilevazioni dell’Eurobarometro, link http://ec.europa.eu/public_opinion/archives/eb/eb63/eb63_en.htm. consultabili al 228 FILIPPO OZZOLA sono direttamente connesse al quadro di iniziative conosciute come strategia di Lisbona. A orientare gran parte delle policies dell’Unione europea è in particolare l’attenzione rivolta a partire dai primi anni novanta al grande processo di digitalizzazione della sfera sociale ed economica, la cui portata è alla base della società dell’informazione. La più ampia disponibilità, circolazione e diffusione della conoscenza, caratteristica tipica del nuovo paradigma sociale, costituisce «l’asse portante non solo delle relazioni tra cittadini e istituzioni […] ma è anche un elemento essenziale, fondante, nelle transazioni economiche o nelle relazioni sociali», in quanto stimola da un lato «non tanto (o non solo) una rilettura in senso estensivo dei diritti di origine liberale connessi alla circolazione delle informazioni, ma una vera e propria espansione della loro valenza e delle loro implicazioni, che mette in risalto la dimensione sociale degli stessi esaltandone il profilo attivo, di pretesa nei confronti dei titolari delle informazioni e, prima di tutti, nei confronti proprio delle istituzioni pubbliche»50, e dall’altro rivela di per sé valore democratico, in quanto permette una maggiore trasparenza e una partecipazione più consapevole51. Già nel 1993 il Libro Bianco di Delors52 indicava, quale fondamentale compito delle autorità pubbliche, proprio quello di evitare l’esclusione dalla società dell’informazione, impegno accolto e riconfermato nei successivi piani di azione eEurope e i2010. Queste iniziative allargano il potenziale di utilizzo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, progettando la diffusione di nuove arene e di nuovi strumenti di dialogo con la cittadinanza, in una dimensione elettronica (vengono coniati i concetti di eDemocracy e eGovernance) in grado di integrare le tradizionali forme di partecipazione democratica. Ad affiancare il modello di democrazia rappresentativa (peraltro limitato, com’è noto, al solo Parlamento europeo, dal ridotto potere legislativo) vengono promosse una pluralità di azioni partecipate, quali le consultazioni pubbliche delle parti interessate, ovvero cittadini, orga50 D. DONATI, Società dell’informazione, principio di pubblicità e diritti, in P. LEYLAND, D. DONATI, G. GARDINI, L’accesso alle informazioni nel Regno Unito e in Italia, Bologna, 2003, 37 s. 51 S. RODOTÀ, Tecnopolitica. La democrazia e le nuove tecnologie della comunicazione, Bari, 1997, 7. 52 Crescita, competitività, occupazione - Le sfide e le vie da percorrere per entrare nel XXI secolo - Libro bianco, op. cit. PARTECIPAZIONE, ASIMMETRIE INFORMATIVE E COMUNICAZIONE PUBBLICA 229 nizzazioni ed enti territoriali, e accessibili dal portale europeo attraverso l’iniziativa Your Voice. La politica di attuazione della società dell’informazione trova così integrazione con la la riforma della governance europea, presentata come obiettivo strategico nel 2000 dalla Commissione e formalizzata coerentemente nel Libro Bianco53 dell’anno successivo. Centrale in questo disegno è il processo di maggiore apertura nell’elaborazione delle politiche dell’Unione europea, nel quale trovano spazio le proposte provenienti dai cittadini e dalle organizzazioni per la definizione e presentazione delle policies stesse. Le valutazioni comunitarie si incardinano su alcune proposte ricorrenti, e riconducibili al principio che la democrazia dipende dalla possibilità di tutti di partecipare al dibattito pubblico. Premessa di ogni partecipazione è dunque «l’accesso a una buona informazione sulle questioni europee», anche con l’obiettivo di sviluppare «il sentimento di appartenenza all’Europa», riconfermando il fondamentale ruolo delle politiche comunicative allo sviluppo di uno spazio transnazionale di confronto e dialogo tra cittadini e istituzioni. In questo disegno viene riconosciuta l’importanza dei livelli di governo regionale e locale, quali intermediari privilegiati tra organi comunitari e popolazione; o ancora la parte che la società civile organizzata svolge nel collezionare ed esprimere le risorse della cittadinanza attiva e i bisogni di fasce di popolazione a rischio di discriminazione o esclusione. Ultimo tassello delle politiche di governance è la recentissima introduzione del diritto di iniziativa popolare54, grazie al quale un milione di cittadini europei può sollecitare la Commissione a presentare una proposta di loro interesse in un settore di competenza dell’UE. Tratteggiato lo scenario di riferimento, torniamo ora al nucleo coerente di iniziative sviluppate a seguito della non approvazione della Costituzione europea, particolarmente interessante per la nostra più generale riflessione in merito ai rapporti tra comunicazione e partecipazione. L’intervento di risposta comunitario può ricondursi alle proposte contenute in tre documenti chiave: – il piano d’azione della Commissione per migliorare la comunicazione sull’Europa 55, incentrato su un’attitudine all’ascolto e sulla costru53 La governance europea. Un libro bianco, COM(2001) 428, del 5 agosto 2001. 54 Diritto d’iniziativa dei cittadini europei - Libro verde, COM(622) 2009, del 11 novembre 2009. 55 Action plan to improve communicating Europe by the Commission, SEC(2005) 985, 20 luglio 2005. 230 FILIPPO OZZOLA zione di un rapporto più diretto con la popolazione (riassumibile nella formula going local); – il Piano D per la democrazia, il dialogo e il dibattito56, contributo della Commissione ad un periodo di riflessione generale sull’Unione europea, dalla portata più complessa e che prevede il coinvolgimento dei cittadini in una discussione ampia sul futuro delle politiche comunitarie; – il Libro bianco su una politica europea di comunicazione57, segnato dall’anelito a creare una sfera pubblica europea di discussione. I tre documenti sono accomunati da un obiettivo tecnico comune, ovvero il miglioramento della percezione generale delle attività comunitarie, al quale si aggiunge un obiettivo di tipo relazionale, ovvero la costruzione di un rapporto fiduciario nelle istituzioni europee. Quest’ultimo impegno – essenziale come abbiamo già avuto modo di argomentare – è in qualche modo propedeutico ad ogni altro tipo di coinvolgimento politico, come sottolinea Bourdieu58. La capacità di fare proiezioni sul futuro è per l’autore la conditio sine qua non di qualsiasi pensiero trasformativo, ma difficilmente realizzabile in persone che non hanno controllo sul proprio presente. La stessa Commissione riconosce che la sensazione della cittadinanza di avere scarsa influenza sui processi decisionali è un elemento critico non più trascurabile: il livello di democrazia di un sistema dipende infatti direttamente dalla disponibilità ed accessibilità delle informazioni, ed è dunque obiettivo delle istituzioni comunitarie quello di stimolare situazioni di dialogo, dibattito e partecipazione, oltre a rimuovere le barriere all’accesso. Sebbene centrate interamente sul riconoscimento della comunicazione come politica autonoma, le proposte contenute nei documenti citati aprono a percorsi più complessi, in grado di incidere, quantomeno in una prospettiva futura, direttamente sui processi decisionali. Senza approfondire dettagliatamente ciascun testo, ci limitiamo a riportare alcuni elementi stimolanti ai fini di questo contributo. In primo luogo, si riscontra la necessità di costruire una sfera di discussione inclusiva, partecipata, flessibile, sia a livello comunitario sia integrando la dimensione europea nei dibattiti nazionali. La maggiore 56 Il contributo della Commissione al periodo di riflessione e oltre: Un Piano D per la democrazia, il dialogo e il dibattito, COM(2005) 494, 13 ottobre 2005. 57 Libro bianco su una politica europea di comunicazione, COM(2006) 35, 1 febbraio 2006. 58 P. BOURDIEU, Contro-fuochi: argomenti per resistere all’invasione neo-liberista, Milano, 1999. PARTECIPAZIONE, ASIMMETRIE INFORMATIVE E COMUNICAZIONE PUBBLICA 231 attenzione prestata alle esigenze dei cittadini modifica i tradizionali rapporti top-down, stimolando l’emergere di istanze dal basso; il che ha come corollario l’impegno a mettere le persone nelle condizioni sia di accedere alle informazioni, sia di far conoscere le proprie opinioni alle istituzioni. Vengono dunque promosse azioni di educazione civica, stimolando il coordinamento con le politiche dei Paesi membri e integrandole con altri progetti già attivi, in particolare rivolti a giovani e studenti (Leonardo da Vinci, Socrates, Erasmus, tra gli altri). Ancora, una strategia di questo tipo richiede un coordinamento di politiche in diversi settori, al fine di mettere i cittadini in comunicazione tra loro, promuovendo ad esempio nuove arene di dialogo sopranazionali, e collegando i cittadini direttamente alle istituzioni, rafforzando le procedure di dibattito, consultazione e partenariato, anche allacciando le azioni con le iniziative di promozione della cittadinanza attiva (quali il programma Cittadini per l’Europa59). In conclusione, senza volerci soffermare sui risultati e sull’effettiva attuazione del disegno presentato, dal quadro complessivo emerge non solamente una riflessione in merito ad un più efficace uso degli strumenti di comunicazione a disposizione, grazie anche alla diffusione delle nuove tecnologie, ma soprattutto un’analisi in merito alla natura stessa dei rapporti comunicativi, ovvero una riflessione sulla comunicazione come politica, alla quale viene assegnato il compito di precedere e affiancare la partecipazione dei cittadini alla vita democratica. In questa prospettiva entrambi i concetti diventano mezzi complementari all’innalzamento del livello di democrazia generale del sistema. Che la partecipazione oggetto dell’attenzione comunitaria sia soprattutto una partecipazione al dire piuttosto che al fare, di tipo consultivo piuttosto che deliberativo (vicina forse al modello del débat public francese, che concentra nella fase istruttoria il momento partecipato), non ci pare inficiare particolarmente il ruolo delle politiche di comunicazione poc’anzi descritto, rendendo dunque replicabile il modello ipotizzato. Inoltre, la partecipazione stimolata dalle istituzioni comunitarie richiede l’interazione con altri attori, non solo singoli cittadini ma anche organizzazioni della società civile ed enti del territorio, e si concentra dunque sulla realizzazione di azioni congiunte di comunicazione prope59 Si veda in primo luogo la Proposta di decisione del Parlamento europeo e del Consiglio che istituisce, per il periodo 2007-2013, il programma “Cittadini per l’Europa” mirante a promuovere la cittadinanza europea attiva, presentata dalla Commissione, COM(2005) 116, 6 aprile 2005. 232 FILIPPO OZZOLA deutiche alla creazione di una reciproca legittimazione necessaria all’efficacia di nuove forme di governance. Lo stesso intento vuole essere raggiunto anche dalle azioni di educazione civica, ovvero di apprendimento di ruoli, luoghi, competenze e contenuti altri rispetto alle tradizionali forme di relazione tra amministratori e amministrati. La partecipazione appare, infine, come un bisogno non solo dei cittadini ma anche delle istituzioni, uno strumento per decidere meglio e per contribuire a costruire su una prospettiva condivisa un progetto democratico concreto, ricostruendo su basi fiduciarie nuove il fallimento di politiche non rappresentative. La politica di comunicazione adottata dall’Unione europea si è dovuta scontrare con alcuni limiti particolarmente rilevanti, che ne hanno condizionato il successo: ci riferiamo in particolare alla difficoltà nel creare una sfera di discussione su scala sopranazionale, a causa dei diversi background dei Paesi membri, o ancora all’impossibilità di incidere direttamente sull’educazione civica, non essendo essa materia di competenza comunitaria, e dunque rimessa alle scelte dei singoli Stati, o ancora, e forse soprattutto, alla mancanza di una effettiva strategia di attuazione delle azioni previste. Se il periodo di riflessione ha dato vita ad un dibattito teorico stimolante, non ha tuttavia portato ad un progetto di implementazione dettagliato e sostenibile. 7. Comunicazione, empowerment, partecipazione È opportuno a questo punto tentare di comprendere la possibile trasformazione di quanto finora affrontato sulle dinamiche sociali dei processi partecipati in un sistema di regole per l’attuazione e gestione dei medesimi su scale territoriali più omogenee e più agevolmente attivabili. Interessa in questa sede ipotizzare – proprio partendo dalle peculiari necessità interazionali rilevate – l’individuazione di figure, strutture e competenze specifiche, in grado di interpretarne le forme e orientarne l’evoluzione, affrontando pertanto la questione non tanto dal punto di vista delle dinamiche proprie della società civile, quanto piuttosto da quello delle amministrazioni pubbliche, poiché è principalmente loro il compito di realizzare sia una politica organica della partecipazione sia il coordinamento degli strumenti a supporto di una piena attuazione della stessa. Come è stato rilevato60, la partecipazione necessita di alcune precondizioni istituzionali, ovvero un determinato sviluppo delle istituzioni rap60 F. RANIOLO, La partecipazione politica, Bologna, 2002, 21 s. PARTECIPAZIONE, ASIMMETRIE INFORMATIVE E COMUNICAZIONE PUBBLICA 233 presentative, la chiarezza delle regole del gioco democratico e la garanzia di un diritto di cittadinanza attiva. In altre parole, sono necessari strumenti che favoriscano il sorgere di condizioni preliminari alla partecipazione, dimensione indicata da alcuni autori come struttura delle opportunità di partecipazione 61, e riconducibile ad una specifica configurazione di risorse, assetti istituzionali e precedenti storici di mobilitazione sociale. Un contesto così coltivato apre al cittadino concrete opportunità di azione, quest’ultimo termine definibile, rifacendoci a Oppenheim, «in termini di scelta»62: la partecipazione contiene dunque l’elemento della volontarietà, è «un prendere parte attivo che è davvero mio, da me liberamente deciso e perseguito. Non è, dunque, un “far parte inerte”, né un “essere costretto” a far parte»63. L’effettivo esercizio della scelta di partecipare, la stessa consapevolezza della possibilità di prendere parte in maniera attiva ad un processo decisionale, dipendono da alcuni fattori cruciali64, tra i quali il possesso di competenze civiche, intese come capacità comunicative e organizzative essenziali all’attività politica, non equamente distribuite nei diversi segmenti della società. L’acquisizione di tali competenze presuppone dunque «un processo di apprendimento del repertorio di azione, di educazione civica, che avviene principalmente nel contesto delle istituzioni sociali secondarie (scuole, associazioni, chiese, partiti, ecc.)»65. D’altro canto, un ulteriore strumento di empowerment è dato da un uso mirato della comunicazione delle istituzioni, che Arena ha ricondotto nella tipologia della comunicazione di cittadinanza66. Tale classificazione viene definita di cittadinanza «perché mira a rendere le persone cui si rivolge […] soggetti consapevoli di attività finalizzate alla soddisfazione di interessi di carattere generale». Il processo di modifica dei comportamenti in ottica di una gestione condivisa delle dinamiche di interesse generale è per l’autore strutturale alla concreta attuazione di 61 Si rimanda ancora a F. RANIOLO, op. ult. cit., in particolare 27 s., nelle quali l’autore interpreta con accezione più ampia le tesi contenute in H. KITSCHELT, Political opportunity structures and political protest: anti-nuclear movements in four democracies, in British Journal of Political Science, 16, 1986, 57 s. 62 F.E. OPPHENEIM, Dimensioni della libertà, Milano, 1964, 21 s. 63 G. SARTORI, Democrazia cos’è, Milano, 1993, 79. 64 H.E. BRADY, S. VERBA, K.L. SCHLOZMAN, Beyond SES: a resource model of political participation, in American Political Science Review, 2, 1995, 271 s. 65 F. RANIOLO, op. cit., 30. 66 G. ARENA, La funzione pubblica di comunicazione, in G. ARENA (a cura di), La funzione di comunicazione nelle pubbliche amministrazioni, cit., in particolare 69 s. 234 FILIPPO OZZOLA un nuovo modello di amministrazione, definito amministrazione condivisa67. Volendo ricercare una volontà del legislatore italiano a perseguire tali obiettivi attraverso attività di comunicazione pubblica, dobbiamo rivolgere l’attenzione alla l. 150/00, che costituisce il primo tentativo di definire un quadro normativo univoco e organizzato del settore68. È noto che con la l. 150/00 «la comunicazione non solo viene definitivamente legittimata ma diventa obbligo istituzionale e non più funzione aggiuntiva ed estranea ai processi organizzativi delle singole istituzioni»69, riconoscendola quale «risorsa essenziale ed insostituibile per garantire efficacia, efficienza e trasparenza alle nostre amministrazioni»70. In questa prospettiva, tra le finalità delle azioni previste nella normativa, la promozione di «conoscenze allargate e approfondite su temi di rilevante interesse pubblico e sociale»71 può essere interpretato quale fondamento per costruire un ponte tra le azioni di comunicazione e le dinamiche di empowerment di cui si accennava poco sopra, precondizioni alla concretizzazione di qualunque diritto alla partecipazione. La norma identifica inoltre strutture specifiche preposte alla comunicazione, alle quali vengono di volta in volta attribuiti compiti appropriati: le attività informative si realizzano attraverso il portavoce e l’ufficio stampa, mentre quelle di comunicazione sono attribuite all’ufficio per le relazioni con il pubblico e strutture analoghe, quali sportelli polifunzionali, sportelli unici della pubblica amministrazione, sportelli per le imprese (art. 6, co. 1). Vengono definite inoltre competenze specifiche in capi agli operatori della comunicazione, aprendo l’amministrazione pubblica a nuove professionalità, con un riferimento particolare ai laureati in scienze della comunicazione (art. 4, co. 2)72. Nello scenario disegnato dalla normativa, la comunicazione diretta con il cittadino postula il riconoscimento del diritto di informazione in senso pieno, il quale «sostanzia in modo essenziale il diritto di cittadi67 Si vedano G. ARENA, Cittadini attivi, Bari, 2006, e dello stesso autore Introduzione all’amministrazione condivisa, in Studi parlamentari e di dir. cost., 117/118, 1997, 29 s. 68 Per una interpretazione della norma si rimanda a P. MARSOCCI, La disciplina dell’attività di comunicazione, in G. ARENA (a cura di), La funzione di comunicazione nelle pubbliche amministrazioni, cit., 105 s. 69 A. ROVINETTI, Tra insidie del presente e attese del futuro, in Riv. it. com. pubbl., 5, 2000, 101 s. 70 M. SPAGNUOLO, La comunicazione negli enti locali, Rimini, 2001, 31. 71 Art. 1, co. 5, lettera d). 72 P. MARSOCCI, op. cit., 127 e s. PARTECIPAZIONE, ASIMMETRIE INFORMATIVE E COMUNICAZIONE PUBBLICA 235 nanza»73, dunque affermandosi come parte integrante (nonché presupposto fondamentale) di un modo nuovo di concepire ed esercitare in senso pieno i diritti di partecipazione nelle democrazie contemporanee. Seppur ritrovando nel testo normativo una inedita attenzione agli aspetti menzionati, non ci sembra tuttavia che gli uffici determinati dalla norma, così come i profili professionali e gli skills indicati, possano assolvere anche ad eventuali compiti aggiuntivi in materia di gestione della partecipazione, pur mantenendo una sostanziale utilità nell’essere veicoli complementari alla costruzione del nuovo paradigma di società partecipata. Anche le politiche di settore, come abbiamo visto nel caso salute, spesso non definiscono chiaramente criteri operativi e mancano di un quadro generale che integri gli strumenti a disposizione, non riuscendo così a rispondere efficacemente nei fatti ai bisogni e dell’istituzione e della società. Ugualmente, la scelta adottata nel TUEL lascia vaga – e completamente a carico degli enti locali – la possibilità di ricorrere a strumenti partecipativi, e anche in questo caso non vengono fornite linee di indirizzo in merito a come intervenire per supportare tali processi, lasciando, come spesso accade, alla buona volontà dei tecnici di settore di volta in volta coinvolti il carico di programmare e attuare il percorso partecipativo. Per trovare proposte organizzative organiche occorre spostarsi a livello regionale, dove assistiamo ai primi tentativi di regolare il coinvolgimento dei cittadini, con la l.r. 69/07 della regione Toscana e con la recentissima l.r. 3/10 della regione Emilia-Romagna, entrambe particolarmente attente ad alcune delle dimensioni più volte ricordate. Le Norme di promozione della partecipazione all’elaborazione e alla formazione delle politiche regionali e locali, l.r. 69/07 della regione Toscana, ispirate agli ideali della democrazia deliberativa74, rappresentano – come è noto – il primo caso italiano di intervento legislativo organico volto alla promozione di pratiche e metodologie della partecipazione. Non potendo qui soffermarci in un esame analitico di tale legge, ampiamente chiosata in dottrina75, ma limitandoci piuttosto a richia73 R. CANANZI, Comunicazione istituzionale e democrazia, in Riv. it. com. pubbl., 5, 2000, 95 s. 74 Per un approfondimento sull’ispirazione della norma ai principi della democrazia deliberativa si rinvia a A. FLORIDIA, Idee e modelli di partecipazione. Il caso della legge toscana, in U. ALLEGRETTI (a cura di), Democrazia partecipativa. Esperienze e prospettive in Italia e in Europa, Firenze, 2010, in particolare 93 s. 75 Da ultimo R. LEWANSKI, Promuovere la partecipazione deliberative: la legge Toscana 236 FILIPPO OZZOLA marne i profili che più direttamente interessano nella prospettiva di questo saggio, va subito detto che la dichiarata ispirazione alle dinamiche della democrazia deliberativa ci obbliga a considerare uno dei paradigmi normativi di tale modello politico, ovvero «un’interazione comunicativa tra cittadini, liberi ed eguali, che avvenga in condizioni di parità»76. Tale condizione è costantemente minacciata dalle asimmetrie informative che differenziano sia il carico di consapevolezza e informazione dei partecipanti sia il tipo di preferenze con le quali entrano nel processo deliberativo77: la necessità di costruire una base informativa condivisa ha orientato in più parti l’attenzione del legislatore regionale verso aspetti più propriamente comunicativi, come ad esempio la previsione, in un progetto di partecipazione, della strategia di diffusione delle informazioni anche di tipo tecnico78. In particolare, tra gli obiettivi che la legge indica e persegue, e che particolarmente interessano in questa sede, ricordiamo il «creare e favorire nuove forme di scambio e di comunicazione tra le istituzione e la società»79 e il «contribuire ad una più elevata coesione sociale, attraverso la diffusione della cultura della partecipazione e la valorizzazione di tutte le forme di impegno civico»80 (corsivo dell’Autore). Per raggiungere i seguenti obiettivi vengono previsti, al Capo III, due strumenti specifici in merito alle attività da un lato di informazione e comunicazione, dall’altro di formazione. La diffusione tempestiva di tutte le informazioni relative ad un processo partecipativo, tramite ogni adeguato strumento di comunicazione, ha l’obiettivo di rendere effettivo il diritto di partecipazione81. La realizzazione di attività formative a alla prova dell’applicazione, in U. ALLEGRETTI (a cura di), Democrazia partecipativa, cit., 244. Basti qui ricordare, sinteticamente, tre pilastri attorno ai quali ruota la legge: a) l’introduzione del dibattito pubblico regionale (ispirato al modello dell’esperienza francese), organizzato e condotto sotto la responsabilità di un’Autorità regionale indipendente, avente funzioni di garanzia e controllo in ordine al rispetto delle norme sulla partecipazione; b) la previsione di un sistema di sostegno e di supporto ai processi locali di partecipazione, nei quali enti locali, residenti (in forma singola o associata), istituti scolastici o eventualmente anche imprese, possono presentare un progetto di processo partecipativo dai requisiti ben dettagliati; c) l’integrazione in chiave di rafforzamento con le pratiche di partecipazione già previste dalla normativa vigente nella regione Toscana. 76 A. FLORIDIA, op. cit., 105. 77 Ancora A. FLORIDIA, op. cit., 105, e L. BOBBIO, Tipi di preferenze, tipi di deliberazione, in Riv. it. di scienza politica, 3, 2007, 359 s. 78 Art. 15, co. 1, lettera h). 79 Art. 1, co. 3, lettera d). 80 Art. 1, co. 3, lettera e). 81 Art. 11, co. 1. PARTECIPAZIONE, ASIMMETRIE INFORMATIVE E COMUNICAZIONE PUBBLICA 237 sostegno dei processi partecipativi, indirizzate particolarmente a giovani e studenti82, ribadisce anche in questo caso l’importanza dell’aspetto di educazione civica già ricordato in relazione alle politiche comunitarie. La legge emiliana (Norme per la definizione, riordino e promozione delle procedure di consultazione e partecipazione alla elaborazione delle politiche regionali e locali), che nel complesso appare più timida della legge toscana, riconosce anch’essa un diritto di partecipare in capo a tutte le persone, associazioni e imprese destinatarie di scelte di pianificazione strategica a livello sia regionale sia locale. Più in particolare, la proposta emiliana non prevede l’attuazione di un istituto complesso come il dibattito pubblico sugli interventi di grande impatto sociale (differenziandosi così dal testo toscano), e si limita ad individuare (dopo aver definito cosa si intende per processo partecipativo) i criteri ai quali le proposte di partecipazione devono rispondere per poter accedere ai contributi regionali, al fine di realizzare «un sistema partecipativo coerente ed omogeneo sul territorio»83. Tuttavia, fra i criteri menzionati manca il richiamo a strumenti di informazione, sebbene la legge si ponga esplicitamente l’obiettivo di «favorire, oltre la mera comunicazione istituzionale, l’evoluzione della comunicazione pubblica, anche per una piena affermazione del diritto alla trasparenza e alla cittadinanza attiva»84: aspetto, quest’ultimo, sottolineato anche dal richiamo al principio di sussidiarietà ex art. 118 Cost. All’informazione, intesa quale strumento utile alla realizzazione di un quadro conoscitivo condiviso, si fa cenno nell’art. 10, considerandola «premessa necessaria ai processi partecipativi». Tuttavia, anche in questo caso, la legge ne attutisce a nostro avviso l’importanza, insistendo sull’adozione di strumenti «idonei a consentire ai cittadini di accedere facilmente alle informazioni possedute dalle amministrazioni», e trascurando al contrario l’importante ruolo proattivo della comunicazione. Inoltre, a differenza del legislatore toscano, quello emiliano non prevede alcuna specificità professionale per gli incaricati a svolgere attività di supporto ai processi partecipativi. Possiamo riconoscere quale unico e flebile cenno quello contenuto nella clausola valutativa, in me82 Art. 83 Art. 13. 1, co. 3. L’altra differenza di rilievo fra le due leggi risiede nella mancata istituzione di una specifica Autorità di garanzia da parte della legge emiliana, la quale ha preferito demandare ad un dirigente dell’Assemblea legislativa, designato dal Presidente della stessa, il ruolo di tecnico di garanzia in materia di partecipazione. Per l’individuazione di questa figura non vengono, peraltro, indicati criteri selettivi che prevedano competenze in merito alla gestione di processi partecipati, a differenza di quanto avviene nella legge toscana. 84 Art. 2, co. 1, lettera l). 238 FILIPPO OZZOLA rito ai risultati ottenuti a cinque anni dall’introduzione della norma, dove si considera l’eventuale «accresciuta qualificazione del personale delle pubbliche amministrazioni e della flessibilità del suo utilizzo, in funzione dei processi partecipativi»85, senza tuttavia aver previsto l’introduzione di percorsi formativi specifici. 8. Conclusioni Questa brevissima rassegna consente di evidenziare e ribadire la necessità di meglio comprendere le interazioni che animano le sfere pubbliche di discussione, affinché la partecipazione diventi un motore di rinnovamento amministrativo e, a tutti gli effetti, un fattore qualificante della democraticità di un sistema. Riprendendo il doppio asse di lettura delle pratiche partecipative (come relazione e come politica), potremmo concludere che la partecipazione intesa come processo relazionale per negoziare una decisione ha successo se i soggetti partecipanti sono in grado di interpretare correttamente la propria situazione di scambio comunicativo, avendo imparato i ruoli da recitare, sapendo individuare i luoghi di confronto e avendo certezza dell’attendibilità dei risultati. L’apprendimento di questi elementi preliminari all’interazione può allora essere oggetto di una politica pubblica specifica, che preveda la formalizzazione di spazi e pratiche di partecipazione, nonché l’introduzione di figure professionali dedicate. A tal fine è più volte ribadita da Bobbio la necessità di rivolgersi a professionisti «specializzati nel disegnare i processi decisionali, coinvolgere gli attori rilevanti, favorire la partecipazione dei cittadini comuni […], stimolare il confronto […], affrontare e gestire i confitti, assistere i negoziati»86, il cui contributo è vantaggioso sia per le competenze che portano sia per il ruolo di neutralità che riescono ad avere nei confronti dei processi ai quali sono chiamati ad assistere. Una politica della partecipazione può e deve allora avvalersi di una rinnovata funzione della comunicazione, che possa offrire strumenti utili a costruire la fiducia e attivare una sfera pubblica di discussione, o ancora rafforzare processi di educazione civica, al fine di introdurre nuovi percorsi di socializzazione che contemplino una dimensione partecipativa. 85 Art. 18, co. 2, lettera h). 86 L. BOBBIO, A più voci, cit., 123 s. ELDA BROGI LA PARTECIPAZIONE ELETTRONICA SOMMARIO: 1. Partecipazione elettronica, better regulation, democrazia. – 2. Il ruolo dell’Europa. – 3. Livelli di partecipazione elettronica. – 4. Web 2.0 e partecipazione elettronica. Nuove prospettive tecnologiche. – 5. Politiche per l’e.participation. 1. Partecipazione elettronica, better regulation, democrazia Con la locuzione «partecipazione elettronica» (e.participation) si intende lo sviluppo e la realizzazione di forme di partecipazione dei cittadini nei processi decisionali e politici attraverso l’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Le definizioni di e.participation sono molte e varie: la nozione sconta evidentemente il fatto che non esista ancora una sistematizzazione del tema della partecipazione (tantomeno nella sua dimensione elettronica) e soprattutto, come rilevato1, che gli studi in proposito siano caratterizzati da approcci disciplinari eterogenei: la partecipazione elettronica è sinonimo in senso lato di tutte quelle politiche ed attività che ampliano la partecipazione politica permettendo ai cittadini di connettersi con altri cittadini e con i loro rappresentanti politici mediante l’uso di tecnologie dell’informazione2. A ciò si aggiunga che le espe1 G. AICHHOLZER, C. FRASER, A. KRAMER, B. LIPPA, N. LIOTAS, O. SABO, J. SHADDOCK, A. TORLEIFSTOTTIR, M. WIMMER, R. WINKLER, Challenges and Barriers of eParticipation Research and Practice, 2006, demo-net.org. 2 S. SMITH, E. DALAKIOURIDOU, Contextualizing public (e) participation in the governance of the European Union, European Journal of E.pratice, 2009, 7, www.epracticejournal.eu; A. MACINTOSH, Characterizing e.participation in policy making, Proceedings of the 37th Hawaii International Conference on System Sciences, 2004, www.computer.org. La definizione comunemente richiamata è, appunto, «efforts to broaden and deepen political participation by enabling citizens to connect with one another and with their elected representatives using information technologies». Vedi anche A. VALASTRO, Tecnologie e governance: i nuovi strumenti delle politiche partecipative a livello locale, in www.teutas.it, settembre 2008. 240 ELDA BROGI rienze pratiche in tema di partecipazione elettronica sono state per lo più realizzate a livello locale e attraverso modalità non sempre omogenee e quindi non sempre «classificabili». Il tema della partecipazione elettronica è legato indissolubilmente ai temi che hanno sollecitato tutte le riflessioni di questo volume: in particolare, esso richiama la lamentata carenza di democraticità, il deficit democratico che si riscontra nelle organizzazioni politiche contemporanee – tanto nazionali quanto sovranazionali (vedi segnatamente l’Unione europea) –, la progressiva perdita di autorevolezza dei partiti politici, la spinta verso la sussidiarietà – «verticale» e «orizzontale» –, la progressiva ricerca di una regolazione efficace3. La preferenza verso la partecipazione dei cittadini, anche nei processi decisionali del potere pubblico e al di fuori dello stretto sistema di rappresentanza democratica, costituisce oggi il tentativo di fermare la progressiva erosione della sovranità del cittadino rispetto a processi decisionali sempre meno tipicizzati e controllati, e di ri-legittimare decisioni che, in quanto condivise e consapevoli, possono fondare atti normativi maggiormente efficaci. 2. Il ruolo dell’Europa Un impulso molto importante su questo fronte è venuto, non a caso, dall’Unione europea, la quale, all’interno del più generale obiettivo di «better regulation», ha favorito l’uso delle tecnologie dell’informazione come strumenti per la «partecipazione» dei cittadini alle scelte di merito della Commissione ed ha richiesto un impegno a tutti i livelli istituzionali al fine di rendere effettiva la partecipazione democratica e la e.participation. Se partecipazione non significa necessariamente democrazia, la Comunità europea ha tentato comunque di rendere il processo decisionale europeo maggiormente aperto alle proposte e alle informazioni fornite dai cittadini. A fronte del tanto discusso «deficit democratico» europeo, la legittimazione delle istituzioni e la «legittimità» delle politiche e della normativa europee sono inscindibilmente legate al riconoscimento da parte dei cittadini di un comportamento 3 Si consenta il rinvio a E. BROGI, La ‘migliore regolazione’ secondo il Parlamento europeo, tra rivendicazioni e abdicazioni del ruolo ‘legislativo’, in www.federalismi.it, n. 12/2007, ripubblicato in Rassegna degli Avvocati italiani, 2007, 2, 63; ID., La valutazione della normativa in Europa come portato e parametro di una governance tra pubblico e privato, in M. RAVERAIRA (a cura di), «Buone» regole e democrazia, Rubbettino, 2007, 111. LA PARTECIPAZIONE ELETTRONICA 241 «responsabile» delle istituzioni comunitarie. La trasparenza decisionale e la partecipazione sono assurte quindi a condizioni sine qua non della «legittimità» dell’azione comunitaria, la quale rimarrebbe – in assenza di quelle condizioni – sostanzialmente irresponsabile e poco controllabile. Nel Libro Bianco sulla riforma della Commissione del 2000 le tecnologie dell’informazione sono assurte ad elemento integrante la «governance» europea, che a sua volta rappresenta all the rules, procedures and practices affecting how powers are exercised within the European Union. Lo scopo della governance e della riforma della Commissione è quello di trovare nuove forme procedimentali che riescano ad avvicinare i cittadini europei alle istituzioni, consolidando l’effettività dell’azione europea e conseguentemente l’effettività e l’efficacia della regolazione4. È in questo contesto che si è affermato, a livello europeo e non, anche grazie ad una politica di finanziamenti comunitari ad hoc5, l’utilizzo delle tecnologie informatiche per la partecipazione del cittadino6. Gli Stati hanno in qualche modo mostrato il loro impegno a rendere l’Europa, se non democratica, più trasparente ed «accountable», 4 E. BROGI, La valutazione della normativa in Europa, cit. 5 Nell’ambito dei Programmi quadro per la ricerca (dal quinto al settimo), la Comunità europea ha finanziato numerosi progetti di ricerca nel campo della partecipazione elettronica. Alla fine del 2005, il Parlamento europeo ha chiesto alla Commissione di avviare un’azione preparatoria per promuovere l’uso delle TIC a livello legislativo. Il programma e.Participation che è stato lanciato nel 2007 finanzia una serie di progetti finalizzati a favorire la partecipazione elettronica dei cittadini dal momento della formazione del progetto di legge alla sua attuazione. Il Parlamento europeo, i Parlamenti nazionali e le autorità locali sono stati coinvolti nella progettazione. Sono stati sviluppati strumenti per facilitare la scrittura di testi normativi, la traduzione in lingue diverse, la stesura di emendamenti e la lettura dei testi per non specialisti. Le nuove tecnologie sono state utilizzate per offrire un più semplice accesso alle informazioni e maggiori opportunità di concorrere ad influenzare decisioni pubbliche. Di seguito si ricordano alcuni dei progetti finanziati, ai quali si deve una notevole produzione di studi, soprattutto politologici e sociologici, del fenomeno della partecipazione elettronica: DEMO-net - The eParticipation Network of Excellence; WAVE - Welcoming Argument Visualisation to Europe; FEED - Federated eParticipation Systems for Cross-Societal Deliberation on Environmental and Energy Issues; Demos@Work: LEX-IS; eMPOWER; MOMENTUM; WEB-DEP. 6 S. SMITH, E. DALAKIOURIDOU, Contextualizing public (e)participation in the governance of the European Union, cit. Fino al 2000 la partecipazione era limitata alla trasparenza dell’attività del legislatore e all’accesso ai documenti: dopo il Libro Bianco sulla Commissione e quello sulla governance, la Commissione stessa ha ancora sottolineato nel 2001 la necessità di una strategia comunicativa più efficace da parte delle istituzioni europee (Communication on a new framework for cooperation on activities concerning the information and communication policy of EU, COM(2001) 354). 242 ELDA BROGI includendo l’obiettivo della partecipazione all’interno del Trattato di Lisbona, nel quale si opera un tentativo di rafforzare il ruolo del Parlamento europeo e dei parlamenti nazionali e si introducono strumenti per dar voce ai cittadini7. In particolare l’art. 11 del TUE, come modificato dal Trattato di Lisbona, consacra alcuni strumenti di partecipazione stabilendo che le istituzioni diano ai cittadini e alle associazioni rappresentative la possibilità di far conoscere e di scambiare pubblicamente le loro opinioni in tutti i settori di azione dell’Unione, mantengano un dialogo aperto, trasparente e regolare con le associazioni rappresentative e la società civile: tale dialogo dovrà realizzarsi «attraverso gli opportuni canali», tra i quali, anche alla luce delle esperienze già sperimentate a livello comunitario, possono ricomprenderi le tecnologie elettroniche. L’e.Participation è, inoltre, una delle priorità del Piano d’azione comunitario sull’e.Government8: nel 2007, con la dichiarazione ministeriale di Lisbona sull’e.Government, gli Stati membri hanno sottolineato il proprio impegno alla partecipazione elettronica9. In questo contesto, la partecipazione elettronica va dunque intesa in un senso più ampio e meno tipizzato rispetto, ad esempio, alla mera partecipazione, anche telematica, al procedimento amministrativo o ai meri strumenti di amministrazione elettronica, sui quali più specificamente negli ultimi anni si è concentrata l’attenzione dell’azione dei governi. Da molti anni, ormai, sia a livello statale e locale sia a livello comunitario, si discute su come attuare e si opera per definire concretamente le strategie e le politiche per la conversione digitale dei servizi della pubblica amministrazione. La sfida per l’amministrazione elettronica (o, per usare il termine inglese, e.government) rappresenta la punta avanzata delle politiche pubbliche per la semplificazione amministrativa, per la modernizzazione infrastrutturale, per le politiche educative ed economiche di un Paese. 7 Su questo argomento vedi C. PINELLI in F. BASSANINI, G. TIBERI, Le nuove istituzioni europee. Commento al Trattato di Lisbona, Mulino, 2010, 135 ss. 8 Comunicazione della Commissione, del 25 aprile 2006, Il piano d’azione eGovernment per l’iniziativa i2010: accelerare l’eGovernment in Europa a vantaggio di tutti [COM(2006) 173 def]. 9 Le azioni prioritarie individuate nella dichiarazione sono quattro: rafforzamento della interoperabilità europea, in particolare attraverso la realizzazione di progetti pilota di grande impatto nel settore dell’e-procurement e dell’identità elettronica dei cittadini e delle imprese; riduzione degli oneri sostenuti dagli utenti e dallo Stato per l’attività amministrativa; attuazione di politiche che assicurino un’amministrazione elettronica accessibile e utilizzabile per tutti; incremento della trasparenza e delle opportunità di partecipazione democratica. LA PARTECIPAZIONE ELETTRONICA 243 Al fine del raggiungimento dell’obiettivo della «conversione elettronica» dell’amministrazione, gli Stati stanno sviluppando progressivamente strumenti di interazione fra cittadino e P.A. che, anche se non sempre efficienti ed efficaci, cercano di rendere stabile ed affidabile la fornitura dei servizi dell’amministrazione attraverso le nuove tecnologie: si pensi, per stare al caso italiano, alla politica governativa di sviluppo e diffusione dell’uso della PEC (posta elettronica certificata) nei rapporti fra amministrazione e cittadini; e al Codice dell’ammministrazione digitale (d.lgs. n. 82 del 2005), che ha segnato una tappa decisiva nella «dematerializzazione» dell’attività amministrativa. Il merito del codice per l’amministrazione digitale è quello di aver reso obbligatoria l’innovazione della pubblica amministrazione ed aver posto le basi per uno strumentario necessario per l’utilizzazione «pubblica» delle tecnologie dell’informazione. L’articolo 9 del Codice, in particolare, stabilisce espressamente un principio di favore per la partecipazione elettronica: «Lo Stato favorisce ogni forma di uso delle nuove tecnologie per promuovere una maggiore partecipazione dei cittadini, anche residenti all’estero, al processo democratico e per facilitare l’esercizio dei diritti politici e civili sia individuali che collettivi»10. La nozione di partecipazione elettronica, come accennato, presuppone e al tempo stesso va oltre la mera definizione di e.government; pertanto essa proietta l’analisi verso tutti quei fenomeni comunicativi ed informativi che rendono politicamente attivo (nei confronti dei suoi «pari» e del potere politico-istituzionale) il soggetto chiamato, appunto, a partecipare e a contribuire a vario titolo alla formazione di decisioni politiche. 3. Livelli di partecipazione elettronica I modelli di partecipazione elettronica sono stati variamente catalogati. La classificazione maggiormente utilizzata suddivide tali modelli in tre ampie categorie: 10 Per un commento a questo articolo vedi E. CARLONI (a cura di), Codice dell’amministrazione digitale, Maggioli, Rimini, 2005, 114; A. SARAIS, Democrazia e tecnologie. Il voto elettronico, Esculapio, Bologna, 2008, 12 ss. Vedi anche A. VALASTRO, Tecnologie e governance cit., che sottolinea come le tecnologie siano meramente serventi l’azione pubblica, la quale sceglie «i mezzi più adeguati per tessere ed infittire le trame della democrazia, orientandone l’utilizzo verso il raggiungimento di obiettivi politici prefissati». 244 ELDA BROGI a) informazione: un flusso di informazione unidirezionale dai governi ai cittadini; b) consultazione: flusso a due vie dove i cittadini sono chiamati a dare una informazione «di ritorno» al soggetto politico; c) partecipazione attiva: il cittadino è chiamato a definire e a strutturare una «politica»11. Questa classificazione riprende quella di uno studio OCSE del 2001 che distingue la partecipazione in: information (the means to be informed), consultation (the mechanisms to take part in the decisionmaking), active participation (the ability to contribute and influence the policy agenda). Più articolata è la classificazione adottata dal network Demo-net, che distingue quattro livelli di partecipazione: a) e.Informing, riferita a sistemi di comunicazione ad una via, ove l’informazione viene data dai governi o dai cittadini (official websites or Citizens such as ePetitions); b) e.Consulting, ovvero una comunicazione a due vie limitata, nella quale soggetti privati o pubblici, a seguito di iniziative ufficiali, permettono agli stakeholders di contribuire con le loro opinioni, privatamente o pubblicamente, su determinati argomenti; c) e.Collaborating, ovvero una comunicazione a due vie più vincolante e che riconosce un ruolo specifico agli stakeholders nella proposizione e nella definizione della decisione, anche se la reponsabilità rimane in capo ai soggetti pubblici; d) e.Empowering, caratterizzato dal vero e proprio trasferimento del potere decisionale in capo ai cittadini (es. referendum con effetti vincolanti). Questi livelli di partecipazione si traducono nelle più diverse attività di partecipazione attraverso i mezzi informatici idonei: da semplici sistemi di diffusione di informazioni ai cittadini, alla costruzione di sistemi e comunità collaborative o addirittura di «gruppi di pressione», dalla consultazione alla propaganda elettorale, dalla discussione alla deliberazione, dalla mediazione alla pianificazione territoriale o ambientale, dai sondaggi alle votazioni, ad esempio in referendum locali12. 11 La classificazione è di A. MACINTOSH, op. cit. Essa è condivisa da N. AHMED, An overview of e.participarion models, UN-Division of public administration and development management (DPADM) Department of Economic and Social Affairs (UNDESA), 2006, e dalla gran parte della letteratura esaminata. 12 Schema tratto da A. THORLEIFSDOTTIR, M. WIMMER (editors), DEMO-net: Deliverable 5.1, Report on current ICTs to enable Participation, Demo-net.org. LA PARTECIPAZIONE ELETTRONICA 245 Ciascuna di queste aree, in relazione alle specifiche finalità, attinge ad uno strumentario tecnico funzionale al livello di e.partecipation. Ad esempio, le chat room sono utilizzate in tutti quei casi in cui serva una sessione di partecipazione «in tempo reale»; i forum sono efficaci laddove si richieda una discussione più ponderata su un tema (gli utenti possono scambiarsi messaggi aperti su questioni specifiche, seguendo il «filo» della discussione)13; un processo decisionale si ottiene più facilmente con quelli che vengono definiti decision making games che consentono agli utenti di visualizzare e interagire con le animazioni che descrivono, illustrano o simulano gli aspetti rilevanti di un problema. Esistono inoltre specifiche applicazioni web che sono progettate nell’ottica di creare un flusso di dati rilevanti per i politici, per supportare i rappresentanti eletti nel rapporto con i cittadini rappresentati (online surgeries). Sempre per dare esempi di strumenti informatici utilizzati nelle esperienze di e.participation, sono definiti e.panels quelle applicazioni web in cui, ad intervalli regolari, un gruppo di soggetti reclutati ad hoc si confronta nella discussione con cittadini che manifestano la loro opinione, mentre per e.petitioning si intendono le applicazioni web che ospitano petizioni online e permettono ai cittadini di sottoscriverle. Le eConsultation, infine, sono applicazioni web progettate per le consultazioni che consentono allo stakeholder di fornire informazioni su un tema e ai cittadini ed ad altri interessati di rispondere o presentare osservazioni aperte. Le tecnologie dell’informazione consentono, come è noto, anche il voto online, attraverso applicazioni il cui obiettivo è quello di garantire un ambiente sicuro per l’invio e lo scrutinio dei voti stessi. 4. Web 2.0 e partecipazione elettronica. Nuove prospettive tecnologiche Se il governo elettronico, come abbiamo accennato, appartiene per lo più alla sfera dell’«internet», inteso come mezzo di comunicazione e di gestione di servizi, la partecipazione elettronica ha forse più a che fare con il c.d. «cyberspace», ossia con quello che Lawrence Lessig individua come mezzo che, a differenza dell’internet, non solo semplifica azioni quotidiane ma offre opportunità qualitativamente diverse da quelle offerte dalla «vita reale». Il cyberspazio richiama forme di interazione non possibili altrimenti, forme sociali che comportano differenze 13 Schema tratto da A. THORLEIFSDOTTIR, M. WIMMER (editors), op. ult. cit. 246 ELDA BROGI sostanziali: «There is something unique about the interactions in these spaces, and something especially unique about how they are regulated»14. Questa affermazione sembra essere particolarmente calzante laddove si pensi a tutte le forme di partecipazione che si realizzano spontaneamente attraverso gli spazi del c.d. web 2.015. Come esempi di questo uso spontaneo della rete, basti pensare, relativamente all’Italia, alle autoconvocazioni di movimenti di protesta partite dai social network o alle discussioni spontanee, più o meno autorevoli, sulle decisioni prese o da prendere da parte di qualche soggetto pubblico16. Infatti, rispetto ai tradizionali media unidirezionali, il web 2.0 offre all’utente la possibilità di articolare meccanismi di immediata propagazione del pensiero, di moltiplicare i contatti con gli utenti, di favorire lo scambio ed il dialogo in una comunicazione paritaria. Uno degli elementi essenziali della «nuova» architettura del web 2.0 sta proprio nel concetto di partecipazione in senso ampio: le applicazioni web sono impostate per l’aggregazione dei dati degli utenti e per la costruzione di valore come effetto collaterale del normale utilizzo dell’applicazione. Tali sistemi migliorano con l’aumentare del numero di utenti 17. Si aggiunga che, essendo disponibili moltissime applicazioni gratuite ed essendo i social network molto «frequentati», un’amministrazione che decidesse di utilizzare un social network per incentivare la partecipazione dei cittadini potrebbe farlo a costi molto limitati. Accanto agli strumenti del cosiddetto web 2.0 stanno già sviluppandosi studi ed applicazioni «di nuova generazione»: ad esempio gli «ambienti collaborativi», attraverso i quali è possibile la stesura in con14 L. LESSIG, Code. Version 2.0, 2006, Basic Books, pag 83, secondo il quale le attività realizzate attraverso Internet potrebbero essere svolte altrimenti (comprare un libro, inviare messaggi, pagare le tasse). 