Comments
Transcript
BREVI STORIE DELLE OPERE IN MOSTRA Diane Arbus “Una
BREVI STORIE DELLE OPERE IN MOSTRA Diane Arbus “Una fotografia è un segreto che parla di un segreto. Più essa racconta, meno è possibile conoscere” Ancora dodicenne, Diane Arbus prende lezioni di disegno da Dorothy Thompson, che oltre a lavorare come illustratrice è stata allieva di George Grosz. Questo primo incontro indiretto con Grosz segnerà Diane Arbus e influenzerà anche la sua produzione fotografica. Lavora per vent’anni con il marito Allan Arbus, fotografo che la introduce alla professione, collaborando con successo per importanti riviste di moda come «Glamour», «Harper’s Bazaar», «Seventeen» e «Vogue». Nel 1957 Diane capisce chiaramente di non essere più interessata alla fotografia di moda e sceglie di abbandonare lo studio che aveva fondato con il marito, per dedicarsi a scatti più reali e immediati. La giovane fotografa sembra quasi reagire contro le rassicuranti ma noiose convenzioni borghesi e, schierandosi apertamente contro ogni moralismo, inizia a esplorare i sobborghi poveri di New York, le spiagge di Coney Island, Central Park, le balere di Harlem e il circo delle pulci. In questi luoghi Diane incontra fame e miseria, ma soprattutto viene attratta dai cosiddetti freaks, i quali le si presentano come una sorta di mondo parallelo a quello che fino ad allora è stato per lei il mondo “normale”. Nel 1963 e nel 1966 Diane ottiene due borse di studio finanziate dalla fondazione Guggenheim e riesce così a pubblicare le sue foto su importanti giornali e riviste come il «New York Times» e il «Sunday Times» di Londra. È il 26 luglio del 1971 il giorno in cui Diane Arbus, incidendosi le vene dei polsi e ingerendo una forte dose di barbiturici, si toglie la vita. Un anno più tardi il MoMA le dedicherà un’importante retrospettiva, consacrandola definitivamente come una dei più importanti fotografi del secolo. Diane Arbus è la prima, tra i fotografi americani, a essere ospitata alla Biennale di Venezia, nel 1972. Martina Bacigalupo “Cerco di “rubare” alla natura un segreto che il tempo suo di epifania non mi permette di esplorare – ma che lo permette invece il tempo miracoloso della fotografia – che riceve le cose e le sospende, offrendoci il Tempo magico di guardare al di là del Tempo” Hito è composta da fotografie rappresentanti coppie di gemelli identici e si presenta quale frutto di una lunga ricerca, fortemente mutata durante il percorso creativo. Bacigalupo è da sempre affascinata dalle sottili sfumature presenti nell’identità che caratterizza i gemelli omozigoti. All’inizio della carriera, realizza i suoi scatti cercando attraverso il mezzo fotografico piccole variazioni, dettagli: il neo o la fossetta sul mento che l’altro non ha, tutto ciò che all’interno dello stesso codice genetico attesta l’unicità dell’individuo. Cerca quel dettaglio che è chiamato sempre in causa, che è indicato come punto al quale prestare attenzione quando di continuo si è confusi per un altro, mentre si lotta per creare la propria identità. Nel corso degli anni la sua area di interesse cambia, pur restando all’interno dello stesso ambito di ricerca. Dopo l’esperienza in Burundi, Martina Bacigalupo capisce quanto sia fondamentale la presenza dell’“altro” dentro il processo affannoso di costruzione dell’identità, “l’altro” non come limite ma come opportunità da cogliere. Anche le sue immagini cambiano, i gemelli non hanno più una distanza fisica, vengono invece fotografati suggerendo un’idea di coppia siamese, indissolubile. Bacigalupo sceglie di intitolare il suo lavoro Hito, come l’ideogramma giapponese utilizzato per rappresentare l’essere umano, cioè l’immagine di due persone che si appoggiano/sostengono l’una all’altra in un equilibrio visibilmente precario, un equilibrio che può esistere solo in due: se uno fa un passo indietro, l’altro cade. Yael Bartana “Ciò che davvero m’interessa è stimolare una riflessione sostanziale, anche a costo di uscire dal territorio dell’arte” Yael Bartana si muove all’interno di uno degli aspetti più indagati e controversi della fotografia: la memoria. Contraddistinta da un forte legame con la sua madrepatria, Israele, utilizza da sempre diversi media visivi – tra cui film, installazioni e fotografie – come strumenti d’esplorazione atti a indagare l’immaginario politico e identitario della sua terra. Se la sua forte coscienza nazionale può essere considerata come punto di partenza della ricerca artistica, lo scopo del suo lavoro è quello di rintracciare, attraverso cerimonie e rituali pubblici, il significato implicito di termini come “patria”, “ritorno” e “appartenenza”, ognuno dei quali è fondamentale per la riaffermazione dell’identità collettiva dello statonazione di Israele. La serie Missing Negatives of the Sonnenfeld Collection (2008) è creata dall’artista mettendo insieme immagini fotografiche prelevate da differenti fonti archivistiche. Oltre a lavori personali dell’artista, la serie è composta da reportage fotografici appartenenti al Museo del popolo ebraico di Tel Aviv e alla collezione Sonnenfeld. I coniugi Leni e Herbert Sonnenfeld, tra il 1933 e il 1948, lasciata Berlino a causa dell’avvento del regime nazista, raccolgono numerosi reportage fotografici relativi alla formazione di comunità ebraiche di profughi, presenti in tutto il mondo: vanno così a creare quello che oggi si può considerare l’archivio fotografico più importante del popolo ebraico. Adottando lo stesso