15 Web 2.0 è un’espressione utilizzata per indicare genericamente uno stato di evoluzione di Internet (e in particolare del World Wide Web), rispetto alla condizione precedente. Si tende ad indicare come Web 2.0 l’insieme di tutte quelle applicazioni online che permettono uno spiccato livello di interazione sito-utente (blog, forum, chat, sistemi quali Wikipedia, Youtube, Facebook, Myspace, Twitter, Gmail, Wordpress, Tripadvisor ecc.) (fonte: Wikipedia). 16 Sembra una tautologia, ma ultimamente alcune discussioni concernenti, ad esempio, progetti di legge sulla rete stessa vengono condotte in maniera spontanea attraverso i network di esperti sul web: questi ultimi finiscono così per configurare una sorta di lobby, che compatibilmente con la propensione all’ascolto del legislatore può esercitare un’influenza sul testo finale. 17 T. O’REILLY, What Is Web 2.0 Design Patterns and Business Models for the Next Generation of Software, www.oreilly.com, 2005. LA PARTECIPAZIONE ELETTRONICA 247 temporanea di documenti; le c.d. ontologie e web semantici, che permettono ricerche e collegamenti tra documenti molto elaborati; le tecnologie di trattamento automatico del linguaggio naturale (ad esempio per servizi di traduzione). Tali strumenti potranno forse essere utili anche in funzione di una costruzione paneuropea della partecipazione elettronica: a detta di molti autori, infatti, quest’ultima sconta una limitazione proprio in ordine all’uso, ad esempio, di lingue nazionali diverse da parte dei potenziali partecipanti. 5. Politiche per l’e.participation L’analisi di alcuni esempi di e.Participation riportati in letteratura18 consente senz’altro di confermare quanto da tempo si va affermando in ordine alle potenzialità e ai vantaggi che l’uso delle tecnologie dell’informazione assicura rispetto alla partecipazione19, dal momento che offre uno strumento ulteriore e/o alternativo al cittadino per incidere a vari livelli sulle politiche pubbliche. L’e.participation comporta molti vantaggi in ordine al numero di soggetti coinvolti e al suo costo (che è di gran lunga inferiore rispetto ad attività che coinvolgono una partecipazione «fisica»). Di fatto gli esempi di e.participation hanno più successo quando sono svolti a livello locale (dove non esiste, ad esempio, un problema di lingue diverse). L’Europa sta svolgendo comunque un ruolo sempre più importante, in quanto molte delle iniziative nazionali di successo sono state possibili grazie a significativi finanziamenti europei, e il numero di progetti transnazionali è in aumento. Ammesso quindi che la partecipazione elettronica possa essere un utile incentivo alla partecipazione tout court, offra un empowerment al cittadino rispetto alle istituzioni e nuovo impulso alla governance (intesa nel senso espresso dalla Commissione europea), restano ancora non del tutto risolti i problemi strutturali che stanno alla base dell’uso delle tecnologie da parte dei cittadini, tra cui quello forse più delicato dell’accesso e dell’alfabetizzazione informatica. La stessa Europa riconosce che il divario tecnologico tra gli Stati impedisce uno sviluppo omogeneo degli stessi servizi (avanzati) su tutto 18 Vedi gli interventi in European Journal of ePractice, www.epracticejournal.eu, 7 march 2009. 19 In senso contrario A. OSTLING, ICT in politics: from peaks of inflated expectations to voids of disillusionment, www.epracticejournal.eu, 9, march 2010. 248 ELDA BROGI il territorio dell’Unione. La nozione di servizio universale20, sviluppata nell’ambito del processo di liberalizzazione delle telecomunicazioni, non è stata sufficiente a rafforzare i diritti legati alla «cittadinanza elettronica»: se la posizione della Commissione è stata inizialmente negativa in ordine all’opportunità di includere l’accesso alla banda larga nella nozione di servizio universale, in quanto una tale possibilità non appariva «ancora necessaria per la normale partecipazione alla vita sociale in misura tale che la mancanza di accesso provochi l’esclusione sociale», più di recente (marzo 2010) la Commissione stessa è tornata sull’argomento, avviando una consultazione pubblica allo scopo di individuare il metodo per garantire a tutti i cittadini della UE la disponibilità dei servizi di comunicazione elettronica di base. In particolare, la Commissione intende verificare se le norme e le definizioni di servizio universale vadano estese all’accesso a banda larga al fine di presentare entro il 2010 iniziative legislative in tema21. Una tale posizione è coerente col fatto che l’Unione abbia riconosciuto l’accesso alla rete come diritto fondamentale. In particolare, le ultime direttive di riforma del settore delle comunicazioni elettroniche stabiliscono il principio per cui qualunque provvedimento restringa l’accesso ad Internet potrà essere imposto solo se ritenuto «appropriato, proporzionato e necessario in una società democratica». L’affermazione dell’accesso alla rete come diritto legittima ulteriormente l’e.participation e le politiche che cercano di affermare l’uso della rete per la partecipazione democratica. 20 R. ZACCARIA, A. VALASTRO, Diritto dell’informazione e della comunicazione, Padova, Cedam, 2010. La recente revisione operata dalla dir. 2009/136/CE sottolinea che i collegamenti alla rete di comunicazione pubblica fissa dovrebbero essere in grado di supportare la trasmissione dati ad una velocità tale da permettere l’accesso a servizi elettronici on line, quali quelli forniti sulla rete Internet pubblica. 21 Consultation on universal service principles in e-communications, http://ec.europa. eu/information_society/policy/ecomm/library/public_consult/universal_service_2010/index_e n.htm. PARTE TERZA PARTECIPAZIONE, FUNZIONI PUBBLICHE, GARANZIE NICOLA BIANCUCCI LE ESPERIENZE DELLE ASSEMBLEE LEGISLATIVE REGIONALI PER LA PROMOZIONE DELLA PARTECIPAZIONE E DELLA CITTADINANZA ATTIVA SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Una legge per la partecipazione – 3. E-democracy e cittadinanza. – 4. Considerazioni finali. 1. Premessa Le assemblee delle Regioni, per il ruolo dato loro dalla potestà legislativa e dalle funzioni di indirizzo e controllo, sono il possibile punto di incontro di due piani della partecipazione, quello delle prassi e quello delle norme. Questo contributo è una rappresentazione di sintesi delle linee d’azione che caratterizzano il lavoro delle assemblee legislative regionali. Queste trovano un importante momento di scambio e condivisione nel Gruppo nazionale dei referenti della Comunicazione, all’interno del quale la democrazia partecipativa costituisce uno dei temi oggetto di approfondimento e confronto. Il contesto attuale evidenzia che la grande attenzione posta sulle sperimentazioni di percorsi e metodologie partecipative, soprattutto a livello di enti locali, si era finora configurata prevalentemente nella dimensione dell’attivismo civico, mentre più di recente trova applicazione anche sul piano della democrazia partecipativa. Una dimensione legata alla fase di formazione delle politiche in cui l’interlocutore dell’istituzione è chiamato ad essere un cittadino attivo, consapevole e competente, così come all’istituzione è chiesto non solo un ruolo di apertura, trasparenza e disponibilità al dialogo ma anche un ruolo abilitante nei confronti dei destinatari delle politiche. Agli interlocutori possibili di un’assemblea legislativa non basta essere detentori di conoscenze ed esperienze utili al decisore, a loro è richiesto uno sforzo ulteriore di capacità di analisi, di visione e di valutazione. L’istituzione, dalla sua, deve 252 NICOLA BIANCUCCI fornire gli strumenti, le risorse e il sapere indispensabili per attivare quella dimensione di cittadinanza attiva fondata sulla partecipazione. 2. Una legge per la partecipazione Nel quadro della legislazione regionale si riscontrano una sensibilità crescente e una maggiore consapevolezza della centralità della partecipazione. Con gli Statuti regionali, come ormai ampiamente trattato dalla letteratura giuridica, tutte le Regioni hanno fissato chiaramente la volontà di attuare i principi dell’ascolto, del dialogo e della partecipazione attiva e consapevole di tutti i cittadini mettendo loro a disposizione strumenti di informazione e comunicazione, anche attraverso le opportunità offerte dalla tecnologia. Gli istituti di partecipazione previsti dagli Statuti, quali referendum, petizioni e iniziativa legislativa popolare, e le diverse forme di consultazione, ascolto, indagine conoscitiva, a disposizione delle Assemblee, non sembrano perdere i connotati classici di un’apertura che non raggiunge, tuttavia, il carattere forte dell’inclusione e quello di un’azione abilitante di ampie fasce di interlocutori e portatori di interesse. Dai dettati statutari non conseguono interventi legislativi organici e siamo sul piano di azioni di promozione della partecipazione o di regolamentazione di specifici strumenti, quali ad esempio le Consulte, generalmente rispetto a politiche di settore e ad azioni di competenza degli esecutivi, non delle assemblee legislative. Sono toccati tutti gli ambiti delle politiche, dalla sanità ai servizi sociali, dal commercio al turismo, fino al governo del territorio, con una terminologia che adotta ancora, in modo estremamente flessibile, diverse espressioni: partecipazione, consultazione, ascolto, inclusione, confronto, dialogo. In questa sede, però, si vuole soffermare l’attenzione sugli sviluppi recentissimi della legislazione là dove si va a porre la questione dell’opportunità e dell’efficacia di una regolazione a monte della partecipazione. Fino ad ora l’unica legge organica in tema di partecipazione era stata la legge 69/2007 della Regione Toscana, già studiata e analizzata da molti, in ogni dettaglio, sia teorico che pratico, fin dal momento della sua elaborazione nel complesso percorso partecipato che l’ha preceduta. A questa si può aggiungere, per la significatività, la legge 4/2006 della Regione Lazio, che ha introdotto un processo partecipato obbligatorio nella formazione della legge di bilancio coinvolgendo i Comuni LE ESPERIENZE DELLE ASSEMBLEE LEGISLATIVE REGIONALI 253 della regione e creando una rete capillare di scambio fra istituzioni e fra istituzioni e cittadini. Di recente, invece, è intervenuta anche la legge dell’assemblea legislativa dell’Emilia-Romagna, Norme per la definizione, riordino e promozione delle procedure di consultazione e partecipazione alla elaborazione delle politiche regionali e locali (L.R. Emilia-Romagna n. 3/2010). Questo testo è di iniziativa del Consiglio, a differenza della legge toscana che era stata proposta dalla Giunta. Nei principi la legge emiliana riconosce il valore della partecipazione di tutti i cittadini e delle loro organizzazioni per il miglioramento del processo democratico affiancando i processi partecipativi agli strumenti già previsti dallo Statuto. L’iniziativa per l’avvio di un processo partecipato non è esclusiva dell’ente ma spetta a cittadini singoli o associati, alla Giunta o all’Assemblea legislativa, agli enti locali e loro circoscrizioni secondo modalità regolate annualmente dalla Giunta in base alle indicazioni dell’Assemblea. Si evidenzia il ruolo strategico del collegamento con gli enti locali prevedendo anche un Nucleo tecnico di integrazione con le autonomie locali che coinvolge Giunta regionale e Consiglio delle autonomie locali. Un Tecnico di garanzia in materia di partecipazione è invece designato dal Presidente dell’Assemblea legislativa fra i dirigenti dell’Assemblea stessa con compiti che vanno dal supporto documentale, metodologico e di comunicazione, alla mediazione, all’elaborazione di linee guida fino alla valutazione in itinere ed ex post dei processi partecipativi. All’art. 10 si riportano inoltre le definizioni, tra cui quella di processo partecipativo, con il quale «si intende un percorso di discussione organizzata che viene avviato in riferimento ad un progetto futuro o ad una futura norma di competenza delle Assemblee elettive o delle Giunte, regionali o locali, in vista della sua elaborazione, mettendo in comunicazione attori e istituzioni, al fine di ottenere la completa rappresentazione delle posizioni, degli interessi o dei bisogni sulla questione, nonché di giungere ad una mediazione o negoziazione, ricercando un accordo delle parti coinvolte sulla questione oggetto degli atti in discussione». E ancora quella di prodotto del processo partecipativo, per il quale si intende «un documento di proposta partecipata di cui le autorità decisionali si impegnano a tener conto nelle loro deliberazioni». Un eventuale discostamento della decisione da questo documento deve essere esplicitamente motivato. Annualmente, viene convocata una sessione dell’Assemblea legislativa sulla partecipazione e dopo cinque anni l’esperienza compiuta deve essere valutata, come prescritto nella clausola 254 NICOLA BIANCUCCI valutativa dell’art. 18. Oltre alla valutazione dell’efficacia sostanziale degli interventi e alle prospettive ulteriori della partecipazione, molto opportunamente si richiede di evidenziare «l’accresciuta qualificazione del personale delle amministrazioni pubbliche e la flessibilità del suo utilizzo in funzione dei processi partecipativi». Un concetto, questo, che rinvia alla necessità di avere personale professionalmente qualificato per gestire correttamente ed efficacemente i processi partecipativi, con la necessità di fare formazione e ri-qualificazione. La legge è finanziata con fondi relativi ad unità di spesa settoriali o «mediante l’istituzione di apposite unità previsionali […] dotate della necessaria disponibilità». La legge dell’Emilia-Romagna si inserisce nel contesto di una Regione virtuosa, anche sul piano delle azioni intraprese. Vi è ora la massima attenzione verso i percorsi che questa legge riuscirà effettivamente a far attuare. 3. E-democracy e cittadinanza Nel punto di passaggio dalle norme alle prassi, la prospettiva è quella rappresentata nelle linee guida finali di una delle Commissioni di studio della Conferenza dei Presidenti delle Assemblee legislative, nel 20071: «Le assemblee regionali sembrano essere le sedi più idonee a sviluppare iniziative di partecipazione alla vita delle istituzioni regionali che facciano ricorso in modo innovativo anche alle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Queste iniziative devono essere inserite in una strategia istituzionale delle assemblee imperniata sul rafforzamento delle funzioni di rappresentanza del territorio e delle sue componenti sociali. […] Non si può infatti ignorare come le azioni di concertazione esercitate dalle Giunte regionali come momenti di manifestazione delle istanze, espressione delle conflittualità, ricerca della loro composizione e definizione della mediazione degli interessi in gioco siano andate progressivamente a sovrapporsi e ad assorbire le potenzialità degli altri strumenti di partecipazione democratica peculiari delle assemblee legislative regionali […] In questa chiave, la centralità dell’assemblea elettiva sarebbe affidata non più alla tenuta dello schema 1 Commissione di studio per lo sviluppo degli strumenti di partecipazione, comunicazione e informazione con i cittadini, tra le Assemblee, le comunità regionali e altre istituzioni anche appartenenti a diversi livelli territoriali (2007), in www.parlamentiregionali.it>Documenti e ricerche>Iniziative. LE ESPERIENZE DELLE ASSEMBLEE LEGISLATIVE REGIONALI 255 tradizionale – primato della legge/esclusiva titolarità della funzione legislativa – ma piuttosto alla messa in campo di nuove capacità di interlocuzione e interpretazione del territorio, di collegamento con le molteplici forme della partecipazione, di raccordo con le altre istituzioni della rappresentanza e infine di controllo democratico sull’effettivo impatto della propria azione legislativa e sull’azione dell’esecutivo». Questa «capacità di interlocuzione» è stata tradotta nel rafforzamento di una serie di strumenti che dalla comunicazione istituzionale all’informazione giornalistica, dalle esperienze di partecipazione a quelle di e-democracy e quindi di educazione alla cittadinanza hanno tracciato in modo innovativo le forme di coinvolgimento degli interlocutori, dai cittadini più giovani fino ai livelli istituzionali. Anche se non sempre trovano integrazione con il complesso delle regole della democrazia rappresentativa, questi strumenti offrono comunque lo spunto per riflettere sull’opportunità e sull’efficacia di nuovi possibili modi di operare nell’obiettivo di rispondere adeguatamente ai bisogni, di garantire una sempre migliore qualità della legislazione e di esercitare efficacemente le funzioni di indirizzo e controllo, con un’attenzione particolare alla valutazione. Tutti elementi che sottendono anche al recupero di ruolo da parte dei Consigli. Alla base di qualsiasi processo di partecipazione democratica vi sono alcuni livelli essenziali di informazione e documentazione. La strategia multicanale di comunicazione sviluppata dalle assemblee legislative regionali ha significativamente incrementato le produzioni multimediali, l’informazione su web, la collaborazione con radio ed emittenti locali come già si delineava nell’indagine Il Consiglio e i cittadini. Rapporto sulla comunicazione dei consigli regionali e delle province autonome (2007)2. A questo primo livello di informazione, che non è sempre sufficiente per mettere in grado l’interlocutore di entrare realmente nei contenuti delle deliberazioni, si affiancano documentazione, dossier, approfondimenti curati dalle biblioteche3 e dagli uffici studi e ricerche. Negli ultimi anni si è anche diffusa la pratica della rendicontazione sociale, per la quale sono state approvate delle Linee guida nazionali elaborate dal Gruppo di lavoro dei referenti della Comunicazione, che ha visto la pubblicazione di un rendiconto da parte di quasi la metà dei 2 Pubblicazione a cura della Conferenza dei Presidenti delle assemblee legislative regionali e delle Province autonome e della Provincia autonoma di Trento (2007), www.parlamentiregionali.it>Documenti e ricerche>Iniziative. 3 www.parlamentiregionali.it/biblioteche/rete.php. 256 NICOLA BIANCUCCI Consigli. Seppure più tecnici e di meno facile lettura per i cittadini, vanno ricordati anche i Rapporti sulla legislazione, realizzati ogni anno in collaborazione con il Parlamento nazionale, che alcuni Consigli pubblicano anche in versione regionale. Dal 2004, all’iniziativa autonoma delle singole Assemblee, si è aggiunta l’opportunità offerta dal bando nazionale e-democracy per la promozione della cittadinanza digitale, che ha cofinanziato cinque progetti portati avanti da sette Consigli regionali: Sesamo4 (Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria), Palco5 (Lombardia), Terzo Veneto6 (Veneto), Partecipa.net7 (Emilia-Romagna), Partecipattivo8 (Umbria). Molti dei servizi sviluppati sono simili e, soprattutto, sono stati attivati anche da altri Consigli che non hanno usufruito del bando. Le soluzioni proposte hanno delineato, come denominatore comune, la necessità di produrre una rappresentazione multimediale ed in tempo reale dei processi decisionali. L’offerta di informazione a disposizione degli interlocutori dei Consigli è stata dunque potenziata con la possibilità di consultazione di banche dati sempre più accessibili e con strumenti di aggiornamento in tempo reale sugli atti consiliari attraverso l’invio automatico di e-mail personalizzate agli utenti registrati al servizio. È inoltre possibile inviare proposte e commenti agli eletti sugli atti in discussione: fra gli altri, in questo senso, si ricordano i servizi Senso@lternato (Umbria), Sesamo (Piemonte), Palco (Lombardia), Coro (Veneto). Diverse assemblee hanno associato a questi servizi anche sistemi di consultazioni on line dei cittadini a disposizione degli organi consiliari. Naturalmente, a corredo di questi strumenti vi è tutta la gamma di forum, newsletter, sondaggi, rss, blog che completano l’offerta e permettono la personalizzazione dell’informazione rispetto alle diverse esigenze. Si tratta di uno scambio a due vie che non prevede solo la ricezione passiva dell’informazione da parte del cittadino ma lo mette in grado di documentarsi, di approfondire e di intervenire nella discussione attivando, di fatto, un canale di ascolto e dialogo propedeutico a forme proattive di interazione. Tutti i progetti hanno coinvolto anche gli enti 4 Per il Piemonte, cfr. www.consiglioregionale.piemonte.it/crpnet; per la Valle d’Aosta cfr. www.consiglio.regione.vda.it/sesamo/default_i.asp; per la Liguria, cfr. www.sesamoliguria.it/lirgw/sesamo/ep/home.do. 5 www.consiglio.regione.lombardia.it/web/crl/Approfondimenti/PALCO. 6 www.terzoveneto.it. 7 www.partecipa.net. 8 www.partecipattivo.it. LE ESPERIENZE DELLE ASSEMBLEE LEGISLATIVE REGIONALI 257 locali in un rapporto di collaborazione in cui strutture, software, modelli organizzativi, contenuti e conoscenze sono stati condivisi e messi a disposizione. Percorsi formativi, laboratori on e off line, spazi virtuali di condivisione, permettono questi trasferimenti di conoscenze e favoriscono la costituzione di comunità di scambio pronte a sviluppare, migliorare e personalizzare quanto già realizzato. La cittadinanza si costruisce, però, a partire dai giovani. Ecco allora un’offerta per l’educazione alla cittadinanza che dalle visite delle scuole in Consiglio, ai percorsi a fumetti, fino ai videogiochi della democrazia si declina in percorsi e strumenti per tutte le esigenze. Ogni anno decine di migliaia gli studenti di tutte le scuole, di ogni ordine e grado, visitano i Consigli regionali, con punte di quasi quindicimila studenti in alcune regioni. Per molti di loro, la visita non è solo una presentazione del Palazzo e degli eletti ma è un percorso interattivo di giochi, laboratori, approfondimenti che, con la collaborazione degli insegnanti, portano i ragazzi in vere e proprie simulazioni del lavoro istituzionale, delle dinamiche politiche ed elettorali e soprattutto nell’analisi di grandi temi quali identità, multiculturalità o cittadinanza e Costituzione. Quest’ultimo, legato ad un progetto nazionale del Miur, è stato cofinanziato con un apposito bando che ha selezionato le proposte migliori delle scuole di tutte le regioni che, come nel caso dell’Umbria, hanno anche stabilito dei partenariati con le istituzioni. Sono molte le esperienze interessanti, fra queste il lavoro dell’Emilia-Romagna con i portali Studenti&Cittadini e Partecipa.net-AL9, ma anche quello del Veneto10 con Civil Life e, soprattutto, con il gioco elettronico della democrazia Electionplay, declinato in una versione per adulti ed in una, più semplice e guidata, per i più piccoli. Da non dimenticare, l’esperienza dei Consigli regionali dei ragazzi e degli studenti. Nel giugno del 2009 si è svolto a Firenze il Primo incontro interregionale dei Parlamenti e Consigli regionali degli studenti, che ha fatto il punto sulla situazione stabilendo un momento di raccordo tra le diverse esperienze in corso. Fra i Consigli che lo hanno attivato vi sono Toscana, Puglia, Friuli Venezia Giulia, Abruzzo, Liguria, Calabria; mentre in altri casi, come per il Piemonte, il Consiglio svolge un ruolo di coordinamento tra i Consigli comunali dei ragazzi. 9 Per approfondimenti, www.partecipa.net. 10 Per approfondimenti, www.terzoveneto.it. tionplay.it. Per il gioco della democrazia, www.elec- 258 NICOLA BIANCUCCI Un’attenzione particolare è rivolta agli enti locali, e quindi agli eletti di Province e Comuni, che sono i primi a doversi fare mediatori ed attuatori delle politiche regionali, oltre ad essere tra gli interlocutori fondamentali della costruzione delle politiche regionali. Il ruolo abilitante delle Regioni vale soprattutto per loro in un contesto in cui il rumore e l’eccesso di informazioni rischia di far perdere i canali essenziali dello scambio interistituzionale, facendolo soccombere anche sotto il carico dei sempre più numerosi adempimenti amministrativi a scapito della lucidità nell’elaborazione di visioni comuni e di una progettazione condivisa e collaborativa. Luoghi istituzionali per eccellenza della consultazione regionale sono i Cal (Consigli delle autonomie locali) e i Crel (Consigli/Conferenze regionali dell’economia e del lavoro). Tali organismi potrebbero diventare i laboratori più importanti di nuovi modelli di ascolto, dialogo e partecipazione, sfruttando principi e metodi partecipativi, non negli aspetti regolati dall’ordinamento ma in una complementarietà di strumenti che possa valorizzarne e potenziarne l’efficacia e la rappresentatività sostanziali. 4. Considerazioni finali L’obiettivo di arrivare ad una cittadinanza attiva e consapevole obbliga a ripensare continuamente le forme di raccordo con i cittadini attraverso una maggiore trasparenza, fin dal momento di formazione delle proposte, ed una migliore informazione per una più efficace accessibilità dei contenuti. I siti web ed i servizi ad essi collegati sono una delle vie preferenziali per rendere sempre più trasparente e conoscibile la legislazione, ma a questi devono affiancarsi altri mezzi di comunicazione: ad esempio la televisione e la radio che anche a livello locale hanno importanti livelli di penetrazione. La strategia delle assemblee legislative si muove in questo modello, seppure nella consapevolezza che le tecnologie dell’informazione e della comunicazione sono ben lontane dal sostituire il rapporto diretto tra elettori ed eletti. La partecipazione on line non può prescindere da quella, detto per antitesi, off line, e le attività di animazione sul territorio sono l’unico vero elemento propulsore del coinvolgimento attivo di cittadini, associazioni e rappresentanze nella vita delle istituzioni. La fiducia dei cittadini, e quindi la disponibilità ad impegnarsi e confrontarsi nei percorsi deliberativi, è sem- LE ESPERIENZE DELLE ASSEMBLEE LEGISLATIVE REGIONALI 259 pre fortemente legata al rapporto con gli eletti, alla loro credibilità, al loro coinvolgimento in prima persona nei percorsi di consultazione e di partecipazione, alla loro capacità di tenere conto delle proposte emerse e di rendere conto di come siano state tradotte nelle decisioni. Il web 2.0, allora, è ascrivibile più agli esercizi di stile, al momento, che non alle strategie di un sostanziale cambiamento del rapporto tra istituzione e cittadini; ed il social networking non trova pareri unanimi circa le applicazioni possibili, la sua «istuzionalità» e la sua efficacia. Per le assemblee legislative, altre criticità sono legate alle difficoltà intrinseche alla materia legislativa. Leggi, piani regionali di programmazione non hanno quell’immediata accessibilità, quella comprensibilità e quel senso di «prossimità» per il cittadino come possono avere, ad esempio, gli interventi circoscritti ad un quartiere o ad un piccolo comune. Questo implica un lavoro maggiore di mediazione dei contenuti ed una maggiore difficoltà nell’arrivare a quegli interlocutori che non siano già attivi per proprio conto o che non facciano già parte dei tavoli concertativi regionali. Questo chiamerebbe in causa la delicata questione della rappresentanza e della rappresentatività, che non può però essere affrontata in queste poche note sebbene sia opportuno, comunque, farne menzione. Infine, le regole della partecipazione. In molti sostengono che la partecipazione debba essere lasciata nella dimensione della spontaneità, che non sia possibile ingabbiarla nelle norme e che il fatto che la promuova un’istituzione infici già, di per sé, la qualità del percorso e la possibilità di aprire una prospettiva realmente nuova e dialettica. La partecipazione, tuttavia, ha anche bisogno di risorse professionali, economiche e strumentali che, invece, necessitano di una solida programmazione e, quindi, inevitabilmente, di regole: ciò ancor più nella prospettiva del ruolo abilitante delle assemblee legislative che, proprio per offrire i servizi necessari, devono ricondurre il rapporto con gli interlocutori ad una pianificazione strategica che integri processi di lavoro, servizi informativi ed azioni di comunicazione. Regole, si potrebbe però affermare, a maglie larghe, che sappiano conciliare una buona organizzazione con la possibilità e la capacità di farsi sorprendere: buona regola, questa, di ogni percorso di partecipazione. CARLA SEGOLONI FELICI LA PARTECIPAZIONE ORIZZONTALE E VERTICALE NEI PAESI BASSI: LE RELAZIONI FRA I PIANI DELLA «CASA DI THORBECKE» E IL CASO DELLA WMO SOMMARIO: I. LE RAGIONI DI INTERESSE PER IL MODELLO OLANDESE – 1. Introduzione. – 2. Caratteristiche istituzionali: la frammentazione territoriale e funzionale. – 3. (Segue) La frammentazione politico-amministrativa. – 4. Le politiche per la decentralizzazione e la partecipazione verticale. – 5. Il Codice per le interlocuzioni istituzionali. – 6. Gli accordi più recenti fra Governo Comuni e Province. – II. IL CASO DELLA LEGGE OLANDESE IN MATERIA SOCIO-ASSISTENZIALE: IL DOPPIO BINARIO DELLA PARTECIPAZIONE E L’ORIZZONTALIZZAZIONE DELLE RESPONSABILITÀ. – 7. La legge per il sostegno sociale WMO e le sue finalità. – 7.1. Il concetto di partecipazione alla vita sociale e l’obbligo di compensazione da parte dei Comuni. – 7.2. Altri scopi della legge. – 7.3. Aspetti organizzativi e finanziari. – 8. Il work in progress della legge WMO. – 8.1. L’Ufficio di implementazione della WMO e il sito dedicato. – 8.2. Altre attività di comunicazione. – 8.3. Il percorso di implementazione. – 8.4. I rapporti del Ministero ed altri rapporti. – 8.5. La valutazione. – 8.6. Il programma universitario di ricerca WMO e la cittadinanza attiva. – 8.7. Il nuovo programma per migliorare la qualità della WMO. – 9. La delega ai Comuni per l’attuazione della WMO: i binari della partecipazione e l’orizzontalizzazione delle responsabilità. – 9.1. I campi di prestazione. – 9.2. Gli intrecci e l’orizzontalizzazione delle responsabilità. – 10. Il ruolo degli organi pubblici di controllo. – 10.1. L’Algemene Rekenkamer. – 10.2. La Camera comunale dei conti. – 10.3. Gli Ombudsman comunale e nazionale. I. LE RAGIONI DI INTERESSE PER IL MODELLO OLANDESE 1. Introduzione Il grande assente nelle discipline giuridiche olandesi è lo studio del federalismo, benché la forma di Stato olandese sia stata definita «quasifederale» sin dal lontano 1994 e, con un gioco di parole significativo 262 CARLA SEGOLONI FELICI (The federal approach to unitarism or the unitary approach to federalism?) sia stata rilevata l’affinità con il federalismo dell’ibrida formula «Stato unitario-decentralizzato», questione cruciale del diritto costituzionale e amministrativo olandese1. Nel saggio che precede (T. Toonen) sono state spiegate le ragioni storico-sociali della mancata regionalizzazione e federalizzazione del Paese, nonché il quadro storico-istituzionale in cui si intrecciano le relazioni fra i livelli di governo. Qui si può aggiungere che il motivo della carenza di formulazioni teoriche del federalismo, persino nelle accezioni più connaturali (fra le tante, se non quella istituzionale e fiscale, almeno quella culturale e sociologica) potrebbe essere, accanto al «sacrosanto» principio costituzionale di unità, il successo interno e internazionale – vissuto senza imbarazzo2 – delle varie forme di governance che la democrazia del consenso ha assunto. Se la tradizione federale delle Sette Province Unite nella Pace di Utrecht ha trovato la sua espressione in formule quali il consociativismo, il corporativismo, la concertazione, il poldermodel 3, la politica dell’accomodamento, del compromesso e della pianificazione – che possono essere considerate altrettante «regole» per la pace sociale – i processi di formazione politica interattiva con la società civile e fra le istituzioni, mantenendo i principi fondamentali della cultura politica – consultazione, cooperazione e alla fine consenso – non costituiscono una novità per l’Olanda, ma solo uno sviluppo in senso più democratico4. In un Paese «così diviso che teoricamente non potrebbe esistere»5, 1 T.A.J. TOONEN et al., Federalism in The Netherlands. The federal approach to unitarism or the unitary approach to federalism?, in F. KNIPPING, Federal Conceptions in EU Member States: Traditions and Perspective, Nomos Verlagsgesellscaft, Baden-Baden, 1994, 105-121. 2 Parafrasi del titolo della famosa opera sul successo mercantile e artistico degli olandesi durante il secolo d’oro di S. SCHAMA, The embarrassement of riches An interpretation of Dutch culture in the Golden Age, Fontana Press, USA, 1988. 3 Così viene chiamato il modello di accordo consensuale fra datori di lavoro, sindacati e governo, divenuto famoso a livello internazionale come simbolo del successo economico della politica olandese negli anni ’90 del secolo scorso. 4 J.W. DUYVENDAK & A. KROWEL, Interactive beleidsvorming: voortzetting van een rijke Nederlandse traditie?, in J. EDELENBOS & R. MONNIKHOF, Spanning in interactie. Een analyse van interactief beleid in lokale democratie, Instituut voor Publiek en Politiek, Amsterdam, 17-32. 5 Affermazione di R. Dahl che indusse A. Lijphart a studiare le ragioni per cui nel suo paese di origine le divisioni religiose, invece che portare a tensioni ideologiche e ad estre- LA PARTECIPAZIONE ORIZZONTALE E VERTICALE NEI PAESI BASSI 263 dove la distribuzione e la divisione del potere possono essere sintetizzate in inglese con l’acronimo EMIE (Everyone Meddles In Everything); dove i governanti, dipendenti l’uno dall’altro, devono lavorare insieme e ciò, invece di essere visto come una condanna, è considerato un dato di fatto ordinario che fa apprezzare in un politico o in un manager soprattutto le capacità di mediazione 6; dove la parola «insieme – samen –» si ritrova ovunque7; dove sin dalle scuole si insegna che «collaborare è meglio che vincere» e dove nelle tre C – codipendenza, cogoverno e cofinanziamento – si riscontrano infinite opportunità di coproduzione sociale, partecipazione e coinvolgimento; ebbene, in un Paese siffatto le ragioni di questo case study risiedono nella promettente ricerca di un ennesimo paradosso. Il caso in esame evidenzia infatti una possibile formula di successo – se non una nuova best practice, almeno una good practice – sulla via della democrazia partecipativa, dal momento che il neologismo «governance multilivello» in Olanda è pratica antica quanto le sue prime istituzioni democratiche a difesa della terra dall’acqua, il processo sempre in fieri della conquista di un pezzo di terra dal mare come della democrazia, che evoca alterne vicende di dinamiche interistituzionali e di dialettica pubblico-privato. Le relazioni fra i diversi poteri dello Stato e, in particolare, fra gli organi rappresentanti del popolo che devono decidere sull’utilizzo e rendere conto della destinazione dei mezzi pubblici, sono considerate nei Paesi Bassi uno dei fattori più influenti sul rapporto fra Stato e società. Le riforme del settore pubblico, con il passaggio di competenze e poteri ai livelli decentrati e la riduzione delle procedure amministrative e dei controlli, rientrano fra le politiche per la qualità della legislazione – la better regulation – ed occupano da circa trent’anni l’agenda politica dei governi, dettate anch’esse dalle esigenze di sviluppo economico e sociale del Paese, da pressioni di deficit di bilancio e dagli appelli ad una migliore qualità della democrazia8. Soprattutto quando il Governo centrale si impegna in ambiziosi programmi partecipati che richiedono attuazione da parte dei Governi mismo politico, si riconducevano a pragmatismo e moderazione e, invece che a dissenso e antagonismo, a consenso e cooperazione: A. LIJPHART, The Politics of Accommodation: Pluralism and Democracy in the Netherlands, University of California Press, Berkely, 1968. 6 «Keeping things together», secondo il noto slogan dei politici Wim Kok and Job Cohen. 7 F. HENDRINKS, Vital democracy A theory of democracy in action, Oxford University Press, 2010, 71. 8 OECD, Better regulation in The Netherlands, 2009. 264 CARLA SEGOLONI FELICI locali, con responsabilità condivise e coordinazione verticale – per definire e perseguire con coerenza le priorità identificate –, un’analisi critica dei poteri, dei compiti, delle responsabilità, delle risorse finanziarie e della loro distribuzione contribuisce a creare un contesto culturale di fiducia nelle relazioni fra i diversi livelli di governo e a trovare elementi o motivi di collaborazione istituzionale che trascendono l’ordinaria contrapposizione politica. E se l’attribuzione di competenze deve andare di pari passo con l’assunzione di responsabilità, è indispensabile che ci sia una chiara struttura democratica delle rispettive funzioni: quali poteri e compiti i governi decentrati possono o debbono esercitare, e di quale grado di autonomia politica possono godere, o in che misura dipendono dal potere centrale, in termini di sussidi finanziari e di relativi controlli? Se non è chiaro quale livello di governo è responsabile di che cosa, le differenti opinioni al riguardo creano tensioni o contrasti veri e propri, con gravi ripercussioni sull’esercizio delle funzioni stesse – nel senso di interferenze, lacune, doppi interventi o inadeguato svolgimento – e conseguenze anche sulle prestazioni e le motivazioni di pubblici funzionari e amministratori; e alla fine sono i cittadini che soffrono l’inefficienza dei servizi pubblici e la mancata soluzione dei problemi della società. Spesso, anche le regole per la distribuzione delle competenze dettate dalla Costituzione e dalle leggi risultano insufficienti, oppure suscettibili di interpretazioni diverse. Inoltre, si creano continuamente altri spazi politici, con scambi fra una pluralità di attori diversi e nuove regole fra le amministrazioni: così le relazioni fra i poteri diventano un processo continuo alla ricerca di cultura, identità e valori condivisi nello scopo comune di risolvere i problemi sociali e di contribuire con un governo efficiente al benessere della società. Anche la partecipazione e i processi interattivi di policy making con la società civile e con le diverse amministrazioni non avvengono in un vuoto istituzionale e politico, ma in un contesto che, oltrepassando l’organizzazione formale dei poteri, è di fatto un’arena in cui si confrontano culture e stili amministrativi diversi, visioni e interessi divergenti o addirittura contrastanti di organi dello Stato, pubbliche amministrazioni, cittadini e organizzazioni, in un’interrelazione particolarmente problematica e complessa da cui dipende l’esito dei processi partecipativi stessi. Dirigere queste relazioni è diventato crescentemente importante ed un aspetto particolarmente complicato della governance del pubblico settore. LA PARTECIPAZIONE ORIZZONTALE E VERTICALE NEI PAESI BASSI 265 Pertanto, la partecipazione dei cittadini alle scelte politiche nazionali o locali, o i processi interattivi di formazione delle politiche fra livelli di governo, vanno contestualizzati nell’assetto politico-istituzionale e, in particolare, nelle dinamiche relazionali fra le istituzioni con cui si intreccia la partecipazione stessa; parallelamente, la formulazione di principi e regole per la partecipazione, o la loro estrapolazione dai fattori ricorrenti nelle varie esperienze partecipative, comporta l’esame del modello di decentramento, dell’organizzazione e dei rapporti reciproci fra il Governo e le istituzioni territoriali e, in definitiva, delle regole e dei principi che ne innervano le interlocuzioni, in quanto non estranee, ma dipendenti le une dalle altre. Se in una democrazia partecipativa il focus dei programmi politici è sulla qualità della regolazione, i criteri di trasparenza ed inclusione adottati verso il cittadino, le organizzazioni della società civile e il mondo delle imprese, per la formazione di una politica nazionale che, valorizzata dall’expertise di tutti, debba poi essere implementata dagli altri livelli di governo, saranno tanto più determinanti ed efficaci – non soltanto per l’importante effetto del buon esempio dall’alto – se adottati anche verso i Governi regionali, provinciali e locali. Permettere – e rendere i cittadini capaci – di essere forza attiva nelle scelte del paese (empowerment), in un interscambio proficuo con le istituzioni, presuppone dunque che queste stesse sappiano e possano dialogare e interagire fra di loro in modo cooperativo ed efficiente e che anche ogni istituzione, a sua volta, sia messa in grado di poter svolgere al meglio i suoi compiti. In questo saggio si definiscono pertanto come forme di «partecipazione verticale» in senso lato le interlocuzioni fra i livelli di governo fra di loro e con l’UE, considerando che il successo del processo di partecipazione delle amministrazioni locali alla politica centrale o europea è chiaramente subordinato al coordinamento intra e interistituzionale e all’efficienza ed efficacia delle divisioni dei compiti, delle deleghe, degli scambi di collaborazione e delle comunicazioni fra i poteri pubblici interessati e coinvolti in una determinata politica. Il concetto di partecipazione verticale può dunque essere direttamente traslato dal principio di sussidiarietà verticale e, in particolare, dalla cosiddetta «decentralizzazione verticale», cioè il conferimento di poteri di decisione (delega) ad organi di livello inferiore, di cui la partecipazione verticale «ascendente» è forma e conditio sine qua non di attuazione. Il quadro storico-istituzionale presentato nel saggio di T. TOONEN viene qui integrato dal quadro normativo e pattizio attuale, nel quale 266 CARLA SEGOLONI FELICI trovano collocazione le dinamiche delle relazioni amministrative e finanziarie fra i Governi centrale e locali, e dall’analisi delle politiche di decentralizzazione delle competenze attuate nel corso degli anni le quali, per ricevere il supporto e la cooperazione necessarie per poter esercitare la loro influenza, devono essere condivise e quindi dare spazio ad una partecipazione verticale fino alla dimensione europea. Nella seconda parte si descrive infine una legge del settore socioassistenziale, comunemente denominata – e si vedrà in che senso – «la legge per la partecipazione» (di seguito WMO), per la cui formazione e attuazione, partecipazione verticale e partecipazione orizzontale di istituzioni e società civile si sono intrecciate e continuano ad intrecciarsi, in un processo continuo di valutazione dei risultati e di conseguenti aggiustamenti. Con questa legge si affidano ai cittadini maggiori responsabilità nella cura dei loro familiari, parenti, vicini o concittadini, ma nello stesso tempo si dà agli enti locali la responsabilità di una politica di regia e di «facilitazione» nei loro confronti. Dall’analisi della coerenza della WMO con il quadro istituzionale e normativo in cui si inserisce si potranno forse trarre le lezioni di questo case study. 2. Caratteristiche istituzionali: la frammentazione territoriale e funzionale I Paesi Bassi sono una Monarchia costituzionale parlamentare in uno Stato unitario decentralizzato con tre livelli di governo: centrale, provinciale e comunale9. Questa costruzione a tre piani della c.d. «casa di Thorbecke»10 (1798-1872), lo statista artefice nel 1848 di una sostan9 Una sintetica descrizione dell’ordinamento costituzionale olandese si può trovare nel sito dell’Ambasciata dei Paesi Bassi a Roma www.olanda.it. Per una descrizione più generale e completa, ma ugualmente sintetica, del sistema politico olandese si rinvia all’opuscolo The Dutch Political System in a Nutshell, a cura del Netherlands Institute for Multiparty Democracy; per uno studio più approfondito si consiglia R.B. ANDEWEG e G.A. IRWIN, Governance and Politics of The Netherlands, Palgrave MacMillan, 2005; oppure K. GLADDISH, Governing from the Center. Politics and Policy-making in The Netherlands, Hurst & Company, London and SDU Uitgeverij, The Hague, 1991. Interessante ed utile anche il rapporto OCSE cit. sulla Better Regulation in Olanda. 10 K. PETERS, Het opgeblazen bestuur. Een kritische kijk op de provincie, Boom, Amsterdam, 2007, 28. Con questa locuzione si fa comunemente riferimento alla democrazia pluralista olandese, anche se Thorbecke non ha mai usato questa metafora che, suggerendo una certa rigidità della struttura, viene negata dai fautori delle riforme che preferiscono quella di “corpo” i cui organi funzionano in reciproca connessione e sono in continua crescita e movimento per adeguarsi ai tempi. LA PARTECIPAZIONE ORIZZONTALE E VERTICALE NEI PAESI BASSI 267 ziale revisione della Costituzione allora vigente, è rimasta fino ad oggi sostanzialmente salda, resistendo nel tempo con l’aiuto di alcune strutture di supporto e il graduale ingrandimento della «scala» (dimensione minima) del livello locale11, nonostante sul tetto della «casa» pesi ormai inevitabilmente e ne metta a dura prova le fondamenta un quarto piano, l’Unione Europea: i Paesi Bassi mantengono strettamente il loro impegno di integrazione, manifestando anzi una chiara preferenza per gli accordi sovranazionali, con la conseguenza che la dimensione territoriale della governance olandese è frammentata sia orizzontalmente che verticalmente attraverso i livelli di governo12. Fra unità e decentralizzazione, i due pilastri dell’ordinamento statale olandese, esiste un difficile equilibrio, perno delle relazioni fra i poteri dello Stato: l’attuazione del principio di unità deve essere tale da lasciare ai Governi decentrati il maggior numero di competenze possibili e, nello stesso tempo, la realizzazione del principio di decentralizzazione non deve portare a conseguenze incompatibili con quello di unità. Inoltre, il Governo a livello nazionale non è più alto o democraticamente più legittimato di quelli a livello decentrato, ma un primus inter pares fra Governi di pari livello o valore – seppure non eguali – che fanno parte di un insieme più grande e unitario che è il Regno; Comuni e Province sono liberi, ma collegati allo Stato. Autonomia e distinzione non sono inconciliabili con la sottoposizione ad un sistema unitario, tuttavia la divisione dei compiti e delle funzioni fra i tre livelli di governo nel rispetto di questi principi è sempre a rischio di tensioni per le relazioni reciproche. Se non esiste una gerarchia dei livelli di governo, esiste però la gerarchia delle fonti legislative: i governi sub-nazionali hanno una loro capacità normativa secondaria che fa entrare in gioco un sistema di controlli e vigilanza ugualmente al servizio di un compromesso equilibrato fra le esigenze dell’unità e della decentralizzazione13. In molti casi – ed è questa la tendenza politica attuale – il Governo centrale stabilisce quadri regolativi in cui sono formulate le linee politiche generali, a cui i poteri locali si devono attenere, pur godendo di poteri discrezionali di interpretazione, oltre che di influenza sugli orientamenti e una notevole libertà di implementazione, come nel caso della 11 Il paese è diviso in dodici Province e 430 12 R.B. ANDEWEG e G.A. IRWIN, Governance Comuni. and Politcs of The Netherlands, Palgrave MacMillan, New York, 2002, 161. 13 C.N. VAN DER SLUIS, In wederzijdse afhankelijkheid - Nationaal bestuurlijk toezicht in Europees perspectief, WLP, Nijmegen, 2007, 108. 268 CARLA SEGOLONI FELICI legge che esamineremo in dettaglio; il livello più alto può comunque (e deve) intervenire quando a livello locale il risultato non è sufficientemente assicurato14. L’art. 124 della Costituzione, frutto della revisione del 1983, è cruciale per i rapporti fra il Governo centrale e i livelli decentrati poiché stabilisce in due commi il ruolo politico e le competenze delle Province e dei Comuni: da un lato poteri regolativi e amministrativi «lasciati» all’ambito «aperto» dei loro affari15, dall’altro gli stessi poteri «esigibili» per o in forza di legge. Con il primo si profila un’autorità di Governo locale libera di assumersi la tutela di ogni interesse politico che non sia sottratto alla sua competenza da regole di livello più alto; con il secondo si fa riferimento ai compiti di implementazione della legislazione centrale, cioè richiesti dal Regno e dalle Province, anche se non necessariamente in modo automatico e senza possibilità di influenza alcuna. Tradizionalmente indicati con autonomia e co-governo – anche se questi termini non sono rinvenibili nel testo costituzionale –, sono poi gli art. 105 della legge provinciale e 108 della legge comunale a dare un’ulteriore indicazione di quello che si intende: regolazione e amministrazione esercitate dal Governo della Provincia o del Comune in forza di una legge diversa dalla legge provinciale. La distinzione fra spazio politico autonomo e funzioni e compiti amministrativi delegati conferma dunque a livello locale il dogma dello Stato unitario decentralizzato, introducendo nella Legge fondamentale dello Stato i presupposti della cooperazione e della partecipazione. Conseguenza automatica dell’autonomia è che Province e Comuni siano messi in condizione di poter svolgere in maniera adeguata le loro funzioni con le risorse a disposizione: l’art. 105, co. 3 e l’art. 108, co. 3, rispettivamente della legge provinciale e comunale, stabiliscono che questi abbiano una propria politica fiscale di un qualche rilievo e, nella misura in cui i mezzi siano invece provvisti dallo Stato, ciò avvenga il più possibile per la via generale dei Fondi provinciali e comunali – alimentati dalle entrate fiscali dello Stato – e solo eccezionalmente nella forma di sussidi specifici associati a compiti determinati (art. 16 legge sui rapporti finanziari)16. 