stile eroico, l’artista rimette in scena le fotografie originali, ritraendo agricoltori, operai e soldati belli e gioiosi, con l’aiuto di giovani arabi ed ebrei arabi, attualmente residenti in Israele. Costituisce così un “archivio ibrido”, in cui la forte commistione fra passato (in bianco e nero) e presente (a colori) mette perfettamente in risalto quella medesima voglia dei giovani discendenti di Abramo di costruire, sulle rovine di un sanguinoso passato, un nuovo e grandioso futuro. Letizia Battaglia “La fotografia l’ho vissuta come documento, come interpretazione e tanto altro ancora. L’ho vissuta come acqua dentro la quale mi sono immersa, mi sono lavata e purificata. L’ho vissuta come salvezza e verità” Nel 1974 documenta l’inizio degli anni di piombo nella sua città, scattando foto dei delitti di mafia. Letizia Battaglia non è, ad ogni modo, solo la fotografa della mafia, le sue foto, spesso in bianco e nero, raccontano Palermo nella sua miseria e nel suo splendore: i suoi morti di mafia ma anche le sue tradizioni, gli sguardi di bambini e donne, i quartieri, le strade, le feste e i lutti, la vita quotidiana e i volti del potere di una città contraddittoria. Dal 1974 Battaglia fotografa dunque, giorno dopo giorno, i delitti mafiosi, documentando l’incedere della violenza. «Solo allora ho sentito che con le foto stavo documentando qualcosa di storico. Era una specie di guerra civile, pian piano è diventato tutto molto violento. Ci ho messo tutto l’impegno e la serietà possibile, perché sentivo di dover rispondere sia alle istanze del giornale che alle mie. Non bastava fotografare, bisognava farlo con rispetto, con partecipazione». Con le sue opere non solo ci mette di fronte all’orrore della morte, ma dà anche un volto al dolore di chi rimane: sguardi di donne che sono state madri, mogli, figlie, sorelle di uomini uccisi dalla guerra di mafia. Dopo le stragi del 1992 Letizia Battaglia decide però di smettere di fotografare morti: «Per anni ho fotografato cadaveri ma mai gli assassini. Non si conoscevano mai. Se si trattava di un omicidio normale, il killer veniva scoperto subito, ma nei delitti di mafia mai. Ci sentivamo umiliati, un popolo umiliato e schiacciato da questa tragedia». Margaret Bourke-White “[…] trovare qualcosa di nuovo, qualcosa che nessuno avrebbe potuto immaginare prima, qualcosa che solo tu puoi trovare perché, oltre ad essere fotografo, sei un essere umano un po’ speciale, capace di guardare in profondità dove altri tirerebbero dritto” Nel 1928 decide di trasferirsi in Ohio dove apre uno studio fotografico, specializzandosi nella fotografia d’architettura, di design e industriale. A Cleveland ha numerosi clienti, tra cui le acciaierie Otis, da cui riceve ampio sostegno. Le sue fotografie degli altiforni, grazie alle astrazioni geometriche permesse dalle architetture industriali, ne fanno una delle fotografe più apprezzate anche nell’ambito della ricerca artistica. Si può considerare Bourke-White come la prima fotografa industriale di rilievo, nonché tra i primi fotografi a dare spessore artistico alla fotografia industriale. Per scattare sale sui cornicioni dei grattacieli più alti, sorvola città, si spinge nelle zone più pericolose degli stabilimenti. Nel 1929 ha inizio la sua collaborazione con la rivista «Fortune», e nel 1936 è chiamata da Henry Luce a far parte della redazione fotografica del nuovo rotocalco «Life»: sua è la prima copertina della rivista, una fotografia dell’imponente diga di Fort Peck nel Montana, a simboleggiare il New Deal rooseveltiano. Il suo obiettivo in questi anni è sempre più vicino all’emergenza sociale degli Stati Uniti: appartiene a lei ad esempio la celebre fotografia della fila di persone di colore, in attesa della distribuzione di un pasto, sovrastate dalla pubblicità di un’automobile con a bordo la tipica famiglia americana wasp e la frase «World’s highest standard of living». Sophie Calle “Ho da sempre avuto l’impressione che le mie foto non potevano esistere da sole, le immaginavo all’interno di una struttura narrativa insieme alle parole. Lo stesso discorso si può fare per la scrittura. Le storie mi parevano povere senza le immagini e quindi utilizzare i due media era una conseguenza logica. In più mi piaceva fotografare e amavo scrivere” Sophie Calle si descrive come un’artista di narrativa: i suoi progetti, a metà strada tra la performance, la fotografia e la cronaca, vengono esposti come installazioni e spesso diventano libri. Per la mostra organizzata dopo aver ricevuto l’Hasselblad Award, sceglie le immagini e il testo di un progetto in corso, True Stories. In questa serie Sophie Calle crea una sorta di storia in cui testo e fotografia sono inscindibili, in coppia. Include nella serie, inoltre, il suo precedente lavoro The Husband; 10 Stories, che racconta il corso di una relazione; i titoli delle dieci storie ne scandiscono il percorso: The Resolution, The Hostage, The Argument, Amnesia, The Erection, The Rival, The Fake Marriage, The Break-up, The Divorce, The Other. La poetica di Calle si colloca proprio nello spazio stabilito tra fotografia e testo. Il suo concetto di realtà e finzione solleva altre domande circa l’identità delle persone. Chi siamo veramente, al di là di ciò che diciamo di essere, e chi sono gli altri? Stalker, spogliarellista, dormiente, spia: tutte le sue opere cercano di ricostruire l’intimità dall’esterno, attraverso minimi dettagli, e tramite queste opere Sophie Calle tenta