14 V. infra. 15 In olandese, inzake hun huishouding letteralmente significa «riguardo al loro governo della casa». 16 V. fra l’altro, Minbzk, IPO, VNG, Code Interbestuurlijke Verhoudingen, Hega Drukkerij, Den Haag, 2005, 21. Le principali entrate proprie dei Comuni provengono dalle LA PARTECIPAZIONE ORIZZONTALE E VERTICALE NEI PAESI BASSI 269 Dall’insieme della Costituzione e dei testi legislativi, si può anche dedurre che il perseguimento dei compiti dello Stato può essere affidato ad un solo livello di governo o a più livelli insieme, ma se esso è possibile ad un livello più basso deve essere lasciato a quel livello: si attua cioè il principio di sussidiarietà, per il quale si deve «decentralizzare ciò che si può, centralizzare ciò che si deve»17. La funzione di ponte fra unità e decentralizzazione è esercitata dal sistema di vigilanza e di controllo: per l’art. 124 della legge comunale, gli Stati provinciali o il Governatore possono prendere provvedimenti contro il Sindaco o la Giunta – entro limiti e per motivi stabiliti – dovendo anche qui rimanere salvaguardati l’unità e i principi di equilibrio e proporzionalità. Se dunque il dogma costituzionale dello Stato unitario decentralizzato vale ed è normalmente rispettato per la divisione delle competenze all’interno, è tuttavia messo sotto pressione dall’alto dall’UE18 che, pur senza parlare formalmente di federalismo, materialmente possiede il potere di fare leggi e di stabilire quadri regolativi che hanno influenza sui Governi nazionali e locali, senza necessariamente tener conto dei principi costituzionali dei singoli Stati membri; così è sempre più l’Europa che determina e stabilisce i quadri e le direttive con effetto o applicazione diretta – in particolare sui Comuni – e crescenti compiti di co-governo. Accanto alla dimensione europea, resistono ancora le più antiche istituzioni democratiche olandesi. La prima risale al XII secolo19, vera e propria struttura cardine del poldermodel: si tratta di una trentina di amimposte sui beni immobili, da licenze e permessi edilizi, dalla raccolta dei rifiuti e dalla vendita di terreni. Inoltre i Comuni hanno la facoltà di imporre altre piccole tasse, ad esempio quelle turistiche o sui cani. La fonte principale rimangono tuttavia i finanziamenti dello Stato attraverso il Fondo comunale e il Fondo provinciale il cui ammontare viene deciso dal Governo annualmente e la cui destinazione da parte degli enti territoriali usufruenti è in linea di principio discrezionale. I contributi specifici dati dallo Stato per una determinata destinazione, che prima costituivano la risorsa principale, vengono progressivamente sostituiti con contributi generici estratti dal Fondo che consentono agli organi locali di stabilire finalità e scopi più ampi. Ma la crisi economica e il deficit di bilancio acuiscono i problemi della ripartizione delle risorse che rimane un punto di forte tensione (v. infra). 17 Ministerie van Binnenlandse Zaken en Koninkrijkrelaties, brief aan de voorzitters van de Eerste en van de Tweede Kamer der Staten-Generaal, Kader voor decentralisatie en differentiatie, Den Haag, 31.8.2009, 2. 18 Raad voor het Openbaar Bestuur, Het einde van het blauwdruk-denken - Naar een nieuwe inrichting van het openbaar bestuur, Den Haag, 2010, 11. 19 I. SCHÖFFER, A Short history of the Netherlands, Allert de Lange, BV, Amsterdam, 1973, 33. 270 CARLA SEGOLONI FELICI ministrazioni delle acque – waterschappen – che sin dall’antichità, a nome degli abitanti da cui vengono elette, hanno il compito di gestire il patrimonio idrico e le strutture di difesa del territorio dall’acqua in una determinata zona. Si tratta dunque, come per le Province e i Comuni, di governi decentralizzati, ma con un compito strettamente limitato alla cura dello stato delle acque. Questa limitazione ne fa anche enti di decentralizzazione funzionale, insieme alle circa 150 Autorità Indipendenti – Zelfstandig Bestuursorgaan – ZBO, alle Agenzie di supporto alle attività dei Ministeri e a quelle di tutela delle industrie e delle professioni. Un ruolo fondamentale nella partecipazione verticale è svolto dalle associazioni nazionali fra i differenti livelli di governo. L’organo di concertazione delle Province – IPO e l’associazione dei Comuni olandesi – VNG20 (soprattutto quest’ultima considerata uno dei più influenti rappresentanti di interessi organizzati nel Paese), sono molto coinvolte nel processo di formazione e approvazione dei progetti di leggi e decreti legge di rilevanza per Comuni e Province. Interlocutori principali con il centro, sono il fattore che, da un lato, promuove la collaborazione e la partecipazione orizzontale fra gli associati e, nello stesso tempo, favorisce le interlocuzioni e il coordinamento necessari alla partecipazione verticale, basata sulla «partnership» fra differenti livelli di governo in vari programmi politici, come vedremo a proposito degli accordi di governo e nella legge presa in esame. Anche per il 2010, IPO e VNG hanno stilato una lista di dieci azioni prioritarie in campo europeo, da usare come base per la cooperazione fra di loro, con il Regno, la Commissione e il Parlamento Europei, il Comitato delle Regioni e il Consiglio dei Comuni e delle Regioni d’Europa21. I maggiori sviluppi, nel contesto istituzionale generale, si sono attuati a livello locale. In primo luogo, la cosiddetta «dualizzazione» dei Governi comunali e provinciali, con le leggi del 2002 e 2003, ha separato i poteri dei Consigli municipali e provinciali dagli esecutivi: i membri del Consiglio comunale e degli Stati provinciali non possono più far parte rispettivamente della Giunta municipale e della Deputazione permanente degli Stati provinciali. I membri di quest’ultima e gli Assessori comunali sono pubblici funzionari-amministratori che possono essere scelti anche esternamente, in base a specifiche competenze, mentre i Consiglieri rappresentano i cittadini, fissano l’agenda politica e control20 Interprovinciaal Overleg e Vereniging Nederlandse 21 VNG-IPO, Prioritaire Europese Dossiers 2010. Gemeenten. LA PARTECIPAZIONE ORIZZONTALE E VERTICALE NEI PAESI BASSI 271 lano l’Amministrazione. Questi cambiamenti hanno conseguito il risultato di una maggiore indipendenza politica degli organi rappresentativi ed una migliore expertise a disposizione degli enti. Le autorità provinciali e municipali hanno importanti funzioni di implementazione, applicazione e controllo, specialmente per quanto riguarda la pianificazione del territorio, la politica ambientale, la politica sociale e assistenziale e le licenze commerciali, basate sulla normativa del Governo centrale. A seguito del progressivo aumento di queste funzioni, che consegue alle politiche di decentralizzazione, che vedremo qui di seguito, e alla necessità di una maggiore qualità ed efficienza dei Governi locali, particolarmente importante e significativa è la progressiva riduzione del numero dei Comuni (1064 nel 1936 ed oggi 430), realizzatasi piuttosto pacificamente e spontaneamente attraverso la fusione dei più piccoli fra di loro o l’incorporamento nei più grandi. Contemporaneamente, con la stessa logica di opportunità ed efficienza, per le funzioni troppo costose ed estese, i Comuni cercano collaborazioni e sviluppano innumerevoli forme di cooperazione «regionale» – per aree geografiche o economiche – creando un ulteriore livello funzionale alquanto difficile da gestire; questa soluzione, nell’ambito del grande dibattito sulla dimensione ottimale degli enti locali rispetto ai servizi prestati, è stata scelta anche a livello provinciale22. 3. (Segue) La frammentazione politico-amministrativa Oltre che territoriale, la frammentazione è anche a livello politico e amministrativo: le elezioni della Seconda Camera23 sono basate su un sistema di rappresentanza strettamente proporzionale per il quale ad ogni partito viene attribuito un numero di seggi corrispondente al rapporto di voti ottenuti, ma nessun partito ottiene molto più del 30% dei voti. Il Governo perciò si forma e funziona sulla base di accordi di coalizione iniziali che costituiscono – per i quattro anni di durata della legislatura – il quadro di riferimento in cui si inserisce annualmente la legge finanziaria e della cui attuazione il Governo risponde al Parlamento – sempre molto incalzante sulla responsabilità dell’Esecutivo di risolvere i 22 Le forme giuridiche di questi rapporti di collaborazione sono regolate dalla Wet gemeenschappelijke regelingen del 20.12.1984. 23 La Seconda Camera del Parlamento (Stati Generali) è eletta dal popolo, la Prima Camera (il Senato) dagli Stati Provinciali. 272 CARLA SEGOLONI FELICI problemi della società – con regolari rapporti annuali, oltre che con innumerevoli «lettere», note informative e conseguenti dibattiti24. Dal punto di vista dell’organizzazione politico-amministrativa, i Paesi Bassi sono una forma mista fondata sul modello base napoleonico, corretto con influssi dello Stato costituzionale: un forte Stato centrale con strutture gerarchiche e un apparato burocratico-amministrativo che deve garantire il funzionamento del sistema attraverso l’attuazione e l’esecuzione delle leggi25. Le leggi sono per lo più di iniziativa del Governo, organizzato in tredici Ministeri, con a capo altrettanti Ministri, supportati da uno o più Segretari di Stato; dal punto di vista funzionale, ogni Ministero è indipendente e guidato da un Segretario generale; i pubblici ufficiali – di stampo weberiano – sono politicamente neutri e molto orgogliosi dell’indipendenza e del prestigio della loro funzione26. I Ministri non possono essere nello stesso tempo anche membri del Parlamento e le proposte politiche e legislative devono essere adottate collegialmente, dopo essere state elaborate da una rete di commissioni ministeriali che riportano da ultimo al Gabinetto, in riunioni settimanali. Ogni Ministero ha la sua organizzazione e la sua politica nei riguardi del personale e soltanto a livello dei dirigenti è stato istituito recentemente un sistema integrato, mentre nell’ambito della riforma del settore pubblico c’è la proposta di ridurre a 50 le 3.000 differenti funzioni del pubblico impiego. Particolarmente complessa è quindi anche la relazione fra il sistema politico e la Pubblica Amministrazione, alla ricerca di integrazione e coesione orizzontali e verticali, tra formazione delle decisioni politiche e loro esecuzione, presentandosi anche qui il dilemma fra autonomia e controllo. Il generale coordinamento della Pubblica Amministrazione rientra fra gli incarichi del Ministro degli Interni, responsabile di tutte le relazioni istituzionali, dei programmi partecipati con Pro- 24 In Parlamento sono rappresentati 12 partiti, ma in ambito locale sono molte anche le formazioni politiche “autoctone”. Al momento della stesura di questo saggio – giugno 2010 – il Governo Balkenende IV è dimissionario e sono in corso nuove elezioni politiche nazionali. 25 MBZK, Programma Andere Overheid, Modernising government in other countries International comparison of processes of change in central government, Den Haag, 2005, 10. 26 Per un’analisi dell’etica pubblica olandese sia consentito rinviare a C. SEGOLONI-FELICI, Olanda: l’evoluzione dei rapporti pubblico-privato in un paese proattivo. Scenari per l’Italia del prossimo decennio?, in Materiali sulla qualità della normazione, a cura di M. Carli, University Press, Firenze, 2007, 69-131. LA PARTECIPAZIONE ORIZZONTALE E VERTICALE NEI PAESI BASSI 273 vince e Comuni, oltre che degli Ispettorati di vigilanza, dell’e-government, del pubblico impiego e delle relazioni con il Parlamento. 4. Le politiche per la decentralizzazione e la partecipazione verticale Al fine di soddisfare le esigenze della società e rimediare alla perdita di legittimità, sin dagli anni ’80 sono stati portati avanti programmi di riforma per la modernizzazione del Governo centrale e l’organizzazione e il funzionamento dello Stato, con notevoli riflessi sui rapporti fra i poteri. A partire da quegli anni, il principio guida per la distribuzione delle competenze fra i livelli di governo è la sussidiarietà e la parola d’ordine è «decentralizzazione», secondo la formula già incontrata. La ratio della decentralizzazione è che l’esecuzione a livello locale o provinciale, in molti casi, è più efficiente e più effettiva che a livello centrale, poiché i Comuni e le Province possono sia tener conto di quanto è necessario localmente/regionalmente, che adeguarsi meglio ai contesti già esistenti27. La decentralizzazione era stata anche la caratteristica della Repubblica Federale delle Sette Province Unite del 1579, poi abolita durante l’occupazione napoleonica, ma – ironia della sorte – quelle che un tempo erano Province sovrane oggi sono il più debole dei tre livelli di governo28. Le Province e i Comuni hanno funzioni e tradizioni molto diverse. Le Province, con il loro ruolo nella gestione dell’ambiente, della pianificazione territoriale, rurale e urbana e delle risorse energetiche, sono più distanti degli enti locali ed hanno come istituzione politica un profilo meno nitido. Il numero di compiti esecutivi di cui sono responsabili è diminuito, tanto che si discute da decenni sulla loro posizione e funzione e se ne propone l’eliminazione, a favore di una regionalizzazione del Paese più aderente alle aree economiche e agli accordi di cooperazione instauratisi fra Comuni e aree geografiche, il che non favorisce certo la diminuzione di tensione nelle interrelazioni amministrative. Il livello intermedio provinciale è criticato per essere nello stesso tempo troppo grande e troppo piccolo e sin dalla seconda guerra mondiale si 27 Kader voor decentralisatie en differentiatie, lettera del Ministero degli Interni al Parlamento, cit. 28 R.B. ANDEWEG, G.A. IRWIN, Governance and Politcs of The Netherlands, cit., 161. 274 CARLA SEGOLONI FELICI fanno proposte politiche per creare un qualche tipo di Governo regionale più piccolo delle Province, ma ogni riforma si è arenata per il timore delle complicazioni di un «quarto piano». Nello stesso tempo però, a livello europeo, le Province olandesi, soffrendo di inadeguatezza al confronto delle dimensioni delle Regioni degli altri paesi, hanno formato quattro «gruppi regionali»29. Toonen ha argomentato che la centralizzazione del passato era possibile solo perché le organizzazioni della pillarization – l’incolonnamento o segmentazione della società secondo ideologie politiche e religiose – provvedevano ad alcune delle funzioni socio-culturali di cui in altri paesi è investito il Governo regionale; pertanto, a seguito della depillarization, sembra inevitabile una nuova forma di regionalizzazione, che potrebbe anche andare nel senso di una ristrutturazione dell’attuale ente provinciale30. Ogni ordine di esigenze ha una sua dimensione ottimale per organizzarne il soddisfacimento e per ciascun livello di governo è stabilito un ruolo: i Comuni, che in quanto portoni d’ingresso della «casa di Thorbecke», possono cogliere meglio i segnali che provengono dalla società civile, devono avere affidato il maggior numero di compiti possibile31. Ma la dimensione e la struttura dei Comuni (o delle Province) deve essere adeguata ad esercitare una determinata funzione e ad accettare i rischi finanziari connessi: se funzioni e responsabilità non possono essere razionalmente attribuite ad un determinato livello, si deve scegliere un livello superiore, oppure si deve arrivare ad una differenziazione, nelle competenze da decentralizzare. Con la differenziazione non tutti i Comuni sono responsabili dello stesso pacchetto di compiti e si avranno anche modalità diverse di distribuzione delle risorse: lo Stato può differenziare selettivamente «per legge o delega amministrativa»32 l’assegnazione di compiti e mezzi ai Comuni e alle Province, riconoscendo il differente contesto in cui i Comuni devono operare: la politica delle grandi città, per la quale le Aree metropolitane interagiscono direttamente con il Governo, ne è un esempio33. 29 Altri sono fautori della divisione del paese in tre Regioni: una Ne3land formata da Nord, Sud e Randstad. 30 T.A.J. TOONEN, Theorie van de Provincie, bestuurlijke essay, Den Haag, 2005, 8-10. 31 Raad voor het Openbaar Bestuur, Het einde van het blauwdruk-denken Naar een nieuwe inrichting van het openbaar bestuur, Den Haag, 2010, 38. 32 «Bij of krachtens de wet», Legge comunale, art. 109. 33 Raad voor het Openbaar Bestuur, Het einde van het blauwdruk-denken, cit., 39. LA PARTECIPAZIONE ORIZZONTALE E VERTICALE NEI PAESI BASSI 275 La decentralizzazione delle competenze presuppone l’accettazione di una differenziazione nell’ordinamento amministrativo già praticata, ad esempio, nell’attuazione della legge WMO, che implica applicazioni differenziate fra le varie città, per la diversa composizione della popolazione. Per ragioni di spazio, non si possono qui dedicare che poche righe alle politiche e ai programmi per la better regulation che mettono in risalto la necessità di cooperazione sia orizzontale che verticale34. Basti ricordare i grandi progressi che, nell’ambito della riforma del settore pubblico e del conseguente impegno nella riduzione degli oneri amministrativi, sono stati raggiunti nell’e-government, con il coinvolgimento di un raggio sempre più ampio di stakeholders, fino alle consultazioni pubbliche via Internet anche dei normali cittadini e il portale unico di accesso e interfaccia con tutto il settore pubblico35, mentre a livello locale è già possibile, in alcune località, seguire le sedute dei Consigli comunali dal proprio soggiorno di casa36. Se la definizione di Stato unitario decentralizzato è stata considerata a lungo come un dogma incontrastato, la tendenza verso la regionalizzazione per aree economiche e la razionalizzazione delle unità locali da un lato, e dall’altro l’Unione Europea hanno creato nuove realtà nel processo organico di riorganizzazione strutturale concepito da Thorbecke: lo spazio politico interno allo Stato è in misura crescente influenzato dalle direttive EU e il Regno è diventato, a sua volta, un livello di Governo intermedio che deve impegnarsi a «partecipare» per rafforzarne la qualità. Da questa posizione intermedia fra l’Europa e le Province, il Governo centrale si trova a gestire una governance sempre più multilivello, a causa della frammentazione risultante dalla creazione di nuovi piani, dalla crescente importanza delle Agenzie regolative e dall’emergere di nuovi attori locali privati37, tanto che il Consiglio per la Pubblica Amministrazione ha «osato» affermare recentemente che il dogma dello Stato unitario decentralizzato non deve essere più considerato intoccabile38. Una nuova «assemblea di Thorbecke» dovrà affrontare il problema 34 Si veda l’esaustivo rapporto OECD, Better Regulation in The Netherlands, 2009. 35 www.overheid.nl. 36 www.politiekarchief.nl. 37 R.B. ANDEWEG, G.A. IRWIN, Governance and Politcs of The Netherlands, cit., 163. 38 Raad voor het Openbaar Bestuur, Het einde van het blauwdruk-denken, cit., 28. 276 CARLA SEGOLONI FELICI del futuro della «casa»: mantenerla, ristrutturarla o demolirla?39 La differenza fra autonomia e co-governo è diventata sempre più sfumata e il processo di decentralizzazione non deve costituire un dogma, ma deve esserne valutata volta per volta l’opportunità, a seguito di concrete esperienze che permettano di giudicare a quale livello sia meglio affidare determinate competenze40. Il filo rosso da seguire non sono le norme desiderate, ma i fatti e le nuove situazioni così come si presentano quotidianamente: com’è tradizione olandese, le novità del futuro saranno dettate non dall’alto, ma dalla pratica dei problemi incontrati dalla società e il governo si organizzerà attorno ad essa. 5. Il Codice per le interlocuzioni istituzionali La decentralizzazione è pertanto il nodo in cui si intrecciano il dialogo e la partecipazione fra i poteri istituzionali, nell’ambito del quadro delineato dalla Costituzione e dalla leggi, ma anche da documenti in cui autorevoli organi consultivi dello Stato esprimono il loro parere, e da rapporti di commissioni o gruppi di lavoro inter-amministrativi41, il cui ruolo va visto nel contesto dei processi di riforma o – come vedremo – delle attività di controllo e di valutazione. Altre regole e principi sono contenuti in accordi sottoscritti dai poteri istituzionali stessi, specificamente rivolti alle loro relazioni reciproche, intesi a fissare gli obiettivi e le modalità pratiche di comportamento e di partecipazione alle decisioni di ripartizione delle competenze, su una base di fiducia e di effettività per una buona cooperazione. Nel 2004 i rappresentanti del Governo e i Presidenti delle Associazioni delle Province e dei Comuni hanno siglato un Codice che segna, nello stesso tempo, un punto di arrivo e di partenza per l’attualizzazione 39 L. BEERNINK, Het Huis van Thorbecke: behouden, verbouwen of slopen? Universiteit Twente, Enschede, 2006. 40 Raad voor het Openbaar Bestuur, Het einde van het blauwdruk-denken, cit., 38. 41 A titolo di esempio, citiamo l’interessante rapporto dell’Interbestuurlijke Taakgroep Gemeenten Vertrouwen en verantwoorden - Voorstellen voor decentralisatie en bestuursckracht, Den Haag, 2008. Il gruppo di lavoro interistituzionale d’Hondt era stato nominato per concretizzare le proposte di decentralizzazione degli accordi di coalizione e degli accordi di governo. La chiusura del dibattito è costituita da questo rapporto che spinge verso una diminuzione della pressione amministrativa e un potenziamento dei Comuni e della cooperazione fra di loro. LA PARTECIPAZIONE ORIZZONTALE E VERTICALE NEI PAESI BASSI 277 e la modernizzazione delle loro interlocuzioni42. A partire dal 1987 infatti, all’inizio di ogni legislatura, i successivi Gabinetti hanno stipulato accordi con IPO e VNG, in previsione di possibili effetti delle politiche programmate dal nuovo Governo sulle Amministrazioni locali. Fondati sui tradizionali principi di autonomia, certezza del diritto, proporzionalità, ragionevolezza e tendenza alla decentralizzazione43, quelle intese già contenevano i presupposti di una partecipazione in nuce, laddove proponevano che il Governo concordasse per tempo le sue decisioni politiche e i progetti di legge con gli altri livelli territoriali; che il passaggio di competenze avvenisse soltanto se accompagnato dai corrispondenti mezzi finanziari; e che i finanziamenti specifici si riducessero del 25% a favore dei Fondi. Nello stesso anno, iniziarono i cosiddetti D’project con cui VNG e IPO potevano avanzare proposte di decentralizzazione e deregolazione, profilandosi così una partecipazione vera e propria alle scelte decisionali, con riflessi positivi anche su pubblici funzionari e amministratori44. Nel 1989 una prima valutazione congiunta degli accordi mise in evidenza che essi avevano contribuito al miglioramento delle relazioni ed era quindi auspicabile che proseguissero anche con i successivi governi45. Una valutazione nel 2002 confermò l’utilità, ma rilevò il difetto di mancanza di orientamento verso i risultati e le prestazioni degli attori coinvolti, dei cosiddetti BANS46 – Accordi secondo un nuovo stile – iniziati tre anni prima. Tutti i successivi accordi confermarono il ruolo di coordinatore del Ministero degli Interni e la prosecuzione delle concertazioni, annuali o semestrali, fra i Ministri degli Affari Generali, delle Finanze e degli Interni con IPO e VNG, sulle relazioni amministrative e finanziarie. Nel 2004, a seguito della crisi dei rapporti provocata da una supposta centralizzazione dei poteri nel programma dei governi Balkenende I e II, in42 Minbzk, IPO, VNG, Code Interbestuurlijke Verhoudingen, Hega Drukkerij, Den Haag, 2005, 47. 43 Con questo si intendeva che un livello di governo “superiore” potesse essere incaricato di una funzione soltanto se era dimostrato che questa non poteva essere eseguita dal livello più “basso”. 44 Le proposte sfociarono nel 1991 in due leggi che portarono alla diminuzione del numero dei controlli e ad un passaggio di competenze soprattutto a favore dei Comuni. 45 Raad van State, Spelregels voor interebestuurlijke verhoudingen. Eerste periodieke beschouwing over interbestuurlijke verhoudingen, ’s-Gravenhage, 2006, 14. 46 Bestuursakkoord-Nieuwe-Stijl - in Brief van de Minister van Binnenlandse Zaken en Koninkrijkrelaties aan de Tweede Kamer, ’s-Gravenhage, 12 november 2004. 278 CARLA SEGOLONI FELICI sieme ad alcuni preoccupanti sviluppi finanziari47 e ai temuti effetti della legge WMO, tutte le parti in causa, sentendo la responsabilità di dover continuare un dialogo costruttivo, iniziarono ad incontrarsi per stabilire possibili «regole del gioco» per le loro relazioni e il 9 novembre – alla presenza del Primo Ministro – si accordarono per la codificazione di queste regole nel «Codice delle relazioni inter-amministrative», che confermava contemporaneamente anche tutti gli accordi precedenti48. Il Codice49 – in tutto tredici pagine – consta di quattro capitoli dedicati alle relazioni inter-amministrative e finanziarie, alle garanzie e responsabilità e alle regole dei rapporti reciproci; come allegati, sono inseriti un prospetto delle azioni comuni da intraprendere – completo di indicazione dei rispettivi responsabili e delle scadenze da rispettare – e un elenco riepilogativo degli obblighi già esistenti, fra cui in primis gli articoli rilevanti della Legge comunale e provinciale, che costituiscono la base del Codice50. Il preludio, come avviene spesso nei documenti politici olandesi, riporta la «visione»: gli scopi e le motivazioni che hanno spinto le Istituzioni a porli in essere e ad impegnarsi coerentemente in azioni congiunte. L’approccio è anche qui – alla maniera olandese – estremamente pragmatico e democratico: si parte da un problema sociale concreto dei cittadini nella vita o sul posto di lavoro e se ne cercano insieme soluzioni, partendo «dal basso» della loro esperienza diretta, invece che «dall’alto» delle Istituzioni. L’ordinamento pubblico deve assolvere i compiti richiesti dalla società e alla divisione delle competenze deve corrispondere l’organizzazione finanziaria; parallelamente, anche la responsabilità di rendicontazione si conformerà a questa. Il Codice ribadisce che i Governi decentrati hanno la più ampia autonomia amministrativa e finanziaria possibile; le politiche vengono sottoposte in anticipo ad esame di fattibilità; i Governi si informano reciprocamente sulle nuove politiche – anche europee – che toccano un altro livello, cosicché sia possibile un opportuno e tempestivo adeguamento. Lo Stato coinvolge i Comuni e le Province nelle decisioni politiche che possono riguardarli e, a loro volta, gli enti decentrati informano 47 Tagli 48 Brief sulle spese e proposta di parziale abolizione della tassa sulla casa. van de minister van BZK aan de voorzitter van de Tweede Kamer der Staten Generalen, Den Haag, 12 november 2004. 49 Una decina di settori hanno codici di comportamento come soft law. In quello per una buona Pubblica Amministrazione il principio base della partecipazione è così formulato: «l’Amministrazione sa ciò che anima la società e mostra come fa uso di questo sapere». 50 C.N. VAN DER SLUIS, In wederzijdse afhankelijkheid, cit., 94, 133-134, 272, 363. LA PARTECIPAZIONE ORIZZONTALE E VERTICALE NEI PAESI BASSI 279 lo Stato degli sviluppi a livello locale dell’attuazione delle politiche e delle leggi. I progetti di nuove politiche e di regolazione vengono presentati all’IPO e alla VNG, cosicché queste possano – in linea di principio entro due mesi – esprimere il loro parere, se non sono già entrate prima nel processo di formazione; i progetti di legge che hanno conseguenze finanziarie o amministrative per i Governi vengono invero presentati molto in anticipo, per poter essere valutati anche in relazione al Codice. Nel Codice le parti annunciano anche una serie di azioni concrete da intraprendere, in termini di riduzione di oneri amministrativi, di controlli fra livelli di governo, burocrazia, finanziamenti specifici e dettagliate istruzioni per l’attuazione delle leggi; l’attenzione dell’attività amministrativa va rivolta ai risultati, piuttosto che alle procedure. Durante la formazione del Governo, la persona incaricata del giro di consultazioni – il cosiddetto informateur – deve coinvolgere anche IPO e VNG ogniqualvolta oggetto di discussione siano le relazioni amministrative e finanziarie e – appena formato – il nuovo Governo deve subito stipulare gli accordi con gli enti territoriali. Governo, IPO e VNG si impegnano anche a fare una ricognizione delle risorse finanziarie, delle relazioni fra le Amministrazioni funzionali e territoriali e del complesso dei servizi statali decentralizzati, con possibili conseguenze sulla distribuzione delle responsabilità fra le Amministrazioni. Lo schema riassuntivo delle ricognizioni è completo delle date entro cui devono essere compiute e portare ad eventuali provvedimenti. Speciale attenzione viene dedicata alle interrelazioni amministrative in prospettiva europea: qual è l’influenza della regolazione europea su Comuni e Province e come si può rafforzarne la posizione alla luce della Costituzione europea? Un ultimo importante punto riguarda le garanzie di rispetto delle regole e degli adempimenti riportati nel Codice. Sta in primo luogo alle parti che l’hanno approvato farne un documento vitale e utile ai loro rapporti: ognuno ne rispetterà gli impegni e le parti interloquiranno sui progressi fatti durante le concertazioni semestrali, che costituiscono la piattaforma sulla cui base discutere le tematiche e le relazioni inter-amministrative, alla presenza del Primo Ministro e con la partecipazione degli altri Ministri coinvolti e dei presidenti di IPO e VNG. Una garanzia esterna è data dalla possibilità di chiedere al Consiglio di Stato di esprimere le sue «considerazioni» sulle relazioni fra i livelli istituzionali. Su richiesta del governo, dell’IPO e della VNG, il Consiglio di Stato, organo costituzionale consultivo per la qualità della legislazione 280 CARLA SEGOLONI FELICI e massima istanza di giustizia amministrativa, ha nel frattempo già pubblicato – nel 2006 e nel 2009 – due libretti di 80-90 pagine ciascuno con i risultati delle sue analisi periodiche51, le quali vengono discusse nelle concertazioni semestrali fra le parti e possono anche portare ad una revisione degli accordi già presi. Nelle sue «seconde considerazioni», il Consiglio di Stato, dopo aver commentato l’esito delle raccomandazioni precedenti, esamina i due tradizionali punti di tensione: nel disporre degli strumenti finanziari e di controllo, spesso sfugge al Governo centrale la considerazione della parità dei livelli, e il rapporto fra autonomia politica e finanziaria non è equilibrato; inoltre, il CdS dà un’ulteriore spinta al processo di decentralizzazione, lanciando il nuovo slogan per cui «si deve fare decentralmente, a meno che non si possa fare che centralmente». Fra le quindici raccomandazioni si coglie infine l’essenza dei processi di partecipazione verticale e orizzontale: «coinvolgi i rappresentanti del popolo dei livelli decentrati nelle operazioni di decentralizzazione a livello del Regno»; «coinvolgi i cittadini nell’introdurre operazioni di decentralizzazione a livello decentrato»; «attua la politica e la legislazione in maniera scrupolosa e interattiva»52. Sulla base dell’art. 114 della Legge provinciale e dell’art. 116 della Legge comunale, il primo responsabile dell’osservanza del Codice – soprattutto dal lato del Governo – è il Ministro degli Interni, che può intervenire nei confronti degli altri Ministeri, allo scopo di facilitare le disposizioni adottate e, se necessario, attivare processi correttivi. Gli interventi in direzione dei poteri decentrati avranno invece soprattutto il carattere di supporto per rendere più facile l’applicazione del Codice53. Fra i compiti del Ministro vi è dunque anche l’analisi delle politiche e delle proposte di legge del Regno e dell’UE che hanno un impatto su Province e Comuni, per doverne poi riferire regolarmente al Parlamento. A questo scopo, nel 2007 il Ministro ha fissato in un documento riassuntivo – una specie di checklist –54 otto norme con altrettanti specifici punti che gli altri Ministeri possono utilizzare come test a cui sotto51 Raad van State, Spelregels voor Interbestuurlijke verhoudingen, cit. en Decentraal moet, tenzij het alleen centraal kan. Tweede periodieke beschouwing over interbestuurlijke verhoudingen, ’s-Gravenhage, 2009. 52 Raad van State, Decentraal moet, tenzij het alleen centraal kan - tweede periodieke beschouwing over interbestuurlijke verhoudingen, ’s-Gravenhage, 2009, 83, 53 Raad van State, Spelregels voor Interbestuurlijke verhoudingen, cit., 76. 54 Ministerie BZK, Beoordelingskader Interbestuurlijke Verhoudingen - Normen en toetspunten voor beleid en regelgeving met impact op decentrale overheden, Den Haag, 2007. LA PARTECIPAZIONE ORIZZONTALE E VERTICALE NEI PAESI BASSI 281 porre le loro proposte di legge; sul risultato di questa analisi – da allegare alla documentazione per il Consiglio dei Ministri – il Ministro esprime il suo giudizio. Le norme (ciascuna delle quali si sviluppa in alcune domande che servono ad approfondirne il significato) si esplicitano nelle seguenti verifiche: 1) (nel progetto di legge) c’è una chiara formulazione dei problemi e degli scopi politici; 2) c’è equilibrio nel rapporto fra le Amministrazioni territoriali e quelle funzionali; 3) funzioni, responsabilità e poteri sono affidati al livello più basso: decentralizzazione, a meno che…; 4) funzioni, responsabilità e poteri devono essere chiaramente delimitati e divisi in maniera univoca; 5) alle Amministrazioni decentrate è lasciata sufficiente autonomia; 6) la soluzione finanziaria è semplice e congrua; 7) lo scambio di informazioni è semplice e adeguato. I punti di attenzione, tutti con la dicitura preformulata nella risposta «nessuno, a meno che», riguardano sussidi e controlli specifici, obblighi di pianificazione e collaborazioni fra i Comuni, e organi di sorveglianza (soltanto uno, a meno che…). Infine, il progetto di legge o la nota di proposta politica viene sottoposta a IPO e VNG per una possibile reazione. Il documento, attualizzato annualmente, è completato dalle definizioni dei concetti utilizzati e dalla descrizione del quadro legislativo in cui si inserisce. La razionalizzazione delle regole e l’alleggerimento degli oneri di prova nelle risposte contribuiscono alla trasparenza del giudizio del Ministro e alla qualità dei rapporti fra i soggetti istituzionali. 6. Gli accordi più recenti fra Governo, Comuni e Province Dopo la stesura del Codice, nell’accordo di coalizione del 200755 il Governo ha annunciato di voler rafforzare la posizione di indipendenza di Comuni e Province, attraverso un’ulteriore decentralizzazione dei compiti e dei poteri. Le finalità del programma sono state poi riconfermate in due accordi separati: quelli fra Governo e Comuni, denominati «Insieme al lavoro!»56, ribadiscono che, per lavorare insieme alla solu55 Coalitieakkoord tussen de Tweede-Kamerfracties van CDA, PvdA e ChristenUnie. 56 Bestuursakkoord Rijk en Gemeenten «Samen aan de slag!» Juni 2007. 282 CARLA SEGOLONI FELICI zione dei problemi sociali e per un governo efficiente al servizio del cittadino, l’Amministrazione deve essere messa il più vicino possibile ai cittadini e che un Comune forte rappresenta la base di un governo dinamico e attivo, pertanto i Comuni ricevono più libertà politica e più spazio finanziario. Concretamente, le finalità sociali da raggiungere sono le seguenti: decentralizzare compiti e mezzi finanziari; ridurre e semplificare del 25% gli oneri amministrativi, ovvero le procedure a carico di cittadini e imprese; accrescere la forza di governo dei Comuni, dando sufficiente libertà di movimento e margine di manovra, tramite finanziamenti per l’introduzione dell’e-government 57. Gli accordi di governo fra il Regno e le Province58, raccolti nel corrispondente documento, sottoscritto dal Ministro degli Interni e dall’IPO, contengono l’agenda puntuale con cui Regno e Province collaborano ad un «unico» efficiente governo al servizio del cittadino. Gli accordi sono indirizzati ai seguenti campi: rapporti amministrativi e finanziari; investimenti delle Province per realizzare gli scopi statali; decentralizzazione di compiti e mezzi finanziari; deregolazione e diminuzione degli oneri amministrativi. Le competenze di maggior rilievo per le Province risiedono, come si è visto, nel settore dell’ambiente, dell’economia e della cultura, mentre il settore socio-assistenziale e di previdenza sociale è riservato al Comune. Parte importante dell’accordo sono la decentralizzazione di un certo numero di compiti statali e un contributo di 600 milioni da parte delle Province per sostenere il budget dello Stato nella realizzazione di progetti regionali. L’accordo conferma il ruolo di regista locale delle Province per una politica integrale in ambito regionale: il Regno stabilisce i quadri nazionali, in particolare nei settori urbanistico, economico e mobilità e trasporti; le Province danno forma concreta ad uno sviluppo sostenibile di lungo periodo e dettano l’agenda politica. Seguono alcune proposte di decentralizzazione per il rafforzamento delle funzioni della Provincia. Nell’aprile 2009, in piena crisi economica, il Governo, l’IPO, la VNG e le waterschappen, di comune accordo, sono giunti ad una revisione di alcuni punti d’intesa, soprattutto dal lato finanziario, e in giu57 Con la Wet Participatiebudget del 1.1.2009 i Comuni ricevono dal Regno un budget indiviso. 58 Bestuursakkoord Rijk en Provincies, Juni 2008. LA PARTECIPAZIONE ORIZZONTALE E VERTICALE NEI PAESI BASSI 283 gno il Ministro, in una relazione alla Seconda Camera, ha fatto il punto della situazione, mentre per il settembre 2010 è in programma la presentazione di un nuovo rapporto di monitoraggio. Nel frattempo, le parti hanno anche deciso di effettuare insieme una valutazione degli accordi, per fermarsi a considerare il modo in cui sono venuti in essere, come sta andando avanti la collaborazione e in che misura gli impegni presi sono stati mantenuti. Inoltre, le parti vogliono analizzare il funzionamento di questo strumento per poter trarne delle lezioni per il futuro. II. IL CASO DELLA LEGGE OLANDESE IN MATERIA SOCIO-ASSISTENZIALE: IL DOPPIO BINARIO DELLA PARTECIPAZIONE E L’ORIZZONTALIZZAZIONE DELLE RESPONSABILITÀ 7. La legge per il sostegno sociale WMO e le sue finalità Politiche abilitanti per l’integrazione sociale dei gruppi di cittadini più deboli sono diventate un tema all’ordine del giorno in Olanda, sia a livello politico che amministrativo, ed hanno preso il posto del tradizionale multiculturalismo. Con la legge per il sostegno sociale – Wet Maatschappelijke Ondersteuning / WMO – del 1º gennaio 200759, il Governo olandese ha armonizzato e attualizzato la legislazione in campo socio-assistenziale per coloro che, per vecchiaia, malattia, problemi psichici o handicap, non sono completamente autosufficienti ed hanno bisogno di una qualche forma di aiuto o assistenza nella vita quotidiana60. Coerentemente con gli sviluppi sociali e le ambizioni politico-amministrative di puntare su una cittadinanza attiva, questa legge trasferisce molti poteri ai Comuni e il suo focus è il rapporto fra il Comune e il cittadino. La WMO è considerata legge della partecipazione per eccellenza: il suo scopo primario è “meedoen”, far sì che, nel rispetto del principio di uguaglianza e di pari opportunità, anche i cittadini con le limitazioni di cui sopra possano partecipare alla vita sociale come gli altri. 59 http://www.invoeringwmo.nl/NR/rdonlyres/76ED895F-32C5-47DB-B4C0-8744A30 FAE5E/0/staatsblad.pdf. 60 Questa legge non riguarda i malati gravi e gli invalidi che hanno bisogno di un’assistenza continua e professionale all’interno di case di cura specializzate: essi sono protetti dalla legge AWBZ, un’assicurazione statale obbligatoria che copre i costi di tali malattie per tutti i cittadini olandesi. 284 CARLA SEGOLONI FELICI 7.1. Il concetto di partecipazione alla vita sociale e l’obbligo di compensazione da parte dei Comuni Per dare concretezza al concetto di partecipazione alla vita sociale ne sono stati individuati i seguenti elementi caratterizzanti: – uscire di casa; – svolgere un lavoro retribuito o volontario; – seguire un corso d’istruzione; – dedicare il tempo libero a delle attività individuali o in associazioni, – avere contatti sociali; – utilizzare i mezzi pubblici. Sulla base di questi fattori, nel 2008 è stato costruito un indice per misurare – in termini puramente quantitativi – il grado di partecipazione dei cittadini o di gruppi di cittadini e poterne rilevare le variazioni nel tempo, a seguito dell’introduzione della WMO61. In quanto legge quadro62, la WMO fissa le linee generali e i principi di una nuova politica per il sostegno sociale che si armonizzi con i desideri e la composizione degli abitanti. Poiché i governi locali conoscono meglio del governo statale i propri cittadini e quello di cui hanno bisogno, la WMO è compito e responsabilità dei Comuni: ad essi ne è demandata l’attuazione e l’applicazione con modalità libere, espresse in un piano politico – beleidsplan – che può quindi anche differire da Comune a Comune. I Comuni olandesi hanno però l’obbligo di compensare – compensatieplicht – i disagi di questi cittadini nella vita quotidiana e di prendere i provvedimenti necessari. Per consentire loro di mandare avanti la propria casa, muoversi dentro e fuori le mura domestiche, spostarsi con i mezzi pubblici, incontrare gente e mantenere rapporti sociali63, spesso basta una qualche forma di aiuto pratico, ad es. una sedia a rotelle, un adattamento della propria abitazione per superare le barriere architettoniche, o anche un’assistenza “leggera”, come l’aiuto domestico di un familiare o parente – mantelzorger 64 –, di un volontario o di un’organizzazione privata. Lo scopo è di migliorare la qualità dell’assistenza, affinché chi ne ha veramente bisogno possa rimanere a vivere il più a lungo possibile, autonomamente nella propria casa, evitando nello stesso tempo l’isolamento. 61 www.english.scp.nl/publicaties/boeken/…/_Bijlagen.pdf. 62 Prima legge quadro a seguito del parere favorevole espresso in proposito nel 2003 dal Raad voor Maatschappelijke Ontwikkelingen, www.adviesorgaan-rmo.nl adv. n. 24, Den Haag, 2003. 63 WMO, art. 4. 64 Viene chiamato così chi assiste un familiare, parente o amico. I mantelzorgers sono circa 3 milioni e mezzo, sono organizzati in un’associazione che li rappresenta e che ha presso i Comuni uno sportello di assistenza dedicato, LA PARTECIPAZIONE ORIZZONTALE E VERTICALE NEI PAESI BASSI 285 7.2. Altri scopi della legge La WMO offre anche sostegno nell’allevamento e nell’educazione dei figli, per prevenire la necessità di interventi più impegnativi con il passare degli anni, e dà nello stesso tempo un supporto alle persone che si dedicano agli altri come mantelzorgers e volontari, e in questo modo promuove il senso di responsabilità e la solidarietà fra le persone sane e quelle ammalate. Con questa legge si intende infine migliorare la qualità della vita in una strada o in un quartiere, coinvolgendo tutti i cittadini nei problemi del loro vicinato e stimolando così una cittadinanza attiva, volta ad accrescere i rapporti reciproci fra gli abitanti nei singoli quartieri: si ritiene infatti che dove ci sia una maggiore coesione sociale, con abitanti che abbiano contatti regolari fra di loro, sia più facile anche aiutarsi a vicenda e intraprendere attività di comune interesse. La WMO è l’ultimo atto di una svolta culturale, iniziata già negli anni ’80, per la quale i cittadini non devono contare sullo Stato assistenziale, ma prima di tutto su se stessi, sui familiari e sulla loro cerchia di relazioni e contatti, e ricevono dal governo locale il sostegno che può essere prestato localmente. Come si vede, la portata della WMO va dunque ben al di là dello scopo di favorire l’autonomia dei cittadini deboli e la loro partecipazione alla vita sociale: altrettanto importante è il rafforzamento della coesione sociale e il miglioramento della qualità della vita della collettività. Inoltre, una volta garantite ad ognuno le condizioni per la partecipazione, si raggiunge anche la finalità che ogni politica del Governo possa essere «inclusiva», cioè tenga conto delle sue conseguenze sulle categorie più deboli di cittadini, senza bisogno di politiche ad hoc 65. 7.3. Aspetti organizzativi e finanziari Un’altra importante finalità della legge è di ridurre i costi del sistema sociale, la cui previsione è di continuo aumento, a causa dell’invecchiamento della popolazione e del conseguente aumento dei malati cronici e degli invalidi. Da una ricerca internazionale comparata fra sette paesi europei (fra cui Francia, Belgio, Spagna, Germania e Inghilterra), eseguita, su incarico del Consiglio per la sanità e l’assistenza – Raad voor 65 www.invoeringwmo.nl/…/handreiking_inclusief_beleid1.pdf. 286 CARLA SEGOLONI FELICI de Volksgezondheid en Zorg / RVZ66 –, dalla società ECORYS, durante la fase di preparazione del progetto di legge, l’apparato assistenziale olandese era risultato il più generoso e dunque costoso per le casse dello Stato. La legge introduce un contributo personale alle spese di assistenza, in precedenza completamente gratuite, ed è stata anche per questo motivo a lungo dibattuta67. Il ticket è inteso come contributo al pagamento dell’aiuto domestico, l’uso di uno apparecchio medicale, una provvidenza o la somma di denaro data dal Comune o dall’assicurazione per provvedere da soli all’aiuto o all’assistenza necessaria, senza ricorrere alle organizzazioni finanziate dal Comune. Il contributo personale è gestito centralmente dall’Ufficio Amministrativo Centrale, Centraal Administratiekantoor / CAK – ente esistente sin dal 1968, con compiti esecutivi dei regolamenti finanziari e di informazione nel settore sanitario – e dal 1º gennaio 2007 divenuto responsabile anche del calcolo, dell’imposizione e dell’incasso del contributo personale. Il ticket è basato sul reddito complessivo, così come risultante dalla dichiarazione dei redditi, ed è proporzionale alle provvidenze elargite dal Comune e da questo comunicate al CAK. Il Comune è libero di stabilirne l’ammontare e i criteri con cui viene imposto, ma lo Stato pone i limiti massimi. La WMO viene finanziata con i Gemeentefonds68, a cui lo Stato ha versato un totale di 1,5 miliardi extra per il finanziamento dei compiti precedentemente rientranti nell’assicurazione statale AWBZ; il Ministro può elargire ad alcuni Comuni degli ulteriori sussidi per politiche in particolari campi o per stimolare determinate politiche di sostegno69. Per la scelta delle società private e delle organizzazioni di volontariato che offrono i servizi inerenti alla WMO, i Comuni sono obbligati a seguire la normativa europea sugli appalti. Il Comune ha uno sportello dedicato alla WMO per consigli, aiuto e supporto in ogni tipo di problema socio-assistenziale; a questo sportello ci si deve rivolgere anche per far domanda per ricevere il sostegno comunale e la richiesta viene poi sottoposta al giudizio di uno specialista che stabilisce se se ne abbia effettivamente diritto. La conseguente 66 De WMO in internationaal perspectief, 67 La ricerca è allegata al parere espresso Zoetermeer, 2005. dal RVZ a seguito di richiesta del Ministero nell’ambito del giro di consultazioni durante la fase di preparazione del progetto di legge. 68 Sono i fondi con cui lo Stato finanzia i Comuni. 69 WMO, art. 20-21. LA PARTECIPAZIONE ORIZZONTALE E VERTICALE NEI PAESI BASSI 287 decisione del Comune di prestare o meno il sostegno richiesto deve essere motivata; contro un giudizio negativo si può fare ricorso inviando una lettera di obiezione e, se non si ottengono risultati, si può ricorrere in appello presso il tribunale amministrativo70. 8. Il work in progress della legge WMO La Wet Maatschappelijke Ondersteuning/WMO del 29 giugno 2006, pubblicata il successivo 1° agosto nel numero 351 dello Staatsblad van het Koninkrijk der Nederlanden, è entrata in vigore, come detto sopra, il 1º gennaio 2007. Il procedimento legislativo formale, dalla presentazione del progetto di legge al Consiglio di Stato fino all’approvazione della Prima Camera, è durato circa un anno e mezzo: dall’11 febbraio 2005 al 27 giugno 200671. A questo provvedimento legislativo si è lavorato presso il Ministero della Sanità - Ministerie van Volksgezondheid, Welzijn en Sport / VWS) sin dal 200372 e nel 2004 ne è circolata, per la consultazione delle parti coinvolte, una bozza sintetica in 14 punti essenziali73. Composta di 43 articoli, la nuova legge ha integrato, sopprimendole, due leggi in materia di assistenza socio-sanitaria che già ricadevano sotto la responsabilità del Comune: la legge per l’assistenza sociale –Welzijnwet / WW –, la legge per le provvidenze a favore dei portatori di handicap – Wet Voorzieningen Gehandicapten / WVG – e alcune parti dell’assistenza psichiatrica pubblica – Openbare Geestelijke Gezondheidszorg /OGGz –; a queste si è aggiunta, per la parte relativa all’aiuto domestico, la legge generale per i costi eccezionali da malattie invalidanti – Algemene Wet Bijzondere Ziektekosten / AWBZ –74. La WMO include anche alcuni regolamenti per i sussidi pubblici e prevede un’attuazione per fasi e potenziali sviluppi futuri: alcuni articoli sono entrati in vigore solo il 1º gennaio 2010 e, con il tempo, vi si potranno aggregare parti di altre leggi, come ad es. quelle sulla disoccupazione e l’inabilità al lavoro e la legge «Investire nei giovani», entrata in 70 WMO, art. 26. 