di appropriarsi delle esperienze degli altri. Nei suoi lavori la linea di confine tra la vita e l’arte è confusa. All’interno del panorama delle arti visive, Calle è uno dei casi più interessanti dell’intreccio tra dimensione letteraria e fotografia, nel quale si può realizzare un’interessante reversibilità dei ruoli. Lisetta Carmi “Una fotografia non è mai esistita nella mia testa prima dello scatto: io vedo ciò che c’è, vibro con ciò che c’è, amo ciò che c’è, mi emoziono vedendo ciò che c’è” Sono sue le più belle fotografie mai scattate a Ezra Pound. È l’11 febbraio 1966 quando il direttore dell’Ansa le chiede di accompagnarlo a Sant’Ambrogio, vicino a Rapallo, perché deve intervistare il poeta. Pound, vecchio e malato, reduce dai tredici anni di reclusione nel manicomio criminale di Saint Elisabeth, a Washington, abita una casa poverissima, con cassette della frutta come librerie e un lettuccio spoglio. Quando, dopo molto insistere e bussare, si presenta sulla soglia, Lisetta Carmi comincia a scattare. È spettinato, esangue, indossa una vestaglia e ciabatte che nascondono i piedi gonfi. Non parla, sono anni che ha smesso di parlare. Alle sue spalle il buio della stanza sembra risucchiarlo, i suoi occhi sono superbi e Lisetta, con la sua Laika, scatta venti fotografie in quattro minuti mentre l’intervistatore gli fa domande alle quali il poeta non risponde. Poi ne sceglie dieci che, secondo Umberto Eco, raccontano di Pound più di quanto sia mai stato scritto su di lui. Tacita Dean “Niente è più spaventoso di non sapere dove stai andando, ma poi di nuovo nulla può essere più soddisfacente che constatare che siete arrivati da qualche parte senza un’idea chiara del percorso” Dal 1996 Tacita Dean inizia a lavorare a una serie di opere racchiuse sotto un unico titolo, Disappearance at Sea, ispirate a storie di incontri personali con il mare: un titolo che crea un insieme e genera uno spazio ideale e poetico dove far confluire tutte queste scomparse. Il lavoro Teignmouth Electron Series prende il nome da un’imbarcazione e racconta una di queste storie. Nel 1968 Donald Crowhurst partecipa alla Golden Globe Race; dopo poche settimane dalla partenza Crowhurst si rende conto che la sua barca, la Teignmouth Electron, non è all’altezza di navigare intorno al mondo. Decide però di non tornare a casa. Inizia quindi a emettere false comunicazioni riguardo alla sua navigazione, false posizioni della sua imbarcazione, fino a costruire un inganno vero e proprio per il mondo a terra, che non sopporta più. Inventa un mondo dove lui è l’unico protagonista, insieme alla sua imbarcazione, e sviluppa una forte ossessione per il tempo. Due settimane prima dell’eroico ritorno a casa previsto per Crowhurst, la Teignmouth viene trovata alla deriva, vuota. Tacita Dean crea diverse opere che parlano di questa storia: tra queste, un’incisione realizzata nel corrimano in legno di una balaustra all’interno del National Maritime Museum di Greenwich e un film, Disappearance at Sea I, che è la prima opera di Dean a fare riferimento alla storia di Donald Crowhurst. Questo film ipnotico, realizzato in formato anamorfico, viene girato quasi interamente al faro di Saint Abb’s Head e si concentra su specchi, prismi e filamenti che fanno parte della struttura del faro; è ambientato nel momento in cui la notte diventa giorno, ed esplora la qualità e il movimento delle luci artificiali e naturali, come la spia del faro e il sole che tramonta. Le immagini spettrali di Crowhurst e Bas Jan Ader, artista olandese disperso in mare durante una traversata in solitario così come l’inglese, diventano simbolo dell’imprevedibilità del mare e dei suoi pericoli. Lucinda Devlin “La mia opinione personale sul ruolo della pena capitale nella nostra società non è in questione in queste fotografie. Piuttosto, ho voluto che fossero gli ambienti stessi a comunicare direttamente con gli spettatori” Lucinda Devlin inizia, nel 1991, una serie di fotografie di camere a gas, camere per l’iniezione letale, sedie elettriche, celle nel braccio della morte nelle carceri rurali degli Stati Uniti: la serie, dal titolo The Omega Suites, fa riferimento, attraverso l’allusione all’ultima lettera dell’alfabeto greco, alla finalità dell’esecuzione. Lo scopo di queste fotografie non è di presentare un punto di vista di tipo etico sul tema della pena di morte, ma di concentrarsi sull’ambiente in cui avvengono le esecuzioni. Iniziato nel 1991 e completato nel 1998, questo lavoro mostra una serie di camere per le esecuzioni fotografate dall’artista nei vari penitenziari degli Stati Uniti, con il permesso e la cooperazione delle autorità locali. Queste suggestive immagini di spazi architettonici mettono in luce una realtà sociale, come quella americana, colma di contraddizioni, che vede una maggioranza di cittadini a sostegno della pena di morte contrapposti a 3.000 detenuti nel braccio della morte. Ogni fotografia viene etichettata dall’artista in modo tale che lo spettatore sia ben cosciente del ruolo particolare di ogni immagine nel cupo processo di presentazione della pena capitale. Le architetture di isolamento, le camere igienizzate, l’assenza di figure umane producono immagini clinicamente sterili: fotografie che riprendono gli spazi del condannato e quello dei testimoni, camere asettiche, pulite, tecnologiche. Immagini rigorose, nitide, senza mai la presenza umana, ma con la crudele anatomia di ogni oggetto, ogni particolare, ogni elemento dei