71 www.invoeringwmo.nl/WMO/nl-NL. 72 Per la preparazione in sede ministeriale di un disegno di legge fino alla presentazione al Consiglio di Stato: v. C. SEGOLONI FELICI, op. cit., 95-98. 73 www.minvws.nl/notas/zzoude_directies/dvvo/2005/synopsis-concept-wmo.asp. 74 Cfr. nota 2. 288 CARLA SEGOLONI FELICI vigore il 1º ottobre 2009, della cui attuazione è parimenti responsabile il Comune75. Dal punto di vista amministrativo, lo scopo della legge è di ben attrezzare i Comuni con una serie adeguata di strumenti per la loro politica locale di sostegno al cittadino; perciò, contemporaneamente al percorso di approvazione legislativa parlamentare, è iniziata subito un’intensa attività di informazione ai cittadini e di comunicazione con tutte le parti in campo e, soprattutto, di corrispondenza e interazione con e fra i Comuni perché si preparassero all’introduzione ed attuazione della legge. La legge rinvia ad una legislazione delegata – nella forma di regolamenti tecnici ministeriali – ma, essenzialmente, ai piani di attuazione dei singoli Comuni olandesi, formulati con il supporto del Governo, per il tramite del Ministero, dell’Associazione dei Comuni olandesi – Vereniging Nederlandse Gemeenten/VNG –, delle loro aggregazioni regionali, delle Province76 e relativa associazione IPO, coerentemente al dichiarato approccio comune alla WMO dei diversi livelli di governo77. 8.1. L’Ufficio di implementazione della WMO e il sito dedicato Frutto della collaborazione fra il Ministero della sanità e la VNG è l’istituzione di un Ufficio per l’implementazione – Implementatiebureau WMO –, che accompagna i diversi percorsi di attuazione, prepara gli strumenti necessari e supporta i 26 progetti di sviluppo pilota78. Ne fa parte un team di una ventina di funzionari – appartenenti al Ministero, alla VNG e ad altri enti – alcuni dei quali responsabili del sito informativo, sempre attualizzato, creato a supporto delle istituzioni e delle organizzazioni che si occupano dell’attuazione della WMO a livello professionale9. Per domande e osservazioni è a disposizione un helpdesk a cui si può scrivere o telefonare. Il sito è strutturato in due sezioni: la prima, generale, dedicata all’attuazione della WMO e la seconda, intitolata Guida ai piani di attuazione – Wegwijzer beleidsplan WMO –80, specificamente dedicata ad 75 Vedi anche sotto, 5. 76 WMO, art. 13. 77 Implementatie traject WMO, 78 Vedi sotto al punto a). 79 www.invoeringwmo.nl. 80 www.beleidsplanwmo.nl. Kamerstuk 15.2.2005. LA PARTECIPAZIONE ORIZZONTALE E VERTICALE NEI PAESI BASSI 289 orientare i Comuni nelle scelte di policy che si trovano a dover fare nel loro piano di attuazione WMO. Dall’immensa documentazione disponibile nel sito si può risalire ad ogni attività svolta dalle parti in campo – singolarmente o in collaborazione fra di loro – dal 2003 ad oggi e a tutti i piani di attuazione realizzati via via dai Comuni, oltre che alla documentazione prodotta con riferimento a realizzazioni pratiche, messa a disposizione di tutti per un confronto o un eventuale utilizzo delle best practices. Con questa estrema trasparenza e pubblicità si intende espressamente mettere in competizione gli organi locali fra di loro; inoltre, anche i cittadini vi possono accedere facilmente, fare confronti, vedere chi offre servizi migliori e, se il caso, manifestare il proprio malcontento. 8.2. Altre attività di comunicazione Nell’ambito delle attività di comunicazione del Ministero, troviamo realizzati, durante tutto l’arco del 2005, una serie di incontri con i Comuni – il primo a livello nazionale, avvenuto il 2 marzo 2005, e successivamente altri trenta a livello regionale –, quattro conferenze di lavoro con tutte le parti interessate, un bollettino mensile e materiale informativo vario, distribuito anche porta a porta. Ma il calendario delle attività di comunicazione continua tuttora ad essere colmo di impegni: dibattiti, incontri a tema, congressi, conferenze, giornate di studio. Come esempio, riportiamo gli incontri del network dal titolo «Aiuto, il cittadino ha un’iniziativa!»81, organizzati dal Ministero degli Affari Interni presso vari Comuni (ad es. ad Amsterdam, il 5 novembre 2009), e il grande congresso nazionale WMO del settembre 2009. 8.3. Il percorso di implementazione Insieme all’Associazione dei Comuni – VNG – il Ministero ha elaborato ad uso dei Comuni un «percorso di implementazione»82, cioè un ampio piano di attuazione della WMO, lungo alcune direttrici di intervento, in particolare i progetti pilota e innumerevoli manuali e strumenti, oltre ai cosiddetti percorsi introduttivi: sportello locale, bench81 www.helpeenburgerinitiatief.nl. 82 050215 Kamerstuk Implementatie WMO, 15.2.2005. 290 CARLA SEGOLONI FELICI marking fra tutte le parti in campo, misure a favore dell’associazione mantelozorg e del volontariato. a) I PROGETTI PILOTA. Fra i 137 Comuni che agli inizi del 2005 si erano proposti per partecipare ai progetti pilota WMO, il Ministero ne ha scelti 26, che si sono impegnati nei «campi di prestazione» – prestatievelden – della legge, mettendo a fuoco – nello stesso tempo – i seguenti temi: ruolo di regia, collaborazione fra Comuni aggregati per regione, civil society e politica inclusiva, responsabilità orizzontale e politica interattiva83. Dal 13 aprile alla fine di maggio 2005, i Comuni pilota hanno sottoposto i loro progetti all’esame del Ministero; a partire da dicembre 2005 hanno poi iniziato a presentare i rapporti relativi allo stato di avanzamento del piano; successivamente, altri rapporti intermedi sono stati presentati a maggio e novembre 2006 e nei primi mesi del 200784. Il 7 novembre 2006 è stato organizzato il 4º incontro pilota mensile, dedicato al tema della partecipazione dei cittadini, con presentazioni e workshop di numerosi Comuni. L’accento è posto sulle esperienze e gli esempi positivi di forme non istituzionalizzate di partecipazione. Il 10 dicembre 2007 è avvenuto l’ultimo incontro fra i Comuni pilota, per la presentazione dei risultati, a cui ha fatto seguito nel febbraio 2008 il rapporto finale, che guarda indietro ai due anni e mezzo di esperienza con la WMO. Fatto sulla base degli input dei Comuni pilota dalla Deloitte Consulting, in collaborazione con la VNG e il Ministero WVS, il rapporto offre una panoramica dei punti problematici, dei risultati e delle lezioni che tutti gli altri Comuni possono trarre dall’esperienza dei Comuni pilota. I risultati sono suddivisi per campo di prestazione, insegnamenti ricavati e conclusioni85. Sulla base dei progetti dei Comuni pilota, la società MOVISIE – Centro di conoscenza per gli sviluppi in campo sociale86 – che collabora con il VWS e la VNG, ha messo a disposizione una pubblicazione con suggerimenti, punti di attenzione e raccomandazioni per i Comuni, suddivisi di nuovo per campi di prestazione e per temi87. 83 I campi di prestazione e i temi della responsabilità e della politica interattiva saranno trattati nel paragrafo 10. 84 http://www.invoeringwmo.nl/WMO/nl-NL/Algemeen/Achtergrond.htm. 85 http://www.invoeringwmo.nl/NR/rdonlyres/E397DAA9-2470-45B2-A8A7E4854B6C84E1/0/hreindrapppilotswtzw. 86 www.movisie.nl. 87 www.invoeringwmo.nl/NR/rdonlyres/E397DAA9-2470-45B2-A8A7-E4854B6 C84E1/0/hreindrapppilotswtzww.pdf. LA PARTECIPAZIONE ORIZZONTALE E VERTICALE NEI PAESI BASSI 291 b) LA “CASSETTA DEGLI ATTREZZI”. La “cassetta degli attrezzi” – gereedschapkist – contiene circa una cinquantina di strumenti e manuali di supporto per i nuovi compiti del Comune, elaborati dal Ministero e dalla VNG per alleggerirne il lavoro e risolvere i problemi pratici e di concreta organizzazione che possono incontrare nell’attuazione della WMO88. Si tratta di documenti, brochure, due manuali di implementazione generale, altri relativi a tematiche specifiche come la comunicazione, la collaborazione e il benchmarking fra i Comuni, gli strumenti di responsabilità e controllo, la partecipazione dei cittadini, lo sportello locale, gli appalti, i modelli finanziari e di calcolo, la WMO e le persone poco scolarizzate, la soddisfazione dei clienti, ecc. Elaborato dall’associazione dei Comuni, troviamo anche un modello da cui i Comuni possono trarre spunti ed ispirazione per la stesura delle loro ordinanze WMO89, dopo aver obbligatoriamente sentito il parere delle organizzazioni più rappresentative dei loro clienti e cittadini, come detta l’art. 12 della WMO. Datato dicembre 2005 è un modello di monitoraggio dello stato di attuazione della WMO presso i Comuni, previsto in cinque fasi, dove la quarta fase riguarda l’attuazione e la quinta la valutazione della politica, comprensiva di eventuali aggiustamenti e ulteriori sviluppi90. Per la WMO è auspicabile che i Comuni istituiscano uno sportello dedicato (v. sopra) e anche per la messa in opera di questo sportello sono stati predisposti strumenti appositi: tre tipi di manuale e due esempi concreti. Un altro strumento è l’Handreiking ketensamenwerking maatschappelijke ondersteuning del luglio 2005, un documento per favorire la collaborazione fra i Comuni e con le parti in campo, che spiega i vantaggi che il coordinamento degli interventi e del modo di lavorare può significare per sfruttare la grande occasione offerta dalla WMO di migliorare i servizi a cittadini e clienti. Fra gli handreiking troviamo, oltre l’handreiking burgersparticipatie, anche l’handreiking WMO en seksuele diversiteit, e un modello per indagare la soddisfazione del cliente91. 88 http://www.invoeringwmo.nl/WMO/nl-NL/Gereedschapskist. 89 http://www.invoeringwmo.nl/WMO/nl-NL/Meta/search.htm?qry=modelverorde- ning&site=WMO. 90 Nulmeting Wmo invoeringsmonitor (dec 2005), in http://www.invoeringwmo. nl/WMO/nl-NL/Algemeen/Achtergrond.htm. 91 Model voor Onderzoek klanttevredenheid WMO, december 2006 in http://www. invoeringwmo.nl/WMO/nl-NL/Gereedschapskist/Overzicht. 292 CARLA SEGOLONI FELICI Un ultimo strumento, che merita menzione, è la checklist del dicembre 2006, a cura della società Deloitte, su incarico del Ministero: un piano delle azioni necessarie per i Comuni, da realizzare entro il 1º gennaio 2007, per non arrivare impreparati o in ritardo al grande appuntamento con la WMO92. 8.4. I rapporti del Ministero ed altri rapporti Nell’accordo del 31 ottobre 2006 con la Seconda Camera, il Ministero si è impegnato a riferire periodicamente sui progressi della WMO: il primo rapporto è datato 12.4.2007, un rapporto intermedio 18.6.2007, un secondo rapporto 26.9.2007, un altro rapporto intermedio è del 15.2.2008 e il terzo – del 2.6.2008 – ha come allegato un rapporto sulla soddisfazione dei clienti WMO durante il 200793. Altri rapporti di società private concernono i risultati ottenuti dalla legge, suddivisi in base al tipo di limitazione sofferto dai clienti, mentre uno dei più recenti, eseguito della società Nivel nel 2009, riporta l’esperienza e il giudizio dei clienti sulla qualità della collaborazione domestica prestata dalle varie organizzazioni private94. Dalla data di introduzione della legge, viene mantenuto anche un costante scambio di informazioni del Ministero con la Seconda Camera, a seguito di interrogazioni, o di propria iniziativa, per fornire chiarimenti su problematiche di attualità, o come risposta ad altri enti e organizzazioni in campo. Una delle ultime «lettere» – brief – del Ministero alla Camera, dove si parla dei possibili punti di congiunzione fra la WMO ed alcune altre leggi sul lavoro, per quanto riguarda la partecipazione alla vita sociale dei disoccupati e dei giovani, è del 12 ottobre 200995. 8.5. La valutazione L’art. 24 della WMO stabilisce che il Ministero, dopo tre anni dall’entrata in vigore della legge e successivamente ogni quattro anni, invii 92 Per il contenuto completo della cassetta degli attrezzi v. www.invoeringwmo.nl/ WMO/nl-NL/Gereedschapskist/Overzicht. 93 http://www.invoeringwmo.nl/WMO/nl-NL/Algemeen/Achtergrond.htm. 94 http://www.invoeringwmo.nl/NR/rdonlyres/599CA5E8-CB26-4C3F-89092D87E853A57C/0/DMO2953994B.pdf. 95 V. sopra, nonché http://www.invoeringwmo.nl/WMO/nl-NL/Algemeen/Achtergrond.htm. LA PARTECIPAZIONE ORIZZONTALE E VERTICALE NEI PAESI BASSI 293 al Parlamento un rapporto di valutazione per verificarne i risultati e gli effetti nella pratica e, in particolare, se offra ai Comuni sufficienti opportunità per la realizzazione degli scopi preposti: partecipazione sociale, autonomia, cittadinanza attiva e coesione sociale. Contemporaneamente, il Ministero della sanità ha incaricato il Sociaal en Cultureel Planbureau/SCP di fare una valutazione della legge durante il primo periodo 2007-2009. Il SCP ha il compito di studiare il funzionamento della legge a livello nazionale, senza giudicare le prestazioni dei singoli Comuni. Attraverso inchieste fra i Comuni e gli altri enti e organizzazioni, deve capire come è stata implementata, se gli strumenti a disposizione sono adeguati e verificarne gli effetti (soltanto) sulle persone che hanno delle limitazioni. Per il periodo di valutazione 2010-2013 si è pianificato di estendere l’analisi degli effetti su altri gruppi di cittadini. La ricerca del SCP è stata ultimata entro il 2009, ma nel frattempo erano già stati pubblicati e trasmessi alla Seconda Camera, accompagnati da lettera di commento del Ministero, tre rapporti intermedi (il 10.10.2008, il 21.1.2009 ed il 24.6.2009)96. 8.6. Il programma universitario di ricerca WMO e la cittadinanza attiva «Imparare a partecipare» è il titolo di un programma di ricerca, della durata di 4 anni, iniziato il 1º aprile 2009 dalla ASSR97, la Scuola per la ricerca nelle scienze sociali dell’Università di Amsterdam, per studiare gli scopi e i risultati della WMO. Il programma, finanziato dall’Istituto NOW-NICIS, da dieci Comuni e dalla stessa ASSR, ha a disposizione 1,2 miloni di euro per una ricerca sulla promozione della cittadinanza attiva, facente parte di una serie di ricerche sul tema «partecipazione sociale e cittadinanza attiva» di Evelien Tonkens, titolare della cattedra corrispondente. Poiché il presupposto da cui si parte, risultato di una precedente ricerca, è che per avere una cittadinanza attiva innanzitutto devono essere attive le istituzioni, gli studiosi si concentreranno sul ruolo «attivante» delle amministrazioni locali e delle organizzazioni e sul loro rapporto con i cittadini, per realizzare l’ideale della partecipazione. Verranno così messi in luce i problemi e gli ostacoli, dal 96 http://www.invoeringwmo.nl/WMO/nl-NL/Algemeen/Achtergrond.htm. 97 Amsterdam School for Social sciences Research. 294 CARLA SEGOLONI FELICI punto di vista dei soggetti coinvolti nel cosiddetto principio di compensazione, sulla via del complesso traguardo proposto dalla WMO: emancipazione, integrazione, inclusione e partecipazione. Un altro campo di indagine interessante sono le modalità di motivazione dei mantelzorgers e dei volontari e la possibilità di farne diventare le attività degli obblighi sociali. L’interrogativo di fondo che qui ci si pone è: quali forme e attività di indirizzo sono più adeguate a livello locale? 8.7. Il nuovo programma per migliorare la qualità della WMO A seguito dei rapporti e relativi pareri e commenti – espressi da tutte le parti in campo –, delle informazioni raccolte e delle discussioni che ne sono seguite, la WMO ha già subito una modifica, intesa a rafforzare la posizione del cittadino per quanto riguarda la scelta dell’aiuto domestico, approvata con la stessa procedura della legge ed entrata in vigore il 1º gennaio 2010. Nel frattempo però il Ministero, di concerto con la VNG, ha anche lanciato nel 2008, a poco più di un anno dall’introduzione della legge, un programma di innovazioni e miglioramenti all’interno della WMO, intitolato «Beter in meedoen», che pone l’accento su alcune tematiche: coesione sociale, mantelzorg e volontariato, relazioni con altre leggi, rapporto fra assistenza sociale e sanitaria, orizzontalizzazione e partecipazione di cittadini e clienti, provvidenze individuali e collettive98. Invece di finanziare a parte i progetti dei Comuni, in questo caso si è scelto di affidare l’attuazione della maggior parte del programma a MOVISIE e all’Istituto Verwey-Jonker, che lavorano in stretta collaborazione con l’Implementatiebureau Wmo (rappresentante, come si è visto sopra, il VWS e la VNG). Si tratta infatti di un approccio programmatico e scientifico che comporta anche l’elaborazione di scenari e trend di possibili sviluppi economico-sociali, test di efficacia di alcuni interventi e l’elaborazione di standard qualitativi, da utilizzare come parametro per affrontare al meglio determinati problemi. Dopo i normali problemi di adattamento dell’organizzione comunale alla nuova legge, era ora di guardare avanti per farne una vera legge per la partecipazione. 98 http://www.invoeringwmo.nl/WMO/nl-NL/BeterinMeedoen. LA PARTECIPAZIONE ORIZZONTALE E VERTICALE NEI PAESI BASSI 9. 295 La delega ai Comuni per l’attuazione della WMO: i binari della partecipazione e l’orizzontalizzazione delle responsabilità 9.1. I campi di prestazione La WMO stabilisce che il Consiglio comunale formuli, ogni quattro anni, uno o più piani politici relativi alle decisioni da prendere nel settore dei servizi di sostegno sociale e che, in questo intervallo di tempo, possa anche sottoporlo a revisione99. Nel piano di attuazione devono essere espressi gli elementi essenziali della politica che ciascun Comune intende portare avanti, le finalità da raggiungere, quali saranno le attività da compiere, quali i risultati attesi e quali le misure per garantire la qualità dell’assistenza prestata e assicurare, nello stesso tempo, la libertà di scelta degli interessati100 nei seguenti nove campi di prestazione101: – Vivibilità e coesione sociale; – Supporto ad azioni di prevenzione per i giovani; – Informazioni, consulenza e sostegno ai clienti utilizzatori dei servizi; – Assistenza famigliare e volontariato; – Azioni a favore della partecipazione alla vita sociale; – Prestazioni specifiche a favore dell’autonomia e della partecipazione; – Accoglienza sociale (in particolare, a difesa delle donne contro la violenza domestica); – Assistenza sanitaria psichiatrica pubblica; – Politica per le dipendenze. Possiamo considerare i sopraelencati nove campi di prestazione, in cui si declina il sostegno sociale che il Comune deve offrire – misurando i risultati ottenuti – come gli scambi che dal primo binario, quello della partecipazione alla vita sociale di cui abbiamo parlato nel par. 7, si innestano sul binario parallelo della partecipazione dei cittadini alle decisioni politiche ed amministrative che li riguardano più o meno da vicino. In una sorta di do ut des, si realizzano i collegamenti e la reciprocità auspicata dalla legge: i Comuni si assumono la responsabilità di far partecipare alla vita sociale tutti i cittadini, nel rispetto del diritto di uguaglianza e di pari opportunità, ma chiedono in cambio iniziative da 99 WMO, art. 3, 1-2. 100 WMO, art. 3, 3-4. 101 WMO, art. 1.g. 296 CARLA SEGOLONI FELICI parte dei cittadini, cioè una cittadinanza altrettanto attiva. La Giunta comunale formula il suo piano di attuazione e applicazione della WMO insieme agli abitanti del Comune, alle istituzioni assistenziali e alle altre parti in campo, nel modo previsto da un’apposita ordinanza comunale, da approvare con le modalità stabilite dall’art. 150 della Legge Comunale - Gementewet102. A norma di questo articolo, il Consiglio approva un’ordinanza che stabilisce le regole e il procedimento con cui i cittadini e gli interessati vengono coinvolti nella preparazione della politica comunale. Per la loro attiva partecipazione, in assenza di una disposizione diversa nell’ordinanza stessa, si applicano le regole della cosiddetta inspraakprocedure (procedura per prendere la parola durante le sedute del Consiglio), disciplinata dalla sez. 3.4 della legge generale di diritto amministrativo (Algemene wet bestuusrecht). La Giunta mette i suoi cittadini nelle condizioni di poter fare per tempo e con il necessario anticipo le proprie proposte per la politica di sostegno sociale del Comune. Sempre a norma dell’art. 11 WMO, la Giunta fornisce tutte le informazioni debite, assicurandosi anche dei bisogni e degli interessi degli abitanti che non sono in grado di farli conoscere chiaramente, aggiungendo al progetto da sottoporre all’approvazione del Consiglio una nota esplicita che spieghi come ha tenuto conto anche di questi. Prima di passare all’esame del Consiglio, il progetto deve essere sottoposto al parere dei rappresentanti delle organizzazioni più importanti dalla parte degli utilizzatori103. I Comuni di Zoetermeer e Doordrecht, in collaborazione con le società XPIN104 e Centric, nell’ambito delle attività per migliorare la qualità delle relazioni con i cittadini, hanno istituito un sito dedicato alla partecipazione105 da cui tutti gli altri Comuni possono trarre ispirazione e suggerimenti per coinvolgere i propri cittadini in un progetto politico. 9.2. Gli intrecci e l’orizzontalizzazione delle responsabilità Il più grande cambiamento introdotto dalla WMO è, come abbiamo visto sopra, una politica integrale di armonizzazione e coordinamento fra tutti i servizi socio-assistenziali del Comune. Il secondo cambiamento è un rovesciamento delle responsabilità e responsabilità differenziate: i problemi sociali non sono più responsabi102 WMO 103 WMO art. 11, 1. art. 12. LA PARTECIPAZIONE ORIZZONTALE E VERTICALE NEI PAESI BASSI 297 lità esclusiva dello Stato, ma degli organi pubblici locali i quali devono render conto ai loro abitanti, piuttosto che allo Stato: diventa perciò importante e necessario che i Comuni, nello sviluppare la loro politica, coinvolgano bene tutte le parti in campo. La Giunta comunale pubblica annualmente, entro il 1º luglio, i risultati di una ricerca sulla soddisfazione dei clienti, i cui dati devono essere ottenuti secondo un metodo stabilito di comune accordo con le organizzazioni rappresentative del settore. Entro la stessa data, essa pubblica anche i dati – indicati con decreto ministeriale – sulle prestazioni del Comune nell’anno precedente e trasmette tutto al Ministro o all’Istituzione indicata dal Ministro. Il Ministro – a sua volta – si impegna a pubblicare un rapporto in cui vengono paragonati fra di loro i dati forniti dai Comuni106. I Comuni tengono informato il Governo della rispettiva attuazione della legge e il Governo rimane responsabile che tutto il sistema raggiunga i suoi effetti, seguendone i risultati anche dal punto di vista finanziario. I Comuni sono responsabili della loro politica, dei servizi prestati e anche di tutte le attività e azioni intraprese per stimolare gli abitanti ad una cittadinanza attiva e rendono conto del loro operato e dei risultati ottenuti ai loro abitanti, da cui proviene il vero controllo sul Comune. La responsabilità delle Istituzioni deve essere orientata a che i cittadini siano coinvolti attivamente nel loro funzionamento e pertanto non solo possano controllare il Comune, ma anche esprimere apertamente la loro insoddisfazione o critica. Questa organizzazione orizzontale della responsabilità fa sì che i cittadini siano molto più coinvolti con le organizzazioni e le Istituzioni e queste, nello stesso tempo, siano più orientate verso i cittadini e fra di loro che verso gli obblighi imposti dallo Stato. Le Istituzioni, a loro volta, devono anche confrontarsi di più fra di loro per imparare l’una dall’altra ed emularsi a vicenda nel loro funzionamento e nelle loro prestazioni. Secondo il parere del RMO, la legge quadro e l’orizzontalizzazione delle responsabilità sono due concetti siamesi: non possono fare a meno l’uno dell’altro e sono il cuore di una moderna visione di governo. 104 Nel 2005 XPIN è stato soppresso e il suo posto è stato preso dall’Instituut voor Publiek en Politiek. 105 www.participatiewijzer.nl. 106 WMO, art. 9. 298 CARLA SEGOLONI FELICI Il Governo si ritira su alcune regole fondamentali: in questo modo sono necessarie molte meno regole – ma queste vengono applicate strettamente – e il Governo controlla solo i limiti del campo di azione. All’interno di questi, c’è più posto per i cittadini e le Istituzioni e un più stretto rapporto con il contesto locale ed i suoi bisogni. La legge quadro da sola porterebbe solo a più regole mentre la orizzontalizzazione da sola porterebbe ad una serie di interminabili interlocuzioni. La combinazione dei due porterà ad un Governo che lavora con più efficacia e può fare miglior uso dei talenti della comunità. 10. Il ruolo degli organi pubblici di controllo 10.1. L’Algemene Rekenkamer Il 5 giugno 2003 la Camera generale dei conti – Algemene Rekenkamer –107 aveva pubblicato il rapporto Wonen, Zorg en Welzijn108, in cui esprimeva la sua preoccupazione per l’insufficienza di case di cura e riposo per gli anziani e raccomandava la necessità di azioni di intervento da parte dei due Ministri responsabili109. Nel novembre 2004 la Camera ha effettuato un’indagine di controllo sulle azioni dei due Ministeri, per verificare se le sue raccomandazioni erano state seguite: il relativo rapporto si conclude con uno schema in cui viene chiaramente riportata, per ognuna delle sei raccomandazioni del 2003, l’annotazione se i due Ministeri vi avevano dato seguito e in che misura. Il risultato è stato lusinghiero e la conclusione generale della Camera è che le azioni compiute dal Governo avevano superato gli intenti delle raccomandazioni della Camera stessa. Nel frattempo, infatti, il Governo aveva iniziato un ampio piano di riforma del sistema sociale e sanitario, che prevedeva l’introduzione dell’assicurazione obbligatoria privata per tutti i cittadini, la riformulazione della AWBZ, per riportarla alle sue finalità originali di copertura delle spese per le malattie invalidanti – il cui rischio finanziario è troppo elevato, per poter essere assunto privatamente dai cittadini – e il progetto di legge WMO. 107 Camera generale dei conti, organo che potremmo assimilare, con la dovuta cautela, alla nostra Corte dei Conti. Per una descrizione delle funzioni v. anche C. SEGOLONIFELICI, cit., 98. 108 Tweede Kamer, vergaderjaar 2003-2004, 28951. 109 Oltre al VWS anche il VROM - Volkshuisvesting, Ruimtelijke Ordening en Milieubeheer - Ministero per l’Edilizia sociale, l’Urbanistica e l’Ambiente. LA PARTECIPAZIONE ORIZZONTALE E VERTICALE NEI PAESI BASSI 299 La Camera dei conti ha anche ideato un sistema per monitorare i suoi stessi risultati, cioè gli effetti e l’efficacia delle sue raccomandazioni sulla politica del Governo, se queste siano utili ai Ministri e – ovviamente – soprattutto se siano utili a risolvere i problemi segnalati. I risultati di questa azione di monitoraggio si ritrovano nel rapporto della Camera «Terugblik op 2005» che include anche il monitoraggio delle raccomandazioni fatte nel rapporto del 5 giugno 2003. Con la ricerca dal titolo «Op weg van aanbod naar vraag in zorg en onderwijs» del 26.6.2008 la Camera esplora la transizione in atto presso il VWS (e il Ministero dell’Istruzione), da una politica di governo basata sull’offerta ad una basata sulla domanda, e il necessario rovesciamento culturale nelle relazioni fra Governo, prestatori di servizi e cittadini. 10.2. La Camera comunale dei conti Dal 2003 è stata istituita in ogni Comune, o raggruppamento di Comuni, la Camera comunale dei conti – Gemeentelijke Rekenkamer – organo di governo indipendente, accanto al Consiglio Comunale, alla Giunta, al Sindaco e all’Ombudsman, composta di membri esterni al Comune, con funzioni di controllo, insieme al Consiglio, della politica eseguita dalla Giunta, dell’efficacia ed efficienza dei mezzi utilizzati e dei risultati raggiunti. Come esempio di controllo dell’attuazione della WMO, riportiamo la relazione della Camera dei conti dell’Aja dal titolo «Ambizioso ma non ben controllabile»110, con riferimento al piano di politica WMO del Comune della città. Il giudizio della Camera è sostanzialmente positivo, ma si osserva che – per mancanza di indicatori e di dati di partenza sui servizi forniti – gli scopi non sono formulati in maniera tale da poter essere misurati ed inoltre non vengono indicati i termini entro cui si vogliono raggiungere. Il rapporto contiene anche il commento su tale giudizio dell’assessore e della commissione responsabile dei servizi sociali, oltre che le azioni con cui intendono dar seguito alla critica espressa. 10.3. Gli Ombudsman comunale e nazionale L’Ombudsman comunale si è occupato espressamente dell’attuazione della legge WMO nel Comune di Amsterdam, con un rapporto 110 «Ambitieus maar niet goed controleerbaar», WMO Magazine 1 febbraio 2009. 300 CARLA SEGOLONI FELICI che ha dato seguito ad un’analisi sul funzionamento degli sportelli WMO nelle 14 circoscrizioni in cui è divisa amministrativamente la città111. Nel rapporto viene descritta esaurientemente la metodologia di indagine seguita, comprensiva di una tavola rotonda con tutte le parti interessate, le visite effettuate agli sportelli, le domande poste ai clienti, ecc. Il risultato sono 13 conclusioni specifiche e un commento generale: fra i 14 sportelli c’è un’eccessiva differenziazione e disomogeneità per difetto di coordinamento centrale. Le conseguenti dieci raccomandazioni dell’Ombudsman riguardano, fra l’altro, il funzionamento e l’organizzazione degli sportelli e il trattamento dei reclami interni, inclusa la necessaria precisazione della funzione dell’Ombudsman comunale, nel trattare i reclami esterni, che risultava non ancora del tutto chiara agli intervistati. La partecipazione dei cittadini è un tema di tale attualità e impatto per gli organi di governo locale che anche l’Ombudsman nazionale si è sentito di dover scendere in campo, nel settembre 2009, con un rapporto sui principi e presupposti per garantire un’adeguata partecipazione dei cittadini, dal titolo “Lo buttiamo nella procedura di partecipazione” – We gooien het de inspraak in – con allegato il Participatiewijzer, una brochure con le dieci «regole del gioco» che i Comuni devono osservare per dar voce in capitolo ai cittadini e riceverne un utile contributo, in termini di conoscenze e di creatività nelle scelte politiche da fare112. L’Ombudsman nazionale riceve talmente tante rimostranze di cittadini contro gli amministratori, che ne ha fatto nel 2008 un inventario ed ha aperto un sito – dal 17 novembre al 24 dicembre 2008 – per raccogliere le esperienze di partecipazione dei cittadini. In questo modo, si sono potute trarre le più frequenti cause di arrabbiatura da parte dei cittadini, che sono state poi discusse con i funzionari di sei Comuni, così da sentire anche il loro punto di vista. A ciò ha fatto seguito un incontro con studiosi, amministratori e ombudsman locali per discutere il rapporto intermedio. La partecipazione, vista dalla parte dei cittadini, porta alla conclusione che i politici hanno già preso le loro decisioni quando i cittadini vengono coinvolti e il loro contributo viene perciò trascurato; il Comune non passa le informazioni, o queste sono poco chiare e insufficienti, co111 «15 manieren om de Wet Maatschappelijke Ondersteuning uit te voeren», Amsterdam, 15 dicembre 2008. 112 De Nationale Ombudsman, rapportnummer 2009/180, Den Haag, 17 settembre 2009. Il titolo, interpretabile sia in senso entusiastico che sarcastico, è la risposta data da un funzionario comunale ad un intervistatore. LA PARTECIPAZIONE ORIZZONTALE E VERTICALE NEI PAESI BASSI 301 sicché le aspettative dei cittadini sono diverse da quello che accade realmente; il Comune, oltretutto non si comporta con la dovuta correttezza. L’Ombudsman riconosce che ci sono molte iniziative e si sta facendo un grande lavoro per migliorare sia la partecipazione informale, che la procedura istituzionalizzata, dettata dalla legge: fra queste, cita il progetto «In actie met de burgers» – creato a seguito di una mozione della Seconda Camera – frutto di una collaborazione fra la VNG e il Ministero degli Interni, e l’iniziativa Inspraak Nieuwestijl, che tendono a migliorare la procedura prevista dalla legge di diritto amministrativo, poiché corre il rischio di diventare un inutile rituale, produttivo di scarsi risultati, che per di più lascia i cittadini che vi partecipano alquanto frustrati. I principi formulati nel rapporto dell’Ombudsman sono già stati trasferiti nel «Codice per una partecipazione pubblica migliore e più veloce»113, approvato nell’agosto 2009. Ma i fattori di successo per una partecipazione migliore non sono soltanto le leggi e i protocolli; altrettanto determinanti sono il comportamento e l’atteggiamento dei funzionari pubblici e degli amministratori. Perciò, presso alcuni Ministeri, vengono organizzate annualmente «le giornate dei Comuni», al fine di promuovere una cultura amministrativa della partecipazione, favorendo lo scambio di informazioni e di esperienze, mentre altri organizzano questi incontri di formazione a livello regionale. Altri ancora hanno un front office, a cui funzionari e amministratori si possono rivolgere, ed è anche molto comune che funzionari della VNG e dell’IPO facciano parte dei gruppi interdipartimentali in cui vengono preparate bozze di proposte legislative o note di progettazione politica114. Altre leggi olandesi potrebbero essere illustrate per esemplificare le interrelazioni fra i poteri dello Stato, ma la WMO ha il pregio di evidenziare con particolare chiarezza il nesso esistente fra libertà e partecipazione e l’influenza che i policy makers possono esercitare sull’una e sull’altra. Nel saggio di Toonen si è spiegato come le forze socio-economiche siano determinanti per forgiare le istituzioni e queste, a loro volta, per fare la storia di un popolo. In Olanda ogni anno, il 4 maggio, si celebra «il giorno della memoria», per non dimenticare la storia, e il giorno successivo si festeggia 113 De Nationale Ombudsman, rapportnummer 2009/180, Den Haag, 17 settembre 2009, 1. 114 Raad van State, Spelregels voor Interbestuurlijke verhoudingen, cit., 75. 302 CARLA SEGOLONI FELICI la liberazione (fine della II guerra mondiale). Questa festa, che originariamente aveva il connotato di «liberazione da» è divenuta nel tempo la festa della «libertà di», compiendo un ulteriore passo avanti verso la concordia sociale e politica. Con lo slogan della festa “vrijheid maken wij met elkaar” (“la libertà la creiamo noi stessi, l’uno con l’altro, reciprocamente”) si sottolinea il passaggio alla «libertà di», come diritto di tutti, che incontra il proprio limite laddove comincia la libertà dell’altro. La conquista di questo diritto è il fine ultimo delle politiche abilitanti e di integrazione, ed è anche il cuore dei problemi attuali della democrazia partecipativa. SERENA CINQUE - ANNELIE SJÖLANDER-LINDQVIST L’EVOLUZIONE DEGI ESPERIMENTI PARTECIPATIVI IN SVEZIA SOMMARIO: 1. La partecipazione in Svezia: una lunga tradizione storica. – 2. Forme di partecipazione: dal dialogo mediato al dialogo diretto con il cittadino. – 3. Il nuovo esperimento: l’amministrazione collaborativa. – 4. Considerazioni conclusive: i sentieri della partecipazione in Svezia. 1. La partecipazione in Svezia: una lunga tradizione storica Il coinvolgimento e la partecipazione dei cittadini ai processi decisionali è un fenomeno oramai comune in molte democrazie contemporanee. Sebbene il concetto classico di democrazia rappresentativa si basi essenzialmente sul diritto di voto (Bobbio, 1984; Martelli, 1999), la capacità delle istituzioni di rispondere ai bisogni della società contemporanea si concretizza nella possibilità di sottoporre le decisioni politiche alla «prova della discussione» (Manin, 1993). Mentre in passato le forme di partecipazione si limitavano all’attività politica realizzata dai partiti politici, oggi i cittadini sono inseriti o danno vita a nuovi modelli di coinvolgimento politico cosidetti «non convenzionali», caratterizzati da forte identità territoriale e specificità di tema. In Svezia la partecipazione del cittadino alla vita politica e sociale ha una lunga e controversa tradizione storica che nasce e si sviluppa negli anni ’20, con il passaggio della gestione della Chiesa protestante in mano ai principali partiti politici dell’epoca1, per subire una profonda trasformazione nell’ultimo decennio (Tamm, 1995; Robbers, 1996). Essenzialmente si può parlare di un vero e proprio modello organizzativo svedese teso al controllo e alla gestione delle diverse forme di vita so1 La Chiesa protestante svedese ha adottato una struttura amministrativa ampiamente modellata su quella dello stato. Periodicamente si tengono elezioni dirette delle assemblee rappresentative, diocesi (Samfällighet) e parrocchie (Församling). Il sistema elettorale è lo stesso utilizzato per le elezioni parlamentari o municipali e ad esse concorrono i medesimi partiti politici, 304 SERENA CINQUE - ANNELIE SJÖLANDER-LINDQVIST ciale che interessano l’individuo. Per comprendere tale modello è necessario risalire alla genesi del welfare state svedese e prendere coscienza della vera e propria ideologia su cui esso è stato costruito, dove il concetto di sicurezza sociale riveste un ruolo centrale nella cultura e nella politica del paese, tanto da farne uno dei tratti distintivi dell’identità nazionale svedese (Ruin, 1974; Einhorn & Logue, 1989). All’inizio del Novecento la Svezia fu interessata da un forte flusso migratorio che la portò a perdere un quinto della propria popolazione. Inoltre il paese era allora privo di infrastrutture e la fine dell’unione con la Norvegia nel 1905 segnò un declino della produzione agricola e industriale. L’urgenza di risolvere la cosiddetta Befolkningsfråga, ovvero il forte aumento della popolazione, resero necessario il compito di ridefinire una nuova identità nazionale svedese, un nuovo concetto di patria che accomunasse tutto il popolo. Il governo socialdemocratico iniziò allora una serie di riforme che riscossero vasto consenso non solo nella classe operaia, ma in tutte le categorie sociali, soprattutto fra i contadini. Fu messo in atto un programma di grandi lavori pubblici e venne incentivata l’occupazione ordinaria con paghe concordate con i sindacati, fu ampliato il sistema assicurativo volontario per la disoccupazione. Lo stanziamento di fondi per la costruzione delle infrastrutture e per il sostegno dei disoccupati avrebbe permesso, secondo il governo socialdemocratico, di sostenere la domanda di beni agricoli, quindi fu ben accolto dai ceti rurali. Uno dei principali cambiamenti fu quello relativo alla politica della Folkhemmet, la casa del popolo. L’obiettivo del progetto della Folkhemmet era quello di creare una società senza divisioni di classe, riducendo le disparità economiche e incoraggiando la solidarietà sociale. L’idea affermava che il governo dovesse avere un maggior controllo sugli individui allo scopo di migliorare il benessere della società. Sotto il profilo della partecipazione del cittadino alla vita politica e sociale, lo Stato si impegnava a sovvenzionare economicamente le principali organizzazioni di interesse esistenti nel paese (ad esempio le organizzazioni dei lavoratori), in cambio della garanzia che queste ultime si attivassero per la costruzione di un benessere collettivo e per la risoluzione di eventuali conflitti sociali. Nasce dunque in questo periodo il connubio fra Stato e organizzazioni o associazioni (Amnå, 2006; Rothstein, 2007). Un ulteriore fenomeno che ha caratterizzato la costruzione di un forte Stato sociale è la firma degli Accordi di Saltsjöbaden tra la SAF (Svenska Arbetsgivareföreningen, la confederazione degli industriali) e la L’EVOLUZIONE DEGI ESPERIMENTI PARTECIPATIVI IN SVEZIA 305 LO (Landsorganisationen, la confederazione dei sindacati) nel 1938. Ciò ha segnato l’inizio del sistema della concertazione per la risoluzione dei conflitti. Si tratta di un sistema che favorisce accordi bipartiti fra tra le due componenti sociali (lavoratore e datore di lavoro), escludendo formalmente il governo ed il legislatore dalle trattative, e che sarebbe in seguito diventato una delle componenti principali del modello di welfare svedese2. Il non riconoscere ai sindacati la natura di autorità pubbliche, incaricate di svolgere un servizio di interesse pubblico, disponendo a tale scopo di poteri più ampi di quelli previsti nelle norme applicabili ai rapporti tra privati, rispetta la tradizione costituzionale svedese (Amoroso, 1980; Korpi, 1982). Il corporativismo svedese, così denominato per il modesto numero di scioperi e di serrate, con un basso livello di conflittualità tra parti sociali, è stato in seguito applicato in politica, riducendo le tensioni tra società e Stato e aumentando l’efficienza della pubblica amministrazione. Secondo questo modello, infatti, sia la deliberazione che l’implementazione delle politiche pubbliche avviene dopo un periodo di contrattazioni tra maggioranza di governo e principali organizzazioni di interessi. In questo modo le organizzazioni esistenti si fanno portatrici degli interessi di tutti i ciattadini senza differenziazioni ideologiche3. Si può dire che il progetto politico della Folkhemmet e il modello statale corporativista si completino a vicenda, formando un sistema sociale dove la partecipazione del cittadino alla vita politica e sociale del paese è garantita dal forte connubio tra Stato e organizzazioni di interesse (Rothstein, 2002). Queste ultime esercitano una significativa influenza sulla formazione e gestione delle politiche pubbliche: come vedremo in seguito, un esempio significativo è la partecipazione al processo legislativo ordinario garantito dalla Costituzione svedese, laddove si afferma che ogni organizzazione di interesse ha il diritto di esprimere il proprio parere prima dell’approvazione della legge (Remissvar). Allo 2 La politica contrattuale svedese, detta a contrattazione centralizzata, vincola il complesso della dinamica salariale nazionale al livello dei settori più produttivi e competitivi. Il minimo salariale viene dunque fissato, tramite contrattazione, al livello più alto, imponendo a tutti i comparti produttivi di applicare i medesimi accordi. Ciò ha comportato dinamiche salariali solidaristiche e centralizzate. Congiuntamente a un generoso reddito garantito in caso di disoccupazione, questo modello ha di fatto scoraggiato qualsiasi ricorso a lavori informali, irregolari o anche solo a basso reddito. 3 Il sistema svedese pone al centro delle controversie il concetto di interesse anziché quello di diritto. Così anche lo sciopero assume un ruolo strumentale alla salvaguardia delle funzioni del contratto collettivo ma non è visto come un diritto. 306 SERENA CINQUE - ANNELIE SJÖLANDER-LINDQVIST stesso tempo, tuttavia, tali organizzazioni sono soggette al controllo da parte dello Stato per ciò che riguarda la gestione dei fondi stanziati e il raggiungimento degli obiettivi prefissati nei loro statuti costitutivi (Strandberg 2006, Quirico, 2006; Antonioli, 2006). Tale modello richiede peraltro un forte grado di consenso sociale, il quale è invece diminuito negli ultimi anni sotto la spinta della globalizzazione, la nascita di nuovi movimenti politici e l’aumento delle disuguaglianze sociali. Negli ultimi anni, infatti, il sistema ha subito notevoli cambiamenti dovuti essenzialmente ad un indebolimento del contesto socio-economico, che si è ripercosso negativamente sulla rete di garanzie sociali tradizionalmente godute dal cittadino in Svezia (Palme, 1998; Eger, 2010). Con l’aumento della disoccupazione e la forte pressione migratoria dal sud dell’Europa, la struttura politico-amministrativa svedese, di tradizione centralizzata, è stata interessata da un processo di decentralizzazione e di deregolamentazione a favore degli enti locali. I due maggiori partiti politici, quello Socialdemocratico (Sveriges Socialdemokratiska Arbetareparti, SAP) e quello Conservatore Liberale (Partito Moderato Unito, comunemente denominato Moderaterna) hanno subito un forte calo di popolarità tra gli elettori mentre nuovi movimenti politici, come il Partito dei Pirati (Piratpariet)4 o i Democratici Svedesi (Sverigedemiokraterna)5 riscuotono sempre più simpatizzanti. Alle elezioni politiche tenutesi il 19 settembre 2010 il partito dei Democratici Svedesi ha superato la soglia dello sbarramento del 4% raggiungendo il 5,70% dei voti, pari a 20 seggi su un totale di 310 seggi nazionali. La coalizione di centro-destra, guidata dal Primo Ministro svedese Frederik Reinfeldt, ha ottenuto 173 seggi senza però raggiungere la maggioranza assoluta. Il secondo governo Reinfeldt segna un traguardo storico per la destra svedese in un secolo in cui i Socialdemocratici hanno dominato quasi ininterrottamente la scena politica per 80 anni. Ma la vera novità è data dall’avanzamento dei Democratici Svedesi, considerati destra xenofoba ma capaci di riscuotere largo consenso tra i ceti medi della popolazione. Ciò sembra dovuto al fatto che il partito concentra la politica 4 Il Partito dei Pirati svedese, fondato nel 2006 da Rick Falkvinge, ha conquistato oltre il 7% dei consensi degli elettori alle ultime elezioni europee di giugno. L’iniziativa politica dei Pirati si incentra su due temi: il rispetto del diritto alla privacy e la riforma del copyright. 5 Il partito dei Democratici svedesi è stato fondati nel 1988 da Jimmie Åkesson. Il partito, di ispirazione conservatrice, propone una forte diminuzione del flusso migratorio verso la Svezia, una riforma legislativa per il controllo della criminalità, l’uscita della Svezia dall’Unione Europea e una forte decentralizzazione verso i comuni. L’EVOLUZIONE DEGI ESPERIMENTI PARTECIPATIVI IN SVEZIA 307 su questioni legate all’immigrazione, alla sanità e all’istruzione pubblica, problemi che toccano da vicino il cittadino in un paese dove il concetto di welfare sta cambiando notevolmente. 2. Forme di partecipazione: dal dialogo mediato al dialogo diretto con il cittadino L’indebolimento del modello sociale svedese si è ripercosso soprattutto sul modo in cui lo Stato centrale interagisce e dialoga con il cittadino. A partire dagli anni ’90 la partecipazione del cittadino alla definizione delle politiche pubbliche è andata prendendo due direttive principali. La prima è quella rappresentata dal dialogo tra associazioni o organizzazioni di interesse e Stato. Questo dialogo assume forme diverse ma è ispirato dal principio della rappresentanza degli interessi, in base al quale il singolo cittadino non compare mai se non in forma mediata. Un esempio di partecipazione indiretta (o mediata) ai processi decisionali è rappresentata dall’instituto del rinvio (Remiss), garantito dalla Costituzione al capitolo 7, paragrafo 2 (Regeringsform)6. Prima dell’approvazione di una legge da parte del Governo (ad esempio nel caso dei decreti legge) oppure quando il governo agisce come organo amministrativo, esso è obbligato dalla Costituzione a richiedere il parere delle autorità amministrative indipendenti (competenti per materia), dei comuni, delle regioni e delle maggiori organizzazioni di interesse. La Costituzione stabilisce inoltre che anche chi ne faccia esplicita richiesta al Governo possa rilasciare un proprio parere: così il singolo cittadino può presentare un proprio parere scritto al Governo qualora ne faccia richiesta. Il Governo è poi obbligato a rispondere per iscritto ad ogni organo, ente o persona che abbia espresso il proprio parere e a motivare la propria scelta prima di inviare il decreto o il disegno legge al Parlamento. L’istituto del rinvio si applica anche alle decisioni delle autorità amministrative indipendenti, secondo quanto stabilito dalla Legge Amministrativa del 1986 (Förvaltningslag 1986:223). La legge stabilisce un processo simile a quello seguito dal Governo, con l’obbligo di motivare la decisione presa in relazione al parere espresso in seguito al rinvio. Si 6 La Costituzione svedese è costituita da quattro leggi fondamentali, la principale delle quali è la Regeringsform ovvero lo «Strumento di Governo» che stabilisce i principi fondamentali della vita politica e la definizione dei diritti e delle libertà del cittadino. 