luoghi dell’esecuzione. Divieti, stanze, oggetti giacciono in una dimensione asettica, che si dispone come una pellicola e sembra penetrare negli interstizi delle cose. Le immagini di Lucinda Devlin sono perfette e gelide come le pagine patinate di una rivista di design, in cui gli ambienti divengono tanto inerti da riuscire a rendere ardua l’impresa di stanarvi la vita. Donna Ferrato “Sono in grado di scattare una straordinaria quantità d’immagini del dolore privato delle persone perché questo è l’unico modo per educare le masse. Non c’è niente di più potente di una fotografia documentaria che diventa una storia dentro una storia, raccontata senza trucchi o abbellimenti” Donna Ferrato inizia la sua carriera fotografando la liberazione sessuale delle donne all’inizio degli anni ottanta e si ritrova poco dopo a documentare scene di violenza domestica. Nel 1982, mentre sta lavorando a un progetto sulle ricche coppie delle aree suburbane, Donna Ferrato diventa una testimone involontaria: un uomo, sotto l’effetto di droga, picchia la moglie. L’evento dà inizio alla sua missione di documentare gli abusi contro le donne e i bambini all’interno delle pareti domestiche. Ferrato non era, per sua stessa ammissione, una fotografa impegnata, ma assistere a quella scena le cambia la vita, indirizzandola verso la scoperta del “non detto” delle donne, quel non detto che si manifesta nelle sale d’aspetto di ospedali, consultori e stazioni di polizia. Nel 1991, dal progetto, nasce il libro Living with the Enemy, il suo libro simbolo, che ha tre ristampe e vende oltre 40mila copie in tutto il mondo. Il complicato tema della violenza domestica la porta a tenere lezioni nelle università americane e a interagire con avvocati, giudici, poliziotti, studenti e sindaci. Giorgia Fiorio “Le fotografie non sono mai delle risposte ma delle domande. E ognuno le legge e le interpreta come le sente. Secondo la propria sensibilità e percezione. Il fotografo in realtà non deve dire nulla di più. Non deve spiegare a tutti i costi che cosa vogliano dire le sue immagini” Al progetto Uomini Giorgia Fiorio lavora per dieci anni, a partire dal 1993, indagando sulle «comunità chiuse maschili nella società occidentale», come i pugili di New York, i minatori di carbone, la Legione Straniera, i toreros, i pompieri e gli uomini del mare: «esseri umani che nel nostro tempo avevano scelto di vivere in un quotidiano confronto fisico estremo con la morte e con se stessi». Le immagini, rigorosamente in bianco e nero («il bianco e nero è come fotografare in versi», dice in un’intervista), mostrano i corpi maschili tesi nello sforzo, con i muscoli scolpiti, uomini i cui sguardi ricordano la sfida che si accingono ad affrontare, sia essa con il fuoco, con il toro, con l’acqua. «Le fotografie non dicono mai, evocano. Dunque in un certo senso non sono mai delle risposte ma delle domande alle quali ogni spettatore è invitato a rispondere». Immagini che vanno al di là dei corpi, ma attraversano il tema della rappresentazione della bellezza virile in queste «comunità chiuse». Nan Goldin “Pensavo che non avrei perso nessuno, se lo avessi fotografato. Le mie foto mi ricordano quanti amici ho perduto” Pioniera di uno stile diaristico che è ormai uno standard narrativo nell’era di Instagram, Nan Goldin racconta con grande naturalezza lo stile di vita dissoluto ed edonistico della New York degli anni ottanta, preda di eccessi, droghe, violenze e alcool. Le sue fotografie sono un tuffo nelle vite di travestiti, drag queen, prostitute, gay: individui che la società marginalizza e che sono per lei il cuore nevralgico di una comunità che persegue la propria vita, in modo autonomo dai valori sostenuti da media e politica. Il suo nome raggiunge la popolarità con la serie fotografica The Ballad of Sexual Dependency, proposta in una sequenza di diapositive nel 1985, quindi in un libro l’anno successivo, e che è ancora oggi il punto di riferimento di un nuovo modo di fare fotografia: istantaneo, libero da tecnicismi e saturo di colore. Nel 2014, dopo undici anni di silenzio, pubblica Eden and After, una raccolta di fotografie dedicata al mondo dell’infanzia e dell’adolescenza, in cui non vigono le restrizioni di genere e di comportamento promulgate dalla società. Il suo ritratto con un occhio nero, lo sguardo fisso sul partner con la testa affondata nel cuscino, dichiara guerra agli stereotipi: non c’è coraggio senza fragilità. Roni Horn “Le mie opere si sviluppano in modo tale da non permettere mai allo spettatore di prendere troppa familiarità, o di fare ipotesi al riguardo. […] Io non sono interessata alle risposte. Le risposte creano chiusura. E, in ogni caso, non credo che esistano risposte, le risposte sono sempre provvisorie” Natura, tempo e vissuto interiore si intrecciano nei lavori di Roni Horn. Muovendosi fra disegno, scultura e fotografia, la Horn, nota anche per la sua natura androgina, indaga il tema del doppio, dell’identità, dell’inafferrabile natura degli eventi; è da sempre attratta, inoltre, dal rapporto che può stabilire con il suo pubblico, a cui chiede di vivere l’opera d’arte in modo attivo. La riflessione, sul rapporto fra differenza e identità, continua in You Are the Weather del 1994-96, dove l’amica Margret viene fotografata in centodieci modi diversi e solo apparentemente ripetitivi. L’identità dell’amica, unica e nel contempo molteplice, muta di scatto in scatto, secondo il variare delle condizioni climatiche («Nel caso di You Are the Weather, ero curiosa di capire se potessi scovare un posto sul suo viso che fosse come un paesaggio. Non in senso letterale, volevo piuttosto vedere quanto queste due entità fossero vicine»): un concetto, questo, espresso dalla stessa artista e che meglio non potrebbe definire l’obiettivo di questa serie di lavori. Ritratto di un’immagine è invece una serie di un centinaio di ritratti fotografici dell’attrice francese Isabelle Huppert, il cui volto riflette una vasta gamma di emozioni. Horn ha fotografato l’attrice in venti sequenze di cinque foto ciascuna. In ogni sequenza, la Huppert scivola brevemente in uno dei suoi personaggi: in questo modo il suo viso esprime personalità che non esistono nella realtà, ma solo nei film. Le fotografie di Roni Horn presentano studi di fisiognomica, in cui le variazioni mostrano che l’individuo è sempre una pluralità. L’assunto di base che permette l’accesso al lavoro di Roni Horn è la sua idea di un’enciclopedia di identità. Al centro delle sue serie vi sono le nozioni di diversità come base dell’identità, la capacità di trasformazione e l’impossibilità di un’identità definita permanentemente. Tuttavia, i ritratti non sono corredati da alcun commento, sollevando così interrogativi su come (e se) possiamo interpretare il volto che stiamo guardando anche senza un contesto prestabilito. Zanele Muholi “Con la fotografia io do la possibilità alla gente di raccontare le loro storie, a modo loro. […] Le loro storie mi hanno causato notti insonni, molti di loro erano stati violati, e non volevo che la macchina fotografica fosse un’ulteriore violazione. Piuttosto, ho voluto stabilire e mantenere con loro relazioni basate sulla nostra comprensione reciproca” Nel 2009 consegue il Master of Fine Arts in Documentary Media presso la Reyerson University di Toronto, con una tesi che ripercorre, attraverso le immagini, la storia delle comunità lesbiche nel Sudafrica del post-apartheid. Tutto il suo lavoro artistico è impegnato, ideologicamente e politicamente, nel portare alla luce le problematiche delle comunità omosessuali africane, così da consegnare un lascito alle generazioni future. L’opera in mostra, Faces and Phases (2010), nasce dalla volontà di mappare una comunità invisibile. Si tratta di una serie in progress che ritrae lesbiche e transessuali incontrati dall’artista durante i suoi viaggi come attivista in posti quali Città del Capo, Gauteng, Botswana, fino ad arrivare in Svezia, a Londra e Toronto. Il lavoro può quindi essere visto sia come una dichiarazione, sia come un archivio, con cui Zanele Muholi racconta le storie e le lotte quotidiane affrontate dalle comunità LGBTI. Il ritratto diventa quindi forma di celebrazione e commemorazione di donne che subiscono quotidianamente violenze fisiche e psicologiche, spesso dai loro stessi amici e familiari, in una società che non tutela legislativamente i crimini fomentati dall’odio e dalla discriminazione. Il ritratto, dunque, si rivela uno strumento di esibizione dell’aspetto fisico, dell’estetica di donne dimenticate e oppresse da una società patriarcale e intollerante. L’intento dell’artista è quello di indurre lo spettatore a porsi delle domande sulle storie che si celano dietro quei volti. Come spiega l’artista, Faces è metafora della persona, e anche del confronto faccia a faccia tra la fotografa (artista e attivista al contempo) e i protagonisti dei ritratti; Phases si riferisce ai passaggi da una fase o da un’esperienza sessuale all’altra. Shirin Neshat “Sto cercando di mettere insieme le immagini e le storie, di trovare l’armonia tra fotografia, pittura e parole. […] Quello che cerco è l’universalità, una storia iraniana che possa valere per tutti” La serie Women of Allah (1993-97) di Shirin Neshat è composta da una serie di fotografie che ritraggono immagini di donne musulmane velate, tatuate, a volte armate. Neshat inizia la sua carriera artistica proprio con questa serie, in cui esplora il concetto di femminilità in relazione all’autorità maschile e al fondamentalismo islamico nel suo paese d’origine. I ritratti, in cui la pelle appare coperta da calligrafia persiana, sembrano voler indagare le forze sociali complesse che modellano l’identità delle donne musulmane. Un lavoro, quello di Shirin Neshat, condotto sul proprio corpo ma anche all’interno della cultura islamica, la quale impone che il corpo femminile sia visibile per frammenti, selezionati dalla rivoluzione khomeinista: gli occhi, le mani, i piedi; mentre tutto il resto è coperto dall’hijab, dal chador, o da una veste larga che come un mantello nasconde e sottrae alla vista. Neshat usa per le sue immagini l’abbigliamento tradizionale iraniano e la scrittura parsi; la calligrafia che ricopre volti, mani e piedi trascrive frammenti di poesie persiane riguardanti temi come l’esilio, l’identità, la femminilità e il martirio, o ancora parole e dichiarazioni di scrittrici femministe iraniane quali Tahereh Saffarzadeh, Forugh Farrokhzad, Parvin E’tesami. Il testo diviene un elemento accuratamente integrato in ciascuna immagine, mescola idea e ornamento, e offre impreviste introspettive della situazione odierna delle donne islamiche, oltre all’espressione letteraria della presenza femminile nella società iraniana e islamica. Yoko Ono “La storia della mia vita è allo stesso modo la storia del mondo. Sono sempre cosciente che quello che metto nel mio lavoro artistico è la verità. E la verità è solo quella della