308 SERENA CINQUE - ANNELIE SJÖLANDER-LINDQVIST può dire che l’istituto del rinvio faciliti la partecipazione indiretta del cittadino alle decisioni politiche e amministrative prese dallo Stato. In Svezia, infatti, il rinvio è tradizionalmente trattato con rispetto dagli organi decisionali ed è frequente che l’inizio di un dibattito al di fuori di sedi politiche sia dovuto proprio all’apertura del processo di rinvio. La seconda forma di partecipazione del cittadino ai processi decisionali è rappresentata da alcuni isituti che promuovono il dialogo diretto con il cittadino, il quale avviene esclusivamente a livello comunale e in parte regionale. Qui, in seguito alle riforme succedutesi durante gli anni ’90, lo Stato ha dato la possibilità al singolo cittadino di di instaurare un dialogo diretto con i propri rappresentanti locali, senza bisogno di intermediazioni. Il documento fondamentale che segna l’avvio di questo istituto è la relazione conclusiva della Commissione parlamentare sulle riforme democratiche (Makturedningen), pubblicata all’inizio degli anni ’90. Questo documento sottolinea la necessità di rivedere la tradizionale struttura centralista dello Stato per trovare nuove forme di consultazione locale (SOU 1990:44). Il rapporto pubblicato dalla Commissione parlamentare rileva inoltre che l’intrusione dello Stato nella sfera del sociale rischia di compromettere la libertà del singolo di gestire la propria vita e i propri interessi: tradotto in termini politici, ciò significa riformare la politica dei movimenti popolari (Folkrörelsepolitik) finora portata avanti dai governi socialdemocratici e incarnata dall’ideale della Folkhemmet, ed aprire la via a nuovi esperimenti partecipativi. In particolare, la Commissione parlamentare raccomanda l’avvio di riforme legislative che contribuiscano in concreto alla tutela dei diritti di partecipazione anche al di fuori delle organizzazioni di interesse. Un ulteriore nodo da sciogliere è la regolamentazione dei rapporti tra autorità amministrative indipendenti (Förvaltningsmyndigheter) e cittadino. Secondo la tradizione svedese le autorità amministrative sono enti autonomi rispetto ai singoli ministeri ai quali fanno capo7. Esse rispondono invece al governo centrale e sono responsabili dell’attuazione della politica del governo nei vari settori politici (ambiente, energia, istruzione, sanità etc.) (Ehn et al., 2003). Con la crisi del welfare le autorità amministative si sono trasformate di fatto, da strumenti di implementazione delle scelte politiche del governo in soggetti politicamente 7 Il divieto esplicito al principio noto come «Governo del ministro» (Ministerstyre) è sancito nella Costituzione (Regeringsformen) al capitolo 11, 7 §. Secondo tale divieto ciascun ministro non può influenzare o entrare nel merito delle decisioni prese dalle auorità amministrative le quali dunque sono indipendenti rispetto ai singoli ministeri. L’EVOLUZIONE DEGI ESPERIMENTI PARTECIPATIVI IN SVEZIA 309 attivi, responsabili della effettiva applicazione delle leggi. Ciò ha determinato una progressiva diminuzione delle relazioni con il cittadino dovuta essenzialmente alla necessità di massimizzare i risultati e di snellire l’apparato burocratico semplificando i processi di implementazione (Premfors, 1991; Dahlström, 2009). Come ha sottolineato la Commissione parlamentare, le autorità indipendenti hanno ricoperto il ruolo di attori politici mentre la loro originaria funzione era quella di rappresentare un canale di comunicazionetra con lo Stato centrale. Le conclusioni presentate dalla Commissione parlamentare misero in moto un processo di riforma politico-amministrativa teso alla elaborazione di norme che avrebbero dovuto regolare la materia della partecipazione del cittadino alle scelte politiche anche al di fuori dei partiti politici. Nel 1997 il governo ha avviato un ulteriore studio parlamentare (Demokratiutredningen) con l’obiettivo di approfondire il tema della partecipazione e dell’ampliamento di nuove forme di democrazia deliberativa, che pure in quegli anni si erano fatte avanti in maniera informale soprattutto a livello locale. Demokratiutrednigen mise in luce un profondo calo di interesse del cittadino rispetto ai partiti politici tradizionali con un aumento di partecipazione nella regolamentazione di questioni locali, come la costruzione di infrastrutture o la regolazione del traffico urbano (SOU 2000:1). Lo studio rileva due punti fondamentali: la necessità di potenziare l’autonomia comunale (che in Svezia è garantita dalla legge institutiva dei comuni, Kommunallagen 1991:900) come veicolo di partecipazione locale; la necessità di elaborare norme giuriche che regolamentino il tema della partecipazione. Tali norme sono state in effetti varate l’anno successivo dal Parlamento (Konstitutionsutskottets betänkande 2001/ 02:KU14) su proposta del governo (Prop. 2001/02:80). Si tratta di articoli di legge introdotti nella legge comunale del 1991, che garantiscono al cittadino un nuovo strumento concreto di partecipazione, il così detto «parere del cittadino» (Medborgarförslag) che consiste nella possibilità di presentare una mozione o una proposta di legge al consiglio comunale (Nämnd) riguardo a questioni che toccano materie di competenza comunale. Tale strumento, garantito dalla legge comunale a tutti i cittadini residenti nel comune interessato, obbliga il consiglio comunale a pronunciarsi in tempi relativamente brevi e comunque non superiori ad un anno dalla presentazione della proposta. La seconda riforma introdotta nella legge comunale è la creazione di una Commissione degli utenti (Självförvaltningsorgan) che ha il com- 310 SERENA CINQUE - ANNELIE SJÖLANDER-LINDQVIST pito di esaminare e in alcuni casi di decidere questioni che toccano da vicino il cittadino e che precedentemente erano lasciate al consiglio comunale. Le Commissioni degli utenti fanno capo a sottocommissioni interne al consiglio comunale che decidono sulla composizione, sulle procedure relative alla votazione e sul loro mandato. Un tratto caratteristico delle Commissioni degli utenti è che i propri rappresentanti devono essere comuni cittadini portatori di un interesse direttamente collegato alla questione da trattare (ad esempio se si tratta di decidere la costruzione di una nuova scuola sarà previsto un rappresentante dei genitori, un rappresentante degli insegnanti, un rappresentante degli studenti etc.). La decisione presa della Commissione degli utenti è vincolante. Un ulteriore strumento di partecipazione al processo deliberativo in discussione durante l’approvazione delle modifiche alla legge comunale è costituito dal c.d. Consiglio del cittadino o Panel del cittadino (Medborgarpaneler e Medborgarråd). Si tratta di una assemblea cittadina i cui componenti sono scelti in maniera casuale tra le liste comunali dei residenti. I cittadini esaminano diversi disegni di legge avanzati dal consigio comunale e dopo una discussione presentano una propria modifica all’originaria proposta di legge oppure esprimono il proprio consenso. Tale strumento non è stato, però, formalmente introdotto in una norma giuridica, essendosi preferito lasciarlo alla discrezionalità dei consigli comunali. L’esperimento del panel ha suscitato perplessità in coloro che ritengono che esso non sia rappresentativo degli interessi della cittadinanza locale e che dunque sia privo di valenza democratica. Di fatto questo esperimento è stato utilizzato solo in un numero ristretto di comuni ed è attualmente in discussione la possibilità di formalizzarlo in una legge. Una svolta fondamentale per ciò che riguarda la possibilità di influenzare le scelte politiche locali è stata attuata nel 2006 dall’associazione dei comuni e delle regioni svedesi (Sveriges Kommuner och Landsting - SKL), quando un nuovo strumento di partecipazione chiamato «Dialogo con il cittadino» (Medborgardialogen) è stato introdotto in diversi comuni e regioni. L’istituto non ha una regolamentazione normativa, ma è oggetto di una sperimentazione condotta dagli organi comunali prima della deliberazione, quando la materia da regolare richiede un forte consenso sociale. Si tratta di una serie di strumenti diversi (forum, incontri serali, interviste telefoniche) che si concretizzano nella possibilità da parte del cittadino di instaurare un dialogo diretto con L’EVOLUZIONE DEGI ESPERIMENTI PARTECIPATIVI IN SVEZIA 311 uno o più rappresentanti che siedono nelle diverse sottocommissioni interne al consiglio comunale, al fine di poter influenzare il processo decisionale senza intermediazione di alcun partito politico o di organizzazioni di interesse. I principi portanti dei diversi esperimenti di dialogo sono il contatto diretto tra rappresentante politico e cittadino e la possibilità di comunicare le proprie idee e opinioni riguardo a temi che il cittadino stesso ritiene più significativi. Vi sono tre forme di dialogo, ovvero il dialogo deliberativo, il dialogo c.d. consultivo e il dialogo informativo. Mentre il dialogo deliberativo vincola la decisione finale, il dialogo informativo e quello consultivo sono promossi al fine di ottenere informazioni dalla collettività in vista di decisioni future (Sveriges Kommuner och Landsting 2006). Medborgardialogen non è sancito nella legge comunale del 1991 ma è uno strumento che può essere utilizzato in maniera facoltativa da ogni comune. Molti comuni svedesi utilizzano oggi questo strumento insieme alla legge che regola l’edilizia comunale nonché l’utilizzo delle acque e del suolo (PBL 1987:10). In tale legge è precisato che l’interesse del singolo cittadino debba essere tenuto in considerazione quando il comune approva periodicamente il piano regolatore generale di costruzione edilizia (Översiktplan); anche se la legge non ha specificato in che modo gli organi comunali debbano applicare il principio (capitolo 1). L’istituto del Dialogo con il cittadino è stato così utilizzato nella fase iniziale dei lavori per la stesura del piano e ha comportato una serie di incontri tra politici di maggioranza e opposizione e privati cittadini. Gli incontri sono regolati da un programma dettagliato dove il principio fondamentale è che il cittadino possa esprimere la propria opinione e che il politico debba ascoltare. È dunque utilizzato un sistema secondo il quale i cittadini che vogliono partecipare all’incontro vengono divisi in gruppi dove i rappresentanti comunali siedono a rotazione, ascoltando le proposte del gruppo. Oggetto della discussione però è esclusivamente il piano regolatore generale e non quello particolare (Detaljplan), il quale è lasciato alla competenza del consiglio e della giunta comunale. Inoltre non vi è alcuna garanzia per il cittadino che le proposte avanzate in sede di dialogo vengano prese in considerazione durante la deliberazione. D’altro canto, l’utilizzo dell’istituto da la possibilità di individuare esattamente il rappresentante politico competente per materia con il quale si è instaurato un dialogo e dunque apre le porte a nuove forme di controllo da parte dell’elettorato. 312 3. SERENA CINQUE - ANNELIE SJÖLANDER-LINDQVIST Il nuovo esperimento: l’amministrazione collaborativa Abbiamo visto come i modelli partecipativi svedesi possano essere riassunti secondo due direttive fondamentali: quelli che promuovono forme di partecipazione diretta ai processi decisionali (comuni e regioni) e quelli che prevedono invece una partecipazione indiretta o mediata (Stato centrale, contee amministrative e autorità amministrative indipendenti). Nell’ultimo periodo, però, tale struttura bipolare ha manifestato un profonda crisi dovuta alla mancanza di istituti che potessero garantire la partecipazione del cittadino alla implementazione delle politiche pubbliche. Infatti, i processi descritti precedentemente incidono sulla fase costitutiva delle politiche pubbliche, ovvero sulla loro definizione, e poco possono incidere sulla loro applicazione. In altre parole, il diritto a partecipare dovrebbe interessare anche il processo di implementazione, in modo da garantire ai diversi gruppi sociali di poter incidere sulla concreta realizzazione delle politiche pubbliche. Ma come rispondere alle sfide della partecipazione senza indebolire le istituzioni politiche rappresentative? Un punto di svolta è dato dalla approvazione della legge nazionale che regola l’ambiente e l’utilizzo delle risorse naturali (Prop. 2001/ 02:173). Con tale legge il governo svedese apre a nuovi metodi di consultazione del cittadino nel processo della formazione delle politiche pubbliche a forte impatto ambientale. Si indebolisce infatti il ruolo dalle organizzazioni di interesse mentre si potenzia quello del singolo cittadino, portatore di un interesse locale8. Un punto fondamentale della legge è la forte discrezionalità lasciata dallo Stato centrale alle amministrazioni centrali riguardo l’organizzazione e la finalità del processo partecipativo. La legge infatti specifica che lo Stato debba fissare solo gli obiettivi generali, lasciando all’amministrazione la facoltà di modellare il processo partecipativo così come richiesto dalla materia da implementare. Questo perché le politiche pubbliche che toccano l’ambiente variano sia in base alla composizione fisica del territorio sia in base alle sue caratteristiche sociali. È così che molte amministrazioni hanno tentato di sperimentare un nuovo modello partecipativo, detto amministra8 La legge specifica che le politiche pubbliche volte alla gestione del patrimonio naturale debbano garantire la partecipazione locale sia nella fase di pianificazione sia nella fase di implementazione, e che esse debbano tener conto degli interessi dei cittadini locali e successivamente della cittadinanza nazionale. L’EVOLUZIONE DEGI ESPERIMENTI PARTECIPATIVI IN SVEZIA 313 zione collaborativa (Samförvaltning), dove la collaborazione è tesa al raggiungimento di una implementazione sostenibile della politica nazionale (Sandström 2009). Il processo definito collaborativo non si propone di giungere ad una decisione condivisa, ma piuttosto di applicare la decisione già esistente presa dal Parlamento. Ma quali sono le principali caratteristiche dei processi collaborativi? Si può partire dall’assunto che essi comportino un cambiamento radicale nell’impostazione dei rapporti fra amministrazioni e cittadini, fondato sull’idea che questi ultimi rappresentano una risorsa grazie al bagaglio di esperienze e capacità che possono essere determinanti al fine di garantire sia il soddisfacimento di esigenze individuali, sia la soluzione di problemi di interesse generale. All’origine del processo emergono, inoltre, due tipi di esperimenti collaborativi: top-down, dove la collaborazione nasce dalla richiesta rivolta dall’amministrazione ai cittadini; bottom-up, dove l’iniziativa derivi da un’autonoma presa di posizione dei cittadini che si attivano nell’interesse generale. In Svezia le ricerche empiriche sembrano concordare sul fatto che la maggioranza degli esperimenti di amministrazione collaborativa siano di carattere top-down e che in essi gli amministratori locali giochino un ruolo fondamentale per la riuscita o il fallimento degli esperimenti (Carlsson, 2005; Baker, 2007): in particolare nella definizione del disegno istituzionale, delle forme processuali e delle finalità da raggiungere (Senecah, 2004). Il disegno istituzionale riguarda il numero dei partecipanti e le loro caratteristiche individuali. Nel processo collaborativo, infatti, l’amministrazione locale ha come obiettivo il coinvolgimento dei cittadini direttamente interessati dall’implementazione di una policy affinché questi possano a loro volta e di propria iniziativa informare e collaborare con quelli interessati in maniera solo marginale. L’effetto c.d. a catena, che parte da un gruppo ristretto per allargarsi via via che il processo prende piede, è possibile grazie ad un lavoro esclusivamente svolto sul territorio e teso ad includere i soggetti più scettici nella gestione della normativa nazionale. Nei processi collaborativi l’amministrazione agisce come promotore del processo e fornisce stimoli e incentivi ai gruppi disposti a collaborare. Questo contribuisce ad aprire un dialogo con i soggetti interessati. Altra caratteristica dei processi collaborativi è l’utilizzo dell’informazione. A differenza dei processi di decision-making partecipativi (ad esempio giurie di cittadini o referendum), che privilegiano il flusso di 314 SERENA CINQUE - ANNELIE SJÖLANDER-LINDQVIST informazioni da amministrazione a cittadini, dove questi ultimi sono esposti a una varietà di informazioni e dove lo lo scambio di argomentazioni e punti di vista è finalizzato ad una decisione finale, i processi collaborativi sperimentati in Svezia, implicano che l’informazione sia reciproca (da amministrazione a cittadino e viceversa) e venga completata dalla cooperazione tesa a risolvere problemi che possono emergere come conseguenza dell’applicazione della politica nazionale. Inoltre l’infomazione, sempre tesa a risolvere problematiche legate ad una specifica attività, richiede che i soggetti si incontrino, in modo da essere costretti a confrontare le proprie ragioni. La scelta dei temi da discutere dipenderà, di conseguenza, dall’interazione tra le due parti nonché dalla situazione concreta in cui uno dei due soggetti si trova. Anche la fiducia nelle istituzioni, cioè in coloro che sono tenuti a diffondere le informazioni, gioca un ruolo importante per la buona riuscita del dialogo. Fra gli elementi essenziali per l’esistenza ed il funzionamento di un’amministrazione collaborativa, il personale e i mezzi a disposizione sono quelli che probabilmente ne influenzano maggiormente la buona riuscita. Per ciò che riguarda il personale, esso è composto da dipendenti assunti dall’amministrazione, che hanno capacità ed esperienza in merito alla materia da gestire. Essi devono avere una buona conoscenza del territorio dal punto di vista economico e sociale; si preferisce invece evitare che esperti e scienziati assumano il ruolo di moderatori o coordinatori. Per quanto riguarda i mezzi impiegati dall’amministrazione, gli esperimenti collaborativi comportano di solito un maggior costo, dal momento che si tratta di creare una nuova struttura accanto a quella già esistente. Riguardo le finalità da raggiungere, cittadini ed amministrazioni sono chiamati ad amministrare insieme e a collaborare nella risoluzione di problemi legati all’applicazione delle norme giuridiche. I cittadini non si sostituiscono all’amministrazione ma invece cooperano con questa al fine di risolvere problemi di interesse generale, che li tocchino peraltro in modo particolare: il problema viene percepito come di interesse generale ma è risolto tramite un rapporto particolare con i gruppi più esposti alle conseguenze dell’implementazione politica. Un ulteriore obiettivo è l’eliminazione o la diminuzione del conflitto tra cittadino e amministrazione, creato dall’approvazione di una policy nazionale. Il coinvolgimento dei cittadini, soprattutto quelli più scettici, nel processo di implementazione, mira ad aumentare la trasparenza e contribuisce alla comprensione dei limiti che l’amministrazione oggi incontra nel- L’EVOLUZIONE DEGI ESPERIMENTI PARTECIPATIVI IN SVEZIA 315 l’applicazione di policies sempre più complesse e multiformi. Non si deve inoltre sottovalutare l’aspetto per così dire strategico che motiva l’amministrazione ad iniziare gli esperimenti di collaborazione: il modello collaborativo offre infatti i migliori risultati proprio in quei settori in cui la pubblica amministrazione non può fare un uso del potere di coercizione per indurre un numero rilevante di soggetti a comportamenti conformi alla realizzazione dell’interesse generale. Si tratta di materie dove l’imposizione di obblighi produce effetti solo se accompagnata da una intensa, capillare e costosa azione sanzionatoria delle eventuali inadempienze o dove l’inadempienza non è direttamente prescrivibile. Un esempio di amministrazione collaborativa è rappresentato dai c.d. Gruppi di emergenza predatori (Akutgruppen), istituiti dalla legge nazionale di protezione degli animali predatori del 2008 (Prop. 2008/09:210) in seguito al ritorno dei grandi predatori in Svezia (lupo, orso, lince, ghiottone9 e aquila reale). Questi gruppi sono composti da un ristretto numero di esperti del settore e il loro compito primario è di facilitare il dialogo e promuovere la comunicazione tra amministrazione locale e coloro che hanno subito danni economici dovuti a predazioni (soprattutto cacciatori e allevatori), o comuni cittadini residenti nelle zone maggiormente esposte. Già qualche anno prima la legge aveva stabilito che in tutte le contee dove l’orso, la lince, il lupo e il ghiottone avevano fatto ritorno fosse presente un gruppo consultivo formato da rappresentanti di organizzazioni di interesse, amministratori locali, esperti e rappresentanti politici (Prop. 2001/01:57). Pur essendo consultivo, l’organo aveva di fatto la possibilità di influenzare l’amministrazione tramite la presentazione di proposte o pareri ai singoli amministratori responsabili dell’applicazione della legislazione sui predatori (come ad esempio sulla regolazione della caccia, sugli indennizzi agli allevatori, sui contributi da erogare in materia di misure preventive dei danni al bestiame etc.). Il gruppo insomma funzionava di fatto come organo deliberativo, dal momento che – tramite i pareri e le proposte – l’organizzazione era capace di mobilitare una parte consistente della collettività locale. Inoltre il gruppo aveva ottenuto funzioni amministrative poiché alcuni rappresentanti gestivano incarichi di sostegno all’amministrazione (ed esem9 Il Gulo gulo, chiamato comunemente volverina o ghiottone, è un carnivoro del genere Gulo, appartenente alla famiglia dei Mustelidi, diffuso nelle zone artiche di Europa, Asia ed America. 316 SERENA CINQUE - ANNELIE SJÖLANDER-LINDQVIST pio sopralluoghi veterinari in caso di attacchi al bestiame). Ciò ha provocato la reazione della pubblica amministrazione che ha lamentato pressioni e tentativi di incidenza sul proprio operato e ha richiesto una nuova regolamentazione della materia, approvata nel 2008: il legislatore ha istituito un nuovo gruppo, chiamato appunto Gruppo di emergenza, uno in ciascuna contea amministrativa interessata dal problema dei predatori. Il carattere innovativo dell’esperimento collaborativo consiste soprattutto nel rapporto continuativo tra i gruppi di emergenza e i cittadini più esposti. Ciascun membro del gruppo ha individualmente il compito di mettersi in contatto con coloro che hanno subito un danno, coloro che abbiano presentato domanda di rimborso all’amministrazione o coloro che pratichino l’allevamento o la caccia. L’iniziativa è, in altre parole, presa da ciascun componente del gruppo discrezionalmente, con l’aiuto di indicazioni generali fornite dal proprio coordinatore; il gruppo può però essere contattato anche dal singolo allevatore, cacciatore o semplice cittadino interessato alla questione predatori. 4. Considerazioni conclusive: i sentieri della partecipazione in Svezia Come abbiamo visto, la partecipazione del cittadino alla elaborazione ed implementazione delle politiche pubbliche in Svezia è tema fortemente dibattutto sia a livello centrale che a livello locale. Le forme partecipative e deliberative nei processi decisionali pubblici sono state sperimentate in diversi contesti e hanno dato vita a forme nuove di comunicazione tra istituzioni e cittadini. Tuttavia ciò che sembra rappresentare un ostacolo all’ampliamento degli esperimenti partecipativi in Svezia è la lunga tradizione corporativista che vede la partecipazione come rappresentazione di interessi anziché di singoli individui e dove le entità associative o le forme di autorganizzazione sono le uniche realtà ammesse al processo partecipativo. La Svezia ha inoltre scelto di non regolare la materia in una unica legge ma di lasciare piuttosto agli enti locali e alle amministrazioni la facoltà di provare diverse forme di partecipazione. Vi è inoltre, in Svezia, una lunga tradizione votata all’utilizzo di organizzazioni e associazioni rappresentative degli interessi collettivi nel mercato del lavoro, la quale tradizione complica l’applicazione di istituti di democrazia partecipativa o deliberativa che vedano il singolo partecipare in prima persona. L’EVOLUZIONE DEGI ESPERIMENTI PARTECIPATIVI IN SVEZIA 317 In generale si può dire che l’amministrazione centrale ha assunto una posizione conservatrice, restando attaccata all’istituto classico delle assemblee rappresentative e utilizzando solo in parte lo strumento dell’amministrazione collaborativa, mentre i comuni hanno sperimentato forme nuove di partecipazione, anche se esse restano legate alla volontà dei singoli organi comunali. Il parlamento svedese ha negli ultimi anni tentato di potenziare l’istituto del referendum comunale. Tra le novità più significative vi è la proposta di facilitare il referendum come strumento di democrazia diretta, abbassando al 10% la quota minima di sottoscrizioni per indirlo. Il consiglio comunale non può inoltre più opporsi ad un referendum così come invece avveniva secondo la legislazione precedente (SOU 2008:125). Un’ulteriore novità è rappresentata dagli esperimenti di amministrazione collaborativa proliferati negli ultimi anni sopratutto per l’implementazione delle politiche ambientali. Il tentativo di instaurare un dialogo diretto con il cittadino da parte dell’amministrazione ricade all’interno di una logica che vede la ricerca del consenso come punto centrale per la corretta implementazione delle politiche pubbliche. La trasformazione dell’amministrazione pubblica in centro decisionale è dovuta alla crescente specializzazione, spesso di carattere tecnico, richiesta per giungere ad una deliberazione e ad una altrettanto crescente dispersione delle decisioni. In Svezia queste tendenze hanno condotto a quella che potrebbe essere definita una crisi di identità della pubblica amministrazione, alla quale quest’ultima ha risposto mediante una crescente inclusione dei soggetti interessati nel processo di implementazione. Allo stesso tempo è venuto meno il collegamento tra arene parlamentari e partiti politici, mentre si è rafforzato il legame tra le prime e i gruppi di interesse. Nonostante ciò, la forma classica di governo rappresentativo a livello di politica nazionale non è assolutamente ripudiato. È a livello locale che avviene il cambiamento, lì dove la rappresentanza politica tradizionale si coniuga con nuove forme di rappresentanza che meglio possono rispecchiare gli interessi in gioco. Questa precisazione appare significativa anche nel caso della gestione delle specie predatrici in Svezia, lì dove i partiti politici lasciano il posto alle organizzazioni di interesse con base locale. Si tratta di un modo nuovo di amministrare, cioè di perseguire l’interesse generale in un clima di forte contrasto tra Stato e cittadiani locali, realizzato grazie ad un cambiamento fondamentale nel modo con 318 SERENA CINQUE - ANNELIE SJÖLANDER-LINDQVIST cui tali soggetti si rapportano fra loro e con la realtà; cambiamento che provoca una innovazione del sistema. Nel caso presentato il quadro nomativo si intreccia indissolubilmente con il piano sociale, quello sul quale si apre il conflitto tra amministratori pubblici e cittadini residenti nelle zone esposte ai danni da predazione. Si stratta di uno scontro tra il sapere esperto della razionalità scientifica e la presunta irrazionalità del senso comune, tra competenze decisionali ed esperienze di coloro che sono toccati in prima persona dalla politica pubblica che favorisce la conservazione delle specie predatrici. Su questo piano si confrontano anche le diverse rappresentazioni che gli attori hanno (e che continuamente costruiscono e negoziano) del territorio come valore di scambio e d’utilizzo. Il territorio diviene carico di forte valenza simbolica: per alcuni rappresenta il piano sociale del vivere quotidiano, per altri invece la base del consenso politico da conquistare. Tale consenso, insieme alla necessità di diminuire la protesta, ha portato alla sperimentazione di un metodo nuovo di partecipazione, legato, questa volta, al contatto diretto tra amministrazione e cittadino. Quest’ultimo sente di poter adattare l’applicazione della normativa nazionale al proprio contesto e avverte l’esistenza di uno spazio di manovra sul quale può incidere attivamente. In altre parole, la legge non viene sentita come imposizione bensì come materia viva in continua evoluzione grazie alla sua flessibilità. Un ulteriore elemento che può essere determinante per la buona riuscita degli esperimenti collaborativi è la capacità di instaurare un dialogo paritario che diminuisca la distanza, sia fisica che sociale, tra amministrazione e cittadino. A questo proposito è molto importante la scelta dei soggetti chiamati ad iniziare il dialogo, i quali svolgono la funzione di interfaccia. Questi ultimi dovranno avere una buona conoscenza del territorio e della materia in discussione, ma soprattutto la capacità di comprendere i problemi cui la cittadinanza è esposta come risultato della politica pubblica. Riguardo la struttura dei vari esperimenti di partecipazione in Svezia si può dedurre che una maggiore regolamentazione e una formalizzazione del mandato e degli obiettivi può aumentarne l’efficacia. Lo Stato dovrebbe inoltre verificare gli effetti prodotti sia al livello di policy sia al livello di polity, ovvero che la partecipazione abbia prodotto un cambiamento non solo nella definizione delle politiche pubbliche ma anche nel modo con cui gli enti pubblici interagiscono con il cittadino. Guardando alle potenzialità degli esperimenti attuati in Svezia si può L’EVOLUZIONE DEGI ESPERIMENTI PARTECIPATIVI IN SVEZIA 319 concludere che molto lavoro resta da fare per incentivare la partecipazione bottom-up, ovvero esperimenti dove i principali promotori del processo siano singoli cittadini attivati nell’interesse generale. Riferimenti biliografici AMNÅ E. (2006), Playing with fire? Swedish mobilization for participatory democracy, in «Journal of European Public Policy», vol. 13, n. 4, 587-606. AMOROSO B. (1980), Rapporto sulla Scandinavia, Laterza, Napoli. ANTONIOLI M. (2005), Il movimento sindacale in Svezia, in ADINOLFI G. et. al., Sindacati in Europa, Milano, Cuesp, 97 ss. 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Le ragioni alla base della partecipazione all’attività di controllo. – 2. Le forme di partecipazione all’attività di controllo. – 3. La descrizione delle forme di controllo partecipato. – 3.1. Il controllo partecipato dei cittadini utenti. – 3.2. Il controllo partecipato a esito di un ordinario procedimento amministrativo. – 3.3. Il controllo partecipato in funzione della responsabilizzazione. – 3.4. Il controllo partecipato in via mediata attraverso la giurisdizione amministrativa. – 3.5. Il controllo partecipato con origine a-giuridica. – 4. Analisi delle forme partecipatorie. – 5. Il fondamento giuridico della partecipazione dei privati all’attività di controllo. 1. Le ragioni alla base della partecipazione all’attività di controllo Nella tradizionale classificazione dell’attività amministrativa, l’attività di controllo si differenzia dall’amministrazione attiva principalmente per un aspetto: nella prima l’interesse pubblico consiste nel definire una certezza legale obiettiva, rispetto alla quale la manifestazione plurale di fatti, valutazioni, aspettative e pretese, tipica dei processi decisionali partecipati, resta in secondo piano o, comunque, sembra riservata a un momento diverso. L’attività di controllo costituisce una sfera neutrale sottratta al confronto degli interessi: da un lato perché, come spesso è stato osservato, la funzione di controllo è meramente accessoria alle funzioni principali attribuite ai decisori pubblici, sicché si potrebbe dire che essa ha una finalità servente nei confronti di una specifica tipologia di interessi, quelli del decisore pubblico1; dall’altro perché l’attività di controllo è caratterizzata in sé da profili di garanzia per la collettività, giacché il carattere strumentale della funzione di controllo è 1 Cfr. A.M. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1984, I, 571; G. D’AURIA, I controlli, in S. CASSESE (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, Milano, 2003, gen., II, 1352-3; M. DE BENEDETTO, Controlli. II) Controlli amministrativi, in Enc. giur., 2006, 2. 322 FABIO GIGLIONI al servizio di un migliore esercizio delle funzioni pubbliche che tutelano gli interessi della collettività in generale2. Per un verso, dunque, la funzione di controllo ha natura prevalentemente strumentale e secondaria rispetto alla cura concreta degli interessi pubblici; per un altro, essa stessa assorbe già i profili di garanzia che sono rimessi normalmente agli istituti di partecipazione. Attraverso l’attività di controllo si qualifica molto spesso una data realtà in modo che il decisore possa assumere le proprie responsabilità con maggiore appropriatezza e in una cornice di certezze che sembra opportuno sottrarre alla contesa degli interessi3: anche il legittimo confronto degli interessi necessita di uno spazio intangibile che si ponga fuori dalla disputa4. Tale ultima esigenza è tanto più avvertita in una società come quella contemporanea in cui la molteplicità delle ‘voci’ e la pluralità degli interessi hanno frantumato l’ordine dei sistemi giuridici statuali5, per i quali l’esercizio della funzione di certezza, come è dimostrato dagli studi sull’argomento, ha costituito una prerogativa classica degli ordinamenti pubblicistici6. Se tutto ciò è vero, resta da comprendere perché il tema della partecipazione dei privati e dei cittadini debba essere posto anche con riferimento all’attività di controllo in funzione della certezza: quanto fin qui sinteticamente detto sembrerebbe richiedere che sia un soggetto terzo, da una posizione di imparzialità se non perfino di neutralità, ad assicu- 2 Si veda così L. SALVI, Premessa a uno studio sui controlli giuridici, Milano, 1957, 647. Per questa suggestione si vedano anche le considerazioni di R. CAMELI pubblicate in questo volume. 3 In questo senso vanno le ricostruzioni sulla funzione di accertamento: v. M.S. GIANNINI, Accertamento (diritto costituzionale e amministrativo), in Enc. dir., 1958, 222; ID., Diritto amministrativo, Milano, 1993, II, 482-5; B. TONOLETTI, L’accertamento amministrativo, Padova, 2001, 209-12. 4 Cfr. E. CARDI, La ponderazione di interessi nei procedimenti di pianificazione urbanistica, in Foro amm., 1989, 864, il quale osserva che «se ci si pone nell’ottica del controllo, il conflitto ‘classico’ della ponderazione – quello che formalmente delinea il contrasto tra interessi pubblici e interessi privati – ha meno importanza, perché un mondo più noto, dove le situazioni soggettive sono delineate, le posizioni giurisprudenziali pure e comunque le prime si innestano su interessi della vita che sono pienamente conoscibili e quindi giuridicamente qualificabili». 5 Cfr. M. D’ALBERTI, La ‘visione’ e la ‘voce’: le garanzie di partecipazione ai procedimenti amministrativi, in Riv. trim. dir. pubbl., 2000, 31. 6 Si veda recentemente lo studio di A. FIORITTO, La funzione di certezza pubblica, Padova, 2003, 60-8, nonché dello stesso autore, Certezza pubblica, in S. CASSESE (a cura di), Dizionario di diritto pubblico, Milano, 2006, 850 ss. LA PARTECIPAZIONE ALL’ATTIVITÀ DI CONTROLLO 323 rare quella certezza inequivocabile necessaria a giustificare un certo tasso di esclusività degli apprezzamenti, resa necessaria anche dal carattere spesso tecnico della discrezionalità e degli accertamenti che sono richiesti7. Eppure il problema si pone per almeno tre diverse ragioni: a) le trasformazioni tecnologiche che interessano l’informazione e le conoscenze rendono più urgente garantire la credibilità sociale dei controllori (chi sono e come sono scelti, quali regole si osservano per assicurarne l’indipendenza)8 perché l’accesso alle conoscenze è molto più diffuso e l’attività di controllo viene esercitata comunemente da soggetti che possono avere un semplice interesse alle questioni anche al di fuori delle competenze formali assegnate; b) la fallibilità della scienza e della tecnica “apre” un problema con riferimento alla pluralità delle analisi e dei giudizi, tanto che si può convenire che su tantissime questioni i modi e i giudizi per analizzare una certa situazione possono essere sempre più di uno e dunque accanto a una versione ufficiale ce ne è sempre una ufficiosa ma non per questo necessariamente meno accurata dal punto di vista tecnico9; si rievoca in questo senso il concetto di società di rischio10; c) proprio in ragione dei mutamenti appena esposti esiste un problema di corrispondenza tra l’accertato, il valutato e la verità a cui l’o7 Questa è in effetti la tesi espressa negli studi sull’argomento da M.S. GIANNINI, Certezza pubblica, in Enc. dir., 1960, VI, 771, anche se Zanobini non mancava di inserire nel concetto di esercizio privato delle funzioni pubbliche anche l’attività di controllo esercitata direttamente da soggetti privati: cfr. G. ZANOBINI, L’esercizio privato delle funzioni e dei servizi pubblici, in V.E. ORLANDO (diretto da), Trattato di diritto amministrativo, Milano, 1920, II, III, 235 ss. Tuttavia anche questa tesi oggi non appare più attuale. 8 Per uno dei profili più delicati di questa indagine, quella riguardante i membri delle autorità amministrative indipendenti, soggetti istituzionali predisposti al controllo per eccellenza, si rinvia a B. PONTI, L’etica degli amministratori “indipendenti”, in F. MERLONI, R. CAVALLO PERIN (a cura di), Al servizio della Nazione, Milano, 2009, 133 e seguenti; sul tema in generale invece si veda F. MERLONI, L’etica dei funzionari pubblici, ivi, spec. 18 ss. 9 Questo intreccio tra interessi pubblici e interessi privati determinato anche dal peso crescente della tecnica nelle decisioni comporta un ampliamento delle esigenze di garanzia e trasparenza; cfr. CARDI, La ponderazione di interessi nei procedimenti di pianificazione urbanistica, cit., 869. 10 Cfr. U. BECK, Risikogesellschaft. Auf dem Weg in eine andere Moderne, trad. it. W. Privitera, La società del rischio. Verso una seconda modernità, Roma, 2000; F. SALVIA, Considerazioni su tecnica e interessi, in Dir. pubbl., 2002, 614-6; A. BARONE, Il diritto del rischio, Milano, 2004, spec. 67 ss.; F. DE LEONARDIS, Il principio di precauzione nell’amministrazione di rischio, Milano, 2005, spec. 123 ss.; R. FERRARA, L’ordinamento della sanità, Torino, 2007, 12-23; C. VIDETTA, L’amministrazione della tecnica, Napoli, 2008, 18-21. 324 FABIO GIGLIONI biettività formale ordinamentale non sembra più essere in grado di dare una risposta soddisfacente11. È stato inoltre segnalato negli anni più recenti che l’ampliamento della partecipazione dei cittadini alle funzioni di controllo arricchisce la democratizzazione dei rapporti con le istituzioni, risultando così un’esigenza propria delle società democratiche. Da questa prospettiva, pertanto, la partecipazione alla funzione di controllo viene considerata come un tassello ulteriore di rafforzamento dei rapporti democratici12. Infatti, l’accertamento diretto del buon funzionamento dei controlli accresce evidentemente quel bene immateriale essenziale per le società democratiche che è rappresentato dalla fiducia, essendo evidente che una funzione di controllo esercitata dai cittadini accresce nel complesso l’affidamento sociale delle attività condotte dalle pubbliche amministrazioni o dai soggetti da loro legittimati13. Ciò produce un circuito virtuoso di relazioni tra cittadini e istituzioni di cui beneficia nel complesso la collettività14. Gli elementi enunciati costituiscono fatti che necessitano di una sistematizzazione giuridica in cui si evidenzia che anche la funzione di certezza, dovuta all’attività di controllo, necessita della costruzione di relazioni complesse: come è stato acutamente osservato, accanto a un 11 È stato osservato, infatti, che la certezza, diversamente dalla verità, è un connotato del soggetto e del suo stato d’animo; cfr. F. CARNELUTTI, Nuove riflessioni intorno alla certezza del diritto, in Riv. dir. proc., 1950, I, 116. Sicché, mentre la verità corrisponde all’oggetto, la certezza necessita di un affidamento ampio che consenta di ridurre il più possibile la distanza tra la verità dell’oggetto e lo stato d’animo del soggetto che anela all’oggetto. La certezza è tanto più forte quanto si riduce la diffusione di un comune stato d’animo e i caratteri del bene giuridico anelato. 12 Cfr. U. ALLEGRETTI, Democrazia partecipativa e controllo dell’amministrazione, in Dem. e dir., 2006, 4, 74-5, il quale ricorda anche che in Assemblea costituente il riferimento al «controllo popolare sull’amministrazione» è stato eliminato solo perché si pensava che il legislatore avrebbe sempre potuto introdurlo, il che dimostra come esso sia un concetto compatibile con la nostra carta costituzionale. Diversamente dall’autore, però, non si ritiene che tra le esperienze di partecipazione all’attività di controllo vada ricompresa quella che va sotto il nome del bilancio partecipato, giacché in queste esperienze la cittadinanza discute complessivamente della gestione e dei fini da realizzare dell’amministrazione e questo va molto oltre la sola attività di controllo. Si veda anche G. ARENA, L’«utente-sovrano», in Studi in onore di Feliciano Benvenuti, Mucchi, 1996, I, 156-7. 13 Cfr. S. LARICCIA, Diritto amministrativo, Padova, 2006, II, 19-20. 14 Cfr. G. ARENA, La funzione pubblica di comunicazione, in G. ARENA (a cura di), La funzione di comunicazione nelle pubbliche amministrazioni, Rimini, 2004, 63, il quale osserva che per l’accrescimento complessivo della fiducia svolge un ruolo essenziale la comunicazione, da cui dipende l’effettivo affidamento di certezza dei contenuti comunicati. LA PARTECIPAZIONE ALL’ATTIVITÀ DI CONTROLLO 325 problema di certezza-stabilità, tipica della funzione pubblica esercitata dalla pubblica amministrazione esiste un problema sempre più avvertito di certezza-affidamento di natura sociale che coincide sempre meno con la certezza-stabilità e la cui definizione necessita di regole nuove per l’esercizio della funzione di controllo15. 2. Le forme di partecipazione all’attività di controllo Chiunque si sia misurato col tema del controllo ha dovuto chiarire in premessa cosa includere nell’oggetto di indagine16. Al riguardo non pare utile indugiare eccessivamente in operazioni di cesello, anche perché – è stato giustamente notato – l’attività di controllo è caratterizzata da un alto tasso di atipicità17, sicché qualunque tentativo di confinamento rischierebbe di produrre effetti limitanti operati con scelte sempre discutibili. Per attività di controllo, in questo lavoro, s’intende più precisamente la «verificazione di regolarità di una funzione propria o aliena, ovvero il rapporto nel quale un’autorità o un organo verificano la conformità di un atto o un’attività a regole prestabilite, in virtù di un potere o di un dovere ad essi intestato dall’ordinamento (ovvero da un 15 Cfr. A. ROMANO TASSONE, Amministrazione pubblica e produzione di ‘certezza’, in Dir. amm., 2005, 884-6; tesi ripresa anche da A. DE BENEDETTI, Certificazioni «private» e pubblica fiducia, in F. FRACCHIA, M. OCCHIENA (a cura di), I sistemi di certificazione tra qualità e certezza, Milano, 2006, 20. Si veda come già in precedenza è stato osservato che alla luce anche del depotenziamento del principio di legalità dovuto alla dequotazione della legge quale fonte principale di regolazione, anche per l’attività di controllo è necessario un ripensamento che sposti sul lato procedimentale, e quindi sul lato della manifestazione degli interessi, il cuore della legittimità dell’attività di controllo; cfr. M.T. SERRA, Controlli amministrativi e prospettive di riforma dell’attività amministrativa, in Riv. amm., 1976, I, 435; F. PIGA, Modernizzazione dello stato: le istituzioni della funzione di controllo, in Foro amm., 1987, 1, 809 ss.; G. DE GIORGI GEZZI, I controlli dell’amministrazione moderna, Bari, 1990, 199; A. TARADEL, Problemi dell’amministrazione contemporanea: dai controlli di conformazione a quelli di integrazione, in AA.VV., La ponderazione degli interessi nell’esercizio dei controlli, Atti del XXXIV Convegno di studi di scienza dell’amministrazione, Varenna 2224 settembre 1988, Milano, 1991, 41; E. DALFINO, F.P. PUGLIESE, I controlli come composizione operativa degli interessi pubblici, ivi, 35; DE BENEDETTO, op. cit., 5; M. CAMMELLI, Riforme amministrative e riforme dei controlli, in M. CAMMELLI (a cura di), Il sistema dei controlli dopo il d.lgs. 286/99, Rimini, 2001, 10-1. 16 Cfr. M.S. GIANNINI, Controllo: nozione e problemi, in Riv. trim. dir. pubbl., 1974, 1263 e seguenti; F. GARRI, La tipologia dei controlli e il problema del loro coordinamento, in Foro amm., 1986, II, 1978 e seguenti; O. SEPE, Controlli I) Profili generali, in Enc. giur., 1993, 1; G. BERTI, N. MARZONA, Controlli amministrativi, in Enc. dir., 1999, III agg., 458-60; DE BENEDETTO, op. cit., 3-5. 17 Cfr. GIANNINI, Controllo: nozione e problemi, cit., 1263; D’AURIA, op. cit., 1345. 326 FABIO GIGLIONI soggetto a ciò legittimato dall’ordinamento), al fine di assumere, o sollecitare altre autorità ad assumere iniziative o “misure” (ad esempio, di approvazione o di annullamento, o comunque decisioni di ordine amministrativo o legislativo) necessarie a garantire la regolarità dell’atto o dell’attività. Di più, i controlli giuridici sono caratterizzati da un elemento che non è necessariamente presente in tutti gli altri controlli: si tratta del “giudizio”, inteso come apprezzamento o valutazione di norme, fatti, situazioni, persone, ecc. secondo i criteri e i parametri delle discipline di volta in volta applicate»18. Per esclusione si può indicare che non rientrano nella trattazione della presente relazione i controlli amministrativi intesi nella loro accezione più tradizionale, ovvero i controlli effettuati da pubbliche amministrazioni su atti, organi e persone di altre amministrazioni e/o uffici19. Rispetto dunque all’impostazione classica della trattazione dei controlli, che peraltro è discussa e criticata da molto tempo20, i controlli presi qui in considerazione sono da intendersi in forma impropria. Il punto di osservazione non è la funzione di controllo, ma le fattispecie nelle quali il privato esercita, sotto varie forme, un ruolo nell’esercizio della funzione di controllo. Ciò comporta che inevitabilmente si avrà a che fare con forme eterogenee di controllo, in cui però l’elemento di congiunzione è rappresentato dalla partecipazione dei privati a questa funzione. Si escludono da questa trattazione anche le forme di controllo che si esplicano in una rendicontazione speciale delle attività pubbliche come è nel caso del bilancio sociale o di quello partecipato: nel primo, infatti, i privati, benché destinatari delle misure tipiche di quel bilancio, 18 D’AURIA, op. cit., 1344. 19 Rispetto a questa categoria di procedimenti di controllo c’è un’ampia tradizione di studi nel nostro paese che qui non s’intende riportare nella sua completezza, ma solo per ricordare i principali studi considerati, si citano U. FORTI, I controlli dell’amministrazione comunale, in V.E. ORLANDO (a cura di), Trattato di diritto amministrativo italiano, Milano, vol. II, II, 607 ss.; U. BORSI, Intorno al cosiddetto controllo sostitutivo, in Studi senesi, 1916, 2, 169 ss.; R. RESTA, Natura ed effetti dell’atto amministrativo di controllo preventivo, in Foro it., 1935, I, 278 ss. 20 Per gli studi sulla funzione di controllo che vadano oltre la mera verifica di corrispondenza tra atto e legalità oggettiva, si vedano: S. CASSESE, Le trasformazioni dell’organizzazione amministrativa, in Riv. trim. dir. pubbl., 1985, 383; O. SEPE, Introduzione al tema, in AA.VV., La ponderazione degli interessi nell’esercizio dei controlli, Atti del XXXIV Convegno di studi di scienza dell’amministrazione, Varenna 22-24 settembre 1988, Milano, 1991, 14-5; U. ALLEGRETTI, I controlli sull’amministrazione dal sistema classico all’innovazione: le problematiche generali, in U. ALLEGRETTI (a cura di), I controlli amministrativi, Bologna, 1995, 36-40; D’AURIA, op. cit., 1346-9. LA PARTECIPAZIONE ALL’ATTIVITÀ DI CONTROLLO 327 non assumono un ruolo attivo vero e proprio; nel secondo siamo in presenza comunque di forme di partecipazione decisionale più che di vere e proprie forme di controllo. All’interno di questo campo di osservazione così ritagliato è possibile distinguere alcune forme di partecipazione, che verranno prima descritte e poi analizzate in conclusione al fine di trarre qualche indicazione utile. 3. La descrizione delle forme di controllo partecipato 3.1. Il controllo partecipato dei cittadini utenti Per alcuni servizi e attività i cittadini e i privati svolgono un ruolo indefettibile che consiste nel valutarne la qualità, l’efficacia e la regolarità rispetto ad alcuni parametri, che sono eterodeterminati o alla cui formazione gli stessi cittadini e utenti hanno contribuito. Tale forma di attività partecipata, infatti, si collega alle modalità attraverso cui possono essere pretesi i diritti alla qualità dei servizi21. La valutazione offerta dagli utenti non è l’unica modalità per verificare se l’attività svolta consegua standard di qualità ritenuti essenziali, ma ciononostante costituisce un elemento di verifica molto importante perché obbliga i soggetti sottoposti a valutazione a confrontarsi con l’esterno e con chi è destinatario dei servizi22. In questo caso il controllo è rimesso direttamente ai cittadini. La necessità che si svolga questo confronto di valutazione può derivare da due motivi che possono essere compresenti o alternativi: a) si tratta di attività e servizi che non sono prodotti sul mercato o non sono prodotti in un contesto concorrenziale di mercato; b) si tratta di attività che, pur destinate a un mercato, sono caratterizzate da un condizionamento di pubblico interesse. 21 Per le premesse teoriche e costituzionali di tali diritti si veda G. ARENA, Servizi e dis/servizi: profili positivi e negativi della responsabilità del soggetto erogatore, in D. SORACE (a cura di), Le responsabilità pubbliche, Cedam, 1998, 23; per un ulteriore sviluppo del tema con riferimento alla trasparenza si veda dello stesso autore: ID., Le diverse finalità della trasparenza amministrativa, in F. MERLONI (a cura di), La trasparenza amministrativa, Milano, 2008, 35-7. 22 Cfr. F. GIGLIONI, S. LARICCIA, Partecipazione dei cittadini all’attività amministrativa, in Enc. dir., 2000, IV agg., 975 e seguenti; G. ARENA, Le diverse finalità della trasparenza amministrativa, cit., 36; D. DONATI, Il controllo dei cittadini sull’amministrazione pubblica, tra effettività giuridica e valore etico, in L. VANDELLI (a cura di), Etica pubblica e buona amministrazione - Quale ruolo per i controlli?, Milano, 2009, 159-60. 