mia esperienza” Yoko Ono viene descritta come «la più famosa artista sconosciuta: tutti conoscono il suo nome, ma nessuno sa cosa fa». Artista, cantautrice e musicista, è tra i primi membri di Fluxus, come sperimentatrice della performance (in Cut Piece, ad esempio, si presenta seduta su un palcoscenico mentre invita il pubblico a tagliare con delle forbici gli abiti che indossa, fino a restare nuda) e dell’arte concettuale (celebre il libro Grapefruit, edito nel 1964, in cui fornisce delle insolite istruzioni Zen che il lettore deve completare nella sua mente). Nel 2001 YES YOKO ONO, una retrospettiva di quattro anni del lavoro dell’artista, è premiata come miglior mostra museale di New York dall’International Association of Art Critics; nel 2002 le viene offerta la laurea in Belle Arti dal Bard College. A livello internazionale, tuttavia, Yoko Ono viene tutt’oggi ricordata principalmente per il suo matrimonio con John Lennon, celebrato nel marzo del 1969. In quell’occasione i due sfruttano l’attenzione mediatica della celebrazione a favore del loro impegno per il pacifismo e il rispetto dei diritti umani: la testimonianza che ci resta oggi è una celebre fotografia che ritrae i coniugi durante il Bed-in for Peace. Ono e Lennon restano per una settimana nella suite presidenziale dell’hotel Hilton, accogliendo i giornalisti dalle nove del mattino alle nove di sera; le aspettative erano quelle di atteggiamenti provocatori e stravaganti, i due invece si fanno trovare ogni giorno in pigiama, seduti nel letto, parlando di amore e pace universali. Catherine Opie “Se c’è una cosa che non sono è monodimensionale. Così, invece di puntare su soggetti queer, ho cercato di espandere un messaggio queer ” Catherine Opie inizia a fotografare riprendendo le comunità del suo paese: da quella queer di San Francisco ai surfisti in attesa delle onde, per spostare poi la sua attenzione sui pescatori dei laghi ghiacciati del Minnesota e i giocatori di football delle squadre del college; nel 1995, tuttavia, decide di compiere una svolta artistica. La decisione la porta a mettere da parte la ritrattistica per immortalare le autostrade di Los Angeles, le piccole case dei pescatori del Minnesota sperse nei ghiacci, nella serie Icehouses, o gli esterni delle ricche dimore di Beverly Hills in Houses, o ancora il suo vicinato di Los Angeles in In and Around Home: indaga così il modo in cui le fotografie danno voce ai fenomeni sociali in America oggi, registrando atteggiamenti e rapporti tra le persone, oltre al modo in cui queste ultime occupano il paesaggio. Spaziando tra concettuale e documentario, Catherine Opie in molte delle sue opere cerca di catturare l’espressione dell’identità individuale attraverso i gruppi (le coppie, le squadre, le folle). Sia che documentino movimenti politici, sottoculture queer o trasformazione urbana, le immagini di Opie sono un ritratto dell’America contemporanea. Bettina Rheims “Trent’anni fa, quando volevo diventare fotografa, giravo con la mia macchina fotografica e riprendevo ciò che avveniva intorno. Poi, ho voluto vedere le donne svestirsi. Si pensa che io svesta le donne, non è vero. Io svesto i loro pensieri” Il lavoro di Bettina Rheims ammicca all’universo e ai codici della moda, pur riguardando temi spesso ampiamente dibattuti nella società. La serie che la rende famosa, dedicata al mondo degli acrobati e dello striptease, nel 1981 le vale una mostra monografica al Centre Pompidou. Al centro della sua ricerca sta il corpo femminile, raccontato sempre con accenti sensuali, erotici ed emotivi; nelle sue immagini «la sensualità è legata al piacere e non al dolore, come spesso accade in arte». Altro ambito d’indagine nel lavoro di Bettina Rheims è l’identità: è del 1989-90 la serie Modern Lovers, ritratti in bianco e nero che raccontano il corpo umano nelle sue forme androgine e femminili. L’opera in mostra, Gender Studies (2011), riprende la linea di ricerca avviata da Modern Lovers, portandola però a uno step successivo: i protagonisti sono, questa volta, uomini e donne transessuali, o che hanno deciso di vivere sulla linea di confine tra i due generi sessuali. I modelli sono ingaggiati con un procedimento inconsueto per l’artista, che crea un profilo Facebook in cui, diffondendo immagini della prima serie fotografica, invita chi «si sente diverso» a contattarla. Nonostante la sua iniziale diffidenza verso i social network, Rheims ne scopre il potere di comunicazione e aggregazione: persone apparentemente solitarie, che non hanno mai lasciato le proprie città, hanno milioni di amici virtuali nel mondo. Ventisette candidati provenienti da ogni parte del mondo posano nello studio di Bettina Rheims. Le storie e le voci dei modelli colpiscono l’artista al punto da realizzare, in collaborazione con il sound artist Frédéric Sanchez, una registrazione da aggiungere alla componente visuale dell’opera. Tracey Rose “Liberate dai vincoli culturali e ideologici, le mie immagini ricercano la capacità di agire al di fuori di qualsiasi pregiudizio: questa è la modalità principale di approccio e di azione all’interno di un discorso sull’identità personale e artistica” Il lavoro di Tracey Rose si concentra sulla performance, la video installazione e la fotografia, mezzi con cui esplora e affronta tematiche quali le politiche identitarie, sessuali e razziali. Buona parte della sua produzione fa riferimento all’arte degli anni sessanta e settanta: proprio come le artiste della