328 FABIO GIGLIONI Le tecniche di rilevazione e misurazione dei giudizi degli utenti non sono però indifferenti per l’esito finale, per cui l’adozione di un sistema invece di un altro comporta precise conseguenze23. Si possono avere infatti: i) rilevazioni variamente destinate agli utenti considerati uti singuli; ii) confronto mediato dalle associazioni rappresentative; iii) partecipazione alla definizione dei nuovi vincoli relativi agli standard; iv) confronto di dati e informazioni di diversa provenienza come è nel caso degli audit civici. A seconda del metodo rilevato il valore del confronto differisce24. Nelle rilevazioni di gradimento i consultati agiscono come singoli e le risultanze sono elaborate e valutate dagli enti o dai soggetti che promuovono tali tecniche di rilevazione. Un vero e proprio confronto di interessi, inteso come capacità consapevole dell’utente di esprimere una valutazione complessiva sui servizi ricevuti, non avviene. In altre parole, la valutazione dei cittadini conta ma il modo in cui questa è raccolta e rielaborata esclude una loro partecipazione attiva. Gli interessi non sono a confronto, ma sono posti gli uni al servizio degli altri. Nel confronto con le associazioni di rappresentanza, la cui selezione differisce da settore a settore, si pongono diversi problemi. Il primo riguarda la collocazione delle associazioni, se esterne o interne agli enti da valutare: nel primo caso il distacco degli interessi è più chiaro ma le informazioni su cui avviene il confronto sono disomogenee, nel secondo il distacco è meno netto ma il confronto avviene su dati omogenei. Nel primo caso il valore del confronto consiste nell’autenticità della diversità degli interessi, nel secondo la valorizzazione del confronto risiede nella condivisione delle informazioni su cui è fondata la valutazione. Le associazioni esterne agli operatori formulano i loro giudizi sulla base dei reclami e delle segnalazioni che pervengono alla loro attenzione e che non necessariamente coincidono con quelli che sono presentati direttamente agli enti da valutare. Più in generale, l’intervento delle associazioni se, da un lato, sembra riequilibrare la posizione degli utenti rispetto agli operatori, coalizzando interessi altrimenti troppo dispersi per poter incidere sulle scelte dei valutati, dall’altra pongono un problema sulla loro effettiva rappresentatività. Il confronto di interessi attraverso la valutazione dei servizi erogati è mediato, veico23 Cfr. L. LO SCHIAVO, Le misure di qualità e la customer satisfaction, in G. AZZONE, B. DENTE (a cura di), Valutare per governare, Milano, 1999, 115 ss. 24 Cfr. D’ALBERTI, op. cit., 29. LA PARTECIPAZIONE ALL’ATTIVITÀ DI CONTROLLO 329 lato e filtrato; d’altra parte, il sistema dei reclami e delle segnalazioni di disservizio che gli utenti sollevano direttamente agli operatori ha un esito incerto, si risolve con soluzioni ad hoc che riguardano il singolo e possono essere fatti valere, qualora ne ricorrano i presupposti, solo per via giudiziaria. I vincoli giuridici di questo confronto attengono solo al piano procedurale, gli effetti invece sono rimessi su un piano metagiuridico. Il mancato espletamento del confronto con le organizzazioni di rappresentanza può essere giuridicamente fatto valere sottoforma di azione ad adempiere, la mancata coerenza degli esiti del confronto nei comportamenti degli operatori resta senza sanzione giuridica. La partecipazione mediata delle associazioni è preordinata alla valutazione dell’efficacia dei risultati degli enti, ma può essere anche volta a suggerire correttivi dei processi produttivi e decisionali degli operatori, nonché degli impegni di adottare nei confronti degli utenti. Il controllo degli utenti, infatti, ha come obiettivo principale la funzionalità dei servizi resi25. Il controllo è esercitato ex post ma, viste le sue finalità correttive, i suoi effetti si mettono in un continuum con l’attività futura e, anzi, tanto più è forte e reale questo nesso, tanto più la partecipazione degli utenti si potrà dire efficace. Anche in questo caso, da un punto di vista giuridico, resta esigibile solo l’occasione del confronto procedimentale, mentre l’esito resta giuridicamente irrilevante. L’avvicinamento e il confronto obbligato per diritto sono considerati occasioni rilevanti perché il coinvolgimento, sia pure mediato, degli utenti possa esercitare la sua influenza concreta; il risultato resta, però, a-giuridico. L’altro strumento è quello degli audit civici che alcune organizzazioni associative possono predisporre. Il valore degli audit consiste principalmente nella creazione di un sistema di rilevazione della soddisfazione e dei problemi che gli utenti incontrano, alternativo e/o parallelo a quello che possono organizzare gli enti da valutare. La raccolta dei dati e delle informazioni segue una metodologia tecnica più rigorosa, gli interessi fatti valere sono il risultato di queste tecniche di rilevazione e le associazioni che predispongono questi sistemi di rilevazione della qualità sono separate dagli operatori. Il confronto dei dati e delle informazioni avviene con manifestazioni pubbliche in cui operatori, utenti e associazioni sono messi a confronto. Gli audit civici nascono prevalen25 Cfr. U. ALLEGRETTI, Democrazia partecipativa e controllo dell’amministrazione, cit., 78-9, il quale osserva che il controllo dei cittadini si concentra prevalentemente sui risultati dell’azione degli enti sottoposti al controllo. 330 FABIO GIGLIONI temente da esperienze concrete di fatto che hanno assunto valenza giuridica solo in esito a convenzioni che le associazioni promotrici hanno poi stipulato con gli operatori26. Sicché, in una fase iniziale, a mancare di rilevanza giuridica non sono stati solo gli effetti del confronto ma anche lo stesso ricorso allo strumento. Si può ritenere, tuttavia, che questo tipo di attività possa essere inquadrato nel principio di sussidiarietà orizzontale e trovare lì la fonte di legittimazione che vincola i soggetti coinvolti. Le esemplificazioni tratte con riferimento alla misurazione e alla valutazione dei servizi e delle attività derivano oramai da una stratificazione consolidata di disposizioni normative che hanno progressivamente accresciuto il ruolo degli utenti nei servizi, man mano che i processi di liberalizzazione e privatizzazione dei servizi pubblici hanno esteso l’ambito privatistico dei rapporti tra utenti e operatori27, e trovano oggi nel codice dei consumatori la propria legittimazione28. In questo modo, gli obblighi giuridici derivano sempre da una concatenazione di provvedimenti: possono essere fonti normative che pongono obblighi a carico dei prestatori di servizio, ma anche fonti convenzionali che si limitano a regolare relazioni che sorgono nei fatti a seguito di attività che i cittadini autonomamente sviluppano. Due dati sembrano costanti: il profilo giuridico non riguarda mai le conseguenze dovute al confronto dei punti di vista, comunque questi siano presentati; il confronto riguarda gli interessi privati degli operatori e gli interessi metaindividuali dell’utenza. L’interesse pubblico consiste solo nel mettere i soggetti coinvolti in una relazione che si spera essere proficua per il solo 26 Un esempio interessante è costituito dal programma nazionale di collaborazione che Cittadinanzattiva ha stipulato con il Ministero della Salute per l’estensione dell’attività di audit civico che l’organizzazione privata, tramite il Tribunale del malato, da anni esercita anche in via di fatto. 27 Sull’estensione delle tutele dei privati a fronte dei processi menzionati di privatizzazione e liberalizzazione esiste oramai un’ampia letteratura; si rinvia a titolo esemplificativo M. RAMAJOLI, La tutela degli utenti nei servizi pubblici a carattere imprenditoriale, in Dir. amm., 2000, 383; G. NAPOLITANO, Servizi pubblici e rapporti di utenza, Padova, 2001, spec. Cap. V e VI; A. CORPACI, Le linee del sistema di tutela degli utenti dei servizi pubblici, in A. CORPACI (a cura di), La tutela degli utenti dei servizi pubblici, Bologna, 2003, 12-5; V. PARISIO, Pubblici servizi e funzione di garanzia del giudice amministrativo, Milano, 2003, spec. 189 ss 28 Non sorprende pertanto ritrovare occasioni ed esperienze in cui la partecipazione sottoforma di audit civici si applica nei confronti di aziende private che assumono su di sé oneri e obblighi di rilevanza pubblica, come avviene in campo ambientale, per esempio: cfr. A. BARONE, La certificazione nel diritto del rischio, in F. FRACCHIA, M. OCCHIENA (a cura di), I sistemi di certificazione tra qualità e certezza, Milano, 2006, 50-1. LA PARTECIPAZIONE ALL’ATTIVITÀ DI CONTROLLO 331 fatto che la relazione si crei. Non esiste dunque una funzionalizzazione degli interessi privati solo perché sono in gioco in queste relazioni anche interessi pubblici: sono questi ultimi che dipendono piuttosto dal confronto tra interessi privati. L’interesse pubblico è dunque riflesso nella capacità del confronto degli interessi di trovare soluzioni adeguate che sappiano creare un affidamento sociale virtuoso. Nonostante ciò si può osservare che gli esiti di tali processi sono molto differenti se a presiedere il sistema di valutazione sia posta un’autorità terza. L’esperienza delle carte di servizio nei settori in cui non si registra la presenza di autorità a garanzia dell’effettività si sono dimostrate molto deludenti29. Le relazioni tra i soggetti sono lasciate alla libertà dei soggetti coinvolti e i processi di confronto valutativi sono stati scarni e quasi mai produttivi di effetti virtuosi. In questo contesto hanno assunto scarsa valenza giuridica non solamente gli effetti del confronto, ma la stessa relazione. Laddove, invece, il sistema è presieduto da un’autorità che scansiona i tempi delle relazioni, definisce gli oggetti del confronto e che è pure destinataria delle risultanze valutative, i risultati possono essere differenti. L’interesse pubblico resta riflesso come punto di equilibrio dei differenti interessi implicati, ma l’autorità dispone elementi a garanzia di una più piena effettività. Quando hanno un ruolo autorità terze, queste possono assumere anche provvedimenti di regolazione maggiormente restrittivi nei confronti degli enti da valutare al momento dei nuovi impegni sulle prestazioni di qualità30. L’esempio migliore proviene dal settore dell’energia e del gas, dove la definizione delle carte di servizio è condizionata da livelli e standard definiti direttamente dall’autorità di regolazione corrispondente. In conclusione, in queste esperienze il confronto degli interessi avviene al momento della valutazione della qualità dei servizi e può essere 29 Sulle considerazioni in proposito si consenta di rinviare a F. GIGLIONI, Le carte di pubblico servizio e il diritto alla qualità delle prestazioni dei pubblici servizi, in Pol. dir., 2003, 405-9. Più recentemente con riferimento specifico al controllo dei servizi resi dalle pubbliche amministrazioni è tornata sul tema M. CONSITO, Il comportamento in servizio del funzionario: l’utilizzazione delle risorse e l’imparziale svolgimento di funzioni e servizi, in F. MERLONI, R. CAVALLO PERIN (a cura di), Al servizio della Nazione, Milano, 2009, 175-7. 30 Cfr. ARENA, L’«utente-sovrano», cit., 165-6; M. CAMMELLI, La responsabilità delle pubbliche amministrazioni per i servizi, in D. SORACE (a cura di), Le responsabilità pubbliche, Cedam, 1998, 12; S. BATTINI, La tutela dell’utente e la carta dei servizi pubblici, in Riv. trim. dir. pubbl., 1998, 194-5; L. IEVA, La tutela dell’utente e qualità del servizio pubblico, Milano, 2002, 17 e seguenti; G. PIPERATA, Tipicità e autonomia nei servizi pubblici locali, Milano, 2005, 203. 332 FABIO GIGLIONI utile al fine di migliorarne la resa e accrescere così l’affidamento degli stessi utenti nei confronti degli operatori; gli interessi pubblici sono l’esito riflesso di questo confronto, ma il loro perseguimento è tanto più effettivo quanto più sia predisposta un’autorità pubblica di riferimento per esigerlo. Un’analisi particolare merita il nuovo sistema di misurazione e valutazione che il d.lgs. 150 del 2009 ha previsto con riferimento alle attività e ai servizi resi dalle pubbliche amministrazioni. In questo caso, sottoposte al giudizio sono le pubbliche amministrazioni e non enti od operatori che sono chiamati a esercitare attività di rilevanza pubblica. Quindi si estende la valutazione partecipata ad ambiti nuovi; basti riflettere che, diversamente dalle fattispecie precedentemente esaminate, i valutati sono titolari di interessi pubblici, i quali dunque partecipano in questa relazione in modo più pieno. Il nuovo sistema di misurazione e valutazione ricomprende anche la rilevazione del grado di soddisfazione dei destinatari e lo sviluppo di forme di relazione con cittadini e utenti anche sottoforma di partecipazione e collaborazione. Ne deriva pertanto che questi momenti di confronto fanno parte dei processi di misurazione e valutazione delle amministrazioni e saranno adattati alle realtà amministrative differenziate sotto la vigilanza della Commissione per la misurazione, la valutazione e l’integrità delle pubbliche amministrazioni. I cittadini e gli utenti sono infine anche destinatari della rendicontazione del ciclo di gestione della performance. Si applicano pertanto le diverse tecniche di misurazione partecipate fin qui evidenziate nei confronti della pubblica amministrazione con tutto ciò che ne consegue31: la loro validità e capacità di produrre effetti rilevanti e di partecipazione effettiva deriverà in gran parte dalle tecniche che si adotteranno e dall’effettività di queste soluzioni. Si può osservare che delle diverse tecniche di misurazione messe in rilievo l’unica citata espressamente e quindi oggetto di obbligo è quella della rilevazione di gradimento degli utenti che, tra tutte, come è stato osservato, è quella che suscita maggiori perplessità in termini di efficacia32. 31 Il Ministero della Funzione pubblica, all’inizio del 2010, ha dato avvio a un progetto sulla valutazione civica che ha come obiettivo quello di acquisire le valutazioni e i giudizi dei cittadini sui servizi resi con riferimento ad alcune policy e che si concluderà a luglio dello stesso anno; cfr. http://www.qualitapa.gov.it/partecipazione/valutazione-civica/. 32 Per una critica al coinvolgimento dei cittadini al controllo dell’attività della pubblica amministrazione che si svolga attraverso questi strumenti si veda D. DONATI, op. cit., 179-181; G. COTTURRI, La cittadinanza attiva presa sul serio, in http://www.labsus.org/index.php?option=com_content&task=view&id=1759&Itemid=41, 2010. LA PARTECIPAZIONE ALL’ATTIVITÀ DI CONTROLLO 333 Anche la nuova Commissione è chiamata a promuovere confronti con cittadini, utenti, imprese e loro associazioni, ma questo sembra collocarsi in una dimensione diversa di confronto procedurale informale preordinato all’azione che la Commissione deve compiere. Un importante ruolo potrà consistere nella definizione delle linee guida di definizione degli standard di pubblico servizio che possono essere una leva essenziale per affermare obbligatoriamente a livello di amministrazione l’adozione di sistemi di valutazioni più avanzati da cui poter derivare anche esiti maggiormente effettivi delle relazioni partecipate in misurazione dell’attività33. 3.2. Il controllo partecipato a esito di un ordinario procedimento amministrativo In questa categoria di partecipazione la funzione di controllo si dispiega lungo un procedimento amministrativo e, dunque, si applicano gli istituti classici di partecipazione al procedimento34. È da ritenere che siano prevalentemente i soggetti interessati a esercitare i diritti di partecipazione con finalità sia di difesa, sia di collaborazione. Rispetto a queste ipotesi si possono riscontrare due situazioni: il procedimento di controllo e di valutazione come fase endoprocedimentale oppure il procedimento di controllo e valutazione come procedimento a sé stante, costituente o meno un sub-procedimento35. Nel primo caso i cittadini agiscono in quanto diretti interessati a difendere una situazione giuridica soggettiva che l’ordinamento tutela già e che la conclusione del procedimento principale potrebbe minacciare. In altri termini le condizioni e gli interessi con cui il privato partecipa alla fase endoprocedimentale non differiscono da quelli che il privato manifesta nel procedimento principale: l’intervento si correla alla protezione di una situazione giuridica legittima di cui si teme la le33 Si segnala in proposito la delibera n. 88 del 2010 della Civit che rappresenta un primo passo per l’approntamento da parte delle pubbliche amministrazioni degli standard di qualità. La delibera definisce il percorso di definizione degli standard, ma anche l’individuazione degli indicatori e le dinamiche di relazione che da esse devono derivare, fissando per il 31 gennaio 2011 la data entro cui le amministrazioni devono pubblicare le prime indicazioni. 34 Questo profilo è richiamato da A. SCOGNAMIGLIO, Il diritto alla difesa nel procedimento amministrativo, Giuffrè, 2004; DE BENEDETTO, op. cit., 6. 35 Per questa ulteriore distinzione si veda GIANNINI, Controllo: nozione e problemi, cit., 1278-80. 334 FABIO GIGLIONI sione. Si tratterà di ipotesi nelle quali la conclusione del procedimento dipende da un accertamento preventivo dei fatti sulla cui valutazione e qualificazione amministrazioni e parti private si confrontano36. Si applica, pertanto, l’istituto della partecipazione secondo la l. n. 241 del 1990. La fase di controllo condotta dalla pubblica amministrazione può essere soggetta a partecipazione del privato, il quale può arricchire la valutazione dell’amministrazione con la presentazione di propri documenti, perizie e osservazioni, nel tentativo di indurre la pubblica amministrazione a valutare un insieme di informazioni più vasto e completo o a contestare quelle che la pubblica amministrazione ha a disposizione. Ancorché sia esatto ricordare che in questa tipologia di procedimenti possono partecipare anche comitati di cittadini e associazioni portatrici di interessi diffusi, i quali pertanto agiscono con finalità concorrenziale a quella della pubblica amministrazione, è noto che l’ambito di applicazione della legge n. 241 del 1990 è sostanzialmente limitato a procedimenti riguardanti provvedimenti a contenuto specifico37. Nonostante le numerose modifiche intervenute nel corso di questo ventennio sulla legge generale del procedimento amministrativo, il carattere restrittivo dell’applicazione non è stato rimosso. Ne deriva che il confronto delle valutazioni intorno alla fase endoprocedimentale resta ancorato principalmente alla tutela di situazioni giuridiche soggettive già protette. Diverso è il caso in cui la partecipazione si svolga nei procedimenti autonomi di controllo e valutazione. Normalmente queste ipotesi fanno riferimento a procedimenti complessi di controllo dove si tratta prevalentemente di applicare soprattutto norme tecniche e dove il legislatore lascia ampio spazio al controllore nella ricostruzione della fattispecie a cui applicare la norma38. Si pensi così ai procedimenti di controllo svolti 36 Si tratta di quella fase dell’attività amministrativa che potrebbe essere definita conoscitiva secondo il noto insegnamento di F. LEVI, L’attività conoscitiva della pubblica amministrazione, Torino, 1967, 227-8. Recentemente sulle dinamiche ricondotte alla partecipazione di queste attività è tornata C. VIDETTA, L’amministrazione della tecnica, cit., 213-20. 37 Questo limite è noto nella letteratura e assai criticato; sul tema da ultimo si vedano E. CARLONI, Interessi organizzati, lobbying e decisione pubblica, in F. MERLONI, R. CAVALLO PERIN (a cura di), Al servizio della Nazione, Milano, 2009, 113; U. ALLEGRETTI, Democrazia partecipativa: un contributo alla democratizzazione della democrazia, in U. ALLEGRETTI (a cura di), Democrazia partecipativa, Firenze, 2010, 12-3. 38 Sul tema la dottrina è oramai copiosa. Ci si limita a ricordare i lavori di V. BACHELET, L’attività tecnica della pubblica amministrazione, Milano, 1967, 64-7; F. LEDDA, Tecnica e sindacato giudiziario, in Riv. trim. dir. proc. amm., 1983, 386 e seguenti. Più recentemente LA PARTECIPAZIONE ALL’ATTIVITÀ DI CONTROLLO 335 dalle autorità in applicazione di norme caratterizzate dal cosiddetto «ignoto tecnologico»39 o a quelli relativi alla valutazione d’impatto ambientale o di valutazione ambientale strategica, dove l’intervento dei privati, finanche quelli soggetti al controllo, è considerato estremamente utile per verificare in modo comparativo le risultanze dei fatti e delle informazioni rilevate, nonché la congruità delle regole tecniche con cui il controllo è effettuato40. Si tratta in termini tecnici pur sempre di partecipazione al procedimento, ma la delicatezza e la complessità delle operazioni fa assumere a queste forme di partecipazione alla funzione di controllo un valore particolare, perché l’attività di controllo è svolta attraverso un confronto costante tra controllore e controllati41. Oltretutto siamo in ipotesi in cui prevalgono le legislazioni speciali sulla l. n. 241 del 1990, cosicché il limite poc’anzi ricordato sul campo di applicazione disposto dall’art. 13 non è concretamente vigente42. Questo è generalmente noto a proposito dei procedimenti collegati alla gestione dei rischi per incertezza tecnologica le cui discipline istitutive derogano ampiamente la legge generale del procedimento anche per la peculiarità delle funzioni loro normalmente attribuite43. Esse sono volte normalmente a verificare sulla base di giudizi tecnici fattispecie complesse la cui interpretazione ed esatta ricostruzione sono aperte anche al coinvolgimento di soggetti terzi oltre quelli direttamente coinvolti. Proprio in ragione della complessità delle valutazioni da effettuare, l’allargamento della base informativa, ancorché rifletta valutazioni interessate e parziali, viene ritenuto come strumento essenziale per l’adozione della misura congrua finale44. Si consideri inoltre che quanto a proposito di questi procedimenti si è parlato di valutazioni tecniche di tipo progettualeoperativo; cfr. SALVIA, Considerazioni su tecnica e interessi, cit., 609-14. 39 Per questa definizione si veda il lavoro di A. BARONE, Il diritto del rischio, cit. 40 Questo implica in primo luogo il coinvolgimento di quei soggetti privati dotati dell’expertise necessaria a condurre le necessarie indagini e valutazioni tecniche; cfr. F. DE LEONARDIS, Il principio di precauzione nell’amministrazione di rischio, cit., 198. Similmente anche A. FIORITTO, La funzione di certezza pubblica, cit., 236, a proposito dei cosiddetti concetti indeterminati. 41 Cfr. L. CASINI, L’equilibrio degli interessi nel governo del territorio, Milano, 2005, 66-72. 42 Cfr. C. CUDIA, La partecipazione ai procedimenti di pianificazione territoriale tra chiunque e interessato, in Dir. pubbl., 2008, 277-80. 43 Profili ampiamente trattati in A. BARONE, Il diritto del rischio, cit., 162-186. 44 Cfr. C. VIDETTA, La partecipazione nei procedimenti caratterizzati da discrezionalità tecnica, in A. CROSETTI, F. FRACCHIA (a cura di), Procedimento amministrativo e partecipazione. Problemi, prospettive ed esperienze, Milano, 2002, 133 ss. 336 FABIO GIGLIONI più si tratta di procedimenti complessi coinvolgenti una pluralità di interessi, tanto più ci si può aspettare che a partecipare non siano solamente i soggetti direttamente coinvolti nel procedimento stesso, ma anche i portatori di interessi diffusi con tutto ciò che a questo consegue. Dato anche il contesto di incertezza che caratterizza gli oggetti di questi procedimenti, la partecipazione ha certamente funzione di garanzia, ma anche di cogestione del rischio: in altre parole, i privati sono chiamati a collaborare al fine di attenuare gli effetti instabili delle situazioni caratterizzate da alto rischio45. Un altro caso di rilievo è offerto dalla disciplina sulla valutazione d’impatto ambientale. Anche in questa circostanza le autorità competenti a giudicare di progetti e programmi a forte impatto ambientale sono tenute a svolgere le consultazioni che consentono a chiunque sia interessato di poter presentare proprie osservazioni. Si verifica in tal modo un raffronto delle valutazioni sui progetti e sui programmi da attuare. Le osservazioni attengono ai profili di realizzazione e non al se il progetto debba essere portato a conclusione, ma nondimeno emergono ugualmente soluzioni alternative per la soddisfazione di un certo bisogno. La partecipazione è intesa tanto a fini protettivi quanto a fini collaborativi46; l’opposizione preclusiva ha un suo spazio prevalente sul piano politico. Il provvedimento di valutazione finale è tenuto a prendere in considerazione le osservazioni dei privati pertinenti e quindi obbliga le autorità a motivare adeguatamente circa il loro accoglimento o respingimento. Nel complesso la disciplina della valutazione d’impatto ambientale, come modificata dal d.lgs. n. 4 del 2008, appare decisamente più ricca di potenzialità chiarendo le possibili implicazioni giuridiche che possono derivare dalla promozione dell’inchiesta pubblica47, anche se 45 Ancora A. BARONE, Il diritto del rischio, cit., 155-61. Così anche F. DE LEONARDIS, Il principio di precauzione nell’amministrazione di rischio, cit., 190-1; M. CAFAGNO, Principi e strumenti di tutela dell’ambiente, Torino, 2007, 312-25. 46 Sebbene sia vero che la finalità collaborativa della partecipazione ha come rischio la funzionalizzazione degli interessi privati rispetto a quelli pubblici, non si può ignorare che, da un lato, la distinzione tra fini protettivi e fini collaborativi sia davvero impercettibile, dall’altro, che quando ad agire sono soprattutto le associazioni, esse sono in grado, anche in relazione alle finalità che perseguono, di sapere indicare soluzioni alternative alla pubblica amministrazione per realizzare interessi che non sono tra loro così dissimili. Di opinione contraria, invece, C. CUDIA, op. cit., 309. 47 Cfr. CASINI, L’equilibrio degli interessi nel governo del territorio, cit., 101-14, con particolare riferimento alle esperienze di Francia e Gran Bretagna. LA PARTECIPAZIONE ALL’ATTIVITÀ DI CONTROLLO 337 questo – è precisato – non deve comportare la sospensione o l’interruzione dei termini procedimentali. In alternativa all’inchiesta, può essere anche proposto un contraddittorio tra il proponente di un programma o un progetto e i soggetti che hanno presentato le osservazioni, consentendo di superare un limite tradizionale delle forme di partecipazione procedimentale previste dal nostro ordinamento che è l’eccesso di formalismo. Il confronto orale è registrato sottoforma di una relazione che costituirà la base di valutazione dell’autorità competente. È molto interessante osservare che lo scopo del contraddittorio non è volto a intavolare una relazione negoziale di scambio, ma solo un raffronto alternativo di proposte e soluzioni. In questo modo i cittadini possono partecipare attivamente alla valutazione dei progetti a forte impatto ambientale, sebbene le disposizioni normative siano molto attente a fissare termini inderogabili entro i quali tale confronto deve avvenire, la qual cosa, se da un lato, mette al riparo da partecipazioni strumentali, dall’altro, potrebbe anche costituire un freno alla partecipazione effettiva. Si tratta di modalità di confronto innovative la cui pratica attuazione deve ancora essere misurata effettivamente48. Ciò che tuttavia appare chiaro è che questa partecipazione all’attività di controllo e valutazione, sia nell’ipotesi che si limiti alla mera partecipazione per la tutela di situazioni giuridiche soggettive, sia che venga svolta nel senso più ampio, è pienamente caratterizzata da giuridicità: il procedimento in cui il confronto avviene, ma anche l’esito del confronto che obbliga le autorità a prendere in considerazione gli apporti concretamente concessi dai cittadini, sono profili intrisi di obblighi giuridici. 3.3. Il controllo partecipato in funzione della responsabilizzazione Appartengono a questa categoria di controllo partecipato quelle soluzioni che possono essere sintetizzate con il termine di ‘autocontrollo’. Questa tipologia di controllo partecipato comprende quelle fattispecie in cui i privati soggetti al controllo sono allo stesso tempo controllori oppure, pur non essendoci coincidenza tra controllati e controllori, i controllori sono soggetti privati specializzati che operano al servizio dei controllati. Si tratta pertanto di forme di partecipazione al controllo diverse dalle precedenti: dalla prima si distinguono perché 48 In verità a livello regionale esiste un’esperienza pratica assai più consistente che è stata recentemente analizzata scrupolosamente da C. CUDIA, op. cit., 280-309. 338 FABIO GIGLIONI l’affidamento sociale è prodotto dalla maggiore (presunta) funzionalità dell’autocontrollo rispetto ai controlli eterodiretti; dalla seconda si distinguono perché il controllore non è una pubblica amministrazione. La partecipazione in questo caso svolge una funzione di responsabilizzazione diretta che deriva dalle eventuali ripercussioni negative che si possono verificare sul mercato o per effetto di misure sanzionatorie adottate dalle pubbliche amministrazioni. Le forme di autocontrollo, infatti, non necessariamente estromettono del tutto le pubbliche amministrazioni che restano a esercitare un ruolo di controllo di secondo livello, qualora il meccanismo non funzioni adeguatamente. Il ricorso all’autocontrollo non libera il controllore privato da forme di responsabilità verso le pubbliche amministrazioni; allo stesso tempo allevia gli oneri a carico delle amministrazioni nella presunzione che la responsabilizzazione diretta dei controllati accresca la capacità complessiva del sistema di assicurare i risultati attesi. Le ragioni che sostengono queste soluzioni sono varie: l’insufficiente capacità delle pubbliche amministrazioni di dotarsi di personale di controllo; l’insufficiente preparazione del personale delle pubbliche amministrazioni a svolgere attività di controllo caratterizzate da un alto tasso di tecnicità; la constatazione che, proprio a causa dei due elementi sopra rilevati, l’attività di controllo spesso si compone di un accordo informale tra controllore e controllato49; l’alto costo, tanto in termini economici quanto in termini sociali, della funzione di controllo; i profili intrinsecamente economici di alcuni di questi controlli (si pensi all’accertamento del valore di un determinato bene)50. La principale caratteristica giuridica delle forme di autocontrollo è costituita dall’assenza di un atto amministrativo che è sostituito da un negozio privato a cui l’ordinamento attribuisce un valore giuridico di affidabilità utile alla costituzione di rapporti giuridici validi51. All’interno di questa categoria, occorre distinguere due ulteriori sottocategorie: l’autocontrollo proprio e quello finalizzato alla circolazione di beni e ti49 Proprio questo è tra i profili di maggiore debolezza dei controlli amministrativi, spesso non molto considerato; cfr. S. CASSESE, Le disfunzioni dei controlli amministrativi, in S. CASSESE (a cura di), I controlli nella Pubblica Amministrazione, Bologna, 1993, 17-9. 50 Cfr. A. ROMANO TASSONE, op. cit., 885. 51 Cfr. A. FIORITTO, La funzione di certezza pubblica, cit., 291, il quale mette in evidenza che l’affidamento dell’ordinamento deriva da una compartecipazione delle autorità pubbliche al sistema della certificazione dei privati, dal valore che a questa attribuiscono le norme e dalla circostanza che le stesse autorità pubbliche sono vincolate dalla certificazione dei privati. Sui profili privatistici di questa attività comunque di rilevanza pubblica si veda anche A. BARONE, La certificazione nel diritto del rischio, cit., 47. LA PARTECIPAZIONE ALL’ATTIVITÀ DI CONTROLLO 339 toli giuridici e/o materiali per rapporti economici che può essere definito autocontrollo improprio. Nel primo caso, come è evidente per le autocertificazioni o per l’attestazione di una qualità quale la corrispondenza della firma digitale a una specifica persona, il valore sociale di quanto dichiarato si fonda sulla presunzione della piena e diretta responsabilità del controllato il quale così è in grado di dare vita a rapporti giuridici sulla base di proprie dichiarazioni senza la necessità che siano previamente validate52. Questa forma di partecipazione alla funzione di controllo non è idonea a manifestare una pluralità di interessi che si confrontano; essa, però, serve ad accrescere il livello di fiducia e l’affidabilità sociale dell’attività di controllo, sia perché i privati si ritengono meno vessati rispetto a controlli eterodiretti, sia perché la responsabilizzazione diretta accresce il senso di appartenenza a un determinato sistema ordinamentale. La fiducia che il sistema ripone nelle dichiarazione dei diretti interessati favorisce un modello di amministrazione degli interessi generali fondato sull’autoresponsabilità. In questi casi l’autocontrollo si traduce nell’adozione di un disegno dei rapporti tra autorità pubbliche e privati in cui la certezza giuridica è rimessa alla responsabilità che gli individui assumono verso la società rispetto alla quale l’amministrazione opera solo come vigilante esterno. La certezza e il controllo che ne è alla base è autoprodotta e codefinita responsabilmente53. Nelle forme di autocontrollo improprio l’affidamento sociale prodotto riflette meccanismi diversi da quelli fin qui esaminati: mentre nelle precedenti due categorie di partecipazione al controllo era l’inclusione dei cittadini e degli utenti nei meccanismi di valutazione pubblica a garantire o ad ampliare l’affidamento sociale, in quella che si sta di52 Cfr. G. ARENA, Autocertificazione e amministrazione “per interessi”, in Scritti in onore di M.S. Giannini, Milano, 1988, I, 47 e seguenti M. BOMBARDELLI, La semplificazione della documentazione amministrativa: strumenti e tecniche, in G. ARENA, M. BOMBARDELLI, M. MASUCCI, M.P. GUERRA (a cura di), La documentazione amministrativa, Rimini, 2001, 75 e seguenti; M. BOMBARDELLI, Il procedimento mediante autocertificazione, in G. GARDINI, G. PIPERATA (a cura di), Le riforme amministrative alla prova: lo sportello unico per le attività produttive, Torino, 2002, 177; F. LUCIANI, Difetto di sottoscrizione delle dichiarazioni sostitutive e poteri di regolarizzazione, in Gior. dir. amm., 2004, 998-1001; M. BOMBARDELLI, La sostituzione amministrativa, Padova, 2004, 265-70; M. BOMBARDELLI, Gli errori formali nelle dichiarazioni sostitutive, in Gior. dir. amm., 2007, 32-9; A. MEDORI, Dichiarazioni sostitutive un problema aperto, in Riv. amm. app., 2007, 33. 53 Cfr. M. BOMBARDELLI, Il potere di certificazione nell’amministrazione della funzione, in Giur. cost., 1995, 4156. 340 FABIO GIGLIONI scutendo ora l’affidamento è creato dalla maggiore ‘fiducia sociale’ che è riposta ai meccanismi di mercato rispetto a quelli burocratici. In altri termini, qui l’affidamento sociale è prodotto dal pre-giudizio secondo cui il mercato e l’autonomia negoziale che ne deriva sappiano meglio distribuire le responsabilità secondo merito ed efficacia54, dal che deriva che la sovrastruttura burocratica possa essere messa in secondo piano rispetto al corretto funzionamento del mercato. Le certificazioni di qualità rilasciate da imprese private specializzate alle imprese operative sul mercato, le agenzie di rating che valutano le società quotate, i mercati, artificiali e reali, collegati alla circolazione di beni etichettati in base a giudizi espressi da soggetti privati previamente accreditati, la circolazione dei titoli di emissione di anidride carbonica, le qualificazioni di strutture produttive e/o di servizio da parte da apposite agenzie previamente accreditate, le attestazioni dei professionisti rispetto alle dichiarazioni emesse dai privati per l’inizio di attività in campo edilizio, i sistemi di autocontrollo sistemici per ridurre i fattori di rischio sono tutti esempi presenti nel nostro ordinamento caratterizzati dal fatto che i controllati stessi o, comunque, soggetti privati specializzati in controlli di qualità emettono giudizi rilevanti per gli operatori di mercato, dal cui corretto funzionamento dipende l’affidamento sociale55. In alcuni casi questo meccanismo ha assunto carattere di sistema con codificazione internazionale, come nel caso delle cosiddette procedure ISO, e la pubblica amministrazione è completamente estromessa dall’esercitare un ruolo attivo56; in altri casi invece ha seguito linee di maggiore episodicità con strutture private previamente accreditate che si sostituiscono alle pubbliche amministrazioni, le quali invece restano a esercitare un ruolo di garanzia indiretta ma significativa57. Peraltro si segnala che l’art. 30 l. n. 133 del 2008 ha invece teso a stabilizzare il ricorso a sistemi di certificazione privata sostitutiva di quella pubblica con rife54 Si allude ovviamente alla responsabilità civile propria dei rapporti tra privati e alla responsabilità per danni causati ingiustamente; il riferimento è alluso anche da DE BENEDETTI, op. cit., 16. 55 Per una disamina di casi in cui siano i privati a produrre atti di certezza giuridica si veda anche DE BENEDETTI, op. cit., 8-15. 56 Cfr. A. PREDIERI, Le norme tecniche nello stato pluralista e prefederativo, in Dir. econ., 1996, 2, 273-4; F. CARLESI, Le certificazioni dei sistemi di gestione per la qualità, in F. FRACCHIA, M. OCCHIENA (a cura di), I sistemi di certificazione tra qualità e certezza, Milano, 2006, 65 ss.; A. ZEI, Tecnica e diritto tra pubblico e privato, Milano, 2008, spec. 271-4. 57 Cfr. P. ANDREINI, G. CAIA, G. ELIAS, F.A. ROVERSI MONACO (a cura di), La normativa tecnica industriale, Bologna, 1995, 15; A. FIORITTO, La funzione di certezza pubblica, cit., 302-17. LA PARTECIPAZIONE ALL’ATTIVITÀ DI CONTROLLO 341 rimento alle esigenze ambientali o in tutti i casi in cui è richiesto da norme europee e internazionali in base al principio di sussidiarietà orizzontale, che qui il legislatore intende come principio a sostegno della libera iniziativa privata. In tutti questi casi, infatti, i certificatori sono imprese private che rischiano sul mercato, emettono dichiarazioni private a cui il mercato attribuisce un valore economico significativo. Proprio questa condizione di rischio imprenditoriale della posizione dei certificatori, associata a una presunta maggiore specializzazione tecnica, rende più credibile la certificazione prodotta. Si tratta di condizioni in cui utenti e consumatori non acquisiscono diritti maggiori di quanti ne abbiano nel caso in cui i controlli siano effettuati dalla pubblica amministrazione, ma le penalità e le premialità ricondotte al funzionamento di mercato appaiono più efficaci, se non altro perché i consumatori possono, in condizione di mal funzionamento del mercato, optare per soluzioni alternative di acquisto delle utilità. Il sistema dei controlli appare così più flessibile, consente alle informazioni di circolare più rapidamente sicché eventuali distorsioni del meccanismo di certificazioni sono più palesi58. Tale forma di partecipazione alla funzione di controllo va collocata nell’ambito del rapporto classico tra stato e mercato e in questa cornice è ragionevole osservare che l’ampliamento di sfera del mercato in verità non accresce le garanzie di forme partecipate di governo degli interessi collettivi, né, come la recente crisi finanziaria mondiale dimostra, appare vero che il sistema di mercato possa offrire adeguate garanzie senza un contestuale efficace controllo dei vigilanti pubblici. Il sistema descritto va nella direzione di una maggiore semplificazione del meccanismo dei controlli, ma senza che da questo derivi un ampliamento delle forme democratiche del controllo. L’autoregolazione presuppone una congruenza tra interessi dei controllati e interessi della collettività su cui la pubblica amministrazione vigila in modo indiretto; la frattura di questa presunzione, dovuta ad esempio al non corretto esercizio dell’autoregolazione o dei controlli indiretti della pubblica amministrazione, favorisce una soluzione che restituisce alle amministrazioni pubbliche la funzione di controllo (è quanto è successo, per esempio, in relazione alla crisi finanziaria internazionale del 2008). 58 Si veda in proposito quanto osservato da Lolli, con specifico riferimento all’emissione dei titoli d’inquinamento: A. LOLLI, L’amministrazione attraverso strumenti economici, Bologna, 2008, 35-6. 342 FABIO GIGLIONI 3.4. Il controllo partecipato in via mediata attraverso la giurisdizione amministrativa Questa forma di controllo partecipato per essere chiarita necessita di una premessa: s’intende la giurisdizione amministrativa come forma di controllo giurisdizionale nell’amministrazione, ovvero come prosecuzione implicita del corretto perseguimento degli interessi pubblici in sede giurisdizionale. In questo caso la partecipazione dei privati può essere affermata solo forzando il significato di controllo partecipato: si tratta, infatti, di controllo mediato e indiretto che avviene per mezzo dell’attività giurisdizionale e dunque in un contesto necessariamente conflittuale e dopo l’esercizio della funzione pubblica. Si mostrano qui due esempi: il primo si caratterizza per un rafforzamento del controllo che è ottenuto soprattutto grazie alla possibilità del giudice, sollecitato dal ricorrente privato, di controllare il potere di valutazione tecnica delle pubbliche amministrazioni; il secondo, invece, ha a che fare con la trasformazione del processo amministrativo in strumento di tutela oggettiva. A partire dalla famosa sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV, n. 601 del 199959, ampiamente ripresa dalla giurisprudenza amministrativa60, sebbene non manchino orientamenti contrastanti61, si è posto fine 59 Si tratta precisamente della sentenza Cons. st., sez. IV, 9 aprile 1999, n. 601, in Dir. proc. amm., 2000, 182, con note di M. DELSIGNORE, Il sindacato del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche: nuoi orientamenti del Consiglio di Stato, e di P. LAZZARA, «Discrezionalità tecnica» e situazioni giuridiche soggettive; si veda altresì L.R. PERFETTI, Ancora sul sindacato giudiziale della discrezionalità tecnica, in Foro amm., 2000, 424 ss. Cfr. anche N. PAOLANTONIO, Il sindacato di legittimità sul provvedimento amministrativo, Padova, 2000, 213-18. 60 Cfr. Tar Lombardia, Brescia, 25 maggio 2010, n. 2137, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Lazio, Roma, sez. III-bis, 12 aprile 2010, n. 6341, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. st., sez. IV, 5 marzo 2010, n. 1274, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Sicilia, Catania, sez. I, 23 gennaio 2009, n. 170, in Foro amm. - Tar, 2009, 263; Cons. st., sez. VI, 19 giugno 2009, n. 4066, in Foro amm. - CdS, 2009, 1555; Tar Lazio, Roma, sez. III, 7 maggio 2008, n. 3732, in Rass. dir. farm., 2008, 4, 766; Cons. st., sez. VI, 10 settembre 2008, n. 4325, in Foro amm. - CdS, 2008, 2460; Cons. st., sez. VI, 27 dicembre 2007, n. 6672, in Foro amm. - CdS, 2007, 3523; Cons. st., 11 aprile 2006, n. 2001, in Dir. e giust., 2006, 20, 84; Cons. st., sez. VI, 9 novembre 2006, n. 6607, in Foro amm. - CdS, 2007, 242; Cons. st., sez. V, 13 dicembre 2005, n. 7059, in Serv. pub. e app., 2006, 321; Cons. st., sez. IV, 31 gennaio 2005, n. 207, in Foro amm. - CdS, 2005, 87. 61 Cfr. Cons. st., sez. IV, 6 maggio 2010, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Lazio, Roma, sez. III, 27 aprile 2010, n. 8622, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Lazio, Roma, sez. III, 9 aprile 2010, n. 6185, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. st., sez. IV, 26 marzo 2010, n. 1776, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. st., sez. V, 23 febbraio 2010, n. 1040, in www.giustizia-amministrativa.it. LA PARTECIPAZIONE ALL’ATTIVITÀ DI CONTROLLO 343 all’equazione discrezionalità tecnica-merito amministrativo, su cui si fondava l’insindacabilità del giudizio della pubblica amministrazione quando questa era investita del potere di esprimere una valutazione in base a norme tecniche, cosa ricorrente nelle funzioni di controllo. Attraverso la distinzione tra opinabilità e opportunità delle valutazioni, la giurisprudenza ha aperto le maglie del sindacato giurisdizionale, riducendo l’area di esclusività dell’apprezzamento della pubblica amministrazione. Questo cambiamento ha offerto nuove opportunità che mettono in crisi le certezze consolidate delle pubbliche amministrazioni, richiedendo a loro carico quantomeno la dimostrazione che i criteri adottati siano davvero congrui alla valutazione dei fatti62. Ne è derivato che il giudice amministrativo ha esteso il suo sindacato alla verifica dell’attendibilità dei criteri di giudizio adottati, nonché alla verifica della loro coerente applicazione al fatto concreto la cui ricostruzione è oramai accertabile anche da parte del giudice amministrativo63. All’interno del sindacato sulla discrezionalità tecnica, i giudici amministrativi hanno operato un’ulteriore distinzione tra discrezionalità tecnica ordinaria e discrezionalità tecnica pura modulando ulteriormente il sindacato in relazione al grado di certezza e asseverazione che una determina regola scientifica porta con sé64. Tutto questo, però, implicitamente ha comportato la necessità che le pubbliche amministrazioni si confrontino anche con l’esterno per 62 Sul potere di discrezionalità tecnica e il relativo sindacato giurisdizionale si possono vedere tra gli altri: F. LEDDA, Potere, tecnica e sindacato giurisdizionale sull’amministrazione pubblica, in Dir. proc. amm., 1983, 371 e seguenti; V. CERULLI IRELLI, Note in tema di discrezionalità amministrativa e sindacato di legittimità, in Dir. proc. amm., 1983, 463 e seguenti; F. SALVIA, Attività amministrativa e discrezionalità tecnica, in Dir. proc. amm., 1992, 704 ss.; D. DE PRETIS, Valutazione amministrativa e discrezionalità tecnica, Padova, 1995; P. LAZZARA, Autorità indipendenti e discrezionalità, Padova, 2001, 265 e seguenti; F. CINTIOLI, Tecnica e processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2004, 983 e seguenti; C. VIDETTA, Le valutazioni tecniche ambientali tra riserva procedimentale e self restraint del giudice amministrativo, in P.M. VIPIANA (a cura di), Il diritto all’ambiente salubre: gli strumenti di tutela, Milano, 2005, 223 ss.; DE LEONARDIS, Il principio di precauzione nell’amministrazione di rischio, cit., 333 ss.; A. POLICE, Il giudice amministrativo e l’ambiente: giurisdizione oggettiva o soggettiva?, in AA.VV., Ambiente, attività amministrativa e codificazione, Milano, 2006, 320-4; VIDETTA, L’amministrazione della tecnica, cit., 285 ss. 63 Sull’influenza dell’ordinamento europeo per tale approdo, si veda R. CARANTA, Tutela giurisdizionale effettiva delle situazioni giuridiche soggettive di origine comunitaria ed incisività del sindacato del giudice nazionale (Kontrolldichte), in Riv. it. dir. pubbl. CE, 1999, 503 ss. 64 Si vedano in questo senso Cons. st., sez. VI, 7 novembre 2005, n. 6152, in Foro amm. - CdS, 2005, 3360; Cons. st., sez. VI, 19 luglio 2002, n. 4001, in Foro it., 2003, III, 75. 344 FABIO GIGLIONI l’attività di valutazione tecnica, in ragione del fatto che al giudice non è più precluso l’accesso al fatto e la valutazione sulla congruità della sua interpretazione se è a tal fine sollecitato dai ricorrenti. La consapevolezza dei privati di poter utilizzare la via giurisdizionale per verificare la valutazione tecnica delle pubbliche amministrazioni se, da un lato, rende più instabili i provvedimenti adottati dalla pubblica amministrazione, dall’altra, la responsabilizza di più, indebolendo lo schermo di protezione dato dalle regole tecniche65. Questa partecipazione mediata alla funzione di controllo, essendo basata sulla pronuncia giurisdizionale, produce gli effetti solo sulle parti in causa, ma è noto che essendo implicati interessi pubblici e provvedimenti di natura amministrativa le conseguenze sono ben più ampie e avvertite dalla collettività. La partecipazione è mediata dal ricorso giurisdizionale e si è consapevoli che qui non può parlarsi in senso tecnico di partecipazione al controllo; resta il fatto che l’ordinamento, attraverso un ampliamento del sindacato giurisdizionale operato per via giurisprudenziale, accresce lo spettro dei poteri dei privati di incidere sull’esercizio della funzione di controllo della pubblica amministrazione. Il sindacato, in ogni caso, non può estendersi fino al giudizio espresso dalla pubblica amministrazione, sicché la richiesta di controllo da parte dei privati attiene principalmente al modo di applicare e interpretare le norme tecniche da parte dell’amministrazione e non alla sostituzione del proprio giudizio a quello dell’amministrazione. L’altro strumento di controllo per via giurisdizionale si ottiene in tutti quei casi in cui si ammette la possibilità di esercitare forme di tutela giurisdizionale a prescindere della verifica di una concreta lesione della situazione giuridica soggettiva66. In questi casi l’intervento giurisdizionale è palesemente finalizzato al conseguimento della legalità oggettiva e quindi la tutela processuale diventa uno strumento posto in mano ai privati per ottenere tale verifica. In questa categoria di controlli rientrano tradizionalmente le azioni popolari67, la cui estensione nel no65 Cfr. A. BARONE, Il diritto del rischio, cit., 194-7. 66 Per una casistica di questa fattispecie si veda C. MANCUSO, Il processo amministrativo come strumento di controllo della Pubblica Amministrazione, in L. VANDELLI (a cura di), Etica pubblica e buona amministrazione, Milano, 2009, 185 ss. 67 Cfr. A.M. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1989, II, 1218; S. AGRIFOGLIO, Riflessioni critiche sulle azioni popolari come strumento di tutela degli interessi collettivi, in Riv. trim. dir. pubbl., 1974, 1395; C. BIAGINI, L’azione popolare e la tutela degli LA PARTECIPAZIONE ALL’ATTIVITÀ DI CONTROLLO 345 stro paese è tuttavia limitata. Ma un’importante novità, che si collega anche con quanto osservato a proposito del controllo degli utenti sui servizi resi nei pubblici servizi, è costituita dall’azione collettiva che è disciplinata dal d.lgs. n. 198 del 2009, che peraltro s’intreccia, limitatamente alle azioni promosse per le garanzie nei confronti dei servizi pubblici, con l’istituto della class action, previsto dall’art. 140-bis, cod. cons.68. Attraverso questa tutela si offre la possibilità di dare effettività agli impegni assunti dalle pubbliche amministrazioni o dai concessionari di pubblico servizio in relazione al raggiungimento di determinati standard di prestazione, la cui inosservanza è dunque sanzionata attraverso l’intervento del giudice amministrativo. Che si possa accostare questa forma di tutela a un esercizio indiretto di una funzione di controllo è anche dimostrato dalla previsione che l’azione giurisdizionale non è proponibile se per le medesime verifiche sia stato promosso un procedimento di fronte a un’autorità amministrativa che svolge una funzione di regolazione e controllo (art. 2, d.lgs. n. 198 del 2009). Diversamente poi dalla forma di partecipazione al controllo trattata nel paragrafo precedente, il potere decisionale del giudice è di tipo ordinatorio al fine di conseguire concretamente il risultato a cui il resistente si era impegnato preventivamente. Si tratta, dunque, di una tutela che, pur avendo quale fine sempre la legittimità, aspira a fornire gli strumenti necessari a ripristinare una situazione di equilibrio tra gli erogatori di servizio e gli utenti. È sottesa però l’idea che gli utenti siano soggetti alla cui soddisfazione degli interessi le amministrazioni e i soggetti legittimati a erogare servizi devono imputare la propria attività69. interessi diffusi, in AA.VV., Rilevanza e tutela degli interessi diffusi: modi e forme di individuazione e protezione degli interessi della collettività, in Atti del XXIII Convegno di studi di scienza dell’amministrazione, Varenna, 22-24 settembre 1977, Milano, 1978, 177; C. MIGNONE, L’azione popolare prevista dalla legge di riforma delle autonomie locali, in Scritti in onore di P. Virga, Milano, 1994, II, 1131. 68 Cfr. R. LOMBARDI, La tutela degli interessi meta-individuali, in F.G. SCOCA (a cura di), Giustizia amministrativa, Torino, 2009, 229; C.E. GALLO, La class action nei confronti della pubblica amministrazione, in Urb. e app., 2010, 501; U. ZINGALES, Una singolare forma di tutela del cittadino nei confronti della p.a.: la class action, in Gior. dir. amm., 2010, 246. 69 Si osservi che proprio sulla base di tale presupposto il consiglio di stato, rompendo con una giurisprudenza piuttosto restrittiva, ha recentemente aperto alla possibilità che anche il singolo utente possa attivarsi per determinare le modalità di organizzazione di un servizio: cfr. Cons. st., sez. V, 15 settembre 2009, n. 5501, in www.labsus.org, con commento di F. CORTESE. 346 FABIO GIGLIONI 3.5. Il controllo partecipato con origine a-giuridica Quest’ultima categoria di controllo partecipato riguarda quei casi molto diffusi, in cui i privati assumono un ruolo significativo nelle attività di controllo sia pure attraverso meccanismi non pienamente formalizzati. Si tratta di attività collegate a interessi che rilevano solo di fatto, ma che assumono una rilevanza ben più incisiva di quanto non dica la loro invisibilità giuridica (si pensi alla concorrenza che si è sviluppata di fatto nell’informazione statistica in materia di certezze notiziali) oppure di quelle forme di partecipazione dei privati a procedimenti di controllo su attività aventi un forte impatto sul territorio che molto spesso si fondano su procedimenti che sono elaborati in sede politica per attenuare il tasso di conflittualità (ipotesi ricorrente specie nel c.d. diritto di emergenza, dove la causa di necessità che altera il normale esercizio dei poteri trova nel momento applicativo un recupero del confronto degli interessi proprio nelle procedure di controllo). Tali fenomeni hanno quasi sempre un’origine fattuale, poi però sono in grado di assumere anche una valenza giuridica a seguito di convenzioni che le autorità ufficiali responsabili dell’esercizio della funzione di controllo stipulano con i soggetti privati o per effetto di altri processi di giuridificazione70. Tali forme di controllo partecipato hanno una funzione prevalentemente deflattiva di conflitti potenziali e/o reali. I privati ammessi a partecipare a queste forme di controllo non assumono alcuna legittimazione generale, ma il loro intervento viene limitato alla soluzione del problema concreto. Il trapasso di queste forme di partecipazione dall’invisibilità alla manifesta trasparenza non è però sempre garantito: nei casi in cui, ad esempio, queste partecipazioni si registrano nei procedimenti di emergenza che sono caratterizzati dalla sospensione e dalle deroghe delle ordinarie regole di garanzia, il recupero di partecipazione sembra funzionale al consolidamento della legittimazione di chi opera con i poteri straordinari. La partecipazione è in questo caso opaca e non corredata da strumenti di tutela autonomamente attivabili dai cittadini. 70 I processi di giuridificazione si spiegano con la necessità avvertita di allargare la platea dei diritti e garantire in modo più compiuto la giustizia attraverso le c.d. «formanti» del diritto: cfr. G. ALPA, La c.d. giuridificazione delle logiche dell’economia di mercato, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1999, 726-8. Si leggano in proposito anche le osservazioni di M. CAMMELLI, Considerazioni minime in tema di arene deliberative, in Stato e mercato, 2005, 73, 923, il quale sottolinea che più propriamente deve parlarsi di esperienze informali invece di agiuridicità, dal momento che quest’ultimo connotato è un profilo che si collega a molti aspetti non univoci. LA PARTECIPAZIONE ALL’ATTIVITÀ DI CONTROLLO 347 Il controllo partecipato non è in grado di modificare le policy ma, nondimeno, è in grado di influenzare il ‘come’ conseguirle; a differenza della partecipazione ai procedimenti espressivi delle funzioni di controllo, però, i cittadini e gli utenti restano in una condizione di soggezione privi di garanzie da far valere. Ci sono però anche fenomeni virtuosi di acquisizione di giuridicità di interessi e relazioni che nascono a-giuridiche. Ciò si manifesta in quei casi in cui la giurisprudenza amplia la legittimazione processuale di cittadini e associazioni di cittadini al di là di quanto consentito dalle norme stesse. È noto come il carattere personalistico della legittimazione a ricorrere del nostro ordinamento abbia costituito spesso un freno all’ampliamento della legittimazione processuale specie con riferimento agli interessi cosiddetti diffusi. A partire dagli anni settanta però la giurisprudenza ha consentito gradualmente questo ampliamento e tale giurisprudenza è stata anche alla base di successive scelte del legislatore che ha espressamente riconosciuto a talune associazioni dotate di alcuni requisiti di agire in sede giurisdizionale per tutelare interessi generali71. L’esito di questo processo è molto interessante ai nostri fini perché spiega come l’ordinamento ha, a talune condizioni, permesso a organizzazioni private di agire per interessi generali concorrenti con quelli delle pubbliche amministrazioni, attraverso l’attivazione degli strumenti di tutela giurisdizionale. Nonostante questo processo di ampliamento della legittimazione processuale, i criteri utilizzati sono comunque restati ab71 Anche su questa vicenda esiste una letteratura molto vasta, di cui qui ci si limita a ricordare alcuni dei contributi: L. CAPPELLETTI, Appunti sulla tutela giurisdizionale degli interessi collettivi o diffusi, in Le azioni a tutela di interessi collettivi, Atti del convegno di Pavia del 1974, Padova, 1976, 191 ss.; F.G. SCOCA, La tutela degli interessi collettivi nel processo amministrativo, ivi, 43 ss.; C. DELL’ACQUA, La tutela degli interessi diffusi, Milano, 1979; S. PIRAINO, L’interesse diffuso nella tematica degli interessi giuridicamente protetti, in Riv. dir. proc., 1979, 202 ss.; AA.VV., La tutela degli interessi diffusi, Atti del XXIII conv. di studi di sc. dell’amm., Milano, 1978; A. ROMANO, Il giudice amministrativo di fronte alla tutela degli interessi c.d. diffusi, in Foro it., 103, 1978, V, 8 ss.; G. BERTI, Interessi senza struttura (i c.d. interessi diffusi), Studi in onore di Antonio Amorth, Milano, 1982, 67 ss.; B. CARAVITA, Interessi diffusi e collettivi, in Dir. soc., 5, 1982, 167 ss.; A. ANGIULI, La tutela degli interessi superindividuali nella giurisprudenza amministrativa, in Dir. soc., 1983, n. 2, 337 ss.; R. FEDERICI, Gli interessi diffusi. Il problema della loro tutela nel diritto amministrativo, Padova, 1984; R. FERRARA, Gli interessi superindividuali fra procedimento amministrativo e processo, Padova, 1984; B. CARAVITA, La tutela giurisprudenziale degli interessi diffusi e collettivi, in Riv. crit. dir. priv., 1985, 31; M. NIGRO, Le due facce dell’interesse diffuso: ambiguità di una formula e indicazioni della giurisprudenza, in Foro it., 112, 1987, V, 7-20; A. PUBUSA, Procedimento amministrativo e interessi sociali, Torino, 1988; R. FERRARA, Interessi collettivi e diffusi (ricorso giurisdizionale amministrativo), Dig. IV, Disc. pubbl., 8, 1993, 481 ss. 348 FABIO GIGLIONI bastanza restrittivi: quando è stato il legislatore a garantire tale esito, i criteri utilizzati sono stati prevalentemente quello della rappresentatività; quando è stata la giurisprudenza, la ricerca del profilo personalistico della lesione d’interesse è stato ostinatamente ricercato, comprimendo comunque un esito più significativo. Da qui, ad esempio, il rifiuto piuttosto generalizzato della giurisprudenza di riconoscere la legittimazione processuale alle associazione che abbiano partecipato al procedimento amministrativo per la tutela degli interessi diffusi. Da qualche anno, però, la giurisprudenza si segnala per decisioni che sembrano andare oltre quanto consolidato negli ultimi venti anni. Si tende a ritenere che il pregiudizio personale che deve essere dimostrato in sede di accesso alla tutela giurisdizionale può essere semplicemente presunto e ciò avviene quando, sulla base di alcuni elementi, si dimostra che il peggioramento degli interessi generali si ripercuota obiettivamente sui ricorrenti. In altre parole, non sarebbe necessario dimostrare un collegamento fattuale o documentale dei ricorrenti con gli effetti riconducibili al provvedimento, ma è la semplice minaccia degli interessi generali che si ripercuotono sui ricorrenti a giustificare la legittimazione processuale: interessi, dunque, che avremmo definito meramente di fatto acquistano per esito di questo collegamento con la minaccia degli interessi generali una loro intrinseca giuridicità che il giudice riconosce. Alla base di questa ricostruzione c’è l’accettazione da parte dei giudici che i cittadini, a prescindere dalla propria posizione giuridica originaria, possono valutare gli interessi generali e intervenire perché la loro cura non sia inferiore a certi standard. Non a caso, anche se non sempre, la giurisprudenza in esame cita la sussidiarietà orizzontale come principio che è alla base della legittimazione processuale72. Si tratta di una ricaduta importante del principio costituzionale, perché amplia la capacità d’azione e d’influenza dei cittadini nei confronti della pubblica am72 Cfr. Cons. st., sez. V, 19 febbraio 2007, n. 826, in Dir. proc. amm., 2007, con nota di A. SQUAZZONI, Ancora sulla legittimazione del consigliere ad impugnare atti del collegio di appartenenza, 859; Tar Emilia Romagna, Bologna, 6 luglio 2007, n. 1618, in Foro amm. - Tar, 2007, 2344; Cons. st., sez. IV, 2 ottobre 2006, n. 5760, in Riv. giur. edil., 2007, 1170; Tar Puglia, Lecce, 5 aprile 2005, n. 1847, in Giur. it., 2006, 408; Tar Liguria, 11 maggio 2004, n. 747, in Foro amm. - Tar, 2004, 1330; Tar Liguria, 18 marzo 2004, n. 267, in Riv. giur. edil., 2004, 1456; Tar Puglia, Bari, 9 gennaio 2003, n. 21, in Ragiusan, 2003, 229-230, 471. Per un’analisi complessiva della dottrina si vedano F. DE LEONARDIS, Il principio di precauzione nell’amministrazione di rischio, cit., 226-8; P. DURET, Riflessioni sulla legitimatio ad causam in materia ambientale tra partecipazione e sussidiarietà, in Dir. proc. amm., 2008, 688 e seguenti; R. LOMBARDI, op. cit., 229. LA PARTECIPAZIONE ALL’ATTIVITÀ DI CONTROLLO 349 ministrazione, anche se in virtù di un intervento mediato dell’autorità giudiziaria. Nella sentenza del Tar Lombardia, n. 4345 del 200973, recentemente per questa via è stato consentito a dei cittadini di opporsi a una variante urbanistica per la minaccia che questa avrebbe comportato alla viabilità, alle zone verdi e alla dotazione complessiva di parcheggi pubblici. Si tratta di forme di partecipazione che disegnano relazioni democratiche integrative di quella rappresentativa: da un lato, vi è infatti un’amministrazione che è chiamata a eseguire politiche elaborate dal personale politico e dirigenziale con le risorse attribuite secondo il principio della rappresentanza democratica; dall’altro, vi è l’esigenza di confrontarsi con dei soggetti che agendo in proprio nell’attività di accertamento degli effetti di quelle scelte chiedono di mettere a confronto le risultanze. Si tratta di interessi di fatto che però acquisiscono una propria giuridicità al momento in cui entrano a far parte dei procedimenti giurisdizionali di controllo e verifica. In questo caso la selezione dei ricorrenti non avviene con il criterio della rappresentatività, ma con l’accertato collegamento tra pregiudizio degli interessi generali e pregiudizio della qualità della vita dei ricorrenti. 4. Analisi delle forme partecipatorie Dall’analisi emergono principalmente due dati: il controllo partecipato è, in parte, favorito direttamente dall’ordinamento giuridico che si è dotato nel tempo e progressivamente di istituti e soluzioni che consentono forme di partecipazione dei cittadini anche alle funzioni di controllo74, recentemente perfino estese alla funzione della sicurezza pubblica75, e, in parte, viceversa, risulta essere la conseguenza di fenomeni 73 Cfr. Tar Lombardia, Milano, sez. II, 9 luglio 2009, n. 4345, in www.labsus.org, con commento di P. CERBO. 74 Cfr. ALLEGRETTI, Democrazia partecipativa: un contributo alla democratizzazione della democrazia, cit., 41-2. 75 Ci si riferisce all’art. 44, l. n. 94 del 2009, che consente ad associazioni di cittadini che presentino requisiti stabiliti dal d.m. del Ministero degli interni 5 agosto 2009 di svolgere attività di segnalazione per prevenire e contrastare eventi che possono minacciare la pubblica sicurezza o che possano arrecare disagio sociale. Peraltro, rispetto a quest’ultimo obiettivo la corte costituzionale si è recentmente pronunciata con la sentenza n. 226 del 2010, dichiarando illegittimo questo riferimento in quanto invasivo delle competenze legislative delle regioni. 350 FABIO GIGLIONI che pur originando da un mero piano fattuale diventano poi di rilevanza giuridica per effetto di esigenze deflattive di conflitti, più o meno latenti, o per qualificazione giurisprudenziale. In ogni caso ne discende che la funzione di controllo non è immune al confronto di interessi. Se, in origine, la strumentalità della funzione di controllo alle funzioni di amministrazione attiva esprimeva il connotato dell’accessorietà e quindi era di relativa importanza sotto il profilo dell’incidenza degli interessi, il carattere di strumentalità viene ora considerato come elemento della subalternità della funzione di controllo rispetto agli interessi dei controllori e ciò non garantisce più automaticamente i controllati. Questo mutamento d’interpretazione esige il coinvolgimento dei privati nelle attività di controllo al fine di attenuare la parzialità del suo esercizio, quand’anche fosse solo apparente76. D’altra parte già Giannini aveva osservato a proposito del mero controllo di legittimità e neutrale che «se in esso è impossibile la ponderazione degli interessi, che lo teniamo a fare?»77, mettendo in rilievo l’importanza della connessione tra funzione di controllo e dinamica degli interessi78. La catalogazione delle ipotesi di partecipazione dei privati all’attività di controllo mette in evidenza anche la forte eterogeneità degli istituti, fino a ricomprendere ipotesi in cui anche l’autorità giudiziaria costituisce un mezzo per la sua realizzazione. Tale risultato è da considerare forse scontato date le premesse che sono alla base di questo lavoro, nondimeno assume rilievo osservare che questi istituti rivelano finalità diverse. In alcuni casi, effettivamente, il coinvolgimento dei privati ha lo scopo di ampliare le garanzie di cittadini, associazioni e imprese nello svolgimento delle attività di controllo79; in altre circostanze, pur non avendo un intento vero e proprio di garanzia, il loro coinvolgimento risponde pur sempre alla logica del rafforzamento del ruolo dei cittadini, le cui opinioni e valutazioni vengono prese in considerazione per migliorare la resa dei servizi attraverso la costituzione di un circuito virtuoso tra valutazioni esterne e valutazioni interne ai soggetti chiamati a 76 Cfr. F. DE LEONARDIS, Il principio di precauzione nell’amministrazione di rischio, cit., 204. 77 Cfr. M.S. GIANNINI, Relazione di sintesi, in AA.VV., La ponderazione degli interessi nell’esercizio dei controlli, Atti del XXXIV Convegno di studi di scienza dell’amministrazione, Varenna 22-24 settembre 1988, Milano, 1991, 244. 78 In questi termini anche BARONE, La certificazione nel diritto del rischio, cit., 40. 79 Il pensiero corre naturalmente alle ipotesi della partecipazione procedimentale, ma anche a quelle partecipazioni che avvengono in via mediata attraverso la via giudiziaria. LA PARTECIPAZIONE ALL’ATTIVITÀ DI CONTROLLO 351 erogare determinati servizi o attività80; infine, ci sono istituti in cui il coinvolgimento dei privati ha un intento proteso a migliorare l’attività di controllo in sé, sostituendo alla ratio burocratica quella di mercato e quella della responsabilizzazione diretta81. In larga parte emerge che il controllo che vede la partecipazione sotto varia veste dei cittadini è collegato principalmente ai risultati dell’attività (giudizio sulla qualità dei servizi, efficacia del controllo) ma, diversamente da quanto normalmente viene osservato, i profili di garanzia e di legittimità non sono esclusi dal controllo partecipato. L’allargamento soggettivo, attraverso l’ampliamento della legittimazione processuale, e oggettivo, attraverso il rafforzamento delle garanzie processuali e del sindacato giurisdizionale, delle tutele giurisdizionali sono tese proprio a irrobustire soluzioni attraverso cui il controllo di legittimità dell’azione amministrativa avvenga con strumenti che vedano la partecipazione più incisiva dei soggetti privati. Sono dunque eterogenei gli istituti che affermano la partecipazione dei privati all’attività di controllo, ma sono eterogenei anche i fini per cui si ritiene utile la partecipazione all’attività di controllo. Resta però costante il dato che gli istituti presi in esame tentano di accrescere anche l’affidamento sociale dell’attività di controllo: avvicinare le amministrazioni ai cittadini attraverso il giudizio sui servizi resi, ampliare le forme di garanzia o affidare direttamente ai privati l’attività di controllo sono tecniche che perseguono l’obiettivo di ampliare la credibilità di queste forme di attività. L’esito di questo rafforzamento della fiducia sociale avviene secondo meccanismi diversi: in certi casi, l’ampliamento della fiducia è ricercato attraverso la collaborazione tra le parti, in altri attraverso la contrapposizione e dunque attraverso il rafforzamento delle posizioni dei privati. Tutto questo non è irrilevante: se la certezza delle relazioni si fonda su un maggiore affidamento che è l’esito di un compromesso tra modi di giudicare e valutare diversi, è probabile che il rapporto con la verità si ponga in una condizione di equilibrio; se, viceversa, il maggior affidamento sociale si fonda sulla pregiudiziale prevalenza della posizione di alcuni sugli altri, il maggiore affidamento sociale della certezza non è detto che sia allineato con la verità oggettiva82. 80 Qui ovviamente ci si riferisce alle ipotesi in cui dal coinvolgimento dei privati s’intende realizzare un miglioramento della qualità dei servizi. 81 Il riferimento è ovviamente alle esperienze di autocontrollo. 82 È stato osservato che questo collegamento è avvertito in modo particolare nelle questioni in cui si tratta di accertare le qualità intrinseche di beni e persone da cui derivano 352 FABIO GIGLIONI Sebbene il concetto di verità abbia in termini giuridici un’indubbia difficoltà a essere considerato, la relazione tra certezza e verità non può essere del tutto trascurata, specie quando alla base della loro relazione incerta è fondata la tesi dell’ampliamento delle forme di controllo esercitate dai privati. È noto in dottrina il tema della ‘cattura’ dei regolatori pubblici da parte degli interessi privati organizzati e questo, naturalmente, può accadere anche nel caso della funzione di controllo; anzi, forse proprio qui possono presentarsi profili problematici particolarmente delicati. Il fenomeno risulta essere l’esito della combinazione di due elementi: la debolezza dei corpi tecnici delle pubbliche amministrazioni e la capacità delle organizzazioni private di condizionare con la forza economica e tecnica le amministrazioni83. Tutto questo induce a ritenere che il maggior affidamento sociale rimesso alla sola pregiudiziale prevalenza degli operatori privati può incorrere negli stessi problemi che hanno posto in crisi la tradizionale appartenenza esclusiva della funzione di controllo alla pubblica amministrazione, specie se la responsabilizzazione dei privati è intesa come automatico esercizio di dinamiche di mercato in assenza di alcune regole di responsabilità84. Senza la ricerca di un equilibrio tra le parti e del loro ruolo, il maggior affidamento sociale rischia di divenire illusorio e foriero di nuovi conflitti con le componenti più deboli della società85. rilevanti effetti economici (cfr. A. ROMANO TASSONE, op. cit., 882-3), ma il tema sembra avere invece ricadute più rilevanti che vanno oltre il mero apprezzamento del valore economico di beni e persone e riguarda la qualità delle relazioni democratiche. Sulla complessa relazione tra verità e diritto molti si sono occupati; si rinvia per tutti a P. HÄBERLE, Diritto e verità, Torino, 2000. Sulla connessione tra controlli, fiducia e rischi si vedano anche le considerazioni di M. POWER, The Audit Society. Rituals of Verification, New York, 1997, trad. it. da F. PANOZZO, La società dei controlli. Rituali di verifica, Torino, 2002, 188-99. 83 Il tema è noto in dottrina; si vedano a titolo esemplificativo E. GUSTAPANE, La crisi dei corpi tecnici, in M. D’ALBERTI, R. FINOCCHI (a cura di), Corruzione e sistema istituzionale, Bologna, 1994, 213; S. POLI, Gli accordi volontari nel diritto comunitario, in Riv. giur. amb., 1998, 399; A. LUCARELLI, La partecipazione al procedimento amministrativo tra democrazia e disordine sociale, in Pol. dir., 2003, 133-5; DE BENEDETTO, op. cit., 7; CARLONI, op. cit., 127. 84 Seri problemi anche sotto il profilo della corruzione sono stati riscontrati proprio nei casi di attività pubblica esercitata dai privati; cfr. B.G. MATTARELLA, Le regole dell’onestà, Bologna, 2007, 37 e anche 206-8, il quale richiama anche l’osservanza dell’art. 54, c. 2, cost. per tutti i privati che sono tenuti a svolgere funzioni pubbliche. Tale ultimo riferimento viene fatto anche da V. CERULLI IRELLI, Per una politica dell’etica pubblica: controlli e disciplina della funzione pubblica, in L. VANDELLI (a cura di), Etica e buona amministrazione. Quale ruolo per i controlli, Milano, 2009, 27. 85 Cfr. C. VIDETTA, L’amministrazione della tecnica, cit., 208-9, la quale osserva che specie ove sia l’utilizzo della tecnica, la concentrazione delle conoscenze specifiche solo in LA PARTECIPAZIONE ALL’ATTIVITÀ DI CONTROLLO 5. 353 Il fondamento giuridico della partecipazione dei privati all’attività di controllo In conclusione resta da verificare se sia possibile rintracciare un principio di carattere generale dell’ordinamento che possa ricomprendere gli istituti della partecipazione dei privati all’attività di controllo. Non si tratta evidentemente della ricerca di un principio da cui dipende la stessa legittimità degli istituti di partecipazione, giacché, come si è visto, essi hanno trovato vita anche a prescindere da un principio di carattere generale; può però essere ugualmente utile ricercare un fondamento di carattere generale per stabilizzare e rafforzare le soluzioni di coinvolgimento dei privati nell’attività di controllo, perfino per immaginarne un possibile ulteriore sviluppo specie pensando ad alcune pronunce giurisprudenziali86. A questo proposito due possibili tesi sono da affrontare: la prima è quella secondo cui la partecipazione all’attività di controllo non dovrebbe ricevere alcuna considerazione particolare dal momento che si tratta pur sempre di una forma di partecipazione a una funzione amministrativa che segue le regole ordinarie che vengono osservate per la partecipazione a qualunque altra funzione di amministrazione attiva; la seconda considera questa forma di partecipazione dei privati come ulteriore realizzazione della democratizzazione dell’ordinamento giuridico e dei rapporti tra amministrazioni e privati. Con riferimento alla prima tesi si osserva che la partecipazione dei privati all’attività di controllo presenta aspetti peculiari rispetto alla partecipazione a qualunque altra funzione amministrativa: il procedimento amministrativo non è l’unico luogo in cui essa si manifesta. La valutazione della qualità dei servizi, l’uso della via giudiziaria sono peculiarità delle forme di partecipazione all’attività di controllo che non trovano corrispondenza nelle altre forme di partecipazione; certamente, vi sono alcune esperienze che in nulla sembrano differenziarsi dalla normale partecipazione al procedimento, ma altre sono al di fuori: il che giustifica una considerazione speciale. Rispetto alla seconda osservazione, invece, occorre osservare che l’eterogeneità dei fini delle forme di partecipazione all’attività di conalcuni gruppi sociali può costituire una ragione di ineguaglianza che può essere compensata solo da un ruolo forte svolto dalla pubblica amministrazione. 86 I profili teorici di questa ricerca si trovano nel sempre attuale scritto di M. NIGRO, Il nodo della partecipazione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1980, 230-6. 354 FABIO GIGLIONI trollo mostra come l’ampliamento delle garanzie, per quanto importante, non sia l’unico scopo di questi istituti. Nelle forme in cui s’intende sostituire la razionalità del mercato a quella burocratica quel che si ottiene non è necessariamente un rafforzamento della partecipazione democratica, che anzi, per certi versi, potrebbe anche soffrirne dal momento che i privati non sono tenuti sempre a rispettare i vincoli pubblicistici. Si deve pertanto far riferimento a qualche altro principio che non sia quello dell’uguaglianza sostanziale, come alcuni autori hanno sostenuto87. Nell’esame dei vari istituti di partecipazione dei privati condotta nei paragrafi precedenti è spesso ricorso il principio di sussidiarietà orizzontale, richiamato di volta in volta per ciascun istituto talvolta dalla dottrina88, talaltra dalla giurisprudenza nonché dal legislatore. Diviene allora necessario verificare se il principio di sussidiarietà orizzontale possa essere assunto quale principio di carattere generale per l’affermazione di questi istituti. Non c’è dubbio che la suggestione sia forte: la sussidiarietà orizzontale disegna relazioni innovative tra privati e pubbliche amministrazioni volte a superare antichi confini proprio come accade col fenomeno della partecipazione dei privati all’attività di controllo, sicché l’accostamento appare pertinente. Alcuni degli istituti di partecipazione all’attività di controllo, poi, si collegano certamente al principio di sussidiarietà orizzontale: è così per la valutazione della qualità dei servizi, per l’ampliamento della legittimazione processuale e per l’autoamministrazione89. Tuttavia, anche se il principio di sussidiarietà orizzontale è richiamato dal legislatore per quelle forme di controllo esercitate dai privati secondo logiche di mercato, non si condivide la tesi secondo cui questi istituti sarebbero da collegare alla sussidiarietà orizzontale. Non mancano davvero in dottrina tesi orientate a ritenere che la sussidiarietà orizzontale ampli le relazioni di mercato a scapito della sfera pubblica, ma allora si pone un problema di coerenza: la sussidiarietà orizzontale non può essere presa 87 Cfr. ALLEGRETTI, Democrazia partecipativa e controllo dell’amministrazione, cit., 75; ARENA, L’«utente-sovrano», cit., 156-7; G. ARENA, Gli «uffici per le relazioni con il pubblico», in Studi in memoria di G. Gorla, Milano, 1994, III, 2674. 88 Solo per limitarsi ad alcuni più espliciti richiami si rinvia a DE LEONARDIS, op. cit., 200 e 204; A. BARONE, La certificazione nel diritto del rischio, cit., 52-3 con riferimento al perseguimento di obiettivi consolidati di produzione di beni e servizi eco compatibili (EMAS) relativamente anche ai processi produttivi; si veda anche G. ARENA, Le diverse finalità della trasparenza amministrativa, cit., 40-1. 89 Cfr. P. DURET, Sussidiarietà e autoamministrazione dei privati, Padova, 2004. LA PARTECIPAZIONE ALL’ATTIVITÀ DI CONTROLLO 355 in considerazione sia per alludere a relazioni di collaborazione che sperimentano nuovi rapporti tra amministrazioni e privati, sia per rafforzare la separazione tra questi soggetti della relazione mettendo l’una contro gli altri. Poiché è emerso che una delle caratteristiche delle forme di partecipazione all’attività di controllo è anche l’eterogeneità dei scopo, il principio di sussidiarietà orizzontale non appare utile a questo scopo; può spiegare certamente alcuni istituti ma non tutti. Stante, peraltro, la forte connessione tra l’art. 3, c. 2, e l’art. 118, c. 4, Cost., è difficile sostenere che quello che non può essere ottenuto dal principio di eguaglianza sostanziale possa essere ottenuto dal principio di sussidiarietà orizzontale. Dunque il principio da ricercare non potrà evidentemente avere una forza legittimante unitaria, dal momento che gli istituti che si sono presi in esame sono molto eterogenei; dovrà trattarsi di un principio di rinforzo, abbastanza ampio da sostenere i particolari principi che sono alla base dei singoli istituti. È in questa prospettiva che appare utile richiamare per gli istituti della partecipazione all’attività di controllo il principio di buona amministrazione. Esso è richiamato dalla Carta dei diritti fondamentali all’art. 41, sottoforma di diritto a una buona amministrazione, ma è noto che esso ha un’origine giurisprudenziale che si spinge molto oltre le fattispecie individuate nella norma richiamata che appare, viceversa, restrittiva. Secondo l’accezione più ampia di questo principio, costituiscono istituti coerenti a realizzare una buona amministrazione tutti quelli che consentono di limitare i pregiudizi che i privati possono subire quando questi entrano in qualunque modo in relazione con l’amministrazione. Si tratta di un principio generale e ampio che, pur non identificandosi con singoli istituti, favorisce soluzioni che, a parità del corretto assolvimento degli interessi pubblici, consentono ai privati di avere un ruolo maggiormente attivo o comunque di godere di alcune forme di garanzie rafforzate90. Il principio non è di per sé immediatamente sanzionabile, 90 Cfr. F. TRIMARCHI BANFI, Il diritto ad una buona amministrazione, in M.P. CHITI, G. GRECO (diretto da), Trattato di diritto amministrativo europeo, Milano, 2007, 84, che propone proprio questo tipo di interpretazione, anche se non pare collegare il principio agli istituti qui esaminati. Si veda anche H.P. NEHL, Good administration as procedural night and/or general principle?, in H.C.H. HOFMANN, A.H. TÜRCK (eds.), Legal Challenges in EU Administrative Law, Chattenham, 2009, 322 e seguenti. Un accenno invece al collegamento tra funzioni di controllo e principio di buona amministrazione è invece operato da C. TUBERTINI, Controlli sostitutivi ed etica della Pubblica Amministrazione, in L. VANDELLI (a cura di), Etica e buona amministrazione. Quale ruolo per i controlli, Milano, 2009, 112-3. 356 FABIO GIGLIONI ma si affianca a quelli che concretamente sono alla base degli istituti che disciplinano una certa relazione; non si collega a determinate situazioni giuridiche soggettive, ma ne comprende diverse sia attive sia passive, tanto per il soggetto pubblico quanto per quello privato. Tale principio presuppone evidentemente una leale collaborazione tra amministrazione e privati, cosa che è rinvenibile perfino nelle ipotesi che abbiamo definito del controllo in funzione della responsabilizzazione, dove le pubbliche amministrazioni sono defilate ma, in verità, non del tutto assenti. A differenza del principio di sussidiarietà orizzontale, che pure non è del tutto estraneo a concetti quali quelli di cooperazione e collaborazione, quello di buona amministrazione non ha un immediato significato precettivo e questo consente di enucleare istituti tanto eterogenei. Nel caso della partecipazione all’attività di controllo, gli interessi dei privati sono sottoposti potenzialmente a un alto tasso di pregiudizialità il che può giustificare l’adozione di istituti che o rimettano direttamente a loro, nel rispetto di certe condizioni, la stessa attività o rafforzino le loro garanzie. L’esito di queste scelte comporta un ampliamento di responsabilità sia per la pubblica amministrazione, sia per i privati: le amministrazioni che, nel rispetto del principio di buona amministrazione, sono chiamate ad assolvere i fini pubblici collegati all’attività di controllo, non possono sottovalutare quale sistema adottare, dal momento che devono privilegiare quelli che rafforzano il ruolo dei privati; dall’altro canto, i privati assumono una responsabilità più grave che può tradursi anche nel rispetto di regole pubblicistiche al fine di evitare che agli abusi di un’amministrazione poco disposta al coinvolgimento degli interessi privati si sostituiscano privilegi per alcuni gruppi forti privati. RENATO CAMELI IL CONTROLLO DELLA PARTECIPAZIONE. PROFILI ISTITUZIONALI E DI GARANZIA SOMMARIO: 1. Una premessa di metodo. – 1.1. Le difficoltà nella delimitazione dell’ambito di indagine. – 1.2. Superamento della critica e necessità di una ricostruzione sistematica – 2. La funzione di controllo dei soggetti istituzionali. – 2.1. La Corte dei Conti. – 2.2. Il difensore civico. – 3. L’attività giurisdizionale quale elemento di garanzia della partecipazione. – 3.1. Una breve analisi di diritto comparato. – 3.2. L’estensione giurisprudenziale della partecipazione al procedimento e della legittimazione al processo quale premessa per un sindacato giurisdizionale sulla corretta partecipazione. – 3.3. Le prime pronunce sulla partecipazione ai processi decisionali. – 4. I requisiti soggettivi della partecipazione come elemento di garanzia. – 5. Osservazioni conclusive. – 5.1. Profili di mutamento della funzione di controllo nel contesto della democrazia partecipativa. – 5.2. Il controllo quale funzione di garanzia. 1. Una premessa di metodo 1.1. Le difficoltà nella delimitazione dell’ambito di indagine L’analisi delle trasformazioni della funzione di controllo nel modello di democrazia partecipativa, sul versante dei soggetti istituzionali, si configura quale operazione alquanto complessa1. Una premessa di inquadramento sistematico e metodologico è necessaria non solo perché, sotto tale profilo, la dottrina non ha ancora 1 La funzione di controllo nel nostro ordinamento è stata oggetto di numerosi studi in dottrina. In particolare, per l’individuazione dei caratteri essenziali, si sottolinea il risalente saggio di U. FORTI, I controlli dell’amministrazione comunale, in Primo Trattato completo di diritto amministrativo italiano, a cura di V.E. ORLANDO, vol. II Parte II, Milano, 1915, 608; più recentemente, cfr. M.S. GIANNINI, Controllo: nozione e problemi, in Riv. trim. dir. pubbl., 1974, 1264; G. BERTI - L. TUMIATI, Controllo, in Enc. dir., X, Milano, 1962, 298; G. BERTI N. MARZONA, Controlli amministrativi, in Enc. dir. Agg. III, Milano, 1999, 464; G. D’AURIA, I controlli, in Trattato di diritto amministrativo, Parte generale, vol. II, a cura di S. CASSESE, Milano, 2003, 1343. Dalla dottrina viene in particolar modo evidenziata la pervasività dei controlli, ma al contempo, la loro essenzialità nel sistema giuridico-amministrativo. 358 RENATO CAMELI esplorato compiutamente l’attività di controllo, ma, soprattutto, perché risulta essere problematica, o almeno non immediata, la stessa individuazione concettuale dei campi di indagine2. In particolare, da una prima analisi, sia degli studi compiuti in dottrina sia di alcuni casi, sembrano emergere due opposte interpretazioni. In primo luogo, si tende a circoscrivere la funzione di controllo esclusivamente alla vigilanza propria delle collettività interessate sull’attività svolta dai pubblici poteri, al fine di favorire una maggiore aderenza dell’azione amministrativa all’interesse pubblico perseguito3. In base a tale ricostruzione, controllo e partecipazione popolare costituiscono due “poli” necessariamente complementari ovvero, in taluni casi, addirittura coincidenti. Infatti, il primo configura, insieme, strumento e premessa logica della seconda: esso è strumento, perché la partecipazione si esplica spesso attraverso forme di vigilanza, sia pure atipiche ed estranee all’elaborazione concettuale della dottrina giuspubblicistica classica; parallelamente esso è anche premessa logica, in quanto l’intervento dei cittadini nei processi decisionali segue, o dovrebbe seguire, ad un’attività informativa connessa alla vigilanza sull’azione dei pubblici poteri. I rischi (evidenti) di questa ricostruzione sono almeno due: anzitutto, la rinuncia all’elaborazione di una specifica funzione amministrativa di controllo in senso tecnico, esercitata da soggetti istituzionali, coerente con gli sviluppi del rapporto amministrazione-cittadini nel senso della democrazia partecipativa e inserita in un ordinamento ispirato al principio di sussidiarietà orizzontale4. 2 Per la nozione di democrazia partecipativa che si assume in questo saggio si rinvia a U. ALLEGRETTI, L’amministrazione dall’attuazione costituzionale alla democrazia partecipativa, Milano, 2009. 3 In tal senso, qualsiasi intervento di cittadini (singoli ed associati, di natura consultiva o deliberativa-decisionale, nei confronti di un’amministrazione o di un organo elettivo) potrebbe essere concepito quale espressione latu sensu di un controllo sui pubblici poteri: ma l’agevolazione delle prassi partecipative non coincide solo con il controllo. 4 Le nozioni di democrazia partecipativa e sussidiarietà orizzontale, pur esprimendo concetti diversi, come evidenziato con diversi accenti in dottrina, risultano essere caratterizzate da profonde relazioni e legami, oltre che da un medesimo humus culturale e giuridico. Cfr. sul punto U. ALLEGRETTI, Democrazia partecipativa e processi di partecipazione. Relazione generale al Convegno «La democrazia partecipativa in Italia e in Europa: esperienze e prospettive», in www.astrid-online.it. L’A. sottolinea che detti concetti esprimono, in generale, un insieme di relazioni tra Stato e cittadini, in termini di rottura del monopolio di tutela dell’interesse pubblico da parte dello Stato-amministrazione a beneficio delle associazioni o soggetti del terzo settore. Essi, tuttavia, sintetizzano due fenomeni diversi: mentre la partecipazione afferisce tipicamente al momento decisionale o propositivo, la sussidiarietà attiene al mo- IL CONTROLLO DELLA PARTECIPAZIONE. PROFILI ISTITUZIONALI E DI GARANZIA 359 In secondo luogo, vi è il rischio di una sovrapposizione di istituti diversi, quali, da un lato, gli istituti di partecipazione popolare o democrazia diretta, in parte già disciplinati nel nostro ordinamento e, dall’altro, la funzione di controllo propriamente intesa: sia pure caratterizzati da stretta connessione e obiettivi talora coincidenti, essi si pongono su piani logici e giuridici profondamente differenti5. Altra tesi esclude aprioristicamente la funzione di controllo in senso tecnico dall’ambito della democrazia partecipativa: ciò, in ragione di due motivi di fondo strettamente connesse. Anzitutto, l’azione di vigilanza propria della collettività sulle amministrazioni pubbliche differisce profondamente, nei suoi tratti essenziali, dagli elementi costitutivi, strutturali e funzionali del controllo esercitato da parte dei soggetti istituzionali (ad es. Corte dei Conti, uffici interni di audit etc.) e sulla base del quale la dottrina ha elaborato la nozione giuridica di riferimento: da ciò discenderebbe l’impossibilità (o, rectius, inutilità) di una reductio ad unum delle due tipologie di vigilanza sotto il profilo giuridico; l’unica forma di controllo, dunque, propriamente intesa nella democrazia partecipativa dovrebbe essere necessariamente quella popolare. mento del «fare», ben descritto nella nozione di «autonoma iniziativa dei cittadini». Sul medesimo argomento, sia pure con accenti diversi, cfr. G. ARENA, Cittadini Attivi, Bari, 2006. 5 La dottrina risalente individuava negli istituti di partecipazione popolare degli enti locali uno strumento necessario non soltanto per garantire la piena attuazione del principio democratico ma anche per consentire un controllo maggiormente penetrante della cittadinanza sulle amministrazioni: cfr. U. ALLEGRETTI, I quartieri tra decentramento comunale e autonomia di base, in Riv. trim. dir. pubbl., 1977, 192; U. POTOTSCHNIG, Decentramento e partecipazione nella riforma del comune, in Nuova Rass. 1971, 1105; E. ROTELLI, Per la democrazia diretta nell’amministrazione locale, in Pol. dir., 1977, 357. Recentemente, per una distinzione tra controlli popolari e istituti di partecipazione basata sul rilievo che i primi intervengono ex post l’assunzione della decisione dell’amministrazione formalizzata nel provvedimento amministrativo, mentre i secondi nell’iter di adozione della stessa, cfr. D. DONATI, Il controllo dei cittadini sull’amministrazione pubbliche, tra effettività giuridica e valore etico, in Etica pubblica e buona amministrazione. Quale ruolo per i controlli?, a cura di L. VANDELLI, Bologna, 2009. Inoltre l’A., dopo aver sottolineato come sia etimologicamente inesatto includere la tipologia dei controlli della collettività in quelli amministrativi, solleva dubbi in ordine alla elaborazione di una categoria giuridica unitaria. Sul medesimo tema cfr. anche C. DE MARCO, Controlli e partecipazione popolare nel sistema delle autonomie locali, in www.federalismi.it: l’A. sottolinea che gli istituti della partecipazione popolare, agendo sull’an, il quomodo ed il quando dell’azione amministrativa, hanno necessariamente delle conseguenze in termini di controllo sull’azione dei pubblici poteri; in particolare, si distinguono i controlli di legittimità, nel cui ambito detti strumenti partecipativi rilevano essenzialmente come elementi di valutazione del corretto agire amministrativo, e controlli di merito, in relazione ai quali gli strumenti di democrazia diretta sarebbero uno strumento del controllo propriamente inteso. 360 RENATO CAMELI In secondo luogo, e sulla base delle premesse appena considerate, si afferma come il controllo configuri un istituto afferente all’amministrazione in senso classico, con una propria ratio esclusivamente nell’ambito del c.d. “schema bipolare”, in quanto trattasi di azione effettuata da soggetti pubblici su altre amministrazioni; l’unico legame con la collettività potrebbe essere di carattere informativo e l’unica finalità quella di consentire la sanzione politica, ossia l’eventuale mutamento di maggioranza nelle assemblee rappresentative6. In definitiva, dunque, sulla base di quest’ultima ricostruzione, la funzione di controllo esercitata dai soggetti istituzionali non sarebbe interessata ai cambiamenti nell’ordinamento causati dagli istituti della democrazia partecipativa: al contrario, sarebbe proprio il declino di questo modello a suggerire forme alternative di vigilanza sull’azione amministrativa dei pubblici poteri, ispirate ad esperienze internazionali caratterizzate dalla diretta partecipazione popolare alle procedure di vigilanza. Autorevole dottrina, in merito, ha sottolineato l’emergere progressivo di un “controllo sociale” sull’amministrazione: quest’ultimo, fondato direttamente sul principio costituzionale di sovranità popolare ex art. 1 Cost., letto in collegamento con l’art. 3, potrebbe essere maggiormente efficace di quello svolto dai soggetti istituzionali7. 1.2. Superamento della critica e necessità di una ricostruzione sistematica Pur riconoscendo la validità di quanto esposto, si ritiene possibile (oltre che necessario) esplorare il contenuto e i confini di una nuova funzione di controllo esercitata dai soggetti istituzionali nel modello di democrazia partecipativa. In via preliminare, si sottolinea che il riconoscimento del valore at6 Secondo il modello bipolare «lo Stato ed il diritto pubblico sono dominati dal conflitto Stato-cittadino, due poli irriducibili ed in contrasto tra di loro… due poli separati, né convergenti, né contrattanti, ma in contrapposizione a causa della superiorità di uno sull’altro»: così S. CASSESE, L’arena pubblica. Nuovi paradigmi per lo Stato, in Riv. trim. dir. pubbl., 2001, 602 ss. 7 U. ALLEGRETTI, Democrazia partecipativa e controllo dell’amministrazione, in Dem. dir., 2006. Secondo l’A. la maggiore efficacia discende direttamente da un duplice ordine di fattori: in primo luogo, si registra un maggiore distacco tra controllati e controllori, realizzando pienamente l’alterità soggettiva; in secondo luogo, i gruppi emergenti dalla società sarebbero maggiormente interessati all’efficace realizzazione del controllo, sia in termini di legalità dell’azione degli enti pubblici, sia in relazione all’efficacia di questa. A ciò, l’A. aggiunge l’importanza dell’incremento di fiducia nei cittadini che detti procedimenti partecipativi di controllo comportano. Circa gli effetti di detta tipologia di controllo, questi possono essere individuati sia in misure tipicamente repressive, come la revoca di titolari elettivi o la sostituzione di funzionari professionali, sia in sanzioni politiche. IL CONTROLLO DELLA PARTECIPAZIONE. PROFILI ISTITUZIONALI E DI GARANZIA 361 tuale dei controlli istituzionali non si pone in contrasto con l’affermazione nell’ordinamento di forme alternative di vigilanza sociale, ispirate a procedure partecipative; al contrario, i due modelli convivono nel quadro odierno ponendosi in stretta relazione reciproca. Gli istituti della partecipazione popolare, o di democrazia diretta, sono infatti strettamente collegati ad un corretto esercizio della funzione di controllo svolto dai soggetti istituzionali in quanto presuppongono, da parte dei cittadini, un livello di conoscenza adeguato del funzionamento della cosa pubblica e delle relative problematiche, realizzabile soltanto laddove le autorità pubbliche di vigilanza operino efficacemente8. Nel merito, si sottolinea inoltre che, tra i caratteri della funzione di controllo, la dottrina individua quello dell’accessorietà rispetto ad una funzione amministrativa principale: è da ritenere, quindi, che le trasformazioni di quest’ultima, sia in senso organizzativo che procedurale, implichino naturaliter cambiamenti della prima. In terzo luogo, sul piano attuativo, da una prima analisi delle diverse procedure pubbliche di controllo, risulta evidente come esse abbiano recentemente modificato alcuni caratteri fondamentali, sia nel senso di una maggiore partecipazione (con crescente attenzione alle tematiche nascenti dalla realtà sociale), sia a livello procedurale (ad esempio, si sottolinea l’emersione dei principi di flessibilità e programmazione). È interessante osservare, infine, che alcuni principi quali la pubblicità e la trasparenza finanziaria, correlati al principio della partecipazione e, pre-condizione perché essa si esplichi in modo corretto ed efficace, siano inscindibili dalle funzioni di controllo “classico”, tra cui, in primis, quello di organi terzi ed indipendenti (quale la Corte dei Conti)9. Individuare il contenuto della funzione di controllo nel modello di democrazia partecipativa è, dunque, operazione non solo possibile ma necessaria: l’affermazione giuridica di un modello non risponde certo a finalità tutorie o gerarchiche ma, al contrario, tende garantire una partecipazione maggiormente consapevole ed efficiente dei cittadini e, parallelamente, contribuisce in modo significativo a costituire una rete di garanzie a beneficio dei cittadini che, singoli o associati, intendono intervenire direttamente nelle procedure decisionali dei pubblici poteri. 8 Sui 180. 9 A. rischi del «gradimento popolare» come valore assoluto cfr. D. DONATI, op. cit., BRANCASI, La contabilità come fonte di conoscibilità dei dati e precondizione di trasparenza, in La trasparenza amministrativa, a cura di G. ARENA, F. MERLONI, G. CORSO, G. GARDINI, C. MARZUOLI, Milano, 2008, 69 ss. 362 2. RENATO CAMELI La funzione di controllo dei soggetti istituzionali 2.1. La Corte dei Conti Il tentativo di ricostruzione giuridica della funzione di controllo nel sistema di democrazia partecipativa ha, necessariamente, il proprio incipit nella Corte dei Conti e, in particolare, nella storica sentenza della Corte costituzionale n. 29 del 1995 in cui tale istituzione venne riconosciuta quale “organo della Repubblica”, espressione non solo dello Stato-apparato bensì anche dello “Stato-Comunità”: tale pronuncia, prius logico e storico da cui sviluppare l’analisi, confermò l’impianto della riforma generale dei controlli contenuta nella l. 14 gennaio 1994, n. 20, nel senso di una valorizzazione dei controlli ex post, sulla gestione complessiva dell’amministrazione, non circoscritti al mero giudizio di conformità/difformità rispetto al paradigma normativo10. Il riferimento alla Repubblica nel suo complesso e la nozione di “Stato Comunità”, particolarmente evocativi e propulsivi di innovazione rispetto alla tradizione storica della Corte, hanno avuto successivamente uno sviluppo rilevante con riferimento agli enti di governo territoriale e ad altri soggetti, pur non riconducibili direttamente all’amministrazione statale, caratterizzati dall’elemento della pubblicità11. La legislazione statale, coerentemente, ha riconosciuto la centralità della Corte dei Conti nell’ordinamento anche a seguito della legge costituzionale 3/2001, riformatrice dell’intero Titolo V Parte II della Costituzione12. 10 Sulla pronuncia n. 29/1995 ex multis, cfr. G. BERTI, Trasformazioni del controllo della Corte dei Conti (Sentenza n. 29/1995 della Corte costituzionale), in La Corte dei Conti oggi Atti della tavola rotonda Luiss, Roma 9 marzo 1995, Milano, 1995, 3; G. D’AURIA, I nuovi controlli della Corte dei Conti davanti alla Corte costituzionale, in Foro it., 1996, I, 1158. A. CORPACI, Il controllo della Corte dei Conti sulla gestione delle pubbliche amministrazioni nella ricostruzione della Corte costituzionale: un tributo al valore simbolico della riforma, in Giur. cost., 1995, 326. In particolare, secondo la Corte costituzionale «l’imputazione alla Corte dei conti del controllo sulla gestione esercitabile anche nei confronti delle amministrazioni regionali non può essere considerata come l’attribuzione di un potere statale che si contrappone alle autonomie delle regioni, ma come la previsione di un compito essenzialmente collaborativo posto al servizio di esigenze pubbliche costituzionalmente tutelate, e precisamente vòlto a garantire che ogni settore della pubblica amministrazione risponda effettivamente al modello ideale tracciato dall’art. 97 della Costituzione, quello di un apparato pubblico realmente operante sulla base dei principi di legalità, imparzialità ed efficienza». 11 Sulla nozione di stato-comunità si rinvia a C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, Padova, 1960; sul tema, dello stesso A., La persona lo Stato e le comunità intermedie, Torino, 1971. 12 In particolare si sottolinea il rilievo dell’art. 7 c. 7 della l. 5 giugno 2003 n. 131 (c.d. legge «La Loggia») e delle successive leggi finanziarie tra cui in particolare l’art. 1 c. 166, IL CONTROLLO DELLA PARTECIPAZIONE. PROFILI ISTITUZIONALI E DI GARANZIA 363 In tal senso, secondo la ricostruzione corrente, l’estensione della vigilanza della Corte sull’attività amministrativa e finanziaria degli enti titolari di autonomia costituzionalmente garantita ex art. 5 Cost. viene giustificata, a livello funzionale, in quanto rispondente alla tutela di interessi costituzionalmente rilevanti (artt. 97 e 119 Cost. in primis) propri della Repubblica nel suo insieme. La legittimità del controllo sugli enti territoriali è stata altresì confermata dalla recente giurisprudenza costituzionale, secondo cui detto organo è definito espressamente quale «garante imparziale dell’equilibrio economico finanziario del complessivo ed unitario settore pubblico» (da ultimo Corte cost. 267/2006)13. Controllo ed autonomia non sono quindi concetti antitetici. Al contrario, la seconda implica in certo qual modo, il primo: l’autonomia per poter correttamente esplicare le proprie potenzialità, all’interno di un ordinamento nazionale, necessita di un controllo. È necessario tuttavia interrogarsi, sul punto, se in un ordinamento caratterizzato ormai dalla piena valorizzazione del ruolo dei privati in relazione al perseguimento di finalità di interesse generale, sia sul piano dell’attività che su quello decisionale, la funzione della Corte debba essere circoscritta in via esclusiva all’attività dei soggetti pubblici. A tal proposito, in alcune recenti relazioni delle sezioni regionali della Corte sulla gestione amministrativa degli enti territoriali, si riscontrano significativi elementi di giudizio in ordine alla scelta, da parte degli enti, di avvalersi direttamente di soggetti privati per l’espletamento di servizi pubblici (di natura economica e sociale), a volte riconducendo la sinergia pubblico-privato ai processi di esternalizzazione, altre evocando proprio il principio di sussidiarietà orizzontale14. 167, 168, e 169 della l. 23 dicembre 2005 n. 266 (finanziaria 2006): questo ha previsto a carico degli organi di revisione interni degli enti territoriali un obbligo di trasmissione alle competenti sezioni regionali della Corte dei Conti di una relazione sia sul bilancio di previsione sia sul rendiconto finale del medesimo esercizio di competenza; è previsto inoltre che le sezioni della Corte «adottino specifica pronuncia e “vigilino” sull’adozione da parte dell’ente locale delle necessarie misure correttive e sul rispetto dei vincoli e limitazioni posti in caso di mancato rispetto delle regole del predetto patto di stabilità». 13 Cfr. anche Corte cost. 179/2007, secondo cui l’attività della Corte dei Conti concorre alla «formazione di una visione unitaria della finanza pubblica, ai fini della tutela dell’equilibrio finanziario e di osservanza del patto di stabilità interno». 14 Tra le relazioni, particolarmente significativa quella della Corte dei Conti, sez. Umbria, sulla gestionale museale, in cui emerge viceversa una nozione di sussidiarietà improntata maggiormente alla collaborazione tra soggetti pubblici e privati (Corte conti, sez. Umbria, del. 8.6.2004 n. 1/2004); cfr. anche Corte conti, sez. Veneto, 27.10.2006 del. n. 89/2006 secondo cui «Attraverso l’introduzione del principio di sussidiarietà orizzontale, è av- 364 RENATO CAMELI È bene precisare, comunque, che l’angolo prospettico su cui si fondano le relazioni della Corte dei Conti resta pur sempre quello dei soggetti pubblici: il controllo della Corte, esterno e di natura collaborativa, ha quale oggetto l’azione di pubblici poteri; tuttavia, dall’analisi delle relazioni, emerge come l’elaborazione di un giudizio complessivo in termini di efficienza ed efficacia implichi necessariamente anche una valutazione su soggetti privati che si affiancano agli enti pubblici. La possibilità di una rimodulazione del controllo della Corte, la cui definizione dei caratteri resta attualmente ancora problematica, potrebbe avere una propria base giuridica di primario rilievo dunque, in primo luogo, proprio nel riconoscimento del principio di sussidiarietà orizzontale enucleato nell’art. 118 Cost. e ormai recepito nella legislazione statale e regionale quale criterio in base a cui definire il moderno rapporto tra sfera pubblica e privata per lo svolgimento di attività di interesse generale15. L’estensione dell’oggetto del controllo a soggetti “misti” o di natura privata tout court, coinvolti direttamente nel perseguimento di finalità pubbliche, si configura coerente altresì con un’evoluzione giurisprudenziale della stessa Corte dei Conti in materia di responsabilità amministrativa, laddove, ormai, il criterio prevalente per individuare l’estensione della giurisdizione risulta essere quello dello fruizione e gestione di risorse finanziarie pubbliche. A quest’ultimo proposito la magistratura contabile, infatti, ha elaborato, come correttamente rilevato in dottrina, una sorta di responsabilità pubblica per i soggetti privati, che beneficiano di erogazioni di fondi statali, regionali o locali e che, conseguentemente, sono soggetti alla giurisdizione della Corte dei Conti16. venuto, a pieno titolo, il riconoscimento del “Soggetto privato” quale soggetto attivo nel perseguimento di fini di interesse generale ed, in conseguenza, l’Ente Locale è divenuto “amministrazione aperta” in quanto integra soggetti e livelli istituzionali in un sistema di governance in cui si lascia spazio al privato ove questi può agire e fare meglio, sia pure in un rapporto di stretta convenienza per l’Ente». Nel senso di una sussidiarietà in senso «negativo» cfr. anche Corte dei Conti, sez. Lombardia, del. 11/2007. Sul riconoscimento dell’obbligo (o opportunità) per i Comuni di incentivare le attività di interesse generale svolte dai privati cfr. anche Corte dei Conti, sez. Molise, 27.9.2005 n. 99, in www.labsus.org, con nota di P. CERBO. 15 La bibliografia in tema di sussidiarietà orizzontale quale principio generale dell’ordinamento è particolarmente estesa: ex multis cfr. V. CERULLI IRELLI, Sussidiarietà (voce), in Enc. Treccani, 2004. 16 Cfr. Corte dei Conti, sez. Liguria, 9.8.2006 n. 682 in tema di enti di formazione professionale che ricevono fondi pubblici per erogazione di corsi di aggiornamento, in www.labsus.org con nota di F. PARISI; Corte dei Conti, sez. II, sez. giurisd. Centr. 20.6.2001 n. 219 sulle cooperative e le associazioni di lotta all’AIDS, in www.labsus.org, con nota di G. MAZZEI. IL CONTROLLO DELLA PARTECIPAZIONE. PROFILI ISTITUZIONALI E DI GARANZIA 365 Il controllo, diretto o indiretto, sui soggetti privati che esercitano attività di interesse generale si inserisce, in ogni caso, nella logica tipica della sussidiarietà, caratterizzata da soggetti privati che sono coinvolti in un facere: essa, tuttavia, configura un passaggio obbligato per la declinazione del controllo stesso nell’ambito della democrazia partecipativa. L’estensione dell’attività di controllo potrebbe fondarsi infatti anche su riflessioni di natura teorica, legate alla trasformazione della nozione di interesse pubblico; quest’ultimo, non più definito ex ante in un atto legislativo o regolamentare, non potrebbe ormai più neanche considerarsi monopolio delle amministrazioni pubbliche che lo individuano all’esito del procedimento: al contrario, la pubblicità di un interesse deve emergere quale esito di un confronto tra la collettività, nelle sue molteplici articolazioni, e le stesse amministrazioni, come la stessa Corte dei Conti ha recentemente rilevato, sottolineando il «passaggio da una configurazione della distribuzione del potere pubblico essenzialmente in via gerarchica ed in via autoritativa ad una distribuzione per così dire “a rete”, estesa anche ad altri soggetti dell’ordinamento che non sono enti pubblici in senso proprio»17. In definitiva, come attenta dottrina rileva, lo stesso principio di buon andamento ex art. 97 Cost., parametro sia del controllo di legittimità sia del controllo gestionale (in fase espansiva), dovrebbe essere definito in relazione anche al “grado” della partecipazione dei soggetti privati alle decisioni pubbliche; in altri termini, il concetto di “buona amministrazione”, elemento essenziale del giudizio esito del controllo sulla gestione, si declina anche in relazione al principio di democraticità e alla realizzazione dei diritti di cittadinanza, strettamente connessi con la democrazia partecipativa18. In senso critico rispetto alla ricostruzione prospettata, si rilevano due obiezioni di fondo. 17 Corte dei Conti, sez. Lombardia, 783/2009/PAR; la distribuzione del potere, peraltro deve essere «estesa anche ad altri soggetti dell’ordinamento che non sono enti pubblici in senso proprio, con la conseguenza che le funzioni pubbliche non necessariamente vengono esercitate mediante esplicazione di poteri autoritativi, ben potendo svolgersi attraverso forme e moduli procedimentali di tipo privatistico, un’interpretazione evolutiva e teleologicamente orientata del concetto di “ente istituzionalmente competente” previsto all’art. 17 del D.P.R. n. 380/2001 (anche al di là delle figure dei concessionari), nell’ambito del quale è possibile ricomprendere anche il caso di specie. Infatti, è indubbio che la fondazione Onlus che gestisce la Casa di riposo è partecipe istituzionalmente della funzione pubblica di assistenza socio-sanitaria», in www.corteconti.it. 18 Per una ricostruzione analoga cfr. F. TIGANO, Corte dei Conti e attività amministrativa, Torino, 2008, 504 ss. 366 RENATO CAMELI In primo luogo, è necessario sottolineare come, ancora recentemente, il Consiglio di Stato abbia riaffermato il principio secondo cui una convincente nozione di interesse pubblico non può essere che quella di “valore canonizzato in una norma ed individuato in modo tale da orientare l’intera fattispecie”19. L’estraneità dei soggetti privati nella fase di definizione (e, implicitamente, di attuazione) dell’interesse pubblico comporta naturalmente il venir meno del fondamento di una funzione di controllo istituzionale che includa anche detti soggetti. In secondo luogo, è da segnalare che la dottrina nettamente prevalente individua l’essenza strutturale e funzionale della Corte nella natura di organo vigilante sull’esecutivo e sulle amministrazioni pubbliche, e, parallelamente, di istituzione referente del Parlamento o dei Consigli regionali e locali: essa costituisce dunque, pur sempre, longa manus dell’organo rappresentativo assembleare nei confronti del governo e quindi, espressione di un modello di democrazia legata all’istituto della rappresentanza20. Quindi, secondo queste ultime ricostruzioni basate sulla visione tradizionale della Corte, quest’ultima avrebbe il proprio esclusivo ubi consistam nell’ambito della democrazia “rappresentativa”, ponendosi come elemento strumentale al corretto funzionamento del sistema democratico. A riguardo, anche a voler accogliere gli autorevoli rilievi critici accennati, restano pur sempre valide alcune considerazioni di fondo sul nuovo ruolo della Corte dei Conti. In primo luogo si evidenzia che il sistema costituzionale attuale, caratterizzato dalla valorizzazione del principio di autonomia ex art. 5 Cost., sancisce la differenziazione tra diverse regioni e aree del Paese in ordine ai mezzi e alle disponibilità finanziarie, specialmente dopo la recente approvazione del testo c.d. di federalismo fiscale (l. 5 maggio 19 Cfr. Cons. Stato, sez. V, 12.06.2009 n. 3711, in www.labsus.org. In particolare, secondo il Supremo organo di giustizia amministrativa la pubblicità di un interesse risulta essere direttamente riconducibile alla considerazione che «in un determinato momento storico l’ordinamento annette a un valore un primario rilievo così da imprimere all’agire dei pubblici operatori un modulo comportamentale che non prescinde dal valore medesimo e deve, anzi, curarne la migliore realizzazione nel singolo contesto». In definitiva, quindi, «l’interesse pubblico sovrasta l’espletamento delle attività private e le convoglia al c.d. bene comune in virtù di una specifica norma attributiva, senza peraltro acquisire quelle attività come proprie». Per un approfondimento in tema, sia consentito rinviare alla nota di R. CAMELI, in www.labsus.org. 20 V. LIPPOLIS, Il rapporto tra Corte dei conti e Parlamento e le prospettive della «valutazione delle politiche pubbliche», in www.federalismi.it. IL CONTROLLO DELLA PARTECIPAZIONE. PROFILI ISTITUZIONALI E DI GARANZIA 367 2009, n. 42), nonché, strettamente connesso, una diversificazione in ordine al grado di efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa dei diversi enti. La presenza di un’istituzione espressione della Repubblica organizzata attraverso sezioni regionali, in stretto rapporto reciproco e con la sezione centrale, costituisce un indispensabile elemento di unità e, insieme, di mediazione delle conflittualità in ambito economico e sociale nella complessità di un “federalismo competitivo”: essa diviene, indirettamente, anche garanzia del principio di uguaglianza ex art. 3 Cost. in relazione alle risorse finanziarie utilizzate e ai servizi prestati. La Corte, in quanto si pone tra i principali fattori di unità del sistema, si configura pertanto quale organo interlocutore privilegiato dei soggetti privati, sia nella fase direttamente esecutiva e di prestazione, sia in quella decisionale21. In secondo luogo è da evidenziare il nesso tra il principio di trasparenza finanziaria e l’esercizio del controllo proprio della Corte dei Conti, come delineato dalle recenti riforme legislative; sul punto, autorevole dottrina ha recentemente sottolineato il ruolo dell’istituto nella prevenzione dei fenomeni di maladministration e di corruzione, cui è strettamente connessa la “democratica funzione di creare trasparenza finanziaria”22. L’attività della Corte, in questa ottica, non avrebbe più quale esclusiva finalità (pur rilevante e di primario rilievo) di costituire la premessa di una “sanzione” politica in caso di eventuali disfunzioni dei singoli enti territoriali, e, dunque, indirettamente, di favorire il mutamento di maggioranza negli organi elettivi (non solo a livello statale ma anche a livello locale); al contrario, essa si potrebbe porre in modo “biunivoco” proprio con strumenti di democrazia partecipativa per favorire l’ingresso di singoli ed associati nella gestione della cosa pubblica. L’azione di associazioni, organismi non lucrativi e partecipativi potrebbe essere agevolata 21 Per un’analisi del ruolo della Corte dei Conti nel sistema delle autonomie, con particolare riferimento alle problematiche del controllo rispetto ai diritti della cittadinanza sociale e di un nesso tra partecipazione e democrazia cfr. AA.VV., Atti del Convegno 19.4.2005 - Camera dei Deputati, Roma, «Democrazia e controlli», in www.corteconti.it. 22 S. BATTINI, Il ruolo della Corte dei Conti nel contrasto alla maladministration, in Etica pubblica e buona amministrazione, cit., 53 ss. In merito, l’A. sottolinea anche il dato della terzietà garantita dalla natura magistratuale dei componenti, nonché lo stretto legame tra funzione pubblica di controllo e la funzione giurisdizionale. Per arginare il fenomento della corruzione negli uffici pubblici si evidenzia l’istituzione dell’Alto Commissario per la prevenzione e il contrasto della corruzione e delle altre forme di illecito nella pubblica amministrazione, su cui, cfr. il saggio di G. SCIULLO in Etica pubblica e buona amministrazione, cit. 368 RENATO CAMELI dalla segnalazione di disfunzioni dell’amministrazione pubblica; al contrario, giudizi positivi su determinate pratiche amministrative, potrebbero avere l’effetto di stimolare la società civile alla partecipazione. Per una piena attuazione di questa finalità è tuttavia necessaria, allo stato attuale, una valorizzazione delle modalità di comunicazione pubblica delle relazioni della Corte sulla gestione delle amministrazioni: in questo senso, se particolarmente efficace risulta essere l’inserimento di queste nel sito internet istituzionale, sicuramente da migliorare è l’aggancio con gli organi informativi e i media. In terzo luogo, analizzando storicamente le trasformazioni dell’istituto, è ragionevole ritenere che il complessivo processo di trasformazione dell’amministrazione produca cambiamenti funzionali sull’attività di controllo: sinteticamente, infatti, si rileva che la Corte, sia pure registrando resistenze e forti problematicità, ha già mutato radicalmente il proprio modus essendi et operandi, coerentemente con la costituzione di un modello di Stato sociale, profondamente diverso rispetto alla forma di Stato liberale coevo alla sua costituzione23. 2.2. Il difensore civico L’istituto del difensore civico, la cui origine storica nonché i caratteri strutturali e funzionali sono stati ampiamente analizzati dalla dottrina, avrebbe dovuto costituire non solo un primario elemento di garanzia per la partecipazione dei cittadini all’attività amministrativa intesa in senso classico (ai sensi della l.241/90) ma anche un fondamentale strumento di raccordo tra soggetti privati e pubblici in relazione all’elaborazione di procedure decisionali comuni24. 23 M.M. PROCACCINI, Accountabilitiy, una parola in gioco nella valutazione della «qualità» delle regole ovvero la declinazione di un paradigma, in M. RAVERAIRA (a cura di), «Buone» regole e democrazia, Rubbettino, 2007. 24 Per un’analisi completa dei caratteri strutturali e funzionali della figura istituzionale del difensore civico si rinvia alle trattazioni generali, tra cui ex multis, C. MORTATI (a cura di), L’ombudsman (il difensore civico), Utet, Torino, 1974; o, recentemente, S. PIAZZA Lineamenti di teoria generale della difesa civica, Firenze, 2006. Con particolare riferimento al tema della relazione tra cittadini pubblica amministrazione, cfr. N. OLIVETTI RASON, L. STRUMENDO, Il difensore civico. Tutela e promozione dei diritti umani e di cittadinanza, e R. LOMBARDI, Efficienza amministrativa, difensore civico e controllo di gestione, in Dir. amm., 1997, 153; F. FRACCHIA, Note in tema di partecipazione procedimentale e difensore civico, in Notiziario giuridico regionale, 1/1997; R. FERRARA, Il difensore civico e la tutela delle situazioni giuridiche soggettive dei cittadini: note preliminari in margine ad un dibattito in corso, in Dir. proc. amm., 2/1997; A. PERINI, Il ruolo, i poteri la posizione del difensore civico nell’ordinamento regionale, in www.lexitalia.it; R. ROLLI, A. SACCOMANNO, Difesa civica e protezione dei IL CONTROLLO DELLA PARTECIPAZIONE. PROFILI ISTITUZIONALI E DI GARANZIA 369 La formulazione legislativa contenuta nel Testo Unico degli enti locali contempla espressamente la funzione di “garanzia dell’imparzialità e buon andamento dell’amministrazione” con obbligo di segnalazione di eventuali abusi e disfunzioni dell’amministrazione nei confronti dei cittadini (art. 11 d.lgs. 267/2000); la norma è stata letta nel senso di includere anche azioni di controllo e vigilanza sull’azione amministrativa, con particolare riferimento all’adeguata partecipazione dei cittadini: ciò, in quanto, da un lato quest’ultima, come già dimostrato, costituisce una pre-condizione per la realizzazione dei principi di imparzialità e buon andamento, dall’altro perché la non partecipazione determina proprio una lesione specifica di diritti o interessi giuridicamente rilevanti per la collettività. La funzione di controllo sul corretto ed efficiente svolgersi della partecipazione è coerente, inoltre, anche con i profili strutturali dell’organo in esame: il generale riconoscimento dell’indipendenza rispetto alla sfera politica, la qualificazione di persone caratterizzate da “prestigio morale e professionale” (es. art. 85 Statuto del Comune di Firenze), la previsione di maggioranze qualificate per la nomina, nonché un articolato regime di incompatibilità costituiscono, insieme, elementi che rendono tale soggetto in grado di svolgere con la dovuta autonomia le proprie funzioni25. Nei regolamenti emerge inoltre come detta figura, pur inserendosi all’interno dell’amministrazione, non debba essere comunque un soggetto dipendente dell’ente di riferimento. La configurazione del difensore civico, quale strumento di garanzia della partecipazione non circoscritta al momento del procedimento ma estesa alla fase della scelte e decisioni di politica pubblica, espressione di democrazia partecipativa, emerge con evidenza, anzitutto, in alcune previsioni statutarie comunali ove detto organo è riconosciuto come “organo di tutela e difesa della Comunità cittadina…espressione della democrazia civica e municipale” (art. 14 Statuto Comune di Roma), nonché in molti regolamenti istitutivi; a livello sistematico si segnala come, coediritti fondamentali, in www.giustamm.it. In senso critico, per il carattere limitato dei poteri in questione, cfr. E. CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2003, 213. 25 A titolo esemplificativo, cfr. anche lo Statuto del Comune di Roma in cui si prevede la maggioranza dei due terzi per le prime tre votazioni, nonché il regolamento attuativo secondo cui (art. 4) «Alla carica di Difensore Civico è preposto un cittadino, iscritto nelle liste elettorali del Comune di Roma, che, per preparazione e per esperienze acquisite nella tutela deidiritti, offra la massima garanzia di probità, indipendenza, obiettività, competenza e capacità di esercitare efficacemente le proprie funzioni». 370 RENATO CAMELI rentemente, la previsione normativa istitutiva di detto organismo sia sovente (ma non sempre) inserita all’interno del Titolo o capitolo dello Statuto relativo agli Istituti di partecipazione26. In secondo luogo, si sottolinea il rilievo del riconoscimento di alcuni poteri, azionabili autonomamente ovvero su richiesta dei cittadini, tra cui, il diritto di “accesso incondizionato a tutti gli atti e tutte le informazioni necessarie” (art. 21 Statuto comune di Perugia), il controllo di legittimità su determinati atti di particolare rilievo dell’ente, (ad esempio, assunzioni di personale, gare d’appalto), la facoltà di convocare e porre quesiti ai responsabili del procedimento e ai dirigenti. Al fine di elaborare strategie efficaci di controllo e stimolo sull’azione amministrativa, negli ordinamenti interni è spesso espressamente previsto un rapporto diretto con soggetti privati (associazioni di tutela di diritti, comitati civici, etc.): l’obiettivo, di fondo, non è soltanto quello di assicurare un’efficace azione di comunicazione pubblica volta a censurare le inefficienze degli uffici, ma anche la costituzione di una proficua rete di rapporti pubblico/privato anche al di là dei singoli procedimenti che interessano a vario titolo i diversi cittadini27. In quest’ultimo senso, l’istituzione del difensore civico assume un significato non circoscritto al pur importante momento della tutela dei diritti dei cittadini, tra cui – come si è visto – quello di partecipazione, ma può determinare congiuntamente, nell’ambito di un moderno rapporto tra sfera pubblica e sfera privata, lo sviluppo di un’azione positiva, volta al migliore perseguimento dell’interesse pubblico e alla piena attuazione dei principi di efficienza, efficacia, economicità dell’azione amministrativa. Pertanto, la presenza di tale organismo indipendente all’interno delle amministrazioni si pone non solo quale elemento di tutela difen26 Cfr. ad esempio art. 13 dello Statuto del Comune di Bologna, anche se in detto Statuto esso è incluso nel capo relativo al «Diritto di accesso e partecipazione al procedimento amministrativo», distinto da quello della «Partecipazione popolare e diritto di informazione»; art. 21 Statuto del Comune di Perugia, sotto il capo «Partecipazione»; art. 18 dello Statuto del Comune di Milano sotto il capo della Comunità Locale; art. 14 del Comune di Roma, nel capo II Partecipazione popolare e tutela dei diritti civici. 27 Cfr. ad esempio l’art. 15 del regolamento del difensore civico del Comune di Roma, in cui si prevede al c. 2 che “il Difensore Civico promuove rapporti di collaborazione e consultazione con le associazioni di tutela di consumatori ed utenti riconosciute ai sensi della legge nonché con altri organismi o autorità di garanzia e di tutela dei diritti operanti nell’area metropolitana di Roma, di livello nazionale, regionale e locale. Può definire con tali associazioni, istituti ed autorità nonché con comitati ed associazioni territoriali, protocolli di intesa che abbiano per contenuto incontri periodici, forme di consultazione ed attività di monitoraggio civico sulla promozione e la tutela dei diritti”. IL CONTROLLO DELLA PARTECIPAZIONE. PROFILI ISTITUZIONALI E DI GARANZIA 371 siva, in fase preventiva, nei confronti di eventuali lesioni alla sfera giuridica soggettiva, come prima facie potrebbe sembrare, ma diviene progressivamente, laddove correttamente funzionante, strumento di garanzia per i cittadini (singoli ed associati) per la loro partecipazione ai procedimenti decisionali. È da sottolineare tuttavia, in senso critico, come tale modello istituzionale non sia mai stato adeguatamente attuato nel nostro ordinamento e recentemente sia oggetto di una proposta di abrogazione o, rectius, di sensibile riduzione numerica, con limitazione alle sole Regioni. Tale soluzione non convince: il difensore civico costituisce infatti un organo di controllo pubblico che esercita le proprie funzioni, tra cui controllo sulla legalità e sull’efficienza dell’attività amministrativa, essenzialmente su richiesta dei cittadini o di associazioni e, come visto, laddove efficiente, consente di sviluppare adeguatamente un rapporto pubblico-privato improntato all’imparzialità e alla trasparenza. Perché divenga compiutamente strumento di valorizzazione e garanzia delle pratiche partecipative è necessario tuttavia che detto organo sia posto concretamente nelle condizioni di operare; a riguardo, si sottolineano sinteticamente le problematicità, ampiamente evidenziate in dottrina e dagli operatori amministratori, in tema di dotazione organica, risorse umane e collaborazione con altri uffici dell’ente; in secondo luogo, strettamente connesse alle deficienze strutturali, si evidenzia negativamente il ruolo della politica su detto organismo. 3. L’attività giurisdizionale quale elemento di garanzia della partecipazione 3.1. Una breve analisi di diritto comparato Un profilo di garanzia particolarmente efficace concernente il corretto svolgimento della partecipazione alle decisioni pubbliche potrebbe essere costituito dal controllo ex post effettuato dall’autorità giudiziaria; in merito, recentemente, autorevole dottrina ha individuato tre distinte modalità di sindacato giurisdizionale sulle procedure partecipative, in relazione a corrispondenti indirizzi normativi e giurisprudenziali presenti in differenti ordinamenti28. 28 S. CASSESE, La partecipazione dei privati alle decisioni pubbliche. Saggio di diritto comparato, in Riv. trim. dir. pubbl., 2007, 13; l’A. effettua una ricostruzione non limitata soltanto agli ordinamenti nazionali estesa a quelli di carattere globale. 372 RENATO CAMELI In particolare, secondo un primo modello, caratteristico del sistema francese, la partecipazione viene sottratta all’esame dei giudici, riconoscendo così una netta linea di demarcazione tra compiti dell’amministrazione e funzione degli organi giudicanti, chiamati a sindacare, in via esclusiva, la legittimità del provvedimento finale. È da sottolineare che in questi casi, comunque, viene sovente riconosciuto un potere ad autorità indipendente circa la gestione della procedura partecipativa che si estrinseca nel debat public: indipendenza del soggetto titolare del potere di dirigere il dibattimento e conseguente imparzialità del dibattimento stesso, costituiscono, insieme, la condizione necessaria perché possa essere legittimamente limitata la sfera giurisdizionale29. Secondo un ulteriore indirizzo, proprio della cultura giuridica statunitense, si afferma la necessità del controllo giurisdizionale, pur riconoscendo un ampio potere discrezionale dell’amministrazione. La funzione giurisdizionale è relativa, tuttavia, ad alcuni aspetti della partecipazione di particolare rilievo quali, ad esempio, il diritto per le associazioni di disporre dell’intera documentazione relativa alla procedura e necessaria per intervenire efficacemente nonché l’obbligo, per le amministrazioni, di predisposizione di strutture e strumenti adeguati per favorire il coinvolgimento di privati: in definitiva, come correttamente rilevato, “negli Stati Uniti il giudice riconosce il proprio limite, lasciando discrezionalità all’amministrazione, ma si riserva il potere di judicial review anche sulla fase di procedimento nella quale si realizza la partecipazione dei privati”30. Una terza tipologia di sindacato giurisdizionale è individuata in relazione alle ipotesi in cui la partecipazione del privato non viene ben definita in sede normativa: in questo caso l’attività delle amministrazioni risulta essere comunque sottoposta al generale obbligo di trasparenza ed equità nel procedimento; conseguentemente, il sindacato giurisdizionale sarà ammissibile limitatamente, in relazione alla violazione di detti principi. La tripartizione suddetta, di carattere descrittivo, ha l’indubbio pregio di enucleare i tratti salienti delle principali tipologie di controllo giurisdizionale oggi riscontrabili negli ordinamenti giuridici occidentali. 29 In particolare, in due importanti decisioni del Conseil d’Etat, è stato sancito che “ne sont pas recevables” le domande dei cittadini finalizzate ad acquisire documenti ulteriori ovvero ottenere una perizia supplementare nel corso di una procedura di debat public: ciò, in quanto oggetto di ricorso giurisdizionale può essere esclusivamente la scelta se aprire o meno il debat, mentre le decisioni conseguenti, in ordine all’acquisizione di pareri documenti, perizie, risultano essere insindacabili. 30 S. CASSESE, op. cit., 2007, 26. IL CONTROLLO DELLA PARTECIPAZIONE. PROFILI ISTITUZIONALI E DI GARANZIA 373 Da un’analisi complessiva del fenomeno, che coinvolge anche l’ordinamento europeo e il c.d. “spazio giuridico globale”, emerge tuttavia come la sottoposizione delle procedure partecipative al controllo giurisdizionale ponga dei problemi di natura generale, non facilmente risolvibili, in ordine, anzitutto, al principio divisione dei poteri; inoltre, più specificatamente, come già rilevato in dottrina, è necessario garantire comunque, dalla naturale pervasività del sindacato giurisdizionale, uno spazio di discrezionalità della pubblica amministrazione, tenuta, da un lato, a coinvolgere i soggetti privati nella propria azione, ma titolare (e responsabile) in via esclusiva dell’esercizio della funzione amministrativa, sia in termini di legittimità che di efficienza ed efficacia. 3.2. L’estensione giurisprudenziale della partecipazione al procedimento e della legittimazione al processo quale premessa per un sindacato giurisdizionale sulla corretta partecipazione Nell’ordinamento nazionale non è ancora possibile oggi delineare, con un sufficiente grado di specificità e determinatezza, i caratteri del controllo giurisdizionale quale strumento di garanzia nelle procedure di “democrazia partecipativa”; in merito, è possibile comunque individuare interessanti linee evolutive, sia pure con riferimento spesso ad ambiti soltanto contigui alla tematica in oggetto. In particolare, si sottolineano almeno due profili di particolare rilievo che, pur strictu sensu estranei al tema della democrazia partecipativa, si configurano quale premessa logico-giuridica per l’elaborazione di un controllo giurisdizionale propriamente inteso sui processi di democrazia partecipativa. In primo luogo si registra, nella giurisprudenza amministrativa più accorta ed in linea con la migliore dottrina, un indirizzo particolarmente favorevole all’ampliamento della partecipazione nel procedimento amministrativo, ai sensi della l. 241/199031. Il Consiglio di Stato, sul punto, ha peraltro dichiarato recentemente con solennità come la partecipazione “costituisce un principio generale dell’ordinamento giuridico, sicché ogni disposizione che limiti o escluda 31 Recentemente, in merito alla possibilità di controllo giurisdizionale sulla partecipazione in un’attività amministrativa caratterizzata da discrezionalità tecnica, Cons. Stato, sez. VI, n. 6386, 19.10.2009; ovvero, per l’annullamento di atto conclusivo di procedimento espropriativo in assenza della partecipazione dei soggetti interessati, cfr. Cons. Stato 7.7.2006 n. 4307. 374 RENATO CAMELI tale diritto va interpretata in modo rigoroso, al fine di evitare di vanificare o eludere il principio stesso” (Cons. Stato, sez. VI, 20.5.2008 n. 2616). Il citato indirizzo giurisprudenziale, la cui analisi esula dal tema in esame in quanto ascrivibile alle dinamiche della logica “bipolare” e all’amministrazione in senso classico, pur tuttavia costituisce espressione di un approccio culturale e giuridico particolarmente significativo: si ritiene, infatti, che lo sviluppo di un modello istituzionale di democrazia partecipativa abbia uno dei suoi ubi consistam nell’ampliamento delle garanzie di partecipazione dei cittadini già riconosciute nei procedimenti amministrativi. In altri termini, ragionevolmente, è da ritenere che, in tanto si potranno affermare istituti della democrazia partecipativa, in quanto la partecipazione procedimentale disciplinata nella l. 241/1990 sia valorizzata quale fattore imprescindibile del corretto esercizio della funzione amministrativa. A quest’ultimo proposito, in una recente ed importante pronuncia, lo stesso Consiglio di Stato ha sottolineato come “il diritto d’accesso…è collegato a una riforma di fondo dell’amministrazione, ispirata ai principi di democrazia partecipativa, della pubblicità e trasparenza dell’azione amministrativa”, costituendo un vero e proprio strumento ai fini della “prevenzione e contrasto sociale” nei confronti di abusi ed illegalità da parte delle amministrazioni32. È doveroso sottolineare che non mancano, tuttavia, recenti pronunce volte a circoscrivere i diritti di partecipazione, anche in settori di particolare rilievo come quello ambientale, ai soli soggetti titolari di un interesse qualificato, quale un diritto di proprietà33. In secondo luogo, il Consiglio di Stato, coerentemente con la prevalente giurisprudenza dei tribunali amministrativi di primo grado, utilizzando quale criterio guida il principio di sussidiarietà orizzontale, ha riconosciuto la legittimazione processuale ad associazioni non espressamente riconosciute dalla legge, in quanto espressione di interessi di primario rilievo per le collettività coinvolti nell’azione amministrativa34. 32 Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 14.4.2010 n. 2092. Cons. Stato, sez. IV, 3.3.2009 n. 1213, secondo cui l’obbligo di comunicazione non sussiste nei confronti di cittadini residenti nell’area interessata alla costruzione di un’opera di notevole impatto ambientale. 34 Cons. Stato, sez. IV, 2.10.2006 n. 5760, in www.labsus.org con nota di D. BOLOGNINO. In base alla considerazione più specifica che «il principio di sussidiarietà orizzontale - sancisce e conclude un percorso di autonomia non più collegato al fenomeno della entificazione, ma correlato più semplicemente alla società civile e al suo sviluppo democratico a livello 33 Cfr. IL CONTROLLO DELLA PARTECIPAZIONE. PROFILI ISTITUZIONALI E DI GARANZIA 375 È da sottolineare che questo secondo orientamento giurisprudenziale si inserisce in un più vasto processo di riforma legislativa, finalizzato ad ampliare le ipotesi in cui l’azione, nel processo amministrativo, possa essere esercitata non già, esclusivamente, ai fini della tutela di una situazione giuridica soggettiva del singolo ma anche di un interesse proprio della collettività o di particolari comunità: sinteticamente, tra le disposizioni maggiormente rilevanti, si sottolineano le azioni popolari ex art. 70 del T.U.E.L., il d.lgs. 42/2004 sui ricorsi in materia ambientale, nonché la recente l. 15/200935. Il riconoscimento di una legittimazione processuale particolarmente estesa costituisce fenomeno giuridico che si sviluppa parallelamente alla nascita di procedure di partecipazione pubblica ed assume caratteri simili a queste ultime. Tali fenomeni devono tuttavia essere ben distinti: attraverso il ricorso giurisdizionale si mira a censurare, infatti, un’attività amministrativa già conclusa; al contrario, il terreno della democrazia partecipativa si pone ex ante rispetto all’assunzione della decisione politica o amministrativa. Tuttavia la prima, sia pure indirettamente, può assumere un carattere di garanzia della seconda laddove corregga eventuali abusi e, conseguentemente, modifichi in senso positivo la futura azione amministrativa. 3.3. Le prime pronunce sulla partecipazione ai processi decisionali Nella giurisprudenza nazionale è comunque già possibile riscontrare alcune pronunce aventi quale thema decidendum questioni relative al modello di democrazia partecipativa: la più nota, forse, anche se non fortunata dal punto di vista del coinvolgimento dei cittadini, concerne la vicenda Dal Molin, ovvero l’ampliamento della base militare statunitense a Vicenza36. quasi sempre volontario», cfr. anche Tar Puglia Lecce 5.4.2005 n. 1847; Tar Liguria 11.5.2004 n. 747. Contra cfr. Cons. Stato, sez. V, 19.2.2007 n. 826. 35 Per un’analitica ricostruzione delle tematiche in oggetto, cfr. C. MANCUSO, Il processo amministrativo come strumento di controllo della pubblica amministrazione, in Etica pubblica e buona amministrazione, cit., 182 ss. In particolare l’A. sottolinea che la funzione di garanzia derivi direttamente anche dal riconoscimento in capo al giudice amministrativo, del potere di emanare sentenze di condanna, nei confronti degli enti pubblici. 36 Cfr. Tar Veneto ord. 18.6.2008 n. 435 in www.labsus.org in cui, tra i motivi di accoglimento della sospensiva, il giudice di primo grado indicava espressamente che «manca ogni riscontro di avvenuta consultazione della popolazione interessata secondo il disposto del “memorandum” depositato in atti». In senso contrario sulla medesima vicenda, cfr. Cons. Stato, sez. IV, ord. 26.8.2008 n. 4438 secondo cui «appaiono privi di riscontri concreti i profili di danno ambientale… e che non appare altresì comprovata la necessità nella procedura di 376 RENATO CAMELI Particolarmente significativa, in senso positivo, risulta essere invece una recente pronuncia del Consiglio di Stato (Cons. Stato, sez. V, n. 6094, 2.10.2009) relativa ad una complessa procedura partecipativa, avente ad oggetto la decisione circa le modalità di utilizzazione di alcune aree e di edifici pubblici siti nel territorio del Comune di Verona37. La vicenda concerneva un procedimento decisionale avviato dall’amministrazione comunale, congiuntamente ad una pluralità di soggetti privati, mediante l’istituzione di un «Tavolo», i cui componenti risultavano essere espressione delle diverse realtà sociali maggiormente significative del territorio. La procedura in oggetto poteva quindi essere ascritta, tout court, al modello di democrazia partecipativa, per (almeno) due ordini di ragioni: in primo luogo, l’azione del Tavolo si poneva anteriormente alla scelta amministrativa circa le modalità di fruizione dei beni immobili e dunque mirava effettivamente a pervenire ad una co-decisione sull’utilizzo degli stessi; in secondo luogo, si era sviluppato un modello di concertazione tra pubblico e privato di carattere inclusivo, che coinvolgeva le numerose realtà sociali, senza alcuna distinzione circa la loro estrazione culturale e politica. Sul punto, particolare perplessità aveva destato, pertanto, la decisione assunta dall’ente di interrompere l’attività del Tavolo comune e procedere all’affidamento della gestione di alcuni immobili, sia pure ad associazioni di primario rilievo e con provvedimento adeguatamente motivato. Il Consiglio di Stato, in merito, fondando il proprio giudizio sul principio di sussidiarietà orizzontale, di cui ha riconosciuto espressamente per la prima volta un valore non soltanto politico-programmatico ma strictu sensu giuridico, ha sottolineato come sia sindacabile dall’autorità giudiziaria esclusivamente la «determinazione dei confini tra pubblico e privato». consultazione della popolazione interessata», in www.labsus.org, entrambe sinteticamente ivi annotate da F. GIGLIONI. 37 Cons. Stato, sez. V, n. 6094 del 2.10.2009 in www.labsus.org. Per una puntuale ed approfondita ricostruzione dei temi affrontati nella pronuncia in esame cfr. la nota di F. GIGLIONI, Il principio di sussidiarietà orizzontale e la sua applicazione, in Foro amm. - CdS, 2009, 2909; in particolare, l’A, dopo aver sottolineato il rilievo del riconoscimento del valore giuridico-normativo del principio di sussidiarietà effettuato dal Consiglio di Stato, evidenzia le numerose criticità emergenti in ordine alla disciplina concreta delle dinamiche partecipative, nonché i rapporti e gli influssi tra i diversi modelli di democrazia e il principio di sussidiarietà orizzontale. IL CONTROLLO DELLA PARTECIPAZIONE. PROFILI ISTITUZIONALI E DI GARANZIA 377 Pur non citando espressamente il modello democrazia partecipativa, nella sentenza si sottolinea che la decisione non può essere giudicata discriminatoria, poiché «l’amministrazione…si è mossa incontrando i soggetti interessati», constatando che «il mondo associativo sia stato comunque coinvolto nelle scelte effettuate», senza tuttavia specificare come debba avvenire questa consultazione e quali procedure concretamente adottare per rendere pienamente consapevoli i cittadini e le associazioni circa le scelte pubbliche. In particolare, gli aspetti evidenziati dal Consiglio di Stato risultano essere essenzialmente due: in primo luogo, l’obbligo per l’amministrazione di «ascoltare» e incontrare i soggetti privati espressione delle collettività coinvolte; secondo profilo, strettamente connesso al precedente, è quello del coinvolgimento, ossia il dovere di predisporre adeguati strumenti per far sì che i soggetti siano effettivamente resi edotti delle finalità e del contenuto del progetto38. L’assolvimento di tali obblighi sembra costituire, per il Consiglio di Stato, un quadro di garanzia sufficiente per il corretto svolgimento di una procedura decisionale pubblica; in particolare, l’attivazione di un Tavolo Comune non determina alcun obbligo particolare ed aggiuntivo a carico dell’ente pubblico né «alcun affidamento tutelabile in ordine alla specifica assegnazione di una concessione di bene pubblico in capo ad una determinata associazione piuttosto che ad una altra», senza alcuna considerazione ulteriore in ordine al concreto svolgimento della procedura partecipativa. In definitiva, a quest’ultimo proposito, il Consiglio di Stato pare conformarsi alla linea interpretativa, propria soprattutto dell’ordinamento francese, in ragione della quale il sindacato sulle procedure par38 Meritano di essere riportati i passaggi salienti della pronuncia 6094/2009 secondo cui «Il principio di sussidiarietà orizzontale (art. 118 ult. co. Cost.) è un principio – non solo politico ma giuridico di primario rilievo nell’ordinamento nazionale e sicuramente invocabile innanzi al giudice amministrativo come parametro di proporzionalità e ragionevolezza ma solo ai fini – di determinazione dei confini fra sfera pubblica e sfera privata». Inoltre, il Consiglio specifica che «Tale principio, si ritiene, sarebbe stato violato se l’amministrazione si fosse indotta a privilegiare altre amministrazioni pubbliche in luogo di esponenti del terzo settore perfettamente in grado di svolgere una determinata funzione sociale, ma non può essere un principio idoneo a discriminare un esponente del terzo settore rispetto ad un altro, sicché si appalesa corretta la conclusione del Tar per cui detto principio non può vincolare il Comune a destinare un fabbricato ed un vano alla ricorrente e non ad altre associazioni». In definitiva quindi «la scelta del Comune in ordine al concessionario del bene controverso si presenta come scelta avente elevati connotati di discrezionalità amministrativa non circoscritti né circoscrivibili dal principio di sussidiarietà orizzontale che non appare in alcun modo violato nella specie». 378 RENATO CAMELI tecipative debba essere limitato soltanto ad alcuni fattori «esterni» alle stesse procedure. Si sottolinea, tuttavia, come sopraccennato, che nei procedimenti di debat public si registra, comunque, la presenza di un organismo terzo «indipendente», titolare del potere di sindacare il corretto esercizio dell’attività amministrativa e valutare il rispetto del principio di partecipazione; nell’ordinamento nazionale, viceversa, qualora si consolidasse un orientamento giurisprudenziale quale quello appena delineato, potrebbero essere diminuite le garanzie procedimentali i cui contenuti, sostanzialmente, risulterebbero rimessi all’amministrazione procedente. Radicalizzando le osservazioni del Consiglio di Stato contenute nella sent. n. 6094/2009, potrebbe affermarsi, infatti, il principio di insindacabilità della decisione amministrativa in ordine alla gestione del modus procedendi e alla scelta dei soggetti privati interlocutori: ciò sarebbe in antitesi non solo con il principio generale di affidamento ma anche con lo specifico tessuto di garanzie procedurali che, viceversa, l’ordinamento appronta espressamente in altri settori, in ragione dei principi di parità di trattamento, di concorrenza nonché di salvaguardia della correttezza nella spendita di denaro pubblico. Inoltre, strettamente sul piano della democrazia partecipativa, tale conclusione potrebbe comportare una diminuzione del livello di fiducia e collaborazione tra sfera pubblica e soggetti privati. Si sottolineano, tuttavia, due ulteriori (ed opposti) pericoli rispetto a quelli accennati: l’estensione del sindacato giurisdizionale sulle procedure di democrazia partecipativa, come rilevato dalla dottrina straniera, specialmente statunitense, potrebbe indirettamente determinare l’effetto di disincentivare le amministrazioni ad elaborare e sviluppare pratiche partecipative, oltre che comprimere la sfera di discrezionalità propria degli enti pubblici. In secondo luogo, dal controllo giurisdizionale potrebbe derivare un aggravamento delle pratiche partecipative e, dunque, una non piena realizzazione dei principi di trasparenza e semplificazione che costituiscono fattore essenziali per l’efficienza della partecipazione stessa. 4. I requisiti soggettivi della partecipazione come elemento di garanzia È stato autorevolmente evidenziato in dottrina, non soltanto giuridica, come la ratio della democrazia partecipativa sia quella di assicurare la massima estensione della partecipazione dei cittadini (singoli ed IL CONTROLLO DELLA PARTECIPAZIONE. PROFILI ISTITUZIONALI E DI GARANZIA 379 associati) nella fase decisionale e programmatica dell’azione dei