generazione precedente, Rose focalizza l’attenzione sul corpo femminile, criticando, attraverso la satira e il travestimento, gli stereotipi in cui questo corpo è stato imprigionato dalla cultura occidentale. L’opera in mostra, Ciao Bella (2001), è capitale in tal senso. Realizzata durante un programma di residenza della South African National Gallery a Città del Capo e presentata in occasione della Biennale di Venezia curata da Harald Szeemann, è composta da una serie di ritratti in cui l’artista stessa veste i panni di diversi personaggi femminili (alcuni storici, altri d’invenzione), riconducibili ai ruoli assegnati alle donne da una società prepotentemente patriarcale: Maria Antonietta, Lolita, Ilona Staller, una sirena, un’esotica bellezza asiatica, una dominatrice, Josephine Baker, una coniglietta, una cow girl, una suora ecc. Le loro azioni, ora drammatiche ora grottesche, vanno a comporre quella che è stata definita una «parodia femminista» dell’Ultima cena di Leonardo da Vinci. Martha Rosler “La domanda non è «è arte?», ma «arte di chi?». La domanda non è «è arte?», ma «arte per chi?». La domanda è «che cosa è arte?»” L’opera di Martha Rosler è declinata attraverso un’ampia varietà di mezzi – fotografia, fotomontaggio, video, installazione, performance e pubblicazioni – e si distingue per l’impegno politico e ideologico, dedito all’analisi e alla critica di temi di rilevanza sociale quali la guerra, il cambiamento climatico, gli spazi pubblici, la gentrificazione. Il femminismo è uno dei fulcri della produzione di Rosler, una prospettiva da cui l’artista guarda il mondo e mette in discussione l’assetto del potere nella società occidentale. Coerentemente con l’ideologia femminista, in molti video l’artista pone se stessa di fronte alla telecamera, a impersonare diverse tipologie di donne, con un atteggiamento a tratti ironico, a tratti didattico; costante è l’evidenza del marcato accento di Brooklyn che caratterizza la sua voce, un espediente che serve all’artista per dichiarare la sua razza, genere e classe sociale, e che viene usato come antidoto all’omologazione dilagante. L’opera in mostra, Cuba, è una serie fotografica esposta per la prima volta nel 2012, ma realizzata nel 1981 durante un viaggio culturale organizzato da Ana Mendieta e Lucy Lippard. Passando per L’Avana, Santiago e Trinidad, Rosler ritrae negozi, edifici, persone, poster e cartelloni pubblicitari. Così come nella maggior parte dei suoi lavori fotografici, l’artista si concentra sugli spazi pubblici della vita quotidiana, ritraendo persone nei caffè, nelle chiese, nelle scuole, e restituendo una visione ravvicinata della società e della cultura cubana in un periodo in cui l’accesso al territorio è interdetto a molti cittadini statunitensi. È proprio attraverso i piccoli dettagli della vita comune che Martha Rosler riesce a comunicare l’aspetto più veritiero di un mondo che viene spesso filtrato confusamente attraverso il punto di vista della società capitalista. Chiara Samugheo “Il mio ideale è conoscere e raccontare le persone. La foto è un momento per condividere l’intimità, per raccontare una realtà altrimenti impercettibile. Negli anni della Guerra Fredda ci animava l’illusione di costruire un mondo migliore e, attraverso le foto, contribuire a denunciare i mali e le contraddizioni dell’Italia. Oggi, svanite le illusioni, mi piace commentare usi e costumi della gente e cercare analogie tra i continenti” Dal 1955 ritrae le dive del cinema italiano (tra cui Sophia Loren, Claudia Cardinale, Monica Vitti) e i più importanti registi del tempo (Fellini, Scorsese, Rossellini, Chaplin, Hitchcock), contribuendo con i suoi scatti – pubblicati in tutto il mondo da «Paris Match», «Vogue», «Life», «Vanity Fair» – alla costruzione dell’immaginario della “dolce vita”; questo mondo viene inquadrato però da un punto di vista più ravvicinato, intimo, che decostruisce il mito dell’irraggiungibilità dei personaggi dello star system e li restituisce a una dimensione più umana e reale. Il dato umano è ciò che interessa l’obiettivo di Chiara Samugheo fin dall’inizio della carriera, avviata con il fotogiornalismo. Di quest’ultima produzione fanno parte serie emblematiche di scatti in bianco e nero, di stampo neorealista: vere e proprie indagini antropologiche che restituiscono un ritratto schietto della società del dopoguerra. Le invasate, presente in mostra, è la serie di fotografie realizzate durante un reportage a Galatina, che immortala i riti del tarantismo. Alessandra Sanguinetti “I bambini sono affascinanti. Lo siamo stati tutti, e gran parte della nostra identità si è formata durante la nostra infanzia. In quanto società, proiettiamo molte delle nostre speranze, frustrazioni, tabù e aspirazioni sui bambini. E loro sono estremamente puri nel trasmettere come tutte queste cose li influenzino. Come potevo non fotografarli?” Mentre lavora alla serie On the Sixth Day, incentrata sull’interazione tra gli allevatori e gli animali destinati al macello, l’artista conosce due ragazzine che vivono nella zona: si tratta delle cugine Guille e Belinda, protagoniste del suo più noto progetto a lungo termine, che ritrae le due ragazze in diverse fasi della vita. L’opera in mostra, Sweet Expectations, è una serie realizzata tra il 1992 e il 1997, in tempi e luoghi diversi, tra cui Brooklyn, Buenos Aires e Città del Messico: una scelta che rispecchia e ripercorre la vita stessa di Alessandra Sanguinetti, cresciuta tra l’emisfero nord e quello sud del continente americano. I protagonisti delle foto – tutte in bianco e nero – sono bambini ritratti in versione adulta, con abiti, atteggiamenti ed espressioni che contrastano con la loro giovane età. L’artista fa così convivere due tempi contrastanti all’interno delle sue fotografie: il tempo presente (quello dello scatto) e il futuro a cui alludono gli sguardi pensierosi e pieni di aspettative dei bambini. L’altra opera presente in mostra, Palestine, è il primo lavoro ambientato in un territorio prima sconosciuto all’artista. A proposito della sua esperienza in Palestina, Sanguinetti dichiara che la sua curiosità per il paese, la sua fascinazione per i paesaggi e per le persone del posto fanno sì che si sia sentita a suo agio nel territorio. Nonostante la barriera del linguaggio, non è mai stata trattata come una straniera, al contrario di quanto le succede viaggiando in Europa. Nelle fotografie, questa volta a colori, l’artista ritrae principalmente bambini in diverse aree dello stato, spesso nei campi profughi e in zone delle città in cui sono tangibili i segni distruttivi della guerra. Sam Taylor-Johnson “Uso la fotografia come punteggiatura, per segnare i capitoli fondamentali della vita. Il lavoro nasce da questa sensazione di libertà mentale e spirituale” La sua produzione artistica si incentra sempre sul conflitto tra essere e apparire, su quella linea di confine in cui il senso dell’identità si divide tra l’interno e l’esterno, tra le esigenze sociali e quelle personali. L’opera in mostra, Soliloquy (1998-2001), come suggerisce il titolo stesso è una riflessione sulle tribolazioni dell’individuo moderno intrappolato in se stesso, una metafora della condizione umana. Con questa serie Sam Taylor-Johnson aspira a creare «qualcosa di surreale, una possibile narrazione». L’intento è evidente nella struttura compositiva delle immagini, ispirata alla tradizione della predella rinascimentale: un personaggio, solitamente Cristo, la Vergine o un Santo, già ritratto nel pannello principale, compariva nnuovamente nei riquadri sottostanti, in cui venivano rappresentati episodi della sua vita. Sam TaylorJohnson sostituisce ai personaggi biblici della tradizione cristiana uomini dell'era contemporanea e nella porzione inferiore dell’immagine concretizza, attraverso immagini panoramiche, i desideri più reconditi dei protagonisti. Si tratta di visioni oniriche, criptiche, traduzione d’immagini mentali che sottolineano la fondamentale soggettività della percezione umana. L’osservatore non può che carpire significati parziali e sfuggenti di ciò che osserva, non può innestare un senso definitivo sulla scena cui assiste. Allo stesso tempo, però, egli proietta la propria soggettività sulle immagini, trasformando così l’immaginario privato dei protagonisti in qualcosa che è a loro estraneo. Donata Wenders “A volte è solo un fugace istante, un gesto o un movimento improvviso, quando ci chiediamo: «Cosa sto facendo veramente con la mia vita?». Spesso abbiamo paura della risposta, ma c’è ancora tanta speranza in questo interrogarsi, ed è anche il cuore della nostra identità” Onomichi è una città della prefettura di Hiroshima, in Giappone. Journey to Onomichi è il libro di viaggio di Donata Wenders, del 2005, in cui la fotografa ci mostra una visione singolare del mondo, ovvero il mondo così come è, semplicemente. Nessuna spiegazione, nessuna nota aggiuntiva sulla pagina. Onomichi, vista da Wenders, resta avvolta nel mistero, un tipo di spazio, una terra su cui ogni giorno un dio delle piccole cose può deporre i suoi miracoli. Roland Barthes scrive: «In Giappone, il regno del significativo si estende molto oltre la lingua». E sembra che Donata Wenders abbia un’esperienza simile, sembra volersi concentrare sulla periferia della visione: sugli accessori di una piccola cerimonia, su delicate sagome in controluce. Una collezione di luci e personaggi: fragile, volatile e piena di poesia. Questa serie di fotografie consolida l’approccio estetico dell’artista in spazi estremamente fragili e tutte le immagini sembrano voler dare corpo a un’esistenza delicata, quasi invisibile. Ciò che esiste tra le persone è una sorta di campo, un fluido, un bene intangibile, una sfera energetica. Qualunque cosa sia, qui si è fatto visibile, al di là delle forme e delle strutture fisse. Ciò che rimane, quando tutto il resto non è più. Yelena Yemchuk “La fotografia mi permette di trattare temi assurdi, l’ambiguità e il non-senso come soggetti che sanno stuzzicare l’immaginazione o le contraddizioni folli della politica, del sociale, della vita stessa. Mi piace ritrarre tutti i personaggi come se ne vedono nei capolavori di Fellini” Le immagini di Yelena Yemchuk sono immediatamente riconoscibili, indipendentemente dal soggetto che fotografa. La sua è una visione che ibrida una fantasia surreale e un romanticismo dark. Nella serie Untitled Project Yelena sembra scattare istintivamente, in bianco e nero, creando immagini che riguardano una forma di rappresentazione del sé: una sorta di “messa in posa” che il soggetto sceglie per se stesso, facendo diventare le fotografie quasi un’esperienza intima. Lo spirito malinconico dei suoi ritratti è tangibile in queste opere, in cui la fotografia viene scelta come metodo per comprendere la vita. La Yemchuk sceglie persone che la coinvolgono emotivamente, creando così immagini che evocano un mondo di interconnessioni, frontali, dichiarate, dirette.